CASSIO MOROSETTI

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CASSIO MOROSETTI
FASCISTA
NELL’ORTO DIETRO CASA
STORIA UMORISTICO-PICARESCA
DA
FIGLIO DELLA “LUPA”,
AI CORRIGENDI,
AI “CAMPI DUX” ROMANI,
ALLA GUERRA MONDIALE,
ALLA PRIGIONIA,
AL “VARIETE”,
ALLA PITTURA MODERNA,
AI NOVE CHILI DI PEPE.
Ristampa tratta dal sito e riveduta dall’autore.
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LONTANO NEL TEMPO
Avevo sette anni nel 1929, quando a Jesi sostò un
vecchietto con una cassetta. Questa celava un
marchingegno per cui, girando una manovella a lato, sul
piano si muovevano una decina di pupazzetti “lavoratori”:
il fabbro martellava, la massaia col mestolo, il falegname segava,
il fornaio, l’arrotino, il muratore e gli altri. Posta in terra la
cassetta, appena il vecchietto girava la manovella,
all’istante i pupazzetti entravano in attività; se riposava la
mano: tutti in pausa. Un incanto per me, ma lo stupore non
ebbe limiti quando il nonno mi svelò l’arcano: erano i
pupazzetti, lavorando con tanta alacrità, a far girare la
manovella e la mano del vecchietto che, sentendosi per
questo ancora vitale - intascava altresì le monetine lasciate
dai passanti ― visse gli ultimi giorni non troppo infelice.
Trascorsi ottant’anni entra in scena un altro vecchio: il
bambino di allora. La cassetta dell’arcano è nella mia
mente, la memoria è il marchingegno che rianima i molti
con i quali camminai, lungo la strada della vita: gli
avanguardisti ai Campi Dux, i compagni del paese, le ragazze
del bordello, i prigionieri di guerra, i pittori, il maggiore
inglese… e cento altri. Sono essi che azionando la
manovella dei ricordi ― vorrebbero rimanere sempre con
me ― attivano le mie dita sui tasti di una vetusta Olivetti. E
come il vecchietto di quell’anno cancellato dal tempo,
sentendomi ancora vitale, vivo questi ultimi giorni non
troppo infelice.
CASSIO MOROSETTI
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Questo libro, pubblicato dalla Editrice FIESTA di Milano, quindi
diffuso ed esaurito in edicola, ha ottenuto un’apprezzabile
attenzione. L’autore comunque, non essendo uomo di penna, fida
nella benevolenza di chi legge: egli ha voluto raccontare la vita a Jesi
negli anni trenta e quaranta, cercando soprattutto di riprendere sia il
modesto linguaggio di un ragazzetto incolto, sia la percezione dei
drammatici avvenimenti nei quali finì catapultato. I fatti narrati sono
autentici, anche se a distanza di settant’anni memoria, sogni e
fantasia tendono a confondersi.
Copertina di Giuseppe Coco. Il quadro è del pittore Piero Maccaferri.
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«La vita non è quella che si è vissuta,
ma quella che si ricorda
e come la si ricorda per raccontarla».
GABRIEL GARCIA MARQUEZ
Il bordello di Jesi, uno scandalo per i paesani timorati,
esercitava in una palazzina appena oltre le antiche mura che
circondano il centro storico. Il portoncino, rischiarato da una
lampaduccia rossastra, si apriva discreto con lo scuro serale.
1937, pomeriggio di domenica 3 gennaio. Una delle quattro ragazze, predisponendosi alla serata, sotto la doccia aprì a
tutto giro il rubinetto dell’acqua calda ma venne spruzzata
da un getto gelido.
Gli impianti erano di una ditta specializzata di Fabriano,
mentre la piccola manutenzione competeva a Paoletti, un
geniale di qui che teneva bottega all’insegna di OTTICO
ELETTRICISTA IDRAULICO, bravo anche tra i fornelli e
unico nella zona a accordare i pianoforti. Io, di nome Egidio,
da un paio di anni dalla fine di babbo, gli facevo da garzone.
Telefona e ritelefona, mi dissero, da Fabriano non rispondevano e Paoletti chissà dove stava a cantarsela con il verdicchio. Cercarono me prima a casa, poi fra i soliti crocchi in
piazza e infine al cinema Famiglia del collegio dei Fratelli
della Misericordia. Fratel Mario, stentando a farsi largo nella cagnara sulle panche ― davano una pellicola di cappelloni
con Tom Mix ― si avvicinò gridando che corressi a casa.
Arrivai ansimando, ma niente di grave: bisognava rime5
diare subito un intoppo a questo indirizzo, mi riferì mamma
ignara del posto. Ma io sapevo bene chi ci stava: spesso con
gli amici la sera tardi andavamo a ridacchiare sulle sagome
che s’intravvedevano dietro le persiane chiuse.
Borsa degli attrezzi in mano mi avviai con l’immaginazione in calore... Le ragazze: discinte, maliose, invitanti?... Nemmeno rispondevo a qualcuno che, incrociandomi,
salutava.
Venne a aprire la signora Greta, la tenutaria, una matrona
sui cinquant’anni. Borbottando sui casini di campagna, mi
prese per un braccio e mi tirò dentro di forza; c’era anche la
cuoca che mi guardava diffidente. Le conoscevo entrambe di
vista: le si vedevano i lunedì mattina per il corso sempre cariche di pacchi e borse. All’interno un’aria di chiuso: tanfetti
di profumi e disinfettanti, ma anche di pesce fritto. Le quattro ragazze nelle camere al piano di sopra.
Scesi in cantina fra gli impianti. Poca luce, roba impolverata, fili elettrici e tubazioni in intrecci disordinati. La caldaia in pressione, ma il tubo per l’acqua calda ai sanitari, al
tocco, freddo. Non ci voleva il talento di Paoletti per capire
che per primi bisognava controllare i contatti col motorino
della pompa. Con una zeppa di legno per evitare la scossa
cominciai a smuovere i fili della centralina e in pochi tentativi si svelò il guasto: forse per il dispetto di un topo, un filo
si era distaccato dal morsetto. Tre giri di cacciavite, e tutto
come nuovo.
Ottenni nove lire, anche perché mi ero trattenuto in cantina più del necessario, fino a quando la signora Greta, spazientita dalla lungaggine, si era affacciata con un «Allora, ci
capisci?», e avevo concettato la riparazione con frasi tipo
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«dispersione magnetica» e «bassa tensione troppo bassa»,
tattiche orecchiate da Paoletti sempre fantasioso nel chiedere
i compensi.
Macché, la signora non sembrava ancora tranquilla: parlottava fra sé, strizzava gli occhi. Adesso il timore che ai carabinieri arrivasse la notiziola di un quindicenne qui dentro:
vaglielo poi a spiegare che si trattava di un intervento idraulico per una «bassa tensione troppo bassa», minimo la sospensione degli affari per settimane.
Con la promessa di altrettante lire dovetti restarmene
chiuso in cucina fino a notte alta per sgattaiolare dopo avere
accertato che per strada non si muovessero ombre. Passai il
tempo mangiucchiando dolcetti e, fra un disco e l’altro di
Natalino Otto e Alberto Rabagliati, ascoltando le vicissitudini della cuoca per le case marchigiane. Ma l’attenzione,
tutta rivolta allo scalpiccìo delle ragazze con i ganzi su e giù
per le scale dal salone alle camere.
In paese nessuno ne venne a conoscenza. La tenutaria e la
cuoca, tombe. Le ragazze, conclusa la quindicina, si erano disperse lontano. Da parte mia, benché pervaso dalla frenesia
di raccontarlo agli amici e chissà con quali aggiunte, mi dovetti imporre il silenzio: mamma, quando vagamente ne accennai, segnandosi occhi al cielo, mi fece giurare che in eterno quella sconcezza elettrica non si introducesse nel pettegolezzo fra le amiche del Circolo cattolico.
Niente altro da raccontare, senonché un piccolo mistero
restava. Da marzo a luglio, al campo sportivo, ogni sabato si
radunavano gli avanguardisti, me compreso, selezionati per
il Campo Dux a Roma. Eseguivamo le solite esercitazioni
ginniche agli ordini del capomanipolo Cristina, professore di
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ginnastica noto come attento a ogni gonnella, il quale un sabato si accostò e, ammiccando, mi sussurrò: «Egidio, te con
le pompe, eh».
E io ci restai come un baccalà.
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«Avanguardista Egidio...»
«A noi!» risposi scattando sull’attenti.
«Vieni su, tonto...»
Scattai dalle file dei tre manipoli svogliatamente allineati sul terreno del campo sportivo e correndo in stile
ginnico, testa alta e pugni all’altezza dei pettorali, mi
portai sotto la tribunetta delle autorità. Montai la scaletta d’un balzo e salutai romanamente battendo i tacchi con uno schiocco che fece traballare le sconnesse
tavole su cui si accalcavano il segretario politico con la
gentile signora, il podestà, il capomanipolo Cristina,
l’anziana camicia nera Corbetta, il professore di liceo
Zenzola e altri.
L’“allorché”, mi ordinò il segretario politico, di grado
centurione della milizia e sul lavoro geometra Abondi
Agostino, con la faccia premuta dall’alto dal pesante
berretto con l’aquila d’oro e dal basso dal collettone
duro dell’orbace.
L’inno alla conclusione di tutte le radunate. Intonai.
Ogni sabato dalle due alle sette pomeridiane, afa
d’agosto o galaverna sui rami, i giovani in età fra i diciotto e i ventuno, fino a quando si partiva per il servizio di leva, avevano l’obbligo della premilitare. Ma in
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virtù delle deroghe al regolamento, previste per eventuali esenzioni per gravi motivi, vi dovevano partecipare pure gli avanguardisti di sedici e diciassette anni,
compreso il sottoscritto, il più giovane della centuria.
Della facoltà discrezionale il segretario politico, capovolgendone l’interpretazione, se ne serviva per due
buoni motivi: togliere la ragazzaglia dalle strade e rafforzare la consistenza dei reparti altrimenti radi data
l’importanza del grado di gerarca.
L’assembramento iniziava in divisa regolamentare
nel cortile del Dopolavoro, poco prima dell’ora stabilita: scarponi lucidati, fasce mollettiere, brache di tela
grigioverde, sahariana sopra la camicia nera e sulla testa il fez. Ho elencato i capi dal basso perché dalle
scarpe principiava l’ispezione che ogni premilitare subiva, prima dell’appello, dal capomanipolo Cristina, il
quale non tollerava né un bottone penzoloni né che
s’intravvedesse un pelo di polpaccio fra una spirale e
l’altra delle mollettiere. Nel caso si faceva sentire oltre
il cortile, fin dentro l’adiacente convento dove le suore
riprendevano cautamente a salmodiare solo quando
capivano che il capomanipolo andava epilogando la
sfuriata.
Dedicata la mezz’oretta ai bomboloni che Gino il
friggitore veniva a smaltire approfittando della ressa e
delle paghette nelle saccocce, i tre manipoli partivano
incolonnati, con passo marziale, agli ordini che il centurione Abondi scandiva a voce alta camminando
all’indietro. Ma solo nel tratto fra le antiche mura del
paese passando volutamente per piazza Federico II
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dove i cortili e le volte dei palazzi nobili, alla cadenza
degli scarponi sul porfido della strada, echeggiavano di
antichi passi come di guerrieri con le alabarde. Imboccata la carraia, con le siepi imbiancate di polvere, l’unò
duè passava al capomanipolo la cui vocetta in falsetto
finiva con lo stancarsi presto, e la centuria raggiungeva
il campo a gruppi disuniti, simile al branco dei seminaristi di Castelbellino quando calava in paese cianciando
felice per la salutare passeggiata.
Al campo sportivo, attrezzato alla bell’e meglio,
svolgevamo i consueti esercizi: ginnastica, percorso di
guerra, manovre di ordine chiuso con e senza i moschetti, quindi il coro con l’inno “Giovinezza”.
Dell’esercitazione in generale, a quanto ammetteva il
centurione nei rapporti ai graduati, non si poteva lamentare, tranne il coro, il punto critico. Forse che la direzione dello stesso non risultasse valida, oppure veramente che il caso avesse riunito una centuria di stonati: uno smacco, insomma, per una terra nella quale si
celebravano sommi come Pergolesi, Spontini, Rossini,
Beniamino Gigli.
Alternative per aggirare l’inciampo? Si disse di sbrigare il coro appena dopo l’appello, quando il segretario
politico da poco lasciato il desco tardava per il sonnellino. Ci fu chi propose di eliminarlo, il coro, tanto
all’ardimento di un soldato non aggiungeva niente. Ma
se poi il federale nelle sue frequenti ispezioni
avesse voluto sentire “Giovinezza”, si rispondeva che
per un qualche maleficio in paese cresceva solo gioventù carente nelle corde vocali?
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A risolvere il problema fu una pensata del professore
Zenzola che rilevò se non fosse il caso, prima del coro,
d’intonare l’ambiente con un “la”. Precisò che al teatro
Pergolesi, durante la stagione delle opere, aveva sentito
il direttore del coro favorire le cantate ― essi, dei professionisti ― emettendo il “la” con una trombettina che
teneva fra le labbra. Ma nessuno dei presenti ammise
di possedere un tale strumentino fra i ciaffi di casa: si
dovette cercare qualcuno capace di emettere la noterella con la voce.
* * *
Pensarono a me per tre buoni motivi: da balilla avevo praticato il tamburo e mi ero distinto come tamburino durante l’annuale tombola in piazza, da avanguardista avevo soffiato in quella tromba a un solo pistone che nel gergo delle fanfare è detta pistoncino e
ultimamente me l’ero cavata accompagnando con la
chitarra il mandolino di Gondo, barbiere e delicato interprete di romanze del Tosti. Quindi, abbastanza imparentato con la musica, ero quantomeno da provare.
Un sabato infatti il capomanipolo entrò in argomento:
«Egidio, dovresti intonare un “la”...»
«Un “la”?» risposi stupito e chiedendomi dove volesse parare.
«Il “la”... o meglio: l’allorché...»
«Non capisco...»
«I preti dopo la funzione danno il via al canto intonando le prime parole “Noooi vogliaaam Dio...” devi
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fare come loro.»
«Come loro?...».
«Qual è l’inizio di “Giovinezza”?»
«Allorché dalla trincea...» canticchiai fra me. «Forse
ho capito, ma io sono stonato» facendo per filare.
«Suonavi il pistoncino, accompagnavi Gondo?» mi
riacchiappò Cristina.
«Sì, però...»
«Ti ordino l’allorché! Finis.»
Guardai i premilitari che se la stavano godendo come
a una farsa di pupi.
Per rullare sul tamburo non serviva l’intonazione; il
maestro mi aveva tolto il pistoncino per il mio orecchio
non adatto all’uso musicale; Gondo, perso
l’accompagnatore richiamato alle armi, aveva raccattato me fidando nell’oroscopo, ma che dovette desistere
per la mia incapacità di passare a tempo dall’accordo di
dominante a quello di settima anche se preavvertito da
una gomitata: con un simile curriculum musicale, in
che modo avrei potuto intonare l’inno senza scatenare
la ganga in attesa?
«Allorché...» uscii con un filino di voce.
Una risata fragorosa: tutti, li conoscevo bene, non aspettavano altro.
«Egidio, più forte» mi ordinò il capomanipolo girando al massimo la manopola dell’amplificatore.
Resistetti alla tentazione di disertare fuggendo per le
balze di Cupramontana.
«Allorché...» intonai a pieni polmoni.
Dalle case attorno al campo, frattanto, si erano affac13
ciati vecchi e donne per vedere che stesse accadendo
quel sabato. Ma il centurione Abondi pose fine alla curiosità dando il via all’inno.
«Allorché dalla trincea, suona l’ora di battaglia...»
Il canto si distese pienamente e tutti, meno i curiosi
che avevano richiuso di botto le imposte, ci guardammo l’un l’altro sorpresi: finalmente un coro dignitoso. II
professore Zenzola aveva intuito giusto. Il riconoscimento “corum populo” gli venne dal centurione quando al refrain «Giovinezza, giovinezza» l’omaggiò con
un sì della testa.
Con questo allorché in poco tempo ci presi confidenza. La mia salita sul palchetto delle autorità avveniva
con disinvoltura, anche se qualche volta l’intonazione,
uscendomi sull’alto, faceva diventare tutti paonazzi
per lo sforzo dell’ugola a reggere fino in fondo: infatti,
essendo l’inno in crescendo, se sbagliavi l’avvio solo i
predisposti agli acuti di soprano riuscivano a concludere, senza strozzarsi, con «Eia, eia alalà.»
Avevo trovato un rimedio. Prima della fiatata rievocavo padre Vito quando la domenica pomeriggio dopo
il rosario intonava il «Mira il tuo popolo, o dolce signora»: il viso del frate, quindi le labbra: due petali che fra
i peli del barbone si schiudevano al canto «Miiiraaa il
tuo popolooo..». Gli copiavo il tono di voce solo che invece di «mira» dicevo «allorché.»
La mia carriera di avanguardista, tuttavia, non procedeva bene. Se l’intonazione mi avvantaggiava, a ostacolarmi c’era un attrezzo ginnico chiamato asse di
equilibrio: una stanga di legno dello spessore di cinque
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centimetri, lunga una quindicina di metri, sospesa su
tre cavalletti a mezzo metro da terra. L’esercizio consisteva nel camminare sulla stanga fino in fondo e qui rigirarsi per ripercorrerla in senso inverso. Niente di più
facile.
Ma camminare su quel maledetto attrezzo, impossibile. La ragione la scopersi anni dopo durante una visita medica in un concorso per uscieri. Sono affetto da
ipersensibilità labirintica che mi scompensa i canali
semicircolari dell’orecchio organi dell’equilibrio (il maestro della banda l’aveva detto che dato il mio orecchio
era meglio piantarla col pistoncino). Comunque un
guaio con il quale, più ancora del mal di mare o delle
vertigini di montagna, si nasce e si muore. Anche oggi
camminando sul cordolo di un marciapiede, se non ci
bado, bene o male si naviga ma se rifletto, giù le vele,
devo gettare l’ancora dove e su chi capita.
In quel clima guerresco chi mai avrebbe potuto immaginare una tale carenza. Tutti credevano che dipendesse da insufficiente allenamento pertanto, dal segretario politico al podestà, a Zenzola, chiunque avesse un
grado mi ordinava l’esercizio, finché finiva fra risate e
commenti «pare matto» e «povera madre se lo vedesse.»
L’incidente accadde a Roma al mio secondo Campo
Dux. Tuttavia prima di parlarne, per comprendere gli
avvenimenti, era necessario introdurre il precedente
Campo, il primo: del perché mi persuasi a questi riti
ginnici estivi che annualmente si svolgevano nella capitale.
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Mio padre, cuoco strafino e padrone di trattoria, cucinava piatti che richiamavano clienti anche da fuori
paese. Firmando cambiali su cambiali aveva deciso di
promuovere il locale a grande ristorante, invece finì
protestato. Sicuramente per effetto della crisi economica che aveva gravato sul mondo qualche anno prima,
la famosa “crisi del ’29” che provocò uno sconquasso
monetario: questa fu la spiegazione del cassiere della
banca a mia madre.
In quel tempo io frequentavo senza troppa voglia la
seconda dell’istituto inferiore, ma quando la mia famiglia fu ridotta all’indigenza dovetti abbandonare la
scuola ― anche se ne fui felice ― per cercare un mestiere. Da studentello a garzone di bottega, un cambio di
condizione sociale toccato allora chissà a quanti. A me
andò peggio: vissi un intermezzo di quasi nove mesi
che, descritto con tono partecipe, sortivano pagine da
libro “Cuore”.
Appena compresa la situazione fallimentare babbo
era partito per Roma alla ricerca di aiuto da certi amici
coi quali da giovane fu emigrante a New York, ma il
poveretto in breve tempo pare si ammalasse. Cercammo notizie, non ne sapemmo più niente.
Intanto al paese noi patimmo per i carri che se ne andavano, sotto l’occhio dell’ufficiale giudiziario, stracarichi di tutto il sequestrabile da casa e dal ristorante.
Estromessi anche dall’appartamento in piazza Grande,
il comune perlomeno si adoperò perché ci fosse dato
uno stanzone in un vecchio granaio.
Della situazione io mi vergognavo con gli amici e col
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vicinato: passavo le giornate al fiume, mangiando quel
che potevo cogliere nei campi, qualche volta facendomi
rincorrere dai mezzadri. La sera tardi prima di ritirarmi
ispezionavo lo scalo ferroviario: sui carri merci era facile procurarsi ortaggi fra quelli in spedizione, lo jesinate
ne era un ricco produttore.
Ma una notte, vedendo il convoglio muoversi, ebbi
un irresistibile scatto di fantasia: partire per un luogo
impensabile. Montai sul carro più vicino e mi nascosi
nella garitta del frenatore affaccendato in fondo al treno. Tralasciando quel che mi capitò durante il
lungo viaggio, all’arrivo rimasi sbalordito leggendo
MILANO sul frontone della cabina di manovra della
stazione. Ero nella metropoli smisurata, stordito, senza
sapere che fare, sperso.
Mi ricordai che forse in città poteva ancora vivere
una lontana parente della quale i miei qualche volta
avevano parlato sottovoce. Come trovarla, impossibile,
ma ne ricordavo il nome, il casato era quello di mia
madre. Fui aiutato da un vigile che in strada aveva notato il mio smarrimento.
* * *
La parente si disse contenta di conoscermi. Le riassunsi l’accaduto, ma si dispiacque di non potermi ospitare ― aveva dei traffici col convivente ― e mi suggerì
un indirizzo: quello del “Pane Quotidiano”. Ci andai,
ma era un posto per barboni e gente poco raccomandabile: i benefattori che lo gestivano mi consigliarono i
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francescani di viale Piave. Questi mi adottarono con
benevolenza: buona tavola, bagni caldi, sala di lettura
col grammofono e un confortevole pagliericcio di foglie
su una brandina.
Per mettere qualche soldo in tasca, mi trovarono
perfino un lavoretto presso il laboratorio ortopedico
del cavalier Beretta.
Il primo giorno, subito avvertirono che per la mia
incombenza dovevo scendere in cantina. Intanto, prendessi dimestichezza con scope, stracci e detersivi. Mi
detti da fare al pianterreno, un saloncino dove si esponeva il campionario: protesi, stampelle, una sedia con
un buco, carrozzine e supporti vari.
In evidenza anche uno scheletro umano, pareva
autentico, messo all’impiedi per reclamizzare certe fasce elastiche che mostrava all’altezza del bacino. Spaventevole, ma per attenuarne l’effetto, tenuto conto dei
bambini, gli avevano calzato sul cranio un berrettuccio
colorato da corridore ciclista.
L’estromesso dal loculo, la severità del titolare, il
lavoro disagevole: cominciai a dubitare sul proseguimento dell’incarico quale mi avevano pronosticato i
frati. A rafforzare il disagio, trascorse un paio di settimane, una vicenda che neanche nell’immaginazione di
un pazzo.
Ero appena sceso in cantina quando, perentoria,
una voce mi ordinò di salire subito di sopra, al piano
dove operava il laboratorio. Qui il cavalier Beretta, tolti
giacca e gilè, con l’assistenza di un tecnico, stava versando nell’apposita catinella contenente i soliti acqua e
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gesso, anche una polvere giallastra prelevata da un
sacchetto recapitato recentemente.
Ottenuta la voluta densità della mescola, il tecnico
si rivolse a me: “… dovresti darci una mano… pochi
minuti… intanto levati il grembiule…” e dopo
avermi aiutato a sfilarlo dalla manica sinistra della camicia, prese a arrotolare il braccio con le lunghe garze
già immerse nella catinella.
Nessuna spiegazione, poche parole: “Girati un
po’… fermo così… non sbuffare… “. Colto di sorpresa,
non riuscivo a aprire bocca. Guardavo il cavaliere sperando in un suo intervento, ma lui attento solo a che le
garze gessate risultassero ben aderenti onde ottenerne
più strati.
Terminata l’opera, il cavaliere si mostrò soddisfatto; io un babbaleo dalle sembianze del fratturato al
braccio in più punti. Avrei voluto protestare, che mi dicessero il perché del trattamento, ma essi, nella normalità del mestiere, se la dicevano in stretta parlata ortopedica: “coefficiente di umidità, limite di sofferenza,
robustezza specifica…”.
«La polvere gialla è un additivo svizzero che migliora il gesso delle protesi», disse finalmente il cavaliere rivolgendosi a me: «La stiamo provando per controllare resa e convenienza: soddisfatto?», avvicinando
uno sgabello: «Siedi tranquillo per un quarto d’ora e fino a giovedì ― era lunedì ― non agitarti troppo».
Quindi il tecnico mi sistemò il braccio al petto con una
tracolla e mi mandarono a casa, cioè all’ospizio.
Varcato il portone, fratel Baldo ― Frabaldo per gli
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ospiti anziani ― in guardiola concentrato sulla Gazzetta, alzò la testa. Per un attimo restò fisso col mozzicone
di sigaro pendente dal labbro, e con voce alterata: «O
dioddio, che t’è successo? ... Santissimi Francesco e
Chiara!», poi gridando verso l’androne: «Padre Alessio,
subito!... Padre Alessiooo!... ».
Padre Alessio, priore del convento, prefigurata una
catastrofe, piombò come un grosso sacco caduto dal piano superiore. Portando le mani alla fronte, mi guardò
esterrefatto: “Perché non c’hai chiamato?... Ti hanno
menato, eh?... Su, parla! O santissimi Chiara e Francesco”. Questi due santi, più presenti qua che in Cielo.
Farfugliai confusamente qualche parola, giusto per
smorzare la tensione: “Niente, niente… fasciatura di
prova… gesso svizzero…”, ma non ci fu verso di fargli
intendere l’accaduto. Respingevano ogni spiegazione,
tanto che Frabaldo, alle spicce, mi dette pure una pacca
sull’ingessatura: “Ti fa tanto male, vero?”.
Nella guardiola scoppi d’improperi telefonici: da
questa parte del filo fratel Alessio a offendere ogni genìa di ortopedici, svizzeri compresi; dall’altra parte, il
cavalier Beretta a chiedere perché diavolo volessero intromettersi i francescani, di solito mansueti, ma al momento così sgraziati dall’ira.
Nei tre giorni in cui non dovevo agitarmi troppo,
io credevo di restare tranquillo in ospizio, invece due
volte al giorno una puntata al laboratorio per i normali
controlli.
Andando, con questo braccio apparentemente
traumatizzato, io mi vergognavo come fossi un fara20
butto in manette, ma la gente tutta un sorriso, e diversi
lasciandomi il passo, facevano gli auguri. Sul tram, mi
cedevano il posto anche i vecchi col bastone.
Sorpreso, di più, lusingato da tante attenzioni, il
ruolo finì per solleticarmi, e prendendoci gusto un po’
ci marciavo, come si dice nel gergo popolaresco ― non
avevo una grande opinione di me ― atteggiando il viso
in una contenuta sofferenza.
Il giovedì, come previsto, mi restituirono il braccio
tale e quale glielo avevo prestato, anche se arrossato e
indolenzito. Il cavaliere, battendo le nocche sulla crosta
del gesso ben essiccato, disse al tecnico che l’additivo si
poteva utilizzare già da subito, ma al sottoscritto, protagonista della vicenda, nemmeno un grazie.
Invece fu il contabile, messo al corrente, che oltre a
un cinque lire d’argento, mi congedò con parole gentili:
“Te set un bravo fieu, e doman te reprendet el to laurà
in cantina”.
Comunque, per concludere, Frabaldo e frate Alessio – stava per uscirmi Fralessio – non è che avessero
digerito il boccone. Più di una volta avvenne, tirato da
parte, che mi chiedessero di ripetere la storia “da capo
e senza omettere il minimo dettaglio”: a loro due non
andava giù che un braccio sano, sanissimo, fosse stato
ingessato a quel modo senza un motivo traumatico, ma
solo per le modalità innovative con la polvere gialla del
sacchetto.
In cantina, attraverso la grata su strada, ogni due
mesi veniva scaricata una camionata di carbon fossile.
Il mio lavoro, tralasciando qualche incarico ai piani su21
periori, consisteva nel frantumare con una mazzuola i
grossi pezzi per ridurli a misura dei fornelletti dove nel
laboratorio si lavoravano metalli leggeri, celluloide,
gomme e mastici. Per la verità, considerando l’incarico
ripetitivo e umiliante, nel merito avrei sorvolato, però
incidentalmente fu proprio a causa di questo carbon
fossile che la mia collaborazione con l’ortopedica si
concludesse in quattro e quattr’otto.
L’estate ormai alla svolta. Settembre, ottobre: sul
finire di novembre. Il cielo d’un grigio pesto, umidità,
nebbia: fu un pomeriggio particolarmente freddo, con
tutto quel carbon fossile sottomano, che mi autorizzai a
sottrarne un poco per un fuocherello sull’impiantito.
Poteva mancare? Poteva mancare il tipico passante
che si compiace di camminare sulle grate? Il fesso, inoltre, avvertendo un fumacchio salirgli caldo fra le gambe, invece di chinarsi per appurare il caso, rischiò di
sgolarsi gridando come un ossesso: “Aiuto! Al fuoco, al
fuocoooo!”.
La strada si rianimò: un accorrere di vigili, poliziotti, coraggiosi con l’estintore, negozianti, professori
e studenti – la ditta Beretta apriva i battenti a duecento
passi dall’Università Statale. Alla fin fine, un’esagerazione, visto il poco carbon fossile acceso per prevenire
un raffreddore.
Il giorno seguente sorvegliato da un tipo severo in
borghese, dopo un viaggio prima in treno poi in corriera, ero già fra i muri di un collegio a Gargagnano, un
paesetto a una trentina di chilometri da Verona.
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* * *
Il sito, incantevole: in collina con vista sul lago di
Garda, circondato da vigne e pescheti. Tuttavia, a naso,
un collegio sconsigliabile a giovinetti di buona famiglia. Il direttore, vestito da prete ― e di sicuro lo era ―
burbanzoso e faccia arcigna, si poteva pensare che stesse nella discendenza di un qualche avventuriero che
secoli fa navigava sui velieri della filibusta: non per caso nel suo ufficio, nella mensa e nelle camerate figuravano pure stampe di pirati in battaglia. Dopo di lui venivano i “maestri”, dovevamo chiamarli così, tipi forse
reclutati fra gli aspiranti poliziotti bocciati ai concorsi.
Ma nel concreto il potere sul terreno stava nelle mani
dei collegiali più anziani, maturandi per la libertà condizionata. Appena messo piede in cortile, prontamente
mi fecero capire a chi dovevo rispetto con il rito della
“mezza sacca”. Una mezza sacca di cemento in polvere
che mi scaricarono addosso mentre me ne stavo accovacciato dentro una latrina a cielo aperto. Un marchio
per la vita, e ci vollero mesi per liberarmi dal gesto di
spolverarmi i capelli.
Pasti abbondanti a base di fettone di polenta che ognuno si tagliava nella quantità voluta: con il latte la
mattina, col baccalà a pranzo, con un tocco di caciocavallo a merenda e col minestrone a cena. Comunque se
restava ancora voglia, il polentone era disponibile
giorno e notte. Eravamo tutti ben in carne.
Si passava il tempo in parte nelle aule interne dove,
più che agli insegnanti, si stava attenti a parare le piacevolezze dagli anziani, in parte a zonzo per i cortili, in
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gruppi affini a ordire evasioni, trappole, vendette.
Ci resistetti quattro mesi. Una domenica pomeriggio
durante l’uscita festiva, pur essendo sempre sorvegliati
dai maestri, tentai la fuga. Mi precipitai giù dalla collina fino a Pescantina e da lì sul trenino a scartamento
ridotto a Verona da dove, ormai pratico di treni merci,
in un giorno e mezzo ero di nuovo a Jesi.
