Download - Ordine al Merito Militare Generalissimo Bartolomeo

ALDO COLLEONI
Il tesoro di Montona d’Istria:
l’altare da campo di
Bartolomeo Colleoni
Edizioni Italo Svevo - Trieste
2008
In copertina: Bartolomeo Colleoni, d’Angiò e Borgogna, Comandante
Generale delle armate della Serenissima, appartenente alla nobile famiglia dei
Colleoni feudatari di Bergamo, Lemini, Tagliano, Trezzo, Antegnate,
Malpaga per editto Imperiale di Federico II di Svevia del 1224
© 2008 by Edizioni «Italo Svevo» Trieste, Corso Italia, 9 (Galleria Rossoni)
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2
INDICE
1. Introduzione ............................................................................................ pag. 7
2. Bartolomeo Colleoni a 500 anni dalla morte............................................. 11
3. Bartolomeo Colleoni nella poesia .............................................................. 14
4. Il Colleoni, mecenate, statista e uomo di fede ........................................... 18
5. L’incarico affidato al Colleoni da Papa Paolo II ....................................... 26
6. Tra le rocce un “nido” inespugnabile: il castello di Predjama ................. 29
7. A Montona d’Istria il più prezioso dei superstiti cimeli colleoniani........ 33
8. L’altare da campo tra storia e leggenda ..................................................... 37
9. Bartolomeo d’Alviano................................................................................. 50
10. Conclusioni ................................................................................................ 53
11. Allegati....................................................................................................... 61
12. Appendice iconografica ............................................................................ 84
13. Bibliografía ................................................................................................ 95
3
in memoria
dello scrittore bergamasco Angelo Colleoni
nel centesimo anniversario della nascita
1.
Introduzione
Montona d’Istria custodisce un tesoro di inestimabile valore storico
ed artistico1. Sono pochi i cimeli del comandante dell’esercito della
repubblica di Venezia, Colleoni, conservati parte a Vienna, parte a
Londra, alcuni a Bergamo2. L’altare da campo è indubbiamente il più
prezioso, donato dal generale Bartolomeo d’Alviano alla chiesa di
Montona nel 1509, mentre alloggiava in Casa Pamperga3.
1
La data di donazione dell’altarino è riportata da MORTEANI L., Storia
di Montona, Trieste, 1895 e Caprin G., L’Istria nobilissima, Trieste, 1907, p.
43; Montona – Pala di lamina d’argento indorato dell’altare da campo che
fu del Colleoni
2
L’altare venne esposto alla sesta Triennale di Milano
3
«Vediamo ora un po’ chi erano i Pamperga. Dal loro nome possiamo già
persuaderci ch’essi erano discendenti di qualche ministeriale calato nell’Istria
col favore dei duchi tedeschi. Tedescamente da “Bamberga” (Baviera) da
prima furono detti “Bamberger”, appellativo corrottosi in Pamperga o
Pampirga. Col tempo essi divennero ricchi e buoni sudditi veneziani; un ramo
si stabilì nel Friuli, ma nell’Istria questa famiglia giunse fino ad avere nove
rami.
Poche indicazioni tuttavia ho potuto raccogliere su di essi e non prima del
1465, anno in cui un Nicolò di Bartolomeo ebbe in dono da un suo parente,
Federico qm Acacio, il castello di Racizze. Un altro Bartolomeo, che non può
essere il padre di Nicolò anzidetto, come indica il Morteani, difende nel 1480
il castello di Raspo. Nel 1586 è vicecancelliere a Montona Francesco
Pamperga. Un Giulio Pamperga viveva nel 1506 e un altro Giulio nel 1625 è
graziato dal bando e serve fedelmente la Repubblica. Dell’agosto 1600 è una
lapide sepolcrale di un Tiberio Pamperga da me notata nella Chiesa dei Servi
di Montona, nella quale vidi pure altro sugello di Caterina Pamperga figlia di
Gasparo, agente del Comune. Il Morteani nomina inoltre un Alessandro
notaio ed un Girolamo, pure agente del Comune di Montona, nel 1606. In
complesso dunque ricchi e stimati cittadini questi Pamperga, ma nulla di
eccezionale quali uomini d’arme, che avessero potuto eccellere agli occhi
dell’Alviano. Tutt’al più si potrebbe pensare a quel Bartolomeo del 1480, che
se non già morto, nel 1508 mi pare dovesse essere già anziano. Ammesso
anche che i Pamperga abbiano avuto una bella e comoda casa, non trovo i
titoli che avrebbero potuto persuadere l’Alviano non solo ad accettare per uno
o due giorni la loro ospitalità, ma neppure il motivo di donare loro l’altarino
da campo arredo sacro di speciale carattere e non oggetto da darsi in regalo.
Se qualcuno dei Pamperga aveva combattuto coll’Alviano in modo da
distinguersi, anzitutto la storia ne saprebbe qualcosa, poi è certo che il
generale avrebbe pensato piuttosto a donargli una spada, un pugnale, qualche
gioiello, come usava allora, anziché l’altarino, men che meno poi
7
Come ricordava il vescovo di Cittanova Tommassini (1646):
«Nella sagrestia… una palletta d’argento, che si apre in due parti,
ch’era del famoso capitano Bartolomeo da Bergamo, generale di genti
venete, che si serviva a farsi dir messa con l’altare portatile in
campagna, donato all’Alviano, che lo donò a questo luogo, mentre si
trovava qui alloggiato in Casa Pampergi. In questa palletta vi è la
figura del Bartolomeo suddetto»4.
Per il generale d’Alviano era trascorso solo un anno dalla vittoria
conseguita nel Cadore nella quale aveva sconfitte le truppe di
Massimiliano I, consentendo ai veneziani di occupare tutto il Friuli, di
assediare il castello di Cormons e dopo aver guadato con la cavalleria
l’Isonzo a Sagrado, iniziare il bombardamento del castello di Gorizia,
grazie all’utilizzo dell’artiglieria mobile inventata dal suo
predecessore Bartolomeo Colleoni.
La guarnigione austriaca si arrese il 22 aprile 1508, provocando di
conseguenza la caduta dei castelli di Duino, Riffemberg, Vipacco e
Trieste e aprendo la strada alle truppe venete per la conquista di tutta
l’Istria5.
quest’ultimo, se l’Alviano era persuaso che di esso si era servito in campo il
grande Colleoni! E il mio dubbio cresce quando penso che l’Alviano
trovandosi a Montona avrebbe fatto uno sgarbo al podestà, discendente da
vecchia famiglia nobile veneziana, ove non avesse accettato l’ospitalità nel
vasto e sicuro palazzo podestarile tutt’ora esistente. Ivi il generale non solo
sarebbe stato ospite gradito, ma di più ospite di diritto. L’elenco dei podestà
di quel tempo segna Alvise Pizzamano (1505 – 07) e Francesco Gritti (1508
– 09)», in ALISI A., Il presunto altarino da campo colleonesco di Montona
d’Istria, estratto da Bergomum, v, XI – luglio-settembre 1936 XIV, n. 3, pp. 7
-8
4
Cfr. KANDLER P., Notizie storiche di Montona, Trieste, 1875 e ancora
MORASSI A., L’altarolo portatile del Colleoni a Montona, in Dedalo, Fasc.
IV, Anno IV, MXMXXIII
5
Cfr. in appendice iconografica un ritratto severo di Bartolomeo
d'Alviano, valoroso architetto ed eccellente condottiero che nel 1490
ricostruisce il castello d'Alviano (tra Lazio ed Umbria) dove oggi si trova un
museo dedicato a lui ed ai capitani di ventura umbri. Uomo di grande autorità
e virtù, contribuì ad armare ed addestrare alla svizzera le fanterie veneziane.
Esperto nel fortificare un accampamento, nella scelta delle posizioni e nel
rimaneggiare i fortilizi, adattandoli ai continui progressi delle artiglierie. Al
servizio dei veneziani, nel 1505 è a Gradisca d'Isonzo per rafforzare i confini
ed impedire avanzate dei turchi. Nel 1508 fa munire la fortezza di
Chiusaforte contro gli Imperiali; assale Cormons, ottiene la resa di Pordenone
e di altri castelli (tutti territori della casa d'Austria). Assedia Trieste, entra in
Istria, ottiene Pisino, Fiume e Postumia. Nella basilica di San Marco gli
vengono consegnate lo stendardo e il bastone di governatore generale. Viene
nominato signore di Pordenone dove si trasferisce con i suoi familiari. Nel
1514 tenta di conquistare Gorizia ma deve ritirarsi.
8
Come ricorda Alisi (1936): «Mi sia ora concesso di seguire
l’Alviano dettagliatamente nella sua fortunata impresa contro gli
imperiali attenendomi alle scrupolose note del Diario dell’udinese
Girolamo Coletti, controllate già dal Benussi.
Il generale veneziano sbaragliò e battè con una rapidità
stupefacente l’esercito nemico; nell’ultimo periodo la flotta e le truppe
di sbarco veneziane cooperarono validamente agli ordini di Girolamo
Contarini. L’azione ebbe un inizio cauto e lento nel 1508, quando
Massimiliano I, desideroso di recarsi a Roma, per essere incoronato
come i suoi predecessori, si propone di aiutare nel contempo i
fiorentini in guerra coi pisani. Venezia gli nega il passaggio con tanti
armati e l’Alviano si avvia subito per le valli cadorine con 1800 fanti
guidati da Pietro del Monte e 200 stradiotti agli ordini del Paleologo e
del Busicchio. Trovato il favore degli alpigiani questo piccolo esercito
investe e prende Pieve del Cadore, e si getta sulle truppe tedesche
sorprese, che prendono uno dei loro capi, Sisto Trautson. L’Alviano
scende poi per Friuli e giunge dinnanzi Cormons con nove bandiere di
fanti e mille cavalli, facendo capitolare il castellano di Duino, Giorgio
Hofer. Rapidamente si arrendono all’Alviano Gorizia, Vipacco,
Postumia e, coll’aiuto del Contarini, Trieste e Fiume, sicchè
Massimiliano I è ridotto a chiedere una tregua, che avrebbe dovuto
durare tre anni, firmata l’11 giugno 1508 nel Convento di S. Maria, fra
Riva ed Arco, presso il Lago di Guarda.
Come si vede, appena nell’ultima fase della guerra l’Alviano s’era
avviato verso l’Istria, per unirsi probabilmente col provveditore
Contarini. L’assedio di Trieste finì il 6 maggio 1508 colla presa della
città; al 9 giugno i veneziani conquistarono Postumia; nell’Istria,
Piemonte, Visinada, Madonna dei Campi, Torre del Quieto, Medolino
spontaneamente si davano ad essi, mentre quelli di Pirano, ritornati
dall’assedio di Trieste, subito si gettavano su Momiano e lo
prendevano. La contea di Pisino doveva però rimanere un anno solo
sotto la Signoria di S. Marco.
L’unico spazio di tempo in cui l’Alviano avrebbe potuto esser
ospite dei Pamperga a Montona, che era borgo bene fortificato, credo
non si possa porre che fra il 18 maggio, giorno in cui fu presa Pisino
dalle genti del Contarini, e il 27 successivo, quando i veneziani
entrarono in Fiume. Ma in quei nove giorni i due dirigenti delle forze
armate veneziane avevano certamente parecchio da fare. Oltre alle
preoccupazioni logistiche v’erano quelle amministrative, perché il
Senato era intransigente e nelle terre conquistate esigeva l’immediata
introduzione delle leggi, la sollecita istallazione degli uffici. Non v’è
quindi dubbio che intervenissero l’Alviano e il Contarini assieme ai
provveditori inviati da Venezia, Secondo di Cà Pesaro e Andrea da
Mula, quando i Commissari istituirono già in quei giorni i due uffici
9
camerari, confermati dal consiglio dei Pregadi nell’agosto, uno a
Pisino per le terre al di qua del Monte Maggiore e del Caldara, ed uno
a Fiume per quelle al di là di quei monti. Non rimaneva certo molto
tempo per oziare, anche se la distanza fra Pisino e Montona non è che
d’una ventina di chilometri»6.
Pertanto, sulla presenza di d’Alviano a Montona d’Istria, non vi
sono dubbi. Tutti i cronisti dell’epoca e gli storici che studiarono il
periodo confermano la presenza del comandante nella rocca di
Montona.
6
ALISI A., Il presunto altarino da campo colleonesco in Montona
d’Istria, estratto da Bergomum, vol. X, luglio – settembre 1936 – XIV, n. 3
pp. 6 - 7
10
2.
Bartolomeo Colleoni a 500 anni dalla morte7.
Chi era veramente Bartolomeo Colleoni, proprietario dell’altare da
campo conservato a Montona d’Istria? Anche la sua sepoltura è
avvolta nel mistero e solo recentemente è stato ritrovato il corpo.
Il 15 giugno del 1922 Vittorio Emanuele III in visita alla Cappella
Colleoni in Bergamo, di fronte ai due sarcofaghi dell’Amadeo in uno
dei quali si supponeva giacessero le spoglie del Condottiero
bergamasco, d’un tratto, rivolto all’onorevole Belotti, chiedeva: «È
deposto nell’arca superiore o inferiore?». Né il parlamentare, né il
Nobile Alessandro Colleoni, né gli altri accompagnatori seppero
rispondere. Chi avanzava un’ipotesi, chi altra. Il sovrano concludeva
bruscamente. «Mettevi d’accordo». Partito il Re le due arche furono
scoperchiate. Stupore, costernazione, erano vuote. Da quel giorno,
autorità, studiosi, cittadini non fecero che chiedersi: «Dove sono finiti
i resti del condottiero?». Si ricordò che il cardinale Carlo Borromeo in
visita apostolica a Bergamo nel settembre del 1575 aveva ordinato al
suo segretario Lodovico Moneta di rimuovere le bandiere
colleonesche che ornavano le urne, alcune delle quali, nottetempo,
furono distrutte8. Ciò in applicazione delle decisioni del Concilio di
Trento che condannavano il costume di porre nelle chiese armi,
vessilli, trofei ed altri segni e monumenti di vittoria. Si ritenne che
anche il corpo di Bartolomeo Colleoni9 fosse stato rimosso dal
sarcofago e seppellito altrove, forse nel sottosuolo della Cappella
Colleoni, forse nella basilica di Santa Maria Maggiore. Trent’anni di
ricerche poi il 1 gennaio 1950 Mons. Locatelli scoperta nella basilica
sotto l’altare del Corpus Domini una antica arca contenente uno
scheletro e frammenti di una spada annunciava raggiante che quelli
erano i resti dell’invitto Capitano Generale della Serenissima. Ma la
7
Angelo Colleoni, 1973, archivio dell’A.
È da imputarsi pertanto al Borromeo se le bandiere di guerra del
Colleoni, che tanto rappresentavano per la storia d’Italia e della Serenissima,
siano state vandalicamente distrutte privando la città di Bergamo di una
importante testimonianza storica.
9
ricordiamo che il capitano generale di terra avrà principalmente
l’incarico di «mantenere e difendere, con dignità e decoro» l’impero
dell’entroterra. Cfr. in RENDINA C., Pasquale Malipiero (1457 – 1462),
Doge, I Dogi. Storia e segreti, Roma, Newton&Compton Editori, 2003, p.
242
8
11
commissione nominata dal Ministero della Pubblica Istruzione il 4
luglio del 1956 informava «non constare che i resti umani rinvenuti
nella basilica si possano attribuire a Bartolomeo Colleoni».
Finalmente il 21 novembre del 1969 la scienza vinceva il mistero.
L’ing. Richard Edgar Linington della Fondazione Lerici e il suo
aiutante sig. Alberto Migliarini grazie a strumenti modernissimi per il
rilevamento di metalli, constatavano l’esistenza nell’arca inferiore di
elementi ferrosi. Alle ore 16, apertala, veniva individuato ad una certa
profondità uno strato di calce simulante il fondo, particolare sfuggito
ai precedenti ricercatori. Infrantolo appariva una cassa lunga due
metri, larga più di mezzo metro e alta quaranta centimetri10. Toltone il
coperchio, ecco: «ancora ben composta, in parte vestita, le braccia
incrociate, maestosa, col capo spostato alla destra del cuscino, la
salma scheletrita del Condottiero, fra lo stupore, la commozione,
l’esultanza dei presenti» Mons. Angelo Meli che aveva sempre
sostenuto trovarsi la sepoltura nella Cappella, ing. Mario Donavia,
Presidente del Rotary Est, conte ing. Enrico Colleoni, Presidente del
Luogo Pio della Pietà oggi Istituto Bartolomeo Colleoni. Nella cassa,
il bastone del supremo comando conferitogli dalla Repubblica di
Venezia ed una targa di piombo recante la seguente iscrizione:
«BARTOLOMEUS COLIONUS – NOBILIS. BERGO. PRIVILEGIO
– ANDEGAVIENSIS ILL.MI IMPERIJ – VENETORUM
IMPERATOR – GENERALIS INVICTUS – VIXIT ANNOS LXXX
– IMPERAVIT IIII ET XX – OBIIT III NO. NOVEMBRIS –
CCCCLXXV SUPRA MILLE». La spada, sfuggita alle prime
ispezioni perché coperta dal fianco sinistro del Bergamasco, veniva
scoperta il 5 febbraio del 1970 dal sig. Mario Lucchetti incaricato di
eseguire una serie di fotografie, mentre era intento a togliere con dei
pennelli il velo di griglia polvere che copriva gli abiti del Condottiero.
Finiva così, dopo tante romanzesche ricerche e polemiche, il mistero
10
«Bartolomeo Colleoni è immortalato nella coscienza europea da quella
statua equestre, che l’arte del grande Verrocchio gli eresse per conto della
Repubblica di Venezia, una scultura che innalzò il Condottiero a
rappresentante ideale dell’arte militare.
“Il Colleoni del Verrocchio”: con questa definizione l’Imperator invictus,
il Gran Capitano della Serenissima è divenuto un elemento necessario a tutti i
manuali di storia dell’arte che, a ragione, descrivono l’arte magistrale con cui
questa figura fu realizzata nel quadro dell’iconografia equestre del
Quattrocento; una figura imponente che rispecchia sia il potere suggestivo del
Condottiero, sia la potenza della Repubblica di San Marco, sotto la cui
insegna il Colleoni, dal 1454 in poi, militò fedelmente e fu sempre
vittorioso», cfr. PIEL Frederich, La Cappella Colleoni e il Luogo Pio della
Pietà in Bergamo, Bergamo, Ed. Monumenta Longobardica, 1975, p. 7
12
calato attraverso i tempi sui resti dell’invitto Capitano Generale della
Serenissima. Davanti al suo sepolcro, sacro ai Bergamaschi, si può
oggi affermare: «Hic iacet».
13
3.
Bartolomeo Colleoni nella poesia
Numerosi poeti dedicarono versi o intere composizioni al
comandante bergamasco, tra esse abbiamo scelto le più significative11.
O di bell’isola nobil castello,
Entro al cui fertile e ricco seno
Ai rai d’Apolline le luci aprio
Il più magnanimo e chiaro duce,
Che mai l’Italia vantasse e il mondo:
A te sol diedero le stelle amiche
Udir del bambolo i primi accenti,
A te sol diedero vederlo in fasce
11
riportiamo l’elenco degli autori definiti dal Bellotti “poeti colleoneschi”
citando anche il titolo dell’opera dedicata al generale: Ode a Solza di Pier
Antonio Serassi, primi accenni di Michele Alberto Carrara e il Carmen
Saphicum di Jacopo Tiraboschi, le guerre col Piccinino in Lorenzo Spirito,
episodi bellici in Francesco Filelfo ed esaltazioni di Pietro Spino e di Michele
Carrara, la battaglia di Caravaggio nei versi di Francesco Filelfo, la guerra di
Romagna in Giovanni Santi, ingiurie di Francesco Filefo e ritorsioni di
Jacopo Tiraboschi, La guerra di Romagna nella Chanzona di Bartolomeo da
Bergamo e in un sonetto di Lorenzo de’ Medici; notizie sul Salvalaio; botte e
risposte tra sforzeschi e veneziani, il proverbio Non è più il tempo di
Bartolomeo da Bergamo, tarde satire del Franco e del Marini, reazioni alla
Corte di Malpaga: Marco Picardi, Gian Mario Filelfo, Antonio Cornazzano: i
sonetti di B. Donda e l’ode a Malpaga di Michele Alberto Carrara, opere
colleonesche nei versi di Achille Muzio, la morte di Medea, figlie e nipoti del
Colleoni poetesse, la morte del Colleoni nei versi sciolti dell’ab. Carlo
Fumeo; componimenti funebri di Michele Alberto Carrara, la Cappella
Colleoni: Il vecchio capitano all’Amadeo; versi di Achille Muzio, dell’abate
settecentesco G.B. Angelini e di Jean Louis Vaudoyer, epigrafi di Ercole
Tasso, La statua del Verrocchio e il sonetto di Antonio Cammelli; giuochi di
parole sul suo collocamento; descrizioni e liriche di G.A. Audebert, di C.E.
Virey, di Agostino Beaziano, di Werner von der Schulenburg, di Gabriele
d’Annunzio; uno strano equivoco del Byron, il Colleoni e Bergamo: il
Muzio, l’Audebert, Augusto Cocceiano, Torquato Tasso, Gabriello
Chiabrera, Alessandro Ghirardelli, Gioachino Du Bellay, il Colleoni assurto a
simbolo patriottico: poesie dell’epoca romantica; G. D’Annunzio: il
generalissimo, il fiero capitano bergamasco; la battaglia del Piave di Filippo
Meda, il Colleoni di Giovanni Chiggiato.
14
Intorno stendere, qual novo Alcide,
L’ignude braccia, e fin d’allora
Gli occhi terribili vibrare intorno,
Che sangue a’ barbari crudi nemici
Gelar poi fecero dentro le vene.
