JUS ET FAS COLLANA DI STUDI INTERDISCIPLINARI Direttore Agata C. A M Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” Comitato scientifico Ángela A Universidad de Navarra Maria Pia B Libera Università “Maria SS. Assunta” (LUMSA) di Roma Jesús B Universitat de València Hermann–Josef B Universität Erfurt Gabriella C “Sapienza” Università di Roma Francesco D’A Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” Maria Rosa D S Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” Stelio M Istituto di Studi sui Sistemi Regionali Federali e sulle Autonomie “Massimo Saverio Giannini” (ISSIRFA) Gian Piero M Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” Cesare M Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” Guido S Università degli Studi di Teramo Sandra S Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione del Ministero dell’Interno Elda T B Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” JUS ET FAS COLLANA DI STUDI INTERDISCIPLINARI Il vivace e assai spesso aspro dibattito intorno alla legittimità o meno della presenza di simboli e di riferimenti religiosi in luoghi pubblici testimonia una difficile, quanto ardua, separazione di ambiti. Del resto, non appena si guarda al diritto, alla politica e alla religione, non si può non notare una permanente comunicazione tra le dimensioni. Jus e lex, certo diversi, richiamano comunque l’idea di ordine: ora l’ordine determinato dall’opposizione tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, ora l’ordine posto in via generale e astratta dalla volontà di un’unità politica. E fas è l’assise mistica, invisibile, quell’assise che si ripercuote sul piano del vissuto e che sostiene tutte le condotte e le relazioni, visibili, definite dal diritto. Se così, la complessità del rapporto diritto/religione è tale da non poter essere banalizzata nel suo significato più autentico. La collana di studi interdisciplinari “Jus et fas” si propone di approfondire i profili e le prospettive di questi due ambiti che ad alcuni possono apparire come due mondi differenti e anche opposti, e ad altri simili o convergenti. Nella collana “Jus et fas” il direttore approva le opere e le sottopone a referaggio con il sistema del double blind peer review process, nel rispetto dell’anonimato sia dell’autore, sia dei due revisori scelti, uno, da un elenco deliberato dal comitato scientifico, e l’altro, dallo stesso comitato in funzione di revisore interno. Nel caso di giudizio discordante fra i due revisori, la decisione finale sarà assunta dal direttore, salvo casi particolari in cui il direttore provvederà a nominare tempestivamente un terzo revisore a cui rimettere la valutazione dell’elaborato. Il termine per la valutazione non deve superare i venti giorni, decorsi i quali il direttore della collana, in assenza di osservazioni negative, ritiene approvata la proposta. Sono escluse dalla valutazione gli atti di convegno, gli scritti dei membri del comitato scientifico e le opere di autori di chiara fama. Roberto Platania Carl Schmitt e la teologia politica Copyright © MMXIV ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, /A–B Roma () ---- I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: dicembre Se si studiassero le cose svolgersi dall'origine, anche qui come altrove se ne avrebbe una visione quanto mai chiara. Aristotele, POLITICA, I, 2 Ognuno è tanto grande quanto ciò che nega. Carl Schmitt, Die Sichtbarkeit der Kirche Indice 11 Prefazione 17 Introduzione PARTE I Profili “in disiecta membra”. 23 Capitolo I Propedeutica delle questioni. 1.1. Una premessa (gnoseologica), 23 – 1.2. Sulla superficie del Novecento. Carl Schmittt e “la cultura della crisi“, 29. 33 Capitolo II Teologia politica res mixta. 2.1. Il significato, 33 – 2.2. L’Imperium eusebiano, 44 – 2.3. Eusebio di Cesarea, Padre della Chiesa ed imputato, 53 - 2.4. Il tempo dell’iniquità, 57 – 2.5. La sostanza, 64. 67 Capitolo III Diritto e profanazione 3.1. La dissoluzione, 67 - 3.2. La parola al Nemico, 68 - 3.3. La “scoperta” della coscienza, 72 – 3.4. Il rapporto dialettico tra teologia e diritto, 78 – 3.5. L’inammissibilità scientifica, 80 – 3.6. La liquidazione epigonale, 86. 