Qui ci fu uno scontro fra i carabinieri che volevano
riportarmi a Gargagnano e mia madre spalleggiata dalle amiche del Circolo cattolico, dalle suore
dell’orfanotrofio ― nel frattempo vi era finita mia sorella minore ― dalla combattiva perpetua seguita dal parroco, dal campanaro e pure da un frate questuante arruolato al momento. Com’era logico vinse la coalizione...
* * *
Dicevamo: garzone. Fui messo al seguito del già conosciuto Paoletti, elettricista eccetera, che apriva bottega non lontano dalla nostra umile dimora. Ma non ressi
a lungo. Passata la novità e misurata la fatica di dover
girare per il paese con una scala a libretto sulle spalle,
l’anno seguente ripresi in mano libri e quaderni. Puntando all’esame di licenza inferiore saltando terza e
quarta, mi ero messo a studiare giorno e notte, tanto
che nonno si inquietava con mia madre perché mi portasse dal medico a farmi controllare la testa coi raggi X.
Avevo una memoria come quella dei vecchi contadini per ricordare lontane parentele e la prova mi andò
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più che bene. Fui rimandato in disegno e in italiano,
materie per le quali la memoria non bastava. Mia madre, sorpresa dal risultato, si domandò se fosse il caso
di rischiare l’esame di riparazione senza cautelarci. Dibattè il problema con le amiche del Circolo e dietro
suggerimento del parroco andò a confidarsi con il professore Zenzola, esimio latinista, a detta del prete. Il
professore rispose con buone parole, la rassicurò per la
licenza: che mi facessi vedere al campo sportivo dove
lui, approfittando delle vacanze, organizzava un gruppo culturale e ginnico. Insomma, che anch’io frequentassi come altri ragazzi del paese. Ecco perché, alla fine
di luglio, ero al mio primo Campo Dux a Roma a fare
la ginnastica ritmica davanti ai massimi gerarchi.
L’esame di riparazione, otto in disegno e sette in italiano: averlo saputo in tempo, sarei rimasto tranquillo a
casa.
Per il disegno, come mi aveva consigliato lo Zenzola,
avevo riprodotto il distintivo dello stesso campeggio:
un gladio romano fra due fasci littori, soggetto che
piacque all’intera commissione. Per l’italiano mi dissero addirittura che possedevo una vocazione a raccontare storie. Infatti, il giorno prima dell’esame, ancora lo
Zenzola mi accennò il tema, uno dei tre: “Opere del regime”, “Descrivete il Po”, “Un episodio storico che particolarmente ricordi”. E io me li ero preparati tutti, con
giudizio. Per il primo, rinfrescandomi sulle paludi pontine e ridando un’occhiata al passaggio a livello di via
Chiaravalle recentemente messo a manovella per intercessione del federale. Per il secondo, seguendo e rise25
guendo sull’atlante le giravolte del Po dal Monviso al
Delta Padano. Per il terzo, prendendo a prestito dal libro, l’episodio di Pier Capponi e le sue campane. Ma
toccò al secondo, al tema sul Po, l’onore dell’aula e io lo
sviluppai in maniera poetica immaginando una piccola
lavandaia che, sciacquando i panni sotto un ponte di
Pavia, parlava con il grande fiume e questo, lambendole i piedi, le sussurrava dove fosse nato e quali montagne, pianure, foreste, città fossero le quinte del suo maestoso incedere. Però ripensandoci: a Pavia ci scorre il
Ticino. Una svista.
* * *
L’incidente accadde al mio secondo Campo durante
le prove e gli allenamenti che ciascun gruppo di ogni
provincia eseguiva nello spiazzo del proprio attendamento. Naturalmente, a causa di quel malefico attrezzo
che sappiamo, l’asse di equilibrio.
Quella mattina eravamo concentrati in una esercitazione di ordine chiuso. Io, reduce dal primo Campo,
conducevo la squadretta di compaesani. La facevo avanzare, indietreggiare, voltare a destra e sinistra con
una certa prontezza avendo intuito l’efficacia di un ordine prima accennato con calma, per concluderlo secco.
Infatti, se un caposquadra ordina «Squadra, alt!» ottiene di fermare il reparto, ci mancherebbe altro, ma il
fermo avviene blandamente, senza lo smalto della fulmineità. lo agivo in questo modo: mentre la squadra
marciava dicevo «Squadraaaaa...» pacato, quasi distrat26
to facendo seguire una pausa. I marciatori non potendo
intuire quando avrei dato l’alt, lo attendevano ansiosi.
E infatti, all’improvviso, la mazzolata: «Alt!». Il capomanipolo Cristina mi rimproverava chiedendomi se
avevo un motivo per far innervosire la squadra. Ma secondo me era il miglior sistema per ottenere un esaltante effetto militare.
Stavamo, appunto, facendo queste manovre di ordine chiuso e non avvertimmo la presenza di sua eccellenza il Segretario Nazionale del Partito in giro di ispezione nell’accampamento. In genere, quando veniva
qualcuno a ispezionare, avvertivano per preparare gli
esercizi e le risposte alle domande che l’autorità ci avrebbe rivolto. Quella mattina invece il Segretario, arrivato di sorpresa, era rimasto soddisfatto ugualmente
per quello che aveva già visto. Espresse degli elogi e interrogò affabile qualcuno di noi: «Tu da dove vieni...
Come ti chiami... Sai dirmi in quante parti si divide il
meccanismo di caricamento e sparo del moschetto?...
Bene, bene... E tu che comandavi la squadra» disse rivolto a me, scavalcando la stanga dell’asse di equilibrio
sul bordo dello spiazzo «Bravo, ti ho visto energico...
Fammi un po’ vedere su quest’asse...»
Guardai il capomanipolo Cristina: incadaverito.
Montai sull’asse di equilibrio.
«Ma che fai?» disse subito sua eccellenza: l’esercizio
si era concluso in pochi secondi.
«Eccellenza» balbettò Cristina che in quel momento,
invece che a Roma sotto la burocrazia di San Pietro, avrebbe voluto stare a Loreto dov’era notoriamente faci27
le ottenere una repentina grazia: di non doversi giustificare col Segretario Nazionale.
«Da dove provenite?» volle sapere.
«Provincia di Ancona» esalò Cristina.
«Impreparatissimi: lo riferirò al vostro federale!» e alla corte che gli stava attorno: «Pazzesco, se dopodomani al saggio esibiamo pure la comica della marionetta
ubriaca, la delegazione tedesca rimette in discussione il
patto d’acciaio» e passò sfuriando allo spazio dei maceratesi.
Cristina: una statua di marmo, fisso su me alla ricerca di una frase annientatrice.
«Egidio» sfogò salendo dallo smorto al colore del rubino, «Te lo puoi scordare il tubercolosario!»
«Il sanatorio... Ci sono venuto apposta a quest’altro
Campo Dux!»
«Finis» urlò devastato dalla rabbia, venendomi sul
muso coi pugni «E fila alle cucine!»
Il mio secondo Campo Dux lo terminai a rimescolare
il minestrone e indolcire la marmitta del caffè con lo
zucchero e, su indicazione del capocuoco, pure con
manciate di sale.
* * *
Tornati a casa, il centurione se avesse potuto mi avrebbe cancellato dai registri anagrafici del comune. Al
pensiero che nella capitale sua eccellenza aveva assistito alla mia perversione sull’asse, pareva aver perso la
trebisonda. Imprecando per la propria dabbenaggine,
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me lo disse l’anziana camicia nera Corbetta, rivelò che
era addolorato ― gridò così forte da farne partecipi le
solite suore del vicino convento ― per l’imprevidenza
di non avermi appuntato sulla manica, l’anno scorso,
nemmeno il grado di avanguardista scelto, perché per
il sabato a venire, perdio, avrebbe disposto la degradazione solenne.
I primi giorni mi tenni alla larga dal giro del centurione. Scantonavo dalla Casa del Fascio, dalla fornace
“Mattonelle Abondi” dove lui prestava la sua opera di
principale e dal campo sportivo. Qui era facile incontrarlo: tutti i giorni ci andava a fare le corsette per riportare la pancia a misura dei pantaloni.
Io, comunque, mi concedevo l’attenuante che la colpa andava al caso se quello sfortunato giorno ero stato
chiamato a quella prova. In fondo un avanguardista
poteva risultare un buon elemento anche se per nascita
risultava mancante in equilibrio.
Mia madre mi esortava a non crucciarmi troppo, tanto di equilibrio non era che gli altri ne avessero esageratamente più di me. E così decisi di presentarmi alla
radunata come se la disavventura romana fosse già in
archivio.
Arrivai che si stava facendo l’appello. Il capomanipolo, sul taccuino a spulciare le presenze, nemmeno mi
notò e anche il centurione Abondi non andò oltre una
tentennata di testa. Il tempo, una ventina di giorni, aveva mitigato la delusione romana.
Adesso toccava a me, per riguadagnare la fiducia,
dimostrare dedizione al dovere. Per questo, oltre il sa29
bato pomeriggio, cominciai a frequentare la domenica
mattina e se c’era necessità, tutte le volte in cui Paoletti
l’elettricista, con il quale avevo ripreso il vagabondaggio per il paese e le case coloniche, mi esentava dal tenergli ferma la scala a libretto.
Cercavo di rendermi utile in ogni modo: spolverando
i mobili, riordinando l’armeria, aiutando la squadretta
che andava con la vernice nera a scrivere sui muri di
qualche cascina in collina “È L’ARATRO CHE
TRACCIA IL SOLCO MA È LA SPADA CHE LO
DIFENDE”. Frase che spesso provocava l’ironia dei
mezzadri coi gesti sconci delle loro donne ― vai a capire le donne ― scatenate da quella affermazione tanto
agricola quanto patriottica. Incombenza, tuttavia, presto interrotta per colpa del milite Corbetta, responsabile delle puntate, che una volta, avendo scambiato i cartoni traforati delle parole SPADA e ARATRO, ne uscì
“È LA SPADA CHE TRACCIA IL SOLCO MA È
L’ARATRO CHE LO DIFENDE”.
Lo scandalo fu che per oltre quattro mesi non se ne
accorsero nemmeno i rurali: la frase era talmente declamatoria che funzionava comunque. Se ne avvide un
geometra durante una scampagnata con la famiglia.
Alla Casa del Fascio, bufera. Sfortunato il povero Corbetta al quale nemmeno valse l’attenuante della professione, quando non trafficava per la Milizia, di esperto
in mosti, vinacce e grappe. E così l’incarico passò a degli specialisti in scritte sui muri formati alla scuola centrale del Partito.
Soprattutto mi premuravo, tornando in argomento,
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di esternare ossequio alla signora Abondi, la quale più
di moglie del segretario politico teneva all’importante
carica di fiduciaria, sempre indaffarata a preparare
conferenze pro questo e pro quello. La tiravo dalla mia
offrendole anche servizi domestici, oltre che politici,
come nettare la conigliera e strappare l’erba matta
nell’orto che tenevano dietro casa.
* * *
L’inverno e la primavera passarono malinconici. Nonostante il mio sfaccendare forse c’era ancora prevenzione. Mi venne il timore che non avrei potuto più far
parte della spedizione per il prossimo Campo Dux, il
terzo. E mia madre sconfortata: «Povero figlio», lamentava con le amiche, «con tutto quello che ci ha fatto per
il fascio non me lo mandano più nemmeno al sanatorio.»
Senonché la seconda domenica di maggio, quando
ormai i preparativi per il precampo regionale erano avanzati, mentre me ne venivo soletto lungo la provinciale, ecco sopraggiungere a gran velocità, sfiorarmi e
filare via sollevando un polverone, la Lambda del centurione Abondi. Doveva essergli accaduto qualche fatto
per correre in quel modo e a quell’ora solitamente dedicata alla riposatina. Mi affrettai verso la sede.
Una concitazione inconsueta per il giorno festivo.
Nell’ufficio del comando c’erano tutti. Mi avvicinai alla
scrivania e mi resi conto della novità: era arrivato il mitragliatore Breda 30. Lo aveva portato, sigillato in uno
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scatolone, lo stesso centurione dalla federazione di Ancona.
Questa volta per il Campo, oltre le consuete esercitazioni, dicevano si dovesse addestrare qualcuno per lo
smontaggio e rimontaggio di una moderna arma automatica e si aggiungeva, ma il dettaglio pareva uno
scherzo essendo ritenuto impossibile, che la prova fosse da eseguirsi a occhi bendati. Il mitragliatore, nuovo
di fabbrica e lucido di olio, stava appoggiato sulla scrivania e con quella forcella divaricata sembrava un
grosso grillo pronto a saltare dalla finestra per perdersi
fra i papaveri e il grano ormai imbiondito del vicino
mezzadro.
Il professore Zenzola, esimio latinista e Marcia su
Roma via Foligno Terni, infilati i pesanti occhiali si avvicinò all’arma per fiutarne il funzionamento e con
l’indice tastò il grilletto. Ma il centurione che vigilava
geloso ― l’esimio si prese una pacca sul dorso della
mano ― disse: «Non toccare, guai se si rompesse. Mi
hanno fatto firmare un rotolo di ricevute.»
«Ma è un’arma bellica, di così ne ho usate molte»
tentò di minimizzare il milite in pensione Corbetta il
quale, essendo reduce da tutte le guerre passate e senza
dubbi da quelle future, era un intenditore.
«Bellica o non bellica, me ne frego!» tagliò corto il
centurione Abondi. Quindi abbrancò l’arma e la serrò
nell’armadio cassaforte a triplice mandata.
* * *
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Nei giorni seguenti la scelta di chi fra gli avanguardisti risultasse capace per lo smontaggio e rimontaggio
del mitragliatore, forse a occhi bendati, divenne assillante. Ci voleva un elemento sveglio e predisposto alla
meccanica e furono esaminate alcune candidature. Il
più indicato sembrava la camicia nera Civerchia, un elemento sempre disponibile all’entusiasmo: essendo
meccanico di vaglia, aveva pratica di congegni di vario
tipo. In fondo si trattava di mettere le mani su un meccanismo, sia pure arma bellica, e chi meglio di lui. Meccanico, ma pure squillante cornettatore, richiesto dalle
fanfare e dalle bande di mezze Marche.
I problemi però erano due: primo, che Civerchia, essendo presbite, i meccanismi e i motori li smontava a
occhi ben aperti. Secondo, ormai sulla ventina, era difficile farlo passare per un avanguardista. Vero che
suonava la cornetta nella banda del collegio dei Fratelli
della Misericordia, ma si controbilanciava suonandola
pure nella banda “La Prora” dei marittimi di Ancona.
A inserirlo nelle bande, ci erano costretti: dove li trovavi tutti quei bravi suonatori che avessero meno di diciotto anni oppure, nel caso dei pensionati marittimi,
più di quaranta? Inoltre in mezzo al gruppo dei collegiali e dei pensionati facile mimetizzarlo, mentre con il
mitragliatore avrebbe dovuto esibirsi da solo. Se poi si
fossero accorti quant’era anziano si immaginava lo
scandalo.
Anche la candidatura di Tittarelli, il cui nome era stato proposto dal cavalier Pieralisi, fascista di pura fede
ma con la nomea di becco e per questo tenuto in poco
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conto, fu messa in discussione. Tittarelli coltivava il
passatempo degli orologi a cucù. Aiutato da certi manuali Hoepli, costruiva cucù di ogni tipo e dimensione:
di legno, alluminio, ottone e pure un esemplare
d’argento, formato mignon, per il matrimonio di una
figlia del conte Baleani Tesei.
L’anno prima ne aveva parlato, a proposito di cucù,
anche il quotidiano di Ancona “La voce adriatica” perché, in occasione della mostra del Bozzolo e della Seta,
lavorandoci non si sa quanti mesi, ne aveva inventato
uno più grosso dei soliti. Un cucù dalla cui casetta tirolese sopra il quadrante, quando l’ora spaccava, invece
del solito uccelletto, usciva un bambolotto in giacchetta
e stivali che faceva “cucù, cucù” e contemporaneamente alzava alternativamente le gambe con un certo passo...
Discussioni e polemiche: qualcuno addirittura malignava che il bambolotto con quel passo assieme al verso, ripetuto ben dodici volte a mezzogiorno e mezzanotte, fosse una presa in giro per saputi... in circolazione. Intanto la popolazione dentro la mostra seticola,
invece di osservare i bozzoli e i filugelli, aspettava le
mezz’ore in attesa del bambolotto e si pasceva in discussioni e risatelle.
Tuttavia quel cucù turbò la mostra solo un paio di
giorni. La mattina del terzo fu trovato a pezzi. «Colpa
di gente invidiosa di fuori», si disse, talché il brigadiere
dei carabinieri passò la pratica al comando provinciale
e non se ne seppe più nulla. A Tittarelli, che aveva reclamato per il danno, fu risposto di smetterla di fiottare
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e che piuttosto si dedicasse ai cucù con l’uccelletto
«come tutti i cucù di questo mondo, chiaro?»
Comunque, dimostrava quanto Tittarelli mostrasse
padronanza per i meccanismi, inoltre con l’età giusta e
frequentava, anche se non assiduamente, il campo
sportivo. Un candidato possibile, ma era figlio di uno
che al passaggio del labaro, durante i cortei, invece di
salutare come prescritto, se ne restava immobile a
commentarsela fra sé. Il centurione Abondi, durante la
bicchierata augurale dopo la cerimonia, anche in presenza delle signore, ripeteva «darei la “Mattonelle &
C.” per sapere che cazzaccio pensa quel disfattista
quando gli sfila il labaro sotto le froge». Com’era possibile, quindi, mandare al Campo Dux il figlio di un
soggetto infamato, che frequentava di malavoglia la
premilitare e costruito il cucù che sappiamo? E il cui
padre piuttosto che saperlo a smontare e rimontare un
mitragliatore littorio, con l’aggravante degli occhi bendati, sarebbe stato capace sul serio di rompergli l’osso
del collo, come aveva confidato ai compari in vino?
Tittarelli padre, uno col carattere del mulo. Ogni 28
ottobre, per dirne un’altra, spariva dal paese e il figlio
che mi era amico dal lunedì al venerdì, quando non mi
vedeva in divisa ma col palandrano da elettricista, una
volta mi rivelò che per tutto il giorno restava nel folto
delle fratte lungo il fiume, dal momento che lo disturbava la tombola in piazza “pro colonie marine” e il timore che qualche sfegatato in camicia nera lo invitasse
a festeggiare esibendo una bottiglietta d’olio di ricino.
Comunque, nei restanti giorni dell’anno, se non con35
tiamo qualche frase ironica nei riguardi della falce e del
martello, lo lasciavano fondere tranquillo. Di mestiere
difatti faceva il fonditore e nel crogiolo che aveva in un
antro ci fondeva ogni pezzo di metallo che gli capitasse
fra le mani. La notte che fu visto con un fiasco di vino
per dare vivacità a una sua ricorrenza personale ― fu il
primo maggio di due anni prima ― avrebbe fuso perfino la formella di bronzo col profilo del Duce e la scritta
“XV Era Fascista” posta sul portone del Dopolavoro
per ricordare la fondazione dell’impero. Per fortuna dei
posteri, se ne accorse la ronda dei carabinieri scorgendo un fumo sospetto uscire dall’antro alle due dopo
mezzanotte: appena in tempo, quando già stava attizzando il carbone nel fornello. Lo tennero in gattabuia
un paio di mesi, si salvò perché gli riconobbero il vizio
del fondere.
* * *
Fra gli altri papabili discussi al Comando, una falcidie: Gregori, un bassetto, avrebbe sfigurato il paese;
Fazi, ticcoso, anche sull’attenti tirava su col naso; Lancioni, sarto e disfattista, salutava con “Occhio, non si sa
come finisce”; Gagliardi, sprizzante intelligenza ― a
giudizio dello Zenzola ― ma non da tutti i pori; Bardi,
sciccheria e profumi, poco virile; Zocchi, madre turca,
non tifava per il calcio jesino; Bocci, troppo Circolo e
curia vescovile; e poi Scuffia, Merlo, Longhi e tutti gli
altri, alle corte, per un motivo o per un altro.
Il tempo si era messo a correre. La pendola del co36
mando già segnava le ore del giorno dopo, diceva il
centurione scervellandosi alla ricerca di una soluzione.
Inevitabile che io cominciassi a lavorare di fantasia e
con la scusa delle pulizie già un paio di volte avevo levato l’arma di nascosto. A osservarla in superficie non
dava l’impressione di un congegno difficile da smontare e rimontare. Affidata a nonno, cuoco in pensione ma
sempre in battuta come cacciatore, l’avrebbe trattata
con la stessa maestria con la quale acconciava le porchette autunnali quand’era vivo babbo. Una smisurata
presunzione credere che idoneo al mitragliatore potesse risultare il qui presente? Il mio nome non era stato
proposto, d’accordo, ma perché a nessuno era venuto
in mente.
Decisi di candidarmi. Poteva essere la carta per il sanatorio. Dovevo giocarla bene e per questo mandai a
mente i nomi dei pezzi che avevo ricopiato dal libretto
di manutenzione allegato all’arma. E quando ritenni di
aver padroneggiato la parte teorica gettai sul tappeto la
briscola. Fu un venerdì pomeriggio, quando l’ultimo
raggiare del sole avverte le quaglie fra le stoppie a cercarsi un buco per la notte. Il centurione, chino sulla
scrivania, sembrava distratto dalle pratiche che andava
scartabellando.
«Permettete, comandante...» dissi, passando uno
straccio sull’armadio a fingere una certa casualità.
«Che c’è, Egidio...»
«Volevo dire...»
«Allora...»
«Il mitragliatore...»
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«Che?» fece lui rizzando la testa simile alla lucertola
sul muretto appena avverte l’ombra.
«Perché non un tentativo con me?...»
Come punto da un moscone, il centurione si dette
una manata sulla fronte da far saltare il berretto da gerarca, sembrava la grossa aquila d’oro ad aver svolazzato, e sbottò con una tale risata da far temere per il rientro nella normalità.
In paese viveva un matto chiamato Bighello che vantava di saper cagliare una scodella di latte cantandogli
sopra, da pochi centimetri, un’arietta della Tosca, alla
maniera del tenore che incrina un calice di cristallo con
un do di petto. Andava anche detto che era un masticatore di aglio, sempre in giro con una tasca ben fornita.
A proposito si ricordava quel pomeriggio ― fu uno
spasso ― quando s’infilò nella sala Olimpia mentre si
stava inaugurando l’arrivo del cinema sonoro: dovettero spostare l’avvenimento di un paio di ore per ventilare l’edificio. Inoltre a Bighello gli venivano improvvisi
attacchi di riso convulso, così, a onde: irrefrenabili, poi
quieti per riprendere da capo.
La risata del centurione Abondi alla mia proposta
uguale a quelle di Bighello, ma adesso stava accennando a voler dire qualcosa e mi avvicinai premuroso. Aveva gli occhi allagati e le chiazze di colore rosso sulle
guance si erano dilatate fino a dentro il colletto della
camicia nera.
«Delinquente, allora mi vuoi male?... Dovevi prepararmi...» farfugliò sul punto di ripartire con la risataccia.
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«Ma che ho detto?»
«Un incosciente... solo a averlo pensato... Dico, non ci
ricordiamo più dell’asse di equilibrio davanti a sua eccellenza?»
«Scusate, che c’entra l’asse con lo smontaggio?»
«C’entra, invece!» fece lui normalizzandosi. «Se ti
dimostri una scartina con l’equilibrio, lo sei col moschetto, nella mistica fascista e con il resto, figuriamoci
con un’arma dell’importanza di un mitragliatore. Lo
capisci, fesso, automatico!»
«Però, non con l’intonazione perché di questa, lo dice
Cristina, quanta ne avrebbe Giovan Battista Pergolesi
se tornasse a pizzicare “La serva padrona” col clavicembalo...»
«Il la, il fa e il sol dell’avvenire...» sapeva le freddure:
«Egidio, lo senti questo ronzio?»
«Sì, mi pare» risposi concentrando l’udito perché in
realtà non udivo ronzii.
«Mi stanno girando fortissimo le palle!»
«Non solo l’“allorché”, ma tutti mi riconoscono un
certo ingegno» dissi scivolando sul ronzio. «Informatevi da Paoletti l’elettricista: sono stato io a risolvere e
nessuno prima ci aveva capito, il difetto della pompa
del casino.»
«Ah, è per questo che sul bidet c’imprecano perché
non arriva l’acqua» fece godendosela, «e poi la schizzata improvvisa gli fa la doccia.»
E riprese a ridere come Bighello.
«Se non cambiano quel relè ci sarà sempre la schizzata.»
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«Ma che sul serio ti sei messo con la pompa del casino?... Sentissi le parolacce che tirano quelle matte, a te
che gli tocchi le pompe e ai tenutari che non vogliono
mettere un soldo per rimodernare l’ambaradam, cambieresti mestiere... Lasciale perdere, Egidio, pompe per
adulti...»
La voglia di ridere gli stava passando. «Il mitragliatore è un busilli» sospirò serio.
«Intanto so a memoria il nome dei pezzi: scatola di
lubrificazione a goccia, canna a incastro con maniglia e
anima
elicoidale
sinistrorsa,
otturatore,
asta
dell’otturatore... Li so tutti, dal libretto d’istruzione.»
«Avevo ordinato che non si dovesse toccare!»
Ma ormai era chiaro che la mia insistenza lo faceva
pensare.
«Spolverando gli ho dato un’occhiata... a provarmi
non si rischia niente.»
«Come sei facile, te» masticò alzandosi e camminando per la stanza. «Senza pensare al podestà, a Cristina... Con tutto quello che si è detto dopo lo sfogo del
federale per l’asse di equilibrio...»
«Ormai è passato un anno...»
«Ancora se ne parla, se ne parla!»
«Se mi mandate un giorno a vedere come fanno in
federazione...»
Ci pensò un attimo: scrisse un foglio, prese cinque lire da una cassettina e me le buttò fra le mani, mi spinse
fuori dall’ufficio e chiuse la porta col chiavistello. Forse
temeva un ripensamento. L’indomani a Ancona, sotto
la guida di un milite esperto, sui mitragliatori imparai
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tutto quello che serviva.
Adesso ci voleva la pratica: si offriva una possibilità
per il sanatorio e mi gettai sull’arma con bramosia.
Passavo l’intera giornata a smontarla e rimontarla prima a vista e poi bendato, infine sempre bendato. Chiuso in uno sgabuzzino sentivo che il centurione, passando vicino, camminava in punta di piedi. Qualche volta,
cauto, apriva uno spiraglio della porta e mi sussurrava
«Egidio, vuoi un goccio di caffè col mistrà, un ovetto da
bere?»
Ma io, un forsennato, restando ore con la testa infilata in un sacchetto nero che mi lasciava respirare a malapena, finivo col perdere quel rimasuglio di equilibrio
che mi lasciava disponibile l’ipersensibilità labirintica.
La sera, tornando a casa, camminavo all’onde da sembrare mi fossi votato piuttosto alla pratica col Verdicchio. La notte, inoltre, nemmeno riuscivo a prendere
sonno e nel dormiveglia ripetevo a mente le varie operazioni. All’infinito.
Dopo un venti giorni di questo allenamento, mi riuscì di abbassare il tempo a trentasei secondi, partendo
dalla posizione di attenti a fianco dell’arma per ritornare nella stessa posizione a montaggio ultimato.
La finalissima che avrebbe dovuto designare il rappresentante provinciale per Roma si svolse alla presenza del prefetto e del federale ― il quale ogni tanto mi
guatava: forse gli ricordavo qualcuno ― alla conclusione del precampo regionale di Falconara. Mi sembrò
addirittura troppo facile. Travolsi sia Filonza di Castelfidardo sia Carotti di Osimo, i due meglio. Di Filonza si
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diceva fosse uno scatenato, ma quando io avevo già finito il castelfidardese, illudendosi, stava ancora armeggiando col percussore e relativa molla a cinquantadue giri. Questo significa, per chi non conosce i mitragliatori Breda 30, che lo lasciai per strada.
* * *
Accompagnato dalle apprensioni delle autorità del
paese le quali, più che fidarsi del cronometro, paventavano, dati i precedenti, una qualche inframmettenza
del destino capace di ribaltare una possibile affermazione in una catastrofe, eccomi di nuovo a Roma.
Catastrofe, inutile dirlo, dai risvolti imbarazzanti ―
avendo deciso l’azzardo su me ― per il prestigio e la
carriera del centurione Abondi. Alla stazione, infatti,
non finiva con le raccomandazioni e mentre il treno si
muoveva, prendendomi le mani fra le sue, riassunse lo
stato d’animo col viatico: «Dio t’assista, ne va di mezzo
l’onore della provincia!». Ma era chiaro che pensava
specialmente all’onore di sé. Aveva seguito il vagone
trotterellando per una ventina di metri: a un certo punto tentò pure di riaprire lo sportello, forse per salire a
darmi qualche altro consiglio che gli era scappato.
Terzo Campo Dux, ma questa volta in una posizione
di evidenza.
Un vibrante telegramma del federale alla vigilia della
prova, più che galvanizzare me, servì a rendere frenetico il capomanipolo Cristina, sempre responsabile della
spedizione. Il quale, per tutta la giornata, continuò a
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starmi vicino perché non mi affaticassi. All’ora del rancio si preoccupò di quello che mi mettevano nella gavetta e la notte, prima che sprofondassi nel sonno,
venne tre o quattro volte sotto la tenda, ogni volta appena addormito, per dirmi: «Egidio, dormi e stai tranquillo.»
Stadio dei Marmi, giorno del saggio finale. Sulla tribuna d’onore altissimi personaggi e le delegazioni
straniere, folta quella tedesca. Classico pomeriggio romano: sole splendente, bandiere sui pennoni, bande
musicali, folla, entusiasmo.
Per primi si esibirono i camerati dell’atletica, poi
quelli degli esercizi a corpo libero. Adesso, noi: il clu.
«Gli avanguardisti per la prova col mitragliatore si
preparino...» rimbombarono gli altoparlanti tutt’in giro.
Avanzai col mitragliatore a bilanciarm nella mano
destra e una coperta arrotolata sotto il braccio sinistro.
Raggiunsi il posto segnato in terra con la calce assieme
ai rappresentanti di tutte le province.
«Attenzione...» gli altoparlanti «Svolgere le coperte...
all’uno bendarsi... al due assumere la posizione di attenti...»
Svolsi la coperta, vi appoggiai il mitragliatore dopo
averne aperta la forcella e, in attesa del via, mi tesi come l’arco nelle mani dell’arciere raffigurato nello
stemma araldico sopra il portone del palazzo del marchese Honorati e il cui motto araldico era “Scocco”.
“Scocco”, prima che qualcuno nottetempo, incidendovi una “i” di supplemento, l’avesse fatto diventare
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“Scoccio”. Era accaduto dopo che il marchese aveva
contrastato, pareva con l’appoggio del vescovo, la candidatura a presidente del Circolo dei Signori al centurione Abondi. Signore pure questo, ma a detta dei titolati più ordinario del nobiluomo che infatti fu eletto
nella carica pur beccandosi dietro le spalle la qualifica
di massone travestito da clericale. Misteri alla loro altezza.
Accidenti, adesso m’ero fatto venire in mente lo
“scoccio”, e questo mi appannava la concentrazione.
«Pronti?... Uno!» ordinarono gli altoparlanti.
Portai sugli occhi la spessa benda nera che Cristina
mi aveva annodato al collo non senza avere controllato
per bene, chissà se più pignolo o se fesso integrale, che
risultasse perfettamente opaca.
«...Due!»
Mi irrigidii sull’attenti, ma pronto a scaraventarmi
sull’arma per scomporla e ricomporla in un battibaleno. Non percepivo nemmeno più la presenza delle autorità e men che meno della folla.
