ALDO COLLEONI Il tesoro di Montona d’Istria: l’altare da campo di Bartolomeo Colleoni Edizioni Italo Svevo - Trieste 2008 In copertina: Bartolomeo Colleoni, d’Angiò e Borgogna, Comandante Generale delle armate della Serenissima, appartenente alla nobile famiglia dei Colleoni feudatari di Bergamo, Lemini, Tagliano, Trezzo, Antegnate, Malpaga per editto Imperiale di Federico II di Svevia del 1224 © 2008 by Edizioni «Italo Svevo» Trieste, Corso Italia, 9 (Galleria Rossoni) 34122 Trieste – Tel. +39.040.630330 – +39.040.630388 – Fax +39.040370267 http://www.librisvevo.it – e-mail: [email protected] 2 INDICE 1. Introduzione ............................................................................................ pag. 7 2. Bartolomeo Colleoni a 500 anni dalla morte............................................. 11 3. Bartolomeo Colleoni nella poesia .............................................................. 14 4. Il Colleoni, mecenate, statista e uomo di fede ........................................... 18 5. L’incarico affidato al Colleoni da Papa Paolo II ....................................... 26 6. Tra le rocce un “nido” inespugnabile: il castello di Predjama ................. 29 7. A Montona d’Istria il più prezioso dei superstiti cimeli colleoniani........ 33 8. L’altare da campo tra storia e leggenda ..................................................... 37 9. Bartolomeo d’Alviano................................................................................. 50 10. Conclusioni ................................................................................................ 53 11. Allegati....................................................................................................... 61 12. Appendice iconografica ............................................................................ 84 13. Bibliografía ................................................................................................ 95 3 in memoria dello scrittore bergamasco Angelo Colleoni nel centesimo anniversario della nascita 1. Introduzione Montona d’Istria custodisce un tesoro di inestimabile valore storico ed artistico1. Sono pochi i cimeli del comandante dell’esercito della repubblica di Venezia, Colleoni, conservati parte a Vienna, parte a Londra, alcuni a Bergamo2. L’altare da campo è indubbiamente il più prezioso, donato dal generale Bartolomeo d’Alviano alla chiesa di Montona nel 1509, mentre alloggiava in Casa Pamperga3. 1 La data di donazione dell’altarino è riportata da MORTEANI L., Storia di Montona, Trieste, 1895 e Caprin G., L’Istria nobilissima, Trieste, 1907, p. 43; Montona – Pala di lamina d’argento indorato dell’altare da campo che fu del Colleoni 2 L’altare venne esposto alla sesta Triennale di Milano 3 «Vediamo ora un po’ chi erano i Pamperga. Dal loro nome possiamo già persuaderci ch’essi erano discendenti di qualche ministeriale calato nell’Istria col favore dei duchi tedeschi. Tedescamente da “Bamberga” (Baviera) da prima furono detti “Bamberger”, appellativo corrottosi in Pamperga o Pampirga. Col tempo essi divennero ricchi e buoni sudditi veneziani; un ramo si stabilì nel Friuli, ma nell’Istria questa famiglia giunse fino ad avere nove rami. Poche indicazioni tuttavia ho potuto raccogliere su di essi e non prima del 1465, anno in cui un Nicolò di Bartolomeo ebbe in dono da un suo parente, Federico qm Acacio, il castello di Racizze. Un altro Bartolomeo, che non può essere il padre di Nicolò anzidetto, come indica il Morteani, difende nel 1480 il castello di Raspo. Nel 1586 è vicecancelliere a Montona Francesco Pamperga. Un Giulio Pamperga viveva nel 1506 e un altro Giulio nel 1625 è graziato dal bando e serve fedelmente la Repubblica. Dell’agosto 1600 è una lapide sepolcrale di un Tiberio Pamperga da me notata nella Chiesa dei Servi di Montona, nella quale vidi pure altro sugello di Caterina Pamperga figlia di Gasparo, agente del Comune. Il Morteani nomina inoltre un Alessandro notaio ed un Girolamo, pure agente del Comune di Montona, nel 1606. In complesso dunque ricchi e stimati cittadini questi Pamperga, ma nulla di eccezionale quali uomini d’arme, che avessero potuto eccellere agli occhi dell’Alviano. Tutt’al più si potrebbe pensare a quel Bartolomeo del 1480, che se non già morto, nel 1508 mi pare dovesse essere già anziano. Ammesso anche che i Pamperga abbiano avuto una bella e comoda casa, non trovo i titoli che avrebbero potuto persuadere l’Alviano non solo ad accettare per uno o due giorni la loro ospitalità, ma neppure il motivo di donare loro l’altarino da campo arredo sacro di speciale carattere e non oggetto da darsi in regalo. Se qualcuno dei Pamperga aveva combattuto coll’Alviano in modo da distinguersi, anzitutto la storia ne saprebbe qualcosa, poi è certo che il generale avrebbe pensato piuttosto a donargli una spada, un pugnale, qualche gioiello, come usava allora, anziché l’altarino, men che meno poi 7 Come ricordava il vescovo di Cittanova Tommassini (1646): «Nella sagrestia… una palletta d’argento, che si apre in due parti, ch’era del famoso capitano Bartolomeo da Bergamo, generale di genti venete, che si serviva a farsi dir messa con l’altare portatile in campagna, donato all’Alviano, che lo donò a questo luogo, mentre si trovava qui alloggiato in Casa Pampergi. In questa palletta vi è la figura del Bartolomeo suddetto»4. Per il generale d’Alviano era trascorso solo un anno dalla vittoria conseguita nel Cadore nella quale aveva sconfitte le truppe di Massimiliano I, consentendo ai veneziani di occupare tutto il Friuli, di assediare il castello di Cormons e dopo aver guadato con la cavalleria l’Isonzo a Sagrado, iniziare il bombardamento del castello di Gorizia, grazie all’utilizzo dell’artiglieria mobile inventata dal suo predecessore Bartolomeo Colleoni. La guarnigione austriaca si arrese il 22 aprile 1508, provocando di conseguenza la caduta dei castelli di Duino, Riffemberg, Vipacco e Trieste e aprendo la strada alle truppe venete per la conquista di tutta l’Istria5. quest’ultimo, se l’Alviano era persuaso che di esso si era servito in campo il grande Colleoni! E il mio dubbio cresce quando penso che l’Alviano trovandosi a Montona avrebbe fatto uno sgarbo al podestà, discendente da vecchia famiglia nobile veneziana, ove non avesse accettato l’ospitalità nel vasto e sicuro palazzo podestarile tutt’ora esistente. Ivi il generale non solo sarebbe stato ospite gradito, ma di più ospite di diritto. L’elenco dei podestà di quel tempo segna Alvise Pizzamano (1505 – 07) e Francesco Gritti (1508 – 09)», in ALISI A., Il presunto altarino da campo colleonesco di Montona d’Istria, estratto da Bergomum, v, XI – luglio-settembre 1936 XIV, n. 3, pp. 7 -8 4 Cfr. KANDLER P., Notizie storiche di Montona, Trieste, 1875 e ancora MORASSI A., L’altarolo portatile del Colleoni a Montona, in Dedalo, Fasc. IV, Anno IV, MXMXXIII 5 Cfr. in appendice iconografica un ritratto severo di Bartolomeo d'Alviano, valoroso architetto ed eccellente condottiero che nel 1490 ricostruisce il castello d'Alviano (tra Lazio ed Umbria) dove oggi si trova un museo dedicato a lui ed ai capitani di ventura umbri. Uomo di grande autorità e virtù, contribuì ad armare ed addestrare alla svizzera le fanterie veneziane. Esperto nel fortificare un accampamento, nella scelta delle posizioni e nel rimaneggiare i fortilizi, adattandoli ai continui progressi delle artiglierie. Al servizio dei veneziani, nel 1505 è a Gradisca d'Isonzo per rafforzare i confini ed impedire avanzate dei turchi. Nel 1508 fa munire la fortezza di Chiusaforte contro gli Imperiali; assale Cormons, ottiene la resa di Pordenone e di altri castelli (tutti territori della casa d'Austria). Assedia Trieste, entra in Istria, ottiene Pisino, Fiume e Postumia. Nella basilica di San Marco gli vengono consegnate lo stendardo e il bastone di governatore generale. Viene nominato signore di Pordenone dove si trasferisce con i suoi familiari. Nel 1514 tenta di conquistare Gorizia ma deve ritirarsi. 8 Come ricorda Alisi (1936): «Mi sia ora concesso di seguire l’Alviano dettagliatamente nella sua fortunata impresa contro gli imperiali attenendomi alle scrupolose note del Diario dell’udinese Girolamo Coletti, controllate già dal Benussi. Il generale veneziano sbaragliò e battè con una rapidità stupefacente l’esercito nemico; nell’ultimo periodo la flotta e le truppe di sbarco veneziane cooperarono validamente agli ordini di Girolamo Contarini. L’azione ebbe un inizio cauto e lento nel 1508, quando Massimiliano I, desideroso di recarsi a Roma, per essere incoronato come i suoi predecessori, si propone di aiutare nel contempo i fiorentini in guerra coi pisani. Venezia gli nega il passaggio con tanti armati e l’Alviano si avvia subito per le valli cadorine con 1800 fanti guidati da Pietro del Monte e 200 stradiotti agli ordini del Paleologo e del Busicchio. Trovato il favore degli alpigiani questo piccolo esercito investe e prende Pieve del Cadore, e si getta sulle truppe tedesche sorprese, che prendono uno dei loro capi, Sisto Trautson. L’Alviano scende poi per Friuli e giunge dinnanzi Cormons con nove bandiere di fanti e mille cavalli, facendo capitolare il castellano di Duino, Giorgio Hofer. Rapidamente si arrendono all’Alviano Gorizia, Vipacco, Postumia e, coll’aiuto del Contarini, Trieste e Fiume, sicchè Massimiliano I è ridotto a chiedere una tregua, che avrebbe dovuto durare tre anni, firmata l’11 giugno 1508 nel Convento di S. Maria, fra Riva ed Arco, presso il Lago di Guarda. Come si vede, appena nell’ultima fase della guerra l’Alviano s’era avviato verso l’Istria, per unirsi probabilmente col provveditore Contarini. L’assedio di Trieste finì il 6 maggio 1508 colla presa della città; al 9 giugno i veneziani conquistarono Postumia; nell’Istria, Piemonte, Visinada, Madonna dei Campi, Torre del Quieto, Medolino spontaneamente si davano ad essi, mentre quelli di Pirano, ritornati dall’assedio di Trieste, subito si gettavano su Momiano e lo prendevano. La contea di Pisino doveva però rimanere un anno solo sotto la Signoria di S. Marco. L’unico spazio di tempo in cui l’Alviano avrebbe potuto esser ospite dei Pamperga a Montona, che era borgo bene fortificato, credo non si possa porre che fra il 18 maggio, giorno in cui fu presa Pisino dalle genti del Contarini, e il 27 successivo, quando i veneziani entrarono in Fiume. Ma in quei nove giorni i due dirigenti delle forze armate veneziane avevano certamente parecchio da fare. Oltre alle preoccupazioni logistiche v’erano quelle amministrative, perché il Senato era intransigente e nelle terre conquistate esigeva l’immediata introduzione delle leggi, la sollecita istallazione degli uffici. Non v’è quindi dubbio che intervenissero l’Alviano e il Contarini assieme ai provveditori inviati da Venezia, Secondo di Cà Pesaro e Andrea da Mula, quando i Commissari istituirono già in quei giorni i due uffici 9 camerari, confermati dal consiglio dei Pregadi nell’agosto, uno a Pisino per le terre al di qua del Monte Maggiore e del Caldara, ed uno a Fiume per quelle al di là di quei monti. Non rimaneva certo molto tempo per oziare, anche se la distanza fra Pisino e Montona non è che d’una ventina di chilometri»6. Pertanto, sulla presenza di d’Alviano a Montona d’Istria, non vi sono dubbi. Tutti i cronisti dell’epoca e gli storici che studiarono il periodo confermano la presenza del comandante nella rocca di Montona. 6 ALISI A., Il presunto altarino da campo colleonesco in Montona d’Istria, estratto da Bergomum, vol. X, luglio – settembre 1936 – XIV, n. 3 pp. 6 - 7 10 2. Bartolomeo Colleoni a 500 anni dalla morte7. Chi era veramente Bartolomeo Colleoni, proprietario dell’altare da campo conservato a Montona d’Istria? Anche la sua sepoltura è avvolta nel mistero e solo recentemente è stato ritrovato il corpo. Il 15 giugno del 1922 Vittorio Emanuele III in visita alla Cappella Colleoni in Bergamo, di fronte ai due sarcofaghi dell’Amadeo in uno dei quali si supponeva giacessero le spoglie del Condottiero bergamasco, d’un tratto, rivolto all’onorevole Belotti, chiedeva: «È deposto nell’arca superiore o inferiore?». Né il parlamentare, né il Nobile Alessandro Colleoni, né gli altri accompagnatori seppero rispondere. Chi avanzava un’ipotesi, chi altra. Il sovrano concludeva bruscamente. «Mettevi d’accordo». Partito il Re le due arche furono scoperchiate. Stupore, costernazione, erano vuote. Da quel giorno, autorità, studiosi, cittadini non fecero che chiedersi: «Dove sono finiti i resti del condottiero?». Si ricordò che il cardinale Carlo Borromeo in visita apostolica a Bergamo nel settembre del 1575 aveva ordinato al suo segretario Lodovico Moneta di rimuovere le bandiere colleonesche che ornavano le urne, alcune delle quali, nottetempo, furono distrutte8. Ciò in applicazione delle decisioni del Concilio di Trento che condannavano il costume di porre nelle chiese armi, vessilli, trofei ed altri segni e monumenti di vittoria. Si ritenne che anche il corpo di Bartolomeo Colleoni9 fosse stato rimosso dal sarcofago e seppellito altrove, forse nel sottosuolo della Cappella Colleoni, forse nella basilica di Santa Maria Maggiore. Trent’anni di ricerche poi il 1 gennaio 1950 Mons. Locatelli scoperta nella basilica sotto l’altare del Corpus Domini una antica arca contenente uno scheletro e frammenti di una spada annunciava raggiante che quelli erano i resti dell’invitto Capitano Generale della Serenissima. Ma la 7 Angelo Colleoni, 1973, archivio dell’A. È da imputarsi pertanto al Borromeo se le bandiere di guerra del Colleoni, che tanto rappresentavano per la storia d’Italia e della Serenissima, siano state vandalicamente distrutte privando la città di Bergamo di una importante testimonianza storica. 9 ricordiamo che il capitano generale di terra avrà principalmente l’incarico di «mantenere e difendere, con dignità e decoro» l’impero dell’entroterra. Cfr. in RENDINA C., Pasquale Malipiero (1457 – 1462), Doge, I Dogi. Storia e segreti, Roma, Newton&Compton Editori, 2003, p. 242 8 11 commissione nominata dal Ministero della Pubblica Istruzione il 4 luglio del 1956 informava «non constare che i resti umani rinvenuti nella basilica si possano attribuire a Bartolomeo Colleoni». Finalmente il 21 novembre del 1969 la scienza vinceva il mistero. L’ing. Richard Edgar Linington della Fondazione Lerici e il suo aiutante sig. Alberto Migliarini grazie a strumenti modernissimi per il rilevamento di metalli, constatavano l’esistenza nell’arca inferiore di elementi ferrosi. Alle ore 16, apertala, veniva individuato ad una certa profondità uno strato di calce simulante il fondo, particolare sfuggito ai precedenti ricercatori. Infrantolo appariva una cassa lunga due metri, larga più di mezzo metro e alta quaranta centimetri10. Toltone il coperchio, ecco: «ancora ben composta, in parte vestita, le braccia incrociate, maestosa, col capo spostato alla destra del cuscino, la salma scheletrita del Condottiero, fra lo stupore, la commozione, l’esultanza dei presenti» Mons. Angelo Meli che aveva sempre sostenuto trovarsi la sepoltura nella Cappella, ing. Mario Donavia, Presidente del Rotary Est, conte ing. Enrico Colleoni, Presidente del Luogo Pio della Pietà oggi Istituto Bartolomeo Colleoni. Nella cassa, il bastone del supremo comando conferitogli dalla Repubblica di Venezia ed una targa di piombo recante la seguente iscrizione: «BARTOLOMEUS COLIONUS – NOBILIS. BERGO. PRIVILEGIO – ANDEGAVIENSIS ILL.MI IMPERIJ – VENETORUM IMPERATOR – GENERALIS INVICTUS – VIXIT ANNOS LXXX – IMPERAVIT IIII ET XX – OBIIT III NO. NOVEMBRIS – CCCCLXXV SUPRA MILLE». La spada, sfuggita alle prime ispezioni perché coperta dal fianco sinistro del Bergamasco, veniva scoperta il 5 febbraio del 1970 dal sig. Mario Lucchetti incaricato di eseguire una serie di fotografie, mentre era intento a togliere con dei pennelli il velo di griglia polvere che copriva gli abiti del Condottiero. Finiva così, dopo tante romanzesche ricerche e polemiche, il mistero 10 «Bartolomeo Colleoni è immortalato nella coscienza europea da quella statua equestre, che l’arte del grande Verrocchio gli eresse per conto della Repubblica di Venezia, una scultura che innalzò il Condottiero a rappresentante ideale dell’arte militare. “Il Colleoni del Verrocchio”: con questa definizione l’Imperator invictus, il Gran Capitano della Serenissima è divenuto un elemento necessario a tutti i manuali di storia dell’arte che, a ragione, descrivono l’arte magistrale con cui questa figura fu realizzata nel quadro dell’iconografia equestre del Quattrocento; una figura imponente che rispecchia sia il potere suggestivo del Condottiero, sia la potenza della Repubblica di San Marco, sotto la cui insegna il Colleoni, dal 1454 in poi, militò fedelmente e fu sempre vittorioso», cfr. PIEL Frederich, La Cappella Colleoni e il Luogo Pio della Pietà in Bergamo, Bergamo, Ed. Monumenta Longobardica, 1975, p. 7 12 calato attraverso i tempi sui resti dell’invitto Capitano Generale della Serenissima. Davanti al suo sepolcro, sacro ai Bergamaschi, si può oggi affermare: «Hic iacet». 13 3. Bartolomeo Colleoni nella poesia Numerosi poeti dedicarono versi o intere composizioni al comandante bergamasco, tra esse abbiamo scelto le più significative11. O di bell’isola nobil castello, Entro al cui fertile e ricco seno Ai rai d’Apolline le luci aprio Il più magnanimo e chiaro duce, Che mai l’Italia vantasse e il mondo: A te sol diedero le stelle amiche Udir del bambolo i primi accenti, A te sol diedero vederlo in fasce 11 riportiamo l’elenco degli autori definiti dal Bellotti “poeti colleoneschi” citando anche il titolo dell’opera dedicata al generale: Ode a Solza di Pier Antonio Serassi, primi accenni di Michele Alberto Carrara e il Carmen Saphicum di Jacopo Tiraboschi, le guerre col Piccinino in Lorenzo Spirito, episodi bellici in Francesco Filelfo ed esaltazioni di Pietro Spino e di Michele Carrara, la battaglia di Caravaggio nei versi di Francesco Filelfo, la guerra di Romagna in Giovanni Santi, ingiurie di Francesco Filefo e ritorsioni di Jacopo Tiraboschi, La guerra di Romagna nella Chanzona di Bartolomeo da Bergamo e in un sonetto di Lorenzo de’ Medici; notizie sul Salvalaio; botte e risposte tra sforzeschi e veneziani, il proverbio Non è più il tempo di Bartolomeo da Bergamo, tarde satire del Franco e del Marini, reazioni alla Corte di Malpaga: Marco Picardi, Gian Mario Filelfo, Antonio Cornazzano: i sonetti di B. Donda e l’ode a Malpaga di Michele Alberto Carrara, opere colleonesche nei versi di Achille Muzio, la morte di Medea, figlie e nipoti del Colleoni poetesse, la morte del Colleoni nei versi sciolti dell’ab. Carlo Fumeo; componimenti funebri di Michele Alberto Carrara, la Cappella Colleoni: Il vecchio capitano all’Amadeo; versi di Achille Muzio, dell’abate settecentesco G.B. Angelini e di Jean Louis Vaudoyer, epigrafi di Ercole Tasso, La statua del Verrocchio e il sonetto di Antonio Cammelli; giuochi di parole sul suo collocamento; descrizioni e liriche di G.A. Audebert, di C.E. Virey, di Agostino Beaziano, di Werner von der Schulenburg, di Gabriele d’Annunzio; uno strano equivoco del Byron, il Colleoni e Bergamo: il Muzio, l’Audebert, Augusto Cocceiano, Torquato Tasso, Gabriello Chiabrera, Alessandro Ghirardelli, Gioachino Du Bellay, il Colleoni assurto a simbolo patriottico: poesie dell’epoca romantica; G. D’Annunzio: il generalissimo, il fiero capitano bergamasco; la battaglia del Piave di Filippo Meda, il Colleoni di Giovanni Chiggiato. 