9 10 Indice PARTE II Gli effetti 91 Capitolo IV Resistenza in nome del Dogma 4.1. L’opposizione politica al Monoteismo politico, 91 - 4.2. La madre di tutte le discussioni. Il Triakontaeterikos Logos di Eusebio, 92- 4.3 Audita altera parte: un glossario per Der monotheismus als politisches Problem, 95 – 4.4. Debiti fuori bilancio, 98 – 4.5. Una escatologia. Due effetti, 108 – 4.6. La diagnosi, 111 – 4.7. Ulteriori notazioni, 119 – 4.8. L’utopia aulica (o della “scienza rischiosa”), 122. 125 Capitolo V Quali prospettive 5.1. Dentro la storia, 125 - 5.2. La sedazione delle discordie, 127 - 5.3. Reviviscenza di un “anacronismo”? Un quesito a schema aperto, 130 – 5.4. Teologia politica come codice di comprensione, 138 – 5.5. L’asserita soppressione della trascendenza, 141 – 5.6. La neutralizzazione, 145 - 5.7. Secolarizzazione e diritto, 152. 163 Capitolo VI Fungibilità del concetto 6.1. Teologia politica e contingenza, 163 – 6.2. Pòlemos e verità, 168 - 6.3. Sovranità, trascendenza, eccezione, 174. 187 Bibliografia Prefazione di Stefano Pietropaoli Nel corso dell’ultimo decennio gli studi dedicati al tema della «teologia politica» si sono moltiplicati con un’intensità senza precedenti. Una semplice ricerca bibliografica condotta sui testi pubblicati in lingua italiana dimostra che alla «teologia politica» sono stati dedicati nei pochi anni del nuovo millennio più contributi che in tutto l’arco del ventesimo secolo. Tale profluvio di saggi, monografie e opere collettanee potrebbe essere considerato come il sintomo di una nuova attenzione critica per un tema antico e pur sempre attuale, un tema, in altre parole, «classico». Ma una simile conclusione, per quanto giustificabile sotto alcuni aspetti, non coglie nel segno. Se è vero che sulla teologia politica si sono esercitati molti e valenti studiosi, ivi compresi autori pienamente affermati nei propri campi disciplinari (soltanto per restare in Italia basti ricordare i nomi di Massimo Cacciari e di Roberto Esposito), è anche vero che nella congerie di materiali oggi disponibili è sempre più difficile rintracciare una minima organicità tematica. Non dubito che possano senz’altro esistere ottime ragioni per rintracciare, come è stato fatto, una dimensione teologico-politica in Platone e in Foucault, in Bellarmino e in Weber, in Rosmini e addirittura in Julian Assange. E neppure voglio mettere in dubbio che un discorso sulla «teologia politica» possa fornire una chiave di lettura della crisi economica o gettare nuova luce sulla teoria dei diritti umani. Tuttavia, mi pare sempre più forte il rischio che l’espressione «teologia politica», invece di definire un «tema» e quindi un «problema», diventi quella che i linguisti definiscono un «sintagma cristallizzato», uno stereotipo di cui si è perso il senso profondo, un’etichetta buona per prodotti che poco o nulla hanno a che vedere l’uno con l’altro. È ovvio che l’espressione «teologia politica» rinvii a una pluralità di temi, e che sia quindi tetragona a riduzionismi e semplificazioni che ne vogliano comprimere il polimorfismo. Ma è altrettanto ovvio che essa non possa neppure diventare una perifrasi dai contorni tanto ampi da risultare indefiniti, un artificio retorico vuoto e quindi suscettibile di essere riempito con qualsiasi contenuto. 11 6 Carl Schmitt e la teologia politica 12 Prefazione La via maestra per evitare un simile risultato è, mi pare, soltanto una: il confronto serio e costante con gli autori che hanno contribuito all’elaborazione del concetto in questione. Questo non significa che occuparsi di «teologia politica» sia possibile soltanto in termini ricostruttivi e «genealogici». Ma significa che chi intende affrontare il tema della «teologia politica» deve necessariamente misurarsi con gli autori che hanno contribuito a determinare le coordinate teoriche fondamentali che tale espressione coinvolge. Nella prospettiva appena delineata, qualsiasi discorso riguardante la teologia politica del Novecento non può esimersi da un serrato confronto con il pensatore cui