Leggi il formato PDF - Ordine degli Avvocati di Lecco

QUADRIMESTRALE EDITO DALL’ORDINE AVVOCATI DI LECCO
Anno XXIV - N.2/2014
La collaborazione con Toga Lecchese
è aperta a tutti gli operatori del diritto
che intendano inviare saggi, interventi,
provvedimenti giudiziari, note a sentenza
e cronache di vita forense.
Gli articoli, le note, le osservazioni –
firmati o siglati – esprimono unicamente
l’opinione del loro autore.
SOMMARIO
Occasione sprecata…………………………………… pag. 3
Giustizia ripartiva e lavoro di pubblica utilità …………… “
4
La diligenza del bonus pater familias è sessista?………… “
6
Codice di diritto processuale penale svizzero …………… “
7
Bacheca Camera Penale Como-Lecco…………………… “
9
Mobbing e stalking: quali differenze e quali similitudini?… “
11
Le linee guida psicoforensi……………………………… “
12
Giurisprudenza penale………………………………… “
15
Giurisprudenza deontologica…………………………… “
20
Melius abundare ?……………………………………… “
22
Lettera idealmente indirizzata all’Avv. Gianni Discacciati… “
22
Storia di un Re………………………………………… “
23
La mezza luna a Punta Fram……………………………… “
25
Cerco/offro…………………………………………… “
25
In giro per mostre……………………………………… “
26
Recensione…………………………………………… “
27
Fondatore e Direttore Responsabile
Renato Cogliati
Stampa:
Maper - Renate (MB)
Autorizzazione n. 2/91 del tribunale di Lecco
2
OCCASIONE SPRECATA
LA.P.E.C. (Laboratorio Permanente Esame-Controesame), sede di LeccoComo, ha organizzato lo scorso 13 Giugno, presso la Sala Conferenze del
Palazzo delle Paure, sede museale di prestigio del lecchese, un interessante e stimolante incontro dal titolo “Virtuosismi d’Autore. Arringhe
in musica”, tenuto dal Collega penalista romano, Titta Madia Jr, che ha
fornito stimoli di riflessione e di vita professionale notevoli.
Il relatore, con il suo stile inconfondibile e la dialettica pungente, ha condotto i partecipanti in un viaggio affascinante nella storia dell’eloquenza,
attraverso il ricordo di colleghi grandi oratori italiani, di cui sono stati tratteggiati profili professionali ed umani sconosciuti.
La melodia di un violino e di un flauto hanno accompagnato la lettura di
alcuni stralci di famose arringhe rendendo ancor più piacevole l’incontro,
durante il quale sono state portate all’attenzione, fra gli altri, le figure degli
avvocati De Marsico e Carnelutti.
Il relatore, collega estremamente preparato, sia culturalmente che professionalmente, avvocato a 360 gradi, ha anche esplicitato i profili principali che deve possedere un avvocato penalista.
Previamente l’intuito psicologico, connesso alla più abile conoscenza delle persone ed alla capacità di lettura delle situazioni, indispensabile
per poter beneficiare di una diagnosi corretta sin dall’inizio dell’incarico.
La generosità, intesa come accoglienza, al di là di ogni giudizio di disvalore dei comportamenti altrui con disponibilità a comprendere i comportamenti e le visioni anche lontane dalla propria natura.
Altra caratteristica di cui il relatore ha sottolineato l’importanza è lo spirito di antagonismo; la volontà di “dar fastidio”, di vedere situazioni diversamente dagli altri e da quanto sembra emergere dalla realtà istruttoria
e di fatto.
L’ultimo, ma tutt’altro che ultimo per importanza (anzi forse quello che
maggiormente deve potersi dire di un avvocato penalista) è il gran senso
di libertà, da sé stesso, dal proprio cliente, dall’ambiente, dal magistrato
inquirente e giudicante.
Solo così potrà l’imputato percepire al suo fianco, in ogni situazione, il
proprio difensore.
Unica nota negativa del pomeriggio è stata la scarsa partecipazione,
nonostante la sede, la Piazza XX Settembre centro di Lecco, di sole 27
persone, circostanza non incoraggiante per gli organizzatori che, anche
in questa occasione, hanno profuso energie nella speranza di creare un
momento di formazione soprattutto per i giovani ed i giovanissimi colleghi,
purtroppo presenti in numero esiguo.
Renato Cogliati
3
Giustizia riparativa e lavoro di pubblica utilita’
Il concetto di “Giustizia Riparativa” ha
origine antiche: già in diritto romano era
prevista la actio in integrum restitutio con
la quale poteva ripristinarsi lo status quo
ante, eliminando gli effetti del contratto viziato dalla coercizione della volontà della
parte danneggiata.
Il principio, rinvenibile oggi nell’art. 2058
CC, che prevede il “risarcimento in forma
specifica”, consiste nel mettere il danneggiato nelle stesse condizioni in cui si
sarebbe trovato se l’illecito non si fosse
verificato.
Giustizia riparativa significa mettere a
confronto da un lato l’autore dell’illecito,
dall’altro i danni provocati alla vittima dello
stesso, al fine di eliminare le conseguenze
del reato mediante l’attività riparatrice posta in essere da chi lo ha commesso, che
intende porvi rimedio.
Il reo diventa un soggetto attivo e non
più soltanto il destinatario di una sanzione
per la condotta illecita di cui si è reso responsabile, che ha danneggiato, non solo
la vittima diretta, ma anche la collettività.
La riparazione si concretizza mediante la
restituzione in forma specifica del profitto
dell’illecito, il risarcimento del danno in
forma pecuniaria o l’esecuzione di prestazioni in favore della vittima o di un servizio
utile in favore della collettività.
La giustizia riparativa non è pertanto
una semplice alternativa alla giustizia retributiva, sanzionatoria o rieducativa, ma è
una vera e propria modalità di intervento
sulla conflittualità sociale, con lo scopo di
promuovere la riconciliazione tra vittime e
colpevoli e favorire la riparazione del danno, ove possibile, da cui far derivare per la
collettività un miglioramento del senso di
sicurezza nella vita quotidiana e l’attenuazione dei conflitti sociali.
I percorsi che vengono proposti in alternativa al carcere mirano alla sensibilizzazione e alla promozione di attività volontarie, di utilità sociale e collettiva, ma soprattutto all’inclusione sociale delle persone
che hanno commesso un reato, attraverso
l’offerta di un’opportunità.
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In quest’ottica si inserisce il Lavoro di
Pubblica Utilità, in quanto porta un beneficio immediato alla collettività, atteso che si
ha certezza che il reo venga effettivamente
punito, ma in modo utile e vantaggioso per
la società, ed un beneficio proiettato al futuro, atteso che a fronte della trasgressione commessa il reo può sviluppare un’attività risocializzante e utile anche sotto il
profilo personale, riducendo od eliminando
il rischio di recidiva.
Il LPU consiste infatti nella prestazione
di un’attivita’ non retribuita a favore della
collettivita’ da svolgere presso lo Stato, le
regioni, le province, i comuni e gli enti di
assistenza sociale o volontariato.
Nel nostro ordinamento il LPU trova spazio sotto diversi profili:
1) come pena principale irrogata (sempre in
alternativa alle altre pene e su richiesta dell’imputato) dal Giudice di Pace, a
norma degli artt. 54 ss. d.lgs. 274/2000,
che, salvo espresse deroghe, costituisce la disciplina di riferimento anche
per le ulteriori ipotesi;
2) come condotta riparatoria cui può (o
deve, se si tratta di soggetto che ha già
usufruito del beneficio) essere subordinata la sospensione condizionale della
pena (in caso di non opposizione da
parte dell’imputato), a norma dell’art.
165 c. 1 c.p.;
3) come sanzione amministrativa accessoria che il giudice può applicare, in
aggiunta alle pene classiche, in caso di
condanna per un delitto colposo commesso con violazione delle norme del
codice della strada, a norma dell’art.
224-bis c.d.s. (introdotto dall’art. 6 l.
102/2006);
4) come pena sostitutiva per i reati in tema
di sostanze stupefacenti, in caso di integrazione della circostanza attenuante
del fatto di lieve entità e di commissione da parte di soggetti tossicodipendenti o assuntori di stupefacenti, a
norma dell’art. 73 c. 5-bis e 5 ter d.p.r.
9 ottobre 1990, n. 309;
5) come pena sostitutiva per i reati di guida
in stato di ebbrezza e sotto l’effetto di
sostanze stupefacenti (in quest’ultimo
caso comunque abbinato ad un programma terapeutico e socio-riabilitativo come definito ai sensi degli art. 121
e 122 del D.P.R. 09/10/1990, n. 309),
previsti rispettivamente dagli artt. 186
c. 2 lett. c) e 187 CdS, sul duplice presupposto che non ricorra l’aggravante
dell’incidente stradale provocato e che
il condannato non ne abbia già usufruito (comma 9-bis dell’art. 186 CdS
e comma 8-bis dell’art. 187 CdS), con
conseguente estinzione del reato, la riduzione della sanzione accessoria della
sospensione della patente di guida e la
revoca della confisca, se disposta;
6) come misura nella quale convertire le
pene pecuniarie non eseguite per insolvibilità del condannato (artt. 102 ss. l.
689/1981);
7) come sanzione accessoria in caso di condanna per uno dei reati previsti dall’art.
3 l. 13 ottobre 1975, n. 654 (discriminazione razziale) o per uno dei reati
previsti dalla l. 9 ottobre 1967, n. 962
(genocidio) in base al disposto di cui
all’art. 1 comma 1 bis della l. 25 giugno
1993, n. 205;
8) come prescrizione in tema di benefici
penitenziari o di messa alla prova (per
minorenni).
Il lavoro di pubblica utilità può avere ad
oggetto:
- prestazioni di lavoro a favore di organizzazioni di assistenza sociale o volontariato
operanti, in particolare, nei confronti di
tossicodipendenti, persone affette da infezione da HIV, portatori di handicap, malati,
anziani, minori, ex-detenuti o extracomunitari;
- prestazioni di lavoro per finalità di protezione civile, anche mediante soccorso
alla popolazione in caso di calamità naturali, di tutela del patrimonio ambientale e
culturale, ivi compresa la collaborazione ad
opere di prevenzione incendi, di salvaguardia del patrimonio boschivo e forestale o di
particolari produzioni agricole, di recupero
del demanio marittimo e di custodia di musei, gallerie o pinacoteche;
- prestazioni di lavoro in opere di tutela
della flora e della fauna e di prevenzione
del randagismo degli animali;
- prestazioni di lavoro nella manutenzione e nel decoro di ospedali e case di cura o
di beni del demanio e del patrimonio pubblico ivi compresi giardini, ville e parchi,
con esclusione di immobili utilizzati dalle
Forze armate o dalle Forze di Polizia;
- altre prestazioni di lavoro di pubblica
utilità pertinenti la specifica professionalità del condannato.
Un giorno di lavoro di pubblica utilità
ovvero la somma di € 250,00 di pena pecuniaria comportano la prestazione, anche
non continuativa, di due ore di lavoro, per
non più di sei ore settimanali.
Tuttavia, se il condannato lo richiede, il
Giudice può ammetterlo a svolgere il lavoro
di pubblica utilità per un tempo superiore
alle sei ore settimanali, con il limite di otto
ore giornaliere.
In caso di svolgimento del LPU come
sanzione sostitutiva per i reati in tema di
sostanze stupefacenti, lo stesso ha una durata corrispondente a quella della sanzione
detentiva irrogata.
L’attività viene svolta nell’ambito della
provincia in cui risiede il condannato, e non
può pregiudicarne le esigenze di lavoro, di
studio, di famiglia e di salute.
Le amministrazioni e gli enti presso cui
viene svolta l’attività lavorativa assicurano
il rispetto delle norme e la predisposizione
delle misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e morale dei condannati.
Nella sentenza il Giudice indica il termine entro il quale il LPU deve iniziare, e, a
richiesta dell’imputato, può autorizzare
il suo inizio anche prima del passaggio in
giudicato della sentenza.
L’Ufficio Esecuzione Penale Esterna
(UEPE) informa il Giudice sull’andamento
del lavoro di pubblica utilità.
Ricevuta dall’UEPE la relazione, il Giudice che ha emesso la sentenza fissa udienza
per la declaratoria di estinzione del reato
in caso di positivo svolgimento del LPU oppure per una diversa decisione allorché il
condannato non si sia attenuto al progetto
concordato, o non si sia attivato, o sia stato
comunque inadempiente.
IL RUOLO DELLA CAMERA PENALE
Da anni e con immutato interesse la
Camera Penale, in attesa della riforma
della disciplina delle misure alternative
alla detenzione (vedi d.d.l. n. C 331-927 B,
approvato dal Senato il 21 gennaio 2014 e
attualmente all’esame della Camera), con
la quale I’istituto in oggetto troverà ancora
più ampia applicazione, guarda al lavoro di
pubblica utilità come ad una misura che,
seppur finora impiegata in misura inferiore
alle previsioni del legislatore, appare portatrice di contenuti molto positivi per il tipo
di attività socialmente rilevanti in cui essa
si concreta e può costituire una valida occasione per assicurare una idonea forma di
riparazione in favore della collettività.
Inoltre, una sua più ampia applicazione,
valorizzando quanto sancito dal terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione, che
parla di “pena” e non di “pena in carcere”,
può sicuramente concorrere a migliorare
I’efficienza di tutto il sistema dell’esecuzione penale, soprattutto considerato che
le funzioni di verifica possono essere validamente svolte dagli uffici locali di esecuzione penale esterna, come previsto dalle
recenti disposizioni normative che hanno
novellato il codice della strada, che hanno
esteso notevolmente, grazie agli indubbi
vantaggi connessi al positivo svolgimento,
il ricorso alla pena sostitutiva con il lavoro di pubblica utilità, finora notoriamente
poco utilizzato dalla giurisdizione.
La Camera Penale, verificata la scarsa
applicazione dell’istituto, ascrivibile anche
ad una limitata richiesta da parte dei difensori, ha promosso, mediante convegni,
incontri e circolari, ogni iniziativa utile,
finalizzata ad un’evoluzione verso la valorizzazione della funzione rieducativa della
pena, anche in una prospettiva più ampia
di sviluppo di un articolato sistema sanzionatorio non detentivo.
E’ indubbio che oggi si può affermare
che, all’interno delle sanzioni penali non
detentive, sta assumendo connotazione
sempre più autonoma e rilevante quella del
lavoro di pubblica utilità, come pena di riferimento per dare più concreto contenuto
“ riparativo” all’azione sanzionatoria dello
Stato.
La Camera Penale si è impegnata a stimolare e coordinare la realizzazione di iniziative volte alla promozione del ricorso al
predetto istituto, al fine di promuovere:
- la costituzione di tavoli, che coinvolgano
gli attori esterni (tribunali ordinari, enti
locali e privato sociale) nell’attività di
raccordo e sviluppo dell’applicazione del
lavoro di pubblica utilità;
- la concreta individuazione, di concerto
con gli Enti Locali, le Associazioni di
volontariato e del privato sociale, delle
opportunità di collocazione e degli ambiti di impiego di coloro che saranno
sottoposti al lavoro di utilità pubblica;
- la stipula di apposite convenzioni tra i
Tribunali ordinari, gli Uepe e gli Enti locali, finalizzate alla concreta esecuzione
della sanzione;
- l’applicazione chiara ed uniforme delle
norme sostanziali e processuali, facilitando lo snellimento delle procedure
applicative.
