I misteri di Parigi

Eugène Sue.
I MISTERI DI PARIGI.
Eugène Sue.
- La vita.
Marie-Joseph Eugène Sue (detto
poi semplicemente Eugène) nasce
a Parigi il 5 Piovoso dell'anno
Dodicesimo della Repubblica (cioè
il 26 gennaio 1804), ed è tenuto a
battesimo
da
Giuseppina
Beauharnais,
la
futura
imperatrice; è l'ultimo rampollo di
una famiglia di chirurghi: dai
tempi di Luigi Quattordicesimo se
ne contano ben quattordici, tutti
titolari
delle
cariche
più
importanti negli ospedali e alla
Facoltà di Medicina di Parigi, tutti
insigniti di svariati titoli onorifici.
Naturalmente, il padre dello
scrittore, Jean-Joseph, cavaliere
dell'Impero
napoleonico
(ma
anche sotto la Restaurazione saprà
riciclarsi come medico del re),
pretende che il figlio segua le
orme degli antenati. Ma Eugène si
rivela studente pigro e incline alla
goliardia; frequenta il Collège
Bourbon di Parigi dal 1816 al 1821,
con risultati assai modesti; unica
distinzione, un premio di disegno,
nel 1820: la pittura rimarrà a
lungo una delle passioni di Sue.
Non ottiene risultati migliori il
tirocinio pratico cui il padre lo
sottopone all'ospedale della Casa
militare del re. Quando, nel 1823,
scoppia la guerra di Spagna (quella
che si concluderà con la vittoria
dei francesi al Trocadero e la fine
della
Rivoluzione
liberale
spagnola), il ragazzo è spedito al
fronte per punizione, come
ausiliario nell'ospedale di campo.
Se non altro, ottiene un posto
fisso come medico militare,
professione che eserciterà per
qualche mese all'ospedale militare
di Tolone.
Mentre la brillante carriera del
padre procede fra le onorificenze
(fra cui la Legion d'onore nel
1824), il figlio ribelle decide di
abbandonare la chirurgia per la
letteratura: si licenzia nel 1825
dall'ospedale militare di Tolone
(città in cui si era appena tenuta
con successo la rappresentazione
della sua prima commedia), e
inizia a collaborare al quotidiano
"La Nouveauté", da poco fondato
da un suo cugino, Ferdinand
Langlé. Esordisce con quattro
pezzi
anonimi,
ironici
e
dissacranti, le "Lettere dell'UomoMosca al signor Prefetto di
Polizia", accolti con grande
scandalo dalla rispettabile famiglia
Sue.
A corto di soldi, già nel 1826
l'aspirante scrittore si imbarca
come medico di bordo su una nave
diretta verso i mari del Sud; l'anno
successivo è nelle Antille, con
un'altra fregata; quando la Francia
interviene
nella
guerra
d'indipendenza greca, Eugène si
arruola nella marina militare
come
chirurgo
ausiliario:
nell'ottobre del 1827 presta
servizio alla battaglia di Navarino
(sconfitta dei turchi contro la
flotta greca assistita da francesi,
inglesi e russi).
Rientrato in patria, frequenta
l'atelier di un pittore alla moda,
Théodore
Gudin: impara a
dipingere
quadri
di
genere
(soprattutto delle "marine") e
conosce il futuro caricaturista e
narratore
umoristico
Henry
Monnier. Intanto, continua a
intrattenere
rapporti
con
l'ambiente letterario, collaborando
a vari quotidiani e riviste, fra cui
"La Mode", diretta da Emile de
Girardin. Nel 1830 muore il
cavalier Jean-Joseph; il figlio si
trova a ereditare un cospicuo
patrimonio, che gli consente di
abbandonare definitivamente la
marina e la medicina, e di lanciarsi
nella vita mondana. Ben presto
diventa uno dei più noti dandy
parigini,
elegantissimo
e
stravagante, sempre pronto a
mettere in ridicolo i valori e le
abitudini dell'odiata borghesia e
del suo rappresentante simbolico,
Luigi Filippo, il re borghese che
proprio quell'anno è salito al
trono, e che gli oppositori
soprannominano "il droghiere".