più di ogni altro essa deve la propria fortuna: Carl Schmitt. Questa difficile — e oggi non più scontata — scelta di fondo contrassegna il testo di Roberto Platania. Nella sua interpretazione del problema della teologia politica, Platania riconduce il “classico” tema schmittiano nell’alveo degli studi ad esso dedicati nel corso del Novecento, che erano stati caratterizzati dal Leitmotiv della polemica tra Carl Schmitt ed Erik Peterson. Come il lettore può intuire sin dalle prime pagine del testo, si tratta di una scelta perfettamente consapevole dell’autore. Una scelta, questa, che Platania motiva con grande e sincera modestia, quasi a voler dire che i tentativi di reinterpretare nel tempo attuale il tema della teologia politica devono essere lasciati a chi è sufficientemente attrezzato per reggere il confronto con gli autori che ne hanno segnato la storia. Tuttavia, vi è dell’altro. Dietro alla sua proposta interpretativa può essere riscontrato un senso di disagio verso l’eccessiva sbrigatività con cui il “vecchio” problema della teologia politica è stato liquidato negli ultimi anni, nell’affannoso e vano tentativo di liberarsi definitivamente da un paradigma — quello della modernità — sentito sempre più asfissiante. Con questo volume l’autore cerca dunque di riannodare fili troppo rapidamente recisi, in una prospettiva che potrebbe sembrare ad alcuni anacronistica, e che invece a mio parere rivela una forte sensibilità storica. Nelle pagine che Platania ci sottopone, il problema della teologia politica rivela infatti come il superamento del “moderno” sia tutt’altro che una partita chiusa. Se, infatti, questo volume non si propone di leggere il tema della «teologia politica» in una prospettiva attualizzante, non è soltanto perché tale compito è considerato dall’autore al di là dei propri obiettivi, ma è anche — e forse soprattutto — perché per Platania l’epoca che stiamo attraversando non è ancora pienamente ascrivibile al post-moderno. Ecco dunque che la migliore chiave di accesso alla teologia politica si rivela ancora oggi il confronto tra Carl Schmitt ed Erik Peterson. La Prefazione 13 polemica che li vide protagonisti anima uno spazio significativo del lavoro di Platania, perché in essa egli individua il senso profondo del problema della teologia politica del Novecento: la questione del rapporto tra trascendenza, ordine politico e ordinamento giuridico. A differenza di molti autori, Platania infatti non si limita a considerare le due polarità intrinseche del problema — il «teologico» versus il «politico» —, ma tiene costantemente presente che la teologia politica, in quanto forma con cui l’Occidente ha pensato il potere, investe il pensiero giuridico della modernità. In questo senso, l’immagine di Carl Schmitt che ci viene restituita è quella di un giurista (o per usare una sua autodefinizione, quella di un «teologo della giurisprudenza») che, consapevole della crisi terminale di un’epoca straordinaria del razionalismo occidentale, ha cercato nuove risposte al problema del «giuridico». La scelta di mettere in primo piano la prestazione teorica schmittiana in quanto espressione di un particolare pensiero giuridico rivela una condivisione da parte dell’autore del peculiare approccio schmittiano al diritto. La centralità della decisione, la pregnanza del caso di eccezione, il dilemma tra trascendenza e realizzazione del diritto, la non corrispondenza tra nomos e legge, sono tutti elementi inconciliabili con i canoni del giuspositivismo normativistico. Si spiega quindi da sola la chiara presa di posizione a favore di Schmitt nella polemica che oppose questi a Peterson. Se sul versante teorico-giuridico il principale bersaglio polemico schmittiano era rappresentato dalla «dottrina pura» di Hans Kelsen — che aspirava alla creazione di una scienza giuridica sublimata dalla scorie politiche e morali —, sul versante teologico Schmitt non poteva condividere il progetto petersoniano di una «teologia pura». Peterson vedeva nella dottrina schmittiana della sovranità il rischio della giustificazione di uno sciagurato dispotismo. Sostenendo