Maddalena Rostagno Andrea Gentile Il suono di una sola mano Storia di mio padre Mauro Rostagno Prefazione di Michele Serra La casa editrice, esperite le pratiche per acquisire i diritti di riproduzione delle immagini, rimane a disposizione di quanti avessero a vantare ragioni in proposito. www.saggiatore.it (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore Prefazione © Michele Serra, 2011 © il Saggiatore S.p.A., Milano 2011 Il suono di una sola mano a Mauro perché è Mauro a Chicca, perché sì a Pietro, per entrambi i motivi Strawberry fields forever M.R. a nonna Lisa e a mamma, papà e Luca A.G. Sommario Prefazione di Michele Serra 9 1. 26 settembre 1988, un lunedì 15 2. Giro giro tondo 28 3. Com’è alto il cielo a Pune 51 4. I non-camaleonti 70 5. Noi lavoriamo sulla bellezza dell’universo 83 6. L’upupa, la Bella Elena 98 7. L’insostenibile leggerezza del movimento studentesco 119 8. Chiddu ca varva 133 9. Non sono dunque di passaggio 149 10. Ricordo 169 11. 22 luglio 1996 184 12. Sono passati anni 202 13. Cuanta pasión 219 14. Messico e nuvole 236 Ringraziamenti 251 Fonti, documentazione e curiosità 257 Indice dei nomi 277 Prefazione di Michele Serra Della generazione detta, molto a spanne, «dei sessantottini», Mauro Rostagno incarna l’aspetto più vitale, più sperimentale, più imprevedibile e soprattutto più allegro. Mi ero ripromesso di scrivere l’aggettivo «allegro» già nelle prime righe di questa prefazione. E l’avrei scritto a qualunque costo, direi pregiudizialmente, perché, pur non avendo mai conosciuto Mauro (forse l’ho incrociato un paio di volte a Macondo, provincia di Milano, fine anni settanta), l’idea che me ne sono fatto leggendo di lui sui giornali, sentendone parlare da amici comuni, infine ripensando alla sua storia quando venne ucciso dalla mafia è esattamente questa. Decisamente in contrasto con l’immagine piuttosto dura e militarizzata che abbiamo di quel periodo. Ho poi verificato che «allegro» proviene dal latino alacer: alacre, ben disposto, pronto a fare. Mi ha molto soddisfatto, quell’etimologia, mi è parsa perfetta per Mauro, e di buon insegnamento per tutti: se vuoi essere allegro sii alacre, e viceversa. Alacre è senza dubbio stata la vita pubblica di Mauro, da Lotta Continua a Macondo a Saman, dalla lotta di classe alla lotta al- 10 Il suono di una sola mano le dipendenze alla lotta alla mafia (che è una buona sintesi delle prime due), dal rosso del comunismo all’arancione di Osho, dal Nord al Sud, da Torino a Trento a Palermo, da Pune a Milano, da Trapani fino alle stelle dove certamente il suo spirito scintilla – altrimenti non si capirebbe che cosa ci stanno a fare, le stelle. Ed ero sicuro che nel libro di Maddalena, che di Mauro è figlia, avrei trovato conferma dell’alacrità come dell’allegria, perché sono la stessa cosa. Conferma dell’energia contagiosa dell’uomo che disse «la lotta alla mafia è gioia di vivere». E anche per questo, forse soprattutto per questo, venne ammazzato, perché la mafia odia chi è così sfacciatamente migliore di lei. Quell’allegria, nel libro di Maddalena, l’ho trovata. L’ho trovata in mezzo alle lacrime e all’irrimediabile oltraggio che la morte violenta produce, ma l’ho trovata. Ed era quasi precisamente come la pensavo, l’allegria di Mauro che non ho mai conosciuto: una facoltà dello spirito ma anche del corpo. È presenza. È intelligenza. È musica e danza (questo libro pullula di canzoni). È capacità di condividere emozioni e soprattutto di crearle. È – in quella fase storica, in quegli anni – un grumo anche confuso, anche velleitario, di «liberazione», quando sembrava che Wilhelm Reich e la rivoluzione sessuale fossero un’evoluzione naturale della lotta di classe, quando si chiedeva alle droghe di allargare la coscienza senza imprigionare la volontà, quando c’erano le feste di