«Tre!»
Fuori la canna, su la scatola di lubrificazione, via il
calcio col mollone, fuori l’otturatore... Una saetta. Ebbi
la sensazione, per un attimo, che fosse l’arma stessa a
movimentarsi, senza il mio agire.
Mi alzai in piedi, abbassai la benda: gli altri erano
ancora sulle coperte a trafficare coi pezzi. Un boato di
applausi si levò dalle scalinate colmando lo stadio fino
a riturbare il volo delle rondini appena ubriacate dallo
scampanio delle cento chiese di Roma. Battevano le di44
ciotto, l’evento era coinciso con l’alzata del Santissimo
delle funzioni pomeridiane. Negli occhi l’azzurro del
cielo, avrei voluto spargere la mia incontenibile felicità,
ma che altro potevo fare se non dar sfogo a qualche lacrima? Per fortuna, la benda servì a mascherare il cedimento.
Al rientro nei ranghi, Cristina mi stampò due bacioni
sulle guance: «Telegraferò immediatamente la notizia
al paese... Egidio, eroe!... E questa volta al sanatorio
come un fuso, parola di Cristina! Appena a casa, giovedì, parliamone...»
Tornati, il centurione Abondi, anche a nome della federazione tutta, mi premiò con cento lire detratte dal
fondo invernale per la legna ai poveri. Tanto, disse
guardando il cielo sereno, vista la bella estate si prevedeva un inverno mite.
Però, a raccontarla completa, la popolazione non dette l’impressione di voler delirare per il figlio che aveva
onorato la razza marchigiana, finora più che altro nota
nel settore bovino, arrivando primo nello smontaggio e
rimontaggio di un Breda 30 a occhi bendati. Anzi, nei
giorni seguenti più di una paroletta mordace mi era
stata soffiata dai soliti guastafeste, e fra questi, immancabile, Tittarelli padre che non seppe resistere un minuto dal commentare acido: «L’avessi fatto con una macchina da cucire ti avrebbero assunto alla Singer!»
* * *
La prima fresca brezza sfuggita al mare, salita per la
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valle a curiosare fra la quiete della lunga estate, trovò
le rane ormai roche e disamorate del fosso e del canneto. Poi ne vennero altre, brezze ancora più freddolenti.
Ma fu il tramontano a voler preparare l’addobbo per
l’autunno: le giornate si accucciarono umili, il paesaggio intristito e abbandonato alla pioviggine che lasciava garze di nebbia dove sembrava più decorativo.
L’inverno fu subito appresso, ma la gioia per la neve
durò il tempo che sulle strade il manto rimase immacolato.
Il discorso per il sanatorio l’avrò iniziato, non so le
volte: tutti i sabati. Ma sempre inutilmente perché
sembrava che fosse la primavera, mi rispondevano seccati, la stagione giusta per forzare la mano
all’economato.
Arrivò la primavera, finalmente, maggio e giugno.
Qualche pomeriggio che non avevo che fare, avvolto
nel risentimento, prendevo la strada che porta sul colle,
qualche chilometro fuori dall’abitato dove, bianco e
maestoso da ricordare il Vittoriano, si ergeva il fabbricato del sanatorio. L’architetto che lo pensò aveva scelto bene la posizione: nell’aria fine di lassù, un toccasana per tutti, con lo sguardo giungevi fino al mare. I piccoli paesi attorno, in groppa alle colline, sembravano
collocati apposta perché l’occhio girando in tondo avesse modo di soffermarsi per riposare godendo della
vista.
Camminavo attorno la cancellata, osservavo i roseti e
fra questi l’intensa vita delle api, la vasca azzurra di
fresca acqua zampillante del piazzale. Misuravo
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l’altezza dei castani le cui estreme fronde solleticavano
i solari sopra i quali spiccavano i colori giallo e rosso
delle tende aperte a proteggere il sonnetto pomeridiano dei malati.
Insomma, era il momento che mi facessi sentire di
più! Le parole date, il signor centurione le mantenesse.
Non toccava a lui decidere, ma santo cielo ne parlasse
più deciso a chi di dovere. Siamo già a giugno del ’40:
che, devo farne un altro di campeggio? Mi ci stagiono a
forza di Campi Dux! Tornai risoluto, basta con le chiacchiere: da lunedì a giovedì, da febbraio a luglio!
Alla Casa del Fascio un’inconsueta agitazione. Nella
corte capannelli si alimentavano l’un l’altro: tenevano
banco il capomanipolo Cristina e l’esimio Zenzola.
Qualcuno apriva il giornale e stranamente non si sentivano le solite uscite, ma in ognuno e nell’aria
un’emozione compressa.
Dalla salita del Torrione un intenso scoppiettamento
annunciò la motocicletta di Corbetta e infatti dopo
qualche secondo, in un fracasso pieno di fumo e puzzo,
eccola piombare nella corte e con una scartata a quarantacinque gradi bloccarsi davanti al portone del comando. Il centurione Abondi, a bordo del sidecar, alzò
sul fez gli occhialoni alla Nuvolari, scese e tutti gli volarono attorno per le notizie. Ma egli, scuro in volto e
con un solo verbo a Corbetta: «Vai!», si fece largo e con
quattro zompi volò sulle due rampe di scale, entrò e si
sbattè la porta dell’ufficio alle spalle.
Che fossi capitato in un momento sbagliato? Quando
a scuotermi dalle preoccupazioni fu di nuovo la moto47
cicletta di Corbetta dal cui sidecar questa volta scodellò
il podestà: «Ci siamo!» disse a chi gli era più vicino. Poi
domandò «È arrivato Abondi?». Ai cenni affermativi
salì pure lui.
Qui stava accadendo qualcosa di grosso: una visita
del federale, se non addirittura di qualcuno più in alto,
oppure l’allarme per un’improvvisa moria di bachi da
seta, colpa la corina, come anni fa?
Gradino per gradino, ognuno una stretta allo stomaco, mi portai sulla soglia dell’ufficio. Sfiorai la porta
con le nocche. Dall’altra parte un fitto brusio. Ribussai
appena più forte e mi parve, più sì che no, che una voce avesse borbottato: «Avanti.»
«È permesso...» spinsi la porta e mi affacciai sorridendo timido.
C’era il centurione che parlava concitato col podestà
e col presidente della Congregazione ― giusto insieme,
pensai ― ma tutti e tre gesticolando con carte e giornali
ballettavano come tarantolati.
«Scusate, comandante...» azzardai.
«Che vuoi?» rispose il comandante senza guardarmi.
«Sono Egidio... Per la faccenda del sanatorio...»
Essi accalorati per il fitto parlarsi, io un assente.
«Se permettete» insistetti «vorrei ricordare la promessa...»
«Promessa?...» mi fece il centurione girando finalmente la testa verso di me.
«Scusate... La mia posizione per il sanatorio: la promessa...» stentai, con gli occhi umili sul podestà e sul
presidente della Congregazione di Carità.
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«E tu adesso salti fuori con queste fregne?» sfogò il
centurione adirato come se avessi detto un’enormità.
«È scoppiata la guerra!... Lo capisci?»
«La guerra... e a chi?» mormorai turbato.
«Alla perfida Albione!» replicò indicando con la mano una qualche parte sulla carta geografica.
Non ebbi nemmeno il tempo di stupirmi per la signora appena nominata che alle due personalità rimaste zitte disse: «Oggi si vede che è più allocco del solito». Poi gridando da bucarmi i timpani «La guerra
all’Inghilterra!»
Si spalancò la porta, irruppe nella stanza Cristina e
ansimò che a Fabriano c’era già un elenco e pure a Falconara e che era meglio ci muovessimo se non volevamo fare la figura degli imboscati.
«Se non arriviamo al manipolo, lo senti il federale!»
commentò il centurione.
«Una quindicina ci siamo» disse Cristina, ma più a sé
«Adesso sento in Comune e al Dopolavoro...» e riscappò facendo volare qualche foglio.
Il comandante parve concentrarsi, sogguardò il podestà e il presidente, mosse qualche passo avanti e indietro e infine si rivolse a me:
«Egidio, senti, ma tu nel sanatorio ci vuoi entrare veramente?»
«Comandante, da tre anni...»
«Peccato che non ci hai uno straccio di benemerenza... Egidio, ti basterebbe il nastrino di una campagna,
il brevetto di volontario, non ci sarebbero più riserve...»
«Campagna?...»
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«Ci sei o ci fai?» si innervosì il centurione. «Una
campagna qualsiasi, come quelle di Corbetta: di Abissinia, di Spagna... Adesso, di quelle che verranno... Tre
o quattro mesi di movimento, torni col nastrino e non
se ne parla più. Neanche in tempo con l’addestramento: la guerra finirà prima.»
Restai zitto e il segretario continuò:
«Tanto partiamo tutti: io, il podestà, il presidente,
Zenzola, Cristina...»
Podestà e presidente annuirono con la testa.
* * *
Il lunedì successivo, clima di fervente patriottismo. Il
viale e la stazione ferroviaria addobbati con trofei del
fascio, bandiere e striscioni di evviva agli eroici volontari e abbasso ai perfidi anglosassoni. Autorità in ghingheri al completo, fanfara, scolaresche indisciplinate,
madrina commossa, abbracci, “eia eia alalà”. Ma il più
accalorato il friggitore che avrà smerciato un cinque ricariche di bomboloni: incasso da competere con quello
extra della festa del patrono.
Dal finestrino del vagone in movimento feci appena
in tempo a scorgere mia madre che, nascosta dietro la
cabina di trasformazione a 550 volt, aveva affondato il
viso nel fazzoletto.
Passato il passaggio a livello di via Fabriano il paese
si frantumò e scomparve fra le foglie dei gelsi. Posai il
pacco dono sulla reticella e mi sedetti. Eravamo in tre:
io elettricista, Casagrande manovale e Bernarducci ba50
rista. Gli altri ci avrebbero immediatamente raggiunto
sulla Quarta Sponda o in Gran Bretagna, dove gli avrebbero ordinato.
Mamma quanto pianse perché desistessi. Mi implorò, mi ripetè che tanto per il sanatorio pazienza, largheggiò in promesse, passò non so quante ore a gemere davanti ai Santi. Nonno, invece, subito cercò un
grosso mestolo di ferro e mi corse dietro per quei pochi
metri che gli consentiva l’età. Poi attaccò una tale filippica che dovemmo scuoterlo perché la smettesse di
gridare: «E che Tittarelli padre aveva ragione, e che Tittarelli bisognava ascoltarlo!...»
Sul finestrino, il fuggire dei pali telegrafici in un susseguirsi di istantanee: mezzadri con i buoi, case cantoniere, campi di grano, mentre il profilo dondolante delle colline sullo sfondo permaneva troppo per la mia
voglia, comunque, di paesaggi nuovi.
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Dal parapetto di poppa della motonave “Oceania”,
guardando in basso, era attraente quello squassamento
di acqua ribollente di spuma provocato dallo sbattere
dell’elica, se poi il transatlantico rimaneva fermo mentre a allontanarsi il porto di Taranto. Gli spruzzi salati
che arrivavano fin su sapevano di fave fresche mangiate col pecorino.
Erano passate poche settimane, già qualche avvisaglia di nostalgia: il pensiero mi andava a rimuginare la
vita al paese. E che diamine: adesso, invece, diamo una
pensata a questi inglesi che almeno si fossero limitati a
essere cattivi anziché perfidi, come specificavano i manifesti lungo il viale della stazione.
A bordo eravamo un ottocento ragazzi provenienti
da tutte le province: il “Battaglione Volontari”. Sbarcammo a Tripoli. Su sgangherati autocarri uscimmo dal
porto zeppo di navi, treni, carriaggi, armi, casse, in una
confusione da vigilia dell’apertura della mostra del
Bozzolo e della Seta moltiplicata per diecimila. Attraversammo l’abitato cantando “Tripoli bel suol
d’amore”, ma turbandone appena la distaccata atmosfera per cui, soprattutto in periferia, appariva assopita.
Gli arabi nei bianchi baracani attenti, nella sonnolenza,
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a non disturbare le mosche. Solo i cammelli, cessando
di ruminare, volgevano lentamente la testa al nostro
passaggio guardandoci con occhi dischiusi.
Neppure i nostri connazionali in Libia, i quali avevano portato a buon punto la liberazione degli indigeni
dalla schiavitù del Senusso, sembravano toccati dal nostro arrivo. Anzi, la percezione che la nostra permanenza non sarebbe stata esaltante ci venne da un anziano fante con l’elmetto, di guardia a una garitta, che
gridò: «Cantate, ve ne accorgerete!»
Di che cosa? Avrei voluto saperlo, ma la colonna degli autocarri procedeva spedita. Qualcuno di noi fece
appena in tempo a rispondere all’anziano fante con parole calzanti.
In Libia da poche ore già si profilavano inquietanti
interrogativi. Perché a quella garitta c’era di guardia un
fante con l’elmetto se prima dell’imbarco avevano detto che sarebbe stata una guerra di reparti motorizzati e
corazzati? E quell’elmetto di ferro modello 1914 al posto del casco?
La colonna degli autocarri si fermò una dozzina di
chilometri dalla periferia tripolina, in una zona lussureggiante di palme cariche di datteri uguale alle foto
Alinari sui libri di geografia. All’ombra, sotto le palme,
file di tende simili a quelle dei campi Dux a Roma. Appena discosta un’altra più vasta tendopoli, divisa dalla
nostra da un fossatello, apparteneva invece a tribù di
beduini del tipo nomade affluite a Tripoli per una
qualche festa.
In questo posto di tappa avremmo dovuto sostare il
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tempo per abituarci al caldo e alla sabbia, in attesa che
l’Alto Comando decidesse quale direzione prendere
per raggiungere il nemico. Ma la vicinanza dei due attendamenti, quello nostro e quello dei nomadi, ingenerò un tale miscuglio di cammelli, pezzi anticarro, ragazzini arabi e madri che li cercavano, asinelli, attrezzature militari, galline che dopo due giorni non si capiva più se alcune tende fossero nostre o arabe. Per cui il
comandante, per ripristinare la separazione, decise di
andare a acclimatarci in un’oasi più fuori mano, non
senza prima essersi assicurato se pure questa rientrasse
nel giro dei nomadi.
Peccato, perché avevamo fraternizzato. Lungo il fossatello era sorto un mercato di scambio: noi a loro
qualche lira, distintivi, scarpette da ginnastica, magliette Gil, lamette da barba e loro a noi uova, datteri, pezzi
di montone affumicato. Non che fossimo sbarcati per
ripetere in qualche modo l’antica esperienza dei mercanti veneziani: ne fummo costretti per sopravvivere
all’inedia nella quale ci aveva abbandonato la sussistenza che, una delle due, aveva dimenticato oppure
era ancora all’oscuro, fra tanti corpi d’armata,
dell’esistenza del nostro modesto battaglione “Giovani
Volontari”.
Ma la colpa dell’orfanezza, lo scoprimmo subito, era
di un aggettivo che l’Alto Comando maldestramente ci
aveva appioppato al momento della costituzione del
reparto. Dalla madrepatria, infatti, il nostro battaglione
era partito classificato come “autonomo”. Ci consideravamo talmente autonomi, accidenti, che già dal pri54
mo giorno nessuna sussistenza, nessun magazzino ci
volle distribuire i viveri e le munizioni né quanto necessario. Invariabilmente, appena ci presentavamo in
fila con gli altri per un rifornimento, subito i magazzinieri ci domandavano chi diavolo fossimo così sbarbatelli e con quella berretta nera sulla testa; controllando i
mastri, volevano sapere se eravamo aggregati a qualcuno dei reparti a loro noti e ai primi accenni su una
nostra autonomia affondavano le loro manacce dentro i
sacchi e si riprendevano le pagnotte e le scatolette che,
mentre si dialogava, vi avessero già contate.
Autonomi. Forse in alto loco si voleva sperimentare
la possibilità che un battaglione potesse realizzare
un’autentica sufficienza coi propri mezzi. Arrangiarsi,
in gergo militare.
Per qualche settimana ci presentammo ai prelevamenti con il nome di altri reparti oppure con nomi inventati, fino a quando dai comandi di Tripoli non erano partite richieste di informazioni sulla fioritura di
questi reparti che non figuravano nei ruoli. Da quel
momento, arrivata la voce fino alla più sperduta guarnigione, quando ci sospettavano nelle vicinanze dei
magazzini, si predisponeva sorveglianza per la salvaguardia dei viveri. Comunque, nei mesi seguenti ci fu
carenza di materiali per l’intero corpo di spedizione. La
marina britannica sistematicamente silurava ogni nostro convoglio di rifornimenti.
* * *
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In una guerra ― una qualsiasi non fa differenza ―
importante per non perdere il confronto era la qualità e
quantità dell’armamento. Anche il numero dei soldati
contava, come pure la voglia di battersi e la bravura dei
comandanti. Ci voleva altresì la fortuna e l’appoggio
della nazione, necessario per il morale dei soldati i quali non avrebbero saputo conquistare un territorio ― nel
nostro caso magari nel deserto ― sapendo che la gente
a casa piuttosto indifferente.
Ma queste armi in dotazione non sembravano quegli
ordigni, come diceva il centurione Abondi nelle discussioni sul tema, capaci di abbattere ogni ostacolo made
in England. Le pistole a tamburo ― costretti a usarle,
inutile prendere la mira ― le avevo viste simili nelle
mani di un brigante su una copertina della
“Domenica del Corriere”. I moschetti 91 derivavano in
linea diretta da quelli in uso nel 1891. Le mitragliatrici
Fiat 14, ereditate dall’altra guerra, ancora avrebbero
potuto funzionare nell’aria balsamica delle Alpi, ma
che si inceppavano al primo sospetto di polvere, quindi
pressoché inservibili nella sabbia marmarica. L’anticarro da 47/32, un pezzo sul quale si faceva affidamento: collaudato sui nostri carri armati aveva dato ottimi
risultati, ma sulle corazze dei carri inglesi i proiettili ci
rimbalzavano. Invece una buona arma il mitragliatore
Breda 30, a me arcinoto. A tal proposito, il comandante
del battaglione, venuto a conoscenza del mio primo
Campo Dux, subito mi promosse caporale e quando
seppe che di Campi ne avevo frequentati due, capo56
ralmaggiore. In seguito, facendo trapelare che in verità
furono tre, la proposta per il salto a sergente partì il
giorno stesso.
* * *
Naturale che rimediassimo di nostra iniziativa come
già per i viveri. Dopo un combattimento si trovava di
tutto: vinto o perso che fosse, armi tolte ai prigionieri
oppure raccolte da chi rimasto sul terreno; bastava scegliere tenendo presente il munizionamento. Per cui,
dopo qualche mese in zona di operazione, il nostro era
diventato una specie di battaglione di rappresentanza
dell’armeria in campo. Ma con una eccezione per le
bussole avendo preferito, fra i tipi in dotazione ai vari
eserciti, solamente quelle fabbricate in Germania. La
ragione di tale scelta non fu la precisione dello strumento, ma per una disavventura del tutto imprevedibile.
Con noi volontari, addetto alla fureria, c’era un vecchio maresciallo del genio che a sua domanda avevano
eccezionalmente concesso di lasciare l’intendenza per
venire con noi. Era venuto perché gli piaceva il nostro
battaglione di ragazzi, diceva, che gli ricordava la sua
gioventù.
Questo maresciallo acciaccato dall’età, non potendo
partecipare alle nostre scorrerie, ci seguiva sul carro del
Comando borbottando per l’inazione, sempre preoccupato come un padre. Tuttavia, avendo accumulato esperienza nella guerra mondiale precedente, sapeva
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consigliare, sia pure a distanza, meglio dei nostri ufficiali
che,
provenendo
dalla
ragioneria
o
dall’agrimensura, di tattiche col nemico piuttosto scarsi.
Un elemento prezioso, il maresciallo, ma le cui doti
venivano a galla solo quando risultava lucido di mente
perché, amando bere, gli capitava di stare allegramente
non disponibile per nessuno. Appena giungeva in un
qualsiasi posto, infatti, subito si guardava attorno per
scoprire qualche liquido forte e meravigliava che riuscisse a trovarne nei posti più impensati, forse aiutato
da un talento capace di fiutare sentore di grappa nello
stesso modo con cui i piccioni captano la giusta direzione del volo.
Il fatto che ci spinse verso le bussole di marca tedesca
fu determinato proprio da questa sua magica virtù olfattiva. Accadde a Tobruk ― anticipando gli avvenimenti ― presso un fortino dal quale avevamo stanato
una lunga fila di nemici di colore che ripetevano: «Taliano bono, taliano bono.»
Il sole infuocava ancora rosso sull’atmosfera resa rovente dal fumo degli scoppi e dalla polvere sollevata
dai carri. Tutt’attorno l’agitazione dell’appena cessato
confronto, quando muovendoci fra i caposaldi trovammo il maresciallo seduto pacifico sopra una cassetta di caricatori, le spalle al cofano di un autocarro, assente dal mondo. Da uno scatolone a fianco ogni tanto
cavava un borsetto, lo apriva e ne traeva una bussola e
una fiala contenente un liquido biancastro. Quindi,
scartata la bussola, beato si portava la fiala alla bocca e
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ne succhiava il contenuto. Il borsetto: un probabile kit
inglese di sopravvivenza.
Anzi, nel gran bailamme, subito sbalordimmo, ci
sembrò che il maresciallo, come per le ostriche, con un
colpo del capo all’indietro, addirittura succhiasse il
contenuto dalla bussola anziché dalla fiala: un abbaglio
per il sole.
Disinfettante, stimolante o altro che fosse, comunque
il liquido dovette risultare gradito al palato: ancora una
volta, pur in quel frangente bellico, il talento olfattivo
non aveva fatto cilecca.
Di quella, diciamo mistura, ne dovette aver ingerita
anche troppa: infatti sulla sinistra lo scatolone coi borsetti era semivuoto, mentre sulla destra di bussole e fiale vuote ne cresceva un bel mucchietto.
Gli sottraemmo lo scatolone e dalla reazione capimmo che il maresciallo aveva perso il comprendonio. Si
fosse trattato del solito mistrà, la ciucca, in capo a qualche ora di sonno gonfio di ronfi, sarebbe in ogni modo
sbollita in allegria, ma quella mistura doveva contenere
oscuri ingredienti per conciare un vecchio maresciallo,
reduce dalla grande guerra, così malamente.
Subito se la prese a parole con noi, col comandante,
con Cecco Beppe e il generale Cadorna della guerra
precedente, figurarsi. Attaccò a bestemmie un santo
mai sentito nominare, un certo Sant’Anatalone, che ci
sembrò di capire fosse il patrono del paese della moglie, e si scalmanò che non riuscivamo a tenerlo nemmeno in mezza squadra.
In seguito, rientratogli il disgusto per la mistura, il
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maresciallo qualche volta ci chiedeva, quando gli ritornava la voglia dell’alcol nelle fiale del kit, se per caso
avessimo rastrellato bussole, che nel deserto senza bussole, ma di quella certa marca, ci si sentiva cecati e scuse del genere. Ma noi sapevamo e d’accordo col comandante, a scanso di equivoci, si convenne sulle bussole tedesche non corredate di misture alcoliche.
Di bussole italiane non si faceva menzione essendo
facile, come diceva il libretto militare alla voce “orientamento”, rilevare il nord dalla stella polare, dalla posizione dell’ombra del sole mettendo uno zolfanello nel
mezzo di un orologio, osservando il muschio sul tronco
delle querce e dalle informazioni dei nativi sperando
nella sincerità.
* * *
Entrando nel vivo della guerra, tralasciando i fatti
marginali, arrivò il momento di capire quale contributo, dal punto di vista tattico, potesse dare il nostro modesto battaglione nel quadro del possente schieramento dei tre eserciti in campo: l’italiano, il tedesco e
l’inglese con i suoi alleati.
Concluso il periodo di acclimatamento, lo Stato
Maggiore si era risolto a trasferirci in zona di operazioni. Eravamo stufi di continuare a ripetere a vuoto, per
quasi un mese, i soliti esercizi di movimento di attacco
con relativo avanzamento sul terreno. Manovre, fra
l’altro, già fatte e rifatte nei corsi premilitari al paese e,
nel mio caso personale, sotto l’esperta guida del milite
Corbetta reduce da tutte le guerre, pertanto istruttore
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collaudato come pochi nel circondario. Montammo finalmente sugli autocarri, un plotone al completo di
armi, munizioni e bagagli su ogni Lancia Ro, e via entusiasti, anche se incredibilmente ammucchiati.
In quei giorni la linea del fuoco divideva gli eserciti
dalle parti di Bengasi, verso est un migliaio di chilometri, e fu proprio verso la fine della marcia di avvicinamento che il nostro reparto, impensatamente, godette
dell’atteso battesimo del fuoco. Tuttavia la prima battaglia non fu strettamente come si immaginava per averle viste nei cinegiornali dell’istituto Luce, ma uno
sparamento poco più intenso di quando in un bosco
potevano scontrarsi guardiacaccia testardi e cacciatori
di frodo: fumo e trambusto, poca sostanza.
Noi, infatti, ignari e distanti dal fronte ancora molti
chilometri, anzi miglia ― i chilometri sminuivano quegli ampi spazi ― andavamo tranquilli, al massimo infastidendo gli scorpioni, quando all’improvviso si intromisero alcune veloci camionette guidate da soldati in
cachi i quali, senza farsi riconoscere, cominciarono a
sparare a raffiche.
«E questi chi sono?» disse il comandante estraendo la
pistola Beretta dalla fondina. Ma per fortuna il vecchio
maresciallo si era messo subito a gridare: «Giù, tutti a
terra!»
Non c’erano dubbi: il nemico. Una pattuglia avanzata per confondere e colpire le nostre truppe nei trasferimenti al fronte. Sdraiati sulla sabbia, frastornati dalla
sorpresa, ognuno agì d’istinto caricando moschetti e
mitraglie.
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Ma simile al vento dei temporali d’estate che piomba
per scardinare il paesaggio e d’improvviso si dilegua a
scalciare chissà dove, la pattuglia nemica era già sparita e i nostri colpi si persero nel vuoto.
Bisognava inseguirla. Il comandante ordinò di scaricare il Lancia Ro di testa. Con un balzo i più vicini furono sul cassone e in un battibaleno lo svuotarono del
pezzo anticarro, delle cassette di munizioni, degli zaini,
dei blocchi di datteri pressati e delle molte cose che si
scoprono quando si svuota un autocarro militare. E via
all’inseguimento, così alleggerito, con diversi di noi sui
parafanghi e sul cofano alla maniera degli squadristi
durante la Marcia su Roma.
Ma non aveva fatto un metro fuori della carovaniera
che il mezzo con le ruote sprofondò nella sabbia. Ci
vollero ore per tirarlo fuori, lavorando di pala dopo averlo agganciato a un altro camion.
Punto primo: ci servisse di lezione. Eravamo stati
sorpresi da quegli inglesi rammolliti dai cinque pasti
quotidiani. Capimmo che non dovevamo fidarci di
niente e di nessuno, il nemico ti poteva capitare in ogni
momento e in ogni luogo.
Punto secondo: in caso di attacco improvviso la disposizione dei reparti in cerchio con il comando e le furerie nel mezzo, sostenuta da un capitano di complemento da poco richiamato alle armi, non poteva funzionare. Il nemico, invece di giostrare con le camionette, come i pellerossa all’intorno dei carri dei pionieri,
aperto di forza un varco, penetrando nel sistema difensivo, ci avrebbe cacciato in guai seri. Meglio il sugge62
rimento del maresciallo ― il milite Corbetta, al paese,
raccontava di tattiche simili anche nella guerra di Spagna —: disperdere le squadre sul terreno in tanti nuclei
autonomi, stando attenti tuttavia al “fuoco amico”, a
non spararci fra noi. Punto terzo: nel deserto, ma in
ogni luogo, il più svelto col dito sul grilletto partiva con
un notevole vantaggio.
Dopo questa prima esperienza non avremmo dovuto
augurare nemmeno al peggiore dei nemici di farsi sotto
perché, raggirati una volta, sulla seconda si sommavano gli interessi.
* * *
Passarono un paio di giorni. Il mio plotone al comando di un tenente, con noi pure il maresciallo, precedeva il grosso del reparto in avanscoperta quando, in
un punto dove la linea dell’orizzonte sembrava incerta
fra deserto e cielo, ci parve di avvertire come un tremolio che al binocolo si svelò per un movimento di autocarri nel polverone.
«Prima squadra qui, seconda e terza in posizione difensiva!» ordinò il tenente.
«Dilatarsi a frotte!» incalzò il maresciallo.
Carponi sulla sabbia, tolte le sicure alle armi, defilati
dietro qualche grosso sasso, aspettammo trepidanti. Il
movimento, intanto, si andava avvicinando.
«Nessuno si muova fintanto che non lancerò il razzo
rosso: passare parola» ordinò l’ufficiale. «Al razzo rosso, fuoco!»
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Ormai l’autocolonna era pervenuta a distanza di tiro
lungo, si sentiva il rumore dei motori, ma il tenente esitava con la pistola di segnalazione in pugno.
A un paio di chilometri, anzi a un miglio e mezzo, a
un miglio, a mezzo miglio (non c’entrava proprio, ma
per un attimo mi sovvenne nonno quando pasturava
l’uccelliera), a meno di mezzo miglio.
Purtroppo da qualcuno di noi, inopinatamente, partirono tre o quattro colpi di moschetto. Il maresciallo
alzatosi in piedi sbracciando gridò: « Nessuno spari,
non sparate!»
Dal polverone che avvolgeva la colonna che si era
bloccata un militare, pareva italiano, si palesò infuriato:
«Un assident a vuliater e a quei che van mandà chì».
Italiano e milanese.
Conclusione in riferimento ai due punti già acquisiti:
da integrare con un terzo «Nel deserto ti può capitare
una colonna di nemici, una di amici e pure, entrando in
merito, di funzionari che dalla zona di operazioni si
stanno trasferendo verso le retrovie. Pertanto, prima di
sparare cautelarsi con “altolà e parola d’ordine” e aspettare se rispondono, magari anche con parole non
propriamente militari. Infatti, si trattava di
un’autocolonna di personale civile con mobili e archivi
che, preceduta da due autoblinde di scorta, si stava dirigendo verso il tripolino.
Per fortuna i proiettili si erano schiacciati sui due
mezzi blindati senza provocare danni. I funzionari meno atterriti, avendo ancora cuore per fiatare, non presentarono reclami.
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Il caso, piuttosto, sembrò notevole e, per spiegarlo,
pur nella delusione del momento, furono avanzate due
ipotesi: che dipendesse semplicemente dalla benignità
del destino; oppure che la vita di quei nostri funzionari
fosse stata salvaguardata dallo stesso Padre Celeste
perché, sia pure indirettamente, non fosse portata acqua al mulino del comune avversario: gli anglosassoni.
Essi, infatti, di religione protestante, non potevano che
risultare invisi Lassù.
Irrilevante parve invece una terza ipotesi, sostenuta
dal maresciallo, che i moschetti 91 avessero sballato la
mira come prevedibile.
Ma l’ufficiale, un’allegoria della disperazione e si capiva, col maresciallo si sfogò amaro: «Quando ti sorvolano a bassa quota i caccia, se ti sbracci coi saluti sono
Spitfair inglesi, ma se gli spari sono Macchi. E passi.
Ma questa dell’aver fatto fuoco contro nostri funzionari, noi del battaglione Giovani Volontari, è troppo!»
Comunque il più danneggiato dallo scontro fu lo
stesso maresciallo perché, deluso, dovette cavare la
scorta di mistrà che aveva nascosto in due borracce
dentro i cofani dei Lancia Ro. L’alcol fu distribuito ai
funzionari, ai militari che li accompagnavano, per primo al milanese che mica la smetteva con le sue invettive nei nostri confronti.