la «impossibilità teologica di una teologia politica», egli intendeva preservare il messaggio evangelico da ogni deformazione ideologica contingente. A questo fine, egli contrapponeva il dogma trinitario alla mitizzazione del sovrano in chiave monoteistica, finendo col ritenere la «monarchia divina» ultimo e necessario esito di ogni teologia politica. La differenza tra le posizioni di Schmitt e di Peterson trova dunque una immediata corrispondenza nelle divergenti valutazioni dei due autori sulla figura di Eusebio di Cesarea. Come ricorda Platania, Peterson condanna radicalmente non soltanto le posizioni filo-imperiali di Eusebio, ma la chiesa costantiniana in generale, in quanto compromessa con il potere secolare. 8 Carl Schmitt e la teologia politica 14 Prefazione Eusebio — sostenitore di una posizione di ascendenza monarchiana e quindi in rapporto problematico con la teologia trinitaria — è considerato responsabile di un’imperdonabile commistione tra teologia e politica e, cosa ancora più grave, di aver condizionato con la propria dottrina la successiva storia del cristianesimo. L’avversione di Peterson celava una presa di posizione che non è possibile considerare impolitica. Pur preferendo, prudentemente, mantenere il proprio discorso in ambito teologico, Peterson intendeva esprimere la propria opposizione al nazionalsocialismo. Come ha notato Schmitt, la «liquidazione» di Eusebio era una risposta politica a una domanda politica. La via d’uscita proposta da Peterson passava dal recupero di un dogmatismo capace di fare «sicura purezza» a un «teologo puro». La replica di Schmitt è lapidaria: una decisione su ciò che è impolitico comporta sempre una decisione politica. La teologia, nel momento in cui pretende di separarsi in maniera assoluta e definitiva dalla politica, non può più «liquidare» la questione della teologia politica. Inoltre, la identificazione operata in chiave polemica da Peterson tra monoteismo puro e monarchia imperiale, non fa che confermare la tesi della derivazione dei concetti politici da concetti teologici sostenuta da Schmitt, che ha buon gioco nel replicare che il monoteismo trinitario richiede forme politiche complesse e non monistiche. Ma non basta: secondo Schmitt, la fuga verso una dimensione teologica pura spalanca le porte al dominio della tecnica. Nella lettura proposta da Platania, Peterson non sembra aver compreso la crisi della modernità con la stessa profondità dimostrata da Schmitt. La posta in gioco, per quest’ultimo, non era soltanto il futuro dello Stato liberale o il contenimento del neopaganesimo nazionalista, ma era il destino stesso dell’Occidente. In questo senso, se da una parte Kelsen tentava di liberare il diritto da ogni riferimento al trascendente, dall’altra Peterson tentava di liberare la teologia da ogni riferimento al politico. Si trattava di due tentativi speculari ma nel contempo accomunati dalla negazione di una corrispondenza reciproca necessaria, rispettivamente, tra religione e diritto e tra religione e politica. Al contrario, Schmitt ritiene che non vi possa essere altra strada che mettere in luce il ruolo fondamentale che la trascendenza gioca in ogni ordine politico e in ogni ordinamento giuridico. Egli è certo consapevole del rischio insito nella giustificazione sul piano teologico di un regime politico, e tuttavia non può che registrare come la sovranità, in quanto espressione di un potere originario, conservi sempre una «eccedenza» rispetto alla forma in cui si esprime. Il diritto conserva in sé un elemento trascendente, perché — e in questo sta l’analogia con la teologia — la Prefazione 15 mediazione tra idea del diritto e realtà giuridica corrisponde al processo di secolarizzazione di un’istanza trascendente. Sempre secondo Schmitt, il sovrano ristabilisce l’ordine partendo da una situazione «eccezionale». Egli è dunque contemporaneamente “fuori” e “dentro” l’ordinamento giuridico normalmente vigente. Con il suo atto volitivo fondamentale — la decisione — il titolare della sovranità risolve il problema del passaggio dalla natura ideale del diritto alla sua espressione