Te mai non fulmini con sue saette
Giove iratissimo, né il ciel turbato
L’atre sue gradini contro te scagli,
Ma soavissima dolce rugiada
Sparga sui floridi tuoi lieti campi,
O di bell’isola nobil castello.
Torquato Tasso12
L’ombra canuta del guerrier sovrano
A Malpaga erra per la ricca loggia,
Mutato l’elmo nel cappuccio a foggia,
Tra i rimadori e i saggi in atto umano.
E tu, Bergamo, il suo sepolcro vano
Chiudi. Ma all’aspro vento che da Chioggia
Sibila è vivo! Ancor di strage ha roggia
L’unghia e la pancia il suo stallon romano.
Stretto nel pugno il folgore della guerra,
I fanti contro Galeazzo ei sferra,
Tornando col mortaro e la spingarda
Arcato il duro sopracciglio, ei guarda
Di su la manca spalla irta di piastra;
E, bronzo in bronzo, nell’arcion s’incastra.
Gabriele D’Annunzio13
Il terzo atto della tragedia di Giorgio Byron, intitolata “Marin
Faliero”, si svolge di notte, presso la chiesa dei Santi Giovanni e Paolo
«davanti alla quale si vede una statua equestre».
12
BELOTTI B., Studi colleoneschi, Milano, Casa Editrice Ceschina,
1939-XVII, p. 69
13
BELOTTI B., Studi colleoneschi, Milano, Casa Editrice Ceschina,
1939-XVII, p. 70
15
Nella prima scena entrano anzitutto il doge solo e mascherato e
quindi Israele Bertuccio, comandante dell’arsenale e congiurato. Il
dialogo che si svolge fra i due personaggi contiene, fra le altre, queste
“battute”:
«DOGE:
Fermati: qui non vi sono umani testimoni. Guarda laggiù. Che cosa
vedi?
ISRAELE:
Null’altro che la grande statua equestre d’un guerriero al pallido
splendor della luna.
DOGE:
Quel guerriero è l’immagine del mio bisavo e quella statua fu a lui
decretata, per aver due volte liberata la patria. Credi tu che egli ci
guardi?
ISRAELE:
Queste, o signore, sono mere illusioni. Il marmo non ha occhi.
DOGE:
Ma li ha la Morte. Io ti dico, Israele, che in questi monumenti vi è
uno spirito che opera e vede e che si fa sentire sebbene invisibile…»14
Anche Torquato Tasso, in quello dei suoi celebri sonetti a
Bergamo, che cominci col verso
«Alma città, più del tuo verde monte» accennando al Colleoni,
esclama:
In te s’acquista pregio altro, che d’armi;
Ed ove splende pur l’invitto duce
L’antica fama e il trae d’oscura tomba,
La gloria d’altri figli anco riluce
In dolci e vaghe rime e in dotti carmi…15
Quel condottiere che dal piedestallo
La morta riva domina in Vinegia
14
BELOTTI B., Studi colleoneschi, Milano, Casa Editrice Ceschina,
1939-XVII, pp. 71-72
15
BELOTTI B., Studi colleoneschi, Milano, Casa Editrice Ceschina,
1939-XVII, p. 74
16
Minacciata dal barbaro e dispregia
La minaccia del ciel, solo, a cavallo,
Bartolomeo, grifagno come Dante,
Che converso abbia in elmo il suo cappuccio
A gote, chiuso in piastra il suo corruccio,
Preso a trattar cavalleggiero e fante,
Tu lo vedi al segnale delle trombe
Sollevare e sferrare i battaglioni,
Come balestra lancia i suoi bolzoni,
Come mortaio lancia le sue bombe.
Gabriele D’Annunzio,
dell’Avvento 16
Pel
Generalissimo,
in
Preghiere
Il fiero capitano bergamasco,
Crucciato in atto di lasciar l’arcione,
Come ad una invisibile legione,
Così parlò di sotto al ferreo casco:
«Io non sono e non fui vile e fuggiasco;
E se un trepido bracio or mi depone,
Mi volgo a voi; vincete la tenzone
Chè di pane d’esilio io non mi pasco.
Lupi del settantotto fanteria,
Fior delle vene della gente mia,
Parto fremendo; e attenderò ogni giorno,
Se giunga fino a me, per la campagna,
L’urlo che gridi il vindice ritorno»17
Il 78 fanteria, a cui si volgeva il Colleoni, era un famoso
reggimento, della brigata Toscana, detta anche brigata Lupi.
«Ab hostium grege legio vocata Luporum»
composto specialmente da bergamaschi, come pure alpini ed
artiglieri di montagna erano solitamente i soldati della regione
bergamasca18. Ai “lupi” è stato dedicato un monumento presso le foci
del Timavo, nel comune di Duino – Aurisina in provincia di Trieste.
16
BELOTTI B., Studi colleoneschi, Milano, Casa Editrice Ceschina,
1939-XVII, p. 79
17
Sonetto apparso nel periodico “La Sorgente” di Milano (1918)
18
BELOTTI B., Studi colleoneschi, Milano, Casa Editrice Ceschina,
1939-XVII, pp. 80-81
17
4.
Il Colleoni, mecenate, statista e uomo di fede19.
Il Colleoni così, e a differenza degli altri condottieri, seppe
dominare anche senza l’elmo e la corazza, e presentarsi a noi anche
coi vigorosi lineamenti dell’uomo di stato20.
Egli fu adunque e veramente un grande personaggio del secolo
decimoquinto.
E tanto più degna di attenzione è la sua figura, quando si pensi che
essa non si formò attraverso la coltura e gli studi, ma piuttosto nella
costante e infaticabile attività di uno spirito naturalmente pronto,
accorto, sagace, e di un temperamento indomabile e dominatore, che
tutto dovette a sé stesso 21.
19
In BELOTTI B., La vita di Bartolomeo Colleoni, Bergamo, Istituto
d’Arti Grafiche Editore, 1951, pp. 466 - 470
20
Il condottiero bergamasco prestò servizio anche a Napoli combattendo
per la regina Giovanna che intratteneva una relazione sentimentale con il
Colleoni sulla quale scriveva il Giovio 133: «Fuit Coleo corporis statura
erecta atque habili, adeoque formosus et agilis, ut Regina Ioanna procaci
mulier, avidaque virorum fortium, Coleonis amore caperetur, quum es
spectante cunctos in polestra…»
21
«La guerra intrapresa dalla Repubblica di San Marco nel 1463 (contro i
turchi n.d.a) fu inizialmente offensiva, per la conquista della Morea e la
sicurezza delle rotte intorno alla Grecia meridionale. Per la prima volta un
consistente esercito fu inviato nei Balcani, al comando prima di Bertoldo
d’Este, poi, nel 1464, di Sigismondo Malatesta. Si parlò di mandare Colleoni
in persona, e si diceva che il capitano generale fosse ansioso di partire, per
guadagnarsi nuove benemerenze in un momento in cui Pio II chiamava tutte
le province d’Europa alla crociata. È però assai probabile che la riluttanza
veneziana a vedere Colleoni coinvolto in Levante derivasse dal timore di un
contrattacco milanese quando la frontiera occidentale fosse stata privata del
suo maggiore difensore. Le campagne di Morea, nonostante i successi
iniziali, non poterono essere portate a fondo; la morte di Pio II nel 1464
cancellò ogni possibilità di una crociata generale in aiuto dei Veneziani e
contribuì, insieme con la morte di Cosimo de’ Medici in quello stesso anno,
alla destabilizzazione del sistema italiano. Paolo II (Barbo), il successore
veneziano di papa Piccolomini, pensava più a restaurare la sua autorità negli
Stati pontifici che ad aiutare Venezia, mentre l’indebolirsi del regime
mediceo a Firenze lasciava Francesco Sforza in una posizione esposta.
Fu comunque la morte di Sforza, l’8 marzo 1466, a scoprire tutte le crepe
nel sistema politico italiano. Fu subito chiaro che Bartolomeo Colleoni
tramava da anni in attesa di questo evento. A dispetto di tutti gli sforzi di
Francesco, il regime milanese era intrinsecamente instabile; il mancato
18
Il Colleoni era infatti scarsamente istruito, come si vede dalle
lettere sue che ci sono restate, così da essere in ciò paragonato dal
Cornazzano più a Mario che a Cesare. Egli – dice lo Spino – usava la
sua propria naturale favella e non si dilettava del parlare straniero; e
dobbiamo credere che anche negli ultimi anni parlasse un volgare
veneziano, come appare dalla riferita testimonianza dei delegati della
Misericordia di Bergamo, che andarono da lui per domandare la
rifabbrica della sagrestia di Santa Maria Maggiore.
A torto il Filefo, che era un detrattore, lo chiamava “il facchino
bergamasco”. Uomo di talento naturale, egli ebbe invece la chiara
intuizione della importanza che hanno e delle soddisfazioni che
procurano le lettere e le arti: e perciò si circondò di letterati e di
filosofi, discettando con loro, e mise alla prova il genio degli artisti del
suo tempo.
Ebbe anche un’altra caratteristica che distingue le anime nobili, e
cioè l’attaccamento alle persone del popolo, sempre buono quando
non è ingannato; ed ebbe piacere di vivere e di discorrere con loro. La
riconoscimento imperiale del titolo e una sorda opposizione all’interno
dell’élite milanese lasciavano sperare che una mossa decisiva da parte di
Colleoni potesse scalzare il successore di Francesco Sforza Galeazzo Maria,
portando il capitano generale veneziano a prendere possesso del Ducato. Fu
questa ambizione personale, che Venezia esitava a imbrigliare, più che non
un qualche progetto egemonico a lungo termine della Repubblica stessa, a far
precipitare la crisi del 1467. Le ambizioni di Colleoni erano alimentate da
Borso d’Este e dagli esuli fiorentini, che nella morte di Sforza vedevano
anche un’occasione per far cadere il regime mediceo. Venezia, che aveva
seccamente rifiutato di inviare un’ambasciata per le condoglianze e le
congratulazioni a Galeazzo Maria Sforza, contratto di ingaggio permanente
per preparare un’offensiva generale contro l’alleanza milanese-fiorentina.
Napoli e Paolo II si armarono in difesa dello status quo e Venezia, che pure
non si era del tutto sbilanciata, si trovò isolata come responsabile ultima della
crisi. Crisi che si risolse con l’incerta ma sanguinosa battaglia di Molinella, il
25 luglio 1467. Se Colleoni e Borso d’Este fossero riusciti a sconfiggere
l’esercito della Lega comandato da Federico da Montefeltro, i regimi di
Milano e Firenze si sarebbero trovati in gravissime difficoltà, e senza dubbio
Venezia ne avrebbe tratto beneficio. Di fatto, invece, la Repubblica cominciò
a prendere le distanze dall’impresa. E accettò le proposte di pace di Paolo II e
il suo richiamo a un rinnovato impegno comune per la crociata. Tra gli esiti
della vicenda favorevoli a San Marco vi fu la disponibilità delle potenze
italiane ad accettare l’inserimento della Savoia nell’assetto difensivo
ereditato dalla Lega italica. Venezia l’aveva chiesto con insistenza, e
utilizzava l’alleanza savoiarda come un freno diplomatico contro la
potenziale aggressività di Galeazzo Maria Sforza», in MALLET Michael E.,
La conquista della terraferma, in Storia di Venezia dalle origini alla caduta
della Serenissima, Roma, Ed. Istituto della Enciclopedia Italiana, 1996, pp.
252, 253
19
polizia di Galeazzo Sforza negli ultimi anni della sua vita e quando si
trattava la condotta con Carlo il Temerario, lo descrive fra i balli
campestri della sua gente.
Ma da questi contatti il Colleoni, oltre che la diretta conoscenza
dell’anima popolare, traeva anche l’alimento alle altre qualità così
schiettamente bergamasche che egli ebbe, e quindi anche a quello
spirito pronto, bonario e confidente, di cui tante volte diè prova, e a
quel senso pratico, al quale si ispirò nel far del bene.
Abbiamo riferito la risposta da lui data a Galeazzo Sforza, quando,
dopo la battaglia della Riccardina, il giovane duca di Milano volle
vedere il vecchio capitano che aveva combattuto contro di lui, anzi
contro i suoi soldati22.
Il Giovio racconta un altro episodio. Egli narra dunque che, avendo
Galeazzo Sforza mandato al Colleoni una volpe in gabbia «per
uccellarlo come capitano vecchio e non sempre astuto», il Colleoni lo
ricambiò subito, mandando a sua volta, tutto adorno di frangie e di
sonagli, uno di quei cervi volanti che sogliono adoperare i bambini, e
ciò per significare al giovane Sforza che lo considerava come un
ragazzo stupido e leggiero.
Il Lomonaco nelle sue “Vite dei famosi capitani d’Italia”, riferisce
inoltre che, «venuto un giorno il Colleoni a discorso con tale Antonio
Cigola, costui gli disse: “Che sciagurata età è la nostra!”. Al che il
Colleoni rispose: “Mio zio diceva lo stesso; e siccome egli riferiva,
simile erano le querele di suo padre, e non diverse da quelle dell’avo e
del bisavo, tutti uomini di dottrina!”»
Egli insomma pensava saggiamente che il mondo non cambia,
come non cambierà per molti secoli, per quanto alcuni scellerati e
alcuni illusi possano cercare di rovinarlo.
Ed era l’uomo che col suo senso pratico non solamente creava
istituzioni, come quella della Pietà, destinate a far del bene a traverso
le generazioni, ma rifabbricava i pubblici edifici, derivava acque per
irrigazioni e concepiva disegni grandiosi di comunicazione fluviale tra
Bergamo e Venezia, anticipando i tempi23. Egli finalmente non si
22
Una data fondamentale per la storia del Colleoni è il 15 settembre 1448:
quando impiega l’artiglieria in modo fino allora sconosciuto, rendendola
mobile, rivoluzionando le strategie militari fino ad allora in uso.
23
Il Colleoni voleva costruire un canale navigabile dal suo feudo di
Malpaga fino a Venezia. Il progetto esecutivo venne realizzato solo nel 1954
dall’Ing. Aldo Colleoni di Bergamo, progetto che prevedeva la
regolamentazione delle acque di Valpadana con la costruzione di un canale
navigabile tra Torino e Venezia, attraverso proprio i possedimenti di
Malpaga. Il progetto trova solo ora parziale realizzazione. Cfr. COLLEONI
20
trovava mai «fastidito del dare udienza a quantunque, ricco o povero,
a lui ricorresse», e – continua lo Spino - «resse e tenne i suoi popoli
sotto un sì cortese e liberale governo, che qualvolta avviene che
Baldassarre Zailo nei memorariali suoi per incidenza ne tratta, ei se ne
sta alle testimonianze di Giovanni Zucchi, ma che certo anche deve
avere avuto un fondo di verità. E il ricordato codice colleonesco di
Londra ne fa testimonianza24.
A., Acque di Valpadana, Bergamo, Ed. Associazione idrotecnica italiana,
1954
24
«La morte di Colleoni nel 1475 lasciò un vuoto difficile da colmare; la
carica di capitano generale sarebbe stata assegnata ad intervalli, buona parte
delle lance di Colleoni fu mantenuta in servizio con nuovi accordi. Morto
Carlo Fortebraccio nel 1479, la compagnia passò a suo figlio Bernardino, che
si sarebbe distinto tra i comandanti veneziani nella battaglia di Fornovo nel
1495. Bertoldo d’Este cadde in Morea nel 1463, e Antonio da Marsciano,
genero di Gattamelata, fu preso dai Milanesi nel 1482 e finì per passare al
servizio di Firenze. Andava gradualmente affermandosi una nuova
generazione di capitani, molti dei quali nobili di Terraferma, con compagnie
più piccole e pretese meno esorbitanti che in passato.
Questo quadro piuttosto statico fu turbato in modo particolare da due
episodi. Il primo fu la serie di incursioni lanciate dai Turchi in Friuli negli
anni Settanta: nel 1472 minacciarono Udine, e l’anno dopo la cavalleria turca
arrivò fino al Tagliamento, a cinquanta chilometri da Venezia. Ancora, nel
1477 un’invasione su vasta scala portò a una grave sconfitta dell’esercito
veneziano, e alla perdita sul campo di numerosi tra i capitani più in vista. La
Repubblica aveva fatto ben poco, nell’organizzazione sul lungo periodo delle
sue truppe, per la difesa della frontiera orientale; a est di Venezia non era
stato insediato nessun condottiero di rango, e con l’inizio della minaccia turca
nel 1471 si fu costretti a trasferire in gran fretta le truppe dai loro normali
quartieri. Nella fase iniziale le truppe e il denaro stanziati per far fronte al
pericolo non bastavano mai: l’urgenza della difesa di quella regione era poco
sentita, e i capitani avevano scarsa esperienza per affrontare la rapida
mobilità della cavalleria leggera turca. Nel 1473 Carlo Fortebracci prese il
comando della difesa, ma la cavalleria soprattutto pesante delle compagnie
tradizionali si trovò svantaggiata. Anche quando furono attirati in battaglia,
come nell’ottobre 1477, i Turchi diedero prova di una combattività senza
riscontro da parte veneziana. Ormai però sulla frontiera orientale era stato
ammassato un forte contingente permanente, e a rafforzare la difesa fu
ingaggiata la prestigiosa compagnia di Cola da Monforte, conte di
Campobasso, appena uscita dal servizio borgognone; nel 1478 più di
seimilacinquecento uomini furono schierati contro l’ultimo attacco turco
prima dei negoziati di pace, l’anno successivo.
L’emergenza friulana ebbe di fatto importanti conseguenze sul pensiero
militare veneziano. Ne risultarono evidenziati la necessità, per una più
efficace mobilitazione rapida del piccolo esercito permanente, dell’appoggio
di una milizia non professionale, nonché il valore di una buona cavalleria
leggera; infine, gli attacchi turchi furono convincente dimostrazione
dell’esigenza di riattare le fortificazioni a difesa delle frontiere. In tutti questi
21
Come già abbiamo avuto occasione di notare, il Rio esalta il
Colleoni anche per il suo sentimento religioso25.
Se il Colleoni fosse andato contro i Turchi26 – egli scrive - «la
cristianità avrebbe forse avuto un nome di più da scrivere accanto a
quelli di Goffredo di Buglione e di Tancredi: in ogni caso avrebbe
avuto qualche buon ricordo di più e senza dubbio qualche espiazione
di meno»
Queste per altro sono esaltazioni liriche, prive di serio fondamento.
È vero che il Colleoni non malediva Iddio per le battaglie sfortunate,
come il Piccinino, e non era bestemmiatore come Bartolomeo
Alviano; ed è pur vero che, spinto certamente anche dalla consorte,
molto pia, fondò chiese e conventi; ma ciò non basta per dire che egli
fosse una specie di santo guerriero. Sigismondo Malatesta, il pagano
umanista di Rimini, il processato per eresia, non costrusse pure un
tempio famoso, e non lasciò agli eredi suoi l’obbligo di condurlo a
termine? E non fecero altrettanto altri condottieri, che certamente non
furono santi?
Per essere fedeli con le testimonianze della storia, diremo dunque
che, anche per ciò che riguarda la religione, il Colleoni fu quello che
poteva essere un uomo del tempo suo.
settori si ebbe modo di verificare le carenze dell’organizzazione e della
pianificazione militare veneziana, e furono presi provvedimenti per
emendarle», in MALLET M. E., La conquista della terraferma, in Storia di
Venezia dalle origini alla caduta della Serenissima, Roma, Ed. Istituto della
Enciclopedia Italiana, 1996, p. 266
25
Il Colleoni, quando Papa Paolo II riunì principi e città di tutta Italia in
una alleanza diretta contro i Turchi, doveva ottenere il comando supremo di
questa lega. Dopo aver ricevuto nel 1466 il titolo di Duca di Andegavia, cioè
di Angiò, divenne “christianorum exercitus imperator, dux Andegaviae, dux
Burgundiae”
26
Cfr. MALIPIERO D.: «… “se duol di haverse separado dal Re
d’Ongheria, che faceva guerra a’ Turchi con 60.000 ducati, che la Signoria
ghe sborsava ogn’anno a tal effetto: e questo è processo perché Bortholamio
da Bergamo (Colleoni) Capitanio ha tolto l’impresa de Toscana a favor de
fuorusciti… e a so istanzia la Signoria ha manda’ a dir al Re Mathias che la
no podeva continuar l’impresa e che l’fesse pace o tregua a suo
beneplacito…”. Secondo il cronista, Mattia allora si accordò immediatamente
con i Turchi, mentre la Signoria fece un inutile tentativo a Costantinopoli,
trovando inaccettabili le dure condizioni imposte dalla Sublime Porta. Così,
dunque, - constata il cronista – “… se alienassimo dal Re d’Ongharia,
spendessimo oro assai in Toscana, fasemo pace ignominosa con la liga
d’Italia; … e romagnessemo (rimanemmo) soli in guerra co’l Turco”», in
Archivio Accademia Ungherese delle Scienze, Archivio manoscritti 4977/2
22
«Avviene sempre – dice il Simonetta – che gli uomini che vivono
fra le armi si occupano assai poco di religione e della salute delle loro
anime»
Lo stesso Spino racconta un episodio molto eloquente. Un
cappellano aveva trovato sotto l’altare di una chiesa campestre presso
Sinigaglia alcune ossa, ritenute di Maria Maddalena e di Lazzaro, e
aveva pregato il Colleoni perché le facesse portare a Romano. Il
Colleoni gli rispose che egli era un soldato, e perciò pieno di peccati;
provvedesse quindi il sacerdote a fare, di quelle reliquie, ciò che gli
avesse ritenuto di poter fare. Il buon prete allora portò le ossa di
Lazzaro a Covo, e quelle di Maria Maddalena a Romano.