Re Nudo, quando suonavano gli Area, quando i capelli lunghi sventolavano come bandiere, quando ci si illudeva che ciascuno potesse diventare interamente, per sempre libero, quando molti andarono in India, quando Mauro Rostagno decise di chiamarsi Sanatano dopo essere uscito – per tempo, e con lungimiranza – da Lotta Continua quasi sull’orlo della lotta armata. Prefazione 11 Anche chi, per questioni di carattere o di pudore o di diffidenza, non importa, si sentiva estraneo a quel vitalismo ostentato, a quella promiscuità insieme generosa e imprudente, rimaneva colpito da almeno due aspetti, allora decisivi: quel pezzo di movimento non produceva violenza, ma esperienza. Quel pezzo di movimento non produceva potere, ma socialità. Delle due anime di quella grande rivoluzione sociale e politica che oggi chiamiamo «Sessantotto», quella libertaria-esperienziale e quella leninista-leaderista, Mauro incarnò forse meglio di ogni altro, almeno in Italia, la prima. Basterebbe questo – basterebbe la vita di Mauro – a farci aprire di slancio le pagine di questo libro. Che a suo modo, attraverso la ricomposizione dei fatti e dei ricordi, è un libro di storia, anche grazie all’aiuto prezioso di Andrea Gentile (la scuola di Enrico Deaglio si sente, Andrea ha lavorato con lui alla stesura di Raccolto rosso e Patria). Solo che la storia – questa storia – è raccontata da una voce di donna, la voce di una figlia poi madre. E questo non solo rende particolarmente intenso il suono del racconto. Questo incide nella struttura del racconto, e soprattutto nel suo significato. Maddalena rivive – e ci fa rivivere – le fasi del suo lungo e perdurante rapporto con suo padre. L’infanzia comunitaria, giocosa, affettuosa, cangiante, con quel padre e quella madre, Chicca Roveri, così aperti al mutamento, al viaggio, allo sradicamento, e la notizia del cambiamento di nome – da Maddalena a Kusum – che arriva come un nuovo, fantastico gioco infantile. Il trauma dell’assassinio a pochi metri da casa, i quindici anni di vita con il padre, con quel padre, soffocati nel sangue. Il lutto e poi il rifiuto del lutto, l’incapacità di affrontarlo davvero per molti anni. Poi 12 Il suono di una sola mano la maternità, lo stato di grazia nel quale una donna sente di tenere in mano il timone del tempo, di poterlo controllare, e la lenta, tenace, appassionata risalita nella memoria, tra le carte, i ritagli di giornale, i documenti processuali, i ricordi personali. I cassetti. Le scatole da riaprire. Il dolore da scongelare. Formidabile, in questo percorso di riacquisizione del padre e di se stessa, in questo ritrovare vita nella morte, è la capacità di Maddalena di agganciare l’una all’altra, come perle di una stessa collana, le grandi e le piccole cose. Le prime pagine dei giornali e gli scorci delle case dove Mauro, Chicca e Maddalena vissero, perché le cucine e i davanzali incidono la retina e il cuore degli uomini con la stessa potenza delle rivoluzioni. I colpi di scena processuali e le lacrime quotidiane, le decisioni storiche e le carezze, i viaggi in India e i marciapiedi di Milano, le parole di Osho e il volo dell’upupa. È perfino banale sottolineare la maniera femminile, la «natura» femminile del racconto di Maddalena, la capacità di non perdere il filo della storia parlando della vita, e non perdere il filo della vita parlando della storia. Non so se Maddalena abbia letto Elsa Morante, soprattutto (e appunto) La storia, ma un riverbero di quella destrezza femminile, tenere in mano quel filo senza spezzarlo, in questo libro c’è eccome. E ne escono mutate, come dicevo prima, sia la struttura del racconto, che è frammentaria e plurale come lo sono i pensieri quando oscillano dal dettaglio al «campo lungo», dal personale al sociale, dal particolare al generale; sia il suo significato, che