QUADRIMESTRALE EDITO DALL’ORDINE AVVOCATI DI LECCO Anno XXIV - N.2/2014 La collaborazione con Toga Lecchese è aperta a tutti gli operatori del diritto che intendano inviare saggi, interventi, provvedimenti giudiziari, note a sentenza e cronache di vita forense. Gli articoli, le note, le osservazioni – firmati o siglati – esprimono unicamente l’opinione del loro autore. SOMMARIO Occasione sprecata…………………………………… pag. 3 Giustizia ripartiva e lavoro di pubblica utilità …………… “ 4 La diligenza del bonus pater familias è sessista?………… “ 6 Codice di diritto processuale penale svizzero …………… “ 7 Bacheca Camera Penale Como-Lecco…………………… “ 9 Mobbing e stalking: quali differenze e quali similitudini?… “ 11 Le linee guida psicoforensi……………………………… “ 12 Giurisprudenza penale………………………………… “ 15 Giurisprudenza deontologica…………………………… “ 20 Melius abundare ?……………………………………… “ 22 Lettera idealmente indirizzata all’Avv. Gianni Discacciati… “ 22 Storia di un Re………………………………………… “ 23 La mezza luna a Punta Fram……………………………… “ 25 Cerco/offro…………………………………………… “ 25 In giro per mostre……………………………………… “ 26 Recensione…………………………………………… “ 27 Fondatore e Direttore Responsabile Renato Cogliati Stampa: Maper - Renate (MB) Autorizzazione n. 2/91 del tribunale di Lecco 2 OCCASIONE SPRECATA LA.P.E.C. (Laboratorio Permanente Esame-Controesame), sede di LeccoComo, ha organizzato lo scorso 13 Giugno, presso la Sala Conferenze del Palazzo delle Paure, sede museale di prestigio del lecchese, un interessante e stimolante incontro dal titolo “Virtuosismi d’Autore. Arringhe in musica”, tenuto dal Collega penalista romano, Titta Madia Jr, che ha fornito stimoli di riflessione e di vita professionale notevoli. Il relatore, con il suo stile inconfondibile e la dialettica pungente, ha condotto i partecipanti in un viaggio affascinante nella storia dell’eloquenza, attraverso il ricordo di colleghi grandi oratori italiani, di cui sono stati tratteggiati profili professionali ed umani sconosciuti. La melodia di un violino e di un flauto hanno accompagnato la lettura di alcuni stralci di famose arringhe rendendo ancor più piacevole l’incontro, durante il quale sono state portate all’attenzione, fra gli altri, le figure degli avvocati De Marsico e Carnelutti. Il relatore, collega estremamente preparato, sia culturalmente che professionalmente, avvocato a 360 gradi, ha anche esplicitato i profili principali che deve possedere un avvocato penalista. Previamente l’intuito psicologico, connesso alla più abile conoscenza delle persone ed alla capacità di lettura delle situazioni, indispensabile per poter beneficiare di una diagnosi corretta sin dall’inizio dell’incarico. La generosità, intesa come accoglienza, al di là di ogni giudizio di disvalore dei comportamenti altrui con disponibilità a comprendere i comportamenti e le visioni anche lontane dalla propria natura. Altra caratteristica di cui il relatore ha sottolineato l’importanza è lo spirito di antagonismo; la volontà di “dar fastidio”, di vedere situazioni diversamente dagli altri e da quanto sembra emergere dalla realtà istruttoria e di fatto. L’ultimo, ma tutt’altro che ultimo per importanza (anzi forse quello che maggiormente deve potersi dire di un avvocato penalista) è il gran senso di libertà, da sé stesso, dal proprio cliente, dall’ambiente, dal magistrato inquirente e giudicante. Solo così potrà l’imputato percepire al suo fianco, in ogni situazione, il proprio difensore. Unica nota negativa del pomeriggio è stata la scarsa partecipazione, nonostante la sede, la Piazza XX Settembre centro di Lecco, di sole 27 persone, circostanza non incoraggiante per gli organizzatori che, anche in questa occasione, hanno profuso energie nella speranza di creare un momento di formazione soprattutto per i giovani ed i giovanissimi colleghi, purtroppo presenti in numero esiguo. Renato Cogliati 3 Giustizia riparativa e lavoro di pubblica utilita’ Il concetto di “Giustizia Riparativa” ha origine antiche: già in diritto romano era prevista la actio in integrum restitutio con la quale poteva ripristinarsi lo status quo ante, eliminando gli effetti del contratto viziato dalla coercizione della volontà della parte danneggiata. Il principio, rinvenibile oggi nell’art. 2058 CC, che prevede il “risarcimento in forma specifica”, consiste nel mettere il danneggiato nelle stesse condizioni in cui si sarebbe trovato se l’illecito non si fosse verificato. Giustizia riparativa significa mettere a confronto da un lato l’autore dell’illecito, dall’altro i danni provocati alla vittima dello stesso, al fine di eliminare le conseguenze del reato mediante l’attività riparatrice posta in essere da chi lo ha commesso, che intende porvi rimedio. Il reo diventa un soggetto attivo e non più soltanto il destinatario di una sanzione per la condotta illecita di cui si è reso responsabile, che ha danneggiato, non solo la vittima diretta, ma anche la collettività. La riparazione si concretizza mediante la restituzione in forma specifica del profitto dell’illecito, il risarcimento del danno in forma pecuniaria o l’esecuzione di prestazioni in favore della vittima o di un servizio utile in favore della collettività. La giustizia riparativa non è pertanto una semplice alternativa alla giustizia retributiva, sanzionatoria o rieducativa, ma è una vera e propria modalità di intervento sulla conflittualità sociale, con lo scopo di promuovere la riconciliazione tra vittime e colpevoli e favorire la riparazione del danno, ove possibile, da cui far derivare per la collettività un miglioramento del senso di sicurezza nella vita quotidiana e l’attenuazione dei conflitti sociali. I percorsi che vengono proposti in alternativa al carcere mirano alla sensibilizzazione e alla promozione di attività volontarie, di utilità sociale e collettiva, ma soprattutto all’inclusione sociale delle persone che hanno commesso un reato, attraverso l’offerta di un’opportunità. 4 In quest’ottica si inserisce il Lavoro di Pubblica Utilità, in quanto porta un beneficio immediato alla collettività, atteso che si ha certezza che il reo venga effettivamente punito, ma in modo utile e vantaggioso per la società, ed un beneficio proiettato al futuro, atteso che a fronte della trasgressione commessa il reo può sviluppare un’attività risocializzante e utile anche sotto il profilo personale, riducendo od eliminando il rischio di recidiva. Il LPU consiste infatti nella prestazione di un’attivita’ non retribuita a favore della collettivita’ da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni e gli enti di assistenza sociale o volontariato. Nel nostro ordinamento il LPU trova spazio sotto diversi profili: 1) come pena principale irrogata (sempre in alternativa alle altre pene e su richiesta dell’imputato) dal Giudice di Pace, a norma degli artt. 54 ss. d.lgs. 274/2000, che, salvo espresse deroghe, costituisce la disciplina di riferimento anche per le ulteriori ipotesi; 2) come condotta riparatoria cui può (o deve, se si tratta di soggetto che ha già usufruito del beneficio) essere subordinata la sospensione condizionale della pena (in caso di non opposizione da parte dell’imputato), a norma dell’art. 165 c. 1 c.p.; 3) come sanzione amministrativa accessoria che il giudice può applicare, in aggiunta alle pene classiche, in caso di condanna per un delitto colposo commesso con violazione delle norme del codice della strada, a norma dell’art. 224-bis c.d.s. (introdotto dall’art. 6 l. 102/2006); 4) come pena sostitutiva per i reati in tema di sostanze stupefacenti, in caso di integrazione della circostanza attenuante del fatto di lieve entità e di commissione da parte di soggetti tossicodipendenti o assuntori di stupefacenti, a norma dell’art. 73 c. 5-bis e 5 ter d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309; 5) come pena sostitutiva per i reati di guida in stato di ebbrezza e sotto l’effetto di sostanze stupefacenti (in quest’ultimo caso comunque abbinato ad un programma terapeutico e socio-riabilitativo come definito ai sensi degli art. 121 e 122 del D.P.R. 09/10/1990, n. 309), previsti rispettivamente dagli artt. 186 c. 2 lett. c) e 187 CdS, sul duplice presupposto che non ricorra l’aggravante dell’incidente stradale provocato e che il condannato non ne abbia già usufruito (comma 9-bis dell’art. 186 CdS e comma 8-bis dell’art. 187 CdS), con conseguente estinzione del reato, la riduzione della sanzione accessoria della sospensione della patente di guida e la revoca della confisca, se disposta; 6) come misura nella quale convertire le pene pecuniarie non eseguite per insolvibilità del condannato (artt. 102 ss. l. 689/1981); 7) come sanzione accessoria in caso di condanna per uno dei reati previsti dall’art. 3 l. 13 ottobre 1975, n. 654 (discriminazione razziale) o per uno dei reati previsti dalla l. 9 ottobre 1967, n. 962 (genocidio) in base al disposto di cui all’art. 1 comma 1 bis della l. 25 giugno 1993, n. 205; 8) come prescrizione in tema di benefici penitenziari o di messa alla prova (per minorenni). Il lavoro di pubblica utilità può avere ad oggetto: - prestazioni di lavoro a favore di organizzazioni di assistenza sociale o volontariato operanti, in particolare, nei confronti di tossicodipendenti, persone affette da infezione da HIV, portatori di handicap, malati, anziani, minori, ex-detenuti o extracomunitari; - prestazioni di lavoro per finalità di protezione civile, anche mediante soccorso alla popolazione in caso di calamità naturali, di tutela del patrimonio ambientale e culturale, ivi compresa la collaborazione ad opere di prevenzione incendi, di salvaguardia del patrimonio boschivo e forestale o di particolari produzioni agricole, di recupero del demanio marittimo e di custodia di musei, gallerie o pinacoteche; - prestazioni di lavoro in opere di tutela della flora e della fauna e di prevenzione del randagismo degli animali; - prestazioni di lavoro nella manutenzione e nel decoro di ospedali e case di cura o di beni del demanio e del patrimonio pubblico ivi compresi giardini, ville e parchi, con esclusione di immobili utilizzati dalle Forze armate o dalle Forze di Polizia; - altre prestazioni di lavoro di pubblica utilità pertinenti la specifica professionalità del condannato. Un giorno di lavoro di pubblica utilità ovvero la somma di € 250,00 di pena pecuniaria comportano la prestazione, anche non continuativa, di due ore di lavoro, per non più di sei ore settimanali. Tuttavia, se il condannato lo richiede, il Giudice può ammetterlo a svolgere il lavoro di pubblica utilità per un tempo superiore alle sei ore settimanali, con il limite di otto ore giornaliere. In caso di svolgimento del LPU come sanzione sostitutiva per i reati in tema di sostanze stupefacenti, lo stesso ha una durata corrispondente a quella della sanzione detentiva irrogata. L’attività viene svolta nell’ambito della provincia in cui risiede il condannato, e non può pregiudicarne le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute. Le amministrazioni e gli enti presso cui viene svolta l’attività lavorativa assicurano il rispetto delle norme e la predisposizione delle misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e morale dei condannati. Nella sentenza il Giudice indica il termine entro il quale il LPU deve iniziare, e, a richiesta dell’imputato, può autorizzare il suo inizio anche prima del passaggio in giudicato della sentenza. L’Ufficio Esecuzione Penale Esterna (UEPE) informa il Giudice sull’andamento del lavoro di pubblica utilità. Ricevuta dall’UEPE la relazione, il Giudice che ha emesso la sentenza fissa udienza per la declaratoria di estinzione del reato in caso di positivo svolgimento del LPU oppure per una diversa decisione allorché il condannato non si sia attenuto al progetto concordato, o non si sia attivato, o sia stato comunque inadempiente. IL RUOLO DELLA CAMERA PENALE Da anni e con immutato interesse la Camera Penale, in attesa della riforma della disciplina delle misure alternative alla detenzione (vedi d.d.l. n. C 331-927 B, approvato dal Senato il 21 gennaio 2014 e attualmente all’esame della Camera), con la quale I’istituto in oggetto troverà ancora più ampia applicazione, guarda al lavoro di pubblica utilità come ad una misura che, seppur finora impiegata in misura inferiore alle previsioni del legislatore, appare portatrice di contenuti molto positivi per il tipo di attività socialmente rilevanti in cui essa si concreta e può costituire una valida occasione per assicurare una idonea forma di riparazione in favore della collettività. Inoltre, una sua più ampia applicazione, valorizzando quanto sancito dal terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione, che parla di “pena” e non di “pena in carcere”, può sicuramente concorrere a migliorare I’efficienza di tutto il sistema dell’esecuzione penale, soprattutto considerato che le funzioni di verifica possono essere validamente svolte dagli uffici locali di esecuzione penale esterna, come previsto dalle recenti disposizioni normative che hanno novellato il codice della strada, che hanno esteso notevolmente, grazie agli indubbi vantaggi connessi al positivo svolgimento, il ricorso alla pena sostitutiva con il lavoro di pubblica utilità, finora notoriamente poco utilizzato dalla giurisdizione. La Camera Penale, verificata la scarsa applicazione dell’istituto, ascrivibile anche ad una limitata richiesta da parte dei difensori, ha promosso, mediante convegni, incontri e circolari, ogni iniziativa utile, finalizzata ad un’evoluzione verso la valorizzazione della funzione rieducativa della pena, anche in una prospettiva più ampia di sviluppo di un articolato sistema sanzionatorio non detentivo. E’ indubbio che oggi si può affermare che, all’interno delle sanzioni penali non detentive, sta assumendo connotazione sempre più autonoma e rilevante quella del lavoro di pubblica utilità, come pena di riferimento per dare più concreto contenuto “ riparativo” all’azione sanzionatoria dello Stato. La Camera Penale si è impegnata a stimolare e coordinare la realizzazione di iniziative volte alla promozione del ricorso al predetto istituto, al fine di promuovere: - la costituzione di tavoli, che coinvolgano gli attori esterni (tribunali ordinari, enti locali e privato sociale) nell’attività di raccordo e sviluppo dell’applicazione del lavoro di pubblica utilità; - la concreta individuazione, di concerto con gli Enti Locali, le Associazioni di volontariato e del privato sociale, delle opportunità di collocazione e degli ambiti di impiego di coloro che saranno sottoposti al lavoro di utilità pubblica; - la stipula di apposite convenzioni tra i Tribunali ordinari, gli Uepe e gli Enti locali, finalizzate alla concreta esecuzione della sanzione; - l’applicazione chiara