In tale ottica è stato sottoscritto il Protocollo d’intesa tra Tribunale di Como, Procura di Como, Consiglio dell’Ordine degli
Avvocati di Como, Camera Penale di Como,
Ufficio Esecuzione Penale Esterna (UEPE)
di Como e CSV di Como., che ha aperto
lo “sportello volontariato” all’interno del
Tribunale di Como per offrire ulteriori occasioni di applicazione dei lavori di pubblica
utilità alternativi alla pena.
E’ stato inserito ogni anno nel piano formativo almeno un evento sul tema della
giustizia ripartiva e delle misure alternative
alla detenzione.
E’ stata affrontata la questione sia a livello congressuale, sia a livello locale che
distrettuale, mediante interventi mirati, diretti a sollecitare l’attenzione dei colleghi
in ordine ai percorsi intrapresi, dai più condivisi e diffusi nei territori di appartenenza.
E’ stata offerta, attraverso la voce di colleghi relatori, l’esperienza dell’avvocato in
convegni organizzati da altri enti.
E’ stata assicurata la partecipazione alle
iniziative dirette a sollecitare la stipula delle convenzioni, coinvolgendo anche le società sportive dilettantistiche e sollecitando il Legislatore a modificare la normativa
sul punto.
E’ stata garantita ampia collaborazione
con gli organi inquirenti e giudicanti, per
una rapida definizione dei procedimenti in
corso.
Sono state raccolti e condivisi i provvedimenti emessi, al fine di raggiungere uniformità e segnalare eventuali problematiche,
anche operative.
Si è cercato inoltre di sensibilizzare i
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colleghi ad esercitare, laddove possibile,
opera di persuasione nei confronti dei propri assistiti, al fine di valorizzare positivamente l’impatto con la giustizia penale, da
recepire come occasione per rivedere i propri comportamenti, per capirne il disvalore,
per porvi rimedio, sia a favore di se stessi,
trovando soddisfazione nella propria attività di riscatto sociale, sia a favore della
collettività, favorita e ripagata dal disagio
subito.
L’esigenza principale dell’avvocato, fermo restando l’interesse difensivo del proprio assistito che rimane primario e non
negoziabile, è quella di un procedimento
equo e di poter accedere agli istituti più favorevoli in maniera rapida ed efficace.
La collaborazione sinergica con istituzioni ed enti interessati consente oggi, in
tema di LPU, di fornire al proprio cliente risposte certe e veloci in ordine all’opportunità di conversione della pena, alle modalità di accesso e di esecuzione della stessa.
I maggiori bisogni, in parte soddisfatti,
riguardano l’uniformità delle procedure e
delle sanzioni, nonché una razionalizzazione del sistema penale, che, pur senza
pervenire ad un’indiscriminata depenalizzazione, distingua le condotte meritevoli di
sanzioni da quelle generatrici di solo danno
patrimoniale da regolare, previa mediazione, in altra sede.
Paolo Camporini
Disegno di Franco Necchi
6
La diligenza del bonus pater
familias è sessista ?
1. Come è noto agli operatori del diritto
e agli “addetti ai lavori”, il comma di
apertura dell’articolo 1176 del nostro
codice civile prevede che “Nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve
usare la diligenza del buon padre di famiglia”.
2. L’espressione “buon padre di famiglia”
indica il comportamento dell’uomo medio, la cui diligenza costituisce il parametro di riferimento per valutare quella
utilizzata dal debitore nell’adempimento dei propri obblighi. Essa, in particolare, consiste in quella dose di attenzione
e di perizia che l’uomo medio adotta
nella gestione e nella cura dei propri
affari: diligentia qualem quis suis rebus adhibere solet. La figura si rifà al
concetto di pater familias, che costituiva, in quell’ordinamento giuridico, non
soltanto il modello dell’uomo libero,
fornito di piena capacità giuridica e di
agire (sui iuris), dunque anche di stipulare contratti ed assumere le relative
obbligazioni, ma anche un soggetto ben
consapevole della propria posizione sociale: su tale modello, la giurisprudenza romana individuò la figura astratta
del bonus pater familias, cioè –così ci
testimoniano le fonti- il modello della
persona che non viene meno alla diligenza necessaria per adempiere ad un
impegno assunto. Nell’esperienza giuridica romana, solo al pater, del resto,
era possibile rifarsi nell’individuazione
del comportamento del criterio astratto
dell’uomo medio nella gestione dei propri affari, poichè –all’interno del nucleo
familiare- solo al pater era consentito
assumere impegni, anche economici,
a differenza degli altri componenti del
nucleo (alieni iuris), cui ciò era impedito.
3. Recentemente, il Parlamento francese
ha votato, nel quadro normativo sulle
“pari opportunità”, un emendamento finalizzato ad abolire la locuzione, anco-
ra presente nel codice civile d’oltralpe,
“bonus pater familias”, quale criterio
di individuazione della responsabilità
nell’inadempimento delle obbligazioni,
perché contraria alle esigenze di affermazione di una parità fra i sessi, anche
sotto il profilo del linguaggio giuridico.
4. E’ vero che la famiglia romana era di
tipo “patriarcale” e il pater, che era
anche il capo polito del nucleo, specialmente in assenza dell’affermazione di
un concetto di Stato in senso moderno,
poteva, tra l’altro, mettere a morte i suoi
sottoposti (figli, donne, schiavi), in forza
dello ius vitae ac necis, ma – a proposito dell’adempimento delle obbligazioni- le pari opportunità e le differenze
di genere non c’entrano nulla e la loro
legittima affermazione non può passare
per una proposta di legge che rischia di
rivelarsi antistorica, perché destinata
a cancellare una tradizione millenaria
che, partendo proprio dalla riflessione
della giurisprudenza romana, ha elaborato il concetto di obbligazione, come
cristallizzato nella definizione giustinianea (“Obligatio est iuris viculum, quo
necessitate adstringimur, alicuius solvendae rei secondum nostrae civitatis
iura) e i criteri di individuazione per il
corretto loro adempimento (la diligenza
del bonus pater familias).
5. Anche in questo settore, il diritto romano costituisce il patrimonio dei giuristi
e la base della cultura giuridica di tutti
i paesi di civil law: parlare oggi di diligentia della mater familias, oltre che
concettualmente sbagliato, in considerazione della struttura della famiglia
romana, che non consentiva alla donne
di assumere obbligazioni e, conseguentemente, di valutarne l’esatto adempimento, rischia, soprattutto, di rivelarsi
ridicolo.
Federico Pergami
Codice di diritto processuale penale svizzero
L’entrata in vigore del codice di diritto
processuale penale adottato , per la prima
volta nella sua plurisecolare storia, dalla
Confederazione Elvetica, segna il superamento della precedente, frammentata realtà codicistica cantonale, all’insegna della
indilazionabile esigenza di un unico modello processualpenalistico. Questo evento,
di importanza storica per la nazione a noi
contigua, deve suscitare alcune importanti
riflessioni, sia di natura ideale, sia di natura pratica, anche nel giurista italiano e , in
particolar modo, nell’avvocato che intenda
svolgere la propria funzione, non soltanto
interessato alla dimensione aridamente
utilitaristica del proprio lavoro, ma sensibile ad orizzonti culturali e pratici di più
ampio respiro.
Da moltissimo temposostengo e diffondo l’idea che la presenza di un sistema
processuale penale così geograficamente
vicino a noi eppure così concettualmente
diverso dal nostro, rappresenta un terreno
di studio e di concrete esperienze professionali, estremamente importante e stimolante; questo vale, soprattutto, per l’avvocato dell’area lariana o, genericamente, di
fascia confinaria, poiché può facilmente
essere chiamato a difendere un proprio
concittadino incappato nelle maglie del sistema giudiziario d’oltreconfine.
Un sistema che, in particolare nel Canton
Ticino, aveva da sempre accettato, dinanzi
alle proprie autorità giudiziarie, l’operatività professionale degli avvocati italiani.
Ma, a parte questo non trascurabile
aspetto pratico, prendere conoscenza, sia
pure sommaria, del neonato processo penale elvetico, coglierne alcuni dettagli e
considerarlo nel quadro dei principi di cui è
espressione, costituisce impegno culturale
molto interessante, proprio nella prospettiva di comprendere ancora meglio quella
incombente europeizzazione dei diversi sistemi giudiziari, che rappresenta la necessità e la sfida ineludibile per l’avvocatura
penale dei prossimi anni.
Innanzitutto la elaborazione di un unico
sistema processuale penale in una realtà
confederale, storicamente segnata dalla
orgogliosa rivendicazione delle identità e
delle specificità cantonali, costituisce una
importantissima dimostrazione; costituisce
la prova che anche ataviche riaffermazioni campanilistichenonché l’attaccamento
alle tradizioni e alle “sovranità” cantonali,
per quanto siano profondamente radicate
nella popolazione e siano espresse nelle
strutture sociali e istituzionali, possono trovare uno sbocco idealmente unitario.
E possono consentire la realizzazione di
un unico strumento giudiziario allorquando prevale, sui pur forti e comprensibili
particolarismi, la visione di un interesse
generale che sospinge lo sguardo verso un
orizzonte ampliato oltre i confini territoriali
(nel nostro caso, cantonali ).
Un orizzonte nel quale la dimensione del
comune vantaggio, prevale sugli interessi
localistici e si dilata in una prospettiva più
matura e più sensibile al bene comune.
E, questa, una grande lezione per tutti
quegli avvocati penalisti italiani e quegli
studiosi del diritto penale i quali continuano a non avvertire l’indilazionabile esigenza di superamento dei modelli processuali
nazionali e continuano ad essere scettici
sulla possibilità-necessità di elaborare,
non dico un unico sistema processuale
penale europeo, ma neppure un sistema
fortemente armonizzato in ambito UE.
Tornando al codice di diritto processuale svizzero, appare interessante cogliere,
in una estrema sintesi, qualche aspetto di
dettaglio che esprime il particolare significato ideale e pratico di cui esso è espressione; aspetto che, se raffrontato ad omologhe situazioni proposte dalla realtà processualpenalistica italiana , mostra quanto
una realtà socio-culturale diversa dalla nostra, la quale affronti i medesimi problemi
partendo da una diversa prospettiva, possa
affrontare, con maggiore chiarezza e semplicità rispetto a noi, temi da noi frutto di
irrisolte od equivoche problematiche ideali
od oggetto di intricate formulazioni descrittive, inevitabilmente causa di equivoci interpretativi e complesse diatribe dottrinali.
Prendiamo, per esempio, le mosse
dall’art. 3 c.p.p. svizzero.
Esso stabilisce che le <<…autorità penali ….si attengono …..a)al principio della
buona fede b) al divieto dell’abuso del diritto….>>.
Cogliamo, innanzitutto, il richiamo al
“… principio della buona fede…”; richiamo che nella cultura elvetica è onestamente formulato e sentito come autentico
invito al rispetto di una doverosa qualità
del compito giudiziario, mentre da noi verrebbe considerato quale ingenua e retorica
formalità metodologica, una etichetta che
deve essere appiccicata su un contenitore
vuoto, solo per esigenze di apparenza.
Al paragrafo b) notiamo subito la singolarità del fatto che il tribolato (da noi)
problema dell’ “ abuso del diritto”, categoria concettuale equivoca e non codificata
nonché al centro, in Italia, di forti contrapposizioni critiche, nel c.p.p. svizzero viene
esplicitamente evocata, esclusivamente
con riferimento alle <<…autorità penali…>> e non anche al difensore.
Come a sottolineare che solo la “autorità
”, solo chi detiene un “potere”, può commettere “abuso”.
Col che viene meno qualsiasi polemica che agita, invece, la nostra cultura processualpenalistica - riferita alla condotta processuale del difensore, al quale la Svizzera
non pone alcun divieto di “abusare” degli
strumenti processuali, non grava di alcun
“dovere superiore” verso la …giustizia o
verso lo Stato.
Anzi, l’art.128, che concerne proprio il
ruolo del difensore, formula una disposizione che elimina possibilità di equivoci sul
tema relativo al c.d. “abuso del diritto “.
Infatti prevede, in modo tranciante, che
<< entro i limiti della legge e delle norme
deontologiche, il difensore è vincolato unicamente agli interessi dell’imputato.>>.
Siamo in presenza della enunciazione di
un concetto preciso che delinea, in modo
chiarissimo, il perimetro di valori etici e di
contenuti pratici entro il quale può dipanarsi il compito difensivo : soltanto gli “inte7
ressi dell’imputato”, senza alcun dovere”
superiore” verso la “giustizia” e verso la
“nazione”.
Col che viene forse eliminata alla base
tutta la questione relativa ad una rivendicata od auspicata o negata “funzione sociale” dell’avvocato; “funzione sociale” il
cui contenuto concettuale e la cui esatta
perimetrazione operativa sono, invece, in
Italia,al centro di un annoso e tutt’ora vivace dibattito culturale .
E’ curioso notare che il c.p.p. elvetico
contempla le figure distinte del “danneggiato” (<<…la persona i cui diritti sono stati direttamente lesi dal reato…>>) e della
“vittima”, attribuendo, al primo, le caratteristiche che il nostro codice sembrerebbe
attribuire più al ruolo della persona offesa
(titolare del bene giuridico offeso dal reato)
e dando alla “vittima”, il ruolo presso di noi
assunto dal “danneggiato”.
Ma affermando, poi ( art.116 ), che <<…
la vittima è il danneggiato che …è stato
direttamente leso nella sua integrità fisica,
sessuale o psichica.>> : comunque anche
nel c.p.p. è prevista la figura della parte
civile quale <<….accusatore privato…>>.
Passando all’art.8 (Rinuncia al procedimento penale ), osserviamo che il sistema
elvetico, pur prevedendo espressamente
l’obbligatorietà dell’azione penale, consente che <<….il pubblico ministero e il giudice prescindono dal procedimento penale se
…. a) …..il reato…non è di rilevanza tale
da incidere sensibilmente sulla determinazione della pena…>> ecc..
Introduce, in sostanza, la valenza del
principio di “ trascurabile offensività” della
condotta, che già la commissione Nordio
aveva contemplato, senza successo, nel
progetto di riforma del c.p.p. , poi abbandonato.
Altra disposizione interessante è quella
dell’art.10 comma 2 ( <<Il giudice valuta
liberamente le prove secondo il convincimento che trae dall’intero procedimento>>
) che riproduce, sostanzialmente, la regola
valutativa del codice Rocco, il quale attribuiva completamente alla libera valutazione del giudice la responsabilità della
scelta decisionale.
Qui si nota la prospettiva codicistica elvetica, ispirata ad un rapporto di fiducia nei
confronti dell’organo giudicante; mentre il
vigente c.p.p. italiano, modificando radical8
mente la analoga disposizione del codice
Rocco in prospettiva di radicale diffidenza
(se non addirittura di “sfiducia” ) nei confronti del giudice, ha imbrigliato il compito
valutativo in una gamma intricata e formale di disposizioni che “burocratizzano” il
compito del decidente, con dubbia efficacia
sulla bontà “sostanziale” del suo operato.
