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XXIII domenica TO A
Ez 33,1.7-9; Sal 95; Rm 13,8-10; Mt 18,15-20
Prima Lettura Ez 33, 7-9
Se tu non parli al malvagio, della sua morte domanderò conto a te.
Dal libro del profeta Ezechiele
Mi fu rivolta questa parola del Signore:
«O figlio dell’uomo, io ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele.
Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte
mia. Se io dico al malvagio: “Malvagio, tu morirai”, e tu non parli perché il
malvagio desista dalla sua condotta, egli, il malvagio, morirà per la sua
iniquità, ma della sua morte io domanderò conto a te.
Ma se tu avverti il malvagio della sua condotta perché si converta ed egli
non si converte dalla sua condotta, egli morirà per la sua iniquità, ma tu ti
sarai salvato».
Seconda Lettura Rm 13, 8-10
Pienezza della Legge è la carità.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha
adempiuto la Legge.
Infatti: «Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai», e qualsiasi altro
comandamento, si ricapitola in questa parola: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».
La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità.
Vangelo Mt 18, 15-20
Se ti ascolterà avrai guadagnato il tuo fratello.
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà,
avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni
cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se
non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano.
In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete
sulla terra sarà sciolto in cielo.
In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il
Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in
mezzo a loro».
Nella prima lettura (Ez 33,1.7-9)), il profeta Ezechiele (Yechezkel, «Dio dà forza») si presenta come
cöpè (tzofeh) «sentinella» che annuncia al suo popolo la parola del Signore. Egli nacque intorno al 620 a.C.
da una famiglia di sacerdoti. Durante la prima conquista di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor,
insieme al re Ioiachìn, fu coinvolto nella prima deportazione a Babilonia (597 a.C.) ove si stabilì nel villaggio
di Tel Aviv, sul fiume Chèbar.
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Chèbar, termine babilonese che significa «grande (canale)». Parlando di questo fiume, Ezechiele usa il
termine ebraico nahàr «fiume» nel senso più ampio per includere i numerosi canali di Babilonia che un
tempo attraversavano la fertile zona compresa fra il corso inferiore dell’Eufrate e quello del Tigri. La
maggioranza dei biblisti identifica il fiume Chèbar con lo Shatt en-Nil, menzionato su tavolette con
caratteri cuneiformi come naru Kabaru «canal Grande» (ritrovamento nella città di Nippur, circa 85 km a
SE di Babilonia).
Cinque anni più tardi ricevette la chiamata alla missione di profeta (doveva avere circa 30 anni).
Doveva rincuorare i Giudei in esilio e quelli rimasti a Gerusalemme. Non si conosce la data della morte, ma
22 anni dopo la chiamata profetica era ancora vivo. È un poeta barocco e surreale, «parroco» degli ebrei
deportati a Babilonia, protagonista di visioni, di simboli e di gesti fantasiosi e apocalittici, ma capace
anche di sottigliezze da giurista. La sua vita e la sua predicazione furono divise dall’evento più tragico
d’Israele, il crollo di Gerusalemme sotto le armate babilonesi (586 a.C.). Prima di questa linea di
demarcazione la sua parola è di una durezza implacabile, è sottolineata da comportamenti così strani da
rasentare la patologia ed è volta a eliminare false illusioni e ad annunciare il tracollo totale della nazione
ebraica. Durante l'assedio di Gerusalemme, il profeta è restato muto, perché Dio ha taciuto nell'ultima ora
della sua città. Senza un intervento di sollievo, senza una parola di compassione, il Signore ha assistito da
lontano alla morte della capitale del suo popolo. Passato questo momento, Dio comincia a parlare di nuovo,
aprendo la bocca del profeta: questo significa una nuova vocazione.
Ez 33,1: Mi fu rivolta questa parola del Signore: (wayühî dübar-yhwh(´ädönäy) ´ëlay lë´mör, lett.
«E fu parola di Adonay a me dicendo»).
- Mi fu rivolta questa parola (wayühî dübar-yhwh(´ädönäy) ´ëlay). Il navì, il «profeta» biblico si caratterizza
come il servitore della Parola del Signore, al punto da essere chiamato pî yhwh(´ädönäy) «la bocca del
Signore» (Ger 23,16; Mi 4,4). La peh «bocca» del profeta è totalmente al servizio del dabar «parola» di Dio.
Grazie ai profeti, Dio può rivelare la sua volontà al popolo. Dopo la lunga serie degli oracoli contro le
nazioni (cc. 25-31), dove il giudizio di Dio si allarga su tutto il mondo, poiché «tutti hanno peccato», il libro
di Ezechiele si accende di una luce nuova e finalmente arrivano le parole di speranza, di consolazione: Dio
intende ricostruire la sua città e ricreare la comunità del suo popolo.
33,7: O figlio dell’uomo, io ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele. Quando
sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia (wü´aTTâ ben-´ädäm
cöpè nütaTTîºkä lübêt yiSrä´ël wüšäma`Tä miPPî Däbär wühizharTä ´ötäm mimmeºnnî, lett. «E tu, figlio di
Uomo, sentinella resi te per casa di Israele e ascolterai da bocca mia una parola e avvertirai loro da me»).