rimanda direttamente – non so quanto Maddalena ne sia cosciente – a uno degli slogan più impegnativi del Sessantotto, «il privato è politico». La vita di ciascuno incide in quella degli altri, la cambia, Prefazione 13 la migliora e la peggiora, e non c’è un discrimine così netto, un muro così invalicabile tra l’amore e gli scioperi, tra l’allegria e la giustizia, tra la depressione e la mafia, tra la gioia e l’antimafia, tra la gentilezza e la rivoluzione. Credo che Mauro sarebbe felice di ritrovare nelle parole di sua figlia una traccia così naturale (non ideologica, voglio dire) di quello strettissimo nesso tra vita e politica, tra persona e società, che è l’eredità più forte – e di gran lunga la più rivoluzionaria – del Sessantotto. Nel racconto di Maddalena è praticamente impossibile distinguere la politica e la storia dal dolore, dall’amore, dal volto delle persone, dalle loro voci, dalle loro mani. In questo senso il libro è – anche – una vittoria di Mauro, una delle sue tante. Perfino nella ricostruzione paziente, tignosa della lunghissima e incredibile vicenda processuale seguita all’uccisione di Mauro, la necessaria freddezza analitica non cancella mai le emozioni, semmai se ne serve, le adopera per incrementare la forza della ragione. Lasciando al libro il compito di ravvivare la memoria di ogni lettore (ne vale la pena, credetemi), dico solo che la vicenda Rostagno, come rappresentazione drammatica di ciò che noi siamo come comunità nazionale, vale post mortem quasi quanto in morte. L’omicidio mafioso di un giornalista lucido, coraggioso, irridente (tale fu nei suoi ultimi anni Mauro) non è stato tutto, purtroppo. Ne è seguita una allucinante sequenza di depistaggi, omissioni, errori sfrontati, le cui pagine più nere sono il proposito di accusare imprecisati ex compagni di Lotta Continua del suo assassinio (per farlo tacere a proposito del caso Calabresi) e il successivo tentativo di attribuire l’omicidio alla sua comunità Saman, e alla compagna Chicca Roveri, in carcere per undici 14 Il suono di una sola mano giorni a San Vittore senza potersene capacitare. Sarebbe quasi consolante una lettura classicamente dietrologica dell’accaduto: e cioè far risalire a una sola volontà malvagia e depistante un simile cumulo di calunnie, assurdità, infamie. La ricostruzione dei fatti suggerisce piuttosto – e forse è peggio – una diffusa insipienza e una tenace ignoranza come ingredienti ambientali dominanti. Con il pregiudizio, la povertà culturale, la minorità civile a governare le parole sciocche di alcuni inquirenti, alcuni magistrati, alcuni giornalisti. Proprio in questi mesi, ventitré anni dopo l’esecuzione mafiosa del libero, allegro, coraggioso, rivoluzionario giornalista Mauro Rostagno Sanatano, l’ennesima svolta delle indagini porta Maddalena, Chicca, sua sorella maggiore Monica e tutti quelli che hanno voluto bene a Mauro a sperare in un lieto fine oramai imprevisto. Si celebra il processo contro la mafia trapanese, accusata di avere ucciso, tra tanti altri, il suo grande nemico pubblico Mauro. Credo che Maddalena abbia scritto questo libro anche per presentarsi preparata, e solida, e serena, all’ennesimo appuntamento con suo padre. Non sarà l’ultimo. Infinite altre volte lo incontrerà, lo riconoscerà nelle parole e nei gesti degli esseri umani. E soprattutto, lo riconoscerà quando ne sentirà più acuta, più evidente la mancanza. Se per esempio i suoi assassini venissero finalmente condannati, per noi sarà un sollievo, e la conferma che, alla lunga, i peggiori non possono prevalere sui migliori. Ma ci rimarrà il dubbio di sapere che cosa Sanatano pensa, che cosa ha da dire, a proposito di «peggiori» e «migliori», lui che è nato e morto lottando per un mondo di uguali. 1. 