Molto articolata appare la regolamentazione della competenza per territorio che,
peraltro, è assonante con il sistema italiano.
Una disposizione estranea alla nostra procedura penale è quella prevista
dall’art.83 ( Interpretazione e rettifica
delle decisioni ), che consente al giudice,
allorchè il dispositivo di una sentenza sia
<<…poco chiaro, contraddittorio o incompleto o…in contraddizione con la motivazione…>>, finanche di “interpretare” o di
“rettificare” la decisione stessa .
Altra disposizione estranea al nostro
modello processualpenalistico, si rinviene
nell’art.130 (Difesa obbligatoria ) il quale
sancisce l’obbligo della difesa tecnica, in
particolare allorquando l’imputato <<…..
rischia di subire una pena detentiva superiore a un anno oppure una misura privativa
della libertà..>>.
Tranciante è il regime stabilito
dall’art.141 (Utilizzabilità delle prove acquisite illegittimamente ) nel quale, senza
tentennamenti, viene decretata la inutilizzabilità del materiale probatorio raccolto
<<…in modo penalmente illecito ….>>.
Ma questa disposizione prevede, peraltro, una deroga davvero singolare : anche
di tali prove è consentito l’utilizzo se considerato <<…indispensabile per far luce su
gravi reati.>>.
Molto interessante ed in linea con le più
recenti linee culturali relative, in particolare, ai soggetti “ sensibili “ della scena
giudiziaria (vittime , agenti infiltrati , ecc.
ecc.), è la sez.4 (Misure protettive ).
Mediante le previsioni estremamente
articolate degli articoli da 149 a 156, tale
sezione regolamenta in modo capillare
la gestione di tutte quelle persone che si
trovano a rivestire, quali soggetti operativamente funzionali allo svolgimento del
processo, ruoli particolarmente “scomodi”
e meritevoli di una espressa tutela.
Del tutto innovativorispetto al regime
processuale e a tutta la cultura proces-
sualpenalistica risalenti, specie nel Canton
Ticino ed in linea con il nostro sistema processuale, appare il disposto della norma
(art.159 – Interrogatorio di polizia nella
procedura investigativa) che prevede <<….
il diritto di esigere la presenza del suo difensore….>> da parte dell’imputato interrogato dagli organi di polizia.
Si tratta di una vera e propria “rivoluzione culturale” di un modello procedimentale
che, specie nel Canton Ticino, escludeva la
obbligatorietà della presenza del difensore
al fianco dell’accusato in stato di detenzione, il quale poteva essere sottoposto ad
interrogatorio (o a ripetuti interrogatori )
da parte anche solo degli organi di polizia ,
senza alcuna assistenza legale.
Molto interessante e profondamente diverso dal regime processuale italiano, è il
regime della “custodia cautelare” regolamentato dal c.p.p. elvetico e compreso nel
cap. 3 , sez. 4 , 5 e 6 , sotto la denominazione di “carcerazione preventiva “ e “
carcerazione di sicurezza” .
Esso (sez.4 : Carcerazione preventiva e
carcerazione di sicurezza: disposizioni generali) non contempla né un termine massimo di durata complessiva della custodia
cautelare, né i nostri termini di fase.
Tutto è rimesso alla decisione del giudice
e al suo libero apprezzamento considerato,
naturalmente, nella prospettiva di “fiducia” verso il suo operato e in quell’ottica
sostanzialistica che caratterizza, culturalmente, il c.p.p. svizzero.
Inoltre vi è una disposizione che sarebbe
del tutto inconcepibile nel nostro sistema
penale: l’art.231 il quale contempla la possibilità di mantenere in carcere anche l’imputato assolto in primo grado !
La procedura dibattimentale di primo
grado è caratterizzata da grande semplificazione e concretezza, all’insegna del buon
senso pratico e senza inutili formalismi.
Molto interessante è il procedimento
speciale qualificato “Procedura abbreviata” ( art.358 ).
Un istituto che presenta, sia pure con
larga approssimazione, una sintesi fra il
nostro rito abbreviato e il patteggiamento.
L’imputato deve peraltro ammettere i
fatti e riconoscere <<….quanto meno nella
sostanza le pretese civili…>> e deve trattarsi di reati per i quali il p.m. non chiede
<<….una pena detentiva superiore a cin-
que anni.>>.
Una importante e chiara presa di posizione riguarda la ammissibilità del processo in
contumacia dell’imputato (cap.4 ) .
Il nuovo c.p.p. svizzero, innovando radicalmente rispetto al sistema previgente,
introduce l’appello quale strumento processuale “normale” al fine di una rivalutazione completa, anche nel merito, della
decisione di primo grado.
Appare davvero importante e ispirata a
criteri di giustizia sostanziale che i bizantinismi formali del codice di procedura
italiano ignorano, la previsione del potere riconosciuto al giudice dell’appello,
di emendare “motu proprio”, la sentenza
impugnata, qualora si tratti di correggere
statuizioni <<….contrarie alla legge o inique .>> in danno del condannato, anche se
nell’appello fosse sfuggita tale censura.
Se appellante è il solo imputato, vige,
anche se non è detto esplicitamente , il di-
vieto della “reformatio in peius” .
Dovendo esprimere un giudizio conclusivo e di estrema sintesi, ritengo di poter
considerare il c.p.p. svizzero - composto
da 457 articoli -sicuramente un buon codice; certamente migliore del c.p.p. vigente
in Italia per semplificazione (quella stessa “tradita” dal nostro codice, violando la
precisa indicazione del legislatore il quale
aveva delegato ad emanare un testo <<….
secondo i principi …. – della- massima
semplificazione …..>> ) concettuale e pratica , nonché per essenzialità, chiarezza e
concretezza : caratteri i quali , purtroppo,
non si rinvengono nel nostro ridondante e
farraginoso strumento codicistico, il cui numero complessivo di articoli -comprese le
norme di attuazione – è più del doppio del
c.p.p. svizzero , per numero di articoli, ma
che è come se fosse il triplo ove si consideri la loro “lunghezza” testuale.
E’, il c.p.p. svizzero, un codice che tra-
ghetta il sistema processuale penale elvetico , dalla dimensione culturalmente ancorata ad uno schema giudiziario fortemente
connotato in chiave inquisitoria, con una
posizione supremica degli organi inquirenti
rispetto alla condizione dell’accusato, ad
uno schema moderno, di una procedura
penale sensibile ai fermenti culturali condensati già nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali e vieppiù aggiornati alla luce
delle esperienze acquisite in campo sociogiudiziario da parte di sistemi processualpenalistici di ispirazione accusatoria.
Quanto questo modello codici stico potrà giovare alla efficacia dello strumento
giudiziario elvetico, è tutt’altro problema:
solo la prova sul campo ne potrà decretare
il valore.
Renato Papa
Bacheca - Camera Penale Como-Lecco
Il nostro programma del triennio
2013/2016, mira, in sintesi, a raggiungere
gli scopi che seguono:
Coinvolgimento degli iscritti mediante
commissioni e gruppi di studio su specifici
temi e costante aggiornamento in ordine
alle attività svolte e da svolgere;
Sono state costituite e stanno lavorando
con grande impegno le seguenti commissioni: difese d’ufficio - patrocinio a spese
Stato – Giurisprudenza locale a Como e
Lecco - Funzionamento uffici a Como e Lecco Indagini difensive – convenzioni a Como
e Lecco;
Collaborazione con ordini ed altre associazioni territoriali;
Il presidente ha partecipato ad una seduta del COA di Como e Lecco, nella quale
sono stati esposte idee e programmi, tro-
vando piena condivisione e grande volontà
di collaborazione, già concretizzatasi in occasione di organizzazione di POF ed eventi
e di altre iniziative (ad esempio la bacheca
in Tribunale a Lecco); prosegue anche la
collaborazione con la Camera Civile e le
altre associazioni (ad es. AGED, AGAV, Camera Amministrativa, ecc.).
Diffusione tra i giovani e nelle scuole dei
principi di legalità e promozione della figura e del ruolo,anche sociale, dell’avvocato
penalista;
Proseguono gli incontri di educazione
alla legalità, in collaborazione con gli ordini, all’interno delle scuole superiori di
Como (dal 03.04) e di Lecco (dal 07.05), diretti a promuovere la figura dell’avvocato
nella società e nel processo ed a collaborare nel progetto di educazione dei giovani alla legalità; sono in corso colloqui per
analogo lavoro in università;
Confronto costante con le istituzioni in
ordine a problematiche di interesse generale, al fine di trovare soluzioni, anche
organizzative e pratiche, per ottimizzare,
nel rispetto delle norme vigenti, le attività
processuali in ogni fase e grado, mediante l’applicazione chiara ed uniforme delle
norme sostanziali e processuali, facilitando
lo snellimento delle procedure applicative;
In base alle segnalazioni ricevute sono
stati risolti numerosi problemi organizzativi
e si sta lavorando alla stesura condivisa di
protocolli per un migliore funzionamento
delle udienze e per un’equa ed uniforme
liquidazione dei compensi nei casi previsti
dal D. Lgs 115/02;
Monitoraggio costante della situazione
carceraria, denuncia di situazioni illegali
ed intollerabili, proposte di intervento legislativo, lontane da interventi di edilizia
penitenziaria o di svalutazione del reato, in
9
tema di pene diverse dal carcere, uso corretto della custodia cautelare, espulsioni,
misure alternative, giustizia riparativa, allo
scopo di valorizzare la funzione rieducativa
della pena e l’eliminazione o riduzione del
rischio di recidiva;
In collaborazione con l’UCPI saranno
organizzate visite guidate nei carceri della
zona; a Natale siamo stati tra i detenuti per
“regalare” loro un momento di confronto
sui temi giuridici di maggior interesse “penitenziario”; abbiamo sostenuto i referendum con raccolta firme avanti al Tribunale
di Como, abbiamo diffuso mediante incontri
e convegni la cultura della pena rieducativa
e gli ultimi provvedimenti legislativi sono
la miglior risposta al grande lavoro svolto.
Interventi mirati, nell’ambito delle proprie competenze e nel rispetto delle normative vigenti, a seguito di segnalazione di
situazioni meritevoli di attenzione;
Siamo intervenuti ed interverremo in
caso di segnalazioni, che sollecitiamo costantemente da parte dei colleghi; spesso
ci confrontiamo anche con i magistrati ed il
personale per raccogliere eventuali osservazioni.
Promozione e sottoscrizione condivisa
di protocolli in materia di organizzazione
udienze, informatizzazione degli atti e delle
comunicazioni, snellimento procedure, difese d’ufficio e liquidazione dei compensi;
Le commissioni stanno lavorando molto
sul tema; vogliamo porre in atto ogni iniziativa utile per arrivare ad un’ampia informatizzazione del sistema (avvisi via pec,
digitalizzazione dei fascicoli, ecc.). In data
11.03.14 è stato sottoscritto un protocollo
d’intesa per pazienti psichiatrici coinvolti in
vicende giudiziarie (sul sito), che costituisce il pregevole risultato di un lavoro coordinato tra le istituzioni coinvolte, che ci ha
impegnato per diverso tempo.
Valorizzazione e promozione del ruolo
attivo dell’avvocato (indagini difensive,
10
cross-examination, reale contraddittorio,
pretesa di rispetto delle regole processuali, ecc.)
Siamo intervenuti, anche con forza, sia in
punto di inammissibilità dell’appello, sia in
ordine alla concreta applicazione del protocollo d’udienza d’appello, sia nei confronti
di qualche giudice che utilizza i propri poteri, specie nei confronti dei giovani colleghi,
per forzarne scelte processuali a discapito
del diritto di difesa. In tema di indagini
difensive sarà diffuso un questionario per
un monitoraggio, anche autocritico, della
situazione. Il POF 2014 è volutamente incentrato su detti temi.
Formazione ed aggiornamento costanti
degli avvocati penalisti, nella direzione di
una vera specializzazione;
Per noi l’avvocato penalista deve essere
specializzato: noi diamo il buon esempio
frequentando la scuola nazionale UCPI
biennale, che promuoveremo in modo da
portarvi più iscritti possibili.
Promozione di convegni su temi di stretta
attualità ed interesse comune;
Il programma è fitto e sotto gli occhi di
tutti; grande successo stanno avendo gli incontri da noi organizzati ad Erba-Lariofiere
per temi trattati, qualità dei relatori e modalità di esposizione.
Partecipazione attiva, propositiva e critica, mediante avvocati relatori, a convegni
organizzati dalle associazioni del territorio;
Con grande piacere constatiamo l’invito
sistematico dei nostri rappresentanti nei
convegni organizzati da associazioni, ordini
ed università.
Collaborazione costante con le altre camere penali del distretto;
Partecipiamo attivamente al coordinamento delle Camere Penali del distretto;
enorme successo e consensi ha ottenuto
l’assemblea annuale da noi organizzata a
Como in data 30.11.13.
Partecipazione costruttiva ed adesione
alle iniziative dell’UCPI;
La nostra camera penale costituisce costante riferimento per l’UCPI e per le altre
camere penali; la reciproca partecipazione ad incontri ed eventi ne è conferma; il
presidente ha partecipato a tutti i consigli,
fornendo il proprio contributo alla stesura
delle delibere nazionali.
Sito internet aggiornato e possibilità di
ampliamento degli spazi di comunicazione
e confronto mediante sistemi informatici;
Con grande impegno, anche economico,
stiamo curando l’aggiornamento del sito e
studiando nuovi sistemi di comunicazione
adeguati ai tempi.
Regolamentazione dei rapporti con i media, attraverso un sistema di comunicazione professionale e rispettosa dei diritti dei
cittadini e degli iscritti;
I costi non ci consentono un ufficio stampa dedicato, ma cerchiamo di diffondere al
meglio le nostre iniziative; abbiamo partecipato anche a TG locali e spesso vengono
richieste le nostre opinioni su temi di attualità, non solo giuridica.
Organizzazione di incontri conviviali di
aggregazione.
Non sono mancati e non mancheranno;
ad esempio l’assemblea dei soci viene
abitualmente abbinata ad un aperitivo; in
estate ed a Natale sono stati organizzati incontri in collaborazione con gli amici
della Camera Civile, che meriterebbero
maggiore partecipazione. Sono stati presi
contatti con operatori del territorio per la
stipula di convenzioni dirette ad ottenere
vantaggi economici per gli iscritti in settori
di interesse.
Mobbing e Stalking quali differenze e quali
similitudini?
Gli argomenti sono stati già affrontati in
precedenti numeri di Toga lecchese.
In questo articolo si intende, attraverso
un confronto tra i due nuovi istituti giuridici,
evidenziarne le differenze.
Nella più recente fattispecie delittuosa
dello stalking l’autore pone in essere reiterati comportamenti di indole persecutoria
verso la vittima designata, tali de gettarla
in uno stato d’ansia e da influire sulla propria vita quotidiana e abitudinarietà dello
modus vivendi.
Tra le principali e peculiari caratteristiche
distintive vi è la continua e interrotta reiterazione del comportamento violativo idoneo
a determinare sia (o anche) nella persona
offesa e vittima, oltre che eventualmente
e/o di riflesso nei rapporti con i cari un
notevole senso d’angoscia e di timore per
la propria esistenza e sicurezza.
