Eugène Sue. I MISTERI DI PARIGI. Eugène Sue. - La vita. Marie-Joseph Eugène Sue (detto poi semplicemente Eugène) nasce a Parigi il 5 Piovoso dell'anno Dodicesimo della Repubblica (cioè il 26 gennaio 1804), ed è tenuto a battesimo da Giuseppina Beauharnais, la futura imperatrice; è l'ultimo rampollo di una famiglia di chirurghi: dai tempi di Luigi Quattordicesimo se ne contano ben quattordici, tutti titolari delle cariche più importanti negli ospedali e alla Facoltà di Medicina di Parigi, tutti insigniti di svariati titoli onorifici. Naturalmente, il padre dello scrittore, Jean-Joseph, cavaliere dell'Impero napoleonico (ma anche sotto la Restaurazione saprà riciclarsi come medico del re), pretende che il figlio segua le orme degli antenati. Ma Eugène si rivela studente pigro e incline alla goliardia; frequenta il Collège Bourbon di Parigi dal 1816 al 1821, con risultati assai modesti; unica distinzione, un premio di disegno, nel 1820: la pittura rimarrà a lungo una delle passioni di Sue. Non ottiene risultati migliori il tirocinio pratico cui il padre lo sottopone all'ospedale della Casa militare del re. Quando, nel 1823, scoppia la guerra di Spagna (quella che si concluderà con la vittoria dei francesi al Trocadero e la fine della Rivoluzione liberale spagnola), il ragazzo è spedito al fronte per punizione, come ausiliario nell'ospedale di campo. Se non altro, ottiene un posto fisso come medico militare, professione che eserciterà per qualche mese all'ospedale militare di Tolone. Mentre la brillante carriera del padre procede fra le onorificenze (fra cui la Legion d'onore nel 1824), il figlio ribelle decide di abbandonare la chirurgia per la letteratura: si licenzia nel 1825 dall'ospedale militare di Tolone (città in cui si era appena tenuta con successo la rappresentazione della sua prima commedia), e inizia a collaborare al quotidiano "La Nouveauté", da poco fondato da un suo cugino, Ferdinand Langlé. Esordisce con quattro pezzi anonimi, ironici e dissacranti, le "Lettere dell'UomoMosca al signor Prefetto di Polizia", accolti con grande scandalo dalla rispettabile famiglia Sue. A corto di soldi, già nel 1826 l'aspirante scrittore si imbarca come medico di bordo su una nave diretta verso i mari del Sud; l'anno successivo è nelle Antille, con un'altra fregata; quando la Francia interviene nella guerra d'indipendenza greca, Eugène si arruola nella marina militare come chirurgo ausiliario: nell'ottobre del 1827 presta servizio alla battaglia di Navarino (sconfitta dei turchi contro la flotta greca assistita da francesi, inglesi e russi). Rientrato in patria, frequenta l'atelier di un pittore alla moda, Théodore Gudin: impara a dipingere quadri di genere (soprattutto delle "marine") e conosce il futuro caricaturista e narratore umoristico Henry Monnier. Intanto, continua a intrattenere rapporti con l'ambiente letterario, collaborando a vari quotidiani e riviste, fra cui "La Mode", diretta da Emile de Girardin. Nel 1830 muore il cavalier Jean-Joseph; il figlio si trova a ereditare un cospicuo patrimonio, che gli consente di abbandonare definitivamente la marina e la medicina, e di lanciarsi nella vita mondana. Ben presto diventa uno dei più noti dandy parigini, elegantissimo e stravagante, sempre pronto a mettere in ridicolo i valori e le abitudini dell'odiata borghesia e del suo rappresentante simbolico, Luigi Filippo, il re borghese che proprio quell'anno è salito al trono, e che gli oppositori soprannominano "il droghiere". Fra letteratura e pittura, Sue opta per la prima, iniziando a pubblicare romanzi e racconti di ambiente marinaresco: nel 1831 escono "Plick e Plock" e "AtarGull", l'anno successivo "La Salamandra" ("La Salamandre") e i racconti della "Cucaracha" ("La Coucaratcha"); nel '33 "La vedetta di Koat-Ven" ("La vigie de KoatVen"). Il giovane dandy non poteva mancare alla seduta inaugurale del Jockey Club, società nata con lo scopo di perfezionare le razze equine di Francia; come ogni membro che si rispetti, frequenta le corse e tiene scuderia, mentre lavora a una storia della marina francese dal Quattrocento all'epoca contemporanea. Torna al romanzo (storico, questa volta) nel 1837, con "Latréaumont". L'anno successivo segna una prima svolta nell'esistenza di Sue: il patrimonio familiare, messo a dura prova dalla vita dissipata del dandy, è ormai ridotto allo stremo: Eugène ha bisogno di soldi, e sarà la sua attività di romanziere a procurarglieli. Però, anche la sua vena creativa sembra essersi esaurita nel turbine della vita parigina; lo scrittore si ritira allora in campagna, in Sologne, e ritorna nella capitale solo quando è pronto il manoscritto di un romanzo di analisi, "Arthur" (1838). Da questo momento fino alla morte la sua produzione romanzesca segue ritmi forsennati, paragonabili a quelli celebri del contemporaneo Balzac, sempre incalzato dai creditori. Scrivere, per Sue, è stato fino allora un modo per ribellarsi all'autorità patema, poi un aspetto della sua vita mondana, un mezzo facile per ostentare genio e sregolatezza; ora diventa una vera e propria professione. Il successo, sia pure non eccezionale, di romanzi come "Arthur" e "Il marchese di Létorière, o l'arte di piacere" ("Le marquis de Létorière, ou l'Art de plaire", 1839) gli consente di trarsi d'impaccio: affitta una casa piccola ma elegante in rue de la Pépinière, dove lavora assiduamente senza rinunciare a qualche piacere mondano (fra l'altro, ha una relazione con la contessa Marie d'Agoult, temporaneamente in rotta con il musicista Franz Liszt). I buoni risultati economici ottenuti dai romanzi di Sue si spiegano con una grande novità editoriale che ha fortemente innovato, pochi anni prima, il romanzo francese. Nel 1836 uno dei più importanti giornalisti parigini, Emile de Girardin, ha un'idea che si rivelerà geniale: fondare, insieme a Dutacq, un nuovo giornale, venderlo a prezzo molto economico e pubblicarvi dei romanzi a puntate: nasce il "roman feuilleton", o "romanzo d'appendice". In seguito a un litigio fra i due giornalisti, Dutacq abbandona Girardin, fonda da solo il "Siècle", e si appropria dell'idea del "feuilleton" (il primo testo a uscire a puntate è una traduzione del "Lazarillo de Tormes", il capolavoro del romanzo picaresco spagnolo, del 1555). Contemporaneamente, però, Girardin fonda "La Presse"; il grande successo arriva quando su questo giornale esce a puntate, nell'ottobre dello stesso anno, "La zitella" di Balzac. Nel giro di pochi mesi molti altri quotidiani copiano la formula: inizia la grande stagione del "feuilleton", che con fasi alterne durerà almeno fino al principio del Novecento (non solo i "romanzieri popolari" come Sue pubblicano in appendice, ma anche il grande Balzac, e perfino il raffinatissimo Flaubert: "Madame Bovary" esce a puntate sulla "Revue de Paris" del 1856). Per la verità, il termine "feuilleton" era stato inventato, già nel 1800, dall'abate Geoffroy, critico teatrale del "Journal des Débats": indicava uno spazio a fondo pagina evidenziato da un filetto, o un inserto dato come "appendice" del giornale, su cui comparivano recensioni letterarie e teatrali, ma anche annunci vari, giochi enigmistici, informazioni sulla moda, eccetera. Questo spazio ebbe grande successo, e fu adottato da numerosi giornali; saltuariamente, vi apparivano anche racconti o altri testi letterari; ma è solo nel 1836 che nasce il modulo del vero e proprio romanzo d'appendice. Dato il successo delle vendite, i giornali possono retribuire adeguatamente gli autori: la fama e l'agiatezza di Sue si consolidano: il 15 settembre del 1840 il più influente critico letterario dell'epoca, Sainte-Beuve, dedica a Sue un articolo tutto sommato elogiativo sulla prestigiosa "Revue des deux mondes". Nel '41 esce "Mathilde, storia di una giovane donna" ("Mathilde, histoire d'une jeune femme"), altro romanzo di analisi psicologica e di costume; l'anno successivo il testo è adattato alle scene da Sue, con la collaborazione di Félix Pyat. A partire da questo momento, numerosi testi narrativi di Sue saranno trasformati in "pièces" teatrali, o direttamente dall'autore, o in collaborazione con scrittori drammatici affermati. Risale al '41 una seconda grande svolta nella vita di Sue, la cosiddetta "conversione": è lo stesso Pyat a fargli conoscere un operaio suo amico; invitato a cena a casa del proletario parigino, e sottoposto a un sommario indottrinamento, lo scrittore di successo, ancora un po' dandy nonostante le difficoltà finanziarie, esce gridando: "Sono socialista!". L'entusiasmo del neofita non è certo garanzia di approfondimento ideologico: in realtà, è il ribellismo originario di Sue (quello che lo portava a sfidare l'autorità paterna e le convenzioni borghesi su posizioni non certo "di sinistra") a trovare uno sfogo nella questione sociale. Sta di fatto, però, che dopo aver dato alle stampe vari altri testi di minore importanza (fra cui "Paula Monti e Thérèse Dunoyer"), il 19 giugno del 1842, sul "Journal des Débats", inizia a pubblicare "I misteri di Parigi" ("Les Mystères de Paris"); per più di un anno, fino al 15 ottobre del 1843, quando esce la centoquarantasettesima e ultima puntata, tutta la Francia tiene il fiato sospeso: il "Journal des Débats" moltiplica le vendite, la fama dei patriarchi del romanzo francese (Hugo, Balzac, Dumas padre) è oscurata, si assiste a un fenomeno letterario di massa assolutamente inedito. Immediata la trasposizione teatrale: un dramma firmato da Sue e Gobaux, della durata di sette ore, che riscuote le ovazioni del pubblico. Il successo, sia pure in proporzioni meno clamorose, si ripete nel biennio successivo, quando, fra il 25 giugno del 1844 e il 12 luglio del '45 appare sulle colonne del "Constitutionnel" "L'Ebreo errante" ("Le Juif errant"). Ormai Sue ha un pubblico entusiasta, che seguirà fedelmente la sua produzione successiva: tuttavia, i grandi romanzi degli ultimi anni, troppo ambiziosi e spesso farraginosi, non possono ripetere l'"exploit" dei due primi testi "sociali". Nel '46, oltre a vari lavori teatrali, esce "Martin, il trovatello" ("Martin, l'enfant trouvé"); l'anno successivo si inaugura, sul "Constitutionnel", la serie dei "Sette peccati capitali" ("Les sept péchés capitaux"): il primo romanzo, dedicato all'orgoglio, si intitola "La duchessa" ("La duchesse"). Nel 1848, Sue si lancia nel romanzo politico ("Il repubblicano delle campagne", "Le républicain des campagnes"; "Il pastore di Kravan", "Le berger de Kravan") e, in prima persona, nell'attività politico- rivoluzionaria. Cade la monarchia di Luigi Filippo, si proclama la Seconda Repubblica; lo scrittore, candidato dei Repubblicani Socialisti, non riesce a farsi eleggere deputato; intanto, trova però il tempo di fare uscire, sempre sul "Constitutionnel", altri tre romanzi della serie dei "Sette peccati capitali", quelli dedicati a invidia, collera e lussuria. "L'ozio: il cugino Michel" ("La paresse: le cousin Michel") appare invece nel '49, mentre l'autore lancia una nuova ambiziosissima serie, "I misteri del popolo, o storia di una famiglia di proletari attraverso i secoli" ("Les Mystères du peuple, ou Histoire d'une famille de prolétaires a travers les âges"): si tratta, nientemeno, di un affresco romanzesco della condizione delle classi inferiori dall'epoca dei Druidi a quella contemporanea. La situazione politica, intanto, si fa sempre più difficile per Sue: la destra bonapartista vince le elezioni, e il romanziere popolare subisce numerosi attacchi; ciononostante, si candida alle elezioni, a Parigi, nel 1850, e riesce eletto. Contemporaneamente, la legge Riancey manda in crisi giornali e riviste, imponendo una tassa sui "feuilleton"; Sue, tuttavia, continua a pubblicare in appendice a ritmi frenetici: porta avanti i "Sette peccati capitali" e i "Misteri del popolo", inaugura "Fernand Duplessis, o le memorie di un marito" ("Fernand Duplessis ou les Mémoires d'un mari"). Dopo il 2 dicembre del 1851 (colpo di Stato di Luigi Bonaparte, il futuro Napoleone Terzo) Sue, inviso ai nuovi potenti, sceglie l'esilio ad Annecy, in Savoia (che, al tempo, faceva ancora parte del Regno di Sardegna), dove morirà, stremato dal lavoro e deluso dalla politica, il 3 agosto del 1857. Intanto, aveva pubblicato l'ultimo volume della serie sui peccati capitali ("La gola: il dottor Gastérini", "La gourmandise: le docteur Gastérini", 1852), concluso "Fernand Duplessis" (nello stesso anno), scritto nuovi romanzi come "La marchesa Cornélia d'Alfi o il Lago di Annecy e i suoi dintorni" ("La marquise Cornélia d'Alfi ou le Lac d'Annecy et ses environs", sempre del 1852) e "La famiglia Jouffroy" (1853). Soprattutto, era riuscito a portare a termine l'impresa monumentale dei "Misteri del popolo": l'ultima puntata esce poco prima della morte dell'autore. - Le opere. Il primo libro di Sue, dal titolo provocatoriamente "non-sense", "Plick e Plock", raccoglie due racconti lunghi d'avventure marinaresche. Lo scrittore sfrutta da un lato i suoi ricordi personali dei viaggi nei mari esotici, dall'altro la voga della letteratura d'avventura oceanica alla James Fenimore Cooper (quello dell'"Ultimo dei Mohicani", autore anche dell'allora celeberrimo "Corsaro rosso", apparso nel 1828). Un pirata, Kernock, è il protagonista anche del primo dei due racconti di Sue: è un eroe sinistro, che fa fortuna fra orge, massacri e incendi, per poi terminare i suoi giorni come stimatissimo amministratore dei beni della sua parrocchia; alla tematica avventurosa, che già predilige le tinte forti, si affianca dunque un intento satirico, di demistificazione antiborghese e anticlericale. I frati di un convento sono i complici del "Gitano", il contrabbandiere spagnolo del secondo racconto di Sue, che, fra l'altro, ha una tresca con una suora (tema gettonatissimo di derivazione "gotica": si pensi al "Monaco" di Lewis). Torna la violenza della vita di bordo in "Atar-Gull", il secondo libro di Sue, il cui protagonista è un negriero. Nella "Salamandra", invece, è la marina militare ad essere analizzata dalla penna sarcastica e un po' truce del giovane dandy. C'è, in questo ciclo marinaresco, come poi nei romanzi di ambiente sociale, un intento enciclopedico, di studio parascientifico dei diversi tipi che si incontrano in un dato ambiente (appunto: il pirata, il contrabbandiere, il negriero, il militare). Per questo aspetto, i romanzi di Sue si imparentano con la "Commedia umana" di Balzac e, in generale, con la grande voga delle "Fisiologie", brevi monografie che analizzavano i vari ruoli sociali (l'impiegato, il giornalista, il pasticciere, il commesso viaggiatore, eccetera) con piglio ironico e frequenti abbozzi narrativi (per quanto oggi possa sembrare strano, negli anni Trenta e soprattutto all'inizio degli anni Quaranta del secolo scorso questi libretti erano veri e propri best-seller). Sainte-Beuve noterà in questo primo Sue il calore dell'esperienza vissuta, e gli riconoscerà il merito di avere introdotto nella letteratura francese un genere nuovo (appunto, il romanzo marinaresco, fiorente in area anglosassone e fermo, in Francia, al "Beauchesne" di Lesage). Nella "Salamandra" compare un procedimento che sarà poi tipico di tutta la letteratura popolare (e in particolare dei "Misteri di Parigi"): la struttura manichea, cioè la contrapposizione netta e priva di sfumature fra bene e male, fra buoni e cattivi: i personaggi sono tutti d'un pezzo, l'ufficiale modello è lo specchio di ogni virtù, mentre il pirata arricchito e trasformatosi in gran signore, Szaffie, è un tizzone d'inferno - evidente, già in questo romanzo, la polemica contro l'ipocrisia e la corruzione del bel mondo parigino, di cui pure Sue faceva parte. Esaurita la tematica marinaresca, Sue si riallaccia al filone del romanzo storico alla Walter Scott, e ancora una volta immagina un eroe diabolico; un pirata di terra ferma, brutale e cinico, un nobilotto normanno implicato negli intrighi della Fronda (la rivolta aristocratica che, a metà Seicento, tenta di minare il centralismo monarchico): Latréaumont, protagonista dell'omonimo romanzo. Con "La vedetta di KoatVen" i due generi si innestano: abbiamo un romanzo storico marittimo. Tempeste, pirati ed esotismo non mancano nemmeno in "Arthur", dove prevale tuttavia l'analisi psicologica e sociale di una figura di dandy scettico fino al cinismo, che dubita di tutto e particolarmente di se stesso, e non riconosce l'amore sincero di Hélène. Tutti i romanzi che Sue scrive fra il 1836 e il 1840 escono in appendice: ma l'autore fatica a elaborare una forma adeguata alla pubblicazione a puntate, un'estetica del "feuilleton"; anziché modellare il racconto in funzione delle puntate, segue, come i romanzieri tradizionali, un piano strutturale precostituito. È con "Mathilde", il secondo romanzo di analisi psicologicosociale, che l'autore inizia a elaborare quelle tecniche che faranno la fortuna dei "Misteri di Parigi" (contemporaneamente, anche Dumas padre, Frédéric Soulié e vari altri si stanno confrontando con i problemi tecnici posti dalla pubblicazione su giornale: per cui è difficile stabilire chi sia il "vero" padre del romanzo d'appendice). "Mathilde" è una storia di amore romantico sullo sfondo della Restaurazione e, poi, della Rivoluzione del luglio 1830: è analizzata non senza efficacia l'evoluzione della società francese, mentre ritorna la polemica contro il cinismo del bel mondo. Ma quali sono i segreti del romanzo popolare, qui messi alla prova e poi perfezionati definitivamente nei "Misteri di Parigi"? Innanzitutto, bisogna garantirsi il pubblico, convincere il lettore a comprare anche la puntata successiva: ogni episodio deve dunque contenere una mezza anticipazione - quanto basta per suscitare curiosità - e poi concludersi bruscamente (per esempio, con la tipica formula "Ma non anticipiamo i fatti"), lasciando il lettore nelle peste. È il trionfo della suspense (non a caso, proprio in quegli anni, con Poe, nasce il racconto poliziesco; e il romanzo popolare - soprattutto i "Misteri di Parigi" - rigurgita di crimini e misfatti). Le emozioni forti possono derivare anche dal ricorso alle tecniche del fantastico (frequente in Sue) o al terrore delle atmosfere del "noir". La trama, inevitabilmente, si complica: non c'è una storia sola, lineare, ma un groviglio di vicende che si incrociano e si rincorrono nei vari episodi, tenendo il lettore col fiato sospeso fino allo scioglimento: alla fine tutto si chiarisce, mentre i buoni trionfano con l'immancabile lieto fine. Ogni episodio deve suscitare nuove curiosità, ma anche essere in sé concluso, praticamente autonomo: i romanzi a puntate sono sempre "seriali", hanno una struttura aperta, un numero indeterminato di personaggi che possono anche uscire di scena e perdersi nel nulla (per questo aspetto, Sue era un inconsapevole precursore: i suoi romanzi marinareschi avevano esattamente questa struttura a episodi, erano racconti "di scalo": il viaggio in nave collegava scene spesso indipendenti). È facile, oggi, ironizzare su procedimenti che i "serial" televisivi e la peggior letteratura di consumo hanno reso fin troppo familiari: in realtà, Sue e compagni devono dispiegare un'abilità non comune nella messa a punto di nuove tecniche narrative, rispondendo contemporaneamente a un bisogno diffuso del pubblico cui si rivolgevano. Il manicheismo dei caratteri e delle situazioni, tipico del romanzo popolare, è fortemente debitore, come ha dimostrato lo studioso statunitense Peter Brooks, al modello del melodramma: c'è, nella letteratura ottocentesca, tutto un filone "pateticosentimentale", che annovera, accanto al romanzo popolare e al libretto d'opera, anche testi senz'altro "alti", come certi romanzi di Balzac, di Hugo e di Henry James. La semplificazione dei conflitti, epurati da ogni ambivalenza e riportati all'eterna lotta di bene e male, è funzionale alla fondazione di una nuova etica laica, in grado di sostituire le certezze religiose abbattute dall'Illuminismo; il "pathos" garantisce una piena identificazione fra lettore e personaggio, favorita anche dalla forte tensione narrativa. Nella letteratura popolare la trama è tutto: motivo per cui non se ne farà cenno in questa introduzione: tutto il piacere della lettura dei "Misteri di Parigi" sta nel susseguirsi scoppiettante di eventi sempre nuovi e imprevedibili (colpi di scena, peripezie improbabili...), nell'abile gestione dell'intreccio e della suspense. Mentre lo stile oscilla fra la sciatteria di chi scrive in fretta e troppo, e l'esasperazione metaforica di un tardo romanticismo, appunto, da melodramma, che predilige le immagini truci (così nelle frequentissime descrizioni). Un altro aspetto importante, e assai discusso, dei "Misteri di Parigi" è la portata ideologica del testo. Per quanto convertito a un generico "socialismo" (solo in anni successivi l'autore si avvicinerà con cognizione di causa alle posizioni di Fourier), Sue inizia il romanzo con l'intento di dare un quadro pittoresco dei bassifondi parigini ad uso e consumo del lettore borghese: non, dunque, letteratura per il popolo, e nemmeno letteratura impegnata, di denuncia, alla Zola: si trattava anzi di sfruttare gli orrori della condizione proletaria per dare emozioni forti a lettori di ben altra estrazione sociale. Solo in corso d'opera, incitato dal successo strepitoso che il romanzo incontrava proprio perché era considerato dal popolo (quello alfabetizzato, beninteso, che non va confuso con tutta la massa proletaria) un romanzo "di sinistra" e a favore del popolo, nei cui personaggi era possibile identificarsi, Sue si decide ad approfondire la denuncia sociale, a documentarsi sul posto, a osservare le miserie dei proletari ma con occhio sempre pateticoromantico, non certo prenaturalista. (È questo un altro elemento tipico della tecnica dell'appendice: non c'è più un piano preordinato da seguire; sono spesso le reazioni del pubblico e le contingenze della cronaca a suggerire, di volta in volta, la continuazione: si perde ogni disegno d'insieme, a tutto vantaggio della fruizione immediata dei singoli episodi). Sue, più che analizzare, compiange; più che incitare alla lotta sociale, consola - anche se, nell'ultima parte, abbondano le perorazioni politiche e le proposte di riforme sociali (così negli episodi ambientati nella fattoria modello di Bouqueval, paradigma di un socialismo utopico e in ultima analisi paternalistico.) Nell'"Ebreo errante" la vicenda sociale contemporanea si intreccia con motivi di derivazione tradizionale e mitica, offrendo l'esempio più evidente della commistione, in Sue, di realismo romantico e fantastico visionario. Il protagonista ed Erodiade portano un soccorso soprannaturale ai loro discendenti, minacciati dal potere diabolico dei gesuiti: sono i maneggi ipocriti di questi ultimi l'obiettivo polemico principale dell'enorme romanzo, che è un affresco a tinte forti della recente storia francese (notevoli le pagine sul colera del 1832, quasi personificato) e, insieme, un repertorio di situazioni tipiche del "noir" e del soprannaturale. Tratti che ritornano, in combinazioni di volta in volta diverse, negli ultimi, e meno riusciti, romanzi popolari e sociali di Sue, in particolare nei "Misteri del popolo". Si accentua da un lato l'impegno politico (con le relative tirate socialisteggianti), dall'altro il manicheismo dell'autore, sempre più schematico e unilaterale: i poveri sono tutti buoni, i ricchi tutti cattivi, i preti diabolici (fra le poche eccezioni, il bellissimo, ricchissimo e misteriosissimo protagonista dei "Misteri di Parigi", il principe tedesco Rodolfo (Rodolphe) di Gerolstein, che percorre i bassifondi parigini dispensando benefici e giustizia). La fortuna. Il nome di Sue è da sempre legato essenzialmente ai "Misteri di Parigi": il travolgente successo di pubblico scatena un'immediata corsa all'imitazione, che si protrae per quasi tutto l'Ottocento: non si contano i romanzi e romanzacci che ne riprendono, fin dal titolo ("I misteri di..."), la tematica metropolitana e miserabilistica. Nel 1843, appena il "feuilleton" di Sue è giunto al termine, un altro scrittore di cassetta, Paul Féval, lancia sul "Courier Français" "I misteri di Londra"; l'autore non sa l'inglese e non ha mai attraversato la Manica: manda a Londra degli informatori, ma punta più sull'avventuroso che sulla rappresentazione realistica, ottenendo un enorme consenso di pubblico. Stesso titolo per l'opera rettificatrice di un autoctono, Reynolds, apparsa in dieci anni a partire dal 1845 sul "London Journal". Come ogni best-seller, il romanzo di Sue offre il fianco alla parodia: puntualmente, il 5 marzo del 1844, vanno in scena alle "Folies dramatiques" "I misteri di Passy", dramma burlesco ambientato in un sobborgo di Parigi (oggi quartiere elegante nel sedicesimo arrondissement). Naturalmente, c'è anche chi crede di saperla più lunga di Sue: nello stesso anno escono "I veri misteri di Parigi" di Vidocq; e chi riprende e adatta per il teatro alcuni episodi o ambienti del modello: così i "Misteri del Coniglio Bianco" (la bettola losca che tanta parte ha nel romanzo). E la formula è applicata anche ad altre città: compaiono "I misteri di Berlino", quelli di Vienna, eccetera. Ma non è solo la letteratura popolare ad essere influenzata dal modello di Sue: pur con maggiori ambizioni (e con mezzi artistici più raffinati), Hugo riprende in parte la formula dei "Misteri di Parigi" nei "Miserabili" (1862); mentre il giovane Zola, non ancora emancipato dagli stereotipi romantici, scrive addirittura, nel 1867, dei "Misteri di Marsiglia". Ma anche romanzi ormai interamente naturalisti (lontani, dunque, dal manicheismo melodrammatico, dal gusto per i colpi di scena, dal metaforismo truculento e dal ricorso al fantastico tipici di Sue) come "Il ventre di Parigi" (1873) e "L'Assommoir" (1877) riprendono, con strumenti positivisti, l'analisi dei bassifondi inaugurata da Sue e saranno numerosi anche i testi che si caleranno programmaticamente nelle viscere delle grandi città: si pensi al "Ventre di Napoli" della Serao (1884). In Italia la fortuna di Sue, ricostruita puntualmente da vari critici, fra cui Enrico Ghidetti e soprattutto Quinto Marini, è forse meno immediata ma certamente più duratura, e dà vita, lungo tutta la seconda metà dell'Ottocento, a una vastissima produzione di romanzi "sociali". Pur avendo avuto tre precoci traduzioni italiane, nel 1843-1844 a Firenze e nel 1848 a Milano e in Ticino, "I misteri di Parigi" hanno una diffusione davvero di massa solo a partire dall'edizione milanese del 1854 (prima della fine del secolo, e con particolare frequenza negli anni Ottanta, si conteranno almeno altre otto versioni, quasi tutte pubblicate a Milano). Ma già nel 1853 sono usciti a Volterra "I misteri di Livorno", firmati dall'avvocato C. M.; quattro anni più tardi Carlo Lorenzini (Collodi) dà alle stampe il primo volume dei suoi "Misteri di Firenze, scene sociali", che rimarranno incompiuti. Anche Roma ha i suoi "Misteri", anonimi, del '61; Milano può contare su Paolina. "Mistero del coperto Figini" di Igino Ugo Tarchetti, pubblicato nel '65; due anni dopo escono "I misteri di Genova" di Anton Giulio Barrili. Ma la città più "misteriosa" d'Italia, naturalmente, è Napoli: i celeberrimi "Misteri di Napoli" del prolifico appendicista Francesco Mastriani (usciti in novantasette puntate su "Roma" fra il 1869 e il 1870, e in volume nel 1875: sono uno degli oltre cento romanzi dell'autore) furono preceduti da un'opera omonima dell'avvocato L. I. e da alcune dispense, presto interrotte, pubblicate già nel 1847 dal de Sterlich. La pubblicazione monumentale delle "Opere complete" di Sue, in 199 volumi, avvenuta a Parigi fra il 1904 e il 1907, anziché segnare, come spesso in questi casi, la definitiva consacrazione di un "classico", coincide con il momento più basso della fortuna critica dello scrittore: troppo lontani dalla sensibilità modernistica del primo Novecento, i suoi romanzi sono liquidati senz'altro come cattiva letteratura. L'attenzione recente per la letteratura popolare e la comunicazione di massa, il gusto postmoderno per la trama, il "ritorno dell'intreccio" che dà il titolo all'Almanacco Bompiani del 1972 (un volume miscellaneo che segna un momento importante nella ripresa degli studi sul romanzo di consumo) hanno fatto sì che negli ultimi anni Sue ricominci ad essere letto (anche grazie all'antologia curata nel 1963 da Jean-Louis Bory) e studiato (ma la produzione critica resta tutto sommato esigua). Quelle di Nora Atkinson, del 1929, e dello stesso Bory, del 1962, rimangono le uniche due monografie complessive importanti sullo scrittore; la prima è un'utile fonte di notizie sulla vita e sull'opera di Sue, mentre la seconda, oltre a fornire un'accurata e partecipe ricostruzione biografica, affronta in maniera più complessa e approfondita i nodi storico-critici, eccedendo tuttavia, a tratti, nel sopravvalutare la portata estetica della narrativa di Sue (soprattutto dei giovanili romanzi marinareschi) e nell'apprezzare le valenze progressiste dei suoi testi sociali. Sull'ambiguità politica del romanzo popolare, e dei "Misteri di Parigi" in particolare, hanno insistito in modo convincente vari lettori e studiosi, da Karl Marx a Umberto Eco. Il primo non tarda a notare, nella "Sacra famiglia", come il romanzo di Sue, anziché aiutare gli sfruttati a prendere coscienza della propria condizione, elargisca loro il piacere di un mondo alternativo, in cui ci sono sì tutti gli orrori di quello reale, ma anche la certezza che il bene trionferà; anzi, l'intervento di Rodolphe, riformista e non rivoluzionario, ribadisce la forza dei pregiudizi cristiani e borghesi. Per questo Eco può parlare di "una macchina gratificatoria", il cui sfondo ideologico è "socialdemocratico-paternalista". Il semiologo italiano si è occupato a più riprese dei "Misteri di Parigi", ravvivando l'interesse della critica per un testo che, al di là dei risultati artistici, costituisce un fenomeno storico-letterario e un fatto mediatico (un grande avvenimento nella storia della comunicazione di massa) straordinariamente significativo. In anni recenti, lo sviluppo della critica della ricezione (che studia non solo - non tanto - il testo letterario in sé, quanto le sue vicende editoriali e le ragioni del suo successo) ha segnato una netta ripresa di interesse per il romanzo popolare in generale e per l'opera di Sue in particolare; un eccellente quadro complessivo su queste problematiche si trova nel volume che Jean-Claude Vareille ha dedicato nel 1994 a ideologie e pratiche del romanzo popolare francese, mentre all'autore dei "Misteri di Parigi" è consacrato un numero monografico della rivista "Europe" (1982). BIBLIOGRAFIA. - Prime edizioni in volume: E. Sue, "Les Mystères de Paris", 10 volumi, Gosselin, Parigi, 18421843. E. Sue, "Les Mystères de Paris", 4 volumi, Gosselin, Parigi, 1843-1844 (ed. definitiva rivista dall'autore). - Prime traduzioni italiane: E. Sue, "I misteri di Parigi", trad. di F. Berti, 7 volumi, Pezzati, Firenze, 1843-1844. E. Sue, "I misteri di Parigi"", Borroni e Scotti, Milano, 1848. E. Sue, "I misteri di Parigi, Traduzione italiana", 4 volumi, Tipografia Elvetica, Capolago, 1848. E. Sue, "I misteri di Parigi. Romanzo", Centenari, Milano, 1854. - Principali studi in italiano sul romanzo d'appendice, sulla letteratura popolare e in particolare su Sue: Autori Vari, "Cent'anni dopo. Il ritorno dell'intreccio", a cura di U. Eco e C. Sughi, Almanacco Bompiani, Milano, 1972. Autori Vari, "L'Italia dei misteri. Storie di vita e malavita nei romanzi d'appendice", a cura di R. Reim, Editori Riuniti, Roma, 1989 (si tratta di un'antologia per temi del romanzo "sociale" italiano dell'Ottocento, allestita con criteri non sempre rigorosi). Autori Vari, "La paraletteratura. Il melodramma, il romanzo popolare, il fotoromanzo, il romanzo poliziesco, il fumetto", Liguori, Napoli, 1977 (in particolare il contributo di J. Tortel). A. Bianchini, "Il romanzo d'appendice", Eri, Torino, 1969 (in particolare, su Sue, p.p. 85-130). ID., "La luce a gas e il feuilleton: due invenzioni dell'Ottocento", Liguori, Napoli, 1988. P. Brooks, "L'immaginazione melodrammatica", Pratiche, Parma, 1985 (l'originale inglese è del 1974). ID., "Trame. Intenzionalità e progetto nel discorso narrativo", Einaudi, Torino, 1995 (ed. originale: 1984; si veda in particolare il cap. 6, "Il marchio della bestia. Prostituzione, narrazione, romanzi a puntate"). U. Eco, "Il superuomo di massa. Retorica e ideologia del romanzo popolare", Bompiani, Milano, 1978 (in particolare il capitolo dedicato a "Sue: il socialismo e la consolazione"). ID., "Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi", Bompiani, Milano, 1979. E. Ghidetti, "Eugène Sue e il romanzo sociale in Italia", Introduzione a E. Sue, "I misteri di Parigi"", Casini, Firenze-Roma, 1965. ID., "Per una storia del romanzo popolare in Italia: i 'misteri' di Toscana", in "Il sogno della ragione. Dal racconto fantastico al romanzo popolare", Editori Riuniti, Roma, 1987. Q. Marini, "I "Misteri" d'Italia", Ets, Pisa, 1993. K. Marx, "Vita terrena e trasfigurazione della 'critica critica' ovvero la 'critica critica' come Rodolfo principe di Gerolstein", in K. Marx-F. Engels, "La sacra famiglia ovvero Critica della critica critica. Contro Bruno Bauer e soci", a cura di A. Zanardo, Editori Riuniti, Roma, 1967 (l'ed. originale è del 1845). G. Petronio, "Letteratura di massa letteratura di consumo. Guida storica e critica", Laterza, Bari, 1979. G. Zaccaria, "Il romanzo d'appendice. Aspetti della narrativa 'popolare' nei secoli diciannovesimo e ventesimo", Paravia, Torino, 1977 (con un'utile bibliografia ragionata). - Principali studi in francese: M. Angenot, "Roman et idéologie."Les Mystères de Paris"", "Revue des Langues Vivantes", 38°, 1972. N. Atkinson, "Eugène Sue et le roman-feuilleton", Nizet & Bastard, Parigi, 1929. J.-L. Bachelier, "L'oeil d'eau. Fonctionnement de la description dans "Les Mystères de Paris"", in Autori Vari, "La Description: Nodier, Sue, Flaubert, Hugo, Verne, Zola, Alexis, Fénéon", Editions Universitaires, Université de Lille III, 1974. J.-L. Bory, "Eugène Sue, le roi du roman populaire", Hachette, Parigi, 1962. ID., "Eugène Sue", Mercure de France, Parigi, 1963 (antologia delle "più belle pagine" di Sue, con agile introduzione). P. Chaunu, "Eugène Sue et la Deuxième République", Puf, Parigi, 1949. U. Eco, "Rhétorique et idéologie dans "Les Mystères de Paris" de Sue", "Revue internationale des Sciences Sociales", 19°, 1967. P. Michel, "Eugène Sue et les mystères de l'insurrection", "Europe", 715-716, novembredicembre 1988. Ch.-A. Sainte-Beuve, "Eugène Sue", "Revue des deux mondes", 1840, 3 (15 settembre). A.-M. Thiesse, "La Chair de l'utopie ou La Vulgarisation de la pensée saint-simonienne dans les romans d'Eugène Sue", in Autori Vari, "Regards sur le saintsimonisme et les saint simoniens", a cura di J. R. Derré, Presses Universitaires de Lyon, 1986. J.-C. Vareille, "Le Roman populaire français (1789-1914). Idéologies et pratiques", Presses Universitaires de Limoges-Nuit Blanche, 1994. Numero monografico di rivista dedicato a Sue: "Europe", 643-644, novembre-dicembre 1982 (si segnalano in particolare gli interventi di R. Bozzetto, Carassus e R. Guise). E. VOLUME PRIMO. PARTE PRIMA. 1. Il tapis-franc. Un "tapis-franc", nel gergo dei ladri e degli assassini, significa un'osteria o una bettola della più triste specie. Un uomo già condannato dalla giustizia, che, in quell'immondo linguaggio si chiama orco, o una donna della stessa risma, che si chiama orca, gestiscono abitualmente siffatte taverne, frequentate dalla feccia della popolazione parigina: forzati usciti di galera, truffatori, ladri, barattieri. Appena è stato commesso un delitto, la polizia getta, se questo si può dire, una rete in quelle fogne, e quasi sempre pesca i colpevoli. Questo esordio predice al lettore che dovrà assistere a sinistre scene, e, se lui vi consente, penetrerà in bolge orribili, sconosciute; incontrerà tipi schifosi, spaventevoli, che brulicheranno in quelle tristi cloache, come i rettili nei pantani. Tutti hanno letto le ammirabili pagine, in cui Cooper e Walter Scott hanno descritto i feroci costumi dei selvaggi, il loro pittoresco, poetico idioma, le mille scaltrezze con cui si sottraggono alle insidie o inseguono i loro nemici. Essi fanno fremere i lettori di città e di campagna al solo pensiero che così vicino a loro potessero vivere o s'aggirassero simili barbare tribù, per sanguinari costumi respinte ai margini della civiltà. Noi tenteremo di mettere sotto gli occhi del lettore alcuni episodi della vita di altri barbari, non meno fuori dalla civiltà degli orrendi selvaggi così ben dipinti dal Cooper. Soltanto i barbari di cui parliamo stanno in mezzo a noi; possiamo incontrarli, avventurandoci nei covili dove vivono, dove convengono per stabilire gli omicidi e i furti, per dividersi infine le spoglie delle loro vittime. Questi uomini hanno costumi propri, proprie femmine, linguaggio particolare, parole misteriose, piene di immagini funeste, di metafore che grondano sangue. Al pari dei selvaggi infine, questi tipi si chiamano di solito tra loro con soprannomi improntati alla loro energia, alla loro crudeltà, a qualche attributo o a taluna deformità fisica. Noi siamo perplessi nel dare inizio alle scene di questo racconto. Temiamo, innanzi tutto, che ci si accusi di scegliere episodi ributtanti, e, anche se ci viene concessa tale licenza, ci sgomenta l'idea di non esser poi capaci di riprodurre fedelmente e con efficacia certe usanze poco comuni. Nello scrivere diversi episodi che ci atterrivano, non potevamo sottrarci ad una specie di stringimento di cuore, di dolorosa ansietà, di paura, di ridicola eccitazione. Al pensiero che forse i nostri lettori proveranno la stessa tensione, abbiamo riflettuto se convenisse fermarsi o procedere nel cammino intrapreso, e se simili episodi dovessero esporsi agli occhi del pubblico. Siamo rimasti pressappoco nel dubbio, e se non fosse per l'imperiosa esigenza del racconto, ci rincrescerebbe d'aver ambientato in tali luoghi e tra tale gente le vicende della nostra storia. Ciononostante contiamo un poco sulla specie di curiosità paurosa che destano qualche volta gli spettacoli terribili. D'altronde non sottovalutiamo il potere dei contrasti. Dal punto di vista dell'arte, è forse bene riprodurre certi caratteri, certe esistenze, certe figure, le cui tinte oscure e forti, talvolta crudeli, possano servire a mettere meglio in luce uomini e situazioni di tutt'altro genere. Il lettore, avvertito del viaggio che gli proponiamo fra gli individui di quella razza infernale che riempie le prigioni, i bassifondi, e il cui sangue tinge i patiboli, il lettore saprà forse seguirci. Senza dubbio questa indagine sarà nuova per lui. Sappia però che, se in principio posa il piede sul più basso gradino della scala sociale, a misura che il racconto andrà progredendo, l'atmosfera si farà via via più pura. Il 13 dicembre 1838, in una sera piovosa e fredda un uomo di statura atletica, vestito d'un lacero camiciotto, attraversò il Pont au Change e s'inoltrò nella città vecchia, labirinto di strade buie, strette e tortuose, tra il Palazzo di Giustizia e la cattedrale di NotreDame. Il quartiere del Palazzo di Giustizia, assai circoscritto, sorvegliatissimo, serve d'asilo o di ritrovo ai malviventi di Parigi che si riuniscono nei "tapis-francs". Non è straordinario, o fatale, che un'attrazione irresistibile faccia gravitare i delinquenti intorno al terribile tribunale che li condanna al carcere, ai lavori forzati, alla ghigliottina? Quella notte dunque il vento s'inoltrava a raffiche nelle viuzze di quel lugubre quartiere: il chiarore pallido, vacillante dei lampioni agitati dall'aria, si rifletteva nel rigagnolo d'acqua nerastra che scorreva in mezzo al selciato coperto di mota. Le case, color fango, avevano rare finestre, con ripari di carta o di tela, e quasi tutte senza vetri. Anditi luridi e bui immettevano a scale nere ed infette, e così erte e perpendicolari, che appena ci si poteva arrampicare reggendosi ad una fune da pozzo, fissata alle umide mura con ramponi di ferro. Il pianterreno di qualcuna di quelle abitazioni era ingombro di merci di carbonai e rivenditori di carne avariata. Malgrado lo scarso valore di queste derrate, tutte quelle miserabili botteghe erano munite di solide inferriate, tanto i mercanti temevano l'audacia dei ladri di questo quartiere. L'uomo da noi descritto, entrando in rue aux Fèves, situata nel centro della città vecchia, rallentò l'andatura: capiva di essere sul "suo terreno". La notte era profonda, l'acqua cadeva a dirotto, folate di vento e pioggia flagellavano le muraglie. Suonavano in lontananza le dieci all'orologio del Palazzo di Giustizia. Alcune donne, riparate sotto i vecchi portici, oscuri, profondi come caverne, cantavano a mezza voce qualche ritornello popolare; altre, in piedi, immobili, una molto discosto dall'altra, guardavano l'acqua che scendeva a torrenti. Una di queste creature era senza dubbio nota all'uomo del quale abbiamo parlato; poiché, fermandosi bruscamente davanti a lei, l'afferrò per un braccio. "Buonasera, Chourineur." Quell'uomo, che aveva già scontato condanne infamanti, aveva avuto tale soprannome ai lavori forzati. "Sei tu, Goualeuse?" disse l'uomo dal camiciotto. "Vieni a pagarmi l'acquavite, o ti faccio ballare senza violino!" "Non ho denari" rispose la donna, tremando, giacché sapeva di avere a che fare con uno che incuteva terrore nel quartiere. "Se hai vuota la borsa, l'"orca" del "tapis-franc" ti farà credito sul tuo bel viso." "Già le devo il nolo degli abiti che indosso..." "Ah, osi protestare?" esclamò lo Chourineur. E diede al buio un pugno tanto forte che quella poveretta emise un urlo di dolore. "Questo è nulla, carina mia, è soltanto per ammonirti..." Aveva appena proferito queste parole, quando gridò con una spaventevole imprecazione: "Tu mi hai pugnalato, maledetta! Mi hai trafitto con le tue forbici." E, furibondo, si precipitò a inseguire la Goualeuse nell'oscurità di un lungo corridoio. "Non ti avvicinare, o ti cavo gli occhi con le cesoie" disse costei in tono risoluto. "Io non ti avevo fatto niente, perché mi hai picchiata?" "Adesso vengo a dirtelo" gridò il bandito, avanzando nelle tenebre. "Ah! Ti ho finalmente in mano e ballerai!" aggiunse, stringendo nelle mani larghe e robuste una manina gracile. "Sei tu che ballerai!" disse una voce maschile. "Un uomo! Sei tu, Bras-Rouge? Rispondi dunque, e non stringere così forte... Entravo appunto nell'andito di casa tua... Non puoi essere che tu..." "Non sono Bras-Rouge" disse la voce. "Bene, poiché non sei un amico, scorrerà del sangue" minacciò lo Chourineur. "Ma di chi è dunque lo zampino che stringo?" "È il compagno di questo." Sotto la pelle morbida e delicata della mano, che gli stringeva bruscamente la gola, lo Chourineur sentì tendersi nervi e muscoli d'acciaio. La Goualeuse, scappata in fondo al corridoio, aveva salito in fretta parecchi scalini: si trattenne un istante, e gridò, indirizzandosi allo sconosciuto difensore: "Oh, grazie, signore, di aver preso le mie parti. Lo Chourineur mi ha aggredita perché non volevo pagargli l'acquavite. Io mi sono vendicata, ma non posso avergli fatto gran male con le mie forbici. Intanto sono al sicuro, lasciatelo; badate a voi, è lo Chourineur." Lo spavento che incuteva quell'uomo era ben grande, ma lo sconosciuto sembrava non curarsene. "Voi non mi capite dunque? Vi ho detto che è lo Chourineur, uno che col suo coltello fredda chiunque!" ripeté la Goualeuse. "Ed io sono un tipo che non patisce il freddo" rispose lo sconosciuto. Per alcuni istanti s'intese il rumore di una lotta accanita. "Ma vuoi dunque che ti faccia a pezzi?" gridò lo Chourineur facendo un terribile sforzo per liberarsi del suo avversario, che trovava d'una forza straordinaria. "Bene, bene, tu pagherai per la Goualeuse e per te" aggiunse, digrignando i denti. "Pagare a suon di cazzotti mi fa sempre piacere" rispose lo sconosciuto. "Se non mi lasci libera la gola, ti mangio il naso" gorgogliò lo Chourineur, con voce strozzata. "Ho il naso troppo piccolo, bello mio, e tu non vedi molto chiaro!" "Allora vieni sotto il lampione." "Andiamo pure" riprese lo sconosciuto "ci guarderemo nel bianco degli occhi." E, avventandosi sullo Chourineur, che teneva sempre per la gola, lo fece rinculare sino al portone del corridoio, e lo spinse violentemente sulla strada, appena rischiarata dal bagliore del lampione. Il bandito inciampò, ma, ripresosi subito, si lanciò con furia sullo sconosciuto, il cui corpo snello e asciutto non pareva forte come dimostrava. Lo Chourineur, quantunque di corporatura atletica e di vantata abilità in una sorta di pugilato, detto la "savate", la ciabatta, trovò, come si dice, il suo maestro. Lo sconosciuto gli fece lo sgambetto con una destrezza meravigliosa, e lo rovesciò due volte. Non volendo ancora riconoscere la superiorità del suo avversario, lo Chourineur ritornò alla carica, ruggendo di collera. Allora il difensore della Goualeuse, cambiando bruscamente metodo, fece piovere sulla testa del bandito una tempesta di pugni che parevano dati con una mazza di ferro. Quei pugni, degni dell'invidia e dell'ammirazione di Jack Turner, uno dei più famosi pugili di Londra, erano d'altronde così fuori delle regole della "savate", che lo Chourineur ne fu doppiamente sbalordito; e per la terza volta ripiombò come un bue sul selciato mormorando: "Avete vinto, ne ho abbastanza!" "Se rinuncia, non lo finite, abbiate compassione di lui!" disse la Goualeuse, che durante la lotta s'era arrischiata a venire sulla soglia della casa di Bras-Rouge. Quindi aggiunse con stupore: "Ma voi chi siete dunque? Tranne il Maître d'école o Squelette, non ce n'è uno da rue Saint-Eloi a Notre-Dame, che sia capace di battere lo Chourineur. Vi ringrazio tanto, signore... Ohimè, se non c'eravate voi mi avrebbe uccisa." Lo sconosciuto, invece di rispondere, ascoltava con attenzione la sua voce. Mai suono più dolce, più gentile, più argentino era giunto al suo orecchio. Cercò di distinguere le fattezze della Goualeuse, ma non ci riuscì: la notte era troppo buia, la luce del lampione troppo pallida. Dopo esser rimasto per un po' a terra come un sacco, lo Chourineur mosse le gambe, le braccia, e finalmente provò a rizzarsi sulla vita. "Badate!" gridò la Goualeuse, rifugiandosi di nuovo in fondo al corridoio e tirando per un braccio il suo protettore. "Badate, è un uomo capace di vendicarsi." "Sta' tranquilla! Se ne vuole ancora, ne ho da servirlo." Il furfante intese queste parole. "Ho la zucca fracassata e gli occhi pesti" disse allo sconosciuto. "Per oggi ne ho abbastanza, non ne voglio proprio più: un'altra volta non dico di no, se mai ti trovo." "Non sei contento? Di che cosa ti lamenti?" gridò l'altro in tono minaccioso. "Ti pare che t'abbia preso a tradimento?" "No, non mi lagno affatto; sei una buona lana che ha del coraggio" disse lo Chourineur in tono burbero, ma con quella considerazione rispettosa che la forza fisica impone sempre a gente di quella specie. "Tu mi hai dato una risciacquata; e all'infuori del Maître d'école, che mangerebbe tre Alcidi a colazione, nessuno finora poteva vantarsi di avermi messo i piedi sulla testa." "Va bene! E dunque?" "Dunque... Ho trovato il mio maestro, ecco tutto. Tu troverai il tuo un giorno o l'altro... tutti trovano il loro... In mancanza degli uomini c'è Iddio, come dicono i preti. Quello che è certo, è che adesso che ti sei cacciato sotto i piedi lo Chourineur, puoi far quel che ti pare nella Cité. Tutte le sgualdrinelle ti correranno intorno: "orchi" e "orche" non oseranno negarti il loro appoggio. Orsù! ma chi sei? Parli furbesco come babbo e mamma! Se fai il ladro, io non sono uomo per te. Ho dato in giro qualche coltellata, è vero; perché, quando il sangue mi monta alla testa, vedo tutto rosso, e bisogna che colpisca... Ma ho pagato caro il lavoro di coltello facendomi quindici anni in galera. I miei anni li ho scontati, non devo più niente ai giudici, e non ho mai rubato... Domandalo alla Goualeuse." "Questo è vero, non è un ladro" confermò lei. "Allora vieni a tracannare un bicchierino d'acquavite, e mi conoscerai" disse lo sconosciuto: "Eh via! senza rancore." "Troppo gentile! Tu mi hai dato una lezione, sono d'accordo, ci sai fare con i pugni, specialmente quella mitraglia alla fine... Fulmini! Come fioccavano sulla nuca! Non avevo mai visto niente di simile... Parevano martellate d'incudine. È una maniera nuova... Bisognerà insegnarmela." "Ricomincerò quando vorrai." "Non sempre su di me, oh, non su di me! Sono ancora sbalordito. Ma tu dunque conosci Bras-Rouge, che eri nel corridoio della sua casa?" "Bras-Rouge!" disse lo sconosciuto, sorpreso da tale domanda. "Io non so quello che dici. Non sarà solo Bras-Rouge che abita quella casa, immagino?" "Sì, mio bel gentiluomo... BrasRouge ha le sue buone ragioni per non volere vicini" disse lo Chourineur, sorridendo malizioso. "Ebbene, tanto meglio per lui" riprese l'altro, che poco si curava di continuare la conversazione su questo argomento. "Io non conosco né Bras-Rouge né BrasNoir. Pioveva, e sono entrato un momento nel corridoio per mettermi al riparo; tu hai voluto picchiare questa povera ragazza, io ho picchiato te, ecco tutto." "Tutto a meraviglia: i tuoi affari non mi riguardano; tutti quelli che hanno bisogno di Bras-Rouge non vanno a dirlo in piazza. Parleremo d'altro." Poi volgendosi alla Goualeuse: "In coscienza sei una brava ragazza: ti ho dato una sventola, mi hai restituito una forbiciata... Tutto regolare. Ma sei stata molto buona a non aizzare contro di me questo brutto diavolo quando non ne potevo più. Mi farà piacere se vieni a bere con noi, visto che questo signore scuce i quattrini... A proposito, galantuomo" disse allo sconosciuto "se, invece di andare soltanto a bere dell'acquavite andassimo a mangiare un boccone dall'Orca del Coniglio Bianco? È un "tapis-franc"." "Qua la mano, offro io la cena. Vuoi venire, Goualeuse?" disse lo sconosciuto. "Oh, avevo molta fame" rispose "ma a vedere le baruffe mi si rimescola il sangue, non ho più appetito." "Via, via! Ti tornerà mangiando" disse lo Chourineur "e la cucina, al Coniglio Bianco, è squisita." E i nostri tre, ormai in perfetta armonia, si avviarono alla bettola. Durante la lotta dello Chourineur con lo sconosciuto, un carbonaio di statura colossale, appostatosi in un altro andito, aveva osservato con ansietà tutte le alternative della battaglia, senza porgere però alcun aiuto alle due parti. Quando lo sconosciuto, lo Chourineur e la Goualeuse s'incamminarono verso la taverna, il carbonaio li seguì. Il bandito e la Goualeuse entrarono per primi nel "tapis-franc": lo sconosciuto li stava seguendo, quando il carbonaio si avvicinò e gli disse sottovoce in inglese con rispettoso rimprovero: "Altezza, abbiate prudenza!" L'altro si strinse nelle spalle e raggiunse i suoi compagni. Il carbonaio non si allontanò dalla porta della bettola; porgendo attentamente l'orecchio, guardava ogni tanto nell'interno attraverso i pochi spazi lasciati dallo spesso strato di gesso con cui si è soliti appannare dal di dentro le vetrine di questa specie di taverne. 2. L'Orca. Il bettolino del Coniglio Bianco è pressappoco a metà di rue aux Fèves, al pianterreno d'un alto edificio, la cui facciata si compone di due finestre, dette alla ghigliottina. Sopra il portone d'un oscuro corridoio a volta oscilla una lanterna bislunga, sul cui vetro sta scritto in lettere rosse: "Locanda per la notte". Lo Chourineur, lo sconosciuto e la Goualeuse entrarono nella taverna: una vasta sala dal soffitto basso, affumicato e diviso da travi nere, rischiarata da una vecchia lucerna appesa ad una corda. Le pareti, impiastricciate di calcina, sono ricoperte qua e là di disegni volgari e di motti in gergo furbesco. Il pavimento scrostato è umido di fango, bracciate di paglia sono sparse, come un tappeto, ai piedi del banco della padrona, che è sulla destra della porta, sotto il lume. In ciascun lato di quella stanzaccia ci sono sei tavoli, da una estremità appoggiati al muro, come pure le panche che li accompagnano. In fondo, una porta dà sulla cucina; a destra, presso il banco, un altro uscio dà sul corridoio, da cui si entra nelle camere, veri alveari, dove si dorme a tre soldi per notte. Adesso qualche parola sull'Orca e sui suoi ospiti. L'Orca si chiama comare Ponisse; la sua triplice professione consiste nel dare alloggi, tenere bettolino e prestare a nolo il vestiario alle disgraziate femmine che formicolano in quelle immonde strade. Ha circa quarant'anni. È alta, robusta, corpulenta, colorita e anche un po' barbuta. La sua voce chioccia, maschile, le grosse braccia, le larghe mani rivelano una forza poco comune; porta sulla cuffia uno straccio di seta rossa e gialla; uno scialle di pelo di coniglio le si incrocia sul petto e si annoda dietro alla schiena; la sua sottana di lana verde lascia vedere zoccoli neri in parte bruciacchiati dalla brace dello scaldino; infine ha la carnagione scura ed arrossata dall'abuso dei liquori. Il banco, coperto da una lastra di piombo, è fornito di boccali cerchiati di ferro, e diversi misurini di stagno; sopra uno scaffale appoggiato alla parete si vedono molti fiaschi e bicchieri, collocati in modo da rappresentare la figura in piedi dell'imperatore. Queste bottiglie contengono beveroni dal colore rosa e verde, con le etichette: "Perfetto amore" e "Consola-cuori". Infine un grosso gatto, con le pupille gialle, accovacciato accanto alla padrona, sembra il demone familiare di questo luogo. Per un contrasto che parrebbe impossibile (se non sapessimo che l'anima umana è un abisso impenetrabile) un santo ramoscello di olivo di Pasqua, comprato in chiesa dall'Orca, era collocato dietro alla cassa di un antico orologio a pendolo. Due brutti ceffi, dalla barba ispida, cenciosi, avevano appena cominciato a vuotare la bottiglia per loro preparata, e discorrevano sottovoce, inquieti. Uno soprattutto, pallidissimo, calava spesso sulle ciglia un berrettaccio alla greca che aveva in testa, teneva la mano sinistra quasi sempre nascosta, ed aveva cura di celarla quanto più poteva quando era costretto a servirsene. Più in là sedeva un giovane intorno ai sedici anni, imberbe, bruno, di faccia scarna e smorta, ed occhi privi di vivacità; lunghi capelli neri gli ondeggiavano sul collo; questo giovane, che mostrava in volto i segni del vizio prematuro, fumava una corta pipa bianca. Appoggiato con le spalle alla parete, le mani nelle tasche del camiciotto, le gambe stese sulla panca, non lasciava la pipa che per tracannare qualche sorso d'acquavite. Gli altri avventori del "tapis- franc", uomini e donne, non offrivano nulla di notevole; le loro fisionomie erano feroci o abbrutite, lo spirito grossolano o licenzioso, il silenzio tetro o stupido. Tali erano gli ospiti del "tapisfranc", quando entrarono lo sconosciuto, lo Chourineur e la Goualeuse. Questi tre ultimi personaggi sostengono una parte troppo importante nel nostro racconto, le loro figure sono troppo caratterizzate, perché non si pongano in migliore rilievo. Lo Chourineur, alto di statura e di vigoroso aspetto, ha la capigliatura di un biondo chiarissimo, sopracciglia folte ed enormi, fedine rosso vivo. Il calore del sole, la miseria, le dure fatiche dei lavori forzati lo hanno abbronzato di un colore cupo, olivastro, tipico, per dir così, dei galeotti. Malgrado il suo terribile soprannome, i lineamenti di quest'uomo esprimono piuttosto l'audacia brutale che la ferocia; sebbene la parte posteriore della sua testa, molto sviluppata, riveli il predominio dei desideri violenti e carnali. Lo Chourineur porta un sudicio camiciotto turchino, i pantaloni di velluto scadente, un tempo verdi, e di cui non si può più distinguere la tinta sotto le macchie di fango. Per contrasto, la Goualeuse sembrava uno di quei tipi candidi e angelici che conservano la loro innocenza anche in mezzo alla depravazione, come se la creatura fosse impotente a cancellare con i suoi vizi il nobile marchio che Dio ha stampato in fronte ad alcuni esseri privilegiati. La Goualeuse aveva sedici anni e mezzo. Una fronte candida e pura illuminava un viso perfettamente ovale; le ciglia alquanto lunghe, che si arricciavano un poco, le adombravano gli occhi grandi e azzurri. La più tenera giovinezza le splendeva sulle guance rotondette e vermiglie. La bocca piccola e porporina, il naso sottile e diritto, il mento ben conformato, modellavano con grazia il suo volto. Dalle tempie una superba ciocca di capelli biondi le scendeva sino a metà gota, e ripiegata in tondo saliva dietro alle orecchie, di cui si scorgeva il lobo bianco e roseo, e spariva sotto le pieghe d'un grande foulard di cotone a quadretti celeste, legato sul davanti con una spilla. Una collana di coralli le girava intorno al collo, gentile e bianco come l'avorio. La gonnella scura, molto larga, lasciava distinguere una vitina flessibile e snella come un giunco. Uno scialle color melarancia, con le frange verdi, le si incrociava sul seno. La soavità della voce della Goualeuse aveva colpito il suo sconosciuto difensore. Difatti, quella voce dolce, vibrata, armoniosa, possedeva una tale attrattiva, che la folla di scellerati e puttane fra cui viveva, la supplicava spesso di cantare, e l'ascoltava in estasi, e perciò era soprannominata la Goualeuse. Aveva ricevuto anche un altro soprannome, dovuto senza dubbio al candore verginale della sua fisionomia... La chiamavano Fleur-de-Marie, che in linguaggio furbesco significa la Vergine. Potremo far comprendere al lettore la nostra singolare impressione, quando in mezzo all'infame vocabolario, dove le parole che esprimono furto, sangue e omicidio, sono anche più orribili e spaventose delle cose da loro espresse, quando, dicevamo, ci capitò di ascoltare tra quella gente la metafora d'una poesia così dolce, così teneramente pietosa: Fleur-de-Marie? Non la paragoneremo a un bel giglio che eleva il candido e profumato suo calice immacolato in mezzo a un campo di battaglia? Bizzarro contrasto, miracolosa combinazione! Gli inventori di quell'orribile linguaggio si innalzarono così fino a una santa poesia! Diedero un pregio di più al casto pensiero che intendevano esprimere! Simili riflessioni non ci inducono a credere (riflettendo così su altri paradossi, che spesso ci sorprendono nelle volgari abitudini delle vite più colpevoli) che certi principi di moralità, di pietà, per così dire innati, tramandano talvolta qua e là vivi raggi di luce nelle anime più tenebrose? Gli uomini completamente scellerati sono fenomeni assai rari. Il difensore della Goualeuse (noi chiameremo questo sconosciuto col nome Rodolphe) mostrava dai trenta ai trentasei anni; la sua statura media, svelta e ben proporzionata, non sembrava possedere quel particolare vigore spiegato nella lotta col gigantesco Chourineur. Era difficilissimo assegnare un carattere alla fisonomia di Rodolphe, giacché offriva i più bizzarri contrasti. Le sue fattezze erano regolari e belle... Forse troppo belle per un uomo! La carnagione alquanto pallida e delicata, gli occhi grandi melanconici, quasi sempre semichiusi e circondati da una leggera sfumatura d'azzurro, il portamento svogliato, lo sguardo distratto, il sorriso ironico, parevano di un uomo stanco di tutto, la cui indole, se non rovinata, era certo indebolita dagli eccessi di una vita disordinata. Eppure, con quella mano elegante e bianca, Rodolphe aveva atterrato uno dei banditi più pericolosi, il più temuto di tutto quel quartiere. Certe rughe della fronte di Rodolphe rivelavano il pensatore profondo, l'uomo eminentemente contemplativo, e inoltre la serietà che appariva sulla sua bocca, il modo imperioso e talvolta ardito di rizzare il capo, svelavano in lui l'uomo d'azione, la cui forza fisica e audacia esercitano sempre sulla folla un ascendente irresistibile. Spesso i suoi sguardi avevano un'ombra di malinconia, e quanto la commiserazione abbia di più soccorrevole, quanto la pietà di più commovente, si esprimeva sul suo volto. Al contrario, in altre occasioni lo sguardo di Rodolphe diventava grave, il suo volto mostrava tanto sdegno e crudeltà, che non lo avreste supposto capace di alcuna emozione. Il seguito di questo racconto additerà quale serie di fatti e di idee suscitavano in lui passioni così contrarie. Nella sua lotta con lo Chourineur, Rodolphe non aveva mostrato né collera, né odio, contro questo avversario indegno di lui. Fidando nella propria forza, nella propria destrezza e agilità, non aveva avuto che scherno e disprezzo per quella specie di gigante che aveva atterrato. Per terminare il ritratto di Rodolphe, aggiungeremo che aveva i capelli castano chiari, come le ciglia, nobilmente arcuate, i baffi piccoli ben curati, ed il mento un po' sporgente, ben rasato. Del resto, i modi e la parlata che affettava con una incredibile facilità gli davano una grande somiglianza con gli avventori dell'Orca. Intorno al collo agile, modellato quanto quello del Bacco indiano, portava una cravatta nera annodata con negligenza, le cui estremità cadevano sul bavero del camiciotto sbiadito. Una doppia fila di chiodi armava le sue scarpacce. Tranne le mani delicate, nulla lo distingueva esteriormente dagli ospiti del "tapis-franc"; benché la sua aria risoluta, e, per così dire, di temeraria serenità, stabilisse tra essi un'enorme distanza. Nell'entrare nella taverna, lo Chourineur, posando una delle sue manacce pelose sulla spalla di Rodolphe, esclamò: "Salute al maestro dello Chourineur!... Sì, amici miei, questa buonalana mi ha risciacquato ben bene... Avviso i dilettanti che avessero volontà di farsi fracassare le reni o spaccare il cranio, compreso il Maître d'école, che questa volta troveranno pane per i loro denti... Lo garantisco io, e ci scommetto!" A queste parole, dalla padrona fino all'ultimo avventore della bettola, tutti guardarono il vincitore dello Chourineur con molto rispetto. Alcuni spostarono boccali e bicchieri in cima alla tavola che occupavano, affrettandosi a far posto a Rodolphe, nel caso avesse voluto mettersi accanto a loro; altri si accostarono allo Chourineur per domandargli a voce bassa qualche chiarimento su quello sconosciuto che esordiva tanto brillantemente nella loro società. Anche l'Orca aveva rivolto a Rodolphe uno dei suoi più graziosi sorrisi. Cosa inaudita, straordinaria, del tutto fuori dalle abitudini del Coniglio Bianco, si era alzata per venire a ricevere le ordinazioni di Rodolphe e sapere che cosa si dovesse mettere in tavola; attenzione che non aveva mai usato nemmeno al famoso Maître d'école, terribile furfante, che faceva tremare lo stesso Chourineur. Uno dei due uomini dal truce aspetto, già descritti (quello che, pallidissimo, nascondeva una mano e teneva abbassato sempre il berretto alla greca sulla fronte) si chinò verso l'Orca, che asciugava con premura la tavola di Rodolphe, e le domandò con voce fioca: "Il Maître non è venuto quest'oggi?" "No" disse comare Ponisse. "E ieri?" "Ieri sì." "Con la sua nuova donna?" "Ehi dico, mi prendi forse per una spia? Per i tuoi imbrogli credi che io voglia denunciare i miei avventori?" reagì l'Orca brutalmente. "Ho un appuntamento questa sera col Maître" ripeté il brigante "abbiamo affari in società." "Devono essere puliti i vostri affari, razza di assassini che non siete altro!" "Assassini?" ripeté l'altro con collera. "Gli assassini sono quelli che ti danno da vivere." "Orsù, lasciami in pace!" urlò la padrona minacciosa, levando su di lui il fiasco che teneva in mano. Il bandito ritornò al suo posto, brontolando. Fleur-de-Marie, entrando nella taverna dell'Orca dietro lo Chourineur, aveva scambiato un cenno di testa amichevole con il giovane dalla faccia smorta. Lo Chourineur disse a quest'ultimo: "Ehi, Barbillon, bevi sempre l'acquavite?" "Sempre! Preferisco digiunare fuori di quaresima e portare ciabatte ai piedi, che stare senza acquavite in gola e tabacco nella pipa" rispose quello, non mutando posizione, e mandando boccate di fumo. "Buonasera, comare Ponisse" disse la Goualeuse. "Buonasera, Fleur-de-Marie" rispose l'Orca, accostandosi alla ragazza per esaminare le vesti che coprivano la sventurata, e che le aveva dato a nolo. Dopo questa ispezione, seguitò a parlare tutta soddisfatta: "È un piacere prestare la roba a te... Sei proprio pulita come un gelsomino... Non avrei mai dato un così bello scialle a delle canaglie come la Tourneuse e la Boulotte. Ma già sono io che t'ho educata, da quando sei uscita dalla gattabuia... E, bisogna essere giusti, non ce n'è una migliore di te in tutta la rue aux Fèves." La Goualeuse abbassò il capo, né parve sensibile agli elogi dell'ostessa. "To'" disse Rodolphe "avete l'olivo benedetto dietro l'orologio?" E additava con la mano il santo ramoscello. "Oh s'ha proprio da campare come i pagani?" replicò l'orribile femmina. Poi, rivolgendosi a Fleur-deMarie, aggiunse: "Dimmi un po', Goualeuse, ci vorrai far sentire qualche canzoncina?" "Dopo cena, comare Ponisse" disse lo Chourineur. "Che vi devo portare, mio galantuomo?" chiese l'Orca a Rodolphe, da cui cercava di farsi benvolere, e anche, all'occorrenza, di accaparrarsi l'appoggio. "Domandatelo allo Chourineur: lui ordina e io pago." "Ebbene, disgraziato, che vuoi per cena?" "Due quartini di vino da dodici soldi, tre pezzi di pane fresco e un "arlecchino"" ordinò lo Chourineur, dopo aver meditato un momento. "Vedo che sei sempre un gran mangione, e che ti dura sempre la passione per gli arlecchini." "Ebbene, Goualeuse, adesso hai fame?" "No, Chourineur." "Vuoi forse qualche altra cosa, piccina mia?" aggiunse Rodolphe. "Oh! no, la fame mi è passata..." "Ma guarda dunque il bel professore!" gridò lo Chourineur con un ridere smodato, accennando Rodolphe. "Non osi nemmeno sbirciarlo?" La ragazza arrossì ed abbassò gli occhi senza rispondere. Poco dopo comare Ponisse venne ad imbandire la tavola di Rodolphe con un boccale di vino, un pane e l'arlecchino, roba di cui tralasciamo di dare un'idea al lettore, e che lo Chourineur trovò appetitosa, poiché esclamò: "Che pazienza, Signore Iddio, che pazienza, è come un "omnibus"! Ce n'è per tutti i gusti, per chi fa di grasso e di magro, per chi gli piace lo zucchero o il pepe... Rigaglie di pollo, code di pesci, ossa di braciole, croste di pasticcio, frittura, formaggio, legumi, teste di beccacce, biscottini e insalata. Ma mangia dunque, Goualeuse... È cucinato come si deve... Hai forse straviziato oggi?" "Oh! sì, straviziato... Ho mandato giù stamani, come al solito, un soldo di pane e un soldo di latte." L'entrata di un nuovo personaggio nella taverna interruppe tutte le conversazioni e fece alzare tutte le teste. Era un uomo di mezza età, robusto e lesto, portava la casacca e il berretto di pelle; perfettamente informato delle usanze del "tapis-franc", adoperò il linguaggio familiare in quel luogo per chiedere la cena. Benché non fosse uno degli avventori consueti, dopo un istante nessuno gli badò più: era stato catalogato. Per riconoscere i loro simili, i furfanti hanno, come i galantuomini, un colpo d'occhio sicuro. Il nuovo arrivato si era collocato in modo da poter osservare i due individui loschi, uno dei quali aveva domandato del Maître d'école. Egli non li perdette più di vista; ma per la loro posizione, quelli non potevano accorgersi della sua attenzione. I discorsi, un momento sospesi, ripresero il loro corso. Lo Chourineur, nonostante la sua solita sfrontatezza, dimostrava grandi riguardi a Rodolphe e non osava dargli del tu: non rispettava le leggi, ma rispettava la forza. "In coscienza" gli disse "benché mi abbiate dato un buon rinfresco, sono contento d'avervi incontrato." "Hai trovato di tuo gusto l'arlecchino?" "Prima di tutto... E poi perché smanio di vedervi azzuffare con il Maître; a lui, che me le ha sempre date, vedergliele dare una volta... Oh! mi ci divertirò." "E credi che per divertirti io voglia avventarmi come un can mastino addosso al Maître?" "No, ma si avventerà su voi appena sentirà dire che siete più forte di lui" rispose lo Chourineur, stropicciandosi le mani. "Ho ancora tanta moneta da dargli la sua paga!" soggiunse Rodolphe indifferente. Poi continuò: "Fa un tempo da cani... Se ordinassimo una tazza d'acquavite con lo zucchero, forse metterebbe in condizione la Goualeuse di farci sentire la sua voce..." "Io ci sto" disse lo Chourineur. "E per far conoscenza ci racconteremo chi siamo" aggiunse Rodolphe. "L'albino, soprannominato lo Chourineur, forzato liberato, facchino scaricatore di legna sul ponte di Saint-Paul, intirizzito dal freddo d'inverno, arrostito dal sole in estate, eccovi la mia persona" disse quello, facendo il saluto militare con la mano sinistra. "E voi, caro professore, è questa la prima volta che vi si vede bazzicare per la Cité... Non per farvi un rimprovero, ma ci siete entrato maledettamente indiavolato contro la mia testa e per batter la diana sulla mia pelle. Corpo della luna, che rullo! E specialmente quei colpi finali... Torno sempre a quelli.. Com'erano ben assestati! Ma avrete ben un altro mestiere, oltre quello di dar botte allo Chourineur, no?" "Sono pittore di ventagli! E mi chiamo Rodolphe." "Pittore di ventagli! Per questo dunque avete le mani tanto bianche. Se tutti i vostri compagni di lavoro sono come voi, pare ci voglia forza per questa professione... Ma, giacché siete operaio, e senza dubbio operaio onesto, perché siete venuto in un "tapis-franc" dove non bazzicano che ladri, assassini o forzati usciti di galera, come me, e che non possono andare altrove?" "Vengo qui perché amo la buona compagnia." "Hum!... hum!" esclamò lo Chourineur, tentennando il capo dubbioso. "Vi ho trovato nell'andito di Bras-Rouge; insomma, basta... Voi dite che non lo conoscete?" "Finirai con l'annoiarmi con il tuo Bras-Rouge, che vada in malora il maledetto tanghero!" "Ecco, mio professore, che adesso mostrate di diffidare di me, e non avete torto... A patto che poi m'insegniate a tirare pugni simili a quelli della mia risciacquata... Ci conto." "Ti accontenterò. Mi dirai la tua storia, e anche la Goualeuse dirà la sua." "Sta bene così" rispose lo Chourineur. "Fa un tempo maledetto, da non far star fuori nemmeno gli sbirri... Così ci divertiremo. Che te ne pare, Goualeuse?" "Sì, ma per me non sarà una faccenda lunga" disse Fleur-deMarie. "E poi ci racconterete la vostra, amico Rodolphe" osservò lo Chourineur. "Certamente." "Pittore di ventagli" saltò su a dire la Goualeuse "deve essere un gran bel mestiere!" "E quanto guadagnate a strapazzarvi così?" chiese l'altro. "Sono pagato secondo il lavoro che faccio: le mie giornate migliori vanno a quattro franchi; qualche volta fino a cinque, ma nell'estate, quando le giornate sono più lunghe." "E ve la filate spesso dal lavoro, briccone?" "Sì, finché non mi mancano i "cumquibus": prima di tutto ci vogliono sei soldi ogni notte per dormire." "Scusate, altezza, un alloggio da sei soldi è ancora poco per voi..." ironizzò lo Chourineur ponendo militarmente la mano al berretto. Questa parola "altezza", detta ironicamente, fece sorridere di soppiatto Rodolphe, che replicò: "Oh, io amo i miei comodi e la pulizia." "Uh, che pari di Francia! Che banchiere! Che riccone! Paga sei soldi per dormire." "E poi" continuò Rodolphe "quattro soldi di tabacco fanno dieci; quattro soldi a colazione, quattordici; quindici soldi a desinare; uno o due di acquavite, che fanno circa trenta soldi al giorno. Quindi non ho bisogno di lavorare tutta la settimana; il rimanente del tempo me la godo." "E la vostra famiglia?" domandò la ragazza. "Se l'è portata via il colera" riprese Rodolphe. "Che persone erano i vostri genitori?" chiese ancora lei. "Rigattieri, stracciai sotto le logge delle Halles." "E per questo avete venduto il loro negozio?" riprese lo Chourineur. "Allora ero troppo giovane, l'ha venduto il mio tutore, e quando fui maggiorenne, ho potuto incassare trenta franchi... Ecco la mia eredità." "E il vostro padrone di bottega di adesso?" "Il mio padrone, si chiama Borel, in rue des Bourdonnais; una vera bestia... Ma brutale... ladro... avaro; si farebbe piuttosto levare un occhio che dar la paga ai suoi operai: ecco i suoi connotati. Se mai si smarrisse, lasciatelo perdere, e non riportatelo alla fabbrica. Sono stato fattorino da lui fin dai quindici anni, sto in rue des Juives, al quarto piano verso la strada, e mi chiamo Rodolphe Durand... Eccovi la mia storia." "Ora tocca a te, Goualeuse" disse lo Chourineur "io serbo la mia per il dessert." 3. Storia della Goualeuse. "Cominciamo dal principio" disse lo Chourineur. "Sì... I tuoi genitori?" domandò Rodolphe. "Non li conosco" rispose Fleurde-Marie. "Ah! Ohibò!" disse lo Chourineur. "Né visti, né conosciuti mai: sono nata sotto un cavolo, come si suol dire ai fanciulli." "To' questa è curiosa! Siamo della medesima famiglia..." "Anche tu, Chourineur?" "Orfanello delle strade di Parigi, come te, mia cara." "E chi ti allevò?" le chiese Rodolphe. "Non lo so neppure io... Quello che posso ricordarmi è che avevo, io credo, sette od otto anni, quando stavo con una vecchia guercia che chiamavano la Chouette perché aveva il naso ricurvo come un becco, e un occhio solo, verde e rotondo come quelli delle civette." "Ah!... ah!... ah!... mi par di vederla la Chouette!" esclamò lo Chourineur, ridendo di gusto. "La guercia" riprese Fleur-deMarie "mi mandava a vendere, la sera, pastiglie d'orzo al Pont-Neuf; era una scusa per domandare l'elemosina... Quando non le portavo a casa almeno dieci soldi la Chouette mi picchiava, invece di darmi la cena." "Capisco, povera ragazza! Una pedata per pane e due sberle per companatico." "Eh, sì, purtroppo!" "E sei sicura che quella donna non era tua madre?" le chiese Rodolphe. "Sicurissima di questo; anzi la Chouette mi rinfacciò tante volte di essere senza babbo e senza mamma; mi diceva sempre che mi aveva raccolto in mezzo alla strada." "Sicché" ripigliò lo Chourineur "ti toccavano botte per pietanza quando non facevi dieci soldi d'incasso?" "E un bicchier d'acqua, e mi cacciava a tremare tutta la notte su un paglione buttato per terra, in cui la guercia aveva fatto un buco per ficcarmici dentro... Molti credono che la paglia tenga caldo. Ebbene s'ingannano." "La paglia!" esclamò lo Chourineur. "Hai ragione, figliola, è una vera ghiacciaia; sarebbe meglio coricarsi in una fossa di letame... Ma queste canaglie se ne fregano. Dicono: "È una sporca orfanella, sta bene anche sulla paglia!"." Questa facezia fece sorridere Fleur-de-Marie, che continuò: "La mattina dopo, la guercia mi dava per colazione la stessa porzione che a cena, e mi mandava a Montfaucon a cercar lombrichi per i pesci... Perché di giorno la Chouette metteva banco di lenze sotto il ponte di NotreDame... Per una fanciulla di sette anni, che si sente morire di fame e di freddo, è lontano, sapete, da rue de la Mortellerie a Montfaucon." "Il moto ti ha fatta crescere diritta come un asparago, mia cara; non te ne devi lamentare" osservò lo Chourineur, battendo l'acciarino per accendere la pipa. "Infine tornavo a casa con un cestino pieno di lombrichi. Allora, verso mezzogiorno, mi dava un bel pezzo di pane, e non lasciavo indietro la mollica, te l'assicuro." "Il poco cibo t'ha ridotto la vita sottile come una farfalla; anche di questo non ti devi lagnare" disse ancora lo Chourineur, aspirando rumorosamente due boccate di fumo dalla pipa. "Ma che avete, amico? No, volevo dire professor Rodolphe... Avete un'aria pensierosa... È perché da piccino avete patito la fame? Eh via! Abbiamo avuto tutti la nostra parte di miseria!" "Oh, ti sfido ad essere stato disgraziato come me" ribatté la ragazza. "Dici a me, Goualeuse? Ma mi sembra che tu sia stata una regina al mio confronto! Almeno quando eri piccola, dormivi sulla paglia e mangiavi pane... Io ho dormito le mie migliori notti nei forni da gesso di Clichy, come un vero vagabondo, e mi levavo la fame con foglie di cavolo che raccattavo agli angoli delle strade, come un coniglio; e, più spesso, essendo troppo lungo andare fino alle fornaci di Clichy, poiché la quaresima mi faceva tremar le gambe, mi sdraiavo sulle grosse pietre del Louvre... E d'inverno avevo le lenzuola bianche, quando fioccava una bella nevicata." "Che vuol dire! Un uomo resiste più di una povera bambina" disse Fleur-de-Marie. "Allora ero gracile come un'allodola." "Ti ricordi di questo?" "Lo credo bene; quando la Chouette mi picchiava, io cadevo per terra al primo colpo. Allora si metteva a pestarmi con i piedi urlando: "Furfantella, non ha un mezzo soldo di forza, non è capace di resistere a due scappellotti". E poi mi chiamava la "Pegriotte"; non ebbi altro nome, questo fu il mio battesimo." "Proprio come me" disse lo Chourineur. "Io ebbi il battesimo dei cani randagi, mi chiamavano l'"Albino". È sorprendente come ci somigliamo, figliola." "È vero" soggiunse la Goualeuse, sempre rivolgendosi allo Chourineur, perché aveva vergogna di Rodolphe, e ardiva appena alzare gli occhi, per quanto questi mostrasse appartenere alla sua stessa classe. "E dopo aver cercato lombrichi per la Chouette, che facevi d'altro?" domandò lo Chourineur. "La guercia mi mandava a elemosinare sino a notte, perché la sera andava a friggere sul PontNeuf. Ahimè, a quell'ora il mio tozzo di pane era già smaltito, ma se avevo la disgrazia di chiederle da mangiare mi batteva dicendo: "Fa' mezzo franco di elemosina, e ti darò la cena". Allora io, che avevo fame e che ero spaventata dalle minacce e dalle botte, piangevo come una disperata. La Chouette m'infilava al collo la mia cassetta di pastiglie d'orzo, e mi abbandonava sul Pont-Neuf. Come singhiozzavo! Tremavo dal freddo e dalla fame!" "Sempre come succedeva a me, cara" interruppe lo Chourineur. "Non sembra vero, ma la fame fa proprio tremare come il freddo." "Insomma, stavo sul Pont-Neuf fino alle undici di notte, con la mia piccola scatola al collo e piangendo lacrime disperate. Nel vedermi piangere, spesso quelli che passavano ne erano commossi, e qualche volta mi davano sino a dieci e anche quindici soldi, e io li portavo alla Chouette." "Buona serata per un'allodola!" "Ma eccoti che la guercia, che vedeva questo..." "Con un occhio" interruppe lo Chourineur per far sorridere la Goualeuse. "Con un occhio, se vuoi, giacché ne aveva uno solo... Ed ecco che prende l'abitudine di darmi sempre delle botte prima di mettermi a chiedere la carità sul Pont, per farmi piangere davanti a chi passa, e così aumentare l'incasso della serata." "Non era una sciocca!" "Sì, pare così a te, Chourineur? Ho poi finito con l'abituarmi anche ai colpi: mi accorgevo che inviperiva quando non piangevo, e io, per vendetta, più mi maltrattava e più ridevo, e la sera invece di singhiozzare vendendo le pastiglie, cantavo come un'allodola, benché non avessi proprio voglia d'aprir bocca." "Dimmi, delle pastiglie d'orzo, ne avrai ben avuto gola, eh, poveraccia?" "Oh, figurati! Non ne avevo mai assaggiate; erano tra le cose più desiderate, e quella smania mi rovinò. E adesso sentirai in che maniera. Un giorno che ritornavo dall'essere stata a cercar lombrichi alcuni monelli mi avevano picchiata e rubato il panierino. Vado a casa, sapevo quello che m'aspettava... Ricevo la solita paga e niente pane. La sera, prima di andare al Pont-Neuf, la guercia, infuriata perché il giorno innanzi non avevo fatto neppure un soldo, invece di darmi botte come il solito, per farmi piangere, mi martirizza a sangue strappandomi i capelli dalle tempie, dove è più doloroso." "Accidenti, questo è troppo!" gridò l'ex forzato, battendo il pugno forte sulla tavola e aggrottando le sopracciglia. "Battere una bambina, passi, ma martirizzarla così, è troppo!" Rodolphe, che aveva ascoltato attentamente il racconto della ragazza, guardò stupito lo Chourineur; lo sorprendeva quel lampo di sensibilità. "Che cos'hai, amico?" gli domandò. "Che cos'ho! che cos'ho! Come, non vi fa niente, niente a voi, quella maledetta, quella Chouette che martirizza questa poverina? Siete dunque duro di cuore come di pugno?" "Continua, figliola" disse Rodolphe a Fleur-de-Marie, senza rispondere alle osservazioni dell'altro. "Sicché vi dicevo che la Chouette mi strappava i capelli perché piangessi. Questo m'indispettisce, e, per farla disperare, mi metto a ridere e me ne vado sul Pont con la mia merce. La guercia era alla sua padella... Di tratto in tratto mi mostrava i pugni. Allora, invece di piangere, io cantavo più forte... Con tutto ciò, avevo una fame, una fame! Da sei mesi maneggiavo le pastiglie d'orzo e non ne avevo mai assaggiata una... Che volete, quella sera non potei trattenermi... Un po' la fame, un po' per far arrabbiare la Chouette, ne prendo una e me la metto in bocca." "Brava, Goualeuse!" "Ne mangio due." "Bravissima! Viva l'abbondanza!" "Madonna, se erano buone! Ma ecco che una che vendeva le melarance, si mette a gridare alla guercia: "Ohé, Chouette... la Pegriotte si mangia tutta la tua bottega!"." "Oh, fulmini, la cosa si fa seria" esclamò lo Chourineur, interessato in modo singolare. "Poverina, chi sa che tremito, eh, quando la guercia s'accorse delle pastiglie." "Come ne sei poi uscita, ragazzina?" chiese Rodolphe, interessandosi quanto l'altro. "Madonna mia, se mi costò fatica! Quello che era bello a vedere" aggiunse Fleur-de-Marie ridendo a quel ricordo "era la Chouette che si rodeva il cuore nel vedermi ingoiare la sua roba. Non poteva abbandonare la padella, perché il fritto bolliva..." "Ah!... ah!... ah!... Bellissimo! Lì era il "busillis" della guercia" esclamò lo Chourineur, smascellandosi dalle risa. Anche la Goualeuse condivise l'ilarità del suo compagno, poi continuò: "In coscienza, pensando alle botte che m'aspettavano a casa, dissi tra me e me: "Tanto vale! Non ne piglierò di più per tre che per una". Prendo la terza, e prima di metterla in bocca, siccome la vecchia mi minacciava da lontano con il suo forchettone di ferro, così, com'è vero questo piatto, le faccio vedere la sua pastiglia d'orzo e me la metto in bocca." "Brava, piccina... Adesso capisco la forbiciata di poco fa... Animo, animo! Te l'ho già detto, tu hai del coraggio. Ma la guercia deve averti scorticata viva dopo quell'azione." "Terminato di friggere, come un'indiavolata mi viene incontro... Avevo fatto tre soldi di elemosina e avevo mangiato per sei... Quando mi prese per mano per condurmi a casa, mi parve di cadere morta dalla paura. Mi ricordo come fosse adesso, appunto era verso i primi giorni dell'anno. Tu sai, ci sono sempre delle botteghe di ninnoli sul Pont Neuf; tutta la sera mi ero confusa la testa, solamente a guardare le belle bambolette, le casine... Figurati per una bimba..." "Eh, non avevi avuti mai dei balocchi, Goualeuse?" "Io? Come sei sciocco, Chourineur! E chi me li poteva dare? Insomma finisce la serata. Benché nel rigore dell'inverno, non avevo che un cencio di gonnella, non calze, non camicia, solo un paio di zoccoli! Non avevo da patire il caldo, ti pare? Eppure, quando la guercia mi prese per mano, fui tutta un sudore. Quello che mi spaventava di più era che, invece di strillare, di bestemmiare, la Chouette borbottava fra i denti per tutta la strada. Soltanto non mi lasciava libera, e sgambettava così frettolosamente, che con le mie piccole gambe mi toccava correre per poterle tener dietro. Correndo, avevo perduto uno zoccolo, e non osavo aprir bocca; così l'ho seguita con il piede nudo... Quando arrivai a casa mi sanguinava." "Che cagna d'una guercia!" gridò lo Chourineur, battendo di nuovo il pugno sulla tavola. "Mi dà una sensazione terribile il pensare a questa povera creatura che trottava dietro a quella vecchiaccia ladra, con il suo piedino insanguinato." "Stavamo in una soffitta in rue de la Mortellerie; accanto al portone c'era un liquorista: la Chouette entrò, tenendomi sempre per mano, e bevve mezza caraffa di acquavite al banco." "Accidenti, non la berrei io senza ubriacarmi come una bestia." "Era la sua dose di tutte le sere, e per questo andava sempre a letto cotta come un Sileno... Forse per tal motivo mi batteva sempre. Si va di sopra; il cuore mi voleva saltar fuori dal petto, te lo dico io. Siamo in cima; la Chouette mi fa entrare con lei, poi chiude l'uscio a doppio giro di chiave; io mi lascio cadere ginocchioni, chiedendole perdono delle pastiglie che le avevo mangiate. Lei non mi risponde, e la sento mormorare mentre cammina per la stanza: "Che le farò, questa sera, a questa Pegriotte, a questa ladra delle mie chicche di zucchero? Pensiamo che cosa conviene farle". E si fermava a guardarmi, e girava intorno l'occhio verde... Io sempre là in ginocchio. Tutto a un tratto va verso un armadio e prende un paio di tenaglie." "Tenaglie?" ripeté lo Chourineur. "Sì, tenaglie." "E per farne che?" "Per batterti?" domandò Rodolphe. "Per dartele sulle dita?" "Eh sì, altro..." "Per strapparti i capelli?" "Non lo indovinate. Vi date per vinti?" "Io sì." "Ci arrendiamo." "Per cavarmi un dente!" Lo Chourineur cacciò fuori una tal bestemmia, e l'accompagnò con imprecazioni così sfrenate, che tutti gli avventori della taverna si volsero stupefatti. "Che ti salta in capo?" domandò la Goualeuse. "Cos'ho? La strozzerei se l'avessi qua, quella guercia! Dov'è? Dimmelo, dov'è? Se la trovo l'ammazzo." E così dicendo gli occhi dell'antico galeotto s'iniettarono di sangue. Rodolphe era inorridito al pari di lui per la crudeltà della guercia, ma non poteva capacitarsi per quale fenomeno uno che era stato in galera per omicidio si infuriasse nell'udire che una vecchia aveva voluto, per malvagità, strappare un dente ad una bambina. "E te lo cavò il dente, l'infame, eh, povera piccina?" domandò Rodolphe. "E come, e non al primo colpo! Mio Dio, come ho patito! Mi teneva la testa fra le ginocchia come in una morsa. Infine, metà con le tenaglie, metà con le dita, me lo cavò e poi mi disse, certo per farmi paura: "Ora te ne strapperò così uno per giorno, Pegriotte; e quando non ne avrai più uno in bocca ti annegherò nel fiume e sarai mangiata dai pesci, e così si vendicheranno di te che sei andata a cercare i lombrichi per farli prendere". Mi ricordo di questo, perché mi parve tanto ingiusto... Come se ci fossi andata per divertirmi a far tante miglia!" "Ah, la maledetta guercia! Levare, strappare i denti a una bambina della tua età!" gridò lo Chourineur, raddoppiando ira. "E che importa? Non ci se ne accorge neppure, vedi?" disse Fleur-de-Marie. E schiuse a metà, sorridendo, le sue labbra porporine, mostrando due file di piccoli denti bianchi come perle. Era noncuranza, oblio, generosità naturale in quella infelice? Rodolphe notò che nel suo racconto non c'era una parola d'odio contro la scellerata che l'aveva tanto torturata. "E dopo, che cosa hai fatto?" tornò a dire lo Chourineur. "Oh, ne avevo abbastanza! L'indomani, invece d'andare a cercare lombrichi scappai verso il Pantheon; camminai tutto il giorno da quelle parti, tanto avevo paura della Chouette. Avrei voluto poter correre fino in capo al mondo piuttosto che ricadere sotto le sue unghie. Intanto che camminavo in quei quartieri fuori mano, non incontrai anima viva a cui chiedere l'elemosina, e poi non avrei ardito. La notte, dormii in una legnaia sotto le cataste. Ero grossa come un topo: cacciandomi dentro la vecchia porta, mi aggomitolai sopra un mucchio di cortecce. Avevo così fame che provai a masticare un po' di corteccia, ma non riuscii che a biascicare un po' di betulla, che è la più tenera. Quando Dio volle, mi addormentai. Sul far del giorno, sentendo rumore, mi nascosi ancora più sotto le cataste di legna. Faceva caldo come in una cantina. Se avessi avuto da mangiare, non avrei potuto trovar miglior luogo da passarvi l'inverno." "Proprio come me nelle fornaci del gesso." "Non osavo uscir fuori, immaginando che la Chouette mi cercasse dappertutto per strapparmi i denti, gettarmi ai pesci, e che avrebbe saputo raggiungermi quando fossi uscita di là." "Senti, non mi parlar più di quella maledetta, mi fai montare il sangue agli occhi!" "Alla fine della seconda giornata, avevo ancora masticato un po' di corteccia di betulla e ricominciavo a pigliar sonno, quando sentii abbaiare un grosso cane. Mi svegliai di soprassalto. Tesi l'orecchio... Il cane abbaiava ancora avvicinandosi alla catasta. Ecco che mi prende un'altra paura. Fortunatamente la bestia, non so perché, non osava farsi avanti... Ma adesso riderai, Chourineur." "Già, con te c'è sempre da ridere... Sei una brava ragazza, in coscienza. Vedi, ora mi dispiace averti picchiata." "Perché non dovevi picchiarmi? Se non ho chi mi difenda..." "E me non mi conti?" esclamò Rodolphe. "Siete troppo buono, signor Rodolphe, ma lo Chourineur non sapeva che voi eravate là, ed io nemmeno..." "Fa lo stesso, sono proprio davvero dolente d'averti dato quegli schiaffi." "Continua a narrare" pregò Rodolphe. "Stavo dunque rannicchiata sotto la catasta, quando sento abbaiare un cane. Mentre questo latrava, una grossa voce si mette a dire: "Il mio cane abbaia! C'è qualcuno nascosto nella legnaia!", "Saranno ladri" riprese un'altra voce... E, "Psi! Psi!", ecco che aizzano il mastino, gridando: "Dagli! dagli!" L'animale mi corre addosso: avendo paura che mi morda, mi metto a urlare con quanta voce avevo in gola. "Senti" dice uno "paiono le grida d'un bambino." Richiamano il cane, vanno a prendere un lanternino ed io, saltata fuori dalla mia tana, mi trovo in faccia ad un omaccione e ad un giovane in camiciotto. "Che fai tu qui ladruncola?" mi chiese l'uomo grosso con un'aria minacciosa. "Mio buon signore, non ho mangiato da due giorni; sono scappata da casa della Chouette, che m'ha strappato per forza un dente e voleva darmi da mangiare ai pesci; non sapendo dove riposare, sono entrata in questa porta e ho passato qui la notte su quel mucchio di cortecce, sotto quelle cataste di legna, non credendo di far male a nessuno." Ma ecco che il magazziniere si mette a dire al suo garzone: "Non mi fido delle sue ciarle! È una ladruncola che è venuta per rubare qualche fascina"." "Ah, che imbecille! che buffone!" urlò lo Chourineur. "Portargli via una fascina, tu che avevi otto anni!" "Era una sciocchezza... Perciò il giovane gli rispose: "Come può derubarvi la piccina, padrone, se è più piccola delle più piccole delle vostre tavole di legno?". "Hai ragione" disse il negoziante "ma se non è qui per conto suo, fa lo stesso. I ladri usano appunto questi bambini per spiare o per aprir la porta a quelli che devono venire... Bisogna condurla dal commissario."" "Oh, che asino di magazziniere!" "Mi portano dal commissario. Io gli spiattello tutto. M'incolpo d'essere una vagabonda, mi si manda in prigione. Infine il tribunale mi condanna a stare fino a sedici anni in una casa di correzione. Ho ringraziato di cuore i giudici della loro bontà... In prigione avevo da mangiare, non mi si batteva più, era pur sempre un paradiso per me in confronto alla soffitta della Chouette. Di più, in carcere ho imparato a cucire. Ma ecco il gran male! Ero pigra e sbadata ed avevo più gusto a cantare che a lavorare, soprattutto quando vedevo il sole... Oh, quando faceva bel tempo nel cortile, non potevo far a meno di cantare... E allora, curioso questo, a forza di cantare mi pareva di non essere più prigioniera." "Vuol dire, ragazza mia, che sei un vero usignolo fin dalla nascita" disse Rodolphe sorridendo. "Troppo gentile, signor Rodolphe. È da molto tempo che mi chiamano la Goualeuse, anziché la Pegriotte. Finalmente arrivo ai sedici anni, esco di prigione... Sulla porta incontro l'Orca di qui, e due o tre vecchiacce che erano venute qualche volta a trovare le mie compagne detenute, e mi avevano sempre detto che il giorno che fossi stata libera, mi avrebbero trovato del lavoro." "Ah, bene, bene, capisco" esclamò lo Chourineur. ""Mia gioia, mio bell'angiolino, mia piccina" mi dissero l'Orca e quelle vecchie "volete venire a stare con noi? Vi daremo dei bei vestiti, e non dovrete far altro che divertirvi..." Capisci, Chourineur, che non si sta otto anni in carcere senza imparare ciò che volevano dire. Io le mando al diavolo, quelle vecchie laide. Dico tra me: "So ben cucire, ho trecento franchi da parte, la gioventù..."" "E che bella gioventù, mia cara!" aggiunse lo Chourineur. "Erano otto anni che ero in prigione; volevo godermi un po' la vita... Questo non fa danno a nessuno... Il lavoro sarebbe venuto poi, quando fossero mancati i denari... E mi metto a far saltare i miei trecento franchi. Questo fu il mio errore" esclamò Fleur-de-Marie con un sospiro. "Avrei dovuto prima di tutto farmi assumere in qualche bottega a lavorare... Ma non c'era nessuno che mi desse un buon consiglio... Ma, adesso è inutile pensarci! Ormai quel che è fatto è fatto... Mi metto dunque a far saltare i miei soldi. Comprai fiori da ornare il davanzale della mia finestra... Amo tanto i fiori! E poi comprai anche un vestito, un bello scialle, e me ne andai a spasso al Bois de Boulogne, a Saint-Germain, sul somaro." "Con un moroso?" domandò lo Chourineur. "In coscienza, no... Volevo essere padrona di me. Facevo quelle passeggiate con una mia compagna di prigione che era stata all'Orfanotrofio, una buonissima ragazza; la chiamavano Rigolette, perché rideva sempre." "Rigolette... Rigolette!... Non mi dice niente questo nome" disse lo Chourineur, come uno che cerchi raccogliere i suoi ricordi. "Credo bene che non la conosci! È molto onesta, Rigolette, è una brava operaia; ora si guadagna almeno venticinque soldi al giorno; ha una casa sua... E per questo non ho mai avuto coraggio d'andarla a trovare. In conclusione, a forza di far saltare i franchi, me ne rimasero in mano solo quarantatré." "Potevi comperare un fondaco di merceria!" "Invece, feci anche meglio!... Avevo per lavandaia una donna che si chiamava Lorraine, un angelo di bontà! Era incinta negli ultimi mesi, eppure stava sempre con i piedi e le mani nell'acqua del lavatoio! Giudica tu. Non potendo più lavorare, aveva chiesto di entrare all'ospizio, ma non essendovi più posti, l'avevano respinta. Non guadagnava più niente. Eccola vicina a partorire, senza che avesse neppure da pagare un letto in una locanda! Fortunatamente incontro, una sera, in principio del ponte di Notre-Dame, la moglie di Goubin, che da quattro giorni si nascondeva nella cantina di un edificio in demolizione, dietro l'ospedale." "Perché si nascondeva di giorno la moglie di Goubin?" "Per salvarsi da suo marito, che la voleva ammazzare, usciva solamente la notte per andare a procacciarsi il pane. Fu così che potei aiutare la povera Lorraine, che non sapeva più dove battere la testa, perché si aspettava di partorire da un momento all'altro... Vedendo questo, la portai nella cantina dove si nascondeva la donna di Goubin. Almeno era un ricovero." "Aspetta, aspetta! La moglie di Goubin non è l'Helmina?" domandò lo Chourineur. "Sì, una brava persona" rispose la Goualeuse "era sarta ed ha lavorato per me e la Rigolette... Insomma condivise l'alloggio, la sua paglia e il suo pane con Lorraine, che mise al mondo là sotto un bambino. Ma nemmeno una coperta! Niente altro che paglia! La Goubin non resse più a quella vista; a costo di farsi assassinare dal marito, che la cercava per mare e per terra, s'arrischiò ad andar fuori di giorno e venne a trovarmi. Sapeva che io avevo qualche soldo da parte, e che non ero di cuore cattivo. Appunto, stavo per montare in carrozzella con Rigolette; dovevamo dar fine ai miei quarantatré franchi, farci portare in campagna, in mezzo al verde... Amo tanto i campi, gli alberi... i prati... Ma, che vuoi! Appena l'Helmina mi racconta la disgrazia della Lorraine, licenzio la carrozza, corro sopra in camera a pigliar quel che avevo di biancheria, il mio materasso, la mia coperta, faccio caricar tutto sulle spalle di un facchino, e volo alla cantina con la Goubin... Ah, bisognava vedere la contentezza della povera Lorraine! La vegliammo insieme io e l'Helmina, e quando si poté alzare, l'aiutai con il resto delle mie poche monete, sino che fu in grado di ritornare al suo lavatoio. Adesso si guadagna da vivere, e non mi riesce di fare il conto dei bucati che le devo! Vedo che vuole compensarmi in questa maniera! Ma, se continua, sarò obbligata a cambiare lavandaia" disse seria la Goualeuse. "E l'Helmina?" domandò lo Chourineur. "Come! Non lo sai?" "No, che c'è?" "Poverina! Goubin mantenne la parola!... Tre coltellate nella schiena!... Gli avevano detto che l'avevano vista nei dintorni dell'ospedale; e una sera, che era andata a cercare un po' di latte per la Lorraine, la uccise." "Per questo dunque è condannato alla forca, e farà, a quanto dicono, il balletto fra otto giorni" osservò lo Chourineur. "Precisamente." "E quando donasti tutto ciò che avevi alla Lorraine, poi che facesti?" chiese Rodolphe. "Allora cercai da lavorare. Sapendo cucire, mi feci coraggio, presi una decisione: entrai in una bottega di biancheria in rue SaintMartin. Per non ingannar nessuno dissi che ero uscita di carcere da due mesi e che avevo buona volontà di lavorare; mi si mostrò la porta. Pregai di darmi del lavoro da farsi a casa; mi risposero che ero un'insolente, pensando che mi avrebbero potuto affidare anche una camicia sdrucita. Mentre me ne andavo tutta dolente, incontrai l'Orca e una di quelle vecchie, che mi stavano sempre d'attorno dopo la mia uscita di prigione... Non sapevo proprio più come vivere... Mi condussero con loro, mi fecero bere dell'acquavite ed ecco che..." "Capisco" disse lo Chourineur "ormai ti conosco come se fossi tuo padre e tua madre, e non avessi mai abbandonato il focolare di casa. Ebbene, questa è una specie di confessione." "Si direbbe, mia povera ragazza, che ti dispiace aver raccontato la tua vita" disse Rodolphe. "È che sento un dispiacere qui dentro, nel guardarmi indietro nella vita; dalla mia infanzia, questa è la prima volta che mi avviene di ricordare tutte queste cose in un fiato... E non sono cose da farmi felice... Non è vero, Chourineur?" "Oh, sì" disse costui con ironia "ti rincresce non essere stata sguattera in un'osteria o serva in casa di qualche vecchiaccia per aver cura delle sue bestie..." "Non importa... Dev'essere tanto bello mantenersi onesta" disse Fleur-de-Marie, con un sospiro. "Onesta! Oh che sciocca!" gridò lo Chourineur, con uno scoppio di risa. "Onesta!... E perché non addirittura una santa verginella, per far onore al babbo e alla mamma, che non conoscevi?" Dal volto della ragazza da qualche istante era sparita quell'aria d'indifferenza che le era propria, e rispose: "Senti, Chourineur, io non sono di quelle che sembra abbiano le lacrime in tasca... Mio padre e mia madre m'hanno gettato in un angolo della strada come un cagnolino; io non serbo loro nessun rancore; forse non avranno avuto da mantenersi neppur essi. Senza far piagnistei, posso dire che vi sono delle persone che hanno più fortuna di me." "Ma che ti manca? Sei bella come una Venere, hai diciassette anni, canti melodie come un usignolo, hai l'aria d'una vergine, il nome di Fleur-de-Marie... e ti lamenti! Ma dunque che dirai quando ti toccherà stare con lo scaldino sotto i piedi e una cuffiaccia in testa, come la vecchia dell'Orca?" "Oh, non arriverò mai a quell'età." "Hai forse un brevetto per non invecchiare?" "No, ma non posso continuare una vita simile! Ho già una tosse maligna!" "Ah sì! Mi par di vederti nella cassa, con i preti a cantarti dietro il "Miserere". Sei pure sciocca, sai!" "Ti prendono spesso queste idee?" domandò Rodolphe. "Qualche volta... Ecco, signor Rodolphe, voi capirete facilmente questo: la mattina, quando vado a comprare il mio soldo di latte dalla lattaia all'angolo della rue de la Vieille-Draperie, e la vedo che se ne ritorna nel suo carrettino tirato da un asinello, mi fa invidia, che volete... Dico fra me: "Lei se ne va in campagna, all'aria buona, in casa sua, dalla sua famiglia e io mi alzo tutta sola dal canile dell'Orca, dove non c'è luce neppure a mezzogiorno..."" "Ebbene, sii onesta, figlia mia, anche per scherzo, sii onesta!" disse lo Chourineur. "Onesta? Mio Dio! E come vuoi che io sia onesta? Gli abiti che porto sono dell'Orca; le devo alloggio e vitto... Non posso muovermi di qua... Mi farebbe arrestare come una ladra... Io le appartengo anima e corpo... Bisogna che soddisfi i miei obblighi..." Nel pronunciare queste ultime ed orribili parole, l'infelice fu presa da un tremito di raccapriccio. "Allora stattene come sei, e non ti paragonare più ad una campagnola" ribatté l'ex galeotto. "Sei matta forse? Non pensi che tu brilli nella capitale, e quella se ne va a far la pappa ai suoi marmocchi, munger le mucche, coglier l'erba per i conigli, e pigliarsi le botte dal marito quando torna ubriaco dall'osteria. Ecco una di quelle fortunate che possono vantarsi d'essere oneste!" "Da bere, Chourineur" disse bruscamente Fleur-de-Marie dopo un lungo silenzio; e porse il suo bicchiere. "Vino no, acquavite, è più forte" aggiunse con la sua dolce voce, rifiutando il fiasco di vino che l'altro avvicinava al suo bicchiere. "Acquavite? Da brava dunque! Così mi piaci di più, allegra!" gridò il bandito, senza comprender bene l'intenzione della ragazza, e senza accorgersi delle lacrime che a quelle parole le scendevano dagli occhi. "Peccato che l'acquavite faccia tanto male, perché scaccia i cattivi pensieri" osservò la sventurata, riponendo sulla tavola il bicchiere, che aveva vuotato con ripugnanza e disgusto. Rodolphe aveva ascoltato il doloroso racconto con immenso interesse. La miseria, l'abbandono, più che la cattiva inclinazione, avevano perduto quella miserabile e giovane creatura. 4. Storia dello Chourineur. Il lettore non avrà dimenticato che due degli avventori del "tapisfranc" erano attentamente osservati da un terzo individuo da poco capitato nella bettola. Uno di quei due uomini, come abbiamo già accennato, aveva il berretto alla greca, teneva nascosta la mano sinistra, ed aveva più volte domandato all'Orca se mai fosse venuto il Maître d'école. Durante il racconto della Goualeuse, che essi non potevano udire, entrambi si erano diverse volte parlati a voce bassa, guardando ansiosi verso la porta. Quello con il berretto disse al compagno: "Il Maître non viene; purché compare Squelette non se ne sia sbarazzato per rubargli la sua parte." "Questo sarebbe un bel colpo per noi, che abbiamo preparato il furto!" rispose l'altro. L'ultimo venuto, che li osservava, era troppo lontano per udire le loro parole; dopo avere più volte e di soppiatto esaminato un foglietto nascosto in fondo al suo berretto di pelle, parve soddisfatto dei suoi appunti: si alzò dal tavolo e disse all'Orca, che pisolava davanti al banco, con i piedi sullo scaldino e il gatto nero sulle ginocchia: "Ohé, comare Ponisse! Vado e torno subito; bada al mio boccale e al mio piatto... perché non c'è troppo da fidarsi." "Sta' tranquillo, mio bel galantuomo" disse la padrona "se il piatto e il fiasco sono vuoti, nessuno te li tocca." Quegli si mise a ridere dello scherzo dell'Orca e sparì senza che alcuno gli badasse. Nel momento stesso in cui usciva, Rodolphe distinse sulla strada il carbonaio dalla statura colossale, di cui abbiamo già parlato; e, prima che la porta fosse rinchiusa, Rodolphe ebbe tempo di manifestargli con un gesto d'impazienza quanto gli fosse importuna la sua protezione, ma l'altro non per questo si mosse dai dintorni del "tapis-franc". La Goualeuse, malgrado l'acquavite tracannata, non riacquistava il suo brio; anzi per effetto di questo eccitante, ripiombava nella maggiore tristezza. Con le spalle appoggiate alla parete, la testa china sul seno e i grandi occhi azzurri, che guardavano senza espressione qua e là, la sventurata sembrava accasciata dai più tetri pensieri. Due o tre volte, incontrando lo sguardo fermo di Rodolphe, aveva distolto gli occhi. Non sapeva spiegare a se stessa l'impressione che le causava quello sconosciuto. Colpita, messa in soggezione dalla sua presenza, si rimproverava di mostrare così poca gratitudine verso colui che l'aveva liberata dalle mani dello Chourineur; le rincresceva perfino d'aver così sinceramente raccontato la sua vita davanti a Rodolphe. All'opposto, lo Chourineur si trovava al colmo dell'allegria; da solo aveva divorato l'"arlecchino"; il vino e l'acquavite lo rendevano più loquace che mai; la vergogna di aver incontrato il suo maestro, come diceva, si era dileguata davanti alle generose maniere di Rodolphe: riconosceva in lui una tale superiorità, che all'umiliazione provata sul principio subentrava adesso un sentimento misto di ammirazione, di timore e di rispetto. La mancanza in esso d'ogni rancore, la selvaggia franchezza con cui confessava d'aver ucciso ed essere stato giustamente punito, il feroce orgoglio con cui sosteneva di non aver mai rubato, indicavano almeno che, nonostante i suoi delitti, non era un uomo del tutto incallito nella colpa. Questa distinzione non era sfuggita alla sagacità di Rodolphe che aspettava con curiosità la storia dello Chourineur. L'ambizione è di per sé così insaziabile e bizzarra nelle infinite sue pretese, che Rodolphe avrebbe desiderato l'arrivo del Maître d'école, di quel terribile brigante, spodestato dal trono. Esortò quindi il compagno ad appagare la propria impazienza con il racconto delle sue avventure. "Su dunque, mio caro" gli disse "noi ti ascoltiamo." Lo Chourineur vuotò il suo bicchiere, e cominciò così: "Tu, mia povera Goualeuse, tu almeno fosti raccolta dalla Chouette, che il diavolo l'accechi! Tu hai avuto un covile fino al momento in cui t'hanno imprigionata come vagabonda... Io invece non mi ricordo di avere toccato qualche cosa di simile a un letto prima dei diciannove anni... Bella età in cui mi feci soldato." "Sei stato militare?" domandò Rodolphe. "Tre anni; ma questo verrà dopo le pietre del Louvre, le fornaci di Clichy e le cave di pietra di Mont-Rouge, ecco gli alberghi dove ho passato la mia gioventù. Come vedete, avevo casa a Parigi ed in campagna, nientemeno." "E che mestiere facevi?" "Eh, professore mio... Ho la vaga idea di aver fatto il vagabondo da bambino con un vecchio cenciaiolo che mi accoppava a colpi di rampone. E bisogna che sia vero, perché non ho mai incontrato uno di quei cupidi con il turcasso di giunchi, senza che non mi sia sentito il prurito nelle unghie di dargli addosso: prova che qualcuno di loro mi deve aver bastonato, quando ero piccolo. Mio primo mestiere fu aiutare a macellare i cavalli a Montfaucon... Avevo dieci o dodici anni. Sul principio squartare quelle vecchie bestie mi ripugnava un po'; dopo un mese non ci pensavo più; al contrario, acquistavo interesse per la professione. Non c'era un altro che avesse coltelli affilati e arrotati bene come i miei... Davano proprio il piacere di adoperarli!... Dopo che avevo scannato uno di quegli animali mi gettavano in pagamento un pezzo di qualche cavallo morto di malattia, giacché quelli a cui si era tagliata la gola si vendevano agli osti del quartiere delle Scuole di Medicina, che li trasformavano in bue, o montone, o vitello, o selvaggina, secondo i gusti delle persone... Appena avevo ricevuto la mia fetta di cavallo, neppure il re era più contento di me! Scappavo con questa roba alla fornace, come un lupo che se ne va alla sua tana; e lì, con il permesso dei fornaciai, improvvisavo sui carboni un arrosto stupendo. Se questi non lavoravano, allora correvo a raccattare legna fino a Romainville, battevo l'acciarino e cucinavo l'arrosto tra due pietre. Faceva sempre sangue ed era crudo: ma non mi capitava così tutti i giorni." "E il tuo nome? Come ti chiamavano?" chiese Rodolphe. "Avevo i capelli più simili al colore della stoppa di adesso, il sangue mi andava sempre agli occhi, e per questo mi chiamavano l'Albino. Gli albini sono come i conigli bianchi della razza umana, e hanno appunto gli occhi rossi" soggiunse gravemente lo Chourineur, osando questa parentesi fisiologica. "E i tuoi genitori, la tua famiglia?" "I miei genitori? Alloggiati allo stesso numero di quelli della Goualeuse... Il luogo di nascita? Il primo angolo di non so quale strada, sul muricciolo a destra o a sinistra, di qua o di là del rigagnolo." "Hai mai maledetto tuo padre e tua madre perché ti abbandonarono?" "Ne avrei avuto un bel vantaggio!... Ma basta, mi hanno reso un gran bel servizio mettendomi al mondo... Non mi lamenterei se mi avessero fatto come si deve, e come sarebbe bene che li obbligasse a fare noi poveri. Quello lassù, cioè senza freddo, né fame, né sete, che allora non dureremmo tanta fatica a conservarci galantuomini." "Tu hai patito fame, freddo, e non hai mai rubato?" "No! E ne avevo della miseria addosso! Basta, non ci pensiamo più... Ho digiunato fino a due giorni di seguito, e, posso giurarlo, non ho rubato." "Per paura della prigione?" "Oh, tutt'altro!" fece lo Chourineur alzando le spalle e sghignazzando. "Non dovevo rubar pane per paura d'avere del pane?... Galantuomo, morivo di fame, ladro, mi avrebbero mantenuto in carcere! No, non rubai perché... perché... insomma, perché non sta nel mio modo di pensare essere ladro." Questa risposta veramente bella e di cui lo Chourineur non valutava tutto il peso, colpì assai Rodolphe. Egli pensò che il povero, che si conservava galantuomo fra le più crudeli privazioni, era doppiamente rispettabile, perché la punizione del delitto poteva diventare per lui una risorsa. Stese pertanto la mano a quell'infelice selvaggio della nostra civiltà, che la miseria non aveva del tutto perduto. Lo Chourineur guardò Rodolphe con stupore, e quasi con rispetto; osò appena toccare la mano che gli porgeva. Presentiva che fra lui e il suo compagno esisteva un'immensa distanza. "Bene, bene" gli disse Rodolphe "tu hai ancora cuore ed onore." "Eh, non saprei" soggiunse l'altro commosso "quel che ora mi dite... vedete... non avevo mai pensato altrettanto... Quello che so di certo, è questo... che i pugni in testa che mi avete rifilato, così ben architettati, avrebbero potuto durare fino a domani, mentre invece mi pagate la cena... e mi fate certi discorsi... Basta, per la vita e la morte, potete contare sullo Chourineur." Rodolphe seguitò, ma con freddezza, per non fargli capire l'emozione che provava: "Rimanesti molto tempo ad aiutare quel macellaio?" "Certo che sì... In principio mi dispiaceva scannare quelle povere vecchie bestie, poi vi presi gusto. Ma quando fui vicino ai sedici anni, oh, allora divenne per me una mania, una passione quella di squartare! Avrei fatto a meno di mangiare e di bere... Non pensavo ad altro! Bisognava vedermi al lavoro: tutto nudo, tranne un vecchio paio di pantaloni di tela. Quando, con il mio coltello ben affilato in mano, avevo intorno (non per vantarmi) fino a quindici o venti cavalli che aspettavano il mio coltello... Fulmini! Quando mi mettevo a sgozzarli, non so che cosa mi prendeva... Ero come una furia, mi ronzavano le orecchie! Vedevo rosso, tutto rosso, e ammazzavo... ammazzavo sino a che il coltello mi cadeva dal pugno! Fulmini, che soddisfazione! Se fossi stato milionario avrei pagato per far quel mestiere." "Di là ti sarà venuta l'abitudine ad uccidere" osservò Rodolphe. "Può darsi, ma, quando ebbi sedici anni, quella mania finì con il diventare così terribile che, una volta entrato in vena, ero come matto, non badavo più a nulla, rovinavo perfino le pelli a forza di vibrar coltellate. Un giorno mi hanno licenziato dal macello. Ho tentato di impiegarmi presso qualche beccaio, perché sentivo tanta inclinazione per quel mestiere... Ma mi hanno rifiutato, anzi rimbrottato come farebbero i calzolai ai ciabattini. Vedendo questo, ed essendomi un poco passata in vari anni la gran mania di squartare, cercai qualche altro lavoro. Non lo trovai però subito, e mi toccò digiunare spesso. Mi misi finalmente a lavorare nelle cave di pietre di Mont-Rouge. Però dopo due anni ero stufo di arrampicarmi come uno scoiattolo sulle strade a tirar su pietre per venti soldi al giorno. Ero grande e forte, mi arruolai in un reggimento. Mi hanno chiesto il nome, l'età, le carte. Il mio nome? L'Albino! La mia età? Guardate la barba! Le mie carte? Ecco il ben servito dello scavatore. Potevo essere un buon granatiere, e mi presero." "Con la tua forza, il tuo coraggio e la tua mania di uccidere, se in quel tempo ci fosse stata la guerra, avresti potuto diventare ufficiale." "Fulmini, che dite adesso! Fare a pezzi inglesi e prussiani mi sarebbe piaciuto ben di più che ammazzar le cavalle... Ma vedete la sfortuna, la guerra non c'era, e la disciplina sì. Un fattorino prova a dare una bastonata al suo maestro di bottega, va bene: se è più debole, la riceve, se è più forte, la dà: lo licenziano, qualche volta va in carcere, e non c'è altro. Nel militare, è cosa diversa. Un giorno il mio sergente mi rimbrottò per farmi camminare più in fretta; aveva ragione, perché io camminavo di malavoglia. Lui mi infastidisce, io disubbidisco; mi dà un urtone, io glielo rendo; mi afferra per il collo, e io gli appioppo uno schiaffo. Tutti corrono contro di me; allora mi prende la rabbia, il sangue mi monta agli occhi, vedo tutto rosso... Avevo il coltello alla mano, ero di servizio alla cucina, e avanti! Mi metto a sgozzare... a sgozzare... come al macello. Stendo morto il sergente, ferisco due soldati!... Una vera carneficina! Undici coltellate fra quei tre, sì, undici!... Sangue, sangue come in un mattatoio!" L'ex forzato abbassò il capo pensoso e fiero, e rimase un momento in silenzio. "A che pensi?" gli domandò Rodolphe, osservandolo con premura. "A nulla, a nulla!" rispose brusco. Poi con la sua brutale noncuranza continuò: "Finalmente riescono a prendermi, mi mettono sotto processo, e sono condannato a morte." "Ti sei dunque salvato?" "No, ma stetti quindici anni in galera, invece di essere giustiziato. M'ero scordato di dirvi, che quando ero nel reggimento avevo ripescato due carcerati, che stavano annegando nella Senna; noi eravamo di guarnigione a Melun. Adesso dovrete ridere, e dire che sono un anfibio da fuoco e da acqua, salvatore degli uomini e delle donne! Un'altra volta dunque, che ero di guarnigione a Rouen, tutte case di legno, vere cascine, s'appicca il fuoco ad un quartiere... Uomini e donne bruciavano come zolfanelli, io sono mandato sul luogo dell'incendio. Arriviamo al fuoco; mi si dice che una povera vecchia non può più scendere dalla sua camera, che comincia ad andare in fiamme; io corro. Fulmini, quelle erano fiamme!... Mi vennero in mente le fornaci, dove avevo passato i primi anni; in sostanza, salvo la vecchia. Il mio avvocato rimestò tanto con i piedi, con le mani e con la lingua, che mi fece commutare la pena. Invece di andare al ballo della corda, ebbi quindici anni di collegio forzato. Quando seppi che non mi si doveva uccidere, la mia prima idea fu di saltare addosso a quell'asino chiacchierone per strozzarlo. Voi mi capite, mio caro professore?" "Ti dispiaceva che ti fosse commutata la pena?" "Sì... Per chi adopera il coltello è giusta la mannaia; per chi ruba, ferri alle zampe! A ciascuno il suo. Ma obbligarvi a vivere, quando avete assassinato, credete, i giudici non sanno che effetto produce nei primi tempi." "Dunque tu provi dei rimorsi?" "Rimorsi! No, perché ho espiato la mia condanna, ma prima non passava notte che non mi venisse l'affanno, e mi pareva di vedere i fantasmi del sergente e dei soldati, che avevo tolto dal mondo... Cioè non erano soli" soggiungeva lo Chourineur con una specie di terrore "erano a decine, a centinaia, a migliaia aspettando ciascuno a chi sarebbe toccato, come in una specie di mattatoio, come i cavalli di Montfaucon anche questi aspettavano che li sgozzassi. Allora vedevo rosso, e cominciavo a vibrar colpi..., colpi micidiali su quegli uomini, come altre volte sui cavalli. Ma, più uccidevo soldati, e più ne comparivano. Nel morire poi mi guardavano con aria così dolce, che mi maledicevo di averli uccisi; ma non potevo farne a meno. Né era tutto... Non ho mai avuto un fratello e cominciai a pensare che tutti quelli che scannavo fossero appunto miei fratelli..., fratelli, che, se ne avessi avuti, mi sarei buttato nel fuoco per loro. Finalmente mi destavo sconvolto, bagnato di un sudore freddo, come se mi si fosse squagliata addosso la neve." "Certamente era un sogno sinistro." "Oh, sì, eppure nei primi tempi della galera, tutte le notti, facevo quel sogno. C'era da impazzire e da arrabbiarsi come un cane. E due volte ho tentato di ammazzarmi; la prima ingoiando verderame, l'altra strozzandomi con una catena. Ma sono robusto come un toro. Il verderame mi diede sete e tutto terminò lì; quanto alla catena che mi ero messa al collo mi ha fatto una cravatta naturale turchina. Poi l'abitudine di vivere prese il sopravvento, i miei fantasmi divennero più rari, e feci come tutti gli altri." "Eri a una buona scuola per imparare a rubare." "Sì, ma non ne avevo l'inclinazione. Gli altri galeotti mi burlavano per questo, ma io li battevo a colpi di catena. Fu in tal modo che conobbi il Maître d'école... tanto di cappello ai suoi pugni! Mi diede la paga, come voi me l'avete favorita stasera." "Era dunque un forzato, e fu liberato?" "Cioè era forzato a vita, e si liberò da sé." "È evaso? E nessuno lo denuncia?" "Non sarò certo io a denunciarlo: non vorrei aver l'aria di temerlo!" "Come mai la polizia non lo scopre? Non hanno i suoi connotati?" "Connotati? Da un pezzo si è fatto sparire quelli che gli aveva dato Domineddio. Adesso non c'è altro che il diavolo che possa riconoscerlo, il Maître d'école." "E come ha fatto?" "Ha cominciato con accorciarsi il naso, che aveva lungo una spanna, poi si è sfigurato il viso con il vetriolo." "Eh via, tu scherzi!" "Se capita questa sera lo vedrete: aveva un naso che assomigliava al becco d'un pappagallo, ora l'ha camuso come quello della morte, senza contare le labbra grosse quanto un pugno, ed un viso olivastro così ricucito come il giubbone d'un cenciaiolo." "È ridotto a tal punto da non essere riconoscibile?" "Da sei mesi che è evaso da Rochefort, le spie l'hanno incontrato cento volte senza riconoscerlo." "Perché si trovava al bagno penale?" "Per falsificazione, furto e omicidio. Lo chiamano il Maître d'école perché ha una bella scrittura, e sa molte cose." "È così terribile?" "Non lo sarà più quando gli avrete data una salsa come quella che avete favorito a me. Fulmini, sarei curioso di vedere una tal scena!" "Che fa per vivere?" "Dicono che si vanta d'aver ucciso e svaligiato, tre settimane fa, un mercante di buoi sulla strada di Possy." "Presto o tardi l'arresteranno." "Bisogna che siano più di due per agguantarlo, perché porta sempre sotto il camiciotto due pistole e uno stilo. Mastro "Stricch", il boia, lo aspetta; la sua volta verrà. Ma prima di darsi vinto, ne ammazzerà tanti. Oh, non lo nega, e, siccome è robusto due volte me e voi insieme, ci sarà da fare a tenerlo stretto." "E, uscito dal bagno penale, che hai fatto, Chourineur?" "Sono andato a propormi al capofacchino scaricatore sul ponte di Saint-Paul, e mi guadagno il pane." "Ma, poiché, in realtà, non sei un ladro, perché stai nei quartieri della Cité?" "E dove volete che abiti? Chi vorrebbe mettersi in compagnia con uno che è stato condannato ai lavori forzati? E poi da solo mi annoio; amo la società, e qui trovo appunto della gente mia pari. Qualche volta mi azzuffo... Mi temono come il fuoco, nella Cité; il commissario non ha nulla da dire su di me, se non per le baruffe che ogni tanto mi mandano per ventiquattr'ore in gattabuia." "E quanto guadagni al giorno?" "Trentacinque soldi. Ciò durerà finché avrò braccia; quando non ne potrò più prenderò un uncino e un cestino, ossia una faretra di giunchi all'uso del vecchio cenciaiolo, che mi par sempre di vedere nella nebbia della mia infanzia." "Con tutto questo non sei disgraziato!" "Ci sono di quelli che stanno peggio di me, di sicuro; senza i maledetti sogni del sergente e dei soldati che ho ucciso, sogni che faccio ancora spesso, potrei finir la mia vita tranquilla come ogni altro cristiano in un angolo d'una strada o all'ospedale; ma quei sogni... vedete... corpo di Dio... Mi fa pena il solo pensarci." Così dicendo lo Chourineur vuotò la cenere della sua pipa su un angolo del tavolo. La Goualeuse lo aveva ascoltato distratta, e pareva assorta in dolorose meditazioni. Anche Rodolphe rimaneva pensoso. Le due storie che aveva udito risvegliavano in lui un mucchio di idee nuove. Un incidente tragico venne a ricordare ai nostri tre personaggi in quale luogo si trovavano. 5. L'arresto. L'uomo che era uscito un istante, dopo aver raccomandato all'Orca il suo fiasco e il suo piatto, ritornava accompagnato da un altro dalle larghe spalle e dall'aspetto imponente, il quale disse: "Oh! che miracolo, Borel, incontrarsi così! Vieni, beviamo un bicchiere di vino." Lo Chourineur mormorò piano a Rodolphe ed alla Goualeuse, additando il nuovo avventore: "Potrebbero esserci dei guai!... Quello è uno spione. Attenti!" I due banditi, uno dei quali, con il berretto alla greca, aveva domandato più volte notizie del Maître d'école, si scambiarono un'occhiata rapidissima, si alzarono da tavola, e si avviarono verso la porta; ma i due agenti di polizia si serrarono loro addosso, con un segnale particolare. S'impegnò una lotta terribile. Si aprì la porta del "tapisfranc", si riversarono nella taverna altri poliziotti e di fuori si videro luccicare i fucili dei gendarmi. Approfittando del tumulto, il carbonaio, del quale abbiamo parlato, s'affacciò alla soglia della bettola, e, avendo incontrato lo sguardo di Rodolphe, si mise l'indice della mano destra sul labbro. Rodolphe, con un gesto pronto e imperioso, gli ordinò d'allontanarsi, poi continuò a osservare quanto accadeva nel "tapis-franc". Il bandito con il berretto alla greca urlava per la rabbia d'essere preso; mezzo disteso sulla tavola, si dibatteva così disperatamente, che a stento in tre potevano tenerlo fermo. Il suo compagno, abbattuto, livido in volto, con le labbra bianche e la mascella inferiore agitata da un tremito, non oppose resistenza, ma porse spontaneamente i polsi alle manette. L'Orca, seduta al suo banco, avvezza a simili scene, stava impassibile, con le mani nelle tasche del suo grembiule. "Cosa hanno fatto quei due, caro signor Borel?" domandò ad uno degli agenti di polizia, da lei conosciuto. "Hanno assassinato ieri una vecchia in rue Saint-Christophe, per vuotarle la stanza. La disgraziata, prima di chiudere gli occhi, ha detto di aver morso uno degli assalitori in una mano. Si son messi gli occhi su questi due malandrini; il mio compagno è venuto qui poco fa per assicurarsi dell'identità, ed eccoli presi." "Fortuna che mi hanno pagato anticipatamente la foglietta" disse l'Orca. "Volete prender nulla, signor Borel? Un bicchierino di "perfetto-amore", di "consolacuori"?" "Grazie, comare Ponisse, bisogna che io metta in gabbia questi due bei tomi. Eccone là uno che fa ancora il bullo!" Infatti, il malandrino dal berretto alla greca si dibatteva rabbiosamente, e quando fecero per trascinarlo in un "fiacre" che stazionava nella via, si difese con tale violenza che fu necessario portarcelo a forza. Il suo complice, assalito da un tremito nervoso, si reggeva a mala pena; muoveva meccanicamente le labbra violacee come se parlasse... Lo gettarono, come corpo morto, nella vettura. "Ohé, comare Ponisse" raccomandò il poliziotto "non vi fidate di Bras-Rouge; è una volpe, e potrebbe compromettervi." "Bras-Rouge? Sono settimane che non capita da queste parti, signor Borel." "Questo è ovvio, quando è in un posto nessuno lo vede... Voi lo sapete pure... Ma non ricevete nulla da lui in custodia o in consegna né pacchetti, né oggetti di qualsiasi specie: sarebbe tener mano alla roba rubata." "Dormite tranquillo, signor Borel, ho più paura di Bras-Rouge che del demonio. Non si sa dove vada, né da dove venga. L'ultima volta che venne a trovarmi, mi raccontò che era tornato dalla Germania." "Dunque, io vi ho avvertita... Persona avvisata..." "Non sono mica una bambina" troncò a mezzo la frase la Ponisse. Prima di lasciare il "tapis-franc", il poliziotto squadrò uno per uno gli altri avventori, e disse allo Chourineur, in tono quasi affettuoso: "Anche tu, qui, briccone? È da tempo che non si sente parlare di te! Non hai più attaccato baruffe? Metti forse giudizio?" "Giudizio quanto occorre, signor Borel: sapete che io non rompo il muso se non a chi mi stuzzica." "Non mancherebbe che questa, che tu provocassi gli altri, forte come sei!" "Eppure, ecco il mio professore, signor Borel" soggiunse lo Chourineur, posando la mano sulla spalla di Rodolphe. "Non lo conosco costui" disse il poliziotto fissando due occhi indagatori sul finto pittore di ventagli. "E nemmeno faremo conoscenza, amico" replicò Rodolphe. "Meglio per voi, giovanotto" disse l'altro. Quindi, voltosi a salutare l'Orca: "Buonasera, comare Ponisse: è una vera trappola questo vostro "tapisfranc", ecco il terzo assassino che vi arresto." "Spero che non sia l'ultimo, signor Borel; siamo sempre a vostra disposizione" rispose graziosamente la losca ostessa, con un inchino ai complimenti del poliziotto. Uscito quello, il giovane con il viso color di piombo, che fumava sorseggiando l'acquavite, riempì di tabacco la pipa e domandò con voce rauca allo Chourineur: "Non hai riconosciuto quello con il berretto alla greca? È Velù, il marito della Boulotte. Quando ho visto entrare i famigli, ho subito detto tra me: gatta ci cova. Tanto più che l'amico badava a tener nascosta la mano sinistra sotto il tavolo." "È stata una vera fortuna per il Maître d'école non trovarsi qui" osservò l'Orca. "Quello con il berretto l'ha cercato più volte per certi affari che devono avere insieme... Ma io non voglio tradire i miei avventori. Che li arrestino, va bene, ma io non li vendo... To', a battere i panni compare la strega" aggiunse la trista femmina, vedendo un uomo e una donna entrare nella bettola. "Eccoli tutti e due, marito e moglie." Tutti gli occhi si volsero alla porta del "tapis-franc", e in ognuno serpeggiò un gelo di terrore. Anche Rodolphe, malgrado il suo naturale coraggio, non poté frenare una leggera emozione in presenza di quel terribile masnadiero, e lo squadrò per qualche minuto con curiosità mista a ripugnanza. Lo Chourineur aveva detto la verità; il Maître era sfigurato nel modo più orribile. Non si poteva neppure sognare un ceffo più spaventoso del volto di quel galeotto. Aveva il viso solcato per ogni verso da profonde e livide cicatrici; il vetriolo aveva gonfiato le sue labbra; essendo state tagliate le cartilagini del naso, c'erano due buchi deformi al posto delle narici. Gli occhi grigi, chiarissimi, assai piccoli e rotondi, saettavano sguardi feroci; la fronte, piatta come quella della tigre, spariva per metà sotto un berretto di pelle, di un pelo lungo e rossiccio che pareva la criniera d'un mostro. Il Maître non era più alto di cinque piedi e due o tre pollici; la testa, grossa fuor di misura, era come incassata fra due spalle larghe, grosse, robuste e grasse, che si delineavano anche sotto le pieghe del camiciotto di tela greggia; aveva le braccia lunghe e muscolose, le mani corte, grosse e villose fino alle estremità delle dita; le gambe erano un po' arcuate, ma due polpacci enormi denotavano la forza atletica di questo mastino. Quell'uomo rappresentava, in una parola, l'esasperazione di quanto vi può essere di più corto e vigoroso sul modello dell'Ercole Farnese. Quanto all'espressione di crudeltà che traluceva da quella mostruosa faccia, quanto allo sguardo irrequieto, errante, ardente come quello d'una belva del deserto, non è possibile descriverli. La donna che l'accompagnava era vecchia, vestita di stoffa scura, con uno scialle a quadretti rossi e neri, e la cuffia bianca. Rodolphe la vedeva di profilo: l'occhio verde e rotondo, il naso ricurvo come il becco d'un uccello rapace, le labbra sottili, il mento in fuori, e un'espressione astuta e malvagia, gli ricordarono la Chouette. Si accingeva a comunicare una tale osservazione alla Goualeuse, quando volgendo gli occhi a quella disgraziata la vide impallidire. Fleur-de-Marie guardava atterrita la schifosissima ganza del Maître; quindi stringendo con la mano tremante il braccio di Rodolphe, gli disse a voce bassa: "La Chouette! Mio Dio, la Chouette... la guercia!" In quel momento, il Maître dopo aver detto sommessamente alcune parole a un avventore del "tapis-franc", si avvicinava alla tavola dove sedevano Rodolphe, la Goualeuse e lo Chourineur. Allora, rivolgendosi a Fleur-deMarie, con una voce chioccia e fessa che aveva del selvaggio: "Eh" le disse "bella biondina, adesso lascerai questi barboni e verrai via con me..." La disgraziata non ebbe fiato di rispondergli, le battevano i denti dallo spavento e si accostò di più a Rodolphe. "Ed io... non sarò gelosa" aggiunse l'orribile guercia, ridendo a quello scherzo del suo uomo. Non aveva ancora riconosciuto nella Goualeuse, la Pegriotte, l'antica sua vittima. "Su vieni! Non m'intendi, o fai orecchio da mercante?" gridò quel mostro, facendo un altro passo avanti. "Se non ti muovi, ti pesto tanto da farti un occhio solo, come la Chouette. E a te, signorino dai mustacchi..." disse a Rodolphe "se non mi fai passare questa biondina di sopra la tavola, ti strappo il panciotto..." "Dio mio, Dio mio, difendetemi!" esclamò la Goualeuse, stendendo le mani supplici a Rodolphe. Poi, riflettendo che lo avrebbe esposto a un gran pericolo, riprese con voce più bassa: "No, no, non vi muovete: se si avvicina, chiamerò aiuto, e, per timore di uno scandalo che faccia accorrere la polizia, l'Orca prenderà le mie parti." "Sta' tranquilla figliola" disse Rodolphe, fissando intrepido quel brutto ceffo. "Tu sei al mio fianco, né ti muoverai di qui; e siccome quel laido animale fa schifo a te e a me, in un momento, lo porto in strada..." "Tu?" urlò il Maître. "Io!" replicò Rodolphe. E, malgrado gli sforzi della Goualeuse per trattenerlo, si alzò dalla tavola. L'altro rinculò d'un passo all'aspetto minaccioso dello sconosciuto. Fleur-de-Marie e lo Chourineur furono anch'essi colpiti dell'espressione di collera, di furore diabolico che, in un momento, apparve sul nobile volto del loro compagno; non lo si riconosceva più. Nella sua zuffa con lo Chourineur s'era mostrato sprezzante e dileggiatore, ma davanti al Maître, sembrava colto da un odio feroce, e le sue pupille, dilatate dal furore, lampeggiavano sinistre. Ci sono certi sguardi che hanno un potere magnetico, irresistibile. Molti maestri di duello devono, si dice, i loro sanguinosi trionfi al fascino delle loro pupille, che sbigottisce e annienta i loro avversari. Rodolphe aveva appunto quello sguardo fisso, penetrante, terribile, inevitabile... Sguardo che turba, soggioga coloro su cui si posa, che essi sentono quasi fisicamente, e malgrado ciò, non se ne sanno distaccare. Il Maître trasalì, indietreggiò ancora un passo, e dubitando per la prima volta della propria forza, corse con la mano a cercare sotto il camiciotto il manico del suo pugnale. Certamente un omicidio avrebbe insanguinato quella sera il "tapis" della Ponisse, se la Chouette, afferrando il suo feroce amante per un braccio, non avesse gridato: "Un momento, un momento, lasciami dire una parola... Poi mangerai quei due musi in un boccone, e non temere che ti scappino..." Il Maître guardò con stupore la guercia. Costei frattanto osservava la Goualeuse con la massima attenzione, tentando di raccogliere le sue memorie. Finalmente non ebbe più nessun dubbio: la sciagurata riconobbe la Goualeuse. "Possibile!" urlò, giungendo le mani per la sorpresa. "Ma questa è la Pegriotte, la ladra delle pastiglie. Ma da dove ti sei stanata? È dunque Belzebù che ti manda!" aggiunse mostrando i pugni alla giovane. "È destino che tu debba sempre capitar sotto le mie unghie? Sta' sicura, se non ti strappo i denti, ti caverò dagli occhi tutte le lacrime che hai in corpo. Ora sì che ti darò pan per focaccia! Tu non te lo figuri? Conosco i tuoi parenti... Il Maître ha visto nel bagno penale quello che ti consegnò a me quand'eri piccina... Gli ha detto il nome di tua madre... E sono ricconi i tuoi parenti..." "Come, i miei parenti! Voi li conoscete?" esclamò la Goualeuse. "Sì, signorina bella, il mio uomo sa il nome di tua madre... Ma gli strapperei piuttosto la lingua prima di lasciarglielo dire... Anche ieri ha visto quell'uomo che ti portò nella mia cuccia, perché nessuno pagava più sua moglie, che t'aveva tenuta a balia... Le premeva assai di te, alla tua mamma; aveva più caro che avessi tirato le cuoia... Ma fa lo stesso, se tu sapessi il suo nome, potresti fargliele pagare tutte, la mia bella bastarda. L'uomo che t'ho detto, ha in mano le carte che cantano chiaro... sì, Pegriotte. Egli ha le lettere di tua madre, e se non se ne serve, è perché ha le sue buone ragioni... Eh, via struggiti pure adesso, piangi, Pegriotte... Ma no, non la conoscerai tua madre, non la devi conoscere..." "Ormai preferisco che mi creda morta" disse la povera ragazza, asciugandosi gli occhi. Rodolphe, dimenticando un istante il Maître, aveva ascoltato con attenzione lo strano racconto della Chouette. Intanto il galeotto, non essendo più dominato dallo sguardo del compagno dello Chourineur, aveva ripreso coraggio. Non poteva capacitarsi che quel giovane, di statura piccola e svelta, fosse in grado di misurarsi con lui. Confidando nella sua erculea forza, si avvicinò al difensore della Goualeuse, dicendo con autorità alla Chouette: "Mi hai infinocchiato abbastanza di chiacchiere! Voglio sfigurare questo bellimbusto, e rompergli il grugno, perché la bella biondina mi trovi più bello di lui!" D'un salto Rodolphe fu dall'altra parte della tavola. S'udì un fracasso. "Badate ai miei piatti!" gridò l'Orca. Il Maître si mise in guardia, le mani avanti, il corpo indietro, ben fermo sulle sue robuste reni, e, per così dire, piantato sulle sue gambe che parevano due colonne di pietra. Nel momento in cui Rodolphe gli si avventava così furioso addosso, fu aperta violentemente la porta e il solito carbonaio, un colosso d'uomo alto sei piedi, entrò all'improvviso, spostò con un urto il Maître, si accostò a Rodolphe, dicendogli all'orecchio: "Mio signore, Tom e Sarah... Sono in fondo alla via." A queste misteriose parole, Rodolphe fece un movimento di collera, gettò un luigi sul banco dell'Orca e corse alla porta. Il Maître tentò di contrastargli il passo; ma egli, voltandosi, gli affibbiò in mezzo alla faccia due pugni così ben assestati, che quel toro sbalordito, vacillò, e cadde di peso sopra una panca. "Acqua di nespole! Riconosco la musica dell'ultimo ballo" esclamò lo Chourineur. "Ancora un'altra lezione come questa, e diventerò anch'io maestro..." "Riavutosi dopo pochi minuti, il galeotto si lanciò ad inseguire Rodolphe. Questi era sparito con il carbonaio nell'oscuro labirinto delle strade della Cité, ed era impossibile raggiungerlo. Nell'istante in cui il Maître ritornava, spumando di rabbia, due uomini venendo dalla parte opposta a quella per cui era andato Rodolphe, si precipitarono dentro la bettola, trafelati come se avessero fatto una lunga corsa. Il primo loro movimento fu di sbirciare intorno ed esaminare la taverna. "Maledizione" disse uno "c'è sfuggito ancora!..." "Pazienza!" suggerì l'altro. "I giorni sono di ventiquattr'ore, e la vita è lunga." Entrambi parlavano inglese. 