La stessa cappella di Bergamo – come abbiamo già notato – più
che soddisfare un sentimento di pietà, doveva calmare un prepotente e
orgoglioso sogno di gloria, e, più della mitezza di san Giovanni
Battista a cui fu dedicata, doveva esaltare nei secoli un trionfo
guerriero 27.
Tuttavia il Colleoni – come attesta il Cornazzano – riteneva
consistere ogni saggezza nella fede di Dio, ed era un pensoso
frequentatore della Basella; e nel duomo a Montona d’Istria si
conserva l’altare da campo usato da lui e da lui passato all’Alviano.
Tante e diverse qualità del celebre bergamasco naturalmente
determinarono i più disparati giudizi sulla sua persona e sull’opera
sua.
Non bisogna però neppure dimenticare che lo studio della vita del
Colleoni, rifatto sotto la nuova e sicura luce dei documenti, dimostra
che le soddisfazioni ottenute da questo fiero personaggio del
quattrocento, se anche notevoli, furono in sostanza inferiori alle sue
aspirazioni. La conquista del supremo generalato di Venezia, che gli
era costata tanti sacrifici e tante avventure, egli l’ottenne quando
Venezia abbandonava la sua politica guerriera e, dopo la pace di Lodi,
si decideva a una politica di pace sul continente: fu una delusione per
lui, che sperava guerre. I tentativi di servire Siena, il Papa, il re di
Francia, furono impediti dal vincolo a vita che egli aveva colla
Serenissima. Il suo sogno di combattere i turchi fu pure infranto. La
sua ambizione di conquistarsi una signoria verso Milano, forse anche
su Milano, colla quale pure si spiegano le freddezze con Francesco
Sforza e le inimicizie iraconde con Galeazzo Maria, fu tarpata da
Venezia che non voleva avventure, anche quando parve rinverdita
27
Il mausoleo rappresentava per il Colleoni qualche cosa di molto più
importante rispetto la sua sepoltura. Doveva contenere anche la tomba di
Medea Colleoni, figlia naturale prediletta del Capitano che morì il 6 marzo
1470 nel Castello di Malpaga all’età di 15 anni.
23
dall’amicizia e dalla solidarietà di Carlo il Temerario. La gloria di una
celebre impresa, tentata in Romagna, si dileguò sui campi sfortunati
della Riccardina. L’aspirazione a una discendenza superba fu
contraddetta dal verificarsi della profezia del santo uomo di Napoli.
Le stesse ricchezze cumulate non furono senza turbamento, perché,
negli ultimi tempi, il capitano si accorse che Venezia le guardava
avidamente e si preparava ad usurparle dopo la sua morte.
E poiché queste vicende si svolsero nell’ultima parte della sua vita,
quando anche la vecchiezza era venuta devastando il suo spirito e il
suo corpo e resero sconfortata e solitaria la sua esistenza, così in uno
studioso sereno il Colleoni può anche destare sentimenti di umana
simpatia e determinare un giudizio assai più favorevole di quelli
meritati da altri condottieri, egoisti, rapaci, indomabili come lui.
Che se poi si rifletta come nella fredda ombra che ormai sentiva
scendere attorno a sé, quest’uomo, dalla sua “terra murata” di
Malpaga, abbia cercato la eterna luce, confidando tutta la deserta
anima sua all’augusta protezione dell’arte, e quindi riconfortandosi
nella verginale immagine di Medea fatta rivivere nel marmo,
rifugiandosi nel presagito fastigio secolare della cappella
dell’Amadeo, e domandando supplichevolmente a Venezia la statua di
bronzo, la sua immagine appare in atteggiamento di veramente insolita
nobiltà spirituale, che quasi la monda dei difetti del secolo e dà modo
a noi di raccogliere dalla sua vita anche l’ammonimento di una serena
filosofia28.
Qualcuno ha ritenuto di poter paragonare il Colleoni a Francesco
Sforza. In realtà moltissimi dei tempi suoi seguirono come ombre
colui che fu giustamente detto l’uomo secondo l’indole del secolo
decimoquinto – come scrive il Burckhardt -; ma nessuno può essere
eguagliato al più grande capitano e al più accorto politico del
quattrocento. E, nonostante talune singolari somiglianze, anche il
Colleoni storicamente segue a distanza il magnifico duca di Milano.
Però è pur certo che col fulgore delle opere create dall’arte per lui,
coll’eco delle sue gesta guerriere, coll’esempio di una vita possente e
fastosa tratta da origini umili e affaticate, la figura del nostro
condottiere, del celebrato Bartolomeo da Bergamo, dimesse le traccie
delle debolezze e dei difetti del tempo suo, lungo gli anni si è come
28
La famiglia del Colleoni era composta tutta di donne: la moglie Tisbe
Martinengo, le figlie Ursina, Isotta, Caterina (le tre mogli dei Martinengo),
Medea, morta a soli 15 anni, Doratina, Riccadonna, Cassandra, Polissena. La
famiglia di Bartolomeo continuò nei Martinengo Colleoni e si estinse nel
1880. Il castello di Malpaga dal 1880 divenne proprietà dei conti Roncalli di
Bergamo e dal 1924 fu acquistato dalla famiglia Crespi di Ghemme.
24
spiritualizzata in una maschia espressione di fierezza e di energia, che
sembra superare quella del “gran sforzesco”. Perciò essa è diventata
nota al mondo e cara agli italiani, che la giudicano una possente e
consapevole affermazione della razza, tale da far dire al poeta:
Bartolomeo grifagno come Dante
Fortunato Colleoni, che per tal modo, a traverso i secoli, ha potuto
diventare un condottiero di spiriti!
25
5.
L’incarico affidato al Colleoni da Papa Paolo II 29
Dopo la morte di Francesco Sforza, duca di Milano (8 marzo
1466), i contrasti tra Paolo II e il nuovo duca Galeazzo Maria si
accentuarono, ancora una volta per motivi fiscali. Gli equilibri politici
italiani divennero più instabili. Venezia, che aspirava al dominio di
Milano, aveva nel frattempo accolto i fuoriusciti fiorentini avversari
del governo mediceo e all’inizio del 1467 congedò il condottiero
Bartolomeo Colleoni per consentire loro di assoldarlo. Il Colleoni
aveva coltivato in un primo tempo il progetto di conquistare
personalmente il Ducato di Milano, ma quando si rese conto che la
successione di Galeazzo Maria Sforza era avvenuta senza grandi
contrasti rivolse le proprie mire verso Firenze. Di fronte a questo
pericolo, il 17 gennaio 1467, Piero de’ Medici strinse a Roma – con
l’apparente protezione del papa – un’alleanza con il re di Napoli e
Galeazzo Maria Sforza; l’esercito della lega era guidato da Federico
da Montefeltro. Tra gli scopi principali della lega c’era in realtà anche
quello di contrastare i disegni di Venezia e del pontefice di richiamare
gli Angiolini in Italia, con l’appoggio di forze estensi e savoiarde.
Paolo II ebbe a temere un’invasione dell’esercito napoletano nei
territori dello Stato della Chiesa. La Battaglia della Molinella, vicino
Imola, tra i due schieramenti (23 luglio 1467) non ebbe esito decisivo,
il Colleoni rinunciò ad attaccare Milano e l’11 agosto fu firmata una
tregua30.
Dopo alcuni mesi di trattative, il 2 febbraio 1468 Paolo II prese
l’iniziativa di emanare una bolla per la pace d’Italia (Ut liberius
iustissimum bellun; O. Raynaldus, pp. 454-47), che imponeva ai
29
in Enciclopedia dei Papi, Istituto della Enciclopedia Italiana, Giovanni
Treccani, 2000, p. 696
30
Una delle battaglie più importanti vinta dal Colleoni resta quella della
Sesia nell’aprile 1449 quando combatteva per i veneziani, insieme a
Francesco Sforza, contro la Repubblica Ambrosiana e contro il Duca di
Savoia che aveva mandato 6000 uomini sotto il comando di Giovanni
Campeys. Colleoni vinse questa sanguinosa battaglia e fece prigioniero
Campeys. La sua fama da quel momento si sparse in tutta Europa. Il solo
grido di guerra degli armati di Bartolomeo, «Coglia» «Coglia», era arma
sufficiente per mettere in fuga le truppe dei Savoia. Cfr. Vittorio Polli, Il
Castello del Colleoni a Malpaga e i suoi affreschi, Bergamo, Monumenta
Longobardica, 1975
26
contendenti di far cessare ogni conflitto entro trenta giorni31. La
principale motivazione della decisione pontificia era il pericolo dei
Turchi, contro i quali il Colleoni veniva assoldato per una spedizione
in Albania, con uno stipendio di 100.000 fiorini, che avrebbe dovuto
essere pagato da tutti gli Stati italiani. Ma di fronte al rifiuto del re di
Napoli e dello Sforza, che non erano disposti ad accettare il Colleoni
come loro capitano né la funzione di pacificatore delle discordie
d’Italia e tra tutti i cristiani e di garante della pace che il pontefice si
arrogava nella bolla, si riaffacciò il rischio di una guerra e Paolo II fu
costretto a rinunciare alla spedizione. Le potenze italiane rifiutavano,
in sostanza, il ruolo subalterno che Paolo II voleva imporre loro, in
31
«COPIA, E TRADUZION DAL LATINO D’UN BREVE DI
SECONDO LA CUI SOPRASCRITTA DICE.
PAPA PAOLO
Al diletto figliuolo, lo strenuo uomo, Bartolomeo de’ Coglioni, di Noi, e
di tutta Italia, contro i Turchi General Capitano.
Paolo secondo Sommo Pontefice. Diletto figliuolo salute, e Benedizione
Apostolica. Considerando noi quanto ei fosse la pace, massime a questo
tempo, cosa necessaria, e proficua: e non solo a quiete, e bene in ispezialità di
quei sudditi, ch’erano dalla guerra vessati; ma eziandio a comune, ed
universale salute di tutto il Cristiano popolo; essendosi noi lungamente
adoperati, e faticati perché ella seguisse; la buona grazia, e favore di Nostro
Signor Iddio; così lodevole desiderio, e santa opera abbiamo finalmente
asseguito, e ferma, e pubblicata essa pace. La quale in tanto, onesta, e
comune, ed utile, e stabile crediamo dover essere; che, e noi vero Padre di
tutti, come nostra intenzione sempre è stata, a tutte le buone menti possiamo
apparerne, ed a ciascun potentato d’Italia, ragionevole, e meritatamente
deggia contentarsene, e volentieri accettarla: essendo ella giusta, comoda, e
salubre a ciascheduno ugualmente: come dalla Bolla per noi fuori datasene, il
cui esempio farà con le presenti allegato, potrai pienamente intendere. Le
quali cose così stando, la tua divozione nel Signore esortiamo, che ed esso
ancor tù, quanto a tè s’appartiene, vogli questa pace, come confidiamo,
approvare, e ricevere: E l’ottimo animo tuo, di cui sempre sperato abbiam
bene, fare al mondo tutto manifesto, e palese: E la tua sincera verso noi, e
questa santa fede Apostolica, del cui onore anco si tratta; riverenza, ed
ubbidienza debita co’ veri effetti mostrare. A Dio onnipotente offerirai tù in
ciò dono veramente accettissimo: e presso noi, in quello santo seggio posti, te
ne accrescerai grazia, ed alla fama, e nome ancor tuo ampliarne
maggiormente, ed estenderne consulterai non poco. E siccome in trattando
essa pace, egli s’ha per noi di tè, e della tua dignità tenuto convenevole conto;
così abbiamo per costante, che tù d’altra parte l’ingiunto onore, e carico
contro gl’infedeli, lodabilmente, e conforme alla tua estimazione, abbi ad
esequire.
Date in Roma, presso a San Marco, sotto l’anello del Pescatore, il
secondo di Febrajo 1468. l’anno Quarto del Pontficato nostro.», in DA
PIETRO S., Storia della vita e fatti dell’eccellentissimo capitano di guerra
Bartolomeo Colleoni, presso Giovanni Santini, in Bergamo, MDLCXXXII,
pp. 221 - 222
27
nome di una concezione teocratica della monarchia pontificia. Nella
bolla del 2 febbraio era inoltre stata riaffermata esplicitamente
l’autorità giurisdizionale del pontefice e tale presa di posizione non
poteva non incontrare l’opposizione di Napoli, Firenze e Milano. La
pace, pubblicata il 25 aprile, fu celebrata a Roma l’8 maggio 1468,
con la dichiarazione del rinnovo della Lega italica. A Roma il 26
maggio si svolse una solenne processione, alla quale partecipò lo
stesso pontefice, il quale, “ad maiorem rei celebritatem” (M. Canensi,
pp. 58-59) si recò a piedi dalla basilica di S. Marco alla basilica di S.
Lorenzo in Damaso. Salmi e orazioni, inni e discorsi (il più noto è
quello pronunciato da Domenico Domenichi, vescovo di Brescia e
governatore di Roma) completarono la cerimonia e il nome del
pontefice – racconta lo stesso Canensi – fu elevato fino al cielo.
28
6.
Tra le rocce un “nido” inespugnabile:
il castello di Predjama e in Istria la Rocca di Montona
Cimeli interessanti del Colleoni sono custoditi nel castello di
Predjama. Dalle Grotte di Postumia fino a Predjama ci sono circa 10
km di strada che, dopo aver attraversato il villaggio di Veliki Otok,
prosegue lungo il bacino della Pivka. Dopo l’ultima casa del villaggio
si trova una grotta preistorica chiamata di Betala, nella quale il prof. S.
Brodar, dopo la seconda guerra mondiale, rinvenne alla profondità di
5 metri un importante giacimento paleolitico. Furono portati alla luce
oltre 2000 oggetti in pietra ed in osso.
Oltre una sella nei terreni marnoso-arenacei chiamata Na Vreheh
(sulle cime) a 560 metri s.l.m. si raggiunge lo spartiacque fra il bacino
della Pivka ed il torrente Lovka che scorre verso Nord alla base di una
parte rocciosa alta 123 metri nella valle chiusa di Predjama32.
L’inghiottitoio ha la quota più bassa (462 metri s.l.m.) di tutto il
bacino della Pivka. Predjama è nota soprattutto per il suo pittoresco
castello posto all’ingresso di una grande caverna. Le origini del
castello risalgono probabilmente ancora a Carlo Magno ma più
sicuramente attorno al XIII secolo. Il castello è un vero nido sulle
rocce, inaccessibile ad ogni visitatore indesiderato. Per accedere al
castello era stato costruito un angusto passaggio scolpito nella roccia
sotto il quale si apriva un baratro di 60 m. Dal castello, una galleria
naturale, segreta, nota solamente agli abitanti del castello, usciva alla
superficie in un vicino bosco. In un primo tempo il Castello di
Predjama era stato un feudo dei patriarchi di Aquileia, nel 1378 invece
passò in proprietà agli Asburgo. Nella seconda metà del XV secolo ne
era proprietario Erasmo Lueger che, durante la guerra fra l’imperatore
Federico e Mattia Corvino, re dei magiari, combattè a fianco di
quest’ultimo. Ciò lo portò in odio all’imperatore anche perchè non
passava giorno che non assalisse e saccheggiasse le carovane di merci
e di viaggiatori che transitavano sulla strada fra Trieste e Postonja.
L’imperatore allora impartì al luogotenente di Trieste Niccolò Ravbar
l’ordine di catturare Erasmo Lueger vivo o morto. Per oltre un secolo
32
Sul catsello di Predjama – Lueg an der Poik cfr. VALVASOR J.W.,
1689. Trieste Lubiana e la Carsia, a cura di PAROVEL P.G. e TASSOJASBITZ A., Trieste, Mladika, 1995, pp. 82 - 88
29
– poi – nessuno ebbe più cura del castello. In seguito, per la sua
pittoresca posizione e per la sicurezza che offriva agli abitanti, se ne
interessò la famiglia Kobenzl. Nel 1580, Giovanni Kobenzl,
ambasciatore imperiale a Roma e più tardi a Mosca, fece costruire a
ridosso del Castello di Erasmo Lueger, l’odierno castello
rinascimentale. Questo evento è ricordato in due date scolpite una, del
1583, sul portale di entrata e l’altra, del 1570, su di un muro del
castello. Dai Coronini, successivi proprietari, il castello venne
acquistato, nel 1846 dalla famiglia dei principi di Windischgrätz che
rimasero proprietari fino alla fine della seconda guerra mondiale
quando il castello passò sotto la Direzione alle Grotte di Postoja.
All’inizio del XVII secolo il misterioso accesso al castello, che
terminava nel boschetto posto al bordo superiore della parete
sovrastante il castello, venne murato poiché da qui penetravano i
trafugatori di oggetti di valore. Questo accesso, ormai dimenticato,
venne solennemente riaperto nel 1886. Dopo la seconda guerra
mondiale, gli speleologi di Postojna esplorarono e descrissero questa
grotta segreta, dopodichè per ragioni di sicurezza l’accesso venne
ancora una volta murato. Il romantico Castello di Predjama è oggi, per
molti, una meta turistica di grande attrattiva che raramente si può
vedere in altre parti del mondo.
All’interno si possono ammirare numerose sale, parte in muratura,
parte ricavate dalla roccia. Nelle prime si conservano antichi arredi,
quadri, mobili, trofei di caccia. Nelle successive si trovano invece
armi, armature; una è particolarmente bella, con intarsiati i simboli di
Venezia e il nome di Marco Barbarigo 33.
Dopo una porta di legno, tra due lance, si vede un grande
bassorilievo con la data del 1475, il nome inciso di Bartolomeo
Colleoni e la sua immagine.
La guida del castello, stampata in lingua italiana, riporta
erroneamente: “A sinistra potremo vedere un’armatura in ferro battuto
dell’anno 1475, già appartenente al Doge di Venezia Bartolomeo
Colleoni”; in realtà non si tratta di armatura; comunque di un reperto
di indubbio interesse.
Ma è a Montona d’Istria il cimelio più importante del Colleoni.
Montona è un paesino medioevale, costruito su di una collina, cinto da
mura, con molte chiese e antiche case. Rassomiglia per certi versi a
Bergamo alta, con una differenza: mentre la pavimentazione della
piazza di “città alta” è stata distrutta e quella originale è stata sostituita
33
Marco Barbarigo, doge di Venezia dal 1485 al 1486 in RENDINA C., I
Dogi. Storia e segreti, Roma, Edizioni Newton&Compton, 2003, p. 262
30
con moderne piastrelle, a Montona, gli amministratori delle varie
epoche hanno conservato per le future generazioni, il patrimonio del
passato, consistente in piazze e strade di epoca veneziana.
A Montona tutti parlano italiano, o meglio, un dialetto simile al
veneziano.
Il Parroco, don Pietrovic Drago, con grande cortesia, apre chiesa e
sacrestia. La chiesa è stata costruita nel sedicesimo secolo in stile
barocco-rinascimentale, decorata con statue di Santo Stefano e San
Lorenzo e numerosi dipinti.
Il reperto più importante custodito nella sacrestia è indubbiamente
l’altare da campo di Bartolomeo Colleoni. L’altarino, conservato
egregiamente, tutto in argento sbalzato, dopo la battaglia del 1447 –
che vide sconfitti il generale Dresnay e le soldatesche del duca
d’Orleans e successivamente le milizie di Lodovico di Savoia e di
Carlo VII, sempre per opera del Colleoni -, finì alla battaglia di
Lepanto sulla nave ammiraglia.
Fu Alviano che nel 1508 lo portò con sé quando espugnò Gorizia e
costrinse alla resa Trieste. Fu Alviano che, ricevutolo in dono, lo
regalò a sua volta a Montona34.
Infatti così ricorda Benussi (1924): «Il duce veneto, l’Alviano,
sgomberato dai nemici il Friuli, portò le armi sul territorio austriaco,
occupando Duino, Gorizia, Postumia (Adelsberg). Il 6 maggio dal
provveditore Contarini veniva presa Trieste, il 18 Pisino, il 27 Fiume.
Furono istituiti a Fiume due uffici camerari, l’uno a Pisino per le terre
al di qua, l’altro a Fiume per quelle al di là del M. Maggiore e dei
Caldaro.
Al 6 giugno si firmò una tregua che avrebbe dovuto durare tre anni;
ma in quella vece, già al 10 dicembre dello stesso anno (a. 1508), si
conchiudeva fra l’Austria, Francia, Spagna, Napoli ed il pontefice,
minacciati o danneggiati nei loro interessi dall’invadente politica di
Venezia, la famosa lega di Cambrai, e si riprendeva su tutta la linea la
guerra.
I Veneziani, assaliti da forze di tanto superiori, furono vinti a
Giradadda; ed allora, per tutelare la capitale, dovettero concentrare le
truppe nei pressi di Mestre abbandonando al nemico le città di Trieste,
Gorizia, Pisino, Fiume, vale a dire tutte le terre in precedenza
conquistate. Queste vennero riprese dagli eserciti imperiali; così
34
Bartolomeo d’Alviano prestò servizio per il doge Leonardo Loredan
(1501 – 1521) in RENDINA C., I Dogi. Storia e segreti, Roma, Edizioni
Newton&Compton, 2003, p. 270
31
Castelnuovo colla cooperazione di un corpo di Triestini, così Duino e
Raspo.» 35.