Fra letteratura e pittura, Sue opta
per la prima, iniziando a
pubblicare romanzi e racconti di
ambiente marinaresco: nel 1831
escono "Plick e Plock" e "AtarGull", l'anno successivo "La
Salamandra" ("La Salamandre") e i
racconti della "Cucaracha" ("La
Coucaratcha"); nel '33 "La vedetta
di Koat-Ven" ("La vigie de KoatVen"). Il giovane dandy non
poteva mancare alla seduta
inaugurale del Jockey Club,
società nata con lo scopo di
perfezionare le razze equine di
Francia; come ogni membro che si
rispetti, frequenta le corse e tiene
scuderia, mentre lavora a una
storia della marina francese dal
Quattrocento
all'epoca
contemporanea. Torna al romanzo
(storico, questa volta) nel 1837,
con "Latréaumont".
L'anno successivo segna una
prima svolta nell'esistenza di Sue:
il patrimonio familiare, messo a
dura prova dalla vita dissipata del
dandy, è ormai ridotto allo stremo:
Eugène ha bisogno di soldi, e sarà
la sua attività di romanziere a
procurarglieli. Però, anche la sua
vena creativa sembra essersi
esaurita nel turbine della vita
parigina; lo scrittore si ritira allora
in campagna, in Sologne, e ritorna
nella capitale solo quando è
pronto il manoscritto di un
romanzo di analisi, "Arthur"
(1838). Da questo momento fino
alla morte la sua produzione
romanzesca
segue
ritmi
forsennati, paragonabili a quelli
celebri del contemporaneo Balzac,
sempre incalzato dai creditori.
Scrivere, per Sue, è stato fino
allora un modo per ribellarsi
all'autorità patema, poi un aspetto
della sua vita mondana, un mezzo
facile per ostentare genio e
sregolatezza; ora diventa una vera
e propria professione. Il successo,
sia pure non eccezionale, di
romanzi come "Arthur" e "Il
marchese di Létorière, o l'arte di
piacere"
("Le
marquis
de
Létorière, ou l'Art de plaire", 1839)
gli consente di trarsi d'impaccio:
affitta una casa piccola ma
elegante in rue de la Pépinière,
dove lavora assiduamente senza
rinunciare a qualche piacere
mondano (fra l'altro, ha una
relazione con la contessa Marie
d'Agoult, temporaneamente in
rotta con il musicista Franz Liszt).
I buoni risultati economici
ottenuti dai romanzi di Sue si
spiegano con una grande novità
editoriale che ha fortemente
innovato, pochi anni prima, il
romanzo francese. Nel 1836 uno
dei più importanti giornalisti
parigini, Emile de Girardin, ha
un'idea che si rivelerà geniale:
fondare, insieme a Dutacq, un
nuovo giornale, venderlo a prezzo
molto economico e pubblicarvi dei
romanzi a puntate: nasce il
"roman feuilleton", o "romanzo
d'appendice". In seguito a un
litigio fra i due giornalisti, Dutacq
abbandona Girardin, fonda da solo
il "Siècle", e si appropria dell'idea
del "feuilleton" (il primo testo a
uscire a puntate è una traduzione
del "Lazarillo de Tormes", il
capolavoro del romanzo picaresco
spagnolo, del 1555).