concreta. In altre parole, secondo Schmitt, il diritto richiede una decisione concreta che implica necessariamente un momento di indifferenza contenutistica. La decisione, in quanto atto formale privo di un contenuto sostanziale predefinito, deriva da un “nulla normativo” che coincide con la concretezza del reale, la cui massima espressione è l’eccezione. Soltanto così è possibile comprendere giuridicamente lo stato di eccezione, e dunque la anormalità di una situazione concreta: la “forma giuridica” della decisione non è una forma vuota, ma è una forma originata dall’eccezione del caso concreto. È in questa prospettiva che Schmitt sostiene che «lo stato di eccezione ha per la giurisprudenza un significato analogo al miracolo per la teologia». Come il miracolo, manifestazione della sovranità divina, “sospende” le leggi naturali, così lo stato di eccezione, espressione della sovranità terrena, sospende le leggi umane. Ma se la teologia può limitarsi a richiamare un principio trascendente, la teoria giuridica deve trovare anche un nesso con la realtà. Come ricorda Platania, l’analisi della crisi della trascendenza che, in particolare con l’illuminismo, ha segnato la modernità, ha portato Schmitt a confrontarsi costantemente con autori “controrivoluzionari” come Louis de Bonald, Joseph de Maistre e Juan Donoso Cortés, accomunati tanto dalla contestazione del deismo razionalistico (che escludeva qualsiasi intervento di Dio nel mondo e dunque rifiutava tanto il “miracolo” quanto l’“eccezione”) quanto dalla riproposizione della «personalità» del potere sovrano incarnato dal monarca. Nell’affrontare il tema della teologia politica, Schmitt si concentra sul concetto di sovranità, interpretandolo come riaffermazione del necessario nesso tra teologia, politica e diritto. Egli mette così in evidenza l’insufficienza di un’ermeneutica immanentistica per impostare il problema dell’ordine moderno. La teologia politica schmittiana è dunque la chiave interpretativa della modernità nel momento della sua crisi terminale. 10 Carl Schmitt e la teologia politica 16 Prefazione Come costantemente ricorda Platania, Schmitt era un «giurista». La sua ricostruzione, che fa emergere come la scienza giuridica moderna si sia appropriata di alcuni tratti fondamentali della potestas spiritualis della Chiesa medievale, non può essere interpretata (nel modo suggerito da Peterson) come un «furto sacrilego». Si tratta, piuttosto, di un ultimo, estremo tentativo di salvare la tradizione del razionalismo occidentale. Il prezzo da pagare per rimediare all’assenza di un fondamento trascendente dell’ordine politico-giuridico è rappresentato dalle implicazioni “personalistiche” e “soggettivistiche” che la concretizzazione del diritto comporta. E se questa prospettiva, in cui la razionalità ha a che fare più con la carnalità della storia che con la fredda logica della tecnica, si è rivelata perdente, questo non vuol dire che non fosse animata da una visione lucidissima del proprio tempo. Si tratta soltanto di uno dei molti problemi e delle mille contraddizioni che la parabola intellettuale di Schmitt ci mette davanti ancora oggi. Il testo di Platania ci consente dunque di riflettere ancora una volta su Carl Schmitt, credente eppure scomunicato, animato da un radicale pessimismo antropologico ma confidente nella redenzione, cattolico ma sempre attento al pensiero di autori non cattolici come Jacob Taubes, Hans Blumenberg, Karl Barth, Friedrich Gogarten, Walter Benjamin. Introduzione Il proponimento di redigere questo scritto è scaturito dallo sviluppo di certi interrogativi sui meccanismi “esistenziali” del diritto, interrogativi ai quali l’immodesto scriba ha tentato dare una qualche collocazione in questo esangue “prontuario”: sia chiaro, solo nel remoto intento di veder frenare, certamente su una scala molto piccola e colloquiale, la rimozione dell’arcanum giuridico, in controtendenza con le sollecitazioni e le blandizie della società del vuoto “fare”. Lo svolgimento del tema – ostico e inflazionato in pari tempo - ha condotto la scia argomentativa assai lontano, tanto