14 Intorno stendere, qual novo Alcide, L’ignude braccia, e fin d’allora Gli occhi terribili vibrare intorno, Che sangue a’ barbari crudi nemici Gelar poi fecero dentro le vene. Te mai non fulmini con sue saette Giove iratissimo, né il ciel turbato L’atre sue gradini contro te scagli, Ma soavissima dolce rugiada Sparga sui floridi tuoi lieti campi, O di bell’isola nobil castello. Torquato Tasso12 L’ombra canuta del guerrier sovrano A Malpaga erra per la ricca loggia, Mutato l’elmo nel cappuccio a foggia, Tra i rimadori e i saggi in atto umano. E tu, Bergamo, il suo sepolcro vano Chiudi. Ma all’aspro vento che da Chioggia Sibila è vivo! Ancor di strage ha roggia L’unghia e la pancia il suo stallon romano. Stretto nel pugno il folgore della guerra, I fanti contro Galeazzo ei sferra, Tornando col mortaro e la spingarda Arcato il duro sopracciglio, ei guarda Di su la manca spalla irta di piastra; E, bronzo in bronzo, nell’arcion s’incastra. Gabriele D’Annunzio13 Il terzo atto della tragedia di Giorgio Byron, intitolata “Marin Faliero”, si svolge di notte, presso la chiesa dei Santi Giovanni e Paolo «davanti alla quale si vede una statua equestre». 12 BELOTTI B., Studi colleoneschi, Milano, Casa Editrice Ceschina, 1939-XVII, p. 69 13 BELOTTI B., Studi colleoneschi, Milano, Casa Editrice Ceschina, 1939-XVII, p. 70 15 Nella prima scena entrano anzitutto il doge solo e mascherato e quindi Israele Bertuccio, comandante dell’arsenale e congiurato. Il dialogo che si svolge fra i due personaggi contiene, fra le altre, queste “battute”: «DOGE: Fermati: qui non vi sono umani testimoni. Guarda laggiù. Che cosa vedi? ISRAELE: Null’altro che la grande statua equestre d’un guerriero al pallido splendor della luna. DOGE: Quel guerriero è l’immagine del mio bisavo e quella statua fu a lui decretata, per aver due volte liberata la patria. Credi tu che egli ci guardi? ISRAELE: Queste, o signore, sono mere illusioni. Il marmo non ha occhi. DOGE: Ma li ha la Morte. Io ti dico, Israele, che in questi monumenti vi è uno spirito che opera e vede e che si fa sentire sebbene invisibile…»14 Anche Torquato Tasso, in quello dei suoi celebri sonetti a Bergamo, che cominci col verso «Alma città, più del tuo verde monte» accennando al Colleoni, esclama: In te s’acquista pregio altro, che d’armi; Ed ove splende pur l’invitto duce L’antica fama e il trae d’oscura tomba, La gloria d’altri figli anco riluce In dolci e vaghe rime e in dotti carmi…15 Quel condottiere che dal piedestallo La morta riva domina in Vinegia 14 BELOTTI B., Studi colleoneschi, Milano, Casa Editrice Ceschina, 1939-XVII, pp. 71-72 15 BELOTTI B., Studi colleoneschi, Milano, Casa Editrice Ceschina, 1939-XVII, p. 74 16 Minacciata dal barbaro e dispregia La minaccia del ciel, solo, a cavallo, Bartolomeo, grifagno come Dante, Che converso abbia in elmo il suo cappuccio A gote, chiuso in piastra il suo corruccio, Preso a trattar cavalleggiero e fante, Tu lo vedi al segnale delle trombe Sollevare e sferrare i battaglioni, Come balestra lancia i suoi bolzoni, Come mortaio lancia le sue bombe. Gabriele D’Annunzio, dell’Avvento 16 Pel Generalissimo, in Preghiere Il fiero capitano bergamasco, Crucciato in atto di lasciar l’arcione, Come ad una invisibile legione, Così parlò di sotto al ferreo casco: «Io non sono e non fui vile e fuggiasco; E se un trepido bracio or mi depone, Mi volgo a voi; vincete la tenzone Chè di pane d’esilio io non mi pasco. Lupi del settantotto fanteria, Fior delle vene della gente mia, Parto fremendo; e attenderò ogni giorno, Se giunga fino a me, per la campagna, L’urlo che gridi il vindice ritorno»17 Il 78 fanteria, a cui si volgeva il Colleoni, era un famoso reggimento, della brigata Toscana, detta anche brigata Lupi. «Ab hostium grege legio vocata Luporum» composto specialmente da bergamaschi, come pure alpini ed artiglieri di montagna erano solitamente i soldati della regione bergamasca18. Ai “lupi” è stato dedicato un monumento presso le foci del Timavo, nel comune di Duino – Aurisina in provincia di Trieste. 16 BELOTTI B., Studi colleoneschi, Milano, Casa Editrice Ceschina, 1939-XVII, p. 79 17 Sonetto apparso nel periodico “La Sorgente” di Milano (1918) 18 BELOTTI B., Studi colleoneschi, Milano, Casa Editrice Ceschina, 1939-XVII, pp. 80-81 17 4. Il Colleoni, mecenate, statista e uomo di fede19. Il Colleoni così, e a differenza degli altri condottieri, seppe dominare anche senza l’elmo e la corazza, e presentarsi a noi anche coi vigorosi lineamenti dell’uomo di stato20. Egli fu adunque e veramente un grande personaggio del secolo decimoquinto. E tanto più degna di attenzione è la sua figura, quando si pensi che essa non si formò attraverso la coltura e gli studi, ma piuttosto nella costante e infaticabile attività di uno spirito naturalmente pronto, accorto, sagace, e di un temperamento indomabile e dominatore, che tutto dovette a sé stesso 21. 19 In BELOTTI B., La vita di Bartolomeo Colleoni, Bergamo, Istituto d’Arti Grafiche Editore, 1951, pp. 466 - 470 20 Il condottiero bergamasco prestò servizio anche a Napoli combattendo per la regina Giovanna che intratteneva una relazione sentimentale con il Colleoni sulla quale scriveva il Giovio 133: «Fuit Coleo corporis statura erecta atque habili, adeoque formosus et agilis, ut Regina Ioanna procaci mulier, avidaque virorum fortium, Coleonis amore caperetur, quum es spectante cunctos in polestra…» 21 «La guerra intrapresa dalla Repubblica di San Marco nel 1463 (contro i turchi n.d.a) fu inizialmente offensiva, per la conquista della Morea e la sicurezza delle rotte intorno alla Grecia meridionale. Per la prima volta un consistente esercito fu inviato nei Balcani, al comando prima di Bertoldo d’Este, poi, nel 1464, di Sigismondo Malatesta. Si parlò di mandare Colleoni in persona, e si diceva che il capitano generale fosse ansioso di partire, per guadagnarsi nuove benemerenze in un momento in cui Pio II chiamava tutte le province d’Europa alla crociata. È però assai probabile che la riluttanza veneziana a vedere Colleoni coinvolto in Levante derivasse dal timore di un contrattacco milanese quando la frontiera occidentale fosse stata privata del suo maggiore difensore. Le campagne di Morea, nonostante i successi iniziali, non poterono essere portate a fondo; la morte di Pio II nel 1464 cancellò ogni possibilità di una crociata generale in aiuto dei Veneziani e contribuì, insieme con la morte di Cosimo de’ Medici in quello stesso anno, alla destabilizzazione del sistema italiano. Paolo II (Barbo), il successore veneziano di papa Piccolomini, pensava più a restaurare la sua autorità negli Stati pontifici che ad aiutare Venezia, mentre l’indebolirsi del regime mediceo a Firenze lasciava Francesco Sforza in una posizione esposta. Fu comunque la morte di Sforza, l’8 marzo 1466, a scoprire tutte le crepe nel sistema politico italiano. Fu subito chiaro che Bartolomeo Colleoni tramava da anni in attesa di questo evento. A dispetto di tutti gli sforzi di Francesco, il regime milanese era intrinsecamente instabile; il mancato 18 Il Colleoni era infatti scarsamente istruito, come si vede dalle lettere sue che ci sono restate, così da essere in ciò paragonato dal Cornazzano più a Mario che a Cesare. Egli – dice lo Spino – usava la sua propria naturale favella e non si dilettava del parlare straniero; e dobbiamo credere che anche negli ultimi anni parlasse un volgare veneziano, come appare dalla riferita testimonianza dei delegati della Misericordia di Bergamo, che andarono da lui per domandare la rifabbrica della sagrestia di Santa Maria Maggiore. A torto il Filefo, che era un detrattore, lo chiamava “il facchino bergamasco”. Uomo di talento naturale, egli ebbe invece la chiara intuizione della importanza che hanno e delle soddisfazioni che procurano le lettere e le arti: e perciò si circondò di letterati e di filosofi, discettando con loro, e mise alla prova il genio degli artisti del suo tempo. Ebbe anche un’altra caratteristica che distingue le anime nobili, e cioè l’attaccamento alle persone del popolo, sempre buono quando non è ingannato; ed ebbe piacere di vivere e di discorrere con loro. La riconoscimento imperiale del titolo e una sorda opposizione all’interno dell’élite milanese lasciavano sperare che una mossa decisiva da parte di Colleoni potesse scalzare il successore di Francesco Sforza Galeazzo Maria, portando il capitano generale veneziano a prendere possesso del Ducato. Fu questa ambizione personale, che Venezia esitava a imbrigliare, più che non un qualche progetto egemonico a lungo termine della Repubblica stessa, a far precipitare la crisi del 1467. Le ambizioni di Colleoni erano alimentate da Borso d’Este e dagli esuli fiorentini, che nella morte di Sforza vedevano anche un’occasione per far cadere il regime mediceo. Venezia, che aveva seccamente rifiutato di inviare un’ambasciata per le condoglianze e le congratulazioni a Galeazzo Maria Sforza, contratto di ingaggio permanente per preparare un’offensiva generale contro l’alleanza milanese-fiorentina. Napoli e Paolo II si armarono in difesa dello status quo e Venezia, che pure non si era del tutto sbilanciata, si trovò isolata come responsabile ultima della crisi. Crisi che si risolse con l’incerta ma sanguinosa battaglia di Molinella, il 25 luglio 1467. Se Colleoni e Borso d’Este fossero riusciti a sconfiggere l’esercito della Lega comandato da Federico da Montefeltro, i regimi di Milano e Firenze si sarebbero trovati in gravissime difficoltà, e senza dubbio Venezia ne avrebbe tratto beneficio. Di fatto, invece, la Repubblica cominciò a prendere le distanze dall’impresa. E accettò le proposte di pace di Paolo II e il suo richiamo a un rinnovato impegno comune per la crociata. Tra gli esiti della vicenda favorevoli a San Marco vi fu la disponibilità delle potenze italiane ad accettare l’inserimento della Savoia nell’assetto difensivo ereditato dalla Lega italica. Venezia l’aveva chiesto con insistenza, e utilizzava l’alleanza savoiarda come un freno diplomatico contro la potenziale aggressività di Galeazzo Maria Sforza», in MALLET Michael E., La conquista della terraferma, in Storia di Venezia dalle origini alla caduta della Serenissima, Roma, Ed. Istituto della Enciclopedia Italiana, 1996, pp. 252, 253 19 polizia di Galeazzo Sforza negli ultimi anni della sua vita e quando si trattava la condotta con Carlo il Temerario, lo descrive fra i balli campestri della sua gente. Ma da questi contatti il Colleoni, oltre che la diretta conoscenza dell’anima popolare, traeva anche l’alimento alle altre qualità così schiettamente bergamasche che egli ebbe, e quindi anche a quello spirito pronto, bonario e confidente, di cui tante volte diè prova, e a quel senso pratico, al quale si ispirò nel far del bene. Abbiamo riferito la risposta da lui data a Galeazzo Sforza, quando, dopo la battaglia della Riccardina, il giovane duca di Milano volle vedere il vecchio capitano che aveva combattuto contro di lui, anzi contro i suoi soldati22. Il Giovio racconta un altro episodio. Egli narra dunque che, avendo Galeazzo Sforza mandato al Colleoni una volpe in gabbia «per uccellarlo come capitano vecchio e non sempre astuto», il Colleoni lo ricambiò subito, mandando a sua volta, tutto adorno di frangie e di sonagli, uno di quei cervi volanti che sogliono adoperare i bambini, e ciò per significare al giovane Sforza che lo considerava come un ragazzo stupido e leggiero. Il Lomonaco nelle sue “Vite dei famosi capitani d’Italia”, riferisce inoltre che, «venuto un giorno il Colleoni a discorso con tale Antonio Cigola, costui gli disse: “Che sciagurata età è la nostra!”. Al che il Colleoni rispose: “Mio zio diceva lo stesso; e siccome egli riferiva, simile erano le querele di suo padre, e non diverse da quelle dell’avo e del bisavo, tutti uomini di dottrina!”» Egli insomma pensava saggiamente che il mondo non cambia, come non cambierà per molti secoli, per quanto alcuni scellerati e alcuni illusi possano cercare di rovinarlo. Ed era l’uomo che col suo senso pratico non solamente creava istituzioni, come quella della Pietà, destinate a far del bene a traverso le generazioni, ma rifabbricava i pubblici edifici, derivava acque per irrigazioni e concepiva disegni grandiosi di comunicazione fluviale tra Bergamo e Venezia, anticipando i tempi23. Egli finalmente non si 22 Una data fondamentale per la storia del Colleoni è il 15 settembre 1448: quando impiega l’artiglieria in modo fino allora sconosciuto, rendendola mobile, rivoluzionando le strategie militari fino ad allora in uso. 23 Il Colleoni voleva costruire un canale navigabile dal suo feudo di Malpaga fino a Venezia. Il progetto esecutivo venne realizzato solo nel 1954 dall’Ing. Aldo Colleoni di Bergamo, progetto che prevedeva la regolamentazione delle acque di Valpadana con la costruzione di un canale navigabile tra Torino e Venezia, attraverso proprio i possedimenti di Malpaga. Il progetto trova solo ora parziale realizzazione. Cfr. COLLEONI 20 trovava mai «fastidito del dare udienza a quantunque, ricco o povero, a lui ricorresse», e – continua lo Spino - «resse e tenne i suoi popoli sotto un sì cortese e liberale governo, che qualvolta avviene che Baldassarre Zailo nei memorariali suoi per incidenza ne tratta, ei se ne sta alle testimonianze di Giovanni Zucchi, ma che certo anche deve avere avuto un fondo di verità. E il ricordato codice colleonesco di Londra ne fa testimonianza24. A., Acque di Valpadana, Bergamo, Ed. Associazione idrotecnica italiana, 1954 24 «La morte di Colleoni nel 1475 lasciò un vuoto difficile da colmare; la carica di capitano generale sarebbe stata assegnata ad intervalli, buona parte delle lance di Colleoni fu mantenuta in servizio con nuovi accordi. Morto Carlo Fortebraccio nel 1479, la compagnia passò a suo figlio Bernardino, che si sarebbe distinto tra i comandanti veneziani nella battaglia di Fornovo nel 1495. Bertoldo d’Este cadde in Morea nel 1463, e Antonio da Marsciano, genero di Gattamelata, fu preso dai Milanesi nel 1482 e finì per passare al servizio di Firenze. Andava gradualmente affermandosi una nuova generazione di capitani, molti dei quali nobili di Terraferma, con compagnie più piccole e pretese meno esorbitanti che in passato. Questo quadro piuttosto statico fu turbato in modo particolare da due episodi. Il primo fu la serie di incursioni lanciate dai Turchi in Friuli negli anni Settanta: nel 1472 minacciarono Udine, e l’anno dopo la cavalleria turca arrivò fino al Tagliamento, a cinquanta chilometri da Venezia. Ancora, nel 1477 un’invasione su vasta scala portò a una grave sconfitta dell’esercito veneziano, e alla perdita sul campo di numerosi tra i capitani più in vista. La Repubblica aveva fatto ben poco, nell’organizzazione sul lungo periodo delle sue truppe, per la difesa della frontiera orientale; a est di Venezia non era stato insediato nessun condottiero di rango, e con l’inizio della minaccia turca nel 1471 si fu costretti a trasferire in gran fretta le truppe dai loro normali quartieri. Nella fase iniziale le truppe e il denaro stanziati per far fronte al pericolo non bastavano mai: l’urgenza della difesa di quella regione era poco sentita, e i capitani avevano scarsa esperienza per affrontare la rapida mobilità della cavalleria leggera turca. Nel 1473 Carlo Fortebracci prese il comando della difesa, ma la cavalleria soprattutto pesante delle compagnie tradizionali si trovò svantaggiata. Anche quando furono attirati in battaglia, come nell’ottobre 1477, i Turchi diedero prova di una combattività senza riscontro da parte veneziana. Ormai però sulla frontiera orientale era stato ammassato un forte contingente permanente, e a rafforzare la difesa fu ingaggiata la prestigiosa compagnia di Cola da Monforte, conte di Campobasso, appena uscita dal servizio borgognone; nel 1478 più di seimilacinquecento uomini furono schierati contro l’ultimo attacco turco prima dei negoziati di pace, l’anno successivo. L’emergenza friulana ebbe di fatto importanti conseguenze sul pensiero militare veneziano. Ne risultarono evidenziati la necessità, per una più efficace mobilitazione rapida del piccolo esercito permanente, dell’appoggio di una milizia non professionale, nonché il valore di una buona cavalleria leggera; infine, gli attacchi turchi furono convincente dimostrazione dell’esigenza di riattare le fortificazioni a difesa delle frontiere. In tutti questi 21 Come già abbiamo avuto occasione di notare, il Rio esalta il Colleoni anche per il suo sentimento religioso25. Se il Colleoni fosse andato contro i Turchi26 – egli scrive - «la cristianità avrebbe forse avuto un nome di più da scrivere accanto a quelli di Goffredo di Buglione e di Tancredi: in ogni caso avrebbe avuto qualche buon ricordo di più e senza dubbio qualche espiazione di meno» Queste per altro sono esaltazioni liriche, prive di serio fondamento. È vero che il Colleoni non malediva Iddio per le battaglie sfortunate, come il Piccinino, e non era bestemmiatore come Bartolomeo Alviano; ed è pur vero che, spinto certamente anche dalla consorte, molto pia, fondò chiese e conventi; ma ciò non basta per dire che egli fosse una specie di santo guerriero. Sigismondo Malatesta, il pagano umanista di Rimini, il processato per eresia, non costrusse pure un tempio famoso, e non lasciò agli eredi suoi l’obbligo di condurlo a termine? E non fecero altrettanto altri condottieri, che certamente non furono santi? Per essere fedeli con le testimonianze della storia, diremo dunque che, anche per ciò che riguarda la religione, il Colleoni fu quello che poteva essere un uomo del tempo suo. settori si ebbe modo di verificare le carenze dell’organizzazione e della pianificazione militare veneziana, e furono presi provvedimenti per emendarle», in MALLET M. E., La conquista della terraferma, in Storia di Venezia dalle origini alla caduta della Serenissima, Roma, Ed. Istituto della Enciclopedia Italiana, 1996, p. 266 25 Il Colleoni, quando Papa Paolo II riunì principi e città di tutta Italia in una alleanza diretta contro i Turchi, doveva ottenere il comando supremo di questa lega. Dopo aver ricevuto nel 1466 il titolo di Duca di Andegavia, cioè di Angiò, divenne “christianorum exercitus imperator, dux Andegaviae, dux Burgundiae” 26 Cfr. MALIPIERO D.: «… “se duol di haverse separado dal Re d’Ongheria, che faceva guerra a’ Turchi con 60.000 ducati, che la Signoria ghe sborsava ogn’anno a tal effetto: e questo è processo perché Bortholamio da Bergamo (Colleoni) Capitanio ha tolto l’impresa de Toscana a favor de fuorusciti… e a so istanzia la Signoria ha manda’ a dir al Re Mathias che la no podeva continuar l’impresa e che l’fesse pace o tregua a suo beneplacito…”. Secondo il cronista, Mattia allora si accordò immediatamente con i Turchi, mentre la Signoria fece un inutile tentativo a Costantinopoli, trovando inaccettabili le dure condizioni imposte dalla Sublime Porta. Così, dunque, - constata il cronista – “… se alienassimo dal Re d’Ongharia, spendessimo oro assai in Toscana, fasemo pace ignominosa con la liga d’Italia; … e romagnessemo (rimanemmo) soli in guerra co’l Turco”», in Archivio Accademia Ungherese delle Scienze, Archivio manoscritti 4977/2 22 «Avviene sempre – dice il Simonetta – che gli uomini che vivono fra le armi si occupano assai poco di religione e della salute delle loro anime» Lo stesso Spino racconta un episodio molto eloquente. Un cappellano aveva trovato sotto l’altare di una chiesa campestre presso Sinigaglia alcune ossa, ritenute di Maria Maddalena e di Lazzaro, e aveva pregato il Colleoni perché le facesse portare a Romano. Il Colleoni gli rispose che egli era un soldato, e perciò pieno di peccati; provvedesse quindi il sacerdote a fare, di quelle reliquie, ciò che gli avesse ritenuto di poter fare. Il buon prete allora portò le ossa di Lazzaro a Covo, e quelle di Maria Maddalena a Romano. La stessa cappella di Bergamo – come abbiamo già notato – più che soddisfare un sentimento di pietà, doveva calmare un prepotente e orgoglioso sogno di gloria, e, più della mitezza di san Giovanni Battista a cui fu dedicata, doveva esaltare nei secoli un trionfo guerriero 27. Tuttavia il Colleoni – come attesta il Cornazzano – riteneva consistere ogni saggezza nella fede di Dio, ed era un pensoso frequentatore della Basella; e nel duomo a Montona d’Istria si conserva l’altare da campo usato da lui e da lui passato all’Alviano. Tante e diverse qualità del celebre bergamasco naturalmente determinarono i più disparati giudizi sulla sua persona e sull’opera sua. Non