ed uniforme delle norme sostanziali e processuali, facilitando lo snellimento delle procedure applicative. In tale ottica è stato sottoscritto il Protocollo d’intesa tra Tribunale di Como, Procura di Como, Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Como, Camera Penale di Como, Ufficio Esecuzione Penale Esterna (UEPE) di Como e CSV di Como., che ha aperto lo “sportello volontariato” all’interno del Tribunale di Como per offrire ulteriori occasioni di applicazione dei lavori di pubblica utilità alternativi alla pena. E’ stato inserito ogni anno nel piano formativo almeno un evento sul tema della giustizia ripartiva e delle misure alternative alla detenzione. E’ stata affrontata la questione sia a livello congressuale, sia a livello locale che distrettuale, mediante interventi mirati, diretti a sollecitare l’attenzione dei colleghi in ordine ai percorsi intrapresi, dai più condivisi e diffusi nei territori di appartenenza. E’ stata offerta, attraverso la voce di colleghi relatori, l’esperienza dell’avvocato in convegni organizzati da altri enti. E’ stata assicurata la partecipazione alle iniziative dirette a sollecitare la stipula delle convenzioni, coinvolgendo anche le società sportive dilettantistiche e sollecitando il Legislatore a modificare la normativa sul punto. E’ stata garantita ampia collaborazione con gli organi inquirenti e giudicanti, per una rapida definizione dei procedimenti in corso. Sono state raccolti e condivisi i provvedimenti emessi, al fine di raggiungere uniformità e segnalare eventuali problematiche, anche operative. Si è cercato inoltre di sensibilizzare i 5 colleghi ad esercitare, laddove possibile, opera di persuasione nei confronti dei propri assistiti, al fine di valorizzare positivamente l’impatto con la giustizia penale, da recepire come occasione per rivedere i propri comportamenti, per capirne il disvalore, per porvi rimedio, sia a favore di se stessi, trovando soddisfazione nella propria attività di riscatto sociale, sia a favore della collettività, favorita e ripagata dal disagio subito. L’esigenza principale dell’avvocato, fermo restando l’interesse difensivo del proprio assistito che rimane primario e non negoziabile, è quella di un procedimento equo e di poter accedere agli istituti più favorevoli in maniera rapida ed efficace. La collaborazione sinergica con istituzioni ed enti interessati consente oggi, in tema di LPU, di fornire al proprio cliente risposte certe e veloci in ordine all’opportunità di conversione della pena, alle modalità di accesso e di esecuzione della stessa. I maggiori bisogni, in parte soddisfatti, riguardano l’uniformità delle procedure e delle sanzioni, nonché una razionalizzazione del sistema penale, che, pur senza pervenire ad un’indiscriminata depenalizzazione, distingua le condotte meritevoli di sanzioni da quelle generatrici di solo danno patrimoniale da regolare, previa mediazione, in altra sede. Paolo Camporini Disegno di Franco Necchi 6 La diligenza del bonus pater familias è sessista ? 1. Come è noto agli operatori del diritto e agli “addetti ai lavori”, il comma di apertura dell’articolo 1176 del nostro codice civile prevede che “Nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia”. 2. L’espressione “buon padre di famiglia” indica il comportamento dell’uomo medio, la cui diligenza costituisce il parametro di riferimento per valutare quella utilizzata dal debitore nell’adempimento dei propri obblighi. Essa, in particolare, consiste in quella dose di attenzione e di perizia che l’uomo medio adotta nella gestione e nella cura dei propri affari: diligentia qualem quis suis rebus adhibere solet. La figura si rifà al concetto di pater familias, che costituiva, in quell’ordinamento giuridico, non soltanto il modello dell’uomo libero, fornito di piena capacità giuridica e di agire (sui iuris), dunque anche di stipulare contratti ed assumere le relative obbligazioni, ma anche un soggetto ben consapevole della propria posizione sociale: su tale modello, la giurisprudenza romana individuò la figura astratta del bonus pater familias, cioè –così ci testimoniano le fonti- il modello della persona che non viene meno alla diligenza necessaria per adempiere ad un impegno assunto. Nell’esperienza giuridica romana, solo al pater, del resto, era possibile rifarsi nell’individuazione del comportamento del criterio astratto dell’uomo medio nella gestione dei propri affari, poichè –all’interno del nucleo familiare- solo al pater era consentito assumere impegni, anche economici, a differenza degli altri componenti del nucleo (alieni iuris), cui ciò era impedito. 3. Recentemente, il Parlamento francese ha votato, nel quadro normativo sulle “pari opportunità”, un emendamento finalizzato ad abolire la locuzione, anco- ra presente nel codice civile d’oltralpe, “bonus pater familias”, quale criterio di individuazione della responsabilità nell’inadempimento delle obbligazioni, perché contraria alle esigenze di affermazione di una parità fra i sessi, anche sotto il profilo del linguaggio giuridico. 4. E’ vero che la famiglia romana era di tipo “patriarcale” e il pater, che era anche il capo polito del nucleo, specialmente in assenza dell’affermazione di un concetto di Stato in senso moderno, poteva, tra l’altro, mettere a morte i suoi sottoposti (figli, donne, schiavi), in forza dello ius vitae ac necis, ma – a proposito dell’adempimento delle obbligazioni- le pari opportunità e le differenze di genere non c’entrano nulla e la loro legittima affermazione non può passare per una proposta di legge che rischia di rivelarsi antistorica, perché destinata a cancellare una tradizione millenaria che, partendo proprio dalla riflessione della giurisprudenza romana, ha elaborato il concetto di obbligazione, come cristallizzato nella definizione giustinianea (“Obligatio est iuris viculum, quo necessitate adstringimur, alicuius solvendae rei secondum nostrae civitatis iura) e i criteri di individuazione per il corretto loro adempimento (la diligenza del bonus pater familias). 5. Anche in questo settore, il diritto romano costituisce il patrimonio dei giuristi e la base della cultura giuridica di tutti i paesi di civil law: parlare oggi di diligentia della mater familias, oltre che concettualmente sbagliato, in considerazione della struttura della famiglia romana, che non consentiva alla donne di assumere obbligazioni e, conseguentemente, di valutarne l’esatto adempimento, rischia, soprattutto, di rivelarsi ridicolo. Federico Pergami Codice di diritto processuale penale svizzero L’entrata in vigore del codice di diritto processuale penale adottato , per la prima volta nella sua plurisecolare storia, dalla Confederazione Elvetica, segna il superamento della precedente, frammentata realtà codicistica cantonale, all’insegna della indilazionabile esigenza di un unico modello processualpenalistico. Questo evento, di importanza storica per la nazione a noi contigua, deve suscitare alcune importanti riflessioni, sia di natura ideale, sia di natura pratica, anche nel giurista italiano e , in particolar modo, nell’avvocato che intenda svolgere la propria funzione, non soltanto interessato alla dimensione aridamente utilitaristica del proprio lavoro, ma sensibile ad orizzonti culturali e pratici di più ampio respiro. Da moltissimo temposostengo e diffondo l’idea che la presenza di un sistema processuale penale così geograficamente vicino a noi eppure così concettualmente diverso dal nostro, rappresenta un terreno di studio e di concrete esperienze professionali, estremamente importante e stimolante; questo vale, soprattutto, per l’avvocato dell’area lariana o, genericamente, di fascia confinaria, poiché può facilmente essere chiamato a difendere un proprio concittadino incappato nelle maglie del sistema giudiziario d’oltreconfine. Un sistema che, in particolare nel Canton Ticino, aveva da sempre accettato, dinanzi alle proprie autorità giudiziarie, l’operatività professionale degli avvocati italiani. Ma, a parte questo non trascurabile aspetto pratico, prendere conoscenza, sia pure sommaria, del neonato processo penale elvetico, coglierne alcuni dettagli e considerarlo nel quadro dei principi di cui è espressione, costituisce impegno culturale molto interessante, proprio nella prospettiva di comprendere ancora meglio quella incombente europeizzazione dei diversi sistemi giudiziari, che rappresenta la necessità e la sfida ineludibile per l’avvocatura penale dei prossimi anni. Innanzitutto la elaborazione di un unico sistema processuale penale in una realtà confederale, storicamente segnata dalla orgogliosa rivendicazione delle identità e delle specificità cantonali, costituisce una importantissima dimostrazione; costituisce la prova che anche ataviche riaffermazioni campanilistichenonché l’attaccamento alle tradizioni e alle “sovranità” cantonali, per quanto siano profondamente radicate nella popolazione e siano espresse nelle strutture sociali e istituzionali, possono trovare uno sbocco idealmente unitario. E possono consentire la realizzazione di un unico strumento giudiziario allorquando prevale, sui pur forti e comprensibili particolarismi, la visione di un interesse generale che sospinge lo sguardo verso un orizzonte ampliato oltre i confini territoriali (nel nostro caso, cantonali ). Un orizzonte nel quale la dimensione del comune vantaggio, prevale sugli interessi localistici e si dilata in una prospettiva più matura e più sensibile al bene comune. E, questa, una grande lezione per tutti quegli avvocati penalisti italiani e quegli studiosi del diritto penale i quali continuano a non avvertire l’indilazionabile esigenza di superamento dei modelli processuali nazionali e continuano ad essere scettici sulla possibilità-necessità di elaborare, non dico un unico sistema processuale penale europeo, ma neppure un sistema fortemente armonizzato in ambito UE. Tornando al codice di diritto processuale svizzero, appare interessante cogliere, in una estrema sintesi, qualche aspetto di dettaglio che esprime il particolare significato ideale e pratico di cui esso è espressione; aspetto che, se raffrontato ad omologhe situazioni proposte dalla realtà processualpenalistica italiana , mostra quanto una realtà socio-culturale diversa dalla nostra, la quale affronti i medesimi problemi partendo da una diversa prospettiva, possa affrontare, con maggiore chiarezza e semplicità rispetto a noi, temi da noi frutto di irrisolte od equivoche problematiche ideali od oggetto di intricate formulazioni descrittive, inevitabilmente causa di equivoci interpretativi e complesse diatribe dottrinali. Prendiamo, per esempio, le mosse dall’art. 3 c.p.p. svizzero. Esso stabilisce che le <<…autorità penali ….si attengono …..a)al principio della buona fede b) al divieto dell’abuso del diritto….>>. Cogliamo, innanzitutto, il richiamo al “… principio della buona fede…”; richiamo che nella cultura elvetica è onestamente formulato e sentito come autentico invito al rispetto di una doverosa qualità del compito giudiziario, mentre da noi verrebbe considerato quale ingenua e retorica formalità metodologica, una etichetta che deve essere appiccicata su un contenitore vuoto, solo per esigenze di apparenza. Al paragrafo b) notiamo subito la singolarità del fatto che il tribolato (da noi) problema dell’ “ abuso del diritto”, categoria concettuale equivoca e non codificata nonché al centro, in Italia, di forti contrapposizioni critiche, nel c.p.p. svizzero viene esplicitamente evocata, esclusivamente con riferimento alle <<…autorità penali…>> e non anche al difensore. Come a sottolineare che solo la “autorità ”, solo chi detiene un “potere”, può commettere “abuso”. Col che viene meno qualsiasi polemica che agita, invece, la nostra cultura processualpenalistica - riferita alla condotta processuale del difensore, al quale la Svizzera non pone alcun divieto di “abusare” degli strumenti processuali, non grava di alcun “dovere superiore” verso la …giustizia o verso lo Stato. Anzi, l’art.128, che concerne proprio il ruolo del difensore, formula una disposizione che elimina possibilità di equivoci sul tema relativo al c.d. “abuso del diritto “. Infatti prevede, in modo tranciante, che << entro i limiti della legge e delle norme deontologiche, il difensore è vincolato unicamente agli interessi dell’imputato.>>. Siamo in presenza della enunciazione di un concetto preciso che delinea, in modo chiarissimo, il perimetro di valori etici e di contenuti pratici entro il quale può dipanarsi il compito difensivo : soltanto gli “inte7 ressi dell’imputato”, senza alcun dovere” superiore” verso la “giustizia” e verso la “nazione”. Col che viene forse eliminata alla base tutta la questione relativa ad una rivendicata od auspicata o negata “funzione sociale” dell’avvocato; “funzione sociale” il cui contenuto concettuale e la cui esatta perimetrazione operativa sono, invece, in Italia,al centro di un annoso e tutt’ora vivace dibattito culturale . E’ curioso notare che il c.p.p. elvetico contempla le figure distinte del “danneggiato” (<<…la persona i cui diritti sono stati direttamente lesi dal reato…>>) e della “vittima”, attribuendo, al primo, le caratteristiche che il nostro codice sembrerebbe attribuire più al ruolo della persona offesa (titolare del bene giuridico offeso dal reato) e dando alla “vittima”, il ruolo presso di noi assunto dal “danneggiato”. Ma affermando, poi ( art.116 ), che <<… la vittima è il danneggiato che …è stato direttamente leso nella sua integrità fisica, sessuale o psichica.>> : comunque anche nel c.p.p. è prevista la figura della parte civile quale <<….accusatore privato…>>. Passando all’art.8 (Rinuncia al procedimento penale ), osserviamo che il sistema elvetico, pur prevedendo espressamente l’obbligatorietà dell’azione penale, consente che <<….il pubblico ministero e il giudice prescindono dal procedimento penale se …. a) …..il reato…non è di rilevanza tale da incidere sensibilmente sulla determinazione della pena…>> ecc.. Introduce, in sostanza, la valenza del principio di “ trascurabile offensività” della condotta, che già la commissione Nordio aveva contemplato, senza successo, nel progetto di riforma del c.p.p. , poi abbandonato. Altra disposizione interessante è quella dell’art.10 comma 2 ( <<Il giudice valuta liberamente le prove secondo il convincimento che trae dall’intero procedimento>> ) che riproduce, sostanzialmente, la regola valutativa del codice Rocco, il quale attribuiva completamente alla libera valutazione del giudice la responsabilità della scelta decisionale. Qui si nota la prospettiva codicistica elvetica, ispirata ad un rapporto di fiducia nei confronti dell’organo giudicante; mentre il vigente c.p.p. italiano, modificando radical8 mente la analoga disposizione del codice Rocco in prospettiva di radicale diffidenza (se non addirittura di “sfiducia” ) nei confronti del giudice, ha imbrigliato il compito valutativo in una gamma intricata e formale di disposizioni che “burocratizzano” il compito del decidente, con dubbia efficacia sulla bontà “sostanziale” del suo operato. Molto articolata appare la regolamentazione della competenza per territorio che, peraltro, è assonante con il sistema italiano. Una disposizione estranea alla nostra procedura penale è quella prevista dall’art.83 ( Interpretazione e rettifica delle decisioni ), che consente al giudice, allorchè il dispositivo di una sentenza sia <<…poco chiaro, contraddittorio o incompleto o…in contraddizione con la motivazione…>>, finanche di “interpretare” o di “rettificare” la decisione stessa . Altra disposizione estranea al nostro modello processualpenalistico, si rinviene nell’art.130 (Difesa obbligatoria ) il quale sancisce l’obbligo della difesa tecnica, in particolare allorquando l’imputato <<….. rischia di subire una pena detentiva superiore a un anno oppure una misura privativa della libertà..