35
in BENUSSI B., L’Istria nei suoi due millenni di storia, Centro
Ricerche Storiche – Rovigno n. 14, Unione Italiana – Fiume, Università
Popolare di Trieste, Consiglio Regionale del Veneto, Venezia-Rovigno,
1997, p. 304
32
7. A Montona d’Istria il più prezioso dei superstiti cimeli
colleoniani36
Nell’azzurra, calda serenità mattinale, splendono i tappeti della
campagna ombreggiata d’alberi, punteggiata di casali. Sullo sfondo
del cielo, le morbide onde dei verdi colli. Sulla cima di uno d’essi, al
di sopra del nastro scuro delle mura, una cittadella, le facciate delle
cui case, baciate dal sole, hanno bagliori di quarzo. L’ansito del
motore si attenua, la corriera, sulla quale ho preso posto a Pinguente,
si ferma. Scendo, preceduto da alcuni uomini, da disinvolto ragazzo.
L’automezzo si allontana in una nebbia di polvere giallastra.
Osservo distrattamente l’abitato, poso gli occhi sulla sommità del
colle. Dalle muraglie ferrigne spunta una torre merlata. Il pensiero
vola alla mia Bergamo. Identiche mura, palazzi onusti di secoli,
quadrati torrioni, la stessa impronta di potenza e di nobiltà che la
Serenissima ha lasciato ovunque. Ma quella che mi sta guardando
dall’alto, non è la preromana città lombarda, bensì Montona d’Istria.
Sono però sorelle, poiché furono ambedue scolte avanzate di Venezia,
Bergamo fra i monti del confine occidentale, Montona fra quelli del
confine orientale. E qualcosa che fu caro a Bartolomeo Colleoni,
capitano generale della Repubblica Veneta, dovrebbe sopravvivere
sotto le volte del duomo di Montona, creando un vincolo tra Bergamo,
che dette i natali al condottiero, e Montona. Questo qualcosa è l’altare
da campo che conobbe le sfortune e i trionfi del Bergamasco. È nella
speranza di rintracciarlo, che mi sono spinto quassù. Quasi
cinquecento anni sono trascorsi, durante i quali queste terre sono state
più e più volte sconvolte dalle guerre. Esisterà ancora? Sarà andato
distrutto, disperso, come quasi tutti i cimeli colleoniani?
La scorciatoia sale serpeggiando, fra terrazze di verdure. Sotto,
l’ampia valle colma di luce, case agghindate di fiori, pennacchi di
fumo dai camini, lente ombre d’uomini nell’apparente immobilità del
tempo.
Ecco la porta ogivale aperta nel mastio troneggiante sullo sperone
delle mura. Sopra la porta, il leone di San Marco, gli stemmi della
città. Dà su un ampio locale, il corpo di guardia, in fondo al quale
un’altra porta ad arco si apre sulla cittadella. Più esattamente su una
36
COLLEONI A., l’Eco di Bergamo, Bergamo, 1956
33
piazzuola, delimitata a sinistra da un vecchio edificio che al
pianterreno ospita una trattoria, a destra dal parapetto della muraglia
che precipita a valle. Dai due angoli estremi, due strade, una si snoda
lungo le mura, l’altra sale al centro dell’abitato, si esaurisce nella
piazza principale intorno alla quale sorgono l’antico castello, adibito a
Municipio,la torre merlata, il duomo, palazzetti che sono sepolcri di
storia e di secoli. Qua e là, tra una costruzione e l’altra, come radici a
fior di terra, viuzze selciate sciamano in ogni senso, collegano al cuore
antico di Montona le estremità periferiche.
Giro, rigiro intorno al Duomo dal portale chiuso. Una ragazza, alla
finestra, si sta passando il rossetto sulle labbra. Le domando perché la
chiesa non sia aperta. Mi dice che il parroco abita a Caldier, che viene
a celebrare la messa soltanto la domenica, perché i fedeli sono pochi.
Come mai, se la città conta millecinquecento abitanti? Stupore e
sconforto si insinuano lentamente in me. Possibile non ci sia neppure
il sagrestano? Sì, il sagrestano c’è, abita in via Gioacchino Rakovatz
al 62. Ringrazio, cammino. Strade lastricate, qualche bottega, un
silenzio pesante, di fortezza.
Il sagrestano è vecchio, secco, minuto. Nella faccia di lacca, due
ferme pupille, penetranti. Quando gli domando dell’altarino da campo
si fa guardingo, evasivo, mi scruta con diffidenza, quasi con ostilità.
Gli mostro documenti, gli narrò la storia del prezioso cimelio che da
Bartolomeo Colleoni passò a Bartolomeo da Alviano. Il suo viso si
distende, un’ombra di sorriso lo rischiara. Ma dice che l’altarino c’è,
che è stato difeso, attraverso i tempi, da tante insidie, che è la gloria di
Montona. Alla battaglia di Lepanto era sulla nave ammiraglia, si deve
alla sua presenza se i turchi furono sconfitti… Parla, dice che per la
Fede darebbe la vita. Vigila sul duomo e sulle altre due chiesette di
Montona, come un crociato sul Santo Sepolcro.
Calli di stampo veneziano, case petrigne, ombre stagnanti, silenzio
claustrale, poi la piazza colma di sole. Nella disadorna sagrestia, un
tavolo, un decrepito armadio. Il sagrestano tira a sé un cassettone,
scosta cotte e paramenti, solleva a fatica il cimelio, lo posa su tavolo,
delicatamente. Eccolo, finalmente, l’altare da campo davanti al quale
il Bergamasco, i suoi capitani, cavalieri e fanti pregavano per il trionfo
delle insegne colleonesche e di Venezia! Il prezioso cimelio consta di
una parte centrale e di due laterali, fissate a quella centrale da piccole
cerniere. Misura 90 centimetri per 70. Le tre lastre d’argento sbalzato
sono fissate a grosse tavole di legno ormai tarlato. Su quella centrale,
un Cristo in croce, angioli, la Madonna, San Giuseppe. Su ognuna di
quelle laterali,due santi. Un motivo decorativo incornicia ogni lastra.
È opera di notevole calore artistico oltre che storico, cui le inevitabili
peripezie non hanno causato eccessivi danni. A San Pietro è stato
34
sottratto il pastorale e dalla fascia ornamentale spiegata sotto la croce
mancano alcune pietre preziose.
Quanta storia, quante imprese sono sfilate davanti a questo Cristo
tremendamente espressivo! Come tutti i condottieri, il Colleoni non
era un santo. Ma a differenza del Piccinino che malediva Iddio per le
battaglie sfortunate, a differenza di Bartolomeo da Alviano che
bestemmiava più di un turco, il Bergamasco riteneva consistere ogni
saggezza nella fede in Dio ed era devoto frequentatore del santuario
della Basella, che scorge nei pressi del castello di Malpaga, sua
abituale residenza. Certamente aveva seco l’altarino quando, nel 1447,
vinse il generale Dresnay e le soldatesche del duca d’Orleans, calate in
Italia per occupare la Repubblica Milanese. E doveva averlo con lui
anche due anni dopo quando, a conclusione di una sanguinosa
battaglia sbaragliò le milizie di Lodovico di Savoia e di Carlo VII,
comandate da Giovanni di Compays 37! Anche l’Alviano lo portava
con sé nel 1508 allorchè, espugnata Gorizia, passò per Monfalcone
diretto a Trieste che costrinse alla capitolazione. Fu durante una delle
sue spedizioni in Istria che fece dono alla Collegiata di Montona
dell’altarino avuto dal Colleoni. (…)
L’amico ha riposto l’altarino, ha chiuso a chiave l’armadio. Dalla
sacristia passiamo al Duomo, che internamente mi ricorda quello di
Monfalcone. Sull’altar maggiore, le statue di Santo Stefano e di San
Lorenzo, patroni di Montona. Oltre una bella “Ultima cena” di scuola
veneziana, il tempio non ospita opera d’arte di rilievo. Anche gli
affreschi delle volte non hanno la patina dell’antichità. Risalgono
appena al 1913.
Torniamo all’aperto, tra scrosci di luce e geometrie d’ombre. Mi
accomiato dal buon sagrestano con una stretta al cuore. Troppo
silenzio, troppo vuoto nel Duomo deserto, introno a noi. I pallidi
stemmi murati sulle case hanno il freddo colore delle cose morte, e se
37
«A proposito della battaglia della Frascata, Francesco Filelfo
poeticamente descrive il duello fra il Colleoni e il Dresnay, facendo così
conoscere un episodio, che, se è vero, non è riferito dai biografi del
condottiere. A un certo punto della battaglia cioè, Rinaldo Dresnay, per
sostenere le schiere francesi che cedevano, afferra un’asta dalle mani di un
armigero e si lancia spronando il destriero. Il Colleoni gli vola incontro.
Cadono rotte le aste da una parte e dall’altra. Allora l’uno alza la clava,
l’altro la bipenne, cercando di ferire l’avversario. Finalmente Rinaldo tira un
fendente sul capo del Colleoni, fortunatamente protetto dall’elmo; ma il
Colleoni para il colpo colla clava e poi, roteando terribilmente quest’arma,
coòisce in pieno l’avversario, che cade da cavallo e viene fatto prigioniero»,
in BELOTTI B., Studi colleoneschi, Milano, Casa Editrice Ceschina, 1939XVII, pp. 21 - 22
35
qualche voce non si levasse qua e là, mi parrebbe di camminare fra le
tombe. Mi volgo a guardare ancora una volta l’antica porta, il Leone
alato, il mastio severo, poi infilo la scorciatoia. Devo portarmi a
Livade, per proseguire alla volta di Fiume. Il canto di alcune
contadinelle mi rincuora. Dal fondo valle sale il ronfare di un trattore.
Oh, quanto più dolce sarebbe quest’ora, se nell’aria mite un concerto
di campane annunciasse il mezzogiorno!
36
8.
L’altare da campo tra storia e leggenda 38
Si avvicendavano le stagioni negli spaziosi cieli di Lombardia, e
dinanzi alle torri di Malpaga il Serio scorreva ora torbido di piogge
autunnali, ora invisibile sotto una crosta di ghiaccio o gonfio al
disgelo dai monti o ridotto a una lenta tortuosa vena nel letto calcinato
del solleone.
L’opera più viva, seguita con più sollecito amore, era la Cappella
di Bergamo a cui l’Amadeo prodigava il giovane fervore del suo
ingegno, sapendo di legare per sempre in essa il proprio nome a quello
del condottiero. Dirimpetto alle severe arcate del Palazzo della
Ragione e a fianco di Santa Maria Maggiore che sembrava contenta
della brulla facciata per concentrare tutta la sua bellezza nel portale
cesellato, quasi ad annunciare la nascita di un’età nuova sorgeva il
mirabile edificio, melodia di marmi bianchi e rosei, col suo rosone
intarsiato nella fronte quadra coronata da una loggetta a colonnine e
trafori, con le sue agili finestre ad arco tondo, sovra esse le nicchie coi
busti di Cesare e Traiano.
Quando si spargeva la voce della sua presenza, il podestà e i
maggiorenti di Bergamo, i quali correvano a riverirlo, trovavano il
condottiero sotto le impalcature mentre parlava con l’architetto o
sorvegliava la messa in opera di un blocco, e gli facevano scorta alla
sua casa, discutevano con lui gl’interressi della città. Ma per un lungo
periodo le visite ai lavori diradarono: una riattivazione del suo
carteggio, arrivi e partenze di ambasciatori e di capitani, trattenevano
il Bergamasco a Malpaga. L’argomento teneva sospesi molti animi,
interessava tutte le corti, e in virtù delle mille capillarità della politica
provocava un rincaro delle biade. Il Duca di Borgogna, in guerra
contro il re Luigi XI, aveva offerto al condottiero il comando del suo
esercito. Oltralpe si aveva buona memoria e un potente principe
esperissimo di armi vedeva nel Colleoni il più grande capitano del
tempo 39. Carlo il Temerario proponeva una lauta provvigione e la
38
in OPERTI P., Bartolomeo Colleoni, Torino, Società Editrice
Internazionale, 1964, pp. 349 - 361
39
«Un’altra evoluzione della cavalleria pesante in cui Venezia non
costituì certo un’eccezione, ma alla quale il governo dedicò un interesse
particolare, fu la comparsa, e poi l’apparente declino, del fenomeno delle
“lanze spezzate”. La costituzione di compagnie di “lanze spezzate” con
37
signoria di una o più province, e il bergamasco non avrebbe dovuto
portare di suo se non 1000 cavalli e 1500 fanti “armati e in punto al
buon costume d’Italia”.
Al pensiero d’impartire ordini di marcia, studiare un piano di
operazioni, vedere un campo di battaglia, il condottiero sentiva
rifiorire le energie. Era la bella avventura cercata a vent’anni e che
avrebbe ricollegato la fine al principio, poiché l’età poteva incurvargli
le spalle ma l’istinto non mutava, e la guerra restava il suo bisogno più
profondo, come per le dita dello scultore la necessità di plasmare.
Aiutare Carlo il Temerario nella sua lotta significava anche impedire o
allontanare l’unificazione della Francia, fatto che il Bergamasco
presentiva funesto all’Italia, ed egli spinse innanzi le trattative ma
senza troppo sperare, perché conosceva i veneziani. Infatti la
quanto rimaneva delle compagnie di condotta che avevano perduto il loro
capo era una pratica ben consolidata anche prima del 1454, che consentiva
allo Stato di mantenere al proprio servizio truppe già esperte sottoponendole
a un controllo più diretto: le “lanze spezzate” venivano pagate direttamente
dallo Stato, che sceglieva i loro capitani.
Nel 1454 Venezia disponeva ormai di parecchie compagnie di “lanze
spezzate”: i “Roberteschi”, i sopravvissuti della grande compagnia di Roberto
da Montalboddo, caduto nel 1448; i “Gatteschi”, i resti delle compagnie di
Gattamelata rimasti senza guida dopo la morte di Gentile da Leonessa, nipote
acquisito di Gattamelata, e dopo che le ferite riportate resero inabile al
comando Gianantonio di Gattamelata, nei primi anni Cinquanta. Nel 1456,
morto Gianantonio, le tradizioni particolari dei Gatteschi furono riconosciute
attribuendo loro il nome di Società di San Marco e nominando al loro
comando Antonio da Marsciano, genero di Gattamelata. Rimanevano
comunque “lanze spezzate”; Antonio da Marsciano ne aveva ottenuto il
comando da Venezia, non erano le “sue” truppe. In questo senso erano simili
alle compagnies de l’ordonnance francesi. Negli anni dopo Lodi la
Serenissima ebbe l’occasione di rinforzare le sue “lanze spezzate” con altre
compagnie rimaste senza condottiere, ma questa pratica non era comunque
priva di problemi: in assenza di un’attiva politica di reclutamento, e in un
periodo di pace prolungata in cui era meno probabile che le compagnie
perdessero il loro condottiere, le “lanze spezzate” tendevano a trasformarsi in
veterani nel senso peggiorativo del termine. Per tutti gli anni Settanta e
Ottanta il problema dei soldati troppo anziani in queste compagnie assillò
l’amministrazione militare veneziana. Nel 1475, quando Bartolomeo
Colleoni morì senza lasciare eredi maschi diretti, fu discussa l’opportunità di
integrare tutte le sue truppe nelle “lanze spezzate”; alla fine pare venisse
decisa la formazione di una compagnia di “Colleoneschi”, che negli anni
Ottanta avrebbe creato i suoi problemi per la troppa anzianità dei veterani, ma
il grosso delle truppe fu suddiviso in compagnie più piccole affidate in
condotta ai Martinengo, generi di Colleoni.», in MALLET M. E., La
conquista della terraferma, in Storia di Venezia dalle origini alla caduta
della Serenissima, Roma, Ed. Istituto della Enciclopedia Italiana, 1996, p.
267
38
Serenissima, sebbene alleata del Duca di Borgogna, si oppose al
progetto e invano il principe francese prospettò una condotta che
lasciasse libero il Colleoni qualora la Repubblica fosse stata assalita.
Per i Savi di San Marco il Bergamasco a Malpaga era come un peso
che, situato in un punto, mantiene la stabilità di un congegno; essi non
ammettevano a nessun patto di vederlo allontanarsi, e ancora una volta
fecero appello all’impegno a vita e ricordarono la lettera del ’54.
Catena dorata: il capitanato generale del primo Stato d’Italia era un
onore da scontare con l’inerzia e la rinunzia; e d’altro canto partire a
dispetto di Venezia, spezzare i vincoli cementati durante trentacinque
anni di servizio egli non poteva, e dovè contentarsi di aiutare
indirettamente Carlo il Temerario compiendo sul’Adda movimenti che
impedirono a Galeazzo d’inviare al re Luigi XI le truppe promesse.
Ma tutto il 1473 trascorse in trattative discussioni ambascerie.
Gli ultimi anni dopo la morte di Medea erano stati una vicenda di
ritorni a interessi terreni, ai quali il suo passato e gli avvenimenti lo
riportavano, e di nuovi distacchi conseguenti a nuove delusioni; e ogni
distacco s accompagnava a una maggiore assiduità alla Basella, a un
decadimento delle forze, a un rinnovato desiderio dell’estrema quiete.
Questa volta egli sentì ch’era l’ultima e che il mondo non l’avrebbe
ripreso. Le figlie, delle quali l’una o l’altra gli era accanto, prendevano
verso di lui modi sempre più protettivi, vietandogli ora di uscire col
cattivo tempo, ora una vivanda che gli piaceva, ora il lavoro di notte; e
il vecchio non protestava per non dar rilievo alla propria umiliazione.
Egli vide riunite intorno a sé le figlie coi loro mariti nel marzo del
’74, al ricevimento offerto al re Cristiano I di Danimarca che si recava
in pellegrinaggio a Roma.
L’ospite aveva seco 200 cavalieri della nobiltà danese, e a bandiere
spiegate, tra squilli di trombe, il condottiero gli mosse incontro ai
confini del Colleonese con 600 cavalieri schierati in ordine di battaglia
montati su destrieri di uguale mantello. Due giorni tra feste e conviti si
trattenne il Re a Malpaga, partecipò a una partita di caccia con falchi
cani reti, e in suo onore fu combattuto un torneo fra cavalieri
colleoneschi e danesi: scene piene di movimento e di colore, che il
Romanino avrebbe affrescate nelle sale del castello. Il Bergamasco
donò all’ospite un’armatura cesellata e alla partenza lo accompagnò
sino ai limiti del suo dominio. E come alla visita illustre così a tutti i
fatti più notevoli che gli occorrevano egli prodigava una cura
amorosa, quasi a congedarsi affettuosamente da essi.
Il reale pellegrinaggio gli rinnovò l’antico desiderio di recarsi nel
Levante ad adorare il Sepolcro di Cristo, ma per non sentirsi ricordare
ancora una volta la lettera del ’54 non ne accennò neppure al Governo,
e cercando una meta più vicina pensò alla Santa Casa di Loreto. Per
una volta volle emanciparsi dalla tirannia delle figlie, e in mezzo alla
39
loro costernazione partì in pieno inverno, nel gennaio del ’75,
convinto che i disagi avrebbero accresciuto il merito della sua
devozione; e invece, in cammino, gli sembrava che quei disagi gli
giovassero anche alla salute e godeva del loro sapore di guerra. Con
una scorta di 100 cavalieri abbrunati percorse le tappe note, rivide le
strade di Romagna battute nel ’29, nel ’34, nel ’44, nel ’67, rivide
sopra Ancona il Monte Cònero affacciato al mare, e più oltre la
marina e le valli della Marca ove si era accampato con 50 lance dopo
la battaglia dell’Aquila. Tutta la sua vita e tutta la storia italiana di
mezzo secolo gli venivano incontro dai profili del paesaggio e per
quanto si sforzasse di respingere ogni pensiero profano egli non
poteva solcar pianure, passar fiumi, varcar colli senza immaginare le
situazioni tattiche che il terreno suggeriva.
Il Marchese di Mantova, il Duca di Ferrara, il signore di Pesaro
Costanzo Sforza lo accolsero festosamente e lo pregarono di
trattenersi, ma come in un itinerario militare, sotto la pioggia o il
vento egli riprendeva la via, mentre la sua presenza risvegliava nelle
contrade la leggenda delle sue gesta, e dai campi i contadini
accorrevano a veder passare assorto e solo innanzi alla colonna il
vecchio guerriero che aveva riempito del suo nome l’Italia.
Sciolto il voto e adorate le reliquie della Santa Casa sfolgorante di
marmi all’esterno, nuda all’interno nelle pareti ruvide e brune, la sua
anima era colma di pensieri religiosi, ma uscendo sul sagrato, il solco
di Castelfidardo tra il gibbo del Cònero e gli ultimi contrafforti
appenninici gli prospettò una battaglia d’incontro per la conquista
della strada litoranea.
Sulla via del ritorno, senza tregua egli guardava le forme della
terra, così semplici e grandi, per conservarle nelle pupille, a ogni
borgo selva rocca riviera dava il suo addio silenzioso; e giunto a
Malpaga dichiarò che si sentiva saldo da poter ricominciare domani.
Ma le figlie lo guardavano con attenti occhi poco rassicurate da quella
spavalderia.
Ora sembrava e pensava ad essa con sollievo, ma ciò che non
poteva sopportare, dopo aver considerato sempre il proprio corpo uno
strumento docile come un’arma, era la progressiva decadenza, le
vecchie cicatrici rideste a una a una, il respiro corto e le ginocchia
malsicure sulle scale, la mano indurita. Sembrare ancora forte era la
sua ambizione superstite e per non aumentare intorno a sé le premure
taceva i suoi mali e li trascurava. A poco a poco, con delicatezza e
trovando ogni volta i pretesti più plausibili, i generi assumevano il
governo della Compagnia per tutto ciò ch’era movimento, e da
Brescia Gerardo richiamava sopra di sé una parte sempre maggiore del
lavoro; ma vedendo diminuire in un settore le sue occupazioni egli ne
cercava altre, progettava collegamenti di fiumi per creare un tragitto
40
navigabile da Bergamo a Venezia, disegnava nuove fortificazioni
intorno a Martinengo, caposaldo di difesa del Veneto, faceva passare
per le proprie mani tutto il lavoro d’ufficio. E conservava la vecchia
abitudine del dare ogni giorno udienza a qualunque ricco o povero
ricorreva a lui, non lasciando mai trapelare la propria stanchezza
dinanzi alle intricate e ostinate contese, trovava il tempo per ascoltare
i pifferi dei suoi borghi, rudimentali orchestre che ambivano
l’approvazione del loro signore, e talvolta, tra la felicità dei terrazzani,
compariva alle feste campestri e guardava con amore quei contadini
ch’erano il nerbo della pace e nei quali egli presagiva il nerbo della
guerra il giorno non lontano in cui lo sviluppo delle bocche da fuoco
avesse spodestato il cavaliere vestito di ferro.