- io ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele (cöpè nütaTTîºkä lübêt yiSrä´ël). Nell'antico Israele il profeta
era chiamato chozeh «veggente». Ezechiele introduce un nuovo titolo, quello di cöpè (tzofeh) «sentinella» che
dovrà riferire quanto appreso dalla bocca del Signore. Osea scriveva che il profeta è come il tokea colui che
«da' fiato al corno (šöpär)» (Os 8,1). Ezechiele precisa questa funzione di tipo militare sottolineando
l’importanza e il rischio che la missione profetica riveste nei confronti dei propri fratelli. Dopo il periodo di
mutismo che ha contrassegnato il tempo della distruzione del Tempio, prima di ricominciare a predicare il
profeta chiarisce il suo ruolo nella terza parte del libro (cc. 33-48). Inizia rispondendo ad alcune domande: che
cos'è un profeta? È la bocca di Dio. Che cos'è tra gli esiliati? È una sentinella. Ma una sentinella che non ha
città, casa e mura, chi controlla? Dio stesso, che si mostra bellicoso contro il suo popolo in esilio, perché lo
continua a provocare e non riesce a capire. A questo punto interviene la novità. Dio anziché avvicinarsi in
silenzio, o d'improvviso, per cogliere di sorpresa gli esiliati, invia una sua sentinella per avvisarli: Dio
vuole la vita e non la morte. Anche se viene col suono di guerra, porta la pace. L'assedio e la caccia di Dio
in ultima istanza si chiamano amore. E il profeta sarà solidale con il destino dei suoi compatrioti, perché la
parola di Dio che egli pronuncia non è una parola generica, ma mediatrice di un interessamento cordiale.
Allo stesso tempo la parola esercita la funzione di dividere e separare quelli che ascoltano da quelli che
dissentono.
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33,8: Se io dico al malvagio: “Malvagio, tu morirai”, e tu non parli perché il malvagio
desista dalla sua condotta, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua
morte io domanderò conto a te (Bü´omrî läräšä` räšä` môt Tämût wülö´ diBBaºrTä lühazhîr räšä`
miDDarKô hû´ räšä` ba`áwönô yämût wüdämô miyyädkä ´ábaqqëš, lett. «Nel dire di me all'empio morire morirai e
non parli per avvertire empio da via di lui, lui empio, per l'iniquità di lui morirà, e sangue di lui da mano tua cercherò»).
- io domanderò conto a te (miyyädkä ´ábaqqëš). Il capitolo 33 rappresenta una transizione verso un tono più
positivo della parola di Dio che giunge ad affermare: «Com'è vero che io vivo - oracolo del Signore - io non godo
della morte dell'empio, ma che l'empio desista dalla sua condotta e viva» (Ez 33,11). Sono parole che mostrano il
cuore di un Dio che non ha mai creduto di guadagnare alcunché con la morte dell'empio, con il sacrificio
dei suoi figli. La pena inflitta agli empi ha risposto sempre all'esigenza pedagogica della carità. Dio punisce
affinché il suo popolo comprenda la bontà dell'amore con cui egli l'ha amato, perché si accorga
dell'assurdità delle sue scelte, delle sue fughe.
33,9: Ma se tu avverti il malvagio della sua condotta perché si converta ed egli non si
converte dalla sua condotta, egli morirà per la sua iniquità, ma tu ti sarai salvato (wü´aTTâ
Kî|-hizhaºrTä räšä` miDDarKô läšûb mimmeºnnâ wülö´-šäb miDDarKô hû´ Ba`áwönô yämût wü´aTTâ napšükä
hiccaºlTä, lett. «Ma tu quando avvertirai empio da via di lui per tornare da essa e non tornerà da via di lui, lui per l'iniquità
di lui morirà. Ma tu vita tua salverai»).
- Ma se tu avverti il malvagio (wü´aTTâ Kî|-hizhaºrTä räšä`). Ogni uomo è responsabile delle sue scelte, ma
anche della cura che ha avuto o meno del prossimo. Nella sua volontà di riscatto e di salvezza, Dio
coinvolge il suo profeta. Ancora una volta lo richiama alla responsabilità della «sentinella» (cf Ez 33,1-9;
3,17-21). Il profeta è colui che deve dare fiato alla tromba per avvisare che vicina è la spada del giudizio di
Dio. La spada è la parola di Dio che, nella bocca del profeta, deve diventare una tromba. Dio è amico,
compagno, ispiratore, guida del profeta; a tal punto si fida di lui da aprirgli le stanze segrete del suo
cuore.
A chi sarà chiesto conto della morte dell'empio? Che qualcuno chieda conto della morte degli
innocenti, è una responsabilità relativamente facile da ammettere e da assumere. Per quanto riguarda la
morte dell'empio, invece, questa possibilità è del tutto remota nella mente della gente, che, anzi, ritiene
doveroso preoccuparsi di trovare i modi più efficaci per punire e isolare i «cattivi», gli elementi di disturbo, i
delinquenti. Chi può avanzare la pretesa di «salvare» l'empio? Perché salvare l'empio, quando sarebbe
molto meglio e più salutare per la società eliminarlo? Ezechiele afferma: Dio non vuole la morte dell'empio.