>>. Tranciante è il regime stabilito dall’art.141 (Utilizzabilità delle prove acquisite illegittimamente ) nel quale, senza tentennamenti, viene decretata la inutilizzabilità del materiale probatorio raccolto <<…in modo penalmente illecito ….>>. Ma questa disposizione prevede, peraltro, una deroga davvero singolare : anche di tali prove è consentito l’utilizzo se considerato <<…indispensabile per far luce su gravi reati.>>. Molto interessante ed in linea con le più recenti linee culturali relative, in particolare, ai soggetti “ sensibili “ della scena giudiziaria (vittime , agenti infiltrati , ecc. ecc.), è la sez.4 (Misure protettive ). Mediante le previsioni estremamente articolate degli articoli da 149 a 156, tale sezione regolamenta in modo capillare la gestione di tutte quelle persone che si trovano a rivestire, quali soggetti operativamente funzionali allo svolgimento del processo, ruoli particolarmente “scomodi” e meritevoli di una espressa tutela. Del tutto innovativorispetto al regime processuale e a tutta la cultura proces- sualpenalistica risalenti, specie nel Canton Ticino ed in linea con il nostro sistema processuale, appare il disposto della norma (art.159 – Interrogatorio di polizia nella procedura investigativa) che prevede <<…. il diritto di esigere la presenza del suo difensore….>> da parte dell’imputato interrogato dagli organi di polizia. Si tratta di una vera e propria “rivoluzione culturale” di un modello procedimentale che, specie nel Canton Ticino, escludeva la obbligatorietà della presenza del difensore al fianco dell’accusato in stato di detenzione, il quale poteva essere sottoposto ad interrogatorio (o a ripetuti interrogatori ) da parte anche solo degli organi di polizia , senza alcuna assistenza legale. Molto interessante e profondamente diverso dal regime processuale italiano, è il regime della “custodia cautelare” regolamentato dal c.p.p. elvetico e compreso nel cap. 3 , sez. 4 , 5 e 6 , sotto la denominazione di “carcerazione preventiva “ e “ carcerazione di sicurezza” . Esso (sez.4 : Carcerazione preventiva e carcerazione di sicurezza: disposizioni generali) non contempla né un termine massimo di durata complessiva della custodia cautelare, né i nostri termini di fase. Tutto è rimesso alla decisione del giudice e al suo libero apprezzamento considerato, naturalmente, nella prospettiva di “fiducia” verso il suo operato e in quell’ottica sostanzialistica che caratterizza, culturalmente, il c.p.p. svizzero. Inoltre vi è una disposizione che sarebbe del tutto inconcepibile nel nostro sistema penale: l’art.231 il quale contempla la possibilità di mantenere in carcere anche l’imputato assolto in primo grado ! La procedura dibattimentale di primo grado è caratterizzata da grande semplificazione e concretezza, all’insegna del buon senso pratico e senza inutili formalismi. Molto interessante è il procedimento speciale qualificato “Procedura abbreviata” ( art.358 ). Un istituto che presenta, sia pure con larga approssimazione, una sintesi fra il nostro rito abbreviato e il patteggiamento. L’imputato deve peraltro ammettere i fatti e riconoscere <<….quanto meno nella sostanza le pretese civili…>> e deve trattarsi di reati per i quali il p.m. non chiede <<….una pena detentiva superiore a cin- que anni.>>. Una importante e chiara presa di posizione riguarda la ammissibilità del processo in contumacia dell’imputato (cap.4 ) . Il nuovo c.p.p. svizzero, innovando radicalmente rispetto al sistema previgente, introduce l’appello quale strumento processuale “normale” al fine di una rivalutazione completa, anche nel merito, della decisione di primo grado. Appare davvero importante e ispirata a criteri di giustizia sostanziale che i bizantinismi formali del codice di procedura italiano ignorano, la previsione del potere riconosciuto al giudice dell’appello, di emendare “motu proprio”, la sentenza impugnata, qualora si tratti di correggere statuizioni <<….contrarie alla legge o inique .>> in danno del condannato, anche se nell’appello fosse sfuggita tale censura. Se appellante è il solo imputato, vige, anche se non è detto esplicitamente , il di- vieto della “reformatio in peius” . Dovendo esprimere un giudizio conclusivo e di estrema sintesi, ritengo di poter considerare il c.p.p. svizzero - composto da 457 articoli -sicuramente un buon codice; certamente migliore del c.p.p. vigente in Italia per semplificazione (quella stessa “tradita” dal nostro codice, violando la precisa indicazione del legislatore il quale aveva delegato ad emanare un testo <<…. secondo i principi …. – della- massima semplificazione …..>> ) concettuale e pratica , nonché per essenzialità, chiarezza e concretezza : caratteri i quali , purtroppo, non si rinvengono nel nostro ridondante e farraginoso strumento codicistico, il cui numero complessivo di articoli -comprese le norme di attuazione – è più del doppio del c.p.p. svizzero , per numero di articoli, ma che è come se fosse il triplo ove si consideri la loro “lunghezza” testuale. E’, il c.p.p. svizzero, un codice che tra- ghetta il sistema processuale penale elvetico , dalla dimensione culturalmente ancorata ad uno schema giudiziario fortemente connotato in chiave inquisitoria, con una posizione supremica degli organi inquirenti rispetto alla condizione dell’accusato, ad uno schema moderno, di una procedura penale sensibile ai fermenti culturali condensati già nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e vieppiù aggiornati alla luce delle esperienze acquisite in campo sociogiudiziario da parte di sistemi processualpenalistici di ispirazione accusatoria. Quanto questo modello codici stico potrà giovare alla efficacia dello strumento giudiziario elvetico, è tutt’altro problema: solo la prova sul campo ne potrà decretare il valore. Renato Papa Bacheca - Camera Penale Como-Lecco Il nostro programma del triennio 2013/2016, mira, in sintesi, a raggiungere gli scopi che seguono: Coinvolgimento degli iscritti mediante commissioni e gruppi di studio su specifici temi e costante aggiornamento in ordine alle attività svolte e da svolgere; Sono state costituite e stanno lavorando con grande impegno le seguenti commissioni: difese d’ufficio - patrocinio a spese Stato – Giurisprudenza locale a Como e Lecco - Funzionamento uffici a Como e Lecco Indagini difensive – convenzioni a Como e Lecco; Collaborazione con ordini ed altre associazioni territoriali; Il presidente ha partecipato ad una seduta del COA di Como e Lecco, nella quale sono stati esposte idee e programmi, tro- vando piena condivisione e grande volontà di collaborazione, già concretizzatasi in occasione di organizzazione di POF ed eventi e di altre iniziative (ad esempio la bacheca in Tribunale a Lecco); prosegue anche la collaborazione con la Camera Civile e le altre associazioni (ad es. AGED, AGAV, Camera Amministrativa, ecc.). Diffusione tra i giovani e nelle scuole dei principi di legalità e promozione della figura e del ruolo,anche sociale, dell’avvocato penalista; Proseguono gli incontri di educazione alla legalità, in collaborazione con gli ordini, all’interno delle scuole superiori di Como (dal 03.04) e di Lecco (dal 07.05), diretti a promuovere la figura dell’avvocato nella società e nel processo ed a collaborare nel progetto di educazione dei giovani alla legalità; sono in corso colloqui per analogo lavoro in università; Confronto costante con le istituzioni in ordine a problematiche di interesse generale, al fine di trovare soluzioni, anche organizzative e pratiche, per ottimizzare, nel rispetto delle norme vigenti, le attività processuali in ogni fase e grado, mediante l’applicazione chiara ed uniforme delle norme sostanziali e processuali, facilitando lo snellimento delle procedure applicative; In base alle segnalazioni ricevute sono stati risolti numerosi problemi organizzativi e si sta lavorando alla stesura condivisa di protocolli per un migliore funzionamento delle udienze e per un’equa ed uniforme liquidazione dei compensi nei casi previsti dal D. Lgs 115/02; Monitoraggio costante della situazione carceraria, denuncia di situazioni illegali ed intollerabili, proposte di intervento legislativo, lontane da interventi di edilizia penitenziaria o di svalutazione del reato, in 9 tema di pene diverse dal carcere, uso corretto della custodia cautelare, espulsioni, misure alternative, giustizia riparativa, allo scopo di valorizzare la funzione rieducativa della pena e l’eliminazione o riduzione del rischio di recidiva; In collaborazione con l’UCPI saranno organizzate visite guidate nei carceri della zona; a Natale siamo stati tra i detenuti per “regalare” loro un momento di confronto sui temi giuridici di maggior interesse “penitenziario”; abbiamo sostenuto i referendum con raccolta firme avanti al Tribunale di Como, abbiamo diffuso mediante incontri e convegni la cultura della pena rieducativa e gli ultimi provvedimenti legislativi sono la miglior risposta al grande lavoro svolto. Interventi mirati, nell’ambito delle proprie competenze e nel rispetto delle normative vigenti, a seguito di segnalazione di situazioni meritevoli di attenzione; Siamo intervenuti ed interverremo in caso di segnalazioni, che sollecitiamo costantemente da parte dei colleghi; spesso ci confrontiamo anche con i magistrati ed il personale per raccogliere eventuali osservazioni. Promozione e sottoscrizione condivisa di protocolli in materia di organizzazione udienze, informatizzazione degli atti e delle comunicazioni, snellimento procedure, difese d’ufficio e liquidazione dei compensi; Le commissioni stanno lavorando molto sul tema; vogliamo porre in atto ogni iniziativa utile per arrivare ad un’ampia informatizzazione del sistema (avvisi via pec, digitalizzazione dei fascicoli, ecc.). In data 11.03.14 è stato sottoscritto un protocollo d’intesa per pazienti psichiatrici coinvolti in vicende giudiziarie (sul sito), che costituisce il pregevole risultato di un lavoro coordinato tra le istituzioni coinvolte, che ci ha impegnato per diverso tempo. Valorizzazione e promozione del ruolo attivo dell’avvocato (indagini difensive, 10 cross-examination, reale contraddittorio, pretesa di rispetto delle regole processuali, ecc.) Siamo intervenuti, anche con forza, sia in punto di inammissibilità dell’appello, sia in ordine alla concreta applicazione del protocollo d’udienza d’appello, sia nei confronti di qualche giudice che utilizza i propri poteri, specie nei confronti dei giovani colleghi, per forzarne scelte processuali a discapito del diritto di difesa. In tema di indagini difensive sarà diffuso un questionario per un monitoraggio, anche autocritico, della situazione. Il POF 2014 è volutamente incentrato su detti temi. Formazione ed aggiornamento costanti degli avvocati penalisti, nella direzione di una vera specializzazione; Per noi l’avvocato penalista deve essere specializzato: noi diamo il buon esempio frequentando la scuola nazionale UCPI biennale, che promuoveremo in modo da portarvi più iscritti possibili. Promozione di convegni su temi di stretta attualità ed interesse comune; Il programma è fitto e sotto gli occhi di tutti; grande successo stanno avendo gli incontri da noi organizzati ad Erba-Lariofiere per temi trattati, qualità dei relatori e modalità di esposizione. Partecipazione attiva, propositiva e critica, mediante avvocati relatori, a convegni organizzati dalle associazioni del territorio; Con grande piacere constatiamo l’invito sistematico dei nostri rappresentanti nei convegni organizzati da associazioni, ordini ed università. Collaborazione costante con le altre camere penali del distretto; Partecipiamo attivamente al coordinamento delle Camere Penali del distretto; enorme successo e consensi ha ottenuto l’assemblea annuale da noi organizzata a Como in data 30.11.13. Partecipazione costruttiva ed adesione alle iniziative dell’UCPI; La nostra camera penale costituisce costante riferimento per l’UCPI e per le altre camere penali; la reciproca partecipazione ad incontri ed eventi ne è conferma; il presidente ha partecipato a tutti i consigli, fornendo il proprio contributo alla stesura delle delibere nazionali. Sito internet aggiornato e possibilità di ampliamento degli spazi di comunicazione e confronto mediante sistemi informatici; Con grande impegno, anche economico, stiamo curando l’aggiornamento del sito e studiando nuovi sistemi di comunicazione adeguati ai tempi. Regolamentazione dei rapporti con i media, attraverso un sistema di comunicazione professionale e rispettosa dei diritti dei cittadini e degli iscritti; I costi non ci consentono un ufficio stampa dedicato, ma cerchiamo di diffondere al meglio le nostre iniziative; abbiamo partecipato anche a TG locali e spesso vengono richieste le nostre opinioni su temi di attualità, non solo giuridica. Organizzazione di incontri conviviali di aggregazione. Non sono mancati e non mancheranno; ad esempio l’assemblea dei soci viene abitualmente abbinata ad un aperitivo; in estate ed a Natale sono stati organizzati incontri in collaborazione con gli amici della Camera Civile, che meriterebbero maggiore partecipazione. Sono stati presi contatti con operatori del territorio per la stipula di convenzioni dirette ad ottenere vantaggi economici per gli iscritti in settori di interesse. Mobbing e Stalking quali differenze e quali similitudini? Gli argomenti sono stati già affrontati in precedenti numeri di Toga lecchese. In questo articolo si intende, attraverso un confronto tra i due nuovi istituti giuridici, evidenziarne le differenze. Nella più recente fattispecie delittuosa dello