da non tardare ad incontrarsi con la politica. Ciò, a parte la sensibilità di chi scrive, forse proprio perché - omnibus perpensis - necessità e decisione, forme e conflitto, salvezza e differenza si compenetrano nel profondo. E' stato così possibile e necessario, volendo ricercare un approdo, disegnare una sorta “teatro della memoria”, del quale si è voluto dare atto in questa rassegna. In tal senso il lavoro ha voluto costituire l'esito di un orientamento, mai insensibile di fronte alla tentazione di compiere qualche escursione. Il pericolo era che il quadro d'insieme disegnato potesse sconfinare – oltre i limiti del ragionevole – dal diritto a ciò che a prima vista sembrerebbe stargli lontano, per esempio nella teologia fondamentale o in altre forme di deduzione della fede, di pensiero e di “discorso” intorno alla fede. Il risultato che si dà al lettore con questo strumento offre la possibilità di stabilire se le tessere del mosaico siano state composte con equilibrio e pertinenza. 17 12 Carl Schmitt e la teologia politica 18 Introduzione Non possiamo ritrarci dal riconoscere che l'odierna monografia – che potrà anche sembrare un sussidiario ambizioso ed incompleto – paga un chiaro pegno alla simpatia in vinculis per lo studioso di Plettenberg. Quel che si è scritto, crediamo, ha però svelato un dato oggettivo, ovvero che anche il più sereno tentativo multidisciplinare – fatalmente obbligato nel caso di chi voglia accostarsi a Schmitt - si porta dietro uno lungo strascico di postille, di dissensi e di polemiche. Posizionare in un modo o in un altro questo o quell'aspetto dell’argomento è un compito che, per chi voglia porsi l'obiettivo di svelare le tesi teologico-politiche, fa i conti anche con i temi della creazione e della rivelazione, rendendo necessario un terreno comune di convergenza sotto il profilo metodologico. Le cose si vedono molto diversamente a seconda che si sia giuristi “puri”, filosofi del diritto, politologi, costituzionalisti, sociologi della religione, studiosi della “fenomenologia del sacro”, teologi morali, patrologi, biblisti e così via. La celebre diatriba tra Erik Peterson e Carl Schmitt – iniziata nel 1935 dal teologo, nelle circostanze che vedremo – e che negli anni ha assunto un valore emblematico - ha sollecitato una particolare attenzione che coinvolge la storia di entrambi i protagonisti. La divergenza ha implicato la figura di Eusebio di Cesarea, attorno alla quale le pagine che seguono condurranno con gradualità il lettore. Il piano più pregnante della vicenda che ci interessa sta nella inconciliabilità di due diversi modelli della Chiesa, della storia e della politica che vennero alla luce proprio attraverso il Padre della Chiesa nel ruolo di casus belli,. Su Peterson può dirsi che, pur non avendo un “grande pubblico”, ha offerto nel tempo spunti di apprezzata ricchezza. Qui tutti i suoi materiali teorici non potevano essere investigati e forse neppure sono stati proporzionatamente messi in rilievo. A ben vedere, anche il solo profilo di Peterson presenta difatti una propria complessità. Morto ad Amburgo nel 1960, dopo essersi stabilito per diversi anni in Italia, il teologo ha attraversato non poche difficoltà personali, sperimentando una certa incomprensione negli ambienti della Curia di Roma. Il suo pensiero ha uno stretto addentellato con la crisi della teologia liberale, ma percepisce l'influenza del pietismo tedesco per cui affronta diversamente il lascito ottocentesco rispetto a Karl Barth, che ne è il grande contestatore. La sua concezione di dogma, come espressione della cogenza assoluta della rivelazione cristiana, resta un tassello non secondario del patrimonio teologico contemporaneo. Si fa oggi notare che sull'importanza della liturgia nella Chiesa Peterson ha scritto cose fondamentali che sono riprese, in via mediata, nella costituzione liturgica. Ed Introduzione 19 è sempre su di lui che si registra una rinnovata attenzione, diretta a trarlo fuori da una certa “nicchia” nella quale la critica lo ha nel tempo immeritatamente collocato, a volte considerandolo – per le sue posizioni