Egli stabilisce una corresponsabilità del giusto e dell'empio nel fare il male. Come nessuno può salvarsi da
solo, nessuno può praticare da solo il male. L'apparato giudiziario di questo mondo spesso induce i più
deboli ad azioni violente e inique. L'uomo onesto deve avvisare l'empio e la società in cui egli agisce. Questo
compito di carità non è un atto di virtù, ma un atto dovuto.
Secondo Ezechiele soltanto Dio può punire l'empio, ma tale punizione è temporanea e pedagogica.
A Dio non importa il passato; egli ha interesse a restituire un presente e un futuro a chi ha sbagliato. Per
Dio conta più la persona del precetto. Per lui è inammissibile condannare a morte qualsiasi uomo. Chi si
arroga questo diritto, non conosce il Dio di Ezechiele e questi deve sapere che «l'empio morirà per la sua
iniquità, ma della sua morte chiederò conto a te» (Ez 33,8).
Scopriamo così che Dio è libero e libera dalla legge. Da ogni legge, persino da quella che egli stesso
ha dato! È una mentalità che deve diventare anche quella della Chiesa. Il profeta Ezechiele invita la Chiesa
a non preoccuparsi soltanto di difendere delle leggi, ma di porre attenzione a ciò che è «dentro» il cuore
degli uomini, a non temere di interrogarsi e di affrontarne la sua «fame» sempre nuova. Se vuole essere davvero una porta sul futuro per il mondo, la Chiesa deve saper cogliere e dire parole nuove, sillabe spirituali,
in grado di sfidare ogni legge.
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La seconda lettura (Rm 13,8-10) ci propone il secondo inno paolino alla carità (Rm 13,8-10), dopo
l'insuperabile testo di 1Cor 13. Con una parola gancio: ὀφειλάς, opheilás «ciò che è dovuto, debito» (v. 7) e
ὀφείλετε, opheílete «siate debitori» (v. 8), Paolo passa dalle relazioni con le autorità civili (Rm 13,1-7)
all'amore vicendevole, che rappresenta la tematica della nuova pericope (Rm 13,8-10). Dal punto di vista
contenutistico, in questi versi egli riprende l'esortazione all'amore, come ideale del bello e del buono,
trattata in Rm 12,9-21. L’apostolo considera l’amore la base delle prescrizioni e dei consigli, cioè della sezione
esistenziale e morale della lettera ai Romani. La carità è l’elemento coordinatore dell’intero quadro etico che,
senza di essa, si ridurrebbe a un cumulo slegato di precetti, a un arido manuale di imposizioni legalistiche:
πλήρωμα οὖν νόμου ἡ ἀγάπη «pienezza della Legge infatti è la carità» (v. 10).
Rm 13,8: [Fratelli,] Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole;
perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge (Μηδενὶ μηδὲν ὀφείλετε εἰ μὴ τὸ ἀλλήλους
ἀγαπᾶν• ὁ γὰρ ἀγαπῶν τὸν ἕτερον νόμον πεπλήρωκεν, lett. «A nessuno di niente siate debitori se non di gli uni
gli altri amare. Infatti l'amante l'altro legge ha portato a compimento»).
- Non siate debitori di nulla a nessuno (Μηδενὶ μηδὲν ὀφείλετε). L'inizio della pericope suscita una certa
sorpresa, in quanto nessuna relazione di amore si regge su un debito verso qualcuno: attraverso una sorta di
ossimoro retorico, in cui sono posti insieme due termini che di per sé risultano incompatibili, come il
debito e l'amore, Paolo ridesta l'attenzione dei destinatari. Il paradosso consiste nel fatto che poiché l'agape
si caratterizza per la sua gratuità, non può essere colmata da alcun debito: in definitiva, nessuno può ritenersi in credito nell'amore vicendevole! Per la prima volta in Romani Paolo utilizza il verbo ὀφείλετε, impt.
pres. di ὀφείλω, opheílō «devo, sono debitore, sono tenuto, bisogna» (cf Rm 15,1.27; 1Cor 5,10; 7,36; 9,10; 2Cor
12,11.14; Fm 18), anche se la famiglia lessicale delle obbligazioni è stata già introdotta in Rm 1,14; 8,12; 13,7).
- se non dell’amore vicendevole (εἰ μὴ τὸ ἀλλήλους ἀγαπᾶν). A prima vista, l'invito ad amarsi
vicendevolmente sembra indirizzato verso coloro che condividono la stessa fede, come dimostra l'uso del
pronome relazionale ἀλλήλων «vicendevole». Tuttavia, progressivamente, Paolo estende gli orizzonti
dell'esortazione, ponendo l'attenzione su qualsiasi rapporto interpersonale.
- perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge (ὁ γὰρ ἀγαπῶν τὸν ἕτερον νόμον πεπλήρωκεν). In questi
versetti Paolo riprende l'esortazione indirizzata alle comunità della Galazia: ὁ γὰρ πᾶς νόμος ἐν ἑνὶ λόγῳ
πεπλήρωται ἐν τῷ ἀγαπήσεις τὸν πλησίον σου ὡς σεαυτόν «Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in
un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Gal 5,14). Le due proposizioni sono accomunate
dall'«adempimento della Legge» nella citazione diretta di Lv 19,18. Il νόμος, nómos per Paolo è la Legge
mosaica espressa con il «comandamento». L'attenzione alla Legge mosaica, nella sua globalità, permette di
risolvere anche la dibattuta questione sulla relazione tra ἕτερος «altro» e νόμος «legge» al v. 8: Paolo non
intende dire «colui che ama ha adempiuto l'altra Legge», ma «colui che ama l'altro ha adempiuto la Legge»,
anche se dobbiamo riconoscere la poca chiarezza o la natura involuta della sua proposizione. D'altro canto,
la questione principale di questi versi riguarda proprio l'amore vicendevole, poi specificato nella relazione
con il «prossimo» (v. 10). Questa valutazione positiva della Legge, adempiuta da chi ama, conferma che per
Paolo la stessa Legge non è stata abrogata o sostituita da un'altra legge, bensì conserva la sua importanza.
13,9: Infatti: Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai, e
qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: Amerai il tuo prossimo
come te stesso (τὸ γὰρ οὐ μοιχεύσεις, οὐ φονεύσεις, οὐ κλέψεις, οὐκ ἐπιθυμήσεις, καὶ εἰ τὶς ἑτέρα
ἐντολή, ἐν τῷ λόγῳ τούτῳ ἀνακεφαλαιοῦται [ἐν τῷ] ἀγαπήσεις τὸν πλησίον σου ὡς σεαυτόν, lett. «Infatti
il non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e se (c'è) qualche altro comandamento, nella parola questa
viene ricapitolato in l'Amerai il prossimo tuo come te stesso»).
- qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: Amerai il tuo prossimo come te stesso (τὶς ἑτέρα
ἐντολή, ἐν τῷ λόγῳ τούτῳ ἀνακεφαλαιοῦται [ἐν τῷ] ἀγαπήσεις τὸν πλησίον σου ὡς σεαυτόν). Il verbo
ind. pres. pass. di ἀνακεφαλαιόομαι, anakephalaióomai «ricapitolo, riassumo» si trova soltanto qui e in Ef
1,10. Non è utilizzato per sostenere che i singoli comandamenti della Legge siano soppiantati dal
comandamento dell'amore ma che in questo trovano la loro ragion d'essere. La Legge si ricapitola nel
comandamento dell'amore per il prossimo. Con ciò Paolo non intende affermare che per adempiere la
Legge bisogna osservare tutti i suoi specifici comandamenti, ma che la Legge, nella sua globalità e nella sua
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specificità, perviene alla sua ricapitolazione nel comandamento dell'amore per il prossimo. Paolo cita, a
mo' di esempio, alcuni comandamenti riportati in Dt 5,17-21, come lo stesso Gesù fa con il tale che gli chiede
cosa fare per pervenire alla vita eterna: «Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non
rubare...» (Mc 10,19). In questa reductio in unum della Legge, consistente nella citazione di Lv 19,18, è
probabile che Paolo si ispiri alla discussione corrente nel giudaismo rabbinico sul kelal «adempimento» (da
kalal «completare») dei 613 precetti della Legge musaica.
13,10: La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità (ἡ
ἀγάπη τῷ πλησίον κακὸν οὐκ ἐργάζεται• πλήρωμα οὖν νόμου ἡ ἀγάπη, lett. «L'amore al prossimo male non
opera. Pienezza dunque della legge (è) l'amore»).
Questo versetto riporta due affermazioni che sintetizzano gli argomenti della pericope 13,8-10: una in forma
negativa e l'altra in forma positiva. Un parallelo lo troviamo in Gal 5,6: «In Cristo Gesù non è la circoncisione che
vale o la non circoncisione, ma la fede che si rende operosa per mezzo della carità».
Il vangelo (Mt 18,15-20) ci mostra la premura e la misericordia di Gesù maestro, che detta delle
regole di comportamento da rispettare qualora dei discepoli si allontanassero dalla comunità. La correzione
fraterna e la preghiera caratterizzeranno lo stile della comunità ecclesiale che si prefigge sempre il rispetto
del comandamento dell'amore (cf Lv 19,18). Il cap. 18 di Matteo riporta il quarto discorso di Gesù, chiamato
Discorso comunitario, perché parla della vita ecclesiale.
Mt 18,15: Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e
lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; (ἐὰν δὲ ἁμαρτήσῃ [εἰς σὲ] ὁ ἀδελφός
σου, ὕπαγε ἔλεγξον αὐτὸν μεταξὺ σοῦ καὶ αὐτοῦ μόνου. ἐάν σου ἀκούσῃ, ἐκέρδησας τὸν ἀδελφόν σου).
- contro di te (εἰς σὲ). Questa specificazione si trova nel codice di Beza (D), nel codice Regio (L), nel codice di
Washington (W), nel Vangelo ebraico di Matteo e in altri manoscritti e versioni, ma è assente nei testimoni più
antichi. La frase potrebbe, però, essere stata omessa volontariamente (per rendere il versetto più applicabile
in generale, in riferimento a ogni colpa), oppure per errore.