stalking l’autore pone in essere reiterati comportamenti di indole persecutoria verso la vittima designata, tali de gettarla in uno stato d’ansia e da influire sulla propria vita quotidiana e abitudinarietà dello modus vivendi. Tra le principali e peculiari caratteristiche distintive vi è la continua e interrotta reiterazione del comportamento violativo idoneo a determinare sia (o anche) nella persona offesa e vittima, oltre che eventualmente e/o di riflesso nei rapporti con i cari un notevole senso d’angoscia e di timore per la propria esistenza e sicurezza. E’ in effetti la libertà morale, ossia il diritto all’autodeterminazione nella vita quotidiana la ratio legis della norma qui presa in considerazione. Queste peculiarità hanno permesso al legislatore di individuare nel dolo generico, l’elemento soggettivo: il reo che si rappresenta e voglia la condotta che pone in essere, realizza altresì l’evento necessario e conseguente, così come individuato nell’art. 612 bis c.p. Il reato è inoltre a forma libera, in quanto le modalità attuative della con-dotta criminogena sono potenzialmente infinite nella forma, che si estrinseca in minacce piuttosto che in molestie, volte a incidere notevolmente sul predetto be-ne giuridico tutelato dalla norma. La recente sentenza della Cassazione n.45648 del 14/11/13 ha posto l’attenzione della giurisprudenza sulla circostanza che in occasione di comportamenti reciproci, il Giudice dovrà adottare una più pun-tuale motivazione in ordine alla sussunzione nella concreta fattispecie dell’elemento del danno, ovverosia dello stato d’ansia e della paura ingenerati nella vittima, del suo timore per la propria incolumità come di quella delle persone vicine e/o più care, determinando una radicale mutazione delle abitudini di vita quotidiana. In questi casi sarà necessario che l’Organo giudicante accerti la prevalenza e/o predominanza dei comportamenti lesivi dello stolker rispetto a quelli posti in essere dalla “vittima”, e quindi di quegli atteggiamenti volti a far assumere alla parte offesa un comportamento di difesa con l’intento di sopraffare quello stato d’animo ansiogeno e di paura ingenerato dall’agente. Non molto divergente da quanto sino ad ora illustrato è l’altro fenomeno che si intende analizzare, ossia il mobbing, che assume i connotati di un fenomeno fattuale, non ancora compiutamente disciplinato a livello normativo nell’ordina-mento italiano. Non a caso alcuni studiosi parlano di stalking occupazionale. Esso consta in una condotta aggressiva realizzata sul posto di lavoro e avente ad oggetto la denigrazione, lo svilimento della personalità del lavoratore ad opera di un superiore o di un collega. Le conseguenze indotte dall’illustrato atteggia-mento determinano e influenzano la psiche della vittima in modo drammatico e non solo: esso si ripercuote negativamente anche sulla “resa” professionale, implicando una vera e propria dequalificazione del lavoratore. Nonostante le gravi conseguenze che determina il mobbing nella persona offesa (danno alla salute, costituzionalmente garantito e tutelato), non vi è nel sistema giuridico italico adeguata e precisa normazione. Significativa sul punto l’affermazione della Cassazione per la quale la figura più simile sia da individuare nell’ambito dell’art. 572 c.p., ossia dei maltrattamenti. La sentenza della Suprema Corte sez. penale n.33624 del 2007 ha sancito che “le condotte a carattere vessatorio e persecutorio realizzate a danno dei lavoratori dipendenti possono integrare i maltrattamenti in famiglia, allorquando il soggetto agente versi in una situazione di supremazia che si traduca nell’esercizio di un potere direttivo o disciplinare, tale da rendere specularmente ipotizzabile una soggezione anche di natura meramente psicologica, riconducibile a un rapporto di natura parafamiliare (cfr. anche Cass. 43100/11). Questa interpretazione estensiva dell’art. 572 c.p. ha notevoli ripercussioni in ambito di formazione della prova, in quanto la vittima è tenuta (rigorosamente) a dimostrare avanti il Giudice il rapporto (o legame) di causalità tra il demansionamento e il danno (cd. da/alla professionalità), non potendolo configurare come danno in re ipsa. Il lavoratore è, cioé, tenuto a provare sia il danno professionale che il danno da demansionamento (Cass. civ. 172/14). Luigi Tancredi Disegno di Franco Necchi 11 Le linee guida psicoforensi Un’affollata Aula Magna della Corte di Cassazione ha ospitato, il 21 maggio scorso, il convegno di presentazione delle Linee guida psicoforensi per un processo sempre più giusto, alla cui stesura hanno fornito un contributo interdisciplinare affermati avvocati, magistrati, psicologi, neuropsichiatri infantili e criminologi. Al convegno di presentazione, organizzato dalla Fondazione Guglielmo Gulotta con il patrocinio delle Scuole Superiori dell’Avvocatura e della Magistratura, sono intervenuti, tra gli altri, il procuratore Generale della Cassazione Gianfranco Ciani, l’avvocato Valerio Spigarelli –presidente dell’Unione delle Camere Penali-, i magistrati Angelo Costanzo e Ernesto Aghina, l’avvocato Alarico Mariani Marini, i professori Giuseppe Sartori e Rino Rumiati. “E’ umano che chi giudica possa commettere errori - ha spiegato il professor Guglielmo Gulotta -, tuttavia la scienza psicologica rileva che non sempre si tratta di errori meramente casuali, di difficile previsione, bensì talvolta di errori sistematici insiti nel comune modo di ragionare e decidere in condizioni di incertezza. Questa tendenza è drammaticamente confermata dai dati sconcertanti, riguardanti il nostro Paese, con riferimento alle ingenti somme erogate per la riparazione di errori giudiziari e ingiuste detenzioni. Lobiettivo delle Linee guida ha precisato ancora Gulotta- è quello di offrire, a quanti sono chiamati ad operare a diverso titolo nel processo penale, delle indicazioni di carattere sia concettuale che metodologico per ridurre il più possibile il rischio di incorrere in errori giudiziari. Laura Redaelli Michele Cervati Queste le 21 Linee guida approvate e presentate a Roma: 12 SCIENZE PSICOLOGICHE, PROCESSI DECISIONALI E LORO DISTORSIONI 1. Il libero convincimento del giudice trova una preziosa risorsa nonché un limite invalicabile nelle acquisizioni scientifiche. La valutazione della condotta umana, presente sotto il profilo oggettivo e soggettivo in ogni processo penale, non può affidarsi solo a generiche massime d’esperienza, mutuate dal senso comune. Tale valutazione, ove possibile, dovrebbe: a. attingere a studi e ricerche propri delle scienze psicologiche che rispettino rigorosi criteri scientifici e che possano rendere le massime d’esperienza verificabili e/o falsificabili; b. favorire, nell’ambito considerato, la sostituzione del senso comune con conoscenze proprie delle scienze psicologiche. 2.La principale distorsione cognitiva sia nella fase investigativa sia nella fase del giudizio è rappresentata dalla cosiddetta ‘visione a tunnel’. Essa costituisce il punto di confluenza delle tendenze sistematiche per le quali gli individui possono incorrere in illusioni cognitive (bias) quando si trovano a dover decidere in condizioni di incertezza. 3. Poiché i processi decisionali – siano essi individuali o collegiali – sono esposti a meccanismi psicologici di distorsione, per limitarne gli effetti, si dovrebbe sviluppare una consapevolezza della presenza di influenze emozionali e cognitive che producono errori, a prescindere dal grado di esperienza e competenza professionale acquisita. 4. Nella fase investigativa occorre assumere un atteggiamento di scetticismo motivato che conduca non solo a vagliare delle ipotesi alternative a quella ‘preferita’, ma a considerarle, almeno temporaneamente, come vere. Questo al fine di ottenere un effetto di bilancia- mento rispetto alla naturale inclinazione umana al verificazionismo. 5. Considerare che le analisi di dati di tipo oggettivo, come le impronte digitali e il DNA, sono suscettibili di errori umani causati da ragioni psicologiche ed emotive. In tal senso, è auspicabile che gli analisti di laboratorio siano chiamati ad operare senza conoscere: a. le ipotesi degli investigatori che si occupano del caso in questione; b. la natura degli altri elementi di prova; c. i risultati delle analisi di laboratorio attesi dagli inquirenti; d. se i campioni da analizzare possono risultare incriminanti. Tale informazione dovrebbe essere ignota altresì a colui il quale consegna i campioni all’analista (c.d. metodo del doppio cieco). Oltretutto, andrebbero prodotti, ove possibile, più esemplari della medesima tipologia di elemento di prova mescolati ad altri per far sì che la scelta tra i diversi campioni avvenga al buio. 6. La ricostruzione probatoria deve rispondere a criteri di logicità e coerenza. La mente umana nel richiamare e vagliare episodi del passato li ri-costruisce in quanto storie; in una prospettiva giudiziaria, questo ambito viene chiamato ‘narratologia forense’. Le storie per essere credibili (non necessariamente vere) dovrebbero: a. presentare i fatti in maniera coerente, plausibile e completa; b. essere confrontate con le possibili storie alternative al fine di giungere tramite un processo c. comparativo, alla migliore spiegazione possibile. SCIENZA NEL PROCESSO 7. All’esperto non deve essere richiesto di esprimersi, nemmeno indirettamente, circa l’accadimento e la dinamica dei fatti. In tal senso, esistono strumenti scientifici finalizzati alla valutazione della qualità del racconto ma non alla veridicità del narrato rispetto al fatto storico. 8. Nel valutare l’ammissibilità e la fondatezza degli asserti scientifici introdotti dagli esperti, il giudice, in quanto peritus peritorum, deve esercitare criticamente il vaglio epistemologico dei medesimi. Preliminare attenzione dovrebbe essere orientata al grado di affidabilità della teoria, valutando in che misura la stessa possa fornire concrete e attendibili informazioni a sostegno dell’argomentazione probatoria inerente al caso di specie. Rispetto al metodo, sarà necessario valutare: a. l’autorità e l’indipendenza del soggetto che gestisce la ricerca nonché la finalità che lo muove; b. la correttezza metodologica (oggettività e rigorosità), vagliando criticamente gli studi che sorreggono la tesi premessa nonché gli strumenti e le tecniche utilizzati; c. la discussione critica che ha accompagnato l’elaborazione dello studio, soffermandosi sulle diverse opinioni formatesi e tenendo conto del grado di consenso che la tesi raccoglie nella comunità scientifica. Ove sia presente un dibattito alimentato da posizioni conflittuali, il giudice, nello scegliere tra le tesi emerse, dovrebbe valutare anche le posizioni minoritarie o non ancora consolidate ai fini del superamento del ragionevole dubbio. In ogni caso, la tesi prescelta dovrà essere dotata di un elevato grado di affidabilità facendo riferimento alle ricerche e agli studi più accredidati. PROVA DICHIARATIVA: ACCURATEZZA DEL RICORDO E FALSE CONFESSIONI 9. L’esperienza e la ricerca confermano che esistono oltre a confessioni sincere altre che non lo sono o perché frutto di particolari situazioni psicologiche del dichiarante o perché frutto di pressioni esterne o perché causate dall’attività di interrogazione. Per questo, in linea di principio, ogni interrogatorio investigativo, per i delitti più gravi, andrebbe video o audio registrato, anche nei casi in cui ciò non sia espressamente previsto dalla legge. 10.Tenere conto che non è possibile evincere dal solo comportamento verbale e non verbale se il dichiarante sia sincero o se stia mentendo. 11.Diversi protocolli, indicati nella letteratura scientifica di riferimento nazionale e internazionale, inerenti la raccolta delle dichiarazioni dei testimoni e delle persone informate sui fatti, suggeriscono, al fine di ottenere risposte quanto più accurate possibile, di: a.controllare il proprio comportamento verbale e non verbale (tono di voce, gesti, postura, espressioni del volto…); b. iniziare con domande aperte, generali, per poi proseguire con quelle più specifiche; c. privilegiare domande neutre, evitando domande suggestive, salvo nel controesame dibattimentale; d. favorire la ricostruzione del contesto in cui il fatto da rievocare è accaduto; e. ai fini di un recupero più articolato, domandare al testimone, all’interno dello stesso ascolto, di descrivere più volte i fatti con cronologie differenti (es. prima la fine, poi dall’inizio); f. invitare il testimone a distinguere il ricordo dei fatti dalle proprie supposizioni; g. evitare di fare domande multiple, in forma negativa o con doppia negazione; h. non dominare l’interazione, evitando di interrompere il testimone e di fare troppe domande. 12.Particolari cautele e specifici accorgimenti vanno adottati nella raccolta e nel vaglio della testimonianza di minori, di soggetti portatori di deficit cognitivi e di altri soggetti deboli. Sul punto si faccia riferimento ai seguenti protocolli: la Carta di Noto, le Linee guida nazionali – L’ascolto del minore testimone, L’ascolto dei minorenni in ambito giudiziario (documento redatto da C.S.M. e Unicef), le Linee guida per l’ascolto del bambino testimone presso la questura di Roma e, in tema di abusi collettivi, il Protocollo di Venezia. 13.Nella gestione delle udienze dibatti- mentali è opportuno che il giudice non ponga domande induttive o suggestive. INDIVIDUAZIONE, RICONOSCIMENTO E TRASCRIZIONI 14.Durante il riconoscimento personale o fotografico, ove possibile, è opportuno che chi lo conduce non conosca l’identità dell’individuo sospettato e che tutte le dichiarazioni testimoniali rese prima, durante e dopo l’identificazione siano documentate mediante strumenti di riproduzione audiovisiva o, quantomeno, fonografica. Sia in sede di individuazione che in sede di ricognizione di persona, si raccomanda che l’operatore, a beneficio di una prassi non contaminante, comunichi al testimone che: a. il sospetto potrebbe anche non essere presente tra coloro che vengono mostrati di persona o in fotografia; b. l’addetto incaricato di condurre il riconoscimento non conosce l’identità del sospettato. Durante la procedura di riconoscimento l’operatore dovrebbe considerare che: a. quando il testimone esprime il grado di sicurezza che ha in merito al riconoscimento effettuato è necessario non fornire alcun riscontro né positivo né negativo; b. il grado di sicurezza esibito non è in alcun modo connesso con la correttezza del riconoscimento e, in generale, con la veridicità delle dichiarazioni del testimone. 15.La testimonianza circa il riconoscimento di voci udite deve essere vagliata con particolare prudenza poiché risente di numerose variabili contestuali; in particolare, l’esiguità della durata di esposizione allo stimolo spesso non permette la completa attivazione delle modalità proprie del sistema uditivo, necessarie alla corretta codifica di quanto percepito. 