ed i suoi interessi - anacronistico e “superato”. Della sua ricchezza di spunti una testimonianza che rende giustizia è data dal lavoro teologico di Joseph Ratzinger, che si è confrontato con diversi dei temi affrontati da Peterson nel corso del suo cammino. Più conosciuto e dibattuto Schmitt, sul quale in questi anni si sta scrivendo molto. Pur omettendo qui ogni cenno biografico corre l'obbligo di rilevare che l'ampio orizzonte teorico e la sua stessa erudizione onnivora costituiscono una fonte di continue riflessioni, di riferimenti paralleli, a volte tutti da sviscerare. Oltre a rendere necessaria una preparazione a tutto campo, storica, politologica, filosofica e letteraria, per la quale si rischia una insana dispersione. Al riguardo a noi basta confermare che queste pagine si concentreranno solo sugli aspetti della sua opera ritenuti maggiormente significativi rispetto alla nostra indagine. A tutti gli effetti, parlare di Schmitt significa coinvolgere i suoi critici e i suoi interlocutori. Gli avversari di vaglio debbono a questo studioso le ricchezze intellettuali e le sfumature dialettiche contenute in opere ed interventi che, a parte le contingenze, sono stati dati alla luce per cercare di confutarlo. In questo stesso modo si è dovuta riconoscere la sua centralità nel panorama della cultura occidentale. Accostarsi a Schmitt con la volontà di afferrarne i convincimenti più radicali e profondi richiede senza dubbio la conoscenza dei protagonisti del suo tempo. Parliamo di Hans Kelsen, Martin Heidegger, Karl Loewith, Walter Benjamin, Ernst Junger, Leo Strauss e tanti altri. Ma non dovremmo neppure dimenticare nomi più o meno “eccentrici”, quelli dei personaggi a cui Schmitt ha dedicato ripetute riflessioni e l’importanza dei quali ha un senso soprattutto nello Schmitt “privato”, se questa definizione ha una sua plausibilità: Max Stirner, Theodor Daubler, Konrad Weiss. Tutto ciò a voler tacere dei grandi nomi del passato che sovrastano lo scenario, tra i quali affiorano – come ben sanno i conoscitori del giurista - Jean Bodin e Thomas Hobbes. Tutti costoro, nella loro eterogeneità, obbligano a sottolineare appunto quanto non sia semplice una reale comprensione a tutto campo dell'opera schmittiana. Nel nostro caso la deliberata economia di certi 14 Carl Schmitt e la teologia politica 20 Introduzione riferimenti ha concesso la possibilità di questa epitome ed ha forse favorito l’alleggerimento teoretico delle questioni sul tappeto. Con ciò, tra i demeriti, si è almeno beneficiato della fattiva deflazione di un contenzioso complicato, pur con una parte dei quesiti - più o meno essenziali - rimasti appunto convenientemente sospesi a metà. Tra questi, per fare un solo esempio, la difficile sintesi tra lo Schmitt cattolico e lo Schmitt esoterico, segnata dall'impervia percorrenza di un itinerario interiore oscillante tra questi due poli, il secondo dei quali è stato – anche dagli studiosi più appassionati - più intuito che oggettivamente dedotto. E se – anticipando qui il tema, uno tra i tanti - a nostro giudizio mancano i dati oggettivi a legittimare la figura di uno Schmitt gnostico – come appunto di seguito sosterremo, non difettano in via indiretta gli indizi per dedurne una singolare (o contraddittoria) contiguità rispetto ad un sapere altro, caratteristico di tutta un'epoca in ebollizione. Se passiamo sinteticamente agli aspetti metodologici, precisiamo di esserci attenuti al principio della maggiore comodità di consultazione da parte del lettore, riportando nelle note e nell’appendice bibliografica soltanto quelle fonti accessibili alla pluralità degli interessati. Lo specialista ben saprà dell’esistenza di fonti straniere ancora non tradotte e portatrici di contributi di spessore. Resta da esternare il personale apprezzamento per l’attenzione critica fornita a margine delle presenti pagine dal Prof. Stefano Pietropaoli, dal Prof. Giuseppe Ruggieri, dal Dr. Enrico Bini e dal Dr. Marco Pratesi. Unisco a costoro il Prof. Massimo Iiritano e la Dr.ssa Rita Fulco. L’autore
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