- va’ e ammoniscilo (ὕπαγε ἔλεγξον αὐτὸν). La prima grave responsabilità riguarda il peccato dell'altro. Chi
assiste alla triste esperienza del vedere un fratello o una sorella sbagliare non può tirarsi indietro, deve
ὑπάγειν «andare» (79x nel NT, 19x in Mt, 32x in Gv), mettendo in atto l'azione di questo verbo che segna
l'impegno morale e l'agire concreto. L'imperativo presente ὕπαγε (ὑπάγω) «vai» ricorre spesso nelle parole
di Gesù: «vai prima a riconciliarti con il tuo fratello» (5,24); «vai con lui per due [miglia]» (5,41); «va’ e
ammoniscilo» (18,15); «vai, vendi i tuoi beni...» (19,21)... Il verbo ἔλεγξον, impt. aor. di ἐλέγχω, «confuto,
biasimo, rimprovero, convinco» appare solo qui in Matteo. Nel testo originale la colpa doveva avere
carattere generico, molto probabilmente riferito all'intera comunità, come si deduce dal procedimento in tre
fasi. Dopo aver assunto l'impegno di andare fisicamente e psicologicamente verso l'altro, se si vuole aiutare
chi pecca lo si deve fare con discrezione, come lascia intendere il verbo ἐλέγχω, elégchō «correggo,
ammonisco» (18,15). È il verbo yakach di Lv 19,17, dove si comanda: «Non coverai nel tuo cuore odio contro il
tuo fratello; rimprovera apertamente (hôkëªH TôkîªH lett. «rimproverare rimprovererai») il tuo prossimo, così non ti
caricherai di un peccato per lui». Rimproverare qualcuno per quanto ha fatto non deve essere espressione
di odio o d'ira, ma di compassione e comprensione, soprattutto se si ha a che fare con una situazione di una
certa gravità.
- avrai guadagnato il tuo fratello (ἐκέρδησας τὸν ἀδελφόν σου). Il verbo ἐκέρδησας, ind. aor. di κερδαίνω
«guadagno, conquisto, risparmio», è un termine tecnico per indicare la conversione nella chiesa primitiva (cf
1Cor 9,19-22). La procedura della correzione, se non mira a «guadagnare» il fratello, perfidamente
provocherà il suo «perdersi». Giustamente Ezechiele profetizzava: Dio non vuole la morte dell'empio, ma che
l'empio si converta dalla sua condotta, e viva (Ez 33,11).
18,16: se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia
risolta sulla parola di due o tre testimoni (ἐὰν δὲ μὴ ἀκούσῃ, παράλαβε μετὰ σοῦ ἔτι ἕνα ἢ δύο ἵνα
ἐπὶ στόματος δύο μαρτύρων ἢ τριῶν σταθῇ πᾶν ῥῆμα).
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- una o due persone (ἕνα ἢ δύο). La seconda fase è basata su Dt 19,15: «Qualunque peccato uno abbia commesso, il
fatto dovrà essere stabilito sulla parola di due o di tre testimoni». La procedura biblica presuppone che si tratti di
un reato, non di un problema all'interno di una comunità. Cosa devono testimoniare i due o tre testimoni:
l'offesa commessa dall'accusato, oppure la sua indisponibilità a ravvedersi?
18,17: Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la
comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano (ἐὰν δὲ παρακούσῃ αὐτῶν, εἰπὲ τῇ
ἐκκλησίᾳ• ἐὰν δὲ καὶ τῆς ἐκκλησίας παρακούσῃ, ἔστω σοι ὥσπερ ὁ ἐθνικὸς καὶ ὁ τελώνης).
- dillo alla comunità (εἰπὲ τῇ ἐκκλησίᾳ). Ricorre qui per due volte la parola ἐκκλησία, (da ἐκκαλέω «chiamo
da, chiamo fuori») «comunità, chiesa, assemblea» (cf 16,18). Queste sono le uniche tre volte che compare il
lessema in tutti i vangeli. Nella Lettera di Giacomo συναγωγή ed ἐκκλησία (Gc 2,2; 5,14) sono interscambiabili, sono sinonimi. Infatti, nel greco della LXX questi due termini traducono l'ebraico qāhāl «assemblea
(sinagogale)». La «Chiesa» è la stessa che Gesù ha affidato a Pietro dopo la sua confessione di fede, e che ora
viene chiamata in causa per aiutare il piccolo che si è perduto, esercitando l'autorità che Gesù aveva
conferito al primo dei discepoli. Poiché nella Bibbia è Israele la «Chiesa di Dio», è all'insieme dei credenti
in Gesù che spetta il compito di farsi carico della persona che sbaglia, come anche del motivo del suo
smarrimento: è alla Chiesa che compete l'ultima parola, nell'esercizio del potere di «legare e sciogliere».