E’ in effetti la libertà morale, ossia il diritto all’autodeterminazione nella vita quotidiana la ratio legis della norma qui presa
in considerazione.
Queste peculiarità hanno permesso al
legislatore di individuare nel dolo generico, l’elemento soggettivo: il reo che si
rappresenta e voglia la condotta che pone
in essere, realizza altresì l’evento necessario e conseguente, così come individuato
nell’art. 612 bis c.p.
Il reato è inoltre a forma libera, in quanto
le modalità attuative della con-dotta criminogena sono potenzialmente infinite nella
forma, che si estrinseca in minacce piuttosto che in molestie, volte a incidere notevolmente sul predetto be-ne giuridico tutelato
dalla norma.
La recente sentenza della Cassazione
n.45648 del 14/11/13 ha posto l’attenzione
della giurisprudenza sulla circostanza che
in occasione di comportamenti reciproci, il
Giudice dovrà adottare una più pun-tuale
motivazione in ordine alla sussunzione
nella concreta fattispecie dell’elemento
del danno, ovverosia dello stato d’ansia
e della paura ingenerati nella vittima, del
suo timore per la propria incolumità come
di quella delle persone vicine e/o più care,
determinando una radicale mutazione delle
abitudini di vita quotidiana.
In questi casi sarà necessario che l’Organo giudicante accerti la prevalenza e/o predominanza dei comportamenti lesivi dello
stolker rispetto a quelli posti in essere
dalla “vittima”, e quindi di quegli atteggiamenti volti a far assumere alla parte offesa
un comportamento di difesa con l’intento di
sopraffare quello stato d’animo ansiogeno
e di paura ingenerato dall’agente.
Non molto divergente da quanto sino ad
ora illustrato è l’altro fenomeno che si intende analizzare, ossia il mobbing, che assume i connotati di un fenomeno fattuale,
non ancora compiutamente disciplinato a
livello normativo nell’ordina-mento italiano.
Non a caso alcuni studiosi parlano di
stalking occupazionale. Esso consta in una
condotta aggressiva realizzata sul posto di
lavoro e avente ad oggetto la denigrazione,
lo svilimento della personalità del lavoratore ad opera di un superiore o di un collega.
Le conseguenze indotte dall’illustrato atteggia-mento determinano e influenzano la
psiche della vittima in modo drammatico e
non solo: esso si ripercuote negativamente
anche sulla “resa” professionale, implicando una vera e propria dequalificazione del
lavoratore.
Nonostante le gravi conseguenze che
determina il mobbing nella persona offesa (danno alla salute, costituzionalmente
garantito e tutelato), non vi è nel sistema
giuridico italico adeguata e precisa normazione.
Significativa sul punto l’affermazione
della Cassazione per la quale la figura
più simile sia da individuare nell’ambito
dell’art. 572 c.p., ossia dei maltrattamenti. La sentenza della Suprema Corte sez.
penale n.33624 del 2007 ha sancito che
“le condotte a carattere vessatorio e persecutorio realizzate a danno dei lavoratori
dipendenti possono integrare i maltrattamenti in famiglia, allorquando il soggetto
agente versi in una situazione di supremazia che si traduca nell’esercizio di un potere direttivo o disciplinare, tale da rendere
specularmente ipotizzabile una soggezione
anche di natura meramente psicologica, riconducibile a un rapporto di natura
parafamiliare (cfr. anche Cass. 43100/11).
Questa interpretazione estensiva dell’art.
572 c.p. ha notevoli ripercussioni in ambito
di formazione della prova, in quanto la vittima è tenuta (rigorosamente) a dimostrare
avanti il Giudice il rapporto (o legame) di
causalità tra il demansionamento e il danno (cd. da/alla professionalità), non potendolo configurare come danno in re ipsa.
Il lavoratore è, cioé, tenuto a provare sia
il danno professionale che il danno da demansionamento (Cass. civ. 172/14).
Luigi Tancredi
Disegno di Franco Necchi
11
Le linee guida psicoforensi
Un’affollata Aula Magna della Corte di
Cassazione ha ospitato, il 21 maggio scorso, il convegno di presentazione delle Linee
guida psicoforensi per un processo sempre
più giusto, alla cui stesura hanno fornito un
contributo interdisciplinare affermati avvocati, magistrati, psicologi, neuropsichiatri
infantili e criminologi.
Al convegno di presentazione, organizzato dalla Fondazione Guglielmo Gulotta
con il patrocinio delle Scuole Superiori
dell’Avvocatura e della Magistratura, sono
intervenuti, tra gli altri, il procuratore Generale della Cassazione Gianfranco Ciani,
l’avvocato Valerio Spigarelli –presidente
dell’Unione delle Camere Penali-, i magistrati Angelo Costanzo e Ernesto Aghina,
l’avvocato Alarico Mariani Marini, i professori Giuseppe Sartori e Rino Rumiati.
“E’ umano che chi giudica possa commettere errori - ha spiegato il professor
Guglielmo Gulotta -, tuttavia la scienza
psicologica rileva che non sempre si tratta di errori meramente casuali, di difficile
previsione, bensì talvolta di errori sistematici insiti nel comune modo di ragionare e
decidere in condizioni di incertezza. Questa
tendenza è drammaticamente confermata
dai dati sconcertanti, riguardanti il nostro
Paese, con riferimento alle ingenti somme
erogate per la riparazione di errori giudiziari e ingiuste detenzioni.
L’obiettivo delle Linee guida –ha precisato ancora Gulotta- è quello di offrire, a
quanti sono chiamati ad operare a diverso
titolo nel processo penale, delle indicazioni
di carattere sia concettuale che metodologico per ridurre il più possibile il rischio di
incorrere in errori giudiziari.
Laura Redaelli
Michele Cervati
Queste le 21 Linee guida approvate e
presentate a Roma:
12
SCIENZE PSICOLOGICHE,
PROCESSI DECISIONALI E LORO DISTORSIONI
1. Il libero convincimento del giudice trova
una preziosa risorsa nonché un limite
invalicabile nelle acquisizioni scientifiche. La valutazione della condotta umana, presente sotto il profilo oggettivo e
soggettivo in ogni processo penale, non
può affidarsi solo a generiche massime
d’esperienza, mutuate dal senso comune. Tale valutazione, ove possibile, dovrebbe:
a. attingere a studi e ricerche propri delle scienze psicologiche che rispettino
rigorosi criteri scientifici e che possano
rendere le massime d’esperienza verificabili e/o falsificabili;
b. favorire, nell’ambito considerato, la sostituzione del senso comune con conoscenze proprie delle scienze psicologiche.
2.La principale distorsione cognitiva sia
nella fase investigativa sia nella fase
del giudizio è rappresentata dalla cosiddetta ‘visione a tunnel’. Essa costituisce
il punto di confluenza delle tendenze
sistematiche per le quali gli individui
possono incorrere in illusioni cognitive
(bias) quando si trovano a dover decidere in condizioni di incertezza.
3. Poiché i processi decisionali – siano essi individuali o collegiali – sono
esposti a meccanismi psicologici di
distorsione, per limitarne gli effetti, si
dovrebbe sviluppare una consapevolezza della presenza di influenze emozionali e cognitive che producono errori, a
prescindere dal grado di esperienza e
competenza professionale acquisita.
4. Nella fase investigativa occorre assumere un atteggiamento di scetticismo
motivato che conduca non solo a vagliare delle ipotesi alternative a quella
‘preferita’, ma a considerarle, almeno
temporaneamente, come vere. Questo
al fine di ottenere un effetto di bilancia-
mento rispetto alla naturale inclinazione umana al verificazionismo.
5. Considerare che le analisi di dati di tipo
oggettivo, come le impronte digitali e il
DNA, sono suscettibili di errori umani
causati da ragioni psicologiche ed emotive. In tal senso, è auspicabile che gli
analisti di laboratorio siano chiamati ad
operare senza conoscere:
a. le ipotesi degli investigatori che si occupano del caso in questione;
b. la natura degli altri elementi di prova;
c. i risultati delle analisi di laboratorio attesi dagli inquirenti;
d. se i campioni da analizzare possono risultare incriminanti. Tale informazione
dovrebbe essere ignota altresì a colui il
quale consegna i campioni all’analista
(c.d. metodo del doppio cieco). Oltretutto, andrebbero prodotti, ove possibile,
più esemplari della medesima tipologia
di elemento di prova mescolati ad altri
per far sì che la scelta tra i diversi campioni avvenga al buio.
6. La ricostruzione probatoria deve rispondere a criteri di logicità e coerenza. La
mente umana nel richiamare e vagliare
episodi del passato li ri-costruisce in
quanto storie; in una prospettiva giudiziaria, questo ambito viene chiamato ‘narratologia forense’. Le storie per
essere credibili (non necessariamente
vere) dovrebbero:
a. presentare i fatti in maniera coerente,
plausibile e completa;
b. essere confrontate con le possibili storie alternative al fine di giungere tramite un processo
c. comparativo, alla migliore spiegazione
possibile.
SCIENZA NEL PROCESSO
7. All’esperto non deve essere richiesto di
esprimersi, nemmeno indirettamente,
circa l’accadimento e la dinamica dei
fatti. In tal senso, esistono strumenti
scientifici finalizzati alla valutazione
della qualità del racconto ma non alla
veridicità del narrato rispetto al fatto
storico.
8. Nel valutare l’ammissibilità e la fondatezza degli asserti scientifici introdotti
dagli esperti, il giudice, in quanto peritus peritorum, deve esercitare criticamente il vaglio epistemologico dei
medesimi. Preliminare attenzione dovrebbe essere orientata al grado di affidabilità della teoria, valutando in che
misura la stessa possa fornire concrete
e attendibili informazioni a sostegno
dell’argomentazione probatoria inerente al caso di specie. Rispetto al metodo,
sarà necessario valutare:
a. l’autorità e l’indipendenza del soggetto
che gestisce la ricerca nonché la finalità che lo muove;
b. la correttezza metodologica (oggettività
e rigorosità), vagliando criticamente gli
studi che sorreggono la tesi premessa
nonché gli strumenti e le tecniche utilizzati;
c. la discussione critica che ha accompagnato l’elaborazione dello studio,
soffermandosi sulle diverse opinioni
formatesi e tenendo conto del grado
di consenso che la tesi raccoglie nella
comunità scientifica.
Ove sia presente un dibattito alimentato da posizioni conflittuali, il giudice, nello scegliere tra le tesi emerse,
dovrebbe valutare anche le posizioni
minoritarie o non ancora consolidate
ai fini del superamento del ragionevole
dubbio. In ogni caso, la tesi prescelta
dovrà essere dotata di un elevato grado
di affidabilità facendo riferimento alle
ricerche e agli studi più accredidati.
PROVA DICHIARATIVA: ACCURATEZZA
DEL RICORDO E FALSE CONFESSIONI
9. L’esperienza e la ricerca confermano
che esistono oltre a confessioni sincere
altre che non lo sono o perché frutto di
particolari situazioni psicologiche del
dichiarante o perché frutto di pressioni
esterne o perché causate dall’attività
di interrogazione. Per questo, in linea
di principio, ogni interrogatorio investigativo, per i delitti più gravi, andrebbe
video o audio registrato, anche nei casi
in cui ciò non sia espressamente previsto dalla legge.
10.Tenere conto che non è possibile evincere dal solo comportamento verbale e
non verbale se il dichiarante sia sincero
o se stia mentendo.
11.Diversi protocolli, indicati nella letteratura scientifica di riferimento nazionale
e internazionale, inerenti la raccolta
delle dichiarazioni dei testimoni e delle
persone informate sui fatti, suggeriscono, al fine di ottenere risposte quanto
più accurate possibile, di:
a.controllare il proprio comportamento
verbale e non verbale (tono di voce, gesti, postura, espressioni del volto…);
b. iniziare con domande aperte, generali,
per poi proseguire con quelle più specifiche;
c. privilegiare domande neutre, evitando
domande suggestive, salvo nel controesame dibattimentale;
d. favorire la ricostruzione del contesto in
cui il fatto da rievocare è accaduto;
e. ai fini di un recupero più articolato, domandare al testimone, all’interno dello
stesso ascolto, di descrivere più volte i
fatti con cronologie differenti (es. prima
la fine, poi dall’inizio);
f. invitare il testimone a distinguere il ricordo dei fatti dalle proprie supposizioni;
g. evitare di fare domande multiple, in forma negativa o con doppia negazione;
h. non dominare l’interazione, evitando di
interrompere il testimone e di fare troppe domande.
12.Particolari cautele e specifici accorgimenti vanno adottati nella raccolta e
nel vaglio della testimonianza di minori,
di soggetti portatori di deficit cognitivi
e di altri soggetti deboli. Sul punto si
faccia riferimento ai seguenti protocolli: la Carta di Noto, le Linee guida nazionali – L’ascolto del minore testimone,
L’ascolto dei minorenni in ambito giudiziario (documento redatto da C.S.M. e
Unicef), le Linee guida per l’ascolto del
bambino testimone presso la questura
di Roma e, in tema di abusi collettivi, il
Protocollo di Venezia.
13.Nella gestione delle udienze dibatti-
mentali è opportuno che il giudice non
ponga domande induttive o suggestive.
INDIVIDUAZIONE, RICONOSCIMENTO
E TRASCRIZIONI
14.Durante il riconoscimento personale o
fotografico, ove possibile, è opportuno
che chi lo conduce non conosca l’identità dell’individuo sospettato e che tutte
le dichiarazioni testimoniali rese prima,
durante e dopo l’identificazione siano
documentate mediante strumenti di riproduzione audiovisiva o, quantomeno,
fonografica. Sia in sede di individuazione che in sede di ricognizione di persona, si raccomanda che l’operatore,
a beneficio di una prassi non contaminante, comunichi al testimone che:
a. il sospetto potrebbe anche non essere
presente tra coloro che vengono mostrati di persona o in fotografia;
b. l’addetto incaricato di condurre il riconoscimento non conosce l’identità del
sospettato.
Durante la procedura di riconoscimento
l’operatore dovrebbe considerare che:
a. quando il testimone esprime il grado
di sicurezza che ha in merito al riconoscimento effettuato è necessario non
fornire alcun riscontro né positivo né
negativo;
b. il grado di sicurezza esibito non è in alcun modo connesso con la correttezza
del riconoscimento e, in generale, con
la veridicità delle dichiarazioni del testimone.
15.La testimonianza circa il riconoscimento di voci udite deve essere vagliata con
particolare prudenza poiché risente di
numerose variabili contestuali; in particolare, l’esiguità della durata di esposizione allo stimolo spesso non permette
la completa attivazione delle modalità
proprie del sistema uditivo, necessarie
alla corretta codifica di quanto percepito.
16.Le trascrizioni di intercettazioni ambientali, telefoniche, informatiche o
telematiche, soprattutto se di parlato
acusticamente degradato, dovrebbero
essere decodificate indipendentemente
da più trascrittori, ignari del contesto
13
di riferimento e, ove possibile, da un
esperto di psicolinguistica.