La tensione con lo Sforza era cessata: sotto l’ispirazione del
Medici, Milano, Firenze e la Repubblica s’erano unite in un patto di
alleanza, e lo stesso Galeazzo aveva proposto che il Colleoni fosse
nominato capitano generale della Lega; ma Venezia sapeva che ormai
il Bergamasco valeva soprattutto per il nome. Il Duca spinse la propria
cortesia verso il vicino sino a mandargli un palafreno riccamente
bardato, un frisone di gran prezzo con incollatura taurina, enorme
groppa falcata e mantello sagginato come i cavalli delle carte da
giovo. Lodò il condottiero il purosangue, ma prima di provarlo
esaminò a pezzo a pezzo la bardatura, perché dell’animale si fidava
ma non del donatore. Poco egli si giovò del destriero, e a non poter più
montare qualunque cavallo, e, dopo alcuni mesi, nessun cavallo,
sofferse l’ultima amarezza. Andava tuttavia a piedi mostrando di
portare per passatempo una mazza leggera, e sottile infatti era la sua
verghetta di corniolo, ma salda. Allorchè nessuno lo vedeva, venendo
meno la sua volontà gigantesca si spegneva nei suoi occhi la luce che
vi brillava quando si posavano sugli uomini, tutta la persona
s’accasciava, ed egli supplicava la Provvidenza che gli risparmiasse
l’avvilimento di un lungo sfacelo.
Un pomeriggio d’ottobre, tornando dalla Basella scorse sulla riva
del Serio una fanciulla vestita di bianco che conduceva per mano
traendole verso di lui due donne anziane abbrunate, e camminavano
esse sull’erba senza piegarla; egli le guardava con dolce ansia e
quando sorridendo si fermarono le riconobbe. Lo sguardo d’ognuno
conteneva l’accento del proprio amore, di madre, di sposa, di figlia,
ma quella diversità si fondeva in un unico alone di luce. Dietro ad esse
veniva un vecchietto in lieve arnese e a capo scoperto ma con
l’usbergo, e si rivolgeva al condottiero accennando con gioia al
proprio usbergo come a un immenso tesoro. Attraverso il ferro egli
vide la piaga nel costato e sul volto la cicatrice dallo zigomo
all’orecchio. “Vengo con voi?…”. Le donne e il vecchio si
41
allontanarono a ritroso, come a invito, e anche quando furono
dileguate rimase sospeso nell’aria il loro sorriso.
Ritornò al castello col cuore gonfio di felicità. La mattina seguente
le Alpi Orobie erano così vicine che sembrava di cogliervi la stella
alpina allungando la mano; la tramontana riempiva il cielo di strida,
piegava i boschi di Malpaga, bruniva gli specchi argentei del Serio. Il
condottiero uscì sulla loggia e si espose al vento, come aveva fatto
nascostamente altre volte, per avere sul viso l’impressione del
galoppo. Poi raggiunse l’ufficio e attesa al suo lavoro; a mensa evitò
gli sguardi inquisitori delle figlie e di Gaspare, e, tolto il desco, disse
che andava a riposare com’era uso. Non salì in camera, percorse lungo
il cammino di ronda la cortina e contemplò tutta la sua terra, le sue
rocche e i borghi, si affissò in ogni punto di quell’orizzonte familiare
che s’intagliava netto sotto il cielo ventoso, a levante da Rovato a
Soncino, e l’arco dei monti sopra Bergamo, la Ghiara d’Adda da
Crema a Lodi, il piano lombardo che si scopriva a occaso sino al
castello di Monza, e il vecchio fissò la torre su cui il sole metteva un
punto di luce, guardò ogni plaga lontana e vicina di quella terra
combattuta, amata, calpestata, risarcita.
Salì agli spalti e accarezzò a uno a uno i cannoni, girò intorno ai
rivellini, toccò le leve delle saracinesche e dei ponti levatoi, passò
nell’armeria tra le corsie degli arnesi da difesa e da offesa allineati alle
rastrelliere, percorse tutto il castello guardò ogni pietra di Malpaga
ch’egli aveva disegnata e veduta murare. Da ultimo entrò nella
scuderia e gli parve che l’odore dei cavalli lo rinfrancasse, lisciò le
groppe poderose, raggiunse in fondo la posta di Morgantino ch’era
invecchiato e non lavorava più, ma del quale Zìtolo aveva riservato a
sé la cura e lo vezzeggiava aggiungendo una manciata d’orzo alla sua
misura di crusca, abbracciò la testa lunga e magra del cavallo. Entrò
un giovane scudiero e non vide il capitano nell’ombra, sellò un
palafreno, lo sciolse, lo inforcò e con capricciose impennate
sprizzando faville all’acciottolato uscì all’aperto.
“Noi non possiamo più fare queste cose, e fatichiamo al passo, su
terreno piano…” sussurrò il vecchio stringendo il capo del cavallo che
appuntì le orecchie, “Morgante, Morgantino, ricordi la nostra Medea?
Ricordi quando eravate piccoli e giocavate a rincorrervi nel prato?
Ricordi quando ti aizzava alla carriera e a te sembrava di portare una
piuma? Ora io la raggiungo, ma né lei né io potremo essere felici se
dove ci ritroveremo non vi sono cavalli…”.
Le scarne dita accarezzavano il collo, la criniera, le froge, e
l’animale socchiudeva i grandi occhi bruni e premeva il muso contro il
petto del vecchio.
A un brivido più intenso si staccò dal cavallo e uscì barcollando.
La violenza della luce lo abbagliò; curvo, appoggiato alla sua
42
verghetta, tenendosi rasente al muro girò intorno al cortile: la scala
non gli era mai sembrata tanto lontana.
Al gradino il ginocchio non resse: qualche istante di riposo sarebbe
bastato, e poiché gli stallieri lo guardavano, addossandosi alla parete
per vincere la vertigine mostrò di osservare una finestra dirimpetto.
Provò ancora, ma le gambe non obbedivano più: allora chiamò a nome
uno stalliere.
Ho camminato troppo e sono un po’ stanco: aiutami un momento
sulla scala.
L’uomo sorresse alla cintura il corpo inaridito e tremulo del suo
signore e salirono lentamente. Sulla loggia apparve Gaspare e guardò
con occhi spalancati il suocero: il suo buon artigliere poteva conoscere
il vero, e il vecchio lo fissò sorridendo, come a chiedere venia; gli
abbracciò il collo e quasi portato di peso attraversò sale e corridoi,
raggiunse la sua camera disadorna, si abbandonò sul letto, volse il
capo alla nicchia ove una fiammella brillava dinanzi alla Vergine.
- Gaspare, non chiamare nessuno ora; porta qui il nostro altare da
campo.
Sull’altare da campo il sacerdote celebrò l’ufficio divino mentre
bisbigli sommessi venivano dall’ombra del corridoio assiepato di
soldati servi e popolani, i quali ad ora ad ora facevano ala a chi in
punta di piedi entrava nella camera e ansiosamente guardavano chi ne
usciva40.
40
Quando il Colleoni morì nella notte dal 2 al 3 novembre 1475 nel
castello di Malpaga, si spense un uomo che negli anni ottanta della sua
esistenza, grazie alla sua forza e alla sua superiorità, era salito ad una
posizione sociale acquisita nelle vittorie militari, in virtù del suo coraggio e
della sua accortezza tattica, e nelle trattative sempre condotte con tenacia.
Questa posizione era basata non solo sulla fortuna, ma – certamente – su di
un’aspirazione innata, la cui origine forse è da ricercare nelle spaventose
esperienze dell’infanzia, allorquando il padre venne assassinato, la madre
incarcerata, il fratello ucciso proditoriamente ed egli stesso dato in pegno.
Quali sono le circostanze che dai traumi della sua fanciullezza ne hanno fatto
l’uomo celebrato nella sua patria come benefattore, come “pacificator et
moderator Italiae”? Che cosa indusse quest’uomo a risparmiare gli assassini
di suo padre e di suo fratello, i ladri della sua eredità paterna, non solo, ma
addirittura a proteggere i loro figli allorché la sua potenza glielo permise?
Al momento della sua morte egli era “imperator” dal 1451, portava
l’impresa araldica con le due teste leonine unite da due bande conferitagli da
Giovanna dal 1428, era “Capitanus generalis” della Serenissima dal 1455,
“dux Andegaviae” dal 1466, “dux Burgundiae” dal 1473.
Nelle sue terre possedeva beni inestimabili, la sua famiglia, i suoi amici,
la popolazione lo onoravano.
La vita selvaggia di quel secolo aveva fatto del ragazzino un soldato, del
soldato un uomo capace di utilizzare per il bene della comunità ciò che la
43
Per lungo tempo essi sentirono il notaio ripetere a mezza voce le
parole mormorate dal morente. In presenza dei testimoni e mentre la
ruvida pergamena strideva sotto la penna del cancelliere, il capitano
generale dettava le sue estreme volontà: nulla e nessuno sfuggiva alla
sua memoria: discendenti e congiunti41, funzionari famigli fedeli.
Opere pie e istituti religiosi da lui fondati: a occhi chiusi, reggendo
con implacabile energia l’integrità della mente sopra la rovina del
corpo, a tutto egli provvide per il domani e per il lontano futuro, per i
viventi e per i figli non ancor nati; e ricordò i suoi vecchi uomini
d’arme, nominò i podestà dei suoi borghi, rimise debiti a coloni e
mezzadri. E poi la Repubblica, dotata di 100 mila ducati da impiegarsi
nella guerra contro i Turchi, e infine l’Erario, istituito erede degli
stipendi scaduti, poiché anche quelli erano suoi e poteva disporne.
Spogliato di ogni ricchezza, sciolto da ogni legame, non gli
rimaneva se non la sua targa che avrebbe seguito la bara portando il
morione e la spada. Come il guerriero adolescente solo con le sue
armi, in cammino verso il campo di Acerra, egli era pronto alla nuova
condotta sotto il Signore di tutti; e compiuto l’ultimo dovere godè di
potersi riposare, di abbandonarsi al gorgo che lo attirava popolandosi
di fantasmi. Disfatto e tremante, ricacciando in gola i singulti e
trangugiando le lacrime, Zìtolo si affisava in quel volto cereo nel
quale già traspariva il rilievo del teschio, e solo fra gli astanti, a un
moto degli occhi sotto le palpebre, a un cenno di sorriso, a un lieve
aggrottar delle ciglia, sapeva quali visioni agitavano l’agonia del suo
signore.
Cieli, cieli soleggiati; la maestosa mole del Vesuvio allarga a
ombrello il pennacchio del suo vapore e a levante gli azzurri monti
Picentini fanno corona al vulcano come cortigiani al cospetto del loro
Re: cozzi di lame nella pianura bionda tra i Campi Flegrei e i colli di
Caserta: voglia mordente di abbordare gli Sforzeschi, leggerezza ilare
della prima fazione, e meraviglia al sentire così molle la gola del
nemico, al sentir la punta deviare sull’osso e stridere contro la celata
fortuna e la propria forza gli avevano donato. Un individuo che nella vita
attiva, in una lotta che era essenzialmente lotta per i propri diritti, finì col
realizzarsi in ciò che la sua epoca chiamò l’eroe di virtù.
Eppure il Colleoni è un tale eroe non solo nell’ambito delle lodi
panegiriche, ma anche nelle opere. E il monumento più importante della sua
virtù, egli lo ha tramandato con la sua donazione, il Luogo Pio della Pietà
Istituto Bartolomeo Colleoni. Cfr. PIEL F., La Cappella Colleoni e il Luogo
Pio della Pietà in Bergamo, Bergamo, Ed. Monumenta Longobardica, 1975,
pp. 13 - 14
41
La moglie pia e fedele, Tisbe Martinengo Colleoni, morì il 10 aprile
1471
44
mentre due pupille lo fissano allargandosi a dismisura e
domandandogli con stupore enorme: “Perché mi hai fatto questo? Tu,
un fanciullo!”. Lontano, lontano da quegli occhi spietati! Cammino
senza meta sulla distesa del mare, aeree forme di isole come vele
ancorate al largo, dondolio del mare notturno, indifferente brusio della
pioggia sulla coperta madida, e la discesa cauta lungo l’assero del
timone, con l’urto del cuore in gola, la stretta fredda dell’acqua, il
segno della Croce, le bracciate lente nel buio verso il lontano scroscio
della risacca.
Colonna in marcia; volti e volti sotto l’ombra dell’elmo, volti
imberbi di giovani, facce incolte e barbute d’uomini maturi dai
sopraccigli selvosi, alcune piene di vigore animale, altre nobilitate da
una cicatrice o dalla chiarezza sincera dello sguardo; mani abbronzate
e aspre, mani forti nodose che, nel diverso rilievo delle vene rivelano
l’età e nel palmo calloso l’abitudine al guantone di ferro; corazze e
cotte, rotelle e camagli, bracciali e schinieri; lamina liscia battuta a
piastra a piastra, armature articolate come guaine su membra di atleti;
e sciami di guerrieri, turbini di guerrieri furibondi intorno alla bella
chiesa che apre sulla mischia il suo portale pieno d’ombra azzurra,
ondeggiamento delle schiere percorse dal grido sbigottito: “Braccio è
morto! Braccio è morto!”.
Armi, armi d’ogni foggia, da taglio e in asta, da fendente e da
stoccata, da lancio e da percossa, belle armi veloci splendenti
inesorabili, rigate di sangue sino all’elsa; camminamenti segnati da
larghe rocce di sangue, scale graticci e mantelletti, barbacani bastioni
e antemurali, piattaforme munite di ogni congegno, funi di màngani,
travature di catapulte, telai di scorpioni, gioghi di baliste; e schiocchi
cigolii crepitii, gesti di stanghe nell’aria, frulli tonfi ventate; pennecchi
accesi, odore di zolfo e di bitume, rugghi di fiamme, acri nembi di
fumo; la gola soffocata, i piedi nella colata ardente e la moltitudine
urlante sotto la torre: “Ascoltate! Ascoltate! Io, Bartolomeo
Colleoni…”.
Ma la moltitudine scoppia in un delirio di applausi quand’egli
appare a fianco del Doge e apre il corteo verso la Basilica: la chiesa è
gremita di cavalieri in arme e di magistrati in toga di sciàmito che
s’inchinano al passaggio; tutte le gemme del Tesoro brillano
sull’altare, il capitolo è fregiato dei suoi paramenti più ricchi, e
dall’altare il Doge prende il bastone del comando: “Questo bastone
militare, in segno della tua potestà, con buon auspicio e ventura dalle
nostre mani prendi. La maestà, la fede e le ragioni di questo impero
sia tua cura ed impresa con dignità e decoro mantenere e
difendere…”. È la mano del doge Malipiero o la mano bianca ossuta
del senatore Dandolo in gesto di diniego? Lontano dalla città arriva!
Arranca barcaiolo! La distanza rimpicciolisce e confonde i marmorei
45
fastigi mentre la barca scivola a voga distesa sullo specchio della
Laguna. Gli attimi sono preziosi: le staffette attendono a Malgher: dal
Ducato, dall’Etruria, dal Reame le colonne convergono verso la
Romagna…
Lontano, lontano… Altra terra sotto gli zoccoli dei palafreni, terra
d’ogni contrada d’Italia: zolla bruna che s’imbeve del sangue, argilla
che ne fa pozza, sabbia di greto che lo succhia, pietra che ne arrossa,
dolce erba che lo cela e ne infoltisce! Terra morsa nell’urto della
caduta, e la lama sul collo mentre gli occhi sbarrati mirano il ferro
grondante infisso nella fronte di Iacopo. Su dalla polvere! Ma nulla
risparmia la polvere, imbianca le ciglia, copre le bardature, inaridisce
le labbra, stride sotto i denti. Lontana nube di polvere spia del nemico!
“Conversione a destra! Squadrone in linea! Trotto… trotto…
allungate! … Lo stendardo al centro della seconda riga!”.
S’accelerano fra la tenaglia delle ginocchia i guizzi della poderosa
colonna vertebrale “Visier!… Lancia in resta!…”. A un tempo le aste
si abbassano dinanzi alla testa dei palafreni; una morsa intorno
all’impugnatura è la mano difesa dalla coccia, duro come ferro il
bicipite mentre il cavaliere s’incurva con tutto il peso sull’asta e
attraverso la fessura della visiera le pupille s’aguzzano agognanti sul
nemico da frantumare.
Cavalli, cavalli, cavalli! Muscoli veloci e sangue ardente, corsieri
di nocche nervose e testa leggera, impetuosi superbi generosi bizzarri,
dai bei mantelli sauri e pomellati, bai e morelli, leardi e rabicani,
destrieri da battaglia rotti a ogni terreno, infaticabili, ebbri di furore al
cozzo! Galoppo! Galoppo! E sull’onda dei cavalli le fiamme degli
stendardi: Giglio fiorentino e Leone veneto, Chiavi d’oro e Pantera
sforzesca, Biscia viscontea e Croce di S. Ambrogio; vessilli
conquistati nella mischia a colpi di mazza, vessilli chiazzati di sangue,
difesi con disperata voluttà di morte sui corpi dei compagni: “A’ la
gorge! – Carne! – Sforza! – Colleone!… leone! … Leone! …
Vittoria!. Inebriate grida di vittoria in campo aperto, vittoria rombante
sugli spalti tra gli affusti allineati e le nuvole degli scoppi: mortai
falconi spingarde, bossoli e proiettili, barili di polvere e
inneschiroventi: “Prima batteria, fuoco!”. I pezzi sussultano, aprono
solchi nelle file nemiche; ed ecco i colpi di risposta, sibili schianti
rimbalzi paurosi: “Capitano! Il muro coprente è diroccato! – Regge la
piattaforma? Caricate! Prima batteria, fuoco!.
Vengono i cari amici specialisti d’operazioni in terra murata, il
Gattamelata, il Cavalcabò, Detesalvo Lupi, Borso d’Este, e discutono
assalti e difese, congegni d’approccio e opere di mina. Meglio è la
terra aperta: scaglioni in cammino, servizio d’avanscoperta, pattuglie
sui fianchi, finte e aggiramenti, tappe di pianura e di montagna; monti
e monti, dalla Val Sesia al Cadore, forme solenni sotto cieli luminosi,
46
dentature di roccia e versanti ammantati di abetaie, forme di macigni e
candide cime inviolate. Le galee vàlicano i monti? Una vela d’oro
brilla sul pendio spinta dal vento e dal coro della moltitudine. E fra le
chiostre delle cime s’inazzurrano, immani turchesi, i laghi, anch’essi
guerreggiati poiché ovunque esiste uno specchio d’acqua la Regina
dei flutti arma una propria e scioglie al maestro la sua vela latina.
Scrosci d’acque argentine in fuga tra le rocce, gorgoglianti tra prode
erbose in fondovalle, pacificati al piano e in lente anse irresoluti della
meta; sereni fiumi d’Italia tentati al guado col calcio dell’asta, fiumi di
frontiera e di combattimento, sapienza dello stratega! Adige Mincio
Chiese Oglio Adda… L’Adda è un piccolo solco inciso con una
scheggia sull’ammattonato, nella penombra gelida, dalla mano
intirizzita…
Il condottiero apre gli occhi svagati da tanto turbine di visioni,
lentamente si ritrova, ha pazienza per un altro indugio. Con volti
macerati le figlie lo guardano dal fondo del letto, strette l’una all’altra
come quando gli si presentavano bambine; Polissena e Cassandra
pregano dinanzi alla Vergine i loro mariti parlano a bassa voce
nell’angolo. Udendo il brusio nel corridoio egli fa un cenno: i dottori
si curvano su di lui, lo sollevano come chiede, col capo diritto contro i
guanciali, poi mormorano qualche parola ai parenti: l’uscio si schiude,
qualcuno regola l’afflusso, e senza rumore entrano ufficiali soldati
borghigiani, con gli occhi rossi, reprimendo l’affanno. Il ciglio del
vegliardo è asciutto, il suo sguardo si posa diritto su ciascuno, la
volontà modella il suo volto come una maschera di pietra, ma
congedandosi da ciascuno egli tenta un sorriso, e a quel sorriso chi
esce non trattiene più il pianto e il contagio riempie di singhiozzi il
corridoio. A lungo dura la sfilata poiché egli vuole che tutti possano
entrare, e passano da ultimo i rettori di Bergamo e di Brescia, poi tutta
la famiglia, anche i piccoli nipoti che vengono sollevati perché il
nonno li veda un’ultima volta, e hanno gli innocenti occhi pieni di
stupore.
A poco a poco la stanza si vuota, il morente sussurra una parola a
Zìtolo il quale esce, poi fa un cenno a Candiano Bollani: il procuratore
della Repubblica si accosta:
Dite a Venezia che non conceda mai più a nessuno tanta fiducia e
tanto potere, quanti ne concesse a me per vent’anni.
Il procuratore porta a destra al petto e gravemente s’inchina.