6. Tom e Sarah. I nuovi venuti appartenevano a un ceto assai più elevato di quello dei soliti avventori della taverna. Uno di essi, alto e aitante nella persona, aveva i capelli quasi canuti, le sopracciglia e le fedine nere, il viso magro e bruno, l'espressione fosca e burbera. Portava al cappello un velo crespo, il soprabito nero abbottonato sino al collo e, sopra i pantaloni di panno bigio attillati, aveva certi stivali, che un tempo si chiamavano alla Suwarov. Il suo compagno, di bassa statura, vestito in gramaglie, era pallido, ma bello. La lunga chioma, le sopracciglia e le pupille d'un nero cupo facevano risaltare il pallore del suo volto; dal portamento, dalla statura, dalla delicatezza dei lineamenti si distingueva facilmente che era una donna travestita da uomo. "Tom, fate portar da bere, e domandate di lui a quella gente" ordinò Sarah, sempre in inglese. "Sì, lasciate fare a me" rispose l'uomo dai capelli bianchi e dalle nere sopracciglia. E, sedutisi a un tavolo, mentre la donna si tergeva la fronte, disse all'Orca in buonissimo francese e senza alcuna pronuncia forestiera: "Signora, fateci dare qualche cosa da bere, per favore." L'ingresso di quei due nella bettola aveva suscitato una grande attenzione; il loro abbigliamento e le maniere li distinguevano dagli abituali frequentatori di simili osteriacce, e dalla fisionomia inquieta e dall'aria premurosa s'indovinava che erano venuti per motivi eccezionali. Lo Chourineur, il Maître e la Chouette li guardavano con avida curiosità. La Goualeuse, ancora sbigottita per l'incontro con la guercia, spaventata dalle minacce del Maître che la voleva condurre con sé, approfittò della poca attenzione di quei due miserabili, scivolò lentamente fino alla porta, rimasta mezza aperta, e scappò fuori da quel pandemonio. Lo Chourineur e il Maître, data la loro rispettiva situazione, non avevano interesse ad attaccare nuove risse. L'Orca, sorpresa dall'arrivo di quei singolari avventori, condivideva l'attenzione generale. Tom le disse, per la seconda volta, con impazienza: "Vi abbiamo, signora, domandato da bere: vi prego, favoriteci qualche cosa." Comare Ponisse, sensibile a tale cortesia, si alzò dal suo posto e venne ad appoggiarsi alla tavola di quei signori. "Volete" disse a Tom "un litro di vino, o una bottiglia sigillata?" "Dateci una bottiglia di vino, bicchieri e acqua." L'ostessa servì subito; Tom le porse cinque franchi, e ricusando il resto che stava per dargli, le disse: "Tenete questo per voi, mia buona ostessa, e accettate con noi un bicchiere di vino." "Troppo garbato il signore" rispose la padrona della taverna, guardando Tom con più sorpresa che gratitudine. "Ditemi un poco" riprese l'altro "avevamo fissato l'appuntamento con un nostro amico in un'osteria di questa strada; non vorremmo aver sbagliato." "Qui è il Coniglio Bianco, per servirla, signore." "Appunto" continuò Tom, facendo un segno d'intesa a Sarah. "Sì, è appunto al Coniglio Bianco che ci doveva aspettare." "Non ce ne sono mica due di Conigli Bianchi in tutta la strada!" saltò su a dire l'Orca con orgoglio. "Ma, scusate se v'interrogo, com'è il vostro amico?" "Alto e magro, capelli e baffi color castano chiaro" e Tom diede i connotati di Rodolphe. "Aspettate, aspettate, è quello di poco fa... Un carbonaio grande come un gigante è venuto a parlargli, e sono usciti insieme." "Sono loro!" esclamò Tom. "Erano soli qui?" chiese Sarah. "Quel carbonaio c'è stato per un momento, ma l'altro, il vostro amico, ha cenato qui, con la Goualeuse e lo Chourineur." E l'Orca, così parlando, indicava quello fra i commensali di Rodolphe che era rimasto. Tom e Sarah si diressero allo Chourineur. Dopo alcuni secondi d'esame, la donna disse in inglese al suo compagno: "Conoscete costui?" "No, Karl aveva perduto di vista Rodolphe nell'entrare in queste strade buie. Vedendo Murph, travestito da carbonaio, ronzare attorno alla taverna, e fermarsi a guardare attraverso i vetri, si è insospettito ed è volato ad avvertirmi." Durante questo colloquio, fatto a voce bassa, il Maître parlò in un orecchio alla Chouette: "Quel magruzzo allampanato ha snocciolato cinque bei franchi alla Ponisse. Sarà presto mezzanotte, piove, tira vento; quando escono, li seguiremo; io lo colpirò e gli leverò i denari. È con una donna, e non oserà fiatare." "Se la piccolina grida per chiamar la pattuglia, ho il vetriolo in tasca, e le rompo la boccetta sulla faccia" propose la guercia. "Eh, fa sempre bene dar da bere ai bambini perché non urlino." Poi soggiunse: "La prima volta che troviamo la Pegriotte, la dobbiamo portar via per forza. Quando l'avremo in casa, le sfregheremo un po' la faccia con il vetriolo, così non si pavoneggerà più perché ha un bel viso." "Senti, Chouette, vedo che finirò con lo sposarti" disse il Maître. "Non se ne trova una pari a te per accortezza e coraggio... Già ti giudicai quella notte del mercante di buoi... Ho detto subito: ecco la donna che mi ci vuole, sa far meglio d'un uomo." Dopo aver riflettuto qualche istante, Sarah disse a Tom, indicandogli lo Chourineur: "Se interrogassimo costui su Rodolphe, forse riusciremo a capire perché viene qui." "Proviamo" disse Tom. E, rivolgendosi allo Chourineur: "Galantuomo" gli chiese "dovevamo trovarci con un nostro amico in questa bettola: ha cenato, a quanto ho sentito, con voi; poiché lo conoscete, fateci il favore di dirci se sapete dov'è andato?" "Lo conosco soltanto da due ore per avermi rifilato dei solidi pugni, per difendere la Goualeuse." "E prima non l'avevate mai visto?" "Mai... Ci siamo incontrati nell'andito della casa di BrasRouge." "Ostessa, un'altra bottiglia del migliore con il tappo!" ordinò Tom. Sarah e Tom avevano appena toccato con le labbra i bicchieri, che li ritrassero. La Ponisse, certamente per fare onore alla sua cantina, aveva vuotato il suo più volte. "E ce lo favorirete sulla tavola di questo signore, se ce lo permette" seguitò Tom. Così dicendo andò con Sarah a sedersi accanto allo Chourineur, che fu più sorpreso che soddisfatto di tale gentilezza. Il Maître e la Chouette discorrevano sempre dei loro iniqui progetti. Messa in tavola la bottiglia, Tom e Sarah, in compagnia dello Chourineur e della padrona, che aveva considerato superfluo un secondo invito, proseguirono la conversazione. "Ci dicevate, mi pare, che avete incontrato il nostro amico Rodolphe sotto l'andito della casa di Bras-Rouge?" domandò Tom, bevendo con lo Chourineur. "Sì, caro signore" rispose l'altro, vuotando il suo bicchiere. "Ve', che nome singolare... Bras-Rouge! Che diavolo vuol dire questo Bras-Rouge?" "Fa affari segreti" disse con indifferenza lo Chourineur. Poi soggiunse, volgendosi alla Ponisse: "Buono, per la Barba di Noè, questo gotto, cara comare." "Per questo non dovete lasciar vuoto il vostro bicchiere, amico mio" riprese Tom, mescendogli da bere. "Alla vostra salute" disse egli "ed a quella del vostro giovane amico che... basta... Se mia zia fosse un uomo, sarebbe mio zio, come dice il proverbio... Eh via, bricconcello, so che quel che dico..." Sarah arrossì un poco, ma Tom continuò: "Non ho capito bene quello che mi avete detto intorno a Bras-Rouge. Rodolphe usciva dunque da lui..." "Vi ho detto che Bras-Rouge fa affari segreti." Tom guardò sorpreso lo Chourineur. "Che significa questo "far affari segreti"?" "Ve lo snocciolerò in altre parole: fa del contrabbando! Pare che siate un bambino in quanto a gergo." "Compare, non vi capisco più." "Vi ho detto, che non parlate in gergo come il signor Rodolphe." "Gergo?" ripeté Tom, guardando Sarah in atto di grande meraviglia. "Animo, siete sempliciotti... Ma il compagno Rodolphe è un esperto compare, lui; benché pittore di ventagli, sa darmi lezioni di furbesco... Orsù, giacché non parlate quel bel linguaggio, vi spiattellerò in buon francese che Bras-Rouge è contrabbandiere. Lo dico senza malignità, ma tanto a lui non importa, anzi se ne fa bello davanti agli stessi doganieri... Prendetelo "in castagna" e fermatelo, se potete... È una volpe vecchia che conosce "i suoi ferri", Bras-Rouge." "E che andava a fare Rodolphe da quell'uomo?" chiese Sarah. "In coscienza, signore, o signora, a vostra scelta, io non ne so nulla di questo; vero, com'è vero che mando giù questo sorso di vino. Questa sera volevo picchiare la Goualeuse... Avevo torto, è una buona creatura... Lei si caccia nell'andito di Bras-Rouge, io l'inseguo... Faceva buio come nella bocca del lupo; invece d'acciuffar lei, casco addosso a mastro Rodolphe, che mi dà una salsa di quelle proprio piccanti... Oh, sì, specialmente quei pugni finali... Fulmini! Come erano dispensati in regola! Ma mi ha promesso d'insegnarmi il metodo." "E Bras-Rouge che uomo è?" domandò Tom. "Che sorta di mercanzie vende?" "Bras-Rouge? Subito detto: vende tutto quel che è proibito vendere, fa tutto quello che è proibito fare. Non è così, Ponisse?" "Oh, è un pezzo da sessanta!" esclamò l'Orca. "E come gabba i doganieri" soggiunse lo Chourineur. "Sono scesi più di venti volte nel suo sotterraneo, e non ci hanno mai trovato la capocchia d'un chiodo; e sì che spesso ne vengono fuori intere casse..." "Ingannerebbe il demonio quello!" proseguì l'Orca. "Dicono che abbia un nascondiglio che porta a un pozzo, da cui poi si passa alle catacombe." "Ma non l'hanno trovato mai, il nascondiglio: bisognerebbe demolire le mura dal tetto alle fondamenta per venirne a capo" osservò lo Chourineur. "E a che numero è la casa di Bras-Rouge?" "Numero tredici, rue aux Fèves: Bras-Rouge, mercante di tutto quanto si vuole... È conosciuto in tutta la Cité." "Voglio scrivere questo indirizzo sul mio libricino di memorie" disse Tom. "Se non troviamo Rodolphe, procurerò d'averne informazioni da Bras-Rouge." E scrisse il nome della via e il numero della casa del contrabbandiere. "E potete vantarvi di avere in padron Rodolphe, un amico di valore" disse lo Chourineur "e poi buon figliolo... Senza il carbonaio era lì lì per suonar la diana sul grugno al Maître d'école, che vedete là incantucciato con la Chouette... Fulmini, non so chi mi trattenga dall'andare a rompere la faccia a quella vecchia strega, quando penso a quello che fece patire alla Goualeuse... Ma pazienza, Dio non paga il sabato... Verrà l'ora anche per lei!" "Rodolphe vi ha picchiato, dovreste odiarlo!" disse Sarah. "Io, odiare un uomo che si è comportato così bene! Tutt'altro... Vedete, il Maître d'école mi ha battuto, e farei festa se lo vedessi pendere dalla forca... Il signor Rodolphe m'ha affibbiato dei pugni più forti, eppure a lui sento che non posso voler male: anzi gli voglio bene. Infatti mi sembra che, quasi quasi, mi getterei nel fuoco per lui; e sì che lo conosco solamente da questa sera!" "Voi parlate così, perché sapete che siamo suoi amici, mio caro." "No, fulmini! No, in coscienza... Vedete, tiene in serbo certi pugni per l'ultima portata e non ne insuperbisce, non è più fiero d'un fanciullo; e non c'è che dire, è un maestro, un maestro finito... E poi vi dice certe parole... Cose che vi rimettono l'anima in corpo... Poi se vi guarda, gli brilla qualcosa negli occhi... Vedete, sono stato soldato, e scommetto che, con un capo come quello, capite, si avrebbe il coraggio di dare la scalata alla luna e alle stelle." Tom e Sarah si guardavano in silenzio. "Avrà sempre e dappertutto quell'immensa potenza del suo fascino?" disse questa al suo compagno. "Sì, finché non avremo vinto l'incantesimo" rispose Tom. "Ah, certo, a tutti i costi bisogna..." E Sarah s'interruppe, toccandosi con la mano la fronte, come per scacciarne ricordi di dolore. Suonò la mezzanotte al Palazzo del Municipio. La lampada della taverna era ridotta ad un lucignolo che non dava più luce. Ad eccezione dello Chourineur, dei suoi due commensali, del Maître e della Chouette, tutti gli avventori se n'erano andati uno dopo l'altro. "Adesso ci apposteremo" disse piano il Maître alla Chouette "nel portone di faccia, vedremo quando escono i due agnellini, e terremo loro dietro. Se vanno a sinistra, li aspetteremo sulla cantonata di rue Saint-Eloi; se vanno a destra faremo la posta attorno alle case in demolizione, dalla parte della macelleria. Là c'è una gran buca e il piano è bell'e fatto." Ed egli e la Chouette si disposero ad andarsene. "Non mangiate niente questa sera?" domandò l'Orca. "No, comare Ponisse... Siamo entrati un momento per metterci al coperto dall'acqua" rispose il Maître. Ed uscì con la guercia. 7. O la borsa, o la vita! Al rumore che fece la porta nel chiudersi, Tom e Sarah, distolti dai loro profondi pensieri, accortisi che era tempo di andarsene, si alzarono, ringraziando lo Chourineur dei chiarimenti che aveva loro dato. Questo ispirava ad essi minore fiducia, dacché aveva espresso a suo modo, con franchezza, la propria ammirazione per Rodolphe. Nel momento in cui usciva lo Chourineur, il vento si era fatto più forte, diluviava... Il Maître e la Chouette, appiattati in un andito dirimpetto al Coniglio Bianco poterono vedere lo Chourineur che si allontanava dalla parte della strada dov'era una casa in demolizione. Presto, i suoi passi, un po' pesanti per le frequenti libagioni, si confusero con il sibilo del vento e con lo scroscio della pioggia che flagellava le muraglie. Tom e Sarah abbandonarono la bettola malgrado il cattivo tempo, e presero una direzione del tutto opposta a quella dello Chourineur. "Sono serviti per le feste" disse il Maître alla guercia. "Leva il turacciolo alla tua boccetta e sta' attenta." "Leviamoci le scarpe" consigliò questa "così non ci sentiranno camminare dietro le spalle." "Hai ragione, cara la mia Chouette, hai sempre ragione; io non ci avevo pensato: faremo passi come sul velluto." L'orribile coppia si tolse le scarpe, e si mosse nell'ombra rasente alle case... Con questo stratagemma, non si udiva per nulla il fruscio dei loro passi, e poterono seguire da vicino Tom e Sarah senza paura di essere scoperti: "Per fortuna la nostra carrozza è allo sbocco della via" disse Tom "perché la pioggia ci inzuppa completamente. Non avete freddo, Sarah?" "Forse sapremo qualche cosa dal contrabbandiere, da Bras-Rouge" mormorò la donna, distratta, senza rispondere alla domanda del suo compagno. D'un tratto Tom si fermò. Non era che a pochi passi dall'agguato preparato dal Maître per sorprenderli e spogliarli. "Ho sbagliato strada" disse Tom "bisognava prendere a sinistra uscendo dalla taverna, dobbiamo passare davanti a un edificio in demolizione, per ritrovare la nostra carrozza. Torniamo indietro." Il Maître e la Chouette si nascosero nel vano d'una porta per non esser visti da Tom e da Sarah, che quasi li urtarono con i gomiti. "In sostanza preferisco che vadano verso le rovine" disse adagio il Maître. "Se fanno resistenza so quel che devo fare." Tom e Sarah, dopo essere ripassati davanti al Coniglio Bianco, giunsero presso la casa in demolizione. Essendo già stati demoliti i piani superiori e scoperte le cantine, si era formata una specie di grande e profonda buca lungo la strada. Il Maître balzò dal suo nascondiglio con il vigore e l'agilità d'una tigre, e con le sue larghe mani avvinghiò alla gola Tom, gridandogli all'orecchio: "Qua i denari, o ti getto nella fossa!..." E il galeotto, cacciando Tom all'indietro, gli fece perdere l'equilibrio, e con una mano lo tenne quasi sospeso sull'orlo di quella profonda buca, mentre con l'altra stringeva il braccio di Sarah, come in una morsa. Prima che Tom avesse fatto il minimo movimento, la Chouette lo aveva già frugato con incredibile destrezza. Sarah non gridò, né tentò di difendersi, solo disse con voce calma: "Date loro la vostra borsa, Tom." Quindi rivolta al delinquente: "Noi non grideremo, voi non fateci male." La Chouette, dopo aver frugato scrupolosamente nelle tasche della donna disse: "Vediamo le tue mani, se ci sono anelli... No" brontolò la vecchia malcontenta di non trovarne. "Non hai dunque nessuno che ti regala anelli? Che miseria!" Il sangue freddo di Tom non si smentì in questa scena rapida e improvvisa. "Volete fare un baratto?" propose al malandrino che lo teneva sollevato con una mano. "Il mio portafogli contiene carte che a voi sarebbero inutili, rendetemelo, e domani vi darò venticinque luigi." "Sì, per tenderci una trappola!" rispose il furfante. "Eh via! tira diritto per la strada e non ti voltare. Devi essere contento per un pezzo che te la sei cavata con così poco." "Un momento" soggiunse la Chouette. "Se è un gentiluomo, avrà il suo portafogli, e c'è un mezzo." Quindi domandò a Tom: "Sapete dov'è la spianata di SaintDenis?" "Sì." "Sapete dov'è Saint-Ouen?" "Sì..." "Dirimpetto a Saint-Ouen, in fondo alla rue de la Révolte, corre una bella spianata: attraverso i campi ci si vede da lontano. Veniteci solo, domattina, portate il danaro, e mi ci troverete con il portafogli... Un piccolo scambio, ed è vostro." "Ma, Chouette, ti farà arrestare." "Non sono tanto sciocca! Non è possibile in quel posto, si vede troppo bene da lontano... Ho un occhio solo, ma è buono; se capita con qualcun altro non mi faccio trovare e me la batto." A Sarah venne un pensiero, e disse al malandrino: "Vuoi guadagnare denaro?" "Sì." "Hai visto nella taverna dov'eravamo l'uomo di cui è venuto in cerca il carbonaio?" "Uno magro con i baffi? Sì, stavo per mangiargli un bocconcino di quel suo visetto, ma non me ne ha dato tempo... Mi ha sorpreso con due pugni e mi ha gettato sopra una panca... È la prima volta che mi succede una cosa simile... Oh, mi vendicherò!" "Ebbene, si tratta di lui!" seguitò Sarah. "Di lui!" gridò il Maître. "Datemi mille franchi e lo ammazzo..." "Sarah?!" esclamò Tom con spavento. "Non si tratta di ucciderlo" rimediò in fretta la donna. "No, e di che cosa, dunque?" "Siate puntuali domani sulla spianata di Saint-Denis, ci sarà il mio compagno; vedrete che sarà solo, e vi dirà ciò che dovete fare. Non mille franchi, ma duemila ve ne darò, se riuscirete." "Perbacco!" osservò sottovoce la Chouette parlando con il Maître "c'è da guadagnare un bel gruzzolo; sono persone ricche, che vogliono tirare un colpo a un nemico! Questo nemico è lo stesso birbone che tu volevi schiacciare... Bisogna andarci, cioè andrò io per te... Duemila franchi! Caro il mio uomo, val bene la pena di una passeggiata." "Ebbene, ci verrà la mia donna" disse il Maître "le direte quel che deve fare, e poi vedrò." "Sta bene, domani all'una." "All'una." "Sulla spianata di Saint-Denis." "Intesi." "Fra Saint-Ouen e rue de la Révolte, in fondo alla strada." "D'accordo." "Vi porterò il portafogli." "E avrete i cinquecento franchi promessi, più una caparra per l'altro affare, se sarete ragionevole." "Ora voi prendete a destra e noi a sinistra, ma non ci seguite, perché..." Il Maître e la Chouette si allontanarono solleciti. "Il demonio è venuto ad aiutarci" disse Sarah "quel furfante può esserci utile." "Sarah, adesso ho paura" esclamò Tom. "Io non temo nulla; anzi io spero... Ma, andiamo, andiamo: la vettura non dev'essere distante." E i due nemici di Rodolphe studiarono i passi, dirigendosi verso la piazza di Notre-Dame. Un testimone invisibile aveva assistito a questa scena. Era lo Chourineur, che s'era accovacciato fra le macerie, per ripararsi dalla pioggia. Le proposte di Sarah al Maître, relativamente a Rodolphe, lo interessarono vivamente. Spaventato dal pericolo che sovrastava il suo nuovo amico, provò sommo dispiacere di non poterlo aiutare, e in tale sentimento aveva forse qualche parte l'odio che egli nutriva contro il Maître e la Chouette, l'aguzzina della Goualeuse. Decise di avvertire Rodolphe del pericolo che correva. Ma come riuscirvi? Aveva dimenticato l'indirizzo del sedicente pittore di ventagli. Probabilmente Rodolphe non sarebbe tornato al "tapisfranc". E in tal caso come ritrovarlo? Ruminando simili pensieri, lo Chourineur aveva meccanicamente seguito Tom e Sarah. Li vide salire in una carrozza da nolo posteggiata nella piazza di Notre-Dame. La vettura partì. Balenò un'idea luminosa alla mente dello Chourineur, che saltò a sedere sulla predella, dietro il "fiacre". All'una dopo mezzanotte, la carrozza si fermò sul boulevard de l'Observatoir, e Tom e Sarah sparirono in uno dei tanti vicoli che da qui si diramano. In quel buio fitto non ci si vedeva abbastanza, e lo Chourineur non poteva rilevare alcun indizio che gli servisse a riconoscere il giorno dopo con precisione i luoghi. Con una sagacia veramente straordinaria, trasse di tasca il coltello e fece un taglio largo e profondo a uno degli alberi vicino a cui si era fermato il "fiacre". Poi ritornò sulla strada, da cui si era allontanato per seguire i due nemici di Rodolphe. Per la prima volta dopo tanto tempo, lo Chourineur gustò nella sua stamberga un sonno tranquillo, per nulla interrotto dalle funeste visioni del "macello del sergente", come soleva dire nel suo rozzo linguaggio. 8. La passeggiata. All'indomani, cessata nella notte la pioggia, un magnifico sole d'autunno brillava in mezzo a un cielo sereno e terso; e l'orribile quartiere, dove il lettore ci ha accompagnati, anche se oscurato dall'altezza delle case, pareva meno triste a quella bella luce del giorno. Rodolphe intanto, sia che non temesse più d'incontrare le due persone evitate la sera innanzi, sia che non se ne curasse, entrò verso le undici della mattina nella rue aux Fèves, avviandosi alla bettola del Coniglio Bianco. Era tuttora vestito da operaio, ma con una certa ricercatezza: una blusa nuova, aperta sul petto, lasciava vedere una camicia di lana rossa, chiusa da diversi bottoni d'argento; il colletto d'un'altra camicia di tela bianca era ripiegato sulla cravatta di seta nera, annodata con negligenza; dal berretto di velluto celeste, con la visiera colorata, spuntavano ciocche di capelli castani; stivaletti ben lustrati, invece degli scarponi ferrati della sera precedente, ponevano in rilievo un bel piede, che sembrava ancor più piccolo, sporgendo dai larghi pantaloni color oliva. Questo abbigliamento non nuoceva all'eleganza del suo portamento singolare, vera miscellanea di grazia, forza e agilità. L'Orca se ne stava sulla soglia della bettola, quando Rodolphe vi arrivò. "Buongiorno, giovanotto! Venite a prendere il resto dei vostri venti franchi?" disse con garbo la Ponisse, ricordandosi che il vincitore dello Chourineur le aveva gettato un luigi sul banco. "Vi devo indietro diciassette franchi e dieci soldi... Ma non è tutto qui... Ieri capitò a domandar di voi un signore alto e ben vestito; aveva gli stivali fatti a cuore, come un capo tamburo vestito in borghese, e dava il braccio a una donnetta con gli abiti da uomo. Hanno bevuto due bottiglie di quelle sigillate, con lo Chourineur." "Ah, hanno bevuto con lo Chourineur! E cosa gli hanno detto?" "Dire che hanno bevuto sarebbe una bugia; non hanno fatto altro che bagnarsi le labbra, accostando i bicchieri alla bocca, e..." "Ti domando cosa hanno detto allo Chourineur?" "Gli hanno parlato di diverse cose, e tra le altre di Bras-Rouge, della pioggia e del tempo." "Conoscono Bras-Rouge?" "Al contrario, lo Chourineur ha spiegato loro chi era, e come gli avete dato la paga." "Va bene, non m'importa di queste ciance." "Volete il vostro resto?" "Sì, e condurrò la Goualeuse a passare la giornata in campagna." "Oh, è impossibile, caro giovanotto." "Perché?" "Ci mancherebbe che non tornasse più! I panni che ha indosso sono miei, senza contare che mi deve duecentoventi franchi per finire di saldare il vitto e l'alloggio, dacché l'ho presa in casa. Se non fosse una fanciulla a modo com'è, non la lascerei andare più in là dell'angolo della strada." "La Goualeuse ti deve duecentoventi franchi?" "Duecentoventi franchi e mezzo, né più né meno... Ma che interessa questo a voi, giovanotto? Non mi direte che siete qui per pagarli? Suvvia, non fate il milord!" "Pagati" rispose Rodolphe, gettando sul banco dell'Orca undici luigi. "Quanto valgono le carabattole che le dai a nolo?" La vecchia, strabiliata, esaminava a uno a uno quegli undici luigi, con aria di dubbio e di diffidenza. "Ohé, dico, credi che io spacci moneta falsa? Manda a cambiare quell'oro e finiamola... Quanto valgono dunque le carabattole che dai a nolo a quella disgraziata?" L'Orca, trasecolata, tra la brama di combinare un buon negozio, lo stupore di vedere tanto denaro uscire dalle tasche d'un operaio, e la paura d'essere ingannata, stette un momento in silenzio, poi riprese: "Quella roba vale almeno cento franchi." "Simili ciarpe? Eh via! Tienti gli spiccioli di ieri, e ti darò un altro luigi, ma non il becco di un quattrino di più. Lasciarsi scorticare da te, sarebbe come rubare ai poveri che hanno diritto all'elemosina." "Ebbene, ci accomodiamo subito, caro giovanotto, io tengo la mia roba e la Goualeuse sta in casa; sono padrona di vendere a chi mi pare e piace." "Il diavolo ti arrostisca un giorno secondo i tuoi meriti! Ecco i quattrini; vai, conducimi la Goualeuse." La vecchia intascò le monete, persuasa che quell'operaio avesse commesso un furto, o riscosso un'eredità, e gli disse con un laido sorriso: "Perché, figliolo, non salite voi stesso a chiamare la Goualeuse? Le farà piacere la vostra visita, giacché non mi chiamo più Ponisse se ieri non vi sbirciava per benino!" "Va' a cercarla tu, e dille che la condurrò in campagna... Nient'altro. Soprattutto non deve sapere che ho pagato il suo debito." "Perché?" "Che t'importa saperlo?" "Difatti, non m'interessa; preferisco che si creda sempre sotto la mia protezione." "Non la finirai mai! Vuoi salire una buona volta?" "Oh, che iracondo! Compatisco le persone a cui fate il broncio... Eh via! Vado, vado." E l'Orca salì. Dopo pochi minuti, discese nella taverna. "Non mi voleva credere! Si è fatta rossa in faccia come una brace quando ha saputo che eravate voi... Ma quando poi le ho soggiunto che le davo il permesso di andarsene per tutto il giorno in campagna, ho creduto che diventasse pazza, e per la prima volta in vita sua, è stata sul punto di saltarmi con le braccia al collo." "Era per la felicità di lasciarti." A quel punto entrò Fleur-de-Marie vestita come il giorno prima: la giubba di bordato scuro, lo scialle color arancio annodato alle reni, una pezzuola a quadretti rossi che lasciava scorgere solamente due magnifiche ciocche di capelli biondi. Arrossì nel vedere Rodolphe, e chinò gli occhi confusa. "Volete venire, mia cara, a passar con me la giornata in campagna?" le domandò il finto operaio. "Ben volentieri, signor Rodolphe" rispose "poiché la padrona lo permette." "Ti dò licenza, cuoricino mio, a causa della tua buona condotta, che ti fa onore... Suvvia, dammi un bacio." E la megera porse alla ragazza la vilissima guancia. La giovane, procurando di vincere la propria ripugnanza, accostò la fronte alle labbra dell'Orca, ma Rodolphe con una violenta gomitata respinse la vecchia, prese a braccetto la ragazza, e uscì dalla bettola, accompagnato dalle maledizioni dell'Orca. "Badate, signor Rodolphe" gli disse la Goualeuse "l'Orca è capace di attirarvi qualche maledizione sul capo, è tanto maligna!" "State di buon animo, ragazza mia. Ma che avete? Mi sembrate imbarazzata, malinconica... Vi rincresce forse di venire con me?" "Al contrario... Ma mi avete dato il braccio." "Ebbene?" "Siete un operaio... Qualcuno può riferire al vostro padrone di avervi incontrato con me... Vi potrebbe nuocere. I maestri di bottega non hanno piacere che i loro lavoranti vadano con donne come me." E ritirando dolcemente il suo braccio da quello di Rodolphe, aggiunse: "Andate avanti solo, vi verrò dietro, passo passo, fino alla barriera. Poi fuori, nei campi tornerò a starvi accanto." "Non temete nulla" esclamò Rodolphe, colpito da tanta delicatezza, e riprendendo Fleurde-Marie a braccetto "il mio padrone non abita in questo quartiere, e poi prenderemo un "fiacre" sul quai aux Fleurs." "Come volete, signor Rodolphe... Dicevo questo per non esservi poi causa di qualche dispiacere..." "Lo credo e ve ne ringrazio. Ma, sinceramente, preferite andare in campagna da questa o da un'altra parte?" "Per me è tutt'uno, signor Rodolphe, purché si vada in campagna... La giornata è così bella... L'aria aperta allarga i polmoni! Sapete che da cinque mesi non sono andata oltre il mercato dei fiori? E se l'Orca mi lasciava uscire dalla Cité è perché sapeva che sarei tornata." "E quando andavate al mercato, era per comprare dei fiori?" "Oh, no, non avevo denaro, andavo solamente per vederli, per respirarne il profumo... Nella mezz'ora in cui l'Orca mi permetteva di andarmene sulla piazza i giorni di mercato, ero così contenta, che dimenticavo tutto." "E tornando dalla Ponisse in quei tristi vicoli?" "Vi tornavo più malinconica di quando ne ero partita, e divoravo in segreto le lacrime per non prendere sberle! Vedete, al mercato, quello che mi faceva invidia, oh, molta invidia, era vedere certe operaie linde che se ne andavano allegre, con un bel vaso di fiori fra le braccia." "Sono persuaso che se ne aveste avuto uno anche voi sul davanzale della finestra, vi avrebbe tenuto compagnia." "Oh, è vero quello che dite, signor Rodolphe. Figuratevi che un giorno l'Orca, il giorno della sua festa, conoscendo la mia passione per i fiori, mi ha regalato un piccolo rosaio. Se sapeste com'era grazioso! Non mi annoiavo più a star sola. Passavo ore intere a guardarlo... Mi divertivo a contarne le foglie, i bei fiori... Ma l'aria è così malsana nella Cité, che dopo due giorni cominciò ad avvizzire. Allora... Ma adesso riderete di me, signor Rodolphe?" "No, no, continuate." "Ebbene, allora, chiesi all'Orca il permesso di andare fuori per portare a spasso il rosaio... Sì, come avrei condotto a passeggio un bambino. Lo portavo al mercato, immaginavo che il riportarlo ancora tra gli altri fiori, in mezzo a quell'aria fresca e olezzante, gli dovesse far bene; gli inumidivo le foglie gialliccie e vizze con l'acqua limpida della fontana, e poi, per asciugargliele, lo tenevo un quarto d'ora al sole... Caro, mio bel rosaio, non vedeva mai il sole, nella Cité, perché in quella nostra strada non scendeva più basso del tetto... Poi tornavo a casa... Ebbene, vi assicuro, signor Rodolphe, che grazie a quelle passeggiate, la mia cara pianticella di rose tenne le sue foglie dieci giorni di più." "Lo credo, ma quando il rosaio morì, dev'essere stata una grande perdita per voi." "Piansi, ne ebbi un vero dolore... E, vedete, signor Rodolphe, poiché capite che si possa voler bene ai fiori, posso dirvi anche questo... Ebbene, provavo per quella pianta una specie di gratitudine, di... Oh, questa volta certamente riderete di me..." "No, no! Amo io pure... adoro i fiori, quindi comprendo tutte le follie che possono farci fare, o ispirarci." "Ebbene, ero così grata a quel povero rosaio di fiorire così bello per me quantunque, via, malgrado quello che io ero..." E la Goualeuse chinò la fronte, e diventò color del fuoco per la vergogna. "Disgraziata fanciulla! Con la coscienza sempre viva della vostra orribile situazione... E suppongo che spesso..." "Avessi voglia di finirla, volete dire, signor Rodolphe?" esclamò la Goualeuse interrompendolo. "Oh, sì, più di una volta ho guardato le acque della Senna dal parapetto... Ma poi ho guardato i fiori, il sole... Allora dicevo: "Il fiume sarà sempre là; non ho ancora diciassette anni... Chissà!"" "Nel dire "chissà", speravate?" "Sì..." "E cosa speravate?" "Non so... Speravo. Sì, speravo quasi mio malgrado... In quei momenti, mi pareva che non avessi meritato la mia sorte, che rimanesse sempre in me qualche cosa di buono. Dicevo tra me: "Mi hanno tormentata tanto, ma almeno, non ho fatto male ad alcuno... Se avessi avuto chi mi consigliasse, non sarei ridotta quel che sono!" Così cacciavo la malinconia... Poi vi devo dire che questi pensieri mi erano venuti soprattutto dopo la perdita del mio rosaio" aggiunse la Goualeuse con un tono grave, che fece sorridere Rodolphe. "Sempre quel gran dispiacere..." "Sì, eccolo, osservatelo." E la ragazza trasse di tasca un mazzettino di gambi di fiori, legati leggiadramente con un bel nastrino rosa. "Voi l'avete conservato?" "Certo! È tutto quello che possiedo al mondo." "Come, non avete nulla di vostro?" "Nulla..." "Ma questo vezzo di coralli?" "È dell'Orca." "Ma come, neppure una pezzuola, una cuffia, uno scialle?" "No, nulla, nulla, fuorché questi gambi secchi del mio povero rosaio. Ecco perché li tengo tanto cari..." Lo stupore di Rodolphe cresceva a ogni parola della fanciulla; non poteva comprendere quella spaventosa schiavitù, l'infame vendita del corpo e dell'anima, per un lercio ricovero, per pochi cenci e un immondo nutrimento(1). Rodolphe e la Goualeuse giunsero sul Quai aux Fleurs: al posteggio c'era una carrozza. Rodolphe vi fece salire la ragazza, quindi vi montò anche lui, poi disse al fiaccheraio: "A Saint-Denis... T'indicherò dopo la strada che devi percorrere." La vettura partì. Splendeva un magnifico sole sopra un cielo senza nubi, ed un'aria un po' pungente penetrava dai vetri abbassati. "Oh, una pelliccia da donna!" esclamò la Goualeuse, accortasi d'essersi seduta sopra una mantellina, che prima non aveva visto. "Sì, mia cara, è per voi: l'ho presa con me, temendo che avreste avuto freddo; imbacuccatevi bene." La ragazza, non abituata a simili attenzioni, guardava attonita Rodolphe; la soggezione che provava davanti a lui si faceva sempre maggiore, come pure una mestizia di cui non sapeva darsi ragione. "Mio Dio, come siete buono, signor Rodolphe! Mi fate arrossire." "Perché sono buono?" "Non so, siete così gentile... Mi pare che non parliate più come ieri, che siate tutt'altro..." "Vediamo, Fleur-de-Marie, quello che voi preferite: il Rodolphe di ieri, o il Rodolphe di oggi?" "Mi piacete di più a questo modo... Ma, ieri sera mi pareva di più di essere una vostra pari...". Quindi, riprendendosi subito, nel dubbio di avere offeso il suo compagno, riprese: "Ho detto pari vostra, signor Rodolphe, ma so che questo non può essere..." "In voi, ragazza mia, c'è una cosa che mi sorprende." "E che mai, signor Rodolphe?" "Mi pare che facciate poco caso a ciò che vi ha detto ieri la Chouette riguardo ai vostri genitori, al fatto che conosca vostra madre..." "Oh, non me ne sono dimenticata... Vi ho pensato tutta la notte, e ho pianto molto. Ma sono persuasa che non è vero niente... La guercia avrà inventato quella storia per mettermi in pena." "Può darsi che sia più informata di quanto supponete. Se fosse vero, non sareste contenta di ritrovare la vostra mamma?" "Ahimè, signor Rodolphe! Se mia madre non mi ha voluto bene, che mi importa ritrovarla? Non mi vorrà nemmeno vedere... Se poi mi amava, che disonore le farei! Ne potrebbe morire, forse." "Se vostra madre vi ha amato, saprà compatirvi, perdonarvi e tornerà a portarvi amore... Se vi ha abbandonata, vedendo a quale triste vita vi ha ridotto il suo abbandono, forse potrebbe pentirsi e voi sareste vendicata." "A che mi serve ora la vendetta? E poi, se io mi vendicassi, mi pare che non avrei più diritto di chiamarmi infelice... E spesso questo mi consola..." "Avete forse ragione... Non ne parliamo più!" In quel momento, la carrozza arrivava vicino a SaintOuen, da cui si dividono le due strade di Saint-Denis e della Révolte. Nonostante la monotonia del paese, la Goualeuse fu così lieta di vedere i campi, come diceva, che, messi in disparte i tristi ricordi destati in lei dal nome della Chouette, il suo bel viso si rasserenò. Fece capolino allo sportello della vettura e, battendo le mani, con la gioia di una bambina, gridò: "Signor Rodolphe, ah, che piacere! L'erba!... i campi! Se mi permetteste di smontare... È così bel tempo! Lasciatemi scorrazzare un poco per quei prati..." "Scendiamo pure, mia cara... Cocchiere, ferma!" "Come, anche voi, signor Rodolphe?" "Anch'io voglio far festa." "Che piacere, signor Rodolphe!" E Rodolphe e la Goualeuse si presero per mano, scorrazzando, fino a mancar loro il fiato, tra l'erba di recente falciata d'un odoroso prato. Ridire i salti, le grida liete e l'ebbrezza di Fleur-deMarie, sarebbe impossibile. Pareva una gazzella lungamente prigioniera, che bevesse le libere praterie. Andava, veniva, si fermava, ripartiva con nuovo trasporto. Al vedere alcuni cespi di margheritine, e di fiorellini gialli risparmiati dalla brina, la Goualeuse non poté trattenere alte grida d'allegria. Si mise a raccogliere fiori facendone un mazzetto. Dopo aver corso in mezzo ai campi, stancatasi presto, perché era tempo che aveva perduto l'abitudine all'esercizio, si riposò a riprender fiato, e sedette sul tronco d'un albero rovesciato sull'orlo d'un profondo fosso. La sua carnagione d'una bianca trasparenza, ma di solito un poco pallida, si colorì d'una tinta più vivace. I suoi grandi occhi celesti brillavano con dolcezza, la bocca porporina, ansante, lasciava distinguere due file di umide perle, il seno palpitava sotto lo sdrucito scialle color arancio; passava una mano sul cuore per comprimerne i palpiti, mentre con l'altra porgeva a Rodolphe il mazzolino di fiori che aveva colto nei campi. Nulla sembrava più attraente di quell'espressione di gioia innocente e pura che le splendeva in quel momento sull'ingenuo volto. Quando Fleur-de-Marie fu in grado di parlare, disse a Rodolphe, con un accento di grande contentezza e di gratitudine quasi religiosa: "Oh, quanto è grande la bontà di Dio nel darci una giornata così bella!" Una lacrima spuntò sul ciglio a Rodolphe, nell'udire quella povera creatura abbandonata, disprezzata, perduta, senza asilo, né pane, levare un grido di piacere e di riconoscenza ineffabile verso il Creatore, perché poteva godere un raggio di sole e la vista di un'ampia campagna. Ma lo tolse dalla sua contemplazione un imprevisto incidente. 9. La sorpresa. Noi dicevamo che la Goualeuse si era seduta sopra un tronco d'albero sull'orlo d'un fosso. Ad un tratto un uomo, rizzandosi dal fondo di quella cavità, scosse il fogliame sotto cui si era rimpiattato, e diede in una risata strepitosa. La ragazza si volse con un grido di spavento. Era lo Chourineur. "Non aver paura, ragazza mia" disse, vedendo che si rifugiava presso il suo compagno. "Ecco un bell'incontro, sapete! Mastro Rodolphe, voi non ve lo aspettavate, e nemmeno io..." Quindi soggiunse con serietà: "Eppure, mio professore, vedete, diranno quel che vogliono, ma c'è qualche cosa per l'aria, là in alto, sopra il nostro capo... Quel Padrone di lassù è previdente, e pare che dica all'uomo: "Va, dove io ti spingo..." Poiché è lui che vi ha spinto qui, ed è una cosa veramente sorprendente!" "Ma cosa fai tu qui?" gli chiese Rodolphe assai stupefatto. "Stavo in guardia per il vostro bene, mio professore... Ma, fulmini! È una bella combinazione, che siate capitato per l'appunto nei dintorni della mia casa di campagna... Oh, sì, c'è qualche cosa, certamente c'è qualche cosa..." "Te lo ripeto, che fai in questo luogo?" "Fra poco lo saprete, datemi almeno tempo di andare ad esaminare i dintorni da sopra la vostra carrozza." E lo Chourineur corse verso il "fiacre" fermo a poca distanza, gettò un lungo sguardo lontano, sull'immensa pianura, e tornò subito da Rodolphe. "Vorrai spiegarmi che cosa significa tutto questo mistero?" "Pazienza, pazienza, professore! Ancora un'altra parola. Che ore sono?" "Le dodici e mezzo" rispose Rodolphe, consultando l'orologio. "Di bene in meglio... Abbiamo tempo. La Chouette non sarà qui prima di mezz'ora." "La Chouette!" esclamarono a una voce Rodolphe e Fleur-de-Marie. "Sì, lei in carne e ossa, che il demonio l'accechi. In due parole, vi spiffero per filo e per segno tutto il fatto. Ieri sera, quando ve ne siete andato dal Coniglio Bianco, capitò..." "Un uomo d'alta statura con una donna travestita da uomo, e chiesero di me, lo so. E poi?" "Poi, mi pagarono da bere, e cercarono di farmi chiacchierare sul conto vostro. Io non ho voluto raccontar niente... Giacché, tranne la pruriginosa salsa che mi avete gentilmente fatto assaggiare prima di cena, io non conoscevo nulla dei vostri segreti. E li avessi saputi, sarebbe stato lo stesso. Fra noi, professor Rodolphe, c'è un legame per la vita e la morte. Il diavolo mi porti, adesso, se so quel che voglio dire, ma sento per voi l'affezione d'un grosso cane per il suo padrone, è così... Non capisco, e non ci voglio pensare, è un affare che riguarda voi." "Ti ringrazio, mio caro, ma continua pure." "Il signore alto e la signora travestita, vedendo che non c'era da saper nulla da me, uscirono dalla taverna dell'Orca, e anch'io feci lo stesso: essi dalla parte del Palazzo di Giustizia, io verso Notre-Dame. Arrivato alla fine della strada, cominciai ad accorgermi che pioveva a rovescio, una pioggia da vero diluvio. C'era, per fortuna, lì vicino, una casa in demolizione. Dissi tra me: "Se l'acquazzone dura un pezzo, posso dormire qua dentro invece che nella mia stamberga." Mi calo in una specie di sotterraneo e sono al riparo dal maltempo... Cerco subito di prepararmi un letto: una trave per materasso, un pezzo di muro per guanciale, ed eccomi accomodato in un talamo, come un re." "E poi?" "Avevamo bevuto in compagnia, professor Rodolphe, dopo avevo vuotato qualche altro bicchiere con quel grande e quella piccina travestita: per dirvi che avevo la testa pesante... Con tutto questo non c'è nulla che mi concili il sonno come lo scroscio della pioggia, che manda il cielo. Cominciavo dunque a sonnecchiare. Non erano forse cinque minuti, che avevo legato l'asino, quando un rumore mi rompe il sonno, e mi desto di soprassalto: era il Maître che discorreva amichevolmente con qualcuno. Ascolto... Fulmini! Chi riconosco? La voce di quel signore grande che era venuto al "tapisfranc" con la donnetta travestita." "Parlavano con il Maître d'école e con la Chouette?" chiese Rodolphe sorpreso. "Con il Maître e la Chouette. Decidevano di ritrovarsi il giorno dopo." "Oggi dunque?" disse Rodolphe. "All'una." "Sicché, fra un momento!" "Al punto dove si dividono le due strade di Saint-Denis e della Révolte." "Ma è qui!" "Così è, professore, qui!" "Il Maître, badate, signor Rodolphe!" gridò Fleur-de-Marie. "Calmati, figliola... Non deve venire lui, ma soltanto la Chouette." "In che modo quel pendaglio da forca ha potuto mettersi in contatto con quei due miserabili?" domandò Rodolphe. "Io non ne so più di voi. Può anche darsi che io mi sia svegliato verso la fine dell'incontro; perché quello alto discuteva per riavere il suo portafogli, che la Chouette dovrebbe portargli qua in cambio di cinquecento franchi. Può darsi che il Maître abbia cominciato con il rubarglielo, e poi si siano messi a ragionarci sopra per fare uno scambio." "È singolare!" "Mio Dio, ho paura per voi, signor Rodolphe!" disse la Goualeuse. "Il signor Rodolphe non è un bambino, mia cara, ma, tu dici bene: la faccenda potrebbe farsi seria, e perciò eccomi qua." "Continua, Chourineur." "L'uomo alto e la donna travestita promisero duemila franchi al Maître, per fare qualcosa contro di voi, non so cosa. La Chouette deve essere qui fra poco con il portafogli. Io, curioso, ho voluto sapere che cosa tramavano quei due; forse la Chouette andrà a riferire al Maître i nuovi accordi, ed egli penserà al resto." Fleur-deMarie trasalì. Rodolphe sorrise con aria di disprezzo. "Duemila franchi per imbastire qualche trappola contro di voi! Mi fa venire in mente, perdonate il paragone, quando promettono cinquecento franchi di mancia per un cane smarrito, e io dico a me stesso: "Per te, bestiaccia, se tu ti perdessi, non darebbero uno scudo per ritrovarti." Duemila franchi per farvi del male! Chi siete mai?" "A suo tempo lo saprai." "Basta così, caro professore... Quando intesi la proposta fatta alla Chouette, dissi fra me: "Bisogna che io sappia dove alloggiano quei ricchi sfondati che intendono aizzare il Maître contro il signor Rodolphe, e questo mi può forse giovare." Intanto che si allontanavano, io li seguivo attento come un lupo: raggiunsero una carrozza sul sagrato di NotreDame e salitici sopra, io appeso dietro, arriviamo insieme sul boulevard de l'Observatoire. C'era buio come in un forno, non ci si vedeva lontano una spanna. Mi venne l'idea di fare un taglio in un albero per rintracciarlo oggi." "Bella pensata!" "E questa mattina ci sono tornato. A dieci passi dal mio albero, scorgo una stradicciola chiusa da un cancello, e in fondo a quella una casa. La tana, m'immagino, dell'uomo grande e della donna piccola." "Grazie, amico, tu mi rendi, senza saperlo, un grande servizio." "Scusate e compatite, signor Rodolphe, ma io me l'immaginavo, e per questo l'ho fatto." "Ti credo, mio caro, e vorrei poterti ricompensare più concretamente che con semplici parole, ma disgraziatamente non sono che un povero diavolo d'operaio, quantunque diano, come tu dici, duemila franchi per farmi del male. Ti dirò come stanno le cose." "Bene, se non vi dispiace, altrimenti per me è lo stesso. Si ordisce contro di voi qualche intrigo, io mi oppongo... Il resto non m'interessa." "Credo di indovinare ciò che vogliono. Ascoltami bene. Io posseggo un segreto per tagliare a macchina l'avorio dei ventagli, ma questo segreto non l'ho io solo; aspetto il mio socio per metterlo in pratica, e sicuramente intendono impadronirsi a tutti i costi del modello della macchina che ho in casa, perché c'è da far quattrini a bizzeffe con quella scoperta." "Quel grande e quella piccola dunque, sono...?" "Fabbricanti dai quali lavoravo prima, e ai quali non ho voluto far conoscere il mio segreto." Questa spiegazione parve soddisfacente allo Chourineur, che non stava troppo a sottilizzare, e soggiunse: "Adesso capisco. Vedete un po' i bricconi! Non hanno neppure l'audacia di giocarvi il tiro loro stessi. Ma, per finirla, ecco quel che ho detto tra me questa mattina: "So dell'appuntamento della Chouette e di quel tipo, voglio andare ad aspettarli, ho buone gambe... Il mio capo facchino si spazientirà, peggio per lui..." Arrivo qua, vedo questa buca, vado a pigliare una bracciata di strame laggiù, mi ci nascondo, ed aspetto la Chouette. Ma ecco che voi passate sulla strada e questa povera Goualeuse si mette proprio a sedere ai margini del mio nascondiglio; allora mi è saltato il ticchio di farvi una burla, ed ho urlato come un dannato, sgusciando da quella coltre di fogliame." "Adesso, che intenzione hai?" "Aspettare la Chouette, che, di sicuro, verrà per prima; procurare di sentire quel che dice a quel tizio alto, perché questo vi può giovare. Non c'è altro che quel tronco d'albero rovesciato là per terra; di là si può vedere quasi tutta la campagna, e sembra messo lì apposta per nascondercisi. Il luogo del ritrovo della Chouette è quattro passi più in là, alla divisione delle due strade, e c'è da scommettere che verranno qui a concludere il loro affare. In caso contrario, cioè che non possa intendere niente, quando si saranno separati, acciuffo per la veste la Chouette, e le pago il dente che ha strappato alla Goualeuse, poi le torco il collo e glielo tiro davvero, affinché mi dica nome, cognome e patria, tutto insomma dei genitori di questa povera ragazza... Che vi pare del mio progetto, signor Rodolphe?" "C'è del bello e del buono, ma c'è anche da correggere qualche particolare." "Oh, Chourineur, non andate a procurarvi guai per me. Se minaccerete la Chouette, il Maître..." "Basta, ragazza... La guercia deve passare per le mie mani. Fulmini! Giusto perché il Maître la difende, voglio raddoppiarle la dose." "Ascoltami, amico" lo interruppe Rodolphe. "Io ho un mezzo migliore per vendicare la Goualeuse delle ribalderie commesse dalla Chouette. Più tardi te lo spiegherò. Quanto ad ora" e si scostò alcuni passi da Fleur-de-Marie abbassando la voce "vuoi farmi un vero favore da buon figliolo?" "Comandate, signor Rodolphe." "La Chouette non ti conosce?" "L'ho vista ieri per la prima volta al "tapis-franc"." "Ecco quello che devi fare. Ti tornerai a nascondere, ma quando ti accorgerai che si avvicina, salterai fuori dalla buca..." "A torcerle il collo?..." "No, questo più tardi! Per oggi bisogna solamente impedire che parli con quell'uomo alto. Vedendo qualcuno con lei, non oserà avvicinarsi. Se poi venisse avanti, non lasciare un minuto sola la vecchia... In presenza d'un terzo non potrà farle le sue proposte." "Se quello mi accusasse di essere troppo curioso, me la sbrigo presto; non è mica un Maître, né un professore che si chiami Rodolphe." "Conosco quel coniglio, non è tipo da mettersi contro di te." "Meglio. Seguo la Chouette come un'ombra. L'altro non pronuncia una parola, che io non intenda, e finisce con l'andarsene via..." "Se stabiliscono un altro appuntamento, tu lo saprai, purché non li abbandoni un istante. Già la tua presenza basterà per allontanare il forestiero." "Perfetto. Poi, dò una stretta alla Chouette... Questo mi preme." "Non ancora. La guercia sa che tu sei un ladro, o no?" "No, se il Maître non le ha detto che il furto non è nel mio repertorio." "Se glielo ha detto, devi fingere d'aver cambiato abitudini." "Io?" "Tu!" "Fulmini! Signor Rodolphe. Ma ditemi prima... Mi va poco a genio questo genere di burla." "Tu farai quello che credi. Vedrai che non ti propongo un'azione meno che onesta..." "In quanto a questo, sono tranquillo." "E hai ragione." "Ordinate dunque, obbedirò." "Allontanato quel tipo, cercherai di ingraziarti la Chouette." "Io, quella vecchia guercia? Vorrei piuttosto fare a pugni con il Maître. Non so ancora come potrò tenermi dal non saltarle subito addosso." "Allora guasteresti l'affare." "Ma che devo fare dunque?" "La Chouette sarà inviperita d'aver perduto questa buona occasione; tu procurerai di calmarla, dicendole che sai che c'è da tentare un bellissimo colpo, che sei qua per aspettare il tuo complice, e che se il Maître ci vuol stare, c'è da guadagnare una buona manciata d'oro per ciascuno." "To', To'..." "Dopo averla fatta aspettare un'ora, le dirai: "Il mio compagno non viene, dobbiamo rimandare a un'altra volta..." e tu fissi un appuntamento con la Chouette e il Maître per domani di buonissima ora. Hai ben capito?" "Capisco." "E questa sera ti troverai, alle dieci, all'angolo degli ChampsElysées e dell'allée des Veuves; io ti raggiungerò e t'informerò del rimanente." "Se questo è un tranello, badate! Il Maître è una volpe... Voi lo avete battuto: al minimo dubbio, è capace di ammazzarvi." "Non ci pensare." "Fulmini, è davvero curioso... Voi disponete di me come vi aggrada. Mi figuro che c'è in serbo una buona lezione per quei due furfanti. Ma un'altra parola ancora, signor Rodolphe..." "Parla." "Non che io vi creda capace di preparare un tranello al Maître per farlo acchiappare dalla polizia... È un ribaldo consumato, che merita cento volte il capestro, ma farlo arrestare non è affar mio." "Neppure mio. Ma devo saldare un certo conto con lui e con la Chouette, giacché prendono accordi con i miei nemici, e, noi due, solo noi due, ne verremo a capo... Se tu mi aiuti." "Oh, per questo, siccome il maschio non è meglio della femmina, ci sto." "E se ci riusciamo" aggiunse Rodolphe con tale serietà che sorprese lo Chourineur "te ne glorierai come quando salvasti dal fuoco e dall'acqua l'uomo e la donna che ti devono la vita." "Accidenti come sapete dire queste cose, professore! Non ho mai visto uno sguardo simile... Ma presto, presto" gridò lo Chourineur "scorgo laggiù un punto bianco; dev'essere la cuffia della Chouette. Andatevene, io mi rimetto nella mia cuccia." "A questa sera, alle dieci..." "All'angolo tra l'allée des Veuves e gli Champs-Elysées... Siamo intesi?" Fleur-de-Marie non aveva ascoltato quest'ultima parte del colloquio fra Rodolphe e lo Chourineur. Risalì in carrozza con il suo compagno. 10. Il podere. Dopo il colloquio con lo Chourineur, Rodolphe rimase alcuni istanti preoccupato e pensoso. Fleur-de-Marie, non osando turbare il suo silenzio, lo guardava mesta. Egli alzò il capo e le chiese gentilmente: "A che pensate? L'incontro con lo Chourineur vi è dispiaciuto, non è vero? Eravamo tanto allegri!" "Al contrario, è stato un bene per noi, signor Rodolphe, perché lo Chourineur potrà esservi utile." "Costui, fra gli avventori dell'Orca, era considerato avere ancora qualche buon sentimento?" "Non lo so, signor Rodolphe... Prima della scena di ieri, l'avevo visto spesso, ma gli avevo parlato appena, lo credevo malvagio come gli altri..." "Non ci occupiamo più di questo, mia cara, mi rincrescerebbe rattristarvi, mentre speravo di farvi passare una buona giornata." "Oh, sono ben contenta! È molto tempo che non andavo fuori Parigi!" "Dopo le vostre gite in carrozzella con Rigolette?" "Mio Dio, sì, signor Rodolphe. Era primavera, ma, benché adesso si sia quasi nell'inverno, mi fa lo stesso piacere. Che bel sole! Guardate quelle nuvolette color rosa laggiù... laggiù, e quella collina, con le belle casette bianche in mezzo agli alberi... Ci sono ancora le foglie! È sorprendente nel mese di novembre, non è vero, signor Rodolphe? A Parigi le foglie cadono presto... E là in fondo, quello stormo di colombi, ecco che vanno a posarsi sul tetto di un mulino... In campagna non ci si sazia mai di osservare, tutto diverte." "È un piacere vedere quanto siete sensibile a certe piccolezze, che pure formano il pregio della campagna." Infatti, man mano che Fleur-de-Marie contemplava il placido e ridente paesaggio, il suo volto di nuovo si rallegrava. "E laggiù, quel fuoco di stoppia fra i campi coltivati, il bel fumo bianco che sale al cielo!... E quell'aratro con i suoi due cavalli grigi... Se fossi un uomo, come mi piacerebbe la vita dell'agricoltore!... Starsene nella quieta campagna, guidare l'aratro, distinguere da lontano boschi grandissimi, con un tempo come oggi, per esempio... Questo sì che invoglia a cantare quelle canzonette malinconiche, che fanno venire le lacrime agli occhi, come "Genoveffa di Brabante". Conoscete la canzone della Genoveffa di Brabante, signor Rodolphe?" "No, mia cara, ma se sarete gentile, me la farete sentire, quando saremo arrivati al podere." "Che piacere! Noi andiamo in un podere, signor Rodolphe?" "Sì, un podere amministrato dalla mia balia, una buona e degna donna che mi ha allevato." "E potremo avere del latte?" domandò la ragazza, battendo le mani. "Sicuramente! Latte, panna deliziosa, se vi piace, e burro, che la fattoressa farà alla nostra presenza, e anche uova fresche." "E andremo noi stessi a levarle dal nido?" "Certamente..." "E vedremo le vacche nelle stalle?" "Se volete." "E andremo anche alla cascina?" "Senza dubbio." "E al colombaio?" "Sì." "Ah, credete, signor Rodolphe, mi pare quasi un sogno... Come mi divertirò! Che bella giornata!... che bella giornata!" gridò Fleur-deMarie tutta contenta. Quindi, per un brusco richiamo al passato, l'infelice, riflettendo che dopo quelle ore di libertà passate in campagna le sarebbe toccato tornare nell'infetto tugurio, si coprì con le mani la faccia, e ruppe in un pianto angoscioso. "Che avete, Fleur-de-Marie?" le domandò Rodolphe sorpreso "che cosa vi addolora?" "Nulla, nulla, signor Rodolphe" e cercava di asciugarsi gli occhi sforzandosi di sorridere. "Perdonatemi, se mi affanno, non ci badate... Non ho nulla, ve lo giuro... È stata un'idea... Voglio essere allegra..." "Lo eravate poco fa!" "È per questo" rispose ingenuamente la ragazza, fissando su Rodolphe gli occhi ancora umidi di pianto. E non proseguì. Rodolphe la comprese: indovinò il segreto dolore di quell'anima. Volendo scacciare quel malumore le disse scherzando: "Scommetto che pensavate al vostro rosaio. Vi addolora, sono sicuro, non averlo in questa passeggiata al podere... Povera pianta! Voi eravate capace di portarlo a bere il latte!" La Goualeuse non poté fare a meno di sorridere al tono scherzoso di Rodolphe. In breve la leggera nube di malinconia si dileguò dalla sua fronte, e tentò di godere del presente, senza preoccuparsi dell'avvenire. Erano giunti a Saint-Denis, di cui si distingueva in lontananza l'alta guglia della chiesa. "Oh, che bel campanile!" esclamò Fleur-de-Marie. "È il campanile di Saint-Denis; c'è una magnifica chiesa... Volete che la vediamo? Faremo fermare la carrozza." La Goualeuse abbassò gli occhi. "Da quando sono in casa dell'Orca, non ho più varcato la soglia di una chiesa; non ho avuto coraggio... In carcere, al contrario, amavo tanto cantare a messa! E alla solennità del "Corpus Domini", mi piaceva raccogliere e preparare i mazzetti di fiori per l'altare!" "Ma Dio è buono e clemente: perché temere di pregarlo, di entrare in una chiesa?" "Oh, no, no, signor Rodolphe... Sarebbe come un'empietà... È anche troppo offendere il buon Dio in altro modo." Dopo un momento di silenzio, Rodolphe riprese: "Finora avete mai amato qualcuno?" "No mai, signor Rodolphe." "E perché?" "Avete visto le persone che frequentano il "tapis-franc"... E poi, per amare, bisogna essere onesta." "Cosa volete dire?" "Esser padrona di sé... potere... Eh via, signor Rodolphe, se non vi rincresce, ve ne prego, cambiamo discorso..." "Sia pure, Fleur-de-Marie, parliamo d'altro... Ma perché mi guardate con quegli occhi? Eccovi di nuovo in lacrime. Vi ho forse angosciata?" "No, ma avete per me tanta bontà, che mi vien voglia di piangere... E poi, non mi date del tu, e si direbbe che mi abbiate portata in campagna soltanto per far piacere a me, tanto siete lieto nel vedermi allegra. Non vi è bastato avermi difesa ieri, mi fate passare oggi una simile giornata con voi..." "Veramente, tanto felice?" "Passerà molto tempo prima che dimentichi questo piacere. È così raro poterlo godere." "Oh, sì davvero..., in mancanza di quello che non ho" disse Rodolphe "mi trattengo qualche volta a pensare a quello che vorrei avere, e a dire fra me: "Ecco quello che desidererei essere, ecco la fortuna che bramerei possedere..." E voi, Fleur-de-Marie, non fate pure dei sogni uguali, non fabbricate mai questi bellissimi castelli in aria?" "Altre volte, sì, in carcere, prima di stabilirmi dall'Orca, passavo la vita a sognare felicità ed a cantare, ma oggi succede meno... E voi, signor Rodolphe, a cosa ambireste?" "Io vorrei essere ricco, ricchissimo, avere servitori, carrozze, un palazzo, entrare nella più brillante società, tutte le sere a teatro... E voi Fleur-de-Marie?" "Io non sarei così difficile da accontentare; mi basterebbe tanto denaro da pagare l'Orca, qualche soldo d'avanzo per aver tempo di procurarmi lavoro, una bella cameretta pulita, da dove vedere gli alberi, intanto che me ne sto a cucire..." "Aggiungete qualche fiore sul davanzale..." "Oh, certo! Abitare in campagna, se si potesse, e basta..." "Una cameretta e del lavoro danno il necessario, ma quando si tratta soltanto di desiderare si può andare anche al superfluo... Non vi piacerebbe dunque avere un cocchio, un filo di diamanti, una filza di perle, dei begli abiti?" "Non vorrei così tanto... Soltanto la libertà, vivere fra i campi, ed essere sicura di non morire all'ospedale... Oh, questo sopratutto: non morire là dentro... Credetemi, signor Rodolphe, quando mi balena quel pensiero, mi scoraggio!" "Eh, per noi povera gente..." "Non è per la miseria che dico questo, e poi, quando una è morta..." "E allora?" "Non sapete che fanno di noi allora, signor Rodolphe?" "No..." "Ci fu una ragazza che avevo conosciuto in carcere... Morì all'ospedale... Dettero il cadavere in mano ai chirurghi" mormorò la ragazza con raccapriccio. "Ah, questo è orribile! E avete spesso, infelice, simili, sinistri pensieri?" "Vi sorprende, capisco, signor Rodolphe, che debba aver vergogna per dopo morta... Eh, mio Dio, non mi hanno lasciato ormai altra vergogna che questa..." Le dolorose e amare parole colpirono Rodolphe. Nascose il viso fra le mani: rifletteva sulla fatalità che angosciava Fleur-de- Marie, pensava alla madre di quella povera creatura... Sua madre forse era felice, ricca, onorata, e sua figlia, certamente sacrificata per sfuggire alla vergogna, era uscita dalla stamberga della Chouette per andare in prigione, dalla prigione per rintanarsi nell'antro infetto dell'Orca, e da quest'antro poteva forse uscire morente sopra un saccone d'ospedale e dopo la sua morte..." Quell'idea era spaventosa. La povera Goualeuse, nel vedere la fronte rannuvolata del suo compagno, mestamente gli disse: "Scusatemi, signor Rodolphe, non dovrei avere simili idee... Mi conducete con voi perché io sia allegra, e vi parlo di cose tanto tristi... Mio Dio, non so come succeda, ma è contro il mio volere... Non sono mai stata tanto felice come oggi, eppure mi sento le lacrime agli occhi ogni momento... Non me ne terrete il broncio, vero, signor Rodolphe? Vedete, la malinconia comincia a sparire, com'è venuta... Ecco, adesso non ci penso più... Sarò ragionevole... Vedete, signor Rodolphe, guardatemi gli occhi..." E Fleur-deMarie, dopo averli chiusi due o tre volte per respingere una lacrima ostinata, riaprì i suoi grandi occhi, e li fissò su Rodolphe con la più amabile ingenuità. "Non preoccupatevi per me, Fleur-de-Marie, ve ne prego... Siate pure lieta o mesta, come vi suggerisce il cuore. Anch'io, e lo sa Iddio, spesso sono assalito da idee nere..." "Davvero, signor Rodolphe, a voi pure succede così?" "Certamente, il mio avvenire non è molto più brillante del vostro... Sono senza padre, senza madre... Se domani mi ammalassi, come farei a vivere? Spendo giorno per giorno tutto quello che guadagno." "Oh, questo è mal fatto, signor Rodolphe" disse la Goualeuse con un tono di rimprovero, che fece sorridere il finto operaio "dovreste mettere alla Cassa di Risparmio qualche soldo... Vedete, per me fu una gran disgrazia non aver risparmiato un po' di denaro per i tristi giorni... Con duecento franchi da parte un operaio non è schiavo di nessuno, non è mai in cattive acque... Spesso è appunto questo che porta al male." "Voi ragionate da giudiziosa e saggia, mia piccola massaia. Ma duecento franchi... Come si fa a raggranellarli?" "Facilissimo, vi dico: facciamo un po' i vostri conti; vi farò vedere e toccare con mano... Voi guadagnate qualche volta sino a cinque franchi al giorno, non è vero?" "Sì, quando lavoro." "Dovete lavorare tutta la settimana. Vi pare d'essere da compiangere? Un bel mestiere come il vostro... pittore di ventagli... Ci dovete trovar gusto a lavorare... Vedete, voi non vi sapete organizzare bene, signor Rodolphe!" continuava la Goualeuse in tono severo. "Un operaio può vivere agiato con tre franchi al giorno... Ve ne restano sempre due, che alla fine di un mese sono sessanta risparmiati, e sessanta franchi al mese sono una fortuna!" "Sì, ma mi piace divertirmi, starmene qualche giorno con le mani in mano!" "Signor Rodolphe, ancora una volta ve lo dico: voi non avete più testa d'un bambino..." "E va bene, metterò giudizio, mi avete dato ottimi suggerimenti... Non ci avevo mai pensato." "Sì?" esclamò la ragazza battendo le mani tutta lieta. "Ora mi fate contenta! Metterete da parte due franchi al giorno, non è vero?" "L'ho detto, risparmierò due franchi" promise Rodolphe con il sorriso a fior di labbra. "Proprio vero? Non m'ingannerete?" "Dò la mia parola..." "Vedrete come vi troverete contento a fine mese con le economie che avete fatto... E poi non è tutto qui, e se mi promettete di non adirarvi..." "Ho forse la faccia arrabbiata?" "No, ma non so se devo..." "Voi mi dovete dir tutto, Fleur-deMarie..." "Ebbene ci vuol poco a capire... Voi, che valete più degli altri nel vostro mestiere, come fate a frequentare taverne simili a quelle dell'Orca?" "Se non fossi capitato là, non avrei oggi il piacere d'essere in campagna con voi, mia cara Fleurde-Marie." "Oh, è vero, ma fa lo stesso, signor Rodolphe... Vedete, sono tanto contenta di questa giornata, eppure rinuncerei volentieri a passarne un'altra eguale, se questo dovesse farvi torto..." "Al contrario, giacché mi avete dato dei buoni consigli sul governo della casa." "E li seguirete?" "Ve l'ho pur promesso, parola d'onore! Risparmierò almeno due franchi ogni giorno..." 11. I desideri. In quel momento Rodolphe ordinò al fiaccheraio, che aveva oltrepassato Sarcelles: "Prendi la prima strada a destra, attraverserai Villiers-le-Bel, e poi, a sinistra, sempre diritto." Poi, volgendosi alla Goualeuse: "Giacché siete contenta di me, Fleur-de-Marie, possiamo ben divertirci, come dicevamo, a fabbricar castelli in aria. Non costano caro, e non me ne dovrete rimproverare la spesa." "Vediamo, sentiamo il vostro." "Tocca a voi per prima, Fleur-deMarie." "Voglio vedere se indovinerete il mio, signor Rodolphe." "Proviamo... Suppongo che questa strada... Dico questa, perché ci siamo..." "È giusto, non importa andare a cercare tanto lontano." "Suppongo, dunque, che questa strada ci conduca ad un bel paese, non molto fuori dalla via maestra." "Ci si sta più tranquilli." "È posto a metà della collina, contornata da molti alberi." "E vi scorre un ruscelletto..." "Certo, un ruscelletto. Ai limiti del paese si scorge un magnifico podere: a un lato della casa un orticello, dall'altro un bel giardinetto con le aiuole fiorite." "Mi pare di esserci, signor Rodolphe!" "Al pianterreno una gran cucina per la gente del podere ed una sala da pranzo per il fattore." "La casa ha le persiane verdi... Stanno tanto bene, non è vero, signor Rodolphe?" "Le persiane verdi? Sì, sono anch'io del medesimo avviso, non c'è cosa più bella delle persiane verdi... Naturalmente il fattore sarebbe vostra zia." "Sicuro, e sarebbe una buona donna." "Eccellente! Vi amerebbe come una madre..." "Ottima zia! Dev'essere stupendo essere amati da qualcuno!" "E anche voi le vorrete bene?" "Oh, sì!" esclamò Fleur-de-Marie, congiungendo le mani e levando i suoi grandi occhi al cielo con un'espressione impossibile a descriversi. "Oh, se l'amerei! E poi l'aiuterei a lavorare, a cucire, a rassettare la biancheria, a lavare, a mettere in serbo la frutta per l'inverno, insomma in tutte le faccende domestiche... Vi assicuro che non si lagnerebbe di me! Poi la mattina..." "Date tempo, Fleur-de-Marie, siete troppo impaziente! Aspettate che finisca di descrivervi la casa." "Lasciate perdere, signor pittore, si sa che siete abituato a descrivere paesaggi sui ventagli" disse la ragazza, scherzando. "Ma, chiacchierona, lasciatemi terminare la casa..." "È vero, non fiato più, è così bello ascoltarvi, son tutta orecchi! Finite dunque, signor Rodolphe, la casa del podere." "La vostra stanza è al primo piano." "La mia stanza! Oh, che piacere! Vediamo la mia stanza, vediamola..." E la ragazza si strinse al suo compagno, fissandolo con due occhi grandi e curiosi. "La vostra stanza ha due finestre che danno sul giardino e sopra un prato, in fondo a cui scorre il ruscello. Dall'altra parte è un poggio con un bel boschetto di castagni, e tra le fronde si vede il campanile della chiesa." "Come sarà bello, come sarà bello, signor Rodolphe! Vien proprio voglia di starci!" "Tre o quattro graziose mucche pascolano nella campagna, che è separata dal giardino da una siepe di biancospini." "E le vedo, affacciandomi alla finestra?" "Perfettamente!" "Una di quelle mucche sarà la mia prediletta... Non vi pare signor Rodolphe? Le farò un collare con il suo campanellino, e l'avvezzerò a venire a mangiare sulla mia mano." "E lei ne sarà lieta. È tutta bianca, giovane ancora, e si chiama Musetta." "Ah, che bel nome! Povera Musetta, come l'amo già." "Terminiamo la vostra stanza, Fleur-de-Marie. È tappezzata di tela celeste, con le tende dello stesso colore, e ogni mattina, basta che protendiate un po' il braccio, per cogliere un mazzetto di fiori da un gran rosaio e da un immenso caprifoglio che si sono abbarbicati alle mura della casa per far ombra alla finestra." "Ah, signor Rodolphe, come sapete dipingere bene!" "Adesso, ecco in che modo passate la giornata." "Sentiamo le mie occupazioni." "La vostra buona zia viene a destarvi, baciandovi teneramente sulla fronte, vi porta una tazza di latte appena munto, perché avete lo stomaco debole, poverina! Vi alzate, andate a fare un giro nel podere, a vedere Musetta, i polli, i vostri amici piccioni, i fiori. Alle nove arriva il vostro maestro di scuola." "Il mio maestro?" "Avete bisogno d'imparare a leggere, scrivere e far di conti, per poter aiutare vostra zia a registrare le entrate e le uscite della tenuta del podere." "È vero, signor Rodolphe, è vero non penso mai a nulla! Bisogna bene che impari a scrivere, per aiutare mia zia" disse gravemente la ragazza, così impressionata dal ridente quadro di quella vita tranquilla, che già le pareva reale. "Dopo la vostra lezione, lavorate alla biancheria di casa, oppure ricamate una bella cuffia di campagna... Verso le due preparate il compito per la scuola, e poi andate con vostra zia a fare una buona passeggiata, a vedere i mietitori in estate, i vendemmiatori in autunno: vi stancate ben bene e portate a casa grandi mazzi d'erbe dei campi, scelti da voi per la vostra cara Musetta." "Perché si ritorna dalla campagna, non è vero, signor Rodolphe?" "Senza dubbio; c'è un ponte di legno sul ruscello. Al ritorno, sono le sei o le sette: in questa stagione brilla un buon fuoco nella gran cucina del podere; voi andate a scaldarvi e a discorrere un poco con le brave persone che cenano, tornando dai loro lavori. Poi vi sedete a tavola con vostra zia. Qualche volta il curato o due vecchi amici della casa vi tengono compagnia. Poi leggete o cucite, intanto che la zia fa la sua partita a carte. Alle dieci, vi dà un bel baciozzo in fronte, voi salite alla vostra stanza, e la mattina dopo si ricomincia da capo..." "C'è da campare cent'anni in questa maniera, signor Rodolphe, senza aver tempo d'annoiarci un sol minuto..." Ma questo è nulla. E le domeniche, e le feste..." "In quei giorni, signor Rodolphe?" "Vi fate tutta bella, vi infilate una bella veste da contadina, con una cuffietta rotonda, che vi sta a meraviglia, e montate in un baroccino di giunchi con la zia e con Giacomo, il famiglio della fattoria, per andare alla messa cantata del villaggio; dopo, in estate, non mancate di assistere, in compagnia della zia, a tutte le feste delle parrocchie vicine. Siete così gentile, così buona e brava donna di casa, vostra zia vi ama tanto, il curato dà di voi informazioni così favorevoli, che tutti i giovani dei dintorni desiderano ballare con voi... Sembra che in questo modo comincino i matrimoni... E a poco a poco ne osservate uno, e..." Rodolphe, sorpreso dal silenzio della Goualeuse, la guardò. La ragazza frenava a stento i singhiozzi. Illusa per un istante dalle parole di Rodolphe, aveva dimenticato il presente, e il contrasto che c'era fra questo e il sogno d'una vita dolce e beata le rappresentava alla mente l'orrore della sua situazione. "Fleur-de-Marie che avete?" "Ah, signor Rodolphe, senza volerlo, mi avete messo addosso un grande turbamento. Per un momento ho creduto a quel paradiso..." "Ma, amica mia, questo paradiso esiste... Guardate... Ferma, cocchiere." La vettura si arrestò. La Goualeuse scese di carrozza e alzò meccanicamente la testa. Si trovava sulla cima di una collinetta. Quale fu la sua meraviglia, il suo stupore! Il bel villaggio a mezzo-poggio, la fattoria, il prato, le mucche, il ruscelletto, il castagneto, la chiesa in lontananza, tutto quel quadro le stava dinanzi... Non mancava nulla, perfino Musetta, la bella giovenca bianca, futura favorita della Goualeuse. L'ameno paese era rischiarato da un bel sole di novembre. Le foglie gialliccie e purpuree vestivano gli alti castagni e risaltavano fra l'azzurro del cielo. "Ebbene, Fleur-de-Marie, che ne dite? Non sono un buon pittore?" domandò Rodolphe sorridendo. La Goualeuse l'ammirava tra l'attonita e l'inquieta. Le sembrava una cosa soprannaturale. "Come mai, signor Rodolphe? Ma, mio Dio, è un sogno? Mi fa quasi paura... Come quello che mi avete detto..." "Niente di più semplice, mia cara... La fattoressa è la mia balia, fui allevato qui... Questa mattina l'ho fatta avvertire che sarei venuto a trovarla, e, parlando con voi, dipingevo al naturale." "Ah, è vero, signor Rodolphe!" esclamò la Goualeuse con un profondo sospiro. 12. Il podere. Il podere, dove Rodolphe condusse Fleur-de-Marie, era all'estremità del paese di Bouqueval, una piccola terra solitaria, nascosta, inoltrata fra i campi, lontano da Ecouen circa due leghe. Il fiaccheraio, obbedendo al comando di Rodolphe, scese per una ripida strada, ed entrò in un lungo viale fiancheggiato da ciliegi e da meli. La carrozza procedeva senza fragore su un tappeto di zolle e di erbe sottili e corte, di cui di solito sono coperti i viottoli di campagna. La giovane donna, silenziosa e malinconica, rimaneva, malgrado ogni suo sforzo, sotto una dolorosa impressione, che Rodolphe si rimproverava quasi di averle causato. Dopo pochi minuti la vettura passò davanti al portone del cortile della fattoria, continuò il suo cammino lungo una fitta siepe di carpini, e si fermò di fronte a un piccolo loggiato di legno rustico mezzo nascosto dal tronco serpentino e rugoso di una vite, con i suoi pampini dalle foglie ingiallite dall'autunno... "Eccoci arrivati, Fleur-deMarie" disse Rodolphe. "Siete contenta adesso?" "Sì, signor Rodolphe... Ma sento che avrò vergogna davanti alla vostra balia, non oserò mai guardarla in faccia..." "E perché, mia cara?" "Ah, sì, avete ragione, signor Rodolphe, lei non mi conosce..." Alla Goualeuse sfuggì dal petto un sospiro. Certo la carrozza di Rodolphe era attesa dalla gente della casa. Il cocchiere aveva appena aperto lo sportello, che una donna sui cinquant'anni, vestita del costume delle ricche proprietarie delle vicinanze di Parigi, con una fisionomia al tempo stesso mesta e dolcissima, comparve sotto il loggiato e si fece incontro a Rodolphe con rispettosa premura. La Goualeuse divenne di fuoco, e smontò dopo qualche minuto di titubanza. "Buon giorno mia buona signora Georges" disse Rodolphe alla donna "vedete che sono puntuale..." Poi, accostandosi al cocchiere e dandogli alcune monete, soggiunse: "Puoi ritornare a Parigi, quando credi." Questi, che era basso e vigoroso, con il cappello calato sugli occhi ed il viso quasi tutto nascosto dal bavero di pelle del suo pastrano, intascò il denaro, non rispose parola, salì a cassetta, diede una voce e una frustata alla bestia e via per il viale. "Dopo una corsa così lunga" pensò Rodolphe "costui ha troppa fretta di andarsene..." E quindi aggiunse fra sé: "Sono le due, vorrà essere in città abbastanza presto per impiegare il resto della giornata." E dopo questa seconda osservazione, non diede altra importanza alla prima. Fleur-de-Marie gli si accostò turbata, quasi intimorita, e gli disse a voce bassa, per paura d'essere intesa dalla signora Georges: "Mio Dio, scusate, signor Rodolphe, voi rimandate la carrozza... Ma l'Orca, ahimè!... Bisogna che io sia da lei questa sera, se no mi considererà una ladra... I vestiti che indosso sono suoi, e in più le devo..." "Calmatevi, mia cara, tocca a me domandarvi perdono..." "Perdono? E di che?" "Di non avervi ancora detto che non dovete più nulla all'Orca, e che potrete deporre questi ignobili panni per altri che vi darà l'ottima signora Georges. Ne ha di più adatti alla vostra persona, e si compiacerà di prestarvi il necessario. Voi vedete che comincia già il suo ruolo di zia." Fleur-de-Marie credeva di sognare, guardava ora la Georges, ora Rodolphe, né poteva prestar fede a ciò che udiva. "Come?" disse con voce tremante dalla commozione. "Non ritornerò più a Parigi? Potrò rimanere qui? E la signora me lo permetterà? Ciò sarebbe possibile? Quel castello in aria di poco fa?..." "Era questo podere appunto... Eccolo realizzato." "No, no, ciò sarebbe troppo bello, troppo piacevole..." "Non vi è mai troppa felicità, Fleur-de-Marie." "Ah, per pietà, signor Rodolphe, non m'ingannate, ciò mi farebbe molto male." "Mia cara, credetemi" disse Rodolphe con voce affettuosa, ma con un accento di dignità che Fleur-de-Marie ancora non conosceva "sì, voi potete, se lo volete, condurre d'oggi in avanti, al fianco della signora Georges, quella vita tranquilla la cui descrizione vi piaceva tanto. Benché questa signora non sia vostra zia, pure, quando vi abbia conosciuta, avrà per voi la maggior premura, inoltre sarete egualmente sua nipote agli occhi della gente del podere; questa piccola menzogna renderà più agevole la vostra situazione. Sì, ve lo ripeto, se vi aggrada, Fleur-deMarie, potrete realizzare il sogno di poco fa. Appena sarete vestita da forosetta" aggiunse sorridendo "vi condurremo a vedere la vostra futura favorita, la bella Musetta, giovenca bianca che non aspetta che il collare che voi le avete promesso. Noi andremo a fare una visita al colombaio, e poi alla cascina; insomma, visiteremo tutto il podere; io voglio adempiere le mie promesse." La Goualeuse giunse le mani con forza. Sul suo volto avvenente apparivano lo stupore, la gioia, la gratitudine, il rispetto. Le si riempirono gli occhi di lacrime ed esclamò: "Signor Rodolphe, voi siete dunque un angelo del buon Dio, che fate tanto bene agli infelici senza conoscerli, e li salvate dall'onta e dalla miseria!" "Povera fanciulla" rispose Rodolphe con un sorriso di profonda malinconia e d'ineffabile dolcezza "benché giovane ho già sofferto nella mia vita, e questo vi spieghi la compassione che provo per coloro che soffrono. Fleur-deMarie, anzi, vi chiamerò Marie, andate pure con la signora Georges. Marie, conservate questo nome bello e gentile come voi! Prima che io parta discorreremo insieme, e partirò, felice solo di sapervi contenta." La ragazza non rispose, si avvicinò a Rodolphe, e, piegate le ginocchia, gli prese la destra e l'accostò rispettosamente alle labbra con un atto colmo di grazia e di modestia. Quindi seguì la signora Georges, che la guardava con molta tenerezza. 13. Murph e Rodolphe. Rodolphe si diresse verso il cortile e trovò l'uomo d'alta statura che la sera prima, vestito da carbonaio, era venuto ad avvertirlo dell'arrivo di Tom e Sarah. Murph, tale era il nome di quell'individuo, aveva circa cinquant'anni, pochi capelli bianchi e altri biondi e ricciuti gli spiovevano dal cranio quasi calvo; il suo viso, largo e colorito, era senza barba, salvo le fedine cortissime e bionde che non oltrepassavano il lobo dell'orecchio e si facevano rotonde sulle gote paffute. Benché d'età avanzata e corpulento, Murph era agile e robusto. La sua fisonomia, che ricordava un carattere flemmatico, era però risoluta e insieme benevola. Portava una cravatta bianca, panciotto e abito nero con ampie falde, e i calzoni, di un color grigio verdastro, della medesima stoffa delle ghette, con i bottoni di madreperla, gli arrivavano appena al ginocchio, e lasciavano scorgere calze di lana greggia. L'abbigliamento e il nobile portamento di Murph presentavano il tipo perfetto di quel che gli inglesi chiamano un gentiluomo di campagna. Ci affretteremo tuttavia a dire che egli era un vero "squire", cioè un vero gentiluomo inglese, non un fattore. Nel momento in cui Rodolphe entrava nel cortile, Murph riponeva nella sacca d'un piccolo calesse da viaggio un paio di pistole che aveva appena finito di pulire. "Che diavolo vuoi fare di quelle pistole?" gli chiese Rodolphe. "Questo riguarda me solo, monsignore" egli rispose, scendendo dal montatoio. "Fate pure i fatti vostri, che io faccio i miei." "Per quale ora hai ordinato i cavalli?" "Secondo i vostri comandi, al cadere della notte." "Sei arrivato questa mattina?" "Alle otto. La signora Georges ha avuto tempo di preparare ogni cosa." "Mi sembri imbronciato... Sei forse scontento di me?" "Lo sono fin troppo monsignore, fin troppo... Un giorno o l'altro... Insomma temo per la vostra vita." "Non hai torto a parlar così! Se ti lasciassi libero di fare, tutti i rischi sarebbero per te solo, e..." "E se faceste egualmente il bene senza mettere in pericolo la vostra vita, che male ci sarebbe, monsignore?" "Ma quale piacere ci sarebbe, caro messer Murph?" "Voi" seguitava lo "squire", alzando le spalle "voi bazzicare in simili taverne!" "Oh, eccoci alle solite, con voi John Bull, con i vostri scrupoli aristocratici! Stimate sempre i grandi signori d'una pasta superiore alla vostra, poveri agnellini che andate superbi dei vostri macellai!" "Se foste inglese, monsignore, comprendereste meglio... Si onora chi onora. E d'altronde, quando pure fossi turco, cinese o americano, direi che avete torto a esporvi così. Ieri sera, nelle pericolose strade della Cité, andando con voi per trovare quel Bras-Rouge, che sia maledetto!, ci volle tutto il timore d'irritarvi e disobbedirvi per trattenermi e non correre in vostro aiuto nella rissa con il manigoldo che avete incontrato nel portico di quella casa." "Vale a dire, mio caro, che voi dubitate della mia forza e del mio coraggio?" "Disgraziatamente mi avete mille volte dimostrato di non dover dubitare né dell'uno, né dell'altro. Grazie a Dio, Crabb da Ramsgte vi ha insegnato a tirare di boxe, Lacour di Parigi(2) vi ha dato lezioni di bastone e di pallacorda, e, in più, vi ha insegnato a parlar furbesco; il famoso Bertrand vi ha addestrato nella scherma, e nei vostri saggi contro quei professori siete uscito spessissimo vincitore. Uccidete le rondini al volo con una pistola, avete dei muscoli d'acciaio; quantunque mingherlino, mi battereste tanto facilmente quanto un cavallo da corsa un cavallo da birraio..." "Questo è vero." Rodolphe aveva ascoltato con compiacenza l'elenco dei suoi meriti da gladiatore e, sorridendo, soggiunse: "E allora, di che hai paura?" "Sostengo, monsignore, che non conviene mettersi a fare a pugni con il primo cialtrone che vi capita. E non lo dico perché avete costretto un gentiluomo a impiastricciarsi la faccia con il carbone e a prendere l'aspetto d'un diavolo... Malgrado i miei capelli grigi, la tarda età e gravità, mi maschererei da funambolo, se vi potesse giovare, ma non mi rimangerò quanto ho detto." "Oh, lo so bene, vecchio Murph, quando un'idea s'è fissata nel tuo cranio di ferro, quando il tuo zelo l'ha ribadita nel tuo cuore fermo e valoroso, il demonio si spunterebbe i denti e le unghie per estirparla." "Adesso mi adulate, monsignore, meditate forse qualche..." "Non essere in imbarazzo." "... qualche pazzia, monsignore?" "Mio povero Murph, hai scelto un cattivo momento per farmi prediche." "Perché?" "Sono in uno dei miei momenti migliori di orgoglio e di contentezza... sono qua..." "In un luogo dove avete fatto del bene!" "È un rifugio contro i tuoi sermoni, è il mio "Temple-Bar"..." "Se non è così, a cosa diamine volete che ricorra, monsignore?" "Signore caro, voi mi adulate, se volete impedirmi di fare qualche follia." "Monsignore, ci sono delle follie per le quali sono indulgente." "Quelle di denaro?" "Sì, perché, innanzi tutto, con quasi due milioni di rendita..." "Spesso si è molto ristretti, caro Murph." "A chi lo dite, monsignore?" "Eppure ci sono alcuni piaceri così vivi, puri e profondi, che costano tanto poco! Che c'è mai da poter paragonare a ciò che ho provato poco fa, quando quella povera creatura si è sentita al sicuro qui, e nella sua gratitudine mi ha baciato la mano? E non è tutto, alla mia soddisfazione si prepara un lungo avvenire: domani, dopodomani, per molti giorni infine, potrò pensare con delizia a come si sentirà quella ragazza quando si sveglierà ogni mattina in questo tranquillo asilo, presso l'ottima signora Georges, che l'amerà teneramente, perché gli sventurati hanno per gli altri sventurati grande simpatia." "Oh, riguardo alla signora Georges, non vi furono mai benefici meglio impiegati. Nobile e coraggiosa donna! Un angelo di virtù, un vero angelo! È raro che io mi commuova, ma questo mi accade per le disgrazie della signora Georges... Quanto alla vostra nuova protetta! Non ne parliamo, monsignore." "Perché Murph?" "Monsignore, voi fate sempre ciò che vi pare meglio." "Faccio quello che è giusto" ribatté Rodolphe un poco spazientito. "Cioè, giusto secondo voi." "Giusto davanti a Dio e alla mia coscienza" replicò Rodolphe severo. "Ecco, monsignore, non ci intendiamo. Ve lo ripeto, non ne parliamo più." "E io vi ordino di parlare" gridò l'altro imperiosamente. "Non siamo mai arrivati al punto da dovermi ordinare di tacere, spero che non mi comanderete di parlare" rispose Murph con dignità. "Signor Murph" gridò Rodolphe con un accento d'ira sempre più crescente. "Monsignore!..." "Lo sapete che non mi piacciono le reticenze." "E a me fa comodo usarne" disse bruscamente Murph. "Sappiate, signore, che se scendo con voi fino alla familiarità, è sempre a patto che voi vi innalziate sino alla schiettezza." È impossibile descrivere l'alterigia sovrana della fisonomia di Rodolphe nel pronunciare queste ultime parole. "Monsignore, ho cinquantotto anni e sono gentiluomo; non dovete parlarmi in tal modo." "Tacete!" "Monsignore!" "Tacete!" "Monsignore, è un atto indegno costringere un uomo di cuore a ricordarsi dei servizi che ha prestati." "I tuoi servizi? E non te li pago io in tutti modi?" Bisogna confessarlo, Rodolphe non aveva inteso dare a quelle dure parole il senso umiliante che riduceva Murph alla posizione d'un mercenario; disgraziatamente le interpretò in mala parte. Diventò rosso, portò alla fronte i pugni stretti, in atto di dolorosa indignazione; poi, d'un tratto, per un impulso subitaneo, osservando Rodolphe, il cui nobile aspetto era alterato dall'improvvisa collera, soffocò un sospiro, e gli disse con voce commossa: "Monsignore, tornate in voi, avete smarrito la ragione!" Tali parole fecero traboccare l'ira di Rodolphe; ebbe uno sguardo sinistro; gli si fecero smorte le labbra, e avanzandosi contro Murph, con un gesto minaccioso, gridò: "Osi ancora?" Murph indietreggiò, e rispose con impeto, e quasi suo malgrado: "Monsignore, monsignore, ricordatevi del 13 gennaio!" Questa reminiscenza produsse in Rodolphe un effetto magico: il suo volto pieno di collera si rasserenò. Guardò fisso Murph, abbassò il capo, poi, dopo un momento di silenzio, mormorò con voce alterata: "Ah, signore, voi siete crudele... Io credevo!... E voi pure!... voi!..." Rodolphe non poté terminare, gli si estinse la voce; cadde sopra un muricciolo, e si nascose il viso fra le mani. "Monsignore" esclamò Murph desolato "mio buon signore, perdonatemi, perdonate al vostro vecchio e fedele Murph! Ridotto agli estremi, temendo, non per me, di sicuro, ma per voi, le conseguenze del vostro trasporto, ho parlato così... Ho parlato senza collera, senza rimprovero, ho parlato mio malgrado e con compassione. Monsignore, ho avuto torto a offendervi... Mio Dio, chi deve conoscere il vostro carattere, se non io che non vi ho abbandonato un istante fin dalla vostra fanciullezza! Di grazia, dite che mi perdonate di avervi rammentato quel giorno funesto... Ahimè, con quanta espiazione avete finora..." Rodolphe sollevò la fronte; era pallidissimo. Si volse al compagno, e con voce dolce e malinconica: "Basta, basta, mio vecchio e buon amico" gli disse "ti ringrazio di aver calmato con le tue parole la mia ira. Non ti domanderò scusa delle cose spiacevoli che ho dette; tu ben sai che ci corrono dal cuore alle labbra, come dicono i galantuomini da noi. Ero pazzo, non ne parliamo più." "Ecco, adesso chissà per quanto ne sarete afflitto... Che disdetta è la mia!... Non desidero di meglio che vedervi uscire dal cattivo umore che vi persegue, e vi ci faccio cadere nuovamente con i miei sciocchi puntigli. Santo Iddio, a che giova essere un galantuomo e avere i capelli grigi, se non serve a far sopportare con pazienza qualche rampogna non meritata! Ma no" continuò Murph con una esaltazione poco meno che ridicola, poiché contrastava con la sua flemma naturale "no, bisogna che mi adulino costantemente, che mi si dica: "Signor Murph, voi siete il modello dei servitori! Signor Murph, non c'è fedeltà pari alla vostra! Signor Murph voi siete un uomo ammirabile! Signor Murph! Diavolo, oh, com'è bello il signor Murph! Bravo Murph!... Ma bravo, vecchio pappagallo, fatti dunque grattare un poco la testa grigia!"." Indi, ricordandosi dell'affettuoso linguaggio che Rodolphe gli aveva tenuto all'inizio, continuò con maggior forza e con la stessa aria grottesca: "E notate che mi avete chiamato il buono, il vecchio, il fedele Murph! E io, come un tanghero, per una scappata involontaria, alla mia età... Santo Dio, è roba da strapparsi i capelli." E il degno gentiluomo si portò le mani alle tempie. Quegli accenti e quel gesto erano per lui il segno della disperazione giunta all'estremo. Disgraziatamente, o forse, anzi, per sua buona sorte, egli era totalmente calvo, il che rendeva innocuo il suo tentativo: e ciò con suo grande e sincero rincrescimento. Aggiungeremo, onde liberare Murph da ogni sospetto di finzione o d'inganno, che nel passato aveva avuta la capigliatura più folta e più bella che mai abbia ornato il cranio di un gentiluomo dello Yorkshire. Comunemente tale scoramento che Murph risentiva a motivo della sua chioma serviva a divertire Rodolphe, ma in questa circostanza i suoi pensieri erano gravi e affannosi. E però, non volendo accrescere i dispiaceri del suo compagno, gli disse con un sorriso dolce: "Buon Murph, mi pare che tu elogiassi senza limite il bene da me fatto alla signora Georges..." "Monsignore..." "E ti stupivi delle mie premure per quella ragazza." "Monsignore, di grazia, ho avuto torto, ho avuto torto!" "No, comprendo che le apparenze possono averti illuso... Ma siccome conosci ogni segreto della mia vita e mi aiuti con altrettanta fedeltà che coraggio nelle imprese in cui mi sono messo, è mio dovere, o se meglio vuoi, per gratitudine, convincerti che non opero sconsideratamente." "Lo so, monsignore." "Sai quali sono le mie idee intorno al bene che può fare un uomo. Soccorrere gli sventurati che si lagnano è ben fatto, ma informarsi su quelli che combattono con cuore ed energia, assisterli, talvolta senza che essi lo sappiano, prevedendo il bisogno e la tentazione che spingono al delitto, è anche meglio. Ma, quindi, riabilitarli ai loro stessi occhi, e rendere sinceramente buoni e onesti coloro che conservarono qualche generoso sentimento in mezzo alla volgarità che li avvilisce, alla povertà che li consuma, alla corruzione che li circonda, e per tale scopo esporci noi stessi a quella miseria e a quel fango, è anche più encomiabile. Infine, perseguitare con odio fortissimo le vendette implacabili, il vizio, l'infamia, i misfatti, sia che giacciano nel fango o che brillino sulla seta e sull'oro è vera giustizia... Ma soccorrere ciecamente un'indigenza meritata, degradare l'elemosina e la pietà, prostituire queste caste e pie consolatrici dell'anima mia ulcerata, prostituirle rendendosene indegni, infami, sarebbe orribile, empietà e sacrilegio. Sarebbe far dubitare di un Dio. E colui che dà ad altri deve far sì che in Dio essi credano." "Monsignore, non volevo dire che avreste male impiegato le vostre beneficenze." "Poche parole ancora, mio vecchio amico. La signora Georges, e la povera fanciulla che le ho affidato, sono partite da due situazioni per piombare in un abisso comune... L'una felice, ricca, amata, onorata, dotata di tutte le virtù, ha visto la propria esistenza rovinata, consumata, dall'ipocrita scellerato a cui l'avevano maritata stolti parenti... Lo dico con giubilo, senza di me l'infelice sarebbe morta di stenti e di cordoglio, poiché la vergogna le impediva di ricorrere ad alcuno." "Ah, monsignore, quando salimmo in quella soffitta, che spaventosa povertà! Era veramente orribile... E quando, dopo lunga infermità, si ridestava, per così dire, in questa casa così tranquilla, quale sorpresa! Quale riconoscenza! Avete ragione, monsignore, nel soccorrere tali sventurati non si può fare a meno d'aver fede in Dio." "Ed è onorare Iddio aiutarli; lo sento dentro di me, non c'è cosa più celeste che la virtù serena e nata dalla riflessione, nulla di più rispettabile di una donna come la signora Georges, che educata da una natura buona e pia nell'intelligente adempimento di tutti i doveri, non ha mai mancato... Ha valorosamente affrontato le più spaventose prove. Ma forse non è pure onorare Dio sollevare dal fango una di quelle rare creature da lui dotate di stupendi valori? Non merita compassione, interesse, rispetto, sì, rispetto, la sventurata ragazza che, abbandonata, bistrattata, carcerata, avvilita, infamata, serbò santamente, in fondo al cuore, i nobili germi che vi aveva sparso l'Onnipotente? Se tu l'avessi udita quella poveretta alle prime parole di premura che le rivolgevo, alla prima parola onesta e amica che mai abbia ascoltato... Oh, come l'istinto più bello, le inclinazioni più pure, i pensieri più delicati, i più poetici, si risvegliavano, affollandosi nel suo animo ingenuo, proprio come in primavera i mille fiori silvestri dei prati sbocciano al raggio di sole, improvvisi, solleciti. In quell'incontro di un'ora con un povero operaio, si sono rivelati in Fleur-de-Marie tesori di bontà, di grazia, di saggezza, sì, di saggezza, mio vecchio Murph. Non riuscii a trattenere la commozione, quando nella sua graziosa loquacità, non priva di giudizio, volle provarmi che io dovessi risparmiare due franchi ogni giorno, per non incappare nella miseria e nelle cattive tentazioni. Poveretta, me lo diceva con tono così serio e con tanta convinzione! Era talmente soddisfatta nel darmi dei buoni consigli, così lieta nel sentirmi promettere che l'avrei ascoltata... che ne fui commosso... E mi accusano d'essere sazio della vita, duro, inflessibile... Oh, no, no, grazie a Dio! Qualche volta sento ancora palpitarmi il cuore ardente e generoso... Ma tu pure sei intenerito, mio vecchio amico... Animo dunque! Fleur-de-Marie non sarà gelosa della signora Georges, e tu t'interesserai pure alla sorte di lei..." "È vero monsignore, quell'idea di farvi economizzare due franchi al giorno credendovi un operaio, invece di lusingarvi a far spese per lei, sì, quell'idea mi rende sensibile, forse più di quanto converrebbe." "E quando penso che questa poverina ha una madre ricca, rispettata, secondo si dice, e che questa l'abbandonò indegnamente. Oh, se così è, lo saprò, spero, e ti dirò come... Oh, se così è, guai, guai a quella femmina! Dovrà subire una terribile espiazione... Murph, Murph, non provai stimolo d'odio più implacabile che nel riflettere ad una tale donna, che pure non conosco. Tu lo sai, Murph, tu lo sai, certe vendette mi sono assai care, certi patimenti preziosi... Sento sete di certe lacrime!" "Ahimè, monsignore" disse Murph angustiato dall'espressione di odio selvaggio sul volto di Rodolphe "lo so, coloro che sono degni di premura e di pietà dissero spesso di voi: "Questo è un buon angelo!". Ma quelli che tuttavia meritano disprezzo ed odio esclamarono, maledicendovi, nella loro disperazione: "Questo è il demonio!"." "Taci, ecco la signora Georges e Marie... Fa' disporre l'occorrente per la nostra partenza; conviene essere a Parigi di buon'ora." 14. L'addio. Marie (così d'ora in poi chiameremo la Goualeuse), grazie alle cure della signora Georges non si riconosceva più. Una bella cuffietta rotonda da contadina e due grosse trecce di capelli le ornavano il viso delicato, una larga fascia di mussola bianca le s'incrociava sul petto e spariva per metà sotto l'alta cintura di un corto grembiale di taffetà a colori cangianti, le cui tinte, miste d'azzurro e rosa, risplendevano sul campo scuro di una giubba color pulce, che sembrava fatta espressamente per lei. Era all'aspetto oltremodo pensosa: ci sono gioie che ci immergono naturalmente in una mestizia ineffabile, in una santa malinconia. Rodolphe non fu sorpreso dalla sua tristezza, giacché se l'aspettava: fosse stata loquace e lieta, avrebbe avuto di lei meno considerazione. Prudente, guardingo, non le fece complimenti per la sua bellezza, che appariva più che mai seducente. Comprendeva tutto quanto c'era di solenne, di nobile, in quella specie di redenzione di un'anima sottratta al vizio. Sul volto rassegnato della signora Georges si distinguevano i segni di lunghissime pene, di affanni profondi. Guardava Marie con una compassione quasi materna, tanto la grazia e la docilità di lei erano a tutti gradite. "Ecco la mia nuova figlia che viene a ringraziarvi della vostra bontà" disse a Rodolphe, presentandogli la ragazza. Marie volse lentamente gli occhi verso la nuova protettrice, con un'espressione inimitabile di gratitudine. "E io, mia cara signora Georges, vi ringrazio per Marie: è degna delle vostre premure, e le meriterà sempre" rispose Rodolphe. "Signore" disse allora la ragazza con voce tremula "non trovo parole per esprimervi i miei sentimenti." "Marie, questa vostra commozione parla abbastanza chiaro." "Oh, lei comprende che la fortuna che le è giunta è un prodigio della Provvidenza" seguitò la signora Georges. "La prima cosa che abbia fatto, entrando nella mia camera, è stata d'inginocchiarsi davanti al crocifisso." "Perché adesso, signor Rodolphe, grazie a voi, ardisco pregare" aggiunse Marie. Murph si volse; la flemma inglese e la dignità da "squire" non gli permettevano di far capire ad altri quanto lo toccassero quelle semplici parole di Marie. "Figlia mia" disse Rodolphe "devo parlare con la signora Georges. Il mio amico Murph vi condurrà sul podere e vi farà far conoscenza con i vostri futuri protetti... Tra poco vi raggiungeremo... Ebbene, Murph, Murph!, non mi hai sentito?" Il buon gentiluomo volgeva appunto le spalle e fingeva di soffiarsi il naso, facendo un rumore terribile; si rimise in tasca il fazzoletto, si tirò il cappello ben avanti e, girandosi un poco, offerse il braccio alla giovane. Egli aveva operato con tale accortezza che nessuno osservò la sua agitazione. Presa a braccetto Marie, si diresse con lei verso le campagne della fattoria, e camminava così svelto che la ragazza per seguirlo era obbligata a sgambettare, come quando teneva dietro alla Chouette. "Ebbene, signora Georges, che pensate di Marie?" domandò Rodolphe. "Ve l'ho già detto, signor Rodolphe, appena entrata nella stanza è corsa a inginocchiarsi davanti al crocifisso... Non è possibile esprimervi ciò che c'era in quell'atto spontaneo e religioso. Ho subito capito che la sua anima non è degradata. D'altronde, signor Rodolphe, i termini di cui si valeva per dimostrarvi la sua gratitudine non erano esagerati, non enfatici, e perciò più sinceri. Ecco poi un'altra cosa che vi proverà quanto possa l'istinto religioso: "Siete rimasta molto meravigliata" le ho chiesto "quando il signor Rodolphe vi ha detto che d'ora in poi starete qui?". "Ah sì" mi ha risposto "quando me lo ha detto, non so quel che è accaduto in me tutto d'un tratto, ma ho provato un piacere dolce, e un santo rispetto come entrando in una chiesa... quando potevo andarci... Giacché sapete, signora..." Io non ho lasciato terminare, vedendo che arrossiva. "Figlia mia" l'ho interrotta "e così vi chiamerò sempre, se non vi rincresce... So che patiste molto, ma Dio benedice quelli che lo amano e lo temono, quelli che furono infelici e quelli che si pentono."" "Orsù, mia buona signora Georges, mi lodo doppiamente di ciò che ho fatto. Credetelo, lei vi piacerà moltissimo... Non dovrete far altro che seminare per raccogliere. Intanto avete indovinato: la sua indole è eccellente." "Quel che pure mi è piaciuto, signor Rodolphe, è che non si è permessa la minima domanda su di voi, quantunque la sua curiosità dovesse essere grande. Incantata da simile riservatezza, ho voluto vedere che ne pensasse, e le ho domandato: "Immagino sarete ansiosa di sapere chi sia il vostro misterioso benefattore?". "Io so soltanto" mi ha subito replicato con un candore ammirabile "che lo chiamo il mio benefattore!"" "Così dunque voi l'amate?" "Sì, mi occuperò di lei come mi sarei occupata di "lui"!" esclamò la Georges, con fiero dolore. Rodolphe le prese la mano: "Ah, non vi scoraggiate ancora. Se le nostre indagini sinora sono state vane, chissà che un giorno..." Lei, scuotendo il capo, rispose amaramente: "Il mio povero figlio avrebbe adesso vent'anni." "Dite piuttosto che "ha" questa età." "Dio vi ascolti e vi esaudisca, signor Rodolphe!" "Mi esaudirà, spero... Sono andato ieri, ma invano, a cercare un certo Bras-Rouge, che, a quanto mi è stato detto, avrebbe potuto darmi notizie di vostro figlio, e mentre scendevo dalla casa di lui, ho dovuto sostenere una rissa in cui era coinvolta questa disgraziata." "Eh, tanto meglio! Almeno l'impresa in cui vi siete cacciato per amor mio vi ha fatto soccorrere un'altra sventurata, signor Rodolphe." "È da molto tempo, d'altronde, che volevo esplorare quella miserabile Cité, quasi certo che anche là ci fossero anime da rapire al vecchio Satana, cui spesso mi piace fare qualche dispetto" continuò Rodolphe sorridendo "e al quale certe volte levo i migliori bocconi." Poi soggiunse seriamente: "Non avete notizie da Rochefort?" "Nessuna" disse la Georges, a voce bassa e palpitando. "Meglio così! Quel mostro avrà trovato la morte nel tentativo di fuga. I suoi connotati sono divulgati, è uno scellerato tanto tremendo che si deve essere messa in moto tutta la polizia per ritrovarlo; è da sei mesi circa che è sparito dal ba..." Rodolphe si fermò sul punto di pronunciare la terribile parola. "Dal bagno! Oh, ditelo pure!" riprese la sventurata, inorridita e con voce strozzata. "Il padre di mio figlio! Oh, se l'infelice è ancora vivo, se non ha, come me, cambiato nome, che vergogna! Che vergogna! E questo è poco ancora... Suo padre avrà forse mantenuto l'orribile promessa... Ah, perdonate, signor Rodolphe, ma malgrado il vostro aiuto, sono ancora molto sventurata!" "Calmatevi, povera donna!" "A volte mi assale una paura indicibile. Mi figuro che mio marito sia scappato sano e salvo da Rochefort, che mi cerchi per uccidermi, come forse ha già ucciso nostro figlio. Poiché, in sostanza, che ne avrà fatto?" "In questo mistero si confonde la mente" replicò Rodolphe, abbattuto. "Per quale scopo lo sciagurato aveva portato con sé il bambino, quando, quindici anni fa, come mi avete detto, tentò di passare in un paese straniero? Un bambino di quell'età non poteva che essergli d'impaccio nella fuga." "Ah, signor Rodolphe, quando il mio sposo" e la donna rabbrividiva proferendo questo nome "arrestato alla frontiera, fu ricondotto a Parigi, e messo in carcere, dove mi venne permesso l'accesso, mi disse queste terribili parole: "Ho portato con me tuo figlio perché tu lo ami, e questo è un mezzo per costringerti a mandarmi denaro... Se poi quel denaro servirà per il bambino non l'ho ancora deciso... Che egli viva o muoia, poco m'importa! Ma se vive sarà in buone mani. E tu soffrirai la vergogna del figlio come quella del padre!". Ahimè, dopo un mese quell'uomo era condannato ai lavori forzati a vita... E le mie lettere, piene di preghiere, di istanze, riuscirono vane! Nulla potei sapere sulla sorte di quel fanciullo... Ah, signor Rodolphe, dove sarà mio figlio? Quelle funestissime parole mi tornano sempre più al pensiero: "Tu soffrirai la vergogna del figlio come quella del padre!"." "Ma sarebbe un'atrocità inspiegabile! Sfortunato ragazzo... E poi, penso, perché toglierlo a voi?" "Ve l'ho detto, per costringermi a spedirgli denari. Benché mi avesse rovinata, mi restava qualche piccola risorsa, che fu esaurita. Malgrado la sua scelleratezza non potevo immaginarmi che non impiegasse almeno una parte di quella somma per far educare la mia sventuratissima creatura." "Ed il bambino non aveva un segno, un indizio che lo facesse riconoscere?" "Nessun altro oltre quello di cui vi ho parlato: un piccolo Spirito Santo inciso su un medaglione che portava al collo con una collanina d'argento. Questa reliquia, benedetta dal Santo Padre, proveniva dalla mia mamma, e la tenevo in grande venerazione. Anch'io l'avevo tenuta addosso, e poi messa al collo al mio figliolo!... Ahimè, quel talismano ha perduto la sua virtù!" "Chissà? Iddio è onnipotente!" "Certo, fu la Provvidenza che vi mise sul mio cammino, signor Rodolphe!" "Troppo tardi, mia buona signora Georges! Vi avrei forse risparmiato molti anni di pene..." "Ah, signor Rodolphe, mi avete abbastanza colmata di benefici." "E che mai? Ho comperato questo podere. Nei tempi della vostra prosperità vi prendevate cura da sola, per vostro piacere, dei beni che possedevate; acconsentiste a farmi le veci di amministratore: per la vostra premura, attività e capacità, la fattoria mi rende..." "Vi rende monsignore?" disse la donna interrompendolo; "E non sono io che verso la rendita all'abate Laporte? E la somma non è per ordine vostro distribuita da lui in elemosine?" "Ebbene, non è un'ottima rendita?... Ma, a proposito, avete avvertito l'abate del mio arrivo? Vorrei raccomandargli la mia protetta... Ha ricevuto la mia lettera?" "Il signor Murph gliel'ha portata stamani appena giunto." "Nella lettera raccontavo brevemente al nostro buon curato la storia della ragazza, giacché non ero certo di poter venire oggi, ed in ogni caso Murph l'avrebbe accompagnata qui." Un garzone della fattoria interruppe la conversazione, che aveva luogo in giardino. "Signora, il curato l'aspetta." "Giovanotto, i cavalli da posta sono pronti?" domandò Rodolphe. "Sì, signor Rodolphe, li attaccano" e se ne andò. La Georges, il prete e la gente del podere conoscevano il protettore di Marie, soltanto sotto il nome di Rodolphe. Murph era di una segretezza impenetrabile, e quanto con deferenza lo chiamava monsignore da solo a solo, tanto davanti a terze persone aveva cura di chiamarlo signor Rodolphe e non altrimenti. "Dimenticavo di dirvi, cara signora Georges" disse Rodolphe tornando verso la casa "che, per quanto io credo, Marie ha i polmoni poco sani. Le privazioni e l'indigenza le hanno alterato la salute; mi ha sorpreso questa mattina il suo pallore, e negli occhi mi è sembrato di distinguere un moto febbrile. Occorreranno grandi attenzioni." "Contate su di me, signor Rodolphe. Grazie al Cielo, nulla c'è di grave; alla sua età, nei campi, all'aria buona, con il riposo e l'animo sereno si rimetterà ben presto." "Lo spero anch'io, peraltro non mi fido dei vostri dottori di campagna... Dirò a Murph di condurre qua un abile medico, che indicherà il miglior regime da tenersi. Voi mi darete spesso sue notizie. Fra qualche tempo, quando sarà più serena, penseremo al suo avvenire. Per lei sarebbe forse meglio restare sempre presso di voi, se vi piaceranno il suo carattere e la sua condotta." "Io lo desidererei, signor Rodolphe; mi farebbe le veci del figlio che piango ogni giorno." "Ad ogni modo speriamo bene per voi, e lei." A questo punto del discorso capitarono Murph e Marie. Questa era rianimata dalla passeggiata fatta. Rodolphe fece osservare alla fattoressa il colorito delle gote di Marie, che formava uno straordinario contrasto con la delicata bianchezza della sua carnagione. Murph lasciò di darle braccio, e, quasi confuso, disse all'orecchio di Rodolphe: "Questa ragazzetta mi ha stregato; adesso non so chi m'interessi di più, se lei o la signora Georges. Ero una bestia a oppormi alla vostra benevolenza nei suoi riguardi." "Non ti strappare per ciò i capelli, vecchio mio!" rispose Rodolphe ridendo e stringendogli le mani. La signora Georges condusse la ragazza nel salotto al pianterreno dove l'attendeva l'abate Laporte. Il signor Murph andò ad occuparsi dei preparativi della partenza. La donna, Marie e Rodolphe restarono insieme. La stanza, semplice ma comoda, era ammobiliata e tappezzata come il rimanente della casa descritto da Rodolphe alla fanciulla. Un morbido tappeto copriva il pavimento, un buon fuoco ardeva nel caminetto, e due grossi mazzi di asteroidi d'ogni colore in due vasi di cristallo spargevano la loro balsamica fragranza. Attraverso le persiane verdi, socchiuse, si scorgevano i prati, il ruscelletto, e più oltre il colle ombreggiato da castagni. L'abate Laporte, che stava seduto presso il camino, aveva passato gli ottant'anni; dagli ultimi giorni della Rivoluzione dirigeva quella parrocchia. Non si poteva vedere niente più venerabile e nel medesimo tempo più dolcemente imponente del suo volto senile, magro e alquanto infermo, contornato da lunghi capelli bianchi, che cadevano sul collare dell'abito, rattoppato in più punti. Il buon abate era tanto vecchio che gli tremavano sempre le mani, ed in quel loro movimento perpetuo esisteva un non so che di commovente; e se talvolta le alzava nel parlare, avresti detto che impartisse la benedizione. Rodolphe osservava attentamente Marie. Se l'avesse conosciuta meno, o piuttosto meno apprezzata, gli avrebbe causato stupore vederla accostarsi al buon prete con un atteggiamento sereno e devoto. Il cuore di Marie le diceva che la vergogna ha termine là dove hanno inizio il pentimento e l'espiazione. "Signor abate" disse rispettosamente Rodolphe "la signora Georges si compiace addossarsi la cura di questa giovane, per la quale io richiedo la vostra bontà." "Essa ne ha diritto, signore, come tutti coloro che vengono verso di noi. La clemenza di Dio ha larghe braccia, figlia mia. Egli ve lo ha provato non abbandonandovi in mezzo a dolorose prove... Io so tutto..." E, fra le sue, tremule e venerabili, stringeva le piccole mani della ragazza. "L'uomo generoso che vi ha redenta dal male ha avverato le parole della Scrittura: "Il Signore è presso quelli che lo invocano, esaudirà le brame di quelli che lo temono, ascolterà le loro grida e li salverà". Adesso meritatevi la sua misericordia con la vostra condotta; mi troverete sempre disposto a incoraggiarvi e sostenervi nella retta via, in cui ora entrate. Avrete nella signora Georges un esempio quotidiano, in me un vigile consigliere, ed il Signore compirà l'opera sua." "Ed io lo pregherò per quelli che hanno pietà di me, e che mi hanno rimesso sulla buona strada, padre" rispose Marie. E, con un moto quasi involontario, si gettò ginocchioni dinanzi al vecchio curato. La sua commozione era troppo forte, i singhiozzi la soffocavano. "Alzatevi, figliola" disse il prete "in breve meriterete l'assoluzione per i grandi errori di cui foste più vittima che colpevole, giacché, parlando sempre con il profeta: "Il Signore sostiene tutti coloro che sono prossimi a cadere e solleva tutti quelli che da altri sono oppressi"." "Addio, Marie" le disse Rodolphe, dandole una crocetta d'oro legata a un nastro di velluto nero "conservate questa croce in memoria di me; vi ho fatto incidere la data della vostra liberazione, della vostra redenzione. Ben presto tornerò a vedervi." La ragazza s'accostò quel sacro oggetto alle labbra. In quel momento Murph aprì l'uscio del salotto. "Signor Rodolphe, i cavalli sono pronti." "Vi saluto, caro abate, e anche voi, signora Georges. Vi raccomando vostra figlia... Di nuovo, Marie, addio!" Il venerabile curato, appoggiato al braccio della signora e della ragazza, che lo reggevano, uscì dal salotto per veder partire Rodolphe. Gli ultimi raggi del sole colorivano con vivacità quel gruppo di persone così diverse: un vecchio prete, simbolo di carità, di perdono e di speranza eterna; una donna, messa ormai alla prova da tutti i dolori che possono angosciare una sposa, una madre; ed una giovane che, appena uscita dall'infanzia, era stata gettata nell'abisso del vizio, della miseria e della tentazione al delitto. Rodolphe salì in carrozza, Murph sedette al suo fianco. I cavalli partirono al galoppo. 15. L'appuntamento. L'indomani del giorno in cui Rodolphe aveva affidato Marie alla signora Georges, egli, vestito sempre da operaio, si trovava a mezzogiorno preciso sulla porta della taverna del Paniere Fiorito, non lontano dalla barriera di Bercy. La sera prima, alle dieci, lo Chourineur era stato puntualissimo all'appuntamento, che egli aveva fissato, e di cui si rileverà il risultato dal seguito del nostro racconto. Era dunque di pomeriggio. Pioveva a dirotto, la Senna, gonfiata dal continuo diluvio d'acqua, era giunta ad un'altezza smisurata, inondando gran parte della strada. Rodolphe guardava con impazienza verso la barriera: finalmente, distinguendo in lontananza un uomo ed una donna che venivano avanti riparati dall'ombrello, riconobbe in essi la Chouette e il Maître. I due furfanti erano del tutto trasformati. L'antico galeotto aveva deposto gli abiti consueti e la sua aria di brutalità feroce; portava un lungo soprabito verde, un cappello rotondo, una cravatta e la camicia bianchissima. Senza il suo brutto aspetto ed il sinistro lampo dello sguardo, sempre ardente e mobile, lo si sarebbe scambiato, dal portamento tranquillo e posato, per un onesto galantuomo. La guercia, pure in gran gala, aveva la cuffia bianca, uno scialle tipo cachemire, e teneva in mano un paniere. Essendo la pioggia cessata per un istante, Rodolphe superò la propria repulsione e andò incontro all'iniqua coppia. Al gergo del "tapis-franc" il Maître aveva sostituito un linguaggio ricercato, che sembrava tanto più orribile in lui, in quanto svelava una mente coltivata, e faceva contrasto con le azioni sanguinarie di quel malandrino. Appena Rodolphe gli si avvicinò, fece un profondo inchino, e la Chouette una riverenza. "Signore, vostro umilissimo servitore" disse il Maître. "Sono contento di rinnovare la conoscenza con voi, giacché l'altro ieri mi favoriste due pugni da abbattere un rinoceronte. Ma non ne parliamo, per adesso: fu uno scherzo, da parte vostra, sono sicuro, un innocentissimo scherzo. Non ci pensiamo più, ben più gravi interessi ora ci uniscono. Ho visto ieri sera lo Chourineur al "tapis-franc"; gli ho dato l'appuntamento qui per questa mattina, qualora volesse essere nostro collaboratore; ma pare deciso a rifiutare." "Voi dunque accettate?" "Se non vi spiace, signore, il vostro nome?" "Rodolphe." "Signor Rodolphe, entreremo al Paniere Fiorito... Né io né la signora abbiamo mangiato, e si ragionerà dei nostri piccoli affari mangiando un bocconcino." "Volentieri." "Possiamo discorrere intanto che si va. Voi e lo Chourineur, senza farvi rimprovero, dovete indennizzare mia moglie e me... Ci avete fatto perdere più di duemila franchi. La Chouette aveva appuntamento vicino a Saint Ouen, con un gran signore alto e vestito di scuro che era venuto a cercare voi l'altra notte al "tapisfranc": questi proponeva duemila franchi per farvi non so che cosa... Lo Chourineur mi ha spiegato pressappoco l'affare. Ma, a proposito, Ninette" disse il furfante "corri a scegliere un separé al Paniere Fiorito, e a ordinare la colazione: delle costolette, un pezzo di vitello, insalata e due bottiglie di vino di Beaune, prima qualità; fra poco ti raggiungeremo." La Chouette non aveva smesso un momento di guardare Rodolphe, e se ne andò dopo aver scambiato un'occhiata con il Maître, che riprese a dire: "Vi dicevo dunque signor Rodolphe, che lo Chourineur mi aveva "edificato" su quella offerta dei duemila franchi." "Che significa "edificare"?" "È giusto, questo linguaggio è nuovo per voi: volevo dire che lo Chourineur mi aveva all'incirca informato di quel che bramava da voi l'uomo in lutto, con i suoi duemila franchi." "Bene, bene..." "Non tanto bene, giovanotto: perché lo Chourineur, avendo incontrato la Chouette verso Saint-Ouen, non l'ha più abbandonata un istante da quando ha visto giungere il signore in lutto, per cui quello non ha osato accostarsi. Sicché sono duemila franchi che dovete farci riguadagnare, senza contare i cinquecento per il portafoglio che avevamo da rendere, e che però non si sarebbe restituito dopo aver fatto l'esame dei fogli, che ci sono sembrati di valore molto superiore." "Contiene dunque effetti di gran valore?" "Contiene carte che mi paiono assai singolari, benché la più parte scritte in inglese; e le serbo qui" continuò il Maître, battendo sulla tasca destra del soprabito. Nel venire a sapere che il Maître aveva tuttora i fogli tolti due giorni prima a Tom, Rodolphe provò la massima soddisfazione. Erano per lui di somma importanza. Le istruzioni date allo Chourineur tendevano a impedire che Tom si incontrasse con la Chouette e ripigliasse il suo portafogli, di cui Rodolphe sperava di impossessarsi. "Io considero queste carte come una sorgente dopo giorni di sete" disse il bandito "giacché ho trovato l'indirizzo di quel signore vestito a lutto, e in un modo o nell'altro lo rivedrò." "Potremo contrattare, se lo gradite: se il nostro accordo riesce, vi comprerò io questi documenti. A me, che conosco l'uomo, convengono più che a voi." "Si vedrà; ma prima torniamo un poco ai nostri interessi." "E va bene... Io avevo progettato un bellissimo affare allo Chourineur, che prima ha accettato, poi si è tirato indietro." "Ha sempre delle idee bizzarre..." "Mi ha bensì, nel disdire, osservato..." "Cioè vi ha fatto osservare..." "Caspita! Siete schizzinoso in fatto di grammatica!" "Maître d'école, tale è la mia professione." "Mi ha fatto osservare che se lui non amava il sangue, non voleva però farmi uno sgarbo e perciò mi avrebbe aiutato, e poi ha aggiunto che voi avreste potuto darmi una mano." "E si potrebbe sapere, senza essere troppo curioso, perché deste appuntamento a lui ieri mattina a Saint-Ouen e come fu che avesse il bene d'incontrare la Chouette? Nel rispondere a queste domande lo Chourineur era molto imbarazzato." Rodolphe si morse la labbra, e replicò, alzando le spalle: "Lo credo! Non gli avevo detto le mie intenzioni che per metà, non sapendo se fosse deciso..." "Ah, era più prudente..." "Tanto più che io avevo il piede in due staffe." "Come?" "Sicuramente." "Siete un uomo cauto... Sicché avevate fissato di trovarvi con lo Chourineur a Saint-Ouen per...?" Rodolphe, dopo qualche titubanza, ebbe l'idea d'immaginare una favoletta verosimile, per riparare alla poca accortezza dello Chourineur, e soggiunse: "Eccovi l'affare. Il colpo che ho ideato è buonissimo, perché il proprietario della casa è in campagna; tutto il mio timore era che tornasse, e per essere tranquillo, pensai fra me, non c'è da far altro che una cosa..." "Cioè, assicurarsi che il suddetto proprietario fosse in campagna..." "Precisamente. Parto per Pierrefitte, dov'è la sua villa... Sta da lui come serva una mia cugina, capite?" "Benone, compare... E poi?" "Questa ha accertato che il suo padrone non va a Parigi sino a dopodomani..." "Dopodomani?" "Sì..." "A meraviglia! Ma io ripeto la mia domanda: perché stabilire di combinarsi con lo Chourineur a Saint-Ouen?" "Ma non capite niente... Quanto c'è da Pierrefitte a Saint-Ouen?" "Circa una lega." "E da Saint-Ouen a Parigi?" "Altrettanto." "Or bene? Se non avessi trovato gente a Pierrefitte, ma bensì la casa vuota, anche là c'era da tentare un colpo... Meno bello che a Parigi, ma passabile... Tornavo a Saint-Ouen a prendere lo Chourineur, che mi aspettava. Correvamo di nuovo a Pierrefitte da una strada traversa che conosco, e..." "Ho capito: e se al contrario l'affare era a Parigi?" "Andavamo alla barriera della Stella della rue de la Révolte, e di là all'allée des Veuves..." "Ci sono due passi, perfetto. A Saint-Ouen sareste stato pronto per due operazioni... Bene immaginato. Adesso mi persuado della presenza dello Chourineur in quel posto... Dicevamo, insomma, che la casa dell'allée des Veuves sarà disabitata sino a dopodomani." "Disabitata, salvo il portinaio..." "Si capisce... E sarà una speculazione vantaggiosa?" "Mia cugina mi ha parlato di settantamila franchi in oro nello scrittoio del padrone." "E conoscete la distribuzione delle stanze?" "Come le mie tasche... La mia parente ci sta da un anno, e a forza di udirla discorrere delle somme che quello ritira di quando in quando dalla banca per impiegarle in altra maniera, mi è venuto quel pensiero... Siccome il portinaio è un uomo robusto, ho pensato di fare la proposta allo Chourineur, che, dopo mille cerimonie, ha acconsentito... Ma poi ha fatto mille smorfie... Peraltro non è capace di compromettere un amico." "No, ha delle buone qualità. Oh, eccoci arrivati! Non so se siete come me, ma l'aria della mattina mi ha messo appetito..." La Chouette era sulla soglia della bettola. "Di qua, di qua!" gridò. "Ho ordinato la colazione." Rodolphe voleva far passare avanti il Maître, e aveva per ciò le sue ragioni, ma quegli insistette talmente a rifiutare questa gentilezza, che si decise a entrare per primo. Prima di sedersi, il Maître picchiò sulle pareti, per assicurarsi del loro spessore... "Non sarà necessario parlare troppo a bassa voce" disse "il muro non è sottile. Ci serviranno tutto in una volta, e non saremo disturbati nella nostra conversazione." Una serva portò la colazione. Prima che fosse chiusa la stanza, Rodolphe vide il carbonaio Murph seduto gravemente in uno stanzino contiguo. Il salotto dove accadeva la scena che descriviamo era lungo, stretto, e rischiarato da una finestra che dava sulla strada, dirimpetto alla porta. La Chouette volgeva le spalle a questa finestra, il Maître era da un lato della tavola, e Rodolphe dall'altro. Uscita la serva, il bandito si alzò, prese le sue posate, ed andò a porsi accanto a Rodolphe, in modo da nascondergli l'uscio. "Così staremo meglio" gli disse "e non avremo bisogno di parlare tanto forte..." "E poi, volete mettervi fra la porta e me per impedirmi di andarmene" rispose freddamente Rodolphe. Il Maître fece un cenno affermativo, poi, traendo per metà dalla tasca un lungo pugnale rotondo e grosso come una penna d'oca, fisso in un manico di legno che spariva tra le sue dita pelose: "Vedete questo?..." "Sì." "Avviso a chi ne volesse!" Ed aggrottando le ciglia con un movimento che gli aggrinzò la fronte, larga e schiacciata come quella di una tigre, fece un gesto molto espressivo. "Fidatevi di me" disse la Chouette "sono io che ho affilato il pugnale del mio uomo." Rodolphe, con grande disinvoltura, si mise la mano sotto il camiciotto, ne trasse una pistola a due canne, la mostrò al Maître, e tornò a porla in tasca. "Siamo fatti per intenderci" disse il Maître "voi però non mi avete capito... Supporrò l'impossibile... Se venisse qualcuno per arrestarmi, sia che voi mi abbiate o no preparato la trappola, vi ammazzerei!" E gettò su Rodolphe uno sguardo dei più truci. "E io gli salterei al collo per aiutarti" gridò la Chouette. Rodolphe non rispose, si strinse nelle spalle, si versò un bicchiere di vino e lo bevve. Tanto sangue freddo fece grande effetto sul Maître. "Vi avvertivo soltanto." "Bene, bene, riponete il bucalardo in tasca; qui non ci sono pollastri da ungere. Io sono un vecchio gallo e ho gli sproni duri, mio caro" disse Rodolphe. "Adesso trattiamo d'affari." "Trattiamone pure, ma non dite male del mio bucalardo. Non fa chiasso, non dà fastidio a nessuno..." "E fa un lavoro pulito, non è vero?" continuò la Chouette. "A proposito" domandò Rodolphe a costei "è vero che conoscete i parenti della Goualeuse?" "Mio marito ha trovato nel portafogli di quello vestito di nero due lettere che ne parlano. Ma non le vedrà, la pettegola... Piuttosto le caverò gli occhi con le mie mani... Oh, quando la incontro al "tapis-franc", l'aggiusterò per le feste!" "Su, Ninette, qui si chiacchiera, si chiacchiera, e i nostri affari non vanno avanti..." "Si può parlare davanti a lei?" chiese Rodolphe. "Con tutta confidenza, è un'esperta, e ci potrà essere di grande aiuto per far la posta, prendere informazioni, nascondere robe, vendere eccetera, eccetera; ha tutte le qualità di una brava donna di governo... Buona Ninette" aggiunse il Maître, porgendo la mano alla brutta vecchia "non potete figurarvi i favori che mi ha fatto... Ma, levati lo scialle, Ninette, se no, all'uscita avrai freddo, mettilo sulla seggiola con il tuo panierino..." La Chouette si levò lo scialle. Nonostante la sua presenza di spirito e il dominio che aveva su se stesso, Rodolphe non poté frenare un moto di stupore nel vedere, attaccato con un anello d'argento ad una grossa collana di similoro, che la vecchia aveva al collo, un piccolo Spirito Santo identico in tutto a quello che aveva il figlio della signora Georges quando era sparito. A tale scoperta, un pensiero improvviso gli si affacciò alla mente: secondo lo Chourineur, il Maître, fuggito di galera da sei mesi, aveva reso vane tutte le indagini della Polizia, essendosi sfigurato, e da sei mesi il consorte della signora Georges era scappato dal bagno penale. A così strana coincidenza, Rodolphe ebbe il presentimento che il Maître potesse essere il consorte della infelice signora. Quello sciagurato aveva appartenuto alla classe più agiata... ed il Maître si esprimeva spesso con parole forbite. Un ricordo ne ridestò un altro: Rodolphe rammentò che un giorno la signora Georges, raccontandogli l'arresto del marito, aveva parlato della resistenza disperata di questo mostro, che fu sul punto di sfuggire grazie alla sua forza erculea... Se era realmente il marito della signora Georges, doveva conoscere la sorte del figlio. Inoltre aveva conservato alcune carte relative alla nascita della Goualeuse, trovate nel portafogli rubato da lui al forestiero, conosciuto sotto il nome di Tom. Rodolphe aveva quindi nuovi e gravi motivi per persistere nei suoi progetti. Fortunatamente la sua preoccupazione sfuggì al furfante, intento a servire la Chouette. Rodolphe disse alla guercia: "Accidenti, avete una bella collana!..." "Bella, e non cara" rispose la vecchia. "È d'oro falso ed aspetto che il mio sposino me ne dia una d'oro vero." "Ciò dipenderà da questo signore, Ninette mia... Se si fa un buon affare, ti accontento." "È sorprendente, com'è bene imitata!" esclamò Rodolphe. "Che è mai quella cosa turchina, là in fondo?" "È un regalo del mio uomo, in attesa che possa regalarmi un gioiello... Non è vero, Maître?" Rodolphe vedeva i suoi sospetti quasi confermati, e aspettava ansioso la risposta del Maître. Questo disse, sempre mangiando: "Bisognerà serbare questa collana, nonostante il gioiello, è un talismano, e porta fortuna." "Talismano?" domandò con apparente indifferenza Rodolphe. "Credete ai talismani, voi? E dove diamine avete trovato quella collana? Datemi l'indirizzo della fabbrica." "Non ne hanno più, mio caro, la bottega è chiusa... Così, come lo vedete, questo è un pezzo di grande antichità, almeno tre generazioni. Io lo apprezzo molto, è oggetto di proprietà della famiglia" proseguì con un orrendo sorriso "e per questo l'ho dato a lei, per portarle fortuna nelle imprese in cui mi asseconda con molta capacità... La vedrete al lavoro, la vedrete, se si farà insieme qualche operazione "commerciale"... Ma, tornando a noi, voi dite che nella allée des Veuves..." "C'è, al numero 17, una casa abitata da un riccone, che si chiama signor..." "Non sarò così indiscreto da pretendere il suo nome... E ci covano settantamila franchi in oro nel suo scrittoio?" "Settantamila franchi in oro!" gridò la Chouette. Rodolphe fece con la testa un cenno affermativo. "E conoscete bene la pianta della casa?" continuò il Maître d'école. "Benissimo." "E l'entrarci è difficile?" "Un muro di sette piedi dalla parte dell'allée des Veuves, un giardino, le finestrine basse, la casa non ha che il pianterreno." "E non c'è altro che un portinaio per custodire quel tesoro?" "Sì!" "Ora, quale sarebbe il vostro piano, giovanotto?" "Semplicissimo, salire sopra il muro, aprire il portone con il grimaldello, e forzare l'imposta da fuori." "E se il portinaio si sveglia?" disse il Maître, guardando fisso Rodolphe. "Peggio per lui!" ripigliò questo con un gesto espressivo. "Orsù, vi interessa, sì o no?" "Capirete che non posso rispondervi prima di aver esaminato tutto di persona, cioè con l'aiuto della mia donna... Ma se quanto mi dite è esatto, mi pare che convenga battere il ferro, intanto che è caldo... Questa sera..." E l'uomo della Chouette continuò a tener d'occhio Rodolphe. "Oh, non è possibile..." rispose l'altro con freddezza. "Perché?... Se quello non torna sino a dopodomani?..." "Sì, ma io non posso stasera..." "Davvero? Ebbene, io non posso domani." "Per quale ragione?" "Per quella che impedisce a voi di agire questa sera" ribatté il Maître, sogghignando. Dopo qualche riflessione, Rodolphe soggiunse: "Alla buon'ora! Vada per stasera... Dove ci troveremo?" "Ritrovarci? Non ci lasceremo" disse il Maître. "Come?" "A che giova separarci? Se il tempo si schiarisce un poco, andremo, passeggiando, a dare un'occhiata fino all'allée des Veuves... Vedrete come sa lavorare la mia donna. Poi si andrà a fare una partita a picchetto e mangiare un boccone in una trattoria degli ChampsElysées, che conosco io, vicinissima al fiume... E siccome l'allée des Veuves è deserto presto, c'incammineremo in quella direzione, verso le dieci." "Io dunque alle nove sarò da voi." "Ma volete, sì, o no, che facciamo l'affare insieme?" "Sicuro che voglio." "Allora non ci lasciamo prima di sera, se no..." "Se no?" "Crederò che vogliate prepararmi un agguato, e che per questo appunto cercate di svignarvela..." "Se voglio tendervi un'insidia, chi mi impedisce di farlo questa notte?" "Tutto: voi non vi aspettavate di certo che io vi proponessi le cose tanto in fretta, e, non separandosi, non potrete avvisare nessuno." "Diffidate di me?" "Moltissimo... Però, siccome ci può essere qualche cosa di vero in quel che dite, e la metà di settantamila franchi merita di fare un tentativo, mi ci proverò... Ma o stasera o mai! Se dev'essere mai, saprò che pensare di voi, e vi renderò a mia volta, un giorno o l'altro, un piatto della mia cucina." "Ed io vi renderò cortesia per cortesia, contateci pure." "Tutte queste sono sciocchezze!" esclamò la Chouette. "Io la penso come il Maître: questa sera, o niente." Rodolphe non sapeva cosa decidere: se lasciava sfuggire questa occasione d'impossessarsi del Maître, non l'avrebbe avuta mai più. Il furfante, messo in sospetto, e divenuto guardingo, oppure riconosciuto, quindi arrestato e ricondotto in galera, avrebbe portato con sé i segreti, che tanto premevano a Rodolphe. Affidandosi al caso e al suo coraggio, disse al Maître: "E va bene, non ci lasceremo fino a stasera." "Allora sono con voi... Saranno presto le due. Da qui all'allée des Veuves c'è un bel pezzo di strada; paghiamo il conto, e pigliamo una carrozza." "Se si deve prendere una vettura, potrò prima fumare un sigaro." "Sicuramente" rispose il Maître. "Alla mia Ninette non dà noia l'odore del tabacco." "Ebbene, vado a procurarmi dei sigari" disse Rodolphe, alzandosi da tavola. "Non vi scomodate" replicò il Maître trattenendolo "ci sarà per voi Ninette..." Rodolphe tornò a sedere. Il Maître aveva intuito il suo scopo. La Chouette uscì. "Che bella donnetta ho io, eh?" saltò su allora a dire lo scellerato. "È così compiacente! Si butterebbe nel fuoco per me." "A proposito di fuoco, accidenti! Qui non fa affatto caldo" esclamò Rodolphe, cacciandosi le mani sotto il camiciotto. Poi continuando la conversazione con il Maître, sfilò un lapis ed un pezzetto di carta dal panciotto, e senza che l'altro potesse accorgersene, scrisse in fretta alcune parole, avendo cura di tenersi largo con le lettere che vergava, per non confonderle, poiché le tracciava sotto i panni e senza vederci. Quel biglietto, così sottratto all'accortezza del Maître, pensava di farlo pervenire a Murph. Rodolphe si alzò, si avvicinò alla finestra, e si mise a canterellare, accompagnandosi con il battere le dita sui vetri. Il Maître venne a guardare alla stessa finestra, e gli domandò con indifferenza: "Che cosa cantate?" "Canto "Non avrai la mia rosa"." "È un'arietta molto graziosa... Desideravo vedere se fa tanto effetto su quelli che passano, da far sì che si voltino." "Io non ho questa pretesa." "Avete torto, giovanotto, perché sapete battere molto bene sui cristalli. Ma, ora che ci penso, se il portinaio di quella casa dell'allée des Veuves fosse un uomo risoluto? Se facesse resistenza...? Voi non avete che una pistola, e fa troppo rumore, mentre uno strumento come questo" e, così dicendo, mostrò a Rodolphe il manico del suo pugnale "non fa strepito, e non disturba nessuno." "Ma vorreste assassinarlo?" grida Rodolphe. "Se rigirate simili idee in testa, non ne facciamo niente, non fate più conto su di me." "Ma se si svegliasse?" "Ce ne andremo." "E va bene, avevo frainteso; è meglio capirci bene su tutto prima di passare all'azione... Sarà perciò un semplice furto con scalata e scasso..." "Nient'altro..." "Sia come dite..." "E siccome non ti abbandonerò un minuto" pensò Rodolphe "t'impedirò io di spargere sangue." 