bisogna però neppure dimenticare che lo studio della vita del Colleoni, rifatto sotto la nuova e sicura luce dei documenti, dimostra che le soddisfazioni ottenute da questo fiero personaggio del quattrocento, se anche notevoli, furono in sostanza inferiori alle sue aspirazioni. La conquista del supremo generalato di Venezia, che gli era costata tanti sacrifici e tante avventure, egli l’ottenne quando Venezia abbandonava la sua politica guerriera e, dopo la pace di Lodi, si decideva a una politica di pace sul continente: fu una delusione per lui, che sperava guerre. I tentativi di servire Siena, il Papa, il re di Francia, furono impediti dal vincolo a vita che egli aveva colla Serenissima. Il suo sogno di combattere i turchi fu pure infranto. La sua ambizione di conquistarsi una signoria verso Milano, forse anche su Milano, colla quale pure si spiegano le freddezze con Francesco Sforza e le inimicizie iraconde con Galeazzo Maria, fu tarpata da Venezia che non voleva avventure, anche quando parve rinverdita 27 Il mausoleo rappresentava per il Colleoni qualche cosa di molto più importante rispetto la sua sepoltura. Doveva contenere anche la tomba di Medea Colleoni, figlia naturale prediletta del Capitano che morì il 6 marzo 1470 nel Castello di Malpaga all’età di 15 anni. 23 dall’amicizia e dalla solidarietà di Carlo il Temerario. La gloria di una celebre impresa, tentata in Romagna, si dileguò sui campi sfortunati della Riccardina. L’aspirazione a una discendenza superba fu contraddetta dal verificarsi della profezia del santo uomo di Napoli. Le stesse ricchezze cumulate non furono senza turbamento, perché, negli ultimi tempi, il capitano si accorse che Venezia le guardava avidamente e si preparava ad usurparle dopo la sua morte. E poiché queste vicende si svolsero nell’ultima parte della sua vita, quando anche la vecchiezza era venuta devastando il suo spirito e il suo corpo e resero sconfortata e solitaria la sua esistenza, così in uno studioso sereno il Colleoni può anche destare sentimenti di umana simpatia e determinare un giudizio assai più favorevole di quelli meritati da altri condottieri, egoisti, rapaci, indomabili come lui. Che se poi si rifletta come nella fredda ombra che ormai sentiva scendere attorno a sé, quest’uomo, dalla sua “terra murata” di Malpaga, abbia cercato la eterna luce, confidando tutta la deserta anima sua all’augusta protezione dell’arte, e quindi riconfortandosi nella verginale immagine di Medea fatta rivivere nel marmo, rifugiandosi nel presagito fastigio secolare della cappella dell’Amadeo, e domandando supplichevolmente a Venezia la statua di bronzo, la sua immagine appare in atteggiamento di veramente insolita nobiltà spirituale, che quasi la monda dei difetti del secolo e dà modo a noi di raccogliere dalla sua vita anche l’ammonimento di una serena filosofia28. Qualcuno ha ritenuto di poter paragonare il Colleoni a Francesco Sforza. In realtà moltissimi dei tempi suoi seguirono come ombre colui che fu giustamente detto l’uomo secondo l’indole del secolo decimoquinto – come scrive il Burckhardt -; ma nessuno può essere eguagliato al più grande capitano e al più accorto politico del quattrocento. E, nonostante talune singolari somiglianze, anche il Colleoni storicamente segue a distanza il magnifico duca di Milano. Però è pur certo che col fulgore delle opere create dall’arte per lui, coll’eco delle sue gesta guerriere, coll’esempio di una vita possente e fastosa tratta da origini umili e affaticate, la figura del nostro condottiere, del celebrato Bartolomeo da Bergamo, dimesse le traccie delle debolezze e dei difetti del tempo suo, lungo gli anni si è come 28 La famiglia del Colleoni era composta tutta di donne: la moglie Tisbe Martinengo, le figlie Ursina, Isotta, Caterina (le tre mogli dei Martinengo), Medea, morta a soli 15 anni, Doratina, Riccadonna, Cassandra, Polissena. La famiglia di Bartolomeo continuò nei Martinengo Colleoni e si estinse nel 1880. Il castello di Malpaga dal 1880 divenne proprietà dei conti Roncalli di Bergamo e dal 1924 fu acquistato dalla famiglia Crespi di Ghemme. 24 spiritualizzata in una maschia espressione di fierezza e di energia, che sembra superare quella del “gran sforzesco”. Perciò essa è diventata nota al mondo e cara agli italiani, che la giudicano una possente e consapevole affermazione della razza, tale da far dire al poeta: Bartolomeo grifagno come Dante Fortunato Colleoni, che per tal modo, a traverso i secoli, ha potuto diventare un condottiero di spiriti! 25 5. L’incarico affidato al Colleoni da Papa Paolo II 29 Dopo la morte di Francesco Sforza, duca di Milano (8 marzo 1466), i contrasti tra Paolo II e il nuovo duca Galeazzo Maria si accentuarono, ancora una volta per motivi fiscali. Gli equilibri politici italiani divennero più instabili. Venezia, che aspirava al dominio di Milano, aveva nel frattempo accolto i fuoriusciti fiorentini avversari del governo mediceo e all’inizio del 1467 congedò il condottiero Bartolomeo Colleoni per consentire loro di assoldarlo. Il Colleoni aveva coltivato in un primo tempo il progetto di conquistare personalmente il Ducato di Milano, ma quando si rese conto che la successione di Galeazzo Maria Sforza era avvenuta senza grandi contrasti rivolse le proprie mire verso Firenze. Di fronte a questo pericolo, il 17 gennaio 1467, Piero de’ Medici strinse a Roma – con l’apparente protezione del papa – un’alleanza con il re di Napoli e Galeazzo Maria Sforza; l’esercito della lega era guidato da Federico da Montefeltro. Tra gli scopi principali della lega c’era in realtà anche quello di contrastare i disegni di Venezia e del pontefice di richiamare gli Angiolini in Italia, con l’appoggio di forze estensi e savoiarde. Paolo II ebbe a temere un’invasione dell’esercito napoletano nei territori dello Stato della Chiesa. La Battaglia della Molinella, vicino Imola, tra i due schieramenti (23 luglio 1467) non ebbe esito decisivo, il Colleoni rinunciò ad attaccare Milano e l’11 agosto fu firmata una tregua30. Dopo alcuni mesi di trattative, il 2 febbraio 1468 Paolo II prese l’iniziativa di emanare una bolla per la pace d’Italia (Ut liberius iustissimum bellun; O. Raynaldus, pp. 454-47), che imponeva ai 29 in Enciclopedia dei Papi, Istituto della Enciclopedia Italiana, Giovanni Treccani, 2000, p. 696 30 Una delle battaglie più importanti vinta dal Colleoni resta quella della Sesia nell’aprile 1449 quando combatteva per i veneziani, insieme a Francesco Sforza, contro la Repubblica Ambrosiana e contro il Duca di Savoia che aveva mandato 6000 uomini sotto il comando di Giovanni Campeys. Colleoni vinse questa sanguinosa battaglia e fece prigioniero Campeys. La sua fama da quel momento si sparse in tutta Europa. Il solo grido di guerra degli armati di Bartolomeo, «Coglia» «Coglia», era arma sufficiente per mettere in fuga le truppe dei Savoia. Cfr. Vittorio Polli, Il Castello del Colleoni a Malpaga e i suoi affreschi, Bergamo, Monumenta Longobardica, 1975 26 contendenti di far cessare ogni conflitto entro trenta giorni31. La principale motivazione della decisione pontificia era il pericolo dei Turchi, contro i quali il Colleoni veniva assoldato per una spedizione in Albania, con uno stipendio di 100.000 fiorini, che avrebbe dovuto essere pagato da tutti gli Stati italiani. Ma di fronte al rifiuto del re di Napoli e dello Sforza, che non erano disposti ad accettare il Colleoni come loro capitano né la funzione di pacificatore delle discordie d’Italia e tra tutti i cristiani e di garante della pace che il pontefice si arrogava nella bolla, si riaffacciò il rischio di una guerra e Paolo II fu costretto a rinunciare alla spedizione. Le potenze italiane rifiutavano, in sostanza, il ruolo subalterno che Paolo II voleva imporre loro, in 31 «COPIA, E TRADUZION DAL LATINO D’UN BREVE DI SECONDO LA CUI SOPRASCRITTA DICE. PAPA PAOLO Al diletto figliuolo, lo strenuo uomo, Bartolomeo de’ Coglioni, di Noi, e di tutta Italia, contro i Turchi General Capitano. Paolo secondo Sommo Pontefice. Diletto figliuolo salute, e Benedizione Apostolica. Considerando noi quanto ei fosse la pace, massime a questo tempo, cosa necessaria, e proficua: e non solo a quiete, e bene in ispezialità di quei sudditi, ch’erano dalla guerra vessati; ma eziandio a comune, ed universale salute di tutto il Cristiano popolo; essendosi noi lungamente adoperati, e faticati perché ella seguisse; la buona grazia, e favore di Nostro Signor Iddio; così lodevole desiderio, e santa opera abbiamo finalmente asseguito, e ferma, e pubblicata essa pace. La quale in tanto, onesta, e comune, ed utile, e stabile crediamo dover essere; che, e noi vero Padre di tutti, come nostra intenzione sempre è stata, a tutte le buone menti possiamo apparerne, ed a ciascun potentato d’Italia, ragionevole, e meritatamente deggia contentarsene, e volentieri accettarla: essendo ella giusta, comoda, e salubre a ciascheduno ugualmente: come dalla Bolla per noi fuori datasene, il cui esempio farà con le presenti allegato, potrai pienamente intendere. Le quali cose così stando, la tua divozione nel Signore esortiamo, che ed esso ancor tù, quanto a tè s’appartiene, vogli questa pace, come confidiamo, approvare, e ricevere: E l’ottimo animo tuo, di cui sempre sperato abbiam bene, fare al mondo tutto manifesto, e palese: E la tua sincera verso noi, e questa santa fede Apostolica, del cui onore anco si tratta; riverenza, ed ubbidienza debita co’ veri effetti mostrare. A Dio onnipotente offerirai tù in ciò dono veramente accettissimo: e presso noi, in quello santo seggio posti, te ne accrescerai grazia, ed alla fama, e nome ancor tuo ampliarne maggiormente, ed estenderne consulterai non poco. E siccome in trattando essa pace, egli s’ha per noi di tè, e della tua dignità tenuto convenevole conto; così abbiamo per costante, che tù d’altra parte l’ingiunto onore, e carico contro gl’infedeli, lodabilmente, e conforme alla tua estimazione, abbi ad esequire. Date in Roma, presso a San Marco, sotto l’anello del Pescatore, il secondo di Febrajo 1468. l’anno Quarto del Pontficato nostro.», in DA PIETRO S., Storia della vita e fatti dell’eccellentissimo capitano di guerra Bartolomeo Colleoni, presso Giovanni Santini, in Bergamo, MDLCXXXII, pp. 221 - 222 27 nome di una concezione teocratica della monarchia pontificia. Nella bolla del 2 febbraio era inoltre stata riaffermata esplicitamente l’autorità giurisdizionale del pontefice e tale presa di posizione non poteva non incontrare l’opposizione di Napoli, Firenze e Milano. La pace, pubblicata il 25 aprile, fu celebrata a Roma l’8 maggio 1468, con la dichiarazione del rinnovo della Lega italica. A Roma il 26 maggio si svolse una solenne processione, alla quale partecipò lo stesso pontefice, il quale, “ad maiorem rei celebritatem” (M. Canensi, pp. 58-59) si recò a piedi dalla basilica di S. Marco alla basilica di S. Lorenzo in Damaso. Salmi e orazioni, inni e discorsi (il più noto è quello pronunciato da Domenico Domenichi, vescovo di Brescia e governatore di Roma) completarono la cerimonia e il nome del pontefice – racconta lo stesso Canensi – fu elevato fino al cielo. 28 6. Tra le rocce un “nido” inespugnabile: il castello di Predjama e in Istria la Rocca di Montona Cimeli interessanti del Colleoni sono custoditi nel castello di Predjama. Dalle Grotte di Postumia fino a Predjama ci sono circa 10 km di strada che, dopo aver attraversato il villaggio di Veliki Otok, prosegue lungo il bacino della Pivka. Dopo l’ultima casa del villaggio si trova una grotta preistorica chiamata di Betala, nella quale il prof. S. Brodar, dopo la seconda guerra mondiale, rinvenne alla profondità di 5 metri un importante giacimento paleolitico. Furono portati alla luce oltre 2000 oggetti in pietra ed in osso. Oltre una sella nei terreni marnoso-arenacei chiamata Na Vreheh (sulle cime) a 560 metri s.l.m. si raggiunge lo spartiacque fra il bacino della Pivka ed il torrente Lovka che scorre verso Nord alla base di una parte rocciosa alta 123 metri nella valle chiusa di Predjama32. L’inghiottitoio ha la quota più bassa (462 metri s.l.m.) di tutto il bacino della Pivka. Predjama è nota soprattutto per il suo pittoresco castello posto all’ingresso di una grande caverna. Le origini del castello risalgono probabilmente ancora a Carlo Magno ma più sicuramente attorno al XIII secolo. Il castello è un vero nido sulle rocce, inaccessibile ad ogni visitatore indesiderato. Per accedere al castello era stato costruito un angusto passaggio scolpito nella roccia sotto il quale si apriva un baratro di 60 m. Dal castello, una galleria naturale, segreta, nota solamente agli abitanti del castello, usciva alla superficie in un vicino bosco. In un primo tempo il Castello di Predjama era stato un feudo dei patriarchi di Aquileia, nel 1378 invece passò in proprietà agli Asburgo. Nella seconda metà del XV secolo ne era proprietario Erasmo Lueger che, durante la guerra fra l’imperatore Federico e Mattia Corvino, re dei magiari, combattè a fianco di quest’ultimo. Ciò lo portò in odio all’imperatore anche perchè non passava giorno che non assalisse e saccheggiasse le carovane di merci e di viaggiatori che transitavano sulla strada fra Trieste e Postonja. L’imperatore allora impartì al luogotenente di Trieste Niccolò Ravbar l’ordine di catturare Erasmo Lueger vivo o morto. Per oltre un secolo 32 Sul catsello di Predjama – Lueg an der Poik cfr. VALVASOR J.W., 1689. Trieste Lubiana e la Carsia, a cura di PAROVEL P.G. e TASSOJASBITZ A., Trieste, Mladika, 1995, pp. 82 - 88 29 – poi – nessuno ebbe più cura del castello. In seguito, per la sua pittoresca posizione e per la sicurezza che offriva agli abitanti, se ne interessò la famiglia Kobenzl. Nel 1580, Giovanni Kobenzl, ambasciatore imperiale a Roma e più tardi a Mosca, fece costruire a ridosso del Castello di Erasmo Lueger, l’odierno castello rinascimentale. Questo evento è ricordato in due date scolpite una, del 1583, sul portale di entrata e l’altra, del 1570, su di un muro del castello. Dai Coronini, successivi proprietari, il castello venne acquistato, nel 1846 dalla famiglia dei principi di Windischgrätz che rimasero proprietari fino alla fine della seconda guerra mondiale quando il castello passò sotto la Direzione alle Grotte di Postoja. All’inizio del XVII secolo il misterioso accesso al castello, che terminava nel boschetto posto al bordo superiore della parete sovrastante il castello, venne murato poiché da qui penetravano i trafugatori di oggetti di valore. Questo accesso, ormai dimenticato, venne solennemente riaperto nel 1886. Dopo la seconda guerra mondiale, gli speleologi di Postojna esplorarono e descrissero questa grotta segreta, dopodichè per ragioni di sicurezza l’accesso venne ancora una volta murato. Il romantico Castello di Predjama è oggi, per molti, una meta turistica di grande attrattiva che raramente si può vedere in altre parti del mondo. All’interno si possono ammirare numerose sale, parte in muratura, parte ricavate dalla roccia. Nelle prime si conservano antichi arredi, quadri, mobili, trofei di caccia. Nelle successive si trovano invece armi, armature; una è particolarmente bella, con intarsiati i simboli di Venezia e il nome di Marco Barbarigo 33. Dopo una porta di legno, tra due lance, si vede un grande bassorilievo con la data del 1475, il nome inciso di Bartolomeo Colleoni e la sua immagine. La guida del castello, stampata in lingua italiana, riporta erroneamente: “A sinistra potremo vedere un’armatura in ferro battuto dell’anno 1475, già appartenente al Doge di Venezia Bartolomeo Colleoni”; in realtà non si tratta di armatura; comunque di un reperto di indubbio interesse. Ma è a Montona d’Istria il cimelio più importante del Colleoni. Montona è un paesino medioevale, costruito su di una collina, cinto da mura, con molte chiese e antiche case. Rassomiglia per certi versi a Bergamo alta, con una differenza: mentre la pavimentazione della piazza di “città alta” è stata distrutta e quella originale è stata sostituita 33 Marco Barbarigo, doge di Venezia dal 1485 al 1486 in RENDINA C., I Dogi. Storia e segreti, Roma, Edizioni Newton&Compton, 2003, p. 262 30 con moderne piastrelle, a Montona, gli amministratori delle varie epoche hanno conservato per le future generazioni, il patrimonio del passato, consistente in piazze e strade di epoca veneziana. A Montona tutti parlano italiano, o meglio, un dialetto simile al veneziano. Il Parroco, don Pietrovic Drago, con grande cortesia, apre chiesa e sacrestia. La chiesa è stata costruita nel sedicesimo secolo in stile barocco-rinascimentale, decorata con statue di Santo Stefano e San Lorenzo e numerosi dipinti. Il reperto più importante custodito nella sacrestia è indubbiamente l’altare da campo di Bartolomeo Colleoni. L’altarino, conservato egregiamente, tutto in argento sbalzato, dopo la battaglia del 1447 – che vide sconfitti il generale Dresnay e le soldatesche del duca d’Orleans e successivamente le milizie di Lodovico di Savoia e di Carlo VII, sempre per opera del Colleoni -, finì alla battaglia di Lepanto sulla nave ammiraglia. Fu Alviano che nel 1508 lo portò con sé quando espugnò Gorizia e costrinse alla resa Trieste. Fu Alviano che, ricevutolo in dono, lo regalò a sua volta a Montona34. Infatti così ricorda Benussi (1924): «Il duce veneto, l’Alviano, sgomberato dai nemici il Friuli, portò le armi sul territorio austriaco, occupando Duino, Gorizia, Postumia (Adelsberg). Il 6 maggio dal provveditore Contarini veniva presa Trieste, il 18 Pisino, il 27 Fiume. Furono istituiti a Fiume due uffici camerari, l’uno a Pisino per le terre al di qua, l’altro a Fiume per quelle al di là del M. Maggiore e dei Caldaro. Al 6 giugno si firmò una tregua che avrebbe dovuto durare tre anni; ma in quella vece, già al 10 dicembre dello stesso anno (a. 1508), si conchiudeva fra l’Austria, Francia, Spagna, Napoli ed il pontefice, minacciati o danneggiati nei loro interessi dall’invadente politica di Venezia, la famosa lega di Cambrai, e si riprendeva su tutta la linea la guerra. I Veneziani, assaliti da forze di tanto superiori, furono vinti a Giradadda; ed allora, per tutelare la capitale, dovettero concentrare le truppe nei pressi di Mestre abbandonando al nemico le città di Trieste, Gorizia, Pisino, Fiume, vale a dire tutte le terre in precedenza conquistate. Queste vennero riprese dagli eserciti imperiali; così 34 Bartolomeo d’Alviano prestò servizio per il doge Leonardo Loredan (1501 – 1521) in RENDINA C., I Dogi. Storia e segreti, Roma, Edizioni Newton&Compton, 2003, p. 270 31 Castelnuovo colla cooperazione di un corpo di Triestini, così Duino e Raspo.» 35. 