Scorrono alcuni lunghi momenti; egli non muta volto accorgendosi
che la vista si oscura e un sorriso affiora alle sue labbra mentre Zìtolo
spiega sul letto lo stendardo della Compagnia: gli occhi rimangono
volti alla finestra e le dita tremanti cercano i nomi ricamati sul drappo,
li seguono lettera a lettera: Soncino… Lodi… Pozzuolo… Giungono
dagli accampamenti lontani segnali di tromba: il suo spirito si libra
47
sugli squilli, raggiunge i campi di battaglia, cerca le sepolture, e da
tutte le plaghe vede levarsi e accorrere i suoi morti, prima piccole
squadre, poi ranghi sempre più folti, e ogni schiera ha il suo
comandante: Pietrasanta conduce i morti di Cremona, Sassa da
Citerna conduce i morti di Soave, Ambrogio Corso quelli di Bosco
Marengo, Cristofano quelli di Romagnano, e altri e altri, secondo la
gerarchia del valore, da ogni punto dell’orizzonte, a manipoli o a
battaglioni; i fanti si appressano a passo di corsa, i cavalieri sono ritti
in arcione e i beo destrieri galoppano coi petti squarciati:
“Trombettiere! Adunata!”. Le schiere sopraggiungono, rallentano,
ondeggiano. Iacopo si avvicina portando al morso il padano caduto a
Borgomanero, egli lo inforca e trascorre lo sguardo sulla moltitudine
che lo invoca ebbra come a Landriano. Giamnelo presenta la forza:
“Quante lance? Quante balestre? Quante alabarde?” Migliaia e
migliaia, egli non ha mai comandato una Compagnia così grande, è
più che una Compagnia, è un esercito, l’esercito invincibile sognato
per l’Italia. “Linea di fronte! Avanti!”. Tra squilli di fanfare lo stuolo
si muove, inizia sotto lo sfolgorio del sole la sua marcia trionfale.
Fuori arde il sole della grande estate, ma la chiesa è piena di ombra
e soltanto i candelabri brillano sull’altare: Hic jacet Medea virgo. No!
Medea è l’alfiere della Compagnia: in elmetto e corazzina essa
cavalca dinanzi agli squadroni schierati e porta lo stendardo su cui le
sue mani hanno ricamato in segreto il nome dell’ultima battaglia.
Grigio mattino d’autunno: un velo di nebbia grava sui boschi
stillanti, aleggia sui negletti giardini di Malpaga, si stende lungo il
corso del Serio che lambisce con esile fiottìo il piede delle balaustre
muscose. Le foglie toccate dal freddo incominciano a ingiallire ai
margini. Rintocchi risuonano dal castello: nei campi le donne
s’inginocchiano, gli uomini si soffermano e si segnano. Sugli spalti di
levante un tuono squarcia il silenzio, si propaga come soffio di
tempesta, e una seconda una terza salve scrollano l’aria; gli spazi
rimandano gli echi. Odono le bastie di Pontoglio.
I falconi d’angolo: prendi i bossoli. Cosa fai? Piangi? Ora
dobbiamo sparare: arroventa la verga, tu: svelto! E voi incastrate le
staffe. Così, dammela, scostatevi: fuoco!
Il rombo dilaga nella pianura, venta sopra Cignano, si abbatte
contro la spalliera delle Alpi Camoniche, rimbalza su Brescia; e le
batterie di Santa Afra rispondono, quelle di Desenzano, quelle di
Peschiera: tutto il cielo del Veneto ne rintrona, e la raffica rincalzata
da castello a castello invade il Mantovano sino a Belfiore, raggiunge il
Po a Guastalla, sorvola l’arco collinoso del Garda da San Martino a
Custoza, s’ingolfa e ripercuote a settentrione in Val Giudicaria, in Val
Lagarina, e mentre le ultime onde risvegliano gli Altopiani, Verona e
Vicenza raccolgono la voce di guerra, la rimandano, e passa il tuono
48
sopra Soave, sopra Arcole, varca i Monti Berici, sfocia sul piano di
Padova, richiama altri rombi da Cittadella, investe il Grappa e il
Montello, si spande sulla Laguna, percuote al Campanile di San
Marco, alle cupole dorate, alle trine marmoree del Palazzo dei Dogi,
annunzia alla Serenissima che il suo Capitano generale è morto.
49
9.
Bartolomeo d’Alviano
Bartolomeo d’Alviano, nato a Rocca d’Alviano in Umbria nel 1455
appartenente alla famiglia dei Liviani. Iniziò la carriera delle armi nel
1478 combattendo per il papa e per il re di Napoli nella guerra contro
Lorenzo de’ Medici. Nel 1503 combattè nel napoletano al servizio del
re di Spagna contro i Francesi. Venezia era all’epoca il solo grande
stato che rappresentava per un condottiero l’obiettivo più ambito42.
Bartolomeo d’Alviano entrò al servizio della Repubblica nel momento
di massima espansione conquistata dal Generale Colleoni, ma anche
nel momento di possibile pericolo per possibili attacchi da parte dei
paesi confinanti. Alviano era un abile soldato ma non un politico; egli
non univa le doti di combattente e di politico come il grande suo
predecessore Colleoni 43. D’Alviano nel 1508, il 23 febbraio, riuscì in
42
«Il conflitto tra Massimiliano e San Marco risaliva alle istanze di
sovranità imperiale in Lombardia e nel Veneto suscitate dall’espansione
veneziana in Terraferma, e alla rivalità con la Casa d’Austria per il controllo
di Gorizia, Trieste e della costa dell’Adriatico settentrionale. La prima
vertenza fu esacerbata dall’esplicita indifferenza di Venezia per i diritti
imperiali al momento dell’acquisizione di Cremona nel 1499, mentre la
seconda fu riaperta dalla morte dell’ultimo conte di Gorizia, nel 1500.
All’epoca la nobiltà goriziana aveva scelto Massimiliano, e la Serenissima,
presa dalla guerra con i Turchi, non aveva potuto reagire. Ma la ferita
bruciava, e quando nel 1507 Massimiliano offrì un’alleanza contro i francesi,
e chiese di poter attraversare il territorio veneziano nel suo viaggio verso
Roma per l’incoronazione imperiale, la Repubblica respinse con alterigia
entrambe le richieste. La sconfitta a Pieve di Cadore, nel 1508, della
disorganizzata invasione imperiale per mano di Bartolomeo d’Alviano aprì la
strada a una rapida campagna contro le dipendenze austriache in Friuli e in
Istria: Pordenone, Gorizia, Trieste e Fiume si arresero all’artiglieria e alle
truppe di d’Alviano. L’imperatore era umiliato; Luigi XII compiaciuto, ma
guardingo. Nel giugno 1508 fu conclusa una tregua tra Massimiliano e
Venezia.», in MALLET M. E., La conquista della terraferma, in Storia di
Venezia dalle origini alla caduta della Serenissima, Roma, Ed. Istituto della
Enciclopedia Italiana, 1996, p. 284
43
«Nel 1508 la Repubblica veneta, in guerra colla Casa d’Austria, aveva
affidato al suo celebre generale Bartolomeo d’Alviano il compito di
ricacciare le truppe imperiali che avevano invaso l’alto Cadore e il territorio
cividalese. Il capitano procedette con molta celerità: sconfisse i tedeschi nel
Cadore prendendoli in mezzo a Pieve fra due colonne venete provenienti
l’una dalla Mauria e l’altra da Belluno; poi, attraversata colle truppe
vittoriose la Carnia, scese al piano, espugnò e mise a sacco Cormons, occupò
50
pieno inverno in Cadore a sconfiggere i tedeschi dell’imperatore
Massimiliano, occupando Pordenone, Gorizia, entrando poi in Istria44.
«Il primo Maggio 1508, si presentò l’esercito veneto sotto Trieste,
comandato dal detto Bartolomeo d’Alviano. Abbatteva già prima la
città per mare Girolamo Contarini con nove galere, che ruinò molte
case. Quaranta triestini usciti dalla città, depredarono il castello di
Draga, sottoposto alla giurisdizione di santo Servolo, presidio veneto.
Nel sito detto le fornaci, disponevano li veneti la batteria, quale da
Trieste sortiti di nascosto ed all’improvviso impedirono perfezionare,
fugando li veneti con rimportare zappe e vanghe in città. Non ostante
ciò, rinforzati li veneti, perfezionata l’opera, piantata restò l’artiglieria.
Per mare e per terra tre giorni continui, bersagliata la città collo sparo
di tremila e più cannonate, che atterrarono case, mura e torri, con
mortalità di molti soldati, oltre li storpiati, e maltrattati. Fatta patente
breccia, sgridava il veneto esercito: a sacco, a sacco. Non potendo più
resistere la città. Posta bandiera bianca sopra le mura, inviò un
cittadino al provveditore Giorgio Cornaro per contrattare la resa a
buon patto di guerra. Ritornato l’inviato, si spedirono due cittadini de’
migliori a proporre le capitolazioni, restando concluso, secondo la
volontà del veneto, che resti la città in suo potere, ed il riscatto delle
persone e poderi al proprio piacere. Entrati li comandanti veneti quella
medesima sera in città, la soldatesca restò di fuori per ovviare allo
spoglio.
La seguente mattina, che fu li 8 Maggio, pretenderono li veneti per
riscatto, ventimila ducati, restando l’appuntato in quindicimla. E
benchè a Venezia fosse fatto ricorso, mai tal somma venne sminuita,
onde costretti furono li cittadini a vendere mobili e stabili, e molti a
Gorizia ottenendo a patti la resa della rocca, e quindi coll’aiuto della flotta,
rivolgendo l’assalto dal lato di Prosecco, prese Trieste. In questi fatti gli
furono di molto aiuto le cernide (ossia milizie levate a coscrizione fra i
contadini friulani). Guidate da alcuni gentiluomini, fra cui Tommaso de
Brandis cividalese, dottore in leggi, che rimase ucciso al ponte dell’Isonzo,
mentre cercava di far fronte, con alcune squadre de’ suoi, agli uomini d’arme
tedeschi.
L’impresa dell’Alviano, benchè fortunatissima, fu causa di sventura per la
Repubblica, essendo l’ultima spinta alla conclusione della famosa Lega di
Cambray (4 dicembre 1508), in cui Massimiliano, così vigorosamente
assalito, s’unì ai Francesi, agli Spagnuoli ed al Papa contro di lei e ciò, con la
solita perfidia dei deboli, dopo aver chiesta ed accettata da Venezia una
tregua di tre anni, che gli servì a preparare le offese.», in LEICHT P.S., La
difesa del Friuli nel 1509, Cividale del Friuli, presso la Direzione delle
Memorie Storiche Forogiuliesi, 1909, pp. 3 - 4
44
Cfr. BENUSSI B., Manuale di geografia, storia e statistica della
regione Giulia, Parenzo, Tipografia Gaetano Coana, 1903, pp. 194 - 195
51
partirsene da Trieste. Con bando capitale restò imposto, che l’armi si
portino in palazzo, cinquanta e più cittadini relegati in Venezia, ed alli
fuggitivi imposta grossa taglia. Provveditore per la città inviato
Francesco Capello, di grande severità, fece impiccare diversi, frustare
e ponere alla berlina donne senza riguardo. Nel castello, non ancora
perfezionato, per comandante entrò Alvise Zeno 45.». La sua opera
militare non rientra in un piano politico organico, ma consisteva in
azioni eroiche anche perché i governanti di Venezia non intendevano
accordare a Bartolomeo d’Alviano la stessa autonomia accordata al
Colleoni. Come ricorda Jászay (1990): «Alla vittoriosa avanzata delle
forze mercenarie veneziane – inviate allo scopo di fermare le truppe
imperiali riunite ai confini del Friuli – nel corso della quale anche
Trieste ed altri territori dell’Istria finirono nelle loro mani, pose fine
l’armistizio triennale concluso, con la mediazione del vescovo di
Trento, nel 1508, ma rappresentò solamente una breve dilazione: il
cerchio nemico che circondava Venezia già il 10 dicembre di quello
stesso anno si rinsaldò nell’accordo stretto segretamente a Cambrai.
L’imperatore ed il re di Francia, ai quali si aggiunsero in seguito
anche il pontefice ed il re di Francia, stabilirono che – come recita la
dichiarazione ufficiale di Massimiliano – “…bisogna invitare tutti ad
una legittima vendetta, per spegnere, come un volgare fuoco,
l’insaziabile avidità e sete di potere dei Veneziani»46.
L’esercito di Venezia, comandato da d’Alviano e da Nicolò Orsini
conte di Pitigliano subì la disfatta di Agnadello il 14 maggio 1509 per
opera dei Francesi. D’Alviano, sconfitto dagli Spagnoli, all’Olmo
presso Vicenza il 7 ottobre 1513, successivamente riportò vittorie
contro gli imperiali in Friuli e il 14 settembre 1515 vinse a
Maringnano gli Svizzeri sostenendo Francesco I re di Francia.
Morì a Bergamo il 7 ottobre 1515.
45
Anno 1508. Die 6. May expugnata fuit hæc civitas tergestina a Venetis,
qui per tres hebdomadas integras, machinis globorum ferreorum fere
innumerabilium, mari, terraque infestarunt, & inter dimicantium multi
utriusque partis occisi fuerunt. Mem. mss. capit, in SCUSSA V., Storia
iconografica di Trieste, Trieste, Ed. Libreria Internazionale Italo Svevo,
1968, p. 102
46
JÁSZAY M., Venezia e Ungheria, Martignacco, Edizioni del Labirinto,
2004, p. 209
52
10. Conclusioni
L’Altare da campo del Colleoni, sul quale celebrava la Santa
Messa il cappellano del Colleoni, certo frate Belino, il più celebre
arredo sacro custodito nel duomo di Montona, è stato presentato nella
sede dell’Unione degli Istriani e benedetto dall’Arcivescovo di
Gorizia, il chersino padre Antonio Vitale Bommarco, alla presenza del
vescovo di Trieste Mons. Lorenzo Bellomi. Secondo la tradizione il 7
ottobre 1571, domenica della battaglia di Lepanto, sull’ammiraglia di
Don Giovanni d’Austria47 la messa propiziatrice era stata celebrata su
questo altarino. Secondo il Tommasini sarebbe stato il generale in
capo della Repubblica Veneta, Bartolomeo Colleoni, che se ne
“serviva a farsi dir messa in campagna” a donarlo a Bartolomeo
Alviano, il quale a sua volta lo donò alla collegiata di Montona nel
1509. Ma questa notizia non può corrispondere a verità perché
Colleoni morì nel 1475 e non conobbe d’Alviano. Probabilmente
l’altare passò dal Colleoni al genero Martinengo e da questo a
d’Alviano. Infatti, come ricorda Alisi (1936): «Fra Bartolomeo
Colleoni e Bartolomeo d’Alviano non ci fu alcuna relazione, né il
secondo può quindi aver avuto dal primo in dono quest’altarino; è
difficile anche ammettere che l’Alviano avesse potuto in qualche
modo acquistarlo.
L’Alviano era nato da nobile famiglia nella rocca di questo nome e
fra i parenti suoi egli contava dei principi. Impetuoso, temerario,
robusto di complessione, ben presto egli si diede al mestiere delle
armi. Da prima egli si trovò legato alla fortuna degli Orsini; nel 1478
(tre anni dopo la morte del Colleoni) è al soldo del papa e del re di
Napoli; nel 1503 combatte al servizio del re di Spagna nel Napoletano
contro i francesi. Nel 1505 finalmente (cioè trent’anni dopo la morte e
la dispersione dei preziosi del Colleoni) l’Alviano è al servizio di
Venezia, sotto gli ordini del vecchio ed esperto Conte Nicolò Orsini di
Pitigliano. Nel 1508, come vedremo, alla testa dell’esercito veneziano
egli si trova di fronte agli imperiali e li sconfigge; indi si riposa
durante la seconda metà di quell’anno ed i primi mesi di quello
successivo, per ritornare poi in campo coi veneziani. L’indole
47
Giovanni d’Austria, fratello di Filippo II. Durante la battaglia si distinse
per coraggio l’equipaggio della galera “Il Leone” di Capodistria.
53
prepotente, rischiosa, il mancato aiuto a Vailate il 14 maggio 1509, lo
fanno cadere prigioniero del generale francese Trivulzio, che lo
trattiene fino al 1513. Liberato, l’Alviano riprende servizio dai
Veneziani, ma ormai quale capitano generale. Il 7 ottobre 1515 egli
muore e gli si fanno solennissime esequie.
L’Alviano non era un volgare soldataccio: durante i sette mesi
ch’egli soggiornò nel Castello di Pordenone (1508 – 1509) egli volle
avere intorno a sé dotti e letterati, perché godeva al sentirli discutere e
poetare; poi li ricompensò splendidamente. Era il tempo in cui le note,
i dispacci, le relazioni degli ambasciatori veneziani si distinguevano
per acume, per chiarezza ed abbondanza di notizie e molto si badava
alle esposizioni degli argomenti. Quell’accolta di cui si era circondato
l’Alviano passò nella storia letteraria col titolo di “Accademia
Alvianesca” e il Cian raccolse le poesie allora e poi composte in onore
dell’Alviano.
Può essere l’Alviano venuto in possesso di quest’altarino di
Montona durante quella sosta?
In quel tempo l’arte rifioriva, con nuove forme e nuovi concetti;
essa era in dissidio aperto coll’arte vecchia. A Venezia, nel Veneto e
quindi nel Friuli la plastica si uniformava ai modelli più eleganti della
rinascenza, anzi i Lombardi avevano già dei seguaci, che passavano
all’esagerazione. L’altarino da campo di Montona non poteva
invogliare l’Alviano, perché aspre ne sarebbero state anche le critiche
degli amici intellettuali che l’attorniavano. Ma può darsi ch’egli
l’abbia avuto quale parte spettantegli del bottino e che “superstizioso e
credente nell’astrologia”, come ce lo descrive il Giovio nei suoi Elogi,
egli abbia usato l’altarino per la messa al campo, tanto più che un
segno che esso porta, e di cui sarà cenno in seguito, glielo faceva
ritenere come proveniente dal Colleoni, quell’altro grande
Bartolomeo, maestro dei condottieri»48.
Una copia esatta di questo altarino da campo in argento e oro, così
come l’originale, è stata commissionata dalla Famiglia Montonese.
Sono stati proprio i componenti il direttivo della Famiglia
Montonese, il presidente e il vice presidente Giuseppe Flaminio e
Dino Papo a ricevere Mons. Bommarco accompagnato da Mons.
Parentin, presenti il dottor Alfieri Seri e gli esponenti delle comunità
istriane, Vigini e Vattovani. Il saluto all’arcivescovo è stato portato
dal presidente dell’Unione degli Istriani, Silvio Delbello.
48
ALISI A., Il presunto altarino da campo colleonesco di Montona
d’Istria, estratto da Bergomum vol. X – luglio –settembre 1936 – XIV – n. 3
pp. 5 - 6
54
La copia dell’altare da campo è stata eseguita da Livio Scattareggia
di Trieste.
Così descrive l’altare Morassi (1923): «È tutto in lamine d’argento
dorato, lavorate a sbalzo, saldate con chiodetti alle tre tavole di legno
che le reggono. Si apre in tre parti, e misura, in altezza, cm. 63, in
larghezza complessiva, cm. 74. Il dorso è il legno di noce, tutto liscio,
recente.
Nella tavola centrale è raffigurata la Crocefissione. La croce
domina tutta la scena; il Redentore reclina il capo, mentre appaiono di
tra le nuvole due cherubini con calici che raccolgono il sangue dalle
ferite aperte. La Madre, ai piedi della croce, allarga le braccia in segno
di dolore disperato, e San Giovanni congiunge le mani verso il
Signore. In alto, sopra il cartiglio dell’INRI, il pellicano, simbolo della
carità, si squarcia il ventre per nutrire i piccini; in basso, alla base
della croce, risorge Adamo dalla terra e ringrazia Iddio per la
redenzione dei suoi figli. Fiori germogliano dal suolo.
Le portelle recano ciascuna le figure di due Santi, uno sotto l’altro.
In alto a sinistra, un Santo barbuto con mantello affibiato al petto, un
libro nella mano destra, una croce astile nella sinistra. In basso un
Santo arcivescovo con pastorale, mitra e pallio (forse Sant’Ambrogio).
Sulla portella destra in alto, un Santo giovine, con vaschetta e
turibolo; in basso, un Santo frate francescano col cordone e col
cappuccio.
Una fascia ornamentale continua racchiude tavola centrale e
portelle. I fondi di queste son lisci, mentre quello della Crocefissione è
dorato in alto a racemi, alternativamente a tre stelle e tre mezzelune, in
basso a stellette più piccole e fitte.
Poche tracce di colore. Il cartiglio della croce ha le lettere in smalto
azzurro sul fondo dorato e frammenti di verde sui lembi arrotolati. Sul
terreno, le stellette azzurre dei fiori sono applicazioni di smalto, e
d’azzurro è la croce del nimbo di Cristo. Il ventre squarciato del
pellicano reca appena visibili tracce di rosso.
Pur con così limitata colorazione, l’effetto tonale della pala è
raggiunto. Vi concorrono altri mezzi: le superfici dei corpi e delle
vesti non sono tutte liscie e la luce sbatte sull’argento, libera solo là
dove vuole l’artefice; in tutto il resto egli s’ingegna d’arricciare,
ingrezzare, intorbidare, oscurare la luce mediante impressioni
punteggiate, graffite, velate. Talchè le figure risaltano e si staccano
vivamente dallo sfondo, a cui non sono collegate che dalla materia:
idealmente rappresentano astrazioni isolate, e il loro peso corporeo
non ha che il significato d’un simbolo.