16. Preparativi. La Chouette rientrò nella taverna portando i sigari. "Mi sembra che sia cessato di piovere" disse Rodolphe, accendendone uno. "Se andassimo a prendere la carrozza? Il moto ci sgranchirebbe un po' le gambe." "Come, non piove più?" replicò il Maître. "Ma siete cieco? Credete che io voglia far prendere un accidente alla mia Ninette? Arrischiare una vita così preziosa, e guastarle il bello scialle nuovo?" "Hai ben ragione, marito caro, fa un tempo da cani!" "Ora verrà la serva" seguitò Rodolphe "pagandola, le ordineremo di chiamare una carrozza." "Ecco la cosa più giudiziosa che abbiate detto finora, giovanotto. Andremo a farci un giretto dalle parti dell'allée des Veuves." Comparve la donna della bettola, e Rodolphe le diede cinque franchi. "Ah, signore, non permetterò mai" disse il Maître. "Eh, via, una volta per uno." "Dunque mi rassegno, ma a patto che più tardi possa ospitarvi io in una piccola osteria degli ChampsElysées, un luogo stupendo." "Bene, bene, accetto." Saldato il conto, tutti si disposero a uscire. Rodolphe voleva esser l'ultimo per cortesia verso la Chouette. Il Maître però non lo permise, e gli stava accanto, controllando ogni suo movimento. Il taverniere teneva anche una rivendita di vino. Fra diversi avventori, un carbonaio con la faccia nera e il cappellone fin sugli occhi pagava al banco quel che aveva speso, quando i tre compagni uscirono dalla taverna. Malgrado la sorveglianza del Maître e della guercia, Rodolphe, che camminava davanti, scambiò una rapida ed impercettibile occhiata con Murph. Lo sportello della carrozza da nolo era aperto; Rodolphe si fermò, deciso ad essere l'ultimo a salire, perché il carbonaio si era avvicinato. La Chouette montò prima di tutti. Rodolphe dopo molte cerimonie, fu obbligato a salire subito dopo, giacché il Maître gli disse all'orecchio: "Volete dunque che io diffidi assolutamente di voi?" Il carbonaio avanzò fischiando sul portone della bettola, guardando Rodolphe con stupore e inquietudine. "Dove si va padroni?" domandò il vetturino. "All'allée des..." "... des Cassies, al Bois de Boulogne!" urlò il Maître interrompendolo, poi soggiunse: "E sarai pagato bene, vetturino." Fu chiuso lo sportello. "Perché diavolo dite dove si va, dinanzi à quei curiosi?" disse il Maître. "Se domani si viene a sapere del furto, un indizio simile può rovinarci! Ah, giovanotto, siete troppo imprudente." "È vero, non ci avevo pensato." La carrozza si mise in moto. Rodolphe seguitò: "Con il mio sigaro vi affumicherò come tante aringhe: se aprissimo uno di questi finestrini?" E aggiungendo l'azione alle parole, lasciò cadere fuori il foglio piegato e sottilissimo su cui aveva scritto frettolosamente qualche cosa con la matita. Il colpo d'occhio del Maître era talmente penetrante, che, malgrado l'apparente tranquillità di Rodolphe, distinse una fugace espressione soddisfatta, e messo il capo fuori dallo sportello, gridò al vetturino: "Una frustata dietro! È salito qualcuno sulle molle della carrozza." Rodolphe fremette, ma aggiunse le sue proteste a quelle del compagno. La vettura si fermò, il fiaccheraio smontò da cassetta, guardò e disse: "No, padroni, non c'è nessuno." "Perdiana, voglio assicurarmene io stesso" disse il Maître, saltando sulla via. Non vide alcuna persona, e nessun oggetto poiché da quando il biglietto era stato gettato, la carrozza aveva percorso qualche centinaio di metri. Il Maître credette di essersi ingannato. "Adesso riderete" disse risalendo. "Non so perché, mi ero figurato ci fosse qualcuno che volesse seguirci." In quel momento la vettura prese per una strada traversa. Allora Murph, che non l'aveva perduta di vista e si era accorto della manovra di Rodolphe, corse a raccogliere il foglio da terra. Dopo un quarto d'ora, il Maître gridò al fiaccheraio: "Ehi, abbiamo cambiato idea: place de la Madeleine." Rodolphe lo guardò attonito. "Sì" continuò il Maître "da quella piazza si può svoltare in cento diverse vie; se uno volesse darci qualche fastidio, la deposizione del vetturale non gli servirebbe." Nel momento in cui si avvicinavano alla barriera, un uomo d'alta statura, con un soprabito grigio e il cappello abbassato sulla fronte, e che pareva di faccia molto scura, passò velocemente, tutto curvo sul collo di un grosso e magnifico cavallo da caccia a una velocità straordinaria. "A bel corsiero miglior cavaliere!" disse Rodolphe, che aveva riconosciuto Murph. "Come trotta bene quel grosso uomo... L'avete visto?" "Eh, perdio, è passato così veloce..." rispose il Maître "che non gli ho badato." Rodolphe nascose la sua soddisfazione; Murph aveva decifrato il suo biglietto. Il Maître, certo che la carrozza non era seguita, si tranquillizzò, e volendo imitare la Chouette che dormicchiava, o piuttosto faceva finta, disse a Rodolphe: "Scusatemi, giovanotto, ma il dondolio della carrozza mi fa sempre un effetto singolare: mi addormenta come un bamboccione." Il furfante, con quel finto sonno, si proponeva di esaminare se la fisonomia del suo compagno avrebbe tradito qualche emozione. Rodolphe mandò a vuoto anche questa astuzia. "Mi sono alzato di buon'ora" rispose "anch'io ho sonno, e voglio fare come voi..." E chiuse gli occhi. Ben presto il respiro sonoro del Maître e della Chouette, che russavano all'unisono, ingannò così bene Rodolphe, che, credendo i suoi compagni addormentati profondamente, aprì alquanto gli occhi. Il Maître e la Chouette, malgrado i loro fragorosi respiri, avevano le pupille aperte, e si scambiavano segni misteriosi con le dita piegate bizzarramente sul palmo della mano. A un tratto cessò il linguaggio simbolico. Il furfante, accortosi senza dubbio, a un segno quasi impercettibile, che Rodolphe non dormiva, esclamò ridendo: "Ah, ah, compare, mettevate alla prova gli amici, eh?" "Non dovete stupirvene, voi russate con gli occhi aperti." "Per me è differente, giovanotto, io sono sonnambulo." La carrozza si fermò sulla place de la Madeleine. La pioggia era cessata per un momento; ma le nubi, spinte dalla violenza del vento, apparivano così nere e basse, che era quasi buio. Rodolphe, la Chouette e il Maître si diressero verso il cours de la Reine. "Giovanotto, ho un'idea che non è cattiva" disse il furfante. "Quale?" "Assicurarmi se quanto mi avete detto dell'interno della casa dell'allée des Veuves è esatto." "Vorreste andarci adesso sotto un pretesto qualunque? Ciò desterebbe dei sospetti." "Non sono mica così gonzo, giovanotto. Ma a che scopo avrei io una moglie che si chiama Ninette?" La Chouette drizzò il capo. "La vedete, giovanotto? Si direbbe un cavallo da guerra che sente suonare la carica." "Volete mandarla ad esplorare?" "Appunto." "Numero 17, allée des Veuves, non è così, marito mio?" domandò la guercia impaziente. "Sta' tranquillo, ho un occhio solo, ma è buono..." "La vedete, giovanotto, la vedete? Smania già d'esserci." "Se trova il modo di entrarci, non credo che la vostra idea sia cattiva." "Tieni l'ombrello, marito... Fra mezz'ora sono qua, e vedrai quello che so fare" gridò la Chouette. "Un momento, Ninette, ora scenderemo al Cuore sanguinante, e a due passi da qui. Se c'è il piccolo Tortillard, lo porterai con te; egli starà fuori dalla porta a far la guardia, intanto che tu entri." "Hai ragione, è scaltro come una volpe, quel piccolo Tortillard; non ha ancora dieci anni, e l'altro giorno..... Un cenno del Maître interruppe la Chouette. "Che cos'è il Cuore sanguinante? È un'insegna singolare per una taverna" disse Rodolphe. "Ve ne dovete lagnare con il taverniere." "Come si chiama?" "Il taverniere del Cuore sanguinante?" "Sì.." "Egli non domanda mai il nome dei suoi avventori." "Ma pure..." "Chiamatelo come volete, Pierre, Thomas, Christophe o Barnabé, risponderà sempre. Ma eccoci arrivati, e appena in tempo, giacché ricomincia il diluvio... E il fiume come rumoreggia! Si direbbe un torrente. Guardate là! Due altre giornate di pioggia, e l'acqua sorpasserà gli archi del ponte." "Avete detto che siamo arrivati... Dove diavolo è dunque la bettola? Non vedo nessuna casa qui!" "Se vi guardate attorno, sicuramente." "E dove volete dunque che guardi?" "Ai vostri piedi." "Ai miei piedi?" "Sì." "Dove?" "Ecco, là, non vedete il tetto? Attento, ci camminate sopra." Rodolphe non si era infatti accorto di una di quelle "caves" sotterranee, che si vedevano, qualche anno fa, in certi punti degli Champs-Elysées, e specialmente vicino al Cours de la Reine. Una scala, scavata nella terra umida e grassa, scendeva al fondo di quella specie di larga fossa; a una di quelle estremità, tagliate a picco, s'addossava una catapecchia bassa, sudicia, screpolata; il tetto coperto di tegole muffite arrivava appena al livello del terreno dove si trovava Rodolphe; due o tre baracche di tavole tarlate ad uso di cellaio, di tettoia e di chiusa da conigli, erano annesse a quel mirabile edificio. Un viottolo strettissimo, attraversando la fossa, portava dalla scala alla porta della stamberga; il resto del terreno spariva sotto un folto pergolato, che riparava due file di rozze tavole piantate al suolo. Il vento faceva cigolare sui cardini una brutta insegna di latta; attraverso la ruggine che la copriva si distingueva ancora un cuore rosso, trafitto da uno strale! L'insegna dondolava a un palo eretto al di sopra di quell'antro, vero covile umano. Una nebbia fitta e umida si univa alla pioggia: s'avvicinava la notte. "Che dite di questo albergo, giovanotto?" domandò il Maître. "Grazie ai rovesci d'acqua che cadono da quindici giorni, ci godremo un discreto fresco... Animo, passate." "Un momento! Bisogna che io sappia se c'è l'oste... Attento!" Il furfante, strofinando con forza la lingua contro il palato, fece intendere un grido singolare, una specie di trillo gutturale, sonoro e prolungato, che si può accennare così: "Prrrrrr!" Uno strido uguale uscì dalla profondità di quella tana. "C'è" disse il Maître. "Scusate, giovanotto... Rispetto alle donne, lasciate passare la Chouette, io vi seguo. Badate di non cadere, è sdrucciolevole." 17. Il Cuore sanguinante. L'oste del Cuore sanguinante, dopo aver risposto al segnale del Maître, avanzò civilmente fin sulla porta per riceverlo. Era lo stesso che Rodolphe era andato a cercare nella Cité, e che non conosceva ancora sotto il suo nome vero, o per meglio dire usuale, era Bras-Rouge. Piccolo, gracile, debole, aveva pressappoco cinquant'anni. Nella sua fisonomia c'era qualcosa della donnola e del topo: il naso appuntito, il mento all'indietro, i pomelli delle guance che mostravano le ossa, gli occhietti neri, vivi e penetranti, gli davano un'espressione d'intelligenza, d'accortezza, d'astuzia. Una vecchia parrucca bionda, o piuttosto gialla come il suo volto bilioso, posata in cima al cranio, lasciava distinguere la nuca, coperta da peli grigi. Indossava una casacca rotonda, ed uno di quei grembiali nericci di cui si servono i garzoni dei vinai. I tre forestieri non avevano ancora sceso l'ultimo gradino, che un ragazzo di circa dieci anni, basso, di aspetto maligno, macilento, zoppo ed un po' contratto, venne ad unirsi a BrasRouge, al quale somigliava tanto, che necessariamente si doveva riconoscere per suo figliolo. Aveva il medesimo sguardo acuto e malizioso, la fronte mezzo nascosta da un bosco di capelli giallicci, duri ed ispidi come crini. Un paio di pantaloni di color marrone ed un camiciotto grigio, stretto con una cintura di cuoio, completavano l'abbigliamento di Tortillard, così soprannominato per la sua deformità. Se ne stava accanto a suo padre, ritto sulla gamba buona, come un airone sulla riva d'una palude. "Oh, appunto, ecco il ragazzo" esclamò il Maître. "Ninette, il tempo stringe, vien notte, bisogna approfittare delle poche ore che ci restano." "Dici bene, vado a chiedere il piccoletto a suo padre." "Buon giorno, amico" disse BrasRouge rivolgendosi al Maître d'école con una vocina in falsetto, aspra e acuta. "Che si deve fare per servirti?" "Prestare subito il tuo monello a mia moglie per un quarto d'ora: ha perduto della roba, e la potrà aiutare a cercarla." Bras-Rouge fece con gli occhi un segno d'intesa, ed ordinò al suo figliolo: "Tortillard, va' con la signora." Quel brutto ragazzo, attratto dalla laidezza e dall'aspetto malvagio della Chouette, come altri sarebbero stati allettati da un aspetto gentile e amorevole, si affrettò a prendere per mano la guercia." "Amore, bambolino caro! Queste sono creature!" esclamò la Chouette. "Come mi viene incontro subito! Non fa come la Pegriotte, che pareva avesse il voltastomaco quando mi si accostava, quella pezzente!" "Animo, sbrigati, Ninette... Apri l'occhio e attenta ai pericoli. Ti aspetto qui." "Non starò fuori molto. Passa avanti, Tortillard." La guercia e lo zoppetto salirono la lercia scala. "Ninette, piglia l'ombrello" gridò l'assassino. "Eh, mi darebbe più impaccio che altro" rispose la vecchia. E sparì con Tortillard fra i vapori accumulati del crepuscolo ed il tristo muggito del vento che scuoteva i rami neri e privi di foglie degli olmi degli ChampsElysées. "Entriamo" disse Rodolphe. Dovette chinarsi per passare sotto la porta di quella taverna, divisa in due sale. In una c'erano un banco e un biliardo in pessimo stato; nell'altra, tavole e seggiole da giardino, un tempo tinte di verde. Due strettissime finestre, con vetri rotti e arabescati di ragnatele, rischiaravano appena quei salotti dalle pareti verdastre e coperte di salnitro per l'umidità. Rodolphe rimase solo un minuto, ed intanto Bras-Rouge e il Maître ebbero tempo di scambiarsi rapidamente qualche parola, e qualche segno misterioso. "Bevete un bicchiere di birra o d'acquavite aspettando Ninette?" propose poi il Maître d'école. "No, non ho sete." "Ognuno faccia a suo modo, io trincherò dell'acquavite" soggiunse il Maître, e sedette davanti ad una delle tavole verdi della seconda stanza. L'oscurità incominciava ad essere tale in quella tana che non si poteva vedere, in un angolo della seconda stanza, l'ingresso di una di quelle cantine, a cui si scende per mezzo di una botola a due sportelli, di cui uno resta sempre spalancato per comodo di chi deve scendere. La tavola a cui sedette il Maître era vicinissima a questa buca, buia e profonda, a cui voltava le spalle, nascondendola del tutto agli occhi di Rodolphe. Questo guardava dalla finestra, tanto per fare qualche cosa e non far capire i pensieri che l'occupavano. L'avere incontrato Murph, che correva frettoloso all'allée des Veuves non lo confortava abbastanza, mentre temeva che il degno "squire" non avesse compreso tutto il significato del suo biglietto, per necessità così laconico che non conteneva che queste parole: "Per questa sera alle ore dieci". Ben determinato a non recarsi all'allée des Veuves prima di allora né a lasciar solo il Maître, più che mai tremava all'idea di perdere l'unica occasione per venire in possesso di segreti che tanto lo interessavano. Sebbene fosse robustissimo e bene armato, doveva contrastare a forza d'astuzie con un assassino terribile, e capace di tutto. Eppure, si deve dirlo? Tale era la tempra energica del suo carattere bizzarro e avido di emozioni nervose e violente, che trovava una specie di terribile gusto nelle inquietudini e negli ostacoli che si opponevano al piano da lui combinato il giorno prima con il suo fedele Murph e con lo Chourineur. Non volendo però destare sospetti, si assise alla tavola del Maître e chiese un bicchiere. Bras-Rouge, dopo aver scambiato alcune parole con quello scellerato, considerava Rodolphe con aria curiosa, sardonica e diffidente. "Secondo me, giovanotto" disse il Maître "mia moglie tornerà ad avvertirci che le persone che vogliamo vedere sono in casa; potremo andargli a far visita verso le otto." "Saremmo in anticipo di due ore" rispose Rodolphe "ciò le metterebbe in allarme." "Credete?" "Ne sono certo." "Eh via, tra amici non si fanno complimenti." "Io li conosco, e vi ripeto che non bisogna andarci prima delle dieci." "Siete caparbio, giovanotto!" "Questo è il mio parere, e il diavolo mi bruci se mi muovo di qui prima delle dieci!" "Fate pure come vi fa comodo" disse Bras-Rouge con la sua voce in falsetto. "Non chiudo mai il negozio prima di mezzanotte. Quello è il momento che capitano i miei migliori avventori, e i miei vicini non si lagnano del chiasso che si fa qui da me." "Bisogna consentire a tutto quanto volete, giovanotto" riprese il Maître. "Sia, non partiremo che alle dieci." "Ecco la Chouette!" disse BrasRouge, udendo e rispondendo a un grido convenzionale, simile a quello già emesso dal Maître prima di scendere nella cave sotterranea. Dopo un minuto la Chouette entrava nella sala da biliardo. "C'è tutto! Ogni particolare è confermato!" gridò la guercia entrando. Bras-Rouge si ritirò prudentemente, senza domandar notizie di Tortillard, che probabilmente era stato incaricato di qualche compito. Alla vecchia grondavano le vesti. Sedette di faccia a Rodolphe ed al Maître. "Ebbene?" domandò questo. "Finora questo giovane ha detto la verità." "Vedete!" fece Rodolphe. "Lasciate che la Chouette si spieghi, giovanotto. Vediamo, di' pure, Ninette!" "Sono arrivata al 17; avevo lasciato Tortillard rannicchiato in una buca a far la guardia. Era sempre giorno. Ho scampanellato a una piccola porta bastarda, con i cardini di fuori, una fessura di due dita sotto lo stipite... Niente... Suono di nuovo, il portinaio mi apre: è un uomo grande, grosso, sui cinquant'anni; pare mezzo addormentato e bonaccione, ha delle fedine rosse, la testa calva... Prima di tirare il campanello mi ero messa in tasca la cuffia per avere l'aria d'essere una vicina. Appena vedo il portinaio, mi metto a piagnucolare forte forte, gridando che ho perduto il mio pappagallo, Cocò, una bestiolina che adoro. Dico che sto di casa sullo stradone di Marbeuf, che da un giardino all'altro non faccio che seguire Cocò. Infine prego il signore di lasciarmi cercare la mia bestia..." "Eh!" fece il Maître con orgogliosa soddisfazione, accennando la Chouette. "Che donna!" "È abilissima" rispose Rodolphe. "Ma poi?" "Il portinaio mi permette di cercare la mia bestia, ed eccomi a scorrazzare nel giardino, chiamando: Cocò! Cocò!, guardando in aria e da tutte le parti, per veder tutto bene, all'interno del muro di cinta." Poi descrisse nei particolari l'abitazione: "Da cima a fondo delle mura una pergola, che potrebbe servire da scala; in un angolo del muro, a sinistra, un pino fatto come una scala, che una femmina incinta potrebbe scalare tranquillamente. La casa ha sei finestre a pianterreno, nessun altro piano, quattro spiragli di cantina senza inferriate. Le finestre del pianterreno si chiudono con le imposte, con saliscendi di sotto, e nottolino di sopra; pigiare sullo zoccolo, tirare il fil di ferro, e..." "Con un nulla" finì il Maître "è subito aperto." La Chouette continuò: "La porta d'ingresso è a vetri, due persiane di fuori. "Che memoria!" elogiò il furfante. "Già, assolutamente come se ci si fosse" disse Rodolphe. "A sinistra" riprese la Chouette "vicino al cortile, un pozzo; la fune può servire, perché di là non c'è pergola alle muraglie, in caso che ci fosse impedito di ritirarci dalla parte della porta. Entrando nella casa..." "Sei entrata in casa? C'è entrata, giovanotto!" esclamò il Maître con orgoglio. "Certo, che ci sono entrata. Non trovando il pappagallo ho pianto tanto, e ho gridato fino a spolmonarmi. Ho chiesto al portinaio il permesso di sedermi sullo scalino della sua porta; il buon'uomo mi ha detto che passassi dentro, e mi ha offerto un bicchiere d'acqua e vino. "Un semplice bicchier d'acqua" ho detto "un semplice bicchier d'acqua, mio buon signore." Allora mi fa entrare in anticamera... Tappeti dappertutto: buona precauzione, non si sente camminare, né il rumore dei vetri, se mai si dovessero rompere; a destra e a sinistra porte e serrature a becco d'anitra che si aprono con un soffio... In fondo una porta robusta, chiusa a chiave, una specie di cassa... Ci si sentiva l'odore dei quattrini! Avevo la mia cera nel paniere..." "Aveva la sua cera, giovanotto! Non va mai senza la sua cera!" esclamò il furfante. L'altra continuò: "Bisognava che mi accostassi all'uscio che sapeva di denaro. Allora ho fatto come se mi prendesse una violenta tosse, che fossi obbligata ad appoggiarmi al muro. Sentendomi tossire, il portinaio mi dice: "Vado a prendervi un pezzettino di zucchero". Egli ha probabilmente cercato un cucchiaio, perché ho inteso il suono dell'argenteria, argenteria nella stanza di sinistra, non dimenticarlo, Maître. Intanto che tossivo e piagnucolavo, mi ero avvicinata alla porta di fondo... Avevo la mia cera nel palmo della mano, mi sono appoggiata alla serratura, come se niente fosse. Ecco l'impronta. Se questa non serve per oggi, servirà per un altro giorno." E la Chouette diede al brigante un pezzetto di cera gialla, dove si vedeva perfettamente l'impronta. "Ora ci direte se quello è propriamente l'uscio della cassaforte" disse la Chouette. "Precisamente! È là che sta il denaro..." rispose Rodolphe. Poi disse tra sé: "Murph è dunque stato ingannato da questa miserabile vecchia? Può essere; non aspetta d'essere attaccato che alle dieci... Per allora tutte le sue precauzioni saranno prese"." "Ma tutto il denaro non è là!" esclamò la Chouette, a cui brillava l'occhio verde. "Nell'accostarmi alle finestre, sempre per cercare Cocò, ho visto in una delle stanze, a sinistra della porta, dei sacchi di scudi sopra uno scrigno, li ho visti come vedo te, marito mio... Ce n'erano almeno una dozzina." "Dov'è Tortillard?" domandò bruscamente il Maître. "Sempre là nella sua buca, a due passi dalla porta del giardino... Ci vede al buio come i gatti. Non c'è che quell'ingresso al 17; quando ci andremo, ci avvertirà se è capitato qualcuno." "Va bene." Aveva appena pronunciato queste parole che il Maître si avventò all'improvviso addosso a Rodolphe, lo agguantò per la gola, e lo precipitò nella botola spalancata dietro la tavola. Quest'attacco fu così pronto, repentino e vigoroso, che Rodolphe non poté né prevederlo, né evitarlo. La Chouette, spaventata, diede un grido acuto, perché non aveva ancora conosciuto l'esito di quella lotta momentanea. Cessato il rumore che fece Rodolphe cadendo, il Maître, che conosceva perfettamente gli anditi sotterranei di quella casa, discese lentamente nella cantina, prestando orecchio con attenzione. "Maître, non ti fidare!" gridò la guercia, chinandosi sulla botola. "Tira fuori lo stiletto." Il furfante non rispose e sparì. Non s'intese più nulla, ma dopo qualche istante, si udì stridere sui cardini da lontano una porta arrugginita, nella profondità del sotterraneo, e poi di nuovo silenzio. L'oscurità era completa. La Chouette frugò nel paniere, fece scoppiettare uno zolfanello e accese un moccolo, la cui luce si sparse in quella lugubre stanza. Nello stesso momento comparve all'apertura della botola la figura ripugnante del Maître d'école. La Chouette non poté trattenere un urlo di terrore alla vista di quella faccia pallida, sfregiata, mutilata, orribile, cogli occhi quasi fosforescenti, che sembrava strisciasse dal suolo in mezzo alle tenebre che il bagliore della candela dissipava appena. Rimessasi dall'emozione, la vecchia esclamò con una specie di spaventevole adulazione: "Devi pur essere terribile, Maître!... Mi hai fatto paura... A me!..." "Presto, presto, all'allée des Veuves!" disse il furfante, fissando i due sportelli della botola con una lastra di ferro. "Fra un'ora forse sarebbe troppo tardi! Se è una trappola, non è tesa ancora... Se non è una trappola, faremo il colpo da soli!" 18. Il sotterraneo. Sotto il colpo della sua orribile caduta, Rodolphe era rimasto svenuto, immobile, in fondo alla scala della cantina. Il Maître, trascinandolo sino all'ingresso di un secondo sotterraneo molto più profondo, ve lo aveva calato e rinchiuso dietro una grossa porta chiusa da chiavistelli. Poi raggiunse la Chouette, per correre con lei a commettere il furto, forse un omicidio, nell'allée des Veuves. Dopo un'ora circa, Rodolphe riacquistava a poco a poco i sensi. Era sdraiato per terra, in mezzo a fitte tenebre; stese le braccia e toccò degli scaglioni di pietra. Avvertendo ai piedi una viva impressione di freddo, vi portò la mano. Era una pozzanghera d'acqua. Con un violento sforzo riuscì a sedersi sull'ultimo gradino della scala; a poco a poco si dissipava il suo stordimento, fece qualche movimento. Per fortuna, non aveva niente di rotto. Si mise in ascolto... Non sentì null'altro che una specie di piccolo gorgoglio sordo, debole, continuo. Dapprima non ne sospettò neppure la causa. Man mano che il suo pensiero si faceva più lucido, le circostanze dell'agguato di cui era stato vittima gli si affacciavano alla mente, ma lente e incomplete... Era sul punto di raccogliere tutti i suoi ricordi, quando avvertì ai piedi una nuova impressione di freddo. Si abbassò: aveva l'acqua fino alla caviglia. E, in mezzo al ferale silenzio che lo circondava, intese sempre più distintamente il piccolo gorgoglio sordo, debole, continuo. Questa volta ne comprese la causa: l'acqua invadeva la cantina. La piena della Senna era formidabile, e quel luogo sotterraneo si trovava al livello del fiume... Quel pericolo richiamò totalmente Rodolphe a se stesso. Rapidamente, salì l'umida scala. Giunto in cima urtò contro una porta: invano tentò di abbatterla, rimase immobile sui suoi cardini di ferro. In quella situazione disperata, il suo primo grido fu per Murph. "Se non è in guardia, quel mostro lo assassinerà... E sono io" pensò "sono io, che avrò causato la sua morte! Povero Murph!" Quel pensiero crudele accrebbe le forze di Rodolphe: puntellandosi sui piedi e curvando le spalle, si consumò in inauditi sforzi contro la porta, senza riuscire a smuoverla. Sperando di trovare nella cantina una leva, di nuovo scese; sul penultimo scalino, due o tre corpi rotondi ed elastici ruzzolarono sotto i suoi piedi: erano topi che l'acqua cacciava dalle loro tane. Rodolphe percorse la cantina a tastoni, coll'acqua a mezza gamba; non trovò nulla. Risalì lentamente la scala nella più cupa disperazione. Contò gli scalini: ce n'erano tredici, tre erano già sommersi. Tredici! Numero fatale! In certe circostanze, gli spiriti i più fermi non sono esenti da idee superstiziose; vide in quel numero un funesto presagio. La sorte di Murph gli ritornò alla mente. Cercò invano qualche apertura tra il suolo e la porta; questa umidità aveva così gonfiato il legno, che la porta aderiva ermeticamente all'umida argilla. Rodolphe gettò urla poderose, sperando di essere udito dalla gente dell'osteria; poi stette in ascolto... Non udì niente, oltre il piccolo gorgoglio sordo, debole, continuo dell'acqua che sempre saliva, saliva, saliva... Sedette affranto, le spalle appoggiate alla porta, e pianse per il suo amico, che forse in quel momento si dibatteva sotto il coltello d'un assassino. Allora si rimproverò amaramente i suoi imprudenti e audaci progetti, per quanto generoso ne fosse il motivo. Lo straziava il ricordo delle mille prove di devozione di Murph, che, ricco e stimato, aveva abbandonato la moglie e il diletto figlio, e i suoi più cari interessi, per seguire e aiutare lui nella valorosa ma strana espiazione che si era imposto. L'acqua saliva sempre... Non vi erano ormai che cinque gradini all'asciutto. Alzandosi dritto presso la porta, Rodolphe con la fronte toccava la volta. Poteva calcolare il tempo che sarebbe durata la sua agonia. Quella morte era lenta, silenziosa, spaventevole. Si ricordò della pistola che aveva addosso. A rischio di mutilarsi, sparandola contro la porta a bruciapelo, avrebbe potuto forse abbatterla. Oh sciagura, sciagura! Nella caduta, aveva perduto quell'arma, o gliela aveva rubata il Maître. Senza i suoi timori per Murph, Rodolphe avrebbe atteso tranquillamente la morte. Aveva molto vissuto, era stato ardentemente amato, aveva fatto del bene, avrebbe voluto farne ancora, lo sa Iddio! Non mormorava contro il decreto che lo colpiva, vedeva in quel destino un giusto castigo di un'azione fatale non ancora scontata; i suoi pensieri si elevavano, giganteggiavano nel pericolo. Un nuovo tormento venne a mettere alla prova la rassegnazione di Rodolphe. I topi, cacciati dall'acqua, si erano rifugiati di gradino in gradino, non trovando uscita. Potendo difficilmente salire sopra una porta od un muro perpendicolare, si arrampicavano lungo le vesti di Rodolphe. Quando se li sentì brulicare addosso, provò un indicibile disgusto, un profondo ribrezzo. Voleva scacciarli e morsi acuti e freddi gli insanguinavano le mani; nella caduta, gli si erano aperti la camicia e il panciotto, sentiva sul suo nudo petto l'impressione delle zampette gelate e dei loro corpi pelosi. Gettava lontano quegli immondi animali, dopo esserseli strappati dagli abiti, ma ritornavano a nuoto. Rodolphe mandò nuove grida che non furono intese. Continuando era giunto il momento di non poter più gridare, giacché l'acqua gli giungeva ormai al collo, ed in breve stava per arrivargli alla bocca. L'aria cominciava a mancare in quel ristretto spazio. I primi sintomi d'asfissia assalirono Rodolphe. Le arterie delle tempie battevano violentemente, aveva le vertigini, stava per morire. Volse un ultimo pensiero a Murph ed elevò l'anima a Dio, non perché lo sottraesse al pericolo, ma perché accettasse in espiazione le sue pene. In quel supremo momento, sul punto di abbandonare, non solo tutto ciò che rende la vita felice, brillante, invidiata, ma anche un titolo quasi regale, un potere sovrano, costretto a rinunciare a un'impresa che, soddisfacendo le sue due grandissime passioni, l'amore per il bene e l'odio verso i malvagi, gli poteva essere un giorno valutata per la remissione delle sue colpe, prossimo a perire di morte spaventevole, Rodolphe non ebbe alcuno di quegli impulsi di rabbia o d'insolente frenesia durante i quali le anime vili accusano, o maledicono, uno dopo l'altro, gli uomini, il destino, Dio! No, finché ebbe lucida la mente, Rodolphe sopportò la sua sorte con umiltà, con rispetto. E allorché l'agonia gli confuse le idee, abbandonato del tutto all'istinto vitale, si dibatté, se così si può dire, fisicamente, ma non moralmente contro la morte. La vertigine trasportava i pensieri di Rodolphe nel suo rapido e letale vortice; l'acqua gli gorgogliava nelle orecchie; gli sembrava di aggirarsi su se stesso, e l'ultimo barlume della sua ragione stava già per estinguersi, quando alcuni passi precipitosi e uno strepito di voci risuonarono presso la porta del sotterraneo. La speranza rianimò le sue forze cadenti; per una suprema tensione poté afferrare queste parole, le ultime che intese e che comprese: "Come puoi vedere, non c'è nessuno." "Fulmini! È vero..." rispose con accento di tristezza la voce dello Chourineur. E i passi si allontanarono. Rodolphe annichilito non ebbe più forza di sostenersi, sdrucciolò lungo la scala. D'un tratto fu aperta da fuori bruscamente la porta della cantina; l'acqua contenuta nel sotterraneo, sfuggì come all'aprirsi d'una cataratta... Lo Chourineur poté afferrare le due braccia di Rodolphe, che, mezzo annegato, si aggrappava tuttora alla soglia della porta con disperazione. 19. L'infermiere. Rodolphe, sottratto dallo Chourineur a una morte certa, e trasportato nell'abitazione dell'allée des Veuves, che la Chouette aveva esplorato, si trovò coricato in una camera comodamente arredata. Un gran fuoco scoppiettava nel caminetto, e una lampada sopra il cassettone spandeva vivissimo chiarore, ma il letto, guarnito da cortinaggi di damasco verde, rimaneva un poco all'oscuro. Un negro di mediocre statura, bianchi i capelli e le sopracciglia, vestito assai bene, con un nastro color arancio all'occhiello dell'abito azzurro, tiene nella mano sinistra un orologio d'oro con la sfera dei secondi, e sembra che lo esamini attento, mentre con la destra conta i battiti del polso di Rodolphe. Il negro è mesto, pensoso e, con la più tenera premura, guarda Rodolphe che dorme. Lo Chourineur, con i suoi indumenti ordinari, macchiati di fango, se ne sta immobile ai piedi del letto, con le braccia penzoloni e le mani incrociate; ha la barba lunga, i capelli folti color della stoppa arruffati e bagnati, i suoi tratti volgari paiono più bronzei del solito, ma sotto quella brutta e rozza corteccia traluce un'ineffabile espressione d'interesse e di pietà. Osa appena respirare, solleva a stento il petto affannoso; inquieto per l'atteggiamento pensoso del medico nero, teme qualche funesto responso, e finalmente arrischia sottovoce questa filosofica riflessione, contemplando Rodolphe: "Eppure, a vederlo così debole, chi direbbe che è quello che mi suona, non a martello, ma a distesa. Non ci metterà molto a riacquistare le forze... Non è vero, dottore? Vorrei piuttosto che mi buttasse la sua convalescenza sulle spalle... Ciò lo scuoterebbe... Non è vero, dottore?" Il nero, senza rispondere, fece un piccolo cenno con la mano. Lo Chourineur non aprì più bocca. "La bevanda?" domandò il nero. Lo Chourineur, che rispettosamente aveva lasciato alla porta gli scarponi ferrati, andò verso il cassettone, camminando sulle punte dei piedi più leggermente che poteva ma facendo delle contorsioni, stendendo le gambe, tentennando le braccia, muovendo la schiena e le spalle in tal modo, che in altra circostanza avrebbe provocato il riso. Il povero diavolo aveva l'aria di voler riportare tutto il peso della sua persona su quella parte di sé che non toccava terra; e perciò il tappeto non impediva che il pavimento scricchiolasse sotto la pesante corporatura dello Chourineur. Per disgrazia, nell'ansia di far bene e nella paura di lasciarsi sfuggire la fiala diafana che portava con gran cura, ne strinse tanto il collo con la sua larga mano, che l'ampolla si ruppe, e la pozione si sparse. Alla vista del disastro, lo Chourineur restò fermo con una delle sue grosse gambe per aria, le dita dei piedi contratte nervosamente e guardando confuso ora il medico ora il collo della boccetta che gli rimaneva in mano. "Tanghero indiavolato!" gridò il nero, spazientito. "Pezzo d'imbecille!" esclamò lo Chourineur, apostrofando se stesso. "Ah!" fece il medico, guardando sul cassettone. "Fortunatamente vi siete sbagliato, volevo l'altra fiala." "Quella piccola rossiccia?" domandò lo sprovveduto infermiere. "Senza dubbio, non c'è che quella!" Lo Chourineur, girando sul calcagno per un'antica abitudine militare, calpestò i rottami dell'ampolla: piedi più delicati dei suoi si sarebbero scorticati, ma l'ex scaricatore era debitore alla sua professione di un paio di suole naturali, dure al pari dello zoccolo d'un cavallo. "Badate, finirete con il ferirvi!" gli gridò il medico. Lo Chourineur non diede retta per nulla a quella raccomandazione. Profondamente preoccupato della sua nuova incombenza, dalla quale bramava disimpegnarsi bene per far dimenticare la sua prima sventatezza, bisognava vedere con che delicatezza, con che leggerezza, con quanto scrupolo, allargando le grosse dita, prese il sottile cristallo! Una farfalla non gli avrebbe lasciato nemmeno un atomo delle sue ali dorate fra il pollice e l'indice. Il medico stette in apprensione per un nuovo incidente, che poteva succedere per eccesso di precauzione. Per buona sorte, la pozione evitò questo scoglio. Nell'avvicinarsi al letto, lo Chourineur stritolò nuovamente sotto i piedi quel che ancora rimaneva dell'altra boccetta. "Ma, disgraziato, volete dunque storpiarvi?" gli disse adagio il medico. "Eh, con che storpiarmi, dottore?!" "È la seconda volta che camminate sui vetri." "Se non è che per questo, non vi date pensiero... Ho la pianta dei piedi foderata di legno." "Un cucchiaino!" chiese il nero. Lo Chourineur ricominciò le sue leggere evoluzioni recando ciò che il medico gli domandava. Dopo qualche cucchiaiata di quella bevanda, Rodolphe fece un movimento e agitò debolmente le mani. "Bene, bene, si risveglia dal suo letargo!" disse il medico. "Il salasso lo ha aiutato, in breve sarà fuori pericolo." "Salvato? Bravo! Viva la Francia!" gridò lo Chourineur in un eccesso di gioia. "Ma state dunque tranquillo!" "Sì, dottore." "Il polso si normalizza. Di bene in meglio!" "E il povero amico del signor Rodolphe, dottore? Fulmini! Quando saprà... Fortuna che..." "Silenzio!" "Sì, dottore..." "Sedetevi." "Ma, dott..." "Sedetevi, dico, mi date fastidio ronzandomi sempre attorno; mi distraete... Dunque, sedetevi!" "Dottore, sono sporco come un pezzo di legno che si scarica dal fiume, insudicerei i mobili." "Dunque, sedete per terra." "Insudicerò il tappeto." "Fate come vi pare, ma per carità, state fermo" disse il medico con impazienza e, adagiatosi in una poltrona, si appoggiò la fronte alle mani. Dopo un momento di profonda riflessione, lo Chourineur, più che per bisogno di riposarsi, per obbedire al medico, prese con somma precauzione una seggiola, e con grande soddisfazione, l'accomodò con la spalliera sul tappeto, nell'ottima intenzione di sedersi modestamente sui poggiapiedi davanti, per non imbrattar nulla... Ma per sua disgrazia lo Chourineur conosceva poco le leggi dell'equilibrio e della gravità dei corpi: la sedia barcollò; il disgraziato, per un moto involontario protese le mani, e rovesciò un tavolinetto su cui c'era una sottocoppa, una tazza ed un vaso da tè. A quel rumore il medico sollevò la testa, trasalendo. Rodolphe si svegliò di soprassalto, si rizzò sulla vita, si guardò attorno ansioso, e, richiamate le proprie idee, domandò: "Murph! Dov'è Murph?" "Vostra Altezza si rassicuri" disse rispettosamente il nero "ci sono buone speranze." "È ferito?" domandò Rodolphe. "Ahimè, sì, monsignore." "Dov'è? Voglio vederlo." E Rodolphe provò ad alzarsi, ma ricadde vinto dal dolore delle contusioni, di cui risentiva allora il contraccolpo. "Che mi portino subito da Murph, poiché non posso camminare!" gridò. "Monsignore" rispose il medico "sarebbe pericoloso per ora cagionargli una viva emozione." "Ah, voi m'ingannate! Egli è morto... Egli è morto assassinato!... E sono stato io, io ne sono stato la causa!" gridò Rodolphe con voce straziante, alzando le mani al cielo. "Monsignore sa che io sono incapace di mentire... Affermo sull'onor mio che Murph è vivo, assai gravemente ferito, è vero, ma con probabilità e quasi certezza di guarigione." "Mi dite ciò per prepararmi a qualche triste nuova. È di sicuro in una situazione disperata!" "Monsignore..." "Ne sono certo... Voi m'ingannate... Voglio che mi si porti subito presso di lui... La vista di un amico fa sempre bene." "Monsignore, vi affermo nuovamente sul mio onore che, salvo accidenti improbabili, il signor Murph entrerà presto in convalescenza." "Davvero mio caro David?" "Davvero, monsignore." "Ascoltatemi, sapete la mia considerazione per voi; dacché appartenete alla mia casa aveste sempre la mia fiducia, non ho mai messo in dubbio la vostra rara dottrina, ma, per l'amor del cielo, se fosse necessario un consulto..." "Questa, monsignore, fu la mia prima idea. Per ora un consulto è assolutamente inutile, voi potete credermi... D'altronde non ho voluto introdurre qui dei forestieri, prima di sapere se i vostri ordini di ieri..." "Ma com'è avvenuto tutto questo?" chiese Rodolphe interrompendo il nero. "Chi mi ha strappato da quel sotterraneo dove annegavo? Ho una confusa idea d'aver sentito lo Chourineur. Mi sarei forse ingannato?" "No, no. Quel bravo galantuomo potrà raccontarvi tutto, monsignore, giacché fu lui a fare ogni cosa." "Ma dov'è lui? Dov'è?" Il medico cercò con gli occhi quell'infermiere improvvisato, che, confuso per la caduta, si era nascosto dietro il cortinaggio del letto. "Eccolo" esclamò il medico "ha l'aria confusa..." "Fatti avanti!" disse Rodolphe, porgendo la mano al suo salvatore. 20. Racconto dello Chourineur. La confusione dello Chourineur era tanto più profonda, in quanto aveva udito il medico chiamare Rodolphe monsignore diverse volte. "Ma avvicinati dunque, dammi la mano!" gli disse Rodolphe. "Perdono, signore, no, volevo dire monsignore, ma..." "Chiamami, come prima, signor Rodolphe... Lo preferisco." "E anch'io sarò meno imbrogliato... Ma, per la mia mano, scusate, ho fatto tanto lavoro..." E protese timidamente la sua mano nera e callosa. Rodolphe gliela strinse cordialmente. "Sentiamo, siedi e spiegami tutto... Come hai scoperto la cantina? Ma appunto, il Maître d'école?" "È al sicuro" lo interruppe il medico. "Legati come due salami... lui e la Chouette... Vista la figura che devono fare se si guardano, non hanno da stare allegri l'uno con l'altro." "E il mio povero Murph! Mio Dio, ci penso soltanto adesso. David, dove è stato ferito?" "Al lato destro, monsignore, fortunatamente verso l'ultima costola..." "Oh, ci vuole una vendetta terribile, terribile! David conto su di voi." "Monsignore sa che io sono suo anima e corpo" rispose freddamente il nero. "Ma come arrivasti a tempo, mio prode?" domandò Rodolphe allo Chourineur. "Se volete, monsign... no signor Rodolphe, comincerò dal principio." "Hai ragione, ti ascolto..." "Sapete che ieri sera, tornando dalla campagna, dove eravate andato con la povera Goualeuse, mi diceste: "Procura di trovare il Maître nella Cité. Gli dirai che sai che c'è da fare un buon colpo, ma che non te ne vuoi occupare, che se lui vuole starci al tuo posto basta che si trovi domani (che era stamattina) alla barriera di Bercy, al Paniere Fiorito, e che là vedrà chi ha preparato il furto"." "Benissimo!" "Lasciandovi, trotto alla Cité. Vado dall'Orca: niente Maître. Giro la rue Saint-Eloi, la rue aux Fèves e de la Vieille Draperie: nemmeno. Finalmente lo intoppo con quel canchero della Chouette sul sagrato di Notre-Dame, da un piccolo sarto, rivenditore, manutengolo e ladro. Volevano spassarsela con i denari rubati al signore alto e vestito di nero che proponeva di giocarvi un brutto tiro. Compravano vestiti di ricambio. La Chouette contrattava uno scialle rosso... Vecchio mostro! Spiffero l'affare al Maître: mi risponde che ci sta, e che verrà al luogo fissato... Bene! Questa mattina, secondo i vostri ordini di ieri, corsi qui a darvi la risposta... Voi mi diceste: "Torna, mio caro, domani prima dell'alba, passerai la giornata in casa, e la sera vedrai cose che varranno la pena d'essere viste". E non aggiungeste altro, ma io capii di più. Dissi tra me: "È un colpo preparato per fare una burla domani al Maître con la lusinga di un affare. È un tipo costui capace di tutto... Ha assassinato il mercante di buoi. Ci sto..." "Feci male a non spiegarti tutto, mio caro... Questa brutta sventura non sarebbe forse accaduta." "Toccava a voi, signor Rodolphe, quel che dipendeva da me era servirvi, perché infine, non so come ciò succeda, già ve l'ho detto, mi sento come il vostro cane. Basta... Feci tra me: "Domani è festa, oggi faccio vacanza, il signor Rodolphe mi ha pagato le due giornate che ho perduto, e due altre anticipate, giacché ne sono passate tre senza che mi sia fatto più vedere dal mio capo-facchino, e non essendo milionario, il lavoro è il mio pane". Poi soggiungo: "Alle corte, il signor Rodolphe mi paga il mio tempo; il mio tempo gli appartiene, perciò voglio impiegarlo per lui". Questo mi fece venire l'idea che adesso vi spiego: il Maître è furbo, deve aver paura di una trappola. Il signor Rodolphe gli proporrà la faccenda per domani, è vero, ma il birbone è capace di venire nella giornata a gironzolare per esaminare i dintorni, e, se diffida del signor Rodolphe, chissà non pensi di portare con sé un altro ladro, o anche dire: "a domani", e fare il colpo oggi per suo conto." "Hai indovinato giusto, così è appunto accaduto... È la Provvidenza che ha voluto che io ti debba la vita!" "È meraviglioso, signor Rodolphe, come, dacché vi conosco, mi siano capitate delle cose che hanno l'aria d'essere volute dal cielo! E poi mi balenano certe idee che non ho mai avuto, dopo che mi diceste: "Mio caro, tu hai ancora cuore e onore". Cuore e onore! Fulmini! Quelle parole mi hanno rimescolato un non so che nello stomaco... Già, signor Rodolphe, quando uno è avvezzo a sentirsi gridare: "Al lupo! al cane arrabbiato!"... Quando si ha voglia solamente di avvicinarsi a gente dabbene..." "Sicché, da un po' di tempo ti vengono dei pensieri che per te sono nuovi?" "Certo, signor Rodolphe. Ecco, andavo avanti dicendo: "Adesso, se conoscessi qualcuno, che avesse fatto una cattiva azione, il bere, la rabbia, gli direi: Amico caro, hai fatto un errore, va bene... Ma questo non basta, non per nulla Domineddio ha creato le persone che si affogano, che si bruciano o che crepano di fame... Ora mi farai un favore, se guadagni quaranta soldi, di darne venti a qualche povero vecchio o ai bambini, insomma, a quelli che, più tribolati di te, non hanno né pane né forza... E specialmente non dimenticare, amico caro, che se c'è da salvare qualcuno rischiando la pelle, tocca a te adesso cimentarti! Facendo questo, e non ritornando più ai tuoi spropositi, mi troverai sempre..." Ma scusate, signor Rodolphe, io ciarlo... e voi siete curioso..." "No, mi piace udirti discorrere in tal modo... Purtroppo tra poco saprò come è avvenuta la orribile disgrazia che ha colpito il mio povero Murph... Mi credevo certo di non abbandonare d'un passo, d'un minuto il Maître, in quella pericolosa impresa... Allora mi avrebbe ucciso mille volte, prima di toccare Murph. Ahimè, la sorte decise altrimenti... Continua mio caro, continua." "Deciso dunque ad impiegare il mio tempo per voi, signor Rodolphe, ho detto: "Bisogna che io mi apposti in qualche luogo da cui vedere le mura, la porta del giardino, non c'è altro ingresso che quello... Se trovo una buona posizione, siccome piove, ci rimarrò tutta la giornata, la notte soprattutto, e domattina sarò pronto". Avevo calcolato così verso le due a Batignolles, dove ero stato a mangiare un boccone, quando vi ho lasciato, signor Rodolphe... Ritorno agli Champs-Elysées... Cerco un nascondiglio... Che cosa vedo? Una piccola taverna a dieci passi dalla vostra porta... Mi pianto a terra, presso la finestra, chiedo un litro ed una manciata di noci, dicendo che aspetto alcuni amici, un gobbo ed una donna alta, così sembra più naturale... Mi fisso lì, e sto a tener d'occhio la vostra porta... Pioveva, non passava nessuno, si faceva notte..." "Ma" chiese Rodolphe, interrompendo lo Chourineur "perché non sei venuto da me?" "Mi avevate detto di tornare la mattina dopo, signor Rodolphe. Non ho osato prima. Sarei stato noioso, importuno, come dicono i soldati. Prima di tutto, so bene chi sono io, un forzato liberato; e quando uno come voi fa con me come fate voi, signor Rodolphe, non si deve andar da lui se egli non ti dice: "Vieni!". Anche se vedendo un pidocchio sul bavero dell'abito, ve lo leverei e lo schiaccerei senza chiedervi il permesso... Capite? Eccomi dunque alla finestra dell'osteria, sgusciando le noci e bevendo il mio vinello, quando, tra la nebbia, vedo apparire la Chouette con il bambolo di Bras-Rouge, il piccolo Tortillard..." "Bras-Rouge è dunque il padrone della bettola sotterranea degli Champs-Elysées?" domandò Rodolphe. "Sì, signor Rodolphe. Non lo sapevate?" "No, credevo che abitasse nella Cité..." "Sta anche lì, sta dappertutto BrasRouge... È un mariuolo dei più fini, non dubitate, con la parrucca gialla e il naso aguzzo! Insomma, quando vedo comparire la Chouette e Tortillard, dico tra me: "Qui l'affare si fa serio!". Difatti, Tortillard si rannicchia in uno dei fossi del viale, in faccia alla vostra porta, come volesse ripararsi dall'acquazzone e fa la talpa... La Chouette si leva la cuffia, se la mette in tasca, e picchia alla porta. Il povero signor Murph, vostro amico, viene ad aprire alla guercia, ed eccola che smania correndo per il giardino. Mi arrabbiavo a non poter indovinare ciò che era venuta a fare la Chouette... Infine torna fuori, si rimette la cuffia, dice due parole a Tortillard, che rientra nella sua buca, e lei se la svigna... Eh, dico io, non c'imbrogliamo. Tortillard è venuto con la Chouette; il Maître e il signor Rodolphe sono dunque da BrasRouge. La Chouette è venuta a tastare il terreno; vogliono dunque fare il colpo stasera. Se lo fanno stasera, il signor Rodolphe, che crede si faccia domani, è tolto di mezzo. Se il signor Rodolphe è tolto di mezzo, vado da BrasRouge a vedere che c'è per aria; sì, ma se intanto arriva il Maître?... È da pensarci. Allora, tanto peggio, entrerò in casa, dirò al signor Murph: "Non vi fidate". Sì, ma quel briccone di Tortillard che sta di vedetta alla porta, mi sentirà suonare, mi vedrà, risveglierà sospetti alla Chouette; se lei torna, ti saluto... Tanto più che il signor Rodolphe avrà forse preso altre misure per questa sera... Fulmini! Quei sì, e quei ma, contrastavano in capo... Inviperivo, non vedevo altro che fuoco, non sapevo cosa decidere. Pensai: "Andrò fuori, chissà che l'aria aperta non mi dia consiglio". Esco, mi dà consiglio: mi levo il camiciotto e la cravatta, corro al fosso di Tortillard, e l'afferro per la pelle della schiena; ha un bello sgambettare, graffiarmi e strillare, lo avvolgo nel mio camiciotto come in un sacco, ne annodo un'estremità con le maniche, l'altra con la mia cravatta, lasciandogli appena da respirare; prendo quel fardello sotto il mio braccio, vedo là vicino un'ortaglia circondata da un muricciolo: butto Tortillard in mezzo a un campo di carote; grugniva forte come un maialetto, ma a due passi di là non lo si sentiva più... Fuggo, era tempo! Mi arrampico sopra uno dei grossi alberi del viale: propriamente in faccia alla vostra porta, sopra il fosso di Tortillard. Dieci minuti dopo, sento camminare; pioveva sempre. Faceva così buio, tanto buio che il diavolo avrebbe viaggiato sulla sua coda... Sto attento; è la Chouette: "Tortillard! Tortillard!" domandò sottovoce. Sì, cerca il tuo Tortillard! "Piove, al monello sarà venuto a noia aspettare" disse il Maître con una bestemmia. "Se l'acciuffo, lo scortico!" "Maître" riprese la Chouette "attento, può darsi che sia venuto ad avvertirci di qualche cosa. Se fosse un tranello! L'altro non voleva fare il colpo che alle dieci." "È presto" ribatté il Maître "non sono che le sette. Tu hai visto i denari... Chi non risica non rosica, dammi il paletto e lo scalpello..."" "E quegli ordigni?" domandò Rodolphe. "Venivano da Bras-Rouge: oh, ha una casa ben fornita. Con un niente è forzata la porta. "Sta qui" ordinò il Maître alla Chouette: "Attenta, e grida: bada! se senti qualche cosa." "Infila lo stiletto ad un occhiello del tuo panciotto, per poterlo tirar fuori subito" raccomandò la guercia. E il Maître entrò nel giardino. Dico subito tra me: "Il signor Rodolphe là non c'è; adesso è morto o è vivo, io non posso niente, ma gli amici dei nostri amici sono nostri..." Oh, no, scusatemi, monsignore!" "Continua pure... Ebbene?" ""Il Maître può assassinare il signor Murph, l'amico del signor Rodolphe, che non s'aspetta niente. Là sta il guaio!" Salto dal mio albero, mi avvento sulla Chouette, la stordisco con due pugni ben assestati. Lei cade senza fiatare... Corro nel giardino... Fulmini, signor Rodolphe, era troppo tardi!" "Povero Murph!" "Sentendo strepito alla porta, era uscito dal vestibolo; si batteva con il Maître sulla piccola scala. Già ferito, resisteva ancora da valoroso, senza chiamare soccorso. Brav'uomo! Come i buoni cani, morsicature, non abbaiamenti... Mi getto in mezzo ai due, abbrancando il Maître per un'orecchio, il solo boccone disponibile in quel momento. "Viva la Francia, sono io, lo Chourineur! Levatevi di qui, signor Murph!" "Ah! canaglia, di dove sbuchi tu adesso" mi grida il Maître, stordito. "Va là, buffone!" gli rispondo e gli serro una delle gambe tra le mie ginocchia, lo piglio per un braccio, era quello del pugnale, fu una fortuna. "E Rodolphe?" mi gridava il signor Murph "e Rodolphe?"" "Bravo, eccellente uomo!" mormorò Rodolphe addolorato. ""Non ne so nulla" faccio io. "Questo manigoldo l'avrà ucciso." E raddoppio le botte al Maître, che cercava di bucarmi con il suo pugnale; ma mi ero gettato sul suo braccio, e lui non aveva libero altro che il pugno. "Siete dunque solo?" dico al signor Murph, mentre continuo a battermi con il Maître. "Qui vicino c'è gente, ma non ci sentirebbero gridare." "È lontano?" "Dieci minuti, non più." "Chiamiamo aiuto e se passa qualcuno, verrà a darci assistenza." "No, poiché l'abbiamo preso, conviene tenerlo qui... Ma mi sento debole, sono ferito" mi disse il signor Murph. "Fulmini! Allora correte a cercar soccorso, se avete tempo. Io tenterò di trattenerlo: levategli il coltello, aiutatemi solamente a mettermi addosso a lui; ancorché sia forte il doppio di me, una volta che l'ho abbrancato, ci penso io." Il Maître non faceva che sbuffare come un bue... Ma fulmini! Che sforzi! Il signor Murph non gli poteva strappare il pugnale, il pugno di quell'uomo era una morsa. Infine mi riuscì di passargli due mani dietro al collo e unirle, come per abbracciarlo. "Sbrigatevi" grido allora al signor Murph. "Vi aspetto. Se trovate qualcuno in aiuto, fate levare la Chouette dalla porta del giardino, l'ho stordita." Io resto solo con il Maître. Egli sapeva quel che doveva aspettarsi." "Non lo sapeva! E neppure tu, amico mio" esclamò Rodolphe, con aria truce, le sembianze alterate da quell'espressione dura, quasi feroce, di cui già si è parlato. Lo Chourineur attonito rispose a Rodolphe: "Credevo che se lo dovesse immaginare, giacché, fulmini!, non è per vantarmi, ma c'è stato un momento che nemmeno io ero nella bambagia. Mi trovavo mezzo per terra, e mezzo sull'ultimo gradino della scala... Avevo le braccia intorno al suo collo, le mie gote contro le sue gote. Sentivo stringere i suoi denti. Faceva buio, pioveva sempre, e la lampada rimasta nel vestibolo ci rischiarava un poco. Avevo serrato una delle sue gambe fra le mie. Ciò nonostante, quel demonio aveva le reni tanto forti, che ci sollevava me e lui due palmi da terra. Voleva mordermi, ma non gli riusciva. Non mi ero mai sentito così forte. Fulmini! Mi batteva il cuore, ma con buona intenzione. Dicevo: "Faccio come uno che si avventa contro un cane arrabbiato, perché non si getti sulla gente". "Lasciami scappare, e non ti farò nulla" mi pregò il Maître. "Ah, tu sei vile!" rispondo. "Il tuo coraggio sta tutto nella forza? Non avresti osato assassinare il mercante di Poissy per derubarlo, se fosse stato solamente forte come me!" "No" seguitava "ma t'ammazzerò come lui." Così dicendo, fece uno sbalzo tanto infuriato e distese nello stesso tempo le gambe in maniera, che mi buttò da una parte, ma tenevo sempre le mani incrociate sotto la sua testa, e il suo braccio destro sotto di me. Una volta che ebbe libere le gambe, se ne servì da esperto. Ciò gli rimise animo. Mi rivoltò sottosopra. Se non gli tenevo fermo il braccio del pugnale, era finita per me. In quel momento, il mio pugno sinistro batté contro qualcosa; mi toccò slargare le dita. Fu una sciagura. "Sono sotto" penso "e lui sopra. Adesso m'ammazza. Che importa, preferisco la mia situazione alla sua... Il signor Rodolphe mi ha detto che ho cuore ed onore. Sento che è vero." Ero in quella situazione, quando scorgo la Chouette affacciarsi sulla scala, con il suo occhio rotondo e il suo scialle rosso. Fulmini! Ho creduto mi venisse l'asma. "Ninette!" le gridò il Maître. "Mi è caduto il pugnale; raccattalo... Là, sotto di lui, e colpisci, in mezzo alla schiena, fra le due spalle." "Aspetta, aspetta, Maître, che possa colpire giusto..." Ed ecco la Chouette che ci cammina attorno, ci gira attorno come un uccello del malaugurio... Finalmente vede il pugnale. Corre per prenderlo. Io, che ero sempre steso sul Maître, le appioppo con il calcagno un colpo nello stomaco, e la rovescio, ma lei si rialza, si accanisce. Non ne potevo più. Mi aggrappavo ancora al Maître, ma lui, da sotto, mi dava colpi tanto forti sulle mascelle, che stavo per lasciarlo. Cominciavo a stordirmi, quando vedo tre o quattro gagliardi bene armati che salgono di volata le scale... Il signor Murph, tutto pallido, si sosteneva appena al braccio del dottore. Si impadroniscono del Maître e della Chouette, e li legano come salami. Non è tutto. Volevo il signor Rodolphe. Salto addosso alla Chouette, mi viene in mente il dente della Goualeuse, le afferro un braccio e glielo torco, dicendo: "Dov'è il signor Rodolphe?". Lei sta zitta. Le dò un secondo strattone. Allora grida: "Da BrasRouge, nella cantina, al Cuore Sanguinante". Bene. Passando voglio prendere Tortillard dal campo delle carote: era la mia strada. Guardo... non c'è altro che il mio camiciotto. L'aveva rosicchiato con i denti. Arrivo al Cuore Sanguinante, salto alla gola di Bras-Rouge. "Dove è il giovanotto che è stato qui stasera con il Maître?" "Non stringermi così forte, te lo dirò: gli ha voluto fare una burla, l'ha chiuso nella mia cantina: andremo ad aprirgli." Scendiamo, nessuno... "Sarà uscito mentre avevo le spalle voltate" disse allora BrasRouge. "Vedi bene che non c'è nessuno." Me ne andai tutto mesto, quando al bagliore della lanterna scorgo un'altra porta. Corro, tiro a me, ricevo un bel secchio d'acqua sul capo. Vedo le vostre due povere braccia in aria. Vi ripesco e vi porto qui sulle mie spalle, poiché non c'era nessuno da mandare per carrozza. Ecco tutto, signor Rodolphe, e posso ben dire, senza vantarmi, che sono proprio contento..." "Mio caro, ti devo la vita... È un debito, lo soddisferò, stanne certo, e in tutti i modi... Tu hai tanto cuore, che comprenderai i sentimenti che mi animano in questo momento... Io provo una terribile inquietudine per l'amico che salvasti così valorosamente, e un bisogno di feroce vendetta contro colui che fu in procinto di ucciderci tutti e due." "Comprendo tutto, signor Rodolphe... Saltarvi addosso a tradimento, gettarvi in una cantina e portarvi svenuto nel sotterraneo per farvi affogare... Merita una lezione, il Maître... Mi ha confessato che aveva assassinato il mercante di buoi. Io non sono cattivo, ma, fulmini! Andrei volentieri a chiamare una guardia e farlo arrestare, il brigante!" "David, volete andare a procurarvi notizie di Murph?" domandò Rodolphe senza rispondere allo Chourineur. "Tornerete subito." Il nero uscì. "Sai dov'è il Maître, mio caro?" "In una stanza al pianterreno con la Chouette. Volete mandar forse a chiamare la pattuglia, signor Rodolphe?" "No!" "Vorreste forse lasciarlo andare?! Ah, signor Rodolphe, non fate una cosa simile. Ve lo ripeto ancora, è un cane arrabbiato. Guai a quelli che passano!" "Non morderà più nessuno, sta' sicuro." "Volete dunque rinchiuderlo in qualche luogo?" "No! Fra mezz'ora egli uscirà di qui." "Il Maître?" "Sì..." "Senza gendarmi?" "Sì..." "Come! Uscirà libero da qui?" "Libero..." "E da solo?" "Sì, da solo." "Ma dunque andrà via..." "Dove vorrà" disse Rodolphe, con un amaro sorriso, che spaventò lo Chourineur. Entrò il nero. "Ebbene, David? E Murph?" "Dorme, monsignore" rispose mestamente il medico. "Ha il respiro ancora faticoso." "Sempre in pericolo?" "Il suo stato è gravissimo, monsignore. Tuttavia bisogna sperare..." "Oh, Murph, vendetta, vendetta!" gridò Rodolphe con un furore concentrato. Quindi aggiunse: "David, una parola..." E parlò all'orecchio del nero. Questo trasalì. "Voi esitate?" gli disse Rodolphe. "Vi ho già parlato spesso di questa mia idea... Il momento di metterla in esecuzione è venuto." "Io non esito, monsignore... Questa idea, l'approvo... Racchiude una completa riforma penale degna d'esame da parte dei grandi criminalisti, perché la pena sarebbe a un tempo semplice, terribile e giusta... Nel caso attuale è applicabile. Senza numerare i delitti per cui fu mandato al bagno penale per tutta la vita, ha tentato tre omicidi: il mercante di buoi, Murph, e voi. Sarà giustizia..." "Ed avrà sempre davanti l'orizzonte senza limite del pentimento" aggiunse Rodolphe. "Bene, David, voi mi comprendete..." "Monsignore, noi concorreremo allo stesso scopo." Dopo un breve silenzio, Rodolphe continuò: "In seguito, David, cinquemila franchi gli basteranno?" "Sì, certo, monsignore..." "Mio caro" disse Rodolphe allo Chourineur stupito "devo dire due parole al signore. Intanto va' nella stanza qui accanto... Troverai un gran portafoglio rosso sopra lo scrittoio. Prendi cinque biglietti da mille franchi e portameli qui..." "E per chi i cinquemila franchi?" domandò lo Chourineur stupefatto. "Per il Maître, e ordinerai nello stesso tempo che lo conducano qui..." 21. La punizione. La scena ha luogo in un salotto parato di rosso, bene illuminato. Rodolphe, con una lunga veste da camera di velluto nero, che accresce maggiormente il pallore del suo volto, è seduto davanti a una gran tavola coperta da un tappeto. Su questa si vedono due portafogli, quello che fu rubato a Tom dal Maître nella Cité, e l'altro che apparteneva a questo scellerato; la collana di similoro della Chouette, a cui è appeso il piccolo Spirito Santo, lo stiletto ancora insanguinato con cui Murph è stato ferito, il paletto di ferro che è servito alla rottura della porta, e finalmente i cinque biglietti da mille franchi che lo Chourineur è andato a prendere nella stanza vicina. Il medico nero è seduto da una parte della tavola, e lo Chourineur dall'altra. Il Maître, legato strettamente in modo da non poter muoversi, giace in una gran poltrona con le ruote, in mezzo del salotto. Gli uomini che ve l'hanno condotto si sono ritirati. Rodolphe, il medico, lo Chourineur e l'ex galeotto restano soli. Rodolphe non è più irritato; è tranquillo, mesto e aggressivo. Il medico è pensoso. Lo Chourineur prova un vago timore; non può staccare i suoi occhi da quelli di Rodolphe. Il Maître è livido, atterrito. Un arresto legale gli sarebbe forse sembrato meno terribile, la sua audacia non l'avrebbe abbandonato davanti a un tribunale ordinario, ma ciò che adesso ha intorno lo sorprende, lo spaventa. Egli è in potere di Rodolphe, che prima considerava come un artigiano capace di tradire o di vacillare al momento del delitto, e che aveva deciso di sacrificare per approfittare lui solo del furto. Ora Rodolphe gli appare terribile, imponente come la giustizia. Il più profondo silenzio regna fuori. Si ode soltanto lo scroscio della pioggia che cade, e scroscia giù dal tetto sul selciato. Rodolphe si rivolge al Maître: "Evaso dal bagno penale di Rochefort, dove eravate condannato a vita, per crimini di falsificazione, furto e omicidio, voi siete Anselme Duresnel." "È falso, che lo si provi!" dice il Maître con voce alterata, girando intorno il suo sguardo selvaggio e inquieto. "Come!" grida lo Chourineur. "Non eravamo insieme a Rochefort?" Rodolphe fece un cenno allo Chourineur, che tacque, poi continuò: "Voi siete Anselme Duresnel, più tardi ne converrete... Avete assassinato e svaligiato un mercante di bestiame sulla strada di Poissy." "È falso!" "Ne converrete più tardi." Il bandito osservava con stupore Rodolphe. "Questa notte vi siete introdotto qui per rubare: avete pugnalato il padrone di questa casa..." "Siete voi che mi avete proposto questo furto" replicò il Maître prendendo un po' di sicurezza. "Fui assalito, mi difesi." "L'uomo che avete colpito non vi aveva assalito. Era senza armi! Vi proposi il furto, è vero... Vi dirò in seguito a quale fine. La sera prima, dopo avere spogliato un uomo ed una donna nella Cité, dopo aver rubato loro questo portafoglio, vi siete offerto di uccidermi per mille franchi!" "E lo sentii io" testimoniò lo Chourineur. Il Maître gli lanciò un'occhiata di odio feroce. Rodolphe soggiunse: "Vedete dunque che non avevate bisogno delle mie tentazioni per commettere delitti!" "Voi non siete un giudice, non vi risponderò più." "Ecco perché vi avevo proposto quel furto. Vi sapevo evaso dal bagno penale, conoscete i genitori di una disgraziata alla quale la Chouette, vostra complice, ha causato un mucchio di sventure. Volevo tirarvi qui con la speranza d'un furto, che è la sola capace di sedurvi. Una volta in mio potere vi lasciavo la scelta o d'essere consegnato in mano alla giustizia, che vi farebbe pagare con la testa l'assassinio del mercante di bestiame..." "È falso! Non sono stato io." "... o essere esiliato fuori di Francia, per mezzo mio, in un luogo di reclusione perpetua, a patto che mi forniste le informazioni che volevo avere. Voi siete condannato a vita, siete un evaso. Impossessandomi di voi e mettendovi nell'impossibilità di nuocere, avrei fatto cosa utile alla società, e per mezzo delle vostre confessioni avrei avuto modo di rendere forse la sua famiglia ad una povera creatura, più sventurata che colpevole. Tale era, da principio, il mio progetto; non era legale, ma voi, per la fuga e i delitti commessi, siete fuori della legge... Ieri, una rivelazione provvidenziale mi palesò il vostro vero nome." "È falso! Io non mi chiamo Duresnel." Rodolphe prese dalla tavola la collana della Chouette, e mostrando al Maître il piccolo Spirito Santo: "Sacrilego" gridò con voce minacciosa. "Avete prostituito regalandola ad una creatura infame questa reliquia santa, tre volte santa, perché vostro figlio ereditava questo pio dono da sua madre e da sua nonna!" Il Maître, meravigliato di quella scoperta, chinò il capo senza rispondere. "Seppi ieri che da quindici anni avevate tolto vostro figlio a sua madre e che siete il solo a conoscere il segreto della sua esistenza. Questo nuovo misfatto fu un motivo di più per impadronirmi di voi; senza parlare di quello che riguarda me personalmente, e di cui non reclamo per ora nessuna vendetta... Questa notte spargeste sangue senza provocazione. L'uomo che assassinaste vi si era fatto incontro con fiducia, non sospettando del vostro istinto sanguinario. Vi ha domandato, cosa volevate: "Il tuo denaro e la tua vita!" e gli avete inferto un colpo di pugnale." "Tale è il racconto del signor Murph, quando gli ho prestato i primi soccorsi" disse il medico. "È falso, ha mentito." "Murph non mente mai" disse freddamente Rodolphe. "I vostri delitti esigono palese riparazione. Vi siete introdotto a mano armata in questo giardino, avete pugnalato un uomo per derubarlo, avete commesso un altro assassinio. Dovete morire qui. Per pietà della vostra consorte e di vostro figlio vi risparmierò l'obbrobrio del patibolo. Si dirà che siete rimasto ucciso in una rissa a mano armata. Preparatevi, le armi sono cariche." L'espressione di Rodolphe era implacabile. Il Maître aveva visto in una stanza per cui era passato due uomini armati di carabina. Il suo nome era noto: pensò che si volessero sbarazzare di lui per seppellire nell'ombra i suoi ultimi misfatti e risparmiare un nuovo scandalo alla sua famiglia. Al pari di tutti i suoi simili, fu tanto vile quanto era stato feroce. Credendo giunta la sua ultima ora, cadde in preda a un tremito; gli si sbiancarono le labbra, poi con voce affannosa supplicò: "Grazia!" "Non c'è grazia per voi" gridò Rodolphe. "Se, qui, non vi uccidete da solo, vi attende il patibolo." "Preferisco il patibolo... Vivrò almeno altri due o tre mesi. Che v'importa, poiché dopo sarò punito! Grazia, grazia..." "Ma vostra moglie, vostro figlio... Essi portano il vostro nome..." "Il mio nome è già disonorato... Anche se non fosse che per otto giorni, grazia!" "Neppure quel disprezzo della vita che talvolta si trova nei più grandi delinquenti!" esclamò Rodolphe con ribrezzo. "E poi la legge proibisce di farsi giustizia da sé" disse il Maître assurdamente. "La legge!" gridò Rodolphe. "La legge!... Voi osate invocare la legge, voi, che da venti anni siete in aperta ed armata ribellione contro la società?" Il Maître abbassò la testa senza rispondere, poi disse con voce umile: "Almeno, per pietà, lasciatemi vivere." "Mi direte dov'è vostro figlio?" "Sì, sì, dirò tutto quel che so." "Mi rivelerete quali siano i genitori di quella giovane che nell'infanzia fu maltrattata dalla Chouette?" "Là, nel mio portafoglio, vi sono delle carte che vi metteranno sulle tracce. Pare che sua madre sia una grande dama." "Dov'è vostro figlio?" "Mi lascerete vivere?" "Confessate prima tutto..." "Ma quando saprete" disse il Maître titubante. "Tu l'hai ucciso!" "No, no, lo consegnai ad uno dei miei complici che, quando fui arrestato, riuscì a scappare." "E che ne ha fatto?" "L'ha allevato, gli ha dato le istruzioni necessarie per entrare in commercio, per servircene... Ma non dirò altro, a meno che mi promettiate di non uccidermi." "Dei patti, miserabile!" "Ebbene no, no, ma pietà! Fatemi solamente arrestare per il delitto di stanotte, non parlate dell'altro. Lasciatemi la possibilità di salvarmi la testa." "Vuoi dunque vivere?" "Oh, sì, sì... Chissà? Non si può prevedere quel che può avvenire" disse involontariamente il furfante. Sognava già la possibilità d'una nuova evasione. "Vuoi vivere a qualunque costo, vivere?" "Sì, vivere, anche se fossi alla catena! Per un mese, per otto giorni. Oh, che io non muoia subito!" "Confessa i tuoi delitti e vivrai." "Vivrò? Oh, davvero? Vivrò?" "Ascolta: per pietà di tua moglie, per tuo figlio, voglio darti un saggio consiglio: muori oggi, muori..." "Oh, no, no, non ritirate la vostra promessa, lasciatemi vivere... L'esistenza più triste, la più orribile, è un nulla a paragone della morte." "Tu lo vuoi?" "Oh, sì, sì..." "Tu lo vuoi?" "Oh, non me ne lagnerò mai." "E tuo figlio, che ne facesti?" "Il mio amico, di cui vi parlai, gli ha fatto imparare la tenuta dei libri per impiegarlo in qualche istituto bancario, affinché potesse informarci su certe cose. Si era convenuto tra noi. Sebbene fossi a Rochefort, aspettando di scappare, pure dirigevo il piano di questa impresa, trattando in gergo cifrato." "Quest'uomo mi spaventa!" gridò Rodolphe fremendo. "Vi sono misfatti che non si sospettano neppure. Confessa, confessa... Perché volevi che il fanciullo lavorasse da un banchiere?" "Per..., mi capite bene?, d'accordo con noi, senza far mostra di nulla, acquistare la fiducia del banchiere, assecondarmi, e..." "Oh mio Dio, suo figlio, suo figlio!" esclamò Rodolphe, con grande orrore, nascondendosi il viso tra le mani. "Ma non si trattava d'altro che di una falsificazione!" seguitò il Maître. "Quando gli fu spiegato quel che si attendeva da lui, mio figlio si sdegnò. Dopo un fiero alterco con la persona che l'aveva educato per i nostri progetti, sparì. Saranno ormai diciotto mesi. Dopo di allora non si sa che ne sia stato... Vedrete là, nel mio portafoglio, l'indicazione delle indagini fatte da quella persona per ritrovarlo, per paura che denunciasse il complotto. Ma a Parigi se n'è perduta qualunque traccia. L'ultima casa che ha abitato è in rue du Temple 14, sotto il nome di François Germain: l'indirizzo è nel mio taccuino. Ecco, ho detto tutto, tutto... Mantenete la vostra promessa, fatemi soltanto arrestare per il furto di questa notte." "E il mercante di bestiame di Poissy?" "È impossibile che lo si scopra, non ci sono prove. Posso ammetterlo con voi per mostrarvi la mia disponibilità, ma davanti al giudice, negherei." "Dunque confessi?" "Ero in miseria, non sapevo come campare. Fu la Chouette a trascinarmi. Ora me ne pento. Voi lo vedete, giacché lo confesso. Ah, se foste tanto generoso da non consegnarmi alla giustizia, vi darei la mia parola d'onore di mai più ricominciare." "Vivrai, e non ti consegnerò alla giustizia." "Mi perdonate?" esclamò il Maître, non potendo credere a quanto udiva. "Voi mi perdonate?" "Ti giudico, e ti punisco!" gridò Rodolphe con voce tonante. "Non ti consegnerò ai tribunali, perché andresti in galera o sulla forca, e non è questo quel che voglio, no, non è questo. In galera! Per primeggiare ancora su quella gentaglia con la tua forza e le tue scelleratezze? Per continuare a soddisfare il tuo istinto brutale di dominazione? Per essere abborrito, temuto da tutti, giacché anche il delitto ha il suo fascino, e tu te ne rallegri nella tua mostruosità... In galera no, no: il tuo ferreo corpo sfida le fatiche della galera ed il bastone degli aguzzini. E poi, le catene si spezzano, le mura si forano, i bastioni si scalano, e un giorno torneresti ad evadere per avventarti di nuovo contro la società come una belva arrabbiata, spargendo, dovunque passassi, rapine e assassinii... Perché nulla può salvarsi dalla tua forza d'Ercole e dal tuo coltello. Non dev'essere così, no, non deve essere! Poiché in prigione spezzeresti la catena, per tornare a minacciare la società con il tuo furore. Che si può fare? Abbandonarti al carnefice?" "Ma dunque volete la mia morte?" gemette il delinquente. "Volete la mia morte?" "La morte? Non sperarla. Sei troppo vile, la temi tanto, la morte, che mai riusciresti ad affrontarla! Nel tuo attaccamento alla vita, nel tuo sperare così ostinato, ti sottrarresti alle angosce del suo terribile avvicinarsi... Speranza stolta, insensata, sarebbe la tua, ma che ti celerebbe l'orrore espiatore del supplizio: tu non ci crederesti se non sotto le unghie del boia! E allora, istupidito dal terrore, non saresti altro che una massa inerte, che si offrirebbe in olocausto. Non deve essere così. Fino all'ultimo saresti illuso di salvarti. A te le speranze, mostro? Come può la speranza venire, con le sue soavi e consolanti illusioni, a pascerti, a bearti, sinché il timore estremo ti oscura le pupille? No! Troppo ne riderebbe il vecchio Satana! Se non ti penti, io non voglio più che tu speri in questa vita, io..." "Ma che ho fatto a quest'uomo? Chi è mai? Che vuole da me? Dove sono?" urlò il Maître, quasi in delirio. Rodolphe continuò: "E se tu affrontassi audacemente la morte, nemmeno allora si dovrebbe abbandonarti al supplizio. Per te il patibolo sarebbe un palco dove, come molti altri, faresti sfoggio della tua ferocia, e non valutando la tua misera vita, danneresti l'anima tua con un'ultima bestemmia! Neppure questo deve essere! Non è bene per il popolo vedere il condannato scherzare con il patibolo, schernire il carnefice, soffiare, dileggiando, sulla divina scintilla che in noi pose il Creatore. È cosa sacra la salvezza di un'anima... Qualunque delitto si sconta, disse il Salvatore, ma per chi vuole sinceramente espiazione e pentimento. Dal tribunale alla ghigliottina è troppo breve il tragitto. Tu non devi morire così!" Il Maître era annientato. Per la prima volta vi fu qualche cosa che lo atterriva più della morte. Quel vago timore era orribile. Il dottore e lo Chourineur guardavano con angoscia Rodolphe. Ascoltavano, raccapricciati, le parole dure, risolute, spietate come il ferro di una scure; si sentivano stringere il cuore dolorosamente. Rodolphe proseguì: "Anselme Duresnel, tu non andrai in galera, non morrai più!" "Ma che pretendete da me? Vi ha forse mandato l'inferno?" "Ascoltami" disse Rodolphe, levatosi in piedi, con atto solenne, con gesto autorevole. "Tu abusasti criminalmente della tua forza, ed io paralizzerò la tua forza. I più robusti tremavano davanti a te, e tu tremerai davanti ai più deboli. Assassino, tu immergesti nella notte eterna molte creature di Dio, e le tenebre dell'eternità cominceranno per te in questa vita. Oggi stesso, a momenti, il tuo castigo sarà pari ai tuoi misfatti. Ma" aggiunse con una specie di dolorosa compassione "questo castigo spaventoso ti lascerà almeno l'illimitato orizzonte dell'espiazione. Io sarei reo come te, se nel punirti appagassi soltanto una vendetta, per quanto giusta fosse. Per non essere sterile, quale sarebbe con la tua morte, la tua punizione dev'essere feconda; invece di dannarti, può farti rimettere le colpe. Se per toglierti la possibilità di nuocere, ti privo per sempre della bellezza della vita, se ti piombo in un buio impenetrabile, solo, con il ricordo dei tuoi delitti, è perché tu ne possa meditare incessantemente l'enormità. Sì, isolato per sempre dal mondo esterno sarai costretto a guardare sempre in te stesso... Ed allora, io lo spero, la tua fronte, annerita dall'infamia, arrossirà di vergogna, l'anima tua, indurita dall'atrocità, corrosa dal delitto, si farà mansueta per la commiserazione. Ogni tuo detto fu una bestemmia, ogni tua parola sarà una preghiera. Tu sei ardito e crudele perché sei forte, sarai docile ed umile, essendo debole. Il tuo cuore è chiuso al ravvedimento, un giorno piangerai le tue vittime. Degradasti l'intelligenza che Dio ti aveva dato, la riducesti a solo istinto di furto e di massacri, da uomo ti facesti bestia selvaggia. Un giorno la tua intelligenza acquisterà nuova tempra grazie al rimorso, risorgerà per l'espiazione. Neppure rispettasti ciò che rispettano le belve: la loro femmina, i loro figli... Dopo una lunga esistenza consacrata alla redenzione delle tue colpe, l'ultima tua preghiera sarà per supplicare Dio di concederti la non sperata felicità di morire fra tua moglie e tuo figlio." Proferendo queste ultime parole, la voce di Rodolphe si era estremamente alterata. Il Maître non provava quasi più alcun terrore. Pensò che si fosse voluto spaventarlo prima di arrivare a tutta quella morale. Quasi riconfortato dal tono ormai più dolce del suo giudice, egli, divenendo insolente, quanto prima era avvilito, disse ridendo grossolanamente: "Ma che si fa, siamo forse al catechismo? O stiamo a giocare con gli indovinelli?" Il nero guardò Rodolphe con inquietudine; si aspettava di vederlo infuriare di nuovo. Non fu così. Rodolphe scosse la testa con ineffabile espressione di mestizia, poi disse al medico: "David, eseguite, e Dio punisca me solo, se sbaglio!" Quindi si nascose la faccia fra le mani. A quelle parole: "David, eseguite!" il nero suonò. Entrarono due uomini vestiti di nero. Il dottore accennò loro la porta di uno stanzino. Trasportarono là il seggiolone a cui era legato, senza poter fare alcun movimento, il Maître d'école. La sua testa era fissata alla spalliera con una sciarpa che gli attorniava il collo e le spalle. "Fissategli anche la fronte alla poltrona con un fazzoletto, e mettetegli l'altro come bavaglio" ordinò David senza entrare nello stanzino. "Volete scannarmi? Grazia!" urlò il Maître. "Grazia!" Poi non s'intese più nulla, tranne un mormorio confuso. I due servi ricomparvero. Il dottore fece loro un cenno, ed essi se ne andarono. "Monsignore?" domandò per l'ultima volta il nero a Rodolphe. "Fate!" rispose senza cambiar posizione. David entrò lentamente nello stanzino. "Signor Rodolphe, ho paura" disse lo Chourineur, pallido e con voce tremante. "Sì, signor Rodolphe, parlatemi, vi prego, ho paura... È forse un sogno? Ma che gli fa il nero, al Maître? Signor Rodolphe, non si sente niente. Questo mi fa ancora più paura." David uscì dallo stanzino; era pallido come lo diventano i neri, bianche le labbra. Suonò. Tornarono i due uomini. "Riportate il seggiolone." Fu ricondotto il Maître d'école. "Levategli il bavaglio." Gli fu tolto. "Ma volete mettermi alla tortura?" esclamò il Maître con più rabbia che dolore. "Perché divertirvi a pungermi gli occhi? Mi avete fatto male. È per martirizzarmi ancora nell'ombra, che avete spento le luci anche qui, come là dentro." Vi fu un momento di terribile silenzio. "Siete cieco" gli disse infine David, con voce commossa. "Non è vero, non è possibile! Avete fatto scuro apposta!" gridò il bandito, dibattendosi sul seggiolone. "Scioglietelo; che si alzi, che cammini" ordinò Rodolphe. I due uomini tolsero i legami al Maître. Il Maître si levò con impeto, fece un passo protendendo le mani, e indi ricadde sulla poltrona, stendendo al cielo le braccia. "David, dategli questo portafoglio!" disse Rodolphe. Il nero pose nelle mani tremanti del Maître un piccolo portafoglio. "Vi è denaro abbastanza per assicurarti ricovero e pane sino alla fine dei tuoi giorni in qualche luogo solitario. Ora sei libero, vattene, e pentiti... il Signore è misericordioso!" "Cieco!" ripeté il Maître, stringendo meccanicamente il portafoglio nelle mani. "Aprite! Che se ne vada!" disse Rodolphe. Si schiusero le porte con strepito. "Cieco! cieco!" ripeté l'altro atterrito. "Mio Dio! È dunque vero?" "Sei libero, hai denari, vattene!" "Ma non posso andarmene! Come devo fare? Non ci vedo!" gridò disperato. "È un delitto orribile abusare così della forza per..." "È un delitto abusare della forza!" lo interruppe Rodolphe con le stesse sue parole. "E tu della tua che ne facesti?" "Oh, la morte... Sì, avrei preferito la morte! Essere a discrezione di tutti, aver timore di tutto... Anche un bambino potrebbe picchiarmi... Che farò? Mio Dio, mio Dio, che farò?" "Tu hai denaro." "Me lo ruberanno." "Te lo ruberanno! Attento a quello che dici, tu che parli ora pieno di timore, tu, che tanto rubasti... Vattene!" "Per l'amor di Dio" proseguì il Maître d'école, in tono supplichevole "qualcuno mi guidi! Come camminerò per le strade? Ah, uccidetemi! Ecco, uccidetemi! Ve lo chiedo per pietà, uccidetemi!" "No! Un giorno ti pentirai!" "Mai mi pentirò, no! mai!" urlò il Maître, esacerbato. "Mi vendicherò. Sì, mi vendicherò!" E, digrignando i denti, si levò dalla poltrona, e serrò i pugni in atto di minaccia. Ma inciampò al primo passo. "No, non posso... Eppure essere tanto forte! Ah, sono pur da compiangere! Nessuno ha compassione di me, nessuno!" E pianse. È impossibile dipingere lo spavento e lo stupore dello Chourineur tutto il tempo che durò quella scena. Sul suo volto sempre impassibile si leggeva una enorme commiserazione. Accostatosi a Rodolphe, gli disse piano: "Signor Rodolphe, costui ha quel che si merita, era un gran mascalzone! Anche poco fa mi voleva ammazzare... Ma, adesso è cieco e piange... Ecco, fulmini!, mi fa male vederlo... Non sa come andar via, per la strada potrebbe restare schiacciato... Volete che io lo porti in qualche posto dove almeno possa starsene tranquillo?" "Va' pure" rispose Rodolphe, commosso da tanta generosità, e stringendo la mano allo Chourineur "va' pure." Lo Chourineur si avvicinò al Maître d'école e gli mise la mano sulla spalla. Il cieco trasalì. "Chi mi tocca?" "Io." "Chi sei tu?" "Lo Chourineur." "Vieni anche tu a vendicarti?" "Non sai come uscire? Attaccati al mio braccio, ti aiuterò." "Tu? Tu?" "Sì, ora mi fai compassione... Vieni!" "Vuoi prepararmi qualche inganno?" "Sai che non sono un vile... Non approfitterei della tua disgrazia... Animo, partiamo, fa quasi giorno." "Giorno! Ah, non vedrò mai più quando fa giorno, io!" Rodolphe non poté più sopportare quella scena, e si ritirò bruscamente seguito da David, accennando ai due servi che si allontanassero. Lo Chourineur e il Maître rimasero soli. "È vero che ci sono dei denari nel portafogli che mi hanno dato?" domandò lo scellerato, dopo un lungo silenzio. "Sì, io stesso ci ho messo cinquemila franchi. Con questi ti puoi mettere in pensione, in qualche luogo di campagna, per tutto il resto della tua vita... Oppure vuoi che io ti conduca dall'Orca?" "No! Me li ruberebbe." "Da Bras-Rouge?" "Mi darebbe veleno per spogliarmi." "Dunque, dove ti devo condurre?" "Non so, tu non sei ladro... To', nascondi bene il portafogli nella mia giacchetta, ché la Chouette non lo veda! Me lo ruberebbe." "La Chouette? L'hanno portata all'ospedale di Beaujon; stanotte, quando mi battevo con voi due, le ho spezzato una gamba." "Ma che sarà di me? Mio Dio, con questo velo nero sempre davanti... E sopra quel velo nero le figure pallide e meste di quelle..." Trasalì, e domandò allo Chourineur: "L'uomo di stanotte è morto?" "No." "Meglio così!" Tacque per un istante, poi d'un tratto esclamò, trasportato dall'ira: "Eppure, Chourineur, sei tu la causa di tutto questo! Farabutto! Senza di te, ammazzavo quell'uomo, portavo via un sacco di quattrini... Se sono cieco, è colpa tua! colpa tua!" "Non ci pensare più, ti guasti la salute... Insomma, vieni sì, o no? Sono stanco, voglio dormire... Ci siamo dannati abbastanza! Domani torno al lavoro della legna. Tl conduco adesso dove ti pare, e poi vado a coricarmi." "Ma non so dove andare... Nella mia camera ammobiliata non oso. Bisognerebbe..." "Dunque sentimi: vuoi per un giorno o due venire nella mia stamberga? E poi forse ti troverò delle persone dabbene che, non sapendo chi tu sia, ti piglieranno a pensione, come un infermo... C'è per l'appunto un uomo del porto Saint-Nicolas che conosco, la cui madre sta a Saint-Mandé, una brava donna che non ha molti mezzi... Chissà che non possa incaricarsi lei di te... Sicché, vieni o resti?" "Di te mi posso fidare, Chourineur... Non ho paura di venire da te con il mio denaro... Non hai mai rubato, non sei cattivo, sei generoso!" "Animo, va bene... Basta con gli elogi!" "È che ti sono grato per ciò che fai per me. Chourineur, tu non hai odio né rancore tu..." seguitò il brigante, con grande umiltà "sei meglio di me." "Fulmini, lo credo bene! Lo ha detto il signor Rodolphe che avevo cuore e onore." "Ma che uomo è quello? Non è un uomo!" gridò il Maître, infuriandosi di nuovo. "È un boia, un mostro!" Lo Chourineur si strinse nelle spalle, e disse: "Si va o non si va?" "Andiamo da te, non è vero, Chourineur?" "Sì." "Non sei in collera per l'affare di stanotte? Me lo giuri, non è vero?" "Sì." "E sei certo che non sia morto, quello?" "Ne sono sicuro." "Sarà sempre uno di meno!" disse il Maître con voce truce. E appoggiandosi al braccio dello Chourineur, abbandonò la casa dell'allée des Veuves. PARTE SECONDA. 1. Ile-Adam. Noi condurremo il lettore nella piccola città d'Ile-Adam, situata in un luogo ameno sulla riva del fiume Oise ai margini di una foresta. Era trascorso un mese dagli avvenimenti narrati. In provincia i minimi fatterelli divengono cose gravissime, e quindi i fannulloni e oziosi di IleAdam, che passeggiavano quella mattina sulla piazza della chiesa, morivano dalla voglia di sapere quando sarebbe arrivato il compratore del più bel negozio di macelleria, recentemente ceduto dalla vedova Dumont alla quale apparteneva. L'acquirente senza dubbio era ricco, giacché aveva fatto sfarzosamente dipingere e addobbare la bottega. Da tre settimane gli artigiani vi avevano lavorato notte e giorno. Un solido cancello di bronzo guarnito d'oro impediva l'entrata, e la proteggeva, lasciando circolare l'aria: ai due lati larghi pilastri, con in cima due grosse teste di toro dorate, sostenevano il vasto cornicione destinato a collocarvi l'insegna. Il resto della piccola casa a un piano, era stato tinto di color sasso, e le persiane di grigio chiaro. Tutto era pronto, salvo l'insegna in vetrina, che era attesa con impazienza dagli scioperati, bramosi di conoscere il nome del successore della vedova. Alla fine fu portato un gran cartellone, e tutti poterono leggere a caratteri grandi dorati, in campo nero: FRANCOEUR, MACELLAIO La curiosità degli oziosi di Ile-Adam non fu che in parte soddisfatta da quella scoperta. Chi era questo Francoeur? Uno dei più curiosi andò a informarsene dal garzone della macelleria, giovane d'aspetto allegro e di spalle robuste, che stava mettendo in ordine tutto l'occorrente. Questi, interrogato relativamente al suo padrone, signor Francoeur, rispose che ancora non lo conosceva, perché l'acquisto del negozio era stato fatto per procura; però non dubitava che il suo nuovo principale avrebbe fatto ogni sforzo per meritarsi come avventori i migliori cittadini di IleAdam. Tale complimento ai cittadini, fatto in modo assai gentile, unito alla pulizia ed eleganza della bottega, dispose tutti a favore del signor Francoeur, e alcuni promisero di provvedersi da lui, preferendolo agli altri. La casa aveva un portone che dava sulla strada della chiesa. Da quella strada, due ore dopo l'apertura della macelleria, giunse una carrozzella, tirata da un buon cavallo, da cui smontarono due uomini. Uno era Murph, perfettamente risanato dalle sue ferite; l'altro lo Chourineur. A rischio di ripetere una cosa risaputa, diremo che il prestigio dell'abito è così potente che il nostro frequentatore di bettole della Cité non era più riconoscibile, perché vestito con la massima decenza. La stessa metamorfosi era avvenuta nella sua fisionomia: egli, insieme ai suoi rozzi panni, aveva deposto l'aria fiera, brutale e turbolenta; a vederlo camminare, con le mani nelle tasche di un lungo bel soprabito color nocciola, con il mento sbarbato di fresco, mezzo nascosto da una sciarpa bianca dalle punte ricamate, ognuno lo avrebbe preso per il più docile galantuomo del mondo. Murph legò le redini a una campanella di ferro fissa nel muro, e accennò allo Chourineur che lo seguisse. Entrarono in un salottino al pianterreno, arredato con mobili di noce, che fungeva da retrobottega. Le due finestre davano sul cortile dove il cavallo batteva le zampe per la grande impazienza e vivacità. Murph, come in casa propria, aprì un armadio, ne cavò fuori una bottiglia di acquavite e un bicchiere, poi disse allo Chourineur: "Giacché fa freddo, stamani, vorrete bere con me un bicchier d'acquavite?" "Se non v'importa, signor Murph, non berrò niente." "Rifiutate?" "Sì, sono troppo contento, e l'allegria riscalda... Già, quando dico contento, forse forse..." "Come mai?" "Ieri veniste a trovarmi al porto Saint-Nicolas, dove faticavo come una bestia per riscaldarmi... Non vi avevo più visto da quella notte che il nero dai capelli bianchi accecò il Maître d'école... Fulmini, che effetto mi fece! E il signor Rodolphe, che viso! Lui che sembrava un così buon figliolo! Ne ebbi paura." "Bene, continua." "E mi dite: "Buongiorno, Chourineur". "Buongiorno, signor Murph. Oh, siete alzato, meglio così. Fulmini, meglio così: e il signor Rodolphe?" "Ha dovuto partire poco dopo l'affare dell'allée des Veuves, e si è dimenticato di voi, mio caro." "Ebbene, signor Murph" vi rispondo io "se si è dimenticato di me, me ne dispiace davvero!"" "Intendevo dirvi che si era scordato di ricompensarvi dei vostri servizi, ma ne serberà sempre la memoria." "E così queste parole, signor Murph, mi danno subito coraggio... Fulmini, io non mi scorderò di lui, no! Mi disse che avevo cuore e onore... Insomma, basta!" "Disgraziatamente, mio caro, monsignore se n'è andato senza lasciare ordini relativi a voi; io non possiedo altro che quello che egli mi dà, e non posso mostrarmi grato come vorrei di tutto quel che vi devo per parte mia." "E no, signor Murph, voi scherzate..." "Ma anche voi, perché non tornaste più all'allée des Veuves dopo quella notte funesta? Monsignore non sarebbe partito senza pensare a voi." "Dio buono! Non mi fece chiamare, credevo non avesse più bisogno di me." "Ma dovevate riflettere che aveva almeno necessità di provarvi la sua riconoscenza!" "Dunque perché mi avete detto che il signor Rodolphe si era scordato di me, signor Murph?" "Non ne parliamo più... Ho stentato molto a trovarvi: forse non andate più dall'Orca?" "No." "E perché?" "Così... Idee mie, sciocchezze..." "Alla buon'ora, torniamo a quel che mi dicevate." "A che, signor Murph?" "Mi dicevate dunque: "Sono contento di avervi incontrato, ma forse..."" "Ah, ecco, signor Murph. Ieri quando veniste là dove scaricavo la legna, mi diceste: "Figliolo mio, non sono ricco, ma posso farvi avere un lavoro che vi dia meno fatica di quello che avete qui al porto, e vi faccia guadagnare quattro franchi al giorno." Quattro franchi! Evviva! Non ci potevo credere... Paga da sottufficiale! Vi risposi: "Va bene, signor Murph." "Ma" fate voi "non conviene che siate vestito come un barbone, perché spaventereste il padrone dal quale vi conduco." "Non ho con che vestirmi in altra maniera" dico. E voi: "Venite un momento in rue du Temple." Ci si va, scelgo quello che c'è di più bello dalla Hubart, mi anticipate il denaro per pagare, e in un quarto d'ora sono ben accomodato come un possidente o come un cavadenti; mi date appuntamento per questa mattina all'alba alla porta Saint-Denis, vi ci trovo con la vostra carrozza, ed eccoci qua..." "Ebbene, che cosa vi può rincrescere in tutto questo?" "Niente altro, che d'essere tanto ben vestito. Vedete, signor Murph, uno si avvezza male... E poi, quando ripiglierò quegli stracci che avevo prima, mi dispiacerà troppo. E di più, guadagnare quattro franchi al giorno, quando ne buscavo due... Tutto a un tratto, mi sembra tutto troppo bello, e che non possa durare... Preferirei dormire sempre sul saccone vuoto della mia stanzaccia, che cinque o sei notti sole in buon letto morbido. Questo è il mio carattere." "Non siete privo di buon senso, ma sarebbe anche meglio riposare sempre in un buon letto." "È chiaro. È meglio aver pane da saziarsi, che morire di fame... Oh, dico, c'è una macelleria qui!" soggiunse lo Chourineur, udendo i colpi di coltello del garzone, e scorgendo vari pezzi di carne attraverso i cancelli. "Sì, mio caro, ed appartiene ad un mio amico. Intanto che il mio cavallo piglia fiato, volete visitarla?" "Ma sì, davvero! Mi rammenta la mia gioventù... Anche se avevo Montfaucon per mattatoio e vecchie carogne per bestiame. Curioso, se avessi avuto mezzi, è un mestiere che mi sarebbe piaciuto molto quello del macellaio... Andarsene sopra un buon puledro a comprar bestie alla fiera, tornare a casa accanto al fuoco, scaldarsi se si ha freddo, asciugarsi se si è bagnati, trovarci una nostra donnetta, buona, grassa, allegra con una quantità di ragazzetti che frugano nelle tasche per sentire se si è portato qualcosa. E la mattina acchiappare un bue per le corna... Specialmente quando è cattivo... Corpo di Belzebù...! Bisogna che sia fiero! E legarlo, ammazzarlo, squartarlo... Fulmini! Sarebbe stata la mia ambizione, come quella della Goualeuse mangiarsi le pasticche di zucchero d'orzo, quando era piccina... A proposito di quella poveretta, signor Murph, non vedendola più venire dall'Orca, mi sono figurato che il signor Rodolphe l'abbia tolta di là... Quella è una buona azione, signor Murph. Poveretta! Non faceva del male, era tanto giovane! Ma poi l'abitudine... Insomma, il signor Rodolphe ha fatto benissimo..." "Sono del vostro parere... Ma dunque volete venire a visitare la bottega, intanto che il nostro cavallo fiata?" Lo Chourineur e Murph entrarono nella bottega, e poi passarono nella stalla, dov'erano rinchiusi tre buoi superbi ed una ventina di castrati, poi alla rimessa, all'ammazzatoio, al granaio ed a tutti i locali della casa, tenuti con attenzione e pulizia che denotavano un'ottima condizione sociale e una buona conduzione dell'attività. Quando ebbero visto ogni cosa, meno il piano di sopra, Murph disse allo Chourineur: "Confessate che il mio amico è un uomo felice: questo stabile è tutto suo, senza contare un migliaio di scudi sonanti per il suo commercio; ed aggiungete che ha trentotto anni, è forte come un toro, ha una salute di ferro e grande amore per il mestiere..." "Il padrone che mi deve assumere?" "Sì. E in più può servirsi di questo bravo e onesto garzone che qui fa le sue veci con molta capacità quando lui se ne va alle fiere a comprare le bestie. Lo ripeto, non stimate felice quell'uomo, mio caro?" "Ah, signor Murph, che volete?, ci sono i fortunati e gli sfortunati. Quando penso che ora guadagnerò quattro franchi al giorno, e che ce ne sono molti che hanno la metà o meno..." "Volete salire a esaminare il rimanente della casa?" "Volentieri, signor Murph." "Appunto abita là il padrone dal quale dovete avere l'impiego." "Ve'! Perché non me lo avete detto prima?" "Ve lo spiegherò a suo tempo." "Un momento!" disse lo Chourineur, pensieroso e trattenendo Murph per un braccio. "Ho da dirvi una cosa, che il signor Rodolphe forse non vi ha raccontato, ma che io non posso tacere al padrone che mi deve prendere... Perché, se questo lo disgusta, è meglio subito, che dopo..." "Cioè?" "Cioè... Che sono un condannato, che sono stato in galera..." continuò mestamente lo Chourineur. "Ah!" disse Murph. "Ma non ho mai fatto male a nessuno, e piuttosto creperei di fame, che rubare... Ah, ho fatto assai peggio che rubare" soggiunse, chinando la testa: "ho ammazzato... per la collera... Basta, i bottegai non tengono volentieri un forzato, e hanno ragione, che non si va mica in galera per essere troppo buoni... È questo che mi ha sempre impedito di trovar da lavorare fuori che sul porto a scaricare la legna... Perché a tutti quelli ai quali mi presentavo, dicevo: "Questo e quest'altro, volete o non volete... Preferisco essere rifiutato subito che scoperto poi..." Sicché adesso spiffero ogni cosa al macellaio. Voi lo conoscete: se è un tipo che rifiuterà ditemelo subito, e sul momento volto le calcagna." "Venite pure" rispose Murph. Lo Chourineur seguì Murph; salirono una scala, fu aperto un uscio, e si trovarono davanti a Rodolphe. "Lasciaci soli, caro Murph" disse Rodolphe. 2. Ricompensa. "Evviva! Sono proprio soddisfatto di ritrovarvi, signor Rodolphe... o piuttosto monsignore!" esclamò lo Chourineur. Era veramente contento di rivedere Rodolphe. I cuori generosi si affezionano tanto per il bene che fanno, quanto per quello che ricevono. "Buongiorno, mio caro, anch'io ho gran piacere di vedervi." "Quel burlone del signor Murph, diceva che eravate partito. Eppure monsignore..." "Chiamatemi signor Rodolphe, lo preferisco." "Bene, signor Rodolphe, scusatemi se non sono tornato a salutarvi dopo la notte del Maître... Ora capisco che vi ho fatto una scortesia. Ma non ce l'avrete con me, non è così?" "Ve lo perdono" rispose Rodolphe sorridendo. E aggiunse: "Murph vi ha fatto visitare quest'abitazione?" "Sì signore: bella casa, bella bottega e a modo! A proposito, io sì che starò bene con quei quattro franchi al giorno che mi farà guadagnare il signor Murph... Quattro franchi!" "Ho da proporvi anche di meglio." "Oh, di meglio... Senza volervi smentire, è difficile. Quattro franchi al giorno!" "Ho da proporvi di meglio, ve lo ripeto: giacché questa casa, quello che contiene, questa bottega e mille scudi in questo portafoglio è tutta roba... vostra!" Lo Chourineur fece un sorriso da stupido, si schiacciò il cappello di castoro a lungo pelo fra le ginocchia, stringendolo nervosamente, e non capì ciò che gli si diceva, pur essendo le parole assai chiare. Rodolphe continuò amorevolmente: "Comprendo il vostro stupore, ma ve lo ripeto, questa casa e questa somma sono vostre." Lo Chourineur diventò rosso fuoco, si passò la mano callosa sulla fronte bagnata di sudore, e balbettò con voce alterata: "Eh... cioè... mia proprietà..." "Sì, vostra proprietà, perché vi devo tutto, capite? La mia vita è vostra..." Lo Chourineur si agitò sulla sedia, si grattò la testa, tossì, abbassò gli occhi, e non rispose. Si sentiva sfuggire il filo delle idee, intendeva quanto gli era stato detto, ma non sapeva prestarvi fede. Tra la miseria profonda e la degradazione in cui aveva vissuto sempre, e la posizione che gli si assicurava, esisteva un abisso, che neppure il favore da lui reso a Rodolphe poteva pareggiare. Rodolphe, non volendo affrettare il momento in cui il suo protetto doveva aprire gli occhi alla realtà, godeva piacevolmente della meraviglia e della confusione prodotte da una così grande contentezza. Considerava con gioia, e insieme con indicibile amarezza, come in certe persone è tale l'abitudine alle sofferenze e alle disgrazie, che la loro ragione si rifiuta di ammettere la possibilità di un avvenire, certo migliore ma che per molti non sarebbe poi tanto invidiabile. Dopo essersi ancora un po' divertito del momentaneo sbalordimento in cui era rimasto immerso lo Chourineur, Rodolphe continuò: "Quel che vi dono è forse molto superiore alle vostre speranze?" "Monsignore" rispose lo Chourineur alzandosi bruscamente "mi proponete questa casa e il denaro forse per tentarmi, ma non posso." "Che cosa non potete?" chiese l'altro stupito. Lo Chourineur si fece coraggio, e superando la timidezza disse con fermezza: "Mi offrite tutto questo, lo so, non già per impegnarmi a rubare, e poi non ho rubato mai in vita mia, ma forse per uccidere... io ne ho abbastanza del sogno del sergente!" aggiunse lo Chourineur con voce cupa. "Ah disgraziati!" esclamò Rodolphe con amarezza. "La compassione che vi si dimostra è così lontana dalle vostre possibilità, che non potete spiegare questi tipi di doni se non in cambio di qualcosa, e magari di un delitto? Mi giudicate male, vi ingannate" disse poi "io nulla esigerò da voi che non sia onorevole. Se vi faccio un dono, è perché lo meritate." "Io?" gridò lo Chourineur sempre più stupito "io me lo merito? E come?" "Sì, senz'alcuna nozione del bene e del male, abbandonato ai vostri istinti, rinchiuso per quindici anni nel bagno penale con i peggiori criminali, tormentato dalla miseria, dalla fame, costretto dal vostro delitto e dal disprezzo degli onesti a frequentare i malfattori, non solo rimaneste probo, ma il rimorso del vostro misfatto sopravvisse all'espiazione imposta dalla giustizia!" Questo linguaggio semplice e nobile fu nuova sorgente di sorpresa per lo Chourineur; guardava Rodolphe con rispetto, timore e gratitudine, ma non sapeva ancor credere all'evidenza. "Come, signor Rodolphe? Perché mi avete battuto, perché credendovi un operaio come me, poiché parlate il gergo come uno di noi, vi ho raccontato a tavola la mia vita, e dopo questo vi ho impedito di affogare... voi insomma... io... la casa, il denaro! Un signore... Eh via, ripeto, non può essere!" "Supponendomi uno dei vostri, mi narraste la vostra storia senza fingere, senza celare quel che c'era stato di colpevole e di generoso. Io vi giudicai, e mi piace premiarvi." "Ma non può essere, signor Rodolphe. No, in sostanza ci sono dei poveri artigiani che furono sempre galantuomini, e che..." "Lo so, e forse per alcuni di loro ho fatto più di quanto faccia per voi. Ma se uno, che si mantiene onesto in mezzo a onesti, merita premure e appoggio, quello che, respinto dalle persone perbene, resta uomo onesto in mezzo ai peggiori scellerati, non è forse degno di maggiore appoggio e di premure? Inoltre voi mi salvaste la vita, e anche a Murph, il mio amico più caro. Ciò che io faccio a vostro favore mi è dunque suggerito non tanto dalla riconoscenza mia particolare, quanto dal desiderio di togliere dal fango un individuo buono e forte, che ha sbagliato, ma che non è perduto... E ciò non basta..." "Che altro c'è, signor Rodolphe?" Rodolphe gli prese cordialmente la mano e gli disse: "Pieno di compassione per la disgrazia d'un uomo che prima aveva tentato di uccidervi, gli avete offerto assistenza, gli avete dato ricovero nella vostra povera abitazione, in piazza di Notre-Dame..." "Sapete dove abito, signor Rodolphe?" "Poiché voi scordate il bene che mi faceste, non per questo io lo dimentico. Quando usciste da casa mia, qualcuno vi seguì, e vi vide entrare in casa con il Maître." "Ma il signor Murph mi aveva detto che non sapevate dove dimorassi." "Volevo tentare un ultimo esperimento: capire se avevate quel disinteresse che nasce dalla vera generosità. Dopo la vostra coraggiosa azione, tornaste alle vostre fatiche quotidiane, nulla chiedendo, nulla sperando, neppure proferendo una parola di biasimo per l'apparente ingratitudine; e, quando ieri Murph vi propose una occupazione appena meglio rimunerata del vostro abituale lavoro, l'accettaste con giubilo, con riconoscenza!" "Per questo poi, signor Rodolphe, quattro franchi al giorno sono sempre quattro franchi. Quanto all'aiuto che vi diedi, sono piuttosto io che devo ringraziarvi." "Come mai?" "Sì, sì, signor Rodolphe" aggiunse con aria mesta "mi sono venute in mente certe cose... Poiché da quando vi conosco, e mi avete detto "hai ancora cuore e onore", non riesco a smettere di riflettere... È strano, a ogni modo, che due parole sole facciano questo effetto. Seminate due chicchi di grano, che sono niente nella vastità della terra, eppure vi nasceranno delle spighe lunghe lunghe!" Questo paragone, giustissimo e quasi poetico, incantò Rodolphe. Infatti due parole, non di più, ma possenti, magiche per chi le comprende, avevano improvvisamente fatto maturare in quell'indole energica e buona i generosi frutti che in germe esistevano. "Vedete, monsignore" continuò lo Chourineur "ho liberato il signor Rodolphe, e un pochino anche il signor Murph, è vero, ma quando ne liberassi a centinaia e migliaia, non rimetterei più al mondo quelli che..." E lo Chourineur abbassò la testa afflittissimo. "Questo rimorso è salutare, ma vi fa onore..." "E poi, in quel che diceste al Maître a proposito dei suoi delitti c'erano cose che potevano adattarsi anche a me, in bene come in male." Rodolphe, desiderando troncare il corso dei tristi pensieri dello Chourineur, gli disse: "Siete voi che avete sistemato il Maître a SaintMandé?" "Sì, signor Rodolphe... Mi fece cambiare i suoi soldi in tanto oro, comprargli una cintura e cucirgliela addosso. Ci si misero dentro le monete, e buon viaggio! Sta in pensione a trenta soldi al giorno da certa brava gente, a cui fa più comodo che altro." "Bisogna che mi facciate un altro favore, mio caro." "Parlate, signor Rodolphe." "Fra qualche giorno andrete a trovarlo con questo foglio. È una carta di ammissione a vita nell'ospizio dei Buoni Poveri. Darà quattromila e cinquecento franchi, e sarà tenuto là sinché campa. Tutto è stabilito. Ho pensato che ciò sarebbe più conveniente per lui. Così si assicurerebbe per sempre ricovero e pane per tutto il resto dei suoi giorni; e non avrebbe da pensare ad altro che al pentimento... Anzi, mi rincresce non avergli dato subito questo documento invece di una somma, che può esser rubata o scialacquata. Ma provavo per lui tanto orrore, che desideravo, prima di tutto, levarmelo di torno. Voi gli farete questa offerta, e lo condurrete all'ospizio. Se per caso rifiutasse, agiremo diversamente. Andrete dunque a trovarlo?" "Signor Rodolphe, vi farei volentieri, come dite, questo favore, ma non so se sarò libero. Il signor Murph mi ha trovato lavoro presso qualcuno a quattro franchi al giorno..." Rodolphe guardò attonito lo Chourineur. "Come! E la vostra bottega? E la vostra casa?" "Suvvia, signor Rodolphe, non vi prendete gioco d'un povero diavolo, vi siete già divertito troppo a fare esperimenti su di me... La casa e la bottega sono una canzoncina sulla stessa aria. Avete pensato: proviamo se quest'asinaccio di Chourineur sarà tanto babbeo da credere che... Basta, signor Rodolphe, siete un burlone... Basta così!" "Ma come? Non vi ho già spiegato?" "Per colorire la faccenda, si sa, si sa... Eppure, in coscienza, c'ero quasi cascato... Come sono baggiano!" "Siete pazzo, mio caro!" "No, no, monsignore. Parlatemi un po' del signor Murph. Benché straordinaria, la paga di quattro franchi si può capire... Ma lo stabile, il macello, denari a bizzeffe..." E si mise a ridere come un matto. "Ma io vi ripeto..." "Ascoltatemi, monsignore, francamente, mi avete un po' preso in giro. All'inizio ho detto fra me: "Il signor Rodolphe è un brav'uomo, avrà qualcosa da mandare a prendere a casa del diavolo e dà a me l'incombenza, e mi dà l'unto perché non abbia paura di bruciarmi". Dopo ho pensato che avevo torto ad avere di queste idee, e ho visto che non era altro che uno scherzo: perché se fossi tanto ingenuo da credere che mi regalaste un capitale per nulla, oh, allora, monsignore, direste: "Povero Chourineur, va là, mi fai compassione: sei ammattito, o ti senti male?"." Rodolphe cominciava ad essere imbarazzatissimo. Perciò gli disse in tono imponente e quasi severo: "Non scherzo mai su cose che riguardano la riconoscenza e la considerazione che ho per una nobile condotta. Quanto vi promisi è vostro, e poiché non volete credermi, e mi costringete ad un giuramento, vi dirò sull'onor mio che vi faccio un dono assoluto, e per le ragioni che vi ho di già addotte." All'accento grave, alla serietà del volto di Rodolphe, l'altro non ebbe più alcun dubbio. Lo guardò un poco tacendo, e quindi rispose senza enfasi, ma con fortissima commozione: "Vi credo, monsignore, e vi sono obbligato. Un pover'uomo come me, non sa dire belle frasi... Ecco, di nuovo, vi ringrazio. Posso assicurarvi che non rifiuterò mai di soccorrere i disgraziati, perché la fame e la miseria sono due Orche all'incirca come quelle che hanno sedotto la Goualeuse, e, una volta cacciati nella fogna, non tutti hanno la forza di tirarsene fuori." "Non potevate ringraziarmi in modo migliore, mio caro. Troverete in quello scrittoio i documenti relativi a questo edificio acquistato per voi a nome del signor Francoeur." "Signor Francoeur!" "Voi non avete nome, io vi dò questo. È di buon augurio. Sono sicuro che gli farete onore." "Monsignore, ve lo prometto." "Coraggio, mio caro. Voi potete aiutarmi in una buona opera." "Io, monsignore?" "Voi! Agli occhi del mondo sarete un esempio vivente e salutare. La fortunata situazione in cui vi mette la Provvidenza vi farà provare che le persone cadute molto in basso possono ancora risorgere e sperare, quando si pentono e conservano pure ed intatte delle buone qualità. Vedendovi felice perché, dopo un'azione riprovevole, espiata con terribile castigo, rimaneste probo, coraggioso e disinteressato, coloro che avranno fallito procureranno di diventare migliori. Io voglio che nulla si ignori del vostro passato; presto o tardi sarebbe noto ed è meglio farne subito una chiara rivelazione. Tra poco dunque andrò con voi dal sindaco di questo comune: è un uomo degno, e in grado di cooperare all'opera mia. Darò il mio nome, e sarò vostro garante. E per stabilire sin d'ora relazioni decorose fra voi e le persone che rappresentano moralmente la società di IleAdam, assicurerò per due anni un sussidio mensile di mille franchi destinato ai poveri, e ogni mese vi manderò la somma, il cui impiego sarà regolato da voi, dal sindaco e dal curato. Se uno di loro avesse il minimo scrupolo ad entrare in rapporto con voi, questo scrupolo sparirebbe davanti all'esigenza della carità. Dopo di ciò dipenderà da voi stesso meritarvi la stima di quelle due degne persone, e sono persuaso che ci riuscirete." "Monsignore, ho capito. Non è a me solo, Chourineur, che fate tutto questo bene, ma agli infelici che si sono trovati, come me, nel bisogno e nel delitto, e ne sono poi usciti con cuore e onore. È, parlando con rispetto, come in un esercito: quando un battaglione intero ha fatto prodigi, non si possono decorare tutti i soldati, non ci sono che quattro croci per cinquecento bravi militari, ma quelli che non hanno la stella dicono "Bene, l'avrò un'altra volta!" E all'altra volta fanno prodigi più grandi." Rodolphe ascoltava con soddisfazione il suo protetto. Rendendogli la stima di sé, riabilitandolo ai suoi occhi, dandogli l'idea del suo valore, aveva sviluppato nel cuore e nella mente di lui riflessioni piene di buon senso, di dignità, si direbbe quasi di delicatezza. "I vostri discorsi, Francoeur" soggiunse Rodolphe "sono un bel modo di dimostrarmi la vostra gratitudine, ne sono contento." "Meglio così, monsignore; perché sarei imbarazzato se dovessi provarvela in altro modo." "Intanto andiamo a visitare la vostra casa. Il mio vecchio Murph s'è già preso questo piacere, voglio togliermelo anch'io." Rodolphe e lo Chourineur scesero insieme. Appena entrarono nel cortile, il garzone, indirizzandosi allo Chourineur, gli disse rispettosamente: "Signor Francoeur, poiché siete il padrone, vengo a dirvi che le vendite sono cominciate molto bene. Non vi sono più costolette né cosciotti, e bisognerebbe ammazzare subito un castrato o due." "Perbacco!" esclamò Rodolphe. "Ecco una buona occasione per esercitare la vostra abilità. L'aria aperta mi ha dato appetito, e assaggerò le vostre costolette, benché un po' dure." "Si devono portare i montoni al mattatoio, padrone?" domandò il giovane. "Sì, e dammi un coltello ben arrotato, con tanto di filo, e forte di costola." "Ho tutto l'occorrente, non dubitate: ci sarebbe da farcisi la barba... Tenete." "Fulmini!" esclamò lo Chourineur, levandosi il soprabito e rimboccando le maniche della camicia, che lasciavano vedere due braccia da atleta. "Questo mi rammenterà la mia gioventù e i mattatoi. Ora vedrete come taglio là dentro... Corpo di una bomba! Vorrei già esserci. Il coltello, ragazzo mio, il coltello! Questo va bene. Oh, te ne intendi... Che lama! Chi ne vuole? Fulmini! Con questo ammazzerei un toro infuriato." "Lo Chourineur si accinse all'opera: gli occhi cominciavano a iniettarsi di sangue, tornava a rivelarsi il carattere brutale, l'istinto sanguinario ricompariva in tutta la sua tremenda energia. Il mattatoio era nel cortile. Era una stanza a volta, oscura, lastricata di pietre, rischiarata dall'alto per mezzo d'un finestrino. Il garzone tirò un montone fin sulla porta. "L'ho da legare all'anello, padrone?" "Legarlo? Fulmini! E i ginocchi? Sta fermo, lo stringerò come fra due tenaglie... Dammi la bestia, e tu vattene in bottega." Il garzone rientrò. Lo Chourineur restò solo con Rodolphe, che lo esaminava attentamente, ma quasi con angoscia. "Su, al lavoro!" disse. "Faccio in un momento. Ora vedrete come maneggio il coltello. Mi pizzicano le mani, sento un brulichio nelle orecchie, mi battono le tempie come quando ero vicino a veder tutto rosso... Avanti, vieni qui! Ch'io ti rifinisca! che ti squarti!" E con gli occhi luccicanti, e non badando più a Rodolphe, sollevò l'animale come una piuma, e, in un salto, lo portò nella stanza con feroce allegrezza. Sembrava un lupo che fuggisse nella tana con la sua preda. Rodolphe lo seguì, e si appoggiò a un battente della porta che fu chiusa. La beccheria era buia, ma un vivo raggio di luce che cadeva perpendicolarmente illuminò la rozza figura dello Chourineur, i suoi capelli biondi, le sue fedine rossicce. Mezzo ripiegato sulla vita, reggendo con i denti il lungo coltello, stringeva la bestia fra le ginocchia; e quando l'ebbe salda, la pigliò per la testa, le fece torcere il collo, e la scannò. L'animale, sentita la lama, diede un piccolo belato, dolce, lamentevole, volgendo gli sguardi moribondi verso lo Chourineur, e due schizzi di sangue sprizzarono in viso all'uccisore. Il grido, lo sguardo, il sangue gli causarono un'impressione terribile. L'arma gli cadde di mano, la faccia si fece livida, contratta, spaventata; gli occhi divennero fissi, gli si rizzarono i capelli... Poi, d'un tratto, indietreggiando inorridito, esclamò con voce alterata: "Oh, il sergente, il sergente!" "Torna in te, amico mio!" "Là... là... il sergente" ripeteva lo Chourineur, indietreggiando con le pupille fisse, ed accennando con il dito uno spettro invisibile. Poi, dando un urlo acuto, come se la larva lo avesse toccato, si precipitò in fondo al locale, nel luogo più oscuro, e là, gettatosi con il viso, il petto e le braccia contro il muro, quasi volesse tentare di smuoverlo, di atterrarlo per sottrarsi ad un'orribile visione, ripeteva con voce affannosa e convulsa: "Oh, il sergente, il sergente, il sergente!..." 3. La partenza. Grazie alle premure di Murph e di Rodolphe, che calmarono a stento la sua agitazione, lo Chourineur tornò in sé dopo una lunga crisi. Si trovava solo con Rodolphe in una stanza del primo piano sopra il macello. "Monsignore" disse nel massimo abbattimento "avete avuto per me molta bontà, ma ecco, vedete, preferirei essere mille volte più miserabile di quel che fui, che accettare il mestiere che mi proponete." "Riflettete però..." "Ah, monsignore, quando ho udito il grido di quella povera bestia che non si difendeva, e ho sentito il sangue schizzarmi sulle guance... un sangue caldo, che pareva vivo... Oh, voi non sapete che cosa sia! Allora ho rivisto, in sogno, il sergente, e quei giovani soldati che ammazzavo e non si difendevano, e, morendo, mi guardavano in un modo così dolce, così dolce... Come se compiangessero me... Oh, monsignore, è roba da fare impazzire!" E lo sventurato si nascondeva la testa fra le mani, con un movimento disperato. "Tranquillo! Calmatevi." "Scusatemi, monsignore, ma lo sento... La vista del sangue, di un coltello, non potrei sopportarla... Mi tornerebbero quei sogni che cominciavo a scordarmi. Avere ogni giorno le mani e i piedi nel sangue, scannare le bestie, che non fanno resistenza... No, no, non potrei... Piuttosto vorrei essere cieco, come il Maître d'école che trovarmi ridotto a questo mestiere." È impossibile dipingere l'energia del gesto, dell'accento, della fisionomia dello Chourineur, mentre così si esprimeva. Rodolphe era profondamente commosso; capiva l'orribile impressione che ormai produceva sul suo protetto la vista del sangue. Se per un momento nello Chourineur, la belva selvaggia, l'istinto sanguinario aveva vinto l'uomo, il rimorso subito aveva vinto l'istinto. Che grande e bell'insegnamento! E si deve dire a lode di Rodolphe che egli non aveva disperato di riscontrare in lui tali impulsi. Per sua volontà, e non a caso, si era trovato presente alla scena avvenuta nella macelleria. "Perdonatemi, monsignore" disse lo Chourineur timidamente "io contraccambio male la vostra bontà, ma..." "Anzi, andate oltre ogni mia speranza. Nondimeno, lo confesso, non ero sicuro di trovare in voi questa santa esaltazione del rimorso." "Come, monsignore?" "Sentite" disse Rodolphe "ecco quale era stato il mio pensiero: avevo scelto per voi il mestiere di macellaio, perché vi ci portavano i vostri gusti, le vostre inclinazioni." "Ahimè, è vero, monsignore... Senza quel che sapete sarebbe stato tutta la mia felicità. Anche poco fa lo dicevo al signor Murph." "Lo so, mio povero Francoeur, e per questo, se aveste accettato la mia offerta, ed avreste potuto farlo senza perdere la mia stima, tutto quanto vi è qui sarebbe stato vostro, e io avrei saldato un debito sacro... Vi avrei tolto da una situazione penosa, avrei fatto di voi un esempio buono e utile per gli altri, e avrei continuato a interessarmi al vostro futuro. Se, all'opposto, la vista del sangue che vi accingevate a versare vi avesse ricordato il vostro delitto, se un ribrezzo involontario mi avesse provato che il rimorso era desto in fondo all'anima vostra, le mie intenzioni riguardo a voi sarebbero mutate; giacché la professione da me proposta sarebbe diventata un supplizio giornaliero..." "Oh, sì, è vero signor Rodolphe, un supplizio orribile." "Adesso, ecco ciò che vi propongo, e credo che voi accetterete, tanto più che ho preso le opportune misure per questo progetto. Una persona che possiede molti beni in Algeria mi ha ceduto per voi (non manca che firmare l'atto) una vasta tenuta, destinata ad allevare il bestiame. Le terre che ne dipendono sono fertilissime ed in stato di perfetta coltivazione. Io, conoscendo il vostro coraggio ed il bisogno che avete di esercitarlo, ho acquistato condizionatamente quei beni, quantunque situati ai confini dell'Atlantico, vale a dire agli avamposti e sottomessi ai frequenti attacchi degli Arabi... Bisogna essere uomini con il temperamento di soldati, oltre che agricoltori; quello è un forte e al tempo stesso un podere. L'uomo che lo amministra in assenza del proprietario vi chiarirà ogni cosa; egli è, per quel che sappiamo, onesto e pieno di premura, e potrete tenerlo con voi finché ne avrete bisogno. Una volta stabilito là, non solo potrete migliorare la vostra situazione mediante il lavoro e l'intelligenza, ma anche, con il vostro coraggio, rendere molti servizi al Paese. I coloni si uniscono in una specie di milizia. L'estensione di quei beni ed il numero dei contadini che ne dipendono vi renderebbero capo di una truppa armata assai considerevole, la quale, disciplinata, elettrizzata dalla vostra energia, potrebbe essere di sommo vantaggio per proteggere le molte tenute sparse nella pianura. Ve lo ripeto, ho scelto questo, malgrado il pericolo, o piuttosto a causa del pericolo, perché desideravo mettere a profitto la vostra audacia naturale; perché avendo da scontare un gran misfatto, la vostra riabilitazione sarà più nobile, e completa ed eroica, quando possa essere eseguita tra i rischi d'un paese selvaggio, piuttosto che nelle tranquille abitudini di una piccola città. Se sin dall'inizio non vi offersi questo lavoro, fu per la probabilità che l'altro vi soddisfacesse, e perché essendo questo tanto azzardato, non dovevo esporvi senza che voi stesso lo preferiste. Siete sempre in tempo, se non vi accomoda. Ditelo schiettamente, e penseremo a un'altra cosa... Se vi conviene, domani tutto sarà definito, vi darò i recapiti relativi al vostro possedimento e andrete ad Algeri con una persona a ciò destinata dal vecchio proprietario, che vi darà in consegna le terre. Vi saranno dovute due annate di affitto, e le riscuoterete al vostro arrivo. La rendita è attualmente di tremila franchi: coltivate, migliorate, siate attivo e vigilante, e con facilità accrescerete il vostro benessere e quello dei coloni, che sarete in grado di soccorrere, giacché non ho alcun dubbio che vi mostrerete sempre caritatevole e generoso, e che vi rammenterete che essere ricco vuol dire dare molto... Io non vi perderò di vista, benché lontano; non mi scorderò mai che, tanto io, quanto il migliore dei miei amici, vi siamo debitori della vita. L'unica prova di affetto e gratitudine che vi chiedo è di imparare presto a leggere e scrivere, per potermi informare ogni settimana di quel che farete, e rivolgervi a me direttamente tutte le volte che vi occorressero consigli e appoggio." È superfluo descrivere le espressioni di gioia dello Chourineur. Il suo carattere e la sua natura sono già noti abbastanza, perché nessun progetto poteva meglio convenirgli. L'indomani, difatti, lo Chourineur si imbarcava per Algeri. 