35 in BENUSSI B., L’Istria nei suoi due millenni di storia, Centro Ricerche Storiche – Rovigno n. 14, Unione Italiana – Fiume, Università Popolare di Trieste, Consiglio Regionale del Veneto, Venezia-Rovigno, 1997, p. 304 32 7. A Montona d’Istria il più prezioso dei superstiti cimeli colleoniani36 Nell’azzurra, calda serenità mattinale, splendono i tappeti della campagna ombreggiata d’alberi, punteggiata di casali. Sullo sfondo del cielo, le morbide onde dei verdi colli. Sulla cima di uno d’essi, al di sopra del nastro scuro delle mura, una cittadella, le facciate delle cui case, baciate dal sole, hanno bagliori di quarzo. L’ansito del motore si attenua, la corriera, sulla quale ho preso posto a Pinguente, si ferma. Scendo, preceduto da alcuni uomini, da disinvolto ragazzo. L’automezzo si allontana in una nebbia di polvere giallastra. Osservo distrattamente l’abitato, poso gli occhi sulla sommità del colle. Dalle muraglie ferrigne spunta una torre merlata. Il pensiero vola alla mia Bergamo. Identiche mura, palazzi onusti di secoli, quadrati torrioni, la stessa impronta di potenza e di nobiltà che la Serenissima ha lasciato ovunque. Ma quella che mi sta guardando dall’alto, non è la preromana città lombarda, bensì Montona d’Istria. Sono però sorelle, poiché furono ambedue scolte avanzate di Venezia, Bergamo fra i monti del confine occidentale, Montona fra quelli del confine orientale. E qualcosa che fu caro a Bartolomeo Colleoni, capitano generale della Repubblica Veneta, dovrebbe sopravvivere sotto le volte del duomo di Montona, creando un vincolo tra Bergamo, che dette i natali al condottiero, e Montona. Questo qualcosa è l’altare da campo che conobbe le sfortune e i trionfi del Bergamasco. È nella speranza di rintracciarlo, che mi sono spinto quassù. Quasi cinquecento anni sono trascorsi, durante i quali queste terre sono state più e più volte sconvolte dalle guerre. Esisterà ancora? Sarà andato distrutto, disperso, come quasi tutti i cimeli colleoniani? La scorciatoia sale serpeggiando, fra terrazze di verdure. Sotto, l’ampia valle colma di luce, case agghindate di fiori, pennacchi di fumo dai camini, lente ombre d’uomini nell’apparente immobilità del tempo. Ecco la porta ogivale aperta nel mastio troneggiante sullo sperone delle mura. Sopra la porta, il leone di San Marco, gli stemmi della città. Dà su un ampio locale, il corpo di guardia, in fondo al quale un’altra porta ad arco si apre sulla cittadella. Più esattamente su una 36 COLLEONI A., l’Eco di Bergamo, Bergamo, 1956 33 piazzuola, delimitata a sinistra da un vecchio edificio che al pianterreno ospita una trattoria, a destra dal parapetto della muraglia che precipita a valle. Dai due angoli estremi, due strade, una si snoda lungo le mura, l’altra sale al centro dell’abitato, si esaurisce nella piazza principale intorno alla quale sorgono l’antico castello, adibito a Municipio,la torre merlata, il duomo, palazzetti che sono sepolcri di storia e di secoli. Qua e là, tra una costruzione e l’altra, come radici a fior di terra, viuzze selciate sciamano in ogni senso, collegano al cuore antico di Montona le estremità periferiche. Giro, rigiro intorno al Duomo dal portale chiuso. Una ragazza, alla finestra, si sta passando il rossetto sulle labbra. Le domando perché la chiesa non sia aperta. Mi dice che il parroco abita a Caldier, che viene a celebrare la messa soltanto la domenica, perché i fedeli sono pochi. Come mai, se la città conta millecinquecento abitanti? Stupore e sconforto si insinuano lentamente in me. Possibile non ci sia neppure il sagrestano? Sì, il sagrestano c’è, abita in via Gioacchino Rakovatz al 62. Ringrazio, cammino. Strade lastricate, qualche bottega, un silenzio pesante, di fortezza. Il sagrestano è vecchio, secco, minuto. Nella faccia di lacca, due ferme pupille, penetranti. Quando gli domando dell’altarino da campo si fa guardingo, evasivo, mi scruta con diffidenza, quasi con ostilità. Gli mostro documenti, gli narrò la storia del prezioso cimelio che da Bartolomeo Colleoni passò a Bartolomeo da Alviano. Il suo viso si distende, un’ombra di sorriso lo rischiara. Ma dice che l’altarino c’è, che è stato difeso, attraverso i tempi, da tante insidie, che è la gloria di Montona. Alla battaglia di Lepanto era sulla nave ammiraglia, si deve alla sua presenza se i turchi furono sconfitti… Parla, dice che per la Fede darebbe la vita. Vigila sul duomo e sulle altre due chiesette di Montona, come un crociato sul Santo Sepolcro. Calli di stampo veneziano, case petrigne, ombre stagnanti, silenzio claustrale, poi la piazza colma di sole. Nella disadorna sagrestia, un tavolo, un decrepito armadio. Il sagrestano tira a sé un cassettone, scosta cotte e paramenti, solleva a fatica il cimelio, lo posa su tavolo, delicatamente. Eccolo, finalmente, l’altare da campo davanti al quale il Bergamasco, i suoi capitani, cavalieri e fanti pregavano per il trionfo delle insegne colleonesche e di Venezia! Il prezioso cimelio consta di una parte centrale e di due laterali, fissate a quella centrale da piccole cerniere. Misura 90 centimetri per 70. Le tre lastre d’argento sbalzato sono fissate a grosse tavole di legno ormai tarlato. Su quella centrale, un Cristo in croce, angioli, la Madonna, San Giuseppe. Su ognuna di quelle laterali,due santi. Un motivo decorativo incornicia ogni lastra. È opera di notevole calore artistico oltre che storico, cui le inevitabili peripezie non hanno causato eccessivi danni. A San Pietro è stato 34 sottratto il pastorale e dalla fascia ornamentale spiegata sotto la croce mancano alcune pietre preziose. Quanta storia, quante imprese sono sfilate davanti a questo Cristo tremendamente espressivo! Come tutti i condottieri, il Colleoni non era un santo. Ma a differenza del Piccinino che malediva Iddio per le battaglie sfortunate, a differenza di Bartolomeo da Alviano che bestemmiava più di un turco, il Bergamasco riteneva consistere ogni saggezza nella fede in Dio ed era devoto frequentatore del santuario della Basella, che scorge nei pressi del castello di Malpaga, sua abituale residenza. Certamente aveva seco l’altarino quando, nel 1447, vinse il generale Dresnay e le soldatesche del duca d’Orleans, calate in Italia per occupare la Repubblica Milanese. E doveva averlo con lui anche due anni dopo quando, a conclusione di una sanguinosa battaglia sbaragliò le milizie di Lodovico di Savoia e di Carlo VII, comandate da Giovanni di Compays 37! Anche l’Alviano lo portava con sé nel 1508 allorchè, espugnata Gorizia, passò per Monfalcone diretto a Trieste che costrinse alla capitolazione. Fu durante una delle sue spedizioni in Istria che fece dono alla Collegiata di Montona dell’altarino avuto dal Colleoni. (…) L’amico ha riposto l’altarino, ha chiuso a chiave l’armadio. Dalla sacristia passiamo al Duomo, che internamente mi ricorda quello di Monfalcone. Sull’altar maggiore, le statue di Santo Stefano e di San Lorenzo, patroni di Montona. Oltre una bella “Ultima cena” di scuola veneziana, il tempio non ospita opera d’arte di rilievo. Anche gli affreschi delle volte non hanno la patina dell’antichità. Risalgono appena al 1913. Torniamo all’aperto, tra scrosci di luce e geometrie d’ombre. Mi accomiato dal buon sagrestano con una stretta al cuore. Troppo silenzio, troppo vuoto nel Duomo deserto, introno a noi. I pallidi stemmi murati sulle case hanno il freddo colore delle cose morte, e se 37 «A proposito della battaglia della Frascata, Francesco Filelfo poeticamente descrive il duello fra il Colleoni e il Dresnay, facendo così conoscere un episodio, che, se è vero, non è riferito dai biografi del condottiere. A un certo punto della battaglia cioè, Rinaldo Dresnay, per sostenere le schiere francesi che cedevano, afferra un’asta dalle mani di un armigero e si lancia spronando il destriero. Il Colleoni gli vola incontro. Cadono rotte le aste da una parte e dall’altra. Allora l’uno alza la clava, l’altro la bipenne, cercando di ferire l’avversario. Finalmente Rinaldo tira un fendente sul capo del Colleoni, fortunatamente protetto dall’elmo; ma il Colleoni para il colpo colla clava e poi, roteando terribilmente quest’arma, coòisce in pieno l’avversario, che cade da cavallo e viene fatto prigioniero», in BELOTTI B., Studi colleoneschi, Milano, Casa Editrice Ceschina, 1939XVII, pp. 21 - 22 35 qualche voce non si levasse qua e là, mi parrebbe di camminare fra le tombe. Mi volgo a guardare ancora una volta l’antica porta, il Leone alato, il mastio severo, poi infilo la scorciatoia. Devo portarmi a Livade, per proseguire alla volta di Fiume. Il canto di alcune contadinelle mi rincuora. Dal fondo valle sale il ronfare di un trattore. Oh, quanto più dolce sarebbe quest’ora, se nell’aria mite un concerto di campane annunciasse il mezzogiorno! 36 8. L’altare da campo tra storia e leggenda 38 Si avvicendavano le stagioni negli spaziosi cieli di Lombardia, e dinanzi alle torri di Malpaga il Serio scorreva ora torbido di piogge autunnali, ora invisibile sotto una crosta di ghiaccio o gonfio al disgelo dai monti o ridotto a una lenta tortuosa vena nel letto calcinato del solleone. L’opera più viva, seguita con più sollecito amore, era la Cappella di Bergamo a cui l’Amadeo prodigava il giovane fervore del suo ingegno, sapendo di legare per sempre in essa il proprio nome a quello del condottiero. Dirimpetto alle severe arcate del Palazzo della Ragione e a fianco di Santa Maria Maggiore che sembrava contenta della brulla facciata per concentrare tutta la sua bellezza nel portale cesellato, quasi ad annunciare la nascita di un’età nuova sorgeva il mirabile edificio, melodia di marmi bianchi e rosei, col suo rosone intarsiato nella fronte quadra coronata da una loggetta a colonnine e trafori, con le sue agili finestre ad arco tondo, sovra esse le nicchie coi busti di Cesare e Traiano. Quando si spargeva la voce della sua presenza, il podestà e i maggiorenti di Bergamo, i quali correvano a riverirlo, trovavano il condottiero sotto le impalcature mentre parlava con l’architetto o sorvegliava la messa in opera di un blocco, e gli facevano scorta alla sua casa, discutevano con lui gl’interressi della città. Ma per un lungo periodo le visite ai lavori diradarono: una riattivazione del suo carteggio, arrivi e partenze di ambasciatori e di capitani, trattenevano il Bergamasco a Malpaga. L’argomento teneva sospesi molti animi, interessava tutte le corti, e in virtù delle mille capillarità della politica provocava un rincaro delle biade. Il Duca di Borgogna, in guerra contro il re Luigi XI, aveva offerto al condottiero il comando del suo esercito. Oltralpe si aveva buona memoria e un potente principe esperissimo di armi vedeva nel Colleoni il più grande capitano del tempo 39. Carlo il Temerario proponeva una lauta provvigione e la 38 in OPERTI P., Bartolomeo Colleoni, Torino, Società Editrice Internazionale, 1964, pp. 349 - 361 39 «Un’altra evoluzione della cavalleria pesante in cui Venezia non costituì certo un’eccezione, ma alla quale il governo dedicò un interesse particolare, fu la comparsa, e poi l’apparente declino, del fenomeno delle “lanze spezzate”. La costituzione di compagnie di “lanze spezzate” con 37 signoria di una o più province, e il bergamasco non avrebbe dovuto portare di suo se non 1000 cavalli e 1500 fanti “armati e in punto al buon costume d’Italia”. Al pensiero d’impartire ordini di marcia, studiare un piano di operazioni, vedere un campo di battaglia, il condottiero sentiva rifiorire le energie. Era la bella avventura cercata a vent’anni e che avrebbe ricollegato la fine al principio, poiché l’età poteva incurvargli le spalle ma l’istinto non mutava, e la guerra restava il suo bisogno più profondo, come per le dita dello scultore la necessità di plasmare. Aiutare Carlo il Temerario nella sua lotta significava anche impedire o allontanare l’unificazione della Francia, fatto che il Bergamasco presentiva funesto all’Italia, ed egli spinse innanzi le trattative ma senza troppo sperare, perché conosceva i veneziani. Infatti la quanto rimaneva delle compagnie di condotta che avevano perduto il loro capo era una pratica ben consolidata anche prima del 1454, che consentiva allo Stato di mantenere al proprio servizio truppe già esperte sottoponendole a un controllo più diretto: le “lanze spezzate” venivano pagate direttamente dallo Stato, che sceglieva i loro capitani. Nel 1454 Venezia disponeva ormai di parecchie compagnie di “lanze spezzate”: i “Roberteschi”, i sopravvissuti della grande compagnia di Roberto da Montalboddo, caduto nel 1448; i “Gatteschi”, i resti delle compagnie di Gattamelata rimasti senza guida dopo la morte di Gentile da Leonessa, nipote acquisito di Gattamelata, e dopo che le ferite riportate resero inabile al comando Gianantonio di Gattamelata, nei primi anni Cinquanta. Nel 1456, morto Gianantonio, le tradizioni particolari dei Gatteschi furono riconosciute attribuendo loro il nome di Società di San Marco e nominando al loro comando Antonio da Marsciano, genero di Gattamelata. Rimanevano comunque “lanze spezzate”; Antonio da Marsciano ne aveva ottenuto il comando da Venezia, non erano le “sue” truppe. In questo senso erano simili alle compagnies de l’ordonnance francesi. Negli anni dopo Lodi la Serenissima ebbe l’occasione di rinforzare le sue “lanze spezzate” con altre compagnie rimaste senza condottiere, ma questa pratica non era comunque priva di problemi: in assenza di un’attiva politica di reclutamento, e in un periodo di pace prolungata in cui era meno probabile che le compagnie perdessero il loro condottiere, le “lanze spezzate” tendevano a trasformarsi in veterani nel senso peggiorativo del termine. Per tutti gli anni Settanta e Ottanta il problema dei soldati troppo anziani in queste compagnie assillò l’amministrazione militare veneziana. Nel 1475, quando Bartolomeo Colleoni morì senza lasciare eredi maschi diretti, fu discussa l’opportunità di integrare tutte le sue truppe nelle “lanze spezzate”; alla fine pare venisse decisa la formazione di una compagnia di “Colleoneschi”, che negli anni Ottanta avrebbe creato i suoi problemi per la troppa anzianità dei veterani, ma il grosso delle truppe fu suddiviso in compagnie più piccole affidate in condotta ai Martinengo, generi di Colleoni.», in MALLET M. E., La conquista della terraferma, in Storia di Venezia dalle origini alla caduta della Serenissima, Roma, Ed. Istituto della Enciclopedia Italiana, 1996, p. 267 38 Serenissima, sebbene alleata del Duca di Borgogna, si oppose al progetto e invano il principe francese prospettò una condotta che lasciasse libero il Colleoni qualora la Repubblica fosse stata assalita. Per i Savi di San Marco il Bergamasco a Malpaga era come un peso che, situato in un punto, mantiene la stabilità di un congegno; essi non ammettevano a nessun patto di vederlo allontanarsi, e ancora una volta fecero appello all’impegno a vita e ricordarono la lettera del ’54. Catena dorata: il capitanato generale del primo Stato d’Italia era un onore da scontare con l’inerzia e la rinunzia; e d’altro canto partire a dispetto di Venezia, spezzare i vincoli cementati durante trentacinque anni di servizio egli non poteva, e dovè contentarsi di aiutare indirettamente Carlo il Temerario compiendo sul’Adda movimenti che impedirono a Galeazzo d’inviare al re Luigi XI le truppe promesse. Ma tutto il 1473 trascorse in trattative discussioni ambascerie. Gli ultimi anni dopo la morte di Medea erano stati una vicenda di ritorni a interessi terreni, ai quali il suo passato e gli avvenimenti lo riportavano, e di nuovi distacchi conseguenti a nuove delusioni; e ogni distacco s accompagnava a una maggiore assiduità alla Basella, a un decadimento delle forze, a un rinnovato desiderio dell’estrema quiete. Questa volta egli sentì ch’era l’ultima e che il mondo non l’avrebbe ripreso. Le figlie, delle quali l’una o l’altra gli era accanto, prendevano verso di lui modi sempre più protettivi, vietandogli ora di uscire col cattivo tempo, ora una vivanda che gli piaceva, ora il lavoro di notte; e il vecchio non protestava per non dar rilievo alla propria umiliazione. Egli vide riunite intorno a sé le figlie coi loro mariti nel marzo del ’74, al ricevimento offerto al re Cristiano I di Danimarca che si recava in pellegrinaggio a Roma. L’ospite aveva seco 200 cavalieri della nobiltà danese, e a bandiere spiegate, tra squilli di trombe, il condottiero gli mosse incontro ai confini del Colleonese con 600 cavalieri schierati in ordine di battaglia montati su destrieri di uguale mantello. Due giorni tra feste e conviti si trattenne il Re a Malpaga, partecipò a una partita di caccia con falchi cani reti, e in suo onore fu combattuto un torneo fra cavalieri colleoneschi e danesi: scene piene di movimento e di colore, che il Romanino avrebbe affrescate nelle sale del castello. Il Bergamasco donò all’ospite un’armatura cesellata e alla partenza lo accompagnò sino ai limiti del suo dominio. E come alla visita illustre così a tutti i fatti più notevoli che gli occorrevano egli prodigava una cura amorosa, quasi a congedarsi affettuosamente da essi. Il reale pellegrinaggio gli rinnovò l’antico desiderio di recarsi nel Levante ad adorare il Sepolcro di Cristo, ma per non sentirsi ricordare ancora una volta la lettera del ’54 non ne accennò neppure al Governo, e cercando una meta più vicina pensò alla Santa Casa di Loreto. Per una volta volle emanciparsi dalla tirannia delle figlie, e in mezzo alla 39 loro costernazione partì in pieno inverno, nel gennaio del ’75, convinto che i disagi avrebbero accresciuto il merito della sua devozione; e invece, in cammino, gli sembrava che quei disagi gli giovassero anche alla salute e godeva del loro sapore di guerra. Con una scorta di 100 cavalieri abbrunati percorse le tappe note, rivide le strade di Romagna battute nel ’29, nel ’34, nel ’44, nel ’67, rivide sopra Ancona il Monte Cònero affacciato al mare, e più oltre la marina e le valli della Marca ove si era accampato con 50 lance dopo la battaglia dell’Aquila. Tutta la sua vita e tutta la storia italiana di mezzo secolo gli venivano incontro dai profili del paesaggio e per quanto si sforzasse di respingere ogni pensiero profano egli non poteva solcar pianure, passar fiumi, varcar colli senza immaginare le situazioni tattiche che il terreno suggeriva. Il Marchese di Mantova, il Duca di Ferrara, il signore di Pesaro Costanzo Sforza lo accolsero festosamente e lo pregarono di trattenersi, ma come in un itinerario militare, sotto la pioggia o il vento egli riprendeva la via, mentre la sua presenza risvegliava nelle contrade la leggenda delle sue gesta, e dai campi i contadini accorrevano a veder passare assorto e solo innanzi alla colonna il vecchio guerriero che aveva riempito del suo nome l’Italia. Sciolto il voto e adorate le reliquie della Santa Casa sfolgorante di marmi all’esterno, nuda all’interno nelle pareti ruvide e brune, la sua anima era colma di pensieri religiosi, ma uscendo sul sagrato, il solco di Castelfidardo tra il gibbo del Cònero e gli ultimi contrafforti appenninici gli prospettò una battaglia d’incontro per la conquista della strada litoranea. Sulla via del ritorno, senza tregua egli guardava le forme della terra, così semplici e grandi, per conservarle nelle pupille, a ogni borgo selva rocca riviera dava il suo addio silenzioso; e giunto a Malpaga dichiarò che si sentiva saldo da poter ricominciare domani. Ma le figlie lo guardavano con attenti occhi poco rassicurate da quella spavalderia. Ora sembrava e pensava ad essa con sollievo, ma ciò che non poteva sopportare, dopo aver considerato sempre il proprio corpo uno strumento docile come un’arma, era la progressiva decadenza, le vecchie cicatrici rideste a una a una, il respiro corto e le ginocchia malsicure sulle scale, la mano indurita. Sembrare ancora forte era la sua ambizione superstite e per non aumentare intorno a sé le premure taceva i suoi mali e li trascurava. A poco a poco, con delicatezza e trovando ogni volta i pretesti più plausibili, i generi assumevano il governo della Compagnia per tutto ciò ch’era movimento, e da Brescia Gerardo richiamava sopra di sé una parte sempre maggiore del lavoro; ma vedendo diminuire in un settore le sue occupazioni egli ne cercava altre, progettava collegamenti di fiumi per creare un tragitto 40 navigabile da Bergamo a Venezia, disegnava nuove fortificazioni intorno a Martinengo, caposaldo di difesa del Veneto, faceva passare per le proprie mani tutto il lavoro d’ufficio. E conservava la vecchia abitudine del dare ogni giorno udienza a qualunque ricco o povero ricorreva a lui, non lasciando mai trapelare la propria stanchezza dinanzi alle intricate e ostinate contese, trovava il tempo per ascoltare i pifferi dei suoi borghi, rudimentali orchestre che ambivano l’approvazione del loro signore, e talvolta, tra la felicità dei terrazzani, compariva alle feste campestri e guardava con amore quei contadini ch’erano il nerbo della pace e nei quali egli presagiva il nerbo della guerra il giorno non lontano in cui lo sviluppo delle bocche da fuoco avesse spodestato il cavaliere vestito di ferro. La tensione con lo Sforza era cessata: sotto l’ispirazione del Medici, Milano, Firenze e la Repubblica s’erano unite in un patto di alleanza, e lo stesso Galeazzo aveva proposto che il Colleoni fosse nominato capitano generale della Lega; ma Venezia sapeva che ormai il Bergamasco valeva soprattutto per il nome. Il Duca spinse la propria cortesia verso il vicino sino a mandargli un palafreno riccamente bardato, un frisone di gran prezzo con incollatura taurina, enorme groppa falcata e mantello sagginato come i cavalli delle carte da giovo. Lodò il condottiero il purosangue, ma prima di provarlo esaminò a pezzo a pezzo la bardatura, perché dell’animale si fidava ma non del donatore. Poco egli si giovò del destriero, e a non poter più montare qualunque cavallo, e, dopo alcuni mesi, nessun cavallo, sofferse l’ultima amarezza. Andava tuttavia a piedi mostrando di portare per passatempo una mazza leggera, e sottile infatti era la sua verghetta di corniolo, ma salda. Allorchè nessuno lo vedeva, venendo meno la sua volontà gigantesca si spegneva nei suoi occhi la luce che vi brillava quando si posavano sugli uomini, tutta la persona s’accasciava, ed egli supplicava la Provvidenza che gli risparmiasse l’avvilimento di un lungo sfacelo. Un pomeriggio d’ottobre, tornando dalla Basella scorse sulla riva del Serio una fanciulla vestita di bianco che conduceva per mano traendole verso di lui due donne anziane abbrunate, e camminavano esse sull’erba senza piegarla; egli le guardava con dolce ansia e quando sorridendo si fermarono le riconobbe. Lo sguardo d’ognuno conteneva l’accento del proprio amore, di madre, di sposa, di figlia, ma quella diversità si fondeva in un unico alone di luce. Dietro ad esse veniva un vecchietto in lieve arnese e a capo scoperto ma con l’usbergo, e si rivolgeva al condottiero accennando con gioia al proprio usbergo come a un immenso tesoro. Attraverso il ferro egli vide la piaga nel costato e sul volto la cicatrice dallo zigomo all’orecchio. “Vengo con voi?