Insufficienza dell’arte primitiva, si dice. E sarà così, fintanto che
noi ci ostineremo a considerare l’arte figurativa quale imitazione del
vero, tanto più perfetta, quanto più vicina all’illusione. Se noi invece
55
la concepiremo tanto più gagliarda quante più emozioni suscita, allora
né questa pala, né l’arte figurativa medioevale in genere appariranno
insufficienti… Ma continuiamo nel rapido esame dell’altarolo.
I gesti delle figure sono piuttosto rigidi e gravi, sebbene l’orafo
abbia cercato di dar loro la maggiore efficacia patetica. Ho accennato
alla Madonna, colle braccia allargate, che disperata nell’accettare la
Volontà suprema, sembra svenire e crollare ai piedi del Figlio. Il
Cristo reclina il capo e lo sguardo suo cade sulla Madre. Implorano
grazia San Giovanni ed Adamo risorto. Desolato alla scena è il povero
Cherubino, mandato a raccogliere il sangue del Signore.
Queste figure certamente non son rese nella loro esattezza
anatomica, o comunque formale; sono infatti troppo evidenti i difetti
del busto di Cristo, la costruzione delle braccia, delle mani, dei piedi,
le ossature dei volti. Ma non è questo che conta. La fantasia
del’artefice è ancora costretta nella rigidità architettonica, e le
possibilità della sua figurazione si subordinano al ritmo costruttivo
semplice e primordiale, come di scoltura applicata ad un edificio, la
quale non turbi lo svolgimento delle sue masse e delle sue linee. È
concepita in piano, non in profondità; come una visione. E soltanto
l’idea astratta di una realtà più grande della pura imitazione della
forma tangibile poteva soddisfare l’autore e identificarsi con le
aspirazioni estetiche e religiose dei fedeli.
A questo si aggiunga la realtà stilistica, che nella disposizione
simmetrica delle figure e dell’ornamento, nella fluenza delle linee e
nella pastosità dei panneggiamenti rende più acuto il godimento
dell’opera d’arte, per l’arte.
L’altarolo è della prima metà del trecento, e certo sembrerebbe più
antico, se certi contrassegni non dimostrassero il contrario: come le
gambe non più irrigidite parallelamente ma sovrapposte l’una
sull’altra, e i piedi infissi in un solo chiodo, e alcuni volti leggermente
inclinati, e la stessa decorazione ornamentale. Evidentemente non si
tratta di un’opera in prim’ordine, eseguita in un centro di grande
produzione artistica, ma d’un lavoro un poco provinciale e
ritardatario, dove i segni dello stile sono alquanto infiacchiti e non più
vitali. La sua origine è da ricercarsi nel Veneto, - non in Venezia
stessa, che ha più nette qualità stilistiche – ma più propriamente,
sembrarmi, verso il Friuli49.
49
Con qualche riserva, mi permetto di indicare proprio Cividale, dove già
allora fioriva l’arte dell’orafo, quale luogo di nascita del nostro altarolo.
Certo fra tutte le Crocefissioni e i Cristi che ho esaminati per i raffronti di
stile, il grande Crocefisso in argento già dei Patriarchi di Aquiliea, che ora si
conserva nel Tesoro di Gorizia, è il più vicino al nostro: Lanckoronski
56
In qual modo il Colleoni ne sia venuto in possesso, è difficile
affermare: forse era un vecchio lascito di famiglia, forse, ed è meglio
possibile, lo acquistò o lo ebbe in dono durante le sue molte
campagne.
Ed è bene che un cimelio sì caro al glorioso Duce della
Serenissima sia custodito a Montona come un pegno d’affetto di
Venezia alle terre dell’altra sponda50».
Possiamo concludere questa ricerca affermando che l’altare,
preziosa opera creata da un artigiano di Cividale tra il 1100 e il 1200,
era di proprietà del Patriarca di Aquileia, Bertrando di S. Genesio
(1334 – 1350), come indicato dalla lettera “B” infissa sull’altare, che
trasse in inganno molti che la considerarono l’iniziale di Bartolomeo
(Colleoni o d’Alviano) o di frate Belino cappellano privato del
Colleoni. L’Altare passò alla famiglia Colleoni direttamente dai
Patriarchi di Aquileia e nel 1371 assieme ai feudi e castelli di Limini e
Tagliano. Infatti, nella storia della famiglia possiamo trovare: «Antica
famiglia originaria di Milano e trapiantata in Bergamo nel 1244.
Furono signori di molti feudi tra i quali quello di Lemini e del castello
di Tagliano ottenuto dal Patriarca di Aquileia nel 1371, di quelli di
Trezzo e d’Antegnate avuti per concessione dalla Repubblica Veneta
nel 1441. Furono inoltre fregiati del titolo di Conti di Solza nel 1650.
Diedero alla patria consiglieri di giustizia, consoli della città e rettori
maggiori. Un Galeazzo è detto Signore di Bergamo nel 1559, che poi
cedette al Re Giovanni di Boemia. Molti furono podestà, Capigliata
Ghisalberto fu Capitano Generale del R.C. sotto Urbano V.
Bartolomeo Generalissimo della R.U. Giannantonio Cav. Onorato e
Conte 1641.» 51
Come ricorda Alisi (1936): «Quando il Morassi, nel suo studio
pubblicato dal Dedalo, cercò di classificare quest’altarino, egli venne
alla conclusione che poteva trattarsi d’un’opera da attribuire a qualche
orafo cividalese. Il Morassi era sulla giusta via, perché quella B dello
Swoboda, Der Dom von Aquileia, Vienna, 1906. Per le affinità stilistiche in
genere cfr.: ONGANIA, Il Tesoro della Basilica di San Marco, Venezia; P.
GOFFRE, Les Portraits du Christ, Paris, 1903;G. Schönemark, Der
Krucifixus in der bildenden Kunst, Strasburg, 1908; Émile Molinier, Histoire
générale des Arts appliqués à l’industrie. Vol. IV. L’orfèvrerie religieuse et
civile du V à la fin du XVIII siècle. Paris 1901; Jules Labarte, Historie des
arts industriels au moyen âge et à l’époque de la Renaissance, Paris;
Zimmerman, Oberitalienische Plastik, Leipzig, 1897.
50
Cfr. Morassi A., in Dedalo, fasc. IV, Anno IV – MXMXXIII, pp. 201 207
51
da archivi della Civica Biblioteca, Bergamo, 12/6/1932, manoscritto di
Ernesto Zerbinier, in archivio dell’A.
57
scudetto trecentesco si riferisce al patriarca Bertrando di S. Genesio,
di Aquileia (1334 – 1350). Lo storico francese Clément Tournier
dedicò parte della sua attività a questo Bertrand de Saint-Geniès,
decano della Chiesa di Angoulême, cappellano e uditore delle cause
del Sacro palazzo, nunzio della Sede apostolica nel 1332, amante delle
arti e lettere, protettore degli studenti, che venne ad assumere l’alta
carica ad Aquileia nel 1334, accompagnato dalla sua corte di dotti, di
poeti e di artisti provenzali. Egli era già fra le eminenti personalità
della corte pontificia d’Avignone e certamente provvisto di larghe
rendite oltre quelle della sua contea di S. Genesio. Negli atti è detto
“maestro” e “utriusque juris professor”, segno di cultura superiore e
ciò corrisponde alle notizie che si possono ricavare dai documenti
archiviali di Udine. Egli possedeva parecchi libri tanto preziosi da
riceverne, lasciandoli in pegno al patriarca Pagano, un prestito, ch’egli
poi restituisce al 10 settembre 1338 per riavere i suoi libri. Nel
novembre 1373, prima di partire, Bertrando lascia in “deposito, con
regolare atto di consegna”, al Capitolo di Udine i suoi libri. Al 15
dicembre 1345 egli dona un graduale miniato alla chiesa di Gemona.
Nel gennaio 1346 i Domenicani di Udine dichiarano che terranno in
deposito diversi libri del Capitolo di Udine, donati ad esso certamente
dal patriarca, perché Giannetto di Tolosa suo cappellano privato
faceva parte del Capitolo stesso. Nel novembre 1349 finalmente il
patriarca Bertrando lascia ai canonici di Udine diversi suoi libri, ma
fra di essi v’è un “Digesto vecchio” che il legittimo proprietario, tale
Giovanni da Firenze, reclama e riottiene già quattro giorni dopo
l’uccisione del patriarca stesso, avvenuta al 6 giugno 1350.
Bertrando amava i libri dunque e quale persona colta egli sapeva
anche favorire le belle arti. Ecco p.e. quell’anonimo che nel 1338
dipinse nella parrocchiale di Venzone la scena della consacrazione di
quella chiesa, presenti il patriarca stesso e parecchi vescovi e prelati
che dopo gli studi del Fournier non dovrebbero più esser considerati
quali un’accolta di ignoti. Ci sono certamente effigiati Arnaldo di S.
Genesio, nipote del patriarca, Guglielmo Raimondo di Salvanhac,
canonico d’Aquileia, Gagliardo di Salvanhac, abate di Rosazzo,
Arnaldo di Foix, canonico di Aquileia e cappellano del patriarca
coll’altro cappellano già nominato Giannetto di Tolosa. In quanto
all’autore di quella pittura vorrei proporre Giovanni del fu ser Viano
dimorante a Udine, ma probabilmente di famiglia immigrata toscana.
Altro affresco nel Coro o Cappella dell’Annunziata del Duomo di
Udine conteneva pure l’effigie del patriarca Bertrando, assieme al
vicedomino Francesco Savorgnan e alle due figlie del ministeriale
Gerardo da Cuccagna, generosamente dotate dal patriarca stesso e
inoltre le figure di Dante, del Petrarca e del Boccaccio, quasi a
58
testimoniare in quale conto alla corte patriarchina si tenesse l’arte
della poesia.
Un terzo affresco, infine, dovrebbe datare dal 1380 secondo il
Valentini, che nella sua Guida di Udine così lo ricorda: “Dov’era la
cappella di S. Nicolò (nel Duomo), fondata nel 1339 e decorata nel
1380, venne nel 1921 integralmente in luce, di sotto all’imbiancatura,
un affresco di rara bellezza che fa pensare a S. Maria Novella e a
Santa Croce. Un arcivescovo (o patriarca) vestito del pallio, cinto il
bel capo di mitra e d’aureola, giace sul cataletto. Accanto un vescovo
suffraganeo legge le preci dei defunti, e gli stanno da un lato il
gastaldo e nobili e popolani nelle cappe delle loro corporazioni,
dall’altro il clero e donne. In alto l’anima del santo è recata in cielo da
angeli”. È strano che il Valentini non abbia intuito che il pittore in
questo affresco aveva riprodotto l’ufficio funebre di Bertrando di S.
Genesio, beatificato dal papa ben presto dopo l’uccisione e come tale
fatto riconoscere nella regione, secondo Clement Tournier, per
“l’influence conjuguée des évêques quercynois, envoyés par les papes
occitans d’Avignon pou auréoler en quelque sorte la physionomie de
Bertrand de Saint-Geniès”.
Difatti Bertrando, dotto, uomo di raffinato vivere, amante e
protettore degli studi e delle arti, non era però un timido, un pavido.
Con enfasi gli storici rammentano la vigilia di Natale del 1350,
quando egli, anziano ormai ma valido, sotto le mura di Gorizia da lui
assediata, celebra una solenne messa di campo. Non ricchi paramenti
egli indossa, ma la lucente armatura d’acciaio, come l’abate di
Moggio che lo assiste, e non colla mano, come vorrebbe la liturgia,
ma col brando snudato infine egli impartisce la benedizione.
Avveniva ciò dinnanzi a questo altarino da campo di Montona?52
(…)
Esaminiamo ora ancor’una volta l’altarino che forse gli servì
durante quella celebre messa di Natale. Permane l’impressione di stile
misto, ma non più il parere che si tratti di un’opera d’oreficeria
ristaurata, composta di parti più antiche, le lastrine sbalzate colle varie
figure, quella centrale particolarmente, con i suoi avanzi di smalti, e
più recenti, le cornici a strombo piano, gotiche.
Nelle parti più antiche sembra persistere una specie d’arte già
tramontata ai tempi di Bertrando. Le figure sono tozze, con teste
larghe alle tempie, assottigliate al mento, direi “a pera”, come si
52
ALISI A., Il presunto altarino da campo colleonesco di Montona
d’Istria, estratto da Bergomum, v, XI – luglio-settembre 1936 XIV, n. 3, pp.
11 - 12
59
vedono nelle sculture dugentesche friulane. L’artista è preoccupato a
ridare le masse e non sa ingentilirle. Nell’oreficeria friulana, come
giustamente additò il Morassi, abbiamo il Cristo benedicente della
coperta d’Evangelario, una Madonna in una pace, la statuetta di San
Nicolò, tutte opere che si conservano nel Tesoro della Cattedrale di
Cividale, che mostrano simili tratti fisionomici. Sono dette tutte
oreficerie trecentesche, però ancor poco studiate, a tratti hanno del
romanico, a tratti si rivelano gotiche. La testa a pera la ritroviamo già
nella figura di S. Paolino, della pala d’altare argentea donata alla
Cattedrale di Cividale dal patriarca Pellegrino II (1193 – 1204), segno
di caratteristica persistente a lungo nell’oreficeria friulana.
Nell’altarino di Montona sembra sbocci appena il gotico,
coll’ornamentazione delle stoffe, colla cornice battuta su stampi, sopra
reminiscenze tenaci d’epoca anteriore. L’affinità delle figure in quanto
a caratteristiche fisionomiche con quelle già menzionate di Cividale,
mi sembra sufficiente per attribuire le lamine colle immagini a
qualche orafo di Cividale a cavalcione fra il Dugento ed il Trecento,
modellatore ingenuo di quei santi della chiesa aquileiese. Di questi
ultimi vorrei ravvisare in quello colla croce astile e il libro di S.
Ermacora, fondatore della chiesa metropolitana stessa e apostolo, nel
diacono S. Fortunato martire, nel vescovo nimbato S. Felice; vi si
aggiunse S. Domenico, i cui seguaci dalla fine del Dugento erano
operosi quanto influenti sostenitori della chiesa anche nel Friuli.
Il paziente lettore comprenderà ora quanto maggiore valore storico
abbia questo cimelio di Montona per la Venezia Giulia, certo ben
maggiore di quello che esso avesse se si potesse considerarlo solo
quale ricordo di Bartolomeo Colleoni, per quanto grande capitano egli
sia stato»53.
53
60
ibidem pp. 14 - 15
11.
Allegati: Marquardo Patriarca d’Aquileia
ESTRATTO DA: Braun P., Geschichte der Bischofe von Augsburg, vol. 2,
Augsburg, 1814, pp.455-475.
Relativa traduzione.
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STORIA DEI VESCOVI DI AUGUSTA
MARQUARDO I
1. È NOMINATO VESCOVO DAL PAPA
Dopo la rinuncia del vescovo Heinrich von Schoneck, che alla
morte dell’ imperatore Ludovico, era seguito per disposizione del suo
successore Carlo IV e del Papa Clemente VI, il vescovado fu dato dal
Papa a Marquardo, il preferito di Carlo, 1348.
2. SUA STORIA
Marquardo discendeva dalla stimatissima famiglia dei nobili di
Randeck nella valle di Kirchheim in Svevia. Sua madre era una von
Thumnau e sorella di Eberhard von Thumnau, prevosto54 del duomo di
Augusta; perciò egli chiamava questo suo zio e lo apprezzava e amava
molto come vedremo in seguito.
3. SUOI MERITI E CULTURA
Deve aver fatto grandi progressi nella scienze, specialmente nel
diritto ecclesiastico, mentre a Bamberga leggeva in pubblico su questi
argomenti e fu adibito per importanti negoziati presso la corte romana.
Le sue capacità spirituali lo resero membro del capitolo del duomo di
Augusta e di Bamberga ed infine anche insegnante di diritto e
prevosto del duomo.
4. È INVIATO DAL PAPA
Egli fu presso l’imperatore Ludovico come canonico per le sue
conoscenze, eloquenza e capacità in così grande stima che nel 1335 fu
inviato ad Avignone dal nuovo Papa Benedetto XII con suo zio
Eberhard von Thumnau55, arcidiacono di Augusta, e con il conte di
Oettingen e altri, per sapere dal nuovo Papa le condizioni della
prevista conciliazione e del giusto compromesso. Benedetto ricevette
gli inviati con molta attenzione ed amicizia. Il 28 aprile davanti al
54
Prevosto: titolo di vari dignitari ecclesiastici, membri autorevoli in
capitoli o monasteri.
55
Era un fratello di sua madre, un uomo di grande considerazione e
saggezza.
73
Papa e al concistoro dei cardinali riunito Marquardo tenne un discorso
tanto efficace, che stupì grandemente tutti i presenti.
Nell’anno 1343 nel mese di settembre l’imperatore inviò un’altra
ambasceria ad Avignone per chiedere l’assoluzione a Clemente VI,
che un anno prima era salito sul soglio pontificio dopo Benedetto XII.
Egli autorizzò a questo, Humbert Delphin von Vienne, un favorito del
Papa, Marquardo von Randeck maestro di diritto ecclesiastico e
prevosto del duomo di Bamberga, suo zio Eberhard von Thumnau
prevosto del duomo di Augusta, e Ulrich Hangenor suo cancelliere,
che però purtroppo non poterono ottenere nulla secondo i desideri
dell’imperatore.
5.
È RACCOMANDATO ALLA CITTÀ
DALL’IMPERATORE
Marquardo anche con la sua capacità, con il suo talento e la sua
attività seppe guadagnarsi il re Carlo IV, così che dopo la morte
dell’imperatore Ludovico eliminò il vescovo Heinrich von Schoneck
e, come dice in uno scritto alla città, chiese con serietà e devozione al
Papa di concedere al suo amato principe Marquardo von Randeck il
vescovado di Augusta. Il Papa esaudì la richiesta del re, nominò
Marquardo vescovo ed ordinò al re di inviarlo per lui al vescovado e
di proteggerlo nello stesso. In base a questa richiesta papale il re
chiese ai cittadini di Augusta, il 21 dicembre 1350, di riconoscere
come loro legittimo vescovo il suo amato principe Marquardo e di
mantenergli ogni diritto, come giusto, e come avevano fatto
abitualmente per gli altri vescovi di essergli di aiuto in ogni cosa, di
introdurlo nella sua corte vescovile e di agire a vantaggio suo e della
sua chiesa56.
6. MISEREVOLE CONDIZIONE DELLA SUA CHIESA
In quale miserevole stato abbia trovato Marquardo la chiesa
all’inizio del suo ufficio vescovile, lo racconta lui stesso così in un
documento imperiale del 1364 :” Quando fu innalzato al soglio
vescovile, la chiesa di Augusta era completamente decaduta e per
quanto riguarda i possessi completamente impoverita e ridotta al
lastrico. Però, come tutti i suoi contemporanei dovettero riconoscere,
egli con l’aiuto di Dio la riportò a floridezza, riscattò i beni impegnati
e né comperò dei nuovi sostanziosi57.
56
Dato a Dresda a S. Thomas nel III anno del nostro regno dunque
nell’anno 1348.
57
Essendo stato eletto all’apice vescovile della stessa chiesa di Augusta,
la chiesa stessa era completamente in decadenza e quanto riscattai di tutti i
74
7.
CARLO CONFERMA TUTTE LE GARANZIE
E I PRIVILEGI
Il re Carlo IV concesse specialmente al nostro vescovo i suoi favori
reali e la sua completa fiducia nelle più importanti situazioni del
regno. Ugualmente dopo l’inizio del governo vescovile con un
diploma regale confermò a lui e ai suoi successori, i vescovi di
Augusta, e alla sua chiesa in considerazione della grande fedeltà
dimostrata a lui e al regno, e dei servigi prestati, ogni privilegio, fosse
esso in titoli, città, mercati, villaggi, baliati58, chiesette, tribunali o altri
interessi e oneri, come sono detti o devono chiamarsi quelli che sono
stati dati dagli imperatori romani e dare di pia memoria ai suoi
predecessori. Dresda 24 dicembre 1348.
Egli confermò in questo anno a lui e anche al suo capitolo tutti i
doni ottenuti dai suoi predecessori e rinnovò tutti i privilegi dati.
L’anno seguente confermò il privilegio concesso dall’imperatore
Enrico VII al vescovo Siboto nel 1231, di percepire la metà delle tasse
dai cittadini di Augusta. In questo tempo Carlo concesse anche al
vescovo e ai suoi successori l’assistenza legale per il convento di
Ottenbeurn e comandò all’abate di obbedire a lui come al suo uomo di
fiducia.
8.
GLI CONFERMA LA PARROCCHIA DI KAUFBEURN,
CHE CONCEDE A WALTHER VON HOCHSCHLITZ
Su richiesta del nostro vescovo Carlo prese in considerazione la
grande e dispendiosa spesa, che egli e i suoi predecessori avevano
dovuto fare in diversi casi per l’imperatore e il regno, e i pesanti
debiti, che la sua chiesa si era addossata con il fedele adempimento
dei doveri imperiali, e donò alla camera vescovile a titolo di per
qualche indennizzo e di alleggerimento del debito, la parrocchia di
Kaufbeurn appartenente all’impero con tutti i suoi beni, proprietà e
diritti. Norimberga, 19 aprile 1350.
Il 17 settembre 1358 Marquardo ricambiò con il consenso di
Engelhard prevosto del duomo, del decano Corrado e dell’intero
capitolo, con gli stessi importanti servigi prestati a lui e alla sua chiesa
da suo nipote Walther von Hochschlitz e fece grandi benefici.
suoi possessi e parecchi ne comprai di nuovi, lo sanno tutti coloro che
conobbero ai nostri tempi la situazione della chiesa.
58
Baliato o baliaggio: grado, ufficio e sfera di competenza di un balivo.
Balivo: nel Medio evo, funzionario regio o magistrato cui era affidato il
governo di città o circoscrizione, con vasti poteri amministrativi e giudiziari.