4. Ricerche. La casa che possedeva Rodolphe nell'allée des Veuves non era il luogo dove abitava di solito. La sua vera abitazione era in uno dei più grandi palazzi del faubourg Saint-Germain, all'estremità della rue Plumet. Per evitare gli onori dovuti al suo rango, aveva mantenuto l'incognito sin dal suo arrivo a Parigi, facendo annunciare dal suo incaricato d'affari presso la Corte di Francia che avrebbe fatto le visite ufficiali indispensabili sotto il nome e il titolo di conte di Duren. Per quest'usanza, frequente nelle Corti del Nord, un principe viaggia con altrettanta libertà che gradimento, e scansa le noie di un fastidioso cerimoniale. Nonostante il suo trasparente incognito, Rodolphe teneva, come si conveniva, la casa con grande sfarzo. Introdurremo adesso il lettore nel palazzo di rue Plumet, il giorno successivo alla partenza dello Chourineur per l'Algeria. Erano suonate le dieci del mattino. In una vasta stanza a pianterreno che precedeva lo studio di Rodolphe, Murph, seduto a un tavolino, sigillava diversi dispacci. Un usciere, vestito di nero, con la collana d'argento, aprì l'uscio dell'anticamera, ed annunciò: "Sua eccellenza il barone di Graün!" Murph, senza interrompere il suo lavoro, salutò il barone con un gesto al tempo stesso cordiale e familiare. "Signor console" disse sorridendo "favorite accomodarvi, sarò da voi tra un momento." "Sir Walter Murph, segretario di Sua Altezza Serenissima, aspetterò i vostri ordini" rispose allegramente il signor di Graün, e, scherzando, fece un inchino rispettoso e profondo al degno "squire". Il barone aveva circa cinquant'anni, capelli grigi e radi, un po' arricciati. Il mento, alquanto aguzzo, spariva quasi tutto in un'alta cravatta di mussola molto inamidata, d'una bianchezza abbagliante. La sua fisionomia dimostrava una certa accortezza, il portamento una notevole classe, e sotto gli occhiali d'oro brillava uno sguardo penetrante e malizioso. Benché fossero le dieci del mattino, il barone di Graün vestiva l'abito nero: così esigeva l'etichetta; aveva all'occhiello un nastro a righe a più colori vivaci. Posato il cappello sopra una poltrona, si accostò al caminetto, mentre Murph continuava il suo lavoro. "Sua Altezza avrà senza dubbio vegliato parte della notte, mio caro Murph, poiché la vostra corrispondenza mi pare voluminosa." "Monsignore è andato a letto stamane alle sei. Ha scritto, fra le altre, una lettera di otto pagine al gran Maresciallo, e ne ha dettata una non meno lunga per il capo del Consiglio Supremo." "Devo aspettare che Sua Altezza sia alzata, per farle parte delle informazioni recate?" "No, mio caro barone. Monsignore ha ordinato di non svegliarlo prima delle due o le tre pomeridiane; desidera che facciate partire stamattina questi dispacci con un corriere speciale, invece di attendere lunedì. Darete a me le notizie che vi siete procurato, e io poi ne renderò conto a monsignore. Tali sono le sue istruzioni." "A meraviglia. Credo che Sua Altezza sarà contenta di quel che ho da riferirle... Ma, caro Murph, voglio lusingarmi che l'invio di questo corriere non sia di cattivo augurio. Gli ultimi dispacci che ebbi l'onore di trasmettere a Sua Altezza..." "Annunziavano che laggiù tutto andava benissimo: ed appunto perché monsignore brama esprimere più presto che sia possibile la sua soddisfazione al capo del Consiglio Supremo ed al gran Maresciallo, desidera che spediate oggi." "Qui riconosco Sua Altezza. Se si trattasse di un rimprovero, non avrebbe tanta fretta. Già, non vi è che da elogiare la buona ed abile amministrazione dei nostri governanti. È naturale" aggiunse il barone sorridendo "l'orologio è ottimo e perfettamente regolato dal nostro padrone; non c'è altro da fare che caricarlo puntualmente, perché con il suo funzionamento invariabile e sicuro continui a regolare tutti i giorni la vita di ogni persona. L'ordine nel governo produce sempre la fiducia e la tranquillità nel popolo, e così si spiegano le buone notizie che mi date." "E qui nulla di nuovo, caro barone? Non è trapelato niente? E le nostre misteriose avventure?" "Sono affatto ignote. Dall'arrivo di monsignore a Parigi in poi, ciascuno si è assuefatto di vederlo molto di rado presso quelle persone a cui si era fatto presentare; si crede che gli piaccia vivere ritirato, e faccia frequenti gite nelle vicinanze della capitale. Sua Altezza si è saggiamente sbarazzato per qualche tempo del ciambellano e dell'aiutante di campo venuti con lui dalla Germania." "E che sarebbero stati per noi testimoni veramente importuni." "Sicché, eccettuati la contessa Sarah Mac-Gregor, suo fratello Tom Seyton di Halsbury e Karl, loro demonio incarnato, nessuno sa dei travestimenti di Sua Altezza; e questi non hanno interesse a violare il segreto." "Ah, mio caro barone" disse Murph, sospirando "che disgrazia che quella maledetta contessa adesso sia vedova!" "Non si era maritata nel 1828?" "No, fu nel 1827, poco dopo la morte dell'infelice bambina, che avrebbe ora sedici o diciassette anni, e che monsignore piange ancora oggi, senza però parlarne mai." "Rammarico che tanto più si comprende, in quanto Sua Altezza non ha avuto altra prole dal suo matrimonio." "È per questo, mio caro barone, ho indovinato bene?, che lasciando da parte la pietà che gli ispira la povera Goualeuse, la premura che monsignore ha per questa sfortunata proviene specialmente dalla circostanza che la figlia che piange amaramente (mentre aborrisce la contessa sua madre) avrebbe ora la medesima età." "È una fatalità che quella Sarah, dalla quale si doveva credere sbarazzato per sempre, si ritrovi libera appunto diciotto mesi dopo che Sua Altezza ha perduto il modello fra tutte le mogli dopo pochi anni d'unione. Sono certo che la contessa si reputa favorita dalla sorte per questa duplice vedovanza." "E le sue stolte speranze riescono più ardenti che mai! Anche se sa che monsignore ha per lei la maggiore e la più giusta avversione. Non fu lei la causa...? Ah, barone" disse Murph senza terminare la frase "quella donna è funesta. Dio voglia che non ci porti altri guai!" "Che si può temere da lei, mio caro Murph? Altre volte ebbe su monsignore l'influenza che può avere una donna accorta e raggiratrice su un giovane innamorato per la prima volta, e che si trova soprattutto nelle circostanze che voi sapete, ma questa influenza è stata distrutta dalla scoperta dei suoi indegni intrighi, e specialmente dal terribile avvenimento da lei provocato." "Adagio, caro di Graün, adagio" raccomandava Murph. "Ohimè, siamo appunto nel mese infausto, e ci avviciniamo alla data non meno infausta del 13 gennaio; quest'anniversario mi spaventa sempre, per monsignore." "Ma se un grande errore può farsi perdonare con l'espiazione, Sua Altezza non può essere assolta?" "Per favore, mio caro di Graün, non ne parliamo: resterei angustiato per tutta la giornata." "Io dunque vi dicevo che ormai le pretese della contessa Sarah sono assurde: la morte della misera bambina, di cui parlavate poc'anzi, ha spezzato l'ultimo legame che poteva tenere ancora monsignore vincolato a questa donna; è pazza se persiste nelle sue speranze." "Sì, ma è una pazza pericolosa. Il fratello, lo sapete, condivide le sue idee ambiziose e pertinaci, benché tutti e due abbiano adesso tanti motivi per disperare quanti ne avevano diciotto anni fa per sperare." "Ah, quante disgrazie causò anche allora l'infernale abate Polidori con la sua iniqua compiacenza!" "A proposito di quello sciagurato, ho sentito dire che è qui da un anno o due, piombato senza dubbio nella massima abiezione e occupato in qualche tenebrosa impresa." "Che caduta per un uomo di tante cognizioni, di tanto spirito, di tanta intelligenza!" "Ma dite anche di una perversità immonda! Voglia il cielo che non incontri la contessa! L'unione di quei due spiriti maligni sarebbe molto pericolosa!" "Ve lo ripeto, mio caro Murph, l'interesse stesso della contessa, per quanto irragionevole sia la sua ambizione, le impedirà sempre di profittare del gusto di avventure di monsignore per tentare qualche cattiva azione." "Lo spero come voi: eppure il caso ha mandato a vuoto non so qual progetto, sicuramente abbietto, che lei aveva commissionato al Maître d'école, quell'orribile scellerato che ormai non è più in grado di nuocere ad alcuno, che vive sconosciuto, forse pentito, presso alcuni onesti contadini del villaggio di Saint-Mandé. Ahimè, io sono convinto che, specialmente per vendicare me, monsignore, infliggendogli un tremendo castigo, rischiò di mettersi in qualche grosso guaio." "Guaio? No, no, mio caro Murph... In sostanza la questione è questa: un forzato fuggito, un omicida riconosciuto, s'introduce in casa vostra, e vi dà una pugnalata; voi potete ucciderlo per diritto di legittima difesa o mandarlo al patibolo; in ambedue i casi il criminale deve morire. Ora, invece di privarlo della vita o consegnarlo al carnefice, con un castigo formidabile, ma meritato, impedite a questo mostro la possibilità di nuocere alla società. Chi può accusarvi? La giustizia comparirà come parte civile contro di voi in favore di un simile delinquente? Sarete da condannare per essere andato meno in là di quel che la legge vi permetteva, per aver tolta soltanto la vista a colui che potevate legalmente uccidere? Come, per difendere la mia vita o per vendicarmi di un adulterio flagrante la società riconosce in me il diritto di vita e di morte sul mio simile... Diritto tremendo, diritto formidabile, diritto senza eccezione, senza appello, che mi costituisce giudice e carnefice... E non potrò modificare a mio talento la pena capitale, che avrei potuto applicare impunemente? E soprattutto, quando si tratta dell'iniquo di cui parliamo? Perché lì sta la questione. Io lascio da parte la posizione di principe sovrano della Confederazione Germanica. So che in diritto questo nulla significa, ma vi sono delle immunità necessarie... D'altronde, supponete un tal processo intentato contro monsignore: quante azioni generose parlerebbero a suo favore! Quante elemosine, quanti benefici si manifesterebbero! Lo ripeto, nelle condizioni in cui si presenta, immaginate questa stranissima causa mossa davanti a un tribunale. Che credete ne risulterebbe?" "Monsignore me lo ha sempre detto: accetterebbe l'accusa, e non profitterebbe minimamente dell'immunità che può assicurargli la situazione. Ma chi può rendere pubblico il terribile avvenimento? Voi conoscete l'assoluta segretezza di David e dei quattro servitori ungheresi della casa dell'allée des Veuves. Lo Chourineur, beneficato da monsignore, non ha mai proferito una parola sulla punizione del Maître per timore di trovarsi compromesso. Prima di partire per Algeri mi giurò di serbare il segreto su questo fatto. Quanto allo stesso assassino, sa che andare a ricorrere sarebbe lo stesso che portare la sua testa al carnefice." "Insomma, né Sua Altezza, né voi, né io parleremo, non è così? Mio caro Murph, questo segreto, benché alcune persone ne siano a parte, resterà ben custodito. Nella peggiore ipotesi vi sarebbe da temere solamente qualche inconveniente momentaneo, ma verrebbero alla luce cose grandi e nobili per cui il processo, lo ripeto, finirebbe in un trionfo per Sua Altezza." "Voi mi rassicurate completamente... Dicevate, mi pare, di aver ottenuto alcuni chiarimenti per mezzo della lettera trovata addosso al Maître e delle dichiarazioni fatte dalla Chouette durante il ricovero in ospedale, da dove è uscita pochi giorni or sono, ben guarita dalla sua frattura alla gamba." "Ecco le informazioni avute" rispose il barone, sfilando di tasca un foglio. "Sono relative alle indagini sulla nascita della giovane chiamata la Goualeuse, ed al luogo di dimora attuale di François Germain, figlio del Maître." "Volete leggermi questi appunti, mio caro di Graün? Conosco le intenzioni di monsignore, e vedremo se queste notizie bastano. Siete sempre contento del vostro agente?" "È un uomo prezioso, pieno di capacità, di accorgimento e segretezza. Alcune volte sono persino obbligato a moderare il suo zelo, giacché sapete che Sua Altezza riserba per sé certi chiarimenti." "E ignora sempre la parte che monsignore ha in tutta questa faccenda?" "Assolutamente. La mia situazione diplomatica serve di ottimo pretesto alle ricerche di cui lo incarico. Il signor Badinot (così ha nome) ha molte persone note, e relazioni manifeste e occulte in quasi tutte le classi della società. Già procuratore legale, costretto a vendere il suo studio in conseguenza di certi abusi di fiducia, ha però conservato esattissime cognizioni sulle fortune e la posizione degli antichi suoi clienti; conosce molti segreti, di cui si gloria sfacciatamente di aver fatto mercimonio: due o tre volte arricchitosi, e rovinatosi poi negli affari, troppo conosciuto perché possa tentare ulteriori speculazioni, ridotto a campare giorno per giorno con vari mezzi più o meno illeciti, è una specie di Figaro molto interessante da ascoltare. Finché il suo tornaconto glielo permette, appartiene corpo e anima a chi lo paga, e non è nel suo interesse ingannarci. D'altronde, lo faccio sorvegliare in modo che non si abbiano sorprese da lui." "Le informazioni che ci diede erano precise." "Ha una sorta di probità a modo suo, e vi assicuro, mio caro Murph, che il signor Badinot è un tipo di quelli che non s'incontrano né sono possibili che a Parigi. Divertirebbe assai Sua Altezza, se non vi fosse la necessità di tenerlo lontano da ogni rapporto con la sua persona." "Si potrebbe aumentare la paga del signor Badinot: vi pare opportuna questa gratificazione?" "Cinquecento franchi al mese, e le altre spese, ascendenti a un dipresso alla medesima somma, mi sembrano sufficienti; pare contentissimo; poi si vedrà in seguito." "E non si vergogna del mestiere che fa?" "Lui! Se ne fa anzi un vanto! Non manca mai, nel presentarmi i suoi rapporti, di assumere un'aria d'importanza, quasi direi diplomatica. Il briccone fa mostra che si tratti d'affari di Stato e si meraviglia delle occulte relazioni che possono esistere fra gli interessi più diversi dei singoli e i destini degli imperi. Sì, certe volte ha l'impudenza di dirmi: "Quante complicazioni ignote al volgo nel governo di uno Stato! Chi direbbe, signor barone, che le note che io vi trasmetto influiscono in qualche modo sul sistema politico dell'Europa!"." "Eh, già, i farabutti si procurano sempre qualche illusione sulla propria viltà; è sempre lusinghiero per la gente onesta. Ma queste notizie, mio caro barone?" "Eccole, quasi interamente compilate su rapporto del signor Badinot." "Vi ascolto." Il signor di Graün lesse ciò che segue: NOTA RELATIVA A FLEUR-DE-MARIE ""Verso il principio del 1827, un uomo chiamato Pierre Tournemine, attualmente detenuto nella prigione di Rochefort per delitti di falsificazione, propose alla donna Gervaise, detta la Chouette, di addossarsi per sempre la cura di una bambina di cinque o sei anni, ricevendo per salario mille franchi in una sola volta."" "Ahimè, barone," disse Murph, interrompendo il signor di Graün "nel 1827 monsignore ebbe notizia della morte della disgraziata bambina che piange con tanto dolore... Per questa e molte altre cause fu quell'annata funestissima al nostro padrone." "Gli anni felici sono rari, mio povero Murph! Ma continuiamo. "Concluso il negozio, la bambina restò con questa donna durante due anni, alla fine dei quali sparì, volendo sottrarsi alle angherie da cui era oppressa. La Chouette non ne aveva più sentito parlare da parecchio tempo, quando la rivide circa sei settimane fa, per la prima volta, in una bettola della Cité. La ragazzetta, ormai diventata una fanciulla, portava allora il soprannome di Goualeuse. "Pochi giorni prima di tale incontro, Tournemine, che il Maître ha conosciuto nella prigione di Rochefort, aveva fatto consegnare a Bras-Rouge (solito e misterioso corrispondente dei forzati detenuti o liberati) una lettera particolareggiata concernente la creatura in precedenza affidata alla Gervaise, detta la Chouette. Da questa lettera e dalle dichiarazioni della Chouette medesima, risulta che una certa Séraphine, serva di un notaio chiamato Jacques Ferrand, aveva incaricato Tournemine, nel 1827, di trovarle una donna che per mille franchi acconsentisse a prendere presso di sé una ragazza di cinque o sei anni che si aveva intenzione di abbandonare, conforme a quanto accennato di sopra. La Chouette accettò la proposta. "Lo scopo di Tournemine, nel dare questi chiarimenti a BrasRouge, era di porre quest'ultimo in grado di fare, per mezzo di una terza persona, qualche estorsione alla Séraphine, minacciandola di pubblicare quell'avventura, da lungo tempo dimenticata. Tournemine assicura che la suddetta Séraphine era stata incaricata da personaggi incogniti. "Bras-Rouge aveva confidato quella sua missiva alla Chouette, associatasi da qualche tempo ai delitti del Maître d'école; il che spiega in qual maniera queste informazioni si trovassero nelle mani dell'assassino, e come all'atto del suo incontro con la Goualeuse alla taverna del Coniglio Bianco la Chouette, per dar tormento a Fleur-de-Marie, le dicesse: 'Si sono ritrovati i tuoi parenti, ma tu non li conoscerai!'. "La questione era sapere se la lettera di Tournemine, relativa alla ragazza e consegnata da lui in passato alla Chouette, contenesse la verità. Si sono ricercati nuovi lumi presso la signora Séraphine ed il notaio Jacques Ferrand. Costoro esistono ambedue. Il notaio abita in rue du Sentier 41; passa per devoto e austero, e frequenta molto le chiese; tiene nel trattamento degli affari una regolarità eccessiva che si taccia di durezza; il suo studio è eccellente; vive con tale economia, che si accosta all'avarizia; ed ha sempre per donna di fatica la signora Séraphine. Egli, che prima era povero, ha comprato uno studio avviato per trecentocinquantamila franchi. Il denaro gli è stato somministrato, mediante buone garanzie, dal signor Charles Robert, ufficiale superiore nello Stato Maggiore della Guardia Nazionale di Parigi, bel giovane in gran voga in certi ambienti, e che divide con il signor Jacques Ferrand i profitti dello studio medesimo, valutati sui franchi cinquantamila all'anno: ben inteso senza ingerirsi per nulla nelle funzioni notariali. "Vi sono dei maldicenti che asseriscono che in seguito a fortunate speculazioni, ossia a giochi di borsa, tentati d'accordo con Charles Robert, il legale sarebbe a quest'ora in grado di rimborsare i trecentocinquantamila franchi ricevuti; ma molti ritengono queste voci orribili calunnie, data la buona reputazione di cui egli gode. Sembra dunque sicuro che la signora Séraphine, donna di fatica in casa di questo sant'uomo, possa fornire delle notizie preziose sopra la nascita della Goualeuse."" "A meraviglia, caro barone!" disse Murph. "Vi è qualcosa di interessante nelle relazioni di quel Tournemine. Forse troveremo presso il notaio i mezzi per scoprire i genitori di quella infelice giovane. Adesso, avete ragguagli ugualmente importanti sul figliolo del Maître?" "Forse meno precisi, ma assai soddisfacenti." "Davvero, il vostro signor Badinot è un tesoro." "Vedete che quel Bras-Rouge è la molla di tutto questo maneggio. Badinot, che deve avere rapporti con la polizia, ce lo aveva di già segnalato come intermediario di parecchi forzati all'epoca dei primi passi fatti da monsignore per ritrovare il figlio della signora Georges Duresnel, disgraziata moglie di quel mostro del Maître." "Sicuramente: ed appunto nell'andare a cercare Bras-Rouge nel suo stambugio della Cité in rue aux Fèves 13, monsignore incontrò lo Chourineur e la Goualeuse. Sua Altezza aveva voluto assolutamente profittare dell'occasione per visitare quell'orribile tana, pensando che vi avrebbe trovato qualche creatura da togliere all'abiezione. I suoi presentimenti non lo ingannavano. Ma, oh Dio, a costo di quanti pericoli!" "Pericoli, ai quali voi coraggiosamente vi associaste, mio caro Murph!" "E non sono io per questo "carbonaio ordinario" di Sua Altezza?" rispose sorridendo lo "squire". "Dite piuttosto intrepida guardia del corpo, mio degno amico. Ma già, il parlare del vostro coraggio e del vostro zelo non è che una continua ripetizione. Io dunque proseguo il mio rapporto... Ecco la nota relativa a François Germain, figlio della signora Georges e di Anselme Duresnel detto altrimenti il Maître d'école." 5. Notizie su François Germain. Il signor di Graün continuò: ""Circa diciotto mesi fa, un giovane, di nome François Germain, giunse a Parigi, proveniente da Nantes, dov'era impiegato presso l'istituto bancario Noël e Co. "Appare dalle dichiarazioni del Maître d'école, e da molte lettere trovategli addosso, che lo scellerato a cui aveva affidato il proprio figlio, per pervertirlo e impegnarlo in seguito in azioni criminali, svelò quest'orribile trama al giovane, proponendogli di assecondare un tentativo di furto e falsificazione che si voleva commettere a danno dell'istituto Noël e Co. presso la quale lavorava François Germain. Quest'ultimo ricusò l'offerta con indignazione, ma non intendendo denunciare l'uomo che lo aveva allevato, scrisse un biglietto anonimo al suo principale, lo informò del complotto, e abbandonò segretamente Nantes per sottrarsi a coloro che avevano procurato di renderlo strumento e complice dei loro misfatti. "Questi sciagurati, udito della partenza di Germain, vennero a Parigi, si abboccarono con BrasRouge, e si misero a cercare il figlio del Maître, senza dubbio con sinistre intenzioni, poiché questo sapeva i loro progetti. Dopo molte e lunghe ricerche, riuscirono a scoprire il suo domicilio, ma era tardi. Perché Germain, avendo incontrato colui che aveva cercato di corromperlo, cambiò improvvisamente dimora, e in tal modo sfuggì di nuovo ai suoi persecutori. "Sono circa sei settimane che questi riuscirono a sapere che egli abitava in rue du Temple 17; e una sera, nel tornarsene a casa, fu in procinto di rimanere vittima di un tranello. (Il Maître d'école aveva celato questa circostanza a monsignore.) Germain indovinò da dove venisse il colpo, lasciò la rue du Temple, e quindi si ricominciò a ignorare il luogo della sua residenza. "Le cose erano a questo punto, quando il Maître fu punito dei suoi delitti. E ora le ricerche sono state riprese per ordine di monsignore. Eccone il risultato: "François Germain ha abitato quasi tre mesi in rue du Temple 17, in una casa curiosissima per i costumi e per le singolari industrie della maggior parte di quelli che la occupano. Egli era assai ben visto in grazia del suo carattere gioviale, servizievole e schietto. Benché mostrasse vivere di rendite o di paghe molto modeste, aveva usato le più commoventi attenzioni a una famiglia indigente che sta nelle soffitte di quella casa. Invano si sono fatte in detta rue du Temple domande sul nuovo alloggio di François Germain e sulla professione da lui esercitata; ma si suppone che fosse impiegato in qualche ufficio o in una ditta commerciale, giacché andava fuori la mattina e tornava la sera verso le dieci. L'unica persona che sappia con certezza dove egli si trovi attualmente è una pigionale di rue du Temple: costei, che sembra in intima relazione con Germain, è una vezzosa artigianella, chiamata Rigolette. Essa occupa una stanza vicina a quella che aveva Germain, la cui stanza, vacante dopo la sua partenza, è ora da appigionare, e appunto sotto il pretesto di volerla prendere in affitto, si è potuto raccogliere queste informazioni..."" "Rigolette!" fece d'un tratto Murph, che da un po' sembrava riflettere. "Rigolette! Ma io conosco questo nome!" "Come, Sir Walther Murph?" disse ridendo il barone. "Come, voi, degno e rispettabile padre di famiglia, conoscete delle artigianelle, ed il nome di una Rigolette non vi giunge nuovo? Ohibò, ohibò!" "Perbacco! Monsignore mi ha messo in grado di avere delle relazioni così bizzarre, che non avreste motivo di stupirvi di questa, barone mio! Ma aspettate... Sì, adesso mi ricordo... Monsignore, raccontandomi la storia della Goualeuse, non poteva fare a meno di ridere di questo nome di Rigolette... Se ben ricordo, era un'amica di prigione della povera Fleur-de-Marie." "Ebbene, al punto in cui siamo, madamigella Rigolette può diventarci utilissima. Io termino il mio rapporto: "Sarebbe forse vantaggioso il pigliare a pigione la cameretta vacante nella casa della rue du Temple. Non si aveva ordine di portare oltre le indagini: ma dietro alcune parole sfuggite alla portinaia, c'è da credere non solo che si possano rinvenire in quel caseggiato notizie certe sopra il figlio del Maître per mezzo della giovane Rigolette, ma che sia facile a monsignore osservare là costumi, industrie e soprattutto miserie, che egli neppure immagina che esistano."" 6. Il marchese d'Harville. "Sicché, vedete, caro Murph" disse il signore di Graün terminata la lettura della nota, che consegnò allo "squire" "secondo i dati da noi raccolti, bisogna individuare dal notaio Jacques Ferrand le tracce dei genitori della Goualeuse, e dalla Rigolette l'attuale abitazione di François Germain. Mi pare che sia già molto sapere dove cercare quel che si cerca." "Senza dubbio, barone; per di più monsignore troverà, ne sono certo, un'ampia messe di informazioni nella casa di cui si parla. Ma questo non basta: vi siete informato sul marchese d'Harville?" "Sì, e almeno sul particolare dei denari i timori di Sua Altezza non sono fondati; il signor Badinot afferma, e io lo credo bene informato, che la ricchezza del marchese non sia stata mai più solida e meglio amministrata di adesso." "Che volete? Dopo aver tentato inutilmente di sapere la causa della grave preoccupazione che consumava il signor d'Harville, monsignore si era immaginato che fosse in ristrettezze economiche: allora avrebbe fatto di tutto pur di soccorrerlo, pur con quella delicatezza che conoscete; ma poiché si è ingannato, gli converrà rinunciare a spiegare quest'enigma, con suo sommo dispiacere, poiché ha per il signor d'Harville un grandissimo affetto." "È naturale! Sua Altezza non ha dimenticato quanto suo padre deve al padre del marchese. Vi è noto, mio caro Murph, che nel 1815, all'epoca del nuovo ordinamento degli Stati della Confederazione Germanica, il padre di Sua Altezza correva rischio di esser rimosso a motivo del suo attaccamento conosciuto e provato per Napoleone? Il defunto vecchio marchese gli rese in tale occasione immensi servizi, grazie all'amicizia di cui l'onorava l'imperatore Alessandro; amicizia che aveva avuto inizio dall'emigrazione del marchese in Russia, e che, da esso invocata, ebbe una potentissima influenza sulle deliberazioni del Congresso dove si dibattevano gl'interessi dei principi della Confederazione Germanica." "E vedete, barone, come spesso le azioni nobili si incatenino; nel '92 il padre del marchese è proscritto; trova in Germania, presso il padre di monsignore, l'ospitalità più generosa: dopo un soggiorno di tre anni nella nostra Corte, parte per la Russia, laggiù si merita la benevolenza dello zar, e con l'aiuto di questo è poi utilissimo al principe che l'aveva così nobilmente accolto." "Non fu nel 1815, durante la permanenza del vecchio d'Harville presso il granduca allora regnante, che cominciò l'intimità fra monsignore e il giovane d'Harville?" "Sì, ed ambedue conservarono i più cari ricordi di quel periodo della loro giovinezza. Né basta: monsignore ha tanta gratitudine verso l'uomo, ormai scomparso, che con le sue premure fu così utile al padre, che tutti coloro che appartengono alla famiglia d'Harville hanno diritto alla benevolenza di Sua Altezza. È così: non tanto alle sventure ed alle virtù sue, che a questa parentela, la povera signora Georges è debitrice delle incessanti attenzioni di Sua Altezza." "La signora Georges! La moglie di Duresnel, del forzato soprannominato il Maître d'école?" esclamò il barone. "Appunto: la madre di François Germain, che noi ricerchiamo, e che, spero, troveremo..." "È parente del signor d'Harville?" "Era cugina ed intima amica di sua madre. Il vecchio marchese aveva per la Georges il più vivo attaccamento." "Ma come mai la famiglia d'Harville le lasciò sposare quel mostro di Duresnel, mio caro Murph?" "Il padre di questa infelice, il signor di Lagny, intendente della Linguadoca prima della Rivoluzione, possedeva dei beni estesissimi. Si sottrasse alla proscrizione. Nei primi giorni di calma, che succedettero a quell'epoca terribile, pensò di dar marito alla figlia. Si presentò Duresnel. Apparteneva a un'ottima famiglia della nobiltà di toga; era ricco; celava le sue perverse inclinazioni con molta ipocrisia, e sposò madamigella di Lagny. I suoi vizi, dissimulati per qualche tempo, in breve si manifestarono: scialacquatore, giocatore sfrenato, datosi alla crapula più abbietta, trascinò nella disgrazia la consorte. Questa non si lagnò; occultò le proprie pene, e dopo la morte del padre si ritirò in un suo podere, che amministrava da sé per distrarsi. Ben presto il marito ingoiò il comune patrimonio nel gioco e nella fogna d'ogni vizio; il podere dove la Georges Duresnel si era ricoverata, fu venduto. Allora lei, conducendo con sé il figlio, andò a trovare la sua parente, marchesa d'Harville, alla quale era affezionata come ad una sorella. Duresnel, dopo aver dissipato tutti i suoi averi e la dote della moglie, si vide ridotto a ricorrere ad altri guadagni. Si procurò, per mezzo del delitto, nuove risorse, divenne falsificatore, ladro, assassino, fu condannato alla galera a vita, e rubò il figlio alla consorte per consegnarlo a un briccone della sua risma. Voi sapete il resto." "Ma monsignore come ritrovò la Duresnel?" "Quando Duresnel fu mandato in galera, la moglie, ridotta in estrema miseria, assunse il nome di Georges." "Ed in questa dura situazione, non si rivolse dunque alla marchesa d'Harville sua congiunta e buona amica?" "La marchesa era morta prima della condanna di Duresnel, e, dopo la sua scomparsa, la signora Georges, per la troppa vergogna, non osò mai presentarsi alla sua famiglia, che invece le avrebbe dato tutto l'aiuto che meritava tanta sfortuna. Una sola volta, spinta dall'indigenza e dalle malattie, si risolse ad implorare assistenza dal signor d'Harville, il figlio della sua migliore amica... E fu così che monsignore la incontrò." "In qual modo?" "Egli andava un giorno dal signor d'Harville; a pochi passi, davanti a lui, camminava una povera donna, vestita modestamente, pallida, sofferente, avvilita. Questa, arrivata al portone del palazzo d'Harville, al momento di bussare esitò molto, poi con un movimento repentino se ne tornò indietro, quasi le mancasse il coraggio. Monsignore, attonito, la seguì, attratto dall'espressione di dolcezza e di mestizia del suo volto. Lei entrò in una misera casa. Monsignore prese delle informazioni, e le ebbe ottime. Lei lavorava per mantenersi, ma le mancavano appunto il lavoro e la salute, si vedeva ridotta alla più orribile miseria. L'indomani andai da lei con monsignore. Si giunse appena in tempo perché non morisse di fame. Dopo lunga infermità, durante la quale le fu prodigata la massima assistenza, la signora Georges, grata alla bontà di monsignore, gli raccontò (benché non sapesse, e tuttora l'ignora, il nome di lui e il suo rango) la propria vita, la condanna di Duresnel e il ratto del figlio." "Fu dunque così che Sua Altezza seppe che la Georges apparteneva alla casa d'Harville?" "Precisamente. E dopo questa spiegazione, monsignore, che aveva apprezzato le buone qualità della signora Georges, le fece abbandonare Parigi, e la stabilì nella fattoria di Bouqueval, dove è attualmente, insieme alla Goualeuse. Lei ritrovò in quel tranquillo ritiro, se non la felicità, almeno la quiete, e poté distrarsi dalle sue pene amministrando da sola quel podere... Monsignore, tanto per risparmiare la dolorosa suscettibilità della signora Georges, e anche perché non gli piace ostentare ciò che fa, ha lasciato ignorare al signor d'Harville di aver tolta la sua parente da un'orribile situazione." "Adesso comprendo il duplice interesse per rintracciare il figlio di quella disgraziata donna!" "E da ciò, inoltre, giudicherete, barone caro, l'attaccamento che ha per tutti gli individui di quella casa, e il rincrescimento che sente vedendo il marchese afflitto, mentre ha ora qualche buona ragione per essere più contento." "Infatti, che manca ora al signor d'Harville? Egli ha tutto: nascita, ricchezze, spirito, gioventù: ha una moglie molto gentile, savia non meno che bella..." "È verissimo. E Sua Altezza non pensò a procurarsi delle informazioni se non dopo che ebbe tentato inutilmente di penetrare la causa di una così tetra malinconia. Il signor d'Harville si è mostrato assai riconoscente alle sue premure, ma è sempre rimasto in perfetto silenzio sulle cause della sua mestizia..." "Eppure lo dicono molto innamorato della moglie, e lei non gli dà motivo di gelosia. Io la vedo spesso: è attorniata da molti, come succede sempre a una dama bella e graziosa; ma la sua reputazione non ne ha mai sofferto minimamente." "Oh, il marchese loda sempre sua moglie... Ebbe soltanto con lei una piccola disputa a proposito della contessa Sarah Mac-Gregor." "La frequenta dunque?" "Per una delle più tristi coincidenze, il padre del marchese d'Harville conobbe, sono già trascorsi diciassette o diciotto anni, Sarah Seyton di Halsbury e suo fratello Tom, quando soggiornavano a Parigi protetti dall'ambasciatrice d'Inghilterra. Sentendo che si trasferivano in Germania, il vecchio signor d'Harville diede loro delle lettere di presentazione per il padre di monsignore, con il quale era in corrispondenza. Ahimè, mio caro di Graün! Forse senza tali raccomandazioni non sarebbero accaduti tanti guai, perché monsignore non avrebbe avuto a che fare con quella donna. Quando la contessa Sarah è tornata qui, sapendo l'amicizia di Sua Altezza per il marchese, si è fatta presentare al palazzo d'Harville, con la speranza d'incontrarvi monsignore, giacché è tanto accanita nel perseguitarlo, quanto egli è tenace a scansarla." "Travestirsi da uomo per scovare Sua Altezza fino nella Cité! Non ci voleva che lei per simili idee..." "Si lusingava forse di commuovere monsignore e forzarlo a quell'incontro che egli ha sempre evitato. Riguardo alla signora d'Harville, come dicevo, suo marito, a cui monsignore aveva parlato di Sarah, le ha consigliato di praticarla il meno possibile; ma la marchesa, sedotta dalle ipocrite adulazioni della contessa, si è un poco sdegnata di tale suggerimento. E da questo sono nati alcuni piccoli dissapori, che però non possono certo causare il fosco abbattimento del marchese." "Ah, le donne... le donne! Mio caro Murph, mi rincresce molto che la signora d'Harville si trovi in rapporto con questa Sarah. Questa giovane e avvenente marchesina non può aver altro che guai o dispiaceri da quella creatura diabolica..." "A proposito di creature diaboliche" disse Murph "ecco un dispaccio relativo a Cecily, indegna sposa del degno David." "A dirla fra noi, amico Murph, questa audace meticcia si sarebbe ben meritata il tremendo castigo che il suo consorte, il caro dottore, inflisse al Maître per ordine di Sua Altezza: anche lei ha fatto scorrere il sangue, e la sua corruzione fa spavento." "E malgrado ciò, è tanto bella e seducente! Un'anima perversa dietro un volto graziosissimo, mi fa sempre doppio orrore." "Per questo Cecily è ancor più detestabile. Ma io spero che questo dispaccio annulli gli ultimi ordini dati da monsignore relativamente a quella sciagurata." "Al contrario, barone." "Monsignore vuol sempre che l'aiutino a fuggire dal forte dov'era stata rinchiusa a vita?" "Sì." "E che il suo supposto rapitore la conduca in Francia? a Parigi?" "Sì, e vuole di più: impone di sollecitare nel miglior modo possibile la partenza di Cecily, e farla viaggiare assai rapidamente perché arrivi qui al più tardi fra quindici giorni." "Io mi confondo: monsignore aveva sempre manifestato tanta avversione per lei..." "E ne dimostra adesso più che mai, se è possibile." "Eppure la fa venire presso di sé! Del resto capisco che sarà più facile, avrà pensato Sua Altezza, ottenere l'estradizione di Cecily se non adempie a ciò che ci si aspetta da lei. Si ordina al figlio del custode della fortezza di Gerolstein di rapire Cecily, fingendo d'esserne invaghito, e gli si procurano tutti i mezzi necessari per eseguire questo progetto. La meticcia, mille volte felice d'avere quest'occasione di scappare, se ne andrà con il supposto rapitore, e giungerà a Parigi. Questo sta bene. Ma rimarrà sotto la minaccia della sua condanna. In sostanza sarà una prigioniera evasa, ed io sono pienamente in grado di reclamarne l'estradizione appena monsignore lo desideri." "Si vedrà, si vedrà, caro di Graün. Intanto vi prego, dietro ordine di monsignore, di scrivere alla nostra cancelleria per chiedere, rapidamente, una copia legalizzata del contratto di matrimonio di David, poiché si sposò nel palazzo ducale, in qualità di ufficiale della casa di Sua Altezza." "Scrivendo con il corriere d'oggi, avremo questo documento tutt'al più fra otto giorni." "Quando David ha saputo da monsignore del prossimo arrivo di Cecily, è stato un colpo, ma poi ha esclamato: "Spero che Vostra Altezza non mi obbligherà a vedere quel mostro". "State tranquillo" ha risposto monsignore "non la vedrete... ma ho bisogno di lei per certi progetti..." A David è sembrato di essere sollevato da un peso enorme. Nonostante, ne sono certo, ricordi ben dolorosi si siano risvegliati in lui." "Povero dottore! È capace di volerle sempre bene. La vantano ancora tanto bella!" "Oh, è avvenente... Troppo avvenente! Ci vorrebbe l'occhio spietato di un creolo per scoprire il sangue misto nell'impercettibile color rame che tinge leggermente la punta delle unghie di quella meticcia; le nostre fresche beltà del Nord non hanno una carnagione più trasparente, una pelle più bianca, capelli di un castano più dorato." "Io ero in Francia, quando monsignore venne dall'America riconducendo David e Cecily: so che quel brav'uomo è affezionato a Sua Altezza, ma ho sempre ignorato per quale ragione si sia messo al servizio del nostro padrone, e come abbia sposato Cecily, che vidi per la prima volta circa un anno dopo le sue nozze. Dio sa quanti scandali c'erano già stati per causa sua!" "Io posso perfettamente informarvi su ciò che bramate sapere, caro barone: ero con monsignore in quel viaggio in America in cui egli salvò David e la meticcia dalla sorte più orrenda." "Raccontate, amico Murph, io sono qua disposto ad ascoltarvi..." disse il barone. 7. Storia di David e di Cecily. Murph incominciò: "Il signor Willis, ricco piantatore americano della Florida, aveva potuto apprezzare in uno dei suoi giovani schiavi neri, chiamato David e addetto all'infermeria della sua piantagione, non solo l'abilità, ma anche commiserazione profonda e solerte attenzione per i poveri ammalati, ai quali prestava amorosamente l'assistenza prescritta dai medici, insomma una vocazione tanto singolare per lo studio della botanica applicata alla medicina, che senza alcuna istruzione aveva composto e ordinato una specie di collezione delle piante del luogo e delle vicinanze. La tenuta del signor Willis, situata in riva al mare, era lontana circa quindici o venti leghe dalla città più vicina; e i medici del paese, d'altronde ignoranti, difficilmente si pigliavano l'incomodo di andarvi, a motivo della distanza e del disagio delle vie di comunicazione. Per rimediare a questo inconveniente, assai grave in contrade soggette a forti epidemie, e per aver sempre presso di sé un abile praticante, il colono pensò di mandare David in Francia a imparare la medicina e la chirurgia. Il giovane nero partì per Parigi. Il coltivatore pagò le spese dei suoi studi, e dopo otto anni di assiduo lavoro, David, addottorato nel modo migliore, ritornò in America a porre la sua scienza a disposizione del proprio padrone." "Ma David doveva essersi considerato libero ed emancipato di fatto e di diritto, mettendo piede in Francia" osservò il barone. "David però è leale" riprese Murph. "Aveva promesso al signor Willis di tornare, e tornò. E poi non considerava, diremo così, come cosa propria un'istruzione acquisita con i denari del padrone. Inoltre si lusingava di poter mitigare moralmente e fisicamente le sofferenze degli schiavi suoi antichi compagni, e si proponeva di essere non solo il medico, ma anche il loro sostegno e il loro difensore presso il colono." "Bisogna, infatti, esser dotati di una rara probità e di un santo amore per i propri simili, per riassoggettarsi a un padrone, dopo una permanenza di otto anni a Parigi, in mezzo alla gioventù più democratica d'Europa." "Da questo tratto giudicate dell'uomo. Eccolo dunque in Florida, e, conviene dirlo, trattato dal signor Willis con molta considerazione e bontà, mangiando alla sua mensa, alloggiato nella sua casa. D'altronde questo colono, stupido, malvagio, sensuale, e despota, come sono alcuni creoli, si credette generosissimo, dandogli un salario di seicento franchi. Dopo pochi mesi scoppia un'epidemia di tifo nella piantagione: il signor Willis si ammala, e in breve guarisce per le assidue cure di David. Su trenta neri gravemente infermi, due soltanto muoiono. Il piantatore, riconoscente per i servizi resi da David, accresce la sua paga a mille e duecento franchi. Il nostro dottore nero si trovava molto bene. Gli antichi compagni lo consideravano la loro Provvidenza, egli aveva ottenuto con difficoltà dal signor Willis qualche miglioramento nella loro condizione, e contava di ottenere di meglio nell'avvenire. Intanto li moralizzava, li consolava, li esortava alla rassegnazione, parlando loro di Dio, che vigila sui neri come sui bianchi, di un altro mondo, non popolato di padroni e di schiavi, ma di giusti e di perversi, di un'altra vita eterna, dove i neri non erano più la proprietà, e le bestie da soma dei bianchi, ma dove le vittime erano così felici che pregavano in cielo per i loro carnefici... Che vi dirò? A disgraziati che, all'opposto degli altri uomini, contano con gioia amara il passo che ogni giorno muoiono verso la tomba, a quei disgraziati che speravano soltanto nel nulla, nella distruzione di sé, David fece sperare una libertà immortale, e le catene parevano a essi meno pesanti, ed i lavori meno faticosi. David era il loro idolo. Così trascorse un anno all'incirca. Fra le più belle schiave dell'abitazione si distingueva una meticcia di quindici anni, chiamata Cecily. Il signor Willis ebbe per questa un capriccio da sultano, e, forse per la prima volta nella sua vita, fu respinto, ed incontrò ostinata resistenza. Cecily amava... Amava David, che durante l'ultima epidemia l'aveva curata e salvata con ammirabile zelo: l'amore, il più casto amore, pagava il debito della riconoscenza. David era troppo delicato per rendere pubblica la sua felicità prima del momento in cui avrebbe potuto unirsi a lei con il matrimonio, e attendeva che lei avesse compiuto i sedici anni. Il signor Willis, ignaro di quello scambievole affetto, gettò superbamente il fazzoletto alla leggiadra meticcia. Questa, piangente, sgomenta, raccontò a David i brutali tentativi a cui si era a grande stento sottratta. Il nero la rassicurò, e andò difilato dal signor Willis a domandargliela in moglie." "Diavolo, caro Murph, temo d'indovinare la risposta del sultano americano... Un rifiuto?" "Un rifiuto. Disse che la ragazza gli piaceva e mai, in vita sua, aveva sopportato il disprezzo di una schiava, che voleva Cecily, e l'avrebbe avuta, e che David avrebbe dovuto scegliersi un'altra sposa, o un'altra amica, a suo talento, essendovi nella tenuta dieci meticce, belle al pari di lei. David parlò dell'amor suo, contraccambiato già da molto tempo. Il coltivatore si strinse nelle spalle. Il buon nero insistette, ma tutto fu vano. Il creolo ebbe l'impudenza di dirgli che sarebbe stato un cattivo esempio vedere un padrone cedere a uno schiavo, e che non sarebbe sceso a questo per appagare il capriccio di David. Costui supplicò, l'altro s'impazientì. David, vergognandosi di umiliarsi di più, rammentò con fermezza i servizi che prestava ed il proprio disinteresse, dacché si accontentava di una paga così bassa. Il signor Willis, irritato, gli rispose con disprezzo, dicendogli che era trattato anche troppo bene per uno schiavo. A tali parole l'indignazione di David non ebbe freno, e per la prima volta egli parlò da uomo illuminato intorno ai propri diritti. Willis furibondo lo chiamò servo ribelle, minacciandolo dei ceppi. David proferì qualche parola amara e violenta... Due ore dopo, legato a un palo, lo squarciavano i colpi di una frusta, mentre dinanzi ai suoi occhi si trascinava Cecily nelle stanze del piantatore." "Il contegno di questo colono era assurdo e orribile... Stupidità e crudeltà al tempo stesso. Egli aveva bisogno di David, e nonostante ciò..." "Tanto bisogno, che quel giorno stesso l'impeto di furore da cui si era lasciato trasportare, unito all'ubriachezza in cui s'immergeva bestialmente ogni sera, gli tirò addosso una malattia infiammatoria delle più serie, e se ne manifestarono i sintomi con tutta la rapidità particolare a tali morbi. Il piantatore si mise a letto con una febbre terribile. Manda un espresso a cercare un medico, ma questi non può giungere prima di trentasei ore." "In verità questo sembrava un colpo della Provvidenza. La fatale malattia era bene meritata." "Il male avanzava. Solo David poteva salvare il colono, ma Willis, diffidente come tutti gli scellerati, era convinto che il nero, per vendicarsi, lo avrebbe avvelenato con qualche mistura. Dopo essere stato flagellato con le verghe, David era stato rinchiuso in una segreta... Dopo alcune ore, però, impaurito dal corso della malattia, tormentato da forti dolori, pensa, esita, e riflettendo che, morto per morto, gli resta almeno una probabilità affidandosi alla generosità del suo schiavo, fa sciogliere David dalle catene..." "E David guarì il piantatore!" "Per cinque giorni e cinque notti lo vegliò come avrebbe fatto con suo padre, combattendo la terribile infermità con un'abilità sorprendente, e gli riuscì di vincerla, con grandissima meraviglia del medico chiamato, che arrivò soltanto il terzo giorno." "Ed una volta risanato, il colono...?" "Non potendo ammettere di doversi vergognare davanti al suo servo, fece dei sacrifici enormi pur di trattenere nell'abitazione il medico che erano corsi a cercare; e David fu rimesso in carcere." "Che orrore! Ma non me ne stupisco. Per lui David sarebbe stato un rimorso vivente." "E, d'altronde, questo barbaro contegno non era suggerito unicamente da vendetta e gelosia. I neri del signor Willis amavano David con tutto il sentimento della gratitudine; egli era stato per loro il salvatore del corpo e dell'anima. Sapevano le cure che egli aveva prodigato al colono nel momento del pericolo... Sicché, uscendo per miracolo dall'avvilente apatia, in cui la schiavitù fa piombare di solito le creature, quegli sventurati dimostrarono chiaramente la loro indignazione, o piuttosto il cordoglio che provavano quando vedevano David sotto i colpi di sferza... A Willis, esacerbato, sembrò di scorgere in quelle manifestazioni i principi d'una sommossa... Pensando all'influenza che David si era acquistato su tutti, lo credette capace di porsi alla testa di una ribellione per vendicarsi dell'esecrabile ingratitudine del suo padrone... Questo assurdo timore fu per il colono un motivo di più per opprimere David con i peggiori trattamenti." "Da questo punto di vista la sua condotta si può capire, anche se assolutamente non si può giustificare e rimanga comunque sempre feroce." "Poco dopo questo avvenimento, noi approdammo in America. Monsignore aveva noleggiato un brigantino danese a Saint-Thomas, e visitammo in incognito tutte le abitazioni del litorale americano che costeggiavamo. Il signor Willis ci ricevette magnificamente. All'indomani del nostro arrivo, la sera, dopo aver bevuto, tanto per l'eccitazione del vino, come per naturale iniquità ed orribile cinismo, ci raccontò, scherzando, la storia di David e di Cecily. Io mi sono scordato di avvertirvi che anche lei era stata carcerata per averlo respinto. A questo spaventoso racconto, Sua Altezza credette che Willis esagerasse o fosse ubriaco. Era ubriaco, ma non esagerava. Per convincerci, si alzò da tavola ordinando a uno schiavo di prendere una lanterna e di condurci alla prigione di David." "Ebbene?" "In vita mia non vidi uno spettacolo più straziante. Scarni, mezzo ignudi, coperti di lividi, David e la misera donna, incatenati alle due estremità del carcere, somigliavano a due spettri. La lanterna che ci rischiarava spargeva su questa scena una tinta anche più lugubre. David al nostro apparire non profferì parola; aveva uno sguardo fermo e truce. "Willis gli disse con barbara ironia: ""Ebbene dottore, come stai? Tu, che sei tanto sapiente, salvati dunque!" "Il nero rispose con una parola ed un gesto, entrambi sublimi: alzò lentamente la mano destra coll'indice teso verso il soffitto, e, senza guardare il colono, disse in tono solenne: "Iddio lo farà!" e tacque. ""Dio?" ripeté il piantatore con una risata. "Digli pure che venga a strapparti dalle mie mani! Lo sfido!" "E Willis, trasportato dalla collera e dal vino, stendeva i pugni verso il cielo, e, bestemmiando, esclamava: ""Sì, io sfido Iddio a levarmi i miei schiavi, prima che siano morti! Se non lo fa, non è vero che esiste!"" "Era un pazzo stupido!" "Ci prese un gran ribrezzo. Monsignore non disse nulla. Si uscì dalla prigione. Quell'antro era situato in riva al mare. Torniamo sul nostro brigantino, ancorato a poca distanza. All'una di notte, nel momento in cui tutti nell'abitazione giacevano nel sonno più profondo, monsignore scese a terra con otto uomini bene armati, corse al carcere, ne fece atterrare le porte, e liberò David e Cecily. Le due vittime furono trasportate a bordo senza che nessuno se ne accorgesse. Poi monsignore e io ci recammo alla casa del signor Willis. Strana bizzarria! Quegli uomini straziano i loro schiavi, e non prendono per sé alcuna precauzione; dormono con gli usci e le finestre aperte. Entriamo facilmente nella camera del colono. Quello balza a sedere, con il cervello ancora confuso dai fumi dell'ebbrezza. ""Voi avete sfidato Dio a togliervi le due vittime prima che morissero, ed ecco che ve le ha tolte..." disse monsignore. Poi, prendendo un sacco che io portavo e in cui erano venticinquemila franchi in oro, glielo gettò sul letto. ""Ecco quanto basta" gli gridò "per indennizzarvi della perdita dei due schiavi. Alla vostra violenza che uccide, io oppongo una violenza che salva; Dio ci giudicherà!" "E ce ne andammo, lasciando Willis stupefatto, immoto, credendo di sognare. Pochi minuti dopo eravamo sul bastimento e ci mettevamo alla vela." "Mi sembra, caro Murph, che Sua Altezza indennizzasse ben largamente quel birbante della perdita dei suoi schiavi, poiché, a rigore, David non gli apparteneva più." "Avevamo calcolato pressappoco la spesa fatta per i suoi studi nel corso di otto anni, poi triplicato almeno il valore suo e quello di Cecily come semplici schiavi. Il nostro operato era contrario al diritto delle genti, lo so, ma se aveste visto in che stato si trovavano quegli infelici, quasi agonizzanti, se aveste udita la sfida sacrilega mandata all'Eterno da quell'uomo ebbro di vino e di ferocia, comprendereste perché monsignore abbia voluto, come disse in tale circostanza, farsi ministro della Provvidenza." "È un comportamento che può essere sia criticato sia giustificato, come il castigo inflitto al Maître, mio degno "squire". E poi questa avventura non ebbe conseguenze?" "Non poteva averne: il brigantino batteva bandiera danese. Sua Altezza era in perfetto incognito, noi passavamo per ricchi inglesi: con chi avrebbe ardito lagnarsi il signor Willis? A chi avrebbe osato avanzare reclami? Ci aveva detto egli stesso (ed il medico di Sua Altezza lo dichiarò in un processo verbale) che i due schiavi non sarebbero vissuti otto giorni di più in quella spaventosa prigione. Ci volle una grandissima assistenza per strapparli alla morte, e da allora in poi David è rimasto addetto a monsignore in qualità di medico, ed ha per lui la più sincera devozione." "Immagino che abbia sposato Cecily appena giunto in Europa..." "Questo matrimonio, che pareva dovesse essere tanto fortunato, fu celebrato nella cappella del palazzo di monsignore. Ma per uno straordinario succedersi dei fatti, Cecily, pervenuta a una condizione mai sperata, dimenticando tutto quello che David e lei stessa avevano sofferto, vergognandosi in questo mondo, affatto nuovo per lei, di esser maritata a un nero, sedotta da un uomo orribilmente depravato, commise un primo delitto. Sembrava che la perversità naturale di quella sciagurata, sino allora sopita, attendesse soltanto quel momento per manifestarsi con una tremenda energia. Voi sapete il resto, e lo scandalo delle sue avventure. Dopo due anni, David, che aveva avuto in Cecily tanta fiducia quanto era l'amore che nutriva per lei, conobbe tutte queste infamie: un colpo di fulmine lo tolse dalla sua cieca tranquillità!" "Dicono che fu sul punto di uccidere la moglie." "Sì, ma per le preghiere di monsignore, acconsentì che fosse rinchiusa per tutta la vita in una fortezza; ed è quel carcere da cui ora Sua Altezza la fa fuggire, con vostra grande sorpresa, ed anche mia, non ve lo nascondo, caro barone." "A parlar chiaro, la decisione di monsignore mi fa tanto più stupore, in quanto il Governatore del forte lo ha avvertito varie volte che quella donna è perversa e non si è potuto mai vincere il suo carattere audace e ostinato nel vizio... E tuttavia Sua Altezza persiste a chiamarla qui... A che scopo? per quale motivo?" "Ecco, barone, ciò che ignoro come voi. Ma è tardi, e Sua Altezza desidera che il vostro corriere parta, al più presto possibile, per Gerolstein." "Prima di due ore sarà in viaggio. Sicché, mio caro Murph, a stasera..." "A stasera?" "Vi siete forse scordato che c'è un gran ballo all'ambasciata di * e che Sua Altezza deve andarci?" "È vero, dopo l'assenza del colonnello Warner e del conte d'Harneim, mi dimentico sempre che svolgo contemporaneamente le funzioni di ciambellano e d'aiutante di campo." "A proposito del conte e del colonnello, quando tornano? Le loro missioni saranno presto terminate?" "Monsignore, voi lo sapete, li tiene lontani più che può per avere maggiore libertà e solitudine. In quanto all'incombenza che ha dato loro per sbarazzarsene pulitamente, mandandoli uno ad Avignone e l'altro a Strasburgo, ve la confiderò... un giorno che saremo tutti e due di malumore, giacché sfido il più cupo ipocondriaco a non scoppiare dalle risa non soltanto nel sentire questo racconto, ma anche nell'ascoltare certi brani dei dispacci di quei due degni gentiluomini che prendono i loro supposti incarichi con una serietà singolare." "Sinceramente non ho mai capito perché Sua Altezza abbia preso il colonnello e il conte al suo servizio particolare." "Come! Il colonnello Warner non è il tipo mirabilissimo di militare? C'è in tutta la Confederazione Germanica un più bell'uomo, più bei baffi, un più bel portamento marziale? E quando è in tenuta di gala, attillato, gingillato, quasi imbrigliato nella sua bella divisa, si può vedere un più trionfante, più glorioso, più altero, più bello animale?" "È vero, ma appunto questi pregi gli impediscono di essere molto spiritoso." "Ebbene, monsignore dice che grazie al colonnello si è abituato a trovare tollerabili le persone più fastidiose del mondo. Prima di certe udienze lunghissime, eterne, si rinchiude una mezz'ora con il colonnello, e poi esce di là vispo, allegro e pronto a sfidare la stessa noia." "Proprio come il soldato romano prima di una marcia calzava sandali di piombo per trovare, dopo averli tolti, più leggera ogni altra fatica. Adesso apprezzo tutta l'utilità del colonnello... Ma il conte d'Harneim?" "È anch'egli utilissimo a monsignore. Udendo sempre al suo fianco rumoreggiare quel vecchio sonaglio vuoto, brillante e sonoro, osservando quella bolla di sapone così gonfia, così magnifica e diafana, che rappresenta la parte teatrale e puerile del potere sovrano, monsignore sente più che mai quanta sia la vanità di tali sterili pompe, e, per contrasto, spesso dal contemplare l'inutile e lucente ciambellano gli sono venute le idee le più serie e feconde." "Bisogna poi essere giusti, caro Murph: io vi domando in che Corte si troverebbe un modello più completo del ciambellano? Chi conosce meglio di questo eccellente d'Harneim le innumerevoli regole e tradizioni dell'etichetta? Chi sa portare con maggior gravità una croce di smalto al collo e con più maestria una chiave d'oro addosso?" "A questo proposito, barone, monsignore dice che il didietro di un ciambellano ha una fisionomia tutta sua, cioè, dice, incute un po' di soggezione e molto rispetto, giacché, oh peccato!, dietro al ciambellano risplende il segno simbolico della sua carica, e, a detta di monsignore, pare che il degno d'Harneim si voglia presentare con le spalle voltate alla gente perché si giudichi subito tutta la sua importanza." "Il fatto è che l'incessante oggetto delle meditazioni del conte è la questione di sapere per quale impulso fatale la chiave sia stata messa dietro agli uomini della sua carica, mentre, come osserva giudiziosamente, ma con corruccio: "Che diavolo! Non si aprono mica gli usci con le spalle!"." "Barone, il corriere! il corriere!" disse Murph, additandogli l'orologio a pendolo. "Ah, siete un benedetto uomo che mi fate chiacchierare! È tutta colpa vostra... Presentate i miei ossequi a Sua Altezza" rispose il signor di Graün, correndo a prendere il suo cappello "e a stasera, caro Murph." "A stasera, barone, un po' tardi però, giacché sono sicuro che monsignore vorrà visitare oggi stesso la misteriosa casa della rue du Temple." 8. Un caseggiato nella rue du Temple. Per trarre profitto dalle notizie che il barone di Graün aveva raccolto sulla Goualeuse e su Germain, figlio del Maître, Rodolphe doveva recarsi in rue du Temple e dal notaio Ferrand. Da questo, per ottenere dalla signora Séraphine qualche indizio sulla famiglia di Fleur-de-Marie; nella casa in rue du Temple, poco prima occupata da Germain, per qualche indicazione sulla nuova abitazione di questo giovane dalla Rigolette. Impresa molto difficile, poiché probabilmente Rigolette sapeva quanto importasse al figlio del Maître che tutti ignorassero il suo domicilio. Prendendo a pigione nella casa in rue du Temple la stanza già abitata da Germain, Rodolphe agevolava le indagini, e si metteva in grado di osservare da vicino le varie persone che abitavano la casa. Nel giorno stesso della conversazione fra Murph e di Graün, si recò verso le tre pomeridiane nella rue du Temple, benché facesse un pessimo tempo invernale. Quel caseggiato, al centro di un quartiere popoloso e mercantile, nulla offriva di particolare all'aspetto: si componeva del pianterreno, occupato da un venditore di liquori, e quattro piani superiori con le soffitte. Un andito, stretto e scuro, conduceva a una piccola chiostra, o piuttosto a una specie di pozzo quadrato di cinque o sei piedi di larghezza, privo d'aria e di luce, infetto ricettacolo di tutte le immondizie che vi piovevano dai piani superiori, gettate da certi abbaini senza vetri. Ai piedi di una scala umida e nera si vedeva lo stanzino del portinaio, oscuro, affumicato da una lampada anche in pieno pomeriggio per rischiarare quell'antro dove noi accompagneremo Rodolphe, vestito come usano i giovani di bottega nei giorni feriali. Indossava un soprabito di colore molto incerto, un cappello gualcito, la cravatta rossa, grosse scarpe e l'ombrello. Per completare l'illusione, teneva sotto il braccio un rotolo di stoffe diligentemente avvolto. Entrò dal portinaio per chiedere che lo conducessero a vedere la stanza libera. Una lucerna di latta, posta dietro un globo di vetro pieno d'acqua, mandava una scarsa luce. In fondo c'era il letto, coperto da una trapunta formata da una quantità di pezzetti di stoffa di più specie e colori; a sinistra un cassettone di noce, con il ripiano di marmo. Un piccolo san Giovanni di cera, con l'agnellino bianco e la parrucca bionda, sotto una campana di vetro, le cui crepe erano ingegnosamente consolidate da strisce di carta blu, due vecchi candelieri placcati, arrossati dal tempo, che invece di candele reggevano due arance ornate di borchiette, offerte senza dubbio recentemente alla portinaia come regalo di capodanno; infine due scatole, una di paglia a vari colori, e l'altra coperta da piccole conchiglie. Questi due oggetti d'arte puzzavano di galera o di casa di detenzione(3). Infine fra queste scatole, e sotto una pendola, si ammirava un paio di stivali, piccoli, di marocchino rosso, adatti a un fantoccio, ma ben lavorati. Questo capo d'opera, come dicevano gli antichi artigiani, unito a un orribile puzzo di cuoio stantio, ed a fantastici arabeschi formati lungo le pareti da un numero immenso di scarpe usate, testimoniavano che il calzolaio aveva lavorato molto prima di abbassarsi a rattoppare. Quando Rodolphe si avventurò in quel bugigattolo, essendo assente il portinaio Pipelet, ne faceva le veci la Pipelet, sua consorte, che seduta vicino a una stufa in mezzo alla guardiola, sembrava attenta a sentir bollire la pignatta. L'Hogarth francese, Henri Monnier, ha così egregiamente dipinto la portinaia, che noi ci accontenteremo di pregare il lettore, qualora voglia figurarsi la Pipelet, di richiamarsi alla memoria la portinaia più brutta, grinzosa, bernoccoluta, sordida, lacera, stizzosa e velenosa, fra tutte quelle immortalate da quel valentissimo artista. Il solo tratto che ci permettiamo di aggiungere a questo ideale, è la bizzarra capigliatura, composta di una parrucca tonda, bionda in origine, ma cosparsa dall'uso e dal tempo di tinte rossicce, scure e giallastre, che, per così dire, smaltavano alcune ciocche di capelli, duri, irti ed arruffati. La signora Pipelet non abbandonava mai quest'unico e sempiterno ornamento del suo cranio sessagenario. Nel vedere Rodolphe pronunciò con tono burbero queste parole di rito: "Dove andate?" "Signora, c'è in questa casa, se non sbaglio, una camera e un salottino da affittare?" chiese Rodolphe, calcando sul vocabolo "signora", che lusingò non poco la Pipelet. Ed essa rispose meno aspramente: "C'è difatti una camera al quarto piano, ma non si può visitare perché Alfred è fuori." "Vostro figlio, m'immagino, signora... Tornerà presto?" "Signor no, non è mio figlio, è mio marito. Forse Pipelet non può aver nome Alfred?" "Oh, ne ha tutto il diritto, signora, ma se non vi dispiace, aspetterò un momento che venga. Vorrei prendere in affitto la camera. Il quartiere e la posizione vanno proprio bene per me, la casa mi piace, perché mi pare tenuta a modo, ma prima di visitare l'abitazione, desidero sapere se potete incaricarvi, signora, di farmi le faccende di casa. Sono solito non servirmi d'altri che dei custodi, quando essi lo gradiscono." La proposta, espressa con il termine cortese di custode, vinse l'animo della signora Pipelet, che rispose: "Certo, signor mio, vi farò le faccende... Anzi lo riterrò un onore, e per sei franchi al mese sarete servito, come un principe." "Siano pure sei franchi, signora... Il vostro nome?" "Pomone Fortunée Anastasie Pipelet." "Ebbene, signora Pipelet, sono d'accordo per sei franchi al mese, se la stanza è di mio gusto... E che prezzo ha?" "Col salottino sono centocinquanta franchi; non c'è da levare un soldo... Il principale amministratore è un cane, un cane che caverebbe il pelo a sua madre." "E lo chiamate?" "Il signor Bras-Rouge." Questo nome e i ricordi che destava fecero scuotere Rodolphe. "Avete detto, signora Pipelet, che l'amministratore si chiama?" "Ebbene, Bras-Rouge." "E abita?" "In rue aux Fèves, al numero 13; tiene anche una bettola sui fossi degli Champs-Elysées." Non restava più dubbio che fosse proprio lui; e a Rodolphe sembrava strano l'incontro. "Se il signor Bras-Rouge è l'amministratore" egli domandò "chi è poi il proprietario del caseggiato?" "Il signor Bourdon: ma io tratto sempre con il signor Bras-Rouge." Per ispirarle un po' di fiducia, Rodolphe soggiunse: "Mia cara signora, sono stanco, il freddo mi ha intirizzito... Fatemi il favore di andare dal venditore di liquori che sta in questa stessa casa, mi porterete una boccia di rosolio e due bicchierini, o piuttosto tre, poiché tra poco arriverà il vostro consorte." E diede cinque franchi alla donna. "Ma, dico, volete dunque essere amato, adorato, subito a prima vista?" esclamò la portinaia, le cui bolle sul naso s'arrossavano già per l'avidità di bere. "Sì, signora Pipelet, voglio essere adorato." "L'idea è buona, e mi garba, ma bastano due bicchieri, perché Alfred e io beviamo sempre nello stesso... Povero il mio cucco! Lui è così goloso di tutto ciò che è femminile." "Andate pure, aspetteremo Alfred." "Ma se venisse qualcuno... Badate voi alla guardiola?" "State tranquilla, ci bado io." La vecchia uscì. Rodolphe, rimasto solo, rifletté alla singolare combinazione che lo riavvicinava a Bras-Rouge; si stupiva soltanto che François Germain avesse potuto trattenersi tre mesi in quella casa, prima che lo scoprissero i complici del Maître, che erano in relazione con BrasRouge. In quel momento picchiò ai vetri il fattorino della posta, passò dentro il braccio, e porse due lettere dicendo: "Tre soldi!" "Sei soldi, giacché sono due" rispose Rodolphe. "Una è franca" rispose il portalettere. Rodolphe, dopo aver pagato, guardò le lettere che aveva ricevuto con indifferenza; ma poi gli parve che meritassero un più attento esame. Una, indirizzata alla signora Pipelet, mandava, attraverso la busta di carta finissima, un odore molto forte; sul sigillo di ceralacca rossa, si vedevano le maiuscole C. R., con sopra un elmo appoggiato a un sostegno ornato della croce della Legion d'Onore; l'indirizzo era scritto con un bel carattere chiaro: la pretenzione araldica dell'elmo e della croce fece sorridere Rodolphe, e lo confermò nell'idea che quella lettera non fosse scritta da una donna. Ma chi poteva essere il corrispondente profumato e blasonato della signora Pipelet? L'altra lettera, d'una carta grigia ordinaria, chiusa da un'ostia bucherellata con uno spillo, era per il signor Cesare Bradamanti, chirurgo-dentista. Il carattere della soprascritta, evidentemente artefatto, si componeva tutto di maiuscole. Fosse presentimento, o capriccio della sua immaginazione, o realtà, sembrò a Rodolphe che vi dovesse essere qualche cosa di triste. Osservò sull'indirizzo una cancellatura dov'era un po' logorata la carta. C'era caduta una lacrima. Entrò la portinaia con il rosolio e i bicchierini. "Sono stata a cinguettare molto, non è vero? Ma quando si fa tanto d'andare in bottega da Joseph non c'è più modo di uscire... Ah, che vecchio indiavolato! Credereste che a una donna d'una certa età come sono io... Ma quello è un mandrillo!" "Diamine! Se Alfred lo sapesse?" "Non me ne parlate, mi si rivolta il sangue solamente a pensarci, è geloso come un beduino! E sì che Joseph fa per scherzo, senza cattiva intenzione!" "Ecco due lettere che ha portato l'uomo della posta" disse Rodolphe. "Ah, mio Dio... Scusate, signore. E l'avete pagato?" "Sì." "Troppo gentile. Dunque li tratterrò sugli spiccioli che ho da rendervi. Quant'è?" "Tre soldi" rispose Rodolphe, sorpreso del singolare sistema di rimborso adottato dalla signora Pipelet. "Come tre soldi? Devono essere sei! Sono due le lettere." "Potrei abusare della vostra fiducia facendovi trattenere sulla mia moneta sei soldi invece di tre, ma non ne sono capace: una delle due lettere a voi diretta è franca, signora Pipelet. E, senza entrare nei fatti vostri, mi fa piacere dirvi che avete un corrispondente i cui bigliettini amorosi hanno un gran buon'odore." "Vediamo" fece la portinaia, prendendo la busta. "È vero, sì, pare un biglietto amoroso... E questa è bella! Chi è quel briccone che ardirebbe?" "E se si fosse trovato qui Alfred, signora Pipelet?" "Non dite questo, o svengo nelle vostre braccia!" "Non lo dico più, signora Pipelet!" "Ma che sciocca sono! Ecco, ecco... Io so... lo so... è del Comandante. Ah, che paura ho avuto! Basta, questo non impedisce di fare il nostro conto: vediamo, sono tre soldi per quell'altra, non è così? Sicché diremo: 15 di rosolio e tre porto di lettera, che mi trattengo, fanno 18...18 e 2 sono 20... e quattro franchi fanno cinque... Conti chiari, amici cari." "E questo, mia cara, sarà un franco per voi... Avete un modo tanto miracoloso di restituire le spese fatte per voi, che sento il bisogno di incoraggiarvi." "Venti soldi! Mi date venti soldi? E perché?" esclamò la donna, attonita e quasi spaventata da una generosità per lei favolosa. "Sarà un acconto sulla caparra, se prendo la camera." "Così l'accetto, ma avvertirò Alfred." "Certamente... Ecco l'altra lettera, è per il signor Cesare Bradamanti." "Sì, sì, il dentista del terzo piano... La metterò nello stivale delle lettere." Rodolphe credeva di avere male inteso, ma lei prese la lettera e la gettò in un vecchio stivale appeso al muro. Egli la guardava meravigliato. "Come?" gli disse. "Voi mettete quella lettera...?" "Ebbene, signore, la metto nello stivale delle lettere. Così non si perde nulla: quando gli inquilini vengono a casa, Alfred o io scuotiamo lo stivale, così si fa la scelta, e ognuno ha la sua busta." "La vostra casa è così ben tenuta, che sempre più mi vien voglia di abitarvi: un tale servizio di corrispondenza mi piace in modo speciale." "Dio buono, è una cosa semplice" replicò con modestia la Pipelet. "Alfred aveva uno stivale vecchio e scompagnato; non è meglio adoperarlo a vantaggio degli inquilini?" Chiacchierando in tal modo, la portinaia dissigillava la busta a lei diretta, e la girava per tutti i versi: dopo un qualche imbarazzo disse a Rodolphe: "Tocca sempre ad Alfred a leggere, perché io non so. Vi compiacereste, signore, di fare come Alfred?" "Per leggere questa lettera, volentieri" rispose Rodolphe, curioso di sapere con chi avesse carteggio la vecchia. E trovò ciò che segue nella carta sottile, cifrata con l'elmo, le lettere C.R., il sostegno delle armi e la croce d'onore: "Domani venerdì, alle undici, si accenderà un gran fuoco nelle due stanze; si puliranno gli specchi, e si leveranno le fodere dai mobili, badando bene di non sciupare la doratura nello spolverarli. Se per caso io non fossi arrivato quando giungerà una signora in vettura di piazza verso l'una a domandare di me sotto nome del signor Charles, si farà salire all'appartamento, e si porterà giù la chiave per consegnarla a me quando verrò." Malgrado lo stile poco elegante del biglietto, Rodolphe capì di che si trattava, e domandò alla portinaia: "Chi sta al primo piano?" La portinaia si avvicinò al labbro il dito giallo e grinzoso, e rispose con un sogghigno maliziosetto: "Zitto... Sono raggiretti amorosi." "Ve lo domando, mia cara signora Pipelet, perché prima di alloggiare in una casa, si desidera sapere..." "È naturale... Dimmi con chi vai, e ti dirò chi sei... Non è così?" "Appunto, stavo per dirvelo." "Del resto, posso informarvi di quello che so di questo affare: ci vuole poco. Circa sei settimane fa, capitò qua un tappezziere, esaminò il primo piano, che era da affittare: chiese che prezzo aveva, e il giorno dopo tornò con un bel giovanotto biondo con le basette piccole, la croce d'onore, e della bellissima biancheria addosso... Il tappezziere lo chiamava Comandante." "Sicché è un militare?" "Militare!" fece la Pipelet stringendosi nelle spalle. "Eh, è come se Alfred lo si chiamasse custode." "Come?" "È della Guardia Nazionale, nello Stato Maggiore... L'altro diceva Comandante per insaponarlo, come s'insapona Alfred a dirgli custode. Insomma quando il Comandante (non lo conosciamo per altro nome) ebbe visto ogni cosa, disse al tappezziere: "Benissimo, fa per me, accomodate tutto, parlate con il proprietario". "Sì, Comandante..." rispose l'altro. E il giorno dopo il tappezziere firmò il contratto, a nome suo, con il signor BrasRouge e gli pagò sei mesi anticipati, perché pare che il giovane non voglia essere conosciuto. Subito dopo sono venuti i lavoranti a demolire tutto il primo piano, e hanno portato divani, cortine di seta, specchi dorati, mobili superbi... Eh, c'è pulito come in un caffè dei boulevards! Senza contare tappeti dappertutto, così grossi e morbidi che pare di camminare su delle bestie... Quando ebbero finito, eccoti il Comandante a vedere il lavoro, e dice ad Alfred: "Potete incaricarvi di mantenere in ordine questo appartamento, dove io verrò di rado, accenderci il fuoco ogni tanto, e preparare l'occorrente per ricevermi quando io ve lo ordinerò con la posta di città?". "Sì, Comandante" gli risponde quell'adulatore di Alfred. "E quanto mi piglierete al mese?" "Venti franchi, Comandante." E il nostro gran signorone si mette a stiracchiare come uno spilorcio, a scorticare la povera gente per una o due misere monete da cinque franchi, quando fa spese del diavolo per un quartiere che non vuole abitare! Infine, a forza di discussioni, abbiamo ottenuto dodici franchi... Dodici franchi! Ma dite se non è roba da far sudare! Va là, Comandante da due quattrini! Che differenza da voi, signor mio!" aggiunse la portinaia gentile, rivolgendosi a Rodolphe. "Non vi fate chiamare Comandante, non mostrate di essere nulla, e subito vi accordate con me per sei franchi!" "E poi, quel giovane è ritornato?" "Ora sentirete la cosa più curiosa. Pare che lo facciano struggere... Il Comandante ha già scritto tre biglietti, come oggi, di accendere il fuoco e mettere tutto a posto, perché sarebbe arrivata una signora... Ma sì, aspettala!" "E nessuno è comparso?" "Ma ascoltate... La prima volta arrivò tutto azzimato, canterellando fra i denti, con aria fiera; aspettò due ore intere... Nessuno! Quando ripassò davanti alla guardiola, gli facevamo la posta Pipelet ed io per vedere che faccia avesse, e sfotterlo un po' senza parere. "Comandante, non c'è stata nessuna signorina a cercare di voi..." dico io. "Va bene, va bene!" mi risponde lui tutto rosso e stizzito, e se ne va mogio mogio, rosicandosi le unghie dalla rabbia. La seconda volta, prima che arrivasse, un facchino portò una letterina indirizzata al signor Charles: immaginando che l'affare andasse in fumo di nuovo, ci facciamo grosse risate io e Pipelet, e, quando arriva il Comandante, io gli faccio, mettendomi il rovescio della mano sulla parrucca come un vero soldato: "Comandante, eccovi una lettera, pare che anche oggi ci sia ordine di contromarcia!". Mi guardò fiero come un Artabano, aprì la lettera, e lettala, diventò rosso come un gambero cotto, poi ci dice, mostrando di non provare dispiacere: "Sapevo che non sarebbe venuta; sono corso qui per raccomandarvi di badare alla mia roba". Non era mica vero, sapete, ma non voleva farsi vedere scornato, e parlava così. Se ne andò fischiettando e canterellando fra i denti. Ma era indispettito... E gli sta bene! benone! Comandante da due soldi! Imparerai a non dare altro che dodici franchi al mese per il tuo servizio." "E la terza volta?" "Oh, la terza volta credetti che fosse sul serio. Arrivò il Comandante tutto impettito; gli uscivano fuori dal capo gli occhi, da tanto che pareva contento e sicuro dei fatti suoi... Bellissimo giovane, in verità, e vestito a modo, e odoroso come una puzzola. Non posava i piedi in terra da tanto si gonfiava... Prese la chiave, e andando su ci disse con aria di scherno e tutto tronfio, quasi volesse ricattarsi degli altri giorni: "Avviserete quella signora che l'uscio è accostato". Buono! Pipelet e io eravamo così curiosi di vedere la damina, benché ci credessimo poco, che uscimmo dalla guardiola per metterci a curiosare sulla soglia della porta. Una vettura azzurra, con le tendine abbassate, si fermò davanti a casa nostra... "Ottimamente! È lei" dico al mio Alfred. "Ritiriamoci un po', perché non si senta in soggezione." Il vetturale aprì lo sportello, e vedemmo una signora piccolina, con il manicotto sulle ginocchia, e il velo nero che le nascondeva il viso, senza contare il fazzoletto che teneva sulla bocca. Pareva che piangesse. Ma, calato il montatoio, invece di scendere, disse due parole al cocchiere, e questo, tutto sorpreso, chiuse la carrozza." "La donna dunque non scese?" "Signor no, si cacciò in fondo alla carrozza, mettendosi le mani sugli occhi. Io corro, e prima che il cocchiere salisse a cassetta, gli gridai: "Oh galantuomo, ve ne tornate via?". "Sì..." mi risponde. "E dove?" gli domandai. "Di dove son venuto." "E da dove venite?" "Da rue Saint-Dominique, all'angolo di rue Belle-Chasse."" A tali parole Rodolphe ebbe una scossa. Il marchese d'Harville, uno dei suoi migliori amici, da gran tempo oppresso dalla massima malinconia, come abbiamo già accennato, abitava in rue SaintDominique all'angolo di rue BelleChasse. Che fosse la marchesa d'Harville, quella che correva incontro alla propria rovina? Che il marito avesse il sospetto della sua condotta, forse causa unica della pena che lo tormentava? Questi dubbi gli si affollavano alla mente. Peraltro, conosceva le persone che frequentava la marchesa, né si rammentava di aver mai visto uno che somigliasse al Comandante. La signora in questione poteva poi aver preso una carrozza in quel luogo senza abitarvi. Non c'erano prove che fosse la marchesa; tuttavia Rodolphe provava qualche vago e doloroso sospetto. La sua espressione, inquieta e pensierosa, non sfuggì alla portinaia. "Orsù, a che cosa pensate, signore?" gli chiese. "Cerco di capire per quale ragione quella donna, venuta sino all'uscio, abbia poi cambiato improvvisamente decisione." "Che volete? Un'idea, una paura, una superstizione... Noi povere donne siamo tanto deboli, tanto vigliacche!" disse la portinaia con aria timida e leziosa. "Mi pare che se io fossi andata così, di nascosto, per tradire Alfred, mi sarei pentita e ripentita non so quante volte! Ma mai e poi mai avrei ceduto! Povero il mio cucco! Non c'è uno sulla terra che si possa vantare..." "Vi credo, signora Pipelet... Ma quella giovane signora?" "Non so se sia giovane... Non le si vedeva la punta del naso... Fatto è, che ripartì, com'era venuta, zitta zitta. Se ci avessero dati dieci franchi, ad Alfred ed a me, non ci saremmo divertiti di più." "E perché tanto divertimento?" "Pensando al muso che avrebbe fatto il Comandante, c'era da sbellicarsi dalle risa. Invece di andare subito a dirgli che la signora era tornata indietro, lo lasciammo stare in ansia e brontolare un'ora. Poi andai di sopra... Non avevo ai piedi che le pianelle... Mi avvicino all'uscio, che era accostato, lo spingo... La scala era buia come un forno, e anche l'ingresso dell'appartamento... Ecco che, appena entrata, il Comandante mi prende fra le braccia, dicendomi in tono carezzevole: "Dio buono, angelo mio, sei venuta tardi!..."." Nonostante la gravità dei pensieri che lo dominavano, Rodolphe non poté fare a meno di ridere, specialmente nel vedere la faccia grinzosa e piena di bolle dell'eroina del curiosissimo equivoco. La Pipelet soggiunse, con un'ilarità che la rendeva anche più brutta: "Eh, eh, eh, questa è bella! Ma ora sentirete. Non rispondo, trattengo il respiro, lo lascio fare, e, d'un tratto, ecco che grida, quel villanaccio, respingendomi disgustato come se avesse toccato un rospo: "Ma chi diavolo siete?". "Sono io, Comandante, la Pipelet, la portinaia... E dovreste tenere le mani al vostro posto, e non prendermi per la vita, né chiamarmi angelo vostro, né dirmi che sono venuta tardi... Se ci fosse stato Alfred!" "Che volete?" urla furibondo. "Comandante, la damina è venuta in carrozza..." "Orsù, fatela salire. Siete una sciocca! Non vi ho ordinato di farla salire?" Lo lascio smaniare a suo agio. "Sì, Comandante, è vero, mi avete detto così..." "Ebbene?" "Ma la damina..." "Parlate!" "È ripartita." "Ohimè, avete fatto qualche bestialità!" strilla sempre più in collera. "No, Comandante, non è scesa dalla carrozza. Quando il vetturino ha aperto lo sportello lei gli ha detto di ricondurla a casa sua." "La vettura non dev'essere lontana!" grida il Comandante, correndo verso la porta. "Eh sì, è più di un'ora che è andata via..." gli rispondo. "Un'ora!... un'ora!... E perché avete tardato tanto ad avvertirmi?" grida con più rabbia che mai. "Madonna! Perché avevamo paura che vi dispiacesse di essere rimasto senza anche questa volta." 'O bevila!' dico fra me, 'zerbinotto sguaiato! Imparerai a provare disgusto per avermi toccata!' "Uscite di qua! Non fate né dite mai altro che spropositi!" ruggì infuriato, levandosi la veste da camera, e gettando in terra il berretto di velluto ricamato d'oro... Bel berretto, bella veste, però... abbagliavano sino gli occhi... Il Comandante pareva una lucciola che mandasse luce." "E poi, né lui né la signora sono più tornati?" domandò Rodolphe. "No, no... Ma aspettate la fine della storia" disse la Pipelet. 9. I tre piani. "La fine della storia, eccola" riprese la Pipelet: "Io scesi lesta lesta dal mio Alfred. Per l'appunto c'erano nella nostra guardiola la portinaia del numero 19, e l'ostricaia che sta fuori del portone del venditore di liquori; gli racconto come il Comandante mi avesse chiamata angelo suo e presa per la vita... Oh, che risata abbiamo fatto! E benché Alfred sia molto... mela... cioè, mali... sì, malinconico, come dice sempre, dopo le azioni infami di quel mostro di Cabrion..." Rodolphe guardava attonito la portinaia. "Sì, un giorno, quando avremo fatta più amicizia, lo saprete... Insomma, tant'è che Alfred, nonostante la sua malinconia, si mette a chiamarmi angelo suo... In quel momento il Comandante esce dal suo appartamento e chiude l'uscio per andarsene; ma siccome ci sente ridere, non ha più il coraggio di scendere per paura che lo prendiamo in giro, giacché non può fare a meno di passarci davanti. Noi indoviniamo tutto; l'ostricaia, con la sua grossa voce, comincia a gridare: "Pipelet, angelo mio, sei venuta tardi!". Il Comandante rientra in casa e chiude la porta con un fracasso terribile, da uomo rabbioso. In sostanza, riaprì e richiuse più di dieci volte per ascoltare se c'era sempre gente: ce n'era davvero! E non si muovevano. Alla fine, vedendo che restavamo là, si decise, venendo giù di corsa, e buttandomi la chiave senza dir nulla. Scappa tutto infuriato in mezzo ai nostri scrosci di risa, intanto che l'ostricaia continuava a dire: "Sei venuta tardi angelo mio!"." "Ma rischiavate che lui non si servisse più di voi" osservò Rodolphe. "Non ne avrebbe il coraggio, l'abbiamo nelle mani. Sappiamo dove sta la sua amorosa, e se aprisse bocca, gli si minaccerebbe di sventare la tresca. E poi, per i suoi maledetti dodici franchi, chi si piglierebbe l'incarico di fargli le faccende? Qualche donna di fuori? Oh, le renderemmo dura la vita a quella, noi! Spilorcio birbante, che si provi! Ma, signor mio, credereste che ha la meschineria di controllare la legna e calcolare il numero dei pezzi che si può bruciare aspettandolo? È di sicuro qualche disperato arricchito; ha la testa da signore e il cuore da miserabile; spende di qua, e lesina di là... Non gli voglio male, ma me la godo a vedere che la sua bella lo fa ammattire. Scommetto che domani ci sarà spettacolo, e però vado ad avvertire l'ostricaia, e ci divertiremo insieme. Se viene la signora, vedremo se è bruna o bionda, se è bellina o no... Ma, dico io, riflettendo, c'è sotto un gonzo di marito... È ridicola, non è vero? Basta, ci ha i suoi guai, poveretta! Noi domani vedremo la dama, e, nascosta com'è, bisognerà che scenda a terra perché sappiamo di che colore ha gli occhi... Anche queste donne sono qualcosa di bizzarro! Vanno in casa d'un uomo, e fanno finta di aver paura... Ma, scusate, scusate, che tiro giù la pentola dal fuoco: ha finito di bollire, perciò la trippa è pronta per essere mangiata... È trippa di bue. Metterà ad Alfred un po' di buonumore, giacché, come dice tante volte, per la trippa tradirebbe anche la Francia, la sua bella Francia, il mio vecchio cucco!" Mentre la Pipelet badava a queste faccende domestiche, Rodolphe faceva tristi riflessioni. La dama in questione (fosse o no la marchesa d'Harville) aveva senza dubbio esitato prima di concedere un primo e un secondo appuntamento; poi, intimorita dalle conseguenze della sua imprudenza, un rimorso salutare le aveva forse impedito di adempiere la pericolosa promessa. Cedendo alla fine a un potere irresistibile, correva piangendo, agitata da mille timori, fino alla soglia di quella casa, ma, sul punto di rovinarsi per sempre, si faceva udire in lei la voce del dovere, e sfuggiva ancora una volta al proprio disonore. E per chi affrontava tanto rischio, tale vergogna? Rodolphe conosceva il mondo e il cuore umano. Giudicò quasi con certezza il carattere del Comandante, ai pochi tratti abbozzati dalla portinaia con grossolana naturalezza. Era un uomo così scioccamente vanitoso da dare importanza a un grado così insignificante dal punto di vista militare; un uomo così privo di senno da non preoccuparsi di tenere segreta la tresca colpevole d'una donna che tutto rischiava per lui; un uomo, infine, così vile e avaro da non comprendere che per risparmiare qualche luigi esponeva la sua amante agli insolenti e ignobili dileggi della gente di quel caseggiato. Così, spinta dal fatale impulso, benché senta l'enormità del suo sbaglio, senz'altro che la sostenga se non la fiducia nella segretezza, nell'onore di colui al quale dà più che la propria vita, l'infelice giovane verrà al convegno, palpitante, smarrita, e perciò costretta a sopportare gli sguardi curiosi e sfacciati di alcuni sciagurati, e forse a udire i loro scherni indecenti. Che vituperio! Quale lezione! Che disinganno per una donna che fino allora aveva vissuto soltanto delle più belle e poetiche illusioni dell'amore! E quello per cui andava incontro a tanto obbrobrio, a tanti pericoli, sarà almeno sensibile al tormento, agli affanni che le cagiona? No. Sventurata! la passione l'acceca e la getta per l'ultima volta sull'orlo dell'abisso. Pure, un coraggioso sforzo di virtù la salva... Che proverà il suo seduttore al pensiero di questa lotta dolorosa e santa? Proverà dispetto, collera, ira, nel rammentare che si è scomodato tre volte per nulla, e che la sua vanità è compromessa, in faccia al suo portinaio... E anche, ultimo tratto di rozzezza e malcostume, parla in quel modo, e si mette in vestaglia per quel primo colloquio, che deve far morire di confusione e di vergogna una donna già oppressa dal peso della vergogna e della confusione! "Oh" pensava Rodolphe "che tremendo insegnamento, se la signora (che spero mi sia ignota), avesse potuto udire in quali termini vergognosi si parlava di lei e del suo atto, certamente colpevole, ma che a lei tanto costava d'amore, di pianto e di rimorsi!" Quindi considerando che la marchesa d'Harville poteva essere l'eroina di una così abbietta avventura, si domandava per quale aberrazione, per quale fatalità, al signor d'Harville, giovane, spiritoso, affettuoso, e generoso, e specialmente innamorato all'eccesso della consorte, poteva essere preferito un individuo stolido, avaro, egoista e ridicolo. La marchesa non si era dunque invaghita se non dell'aspetto di costui, che si diceva così bello? Eppure Rodolphe conosceva la signora d'Harville per una donna di spirito, di buon gusto e di carattere elevatissimo, né mai il minimo discorso aveva intaccato la sua reputazione. Dove aveva conosciuto quel miserabile? Rodolphe la vedeva di frequente, e non si ricordava di avere incontrato nel suo palazzo alcuno che somigliasse al Comandante! Dopo mature riflessioni, finì quasi con il persuadersi che non si trattasse della marchesa. La Pipelet, avendo eseguite le sue mansioni di cucina, ricominciò la conversazione con Rodolphe. "Chi ci sta al secondo piano?" domandò lui alla portinaia. "La Burette, una donna famosa per le carte! Vi legge sulla mano, come in un libro. Ci sono delle persone che vengono a trovarla per farsi astrologare... Guadagna più soldi di quanto pesa. E notate che è uno solo dei suoi tanti mestieri, quello dell'indovina." "Che fa anche?" "Tiene un Monte di Pietà particolare." "Come?" "Ve lo dico perché siete giovanotto: e questo può confermarvi nell'intenzione di diventare nostro inquilino." "E perché?" "Saremo tra poco agli ultimi giorni di carnevale, un periodo in cui tutti sono in moto, donne, facchini, turchi, selvaggi; un periodo in cui anche quelli che più guadagnano possono dilapidare un patrimonio... Fa comodo avere una risorsa nel caseggiato, invece di essere obbligati a correre da mia zia, dove c'è più umiliazione, perché ci si va sotto gli occhi della legge." "Vostra zia? Forse dà prestiti su pegno?" "Che diamine! Non sapete? Su, volete scherzare! Mi fate da innocentino, alla vostra età!" "Faccio l'ingenuo? E in che cosa?" "A domandarmi se mia zia presta su pegno." "Perché?" "Ve'! Perché tutti quelli che sono in età di ragione, capiscono che "mettere qualcosa al Monte" si dice "andare da mia zia"." "Ah capisco: quella del secondo piano dà pure su pegno?" "Sicuro, e a prezzo meno caro che al Monte Grande... E poi, non c'è imbroglio... Non si ha l'imbarazzo di un mucchio di fogliacci, di polizze, di numeri... Niente, niente... Mettiamo il caso: si porta alla Burette una camicia che vale tre franchi; vi dà dieci soldi, e dopo otto giorni gliene rendete venti; se no, si tiene la camicia... Com'è semplice questo, eh? Sempre numero tondo! Anche un bambino lo capirebbe!" "Veramente, è chiarissimo! Ma credevo fosse proibito prestare così su pegno." "Ah, ah, ah!" esclamò la Pipelet, sbellicandosi dalle risa. "Venite forse dalla campagna, ragazzo mio? Compatite, ma vi parlo come fossi vostra madre, e foste il mio figliolo..." "Troppa bontà!" "Certo che è proibito! Ma se non si facesse altro che quello che è permesso, che vi pare?, ci sarebbe da starsene con le braccia ciondoloni. La Burette non scrive, non dà ricevute, sicché non ci sono prove contro di lei, e si burla della polizia... È proprio curioso vedere la quantità di roba di tutte le sorte che le consegnano... Voi non crederete su cosa presta qualche volta? Io l'ho vista dar quattrini fino sopra un pappagallo bigio, che bestemmiava come un indiavolato, quel briccone!" "Su un pappagallo? Ma per che valore?" "Aspettate!... Era conosciuto, era il pappagallo della vedova di un portalettere che abita qui vicino nella rue Saint-Avoie: la signora Herbelot. Tutti sapevano che lei gli voleva più bene che ai suoi occhi; la Burette le disse: "Vi dò dieci franchi sulla vostra bestia; ma se fra otto giorni, a mezzogiorno, non ho i miei venti franchi..."." "Cioè i suoi dieci franchi..." "Con gli interessi facevano per l'appunto venti: sempre conti tondi... "Se non ho i miei venti franchi e le spese di mantenimento, gli dò una bella insalatina di prezzemolo condita con l'arsenico." Con quella paura la Burette ebbe capitale e frutti in capo a sette giorni, e la signora Herbelot si portò via quell'animalaccio che cianciugliava dalla mattina alla sera certi bu... e ca... e cu... che facevano arrossire il mio Alfred, che è un po' bacchettone. Già è naturale! Suo padre era curato... Nella rivoluzione, capite, vi furono dei curati che sposarono monache..." "E la Burette, m'immagino, non ha altro mestiere?" "Non ne avrà altri, se volete. Ma io non so che cosa siano certi pasticci che a volte manipola in una cameretta dove non entra nessuno, se non il signor BrasRouge e una vecchia guercia, chiamata la Chouette." Rodolphe guardò, stupito, la portinaia. Questa, interpretando a suo modo la sorpresa del futuro inquilino, continuò: "È un nome curioso Chouette, è vero?" "Sì... E viene qui spesso?" "Per sei settimane non è più venuta, ma ieri l'altro la vidi, che zoppicava un tantino." "E che ci viene a fare dalla maliarda?" "Ecco quello che non so! Per quanto puzzi d'imbroglio quella stanza dove entrano soltanto la Chouette, Bras-Rouge e la Burette, ho notato che in quei giorni la guercia viene con un involto nel paniere, e Bras-Rouge con un pacchetto sotto il pastrano, ma non riportano indietro niente." "E gli involti, che contengono?" "Non ne so nulla, se non che lavorano a certi guazzabugli di stagno fuso; e poi soffiano, soffiano, soffiano, come fossero fabbri... Di sicuro, la Burette va macchinando qualche sortilegio... Così mi conferma il signor Cesare Bradamanti, l'inquilino del terzo piano. Quello sì che è speciale, quel signor Cesare! Dico speciale perché è italiano, quantunque parli bene francese quanto voi e me, salvo una lieve inflessione forestiera... Ma non importa, è un dottorone! Conosce le piante e la chimica, vi cava i denti, non per denari, ma per onore. Signorsì, per puro onore. Se aveste sei denti guasti, lo dice lui stesso a chi lo stia a sentire, vi leverebbe i primi cinque per niente, e non vi fa pagare che il sesto... Non è colpa vostra se non ne avete altri..." "È generoso il suo comportamento!" "In più vende un'acqua buonissima, che fa sì che non cadano i capelli, guarisce i mali d'occhi, i calli dei piedi, le debolezze di stomaco, e distrugge i topi senza l'arsenico." "Quella stessa acqua guarisce il mal di stomaco?" "La stessa acqua." "E distrugge anche i topi?" "Senza che se ne salvi uno, perché quel che giova alla salute per l'uomo, è assai nocivo per gli animali..." "Bene, signora Pipelet, non ci avevo pensato." "E la prova che è ottima, è che è fatta con delle piante raccolte dal signor Cesare sulle montagne del Libano, presso quel paese di americani, di dove ha portato anche il suo cavallo, che pare una tigre, tutto bianco brizzolato di baio... Ah, quando il signor Bradamanti è sulla sua bestia, con l'abito rosso ad alamari gialli, e il cappello con il pennacchio, ci sarebbe da pagare per vederlo, perché, parlando con rispetto, somiglia a Giuda Iscariota con la barba lunga e rossiccia... Da un mese ha preso al suo servizio il figlio del signor Bras-Rouge, il piccolo Tortillard, e lo ha vestito da trovatore, con la toga nera, un colletto bianco e la giacchetta color albicocca... Questo batte il tamburo attorno al signor Cesare per richiamare gli avventori, senza contare poi che ha cura di custodirgli il cavallo tigrato." "Mi sembra che il figlio del vostro principale inquilino abbia così un impiego ben meschino." "Il padre dice che vuol far patire di tutto a quel ragazzo, perchè se no finirebbe sulla forca. Difatti è il più maligno scimmiotto che ci sia: ha fatto tante brutte burle al povero signor Bradamanti, che invece è il fiore delle genti, giacché ha guarito Alfred da un reumatismo, e tanto che lo teniamo proprio sul cuore! Ebbene, signore, ci sono delle persone così snaturate, che... Ma no, no, fa rizzare in testa i capelli! Alfred sostiene che, se fosse vero, sarebbe un caso da galera..." "Ma pure..." "Ah, non ardisco... non ardirò mai..." "Non ne parliamo più..." "È che a dire certe cose a un giovanotto..." "Non ne parliamo, signora Pipelet." "In sostanza, siccome sarete nostro inquilino, è meglio che sappiate che sono bugie. Voi siete in grado di fare amicizia e società con il signor Bradamanti: se aveste dato retta, quelle chiacchiere vi avrebbero forse impedito di fare la sua conoscenza." "Dite, vi ascolto." "Taluni dicono che quando, per esempio, una fanciulla ha commesso un errore... Mi capite?... E ha delle conseguenze..." "Ebbene?" "Ecco! Adesso non ho più coraggio..." "Ma seguitate..." "No, no... Alla fine sono sciocchezze..." "Ma dite, su!" "Bugie!" "Ma insomma finite..." "Cattive lingue..." "Avanti!" "Gente che ha invidia del suo cavallo tigrato." "Sarà così... Ma che dicono?" "Mi vergogno..." "Che ha da fare una ragazza, che ha commesso un errore con un ciarlatano?" "Non assicuro che sia vero..." "In nome del cielo, che c'è dunque?" gridò Rodolphe, spazientito dalle bizzarre reticenze della Pipelet. "Sentite" continuò la portinaia con aria solenne "mi giurate sul vostro onore di non dirlo mai a nessuno?" "Quando saprò che cosa sia, vi farò o no il giuramento." "Se ve lo racconto, non è per i sei franchi che mi avete promesso, né a causa del rosolio..." "Bene, bene." "Ma soltanto per la confidenza che m'ispirate..." "Sia pure." "E per giovare al signor Cesare Bradamanti discolpandolo..." "È ottima la vostra intenzione, non ne dubito... E poi?" "Dicono... Ma che non esca da questo stanzino, almeno..." "Certissimo... Dicono dunque..." "Ecco! da capo, non oso... Ma zitto, ve lo racconterò all'orecchio, farò meno fatica... Come sono bambina, eh?" E la vecchia balbettò a voce bassa alcune parole a Rodolphe, e questo trasalì inorridito. "Questo è orribile!" gridò alzandosi, e guardandosi intorno atterrito, come se quella casa fosse stata maledetta. "Mio Dio, mio Dio! " pensava con doloroso stupore. "Sono possibili delitti così abominevoli? E questa orrenda vecchia che è quasi indifferente alla nefanda rivelazione che ora mi ha fatto!" La portinaia non capì Rodolphe, e continuava, occupandosi dei preparativi per il desinare: "Non è vero che sono una massa di malelingue? Come? uno che ha guarito Alfred dai reumatismi, uno che si è portato il cavallo tigrato dal Libano, uno che si esibisce a levarvi gratis cinque denti su sei, uno che ha certificati di tutta l'Europa, e che paga le mesate puntualissimo...? Ohibò, piuttosto la morte che credere a cose simili!" Mentre la portinaia manifestava la sua indignazione contro i calunniatori, Rodolphe si ricordava della lettera indirizzata a quel saltimbanco, scritta su carta grossa, di carattere contraffatto e mezzo cancellata dal segno di una lacrima. In quella lacrima, nel foglio misterioso indirizzato a quell'uomo, Rodolphe scorgeva un dramma intero. Un dramma terribile! Un involontario presentimento gli diceva che le voci atroci che correvano attorno all'italiano erano fondate. "Oh, ecco Alfred" esclamò la portinaia. "Anche lui vi dirà che sono linguacce, se incolpano di tanti orrori il povero signor Cesare Bradamanti, che lo guarì dai dolori reumatici." 10. Pipelet. Noi ricordiamo al lettore che tutte queste cose succedevano nel 1838. Pipelet entrò con aria grave, pieno di sussiego. Aveva circa sessant'anni, un naso spropositato, una badiale grassezza, un viso larghissimo e rosso al modo di quei burattini di legno che si fanno a Norimberga. Questa strana maschera portava in testa un vecchio cappello da caccia con le tese larghe e sporche, che non abbandonava mai, come sua moglie non lasciava un giorno la sua vecchia parrucca. Indossava un abito verde sdrucito e così inzaccherato, che qua e là sembrava d'un grigio lucente. Nonostante il cappello da caccia e l'abito verde, che denotavano affettazione nel vestire, portava però sempre il modesto emblema del suo mestiere: un grembiale di cuoio formava un triangolo scuro sopra un lungo panciotto screziato a tanti colori, quanti ne aveva la coperta arlecchino della Pipelet. Il saluto che fece il portinaio a Rodolphe non mancava di una qualche affabilità, ma ahimè, il suo sorriso era assai amaro. Vi si leggeva l'espressione di una profonda malinconia, proprio come la Pipelet aveva detto a Rodolphe. "Alfred, questo signore è un inquilino per la stanza e il salottino del quarto piano" disse la Pipelet, presentando Rodolphe ad Alfred "e ti abbiamo aspettato per bere un bicchiere di rosolio, che lui stesso ha voluto offrire." Questo tratto di gentilezza ispirò subito a Pipelet una simpatia per Rodolphe; il portinaio si pose la mano sulla tesa del cappello, e gli disse con voce di basso, degna di un cantore di cattedrale: "Vi soddisferemo, signor mio, come portinai, nella stessa maniera che voi ci soddisferete come inquilino, perché gli uomini, Dio li fa, e poi li accoppia..." E, interrompendosi, Pipelet soggiunse inquieto: "Sempreché, però, non siate pittore." "No, sono commesso di un mercante." "Allora, signor mio, vi sono servo e schiavo. Mi congratulerò con la natura per non avervi fatto nascere simile a quei mostri di artisti!..." "Gli artisti... mostri?" osservò Rodolphe. La Pipelet, invece di rispondere, alzò le mani verso il soffitto facendo udire una specie di gemito corrucciato. "Sono i pittori che hanno avvelenato la vita al mio Alfred! Sono loro che l'hanno reso malinconico, come vi dicevo" fece osservare la Pipelet adagio a Rodolphe; poi continuò più forte, in tono carezzevole. "Animo, Alfred, abbi giudizio, non pensare a quel birbone... Ti guasterai lo stomaco, e non potrai pranzare." "No, avrò senno e coraggio" replicò Pipelet con mesta dignità e rassegnazione. "Mi ha fatto molto male, è stato il mio persecutore, il mio carnefice per tanto tempo! Ma adesso lo disprezzo... I pittori!" continuò, volgendosi a Rodolphe. "Ah signore! Sono la peste d'una casa, la sua rovina." "Avevate alloggiato qui un pittore?" "Ah, signor sì, ne avevamo uno! Un pittore che si chiamava Cabrion!" A quel ricordo, malgrado volesse ostentare coraggio, il portinaio chiuse i pugni con rabbia. "Era forse l'ultimo inquilino che abitò le stanze che io vengo a occupare?" domandò Rodolphe. "No, no: l'ultimo era un bravo, un degno giovane di nome Germain; ma prima di lui ci fu Cabrion. Ah" disse Pipelet con amarezza "dalla sua partenza, quel Cabrion ha fatto di tutto per farmi diventare pazzo." "Vi dispiacque dunque la sua partenza?" chiese Rodolphe. "Cabrion? Dispiacermi che sia andato via? Rimpiangere Cabrion! Ma figuratevi che il signor BrasRouge gli pagò due mesate per farlo uscire di qui, giacché avevamo avuto la disgrazia di firmargli un contratto... Che scellerato! Non avete idea delle brutte azioni che ha fatto a noi e agli altri casigliani! Per parlarvi intanto di una sola, non c'è uno strumento a fiato che non abbia vilmente strimpellato per rompere l'anima agli inquilini: sì, dal corno sino al fagotto, signor mio! Ha abusato di tutti, spingendo la villania fino a stonare apposta sopra una medesima nota per ore intere... C'era da diventar matti! Si fecero più di venti suppliche all'amministratore signor BrasRouge, perché scacciasse quel miserabile: alla fine ci riuscì, pagandogli due mesi... È bella, questa eh? Uno piglia le stanze in affitto, e gli si pagano i mesi invece di riscuoterli! Ma gliene avrebbe abbonati tre per levarselo d'attorno. Se ne va... Immaginate sia finita con Cabrion? Ora sentirete! L'indomani, alle undici di sera ero a letto. Pan! pan! pan! Tiro il cordone. Viene uno nello stanzino: "Buona sera, portinaio" dice una voce "vorreste favorirmi una ciocca dei vostri capelli?". Mia moglie mi fa: "È qualcuno che ha sbagliato d'uscio!". "Non è qui" rispondo allo sconosciuto "provate al portone accanto." "Eppure è questo il n. 17. E il portinaio si chiama Pipelet?" "Sì" replico io "mi chiamo Pipelet." "Orbene, Pipelet, amico mio, vengo a chiedervi una ciocca dei vostri capelli per Cabrion; si è messo quest'idea in testa, la desidera, la vuole."" Pipelet fissava in viso Rodolphe, tentennando il capo e incrociando le braccia, in posa come una statua. "Capite, signore? A me, suo nemico mortale, che aveva offeso tanto, veniva impudentemente a domandare una ciocca di capelli! Un favore che le dame negano qualche volta al loro prediletto!" "Almeno il vostro Cabrion fosse stato buon vicino come il signor Germain!" disse Rodolphe con imperturbabile sangue freddo. "Quando anche fosse stato buono, eccellente, non gliel'avrei accordata" ribatté solenne il portinaio ostentando ancora di più il suo curioso cappello da caccia. "È cosa che non rientra nelle mie abitudini. Ma mi sarei fatto un dovere di rifiutargliela con più cortesia." "E non basta!" soggiunse la portinaia. "Figuratevi, signore, che da quella volta in poi, di mattina, di sera, di notte, a tutte le ore, il maledetto Cabrion ha scatenato una caterva di manigoldi che vengono uno dopo l'altro a chiedere ad Alfred una ciocca di capelli, e sempre per Cabrion!" "E dite un po' se io avrei dovuto cedere!" continuò Pipelet, molto risoluto. "Piuttosto, signore, mi sarei lasciato trascinare al patibolo! Dopo tre o quattro mesi d'ostinazione da parte loro e di resistenza da parte mia, la mia costanza ha trionfato dell'accanimento di quei miserabili. Hanno visto che si attaccavano ad una piastra di ferro, e sono stati costretti a rinunciare alle loro insolenti pretese... Ma tuttavia io sono stato ferito qui!" Alfred si pose la mano sul cuore. "Avessi commesso delitti orribili, non avrei avuto il sonno più agitato. Ogni momento mi destavo scuotendomi tutto, e mi pareva udire la voce di quell'infernale Cabrion. Diffidavo di tutti, in ciascuno supponevo un nemico, perdevo il mio brio, non potevo vedere una faccia forestiera presentarsi al finestrino senza venirmi al pensiero che fosse della masnada di Cabrion... E anche adesso, signore, non prendo più piacere a nulla..." Qui la Pipelet si mise l'indice su un occhio come per asciugarsi una lacrima, e fece con la testa un cenno di conferma. L'altro proseguì in tono più lamentevole: "Mi rinchiudo sempre più in me stesso, e ormai, signore, guardo trascorrere il fiume della vita... Avevo torto, forse, nel dirvi che Cabrion ha avvelenato la mia esistenza?" E Pipelet, mandando un profondo sospiro, si calò sugli occhi il cappello da caccia sotto il peso di una così immensa disgrazia. "Ora comprendo che non vogliate bene ai pittori" disse Rodolphe. "Ma almeno quel Germain, di cui parlavate, vi ha compensato dei tormenti sofferti con Cabrion?" "Oh, sì, signore! Ecco un ottimo giovane, schietto come l'oro, servizievole, non superbo, e allegro... Ma di un'allegria buona, che non faceva male agli altri, senza essere insolente e motteggiatore come quel Cabrion, che Dio lo fulmini!" "Orsù, calmatevi, mio caro signor Pipelet, non pronunciate più quel nome... E adesso, chi è il padrone di casa che ha la fortuna di ospitare il signor Germain, quella perla d'inquilino?" "Buio, e poi buio... Nessuno sa, né saprà dove stia il signor Germain... Fuorché la signora Rigolette." "E chi è la signora Rigolette?" chiese Rodolphe. "Una sarta, l'altra vicina del quarto piano" rispose Pipelet. "Sì, la sarta del quarto piano" aggiunse la Pipelet. "Anche quella è una gioia! Paga i mesi anticipati, ed è tanto linda nella sua cameretta, è così garbata con tutti e briosa, una vera colomba di Dio, benedetta per cortesia e buon cuore... E in più, assidua al lavoro quanto un castoro, e si guadagna a volte sino a due franchi al giorno, ma con molta fatica!" "Come mai è l'unica che sappia dove abiti il signor Germain?" "Quando il signor Germain se ne è andato, ci disse: "Non aspetto lettere, ma se per caso ne venissero, le consegnerete alla signora Rigolette"." "E badate che lei merita davvero la sua fiducia, anche fossero lettere raccomandate... Non è così Alfred?" "Il fatto è che sulla signora Rigolette non c'è proprio niente da ridire" fece il portinaio con gran severità "non avesse la debolezza di lasciarsi corteggiare da quell'infame Cabrion..." "In quanto a questo, Alfred" replicò la portinaia "sai che non fu colpa sua... Dipende dal locale... Lo stesso fu con il viaggiatore che aveva la stanza prima di Cabrion... E dopo questo pittore di croste la corteggiò il signor Germain... Oh, non può essere altrimenti! Dipende dal locale." "Sicché" disse Rodolphe "quelli che prendono in affitto la stanza che sto per affittare io, fanno necessariamente la corte alla signora Rigolette?" "Per forza, signore, e ora lo capirete. Si diventa vicino della signora Rigolette, le due camere sono contigue: ebbene, fra ragazza e giovanotto, o c'è un lume da accendere, o un tantino di brace da farsi prestare, o un po' d'acqua... Oh, per l'acqua, poi, si sta sicuri di trovarne, da quella! Non gliene manca mai, è tutto il suo lusso. È una vera anatra! Appena ha un momento libero corre subito a lavare i vetri, il focolare... E per questo da lei c'è sempre una pulizia! Oh, vedrete..." "Dunque il signor Germain, essendo così disposto l'appartamento, fu, come voi dite, un ottimo vicino per la signora Rigolette?" "Sì, signore; ed è il caso di dire che erano nati l'uno per l'altra. Così giovani, gentili. Faceva piacere vederli scendere le scale, la domenica, unico giorno di vacanza per tutti due, poveretti! Lei tutta attillata con una bella cuffietta, e la sua veste da venticinque soldi il metro, cucita da lei stessa, ma che le stava come a una regina; lui vestito come un ganimede..." "E il signor Germain non ha più rivisto la signora Rigolette dopo aver abbandonato questo caseggiato?" "Signor no, a meno che sia stato di domenica, perché gli altri giorni la signora Rigolette non ha tempo di pensare agli innamorati. Si alza alle cinque o alle sei, e lavora sino alle dieci, e qualche volta alle undici di sera; non si muove mai dalla camera, fuorché la mattina per andare a far la spesa, per sé e per i suoi due canarini. Fra tutti mangiano così poco... Che ci vuole? Due soldi di latte, un po' di pane, centonchio, insalata, miglio, e freschissima acqua chiara; e tuttavia ciarlano e gorgheggiano tutti e tre, la piccina e gli uccelli, che è una benedizione sentirli! Poi, buona e caritatevole, dà quel che può, cioè delle sue ore di sonno e di attenzioni: giacché pur stando a cucire dieci o dodici ore di seguito, è ancora tanto se ci si guadagna da campare... Ecco, a quei disgraziati su in soffitta, che il signor Bras-Rouge metterà in mezzo alla strada fra tre o quattro giorni, la signora Rigolette e il signor Germain vegliarono i bambini per diverse notti di seguito." "C'è qui una famiglia così disgraziata?" "Disgraziata, Signore Iddio? Eccome! Cinque bambini piccoli, la madre a letto quasi moribonda, la nonna scema, e, per mantenere tutta questa gente, un uomo che non ha pane nemmeno per se stesso, benché fatichi come un negro... Perché è un bravo operaio! Su ventiquattro ore, tre di sonno, ecco tutto quel che si piglia! E non riesce nemmeno a dormire, se si pensa che nel pieno della notte i bambini gridano: "Pane!", e la consorte ammalata geme su un saccone, o la vecchia matta si mette a urlare come una lupa per la fame... Perché quella vecchia non ha più giudizio d'una bestia, e quando ha troppa voglia di mangiare la si sente di fondo alle scale: ruggisce." "Ahi, che situazione orribile!" esclamò Rodolphe. "E nessuno li aiuta?" "Madonna! Si fa quel che si può, tra poveri... Da quando il Comandante mi dà quei dodici franchi al mese per rassettargli le stanze, metto la pentola al fuoco una volta la settimana, e quei meschini hanno un po' di brodo... La signora Rigolette impiega parte delle sue nottate, e le costa sempre un bel po' di lume, a fare, con dei ritagli di stoffa, vesticciole e cuffiette ai bambini... Il povero signor Germain, che non era nemmeno molto denaroso, fingeva di ricevere ogni tanto da casa sua qualche bottiglia di vin vecchio e allora Morel (così si chiamava l'operaio) beveva un buon bicchierino che lo riscaldava e gli rimetteva per un momento l'anima in corpo." "E il ciarlatano non fa niente per quella povera gente?" "Il signor Bradamanti?" disse la portinaia. "Mi guarì d'un reumatismo" soggiunse Pipelet "è vero, e lo venero e lo rispetto, ma da allora in poi dissi alla mia sposa: "Anastasie, il signor Bradamanti... uhm!...". Te lo dissi, Anastasie?" "È vero, me lo dicesti... Ma a quello gli piace scherzare a suo modo... E non per questo apre la borsa." "Che fece dunque?" "Ecco, quando gli parlai della miseria di Morel, una volta che si lagnava che la vecchia pazza aveva urlato tutta la notte e aveva impedito a lui di dormire, mi disse: "Poiché sono tanto infelici, se hanno denti da cavarsi non gli farò pagare neppure il sesto, e di più avranno una boccetta della mia acqua a metà prezzo"." "E devo dirlo" esclamò Pipelet "quantunque mi abbia risanato dal reumatismo, sostengo che è stata una bravata indecente... Già, fa sempre così! E anche non fosse altro che leggerezza..." "Ma, Alfred, pensa che è italiano, e che forse quella è la maniera di scherzare laggiù da loro." "No, signora Pipelet" disse Rodolphe alla portinaia. "Io non posso avere una buona opinione di costui, e non farò, come voi speravate, né amicizia né società con lui... E quella che presta a pegno fu più caritatevole?" "Uhm, del genere del signor Bradamanti" disse la portinaia. "Prestò loro denaro a valere sui miseri cenci che avevano, e tutto passò nelle sue mani, sino all'ultimo materasso... Già, fu affare di poco, non ne hanno avuto mai più di due!" "E adesso non li soccorre?" "La Burette? Oh, sì, è così taccagna! In quanto a questo è proprio come il suo ganzo... Giacché, dico, Bras-Rouge e la Burette..." aggiunse la Pipelet, facendo l'occhiolino e tentennando malignamente la testa. "Davvero?" domandò Rodolphe. "Altro che! E alla morte!... e allegri come matti! L'estate di San Martino è calda al pari dell'altra... Non è così, il mio cucco?" Pipelet, per unica risposta, agitò mestamente il cappello da caccia. Da quando la portinaia aveva dimostrato un sentimento di carità in favore degli sventurati della soffitta, sembrava a Rodolphe meno disgustosa. "Che mestiere fa quel povero operaio?" "Incisore di pietre false; lavora a cottimo, e si è logorato in questo mestiere. Lo vedrete... In sostanza, un uomo è un uomo, e non può far altro che quel che può, dico bene? E quando si deve dar pane a una famiglia di sette persone, senza contare lui, c'è da diventar matti! La figlia maggiore lo aiuta come può, ma può far poco..." "Di che età è la figlia?" "Diciassette anni... E bella come un sole! È serva da un vecchio tanghero, un riccone capace di comprarsi tutta Parigi, un notaio, il signor Jacques Ferrand." "Jacques Ferrand!" esclamò Rodolphe, meravigliato di quella nuova coincidenza, giacché da lui o dalla sua donna di servizio doveva attingere le informazioni riguardanti la Goualeuse. "Il signor Jacques Ferrand, che abita in rue du Sentier?" "Appunto... Lo conoscete?" "È il notaio del negozio dove sono impiegato." "Ebbene! Allora dovete sapere che è un usuraio famoso, ma, siamo giusti, probo e devoto... Tutte le domeniche va a messa e al vespro, osserva la pasqua e si confessa; e se bazzica, bazzica con i preti, bevendo acqua benedetta, mangiando pane benedetto... Un santo uomo, ve'! È la cassa di risparmio della povera gente, che mettono in mano sua quel che hanno da parte... Ma, Madonna!, avaro e duro con gli altri come con se stesso! Sono diciotto mesi che quella povera Louise, la figlia dell'incisore, è serva in casa sua: è un agnellino per la docilità, un cavallo per la fatica. Fa di tutto, e non ha che diciotto franchi al mese, né più né meno; tiene sei franchi per le spese, e dà il resto alla famiglia... Questo è qualcosa... Ma quando ci devono rosicchiare sette persone!..." "Ma il lavoro del padre, tanto industrioso?" "Se è industrioso? Non s'è visto mai l'eguale... È un uomo probo e lavoratore, che non si può dire di più; non chiederebbe a Dio altra ricompensa che di fargli durare la giornata quarant'otto ore, per poter guadagnare un poco più di pane per i suoi ragazzi." "La sua professione dunque gli rende pochissimo?" "È stato ammalato tre mesi, e così è costretto a fare i salti mortali per pagare i debiti, e la moglie si è rovinata la salute per assisterlo, e adesso è moribonda. In questo periodo è stato necessario vivere con i dodici franchi di Louise, e con i denari presi su pegno dalla Burette, e anche qualche scudo che gli ha prestato la sensale di pietre false per cui lavora. Ma sono in otto! Siamo sempre lì... E se vedeste il bugigattolo dove stanno!... Basta, signore, via, non ne parliamo più, il nostro pranzo è pronto, e solamente a pensare alla loro soffitta mi fa stomacare... Per fortuna, il signor Bras-Rouge ne sbarazzerà presto lo stabile... Quando dico per fortuna, non è per cattivo animo. Ma se hanno da essere infelici, quei Morel, e noi non ci possiamo far nulla, è meglio che siano infelici fuori di qui. È un crepacuore di meno." "Ma se sono cacciati di qua, dove andranno?" "Oh, non lo so, io!" "Quanto può guadagnare al giorno quel povero operaio?" "Se non fosse obbligato ad assistere la suocera, la moglie e i figli, arriverebbe a quattro o cinque franchi, perché è indefesso davvero; ma, siccome perde i tre quarti del tempo a far le faccende di casa, raggruzzola tutt'al più quaranta soldi." "Infatti è poco... Povera gente!" "Sì, povera gente!... Ben detto... Ma ce ne sono tanti dei miserabili, che non si può far niente, conviene consolarsi... Non è così, Alfred? Ma, a proposito di consolazione, e al rosolio non gli si dicono due parole?" "Sinceramente, signora Pipelet, quel che mi avete raccontato mi stringe il cuore: berrete voi alla mia salute con vostro marito." "Molto gentile, signore..." disse il portinaio. "Intanto desiderate vedere la camera?" "Volentieri, e se la stanza mi piacerà, vi darò la caparra." Il portinaio uscì dal suo antro. Rodolphe lo seguì. 11. I quattro piani. La scala umida e oscura pareva anche più buia in quella triste giornata d'inverno. L'ingresso di ciascuno degli appartamenti di quella casa offriva, per così dire, all'occhio dell'osservatore una fisionomia particolare. La porta dell'appartamento del Comandante era dipinta di fresco di un colore scuro, venato; un bottoncino di rame dorato luccicava alla serratura, e un bel cordone da campanello con la nappa di seta rossa contrastava con la vecchiezza e il sucidume delle pareti. L'uscio del secondo piano, abitato dall'indovina, che prestava su pegno, presentava un aspetto più singolare: un civettone impagliato, uccello simbolico e cabalistico, era inchiodato per le zampe e per le ali al disopra dell'intelaiatura; un finestrino con la grata di fil di ferro, permetteva di esaminare chi bussava, prima di aprire. La dimora del ciarlatano italiano, sospetto di esercitare un orribile mestiere, si distingueva per la bizzarria della entrata. Il suo nome si leggeva combinato con denti di cavallo incrostati sopra una specie di quadro nero di legno appeso alla porta. Il cordone del campanello, invece di terminare classicamente con una zampa di lepre o con un piede di capriolo, finiva in un avambraccio e una mano di scimmia mummificati. Quel braccio secco, quella piccola mano dalle cinque dita articolate con le falangi e terminanti in lunghe unghie, era assai disgustosa. L'avreste detta la mano di una bambina morta da tempo. Passando davanti a questa porticina di colore oscuro, pareva a Rodolphe di udire dei singhiozzi soffocati. E d'un tratto, un grido acuto, convulso, orribile, che sembrava si sprigionasse dalle viscere, rimbombò nel silenzio del caseggiato. Rodolphe ebbe un brivido. Con un moto più rapido del pensiero corse alla porta e suonò con violenza. "Che avete, signore?" gli domandò il portinaio attonito. "Quell'urlo..." disse. "Non lo avete sentito?" "Sì, signore: sarà qualche cliente, a cui il signor Cesare Bradamanti cava un dente... o forse due." La spiegazione aveva del verosimile, ma non soddisfece Rodolphe. Il grido terribile che aveva udito, gli era parso non solo un'esclamazione di dolore fisico, ma anche, se così si può dire, un grido di dolore morale. Egli aveva suonato con somma violenza. Da principio non gli fu risposto. Varie porte si schiusero una dopo l'altra; poi, da dietro il vetro di un finestrino situato vicino all'uscio, su cui Rodolphe fissava macchinalmente lo sguardo, vide apparire una figura scarna e di un pallore cadaverico, con una faccia schifosa, contornata da un bosco di capelli rossicci e in parte grigi, e terminante in una lunga barba dello stesso colore della capigliatura. La visione sparì in un attimo. Rodolphe era rimasto come pietrificato. Nel poco tempo che era durata quell'apparizione, aveva creduto di riconoscere certi tratti caratteristici di quell'uomo. Gli occhi verdastri e brillanti come l'alga marina, sotto grossi sopraccigli irti e rossicci, quel livido pallore, il naso sottile, lungo e ricurvo a becco d'aquila, e le cui narici, bizzarramente slargate e intagliate, lasciavano distinguere parte della mucosa interna, gli ricordavano quel Polidori, già maledetto da Murph nella sua conversazione con il barone di Graün. Benché Rodolphe non avesse più visto l'abate Polidori da sedici o diciassette anni, pure aveva mille ragioni per ricordarselo. Ma ciò che confondeva i suoi ricordi e lo faceva dubitare dell'identità di quei due individui, era che quello che pensava di riconoscere sotto la barba e capelli rossi del ciarlatano aveva la faccia molto bruna. E se Rodolphe (supponendo che i suoi sospetti fossero fondati) non si stupiva di ritrovare un uomo che era stato prete, e del quale gli erano noti il sommo criterio, la gran dottrina e lo spirito rarissimo, caduto a quel punto di degradazione e forse d'infamia, è perché non ignorava come in lui le doti e il sapere andavano congiunti a una profonda malvagità, ad una condotta sregolata, a tanta inclinazione per la crapula, e specialmente ad una così nera impostura, ad un disprezzo tanto fiero degli uomini e delle cose, che ormai, ridotto a meritata miseria, poteva, e quasi diremmo doveva, aver cercato di arrangiarsi nel modo più spregevole, ed anche provare una specie di soddisfazione ironica e sacrilega nell'esercitare, lui, veramente distinto per le doti dello spirito e rivestito di un sacro carattere, il vile mestiere di sfacciato saltimbanco. Ma, noi lo ripetiamo, quantunque Rodolphe avesse lasciato l'abate Polidori nel vigore degli anni, e questo dovesse avere l'età del ciarlatano, esistevano però tra le due persone differenze così notevoli, che Rodolphe non si persuadeva della loro identità. Tuttavia domandò a Pipelet: "È un pezzo che il signor Bradamanti abita in questa casa?" "Circa un anno signore. Sì, appunto, ci venne nel mese di gennaio... È un inquilino che paga puntualmente, mi ha guarito da un terribile reumatismo, ma come vi dicevo, ha il difetto di essere troppo sguaiato e di non rispettare niente nei suoi discorsi." "In che modo?" "In sostanza" precisò gravemente Pipelet "io non sono un santo... Ma tra scherzare e scherzare c'è di mezzo il mare!" "È dunque molto allegro?" "Non è che sia allegro; all'opposto, ha una faccia da morto... Ma non ride con la bocca, ride con le parole. Per lui non c'è padre, né madre, né Dio, né diavolo... Di tutto si burla, perfino della sua acqua per gli ammalati! Anche di quella! Ma, non ve lo nascondo, questi scherni a volte mi spaventano, mi danno come un brivido... Quando è stato un quarto d'ora a cicalare senza decenza nel nostro stanzino, sopra le donne dei diversi paesi selvaggi che ha girato e io mi ritrovo poi solo con Anastasie... Ebbene, signore, io, che da trentasette anni ho l'abitudine, mi sono fatto una legge, di amarla... Anastasie... Ecco, mi pare di volerle meno bene... Adesso riderete, ma anche qualche volta, quando il signor Cesare se n'è andato, dopo avermi descritto le orge dei principi che ha conosciuto in quei viaggi, ebbene, mi sembra che quel che io mangio sia amaro, e perdo l'appetito... Insomma, ho cara la mia professione, signore, e la tengo a onore. Avrei potuto esser calzolaio come tanti, ma credo rendermi egualmente utile rattoppando scarpe vecchie. E, guardate, signore, ci sono dei giorni che quel demonio del signor Cesare con le sue ciniche storie mi fa rammaricare di non essere fabbricante di stivali, parola d'onore! Poi, ha un modo di parlare delle donne che ha conosciuto... Ve lo ripeto, io non sono un santo, ma a sentirlo, accidenti!, divento rosso" aggiunse Pipelet, con molta indignazione. "E la vostra consorte soffre per queste cose?" "Anastasie va matta per quelli che hanno spirito, e il signor Cesare con tutte le sue manieracce ne ha molto, e per questo gli perdona tutto..." "Vostra moglie mi ha informato sulle voci che corrono..." "Ve le ha dette?" "State tranquillo, io so tacere." "Ebbene, signore, a queste voci io non ci credo, e non ci crederò mai. Anche se tuttavia non posso fare a meno di pensarci, e aumentano quell'effetto singolare che mi producono le storielle del signor Bradamanti... Animo, per dirvela schietta, sicuramente io detesto il signor Cabrion, è un odio quello, che porterò con me nella tomba... Eppure ci son dei momenti che quasi preferirei ancora le vilissime burle che quello aveva la sfacciataggine di fare nel caseggiato, piuttosto che le storie che racconta il signor Cesare, così a muso duro, stringendo le labbra con un brutto movimento che mi ricorda sempre l'agonia di mio zio Brousselot, che nel suo ultimo rantolo stringeva le labbra per l'appunto come il signor Bradamanti." Alcune parole di Pipelet sulla continua ironia con cui il ciarlatano parlava di tutto e di tutti, e che avviliva le più innocenti storielle, confermavano i primi sospetti di Rodolphe: anche l'abate Polidori quando deponeva la maschera dell'ipocrisia, ostentava il più audace e disgustoso scetticismo. Ben deciso a chiarire i propri dubbi e avvertendo che la presenza di quel prete in quel caseggiato poteva essergli d'ostacolo, e sentendosi più disposto a interpretare sinistramente l'urlo terribile che prima aveva udito, Rodolphe seguì il portinaio al piano superiore, dove era la camera che intendeva prendere in affitto. Vicino a questa, l'abitazione della Rigolette era facile a riconoscersi, per un tratto di galanteria del pittore nemico mortale di Pipelet. Una mezza dozzina di Amorini, paffutelli, dipinti con il gusto di Watteau, stavano in gruppo attorno a una sorta di targa, e allegoricamente portavano, uno un ditale, l'altro le forbici, uno il ferro da stiro, l'altro un piccolo specchio eccetera, e in mezzo alla targa, su un fondo bell'azzurro chiaro, si leggeva in lettere color rosa: RIGOLETTE, SARTA il tutto contornato da una ghirlanda di fiori che si distaccava a meraviglia sul fondo verdeazzurro della porta. E la porta era piccola e bella, e formava perciò un gran contrasto con la bruttezza della scala. A rischio d'inasprire le sanguinose piaghe di Alfred, Rodolphe gli disse, indicando la porta di Rigolette: "Questo sarà senza dubbio lavoro del signor Cabrion?" "Sì, signore, si è arrogato il diritto di rovinare la tinta di questa porta con quegli indecenti scarabocchi di bimbetti nudi, che chiama Amorini. Se non fossi stato pregato e ripregato dalla signora Rigolette, e se il signor BrasRouge non fosse stato tanto debole, io avrei raschiato ogni cosa, come anche la tavolozza con cui quel mostro ha rovinato l'uscio della vostra stanza. Infatti una tavolozza di vari colori, che pareva appesa ad un chiodo, era dipinta sulla porta con tale maestria che sembrava vera e veniva voglia di staccarla. Rodolphe seguì il portinaio nella camera, assai spaziosa, preceduta da un salottino, e rischiarata da due finestre che davano sulla rue du Temple. Alcuni fantastici sbozzi fatti sul secondo uscio da Cabrion, erano stati rispettati scrupolosamente da Germain. Rodolphe aveva troppi motivi di voler abitare nel caseggiato per non confermare subito l'alloggio; sicché, dando quaranta soldi al portinaio, gli disse: "La stanza mi va bene. Eccovi la caparra. Domani manderò qualche mobile... Non sarà necessario, penso, che io parli all'amministratore, al signor BrasRouge?" "No, no... Viene qui di rado, non per altro, che per gli imbrogli della Burette... Tutti trattano direttamente con me. Soltanto vi domanderò il vostro nome." "Rodolphe." "Rodolphe... che?" "Rodolphe solamente, signor Pipelet." "Ah, allora va bene... Non insistevo mica per curiosità: i nomi e la volontà sono liberi." "Ditemi, signor Pipelet: domani, come nuovo vicino, non potrei andare a domandare ai Morel se posso aiutarli in qualcosa, giacché il mio predecessore signor Germain li aiutava a seconda dei suoi mezzi?" "Sicuro, signore, potete benissimo! È vero che servirà a poco, poiché saranno cacciati via, ma lo gradiranno." Come colpito da un'idea improvvisa, Pipelet esclamò, guardando Rodolphe malizioso: "Capisco, capisco! È un buon principio, per finire poi da buon vicino della signorina accanto." "Signora o signorina, questa Rigolette?" "Signorina, signorina, anche se mia moglie dice sempre signora..." "Bene, bene... Allora ci conto." "In questo state tranquillo, è l'usanza. E in più sono certo che la Rigolette avendo inteso che si visitava la stanza, starà a sbirciare per vederci scendere. Voglio far rumore apposta nel girare la chiave, e voi state attento passando sul pianerottolo." Infatti Rodolphe si accorse che la porticina graziosamente adorna di Amorini di Watteau era appena socchiusa, e dalla stretta apertura distinse la punta di un bel nasino, e un occhio nero, vivace e curioso; ma siccome egli rallentava il passo, fu serrata bruscamente la porta. "Ve lo dicevo, che era in attesa!" disse Pipelet, e poi soggiunse: "Scusate, signore!... Io vado al mio piccolo osservatorio". "Che cos'è mai?" "In cima a questa scala di legno c'è il pianerottolo dov'è la soffitta dei Morel; dietro a un soppalco si trova una specie di buco oscurissimo dove io ripongo le ciabatte vecchie; siccome il muro è tutto guasto e screpolato, quando sono là dentro vedo in casa loro, e li sento come se ci fossi... Non è che voglia far loro la spia... Giusto cielo! Ma vado a guardare, come si va a un melodramma molto triste; e scendendo di là nel mio stanzino, mi pare d'essere in un palazzo... Ma venite, dunque, signore, se vi regge il cuore, prima che se ne vadano... È cosa spiacevole, ma curiosa: quando vedono qualcuno diventano come selvaggi, perché sono in soggezione..." "Avete troppa bontà, signor Pipelet... Un altro giorno, forse domani, approfitterò della vostra offerta..." "A vostro comodo, signore, io però debbo salire al mio osservatorio, perché ho bisogno di un pezzo di cuoio. Se intanto volete scendere, vi raggiungerò subito." Pipelet cominciò, sulla scala che conduceva alla soffitta, una salita molto faticosa per un uomo dell'età sua. Rodolphe dava un'ultima occhiata alla porta della Rigolette, pensando che questa giovane, ex compagna della sventurata Goualeuse, sapeva senza dubbio dove abitava il figlio del Maître, allorché udì, dal piano di sotto, uscire qualcuno dalla casa del ciarlatano, e riconobbe il passo leggero di una donna e lo stropiccio di una veste di seta. Si fermò un istante per prudenza. Quando non sentì più niente, discese. Arrivato al secondo piano, vide e raccolse da terra un fazzolettino sugli ultimi gradini; di certo apparteneva alla persona uscita dalle stanze del ciarlatano. Rodolphe si accostò a una delle strette finestre che davano luce alla scala, ed esaminò la pezzuola, magnificamente ricamata, e che portava in un angolo una L ed una N, sormontate da una corona ducale. Il fazzoletto era letteralmente inzuppato di lacrime. Prima idea di Rodolphe fu di affrettarsi per rendere il fazzolettino alla donna che lo aveva perduto; ma rifletté che forse, nell'attuale circostanza, la sua premura sarebbe stata attribuita a una disdicevole curiosità; perciò lo mise in tasca, trovandosi così senza volere intricato in una misteriosa e sicuramente tristissima avventura. Giunto dalla portinaia le disse: "Non è scesa adesso una donna?" "Sì, signore. Era una bella signora, alta e magra, e con il velo nero. È andata dal signor Cesare. Il piccolo Tortillard era stato a cercare una carrozza, e lei c'è salita di corsa... Quel che mi sorprende è che quel monellaccio si è appeso dietro alla carrozza. Ma suppongo, per sapere dove vada la signora, perché è curioso quanto una gazza, e lesto più d'un folletto, benché abbia il piede zoppo." Rodolphe pensò tra sé: "Il nome e l'indirizzo di lei interesseranno al ciarlatano, se ha ordinato a Tortillard di seguire la sconosciuta". "Ebbene, signore, la camera fa per voi?" domando la Pipelet. "Perfettamente: la piglio, e domani manderò la mia mobilia." "Dio vi benedica, signore, di essere passato davanti al nostro portone: avremo un buonissimo inquilino di più. Avete la faccia di un ottimo ragazzo; Pipelet vi vorrà subito bene. Lo farete ridere, come faceva il signor Germain, che aveva sempre pronta qualche facezia; perché, pover'uomo, non ha bisogno d'altro che di ridere un po'... Scommetto che prima di un mese sarete amiconi..." "Eh, signora Pipelet, voi mi adulate." "Niente affatto: quel che vi dico è come se vi aprissi tutto il mio cuore... E se siete gentile con Alfred, vi sarà riconoscente. Vedrete come vi metterò in ordine la casa! Io sono un leone per la pulizia. E se la domenica gradite pranzare in casa, vi cucinerò certa roba da leccarvi le dita." "Sta bene, farete voi. Domani vi porteranno i mobili, ed io verrò a badare alla loro sistemazione." Rodolphe se ne andò. I risultati della sua visita nella casa di rue du Temple erano rilevanti sia per lo scioglimento del mistero che voleva chiarire, sia per le nuove occasioni di far del bene e impedire il male. Tali erano questi risultati: Rigolette conosceva sicuramente il domicilio di François Germain, figlio del Maître. Una giovane che, secondo le apparenze, poteva essere disgraziatamente la marchesa d'Harville, aveva dato al Comandante per l'indomani un appuntamento che forse l'avrebbe rovinata per sempre. E per mille ragioni Rodolphe nutriva il maggior interesse per il signor d'Harville, di cui sembravano crudelmente compromessi l'onore ed il riposo. Un operaio onesto e laborioso, oppresso dalla più squallida miseria, sarebbe stato, con la sua famiglia, messo in mezzo alla strada per volontà di Bras-Rouge. Inoltre, Rodolphe, per caso, aveva scoperto qualche traccia di un raggiro, di cui il ciarlatano Cesare Bradamanti (forse l'abate Polidori), ed una donna che senza dubbio apparteneva al ceto più elevato, erano gli attori principali. In più, la Chouette, da poco tempo uscita dall'ospedale, dov'era entrata dopo l'avvenimento dell'allée des Veuves, aveva oscuri rapporti con la Burette, indovina e prestatrice di denaro su pegno, che occupava il secondo piano del caseggiato. Raccolti questi diversi dati, Rodolphe se ne tornò a casa in rue Plumet, differendo all'indomani la sua visita al notaio Jacques Ferrand. La sera, come sappiamo, doveva recarsi alla gran festa da ballo dell'ambasciatore di *. Prima di seguire il nostro eroe in quelle nuove escursioni, noi daremo un'occhiata retrospettiva su Tom e Sarah, personaggi importanti nella nostra storia. 