IMPUTABILITÀ E PERICOLOSITÀ
17.La valutazione dell’imputabilità non è
vincolata ad un inquadramento diagnostico – le cui categorie sono tra l’altro
mutevoli nel tempo – ma può fondarsi su modelli condivisi del processo
decisionale concernenti la possibilità
del soggetto di autocontrollarsi e di
scegliere tra varie alternative; essa si
riferisce altresì alle dinamiche motivazionali che hanno agito al momento del
fatto e alla loro natura e qualità in senso psicopatologico, nonché a eventuali
disturbi della sfera cognitiva che possono agire sulla capacità d’intendere e di
volere.
Nei casi in cui si sia riscontrato un vizio di mente, la valutazione prognostica
della pericolosità sociale dovrà riguardare gli aspetti clinici psicopatologici
relativi ai rischi di recidiva (presenza di
disturbi del pensiero, perdita dell’esame di realtà, discontrollo degli impulsi,
indisponibilità al trattamento) connessi
alla natura e alla gravità delle problematiche rilevate.
In merito alla valutazione della capacità
di stare in giudizio – indipendente da
quella dell’imputabilità al momento del
fatto, essendo riferita alla ‘processabilità’ – occorre tenere conto che essa
attiene alla capacità di difendersi dai
fatti contestati nonché alla capacità di
prendere decisioni processuali di particolare rilievo, per esempio:
a. rendersi conto della gravità degli addebiti e dei rischi sanzionatori;
b. avere la capacità di relazionarsi correttamente con il proprio difensore e di
prendere decisioni processuali ponderate (ad es. scelta del rito, possibilità di
sottoporsi o meno a interrogatorio e/o
esame incrociato, ecc.).
18.La valutazione concernente la pericolosità sociale deve tenere conto dei parametri clinici, psicologici e criminologici
relativi al rischio di recidiva, connessi a
natura e gravità del reato, da vagliare,
ove possibile, con l’utilizzo di strumenti
specifici.
14
FORMAZIONE
(PROGRAMMI E CORSI DI FORMAZIONE)
19.Affinchè il sistema possa autocorreggersi, è necessario che i magistrati
penali conoscano il destino delle loro
sentenze quanto alla valutazione che
avviene in altri gra di di giudizio.
20.Tutti gli operatori coinvolti a vario titolo nei procedimenti giudiziari (esperti,
avvocati, magistrati, ufficiali di polizia
giudiziaria, praticanti, ecc.) sono tenuti
alla formazione ed al continuo aggiornamento scientifico e professionale
circa gli argomenti oggetto delle presenti Linee guida. Questi corsi potranno essere organizzati anche attraverso
la collaborazione di istituzioni, enti di
ricerca, università, Scuola Superiore
dell’Avvocatura, Scuola Superiore della Magistratura e Ordini Professionali.
Nella fattispecie sarebbe necessario:
a. promuovere la consapevolezza delle
problematiche investigative e giudiziarie attraverso l’analisi dei casi;
b. svolgere ricerche inerenti le fonti umane di errore e porle in stretta connessione a ricerche volte a quantificare e
caratterizzare precisamente le diverse
tipologie d’errore;
c. sviluppare, a partire dai risultati delle suddette ricerche, delle procedure
standard – protocolli e linee guida –
Disegno di Franco Necchi
al fine di minimizzare potenziali bias e
fonti di errore;
d. impiegare le procedure individuate
come corrette e idonee in tutti i tipi di
indagine forense;
e. incoraggiare la capacità di posticipare
il più possibile le conclusioni fino a che
non si è in possesso di tutti gli elementi
necessari per decidere;
f. favorire i processi di identificazione dei
segnali ‘tipici’ di una possibile adozione
della visione a tunnel;
g. considerare ipotesi alternative e prospettive differenti;
h. esplorare anche le idee frutto di intuizioni senza però affidarsi ad esse aprioristicamente;
i. promuovere il confronto al fine di analizzare criticamente tutti gli aspetti implicati nel caso oggetto di discussione;
j. assegnare a qualcuno, all’interno del
gruppo di lavoro, il ruolo di ‘avvocato
del diavolo’ che si faccia portavoce delle ipotesi ‘impopolari’ o contrarie all’idea prevalente;
k. abituarsi a chiedersi ‘come sappiamo
ciò che pensiamo di sapere?’;
l. vagliare criticamente i casi in cui si è
appreso di aver assunto decisioni errate.
21.Le presenti Linee guida andranno aggiornate sulla scorta dell’esperienza e
del progredire delle acquisizioni scientifiche.
Giurisprudenza penale
Riportiamo il testo della sentenza
Corte di Cassazione penale, sezione
II, 09.10.13 n. 5499 nella quale viene
affermato il principio secondo cui integra il reato di appropriazione indebita la condotta dell’esercente la
professione forense che trattenga
somme riscosse a nome e per conto del cliente, anche se egli sia, a
sua volta, creditore di quest’ultimo
per spese e competenze relative ad
incarichi professionali espletati, a
meno che non si dimostri non solo
l’esistenza del credito, ma anche
la sua esigibilità ed il suo concreto
ammontare.
Svolgimento del processo
1.Con sentenza indicata in epigrafe, la
Corte di appello di Milano, in parziale
riforma della sentenza del Tribunale di
Monza, in data 29.5.2007, che aveva
condannato C.B.M. alla pena di mesi
nove di reclusione ed Euro 600,00 di
multa per l’imputazione che segue:
Dei reati p. e p. dagli artt 81 cpv., 380
e 646 c.p., perchè in qualità di legale
di fiducia di T.F. e T. D.A. in merito a
tre cause civili, rendendosi infedele ai
suoi doveri professionali, ometteva di
inoltrare alla competente Autorità giudiziaria diversi atti che dovevano essere
da lui realizzati, arrecando, così, ai due
querelanti un danno economico pari a
circa Euro 77 mila e perchè, al fine di
conseguire un ingiusto profitto, si appropriava dapprima della somma di Euro
680,00 a lui consegnata da T.D.A. per il
pagamento del contributo unificato con
riferimento all’intimazione di sfratto relativa all’inquilino V., successivamente
della somma di Euro 1.500,00 richiesti
ed ottenuti da T.F. quale compenso da
corrispondere al perito incaricato della
valutazione dell’immobile relativamente alla causa con il L., nonchè al legale
domiciliatario su (OMISSIS). In (OMIS-
SIS).
assolveva l’imputato dall’accusa di
patrocinio infedele e confermava la
condanna per appropriazione indebita,
rideterminando di conseguenza la pena.
La Corte territoriale, in particolare, respingeva le censure mosse con l’atto
d’appello, sulla sussistenza dell’elemento oggettivo e soggettivo del reato
appropriativo, avendo il professionista
dolosamente trattenuto il denaro datogli per pagare il contributo unificato,
non avendo iniziato alcuna azione e,
pertanto, non essendoci mai stato alcun
perito da ricompensare.
Valutava, inoltre, pienamente attendibili
le dichiarazioni rese dalle parti civili,
che si erano dimostrate perfettamente
credibili nella ricostruzione dell’intera
vicenda.
1.1 Avverso tale sentenza propone ricorso
l’imputato per mezzo del suo difensore
di fiducia, chiedendo l’annullamento
della sentenza e deducendo un unico
motivo di gravame con il quale lamenta
il vizio di motivazione in relazione alla
configurazione degli elementi oggettivi
del reato di appropriazione indebita ed
in ordine alla ritenuta responsabilità
penale dell’imputato. Il ricorrente si
duole che la Corte abbia dato credito
alle affermazioni dei querelanti senza
effettuare i doverosi approfondimenti circa le ragioni per cui erano state
date all’avvocato le somme portate dagli assegni. In particolare la Corte non
ha considerato che l’avvocato aveva
comunque svolto per i T. attività professionale e che tale attività è stata
pagata solo in minima parte e comunque il denaro conferito al professionista
per l’attività professionale da svolgere
non è più nella disponibilità dei clienti,
essendo competenza del professionista
imputare le somme alle specifiche attività professionali.
Motivi della decisione
2. Il ricorso è inammissibile.
2.1 Il ricorrente,infatti, pur deducendo asseritamente il vizio di illogicità della
motivazione si limita a prospettare una
diversa versione dei fatti, più aderente
ai propri interessi difensivi e procedendo da tale alternativa ricostruzione sviluppa critiche che rimangono estranee
alle argomentazioni sviluppate nella
motivazione del provvedimento impugnato; quest’ultimo,peraltro, è motivato
in modo coerente ed adeguato, con una
motivazione in linea con i principi già
enunciati da questa Corte.
2.2 E’, infatti, noto il principio già affermato da questa Corte secondo cui si configura il reato di appropriazione indebita (art. 646 cod. pen.) nella condotta
dell’esercente la professione forense,
che trattenga somme riscosse a nome
e per conto del cliente, anche se egli
sia, a sua volta, creditore di quest’ultimo per spese e competenze relative ad
incarichi professionali espletati, a meno
che non si dimostri non solo l’esistenza
del credito, ma anche la sua esigibilità
ed il suo preciso ammontare. (n. 1410
del 19/11/1998 Rv.212637; n. 41663 del
2009).
2.3 Poichè il caso oggi all’esame è del tutto analogo a quello che ha determinato
il principio di diritto, questo Collegio
ritiene che quest’ultimo debba essere
riaffermato, non evidenziandosi ragioni
per una diversa decisione.
2.4 Il Procuratore Generale, all’odierna
udienza, ha chiesto la dichiarazione di
prescrizione del reato, essendo decorso
essendo ormai decorso il termine massimo per tale dichiarazione; tuttavia è
principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte che l’inammissibilità del ricorso per cassazione per
manifesta infondatezza dei motivi non
consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e, pertanto, preclude la possibilità di dichiarare le cause
di non punibilità di cui all’art. 129 cod.
15
proc. pen., ivi compresa la prescrizione
intervenuta nelle more del procedimento di legittimità. (N. 32 del 2000 Rv.
217266,N. 18641 del 2004 Rv. 228349;
n. 28848 del 2013 Rv. 256463).
3. Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen.,
con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha
proposto deve essere condannato al
pagamento delle spese del procedimento, nonchè - ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità - al versamento a favore
della Cassa delle ammende di una somma che, alla luce del dictum della Corte
costituzionale nella sentenza n. 186 del
2000, sussistendo profili di colpa, si stima equo determinare in Euro 1.000,00
(mille/00).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 9 ottobre 2013.
Depositato in Cancelleria il 4 febbraio
2014
*
“Fuori di testa”: frase “inelegante e
rozza”, ma che non costituisce reato
se manca la volontà di usare espressioni lesive dell’onore e del decoro
dell’interlocutore
La Cassazione afferma che, tenendo conto della cornice storica in cui sono maturati
il dissenso tra imputato o persona offesa e
l’espressione critica del primo, l’espressione equivalente a “dare del matto” può non
integrare il reato ex art. 594 c.p.
Nel contesto in esame, l’assenza di equilibrio e di adeguata capacità valutativa, attribuita (con l’espressione oggettivamente
offensiva “fuori di testa”) dal commerciante all’avvocato è da inquadrare come presa
d’atto, da parte del primo, dell’impossibilità
di concludere il contratto di vendita a causa
della carenza di preparazione ed esperienza, da parte dell’avvocato, nel campo del
mercato automobilistico. Non si può, quindi, ravvisare, nel caso concreto, l’elemento
psicologico del dolo generico, non essendo
16
emerso che il ricorrente abbia espresso la
valutazione critica con la volontà di usare
espressioni lesive dell’onore e del decoro
dell’interlocutore e con consapevolezza
della sua generale valenza lesiva.
FATTO E DIRITTO
Con sentenza 16.09.2010 il tribunale di
Perugia, sezione di Foligno, ha confermato
la sentenza 20.06.2008 emessa dal giudice di pace di Foligno, con la quale BA era
stato condannato alla pena di Euro 800,00
di multa, al risarcimento dei danni e alla
rifusione delle spese processuali in favore
della parte civile, perché ritenuto colpevole
del reato di ingiuria, in danno di PR per aver
pronunciato in sua presenza le parole “lei
avvocato è fuori…è fuori di testa”.
Il difensore ha presentato ricorso per i
seguenti motivi:
1. vizio di motivazione e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla
non corretta valutazione delle prove: il
tribunale ha confermato la condanna
del B pur in presenza di testimonianze
discordanti quanto al contesto storico,
al contenuto e al significato delle sue
parole: il R , a seguito di un accordo con
la società BA srl, per la permuta della
propria auto con altra nuova, aveva rifiutato il veicolo predisposto dall’imputato, poiché lo aveva ritenuto non qualificabile come nuovo, avendo percorso
45 km. A fronte della pretesa del R di
risolvere il contratto, all’esito della discussione sulla qualificabilità o meno
dell’autovettura come nuova, il B ha
pronunciato la frase incriminata, limitatamente alle parole “lei è fuori”, nel
senso di affermare l’estraneità dell’interlocutore, di professione avvocato,
rispetto alle logiche commerciali. Questa ricostruzione dei fatti è confermata
dal teste G secondo cui l’imputato non
pronunciò “di testa”;
2. violazione di legge in riferimento all’art.
594 c.p.: la frase pronunciata dal B,
dando per ammesso che corrisponda a
quella indicata nel capo di imputazione,
equivalente a “dare del matto” non integra il reato di ingiuria, in quanto tale
espressione, pur inelegante e rozza, è
entrata nel linguaggio comune e non è
idonea a ledere l’onore e il decoro del
destinatario e comunque è stata pronunciata nell’ambito di contrapposte
opinioni su uno specifico tema commerciale.
Il ricorso merita accoglimento , in quanto è da escludere che il B abbia consapevolmente fatto uso di espressione socialmente interpretabile come offensiva, cioè
adoperata in base al significato che essa
venga oggettivamente ad assumere. Va
infatti tenuta presente la non contestata cornice storica in cui sono maturati il
dissenso tra imputato e persona offesa e
l’espressione critica del primo: essi hanno
come origine e come oggetto la diversità di
opinione tra venditore ed acquirente sulla
precisa lettura tecnica del limite di percorrenza di un’auto, al di là del quale il bene
mobile non sia più funzionalmente, economicamente e commercialmente meritevole
della qualifica di nuovo, presentando quindi una flessione del suo valore commerciale. L’assenza di equilibrio e di adeguata
capacità valutativa, attribuita (con la sintetica espressione oggettivamente offensiva
“fuori di testa”) dal commerciante all’avvocato è da inquadrare, nella suindicata
cornice storica, come presa d’atto, da parte
del primo, dell’insormontabile ostacolo alla
conclusione del contratto di vendita e come
identificazione di tale ostacolo nella carenza di preparazione ed esperienza, da parte
dell’avvocato R , nel campo del mercato
veicolare.
Non è quindi ravvisabile, nel caso in
esame, l’elemento psicologico del dolo
generico, non essendo emerso che il B
abbia espresso la suindicata valutazione
critica con la volontà di usare espressioni
globalmente lesive dell’onore e del decoro dell’interlocutore e con consapevolezza
della sua generale valenza lesiva.
La sentenza va quindi annullata senza
rinvio perché il fatto non costituisce reato.
PQM
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato.