Per metterci in una posizione più consona il comandante affrettò i tempi e con una volata fummo sul posto. Qui gli schieramenti, pur spostandosi in continuazione, davano l’impressione di essere allineati uno contro l’altro come suggeriva il buon senso militare.
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* * *
Da ragazzi entusiasti e preparati prendemmo subito
contatto col nemico. Col nemico inglese e con tutti i
suoi alleati da non potersi nemmeno distinguere uno
dall’altro. E indiani e australiani e gurka e neozelandesi
e canadesi; e pure fra gli stessi inglesi: gallesi, irlandesi,
scozzesi. Non facevi in tempo a capire come agiva, per
esempio, un reparto inglese che poi te ne toccava uno
australiano. Ti adeguavi a questo e, fatalmente, te ne
poteva capitare un terzo di scorbutici provenienti da
un posto neanche segnato sull’atlante tanto fuori da
ogni rotta.
Insolubile problema, i loro carri armati: dinosauri
contro i quali i nostri proiettili anticarro all’impatto gli
scalfivano la vernice. Quando usavamo i traccianti si
vedeva bene che ci rimbalzavano da sembrare palle di
gomma. Il comandante ordinò di mirare al carro nemico nel foro dello scappamento o nella feritoia del pilota.
Ma colpire nel foro dello scappamento un carro che ti
giostrava attorno a sessanta all’ora era difficile: meglio
un rapido “Pater, Ave, Gloria” perché si disarticolasse,
come capitava qualche volta ai nostri, per aver perso
un cingolo durante una svoltata.
Dall’Alto Comando, avvertito dell’intralcio, ci vennero istruzioni per assemblare in loco grosse bombe a
mano che, in teoria e in pratica, avrebbero fatto saltare
in aria qualsiasi tonnellaggio di carro. A Roma, nella
caserma dove l’ordigno era stato sperimentato ― speci66
ficava la comunicazione ― era saltato il carro e una parte del cortile. Si trattava di procurare barattoli del tipo
pelati Cirio da un chilo e mezzo, di calcarli per bene di
esplosivo e di infilarci un manico di legno di un trenta
centimetri sul quale fissare col fil di ferro una comune
bomba a mano per l’innesco.
Ma quest’arma fu più pericolosa per noi che per il
nemico. Infatti se con una normale bomba a mano ci
riusciva un lancio di una quarantina di metri - il disinnesco della sicura automatica veniva determinato
all’incirca da questo volo - facile capire che, con la
bombaccia di quel peso, oltre una decina di metri difficile arrivare. Questo significava che spesso l’ordigno,
per la mancata uscita della sicura automatica, non
scoppiava neanche scalciandolo.
* * *
Avanzate e ripiegamenti confusi, caposaldi conquistati a più riprese, spostamenti da un fronte all’altro
della Marmarica senza una spiegazione, oasi prese e lasciate, reparti sacrificati per mantenere una quota, battaglie vinte e perse, sacrifici sempre in una sproporzione di mezzi fra noi e il nemico senza rimedio e, quando
ci sembrò possibile entrare in Egitto bandiere al vento,
due o tre volte, ecco che la situazione si rovesciava, e
allora precipitose fughe sugli autocarri per evitare la
cattura. In ogni caso con perdite continue: feriti, dispersi, morti. Per questi ultimi dovemmo delegare il
Ghibli, il vento del deserto, a stendere sui loro corpi
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abbandonati un pietoso manto di sabbia: retorico, ma
erano venuti qui a diciotto anni per un sentimento di
patria.
Dopo una trentina di mesi, il battaglione ormai a
ranghi ridotti e disunito. Persa l’autonomia, noi superstiti venimmo aggregati a una compagnia di truppa
raccogliticcia: carristi senza carri, aviatori senza aerei,
paracadutisti senza lanci, sbandati da ogni reparto.
Forse c’era anche quell’anziano fante con l’elmetto
modello 1914 che il primo giorno a Tripoli ci avvertì:
«Cantate, cantate: ve ne accorgerete!»
Il definitivo scontro fu a Capo Bon in Tunisia nel
maggio del 1943, dopo una ritirata di oltre duemila chilometri da El Alamein. L’ordine di cessare il fuoco e
della resa al nemico ci venne dallo Stato Maggiore il
giorno tredici.
D’un tratto, spenti i rumori della guerra, avvertimmo
un silenzio irreale, angoscioso. Soldati induriti piansero, ma il tempo per i pianti era limitatissimo. Occorreva
subito ottemperare agli ordini tassativi sulla distruzione delle armi. Il motivo di tanto allarme era che il nemico, venutone in possesso, le avrebbe usate contro di
noi se non addirittura copiate. In realtà, se questo fosse
avvenuto, finalmente la fortuna: avremmo riacchiappato quella girella di vittoria all’inizio con noi, in seguito
colta da incertezza e al momento tutta dalla parte
dell’abbondanza e delle grandi promesse di parate e di
gloria.
Ogni arma andava completamente smontata e ogni
sua parte dispersa e sotterrata mezzo metro, ma erano
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troppe. In quell’estrema porzione di terra ancora in nostra mano si erano venuti ingolfando i resti dell’intero
corpo di spedizione italiano e tedesco. Un capitano del
genio, preoccupato, suggerì di farne grandi mucchi e
farli saltare dando innesco alle munizioni: sarebbero
stati eccezionali fuochi di artificio pure adornati dai
razzi di segnalazione sfreccianti nei vari colori. Si obiettò al capitano che gli inglesi avrebbero potuto interpretare la fantasmagoria per una subdola ripresa delle ostilità con conseguenze inimmaginabili.
Cacciaviti e martelli in mano, di lena. Finito il lavoro,
se lo Stato Maggiore fosse stato presente, non avrebbe
potuto che elogiarci per come avevamo distrutto e sotterrato moschetti, mitragliatrici, munizioni, buffetteria,
ricetrasmettitori, fusti di benzina, pentoloni, registri
delle furerie, tende e il resto. Intanto dallo schieramento avversario, per venirci a catturare, si stavano muovendo lunghe file di autocarri carichi di soldati protetti
da squadroni di carri armati.
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Avanzò verso di me un biondastro, se non inglese affine, la testa all’ombra della ridicola catinella. Si avvicinò a un metro e mi sogguardò con aria strafottente. Gli
dovetti rispondere con un sorriso mansueto. Il biondastro mi puntò sul fianco la mitraglietta che teneva sotto
il braccio e indicando il fez nero sulla testa, mi fece:
«Iù fascist?»
Spensi il sorriso mansueto e cercai una risposta che
non lo facesse incattivire.
«Iù fascist?» ma questa volta appoggiando la domanda con una botta della mitraglietta. La bocca
dell’arma contro le costole mi provocò un dolore che
mi fece montare il sangue alla testa: «Se questo lo accascio con un calcio nei coglioni» pensai con voluttà «il
centurione Abondi farebbe mettere una lapide sopra il
portone di casa con la scritta in latino.»
«Sì e no...» balbettai, stando sul vago.
Alla risposta il biondastro sproloquiò per qualche
minuto. Sicuramente si raccontò qualche disavventura
patita per conto nostro: si arrabbiò, si arruffò, raggiunse il calore bianco, ma sul punto di scoppiare non
scoppiò. Parve calare di temperatura. Calò. Tirai il
fiato.
«Sargent?» domandò ancora.
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«Dipende...» dissi richiamando alla massima vigilanza San Settimio patrono del mio paese che tenevo di
vedetta.
Spazientito, visto che non riusciva a condurre il dialogo come avrebbe voluto oppure pago delle informazioni avute, mi spinse contro un autocarro sul quale un
altro inglese, con una manata, mi spinse a salire.
Appena il grosso mezzo fu stipato di noi volontari,
un militare negro si arrampicò sul cassone, srotolò il telone, saltò nella cabina e partì a strappo. Questo autista
era passato alla guida dell’autocarro direttamente dalla
guida dell’elefante. Sussultando per i sassi e le buche,
così rinserrati, non riuscendo a immaginare dove ci
portassero: fosche preoccupazioni. Qualcuno pronunciò la parola fucilazione e immediatamente coloro che
indossavano ancora il fez lo sentirono fastidioso sulla
testa e se lo tolsero. L’autista, immaginarsi la sorpresa
quando ripulendo il cassone ne avrebbe trovati almeno
una ventina. Un giorno, tornato a casa, regalati i fez a
amici e parenti, tutti insieme fieri del trofeo lo avranno
indossato durante i riti per impetrare dai loro feticci la
pioggia, il sole oppure qualunque altra meteora gli fosse venuta gradita in quel momento.
L’autocarro si fermò con una frenata secca che ci
ammucchiò contro la cabina di guida. Dall’intorno
proveniva un fitto brusìo di strani idiomi e quando
l’autista ebbe riarrotolato il telone, superato l’abbaglio
della luce, ci scoprimmo nel mezzo di un impensabile
accampamento: centinaia di tende e baracche, autoparchi a perdita d’occhio, soldati di tutte le fogge.
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Fatti scendere dal camion ci avviarono verso una
grossa tenda davanti alla quale ci ordinarono di sederci
a terra. Chiesero se fra noi ci fossero ufficiali e sottufficiali. Alzammo la mano in due. L’interrogatorio mi toccò per primo.
Un militare dei loro, ma dagli occhi neri e dai capelli
unti e ricci, mi investì con una parlata marcatamente
siciliana:
«Dimme lu nome, lu grade e lu reparte!»
Per lo sconcerto restai interdetto.
«Paisà, ce simmo ammutolite?» continuò.
«Scusate, siete italiano?» mi azzardai, pensando
“guarda qua un traditore!”
«Quasi, paisà: sugne maltese…»
«Ah, scusate... Calandra Egidio... sergente... Battaglione... ehm volontari...»
Il maltese traduceva. Dietro un tavolo tre anziani ufficiali inglesi mi osservavano con curiosità cercando di
catalogare quella specie di sergente che stava loro davanti.
«Accussì giovanottello sei iuto volontarie?» domandò il maltese.
«Sì, mi pare…» supplicando il Santo a non stancarsi.
«Ci hai nu mutive pi esseri fasciste» disse con ribrezzo il maltese, «e voler fari guerra agli alleadi?» e indicò
con un ampio gesto accompagnato da un mezzo inchino gli ufficiali.
«È una storia lunga...» sospirai, sperando di poterla
tacere.
«Bravo, cuntici…»
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«Da principio?»
«Pure chidda de prima!» mi ordinò il maltese credendosi spiritoso.
Cominciai col dire che ero poverello per l’immatura
morte di mio padre, un sant’uomo. Orfano da fanciullo;
anche le mie sorelle erano orfane, tutte e due, mia madre vedova. Che al mio paese avevano costruito un tubercolosario quale mai era stato visto in tutta la regione
e desiderando entrarci, alle strette, diciottenne ero partito volontario.
Il caso, così esposto, risultò di certo commovente
perché notai che il maltese traducendo aveva perso
l’arguzia e gli ufficiali inglesi mi osservavano compresi. Anch’io, pallidetto e emaciato ― il nostro esercito
dava il meglio nell’emaciare i propri soldati ― ne fui
toccato: gli occhi si gonfiarono di lacrime e per liberarmi dai nodi in gola tossicchiai.
Mentre il maltese illustrava le mie risposte, gli ufficiali parlottavano fra loro e il più anziano, forse un colonnello, incrociò le dita e atteggiò le labbra a significare “guarda questo poveraccio che sventure ha dovuto
patire per entrare in un sanatorio” e riassunse lo stato
d’animo dei presenti venendo a battermi una mano
sulla spalla, come per dire che nella vita alla fine una
soluzione si trova, non mi avvilissi. Parlò al telefono
con qualcuno e dette un ordine al maltese che uscì per
rientrare qualche minuto dopo con un graduato che si
distingueva per un bracciale con la sigla MP.
* * *
73
Camminando a fianco di questo MP pensavo quanto
gli inglesi fossero stravaganti. Tornato a casa dovevo
parlarne col centurione e gli altri: i manifesti alla stazione, definendoli perfidi, avevano esagerato. Intanto
eravamo sulla porta di una baracca bianca con una croce rossa dipinta sul tetto: un modesto ospedale da
campo. Il graduato MP mi affidò al piantone e salutò
con un cenno.
Fui rinchiuso in una cameretta con un lettino, due
sedie e un tavolinetto. Frastornato dal susseguirsi degli
avvenimenti, tolti brachette e scarpe mi sdraiai a guardare il soffitto di tela, uno schermo sul quale avrei voluto vederci qualcuno che mi spiegasse, quando nella
cameretta entrò un tocco d’infermiera non avente affatto l’aria di una frigida. In camice bianco, morbidamente polputa ma sottile in vita, era venuta portando un
cabaré di vivande. Così messo, tirai su il lenzuolo, ma
lei mi fece alzare per indossare un camicione. Mi sistemò una tovaglietta al collo vellicandomi il mento con il
seno e, con un sorriso da reclame, se ne andò sculettando. Digiuno da ore mangiai le buone cose e bevvi i
frullati, ma i sapori li sentivo come offuscati dal sottile
profumo naturale lasciato dalla giovane bionda. Ripulito il cabaré adagiai la testa sul cuscino e con gli occhi
alla porta passai dalle fantasie ai sogni.
Fui scrollato da un infermiere che mi sollevò a sedere
sul guanciale, scrisse qualcosa su una tabella, scosse un
termometro, me lo infilò in bocca e uscì sbattendo la
porta. Intontito dal brusco risveglio tolsi il termometro
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dalla bocca, pensando a uno scambio per la fretta, e lo
posizionai sotto l’ascella. Dopo una decina di minuti il
tanghero riapparve e guardò perplesso, si mise a frugare sotto il guanciale, alzando le lenzuola sbirciò dentro
il letto e mi spalancò la bocca per scrutare in gola. Infine cominciò a gridare in inglese, altrettanto inutilmente
del tuono che rimbomba sopra la casa di un sordo, ma
facendo accorrere un altro infermiere che storpiando
due parole in italiano mi domandò:
«Iù, tirmometer?»
«Misurare febbre» risposi, levando il termometro da
sotto l’ascella.
L’infermiere che aveva gridato, ma poteva essere un
medico, disse frasi delle quali riuscivo a capire solo la
parola italian. Già rosso di pelle, lo era diventato di
più. Mi strappò il termometro di mano, lo ricontrollò
alla luce, lo scosse con energia e me lo ricacciò in bocca.
Evidente, non si era trattato di un errore per la fretta
ma di una loro modalità non conforme alle regole e alla
creanza. Forse, pensai, quello sbadato fu assente il
giorno che al corso infermieristico avevano trattato di
termometri e, con molta cautela, lo riposizionai dove il
buon medico al paese aveva sempre fatto e insegnato a
tutte le famiglie. Ma l’alterato se ne impossessò di nuovo ― un dubbio attraversò la mia mente: ero capitato
dove si curavano i fuori di testa, similmente dovettero
pensare lui e il collega e, abbassate le mutande, mi infilarono il termometro nel posto più disdicevole del creato. Che vergogna se fosse stata presente la biondona, e
ce lo tennero da maledetti.
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Rientrato nei gangheri, l’infermiere pazzo, anche se
continuava a gridare, scrisse qualcosa sulla tabella,
suonò all’infermiera e uscì con l’altro inglese o canadese o australiano che fosse. La bionda riassestò il letto,
mi rinfrescò la fronte con una pezzuola bagnata e
m’invitò a inghiottire una pillola. Lei sarebbe stata capace di fartela andar giù con il flacone e senza il sorso
d’acqua.
L’indomani vari esami: del sangue, della saliva, del
cuore; poi misure, auscultazioni. Venivano dei medici e
fra loro parlavano fitto. Io non capivo che diavolo controllassero, ma se tutti i volontari li studiavano così
stavano freschi.
Un dubbio mi illuminò all’improvviso. Durante la
notte, riandando alla cattura e all’interrogatorio, ricordai del maltese e del buon colonnello: che avessero equivocato credendo che al sanatorio del paese ci volevo
entrare perché malato, mica come usciere? Non per mia
colpa, fosse chiaro, se di equivoco si trattava, sarebbe
toccato al maltese spiegarlo. Adesso avrei dovuto
chiamare qualcuno e rivelare la posizione sbagliata in
cui mi trovavo. E se avessero pensato, impermaliti, a
una canzonatura? Senza dire che in questo posto ci stavo bene e si mangiava meglio, sia pure sul leggerino,
che nei pranzi cucinati da babbo, ma soprattutto mi legava la bionda coi suoi vezzi che, occhio alla pupa,
complice la luna sul canale di Suez, le zompavo addosso con tutto che mi avevano catalogato malaticcio.
Inoltre, non poteva darsi che mi fossi ammalato sul
serio per i digiuni e le sudate durante i tre anni di bat76
taglie? In questo caso una fortuna esser capitati nel posto giusto. Conclusi che era meglio per tutti, per non
deludere nessuno, di restare dov’ero.
La cura si risolse rapida. La mattina del terzo giorno
mi fecero capire che, guarito, potevo muovermi per il
campo di concentramento e alle mie parole che non essendo mai stato malato per logica non potevo risultare
guarito, mi spiattellarono le analisi. Ma non mi arresi:
tentai l’estrema botta chiedendo se in quel posto, oppure in un altro simile dove sarei stato disposto a trasferirmi, avrebbero curato un sopravveniente esaurimento nervoso.
Giù dal letto, mi sbatterono su una camionetta che
partì a razzo. Attraversammo campi militari, tendopoli,
magazzini, autoparchi, calcolai una ventina di chilometri, finché imboccammo il cancello del più fantastico
aeroporto che potessi immaginare. Sui piazzali e sulle
piste centinaia di aeroplani. Enormi bombardieri coi
motori scoperchiati attorno ai quali grappoli di meccanici alacri come formiche su un torsolo di mela. In cielo
formazioni di caccia sorvegliavano bonari.
Ma lo stordimento diventò paura quando l’inglese
MP, chieste informazioni, si diresse verso un bimotore
su cui alcuni militari caricavano colli postali: d’un tratto compresi che avrei dovuto volare assieme a altri prigionieri già in attesa.
A bordo sacchi e colli postali prendevano molto spazio. I posti a sedere erano tutti occupati, ma l’inglese liberò due seggiolini nella cabina di guida dietro ai due
piloti. Ci sedemmo. L’aereo si portò su una delle piste e
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rullando sempre più veloce con un’impennata secca mi
spinse l’ansia dal cuore allo stomaco.
* * *
Aver saputo qualche parola nella loro lingua, ma oltre a ies e occhei non andavo e mi rassegnai al peggio.
Certo, sarebbe stata una straordinaria avventura da
raccontare ai paesani: la cattura, gli interrogatori, la
bionda, un bimotore in missione segreta, questo misterioso MP, il quale intanto ciondolando la testa si era
addormentato pacifico sulla mia spalla. Qua tutti,
compreso me, stavamo dimenticando che ero un fior di
sergente dell’esercito italiano, prigioniero di guerra
d’accordo, ma sempre tenuto al giuramento di fedeltà
alla Patria, lasciando ai loro problemi re e reali successori. E se, putacaso, gli avessi sfilato la pistola mandandolo al creatore coi due piloti? Eliminarli forse no,
ma catturarli, eccome. Loro mi avevano fatto prigioniero, adesso la mossa toccava a me e io del grande gioco
alzavo la posta ― non quella nei sacchi, evidente —: li
neutralizzavo con una botta sulla testa e li chiudevo nei
sacconi “Express Mail” di tela robusta. Gli espressi avrebbero tardato, i destinatari portassero pazienza: la
partita era decisiva.
Però bisognava pilotare l’aereo. Ma sì, perché fargli
del male? Pistola in pugno bastava costringerli a cambiare rotta dirigendo magari su Taranto. No, perché
Taranto? Su Roma! Un clamoroso atterraggio
all’aeroporto dell’Urbe. Il giorno seguente sui giornali:
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“Giovane volontario cattura un bimotore coi piloti”,
“L’eroica beffa di Egidio!”, “Una svolta nel conflitto”.
Sicuramente sarei stato ricevuto dal Duce e insieme,
sul balcone di piazza Venezia, mentre la folla in delirio:
“ce - du - ce - du - ce - du...”. Telegrammi con precedenza di Stato per avvertire il federale che preparasse
degna accoglienza per il mio arrivo in Vallesina.
E non si parlava delle reazioni del centurione
Abondi e del podestà. Per la soddisfazione di aver cresciuto un valoroso avrebbero fremuto e con loro invitato a fremere la cittadinanza. Forse sarebbe stato colto
dal fremito anche Tittarelli padre. E se avessi fatto dirigere i piloti direttamente al paese saltando Roma? Una
traversata del Mediterraneo alla maniera di Balbo. Però
avrei dovuto essere certo della benzina nei serbatoi: un
raid simile, peccato portarlo a conoscenza dei pesci. Ma
se benzina, olio, batteria e quanto occorreva occhei, un
balzo fino al campo di aviazione di Jesi. Bussola su Ancona, circa a metà Marche, qui svolta a sinistra: ancora
un venticinque chilometri. Se la pista risulterà corta,
una pista di paese, mano ai freni per non incocciare
nella stalla di Agostinelli appena oltre il limite.
Agostinelli, un mezzadro tignoso. Da sempre gli avevano detto di spostare la stalla che un giorno o l’altro
il Caproni gliel’avrebbe sfasciata. Niente: rispondeva
che se il Caproni gli sfasciava la stalla dopo toccava a
lui sfasciare il Caproni. E tutte le volte che le autorità
gli intimavano di rimuovere il manufatto entro trenta
giorni dalla data della presente, faceva rispondere
dall’avvocato, allegando mappe e bollati, che la stalla
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c’era prima che vi aprissero la pista e che nel sedici,
quando sul campo di aviazione ci calò il dirigibile, il
ministero gli riconobbe, carta canta, il legittimo diritto
della proprietà.
«Vaglielo a far capire che un conto il dirigibile un
conto il Caproni» lamentava il podestà col segretario
politico quando trattavano l’argomento. «Ma tu lascia
che ci aprano l’aeroporto militare e vedrai dove finiranno lui, la stalla e l’avvocato!»
Chissà in questo frattempo ― Dio mio, quasi tre anni!
― come si saranno sistemate le cose. Se avranno aperto
la base, come si diceva, ingrandendo e allungando la
pista o se invece il campo avrà continuato a ospitare solo il Caproncino?
Caproni era la marca milanese di quell’aeroplanetto
col motore tossicchiante che, svolazzando per la valle
nei giorni di sereno, scocciava santi e peccatori. I contadini, roteando l’attrezzo in mano, ci perdevano il
ritmo delle vangate per mandarlo a finire sfracassato.
L’apparecchio apparteneva al marchese Honorati,
nobiluomo a terra e pilota in aria per mostra di soldi e
di arditezza, lo stesso che soffiò la carica di presidente
del Circolo dei Signori al centurione Abondi. Pilota altresì per far gemere di patimento proprio quel suo
grande avversario in cariche il quale, ancorato alla poltroncina, quando sentiva la tossetta del Caproni sopra
la testa, alzava in alto la matita o quel che aveva in
mano, come i contadini la vanga, in più furente per lo
sforzo di trattenere quello che pensava. Solo una volta,
forse perché il volteggio durava eterno, lo sentimmo
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sbottare contro un ragnetto che si faceva la tela sul cornicione: “Stronzo d’un massone!”.
Atterrati a Jesi, dunque, ci saremmo portati sulla
piazza che dista un paio di chilometri: lo stesso Agostinelli, ammesso di non avergli procurato danni, ci avrebbe prestato la carretta e il cavallo. L’avvenimento
avrebbe fatto accorrere i paesani. Preceduti dalla guardia municipale mi sarei recato alla Casa del Fascio e al
cospetto del centurione Abondi in piedi dietro la scrivania, attorno le autorità in divisa con sciarpa azzurra,
avrei sillabato: «Dedico a voi e al paese tutto gli inglesi
meco che ho catturato sugli invitti cieli della Quarta
Sponda!». Una frase per scatenare la passione dei presenti. Il centurione, uno scatto nel saluto romano e dopo un abbraccio mi avrebbe congedato per il meritato
riposo, non senza avermi prima assicurato che questa
volta al sanatorio: «Ma sul serio, non ridere Egidio,
dritto come un fuso.»
Gli altri prigionieri, il bimotore non ancora fermo del
tutto, sarebbero saltati giù e via di corsa alla stazione
ferroviaria in attesa dei primi treni per la propria città.
Il giorno appresso, una tavolata di cinquanta persone, al centro i tre inglesi, con coppe e salami, vincisgrassi, porchette e cacciagione, torte, fiaschi di Verdicchio. Che gli albionici notassero come da noi meglio
che a casa loro dove pochezze: riso nel latte, marmellate e vitello col purè.
Infine gli inglesi sarebbero stati consegnati ai carabinieri e associati al locale carcere mandamentale. Qui,
protetti a vista dall’intero paese ― il carcere apriva due
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celle nel cortile di un antico palazzo ― avrebbero atteso
la fine della guerra imparando il dialetto, familiarizzando con semine e vendemmie, parteggiando nelle interminabili liti fra mezzadri e padroni, per gli uni o gli
altri...
… Si scosse, l’inglese MP, quando il bimotore, dopo
aver volteggiato per scendere, toccando terra cominciò
a sussultare facendo cadere un sacco in bilico.
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Nel campo di concentramento 308 di Alessandria
d’Egitto eravamo più di tremila, di tutte le armi e di
ogni provenienza. Una baraonda da paragonare, moltiplicata, alla sagra dell’uva a Cupramontana dopo che
era stata svuotata la grossa botte del Verdicchio gratis:
confusione, clamorose risse, sciami di mosche in vorticosi trasferimenti da una tenda all’altra, dall’infermeria
alle latrine, alle cucine.
Ogni mattina, in fila per quattro, fuori dal campo
qualche chilometro, a lavorare di mazza in una cava di
pietre per dieci ore al giorno. Solo la sera, sul tardi,
lambiva il campo un filo di brezza e attorno e dentro le
tende calava, con la malinconia, la serenità e il silenzio.
Allora si leggiucchiava qualche libro che ci procurava il
cappellano, si giocava a carte, ma ogni pretesto era
buono per rituffarci a parlare di donne, io logicamente
della bionda sulla quale cesellavo particolari che lasciavano gli uditori attoniti.
Atteso divertimento per rompere la monotonia lo
spettacolino di varietà che si organizzava, possibilmente, ogni sabato. Alcuni anziani prigionieri, c’era chi nel
campo da più di tre anni, avevano messo in piedi un
teatrino nel quale si esibivano ex attori, suonatori e
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qualche giovane soldato predisposto alla ribalta. Mandolino, chitarra, fisarmonica e batteria per la musica;
un comico, una spalla, un cantante e un dicitore, virtuoso di tippetà quanto zozzone nel raccontare laide barzellette, per la prosa e il canto. Infine, cinque ballerinette, che poi erano tre marinai, un geniere e uno della
contraerea truccati da donne: sulla locandina scritta a
mano figuravano coi nomi di Mary, Frufru, Manuela,
Katia e Sandrina.
Quand’ero ragazzino, nonno aveva sempre esortato
mamma a tenere gli occhi vigili quando calavano in
paese i suonatori ambulanti e gli zingari perché alle
prime note degli strumenti, il cervello risucchiato dalla
melodia, avrei seguito quella gente malnata dentro le
loro tane. Nonno mi conosceva bene. Ero sempre stato
attratto dai circhi di periferia. Nei giorni in cui qualche
carovana si attendava in uno spiazzo fuori dal paese,
solitamente ai primi di settembre per la festa del patrono, duravo ore appollaiato sopra un albero a osservarli
strigliare i cavalli, stendere al sole i costumi colorati,
preparare gli attrezzi per la rappresentazione. E appetivo quella vita girovaga in un continuo cambio di scenario: per le strade assolate in un concerto di grilli
d’estate, con la pioggia battente sul tendone nei mesi
autunnali. Naturale che il teatrino di prigionieri mi attraesse, che sentissi arrivato il momento magico per
quella mia inclinazione.
Mi offrii già la prima sera. Dopo lo spettacolo andai
dal comico, gli dissi di una mia esperienza nella filodrammatica al paese, che sarei stato contento di contri84
buire a alleviare la prigionia dei nostri connazionali:
disponibile per ogni incombenza. Fui accettato, con la
mansione di magazziniere e trovarobe.
Quanto mi piaceva sentire e risentire il comico che
sapeva recitare con una mimica buffa certe scenette su
situazioni di conventi di suore scambiati per case di
tolleranza. E godevo per le melodie napoletane che il
cantante modulava ai limiti del singhiozzo, gli occhi
umidi di passione come il bracco sulla beccaccia, canzoni che lasciavano la platea stordita per cui l’applauso
scrosciava sempre con un piccolo ritardo dall’ultimo
gorgheggio. Pure mi affascinavano gli straccetti che vestivano i cinque del balletto, straccetti che alla luce delle poche lampadine colorate degli effetti di luce, meravigliosamente si trasformavano in costumini allusivi,
risplendenti di polvere d’oro.
Le cinque forosette: Katia, Frufru, Sandrina, Mary,
Manuela... nella loro parte sulla scena. Viste da vicino
un conto, ma giù dalla platea un prodigio. Per mantenere i sentimenti bisognava fare appello alla mamma e
alla patria lontana e, chi voleva, a Casa Savoia. Ma non
tutti questa ragionevolezza erano capaci di imporsela.
Non me ne ero subito accorto perché finito lo spettacolo restavo a sistemare la roba fra le quinte per poco
tempo, ma una notte che mi capitò di attardarmi, spente le luci, notai diverse ombre che si muovevano nei
paraggi con l’aria di starci per caso. Intervenendo ebbi
modo di misurare l’enormità dello scandalo.
«Qui non c’è mica il miele!» dissi irritato alle ombre:
«Inutile ronzare, chiaro?»
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Silenzio. Le ombre immobili. Spazientito, insistetti:
«Ohé, queste non sono ballerine, ma uomini col pelo!»
«Meglio!» rispose una delle ombre fra le ombre della
notte.
Aveva ragione il cappellano del campo che nei predicozzi dopo la messa domenicale concludeva sempre
«Questo andazzo non mi piace.»
Ma il più in fregola per il balletto era lo stesso capitano inglese, un uomo sui quaranta addetto al velfeir,
una specie di ufficio benessere per loro ma pure per noi
se gli avanzava qualcosa, responsabile anche del teatrino. Si faceva vedere sul palcoscenico un’ora prima
dello spettacolo e, con la scusa che a Londra frequentava i teatri, le “ballerine” se le truccava lui. Apriva una
valigetta piena di oggettini profumati e procedendo
lentamente, le vene delle tempie inturgidite, una per
volta le incipriava, ce la metteva tutta a pittargli la boccuccia a cuore col rossetto e infine, girando una matita
fra il pollice e l’indice, gli segnava sul collo ― esse, alla
punturina, «ahi!» ― un piccolo, malizioso dicevano,
neo blu. Del disturbo maniacale ne parlai con il comico
che, avendo pure la funzione di capocomico, era tenuto
al buon nome della compagnia:
«Con le due luci della ribalta, ma chi li vede questi
nei? Almeno glieli facesse sulle guance!»
«Non si vedono ma si avverte che ci sono, eccome! E
poi, se lui vuole così, che ti frega, provvede tutto!»
Una sera arrivò più gasato del solito. Aveva procurato cinque paia di calze fumé da donna. Velate, come
mai le avevo viste nemmeno sui polpacci delle più ele86
ganti del paese. L’inglese mostrò le calze e tanto insistette coi militari già truccati da ballerine, i quali si
schermivano capricciosetti, che finì per infilargliele lui
stesso. E nella operazione aveva gli occhi del vampiro
mentre scopre la bara, imbranato a tal punto che al comico che stava a osservare la mattana dissi: «Adesso gli
schioppa l’aorta e ci tocca sospendere per lutto.»