12. Tom e Sarah. Sarah Seyton, allora vedova del conte Mac-Gregor, e in età di trentasette trentotto anni, era di un'ottima famiglia scozzese, figlia di un baronetto di campagna. Di perfetta bellezza, orfana a diciassette anni, aveva abbandonato la Scozia con il fratello Tom Seyton di Halsbury. Le assurde predizioni di una vecchia balia avevano esaltato quasi sino alla follia i due vizi capitali di Sarah, l'orgoglio e l'ambizione, presagendole, con estrema convinzione e pertinacia, il più alto destino, diciamolo pure, un destino sovrano! La giovane scozzese aveva creduto alle predizioni della nutrice, e per confermare le vane speranze diceva fra sé di continuo: era pure una zingara quella che promise una corona all'eccellente e bellissima creola che un giorno sedette sul trono di Francia, e fu regina per bontà e per grazia, come tante altre lo sono per grandezza e maestà! Cosa strana! Tom Seyton, non meno superstizioso di Sarah, la incoraggiava nelle sue stolte lusinghe ed aveva deciso di consacrare la propria vita alla realizzazione del sogno di Sarah, quel sogno privo di buonsenso, ma pieno di seduzione. Però il fratello e la sorella non erano tanto ciechi da credere fatale il presagio della nutrice, e da mirare ad un trono di prim'ordine, con sprezzo di reami secondari e di principi regnanti. No! Purché la leggiadra scozzese cingesse un giorno la fronte imperiosa con una corona, l'orgogliosa coppia avrebbe chiuso alquanto gli occhi sulla maggiore o minore importanza del regno, sulla grande o piccola estensione dei suoi domini. Col soccorso dell'"Almanacco di Gotha" per l'anno di grazia 1819, Tom Seyton, nell'atto di abbandonare la Scozia, compilò una specie di quadro sinottico in ordine d'età di tutti i re e delle altezze sovrane di Europa allora non ancora sposati. Benché assurda, l'ambizione di Tom e Sarah rifuggiva però da metodi illeciti o privi di scrupoli. Tom doveva aiutare la sorella soltanto a tendere una trappola coniugale in cui lei si proponeva di catturare un principe qualsiasi. Avrebbe preso parte a tutte le astuzie ed agli intrighi che potevano far pervenire la sorella ad un tale risultato; ma avrebbe ucciso la sorella piuttosto che vederla amante di un sovrano, nella certezza di un matrimonio riparatore. L'inventario che si compilò dietro le indagini fatte sull'"Almanacco di Gotha" fu assai soddisfacente. La Confederazione Germanica somministrava un numero contingente di giovani principi, eredi presunti. Sarah era protestante. Tom non ignorava la facilità degli sposalizi tedeschi volgarmente detti "con la mano sinistra" a cui si sarebbe in ultima ipotesi rassegnato per Sarah. Deliberarono pertanto di andare prima di tutto in Germania a cominciare la caccia. Se il progetto sembra assurdo, e le loro vedute paiono pazze, noi risponderemo che un'ambizione sfrenata, fomentata inoltre da una credenza superstiziosa, rare volte si picca di esser ragionevole nei suoi divisamenti, e anzi propende sempre all'impossibile. Tuttavia, richiamando certi fatti contemporanei, dopo augusti e rispettabili matrimoni morganatici tra sovrani e sudditi, fino all'amorosa odissea di miss Penelope e del principe di Capua, non si può rifiutare qualche probabilità di felice successo alla immaginazione di Tom e di Sarah. E aggiungeremo che la superba scozzese univa a una portentosa bellezza, le più idonee disposizioni ai piaceri carnali, e una forza di seduzione tanto più pericolosa, in quanto all'animo arido e duro, allo spirito accorto e maligno, alla profonda dissimulazione, al carattere ostinato e assoluto, accompagnava tutte le apparenze di un'indole generosa, ardente e appassionata. Nel fisico, la sua persona mentiva così perfidamente, come nel morale. Gli occhi grandi e neri, ora fulgidi ora languidi sotto le sopracciglia d'ebano, sapevano fingere il fuoco, lussureggiare di voluttà: eppure le calde aspirazioni dell'amore non dovevano mai infiammare il suo gelido petto, nessuna dolcezza del cuore o dei sensi doveva scomporre i calcoli tranquilli e freddi di questa femmina scaltra ed egoista. Arrivata sul continente, Sarah, dietro i consigli del fratello, non volle dare inizio alle sue tresche prima di aver fatto un soggiorno a Parigi, dove desiderava affinare la sua educazione, o addolcire la sua rigidezza britannica, con la frequentazione di persone eleganti, colte e aristocratiche. Sarah fu introdotta nella società più elevata grazie ad alcune lettere di raccomandazione, e mediante il benevolo patrocinio dell'ambasciatrice d'Inghilterra e del vecchio marchese d'Harville, che in Inghilterra aveva conosciuto suo padre. Le persone finte, fredde e riflessive assumono con straordinaria prontezza il linguaggio ed i modi più opposti al loro carattere; in esse tutto è esterno, superficie, apparenza, vernice, corteccia: appena si penetra più addentro, subito le si capisce per ciò che sono e loro si sentono perdute: quindi l'istinto di conservazione di cui sono dotate le rende pronte all'ipocrisia morale; esse si camuffano, e mutano costumi, con la prontezza e l'abilità di un esperto commediante. Per cui dopo sei mesi di permanenza nella capitale di Francia, Sarah avrebbe potuto gareggiare con la parigina più parigina per leggiadria, per graziosissimo brio, per una certa civetteria di buon gusto, e per la simulata ingenuità nello sguardo, provocatore a un tempo e appassionato. Tom, quando credette la sorella armata a sufficienza, partì con lei per la Germania, munito di ottime presentazioni. Il primo Stato della Confederazione Germanica che appariva segnato nel loro itinerario era il granducato di Gerolstein, indicato nel diplomatico ed infallibile "Almanacco di Gotha", per l'anno 1819, come segue: GENEALOGIA DEI SOVRANI D'EUROPA E DELLE LORO FAMIGLIE GEROLSTEIN "Granduca MASSIMILIANO RODOLFO, nato il 20 dicembre 1764, succeduto a suo padre CARLO FEDERICO RODOLFO, il 21 aprile 1785. Vedovo, gennaio 1808, di LUIGIA, figliola del principe GIOVANNI AUGUSTO Dl BURGLEN. Figlio: GUSTAVO RODOLFO, nato il 17 aprile 1803. Madre: Granduchessa GIUDITTA, vedova del granduca CARLO FEDERICO RODOLFO, il 21 aprile 1785." Non solo Tom, con grande avvedutezza, aveva iscritto in primo luogo sulla sua lista le case in cui esistevano principi più giovani, pensando che questi assai più degli uomini in età matura sono facili da sedurre, ma, come già abbiamo detto, lui e Sarah erano stati particolarmente raccomandati al Sovrano di Gerolstein dal vecchio d'Harville, infatuato, al pari di ogni altro, di Sarah, della quale non finiva di lodare la bellezza, il garbo e l'indole piacevolissima. Rodolfo, l'erede presunto della corona, aveva appena diciotto anni, allorché i due scozzesi vennero presentati a suo padre. L'arrivo della giovane straniera fu un grande avvenimento in quella piccola Corte, quieta, semplice, seria, e per così dire patriarcale. L'ottimo Granduca governava i suoi Stati con saggia fermezza e paterna bontà: nulla di più materialmente e moralmente felice di quel principato. La popolazione, industriosa, grave, sobria, contenta, devota, offriva il tipo ideale del carattere tedesco. Quelle brave genti godevano di una sorte felice, ed erano così soddisfatte della loro condizione, che il sovrano non aveva dovuto fare gran fatica per preservarle dalla mania delle innovazioni costituzionali. Per quanto concerneva le moderne scoperte, le idee pratiche che potevano avere una giovevole influenza sul benessere e la morale del popolo, il Granduca se ne andava informando, e le applicava incessantemente, non avendo altro incarico i ministri residenti presso le varie potenze d'Europa, che di tenerlo regolarmente informato dei progressi delle scienze sotto il punto di vista della utilità pubblica e pratica. Noi l'abbiamo detto, il Granduca provava tanto affetto quanta gratitudine per il vecchio marchese d'Harville, che nel 1815 gli aveva reso inestimabili servizi; per cui, raccomandati da quest'ultimo, Tom e Sarah Seyton di Halsbury furono accolti alla Corte di Gerolstein con particolare benevolenza e distinzione. Quindici giorni dopo l'arrivo, Sarah, dotata di notevole intuito, aveva agevolmente capito la fermezza, la schiettezza, la lealtà del Granduca. Prima di sedurne il figlio, cosa che reputava certa, aveva voluto cautamente assicurarsi della disponibilità del genitore, che dimostrava di amare così profondamente Rodolfo, che Sarah per un momento lo giudicò capace di accettare un parentado di rango inferiore, piuttosto che fare l'infelicità del figlio. Ma la scozzese non tardò a convincersi che quel padre, anche se tenero, non avrebbe mai derogato dalle tradizioni, da certe idee, e dai doveri dei principi. Non già che ci fosse in lui un eccesso di orgoglio, ma coscienza, ragione e dignità. E un uomo di quella tempra, così energica, tanto più buono ed affettuoso quanto più forte e risoluto, nulla avrebbe ceduto in ciò che urta la coscienza, la ragione, la dignità. Sarah si trovò a dover rinunciare all'impresa, in vista di quegli ostacoli quasi insuperabili; ma riflettendo d'altra parte che Rodolfo era giovanissimo, che tutti vantavano la dolcezza, la bontà e l'indole qualche volta timida e distratta, lo credette debole, e persistette nel suo progetto e nelle sue speranze. In quest'occasione la sua condotta e quella di Tom furono un capolavoro di abilità. La giovane seppe conciliarsi tutti gli animi, e specialmente le persone che avrebbero potuto esser gelose o invidiose dei suoi pregi; fece dimenticare la bellezza e le grazie di cui era adorna, mediante la modestia e la semplicità con cui le rese irresistibili. In breve diventò l'idolo non solo del Granduca, ma anche di sua madre la Granduchessa vedova, che, malgrado o a motivo dei suoi novant'anni, amava oltremodo le persone giovani ed avvenenti. Parecchie volte Tom e Sarah parlarono della loro partenza. Il sovrano non volle mai consentirvi, e per vincolare più saldamente il fratello e la sorella presso di sé, pregò il baronetto Tom Seyton di Halsbury d'accettare la carica vacante di primo scudiero e supplicò miss Sarah di non abbandonare la granduchessa Giuditta, che non poteva più stare senza di lei. Dopo una ostentata titubanza, contrastata dalle insistenze di tutti, Tom e Sarah aderirono a quelle brillanti proposte e si stabilirono alla Corte di Gerolstein, dov'erano giunti da circa due mesi. Sarah, eccellente filarmonica, indovinando l'amore della Granduchessa per i vecchi musicisti, e fra gli altri per Gluck, fece eseguire le opere di quell'illustre maestro, e incantò la principessa con la sua disponibilità e la valentia non comune con cui cantava quelle arie antiche, di bellezza semplice ed espressiva. Tom, da parte sua, seppe rendersi utilissimo nell'incarico affidatogli dal Granduca. Lo scozzese era un perfetto conoscitore di cavalli, aveva molta consuetudine ed esperienza in quel lavoro, e in poco tempo trasformò quasi del tutto il servizio delle scuderie del sovrano, prima disorganizzato dalla negligenza di chi lo sorvegliava. Ben presto fratello e sorella furono a Corte amati, festeggiati e benvoluti da tutti. La preferenza del padrone sollecitava le preferenze dei sottoposti. D'altronde Sarah, per i suoi piani futuri, aveva bisogno di tanti punti d'appoggio, che non poteva tralasciare alcun mezzo per procacciarsi dei partigiani. La sua ipocrisia, rivestita delle più vaghe forme, ingannò la maggior parte di quelle franche e ingenue persone, e l'affezione generale si aggiunse a quella del Granduca. Ecco dunque la nostra coppia alla Corte di Gerolstein, bene ed onoratamente installata, senza che ancora si sia fatta menzione di Rodolfo. Per un fortunato caso, pochi giorni dopo l'arrivo di Sarah, era partito per una ispezione alle truppe, con un suo aiutante di campo ed il fedele Murph. Questa assenza, doppiamente propizia alle mire di Sarah, le permise di disporre a suo agio i principali fili della trama che tesseva, senza che punto la disturbasse la presenza del giovane principe, la cui ammirazione troppo marcata avrebbe forse destato i sospetti del Granduca, che infatti, essendo assente il figlio, non pensò di aver accolto troppo leggermente una donna di rara bellezza e di bello spirito, che in seguito si sarebbe trovata in troppa intimità con Rodolfo a ogni ora del giorno. Sarah rimase insensibile alla cortese e generosa accoglienza, ed alla nobile fiducia con cui era introdotta in seno alla famiglia sovrana. Né lei né Tom si scostarono un solo momento dai loro sinistri proponimenti. Erano venuti con puntiglio e malizia a provocare scompiglio ed affanni in quella Corte tranquilla e felice, e calcolavano con freddezza i probabili risultati delle crudeli lacerazioni che avrebbero dilaniato un padre e un figlio sino allora uniti teneramente. 13. Sir Walter Murph e l'abate Polidori. Rodolfo, nella sua infanzia, era di struttura gracilissima. Suo padre fece fra sé questo ragionamento, bizzarro all'apparenza, ed in fondo assai sensato: "I gentiluomini campagnoli d'Inghilterra sono generalmente notabili per una robusta salute. Tale vantaggio dipende in gran parte dalla loro educazione fisica, che semplice, rozza, agreste, sviluppa in loro il vigore. Rodolfo viene troppo educato dalle donne, è di temperamento delicato: forse avvezzandolo a vivere al modo di un fattore inglese (salvo qualche riguardo), fortificherò la sua costituzione." Con questo proposito il Granduca fece ricercare in Inghilterra un uomo degno e capace di dirigere quella sorta di educazione fisica: Sir Walter Murph, modello atletico del gentiluomo di campagna dello Yorkshire, fu incaricato di una cura così importante. Il sistema che tenne con il giovane principe corrispose appieno alle vedute del Granduca. Murph ed il suo allievo stettero per vari anni in una bella fattoria, posta fra campi e boschi, a poche leghe di distanza dalla città di Gerolstein, nella situazione più pittoresca e salubre che mai. Rodolfo, libero da qualunque etichetta, accudendo con Murph ai lavori di agricoltura adatti alla sua età, condusse la vita sobria, maschile e regolata dei campi, avendo, per distrazioni e divertimenti, esercizi violenti, la lotta, il pugilato, le corse a cavallo e la caccia. Parve che in mezzo all'aria pura dei prati, dei boschi e dei monti il giovane principe potesse trasformarsi: crebbe vigoroso come una giovane quercia; al suo pallore alquanto malaticcio subentrarono i bei colori della piena salute; benché sempre snello nella persona, resistette alle più dure fatiche; la destrezza, l'energia ed il coraggio supplendo a quel che gli mancava di forza muscolare, presto poté gareggiare con vantaggio con individui alquanto maggiori di età. Aveva ormai quindici o sedici anni. La sua educazione scientifica subiva necessariamente le conseguenze della preferenza accordata a quella fisica: Rodolfo sapeva poco. Ma il Granduca pensava saggiamente, che per ottener molto dallo spirito è d'uopo che questo sia sostenuto da un forte vigore fisico. Il buon Walter Murph non era dotto, e non poté dare a Rodolfo se non alcune cognizioni primarie. Nessuno meglio di lui però poteva inspirargli il sentimento di ciò che era giusto, leale, e generoso, e l'orrore di ciò che fosse meschino, abbietto e vile. Quegli odi e quelle ammirazioni energici e salutari si radicarono per sempre nell'anima di Rodolfo; più tardi siffatti principi ricevettero terribili scosse dalle procelle delle passioni, ma non furono mai divelti dal suo cuore. Il fulmine colpisce, solca e schianta un albero, piantato saldo e profondamente, ma il succo ribolle nelle sue radici, e mille verdi rami ricrescono dal ceppo che credevate inaridito. Murph diede dunque a Rodolfo, se ci è lecito dirlo, la salute del corpo e quella dell'anima: lo rese robusto, agile e audace, pronto a quel che era buono e bene, restio a tutto quanto fosse male e malvagio. Compiuto così mirabilmente il suo incarico lo "squire", richiamato in Inghilterra da gravi interessi, abbandonò la Germania per qualche tempo, con sommo rincrescimento del giovane che teneramente lo amava. Murph doveva ritornare definitivamente in Gerolstein con la sua famiglia, quando avesse terminati alcuni affari per lui importantissimi, e sperava non dover rimanere assente più di un anno. Il Granduca, tranquillo per la salute del figlio, pensò seriamente alla sua istruzione. Un certo abate Cesare Polidori, rinomato filologo, medico distintissimo, storiografo erudito, dotto nelle scienze esatte e fisiche, fu incaricato di fecondare il suolo, ricco, ma vergine, tanto ben predisposto da Murph. E questa volta fu disgraziatissima la scelta del Granduca; la sua religione fu crudelmente ingannata dalla persona che gli presentò l'abate, e l'indusse ad accettare un prete cattolico per istitutore d'un principe protestante. Quell'innovazione parve a molti un'enormità, e generalmente di funesto presagio per l'educazione di Rodolfo. Ed il caso, o piuttosto l'indole perversa dell'abate, avverarono in parte il triste presagio. Empio, scaltro, ipocrita, sprezzatore sacrilego di quanto c'è di più sacro fra gli uomini, pieno d'arte e di astuzia, dissimulando la più perniciosa immoralità, il più orribile scetticismo, sotto apparenza di austerità e devozione, ostentando una falsa umiltà cristiana per occultare la viltà con la quale cercava insinuarsi, così come affettava grande benevolenza e un candido ottimismo per nascondere la perfidia della sua adulazione interessata; conoscendo profondamente gli uomini, o, per dir meglio, non avendo di essi sperimentato che la parte debole e maligna e le vituperose passioni, l'abate Polidori era il peggior mentore che si potesse dare a un ragazzo. Rodolfo, abbandonata con sommo rammarico la vita indipendente ed attiva, condotta sino allora con Murph, per andare a dannarsi sui libri e sottoporsi alle usanze cerimoniose della Corte di suo padre, prese subito in avversione il Polidori. E così doveva essere. Il povero "squire", nel lasciare il suo allievo lo aveva paragonato, non senza ragione, ad un puledro selvaggio, pieno di grazia e di fuoco, che si togliesse ai bei prati, dove libero e allegro capriolava, per sottometterlo al freno ed allo sprone, ed insegnargli a moderare e ad impiegare proficuamente le forze, adoperate fino allora a correre e saltellare a suo capriccio. Rodolfo incominciò con il dichiarare al precettore che non sentiva vocazione alcuna per lo studio; che aveva bisogno, più che d'altro, di esercitare le braccia e le gambe, di respirare l'aria dei campi, di aggirarsi fra i boschi e le montagne; e che un buon fucile ed un ottimo cavallo gli sembravano preferibili ai più bei libri del mondo. Il prete replicò all'alunno non esservi infatti cosa più fastidiosa dello studio, ma che troppo rozzi e grossolani erano quei piaceri di cui parlava, degni soltanto di uno stupido fattore tedesco. L'abate fece un quadro così buffonesco, così ridicolo di quella vita semplice e campestre, che per la prima volta Rodolfo si vergognò di essersi reputato felice, e ingenuamente si domandò in che modo si potesse passare il tempo, allorché non si aveva alcun genio né per lo studio, né per la caccia, né per la vita libera dei campi. E l'abate gli rispose misteriosamente che in seguito ne sarebbe stato informato. Bisogna dire che, sebbene sotto altro rapporto, le speranze di quel prete non erano meno ambiziose di quelle di Sarah. Quantunque il Granducato di Gerolstein fosse uno Stato di second'ordine, pure l'abate si era immaginato di diventarne un giorno il Richelieu, e di preparare Rodolfo alla parte di principe incapace. Principiò dunque con l'assecondare il suo discepolo, a forza di compiacenze e d'ossequi, e portarlo pian piano a porre in oblio Murph. Siccome Rodolfo continuava ad esser contrario ad ogni applicazione allo studio, l'abate celava al Granduca quella malavoglia del giovane principe ad acquisire istruzione, anzi, vantò la sua indefessa assiduità ed i sorprendenti progressi; ed alcuni rapidi colloqui concertati anticipatamente fra lui e Rodolfo, ma che parvero improvvisati, mantennero il sovrano (uomo di poca cultura) nella sua fiducia e completa cecità. Gradatamente l'avversione che il prete aveva subito ispirato a Rodolfo si mutò in una familiarità, molto diversa però dal serio attaccamento che portava al buon Murph. E di mano in mano, Rodolfo si trovò legato all'abate (benché per cause innocentissime) da quella sorta di solidarietà che unisce insieme due complici. Egli doveva, presto o tardi, disprezzare un uomo del carattere e dell'età di quel precettore, che indegnamente mentiva per scusare l'infingardaggine del discepolo. Il prete lo sapeva. Ma non ignorava che chi non si allontana subito con disgusto dagli esseri corrotti si avvezza poi, suo malgrado, a poco a poco, al loro spirito, spesso seducente, ed insensibilmente giunge alla fine a udire, senza vergogna né indignazione, schernire e offendere ciò che prima adorava e venerava. D'altronde il prete era troppo accorto per prendere di petto certe nobili idee di Rodolfo, frutto dell'educazione datagli da Murph. Dopo avere a lungo celiato e motteggiato sulla rozzezza dei divertimenti che il suo allievo godeva negli anni infantili, deponeva per metà l'austera maschera, e fortemente risvegliava in lui la massima curiosità, mediante qualche piccola confidenza sulla vita deliziosa di alcuni principi dei tempi trascorsi; e quindi, cedendo alle insistenze di Rodolfo, e leggermente scherzando sopra la gravità cerimoniosa della Corte del Granduca, infiammava l'immaginazione del giovane con i racconti esagerati e pieni di calore dei piaceri e delle galanterie che avevano illustrato i regni di Luigi Quattordicesimo, del Reggente, e specialmente di Luigi Quindicesimo, l'eroe di Cesare Polidori. E asseriva al disgraziato suo allievo, che lo ascoltava con una avidità funesta, che le voluttà spinte all'eccesso, lungi dal guastare l'indole di un principe, lo rendevano spesso clemente e generoso, perché appunto le persone buone non sono mai tanto disposte alla benevolenza ed agli affetti più dolci, che quando si trovano in mezzo alle cose gioiose. Luigi Quindicesimo, il beneamato, era la prova innegabile di quanto affermava. "E poi" gli diceva l'abate "quanti grandi uomini dei tempi antichi e moderni furono dediti al più raffinato epicureismo! Da Alcibiade sino a Maurizio di Sassonia; da Antonio sino al gran Condé; da Cesare sino a Vendôme!" Tali colloqui dovevano produrre danni tremendi in un cuore giovanile, ardente e vergine. Ed inoltre Polidori traduceva con molta eloquenza al suo alunno le odi di Orazio, in cui quel raro ingegno esalta con modi così persuasivi le molli delizie di una vita tutta consacrata all'amore ed alle più squisite sensualità. Poi, tratto tratto, onde velare il pericolo di teorie simili, e assecondare quei germi d'innata generosità che esistevano nel carattere di Rodolfo, lo pasceva con le utopie più lusinghiere ed incantevoli. Gli diceva che un principe giudiziosamente voluttuoso, poteva migliorare i popoli mediante i piaceri, assuefarli alla morale rendendoli contenti, e condurre i più increduli al sentimento religioso esaltando la loro gratitudine verso il Creatore, che nell'ordine materiale colmava gli uomini di godimenti con una prodigalità veramente inesauribile. Godere di tutto e sempre, era, secondo quel prete, glorificare Dio nella magnificenza e nell'eternità dei suoi doni! Quelle teorie produssero i loro frutti. In mezzo a quella Corte regolata e virtuosa, abituata dall'esempio del padrone agli onesti piaceri ed alle innocenti distrazioni, Rodolfo, istruito dal Polidori, sognava già le folli nottate di Versailles, le orge di Choisy, le violente voluttà del Parc des Cerfs, e anche di quando in quando, per contrasto, qualche amore romanzesco. Il precettore non aveva mancato di fargli osservare che un principe della Confederazione Germanica non poteva avere altra ambizione militare, se non quella di mandare il suo contingente alla Dieta. Ed inoltre, lo spirito di quell'epoca non era più volto alla guerra. Trascorrere nelle delizie e nell'inerzia i suoi giorni fra il lusso e le donne, riposarsi quindi dall'ebbrezza dei sensuali diletti mediante qualche ricreazione attinta nelle belle arti, cercare qualche volta nella caccia, non da selvaggio Nemrod, ma da intelligente epicureo, quelle fatiche momentanee, che poi raddoppiano il pregio dell'indolenza e della pigrizia; tale era, secondo l'abate, l'unica vita possibile per un principe, il quale, per colmo di felicità, trovava un primo ministro capace di dedicarsi coraggiosamente alla grave e fastidiosa fatica degli affari dello Stato. Rodolfo, lasciandosi trascinare da supposizioni, in cui nulla vi era di colpevole, poiché non uscivano dal circolo delle probabilità, si proponeva, quando Dio avesse richiamato a sé il Granduca, di dedicarsi a quell'esistenza che l'abate gli dipingeva con colori tanto belli e vivaci, e prendere il precettore medesimo per suo primo ministro. Rodolfo, lo ripetiamo, amava teneramente suo padre, e lo avrebbe pianto sinceramente, anche se la sua morte gli avesse permesso di fare il Sardanapalo; ed è inutile dire che teneva profondamente segrete le sciagurate speranze che in lui fermentavano. Sapendo che gli eroi prediletti del Granduca erano Gustavo Adolfo, Carlo Dodicesimo ed il gran Federico (Massimiliano aveva l'onore di appartenere molto da vicino alla famiglia reale di Brandebourg) Rodolfo pensava con ragione che il sovrano di Gerolstein, che professava una somma ammirazione per quei recapitani sempre calzati di stivali e di sproni, cavalieri e guerrieri, avrebbe considerato suo figlio come perduto irrimediabilmente, qualora l'avesse stimato capace di voler sostituire nella sua Corte la tedesca gravità con i costumi disinvolti e licenziosi della Reggenza. Così passò un anno, passarono diciotto mesi, e Murph ancora non tornava, quantunque annunciasse prossimo il suo arrivo. Superata la prima ripugnanza per l'abate, Rodolfo approfittò dei suoi insegnamenti scientifici, ed acquistò, se non una estesa erudizione, almeno delle cognizioni superficiali, che, unite ad uno spirito naturale e sagace, gli permettevano di figurare come assai più istruito di quanto fosse, facendo in tal modo onore alle premure del suo precettore. Ritornò finalmente dall'Inghilterra il buon Murph, insieme con la sua famiglia, e pianse dall'allegrezza nell'abbracciare l'antico allievo. Dopo pochi giorni, senza poter capire il motivo di un cambiamento che lo affliggeva, il degno "squire" trovò Rodolfo verso di lui assai freddo ed imbarazzato, e scorse una qualche ironia nei suoi discorsi quando gli ricordava la vita fatta prima in comune fra le occupazioni e le ricreazioni della campagna. Certo della bontà di cuore del giovane principe, e avvertito da un interno presentimento, Murph giudicò che l'avesse guastato la perniciosa influenza del Polidori, che già istintivamente detestava, e che perciò si prefisse di sorvegliare con attenzione. Il precettore, dal canto suo, molto dolente del ritorno di Murph, del quale temeva la franchezza, il buon senso e la sagacia, non ebbe che un solo pensiero: quello di far decadere il gentiluomo nella stima di Rodolfo. Fu in tale epoca che Tom e Sarah vennero presentati ed accolti alla Corte di Gerolstein con grandi privilegi. Qualche tempo prima che giungessero, Rodolfo era partito con un aiutante di campo e con Murph per passare in rivista le truppe di alcune guarnigioni. Trattandosi di una parata militare, il Granduca aveva creduto conveniente di escluderne il Polidori, e questi, con estremo rincrescimento, vide Murph riassumere per qualche giorno le sue funzioni presso il principe ereditario. Lo "squire" contava su questa occasione per chiarire la causa della freddezza di Rodolfo. Disgraziatamente questi, già ammaestrato nell'arte di dissimulare, e supponendo che fosse pericoloso lasciar scoprire dal suo vecchio tutore i suoi progetti per l'avvenire, lo trattò con maniere cortesissime, e finse di serbare dolcissima memoria degli anni della sua prima giovinezza e degli esercizi campestri, quasi giungendo a tranquillizzarlo. Diciamo quasi, perché le persone affettuose e zelanti sono dotate di un istinto ammirabile, e, malgrado le dimostrazioni di amicizia di Rodolfo, Murph si accorse vagamente che c'era tuttavia qualcosa di poco pulito sotto le apparenze. Procurò di chiarire i suoi sospetti, ed ogni tentativo riuscì vano contro la dissimulazione veramente precoce di Rodolfo. Durante quel viaggio il prete non era stato inoperoso. Gli avventurieri si riconoscono fra loro da certi segni misteriosi, che permettono di osservarsi scambievolmente, fino a che l'interesse li decida ad un'alleanza o ad un'ostilità dichiarata. Pochi giorni dopo l'installamento di Sarah e di suo fratello alla Corte del Granduca, Tom era in stretta relazione con l'abate Polidori. Quest'ultimo conveniva, con odioso cinismo, di avere una propensione naturale, quasi involontaria, per gli ipocriti ed i malvagi, e quindi, diceva, senza indovinare precisamente lo scopo a cui tendevano i due scozzesi, che si era sentito attrarre verso di loro da una simpatia troppo forte, perché non avesse da supporli occupati in qualche diabolico disegno. Varie domande di Tom Seyton sopra il carattere e gli antecedenti di Rodolfo, che sarebbero state di nessuna importanza per un uomo meno all'erta del Polidori, illuminarono questo ad un tratto sopra le mire del fratello e della sorella; soltanto non credette probabile che la giovane scozzese avesse al tempo stesso delle vedute così oneste e così ambiziose. L'arrivo di quella leggiadra donna gli parve un colpo di fortuna. Rodolfo aveva la mente infiammata da amorose chimere; Sarah doveva essere la realtà incantatrice destinata a subentrare alle tante deliziose visioni; giacché egli rifletteva che prima di arrivare alla scelta dei divertimenti ed alla variazione dei piaceri, quasi sempre si comincia da un amore esclusivo e passionale. Luigi Quattordicesimo e Luigi Quindicesimo furono fedeli forse soltanto a Maria Mancini e a Rosetta d'Arcy. E così, secondo il Polidori, doveva accadere a Rodolfo e alla bella scozzese. Questa avrebbe avuto senza dubbio immensa influenza su un cuore sottomesso al potere irresistibile d'un primo amore: dirigere, coltivare quell'influsso, e valersene per perdere per sempre Murph, fu il piano a cui si applicò l'abate. Da uomo abile, fece perfettamente capire ai due ambiziosi che alla fine avrebbero dovuto fare i conti con lui, essendo lui solo responsabile presso il Granduca della vita privata del giovane principe. Né ciò bastava: occorreva, disse loro, stare in guardia contro il precedente maestro di Rodolfo, che proprio allora era andato con lui ad una parata militare: rozzo, zotico, duro, pieno di assurdi pregiudizi, aveva avuto in passato un grande ascendente su Rodolfo, e quindi poteva essere un antagonista pericoloso, che invece di scusare o tollerare le graziose follie di gioventù, si sarebbe sentito in dovere di denunciarle alla severa morale del vecchio sovrano. Tom e Sarah compresero tutto, benché non avessero rivelato al Polidori i loro occulti disegni. Al ritorno di Rodolfo e dello "squire", i tre ambiziosi, vincolati dal comune interesse, avevano tacitamente formato una lega contro Murph, loro terribile nemico. 14. Un primo amore. Accadde ciò che doveva accadere: Rodolfo, al suo ritorno, vedendo ogni giorno Sarah, se ne invaghì follemente. Lei in breve gli confessò che ricambiava il suo amore, benché questo, diceva, avrebbe causato ad entrambi gravissimi affanni. Non avrebbero potuto mai essere felici: li separava una distanza troppo grande. E pertanto gli raccomandava la massima prudenza per non far nascere sospetti nel Granduca, che, inesorabile, li avrebbe privati dell'unica felicità che potevano permettersi: quella, cioè, di vedersi tutti i giorni. Rodolfo promise di esser cauto e di tener nascosta la sua passione. La scozzese era troppo accorta e sicura di sé per compromettersi e tradirsi agli occhi della Corte. Il giovane comprendeva la necessità di dissimulare, e imitò il contegno di Sarah. Il segreto del loro amore restò per qualche tempo custodito benissimo. Quando fratello e sorella ritennero la passione sfrenata di Rodolfo giunta ormai al più alto grado, e la sua esaltazione, sempre crescente, troppo difficile da controllarsi, ogni giorno sul punto di palesarsi e quindi di far crollare i loro piani, vibrarono il gran colpo. Autorizzandoli il ruolo e l'ipocrisia del prete a confidenze sugli scopi morali dei loro progetti, Tom si rivolse a lui manifestandogli la necessità di un matrimonio fra Rodolfo e Sarah; altrimenti, aggiunse, lui e la sorella avrebbero abbandonato immediatamente Gerolstein. Sarah contraccambiava l'affetto del principe, ma preferiva la morte al disonore, e non poteva essere altro che moglie a Sua Altezza. Di tali pretese si stupì molto il precettore; non aveva creduto Sarah così audacemente ambiziosa. Quelle nozze, soggette a innumerevoli difficoltà e a pericoli d'ogni specie, gli parvero impossibili, ed egli riferì con franchezza a Tom le ragioni per cui il Granduca non avrebbe mai acconsentito a una simile unione. Tom ascoltò le ragioni addotte, ne riconobbe l'importanza, ma propose, come espediente, un matrimonio segreto, in piena regola, da dichiararsi soltanto dopo la morte del Granduca regnante. Sarah era di nobile e antico casato; ai progettati sponsali non mancavano i precedenti. Tom dava al precettore e, quindi, al principe, otto giorni per decidersi; la sorella non avrebbe sopportato oltre le angosce dell'incertezza: se doveva rinunciare a Rodolfo, avrebbe preso almeno una così dolorosa decisione il più presto possibile. Al fine di motivare la partenza repentina che a questa ipotesi avrebbe avuto luogo, Tom, per ogni evenienza, aveva diretto ad un suo amico in Inghilterra una missiva, in cui chiedeva di mandargli da Londra false lettere di sollecitazione con la scusa che gravi impegni richiamavano Tom e Sarah e li obbligavano a lasciare la Corte di Gerolstein. Questa volta l'abate, assistito dalla sua cattiva opinione degli uomini, indovinò la verità. Cercando sempre un secondo fine anche nei sentimenti più onesti, quando seppe che Sarah voleva legittimare l'amor suo mediante un matrimonio, vide in ciò una prova, non di virtù, ma di ambizione. Avrebbe creduto disinteressata la sua passione se lei avesse sacrificato il proprio onore a Rodolfo, come in principio lui credeva avesse fatto, quando supponeva avesse soltanto l'intenzione di essere l'amica del suo alunno. Secondo le massime del prete, sacrificare l'amore per obbedire al dovere non era amare. "Debole e freddo amore" esclamava "è quello che si preoccupa del cielo e della terra!" Sicuro di non ingannarsi sulle mire di Sarah, rimase dunque assai perplesso. In sostanza il desiderio espresso da Tom in nome della sorella, era dei più decorosi. Che chiedeva in fondo? O una separazione o un'unione legittima. Nonostante il suo cinismo, il Polidori non avrebbe osato mostrarsi sorpreso dei delicati motivi che sembrava suggerire la condotta di Tom, e dirgli in faccia che lui e Sarah avevano intrigato per condurre Rodolfo a nozze tanto sproporzionate. L'abate aveva tre partiti a cui appigliarsi: avvertire il Granduca della trama matrimoniale; aprire gli occhi a Rodolfo sugli intrighi di Tom e Sarah; e, infine, agevolare quel matrimonio. Ma avvertire il Granduca era lo stesso che alienarsi per sempre l'erede alla corona. Illuminare il principe sulle mire interessate di Sarah, equivaleva esporsi ad essere frainteso e forse a farsi un nemico, come succede quando si va da un innamorato a sprezzare la donna che ama; e poi che colpo tremendo per la vanità e per il cuore del giovanotto: dirgli che Sarah voleva sposare soprattutto la sua posizione di sovrano! E poi, infine, lui, prete, doveva forse biasimare il contegno di una zitella che bramava mantenersi pura, e non accordare che al marito i diritti di un amante? Al contrario, dando mano alle nozze, vincolava il principe e la moglie con un obbligo di profonda gratitudine, o perlomeno di complicità in una azione vergognosa e segreta. Certo poteva darsi che tutto fosse scoperto, ed allora lui si esponeva alla collera del Granduca: ma ormai il matrimonio sarebbe stato concluso, l'atto valido, la burrasca sarebbe passata, ed il futuro sovrano di Gerolstein si sarebbe sentito tanto più stretto da riconoscenza verso il precettore, in quanto questi si sarebbe esposto ai più gravi rischi per servirlo. Dopo mature riflessioni Polidori, dunque, si decise ad assecondare Sarah, pur con qualche riserva, di cui parleremo. La passione di Rodolfo era arrivata al suo acme; fortemente esasperata dalle ritrosie e dalle abili seduzioni della scozzese, che sembrava soffrisse anche più di lui degli ostacoli invincibili che l'onore ed il dovere opponevano alla loro felicità. Ancora pochi giorni e il giovane principe si sarebbe scoperto da sé. Era un primo amore, un amore ardente e ingenuo, fiducioso e focoso! Per eccitarlo Sarah aveva adoperato le risorse infernali della civetteria più raffinata. No, giammai le vergini emozioni di un giovane pieno di cuore, d'immaginazione e di fuoco, furono più a lungo e con più abilità stimolate; mai una donna fu più perniciosamente seducente di Sarah. Ora scherzosa ed ora malinconica, ora casta ed ora focosa, ora pudica ed ora provocatrice, lei, con i suoi grandi occhi neri, languidi e sfavillanti, accendeva nell'anima di Rodolfo una fiamma inestinguibile. Quando Rodolfo udì il precettore proporgli di non vedere mai più l'avvenente straniera, o di possederla per mezzo d'uno sposalizio segreto, gli saltò al collo, lo chiamò suo salvatore, suo amico, suo padre. Se il tempio ed il ministro fossero stati pronti, si sarebbe ammogliato sul momento. Polidori, per suoi motivi particolari, volle assumersi l'incarico. E trovò il ministro e i testimoni, e l'unione (alle cui formalità vegliava attentissimo Tom) fu occultamente celebrata, durante una breve assenza del Granduca, chiamato a una conferenza della Dieta. Le predizioni della montanara scozzese si realizzavano: Sarah sposava l'erede di una corona. Senza sopire il fuoco del suo amore, il possesso rese però Rodolfo più circospetto, e calmò gli impeti che avrebbero potuto compromettere il segreto del suo amore per Sarah. La giovane coppia protetta da Tom e dal prete, s'intese così bene, usò di tanta riservatezza nelle sue relazioni, che queste sfuggirono agli occhi di tutti. Nei primi tre mesi del suo matrimonio Rodolfo fu l'uomo più beato. Quando, succeduta la riflessione ai trasporti, contemplò a sangue freddo la sua posizione, non si pentì di essersi legato a Sarah con un nodo indissolubile, rinunciò senza rammarico alla vita galante, voluttuosa, effeminata che aveva sognato, e fece con la consorte i più bei progetti sul futuro regno. In quella lontana ipotesi la parte di primo ministro che il prete aveva destinato a sé diminuiva molto d'importanza: Sarah si riserbava quelle funzioni governative; troppo imperiosa per non ambire il potere e il dominio, sperava di regnare al posto di Rodolfo. Un avvenimento aspettato da Sarah con impazienza, convertì però la quiete in tempesta. Stava per diventare madre... Allora si manifestarono in questa donna esigenze del tutto nuove ed esecrabili per Rodolfo. Lei dichiarò, prorompendo in finte lacrime, che non poteva più sopportare la soggezione in cui viveva, e che il suo stato di gravidanza rendeva ancora più penosa. Proponeva quindi risolutamente a Rodolfo di confessare tutto al Granduca; sapendo che questo, come la vecchia granduchessa, si era sempre più affezionato a Sarah. "Senza dubbio" aggiungeva lei "si indignerà sul principio, andrà in collera, ma ama tanto il figlio, e ha per me tanta affezione che l'ira sua, a poco a poco, si placherà, e io prenderò alla fine nella Corte di Gerolstein quel rango che mi spetta, quasi diremmo, doppiamente, poiché sono prossima a dare un figlio all'erede presuntivo del sovrano." Queste pretese spaventarono Rodolfo: conosceva il grande affetto che gli portava il genitore, ma non gli era neppure ignota l'inflessibilità delle sue condizioni intorno ai doveri di un principe. A tutte le sue obiezioni Sarah spietatamente rispondeva: "Io sono vostra moglie davanti a Dio e agli uomini. Fra qualche mese non potrò più celare la mia gravidanza; non voglio più vergognarmi di una situazione di cui vado anzi superba, e di cui posso altamente gloriarmi." La paternità aveva accresciuto la tenerezza di Rodolfo per Sarah. Posto fra il desiderio di aderire ai suoi voti e il timore dello sdegno del padre, egli provava uno strazio terribile. Tom sosteneva la sorella. "Il matrimonio è indissolubile" diceva al suo serenissimo cognato. "Il Granduca può bandire dalla sua Corte voi e la vostra sposa, e niente più. Vi ama troppo per risolversi a una simile misura, e preferirà tollerare ciò che non ha potuto impedire." Questi ragionamenti, d'altronde molto giusti, non diminuivano le inquietudini di Rodolfo. Frattanto Tom fu incaricato dal Granduca di viaggiare in Austria per osservare varie razze di cavalli. Questa incombenza, che non poteva rifiutare, non lo avrebbe trattenuto fuori più di quindici giorni, ed egli partì con sommo dispiacere in un momento così decisivo per la sorella. Sarah fu al tempo stesso dolente e soddisfatta che il fratello si allontanasse: perdeva l'appoggio dei suoi consigli, ma nel caso che tutto si fosse scoperto, Tom sarebbe stato al sicuro dalla collera del Granduca. Sarah doveva informare Tom giorno per giorno dell'andamento di un affare così importante per ambedue. Per corrispondere con più cautela e segretezza, convennero uno speciale cifrario. E tale precauzione prova che Sarah aveva da scrivere anche di altre cose oltre che del suo amore per Rodolfo. Infatti, in questa donna egoista, fredda, ambiziosa, non si era sciolto il ghiaccio del cuore, nonostante l'incendio acceso nel petto del consorte. Per lei la maternità fu soltanto un mezzo di più per agire su Rodolfo, ma non intenerì l'anima sua di bronzo. La giovinezza, la folle passione, l'inesperienza del principe, quasi un ragazzo, e così perfidamente impaniato in quella scabrosa situazione, non le ispiravano nemmeno pietà. Nelle sue intime confidenze dirette a Tom si lagnava con amaro sdegno della debolezza di quel ragazzo, che tremava davanti al più paterno fra tutti i principi tedeschi. E arrivava persino a scrivere che quel padre aveva una vita troppo lunga! Insomma, il carteggio tra fratello e sorella svelava chiaramente l'egoismo, la cupidigia, i calcoli, l'ambizione, l'impazienza poco meno che omicida di regnare, e metteva in piena luce tutti i fili della trama tenebrosa attorno al matrimonio di Rodolfo. Pochi giorni dopo la partenza di Tom, Sarah era intenta ad un colloquio con la vecchia Granduchessa. Parecchie signore la guardavano meravigliate e bisbigliavano fra loro. La granduchessa Giuditta, malgrado i suoi novant'anni, aveva le orecchie fini e la vista buona; si accorse di qualche cosa, fece cenno ad una delle dame del suo servizio di avvicinarsi, e così le fu riferito che madamigella Sarah Seyton di Halsbury sembrava alquanto ingrossata e appesantita, o almeno meno snella e disinvolta del solito. La vecchia principessa adorava la sua protetta, e si sarebbe fatta garante in faccia a Dio della sua virtù. Sdegnata dalla malignità di tali osservazioni, si strinse nelle spalle, e dal fondo della sala dove stava, disse ad alta voce. "Ascoltate una parola, mia cara Sarah!" Sarah si alzò. Le fu necessario attraversare quel cerchio di dame per arrivare sino alla principessa, che appunto per benevolenza immaginava, facendola passare in mezzo ad esse, di confondere le calunniatrici e provare luminosamente che la bella scozzese non aveva perduto la grazia e la sveltezza di prima. Ahimè, la nemica più perfida non avrebbe inventato di peggio nel desiderio di difendere Sarah! Occorse tutto il rispetto che si aveva per l'eccellente principessa, perché si frenasse un mormorio di sorpresa e d'indignazione quando la giovane attraversava la sala. Le persone meno chiaroveggenti si accorsero di ciò che Sarah non voleva più nascondere... Giacché, bisogna dirlo, lei avrebbe potuto occultare il proprio strato, ma aveva procurato apposta quella rivelazione pubblica, al solo scopo di forzare Rodolfo a dichiarare il suo matrimonio. La Granduchessa, però, non cedendo ancora all'evidenza, disse piano a Sarah: "Mia cara, siete vestita pur male! Voi che avete una vita da stringere con due dita, oggi sembrate tutt'altra..." Noi riferiremo in seguito le conseguenze di questa scoperta, che causò grandi e terribili avvenimenti, ma fin da ora diremo ciò che il lettore ha senza dubbio già indovinato, cioè che la Goualeuse, Fleur-de-Marie, era il frutto di quella malaugurata unione, era la figlia di Rodolfo e di Sarah, e che entrambi la credevano morta. Intanto non dimentichiamo che Rodolfo, dopo aver visitato il caseggiato di rue du Temple, se n'era tornato a casa e doveva quella stessa sera recarsi alla festa da ballo che dava l'ambasciata di *. E là accompagneremo Sua Altezza il Granduca di Gerolstein, Gustavo Adolfo, che viaggiava in Francia sotto il nome di conte di Duren. 15. La festa da ballo. La sera, alle undici, uno svizzero in gran gala spalancava il portone di un palazzo della rue Plumet, per lasciare uscire una magnifica carrozza di color celeste, con due grossi e superbi cavalli con criniera e coda lunghissime. Sul sedile, coperto da un ampio cuscino guarnito di frange di seta, stava impettito un enorme cocchiere, reso anche più spropositato dal pastrano blu foderato di pelle, con il collare di martora, strisce di pelle sulle cuciture, e cordoni ed alamari; e dietro alla carrozza un servitore gigantesco in livrea blu, ornata di nastri gialli e lametta d'argento, era accanto ad un cacciatore dai baffi formidabili, ingallonato come un capo tamburo, e il cui cappello a larghe tese era mezzo nascosto da un mazzo di penne gialle ed azzurre. I lampioni illuminavano l'interno della carrozza foderata di raso; vi si poteva intravedere Rodolphe, con il barone di Graün alla sinistra, e dirimpetto il fedele Murph. Per riguardo verso il sovrano, rappresentato in Parigi dall'ambasciatore alla cui festa egli stava andando, Rodolphe portava sull'abito la decorazione in brillanti dell'ordine di *. Il nastro color arancio e la croce di smalto di Gran Commendatore dell'Aquila d'Oro pendevano al collo di Sir Walter Murph. Della stessa insegna era decorato il barone di Graün; non parleremo, poi, di una grandissima quantità di croci di ogni paese che ciondolavano da una catenella d'oro fissata fra i due primi occhielli del suo vestito. "Sono veramente contento" disse Rodolphe "delle ottime notizie che la signora Georges mi dà sulla mia povera protetta, dal podere di Bouqueval; le premure di David hanno operato prodigi: a parte la mestizia che l'opprime, sta molto meglio... Ed a proposito della Goualeuse, confessate, signor Murph" proseguì sorridendo "che se qualcuno dei vostri loschi amici della Cité vi vedesse così travestito, oh, mio valoroso carbonaio, rimarrebbe stupefatto!" "Ma, monsignore, io credo che Vostra Altezza produrrebbe la stessa sorpresa se volesse andare questa sera in rue du Temple a fare una visita amichevole alla signora Pipelet, con l'intenzione di dissipare alquanto la malinconia del suo Alfred, che non brama altro che di affezionarsi a Vostra Altezza, a quel che dice la stimabilissima portinaia." "Monsignore ci ha dipinto tanto bene quell'Alfred, con il suo maestoso abito verde, l'aria da saccentone, e l'invariabile cappellone da caccia" soggiunse il barone "che mi pare di vederlo con quell'aspetto grave e autoritario nel suo bugigattolo oscuro e affumicato... Del resto, oso sperare che Vostra Altezza sia soddisfatta delle indicazioni del mio agente segreto. Il caseggiato della rue du Temple ha corrisposto appieno alla sua aspettativa?" "Sì" rispose Rodolphe "anzi, ho trovato là più di quel che mi aspettavo." E, dopo un momento di silenzio, e per scacciare l'idea penosa che gli causavano i suoi timori a proposito della marchesa d'Harville, riprese a dire in tono più gaio: "Non oso confessare la mia puerilità, ma trovo molto piacere in questi frangenti: una volta, pittore di ventagli, mi impanco a tavola in una stamberga di rue aux Fèves, stamani commesso di un mercante, offro un bicchierino di rosolio alla Pipelet; e stasera, sono uno dei privilegiati, per grazia di Dio, che regnano in questo basso mondo... L'uomo da quaranta scudi dice "le mie rendite", come direbbe un milionario..." continuò Rodolphe, alludendo alla piccola estensione dei suoi Stati. "Ma molti milionari, monsignore, non hanno il raro ed ammirabile buon senso dell'uomo da quaranta scudi!" disse il barone. "Ah, mio caro Graün, siete troppo buono, troppo buono davvero!" riprese Rodolphe, ostentando al tempo stesso soddisfazione ed imbarazzo, mentre il barone guardava Murph come uno che troppo tardi si accorge di aver detto uno sproposito. "Certo" proseguì Rodolphe con la faccia seria "non so, caro Graün, come mostrarmi grato alla buona opinione che vi compiacete avere di me, e specialmente come contraccambiarvi." "Monsignore, ve ne supplico, non vi prendete un tale incomodo!" rispose il barone, dimenticando per un momento che Rodolphe si vendicava sempre con qualche pungente motteggio delle adulazioni, che aborriva all'eccesso. "Oh, no, no, barone, non voglio rimanere in debito con voi... Ecco disgraziatamente tutto quello che posso offrirvi ora per contraccambiarvi: in fede mia, voi mi sembrate un ragazzo di vent'anni, e la statua di Antinoo non ha fattezze più belle delle vostre!" "Ah, monsignore, grazia! grazia!" "Dite un po', Murph, l'Apollo del Belvedere ha forme più snelle, più eleganti e più giovanili?" "Monsignore... Era tanto tempo che non mi accadeva..." "E quel manto di porpora, oh, come gli sta bene!" "Monsignore, mi correggerò!" Noi ci ricorderemo che aveva cinquant'anni, i capelli grigi e increspati, un'alta cravatta bianca, il viso magro, e gli occhiali d'oro. "Vivaddio, guardate, Murph! Non gli manca altro che la faretra d'argento sull'omero, e l'arco nella destra, per somigliare al vincitore del serpente Pitone!" "Chiedo perdono per lui, monsignore; non lo abbattete sotto il peso di tanta mitologia!" disse lo "squire", ridendo. "Io sono garante verso Vostra Altezza che per un pezzo non gli verrà più voglia di adularvi..." "Come, anche tu, vecchio Murph, osi sino a questo punto!" "Altezza, questo povero Graün mi fa pietà: desidero partecipare al suo castigo." "Mio signor carbonaio ordinario, ecco uno zelo amichevole che vi fa onore... Ma, caro Graün, sul serio, come potete dimenticare che non permetto l'adulazione, se non ai tipi come d'Harneim ed i suoi pari? Giacché, bisogna essere giusti, essi non saprebbero dire altro; è il gorgheggio che si combina alle loro belle piume, come vantava al corvo la volpe... Ma un uomo del vostro gusto e del vostro spirito, non ci deve cadere, barone!" "Ebbene, monsignore!" replicò il barone risolutamente "io dico che c'è molto orgoglio, mi perdoni Vostra Altezza, nella sua avversione per le lodi." "Alla buon'ora, barone, ora mi piacete! Spiegatevi." "Sì, monsignore, è come se una leggiadrissima donna dicesse ad uno dei suoi ammiratori: "Mio Dio! So che sono bella, la vostra approvazione è inutile e fastidiosa. A che giova affermare l'evidenza? C'è forse bisogno di gridare per le strade: il sole rischiara?"." "Qua, barone, c'è più arte, e maggior pericolo... E perciò, per variare il vostro supplizio, vi confesserò che l'infernale Polidori non avrebbe trovato di meglio per nascondere il veleno dell'adulazione." "Monsignore, io sto zitto." "Sicché Vostra Altezza" domandò Murph, cambiando tono "non ha più alcun dubbio che fosse Polidori quello che ha incontrato sotto il nome di Cesare il ciarlatano?" "Non ne dubito più, poiché siete stato avvertito che è a Parigi da qualche tempo." "Avevo dimenticato, o piuttosto omesso di parlare di lui a Vostra Altezza" disse Murph "perché so quanto il suo ricordo le è odioso." Rodolphe tornò a farsi pensoso e mesto, e tacque un poco, finché la carrozza entrò nel cortile del palazzo. Tutte le finestre brillavano illuminate; una fila di lacché, in grande livrea, si estendeva dall'atrio e dalle anticamere sino ai salotti che precedevano le sale, dove stavano i camerieri. Era un lusso imponente, regale! Il conte e la contessa * si erano trattenuti nel salone da ricevimento ad aspettare Rodolphe. Questi entrò, seguito da Murph e dal signor di Graün. Rodolphe aveva allora trentasei anni, ma la perfetta regolarità dei suoi lineamenti, come già dicemmo, forse troppo belli per un uomo, e l'aria affabile e dignitosa, lo avrebbero reso sempre notabile, anche se a tali pregi non si fosse unito, a dare maggior lustro, l'augusto splendore del suo grado. Quando comparve nel primo salone dell'ambasciata, lo avreste creduto trasformato: non si vedeva più in lui l'attaccabrighe, l'andatura ardita del pittore di ventagli vincitore dello Chourineur, né quella del commesso viaggiatore che tanto s'interessava alle sciagure della Pipelet. Era un principe, in tutto il poetico ideale del termine. Era vestito semplicemente: aveva la cravatta ed il panciotto bianco; un abito blu, abbottonato sino al collo, a sinistra, la piastrella con i diamanti gli modellava la vita snella e graziosa. Un tratto maschile e risoluto nel portamento correggeva quel che poteva esservi di troppo delicato nell'insieme della sua persona. Rodolphe compariva poco in società, ed aveva un aspetto così principesco, che la sua comparsa produsse sensazione; tutti fissarono gli sguardi su di lui quando fece il suo ingresso nel salone dell'ambasciata, accompagnato da Murph e dal barone di Graün, che gli stavano dietro a poca distanza. Uno degli addetti all'ambasciatore, incaricato di sorvegliare il suo arrivo, corse subito ad avvertire la contessa, e questa, con il marito, si fece incontro a Rodolphe dicendo: "Non so come esprimere a Vostra Altezza la mia gratitudine per il favore di cui si degna oggi onorarci." "Voi sapete, signora, che è mio piacere riverirvi, e che sono sempre lieto di poter dire al signor ambasciatore quanto gli sono affezionato. Siamo vecchi conoscenti." "Vostra Altezza ha troppa bontà nel compiacersi di ricordar sene, e darmi così nuovo motivo per apprezzare i suoi tratti di benevolenza." "Vi assicuro, signor conte, che non è merito mio se certe persone mi sono sempre nel cuore: ho la fortuna di conservare memoria soltanto di ciò che mi fu molto gradevole." "Ma Vostra Altezza ha un dono portentoso!" disse sorridendo la contessa di *. "Non è così, signora? Quando fra molti anni avrò il bene di ricordarmi di questa serata, e dell'ottimo gusto e della somma eleganza che presiedono alla vostra festa... Posso dirvelo schiettamente e sottovoce, nessun'altra dama sa dare simili feste..." "Monsignore!" "E ciò non basta: ditemi un po', signor conte, perché le donne mi paiono sempre più belle qui che in altri luoghi?" "Vostra Altezza vorrebbe avere la gentilezza di spiegarmi questo prodigio?" domandò, sorridendo, la contessa. "È cosa semplicissima, signora: sapete accogliere tutte le dame con tanta cortesia, con tanta grazia, e dite a ciascuna una parolina così dolce e lusinghiera, che quelle che non la meritano..." seguitò Rodolphe con un sorrisetto malizioso "esultano d'essere da voi distinte, mentre quelle che ne sono degne godono di vedersi apprezzate. Queste innocenti adulazioni rendono serene e allegre tutte le donne, ed il piacere fa avvenenti anche quelle che non lo sarebbero... Ecco perché, signora contessa, le donne sembrano più belle in casa vostra che altrove. Sono sicuro che il signor ambasciatore sarà d'accordo con me." "Ed io, monsignore" replicò la contessa di * "a rischio di diventare vezzosa quanto le leggiadre dame che non meritano i miei elogi, accetto la gentile spiegazione di Vostra Altezza con gratitudine e piacere, come fosse una verità." "Per convincervi, signora, facciamo qualche osservazione sugli effetti dei vostri elogi sulle fisionomie femminili." "Ah, Altezza, sarebbe un'insidia, un tradimento!" disse scherzando la contessa di *. "Ebbene, signora ambasciatrice, rinuncerò al mio progetto, a patto che mi concediate di offrirvi il braccio per un momento. Mi si è parlato di un giardino di fiori davvero magico nel mese di gennaio... Avreste la bontà di condurmi in quella meraviglia da "Mille e una notte"?" "Con tutto il piacere, monsignore. Ma a Vostra Altezza hanno fatto una descrizione esagerata... Del resto, adesso ne giudicherà, sempre che non la illuda la sua usuale indulgenza..." Rodolphe diede il braccio all'ambasciatrice, ed entrò con lei nelle altre sale, mentre il conte di * discorreva con il barone di Graün e con Murph, che conosceva da gran tempo. 16. Il giardino d'inverno. Infatti, non poteva esserci un luogo più magico e più degno delle "Mille e una notte", del giardino di cui Rodolphe aveva parlato con la contessa di *. Immaginiamo, dopo una lunga e splendida galleria, uno spazio di duecentoquaranta piedi, largo cent'ottanta, coperto da una specie di volta a vetri alta circa cinquanta piedi. Le pareti, incrostate di cristalli, su cui s'incrociavano i piccoli rombi di un graticcio di vimini a scacchi strettissimi, facevano somigliare la serra ad un chiosco illuminato dal riverbero dei lumi sugli specchi; una spalliera di melaranci grossi come quelli delle Tuileries, e camelie non più piccole, gli uni carichi di frutti d'oro sopra foglie di un verde lucente, e le altre smaltate di fiori porporini, tappezzavano tutta l'estensione di quelle pareti. Cinque o sei gruppi enormi di alberi e di arboscelli d'India o dei Tropici, piantati in piccole aiuole, avevano attorno dei viali selciati d'un bel mosaico, e larghi abbastanza perché due o tre persone potessero passeggiarvi di fronte. È impossibile descrivere l'effetto che produceva nel cuore dell'inverno in mezzo ad una festa da ballo una così ricca e straordinaria vegetazione esotica! Alti banani arrivavano poco meno che ai cristalli della volta, mischiando le loro larghe foglie di un verde lucidissimo, lanceolate, a quelle delle grandi magnolie, di cui alcune avevano già dei fiori fragranti quanto magnifici; dal loro calice a campana, all'esterno purpureo ed argenteo all'interno, sporgevano stami dorati. Più oltre palmizi, datteri del Levante, latanie rosse e fichi d'India, tutti vigorosi, brillanti, fronzuti, completavano l'immensa vegetazione pittoresca e vivace come è sempre quella dei Tropici. Lungo i pergolati, fra i melaranci e gli alberi diversi, ed intrecciati da uno all'altro, qui a ghirlande, là a spirale, e altrove mescolati come in una rete inestricabile, correvano, serpeggiando, e arrampicandosi sino alla cima della cupola a vetri, innumerevoli edere; e giù, al contrario, ricadevano le granadiglie rampicanti, le passiflore con le larghe corolle purpuree, striate d'azzurro e coronate da una punta viola bruna, pur sembrando risalirvi, protendendo i loro viticci verso l'estremità degli aloe giganteschi. Altrove una begonia indiana dal lungo calice giallo come lo zolfo, a foglie sottilissime, era circondata da stefanoidi con i fiorellini bianchi, che spargevano una soave fragranza; e queste due liane insieme allacciate formavano con la loro frangia verde e con i loro campanellini d'oro e d'argento il contorno alle foglie larghe e vellutate di un bel fico d'India. Più in là sorgevano e poi ricascavano pieni di rigoglio e variopinti mille steli di asclepiadi, le cui pannocchie di quindici o venti fiorellini stellati erano così folte e pulite, che le avreste dette mazzetti di smalto di color rosato, attorniati da lamelline di un vaghissimo verde. I contorni si componevano di crecchie del Capo di Buona Speranza, tulipani di Thol, narcisi di Costantinopoli, giacinti di Persia, e ciclamini ed iridi, che formavano una specie di tappeto naturale, dove tutte le tinte si confondevano alla vista nel modo più soddisfacente. Lampioni alla cinese di seta trasparente, alcuni celeste chiaro e altri rosa pallido, qua e là mezzo celati dalle fronde, rischiaravano il giardino. È impossibile dare un'idea del chiarore dolce e misterioso che risultava dall'insieme di queste due gradazioni; una luce gradevole e fantastica nella limpidezza cerula d'una tranquilla notte d'estate, leggermente ravvivata dai riflessi vermigli di un'aurora boreale. Si arrivava ad un'immensa serra, più bassa di due o tre piedi, da una lunga galleria sfavillante di dorature, di specchi, di cristalli, di lumi, che con il loro folgorante chiarore, avvolgevano per così dire, la penombra, in cui si scorgevano gli alberi del giardino d'inverno, visibile soltanto da un'ampia entrata, per metà chiusa da due alte cortine di velluto cremisi. L'avreste presa per una finestra gigantesca aperta verso qualche superba campagna dell'Asia, durante il sereno di un fulgido crepuscolo notturno. Vista dal fondo del giardino, dov'erano disposti larghi divani, sotto una cupola di fogliame e di fiori, la galleria presentava un contrasto straordinario con il poco chiarore del tiepidario. Si vedeva in lontananza una sorta di nuvola trasparente ed in parte dorata in cui risplendevano le tinte diverse e appariscenti degli abbigliamenti delle dame, e le scintillanti luminosità dei diamanti e delle altre gemme. I suoni dell'orchestra, indeboliti dalla distanza e dal sordo e festevole trapestio della galleria, venivano a morire melodiosamente tra il fogliame immobile dei grandi alberi esotici. Accadeva involontariamente, che si parlasse sommesso. Si udiva appena il leggero fruscio dei passi e degli abiti di raso, e l'aria al tempo stesso lieve, tiepida e balsamica per i soavissimi odori delle erbe aromatiche, e la musica, un poco lontana, immergevano i sensi in una dolce e voluttuosa quiete. Arrivando nell'incantevole giardino d'inverno, Rodolphe non poté trattenere un'esclamazione di sorpresa, e disse all'ambasciatrice: "In verità, signora, non avrei mai immaginato una tale meraviglia. Non si tratta soltanto di un gran lusso, unito al gusto più squisito, ma di una poesia messa in azione; invece di descrivere come un poeta e di dipingere come un grande artista, voi create quello che essi oserebbero appena immaginare!" "Vostra Altezza è sempre troppo buono!" "Oh, sinceramente, confessate signora, che chi sapesse riprodurre fedelmente questo grazioso quadro con tutti i suoi pregi di colori e di contrasti, là il tumulto della festa, qui l'asilo della pace, confessate signora, colui, pittore o poeta, farebbe un'opera ammirabile, e ciò unicamente con il ricopiare la vostra." "Le lodi che l'indulgenza suggerisce a Vostra Altezza sono tanto più pericolose in quanto non si può fare a meno d'essere incantate dallo spirito che le accompagna, e per questo si ascoltano anche involontariamente con estremo piacere... Ma guardate, monsignore, com'è avvenente quella giovane signora! Mi concederà Vostra Altezza che la marchesa d'Harville deve essere bella dappertutto. Non è adorna di grazie? Non è ancora più avvenente vicino all'austera beltà che l'accompagna?" La contessa Sarah Mac-Gregor e la marchesa d'Harville scendevano appunto i pochi gradini che dalla galleria conducevano d'inverno. al giardino 17. L'appuntamento. Gli elogi che la moglie dell'ambasciatore faceva della signora d'Harville non erano esagerati. Noi non sapremo dare una giusta idea di quella figura seducente in cui allora appariva tutto il fiore di una delicata bellezza, più pregevole ancora non tanto per l'armonia dei lineamenti, quanto per l'inesprimibile soavità della fisionomia, e perché il leggiadro volto della marchesa era modestamente velato, per così dire, da una dolce espressione di bontà. E se ci fermiamo su quest'ultima parola, è perché al solito la bontà non è quella che predomina sul volto di una giovane signora di vent'anni, bella, spiritosa, ricercata, adulata, com'era la d'Harville. Ed è per questo che ognuno s'interessava in singolar modo al contrasto prodotto da tale dolcezza con i successi che otteneva la marchesa, senza contare d'altronde i vantaggi di nascita, di nome e di ricchezza, che in sé riuniva. Ma qui occorre far comprendere profondamente il nostro concetto. Troppo dignitosa, e troppo fornita di bellissime doti, per andare vanamente in cerca di omaggi, la signora d'Harville si mostrava grata e affettuosa per quelli che le venivano offerti come se appena li avesse meritati; non ne era superba, ma contenta; indifferente alle lodi, ma sensibile all'altrui benevolenza, distingueva a meraviglia l'adulazione dalla simpatia. Col suo spirito retto, accorto, talvolta maliziosetto, ma non già maligno, perseguitava con motteggio grazioso e non offensivo certe persone soddisfattissime di sé, intente sempre ad accattivarsi l'attenzione degli altri, a far pompa costantemente di un aspetto gioviale, e di sciocche allegrezze e di uno stolto orgoglio, persone, diceva con molto garbo, che in tutta la loro vita sembra che ballino "l'a solo" davanti ad uno specchio invisibile, a cui sorridono beate di se stesse. Il carattere nel medesimo tempo timido e quasi altero della signora di Harville ispirava per lei, al contrario, un deciso interesse. Con queste poche parole avremo forse contribuito a far comprendere quale fosse il suo genere di bellezza. La carnagione di un'assoluta bianchezza si coloriva leggermente di un puro vermiglio; lunghi ricci castani chiari le scendevano sulle spalle, lucide e salde come un marmo perfettissimo... E che diremo dell'angelica vaghezza dei suoi occhi cerulei, contornati da lunghe ciglia nere? La bocca vermiglia, di soave forma, stava a confronto di quelle vezzose pupille, come l'affabile favella con lo sguardo dolce e insieme malinconico. Per non dire della statura elegante, e della distinzione che appariva in tutta la sua persona. Indossava un abito di crespo bianco, guarnito di fiorellini color rosa a foglie verdi, e alcuni diamanti, nascosti in più punti, brillavano come altrettante stille di rugiada; una ghirlanda consimile era posta con somma maestria sulla sua fronte pura e bianca. Il genere di bellezza della contessa Sarah Mac-Gregor dava anche maggiore risalto alla marchesa d'Harville. Sarah, di circa trentacinque anni, ne dimostrava appena trenta. Non c'è cosa che sembri più confacente alla salute del corpo, che il freddo egoismo. Oh, in questa specie di ghiaccio c'è da mantenersi freschi per lungo tempo! Certi animi aridi, duri, non alterabili dalle emozioni che logorano il cuore e guastano i lineamenti, non risentono altro se non i disappunti dell'orgoglio e dell'ambizione delusa; dispiaceri che sul fisico agiscono poco. Lo stato di conservazione di Sarah provava ciò che noi enunciamo. Tolta una certa mollezza, che dava un che di voluttuoso al suo alto e flessuoso corpo, anche se non morbido come quello della signora d'Harville, Sarah sfoggiava un aspetto tutto giovanile; pochi potevano sostenere il fuoco ingannevole delle sue nere e ardenti pupille: le labbra umide e rosee (e tuttavia menzognere) esprimevano risolutezza e sensualità; la traccia cerulea delle vene alle tempie e al collo traluceva sotto il candore latteo della pelle sottile e trasparente. La contessa Mac-Gregor portava una giubba di seta color paglierino sotto un abito di crespo dello stesso colore; una semplice ghirlanda di foglie naturali di un verde smeraldo le cingeva la fronte, e combinava perfettamente con le sue trecce nere come l'inchiostro, spartite su quella bella fronte a cui sottostava il naso aquilino, con le narici alquanto dilatate. Questa grave acconciatura dava un carattere, che chiameremmo all'antica, alla faccia imperiosa e appassionata di questa donna. Vi sono alcuni che, illusi dalle proprie apparenze, leggono nella loro fisionomia una vocazione irresistibile. Uno crede di avere l'aspetto da Achille, e guerreggia; quello da rimatore, e si mette a comporre rime; un altro da Bruto, e cospira; uno da Machiavelli, e tratta di politica; l'altro da padre Segneri e scrive omelie. Sarah, che in sé trovava, e non senza ragione, un'aria assolutamente regale, credeva ciecamente nei responsi a metà realizzati della sua nutrice, e si riteneva l'eroina di un destino sovrano. La marchesa e Sarah avevano visto Rodolphe nel giardino d'inverno mentre scendevano, ma il principe finse di non averle scorte. "Il principe è tanto occupato con l'ambasciatrice, che non ha badato a noi" disse la signora d'Harville a Sarah. "Non ne siate certa, cara Clémence" le rispose la contessa, con lei in grande intimità "anzi ci ha viste sicuramente, ma io gli ho fatto paura... Mi fa sempre il sostenuto..." "Meno che mai posso capire la sua ostinazione a scansarvi; più volte gli ho rimproverato la singolarità del suo contegno verso di voi, sua vecchia amica. "La contessa Sarah ed io" così mi ha risposto scherzando "siamo nemici mortali; io ho fatto voto di non parlarle mai" ha soggiunto. E bisogna che questo voto sia sacro per privarmi di conversare con una persona tanto amabile. Sicché, mia buona Sarah, per quanto strana mi sembrasse la sua replica, ho dovuto accontentarmi di essa."(4) "Vi assicuro che la causa di questo terribile risentimento, per metà ridicola e per metà seria, è però innocentissima. Se non ci fosse interessato un terzo, da molto tempo vi avrei confidato il gran segreto... Ma che avete, mia cara, mi sembrate distratta?" "Non è niente. Pocanzi c'era un'afa nella galleria, che ho sofferto un po' d'emicrania. Sediamoci qui un momento, e dileguerà... spero..." "Avete ragione: eccoci appunto in un angolino al buio, dove sarete protetta da quelli che si dispereranno per la vostra assenza" continuò Sarah sorridendo e calcando su queste ultime parole. E si sedettero su un divano. "Ho detto quelli che si dispereranno, Clémence mia... Non mi siete grata della discrezione?" La giovane donna arrossì, chinò il capo e non rispose. "Avete ben poco giudizio!" le disse Sarah, in tono di dolce rimprovero. "Non avete fiducia in me, mia cara figlia... Sì, figlia perché ho l'età per chiamarvi così!" "Non ho fiducia in voi?" replicò mestamente la marchesa. "Non vi ho detto anzi quel che non dovevo confessare mai neppure a me stessa?" "A meraviglia! Orsù, parliamo di lui: avete dunque giurato di farlo disperare a morte?" "Ah!" esclamò spaventata la d'Harville. "Che dite mai?" "Non lo conoscete ancora, povera creatura! È un uomo d'una tale energia, che per lui la vita è poco o nulla... È stato sempre tanto sfortunato! E si direbbe che anche voi prendiate piacere a tormentarlo!" "Lo credete davvero? Buon Dio!" "Forse senza volerlo. Oh, se sapeste come coloro che sono stati perseguitati dalla sorte sono delicati e facili ad affliggersi! Poco fa io gli ho visto scorrere negli occhi due grosse lacrime. Certo! E in mezzo ad una festa da ballo; a rischio di esser messo in ridicolo, se qualcuno se ne fosse accorto... Sapete che bisogna essere molto innamorati per soffrire a questo modo? E specialmente per non pensare a nascondere agli altri che si soffre..." "Di grazia, non me ne parlate" disse commossa la d'Harville "mi fate troppo male... Purtroppo conosco quell'espressione di pena e di rassegnazione al tempo stesso... Ahimè, la pietà da lui ispirata fu quella che mi rovinò" continuò involontariamente. Sarah non mostrò di aver capito l'importanza di queste ultime parole, e riprese: "Che esagerazione! Rovinata per essere in rapporti di semplice galanteria con un uomo che spinge la prudenza e la riservatezza sino al punto di non farsi presentare a vostro marito per paura di compromettervi! Il signor Charles Robert non è forse dotato di onore, di delicatezza, di cuore? Se lo difendo con tanto calore, è perché voi lo conosceste, e perché lo vedeste prima di tutto in casa mia, ed ha per voi non meno rispetto che attaccamento." "Non ho mai dubitato delle sue nobili qualità; me ne diceste sempre tanto bene! Ma lo sapete, le sue disgrazie furono quelle che lo resero interessante ai miei occhi." "E come merita, e come giustifica questo interesse! Via, confessatelo... D'altronde può essere che un viso così ammirabile non sia l'immagine dell'anima? Col suo alto e bel corpo mi rammenta i prodi dei tempi cavallereschi. Una volta lo vidi in uniforme: che aspetto marziale! Oh, se la nobiltà si misurasse dal merito e dal volto, egli, invece di essere semplicemente il signor Charles Robert, sarebbe già duca e pari... Non rappresenterebbe forse egregiamente uno dei più eccelsi nomi di Francia?" "Non ignorate che per me la nobiltà di nascita è poco o nulla, che più volte mi rimproveraste di essere un po' repubblicana" ribatté con un sorriso la d'Harville. "Sì, io ho pensato sempre come voi, che il signor Charles Robert non ha bisogno di titoli per essere amabile. E poi, che talento, che voce armonica! Di quanto aiuto ci fu nei nostri esercizi di musica! Ve ne ricordate? La prima mattina che cantaste insieme, quanta espressione metteva nel duetto con voi, quanta emozione!" "Su, ve ne prego" ripeté la d'Harville dopo un breve silenzio "cambiamo discorso." "Perché?" "Questo mi rattrista troppo, e quel che mi avete detto della sua disperazione..." "Oh, vi posso assicurare che, nell'eccesso del dolore, un carattere così appassionato può cercare nella morte un sollievo..." "Tacete, tacete, per carità!" disse la d'Harville, interrompendo Sarah. "Mi è già venuta quest'idea." Poi, dopo una nuova pausa, la marchesa disse: "Ma sì, parliamo d'altro... del vostro nemico mortale," aggiunse con affettata ilarità "del principe, che da un pezzo io non vedevo... Sapete che è sempre amabilissimo, quantunque sovrano? Per repubblicana che io sia, trovo che vi sono pochi uomini tanto gentili!" Sarah diede di scorcio un'occhiata indagatrice e sospettosa alla d'Harville, e replicò gioviale: "Convenite, cara Clémence, che siete capricciosissima. Io ho notato in voi un'alternanza di ammirazione e di avversione per il principe molto strana. Pochi mesi fa, quando arrivò qui, ne eravate talmente infatuata che, a dirla fra noi, temevo che dovesse essere in pericolo il vostro cuore..." "Penso di doverlo a voi se" replicò con un sorrisetto la marchesa "la mia ammirazione non fu di lunga durata; rappresentaste così bene la parte di sua nemica! Mi faceste poi tali rivelazioni, che l'antipatia subentrò all'infatuazione che vi diede tanto da pensare per la quiete del mio cuore... Ma lui questa tranquillità non si curava di turbarla. Anche prima che mi diceste tutte quelle cose, egli, continuando a frequentare con grande intimità mio marito, aveva quasi cessato d'onorarmi delle sue visite." "A proposito! Il vostro consorte è qui, stasera?" domandò Sarah. "No, non ha avuto voglia di uscire" rispose la d'Harville, un po' confusa. "Va sempre meno in società, se non sbaglio, no?" "Sì, qualche volta preferisce starsene a casa." La marchesa era in un orribile imbarazzo; Sarah se ne accorse, e proseguì: "L'ultima volta che lo incontrai mi parve più pallido del solito." "Sì, è stato alquanto indisposto." "Ecco, mia cara Clémence, volete che sia schietta?" "Anzi ve ne prego..." "Quando si tratta del vostro consorte, entrate subito in una certa agitazione..." "Io? Che pazzia!" "Nel ragionare di lui, vostro malgrado, la vostra fisionomia esprime... Dio buono! Come potrei dire?" E Sarah proferiva lentamente le seguenti parole, come se volesse leggere in fondo all'anima di Clémence: "Sì, la vostra fisionomia esprime una specie di ritrosia paurosa." Sul principio il volto sostenuto della marchesa sfidò lo sguardo inquisitore di Sarah, ma poi questa si avvide d'un tremito quasi impercettibile che le agitava il labbro inferiore. Non volendo spingere più oltre le sue indagini, e soprattutto eccitare qualche diffidenza nella sua amica, la contessa si affrettò a terminare la frase diversamente dall'intenzione. "Sì, una ritrosia paurosa, come l'ispira ordinariamente un burbero geloso." A tale interpretazione il leggero moto nervoso delle labbra della signora d'Harville cessò; sembrò sollevata da un peso enorme, e rispose: "Ma no, d'Harville non è geloso, né burbero..." Poi, cercando un pretesto per troncare una conversazione che le riusciva assai spiacevole, esclamò d'un tratto: "Oh, mio Dio, ecco l'insopportabile duca di Lucenay, uno degli amici di mio marito... Almeno non ci vedesse! Di dove diamine è sgusciato? Lo credevo lontano mille miglia..." "Infatti, dicevano che fosse andato a fare un viaggio d'un anno o due in Oriente, e sono appena cinque mesi che partì da Parigi. Questo improvviso ritorno dev'essere rincresciuto molto alla duchessa di Lucenay. Benché lui però non le ispiri soggezione..." disse Sarah, con un maligno sorriso. "E non sarà la sola a maledire un così sollecito arrivo... Il signor di SaintRemy ne proverà un eguale dispiacere." "Non siate maldicente, mia cara Sarah, dite piuttosto che il suo ritorno dispiacerà a tutti. Il signor di Lucenay è così fastidioso, che potete generalizzare il vostro rimprovero." "Maldicente? Oh, no, io non faccio altro che ripetere come un'eco... Corre voce che il signor di Saint-Remy, modello dei bellimbusti, che abbagliava con il suo fasto la nostra capitale, sia quasi rovinato, sebbene non diminuisca il suo modo principesco di vivere... È vero però che la signora di Lucenay è ricchissima." "Ah, che orrore!" "Ma se vi dico che io ripeto come l'eco... Ohimè, il duca ci ha viste. Viene qua, bisognerà che ci rassegniamo... È pur noioso! Non conosco al mondo un uomo più insopportabile... E spesso tanto rozzo, triviale! Ride forte delle sue sciocchezze, fa uno strepito da sbalordire. Se vi preme la vostra boccetta di profumo o il vostro ventaglio, difendeteli con coraggio, perché ha anche l'inconveniente di rompere tutto quello che tocca, e ciò con un'aria di scherno e di soddisfazione che infastidisce." Il duca di Lucenay, disceso dai magnanimi lombi d'una delle più grandi famiglie di Francia, tuttora giovane, di figura che non sarebbe stata spiacevole senza la lunghezza smisurata e grottesca del suo naso, univa a una turbolenza e un'agitazione perpetua, la voce ed il modo di ridere tanto clamorosi, e discorsi così indecenti, e un comportamento talmente incivile, che bisognava ad ogni istante ricordarsi il suo nome per non stupirsi di vederlo nella società più distinta di Parigi, e per comprendere che si tollerassero i suoi modi e il suo linguaggio, a cui l'abitudine aveva ormai assicurata una specie di prescrizione legale o d'impunità. Lo si fuggiva come la peste, sebbene non gli mancasse un certo spirito, che traluceva di quando in quando in mezzo alla strabocchevole esuberanza di parole. Era uno di quegli individui vendicativi, nelle cui mani molti desidererebbero veder cadere le persone ridicole o odiose. La duchessa di Lucenay, una delle dame più graziose ed anche più in voga di Parigi, nonostante i suoi trent'anni suonati, aveva fatto sovente parlare di sé; ma veniva quasi scusata la leggerezza della sua condotta, ripensando alle insopportabili bizzarrie del marito. Un ultimo tratto di quel carattere spiacevole era l'intemperanza ed il cinismo a proposito di assurde indisposizioni, o supposte infermità, che si divertiva a immaginare negli interlocutori per compiangerli ad alta voce e fosse pure davanti a cento persone. Essendo però coraggioso, pieno di valore, non evitando le conseguenze dei suoi arrischiati motteggi, aveva dato e ricevuto molti colpi di spada senza però correggersi. Stabilito tutto questo, noi faremo sentire al lettore la voce aspra e lacerante del signor di Lucenay, che, quando da lontano distinse la signora d'Harville con Sarah, si diede subito a vociare: "Ebbene, ebbene, che c'è? che vedo? Come, la più bella donna della festa se ne sta in disparte? È forse lecito agire così? Era necessario che io venissi dall'altra parte del mondo per far cessare un simile scandalo? Marchesa, se continuate a sottrarvi all'ammirazione generale, griderò come un energumeno, denuncerò la sparizione del più vago ornamento di questo festino!" E per concludere si gettò di colpo sul divano accanto alla marchesa, poi incrociò la gamba sinistra sulla destra, e si accomodò il piede nella mano. "Oh, signor duca, siete già di ritorno da Costantinopoli?" disse la signora d'Harville, scostandosi molto contrariata. "Di già? Voi dite proprio come la mia signora moglie, che non ha voluto stasera accompagnarmi nel mio reingresso in società. Correte a far delle sorprese agli amici, per essere ricevuti a questo modo!" "È naturale! Vi era tanto facile rimanere amabile... laggiù!" disse la d'Harville con un mezzo sorriso. "Cioè di starmene assente, eh? Che orrore, che infamia è questa che voi dite!" esclamò il signore di Lucenay, separando le gambe e battendo sul suo cappello come si farebbe sopra un cembalo. "Per amor del cielo, signor di Lucenay, non gridate tanto forte, e state fermo, o ci farete alzare dal nostro posto!" pregò la d'Harville di malumore. "Levarvi dal posto! Sarebbe forse per prendermi a braccetto e andare insieme a fare un giro nella galleria?" "Con voi? No di certo. Eh via, vi prego, non sciupate questo bouquet... Per favore, lasciate stare quel ventaglio, lo farete in pezzi, al solito." "Se non c'è altro, ne ho rotti più che non pensiate! E particolarmente uno magnifico cinese che la signora di Vaudemont aveva regalato a mia moglie." Ciarlando così per rassicurare le signore, il duca si divertiva a stuzzicare i fili di alcune piante appese al muro; e siccome le tirava, a poco a poco, finì con lo staccarle dall'albero che le sosteneva, e quelle, cadendogli sulla testa, quasi lo incoronarono. Allora furono scrosci di risa così pazze, forti, inaudite, che la d'Harville sarebbe fuggita subito se non avesse intravisto il signor Charles Robert (il Comandante, come lo chiamava la Pipelet) che giungeva dall'altra estremità del viale. Lei temette che si potesse credere che gli andasse incontro, e restò vicina al signor di Lucenay. "Dico, signora MacGregor, non somigliavo al Dio Pane, a una naiade, ad un silvano, o ad un selvaggio con quelle foglie addosso?" disse questo a Sarah, accanto alla quale andò subito a mettersi. "Oh, a proposito di selvaggi, bisogna che io vi racconti una storia niente affatto pulita... Figuratevi che ad Otaiti..." "Signor duca!" fece Sarah in tono imperioso. "Ebbene, non ve la dirò; la serberò per la signora di Fonbonne, che... Eccola." Era questa una donnetta grassa e bassa, di cinquant'anni, ridicolissima e piena di sussiego, a cui il mento arrivava quasi al petto, che spalancava gli occhi discorrendo dei languori, dei bisogni, delle aspirazioni della sua anima... Aveva quella sera un mostruoso turbante color rame con un guazzabuglio di disegni verdi. "La serbo appunto per la signora di Fonbonne!" gridò il signor di Lucenay. "Che c'è, signor duca?" domandò la Fonbonne, con una specie di trillo, facendo mille moine, rinculando e stralunando gli occhi. "C'è, madama, una storia orribilmente incongrua, indecente, sguaiata..." "Ah, Dio mio, chi ardirebbe? Chi oserebbe dirla?" "Io stesso... È roba da fare arrossire il vecchio Chamboran. Ma conosco i vostri gusti. Sentite, sentite..." "Signor duca!" "Oh no, non ditemi che sapete la mia storia... Ma cosa avete stasera? Perché voi, che vi vestite sempre tanto bene, con buon gusto, con eleganza, avete stasera un turbante che, permettetemi di dirlo, somiglia, parola d'onore, a una teglia corrosa dal verderame." E il duca si sganasciava dalle risa. "Se siete venuto dal Levante per ricominciare le vostre sciocche burle che si tollerano perché siete mezzo matto" disse la donna grassa incollerita "tutti non vedranno l'ora che ve ne andiate di nuovo, signor mio." E si allontanò con passo maestoso. "Mi tocca trattenermi per non andare a strapparle il turbante, a quella brutta caricatura..." fece il signor di Lucenay. "Ma la rispetto perché è orfana!... Ah, ah, ah! Ve', il signor Charles Robert!" soggiunse. "L'ho incontrato alle terme sui Pirenei; è un giovane di grandissimi pregi, canta come un cigno... Ora vedrete, marchesa, come lo confondo... Volete che ve lo presenti?" "State fermo, e lasciateci tranquille..." disse Sarah. Mentre Charles Robert si avvicinava pian piano fingendo di ammirare qua e là i fiori, il duca di Lucenay aveva manovrato assai abilmente per impadronirsi della boccetta di Sarah, e si occupava in silenzio e con grande attenzione di togliere il tappo. Il signor Charles Robert continuava ad avanzare. La sua alta corporatura era ben proporzionata, il volto molto bello, ed era elegantissimo. Ma il volto ed il portamento mancavano di grazia e di distinzione; camminava impettito e con imbarazzo, aveva le mani e i piedi grossi e ordinari... Appena vide la signora d'Harville all'indifferenza solita succedette un'espressione di malinconia profonda, troppo subitanea perché fosse vera, ma simulata con moltissima arte. Sembrava così afflitto, infelice, quando si accostò alla signora d'Harville, che questa non poté fare a meno di ripensare alle tristi parole di Sarah sugli eccessi a cui lo avrebbe potuto portare la disperazione. "Eh, buon giorno, mio caro!" gli disse il signor di Lucenay, trattenendolo. "Non ho più avuto la fortuna di vedervi dopo il nostro incontro alle terme... Ma che avete? Sembrate così abbattuto!" Il signor Charles Robert diede una lunga e malinconica occhiata alla signora d'Harville, e rispose al duca, con voce lamentevole: "Infatti, signore, soffro alquanto..." "Dio santo! Dio buono! Non sapete dunque liberarvi dalla vostra rinite?" gli domandò il signor di Lucenay, commiserandolo. Questa domanda era tanto assurda che per un momento Charles Robert restò stupefatto, impietrito: poi, il rossore della collera salendogli alla fronte, rispose con fermezza laconica: "Signore, poiché avete tanta premura per la mia salute, spero, signore, che verrete domani a chiedere mie notizie..." "Come, mio caro...? Ma certo, manderò..." replicò il duca con alterigia. Il signor Charles Robert fece un mezzo saluto e si ritirò. "Il più bello è che ha la rinite come il gran Sultano..." disse il signor di Lucenay, sdraiandosi di nuovo accanto a Sarah. "A meno che io abbia indovinato senza saperlo... Dico, signora MacGregor, vi pare che abbia la rinite quel signore?" Sarah gli voltò bruscamente le spalle senza dir nulla. Tutto questo era accaduto in un attimo. Sarah aveva frenato a stento le risa. La signora d'Harville aveva sofferto molto pensando alla crudele situazione di un uomo che si vede interpellato in modo così ridicolo davanti alla donna da lui amata, e si spaventava all'idea che potesse aver luogo un duello. Trascinata da un sentimento di pietà irresistibile, si alzò subito, prese a braccetto Sarah, raggiunse Charles Robert, che si divorava dalla rabbia, e passandogli vicino, gli disse adagio: "Domani all'una... Verrò!" Quindi ritornò nella galleria con la contessa, e poco dopo abbandonò la festa. 18. Sei venuta tardi, angelo mio! Rodolphe, recandosi a quel ballo per adempiere a un obbligo, desiderava anche scoprire se erano fondati i suoi timori riguardo alla signora d'Harville, e se era proprio lei l'eroina del racconto della Pipelet. Dopo essere uscito con la contessa di * dal giardino d'inverno, aveva percorso inutilmente diverse sale nella speranza di incontrare la signora d'Harville sola. Tornava al radiatore della serra ed ecco che, trattenutosi un momento sul primo gradino della scala, fu spettatore della rapida scena avvenuta fra la signora d'Harville e Charles Robert, dopo la detestabile burla del duca di Lucenay. Rodolphe si accorse di uno scambio di occhiate molto significative. Un interno presentimento gli diceva che quel giovane doveva essere il Comandante, e per accertarsene, rientrò nella galleria. Incominciava un valzer. Dopo alcuni minuti Rodolphe vide il signor Charles Robert in piedi nel vano di un uscio. Sembrava soddisfattissimo della risposta data al duca di Lucenay (il signor Charles Robert era coraggioso, malgrado le sue ridicolaggini) e dell'appuntamento avuto dalla signora d'Harville per l'indomani. Rodolphe andò a trovare Murph. "Vedi quel giovanotto biondo, in mezzo a quel gruppo di gente là in giardino?" "Quello alto, che pare tanto contento di sé? Sì, monsignore." "Procura di avvicinarti a lui abbastanza per dire sottovoce, senza che ti veda ed in modo che ti oda lui solo, queste parole: "Sei venuta tardi, angelo mio!"" Lo "squire" guardò Rodolphe con stupore. "Sul serio, monsignore?" "Sul serio! Se si volta a queste parole, rimani là, con quel sangue freddo che spesso ho ammirato in te, perché non possa indovinare che tu sei quello che ha parlato così." "Non capisco niente, monsignore, ma obbedisco." Il bravo Murph, prima della fine del valzer era arrivato a mettersi appunto dietro a Charles Robert. Rodolphe, collocandosi in modo da non perdere di vista l'effetto di tale esperimento, rimase attento a guardare Murph; dopo un minuto vide Charles Robert volgersi stupefatto. Lo "squire" non si mosse, rimase impassibile, e certamente quell'uomo alto, calvo, di aspetto grave, era l'ultimo che il Comandante potesse sospettare di aver proferito quella frase. Terminato il valzer, Murph ritornò verso Rodolphe. "Ebbene, monsignore, quel giovane si è girato d'un balzo come gli avessi dato un morso. Erano dunque parole magiche?" "Magiche davvero, mio vecchio amico; e mi hanno svelato ciò che desideravo sapere." A Rodolphe non restava che compiangere la marchesa d'Harville di un errore tanto più pericoloso, in quanto cominciava ad immaginarsi che Sarah ne fosse complice o confidente. A tale pensiero sentì un acuto dolore, non dubitò più della causa della malinconia del signor d'Harville, che egli teneramente amava: era prodotta dalla gelosia. Dunque la moglie, dotata di qualità, si donava ad un uomo che non lo meritava. Rodolphe, in possesso di un segreto carpito per caso, e incapace di abusarne, senza poter tentare niente per illuminare la signora d'Harville che cedeva al cieco trasporto della passione, si vedeva condannato a rimanere testimone impotente della rovina di quella giovane donna. Da siffatte riflessioni lo trasse il signor di Graün. "Se Vostra Altezza vuole accordarmi un momento di colloquio nel salotto in fondo, dove non c'è nessuno, avrò l'onore di renderle conto delle informazioni che mi ha ordinato di prendere." Rodolphe seguì il barone. "La sola duchessa, il cui nome possa riferirsi alle iniziali N e L è la duchessa di Lucenay, nata Noirmont" disse il signor di Graün. "Lei non è qui questa sera. Ho visto poco fa il suo consorte, il signor di Lucenay, che era partito cinque mesi fa per un viaggio in Levante, che doveva durare più di un anno, ed è tornato improvvisamente due o tre giorni fa." Noi ci ricordiamo che nella visita fatta al caseggiato della rue du Temple, Rodolphe aveva trovato sul pianerottolo dell'appartamento del ciarlatano Cesare Bradamanti un fazzolettino molle di lacrime, guarnito di merletti, con le lettere N ed L sormontate da una corona ducale. Rodolphe comprese tutto. Non aveva motivo d'interessarsi alla signora di Lucenay; ma non poté non indignarsi pensando che se era andata davvero dal ciarlatano, lo sciagurato, che in sostanza era l'abate Polidori, sapeva come si chiamasse la signora che aveva fatto seguire da Tortillard, e poteva abusare del funesto segreto che poneva la duchessa a sua discrezione. "Accadono qualche volta delle coincidenze ben singolari, monsignore..." riprese a dire il signor di Graün. "Perché mai?" "Mentre il signor di Grangeneuve veniva a darmi quelle notizie sui coniugi Lucenay, aggiungendo assai maliziosamente che l'arrivo inaspettato del signor di Lucenay doveva essere rincresciuto molto alla duchessa e ad uno dei più scelti damerini di Parigi, cioè al visconte di Saint-Remy, l'ambasciatore mi ha domandato se io ritenevo che Vostra Altezza gli avrebbe permesso di presentarle il visconte che, essendo da poco addetto alla legazione di Gerolstein, si reputerebbe fortunato di avere questa occasione d'ossequiare l'Altezza Vostra." Rodolphe ebbe un moto d'impazienza, e rispose: "Mi dispiace molto; ma non posso esimermi. Animo, dite al conte di * di presentarmi il signor di SaintRemy." Malgrado fosse contrariato, egli conosceva troppo bene il suo dovere di principe per mancare in una simile circostanza. D'altronde, si supponeva che Saint-Remy fosse l'amante della duchessa di Lucenay, e ciò stimolava molto la curiosità di Rodolphe. Il visconte di SaintRemy si avvicinò, condotto dal conte di *. Era un giovane assai gentile, di venticinque anni, magro, svelto, di portamento nobile, di figura assai avvenente: aveva la carnagione molto bruna, ma d'un bruno vellutato, trasparente, color ambra, come un ritratto del Murillo; i suoi capelli, neri con un riflesso azzurrino, divisi da una riga al disopra della tempia sinistra, e molto lisci sulla fronte, s'inanellavano graziosamente intorno al viso, e lasciavano scorgere appena il lobo delle orecchie; il nero cupissimo delle pupille spiccava fulgidamente sul bianco dell'occhio, che, invece di essere del colore del latte, era abbellito da quel ceruleo che dà allo sguardo degli indiani un ché di vivace. Per un capriccio della natura, le basette folte, benché di pelo finissimo, contrastavano coll'apparenza giovanile del mento e delle guance imberbi come quelle di una fanciulla. Egli portava una cravatta di seta nera che lasciava vedere la forma delicata del suo collo degno di essere dipinto. E le pieghe di quel fazzoletto erano fermate soltanto da una perla di raro valore per la sua grossezza e per lo splendore. L'abbigliamento di ottimo gusto del signor di Saint-Remy si combinava a meraviglia con quella gemma di una magnifica semplicità. Era difficile dimenticarsi il volto e l'eleganza di questo ganimede, tanto si distingueva dagli altri "dandies". Sfoggiava cocchi e cavalli; grande e buon scommettitore alle corse, non giocava annualmente meno di due o tremila luigi. Si citava la sua casa della rue di Chaillot come un modello di graziosa sontuosità: in essa teneva tavola squisita, e poi gioco infernale, in cui sovente perdeva somme considerevoli con la massima indifferenza. Eppure tutti sapevano che il suo patrimonio era già da gran tempo dissipato. Per spiegare la sua incomprensibile prodigalità, gli invidiosi e i malvagi parlavano, come aveva fatto Sarah, delle enormi ricchezze della duchessa di Lucenay; ma costoro dimenticavano che, sorvolando sulla viltà di tali supposizioni, il signor di Lucenay sorvegliava attentamente i capitali della sua sposa, e che Saint-Remy dilapidava, a dir poco, da centocinquanta a duecentomila franchi ogni anno. Altri chiacchieravano sull'imprudenza di alcuni usurai, troppo corrivi con lui. E c'era pure chi asseriva che egli era "soverchiamente" fortunato al "turf"(5), e bisbigliava di fantini e jockey da lui corrotti, per trattenere i cavalli contro i quali aveva scommesso molto denaro. Ma la maggior parte delle persone del bel mondo si preoccupavano poco dei mezzi con cui si procurava tanto lusso. Saint-Remy apparteneva per nascita al ceto più elevato; era allegro, coraggioso, pieno di spirito, piacevole compagno, molto ospitale; dava ottimi pranzi, reggeva qualunque posta gli si proponesse al gioco... Che si voleva di più? Le donne lo adoravano; non si arrivava ad enumerare i suoi trionfi di ogni genere. Era giovane, bello, galante, e splendido in tutte le occasioni in cui un uomo può esserlo con le signore che più brillano nel gran mondo. Insomma era così favorevole l'opinione che generalmente si aveva di lui, che persino l'inesplicabile fonte dei suoi copiosi redditi era considerata qualcosa di misterioso e d'interessante nella sua vita, e molti dicevano con un sorriso d'indifferenza: "Bisogna che quel diavolo di Saint-Remy abbia trovato la pietra filosofale!" Quando si seppe che si era procurato l'impiego presso la legazione di Francia alla Corte di Gerolstein, taluni immaginarono che intendesse ritirarsi onorevolmente. Il conte di * disse dunque a Rodolphe presentandogli il signor Saint-Remy: "Ho l'onore di presentare a Vostra Altezza il signor visconte di Saint-Remy, addetto alla legazione di Gerolstein." Il visconte fece un profondo inchino, e disse a Rodolphe. "Vostra Altezza si degnerà di scusare l'impazienza che provavo di offrirle i miei ossequi... Sono forse troppo sollecito nel voler godere di un onore, a cui annetto la massima importanza." "Signore, avrò sommo piacere di rivedervi a Gerolstein. Vi proponete di andarvi presto?" "La permanenza di Vostra Altezza a Parigi mi fa avere meno fretta di partire." "La quiete delle nostre corti tedesche vi sorprenderà molto, assuefatto come siete alla vita parigina." "Oso assicurare Vostra Altezza che la benevolenza che mi dimostra m'impedirebbe di provare rammarico per aver lasciato Parigi." "Mi sarà grato, signore, se potrò darvi modo di pensarla sempre così nel tempo che vi tratterrete a Gerolstein." E Rodolphe fece un lieve saluto con il capo, che annunziava al signore di SaintRemy la fine della sua presentazione. Il visconte, dopo una profonda riverenza, si ritirò. Rodolphe era un ottimo fisionomista, e soggetto a simpatie e antipatie sempre giustificate. Dopo le poche parole scambiate con Saint-Remy, ebbe per lui, senza poterne spiegare la causa, una specie di avversione. Gli sembrò di scorgere in lui qualche cosa di scaltro e quasi di perfido nello sguardo, una fisionomia pericolosa. Noi ritroveremo SaintRemy in circostanze che contrasteranno orribilmente con la brillante situazione in cui era all'epoca della sua presentazione a Rodolphe, e allora si giudicherà della realtà dei presentimenti del principe. Rodolphe, liberatosi della presenza del visconte, e riflettendo sui bizzarri incontri prodotti dal caso, discese nel giardino d'inverno. Era l'ora della cena; le sale divenivano poco meno che deserte. Il luogo più remoto vicino al radiatore di serra si trovava dietro un gruppo di alberi, all'angolo di due muri che un enorme banano nascondeva pressoché interamente; una porticina, celata dal pergolato, e che immetteva nel salone del buffet per mezzo di un lungo corridoio, era rimasta socchiusa. Rodolphe si sedette riparato da quel paravento di foglie. Da un po' era immerso in profonda meditazione, quando lo scosse d'un tratto il suo nome pronunciato da una voce ben nota. Sarah, seduta al lato opposto del gruppo di alberi che nascondeva Rodolphe, parlava in inglese con suo fratello Tom. Benché avesse soltanto qualche anno più di Sarah, aveva i capelli quasi bianchi, il suo viso rivelava una volontà fredda, ma tenace; l'accento era secco e risoluto, lo sguardo truce, la voce rauca. Rodolphe ascoltò attentamente il seguente colloquio: "La marchesa è andata alla festa da ballo del barone di Nerval: fortunatamente se n'è andata senza poter parlare a Rodolphe, che la cercava. Io ho sempre timore dell'influsso che egli esercita su di lei, e che tanta fatica mi è costato combattere e in parte distruggere... Infine questa rivale, che mi ha fatto sempre paura, per certi miei presentimenti, e che, in seguito, avrebbe potuto impedire i miei progetti, questa rivale sarà compromessa, rovinata. Sentite, Tom, si tratta di cose serie." "Vi ingannate, Rodolphe non ha mai pensato alla marchesa." "È arrivato il momento di darvi qualche spiegazione su questo argomento. Sono avvenute molte cose durante il vostro ultimo viaggio. È necessario agire più presto di quello che io pensavo, questa sera, subito, nell'uscire di qui. Intanto sarebbe bene che parlassimo un po'. Per fortuna siamo soli." "Vi ascolto." "Prima di aver visto Rodolphe, questa donna, ne sono certa, non aveva mai amato. Non so per quale ragione abbia una decisa avversione per il marito che l'adora. C'è un mistero, che invano ho voluto penetrare. La presenza di Rodolphe aveva eccitato nel cuore di Clémence mille nuove emozioni. Io soffocai quella fiamma nascente mediante rivelazioni terribili relative al principe. Ma in lei si era risvegliato il bisogno di amare. Incontrò in casa mia Charles Robert, e fu colpita dalla sua bellezza, colpita come alla vista di un quadro. Costui, per disgrazia, è uno sciocco, ma ha un non so che d'interessante nello sguardo. Io esaltai la nobiltà dell'animo suo e la dignità del suo carattere: conoscevo la bontà naturale della marchesa d'Harville; attribuii a Robert diverse commoventissime disgrazie, gli raccomandai di fingere sempre una mestizia mortale, di non parlare con noi che a forza di sospiri e di ahimè!, e soprattutto di parlare poco. Egli ha seguito i miei consigli. Con l'abilità nel cantare, con il volto gentile, con l'apparenza di un'afflizione insanabile, si è quasi conquistato l'affetto di Clémence, che in tal modo soddisfa quel bisogno di amare che ha destato in lei Rodolphe. Adesso mi capite?" "Benissimo: continuate." "Robert e la signora d'Harville non si vedevano che in casa mia: due volte la settimana facevamo un poco di musica fra noi tre, di mattina. Il bell'angustiato sospirava, diceva a voce bassa qualche paroletta tenera. Ma un giorno fece scivolare nella manina tre biglietti. A me davano anche più timore i suoi scritti, che la sue ciarle, ma una donna è sempre indulgente con le prime dichiarazioni che riceve; e quelle del mio protetto non fecero danni. Per lui quello che importava era ottenere un appuntamento. La marchesina ha meno sentimenti amorosi che scrupoli morali, o, per dir meglio, non ha abbastanza amore da dimenticare i suoi scrupoli. In fondo all'animo suo, senza accorgersene, c'è ancora un forte e indefinibile ricordo di Rodolphe, che quasi veglia, per così dire, su lei, e combatte la debole inclinazione nata per il signor Charles Robert. Inclinazione più fittizia che reale, ma alimentata dal grande interesse che lei nutre per le sventure immaginarie di Robert, e dall'incessante esagerazione delle mie lodi su questo bellissimo Apollo senza cervello. Però so che un giorno Clémence, vinta dall'aria disperata dell'infelice adoratore, si risolse ad accordargli l'appuntamento tanto bramato." "Dunque vi ha fatta sua confidente?" "Mi aveva confessato il suo attaccamento per Charles Robert, e niente altro. Io non cercai di sapere di più. Ma egli, pieno di contentezza o piuttosto di vanità, mi disse del biglietto e della promessa, senza dirmi però il luogo né il giorno dell'appuntamento." "E come lo sapeste?" "Karl, per mio ordine, andò all'indomani e il giorno dopo di buon'ora a spiare il signor Robert, e lo seguì. Il secondo giorno, verso il pomeriggio, il nostro innamorato in una carrozza di piazza si avviò a un quartiere della rue du Temple. Smontò ad una casa di modesto aspetto, vi stette circa un'ora e mezzo, poi se ne andò. Karl aspettò un pezzo per vedere se dopo di lui veniva fuori qualcuno. Nessuno uscì; la marchesa aveva mancato alla promessa. Io ne fui informata il giorno seguente dall'amoroso, malinconico e corrucciato. Gli suggerii di mostrarsi più disperato che mai. Clémence si mosse nuovamente a pietà: altro appuntamento, ma invano come il primo. Alla terza volta lei arrivò sino al portone. Era questo un bel passo, ma conferma i suoi travagli interni. E perché? Perché (ne sono certa, ed è questo che causa il mio odio) lei ha sempre nel cuore, e senza neppure saperlo, il pensiero di Rodolphe; pensiero che pare proteggerla. Stasera, però, la marchesa ha dato a Charles Robert un appuntamento per domani; questa volta ci andrà, non ne dubito. Il duca di Lucenay ha così grossolanamente messo in ridicolo quel giovane, che la marchesa, implorata dal suo amante, gli ha concesso per pietà ciò che non gli avrebbe forse accordato altrimenti. Questa volta, ve lo ripeto, manterrà il suo impegno." "E qual è?" "Questa donna obbedisce ad una specie di pietà caritatevole ed esaltata, ma non all'amore. Charles Robert è così poco capace di comprendere la delicatezza del sentimento che l'ha guidata, che domani vorrà approfittare dell'abboccamento, e perderà del tutto il favore di Clémence che, ve lo ripeto, agisce per compassione, e non per trasporto amoroso. In una parola, io sono certa che lei ci vada per dar prova di coraggio e d'interesse, ma perfettamente calma e con intenzione di non dimenticare un solo istante i suoi doveri. Charles Robert non vorrà capire questa faccenda, la marchesa lo conoscerà meglio e lo detesterà, e, distrutta l'illusione, ricadrà sotto l'influsso di Rodolphe che è sempre nel suo cuore." "Ebbene?" "Ebbene, voglio che intanto sia per sempre compromessa in faccia a Rodolphe. Questo, ne sono persuasa, avrebbe, presto o tardi, tradito l'amicizia del signor d'Harville, corrispondendo all'affetto di Clémence, ma adesso la odierà sapendola caduta per un uomo come Robert, preferito a lui: questo per un uomo è un delitto imperdonabile. Adducendo l'attaccamento che ha per d'Harville, non rivedrà mai più quella signora, che ha indegnamente ingannato l'amico caro." "Volete dunque avvertire il marito?" "Sì, stasera, subito, salvo il vostro parere. Secondo ciò che mi ha detto Clémence, egli ha qualche sospetto, e non sa su chi fissarlo. È mezzanotte, andiamocene da questa festa. Voi scenderete al primo caffè che troveremo, scriverete al signor d'Harville che la moglie deve recarsi domani all'una in rue du Temple 17 per un appuntamento amoroso. È geloso, la sorprenderà, e voi indovinate il resto!" "È un'azione abominevole" disse freddamente il gentiluomo." "Avete degli scrupoli, Tom?" "Farò sempre quel che bramate; ma vi ripeto che è un'azione abominevole." "Ma farete quel che vi ho detto?" "Sì, questa sera il signor d'Harville sarà istruito su tutto... Ma mi pare che ci sia qualcuno, dietro quel cespuglio" disse d'un tratto Tom interrompendosi e parlando sommesso. "Mi è parso di aver sentito muoversi..." "Guardate allora!" ordinò Sarah, con inquietudine. Tom si alzò, fece il giro del cespuglio e non vide anima viva. Rodolphe era sparito dalla porticina sotto il pergolato. "Mi sono ingannato" disse Tom ritornando "non c'è nessuno." "È che sembrava anche a me..." "Ascoltatemi, Sarah. Io non credo la marchesa tanto pericolosa per i vostri progetti come pensate. Rodolphe ha certi principi che non infrangerà mai. La giovane, che ha condotto nel podere sei settimane fa travestito da operaio, quella di cui si piglia tanta cura, alla quale dà una scelta educazione, e che è stato a visitare parecchie volte, suscita in me timori più fondati. Noi ignoriamo chi sia, benché sembri appartenere ad una classe oscura della società. Ma la rara bellezza di cui, a quanto si dice, è dotata, il travestimento di Rodolphe per condurla al villaggio, la premura sempre maggiore per lei, tutto prova che questo suo affetto non è di poca importanza. Perciò io ho prevenuto i vostri desideri. Per allontanare quest'ostacolo, a parer mio più reale, è stato necessario agire con somma prudenza, e informarsi bene sulla gente del podere e sulle abitudini della ragazza. Tali notizie io le ho avute; è arrivato il momento di venire ai fatti. Il caso mi ha fatto reincontrare quell'orrenda vecchia che aveva conservato il mio indirizzo. Le relazioni che ha con persone della risma di quel delinquente che ci assalì nella Cité ci aiuteranno molto. Tutto è previsto. Non ci sarà prova alcuna contro di noi. E d'altronde, se la giovane, come sembra, appartiene al ceto degli artigiani, non resterà titubante fra le nostre offerte e la sorte, quantunque brillante, che si può sognare facendo la mantenuta di un principe. In sostanza, domani la questione sarà risolta. Se no, vedremo." "Rimossi questi due ostacoli, Tom, allora il nostro grande piano..." "Presenta sempre delle difficoltà, ma può riuscire." "Confessate che ci sarà una probabilità favorevole in più, se lo eseguiamo mentre Rodolphe sarà sconvolto dallo scandalo della condotta della signora d'Harville e dalla sparizione di quella creatura a cui tanto si interessa." "Lo credo anch'io. Ma se quest'ultima speranza si perde, allora io sarò libero" disse Tom, guardando la sorella in modo truce. "Sarete libero!" "Non rinnoverete più le preghiere che, per due volte, sospesero, mio malgrado, la mia vendetta!" Poi mostrando a Sarah il lutto che velava il suo cappello, ed i guanti neri che aveva alle mani, Tom soggiunse con un amaro sorriso: "Io aspetto sempre... Voi lo sapete, io porto questo lutto da sedici anni, e non lo lascerò se non quando..." "Vi dico che sarete libero, Tom! Perché allora quella fiducia che mi ha confortata sino adesso in circostanze così diverse, in cui è stata giustificata al di là dell'umana previdenza, mi abbandonerà interamente. Ma fino a quel punto, non c'è al mondo un pericolo, anche lieve, che io non voglia allontanare ad ogni costo. Il successo dipende sovente dalle più piccole cose. Ostacoli più grandi mi si presenteranno, quando starò per giungere alla meta. Voglio libero il campo, li spezzerò! I miei mezzi sono odiosi, e che importa? Si ebbero forse riguardi per me?" esclamò Sarah, alzando involontariamente la voce. "Silenzio, hanno finito la cena!" disse Tom. "Poiché giudicate opportuno avvertire il marchese d'Harville dell'appuntamento, partiamo. È già tardi!" "L'ora della notte in cui gli sarà recapitato il biglietto gliene proverà l'importanza." Ed ambedue abbandonarono il ballo dell'ambasciatore di *. 19. Gli appuntamenti. Rodolphe, che in qualunque modo voleva avvertire la signora d'Harville del pericolo che la sovrastava, uscì dal palazzo senza attendere la fine del colloquio tra Tom e Sarah, così non seppe del complotto che tramavano contro Fleur-de-Marie, e del pericolo imminente che correva la giovane. E, nonostante il suo zelo, Rodolphe non poté salvare la marchesa, come sperava. Questa, abbandonando il palazzo dell'ambasciatore, doveva, per convenienza, farsi vedere un istante dalla signora di Nerval; ma, oppressa dalle emozioni che l'agitavano, non ebbe il coraggio di andare a quella seconda festa, e se ne tornò a casa. Un tale contrattempo rovinò ogni cosa. Il signor di Graün, come quasi tutte le persone che erano al ballo della contessa *, era invitato dalla signora di Nerval. Rodolphe ve lo condusse sollecitamente, con l'ordine di cercare la marchesa d'Harville, e avvertirla che il principe, desiderando dirle la sera stessa alcune cose della massima premura, si sarebbe trovato a piedi davanti il palazzo d'Harville, e si sarebbe avvicinato alla carrozza di lei per parlarle dallo sportello, mentre i servi provvedevano all'apertura del portone. Dopo molto tempo, perduto per cercare la signora d'Harville, il barone riferì a Rodolphe che non era comparsa al festino. Rodolphe ne fu desolato. Aveva saggiamente pensato che era necessario, prima di tutto, informare la marchesa del complotto, perché così la lettera di Sarah al marito sarebbe passata per una calunnia. Ma era troppo tardi... La lettera infame era stata consegnata al marchese all'una di notte. La mattina dopo il signor d'Harville camminava avanti e indietro nella sua camera da letto, ammobiliata con elegante semplicità, e adorna di un assortimento di armi moderne in un armadio, e una scansia di libri. Il letto non era stato disfatto, ma la trapunta di seta pendeva ridotta in brandelli; una sedia e un tavolino d'ebano con i piedi torti erano stati gettati a terra vicino al caminetto; si scorgevano sul tappeto i pezzi di un bicchiere rotto, candele mezzo schiacciate, ed un candeliere a due bracci rovesciato. Il signor d'Harville aveva circa trent'anni, una figura maschia e decisa, un volto di solito affabile e dolce, ma allora scomposto; portava addosso gli abiti della sera precedente; aveva il collo nudo, il panciotto aperto; la camicia lacerata sembrava macchiata qua e là da qualche goccia di sangue; i capelli scuri, di solito ricciuti, ricadevano irti e arruffati sulla fronte livida. Dopo aver camminato un pezzo, le braccia conserte, la testa bassa, lo sguardo fisso, gli occhi rossi, si fermò bruscamente davanti al caminetto, spento malgrado il freddo acuto della notte. Prese dal marmo una lettera e la rilesse con attenzione, con un'ansietà spasmodica al fosco chiarore di quella giornata d'inverno: "Domani, all'una, vostra moglie andrà in rue du Temple al n. 17 per un appuntamento amoroso. Seguitela e saprete tutto... fortunato sposo!" Man mano che scorreva quelle righe, già rilette tante volte, pareva che le sue labbra, illividite dal freddo, compitassero convulsamente sillaba per sillaba le lettere di quello sciagurato biglietto. Fu aperto l'uscio in quel momento, ed entrò un cameriere. Costui, già vecchio, aveva i capelli grigi e un viso buono e onesto. Il marchese girò bruscamente il capo, senza cambiar posizione, tenendo sempre il foglio tra le mani. "Che vuoi?" domandò con asprezza. Costui, invece di rispondere, contemplava attonito ed afflitto lo scompiglio della camera; poi, guardando attentamente il padrone, esclamò: "Sangue sulla camicia... Mio Dio, mio Dio, signore, siete ferito? Eravate solo, perché non avete suonato, come al solito, quando avete risentito le..." "Vattene!" "Ma, signor marchese, cosa dite? Il fuoco è spento, fa un freddo mortale, e specialmente dopo il vostro..." "Vuoi star zitto? Lasciami!" "Ma, signor marchese" riprese il vecchio servo tremando "avete dato ordine al signor Doublet di esser qui questa mattina alle dieci e mezzo; è di là con il notaio." "Va bene" disse amaramente il signor d'Harville, ostentando calma. "Quando si è ricchi, bisogna pensare agli affari... È una cosa tanto bella la ricchezza!" E poi soggiunse: "Fa' passare il signor Doublet nel mio studio." "C'è già, signor marchese." "Dammi gli abiti, che possa vestirmi. Presto dovrò uscire." "Ma, signor marchese..." "Fa' quel che ti dico, Joseph..." seguitò d'Harville in tono più dolce, poi aggiunse: "Ha già chiamato mia moglie?" "Non credo che la signora marchesa abbia suonato il campanello." "Appena suona, mi avvertirete." "Sì, signor marchese." "Di' a Philippe che venga ad aiutarti. Non la finirai più!" "Ma, signore, aspettate che abbia accomodato un po' qua" rispose mestamente Joseph. "Si accorgerebbero di questo disordine, e non capirebbero quel che possa essere accaduto al signor marchese." "E se lo capissero sarebbe un brutto affare, non è vero?" ripigliò il signor d'Harville con aria crudele e sardonica. "Ah, signore" esclamò Joseph "grazie a Dio, nessuno sospetta..." "Nessuno? No, nessuno!" replicò il marchese, più cupo di prima. Mentre il cameriere era occupato a rassettare ogni cosa nella stanza, il padrone andò difilato all'armadio, esaminò per qualche minuto le armi, e fece un gesto di sinistra soddisfazione. "Sono sicuro" disse a Joseph "che ti sei dimenticato di far pulire i miei fucili che sono lassù nel corredo da caccia." "Il signor marchese non me ne aveva parlato..." disse il servitore con gran meraviglia. "Sì, ma tu te lo sei scordato." "Protesto, signor marchese..." "Devono essere in uno stato davvero ottimo!" "È appena un mese che sono stati riportati dal negozio dell'armaiolo." "Non importa. Appena sarò vestito, vai a cercare quella cassetta; può darsi che domani o domani l'altro io vada a caccia, voglio rivedere quei fucili." "Li porterò qui fra poco." Rimesso tutto in ordine, un secondo servo venne a dare una mano a Joseph. Il signor d'Harville, finito di vestirsi, entra nello studio, dove lo attendevano il signor Doublet, suo intendente, e lo scrivano del notaio. "Ecco l'atto che veniamo a leggere al signor marchese" disse l'intendente. "Non rimane altro che firmarlo." "L'avete letto, signor Doublet?" "Sì, signor marchese." "Dunque basta così, lo firmo." Sottoscrisse, e lo scrivano uscì. "Mediante questo acquisto, signor marchese" disse l'intendente con aria trionfante "la vostra rendita fondiaria è salita a 126 mila franchi. Sapete che è una cosa rara, signor marchese, un'entrata di 126 mila franchi in effetti fondiari?" "Sono un uomo fortunato, eh, signor Doublet? 126 mila franchi in beni fondiari! Non c'è una felicità eguale!" "Senza contare il portafogli del marchese, senza contare..." "Certo, senza contare tanti altri doni della sorte..." "Sia lodato Iddio, nulla vi manca: gioventù, ricchezza, bontà, salute... Tutti beni riuniti insieme... E fra questi" soggiunse Doublet, sorridendo graziosamente "o piuttosto sopra tutti, io pongo quello di essere sposo della signora marchesa, e di avere un'amabile figlioletta che pare un cherubino." Il signor d'Harville diede un'occhiata sinistra all'intendente. Noi rinunciamo a dipingere l'espressione di amara ironia, con cui gli disse poi, battendogli familiarmente sulla spalla: "Con 126 mila franchi di rendita, una moglie come la mia, e una bambina che somiglia a un cherubino, nulla rimane da desiderare, non è così?" "Eh, eh, signor marchese" rispose l'altro ingenuamente "resta da desiderare di vivere più che si possa per maritare la signorina, ed esser nonno... Arrivare ad esser nonno è cosa che io auguro di cuore al signor marchese, come alla signora marchesa di esser nonna e bisnonna..." "Che caro signor Doublet! Pensate a Filemone e Bauci! Siete sempre pieno di bellissime idee." "Troppa bontà, mio signor marchese... Ha niente altro da comandarmi?" "Nulla... Ah, sì quanto avete in cassa?" "Ho 19300 e poche lire, senza contare il denaro depositato alla Banca." "Preleverete stamani 10 mila franchi in oro, e li consegnerete a Joseph se io sono fuori." "Questa mattina?" "Per l'appunto." "Fra un'ora avrà la somma... Ha più nulla da dirmi, signor marchese?" "No, signor Doublet." "126 mila franchi di rendita!" ripeteva l'intendente, mentre se ne andava. "Che bel giorno è questo per me! Temevo che ci sfuggisse quella fattoria, che è un così buon affare!..." "Arrivederci, signor Doublet." Appena se ne fu andato, d'Harville si gettò abbattuto sulla poltrona, appoggiò i gomiti sul tavolino e si nascose il viso fra le mani. Per la prima volta, da quando aveva ricevuto il fatale biglietto di Sarah, poté piangere. "Oh," diceva "amara derisione del destino, che mi fece ricco!... E adesso, che metterò a confronto di tanto oro? La mia vergogna, l'infamia di Clémence!... Infamia che uno scandalo farà forse riversare persino sulla fronte di mia figlia! Ed a questo scandalo debbo risolvermi, oppure aver compassione di..." Poi rialzandosi, con gli occhi brillanti e i denti serrati, esclamò: "No, no... Sangue, sangue! Il terribile salva dal ridicolo! Ora comprendo la sua avversione sciagurata!" Ma, fermatosi d'un tratto atterrito da una riflessione subitanea, riprese con voce cupa: "Avversione! Oh, so ben io quale ne è la causa... Io le faccio orrore, la spavento!" E dopo una lunga pausa: "Ma è colpa mia? Per questo deve ingannarmi? Invece di odio, non merito pietà? No, no, sangue! Tutti e due, tutti e due! giacché lei, senza dubbio, gli avrà detto tutto!" Questo pensiero raddoppiò le smanie del marchese. Alzò verso il cielo i pugni chiusi, e poi passandosi la mano ardente sugli occhi, e sentendo la necessità di star calmo davanti alla servitù, rientrò in camera con apparente tranquillità, e vi trovò Joseph. "Ebbene, i fucili?" "Eccoli, signor marchese; sono in ottimo stato." "Voglio assicurarmene. Mia moglie ha chiamato?" "Non so, signor marchese." Il vecchio servo uscì. Il signor d'Harville si affrettò a prendere dalla cassa una borsa da polvere ed alcune pallottole, quindi la chiuse e si tenne la chiave. Prese pure dalla panoplia un paio di pistole di Manton di mezza grandezza, le caricò, e se le mise nella tasca del lungo soprabito da mattina. Ritornò Joseph. "Signore, si può passare dalla signora marchesa." "Ha forse ordinato la carrozza?" "Signor no; madamigella Juliette ha detto davanti a me al cocchiere della marchesa, venuto a domandare gli ordini per il mattino, che essendo tempo freddo ed asciutto, la padrona andrà a piedi, se dovesse andare fuori." "Benissimo. Oh, mi scordavo... Se vado a caccia, sarà domani o domani l'altro. Di' a Williams che visiti la piccola "briscka" verde questa stessa mattina..." "Non mancherò, signor marchese. Volete la vostra mazza?" "No... Non c'è qui vicino una piazza con vetture da nolo?" "Qui all'angolo della rue de Lille." Dopo un momento di silenzio e di indecisione, il marchese soggiunse: "Va' a domandare a madamigella Juliette se la signora può ricevermi." Joseph obbedì. "Animo, sarà uno spettacolo come un altro... Sì, voglio andare da lei, ed osservare la maschera di perfidia e di finta tenerezza sotto cui nasconde l'adulterio... Udrò la sua bocca mentirmi, mentre le leggerò scritto nel cuore il delitto. Sì, è curioso vedere come vi guardi e vi parli, e vi risponda, una donna che dopo un momento andrà ad avvilire il vostro nome con una di quelle macchie ridicole ed orribili, che si lavano soltanto con il sangue. Pazzo che sono! Mi guarderà, come sempre, con il sorriso sulle labbra, con il candore sulla fronte! Mi guarderà come guarda la sua figliola, baciandola, e facendola pregare Iddio... Lo sguardo... lo specchio dell'anima" e si stringeva nelle spalle "più è dolce e pudico, più è falso ed iniquo! Lei me lo prova!... Ed io ci sono caduto come un balordo... Oh, rabbia! Con che freddo ed insolente disprezzo doveva mai considerarmi attraverso quello specchio impostore, quando essendo forse sul punto di andare a trovare lui, io la colmavo di dimostrazioni di stima e di affetto, e le parlavo come ad una giovane madre casta e grave, in cui avevo riposto la speranza di tutta la mia vita... No, no!" gridò d'Harville, sentendo accrescere il suo furore. "No! Non la vedrò, non voglio vederla... E neppure mia figlia. Mi scoprirei, comprometterei la mia vendetta!" Uscendo dalla stanza, invece di passare in quella di madama, il marchese d'Harville avvertì così la cameriera di sua moglie: "Direte alla vostra signora che desideravo parlarle questa mattina, ma devo uscire per un momento. Nel caso desiderasse far colazione con me, sarò qui a mezzogiorno; diversamente non si prenda pensiero di me." "All'idea che io debba tornare e starmene in casa" diceva fra sé il signor d'Harville "si crederà molto più libera." E si recò nella vicina piazza, al posteggio di carrozze. "Vetturino, vi prendo a ore." "Sì, padrone: sono le undici e mezzo; dove si va?" "In rue de Belle-Chasse, all'angolo di rue Saint-Dominique, e lungo il muro di un giardino ti fermerai." "Sì, padrone." Il signor d'Harville calò le tendine. La carrozza si mosse, e presto arrivò quasi dirimpetto all'abitazione del marchese. Da quel luogo nessuno poteva uscire di casa senza esser visto da lui. L'appuntamento accordato dalla moglie era per l'una. Attese con gli occhi fissi alla porta. Suonava mezzogiorno a Saint- Thomas, ed ecco il portone del palazzo aprirsi adagio e venir fuori la marchesa. "Di già!... Oh che attenzione! Teme di farlo aspettare!" disse fra sé il signor d'Harville con truce ironia. Il freddo era pungente, e le strade asciutte. Clémence aveva un cappellino nero coperto da un velo, un cappotto di seta color uva passa; il suo grandissimo scialle di cachemire blu cupo ricadeva sino alla guarnizione della gonna, che alzò leggermente e graziosamente per attraversare la via. Per quel piccolo movimento si vide sino alla caviglia il suo piedino, calzato a meraviglia in uno stivaletto di raso turco. Cosa strana, malgrado le idee funeste che lo straziavano, il signor d'Harville considerò il piedino della consorte, che mai non gli era sembrato più bello e gentile! Sentì forte gli acuti morsi della gelosia sensuale, e gli parve di vedere il rivale in ginocchio baciare con ebbrezza amorosa quel piede ben fatto... Allora, per la prima volta in vita sua, provò al cuore un atroce dolore fisico, uno spasimo profondo, intenso, acuto, che gli strappò un grido affannoso. Sino a quel momento l'animo suo soltanto aveva sofferto, poiché sino a quel momento non aveva pensato che alla santità dei doveri oltraggiati. La sua impressione fu così crudele, che poté appena dissimulare l'alterazione della voce nel dire al vetturino, alzando per metà le tendine: "Vede quella signora con lo scialle blu e il cappello nero, che cammina rasente al muro?" "Sì, padrone." "Va' di passo e seguila... Se va alla piazza delle vetture, fermati, e poi corri dietro alla carrozza su cui sarà salita." "Sì, padrone... Ci sarà da divertirsi!" La signora d'Harville andò alla piazza, e salì su una carrozza da nolo. La vettura del marchese la seguì a debita distanza. Dopo un breve tratto, con gran stupore del marchese, l'altra carrozza prese la strada della chiesa di Saint-Thomas, e lì si fermò. "Ebbene, che fai?" "Padrone, la signora è andata in chiesa... Accidenti, che belle gambe! Oh come mi diverto!" Mille idee diverse agitarono il signor d'Harville. All'inizio credette che la consorte, accortasi d'essere seguita, volesse confondere chi la controllava. Poi pensò che forse la lettera poteva essere una indegna calunnia. Se Clémence era colpevole, a che giovava quella finta devozione? Non era anzi una derisione sacrilega? E, per alcuni istanti, ebbe come un barlume di speranza, tanto era grande il contrasto fra quella devozione e l'adulterio di cui incolpava la sposa. Poco durò quell'illusione consolatoria. Il fiaccheraio si chinò, e disse: "Padrone, la signorina risale in carrozza." "Valle dietro." "Sì, padrone... Oh che gusto! Oh che spasso!" La carrozza passò i Ponti, il Palazzo del Municipio, la rue de Saint-Avoie, ed entrò nella rue du Temple. "Padrone!" gridò il fiaccheraio, voltandosi verso il signor d'Harville. "Il mio collega si è fermato al numero 17, noi siamo al 13: ci dobbiamo trattenere qui?" "Sì." "Padrone, la signorina entra nel portone del numero 17." "Apri!" "Sì, padrone." Ed in pochi minuti d'Harville entrava nello stesso portone, sui passi della moglie. 20. Un angelo. La marchesa d'Harville entrò nel caseggiato. Richiamati dalla curiosità, la Pipelet, Alfred e l'ostricaia erano sulla porta dello stanzino. La scala era tanto buia che, venendo di fuori, non si poteva distinguerla. La marchesa, obbligata a rivolgersi alla Pipelet le domandò con voce alterata, quasi si sentisse mancare: "Il signor Charles, signora?" "Signor... chi?" fece la vecchia, fingendo di non aver udito, per dar tempo al marito e all'ostricaia di osservare i lineamenti della donna sotto il velo. "Domando... del signor Charles" ripeté Clémence, tremando ed abbassando il capo per sottrarre il suo viso agli sguardi, che la squadravano con insolente curiosità. "Ah, il signor Charles? Alla buon'ora! Parlate tanto piano, che non avevo sentito... Ebbene, signorina, poiché andate dal signor Charles, bel giovane poi... Salite diritto, è l'uscio di faccia." La marchesa tutta confusa, mise il piede sul primo gradino. "Eh, eh, eh" continuò la vecchia sogghignando. "Pare che oggi sia la giornata buona. Viva le nozze e allegri i suonatori!" "Insomma pare che se ne intenda il Comandante" notò l'ostricaia. "Non è mica da buttar via la sua dama." Se non fosse stata la necessità di passar di nuovo davanti a loro, la signora d'Harville, che moriva di vergogna e di paura, sarebbe ridiscesa. Fece un ultimo sforzo, ed arrivò sul pianerottolo. Quale fu il suo stupore! Si trovò a faccia a faccia con Rodolphe, che, mettendole in mano una borsa, le disse rapidamente: "Vostro marito sa tutto, vi segue!" In quel punto si udì la voce aspra della Pipelet gridare: "Dove andate, signore?" "È lui!" fece Rodolphe. E aggiunse spingendo quasi la marchesa verso la scala del secondo piano. "Salite al quinto piano! Venivate a portar soccorso ad una famiglia di disgraziati... Si chiamano Morel..." "Signore, dovrete uccidermi prima di salire senza dirmi dove andate" urlava la Pipelet, impedendo il passo al signor d'Harville. Avendo visto dal fondo del corridoio la moglie che parlava con la portinaia, si era fermato un istante. "Sono con quella signora che è entrata poco fa" disse il marchese. "Allora è tutt'altro, passate." Il signor Charles Robert, avendo inteso un rumore insolito, schiuse un tantino il suo uscio. Rodolphe entrò bruscamente da lui, e vi si chiuse dentro nel momento in cui il marchese arrivava sul pianerottolo. Rodolphe, temendo, malgrado l'oscurità, di esser riconosciuto dal signor d'Harville, aveva approfittato di quella occasione pur di non farsi vedere. Il signor Charles Robert, elegantemente paludato nella sua veste arabescata da camera e con il berretto alla greca di velluto ricamato, rimase stupefatto all'apparizione di Rodolphe, che aveva visto la sera prima dall'ambasciatore, e che ora era vestito più che semplicemente. "Signore, che vuol dire?" "Silenzio!" lo interruppe Rodolphe a voce bassa e con tale espressione d'angoscia che Charles Robert tacque. Si udì un rumore violento come quello di un corpo che cade e che rotola sopra alcuni scalini. "Il disgraziato, l'ha uccisa!" esclamò Rodolphe. "Uccisa, chi? Ma che accade dunque?" domandò Charles Robert sbalordito. Rodolphe, senza rispondergli, aprì un poco la porta. Vide scendere a salti e zoppicando il piccolo Tortillard. Aveva in mano la borsa di seta rossa che Rodolphe aveva dato poco prima alla marchesa. Tortillard sparì giù dalle scale. Si udirono i passi leggeri della signora d'Harville, e quelli più gravi del consorte, che continuava a seguirla ai piani superiori. Non comprendendo come mai Tortillard fosse in possesso di quella borsa, ma alquanto tranquillizzatosi, Rodolphe disse al signor Robert: "Non vi muovete di qua. Stavate per provocare un vero disastro." "Ma insomma" riprese Charles Robert spazientito "mi direte che significa tutto questo? Chi siete, e con quale diritto..." "Significa che il signor d'Harville sa tutto, che ha seguito la moglie sino al vostro uscio e che la sta seguendo su per le scale." "Ah, mio Dio, mio Dio!" esclamò l'altro a mani giunte con spavento. "Ma che va a fare lei di sopra?" "Non vi deve importare. Restate in casa vostra, e non vi muovete prima che la portinaia vi abbia avvertito." Rodolphe se ne andò nello stanzino di Alfred, lasciando Robert spaventato ed attonito. "Ehi, dico!" fece la Pipelet, tutta allegra. "Affari seri! Affari seri! C'è un uomo che pedina la signorina. Sarà di certo il marito, quel gialliccio! L'ho indovinato subito, io, e l'ho fatto salire... Ora si ammazzeranno con il Comandante, ci sarà grande strepito nel quartiere, tutti correranno per venire a veder la casa, come fecero al numero 36 quando ci fu un assassinio." "Mia cara signora Pipelet, volete farmi un gran favore?" E Rodolphe fece scivolare cinque luigi nella mano della portinaia. "Quando quella signora scende, domandatele come se la passano i poveri Morel, ditele che fa un'opera buona assistendoli come aveva promesso, venendo a dar loro conforto e a prendere informazioni." La portinaia guardava con stupore il denaro e Rodolphe. "Come... signore... quest'oro... è per me? E quella signorina... Dunque non è dal Comandante?" "Quello che la rincorre è il marito. Avvertita a tempo, l'infelice ha potuto andare dai Morel, ai quali finge di portar soccorsi. Mi capite?" "Se capisco? Se vi devo aiutare a infamare il marito, mi sta bene, mi calza come un guanto! Eh, eh, eh, parrà che io non abbia fatto altro mestiere in vita mia... Dite pure!" Qui si vide il cappellone da caccia di Pipelet spuntare all'improvviso dall'ombra dello stanzino. "Anastasie!" disse gravemente Alfred. "Ecco che tu non rispetti niente sulla terra, come il signor Cesare Bradamanti; ci sono delle cose che non si devono mai dire, neppure nelle delizie dell'intimità..." "Eh via! Il mio cucco! Non far da bacchettone, non t'ingrossare gli occhi come le palline della tombola... Vedi pure che dico per scherzo. Non sai forse che non c'è al mondo nessuno che possa vantarsi di... Insomma basta così! Se faccio un piacere a quella giovane, è per accontentare il nostro nuovo inquilino, che è tanto buono!" Poi, rivolgendosi a Rodolphe: "Adesso mi vedrete lavorare... Volete star là, nell'angolo dietro la porta? Ecco, scendono, li sento." Rodolphe si nascose. Scendevano il marchese d'Harville e la consorte. Il marito dava il braccio alla moglie. Giunto davanti allo stanzino il marchese sembrava soddisfatto, ed insieme meravigliato e confuso. Clémence era pallida, ma tranquilla. "Ebbene, signora mia!" l'apostrofò la Pipelet sbucando dal suo bugigattolo. "Li avete visti quei poveri Morel? C'è da sentirsi scoppiare il cuore eh? Ah, mio Dio, fate davvero una grand'opera buona!... Ve lo avevo detto che erano da compiangere, l'ultima volta che veniste a cercare informazioni... Siate certa, mia buona signora, non farete mai troppo per quella brava gente... Non è vero, Alfred?" Alfred, la cui naturale rettitudine si sdegnava al pensiero di mescolarsi in quel complotto anticoniugale, rispose in modo da non essere inteso e con una specie di grugnito negativo. La Pipelet continuò: "Alfred ha il solito male al piloro, per questo non si sente parlare; se no, vi direbbe come vi dico io, che quei disgraziati pregheranno Iddio per voi, mia degna signora!" Il marchese guardava la consorte con ammirazione, e ripeteva: "Un angelo! Un angelo! Oh, che calunnia!" "Un angelo! Avete ragione, signor mio, e anche un buon angelo di Dio benedetto!" "Andiamo, mio caro..." disse Clémence, che pativa orribilmente dell'umiliazione impostasi dall'ingresso in quel caseggiato, e sentiva che le forze l'abbandonavano d'un tratto. "Andiamo pure" rispose il marchese. E, nel momento che uscivano dall'andito, le disse: "Clémence, ho bisogno di perdono e di pietà!" "Chi non ne ha bisogno?" replicò la giovane donna con un sospiro. Rodolphe uscì dal suo nascondiglio. Era profondamente commosso da quella scena angosciosa e ridicola, bizzarro scioglimento d'un dramma che aveva sollevato tante passioni diverse. "Ehi!" disse la Pipelet. "Mi pare di averlo corbellato benino quel gialliccio no? Ora sarebbe capace di riporre la moglie sotto una campana di cristallo... Poveraccio... E i vostri mobili, signor Rodolphe? Non li hanno portati." "Me ne occuperò subito... Ormai potete avvertire il Comandante che può scendere." "È vero, sì... Ma, dico, che burla! Quello ha preso in affitto l'appartamento per zero via zero... Ben gli sta! Coi suoi maledetti dodici franchi al mese..." Rodolphe se ne andò. "Ohé, Alfred!" disse la portinaia. "Adesso tocca al Comandante... Quanto voglio ridere!" E salita dal signor Charles Robert, suonò il campanello, e quello aprì. "Comandante!" e Anastasie portava militarmente il rovescio della mano sulla parrucca. "Vengo a scarcerarvi. Sono andati via a braccetto, marito e moglie, alla barba vostra... ma non importa, l'avete scampata bella, grazie al signor Rodolphe; gli dovete un grande favore!" "Quel signore magro, con i baffi, è il signor Rodolphe?" "Precisamente." "Che roba è quell'uomo?" "Che roba è?" gridò la Pipelet sdegnata. "È quanto un altro! quanto due! È un commesso viaggiatore, nostro inquilino, che ha una stanza sola, e non bada a lesinare... Mi ha dato sei franchi per fargli le faccende, sei franchi di primo botto!... Sei franchi senza tanto stiracchiare!" "Bene, bene, tenete, ecco la chiave." "Dobbiamo accendere il fuoco domani, Comandante?" "No!" "E dopodomani?" "No! no!" "Ebbene, Comandante, ve ne ricordate? Ve lo avevo pur detto, che avreste buttato via i vostri soldi!" Charles Robert diede un'occhiata sprezzante alla donna, ed uscì non potendo comprendere in che modo un commesso viaggiatore avesse potuto sapere del suo appuntamento con la marchesa. Nel momento in cui usciva dal portone, s'incontrò con Tortillard che arrivava zoppicando. "Sei qui, birbone?" disse la Pipelet. "La guercia non è venuta a cercarmi?" domandò il ragazzo alla portinaia, senza risponderle. "La Chouette? No, brutto mostro! Perché deve venire a cercarti?" "To', per portarmi in campagna..." rispose Tortillard indugiando accanto alla porta dello stanzino. "E il tuo padrone?" "Mio padre ha chiesto al signor Bradamanti di darmi vacanza per oggi, per andare in campagna... in campagna... in campagna!" ripeté il figlio di Bras-Rouge, canterellando e picchiando con le dita sui vetri. "La vuoi finire, satanasso, mi romperai tutti i vetri! Oh, ecco una carrozza..." "Ah, bene, è la Chouette!" disse il ragazzo. "Che gusto andare in vettura!" Infatti, attraverso le tendine, si vedeva il disgustoso ed orribile profilo della guercia, che fece un cenno a Tortillard, e questo accorse. Il fiaccheraio aprì lo sportello, ed egli salì sulla carrozza. La Chouette non era sola. Dall'altra parte della carrozza, imbacuccato in un vecchio pastrano con il collare di pelle, e la faccia mezzo nascosta da un berretto di seta nera che gli cadeva fino sulle ciglia, si scorgeva il Maître d'école. Le sue palpebre rosse lasciavano intravvedere due occhi bianchi, immobili, senza pupille, che rendevano anche più spaventoso il suo volto, ricucito e cosparso di macchie cerulee e livide. "Animo, animo, cuoricino mio! Buttati giù sui piedi del mio uomo, e gli farai caldo..." disse la guercia a Tortillard, che si accovacciò, come un cane, fra le gambe della Chouette e del Maître d'école. "Ora" domandò il vetturino "al podere di Bouqueval, non è così, Chouette? Vedrai se so guidare." "E specialmente sollecita il cavallo!" gli raccomandò il Maître. "Sta' quieto Senz'occhi, il mio Sozzo correrà sino alla svolta." "Vuoi che ti dia un consiglio?" fece il Maître. "E quale?" chiese il fiaccheraio. "Fa' presto nel passare davanti ai doganieri delle barriere; potrebbero riconoscerti, giacché sei stato fin troppe volte a ronzare attorno alle porte." Riportiamo questo dialogo, perché prova che il finto cocchiere era un birbante, degno compagno del Maître. La vettura lasciò la rue du Temple. Due ore dopo, verso l'imbrunire, la carrozza che racchiudeva il Maître, la Chouette e Tortillard, si fermò davanti ad una croce di legno a cui faceva capo una strada bassa e deserta, che portava alla fattoria di Bouqueval, dov'era la Goualeuse sotto la protezione della signora Georges. 