- come il pagano e il pubblicano (ἔστω σοι ὥσπερ ὁ ἐθνικὸς καὶ ὁ τελώνης). Una lettura affrettata del binomio
ἐθνικὸς καὶ τελώνης «pagano e pubblicano» potrebbe orientare verso una «scomunica» e verso un rifiuto
totale del peccatore. Questo non è possibile. Una scomunica dovrebbe essere un atto giudiziario di tutta la
comunità o almeno dei suoi capi, mentre qui si rimane nell'ambito del «per te». Un rifiuto totale del
peccatore sarebbe in aperta contraddizione con quanto detto prima circa la pecora perduta (18,12-14) e con
quanto affermato dopo con la parabola del servo spietato (18,23-35). Inoltre sarebbe in contraddizione con la
visione che Matteo ha della chiesa: una comunità mista dove coesistono grano e zizzania (13,24-30) «buoni
e cattivi»; un giudizio di separazione prima della fine non rientra nelle competenze della comunitàchiesa. Soprattutto sarebbe un insegnamento contro la prassi di Gesù che è chiamato «amico dei pubblicani e
dei peccatori» (Mt 11,19). Mentre mantiene il distacco dal peccato, il credente non può rompere con il
peccatore. Piuttosto continuerà a guardarlo con l'attenzione con cui Gesù guardava. In altri luoghi si sostiene
anche che bisogna evitare i cristiani deviati (cf 1Cor 5,1-5; 2Ts 3,6-15; 2Gv 10).
Se il discepolo smarrito non ascolta però la Chiesa, deve essere trattato come un pagano e un esattore delle
tasse. Questa frase ha suscitato molte discussioni, a proposito sia della sua autenticità gesuana, sia a riguardo
del suo significato, e tocca una questione delicata: l'atteggiamento da tenere verso chi sbaglia nella Chiesa.
Molti autori hanno compreso questa sentenza come una scomunica del peccatore, ma questa ipotesi non è
dimostrabile con nessun confronto con fonti qumraniche o rabbiniche. L'endiade «il pagano e l'esattore
delle tasse», tra l'altro, si trova solo qui in tutto il Nuovo Testamento. Guardando al contesto socioculturale
del giudaismo del primo secolo, si può notare che: a) i pagani non erano mai disprezzati, e anche se a volte ci
si riferiva a loro in modo dispregiativo (15,6: «cani»), si onoravano coloro che, come il suocero di Mosè, Ietro,
o altri ancora, seguendo i sette precetti noachici (Giubilei 7,20; cf At 15,20) potevano essere salvati; b) gli
esattori delle tasse erano visti alla stregua di ladri, briganti, omicidi e peccatori; come gli usurai e i pastori
non potevano essere ammessi a testimoniare in tribunale, secondo la Mishnà. Guardando invece al primo
vangelo, si deve ammettere che Gesù non ha chiusure verso nessuna di queste due categorie: certo, non va
a cercare i pagani, ma quando li incontra apprezza la loro fede (cf 8,10; 15,28) e invierà anche a loro i
missionari (cf 28,19-20). Il Maestro condivide la mensa con gli esattori delle tasse (cf 9,10) ed è in amicizia con
essi (cf 11,19); parla di loro come di quelli che, insieme alle prostitute, entreranno per primi nel Regno (cf
21,31b-32). Uno di loro, Matteo, è del gruppo dei Dodici (cf 10,3). Si può dunque giungere alla conclusione
che Gesù con questo suo detto sta invitando i suoi a superare nella logica del perdono ogni espulsione,
sulla base di una giustizia superiore: i pubblicani e i gentili sono οἱ μικροὶ «i piccoli» (cf 10,42; 11,25;
18,6.10.14; 25,40.45) che Gesù è venuto a cercare, quelli cioè che più di tutti hanno bisogno di quella
misericordia che vuole Dio: ἔλεος θέλω καὶ οὐ θυσίαν• οὐ γὰρ ἦλθον καλέσαι δικαίους ἀλλὰ
ἁμαρτωλούς «Misericordia voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i
peccatori» ( 9,13). Essere come un pagano e un esattore delle tasse, in quanto categorie deboli, non perché
bambini, ma perché peccatori, significa essere al centro della cura del Maestro, il quale vuole che la Chiesa
faccia altrettanto. Questa lettura è alquanto interessante, anche se forse deve essere affiancata a quella antica
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che la Didaché (I sec. d.C.) sembra dare del testo matteano: «ἐλέγχετε «correggetevi [ἐλέγχω, elégchō come in
Mt 18,15] a vicenda non nell'ira, ma nella pace, come avete nel vangelo: e a chiunque abbia offeso il prossimo
nessuno parli, né sia ascoltato da voi fino a che non abbia cambiato mentalità [μετανοήσῃς «non si sia
ravveduto»]» (15,3). Qui sembra che la misericordia verso il discepolo peccatore debba essere accompagnata
anche dalla severità degli atteggiamenti, fino al punto da non parlare all'altro: sempre, però, per ottenere il
risultato del suo ravvedimento e del suo ritorno nella comunità.
18,18: In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto
quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo (ἀμὴν λέγω ὑμῖν• ὅσα ἐὰν δήσητε ἐπὶ τῆς
γῆς ἔσται δεδεμένα ἐν οὐρανῷ, καὶ ὅσα ἐὰν λύσητε ἐπὶ τῆς γῆς ἔσται λελυμένα ἐν οὐρανῷ).
- tutto quello che legherete (ὅσα ἐὰν δήσητε). I verbi δέω (1) «lego, incateno» e λύω «sciolgo, libero, divido,
distacco, annullo, abolisco, distruggo, riscatto, redimo» sono al congiuntivo aoristo. L'espressione può essere
interpretata in diversi modi: 1) stabilire regole e concedere deroghe; 2) imporre e annullare scomuniche; 3)
perdonare e non perdonare i peccati; 4) eseguire esorcismi. In 18,18, il potere di legare e di sciogliere è
conferito alla comunità. In altri termini, Dio ratificherà e appoggerà le decisioni di Pietro (e degli altri).