Con questo teatrino, tuttavia, avevo aggiunto fatica a
fatica. Solo gli attori e i musicanti usufruivano
dell’esenzione dal lavoro giornaliero, mentre io dovevo
continuare a squadrare le pietre nel deserto: mi lasciavano libero alle diciotto. Insomma, cominciai a sentirne
il peso.
* * *
La possibilità di cambiare vita c’era, bastava farsi avanti. Il 308 era un campo transit, un punto di smistamento dei prigionieri. Un sergente maggiore inglese
ogni due o tre giorni chiamava l’adunata e, lista alla
mano, chiedeva chi fra noi avesse esercitato da borghese il tale mestiere: una volta cercavano idraulici e macchinisti a vapore, un’altra parrucchieri; l’ultima carpentieri, muratori e sarti.
Io nella vita avevo praticato soprattutto campi Dux,
che potevo fare: mi arresi allo scalpello. Fui spinto a
porre l’orecchio quando mi accorsi che alcuni prigionieri, lattonieri e fabbri nati e vissuti, si erano offerti
come salsisti e pasticcieri e qualche mese dopo, dove li
avevano trasferiti a cucinare le salse, avevano scritto
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che si trovavano in una grande mensa ufficiali, frequentavano cameriere di vari colori e ricevevano in
mance pugnate di scellini.
Pure i quattro che si erano qualificati tecnici oleodinamici, domandati anche questi, magari qualche patema d’animo nei pochi giorni prima dell’incarico, ma
avevano fatto amicizia e si appartavano tranquilli cercando d’immaginare che cavolo fosse un apparecchio
oleodinamico, perlomeno a che servisse. Solo uno di loro ― da borghese lavorava all’anagrafe del comune di
Sulmona ― sembrava irresoluto e in giro per il campo
chiedeva se qualcuno ne sapesse qualcosa. Un geniere,
vantando studi, buttò lì un’ipotesi, che il congegno in
qualche modo entrasse nel ciclo dalla raccolta delle olive all’imbottigliamento dell’olio, e tanto bastò per rassicurare il quartetto. Comunque il nostro di Sulmona, a
immaginarlo mentre un inglese gli avesse consegnato
l’attrezzo “e adesso, amico, mettilo in funzione”, destava solidarietà. Invece si venne a sapere che i quattro
spericolati, in un buon posto, venivano apprezzati e
uno di loro si era anche fidanzato con una soldata irlandese anch’essa nel ramo. Però a noi la curiosità di
sapere che accidenti combinassero in concreto restò insoddisfatta.
Insomma, sollecitato da queste rapide e positive riconversioni di attività, decisi che per me era il momento dell’azzardo, senza ripensamenti, e giurai solenne
che mi sarei offerto per il primo mestiere che fosse in lista, tanto macchinista, suonatore di cornamusa ― sorprendeva la varietà di specialisti che gli inglesi necessi88
tavano per i propri servizi ― o palombaro, uguale più
uguale, ma con la speranzella che nella lista comparissero anche “uscieri”.
* * *
Un pomeriggio solita chiamata, il cuore mi sbalzellava. Già stavo pentendomi del giuramento. Il sottufficiale lesse il foglietto e l’interprete tradusse: «Attenzione...
si richiedono artisti: pittori ritrattisti, incisori, esperti in
mosaico e affresco, restauratori». Immediatamente sostituì San Settimio con la riserva: me l’aveva combinata
grossa! Tuttavia, fra i fumi della rabbia, vidi che un nutrito gruppetto di prigionieri aveva fatto, come al solito, il passo avanti. Non mi risultava che fra noi ci fosse
un drappello di mosaicisti e esperti in affresco e restauro. Evidente: la solita solfa dei lattonieri diventati salsisti e pasticcieri. Sia pure con ogni incertezza, anch’io
feci il mio cauto passo avanti.
La stessa richiesta di artisti dovevano averla fatta
negli altri campi transit sparsi per il Medio Oriente
perché di ritrattisti e paesaggisti ci ritrovammo, nella
caserma dove ci avevano raggruppato giorni dopo per
un colloquio, in tanti da mettere in piedi una mezza
compagnia. Stavamo in attesa che arrivasse qualcuno,
chi diceva una commissione per esaminarci e chi un
qualche celebre maestro inglese per scegliersi i meglio.
Nel mentre ci guardavamo in cagnesco, ognuno sospettoso di vedersi sopraffare dall’arte altrui. Io non potevo
che rimanere neutrale e molto preoccupato.
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Arrivò un ufficiale inglese insieme a un tenente colonnello dei nostri. Finalmente se ne rivedeva uno e ci
fece piacere: strette di mano, qualche abbraccio.
«Cari figlioli» parlò il tenente colonnello «sono felice
di stare qualche minuto con voi. So che non ve la passate bene. Vorrei potervi aiutare tutti, neanche dirlo,
ma questa volta si tratta di un lavoro importante. Da
borghese io insegno all’accademia di Bologna, qualcuno di voi forse mi conosce. Mi hanno chiamato dal
campo dove sono rinchiuso apposta per esaminarvi...
Pertanto chi di voi, per motivi che non interessano, volesse tralasciare, lo dica... Non mancheranno più facili
occasioni…»
Della mezza compagnia di artisti ne restò una dozzina. L’ufficiale, adesso convinto della loro maestria, disse che non era certamente il caso di fare esami.
Come mia consuetudine, al momento non avevo deciso: con una gamba, saggiamente, stavo coi pittori
mancati, ma con l’altra non troppo discosta dagli artisti
veri, al punto che percepite le ultime parole del colonnello, m’intrufolai nel gruppetto ― l’impudenza ci mise
del suo ― appena in tempo per riceverne il viatico:
«Addio, figlioli: onorate l’arte italiana».
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Per volere della provvidenza, in terra araba necessaria più che altrove, eccomi affreschista restauratore:
una farsa. Ma come tranquillità, peggio dei nostri carristi nel momento di infilarsi dentro il piccolo cingolato
Elletrè.
Partito il tenente colonnello, superammo l’imbarazzo che divide una comunità di persone che ancora
non si conoscono, ma che sanno di dover navigare insieme, spingendoci alla confidenza:
«Ferri, accademia di Brera, piacere...»
«Zecchillo, artista pubblicitario: scuola d’arte di Firenze…»
«Molto lieto, Pirani: istituto del Vaticano…»
Eccetera. Io mi limitai a borbottare che ero sergente.
La gioia di ognuno nel ritrovare colleghi artisti con i
quali riannodare quelle comuni esperienze che ormai
parevano insabbiate sgorgò felice. E il mistero che ancora ammantava l’avventura che si andava prospettando contribuiva a accrescere l’euforia del gruppo.
Gioia e euforia furono interrotte da un graduato indiano che ci accompagnò nel magazzino di una caserma
dove fummo rivestiti coi loro panni. Piccola differenza
la scritta “Italy” sulle spalline della giubba.
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L’attività artistica cominciò la mattina seguente
quando lo stesso graduato indiano, su un autocarro, ci
condusse in quella che poi doveva risultare la nostra
residenza. Scendemmo davanti a una cancellata dietro
la quale appena s’intravvedeva, seminascosta nel verde
del parco, una costruzione bianca. Varcato il cancello,
ci inoltrammo per l’ombroso vialetto fino alla scalinata
di quello che si rivelò un fabbricato a due piani: «Tipico
esempio di villa stile anglo-coloniale» commentò uno
dei pittori.
Tutt’in giro un tappeto verde che bisognava toccarlo
per credere che fosse di erba rasa, quindi boschetti di
cedri che tagliavano sul terreno fette di ombra fresca.
Sul retro forse il mare: fra le agavi, dove le foglie erano
meno fitte, baluginavano gemme azzurre. Stavamo osservando il luogo quando ci venne gioiosamente incontro un maggiore inglese, severo in apparenza ma ilare
nella sostanza, il quale ci strinse la mano felice di conoscere i nostri nomi e cognomi. Ma lui si presentò col
semplice nome di Pol. Sentivo dire Pol ma avrei dovuto
pensare Paul: lo scopersi più tardi vedendolo firmare
una ricevuta al graduato indiano. Comunque, Pol risultava più affabile.
Il maggiore Pol, tramite un arabo interprete, ci invitò
a entrare nel salone al pianterreno e intanto ci confidò
che da borghese, a Mancester sua dimora, anche lui avrebbe amato fare il pittore di professione, che comunque un’oretta al giorno la passava con la tavolozza e le
feste e le vacanze a dipingere. Aggiunse che aveva una
grande venerazione per Raffaello e Tiziano e per altri
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maestri della stessa forza ma più, tenne a ribadire, per i
primi due. Da quel momento, quindi, ci trattassimo da
colleghi.
Assentimmo con entusiasmo su Tiziano e Raffaello.
Eravamo tutti sotto carica artistica meno l’arabo, refrattario forse alla bellezza, il quale si limitava alla traduzione con un occhio sul maggiore e l’altro, essendo
strabico, svagato fra gli alberi del parco.
Placatasi la manifestazione il maggiore Pol riprese
l’autorità, ma scusandosene quasi avvilito. Ci spiegò
che sotto la sua guida, ma non di carattere artistico ―
«che non equivocassimo su questo punto!» ― il gruppo
avrebbe dovuto svolgere i seguenti compiti: decorare i
ritrovi dell’esercito alleato come teatri, mense, chiese,
sale di lettura; eseguire ritratti agli ufficiali superiori
che lo avessero richiesto e alle loro signore; dipingere
vedute e scene di caccia alla volpe per gli uffici dei comandi; altri lavori che al momento non era possibile
prevedere. Quindi stappò alcune bottiglie di vino,
riempì i bicchieri e insieme brindammo al felice incontro, di nuovo inneggiando all’arte che, al di sopra della
guerra che ancora stava dilaniando l’umanità, rappresentava il faro a cui i popoli dovevano illuminarsi per
ritrovare la pace. I vecchi soldati induriti del giorno
della resa, se per ventura fossero stati presenti, avrebbero pianto di nuovo.
Nel frattempo l’arabo interprete stava rientrando con
altri arabi che portavano cestoni di materiali. La festa si
concluse con la distribuzione di cavalletti chiusi, tavolozze, cassette di colore, bottigliette, barattoli, lattine
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con liquidi vari, tele, pennelli di ogni misura, carboncini, raschietti, spatole, rotoli di carta, tavolette e altre cose.
I colleghi soppesavano i tubetti, li aprivano per controllare la pastosità del colore fra l’indice e il pollice,
saggiavano la ruvidezza della tela e la morbidezza dei
pennelli, saltellavano per il salone col cavalletto in mano fiutando la luce alla ricerca del punto migliore per
liberare, in un cicaleccio felice, quella fantasia di dipingere così a lungo repressa per la guerra.
Io non fiatavo, nell’angolo più discosto, preoccupato
per primo di risolvere il problema del cavalletto che gli
altri avevano aperto, allungato e fissato in pochi secondi. Avrei dovuto possedere cinque mani: tre per
fermare le tre gambette, una per l’asta superiore, una
per stringere i galletti di fermo. Fra l’altro la mia tela
sembrava più grande delle altre. Però mi sbagliavo.
Quando mi riuscì di confrontarle, per puntiglio, vidi
che erano uguali. Dovette trattarsi di un abbaglio dovuto a qualche miraggio tipo Fata Morgana, caratteristico da queste parti: nel deserto, quante volte durante i
combattimenti cercavamo di bere da fusti che invece di
acqua contenevano benzina e, quando usavamo gli
stessi fusti per rifornire gli automezzi, la benzina era
diventata acqua.
Adesso c’era da spremere i tubetti sulla tavolozza,
ancora qualche minuto di tregua. Respingevo che cosa
avrei pitturato arrivato al dunque: sarei rimasto secco.
* * *
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«Hanno ragione i proverbi!»: mi rammaricai di non
aver ascoltato Colletta, professore di disegno quando
all’esame per la licenza inferiore mi rimproverò: “Egidio, tu conosci solo l’arte di farti promuovere coi Campi Dux”. Averla imparata sul serio, adesso l’avrei avuta
disponibile per sopravvivere. Il pensiero sostò per
qualche attimo sul passato: le preoccupazioni sofferte
durante le battaglie, a confronto con le attuali, mi apparirono come quei passatempi per i disoccupati al circolo del Dopolavoro. Ricordai nonno, cuoco e filosofo,
quando babbo s’infuriava per i vincisgrassi troppo salati e nonno gli rispondeva a tono che meglio i vincisgrassi salati di un infarto. Ci voleva anche per me una
filosofia così: in fondo, pensando al peggio, più che restituirmi al teatrino del campo il maggiore non avrebbe
potuto. Ma sì, che ci stavo a fare qui?
Come con il dentifricio svitai il cappelletto dei tubetti
e spremetti un poco di ogni colore sulla tavolozza, allo
stesso modo dei colleghi, a cerchio sul bordo. Ma il
momento della verità: fatale! Delle due, una: attaccare
coi pennelli o gettarmi ai piedi del maggiore invocando
pietà per questo inerme sconvolto dalla guerra.
Intanto gli artisti, con straordinaria bravura, abbozzavano i loro soggetti: chi un paesaggio, chi delle cuccume e delle bottiglie, chi una donna svestita, chi un
cavallo. Cercai di cogliere nelle loro tele un suggerimento e mi parve di capire che forse avrei potuto tentare con un cielo senza nuvole: il cielo è azzurro, sarebbe bastato pitturare l’azzurro. Presi uno dei pennelli
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del mazzo, lo avvoltolai nel colore azzurro e lo sfregai
sulla tela.
Impossibile: il colore troppo denso, la tela troppo ruvida, non capivo. Forse avevo scelto un pennello inadatto, infatti le setole, eccessivamente morbide, cedendo alla pressione, non lasciavano una pennellata ma
solo uno sporco di colore. Meglio un pennello più rigido e ne presi uno del diametro circa di quello con cui
babbo rifilava gli zoccoletti quando la trattoria era
chiusa.
Però il colore sulla tavolozza adesso neanche bastante per impregnare le setole. Chissà, più facile da stendere, meglio quello meno denso nei barattoli: qualcuno
dei pittori li aveva preferiti ai tubetti. Apersi il barattolo dell’azzurro e ne versai parte sulla tavolozza. Più del
dovuto: la massa dell’azzurro mi andava a invadere i
confini dei colori a fianco minacciando un mescolo da
doversi evitare. Per ripristinare la separazione era indispensabile un intervento d’urgenza e con una spatolina
cercai di delimitarne una montagnola nel mezzo della
tavolozza. Ma qui l’azzurro, già lordato di giallo e di
rosso, cercò di svignarsela con un filo fino al pavimento. Tentai di arginarne la colata con una spatola più
larga. Ma il ribelle, deciso a non voler sopportare la
mia ordinazione artistica, debordava, si stendeva a toccare gli altri colori, finora quieti, per trascinarli nella
sommossa. Dovetti raccoglierlo con gli stracci e il fazzoletto, ma ne ero uscito imbrattato di colore e dopo
aver fatto azzurrare il cavalletto e qualche piastrella del
pavimento.
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Gli artisti, smesso di dipingere, mi stavano osservando come a uno di quei fenomeni viventi che suscitano insieme curiosità e disgusto. Il maggiore Pol si era
avvicinato seguito dall’arabo e entrambi mi fissavano
sconcertati. Veramente l’arabo puntava le scope nel
sottoscala, ma aveva il naso nella mia direzione.
«Adopera l’acquaragia…» disse uno degli artisti, mi
parve diretto a me. L’acquaragia: in vita mia avevo mai
posseduto acquaragia?
«Ne avessi.... Un peccato non abbia acquaragia...»
mormorai trepidante.
«Ma sì che ce l’hai: nella lattina!» insistette lui caparbio.
Di lattine ne avevo ricevute diverse: tutte contenevano acquaragia, oppure solo una: nel caso, quale?
«Sì, ce l’ho l’acquaragia!» risposi col ghigno del teschio nella grotta quando è illuminato dalla candela.
Mi buttai senza paracadute e apersi una lattina.
L’odore era sgradevole: provai ad assaggiarne il contenuto con la punta della lingua come si fa con l’aceto,
ma l’artista che aveva parlato si appressò e mi tolse la
lattina: «Questo è olio di lino cotto. Ecco l’acquaragia!»
disse porgendomi un’altra lattina. «Sei pallido: ti senti
poco bene?»
«Non volevo dirlo per non disturbare la riunione, ma
sto male…» risposi attaccandomi a quell’estrema possibilità di salvezza.
L’artista dopo un momento di riflessione parlò
all’arabo, questo tradusse al maggiore Pol il quale annuì. Seguendo l’arabo, fatta una rampa di scale, entrai
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in una camera arredata con quattro letti e mobili vari.
Passai il resto del pomeriggio a liberarmi dell’azzurro che avevo addosso trasferendone parte sugli armadietti, sulle sedie e gli asciugamani. Seppi in seguito
che nella gamma l’azzurro è il peggio: se ti aggancia,
difficilmente molla la presa.
Dei passi sulle scale. Erano gli artisti che, sfogata
quella gran voglia di dipingere, scioccheggiando salivano alle camere. Mi alzai dal letto e vidi venirmi incontro il pittore che aveva incautamente parlato
dell’acquaragia. Notai che era simpatico, anziano sui
trentacinque.
«Allora, come stai?» mi domandò.
«Come sto... Nei guai...»
«L’ho visto» sorrise lui. «Mi chiamo Ferri, e tu?»
«Calandra... Egidio...»
«Stavi male? No, vero?...»
«La verità, io sono il contrario di un pittore...»
«Dammi del tu. L’ho capito quando hai aperto il cavalletto: ma come sei capitato qui? Mi sembri un ragazzino...»
«Ho tentato, speravo nella fortuna...» e gli raccontai
delle pietre da squadrare nel deserto e del resto.
«Non vedo che relazione ci sia fra questa commovente storia, non discuto, e l’arte: qui non ci stiamo per
scherzare.»
«Hai ragione. Vado dal maggiore e confesso...» facendo per uscire dalla camera.
«Ma no, ormai ci sei! Vuoi tornare nel deserto?» mi
confortò lui che certo era un brav’uomo.
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«Capisci? Io della tavolozza non so niente!»
«Adesso avvertiamo gli altri...»
A questo punto Ferri, che pareva il più autorevole,
radunò gli artisti e li informò. Dal compatimento si
passò alla sfottitura, alle proposte concrete. Dopo pro e
contro conclusero che era meglio che io continuassi a
fare il pittore arrangiandomi come potevo quando il
maggiore era presente, ma questo non doveva avvenire
spesso perché sembrava piuttosto occupato con
l’ufficio del proprio comando, mentre durante la sua
assenza il quadro l’avrebbe portato avanti uno di loro.
Infine Ferri mi fece il riassunto del riassunto di un
rapido corso di pittura: come diluire un colore e stenderlo sulla tela, quale pennello adoperare e l’uso
dell’acquaragia. E per cominciare mi consigliò un paesaggio del quale mi schizzò lo schema su un foglietto:
un albero sulla sinistra, una casa bianca nel mezzo, dei
cespugli e un grande cielo senza nuvole. Adesso, tranquillo: i problemi li avremmo risolti appena si fossero
presentati.
* * *
La notte seguente meglio l’avessi passata passeggiando: la mattina sarei stato più riposato. Sul letto mi
toccò bere i calici della delusione e dell’impotenza. E
quando riuscivo a assaggiare il sonno, sogni tremendi:
dovevo pitturare su un muro del paese, anziché una
delle solite frasi mussoliniane, un grande quadro mentre il maggiore Pol e il centurione Abondi, questa volta
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alleati, brandendo pennellesse minacciavano ridendo
da pazzi di tingermi di azzurro se l’opera non fosse riuscita alla Tiziano. Posi fine al tormento levandomi che
era ancora buio. Sedetti sul letto e aspettai l’ora della
sveglia. Appena vidi Ferri muoversi non gli detti il
tempo di aprire gli occhi e raccontai i tormenti
dell’intera notte.
Ferri prima sbuffò, finché gli durò l’intontimento del
sonno ma poi, rallegrato dal sole fresco del mattino,
continuava a ridersela e provava a calmarmi tentando
di sdrammatizzare la situazione nella quale vedeva
travagliarmi ai limiti della disperazione.
«Devi rimanere calmo» disse «non succederà niente...
E poi la pittura puoi averla studiata una vita e non averci capito niente, mentre puoi toccare la poesia la
prima volta che usi i colori...»
«Che c’entra adesso la letteratura?»
«Poesia nel senso... Lasciamo perdere. Guarda la felicità espressiva dei bambini con le matite colorate...»
«Io dei bambini ho sempre visto scarabocchi. Pupazzi col testone e le casette in pendenza!»
«Eh, potessi farli uguali... Non puoi capire...»
«Sì, invece: vuoi farmi passare da deficiente... Forse
riusciamo a sfangarla...»
«Non capisci nulla!... Segui lo schema, al resto ci pensiamo noi. Piuttosto, fatti vedere disinvolto dal maggiore, padrone del mezzo tecnico.»
Alla menzione del maggiore mi si ammosciarono le
forze. Padrone del mezzo tecnico: già troppo restare in
piedi appena fosse entrato.
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Ferri intanto continuava coi consigli: per il cielo un
tot di azzurro, quanto una nocciola, mischiato con tanto bianco quanto dentifricio per due lavate di denti; per
le foglie il solito bianco, altrettanto verde e un quartino
di ocra chiara; per le montagne come per il cielo ma
aggiungendo una presina di rosso.
Scendemmo nel salone e ognuno riprese gli arnesi.
Accidenti, il maggiore arrivò subito e entrando ebbe
occhi solo per me. Stessa invocazione all’arte, ancora
nominando Raffaello e Tiziano. Da parte mia, dovendo
risolvere da solo almeno il problema dell’inizio del
quadro, tentai di mettere in pratica i suggerimenti di
Ferri, ma subito cercando di vincere il tremore delle
mani che minacciava di rivelare d’acchito al maggiore
che razza di pittore stesse inquinando il suo gruppo di
artisti.
Spremetti a ciambella un dieci centimetri di bianco,
sopra la ciambelletta due di azzurro, questo molto delicatamente, e quindi una colatina di olio di lino cotto.
Mischiai il tutto e fui sorpreso vedendo che ne veniva
un brillante colore celeste, ottimo per un cielo luminoso
riscontrabile verso le otto del mattino. Presi un pennello del numero nove e cominciai a stendere l’impasto
sulla tela dal bordo in alto venendo giù con pennellate
tremolate per ottenere un certo effettaccio. Avrei spennellato serenamente e pure con gusto se il maggiore
Pol non avesse continuato a girellarmi attorno. Forse il
cielo gli sarà sembrato troppo chiaro, forse ampio: stavo oltrepassando un quarto della tela. Ma in fondo un
quadro poteva avere per soggetto anche un cielo. A
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sbloccare la situazione fu l’arabo venuto a chiamarlo
per una telefonata. Il maggiore non fece in tempo a uscire dal salone che Ferri, Zecchillo e un altro di cui non
conoscevo ancora il nome, si buttarono sulla mia tela
coi pennelli e con una rapidità impressionante vi dipinsero a larghe macchie una casa rossa, un pagliaio giallo, due mucche marroni e una carriola arancione. Almeno, tali sembravano.
Il maggiore, quando rientrò, rimase stupefatto sulla
porta. Si avvicinò quatto e per qualche secondo, mentre
io pasticciavo sulla carriola, lo sentii soffiare in inglese.
«Iù modern?...» sibilò.
Io lo guardai allo stesso modo che si interroga il cielo
quando è nero di nembi per vedere se scoppia la bufera: muto e preoccupato.
«Iù modern!» insistette, ma questa volta con disprezzo.
Che avrà voluto intendere con una frase così minacciosa? Forse non gli sarà piaciuto il quadro? Ma non era
ancora finito, e mi sembrò giusto avvertirlo:
«Non essere finito: molte ore...» balbettai alla Stanlio,
facendo con la mano un lento giro nell’aria nella speranza di fargli capire che come pittore ero lento.
«No finisc, ah: iù modern!» ringhiò furioso.
Evidente, il quadro gli faceva schifo. Con gli occhi
implorai Ferri che, vedendomi sull’orlo del cratere, si
era accostato.
«Egidio, il signor maggiore non condivide l’indirizzo della tua pittura che forse ritiene eccessivamente
impressionistica» disse Ferri strizzandomi l’occhio.
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«Ferri, diglielo: tu sai che pur volontario di guerra io
non conosco l’indirizzo di nessuno e non voglio, giuro,
impressionare tantomeno il signor maggiore né voi pittori e amici!»
«Non fiatare» mi bisbigliò Ferri all’orecchio. E rivolto
al maggiore: «Ies, Egidio is veri modern.»
Entrambi sospirarono come per un contrattempo e
fecero gesti che chiaramente significavano disappunto.
La mia angoscia stava sfociando nell’idea liberatrice,
disponendo di adeguato veleno, del suicidio.
All’ostile manifestazione si associarono gli altri e tutti insieme, davanti al mio quadro, ostentarono critiche
beffarde. Solo l’arabo, meno severo, si limitava a scuotere la testa. Io fremevo dalla voglia di gridare che la
casetta, le mucche e la carriola, imbroglioni matricolati,
me le avevano pitturate loro: perché se la prendevano
con me se adesso cambiando parere non gli piacevano
più?
Mezza mattinata passò con discorsi pieni di “modern” e di “non laic”, frase questa, mi avvertì l’arabo,
che voleva dire, chiaro e tondo, “non mi piace”.
Verso le dieci il maggiore se ne andò. Adesso mi dovevano spiegare il voltafaccia. Ma Ferri mi prevenne
dicendo che invece era stata una fortunaccia e spiegò
che nel mondo i pittori andavano divisi in due categorie: nella prima i tradizionalisti, in breve i pittori sul serio che dipingevano le cose come nella realtà: una faccia per la faccia, un campanile per il campanile. Mentre
nella seconda i moderni i quali si prendevano ― o gli
accordavano: non compresi bene ― la licenza di non
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rappresentare le cose in modo naturale, ma nella più
sbrigliata fantasia. Per una faccia, un fiore, un gatto: alé, pennellate in libertà.
Nella mia posizione, non avevo scelta. Portassi pazienza: dovevo mettermi nella seconda categoria, a
quanto capivo, fra gli scombinati. Pertanto spruzzi e
macchie a buon peso, volendo anche con entrambe le
mani. Il maggiore mi aveva affibbiato l’etichetta? Ne
approfittassi. Adesso mi poteva criticare, odiare, affidarmi al tribunale della Sacra Rota, ma non avrebbe
potuto negare che fossi uno che usava i pennelli.
Io lo guardavo, mentre parlava, montando di sbalordimento. Ferri dava l’impressione di una persona assennata: possibile volesse beffarmi, complici gli altri
che avevano annuito per tutto il tempo del suo barzellettare, in un momento per me così tremendo? Tacevo,
ma al paese avevo visto decine di quadri in chiesa, nei
palazzi dov’ero entrato per riparare la luce con Paoletti
e non parliamo della villa del conte Baleani Tesei, una
pinacoteca, ma nessuna di quelle opere mostrava macchie senza scopo. E perché gli abbienti avrebbero pagato fortune per appendere quadri alla moderna potendo
pitturarli da sé visto che era così facile?
«Ferri, scusa, non me la racconti mica giusta...»
«Egidio, senza offesa, capisco la tua ignoranza...
Guardami negli occhi: su quello che ho di più caro al
mondo, madre e figli, ti giuro che è così!»
Potevo rispondere? Far giurare sui figli pure gli altri
e magari il maggiore Pol? Dovetti rassegnarmi, ma
nell’intimo dubitavo: mi sembrava di aver subito una
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prepotenza.
Adesso non avevo più bisogno di consigli «che anzi»
disse Ferri «avrebbero potuto offuscare la mia bella freschezza». Per il quadro cominciato da me col cielo celeste e portato avanti da loro, assente il maggiore, con la
casa rossa, le mucche marroni e la carriola arancione,
era sufficiente che tingessi, colori a piacere, le parti tralasciate per la fretta.
Nel pomeriggio otturai diligentemente i buchi bianchi sulla tela servendomi di tre tinte: rosso scarlatto,
blu oltremare e giallo cadmio. Un’arlecchinata disgustosa da far imbestialire ogni amante del bello, figuriamoci il maggiore Pol che degli amanti del bello era il
campione. Chissà lo sconquasso appena fosse rientrato.
E se mi avesse chiesto di raccontargli che cosa avevo
voluto pitturare e magari il titolo del quadro? Ferri aveva dimenticato di toccare il tasto del titolo. Secondo
me, comunque, a questo era impossibile dargli un titolo
e se il quadro non poteva reggere la responsabilità di
un titolo voleva dire che non lo meritava e ciò significava che Ferri mi aveva raccontato la favola del merlo.
Entrò deciso il maggiore e senza fiatare venne dalla
mia parte. Ferri si avvicinò, io tocchicchiavo la tela col
pennello, ma stringendo i denti a parare ogni qualità di
insulti inglesi.
«Ies, is veri modern...» commentò sorridendo Ferri
per superare l’impaccio.
Era entrato anche l’arabo convinto di dover tradurre
molto ma invece inutilmente. Il maggiore muto come
era venuto si era andato a chiudere nel proprio offis.
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«Hai visto?» mi disse Ferri «Ti ha già certificato... E
poi secondo me il maggiore non brilla...»
«Brilla, brilla!... Che vuoi dire che non brilla?»
«Sorvoliamo... Non approva ma non può fare niente...»
«Quello è andato a telefonare al 308 di venirmi a riprendere... Se mi avesse chiesto il titolo del quadro sarei svenuto.»
«Per il titolo, me n’ero dimenticato. È facile: finito il
quadro guardi il colore dominante e lo titoli col nome
di quel colore. Per esempio, “Opera in verde”. Oppure
in base alle cose dipinte: “Gallina sotto l’ombrello”,
“Tramonto con l’imbuto”...»
Mi trattenne di forza San Settimio, il santo protettore,
ma stavo per sbottare in una di quelle risate come Bighello al paese: «“Tramonto con l’imbuto”, causale per
il manicomio.»
«Per questo andrebbe bene “Mucche otturate col
giallo cadmio”?» dissi, avendo la spudorataggine di fare l’ironico. «Bravo, ci sei portato...» rispose Ferri.
Nei giorni seguenti mi rifeci agli insegnamenti di
Ferri. Cominciavo dall’alto a sinistra e venivo giù
riempiendo a casaccio, imbrattando la tela con ogni
soggetto che ritenessi facile: casette, figure tipo “Gigi fa
la more con Pina”, strisciate variopinte e macchie. Con
l’aggiunta, a buon peso, di spatolate di colore da chi di
loro per caso passasse di lì.
Ma il maggiore Pol non aveva certificato un bel niente. Ogni volta che mi veniva vicino, accadeva spesso,
scaricava su me, direttamente o tramite l’arabo, tutto il
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disprezzo che, uno votato come lui alla classicità, doveva aver accumulato nella vita contro la pittura moderna in genere e adesso la mia in particolare. Scoppiava in discorsi folli contro certi Brac e Matìs, che a me
suggerirono un duo dell’avanspettacolo, ma soprattutto con un tale Picasso. Questo doveva avergli combinato qualche sgarbo personale, forse in guerra oppure a
casa a Mancester, perché lo annientava con frasi intraducibili, tanto che l’arabo si affannava sfogliando il vocabolarietto.
Che le mie tele inoltre sparissero anche prima del
tocco finale, una stranezza, e alle mie rimostranze ambidue, il maggiore e l’arabo, se la filavano in comunella.