Roma, 20.09.2013
*
Viola i diritti difensivi ed è da ritenersi nulla la decisione del giudice di
revocare il provvedimento di ammissione dei testi della difesa, in assenza
del requisito della loro superfluità
Il potere officioso di escludere le prove
già ammesse ma successivamente rivelatesi superflue, costituisce un limite del
principale diritto della parte di difendersi
provando, sancito dal comma 2 dell’art.
495 c.p.p., che corrisponde al principio
della “parità delle armi” contenuto nella
CEDU, art. 6 comma 3 lett. d), a sua volta
ripreso dall’art. 111comma 2 Cost. in tema
di contraddittorio delle parti, e che consiste
nel diritto dell’accusato ad ottenere non
solo la citazione ma anche l’interrogatorio
dei testimoni a discarico, a pari condizioni
dei testimoni a carico.
Revocando l’ordinanza ammissiva delle
prove testimoniali a difesa, il giudice ha
anticipato un giudizio sulla valutazione della prova introdotta dalla difesa, da esprimersi invece necessariamente solo dopo
l’assunzione della stessa. Infatti, perché
il contraddittorio con parità delle armi sia
assicurato, la superfluità della prova deve
essere l’effetto di un giudizio comparativo che il giudice è ammesso ad esercitare
soltanto in relazione ad una istruttoria già
espletata.
Svolgimento del processo
1. S.M. ha proposto tempestivo ricorso avverso la sentenza della Corte d’Appello
di LECCE in data 20.02.2013, depositata
in data 26.02.2013, confermativa della
sentenza 17.11.2010 emessa dal medesimo Tribunale, sez. dist. Casarano, con
cui il medesimo è stato condannato,
con il beneficio della non menzione, alla
pena sospesa, di mesi tre di arresto ed
Euro 516,00 di ammenda per il reato di
cui alla L. n. 401 del 1989, art. 4, commi
1, 4 bis e 4 ter, commesso in (OMISSIS),
per avere, quale presidente dell’associazione culturale ricreativa LAS VEGAS, abusivamente svolto sul territorio
nazionale un’attività organizzata all’accettazione ed alla raccolta per via telematica di scommesse su eventi sportivi
accettate dalla GI.LU.PI. s.r.l., senza la
prescritta concessione, autorizzazione e
licenza ex art. 88 TULPS, e senza essere in possesso della prescritta autorizzazione del Ministero dell’Economia e
Finanze – Amministrazione autonoma
dei monopoli di Stato, all’uso dei mezzi
telematici per la raccolta di scommesse.
2.Ricorre avverso la predetta sentenza
l’imputato per mezzo del difensore fiduciario cassazionista, proponendo quattro motivi di ricorso, di seguito enunciati
nei limiti strettamente necessari per la
motivazione ex art. 173 disp. att. c.p.p..
2.1 Deduce il ricorrente, con un primo motivo, la nullità della sentenza per violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. c) ed e).
Si duole, in particolare, il ricorrente per
avere rigettato il tribunale la richiesta difensiva di escussione dei testi di cui alla
propria lista testimoniale; rileva il ricorrente che all’ud. 4.11.2010, il giudice monocratico, richiamando i poteri di cui all’art.
495 c.p.p., comma 4, dopo aver sentito le
parti, revocava l’ordinanza ammissiva delle
prove testimoniali a difesa; la relativa eccezione veniva sollevata dalla difesa all’atto della pronuncia dell’ordinanza di revoca
ed eccepita ritualmente nei motivi d’appello, ove veniva dedotta la violazione dell’art.
495 c.p.p., comma 4; difetterebbe, tuttavia,
nella sentenza impugnata, qualsiasi motivazione da parte della Corte territoriale in
ordine a tale eccezione; in particolare, il
giudice avrebbe fatto cattivo uso del potere di revoca, consentito solo se le prove
risultano superflue, avendo ritenuto che la
deposizione di un solo teste del p.m. e l’esame dell’imputato fossero sufficienti per
decidere il processo; rileva, diversamente,
il ricorrente che sarebbe stato necessario
sentire il teste della difesa o, quantomeno,
il perito tecnico M. Se., che, quale esperto
nel settore, avrebbe potuto chiarire se l’attività dell’imputato si fosse concretizzata in
una vera e propria attività di mediazione tra
il singolo scommettitore ed il bookmaker;
il giudice, invece, revocando l’ordinanza,
avrebbe anticipato un giudizio sulla valutazione della prova introdotta dalla difesa,
da esprimersi invece necessariamente solo
dopo l’assunzione della stessa.
2.2 Deduce il ricorrente, con il secondo
motivo, la nullità della sentenza per violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. c), d) ed
e).
Si duole il ricorrente per aver la Corte
territoriale disatteso genericamente la
richiesta di rinnovazione dell’istruttoria
dibattimentale ex art. 603 c.p.p. comma
1, ritenendo superflua e meramente esplorativa la richiesta di rinnovazione dibattimentale per l’audizione del Se., qualificato
come esperto del settore, senza tuttavia
individuare alcun elemento sulla cui base
evincere che questi avrebbe potuto chiarire
se l’attività dello S. si fosse concretizzata
o meno in un’attività di intermediazione
tra singolo scommettitore e broker; tale
motivazione, oltre che illegittima, sarebbe
totalmente illogica, in quanto il predetto
Se. era stato indicato nella lista depositata
ex art. 468 c.p.p. al n. 6, con la qualifica di
perito tecnico elettronico;
inoltre l’ordinanza sarebbe viziata per
mancata assunzione di prova decisiva, in
quanto, attraverso l’audizione del Se., la
difesa avrebbe voluto dimostrare che il
ricorrente non aveva posto in essere alcuna attività illecita poiché ogni giocatore
era intestatario di un conto nominativo ad
esso intestato, dotati di proprio esclusivo
Username e PW, attraverso cui il giocatore
poteva giocare in qualsiasi momento e da
qualsiasi postazione internet.
2.3 Deduce poi, con il terzo motivo, la nullità della sentenza per violazione dell’art.
606 c.p.p. lett. b) ed e).
Si duole il ricorrente per avere la Corte
d’appello ritenuto la sua penale responsabilità in quanto questi non si limitava
alla semplice vendita di ricariche di conto
gioco, ma interferiva nelle attività di scommessa del cliente e, segnatamente, nella
scelta dell’evento sportivo e nell’individuazione della relativa quota, oltre che nella
contabilizzazione del denaro che gli veniva
consegnato in contanti, dietro rilascio della
ricarica del conto di gioco; diversamente,
ritiene il ricorrente di non avere svolto
alcuna attività di intermediazione, ma di
aver svolto solo la vendita di ricariche utilizzate successivamente al fine di giocare,
17
in quanto le giocate avvenivano sui conti
intestati ai singoli clienti, dotati di proprie
credenziali di accesso, conformemente a
quanto stabilito dal decreto direttoriale
dell’AAMS del 21.03.2006, disciplinante
in maniera articolata le cosiddette offerte a distanza mediante appositi centri di
commercializzazione e alla nota 8.06.2006,
prot. 2006/19783/Giochi/UD; ciò emergerebbe anche dalle deposizioni dei testi e
dell’imputato assunti in dibattimento (dep.
Manco), che hanno confermato che il ricorrente si occupava solo della vendita della
ricarica del conto gioco, mentre il giocatore
poteva poi giocare da casa o da qualsiasi
punto internet; la circostanza per la quale,
in qualche caso, le giocate venivano effettuate sui computer del ricorrente non ne
determinerebbe alcuna responsabilità, in
quanto le giocate avvenivano sempre sui
conti personali dei giocatori.
2.4 Deduce infine, con un quarto motivo,
la nullità della sentenza per violazione
dell’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e).
Si duole il ricorrente per non avere il
tribunale riconosciuto le attenuanti generiche, per la mancanza di elementi positivi
suscettibili di riconoscimento, non potendo
derivare dalla semplice assenza di precedenti penali, motivazione ripresa dalla Corte d’appello nel confermare tale diniego,
essendo il rispetto della legge un preciso
dovere di ogni persona; lamenta la difesa
che tale motivazione sarebbe apparente,
in quanto la Corte d’appello si sarebbe limitata, per relationem, a ripetere pedissequamente quanto affermato dal primo giudice, a fronte della indicazione nei motivi
di appello di ulteriori elementi a sostegno
della richiesta, quali lo scarso allarme sociale dell’episodio e la complessità della
normativa.
Motivi della decisione
3. Il ricorso è fondato per le ragioni di cui
si dirà oltre.
4. Quanto al primo motivo di ricorso ,
ritiene il Collegio che lo stesso sia
fondato. Ed infatti, ha evidenziato il
ricorrente che il tribunale monocratico
18
aveva rigettato la richiesta difensiva di
escussione dei testi di cui alla propria
lista testimoniale; in particolare, all’ud.
4.11.2010, il giudice monocratico, richiamando i poteri di cui all’art. 495
c.p.p., comma 4, dopo aver sentito le
parti, revocava l’ordinanza ammissiva
delle prove testimoniali a difesa. Le relativa eccezione veniva sollevata dalla
difesa all’atto della pronuncia dell’ordinanza di revoca ed eccepita ritualmente
nei motivi d’appello (motivo di appello
n. 1), ove veniva dedotta la violazione
dell’art. 495 c.p.p., comma 4; nessuna
motivazione, tuttavia, conterrebbe la
sentenza impugnata in ordine a tale eccezione.
La lettura della motivazione della sentenza, rende ragione della fondatezza dell’eccezione; la Corte territoriale, infatti, pur essendo stato proposto motivo di appello (v.
atto di appello, motivo n. 1, pagg. 2/3), non
ha fornito alcuna motivazione in ordine a
detto profilo di censura, limitandosi solo a
motivare circa il mancato esercizio del potere di disporre la rinnovazione istruttoria
ex art. 603 c.p.p., senza però nulla dire in
ordine all’eccezione sollevata concernente
la violazione dell’art. 495 c.p.p., comma 4.
Sul punto, merita ricordare che è viziata
da nullità l’ordinanza con la quale il giudice
disponga la revoca dell’ammissione di un
teste a discarico dell’imputato, nonostante le insistenze del difensore per la sua
ammissione; tuttavia, detta nullità deve
essere immediatamente dedotta dalla
parte presente, ai sensi dell’art. 182 c.p.p.
comma 2, con la conseguenza che in caso
contrario essa è sanata (Sez. 5, n. 18351
del 17.02.2012).
4.1Sul punto, peraltro, merita approfondimento la puntuale questione sollevata
dal Procuratore Generale di udienza
che, nel chiedere l’annullamento con
rinvio dell’impugnata sentenza, ha richiamato non soltanto i principi fissati
dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, ma anche recente giurisprudenza
di questa Corte che ha fatto coerente
applicazione di tali principi (Sez. 5, Sentenza n. 51522 del 2013), cui questa Sezione ritiene di dover dare continuità.
Orbene, può convenirsi con la prospettazione difensiva secondo cui viola i diritti difensivi ed è da ritenersi nulla, la decisione
del giudice di revocare il provvedimento di
ammissione dei testi della difesa, in assenza del requisito, debitamente argomentato,
della loro superfluità, secondo il disposto
dell’art. 495 c.p.p., comma 4.
Ed invero, il potere officioso di escludere
le prove già ammesse ma successivamente
rivelatesi superflue, previsto dall’art. 495
c.p.p. comma 4, è dipendente e costituisce
null’altro che un limite del principale diritto
della parte di difendersi provando, sancito
dal precedente comma 2 anche come riflesso processuale del diritto- dovere che
le parti del processo hanno a provare i fatti
che si riferiscono alla imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena oltre a quelli dai quali dipende la applicazione delle norme processuali (art. 187 c.p.p.).
E il diritto stabilito dall’art. 495 c.p.p.
comma 2, corrisponde e ben può essere
oggetto di una interpretazione conforme
al principio della “parità delle armi” che
è sancito dall’art. 6 comma 3 lett. d) della
CEDU, a sua volta ripreso anche dall’art.
111 Cost. comma 2, in tema di contraddittorio tra le parti, e che consiste, come
è scritto nel precetto sovranazionale, nel
diritto dell’accusato ad ottenere non solo
la citazione ma anche l’interrogatorio dei
testimoni a discarico, a pari condizioni
dei testimoni a carico. Ne consegue che
l’ulteriore principio del contraddittorio sul
terreno della prova, affermato dall’art. 111
Cost. comma 4, sebbene compatibile anche
con limitazioni legislative – come quella
sul potere di revoca della prova divenuta
superflua – che integrano la riserva costituzionale in tema di ragionevole durata,
non è per questa via sostanzialmente sopprimibile, pena la implicita abrogazione del
diritto stesso.
Anche la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo (C. Eur., sent.
22.02.1996, Bulut e Austria) pone in evidenza che il principio della parità delle
armi implica che a ciascuna delle parti
debba essere consentita una ragionevole
opportunità di presentare la sua posizione, incluse le prove, in condizione tale da
non risultare collocata in sostanziale svan-
taggio rispetto al suo contraddittore. In
altri termini, la “superfluità” della prova è
l’effetto di un giudizio comparativo che il
giudice è ammesso ad esercitare – perché
il contraddittorio con parità delle armi sia
assicurato – in relazione ad una istruttoria
già espletata quale espressione del diritto
di entrambe le parti di concorrere alla formazione della prova anche mediante mezzi
autonomi, volti anche soltanto a migliorare
la qualità della decisione e comunque ad
agevolare la accettazione del risultato decisionale da parte dell’imputato che non è
soltanto oggetto del processo ma suo protagonista.
Non può essere, viceversa, quel giudizio,
reso in relazione alla istruttoria che deriva
dall’esaurimento delle prove indotte dalla sola controparte. Perché, in tale ultimo
caso, a meno che i mezzi di prova indotti
dalla accusa e dalla difesa coincidano, non
potrebbe dirsi superflua e revocarsi la prova indotta da una parte non ancora posta
nelle condizioni di esercitare il proprio diritto difensivo.
Certamente non potrebbe, per principio,
dirsi esaurita – e quindi superflua la prova ulteriore – la istruttoria condotta sulla
base delle sole prove indotte dalla accusa,
dovendosi considerare che queste, anche
se tendenzialmente esaustive, non coprono necessariamente tutti gli elementi rilevanti ai fini del decidere e, in particolare,
le cause di giustificazione, quelle di non
punibilità, le circostanze attenuanti e quelle situazioni di fatto che la giurisprudenza,
condiscendente con la prova per presunzione, relega nell’ambito dell’onere probatorio o comunque di allegazione della parte.
Si è dunque prodotta la nullità denunciata dal ricorrente.
affermato dal primo giudice, a fronte della
indicazione nei motivi di appello di ulteriori
elementi a sostegno della richiesta, quali
lo scarso allarme sociale dell’episodio e la
complessità della normativa.
Anche tale profilo di doglianza è fondato, atteso che, effettivamente, la Corte
d’appello si limita a richiamare il profilo
dell’incensuratezza quale elemento, di per
sé, sostanzialmente neutro, riferendosi poi
all’assenza di elementi positivi suscettibili
di valutazione. La motivazione appare non
adeguatamente motivata, atteso che difetta qualsiasi valutazione in ordine alla rilevanza degli altri fattori attenuanti indicati
nei motivi di impugnazione.