21. Idillio. Suonavano le cinque alla chiesa del piccolo villaggio di Bouqueval; il freddo era vivo, il cielo chiaro; il sole, abbassandosi lentamente dietro i grandi boschi sfogliati che coronano le alture di Ecouen, imporporava l'orizzonte, e tramandava i suoi raggi pallidi e obliqui sulle vaste pianure indurite dal ghiaccio. Nei campi ogni stagione offre aspetti gradevoli. Ora la candida neve muta la campagna in un immenso piano di alabastro, che spiega il suo puro splendore sotto un cielo d'un color grigio rosato. Talvolta, verso l'imbrunire, salendo al colle o scendendo alle valli, il fattore in ritardo torna a casa; cappello, pastrano, cavallo, tutto è coperto di neve; è pungente il freddo, il vento gelato, la notte oscura: ma laggiù in mezzo agli alberi spogli di fogliame, le piccole finestre del podere sono lietamente illuminate; l'alto camino di mattoni manda per l'aria una densa colonna di fumo, che dice al castaldo che è aspettato; fuoco acceso, cena abbondante; e poi veglia, conversazione, caldo e riposo, mentre di fuori fischia la tramontana, e i cani dei diversi poderi, disseminati nella pianura, vanno rispondendosi a ululati. Sorto appena il mattino, la brina sospende agli alberi i suoi goccioloni di cristallo, che il sole invernale fa scintillare come diamanti; la terra arata, umida e grassa, è rigata da lunghi solchi dove si ricovera la lepre, dove corrono liete le pernici. Qua e là si ode il malinconico scampanellare del caprone, generale di un bel gregge di montoni sparso sul verde ed erboso pendio delle strade, mentre, avvolto ben bene nel cappotto bigio a righe nere, il pastore, seduto sotto un albero, canta, intrecciando un panierino di vimini. Qualche volta la scena è più vivace: l'eco rimanda i suoni già indeboliti del corno da caccia e i latrati dei veltri; un cervo spaventato balza ad un tratto sulle siepi della macchia, salta fuggendo per il piano, e va a perdersi in mezzo ad altri boschi. Le trombe e i latrati si avvicinano; escono da questa o quella parte della cupa boscaglia cani bianchi o macchiettati di scuro, e corrono sul terreno, e vanno sopra i maggesi; con il naso intento al suolo inseguono mugolando le orme del daino. Dietro vengono i cacciatori vestiti di rosso, curvati sul collo dei rapidi corsieri, incoraggiando le mute con il corno e con il grido. Quel turbine sonante passa via come il fulmine! Scemando lo strepito, a poco a poco ogni cosa tace... e veltri, e cavalli, e cacciatori spariscono in selve lontane ove il daino è volato a rintanarsi. Allora torna la calma, e il profondo silenzio delle ampie pianure e la tranquillità dell'esteso orizzonte non sono più interrotti se non dal canto monotono del pastorello! Simili scene, simili luoghi campestri non sono rari nei dintorni del villaggio di Bouqueval, collocato, nonostante la sua vicinanza con Parigi, in una specie di deserto, ove non si può giungere che per vie traverse. Il podere in cui stava la Goualeuse, nascosto in estate dagli alberi come un nido tra le foglie, nella stagione di cui parliamo, appariva interamente privo del suo velo di vegetazione. L'acqua gelata del fiumicello somigliava a un lungo nastro d'argento non brunito, sciorinato là in mezzo ai prati sempre verdeggianti, nei quali molte bellissime vacche passavano lentamente tornando alla stalla. Stormi di piccioni, richiamati dall'approssimarsi della sera, si fermavano l'uno dopo l'altro sulla cima acuminata del colombaio; i grossi noci che nell'estate davano ombra al cortile e agli edifici della tenuta, privi allora di fogliame, lasciavano vedere i tetti di tegole e di stoppie, vellutati da un muschio color smeraldo. Una pesante carretta tirata da quattro cavalli robusti, di folta criniera e pelo lucente, con i collari turchini adorni di sonagli e nappe di lana rossa, riportava i covoni provenienti da uno dei pagliai già fatti nel piano. Quella pesante vettura arrivava dal portone di fondo, mentre un branco di montoni si affollava ad una delle entrate laterali. Bestie e persone sembravano ansiose di sottrarsi alla brezza della notte e di gustare le dolcezze del riposo; i corsieri nitrivano lietamente al vedere la stalla, gli agnelli belavano, assediando la porta dell'ovile, gli agricoltori volgevano lo sguardo impaziente alla finestra della cucina, dove si apparecchiava una buonissima cena. Regnava in ogni luogo un ordine raro, una pulizia minuziosa e altrove insolita. Invece d'essere inzaccherati di mota secca, sparsi qua e là, ed esposti alle intemperie delle stagioni, gli erpici, gli aratri, i rulli e gli altri strumenti da lavoro, parecchi dei quali d'invenzione tutta nuova, si trovavano schierati, puliti e ben tinti sotto un'ampia tettoia, dove i barocciai se ne venivano a riporre in bella simmetria i finimenti dei loro cavalli. Il cortile vastissimo, e tenuto con la massima pulizia, coperto di arena, alberato, non offriva alla vista quei mucchi di letame, quelle pozze d'acqua limacciosa e verdastra che guastano i più bei poderi della Beauce e della Bie; il cortile del pollame, circondato da una rete metallica verde, racchiudeva tutta la turba piumata, che vi giungeva, svolazzando, da una porticina, che dava sui campi. Noi, senza entrare in altri particolari, diremo che in tutto e per tutto, quella tenuta passava giustamente nel paese per esemplare, sia per l'ottimo ordine stabilito, sia per l'eccellente coltivazione e la dovizia dei raccolti, sia per la probità e la morigeratezza delle numerose persone che l'accudivano. Spiegheremo fra poco la causa di una così prospera superiorità; adesso è necessario condurre il lettore alla rete metallica che attornia il pollaio, che non era da meno del podere per l'eleganza campestre delle sue stie, dei suoi posatoi e del piccolo canale inalveato nel vivo sasso, dove scorreva di continuo un'acqua chiara e limpida, allora felicemente sbarazzata dai ghiaccioli che avrebbero potuto darle impaccio. Successe una specie di rivoluzione fra gli alati abitatori di questo pollaio: le galline, chiocciando, abbandonarono le pertiche, i galli d'India strillarono ed i piccioni partirono dal tetto del colombaio e tubando calarono sulla sabbia. Di tutta questa confusione era causa la comparsa di Fleur-deMarie. Greuze o Watteau non avrebbero ideato un più vago modello se le guance della Goualeuse fossero state più rotondette e vermiglie: pure, malgrado il pallore, e la magrezza del volto, l'espressione dei lineamenti, l'insieme della persona, la grazia dei modi, erano degni di occupare il pennello dei sommi pittori. Le copriva la fronte e la treccia dai biondi capelli una cuffietta rotonda, alla maniera di quasi tutte le contadine delle vicinanze di Parigi; sopra questa portava, fissata dietro la testa con due spilli, una larga seta indiana rossa, le cui punte ricadevano svolazzando sulle spalle: acconciatura pittoresca e graziosa, che la Svizzera e l'Italia dovrebbero invidiare ai francesi. Un fazzolettino di batista bianca, incrociato sul seno, era mezzo nascosto dall'alto e largo pettorale del grembiale di tela cruda; un corpetto di grosso panno turchino con le maniche attillate, le stringeva la vita sottile, e spiccava sull'ampia giubba di fustagno bigio a righe scure; le calze bianchissime e gli stivaletti, celati da piccoli zoccoli neri, guarniti al collo del piede da un quadrato di pelle d'agnello, completavano quell'abito campestre e semplice, a cui la naturale bellezza di Marie dava un pregio maggiore. Reggendosi con una mano il grembiule rialzato, prendeva dentro a questo una manciata di grano, e lo distribuiva alla torma di pennuti che la circondava. Un bel piccione bianco come la neve, dal becco e dalle zampe rosse, più audace o più domestico dei suoi compagni, dopo avere svolazzato per un po' intorno a Marie, si posò finalmente sulla spalla di lei. La ragazza, avvezza certamente a quei liberi modi, non cessò di gettare agli altri tutto il grano che aveva portato, ma, volgendo un tantino il leggiadrissimo viso, ed alzando un poco il capo, poneva, sorridendo, le rosee sue labbra sul becco dell'innocente suo amico. Gli ultimi raggi del sole sul tramonto mandavano un aureo riflesso su quel semplice quadro. 22. Inquietudini. Mentre la Goualeuse attendeva a tali cure campestri, la signora Georges e l'abate Laporte, curato di Bouqueval, seduti in un salotto accanto al fuoco parlavano di Fleur-de-Marie, oggetto per loro sempre interessante di conversazione. Il vecchio curato, pensoso, raccolto, a testa bassa, e con i gomiti appoggiati sulle ginocchia stendeva istintivamente davanti al caminetto le sue tremule mani. La signora Georges, occupata a cucire, guardava il prete come aspettasse da lui una risposta. Dopo un momento di silenzio, egli disse: "Avete ragione, signora Georges, bisognerà avvertire Rodolphe; se lui affronterà Marie, lei gli è tanto grata, che forse confesserà al suo benefattore ciò che a noi vuole tener nascosto..." "Non è così, signor curato? Dunque questa sera stessa scriverò all'indirizzo che mi diede, in allée des Veuves." "Poveretta!" soggiunse il prete. "Dovrebbe reputarsi così felice! Ormai quale affanno può struggerla?" "Non c'è nulla che la distragga da quella tristezza, signor curato, neppure l'applicazione che mette allo studio...". "Ha fatto veramente progressi straordinari nel poco tempo che ci occupiamo della sua educazione." "Che ne dite, signor abate? Ha imparato a leggere e scrivere quasi correntemente, a saper far di conto abbastanza per aiutarmi a tenere i libri della fattoria! E poi, quella cara fanciulla, mi asseconda in modo così attivo in tutto, che io ne sono commossa e meravigliata. Oh, non si è forse, contro la mia volontà, affaticata al punto da farmi stare inquieta per la sua salute?" "Fortunatamente, quel medico nero ci ha tolto ogni preoccupazione sulla tosse che ci spaventava..." "È pur buono il signor David! Ha tanta premura! Mio Dio, come tutti quelli che la conoscono... Qui ognuno l'ama e la rispetta... E non è un miracolo, poiché per le generose ed elevate vedute del signor Rodolphe la gente di questa fattoria è il fiore del paese. Ma anche le persone più grossolane e indifferenti subirebbero il fascino di quella sua dolcezza angelica e timida per cui pare sempre che chieda grazia, come se fosse colpevole!" L'abate riprese, dopo aver riflettuto qualche minuto: "Non mi diceste che la tristezza di Marie cominciò, per così dire, dal soggiorno che la signora Dubreuil, fattoressa del duca di Lucenay ad Arnouville, fece qua per la festa di Ognissanti?" "Sicuro, signor curato, mi pare di essermene accorta. Eppure la signora Dubreuil, e specialmente la sua figliola Clara, modello di candore e di bontà, subirono, come gli altri, l'influenza delle buone qualità di Marie; le usarono giornalmente mille dimostrazioni di amicizia. Lo sapete pure, la domenica le nostre amiche d'Arnouville vengono da noi, o noi andiamo da loro... Ebbene, sembra che ogni visita aumenti la malinconia della nostra ragazza, benché Clara le voglia già bene come a una sorella." "In verità, signora Georges, è un mistero singolare. Quale può essere il motivo di quella occulta pena? Dovrebbe stimarsi tanto felice! Tra la sua vita presente e quella passata c'è differenza come dall'inferno al paradiso... E sì, non c'è modo di tacciarla d'ingratitudine!" "Lei, giusto Dio, ha una così tenera riconoscenza per le nostre premure! Non fa tutto quello che può per guadagnarsi, diremo così, la vita? Non procura di compensare con il suo lavoro l'ospitalità che le viene data? E non basta: eccetto la domenica, in cui si veste un poco per venire con me in chiesa, non vuole portare che panni rozzi quanto quelli delle ragazze di campagna. E malgrado questo, si manifesta in lei una certa distinzione, un garbo così naturale, che anche con quei panni sembra sempre una dama... Non è vero signor curato?" "Ah, riconosco in questi discorsi l'orgoglio materno!" disse il vecchio prete sorridendo. A queste parole si riempirono alla Georges gli occhi di lacrime: pensava a suo figlio. L'abate indovinò la causa della sua emozione, e soggiunse: "Coraggio! Dio vi ha mandata questa povera creatura per aiutarvi ad attendere il momento in cui ritroverete vostro figlio. E poi, un vincolo sacro fra poco vi unirà a Marie: una comare quando comprende santamente la sua funzione è quasi una madre. Il signor Rodolphe poi le ha dato, per dir così, la vita dell'anima traendola dall'abisso, ha adempiuti anticipatamente i suoi doveri di padrino." "La trovate sufficientemente istruita per accordarle quel sacramento che, senza dubbio, la sventurata non ha ancora ricevuto?" "Or ora, tornando con lei al presbiterio, l'avvertirò che la cerimonia si farà probabilmente fra quindici giorni." "Forse, signor curato, presiederete un giorno ad un'altra cerimonia, anche quella ben dolce e molto grave!" "E sarebbe?" "Se Marie fosse amata quanto merita, se scegliesse un bravo ed onest'uomo, perché non dovrebbe maritarsi?" L'abate scosse mestamente il capo, e rispose: "Maritarla? Pensateci bene, signora Georges: l'obbligo della verità imporrà di dir tutto a colui che volesse sposare Marie... E quale uomo, malgrado le sue assicurazioni e le vostre, non rifletterebbe sul passato che profanò la gioventù di questa infelice? Nessuno la vorrebbe." "Ma il signor Rodolphe è generoso; farà per la sua protetta più che non abbia fatto sinora; una dote..." "Ahimè!" disse il curato interrompendo la signora Georges. "Guai a Marie, se la sola cupidigia deve sopire gli scrupoli di chi la prenderà per moglie! Sarebbe condannata alla sorte più penosa, e crude recriminazioni succederebbero ad un'unione di questo genere." "Avete ragione, signor abate, sarebbe orribile! Ah, che tremendo avvenire dunque le è riservato!" "Ha grandi mancanze da espiare!" disse il prete gravemente. "Dio buono! Ma, signor curato, abbandonata tanto giovane, senza mezzi, senza appoggio, quasi senza nozione del bene e del male, trascinata suo malgrado nelle vie del vizio, come doveva non peccare?" "Il buon senso morale avrebbe dovuto sostenerla, illuminarla. Cercò forse di sottrarsi a quella triste sorte? Le anime caritatevoli sono forse così rare?" "No, di certo. Ma dove si va a cercarle? Prima di trovarne una, quanti rifiuti, quanta indifferenza! E poi, per Marie non si trattava di una elemosina momentanea, ma di un'assistenza continua che la potesse mettere in grado di guadagnarsi onoratamente da vivere... Molte madri, di sicuro, avrebbero avuto compassione di lei, ma bisognava aver la fortuna d'incontrarle. Ah, credete a me, io ho provato la miseria... A meno che non intervenga la Provvidenza, come nel caso dell'incontro di Marie con il signor Rodolphe, i disgraziati, quasi sempre respinti brutalmente si convincono presto di non poter trovare aiuto né pietà, e, stretti dalla fame e dal bisogno, cercano all'estremo nel vizio le risorse che non sperano di ottenere dall'altrui commiserazione." In quel momento, entrava la Goualeuse nel salotto. "Di dove venite, mia cara?" le chiese con premura la signora Georges. "Sono stata a controllare la frutta, signora, dopo aver chiuso il pollaio. È ben conservata, meno poche mele che ho buttato via." "Perché non avete detto a Claudine di far questa faccenda, Marie? Vi sarete stancata da capo." "No, signora, mi piace tanto andarci! L'odore della frutta matura è così gradevole." "Bisognerà, signor abate, che un giorno vediate il frutteto di Marie" disse la signora Georges. "Non potete immaginare con che buon gusto lo ha accomodato, con le ghirlande di pampini che separano ogni specie di frutta, e queste poi suddivise dal muschio..." "Oh, signor curato, sono certa che sarete contento..." disse ingenuamente la Goualeuse. "Vedrete che effetto fa il muschio intorno alle mele rosse e alle pere color oro. Ci sono soprattutto le mele appiole piccolette, di un bel colore rosa e bianco che sembrano teste di cherubini nel loro nido di muschio verde..." aggiungeva Marie, nell'esaltazione per l'opera sua. Il prete guardò la signora Georges, sorridendo, e disse a Fleur-de-Marie: "Ho già ammirato la cascina che dirigete; farebbe invidia alla donna più esperta ed esigente: andrò anche ad osservare la frutta che custodite, le mele rosse, le pere dorate e le mele cherubine nel loro nido di muschio." E il buon prete se la rideva. "Oh" seguitò "il sole è quasi tramontato. Avrete appena il tempo di accompagnarmi al presbiterio e tornare qui prima di notte. Prendete la vostra mantellina e mettiamoci in cammino, figliola... Ma anzi, ora che ci penso, è troppo freddo; restate qui, mi accompagnerà qualcuno del podere." "Ah, signor curato, le fareste dispiacere" disse la signora Georges "le piace così tanto venire ogni sera con voi fino alla canonica." "Signor curato" continuò la Goualeuse, fissando sul prete i suoi grandi occhi celesti e timidi "crederei che non foste contento di me se non mi accettaste, secondo il solito." "Io? Ma cosa dite? E allora pigliate la mantellina, e copritevi bene." Fleur-de-Marie s'affrettò a gettarsi sulle spalle una specie di manto con il cappuccio di grossa stoffa di lana bianca, orlato con un nastro di velluto nero, e diede il braccio all'abate. "Per buona sorte" disse questo "non c'è molta strada, e le vie sono sicure." "Siccome è un po' più tardi degli altri giorni" fece la signora Georges "volete, Marie, che venga con voi qualcuno del podere?" "Mi considererebbero una paurosa!" rispose ridendo la ragazza. "Grazie, signora, non state a disturbare nessuno per me; non c'è un quarto d'ora di strada da qui alla canonica, e sarò tornata prima che sia notte." "Io non insisto, giacché, lode al cielo, non si è mai sentito parlare di vagabondi in questo paese." "Se ciò non fosse, non condurrei via questa cara ragazza" disse il curato "benché mi sia di molto aiuto." L'abate uscì dal podere, appoggiato al braccio di Marie, e lei regolava il suo passo svelto e leggero, sull'andatura lenta e faticosa del vegliardo. In pochi minuti il prete e la Goualeuse arrivarono vicino alla strada bassa, dov'erano imboscati il Maître, la Chouette e Tortillard. VOLUME SECONDO. PARTE TERZA. 1. L'imboscata. La chiesa e il presbiterio di Bouqueval sorgevano a mezzogiorno, in mezzo a un castagneto, che sovrastava il villaggio. Fleur-de-Marie e l'abate presero per una via tortuosa che conduceva alla casa parrocchiale passando per la strada bassa, da cui la collina era attraversata diagonalmente. La Chouette e Tortillard videro il prete e la Goualeuse scendere nel burrone ed uscirne da un pendio alquanto ripido, mentre erano rannicchiati ad una curva di quel sentiero assieme al Maître. Il volto della ragazza era celato dal cappuccio per cui la guercia non riconobbe la sua vittima. "Sta zitto, marito" disse la vecchia al Maître "la giovane e il prete hanno passato la strada bassa. È proprio lei, secondo i connotati che ci ha dato l'uomo alto con il lutto: vestito da campagnola, statura media, gonnella a righe scure, cappottina di lana coll'orlo nero... Così accompagna tutti i giorni il prete alla sua canonica, e se ne torna poi sola. Quando ripasserà per un momento là in fondo alla strada, bisogna correrle sopra e portarla via per cacciarla nella carrozza." "E se grida aiuto?" disse il Maître. "La sentiranno dal podere, giacché dite che qui vicino si distinguono le case... Voialtri ci credete!..." soggiunse con voce cupa. "Di sicuro si vedono le case" fece Tortillard. "Poco fa mi sono arrampicato alla base del muro trascinandomi sul ventre. Ho sentito un carrettiere che parlava ai suoi cavalli in quel cortile laggiù." "Allora, ecco che si deve fare" riprese a dire il Maître dopo una lieve pausa: "Tortillard starà a far la posta al principio della via, quando vede la piccolina arrivare da lontano, le andrà incontro gridando che è il figlio d'una povera vecchia che si è fatta male cascando nella strada bassa, e la pregherà di venirla ad assistere." "Ho capito, marito. La povera vecchia sarà la tua Chouette... Ben ragionato, uomo! Tu sarai sempre il re degli uomini con il cervello fino. E poi che cosa farò?" "Ti caccerai dalla parte dove aspetta Barbillon con la vettura... Io mi nasconderò vicino. Quando Tortillard ti avrà portato la ragazza in mezzo al fosso, smetti di piangere e saltale addosso; una mano attorno al collo e l'altra sulla bocca per impedire che gridi..." "Si sa, si sa, marito... Come a quella donna del canale di SaintMartin, che facemmo affogare dopo averle tolto la cassetta che aveva sotto il braccio... La stessa cosa, non è vero?" "Sì, proprio a quel modo... Intanto che tu tieni ferma la ragazza, Tortillard correrà a cercare me. Insieme la avvolgiamo nel mio pastrano, la portiamo nella carrozza di Barbillon, e via! alla spianata di Saint-Denis, dove ci aspetta quello con il lutto." "Questo sì che è pensar fino! Senti, marito, non c'è nessuno in gamba come te! Se avessi dindi, ti farei un bel fuoco d'artifizio sulla testa e t'illuminerei con i bicchierini colorati, il giorno della festa del boia. Hai capito, tu piccino? Se vuoi diventare un bravo manigoldo guarda là il mio testone: questo è un uomo!" disse la Chouette con orgoglio a Tortillard. Poi, rivolta al Maître d'école: "A proposito, non sai? Barbillon ha avuto una paura da cani di esser condannato al taglio della zucca." "Perché?" "Ha ammazzato, poco tempo fa, in una rissa, il marito di una lattaia che veniva il mattino dalla campagna, con il carrettino tirato da un ciuco, a vender latte nella Cité, all'angolo della rue de la Vieille Draperie, vicino all'Orca del Coniglio Bianco." Il figlio di BrasRouge, non intendendo il gergo, ascoltava con curiosità e malcontento. "Avresti voglia di capire quel che diciamo, eh, piccinaccio?" "To', di certo..." "Se sei buono, t'insegnerò il furbesco. Fra poco sarai in età che ti può giovare... Ci avrai gusto, bambolaccio?" "Lo credo, guercia! E poi avrei maggior piacere a restare con voi, che con quel ladraccio del mio ciarlatano a pestar le droghe e strigliare il cavallo... Se sapessi dove tiene nascosto il veleno da topi per le genti, gliene ficcherei nella minestra per non essere più obbligato a consumarmi con lui..." La Chouette si mise a ridere, e disse a Tortillard, tirandolo a sé: "Vieni subito a baciar la mamma, diavoletto! Sei pur carino! Oh, come sai che ha il veleno da topi, il tuo padrone?" "Glielo sentii dire una volta che ero nascosto nello stanzino nero della sua camera, dove tiene le boccette e gli apparecchi, e dove prepara impiastri con quei barattoli..." "L'hai sentito dire che cosa?" domandò la Chouette. "Diceva così a un signore, a cui dava una polverina dentro un foglio: "Uno che pigliasse questa roba in tre volte andrebbe a dormire sotto terra, senza che si sapesse né come, né perché, e senza che restasse nessun segno..."." "E chi era quel signore?" chiese il Maître. "Un bel giovane, che aveva i baffi neri e un visino come una donna... Tornò un altro giorno, ma allora, quando se ne andò, lo pedinai, perché me l'aveva ordinato il signor Bradamanti per sapere dove andasse... Quel giovane entrò in rue de Chaillot, in un bel caseggiato. Il mio padrone mi aveva detto: "In qualunque luogo vada, stagli dietro, e aspettalo sulla porta, se esce ancora, vagli dietro ovunque vada: così avremo la prova di dove sta di casa, e allora, tu, stortaccio, storciti quanto puoi per scoprire il suo nome, se no, ti storcerò io gli orecchi per bene!"." "Sicché?" "Sicché, mi storsi, arrancai, e seppi il nome di quel bel signorino." "E come facesti?" "Ve'!... Non son mica una bestia: entrai dal portinaio del caseggiato di rue de Chaillot, da dove quell'uomo non era più uscito; un portinaio incipriato, con un bell'abito scuro con le mostre gialle e gallonato di argento... Gli parlai in questo modo: "Mio buon signore, vengo a farmi dare cinque franchi, che il padrone di qui mi ha promesso, perché ho ritrovato il suo cane, e gliel'ho reso, una bella bestiolina nera, che si chiama Trombetta. Il padrone è un tipo bruno, ha le basette nere, il soprabito bianchiccio e pantaloni blu chiaro, e mi ha detto che stava in Chaillot all'11 e si chiamava Dupont"... "Il signore di cui tu dici è il mio padrone, e si chiama visconte di Saint-Remy; qui non c'è altro cane che te, monellaccio! Dunque ambula, trotta, o ti dò una strigliata per insegnarti a volermi truffare cinque franchi!" mi risponde il portiere, e mi scaraventa una furiosa pedata. Non importa, tanto sapevo il casato del signorino con i baffi che veniva dal signor Bradamanti a pigliare il veleno da topi... Era il visconte di Saint-Remy... my... my... Saint-Remy..." aggiungeva il figlio di Bras-Rouge, canterellando al solito l'ultima parola. "Ma vuoi che io ti mangi, amore degli amori!" gridò la guercia, abbracciando Tortillard. "Com'è furbo! Va' scellerato, meriteresti che io fossi tua madre!" Queste parole produssero un'impressione singolare sullo zoppetto: la sua cera da scaltro, da maligno, divenne mesta; parve prendere sul serio le dimostrazioni materne della Chouette, e disse: "Anch'io vi voglio bene, perché mi baciaste tanto il primo giorno quando veniste a pigliarmi al Cuore Sanguinante dal mio babbo... Dopo la mamma, che è morta, non c'è altro che voi che mi abbiate accarezzato; tutti mi picchiano o mi scacciano come un cane rognoso, tutti, tutti, persino la Pipelet, la portinaia!" "Vecchia stracciona! Proprio lei deve fare la schizzinosa!" fece la Chouette con aria di sdegno "disprezzare una gioia di creatura come questa!" E abbracciava di nuovo Tortillard con un'affettazione ridicolissima. Il figlio di Bras-Rouge, commosso da tali prove di affetto, le contraccambiava con calore, e nella sua riconoscenza, esclamò: "Comandatemi soltanto e vedrete come vi obbedirò, come vi servirò!" "Davvero? Ebbene, non te ne pentirai." "Oh, vorrei pure rimanere con voi!" "Se sei buono, si vedrà; non ci lascerai più, mio marito e me." "Sì" soggiunse il Maître "mi condurrai come un povero cieco, dirai che sei il mio figliolo; c'introdurremo nelle case, e, corpo di mille morti!" seguitava con impeto "coll'aiuto della Chouette, faremo dei bei colpi! Mostrerò a quell'indiavolato Rodolphe che mi accecò, che non sono finiti i miei delitti... Mi ha tolto la vista, ma non il pensiero del male: io sarò la testa, questo zoppo sarà gli occhi, e tu la mano, Chouette. Mi assisterai, eh?" "E non sono tua per la corda e la forca, marito? Quando uscendo dall'ospedale seppi che avevi fatto domandare di me in casa dell'Orca da quello sciocco di Saint-Mandé, non corsi subito al tuo villaggio, da quegli imbecilli contadini, dicendo che ero tua moglie?" Queste parole della guercia ridestarono dolorosi ricordi nel Maître, ed egli, cambiando bruscamente maniere e linguaggio con la Chouette, esclamò con voce corrucciata: "Certo, mi annoiava star solo con quei galantuomini; dopo un mese non potevo più reggere... Avevo paura... Allora mi venne l'idea di farti dire che tu venissi a trovarmi... Bella cosa!" continuava ancor più irritato. "Il giorno dopo il tuo arrivo, ero spogliato del resto dei denari che mi aveva dato quel maledetto dall'allée des Veuves. Sì mi fu rubata la cintura piena d'oro mentre dormivo... Non c'eri che tu che potesse farmela! Ecco perché adesso sono nelle tue mani! Senti, veh!, tutte le volte che ci penso, non so perché non ti scanno all'istante, vecchiaccia ladra!" E mosse un passo, dirigendosi verso la guercia. "Oh badate, se fate male alla Chouette!" gridò Tortillard. "Vi leverò dal mondo tutt'e due, tu e lei, infami vipere!" urlò incollerito il furfante. E udendo che il figlio di BrasRouge parlava vicino a lui, gli sferrò un pugno così forte, che lo avrebbe accoppato se l'avesse preso. Tortillard, per vendicare sé e la Chouette, colse da terra un sasso, prese di mira il Maître e lo colpì nella fronte. Il colpo non fu pericoloso, ma acutissimo il dolore. Il masnadiero si alzò furibondo, terribile come un toro ferito: fece qualche passo avanti, ed a caso, ma inciampò. "Fiaccati il collo!" beffò la guercia, con uno scroscio di risa fino alle lacrime. Malgrado i vincoli che la legavano a quel mostro, vedeva per molte ragioni, con gioia feroce, abbattuto, annientato quell'uomo, tremendo e superbo dell'atletica sua forza. Ed in ciò la guercia giustificava a suo modo il triste concetto di Larochefoucauld, che sempre troviamo qualche cosa di soddisfacente nelle disgrazie dei nostri migliori amici. Il brutto ragazzo dai capelli fulvi e dal naso di donnola non era meno allegro della guercia. Al nuovo vacillare del Maître, si mise a sua volta a schernirlo: "Sgrana l'occhio, vecchio mio, aprilo, su! Mi sembra che tu vada un po' storto... Forse non ci vedi chiaro? Oh, asciugati meglio i vetri degli occhiali!" L'assassino, nell'impossibilità di raggiungere quel discolo, si fermò, batté i piedi, si mise i due enormi pugni sugli occhi, e mandò un ruggito rauco, come quello di una tigre sotto la museruola. "Hai la tosse, vecchietto?" disse il figlio di Bras-Rouge. "Tieni! Eccoti del sugo di liquirizia: me l'ha dato un gendarme. Non fare lo schizzinoso!" E presa da terra una manciata di terra sottile, la buttò sulla faccia del galeotto, che, percosso sul volto da quella pioggia di sabbia, sofferse più di quel nuovo insulto, che della sassata; emise una specie di rantolo, stese le braccia in atto di disperazione inesprimibile, e, levando verso il cielo il viso spaventoso, proferì con voce oltre ogni dire supplichevole, le parole: "Oh mio Dio, mio Dio, mio Dio!" Da parte di un uomo pronto ad ogni crimine, e dinanzi al quale tremavano i furfanti più risoluti, quell'invocazione involontaria alla divina misericordia sembrava davvero molto strana. "Ah, ah, il Maître che fa il santo" esclamò la Chouette, burlandolo. "Perché non chiami piuttosto il diavolo a soccorrerti?" "Ma almeno un coltello, un coltello, che io mi ammazzi! Un coltello, poiché tutti mi abbandonano..." urlò lo sciagurato, mordendosi le mani. "Un coltello? L'hai in tasca, Maître, e anche affilato! Ma tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare... Prendilo dunque il tuo coltello!" Il Maître, così sfidato a eseguire la minaccia, cambiò discorso e riprese con voce cupa e afflitta: "Lo Chourineur era buono, non mi derubò, ebbe compassione di me..." "Perché mi hai detto che t'ho rubato il tuo oro?" chiese la guercia, frenando a stento la voglia di ridere. "Tu sola entrasti nella mia camera" disse il brigante. "Mi fu preso nella notte che eri arrivata; chi vuoi che io sospetti? Quei contadini non erano capaci di ciò." "Sentiamo un po' perché non possono rubare come gli altri, i contadini? Forse perché bevono il latte e vanno a raccoglier erba per i conigli?" "Insomma mi fu grattato!" "E ci ha colpa la tua Chouette? Suvvia, ma pensa un poco: se ti avessi vuotato la scarsella, sarei rimasta con te dopo fatto il colpo? Sei pur gonzo! Certo, ti avrei ripulito dei tuoi denari, se potevo; ma, da Chouette quale sono, mi avresti rivista quando li avessi scialacquati tutti... Perché bada, mi piaci anche così con i tuoi occhi bianchi, canaglia! Animo, sta' buono, non ti sciupare i denti a stringerli forte..." "Par che rompa le noci!" disse Tortillard. "Ah, ah, ah! Hai ragione, Tortillard... Calmati, marito, e lascialo ridere; sono cose della sua età... Ma confessa che non sei giusto. Quando quello con il lutto che pareva un beccamorto mi disse: "Ci sono mille franchi per voi se portate via una ragazza che è nella fattoria di Bouqueval e me la consegnate in un luogo della pianura di Saint-Denis, che io vi indicherò!" rispondi, babbuino, non ti proposi subito di stare con me, invece di scegliere qualcuno che ci vedesse e mi fosse d'aiuto? Dunque, è come una elemosina che ti faccio... Perché, fuorché trattenere la giovane, intanto che io e Tortillard la imballeremo, tu mi servirai tanto come la quinta ruota a un omnibus... Ma non importa, lasciando andare che ti avrei derubato se potevo, ho gusto di farti del bene, voglio che tu sia obbligato di tutto alla tua cara Chouette... Oh, io sono così! Daremo duecento franchi a Barbillon, per aver condotta la carrozza ed essere già venuto qui una volta con il servitore di quello in lutto a riconoscere il punto dove ci dovevamo nascondere per aspettar la ragazza, e ci resteranno ottocento franchi a noi da scialare... Che ne dici, eh? Sei sempre arrabbiato con la tua vecchietta?" "Chi mi assicura che tu mi dia qualcosa, dopo che il colpo sarà fatto?" disse il bandito con diffidenza. "Potrei non darti nulla, è vero, giacché tu sei dentro alla mia padella, mio bell'uomo, com'era un tempo la Goualeuse. Sicché t'hai da lasciar friggere come voglio, fintanto che il diavolo ti porta a casa. Eh, eh, eh! Animo, orbetto! Che? fai il broncio alla tua Chouette?" continuò la guercia, battendo sulla spalla al Maître, che rimaneva muto ed oppresso. "Hai ragione!" replicò poi con un sospiro d'ira soffocato. "Ecco la mia sorte... Io... io... a discrezione di un ragazzaccio e di una donna, che in passato avrei ammazzati con un soffio! Oh, se non avessi tanta paura della morte!" E si buttò giù abbattuto. "Sei pur vile, adesso, sei pur vile!" disse la Chouette con disprezzo. "Parla un po' della tua coscienza, sarai più ridicolo. Se non hai più coraggio, prendo la via tra le gambe e ti lascio." "E non potermi vendicare di quell'uomo che, martirizzandomi così, mi ha gettato in questo orribile buio, di dove non uscirò mai!" aggiunse il Maître, inviperendo nella sua rabbia. "Ah, ho molta paura della morte, sì, ho molta paura... Ma se mi dicessero: "Ti daranno adesso fra le braccia quest'uomo, e dopo vi getteranno tutt'e due in un abisso!", direi: "Presto, gettatemi!". Sì, perché sarei sicuro di non lasciarlo prima di arrivare in fondo. E precipitando insieme, lo morderei sulle guance, alla gola, al cuore; lo ucciderei infine con i miei denti, che non avrebbero invidia di un coltello!" "Alla buon'ora, Maître, così mi piaci sempre... Sta' quieto, che lo ritroveremo quel birbone di Rodolphe, e anche lo Chourineur... Uscita dall'ospedale, sono stata a girellare nell'allée des Veuves... Era tutto chiuso. Ma ho detto al signore, a quello in lutto: "In passato ci volevate pagare per fare del male a quel mostro del signor Rodolphe, ora, dopo l'affare della ragazza che aspettiamo, non si potrebbe metter su qualche trappola contro di lui?" "Forse sì..." mi ha risposto. Capisci, Maître? "Forse sì..." Coraggio, marito! Ce lo mangeremo quel Rodolphe, te lo assicuro io, che ce lo mangeremo!" "Davvero non mi abbandonerai?" disse il brigante, docile e diffidente, alla Chouette. "Adesso se tu mi abbandonassi, che sarebbe di me?" "Oh, questo è vero... Dico, orbaccio, che burletta sarebbe se io e Tortillard ce la filassimo con la carrozza e ti lasciassimo qui in mezzo ai campi, questa notte, che il freddo dev'essere da cani? Sarebbe da ridere, eh?, birbante!" A tale minaccia il Maître rabbrividì; si avvicinò di più alla guercia, e le disse tremando: "No, no, non mi farai un'azione simile, Chouette... E tu nemmeno, Tortillard... Sarebbe troppo crudele!" "Ah! ah! ah! troppo crudele! Com'è sciocco! E il vecchio della rue du Roule? E il mercante di buoi? E la donna del canale di Saint-Martin? E quello dell'allée des Veuves? Credi che ti abbiano trovato amabile e grazioso con il tuo coltellaccio? Perché dunque non potremmo noi fare un bello scherzo a te?" "Va bene, lo confesso" rispose truce l'assassino "ho avuto torto di sospettarvi, ho avuto torto di voler picchiare Tortillard. Ti domando perdono, capisci, e anche a te, Tortillard, sì, domando perdono a tutt'e due." "Io voglio che s'inginocchi a chieder scusa di avere insultato la Chouette!" impose lo zoppaccio. "Amore degli amori, com'è scherzoso!" disse la Chouette ridendo. "Mi viene voglia di vedere che figura farai in ginocchio davanti a me, caro il mio bell'uomo! Giù dunque, in ginocchio, come se tu parlassi d'amore alla tua Chouette... Sbrigati, o ti piantiamo; e bada che fra mezz'ora è notte!" "Notte o giorno, che gli fa a lui?" disse Tortillard, canzonandolo. "Ha sempre le imposte chiuse; ha paura di prender aria!" "Eccomi inginocchiato... Ti chiedo perdono, Chouette, e anche a te, Tortillard... Ebbene, siete contenti?" disse il Maître tremando. "Non mi abbandonerete più, dite?" Era orribile vedere quel gruppo stranissimo nel fondo del burrone rischiarato dal chiarore rossastro del crepuscolo. Il Maître in mezzo alla strada, in atto supplice stendeva verso la guercia le mani poderose; l'incolta e folta capigliatura gli ricadeva come una criniera sulla livida fronte, le palpebre rosse, smisuratamente aperte dallo spavento, lasciavano scoperta la pupilla, vitrea, oscura, smorta... lo sguardo d'un cadavere!" Egli curvava umilmente le spalle formidabili... Ercole genuflesso e tremante ai piedi d'una vecchia e di un ragazzo! La guercia, avvolta nel suo scialle di lana rossa, coperta la testa da una cuffia di velo nero, che lasciava vedere qualche ciocca di capelli grigi, sovrastava il Maître in tutta la sua altezza. Il viso secco, bruno, livido e grinzoso esprimeva una gioia insultante e feroce. L'occhio fulvo le brillava come un tizzone infiammato; un funesto sogghigno le contraeva le labbra adombrate da lunghi peli, e mostrava tre o quattro grossi denti gialli e radi. Tortillard, con il suo camiciotto di tela e la cintura di cuoio, ritto sopra un solo piede, si appoggiava al braccio della Chouette per mantenersi in equilibrio. La faccia malaticcia e scaltra di quel ragazzo, di colore così pallido com'erano chiari i capelli, aveva espressioni di malvagità, di un cinismo diabolico. L'ombra che li avvolgeva in quel burrone raddoppiava l'orrore di quella scena, celata dall'oscurità che andava crescendo. "Almeno promettetemi di non lasciarmi!" ripeté il Maître, spaventato dal silenzio della Chouette e di Tortillard, che godevano di vederlo atterrito. "Ché? non siete più qui?" aggiunse chinandosi per ascoltare, brancolando nel buio. "Sì, sì, mio bell'uomo, siamo qua, non aver paura. Lasciarti? Piuttosto morire! Una volta per tutte, bisogna che io ti metta l'animo in pace, e che ti dica perché non ti abbandonerò mai. Ascoltami bene: ho sempre avuto la smania di avere qualcuno a cui far sentire le mie unghie, bestia o persona. Prima della Pegriotte (che il diavolo me la rimandi, perché io ho fissa in capo la mia idea... di deturparla con il vetriolo!), prima della Pegriotte, avevo un bimbo, che morì di tormenti. Per questo stetti in prigione sei anni. In quel periodo straziavo degli uccellini; li addomesticavo per poi spennarli vivi. Ma non ci godevo molto, perché duravano poco. Quando uscii di prigione mi cascò sotto le grinfie la Goualeuse, ma la scellerata mi scappò, proprio quando cominciavo a divertirmi sulla sua pelle... Poi ebbi un cane che patì quanto lei, e cominciai con il tagliargli una zampa di dietro ed una davanti, e così aveva certe mosse tanto buffe che ne ridevo, ne ridevo a crepapelle..." "To', voglio far lo stesso io a un cane che conosco e che mi ha morso!" sentenziò Tortillard. "Quando incontrai te, marito mio" proseguì la Chouette "stavo lavorandomi un gattino... Ebbene, tu sarai il mio gatto, il mio cane, il mio uccello, la mia Pegriotte, sarai, insomma, la mia "bestia da torturare"... Capisci, mio bell'uomo? Invece di un passerotto o di una creaturina, tormentare un lupo o una tigre, questo sì che è un bel cambio." "Vecchia furia!" gridò il Maître, rialzandosi sdegnato. "Ecco, torni da capo a fare il cattivo con la tua vecchia! Bene, lasciala, sei padrone, non ti piglio mica a tradimento." "Sì, la porta è aperta, vattene via, "Senz'occhi", e va' sempre diritto!" aggiunse Tortillard, dando in uno scroscio di risa. "Oh, morire!... morire!" urlò il Maître, torcendosi le braccia. "Ma che armeggi, marito? Questo lo hai già detto. Tu morire! Sei matto? Ma sei forte come il Pont Neuf!... Eh, via! camperai per la felicità della tua Chouette. Io ti strazierò di tanto in tanto, perché questo è il mio godimento, e perché bisogna che tu ti guadagni il pane che ti darò; ma, se sei buono, mi aiuterai a fare bei colpi come oggi, e altri meglio, dove potrai servire a qualcosa... In conclusione, sarai la mia bestia. Quando ti dirò: "Porta qua!", porterai; "Mordi!", morderai... E poi del resto, mio bell'uomo, non ti voglio mica pigliare per forza, io! Se invece della vita che ti propongo, hai più caro vivere di rendita, passeggiare in carrozza con una bella moglie giovane, esser decorato della croce d'onore, esser nominato gran giudice, e vederci chiaro invece di esser cieco, non far complimenti, è facile, basta che tu lo dica, ti serviranno a tuo piacere... Non è vero, Tortillard?" "A suo piacere, a sua soddisfazione, anzi subito, subito!" aggiunse, schernendolo, il figlio di Bras-Rouge. Poi, d'un tratto chinandosi verso terra, disse piano: "Sento camminare; rimpiattiamoci. Questa non è la giovane, perché viene dalla parte da dove lei è venuta." Infatti una robusta contadina, sul vigore degli anni, seguita da un grosso cane, e portando sulla testa una cesta coperta, comparve dopo pochi minuti attraverso il burrone, e prese la stessa via che avevano percorso il prete e la Goualeuse. Noi raggiungeremo questi due, e lasceremo i tre complici imboscati nella strada bassa. 2. Il presbiterio. Gli ultimi barlumi del sole si estinguevano lentamente dietro la mole imponente del castello d'Ecouen e dei boschi che lo circondavano; da ogni parte si estendevano, fin dove giungeva la vista, pianure dai solchi oscuri induriti dal ghiaccio... Vasta solitudine, di cui il borgo di Bouqueval pareva l'oasi. Il cielo sereno era colorato, a ponente, da lunghe strisce purpuree, segno sicuro di vento e di freddo, e quelle strisce, tinte prima di rosso acceso, divenivano violacee via via che il crepuscolo ricopriva l'atmosfera. La mezza luna, sottile e arcata come la metà di un anello d'argento, cominciava a brillare sopra un campo d'ombra e di azzurro. Il silenzio era assoluto, l'ora solenne. Il curato si soffermò sul colle per godere di una così bella serata. Dopo qualche istante di raccoglimento, stendendo la destra tremante verso la profondità dell'orizzonte, mezzo celata dall'imbrunire della sera, disse a Marie, che camminava al suo fianco pensosa: "Guardate dunque figliola, quell'immensità di cui non si scorgono i limiti, più non si ode il minimo rumore, sembra che il silenzio e l'infinito ci diano quasi un'idea dell'eternità... Vi dico questo, Marie, perché voi siete sensibile alle bellezze del creato. Più volte mi ha commosso l'ammirazione religiosa che vi inspira, voi, che per lungo tempo ne foste priva. Non vi avvince come me, la calma che regna in quest'ora?" La Goualeuse non rispose. L'abate, attonito, la guardò: piangeva. "Che avete mai, figlia mia." "Padre, sono molto infelice!" "Infelice? Voi, adesso, infelice?" "Non so se ho diritto di lagnarmi della mia sorte dopo quanto è stato fatto per me, ma pure..." "Eppure?" "Ah, padre, perdonate questa tristezza, che forse offende i miei benefattori." "Marie, ascoltatemi: spesso vi abbiamo domandato il motivo della mestizia che vi opprime, e che causa alla vostra seconda madre grandissime inquietudini; avete evitato di risponderci, e noi abbiamo voluto rispettare il vostro segreto, affliggendoci però di non potervi sollevare dalle vostre pene." "Ahimè, non posso spiegarvi quel che passa in me; anch'io poco fa, come voi, mi sentivo commossa nel considerare questa placida e malinconica serata. Mi è mancato il cuore, ed ho pianto." "Ma che avete, Marie? Sapete pure quanto siete amata. Animo, confessatemi tutto... Io posso dirvi questo: si avvicina il giorno in cui la signora Georges ed il signor Rodolphe vi presenteranno al fonte battesimale, prendendo davanti a Dio l'impegno di proteggervi sempre." "Il signor Rodolphe? Lui, che già mi salvò!" esclamò Marie. "Lui vorrà darmi questa nuova prova di affetto? Oh padre, non voglio nascondervi niente, temo di essere ingrata." "Ingrata? E come?" "Per farmi capire, bisogna che parli dei primi giorni, quando venni al podere." "Vi ascolto; discorreremo camminando." "Sarete indulgente, padre? Quel che sto per dirvi è male..." "Il Signore vi ha provato che è misericordioso. Fatevi coraggio." "Quando, arrivando qui, seppi che non dovevo più abbandonare la fattoria della signora Georges, credetti di fare un bel sogno. Sul principio sentivo una contentezza che mi confondeva la mente, pensavo al signor Rodolphe. Spesso, in solitudine e spontaneamente, alzavo gli occhi al cielo per ringraziarlo. Ma, lo confesso, padre, pensavo più al signor Rodolphe, che a Dio; giacché aveva fatto per me quel che Dio solo avrebbe potuto fare... Ero felice. Felice come una che sia fuggita per sempre da un gran pericolo. Voi e la signora Georges avevate per me tanta bontà, che allora mi reputavo più da compiangere, che da biasimare." Il curato guardò la Goualeuse con sorpresa. Lei continuò: "A poco a poco mi abituai a questa vita così dolce: non avevo timore, nel destarmi, di ritrovarmi in casa dell'Orca: sentivo che potevo dormire con sicurezza; il mio unico piacere era aiutare la signora Georges nei suoi lavori, applicarmi alle lezioni che voi mi davate e anche approfittare delle vostre esortazioni. Salvo qualche momento di vergogna, quando riflettevo sul passato, mi pareva d'essere eguale a tutti, perché tutti erano buoni verso di me. Un giorno, però..." Qui i singhiozzi troncarono la voce a Fleur-de-Marie. "Su calmatevi, fatevi animo, proseguite." Lei, asciugati gli occhi riprese: "Vi rammentate, padre? Per la festa d'Ognissanti la signora Dubreuil, fattoressa del duca di Lucenay ad Arnouille, venne qui a passare qualche tempo con la figliola..." "Certo, e vidi con piacere che faceste conoscenza con Clara Dubreuil; è dotata delle migliori qualità." "È un angelo, padre, un angelo. Quando seppi che doveva venire per un po' al podere, ne fui molto felice; non vedevo l'ora di stare un po' con quella compagna tanto desiderata. Finalmente arrivò. Io ero nella mia camera; dovevo occuparla con lei, e l'adornavo meglio che potessi. Mi mandarono a chiamare. La signora Georges, mostrandomi quella bella fanciulla, di fisionomia buona, docile e modesta, mi disse: "Marie, eccovi un'amica". "Spero" soggiunse la Dubreuil, che voi e mia figlia sarete presto come due sorelle." Appena la madre aveva detto queste parole, Clara corse ad abbracciarmi. Allora, padre!" e così dicendo Marie piangeva "non so quel che accadde dentro di me... Ma, nel sentire il viso puro e fresco di Clara posarsi sulla mia guancia avvilita, mi feci rossa, ardente di vergogna e di rimorso... Mi ricordai ciò che avevo fatto. Per me, per me, l'abbraccio e l'amore di una giovane così onesta! Oh, mentre mi abbracciava, mi pareva di ingannarla, di commettere un'indegna ipocrisia..." "Ma, figliola..." "Ah, padre!" esclamò Marie, interrompendo il curato con dolorosa esaltazione. "Quando il signor Rodolphe mi condusse via dalla Cité, avevo già un'idea confusa della mia degradazione... Ma credete forse che l'educazione, i consigli, gli esempi che ho avuto dalla signora Georges e da voi, illuminandomi la mente, non mi abbiano fatto comprendere, ohimè!, che ero stata anche più colpevole, che disgraziata? Prima dell'arrivo della signorina Clara, quando questi pensieri mi tormentavano, io li scacciavo procurando di accontentare la signora Georges, e voi, padre mio. Se arrossivo del passato, era soltanto fra me... Ma la vista di quella fanciulla dell'età mia, così amabile e così virtuosa, mi fece riflettere sulla distanza che sempre ci sarebbe stata fra noi due. Per la prima volta mi accorsi che ci sono macchie che non possono esser mai cancellate. Da quel momento, quest'idea non mi lascia, e mio malgrado, ci penso continuamente, e non ho più un momento di riposo." La Goualeuse si asciugò gli occhi umidi di pianto. L'abate soggiunse, dopo averla contemplata con tenera commiserazione: "Riflettete, figlia mia, che se la signora Georges voleva vedervi amica della Dubreuil, è perché vi conosceva degna di questa relazione. I rimproveri che vi fate si ritorcono sulla vostra seconda madre." "Lo so padre mio, avevo torto, ma non potevo superare la vergogna e il timore. E questo non è tutto... Ho bisogno di coraggio per terminare..." "Continuate, Marie. Sinora i vostri scrupoli o piuttosto i rimorsi sono prove a favore del vostro cuore." "Stabilitasi Clara nel podere, fui tanto afflitta quanto prima mi ero illusa di dover essere allegra, di aver una compagna della mia età. Lei, al contrario, era di buonissimo umore. Le era stato preparato un letto nella mia stanza. La prima sera, prima di coricarsi, mi abbracciò, e mi disse che già mi amava, che aveva molta simpatia per me; insistette perché la chiamassi Clara, come lei mi avrebbe chiamata Marie. Poi pregò Dio, e promise che avrebbe aggiunto il mio nome alle sue orazioni, e se io volevo aggiungere il suo alle mie. Non osai dire di no. Dopo aver chiacchierato per un po', si addormentò. Io non mi ero coricata, mi avvicinai; guardavo, piangendo, quel suo viso angelico... Poi considerando che lei dormiva nella mia stessa camera, con me, che ero stata in casa dell'Orca con dei ladri e assassini, tremavo come avessi commesso una cattiva azione, provavo una specie di terrore... Mi pareva che Dio dovesse, una volta o l'altra, punirmi... Mi coricai, feci sogni terribili, rividi quelle triste facce che quasi avevo dimenticato, lo Chourineur, il Maître, la Chouette, quella vecchia guercia, che mi tormentò da piccola... Oh, che notte, mio Dio! che notte!... Che sogni!" disse la Goualeuse, raccapricciando al ricordo. "Povera Marie" le disse commosso il curato. "E perché prima d'ora non mi faceste queste dolorose confidenze? Vi avrei riconfortata... Ma continuate, vi prego." "Avevo preso sonno tardissimo. Clara venne a destarmi, abbracciandomi. Per vincere ciò che lei credeva la mia freddezza e provarmi la sua amicizia, mi volle confidare un segreto: doveva unirsi, quando avesse compiuto diciotto anni, al figlio di un fattore di Goussainville, che amava teneramente; il matrimonio era da molto tempo combinato tra le due famiglie. Poi mi narrò brevemente la sua vita trascorsa, semplice, tranquilla, felice: non aveva mai lasciato la sua mamma, né l'avrebbe lasciata, giacché il suo fidanzato doveva amministrare il podere insieme con la signora Dubreuil. "Adesso Marie" mi disse "mi conoscete come se foste mia sorella; raccontatemi dunque la vostra vita..." A queste parole mi parve di morire di vergogna. Arrossii, balbettai. Non sapevo ciò che la signora Georges aveva detto di me, e tremavo di smentirla. Risposi superficialmente, che orfana ed allevata da persone severissime, non ero stata molto fortunata nell'infanzia e che ogni mia fortuna era cominciata con il mio soggiorno presso la signora Georges. Clara, più per premura che per curiosità, mi domandò dove fossi stata educata, se in città od in campagna, e come si chiamasse mio padre, e se mi ricordassi di aver visto mia madre. Ognuna di queste domande m'imbarazzava e mi affliggeva, giacché mi toccava dirle altrettante bugie... E voi, padre, m'insegnaste quanto sia male mentire. Però non immaginò che io potessi ingannarla. Finsi che la mia titubanza derivasse dal dispiacere che mi causavano le tristi memorie della mia fanciullezza. Clara mi credette, e mi compianse con una bontà, che mi toccava il cuore. Oh padre! Non potrete mai avere un'idea di ciò che soffersi in quel primo colloquio, e quanto mi dolesse proferire parole che erano soltanto falsità ed ipocrisia!" "Povera cara, l'ira di Dio non sarà clemente con coloro che, avendovi gettata in questo dolore, forse vi hanno condannata a subirlo per tutta la vita." "Oh sì, furono molto perversi!" soggiunse amaramente Marie. "Giacché la mia vergogna è indelebile. Né basta. Man mano che Clara mi parlava della felicità che le era riservata, delle sue nozze, del suo quieto vivere domestico, non potevo astenermi dal paragonare la mia sorte alla sua: poiché, malgrado la bontà somma che si ha per me, il mio destino sarà sempre misero! Voi e la signora Georges, facendomi comprendere la virtù, mi avete fatto anche conoscere l'orrore della mia passata abiezione, né c'è rimorso che riesca a far sì che io non sia stata la feccia di quanto di più vile c'è al mondo... Ah, poiché la cognizione del bene e del male doveva essermi così funesta, perché non mi avete lasciato nel mio disgraziatissimo stato?" "Oh Marie, Marie!" "Ma non è vero? Dico male, padre? Ecco quel che io non osavo confessarvi. Sì, a volte sono tanto ingrata da non apprezzare la bontà di cui mi ricolmano, e dico fra me: "Se non mi avessero strappata all'infamia, ebbene, la miseria e le percosse mi avrebbero presto uccisa; almeno sarei morta nell'ignoranza di una purezza che sempre rimpiangerò di non aver avuta!"." "Marie, questo è purtroppo fatale! Una persona, anche dotata generosamente dal Creatore, quando sia stata avvilita, un sol giorno, nel peccato da dove voi foste tratta, ne conserva i segni indelebili... Tale è l'immutabilità della divina giustizia." "Lo vedete, padre" esclamò angosciosamente Marie "debbo restare senza speranza sino alla morte." "Non dovete illudervi di cancellare dalla vostra esistenza quella tristissima pagina" disse il prete, in tono mesto e grave "ma sperare nella misericordia infinita dell'Onnipotente. Quaggiù saranno per voi, povera creatura, pianto, rimorso ed espiazione; ma lassù" aggiungeva il buon abate, levando la destra verso il firmamento, che cominciava a cospargersi di stelle "lassù, perdono, felicità eterna!" "Pietà, pietà, mio Dio... Sono tanto giovane, e la mia vita sarà forse ancora così lunga!" disse la Goualeuse con voce che straziava l'anima, cadendo in ginocchio ai piedi del curato. Il prete stava ritto in cima alla collina, non lontano dal presbiterio; la sua sottana nera, il volto venerabile, contornato dai lunghi capelli e rischiarato dagli ultimi chiarori vespertini, si stagliavano nel limpido orizzonte, tinto nel dolce colore d'orientale zaffiro. Questa scena grandiosa e commovente offriva un bizzarro contrasto con quella ignobile, infame, che quasi nello stesso istante aveva luogo nel burrone della strada bassa, tra il Maître e la Chouette. "Guai a me, guai!" diceva la Goualeuse disperata. "L'intera mia esistenza, fosse pur così lunga e così pura quanto la vostra, padre, sarà d'ora innanzi avvilita dalla coscienza e dalla memoria del passato. Guai a me!" "Buon per voi, al contrario, Marie! Buon per voi, a cui il Signore manda questi rimorsi, pieni di amarezze, ma salutari, e che provano la religiosa delicatezza dell'animo vostro. Tante altre, meno nobilmente dotate di voi, avrebbero nella vostra situazione dimenticato il passato, per godere del bene presente! Un'anima gentile come la vostra incontra pene, là dove il volgo non sente alcun dolore; ma ognuna di queste pene, credetemi, vi sarà ricompensata lassù! E non lo disse Egli stesso? "Quelli che fanno il bene senza contrasti e vengono a me con il sorriso sulle labbra sono i miei eletti; ma quelli che, usciti dalla lotta, vengono a me feriti e insanguinati, sono gli eletti fra i miei eletti!" Coraggio dunque, figliola! Sostegno, appoggio, consigli, nulla vi mancherà. Io sono molto vecchio, ma la signora Georges, ma il signor Rodolphe, hanno ancora lunghi anni da vivere... Specialmente il signor Rodolphe, che vi dimostra tanto interesse, che si occupa dei vostri progressi con premura e con sollecitudine... Ditemi, Marie, potreste forse dolervi di averlo incontrato?" La Goualeuse stava per rispondere, ma l'interruppe la contadina, che noi abbiamo già menzionata, la quale, facendo la medesima strada, aveva raggiunto lei e l'abate: era una serva del podere. "Con permesso, signor curato" disse "la signora Georges mi ha ordinato di portare questo paniere di frutta al presbiterio e di ricondurre con me Marie, perché si fa tardi. Ho portato anche Turco" e la serva accarezzava un cane enorme dei Pirenei, che avrebbe sfidato un orso. "Quantunque qui non si facciano cattivi incontri, è sempre prudenza." "Avete ragione, Claudine, e poi siamo bell'e arrivati al presbiterio; ringrazierete per me la signora Georges" rispose il curato. E, voltosi alla Goualeuse, le disse seriamente: "Domani mi tocca andare alla Congregazione della diocesi, ma tornerò verso le cinque. Se volete, figlia mia, vi aspetterò alla canonica. Dal vostro stato capisco che avete bisogno di altri colloqui con me." "Vi ringrazio, padre" rispose Marie. "Verrò, giacché lo permettete." "Oh, eccoci al portone del giardino" disse il prete. "Posate questo paniere, Claudine: lo prenderà la mia donna di casa. Ritornate presto al podere con Marie, perché è quasi notte e cresce il freddo. Addio Marie, addio, a domani, alle cinque." "A domani, padre." La Goualeuse e Claudine, seguite da Turco, ritornarono sulla strada del podere. 3. L'incontro. Era calata la notte, chiara ma fredda. Uniformandosi ai suggerimenti del Maître, la Chouette era andata con lui a un lato della strada bassa, la più lontana dalla via maestra e più prossima al crocevia, dove Barbillon attendeva con la sua carrozza. Tortillard, messo di sentinella, aspettava Fleur-de-Marie che doveva attirare in quell'imboscata, chiedendole di venire in soccorso ad una misera vecchia. Il figlio di Bras-Rouge, che era risalito dal burrone per andare ad esplorare, porse l'orecchio, e udì da lontano la Goualeuse parlare con la contadina che l'accompagnava. Marie, non essendo più sola, il piano era andato a vuoto. Tortillard si affrettò a scendere di nuovo nel fossato ad avvisare la guercia. "C'è gente con la ragazza" disse ansante e a voce bassa. "Che il boia le scavezzi il collo, a quella malandrina!" rispose la Chouette infuriata. "Con chi è?" domandò il Maître. "Sarà certo con la contadina che poco fa è passata sulla strada, e che aveva con sé un grosso cane. Ho riconosciuto la voce della donna" replicò Tortillard. "Sentite... sentite il rumore degli zoccoli?" Nel silenzio notturno, le scarpe di legno battevano sul terreno, indurito dal ghiaccio. "Sono due!" avvertì la guercia. "Io posso pensare alla ragazza con la cappottina bigia, ma per l'altra come si fa? L'orbaccio non ci vede, e Tortillard è troppo debole per dare addosso all'altra, che il diavolo la strozzi! Come si fa?" "Badate, io non ho molta forza" ripeté Tortillard. "Ma, se volete, mi butterò fra le gambe della contadina che ha il cane, mi attaccherò a lei con le mani e con i denti, e non la lascerò andare, no, non dubitate. Intanto porterete via la ragazza..." "E se urlano? E se fanno resistenza? Le sentiranno dalla fattoria" osservò la guercia "ed avranno il tempo di venirle ad aiutare prima che siamo arrivati alla vettura di Barbillon. Non è mica facile portar via una donna che si dibatte!" "E per di più quando hanno un cagnaccio con loro!" aggiunse Tortillard. "Ohibò, se non fosse altro, con una scarpa sul muso la schiaccerei io, quella bestia!" replicò la Chouette. "Vengono per di qua..." avvisò Tortillard, prestando di nuovo orecchio allo scalpiccio dei passi. "A momenti scenderanno al burrone." "Ma parla tu, Maître!" gridò la vecchia. "Che consiglio dai, testone? Che? Sei ammutolito?" "Non c'è da far niente per oggi..." rispose il furfante. "E i mille franchi dell'uomo in lutto?" esclamò la Chouette. "Devono sfumare per aria? Eh, non scherzo! Il tuo coltello, Maître... Qui, subito... Ammazzo la compagna, perché non ci dia impaccio; e poi la ragazza, tra me e Tortillard ci riuscirà di portarla via." "Ma l'uomo con il lutto non vuole che si uccida nessuno..." "Ebbene, il sangue che si versa lo metteremo in più sul suo conto; gli toccherà pagarci, poiché sarà nostro complice." "Eccoli, scendono" disse a voce bassa Tortillard. "Il tuo coltello, marito!" chiese la Chouette, adagio ma irosa. "Ohi, Chouette" disse però Tortillard, spaventato e stendendo le mani "ammazzarla... è troppo! No, no." "Il coltello, ti dico..." ripeté la guercia, senza badare alle raccomandazioni dello sciancato, e levandosi in fretta le scarpe. "Ora mi scalzo" aggiunse "per sorprenderle, camminando senza far rumore dietro a loro; è già scuro, ma riconoscerò la piccina con la cappotta, e stenderò morta quell'altra." "No" disse il furfante "stasera è inutile; faremo a tempo domani." "Hai paura, smorfioso!" ribatté la Chouette con truce disprezzo. "Non ho paura, ma puoi mancare il colpo e rovinare tutto." Il mastino che seguiva la contadina, fiutando la gente nascosta nella strada bassa, si fermò, abbaiò forte, e non rispose alle chiamate di Marie e della contadina. "Senti il cane? Eccoli, presto, il coltello, se no..." urlò la guercia in tono minaccioso. "Vieni a prenderlo...!" gridò il Maître. "È finita, è troppo tardi" esclamò la Chouette, dopo avere ascoltato attentamente. "Sono passate... Va', me la pagherai, maledetto!" e così dicendo mostrava il pugno al suo complice. "Mille franchi perduti per colpa tua!" "Mille, duemila, forse tremila guadagnati, al contrario!" replicò il Maître con autorità. "Ascoltami, Chouette, e vedrai se avevo torto. Torna subito da Barbillon, andate tutt'e due, con la carrozza, al luogo dell'appuntamento, dove vi aspetta quell'uomo... Ditegli che per oggi non si può far nulla, ma che domani la porteremo via." "E tu?" mormorò la Chouette, sempre adirata. "Dammi retta: la fanciulla va sola, ogni sera, a ricondurre il prete a casa sua; è un caso che oggi abbia incontrato gente; è facile che domani ci riesca meglio... Dunque ritornerai alla stessa ora al crocicchio con Barbillon e la sua carrozza." "Ma tu? ma tu?" "Adesso Tortillard mi porterà al podere dove sta la ragazza, dirà che ci siamo smarriti, che io sono suo padre, un povero operaio accecato per disgrazia; che andavamo a Louvres da un parente che ci potrebbe dare soccorso, e ci siamo perduti fra i campi, volendo prendere la strada più corta. Chiederemo di pernottare nel podere, in una stalla. Non è cosa che si rifiuti. I contadini ci crederanno e ci daranno da dormire. Tortillard esaminerà ben bene le porte, le finestre, tutte le uscite della casa; da quella gente c'è sempre denaro al tempo dei pagamenti degli affitti. Io, che possedevo dei terreni" aggiunse con amarezza "io lo so. Siamo adesso alla prima metà di gennaio, è il momento, ora si pagano i fitti. La fattoria è in un luogo solitario; una volta che ne conosceremo l'entrata e le uscite, potremo ritornare con gli amici; è un affare da non tralasciare..." "Sempre testone! Oh, che zucca!" disse la guercia, alquanto raddolcita. "Tira avanti, Maître." "Domattina invece di andarmene, mi lagnerò d'un dolore che m'impedisce di camminare. Se non mi credono, mostrerò la piaga che mi è rimasta da quando ruppi l'anello della mia catena da forzato, e che mi fa ancora soffrire. Dirò che è una bruciatura fattami con una lastra di ferro nel mio mestiere di fabbro; e mi crederanno. Così resterò parte della giornata in modo che Tortillard possa osservare ogni cosa. Verso sera, quando la ragazza uscirà con il prete, dirò che mi sento meglio e che sono in grado di andarmene. Io e Tortillard la seguiremo da lontano, e verremo ad aspettarla qui, fuori dal burrone. Quella, conoscendoci, non avrà diffidenza nel rivederci, e noi l'acchiapperemo... Una volta che la prendo con una mano, è mia, lo garantisco, e i mille franchi son nostri... E c'è dell'altro; fra due o tre giorni potremo incaricare Barbillon o qualche altro della faccenda del podere, e poi spartire quel che ci sarà, giacché saremo noi quelli che avremo preparato il furto." "Vieni, Senz'occhi! Te lo dico io che non hai rivali!" gridò la Chouette, abbracciando il Maître. "Ma se per caso domani sera la giovane non va con l'abate?" "Si ritenta dopodomani. È uno di quei bocconi che vanno mangiati freddi e adagio; e poi così s'aggiungeranno delle spese che cresceranno il conto dell'uomo con il lutto. E poi, una volta entrato nel podere, saprò giudicare, da quello che sentirò, se c'è modo di portar via la ragazza come s'è pensato, e, se no, si farà in altro modo." "Benissimo, il mio uomo! È perfetto il tuo piano. Senti, orbaccio, quando sarai infermo del tutto, dovrai farti ricettatore e progettatore di colpi. Guadagnerai denari come un avvocato. Animo, abbraccia la tua Chouette, e sbrigati... Quei villani son gente che vanno a letto presto come le galline. Io scappo a ritrovare Barbillon; domani alle quattro saremo al crocevia con lui e la sua vettura, a meno che lo arrestino per aver ammazzato il marito della lattaia. Già se non è lui sarà un altro, perché tanto la carrozza è del signore con il lutto. Dopo un quarto d'ora dal mio arrivo al crocevia, sarò qui ad aspettarti." "Farabutto chi manca! Addio, a domani, Chouette." "Oh, mi scordavo di dare un po' di cera a Tortillard, caso mai dovesse prendere l'impronta di qualche serratura... Tieni, che saprai farne buon uso, zoppetto" disse la guercia, dando un pezzo di cera al ragazzo. "Eh, non dubitate! Il papà mi ha insegnato. Ho preso per lui l'impronta di una cassettina di ferro che il mio padrone, il ciarlatano, tiene nascosta nel suo stanzino nero." "Perché non si appiccichi, sta' attento a bagnarla, dopo che l'avrai riscaldata nella mano." "Si sa, si sa!" replicò Tortillard. "Vedete, faccio tutto quel che mi dite perché mi volete un po' di bene... Non è così, Chouette?" "Se ti voglio bene? Te ne voglio come ti avessi avuto dal defunto Napoleone!" disse la donna, baciandolo. "A domani, Maître" salutò poi la Chouette. "Addio" rispose il Maître. La guercia andò a raggiungere la vettura. Il Maître e Tortillard uscirono dalla strada bassa, e si avviarono dalla parte del podere; il lume che brillava dietro le finestre servì loro di guida. Strana fatalità, che ravvicinava Anselme Duresnel alla moglie, che non aveva più visto dopo la condanna ai lavori forzati. 4. La veglia. Non c'è cosa che più rallegri d'una cucina in una fattoria all'ora del pasto della sera, e particolarmente d'inverno; non c'è cosa che meglio descriva i godimenti della vita campestre. E di ciò che affermiamo si sarebbe potuto avere una prova nel vedere la cucina del podere di Bouqueval. Il gran camino, alto sei piedi e largo otto, somigliava ad un ampio vano sopra una fornace; nell'oscuro focolare brillava un ceppo di faggio e di quercia. Quell'enorme braciere mandava tanta luce quanto calore e rendeva inutile il lume di una lampada appesa al trave principale del soffitto. Sugli scaffali erano disposte, ben pulite, grosse pignatte e casseruole di rame; un gran mestolo all'antica dello stesso metallo, luccicava come uno specchio, poco distante da una madia di noce diligentemente lustrata, da cui esalava un grato odore di pane caldo. La tavola, lunga, solida, coperta dalla tovaglia, di tela grossolana, ma linda, stava in mezzo alla stanza. Il posto di ciascun commensale era segnato da un piatto di maiolica, scuro fuori e bianco dentro, e dalle posate di ferro, lucide come l'argento. In mezzo al desco un'ampia zuppiera, colma di minestra di legumi, fumava come un cratere, ed avvolgeva con il suo gustoso vapore un immenso piatto di "salcraut" con il prosciutto, ed un altro, egualmente rispettabile, di castrato in umido con le patate; un quarto di vitello arrosto, contornato da due insalate, e due ceste di mele e due forme di cacio, completavano il pasto. Tre o quattro mezzine di creta, piene di sidro spumante, fatto nel podere, ed altrettante pagnotte alla casalinga, grandi come macine da molino, stavano a discrezione dei buoni villici. Un vecchio cane da pastore, nero, quasi sdentato, il più anziano della torma canina della fattoria, andava debitore all'età ed agli antichi servizi del permesso di rimaner vicino al fuoco, e valendosi, con modestia e discrezione di tale privilegio, con il muso allungato sulle due zampe davanti, badava ai diversi preparativi che precedevano la cena. Questo venerabile quadrupede rispondeva al nome, bucolico, di Lisandro. La signora Georges (in ciò eseguendo le intenzioni di Rodolphe) trattava meglio che poteva i contadini, scelti fra le persone più oneste e laboriose del paese. Erano questi ben pagati, e la loro sorte era così invidiabile che entrare come castaldo nella fattoria di Bouqueval, era l'ambizione dei più abili coltivatori della contrada, ambizione innocente, che manteneva fra loro un'emulazione tanto più lodevole, in quanto a profitto dei padroni. Dopo aver terminati i preparativi per la cena, e messo sulla mensa un boccale di vino vecchio destinato a far compagnia alla frutta, la cuoca andò a suonare la campana. A quella lieta chiamata, agricoltori, domestici, lattivendole, ragazze di servizio, in numero di dodici o quindici, entrarono allegramente in cucina. Gli uomini avevano un aspetto veramente maschio e schietto, le donne erano bellocce e robuste, le fanciulle vivacissime: in tutte quelle fisionomie si scorgeva il buonumore, la calma dell'animo, la contentezza di sé. Si accingevano con gran appetito a far onore a quel pasto, ben guadagnato con le aspre fatiche della giornata. A capo tavola si sedette un vecchio agricoltore con i capelli bianchi, faccia franca, sguardo ardito, bocca un poco motteggiatrice, vero tipo del contadino di giudizio, uno di quegli spiriti solidi e retti, chiari, rozzi, astuti, che si riconoscono subito come discendenti delle antiche popolazioni galliche. Papà Chatelain (così si chiamava quel Nestore), che dall'infanzia non aveva mai abbandonato la fattoria, era impiegato come direttore dei lavori dei campi. Quando Rodolphe comprò la tenuta gli fu giustamente raccomandato; e Rodolphe lo tenne nella fattoria e lo investì, sotto gli ordini della Georges, d'una specie di sopraintendenza per quanto concerneva la coltivazione e la lavorazione dei terreni. Papà Chatelain aveva sulla gente del podere una somma influenza, dovuta alla sua età, al suo sapere, alla sua esperienza. I contadini sedettero a tavola. Dopo aver detto ad alta voce il "Benedicite", papà Chatelain, uniformandosi ad un'antica e santa usanza, segnò una croce sopra un pane con la punta del coltello e ne tagliò un pezzo, che rappresentava la parte della Madonna, ossia la parte del povero; quindi versò un bicchiere di vino, e pose tutto sopra un tondo, che fu devotamente collocato in mezzo al desco. In tal momento i cani di guardia abbaiarono forte; Lisandro rispose con un brontolio, aggrinzò le labbra, e mostrò due o tre dentoni ancora rispettabili. "C'è qualcuno nel cortile!" disse Chatelain. Aveva appena parlato che suonò il campanello del portone. "Chi può essere, così tardi?" disse. "Tutti sono tornati a casa... Va un po' a vedere, Jean-René." Jean-René, garzone del luogo, rimise, con rincrescimento, nella sua scodella un'enorme cucchiaiata di zuppa caldissima, su cui soffiava con forza ed uscì dalla cucina. "È la prima volta che la signora Georges e la signorina Marie non vengono accanto al fuoco, ad assistere alla nostra cena" osservò papà Chatelain. "Io ho fame, e molto! Ma mangio con meno voglia." "La signora Georges è salita in camera della signorina Marie, perché questa, nel tornare dal curato, si è sentita male e si è messa a letto" disse Claudine, la robusta ragazza che aveva ricondotto la Goualeuse dalla Canonica. "La nostra buona Marie sarà solamente un pochino indisposta, ma non ammalata, non è vero?" domandò il vecchio, con inquietudine. "No, no, grazie a Dio, la signora Georges ha detto che non sarà nulla" soggiunse Claudine. "Se no, avrebbe mandato a chiamare il signor David, quel medico che curò la signorina quando soffriva tanto. Eppure è sorprendente, un dottore nero! Se fosse per me, non ne avrei fiducia! Un medico bianco, alla buon'ora! Almeno è cristiano." "Ma il signor David non la guarì allora?" "Sì, papà Chatelain." "Ebbene?" "Non importa, un dottore nero a me mi mette qualcosa che mi fa paura!" "Non risanò anche la vecchia Anna, che per una piaga alla gamba non poteva muoversi dal letto da più di tre anni?" "Sì, sì papà Chatelain, ma un medico nero... Pensate un po', nero, nero..." "Senti, figlia mia, di che colore è la tua giovenca, Musetta?" "Bianca come un cigno, e buona mucca, questo poi si può dire con tutta sincerità." "E la tua giovenca Rosetta?" "Nera come un corvo, papà Chatelain! E anche quella, che latte dà! Oh, bisogna esser giusti!" "E il latte della vacca nera, di che colore è?" "Accidenti a voi, bianco, papà Chatelain. È naturale... Come volete che sia il latte di qualsiasi mucca? Bianco quanto la neve!" "È buono come quello della Musetta?" "Di sicuro." "Quantunque Rosetta sia nera?" "Quantunque sia nera... Che gli fa al latte, che la vacca sia nera, rossa o bianca?" "Non fa niente?" "Nulla e poi nulla, papà Chatelain." "Oh dunque, allora, perché non vuoi che un medico nero sia buono quanto uno bianco?" "Eh sì, papà Chatelain, per via della pelle" disse la forosetta, dopo un momento di riflessione serissima. "Però, se Rosetta che è nera, ha il latte buono come la Musetta, che è bianca, la pelle non deve entrarci un bel niente." Queste osservazioni di Claudine sulla diversità delle razze furono interrotte dal ritorno di JeanRené, che si soffiava nelle dita con tanta forza, come aveva soffiato sulla minestra. "Oh, che freddo, che freddo fa stanotte... Gela da tagliare le pietre" disse entrando. "È meglio star dentro che fuori, con questo tempo... Che freddo!" "Gelo con il vento di levante avrà durata e sarà duro come il diamante! Tu lo devi sapere, ragazzo mio" commentò l'anziano agricoltore. "Ma chi aveva suonato?" "Un povero cieco e uno zoppetto che lo guida..." 5. L'ospitalità. "Che vuole quel cieco?" domandò papà Chatelain a JeanRené. "Il pover'uomo e suo figlio si sono smarriti volendo andare a Louvres per la scorciatoia; siccome fa un freddo da bestia, e la serata è buia perché il cielo si copre, chiedono di pernottare nel podere in un angolo della stalla." "La signora Georges è tanto buona che non ricusa mai ospitalità a un disgraziato. Consentirà di certo che si dia da dormire a quest'infelice... Ma bisogna avvertirla. Vacci tu, Claudine." Claudine sparì. "E dove aspetta quel galantuomo?" domandò papà Chatelain. "Nel piccolo granaio." "Perché l'hai messo là?" "Se fosse restato nel cortile i cani l'avrebbero mangiato crudo, lui e il suo ragazzo. Eh sì, badavo a dire io: "Piano, Medoro!... qua Turco!... basso, Sultano!". Non li ho mai visti scatenati a quel modo... Eppure, noialtri non li avvezziamo mica a mordere i poverelli!" "Miei cari, questa sera la parte del povero sarà serbata davvero... Stringetevi un tantino. Bene, mettiamo due posate di più, una per il cieco, l'altra per il figlio, giacché sono sicuro che la signora Georges lascerà che passino qui la nottata." "Ma è curioso, a ogni modo, che i cani si siano infuriati così!" osservò Jean-René. "C'era specialmente Turco, che Claudine aveva portato con sé stasera nell'andare al presbiterio che pareva indemoniato. Nell'accarezzarlo per ammansirlo, gli ho sentito il pelo tutto irto come ad un porcospino. Che ne dite, eh, papà Chatelain, voi che sapete tutto?" "Dico, ragazzo mio, che le bestie ne sanno spesso anche più di me. Quando vi fu l'uragano di questo autunno, che il ruscello era diventato un torrente, io me ne tornavo di notte con i miei cavalli da lavoro, e, seduto sul più vecchio rabicano, che io sia maledetto se avrei saputo dove passare, giacché non ci si vedeva più che in un forno! Ebbene, lasciai la briglia sul collo alla mia bestia, e questa trovò da sola quel che io non avrei mai trovato. Chi le ha insegnato?" "Appunto, papà Chatelain, chi ha insegnato a quel cavallaccio?" "Quello che insegna alle rondini a fare il nido sui tetti, e alle cutrettole a farselo tra le canne, caro mio... Oh, Claudine" disse il vecchio alla lattaia, che veniva con sotto il braccio due paia di lenzuola pulite, che mandavano un odore di salvia e d'erba colombina "ebbene? La signora Georges ha ordinato che cenino e dormano qui il cieco e il figliolo?" "Ecco le lenzuola per fare i letti nella cameretta in fondo al corridoio" rispose Claudine. "Animo, Jean-René, va' a chiamarli... Tu, figlia mia, accosta al fuoco due seggiole, si scalderanno un momento prima di mettersi a tavola... Giacché la brezza è fina questa sera." S'intesero di nuovo i latrati dei cani e la voce di Jean-René che cercava di calmarli. Si aperse ad un tratto l'uscio della cucina; il Maître e Tortillard entrarono, con precipitazione, come fossero inseguiti. "Badate ai cani!" esclamò il Maître spaventato. "Sono stati lì lì per morderci!" "Mi hanno strappato un pezzo del mio camiciotto" gridò Tortillard, pallido per la paura. "Scusate galantuomo" disse Jean-René, chiudendo la porta "ma non li ho mai veduti tanto cattivi. Sarà stato di certo il freddo che li punzecchia. Non hanno giudizio, vorranno forse mordere per scaldarsi!" "Oh, adesso quest'altro!" disse papà Chatelain, fermando il vecchio Lisandro, che ringhiando stava per scagliarsi sui due sopraggiunti. "Ha sentito gli altri abbaiare a squarciagola e vuol fare altrettanto. Vuoi andar subito a cuccia, brutto selvaggio? Ci vuoi andare, eh?" A queste parole di papà Chatelain, accompagnate da una pedata molto espressiva, Lisandro, sempre ringhioso si rimise al suo posto prediletto, accanto al focolare. Il Maître e Tortillard stavano sulla porta della cucina, senza osare venire avanti. L'assassino, avvolto nel pastrano blu con il collare di pelle ed il cappello nero che gli celava quasi tutta la fronte, stringeva la mano di Tortillard, che gli si stringeva vicino, sbirciando i contadini con diffidenza: l'onestà di quelle fisionomie confondeva e quasi dava spavento al figlio di Bras-Rouge. Anche le cattive coscienze hanno le loro antipatie e le loro simpatie. L'aspetto del Maître d'école era così orrendo, che i villici rimasero per un po' colpiti, chi da disgusto e chi da timore. Questa impressione non sfuggì a Tortillard; il loro sbigottimento fu anzi di conforto: egli si rassicurava della paura che inspirava il suo compagno. Passato il primo stupore, papà Chatelain, non pensando che ad adempiere gli obblighi dell'ospitalità, disse al Maître: "Brav'uomo, venite vicino al fuoco; prima vi scalderete, poi cenerete con noi, giacché capitate nel momento che andiamo a tavola. Ecco, sedete là... Ma dove ho la testa? Non l'ho da dire a voi, ma al vostro ragazzo, poiché, per disgrazia, voi siete cieco... Su, piccolo, conduci tuo padre vicino al focolare." "Sì, mio buon signore" rispose Tortillard, con voce nasale e ipocrita. "Iddio ricompensi la vostra carità! Vieni con me, povero babbo..." E lo zoppetto guidò i passi dell'assassino verso il camino. Sul principio Lisandro ringhiava soltanto, ma dopo, fiutato il Maître, mandò d'un tratto quella sorta di ululato lugubre per cui comunemente si dice che i cani urlano a morte. "Oh inferno!" disse tra sé il Maître. "Questi maledetti animali avessero a sentire l'odore del sangue? Avevo questi pantaloni la notte dell'assassinio del mercante di buoi..." "Questo mi meraviglia!" disse piano Jean-René "Lisandro che uggiola a morte, nel fiutare quel buon uomo!" Allora accadde una cosa stranissima. Gli ululati di Lisandro erano così penetranti e prolungati che gli altri cani lo udirono (il cortile non essendo separato dalla cucina se non per mezzo di una finestra con i vetri), e, secondo l'abitudine della razza cagnesca, ripeterono a gara quegli urli lamentevoli. Benché poco superstiziosi, i contadini si guardarono in faccia l'un l'altro quasi con sgomento. Infatti, accadeva qualcosa di strano. Un uomo, che non avevano potuto accogliere senza un senso di orrore, entrava nel podere. Le bestie, sino allora tranquille, infuriavano subito e mandavano quei gridi sinistri che, secondo le credenze popolari, presagiscono prossima la morte. Il Maître stesso, malgrado l'abitudine al male e l'infernale sua audacia, si scosse nell'ascoltare quegli ululati funebri, che prorompevano alla comparsa di lui, di lui, assassino! Tortillard soltanto, scettico, sfacciato, vero monello di Parigi, corrotto, per così dire, sin da quando poppava, restò indifferente all'effetto morale di quella scena. Liberatosi della paura di esser morso, quel piccolo sciancato sprezzò e nemmeno capì ciò che ancora faceva raccapricciare il Maître. Passato il primo stupore, JeanRené uscì, e presto s'udirono gli schiocchi della sua frusta, che dissiparono i lugubri presentimenti di Turco, di Sultano e di Medoro. A poco a poco le facce dei contadini si rasserenarono. Dopo qualche istante l'orribile deformità del Maître destò in loro più compassione, che ribrezzo; compiansero lo zoppetto della sua infermità, lo trovarono vispo ed interessante, ed elogiarono molto le premure che aveva per il genitore. Il loro appetito, dimenticato per poco, si svegliò con nuova energia, né altro s'intese che il rumore delle forchette. Mentre facevano onore meglio che potevano ai buoni cibi campestri, uomini e donne esaminavano, con vera commozione, le attenzioni del ragazzino per il cieco. Tortillard, seduto vicino al Maître, gli preparava e gli porgeva i bocconi, gli tagliava il pane, gli mesceva da bere, fingendo una premura del tutto figliale. Questo era il lato buono della medaglia: ecco adesso il rovescio. Tanto per crudeltà, che per spirito d'imitazione, naturale all'età sua, Tortillard provava un triste godimento a tormentare il Maître, come aveva visto fare alla Chouette, per la quale aveva particolare affezione. Come mai quel perverso fanciullo sentiva il bisogno d'essere amato? Come traeva estremo piacere dall'apparente attaccamento della guercia? Come poteva essere sensibile al lontano ricordo degli amplessi di sua madre? E proprio per la Chouette, il piccolo Tortillard decise di far soffrire il Maître mentre erano a tavola con i contadini ed era costretto a sopportare per non insospettirli. Per cui cominciò a bilanciare ciascuna delle gentilezze verso il supposto padre, con una occulta pedata di sotto alla tavola, diretta specialmente sulla piaga che il Maître aveva alla gamba. Ed era necessario un coraggio tanto più stoico, per celare a tutti il dolore e la rabbia ad ogni colpo, in quanto il perfido Tortillard per porre la sua vittima in posizione ancor più difficile, sceglieva, per percuoterlo, i momenti in cui il Maître beveva, o quelli in cui discorreva. Tuttavia, l'impassibilità del bandito non si smentiva. Frenò meravigliosamente la collera e lo spasimo pensando (e su ciò contava il degno figlio di BrasRouge) che sarebbe stato dannoso per la riuscita dei suoi progetti, lasciare indovinare quanto accadeva. "Tieni, povero babbo, ecco una noce bell'e sbucciata" disse Tortillard, ponendo nel piatto del Maître gli spicchi di uno di quei frutti, diligentemente staccati dal guscio. "Bene, ragazzo mio!" disse papà Chatelain. E, rivolto al Maître: "Siete certo molto da compiangere, galantuomo; ma avete un figlio tanto buono, che vi dovete consolare non poco." "Sì, sì, la mia disgrazia è grande; e se non fosse la tenerezza del mio caro figlio..." E il Maître non poté trattenere un grido. Questa volta il figlio di BrasRouge aveva colpito nel vivo della piaga, ed il dolore fu tale da non reggersi. "Mio Dio, che hai povero padre?" esclamò Tortillard, in aria di piagnisteo, e, essendosi alzato, si gettò al collo del Maître. Nel primo impeto di collera e di odio, il bandito voleva soffocare lo zoppetto fra le sue braccia erculee, e se lo strinse così forte al petto che il ragazzo, mancandogli il respiro, mandò un gemito lento ed affannoso. Ma poi, riflettendo che non poteva fare a meno di Tortillard, il Maître si trattenne e lo respinse sulla seggiola. In tutto ciò i contadini non videro che uno scambio di tenerezze paterne e figliali; il pallore e l'oppressione di Tortillard parvero loro causate dall'emozione di quel buon figlio. "Che avete, mio caro?" domandò papà Chatelain. "L'urlo ha fatto paura al bambino. Poveretto! Può appena respirare!" "Non è niente" rispose il Maître, riprendendo il suo solito sangue freddo. "Io sono fabbro di mestiere; tempo fa lavoravo a martello una verga di ferro rovente, mi cascò sullo stinco, e mi fece una scottatura tanto profonda, che ancora non è cicatrizzata... Poco fa ho inciampato ad un piede della tavola, e non ho potuto fare a meno di gridare dal dolore." "Povero babbo!" soggiunse Tortillard, calmatosi, e volgendo uno sguardo diabolico al Maître. "Povero padre! Eppure, è vero, miei buoni signori, non c'è stato mai modo di guarirgli la gamba... Oh, vorrei averlo io, il suo male, purché non l'avesse più lui, povero babbo!" Le donne contemplarono, intenerite, lo sciancato. "Ah, galantuomo!" disse papà Chatelain. "È una disgrazia per voi non essere capitato qui tre settimane fa, piuttosto che stasera." "Perché?" "Perché abbiamo avuto per qualche giorno un dottore di Parigi che ha un rimedio potente per il male alle gambe. Una vecchierella del villaggio non poteva camminare da tre anni, quel medico le ha applicato sulle contusioni un poco del suo unguento, e adesso corre come una lepre, e si propone di andare quanto prima a ringraziare il suo salvatore a Parigi, in allée des Veuves... Vedete che di qua c'è un bel pezzo di strada... Ma che vi sentite? Da capo quella maledetta ferita?" Le parole: "allée des Veuves" richiamavano così orribili memorie al Maître, che non poté astenersi dal trasalire e dal raggrinzire i suoi laidi lineamenti. "Sì" disse "un'altra fitta..." "Papà mio, sta' quieto, stasera ti laverò la gamba" disse Tortillard. "Poverino," fece Claudine "come vuol bene a suo padre!" "È proprio un peccato" soggiunse papà Chatelain, volgendosi al Maître "che quel degno professore non sia qua. È tanto caritatevole quanto è sapiente; sicché, tornando a Parigi, fatevi condurre da lui, e sono certo che vi guarirà. L'indirizzo non è difficile da tenersi a mente: allée des Veuves, 17. Se vi scordate il numero, poco importa; non ci sono molti medici in quel luogo, e specialmente medici neri... Giacché dovete sapere che è un nero, sì, l'ottimo dottor David." Il volto del Maître era così sfigurato dalle cicatrici che non si poteva capire quando si alterava per un'emozione mentre papà Chatelain gli parlava del medico. Impallidì però, e orribilmente, udendo prima citare il numero della casa di Rodolphe, e poi parlare di David, il dottore nero, quel nero che, per ordine di Rodolphe, gli aveva inflitto lo spaventoso castigo di cui sentiva ad ogni istante le conseguenze. Per la prima volta in vita sua provò una specie di terrore superstizioso. Si chiese se c'era un nesso fra tutte le varie coincidenze di quella sfortunata giornata. Papà Chatelain, non accorgendosi della sua agitazione, continuò: "Del resto, buon uomo, quando partirete, daremo l'indirizzo del dottore al vostro figliolo, e faremo un piacere al signor David, mettendolo in grado di giovare a qualcuno. È tanto buono! Tanto buono... Peccato che abbia sempre quella faccia malinconica!... Ma, animo, beviamo un bicchierino alla salute del vostro futuro guaritore." "Grazie, non ho più sete" rispose truce il Maître. "Bevi, caro papà, e farà bene al tuo povero stomaco" insistette Tortillard, ponendogli in mano il bicchiere. "No, non voglio più bere" replicò il Maître. "Non vi ho versato sidro, è vino vecchio!" disse il contadino. "Oh, ci sono molti signori di città che non ne trincano di eguale a questo. Il nostro non è un podere come tanti altri... Che ne dite del nostro pranzo?" "Buonissimo" rispose il Maître, sempre più assorto in tristi pensieri. "Ebbene, è tutti i giorni così! Buon lavoro e buon pasto, buona coscienza e buoni letti: ecco in quattro parole la nostra vita. Siamo qui in sette uomini, e, senza vantarci, facciamo per quattordici; ma anche siamo pagati per quattordici... Ai semplici contadini centocinquanta scudi, alle mungitrici e alle ragazze della fattoria sessanta scudi, e da ripartirsi fra noi un quinto dei prodotti... Capite, alla terra non diamo un momento di riposo, giacché da buona nutrice, quanto più produce, e tanto più abbiamo noi!" "Il vostro padrone non deve arricchirsi molto, trattandovi in questo modo" osservò il Maître. "Il padrone? Oh, non è come gli altri: ha un modo di arricchire che è tutto suo." "Che volete dire?" domandò il cieco, desiderando mutar conversazione per distrarsi dai neri pensieri che lo tormentavano. "Dunque è un uomo straordinario?" "Straordinario in tutto, mio caro. Ma poiché il caso vi ha portato qui, e questo villaggio è lontano da qualunque strada maestra, e per certo non ci tornerete mai più, almeno voglio che non ci lasciate senza sapere chi è il nostro padrone, e cosa fa di questa tenuta. E adesso ve lo dico in due parole, a patto che le ripetiate a tutti quanti. Vedrete, sono cose buone a dirsi, come a sentirle." "Vi ascolto" rispose il Maître. 6. Una fattoria esemplare. "E non vi rincrescerà di avermi ascoltato" prese a dire papà Chatelain. "Figuratevi che un giorno il nostro padrone pensò fra sé: "Sono ricchissimo, va bene, ma siccome non per questo pranzo due volte, se facessi pranzare quelli che non hanno pranzo, e mangiar meglio tanti altri che non ne hanno abbastanza per vivere... Sì, mi piace! Presto, all'opera!". E ci si accinse subito. Comprò questo podere, che allora dava poca rendita, e impiegava solamente due aratri... Io lo so perché ci sono nato... Aumentò i terreni, e tra poco sentirete il perché. Alla direzione della fattoria mise una brava donna, rispettabile quanto disgraziata... Già lui sceglie sempre così... E poi disse: "Questa casa sarà come la casa di Dio benedetto, aperta ai buoni, chiusa per i birbanti; ne saranno cacciati gli accattoni infingardi, ma si darà l'elemosina del lavoro a quelli che hanno voglia d'industriarsi: elemosina che non umilia chi la riceve, e porta profitto a chi la dà. Il ricco che non la faccia, è un cattivo ricco". Ecco come pensa il nostro padrone e ha ragione davvero! E non gli basta dirlo, ma opera su quell'idea. Tempo addietro c'era una strada diretta da qui a Ecouen, che scorciava d'una lega intera, ma, corbezzoli!, era tanto sfondata, che non ci si poteva più passare: era una morte per i cavalli e per le vetture. Un po' di fatica e di denaro somministrato dai fattori delle vicinanze, l'avrebbe rimessa in buono stato, ma tanto desideravano vedere la strada rimessa in sesto, quanto non avevano voglia di sborsare quattrini e fatiche. Il nostro padrone allora disse: "La strada si farà; ma, siccome quelli che potrebbero contribuire non contribuiscono, siccome è quasi un lusso, sarà utile in avvenire a chi ha carrozza e cavalli, ma prima deve giovare a quelli che non hanno altro che braccia, cuore e scarsità di lavoro. Se, per esempio, un pezzo d'uomo robusto bussa al podere, gridando: 'Ho fame, e mi manca impiego!...' 'Figlio mio, eccoti una buona pala e una zappa, va sulla via di Ecouen, fa ogni giorno due tese di ghiaia, e la sera avrai un paio di franchi; una tesa un franco, mezza tesa dieci soldi... Se no, nulla!...' Io poi, all'imbrunire, tornando dai campi, vengo ad esaminare ogni cosa, e controllo quel che ha fatto ciascuno..."." "E quando si pensa che ci sono stati degli uomini senza cuore, tanto canaglie da mangiarsi la minestra e poi rubare la zappa e la pala!" disse Jean-René, con indignazione. "Oh, vale la pena di far loro del bene?" "Oh, questo è vero!" ripeterono insieme parecchi contadini. "Eh via, miei cari" riprese papà Chatelain. "Così non si farebbero né piantagioni né sementi, se stiamo a badare che ci sono arzavole, punteruoli ed altri cattivi insetti che ci rodono le foglie e sbriciolano il grano! No, no! Si dà addosso a quelle razzacce. Dio benedetto, che non è avaro, fa spuntare nuovi rampolli, nuove spighe, il danno si ripara, e non ci accorgiamo nemmeno che sono passate quelle bestie maligne. Non è così, galantuomo?" domandò il vecchio. "Sicuro, sicuro" rispose Maître, che da qualche momento rifletteva profondamente. "Oh, per le donne e i ragazzi c'è da lavorare secondo le forze" soggiunse papà Chatelain. "E però" obiettò Claudine "la strada non si fa in fretta!" "Madonna! È segno che, per fortuna, in questi paesi alla brava gente non manca lavoro." "Ma ad un infermo, a me, per esempio" disse d'un tratto il Maître "non si accorderebbe per carità un posto in qualunque angolo del podere, un tozzo di pane, un po' di ricovero, per il poco tempo che mi resta da vivere? Ah, se questo potesse essere, mie buone genti, passerei tutta la vita a ringraziare il vostro padrone." Il Maître parlava sul serio. Non che si pentisse dei suoi delitti, ma l'esistenza quieta e felice di quei villici eccitava tanto più in lui l'invidia, quanto più rifletteva sull'orribile avvenire riserbatogli dalla Chouette, avvenire che non aveva previsto, e che lo faceva rammaricare di avere, chiamando la sua complice, perduto per sempre la possibilità di vivere fra persone oneste, presso le quali lo aveva accasato lo Chourineur. Papà Chatelain guardò attonito il Maître. "Ma pover'uomo, non vi credevo affatto privo di mezzi!" "Ah sì, Dio buono! Ho perduto la vista per una disgrazia nel mio mestiere, e vado a Louvres a chiedere aiuto a parenti lontani, ma, capite, qualche volta gli uomini sono tanto egoisti, sono così duri" disse il furfante. "Oh, qui non c'entrano gli egoisti!" fece papà Chatelain. "Un onesto operaio come voi, infelice come siete, con un ragazzo così carino e tanto amoroso, commuoverebbe anche le pietre... Ma il padrone che vi impiegava prima di quella disgrazia, non fa niente a vostro favore?" "È morto" disse l'assassino, dopo qualche titubanza. "Era il mio solo protettore." "Ma all'ospizio dei ciechi?" "Non sono in età per esserci ammesso." "Poveretto! Fate davvero compassione." "Ma dunque credete che, se io non trovassi a Louvres l'assistenza che spero, il vostro padrone, che già rispetto senza conoscerlo, non avrà pietà di me?" "Vedete, caro, il podere non è un ospizio. Ordinariamente si accorda agli infermi di passarci una notte od una giornata, poi si dà loro un sussidio, e Iddio li aiuti!" "Sicché non c'è mezzo d'interessare il vostro padrone alla mia triste sorte?" "Vi ho detto il regolamento, amico mio, ma il padrone è così compassionevole e generoso, che è capace di trovarvi un posto qualsiasi qui da noi." "Sì, eh?" esclamò il Maître. "Sarebbe possibile che acconsentisse a lasciarmi vivere qui in un angolino? Mi accontenterei di poco!" "Vi ripeto che è capace di tutto. Se accetta di tenervi nella fattoria, non ci sarebbe bisogno che vi nascondeste in un angolo. Sareste trattato come noi... Nello stesso modo di stasera... Si troverebbe da occupare il vostro ragazzo, secondo le sue forze, e non gli mancherebbero buoni consigli e migliori esempi: il nostro venerabile parroco lo istruirebbe insieme agli altri fanciulli del villaggio, crescerebbe bene, come si suol dire... Ma, badiamo, bisognerebbe discorrerne domattina, francamente, alla nostra Signora del Buon Soccorso." "Come?" chiese il Maître. "Così chiamiamo la nostra padrona... Se lei si interessa per voi, l'affare è assicurato. In materia di carità, il nostro proprietario nulla rifiuta a quella signora." "Oh, allora le parlerò, le parlerò!" esclamò allegro il Maître, che si vedeva già libero dalla tirannia della Chouette. Tale speranza non fu condivisa da Tortillard, che non si sentiva disposto ad approfittare delle offerte del vecchio contadino ed a crescere sotto il controllo di un rispettabile parroco. Aveva aspirazioni tutt'altro che campestri, e lo spirito poco adatto alla vita pastorale. Inoltre, fedele agli insegnamenti della Chouette, avrebbe visto con sommo dispiacere che il Maître si sottraesse al loro dispotismo. Voleva dunque richiamare alla realtà l'iniquo ladrone, che già si smarriva tra villerecce e soavi illusioni. "Oh, sì!" ripeté il Maître. "Parlerò alla vostra Signora del Buon Soccorso... Lei avrà compassione, e..." Tortillard diede in quel momento un calcio fortissimo al Maître, e lo colpì proprio sulla piaga. Il dolore interruppe la frase del manigoldo, che dopo essersi scosso per lo spasimo, ripeté: "Sì, spero che si muoverà a pietà." "Povero papà!" seguitò Tortillard. "Ma dunque tu non ricordi la mia buona zia, la signora Chouette, che ti vuole tanto bene. Povera zia Chouette! Oh, non ti abbandonerà... Sarebbe capace di venire a prenderti anche qui, con il nostro cugino il signor Barbillon." "Costui ha certi parenti nella razza degli uccelli e in quella dei pesci!" disse piano Jean-René, ma con molta malizia, dando di gomito a Claudine che gli era accanto. "Ah, voi siete senza cuore! Ridete di quel disgraziato?" rispose questa adagio, rendendo a Jean-René una tal gomitata da rompergli le costole. "La signora Chouette è vostra parente?" domandò papà Chatelain. "Sì, è nostra parente..." rispose il Maître abbattuto, smanioso. In caso gli fosse riuscito di aver nel podere un non sperato rifugio, temeva che la guercia, per malignità, sarebbe venuta a denunciarlo. Temeva anche che i nomi singolari di quei supposti congiunti, citati da Tortillard, risvegliassero i sospetti. "È quella che andate a trovare a Louvres?" chiese ancora papà Chatelain. "Sì" disse il brigante "ma credo che mio figlio s'inganni se fa assegnamento su di lei." "Oh, caro papà, non m'inganno, no. È tanto buona la mia zia Chouette... Lo sai pure che fu lei a mandarti l'acqua con cui ti bagnO la gamba e anche a insegnarmi il modo di servirmene. Fu lei che mi raccomandò: "Fa' per il tuo povero papà quel che farei io stessa, e Dio ti benedirà...". Oh, la mia zia Chouette ti vuole bene, te ne vuole tanto, che..." "Buono, buono..." disse il Maître, interrompendolo. "Tutto questo non impedisce in ogni caso che io discorra domattina alla buona signora, e implori il suo appoggio presso il rispettabile proprietario della fattoria... Ma" soggiunse per cambiare la conversazione e porre un termine alle imprudenti parole di Tortillard "a proposito del proprietario del podere, qualcuno mi aveva promesso di raccontarmi quel che c'è di particolare nella sistemazione della fattoria dove noi siamo." "Sono io che ve l'ho promesso" fece papà Chatelain "e ora mantengo. Il padrone, dopo avere immaginato quella che chiama l'elemosina del lavoro, disse fra sé: "Ci sono stabilimenti, e persino premi, per incoraggiare il perfezionamento dei cavalli, degli altri animali, degli aratri e di molte altre cose... Perbacco, sarebbe tempo di studiare come perfezionare gli uomini. Buone bestie, va bene; buone genti, sarebbe meglio, ma è più difficile. Biada greve e grassi prati, acqua viva e aria pura, premure assidue e ricovero certo: cavalli ed altri animali cresceranno come si vuole e daranno ogni soddisfazione... Ma per la gente, eh, eh, è tutt'altro: non si fa virtuoso un uomo come si fa grasso un bue. Però, l'erba fa bene al bue perché gli piace di sapore e lo nutre. Dunque penso che per far sì che all'uomo facciano bene i suoi consigli, bisogna procurare che trovi il suo vantaggio a seguirli"." "Come il bue lo trova nel mangiarsi l'erba, non è vero, papà Chatelain?" notò un contadino. "Precisamente, ragazzo mio." "Ma papà Chatelain" fece un altro contadino "nei tempi passati si chiacchierò tanto di una specie di fattoria dove diversi giovani ladri, che avevano avuto però una condotta stupenda, imparavano l'agricoltura, ed erano tenuti e accoccolati come principini!" "È vero, ragazzi, in questo c'è del buono: è umano e caritatevole non disperare mai dei cattivi, ma bisognerebbe anche far sperare i buoni. Se un onesto ragazzo robusto, industrioso, che avesse voglia di far bene e imparare, si presentasse a quella tenuta di ex ladroni, gli si domanderebbe: "Di', su, hai rubato, un bricciolino? Sei stato vagabondo?". "No." "Dunque qui non c'è posto per te."." "Avete ragione, veh, papà Chatelain, nelle cose che dite" assentì Jean-René. "Fanno per i bricconi quel che non vogliono fare per la gente come si deve; si migliorano le bestie, e non le persone." "E per dare l'esempio e rimediare a questo malanno, mio caro, il nostro padrone, come raccontavo a questo galantuomo, ha sistemato questo podere... "So bene" disse fra sé "che lassù vi sono delle ricompense per le persone oneste! Ma lassù, eh, Madonna, è troppo in alto e troppo lontano! E taluni (e badate vanno compianti) taluni non hanno la vista e il fiato tanto larghi da arrivarci. E poi, durante il giorno, dall'alba al tramonto, curvi sulla terra, la vangano e la rivangano per utile del padrone; la notte, dormono, spossati, sopra un lettuccio. Le domeniche si ubriacano alla bettola per scordarsi le fatiche di ieri e quelle di domani... Perché quelle fatiche sono sterili per loro, povera gente! Dopo un lavoro forzato, hanno forse un pane meno nero, il letto meno duro, figli meno macilenti, la moglie meno smunta a forza d'allattarli? Allattarli! La donna stessa non mangia tanto da cavarsi la fame! No, no! Tuttavia il loro pane è nero, ma è pane; il saccone è duro ma è un saccone; sono sparuti i figli, ma campano: e sopporterebbero forse la loro sorte allegramente se credessero che tutti fossero nella stessa situazione. Ma vanno in città, o nel sobborgo quando si fa mercato, e là vedono pagnotte bianche, materassi pieni e morbidi, ragazzi color delle rose di maggio e così ben pasciuti che gettano le ciambelle ai cani... Madonna!... Allora, tornando alla capanna, sulla panca, al cibo ordinario, e vedendo i loro bambini malaticci, magri, affamati, ai quali avrebbero voluto portare una di quelle ciambelle che gli altri gettano alle bestie, dicono fra sé: 'Giacché ci devono essere ricchi e poveri, perché noi non siamo nati ricchi? O perché non tocca una volta per uno?'. Eh, giovanotti miei, questo che dicono non è privo di buonsenso... Ma non li solleva dal giogo; e il giogo gravissimo, che qualche volta li opprime, li abbatte, bisogna che lo portino sempre, e senza speranza di riposarsi, e di conoscere, anche un sol giorno, le contentezze che dà una condizione migliore... Tutta la vita, così breve, pare ad essi molto lunga! Lunga come una giornata di pioggia, senza un raggio di sole. Poi vanno al lavoro tristi e svogliati. E la maggior parte dicono: 'A che giova lavorare di più e meglio? che la spiga sia pesante o leggera? Per me non è tutt'uno. Perché mi devo strapazzare? Manteniamoci onesti: il male è punito, non si faccia il male; il bene non ha ricompensa, non si faccia il bene... Conserviamo le qualità delle buone bestie da soma, pazienza, forza e docilità!'. E questi pensieri risultano a danno, figlioli. Da questa noncuranza all'indifferenza morale ci corre poco, e dall'indifferenza al vizio c'è anche meno. Disgraziatamente, quelli che, né buoni né cattivi, non fanno bene né male, sono il maggior numero. Dunque questi" disse il nostro padrone "è necessario migliorarli, come se avessero l'onore di essere cavalli, o animali cornuti, o lanuti. Facciamo che abbiano interesse ad esser savi, laboriosi, istruiti, zelanti nei loro doveri, proviamo loro che, diventando migliori, diventeranno materialmente più felici... Tutti ci guadagneranno. Perché i buoni consigli giovino, diamo loro quaggiù un saggio della felicità che lassù è riservata ai giusti..." Fissato il suo piano, fece sapere nelle vicinanze che gli occorrevano sei coltivatori e altrettante donne o ragazze. Ma voleva sceglierli tutti fra i migliori del paese, dopo aver preso informazioni dai sindaci, dai curati o da altri. Dovevano esser pagati (come lo siamo) da principi, e mantenuti meglio dei signori di città. E poi stabilì di dividere fra i lavoratori un quinto dei prodotti del raccolto. Li avrebbe tenuti due anni nella fattoria, per dare poi il posto ad altri agricoltori, presi agli stessi patti. "Dopo cinque anni" disse inoltre "potrei anche accordare il permesso di ripresentarsi qualora ci fossero impieghi vacanti." Così da quando fu stabilito il podere, contadini e operai dei dintorni dicono: "Siamo attivi, galantuomini, laboriosi, distinguiamoci per la nostra buona condotta, e un giorno potremo entrare nella fattoria di Bouqueval; là vivremo per due anni come in un paradiso, ci perfezioneremo nel mestiere, porteremo via un buon capitale, e per di più tutti faranno a gara per averci, poiché per essere ammessi là ci vuole l'attestato di capace e onesto"." "Io sono già d'accordo per andare al podere di Arnouille, dal signor Dubreuil" disse Jean-René. "E io sono accaparrato da Gonesse" aggiunse un altro contadino. "Vedete, mio caro, tutti hanno dei vantaggi. E i fattori dei dintorni ne approfittano doppiamente. Non ci sono che dodici posti per uomini e donne, ma forse ci sono più di cinquanta candidati. E quelli che non hanno ottenuto il posto non per questo smettono di comportarsi bene. Tanto più che quelli a cui non tocca sperano di averlo in seguito, e così si hanno molte ottime persone. Ecco, parlando con rispetto, per un cavallo che vince il premio della corsa, o per la forza, o per la bellezza, si addestrano cento cavalli capaci di guadagnarsi quel premio. Ebbene, quelli che non l'hanno avuto, non sono meno buoni e bravi... Eh, mio caro, quando vi dicevo che il nostro podere non era un podere come gli altri, né il nostro padrone un padrone come tanti altri, non vi raccontavo frottole." "Oh, no, di certo!" gridò il Maître. "E appunto perché mi pare grandissimo in bontà e generosità, mi lusingo che si muova a compassione della mia triste sorte; un uomo che fa il bene così nobilmente e con tanto giudizio, non deve badare ad un beneficio di più o di meno." "Anzi, ci bada" disse Chatelain "ma per gloriarsi di una nuova buona azione. Ma mi pare che vi rivedremo qui da noi, e che non sarà questa l'ultima volta che sedete alla nostra tavola." "Non è così? Io ci spero... Oh, se sapeste come sono contento e grato!" esclamò il Maître. "Non ne dubito, è tanto buono il nostro proprietario!" "Ma che io sappia almeno il suo nome e quello della donna che chiamate Nostra Signora del Buon Soccorso!" disse con impeto il Maître. "Così che possa anticipatamente benedire quei cari nomi." "Capisco la vostra impazienza" rispose papà Chatelain. "Oh, Madonna, vi aspettate forse nomi di grande risonanza? Oh no! Sono semplici e dolci come quelli dei santi: la Nostra Signora del Buon Soccorso si chiama signora Georges, e il nostro padrone, signor Rodolphe." "Mia moglie! il mio carnefice!" mormorò il Maître, fulminato da tale scoperta. 7. La notte. Rodolphe! la signora Georges! Il Maître non poteva credersi illuso da una casuale somiglianza di nomi. Rodolphe, prima di condannarlo ad un terribile supplizio, gli aveva detto di nutrire per la signora Georges un vivo interesse. Infine la presenza di David, il nero, in quella tenuta, gli provava che non s'ingannava. Riconobbe qualche cosa di superiore, di fatale, in quest'ultimo incontro, che distruggeva la speranza, per un momento alimentata, sulla generosità del proprietario del podere. La sua prima idea fu quella di fuggire. Rodolphe gli inspirava un terrore insormontabile: chissà che a quell'ora non fosse nella fattoria? L'assassino, appena riavutosi dallo stupore, si alzò dalla tavola, prese per mano Tortillard, e disse gravemente: "Andiamo via... Usciamo di qui!" I contadini si guardarono meravigliati. "Andar via adesso? Ma dove volete andare, pover'uomo?" disse papà Chatelain. "Ma che ghiribizzo vi è nato? Siete forse pazzo?" Tortillard approfittò accortamente di queste parole, mandò un grosso sospiro, fece con il capo un cenno affermativo, e mettendosi l'indice sulla fronte diede a intendere che il suo supposto padre non era certo molto sano di testa. Il vecchio contadino gli rispose con un segno d'intelligenza e di compassione. "Vieni, vieni, usciamo!" ripeté il Maître, cercando di trascinare via il ragazzo. Tortillard, assolutamente deciso a non lasciare un così buon ricovero per correre al freddo per i campi, disse con voce dolente: "Oh Dio, povero papà, ti ritorna il tuo solito attacco? Calmati, non andar fuori a questo addiaccio, ti farebbe male! Vorrei piuttosto avere il dispiacere di disobbedirti, che portarti fuori a quest'ora!" Poi rivolto ai contadini: "Non è vero, miei buoni signori, che mi aiuterete a impedirgli di andarsene?" "Sì, sì, sta' quieto, ragazzo mio" disse papà Chatelain "non apriremo il portone... Così sarà costretto a dormir qua." "Non mi obbligherete a restarci!" gridò il Maître. "E poi, darei noia al vostro padrone, al signor Rodolphe... Mi avete detto che la fattoria non è un ospizio... Sicché, lo ripeto, lasciatemi uscire..." "Dar noia al nostro padrone? Ma vi pare! Purtroppo, non abita qua e non ci viene spesso, come vorremmo tutti, ma anche se ci fosse, non gli dareste fastidio... Questa casa non è un ospizio, ma vi ho detto che gli infermi da compiangere come voi, possono trattenervisi un giorno e una notte." "Non è qui, stasera, il vostro padrone?" domandò il Maître, meno spaventato. "No, deve venire, secondo il suo solito, fra cinque o sei giorni... Sicché, vedete, non c'è ragione che abbiate paura. Ormai è difficile che stasera scenda la buona signora. Lei vi tranquillizzerebbe del tutto: non ha forse ordinato che vi si faccia il letto? Ma se non la vedrete subito, le parlerete domani prima di partire; le farete la vostra piccola supplica, perché interessi, a vostro favore, il padrone e vi trattenga nel podere." "No, no" disse il Maître, di nuovo allarmato "ho cambiato idea. Mio figlio dice bene, la mia parente di Louvres avrà pietà di me. Andrò a trovarla." "Come volete" rispose con compiacenza papà Chatelain, pensando di aver a che fare con un pazzo. "Ve ne andrete domattina. Mettervi in viaggio di notte con questo povero ragazzo, oh, non lo sperate! Siamo qua per impedirlo." Benché Rodolphe non fosse nella fattoria, non si calmavano del tutto i timori del Maître. Quantunque mostruosamente sfigurato, egli dubitava di essere ancora riconosciuto dalla moglie, che poteva scendere da un momento all'altro; in tal caso era persuaso che lei lo avrebbe denunciato e fatto arrestare, poiché era certo che Rodolphe, nell'infliggergli l'orribile castigo, avesse voluto specialmente assecondare l'odio e la vendetta della signora Georges. Ma l'iniquo non poteva muoversi, si trovava a discrezione di Tortillard. Quindi si rassegnò, e per evitare d'esser sorpreso dalla consorte, disse al contadino: "Poiché mi assicurate che non darò disturbo al padrone né alla signora, accetto l'ospitalità che mi offrite; ma siccome sono molto stanco, se permettete, mi metterò subito a letto; vorrei partire all'alba." "Oh, domattina sì, a vostro comodo. Qui tutti si alzano presto, e, perché non vi smarriate ancora, qualcuno vi metterà sulla vostra strada." "Se volete, accompagnerò io questo pover'uomo per un bel pezzo della via" propose JeanRené. "La signora mi ha detto di prendere il calesse per andare a riscuotere del denaro dal notaio, a Villiers-le-Bel." "Mi fa piacere che tu metta questo cieco sulla sua strada, ma ci andrai con le tue gambe" disse papà Chatelain. "La signora ha mutato pensiero; dice, con ragione, che non c'è bisogno di avere nella fattoria una così grossa somma; si potrà andare a Villiers-le-Bel lunedì prossimo, e intanto le monete stanno bene in mano al notaio come qua. "La signora sa meglio di me quel che bisogna fare. Ma che c'è da temere per i quattrini, papà Chatelain?" "Nulla, grazie a Dio! Ma non serve, preferirei aver qui cinquecento sacchi di grano, che dieci sacchi di scudi... Animo" soggiunse il vecchio agricoltore rivolgendosi al furfante ed a Tortillard "venite, galantuomo, e anche tu ragazzo." Prese un candeliere, poi, precedendo i due ospiti, si avviò ad una cameretta del pianterreno, dove arrivarono, dopo aver attraversato un lungo corridoio, su cui davano parecchi usci. Papà Chatelain pose la candela accesa sopra una tavola, e disse al Maître: "Ecco la vostra stanza; Dio benedetto vi dia la buona notte. E tu, monello, dormirai bene: così succede all'età tua." Il brigante andò a sedersi pensoso e tetro sulla sponda del letto, vicino a cui fu condotto da Tortillard. Questi fece un cenno d'intesa al contadino che usciva dalla camera, e lo seguì nel corridoio. "Che vuoi, figliolo?" domandò il contadino. "Mio buon signore, sono ben disgraziato! Qualche volta il mio povero padre ha certi attacchi durante la notte... Sono come convulsioni. Io non lo posso assistere da solo. Se fossi obbligato a chiedere aiuto, qualcuno mi sentirebbe?" "Caro ragazzo! Sta quieto" disse l'altro con compassione. "Vedi quell'uscio accanto alla scala?" "Sì, signore, lo vedo." "Ebbene! Uno dei famigli del podere dorme sempre là; basta che tu vada a destarlo, c'è la chiave alla serratura, e verrà a darti una mano nel soccorrere tuo padre." "Ahimè! Quel garzone ed io forse non ce la faremo con mio padre se gli prendono le convulsioni... Non potreste venire anche voi, che avete la faccia da buono, tanto buono!" "Ragazzo mio, io dormo, come gli altri, in una parte della casa che è in fondo al cortile. Ma non dubitare, Jean-René è robusto, atterrerebbe un toro, prendendolo per le corna. D'altronde, se servisse qualcuno per darvi aiuto, egli andrebbe ad avvertire la vecchia cuoca; questa dorme al primo piano accanto alla signora Georges e alla signorina, e, occorrendo, serve di assistente agli ammalati, tanto è piena di attenzione." "Oh, grazie, grazie, mio degno signore; pregherò Dio per voi, giacché siete così caritatevole da aver pietà del mio povero papà." "Bene, bene, figliolo, buona notte. Speriamo che non avrai necessità di nessuno per tenere a freno tuo padre. Va' dentro, può darsi che ti aspetti." "Corro subito. Buona notte, signore." "Dio ti conservi, mio caro." E papà Chatelain si allontanò. Appena ebbe girato le spalle, lo zoppaccio gli fece quel gesto derisorio e insultante familiare ai monelli di Parigi, che consiste nel battersi più volte la nuca con il rovescio della mano sinistra. Con astuzia diabolica, quel pericoloso ragazzo si era procurato alcune informazioni per assecondare i sinistri progetti della Chouette e del Maître. Sapeva già che l'edificio dove loro avrebbero dormito non era abitato che dalla signora Georges, da Marie, da una vecchia cuoca e da un famiglio della fattoria. Tornato nella camera che gli era destinata, si guardò bene dall'avvicinarsi al Maître, ma questo lo sentì, e gli disse piano: "Di dove vieni, scellerato?" "Siete pur curioso, Senz'occhi!" "Oh, adesso mi pagherai tutto quello che mi hai fatto patire, disgraziata creatura" esclamò il Maître, e si alzò furibondo, cercando a tastoni Tortillard, e appoggiandosi al muro per orientarsi. "Ti strozzerò, vipera maledetta!" "Povero papà! Siete in buona vena se volete giocare a mosca cieca con il vostro amato figlioletto!" disse Tortillard, schernendolo e sfuggendogli facilmente. Il Maître, prima trasportato da improvvisa collera, fu in breve costretto, come al solito, a rinunciare a raggiungere il figlio di Bras-Rouge. Obbligato a subire le sue impudenti persecuzioni, soffocando l'ira impotente si gettò sul letto bestemmiando. "Povero papà che avete? La rabbia ai denti? Perché bestemmiate così? Che vi direbbe il parroco se vi sentisse? Vi metterebbe in penitenza..." "Bene!" disse il Maître, frenandosi a stento e con voce roca. "Deridimi, abusa dei miei malanni, vile che sei! Bella cosa, bella generosità!" "Oh, che parole! Generosità! Chi lo dice?" gridò Tortillard con uno scroscio di risa. "Scusate, caro... Voi sì, che vi mettevate i guanti per menar pugni a tutti, a diritto e a rovescio quando non eravate guercio da due occhi!" "Ma non ti ho fatto mai male, a te... Perché mi tormenti così?" "Perché avete detto delle cosacce alla Chouette, prima di tutto... E poi, a pensarci, perché il signorino pretendeva di restar qui, di fare l'innocentino con i contadini... Il signorino voleva forse far la cura del latte d'asina?" "Carogna! Se avessi avuto la possibilità di rimanere in questa fattoria, che ora una saetta la distrugga, tu quasi me lo avresti impedito con le tue insolenze." "Voi star qui? Oh, questo è uno scherzo! E allora chi sarebbe la bestia da strapazzo della signora Chouette? Forse io? Grazie, grazie, non voglio star tanto bene!" "Brutto aborto!" "Aborto! Ecco, ecco una ragione di più! Come dice mia zia Chouette, non c'è miglior divertimento che farvi arrabbiare a morte, voi, che mi ammazzereste con un pugno... C'è più gusto che se foste debole. Com'eravate ridicolo, stasera, a tavola! Dio buono, quanto me la godevo! Proprio certe scene comiche del teatrino della Gaité! A ogni calcio che vi rifilavo di soppiatto, vi saliva il sangue alla testa per la collera, i vostri occhi bianchi diventavano rossi; non ci mancava altro che un po' di blu in mezzo per farli tricolori... Due vere coccarde da gendarmi!" "Animo, su, sei sempre disposto a scherzare... Sei allegro tu... Eh, sono cose della tua età, non me la prendo..." disse il Maître in tono affettuoso, sperando di commuovere Tortillard. "Ma invece di stare a molestarmi, faresti meglio a ricordarti di quel che ti ha detto la Chouette, giacché le vuoi tanto bene: esaminare tutto, pigliare le impronte... Hai inteso? Parlavano di una grossa somma che avranno qui lunedì. Ci si potrebbe tornare con gli amici, e fare un buon colpo... Ah, s'ero bestia a rimaner qui... Mi sarei stancato dopo otto giorni, di questi gonzi di contadini... Non è vero, piccolo?" domandò il furfante, piaggiando Tortillard. "Mi avreste fatto un gran dispiacere, parola d'onore!" replicò il figlio di Bras-Rouge, burlandolo. "Sì, c'è da fare un buon colpo... e anche se non ci fosse nulla da rubare, tornerei in questa casa con la Chouette per vendicarmi" seguitò l'assassino, con voce alterata dal furore e dall'odio. "Poiché di certo è mia moglie che ha suscitato contro me quell'infernale Rodolphe. E quello, maledetto, mi ha accecato e messo in balia di ogni farabutto, della Chouette, d'un monello come te... Bene, poiché non posso rifarmi su di lui, mi rifarò su mia moglie... Sì, lei pagherà per tutti! Dovessi appiccar fuoco alla casa, e seppellirmi io stesso sotto le rovine! Oh, lo vorrei, sì, lo vorrei!" "Vorreste averla nelle mani, la vostra sposina, eh, vecchio?... E a pensare che è distante da voi dieci passi... È roba da crepare! Io, se volessi, vi porterei all'uscio della camera... Io, perché lo so dov'è, lo so... lo so... lo so!" aggiunse Tortillard, canterellando secondo il solito. "Sai dov'è la sua camera?" urlò il Maître con gioia feroce. "Lo sai?" "Ora vi ci prendo..." continuò lo stortaccio "ora vi faccio mettere da bravo sulle zampe di dietro, come un cane quando gli si mostra un osso... Animo, su ritto, Melampo!" "Sai dov'è la stanza della mia consorte?" ripeté l'assassino, volgendosi dalla parte ove udiva parlare Tortillard. "Sì, lo so. E quel che è meglio, è che un famiglio solo dorme nel locale dove siamo noi; so dov'è l'uscio; la chiave c'è attaccata... Crac, una giratina, e si chiude subito... Animo, su, ritto, Melampo!" "Chi te lo ha detto?" gridò il Maître, alzandosi involontariamente. "Bene, Melampo, bene!... Accanto alla stanza di vostra moglie dorme una vecchia cuoca... Un'altra giratina di chiave, e siamo padroni della casa, padroni di vostra moglie e della ragazza con la cappottina bigia che venivamo a portar via... Ora, la zampa, vecchio Melampo! Fatevi bello per il padroncino! Subito!" "Tu dici una bugia... Dici una bugia! Come puoi saperlo?" "Zoppo, sì, ma non stupido... Poc'anzi ho inventato a quel gocciolone di coltivatore che nella notte voi avete qualche volta le convulsioni, e gli ho domandato dove avrei potuto trovare aiuto se vi avesse preso un attacco... Allora mi ha risposto che, se mai, potevo svegliare il famiglio e la cuoca, e mi ha insegnato dove dormivano, l'uno giù, l'altra su, al primo piano, accanto a vostra moglie... vostra moglie... vostra moglie!" E Tortillard si divertiva a ripetere il suo canto monotono. Dopo un lungo silenzio, il Maître gli disse, con quiete apparente, ma con terribile risoluzione: "Ascolta... Ne ho abbastanza della vita. Poco fa, sì, lo confesso, ho avuto una speranza che adesso mi fa parere la mia sorte anche più orribile... La prigione, la galera, la ghigliottina, sono un nulla in confronto a quello che patisco da stamane. E questo avrò da patirlo sempre! Conducimi alla stanza di mia moglie; ho qui il coltello, l'ammazzerò... Poi uccideranno me, non importa... L'odio mi soffoca. Sarò vendicato, questo mi solleverà... Quel che sopporto è troppo... Sì, è troppo, per me che vedevo tremare tutti davanti a me. Senti, se tu sapessi quel che soffro, avresti pietà di me. Mi pare che il cranio stia per farsi in pezzi, le vene mi battono come volessero spaccarsi, mi si confonde il cervello..." "Hai la rinite, vecchio mio? Si sa, si sa! Starnutisci, così passa!" disse Tortillard, smascellandosi dalle risa. "Volete una presa?" E picchiandosi forte sul rovescio della mano sinistra ben chiusa, come avrebbe fatto sul coperchio d'una tabacchiera, canterellò: "Buono è il tabacco Di questa scatola, Ma no, per Bacco. Non è per te..." "Oh Dio, Dio, vogliono farmi diventar pazzo!" esclamò il Maître, divenuto delirante e smanioso per quella vendetta, sanguinaria, ardente, implacabile, che invano cercava di compiere. L'esuberanza delle forze di quel mostro non poteva essere eguagliata che dall'impotenza. Figuratevi un lupo famelico, infuriato, idrofobo, tormentato ogni giorno da un bambino attraverso i ferri della sua gabbia, e che il lupo a due passi fiuti una vittima, che appagherebbe ad un tempo la sua fame e la sua rabbia. All'ultimo sarcasmo di Tortillard il cieco perdette quasi la testa. Per un momento fu deciso ad uccidersi; e se avesse avuto in mano una pistola carica non avrebbe esitato. Si frugò nella tasca, ne trasse un lungo coltello, lo aprì, lo alzò per trafiggersi... Ma per quanto rapidi fossero questi movimenti, li precorsero la riflessione, la paura, l'istinto vitale. Mancò all'omicida il coraggio; il braccio armato gli cadde sulle ginocchia. Tortillard aveva osservato, con attenzione, ogni suo movimento. Quando vide lo scioglimento pacifico di quelle tragiche disposizioni, esclamò, scompisciandosi dalle risa: "Cameriere, un duello! Tirate il collo ad un'anitra..." Il Maître, temendo di perdere il senno del tutto, in un ultimo ed inutile accesso di furore, volle scansare un nuovo insulto di Tortillard, che scherniva insolentemente la viltà di questo assassino che tremava all'idea del suicidio. Disperando di potersi sottrarre alla crudeltà di quel fanciullo maledetto, risolse di tentare un ultimo sforzo allettando la cupidigia del figlio di Bras-Rouge. "Oh" gli disse, in atto quasi supplichevole "conducimi all'uscio di mia moglie! Prenderai quel che vuoi nella sua stanza, e poi, scappando, mi lascerai solo... Griderai aiuto! assassini! Mi arresteranno, mi ammazzeranno... Tanto meglio! Morrò vendicato, giacché non ho il coraggio di finirla da me... Oh, conducimi, conducimi... Certo da lei c'è dell'oro, ci sono delle gioie: ti piglierai tutto, per te, per te solo... Capisci? Per te solo... Non ti chiedo altro che di guidarmi sino alla porta, vicino a lei..." "Sì, capisco, volete che vi guidi sino alla porta, e poi al suo letto... E poi che vi dica dove dovete ferire, e che vi diriga il braccio, non è vero? Insomma intendete che io serva di manico al vostro coltello, vecchio mostro!" disse Tortillard con disprezzo e orrore, e per la prima volta in tutta la giornata il suo viso da faina divenne serio, sino allora motteggiatore e sfacciato. "Piuttosto vorrei che mi strozzassero, capite?, che esser forzato a portarvi da vostra moglie." "Rifiuti?" Il figlio di Bras-Rouge non rispose. Si avvicinò, a piedi scalzi e senza essere sentito, al Maître che, seduto sul letto, teneva sempre il coltello; poi, con arte e rapidità meravigliose, gli tolse l'arma e balzò all'altra estremità della stanza. "Il mio coltello, il mio coltello!" urlò il Maître, stendendo le braccia. "No, perché sareste capace di chiedere domattina di parlare alla vostra sposa, e avventarvi su di lei e ammazzarla... Giacché ne avete abbastanza della vita, come avete detto, e siete tanto codardo da non ardire di uccidervi da voi stesso..." "Oh, adesso difende contro di me la mia consorte!" gridò il bandito a cui cominciava ad offuscarsi la mente. "Ma è dunque un demonio, questo mostro? Dove sono? Perché la difendi?" "Per farti arrovellare" disse Tortillard, e riprese la solita espressione d'impudenza e di scherno. "Ah! è così!" mormorò il Maître fuori di sé "Ebbene, dò fuoco alla casa! Bruceremo tutti, tutti! Ho più cara questa fornace, che l'altra... La candela... dammi la candela!" "Ah, ah, ah!" gridò ridendo Tortillard. "Se non ti avessero spento le candele... a te... e per sempre, vedresti che la nostra è spenta da più di un'ora. "Oh che mai sento! Oh che disgrazia, Il lume è spento, Fuoco non c'è." Il Maître diede un cupo gemito, stese le braccia, cadde come corpo morto in terra, bocconi, mandò sangue e poi rimase immobile. "Ti conosco al pelo" disse Tortillard. "Sono finzioni per farmi venire vicino e darmi una sberla. Quando sarai stato abbastanza sui mattoni, ti alzerai." E il figlio di Bras-Rouge, deciso a non addormentarsi per paura di essere sorpreso dal Maître, rimase seduto, fissando attentamente, persuaso che gli tendesse un tranello, e non credendolo affatto in pericolo. Per procurarsi una piacevole occupazione, lo sciancatello si levò misteriosamente di tasca una borsina rossa di seta, e contò, lesto e con avidità e allegrezza, le diciassette monete d'oro che conteneva. Noi ci ricordiamo che la signora d'Harville era in procinto d'essere sorpresa da suo marito, in occasione del fatale appuntamento da lei accordato al Comandante. Rodolphe le aveva detto di salire al quinto piano dai Morel, con il pretesto di recare ad essi qualche soccorso, e a tale scopo le aveva dato una borsa. Mentre lei saliva sollecitamente la scala, lo sciancatello, che scendeva dalla casa del ciarlatano, l'addocchiò, fece finta di cascare nel passarle vicino, la urtò, e, in quell'attimo, le portò via improvvisamente la borsa. La signora d'Harville, confusa, smarrita perché udiva i passi del consorte, si affrettò ad arrivare al quinto piano, senza potersi lagnare del furto dello zoppaccio. Tortillard, dopo aver contato e ricontato quell'oro, non sentì più rumore nella fattoria, e se ne andò, a piedi scalzi, porgendo l'orecchio, riparando il lume con la mano, a prendere le impronte delle quattro serrature che davano sul corridoio, pronto a dire se qualcuno l'avesse incontrato fuori della camera, che correva a cercare aiuto per suo padre. Al suo ritorno, trovò il Maître ancora steso sul pavimento. Ebbe qualche inquietudine, gli si accostò, sentì che respirava, credette che prolungasse lo stratagemma. "Sempre la stessa burletta, vecchio mio?" gli disse. Per pura combinazione il Maître si era salvato da una congestione cerebrale senza dubbio mortale: la sua caduta aveva causato un'abbondante ed efficace emorragia di sangue dal naso. Era poi piombato in una specie di torpore febbrile, mezzo sonno e mezzo delirio, e aveva fatto allora questo stranissimo, spaventoso sogno! 