26 settembre 1988, un lunedì No Mauro, a scuola non ci voglio andare oggi, 26 settembre 1988. Capita a quindici anni, soprattutto se fuori c’è il sole e vivi in un baglio, tra campi, ulivi e animali. Saranno state le 8, eravamo svegli già da un po’. Eravamo fuori, nel parcheggio, tu ti sei arrabbiato, mi hai detto che a scuola dovevo andarci, poi sei salito sulla Duna e sei andato a Radio Tele Cine. Sapevi che non ti avrei dato retta, che sarei rimasta a casa. Sei tornato a pranzo per mangiare con Chicca, voi due soli, come al solito, seduti sulle poltrone del nonno. Avete mangiato pomodoro e mozzarella e bevuto il succo di carota che Chicca ti preparava sempre, e avete ascoltato il telegiornale. Dall’estate ti eri messo in testa di mangiare meno, per togliere un po’ di pancetta. A tavola le hai parlato degli scandali di Marsala, delle cose pazzesche che stavano succedendo, della tua inchiesta. Poi tra una chiacchiera e l’altra è arrivato il momento di andare. 16 Il suono di una sola mano Ti ho incrociato per caso nel parcheggio. Quel momento è impresso nella mia memoria. Solo due metri ci separavano. Ci siamo guardati negli occhi. Ho ancora il tuo sguardo dritto nel mio. Tu, vestito di bianco, hai passato la lingua per un attimo sull’angolo delle labbra, come facevi spesso. Hai continuato a guardarmi e io ho continuato a guardare te. Potevamo fare pace. Potevamo parlare, o avvicinarci. Non l’abbiamo fatto. Chicca lo dice sempre che ci assomigliamo. Orgogliosi. Permalosi che siamo. Basta, chiudere tutto, è ora di andare a cena. Sono le 19.50 di lunedì 26 settembre 1988. Mauro Rostagno sta per uscire da Rtc, la televisione locale di Trapani, dove lavora da quasi due anni. Ogni sera racconta ai trapanesi quello che succede in città e in regione. Lo fa senza chinare mai la testa giù per leggere, ma guardando fisso la telecamera. Può farlo perché la notizia la conosce a memoria; non la trova scritta su un foglio ma la cerca per strada. Di giorno esce con le telecamere, filma i cumuli di rifiuti, scopre palazzi di giustizia deserti, svela inghippi sulla sanità pubblica, legge le inchieste della magistratura. E alla sera la notizia è sua. «Ho scelto di non fare televisione seduto dietro a una scrivania, ma in mezzo alla gente, con un microfono in pugno mentre i fatti succedono. Sociologicamente si chiama “primato dell’esistenziale sul teorico”: e già questo è profondamente antimafioso» ha scritto una volta a Renato Curcio, suo amico ai tempi del ’68 a Trento. Tre giorni fa ha ricevuto una lettera anonima: una fotocopia di un documento con l’intestazione «Tribunale di Marsala» in- 1. 26 settembre 1988, un lunedì 17 dirizzato a Elio Licari, presidente dell’Ente Teatro del Mediterraneo, che organizza festival nell’isola di Mozia. Sopra c’è scritto a matita: «E adesso, se hai coraggio, di’ pure questo». Mauro Rostagno il coraggio ce l’ha e il 24 settembre ha raccontato tutto in tv: una spesa di quasi due miliardi per un breve ciclo di spettacoli, per il progetto «Mozia ’88», parte dei quali sembrano finiti sui conti correnti di alcuni amministratori; e, visto che ci siamo, una battuta sulla chiusura dell’Ente Fiera vini, che promuove l’immagine del vino marsalese, e un’altra su un concorso truccato per l’assunzione di vigili urbani. Dopo aver registrato l’editoriale contro gli assassini del giudice Antonino Saetta e di suo figlio Stefano, ammazzati poche ore prima sulla strada tra Canicattì e Agrigento, Mauro Rostagno saluta il suo collega Ninni Ravazza ed esce con Monica Serra, venticinque anni, capelli corti e rossi, che vive nella comunità Saman e da una settimana, in base a un programma terapeutico di reinserimento per tossicodipendenti, lavora con Mauro a Rtc. Rtc è in contrada Nubia, a Paceco, in via Garibaldi. È un capannone isolato, attorno ci sono grandi distese di erba ed eucalipti. Mauro Rostagno e Monica Serra salgono sulla Duna bianca e partono. Anche stasera si è fatto tardi e per arrivare alla comunità Saman, a Lenzi di Valderice, devono percorrere dodici chilometri. Fanno la solita strada. Stamattina l’Italia ha spostato le lancette indietro ed è già buio. Mauro e Monica proseguono, prendono la Provinciale verso Trapani. Sia sul lato sinistro che sul destro ci sono le saline, ma si vedono ben poco; stanno lì dai tempi dei fenici ma i trapanesi non ci fanno molto caso. È l’abitudine. 