È stato infatti condivisibilmente affermato da questa Corte che è illegittima la
motivazione della sentenza d’appello che,
nel confermare, il giudizio di insussistenza
delle circostanze attenuanti generiche, si
limiti a condividere il presupposto dell’adeguatezza della pena in concreto inflitta,
omettendo ogni apprezzamento sulla sussistenza e rilevanza dei fattori attenuanti
specificamente indicati nei motivi d’impugnazione (v. in termini: Sez. 6 n. 46514 del
23.10.2009). Anche detto motivo di ricorso
è fondato.
5.Procedendo nell’ordine logico e non
cronologico di valutazione dei motivi,
dev’essere, altresì ritenuta la fondatezza del quarto motivo di ricorso.
Il motivo è infondato.
Ed infatti, la Corte d’appello, sul punto, ha adeguatamente motivato in ordine
allo svolgimento da parte del ricorrente
dell’attività di intermediazione; se, da un
lato, emerge che effettivamente il ricorrente provvedeva alla vendita delle ricariche
per il conto di gioco (attività consentita, in
quanto l’art. 7 del decreto direttoriale del
21 marzo 2006 prevede che: “il titolare di
sistema può consentire l’acquisto di ricariche presso la propria sede, anche mediante
Ed invero, la difesa del ricorrente ha eccepito che la motivazione della sentenza
impugnata sarebbe apparente, in quanto
la Corte d’appello si sarebbe limitata, per
relationem, a ripetere pedissequamente
– come riferimento al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche – quanto
6. Merita, poi, di essere trattato, al fine di
circoscrivere l’ambito cognitivo del giudice di rinvio, il terzo motivo di ricorso,
con cui il ricorrente sostiene di non aver
svolto alcuna attività di intermediazione, ma di aver svolto solo la vendita di
ricariche utilizzate successivamente al
fine di giocare, con conseguente esclusione della configurabilità dell’ipotizzato reato per la mancanza di attività di
intermediazione.
interconnessione telematica o telefonica
nonché presso le sale dei concessionari
e presso i punti di commercializzazione. Il
pagamento può essere effettuato con gli
strumenti di pagamento finanziari, bancari
e postali, ovvero per contanti”) rilevante, in
senso sfavorevole al ricorrente, è la circostanza che questi interferisse nella scelta
dell’evento sportivo e nell’individuazione
della quota, attività che integra una forma
di intermediazione illecita, non esaurentesi in un’attività di mero supporto tecnico a
beneficio dello scommettitore.
È, infatti, configurabile il reato di attività
organizzata per l’accettazione e la raccolta,
per via telematica, di scommesse senza autorizzazione, “suo specie” di illecita intermediazione, nella condotta del gestore di
un centro di servizio il quale, anziché limitarsi a svolgere un’attività di mero supporto tecnico a beneficio dello scommettitore,
titolare del contratto di conto di gioco con il
concessionario, interferisca nell’attività di
scommessa del cliente (Sez. 3 n. 42077 del
06.10.2011).
7.L’accoglimento del primo motivo di
ricorso esime questa Corte dall’affrontare, invece, il secondo motivo di
ricorso (v. supra 2.2.), atteso che trova
applicazione, nel caso in esame, il disposto dell’art. 627 c.p.p. comma 1, con
conseguente facoltà per la parte, se
ne farà richiesta, di ottenere la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale
per l’assunzione della prova non potuta
esperire in primo grado per la violazione dell’art. 495 c.p.p. comma 4.
8.La sentenza dev’essere, conseguentemente, annullata con rinvio ad altra
sezione della Corte d’appello di Lecce
per nuovo giudizio.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello
di Lecce.
Così deciso in Roma, il 26 febbraio 2014.
Depositato in Cancelleria il 7 aprile 2014.
19
Giurisprudenza Deontologica
L’Avvocato che assiste prima la coppia nella separazione personale e
poi uno dei coniugi nella revisione delle condizioni, viene sanzionato a
norma dell’art. 51 del codice deontologico forense
La Cassazione ha ritenuto, pertanto, inammissibile il ricorso di un avvocato contro la decisione del Consiglio nazionale forense che lo ha ritenuto responsabile
della violazione dell’art. 51 del codice deontologico per avere difeso una donna
nei confronti del marito nella causa di revisione delle condizioni personali della
separazione, e ciò dopo che egli aveva assistito entrambi i coniugi nel procedimento di separazione consensuale; a nulla rilevando il fatto che l’avvocato abbia
negato di essere mai stato incaricato dal marito di patrocinarlo nel procedimento
di separazione.
Anzi, al riguardo, la suprema Corte ha osservato che per configurare l’illecito di
assunzione di incarichi contro una parte già assistita, non importa stabilire se sussista o meno la prova del conferimento formale del mandato o dell’assolvimento di
un’attività di consulenza, quanto piuttosto se l’avvocato abbia svolto un’attività di
assistenza, anche soltanto formale.
presenta e difende, per delega in calce al
ricorso;
- ricorrente contro
Repubblica Italiana
In nome del popolo italiano
La Corte Suprema di Cassazione
Sezione Unite Civili
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Luigi Antonio Rovelli - 1° Pres.te F.f.
Dott. Mario Adamo - Presidente Sezione
Dott. Renato Rordorf - Presidente Sezione
Dott. Aldo Ceccherini - Consigliere
Dott. Aurelio Cappabianca - Consigliere
Dott. Angelo Spirito - Consigliere
Dott. Paolo D’alessandro - Consigliere
Dott. Giacomo Travaglino - Consigliere
Dott. Alberto Giusti - Rel. -Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 22234 – 2013 proposto da:
MT, elettivamente domiciliato in ROMA,
VIALE PARIOLI 77, presso lo studio dell’Avvocato SQUILLANTE IACOPO, che lo rap20
CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI ROMA, PROCURATORE GENERALE
PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE, CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE;
- intimati avverso la sentenza n. 137/2013 del Consiglio nazionale forense, depositata il
23/07/2013;
udita la relazione della causa svolta nella
pubblica udienza del 25/03/2014 dal Consigliere Dott. Alberto Giusti;
udito l’Avvocato Iacopo Squillante;
udito il p.m. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Tommaso Basile, che
ha concluso per il rigetto del ricorso.
Ritenuto in fatto
1. Il Consiglio dell’ordine degli avvocati di
Roma in data 8 giugno 2010 ha inflitto
all’Avv. MT la sanzione disciplinare della
censura, avendolo ritenuto responsabile
della violazione dell’art. 51 del codice
deontologico per avere difeso FD nei
confronti del marito FL nella causa, introdotta il 26 giugno 2007, di revisione delle
condizioni personali della separazione, e
ciò dopo che, nell’ottobre 2005, egli aveva assistito entrambi i coniugi nel procedimento di separazione consensuale.
2. Il consiglio nazionale forense, con sentenza resa pubblica mediante deposito in
cancelleria il 23 luglio 2013, ha respinto
il ricorso dell’incolpato.
Il Consiglio nazionale forense ha rilevato
che non è importante stabilire se esista
o meno la prova del conferimento della
procura, nel giudizio di separazione personale, da parte del FL, quanto se l’Avv.
MT abbia comunque svolto un’attività di
assistenza, anche solo formale, in favore di una parte nei cui confronti, per lo
stesso oggetto, abbia successivamente
assunto iniziative giudiziarie. E nella specie – ha proseguito il giudice disciplinare – il “dato fattuale ed assorbente” è
costituito dalla circostanza, “oggettiva e
inconfutabile”, che “l’Avv. MT ebbe a raccogliere la volontà del FL di separarsi dal
coniuge ed alle condizioni contenute nel
ricorso predisposto per entrambi o anche
in favore di entrambi e che egli presenziò
all’udienza”. Infatti – ha concluso il giudice disciplinare – l’Avv. MF, per sua stessa
ammissione, ha ricevuto nel proprio studio il FL, sia pure insieme alla moglie, ha
concordato il testo del ricorso ed ha assistito all’udienza entrambi i coniugi.
3.Per la cassazione della sentenza del
Consiglio nazionale forense l’Avv. MT ha
proposto ricorso, con atto notificato il 9
ottobre 2013, sulla base di un unico motivo.
Nessuno degli intimati ha svolto attività
difensiva in questa sede.
Il ricorrente ha depositato una memoria
illustrativa in prossimità dell’udienza.
Considerato in diritto
1. Con l’unico mezzo, il ricorrente denuncia
omesso esame circa un fatto decisivo per
il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 111
Cost. e all’art. 360, primo comma, numero 5, cod. proc. civ. il ricorrente lamenta
che il Consiglio nazionale forense abbia
ritenuto che l’Avv. MT, per sua stessa
ammissione, abbia assistito all’udienza
entrambi i coniugi, laddove l’incolpato
“aveva fermamente negato detta presunta ammissione nel proprio ricorso al CNF
del 5 novembre 2010”. Il CNF non avrebbe tenuto minimamente conto del fatto
che l’incolpato non aveva mai ammesso,
ed anzi aveva sempre negato, la suddetta
circostanza. La motivazione sarebbe pertanto carente, illogica e contraddittoria
perché basata sul presupposto di una
presunta ammissione da parte dell’Avv.
MT che non trova alcun riscontro negli
atti procedimentali. La motivazione risulterebbe altresì viziata perché il CNF ha
ritenuto che la mera presenza di un avvocato all’udienza camerale di separazione
proverebbe che lo stesso abbia prestato
assistenza in favore di entrambi i coniugi,
il che sarebbe apodittico, essendo ben
possibile che un avvocato possa comparire in un’udienza camerale in qualità di
legale di uno solo dei coniugi a tutela dei
diritti di difesa di quest’ultimo, visto che
l’altro coniuge, in siffatto procedimento,
può comparire senza l’assistenza di un
avvocato.
2. Il motivo è inammissibile.
2.1 L’art. 51 del codice deontologico forense
ammette l’assunzione di un incarico professionale contro una parte già assistita
soltanto quando sia trascorso almeno
un biennio dalla cessazione del rapporto professionale e sempre che l’oggetto
del nuovo incarico sia estraneo a quello
espletato in precedenza, fermo il divieto
per l’avvocato di utilizzare notizie acquisite in ragione del rapporto professionale
già esaurito.
In quest’ambito, la stessa disposizione
prevede che l’avvocato che abbia assistito congiuntamente i coniugi in controversie familiari deve sempre astenersi
dal prestare, in favore di uno di essi, la
propria assistenza in controversie successive tra i medesimi.
2.2Il Consiglio nazionale forense, nel confermare la decisione del Consiglio dell’ordine, ha ritenuto integrata la condotta
disciplinarmente rilevante, avendo accertato che l’Avv. MT, dopo aver assistito
entrambi i coniugi - FD e FL - nel procedimento di separazione consensuale, conclusosi con provvedimento dell’ottobre
2005, ha poi patrocinato, nel gennaio
2007, la causa di revisione delle condizioni di separazione, difendendo la sola
moglie contro il marito.
A questa conclusione il giudice disciplinare è giunto alla luce del “dato fattuale ed
assorbente” costituito dalla “circostanza
oggettiva ed inconfutabile che l’Avv. MT
ebbe a raccogliere la volontà del FL di
separarsi dal coniuge ed alle condizioni
contenute nel ricorso predisposto per entrambi o anche in favore di entrambi e che
egli presenziò all’udienza”. A tal fine, il
Consiglio nazionale forense ha sottolineato che dal processo verbale dell’udienza
di separazione consensuale tenuta il 26
ottobre 2005 dinanzi al presidente del
Tribunale di Roma risulta che all’udienza
stessa comparvero i coniugi e vi assistette l’Avv. MT. Ed ha altresì evidenziato che
l’Avv. MT, per sua stessa ammissione, ha
non solo assistito all’udienza entrambi i
coniugi, ma, prima di essa, ha ricevuto
nel proprio studio il FL, sia pure insieme
con la moglie, e concordato il testo del
ricorso per separazione consensuale dei
coniugi.
2.3 Tanto premesso, è esatto che l’Avv. MT,
anche nel proprio ricorso al CNF, “ha
fermamente negato di essere mai stato
incaricato dal FL di patrocinarlo nel procedimento di separazione”; ma il giudice disciplinare ha considerato irrilevante detta
contestazione, sul rilievo che, ai fini della
configurabilità dell’illecito di assunzione
di incarichi contro una parte già assistita,
non importa stabilire se sussista o meno
la prova del conferimento formale del
mandato o dell’assolvimento di un’attività
di consulenza, quanto piuttosto se l’avvocato abbia svolto un’attività di assistenza,
anche soltanto formale.
Né, d’altra parte, appare decisivo il rilievo
che all’udienza davanti al presidente del
tribunale i coniugi potevano comparire
anche senza l’assistenza di un avvocato,
perché il CNF – tenuto conto del tenore del verbale di udienza e del fatto che
l’Avv. MT aveva in precedenza ricevuto il
FL presso il suo studio, sia pure insieme
alla moglie, dove gli interessati si accordavano per depositare un ricorso congiunto volto ad ottenere una separazione
consensuale – ha ritenuto, valutando le
risultanze probatorie, che l’Avv. MT abbia
assistito anche il FL.
In questo contesto, chiedendo di rimettere in discussione la conclusione raggiunta
dal CNF sullo svolgimento di un’attività
di assistenza anche in favore del FL solo
formalmente il ricorrente denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo per
il giudizio. In realtà, egli insta per un sindacato, da parte di queste Sezioni Unite,
sul valore e sulla ponderazione, operata
dal CNF, degli elementi di fatto emergenti
dalle risultanze processuali, il che fuoriesce dall’ambito del controllo devoluto al
giudice di legittimità dal nuovo art. 360
n. 5 c.p.c., nel testo risultante per effetto delle modifiche apportate dall’art. 54
del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83,
convertito, con modificazioni, dalla legge
7 agosto 2012 n. 134.
3. Il ricorso è dichiarato inammissibile.
In mancanza di controricorso da parte degli
intimati, nessuna pronuncia va emessa in ordine alle spese del giudizio.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è dichiarato inammissibile, sussistono le condizioni
per dare atto – ai sensi dell’art. 1 comma
17 della legge 24 dicembre 2012 n. 228
(Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato – Legge
di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma
1-quater all’art. 13 del testo unico di cui al
d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte
del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo
di contributo unificato pari a quello dovuto
per la stessa impugnazione integralmente
rigettata.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte dichiara il ricorso inammissibile.
Ai sensi della’art. 13, comma 1-quater del
d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1 comma 17 della legge n. 228 del 2012, dichiara la
sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente MT, dell’ulteriore
importo a titolo di contributo unificato pari a
quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del 25 marzo 2014.
21
Melius
abundare?
Lettera idealmente indirizzata
all’Avv. Gianni Discacciati
Sappiamo che i Romani affermavano
“melius abundare quam deficere”.
A questo antico monito sembrano ispirarsi taluni, anche colleghi, ai nostri giorni.
Mi riferisco, ad esempio, all’ormai radicata consuetudine di definire “comodato d’uso” l’istituto giuridico disciplinato
dagli articoli 1803 e seguenti del Codice
Civile.