16.Le trascrizioni di intercettazioni ambientali, telefoniche, informatiche o telematiche, soprattutto se di parlato acusticamente degradato, dovrebbero essere decodificate indipendentemente da più trascrittori, ignari del contesto 13 di riferimento e, ove possibile, da un esperto di psicolinguistica. IMPUTABILITÀ E PERICOLOSITÀ 17.La valutazione dell’imputabilità non è vincolata ad un inquadramento diagnostico – le cui categorie sono tra l’altro mutevoli nel tempo – ma può fondarsi su modelli condivisi del processo decisionale concernenti la possibilità del soggetto di autocontrollarsi e di scegliere tra varie alternative; essa si riferisce altresì alle dinamiche motivazionali che hanno agito al momento del fatto e alla loro natura e qualità in senso psicopatologico, nonché a eventuali disturbi della sfera cognitiva che possono agire sulla capacità d’intendere e di volere. Nei casi in cui si sia riscontrato un vizio di mente, la valutazione prognostica della pericolosità sociale dovrà riguardare gli aspetti clinici psicopatologici relativi ai rischi di recidiva (presenza di disturbi del pensiero, perdita dell’esame di realtà, discontrollo degli impulsi, indisponibilità al trattamento) connessi alla natura e alla gravità delle problematiche rilevate. In merito alla valutazione della capacità di stare in giudizio – indipendente da quella dell’imputabilità al momento del fatto, essendo riferita alla ‘processabilità’ – occorre tenere conto che essa attiene alla capacità di difendersi dai fatti contestati nonché alla capacità di prendere decisioni processuali di particolare rilievo, per esempio: a. rendersi conto della gravità degli addebiti e dei rischi sanzionatori; b. avere la capacità di relazionarsi correttamente con il proprio difensore e di prendere decisioni processuali ponderate (ad es. scelta del rito, possibilità di sottoporsi o meno a interrogatorio e/o esame incrociato, ecc.). 18.La valutazione concernente la pericolosità sociale deve tenere conto dei parametri clinici, psicologici e criminologici relativi al rischio di recidiva, connessi a natura e gravità del reato, da vagliare, ove possibile, con l’utilizzo di strumenti specifici. 14 FORMAZIONE (PROGRAMMI E CORSI DI FORMAZIONE) 19.Affinchè il sistema possa autocorreggersi, è necessario che i magistrati penali conoscano il destino delle loro sentenze quanto alla valutazione che avviene in altri gra di di giudizio. 20.Tutti gli operatori coinvolti a vario titolo nei procedimenti giudiziari (esperti, avvocati, magistrati, ufficiali di polizia giudiziaria, praticanti, ecc.) sono tenuti alla formazione ed al continuo aggiornamento scientifico e professionale circa gli argomenti oggetto delle presenti Linee guida. Questi corsi potranno essere organizzati anche attraverso la collaborazione di istituzioni, enti di ricerca, università, Scuola Superiore dell’Avvocatura, Scuola Superiore della Magistratura e Ordini Professionali. Nella fattispecie sarebbe necessario: a. promuovere la consapevolezza delle problematiche investigative e giudiziarie attraverso l’analisi dei casi; b. svolgere ricerche inerenti le fonti umane di errore e porle in stretta connessione a ricerche volte a quantificare e caratterizzare precisamente le diverse tipologie d’errore; c. sviluppare, a partire dai risultati delle suddette ricerche, delle procedure standard – protocolli e linee guida – Disegno di Franco Necchi al fine di minimizzare potenziali bias e fonti di errore; d. impiegare le procedure individuate come corrette e idonee in tutti i tipi di indagine forense; e. incoraggiare la capacità di posticipare il più possibile le conclusioni fino a che non si è in possesso di tutti gli elementi necessari per decidere; f. favorire i processi di identificazione dei segnali ‘tipici’ di una possibile adozione della visione a tunnel; g. considerare ipotesi alternative e prospettive differenti; h. esplorare anche le idee frutto di intuizioni senza però affidarsi ad esse aprioristicamente; i. promuovere il confronto al fine di analizzare criticamente tutti gli aspetti implicati nel caso oggetto di discussione; j. assegnare a qualcuno, all’interno del gruppo di lavoro, il ruolo di ‘avvocato del diavolo’ che si faccia portavoce delle ipotesi ‘impopolari’ o contrarie all’idea prevalente; k. abituarsi a chiedersi ‘come sappiamo ciò che pensiamo di sapere?’; l. vagliare criticamente i casi in cui si è appreso di aver assunto decisioni errate. 21.Le presenti Linee guida andranno aggiornate sulla scorta dell’esperienza e del progredire delle acquisizioni scientifiche. Giurisprudenza penale Riportiamo il testo della sentenza Corte di Cassazione penale, sezione II, 09.10.13 n. 5499 nella quale viene affermato il principio secondo cui integra il reato di appropriazione indebita la condotta dell’esercente la professione forense che trattenga somme riscosse a nome e per conto del cliente, anche se egli sia, a sua volta, creditore di quest’ultimo per spese e competenze relative ad incarichi professionali espletati, a meno che non si dimostri non solo l’esistenza del credito, ma anche la sua esigibilità ed il suo concreto ammontare. Svolgimento del processo 1.Con sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Milano, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Monza, in data 29.5.2007, che aveva condannato C.B.M. alla pena di mesi nove di reclusione ed Euro 600,00 di multa per l’imputazione che segue: Dei reati p. e p. dagli artt 81 cpv., 380 e 646 c.p., perchè in qualità di legale di fiducia di T.F. e T. D.A. in merito a tre cause civili, rendendosi infedele ai suoi doveri professionali, ometteva di inoltrare alla competente Autorità giudiziaria diversi atti che dovevano essere da lui realizzati, arrecando, così, ai due querelanti un danno economico pari a circa Euro 77 mila e perchè, al fine di conseguire un ingiusto profitto, si appropriava dapprima della somma di Euro 680,00 a lui consegnata da T.D.A. per il pagamento del contributo unificato con riferimento all’intimazione di sfratto relativa all’inquilino V., successivamente della somma di Euro 1.500,00 richiesti ed ottenuti da T.F. quale compenso da corrispondere al perito incaricato della valutazione dell’immobile relativamente alla causa con il L., nonchè al legale domiciliatario su (OMISSIS). In (OMIS- SIS). assolveva l’imputato dall’accusa di patrocinio infedele e confermava la condanna per appropriazione indebita, rideterminando di conseguenza la pena. La Corte territoriale, in particolare, respingeva le censure mosse con l’atto d’appello, sulla sussistenza dell’elemento oggettivo e soggettivo del reato appropriativo, avendo il professionista dolosamente trattenuto il denaro datogli per pagare il contributo unificato, non avendo iniziato alcuna azione e, pertanto, non essendoci mai stato alcun perito da ricompensare. Valutava, inoltre, pienamente attendibili le dichiarazioni rese dalle parti civili, che si erano dimostrate perfettamente credibili nella ricostruzione dell’intera vicenda. 1.1 Avverso tale sentenza propone ricorso l’imputato per mezzo del suo difensore di fiducia, chiedendo l’annullamento della sentenza e deducendo un unico motivo di gravame con il quale lamenta il vizio di motivazione in relazione alla configurazione degli elementi oggettivi del reato di appropriazione indebita ed in ordine alla ritenuta responsabilità penale dell’imputato. Il ricorrente si duole che la Corte abbia dato credito alle affermazioni dei querelanti senza effettuare i doverosi approfondimenti circa le ragioni per cui erano state date all’avvocato le somme portate dagli assegni. In particolare la Corte non ha considerato che l’avvocato aveva comunque svolto per i T. attività professionale e che tale attività è stata pagata solo in minima parte e comunque il denaro conferito al professionista per l’attività professionale da svolgere non è più nella disponibilità dei clienti, essendo competenza del professionista imputare le somme alle specifiche attività professionali. Motivi della decisione 2. Il ricorso è inammissibile. 2.1 Il ricorrente,infatti, pur deducendo asseritamente il vizio di illogicità della motivazione si limita a prospettare una diversa versione dei fatti, più aderente ai propri interessi difensivi e procedendo da tale alternativa ricostruzione sviluppa critiche che rimangono estranee alle argomentazioni sviluppate nella motivazione del provvedimento impugnato; quest’ultimo,peraltro, è motivato in modo coerente ed adeguato, con una motivazione in linea con i principi già enunciati da questa Corte. 2.2 E’, infatti, noto il principio già affermato da questa Corte secondo cui si configura il reato di appropriazione indebita (art. 646 cod. pen.) nella condotta dell’esercente la professione forense, che trattenga somme riscosse a nome e per conto del cliente, anche se egli sia, a sua volta, creditore di quest’ultimo per spese e competenze relative ad incarichi professionali espletati, a meno che non si dimostri non solo l’esistenza del credito, ma anche la sua esigibilità ed il suo preciso ammontare. (n. 1410 del 19/11/1998 Rv.212637; n. 41663 del 2009). 2.3 Poichè il caso oggi all’esame è del tutto analogo a quello che ha determinato il principio di diritto, questo Collegio ritiene che quest’ultimo debba essere riaffermato, non evidenziandosi ragioni per una diversa decisione. 2.4 Il Procuratore Generale, all’odierna udienza, ha chiesto la dichiarazione di prescrizione del reato, essendo decorso essendo ormai decorso il termine massimo per tale dichiarazione; tuttavia è principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte che l’inammissibilità del ricorso per cassazione per manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e, pertanto, preclude la possibilità di dichiarare le cause di non punibilità di cui all’art. 129 cod. 15 proc. pen., ivi compresa la prescrizione intervenuta nelle more del procedimento di legittimità. (N. 32 del 2000 Rv. 217266,N. 18641 del 2004 Rv. 228349; n. 28848 del 2013 Rv. 256463). 3. Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonchè - ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità - al versamento a favore della Cassa delle ammende di una somma che, alla luce del dictum della Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000, sussistendo profili di colpa, si stima equo determinare in Euro 1.000,00 (mille/00). P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende. Così deciso in Roma, il 9 ottobre 2013. Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2014 * “Fuori di testa”: frase “inelegante e rozza”, ma che non costituisce reato se manca la volontà di usare espressioni lesive dell’onore e del decoro dell’interlocutore La Cassazione afferma che, tenendo conto della cornice storica in cui sono maturati il dissenso tra imputato o persona offesa e l’espressione critica del primo, l’espressione equivalente a “dare del matto” può non integrare il reato ex art. 594 c.p. Nel contesto in esame, l’assenza di equilibrio e di adeguata capacità valutativa, attribuita (con l’espressione oggettivamente offensiva “fuori di testa”) dal commerciante all’avvocato è da inquadrare come presa d’atto, da parte del primo, dell’impossibilità di concludere il contratto di vendita a causa della carenza di preparazione ed esperienza, da parte dell’avvocato, nel campo del mercato automobilistico. Non si può, quindi, ravvisare, nel caso concreto, l’elemento psicologico del dolo generico, non essendo 16 emerso che il ricorrente abbia espresso la valutazione critica con la volontà di usare espressioni lesive dell’onore e del decoro dell’interlocutore e con consapevolezza della sua generale valenza lesiva. FATTO E DIRITTO Con sentenza 16.09.2010 il tribunale di Perugia, sezione di Foligno, ha confermato la sentenza 20.06.2008 emessa dal giudice di pace di Foligno, con la quale BA era stato condannato alla pena di Euro 800,00 di multa, al risarcimento dei danni e alla rifusione delle spese processuali in favore della parte civile, perché ritenuto colpevole del reato di ingiuria, in danno di PR per aver pronunciato in sua presenza le parole “lei avvocato è fuori…è fuori di testa”. Il difensore ha presentato ricorso per i seguenti motivi: 1. vizio di motivazione e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla non corretta valutazione delle prove: il tribunale ha confermato la condanna del B pur in presenza di testimonianze discordanti quanto al contesto storico, al contenuto e al significato delle sue parole: il R , a seguito di un accordo con la società BA srl, per la permuta della propria auto con altra nuova, aveva rifiutato il veicolo predisposto dall’imputato, poiché lo aveva ritenuto non qualificabile come nuovo, avendo percorso 45 km. A fronte della pretesa del R di risolvere il contratto, all’esito della discussione sulla qualificabilità o meno dell’autovettura come nuova, il B ha pronunciato la frase incriminata, limitatamente alle parole “lei è fuori”, nel senso di affermare l’estraneità dell’interlocutore, di professione avvocato, rispetto alle logiche commerciali. Questa ricostruzione dei fatti è confermata dal teste G secondo cui l’imputato non pronunciò “di testa”; 2. violazione di legge in riferimento all’art. 594 c.p.: la frase pronunciata dal B, dando per ammesso che corrisponda a quella indicata nel capo di imputazione, equivalente a “dare del matto” non integra il reato di ingiuria, in quanto tale espressione, pur inelegante e rozza, è entrata nel linguaggio comune e non è idonea a ledere l’onore e il decoro del destinatario e comunque è stata pronunciata nell’ambito di contrapposte opinioni su uno specifico tema commerciale. Il ricorso merita accoglimento , in quanto è da escludere che il B abbia consapevolmente fatto uso di espressione socialmente interpretabile come offensiva, cioè adoperata in base al significato che essa venga oggettivamente ad assumere. Va infatti tenuta presente la non contestata cornice storica in cui sono maturati il dissenso tra imputato e persona offesa e l’espressione critica del primo: essi hanno come origine e come oggetto la diversità di opinione tra venditore ed acquirente sulla precisa lettura tecnica del limite di percorrenza di un’auto, al di là del quale il bene mobile non sia più funzionalmente, economicamente e commercialmente meritevole della qualifica di nuovo, presentando quindi una flessione del suo valore commerciale. L’assenza di equilibrio e di adeguata capacità valutativa, attribuita (con la sintetica espressione oggettivamente offensiva “fuori di testa”) dal commerciante