…”. Le donne e il vecchio si 41 allontanarono a ritroso, come a invito, e anche quando furono dileguate rimase sospeso nell’aria il loro sorriso. Ritornò al castello col cuore gonfio di felicità. La mattina seguente le Alpi Orobie erano così vicine che sembrava di cogliervi la stella alpina allungando la mano; la tramontana riempiva il cielo di strida, piegava i boschi di Malpaga, bruniva gli specchi argentei del Serio. Il condottiero uscì sulla loggia e si espose al vento, come aveva fatto nascostamente altre volte, per avere sul viso l’impressione del galoppo. Poi raggiunse l’ufficio e attesa al suo lavoro; a mensa evitò gli sguardi inquisitori delle figlie e di Gaspare, e, tolto il desco, disse che andava a riposare com’era uso. Non salì in camera, percorse lungo il cammino di ronda la cortina e contemplò tutta la sua terra, le sue rocche e i borghi, si affissò in ogni punto di quell’orizzonte familiare che s’intagliava netto sotto il cielo ventoso, a levante da Rovato a Soncino, e l’arco dei monti sopra Bergamo, la Ghiara d’Adda da Crema a Lodi, il piano lombardo che si scopriva a occaso sino al castello di Monza, e il vecchio fissò la torre su cui il sole metteva un punto di luce, guardò ogni plaga lontana e vicina di quella terra combattuta, amata, calpestata, risarcita. Salì agli spalti e accarezzò a uno a uno i cannoni, girò intorno ai rivellini, toccò le leve delle saracinesche e dei ponti levatoi, passò nell’armeria tra le corsie degli arnesi da difesa e da offesa allineati alle rastrelliere, percorse tutto il castello guardò ogni pietra di Malpaga ch’egli aveva disegnata e veduta murare. Da ultimo entrò nella scuderia e gli parve che l’odore dei cavalli lo rinfrancasse, lisciò le groppe poderose, raggiunse in fondo la posta di Morgantino ch’era invecchiato e non lavorava più, ma del quale Zìtolo aveva riservato a sé la cura e lo vezzeggiava aggiungendo una manciata d’orzo alla sua misura di crusca, abbracciò la testa lunga e magra del cavallo. Entrò un giovane scudiero e non vide il capitano nell’ombra, sellò un palafreno, lo sciolse, lo inforcò e con capricciose impennate sprizzando faville all’acciottolato uscì all’aperto. “Noi non possiamo più fare queste cose, e fatichiamo al passo, su terreno piano…” sussurrò il vecchio stringendo il capo del cavallo che appuntì le orecchie, “Morgante, Morgantino, ricordi la nostra Medea? Ricordi quando eravate piccoli e giocavate a rincorrervi nel prato? Ricordi quando ti aizzava alla carriera e a te sembrava di portare una piuma? Ora io la raggiungo, ma né lei né io potremo essere felici se dove ci ritroveremo non vi sono cavalli…”. Le scarne dita accarezzavano il collo, la criniera, le froge, e l’animale socchiudeva i grandi occhi bruni e premeva il muso contro il petto del vecchio. A un brivido più intenso si staccò dal cavallo e uscì barcollando. La violenza della luce lo abbagliò; curvo, appoggiato alla sua 42 verghetta, tenendosi rasente al muro girò intorno al cortile: la scala non gli era mai sembrata tanto lontana. Al gradino il ginocchio non resse: qualche istante di riposo sarebbe bastato, e poiché gli stallieri lo guardavano, addossandosi alla parete per vincere la vertigine mostrò di osservare una finestra dirimpetto. Provò ancora, ma le gambe non obbedivano più: allora chiamò a nome uno stalliere. Ho camminato troppo e sono un po’ stanco: aiutami un momento sulla scala. L’uomo sorresse alla cintura il corpo inaridito e tremulo del suo signore e salirono lentamente. Sulla loggia apparve Gaspare e guardò con occhi spalancati il suocero: il suo buon artigliere poteva conoscere il vero, e il vecchio lo fissò sorridendo, come a chiedere venia; gli abbracciò il collo e quasi portato di peso attraversò sale e corridoi, raggiunse la sua camera disadorna, si abbandonò sul letto, volse il capo alla nicchia ove una fiammella brillava dinanzi alla Vergine. - Gaspare, non chiamare nessuno ora; porta qui il nostro altare da campo. Sull’altare da campo il sacerdote celebrò l’ufficio divino mentre bisbigli sommessi venivano dall’ombra del corridoio assiepato di soldati servi e popolani, i quali ad ora ad ora facevano ala a chi in punta di piedi entrava nella camera e ansiosamente guardavano chi ne usciva40. 40 Quando il Colleoni morì nella notte dal 2 al 3 novembre 1475 nel castello di Malpaga, si spense un uomo che negli anni ottanta della sua esistenza, grazie alla sua forza e alla sua superiorità, era salito ad una posizione sociale acquisita nelle vittorie militari, in virtù del suo coraggio e della sua accortezza tattica, e nelle trattative sempre condotte con tenacia. Questa posizione era basata non solo sulla fortuna, ma – certamente – su di un’aspirazione innata, la cui origine forse è da ricercare nelle spaventose esperienze dell’infanzia, allorquando il padre venne assassinato, la madre incarcerata, il fratello ucciso proditoriamente ed egli stesso dato in pegno. Quali sono le circostanze che dai traumi della sua fanciullezza ne hanno fatto l’uomo celebrato nella sua patria come benefattore, come “pacificator et moderator Italiae”? Che cosa indusse quest’uomo a risparmiare gli assassini di suo padre e di suo fratello, i ladri della sua eredità paterna, non solo, ma addirittura a proteggere i loro figli allorché la sua potenza glielo permise? Al momento della sua morte egli era “imperator” dal 1451, portava l’impresa araldica con le due teste leonine unite da due bande conferitagli da Giovanna dal 1428, era “Capitanus generalis” della Serenissima dal 1455, “dux Andegaviae” dal 1466, “dux Burgundiae” dal 1473. Nelle sue terre possedeva beni inestimabili, la sua famiglia, i suoi amici, la popolazione lo onoravano. La vita selvaggia di quel secolo aveva fatto del ragazzino un soldato, del soldato un uomo capace di utilizzare per il bene della comunità ciò che la 43 Per lungo tempo essi sentirono il notaio ripetere a mezza voce le parole mormorate dal morente. In presenza dei testimoni e mentre la ruvida pergamena strideva sotto la penna del cancelliere, il capitano generale dettava le sue estreme volontà: nulla e nessuno sfuggiva alla sua memoria: discendenti e congiunti41, funzionari famigli fedeli. Opere pie e istituti religiosi da lui fondati: a occhi chiusi, reggendo con implacabile energia l’integrità della mente sopra la rovina del corpo, a tutto egli provvide per il domani e per il lontano futuro, per i viventi e per i figli non ancor nati; e ricordò i suoi vecchi uomini d’arme, nominò i podestà dei suoi borghi, rimise debiti a coloni e mezzadri. E poi la Repubblica, dotata di 100 mila ducati da impiegarsi nella guerra contro i Turchi, e infine l’Erario, istituito erede degli stipendi scaduti, poiché anche quelli erano suoi e poteva disporne. Spogliato di ogni ricchezza, sciolto da ogni legame, non gli rimaneva se non la sua targa che avrebbe seguito la bara portando il morione e la spada. Come il guerriero adolescente solo con le sue armi, in cammino verso il campo di Acerra, egli era pronto alla nuova condotta sotto il Signore di tutti; e compiuto l’ultimo dovere godè di potersi riposare, di abbandonarsi al gorgo che lo attirava popolandosi di fantasmi. Disfatto e tremante, ricacciando in gola i singulti e trangugiando le lacrime, Zìtolo si affisava in quel volto cereo nel quale già traspariva il rilievo del teschio, e solo fra gli astanti, a un moto degli occhi sotto le palpebre, a un cenno di sorriso, a un lieve aggrottar delle ciglia, sapeva quali visioni agitavano l’agonia del suo signore. Cieli, cieli soleggiati; la maestosa mole del Vesuvio allarga a ombrello il pennacchio del suo vapore e a levante gli azzurri monti Picentini fanno corona al vulcano come cortigiani al cospetto del loro Re: cozzi di lame nella pianura bionda tra i Campi Flegrei e i colli di Caserta: voglia mordente di abbordare gli Sforzeschi, leggerezza ilare della prima fazione, e meraviglia al sentire così molle la gola del nemico, al sentir la punta deviare sull’osso e stridere contro la celata fortuna e la propria forza gli avevano donato. Un individuo che nella vita attiva, in una lotta che era essenzialmente lotta per i propri diritti, finì col realizzarsi in ciò che la sua epoca chiamò l’eroe di virtù. Eppure il Colleoni è un tale eroe non solo nell’ambito delle lodi panegiriche, ma anche nelle opere. E il monumento più importante della sua virtù, egli lo ha tramandato con la sua donazione, il Luogo Pio della Pietà Istituto Bartolomeo Colleoni. Cfr. PIEL F., La Cappella Colleoni e il Luogo Pio della Pietà in Bergamo, Bergamo, Ed. Monumenta Longobardica, 1975, pp. 13 - 14 41 La moglie pia e fedele, Tisbe Martinengo Colleoni, morì il 10 aprile 1471 44 mentre due pupille lo fissano allargandosi a dismisura e domandandogli con stupore enorme: “Perché mi hai fatto questo? Tu, un fanciullo!”. Lontano, lontano da quegli occhi spietati! Cammino senza meta sulla distesa del mare, aeree forme di isole come vele ancorate al largo, dondolio del mare notturno, indifferente brusio della pioggia sulla coperta madida, e la discesa cauta lungo l’assero del timone, con l’urto del cuore in gola, la stretta fredda dell’acqua, il segno della Croce, le bracciate lente nel buio verso il lontano scroscio della risacca. Colonna in marcia; volti e volti sotto l’ombra dell’elmo, volti imberbi di giovani, facce incolte e barbute d’uomini maturi dai sopraccigli selvosi, alcune piene di vigore animale, altre nobilitate da una cicatrice o dalla chiarezza sincera dello sguardo; mani abbronzate e aspre, mani forti nodose che, nel diverso rilievo delle vene rivelano l’età e nel palmo calloso l’abitudine al guantone di ferro; corazze e cotte, rotelle e camagli, bracciali e schinieri; lamina liscia battuta a piastra a piastra, armature articolate come guaine su membra di atleti; e sciami di guerrieri, turbini di guerrieri furibondi intorno alla bella chiesa che apre sulla mischia il suo portale pieno d’ombra azzurra, ondeggiamento delle schiere percorse dal grido sbigottito: “Braccio è morto! Braccio è morto!”. Armi, armi d’ogni foggia, da taglio e in asta, da fendente e da stoccata, da lancio e da percossa, belle armi veloci splendenti inesorabili, rigate di sangue sino all’elsa; camminamenti segnati da larghe rocce di sangue, scale graticci e mantelletti, barbacani bastioni e antemurali, piattaforme munite di ogni congegno, funi di màngani, travature di catapulte, telai di scorpioni, gioghi di baliste; e schiocchi cigolii crepitii, gesti di stanghe nell’aria, frulli tonfi ventate; pennecchi accesi, odore di zolfo e di bitume, rugghi di fiamme, acri nembi di fumo; la gola soffocata, i piedi nella colata ardente e la moltitudine urlante sotto la torre: “Ascoltate! Ascoltate! Io, Bartolomeo Colleoni…”. Ma la moltitudine scoppia in un delirio di applausi quand’egli appare a fianco del Doge e apre il corteo verso la Basilica: la chiesa è gremita di cavalieri in arme e di magistrati in toga di sciàmito che s’inchinano al passaggio; tutte le gemme del Tesoro brillano sull’altare, il capitolo è fregiato dei suoi paramenti più ricchi, e dall’altare il Doge prende il bastone del comando: “Questo bastone militare, in segno della tua potestà, con buon auspicio e ventura dalle nostre mani prendi. La maestà, la fede e le ragioni di questo impero sia tua cura ed impresa con dignità e decoro mantenere e difendere…”. È la mano del doge Malipiero o la mano bianca ossuta del senatore Dandolo in gesto di diniego? Lontano dalla città arriva! Arranca barcaiolo! La distanza rimpicciolisce e confonde i marmorei 45 fastigi mentre la barca scivola a voga distesa sullo specchio della Laguna. Gli attimi sono preziosi: le staffette attendono a Malgher: dal Ducato, dall’Etruria, dal Reame le colonne convergono verso la Romagna… Lontano, lontano… Altra terra sotto gli zoccoli dei palafreni, terra d’ogni contrada d’Italia: zolla bruna che s’imbeve del sangue, argilla che ne fa pozza, sabbia di greto che lo succhia, pietra che ne arrossa, dolce erba che lo cela e ne infoltisce! Terra morsa nell’urto della caduta, e la lama sul collo mentre gli occhi sbarrati mirano il ferro grondante infisso nella fronte di Iacopo. Su dalla polvere! Ma nulla risparmia la polvere, imbianca le ciglia, copre le bardature, inaridisce le labbra, stride sotto i denti. Lontana nube di polvere spia del nemico! “Conversione a destra! Squadrone in linea! Trotto… trotto… allungate! … Lo stendardo al centro della seconda riga!”. S’accelerano fra la tenaglia delle ginocchia i guizzi della poderosa colonna vertebrale “Visier!… Lancia in resta!…”. A un tempo le aste si abbassano dinanzi alla testa dei palafreni; una morsa intorno all’impugnatura è la mano difesa dalla coccia, duro come ferro il bicipite mentre il cavaliere s’incurva con tutto il peso sull’asta e attraverso la fessura della visiera le pupille s’aguzzano agognanti sul nemico da frantumare. Cavalli, cavalli, cavalli! Muscoli veloci e sangue ardente, corsieri di nocche nervose e testa leggera, impetuosi superbi generosi bizzarri, dai bei mantelli sauri e pomellati, bai e morelli, leardi e rabicani, destrieri da battaglia rotti a ogni terreno, infaticabili, ebbri di furore al cozzo! Galoppo! Galoppo! E sull’onda dei cavalli le fiamme degli stendardi: Giglio fiorentino e Leone veneto, Chiavi d’oro e Pantera sforzesca, Biscia viscontea e Croce di S. Ambrogio; vessilli conquistati nella mischia a colpi di mazza, vessilli chiazzati di sangue, difesi con disperata voluttà di morte sui corpi dei compagni: “A’ la gorge! – Carne! – Sforza! – Colleone!… leone! … Leone! … Vittoria!. Inebriate grida di vittoria in campo aperto, vittoria rombante sugli spalti tra gli affusti allineati e le nuvole degli scoppi: mortai falconi spingarde, bossoli e proiettili, barili di polvere e inneschiroventi: “Prima batteria, fuoco!”. I pezzi sussultano, aprono solchi nelle file nemiche; ed ecco i colpi di risposta, sibili schianti rimbalzi paurosi: “Capitano! Il muro coprente è diroccato! – Regge la piattaforma? Caricate! Prima batteria, fuoco!. Vengono i cari amici specialisti d’operazioni in terra murata, il Gattamelata, il Cavalcabò, Detesalvo Lupi, Borso d’Este, e discutono assalti e difese, congegni d’approccio e opere di mina. Meglio è la terra aperta: scaglioni in cammino, servizio d’avanscoperta, pattuglie sui fianchi, finte e aggiramenti, tappe di pianura e di montagna; monti e monti, dalla Val Sesia al Cadore, forme solenni sotto cieli luminosi, 46 dentature di roccia e versanti ammantati di abetaie, forme di macigni e candide cime inviolate. Le galee vàlicano i monti? Una vela d’oro brilla sul pendio spinta dal vento e dal coro della moltitudine. E fra le chiostre delle cime s’inazzurrano, immani turchesi, i laghi, anch’essi guerreggiati poiché ovunque esiste uno specchio d’acqua la Regina dei flutti arma una propria e scioglie al maestro la sua vela latina. Scrosci d’acque argentine in fuga tra le rocce, gorgoglianti tra prode erbose in fondovalle, pacificati al piano e in lente anse irresoluti della meta; sereni fiumi d’Italia tentati al guado col calcio dell’asta, fiumi di frontiera e di combattimento, sapienza dello stratega! Adige Mincio Chiese Oglio Adda… L’Adda è un piccolo solco inciso con una scheggia sull’ammattonato, nella penombra gelida, dalla mano intirizzita… Il condottiero apre gli occhi svagati da tanto turbine di visioni, lentamente si ritrova, ha pazienza per un altro indugio. Con volti macerati le figlie lo guardano dal fondo del letto, strette l’una all’altra come quando gli si presentavano bambine; Polissena e Cassandra pregano dinanzi alla Vergine i loro mariti parlano a bassa voce nell’angolo. Udendo il brusio nel corridoio egli fa un cenno: i dottori si curvano su di lui, lo sollevano come chiede, col capo diritto contro i guanciali, poi mormorano qualche parola ai parenti: l’uscio si schiude, qualcuno regola l’afflusso, e senza rumore entrano ufficiali soldati borghigiani, con gli occhi rossi, reprimendo l’affanno. Il ciglio del vegliardo è asciutto, il suo sguardo si posa diritto su ciascuno, la volontà modella il suo volto come una maschera di pietra, ma congedandosi da ciascuno egli tenta un sorriso, e a quel sorriso chi esce non trattiene più il pianto e il contagio riempie di singhiozzi il corridoio. A lungo dura la sfilata poiché egli vuole che tutti possano entrare, e passano da ultimo i rettori di Bergamo e di Brescia, poi tutta la famiglia, anche i piccoli nipoti che vengono sollevati perché il nonno li veda un’ultima volta, e hanno gli innocenti occhi pieni di stupore. A poco a poco la stanza si vuota, il morente sussurra una parola a Zìtolo il quale esce, poi fa un cenno a Candiano Bollani: il procuratore della Repubblica si accosta: Dite a Venezia che non conceda mai più a nessuno tanta fiducia e tanto potere, quanti ne concesse a me per vent’anni. Il procuratore porta a destra al petto e gravemente s’inchina. Scorrono alcuni lunghi momenti; egli non muta volto accorgendosi che la vista si oscura e un sorriso affiora alle sue labbra mentre Zìtolo spiega sul letto lo stendardo della Compagnia: gli occhi rimangono volti alla finestra e le dita tremanti cercano i nomi ricamati sul drappo, li seguono lettera a lettera: Soncino… Lodi… Pozzuolo… Giungono dagli accampamenti lontani segnali di tromba: il suo spirito si libra 47 sugli squilli, raggiunge i campi di battaglia, cerca le sepolture, e da tutte le plaghe vede levarsi e accorrere i suoi morti, prima piccole squadre, poi ranghi sempre più folti, e ogni schiera ha il suo comandante: Pietrasanta conduce i morti di Cremona, Sassa da Citerna conduce i morti di Soave, Ambrogio Corso quelli di Bosco Marengo, Cristofano quelli di Romagnano, e altri e altri, secondo la gerarchia del valore, da ogni punto dell’orizzonte, a manipoli o a battaglioni; i fanti si appressano a passo di corsa, i cavalieri sono ritti in arcione e i beo destrieri galoppano coi petti squarciati: “Trombettiere! Adunata!”. Le schiere sopraggiungono, rallentano, ondeggiano. Iacopo si avvicina portando al morso il padano caduto a Borgomanero, egli lo inforca e trascorre lo sguardo sulla moltitudine che lo invoca ebbra come a Landriano. Giamnelo presenta la forza: “Quante lance? Quante balestre? Quante alabarde?” Migliaia e migliaia, egli non ha mai comandato una Compagnia così grande, è più che una Compagnia, è un esercito, l’esercito invincibile sognato per l’Italia. “Linea di fronte! Avanti!”