Intanto il tempo non è che ci avesse aspettato, qualche settimana se n’era andata, ma infine il lavoro vero
era cominciato: a Ferri venne assegnata una tempera in
una chiesa, una pittura alla maniera di un tale Funi,
suo professore a Brera; Zecchillo impegnato in un ritratto di un generale; Carone, specializzato in vedute di
Capri, pittava per una sala di lettura di un circolo neozelandese; Pirani e altri due dovevano decorare i muri
di una mensa indiana illustranti episodi con Budda
protagonista.
Speravo che il maggiore Pol mandasse in giro anche
me, naturalmente con qualcuno dei colleghi: mi sarei
sollevato dal clima pesante della villa e dalle sue stizzacce che, dagli e ridagli, mi avevano snervato. Inoltre
avrei potuto cominciare a fare qualcosa di utile.
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L’occasione per la mia prima uscita fu determinata
dal fatto che la maggior parte degli artisti fosse impegnata a dipingere altrove e il lavoro da eseguire pressante. Si trattava di una richiesta della Casa cinematografica Rank Film di Londra. Quella casa che nella sigla
di testa delle pellicole mostrava un muscoloso in mutande che batteva una tale mazzata su un gong da far
rintronare il sonoro pure nei titoli che seguivano. Questa Casa, impegnata in Egitto nella ripresa del capolavoro “Cesare e Cleopatra”, avuta notizia del nostro
gruppo, chiedeva se fra noi ci fosse qualcuno capace di
consigliare i loro tecnici per la coloritura di un plastico
della Roma dei Cesari e di pitturare delle decorazioni
su un peschereccio greco camuffato da antica nave romana.
Il maggiore Pol rispose ai cineasti, schernendoli, che
per primo non avanzassero dubbi sulla nostra capacità:
la sua echip, se voleva, rifaceva la Sistina. Precisato
quel che andava precisato, espresse titubanza nel lasciare andare qualcuno. Si trattava di lavorare per gente del cinema, individui poco raccomandabili, fanfaroni
e piantagrane. Nondimeno, dopo giorni di trattative,
pressato dal regista, dal produttore capo, dal vice, da
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quelli associati e da altri caporioni ― leggendo i titoli
del film si contano i molti con le mani in pasta ― ma
specialmente da una lettera che la Casa si era fatta scrivere da un Lord nipote della Regina, il maggiore Pol
dovette mollare gli artisti disponibili: Zecchillo, pittore
pubblicitario e paesaggista, Pirani della scuola del Vaticano restauratore ma anche specializzato in legni e
marmi finti, e me pittore qualificato moderno ma tuttofare e disposto a fare di tutto.
Noi non eravamo al corrente di questo parlarsi fra il
maggiore e la Rank Film: fummo sorpresi quando una
mattina vennero con un’automobile lunga e nera, sembrava un carro funebre, per trasferirci nell’albergo al
centro di Alessandria dove la troupe alloggiava.
Io ero felice. Il maggiore Pol, negli ultimi giorni, a
causa del malumore che gli provocavano le trattative
coi cineasti, era stato feroce col solito Picasso, alludendo a me, con certi “impressionisti”, sui quali nemmeno
l’arabo seppe ragguagliarmi, e subito contro altri che
invece chiamava “espressionisti”. Ma forse erano gli
stessi, solo che nella foga del dileggio confondeva le
due parole.
Nel lussuoso albergo, per il benvenuto venne addirittura il regista Gabriel Pascal che, parlando italiano, ci
presentò a questo e quello e pure ai due interpreti della
pellicola Stewart Granger e Vivien Leigh.
Mai immaginato potesse esistere un albergo con un
tale addobbamento: drappi, arazzi, quadri su ogni parete. Quando, tornato al paese, mi capitò di raccontare
lo splendore di quelle sale, illuminate con lampadari a
109
gocce più vistosi di quello appeso nel teatro Pergolesi,
nessuno mi ha voluto credere completamente. Eppure
godevo nomea di uomo sincero dal vivere semplice.
Io, Pirani e Zecchillo, tutti e tre a un tavolo, serviti da
un particolare cameriere arabo in divisa di lacché del
Sei o del Settecento ― Pirani e Zecchillo erano in disaccordo su questa attribuzione ― il quale, in attesa dietro
la sedia, si muoveva per prevenire ogni nostro desiderio, per riempire i bicchieri e sostituire le posate e i
piatti.
Se non fosse stato che di arabi ce n’erano ugualmente
dietro le sedie degli altri commensali, avrei pensato che
lo avessero assegnato a noi, poco pratici di grand hotel,
per guidarci fra quello spreco di stoviglie: quattro bicchieri a scalare a testa, forchette, coltelli e cucchiai di
varie misure, un’alzata di piatti e piattini ricamati, oliere, saliere.
Gridando gioiosamente buon appetito ai commensali, ma ci risposero con sorrisetti acidi, ci annodammo i
tovaglioli al collo e aspettammo curiosi la prima portata. Se tanto dava tanto, pietanze da mettere in ombra
babbo. Ma qui ci fu un equivoco di Zecchillo, toscano
di Siena, che non avendo notato sulla tavola una sola
fettina di pane, incerto se chiederlo, disse sottovoce «il
senese mangia sì poco e sì pulito che sempre si conserva l’appetito», s’intrufolò in cucina e tornò con un
quarto di pancarré. Io e Pirani avremmo fatto a meno,
ma lui rilevò che non fosse giusto pranzare senza pane.
Aggiunse: nemmeno opportuno, d’altra parte, farsi
servire a bacchetta sia pure da un lacché. Però questo si
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dovette impermalire: si capiva che borbottava.
Quel pane, anche se sciapo, una manna: di primo ci
servirono una tazzetta di brodo senza pasta o riso e ne
consumammo parte nella zuppa. Allora Zecchillo si
rialzò e, questa volta, di filone andò a prenderne mezzo
non senza aver prima sentenziato, valente proverbiatore qual era: «Chi non armeggia, grameggia». Ma
l’arabo in divisa del seicentocinquanta ― così accordammo i due punti di vista ― dietro la sedia smaniò di
nuovo.
Scoprimmo di aver commesso un errore di etichetta,
infatti notammo che i commensali il brodo lo avevano
appena assaggiato e che di una salviettina profumata si
erano serviti per toccarsi la punta delle labbra. Io e Pirani guardammo Zecchillo, gli impedimmo un altro
proverbio e decidemmo che di pane non avremmo più
fatto uso per l’eventuale tempo che fossimo rimasti in
quell’albergo troppo scic.
La gaffe più grave fu di Pirani: un romano mangione
e parlatore, abile come nessuno nei legni, nei marmi e
negli opali finti, le cui trasparenze e iridescenze erano
di un tale realismo da incantare australiani, senegalesi,
guerrieri gurka: ma questi, se in libertà, perché essendo
feroci attaccabrighe, dio ce ne scampi, li tenevano segregati nelle caserme. Pirani, tamburellando con le posate in attesa di portate consistenti, aveva notato che i
denti delle forchette mostravano una quasi impercettibile tendenza a stringersi sulla punta. Fece osservare il
particolare anche a noi e, da competente, prese a dissertare sulle lunghezze e tendenze delle forchette in re111
lazione ai mangiari dei vari popoli, rilevando che, se
avessimo avuto fra le mani forchette romane, vi avremmo notato un’altrettanta minima tendenza, ma a
aprirsi, apposta per una buona presa su abbacchi e frittate. Concludendo che le forchette di quell’albergo erano ottime, ma solo per infilzare bocconcini da inappetenti, ne prese una e sperimentò la divaricazione delle
punte, servendosi di un coltello. Naturalmente non era
come la posateria di alluminio dell’esercito italiano, ma
di una qualche lega tanto preziosa quanto fragile e alla
pressione, tac, saltò il primo dente, il secondo e il terzo.
Il quarto no, mancando la possibilità di fare leva con
un quinto.
Il lacché arabo, impressionato dai denti della forchetta che gli saltavano davanti agli occhi, ristette solo un
attimo incerto, poi reagì con un cenno afflitto verso un
distinto signore al centro della sala, certamente europeo, in abito nero con le code.
L’elegante signore venne al tavolo, si inchinò prima
davanti a me poi a Zecchillo e Pirani. Disse che era un
metre francese ma che parlava ogni lingua compresa la
nostra, imparata dal trentaquattro al trentasette a Bellagio sul lago di Como. Compiaciuti, ci alzammo in
piedi ma egli si schermì e volle che rioccupassimo le
sedie. Quindi prese a osservare la tavola. Con una graziosa movenza della mano uscì dalla tasca interna della
corta giacca una morbida pennellessa e, commosso per
avergli fatto ricordare il felice soggiorno sul lago lombardo, raccolse i tre denti della forchetta sulla tavola. Si
disse deluso che la posateria non fosse stata di nostro
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gradimento e, con l’ampio gesto del seminatore che ha
poca semente e molta terra, assicurò che avrebbe provveduto a sostituirla. Gli rispondemmo lodando la posateria, comprese le forchette, essendo stato il gesto di Pirani nient’altro che un esperimento culinario.
Il regista Pascal, a questo punto, dovette notare
l’assembramento attorno al nostro tavolo; si alzò, venne a parlamentare e ci consigliò, per la nostra comodità, di continuare il pranzo in una saletta dove ci rinchiusero a chiave. Qui in perfetta libertà potemmo gustare l’ampio menù che ci passavano da una finestrella.
Altri imbarazzi non ci furono: il fastoso pranzo, un galà
fra i massimi interpreti del film. Il regista Pascal, estimatore del cinema italiano, volle onorarlo invitando
anche noi tre. In seguito ci aggregarono alla mensa dei
cuochi e dei camerieri, ma fu un vantaggio per noi tre
golosi ― era per Pirani che si alzava la media ― perché
scoprimmo che nei loro piatti e nei nostri finiva il meglio delle leccornie che andavano cucinando.
* * *
Sul set, così chiamavano la località dove si girava la
pellicola, la nostra consulenza cominciò il giorno dopo.
Pirani romano, Zecchillo senese ma di madre di un paese vicino Roma, il sottoscritto reduce da tre Campi
Dux, non avemmo difficoltà nel consigliare gli scenografi inglesi, perno sul Colosseo, di come procedere per
la coloritura del plastico della città imperiale. Ne uscì
un ottimo lavoro. L’aiuto regista, soddisfatto, si congratulò e ci disse che senza il nostro apporto non a113
vrebbe saputo come portare avanti la scena e costretto
a eliminare la veduta della Roma dei Cesari correggendo la sceneggiatura.
Le difficoltà cominciarono col peschereccio greco. Le
impalcature e le paratie erano alte e pericolanti. Salirci
e cercare di lavorare, un’impresa da equilibristi. Fortunatamente il peschereccio a secco e, cadendo, saremmo
finiti sulla sabbia della spiaggia. Il varo si prevedeva a
antica nave romana ultimata.
La scelta del tipo di decorazioni non fu facile. Pirani
in vita sua aveva visto solo le zattere dei fiumaroli sul
Tevere, Zecchillo barche e mosconi a Viareggio e il
panfilo del conte Ciano, io la motonave Oceania e la
parte di sopra di un sommergibile di scorta: pertanto,
come accidenti si poteva pitturare una nave romana del
tempo di Cleopatra? Per cominciare, di che colore: verde, rosa, giallo cadmio, blu? Pirani, per sbloccare
l’impasse, sarebbe partito con un finto legno da scegliersi fra il ciliegio e il palissandro. Gli obiettammo
che essendo il peschereccio già di legno tanto valeva
lasciarlo com’era. Decidemmo per una tinta neutra aperta a ogni possibile sbocco, sul grigio rosso tendente
al marrone, ottenuta mischiando le tinte a disposizione,
e cominciammo a spennellare le sovrastrutture romane.
Ci cavò dai dubbi lo stesso regista Pascal che, venuto
a controllare come procedevano i lavori, domandò se
quello fosse il fondotinta.
Zecchillo, gran mangiatore di foglia al cospetto di registi, proverbiò sottovoce: «Chi è più ciuco è fatto prio114
re» e rispose che infatti il regista aveva azzeccato essendo quella proprio la sottotinta di preparazione. Poi,
senza parere, si informò se lui avesse in animo una
qualche particolare preferenza sulla sfumatura del colore definitivo. Inoltre, confidenzialmente, adesso non
lo chiamava più signor regista ma Pascale con la ci toscana.
Pascale rispose di pitturarla pure nel colore delle navi romane imperiali ― «come noi ben sapevamo» ―
cioè di un rosso pompeiano, tenendo presente che essendo il film in tecnicolore non risparmiassimo sulle
tinte. In pochi giorni la nave spiccava del più bel rosso
pompeiano che mai fosse stato visto su quei lidi dal
tempo dei faraoni. Sullo sfondo del mare sembrava di
corallo.
I giorni che seguirono, fra Zecchillo e Pascale, in una
girandola di proverbi toscani, fu una schermaglia di
«preferite così o così?» e di «secondo voi sarebbe meglio questo o quello?» fatta con tale astuzia che in pratica eseguivamo quanto il regista finiva per suggerirci:
linee spezzate alla greca sul bordo superiore della nave
e attorno le porte del castello, lune e pavoni sulle vele,
pavoni e qualche fauno dove c’era spazio libero e infine fasci, simili a quelli del fascio, a poppa sopra il timone. Per questi Pirani e Zecchillo chiesero la mia consulenza.
Tutti soddisfatti: i produttori, Pascale, l’operatore,
ma più degli altri, addirittura gongolante, il proprietario del barcone greco, greco pure lui. Questo era un ricco armatore, padrone di pescherecci sparsi fra Egitto,
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Cipro, Malta e Sicilia. Parlava tutte le lingue e
l’italiano, anzi il siciliano, meglio di quel maltese
dell’interrogatorio.
Giorno del varo. Entusiasmo, festoni, banda e madrina. La banda a dire il vero non era una banda: la
musica veniva ottenuta da un disco e diffusa dagli altoparlanti che in genere servivano per manovrare le
masse. E pure la madrina, a dirla tutta, non era quella
che si dice una classica madrina, ma si trattava
dell’amico, si vociferava, di uno dei capofila della produzione.
Noi a bordo, a babordo o tribordo, insomma lì. Gli
attori, i generici, le comparse, i tecnici e il resto della
trup sulla spiaggia a inneggiare ― immaginavo non
comprendendo le loro festose grida ― alla nave in procinto di fendere le onde. Ovvero, di fendere quello
specchio di mare inerte ma lampeggiante di gibigianne.
Al segnale del regista Pascale il madrino, stordito dalla
gioia, lanciò la bottiglia di spumante ma questa, per la
balorda mira di quello strambo sempre in bambola
chissà dietro a chi, invece di frangersi sulla prua andò a
colpire, facendola saltare via, la bandiera con la scritta
Rank Film.
Pascale, avvilito, prese a esorcizzare il barcone con il
segno delle corna: questa gente di cinema si mostrava
altrettanto superstiziosa degli arabi che campavano a
forza di toccarsi sotto il barracano. I produttori, solidali
nella delusione, dovettero preoccuparsi anche del madrino. Nello scoramento generale il solo a non essersi
depresso fu il greco. Attento ai propri interessi, paven116
tando il rinvio della cerimonia, e quindi il saldo del
conto, richiamò l’attenzione dei manovali arabi affascinati dalle caviglie di un terzetto di attrici in pantaloncini: li riportò alla realtà con una gridata e gli ordinò di
levare i gavitelli e mollare le gomene. Che altro avrebbe potuto ordinare visto che comunque aveva deciso il
varo?
I legni scricchiolarono, il barcone scivolò lentamente
in mare fino a che, impigliatosi sul fondale, appoggiò
di lato. Subito un battello venne a salvarci, noi tre
sott’acqua ne stavamo bevendo troppa.
Il peschereccio: uno sfasciume di legno che nemmeno
col viatico di Allah avrebbe potuto reggere il peso delle
sovrastrutture posticce e Zecchillo in faccia al greco, il
quale ci guardava come
se il naufragio fosse
d’attribuire alla marina italiana, fece benissimo ad aver
risparmiato sufficiente energia per dirgli «a pensar male ci s’indovina». L’infausto auspicio della bottiglia
contro la bandiera della Rank Film doveva far riflettere: più di tutti il greco, marinaio con l’aggiunta di levantino che, se non fosse stato così attaccato alle dracme, avrebbe dovuto rimandare il varo accampando
qualche scusa e rifare la nave romana sopra un peschereccio che avesse conservato la forza di rimanere a galla.
Se prima del varo la produzione si fosse cautelata facendo truccare da antichi romani gli attori, le comparse, i produttori, l’amico, i tecnici e il greco ― gli arabi
andavano già bene come stavano ― e avesse fatto filmare il tumulto che seguì, avrebbe potuto risparmiare
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la scena della rissa nel mercato degli schiavi.
Immediatamente dovettero separare Pascale dal greco perché si stavano maltrattando, prima ancora di tentare una spiegazione come si usa fra gente di mondo.
Poi la zuffa si accese fra l’arabo che sembrava il capobastone della manovalanza e il greco, mentre in parallelo alcuni produttori stavano facendo surriscaldare
scenografi e tecnici. Le attrici per proprio conto, cacciando il becco in tutte le contese, contribuivano a sostenere il sonoro.
Io, Zecchillo e Pirani, vista la malparata, ci mettemmo a torso nudo, non per batterci ma per asciugare le
tute inzuppate dal bagno e, imparziali in quanto prigionieri di guerra e naufraghi, andammo a sedere su
una catasta di materiali per meglio arbitrare dall’alto la
mischia in campo. Ma ci stavamo illudendo: il greco,
un bulldog al quale avessero tolto l’osso, corse verso di
noi e capimmo che quel malintenzionato voleva tirarci
dentro.
«Dicesse a verità, farabbutti» mutando registro in siciliano «avesse sabotato a navi!»
«Sabotato che?» rispose Pirani che, risoluto com’era,
avrebbe potuto tenere testa a più greci arrabbiati: «Intanto quella non era una nave ma una catasta di legno
fradicio!»
«Una truffa, eh? Lo immaginavo!» intervenne un
produttore.
«A cuppa iè di sti fasciste!» continuò il greco buttandola in politica «Hanno affunnatu lu pescherecci picchi
odiene li grece!»
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Zecchillo, che finora aveva tenuto in serbo qualche
proverbio extra, a quelle parole ritenne di doversi intromettere e da saggio senese cercò di riportare la serenità. Si limitò «a volersi bene non si è mai speso nulla»
e benedicente disse che non avevamo affondato niente,
«noi non avevamo affondato niente a nessuno nemmeno durante le battaglie navali», quindi il signor greco
non offendesse con frasi ridicole.
«Frazi ridicule?» inveì ancora il greco non placato dal
cauto argomentare. «Lu vostre duce, alla Grecia, avrebbe volsuto rumpere li reni: ce ne scodammu? Però
vuie a pensareci bene, a defferenza di quellu geniu, nu
risultatu simile l’aviti ottenuto!»
«E quale?» domandò incuriosito Zecchillo non potendo immaginare la risposta.
«Voi tre m’avesse romputa li cugliona!» precisò quello sparlatore presenti le attrici che tuttavia, non conoscendo il siciliano, non ebbero modo di imbarazzarsi.
Dovette accorrere la MP, la polizia militare inglese ―
avevo scoperto il significato di quella sigla ― per riportare la tregua. Noi, il greco, il capo arabo, un produttore, e qualcun altro fummo tutti caricati sulle camionette
e portati al comando, quindi noi tre riconsegnati al
maggiore Pol con la raccomandazione di tenerci lontani dal naviglio greco. Il maggiore Pol, amareggiato per
il buon nome dell’arte ma non del naufragio, anzi si dichiarò felice che quella scandalosa nave romana fosse
finita a picco e ci rimproverò per finta, bonariamente.
In seguito apprendemmo dal giornale che la storia
del naufragio fu portata in mano agli avvocati e che la
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Rank Film pretese non si sa quante sterline di danni dal
greco, il quale dovette rifare la nave romana mascherando un barcone militare. Le pitture e le decorazioni
se le fecero da soli tanto ormai non avevano che ricordare quelle già fatte dai sottoscritti.
* * *
Il lavoraccio coi cineasti ormai archiviato, tranne per
Pirani che ogni tanto, essendosi guardato con una
schiava di Cleopatra, riparlava del set, nella villa l’arte
lievitava a vista. Un correre da un luogo all’altro a eseguire ritratti, tempere sacre nelle chiese di ogni protesta, decorazioni profane nei club, vedute della sfinge
che poi regalavano col benservito ai generali alleati che
andavano in pensione. Ormai il nostro, come d’altra
parte aveva voluto il maggiore, era diventato un cenacolo artistico noto fra i competenti indigeni e importati
per la guerra.
Diverse volte il maggiore Pol aveva introdotto nel salone comitive di militari ai quali faceva da cicerone illustrando le bellezze dei quadri dei pittori italiani che
egli si vantava di guidare. Introduceva le comitive ma
solo dopo avermi allontanato con il cavalletto, mandandomi in cantina dove conservavamo il materiale
per cercare un certo tipo di “lacca garanza” che, fruga
fruga, non sono mai stato capace di trovare.
Però avevo capito l’antifona: quando vedevo qualche
estraneo andavo subito a cercare quell’introvabile “lacca garanza” prima ancora che il maggiore me lo chiedesse.
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Venivano pure dei militari con l’obbi della pitttura
che desideravano un giudizio sulle loro operine e magari un incoraggiamento a continuare. Il maggiore, felice dell’attenzione, durava ore a parlare a quei dilettanti che alla fine si stufavano di sentirlo magnificare,
invece dei loro, i quadri di Tiziano e Raffaello.
In quel fervore era fatale che l’interprete arabo finisse
per essere contagiato dall’arte ― esiste una leggenda
sul fatalismo arabo ― infatti a forza di tradurre i discorsi fra noi e il maggiore aveva finito con l’interessare alla pittura anche l’occhio libero. Ma questo imprevisto contagio si risolse in un equivoco che a momenti rischiò di compromettere la triplice alleanza fra
noi italiani, il maggiore inglese e proprio lui, l’arabo
contagiato.
L’arabo ormai interveniva direttamente sulla pittura.
Faceva domande sulla prospettiva e sui colori, voleva
sapere a che servisse l’olio di lino crudo e cotto, come
stendere una velatura e così via. Una mattina, inaspettatamente ― chi mai avrebbe potuto sospettare un
temperamento artistico in un arabo di quella fatta ― arrivò con una cartella sotto il braccio e, dopo aver danzato attorno a Ferri per propiziarne il giudizio, si decise
a aprirla e mostrò un quadretto a olio. Disse che a casa
ne aveva pitturati una decina ma questo gli sembrava il
più riuscito: un paesaggio con le piramidi, qualche
palma e due cammelli sullo sfondo di una striscia gialla, il deserto, e nel cielo blu grosse stelle dello stesso
giallo.
Quando il quadretto arrivò nelle mie mani, uhm, no121
tai che la veduta nella parte sotto figurava di giorno
mentre nella parte sopra figurava di notte. Ma né Ferri
né gli altri vollero rilevare l’appunto e nemmeno
l’arabo degnò della più piccola considerazione le mie
parole. Anzi, quando Ferri gli lodò il lavoretto, l’arabo
mi sbirciò come per dire “Toh e porta a casa!”.
Ferri elogiò sinceramente il paesaggio notturno e diurno. Spiegò che lo trovava gustoso e all’arabo che lo
guardava, potenza dell’elogio, con gli occhi in parallelo
disse queste precise parole: «Bravo, lo hai realizzato
con lo stile tipico dei primitivi!»
L’arabo gli strappò di mano il quadretto e sfuriò che
non era giusto dargli del primitivo, che Ferri era un
razzista, gli italiani peggio degli arabi, alluse pure alla
guerra persa e che avrebbe informato il maggiore Pol.
Rimise l’olietto nella cartella e scappò invocando Allah.
Quella volta Ferri aveva sbagliato. Perché insultare a
quel modo l’arabo, in fondo uno di noi?
122
Raccontando la prima uscita dalla villa per lavoro
avevo citato anche il collega Carone. Un amico a intervalli, balzano: a volte simpatico, in altre detestabile. Il
paese di nascita non lo ricordavo, però in provincia di
Bari. Dell’età all’incirca di Ferri, caporale in fanteria.
Come pittore, un buon vedutista: nessuna accademia,
dicevano, con una tecnica da probabili scuole serali.
Nella villa, stava sempre a pitturare una veduta marina, da angolazioni diverse, ma sempre la stessa: l’isola
di Capri. Nei suoi incarichi esterni ignoravo cosa realizzasse, verosimilmente ancora Capri.
Inoltre nel tempo libero, su tavolette di compensato,
per sé faceva quadrettini poco più grandi del palmo di
una mano, sui quali ritraeva a memoria la faccia di uno
dei cari del suo ramificato gruppo familiare: genitori,
nonni, fratelli e sorelle, cuginanza, zii, parenti e affini.
Al piano di sopra della villa, nella stanza, aveva occupato un angolo e sul muro, attorno la spalliera del
letto e del comodino, teneva appesi i ritrattini,
all’apparenza uguali: sembrava un’esposizione di ex
voto. Iniziata la serie con il padre, settimana dopo settimana, ne aveva radunati una ventina, ma di parenti
da ricordare sembrava ce ne fossero ancora.
123
Carone a prima vista, aveva l’aria di uno scontroso:
attaccatura bassa dei capelli, sopracciglia e basette folte
più nere del nero nei tubetti, barba appena rasata già in
crescita.
Ferri lo aveva definito un pittore manierista. Che significasse, anche se mi fu spiegato e rispiegato chissà le
volte, non riuscivo a capirlo. Certo, pitturava in una
sua particolare maniera: seduto al cavalletto sembrava
ancora vivente solo perché sottovoce canticchiava brani
di opere liriche, il naso a sfiorare il quadrettino e durava ore, usando pennelli sottilissimi, con minuziosi tocchi e ritocchi di colore.
Dai quadrettini sul muro della stanza si capiva subito che erano facce di parenti: medesima fisionomia,
fronti basse, sopracciglia come già detto, e anche le
donne, per sfumature verdoline sull’incarnato, un sospetto di barba.
Per esperienza, meglio non esprimere giudizi: subito
rispondeva «Qualcosa che non va?». Potevi rassicurarlo che tutto andava bene, ma lui: «No, dillo: qualcosa
che non va?». Non c’era modo di farlo desistere dal ritornello pure saltando su un altro argomento. Anche in
questo caso «Non girare la frittata: qualcosa non va?»
Ci appoggiavamo, noi due, e si parlava: i nostri paesi, la famiglia, i casi della vita, ma poco di arte, comunque da parte mia attento a non introdurre l’argomento
astronomia. Sotto il letto, dentro una cassetta, conservava vecchi libri in tema unti e bisunti, alcuni pure in
lingue sconosciute. Mentre ancora ignoravo la sua tendenza, stavo a sentirlo spiegare di astri e comete con
124
interesse. Cominciò a venirmi un dubbio, poi certezza
quando manifestò esitazioni sul pensiero di Copernico:
insomma, se all’inizio dell’universo ci fosse stato Carone ― le teorie geocentriche erano lì, da pagina 81 a pagina 96 dell’Almagesto, precisò la volta che mi mostrai
scettico ― lui avrebbe calcolato meglio su come sistemare sole e terra, luna compresa.
Ragionava di sguincio, diceva e non diceva. Non che
fosse rimasto tifoso del Sant’Offizio, ma il povero Galileo, se avesse dovuto disputare con vescovi e cardinali
della taglia di Carone, avrebbe fatto meglio a riporre il
cannocchiale nell’astuccio.
* * *
Mancava una settimana a Natale, si diceva l’ultimo
in prigionia. La guerra era terminata da mesi. Sui giornali si leggeva di feste, di fratellanze fra i popoli, di ricostruzione. Che il clima fosse cambiato si capiva anche qui, fra i militari inglesi e alleati: disciplina meno
rigida, soldati e graduati a beffarsi, ufficiali con la cravatta allentata e senza berretto.
Le feste e le ricorrenze, durante il conflitto, come non
ci fossero, ma il Natale, con una scatoletta di carne e
due gallette ammuffite oppure con marmellate, biscotti, latte condensato e cioccolata se fosse capitato di catturare qualche blindato nemico, quel giorno era il momento che segnava il passaggio da un anno all’altro.
Dal vicino Comando si fece vivo un anziano sergente
maggiore: chiedeva qualcuno a dare una mano per un
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addobbo natalizio. Si trattava di rendere confortevole
la sala mensa della truppa. Il maggiore Pol prontamente indicò i due meno necessari all’arte: me e Carone.
Il capannone adibito a mensa, uno squallore: lunghe
tavole, sedie di metallo, dispense addossate alle pareti.
Ci dovemmo arrangiare portando all’interno fioriere,
con cianfrusaglie scovate nei magazzini, intrecciando
catenelle di carta colorata, di festoni con decorazioni allegoriche e frasi beneauguranti. Ma quello che non poteva mancare, santocielo assolutamente, l’albero di Natale.
Di pini neanche parlarne, ma dalle siepi attorno al
fabbricato con qualche alberello si poteva tentare un
mutamento. Ne scovammo uno possibile. Potandolo
acconciamente a forma di cono con la punta in alto,
applicando rametti di finti aghi di pino ottenuti immergendo nella vernice verde fiammiferi e stuzzicadenti, riuscimmo nell’intento. Le decorazioni: palline di
vetro, quando le chiedemmo ci risero in faccia. Provvedemmo con dolcetti, ritagliando da barattoli stelline e
figurette, con cucchiaini e piccoli oggetti da poter appendere. Le lucine, indispensabili per ravvivarlo,
prendendole dai cruscotti e targhe di mezzi e di blindati destinati alla rottamazione.
La vigilia, il maggiore Pol mi aveva trattenuto per
impacchettare quadri da regalare a importanti personaggi della piazzaforte. Raggiunsi Carone il pomeriggio e quando entrai nella mensa, un colpaccio
all’improvviso, come se fossi saltato su una mina anticarro: l’albero di Natale sembrava la riproduzione
126
dell’albero degli impiccati che i predoni della filibusta
innalzavano per terrorizzare gli indigeni. Carone, senza preavvertirmi, aveva sostituito gli ammenicoli appendendo al loro posto i quadrettini dei parenti. Lo assalii in malo modo, ma lui serafico: «Dillo, qualcosa
non va.»
Sopraffatto dalla rabbia, avrei buttato albero e parenti nella fossa dei rifiuti, se il sovrintendente militare,
già in brindisi a quell’ora, passando per i soliti controlli, non avesse invece manifestato apprezzamento per
l’originale interpretazione natalizia ricordando gli amati visi delle famiglie lontane.
Dovetti riassorbire la voglia di scazzottare ritrovando la calma, la tremante calma di chi ha subito una
prepotenza, la notte a letto con respirazioni ioga.
Era scontato che il Comando invitasse a festeggiare
anche il nostro gruppo di pittori. Il maggiore Pol ne fu
lusingato e noi gradimmo l’attenzione anche per i caldi
odori che provenivano dalle cucine già da qualche
giorno. Un cenone da citare nel diario: portate di ogni
ben d’iddio, salve di tappi, torte e alcolici di ogni gradazione.
A chiudere, inevitabili, i cori. Il colonnello comandante, anche lui senza giacca, raggiungendo barcollante la nostra tavolata, ci fece capire che avrebbe gradito
ascoltare qualche bella melodia italiana.
Mentre militari dei loro con tamburi e cornamuse se
la cantavano con allegria rumorosa, fra noi ci fu
un’affannata trattativa per la scelta di un titolo che almeno conoscessimo tutti: “La montanara”, “Fiorin fio127
rello”, “La canzone del Piave”, “Scalinatella”... Ci accordammo su “O sole mio”. A aumentare il batticuore,
si capiva che stava montando un’aspettativa per le nostre celebri canzoni, inoltre interpretate da noi nati nella terra del bel canto. Gargarizzando, salimmo sulla
pedana. Se almeno ci fosse stato il tempo per far circolare un mio “la”: la passata esperienza con gli “allorché” sarebbe stata determinante.