all’avvocato è da inquadrare, nella suindicata cornice storica, come presa d’atto, da parte del primo, dell’insormontabile ostacolo alla conclusione del contratto di vendita e come identificazione di tale ostacolo nella carenza di preparazione ed esperienza, da parte dell’avvocato R , nel campo del mercato veicolare. Non è quindi ravvisabile, nel caso in esame, l’elemento psicologico del dolo generico, non essendo emerso che il B abbia espresso la suindicata valutazione critica con la volontà di usare espressioni globalmente lesive dell’onore e del decoro dell’interlocutore e con consapevolezza della sua generale valenza lesiva. La sentenza va quindi annullata senza rinvio perché il fatto non costituisce reato. PQM Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato. Roma, 20.09.2013 * Viola i diritti difensivi ed è da ritenersi nulla la decisione del giudice di revocare il provvedimento di ammissione dei testi della difesa, in assenza del requisito della loro superfluità Il potere officioso di escludere le prove già ammesse ma successivamente rivelatesi superflue, costituisce un limite del principale diritto della parte di difendersi provando, sancito dal comma 2 dell’art. 495 c.p.p., che corrisponde al principio della “parità delle armi” contenuto nella CEDU, art. 6 comma 3 lett. d), a sua volta ripreso dall’art. 111comma 2 Cost. in tema di contraddittorio delle parti, e che consiste nel diritto dell’accusato ad ottenere non solo la citazione ma anche l’interrogatorio dei testimoni a discarico, a pari condizioni dei testimoni a carico. Revocando l’ordinanza ammissiva delle prove testimoniali a difesa, il giudice ha anticipato un giudizio sulla valutazione della prova introdotta dalla difesa, da esprimersi invece necessariamente solo dopo l’assunzione della stessa. Infatti, perché il contraddittorio con parità delle armi sia assicurato, la superfluità della prova deve essere l’effetto di un giudizio comparativo che il giudice è ammesso ad esercitare soltanto in relazione ad una istruttoria già espletata. Svolgimento del processo 1. S.M. ha proposto tempestivo ricorso avverso la sentenza della Corte d’Appello di LECCE in data 20.02.2013, depositata in data 26.02.2013, confermativa della sentenza 17.11.2010 emessa dal medesimo Tribunale, sez. dist. Casarano, con cui il medesimo è stato condannato, con il beneficio della non menzione, alla pena sospesa, di mesi tre di arresto ed Euro 516,00 di ammenda per il reato di cui alla L. n. 401 del 1989, art. 4, commi 1, 4 bis e 4 ter, commesso in (OMISSIS), per avere, quale presidente dell’associazione culturale ricreativa LAS VEGAS, abusivamente svolto sul territorio nazionale un’attività organizzata all’accettazione ed alla raccolta per via telematica di scommesse su eventi sportivi accettate dalla GI.LU.PI. s.r.l., senza la prescritta concessione, autorizzazione e licenza ex art. 88 TULPS, e senza essere in possesso della prescritta autorizzazione del Ministero dell’Economia e Finanze – Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, all’uso dei mezzi telematici per la raccolta di scommesse. 2.Ricorre avverso la predetta sentenza l’imputato per mezzo del difensore fiduciario cassazionista, proponendo quattro motivi di ricorso, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. c.p.p.. 2.1 Deduce il ricorrente, con un primo motivo, la nullità della sentenza per violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. c) ed e). Si duole, in particolare, il ricorrente per avere rigettato il tribunale la richiesta difensiva di escussione dei testi di cui alla propria lista testimoniale; rileva il ricorrente che all’ud. 4.11.2010, il giudice monocratico, richiamando i poteri di cui all’art. 495 c.p.p., comma 4, dopo aver sentito le parti, revocava l’ordinanza ammissiva delle prove testimoniali a difesa; la relativa eccezione veniva sollevata dalla difesa all’atto della pronuncia dell’ordinanza di revoca ed eccepita ritualmente nei motivi d’appello, ove veniva dedotta la violazione dell’art. 495 c.p.p., comma 4; difetterebbe, tuttavia, nella sentenza impugnata, qualsiasi motivazione da parte della Corte territoriale in ordine a tale eccezione; in particolare, il giudice avrebbe fatto cattivo uso del potere di revoca, consentito solo se le prove risultano superflue, avendo ritenuto che la deposizione di un solo teste del p.m. e l’esame dell’imputato fossero sufficienti per decidere il processo; rileva, diversamente, il ricorrente che sarebbe stato necessario sentire il teste della difesa o, quantomeno, il perito tecnico M. Se., che, quale esperto nel settore, avrebbe potuto chiarire se l’attività dell’imputato si fosse concretizzata in una vera e propria attività di mediazione tra il singolo scommettitore ed il bookmaker; il giudice, invece, revocando l’ordinanza, avrebbe anticipato un giudizio sulla valutazione della prova introdotta dalla difesa, da esprimersi invece necessariamente solo dopo l’assunzione della stessa. 2.2 Deduce il ricorrente, con il secondo motivo, la nullità della sentenza per violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. c), d) ed e). Si duole il ricorrente per aver la Corte territoriale disatteso genericamente la richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale ex art. 603 c.p.p. comma 1, ritenendo superflua e meramente esplorativa la richiesta di rinnovazione dibattimentale per l’audizione del Se., qualificato come esperto del settore, senza tuttavia individuare alcun elemento sulla cui base evincere che questi avrebbe potuto chiarire se l’attività dello S. si fosse concretizzata o meno in un’attività di intermediazione tra singolo scommettitore e broker; tale motivazione, oltre che illegittima, sarebbe totalmente illogica, in quanto il predetto Se. era stato indicato nella lista depositata ex art. 468 c.p.p. al n. 6, con la qualifica di perito tecnico elettronico; inoltre l’ordinanza sarebbe viziata per mancata assunzione di prova decisiva, in quanto, attraverso l’audizione del Se., la difesa avrebbe voluto dimostrare che il ricorrente non aveva posto in essere alcuna attività illecita poiché ogni giocatore era intestatario di un conto nominativo ad esso intestato, dotati di proprio esclusivo Username e PW, attraverso cui il giocatore poteva giocare in qualsiasi momento e da qualsiasi postazione internet. 2.3 Deduce poi, con il terzo motivo, la nullità della sentenza per violazione dell’art. 606 c.p.p. lett. b) ed e). Si duole il ricorrente per avere la Corte d’appello ritenuto la sua penale responsabilità in quanto questi non si limitava alla semplice vendita di ricariche di conto gioco, ma interferiva nelle attività di scommessa del cliente e, segnatamente, nella scelta dell’evento sportivo e nell’individuazione della relativa quota, oltre che nella contabilizzazione del denaro che gli veniva consegnato in contanti, dietro rilascio della ricarica del conto di gioco; diversamente, ritiene il ricorrente di non avere svolto alcuna attività di intermediazione, ma di aver svolto solo la vendita di ricariche utilizzate successivamente al fine di giocare, 17 in quanto le giocate avvenivano sui conti intestati ai singoli clienti, dotati di proprie credenziali di accesso, conformemente a quanto stabilito dal decreto direttoriale dell’AAMS del 21.03.2006, disciplinante in maniera articolata le cosiddette offerte a distanza mediante appositi centri di commercializzazione e alla nota 8.06.2006, prot. 2006/19783/Giochi/UD; ciò emergerebbe anche dalle deposizioni dei testi e dell’imputato assunti in dibattimento (dep. Manco), che hanno confermato che il ricorrente si occupava solo della vendita della ricarica del conto gioco, mentre il giocatore poteva poi giocare da casa o da qualsiasi punto internet; la circostanza per la quale, in qualche caso, le giocate venivano effettuate sui computer del ricorrente non ne determinerebbe alcuna responsabilità, in quanto le giocate avvenivano sempre sui conti personali dei giocatori. 2.4 Deduce infine, con un quarto motivo, la nullità della sentenza per violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e). Si duole il ricorrente per non avere il tribunale riconosciuto le attenuanti generiche, per la mancanza di elementi positivi suscettibili di riconoscimento, non potendo derivare dalla semplice assenza di precedenti penali, motivazione ripresa dalla Corte d’appello nel confermare tale diniego, essendo il rispetto della legge un preciso dovere di ogni persona; lamenta la difesa che tale motivazione sarebbe apparente, in quanto la Corte d’appello si sarebbe limitata, per relationem, a ripetere pedissequamente quanto affermato dal primo giudice, a fronte della indicazione nei motivi di appello di ulteriori elementi a sostegno della richiesta, quali lo scarso allarme sociale dell’episodio e la complessità della normativa. Motivi della decisione 3. Il ricorso è fondato per le ragioni di cui si dirà oltre. 4. Quanto al primo motivo di ricorso , ritiene il Collegio che lo stesso sia fondato. Ed infatti, ha evidenziato il ricorrente che il tribunale monocratico 18 aveva rigettato la richiesta difensiva di escussione dei testi di cui alla propria lista testimoniale; in particolare, all’ud. 4.11.2010, il giudice monocratico, richiamando i poteri di cui all’art. 495 c.p.p., comma 4, dopo aver sentito le parti, revocava l’ordinanza ammissiva delle prove testimoniali a difesa. Le relativa eccezione veniva sollevata dalla difesa all’atto della pronuncia dell’ordinanza di revoca ed eccepita ritualmente nei motivi d’appello (motivo di appello n. 1), ove veniva dedotta la violazione dell’art. 495 c.p.p., comma 4; nessuna motivazione, tuttavia, conterrebbe la sentenza impugnata in ordine a tale eccezione. La lettura della motivazione della sentenza, rende ragione della fondatezza dell’eccezione; la Corte territoriale, infatti, pur essendo stato proposto motivo di appello (v. atto di appello, motivo n. 1, pagg. 2/3), non ha fornito alcuna motivazione in ordine a detto profilo di censura, limitandosi solo a motivare circa il mancato esercizio del potere di disporre la rinnovazione istruttoria ex art. 603 c.p.p., senza però nulla dire in ordine all’eccezione sollevata concernente la violazione dell’art. 495 c.p.p., comma 4. Sul punto, merita ricordare che è viziata da nullità l’ordinanza con la quale il giudice disponga la revoca dell’ammissione di un teste a discarico dell’imputato, nonostante le insistenze del difensore per la sua ammissione; tuttavia, detta nullità deve essere immediatamente dedotta dalla parte presente, ai sensi dell’art. 182 c.p.p. comma 2, con la conseguenza che in caso contrario essa è sanata (Sez. 5, n. 18351 del 17.02.2012). 4.1Sul punto, peraltro, merita approfondimento la puntuale questione sollevata dal Procuratore Generale di udienza che, nel chiedere l’annullamento con rinvio dell’impugnata sentenza, ha richiamato non soltanto i principi fissati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, ma anche recente giurisprudenza di questa Corte che ha fatto coerente applicazione di tali principi (Sez. 5, Sentenza n. 51522 del 2013), cui questa Sezione ritiene di dover dare continuità. Orbene, può convenirsi con la prospettazione difensiva secondo cui viola i diritti difensivi ed è da ritenersi nulla, la decisione del giudice di revocare il provvedimento di ammissione dei testi della difesa, in assenza del requisito, debitamente argomentato, della loro superfluità, secondo il disposto dell’art. 495 c.p.p., comma 4. Ed invero, il potere officioso di escludere le prove già ammesse ma successivamente rivelatesi superflue, previsto dall’art. 495 c.p.p. comma 4, è dipendente e costituisce null’altro che un limite del principale diritto della parte di difendersi provando, sancito dal precedente comma 2 anche come riflesso processuale del diritto- dovere che le parti del processo hanno a provare i fatti che si riferiscono alla imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena oltre a quelli dai quali dipende la applicazione delle norme processuali (art. 187 c.p.p.). E il diritto stabilito dall’art. 495 c.p.p. comma 2, corrisponde e ben può essere oggetto di una interpretazione conforme al principio della “parità delle armi” che è sancito dall’art. 6 comma 3 lett. d) della CEDU, a sua volta ripreso anche dall’art. 111 Cost. comma 2, in tema di contraddittorio tra le parti, e che consiste, come è scritto nel precetto sovranazionale, nel diritto dell’accusato ad ottenere non solo la citazione ma anche l’interrogatorio dei testimoni a discarico, a pari condizioni dei testimoni a carico. Ne consegue che l’ulteriore principio del contraddittorio sul terreno della prova, affermato dall’art. 111 Cost. comma 4, sebbene compatibile anche con limitazioni legislative – come quella sul potere di revoca della prova divenuta superflua – che integrano la riserva costituzionale in tema di ragionevole durata, non è per questa via sostanzialmente sopprimibile, pena la implicita abrogazione del diritto stesso. Anche la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo (C. Eur., sent. 22.02.1996, Bulut e Austria) pone in evidenza che il principio della parità delle armi implica che a ciascuna delle parti debba essere consentita una ragionevole opportunità di presentare la sua posizione, incluse le prove, in condizione tale da non risultare collocata in sostanziale svan- taggio rispetto al suo contraddittore. In altri termini, la “superfluità” della prova è l’effetto di un giudizio comparativo che il giudice è ammesso ad esercitare – perché il contraddittorio con parità delle armi sia assicurato – in relazione ad una istruttoria già espletata quale espressione del diritto di entrambe le parti di concorrere alla formazione della prova anche mediante mezzi autonomi, volti anche soltanto a migliorare la qualità della decisione e comunque ad agevolare la accettazione del risultato decisionale da parte dell’imputato che non è soltanto oggetto del processo ma suo protagonista. Non può essere, viceversa, quel giudizio, reso in relazione alla istruttoria che deriva dall’esaurimento delle prove indotte dalla sola controparte. Perché, in tale ultimo caso, a meno che i mezzi di prova indotti dalla accusa e dalla difesa coincidano, non potrebbe dirsi superflua e revocarsi la prova indotta da una parte non ancora posta nelle condizioni di esercitare il proprio diritto difensivo. Certamente non potrebbe, per principio, dirsi esaurita – e quindi superflua la prova ulteriore – la istruttoria condotta sulla base delle sole prove indotte dalla accusa, dovendosi considerare che queste, anche se tendenzialmente esaustive, non coprono necessariamente tutti gli elementi rilevanti ai fini del decidere e, in particolare, le cause di giustificazione, quelle di non punibilità, le circostanze attenuanti e quelle situazioni di fatto che la giurisprudenza, condiscendente con la prova per presunzione, relega nell’ambito dell’onere probatorio o comunque di allegazione della parte. Si è dunque prodotta la nullità denunciata dal ricorrente. affermato dal primo giudice, a fronte della indicazione nei motivi di appello di ulteriori elementi a sostegno della richiesta, quali lo scarso allarme sociale dell’episodio e la complessità della normativa. Anche tale profilo di doglianza è fondato, atteso che, effettivamente, la Corte d’appello si limita a richiamare il profilo dell’incensuratezza quale elemento, di per sé, sostanzialmente neutro, riferendosi poi all’assenza di elementi positivi suscettibili di valutazione. La motivazione appare non adeguatamente motivata, atteso che difetta qualsiasi valutazione in ordine alla rilevanza degli altri fattori attenuanti indicati nei motivi di impugnazione. È stato infatti condivisibilmente affermato da questa Corte che è illegittima la motivazione della sentenza d’appello che, nel confermare, il giudizio di insussistenza delle circostanze attenuanti generiche, si limiti a condividere il presupposto dell’adeguatezza della pena in concreto inflitta, omettendo ogni apprezzamento sulla sussistenza e rilevanza dei fattori attenuanti specificamente indicati nei motivi d’impugnazione (v. in termini: Sez. 6 n. 46514 del 23.10.2009). Anche detto motivo di ricorso è fondato. 