L'espressione legare e sciogliere è un'endiade che non si trova nella Settanta ma in alcuni Targumim palestinesi
e nella letteratura rabbinica, dove ha il significato di «dichiarare proibito o lecito» o imporre o togliere un
obbligo mediante una decisione di autorità. La maggioranza degli studiosi riconosce nel nostro testo un
potere di interpretare in modo autorevole la Torà, secondo l'ermeneutica inaugurata dal vangelo di Gesù. È
un potere essenzialmente didattico, che da Matteo verrà poi declinato nella forma della carità fraterna (cf
18,18): a Pietro è affidata la dottrina, la Torà come spiegata da Gesù, quella «giustizia più grande» (cf 5,17-20)
che lui esigeva, con cui dovrà «legare e sciogliere», in altre parole insegnare e guidare, trasmettere e
spiegare con autorità (cf R. Pesch). Si tratta dunque della competenza di stabilire ciò che è normativo o
meno nell'oggi della fede. Questa competenza include due aspetti: da una parte implica la responsabilità di
esprimere la volontà di Dio (aspetto dottrinale); d'altra parte quella di vegliare sull'applicazione delle
istruzioni date (aspetto disciplinare).
Nel discorso comunitario ritornano i verbi «legare» e «sciogliere» che il Gesù di Matteo ha già pronunciato
nel contesto della confessione di Pietro (cf 16,19). Se nella tradizione cattolica sono stati soprattutto applicati
alla dimensione sacramentale del perdono (cf Catechismo della Chiesa Cattolica 553), la frase che in 16,19 era
rivolta, al singolare, al solo Pietro, ora è al plurale e coinvolge tutti i membri della Chiesa, assumendo un
significato relativo alla loro facoltà di intervenire verso i fratelli. Tutti i credenti hanno ricevuto il potere
e il dono della riconciliazione (che poi si mostrerà nella sua pienezza in modo sacramentale); tutti si
devono sentire responsabili della conversione dell'altro, perché a tutti è affidata la possibilità di
sciogliere o di lasciare legato. Non si può semplicemente delegare, quando è in gioco la sorte di chi ci sta
vicino: un gesto d'amore può davvero liberare dai peccati.
18,19: In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per
chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà (πάλιν ἀμὴν λέγω ὑμῖν
ὅτι ἐὰν δύο συμφωνήσωσιν ἐξ ὑμῶν ἐπὶ τῆς γῆς περὶ παντὸς πράγματος οὗ ἐὰν αἰτήσωνται, γενήσεται
αὐτοῖς παρὰ τοῦ πατρός μου τοῦ ἐν οὐρανοῖς).
- se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa (ἐὰν δύο συμφωνήσωσιν ἐξ ὑμῶν
ἐπὶ τῆς γῆς περὶ παντὸς πράγματος). Il verbo συμφωνήσωσιν, cong. aor. di συμφωνέω «mi metto
d'accordo, concordo, sono convenuto», nel greco classico esprime l'accordo degli strumenti musicali e nella
LXX esprime l'armoniosa bellezza della Torà; qui in contesto giudiziario si riferisce al «mettersi d'accordo
su qualunque causa», come in 18,15-18. Le idee dell'accordo, della preghiera in comune e della presenza di
Cristo qui sono messe al servizio dell'esercizio del potere di legare e di sciogliere nel caso di un fratello
che pecca. Ecco allora che la Chiesa non può non ricorrere anche alla preghiera comune per intercedere a
favore di chi sbaglia. Per pregare, dice Gesù, bisogna volere la stessa cosa, vivere in unità di intenti
(symphōnéō) per ottenere l'aiuto. Ancora una volta, alla comunità dei credenti è dato il potere di
«sciogliere», di aiutare chi è nel bisogno, esprimendo così compiutamente la più grande carità. Non quella
compiuta nel segreto («mentre tu fai elemosina, non sappia la tua sinistra quello che fa la tua destra»: 6,3), ma
quella di cui c'è forse più bisogno, la carità della responsabilità comune e della corresponsabilità
ecclesiale.
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18,20: Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (οὗ γάρ
εἰσιν δύο ἢ τρεῖς συνηγμένοι εἰς τὸ ἐμὸν ὄνομα, ἐκεῖ εἰμι ἐν μέσῳ αὐτῶν).