75
9. IL PRIVILEGIO DI BATTERE MONETA
Nel 1356 l’imperatore volle dimostrare un particolare favore ai
suoi amati principi e al consiglio, in considerazione dei fedeli e grandi
servigi prestati a lui e al regno. Perciò gli concesse il permesso di
avere proprie monete ad Augusta o a Dillingen, e di battere59 holler
d’argento e di giusto peso fino a nuovo ordine, e prescrisse a tutti i
principi, signori, città ecc del regno di accettare queste monete, come
altre che provenivano dalla zecca imperiale. Praga, lunedì 18 luglio
prima del giorno di Santa Maddalena.
10. MARQUARDO VA A ROMA CON L’IMPERATORE
E DIVENTA GOVERNATORE IN ITALIA
Nel 1355 Carlo prese con sé il nostro vescovo, suo preferito, nel
suo viaggio verso Roma per la sua solenne incoronazione, che a
Pasqua fu eseguita dal Cardinale di Ostia. Dopo l’incoronazione
l’imperatore volle tornare in tutta tranquillità in Germania con il
permesso del suo popolo. Quando a Pentecoste giunse a Pisa, alcuni
congiurati appiccarono il fuoco nel suo palazzo, per ucciderlo fra le
fiamme. Fortunatamente egli riuscì a sfuggire a questo pericolo, così
essi cercarono di sollevargli contro tutta la città ed egli si trovò con i
suoi in una situazione altamente pericolosa. Allora il nostro vescovo,
che era anche un buon soldato, si pose a capo di un piccolo gruppo di
suoi, andò contro i rivoltosi, si batté con essi valorosamente dalla
mattina fino alla sera, ne uccise personalmente parecchi e mise in fuga
i restanti. L’imperatore ringraziò il coraggioso e deciso vincitore per
la sua salvezza e, alla sua partenza, lo nominò suo governatore in
Italia. –Come tale si unì – secondo Heinrich di Rebdorf – nel
novembre 1356 con uno degli alleati e si scagliò contro i milanesi, ma
combattè molto sfortunatamente e fu catturato con 500 uomini, però
l’anno seguente fu nuovamente liberato nel mese di maggio.
11. HAIDENHEIM DIVENTA UN MERCATO
Con questo vescovo l’imperatore con un documento del 16 agosto
1356 innalzò il villaggio di Haidenheim a mercato a favore del conte
di Helfestein e concesse allo stesso ogni libertà circa i mercati.
59
Da qui non emerse, che il vescovo di Augusta avesse mai avuto diritto
di battere moneta, che Marquardo l’abbia ottenuto per la prime volta
dall’imperatore Carlo IV; mentre i vescovi avevano avuto tale diritto già da
innumerevoli tempi, come abbiamo visto (im I. Bande C. 392. und oben C.
305); ma con questo privilegio pare che il vescovo abbia ottenuto il permesso
di battere solo una nuova moneta valida in tutto l’impero e non solo ad
Augusta o a Dillingen.
76
12. IL BALIATO DI STRASS E’ NUOVAMENTE
DATO IN PEGNO
Nel 1348 il baliato di Strass, che già prima nel 1336 era stata data
in pegno dall’imperatore Ludovico alla chiesa per 2000 lb, fu data di
nuovo in pegno al nostro vescovo per 4000 lb e nel 1354 fu impegnato
anche il baliato imperiale ad Aitrang.
13. MARQUARDO COMPERA PARECCHI BENI
Marquardo arricchì la sua chiesa con i seguenti beni ed entrate.
Nel 1351 comperò lo stesso castello di Rettenberg con quanto gli
apparteneva in beni, gente, baliati ecc e pagò per questo al cavaliere
Georg von Starkenberg 16000 lb pfenning60 di Costanza validi. In
questo stesso anno comperò da Hans Simling cittadino di Augusta, 7
fattorie a Schrezheim. Nel 1354 Anna Eitel, moglie di Fricken e figlia
di Heinrich von Schonecks, vendette al duomo per 800 lb una metà e
nel 1355 Wernher ed Heinrich di Plettner (vendettero) per 700 lb
l’altra metà della signoria di Schoneck.
Nel 1356 Marquardo con il potere imperiale ottenuto riscattò il
diritto di assistenza legale del convento di Ottenbeurn data in pegno a
Schwigger von Gundelfingen.
Nel 1359 Hans von Ried in cambio di 310 A cedette al vescovo il
baliato della corte di Dirnzimmern con quanto apparteneva alla gente,
i vigneti e altro.
Nel 1361 prese da Susanna Truchsessinn e da suo figlio Seifrid von
Kullenthal la signoria dello stesso nome per 3500 lb. Nel 1363 fu
comperata dal duomo la città di Buchloe,che possedevano
singolarmente Henrich Herbort e Konrad Onsorg.
Nel 1356 invece Marquardo con il consenso del suo capitolo
cedette i titoli di Mindelheim – Mindelburg e la città di Mindelheim
per 20000 lb ed holler ad Heinrich e Walther Hochschlizen.
14. CONCLUDE UN’ALLEANZA DIFENSIVA
CON LA CITTÀ
Nel mese di maggio del 1349 il nostro vescovo concluse
un’alleanza difensiva con la città di Augusta, se ne andò con i cittadini
sei giorni prima del giorno di S. Urbano –il 19 maggio-, distrusse il
castello di Mindelberg e conquistò Brenz. Il 14 giugno cessò l’ostilità
con Schwigger von Windelberg e questo giurò solennemente che
I -“voleva perdonare al vescovo, al capitolo e ai cittadini della città
di Augusta la distruzione del suo castello;-
60
Pfenning: centesimo di tallero.
77
II -voleva che mai né lui né i suoi servi aggredissero il vescovo, la
città, gli edifici di Dio (ossia della Chiesa), le chiese, i conventi ecc…
o agissero male;III -non voleva concedere i suoi titoli ad alcuno dei suoi nemici;IV -e non voleva unirsi ad alcuno degli stessi .15. INTESA CON IL SUO PREDECESSORE
Nel 1350 Marquardo si era accordato con il suo predecessore per la
sua pensione, egli cedeva il castello di Zusameck e promise di pagare
fino alla morte, ogni trimestre, 100 lb holler. Ma Marquardo non
mantenne la parola e solo l’11 agosto 1359 la cosa fu accordata da
Ludwig, conte di Oettingen, come arbitro (e fu deciso) che egli non
doveva concedere al vescovo Heinrich né l’assoluzione papale e un
titolo, né dare ogni anno per S. Michele 200 A.
16. AIUTA I CONVENTI E GLI OSPEDALI
DI KAISERSHEIM
Si dimostrò molto benefico nei confronti delle chiese e dei
conventi. Il 27 aprile 1349 concesse al convento di Kaisersheim, in cui
regnavano una buona disciplina, pietà, ospitalità ed assistenza per i
poveri, le parrocchie di Grabretshofen, Weisenhoun e Berg. Su
richiesta dell’abate e del convento il 27 ottobre 1350 unì la parrocchia
di Lindenau, che era tanto impoverita, da non poter mantenere un
prete, con la parrocchia vicina, a patto che essa, se di nuovo avesse
raggiunto forze sufficienti, avrebbe di nuovo mantenuto un suo prete.
Affinché però con questa regolamentazione non fossero sminuiti i
diritti vescovili, nel frattempo il parroco di Ramingen dovette dare le
primizie e il cattedratico per Lindenau e rispettare altri diritti61.
Proprio a questo convento con il suo capitolo incorporò la parrocchia
di Hermeringen con rendite e diritti, e in forza di un altro documento
dovette concedere il diritto delle primizie ad ogni istituzione di un
nuovo parroco in cambio di 40 lb hallenser.
Il 9 agosto 1364 con il consenso del suo capitolo, per una
particolare attenzione a per affetto verso l’abate e il convento di
Kaisersheim e a causa di reali necessità, che l’ospitalità e la grande
necessità di fare elemosina avevano provocato ad essi, unì al convento
la parrocchia di Blintheim con le sue dipendenze e in cambio di 600 lb
61
Affinché con l’unione della chiesa a Lindenau si paghino a noi e ai
nostri successori per mezzo del pievano di Ramunger le primizie e il
cattedratico delle raccolte e tutti i diritti episcopali e arcidiaconali. La parola
latina cathedraticun significa diritto di insediamento pagato dal vescovo
all’entrata in carica.
78
hallenser concesse a quello le primizie secondo il corrispondente
patrimonio della parrocchia e (di avere) ogni 4 anni i frutti
corrispondenti con tutti i diritti e privilegi62.
Il 23 giugno 1361 quando volle costruire a Gremheim, sul Danubio
vicino alla casa del pescatore, sul luogo, dove Kaisersheim aveva il
diritto di pesca, e per questo motivo derivò un danno al pescatore e
alla pesca, si accordò con l’abate e con il consenso della comunità
concesse al pescatore, la cui casa comunque era messa in pericolo dal
Danubio, un posto sulla piazza del Comune per la costruzione di una
casa e di un fienile.
17. OSPEDALE A KAUFBEURN
Il 14 aprile 1350 confermò all’ospedale di Kaufbeurn la parrocchia
di Tagebrechtshofen ceduta dal convento di S. Ulrico di Augusta in
cambio di un giorno anniversario da celebrarsi ogni anno per l’abate e
i religiosi.
18. CONVENTO DI OBERSCHONENFELD
Donò al convento di Oberschonenfeld il feudo di Gut Kuhnberg,
che allo stesso del tutto liberamente aveva lasciato nel suo testamento
Heinrich di Augusta, - Kaisheim, il giorno dei santi Tiburio, Valerio e
Massimo. 14 aprile 1354Il 22 giugno 1358 confermò il dono di Kirchensatzes con
Widumgrut e quanto apparteneva a Maurstetten, fatto al convento di
Irsee da Johann von Ramschwag.
19. LA CHIESA DI SAN PIETRO
Poiché il nostro vescovo notò che nella collegiata63 di S. Pietro a
causa del modesto introito dei canonici il servizio divino doveva
subire delle interruzioni, cercò di provvedere personalmente alla sua
decadenza e di porre rimedio alla miseria e alla precarietà. A questo
scopo con il consenso del prevosto Engelhard von Gunzburg, del
decano Konrad von Gerenberg e di tutto il capitolo del duomo, unì
con la pieve di San Pietro la parrocchia di Lametingen e con il
consenso del prevosto Burkard von Pettingen ordinò che i canonici
potessero sostenersi in parte nelle loro necessità con le entrate di
questa parrocchia. Emanato ad Augusta il 7 settembre 1360.
62
Ci occupammo della conferma e del riscatto di castelli, fortificazioni e
possessi della nostra chiesa.
63
Collegiata: chiesa che ha un capitolo di canonici, senza essere sede
vescovile.
79
20. NIEDERSCHONENFELD
Favorì anche per l’abbazia e il convento di Niederschonenfeld un
sostentamento decoroso, la pratica dell’ospitalità e il ristoro dei poveri
e degli stranieri con l’annessione delle parrocchie di Burkheim e
Bobenhausen. –14 maggio 1361.
21. THIERHAUPTEN
Fornì un ricco aiuto al convento di Thierhaupten con il consenso
del prevosto del duomo Otto von Guntheim, del decano Konrad von
Gerenberg e del capitolo, incorporando il 15 maggio 1363 le
parrocchie di Grimoltshausen e Wilprechtszell.
22. OSPEDALE A DILLINGEN
L’ospedale a Dillingen gli dovette in questo anno la possibilità di
aiutare più agevolmente i poveri attraverso la parrocchia di Wengen.
23. ISTITUZIONE DI VICARIATI NEL DUOMO
Il 6 agosto 1352 Marquardo in qualità di eletto e confermato
dedicò l’altare consacrato a Santa Adelaide, a Santa Ursula e alle sue
compagne a Engelhard von Enzberg prevosto del duomo con il
consenso di M. Ulrico Burggraf, prevosto del duomo.
Il 30 settembre 1355 Heinrich con il consenso del capitolo istituì i
vicariati64 e innalzò sulla tomba delle sante l’altare dei 10000 Martiri e
per questo ottenne una fattoria a Harthausen.
Il 14 ottobre 1359 Waltler von Hochschlitz con la conferma del
nostro vescovo ed il consenso del capitolo regalò il diritto di
patrocinio sulla parrocchia di Kaufbeurn insieme con ogni uso della
cappella di santa Agnese, dove avevano le loro tombe parecchi dei
suoi parenti.
Il 30 ottobre 1362 il nostro vescovo consacrò l’altare e i vicariati di
S. Vittore con l’approvazione di Otho von Gunthaim prevosto del
duomo, del decano Konrad von Grenberg e di tutto il capitolo.
Il 23 giugno 1365 dai curatori dell’opera di Ulrich Ilsung’schen e
dei curatori di anime Johann Dachs, Ulrich Ilsung e Johann Hangenor
con il consenso del capitolo furono dedicati per la salvezza delle
anime dei defunti, i vicariati e l’altare dei 7 dormienti e dotati con una
fattoria a Menchingen. Il 10 dicembre 1359 concesse al suo capitolo
secondo un documento disponibile, il baliato su alcune parti di
Donaualtheim e il feudo.
64
80
Vicariato: giurisdizione e ufficio di vicario.
24. IL BENEFICIO DI SAN MARTINO
Era venuto a sapere che la cappella di San Martino65, che si trovava
nella parrocchia del duomo, in cui i suoi predecessori assai spesso
avevano nominato sacerdoti di grado inferiore, considerando i sacri
compiti della religione era molto trascurato, poiché i capi tenevano per
sé le rendite e solo raramente e con una modesta ricompensa
assumevano preti per fare le messe. Ad impedire questa spiacevole
situazione e dannosi abusi, con il consiglio del suo capitolo stabilì che
né lui né i suoi successori potessero mettere un altro sacerdote nella
cappella di S. Martino, come prete effettivo, che abitasse la casa
vicina alla cappella, vi avesse la residenza e facesse degnamente la
santa messa. Affinché però l’entrata fino ad allora molto modesta per
il mantenimento di un prete potesse bastare, l’antico beneficiario e
vicario presso il coro del duomo Konrad Weilbach donò per questo
con altri benefici 70 lb di Augusta. – Era il 13 marzo 1365-.
25. MESSA MATTUTINA A ZUSSMARSHAUFEN
Nel 1363 Marquardo confermò la messa mattutina istituita dai
fratelli Bacher a Zussmarshausen.
26. COSTRUZIONE DEL CORO
Durante il governo del nostro vescovo iniziò la costruzione del
nuovo duomo verso est, con cui fu collegata con il duomo senza
ledere o diminuire i diritti dei canonici, la cappella della collegiata di
Santa Gertrude già esistente.
27. DIVENTA PATRIARCA D’AQUILEIA
Il 23 agosto 1365 Marquardo ottenne da Papa Urbano V l’elezione
al patriarcato di Aquileia (Aglar); egli cercò però di rifiutare, poiché la
provincia del Friuli era minacciata da nemici esterni e scossa da
disordini interni. Perciò la provincia mandò a lui come inviato Nihilus
von Maniach e cercò di convincerlo ad accettare il patriarcato. Infine
cedette alla richiesta, si recò ad Aquileia (Aglar) e il 24 dicembre
dello stesso anno, secondo la testimonianza di Aylins prese possesso
della chiesa affidatagli. Il 19 aprile dell’anno seguente, nella domenica
della misericordia del Signore, celebrò la prima messa solenne ed
assunse l’amministrazione della nuova chiesa.
65
Dove c’era un convento di monache dell’ordine francescano.
81
28. RINUNCIA AL SUO VESCOVADO
Marquardo non rassegnò le dimissioni al vescovado di Augusta nel
1368, come ritengono Pappeheim, Stengel, Khamm, Von Stetten e
altri, bensì già nel 1365 o per lo meno all’inizio del 1366, mentre il
suo successore Walther già compare come vescovo in un documento
del capitolo del duomo del 23 aprile dello stesso anno.
29. FA DONI AL SUO CAPITOLO E PRESCRIVE
DEI GIORNI FESTIVI DURANTE L’ANNO
Prima del suo commiato volle lasciare al suo capitolo un segno
duraturo della sua attenzione, del suo affetto e della sua gratitudine.
Egli si era assai spesso ricordato in quale stato pietoso e decaduto
aveva ricevuto il vescovado, a quante pesanti fatiche si era sottoposto
per modificare e migliorare lo stesso, a quanti pericoli si era esposto e
quanto lo aveva arricchito di beni66. Egli però non dimenticò neppure
che il capitolo della sua chiesa nel suo basso stato, lo aveva accolto
come suo membro, amato come suo figlio, onorato come suo padre,
allevato fin dalla giovinezza, fatto diventare uomo, onorato con le più
alte cariche e infine sollevato allo splendido grado dell’ufficio
pastorale più alto67. Questo fece nascere in lui la decisione di creare
per il suo capitolo una situazione migliore e allo stesso tempo di
rendere un buon servigio a Dio, di accrescere gli onori del nome di
Dio e di innalzare la preghiera del popolo. Con questa intenzione offrì
al capitolo i beni comperati con i propri mezzi da Johann Liutfrid,
cittadino di Augusta, i diritti e l’assistenza legale di Eggelhofen,
Ehekirchen, Fertingen, Erlingen, sul mulino a Kranweck e la propria
gente e case redditizie a Nordllingen.
Chiese solo che finché fosse vissuto, fosse ricordato alla vigilia
dell’assunzione di Maria, e dopo la sua morte si dedicasse un giorno a
lui, un altro a suo zio Eberhard von Thumnau prevosto del duomo e un
terzo per il suo amatissimo amico il prevosto del duomo Engelhald
von Enzberg, con veglia, ufficio e gettoni di presenza determinati nel
66
Considerando il fatto che affrontammo grandi fatiche per la nostra chiesa di
Augusta e sostenemmo pericoli fisici assai gravi per risollevare la sua
condizione e arricchimmo la stessa di beni, ingrandimmo lo stato e l’onore di
questa chiesa che avevamo trovato in completa desolazione e distruzione.
67
Il Capitolo, che conobbe noi appena eletti in un compito minore come suo
membro e ci aiutò, ci amò anche come un figlio e riverito come un padre, la
onoriamo poiché suggemmo la sua dolcezza fin dalla prima giovinezza,
perché ci fece diventare uomo e in esso ricevemmo le più alte cariche
….infine salendo giungemmo alla vetta delle cariche pastorali.
82
libro delle offerte. Ordinò anche che fosse dato ogni giorno un gettone
di presenza al cappellano che faceva la messa al suo altare nella
cappella di Krafto von Neidlingen, come ricevevano gli altri vicari, e
che ogni anno fossero dati 3 lb d’ufficio. Infine rinunciò per sé e i suoi
successori al pascolo presso il castello di Kullenthal. –Concesso il 2
novembre 1365- nel quinto giorno festivo dopo il giorno di S. Narciso.
30. SUA MORTE
Sul suo altare pose diverse reliquie, che in determinati periodi
dovevano essere esposte dal suo cappellano alla venerazione.
Dopo aver retto con buona fama la chiesa di Aquileia (Aglar), morì
il 3 gennaio 1381.
83
12
Appendice iconografica
Ritratto severo di Bartolomeo d'Alviano, valoroso architetto ed eccellente condottiero che nel
1490 ricostruisce il castello d'Alviano (tra Lazio ed Umbria) dove oggi si trova un museo
dedicato a lui ed ai capitani di ventura umbri. Uomo di grande autorità e virtù, contribuì ad
armare ed addestrare alla svizzera le fanterie veneziane. Esperto nel fortificare un
accampamento, nella scelta delle posizioni e nel rimaneggiare i fortilizi, adattandoli ai continui
progressi delle artiglierie. Al servizio dei veneziani, nel 1505 è a Gradisca d'Isonzo per rafforzare
i confini ed impedire avanzate dei turchi. Nel 1508 fa munire la fortezza di Chiusaforte contro gli
Imperiali; assale Cormons, ottiene la resa di Pordenone e di altri castelli (tutti territori della casa
d'Austria). Assedia Trieste, entra in Istria, ottiene Pisino, Fiume e Postumia. Nella basilica di San
Marco gli vengono consegnate lo stendardo e il bastone di governatore generale. Viene nominato
signore di Pordenone dove si trasferisce con i suoi familiari. Nel 1514 tenta di conquistare
Gorizia ma deve ritirarsi.
84
L’altare del Duomo di Montona
85
Il piccolo altare da campo, in argento sbalzato, che si trova presso la chiesa del paesino
medioevale di Montona, in Istria. A destra Angelo Colleoni, a sinistra Olivo Melan
86
Una copia del 1986, del piccolo altare da campo. Opera del triestino Livio Scattareggia
87
Reperti conservati nel castello di Predjama, Postumia, Slovenia
88
Reperti conservati nel castello di Predjama, Postumia, Slovenia
89
Colleoni in preghiera prima Della battaglia (fonte: Oscar Browning, The Life of Bartolomeo
Colleoni, The Arundel Society, 1891
90
Bartolomeo Colleoni, d’Angiò e Borgogna, Comandante Generale delle armate della
Serenissima, appartenente alla nobile famiglia dei Colleoni feudatari di Bergamo, Lemini,
Tagliano, Trezzo, Antegnate, Malpaga per editto Imperiale di Federico II di Svevia del 1224
91
La spada e il bastone di comando di Bartolomeo Colleoni, Capitano Generale della Serenissima
Repubblica di Venezia dal 1455 al 1475, ritrovati il 21 novembre 1969
92
Monumento a Bartolomeo Colleoni in Venezia, di Andrea del Verrocchio. Il più bel monumento
equestre del mondo (foto Anderson)
93
Il Castello Colleonesco di Malpaga (sec. XV)
94
13
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