. Tra squilli di fanfare lo stuolo si muove, inizia sotto lo sfolgorio del sole la sua marcia trionfale. Fuori arde il sole della grande estate, ma la chiesa è piena di ombra e soltanto i candelabri brillano sull’altare: Hic jacet Medea virgo. No! Medea è l’alfiere della Compagnia: in elmetto e corazzina essa cavalca dinanzi agli squadroni schierati e porta lo stendardo su cui le sue mani hanno ricamato in segreto il nome dell’ultima battaglia. Grigio mattino d’autunno: un velo di nebbia grava sui boschi stillanti, aleggia sui negletti giardini di Malpaga, si stende lungo il corso del Serio che lambisce con esile fiottìo il piede delle balaustre muscose. Le foglie toccate dal freddo incominciano a ingiallire ai margini. Rintocchi risuonano dal castello: nei campi le donne s’inginocchiano, gli uomini si soffermano e si segnano. Sugli spalti di levante un tuono squarcia il silenzio, si propaga come soffio di tempesta, e una seconda una terza salve scrollano l’aria; gli spazi rimandano gli echi. Odono le bastie di Pontoglio. I falconi d’angolo: prendi i bossoli. Cosa fai? Piangi? Ora dobbiamo sparare: arroventa la verga, tu: svelto! E voi incastrate le staffe. Così, dammela, scostatevi: fuoco! Il rombo dilaga nella pianura, venta sopra Cignano, si abbatte contro la spalliera delle Alpi Camoniche, rimbalza su Brescia; e le batterie di Santa Afra rispondono, quelle di Desenzano, quelle di Peschiera: tutto il cielo del Veneto ne rintrona, e la raffica rincalzata da castello a castello invade il Mantovano sino a Belfiore, raggiunge il Po a Guastalla, sorvola l’arco collinoso del Garda da San Martino a Custoza, s’ingolfa e ripercuote a settentrione in Val Giudicaria, in Val Lagarina, e mentre le ultime onde risvegliano gli Altopiani, Verona e Vicenza raccolgono la voce di guerra, la rimandano, e passa il tuono 48 sopra Soave, sopra Arcole, varca i Monti Berici, sfocia sul piano di Padova, richiama altri rombi da Cittadella, investe il Grappa e il Montello, si spande sulla Laguna, percuote al Campanile di San Marco, alle cupole dorate, alle trine marmoree del Palazzo dei Dogi, annunzia alla Serenissima che il suo Capitano generale è morto. 49 9. Bartolomeo d’Alviano Bartolomeo d’Alviano, nato a Rocca d’Alviano in Umbria nel 1455 appartenente alla famiglia dei Liviani. Iniziò la carriera delle armi nel 1478 combattendo per il papa e per il re di Napoli nella guerra contro Lorenzo de’ Medici. Nel 1503 combattè nel napoletano al servizio del re di Spagna contro i Francesi. Venezia era all’epoca il solo grande stato che rappresentava per un condottiero l’obiettivo più ambito42. Bartolomeo d’Alviano entrò al servizio della Repubblica nel momento di massima espansione conquistata dal Generale Colleoni, ma anche nel momento di possibile pericolo per possibili attacchi da parte dei paesi confinanti. Alviano era un abile soldato ma non un politico; egli non univa le doti di combattente e di politico come il grande suo predecessore Colleoni 43. D’Alviano nel 1508, il 23 febbraio, riuscì in 42 «Il conflitto tra Massimiliano e San Marco risaliva alle istanze di sovranità imperiale in Lombardia e nel Veneto suscitate dall’espansione veneziana in Terraferma, e alla rivalità con la Casa d’Austria per il controllo di Gorizia, Trieste e della costa dell’Adriatico settentrionale. La prima vertenza fu esacerbata dall’esplicita indifferenza di Venezia per i diritti imperiali al momento dell’acquisizione di Cremona nel 1499, mentre la seconda fu riaperta dalla morte dell’ultimo conte di Gorizia, nel 1500. All’epoca la nobiltà goriziana aveva scelto Massimiliano, e la Serenissima, presa dalla guerra con i Turchi, non aveva potuto reagire. Ma la ferita bruciava, e quando nel 1507 Massimiliano offrì un’alleanza contro i francesi, e chiese di poter attraversare il territorio veneziano nel suo viaggio verso Roma per l’incoronazione imperiale, la Repubblica respinse con alterigia entrambe le richieste. La sconfitta a Pieve di Cadore, nel 1508, della disorganizzata invasione imperiale per mano di Bartolomeo d’Alviano aprì la strada a una rapida campagna contro le dipendenze austriache in Friuli e in Istria: Pordenone, Gorizia, Trieste e Fiume si arresero all’artiglieria e alle truppe di d’Alviano. L’imperatore era umiliato; Luigi XII compiaciuto, ma guardingo. Nel giugno 1508 fu conclusa una tregua tra Massimiliano e Venezia.», in MALLET M. E., La conquista della terraferma, in Storia di Venezia dalle origini alla caduta della Serenissima, Roma, Ed. Istituto della Enciclopedia Italiana, 1996, p. 284 43 «Nel 1508 la Repubblica veneta, in guerra colla Casa d’Austria, aveva affidato al suo celebre generale Bartolomeo d’Alviano il compito di ricacciare le truppe imperiali che avevano invaso l’alto Cadore e il territorio cividalese. Il capitano procedette con molta celerità: sconfisse i tedeschi nel Cadore prendendoli in mezzo a Pieve fra due colonne venete provenienti l’una dalla Mauria e l’altra da Belluno; poi, attraversata colle truppe vittoriose la Carnia, scese al piano, espugnò e mise a sacco Cormons, occupò 50 pieno inverno in Cadore a sconfiggere i tedeschi dell’imperatore Massimiliano, occupando Pordenone, Gorizia, entrando poi in Istria44. «Il primo Maggio 1508, si presentò l’esercito veneto sotto Trieste, comandato dal detto Bartolomeo d’Alviano. Abbatteva già prima la città per mare Girolamo Contarini con nove galere, che ruinò molte case. Quaranta triestini usciti dalla città, depredarono il castello di Draga, sottoposto alla giurisdizione di santo Servolo, presidio veneto. Nel sito detto le fornaci, disponevano li veneti la batteria, quale da Trieste sortiti di nascosto ed all’improvviso impedirono perfezionare, fugando li veneti con rimportare zappe e vanghe in città. Non ostante ciò, rinforzati li veneti, perfezionata l’opera, piantata restò l’artiglieria. Per mare e per terra tre giorni continui, bersagliata la città collo sparo di tremila e più cannonate, che atterrarono case, mura e torri, con mortalità di molti soldati, oltre li storpiati, e maltrattati. Fatta patente breccia, sgridava il veneto esercito: a sacco, a sacco. Non potendo più resistere la città. Posta bandiera bianca sopra le mura, inviò un cittadino al provveditore Giorgio Cornaro per contrattare la resa a buon patto di guerra. Ritornato l’inviato, si spedirono due cittadini de’ migliori a proporre le capitolazioni, restando concluso, secondo la volontà del veneto, che resti la città in suo potere, ed il riscatto delle persone e poderi al proprio piacere. Entrati li comandanti veneti quella medesima sera in città, la soldatesca restò di fuori per ovviare allo spoglio. La seguente mattina, che fu li 8 Maggio, pretenderono li veneti per riscatto, ventimila ducati, restando l’appuntato in quindicimla. E benchè a Venezia fosse fatto ricorso, mai tal somma venne sminuita, onde costretti furono li cittadini a vendere mobili e stabili, e molti a Gorizia ottenendo a patti la resa della rocca, e quindi coll’aiuto della flotta, rivolgendo l’assalto dal lato di Prosecco, prese Trieste. In questi fatti gli furono di molto aiuto le cernide (ossia milizie levate a coscrizione fra i contadini friulani). Guidate da alcuni gentiluomini, fra cui Tommaso de Brandis cividalese, dottore in leggi, che rimase ucciso al ponte dell’Isonzo, mentre cercava di far fronte, con alcune squadre de’ suoi, agli uomini d’arme tedeschi. L’impresa dell’Alviano, benchè fortunatissima, fu causa di sventura per la Repubblica, essendo l’ultima spinta alla conclusione della famosa Lega di Cambray (4 dicembre 1508), in cui Massimiliano, così vigorosamente assalito, s’unì ai Francesi, agli Spagnuoli ed al Papa contro di lei e ciò, con la solita perfidia dei deboli, dopo aver chiesta ed accettata da Venezia una tregua di tre anni, che gli servì a preparare le offese.», in LEICHT P.S., La difesa del Friuli nel 1509, Cividale del Friuli, presso la Direzione delle Memorie Storiche Forogiuliesi, 1909, pp. 3 - 4 44 Cfr. BENUSSI B., Manuale di geografia, storia e statistica della regione Giulia, Parenzo, Tipografia Gaetano Coana, 1903, pp. 194 - 195 51 partirsene da Trieste. Con bando capitale restò imposto, che l’armi si portino in palazzo, cinquanta e più cittadini relegati in Venezia, ed alli fuggitivi imposta grossa taglia. Provveditore per la città inviato Francesco Capello, di grande severità, fece impiccare diversi, frustare e ponere alla berlina donne senza riguardo. Nel castello, non ancora perfezionato, per comandante entrò Alvise Zeno 45.». La sua opera militare non rientra in un piano politico organico, ma consisteva in azioni eroiche anche perché i governanti di Venezia non intendevano accordare a Bartolomeo d’Alviano la stessa autonomia accordata al Colleoni. Come ricorda Jászay (1990): «Alla vittoriosa avanzata delle forze mercenarie veneziane – inviate allo scopo di fermare le truppe imperiali riunite ai confini del Friuli – nel corso della quale anche Trieste ed altri territori dell’Istria finirono nelle loro mani, pose fine l’armistizio triennale concluso, con la mediazione del vescovo di Trento, nel 1508, ma rappresentò solamente una breve dilazione: il cerchio nemico che circondava Venezia già il 10 dicembre di quello stesso anno si rinsaldò nell’accordo stretto segretamente a Cambrai. L’imperatore ed il re di Francia, ai quali si aggiunsero in seguito anche il pontefice ed il re di Francia, stabilirono che – come recita la dichiarazione ufficiale di Massimiliano – “…bisogna invitare tutti ad una legittima vendetta, per spegnere, come un volgare fuoco, l’insaziabile avidità e sete di potere dei Veneziani»46. L’esercito di Venezia, comandato da d’Alviano e da Nicolò Orsini conte di Pitigliano subì la disfatta di Agnadello il 14 maggio 1509 per opera dei Francesi. D’Alviano, sconfitto dagli Spagnoli, all’Olmo presso Vicenza il 7 ottobre 1513, successivamente riportò vittorie contro gli imperiali in Friuli e il 14 settembre 1515 vinse a Maringnano gli Svizzeri sostenendo Francesco I re di Francia. Morì a Bergamo il 7 ottobre 1515. 45 Anno 1508. Die 6. May expugnata fuit hæc civitas tergestina a Venetis, qui per tres hebdomadas integras, machinis globorum ferreorum fere innumerabilium, mari, terraque infestarunt, & inter dimicantium multi utriusque partis occisi fuerunt. Mem. mss. capit, in SCUSSA V., Storia iconografica di Trieste, Trieste, Ed. Libreria Internazionale Italo Svevo, 1968, p. 102 46 JÁSZAY M., Venezia e Ungheria, Martignacco, Edizioni del Labirinto, 2004, p. 209 52 10. Conclusioni L’Altare da campo del Colleoni, sul quale celebrava la Santa Messa il cappellano del Colleoni, certo frate Belino, il più celebre arredo sacro custodito nel duomo di Montona, è stato presentato nella sede dell’Unione degli Istriani e benedetto dall’Arcivescovo di Gorizia, il chersino padre Antonio Vitale Bommarco, alla presenza del vescovo di Trieste Mons. Lorenzo Bellomi. Secondo la tradizione il 7 ottobre 1571, domenica della battaglia di Lepanto, sull’ammiraglia di Don Giovanni d’Austria47 la messa propiziatrice era stata celebrata su questo altarino. Secondo il Tommasini sarebbe stato il generale in capo della Repubblica Veneta, Bartolomeo Colleoni, che se ne “serviva a farsi dir messa in campagna” a donarlo a Bartolomeo Alviano, il quale a sua volta lo donò alla collegiata di Montona nel 1509. Ma questa notizia non può corrispondere a verità perché Colleoni morì nel 1475 e non conobbe d’Alviano. Probabilmente l’altare passò dal Colleoni al genero Martinengo e da questo a d’Alviano. Infatti, come ricorda Alisi (1936): «Fra Bartolomeo Colleoni e Bartolomeo d’Alviano non ci fu alcuna relazione, né il secondo può quindi aver avuto dal primo in dono quest’altarino; è difficile anche ammettere che l’Alviano avesse potuto in qualche modo acquistarlo. L’Alviano era nato da nobile famiglia nella rocca di questo nome e fra i parenti suoi egli contava dei principi. Impetuoso, temerario, robusto di complessione, ben presto egli si diede al mestiere delle armi. Da prima egli si trovò legato alla fortuna degli Orsini; nel 1478 (tre anni dopo la morte del Colleoni) è al soldo del papa e del re di Napoli; nel 1503 combatte al servizio del re di Spagna nel Napoletano contro i francesi. Nel 1505 finalmente (cioè trent’anni dopo la morte e la dispersione dei preziosi del Colleoni) l’Alviano è al servizio di Venezia, sotto gli ordini del vecchio ed esperto Conte Nicolò Orsini di Pitigliano. Nel 1508, come vedremo, alla testa dell’esercito veneziano egli si trova di fronte agli imperiali e li sconfigge; indi si riposa durante la seconda metà di quell’anno ed i primi mesi di quello successivo, per ritornare poi in campo coi veneziani. L’indole 47 Giovanni d’Austria, fratello di Filippo II. Durante la battaglia si distinse per coraggio l’equipaggio della galera “Il Leone” di Capodistria. 53 prepotente, rischiosa, il mancato aiuto a Vailate il 14 maggio 1509, lo fanno cadere prigioniero del generale francese Trivulzio, che lo trattiene fino al 1513. Liberato, l’Alviano riprende servizio dai Veneziani, ma ormai quale capitano generale. Il 7 ottobre 1515 egli muore e gli si fanno solennissime esequie. L’Alviano non era un volgare soldataccio: durante i sette mesi ch’egli soggiornò nel Castello di Pordenone (1508 – 1509) egli volle avere intorno a sé dotti e letterati, perché godeva al sentirli discutere e poetare; poi li ricompensò splendidamente. Era il tempo in cui le note, i dispacci, le relazioni degli ambasciatori veneziani si distinguevano per acume, per chiarezza ed abbondanza di notizie e molto si badava alle esposizioni degli argomenti. Quell’accolta di cui si era circondato l’Alviano passò nella storia letteraria col titolo di “Accademia Alvianesca” e il Cian raccolse le poesie allora e poi composte in onore dell’Alviano. Può essere l’Alviano venuto in possesso di quest’altarino di Montona durante quella sosta? In quel tempo l’arte rifioriva, con nuove forme e nuovi concetti; essa era in dissidio aperto coll’arte vecchia. A Venezia, nel Veneto e quindi nel Friuli la plastica si uniformava ai modelli più eleganti della rinascenza, anzi i Lombardi avevano già dei seguaci, che passavano all’esagerazione. L’altarino da campo di Montona non poteva invogliare l’Alviano, perché aspre ne sarebbero state anche le critiche degli amici intellettuali che l’attorniavano. Ma può darsi ch’egli l’abbia avuto quale parte spettantegli del bottino e che “superstizioso e credente nell’astrologia”, come ce lo descrive il Giovio nei suoi Elogi, egli abbia usato l’altarino per la messa al campo, tanto più che un segno che esso porta, e di cui sarà cenno in seguito, glielo faceva ritenere come proveniente dal Colleoni, quell’altro grande Bartolomeo, maestro dei condottieri»48. Una copia esatta di questo altarino da campo in argento e oro, così come l’originale, è stata commissionata dalla Famiglia Montonese. Sono stati proprio i componenti il direttivo della Famiglia Montonese, il presidente e il vice presidente Giuseppe Flaminio e Dino Papo a ricevere Mons. Bommarco accompagnato da Mons. Parentin, presenti il dottor Alfieri Seri e gli esponenti delle comunità istriane, Vigini e Vattovani. Il saluto all’arcivescovo è stato portato dal presidente dell’Unione degli Istriani, Silvio Delbello. 48 ALISI A., Il presunto altarino da campo colleonesco di Montona d’Istria, estratto da Bergomum vol. X – luglio –settembre 1936 – XIV – n. 3 pp. 5 - 6 54 La copia dell’altare da campo è stata eseguita da Livio Scattareggia di Trieste. Così descrive l’altare Morassi (1923): «È tutto in lamine d’argento dorato, lavorate a sbalzo, saldate con chiodetti alle tre tavole di legno che le reggono. Si apre in tre parti, e misura, in altezza, cm. 63, in larghezza complessiva, cm. 74. Il dorso è il legno di noce, tutto liscio, recente. Nella tavola centrale è raffigurata la Crocefissione. La croce domina tutta la scena; il Redentore reclina il capo, mentre appaiono di tra le nuvole due cherubini con calici che raccolgono il sangue dalle ferite aperte. La Madre, ai piedi della croce, allarga le braccia in segno di dolore disperato, e San Giovanni congiunge le mani verso il Signore. In alto, sopra il cartiglio dell’INRI, il pellicano, simbolo della carità, si squarcia il ventre per nutrire i piccini; in basso, alla base della croce, risorge Adamo dalla terra e ringrazia Iddio per la redenzione dei suoi figli. Fiori germogliano dal suolo. Le portelle recano ciascuna le figure di due Santi, uno sotto l’altro. In alto a sinistra, un Santo barbuto con mantello affibiato al petto, un libro nella mano destra, una croce astile nella sinistra. In basso un Santo arcivescovo con pastorale, mitra e pallio (forse Sant’Ambrogio). Sulla portella destra in alto, un Santo giovine, con vaschetta e turibolo; in basso, un Santo frate francescano col cordone e col cappuccio. Una fascia ornamentale continua racchiude tavola centrale e portelle. I fondi di queste son lisci, mentre quello della Crocefissione è dorato in alto a racemi, alternativamente a tre stelle e tre mezzelune, in basso a stellette più piccole e fitte. Poche tracce di colore. Il cartiglio della croce ha le lettere in smalto azzurro sul fondo dorato e frammenti di verde sui lembi arrotolati. Sul terreno, le stellette azzurre dei fiori sono applicazioni di smalto, e d’azzurro è la croce del nimbo di Cristo. Il ventre squarciato del pellicano reca appena visibili tracce di rosso. Pur con così limitata colorazione, l’effetto tonale della pala è raggiunto. Vi concorrono altri mezzi: le superfici dei corpi e delle vesti non sono tutte liscie e la luce sbatte sull’argento, libera solo là dove vuole l’artefice; in tutto il resto egli s’ingegna d’arricciare, ingrezzare, intorbidare, oscurare la luce mediante impressioni punteggiate, graffite, velate. Talchè le figure risaltano e si staccano vivamente dallo sfondo, a cui non sono collegate che dalla materia: idealmente rappresentano astrazioni isolate, e il loro peso corporeo non ha che il significato d’un simbolo. Insufficienza dell’arte primitiva, si dice. E sarà così, fintanto che noi ci ostineremo a considerare l’arte figurativa quale imitazione del vero, tanto più perfetta, quanto più vicina all’illusione. Se noi invece 55 la concepiremo tanto più gagliarda quante più emozioni suscita, allora né questa pala, né l’arte figurativa medioevale in genere appariranno insufficienti… Ma continuiamo nel rapido esame dell’altarolo. I gesti delle figure sono piuttosto rigidi e gravi, sebbene l’orafo abbia cercato di dar loro la maggiore efficacia patetica. Ho accennato alla Madonna, colle braccia allargate, che disperata nell’accettare la Volontà suprema, sembra svenire e crollare ai piedi del Figlio. Il Cristo reclina il capo e lo sguardo suo cade sulla Madre. Implorano grazia San Giovanni ed Adamo risorto. Desolato alla scena è il povero Cherubino, mandato a raccogliere il sangue del Signore. Queste figure certamente non son rese nella loro esattezza anatomica, o comunque formale; sono infatti troppo evidenti i difetti del busto di Cristo, la costruzione delle braccia, delle mani, dei piedi, le ossature dei volti. Ma non è questo che conta. La fantasia del’artefice è ancora costretta nella rigidità architettonica, e le possibilità della sua figurazione si subordinano al ritmo costruttivo semplice e primordiale, come di scoltura applicata ad un edificio, la quale non turbi lo svolgimento delle sue masse e delle sue linee. È concepita in piano, non in profondità; come una visione. E soltanto l’idea astratta di una realtà più grande della pura imitazione della forma tangibile poteva soddisfare l’autore e identificarsi con le aspirazioni estetiche e religiose dei fedeli. A questo si aggiunga la realtà stilistica, che nella disposizione simmetrica delle figure e dell’ornamento, nella fluenza delle linee e nella pastosità dei panneggiamenti rende più acuto il godimento dell’opera d’arte, per l’arte. L’altarolo è della prima metà del trecento, e certo sembrerebbe più antico, se certi contrassegni non dimostrassero il contrario: come le gambe non più irrigidite parallelamente ma sovrapposte l’una sull’altra, e i piedi infissi in un solo chiodo, e alcuni volti leggermente inclinati, e la stessa decorazione ornamentale. Evidentemente non si tratta di un’opera in prim’ordine, eseguita in un centro di grande produzione artistica, ma d’un lavoro un poco provinciale e ritardatario, dove i segni dello stile sono alquanto infiacchiti e non più vitali. La sua origine è da ricercarsi nel Veneto, - non in Venezia stessa, che ha più nette qualità stilistiche – ma più propriamente, sembrarmi, verso il Friuli49. 