18 Il suono di una sola mano Probabilmente neanche Mauro e Monica si soffermano sulle saline. C’è da parlare di lavoro, dell’ultimo servizio, dei fatti di Marsala. Attraversano un ponte e si incamminano verso Villa Rosina. Lì giù, sotto quel ponte, anni dopo, qualche giovane trapanese avvezzo ai murales prenderà le saline come chiave per un aforisma uggioso; con uno spray nero scriverà a caratteri cubitali sulu cu nasce in mezz’u sale conosce l’amaro. Mauro e Monica vanno avanti. Ora attorno ci sono vecchi palazzi e palme basse, poi c’è una rotonda. Osserva la scena il monte Erice, imperioso, a un palmo di naso. È impossibile non notarlo. Te lo senti addosso, come se potesse crollare da un momento all’altro. Mauro guida e si volta per un attimo a guardarlo, poi torna subito con gli occhi alla strada, bisogna svoltare. Continuano, girano a destra, fanno la salita, passano per via Viale, svoltano alla chiesa di San Giuseppe, la chiesa rossa. Seduta sui gradini c’è una ragazzina. «Ma è Kusum?» chiede Mauro. No, non è Kusum. Kusum, cioè sua figlia Maddalena, è a casa che lo aspetta. I due si immettono nell’unica strada per la comunità. La via passa davanti a una dozzina di case, alcune abitate, altre di villeggiatura. A incrementare l’effetto dell’ora legale ci si mette anche un blackout. È buio, troppo buio. Mauro Rostagno e Monica Serra proseguono. Ora sono vicini. Vicinissimi, solo cinquecento metri. All’improvviso un colpo. Due, tre. Frantumano i vetri posteriori. Colpiscono Mauro; lo colpiscono alla schiena e al torace. 1. 26 settembre 1988, un lunedì 19 «Stai tranquilla, non ti preoccupare, stai giù» dice Mauro a Monica. Sono fermi, immobili, Mauro è ferito, Monica è nascosta sotto la plancia. Sono in preda agli assassini. Il fucile Breda calibro 12 è puntato su Mauro Rostagno, 46 anni. S’inceppa, scoppia un pezzo della bascula. Ma gli assassini hanno anche una pistola calibro 38. Gliela puntano alla testa e sparano ancora. Ero in camera di Chicca, sdraiata sul letto. La stavo aspettando per farmi aiutare in matematica. Ho sentito degli spari in due scariche, ma non ci ho fatto caso. Ci ho pensato dopo. In campagna ogni rumore, anche quello degli spari, sembra naturale. Poteva essere un cacciatore che voleva allontanare i cani, a volte succede. All’improvviso il portone del Gabbiano, la parte più antica del baglio, si è spalancato. Ho sentito qualcuno che gridava «Chicca, Chicca». Non ricordo chi fosse. Mi sono affacciata per dire che mia madre era in ufficio. Poi sono uscita, qualcuno è venuto a prendermi e mi ha presa per mano. «Mauro ha avuto un incidente» mi hanno detto. «Portatemi da loro, da Mauro e Chicca» ho detto. Andrea, un ragazzo della comunità, ha detto «Non ti muovere» e mi ha tirato una sberla. Poi ho sentito l’ambulanza, vicino, molto vicino, e poi anche le urla di Chicca. Vi ho raggiunti in strada, nel buio. Chicca è venuta verso di me, dietro di lei alcuni carabinieri. Ci siamo abbracciate. Mi ha accarezzato e mi sono accorta che aveva le mani sporche di sangue. Né io né lei ricordiamo bene cosa ci siamo dette, co- 20 Il suono di una sola mano me me l’ha detto. Di sicuro mi ha chiesto se volevo vederti, io le ho risposto di no. Poi i carabinieri l’hanno portata subito in caserma, a Napola. Mi sono seduta a terra sul vigneto davanti all’ufficio e dopo