Ferri, sempre al centro in ogni avvenimento, paventando una sciagura questa volta si era defilato, e stranamente fu Carone a prendere l’iniziativa: «Mi raccomando... calma e concentrati... Al mio tre!... Pronti?
Uno, due, tre...». Avevamo perso la guerra, stavamo
perdendo la dignità: ognuno con una propria tonalità,
nessuno conosceva bene le parole oltre “Che bella cosa
na iurnata e’ sole”.
Ma nel momento che stava per investirci una bordata
di fischi e improperi, l’impensabile: una voce nota, calda e pastosa, in un suggestivo crescendo si diffuse per
la vasta sala: «...Tu scendi dalle stelleee, o re del cielooo... tu vieni nella grottaaa... al freddo e al gelooo...». Intervento divino, traveggole collettive, abuso di alcol?
Carone il manierista, mentre si concludeva la catastrofe
canora, microfono in mano, era proprio lui che stava
modulando la dolce armonia natalizia.
«Bis, bis... bravo... aghein... uan more, uan more...».
Stregati: truppa, ufficiali, inservienti arabi. Quindi Carone alzò una mano e di nuovo un silenzio commosso:
«Aveee... Mariaaa... gratiaaa plenaaa...». Nientemeno
che l’Ave Maria di Franz Schubert, compositore austri128
aco, ci disse poi, che scrisse seicento lieder, nove sinfonie, quindici quartetti, diciannove sonate e otto messe...
Per dire dell’importanza del pezzo cantato.
Gli inglesi, ammaliati: «...uan more, uan more... Bis...
aghein...». Allora Carone dette fondo al suo repertorio
con arie di Bellini, Verdi, Puccini. Dimenticati Capri e i
quadrettini, in quei momenti, sembrò giganteggiare
anche come pittore.
Birre, spumanti e wischi: a garganella. Per smaltire la
sbornia, noi poco abituati, dopo non bastò il resto della
settimana a brodini e mele cotte.
Carone, attenuatasi l’esaltazione canora, era ridiventato quello di sempre. Tornati nella caserma per riprendere la nostra roba, finito di staccare i quadrettini
dall’albero di Natale, mi chiamò con tono serioso: «Egidio, vieni un po’ qua» indicando lo scatolone dove li
aveva riposti «Manca zio Raimondo, sai niente?»
«Zio Raimondo?... Li hai contati bene?» risposi seccato.
«Li so a memoria... Non è che te lo sei intascato per
suvenir della festa?...»
«Che vuoi che mi freghi tuo zio!... Stai vaneggiando?»
Carone rovesciò sul tavolo i quadrettini e meticoloso
li ripassò uno a uno: «... nonno Achille ... zio Manlio ...
cognata Clelia ... nipote Raimondo...»
«Eccolo!» dissi sollevato «T’eri sbagliato...»
«Nipote, non zio... Quando mi richiamarono per
questo cazzaccio di guerra Raimondino aveva due anni, zio lavorava col trattore! ... fratello Sabino ... cognata
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Bice... »
Controlla e ricontrolla, ma di zio Raimondo nessuna
traccia. Rientrammo nella villa con lo scatolone dei
quadrettini. Carone, salito alla stanza, li riappese al
muro come prima dell’uso natalizio, ma lasciando il
vuoto già occupato dallo zio.
Vedendolo ancora dubbioso e di malumore, mi scappò un benevolo consiglio: di pitturare un altro parente,
uno qualsiasi, tanto erano tutti uguali.
«Tutti uguali? Ma che capisci?... A te, chi t’ha dato la
tavolozza: uno col cervello in acqua!» gridò Carone uscendo dai gangheri.
«Che ti salta in mente, adesso?... Che c’entra?... Mi
pari matto!»
«Pittore, aaah... Mica m’incanti: t’ho visto che butti i
colori sulla tela anche coi barattoli!»
«Detto da te... uno che rifà solo Capri!... Prova con Ischia qualche volta, se ce la fai!...»
«Loro conoscono solo Capri, bestia!... Il maggiore
Pol, con le tue cacche sulle tele: un martire!»
«Manierista d’un capriota, tragedia per la pittura: ha
ragione Ferri.»
«Picassastro ladro maledetto: caccia zio Raimondo!»
tentando di abbrancarmi per il collo.
«E quando canti, barese d’un barese, sta
sull’italiano!» rifacendogli il verso «... eveee merieee...
gretie pleneee...» Maria e Schubert lassù e noi quaggiù,
ci sfasciamo tutti dalle risate!»
Con l’allusione al talento canoro, suo gran vanto, avevo centrato il bersaglio. Non l’avessero trattenuto in
130
tre o quattro colleghi, e altrettanti bloccato me, sarebbe
finita a sirene in allarme delle ambulanze del Pronto
Soccorso.
131
Durante il conflitto, di corrispondenza postale fra i
soldati al fronte e la madrepatria se ne salvava poca: le
famiglie ricevevano una cartolina militare ogni due o
tre mesi, noi anche meno. Il nostro colonnello, quasi a
giustificare la falla, diceva: «Peccato, se nel Mare Nostrum a impazzare non ci fossero i sottomarini inglesi,
di lettere e pacchi dono ne sarebbero arrivati in abbondanza.»
Interrompere i collegamenti postali rientrava nella
strategia bellica: la mancanza di notizie fra i combattenti e chi al paese era in trepidante attesa, fiaccava il
morale della nazione. Anche per questo la marina britannica affondava ogni nostro natante che apparisse
sui loro periscopi. Se, per ipotesi, fosse stato attrezzato
un natante con le insegne postali per bandiera, a bordo
solo postini in pianta stabile con tanto di berretti e borse regolamentari a tracolla, anziché lasciargli il passo,
l’avrebbe tirato a fondo per primo.
Genitori, mogli e figli restavano all’oscuro degli avvenimenti: tra loro solamente un fitto scambiarsi le
scarne informazioni dei bollettini alla radio, le incerte
impressioni dei feriti rimpatriati, le asciutte frasi delle
cartoline di servizio scampate ai siluri. Quanto sospira132
re, quante congetture sui cari lontani, prima sui fronti
bellici, poi prigionieri di guerra in campi di concentramento sparsi nei cinque continenti: quale destino,
quando sarebbero tornati a casa? Per mantenere acceso
il lumicino della speranza avranno azzardato anche esiti: il tale dietro il filo spinato forse in Palestina, il
tal’altro a raccogliere granturco nell’Illinois, altri in
qualche punto del globo... tra batticuori e lacrime.
Mia madre viveva la medesima situazione: che sapeva di me, quali ragguagli avrebbe potuto avere dalle
autorità? Poco più di niente.
Una volta catturati dal nemico, invece, cambio di registro: l’eccellente posta militare inglese seppe riagganciare i contatti e finalmente si potè dar fondo a sentimenti, paure, stati d’animo, con scambi di lettere che
dettagliavano ogni minimo aspetto: da una parte le vicissitudini militari, dall’altra la vita a casa. Nel mio caso, tuttavia, quando già il destino mi aveva affibbiato la
pittura moderna, su questo non superfluo particolare i
miei scritti furono reticenti. Giudicavo impossibile che
lei, povera mamma con nemmeno la quinta elementare, potesse comprendere senza allarmarsi quel che andavo pasticciando sulle tele: appena un accenno a pennelli e colori e sarei stato contento se ne avesse dedotto
che stavo imparando anche da imbianchino.
In seguito, ma gradatamente per non provocarle fibrillazioni, menzionai le parole tavolozza, cavalletto,
acquaragia... Chissà lei? Con la sua fantasia avrà detto
fra sé, magari con qualche sussulto di orgoglio:
«A questo bravo figlio, per le mie diuturne suppliche ai
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santi, gli è stato donato anche il talento di saper fare le
pitture» forse pensando ai quadri che vedeva in casa
della levatrice dove andava per le pulizie.
Alla fine, non potendo più reggere la finzione, di
colpo confessai che, avendo varcato il recinto degli artisti moderni, sulle tele spennellavo macchie e spremute
di tinte a caso, amen.
Inaspettato mi giunse un espresso: lei, allarmatissima, mi scrisse che nemmeno il parroco, alla lettura della mia lettera, pur sfogliando volumi d’arte, riusciva a
capire questo mio modo, indotto o volontario, di fare i
quadri con spremute di colori a caso. Che il vecchio
prete tuttavia, sospirando, cercò di confortarla come
sapeva fare lui, ma con parlari ambigui: sì, insomma,
che questi benedetti inglesi, già dendi di nascita, ma si
era sempre saputo, crescendo peggioravano e forse un
po’ di quel viziaccio, come capita con la scarlattina, me
l’avevano attaccato.
Non ebbi il tempo per riflettere che mi arrivò un secondo espresso, questa volta per raccomandata, contenente su un foglio scritto a macchina ― mano del parroco, evidente ― un elenco di perentorie domande alle
quali dovevo rispondere a stretto giro di posta: «Dove
stavo, c’erano ragazze? La notte, qualche volta pensavo
a Nilda, la cassiera del bar Centrale? Col prete del posto confessavo i peccati di pensiero? Perché volevano
moderno me e gli altri no, forse che sembravo un tipetto da occhieggiare?». Inoltre, nella stessa missiva, ma al
momento non ne ravvidi la connessione, m’informò
che al paese avevano messo dentro, quindi ricoverato
134
in una clinica specializzata, Tango.
Tango era il soprannome di uno stravagante sui
trent’anni, del quale si sospettavano comportamenti
non condivisi dai paesani. Lo si vedeva poco in giro e
sempre scantonando, era sgradito al Partito, non si capiva di che campasse, se non che ogni mattina prendeva il locale per Ancona delle 7,10 e tornava, sempre
puntuale, con l’accelerato prima di cena. Fra gli anziani, se trattavano l’argomento Tango, c’era sempre qualche risarello che si toccava il lobo dell’orecchio.
Dovetti rileggere il foglio più volte per capire cosa
mai volesse alludere con le sue domande. Povera donna, e con lei il parroco, mah... Risposi a tono per
filo e per segno, inoltre impartendo a entrambi una lezioncina sull’arte moderna: «la morte della figurazione,
il gesto pittorico, il pensiero che prescinde dalla realtà
empirica, il guardarsi dentro» frasi di Ferri a portata di
mano nel caso che qualche svampito, escluso il maggiore Pol, volesse intrattenersi sulle mie opere.
Però, consumato lo sfogo, ne provai vergogna. Anziché “dentro”, guardandomi allo specchio dritto negli
occhi, come potevo aver fiatato simili zaffate culturali,
inoltre a mia madre e al parroco? La calata nel Mistero
dell’Arte ― le maiuscole a indicare il rispetto a quella
del passato: per la mia arte moderna, già troppo le minuscole ― mi aveva confuso i pensieri.
135
I giorni, uno dietro l’altro: annoiato, nemmeno più
mi curavo di contarli. Seduto al cavalletto in un angolo
del salone, perlopiù da solo, continuavo coi soliti soggetti a macchie senza scopo, oppure a macchie con strisce e graffi, infine a casette sullo sfondo del mare e
montagne, variazioni suggeritemi da Ferri per non fossilizzarmi nei soliti pastrocchi.
Tuttavia, sarà stata suggestione ― in questo lavoro la
suggestione ci sta ― a forza di procedere a casaccio,
come si fosse allumato un pensiero, in una di quelle
pitture mi parve di aver colto una chiamata all’attenzione. Accadde mentre stavo lavorando su un paesaggio di montagne marrone scuro, ai piedi delle quali avevo dipinto una casettina bianca col tettuccio rosso.
Ebbene, guardando il quadro da un paio di metri per
controllare che le pennellate se ne stessero con la dovuta carica di colore, quella piccola macchia bianca della
casetta mi suscitò malinconia. Nel blu livido e rossastro, ottenuto stemperando sulla tela coi soliti azzurro e
bianco tocchi di carminio, scoprii un cielo ventoso foriero di tempesta e nelle pennellate di colore terreo delle montagne, anfratti, antri paurosi dentro i quali potevano celarsi creature perverse. Per un attimo mi sem136
brò di aver avuta coscienza dell’utilità della pittura. Però come cercai di trattenere il concetto, questo simile al
lampo notturno che lascia sfuggevoli apparenze, era
già svanito lasciandomi confuso. Ma non rimasi completamente vuoto: quell’incanto fu sufficiente a mantenermi sotto tensione al pari di un cavo elettrico che vibra e si scalda anche se, sottotraccia, non potrà mai illuminarsi.
Da quel momento divenni non dico consapevole del
mio lavoro, ma guardingo. In ogni immagine dipinta
cercavo un perché e in un secondo tempo tentai di forzare i colori a esprimere un minimo di emozione. E
mentre dipingevo gradatamente cominciai a sentire che
il mio essere, pur smarrendosi nei passaggi pittoricamente difficili, respirava il colore dei cieli, il colore dei
monti, degli alberi, delle case. Allucinazioni, mi dicevo:
e se fossero stati i quadri invece, non più solo materie
inerti, a effondere un loro lieve, misterioso respiro? Arrivai al punto che di notte, a letto, pensavo alla mia tela
giù nel salone e non vedevo l’ora di riprendere in mano
i pennelli. Intanto immaginavo particolari e colori che
vi avrei aggiunto anche se, nel contempo, pativo per il
timore che sul dunque la memoria avrebbe disperso
quello che al momento pareva di una concretezza facile.
Avrei voluto confidare queste scoperte a Ferri per
verificare se pure i pittori seri ne erano colpiti e in quale misura, ma temendo l’irrisione continuai a covarmele in segreto. Però mi ero accorto che negli ultimi tempi
i colleghi avevano gettato più di una furtiva occhiata
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sulle mie tele: le guardavano con curiosità. Perfino
l’arabo, che ancora non si era ripreso dalla delusione
per il suo quadretto diurno e notturno, manifestava
consenso.
Purtroppo la mia discussa nomea di moderno era filtrata oltre la villa. Che si fosse lamentato il maggiore
coi colleghi inglesi, oppure l’arabo avesse riportato il
mio curriculum derisorio dove abitava e da qui si fosse
sparso, insomma il pomeriggio di una domenica tre
militari americani mi vennero a cercare, insistettero per
vedere i miei quadri e tanto li apprezzarono quanto ingiustamente criticarono quelli dei colleghi assenti.
Uno di questi americani, un tenente della California,
pure lui pittore ma per svago ― campava scrivendo di
cose d’arte sulle riviste ― si dilungò a commentare le
mie tele che guardava da intenditore inclinando la testa
a destra e sinistra. Io lo ringraziai confuso, sempre tramite l’interprete arabo, ma ritenni opportuno rispondere che i quadri degli amici allo stadio per la partita di
bessbol, vedute di Capri, nature morte, crocefissioni
erano di maggior valore. Ma lui, fissato nel no, spiegò
che essi mantenevano lo stile dei pittori vedutisti del
secolo scorso.
Alla fine della visita l’americano della California volle un mio quadro e in cambio mi omaggiò di monete
per dieci dollari: per fortuna il maggiore Pol era pure
lui al bessbol altrimenti la rinomata flemma inglese sarebbe andata a farsi fottere.
* * *
138
I fogli del calendario spersi nel vento, l’avversa clessidra, il “tempus fugit” ― così, senza volerlo, mi capitavano anche uscite poetiche ― i giorni, le settimane, i
mesi fuggenti... Insomma, poche storie, se n’erano andati buoni un paio di annetti da quando, acrobata temerario, ero saltato senza rete nel bel mezzo dell’arte.
Quasi un corso accademico diceva Ferri: infatti era innegabile che avessi accumulato notevoli capacità. Ormai disegnavo con disinvoltura, sapevo intonare i colori perché sentissero la stessa luce e le composizioni mi
riuscivano abbastanza compensate sì che i quadri avessero pieni e vuoti senza sbilanciamenti. E le tecniche
dall’acquarello all’olio, dalla tempera all’affresco mi erano note. I colleghi adesso mi consideravano pari a loro e nelle diuturne polemiche sull’arte mi introducevano nei dialoghi: «E tu, Egidio, che ne pensi?»
Non erano benevoli, la praticaccia coi pennelli me la
riconoscevano seriamente, ma di cultura, da parte mia,
meglio girare al largo, anche se non mi consideravo
proprio a zero. Durante i tre anni nel conflitto armato,
a giorni alterni, di sicuro avevo tenuto in mano carta
stampata, pertanto avrei potuto millantare qualche conoscenza: «La pittura romana, inesistente nei primi secoli della repubblica, si caratterizzò per le grandi decorazioni paretiali, spesso risalenti a prototipi ellenistici».
Ancora: «Proust (Marcel, da non confondere con Joseph Louis che si limitò a fondare l’analisi chimica) nel
volume “Alla ricerca del tempo perduto” elabora una
struttura dove gli eventi risultano trasportati sul piano
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metafisico di una verità ideale». E anche: «Il Nibbio,
uccello dei Falconiformi appartenenti ai generi Milvus
e Elanus e alla famiglia degli Accipitridi, ha tronco tarchiato, coda più o meno biforcuta, ali molto lunghe,
becco robusto e adunco».
Ma il meglio veniva con “La locandiera”, commedia
di Carlo Goldoni, questa avrei saputo recitarla d’un fiato facendo la parte di tutti i personaggi: libretto riletto
tante di quelle volte che non avrei sfigurato se mi fossi
esibito cominciando dall’ultima riga a ritroso fino alla
prima. Però, cauto, oltre la dozzina di minuti di esposizione colta, avevo esperienze di possibili ritorsioni: gli
interlocutori potevano trascendere a vie di fatto.
Di quanto detto ecco la spiegazione: il nostro sgangherato esercito negava la necessità di carta igienica
per la truppa, pertanto non c’era alternativa alle bibliotechine nei villaggi rurali degli emigrati italiani sparsi
lungo la Grande Sirte. A me capitò di far provvista, un
mezzo tascapane, in una scuoletta abbandonata: riviste
e libri squinternati, “La locandiera” integra e un trattatello di ornitologia. La noia nelle lunghe ore di stasi
guerresca aveva combinato il resto: si rileggevano
sempre le stesse pagine ― per ovvie ragioni in numero
decrescente ― fino al rigetto. Però “La locandiera” la
gustai tanto da sottrarla al suo destino: la portai con me
fino al ritorno a casa per farla leggere anche ai miei. E
sull’argomento cultura con i colleghi artisti fu decisione
saggia, secondo un detto del mio paese, quella di trattenere il cecio in bocca.
140
* * *
Per qualche ora al giorno, di nascosto dal maggiore
contro il quale covavo il sogno di vendicarmi con
un’opera a sorpresa, mi provavo con soggetti impegnativi, per lo più mezzobusti che ricopiavo da cartoline e
fotografie, oppure nature morte dal vero, e rilevavo di
usare la tavolozza ogni volta meglio, di sapermi avvicinare alla realtà, quella che si tocca, con crescente capacità.
Una domenica mattina mentre stavamo apprestandoci per la solita messa anglicana ― in alternativa la
moschea col muezzin ― il maggiore entrò inaspettato
nella villa sventolando un giornale e gridando, persa la
compostezza, furioso. Era successo che sul “Progrè Egiptien”, quotidiano de Il Cairo, nella pagina dedicata
all’arte e alla letteratura, vi compariva il quadro che si
era portato via il californiano e sotto la riproduzione, in
arabo e inglese, si leggeva un trafiletto ironico nei confronti miei, del cenacolo italiano e del maggiore Pol. Si
chiedeva, il trafiletto, dopo pazzesche critiche sul quadro, se fosse il caso di trapiantare qui la malapianta
dell’arte degenerata proveniente dall’Europa in disfacimento e di corrompere, con l’avallo del Comando, la
promettente arte egiziana. Concludendo: se non sarebbe stato meglio ridurre l’autore in condizione di non
nuocere alla cultura locale e alla comunità panaraba allora nascente, facendo appello, per questo, alla sensibilità di chi del famigerato gruppo era responsabile.
Il maggiore Pol, abbrutito come un amante del bello
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non avrebbe dovuto, soprattutto perché il trafiletto aveva generalizzato tacciando di modernismo l’intero
gruppo, non volle giustificazioni. Mi avrebbe immediatamente rispedito al 308, potendo in un campo ai piedi
dell’Everest.
Mentre stava imprecando contro di me e l’immancabile Picasso, con noi due nemmeno un briciolo di pazienza, qualcuno lo chiamò al telefono e dovettero parlare di quadri moderni perché il maggiore, rispondendo, mi guatava strizzando gli occhi da farseli lacrimare.
Nella stessa mattinata chiamarono altre sei persone e
il lunedì successivo il telefono trillò più volte. Piovevano richieste di notizie sul mio conto e sulla mia pittura,
mi disse l’arabo, e il maggiore a ogni telefonata, per
non rispondere insultandoli, rischiava la scoppola finale.
Si fece vivo pure un generale del Sudafrica ma di
stanza a Alessandria. Domandò se io potevo fare il ritratto alla sua signora la quale sarebbe stata felice di
possedere una tela dell’artista italiano nominato, sia
pure polemicamente, dalla stampa cairota. Aggiunse
che nella sua collezione di arte anche la mia firma avrebbe avuto un posto: d’altra parte, molti pittori furono riconosciuti in tarda età se non da morti. Il maggiore
Pol gli oppose barricate di argomenti: stettero a battagliare un quarto d’ora, ma il generale ebbe partita vinta
per il grado.
Chi mai poteva immaginare la missione che stava
per toccarmi. Il maggiore, per non commettere uno
sproposito e recuperare un minimo di padronanza sui
142
propri nervi, senza avvertire era scomparso dalla villa.
Fu l’arabo a dire che sarebbero venuti a prelevarmi e di
preparare l’occorrente per un ritratto a olio.
L’autista del generale arrivò presto. Domandò di me,
si accertò che il pittore del quadro sul giornale fossi io,
poi dimostrando considerazione volle che non mi affaticassi, caricò sulla jeep il materiale pittorico e infine
raggiungemmo la palazzina dove l’importante personaggio teneva il domicilio.
Erano in attesa. Sul portone un ufficialetto di servizio, esprimendo con larghi sorrisi vive congratulazioni
per la mia improvvisa notorietà ― almeno pensai così
perché parlava nella sua lingua ― mi introdusse al cospetto dell’eccellenza e della nobile consorte, entrambi
seduti su uno dei canapé damascati del lussuoso salotto.
Affabile, il generale mi fece accomodare e tramite un
ufficiale interprete impettito a fianco, dopo avermi offerto un liquore, cominciò a lodare l’arte in genere,
quella italiana in particolare, e infine la mia. Veramente, scusandosi, precisò che il quadro sul giornale non
l’aveva minimamente capito, ma per colpa del gran lavorio con la guerra che l’aveva allontanato dall’arte e
dagli amatissimi libri. Tuttavia mi credeva capace di
eseguire un notevole ritratto alla signora; per questo
chiedessi senza riguardo ogni cosa di cui avessi necessità. Si alzò: con rammarico doveva allontanarsi per gli
impegni militari. Baciò la moglie in fronte, salutò col
bai e uscì seguito dall’interprete.
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* * *
La nobildonna e io, seduti uno di fronte all’altro, restammo alquanto impacciati. Ma ella tossicchiò, allora
pensai che toccasse a me e tossicchiai. Disse occhei, risposi ies. E lei con occhi e labbra si costrinse a un mezzo sorriso.
Interpretando quel sorriso come il permesso per
principiare il ritratto mi alzai, montai il cavalletto, scelsi una tela del settanta cento, preparai i carboncini e
predisposi il resto. Il soggetto sembrava normale: sulla
cinquantacinquina, i capelli tinti di biondo, peluria sotto il naso, rughe sulla fronte e per il collo, forse la dentiera, anzi senz’altro ― ce l’avevano tutti ― occhi piccoli
e distanti, mento a punta, orecchie a sventola, colorito
sul cinabro. Ci voleva una mezza opera di restauro e
mi divertii del facile doppio senso: quando ci chiamarono dal 308, ricordai, avevano chiesto pure restauratori.
La signora, vedendomi pronto, mi fece capire se dove stava seduta andava bene. Io sempre ies. Iniziai a
disegnarne le fattezze col carboncino, la stessa tecnica
che avevo imparato ricopiando la fotografia di mia
madre, di vari lord e ministri inglesi che riprendevo
dalle riviste che il maggiore lasciava in giro e
dell’arabo, questo dal vero, ma solo quando si addormiva sulla sedia perché da sveglio non era il caso di suscitare alterchi.
Ripensai i consigli di Ferri il quale diceva ― cavolo
quant’era bravo a serbare le rassomiglianze ― che nei
ritratti la prima regola è non continuare a guardare il
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soggetto, ma di fissarlo per qualche secondo e disegnare quello che rimaneva nella mente, però accentuandone i tratti specifici. Di buona lena in capo a un paio di
ore avevo completato l’abbozzo. Nessuno avrebbe potuto rimproverarmi una qualsivoglia modernità: cercavo di rimanere nello stile classico dello stesso Ferri. La
signora si alzò curiosa quando mi vide riporre il carboncino per sgranchirmi le dita, mi venne a fianco sorridente, almeno sembrava sorridente, guardò l’abbozzo
ma non aprì bocca.
Inutile particolareggiare i progressi: dopo una settimana avrei potuto affermare che il ritratto era terminato. Dal mio punto di vista, il massimo che avessi
potuto ottenere in uno stile realistico: trasparenti le
ombre e delicate le sfumature, di rosa carne il viso e
rimbellita la signora. Forse troppo distanti gli occhi, per
la regola sull’accentuazione dei caratteri, e lunghetto il
collo a voler fare il critico. In compenso le avevo tolto
rughe e peli, ridotto le orecchie e arrotondato il mento.
E poi nei ritratti succede che a forza di starci su, finisce
che si vede il soggetto come lo si dipinge anziché il
contrario.
Anche per il generale il ritratto risultava soddisfacente. Le volte che era venuto a curiosare aveva ammiccato allegramente e, unendo la punta del pollice a quella
dell’indice, mi faceva il segno del tutto bene. Alla signora, invece, il ritratto doveva risultare sgradito, accidenti, e lo si capiva da vari segni: sporgeva il labbro inferiore, maltrattava gli inservienti negri, era acida con
lo stesso generale. L’interprete, da parte sua, faticava
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per mantenere un’espressione assolutamente imparziale. E l’ottavo pomeriggio, durante la sedicesima seduta,
mentre stavo ritoccando il medaglione che le pendeva
sul petto si alzò di scatto, sfilò la tela dal cavalletto e
dopo averla guardata di traverso, con una manata insospettabile in tale nobildonna, la fece volare fuori dalla finestra.
Uscendo confuso, allontanato dal generale che stava
sonnecchiando sul canapé col bicchiere in mano, feci in
tempo a sentire che si erano messi a litigare così forte
da farmi pensare quanto doveva essere stata dura la
guerra contro i boeri.
L’alterco arrivava fino al pianterreno dove mi avevano alloggiato e i poveri inservienti negri, apparendo
e scomparendo da ogni porta alla ricerca di un nascondiglio, sembravano fantasmi spauriti perché qualcuno
li voleva estromettere dal maniero. Soprattutto il responsabile della servitù, anche lui negro, era terrorizzato dalla generalessa. La conosceva bene: anni fa quando faceva ancora lo stregone ― mi confidò l’interprete
― danzando fra i fuochi sacri della tribù si era ustionato gravemente e venne ricoverato proprio nell’ospedale
dove lei era a capo delle crocerossine: una scalmanata.
* * *
Fui ricondotto alla villa ancora dal personale autista
del generale. Ma questa volta il villano lasciò solo a me
di caricare gli attrezzi sulla jeep, né mi degnò di un saluto. Aveva cambiato opinione sulla mia fama di pitto146
re senza aver avuto bisogno di vedere il ritratto.
Prima di varcare l’anticamera del salone ristetti coi
pennelli, il cavalletto e la cassetta dei colori in mano a
pensare una storia da raccontare ai colleghi. Lo smacco
mi pesava, anche se era dipeso dal maledetto californiano se a un certo punto mi ero trovato di fronte quella santippe intestardita a farsi ritrarre da me.
Il mio nome era diventato noto per un equivoco: che
c’entravo? Io avevo solo pitturato uno dei soliti pastrocchi, poi un accidente di americano era venuto
dall’altra parte del globo per incrociare la strada con la
mia. Infine qualcuno, forse lo stesso americano, aveva
brigato per pubblicare il quadro sul giornale. Allora,
solo a me la colpa di tutte queste mosse da giocatore di
scacchi sotto mistura alcolica come quella che il vecchio
maresciallo succhiava dai kit di sopravvivenza?
Entrai nel salone e raccontai la verità. Ferri, trovando
un varco fra una risata e l’altra, mi disse che sarebbe
stato meglio per l’arte se fossi rimasto sul moderno, che
l’essermi cimentato col classico, in poche parole, prematuro: a spanne, ancora un tre anni di prigionia con
loro. Aveva ragione, accidempoli. Per quanto, se con
uno stile classico era finita a quel modo, che sarebbe
successo se alla nobildonna avessi fatto un ritratto in
stile “gallina sotto l’ombrello”. Mi avrebbe fatto menare dagli inservienti in calze rosse. Cercai di convincere
Ferri che non mi ero montato la testa credendomi capace di un ritratto al naturale, ma che avevo deciso pensando alla permanenza in vita.
Salito in camera mi stesi sul letto. Adesso c’era
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d’affrontare il maggiore Pol il quale, però, se il generale
si fosse lamentato, avrebbe potuto ribattere che lui aveva cercato in tutti i modi di fargli intendere che fra
gli artisti del cenacolo io ero il meno qualificato.
Ancora un tre anni con loro, forse di più.
Quando ridiscesi nel salone il maggiore era già arrivato. Mi vide, ma rispose bene al mio saluto, non dette
l’impressione di voler infierire. Forse il generale ancora
non aveva avuto modo di lamentarsi oppure, e questa
speranzella me l’ero covata, poteva darsi che il ritratto
non gli fosse dispiaciuto.
Al generale il ritratto era piaciuto e lo dimostrò
l’indomani con tre bottiglie di liquore e qualche stecca
di sigarette in regalo. E la volta che l’incontrai per caso
in un club, dove ci stavo per delle decorazioni libertì
nel cesso, era passato qualche mese, si ricordò di me, e
allacciandosi la patta si avvicinò contento di rivedermi.
Disse, sperando non me la fossi presa, che la consorte,
competente solo in migliaia di pecore, si era infuriata
perché diceva che il ritratto sembrava preso da quegli
specchi che deformano le facce nelle fiere. Poi sbottò in
una risata pasquale e mi rifece il segno dell’occhei.
* * *
Per varie settimane comunque, con diverse scuse, disdegnai il cavalletto e mi affacendai nei lavori più umili: pulire i pennelli e le tavolozze, macinare le terre per
gli affreschi, preparare le tele a gesso e colla, bucare gli
spolveri e fare da modello nelle ore dedicate agli eser148
cizi. Ma per quest’ultimo incarico non vorrei si pensasse a una mia insorta voglia esibizionistica e per spiegarne i motivi bisogna fare un flascbec, come diceva il
maggiore quando riandava al glorioso Rinascimento,
cioè un salto indietro. Un giorno, parlando del più e del
meno artistico, era uscito che per rimanere in forma
con i pennelli bisognava allenarsi, come pugili al sacco,
disegnando una persona nuda. Il maggiore Pol, da sensibile acquarellista di Mancester, capì al volo. La mattina seguente, eccolo con una egiziana della quale si vedevano solo le fessure degli occhi: adesso, se volevamo
fare scuola di nudo, sotto.