Contemporaneamente, però,
Girardin fonda "La Presse"; il
grande successo arriva quando su
questo giornale esce a puntate,
nell'ottobre dello stesso anno, "La
zitella" di Balzac. Nel giro di pochi
mesi molti altri quotidiani copiano
la formula: inizia la grande
stagione del "feuilleton", che con
fasi alterne durerà almeno fino al
principio del Novecento (non solo
i "romanzieri popolari" come Sue
pubblicano in appendice, ma
anche il grande Balzac, e perfino il
raffinatissimo Flaubert: "Madame
Bovary" esce a puntate sulla
"Revue de Paris" del 1856). Per la
verità, il termine "feuilleton" era
stato inventato, già nel 1800,
dall'abate Geoffroy, critico teatrale
del "Journal des Débats": indicava
uno spazio a fondo pagina
evidenziato da un filetto, o un
inserto dato come "appendice" del
giornale, su cui comparivano
recensioni letterarie e teatrali, ma
anche
annunci
vari, giochi
enigmistici, informazioni sulla
moda, eccetera. Questo spazio
ebbe grande successo, e fu
adottato da numerosi giornali;
saltuariamente, vi apparivano
anche racconti o altri testi
letterari; ma è solo nel 1836 che
nasce il modulo del vero e proprio
romanzo d'appendice. Dato il
successo delle vendite, i giornali
possono retribuire adeguatamente
gli autori: la fama e l'agiatezza di
Sue si consolidano: il 15 settembre
del 1840 il più influente critico
letterario dell'epoca, Sainte-Beuve,
dedica a Sue un articolo tutto
sommato
elogiativo
sulla
prestigiosa "Revue des deux
mondes". Nel '41 esce "Mathilde,
storia di una giovane donna"
("Mathilde, histoire d'une jeune
femme"), altro romanzo di analisi
psicologica e di costume; l'anno
successivo il testo è adattato alle
scene
da
Sue,
con
la
collaborazione di Félix Pyat. A
partire da questo momento,
numerosi testi narrativi di Sue
saranno trasformati in "pièces"
teatrali,
o
direttamente
dall'autore, o in collaborazione
con scrittori drammatici affermati.
Risale al '41 una seconda
grande svolta nella vita di Sue, la
cosiddetta "conversione": è lo
stesso Pyat a fargli conoscere un
operaio suo amico; invitato a cena
a casa del proletario parigino, e
sottoposto
a
un
sommario
indottrinamento, lo scrittore di
successo, ancora un po' dandy
nonostante
le
difficoltà
finanziarie, esce gridando: "Sono
socialista!". L'entusiasmo
del
neofita non è certo garanzia di
approfondimento ideologico: in
realtà, è il ribellismo originario di
Sue (quello che lo portava a
sfidare l'autorità paterna e le
convenzioni
borghesi
su
posizioni non certo "di sinistra") a
trovare uno sfogo nella questione
sociale. Sta di fatto, però, che dopo
aver dato alle stampe vari altri
testi di minore importanza (fra cui
"Paula
Monti
e
Thérèse
Dunoyer"), il 19 giugno del 1842,
sul "Journal des Débats", inizia a
pubblicare "I misteri di Parigi"
("Les Mystères de Paris"); per più
di un anno, fino al 15 ottobre del
1843,
quando
esce
la
centoquarantasettesima e ultima
puntata, tutta la Francia tiene il
fiato sospeso: il "Journal des
Débats" moltiplica le vendite, la
fama dei patriarchi del romanzo
francese (Hugo, Balzac, Dumas
padre) è oscurata, si assiste a un
fenomeno letterario di massa
assolutamente inedito. Immediata
la trasposizione teatrale: un
dramma firmato da Sue e Gobaux,
della durata di sette ore, che
riscuote le ovazioni del pubblico.
Il successo, sia pure in
proporzioni meno clamorose, si
ripete nel biennio successivo,
quando, fra il 25 giugno del 1844 e
il 12 luglio del '45 appare sulle
colonne del "Constitutionnel"
"L'Ebreo errante" ("Le Juif
errant"). Ormai Sue ha un
pubblico entusiasta, che seguirà
fedelmente la sua produzione
successiva: tuttavia, i grandi
romanzi degli ultimi anni, troppo
ambiziosi e spesso farraginosi,
non possono ripetere l'"exploit"
dei due primi testi "sociali". Nel
'46, oltre a vari lavori teatrali, esce
"Martin, il trovatello" ("Martin,
l'enfant
trouvé");
l'anno
successivo si inaugura, sul
"Constitutionnel", la serie dei
"Sette peccati capitali" ("Les sept
péchés capitaux"): il primo
romanzo, dedicato all'orgoglio, si
intitola "La duchessa" ("La
duchesse").