poco ho deciso che volevo raggiungerla a piedi. Mi hanno accompagnato due ragazzi della comunità, fuori c’era un po’ di gente, alcuni in divisa e altri no, mi sembra che qualcuno tenesse un faretto in mano per fare luce. Non mi sono girata verso la macchina, ho continuato a guardare dritto, nel buio. Per strada abbiamo incontrato Paolo, un muratore che era spesso in comunità per fare lavori. Ci ha dato un passaggio. Arrivata in caserma, mi hanno indicato una stanza in fondo al corridoio. C’erano Chicca e Monica, sedute su una panchina, guardavano la televisione e mi davano le spalle. È solo in quel momento che ho realizzato. Il conduttore del tg parlava e sullo schermo andavano in onda le tue foto. Solo in quel momento ho realizzato. Ti avevano sparato. La mattina dopo, appena ho aperto la porta della mia stanza, ho visto da lontano una persona seduta sui gradini dell’ufficio con un enorme cappello viola. Ho capito subito che era lei, Nartano. La prima ad arrivare. Una delle più grandi amiche di mia madre, quella con cui era tornata in India una volta. Nartano l’avevamo conosciuta ai tempi di Macondo, a Milano. Eri venuto a prendermi all’asilo, a Lampugnano, con mantello nero e kajal. Lei era lì fuori ad aspettare sua figlia Viola, ti ha notato e siete diventati subito amici. In quegli anni gestiva il Rebelot, una stravagante boutique, poi lei e Viola si erano trasferite con noi a Saman per qualche anno, dove Nartano teneva 1. 26 settembre 1988, un lunedì 21 i suoi laboratori di cucito. Ma non era cucito il suo; era creatività allo stato puro. In quei giorni Nartano non mi ha lasciata per un secondo. Mi abbracciava, mi regalava sorrisi, chiacchierava, e una di quelle sere guardammo insieme Il petomane, con Tognazzi che faceva il «Paganini del peto». Ho consegnato a lei la mia colonna sonora per il funerale, per il tragitto in auto dalla chiesa al cimitero; dentro c’era The sound of silence di Simon & Garfunkel, ripetuta venti volte, in loop. Ed è lei che ha fatto il cuore sul cemento del loculo dove ti hanno messo prima che avessi un pezzo di terra al cimitero. Nei giorni della camera ardente a Saman, sono venuti in centinaia per salutarti. Io ero lì fuori, seduta a terra, a guardare tutti, senza entrare. Con alcuni ero accogliente, con altri meno. Il tuo amico Checco – che avevo conosciuto a febbraio a Trento, dove mi avevi portato per il ventennale del ’68 – ha capito di cosa avevo bisogno: si nascondeva e mi lanciava sassolini. Mercoledì sera Chicca ha bussato alla porta e mi ha chiesto se ero davvero sicura di non volerti vedere. Era l’ultima possibilità. Poi avrebbero chiuso la bara. Ho detto: «Voglio vederlo, ma da sola». Sono entrata nella stanza più grande del Gabbiano. Lì dentro il 25 settembre io e Saverio, un ragazzo della comunità, avevamo fatto una cosa insolita: avevamo preparato una cena romantica per te e Chicca, cucina cinese. Chicca conserva ancora il bigliettino che vi feci trovare: «Onolevoli signoli, la cena è selvita». Lì abbiamo guardato i Mondiali del 1982, Blade Runner e Il padrino; lì ho pianto con te, quando hanno 22 Il suono di una sola mano ammazzato Sonny Corleone; lì ti ho detto che per la prima volta mi erano venute le mestruazioni e tu ti sei messo a ridere; lì abbiamo passato pomeriggi interi ad ascoltare musica; lì dove lavoravi con la tua macchina da scrivere; lì dove mi leggevi le lettere del nonno. Lì, ora, c’eri tu, vestito di bianco, disteso in una bara. Non eri bello come mi avevano detto. Ti ho guardato immobile. A un metro di distanza, tremando. Ho pensato che volevo farti una carezza, ma non ci sono riuscita. Poi mi sono accorta che avevo lasciato aperto il portone e che dietro di me, a guardare il nostro incontro, c’erano Chicca, Nartano e Francesco, e me ne sono andata. In India, quando una persona