Infervorati dall’eccitante novità montammo un baldacchino nel mezzo del salone e lo addobbammo con
tendaggi in modo che, contro le morbide pieghe del
panneggio, il corpo della donna acquistasse plasticità.
Spostammo i cavalletti in tondo perché tutti godessimo
di un buon punto di vista e facemmo accomodare
l’araba. Essa si tolse il barracano, il velo dalla faccia, la
camicia e i mutandoni e si mostrò per quello che era:
una vecchierella rimediata in qualche mercatino della
casba.
Cercammo ugualmente di allenarci al sacco, soprattutto per non umiliare il maggiore, ma era un’arte deprimente. Ferri disse subito che era meglio soprassedere, e ci dedicassimo alle nature morte. Zecchillo: «La
donna s’è piccola è viziosa, s’è bella vanitosa, s’è brutta
e vecchia fastidiosa.»
Io pensai alla bionda dell’ospedale. Averla interpellata, di sicuro sarebbe accorsa per dare una mano a
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questi artisti bisognevoli di praticare. Inoltre a me, suo
malaticcio prediletto, come no, avrebbe dedicato qualche posa straordinaria per sottrarmi in anticipo dallo
stile pittorico in cui ero stato confinato per spregio.
Per concludere, in attesa di altre soluzioni, essendo
nel gruppo il solo non occorrente di nudo, che anzi avrebbe inquinato le mie qualità, dovetti rassegnarmi a
esibirmi da Apollo. Non che fosse disonorante, fra noi
artisti. Ma una circostanza mi infastidiva: che il maggiore Pol, se presente, album e matita in mano, pure lui
buttasse giù qualche schizzo: perché non aveva schizzato anche la vecchietta? E durante queste sedute, se lo
cercavano al telefono, faceva rispondere seccato che
non c’era per nessuno, fosse stato perfino Dequin: di sicuro uno influente.
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A giugno in Egitto le giornate si distendevano tanto
che la luce sul tardi, permanendo pigra, finiva col rompere le scatole mentre le notti, intervalli fra il tramonto
e l’alba soltanto perché previste dall’astronomia. Fosse
stato per il sole, il nostro sarebbe rimasto a splendere di
continuo. E le domeniche ancora più lunghe, giornate
rallentate: per arrivare alle quattro del pomeriggio, dopo aver pranzato, sembrava occorresse il doppio del
tempo degli altri giorni. A quell’ora era consentita la libera uscita e solitamente incontravamo le sergentesse
del vicino Comando con le quali s’intrecciavano amicizie.
Un pomeriggio, mentre ci stavamo apprestando per
lo svago, quasi da annoiati fraticelli in attesa della funzione pomeridiana, fummo aggrediti da un urlaccio
scomposto, incomprensibile: quell’accidenti di arabo si
era precipitato nel salone per informarci che la prigionia: “finitaaaa!...”.
Ferri restò paralizzato con la spazzola a mezz’aria
nella mano destra e una scarpa nella sinistra; Zecchillo
zompò sopra una sedia per battersi i pugni sul petto
come un gorilla; Pirani dovette aver avuta una sfolgorante visione della sua Roma perché si mise a piangere,
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cercando con gli occhi chi lo volesse confortare; Carone, imbronciato, di sicuro pensò alla folta parentela
pugliese che lo aspettava; degli altri chi gridò, chi uscì
in giardino a strappare pugni di erba che gettava in aria. Non venendomi un pensiero preciso, io seguivo la
mattezza dell’uno e la commozione dell’altro, per conto mio con una vaga apprensione per il futuro. Ma in
ognuno, comunque, il desiderio che adesso tutto si risolvesse presto. I cari ricordi, i volti, i luoghi lontani,
immagini riposte nella memoria erano rinvenute vivide
mentre il presente subito diventò quasi inutile. E la notte, per le stanze, progetti e timori sfarfallarono fino
all’alba come le nottole nella vecchia filanda diroccata
lassù nel paese.
Il sole appena sbucato dal mare svaporando già caldo quando il maggiore Pol, prestissimo per lui, entrò
nella villa e salì alle camere per confermare la notizia.
Talmente emozionato che nemmeno badò, lui così formalista, di trovarci in mutande. Sedette su un letto ostentando una innaturale allegria, ma sforzandosi per
mostrarla disinvolta, e aspettò che finissimo di vestirci
scambiando forzate battute con tutti.
Scendemmo insieme nel salone. Alla vista di quei
dipinti destinati all’abbandono fummo colti da una tale
inquietudine che sarebbe sfociata in una lacrimata. Ma
il maggiore ordinò all’arabo di chiudere la scena abbassando le tapparelle, e su tutta quell’arte calò il pesante
sipario che, finita la rappresentazione, manda tutti a
casa. Adesso ognuno provvedesse a sé, suggerì il maggiore, a preparare il rientro in patria. La partenza si di152
ceva fra una settimana.
La prima difficoltà: convertire i soldi, le piastre egiziane e le sterline che avevamo risparmiato per questi
giorni. Portarle in moneta si correva un rischio. Meglio
convertirle in merci mancanti in Italia in quei momenti:
caffè o the, ma soprattutto aghi da cucire e pepe, come
ci consigliarono alcuni scozzesi reduci dalla campagna
italiana. L’incetta degli aghi da cucire, del the e del caffè, per i quali si erano votati i colleghi, cominciò
l’indomani. Da un capo all’altro di Alessandria furono
visitati negozi, rappresentanti di macchine da cucire,
grossisti: in pochi giorni i prezzi, riscaldati dalla richiesta, fecero preoccupare baristi, sarti e massaie.
Essendo il mio paese celebrato nel circondario per salumi e porchette io mi decisi per il pepe. Rastrellate le
botteghe del porto e le spezierie della casba, mi ritenni
pago dopo averne stipato un capace zaino: sui nove
chili, etto più etto meno. Soddisfatto anche per la qualità della droga: un pepe nero piccante da stuzzicare le
narici di un cammelliere beduino. Ma solo chi avrà avuto la ventura di annasare dentro la tenda di un beduino potrà comprendere.
* * *
I saluti col maggiore furono una pena. Per noi il distacco significava il sigillo a un’avventura artistica, sia
pure entusiasmante, per lui la fine di una grande illusione. Potevamo dirlo adesso, non era un granché come
pittore ― “Uno spompato preraffaellita” lo bollava Ferri ― per quanto a me piacessero i suoi acquerelli con
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quelle figurine aggraziate sullo sfondo di prati di un
bel verde veronese, ma guidandoci, partecipando alla
nostra esperienza, di riflesso si era sentito importante,
un maestro.
«Addio, signor maggiore, e grazie...»
«Gud bai, gud bai...»
«Evviva l’arte!»
«Ies, Raffaello, Tiziano, Masaccio...». Aveva citato un
terzo mai nominato prima: di sicuro, uno valido.
«Il signor maggiore dice che verrà a trovarvi in Italia
e prega di scrivergli» tradusse l’arabo.
«Signor maggiore, buona fortuna» dissi anch’io.
«Igiddio, bone fortiun to iù.»
«Il signor maggiore» riportò enfatico l’arabo come se
i concetti fossero suoi «dice che nonostante tutto riconosce il tuo mestiere anche se volto all’inganno e si augura che l’ottimo Chianti, le magnifiche donne fiorentine...»
«Perché, jesine no?» pensacchiai fra me.
«... Il clima dolce come una canzone a Capri, l’arte
prorompente da ogni pietra di quella terra benedetta
dalle Muse, siano tali da convertirti alla sovrumana
bellezza rinascimentale, abbandonando quei lestofanti
costantemente in bilico fra espressionismo e impressionismo, ignorando i Brac e Matis ― il già citato duo
dell’avanspettacolo, secondo la mia blasfema percezione ― e più degli altri fugando il corrotto e corruttore
Picasso». A me quest’ultimo stava simpatico, ma risposi che avrei ben riflettuto sui saggi consigli con una
meditazione culturale, ci contasse.
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Il maggiore Pol ci strinse lungamente la mano, quindi in un empito di commozione ci abbracciò, uno a uno,
la vecchia burbanza sciolta dall’umidore che dagli occhi scendeva ad imperlargli il baffo rossiccio. Abbracciò anche l’arabo che in fondo non partiva.
Venne a prenderci un graduato inglese alla guida di
un autocarro. Lasciammo la villa commossi, anche di
più, finché il maggiore e l’arabo, sconsolati, non si persero come in un quadro sul quale venissero a sovrapporsi pennellate di colori splendenti: i fiori e le foglie
delle siepi del parco. Fossimo rientrati all’im-provviso
li avremmo sorpresi entrambi singhiozzanti uno sulla
spalla dell’altro.
Se il porto di Tripoli, il lontano giorno dello sbarco in
Libia, mi aveva ricordato la vigilia dell’apertura della
mostra del Bozzolo e della Seta moltiplicata per diecimila, per questo di Alessandria bisognava scomodare
la Fiera di Milano. Il centurione Abondi, consueto alla
ricerca di macchinari per produrre mattonelle più velocemente, diceva che per centrare lo stend giusto bisognava scomodare guide e vigili urbani. E similmente,
anche per questa di Milano, valeva la moltiplica.
File di treni merci sbuffanti avanti e indietro su un
intrico di binari, enormi gru che svuotavano le stive di
ogni sorta di materiali, piramidi di casse a ingombrare i
passaggi; sui moli rimorchiatori, petroliere, piroscafi e
navi da guerra, uno accanto all’altro, in uno strepitamento di fischi, getti di vapore, sirene e urla di scaricatori arabi in continua rissa per contendersi una cassa o
la precedenza sulla passerella.
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* * *
Noi dovevamo imbarcarci su un cacciatorpediniere
italiano, il Duca degli Abruzzi, uno dei pochi che gli alleati avevano lasciato alla nostra marina. Ma questo
cacciatorpediniere nessuno sapeva in quale molo potesse aver gettato l’ancora e trovare un cacciatorpediniere nella confusione del porto di Alessandria, e qui
calzava il paragone, come per il centurione Abondi
trovare lo stend per le mattonelle alla Fiera di Milano.
L’autista inglese chiedeva notizie a marinai, a poliziotti, ai comandanti che fumavano la pipa affacciati al
parapetto della loro nave, ai due guardiani del faro.
Nessuno aveva visto un cacciatorpediniere tricolore,
piuttosto sorpresi sentendo dire che ne fosse rimasto
uno in navigazione. Perfino alla Capitaneria del porto
si mostrarono scettici, però controllando i documenti in
mano al graduato il caccia risultava in arrivo e si attaccarono alla radio, prima con ordini tassativi poi implorando che trasmettesse un segnale. In noi invece
s’insinuò un dubbio: nel marasma per la guerra finita
com’era finita, che i nostri marinai demoralizzati, ormai incerti su ogni rotta, avessero gettato l’ancora in
chi sa quale altro porto.
Da un altoparlante gracchiò una vocetta: «Arrivati,
siamo ormeggiati nel porto arabo. Passo e chiudo». Il
vecchio porto arabo era paragonabile al porto di San
Benedetto del Tronto: con un colpo d’occhio lo vedevi
tutto. Eccolo là, a fianco di un peschereccio, dondolare
il nostro Duca degli Abruzzi. Ci strinse il cuore vedere
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la bandiera così floscia.
«Se tardavate ancora, saremmo partiti senza di voi»
disse un guardiamarina che ci stava aspettando sul
barcarizzo. «Gli altri prigionieri sono arrivati da un paio di ore.»
«Nel porto vi abbiamo cercato tutta la mattina» rispose Ferri.
«Non c’era posto: incrociatori, portaerei...»
Ci voleva poco per capire lo stato d’animo di quei
nostri marinai. Salimmo a bordo tacendo. Mi toccò un
pagliericcio sottocoperta, in uno spazio a fianco della
sala macchine. Ma non ebbi il tempo di posare lo zaino
che dilagò un coro di sternuti. Avendoci fatto il naso
non mi ricordavo più del pepe, ma il sentore della droga risultò irritante in quell’ambiente caldo, umido e ristretto. Una piccola rivolta fra i presenti mi obbligò a
appendere lo zaino fuori la murata di poppa, sottovento, e mentre ero intento a fissare le cinghie il cacciatorpediniere, staccatosi dal molo, già stava puntando il
mare aperto. Avrei voluto esprimere qualche meditazione su questo addio alla terra delle mie avventure
belliche e artistiche ma con il fracasso per il pepe mi
ero talmente innervosito che appena mi riuscì di sospirare.
Il viaggio durò due giorni e stetti male tutto il tempo
come gli altri e, nel tratto in cui infuriò un fortunale,
parte dell’equipaggio. Il cielo si era andato annuvolando subito, ma la mattina seguente si ispessì di cumuli
grevi sotto i quali si sfrangiavano vapori biancastri
mentre il vento, ora a raffiche ora a groppi, spazzolava
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le onde merlettandole di spuma: «forza quattro» commentò un marinaio sceso a bloccare i portelli.
La sera il mare decise la rivolta montando di furore
fino a “forza sette”: livide montagne di acqua sulla cima delle quali il cacciatorpediniere, coinvolto nell’immane rissa, saliva per sprofondare nella voragine successiva.
Coricato nella cuccetta, sbatacchiato come una pallina dentro una scatoletta che stesse rotolando, cercavo
di distrarre lo stomaco pensando a casa, ma inutilmente. Lo stomaco seguiva il toboga delle onde e l’olfatto,
altrettanto attento, numerava le tanfate calde che arrivavano dalla cucina di bordo: sembrava non avessero
altra occupazione che cucinare caldaie di minestroni.
Per scamparla dovetti salire in sopraccoperta, a poppa,
dove trovai sollievo nella sferza degli acquaventi e aspirando l’odore del pepe nello zaino.
Il mare cominciò a sbollire quando il cielo, smorzata
l’energia dei nembi, lasciò intravvedere trasparenze cilestrine.
La costa italiana si annunciò incerta. Se non avesse
parlato un marinaio ― «ragazzi, è l’Italia» ― noi saremmo passati oltre senza la minima curiosità per quella striscia tremolante all’orizzonte. Nella fantasia avevamo visto la nostra terra venirci incontro come in certe opere liriche: un terrapieno a picco sul mare sopra il
quale si ergeva un castello e sugli spalti figli, padri e
mogli con le torce accese mentre in coro ringraziavano
gli dei che ci facevano riapprodare, dopo infinite peripezie, sul suolo della patria.
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Forse per suggestione, sotto i piedi si avvertiva una
vibrazione diversa, quasi che il cacciatorpediniere si
fosse riacconciato sentendosi in acque familiari. Diretta
la prua verso il golfo, penetrò nel porto e si accostò al
molo sbuffando fumaccio nero e chiarissimi “uffa”.
* * *
Taranto, lo stesso porto dal quale ero partito sette
anni prima. Sul piazzale, un ufficiale, la vecchia divisa
scolorita, a nome della nazione ci rivolse un cenno di
ringraziamento per il nostro sacrificio, ma con un tono
di voce scettico, non speso invano. Rattristava la scena
un’irriconoscibile marcetta suonata con riluttanza da
pochi individui, non si capiva se militari o borghesi,
impazienti di riprendere i traffici dai quali erano stati
rimossi per renderci gli onori militari.
Sbrigata la cerimonia ci avviammo mogi verso lo scalo dove una locomotiva, ansando sul punto di spegnersi, cercava l’aggancio con un’interminabile fila di carri
merci. Salimmo su un carro bestiame. False scosse di
partenza nel clangore dei respingenti: finalmente quella giusta. Il convoglio si mosse.
Passavano miseri paesi, casolari diroccati, campagne
abbandonate.
La percezione di risalire la penisola, di avvicinarmi al
paese, non l’avevo dal traballante procedere del treno
che, al contrario, per l’estenuante lentezza sembrava
distaccarmene, ma durante le assurde soste
dall’impercettibile mutare di accento delle faticate pa159
role dei ferrovieri con le banderuole nere di morchia.
Ancona, era notte. La stazione non riuscivo a riconoscerla: banchine sconnesse, piloni neri, muri sbrecciati.
Durante la fermata due crocerossine, l’opposto della
bionda di Alessandria, salirono per distribuirci panini
con qualcosa di rancido e bottigliette di vino.
Il treno finalmente ripartì e assecondando la morbida
curva del piccolo golfo spinse dolcemente la luna, essa
ancora intatta, nel vano del carro. Sul mare uno sfavillio lucente: sfoggio inutile per il mio animo inquieto.
Falconara, qui dovevo scendere e sperare in una
coincidenza per il paese. Saltai sul marciapiede. Se
l’orologio della stazione funzionava, stava per battere
l’una dopo mezzanotte. Salutai frettolosamente Ferri e
qualcun altro e intesi Zecchillo «Quando brucia nel vicinato porta l’acqua a casa tua!» fra sbuffi di vapore
che salivano a appannare la fioca lampada della pensilina. Corsi verso il sottopassaggio: mi erano già estranei e le promesse di ritrovarci si confusero nello stridere dei freni di un convoglio in manovra nelle vicinanze.
* * *
Ancora venti chilometri con l’accelerato dei corrieri,
un “locale” con due vagoni: nessun ferroviere, nessun
altro viaggiatore. Il macchinista doveva esserci. Cercavo di maturare qualche comportamento per l’arrivo a
casa, ma gli scossoni del vagone aprivano il varco a
immagini lontane: il teatrino del campo, qualche mio
quadro, sprazzi della guerra. Mi abbandonai, su uno
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sfondo di generica ansia, a pensieri confusi.
Fui riportato alla realtà dalla diversa cadenza battuta
dalle ruote, e sul finestrino apparve la nera sagoma del
paese nel cielo della notte fonda, a stacco sulla scappata trama dei longheroni del ponte sul fiume. Scesi, la
stazioncina spenta. Il treno ripartì portandosi appresso
l’asfittico stantuffio. Con lo sguardo seguii il fanale
rossastro di coda fino a quando restò il frinire spasimante di una cicala. Nel piccolo bar, attraverso i vetri
opachi di sporco, si indovinava un locale abbandonato;
la biglietteria serrata a custodire, in un sentore di timbri, scartoffie per la storia.
Buttai lo zaino sulle spalle e mossi verso il viale. Vedevo le case più piccole, le strade più polverose, gli alberi più radi di come li avessi nella memoria. L’aria diversa, forestiera. Brandelli di manifesti sui muri richiamavano per date irreali comizi di inimmaginabili
raggruppamenti: Democrazia Cristiana, Partito Repubblicano, Partito Socialista...
Oltrepassata la cinta delle antiche mura, dalla porta
del forno di Galeno si espandeva l’odore caldo del pane: una lucetta lasciava intravedere qualcuno intento
sulla madia. Mi sembrò di riconoscere il vecchio Galeno, ma non ero in umore di convenevoli e continuai per
la salita del Torrione verso casa.
Rimasi con il batacchio di ferro in mano come temessi di fugare i due gatti che rovistavano in un secchio
rovesciato a fianco del portone. Refoli di rimpianti si
insinuavano a alterarmi il respiro. Bussai senza volerlo
e il colpo fece scappare i gatti. Ribussai due, tre volte,
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quasi a coprire il tonfo precedente che, rimbombando
fra le vecchie case, s’era infilato nei vicoli a avvertire
mezzo paese che a montare lo strepito a quell’ora piccola era tornato il volontario.
Una persiana scricchiolò leggera e dalla finestra si
sporse un fagotto nero, mia madre.
«Sono Egidio!...»: il cuore in sussulto, le mani sugli
occhi a trattenere le lacrime. La casa si rianimò. Per le
scale un intenso scalpiccio. Il portone si aprì. Mia madre, le due sorelle, io: ma fra le nostre ombre che ballavano sui muri anche l’ombra di mio padre.
Dentro trovai la casa, le cose che avevo lasciato, tutto
incredibilmente invecchiato e logoro: non erano passati
sette anni ma un tempo senza calendari che si distanzia
fra la partenza per una guerra e il ritorno. Dovetti controllarmi per non sfogare sui miei la delusione che non
riuscivo a contenere. M’irritava, inoltre, che mia madre
di sottecchi continuasse a interrogare il mio viso: forse
per assicurarsi che non vi fosse strascico dell’avventura
pittorica che tanto l’aveva preoccupata.
Restai in casa due giorni. Bruciate le avventure da
raccontare, mi muovevo fra le stanze tormentandomi
alla ricerca di una qualche decisione. Bisognava uscire,
trovare un daffare, tastare il polso dei paesani, cercare
di piazzare al consorzio dei Norcini il pepe che avevo
collocato sull’abbaino, vedere, sentire.
A decidere fu un carabiniere che la mattina del terzo
giorno venne a cercarmi per regolarizzare una vecchia
pratica. Camminando a testa bassa a fianco del milite
pensavo con apprensione al passato: i Campi Dux, la
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guerra, le armi distrutte il giorno della resa... Rasentando i muri mi sentivo a disagio, ma i paesani, pur osservandomi, palesavano dubbi. Qualcuno si confidava
col vicino ma intuivo che mi giudicavano un foresto,
forse un qualche mariuolo capitato per caso. Io, invece,
avevo ravvisato diverse fisionomie, soprattutto fra gli
anziani.
* * *
Al Comando il brigadiere entrò in argomento.
«Buongiorno, si sieda… Generalità e documenti...»
«Calandra Egidio fu Roberto...» e mostrai il foglio
avuto a Taranto.
«Una rogna» borbottò il brigadiere aprendo una cartellina «una denuncia del distretto per renitenza alla
leva... in data 20 giugno 1942.»
«Ma se a quel tempo io ero già combattente in Libia
da due anni!» risposi sollevato.
«Qui c’è la cartolina precetto respinta dalla signora...»
«Mia madre... Per forza, toccava al segretario politico
informare il distretto che ero partito volontario...»
«L’Abondi avrà avuto altro da pensare... Quello,
poi...»
«L’esercito doveva pur sapere che ero sotto le armi, il
mio nome sarà risultato su qualche registro!»
«Battaglione Giovani Volontari...» lesse il brigadiere
sul foglio che gli avevo dato «Era per caso autonomo il
vostro reparto?»
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«Autonomo?» con un risolino «Brigadiere, mai vista
altrettanta autonomia nella storia militare!»
«Ci vuole ugualmente una giustificazione...»
«Brigadiere, sette anni laggiù!»
«Codice militare di guerra, non si scherza: la renitenza, paragonabile alla diserzione sul campo, può essere
punita con la fucilazione alla schiena...»
«Mannaggia a chi so io!» mi venne di pensare: nonno
diceva così quando si tagliuzzava affettando un salume. Alzai gli occhi sul brigadiere e lui abbassò lo
sguardo sulle carte in mano.
«Bisogna ricostruire il foglio matricolare» continuò
«cercare lettere e documenti dall’Africa Settentrionale,
dichiarazione di commilitoni...»
«Brigadiere, volontari eravamo in tre di Jesi ma Dante e Mario sono rimasti sotto la sabbia ...»
«Due figli... Io, a quel... Testimonianze giurate di militari, meglio se ufficiali, che vi abbiano visto in zona di
operazione, in prigionia...»
Mi tornarono in mente Ferri, Zecchillo, Carone: certo
avrebbero testimoniato per me. E il maggiore Pol? Sarebbe stato felice di aiutarmi. Anche se nemico era un
signor ufficiale, meglio dei nostri. Mi sarei subito mosso, risposi. Inoltre avrei sentito come i colleghi pittori si
erano trovati a casa, e per evitare ― non si sa mai dove
si casca ― la fucilazione.
* * *
Mi incamminai verso casa contento: avevo un pretesto per riprendere i contatti con gli amici di Alessan164
dria. Arrivato in piazza, in uno dei paesani annoiati attorno l’edicola dei giornali, riconobbi Tittarelli, quello
degli orologi a cucù.
«Tittarelli, ti ricordi?... Sono Egidio!...»
«Egidio, da dove arrivi?» stringendomi forte la mano
«Ma guarda chi si rivede...»
«Vengo dall’Egitto, ero prigioniero di guerra...»
«Si sapeva... E bravo Egidio, eccoti qui...»
«Che si fa?»
«Che si fa...»
«C’è lavoro?»
«Disoccupati, molti... La maggior parte scappa: Milano, Roma, in Brasile...»
Intanto si era formato un capannello e qualcuno partecipò per dire che si pativa la fame e che a Milano avevano fatto bene a fare un repulisti.
«È un guaio...» sospirai a Tittarelli ostentando indifferenza verso gli intervenuti: «E tuo padre?»
«Tira avanti, fonde ancora... È nella giunta comunale.»
«Chi è il podestà?»
Dal capannello si levarono risa e commenti ironici.
«Il sindaco!» rispose Tittarelli: «Il ragionier Felicetti,
il cassiere del setificio.»
«Come va la vita in paese?»
«Chi doveva averle, le ha già prese: tutto è calmo.
Senti, fatti vedere all’ufficio del Lavoro...»
«Ufficio del Lavoro?»
«Dove c’era la Casa del Fascio... La strada la conosci...»
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«La conosce, la conosce» intervenne qualcuno.
Accidenti, se a questo avrei voluto ribattere di come
fosse il primo dei babbei.
«Ti metti in nota fra i disoccupati, qualche volta danno un sussidio» continuò Tittarelli.
«Sono contento di averti visto, Tittarelli». Tirandolo
in disparte: «il segretario politico, il capomanipolo Cristina?...»
«Il primo è scappato a Vercelli, l’altro non si vede da
un pezzo. Pare sia malato, lo cura la perpetua del parroco, una sua parente... Ci vediamo, ciao.»
Mentre me ne andavo un altro babbeo, il secondo:
«Non ha mica capito quello che è successo!»
Invece non era vero. Diamine che prescia, mi dessero
qualche settimana di respiro per un graduale avvicinamento alle novità. Questi, a dargli retta, mi avrebbero voluto democratico più alla svelta di quando Ferri
mi promosse moderno ― promosso o declassato? ― per
coprire la mia nullità. Ce n’erano di simboli, sembrava,
dai manifesti! Per esempio, l’Edera. Il povero babbo
qualche volta leggendo sui muri “Credere Ubbidire
Combattere”, diceva: «Meglio Mazzini con “Dio Patria
Famiglia”». Nonno, invece, che erano entrambi oppio o
che altro, del popolo.
Una di queste mattine dovevo raccogliermi all’ombra di un gelso per leggere qualche giornale: dubitavo
sulla riuscita del soliloquio perché dentro mi sentivo
più incline a scrollare le spalle sul passato piuttosto che
a rinnegarlo. Almeno per capire perché adesso tutti
mostravano di avere idee diverse con tanta ostinata
convinzione.
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* * *
Soprappensiero mi ero diretto verso la canonica e mi
fermai davanti all’ingresso del Circolo cattolico. Per
decidere stetti a pensare: dopo qualche minuto tirai la
cordicella che usciva da un buco sul portoncino. Mi arrivò il suono lieve di un lontano campanello e, dopo un
tempo piuttosto lungo, si aprì uno spiraglio tenuto
fermo da una catenella.
«Che vuoi?» sibilò una vecchietta dall’altra parte.
«Vorrei parlare col capoma... col signor Cristina...»
«Non c’è, è malato!»
«Sono un suo vecchio amico, mi chiamo Egidio Calandra.»
«Sta grave!»
«Ditegli solo che c’è Egidio, vi prego: torno
dall’Africa»
Il portone si richiuse, ma sul punto di andarmene si
riaprì senza più il fermo della catenella. La vecchietta
mi fece strada per scuri corridoi impregnati di incenso
umido e vecchio e mi introdusse in un saloncino dove
c’erano una ventina di ragazzetti.
Mi sentii chiamare da un signore dal viso pallido, gli
occhi cerchiati e due folti baffi grigi:
«Egidio!...»
«Voi... il capoma... Cristina!»
Prima mi strinse le mani, poi mi abbracciò a lungo:
notai che sapeva di candela e di sugo col pomodoro.
«Quanto tempo, Egidio...» disse commosso.
«Come state? Mi hanno detto che siete malato...»
«Da qualche settimana va meglio… Sì, direi meglio…
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Dimmi tu, piuttosto...»
«Eh, la vita!» non sapevo che dire.
«Vedi, aiuto il parroco... È stata dura per te, vero?»
«Una tragedia!» ma dentro mi guizzò l’immagine
della villa sotto le palme alessandrine «Ditemi, Cristina, e voi...»
«Lei! Non si usa più il voi… Una delle grandi novità,
pensa un po’»
«Volevo dire, lei mi potreste... Lei mi potrebbe dare
una mano, non dico per il sanatorio...»
«Io, una mano a te?... Il sanatorio te lo devi scordare... È finita così malamente...»
«Almeno, un consiglio...»
«Chi può, gli conviene ripartire... Nemmeno la campagna offre più niente: i mezzadri, ladri, fanno i ciambotti per trattenersi pure la metà del padrone: hai capito che tempi?»
Rimasi pensieroso a guardare i monelli che si erano
messi a giocare. Fui per salutare.
«Senti...» mi prevenne lui.
«Dite... dica...»
«Mi faresti un favore? Gli sto facendo un po’ di catechismo... Tu eri tanto bravo...» indicando i ragazzetti.
«Sì, certo.»
«Io sono stonato, ti ricordi? Dovresti farli cantare un
po’... Intonagli il “Mira il tuo popolo, o dolce signora”...
Su, Egidio: miiiraaa...»
* * *
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All’Ufficio del Lavoro, ex Casa del Fascio, dopo aver
acquistato una decina di fogli protocollo nella tabaccheria di Otello, presentai la richiesta, usufruendo come reduce dei benefici di legge, per l’inserimento fra i
primi nella fila per il Brasile o qualsiasi luogo purché
nelle Americhe. Ma sì, andarmene anche per lo zaino
di pepe: avevo già visitato drogherie, macellerie e la
coperativa dei Norcini, rifilandone solo un paio di chili,
e battendo paese e contado con quel peso dall’afrore
pungente fu immancabile soprannominarmi il “Peperepé”. Via, via lontano: ne andava pure del mio prestigio di sergente e, perché no, di pittore moderno.
Inoltre firmai le domande per frenatore nelle ferrovie, per cantoniere, per sessatore di bachi, ma per questa mi aveva scherzato Ginesi ― oggi democratico ma a
quel tempo: allora con me ai Campi Dux ― impiegato
lì: con uno sforzo da ernia mi riuscì di non rinfacciargli
il sodalizio romano. Per bidello, per questurino, per
meteorologo: lo stesso democratico mi confermò: «sul
serio, Egidio, dall’aeronautica c’è una richiesta di meteorologi». Qui i titoli erano d’obbligo, ma la vita mi
aveva insegnato che poi si ragionava.
* * *
La sera che precedette l’addio alla pittura, la fine della prigionia, con il maggiore e l’arabo interprete organizzammo una festicciola nella villa. Concluso il tintinnare dei bicchierini, fra risate e pacche sulle spalle, il
maggiore Pol, dopo i rituali auspici per un futuro feli169
ce, si accomiatò dicendo: «Leist bat no list». Un proverbio, un detto inglese? L’arabo, in confusione per la baldoria, interpretò alla buona: poteva significare che il
gusto di ogni buon liquore si assapora di più
nell’ultimo brindisi.
Mentre compilavo l’ultima domanda ― usciere al sanatorio ― quelle quattro parolette del maggiore, capite
dall’arabo a suo modo, mi sembrarono profetiche.
San Settimio, il patrono, ormai si conduceva come un
caro parente. La notte, a letto, lo misi al corrente degli
ultimi avvenimenti. Se voleva ancora elargirmi la sua
benevolenza ― tenendo ben in caldo le Americhe ― lui
sapeva bene, anzi benissimo, fra le varie domande di
lavoro quale privilegiare.
Nella piena consapevolezza della missione compiutata mi addormentai sereno. Finis.
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