49 Con qualche riserva, mi permetto di indicare proprio Cividale, dove già allora fioriva l’arte dell’orafo, quale luogo di nascita del nostro altarolo. Certo fra tutte le Crocefissioni e i Cristi che ho esaminati per i raffronti di stile, il grande Crocefisso in argento già dei Patriarchi di Aquiliea, che ora si conserva nel Tesoro di Gorizia, è il più vicino al nostro: Lanckoronski 56 In qual modo il Colleoni ne sia venuto in possesso, è difficile affermare: forse era un vecchio lascito di famiglia, forse, ed è meglio possibile, lo acquistò o lo ebbe in dono durante le sue molte campagne. Ed è bene che un cimelio sì caro al glorioso Duce della Serenissima sia custodito a Montona come un pegno d’affetto di Venezia alle terre dell’altra sponda50». Possiamo concludere questa ricerca affermando che l’altare, preziosa opera creata da un artigiano di Cividale tra il 1100 e il 1200, era di proprietà del Patriarca di Aquileia, Bertrando di S. Genesio (1334 – 1350), come indicato dalla lettera “B” infissa sull’altare, che trasse in inganno molti che la considerarono l’iniziale di Bartolomeo (Colleoni o d’Alviano) o di frate Belino cappellano privato del Colleoni. L’Altare passò alla famiglia Colleoni direttamente dai Patriarchi di Aquileia e nel 1371 assieme ai feudi e castelli di Limini e Tagliano. Infatti, nella storia della famiglia possiamo trovare: «Antica famiglia originaria di Milano e trapiantata in Bergamo nel 1244. Furono signori di molti feudi tra i quali quello di Lemini e del castello di Tagliano ottenuto dal Patriarca di Aquileia nel 1371, di quelli di Trezzo e d’Antegnate avuti per concessione dalla Repubblica Veneta nel 1441. Furono inoltre fregiati del titolo di Conti di Solza nel 1650. Diedero alla patria consiglieri di giustizia, consoli della città e rettori maggiori. Un Galeazzo è detto Signore di Bergamo nel 1559, che poi cedette al Re Giovanni di Boemia. Molti furono podestà, Capigliata Ghisalberto fu Capitano Generale del R.C. sotto Urbano V. Bartolomeo Generalissimo della R.U. Giannantonio Cav. Onorato e Conte 1641.» 51 Come ricorda Alisi (1936): «Quando il Morassi, nel suo studio pubblicato dal Dedalo, cercò di classificare quest’altarino, egli venne alla conclusione che poteva trattarsi d’un’opera da attribuire a qualche orafo cividalese. Il Morassi era sulla giusta via, perché quella B dello Swoboda, Der Dom von Aquileia, Vienna, 1906. Per le affinità stilistiche in genere cfr.: ONGANIA, Il Tesoro della Basilica di San Marco, Venezia; P. GOFFRE, Les Portraits du Christ, Paris, 1903;G. Schönemark, Der Krucifixus in der bildenden Kunst, Strasburg, 1908; Émile Molinier, Histoire générale des Arts appliqués à l’industrie. Vol. IV. L’orfèvrerie religieuse et civile du V à la fin du XVIII siècle. Paris 1901; Jules Labarte, Historie des arts industriels au moyen âge et à l’époque de la Renaissance, Paris; Zimmerman, Oberitalienische Plastik, Leipzig, 1897. 50 Cfr. Morassi A., in Dedalo, fasc. IV, Anno IV – MXMXXIII, pp. 201 207 51 da archivi della Civica Biblioteca, Bergamo, 12/6/1932, manoscritto di Ernesto Zerbinier, in archivio dell’A. 57 scudetto trecentesco si riferisce al patriarca Bertrando di S. Genesio, di Aquileia (1334 – 1350). Lo storico francese Clément Tournier dedicò parte della sua attività a questo Bertrand de Saint-Geniès, decano della Chiesa di Angoulême, cappellano e uditore delle cause del Sacro palazzo, nunzio della Sede apostolica nel 1332, amante delle arti e lettere, protettore degli studenti, che venne ad assumere l’alta carica ad Aquileia nel 1334, accompagnato dalla sua corte di dotti, di poeti e di artisti provenzali. Egli era già fra le eminenti personalità della corte pontificia d’Avignone e certamente provvisto di larghe rendite oltre quelle della sua contea di S. Genesio. Negli atti è detto “maestro” e “utriusque juris professor”, segno di cultura superiore e ciò corrisponde alle notizie che si possono ricavare dai documenti archiviali di Udine. Egli possedeva parecchi libri tanto preziosi da riceverne, lasciandoli in pegno al patriarca Pagano, un prestito, ch’egli poi restituisce al 10 settembre 1338 per riavere i suoi libri. Nel novembre 1373, prima di partire, Bertrando lascia in “deposito, con regolare atto di consegna”, al Capitolo di Udine i suoi libri. Al 15 dicembre 1345 egli dona un graduale miniato alla chiesa di Gemona. Nel gennaio 1346 i Domenicani di Udine dichiarano che terranno in deposito diversi libri del Capitolo di Udine, donati ad esso certamente dal patriarca, perché Giannetto di Tolosa suo cappellano privato faceva parte del Capitolo stesso. Nel novembre 1349 finalmente il patriarca Bertrando lascia ai canonici di Udine diversi suoi libri, ma fra di essi v’è un “Digesto vecchio” che il legittimo proprietario, tale Giovanni da Firenze, reclama e riottiene già quattro giorni dopo l’uccisione del patriarca stesso, avvenuta al 6 giugno 1350. Bertrando amava i libri dunque e quale persona colta egli sapeva anche favorire le belle arti. Ecco p.e. quell’anonimo che nel 1338 dipinse nella parrocchiale di Venzone la scena della consacrazione di quella chiesa, presenti il patriarca stesso e parecchi vescovi e prelati che dopo gli studi del Fournier non dovrebbero più esser considerati quali un’accolta di ignoti. Ci sono certamente effigiati Arnaldo di S. Genesio, nipote del patriarca, Guglielmo Raimondo di Salvanhac, canonico d’Aquileia, Gagliardo di Salvanhac, abate di Rosazzo, Arnaldo di Foix, canonico di Aquileia e cappellano del patriarca coll’altro cappellano già nominato Giannetto di Tolosa. In quanto all’autore di quella pittura vorrei proporre Giovanni del fu ser Viano dimorante a Udine, ma probabilmente di famiglia immigrata toscana. Altro affresco nel Coro o Cappella dell’Annunziata del Duomo di Udine conteneva pure l’effigie del patriarca Bertrando, assieme al vicedomino Francesco Savorgnan e alle due figlie del ministeriale Gerardo da Cuccagna, generosamente dotate dal patriarca stesso e inoltre le figure di Dante, del Petrarca e del Boccaccio, quasi a 58 testimoniare in quale conto alla corte patriarchina si tenesse l’arte della poesia. Un terzo affresco, infine, dovrebbe datare dal 1380 secondo il Valentini, che nella sua Guida di Udine così lo ricorda: “Dov’era la cappella di S. Nicolò (nel Duomo), fondata nel 1339 e decorata nel 1380, venne nel 1921 integralmente in luce, di sotto all’imbiancatura, un affresco di rara bellezza che fa pensare a S. Maria Novella e a Santa Croce. Un arcivescovo (o patriarca) vestito del pallio, cinto il bel capo di mitra e d’aureola, giace sul cataletto. Accanto un vescovo suffraganeo legge le preci dei defunti, e gli stanno da un lato il gastaldo e nobili e popolani nelle cappe delle loro corporazioni, dall’altro il clero e donne. In alto l’anima del santo è recata in cielo da angeli”. È strano che il Valentini non abbia intuito che il pittore in questo affresco aveva riprodotto l’ufficio funebre di Bertrando di S. Genesio, beatificato dal papa ben presto dopo l’uccisione e come tale fatto riconoscere nella regione, secondo Clement Tournier, per “l’influence conjuguée des évêques quercynois, envoyés par les papes occitans d’Avignon pou auréoler en quelque sorte la physionomie de Bertrand de Saint-Geniès”. Difatti Bertrando, dotto, uomo di raffinato vivere, amante e protettore degli studi e delle arti, non era però un timido, un pavido. Con enfasi gli storici rammentano la vigilia di Natale del 1350, quando egli, anziano ormai ma valido, sotto le mura di Gorizia da lui assediata, celebra una solenne messa di campo. Non ricchi paramenti egli indossa, ma la lucente armatura d’acciaio, come l’abate di Moggio che lo assiste, e non colla mano, come vorrebbe la liturgia, ma col brando snudato infine egli impartisce la benedizione. Avveniva ciò dinnanzi a questo altarino da campo di Montona?52 (…) Esaminiamo ora ancor’una volta l’altarino che forse gli servì durante quella celebre messa di Natale. Permane l’impressione di stile misto, ma non più il parere che si tratti di un’opera d’oreficeria ristaurata, composta di parti più antiche, le lastrine sbalzate colle varie figure, quella centrale particolarmente, con i suoi avanzi di smalti, e più recenti, le cornici a strombo piano, gotiche. Nelle parti più antiche sembra persistere una specie d’arte già tramontata ai tempi di Bertrando. Le figure sono tozze, con teste larghe alle tempie, assottigliate al mento, direi “a pera”, come si 52 ALISI A., Il presunto altarino da campo colleonesco di Montona d’Istria, estratto da Bergomum, v, XI – luglio-settembre 1936 XIV, n. 3, pp. 11 - 12 59 vedono nelle sculture dugentesche friulane. L’artista è preoccupato a ridare le masse e non sa ingentilirle. Nell’oreficeria friulana, come giustamente additò il Morassi, abbiamo il Cristo benedicente della coperta d’Evangelario, una Madonna in una pace, la statuetta di San Nicolò, tutte opere che si conservano nel Tesoro della Cattedrale di Cividale, che mostrano simili tratti fisionomici. Sono dette tutte oreficerie trecentesche, però ancor poco studiate, a tratti hanno del romanico, a tratti si rivelano gotiche. La testa a pera la ritroviamo già nella figura di S. Paolino, della pala d’altare argentea donata alla Cattedrale di Cividale dal patriarca Pellegrino II (1193 – 1204), segno di caratteristica persistente a lungo nell’oreficeria friulana. Nell’altarino di Montona sembra sbocci appena il gotico, coll’ornamentazione delle stoffe, colla cornice battuta su stampi, sopra reminiscenze tenaci d’epoca anteriore. L’affinità delle figure in quanto a caratteristiche fisionomiche con quelle già menzionate di Cividale, mi sembra sufficiente per attribuire le lamine colle immagini a qualche orafo di Cividale a cavalcione fra il Dugento ed il Trecento, modellatore ingenuo di quei santi della chiesa aquileiese. Di questi ultimi vorrei ravvisare in quello colla croce astile e il libro di S. Ermacora, fondatore della chiesa metropolitana stessa e apostolo, nel diacono S. Fortunato martire, nel vescovo nimbato S. Felice; vi si aggiunse S. Domenico, i cui seguaci dalla fine del Dugento erano operosi quanto influenti sostenitori della chiesa anche nel Friuli. Il paziente lettore comprenderà ora quanto maggiore valore storico abbia questo cimelio di Montona per la Venezia Giulia, certo ben maggiore di quello che esso avesse se si potesse considerarlo solo quale ricordo di Bartolomeo Colleoni, per quanto grande capitano egli sia stato»53. 53 60 ibidem pp. 14 - 15 11. Allegati: Marquardo Patriarca d’Aquileia ESTRATTO DA: Braun P., Geschichte der Bischofe von Augsburg, vol. 2, Augsburg, 1814, pp.455-475. Relativa traduzione. 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 71 72 STORIA DEI VESCOVI DI AUGUSTA MARQUARDO I 1. È NOMINATO VESCOVO DAL PAPA Dopo la rinuncia del vescovo Heinrich von Schoneck, che alla morte dell’ imperatore Ludovico, era seguito per disposizione del suo successore Carlo IV e del Papa Clemente VI, il vescovado fu dato dal Papa a Marquardo, il preferito di Carlo, 1348. 2. SUA STORIA Marquardo discendeva dalla stimatissima famiglia dei nobili di Randeck nella valle di Kirchheim in Svevia. Sua madre era una von Thumnau e sorella di Eberhard von Thumnau, prevosto54 del duomo di Augusta; perciò egli chiamava questo suo zio e lo apprezzava e amava molto come vedremo in seguito. 3. SUOI MERITI E CULTURA Deve aver fatto grandi progressi nella scienze, specialmente nel diritto ecclesiastico, mentre a Bamberga leggeva in pubblico su questi argomenti e fu adibito per importanti negoziati presso la corte romana. Le sue capacità spirituali lo resero membro del capitolo del duomo di Augusta e di Bamberga ed infine anche insegnante di diritto e prevosto del duomo. 4. È INVIATO DAL PAPA Egli fu presso l’imperatore Ludovico come canonico per le sue conoscenze, eloquenza e capacità in così grande stima che nel 1335 fu inviato ad Avignone dal nuovo Papa Benedetto XII con suo zio Eberhard von Thumnau55, arcidiacono di Augusta, e con il conte di Oettingen e altri, per sapere dal nuovo Papa le condizioni della prevista conciliazione e del giusto compromesso. Benedetto ricevette gli inviati con molta attenzione ed amicizia. Il 28 aprile davanti al 54 Prevosto: titolo di vari dignitari ecclesiastici, membri autorevoli in capitoli o monasteri. 55 Era un fratello di sua madre, un uomo di grande considerazione e saggezza. 73 Papa e al concistoro dei cardinali riunito Marquardo tenne un discorso tanto efficace, che stupì grandemente tutti i presenti. Nell’anno 1343 nel mese di settembre l’imperatore inviò un’altra ambasceria ad Avignone per chiedere l’assoluzione a Clemente VI, che un anno prima era salito sul soglio pontificio dopo Benedetto XII. Egli autorizzò a questo, Humbert Delphin von Vienne, un favorito del Papa, Marquardo von Randeck maestro di diritto ecclesiastico e prevosto del duomo di Bamberga, suo zio Eberhard von Thumnau prevosto del duomo di Augusta, e Ulrich Hangenor suo cancelliere, che però purtroppo non poterono ottenere nulla secondo i desideri dell’imperatore. 5. È RACCOMANDATO ALLA CITTÀ DALL’IMPERATORE Marquardo anche con la sua capacità, con il suo talento e la sua attività seppe guadagnarsi il re Carlo IV, così che dopo la morte dell’imperatore Ludovico eliminò il vescovo Heinrich von Schoneck e, come dice in uno scritto alla città, chiese con serietà e devozione al Papa di concedere al suo amato principe Marquardo von Randeck il vescovado di Augusta. Il Papa esaudì la richiesta del re, nominò Marquardo vescovo ed ordinò al re di inviarlo per lui al vescovado e di proteggerlo nello stesso. In base a questa richiesta papale il re chiese ai cittadini di Augusta, il 21 dicembre 1350, di riconoscere come loro legittimo vescovo il suo amato principe Marquardo e di mantenergli ogni diritto, come giusto, e come avevano fatto abitualmente per gli altri vescovi di essergli di aiuto in ogni cosa, di introdurlo nella sua corte vescovile e di agire a vantaggio suo e della sua chiesa56. 6. MISEREVOLE CONDIZIONE DELLA SUA CHIESA In quale miserevole stato abbia trovato Marquardo la chiesa all’inizio del suo ufficio vescovile, lo racconta lui stesso così in un documento imperiale del 1364 :” Quando fu innalzato al soglio vescovile, la chiesa di Augusta era completamente decaduta e per quanto riguarda i possessi completamente impoverita e ridotta al lastrico. Però, come tutti i suoi contemporanei dovettero riconoscere, egli con l’aiuto di Dio la riportò a floridezza, riscattò i beni impegnati e né comperò dei nuovi sostanziosi57. 56 Dato a Dresda a S. Thomas nel III anno del nostro regno dunque nell’anno 1348. 57 Essendo stato eletto all’apice vescovile della stessa chiesa di Augusta, la chiesa stessa era completamente in decadenza e quanto riscattai di tutti i 74 7. CARLO CONFERMA TUTTE LE GARANZIE E I PRIVILEGI Il re Carlo IV concesse specialmente al nostro vescovo i suoi favori reali e la sua completa fiducia nelle più importanti situazioni del regno. Ugualmente dopo l’inizio del governo vescovile con un diploma regale confermò a lui e ai suoi successori, i vescovi di Augusta, e alla sua chiesa in considerazione della grande fedeltà dimostrata a lui e al regno, e dei servigi prestati, ogni privilegio, fosse esso in titoli, città, mercati, villaggi, baliati58, chiesette, tribunali o altri interessi e oneri, come sono detti o devono chiamarsi quelli che sono stati dati dagli imperatori romani e dare di pia memoria ai suoi predecessori. Dresda 24 dicembre 1348. Egli confermò in questo anno a lui e anche al suo capitolo tutti i doni ottenuti dai suoi predecessori e rinnovò tutti i privilegi dati. L’anno seguente confermò il privilegio concesso dall’imperatore Enrico VII al vescovo Siboto nel 1231, di percepire la metà delle tasse dai cittadini di Augusta. In questo tempo Carlo concesse anche al vescovo e ai suoi successori l’assistenza legale per il convento di Ottenbeurn e comandò all’abate di obbedire a lui come al suo uomo di fiducia. 8. GLI CONFERMA LA PARROCCHIA DI KAUFBEURN, CHE CONCEDE A WALTHER VON HOCHSCHLITZ Su richiesta del nostro vescovo Carlo prese in considerazione la grande e dispendiosa spesa, che egli e i suoi predecessori avevano dovuto fare in diversi casi per l’imperatore e il regno, e i pesanti debiti, che la sua chiesa si era addossata con il fedele adempimento dei doveri imperiali, e donò alla camera vescovile a titolo di per qualche indennizzo e di alleggerimento del debito, la parrocchia di Kaufbeurn appartenente all’impero con tutti i suoi beni, proprietà e diritti. Norimberga, 19 aprile 1350. Il 17 settembre 1358 Marquardo ricambiò con il consenso di Engelhard prevosto del duomo, del decano Corrado e dell’intero capitolo, con gli stessi importanti servigi prestati a lui e alla sua chiesa da suo nipote Walther von Hochschlitz e fece grandi benefici. suoi possessi e parecchi ne comprai di nuovi, lo sanno tutti coloro che conobbero ai nostri tempi la situazione della chiesa. 58 Baliato o baliaggio: grado, ufficio e sfera di competenza di un balivo. Balivo: nel Medio evo, funzionario regio o magistrato cui era affidato il governo di città o circoscrizione, con vasti poteri amministrativi e giudiziari. 75 9. IL PRIVILEGIO DI BATTERE MONETA Nel 1356 l’imperatore volle dimostrare un particolare favore ai suoi amati principi e al consiglio, in considerazione dei fedeli e grandi servigi prestati a lui e al regno. Perciò gli concesse il permesso di avere proprie monete ad Augusta o a Dillingen, e di battere59 holler d’argento e di giusto peso fino a nuovo ordine, e prescrisse a tutti i principi, signori, città ecc del regno di accettare queste monete, come altre che provenivano dalla zecca imperiale. Praga, lunedì 18 luglio prima del giorno di Santa Maddalena. 10. MARQUARDO VA A ROMA CON L’IMPERATORE E DIVENTA GOVERNATORE IN ITALIA Nel 1355 Carlo prese con sé il nostro vescovo, suo preferito, nel suo viaggio verso Roma per la sua solenne incoronazione, che a Pasqua fu eseguita dal Cardinale di Ostia. Dopo l’incoronazione l’imperatore volle tornare in tutta tranquillità in Germania con il permesso del suo popolo. Quando a Pentecoste giunse a Pisa, alcuni congiurati appiccarono il fuoco nel suo palazzo, per ucciderlo fra le fiamme. Fortunatamente egli riuscì a sfuggire a questo pericolo, così essi cercarono di sollevargli contro tutta la città ed egli si trovò con i suoi in una situazione altamente pericolosa. Allora il nostro vescovo, che era anche un buon soldato, si pose a capo di un piccolo gruppo di suoi, andò contro i rivoltosi, si batté con essi valorosamente dalla mattina fino alla sera, ne uccise personalmente parecchi e mise in fuga i restanti. L’imperatore ringraziò il coraggioso e deciso vincitore per la sua salvezza e, alla sua partenza, lo nominò suo governatore in Italia. –Come tale si unì – secondo Heinrich di Rebdorf – nel novembre 1356 con uno degli alleati e si scagliò contro i milanesi, ma combattè molto sfortunatamente e fu catturato con 500 uomini, però l’anno seguente fu nuovamente liberato nel mese di maggio. 11. HAIDENHEIM DIVENTA UN MERCATO Con questo vescovo l’imperatore con un documento del 16 agosto 1356 innalzò il villaggio di Haidenheim a mercato a favore del conte di Helfestein e concesse allo stesso ogni libertà circa i mercati. 