muore, stendono il suo corpo accanto al fiume Gange, lo ricoprono di fiori e lo bruciano, per poi gettare le ceneri nell’acqua. Intorno al corpo di un nostro amico, quando eravamo in India – io avevo 7 anni –, avevamo ballato fino al tramonto. Avrei voluto salutarti così, con odore di gelsomino e danza, ma Chicca mi ha fatto capire che a te il funerale in chiesa sarebbe piaciuto. Io non sono venuta, c’era troppa gente. Ma quando se ne sono andati tutti, ho scavalcato il muretto del cimitero e sono venuta a salutarti portandoti tre margherite. Che ancora oggi, quando io e Chicca ce le regaliamo o disegniamo, rappresentano noi tre. Il 29 settembre, alle 3 del pomeriggio, si tengono i funerali, nella cattedrale barocca di San Lorenzo, a Trapani. La Crocifissione di Van Dyck, il San Giorgio di Andrea Carreca e il Cristo morto di Giacomo Tartaglia a fare da sfondo al saluto di Mauro Rostagno. Mauro e Maddalena sul terrazzo blu di Saman, estate 1988. 24 Il suono di una sola mano Fino alla sera prima si è parlato di un rito civile a Saman, ma Chicca Roveri ha deciso per un rito cattolico, perché tutti i cittadini di Trapani potessero essere presenti. Alle 22 è arrivato il sì dal vescovo di Trapani Emanuele Romano; a chiederlo monsignor Antonino Adragna, che conosceva Rostagno da tempo, da quando entrambi, insieme ai ragazzi della parrocchia, avevano festeggiato il decennale dell’occupazione della cattedrale, a opera dei senzatetto. Accorrono in tantissimi, circa trecento solo i compagni di Lotta Continua. Alcuni di loro piantano nella curva fatale un hibiscus rosso mandato da Renato Curcio. Dovrebbe arrivare Adriano Sofri, che è agli arresti domiciliari per il caso Calabresi, ma gli si impone un viaggio in furgone cellulare blindato con scorta militare e partenza trentaquattro ore prima. In più deve presenziare in manette. Sofri dice no e invia a Chicca Roveri un biglietto; non vuole essere presente in catene, non vuole disturbare. Tra la folla ci sono volti amici e volti sconosciuti. Tre donne vestite di nero si avvicinano piano piano, dubbiose, a Chicca Roveri; poi prendono coraggio e le prendono la mano: «Siamo telespettatrici». La cattedrale è stracolma, le tre navate sono piene di persone che assistono in piedi. Ci sono rappresentanti delle istituzioni locali; il sindaco Vincenzo Augugliaro, il presidente della provincia e qualche assessore. Nessun rappresentante dello Stato. Claudio Martelli, vicesegretario del Psi, partecipa «come amico personale». Affianco a lui, Francesco Cardella. 1. 26 settembre 1988, un lunedì 25 Al centro c’è la bara, coperta da un drappo bianco e azzurro. Sopra ci sono tre piccoli hibiscus, uno bianco, uno rosa, uno rosso. In prima fila Monica Rostagno, la prima figlia di Mauro, Carla, la sorella di Mauro, i compagni di Trento e di Lotta Continua, i ragazzi di Saman, e Chicca Roveri. Affianco a Chicca c’è una sedia. Su quella sedia c’è una vecchietta, vestita di nero. Nessuno sa chi sia. Osserva la cerimonia con il silenzio di una madre. Prende il microfono monsignor Antonino Adragna e si scaglia contro la mafia: La mafia siciliana, protagonista invisibile, è tornata a colpire con malvagità. […] Un fucile semiautomatico ha ucciso Mauro Rostagno. 46 anni, una voce scomoda, una valida intelligenza stimata da tutti che voleva recuperare una nuova qualità di vita alle nuove generazioni. Della denuncia ne aveva fatto una missione. […] Per Rostagno la lotta alla droga, alla mafia, alle disfunzioni degli enti locali erano diventati aspetti di una stessa battaglia, che ha combattuto fino alla morte. Infatti Rostagno collaborava da circa due anni con l’emittente televisiva locale Rtc e continuamente si scagliava contro la mafia e il traffico di stupefacenti. Le sue battaglie erano anche quelle dei senzatetto, di quel proletariato