5.Procedendo nell’ordine logico e non cronologico di valutazione dei motivi, dev’essere, altresì ritenuta la fondatezza del quarto motivo di ricorso. Il motivo è infondato. Ed infatti, la Corte d’appello, sul punto, ha adeguatamente motivato in ordine allo svolgimento da parte del ricorrente dell’attività di intermediazione; se, da un lato, emerge che effettivamente il ricorrente provvedeva alla vendita delle ricariche per il conto di gioco (attività consentita, in quanto l’art. 7 del decreto direttoriale del 21 marzo 2006 prevede che: “il titolare di sistema può consentire l’acquisto di ricariche presso la propria sede, anche mediante Ed invero, la difesa del ricorrente ha eccepito che la motivazione della sentenza impugnata sarebbe apparente, in quanto la Corte d’appello si sarebbe limitata, per relationem, a ripetere pedissequamente – come riferimento al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche – quanto 6. Merita, poi, di essere trattato, al fine di circoscrivere l’ambito cognitivo del giudice di rinvio, il terzo motivo di ricorso, con cui il ricorrente sostiene di non aver svolto alcuna attività di intermediazione, ma di aver svolto solo la vendita di ricariche utilizzate successivamente al fine di giocare, con conseguente esclusione della configurabilità dell’ipotizzato reato per la mancanza di attività di intermediazione. interconnessione telematica o telefonica nonché presso le sale dei concessionari e presso i punti di commercializzazione. Il pagamento può essere effettuato con gli strumenti di pagamento finanziari, bancari e postali, ovvero per contanti”) rilevante, in senso sfavorevole al ricorrente, è la circostanza che questi interferisse nella scelta dell’evento sportivo e nell’individuazione della quota, attività che integra una forma di intermediazione illecita, non esaurentesi in un’attività di mero supporto tecnico a beneficio dello scommettitore. È, infatti, configurabile il reato di attività organizzata per l’accettazione e la raccolta, per via telematica, di scommesse senza autorizzazione, “suo specie” di illecita intermediazione, nella condotta del gestore di un centro di servizio il quale, anziché limitarsi a svolgere un’attività di mero supporto tecnico a beneficio dello scommettitore, titolare del contratto di conto di gioco con il concessionario, interferisca nell’attività di scommessa del cliente (Sez. 3 n. 42077 del 06.10.2011). 7.L’accoglimento del primo motivo di ricorso esime questa Corte dall’affrontare, invece, il secondo motivo di ricorso (v. supra 2.2.), atteso che trova applicazione, nel caso in esame, il disposto dell’art. 627 c.p.p. comma 1, con conseguente facoltà per la parte, se ne farà richiesta, di ottenere la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale per l’assunzione della prova non potuta esperire in primo grado per la violazione dell’art. 495 c.p.p. comma 4. 8.La sentenza dev’essere, conseguentemente, annullata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Lecce per nuovo giudizio. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Lecce. Così deciso in Roma, il 26 febbraio 2014. Depositato in Cancelleria il 7 aprile 2014. 19 Giurisprudenza Deontologica L’Avvocato che assiste prima la coppia nella separazione personale e poi uno dei coniugi nella revisione delle condizioni, viene sanzionato a norma dell’art. 51 del codice deontologico forense La Cassazione ha ritenuto, pertanto, inammissibile il ricorso di un avvocato contro la decisione del Consiglio nazionale forense che lo ha ritenuto responsabile della violazione dell’art. 51 del codice deontologico per avere difeso una donna nei confronti del marito nella causa di revisione delle condizioni personali della separazione, e ciò dopo che egli aveva assistito entrambi i coniugi nel procedimento di separazione consensuale; a nulla rilevando il fatto che l’avvocato abbia negato di essere mai stato incaricato dal marito di patrocinarlo nel procedimento di separazione. Anzi, al riguardo, la suprema Corte ha osservato che per configurare l’illecito di assunzione di incarichi contro una parte già assistita, non importa stabilire se sussista o meno la prova del conferimento formale del mandato o dell’assolvimento di un’attività di consulenza, quanto piuttosto se l’avvocato abbia svolto un’attività di assistenza, anche soltanto formale. presenta e difende, per delega in calce al ricorso; - ricorrente contro Repubblica Italiana In nome del popolo italiano La Corte Suprema di Cassazione Sezione Unite Civili Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. Luigi Antonio Rovelli - 1° Pres.te F.f. Dott. Mario Adamo - Presidente Sezione Dott. Renato Rordorf - Presidente Sezione Dott. Aldo Ceccherini - Consigliere Dott. Aurelio Cappabianca - Consigliere Dott. Angelo Spirito - Consigliere Dott. Paolo D’alessandro - Consigliere Dott. Giacomo Travaglino - Consigliere Dott. Alberto Giusti - Rel. -Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 22234 – 2013 proposto da: MT, elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE PARIOLI 77, presso lo studio dell’Avvocato SQUILLANTE IACOPO, che lo rap20 CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI ROMA, PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE, CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE; - intimati avverso la sentenza n. 137/2013 del Consiglio nazionale forense, depositata il 23/07/2013; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/03/2014 dal Consigliere Dott. Alberto Giusti; udito l’Avvocato Iacopo Squillante; udito il p.m. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Tommaso Basile, che ha concluso per il rigetto del ricorso. Ritenuto in fatto 1. Il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Roma in data 8 giugno 2010 ha inflitto all’Avv. MT la sanzione disciplinare della censura, avendolo ritenuto responsabile della violazione dell’art. 51 del codice deontologico per avere difeso FD nei confronti del marito FL nella causa, introdotta il 26 giugno 2007, di revisione delle condizioni personali della separazione, e ciò dopo che, nell’ottobre 2005, egli aveva assistito entrambi i coniugi nel procedimento di separazione consensuale. 2. Il consiglio nazionale forense, con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 23 luglio 2013, ha respinto il ricorso dell’incolpato. Il Consiglio nazionale forense ha rilevato che non è importante stabilire se esista o meno la prova del conferimento della procura, nel giudizio di separazione personale, da parte del FL, quanto se l’Avv. MT abbia comunque svolto un’attività di assistenza, anche solo formale, in favore di una parte nei cui confronti, per lo stesso oggetto, abbia successivamente assunto iniziative giudiziarie. E nella specie – ha proseguito il giudice disciplinare – il “dato fattuale ed assorbente” è costituito dalla circostanza, “oggettiva e inconfutabile”, che “l’Avv. MT ebbe a raccogliere la volontà del FL di separarsi dal coniuge ed alle condizioni contenute nel ricorso predisposto per entrambi o anche in favore di entrambi e che egli presenziò all’udienza”. Infatti – ha concluso il giudice disciplinare – l’Avv. MF, per sua stessa ammissione, ha ricevuto nel proprio studio il FL, sia pure insieme alla moglie, ha concordato il testo del ricorso ed ha assistito all’udienza entrambi i coniugi. 3.Per la cassazione della sentenza del Consiglio nazionale forense l’Avv. MT ha proposto ricorso, con atto notificato il 9 ottobre 2013, sulla base di un unico motivo. Nessuno degli intimati ha svolto attività difensiva in questa sede. Il ricorrente ha depositato una memoria illustrativa in prossimità dell’udienza. Considerato in diritto 1. Con l’unico mezzo, il ricorrente denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 111 Cost. e all’art. 360, primo comma, numero 5, cod. proc. civ. il ricorrente lamenta che il Consiglio nazionale forense abbia ritenuto che l’Avv. MT, per sua stessa ammissione, abbia assistito all’udienza entrambi i coniugi, laddove l’incolpato “aveva fermamente negato detta presunta ammissione nel proprio ricorso al CNF del 5 novembre 2010”. Il CNF non avrebbe tenuto minimamente conto del fatto che l’incolpato non aveva mai ammesso, ed anzi aveva sempre negato, la suddetta circostanza. La motivazione sarebbe pertanto carente, illogica e contraddittoria perché basata sul presupposto di una presunta ammissione da parte dell’Avv. MT che non trova alcun riscontro negli atti procedimentali. La motivazione risulterebbe altresì viziata perché il CNF ha ritenuto che la mera presenza di un avvocato all’udienza camerale di separazione proverebbe che lo stesso abbia prestato assistenza in favore di entrambi i coniugi, il che sarebbe apodittico, essendo ben possibile che un avvocato possa comparire in un’udienza camerale in qualità di legale di uno solo dei coniugi a tutela dei diritti di difesa di quest’ultimo, visto che l’altro coniuge, in siffatto procedimento, può comparire senza l’assistenza di un avvocato. 2. Il motivo è inammissibile. 2.1 L’art. 51 del codice deontologico forense ammette l’assunzione di un incarico professionale contro una parte già assistita soltanto quando sia trascorso almeno un biennio dalla cessazione del rapporto professionale e sempre che l’oggetto del nuovo incarico sia estraneo a quello espletato in precedenza, fermo il divieto per l’avvocato di utilizzare notizie acquisite in ragione del rapporto professionale già esaurito. In quest’ambito, la stessa disposizione prevede che l’avvocato che abbia assistito congiuntamente i coniugi in controversie familiari deve sempre astenersi dal prestare, in favore di uno di essi, la propria assistenza in controversie successive tra i medesimi. 2.2Il Consiglio nazionale forense, nel confermare la decisione del Consiglio dell’ordine, ha ritenuto integrata la condotta disciplinarmente rilevante, avendo accertato che l’Avv. MT, dopo aver assistito entrambi i coniugi - FD e FL - nel procedimento di separazione consensuale, conclusosi con provvedimento dell’ottobre 2005, ha poi patrocinato, nel gennaio 2007, la causa di revisione delle condizioni di separazione, difendendo la sola moglie contro il marito. A questa conclusione il giudice disciplinare è giunto alla luce del “dato fattuale ed assorbente” costituito dalla “circostanza oggettiva ed inconfutabile che l’Avv. MT ebbe a raccogliere la volontà del FL di separarsi dal coniuge ed alle condizioni contenute nel ricorso predisposto per entrambi o anche in favore di entrambi e che egli presenziò all’udienza”. A tal fine, il Consiglio nazionale forense ha sottolineato che dal processo verbale dell’udienza di separazione consensuale tenuta il 26 ottobre 2005 dinanzi al presidente del Tribunale di Roma risulta che all’udienza stessa comparvero i coniugi e vi assistette l’Avv. MT. Ed ha altresì evidenziato che l’Avv. MT, per sua stessa ammissione, ha non solo assistito all’udienza entrambi i coniugi, ma, prima di essa, ha ricevuto nel proprio studio il FL, sia pure insieme con la moglie, e concordato il testo del ricorso per separazione consensuale dei coniugi. 2.3 Tanto premesso, è esatto che l’Avv. MT, anche nel proprio ricorso al CNF, “ha fermamente negato di essere mai stato incaricato dal FL di patrocinarlo nel procedimento di separazione”; ma il giudice disciplinare ha considerato irrilevante detta contestazione, sul rilievo che, ai fini della configurabilità dell’illecito di assunzione di incarichi contro una parte già assistita, non importa stabilire se sussista o meno la prova del conferimento formale del mandato o dell’assolvimento di un’attività di consulenza, quanto piuttosto se l’avvocato abbia svolto un’attività di assistenza, anche soltanto formale. Né, d’altra parte, appare decisivo il rilievo che all’udienza davanti al presidente del tribunale i coniugi potevano comparire anche senza l’assistenza di un avvocato, perché il CNF – tenuto conto del tenore del verbale di udienza e del fatto che l’Avv. MT aveva in precedenza ricevuto il FL presso il suo studio, sia pure insieme alla moglie, dove gli interessati si accordavano per depositare un ricorso congiunto volto ad ottenere una separazione consensuale – ha ritenuto, valutando le risultanze probatorie, che l’Avv. MT abbia assistito anche il FL. In questo contesto, chiedendo di rimettere in discussione la conclusione raggiunta dal CNF sullo svolgimento di un’attività di assistenza anche in favore del FL solo formalmente il ricorrente denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio. In realtà, egli insta per un sindacato, da parte di queste Sezioni Unite, sul valore e sulla ponderazione, operata dal CNF, degli elementi di fatto emergenti dalle risultanze processuali, il che fuoriesce dall’ambito del controllo devoluto al giudice di legittimità dal nuovo art. 360 n. 5 c.p.c., nel testo risultante per effetto delle modifiche apportate dall’art. 54 del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012 n. 134. 3. Il ricorso è dichiarato inammissibile. In mancanza di controricorso da parte degli intimati, nessuna pronuncia va emessa in ordine alle spese del giudizio. Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è dichiarato inammissibile, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1 comma 17 della legge 24 dicembre 2012 n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione integralmente rigettata. PER QUESTI MOTIVI La Corte dichiara il ricorso inammissibile. Ai sensi della’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1 comma 17 della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente MT, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13. Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del 25 marzo 2014. 21 Melius abundare? Lettera idealmente indirizzata all’Avv. Gianni Discacciati Sappiamo che i Romani affermavano “melius abundare quam deficere”. A questo antico monito sembrano ispirarsi taluni, anche colleghi, ai nostri giorni. Mi riferisco, ad esempio, all’ormai radicata consuetudine di definire “comodato d’uso” l’istituto giuridico disciplinato dagli articoli 1803 e seguenti del Codice Civile. Da giovani ci insegnavano tuttavia come, al più, si dovesse chiamarlo “prestito d’uso”, in contrapposizione al mutuo quale “prestito di consumo”. Visto invece il contenuto dell’articolo 1803, appunto l’espressione “comodato d’uso” pare, francamente, almeno ridondante. O mi sbaglio? Se si, farò volentieri ammenda per questa mia critica, peraltro del tutto benevola. Altrettanto abituale è divenuta la definizione “reato penale” e non credo per sottolineare la differenza tra una condotta criminosa vera e propria ed il “delictum”, da cui, nel contesto civilistico, deriva la relativa obbligazione risarcitoria. Si dirà che tanto ci si capisce lo stesso e che il soffermarsi in proposito è indice di grande noiosità. Può darsi, almeno per quel che mi concerne. Ricordo tuttavia che, ad un esame universitario compreso tra i “fondamentali”, il professore mi scalò un paio di voti - soggiungo, per cronaca e non per vanità, che ottenni comunque un ventotto - proprio a causa di alcune improprietà di linguaggio in cui ero incappato. Rammento, almeno all’incirca, le sue parole :” Un giorno sarete avvocati o magistrati e dovete quindi essere rigorosi nel linguaggio tecnico”. Va detto però, per essere estremamente precisi, che eravamo … nello scorso millennio. Caro Avvocato, ho iniziato la mia vita professionale, quando ancora il praticante nutriva vera e propria soggezione, soprattutto nei confronti degli avvocati che non fossero anagraficamente a lui vicini. Il “Lei” era dunque pressoché d’obbligo verso di essi; lo mantengo anche ora, in segno di riguardo nei Suoi confronti e benché non sia più un ragazzo. Del resto pure quando era tra di noi (purtroppo ci ha lasciati più di vent’anni or sono), La si guardava, da parte di tutti, con rispetto, anche se, nel contempo, la Sua fisionomia ed il modo di porsi suscitava senso di simpatia e di cordialità. Lei era infatti abile, ma non cavilloso; astuto, ma mai orientato alla “calliditas”; temibile, perché accorto e preparato, ma non incline a scorrettezze; infine severo e determinato, ma anche capace di battute, idonee a sdrammatizzare. Ricordo un’ udienza istruttoria, lunga e gravida di tensioni in cui si trattava di un incidente stradale, verificatosi in prossimità di un certo ristorante ( per la verità ne ricordo il nome, ma non lo spendo, per evitare di fare pubblicità). Congedato un teste da parte del giudice ed in attesa dell’ingresso del successivo, Lei sottolineò la prelibatezza dei risotti che si cucinavano in quell’esercizio che evidentemente conosceva. Quel commento gastronomico rasserenò, Enrico Rigamonti 22 almeno per un attimo, gli animi di tutti noi presenti. Ho avuto, per anni, il piacere di incontrarLa quotidianamente, visto che anche Lei era di studio nel grattacielo di Piazza Manzoni. A volte appariva burbero, ma quasi subito si scioglieva almeno in un sorriso. Frequentemente, per esprimere, ma in maniera scherzosa, stupore e disappunto per l’andazzo dei tempi, impiegava una curiosa ed antica espressione dialettale : “ O Signur de Com”, vale a dire “ O Signore di Como”. A quel punto, Le rispondevo così come mi aveva insegnato mia Mamma che, a propria volta, l’aveva imparato penso dai nonni : “Parent de quel de Milan” (“Parente di quello di Milano”). Ovviamente nel massimo rispetto dell’Altissimo da parte di Entrambi. Ricordo poi, che, specie negli ultimi tempi, il Suo volto esprimeva un compiacimento pudico, ma profondo quando veniva in Tribunale, insieme ad Anita, in veste di collega, ma anche di figlia. Pure attraverso questa legittima soddisfazione, Lei rivelava intensa umanità che è, in definitiva, una delle caratteristiche più importanti, al di là del ruolo e del mestiere di ognuno. Con affetto. Enrico Disegno di Franco Necchi Viaggio nella storia della musica Storia di un Re: l’organo Abbiamo lasciato l’organo intorno al 750-800 d.C. al servizio delle feste profane nei palazzi e ancora non impiegato in funzioni religiose. Ora vedremo come l’utilizzo di questo strumento muterà radicalmente, tanto da far quasi dimenticare il suo passato profano. Nell’anno 873 d.C. il papa, Giovanni VIII (872-882), chiese all’arcivescovo Annone di Freising, in Baviera, un organo e un «artista capace di suonarlo per l’insegnamento dell’arte musicale a Roma»1. Colpisce il fatto che il Pontefice abbia dovuto cercare fuori dall’Italia un organo insieme con l’uomo capace di suonarlo; inoltre la richiesta «per l’insegnamento» fa supporre che nel IX secolo l’organo fosse apprezzato non tanto (o non ancora) come strumento da chiesa, ma soprattutto per le sue peculiarità educative: chiunque abbia un minimo di pratica vocale sa come questo strumento, grazie alla capacità di mantenere un suono intonato in modo praticamente infinito, sia il supporto ideale per insegnare a intonare gli intervalli con precisione. Intanto, verso la fine del IX secolo, iniziano a circolare i primi trattati tecnici sulle misure delle canne con i differenti metodi di fabbricazione degli organi, tuttavia ancora non abbiamo alcun documento che attesti l’utilizzo di questo strumento durante la messa. E dobbiamo attendere l’inizio del X secolo per essere certi del suo impiego nelle cappelle dei conventi, probabilmente grazie all’influenza dei monaci, esperti costruttori di organi. Ad esempio, quando nel 915 il conte Adalberto Atto (per alcuni Azzo) fece costruire un convento sulla rocca di Canossa in onore di Sant’Apollonio, offrì alla chiesa del monastero un calice, d’oro e d’argento, e un organo. Rimanendo nel X secolo, negli Annali dell’Ordine Benedettino, al capitolo relativo alla vita di S. Osvaldo (†992) - siamo in Nel tardo Medioevo si costruivano organi di varie misure: il più piccolo era detto portativo, perché poteva essere suonato portandolo con una cinghia a tracolla o appoggiato sulle ginocchia. Questo strumento poteva essere manovrato da una sola persona che con la mano destr usava la tastiera e con la sinistra azionava il piccolo mantice di alimentazione. Inghilterra- si trova testualmente: «In onore di Dio e di San Benedetto, e anche per abbellire la chiesa […] egli si procurò trenta libbre di rame che destinò alla costruzione di canne d’organo. Le loro punte, orientate verso il basso, sono conficcate molto strette nei fori corrispondenti e producono, nei giorni festivi, attraverso l’aria forte dei mantici, una melodia dolce e affascinante che si sente da lontano». S. Osvaldo, nato in Inghilterra da genitori danesi, vissuto in Francia come monaco e tornato in terra natia come arcivescovo di York, permette anche a me, a questo punto della storia, di porre al lettore una domanda consueta riguardo l’organo inglese: come e quando l’organo fu conosciuto in Inghilterra? Come ha fatto a giungere oltremanica? Sappiamo che nel corso del 900 il prelato inglese Dunstan (909-988), futuro arcive- scovo di Canterbury e santo, offrì un organo al convento di Malmesbury cui appose una targa di bronzo recante il seguente distico latino: «Organa de sancto præsul Dunistanus Adelmo. Perdat hic æternum qui vult hinc tollere regnum.» «Organo che il prelato Dunstan fece per il santo Adelmo. Perda immediatamente il regno eterno chi lo vuole togliere da qui.»2 Dove, per quanto santo, Dunstan maledice chiunque osi mettere mano all’organo da lui stesso costruito e dedicato all’amico compatriota e grande appassionato di musica Sant’Adelmo di Malmesbury, che nelle sue opere ha citato e descritto moltissime volte l’organo3, testimoniando la sua ammirazione per questo strumento. Ma, anche Adelmo, come fece a conoscere lo strumento? Aveva forse ascoltato un 1. E. Baluze, Miscellaneorum libri (1678-83) V, p. 490 2. W. Malmesbury, De gestis Pontificum Anglorum in P. L. CLXXXIX, 1660 3. Cfr. Adelmi opera, pp. 103 355, 356, 466; cfr. testi in J. Perrot L’orgue de ses origines hellénistiques a la fin du XIII siécle (1965, Paris, Picard e C.) 23 organo durante i suoi viaggi a Costantinopoli? Lo aveva conosciuto da gente venuta dall’Oriente? Oppure, davvero, dobbiamo pensare che l’organo fosse già noto in Inghilterra dopo la metà del VII secolo, vale a dire ben cent’anni prima del dono di Costantino a Pipino il Breve nel 757 d.C.? Nessun documento conferma quest’ultima ipotesi, ma è utile ricordare che già esisteva una via marittima che collegava direttamente Bisanzio all’Inghilterra. Ed è verso la metà del X secolo che, nella cattedrale di Winchester, il vescovo Elfeg (†951) fece costruire l’organo più grande del suo tempo. Il monaco Volstano (†963) lo descrisse in un carme latino di 16 distici, grazie al quale sappiamo che il somiere sosteneva 400 canne metalliche disposte su dieci file ciascuna di tre ottave cromatiche. Dato che ancora i tasti si azionavano “tirando e spingendo” serviva l’azione simultanea di due organisti per suonare questo strumento, mentre ben settanta uomini robusti dovevano azionare i ventisei mantici disposti su due piani4. Certo è che in Inghilterra l’organo nel X secolo era già utilizzato nelle chiese come strumento religioso. Nel frattempo, sul continente, seguendo l’esempio dell’Inghilterra, anche la Francia introdusse l’organo nel cerimoniale religioso. Il primo documento che richiama la nostra attenzione è una lettera dell’abate Gerbert di Aurillac. La missiva, diretta a un certo Bernard, cita tale Costantino conosciuto come l’organista dell’abbazia di Fleury. Forse non tutti ricorderanno che questo Gerbert, prima abate di Bobbio, poi arcivescovo di Reims quindi di Ravenna e infine papa con il nome di Silvestro II (†1003), fu uno tra i massimi scienziati medievali: abile matematico, scienziato, studioso e abile costruttore d’organi. Egli conobbe gli scritti di Erone e di Vitruvio e, grazie ai suoi contatti con gli arabi, avvenuti probabilmente a Cordova, dove portò a termine i suoi studi, si cimentò a costruire, con finalità scientifiche più che musicali, un organo idraulico5. Era ancora abate a Bob24 bio quando promise di costruire un organo nel convento d’Aurillac in Auvergne, suo paese natale. Per tre volte gli ricordarono la sua promessa, ma abbiamo ragione di credere che circostante impreviste impedirono all’abate di consegnare l’organo promesso, tanto che nessuno sa se il convento d’Aurillac abbia mai ricevuto il suo dono. Quello che sappiamo è che fino alla prima metà del XII secolo si poteva ammirare nella cattedrale di Reims l’organo costruito da Gerbert, che dopo ben duecento anni era ritenuto ancora adeguato a quell’edificio. E sono proprio i documenti del XII secolo che attestano, per la prima volta, la diffusione dell’organo nelle cattedrali e nei grandi monasteri dell’Europa continentale. A questo proposito vorrei ricordare, se mai ce ne fosse bisogno, come i monasteri medievali, furono dei veri e propri crogiuoli culturali, il cui ruolo è stato determinante, per il corso della Storia europea. E la cosa, a mio avviso, non è stata ancora del tutto approfondita. Alessandro Milesi 4. Cfr. G. Reese, La musica nel Medioevo (Sansoni, Firenze 1960) p. 155; W. Shewring, Quel che fu l’organo per gli inglesi 5. Cfr J. Perrot, op. cit. pp 289-292 Disegni di Franco Necchi La mezza luna a Punta Fram Dello stimato Collega Avvocato Armando Panzeri, che ora si gode il meritato riposo dopo tanti anni di impegno professionale (anche all’Ordine) pubblichiamo dei pensieri sulla luna cui si è ispirato a Punta Fram di Pantelleria. La luna sorge dalla Montagna Grande, sparata al rallentatore da un obice sconosciuto. Ha il tondo molto in alto: è una luna culinaria, sicché, dopo aver scartato il Moulin Rouge, vien da pensare a una omelette (cosa ci sarà dentro? Escludo subito che possa essere marmellata; forse, chissà, racchiude i misteri della Terra (ipotesi suggestiva, specie per quelli che credono che sia stata partorita dal ventre, alias Fossa delle Marianne, della Terra medesima), ma lei non svela a me l’arcano, allo stesso modo che non lo rivelò al pastore errante dell’Asia: “Che fai tu luna in ciel, dimmi, che fai, silenziosa luna?”, ma lei zitta, imperterrita) cucinata nell’enorme padellone scuro del cielo del Grande Chef creazionista. Intanto che prosegue il suo viaggio verso occidente compie una lentissima semipiroetta, e subendo la newtoniana attrazione fatale cui è sensibile il suo culo sontuoso e dorato, si curca, come dicono qui, cioè si corica, e il suo fondo schiena che all’inizio della traiettoria puntava in alto, ora sempre più cerca la terra, il mare. E alla fine del percorso, un po’ arrossata, forse per la fatica della traversata, va sicura verso la frescura notturna dell’acqua dove si immerge con un tuffo silenzioso “de cunchéta”, come direbbe Gilberto Govi. Cerco/Offro Affittasi Studio in Lecco, Piazza XX settembre n. 7. Avv. Pino Pozzoli Tel. 0341-360959 email: [email protected] ❖❖❖ Affittasi/Vendesi – Lecco Via dell’Isola n. 1/A Ufficio 4 Locali + Box + Cantina Avv. Francesco Paolo Anzaldi Tel. 0341 285717 Vendesi toga quasi nuova. Avv. Franco Molteni Tel. 039 9205655 ❖❖❖ Affittasi Studio arredato in Lecco, Via Ghislanzoni n. 2 p. 1° (3 locali + cantina) Avv. Luigi Andreotti tel. 0341/36.10.90 e-mail: [email protected] ❖❖❖ Affittasi locale uso ufficio nel contesto di studio legale in Merate. Avv. Silvia Castellaneta Tel. 349 5433537 ❖❖❖ Affittasi locale in studio legale in Lecco, Piazza degli Affari n. 7 con possibilità di collaborazione professionale. Avv. 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Nel primo dei cinque è celebrato l’amore per la vita semplice di un tempo non remoto, con la nostalgia di allora; nel secondo ci si compiace dell’orgoglio di appartenenza al corpo degli alpini, mentre negli altri trova esaltazione il sentimento dell’amicizia. info: www.museo-cantonale-arte.ch Rettifica Per errore, il nome del Dott. Pietro Spera nella recensione al suo libro di cui al n. 01/14 di Toga Lecchese è stato indicato in Damiano. 27
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