8. Il sogno. Questo è il sogno del Maître d'école. Egli rivede Rodolphe nell'abitazione dell'allée des Veuves. Non c'è alcun cambiamento nella sala, dove l'assassino subì l'orribile supplizio. Rodolphe è seduto dietro la tavola, su cui sono i fogli del Maître ed il piccolo Spirito Santo dato alla Chouette. Mesto, grave è Rodolphe. Alla sua destra, David il nero, impassibile e tacito, sta in piedi; alla sinistra è lo Chourineur, che osserva spaventato questa scena. Il Maître non è più cieco, ma vede attraverso un sangue limpido, che gli riempie la cavità delle occhiaie. Tutti gli oggetti gli sembrano colorati di una tinta rossa. Come gli uccelli di rapina librati sulle ali stanno immobili in aria al disopra della vittima che ammaliano prima di divorarla, una civetta mostruosa, che ha per testa l'orrendo ceffo della guercia, si tiene in alto al di sopra del Maître... Fissa incessantemente su di lui un occhio rotondo, verdastro e fiammeggiante. Quello sguardo continuo gli grava sul petto come un peso enorme. Avvezzandosi all'oscurità, si distinguono, a poco a poco, oggetti che prima erano impercettibili, così il Maître si accorge che un lago immenso di sangue lo separa dalla tavola a cui siede Rodolphe. Quel giudice inflessibile acquista gradatamente, e così lo Chourineur e il nero, forme colossali... Quei tre spettri, via via crescendo, arrivano alle cornici del soffitto, che, di mano in mano, s'innalzano. Il lago di sangue è calmo, levigato come uno specchio rosso. Il Maître vi vede riflettersi l'orrenda sua immagine. Ma in breve l'immagine sparisce al gorgogliare delle onde che si gonfiano. E dalla loro superficie agitata sorge la fetida esalazione di una palude, e una nebbia livida, del colore delle labbra dei defunti. Ma quanto la nebbia sale, sale, le figure di Rodolphe, dello Chourineur e del nero continuano a crescere, a crescere smisuratamente, e sempre sovrastando quel triste vapore. In mezzo a questo vapore, il Maître vede apparire squallidi fantasmi, e scene di uccisioni in cui egli è l'attore. Nella visione fantastica discerne prima un piccolo vecchio, il cranio calvo, con il soprabito scuro, i tempiali di seta verde, in una stanza tutta sconquassata, occupato a contare e a porre in ordine, al lume di una lucerna, mucchi di monete d'oro. Attraverso la finestra, rischiarata dalla pallida luna che imbianca le cime di alcuni grandi alberi scossi dal vento, il Maître mira se stesso di fuori, che tiene fissa sui vetri la laida sua faccia. Con occhi febbrili osserva ogni minimo movimento del vecchio, poi rompe un vetro, apre la finestra, balza addosso alla vittima e le pianta un lungo coltello fra le due spalle. L'azione è così rapida, il colpo tanto sicuro, che il cadavere del vecchio resta sulla sedia senza cadere... L'omicida vuol ritirare il ferro da quel corpo morto. Non può. Raddoppia gli sforzi. Sono vani. Vorrebbe abbandonare il suo coltello. Impossibile! La mano dell'assassino è attaccata al manico, come la lama rimane attaccata al cadavere dell'ucciso. L'assassino ode tintinnare sciabole e risuonare sproni sulle lastre di una camera contigua. Per fuggire, a ogni costo, vuol portare con sé il meschino corpo del vecchio, da cui non può staccare né il ferro né la mano. Quel sottile e piccolo cadavere pesa come un masso di piombo. Malgrado le sue spalle d'Ercole, e gli sforzi disperati, il Maître non può neppure sollevare quell'enorme peso. Lo strepito di sonanti passi e di sciabole trascinate si avvicina sempre più... È girata una chiave nella toppa... Si apre una porta. Si dilegua la visione... Ed allora la civetta, starnazzando le ali, grida: "È il riccone della rue du Roule. Il primo passo nella carriera di assassino... di assassino... di assassino!..." Il vapore, che copre il lago di sangue e che si era oscurato un momento, ridiventa trasparente, e lascia scorgere un altro spettro... Comincia ad apparire il giorno, la nebbia è folta e scura... Un uomo, vestito come i mercanti di bestiame, è steso morto sull'argine di una strada maestra. Il terreno calpestato, l'erba divelta, provano che fece ostinata resistenza. Quell'uomo ha cinque ferite nel petto... È morto, eppure fischia ai suoi cani, e chiama aiuto: "A me! a me!". Ma fischia, chiama da quelle cinque larghe piaghe, i cui orli sono aperti e si agitano come labbra che parlino... E le cinque voci e i cinque sibili simultanei, che escono dal cadavere per la bocca delle sue ferite, sono terribili a udirsi... In quel momento, la civetta scuote le ali, e fa la parodia dei gemiti funebri di quel defunto, con cinque scrosci di riso, ma di un riso stridulo, orribile come quello dei pazzi, e grida: "Il venditore di buoi di Poissy... Assassino! assassino! assassino!" L'eco di sotterra, prolungandosi, ripete altissime le risa sguaiate della civetta; poi sembra che queste vadano a perdersi nelle viscere della terra. A quel rumore, due grossi cani, neri come l'ebano, con gli occhi sfavillanti come brace accesa, e sempre fissi sul Maître, cominciano ad uggiolare... e a girare... girare... girare... intorno a lui con la rapidità d'un vortice. E quasi lo toccano; eppure i loro ululati sono tanto lontani, che paiono recati dalla brezza del mattino. A poco a poco sfumano gli spettri, dileguano come le ombre, e spariscono nel livido vapore che ascende di continuo. Una nuova esalazione ricopre la superficie del lago di sangue. È una sorta di nebbione verdastro, trasparente; lo si direbbe il taglio verticale di un canale colmo d'acqua. Prima si scorge l'alveo della gora ingombra da una densa melma, composta di innumerevoli rettili comunemente impercettibili all'occhio ma che, accresciutisi come visti con il microscopio, assumono aspetto mostruoso, e forme enormi, in proporzione alla loro reale grossezza. Non è più limo, è una massa compatta, vivente, gorgogliante, un miscuglio inesplicabile, che pullula e formicola, stretto e pigiato in tal modo, che una incompresa e lenta ondulazione solleva appena la superficie di quella melma, o piuttosto di quel brulichio d'impuri animali. Passa al di sopra, scorrendo pian piano, un'acqua fangosa, densa, morta, che trascina nel pesante suo corso le immondezze poc'anzi vomitate dalle cloache di una grande città, e rottami di ogni sorta e cadaveri di animali. D'un tratto, il Maître ode il tonfo di un corpo che cade a fondo nell'acqua. Nel repentino riflusso, l'onda mossa gli spruzza sul viso... Attraverso il gorgoglio delle bollicine d'aria che salgono a galla della gora, vede inabissarsi rapidamente una donna che si agita con le mani e con i piedi... E vede se stesso e la Chouette fuggire precipitosamente dalle sponde del canale di Saint-Martin, trasportando una cassa avvolta in tela nera. Tuttavia egli assiste a tutti i sintomi dell'agonia della vittima che lui e la Chouette poco prima avevano gettato nel canale. Dopo la prima immersione, osserva la donna che risale a fior d'acqua e che agita le braccia alla maniera di chi, non sapendo nuotare, tenta invano salvarsi. Poi ode un grido acuto. Quel grido estremo, disperato, termina con uno sciacquìo prodotto dall'annegamento forzato, e la donna ripiomba un'altra volta al fondo. La civetta, sempre librata sulle ali ed immobile, fa la parodia del rantolo affannoso dell'annegata, come prima la faceva dei gemiti del mercante di bestiame. E tra le risa funebri la civetta va ripetendo: "Glu... glu... glu...". E l'eco di sotterra ripete quelle grida. Sommersa una seconda volta, la donna si sente asfissiare; fa, suo malgrado, un moto violento di aspirazione, ma invece d'aria, aspira acqua... Allora le casca all'indietro la testa, il viso si chiazza, diventa blu, il collo si fa livido e gonfio, le braccia si intirizziscono, ed un'ultima convulsione le scuote i piedi, che posavano sulla belletta. E la circonda un fondiglio di melma nericcia che risale a galla. Appena l'affogata esala l'ultimo respiro, già le formicola sopra uno sciame di rettili visibili con il microscopio, infetti, voraci, schifosi vermi della belletta. Galleggia per un momento il cadavere, oscilla ancora un poco, poi s'inabissa lentamente, orizzontalmente con i piedi più bassi che il capo, e comincia a seguire la corrente della gora. E qualche volta si gira su se stesso, e il suo volto si trova di faccia al Maître, ed allora lo spettro guarda lui con due occhi grossi color del piombo, vitrei ed opachi e scuote le labbra violacee. Il Maître sta lontano dall'annegata; eppure lei gli mormora all'orecchio: "Glu... glu... glu...", accompagnando questi accenti bizzarri con il gorgoglìo singolare che produce una boccia di cristallo sommersa che si riempia di acqua. E la civetta ripete: "Glu... glu... glu..." e, muovendo forte le ali, grida: "La donna del canale di Saint-Martin! Assassino... assassino... assassino!..." E l'eco, di sotterra, le risponde, ma, invece di perdersi adagio nelle viscere della terra, diviene sempre più sonante, e sembra che si approssimi. Al Maître pare di udire quegli scrosci di risa rimbombare da un polo all'altro. Sparisce la visione dell'annegata. Il lago di sangue, oltre il quale il Maître contempla sempre Rodolphe, si fa di un nero bronzo, quindi si arrossa, e poi subito si cambia in liquida fornace, simile a quella di metallo in fusione; poi quel lago di fuoco s'innalza, e sorge, va verso il cielo, come un'immensa tromba marina. Ben presto è tutto un orizzonte che brilla come ferro incandescente. Quest'orizzonte immenso, infinito, abbaglia e brucia a un tempo gli occhi del Maître, ed egli, inchiodato al suo posto, non ne può distogliere la vista. Allora su quel campo di lava ardente, il cui riverbero lo divora, distingue nel passare, a uno a uno, i fantasmi neri e giganteschi delle sue vittime. E la civetta, battendo le ali e torcendosi dalle risa, gli grida: "La lanterna magica del rimorso... del rimorso... del rimorso!..." Malgrado l'insopportabile dolore che gli causa l'incessante sua contemplazione, il Maître ha sempre gli occhi fissi sugli spettri che si muovono in quel pelago di fiamme. Ed egli prova allora un dolore tremendo al cuore. Passando per le rupi di una tortura senza nome, a forza di guardare quell'abbagliante fornace sente le sue pupille, subentrate al sangue che gli riempiva gli occhi, diventare calde, scottanti e struggersi, fumare, grillettare, bollire e finalmente calcinarsi nelle loro orbite come due crogioli di ferro rovente. E, per una terribile facoltà che gli è data, dopo aver visto e sentito le successive trasformazioni delle pupille incenerite, ripiomba nuovamente nelle tenebre della sua prima cecità. Ma d'un tratto le insopportabili doglie si calmano per incanto... Un alito aromatico di deliziosa freschezza gli è passato sulle orbite ancora scottanti. È, questo soffio, un soave miscuglio delle fragranze di primavera, che tramandano i fiori dei campi bagnati dall'umida rugiada. Il Maître ode intorno un lieve rumore, come quello del venticello che scherza tra le foglie, o di una sorgente d'acqua viva che scorre, mormorando nel suo letto di ciottoli e di muschio. Uccelletti a migliaia gorgheggiano le ariette più melodiose; poi tacciono. Voci infantili di angelica purezza cantano parole strane, ignote, parole che quasi diremmo alitare, e che il Maître ode ascendere ai cieli con lievissimo fremito. Un senso di benessere morale, di mollezza, di languore indefinibile, gradatamente s'impossessa di lui. Trasporti del cuore, estasi dello spirito, ebbrezza dell'animo, di cui nessuna impressione fisica, per forte che sia, potrebbe dare un'idea... Egli si sente soavemente librato in una sfera luminosa, eterea! Gli sembra di innalzarsi a una distanza incommensurabile dall'umanità! Dopo alcuni istanti di quella felicità ineffabile, ricade nel tenebroso abisso dei suoi usuali pensieri. Sogna sempre, ma ormai è tornato l'assassino con la museruola, che bestemmia e si danna negli impeti di un furore impotente. Echeggia una voce, sonora, solenne... È la voce di Rodolphe. Il Maître raccapriccia; ha una confusa idea di aver sognato; ma il terrore che gli ispira Rodolphe è così formidabile, che egli fa, invano, ogni sforzo per fuggire a questa nuova visione. La voce parla, egli ascolta. L'accento di Rodolphe non è di ira, tutt'altro, ma pieno di pietà e di mestizia. "Povero miserabile!" dice al Maître. "Per te non è ancora suonata l'ora del pentimento; e Dio solo sa quando debba giungere! La punizione dei tuoi delitti è tuttora incompleta. Tu soffristi, e non espiasti: il destino prosegue l'opera sua d'alta giustizia. I tuoi complici divennero tuoi tormentatori; una donna e un fanciullo ti domano e ti straziano... Nell'infliggerti un castigo terribile come i tuoi misfatti, io te lo dissi, te lo dissi! Ricorda le mie parole: "Tu abusasti criminalmente della tua forza, io la tua forza paralizzerò... I più robusti tremavano dinanzi a te, tu tremerai dinanzi ai più deboli!". "Abbandonasti l'oscuro asilo dove potevi vivere per il pentimento e per l'espiazione... Avesti timore del silenzio e della solitudine. Poco fa invidiavi la vita tranquilla dei villici di questi campi, ma era tardi, troppo tardi! Quasi senza difesa, torni a gettarti in mezzo ad una caienna di scellerati e di assassini, e ti duoli di rimanere oltre presso oneste persone, presso le quali eri stato accasato. Volesti stordirti con nuovi misfatti... Mandi una sfida feroce a colui che aveva voluto toglierti la possibilità di nuocere ai tuoi simili, ed è vana la sfida. E ora, malgrado la tua audacia, la tua iniquità, la tua forza, sei avvinto, incatenato. La sete di delitti ti divora, né puoi soddisfarla... Poco fa, in un impeto terribile e sanguinario, intendevi uccidere la tua consorte. E qui, sotto lo stesso tuo tetto; dorme non difesa; tu hai il coltello; la sua camera è a soli due passi; nessun ostacolo ti trattiene, puoi giungere sino a lei: l'unica cosa che la sottragga al tuo furore è la tua impotenza! "Il sogno di poc'anzi, quello che fai anche adesso, potrebbe essere per te di grande insegnamento, e forse potrebbe salvarti... Le immagini misteriose di questo sogno hanno un senso profondo. Il lago di sangue, in cui apparvero le vittime, è il sangue che tu spargesti. La lava ardente che vi subentrava, è il rimorso divoratore che avrebbe dovuto consumarti, finché un giorno Dio, mosso a pietà dalle lunghe tue torture, ti chiamasse a sé e ti facesse gustare le ineffabili dolcezze del perdono. Ma ciò non avverrà mai... No, no, inutili riusciranno questi avvenimenti! Invece di ravvederti, rimpiangerai ogni giorno, con orrende bestemmie, quei tempi nei quali commettevi i tuoi delitti. Ahimè, in questa lotta perpetua fra le tue inclinazioni sanguinarie e l'impossibilità di appagarle, fra le tue abitudini di fiera violenza e la necessità di sottoporti ad esseri deboli e crudeli, ne verrà per te una sorte spaventosa, orribile! Oh, povero miserabile!" E si alterava a Rodolphe la voce. Tacque un istante, quasi che l'emozione e il terrore gli avessero vietato di proseguire. Il Maître si sentì rizzare i capelli. Che sorte era mai quella, che impietosiva persino il suo carnefice? "Il destino che ti sovrasta è così orribile" soggiungeva Rodolphe "che quando Dio nella sua vendetta inesorabile ed onnipossente volesse fare espiare a te solo le colpe di tutti gli uomini, non immaginerebbe un supplizio più tremendo. Guai a te! guai! Vuole la fatalità che tu sappia l'atroce punizione che ti attende, e che nulla tu operi onde a quella sottrarti. Che l'avvenire ti sia noto!" Parve al Maître che gli fosse ridonata la vista. Aperse gli occhi... e vide... Ma quel che vide lo assalì di tale sbigottimento, che mandò un grido acuto, e si destò di soprassalto, tutto atterrito dall'orribile sogno. 9. La lettera. Suonavano le nove del mattino all'orologio del podere di Bouqueval, quando la signora Georges entrò adagio nella camera di Marie. Era così leggero il sonno della ragazza, che si destò quasi subito. Un fulgido sole d'inverno, vibrando i suoi raggi, attraverso le persiane e le portiere di tela scura foderate di "ghingam" color rosa, spargeva una tinta vermiglia nella stanza, e dava al pallido e dolce viso della Goualeuse i colori che le mancavano. "Ebbene, figlia mia" disse la signora Georges, sedendo sul letto della ragazza e baciandola in fronte "come state?" "Meglio, signora... Vi ringrazio." "Non vi siete svegliata troppo presto stamani?" "No, signora." "Meglio così! Quel povero cieco e suo figlio, ai quali fu dato ieri sera da dormire, hanno voluto abbandonare all'alba la fattoria, e temevo che il rumore fatto nell'aprire le porte vi avesse tolto il sonno." "Infelici! Perché sono partiti così presto?" "Non lo so. Ieri sera, lasciandovi alquanto più calma, scesi in cucina per vederli; ma tutti e due erano tanto stanchi, che avevano chiesto licenza di ritirarsi. Papà Chatelain mi disse che il cieco sembrava non aver la testa molto sana, e tutta la nostra gente ha preso il più grande interesse alle amorevoli attenzioni che gli prodigava il figlio. Ma, Marie, avete un po' di febbre! Non voglio che oggi vi esponiate al freddo; non uscirete dal salotto." "Oh, signora, scusate, ma bisogna che alle cinque io vada al presbiterio; il signor curato mi aspetta." "Sarebbe un'imprudenza; sono certa che avete passato una cattiva nottata. Avete gli occhi affaticati, avete dormito male." "È vero, ed anche ho avuto dei tristi sogni... Mi pareva di rivedere la donna che mi tormentò quando ero bambina: mi sono svegliata tremante, spaventata. È una debolezza ridicola, e me ne vergogno." "E a me questa debolezza dà afflizione, poiché vi fa patire, mia cara" disse la signora Georges con tenera premura, vedendo che alla Goualeuse si riempivano gli occhi di lacrime. Questa, gettandosi al collo della madre, nascose il proprio volto nel suo seno. "Dio buono, che avete Marie? Voi mi inquietate!" "Avete per me tanta bontà, che io mi rimprovero di non avervi confidato quel che ho detto al signor parroco: domani lui vi dirà tutto; mi sarebbe troppo penoso ripetervi quella confessione." "Animo figliola, siate ragionevole! Sono sicura che vi sarà più da lodare, che da biasimare in quel gran segreto che avevate da comunicare al signor abate. Non piangete così, mi fate male." "Compatitemi, signora, ma non so perché da due giorni mi sento spezzare il cuore. Mio malgrado mi vengono le lacrime agli occhi. Ho dei presentimenti. Mi pare che stia per accadermi qualche disgrazia." "Marie, Marie... Vi sgriderò, se vi lasciate prendere in tal modo da paure puramente immaginarie. Non bastano forse le pene reali che ci opprimono?" "Dite bene... Sì, ho torto, cercherò di superare questa debolezza. Se sapeste quando mi dispiace di non poter essere sempre contenta, allegra come vorrei! La mia malinconia vi deve sembrare ingratitudine!" La signora Georges si accingeva a confortare la Goualeuse, ma entrò Claudine, dopo aver bussato all'uscio. "Che volete Claudine?" "Signora, c'è giù Pierre, che viene da Arnouville con il calesse della signora Dubreuil; porta questa lettera per voi e dice che è urgente." La signora Georges lesse ad alta voce ciò che segue: "Mia cara signora Georges, mi fareste un vero servizio, e potreste levarmi da un grande imbarazzo, venendo subito alla fattoria; Pierre vi condurrebbe, e poi vi riaccompagnerebbe indietro dopo pranzo. Non so davvero dove battere la testa. Il signor Dubreuil è a Pontoise per la vendita delle sue lane, ed io, per questo, ricorro a voi ed a Marie. Clara abbraccia la sua buona sorellina, e l'attende con impazienza. Procurate di venire alle undici per far colazione. Vostra sincera amica Dubreuil" "Che mai ci sarà?" disse la signora Georges a Marie. "Peraltro il tono della lettera della Dubreuil prova che non si tratta di cose gravi." "Devo accompagnarvi, signora?" domandò la Goualeuse. "Non sarà forse prudente, perché è freddo. Ma, in sostanza, vi servirà da svago; coprendovi bene, questa gita vi sarà utile..." "Ma, signora" replicò la ragazza, dopo aver riflettuto "il signor parroco mi aspetta, alle cinque al presbiterio." "Avete ragione, Marie... Saremo di ritorno prima delle cinque, ve lo prometto." "Oh, grazie, grazie, signora, sono felice di rivedere la signorina Clara." "E sempre da capo" disse la signora Georges in tono di dolce rimprovero: "La signorina Clara! Dice forse signorina Marie, quando lei parla di voi?" "No, signora" rispose la Goualeuse, abbassando gli occhi. "È che io, io..." "Voi, voi! Siete una creatura crudele, che non pensate se non a tormentare voi stessa. Dimenticate già le promesse che mi avete fatto poco fa? Vestitevi presto, e copritevi bene. Potremo essere prima delle undici ad Arnouville." Ed uscendo con Claudine, la signora Georges disse a questa: "Pierre aspetti un momento, saremo pronte fra pochi minuti." 10. Riconoscimento. Mezz'ora dopo questa conversazione, la signora Georges e Fleur-de-Marie salivano in uno di quei grandi calessi di cui si servono i ricchi castaldi delle vicinanze di Parigi; ed in poco tempo questa carrozza, tirata da un robusto cavallo guidato da Pierre, corse rapidamente sulla strada erbosa che da Bouqueval va sino ad Arnouville. I vasti cascinali e le molte dipendenze della fattoria amministrata dal signor Dubreuil attestavano l'importanza di quel magnifico possedimento, che madamigella Césarine de Noirmont aveva recato in dote al duca di Lucenay. Lo schiocco sonoro della frusta di Pierre avvertì la signora Dubreuil dell'arrivo di Marie e della signora Georges. Queste, scendendo, furono accolte lietamente da lei e da sua figlia. La signora Dubreuil aveva cinquant'anni; era di fisionomia dolce e affabile; il volto della figlia, bella brunetta con gli occhi azzurri e le guance fresche e vermiglie, sprigionava bontà e candore. La Goualeuse, allorché Clara le saltò al collo, vide con stupore che era vestita come lei da contadina, invece d'indossare un abito da ricevimento. "Come, Clara! Anche voi vi siete vestita da contadina?" disse la signora Georges, abbracciando la ragazza. "E non deve imitare in tutto sua sorella Marie?" rispose la Dubreuil. "Oh, non ha avuto requie sinché non ha avuto anche lei la camiciola di panno, la giubba di fustagno, come la vostra Marie... Ma c'è altro che i ghiribizzi di questa ragazza, mia povera signora Georges!" fece sospirando. "Venite, che io vi racconti tutte le mie preoccupazioni!" Clara, arrivata nel salotto con la madre e la signora Georges, sedette accanto a Marie, le diede il primo posto vicino al fuoco, le usò molte attenzioni, le prese le mani fra le sue per assicurarsi che non fossero più fredde, l'abbracciò nuovamente, e la chiamò sorellaccia, facendole, sottovoce, dolcissimi rimproveri, sul lungo intervallo tra le sue visite. "Che vi è mai successo, mia cara signora Dubreuil?" domandò la signora Georges. "In che potrò aiutarvi?" "Dio mio, in molte cose. Adesso mi spiegherò. Voi non sapevate, credo, che questa fattoria apparteneva alla duchessa di Lucenay. Noi abbiamo a che fare direttamente con lei, senza passare per la trafila del maggiordomo del signor duca." "Infatti, ignoravo questa circostanza." "Ora sentirete perché ve ne informo... Alla duchessa, dunque, o alla Simon, sua prima cameriera, noi paghiamo i fitti. La duchessa è tanto buona, benché un po' vivace, che è un vero piacere aver rapporti con lei: Dubreuil ed io ci getteremmo nel fuoco per servirla. E poi è una cosa naturale. L'ho vista bambina quando veniva qui con suo padre, il defunto principe di Noirmont. Anche ultimamente ci chiese sei mesi di affitto anticipato. Quarantamila franchi non si trovano mica sotto la zampa di un cavallo, come si suol dire; ma avevamo da parte questa somma, la dote della nostra Clara, e da un giorno all'altro la signora duchessa l'ebbe in tanti bei luigi d'oro... Queste signorone hanno bisogno di tanto lusso! Ma non è più di un anno che è diventata così precisa nel riscuotere alla scadenza! Prima pareva che non le occorressero mai soldi. Adesso, è tutt'altro!" "Finora, cara signora Dubreuil, non vedo in che potrei esservi utile." "Eccoci, eccoci: vi dicevo questo per farvi capire che la signora ha in noi piena fiducia. Senza contare che all'età di dodici o tredici anni fu comare, e suo padre compare, della mia Clara, e le ha sempre prestato mille attenzioni... Sicché, ieri sera, ricevo con un espresso questa sua lettera: "Mia cara signora Dubreuil, bisogna assolutamente che la palazzina dell'orto sia messa in condizione d'essere abitata domani sera. Fateci trasportare tutti i mobili necessari, tappeti, portiere, eccetera, eccetera; infine che nulla vi manchi, e specialmente sia 'confortevole' quanto si può." ''Confortevole''!, capite, signora Georges, ed anche sottolineato!" notò la signora Dubreuil, guardando la sua amica, con aria meditativa ed imbarazzata; e poi continuò: "Fateci fuoco notte e giorno per togliere l'umidità, giacché è un pezzo che non è stata abitata. Tratterete la persona che verrà a dimorarvi come trattereste me stessa. Un biglietto che da questa vi sarà consegnato v'istruirà su quanto desidero dal vostro zelo e dalla vostra gentilezza. Io ci conto anche questa volta, senza timore di abusarne; so quanto siete buona e premurosa. Addio mia cara signora Dubreuil; abbracciate la mia bella figlioccia, e credete ai miei affettuosi sentimenti. Noirmont de Lucenay P.S. La persona, che deve abitare da voi, arriverà dopodomani, alla sera. Non vi dimenticate soprattutto, ve ne prego, di fare in modo che la palazzina sia il più 'confortevole' possibile." "Vedete! Da capo l'imbroglio di quella parola sottolineata!" disse la signora Dubreuil, rimettendosi in tasca la lettera. "Ebbene, non c'è cosa più semplice" disse la signora Georges. "Come, semplice? Ma non avete inteso? Vuole soprattutto che la casa sia "il più confortevole possibile"... E per questo vi ho pregato di venir qui. Clara ed io ci siamo ammazzate a cercare che volesse dire quel "confortevole", e non ci siamo riuscite... E sì, che Clara è stata in pensione a Villiers-le-Bel, ed ha ottenuto non so quanti premi in storia e geografia... Ebbene, non importa, non è meglio informata di me riguardo a quel termine stravagante. Deve essere un vocabolo di corte o di alta società... Ma capite che imbroglio? Vuole che sia "confortevole", contrassegna la parola, la ripete due volte, e noi non sappiamo che intenda dire!" "Grazie a Dio, posso spiegarvi io questo gran mistero" rispose sorridendo la signora Georges: ""Confortevole", in questo caso, significa un appartamento comodo, ben addobbato, ben chiuso, ben caldo, insomma un'abitazione in cui nulla manchi del necessario, ed anche del superfluo..." "Ah, mio Dio, ora capisco! Ma allora sono più imbarazzata che mai!" "E perché?" "La signora duchessa discorre di tappeti, di mobili e di molti "eccetera". Ma noi qui non abbiamo tappeti, i nostri mobili sono più che comuni; e poi non so se l'individuo che dobbiamo aspettarci è uomo o donna, e tutto dev'esser pronto per domani sera... Come si fa? Qui non ci sono mezzi... In verità, mia cara signora, c'è da perdere la testa." "Mamma" propose Clara "se tu pigliassi la mobilia di camera mia? Intanto che questa fosse rimessa in ordine, potrei andare tre o quattro giorni a Bouqueval con Marie..." "La tua camera? Ti pare che sia così bella?" replicò la Dubreuil, stringendosi nelle spalle. "È molto, molto "confortevole", come dice la signora duchessa? Dio buono, Dio buono, dove vanno a cercare simili parole?" "La palazzina è dunque di solito disabitata?" domandò la signora Georges. "Certo. È quella casetta bianca là in fondo all'orto. Il signor principe la fece fabbricare per la signora duchessa quando era ragazza; e tutte le volte che veniva alla fattoria con suo padre, ci si riposavano tutti e due. Ci sono tre belle stanze, ed all'estremità del giardino uno chalet, dove la signora duchessa da bambina si divertiva a far da lattaia. Dopo il suo matrimonio l'abbiamo vista qui due sole volte, e ogni volta si è trattenuta qualche ora. La prima, saranno sei anni fa, venne a cavallo con..." Quasi che la presenza di Marie e di Clara le impedisse di dire altro, la signora Dubreuil s'interruppe da sé. "Ma io bado a discorrere, e così non mi so sbrigare. Aiutatemi un poco, mia cara signora Georges, aiutatemi un poco!" "Sentiamo, ditemi: com'è arredata adesso questa palazzina?" "È appena ammobiliata: nella stanza principale, una stuoia di paglia sul pavimento, un divano di giunchi e poltrone simili, un tavolino, poche seggiole, niente più. Da questa roba al "confortevole" ci corre, come vedete." "Al vostro posto, ecco che cosa farei: sono le undici, manderei a Parigi un uomo capace..." "Il nostro factotum. Non c'è uomo più sollecito." "A meraviglia... In due ore, al più, arriva a Parigi, va da un tappezziere della Chaussée d'Antin, poco importa da quale; gli dà la nota che io farò tra un momento, quando avrò visto quel che vi manca, e gli dice che a qualunque costo..." "Oh, di certo! Purché la signora duchessa sia contenta, non starò a lesinare..." "Che a qualunque costo, bisogna che gli oggetti segnati nella lista siano qui stasera o nella nottata, come anche tre o quattro garzoni di tappezziere per mettere tutto a posto..." "Potranno venire con la vettura di Gonesse, che parte alle otto di sera da Parigi." "E siccome non c'è altro che trasportare diversi mobili, inchiodare i tappeti, accomodare le tendine, tutto può facilmente essere pronto per domani sera." "Ah, mia buona signora Georges, da che imbarazzo mi salvate! Io, vedete, non avevo pensato a questo. Voi siete la mia provvidenza! Adesso avrete la bontà di farmi la nota di quanto occorre perché la palazzina sia..." "Confortevole!... Sì, senza dubbio." "Ah, Dio buono, un'altra difficoltà! Lo ripeto, non sappiamo se è uomo o donna quello che si aspetta... Nella lettera la signora duchessa dice: "Una persona"! Qui sta il "busillis"!" "Preparatevi come se attendeste una donna, cara signora Dubreuil; se poi è un uomo sarà anche meglio." "Avete ragione, sempre ragione." Comparve una serva ad avvertire che la colazione era in tavola. "Verremo subito" disse la signora Georges "ma intanto che scrivo la lista di quanto è necessario, fate prendere la misura delle tre camere per l'altezza e l'estensione, perché si possano disporre le tendine e i tappeti..." "Bene, bene, vado subito a dirlo al mio factotum." "Signora" disse la serva "c'è anche quella lattaia di Stains, e la sua roba di casa in un carrettino tirato da un asino. Madonna, non è pesante il suo sgombero!" "Poveretta!" esclamò la signora Dubreuil. "Chi è costei?" chiese la signora Georges. "Una contadina di Stains, che aveva quattro vacche, e faceva i fatti suoi andando ogni mattina a vendere il latte a Parigi. Suo marito era maniscalco. Un giorno, avendo da comprare del ferro, va con la moglie, e si danno appuntamento sulla cantonata della strada dove di solito lei stava a smerciare il suo latte. Disgraziatamente era un pessimo quartiere quello. Il maniscalco torna e trova la consorte che si batte con due manigoldi ubriachi che le hanno vuotato tutte le fiasche nel fosso. Quello protesta, e i bricconi lo maltrattano; si difende, e nella rissa riceve una coltellata, che lo stende a terra morto." "Che orrore!" esclamò la signora Georges. "E l'assassino è stato arrestato?" "Disgraziatamente no. Scappò nel tumulto. La povera vedova assicura che lo riconoscerebbe benissimo; lo ha visto diverse volte con altri suoi compagni che frequentano quel quartiere, ma finora tutte le ricerche sono state inutili. Insomma, dopo la morte del marito, la disgraziata, per pagare qualche debito, è stata costretta a vendere le vacche e un piccolo terreno che possedeva. Il fattore di Stains me l'ha raccomandata come un'ottima creatura, tanto infelice quanto onesta, giacché ha tre figli, il maggiore dei quali non ha ancora dodici anni. Io avevo per l'appunto un posto vacante, gliel'ho dato, e lei viene a stare nel podere." "Quest'atto di bontà, da parte vostra, non mi stupisce, mia cara signora Dubreuil." "Dimmi, Clara, vuoi andare a sistemare quella buona donnetta nella sua piccola abitazione, intanto che io vado a dire al factotum che si prepari a partire per Parigi?" "Sì, mamma, e Marie verrà con me." "S'intende! Potete stare una senza l'altra?" disse la fattoressa. "Ed io" soggiunse la signora Georges, sedendo davanti a un tavolino "comincio la mia lista per non perdere tempo, giacché dobbiamo essere di ritorno a Bouqueval verso le quattro." "Alle quattro? Avete dunque gran fretta" fece la signora Dubreuil. "Sì, bisogna che Marie sia al presbiterio alle cinque." "Oh, se si tratta del buon abate Laporte, è un impegno sacro!" disse la signora Dubreuil. "Vado a dare gli ordini. Queste due ragazze hanno molte cose da dirsi. Bisogna dar loro il tempo di parlarsi." "Partiremo dunque alle tre, mia cara signora Dubreuil." "Siamo d'accordo... Ma lasciate che vi ringrazi di nuovo! Che buona idea è stata pregarvi di venir qui ad assistermi! Andiamo, Clara, andiamo, Marie!" Mentre la signora Georges scriveva, la signora Dubreuil uscì da una parte, e le due fanciulle dall'altra con la serva che aveva annunciato l'arrivo della lattaia di Stains. "Dov'è quella poveretta?" domandò Clara. "È con i suoi figli, la carretta e l'asinello nel cortile dell'aia." "Ora la vedrai" disse Clara, prendendo il braccio della Goualeuse. "Poveretta! Com'è pallida, e che aspetto afflitto ha mai, tutta in lutto! L'ultima volta che venne a trovare la mamma mi fece male al cuore: piangeva nel parlare di suo marito, e poi, tutto ad un tratto, le lacrime le si fermavano, e le pigliavano impeti di furore contro l'assassino. Allora, mi faceva paura, tanto pareva forsennata! Ma il suo risentimento è naturale. Ci sono persone molto sfortunate, non è vero, Marie?" "Oh, sì, sì, senza dubbio" rispose la Goualeuse, distratta e sospirando "ce ne sono sfortunatissime... Avete ragione, signorina..." "Oh, via!" gridò Clara, battendo i piedi con impazienza e dispiacere. "Ecco da capo che mi dai del voi, e mi chiami signorina! Ma dunque sei arrabbiata con me?" "Io? Ma come è possibile?" "Ebbene, dunque, perché mi dai del voi? Lo sai che mia madre e la signora Georges ti hanno già sgridata per questo... Ti avverto, non lo voglio più sentire!" "Clara, perdonami, ero pensierosa..." "Pensierosa, quando mi rivedi dopo più di otto giorni di separazione?" rispose mestamente Clara. "Distratta... Anche questo sarebbe male! Ma no, no, non è questo... Senti, Marie, finirò con il credere che tu sia superba!" Marie divenne pallida come una morta e non rispose. Al vederla, la donna in lutto aveva emesso un urlo di collera e d'orrore. Era la lattaia che, ogni mattina, vendeva il latte alla Goualeuse quando abitava dall'Orca del "tapis-franc". 11. La lattaia. La scena che stiamo per narrare accadeva in un cortile del podere, alla presenza dei contadini e delle donne di servizio che tornavano dai loro lavori per desinare. Sotto una tettoia si vedeva un carrettino tirato da un asinello, che conteneva la rustica e miserabile mobilia della vedova; un ragazzetto di dodici anni, aiutato da due bambini di minore età, cominciava a scaricare la roba. La lattaia, tutta vestita di nero, era una donna intorno ai quarant'anni, di aspetto rozzo, maschile e risoluto, ed aveva le palpebre rosse per le lacrime versate di recente. Scorgendo Marie, diede prima un urlo di paura, ma subito il dolore, l'indignazione, la collera, le scomposero la faccia; si avventò addosso alla Goualeuse, la prese brutalmente per un braccio, e, mostrandola a tutti, esclamò: "Ecco una scellerata che conosce l'assassino del mio povero marito... L'ho vista venti volte parlare a quel brigante, quando vendevo il latte all'angolo della rue de la Vieille Draperie. Veniva da me a comprarsene un soldo, ogni mattina. Devo sapere chi è quel delinquente. Come tutte le sue pari, è della razza di quel pendaglio da forca! Oh, non mi scapperai, puttanaccia!" E, così gridando, ed esacerbata da ingiusti sospetti, afferrò l'altro braccio di Fleur-de-Marie, che, tremante e smarrita, voleva fuggire. Clara, stupefatta da una così repentina aggressione, non aveva potuto proferire un accento, ma, a tale eccesso di violenza, gridò alla vedova: "Ma siete pazza! La collera e il dolore vi han fatto perdere la testa! V'ingannate!" "M'inganno?" disse la lattaia con amara ironia. "M'inganno? Oh, signora no, non m'inganno... Vedete, guardate com'è già pallida, la miserabile, come le battono i denti! Oh, la giustizia ti forzerà a parlare! Verrai subito con me dal signor sindaco... Capisci?... Oh, non c'è da resistere... Ho un buon pugno fermo... Io ti ci porterò." "Insolente che siete!" esclamò Clara esasperata. "Uscite di qua! Ardite mancare così di rispetto alla mia amica, a mia sorella?" "Vostra sorella? Eh via, signorina! Siete voi la matta!" replicò grossolanamente la vedova. "Vostra sorella? una baldracca che per sei mesi ho visto far la sgualdrina in giro per la Cité?" A queste parole i contadini si misero a mormorare contro Fleur-deMarie. Naturalmente prendevano le parti della lattaia, che era della loro classe e le cui sventure erano note a tutti. I tre ragazzi, udendo che la madre alzava la voce, le corsero intorno piangendo, senza sapere di che si trattasse. L'aspetto di quei miseri bambini, vestiti a lutto, raddoppiò la simpatia che ispirava la madre, ed accrebbe l'indignazione generale contro Fleur-de-Marie. Clara, intimorita dalle dimostrazioni quasi minacciose dei villici, disse loro molto alterata: "Fate andar via costei! Vi ripeto che il dolore la trasporta. Marie, Marie, perdona! Mio Dio, è pazza, non sa quello che dice..." La Goualeuse, pallida, a testa china per celarsi a tutti gli sguardi, rimaneva mesta, abbattuta, e neppure faceva alcun movimento per sottrarsi alla lattaia, che sempre più la stringeva. Clara, che attribuiva il suo avvilimento allo spavento prodotto da una scena simile, disse di nuovo ai contadini: "Non mi avete sentito? Vi ordino di cacciar via questa donna... Poiché insiste nelle ingiurie, per punirla della sua impertinenza non avrà più il posto che mia madre le aveva promesso; in vita sua non rimetterà mai più piede nella fattoria." Nessuno si mosse per obbedire a Clara; ed anzi uno osò dire: "Eh, signorina! Se è una sgualdrina, e conosce l'assassino del marito di questa povera donna, deve venire a spiegarsi davanti al sindaco..." "Vi ripeto che non entrerete mai più qui" disse Clara alla lattaia "se non chiedete subito perdono alla signorina Marie." "Mi scacciate, signorina, pazienza" replicò con amarezza, la vedova. "Andiamo, miei disgraziati orfanelli" aggiunse abbracciando i figli "ricaricate il baroccino, e andremo a guadagnarci il pane in un altro luogo. Dio avrà pietà di noi. Ma intanto condurremo dal sindaco questa ladra, e sarà costretta a dire il nome di quello che ammazzò il mio povero marito. Giacché questa puttana conosce tutta la masnada! E voi, signorina, perché siete ricca" continuò, guardando la giovane Dubreuil con insolenza "e perché avete delle amiche fra questa specie di gentaglia, non per questo dovete trattar male la povera gente!" "È vero" disse uno dei contadini "la lattaia ha ragione..." "Povera donna!" "Ha ragione! Ha diritto..." "Le hanno assassinato il marito! Deve forse provar piacere?" "Nessuno le può impedire di far di tutto per scoprire gli scellerati che hanno commesso il delitto!" "È ingiusto mandarla via." "È colpa sua se l'amica di madamigella Clara è una donnaccia?" "Non si mette fuori una donna onesta, una madre di famiglia, a causa di una bagascia simile!" Clara esclamò: "Sia lodato Iddio, ecco mia madre!" Difatti la signora Dubreuil, tornando dalla palazzina dell'orto, attraversava il cortile. "Ebbene, Clara, ebbene, Marie" disse la fattoressa avvicinandosi "venite a far colazione? Andiamo, figliole, è già tardi." "Mamma" gridò Clara "difendete mia sorella dagli insulti di questa donna. Per favore, mandatela fuori. Se sapeste tutti gli oltraggi che ha l'audacia di dire a Marie..." "Come? oserebbe?..." "Sì" e indicò la vedova. "Vedete, mamma, la mia sorellina, come trema... Può appena reggersi... È vergogna per noi che una scena tale abbia luogo in casa nostra. Marie, perdonaci, te ne supplico!" "Ma che significa tutto questo?" domandò la signora Dubreuil, guardandosi attorno con inquietudine, dopo aver notato l'abbattimento della Goualeuse. "La padrona sarà giusta, di sicuro..." bisbigliarono i villici. "Ecco la signora Dubreuil! Ora toccherà a te di esser mandata via" disse a Fleur-de-Marie la lattaia. "È dunque vero?" gridò la fattoressa a quest'ultima che reggeva sempre la Goualeuse per un braccio. "Ardite parlare in questo modo all'amica di mia figlia? Così contraccambiate la mia bontà? Volete lasciar in pace questa ragazza!" "Io vi rispetto, signora, e vi sono grata della vostra bontà" rispose la vedova, lasciando libero il braccio di Marie "ma prima d'incolparmi e di scacciarmi con i miei figli, interrogate questa infame. Forse non avrà la faccia di negare che mi conosce e che la conosco anch'io." "Marie, Dio buono! Sentite quel che dice?" domandò la signora Dubreuil al colmo della sorpresa. "Ti chiami, sì o no, la Goualeuse?" chiese la lattaia. "Sì" rispose l'infelice a voce bassa, atterrita, e senza alzare gli occhi sulla signora Dubreuil. "Sì, mi chiamavano così." "Ah, vedete!" urlarono tutti i contadini sdegnati. "Confessa, confessa..." "Confessa? Ma che cosa confessa?" gridò la signora Dubreuil, mezzo spaventata dalla confessione di Marie. "Lasciatela rispondere, signora" soggiunse la vedova. "Ora confesserà che era in una casa infame di rue aux Fèves, nella Cité, dove io le vendevo un soldo di latte ogni mattina; confesserà che spesso ha parlato davanti a me con l'assassino del mio povero marito... Oh, lo conosce bene, ne sono certa... Un giovane pallido, che fumava sempre, e che portava un caschetto, il camiciotto e i capelli lunghi; deve sapere il suo nome... È vero? Vuoi rispondere, disgraziata? Vuoi rispondere?" gridava la lattaia. "Può essere che io abbia discorso con quello che uccise il vostro sposo, giacché c'è, per sfortuna, più di un assassino nella Cité" disse Fleur-de-Marie, che si sentiva mancare "ma non so chi intendete accusare." "Come? che ha detto?" fece sbigottita la signora Dubreuil. "Lei ha parlato con assassini?" "Le creature come lei non hanno altre relazioni che quelle..." rispose la vedova. La fattoressa, in principio stupefatta dalla strana rivelazione, giustificata dalle ultime parole di Marie, comprese ormai ogni cosa, retrocedette con ribrezzo, trasse con forza e bruscamente a sé sua figlia, che si era avvicinata alla Goualeuse per sostenerla, ed esclamò: "Oh, che orrore! Clara, badate, non vi accostate a quella sciagurata... Come mai la signora Georges ha potuto riceverla in casa sua? Come ha osato presentarmela, e permettere che la mia figliola... Mio Dio, mio Dio! Ma questo è un vituperio... A malapena posso credere a quel che vedo! Ma no, ma no, la signora Georges è incapace di una simile birbonata... Sarà stata ingannata come noi... Diversamente... Ah, in lei sarebbe abominevole!" Clara, desolata, spaventata da quella scena crudele, credeva di sognare. Nella sua candida ignoranza non comprendeva le terribili accuse che si gridavano contro la sua amica; le si spezzava il cuore. Le si riempirono gli occhi di lacrime nel vedere la Goualeuse avvilita come una delinquente davanti ai suoi giudici. "Vieni, vieni, figlia mia cara..." disse a Clara la signora Dubreuil. E poi, volta a Marie: "E voi, indegna, Dio vi punirà della vostra infame ipocrisia. Avete ardito permettere che mia figlia, un angelo di virtù, vi chiamasse amica, sorella... Sua amica, sua sorella! Voi, la feccia di quanto è al mondo di più vile! Che sfacciataggine!... E osate mescolarvi con le persone dabbene, mentre meritate di andar a ritrovare le vostre simili in carcere." "Sì, sì" urlarono in coro i contadini "deve andare in carcere... Conosce l'assassino!" "E forse è una complice!" "Vedi che c'è una giustizia in cielo..." disse la vedova, mostrando il pugno alla Goualeuse. "In quanto a voi, mia buona donna" così parlò la Dubreuil alla lattaia "invece di licenziarvi, vi sono grata del servizio che mi avete reso scoprendo questa sgualdrinella." "Alla buon'ora, la nostra padrona è giusta..." bisbigliarono i contadini. "Vieni, Clara" soggiunse la fattoressa "la signora Georges ci spiegherà il suo contegno, se no, non la rivedrò più in vita mia: giacché se non è stata ingannata, agisce verso di noi in un modo da far ribrezzo." "Ma, cara madre, guardate la misera Marie..." "Che crepi dalla vergogna, se vuole... Tanto meglio! Disprezzala... Non voglio che tu le stia un momento vicina... È una di quelle creature con le quali una fanciulla come te non può parlare senza disonorarsi." "Mio Dio, mio Dio, mamma" disse Clara, opponendosi alla madre che cercava di condurla via. "Non so cosa significhi... Marie può essere colpevole, poiché voi lo dite: ma vedete, sviene... Abbiate compassione, almeno..." "Ah, signorina Clara, voi siete buona, voi mi perdonate. Fu mio malgrado, credetelo, che v'ingannai... Spesso me lo rimproverai io stessa..." disse la sventurata, volgendo sulla sua protettrice uno sguardo di gratitudine ineffabile. "Madre mia, siete dunque senza pietà?" esclamò Clara, con una voce che straziava il cuore. "Pietà per lei? Eh via! Se non fosse che la signora Georges ce la leverà subito d'attorno, la farei gettar fuori dal podere come un'appestata..." rispose aspramente la fattoressa. E trascinò la figlia, che girandosi per l'ultima volta verso la Goualeuse, le gridava: "Marie, sorella mia! Non so di che ti accusano, ma sono certa che tu non sei colpevole, e ti amo sempre." "Taci, taci!" gridava la signora Dubreuil, ponendole la mano sulla bocca. "Sta' zitta... Fortuna che tutti sono testimoni che, dopo questa disgustosa scoperta, non sei rimasta un momento solo con quella donna... Non è vero, miei cari?" "Sì, signora" dissero i contadini "siamo testimoni che la signorina Clara non è stata un momento con questa baldracca, che di certo è una ladra, poiché ha relazione con gli assassini." La Dubreuil condusse via Clara. La Goualeuse restò sola in mezzo al gruppo di persone minacciose che le si era affollato intorno. Malgrado le ingiurie della Dubreuil, la presenza di questa e di Clara erano come riparo all'ira scatenata dei contadini. Ma dopo che quelle si furono allontanate, trovandosi in balia dei contadini, Marie si sentì mancare le forze, e fu costretta ad appoggiarsi al parapetto dell'abbeveratoio dei cavalli del podere. Quasi ritta all'orlo della pietra, con la testa china, nascosta fra le mani, il collo e il seno coperti dalle punte del fazzoletto d'indiana che le attorniava la cuffietta, la Goualeuse, immobile, sembrava l'immagine più naturale del dolore e della rassegnazione. A pochi passi di distanza, la vedova dell'ucciso, trionfante, ed anche esacerbata contro Marie dalle imprecazioni della fattoressa, la mostrava a dito ai suoi figli ed alla folla con parole terribili. I contadini del podere, radunati in circolo, non celavano i sentimenti ostili che li animavano: sulle loro rozze fisionomie si scorgevano l'indignazione, la collera, ed una specie di dileggio brutale ed insultante; le donne parevano ancor più furibonde e più disgustate degli uomini, e la bellezza della Goualeuse non era forse una delle più piccole cause del loro accanimento. Nessuno, insomma, poteva perdonare a Fleur-de-Marie di essere stata sino ad allora trattata come loro eguale e amica dei padroni. Ed inoltre, siccome vari contadini di Arnouville non erano stati in grado di presentare referenze favorevoli per ottenere nel podere di Bouqueval uno degli impieghi tanto invidiati in paese, molti di costoro nutrivano contro la signora Georges un certo malcontento di cui la sua protetta doveva ora risentire gli effetti. I primi impulsi delle persone incolte sono sempre estremi... Ma divengono poi pericolosi quando, riunite in molte, credono la loro brutalità autorizzata da torti reali o apparenti di coloro contro cui è rivolto l'odio, o la loro rabbia. Sebbene non tutti gli abitanti della fattoria avessero un motivo per non avere poi molti riguardi, e forse anche una decisa diffidenza verso la Goualeuse, pure sembrava che fossero contagiosamente esasperati anche solo dalla presenza di lei, e si sdegnavano nel pensare a che razza di progenie apparteneva la sfortunata, che inoltre confessava di aver avuto rapporti con assassini. Occorreva di più per eccitare l'ira dei campagnoli già spinti dall'esempio della signora Dubreuil? "Bisogna portarla dal sindaco..." gridò uno. "Sì, sì, e se non vuol camminare, la si spinga." "E ha anche il becco di vestirsi come le ragazze oneste di campagna!" aggiunse una delle più sguaiate e sciatte del podere. "Con la sua faccia da gabbasanti, chi non se ne sarebbe fidato?" "Non aveva la sfacciataggine di andare a messa?" "Pettegola!... Anzi doveva fare la comunione. "E si voleva strofinare attorno alle padrone!" "Come fossimo gente troppo bassa in confronto a lei!" "Ma, per fortuna, tocca una volta per uno!" "Oh, parlerai per forza! Altroché, se dirai il nome dell'assassino!" aggiunse la vedova. "Già siete tutti della stessa cricca. E non sono ben sicura di non averti visto quello stesso giorno con gli altri... Animo, animo, è inutile che tu pianga, ora che sei riconosciuta... Mostraci la tua faccia, che è così bella a vedersi..." E la vedova abbassò brutalmente le due mani della ragazza, che si nascondeva il viso bagnato di lacrime. La Goualeuse, sul principio rossa per la vergogna, cominciava a tremare di paura, trovandosi sola in balìa di quelle furie. Giunse insieme le mani, girò verso la lattaia le pupille supplichevoli e paurose, e disse dolcemente: "Mio Dio, da due mesi sono ritirata nel podere di Bouqueval... Dunque non posso essere stata presente alla disgrazia di cui parlate, e..." La timida voce di Marie fu coperta dalle grida di tutti. "Portiamola dal sindaco... Si spiegherà." "Animo, marcia, bellezza!" E poiché il gruppo minaccioso si accostava maggiormente alla Goualeuse, questa, incrociate le mani per un movimento involontario, guardava da una parte e dall'altra con terrore, e pareva implorasse assistenza. "Oh" proseguì la lattaia "è inutile che ti cerchi attorno! Non c'è più la signorina Clara a difenderti, non ci scapperai..." "Ahimè!" disse tremando Marie. "Non voglio sfuggirvi; non rifiuto di rispondere a quello che mi sarà domandato se può giovarvi... Ma che male ho fatto a tutti questi che mi minacciano?" "Ci hai fatto, che hai avuto la sfacciataggine di andare di qua e di là con le nostre padrone, mentre non potevamo andarci noialtre, che siamo mille volte meglio di te... Ecco cosa ci hai fatto!" "E poi perché volevi che fosse cacciata di qui la povera vedova con i figlioli?" disse un altro. "Non sono stata io, ma la signorina Clara voleva..." "Ma piantala" qualcuno la interruppe "non hai nemmeno chiesto grazia per lei; eri contenta di vederle togliere il pane." "Sì, è vero, non ha domandato grazia!" "È pure maligna!" "A una misera vedova, madre di tre creature..." "Se non mi sono raccomandata in suo favore" disse Marie "è che non avevo fiato per dire una parola." "Avevi fiato per parlare con gli assassini!" Come nelle sommosse popolari, quei contadini, più stolti che malvagi, s'irritavano, si eccitavano, si inebriavano dello strepito delle parole, e si inviperivano quanto più aumentavano le ingiurie alla loro vittima. Così la plebe arriva talvolta, senza saperlo e mediante un'esaltazione progressiva, all'esecuzione degli atti più ingiusti e più feroci. Il gruppo minaccioso dei villani si appressava sempre più alla ragazza. Tutti agitavano i pugni strillando; la vedova del maniscalco non poteva più contenersi. Fleur-de-Marie, separata dal profondo abbeveratoio dal parapetto a cui si appoggiava, temette di essere gettata nell'acqua, e stendendo supplice le braccia, esclamò: "Ma, mio Dio che volete da me? Non mi fate del male!" E, siccome la lattaia le si scagliava contro, puntandole i due pugni quasi sul viso, Marie, spaventata e buttandosi indietro, soggiunse: "Ve ne scongiuro, non fatemi del male! Mi farete cadere in acqua!" Queste parole di Fleurde-Marie risvegliarono in quelle rozze persone un'idea crudele. Non pensando che di fare una di quelle burle da contadini che spesso costano la vita, vi fu uno dei più forsennati che gridò: "Un tuffo! Facciamole fare un tuffo!" "Sì... sì... nell'acqua" ripeterono tutti con risate ed applausi frenetici. "Bene, un buon tuffo! Non morrà mica per questo!" "E imparerà a venirsi a mischiare con la gente onesta!" "Sì, sì... nell'acqua, nell'acqua!" "Appunto stamane è stato sdiacciato." "La bella puttana si ricorderà dei bravi lavoratori della fattoria d'Arnouville!" Sentendo queste grida disumane e i barbari motteggi, vedendo l'inasprimento di tutte quelle persone stupidamente irritate che venivano minacciose verso di lei, Marie si credette morta. Al suo primo spavento succedette una specie di amara contentezza: vedeva l'avvenire così terribile, che ringraziò mentalmente il cielo di abbreviare le sue pene; non proferì più alcun lamento, cadde ginocchioni, s'incrociò religiosamente le mani sul petto, chiuse gli occhi, ed aspettò pregando. I villici, meravigliati dalla sua arrendevolezza e dalla sua tacita rassegnazione, esitarono un momento ad effettuare i loro selvaggi progetti; ma derisi per l'improvvisa, pietosa debolezza, dalle più eccitate donne del gruppo, ricominciarono a schiamazzare per acquistar coraggio a compiere l'efferato disegno. Due dei più furibondi stavano per afferrare Marie, quando una voce commossa, sonora, gridò: "Fermatevi!" La signora Georges giunse come una folgore, decisa, severa, spingendo e minacciando i più recalcitranti. Arrivò accanto all'infelice in ginocchio, la prese nelle sue braccia, e l'alzò dicendole: "In piedi, figlia mia, in piedi, cara figliola! Non ci si inginocchia che dinanzi a Dio!" L'espressione e i gesti della signora Georges erano tanto imponenti, che l'orda rinculò e stette muta. L'indignazione colorì vivamente il volto della signora Georges, di solito pallida. Guardò con occhi terribili la torma dei contadini e gridò con voce alta e minacciosa: "Disgraziati... Non vi vergognate a compiere tali violenze contro questa poveretta?" "È una..." "È mia figlia" gridò la signora Georges, interrompendo un villano. "Il signor abate Laporte, che tutti benedicono e venerano, l'ama e la protegge, e quelli che da lui sono stimati devono essere rispettati da tutti." Queste semplici parole frenarono i contadini. Il parroco di Bouqueval era considerato in paese come un santo, e molti sapevano quanto s'interessasse della Goualeuse. Tuttavia si udiva sempre un sordo mormorio. La signora Georges, che ne comprese il senso, proseguì: "Quand'anche questa infelice fosse l'infima tra tutte le donne, quando fosse da ognuno abbandonata, la vostra condotta verso di lei sarebbe iniqua. Di che volete castigarla? E poi, con qual diritto? Quale è la vostra autorità? La forza? E non è vergogna, non è viltà, per tanti uomini, prendere per vittima una ragazzina priva di difesa? Vieni, Marie, vieni, figliola cara; ritorniamo a casa nostra; là almeno tu sei conosciuta e apprezzata..." La buona donna prese a braccetto Marie. I villani, accorgendosi della brutalità del loro contegno, si allontanarono rispettosamente. La vedova sola si fece innanzi, dicendo risoluta alla signora Georges: "Questa ragazza non uscirà di qui finché non abbia fatto la sua deposizione al sindaco sull'assassinio del mio povero marito." "Mia cara" le rispose la signora Georges, riuscendo a controllarsi "non è obbligata a far qui alcuna deposizione. In seguito, se la giustizia riterrà opportuno averla per testimone, sarà chiamata, ed io l'accompagnerò. Sino a quel punto nessuno ha diritto d'interrogarla." "Ma signora, io vi dico..." La signora Georges interruppe la lattaia e le disse severamente: "La disgrazia che avete sofferto serve appena a scusare la vostra condotta. Un giorno vi pentirete delle violenze che avete eccitate con tanta imprudenza. Marie abita con me al podere di Bouqueval; informatene il giudice che ricevette la vostra prima denuncia, ed aspetteremo i suoi ordini." La vedova non seppe cosa replicare a un così saggio discorso; sedette sul parapetto dell'abbeveratoio, e si mise a piangere amaramente, abbracciando i suoi figli. Pochi minuti dopo quella scena, Pierre condusse là il calesse, e la signora Georges e Marie vi salirono per ritornare a Bouqueval. Nel passare davanti alla casa della fattoressa d'Arnouville, la Goualeuse vide Clara, che, mezzo nascosta dietro una persiana socchiusa, le faceva con il fazzoletto un cenno di addio. 12. Consolazioni. "Ah, signora, che vergogna per me, e che dolore per voi!" disse Fleur-de-Marie alla madre adottiva quando con lei si trovò sola nel salottino del podere di Bouqueval. "Voi, senza dubbio, siete in rotta per sempre con la signora Dubreuil, e per causa mia... Oh, i miei presentimenti! Dio mi ha punita per aver ingannato così quella signora e sua figlia. Io sono un oggetto di discordia fra voi e la vostra amica..." "La mia amica è un'ottima donna, mia cara, ma ha la testa un po' debole... Del resto, siccome ha il cuore buonissimo, sono certa che domani si pentirà dei suoi atti e delle parole di oggi..." "Ah, non crediate che io voglia giustificarla incolpando voi, mio Dio! Ma la vostra bontà a mio favore vi ha forse accecata... Mettetevi nei panni della signora Dubreuil: pensate, la compagna della sua onesta figliola... è..., era... quella che io fui... E poi dite se si può biasimare la sua materna indignazione?" Disgraziatamente la signora Georges non sapeva che cosa rispondere a tale domanda. "La scena avvilente" continuò Marie con esaltazione "che io ho subito domani sarà sulla bocca di tutti! Non temo per me, ma la reputazione di Clara... Non ne sarà pregiudicata, e per sempre, per avermi chiamata sua amica, sua sorella? Io avrei dovuto seguire i miei primi impulsi, resistere alla simpatia che mi spingeva verso la signorina Dubreuil, e, a rischio d'irritarla, rifiutare l'amicizia che mi veniva offerta. Ma dimenticai la distanza che da lei mi separava... Ne ho avuto il castigo: forse ho causato un danno irreparabile a quella fanciulla virtuosa e buona..." "Figlia mia" disse la signora Georges, dopo un momento di riflessione "avete torto nel farvi così aspri rimproveri. Il vostro passato fu colpevole, sì, colpevolissimo... Ma è forse nulla l'avere, con il vostro pentimento, meritato la protezione del venerabile nostro parroco? Non fu, con i suoi elogi, con la mia stima, che foste presentata alla signora Dubreuil? E le vostre buone qualità non le ispirarono l'attaccamento che per voi aveva concepito?... Non vi chiese lei stessa che chiamaste Clara vostra sorella? E infine, come io dicevo poco fa, giacché nulla volevo né dovevo celarle, sicura com'ero del vostro ravvedimento, potevo io propalare il passato e rendere più penosa e, chissà, anche impossibile, la vostra riabilitazione? e levarvi ogni speranza, e abbandonarvi al disprezzo di persone che, qualora fossero state per disgrazia abbandonate come voi, non avrebbero forse come voi conservato l'istinto dell'onore e della virtù? La rivelazione di quella donna è triste, è funesta... Ma io dovevo, prevenendola, sacrificare il vostro futuro ad una eventualità improbabile?" "Ah, signora! Quel che prova quanto la mia situazione sia per sempre falsa e misera è appunto che, per affetto verso di me, avete dovuto nascondere il mio passato, e che la madre di Clara ha avuto ragione di offendersi e di disprezzarmi a causa di quello stesso passato. E tutti, d'ora in poi, mi sprezzeranno, giacché ciò che è accaduto ad Arnouville sarà noto, sarà pubblico... Oh, ne morrò di vergogna, non potrò più sopportare gli sguardi di alcuno!" "Nemmeno i miei? Povera figlia" disse la signora Georges, prorompendo in pianto ed aprendo le braccia per stringersi al seno Marie "ah, voi non troverete nel mio cuore altro che la tenerezza e la premura di una madre... Coraggio, Marie! Vi sia sempre presente il vostro pentimento. Qui siete circondata da amici. Ebbene questa casa sarà per voi tutto l'universo. Noi preverremo le rivelazioni che tanto vi danno da temere; l'ottimo nostro abate adunerà tutta la gente del podere, che già vi è affezionata, e dirà la verità sul vostro passato. Credetemi, figliola, le sue parole hanno una tale autorità, che la sua dichiarazione vi renderà anche più interessante di prima." "Ho fede in voi, signora, e mi rassegnerò. Ieri nel nostro colloquio il signor parroco aveva predetto dolorose espiazioni: questo è l'inizio, né debbo farmene meraviglia. Mi disse ancora che un giorno mi sarà tenuto conto dei miei patimenti... Lo spero. Sostenuta in questa esperienza da voi e da lui, non me ne lagnerò più." "Tra poco lo vedrete. I suoi consigli non vi saranno stati mai più salutari. Sono le quattro e mezzo: preparatevi ad andare alla canonica, figlia mia... Io voglio scrivere al signor Rodolphe per fargli noto quanto è avvenuto nella fattoria d'Arnouville. Un espresso gli porterà la mia lettera. Poi verrò a trovarvi dal nostro buon abate, giacché è necessario che discorriamo tutti e tre un poco insieme." Poco dopo Marie usciva dal podere per recarsi alla canonica, lungo quella strada bassa dove la vigilia avevano stabilito di incontrarsi con il Maître, la Chouette e Tortillard. 13. Riflessioni. Come qualcuno può avere osservato dai colloqui di Fleur-deMarie con la signora Georges e con il parroco di Bouqueval, la ragazza aveva approfittato così nobilmente dei consigli dei suoi benefattori, e si era così bene immedesimata nei loro principi, che sempre più si doleva nel riflettere sul suo passato. Il suo spirito si era sviluppato in armonia con gli ottimi impulsi del suo cuore in quell'atmosfera di onore e di purezza in cui ormai viveva. Se Marie fosse stata fornita di meno alto criterio, di meno squisita sensibilità, d'immaginazione meno vivace, presto si sarebbe consolata. Si era pentita, un venerabile sacerdote l'aveva perdonata, e quindi poteva ben dimenticare le nefandezze della Cité fra le dolcezze della vita campestre con la signora Georges; avrebbe potuto godere senza riserve l'amicizia di Clara Dubreuil, e non per noncuranza degli errori commessi, ma per cieca fiducia nella parola di coloro che apprezzava tanto, e che le dicevano: "Adesso la vostra buona condotta vi rende eguale alle persone oneste". Un'altra certo si sarebbe afflitta alla triste scena della fattoria d'Arnouville, ma non avrebbe sparso amarissime lacrime al solo pensiero del suo passato, o provato confusi rimorsi guardando Clara dormire pura e innocente nella stessa camera con una ex cliente dell'Orca. Infelice! Nel silenzio delle lunghe veglie, non aveva rivolto a se stessa ingiurie mille volte più offensive di quelle gridatele in faccia dai contadini del villaggio? Ciò che lentamente la uccideva era l'esame, l'analisi incessante, i rimproveri che si faceva; era in particolare il costante confronto fra l'avvenire che le era imposto dall'inesorabile passato, e l'avvenire che senza di questo avrebbe sognato. Lo spirito autocritico, l'autoanalisi, il confronto, sono quasi sempre inerenti alla superiorità dell'intendimento. Questo spirito, negli animi alteri, superbi, induce dubbio e disdegno contro gli altri; negli animi timidi e delicati induce dubbio e disdegno contro di sé. I primi sono condannati e si assolvono da se stessi. I secondi sono assoluti, e si condannano da se stessi. Il parroco di Bouqueval, malgrado la sua santità, la signora Georges, malgrado la sua virtù, o piuttosto entrambi a causa della virtù e della santità, non erano in grado d'intendere ciò che soffriva la Goualeuse, dacché l'animo suo, libero da ogni macchia, poteva contemplare tutta la profondità dell'abisso in cui era stata precipitata. Non sapevano che i tremendi ricordi della Goualeuse avevano quasi la potenza, la forza della realtà; non sapevano che questa giovane di squisita sensibilità, di mente riflessiva, d'immaginazione poetica, d'impressioni dolorose, non passava un sol giorno, non diremo senza ricordarsi, ma anche senza risentire, con un'angoscia mista a disgusto e spavento, le vergognose miserie della trascorsa sua esistenza. Figuriamoci una pura e candida fanciulla di sedici anni che ha la coscienza della sua purezza e del suo candore, scagliata da qualche potenza infernale nell'infame taverna dell'Orca, ed inevitabilmente sottomessa al volere di quella megera! Così sopra Marie influiva il passato sul presente. E faremo noi comprendere quella specie di sentimento retroattivo, o piuttosto il contraccolpo morale che pativa la Goualeuse in un modo così atroce da rammaricarsi, anche più spesso di quanto avesse confessato all'abate, di non esser morta soffocata nel fango della sua vita precedente? Chiunque rifletta ed abbia una qualche esperienza del mondo, considererà come un paradosso ciò che noi stiamo per dire. Quello che rendeva Marie tanto degna d'interesse e di pietà, è che non solo lei non aveva amato mai, ma che i suoi sensi erano rimasti sempre intorpiditi e gelidi. Se sovente in certe donne, forse meno delicate di Marie, caste ripulse succedono per lungo tempo al matrimonio, c'è da stupirsi che questa infelice, ubriacata dall'Orca, ed all'età di sedici anni gettata in mezzo al branco di bestie selvatiche o feroci che infestavano la Cité, provasse unicamente orrore e spavento, ed uscisse moralmente pura da quella sentina? Le ingenue confidenze di Clara Dubreuil sull'onesto amor suo per il fattore, a cui doveva sposarsi, avevano angustiato Marie. Lei pure sentiva che avrebbe amato coraggiosamente, che avrebbe provato l'amore con quanto ha di devoto, di nobile, di puro e di grande; e non le era più possibile nutrire e ispirare questo amore! Poiché se avesse amato avrebbe riversato il suo amore su qualcuno di alto sentire ed eletto dal meglio dell'anima sua, e più la scelta fosse stata degna di lei, più lei doveva reputarsene indegna. 14. La strada bassa. Tramontava il sole all'orizzonte; era deserta e tacita la pianura. Fleur-de-Marie si avvicinava al principio della strada bassa, che doveva attraversare per trasferirsi alla canonica, quando vide sbucare dal burrone un ragazzo zoppo, che portava il camiciotto grigio ed un berretto blu. Pareva smanioso, e, appena distinse la Goualeuse, le corse incontro. "Oh, buona signora, abbiate compassione di me, se potete..." esclamò, ed univa le mani in atto supplichevole. "Che volete? Che avete, bambino?" gli domandò premurosamente la Goualeuse. "Ahimè, buona signora! La mia povera nonna, che è vecchia, è cascata laggiù nello scendere nel fossato, e si è fatta tanto male... Ho paura che si sia rotta una gamba... Sono troppo debole per aiutarla ad alzarsi... Dio mio, come farò se non mi date soccorso? Povera nonna, forse è lì lì per morire!" "Neppur io sono molto forte" disse commossa la Goualeuse "ma forse potrò aiutarvi ad assistere vostra nonna... Andiamo presto... Io abito in quel podere là in fondo... Se la misera vecchia non può venire con noi, manderò qualcuno a prenderla." "Mia buona signora, Iddio vi benedirà di sicuro... È qui, a due passi, nella strada bassa, come vi dicevo, è caduta mentre scendeva dall'argine." "Non siete dunque del paese?" domandò la Goualeuse seguendo Tortillard, che i lettori avranno di certo riconosciuto. "No, buona signora, veniamo da Ecouen." "E dove andate?" "Da un bravo parroco che sta lassù, su quella collina..." rispose il figlio di Bras-Rouge, per ispirare a Fleur-de-Marie maggior fiducia. "Forse dall'abate Laporte?" "Per l'appunto, dal signor abate Laporte; la mia nonna lo conosce bene..." "Precisamente andavo anch'io da lui; che incontro..." disse Fleur-deMarie, e s'inoltrava di più nella via bassa. "Nonna, eccomi, eccomi! Abbi pazienza, ti porto soccorso!" urlò Tortillard per avvertire il Maître e la Chouette di star pronti ad assalire la vittima. "Dunque la vostra parente non è caduta lontano di qui?" chiese la Goualeuse. "No, mia buona signora: dietro a quel grosso albero, là alla svolta distante una ventina di passi." Ad un tratto Tortillard si fermò: aveva udito nella pianura il rumore di un cavallo che veniva al galoppo. "Siamo rovinati di nuovo" disse fra sé. La strada faceva un angolo molto marcato, poco più oltre il luogo dov'erano Marie ed il ragazzo. Comparve a quella svolta un uomo a cavallo e si soffermò quando fu vicino alla fanciulla. Allora si udì il trotto di un altro cavallo. Dopo qualche momento sopraggiunse un servitore, che indossava un soprabito scuro con i bottoni d'argento, calzoni di pelle bianca e stivali con le borchie; una cintura di cuoio rossiccio gli stringeva dietro alla vita il pastrano a "machintosh" del suo padrone. Ed il padrone, vestito semplicemente con un soprabito color bronzo e pantaloni grigio chiaro, montava, con bel garbo, un destriero baio di razza pura, di singolare bellezza, il cui mantello cangiante dorato non era appannato dal minimo sudore, benché avesse corso molto. Anche l'animale su cui stava immobile il "groom", a pochi passi di distanza, poteva dirsi fornito di rarissimi pregi. Nel signore, di volto bruno e gentile, Tortillard ravvisò il visconte di Saint-Remy, che taluni supponevano amante della duchessa di Lucenay. "Bella ragazza" disse il visconte alla Goualeuse, che gli parve oltremodo leggiadra "favorireste indicarmi la via del villaggio di Arnouville?" Lei, chinando gli occhi ai suoi sguardi impertinenti e maliziosi, rispose: "Signore, all'uscire dalla strada bassa prendete la prima a destra; quella vi condurrà a un viale di ciliegi, che porta direttamente ad Arnouville." "Mille grazie, mia vezzosissima fanciulla... Voi mi avete indicato meglio di una vecchia che ho trovato più in là sotto un albero, e dalla quale non ho potuto ricavare altro che urla e sospiri." "Povera nonna!" mormorò Tortillard. "E adesso, un'altra parola..." soggiunse il signor di Saint-Remy, rivolto sempre alla Goualeuse. "Potete dirmi se troverò facilmente, ad Arnouville, la fattoria del signor Dubreuil?" Fleur-de-Marie non poté fare a meno di sussultare a quel nome, che le ricordava l'increscioso avvenimento del mattino. "L'edificio della fattoria" rispose "è appunto lungo il viale che dovete seguire per andare ad Arnouville." "Grazie di nuovo, bella ragazza!" replicò l'altro, e partì di galoppo con il suo "groom" dietro. Il bel viso del visconte si era rasserenato alquanto mentre parlava a Marie, ma una profonda inquietudine tornò ad intorbidirlo appena fu solo. Marie, rammentandosi dell'incognito per cui si allestiva la palazzina su ordine della signora di Lucenay, tenne per certo che si trattasse di quel giovane e leggiadro gentiluomo che l'aveva interrogata. I cavalli al galoppo batterono per qualche tempo il terreno indurito dal ghiaccio; scemò il rumore, e poi cessò del tutto. E fu silenzio come prima. Tortillard respirò. Nell'intenzione di tranquillizzare ed avvertire i suoi complici, uno dei quali, il Maître, non era stato visto dal visconte, il figlio di Bras-Rouge gridò: "Nonna, eccomi, con una buona signora che ti viene a dare aiuto..." "Presto, presto, figlio! Quel signore a cavallo ci ha fatto perdere alcuni minuti..." disse la Goualeuse affrettandosi. Era appena giunta alla svolta, che la Chouette, in agguato, disse piano: "Tocca a me, Maître!" E, saltando addosso a Marie, l'afferrò al collo con una mano, e con l'altra le tappò la bocca mentre Tortillard le si aggrappava alle gambe, per impedirle di muovere un passo. Ciò fu fatto con tale rapidità, che la Chouette non aveva avuto tempo di osservare il volto della Goualeuse, ma nei pochi momenti che occorsero al Maître per uscire dalla buca, dove si era rannicchiato, e venire avanti a tentoni, la vecchia riconobbe la sua vittima. "La Pegriotte!" esclamò stupefatta. Poi con gioia feroce: "Sei tu? Ah, il diavolo ti manda... È destino che tu caschi sempre sotto le mie unghie!... Là nella carrozza ho il mio vetriolo; questa volta devo conciare il tuo bel visetto... Perché mi fai proprio schifo con la tua faccia da verginella... Su, bell'uomo, bada che non ti morda, e reggila bene intanto che la imballiamo..." Il Maître, con le sue mani robuste, strinse fortemente Marie, e, prima che potesse dare un grido, la Chouette le gettò sulla testa il pastrano e ve l'infagottò tutta. In un istante Marie, legata, imbavagliata, si trovò nell'impossibilità di fare alcun movimento o di chiamare soccorso. "Ora, carica il fagotto, marito!" disse la Chouette. E continuò: "Eh, eh, pesa meno di quella donna annegata nel canale di Saint-Martin... Non è vero?" E, poiché il Maître sussultava a quelle parole che gli rammentavano il sogno della notte, la guercia, ridendo, aggiunse: "Insomma, che hai, marito?... Pare che tu tremi da stamane in qua, ogni tanto batti i denti come avessi la febbre, e allora guardi per aria, come cercassi qualcosa..." "Mangiapane a tradimento! Sta a vedere le mosche che volano!" derise Tortillard. "Animo, presto, scappiamo! Imballami la Pegriotte. Bene." proseguì la Chouette, vedendo che l'assassino prendeva fra le sue braccia Marie come avrebbe fatto con una bambinella che dormisse. "Sbrigati! Alla carrozza!..." "Ma chi condurrà me?" grugnì il Maître, reggendo quel fardello tra le sue braccia d'Ercole. "Uh, che testone! pensa proprio a tutto!" disse la Chouette. E si tirò da parte lo scialle, si sciolse una sciarpa rossa che aveva attorno allo scarno collo, la torse per il lungo a guisa di fune e disse al Maître: "Apri la bocca... Acchiappa una cocca del fazzoletto fra i dentini, stringi bene. Tortillard agguanterà l'altra cocca con una mano, e tu gli andrai appresso... A buon cieco, buon cane... Su, piccino!" Lo sciancato fece un salto, imitò comicamente l'abbaiare di un cane, prese in mano l'altra cocca della sciarpa, e condusse in tal modo il cieco, mentre la Chouette affrettava i passi per avvertire Barbillon. Noi abbiamo rinunciato a descrivere il terrore che assalì Marie quando si vide in balia della Chouette e del Maître. Si sentì venir meno, né poté opporre la minima resistenza. Dopo pochi minuti, la Goualeuse era trasportata nella vettura guidata di Barbillon. Benché fosse notte, furono calate le tendine, e i tre complici s'incamminarono, con la loro vittima quasi moribonda, verso la spianata di Saint-Denis, dove Tom li aspettava. 15. Clémence d'Harville. Il lettore ci scuserà se abbandoniamo una delle eroine di questa storia in una così critica situazione di cui diremo dopo che si sarà risolta. Le esigenze di questo racconto complicato, e disgraziatamente spezzettato troppo nella sua unità, ci costringono a passare incessantemente dall'uno all'altro individuo, per poter far continuare e progredire l'interesse generale dell'opera, se pure ha un qualche interesse quest'opera così difficile, ma coscienziosa ed imparziale. Dobbiamo ancora accompagnare alcuni degli attori della nostra narrazione in quelle soffitte dove tremano di freddo e di fame dei miserabili rassegnati, probi ed industriosi. Nelle prigioni d'uomini e di donne, prigioni spesso ben adorne e fiorite, e sovente cupe e funebri, ma sempre vaste scuole di perdizione, atmosfera nauseante e viziosa, in cui l'innocenza si scolora e si avvilisce, scellerato luogo, dove l'accusato può entrare puro, ma da cui esce quasi sempre corrotto. Negli ospedali, dove il povero, trattato rare volte con dolce umanità, ricorda talvolta con rammarico il triste letto che bagnava con gelido sudore della febbre. In quegli asili misteriosi, dove la donna, sedotta e abbandonata, dà alla luce, piangendo amare lacrime, il figlio che forse non dovrà rivedere mai più. In quei luoghi terribili, ove la pazzia commovente, ridicola, stupida o feroce, si mostra sotto aspetti sempre spaventosi, dall'insensato tranquillo, che mestamente ride d'un riso che fa piangere, al frenetico, che rugge come una belva, reggendosi ed arrampicandosi ai ferri della sua gabbia. E dobbiamo anche esplorare... Ma a che giova enumerare tante cose? Con ciò non potremo forse incutere qualche timore nel lettore? Egli, che già si è compiaciuto di seguirci in luoghi abbastanza strani, chissà che non esiti ad accompagnarci in nuove avventure più bizzarre ancora. Dunque andiamo avanti. Rammentiamo che nel giorno antecedente a quello in cui accadeva quanto da noi narrato (il rapimento della Goualeuse ad opera della Chouette), Rodolphe aveva salvato madama d'Harville da un pericolo imminente, suscitato dalla gelosia di Sarah, che aveva avvertito il signor d'Harville dell'appuntamento accordato imprudentemente dalla marchesa a Charles Robert. Rodolphe, profondamente scosso da quella scena, era tornato a casa sua, uscendo dalla casa della rue du Temple, e differendo all'indomani la visita che si era proposto di fare a Rigolette ed alla famiglia dell'infelice artigiano di cui abbiamo parlato. Per sfortuna, aveva dimenticato che Tortillard si era impossessato della borsa, di cui sappiamo già in qual modo questo piccolo zoppo avesse commesso il furto audace. Verso le quattro, il principe ricevette la seguente lettera... L'aveva portata una donna che se n'era andata senza aspettare la risposta. "Monsignore, vi debbo più che la vita; vorrei esprimervi oggi subito la mia riconoscenza. Forse domani mi renderà muta la mia vergogna. Se poteste farmi l'onore di venire da me questa sera, terminereste la giornata come l'avete cominciata, monsignore, con un'azione generosa. D'Orbigny d'Harville P.S. Non vi prendete l'incomodo di rispondermi, monsignore; sarò a casa mia tutta la sera." A Rodolphe, contento di aver reso alla signora d'Harville un grande favore, rincresceva però quella specie d'intimità forzata che una tale circostanza faceva nascere d'un tratto fra lui e la marchesa. Incapace di tradire l'amicizia che aveva per il signor d'Harville, ma non indifferente alla grazia, allo spirito, alla bellezza di Clémence, appena si fu accorto della simpatia che per lei sentiva, aveva rinunciato a frequentarla, dopo che per un mese si era mostrato verso di lei molto assiduo. E quindi si doleva al ricordo della conversazione udita nel palazzo dell'ambasciatore di * tra Tom e Sarah. Quest'ultima, per motivare l'odio e la gelosia, aveva asserito, non senza ragione, che la signora d'Harville provava, quasi senza saperlo, un grande affetto per Rodolphe. Troppo era sagace, astuta, sentimentalmente smaliziata, per non aver compreso che Clémence, credendosi trascurata e disprezzata da un uomo che forse amava, indispettita, e cedendo ai suggerimenti di un animo perfido, potesse interessarsi alle immaginarie disgrazie di Charles Robert, pur senza dimenticare Rodolphe. Altre donne, fedeli al ricordo dell'uomo che per primo era entrato nel loro cuore, sarebbero rimaste indifferenti alle occhiate malinconiche del Comandante. E dunque Clémence fu doppiamente colpevole, poiché non aveva tradito soltanto il marito, ma, cedendo alla pietà, aveva offuscato il sentimento che in fondo al cuore nutriva ancora per il principe. Rodolphe, pensando al prossimo incontro con la signora d'Harville, era assalito da una serie di emozioni e pensieri contraddittori. Deciso fermamente a resistere alla simpatia che lo trascinava verso di lei, ora si stimava felice di poterle rimproverare una così triste scelta, quale quella di Charles Robert; ora, al contrario, si rammaricava amaramente di veder cadere la stima con cui sempre l'aveva considerata. Clémence pure attendeva quel colloquio con ansietà; i due sentimenti che la dominavano erano: dolorosa confusione quando pensava a Rodolphe, avversione somma quando pensava a Robert. Molti elementi ormai alimentavano quest'avversione. Una donna può mettere in pericolo la sua quiete, il suo onore, per un uomo; ma non gli perdonerà mai di averla messa in una situazione umiliante o ridicola. Ora la signora d'Harville, esposta ai sarcasmi ed agli sguardi insultanti della Pipelet, era stata sul punto di morire dalla vergogna. Né ciò bastava. Ricevuto da Rodolphe l'avviso del pericolo che la sovrastava, era salita precipitosamente al quinto piano, ma, nell'andar su, aveva visto Robert in veste da camera aprire l'uscio con quell'aria tronfia e soddisfatta. L'insolente vanità e l'abbigliamento indecente del Comandante le fecero capire quanto si era ingannata su di lui. Spinta dalla bontà dell'animo suo, dalla generosità del suo carattere, ad un passo che poteva comprometterla, rovinarla, gli aveva concesso quel convegno, non per amore, ma per consolarlo della figura ridicola che davanti a lei gli avevano fatto fare in casa dell'ambasciatore. È immaginabile dunque il dispiacere, il disgusto che provò nel vedere Charles Robert vestito a quel modo! Suonavano le nove al pendolo del salottino di madama d'Harville. Le modiste e gli osti hanno talmente abusato degli arredi in uso ai tempi di Luigi Quindicesimo, che la marchesa, di gusto raffinato, aveva bandito dal suo appartamento quella specie di ridondanza, ormai divenuta troppo volgare, conservandola soltanto nella parte del suo palazzo destinata ai grandi ricevimenti. Nulla si può pensare di più scelto ed elegante dell'arredamento del salotto in cui la marchesa aspettava Rodolphe. Le tappezzerie e le portiere, senza ornamenti, erano di drappo delle Indie paglierino; su quel fondo erano stati ricamati, in seta del medesimo colore, arabeschi vaghissimi e capricciosi. Doppie tendine di merletto di Alençon ricoprivano i vetri. Gli usci erano adorni di fregi e rilievi d'argento dorato, finemente cesellati: sopra ogni anta un medaglione ovale di porcellana di Sèvres, di circa mezzo braccio di diametro, che rappresentava uccelli e fiori di egregia fattura. Le cornici degli specchi e gli astragali delle tappezzerie erano del medesimo legno, ed ugualmente ornati. Il marmo del caminetto ed i suoi due colonnini, di genere antico e molto graziosi, erano opera del Marocchetti. Due candelabri e due candelieri d'argento dorato, prezioso lavoro di Gouttière, accompagnavano l'orologio a pendolo, masso quadrato di lapislazzuli, posato su un dado di diaspro orientale, cui soprastava un magnifico vaso d'oro smaltato ed arricchito di perle e rubini dei più bei tempi della scuola fiorentina. Vari eccellenti quadri della scuola veneziana, di media grandezza, completavano questo splendido salottino. C'era inoltre un tocco di raffinatezza: la stanza riceveva un dolce chiarore da una lampada, il cui globo di cristallo era mezzo ricoperto da un mazzo di fiori naturali, contenuti in una profonda coppa di porcellana dai colori azzurro, porpora e oro, appesa al soffitto mediante tre grosse catene d'argento dorato, a cui si intrecciavano i verdi fusti di parecchie piante; alcuni dei loro ramoscelli pieghevoli e carichi di fiori, sporgendo dalla coppa, ricadevano come una frangia di fresca vegetazione sopra la porcellana smaltata d'oro, di porpora e d'azzurro. Noi ci tratteniamo in questi particolari, inutili in se stessi, per dare un'idea del naturale buon gusto della signora d'Harville (comunemente indizio sicuro di uno spirito elevato), e perché certe ignote miserie, certe oscure sventure, sembrano ancora più terribili, quando si paragonano a quei lussi che agli occhi di tutti rendono la vita felice e invidiabile. Clémence d'Harville era seduta in una poltrona ricoperta di drappo paglierino come gli altri mobili: i capelli ben pettinati, indossava una veste di velluto nero accollata, su cui spiccavano i ricami rari del largo bavero e dei polsini di trina d'Inghilterra, che attenuavano il colore cupo del velluto e davano risalto alla straordinaria bianchezza delle sue mani e del collo. Man mano che si avvicinava il momento dell'incontro con Rodolphe, cresceva in lei una confusa commozione. Alla confusione però subentrarono pensieri più risoluti, e, dopo lunghe riflessioni, decise di confidare a Rodolphe un grande, un crudele segreto, nella speranza di accattivarsi, con la schiettezza, quella stima che tanto bramava. E la sua prima simpatia per il principe, ravvivata dalla gratitudine, acquistava nuove forze. Uno di quei presentimenti, che di rado ingannano i cuori amorosi, le diceva che non il caso soltanto aveva condotto Rodolphe in un momento così opportuno per salvarla, e che egli, cessando di frequentarla da qualche mese, aveva ceduto a tutt'altro sentimento che a quello dell'avversione. Ed anche un indefinibile istinto sollevava nella sua mente dei dubbi sulla sincerità dell'amicizia di Sarah. Dopo pochi minuti, una cameriera, avendo bussato prudentemente all'uscio, entrò e disse a Clémence: "Signora marchesa, vuol ricevere la signora Asthon e madamigella?" "Sicuramente, come al solito" rispose la signora d'Harville. E sua figlia entrò lentamente nel salottino. Era una bambina di quattro anni, che sarebbe stata assai leggiadra, senza l'estrema magrezza della persona e il pallore del viso. La signora Asthon, sua governante, la teneva per mano. Clairette (così la bambina aveva nome), nonostante fosse debole, corse sollecita verso la madre, porgendole le braccia aperte. Due fiocchi di nastro rosso raccoglievano i capelli scuri, spartiti ai lati della fronte. Era di salute tanto gracile, che portava una piccola giacca trapuntata di seta cupa, invece della bella giubbetta di mussola guarnita con nastri, tanto in uso. I suoi occhi, grandi e neri, apparivano enormi a causa della magrezza delle guance. Malgrado il suo aspetto mingherlino, un gentile e grazioso sorriso le rischiarò il volto appena fu sulle ginocchia della madre, che l'abbracciava con tenerezza e al tempo stesso con mestizia. "Com'è stata in queste ultime ore, signora Asthon?" domandò la signora d'Harville alla governante. "Bene, signora marchesa" rispose questa "quantunque per un momento ho avuto timore..." "Di nuovo!" esclamò Clémence, stringendosi al petto la bambina con un atto involontario di paura. "Ma per fortuna m'ingannavo" soggiunse la signora Asthon. "L'attacco non ha avuto luogo, si è calmata, e, solamente, è restata un po' fiacca... Ha dormito un po' dopo pranzo, ma non ha voluto mettersi a letto senza venire a darvi un bacio, signora marchesa." "Povero caro angelo mio!" disse la signora d'Harville, abbracciando ancora, e più volte, la piccola con un trasporto veramente infantile. Un cameriere spalancò l'uscio del salotto, ed annunciò: "Sua Altezza Serenissima il granduca di Gerolstein!" Clairette, che era ritta sulle ginocchia della marchesa, le teneva le braccia attorno. Al comparire di Rodolphe, Clémence arrossì, posò piano la bambina sul tappeto, fece segno alla signora Asthon che la conducesse fuori, e si alzò. "Mi permettete, madama" disse Rodolphe dopo aver salutato rispettosamente la marchesa "di far nuovamente amicizia con la mia giovane amica, che temo si sia dimenticata di me." E, chinandosi, porse la mano a Clairette. Questa lo fissò curiosa; quindi, avendolo riconosciuto, fece un vaghissimo cenno con la testa, e gli mandò un bacio con la punta delle sue scarne dita. "Riconoscete monsignore, figlia mia?" domandò Clémence a Clairette. La piccina abbassò il capo in atto di affermazione e mandò a Rodolphe un secondo bacio. "Pare che stia assai meglio dacché non l'ho vista" disse il principe con premura. "Sì, monsignore" rispose la signora d'Harville "un poco meglio, ma soffre sempre." La marchesa ed il principe, imbarazzati nel pensare all'imminente colloquio, si attardavano approfittando della presenza della bambina. Questa fu condotta fuori prudentemente dalla governante, e Rodolphe e Clémence rimasero soli. 16. Confessioni. La poltrona della signora d'Harville era alla destra del caminetto su cui Rodolphe, rimasto in piedi, posava un gomito. In Clémence non avevano prodotto mai tanta sensazione le nobili e delicate sembianze del principe, né la sua voce le era sembrata mai così dolce e sonora. Rodolphe, accorgendosi che le era penoso iniziare lei la conversazione, le disse: "Madama, siete stata vittima di un indegno tradimento; poco è mancato che non vi rovinasse una vile delazione della contessa Sarah Mac-Gregor." "È vero?" esclamò Clémence. "Dunque i miei presentimenti non mi ingannavano? E come Vostra Altezza ha potuto sapere?" "Ieri, casualmente, alla festa della contessa di * scopersi il segreto di questa infamia. Ero in una parte isolata del giardino d'inverno. Ignorando che un gruppo di cespugli, dietro cui mi trovavo, mi dava l'opportunità di udirli, la contessa Sarah e suo fratello vennero a parlare vicino a me dei loro progetti e dell'infamia che ordivano a vostro danno. Io, volendo avvertirvi del pericolo che vi sovrastava, mi recai in fretta al festino della signora di Nerval, sperando che voi foste là; non c'eravate. Scrivervi qui sarebbe stato imprudente: la mia lettera avrebbe potuto cadere nelle mani del marchese, che doveva avere qualche sospetto. Ho preferito attendervi nella rue du Temple, per sventare il tradimento. Mi perdonerete, non è vero, di parlarvi tanto a lungo di una cosa che dev'esservi spiacevole? Senza il biglietto che avete avuto la bontà di scrivermi, non ve ne avrei mai accennato." La signora d'Harville rispose, dopo breve silenzio: "Monsignore, io non ho che un solo mezzo per provarvi la mia gratitudine: farvi una confessione che non ho mai fatto a nessuno. Questa non mi giustificherà, ma forse vi farà considerare meno biasimevole la mia condotta." "Sinceramente, madama" disse Rodolphe, sorridendo "io sono verso di voi in una situazione che mi dà qualche imbarazzo..." Clémence, stupita del tono leggero del principe, lo guardò attonita: "Come, monsignore?" "Per una circostanza che senza dubbio indovinerete, io sono costretto a fare da vecchio zio in una disavventura che, vi prego di crederlo, tranne l'odiosa insidia tesavi dalla contessa Sarah, non meritava davvero di esser presa sul serio. Ma" aggiunse Rodolphe con una gravità dolce ed amorevole "il vostro consorte è per me quasi un fratello; mio padre nutriva per il suo la più sincera riconoscenza. Sicché mi congratulo davvero con voi per aver restituito a vostro marito la quiete e la fiducia." "Ed appunto, monsignore, perché onorate il signor d'Harville della vostra amicizia, mi preme rivelarvi ogni cosa, e su una scelta che deve parervi malaugurata quanto lo è ai miei stessi occhi, e sulla mia condotta, che offende colui che Vostra Altezza chiama quasi un fratello." "Signora, sarei sempre lieto, e mi riterrei onorato di ottenere la vostra confidenza. Permettetemi però di dirvi, riguardo alla scelta di cui parlate, che io so che cedeste sia ad un sentimento di sincera compassione, che alle insinuazioni tormentose della contessa Sarah Mac-Gregor, che aveva altre ragioni per volervi disonorare... So inoltre che avete esitato molto prima di arrivare a quel passo di cui provate ora grande rammarico." Clémence osservava sorpresa il principe. "Forse vi fa meraviglia? Vi spiegherò un'altra volta il mio segreto, per non passare davanti a voi per uno stregone" replicò Rodolphe scherzoso. "Ma vostro marito è del tutto tranquillo?" "Sì, monsignore" rispose Clémence confusa e chinando gli occhi. "Lo confesso, io patisco nell'udirlo chiedermi perdono di avermi sospettata, e lodare la mia modestia e il mio silenzio sulle mie azioni caritatevoli." "È fortunato nella sua illusione; non ve ne fate rimprovero, ed anzi mantenetelo sempre in un così gradevole errore... Se non dovessi evitare di discorrere con leggerezza di questa avventura, e se non si trattasse di voi, signora, direi che una donna non è mai tanto amabile verso il marito, come quando ha da occultargli qualche sua colpa. Non si può aver idea delle seducenti moine che suggerisce una coscienza un poco colpevole, non si può immaginare i bellissimi fiori che sbocciano talvolta dopo un inganno amoroso... Quando ero giovane" continuò Rodolphe con ilarità "diffidavo sempre, mio malgrado, di certe insolite ed eccessive tenerezze, e siccome, dal canto mio, mi sentivo più che mai in forza quando avevo qualche cosarella da farmi perdonare, così appena una dama si mostrava con me tanto buona nello stesso modo che io ostentavo verso di lei, ero sicuro che quella concordia d'intenzioni nascondeva una scambievole infedeltà." La signora d'Harville stupiva sempre più nell'udire Rodolphe parlare scherzosamente di un fatto che era stato sul punto di portarla a terribili conseguenze; ma subito, riflettendo che con questa affettata indifferenza cercava di diminuire l'importanza del favore fattole, fu commossa dalla sua delicatezza, e gli disse: "Monsignore, comprendo tutta la vostra generosità. Ormai siete padrone di celiare e scordarvi del rischio a cui mi avete sottratta... Ma ciò che ho da dirvi è così grave, così doloroso, ed ha tanti rapporti con gli avvenimenti di questa mattina, ed i vostri consigli possono essermi talmente giovevoli, che vi supplico di considerare che mi avete salvato l'onore e la vita... Sì, monsignore, la vita... Mio marito era armato! Egli stesso me lo ha detto nell'eccesso del suo pentimento: voleva uccidermi!" "Gran Dio!" esclamò Rodolphe con viva emozione. "E ne aveva diritto..." rispose amaramente la marchesa. "Credetemi, signora" soggiunse Rodolphe con tutta serietà "io sono incapace di restare indifferente a quello che v'interessa. Se poco fa ho celiato, è perché non volevo riportare con troppo peso e dolore il vostro pensiero su questa mattinata, che deve avervi causato una impressione tremenda. Adesso, signora, vi ascolto religiosamente, perché mi fate la grazia di dirmi che i miei consigli possono esservi di qualche utilità." "Oh, utilissimi, monsignore. Però prima di chiederveli, concedetemi di dirvi due parole su precedenti di cui siete ignaro, cioè sugli anni anteriori al mio matrimonio con il signor d'Harville." Rodolphe s'inchinò, e Clémence proseguì: "A sedici anni perdetti mia madre..." Nel proferire queste parole non poté trattenere una lacrima. "Non vi dirò a qual punto io l'adorassi. Figuratevi, monsignore, il modello ideale della bontà sulla terra; era estremo il suo affetto per me, ed in questo attingeva un conforto alle amare sue pene... Poco propensa alla mondanità, di salute delicata, sedentaria per natura, il suo maggior piacere era stato assumere da sola la cura della mia istruzione, perché le cognizioni solide e variate che possedeva la mettevano in grado di compiere meglio di chiunque altro l'impresa a cui si dedicava. Immaginate il suo stupore ed il mio, quando, avendo io sedici anni, nel punto in cui la mia educazione era pressoché terminata, mio padre, adducendo a pretesto la debole complessione di mia madre, ci partecipò che una giovane vedova di gran merito, bisognosa a causa di alcune sventure, si addossava l'incarico di completare ciò che aveva cominciato mia madre... Mia madre all'inizio rifiutò; io stessa lo supplicai di non porre fra mia madre e me un'estranea; fu inesorabile, malgrado il nostro pianto. La signora Roland, vedova, così si spacciava, di un colonnello morto nelle Indie, venne ad abitare da noi, ed ebbe il compito di eseguire presso di me le funzioni di precettrice." "Come, quella Roland che vostro padre sposò quasi subito dopo che voi foste maritata?" "Sì, monsignore." "Era dunque molto bella?" "Mediocremente, monsignore." "Elevata di spirito forse?" "Finta, astuta, e niente altro. Aveva circa venticinque anni, capelli biondi chiari, ciglia quasi bianche, occhi grandi, rotondi e celesti; di aspetto umile, leziosa e di carattere perfido sino alla crudeltà, si mostrava in apparenza compiacente fino alla bassezza." "Ed in quanto all'istruzione?" "Nessuna, monsignore. Ed io non posso capire come mio padre, fino allora attento alle convenzioni sociali, non avesse pensato che la mancanza di istruzione e di qualità in quella donna avrebbe rivelato scandalosamente il vero motivo per cui stava da lui. La mia mamma gli fece osservare che la signora Roland era affatto ignorante; le rispose, con un tono che non ammetteva repliche, che dotta o no, quella avrebbe continuato ad avere in casa nostra il posto a cui l'aveva destinata. Io lo seppi in seguito. Da quel momento la mia povera madre comprese tutto, e si afflisse molto, deplorando meno, io penso, l'infedeltà del consorte, che i disordini domestici a cui doveva condurre una simile amicizia, che un giorno poteva esser nota anche a me." "Ma infatti, pur considerata la stolta passione, il vostro signor padre faceva, a mio parere, un pessimo calcolo, introducendo quella donna nella vostra dimora." "E più sareste sorpreso, monsignore, se sapeste che è l'uomo più obbediente alle convenzioni ed alle formalità che ci possa essere. Per spingerlo a un simile sprezzo d'ogni decenza, occorreva tutta la malefica influenza della signora Roland, influenza tanto più efficace, in quanto la dissimulava con l'apparente attaccamento per lui." "Ma che età aveva allora il vostro signor padre?" "Circa sessant'anni." "E credeva all'amore di quella giovane?" "Mio padre è stato uno dei più noti impacciati con le donne del suo tempo; la signora Roland, obbedendo alla propria indole o a scaltri consigli..." "Consigli? E chi poteva consigliarla?" "Fra poco ve lo dirò, monsignore. Sapendo che un uomo assuefatto ai raggiri amorosi, quando giunge alla vecchiezza, gradisce d'essere adulato intorno i suoi pregi esteriori, perché tali lodi gli rammentano i migliori tempi della sua vita, quella triste donna, lo credereste, monsignore?, decantava a mio padre la beltà e la grazia del suo volto, l'impareggiabile eleganza del corpo e del portamento... Ed egli aveva sessant'anni. Da tutti era apprezzato il suo buon criterio, e tuttavia cadde nella trappola di quelle false lodi. Tale fu, e tale è ancora, non ne dubito, la causa del potere di quella donna su di lui. E in verità, monsignore, malgrado i miei tristissimi pensieri, non posso fare a meno di sorridere nel ricordarmi di avere spesso inteso dire e sostenere dalla signora, prima delle mie nozze, che quell'età, che chiamava "maturità reale" era la più bella della vita... Maturità reale che incominciava, s'intende, verso i cinquantacinque e i sessant'anni." "L'età di vostro padre?" "Sì, monsignore. Allora soltanto, diceva la signora Roland, lo spirito e l'esperienza arrivano al loro pieno sviluppo; allora un uomo posto in un'ottima posizione nella società gode di tutta la considerazione che può pretendere; allora l'insieme delle sue qualità fisiche e morali, la cortesia e la raffinatezza dei modi tendono alla perfezione, ed in quell'epoca della vita la fisionomia offre una rara e divina armonia di serenità e gravità dolcissime. Finalmente, secondo lei, una lieve tinta di malinconia, prodotta dai dispiaceri che sempre porta l'esperienza, completa il pregio irresistibile della "maturità reale", che però viene valutata soltanto, aggiungeva, dalle donne di spirito e di cuore, che hanno giudizio sufficiente per volgere le spalle e mantenersi indifferenti alle scappate giovanili di quegli immaturi fra i trentacinquequarant'anni, il cui carattere non dà alcuna sicurezza, e le cui azioni non hanno ancora acquistato la cognizione profonda della vita." Rodolphe non poté astenersi dal ridere, dato il tono iroso con cui la signora d'Harville faceva il ritratto della sua bella matrigna. "C'è una cosa che io non perdono mai alle persone ridicole..." disse alla marchesa. "E quale, monsignore?" "D'esser maligne... Con ciò impediscono che ci divertiamo a loro spese..." "E forse lo fanno apposta" riprese Clémence. "Lo penso anch'io, ed è un peccato! Giacché, per esempio, se io potessi dimenticare che la signora Roland vi ha fatto molto male, mi divertirebbero assai le sue idee sulla "maturità reale" opposta alla folle giovinezza dei bambini di quarant'anni, che, a sentirla, sembra siano appena usciti dal "noviziato della balia", come avrebbero detto i nostri padri." "Almeno mio padre gode delle illusioni in cui lo tiene la mia matrigna." "È sin d'ora punita delle sue falsità, e subisce certo le conseguenze delle sue simulazioni; giacché vostro padre l'ha presa in parola, e la ricolma di amore e d'isolamento. La vita della signora Roland dev'essere tanto insopportabile, quanto felice quella del marito; figuratevi l'orgogliosa contentezza di un uomo sessagenario, avvezzo ai buoni successi, e che si reputa ancora amato con passione da una giovane donna da ispirarle la brama di star rinchiusa con lui in una perfetta solitudine." "Ed è perciò, monsignore, che una volta che mio padre si stima felice, non avrei forse motivo per dolermi di madama Roland. Ma l'orribile condotta verso mia madre, e la parte attiva che prese, per mia sventura, al mio matrimonio, sono quelle che eccitano contro lei la mia avversione!" disse la signora d'Harville, dopo aver indugiato alquanto. Rodolphe la guardò meravigliato. "Monsignore, mio marito è vostro amico" seguitò Clémence con voce ferma. "Io conosco la gravità delle parole che adesso ho pronunciato, e fra poco mi direte se sono giuste... Ma torniamo alla signora Roland. Stabilitasi presso di me come maestra, malgrado la sua incapacità, mia madre ebbe su questo particolare uno spiacevole alterco con il marito, e gli comunicò che, volendo almeno protestare contro l'intollerabile posizione assegnata a quella donna, lei non sarebbe più comparsa a tavola qualora la signora Roland non avesse abbandonato immediatamente la sua casa... Oh, mia madre era la docilità in persona, ma diventava di una fermezza invincibile quando si trattava della sua dignità personale... Mio padre fu inflessibile. Lei mantenne la promessa, e da quell'istante noi vivemmo ritirate nel suo appartamento. Allora mio padre dimostrò per me altrettanta freddezza quanto per sua moglie, mentre la signora Roland aveva pubblicamente il ruolo di rappresentante di casa nostra." "A quali estremi una folle passione spinge le menti più elevate! E poi gli altri ci fanno insuperbire molto di più adulando le qualità o i meriti che non possediamo, che lodando le doti che abbiamo. Provare a un vecchio di sessant'anni che ne ha trenta soltanto, è l'abbicì dell'adulazione, e l'adulazione più è grossolana, meglio riesce... Ahimè, ben lo sappiamo, noialtri principi!" "A tal proposito, sono stati fatti tanti esperimenti su Vostra Altezza!" "In quanto a questo, il vostro signor padre è stato trattato da re... Vostra madre doveva soffrire orribilmente." "E più per me che per se stessa, monsignore, poiché pensava all'avvenire... La sua salute, già molto precaria, s'indebolì: si ammalò gravemente. Fatalità volle che il nostro medico, il signor Sorbier, venisse a morire; mia madre aveva in lui piena fiducia, e ne provò grandissimo rincrescimento. La signora Roland aveva per medico ed amico un dottore italiano di gran merito, diceva: mio padre, ingannato, lo consultò più volte, se ne trovò contento, e lo propose a mia madre. Questa lo accolse presso di sé, e, Dio mio, fu lui che la curò nell'ultima sua malattia..." A tali parole si riempirono gli occhi di lacrime alla signora d'Harville. "Mi vergogno di confessare a Vostra Altezza la mia debolezza" soggiunse "ma solo perché era stato presentato a mio padre dalla signora Roland, io avevo allora per lui, senza ragione, una certa ripugnanza; mi addolorò che mia madre gli accordasse la sua fiducia, quantunque quanto a dottrina, il dottor Polidori..." "Che dite, madama?" esclamò Rodolphe. "Che avete, monsignore?" domandò Clémence, stupefatta dell'alterazione sul volto del principe. "Ma, no" disse Rodolphe, come parlasse a se stesso "io forse sbaglio... Sono cinque o sei anni... E mi è stato assicurato che Polidori non era a Parigi se non da due anni circa sotto un nome falso... È ben lui che rividi ieri, il ciarlatano Bradamanti... Oppure due medici con lo stesso nome... (6) Che incontro singolare! Signora, poche parole, di grazia, su questo dottor Polidori" disse Rodolphe alla signora d'Harville, che lo esaminava con sempre maggiore curiosità. "Che età aveva quell'italiano?" "Circa cinquant'anni." "E il volto, la fisionomia?" "Sinistra... Non mi dimenticherò mai gli occhi d'un color verde chiaro, il naso curvo, come il becco di un'aquila..." "È lui! è lui!" gridò Rodolphe. "E credete, signora, che Polidori sia tuttora a Parigi?" "Non saprei... Quasi un anno dopo il matrimonio di mio padre, partì da Parigi; una mia amica, di cui quell'italiano era pure il medico curante in quell'epoca, madama di Lucenay..." "La duchessa di Lucenay!" esclamò il principe. "Sì, monsignore... Perché tanta sorpresa?" "Lasciate che ve ne taccia la causa... Ma, in quel tempo, che vi diceva di lui la signora di Lucenay?" "Che dopo la sua partenza da Parigi, le giungevano spesso sue lettere spiritosissime sui diversi paesi che visitava... Poiché viaggiava molto. Adesso mi ricordo che pressappoco un mese fa, domandando a madama di Lucenay se riceveva sempre notizie del signor Polidori, mi rispose con aria d'imbarazzo che da un pezzo non se ne sentiva più parlare, che ignorava che ne potesse essere accaduto, e che taluni lo supponevano morto." "È singolare" disse Rodolphe ricordando la visita della duchessa di Lucenay al ciarlatano Bradamanti. "Lo conoscevate dunque, monsignore?" "Sì, per mia sventura... Ma, di grazia, continuate il vostro racconto; poi vi dirò chi è questo Polidori..." "Come? il dottore?" "Ah, dite piuttosto l'uomo macchiato dei più orrendi delitti!" "Delitti!" gridò spaventata la marchesa. "Ha commesso dei delitti l'amico della signora Roland, il medico di mia madre? Ma mia madre morì fra le sue mani, dopo pochi giorni di malattia... Ah, monsignore, voi mi atterrite... O mi dite troppo, o non ancora abbastanza." "Senza accusarlo d'un misfatto in più, senza incolpare la vostra matrigna di un'orribile complicità, sostengo, però, che forse dovete ringraziare Dio che vostro padre, dopo le sue nozze con la signora Roland, non abbia avuto bisogno dell'assistenza di Polidori." "Mio Dio, mio Dio!" gridò la signora d'Harville, con un'espressione che straziava l'anima. "Dunque non m'ingannavano i miei presentimenti!" "Presentimenti?" "Sì, poco fa, quando parlavo della ripugnanza che avevo per quel medico introdotto nella nostra casa dalla signora Roland, non vi ho detto tutto, monsignore..." "Come?" "Temevo di accusare un innocente, di dar troppo ascolto all'amarezza del mio cordoglio. Ma ora posso spiegarvi tutto. La malattia di mia madre durava da cinque giorni; io l'avevo vegliata sempre. Una sera andai sul terrazzo a respirare l'aria del giardino; dopo un quarto d'ora, rientrai da un'oscura galleria. Al debole chiarore che trapelava dall'uscio dell'appartamento della signora Roland, vidi uscire il Polidori. Lei lo accompagnava. Io ero nell'ombra, e non potevano vedermi. Lei gli disse piano alcune parole, che non capii. Il medico rispose più forte, ma solo queste parole: "Doman l'altro". E, siccome la Roland continuava a parlargli sottovoce, replicò con un tono veramente strano: "Dopodomani, vi dico, dopodomani..."." "Che significavano queste parole?" "Che significavano, monsignore? Mercoledì sera Polidori diceva quelle parole, venerdì mia madre era morta!" "Oh, è terribile!" "Allorché potei riflettere e ricordare, mi tornarono in mente quelle parole: "Dopodomani", che sembrava avessero presagito la morte di mia madre. Credetti che il Polidori, istruito dalla scienza medica, cosciente del poco tempo che ancora restava a mia madre, si fosse affrettato ad avvertirne la signora Roland, che aveva tante ragioni per rallegrarsi di tale disgrazia. Presi ad aborrirli tutti e due; ma non avrei osato supporre... Oh, no, no! Neppure adesso posso supporre un simile delitto!" "Il Polidori fu l'unico medico che assistesse l'infelice vostra madre?" "Il giorno prima a quello in cui la perdetti, egli aveva condotto con sé a consulto un suo collega; e, secondo quanto disse mio padre, questo trovò mia madre in grandissimo pericolo. Dopo il funesto avvenimento io fui condotta presso una parente della nostra famiglia, che era stata attaccatissima a mia madre. Deposta ogni riservatezza per l'età mia, mi palesò senza mezzi termini quanto avessi motivo di odiare la Roland, e m'illuminò sulle ambiziose speranze che ormai doveva nutrire. "Una tale scoperta mi accasciò. Compresi tutto ciò che aveva dovuto patire mia madre. Quando rividi mio padre mi si straziò il cuore; egli veniva a prendermi per condurmi in Normandia, dove dovevamo passare i primi tempi del nostro lutto. In viaggio pianse molto, e mi disse che non aveva altri che me per aiutarlo a sopportare quel colpo tremendo. Gli risposi sinceramente che a me neppure lui rimaneva dopo la perdita della più adorata fra tutte le madri. Scambiate poche parole sull'imbarazzo in cui si sarebbe trovato qualora costretto a lasciarmi sola per i suoi affari, mi partecipò immediatamente, e come cosa naturalissima, che per far onore a lui ed a me la signora Roland acconsentiva ad assumere la direzione della casa ed essermi guida ed amica. Lo stupore, il dolore, l'indignazione mi ammutolirono; piansi in silenzio. Me ne domandò la causa. Esclamai, certo con troppa amarezza, che mai sarei stata nella stessa casa con la signora Roland, poiché la disprezzavo per gli affanni da lei causati alla mia mamma. Si mantenne calmo, respinse ciò che chiamava una ragazzata, e mi rispose che la sua risoluzione era irremovibile, e che io dovevo sottomettermi. Lo supplicai di concedere che mi ritirassi al Sacro Cuore, ove avevo delle amiche, e dove sarei rimasta fino al momento in cui avrebbe giudicato opportuno darmi marito. Mi fece osservare che erano passati i tempi in cui le fanciulle si maritavano alla grata d'un convento, e che la mia premura di abbandonarlo lo avrebbe afflitto troppo se nei miei discorsi non avesse ravvisato un'esaltazione, scusabile, sì, ma poco sensata, che in seguito si sarebbe placata. Poi mi baciò in fronte, chiamandomi "ostinatuccia". "Ahimè, mi toccò sottomettermi. Figuratevi, monsignore, i miei tormenti! Passar la vita ogni giorno con una donna a cui quasi attribuivo la morte di mia madre! Prevedevo i contrasti più terribili fra mio padre e me: nessuna considerazione poteva impedirmi di dimostrare tutta la mia avversione alla signora Roland, e così mi pareva di vendicare l'estinta, mentre la minima parola affettuosa detta a quella donna mi sarebbe sembrata una viltà, un sacrilegio!" "Dio buono! Quanto penosa doveva essere quell'esistenza... Ero lontano dall'immaginare che aveste già sofferto tanto! Quando io avevo il piacere di vedervi più spesso, non mi avevate mai fatto sospettare con un solo accenno..." "Perché allora, monsignore, io non dovevo scusarmi dinanzi a Vostra Altezza di una debolezza imperdonabile... Se così a lungo vi parlo di quell'epoca della mia vita, è per farvi comprendere in quale posizione mi trovavo quando mi maritai, e perché, malgrado un avvertimento che avrebbe dovuto illuminarmi, sposai il signor d'Harville. "Giunti che fummo agli Aubiers (è questo il nome della tenuta di mio padre), la prima persona che ci venne incontro fu la signora Roland. Era andata ad abitare là il giorno dopo la morte della mia mamma. Nonostante l'aspetto umile e sdolcinato, trapelava un'allegrezza, un trionfo, che malamente aveva cura di dissimulare. Non scorderò mai quello sguardo ironico e maligno che mi diede al mio arrivo; pareva mi dicesse: "Qui sono in casa mia, siete voi la forestiera!". Mi era riserbato un nuovo dolore: fosse imperdonabile inavvertenza, fosse decisa impudenza, la signora Roland occupava l'appartamento di mia madre. Nello sdegno che n'ebbi, mi lagnai con mio padre di una tale sconvenienza. Mi rispose severamente, che tanto meno dovevo meravigliarmene in quanto occorreva mi abituassi a considerare e rispettare la signora Roland come una seconda madre. Gli dissi che ciò sarebbe stato come profanare quel sacro nome, e, a dispetto della sua collera, non trascurai occasione di dar prova della mia avversione per quella donna. Parecchie volte egli andò su tutte le furie e mi sgridò aspramente davanti a lei. "Mi rimproverava d'ingratitudine, di freddezza verso l'angelo consolatore che la Provvidenza ci aveva mandato. "Ah, ve ne prego, padre mio" gli dissi un giorno "parlate per voi solo." Mi trattò duramente. La Roland con voce melata, ma con molta ipocrisia, intercedette a mio favore: "Siate indulgente con Clémence! Il rammarico che prova per l'ottima persona che noi tutti piangiamo è così naturale, così lodevole, che bisogna aver riguardo alla sua prima afflizione e compatirla anche nei suoi trasporti". "Eh?" diceva mio padre, additandomela con ammirazione "l'udite? Non è buona? Non è generosa? Dovreste risponderle gettandovi nelle sue braccia." "È inutile, padre mio, lei mi odia, ed io la detesto." "Ah, Clémence, mi fate pur male. Ma vi perdono" aggiunse la signora Roland, alzando gli occhi al cielo. "Amica mia, nobile amica mia!" esclamava mio padre con accento commosso. "Calmatevi, ve ne prego, per riguardo a me abbiate compassione di una che ha la disgrazia di non sapere apprezzarvi!" Ed urlò, volgendo su me gli occhi severi: "Tremate, se osate ancora oltraggiare la più bell'anima che esista al mondo; chiedetele scusa all'istante". "Mia madre mi vede e mi ode, né mi perdonerebbe mai tanta viltà." Così replicai, ed uscii subito, lasciandolo occupato a consolare la signora Roland, ad asciugare le sue finte lacrime... Ah, monsignore! Scusate se mi dilungo in puerili particolari, ma essi solo possono darvi un'idea della vita che io conducevo allora." "Mi pare di assistere, signora, ad una di quelle scene domestiche tanto tristemente ed umanamente vere... In quante famiglie debbono essersi rinnovate, e quante altre volte si ripeteranno! Nulla vi è di più volgare, eppure nulla di più abile, del contegno della signora Roland... La semplicità dei mezzi di cui si valeva nella sua perfidia la pone al livello di molti spiriti mediocri... Ma non che lei fosse accorta, è che vostro padre era cieco! Ed in che qualità presentava ai suoi vicini la signora Roland?" "Come mia maestra e sua amica... E così veniva accolta." "Non occorre domandarvi se viveva nel solito isolamento?" "Eccettuata qualche rara visita, obbligatoria per relazioni di vicinanza o di affari, non vedevamo un'anima. Mio padre, interamente dominato dalla sua passione, cedendo senza dubbio alle esortazioni della signora Roland, depose il lutto dopo tre mesi appena, adducendo che il lutto si porta nel cuore... La sua freddezza per me aumentava sempre più. La sua indifferenza giungeva al punto di lasciarmi una libertà disdicevole ad una fanciulla dell'età mia. Io lo vedevo all'ora della colazione, poi egli si ritirava nelle sue stanze con la sua amica, la quale gli serviva come segretaria nella sua corrispondenza d'affari, poi usciva con lei a piedi o in carrozza, e non tornava che un'ora prima di pranzo. La signora Roland si abbigliava con eleganza; egli si vestiva con un'affettazione stranissima per un uomo della sua età. Qualche volta, dopo pranzo riceveva le persone che non poteva fare a meno di ammettere in casa; poi faceva sino alle dieci la partita a tavola reale con la signora Roland; dopo di che le dava il braccio per condurla nella camera della mia mamma, le baciava rispettosamente la mano, e se ne andava nelle sue stanze. In quanto a me, potevo disporre a mio talento della giornata; andare a cavallo seguita da un domestico, o fare, se preferivo, lunghissime passeggiate nei boschi intorno alla villa. Certi giorni, presa da malinconia, non comparivo a colazione, e mio padre non se ne dava pensiero..." "Che trascuratezza! Che abbandono!" "Avendo più volte di seguito incontrato uno dei nostri vicini nelle macchie dov'ero solita cavalcare rinunciai a quelle gite, e non mi mossi più dal parco." "Ma quale contegno aveva con voi quella donna quando eravate sola con lei?" "Tanto lei come me scansavamo il più possibile le occasioni. Un giorno, peraltro, alludendo a qualche frase un poco aspra che le avevo detto la sera prima, mi disse con apparente tranquillità: "Badate che, se volete litigare con me, sarete annientata". "Come mia madre?" le risposi: "È un peccato, signora, che il signor Polidori non sia qui a confermarvi che questo succederà 'dopodomani!'". Queste parole produssero sulla signora Roland una profonda impressione, ma presto la superò. Adesso, monsignore, che per grazia vostra so che uomo è il Polidori e di che cosa è capace, quello smarrimento che la colse nell'udirmi rammentare le misteriose parole forse confermerebbe orribili sospetti... Ma no, no! Non voglio crederci. Troppo mi atterrirebbe il pensare che a quest'ora mio padre è quasi in balia di quella donna." "E che vi replicò quando le ricordaste le parole di Polidori?" "Prima arrossì; poi, nascondendo la sua commozione, mi domandò tranquillamente cosa intendessi dire. "Signora" ribattei "quando sarete sola, interrogate su di ciò voi stessa e voi stessa vi risponderete." Poco tempo dopo aveva luogo una discussione che decise, per così dire, la mia sorte. Tra molti quadri di famiglia, che adornavano un salotto dove ci riunivamo la sera, c'era un ritratto di mia madre. Mi accorsi un giorno che era sparito. Due nostri vicini avevano pranzato con noi. Uno d'essi, il signor Dorval, notaio del paese, aveva sempre avuto per mia madre la più sincera venerazione. Arrivata nel salotto, domandai a mio padre: "Dov'è il ritratto della mia mamma?". "La vista di quel dipinto mi addolorava troppo" fece imbarazzato e, con un'occhiata, accennandomi le persone presenti. "Ma adesso, dov'è, padre mio?". E, voltosi verso la signora Roland, facendole prima dei cenni, e poi con un movimento d'impazienza, le chiese: "Dov'è stato messo il ritratto?". "Nello stanzone degli utensili" disse lei dandomi un'occhiata di sfida, e credendo che la presenza dei vicini mi avrebbe impedito di parlare. "Capisco, signora" soggiunsi indirizzandomi a lei "che lo sguardo di mia madre vi dovesse essere di molto peso, ma non era una ragione sufficiente per confinare in soffitta il ritratto di una donna che, quando eravate miserabile, vi permise caritatevolmente di venire a vivere in casa sua!"." "Benissimo!" esclamò Rodolphe. "Questo gelato disprezzo era un colpo di fulmine." ""Signorina!" gridò mio padre. "Confesserete, però" lo interruppi "che una persona che oltraggia vilmente la memoria di colei che le diede l'elemosina non merita altro che disprezzo ed avversione." "Mio padre restò per un momento stupefatto. La signora Roland si fece rossa dalla vergogna e dalla rabbia. I vicini confusi chinarono la fronte e stettero zitti. ""Signorina" riprese poi mio padre "dimenticate che la signora era l'amica della vostra mamma, dimenticate che ha vigilato e vigila tuttora sulla vostra educazione, con premura materna, dimenticate che io professo per lei la massima stima... E poiché vi permettete uno sgarbo così indecente davanti a questi signori, io vi dirò che ingrati e vili sono quelli che, scordandosi dei più elementari doveri, osano rinfacciare un momento di bisogno ad una donna che merita lode e rispetto." "Non mi permetterò, padre mio, di discutere con voi questa questione" dissi in tono di sottomissione. "Avrò anch'io questo favore?" esclamò la signora Roland, trasportata dalla collera oltre i limiti della sua abituale prudenza. "Forse mi farete grazia, non di discutere, ma di confessare che, oltre a non dovere riconoscenza a vostra madre, non posso rammentarmi che l'avversione che lei mi dimostrò sempre, giacché fu contro il suo volere che io..." "Oh signora!" dissi interrompendola "per rispetto a mio padre, per pudore verso voi stessa, dispensateci da così vergognose rivelazioni; mi fareste avere il rammarico di avervi esposta a confessioni troppo umilianti." "Come, madamigella!" gridò quasi forsennata. "Osate dire?..." "Dico" la interruppi di nuovo "che mia madre, degnandosi di permettere che viveste in casa sua invece di farvi scacciare come ne aveva diritto, deve avervi provato, con il suo disprezzo, che la tolleranza verso di voi le era imposta."" "Meglio che mai" esclamò Rodolphe "completa giustizia. E lei?" "Lei con un mezzo molto volgare, ma assai comodo, diede fine alla conversazione gridando: "Dio mio, Dio mio!". E cadde in deliquio. Mediante questo espediente, i due testimoni dell'alterco uscirono, con il pretesto d'andare a cercare qualche soccorso, ed io feci altrettanto, mentre mio padre prodigava alla signora Roland le più premurose attenzioni." "Come doveva essere incollerito vostro padre quando lo rivedeste!" "Venne da me la mattina dopo, e mi disse: "Perché non si rinnovino più dispute simili a quella di ieri, vi dichiaro che appena sarà trascorso il termine di rigore per il vostro lutto e per il mio, sposerò la signora Roland. Sicché, d'ora innanzi, dovrete trattarla con il rispetto e con i riguardi che merita mia moglie... Per certe particolari ragioni è necessario che voi vi maritiate prima di me. Il patrimonio di vostra madre ascende a più di un milione, questa è la vostra dote. Da oggi in poi mi occuperò di assicurarvi una unione conveniente, esaminando qualche proposta che già per voi mi fu fatta. La pertinacia con cui, malgrado le mie preghiere, tormentate una persona che mi è cara mi dà un'idea del vostro affetto per me. La signora Roland non si cura di queste impertinenze, ma io non sopporterò che tali indecenze si ripetano davanti ad estranei, nella mia abitazione. D'ora innanzi non entrerete o non starete in sala, se non quando vi saremo, soli, la signora Roland ed io". "Dopo quest'ultimo discorso, rimasi anche più solitaria. Non vedevo mio padre che alle ore dei pasti, ed i nostri pasti si svolgevano in un cupo silenzio. Era così triste la mia vita, che aspettavo con impazienza il momento in cui mio padre mi avesse proposto un matrimonio qualunque. "La signora Roland, avendo rinunziato a sparlare di mia madre, se ne vendicava con il farmi soffrire un supplizio continuo: per angustiarmi, si serviva con ostentazione di tutte quelle cose che prima appartenevano a mia madre: la sua poltrona, il suo telaio, i suoi libri sino ad un ventaglio che per lei avevo ricamato, e su cui erano cucite le sue iniziali. Tutto era da quella donna profanato." "Oh, sì, capisco che doveva produrre orrore in voi questa profanazione." "E poi, la solitudine rende anche più gravi le pene..." "E non avevate alcuno, a cui confidarvi?" "Nessuno... Ricevetti però una prova di attenzione, che mi commosse, e che avrebbe dovuto aprirmi gli occhi sull'avvenire. Uno dei due testimoni del diverbio in cui avevo strapazzato la signora Roland era il signor Dorval, vecchio ed onesto notaio, a cui mia madre aveva reso qualche favore facendo qualcosa per una delle sue nipoti. In seguito al divieto di mio padre io non scendevo mai in sala quando c'erano terze persone, e così non avevo più rivisto il signor Dorval. Con mio grande stupore, venne un giorno, con aria misteriosa, a trovarmi in un viale del parco, luogo per me consueto di passeggio. ""Signorina" mi disse "temo che mi sorprenda il signor conte, leggete questa lettera, e poi bruciatela: è cosa per voi importantissima." E subito sparì. In quel biglietto, mi diceva che volevano maritarmi con il marchese d'Harville. Questo partito sembrava conveniente sotto tutti i rapporti. Si decantavano le buone qualità del signor d'Harville: era giovane, ricco a milioni, di spirito, di amabile aspetto. Ma le famiglie di due ragazze, a cui tempo prima si era quasi combinato di darlo per marito, una dopo l'altra avevano annullato all'improvviso ogni impegno preso a questo proposito. Il notaio non poteva spiegarmi il motivo di tale cambiamento repentino, ma credeva obbligo suo di avvertirmene, senza però dire se la causa di quello scioglimento fosse pregiudizievole al signor d'Harville. Le due signorine in questione erano figlie, una del signore di Beauregard, pari di Francia; l'altra di lord Boltrop. Il signor Dorval mi faceva questa confidenza, perché mio padre, impazientissimo di concludere per me il mio matrimonio, non mostrava valutar molto le circostanze di cui mi si faceva cenno." "Infatti" disse Rodolphe, avendo riflettuto alquanto "adesso mi ricordo che vostro marito, nel corso di un anno, mi diede la partecipazione di due progettati matrimoni andati a monte all'improvviso, nel momento di essere conclusi, per qualche problema di interesse..." La signora d'Harville, con un amaro sorriso, rispose: "Fra poco saprete la verità, monsignore. Letto il biglietto del notaio, fui altrettanto curiosa, quanto inquieta. Chi era il signor d'Harville? Mio padre non me ne aveva parlato mai. Invano consultavo i miei ricordi, non trovavo questo nome. Ben presto la signora Roland, con mia somma sorpresa, partì per Parigi. La sua assenza doveva durare, tutt'al più, una settimana; eppure mio padre ebbe di quella breve separazione il più gran dispiacere: s'inasprì maggiormente il suo carattere, fu con me più trascurato di prima. E un giorno che gli domandai come stava, mi rispose: "Sto male, e per colpa vostra". "Colpa mia?" "Certo: sapete quanto sono abituato alla compagnia della signora Roland, e questa donna ammirabile, che avete insultata, fa per solo vostro interesse un viaggio che la trattiene lontana da me." "Un tale moto di zelo a mio favore da parte della signora Roland mi fece spavento: ebbi un'idea confusa che si trattasse del mio matrimonio. Vi lascio immaginare, monsignore, quale fosse l'allegrezza di mio padre al ritorno della mia futura matrigna. Il giorno successivo, mi fece chiamare nelle sue stanze: era solo con lei. "Da molto tempo" mi disse "ho pensato ad accasarvi. Fra un mese appunto termina il vostro lutto. Domani arriverà il signor marchese d'Harville, giovane adorno di ogni pregio, ricchissimo, e per tutti i versi capace di assicurare la vostra felicità. Vi ha vista in qualche luogo, desidera caldamente quest'unione, ed abbiamo insieme regolato tutto quel che concerne gli interessi. Dipenderà dunque da voi d'esser maritata prima che passino sei settimane. Se per un capriccio, che neppure voglio immaginare, rifiuterete una tale proposta, superiore a qualunque speranza, io ad ogni modo mi sposerò appena finito il tempo del lutto. In quest'ultimo caso, occorre dirlo chiaramente, la vostra presenza in casa mia non potrà essermi gradita, se non quando mi promettiate di dimostrare alla mia consorte l'attaccamento ed il rispetto di cui è degna." "Vi capisco, padre mio: se non sposo il signor d'Harville, voi ad ogni modo prendete moglie, ed allora né per voi né per la signora ci saranno obiezioni ad un mio ritiro al Sacro Cuore." "Nessuna" mi rispose in tono freddissimo." "Ah, non è più debolezza, è crudeltà" esclamò Rodolphe. "Sapete, monsignore, ciò che mi ha sempre impedito di serbare contro mio padre il minimo rancore? Un presentimento mi dice che un giorno pagherà, ahimè, a caro prezzo la sua cieca passione per la signora Roland... E, lode al cielo, quel giorno non è ancora giunto." "E nulla gli diceste di quanto vi aveva partecipato il notaio sui due sposalizi annullati dalle famiglie con cui stava per imparentarsi il signor d'Harville?" "Sì, monsignore... Quel giorno stesso lo pregai di accordarmi un breve colloquio da solo a sola. "Non ho segreti per madama Roland" mi rispose "potete parlare davanti a lei." Io tacqui. Lui soggiunse austeramente: "Ve lo ripeto, non ho segreti per madama Roland. Spiegatevi dunque chiaramente". "Se me lo concedete, padre mio, aspetterò che siate solo." La signora Roland si alzò indispettita e uscì. "Eccovi soddisfatta" mi disse lui. "Ebbene, dite pure." "Io non rifiuto l'unione che mi proponete, ma soltanto ho saputo che il signor d'Harville, essendo stato due volte in procinto di sposarsi..." "Bene, bene" m'interruppe "so come andò. Lo scioglimento ebbe luogo per certe dispute d'interesse in cui però figurò ottimamente la delicatezza del signor d'Harville. Se non avete altre obiezioni che questa, potete considerarvi come maritata, e maritata benissimo, giacché io non voglio se non la vostra felicità."" "M'immagino che la signora Roland fosse molto contenta di questa unione!" "Contentissima, monsignore!" disse mestamente Clémence. "Era opera sua: ne aveva suggerito il primo pensiero a mio padre... Sapeva la vera causa dell'annullamento delle due prime trattative del signor d'Harville... Ecco perché bramava tanto che fosse mio sposo." "Ma a quale scopo?" "Voleva vendicarsi, abbandonandomi ad una sorte orribile." "Ma vostro padre?" "Ingannato da lei, credette realmente che questioni pecuniarie avessero fatto svanire gli altri progetti." "Che trama! E la ragione misteriosa?" "Ora ve la dirò, monsignore. Arrivò il signor d'Harville agli Aubiers. Mi piacquero di lui l'aspetto, le maniere e lo spirito. Pareva buono, di carattere docile ed un po' malinconico. In lui c'era qualcosa che mi sorprendeva, eppure mi era simpatico: con una mente colta, con fortune invidiabili, di nascita illustre, talvolta la sua fisionomia, di solito energica e risoluta, esprimeva una specie di timidezza, e quasi di timore, di abbattimento, di insicurezza di sé, che mi piacevano molto. Mi soddisfaceva anche la bontà con cui trattava un vecchio cameriere che lo aveva allevato, e da cui soltanto voleva essere assistito. Qualche tempo dopo il suo arrivo restò due giorni rinchiuso nelle sue stanze: mio padre desiderava vederlo, ed il servo vi si oppose. Adducendo una forte emicrania, disse che non poteva ricevere alcuno. Quando ricomparve, lo trovai pallido, alterato nel volto. Poi provava una certa impazienza e malumore se gli si parlava di quella sua passeggera indisposizione. Man mano che imparavo a conoscerlo, riscontravo in lui delle qualità simpatiche. Avendo tante ragioni per essere contento, mi piaceva la sua modestia. Fissata l'epoca delle nostre nozze, preveniva ogni mia brama nei progetti che facevamo per l'avvenire. Se qualche volta gli domandavo il motivo della sua mestizia, mi parlava dei suoi genitori, che sarebbero andati superbi nel vederlo ammogliato secondo il suo cuore, e la sua inclinazione. Dal canto mio sarebbe stato fuori luogo non ammettere ragioni che erano per me tanto lusinghiere... "Indovinò i rapporti con la signora Roland e con mio padre, benché questo, soddisfattissimo del mio matrimonio, che affrettava il suo, fosse tornato a dimostrarmi grandi tenerezze. In vari colloqui, il signor d'Harville mi fece comprendere con bel modo e somma riserva che mi amava forse di più a motivo appunto dei miei passati affanni. Credetti doverlo prevenire che mio padre pensava di riprendere moglie, e mentre gli parlavo del cambiamento che da ciò sarebbe sopravvenuto nei miei averi, non mi lasciò terminare, e mi diede prova del più nobile disinteresse. Io riflettei che le famiglie a cui era stato vicino ad imparentarsi dovevano essere molto sordide se avevano avuto con lui difficoltà pecuniarie." "L'avete proprio descritto come l'ho sempre conosciuto" disse Rodolphe "tutto cuore, tutto affetto, tutto delicatezza. Ma non gli parlaste mai dei due matrimoni andati a monte?" "Monsignore, lo confesso, vedendolo così buono e leale, più volte mi venne questa domanda, ma subito, per timore di offendere tanta bontà e tanta lealtà, non osai entrare in questo argomento. Più si avvicinava il momento delle nostre nozze, e più si diceva felice. Ma due o tre volte lo vidi tristissimo. Un giorno fissò su di me gli occhi in cui scorreva una lacrima; sembrava oppresso, pareva che volesse e non ardisse confidarmi un importante segreto... Mi tornarono alla mente i suoi due matrimoni svaniti. Lo confesso, ebbi paura... Un interno presentimento mi avvertì che forse si trattava della disgrazia di tutta la mia vita. Ma ero così maltrattata nella casa paterna, che superai ogni apprensione." "E nulla vi palesò il signor d'Harville?" "Nulla. Quando gli domandavo la causa della sua malinconia, mi rispondeva: "Perdonatemi, ma il troppo bene mi opprime". Queste parole, pronunciate con voce commossa, mi riconfortavano alquanto... E poi, come osare in quell'istante in cui le lacrime gli bagnavano il ciglio, dimostrargli un'oltraggiosa diffidenza?" "E nessun altro vi fece rivelazioni?" "I testimoni del signor d'Harville, cioè i signori di Lucenay e di Saint-Remy, giunsero agli Aubiers pochi giorni prima del mio matrimonio. A questo furono invitati solamente i miei parenti più prossimi. Dovevamo subito, dopo la messa, partire per Parigi. Io non avevo alcun amore per d'Harville, ma provavo per lui una certa tenerezza: il suo carattere m'ispirava della stima. Se non fosse stato per gli avvenimenti che succedettero a quella fatale unione, un sentimento più tenero mi avrebbe senza dubbio legata a lui per sempre. Fummo maritati." A queste parole, la marchesa impallidì, tacque un momento. Poi soggiunse: "Subito dopo lo sposalizio, mio padre mi strinse teneramente al seno. Anche la signora Roland mi abbracciò: non potevo, dinanzi a tanta gente, sottrarmi a questo nuovo atto d'ipocrisia. Con la sua mano magra e bianca strinse la mia in modo da farmi male, e mi disse all'orecchio, con voce dolce, ma in sostanza perfidissima, queste parole che non scorderò mai: "Pensate a me qualche volta nella vostra felicità, giacché sono io che volli il vostro matrimonio!". Oh Dio, ero lontana dal capire allora il vero senso di questa frase. Ci eravamo sposati alle undici; poco dopo salimmo in carrozza, con una donna al mio servizio, ed il vecchio cameriere di d'Harville: e andavamo lesti, perché dovevamo essere a Parigi prima delle dieci di sera. "Mi avrebbero fatto meraviglia la taciturnità e la mestizia del signor d'Harville, se non mi avesse assicurato che il troppo bene l'opprimeva. Ed anch'io ero angustiata: tornavo nella capitale per la prima volta dopo la morte di mia madre, e quantunque non avessi motivo di desiderare il tetto paterno, là ero in casa mia... la lasciavo per un'abitazione dove tutto sarebbe stato nuovo e sconosciuto, dove sarei giunta sola con il mio consorte, noto appena da sei settimane, e che fino al giorno prima non mi avrebbe rivolto una parola senza accompagnarla con qualche formula rispettosissima. La gente non si fa forse una conveniente idea del timore che si desta in noi per quel mutamento improvviso di modi e di tono a cui sono soggetti uomini anche ben educati appena noi donne diventiamo di loro proprietà. Non si pensa che la donna non può in poche ore dimenticare la sua timidezza, i suoi pudori virginali. Non c'è cosa che mi sia sembrata più barbara, selvaggia, dell'uso di portar via bruscamente una ragazza come una preda, mentre il matrimonio dovrebbe essere soltanto la consacrazione del diritto di adoperare ogni mezzo amoroso ed ogni tenerezza per farsi amare. "Allora comprendete, monsignore, lo strazio del cuore e la specie di spavento con cui tornai a Parigi, in questa città dove mia madre era morta da un anno appena... Arriviamo al palazzo d'Harville." Si accrebbe l'emozione della marchesa, il rossore le salì alle guance, e poi continuò, con un tono che faceva male ascoltare: "Peraltro è necessario che sappiate ogni cosa... Senza ciò, vi sembrerei troppo spregevole. Bene!" ripigliò a dire con risolutezza quasi disperata. "Fui condotta nella stanza destinatami. Mi lasciarono sola... Venne il signor d'Harville a raggiungermi. Nonostante le proteste del suo affetto, io morivo di paura, i singhiozzi mi soffocavano... Ero sua. Dovetti rassegnarmi. Ma, d'un tratto, mio marito mi stringe un braccio in modo da strapparmelo, e dà un grido terribile... Invano tento di liberarmi da tale stretta di ferro, ed imploro pietà, egli non mi ode... Gli contraffanno il volto tremiti tremendi, gira le pupille con una rapidità che mi sbigottisce, la bocca gli si storce e si chiazza di schiuma sanguinosa... Con la mano continua a stringermi. Io, disperata, faccio uno sforzo, le sue dita, rigide, alfine mi lasciano, e svengo nel momento in cui egli si dibatte nel parossismo di quell'orribile attacco... Ecco la mia notte di sposa, monsignore. Ecco la vendetta di madama Roland!" "Disgraziata!" disse Rodolphe addolorato. "Capisco, un epilettico... Ah questo è orribile!" "Né questo basta" continuò Clémence con voce affannosa. "Ah, la funesta notte! Sia maledetta per sempre! Mia figlia, quel povero angelo, ha avuto in eredità una così spaventosa malattia!" "Vostra figlia pure? Come? Il suo pallore, la sua debolezza...?" "Appunto, mio Dio! Ed i medici dicono che è insanabile, perché è un male di famiglia!" La marchesa si nascose la testa fra le mani, ed oppressa dalla penosa rivelazione da lei fatta non aveva più coraggio di proseguire. Anche Rodolphe restò ammutolito. Lo atterriva il pensiero di quella prima notte. Si figurava una giovane, già attristata dal ritorno nella città dov'era morta la madre, in una casa a lei ignota, sola con l'uomo per cui aveva stima e premura, ma non amore, nulla di ciò che agita piacevolmente, nulla di ciò che inebria, nulla di ciò che fa obliare ad una donna il suo casto timore nei trasporti di una passione legittima e scambievole! No, tremante d'un timore pudico, Clémence arrivava là, mesta e fredda, afflitto il cuore, la fronte rossa di vergogna, gli occhi pieni di lacrime. Si rassegnava, e poi, invece di udire parole di riconoscenza, di amore, di tenerezza, che la consolassero della felicità che ha data, vede cadere ai piedi un uomo fuori di sé, che si contorce, e spuma, e rugge nelle orrende convulsioni d'una delle più spaventose infermità che possano colpire un uomo. Ed inoltre la figlia, povero angelo innocente, lei pure ne è affetta sin dalla nascita. Queste dolorose e tristi confessioni suscitavano in Rodolphe amare riflessioni. "Tale è la legge del paese!" pensava. "Una ragazza bella e pura, leale e piena di fiducia, vittima di una fatale dissimulazione, unisce il suo destino a quello di un uomo affetto da una spaventosa malattia, che deve trasmettere in eredità alla sua prole. La sventurata scopre l'orribile mistero: che può fare? Niente. Non altro che soffrire e piangere; non altro che procurare di vincere il disgusto, il ribrezzo; non altro che passare i giorni in angoscia, in terrore infinito, non altro forse che cercare consolazioni fuori della sua desolata esistenza. Queste leggi stranissime" proseguiva Rodolphe "costringono talvolta a paragoni vergognosi, avvilenti per l'umanità. In essi, i bruti sembrano sempre superiori agli uomini, per le cure che a loro si dedicano, per i miglioramenti che loro si procacciano, per la protezione che loro si concede, per le garanzie che loro si accordano. Comprate qualunque animale: dopo l'acquisto si scopre una malattia imprevista: è annullata la vendita. "Perché, pensate che indegnità, che delitto di lesa società, sarebbe condannare un tale a tenersi una bestia che spesso tossisce, o zoppica, o recalcitra! È uno scandalo, una mostruosità che non ha eguale! Figuratevi se uno deve essere costretto a tenere sempre, sinché vivono, un mulo che tossisce, un cavallo che recalcitra, un asino che zoppica! Che tremende conseguenze potrebbero risultarne per la salvezza dell'intera umanità! E quindi non c'è patto che regga, non parola che impegni, non contratto che obblighi... La legge onnipossente scioglie qualsiasi vincolo. "Ma se si tratta d'una creatura fatta a immagine di Dio, se si tratta di una giovane fanciulla, che per la fede innocentemente riposta nella sincerità d'un uomo a cui si è unita, accorgendosene poi si trova compagna di un epilettico, di un disgraziato assalito da infermità terribile, le cui conseguenze morali e fisiche sono spaventose, da infermità che può spargere lo scompiglio e l'avversione nelle famiglie, eternare un malore, atrofizzare le generazioni... "Oh, questa legge, tanto inesorabile quando si tratta di bestie che zoppicano, o tossiscono, o recalcitrano, la legge, ammirabile e previdente, che non vuole che un cavallo difettoso sia atto alla riproduzione, questa legge si astiene dal liberare la vittima di una unione siffatta... Quei vincoli sono sacri, indissolubili. Spezzandoli, si offenderebbero gli uomini e Dio! In verità" continuava Rodolphe "l'uomo è talvolta di un'umiltà vergognosissima, di un orgoglioso egoismo ben esecrabile: si pone al di sotto della bestia." 