costretto a vivere di mille espedienti ed emarginato dalla società. La lotta per l’acqua, per difendere la natura, per rendere pulita la città. Proprio in queste lotte è nata la nostra amicizia e la nostra vicendevole stima. La gente che a Trapani ancora crede in qualche cosa incominciava a poco a poco a identificarsi con lui. Osava ripetere: faccio le stesse battaglie di una volta contro l’emarginazione, contro la mafia, 26 Il suono di una sola mano niente potrà farmi tornare all’attività politica di un tempo. Ed è stato questo impegno apparentemente più lontano dalla politica a costargli questa volta la vita. Dopo la morte di Ciaccio Montalto, la strage di Pizzolungo, l’uccisione di Giacomelli e di Rostagno non possiamo chiudere gli occhi. La provincia di Trapani rispecchia in tutti i sensi la nuova criminalità della mafia e sette morti, da gennaio a oggi in provincia. A chi tocca adesso? […] Noi vogliamo credere che Mauro Rostagno, così violentemente strappato all’affetto dei familiari, della comunità di Saman, dal nostro fianco, vittima di odio e sopraffazione, che sono sempre ingiusti e ingiustificati, noi vogliamo sperare che Mauro sia accolto nella grazia della divina misericordia. Anche perché in se stesso, anche senza pensarlo, ha riprodotto l’immagine di Cristo che il vangelo oggi ci ha posto dinnanzi. Cristo fu vittima dell’ingiustizia, dell’odio, della violenza spietata. Gesù è la vittima innocente e santa che con una morte ingiusta espia tutte le colpe degli uomini. E in questa morte c’è dunque qualcosa della morte di Cristo. […] A questo punto il pensiero corre con prepotenza a coloro che sono causa di questo nostro dolore. Agli assassini. Che cosa dire? Che cosa chiedere? […] Mafia. Tu non sei società, ma sei contro la società. Un pensiero ora alla situazione che fa da sfondo all’evento che qui dolorosamente ci raduna. Che dire? Siamo tutti stanchi di odio e di violenza. Vogliamo vivere in pace. Vogliamo dire allo Stato e ai partiti maggiori responsabili di queste cose, svegliatevi! Siamo stanchi di chiacchiere. Non basta nominare un alto commissario. Occorre fare presto e dare i mezzi e i poteri. Lo Stato può vincere la mafia, ma occorre la risposta forte e immediata di tutti, nessuno può stare in panchina a guardare. […] Giorna- 1. 26 settembre 1988, un lunedì 27 listi, politici, uomini di cultura, giovani di buona volontà non abbiate paura. Torniamo ognuno al nostro posto con coraggio e onestà. La paura genera disgregazione sociale, non abbiamo bisogno di mafia ma di comuni testimoni nella vita. Poi il corteo, dalla chiesa, passando per le vecchie vie del porto, arriva nella piazza del municipio. La bara è sorretta dagli amici di gioventù, tra cui Marco Boato, Enrico Deaglio, Mimmo Pinto, Checco Zotti, Toni Capuozzo, Carlo Panella e Randi Krokaa, la compagna di Adriano Sofri. In piazza si tengono i discorsi. Parla Cardella, poi Martelli. Per lui è «un delitto mafioso». L’intervento di Marco Boato è il più lungo. Cita Leonardo Sciascia, che sulla sua lapide vorrebbe la scritta «Contraddisse e si contraddisse», poi cita un vecchio proverbio cinese che Mauro Rostagno amava: «Senza contraddizione non c’è vita». E paragona la morte di Mauro Rostagno a quella di Ernesto Che Guevara, ucciso ventun anni prima. Quando la bara attraversa le strade, alle finestre e ai balconi ci sono tutti i trapanesi, e dall’alto molti gettano petali di rosa. Poi dritti verso il cimitero di Ragosia di Valderice. È il più grande funerale che Trapani abbia mai avuto. A novembre, sul mensile King, Chicca Roveri racconta a Claudio Fava: «Desideravo tornare a casa, dopo quei discorsi in cattedrale, che bello, pensavo, adesso racconto tutto a Mauro. […] Lui sarebbe stato felice per quel prete così incazzato».
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