- dove sono due o tre riuniti (οὗ γάρ εἰσιν δύο ἢ τρεῖς συνηγμένοι). Il contesto continua ad essere giudiziario
più che liturgico. La nota frase di Gesù - strettamente collegata, con la congiunzione γάρ «infatti», al
versetto che la precede - può essere spiegata a partire da quanto molti commentatori hanno rilevato, ovvero
la connessione della preposizione ἐν μέσῳ «in mezzo» con quelle che appaiono all'inizio del vangelo μεθά
«con» (1,23: μεθ' ἡμῶν ὁ θεός «Dio con noi») e alla sua conclusione (28,20: ἐγὼ μεθ' ὑμῶν εἰμι «io sono con
voi»). Matteo fornisce degli indizi per affrontare la grande domanda sottesa al suo vangelo, riguardante la
presenza di Gesù nella Chiesa: come può il «Dio-con-noi», l'Emmanuel, essere presente «tutti i giorni, fino
alla fine del mondo»? «Mt 18,20 si offre al lettore come una risposta: la possibilità di sperimentare Gesù è
legata alla fragile realtà della sinfonia vissuta tra "due o tre" radunati nel suo nome. Tra l'annuncio di un
Dio fattosi presenza nella carne di Gesù di Nazaret (cf 1,23) e la promessa del Risorto di essere sempre
presente tra i suoi discepoli (cf 28,20), si colloca dunque la descrizione della comunione come spazio della
presenza (cf 18,20)» (N. Gatti). Questa logica non doveva sembrare strana ai lettori di Matteo, che già
conoscevano il concetto di Shekinà di cui si legge nella Mishnà:
«Se due siedono insieme, e le parole tra di loro non sono di Torà, questa è una seduta di stolti, come sta
scritto: "Non siede in compagnia degli stolti" (Sal 1,1). Ma se due siedono insieme e vi sono tra loro parole
[di studio] di Torà, la Shekinà è in mezzo a loro» (Mishnà, Avot 3,3).
Il Gesù di Matteo, che non è venuto ad abolire la Torà, non è in sostituzione ma in continuità con essa, anche
dopo la caduta del Tempio. La Shekinà non era vista limitatamente alla presenza divina nel santuario, ma era
applicata anche a ogni manifestazione della presenza di Dio, in ogni tempo e in ogni spazio. Dopo la caduta
del Tempio, alla quale i lettori ideali di Matteo hanno tragicamente assistito, rimangono la Torà e Gesù, per
segnalare la presenza di Dio «in mezzo» ai suoi.
Cercare il discepolo smarrito (18,12-20). Dopo aver parlato del discepolo che può essere
scandalizzato, Gesù passa a quello che si è già allontanato, la «pecora» smarrita. Altre ancora potranno
essere sviate da falsi messia e profeti, secondo quanto dirà Gesù poi in 24,24, e per questo è necessario
cercare i discepoli dispersi, al costo di lasciare sulle montagne quelle pecore che non hanno abbandonato il
pastore. I modi per cercare chi si è smarrito sono la correzione fraterna (cf vv. 15-17), connessa al potere della
Chiesa di «legare e sciogliere» (cf v. 18), e alla preghiera d'intercessione (cf vv. 19-20). È nella comunità
umana che si sperimenta il peccato commesso da un fratello, è la Chiesa che ha il potere di liberare chi è
legato, ed è alla comunità dei credenti che viene affidata la sorte degli altri. Il denominatore comune di
questa parte sembra essere quello della responsabilità ecclesiale.
Come regolarsi con i peccatori? Una comunità di matrice ebraica, come quella di Matteo, si dimostra
già pronta, dal punto di vista giuridico, ad affrontare una tale problematica. I vv. 15-18 del Discorso
comunitario sono un piccolo saggio di disciplina canonica, poiché prospettano come comportarsi con
misericordia e gradualità. In concreto, si devono seguire tre tappe: a) la correzione personale «fra te e lui
solo»; b) alla presenza di due o tre testimoni; c) di fronte a tutta la chiesa, ossia all'assemblea locale.
Il peccato di cui si parla, è certamente un peccato pubblico e non solo un'offesa personale: Se il tuo
fratello commetterà una colpa contro di te (v. 15). A monte esiste il comandamento dell'amore verso il prossimo
(Lv 19,18), come dimostra anche l'esempio parallelo nella Regola di Qumran: «Non si deve odiare [il
peccatore] ma correggerlo il giorno stesso, e non assumersi così la responsabilità del suo smarrimento.
Parimenti, nessuno porti una causa che riguarda il proprio prossimo di fronte ai molti senza averlo prima
avvertito di fronte a dei testimoni» (1QS 5,26-6,1).
Il vero potere conferito dal Signore alla sua Chiesa è il sacramento del perdono, l'atto di sciogliere
piuttosto che di legare. Nel caso in cui tutti i tentativi di correzione vadano perduti, Gesù non dispera,
perché resta la forza della preghiera. I vv. 19-20, che parlano anche della preghiera in comune, non stanno
qui per caso, perciò vanno uniti a quanto precede. Al v. 16, citando Dt 19,15, si parlava della necessità di due
o tre testimoni per poter decidere una causa. Ci si poteva chiedere: che cosa sono chiamati a testimoniare? Il
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peccato di cui è accusato il fratello, o il suo rifiuto di convertirsi? Non è detto. Adesso però si dice una cosa
che si può fare, sempre e comunque: «accordarsi» per domandare a Dio non semplicemente περὶ παντὸς
πράγματος «qualunque cosa» (CEI) ma «un affare qualsiasi» (v. 19), dove πράγμα «affare» è termine tecnico
per una controversia all'interno della comunità (cf 1Cor 6,1). Per superare lo stallo della situazione è
efficace la preghiera comune, perché, quando c'è unanimità nella preghiera, è come se il Signore stesso
fosse presente e giudicasse in mezzo alla comunità.
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