Da giovani ci insegnavano tuttavia
come, al più, si dovesse chiamarlo “prestito d’uso”, in contrapposizione al mutuo
quale “prestito di consumo”.
Visto invece il contenuto dell’articolo
1803, appunto l’espressione “comodato
d’uso” pare, francamente, almeno ridondante.
O mi sbaglio? Se si, farò volentieri ammenda per questa mia critica, peraltro del
tutto benevola.
Altrettanto abituale è divenuta la definizione “reato penale” e non credo per
sottolineare la differenza tra una condotta
criminosa vera e propria ed il “delictum”,
da cui, nel contesto civilistico, deriva la relativa obbligazione risarcitoria.
Si dirà che tanto ci si capisce lo stesso
e che il soffermarsi in proposito è indice di
grande noiosità.
Può darsi, almeno per quel che mi concerne.
Ricordo tuttavia che, ad un esame universitario compreso tra i “fondamentali”, il
professore mi scalò un paio di voti - soggiungo, per cronaca e non per vanità, che
ottenni comunque un ventotto - proprio a
causa di alcune improprietà di linguaggio
in cui ero incappato.
Rammento, almeno all’incirca, le sue
parole :” Un giorno sarete avvocati o magistrati e dovete quindi essere rigorosi nel
linguaggio tecnico”.
Va detto però, per essere estremamente
precisi, che eravamo … nello scorso millennio.
Caro Avvocato,
ho iniziato la mia vita professionale,
quando ancora il praticante nutriva vera
e propria soggezione, soprattutto nei confronti degli avvocati che non fossero anagraficamente a lui vicini.
Il “Lei” era dunque pressoché d’obbligo
verso di essi; lo mantengo anche ora, in segno di riguardo nei Suoi confronti e benché
non sia più un ragazzo.
Del resto pure quando era tra di noi
(purtroppo ci ha lasciati più di vent’anni or
sono), La si guardava, da parte di tutti, con
rispetto, anche se, nel contempo, la Sua
fisionomia ed il modo di porsi suscitava
senso di simpatia e di cordialità.
Lei era infatti abile, ma non cavilloso;
astuto, ma mai orientato alla “calliditas”;
temibile, perché accorto e preparato, ma
non incline a scorrettezze; infine severo e
determinato, ma anche capace di battute,
idonee a sdrammatizzare.
Ricordo un’ udienza istruttoria, lunga e
gravida di tensioni in cui si trattava di un
incidente stradale, verificatosi in prossimità di un certo ristorante ( per la verità
ne ricordo il nome, ma non lo spendo, per
evitare di fare pubblicità).
Congedato un teste da parte del giudice
ed in attesa dell’ingresso del successivo,
Lei sottolineò la prelibatezza dei risotti che
si cucinavano in quell’esercizio che evidentemente conosceva.
Quel commento gastronomico rasserenò,
Enrico Rigamonti
22
almeno per un attimo, gli animi di tutti noi
presenti.
Ho avuto, per anni, il piacere di incontrarLa quotidianamente, visto che anche
Lei era di studio nel grattacielo di Piazza
Manzoni.
A volte appariva burbero, ma quasi subito si scioglieva almeno in un sorriso.
Frequentemente, per esprimere, ma in
maniera scherzosa, stupore e disappunto
per l’andazzo dei tempi, impiegava una curiosa ed antica espressione dialettale : “ O
Signur de Com”, vale a dire “ O Signore di
Como”.
A quel punto, Le rispondevo così come mi
aveva insegnato mia Mamma che, a propria volta, l’aveva imparato penso dai nonni : “Parent de quel de Milan” (“Parente di
quello di Milano”).
Ovviamente nel massimo rispetto dell’Altissimo da parte di Entrambi.
Ricordo poi, che, specie negli ultimi
tempi, il Suo volto esprimeva un compiacimento pudico, ma profondo quando veniva
in Tribunale, insieme ad Anita, in veste di
collega, ma anche di figlia.
Pure attraverso questa legittima soddisfazione, Lei rivelava intensa umanità che
è, in definitiva, una delle caratteristiche più
importanti, al di là del ruolo e del mestiere
di ognuno.
Con affetto.
Enrico
Disegno di Franco Necchi
Viaggio nella storia della musica
Storia di un Re: l’organo
Abbiamo lasciato l’organo intorno al
750-800 d.C. al servizio delle feste profane
nei palazzi e ancora non impiegato in funzioni religiose. Ora vedremo come l’utilizzo
di questo strumento muterà radicalmente,
tanto da far quasi dimenticare il suo passato profano.
Nell’anno 873 d.C. il papa, Giovanni VIII
(872-882), chiese all’arcivescovo Annone di
Freising, in Baviera, un organo e un «artista capace di suonarlo per l’insegnamento
dell’arte musicale a Roma»1. Colpisce il
fatto che il Pontefice abbia dovuto cercare
fuori dall’Italia un organo insieme con l’uomo capace di suonarlo; inoltre la richiesta
«per l’insegnamento» fa supporre che nel
IX secolo l’organo fosse apprezzato non
tanto (o non ancora) come strumento da
chiesa, ma soprattutto per le sue peculiarità educative: chiunque abbia un minimo di
pratica vocale sa come questo strumento,
grazie alla capacità di mantenere un suono
intonato in modo praticamente infinito, sia
il supporto ideale per insegnare a intonare
gli intervalli con precisione.
Intanto, verso la fine del IX secolo, iniziano a circolare i primi trattati tecnici sulle
misure delle canne con i differenti metodi
di fabbricazione degli organi, tuttavia ancora non abbiamo alcun documento che attesti l’utilizzo di questo strumento durante
la messa. E dobbiamo attendere l’inizio del
X secolo per essere certi del suo impiego
nelle cappelle dei conventi, probabilmente grazie all’influenza dei monaci, esperti
costruttori di organi. Ad esempio, quando
nel 915 il conte Adalberto Atto (per alcuni
Azzo) fece costruire un convento sulla rocca di Canossa in onore di Sant’Apollonio,
offrì alla chiesa del monastero un calice,
d’oro e d’argento, e un organo.
Rimanendo nel X secolo, negli Annali
dell’Ordine Benedettino, al capitolo relativo alla vita di S. Osvaldo (†992) - siamo in
Nel tardo Medioevo si costruivano organi di varie
misure: il più piccolo era detto portativo, perché
poteva essere suonato portandolo con una cinghia
a tracolla o appoggiato sulle ginocchia. Questo
strumento poteva essere manovrato da una sola
persona che con la mano destr usava la tastiera
e con la sinistra azionava il piccolo mantice di alimentazione.
Inghilterra- si trova testualmente: «In onore
di Dio e di San Benedetto, e anche per abbellire la chiesa […] egli si procurò trenta
libbre di rame che destinò alla costruzione
di canne d’organo. Le loro punte, orientate verso il basso, sono conficcate molto
strette nei fori corrispondenti e producono,
nei giorni festivi, attraverso l’aria forte dei
mantici, una melodia dolce e affascinante
che si sente da lontano». S. Osvaldo, nato
in Inghilterra da genitori danesi, vissuto
in Francia come monaco e tornato in terra
natia come arcivescovo di York, permette
anche a me, a questo punto della storia,
di porre al lettore una domanda consueta
riguardo l’organo inglese: come e quando
l’organo fu conosciuto in Inghilterra? Come
ha fatto a giungere oltremanica?
Sappiamo che nel corso del 900 il prelato inglese Dunstan (909-988), futuro arcive-
scovo di Canterbury e santo, offrì un organo
al convento di Malmesbury cui appose una
targa di bronzo recante il seguente distico
latino:
«Organa de sancto præsul Dunistanus
Adelmo.
Perdat hic æternum qui vult hinc tollere
regnum.»
«Organo che il prelato Dunstan fece
per il santo Adelmo.
Perda immediatamente il regno eterno chi lo vuole togliere da qui.»2
Dove, per quanto santo, Dunstan maledice chiunque osi mettere mano all’organo
da lui stesso costruito e dedicato all’amico compatriota e grande appassionato di
musica Sant’Adelmo di Malmesbury, che
nelle sue opere ha citato e descritto moltissime volte l’organo3, testimoniando la
sua ammirazione per questo strumento.
Ma, anche Adelmo, come fece a conoscere lo strumento? Aveva forse ascoltato un
1. E. Baluze, Miscellaneorum libri (1678-83) V, p. 490
2. W. Malmesbury, De gestis Pontificum Anglorum in P. L.
CLXXXIX, 1660
3. Cfr. Adelmi opera, pp. 103 355, 356, 466; cfr. testi in J.
Perrot L’orgue de ses origines hellénistiques a la fin du
XIII siécle (1965, Paris, Picard e C.)
23
organo durante i suoi viaggi a Costantinopoli? Lo aveva conosciuto da gente venuta
dall’Oriente? Oppure, davvero, dobbiamo
pensare che l’organo fosse già noto in Inghilterra dopo la metà del VII secolo, vale
a dire ben cent’anni prima del dono di
Costantino a Pipino il Breve nel 757 d.C.?
Nessun documento conferma quest’ultima
ipotesi, ma è utile ricordare che già esisteva una via marittima che collegava direttamente Bisanzio all’Inghilterra. Ed è verso
la metà del X secolo che, nella cattedrale
di Winchester, il vescovo Elfeg (†951) fece
costruire l’organo più grande del suo tempo. Il monaco Volstano (†963) lo descrisse
in un carme latino di 16 distici, grazie al
quale sappiamo che il somiere sosteneva
400 canne metalliche disposte su dieci file
ciascuna di tre ottave cromatiche. Dato che
ancora i tasti si azionavano “tirando e spingendo” serviva l’azione simultanea di due
organisti per suonare questo strumento,
mentre ben settanta uomini robusti dovevano azionare i ventisei mantici disposti su
due piani4.
Certo è che in Inghilterra l’organo nel X
secolo era già utilizzato nelle chiese come
strumento religioso.
Nel frattempo, sul continente, seguendo
l’esempio dell’Inghilterra, anche la Francia
introdusse l’organo nel cerimoniale religioso. Il primo documento che richiama la
nostra attenzione è una lettera dell’abate
Gerbert di Aurillac. La missiva, diretta a
un certo Bernard, cita tale Costantino conosciuto come l’organista dell’abbazia di
Fleury. Forse non tutti ricorderanno che
questo Gerbert, prima abate di Bobbio,
poi arcivescovo di Reims quindi di Ravenna e infine papa con il nome di Silvestro
II (†1003), fu uno tra i massimi scienziati
medievali: abile matematico, scienziato,
studioso e abile costruttore d’organi. Egli
conobbe gli scritti di Erone e di Vitruvio e,
grazie ai suoi contatti con gli arabi, avvenuti probabilmente a Cordova, dove portò a
termine i suoi studi, si cimentò a costruire,
con finalità scientifiche più che musicali, un
organo idraulico5. Era ancora abate a Bob24
bio quando promise di costruire un organo
nel convento d’Aurillac in Auvergne, suo
paese natale. Per tre volte gli ricordarono
la sua promessa, ma abbiamo ragione di
credere che circostante impreviste impedirono all’abate di consegnare l’organo promesso, tanto che nessuno sa se il convento
d’Aurillac abbia mai ricevuto il suo dono.
Quello che sappiamo è che fino alla prima
metà del XII secolo si poteva ammirare nella cattedrale di Reims l’organo costruito da
Gerbert, che dopo ben duecento anni era
ritenuto ancora adeguato a quell’edificio.
E sono proprio i documenti del XII secolo
che attestano, per la prima volta, la diffusione dell’organo nelle cattedrali e nei
grandi monasteri dell’Europa continentale. A questo proposito vorrei ricordare, se
mai ce ne fosse bisogno, come i monasteri
medievali, furono dei veri e propri crogiuoli
culturali, il cui ruolo è stato determinante,
per il corso della Storia europea. E la cosa,
a mio avviso, non è stata ancora del tutto
approfondita.
Alessandro Milesi
4. Cfr. G. Reese, La musica nel Medioevo (Sansoni, Firenze 1960) p. 155; W. Shewring, Quel che fu l’organo per gli
inglesi
5. Cfr J. Perrot, op. cit. pp 289-292
Disegni di Franco Necchi
La mezza luna a
Punta Fram
Dello stimato Collega Avvocato
Armando Panzeri, che ora si gode
il meritato riposo dopo tanti anni
di impegno professionale (anche
all’Ordine) pubblichiamo dei pensieri sulla luna cui si è ispirato a
Punta Fram di Pantelleria.
La luna sorge dalla Montagna Grande, sparata al rallentatore da un obice
sconosciuto. Ha il tondo molto in alto:
è una luna culinaria, sicché, dopo aver
scartato il Moulin Rouge, vien da pensare a una omelette (cosa ci sarà dentro? Escludo subito che possa essere
marmellata; forse, chissà, racchiude i
misteri della Terra (ipotesi suggestiva,
specie per quelli che credono che sia
stata partorita dal ventre, alias Fossa
delle Marianne, della Terra medesima),
ma lei non svela a me l’arcano, allo
stesso modo che non lo rivelò al pastore errante dell’Asia: “Che fai tu luna in
ciel, dimmi, che fai, silenziosa luna?”,
ma lei zitta, imperterrita) cucinata
nell’enorme padellone scuro del cielo
del Grande Chef creazionista.
Intanto che prosegue il suo viaggio
verso occidente compie una lentissima
semipiroetta, e subendo la newtoniana
attrazione fatale cui è sensibile il suo
culo sontuoso e dorato, si curca, come
dicono qui, cioè si corica, e il suo fondo
schiena che all’inizio della traiettoria
puntava in alto, ora sempre più cerca
la terra, il mare. E alla fine del percorso,
un po’ arrossata, forse per la fatica della traversata, va sicura verso la frescura notturna dell’acqua dove si immerge
con un tuffo silenzioso “de cunchéta”,
come direbbe Gilberto Govi.
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www.accademiacarrara.bg.it
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1499-1525
LUGANO
Museo Cantonale d’Arte
dal 27 Settembre 2014
all’ 11 Gennaio 2015
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www.museo-cantonale-arte.ch
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Scuderie del Quirinale
Palazzo delle Esposizioni
dal 25 Settembre 2014
all’11 Gennaio 2015
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info: www.scuderiequirinale.it
info: www.palazzoesposizioni.it
HANS RICHTER
Recensione
LUGANO
Nuovo libro del collega Francesco Giordano
Museo d’Arte
“Ho conosciuto Valentina Cortese” descrive la innocente passione di un giovane per
dal 31 Agosto 2014
al 23 Novembre 2014
l’altrettanto bella e giovane attrice e la timida figura del venditore di giornali e panini
in una stazione ferroviaria.
Il libro contiene altri cinque racconti, due dei quali sotto forma di lettera di orazione.
Nel primo dei cinque è celebrato l’amore per la vita semplice di un tempo non remoto,
con la nostalgia di allora; nel secondo ci si compiace dell’orgoglio di appartenenza
al corpo degli alpini, mentre negli altri trova esaltazione il sentimento dell’amicizia.
info:
www.museo-cantonale-arte.ch
Rettifica
Per errore,
il nome del Dott. Pietro Spera
nella recensione al suo libro di
cui al n. 01/14 di Toga Lecchese
è stato indicato in Damiano.
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