59 Da qui non emerse, che il vescovo di Augusta avesse mai avuto diritto di battere moneta, che Marquardo l’abbia ottenuto per la prime volta dall’imperatore Carlo IV; mentre i vescovi avevano avuto tale diritto già da innumerevoli tempi, come abbiamo visto (im I. Bande C. 392. und oben C. 305); ma con questo privilegio pare che il vescovo abbia ottenuto il permesso di battere solo una nuova moneta valida in tutto l’impero e non solo ad Augusta o a Dillingen. 76 12. IL BALIATO DI STRASS E’ NUOVAMENTE DATO IN PEGNO Nel 1348 il baliato di Strass, che già prima nel 1336 era stata data in pegno dall’imperatore Ludovico alla chiesa per 2000 lb, fu data di nuovo in pegno al nostro vescovo per 4000 lb e nel 1354 fu impegnato anche il baliato imperiale ad Aitrang. 13. MARQUARDO COMPERA PARECCHI BENI Marquardo arricchì la sua chiesa con i seguenti beni ed entrate. Nel 1351 comperò lo stesso castello di Rettenberg con quanto gli apparteneva in beni, gente, baliati ecc e pagò per questo al cavaliere Georg von Starkenberg 16000 lb pfenning60 di Costanza validi. In questo stesso anno comperò da Hans Simling cittadino di Augusta, 7 fattorie a Schrezheim. Nel 1354 Anna Eitel, moglie di Fricken e figlia di Heinrich von Schonecks, vendette al duomo per 800 lb una metà e nel 1355 Wernher ed Heinrich di Plettner (vendettero) per 700 lb l’altra metà della signoria di Schoneck. Nel 1356 Marquardo con il potere imperiale ottenuto riscattò il diritto di assistenza legale del convento di Ottenbeurn data in pegno a Schwigger von Gundelfingen. Nel 1359 Hans von Ried in cambio di 310 A cedette al vescovo il baliato della corte di Dirnzimmern con quanto apparteneva alla gente, i vigneti e altro. Nel 1361 prese da Susanna Truchsessinn e da suo figlio Seifrid von Kullenthal la signoria dello stesso nome per 3500 lb. Nel 1363 fu comperata dal duomo la città di Buchloe,che possedevano singolarmente Henrich Herbort e Konrad Onsorg. Nel 1356 invece Marquardo con il consenso del suo capitolo cedette i titoli di Mindelheim – Mindelburg e la città di Mindelheim per 20000 lb ed holler ad Heinrich e Walther Hochschlizen. 14. CONCLUDE UN’ALLEANZA DIFENSIVA CON LA CITTÀ Nel mese di maggio del 1349 il nostro vescovo concluse un’alleanza difensiva con la città di Augusta, se ne andò con i cittadini sei giorni prima del giorno di S. Urbano –il 19 maggio-, distrusse il castello di Mindelberg e conquistò Brenz. Il 14 giugno cessò l’ostilità con Schwigger von Windelberg e questo giurò solennemente che I -“voleva perdonare al vescovo, al capitolo e ai cittadini della città di Augusta la distruzione del suo castello;- 60 Pfenning: centesimo di tallero. 77 II -voleva che mai né lui né i suoi servi aggredissero il vescovo, la città, gli edifici di Dio (ossia della Chiesa), le chiese, i conventi ecc… o agissero male;III -non voleva concedere i suoi titoli ad alcuno dei suoi nemici;IV -e non voleva unirsi ad alcuno degli stessi .15. INTESA CON IL SUO PREDECESSORE Nel 1350 Marquardo si era accordato con il suo predecessore per la sua pensione, egli cedeva il castello di Zusameck e promise di pagare fino alla morte, ogni trimestre, 100 lb holler. Ma Marquardo non mantenne la parola e solo l’11 agosto 1359 la cosa fu accordata da Ludwig, conte di Oettingen, come arbitro (e fu deciso) che egli non doveva concedere al vescovo Heinrich né l’assoluzione papale e un titolo, né dare ogni anno per S. Michele 200 A. 16. AIUTA I CONVENTI E GLI OSPEDALI DI KAISERSHEIM Si dimostrò molto benefico nei confronti delle chiese e dei conventi. Il 27 aprile 1349 concesse al convento di Kaisersheim, in cui regnavano una buona disciplina, pietà, ospitalità ed assistenza per i poveri, le parrocchie di Grabretshofen, Weisenhoun e Berg. Su richiesta dell’abate e del convento il 27 ottobre 1350 unì la parrocchia di Lindenau, che era tanto impoverita, da non poter mantenere un prete, con la parrocchia vicina, a patto che essa, se di nuovo avesse raggiunto forze sufficienti, avrebbe di nuovo mantenuto un suo prete. Affinché però con questa regolamentazione non fossero sminuiti i diritti vescovili, nel frattempo il parroco di Ramingen dovette dare le primizie e il cattedratico per Lindenau e rispettare altri diritti61. Proprio a questo convento con il suo capitolo incorporò la parrocchia di Hermeringen con rendite e diritti, e in forza di un altro documento dovette concedere il diritto delle primizie ad ogni istituzione di un nuovo parroco in cambio di 40 lb hallenser. Il 9 agosto 1364 con il consenso del suo capitolo, per una particolare attenzione a per affetto verso l’abate e il convento di Kaisersheim e a causa di reali necessità, che l’ospitalità e la grande necessità di fare elemosina avevano provocato ad essi, unì al convento la parrocchia di Blintheim con le sue dipendenze e in cambio di 600 lb 61 Affinché con l’unione della chiesa a Lindenau si paghino a noi e ai nostri successori per mezzo del pievano di Ramunger le primizie e il cattedratico delle raccolte e tutti i diritti episcopali e arcidiaconali. La parola latina cathedraticun significa diritto di insediamento pagato dal vescovo all’entrata in carica. 78 hallenser concesse a quello le primizie secondo il corrispondente patrimonio della parrocchia e (di avere) ogni 4 anni i frutti corrispondenti con tutti i diritti e privilegi62. Il 23 giugno 1361 quando volle costruire a Gremheim, sul Danubio vicino alla casa del pescatore, sul luogo, dove Kaisersheim aveva il diritto di pesca, e per questo motivo derivò un danno al pescatore e alla pesca, si accordò con l’abate e con il consenso della comunità concesse al pescatore, la cui casa comunque era messa in pericolo dal Danubio, un posto sulla piazza del Comune per la costruzione di una casa e di un fienile. 17. OSPEDALE A KAUFBEURN Il 14 aprile 1350 confermò all’ospedale di Kaufbeurn la parrocchia di Tagebrechtshofen ceduta dal convento di S. Ulrico di Augusta in cambio di un giorno anniversario da celebrarsi ogni anno per l’abate e i religiosi. 18. CONVENTO DI OBERSCHONENFELD Donò al convento di Oberschonenfeld il feudo di Gut Kuhnberg, che allo stesso del tutto liberamente aveva lasciato nel suo testamento Heinrich di Augusta, - Kaisheim, il giorno dei santi Tiburio, Valerio e Massimo. 14 aprile 1354Il 22 giugno 1358 confermò il dono di Kirchensatzes con Widumgrut e quanto apparteneva a Maurstetten, fatto al convento di Irsee da Johann von Ramschwag. 19. LA CHIESA DI SAN PIETRO Poiché il nostro vescovo notò che nella collegiata63 di S. Pietro a causa del modesto introito dei canonici il servizio divino doveva subire delle interruzioni, cercò di provvedere personalmente alla sua decadenza e di porre rimedio alla miseria e alla precarietà. A questo scopo con il consenso del prevosto Engelhard von Gunzburg, del decano Konrad von Gerenberg e di tutto il capitolo del duomo, unì con la pieve di San Pietro la parrocchia di Lametingen e con il consenso del prevosto Burkard von Pettingen ordinò che i canonici potessero sostenersi in parte nelle loro necessità con le entrate di questa parrocchia. Emanato ad Augusta il 7 settembre 1360. 62 Ci occupammo della conferma e del riscatto di castelli, fortificazioni e possessi della nostra chiesa. 63 Collegiata: chiesa che ha un capitolo di canonici, senza essere sede vescovile. 79 20. NIEDERSCHONENFELD Favorì anche per l’abbazia e il convento di Niederschonenfeld un sostentamento decoroso, la pratica dell’ospitalità e il ristoro dei poveri e degli stranieri con l’annessione delle parrocchie di Burkheim e Bobenhausen. –14 maggio 1361. 21. THIERHAUPTEN Fornì un ricco aiuto al convento di Thierhaupten con il consenso del prevosto del duomo Otto von Guntheim, del decano Konrad von Gerenberg e del capitolo, incorporando il 15 maggio 1363 le parrocchie di Grimoltshausen e Wilprechtszell. 22. OSPEDALE A DILLINGEN L’ospedale a Dillingen gli dovette in questo anno la possibilità di aiutare più agevolmente i poveri attraverso la parrocchia di Wengen. 23. ISTITUZIONE DI VICARIATI NEL DUOMO Il 6 agosto 1352 Marquardo in qualità di eletto e confermato dedicò l’altare consacrato a Santa Adelaide, a Santa Ursula e alle sue compagne a Engelhard von Enzberg prevosto del duomo con il consenso di M. Ulrico Burggraf, prevosto del duomo. Il 30 settembre 1355 Heinrich con il consenso del capitolo istituì i vicariati64 e innalzò sulla tomba delle sante l’altare dei 10000 Martiri e per questo ottenne una fattoria a Harthausen. Il 14 ottobre 1359 Waltler von Hochschlitz con la conferma del nostro vescovo ed il consenso del capitolo regalò il diritto di patrocinio sulla parrocchia di Kaufbeurn insieme con ogni uso della cappella di santa Agnese, dove avevano le loro tombe parecchi dei suoi parenti. Il 30 ottobre 1362 il nostro vescovo consacrò l’altare e i vicariati di S. Vittore con l’approvazione di Otho von Gunthaim prevosto del duomo, del decano Konrad von Grenberg e di tutto il capitolo. Il 23 giugno 1365 dai curatori dell’opera di Ulrich Ilsung’schen e dei curatori di anime Johann Dachs, Ulrich Ilsung e Johann Hangenor con il consenso del capitolo furono dedicati per la salvezza delle anime dei defunti, i vicariati e l’altare dei 7 dormienti e dotati con una fattoria a Menchingen. Il 10 dicembre 1359 concesse al suo capitolo secondo un documento disponibile, il baliato su alcune parti di Donaualtheim e il feudo. 64 80 Vicariato: giurisdizione e ufficio di vicario. 24. IL BENEFICIO DI SAN MARTINO Era venuto a sapere che la cappella di San Martino65, che si trovava nella parrocchia del duomo, in cui i suoi predecessori assai spesso avevano nominato sacerdoti di grado inferiore, considerando i sacri compiti della religione era molto trascurato, poiché i capi tenevano per sé le rendite e solo raramente e con una modesta ricompensa assumevano preti per fare le messe. Ad impedire questa spiacevole situazione e dannosi abusi, con il consiglio del suo capitolo stabilì che né lui né i suoi successori potessero mettere un altro sacerdote nella cappella di S. Martino, come prete effettivo, che abitasse la casa vicina alla cappella, vi avesse la residenza e facesse degnamente la santa messa. Affinché però l’entrata fino ad allora molto modesta per il mantenimento di un prete potesse bastare, l’antico beneficiario e vicario presso il coro del duomo Konrad Weilbach donò per questo con altri benefici 70 lb di Augusta. – Era il 13 marzo 1365-. 25. MESSA MATTUTINA A ZUSSMARSHAUFEN Nel 1363 Marquardo confermò la messa mattutina istituita dai fratelli Bacher a Zussmarshausen. 26. COSTRUZIONE DEL CORO Durante il governo del nostro vescovo iniziò la costruzione del nuovo duomo verso est, con cui fu collegata con il duomo senza ledere o diminuire i diritti dei canonici, la cappella della collegiata di Santa Gertrude già esistente. 27. DIVENTA PATRIARCA D’AQUILEIA Il 23 agosto 1365 Marquardo ottenne da Papa Urbano V l’elezione al patriarcato di Aquileia (Aglar); egli cercò però di rifiutare, poiché la provincia del Friuli era minacciata da nemici esterni e scossa da disordini interni. Perciò la provincia mandò a lui come inviato Nihilus von Maniach e cercò di convincerlo ad accettare il patriarcato. Infine cedette alla richiesta, si recò ad Aquileia (Aglar) e il 24 dicembre dello stesso anno, secondo la testimonianza di Aylins prese possesso della chiesa affidatagli. Il 19 aprile dell’anno seguente, nella domenica della misericordia del Signore, celebrò la prima messa solenne ed assunse l’amministrazione della nuova chiesa. 65 Dove c’era un convento di monache dell’ordine francescano. 81 28. RINUNCIA AL SUO VESCOVADO Marquardo non rassegnò le dimissioni al vescovado di Augusta nel 1368, come ritengono Pappeheim, Stengel, Khamm, Von Stetten e altri, bensì già nel 1365 o per lo meno all’inizio del 1366, mentre il suo successore Walther già compare come vescovo in un documento del capitolo del duomo del 23 aprile dello stesso anno. 29. FA DONI AL SUO CAPITOLO E PRESCRIVE DEI GIORNI FESTIVI DURANTE L’ANNO Prima del suo commiato volle lasciare al suo capitolo un segno duraturo della sua attenzione, del suo affetto e della sua gratitudine. Egli si era assai spesso ricordato in quale stato pietoso e decaduto aveva ricevuto il vescovado, a quante pesanti fatiche si era sottoposto per modificare e migliorare lo stesso, a quanti pericoli si era esposto e quanto lo aveva arricchito di beni66. Egli però non dimenticò neppure che il capitolo della sua chiesa nel suo basso stato, lo aveva accolto come suo membro, amato come suo figlio, onorato come suo padre, allevato fin dalla giovinezza, fatto diventare uomo, onorato con le più alte cariche e infine sollevato allo splendido grado dell’ufficio pastorale più alto67. Questo fece nascere in lui la decisione di creare per il suo capitolo una situazione migliore e allo stesso tempo di rendere un buon servigio a Dio, di accrescere gli onori del nome di Dio e di innalzare la preghiera del popolo. Con questa intenzione offrì al capitolo i beni comperati con i propri mezzi da Johann Liutfrid, cittadino di Augusta, i diritti e l’assistenza legale di Eggelhofen, Ehekirchen, Fertingen, Erlingen, sul mulino a Kranweck e la propria gente e case redditizie a Nordllingen. Chiese solo che finché fosse vissuto, fosse ricordato alla vigilia dell’assunzione di Maria, e dopo la sua morte si dedicasse un giorno a lui, un altro a suo zio Eberhard von Thumnau prevosto del duomo e un terzo per il suo amatissimo amico il prevosto del duomo Engelhald von Enzberg, con veglia, ufficio e gettoni di presenza determinati nel 66 Considerando il fatto che affrontammo grandi fatiche per la nostra chiesa di Augusta e sostenemmo pericoli fisici assai gravi per risollevare la sua condizione e arricchimmo la stessa di beni, ingrandimmo lo stato e l’onore di questa chiesa che avevamo trovato in completa desolazione e distruzione. 67 Il Capitolo, che conobbe noi appena eletti in un compito minore come suo membro e ci aiutò, ci amò anche come un figlio e riverito come un padre, la onoriamo poiché suggemmo la sua dolcezza fin dalla prima giovinezza, perché ci fece diventare uomo e in esso ricevemmo le più alte cariche ….infine salendo giungemmo alla vetta delle cariche pastorali. 82 libro delle offerte. Ordinò anche che fosse dato ogni giorno un gettone di presenza al cappellano che faceva la messa al suo altare nella cappella di Krafto von Neidlingen, come ricevevano gli altri vicari, e che ogni anno fossero dati 3 lb d’ufficio. Infine rinunciò per sé e i suoi successori al pascolo presso il castello di Kullenthal. –Concesso il 2 novembre 1365- nel quinto giorno festivo dopo il giorno di S. Narciso. 30. SUA MORTE Sul suo altare pose diverse reliquie, che in determinati periodi dovevano essere esposte dal suo cappellano alla venerazione. Dopo aver retto con buona fama la chiesa di Aquileia (Aglar), morì il 3 gennaio 1381. 83 12 Appendice iconografica Ritratto severo di Bartolomeo d'Alviano, valoroso architetto ed eccellente condottiero che nel 1490 ricostruisce il castello d'Alviano (tra Lazio ed Umbria) dove oggi si trova un museo dedicato a lui ed ai capitani di ventura umbri. Uomo di grande autorità e virtù, contribuì ad armare ed addestrare alla svizzera le fanterie veneziane. Esperto nel fortificare un accampamento, nella scelta delle posizioni e nel rimaneggiare i fortilizi, adattandoli ai continui progressi delle artiglierie. Al servizio dei veneziani, nel 1505 è a Gradisca d'Isonzo per rafforzare i confini ed impedire avanzate dei turchi. Nel 1508 fa munire la fortezza di Chiusaforte contro gli Imperiali; assale Cormons, ottiene la resa di Pordenone e di altri castelli (tutti territori della casa d'Austria). Assedia Trieste, entra in Istria, ottiene Pisino, Fiume e Postumia. Nella basilica di San Marco gli vengono consegnate lo stendardo e il bastone di governatore generale. Viene nominato signore di Pordenone dove si trasferisce con i suoi familiari. Nel 1514 tenta di conquistare Gorizia ma deve ritirarsi. 84 L’altare del Duomo di Montona 85 Il piccolo altare da campo, in argento sbalzato, che si trova presso la chiesa del paesino medioevale di Montona, in Istria. A destra Angelo Colleoni, a sinistra Olivo Melan 86 Una copia del 1986, del piccolo altare da campo. Opera del triestino Livio Scattareggia 87 Reperti conservati nel castello di Predjama, Postumia, Slovenia 88 Reperti conservati nel castello di Predjama, Postumia, Slovenia 89 Colleoni in preghiera prima Della battaglia (fonte: Oscar Browning, The Life of Bartolomeo Colleoni, The Arundel Society, 1891 90 Bartolomeo Colleoni, d’Angiò e Borgogna, Comandante Generale delle armate della Serenissima, appartenente alla nobile famiglia dei Colleoni feudatari di Bergamo, Lemini, Tagliano, Trezzo, Antegnate, Malpaga per editto Imperiale di Federico II di Svevia del 1224 91 La spada e il bastone di comando di Bartolomeo Colleoni, Capitano Generale della Serenissima Repubblica di Venezia dal 1455 al 1475, ritrovati il 21 novembre 1969 92 Monumento a Bartolomeo Colleoni in Venezia, di Andrea del Verrocchio. Il più bel monumento equestre del mondo (foto Anderson) 93 Il Castello Colleonesco di Malpaga (sec. XV) 94 13 Bibliografia ALISI A, Il presunto altarino da campo colleonesco di Montona d’Istria, da Bergomum, vol. X, luglio – settembre, 1936 – XIV – n. 3 BELOTTI Bortolo, La Vita di Bartolomeo Colleoni, Bergamo, Ist. Arti Grafiche Ed., 1951 BENUSSI Bernardo, Manuale di geografia, storia e statistica della Regione Giulia (Litorale), ossia della città immediata di Trieste, della contea principesca di Gorizia e Gradisca e del margraviato d’Istria, Trieste, Edizioni Italo Svevo, 1987 BENUSSI Bernardo, L’Istria nei suoi due millenni di storia, Collana degli atti, Centro di Ricerche Storiche – Rovigno, n. 14, 1997 BURTON Richard Francis, Il litorale istriano, Triste, Edizioni Italo Svevo, 1975 BONAVIA Mario, Storia di una ricerca, Bergamo, 1970 CARRARA Giovanni Michele Alberto, Oratio extemporalis habita in funere Bartholomaei Colleonis , in Spino 1732 CORNAZZANO Antonio, De vita et gestis Bartholomaei Collei, in Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae, cura e studio GRAEVII J.G., Lugduni Batavorum 1732, tom. IX, parte VII DELL’ACQUA Gian Alberto, Problemi di Scultura lombarda: Mantegazza e Amadeo, in Proporzioni III (1950) FRIGENI Mariana, Il Condottiero, Vita, avventure e battaglie di Bartolomeo Colleoni, Milano, Longanesi, 1985 GRAVENITZ Gustav von Gattamelata und Colleoni, Leipzig, 1906 GRION G., Guida storica di Cividale e del suo distretto, Cividale, Tipografia Feliciano Strazzolini, 1899 JÁSZAY Magda, Venezia e Ungheria, Martignacco (UD), Edizioni del Labirinto, 1990 KANDLER Pietro, L’Istria 1846 – 1852, Trieste, Edizioni Italo Svevo, 1983 95 LEHMANN Heinz, Lombardische Plastik im Letzten Drittel des XV.Jahrhunderts, Berlin, 1928 LEICHT P.S., La difesa del Friuli nel 1509, Cividale del Friuli, presso la Direzione delle Memorie Storiche Forogiuliesi, 1909 MELI Angelo, Bartolomeo Colleoni nel suo mausoleo, Bergamo, 1966 MELI Angelo, Cappella Colleoni: i tre Santi dell’ancona, in Bergomum n.s. 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Newton&Compton Editori, 2003 di Storia e Ventura, Roma, segreti, Roma, SCUSSA V., Storia cronografica di Trieste, Trieste, Libreria Internazionale Italo Svevo, 1968 SPINO Pietro, Historia della vita e fatti dell’eccellentissimo Capitano di guerra Bartolomeo Colleoni, Venetia 1569 (ristampa Bergamo 1974), Bergamo 1732, Trieste 1859 SPINO Pietro, Studi colleoneschi, Istoria della vita e fatti dell’eccellentissimo capitano di guerra Bartolomeo Colleoni, Bergamo, presso Giovanni Santini, MDCCXXXII TASSI Francesco Maria, Vite de’ pittori, scultori e architetti bergamaschi Bergamo 1793 (edizione critica a cura di Francesco Mazzini, Milano, 1969) TOURNIER C., Il B. Betrando e l’”affaire” di Béranger, in Ce fastu, Udine, Anno IX, 1933 ZANELLA Vanni, Bergamo Città, Bergamo, 1971 96
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