17. La carità. Rodolphe biasimava molto il signor d'Harville, ma si proponeva di scusarlo agli occhi di Clémence, quantunque persuaso (alle lacrimevoli rivelazioni di quest'ultima) che il marchese si era per sempre alienato il suo cuore. E, da un pensiero passando ad un altro, diceva tra sé: "Per dovere, mi sono allontanato da una donna che amavo, e che forse per me sentiva una segreta simpatia. Sia perché il suo cuore era libero, sia per impulso di commiserazione, è stata in procinto di perdere l'onore, la vita, per uno stolido che credeva infelice. Se, invece di scostarmi da lei, le avessi prodigato attenzioni, amore, rispetto, il mio contegno riservato non avrebbe minimamente intaccato la sua reputazione, e non si sarebbero eccitati i sospetti del marito, mentre adesso è quasi in balia della sciocca vanità di Charles Robert... E questo, temo, sarà tanto più ciarliero e imprudente, quanto meno ha ragione di esserlo. "E poi, chissà, se, malgrado i pericoli in cui è incorsa, il cuore della signora d'Harville resterà sempre freddo? Ormai è impossibile ogni suo ritorno agli affetti coniugali. Giovane, bella, corteggiata, di carattere dolce e caritatevole... Quanti rischi, quanti scogli per il signor d'Harville, che pene, che angosce! Geloso, innamorato della moglie, che non può sormontare la ripugnanza, il ribrezzo che egli le ispira da quella prima e funestissima notte del suo matrimonio. Ah, che sorte è la sua!" Clémence, con la fronte posata sulla mano, gli occhi umidi, ardenti le guance per l'imbarazzo, per la confusione, evitava lo sguardo di Rodolphe, tanto le era stato penoso fare quel suo racconto. "Ah, ora capisco" disse il principe, dopo lungo silenzio "adesso sì che mi spiego l'origine della malinconia del signor d'Harville; malinconia che prima d'ora non riuscivo a capire. Comprendo i suoi rammarichi..." "I suoi rammarichi!" esclamò la marchesa. "Monsignore, dite piuttosto i suoi rimorsi, se pure ne prova... Giacché non vi fu mai delitto meditato con maggiore sangue freddo." "Delitto, signora?" "E che cosa è dunque, monsignore, incatenare a sé, con legami indissolubili, una vergine che si affida all'onor vostro, quando uno sa di essere fatalmente soggetto ad una malattia che suscita paura e orrore? Che cos'è, condannare con certezza un'infelice bambina alle stesse miserie? Chi obbligava il signor d'Harville a far due vittime? Una passione cieca, insensata? No, a lui piacevano la mia nascita, le mie fortune, la mia persona. Volle contrarre un matrimonio di convenienza, perché di sicuro lo infastidiva la vita da scapolo." "Oh, signora, almeno la pietà..." "Pietà! Sapete chi la merita, questa pietà? Mia figlia, povera vittima di quella odiosa unione. Quante notti, quanti giorni trascorsi presso di lei! Quante amare lacrime sparse per i suoi dolori immeritati!" "Ma suo padre patisce gli stessi dolori non meritati!" "Ma suo padre è quello che la dannò a un'infanzia malaticcia, a una giovinezza tormentosa, e, se sopravvive, a una vita d'isolamento e d'angustie, poiché non si mariterà. Oh, no, l'amo troppo, per esporla un giorno a piangere sulla sua creatura fatalmente ammalata, come io piango su di lei. Troppo ho sofferto da quel tradimento, per rendermi colpevole di un tradimento simile!" "Oh avevate ragione, fu orribile la condotta della vostra matrigna. Ma pazienza, forse sarete a vostra volta vendicata" disse Rodolphe, dopo un istante di riflessione. "Che intendete dire, monsignore?" domandò Clémence, meravigliata dell'alterazione della sua voce. "Nella mia vita ho visto più di una volta i malvagi puniti, e atrocemente puniti quando meno se l'aspettavano" egli soggiunse con un tono che fece rabbrividire Clémence. "Ma, all'indomani di quella terribile serata, che vi disse vostro marito?" "Mi confessò, con una singolare ingenuità, che le famiglie a cui doveva imparentarsi avevano scoperto il segreto del suo male, e sciolto perciò gli sponsali proposti. Così, dopo essere stato respinto due volte, osò... Ah, infamia! Ed ecco quel che si chiama nel mondo un gentiluomo di cuore, di onore!" "Voi, sempre tanto buona, signora, adesso siete crudele!" "Sono crudele perché fui iniquamente ingannata. Il signor d'Harville, sapendo che ero buona, perché non si rivolse a me lealmente per dirmi tutta la verità?" "Lo avreste forse respinto." "Questa risposta lo condanna, monsignore; la sua condotta era un indegno tradimento. Se aveva un simile timore..." "Ma vi amava!" "Se mi amava, doveva sacrificarmi al suo egoismo? Mio Dio! Ero così tormentata, così ansiosa di abbandonare la casa paterna, che, se fosse stato sincero, forse mi avrebbe commossa. Se mi avesse detto di quei rifiuti, dell'isolamento a cui lo esponeva l'avversa e fatale sorte, sì, sapendolo ad un tempo così sventurato e schietto, forse non avrei avuto il coraggio di respingerlo. E se avessi assunto l'impegno sacro di subire le conseguenze del mio affetto per lui, l'avrei coraggiosamente rispettato. Ma volermi forzare a quell'affetto e a quella compassione come ad un dovere di moglie, lui, che violava i suoi doveri d'uomo onesto, era follia e viltà! Io confidavo nell'integrità del signor d'Harville, ed egli m'ingannava! La sua dolce mestizia, la sua timidezza m'interessavano, e queste, che fingeva attribuire a dolci ricordi, non erano altro che l'effetto della sua incurabile malattia!" "Ma, in sostanza, quando anche vi fosse stato estraneo, nemico, i suoi patimenti dovevano placarvi. Avete pure un cuore nobile e generoso!" "E posso io calmarli quei patimenti? Se la mia voce venisse ascoltata, se uno sguardo di gratitudine contraccambiasse il mio di tenerezza... Ma no! Ah, monsignore! Non sapete come orribili siano quelle crisi in cui l'uomo si dibatte in un selvaggio furore, e nulla vede, né ode, né sente, e non esce da tale frenesia, se non per ricadere in una sorta di torpore feroce. Quando mia figlia soccombe ad uno di quegli attacchi, non posso far altro che disperarmi, mi sento straziare l'anima, bacio, piangendo, le sue braccia irrigidite da convulsioni che la uccidono. Ma è mia figlia, è mia figlia! Ed allorché la vedo soffrire in tal modo, maledico mille volte di più suo padre. Se gli spasimi della mia creatura sembrano mitigarsi, diminuisce anche la mia irritazione contro mio marito, ed allora, sì, lo compatisco, perché sono buona, ed alla mia avversione subentra un senso di dolorosa pietà. Ma infine, mi sono maritata a diciassette anni per provare soltanto queste alternative di odio e di commiserazione acerbissima? per lacrimare con una sfortunata bambina, che forse non sopravviverà? Ed a proposito di mia figlia, monsignore, promettetemi di prevenire un rimprovero che certo mi merito, e che non osate farmi. È così forte l'amore per lei che dovrebbe bastare ad occupare il mio cuore, poiché l'amo ardentemente. Ma questo affetto è misto a tante amarezze presenti, a timori per l'avvenire, che il mio attaccamento per lei si esaurisce sempre nel pianto. Vicino a lei io sono sempre inquieta, tormentata, torturata; perché nell'impossibilità di por rimedio ai suoi mali, che si dicono irreparabili. "Ebbene, per uscire da quella tristissima e sinistra atmosfera, ho sognato un affetto, nelle cui dolcezze mi sarei rifugiata, riposata... Oh, mi illusi! E mi illusi indegnamente, lo confesso, e ripiombo nell'angosciosa esistenza che mi destinò il mio sposo... Dite, monsignore, era questa la vita che dovevo aspettarmi? Sono io sola colpevole di tutti i torti che questa mattina il signor d'Harville voleva farmi pagare con il mio sangue? Essi sono grandi, lo so, e più ancora perché devo arrossire della mia scelta. Per mia fortuna, monsignore, ciò che udiste del colloquio fra la contessa Sarah e suo fratello mi risparmierà la vergogna di questa nuova dichiarazione... Ma almeno spero che adesso vi parrò meritevole tanto di pietà, come di biasimo, e vi compiacerete di consigliarmi nella durissima situazione in cui mi trovo." "Signora, non posso esprimervi quanto mi abbia commosso il vostro racconto; dalla morte di vostra madre sino alla nascita di vostra figlia, quante pene soffriste, quante ansie avete occultato, voi, così brillante, così ammirata, così invidiata!" "Ah, monsignore, credetemi, quando si soffrono simili dolori, come fa male udir gli altri che dicono: "Com'è felice!"." "È vero, non c'è cosa che faccia più male! Eppure non siete sola a patire per un così atroce contrasto fra quello che è e ciò che appare." "Come, Altezza?" "Agli occhi di chiunque, vostro marito deve sembrare anche più fortunato di voi, poiché vi possiede... E non è forse da compiangere? C'è al mondo una vita più crudele della sua? Grandi sono le sue mancanze verso di voi; ma ne è punito barbaramente! Vi ama come lo meritate, e sa che non vi è dato di avere per lui se non una repulsione insuperabile. Nella figlia macilenta, malaticcia vede un incessante rimprovero. E ciò non basta? Viene inoltre ad agitarlo la gelosia..." "E che posso farci, monsignore? Non dargli occasione d'ingelosirsi, va bene. Ma, poiché il mio cuore non sarà di alcuno, sarà per questo più suo? Egli sa di no. Dopo la spaventosa scena che vi ho raccontato, viviamo separati; però in faccia agli estranei ho per lui i riguardi che sono imposti dalle convenienze, ed a nessuno ho detto, eccettuato a voi, monsignore, una parola di quest'arcano funesto." "Ed io, signora, vi assicuro che se il favore che vi ho reso fosse degno di premio, mi stimerei mille volte pagato dalla vostra fiducia. Ora, siccome mi chiedete un consiglio, e mi concedete di parlarvi con franchezza..." "Oh, sì, monsignore, ve ne supplico..." "Lasciate che vi dica che, non per impiegare bene una delle vostre qualità più pregevoli, perdete grandi soddisfazioni, che non solo soddisferebbero i bisogni del vostro cuore, ma vi distrarrebbero dagli affanni domestici, e corrisponderebbero a quella necessità di emozioni vivaci, forti e, ardirò aggiungere (perdonate la cattiva opinione che ho delle donne), all'inclinazione naturale per il mistero e per i sotterfugi, che ha sulle donne tanto impero." "Che mai vorreste dire, monsignore?" "Che se voleste davvero far del bene, non vi sarebbe cosa che più vi piacesse o v'interessasse." La marchesa guardava attonita Rodolphe. "Capite" egli continuò "che non vi parlo di inviare con noncuranza, e quasi con disprezzo, una copiosa elemosina a disgraziati che non conoscete, e che spesso non meritano i vostri benefici. Ma se vi divertiste, come faccio io, a rappresentare la parte della Provvidenza, vedreste che molte volte certe opere buone hanno tutta la poesia di un bel romanzo." "Monsignore, io non avevo mai pensato a considerare la carità nel suo aspetto divertente!" disse Clémence, lei pure sorridendo. "Oh, questa è una scoperta di cui sono debitore all'orrore che provo per tutto ciò che è fastidioso, orrore che specialmente mi è causato dalle conferenze politiche con i miei ministri. Ma per tornare alla nostra beneficenza ricreativa, ohimè, non ho la virtù di quegli spiriti disinteressati che affidano ad altri la cura d'impiegare le loro elemosine. Se si trattasse semplicemente di mandare un mio ciambellano a portare qualche centinaio di luigi ad ogni circondario di Parigi, riconosco, a mio grande scorno, che non ci troverei molta soddisfazione; mentre, invece, far del bene come io l'intendo è la maggior ricreazione che vi sia al mondo. Insisto su questa parola, perché per me esprime tutto quel che piace, che alletta, che incanta... E davvero, signora, se voleste divenire mia complice in alcuni tenebrosi raggiri di questo genere, vedreste, ve lo ripeto, che, anche messa da parte la nobiltà dell'azione, spesso non c'è cosa più curiosa, che attragga di più, che più richiami, e che più diverta di quelle caritatevoli avventure... E poi, quanti misteri per occultare le nostre beneficenze! Quante precauzioni per non essere conosciuti! Quante emozioni diverse e possenti nel vedere le povere e buone persone che piangono di allegria nel vederci! Mio Dio, sono cose assai migliori della faccia burbera di un amante geloso o infedele... Che poi, badate, sono un po' l'uno, un po' l'altro... Ecco, le sensazioni di cui vi parlo sono all'incirca quelle che avete provato stamane, andando nella rue du Temple. Vestita con somma semplicità per non essere osservata, uscireste ancora di casa con il cuore palpitante, salireste ancora inquietissima su una carrozza, e calereste le tendine per non essere vista, e poi, volgendo ancora gli occhi dall'uno all'altro lato per timore d'esser sorpresa, entrereste furtivamente in qualche casa di meschina apparenza... Proprio come stamane, vi dico. L'unica differenza è che dicevate: "Se qualcuno mi scopre, sono perduta!" e ora direste invece: "Se qualcuno mi scopre, sarò benedetta!". Ma siccome avete la modestia che conviene agli adorabili vostri pregi, adoprereste le astuzie più fini e più diaboliche per non esser benedetta!" "Ah, monsignore" esclamò la signora d'Harville, intenerita "voi mi salvate! Non posso esprimervi le nuove idee, le consolanti speranze che destano in me le vostre parole. Avete detto bene: occupare il cuore e la mente a farsi adorare da coloro che soffrono, è come amare... Che dico! È meglio che amare. Quando paragono l'esistenza che comincio a intravedere con quella in cui mi avrebbe cacciata quell'errore riprovevole, divengono più aspre le rampogne che rivolgo a me stessa..." "Mi rincresce molto" replicò sorridendo Rodolphe "perché il mio desiderio segreto è di aiutarvi a dimenticare il passato, e provarvi soltanto quanto è ampia la scelta delle distrazioni di cuore. I mezzi del bene e del male sono sovente pressappoco i medesimi, il fine è quello che muta. In realtà, se il bene piace, diverte quanto il male: perché preferire quest'ultimo? Ecco, io farò una comparazione volgarissima. Perché tante donne prendono per amanti uomini che sono molto da meno dei loro mariti? Perché il più grande incanto dell'amore è l'attrattiva del frutto proibito... Convenite che se da quell'amore si togliessero i timori, le angosce, le difficoltà, i misteri, i pericoli, resterebbe nulla, o poco: niente altro che l'amante nella sua semplicità. In conclusione, sarebbe il caso di colui al quale uno diceva: "Perché non sposate questa vedova, che è già vostra amica?". "Dio buono" rispose "ci avevo pensato anch'io, ma allora non saprei dove andare a passar la serata..."" "In questo c'è un po' troppa verità, monsignore!" disse la signora d'Harville con un sorriso. "Ebbene, se io trovo il modo di farvi risentire quel timore, quell'angoscia, quell'inquietudine che ci dà questa gelosia, e se metto a profitto la vostra propensione per il mistero e per le avventure, e la vostra inclinazione alla dissimulazione ed alle astuzie, e quel maledetto mio concetto delle donne, lo vedete, affiora sempre a mio dispetto" aggiungeva Rodolphe con ilarità "non cambierò in qualità generose certi istinti imperiosi, inesorabili, ottimi se si volgono al bene, e funesti se male s'adoperano? Orsù, dite, volete che fra noi due macchiniamo ogni sorta di complotti benefici? Bricconate caritatevoli di cui saranno vittime, secondo il solito, buonissime persone? Avremmo i nostri appuntamenti, il nostro carteggio, i nostri segreti e, soprattutto, dovremo ingannare il marchese giacché la visita di questa mattina dai Morel deve farlo stare all'erta. In sostanza, se lo gradite, si organizzerebbe un intrigo in perfetta regola." "Accetto volentieri, con tutta gratitudine, questa tenebrosa associazione" disse lietamente Clémence. "E per iniziare il nostro romanzo ritornerò da quegli sfortunati ai quali stamattina non ho potuto recare se non qualche parola di conforto, giacché, approfittando della mia agitazione, un ragazzetto zoppo mi ha rubato la borsa che Vostra Altezza mi aveva consegnata. Ah, monsignore, se sapeste che vergogna!" fece Clémence, e la sua fisionomia perdette l'aria divertita che per un momento l'aveva animata. "Che miseria! che quadro orribile! No, non credevo che potessero esistere simili dolori... E mi lagno, ed accuso il mio destino!" Rodolphe, non volendo lasciar capire alla marchesa quanto gli toccava il cuore quel suo modo di ripensare alla propria situazione, che pur provava la bellezza dell'animo suo, le rispose giocondamente: "Se vi fa piacere, escluderò i Morel dalla nostra operazione in comune. Io stesso mi addosserò la cura di quella povera gente, e voi mi prometterete di non tornare in quella triste casa... Poiché io ci abito." "Voi, monsignore? Che scherzo è questo?" "Sul serio... Un piccolo alloggio, è vero, da duecento franchi all'anno; più sei franchi per le faccende domestiche, liberalmente accordati per ogni mese alla portinaia Pipelet, la bruttissima vecchia che sapete. Aggiungete che ho per vicina la più leggiadra artigianella del quartiere, la signorina Rigolette, e capirete che per un commesso di bottega che guadagna mille ottocento franchi... Io passo per commesso di un negozio!... non c'è poi tanto male!" "La vostra presenza non sperata in quella fatale casa mi dimostra che dite il vero, monsignore. Certo, là vi richiamava una qualche azione generosa... Ma dunque, a quale opera buona mi riservate? Che parte mi assegnerete?" "Quella di un angelo di consolazione, e, scusate questa parolaccia, di un demone per accortezza e astuzia: poiché, se vi sono delle piaghe delicate, dolorose, che possono essere medicate e risanate dalla mano di una donna, vi sono anche degli sventurati così alteri, orgogliosi, occulti, che ci vuole una rara penetrazione per scoprirli, ed un'attrattiva irresistibile per accattivarsi la loro confidenza." "E quando potrò far uso di questa penetrazione ed abilità che in me supponete?" domandò con impazienza la signora d'Harville. "Tra poco, io spero, avrete da fare una conquista degna di voi; ma occorrerà che impieghiate le vostre astuzie più machiavelliche." "Ed in che giorno, Altezza, mi comunicherete il grande mistero?" "Vedete? Eccoci già agli appuntamenti. Potrete ricevermi fra quattro giorni?" "Tanto tardi!" disse Clémence con ingenuità. "Ma il mistero? Ma le convenienze? Figuratevi: se ci credessero complici, si diffiderebbe di noi! Ma avrò probabilmente da scrivervi. Chi è quella donna che stasera mi ha portato il vostro biglietto?" "Un'anziana cameriera di mia madre: la segretezza, la sicurezza personificate." "A lei dunque invierò le mie lettere, e lei ve le darà. Se voi avrete la cortesia di rispondermi, scrivete: "Al signor Rodolphe in rue Plumet" e spedirà la vostra cameriera." "Spedirò io stessa, facendo la mia solita passeggiata a piedi." "Andate spesso fuori sola e a piedi?" "Quando è bel tempo, quasi ogni giorno." "A meraviglia! È un'abitudine che dovrebbero prendere tutte le donne nei primi mesi che sono maritate. Con buona o cattiva intenzione, l'usanza esiste, è un precedente, come dicono i procuratori, ed in seguito quelle gite non danno più adito a pericolose interpretazioni. Se fossi stato donna (e, a dirla fra noi, sarei stato molto generoso e frivolo), il giorno dopo il mio matrimonio avrei assunto il più misterioso contegno. Mi sarei, pur senza colpa, circondato delle apparenze più atte a dar sospetto, sempre per stabilire dei precedenti, e potere in seguito far visita ai miei poveri, oppure al mio amante." "Ma questa è un'orrenda perfidia, monsignore!" disse sorridendo la signora d'Harville. "Voi, signora, per fortuna, non siete mai stata in grado di comprendere le opportunità ed il vantaggio di simili provvedimenti..." La marchesa non sorrise più; chinò la fronte, arrossì, e rispose mestissima: "Monsignore, non siete generoso!" Rodolphe guardò fisso la marchesa, e poi soggiunse: "Vi capisco, signora. Ma una volta per sempre, stabiliamo chiaramente la vostra situazione in faccia al signor Charles Robert. Un giorno una vostra amica vi mostra uno di quei mendicanti vagabondi che stralunano gli occhi languidissimi e generalmente mandano lamenti per impietosire i viandanti. "È un buon povero" vi dice "ed ha almeno sette figli, e la moglie sorda, muta, cieca." "Ah, meschino!" voi replicate, dandogli l'elemosina. Ed ogni volta che lo incontrate, appena vi vede, le sue pupille implorano, e tornano i suoni lamentevoli, e la vostra carità cade nella sua sacca. Infine, sempre più compassionando, per insinuazione dell'amica, il buon povero che perfidamente abusava del vostro buon cuore, vi adattate ad andare a far visita al disgraziato in mezzo alle sue miserie. Arrivate, e ohimè, non più lamenti affannosi, non più sguardi tristi e supplici, ma un pezzo di imbecille, allegro, svelto, robusto che intona una canzone da taverna. E subito alla pietà subentra in voi il disprezzo, giacché avevate preso un cattivo povero per un povero buono, né più né meno... Non è così?" La signora d'Harville non seppe contenere il riso a questo singolare apologo, e rispose a Rodolphe: "Monsignore, per quanto ammissibile possa essere questa giustificazione, mi sembra però troppo facile." "In sostanza, non avete commesso altro che una nobile e generosa imprudenza; vi rimangono troppi mezzi per ripararla, perché abbiate da rammaricarvene. Questa sera non vedrò il signor d'Harville?" "No, monsignore; l'accaduto lo ha agitato talmente che si sente male" disse a voce bassa la marchesa. "Ah, capisco" rispose Rodolphe. "Animo, coraggio! Mancava uno scopo alla vostra vita, una distrazione alle vostre pene, come dicevate. Lasciatemi credere che troverete questa distrazione nell'avvenire di cui vi ho parlato. Allora l'animo vostro sarà così ricolmo di dolci consolazioni, che forse non ci sarà più posto per il risentimento contro vostro marito. Proverete anzi per lui una parte di quell'interesse che portate alla vostra povera figlia. Ed in quanto a questa creatura, ora che so la causa del suo stato malaticcio, oserei quasi dirvi di sperare un poco." "Sarebbe possibile, monsignore? E come?" esclamò Clémence, a mani giunte e con gratitudine. "Ho per medico un uomo pochissimo conosciuto e molto dotto; egli stette gran tempo in America, e mi ricordo che mi ha parlato di due o tre cure quasi miracolose da lui fatte sopra degli schiavi affetti da quella spaventosa malattia." "Ah, monsignore, e potrebbe essere che...?" "Guardatevi dal contarci troppo, ché crudele sarebbe poi il disinganno. Soltanto non disperate del tutto." Clémence volgeva al nobile volto di Rodolphe uno sguardo di riconoscenza ineffabile. Era quasi un re quello che la riconfortava con tanto buonsenso, con bontà e con grazia soave. Domandò a se stessa come mai avesse potuto pensare a Charles Robert. Questo pensiero l'atterrì. "Quanto vi debbo, monsignore!" disse commossa oltre ogni ritegno. "Mi consolate, mi date delle speranze per mia figlia, mi mostrate un nuovo avvenire che sarebbe, al tempo stesso, un conforto, un piacere ed un merito. Non avevo ragione a scrivervi che, se foste venuto qui stasera, avreste finito la giornata come l'avevate incominciata, con una buona azione?" "Ed aggiungete, signora, con una di quelle buone azioni come piacciono a me, al mio egoismo, piene di soddisfazioni e di un certo incanto" disse Rodolphe, alzandosi, mentre suonavano le undici e mezzo all'orologio del salotto. "Addio, monsignore, non vi scordate di darmi certe notizie di quella povera gente della rue du Temple." "Li vedrò domattina, giacché, disgraziatamente, mi ero dimenticato che lo zoppetto vi aveva rubato la borsa, e quegli infelici saranno in una terribile situazione. Fra quattro giorni, degnatevi di non dimenticarlo, verrò a concretare la parte che accettate di rappresentare. Devo soltanto avvertirvi che forse sarà indispensabile un travestimento." "Travestimento? Oh, che contentezza! E quale, monsignore?" "Non posso ancora dirvelo. Vi lascerò libera scelta." Il principe, ritornando alla sua abitazione, si congratulava con se stesso per gli effetti del suo colloquio con la signora d'Harville. Si era proposto: Occupare la mente ed il cuore di quella giovane donna, che un'insuperabile repulsione allontanava da suo marito; risvegliare in lei abbastanza romanzesca curiosità, misteriosa premura, indipendentemente dall'amore, per soddisfare ai bisogni della sua immaginazione e dell'animo suo, e cautelarla così da un amore nuovo. Ovvero: ispirare a Clémence d'Harville una passione così profonda, insanabile, ed insieme pura e nobile, per cui lei, ormai incapace di provare un amore meno elevato, non compromettesse mai la quiete del signor d'Harville, a cui Rodolphe era affezionato come a un fratello. 18. Miseria. Non ci siamo dimenticati che un'infelice famiglia, il cui capo aveva nome Morel, occupava la soffitta della casa della rue du Temple. Condurremo il lettore in quella squallida abitazione. È la mattina, alle cinque. Fuori è profondo silenzio, oscurità e freddo; nevica. Una candela, sorretta da due pezzi di legno sopra una tavoletta quadra, dirada appena, con il suo scarso lume, le tenebre della soffitta, luogo stretto, basso, dove il tetto, a rapido pendio, forma un angolo con il pavimento, e sulla stanza grava il soffitto di tegole verdastre. Le sottili pareti, arricciate, di gesso, nero per la vecchiezza, e con numerose crepe, lasciano intravedere le travi tarlate che le compongono; ad una parete si apre una porta malferma che dà sulla scala. Sul pavimento, di un colore che non ha nome, infetto ed umido, sono sparsi qua e là paglia fradicia, stracci sudici, e alcune di quelle grosse ossa che i poveri comprano dagli infimi rivenditori di carne per rosicarne le cartilagini. Una tale negligenza denota sempre o pessime abitudini, o una miseria onesta, ma tanto abietta, tanto disperata, che l'uomo, degradato, annientato, non sente più né volontà, né energia, né bisogno di uscire dal suo fango; e marcisce come una bestia nel covile. Durante il giorno quella stamberga è rischiarata da un abbaino stretto e bislungo, aperto sul pendio del tetto, e guarnito da un'impannata con i vetri che si apre e si chiude con una catenella di ferro. Nell'ora di cui parliamo un denso strato di neve ricopriva il finestrino. La candela, posata circa al centro della soffitta sul banco dell'incisore, emette un pallido lume, che, scemando a poco a poco, si perde nell'ombra in cui resta sepolto tutto il meschino locale; ombra in mezzo a cui si disegnano vagamente alcune forme bianchicce. Sul banco, tavola quadra di quercia, rozza e pesantissima, imbrattata di grasso e di sego, brillano scintillanti molti diamanti e rubini di grossezza e splendore ammirabili. Morel era incisore di pietre fini e non di pietre false, come si diceva e si credeva nel caseggiato di rue du Temple. Mediante questa innocente bugia, gli oggetti che gli erano affidati tutti li credevano di così poco valore che lui poteva tenerli senza timore che glieli rubassero. Tante ricchezze in balia di tanta miseria ci dispensano dal parlare della probità di Morel. Seduto su uno sgabello senza spalliera, abbattuto dalla stanchezza, dal freddo e dal sonno, dopo una lunga nottata d'inverno spesa a lavorare, si è lasciato cadere sul banco, la testa pesante sulle braccia intormentite; la sua fronte si appoggia ad una larga mola, collocata orizzontalmente sulla tavola, e di solito messa in moto da una piccola ruota a mano. Una sega di acciaio fino ed altri arnesi stanno vicini all'artefice, di cui non si distingue altro che il cranio calvo circondato da capelli grigi; è vestito con una vecchia casacca di lana turchina a maglia, che tiene sulla nuda carne, e con pessimi pantaloni di tela; le ciabatte, tutte rotte, gli nascondono appena i piedi, lividi per il freddo, posati in terra. C'è, in quella soffitta, un freddo così glaciale e penetrante, che l'operaio, nonostante quella specie di sonnolenza in cui lo ha gettato l'esaurimento delle forze, prova a tratti dei brividi in tutto il corpo. La breve lunghezza ed il brucicchio del lucignolo indicano che dorme già da qualche tempo; si ode soltanto il suo respiro affannoso; giacché gli altri sei abitanti della stamberga non dormono... Sì, nell'angusta stamberga vivono sette persone. Cinque figli, e il più giovane ha quattro anni, il maggiore, tutt'al più dodici. E la loro madre è inferma. E poi una ottuagenaria, mentecatta, madre della loro madre. Il freddo dev'essere ben rigido, se il calore naturale di sette individui ammucchiati in un così piccolo spazio neppure intiepidisce quella gelida atmosfera; è che questi corpi gracili, macilenti, tremanti, sfiniti, dai bambini sino all'ava "hanno poco potere calorico", come direbbe un medico. Eccettuato il capofamiglia, assopitosi un istante perché gli mancano le forze, nessuno dorme, no, nessuno! Ché il freddo, la fame, la malattia, tengono gli occhi aperti, spalancati. Nessuno sa quanto è raro e prezioso per il povero il sonno profondo, salutare, in cui ritempra le sue forze e dimentica i suoi guai. Egli si desta lieto, svelto, atto alle più aspre fatiche, dopo una di quelle notti benefiche, che anche i meno religiosi, nel senso cattolico di questo vocabolo, provano un sentimento di gratitudine verso Dio, o almeno verso il sonno: e chi benedice l'effetto, benedice pure la causa. All'aspetto dell'orrenda miseria di quell'artigiano e al valore delle gemme che gli sono affidate, si è sorpresi da uno di quei contrasti che straziano ed al tempo stesso esaltano l'animo. Quest'uomo ha sott'occhio incessantemente il tetro spettacolo dei dolori familiari, ché tutto li opprime, dalla fame sino alla pazzia, eppure rispetta quelle gemme, una sola delle quali toglierebbe sua moglie e i suoi figli dalle privazioni che lentamente li uccidono. Certo, fa il suo dovere, il suo dovere di onest'uomo, e nulla più. Ma perché un tale dovere è semplice, è perciò meno bello, meno grande l'adempierlo? Le circostanze in cui si compie il proprio obbligo non possono forse renderne l'esercizio ancor più meritorio? E poi quest'operaio, che rimane miserabile ma galantuomo accanto a quel tesoro, non rappresenta l'immensa e formidabile pluralità degli uomini, che condannati per sempre alle privazioni, ma tranquilli, industriosi e rassegnati, vedono ogni giorno, senza odio né amara invidia, sfolgorare dinanzi ai loro occhi la magnificenza dei ricchi? E non è nobile e consolante riflettere, che non già la forza né il terrore, ma il buon senso morale soltanto trattiene, frena il terribile oceano popolare, che straripando potrebbe sommergere l'intera società, schernendo le sue leggi e la sua potenza, come il mare infuriato prende a scherno le dighe e i moli? Allora come si potrà non provare simpatia, con tutto il vigore dell'animo e dello spirito, per questi cuori generosi, che chiedono unicamente un po' di posto al sole per tanta fatica, tanto coraggio, tanta rassegnazione? Si torni a quel modello, ahi, troppo reale, di spaventosa povertà, che tenteremo di dipingere nella sua nudità veramente tremenda. Morel non possedeva più che un sottile materasso ed un cencio di coperta, destinato alla vecchia mentecatta, che nel suo stupido e duro egoismo non voleva nessuno nel suo letto. Sul principio dell'inverno, era diventata sclerotica, ed aveva quasi soffocato la più giovane delle sue nipoti, che aveva cercato di metterle al suo fianco una bambina di quattro anni, tisica da molto tempo, e che troppo pativa il gelo sul saccone dove riposava con i fratelli e le sorelle. Tra poco spiegheremo questo sistema di coricarsi adottato dai poveri. Al loro confronto le bestie sono trattate da sibariti: almeno ad esse si cambia lo strame. Tale è il quadro incompleto che presenta la soffitta dell'artigiano, quando pure si può penetrare con la vista fra la penombra, in cui vengono a morire i deboli barlumi della candela. Rasente il muro maestro, meno umido delle altre pareti, è steso al suolo il materasso dove è accovacciata la mentecatta. Siccome nulla può sopportare in testa, i suoi capelli bianchi, tagliati cortissimi, fanno apparire la forma del cranio, con la fronte schiacciata; folte sopracciglia grigie adombrano le profonde occhiaie nelle quali brilla uno sguardo di furore selvaggio. Le guance scarne, livide, con mille grinze, sono appiccicate ai pomelli ed ai lati della mascella. Sdraiata su un fianco, raggomitolata, in modo che il mento quasi le tocca le ginocchia, trema sotto una coperta di lana bigia, troppo piccola per avvolgerla tutta, e che mette in mostra le sue gambe spolpate ed il fondo di una gonnellaccia lacera che ha indosso. Da quel canile esala un lezzo insopportabile. Poco distante dal capezzale della nonna, si estende, ancora in linea parallela alla muraglia, il saccone che serve da letto ai cinque bambini. Ed ecco in che modo: Sono stati fatti due tagli per il largo sulla tela, uno da un capo, uno da quello opposto, poi si sono ficcate le creature nella paglia fradicia e puzzolente: e quella tela serve loro da lenzuolo e da coperta. Due femmine, una ammalata gravemente, battono i denti da un lato; e dall'altro tre maschi. Questi e quelle sono coricati vestiti, se vesti possono chiamarsi i loro cenci. Folte chiome bionde, senza lucentezza, arruffate, che la madre lascia crescere perché li ripari alquanto dal freddo, nascondono in parte le loro facce pallide, patite, angustiate. Uno dei ragazzi, con le dita intirizzite, tira a sé fino al mento la fodera del saccone per coprirsi un po' meglio; uno, nel timore di esporre le mani al gelo, la regge con i denti, che stridono di continuo; il terzo si accoscia in mezzo ai due fratelli. La seconda delle due ragazze, consunta dalla tisi, appoggia languidamente il visetto, già azzurrognolo e livido, sul petto ghiacciato della sorellina, che ha cinque anni, e che invano cerca di riscaldarla fra le sue braccia e la veglia attenta e ansiosa. Sopra un altro pagliericcio, che in fondo a quella topaia è dirimpetto a quello dei fanciulli, giace la moglie del lavorante, ammalata, sfinita da una febbre lenta e da dolori che da più mesi le impediscono d'alzarsi. Madeleine Morel ha trentasei anni. Uno sdrucito fazzoletto di cotone blu, stretto intorno alla fronte, fa risaltare ancora di più il pallore bilioso del magro volto. Un cerchio ceruleo le contorna gli occhi profondi, appannati; e molte crepe le deformano le labbra scolorite. La sua fisionomia afflitta, abbattuta, i lineamenti privi d'espressione, denotano uno di quei caratteri docili, ma sprovvisti di energia, che non contrastano con la sorte avversa, ma cedono, soccombono e si sfogano in gemiti. Debole, inerte, buona a nulla, si era conservata onesta perché onesto era il marito; fosse stata abbandonata a se stessa, le disgrazie l'avrebbero potuta depravare e spingere al male. Amava i figli ed il marito, ma non aveva né il coraggio né la forza di frenare le amare sue querele sulla loro comune povertà. E spesso, l'incisore, il cui costante cruccio era quello di non avere il tempo per il lavoro necessario a mantenere la famiglia, si trovava costretto a sospendere il lavoro per andare a confortare la meschina. Sotto un brutto lenzuolo di grossa tela cruda, bucato, che aveva addosso la moglie, Morel per riscaldarla aveva posto alcuni panni tanto vecchi e rattoppati che non gli era riuscito d'impegnarli. Un fornello, un tegame ed una pignatta sbrecciata, due e tre tazze scheggiate sparse per terra, una conca, un lavatoio di legno, ed una brocca accanto all'angolo del tetto vicino alla porta, così poco salda che il vento la smuoveva ad ogni momento, ecco tutte le masserizie da cucina di quella gente. Il desolante quadro è rischiarato dalla candela, la cui fiamma, agitata dalla brezza che soffia tra le fessure delle tegole, ora manda su quelle miserie qualche barlume vacillante, ed ora fa scintillare di mille fuochi e risplendere di altrettante prismatiche faville il bel gruppo di diamanti e rubini esposto sul banco, dove sonnecchia l'operaio. Per impulso, diremo noi, meccanico, le pupille di quegli sventurati, tutti taciti, tutti desti, dall'ava sino alla più piccola creatura, si fissavano su lui, unica loro speranza, loro sola risorsa; e nel loro innocente egoismo s'inquietavano di vederlo inoperoso ed oppresso dalla fatica già fatta. La madre pensava ai figli. I figli pensavano a sé. La mentecatta evidentemente non pensava a nulla. Quest'ultima però, d'un tratto, si rizzò sulla vita, sopra il petto da scheletro incrociò le lunghe braccia secche e gialle, guardò il lume battendo le ciglia, poi piano si levò, trascinandosi dietro, come un sudario, lo straccio di coperta. Era altissima di statura; la testa, quasi rasa, pareva estremamente piccola, un movimento spasmodico le agitava il labbro inferiore grosso e pendente; quella maschera esprimeva una feroce stupidità. Avanzò verso il banco con circospezione, come un bambino che voglia fare qualche marachella. Giunta alla candela, accostò alla fiamma le tremule mani; e tanto erano magre, che il lume a cui facevano riparo dava loro una specie di livida diafanità. Madeleine dal suo lettuccio badava ad ogni minimo atto della vecchia. Questa, continuando a riscaldarsi alla fiamma, chinava il capo, e considerava con curiosità da folle il luccicare dei rubini e dei diamanti che splendevano sulla tavola. Assorta in questa contemplazione, non mantenne le dita a sufficiente distanza dalla fiamma, e si bruciò. Mandò un urlo rauco. A quel rumore Morel si destò trasalendo, ed alzò il capo con impeto. Egli aveva quarant'anni, un aspetto dolce, intelligente e franco, ma il volto era sfatto per l'indigenza; la barba grigia, lunga da più settimane, gli copriva le guance, butterate dal vaiolo, alcune rughe premature gli apparivano sulla fronte già calva, ed aveva rosse le palpebre per lo strapazzo e le veglie protratte. Uno di quei fenomeni, però frequenti presso gli artigiani di complessione debole e dediti al lavoro sedentario, che costringe a rimanere tutto il giorno in una posizione quasi immutata, aveva deformato la sua gracile persona. Obbligato di continuo a star curvo sul banco e chinarsi sul lato destro per dar moto alla mola, si era per così dire pietrificato, ossificato in quell'attitudine, che teneva per dodici-quindici ore di seguito, e perciò stava curvo e piegato da una parte. Poi, il suo braccio destro, esercitato senza posa dal faticoso maneggio della ruota, aveva preso un grandissimo sviluppo muscolare, mentre il braccio e la mano sinistra, inerti sempre ed appoggiati sul legno per presentare le faccette dei diamanti all'azione del bulino, erano ridotti ad uno stato di magrezza sorprendente; le gambe, secche, quasi annientate dalla totale mancanza d'esercizio, potevano a malapena sostenere quel corpo spossato, la cui sostanza, vitalità, forza muscolare sembrava del tutto concentrata nella sola parte che il lavoro metteva sempre in moto. E perciò Morel diceva con dolorosa rassegnazione: "Se mi curo di mangiare non è tanto per me come per rinvigorire il braccio che gira la ruota." Svegliatosi all'improvviso, l'incisore si trovò faccia a faccia con la suocera pazza. "Che avete? che volete, mamma?" le disse. Poi temendo di destare la famiglia, che supponeva immersa nel sonno, aggiunse più sommessamente: "Andate a letto, mamma. Non fate chiasso; Madeleine e i bambini dormono." "Io non dormo, cerco di riscaldare Adèle" disse la maggiore delle figlie. "Ho troppa fame per poter dormire" disse uno dei maschi. "Ieri sera non toccava a me andare a cena come i miei fratelli dalla signora Rigolette." "Poverini!" fece Morel, angustiato. "Credevo che dormiste, almeno!" "Morel!" chiamò la moglie. "Avevo paura di svegliarti, se no ti avrei chiesto un po' d'acqua. Ho sete, mi torna la febbre!" "Subito" rispose l'operaio. "Ma prima bisogna che io faccia andare a letto tua madre... Su, via, lasciate stare le mie gemme" diceva alla vecchia, che voleva impossessarsi di un rubino che, con il suo fulgore, attirava la sua attenzione. "Andate dunque a letto, mamma!" ripeté. "Questo, questo" disse la folle, mostrando la gemma che bramava. "Badate che mi arrabbio!" replicò Morel più forte per spaventare la suocera, e le respinse adagio la mano. "Dio mio, Dio mio, come ho sete, Morel!" mormorò Madeleine. "Vieni a darmi da bere!" "Ma come vuoi che faccia, anch'io? Non posso lasciare che tua madre tocchi questa roba... perché mi perda un brillante, come un anno fa! E Dio sa, quanto ci costa quel brillante, e quanto ci costerà ancora." E l'incisore si pose afflittissimo la mano sulla fronte. Poi, rivolto a uno dei figli: "Félix, va' a dar da bere a tua madre, giacché non dormi." "No, no, aspetterò... Prenderebbe freddo" soggiunse Madeleine. "Eh sì, non avrò più freddo fuori, che dentro al saccone" disse il ragazzo, alzandosi. "Ma insomma, la smettete?" gridò Morel, con voce minacciosa, per scacciare la vecchia, che non voleva scostarsi dal banco e si ostinava a volere impadronirsi di una di quelle gioie. "Mamma, l'acqua della brocca è ghiacciata" gridò Félix. "Dunque rompi il ghiaccio" rispose Madeleine. "È troppo alto, non posso..." "Morel, rompi il ghiaccio della brocca" continuò Madeleine, con voce dolente e d'impazienza. "Poiché non ho altro da bere che acqua, almeno che la possa bere... Mi lasci morir di sete!" "Oh, mio Dio, mio Dio, che pazienza. Come vuoi che faccia? Ho tua madre qui, addosso" esclamò lo sventurato lavorante. E non riusciva a sbarazzarsi della mentecatta, che cominciando ad irritarsi della resistenza oppostale emetteva una specie di sordo brontolio. "Chiamala tu" disse Morel alla consorte "qualche volta ti dà retta, a te!" "Mamma, andate a letto... Se siete buona, vi darò del caffè, che vi piace tanto." "Questo, questo" replicò la vecchia, cercando di afferrare il rubino che desiderava. Morel la tirò in là con buona maniera, ma inutilmente. "Dio buono, sai pure che non la finirai più con lei se non le fai paura con la frusta" esclamò Madeleine. "Non c'è altro mezzo per farla star quieta." "Eh, bisognerà far così; ma benché sia pazza, minacciare con la sferza una vecchia mi ripugna" fece Morel. E, volgendosi alla suocera, che tentava di morderlo, e che egli tratteneva con una mano, strillò con voce terribile: "Badate, prendo la frusta, se non andate a letto subito." Ed anche quelle minacce furono vane. Prese, di sotto al banco, un frustino, lo fece schioccare, e ripeté alla folle: "A letto subito! a letto!" Allo schiocco della frusta, la vecchia si allontanò subito dalla tavola. Dopo si fermò, borbottò fra i denti, e diede occhiate di collera al genero. "A letto! a letto" continuò questi avanzando e facendo di nuovo schioccare il frustino. Allora la folle, adagio adagio, e camminando all'indietro, se ne tornò al suo lettino, mostrando i pugni al genero. Morel, che desiderava porre fine alla scena crudele per portare da bere alla consorte, avanzò vicinissimo all'ottuagenaria, agitò per aria di nuovo la sferza, senza toccarla però, e le ripeté in tono di minaccia: "A letto, subito!" La vecchia, spaventata, si mise a levar altissime grida, corse a gettarsi sul saccone e vi si accucciò come un cane, senza cessare le urla. I bambini sbigottiti, credendo che il loro padre avesse percosso la vecchia, gli gridavano piangendo: "Babbo, non picchiare la nonna! Non la picchiare!" È impossibile descrivere il triste effetto di quella scena notturna, accompagnato dalle grida supplichevoli dei bambini, dalle strida furibonde della folle, e dagli affannosi lamenti della moglie dell'incisore. 19. Il debito. Morel si era trovato spesso in circostanze simili a quelle di cui abbiamo fatto il racconto; ma questa volta, disperato e buttando la sferza sotto il banco, esclamò: "Oh, che vita! che vita!" "È colpa mia, se mia madre è scema?" disse piangendo Madeleine. "È colpa mia?" replicò Morel. "Che cosa chiedo io? Di ammazzarmi sul lavoro per tutti voialtri. Giorno e notte son qui a logorarmi la salute, non mi lagno, finché avrò forza andrò avanti, ma non posso nemmeno fare il mio mestiere, e intanto custodire la pazza, l'ammalata e i ragazzi... No, non c'è giustizia in cielo! Non c'è giustizia. Troppi tormenti per un uomo solo" continuò con un tono che straziava il cuore. E abbattuto, cadde sullo sgabello, con la testa nascosta fra le mani. "Se non hanno voluto prender mia madre all'ospedale perché non era abbastanza pazza, che ci ho da far io? Su, via!" domandò Madeleine nel suo tono strascicato, flemmatico e lamentevole. "Quando ti sarai tormentato per cose che non puoi rimediare, a che ti gioverà?" "A nulla" disse Morel, e si asciugò gli occhi "a nulla, hai ragione... Ma quando tutti ci danno addosso non si è padroni di sé, qualche volta." "Oh, Dio mio, Dio mio, come ho sete! Ho i brividi e la febbre mi brucia" fece Madeleine. "Aspetta, ora ti darò qualcosa." Morel andò a prendere la brocca sotto il letto, e, dopo avere, con difficoltà, rotto il ghiaccio che copriva l'acqua, riempì una tazza, e si accostò al lettuccio della moglie, che tendeva verso di lui le mani ansiosa. Ma, avendo riflettuto un momento, le disse: "No! Sarebbe troppo fredda, e, con l'impeto della febbre, ti farebbe male..." "Mi farà male? Meglio così! Dunque dammela" riprese Madeleine con amarezza "sarà finita più presto, ti sbarazzerai di me, non dovrai pensare altro che alla pazza e ai bambini. L'ammalata non ci sarà più..." "Perché mi parli così, Madeleine? Non me lo merito" rispose mestamente Morel. "Animo, non mi affliggere, è già molto se mi rimane un po' di ragione e di fiato per lavorare, non ho la testa ben ferma... Non ci resisterei. E allora che sarebbe di voi tutti? Io parlo per voi, se si trattasse soltanto di me, penserei poco all'indomani. Grazie a Dio, il fiume c'è per tutti!" "Povero Morel!" disse intenerita la donna. "È vero, ho avuto torto di dirti con rabbia che ti vorrei levare l'imbarazzo... Non te ne avere a male, l'intenzione era buona. Sì, perché tanto, io vi sono inutile, a te e ai nostri figli... Da sedici mesi sono in un letto... Oh, Dio mio, come ho sete! Te ne prego, dammi da bere!" "Ora, cerco di scaldare la tazza con le mani." "Quanto sei buono! E io ti dico di quelle cose!" "Poveretta, tu patisci, e questo inasprisce il carattere... Dimmi tutto quello che vuoi, ma non che vorresti mi sbarazzassi di te!" "Ma a che ti servo?" "E a che servono i nostri figli?" "A darti più da fare che mai!" "Sicuro, ma per voi trovo la forza di starmene sul lavoro qualche volta venti ore di seguito, tanto che sono diventato deforme e storpio... Credi che se no, farei, per amore solo di me, il mestiere che faccio? Oh, no, la vita non è tanto bella: la finirei ben io!" "Come succederebbe a me" soggiunse Madeleine "se non fossero le nostre creature. Da molto tempo ti avrei detto: "Morel, tu ne hai abbastanza, e anch'io; il tempo d'accendere una palettata di carbone, in un braciere, e non si pensa più alla miseria"... Ma quelle creature!" "Dunque vedi che servono a qualcosa!" disse Morel ingenuamente. "Animo, tieni, bevi, ma a piccoli sorsi, perché è sempre fredda..." "Oh, grazie!" disse Madeleine, ingoiando l'acqua con avidità. "Basta, basta..." "Era troppo gelata, aumentano i brividi" proseguì la consorte, rendendogli la tazza. "Dio santo, te l'avevo detto, ora soffri..." "Non posso nemmeno più tremare, mi pare di essere tutta intirizzita, come un pezzo di ghiaccio..." Morel si tolse la casacca, la mise sui piedi della moglie, e restò a torso nudo. Lo sventurato non aveva camicia. "Ma adesso ti gelerai, Morel." "Tra un momento, se mi sento male, mi rimetterò la giacchetta." "Pover'uomo! Oh, hai ragione, non c'è giustizia! Che abbiamo fatto per esser così disgraziati?" "Ognuno ha i suoi guai, i grandi come i piccoli." "Sì, ma i grandi hanno guai che non avviliscono loro lo stomaco e non gli fanno battere i denti. Senti, quando penso che con il prezzo di uno di questi diamanti che tu pulisci ci sarebbe da vivere comodamente, noi e i nostri figli, inviperisce l'anima! Ma a che servono a loro quei diamanti?" "Se continuamente dovessimo chiedere: "IA che serve questo?", oh, sarebbe lunga... È come se tu domandassi: "Che gli giova, a quel signore che la Pipelet chiama il Comandante, di aver preso a pigione e ammobiliato il primo piano di questo caseggiato, dove non viene mai? A che gli giova averci buoni materassi, buone coperte, se abita fuori di qui?"." "È vero, sì, vi sarebbe da riscaldare, per un pezzo, più d'una povera famiglia come la nostra... Senza contare che ogni giorno la Pipelet accende il fuoco perché l'umidità non gli sciupi la mobilia... Tanto calore buttato via, mentre noi si trema! Ma già mi risponderai: "Noi non siamo mobili". Oh, quei ricchi, sono così duri!" "Eh, duri quanto gli altri, Madeleine. Ma non sanno, capisci, che cos'è la miseria. Nascono felici, vivono felici, muoiono felici: perché vuoi che badino a noi? E poi, ti ripeto, non sanno. Come hanno da farsi un'idea delle privazioni degli altri? Hanno fame? Meglio, pranzano con miglior pro. Fa freddo? Bene, lo chiamano "una bella brinata"! È naturale. Se vanno fuori a piedi, tornano subito a casa accanto al caminetto, e il freddo fa sì che trovino più grato il fuoco. Dunque non possono compiangerci molto, poiché a loro il ghiaccio e la fame danno piacere. Non sanno, vedi, non sanno, e noi al loro posto si farebbe lo stesso." "Sicché la povera gente è meglio di tutti loro, poiché si danno la mano l'un con l'altro... Quella brava signora Rigolette, che tanto spesso ci ha vegliati, me o i bambini, durante le malattie, portò ieri Pierre e Jérôme a cena con lei. E la sua cena è ben poca cosa: un bicchier di latte e un po' di pane. Alla sua età c'è buon appetito; certo si sarà privata..." "Brava ragazza! Sì, è buona davvero! E perché? Perché conosce gli stenti. È come dico sempre: "Oh, se i ricchi sapessero!"." "E quella signorina, che venne l'altro ieri, tutta sbigottita a domandarci se avevamo bisogno di qualcosa, ora sa benissimo, quella, che cosa sono i disgraziati, eppure non è tornata..." "Forse tornerà: perché, nonostante la faccia spaventata, aveva un aspetto molto dolce e da persona per bene." "Già con te, una volta che uno è ricco ha sempre ragione. Pare che i ricchi siano fatti d'altra pasta che noi." "Non è questo" riprese con dolcezza Morel "al contrario, io sostengo che hanno i loro difetti, e noi i nostri. Il male è che non sanno... E anche che ci sono, per esempio, molti agenti per scoprire i delinquenti che hanno commesso dei delitti, e non ci sono agenti per scoprire gli onesti operai, carichi di famiglia, che sono nell'estrema indigenza, e che, per mancanza di un po' di soccorso, a volte si lasciano tentare... Va bene punire il male, ma sarebbe meglio impedirlo. Siete stato probo sino ai cinquant'anni, ma la povertà e la fame vi spingono a mal fare, ed ecco un criminale di più... All'opposto, se si fosse saputo... Ma a che serve riflettere a questo? Il mondo è come è. Io sono misero e disperato, parlo così; se fossi nell'opulenza, discorrerei di feste e divertimenti... Insomma, moglie mia, come stai?" "Sempre al solito... Non mi sento più le gambe. Ma tu tremi! Ripiglia la tua giacchetta. Spegni la candela, che si consuma per nulla, è giorno..." Infatti, una pallida luce, filtrando con difficoltà attraverso la neve che copriva il vetro dell'abbaino, cominciava a spandersi nell'interno della soffitta, e rendeva l'aspetto di questa ancora più squallido. L'ombra della notte velava almeno la visione della sporcizia e del disordine. "Aspetterò che sia più chiaro per rimettermi a lavorare" disse l'operaio, sedendo sulla sponda del pagliericcio della consorte, ed appoggiando la fronte fra le mani. Dopo un momento di silenzio, Madeleine gli domandò: "Quando deve tornare la signora Mathieu a prendere le pietre lavorate?" "Questa mattina. Non ho più che da levigare e pulire la faccetta di un falso diamante." "Falso? Tu, che non ti occupi che di pietre fini, nonostante quel che credono nel caseggiato!" "Come, non sai? Ah, sì, tu dormivi quando venne la signora Mathieu, l'altro giorno. Mi diede sei diamanti falsi, pietre del Reno, da tagliare per l'appunto della stessa grossezza e nello stesso modo di quelle fini, e sono quelle insieme ai rubini... Non ho mai visto brillanti di una più bell'acqua. Quei sei valgono di certo più di sessantamila franchi." "E perché ti fa fare quelle imitazioni?" "Una gran signora, alla quale appartengono i rubini, una duchessa, se non sbaglio, ha incaricato il gioielliere Baudoin di vendere il suo gioiello, e di fargliene fare invece uno di pietre false. La Mathieu, sensale del signor Baudoin, me lo raccontò nel portarmi le vere, perché io dessi alle altre lo stesso taglio e la stessa forma. Essa ha dato simile incombenza a quattro incisori, perché ci sono da tagliare quaranta o cinquanta pietre, ed io non potevo farle tutte; dovevano esser pronte questa mattina, e ci vuol tempo a Baudoin per incastonarle. La signora Mathieu mi diceva che spesso le signore sostituiscono così ai loro diamanti delle pietre del Reno." "Lo vedi? Le gioie false fanno lo stesso effetto che le vere, e le grandi dame, che se ne ornano solamente per gala, non avrebbero mai l'idea di sacrificare uno di quei diamanti per sollevare dei poveretti come noi!" "Povera moglie! Sii ragionevole... I dispiaceri ti rendono ingiusta. E chi c'è che sappia che noi, Morel, siamo tanto bisognosi?" "Oh, che uomo, che uomo! Se ti tagliassero a pezzi, diresti sempre grazie!" Morel si strinse nelle spalle. "E quanto ti darà, stamattina, la signora Mathieu?" "Niente, poiché ho avuto centoventi franchi anticipati." "Niente? Ma, l'altro ieri terminò l'ultimo franco che ci restava!" "Sì!" disse Morel, abbattuto. "E come faremo?" "Non so." "Il fornaio non ci vuol fare più credito..." "Eh lo so... Ieri presi a prestito un quarto di pane dalla signora Pipelet." "La signora Burette non ci potrebbe prestare qualche cosa?" "Ti pare? Adesso che ha tutte le nostre robe in pegno, su cosa ci può dar denaro? sui nostri figli?" domandò Morel, con un amaro sorriso. "Ma, mia madre, i ragazzi e tu mangiaste ieri solamente una libbra e mezzo di pane fra tutti... Non potete morire di fame... Già, in sostanza, è colpa tua; non hai voluto farti segnare quest'anno all'Ufficio di carità." "Si segnano soltanto quelli che hanno dei mobili, e noi non ne abbiamo più! Ci considerano come gente che stiano a pensione. E per essere ammessi nelle sale dell'asilo bisogna che i bambini abbiano almeno un camiciotto, e i nostri figli non hanno addosso che stracci. E bisognava andare e venire almeno venti volte all'Ufficio di Carità, giacché non avevamo protezioni. Ci avrei perduto più di quel che avremmo incassato." "Ma dunque come si fa?" "Può essere che quella signora di ieri non si scordi di noi." "Oh, sì, facci assegnamento! Ma la signora Mathieu t'impresterà ben cinque franchi; tu lavori per lei da dieci anni, non può essere che pianti in una simile miseria un artigiano onorato, carico di famiglia." "Non credo che ci possa fare un altro prestito. Fece quanto poteva, anticipandomi, a poco a poco, centoventi franchi. Per lei è una gran somma. Perché è sensale di gioie, e in certe occasioni ne possiede per il valore di cinquantamila lire, non per questo è benestante. Quando guadagna cento franchi al mese, è anche troppo contenta, giacché ha molte spese, e due nipoti da educare. Cento franchi per lei fanno come cinque per noi... Essendo già mia creditrice di molto, non può levare il pane di bocca a sé ed ai suoi..." "Vedi che cos'è lavorare per i mezzani invece che per i gioiellieri? Qualche volta questi stanno meno a badare... Ma tu ti fai sempre mangiare la torta dagli altri: è colpa tua!" "Colpa mia?" esclamò lo sventurato, esacerbato da quell'assurdo rimprovero. "Non è forse tua madre, sì o no, la causa di tutte le nostre miserie? Se non si fosse dovuto pagare il diamante che ha perduto, non saremmo in queste condizioni: si riscuoterebbe il prezzo delle mie giornate, si avrebbero i mille e cento franchi che ritirammo dalla cassa di risparmio e non dovremmo rimborsare i mille e trecento imprestatici da quel signor Jacques Ferrand, che sia pure maledetto!" "Tu ti ostini ancora a non chiedergli nulla, a quello là! E poi, è tanto avaro, che forse non ci darebbe niente. Ma, insomma, tanto si prova....." "A lui, rivolgermi a lui?" gridò Morel. "Piuttosto vorrei bruciare a fuoco lento! Senti, via, non mi parlare di quell'uomo, che mi faresti diventar matto." Nel proferire queste parole, la fisionomia dell'operaio, di solito tranquilla e rassegnata, ebbe un moto di cupa ribellione. Sulla faccia pallida apparve un lieve rossore. Si alzò bruscamente dal saccone, e si mise a camminare per la soffitta a passi concitati. "Io non sono cattivo" esclama "in vita mia non ho mai fatto male a nessuno; ma a quel notaio!, oh, gli auguro tanto male quanto ne ha fatto a me!" Poscia, mettendosi ambe le mani sulla fronte, seguitò: "Mio Dio! perché una tristissima sorte, che non ho meritata, vuole che io ed i miei siamo con i piedi e con le mani legati in balia di quell'ipocrita? E avrà diritto di far uso della sua ricchezza per rovinare, corrompere e desolare?" "Bravo, bravo!" disse Madeleine "scatenati contro di lui; ti gioverà di molto quando ti avrà fatto carcerare, come può, da un giorno all'altro... per il biglietto di mille e trecento franchi, per il quale ha ottenuto sentenza da tre mesi... Ti tiene come un uccellino legato a un filo di refe... Lo detesto anch'io quel notaio, ma poiché siamo sotto di lui!... bisogna pure..." "Lasciar disonorare nostra figlia, non è così?" urlò l'incisore con voce tonante. "Dio buono! Sta' zitto... i piccini son desti... ti sentono..." "Eh, via, via! tanto meglio!" rispose Morel con una terribile ironia "sarà un bell'esempio per le due nostre figliole più piccole... Ci si prepareranno; non c'è altro che un giorno gliene salti il capriccio a quel notaio!... Noi siamo sotto di lui? Come tu dici sempre... Su, ripetilo, che mi può far carcerare: su, parla schietto... gli si ha da abbandonare nelle mani nostra figlia, non è vero?" E l'infelice terminò la sua imprecazione con forti singhiozzi; giacché l'ottima e onesta sua natura non poteva reggere un tono pieno di sarcasmo. "Oh, creature mie" continuò, prorompendo in pianto "povere mie creature! Louise mia, mia buona e bella Louise! Troppo bella, troppo! È per questo che sei così sfortunata. Se non fossi stata tanto bella, quel maledetto non mi avrebbe proposto di prestarmi il denaro. Io sono galantuomo e laborioso, il gioielliere mi avrebbe accordato del tempo, non mi sarei obbligato con quel vecchio mostro, e non avrebbe potuto abusare del favore che ci fece per procurare disonore a mia figlia. Io non l'avrei lasciata un giorno in casa sua... Ma per forza, per forza! Mi tiene nelle sue grinfie... Oh, miseria, miseria, quanti oltraggi fai ingoiare!" "Ma allora cosa avremmo potuto fare? Disse a Louise: "Se te ne vai, faccio mettere tuo padre in prigione!"." "Sì, le dà del tu come ad una sguattera!" "Se non fosse che questo, si farebbe una ragione; ma se lei pianta il notaio, lui ti farà imprigionare; e quando sarai in carcere, che sarà di me, sola, con i figli e mia madre? Qualora Louise guadagnasse venti franchi al mese in un altro posto, ci si potrebbe campar sopra in sei persone?" "Già, per campare lasciamo che disonori Louise..." "Ma tu esageri sempre! Il notaio le fa la corte, è vero, lei ce lo ha detto, ma è onesta, lo sai." "Ah, sì, è onesta, buona, attiva! Quando perdemmo quel diamante, vedendoci nelle ristrettezze, volle impiegarsi per non esserci d'aggravio; non te lo dissi, ma quanto soffrii. Lei a servire, maltrattata, umiliata, tanto altera per natura, ché noi ridendo... Te ne ricordi? Si rideva allora!... La chiamavamo la principessa, perché diceva sempre che, a forza di pulizia, avrebbe trasformato la nostra soffitta in un piccolo palazzo... cara ragazza, sarebbe stato stupendo tenerla presso di noi, anche avessi dovuto passare le notti al lavoro... E quando vedevo quel buon visetto colorito, quei begli occhi scuri, davanti a me, là accanto al mio banco, e l'ascoltavo cantare, mi pareva minore la fatica... Povera Louise, così laboriosa e tanto allegra! Perfino di tua madre riusciva a fare quel che voleva. Eh, se vi guardava, se vi parlava, non si poteva fare a meno di fare a suo modo... E te, come ti assisteva! come ti svagava! E dei fratelli e delle sorelline, quanto aveva cura! Trovava tempo per far tutto... E così con Louise, tutta la nostra felicità, tutto, tutto è sparito!" "Via, Morel, non mi rammentare queste cose, mi spezzi il cuore" disse Madeleine, fondendosi in lacrime. "E pensare che forse quel vecchio mostro... Oh, vedi, a questa idea mi gira la testa, mi prende la voglia di andare ad ammazzarlo, e poi ammazzare me stesso." "E noialtri come si resterebbe? E poi, te lo torno a dire, tu esageri... Il notaio glielo avrà forse detto, così per scherzo... Va alla messa, tutte le domeniche, frequenta molti preti... Ci sono tanti che dicono che è più sicuro il denaro depositato da lui, che alla Cassa di Risparmio." "E che mi prova questo? Ch'è ricco e impostore. Io conosco Louise, è onesta, sì, ma ci ama come nessuno può mai amare: il suo cuore gronda sangue per la nostra indigenza. Sa che, senza di me, morreste tutti di fame; e se quello l'ha minacciata di farmi carcerare, la disgraziata sarà stata forse capace... Oh, la mia povera testa! C'è da impazzire." "Dio mio, se così fosse successo, il notaio le avrebbe dato denaro e fatto dei regali, e, certo, lei non se li sarebbe tenuti per sé, ce ne avrebbe fatto approfittare..." "Taci, non capisco nemmeno come tu possa avere simili pensieri... Louise accettare, Louise..." "Ma non per lei, per noialtri..." "Taci, mi fai abbrividire! Senza di me, non so cosa saresti diventata, e anche le mie creature, con idee di questa specie..." "Che male c'è in quel che ho detto?" "Nessuno." "Ebbene, perché hai paura?" Morel spazientito interruppe: "Ho paura perché osservo che, da tre mesi a questa parte, tutte le volte che Louise viene qui e mi abbraccia, arrossisce." "Dal piacere di vederti!" "O dalla vergogna... Si fa sempre più afflitta..." "Perché ci vede sempre più infelici... E poi, anzi, quando le parlo del notaio, mi dice che ora non la minaccia più d'imprigionarti." "Sì, ma a che prezzo non la minaccia più? Lei non lo dice, e arrossisce nell'abbracciarmi... Oh, mio Dio! È certo già terribile se un padrone può dire a una brava ragazza che dipende da lui: "Vieni a letto con me o ti mando via! E se qualcuno viene a domandare informazioni di te, risponderò che sei una pessima impiegata, per impedire che tu possa andare a lavorare da altri". Ma dirle: "Vieni a letto, o farò mettere tuo padre in carcere" e questo sapendo che sul lavoro di quel padre ha il pane un'intera famiglia, ah, è mille volte più infame!" "E pensare che con uno di questi diamanti che sono sul tuo banco, potresti rimborsare il notaio, far uscire di casa sua la nostra figliola e tenerla qui da noi" disse lentamente Madeleine. "Anche se tu mi ripetessi mille volte la stessa cosa, a che gioverebbe? Sicuro, se fossi ricco non sarei misero" fece Morel, con dolorosa impazienza. La probità era talmente naturale, e, per così dire, organica, in quest'uomo, che non gli si affacciava alla mente che la consorte, abbattuta, inasprita dalle sciagure, potesse avere qualche secondo fine e volesse mettere in tentazione la irreprensibile sua integrità. Egli riprese a dire amaramente: "Bisogna rassegnarsi! Beati quelli che possono avere i figli presso di sé e difenderli da ogni insidia... Ma una ragazza del popolo, chi la garantisce? Nessuno. È in età da guadagnare qualche cosa? Va la mattina al negozio, e torna la sera: e intanto la madre lavora da una parte e il padre dall'altra. Il tempo è il nostro capitale, e il pane è così caro, che non ci resta tempo per badare alla condotta delle nostre creature... E poi si declama contro il mal costume delle ragazze povere! Come se i genitori avessero i mezzi di tenersele al fianco, o agio di sorvegliarle, quando sono fuori. Le privazioni sono un nulla per noi, in confronto al dispiacere di lasciare la moglie, le figliole, nostro padre... A noi misere genti, la vita in famiglia sarebbe utile e consolante. Ma appena i nostri ragazzi sono in età di ragione, ci tocca separarci da loro!" In quel momento bussarono con forza alla porta della soffitta. 20. La sentenza. L'incisore, attonito, si alzò e corse ad aprire. Due uomini entrarono nella soffitta. Uno, magro, alto, faccia ignobile e piena di bolle, con grosse fedine tra nere e bigie, teneva in mano una mazza con il piombo in fondo, portava un cappellaccio sgualcito ed un lungo soprabito verde, inzaccherato di mota, abbottonato ben stretto; il bavero, di velluto nero consunto, lasciava scorgere un collo lungo, rosso e spelacchiato come quello d'un avvoltoio. Si chiamava Malicorne. L'altro, più piccolo, di faccia non meno abbietta, pelo rossiccio, grosso e panciuto, era vestito con una sorta di lusso ridicolo. Bottoncini di brillanti gli fermavano le pieghe della camicia, di una pulizia alquanto dubbia; una collana d'oro gli serpeggiava sul corpetto a quadretti di drappo vecchissimo, su cui aveva il soprabito di un bigio quasi giallo. Si chiamava Bourdin. "Oh, che puzzo di miseria e di morte c'è qui!" disse Malicorne, fermandosi sulla soglia. "Certo, non c'è fragranza di muschio! Che clienti!" soggiunse Bourdin, con un gesto di disgusto e disprezzo. Poi avanzò verso l'incisore, che lo guardava con sorpresa e indignazione. Attraverso l'uscio socchiuso si vide passare il viso maligno, attento e scaltro di Tortillard, che, avendo seguito i due senza che essi lo sapessero, se ne stava ad osservare, ascoltando. "Che volete?" disse bruscamente Morel, sdegnato per le villanie di quei due. "Jérôme Morel?" domandò Bourdin. "Sono io..." "Lavorante in pietre?" "Sono io." "Di certo?" "Certo che sono io! Mi avete seccato! Che volete? Spiegatevi o andatevene!" "Assai garbato, eh? Grazie. Ehi, Malicorne" disse l'uomo, volgendosi al collega "non ci sono belle cose... non è come dal visconte di Saint-Remy!" "Sì, ma quando vi sono belle cose si trova l'uscio chiuso come in rue de Chaillot. Il passerotto si era involato la sera prima, e anche ben ripulito! Al contrario, i disgraziati come questo rimangono fissi nel canile." "Lo credo! Hanno gusto a esser carcerati per avere da mangiare." "E bisogna che il creditore sia un buon gonzo! Gli costerà più del valore... Ma basta, questo è affar suo." "Oh, sentite" disse Morel, irritato "se non foste ubriachi, come sembrate, mi fareste montare in collera. Uscite di casa mia immediatamente." "Ah, ah, ah! È curioso lo sciancato!" esclamò Bourdin, facendo un'insultante allusione alla deformità dell'operaio. "Dimmi un po', Malicorne, ha tanto muso da chiamar casa sua una topaia dove non alloggerei neppure il mio cane!" "Ma, Dio mio" gridò Madeleine, così sbigottita che ancora non aveva potuto proferire una parola "chiama aiuto! Saranno ladri... Bada ai tuoi diamanti." Infatti, vedendo quei due sconosciuti dalla faccia sinistra avvicinarsi maggiormente al banco dov'erano le pietre, Morel temette qualche malvagia intenzione, corse alla tavola, e con le mani coprì le sue gioie. Tortillard, sempre in agguato e spiando, tenne a memoria le parole di Madeleine, notò l'atto del marito, e poi pensò fra sé: "To', to', dicevano che l'incisore lavorava di falso... Se quella roba fosse falsa, non avrebbe paura che gliela rubassero. È bene saperlo... Dunque la comare Mathieu, che viene qui tanto spesso, è mezzana di roba buona, dunque sono diamanti veri che ha nello scatolino... È bene saperlo: lo dirò alla Chouette, alla Chouette, alla Chouette" ripeté il figlio di BrasRouge con la sua cantilena. "Se non ve ne andate da casa mia, chiamo la guardia" fece Morel. I ragazzi, sgomenti, si misero a piangere, e la vecchia mentecatta si rizzò a sedere. "Se qualcuno ha diritto di chiamare la guardia siamo noi... Capite, signor sciancato?" disse Bourdin. "Giacché deve prestarci man forte ed arrestarvi se fate il difficile" aggiunse Malicorne. "Non abbiamo con noi il giudice di pace, è vero, ma se vi preme godere della sua compagnia, ve ne faremo avere uno caldo e bollente, che esce appena dal forno... Bourdin vallo a chiamare." "In prigione? Io?" grida Morel meravigliato. "Sì, a Clichy..." "A Clichy?" ripeté atterrito l'operaio. "Che testa dura ha questo!" disse Malicorne. "Nel carcere dei debitori... Vi piace più a questo modo?" continuò Bourdin. "Ma voi siete?... Come?... il notaio?... Ah, Dio mio!" E l'operaio, pallido come un morto, cadde sullo sgabello senza poter dire altro. "Siamo guardie giudiziarie per aggiustarvi a modo, se ci bastasse l'animo... Adesso capite, amicone?" "Morel, il biglietto del padrone di Louise... Siamo rovinati!" disse Madeleine. "Ecco la sentenza" proseguì Malicorne, traendo dal portafogli un atto bollato. Dopo avere biascicato, secondo l'uso, una parte dell'istanza in modo quasi da non capirsi, ne proferì chiara la fine, purtroppo decisiva per l'operaio: "E giudicando inappellabilmente, il tribunale condanna il signor Jérôme Morel a pagare al signor Pierre Petit-Jean, negoziante(7), con tutte le vie di diritto, ed anche con arresto personale, la somma di franchi mille e trecento, con più gli interessi a decorrere dalla data del protesto, e la condanna alle spese. Fatto e giudicato in Parigi addì 13 settembre 1838." "E Louise, allora? e Louise?" esclamò Morel, quasi fuori di sé, senza badare a quella lettura. "Dov'è? Dunque è uscita dalla casa del notaio? Poiché lui mi fa carcerare... Louise... Dio mio, che ne è di Louise?" "Che Louise?" domandò Bourdin. "Lascialo stare" replica brutalmente Malicorne "non vedi che dà i numeri? Animo!" e si accostò all'incisore. "In piedi, e in marcia! Su svigniamocela, ho bisogno di pigliar aria... Qui ci si appesta!" "Morel, non ci andare, difenditi!" gridò Madeleine, smaniosa. "Ammazzali, quei bricconi! Oh, come sei vile! Ti lascerai condurre via da loro? ci abbandonerai?" "Signora, faccia senza complimenti" disse in tono sardonico Bourdin "ma se il caro sposino alza la mano addosso a me, lo schiaccio." Morel, preoccupato per Louise, non udiva ciò che gli altri dicevano. Ad un tratto, un lampo di amarissima allegrezza gli brillò sul viso. "Louise non è più dal notaio!" esclamò. "Vado volentieri in prigione!" Poi, girando gli occhi intorno: "E mia moglie? e sua madre, gli altri miei figli, chi li manterrà? Nessuno vorrà affidarmi delle gioie per lavorarle in prigione. Crederanno che io ci vada per cattiva condotta. Ma dunque il notaio vuole la mia morte, la morte dei miei?" "Una buona volta, la finiamo?" grida Bourdin. "Oh! ci siete venuto a noia! Vestitevi, e via." "Miei buoni signori, scusatemi per quel che ho detto prima" pregava Madeleine dal suo letto. "Non avrete cuore di portar via Morel... Che volete che io faccia con i miei cinque figli e mia madre, che è matta? Vedete, eccola là, rannicchiata sul materasso... È matta, miei buoni signori, è matta!" "La vecchia rapata?" "Ma certo, è vero, è rapata" schernì Malicorne "credevo avesse un berrettino bianco!" "Figliuoli, buttatevi in ginocchio davanti a quei buoni signori!" gridò Madeleine, volendo, come ultimo tentativo, intenerire gli sbirri. "Pregateli di non portar via il vostro papà, che è il nostro solo sostegno..." Malgrado gli ordini della madre, i bambini, intimoriti, piangevano, e non osavano muoversi dal pagliericcio. Al chiacchierio insolito, all'aspetto degli sgherri che non conosceva, la mentecatta cominciò a gettare spaventose urla, ritraendosi verso il muro. Morel sembrava estraneo a quanto accadeva; il colpo era per lui inaspettato e terribile; le conseguenze di quell'arresto gli parevano così tremende, che nemmeno vi poteva credere. Indebolito da privazioni d'ogni genere, gli mancavano le forze: era pallido, stralunato, seduto sullo sgabello, abbattuto, con le braccia penzoloni, e la testa china sul petto. "Orsù, corpo di un diavolo! La finite?" grugnì Malicorne. "Credete che siamo qui per divertirci? Camminate, o vi lego." E mise una mano sulla spalla al lavorante, e lo spinse rozzamente. La minaccia ed il gesto causarono ai bambini il massimo spavento; i tre piccoli maschi sbucarono dal saccone mezzi nudi, e vennero lacrimando a gettarsi ai piedi delle guardie giudiziarie, a mani giunte, e supplicando con voce che avrebbe impietosito una tigre. "Grazia! grazia! Non ammazzate il nostro babbo!" Al vedere quegli infelici bambini tremanti di freddo e di paura, Bourdin, nonostante la sua naturale crudeltà e l'assuefazione ad incontri consimili, fu quasi commosso. Lo spietato suo compagno liberò con mal garbo la gamba dalle braccia dei ragazzi, che gliela stringevano, raccomandandosi. "Via, monelli!... Che maledetto mestiere, se si avesse a far sempre con dei pezzenti di questa razza!" Un orribile episodio rese anche più tetra la scena. La maggiore delle bambine, rimasta nel pagliericcio con la sorella ammalata, chiamò d'un tratto: "Mamma, mamma, non so che cos'ha Adèle... È fredda, fredda... Mi guarda sempre, non respira più!" La povera creatura tisica era spirata placidamente, senza proferire un lamento; ed il suo sguardo stava ancor fisso verso la sorella, da lei amata tenerissimamente. È impossibile ridire quale grido mandasse la moglie di Morel. Aveva purtroppo compreso! Fu uno di quei gridi angosciosi, convulsi, strappati dal più profondo delle viscere di una madre. "Pare che sia morta, ho paura, Dio, Dio!" disse la ragazzetta, e balzò giù in un attimo, e corse a nascondersi fra le braccia della madre. E questa, dimenticando che le gambe indebolite e paralizzate non la reggevano, fece uno sforzo per alzarsi e per andar vicino alla figliola. Ma non poté, cadde in terra, dando un'ultima voce di disperazione. Quella voce trovò un'eco nel cuore di Morel; egli uscì dal suo torpore, d'un passo fu al saccone e vi prese la sua creaturina in età di quattro anni. Era morta! Il freddo e la penuria avevano affrettata la sua fine, benché la sua malattia, frutto della miseria, fosse senza rimedio. Le sue povere e piccole membra erano già irrigidite e ghiacciate. PARTE QUARTA. 1. Louise. Morel, con i capelli irti per la disperazione e lo spavento, restava immobile, e tenendosi al seno la figlia morta, la contemplava con occhio asciutto, fisso, come ottuso. "Morel! Morel! Dammi qua l'Adèle" esclamava la sventurata madre protendendo le braccia verso il marito. "Non è vero, eh, non è morta? Vedrai, io la riscalderò..." La curiosità della mentecatta fu ancora eccitata dalla premura dei due sbirri di portar via l'incisore, che non voleva separarsi dalla bambina. La vecchia cessò di urlare, si alzò dal lettuccio, si avvicinò adagio, cacciò la brutta testa al di sopra della spalla del genero, e, per qualche momento, considerò il cadavere della nipote. Il suo volto conservava l'abituale espressione di stupidità feroce. Dopo un minuto, fece udire uno sbadiglio rauco come quello di una bestia famelica, e, ritornando al suo canile, vi si buttò sopra, mugolando: "Fame! fame!" "Vedete, signori! Vedete una povera bimba di quattro anni, la mia Adèle... Si chiama Adèle... Solo ieri sera la baciavo, e stamane... Ecco, direte che è una di meno da mantenere, che ho fortuna, non è così?" disse l'operaio quasi in delirio. La sua ragione cominciava a vacillare dopo tanti colpi. "Morel! Voglio la mia figliola! la voglio!" gridò Madeleine. "È giusto, uno alla volta" disse l'operaio, andando a posare la bambina nelle braccia della madre. Poi si nascose la faccia tra le mani gemendo. Madeleine, non meno smarrita dello sposo, nascose nella paglia del saccone il corpo della figlia, e la guardava con una specie di selvaggia gelosia, mentre gli altri ragazzi, accasciati, singhiozzavano. Gli sgherri, per un momento commossi dalla morte della bambina, ripresero quasi subito le abituali prepotenze, convinti di dover assolvere un dovere. "Animo, camerata" belò Malicorne "la vostra figliola è morta. È una disgrazia, siamo tutti mortali; non ci possiamo far niente, e voi neppure... Dovete venire con noi. Abbiamo da agguantare un altro debitore, perché oggi è giornata di caccia." Morel non lo udiva. Assillato dai più funebri pensieri, diceva da solo con affanno, e interrompendosi: "Bisognerà pur seppellirla, mia figlia... Vegliarla sino a che vengano a prenderla. Seppellirla! Ma con che? Non abbiamo nulla. E la bara... Chi ci farà credito? Oh, una cassa tanto piccola per una creatura di quattro anni non deve costare caro... E poi senza carro... Si mette sotto il braccio... Ah, ah, ah!" aggiunse con una risata spaventevole. "Come sono fortunato! Poteva morire a diciotto anni, all'età di Louise, e non mi avrebbero data a credito una cassa così grande..." "Ma, dico io, questo è capace di perdere la zucca" fece Bourdin rivolto a Malicorne. "Guarda che occhi, fa proprio paura! Oh, benissimo! Ora la vecchia matta che brontola, che ha fame... Uh, che famiglia!" "Tanto s'ha da farla finita... Benché l'arresto di questo disgraziato sia in tariffa per soli settantasei franchi e settantacinque centesimi, noi, come giusto, cresceremo le spese a duecentoquaranta o cinquanta franchi. E il creditore paga." "Ma dimmi chi sborsa? Perché è questo disperato che deve pagare i violini, se è lui che ha da ballare." "Oh, quando avrà abbastanza soldi per soddisfare il suo creditore di duemila e cinquecento franchi tra capitale, interessi e spese, dovrà essere un bel giorno di sole." "Non sarà come qui, che è buio e freddo" disse lo sbirro, soffiandosi sulle dita. "Terminiamo, su, imballiamolo, piagnucolerà per la strada... Ci abbiamo colpa noi se è crepata la sua piccina?" "Quando si è in miseria non si fanno figli." "Imparerà!" seguitò Malicorne. E, picchiando sulla spalla a Morel: "Andiamo, andiamo, amicone! Non abbiamo tempo da aspettare. Giacché non potete pagare, in prigione!" "In prigione il signor Morel?" esclamò una voce giovanile. Ed una fanciulla, fresca, brunotta, colorita, entrò sollecita nella soffitta. "Ah, signorina Rigolette" le disse uno dei bambini "siete tanto buona... Salvate il babbo, vogliono portarlo in carcere, e la mia sorellina è morta!" "Adèle è morta?" gridò la ragazza, e gli occhi neri, grandi e vivaci le si riempirono di lacrime. "Vostro padre in carcere? Oh, non può essere!" E non riusciva a smettere di guardare alternativamente Morel, la moglie e gli sgherri. Bourdin le si avvicinò. "Su, bella ragazza, voi, che siete a sangue freddo, fate intendere la ragione a quel galantuomo: la sua bambina è morta, alla buon'ora! Ma bisogna che venga con noi a Clichy, alla prigione dei debitori; siamo guardie giudiziarie." "È dunque vero?" fece Rigolette. "Verissimo! La madre ha la bimba nel suo letto, non gliela si può levare, la tiene nascosta... Il padre dovrebbe approfittare del momento per uscire." "Dio, Dio, che disgrazia" disse Rigolette "che disgrazia! Come si fa?" "O si paga o si va in carcere, non c'è via di mezzo... Avete due o tre biglietti da mille da imprestargli?" domandò Malicorne in atto di dileggio. "Se li avete, andate alla cassa, e snocciolate, non vogliamo altro noi." "Oh, è terribile" fece la giovane, sdegnata. "Osar scherzare davanti a disperazioni simili!" "E va bene, senza scherzi" disse l'altro agente "poiché volete rendervi utile, procurate che la moglie non ci veda condur fuori il marito. Risparmierete a tutti e due un triste quarto d'ora." Quantunque brutale, il consiglio era buono. Rigolette, adottandolo, si appressò a Madeleine. Questa, fuori di sé dal dolore, non parve badasse a lei che s'inginocchiava accanto al letto insieme ai ragazzi. Dopo il primo terribile stupore, Morel era piombato nella più cupa desolazione. Abituato alla rassegnazione, considerava l'orrore della propria situazione. Il notaio era il responsabile di quell'azione spregevole, gli agenti facevano il loro mestiere. Era inutile prendersela con loro. "Sicché, si va finalmente?" domandò Bourdin. "Non posso lasciar qui questi diamanti; la mia consorte è fuori di sé" disse Morel, mostrando le gioie sparse sul banco. "La sensale per la quale lavoro deve venire a prenderli stamane o in giornata; ve ne sono per una somma assai forte." "Bene!" disse piano Tortillard, che era sempre rimasto accosto l'uscio socchiuso. "Bene! Lo saprà la Chouette!" "Accordatemi soltanto sino a domani" soggiungeva Morel "che possa consegnare le gemme alla sensale." "È impossibile, finiamola subito!" "Ma non posso lasciar qui questi brillanti, e rischiare che si perdano!" "Portateli con voi; la vettura è giù, la pagherete con le altre spese. Andremo dalla sensale; se non c'è, depositerete le gioie alla cancelleria, a Clichy. Saranno sicure come in banca. Animo, sbrighiamoci, ce ne andiamo senza che vi vedano la moglie e i figli." "Concedetemi sino a domani; che io possa far seppellire mia figlia" domandò Morel con voce supplichevole ed alterata dalle lacrime che tentava di frenare. "No, abbiamo perduto più di un'ora..." "E a sotterrarla vi dispererete ancora di più" disse Malicorne. "Sì, ne morirei" disse Morel con un amaro sorriso. "Avete tanto timore di affliggere la gente! Dunque, una sola ed ultima parola." "Presto, maledizione, sbrigatevi" grugnì Malicorne spazientito. "Da quando avete l'ordine di arrestarmi?" "La sentenza è firmata da quattro mesi, ma ieri fu detto all'usciere dal notaio di farla eseguire." "Ieri appena? Perché così tardi?" "E che ne so io... Su, fate fagotto!" "Ieri! E Louise non è venuta qui... E dov'è allora? Che ne è di lei?" continuò Morel, levando dal banco una scatola di cartone piena di bambagia ed accomodandovi dentro le gioie. "Ma non si pensi a questo, avrò tempo di pensarci in carcere." "Lesto! Fate il vostro fagotto e vestitevi." "Non ho di che far fagotti; ho solamente questi diamanti che consegnerò alla cancelleria." "Dunque vestitevi!" "Non ho altri panni che questi." "Verreste fuori con questi stracci?" disse Bourdin. "Vi farò vergognare di certo" rispose con amarezza Morel. "No, si va in carrozza" replicò Malicorne. "Babbo! La mamma ti chiama" fece uno dei ragazzi. "Ascoltatemi" disse sottovoce Morel ad uno degli agenti "non siate disumano, accordatemi un'ultima grazia... Non ho coraggio di dire addio alla mia sposa ed alle mie creature, mi si spezzerebbe il cuore... Se vedono che mi conducete via mi correranno appresso... Vorrei evitare questo dolore. Ve ne supplico, ditemi forte che tornerete fra tre o quattro giorni, e fingete d'andarvene, ed attendetemi al piano di sotto. Uscirò dopo cinque minuti, e risparmierò quell'addio... Non ci resisterei, ve l'assicuro, impazzirei... Anche prima c'è mancato poco..." "Sì, bello, vorreste farla a me" disse Malicorne "intendereste scappare, vecchio buffone!" "Dio, Dio!" esclamò Morel, con dolorosa indignazione. "Non credo che ci sia malizia" disse adagio Bourdin al collega. "Facciamo quel che domanda, se no non usciremo più di qui. Io rimarrò fuori, alla porta; non ci sono altre uscite dalla soffitta, non ci potrà sfuggire." "Bene, ma il diavolo se lo porti... Che pitocco, che pitocco!" Malicorne si rivolse a Morel a voce bassa: "Siamo d'accordo, vi aspetteremo al quarto piano... Fate le vostre cose e sbrighiamoci!" "Vi ringrazio" disse l'operaio. "Va bene" soggiunse Bourdin più forte, guardando l'operaio con aria d'intesa "giacché è così, e promettete di pagare, vi lasciamo: saremo qui fra cinque o sei giorni. Ma allora siate puntuale." "Sì, signori, allora spero di poter pagare" rispose l'incisore. Gli sbirri si ritirarono. Tortillard, nel timore di essere sorpreso, era sparito per le scale nel momento in cui le guardie giudiziarie abbandonavano la soffitta. "Signora Madeleine, avete inteso?" disse Rigolette alla moglie dell'operaio per toglierla dalla sua lugubre contemplazione. "Lasciano qui vostro marito, quei due se ne sono andati." "Mamma, lo senti? Non portano via il babbo" aggiunse il maggiore dei maschi. "Morel, ascoltami... Piglia uno di quei grossi diamanti, nessuno lo saprà, e saremo salvi" mormorò Madeleine nel suo delirio. "La nostra Adèle non avrà più freddo, non sarà più morta." L'operaio, approfittando di un istante in cui non lo guardavano, uscì con precauzione. Lo sbirro lo attendeva al pianerottolo a cui pure il tetto faceva da soffitto. Su questo dava la porta dello stanzino accanto alla soffitta di Morel in cui il signor Pipelet serbava le sue provviste di cuoio. Il degno portinaio chiamava quel bugigattolo il suo "palchetto all'opera" perché, mediante un buco fatto nel tramezzo, era spesso spettatore di ciò che succedeva dai Morel. L'usciere osservò quella porta, e per un momento pensò che il suo carcerato avesse contato su quel mezzo per fuggire o nascondersi. "Animo, camminiamo, canaglia!" disse, mettendo il piede sul primo gradino, e facendo cenno all'operaio di seguirlo. "Un altro minuto, per favore" pregò Morel. S'inginocchiò in terra, da una delle fessure dell'uscio diede un ultimo sguardo alla sua famiglia e disse, versando amare lacrime: "Addio, miseri figli miei, addio, mia misera moglie, addio!" "Insomma, la finite con queste antifone?" disse brutalmente Bourdin. "Ha ragione Malicorne: che pitocco, che pitocco!" Morel si alzò. Stava per seguire l'agente, quando udì per la scala: "Padre mio, padre mio!" "Louise" esclamò l'artigiano, levando le mani al cielo. "Potrò abbracciarti prima di partire." "Grazie, mio Dio! Sono arrivata in tempo" proseguì la voce, avvicinandosi. E si sentivano i passi salire precipitosamente. "State quieta, ragazza mia" diceva un'altra voce ansante, affannosa, da un punto più basso. "Se occorre, mi pianto nell'andito con il mio vecchio cucco, e con la granata, e non usciranno di qui sinché abbiate parlato, quei manigoldi!" Era la Pipelet, che, meno svelta di Louise, saliva dietro a lei lentamente. Dopo pochi minuti la figlia di Morel era fra le braccia del padre. "Sei tu, Louise! Cara, buona Louise!" diceva Morel piangendo. "Oh come sei pallida! Dio santo, che hai?" "Nulla, nulla" quella rispose, balbettando. "Ho corso così tanto! Ecco il denaro..." "Come?" "Sei libero!" "Dunque sapevi?" "Sì, sì... Ecco, signori, pigliate il denaro" disse la ragazza, e diede a Malicorne un pugno d'oro. "Ma quel denaro, Louise, quel denaro?" "Saprai tutto, sta' tranquillo... Vieni a riconfortare la mia mamma." "No, no, ora no" disse Morel, mettendosi davanti alla porta, e pensando alla morte della bambina, ancora ignota a Louise. "Aspetta, ho da parlarti... Ma quel denaro?" "Un momento!" fece Malicorne, che terminava di contare le monete e se le poneva in saccoccia. "Settantaquattro, settantacinque... Sono mille e trecento franchi... Non avete altro, piccina?" "Ma tu devi soltanto mille e trecento franchi!" disse Louise meravigliata, rivolgendosi a suo padre. "Sì" rispose Morel. "Un momento" replicò l'altro. "Il debito è di mille e trecento, sta bene, e così il debito è pagato. E però le spese? Senza quelle dell'arresto, arrivano già a mille e centoquaranta franchi." "Oh, mio Dio, mio Dio" esclamò Louise "credevo che fossero mille e trecento... Ma, signori, più tardi vi sarà dato il rimanente... Questo è un buon acconto, non è vero, babbo?" "Più tardi? Ottimamente, portatelo in cancelleria, e vostro padre sarà liberato. Su, marcia!" "Lo conducete via?" "Sicuro! È un acconto, paghi il resto, e sarà libero. Vai avanti, Bourdin." "Grazia! grazia!" supplicava Louise. "Ah, che tormento! Ricominciano i piagnistei... È roba da far sudare nel cuore dell'inverno, parola d'onore!" disse lo sbirro brutalmente. Ed avanzandosi verso Morel: "Animo, camminate, e subito! Se no, vi piglio per il collo, e vi faccio scendere al volo... È una bella seccatura!" "Oh, povero padre mio! Ed io che lo credevo salvo!" disse la giovane, oppressa, annichilita. "No, no, Dio non è giusto!" gridò Morel con voce disperata e battendo i piedi con rabbia. "Sì, Dio è giusto! Ed ha sempre pietà delle persone oneste che soffrono." Così gridò una voce dolce ad un tempo e sonora. E comparve Rodolphe sull'uscio dello stanzino, d'onde, non veduto, aveva seguito alcune scene di quelle che qui narriamo. Era smorto in viso e commosso. Alla repentina comparsa gli sbirri retrocedettero. Morel e la figlia guardarono attoniti quello sconosciuto. Rodolphe, levandosi dalla tasca del panciotto un pacco di biglietti di banca piegati, ne prese tre, li presentò a Malicorne, e gli disse: "Ecco duemila e cinquecento franchi; rendete a questa ragazza il denaro che vi ha dato." L'agente, sempre più stupefatto, pigliò i soldi, indeciso, li esaminò per ogni verso, li voltò, li rivoltò, ed alla fine li mise in tasca. Tornando di nuovo grossolano e altezzoso man mano che svanivano lo stupore e lo spavento, squadrò da cima a fondo Rodolphe, e gli disse: "Sono buoni i vostri soldi, ma in che modo avete nelle vostre mani una tal somma? È proprio vostra almeno?" Rodolphe era vestito con grande semplicità, e tutto coperto di polvere per essersi trattenuto nel bugigattolo di Pipelet. "Ti ho detto di restituire quell'oro a questa fanciulla!" replicò con tono duro e imperioso. ""Ti ho detto"?! E come osi darmi del tu?" urlò lo sgherro, facendosi incontro a Rodolphe in atto minaccioso. "Quell'oro! quell'oro!" continuò il principe, e strinse così forte il pugno a Malicorne, che questo si curvò a così ferrea pressione. "Ahi, mi fate male... Lasciatemi!" "Rendi dunque l'oro! Sei pagato, vattene, senza dire insolenze, o ti faccio fare un volo dalla scala." "Ebbene! Ecco il denaro." E Malicorne porse a Louise il suo oro. "Ma voi non mi date del tu, e non ne approfittate perché siete più robusto di me" soggiunse, volgendosi a Rodolphe. "È vero, sì... Chi siete voi, per darvi tante arie?" domandò Bourdin, riparandosi pera dietro il collega. "Chi siete?" "Chi è, brutti ceffi? È il mio inquilino, il re degli inquilini, sbirraglia! canaglia!" strillò la Pipelet, arrivando dalle scale ansante, con la solita parrucca tonda fuori posto. Aveva in mano un tegame pieno di minestra ancora fumante, che, caritatevolmente, portava ai Morel. "Cosa vuole quella vecchia befana?" fece Bourdin. "Ehi, se offendete vi salto addosso e vi mordo" esclamò la portinaia. "E poi il mio re degli inquilini vi scaraventa giù per la scala, come ha detto. E io vi spazzerò con la scopa come un mucchio di sudiciume, quali siete!" "Questa è capace di metter tutto il caseggiato sottosopra contro di noi. Siamo impiegati, abbiamo fatto il nostro dovere, andiamo via!" osservò Bourdin a Malicorne. "Ecco i vostri scartafacci!" disse quest'ultimo, gettando il fascio dei documenti processuali ai piedi di Morel. "Raccoglili da terra!" gli gridò Rodolphe. "Sei pagato per trattare con rispetto la gente!" E, fermando lo sbirro con una mano, con l'altra gli additava i fogli sparsi a terra. Accorgendosi, da quella nuova e terribile stretta, che non poteva contrastare con un simile avversario, l'agente si chinò borbottando, riprese i documenti e li consegnò a Morel, che credeva di sognare. "E voi, benché abbiate il pugno d'un facchino, badate a non cader mai sotto le nostre unghie!" disse Malicorne. E, minacciando con il pugno il principe, in un salto scese dieci scalini, seguito da Bourdin, che si guardava indietro con timore. La Pipelet si accinse a vendicare Rodolphe dalle minacce dello sbirro; guardò il tegame con aria ispirata, ed eroicamente esclamò: "I debiti di Morel sono saldati. Avranno da mangiare, non hanno più bisogno della mia pappa. Bada là, di sotto!" E, chinatasi sulla ringhiera, vuotò tutta la brodaglia del tegame sui due agenti, che in quel momento giungevano al primo piano. "E allegri eh! allegri!" urlò poi. "Eccoli bagnati e molli come una zuppa, anzi due zuppe! Ah, ah, ah, è proprio da ridere!" "Corpo di mille e mille bombe!" urlò Malicorne colpito sulle spalle da quella pioggia di nuovo genere. "Volete badare a quel che fate, là in alto, vecchia del demonio!" "Alfred!" strillò la Pipelet, con voce acuta da forare il timpano ad un sordo. "Alfred, dagli addosso, cucco mio! Volevano fare i beduini con la tua Anastasie, quei due indecenti... Mi hanno sconvolta. Dagli addosso con la scopa! Di' all'ostricaia e al vinaio che ti diano una mano. A voi, a voi, a voi! Via il gatto! Ladri!... ladri!... aiuto!... Kiss!... kiss... paff!... puff!... Dagli addosso, il mio vecchio cucco! Bum!... bum!..." E, per chiudere in modo adeguato queste imprecazioni, che aveva accompagnate con uno scalpitare furibondo, la portinaia, trasportata dal piacere della vittoria, scagliò giù il tegame a terra, che, frantumandosi con orribile fracasso nell'istante in cui i due sbirri sbalorditi dalle sue strida scendevano, o piuttosto ruzzolavano, gli ultimi gradini, accrebbe prodigiosamente lo spavento. "E allegri, eh!" esclamò allora Anastasie, dando in uno scoppio di risa, ed incrociando le braccia in segno di trionfo. Mentre la portinaia perseguitava gli sgherri con ingiurie e fischi, Morel si era gettato ai piedi di Rodolphe. "Ah signore, voi ci salvate la vita! A chi siamo debitori di un soccorso così inaspettato?" "A Dio! Egli ha sempre pietà della gente onesta!" 2. Rigolette. Louise, la figlia dell'incisore, era di una bellezza notevole. Alta e svelta, somigliava all'antica immagine di Venere per la regolarità dei lineamenti, e di Diana cacciatrice per l'eleganza. Malgrado il colore bruno della carnagione, e il rosa scuro delle mani, che erano bellissime ma indurite dai lavori domestici, malgrado gli abiti più che umili, questa ragazza aveva un aspetto di elevata nobiltà che l'operaio nella sua paterna ammirazione chiamava "aria di principessa". Noi non ci proveremo a descrivere la riconoscenza, lo stupore e la gioia della famiglia, strappata d'un tratto ad una sorte spaventevole. In quell'ebbrezza subitanea fu per un momento dimenticata la morte della bambina. Rodolphe notò soltanto l'estremo pallore di Louise, ed i cupi pensieri che sembrava la avvilissero ancora, nonostante la liberazione del padre. Volendo tranquillizzare interamente i Morel sulla loro futura esistenza, e spiegare un atto di generosità che poteva compromettere il suo incognito, egli disse all'artigiano, dopo averlo tratto in disparte sul pianerottolo, e mentre Rigolette preparava Louise alla notizia della triste fine della sorellina: "Ieri l'altro in mattinata venne da voi una signora?" "Sì, e parve molto dolente dello stato in cui ci vide." "Dopo Dio, dovete ringraziare lei, e non me." "Davvero, signore, quella giovane signora..." "È la vostra benefattrice. Io ho portato spesso delle stoffe in casa sua: ieri l'altro, venendo qui a prendere a pigione una stanza al quarto piano, seppi dalla portinaia la vostra crudele situazione. Contando sulla carità di quella signora, corsi da lei. L'altro ieri lei era qui appunto per prendere conoscenza delle vostre sventure, e ne fu molto commossa; ma siccome queste potrebbero essere effetto di mala condotta, ha incaricato me di ottenere, il più presto possibile, informazioni a vostro riguardo, desiderando aiutarvi in proporzione alla vostra probità." "Buona, eccellente dama, avevo ragione io di dire..." "Di dire a Madeleine: "Se i ricchi sapessero!" non è così?" "Come, signore, conoscete il nome di mia moglie? E chi vi ha detto che?..." "Da stamani alle sei" interruppe Rodolphe "sono nascosto nello stanzino attiguo alla vostra soffitta." "Voi, signore?" "Ed ho udito tutto, ottimo ed onesto uomo!" "Mio Dio, ma come eravate colà?" "O in bene o in male, non potevo essere informato meglio che da voi stesso... Ho voluto vedere, udire ogni cosa a vostra insaputa. Il portinaio mi aveva parlato di quel bugigattolo, proponendomi di cedermelo per riporvi la legna. Questa mattina gli ho chiesto di visitarlo, ci sono rimasto un'ora, ed ho potuto convincermi che non c'è un carattere più probo, più nobile e più coraggiosamente rassegnato del vostro." "Dio buono, non c'è gran merito: sono nato così, e non potrei fare altrimenti..." "Lo so, e quindi non vi lodo, ma vi apprezzo... Ero sul punto di uscire da quel camerino per liberarvi dagli uscieri, quando ho inteso la voce di vostra figlia. Ho voluto lasciarle la soddisfazione di salvarvi... Disgraziatamente, la rapacità delle guardie giudiziarie le ha tolto questo piacere, ed allora io sono comparso. Avevo riscosso ieri alcune somme che mi erano dovute, e sono stato in grado di fare un esborso per la vostra benefattrice, pagando per voi quel malaugurato debito. Ma nella vostra disgrazia siete stato così grande, onesto, degno, che l'interesse che si ha per voi, e di cui siete meritevole, non si fermerà qui. Io posso, in nome del vostro angelo salvatore, garantirvi un avvenire tranquillo, felice, per voi ed i vostri." "Possibile? Ma, signore, almeno il suo nome, il nome di quell'angelo, come lo chiamate!" "Sì, è un angelo. Ed avevate ragione anche quando diceste che, grandi e piccoli, ciascuno aveva i suoi guai." "Che? Quella signora forse è sventurata?" "E chi non ha le sue pene? Ma non vedo motivo di tacervi il suo nome. Ebbene, si chiama..." Rodolphe, riflettendo che la Pipelet non ignorava esser venuta la signora d'Harville nel caseggiato a domandare del Comandante, ebbe timore delle ciarle della portinaia e, dopo breve silenzio, soggiunse: "Vi dirò il nome, ad un patto..." "Oh, dite pure, signore!" "Che a nessuno ripetiate quel nome. Mi capite?... A nessuno..." "Oh, ve lo giuro... Ma non potrei almeno ringraziarla, quella Provvidenza dei miseri?" "Lo domanderò alla signora d'Harville; non dubito che acconsentirà." "Quella signora è dunque...?" "La marchesa d'Harville." "Oh non scorderò mai questo nome. Sarà l'oggetto della mia adorazione... Quando penso che per grazia sua mia moglie ed i miei figli sono salvi... Salvi? Ah, non tutti, non tutti... La mia povera Adèle, non la rivedremo più! Ohimè, bisogna dire che un giorno l'avremmo perduta, che era già molto malata..." E l'operaio si asciugava le lacrime. "In quanto ai funerali per la sventurata bambina, se date retta a me, ecco ciò che dovete fare... Io non occupo ancora la mia camera; è grande, sana, ariosa; c'è già un letto, e vi si trasporterà quel che è necessario perché voi e la vostra famiglia possiate sistemarvici, intanto che madama d'Harville trovi d'accasarvi in modo migliore. Il corpo della vostra creatura resterà nella soffitta, dove sarà stanotte vegliato e custodito da un prete. Adesso io pregherò la Pipelet di pigliarsi la cura di queste dolorosissime cose." "Ma, signore, privarvi della vostra stanza! Oh, non potete farlo! Ora che siamo tranquilli, che non ho più paura d'andare in carcere, la mia soffitta mi parrà un palazzo, specialmente se ci rimane la mia Louise per badare a tutto come un tempo." "La vostra Louise non vi lascerà più. Dicevate che il vostro sogno sarebbe di averla sempre vicina a voi... Sarà anche meglio, sarà la vostra ricompensa..." "Oh Dio, e può esser vero? Mi sembra un sogno. Non sono stato mai devoto, ma una cosa come questa, un tal soccorso della Provvidenza, farebbe credere..." "Credete sempre!" esortò Rodolphe. "Che arrischia un povero credendo?" "È vero" rispose ingenuamente Morel "che si rischia?" "Se il dolore di un padre potesse conoscere compensazioni, vi direi che vi è tolta una figlia, ma l'altra vi è restituita." "È così! Adesso avremo la nostra Louise." "Accettate la mia stanza? Se no, come farete con quella triste vecchia folle? Pensate alla vostra consorte, che ha già la testa tanto debole... Lasciarle, per ventiquattro ore, sotto gli occhi un così lugubre spettacolo!" "Voi riflettete a tutto. Oh, quanto siete buono, signore!" "Dovete ringraziare il vostro angelo benefattore; la sua bontà è quella che mi ispira. Io vi dico ciò che lei vi direbbe... Approverà di certo ciò che faccio... Sicché accettate, siamo d'accordo. Ora, ditemi: quel Jacques Ferrand?" Una nube passò sulla fronte di Morel. "Questo Jacques Ferrand" riprese Rodolphe "è proprio quel Ferrand notaio che abita in rue du Sentier?"(8) "Sì, signore. Lo conoscete?" E Morel, preso di nuovo dal timore per la sua Louise, esclamò: "Ah, poiché lo conoscete, dite, dite, ho forse torto di detestarlo? Chissà se la mia figliola, la mia Louise..." E non potendo terminare, si coprì la faccia con le mani. Rodolphe lo comprese. "La perfida condotta del notaio deve mettervi tranquillo" disse "vi faceva arrestare senza dubbio per vendicarsi del disprezzo di vostra figlia. Inoltre ho molti motivi per ritenerlo un uomo disonesto. Se è così" seguitò il principe dopo un momento di silenzio "confidiamo nella Provvidenza per punirlo." "È molto ricco, e molto ipocrita, signore." "Voi eravate povero e disperato! La Provvidenza vi è mancata?" "No, mio Dio, non crediate che io dica questo per ingratitudine." "Un angelo salvatore è venuto davanti a voi, un vendicatore inesorabile forse coglierà il notaio!" In quel momento uscì dalla soffitta Rigolette, asciugandosi gli occhi. Rodolphe le disse: "Non è così, vicina mia? Il signor Morel non farà bene ad occupare con tutti i suoi la mia stanza, intanto che il suo protettore, di cui io sono l'agente, e non altro, gli abbia procurato una convenevole abitazione?" Rigolette riguardò Rodolphe con stupore. "Come, signore! Sareste così generoso?" "Sì, ma ad un patto che dipende da voi, vicina mia..." "Oh, per tutto ciò che sta in me..." "Avevo da regolare certi conti di gran premura per il mio principale, e qualcuno deve venire tra poco a pigliarli... Le mie carte sono giù. Se, in qualità di vicina, mi permetteste di fare questo lavoro in casa vostra, in un angolo del vostro tavolino, mentre voi cucirete, ve ne sarò grato. Non vi darei disturbo, ed i Morel potrebbero subito, aiutati dai coniugi Pipelet, venire da me." "Se non c'è altro che questo, molto volentieri. Tra vicini bisogna aiutarsi. Voi ne date l'esempio con quello che fate per il buon Morel. Ai vostri ordini, signore." "Chiamatemi vicino, se no, mi metterei in soggezione, e non oserei approfittarne" disse, sorridendo, il principe. "Oh, poco male! Posso ben dirvi mio vicino, poiché lo siete." "Babbo, mamma ti vuole... Vieni, vieni!" disse uno dei ragazzi a Morel, uscendo dalla soffitta. "Andate, caro signor Morel. Quando tutto sarà pronto, vi faremo avvertire." L'operaio corse in soffitta, anche per mettere al corrente la moglie delle novità. "Adesso, vicina mia" continuò Rodolphe, rivolto a Rigolette "mi occorre da voi un altro favore." "Con tutto il cuore, se posso, vicino." "Voi dovete essere, ne sono certo, una brava donna di casa. Si tratterebbe di comprar subito quanto è necessario perché i Morel siano vestiti, alloggiati e sistemati per bene nella mia camera, dove non c'è, per ora, se non la mia mobilia da scapolo (e non è molta) che fu portata ieri. Come faremo per procurarci presto quel che desidero per questa gente?" Rigolette rifletté un istante, e rispose: "Tra meno di due ore avrete ogni cosa, vestiti belli e fatti, buoni e puliti, biancheria ottima per tutti, due lettini per i ragazzi, uno per la nonna, insomma quel che occorre... Ma costerà molto, eh!" "E quanto?" "Almeno cinque o seicento franchi." "In tutto?" "Eh sì! Vedete, ci vogliono molti denari!" disse Rigolette, spalancando gli occhi e tentennando il capo. "E avremo tutto?" "Tra un paio d'ore!" "Ma dunque, vicina mia, siete una fata?" "Oh no, Dio buono, ci vuol poco... Il Temple è a due passi, e ci troverete quel che bramate." "Il Temple?" "Sì, il Temple." "E che cos'è mai?" "Non conoscete il Temple, vicino mio?" "No, vicina." "Eppure è lì che la gente come me e voi compra i suoi mobili e i suoi vestiti, quando vuol risparmiare. È meno caro che altrove ed è roba buona." "Davvero?" "Lo credo! Ecco, supponiamo, quanto vi costa il vostro soprabito?" "Ma non vi saprei dire precisamente..." "Come, vicino, non sapete quel che vi costa il vostro soprabito?" "Vi dirò, in confidenza, vicina, che non compro io, sicché, capite, non posso sapere..." "Ah, vicino, mi pare non abbiate molta cura dei vostri affari!" "Ahimè, no, vicina." "Dovete correggervi da questo difetto, se volete che siamo amici. E già mi accorgo che lo saremo... Sembrate tanto buono! Vedrete che non vi rincrescerà avermi per vicina. Mi aiuterete, e vi aiuterò, si è vicini per questo. Io avrò cura della vostra biancheria, voi mi darete una mano a dar la cera ai mattoni della mia camera. Io sono mattiniera, e vi sveglierò perché non facciate troppo tardi a bottega... Picchierò al vostro tramezzo sinché mi direte: "Buongiorno, vicina"." "Siamo d'accordo: mi sveglierete, vi occuperete della mia biancheria, ed io vi darò la cera ai mattoni." "E sarete più previdente?" "Di sicuro!" "E quando avrete da comprare qualcosa andrete al Temple? Perché, ecco, per esempio, questo vestito vi costa ottanta franchi, suppongo, ebbene al Temple lo avreste avuto per trenta." "Ma queste sono meraviglie! Perciò credete che con cinque o seicento franchi questi poveri Morel?..." "Sarebbero forniti di tutto, e benissimo, e in fretta. "Vicina mia, un'idea!" "Sentiamo l'idea!" "Ve n'intendete di oggetti di casa, di masserizie?" "Eh, un pochino" rispose Rigolette, con un certo amor proprio. "Vi darò il braccio, e andremo al Temple a provveder tutto per i Morel: si può?" "Oh, che piacere, poveretti! Ma i denari?" "Ne ho." "Cinquecento franchi?" "Il protettore di Morel mi ha dato carta bianca, e nulla risparmierò perché quelle brave persone siano sistemate nel modo migliore. Se anche c'è qualche posto dove si compri roba più bella che al Temple..." "Non c'è di meglio in nessun posto. Là c'è ogni cosa pronta, giubbette per i bambini, gonnelle per la madre..." "Andiamo dunque al Temple, vicina..." "Oh Dio, ma..." "Che cosa?" "Nulla. È che, vedete, il tempo è tutto quel che io possiedo. Ne ho già perso un bel po', correndo a vegliare la povera Morel, e, capite, un'ora da una parte, una dall'altra, a poco a poco si fa una giornata! una giornata sono trenta soldi, e i giorni che non si guadagna, bisogna campare egualmente... Ma basta. Che importa? Mi rifarò nella notte. E poi, sì, i divertimenti sono così rari, e non mi par vero di godermi questo. Mi parrà d'esser ricca, ricchissima, come se comprassi con i miei quattrini quelle belle cose per i disgraziati Morel. Orsù, lasciatemi il tempo di mettere lo scialle e la cuffietta, e sono con voi, vicino." "Se non avete da mettervi altro, vicina, volete che intanto io porti da voi le mie carte?" "Volentieri, così vedrete la mia camera" disse Rigolette, con qualche orgoglio. "È già rassettata, e questo vi prova che mi alzo presto, e che se siete dormiglione e infingardo, peggio per voi: vi considererò un pessimo vicino." E Rigolette, vispa come un uccello, scese la scala, seguita da Rodolphe, che andò nella propria stanza a spazzolarsi dalla polvere presa nel bugigattolo di Pipelet. Spiegheremo in seguito perché Rodolphe non era ancora informato del rapimento di Fleurde-Marie, che aveva avuto luogo il giorno precedente al podere di Bouqueval, e perché non era venuto a visitare la famiglia Morel l'indomani dell'abboccamento con la signora d'Harville. In più rammentiamo al lettore che essendo Rigolette l'unica a conoscere il nuovo indirizzo di François Germain, figlio della signora Georges, Rodolphe aveva grande interesse a penetrare un così importante segreto. La passeggiata al Temple da lui proposta alla sarta lo avrebbe fatto entrare in confidenza, e lo avrebbe distratto dai tristi pensieri suscitati dalla morte della bambina di Morel. La figlia che Rodolphe ancora piangeva doveva esser morta all'incirca alla stessa età. A quell'età Fleur-de-Marie era stata consegnata alla Chouette dalla donna di servizio del notaio Jacques Ferrand. Diremo in seguito a quale scopo ed in quale circostanza. Rodolphe, munito di un enorme pacco d'incartamenti, tanto per dimostrare di aver tanto lavoro da fare, entrò nella stanza di Rigolette. Rigolette aveva pressappoco l'età della Goualeuse, sua amica di prigione. C'era tra queste due giovani la differenza che c'è fra il riso ed il pianto; tra la lieta noncuranza e la meditazione malinconica; tra la più audace imprevidenza e un cupo ed incessante pensiero dell'avvenire; tra un'indole delicata, squisita, nobile, poetica, dolorosamente sensibile, alterata insanabilmente dal rimorso, ed un'indole allegra, vivace, contenta, variabile, quasi non riflessiva, ancorché buona e compassionevole. Rigolette non provava altre pene che quelle altrui, ed a queste simpatizzava con tutta la sua forza, e si dedicava corpo e anima a quelli che pativano; ma non ci pensava più appena aveva voltato le spalle, come suol dirsi. Spesso interrompeva una grande risata per piangere sinceramente, e dal piangere passava al riso per un nonnulla. Da vera parigina, Rigolette preferiva il tumulto alla calma, il moto al riposo, la sonora armonia di un'orchestra durante le feste da ballo della Chartreuse o del Colisée al lieve mormorio del vento, delle acque e delle foglie; il frastuono delle strade di Parigi, alla solitudine delle campagne; il bagliore dei fuochi artificiali, lo sfavillare dei razzi, il fracasso delle bombe, alla serenità di una notte stellata fra l'ombra ed il silenzio. Ah, sì, la buona ragazza amava più la mota nera delle vie della capitale che la verzura dei prati; il lastrico fangoso o riarso di quelle, che la fresca e morbida erbetta dei boschi cosparsi di viole; la polvere che soffoca alle barriere o sui boulevard, che il movimento delle spighe dorate, lo scarlatto dei rosolacci e l'azzurro dei fiordalisi. Rigolette non lasciava mai la sua camera se non la domenica, e poi la mattina degli altri giorni per fare la sua provvista di insalata, di pane, di latte e di miglio per sé ed i suoi due uccellini, come già aveva detto la Pipelet. Ma viveva a Parigi per amore di Parigi, e si sarebbe disperata se avesse dovuto stare lontano dalla capitale. Un'altra anomalia! Nonostante questa inclinazione ai piaceri della grande città; nonostante la libertà, o piuttosto l'abbandono in cui si trovava essendo sola al mondo, nonostante l'economia strettissima che le toccava osservare nelle minime spese per campare con circa un franco e mezzo al giorno; nonostante il più grazioso, vivace e adorabile visetto che si potesse immaginare, Rigolette non si sceglieva mai gli innamorati (non diremo gli amanti, giacché l'avvenire proverà che si devono considerare le chiacchiere della Pipelet riguardo ai vicini della sarta come calunnie o discorsi imprudenti), Rigolette, diciamo, non si sceglieva dunque gli innamorati se non della sua classe sociale, vale a dire, non altro che i vicini, e questa eguaglianza, calcolata con il metro dell'affitto, era molto concreta. Un opulento e celebre artista, un moderno Raffaello, di cui Cabrion era un aiutante, aveva visto un ritratto di Rigolette. Sorpreso dai vaghi lineamenti della fanciulla, il maestro sostenne che l'alunno aveva poetizzato, idealizzato il modello. Cabrion, che andava superbo della gentile coinquilina, propose al maestro di fargliela incontrare una domenica alla festa da ballo del Romitorio. Il Raffaello, incantato da una così avvenente figura, fece ogni sforzo per rubare il posto al suo Giulio Romano. Le furono avanzate le offerte più splendide e seducenti, e lei eroicamente le ricusò; mentre la domenica accettava, senza cerimonie né scrupoli, dal coinquilino un pranzetto al Méridien (rinomata osteria sul boulevard du Temple), ed un posto in galleria al teatrino della Gaité o dell'Ambigu. Tali atti d'intimità potevano comprometterla, potevano suscitare singolari sospetti sulla virtù di Rigolette. Senza ancora spiegarci a questo proposito, noi osserveremo che ci sono argomenti molto delicati e comportamenti che è meglio lasciare nel vago. Poche parole sull'aspetto di Rigolette, e poi introdurremo Rodolphe nella camera della sua vicina. Rigolette aveva appena diciotto anni; statura media, ed anzi piccola, ma formata graziosamente, era rotondetta con una certa voluttà nei movimenti e così bene il suo corpo morbido ed elastico corrispondeva al suo passo sciolto, eppure qualche volta furtivo, che sembrava perfetta; un pollice di altezza avrebbe forse pregiudicato un tantino l'insieme leggiadrissimo; il moto dei piedini, sempre calzati a dovere con gli stivaletti di cachemire nero di suola un poco grossa, rammentava il portamento snello, un po' vano, eppure riservato e guardingo della quaglia o della cutrettola. Non pareva che camminasse; toccava appena il pavimento, scorreva rapidamente, quasi si tenesse lieve a galla. Questa andatura, particolare alle piccole artigiane, agile, attraente ed alquanto stizzosa, deve senza alcun dubbio attribuirsi a tre cause: al loro desiderio di comparire leggiadre; al timore di un'ammirazione che si spieghi con atti un po' troppo espressivi; alla brama che hanno sempre di perdere meno tempo che possono nelle loro passeggiate. Rodolphe non aveva visto Rigolette se non alla scarsa luce della soffitta di Morel, o sopra un pianerottolo non meno oscuro: perciò lo sorprese l'aspetto di questa ragazza quando entrò piano piano nella sua stanza, rischiarata da due larghe finestre. Stette un momento immobile a contemplare il graziosissimo quadro che aveva sotto gli occhi. Rigolette, in piedi davanti ad uno specchio che era sul caminetto, terminava di annodarsi sotto il mento i lacci di una cuffietta di tulle ricamato, adorna di nastri color ciliegia. Quella cuffia, stretta e accomodata molto indietro, lasciava scoperte due larghe e folte ciocche di capelli lisci, brillanti come specchi, che le cadevano sulla fronte. Le sopracciglia sottili sembravano segnate con l'inchiostro, e venivano ad arrotondarsi sopra un paio d'occhi grandi, neri e vispi. Le gote, pienotte e dure, erano fresche a toccarsi, come una pesca colorita, resa molle dalla fredda rugiada del mattino. Il nasino in su, furbetto, sfacciatello, avrebbe fatto la fortuna di una servetta o di una cameriera! Sulla bocca, piuttosto grande, con le labbra rosee e umide, e i denti piccoli, bianchi, stretti, lucenti, il suo sorriso aveva come un lampo di dileggio. Di tre vaghe fossette che davano una grazia maliziosa alla sua fisionomia, due stavano sulle guance, l'altra sul mento, proprio vicino a un segno di bellezza, cioè un neo color dell'ebano, in posizione strategica all'angolo della bocca. Tra il camicino guarnito all'angolo ed il fondo della cuffia, increspato con un nastro rosso, si scorgeva un ciuffo di bei capelli rialzati con tanta maestria che la radice di essi appariva nera e pulita come se fosse stata dipinta sull'avorio del perfettissimo collo. Una giubba di merinos color d'uva passa, con la vita liscia e le maniche attillate, fatta con gran premura da Rigolette, faceva risaltare un corpo così sottile e snello che la signorina non era mai costretta a portare il busto. Un'agilità, una disinvoltura veramente insolita in qualunque movimento delle spalle e del petto ricordava l'ondeggiare delle gatte. Figuratevi un vestito bene stretto sulle forme rotonde e lisce come il marmo, e converrete che Rigolette poteva bene fare a meno di quell'oggetto accessorio dell'abbigliamento cui poc'anzi accennavamo. La cintura di un cortissimo grembiale di levantina verde cupo le attorniava la vita, che con le dieci dita si poteva stringere tutta. Credendo di essere sola (giacché Rodolphe se ne stava tuttora sull'uscio immobile e non veduto), Rigolette, dopo essersi con il rovescio della mano, piccola, bianca e pulitissima, distese le trecce, posò il piede sopra una seggiola, e si chinò ad affibbiarsi la stringa dello stivaletto. E questo gesto non poteva eseguirlo senza esporre allo sguardo curioso di Rodolphe l'orlo di una calza di cotone simile alla neve, e la metà di una gamba di fattura ammirabile. Dalla minuta descrizione che abbiamo dato del suo abito, è facile indovinare che l'artigianella aveva scelto la cuffietta più bella ed il miglior grembiule per far onore al vicino nella visita che entrambi si accingevano a fare al Temple. Lei trovava molto di suo genio il supposto commesso di bottega, la cui faccia, al tempo stesso buona, altera e ardita, le piaceva assai; e poi egli si mostrava tanto compassionevole verso i Morel, cedendo ad essi generosamente la stanza, che, per questa prova di buon cuore e forse anche per l'amabilità del suo aspetto, Rodolphe, senza neppure immaginarlo, aveva fatto passi di gigante nell'acquistarsi la fiducia della nostra lavorante. E infatti, conformemente alle sue idee pratiche sopra l'intimità obbligatoria e i doveri scambievoli che impone il vicinato, schiettamente si stimava fortunata che un inquilino della specie di Rodolphe fosse subentrato al viaggiatore di commercio, a Cabrion ed a François Germain; mentre cominciava a pensare che la camera contigua rimasta vacante già da un pezzo chissà se sarebbe stata occupata, e temeva soprattutto di vederla occupare da qualche malfattore o da qualche sfacciato bellimbusto. Rodolphe approfittava della sua posizione, che lo rendeva invisibile, per volgere ansioso lo sguardo in quell'abitazione, che gli sembrava superiore anche agli encomi della Pipelet per quanto riguardava l'estrema pulizia del ristrettissimo alloggio di Rigolette. E nulla può dirsi di più grazioso e meglio sistemato di quella camerina. Una tappezzeria di carta grigia a rappe verdi copriva le pareti; il pavimento, color rosso acceso, luccicava come uno specchio; una stufa di terra bianca era posta dentro al caminetto, dove si vedevano in simmetria molti pezzi di legna tagliati corti e minuti. Sul caminetto di pietra, si vedevano due vasi di fiori ordinari tutti di un verde smeraldo, vasi che in tutta la bella stagione erano pieni sempre di fiori di campo, ma profumati; un piccolo cassettino di bosso, con dentro un orologio d'argento, faceva le veci di pendola; da una parte una bugia di rame, risplendente come l'oro, con un pezzetto di cerino; dall'altra, non meno risplendente, una di quelle lampade formate con un cilindro ed un tettino di ottone sopra un gambo di acciaio, e con il piede di piombo; e sopra tutto questo, uno specchio grande e quadro con la cornice di legno nero. Le tendine di tela grigia e verde, con in fondo una frangia di lana, tagliate e cucite da Rigolette, e da lei stessa montate su sottilissimi ferri, addobbavano le finestre ed anche il letto su cui stava una trapunta consimile. Due comodini a vetri, posti da ogni lato dell'alcova, contenevano senza dubbio gli utensili di casa, il fornello, la fonte, la scopa, eccetera, poiché nessuno di questi oggetti guastava l'elegantissimo aspetto della camera. Un cassettone di noce ben venato, ben lustro, le sedie dello stesso genere, una gran tavola per lavorare e stirare, con sopra una di quelle tovaglie di lana verde che si trovano talvolta nelle case dei contadini, una poltrona di paglia con uno sgabellino da piedi uguale, solito seggio della vezzosa padroncina, componevano tutta la mobilia. E finalmente, nel vano di una finestra, la gabbia dei due canarini, commensali fedeli della Rigolette. Per una di quelle idee industriose che vengono soltanto in testa ai poveri, questa gabbia era posta in mezzo a una gran cassa di legno fonda mezzo braccio, collocata sopra una tavola; e quella cassa, chiamata da Rigolette il giardino dei suoi uccelli, era piena di terra, cosparsa di muschio durante l'inverno, e nella primavera vi si seminavano erbette e fiorellini. Rodolphe considerava la dimora della ragazza con vero interesse, e comprendeva che lei dovesse essere dell'umore più giocondo. Si figurava quella solitudine divagata alquanto dal gorgheggio dei canarini e dal canto della fanciulla. Nell'estate, certo, lei cuciva accanto alla finestra aperta, mezzo nascosta da una tendina verdeggiante di piselli odorosi, di nasturzi color arancio e di convolvoli bianchi e turchini; e d'inverno vegliava accosto alla stufa, al dolce chiarore della sua lampada. Però ogni domenica si distraeva da quella vita laboriosa mediante una buona giornata di divertimento, insieme con un giovane vicino, allegro, spensierato, innamorato come lei. (Poiché allora Rodolphe non aveva ragione di credere nella grande virtù di Rigolette.) Il lunedì riprendeva i suoi lavori, riflettendo sui piaceri goduti e su quelli avvenire. Rodolphe compre
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