Nel 1848, Sue si lancia nel
romanzo politico ("Il repubblicano
delle campagne", "Le républicain
des campagnes"; "Il pastore di
Kravan", "Le berger de Kravan") e,
in prima persona, nell'attività
politico- rivoluzionaria. Cade la
monarchia di Luigi Filippo, si
proclama la Seconda Repubblica;
lo
scrittore,
candidato
dei
Repubblicani Socialisti, non riesce
a farsi eleggere deputato; intanto,
trova però il tempo di fare uscire,
sempre sul "Constitutionnel", altri
tre romanzi della serie dei "Sette
peccati capitali", quelli dedicati a
invidia, collera e lussuria. "L'ozio:
il cugino Michel" ("La paresse: le
cousin Michel") appare invece nel
'49, mentre l'autore lancia una
nuova ambiziosissima serie, "I
misteri del popolo, o storia di una
famiglia di proletari attraverso i
secoli" ("Les Mystères du peuple,
ou Histoire d'une famille de
prolétaires a travers les âges"): si
tratta, nientemeno, di un affresco
romanzesco della condizione delle
classi inferiori dall'epoca dei
Druidi a quella contemporanea.
La situazione politica, intanto,
si fa sempre più difficile per Sue:
la destra bonapartista vince le
elezioni, e il romanziere popolare
subisce
numerosi
attacchi;
ciononostante, si candida alle
elezioni, a Parigi, nel 1850, e
riesce
eletto.
Contemporaneamente, la legge
Riancey manda in crisi giornali e
riviste, imponendo una tassa sui
"feuilleton";
Sue,
tuttavia,
continua
a
pubblicare
in
appendice a ritmi frenetici: porta
avanti i "Sette peccati capitali" e i
"Misteri del popolo", inaugura
"Fernand Duplessis, o le memorie
di un marito" ("Fernand Duplessis
ou les Mémoires d'un mari").
Dopo il 2 dicembre del 1851 (colpo
di Stato di Luigi Bonaparte, il
futuro Napoleone Terzo) Sue,
inviso ai nuovi potenti, sceglie
l'esilio ad Annecy, in Savoia (che,
al tempo, faceva ancora parte del
Regno di Sardegna), dove morirà,
stremato dal lavoro e deluso dalla
politica, il 3 agosto del 1857.
Intanto,
aveva
pubblicato
l'ultimo volume della serie sui
peccati capitali ("La gola: il dottor
Gastérini", "La gourmandise: le
docteur
Gastérini",
1852),
concluso "Fernand Duplessis"
(nello stesso anno), scritto nuovi
romanzi come "La marchesa
Cornélia d'Alfi o il Lago di Annecy
e i suoi dintorni" ("La marquise
Cornélia d'Alfi ou le Lac d'Annecy
et ses environs", sempre del 1852)
e "La famiglia Jouffroy" (1853).
Soprattutto, era riuscito a portare
a termine l'impresa monumentale
dei "Misteri del popolo": l'ultima
puntata esce poco prima della
morte dell'autore.
- Le opere.
Il primo libro di Sue, dal titolo
provocatoriamente "non-sense",
"Plick e Plock", raccoglie due
racconti
lunghi
d'avventure
marinaresche. Lo scrittore sfrutta
da un lato i suoi ricordi personali
dei viaggi nei mari esotici,
dall'altro la voga della letteratura
d'avventura oceanica alla James
Fenimore
Cooper
(quello
dell'"Ultimo dei Mohicani", autore
anche
dell'allora
celeberrimo
"Corsaro rosso", apparso nel
1828). Un pirata, Kernock, è il
protagonista anche del primo dei
due racconti di Sue: è un eroe
sinistro, che fa fortuna fra orge,
massacri e incendi, per poi
terminare i suoi giorni come
stimatissimo amministratore dei
beni della sua parrocchia; alla
tematica avventurosa, che già
predilige le tinte forti, si affianca
dunque un intento satirico, di
demistificazione antiborghese e
anticlericale. I frati di un convento
sono i complici del "Gitano", il
contrabbandiere spagnolo del
secondo racconto di Sue, che, fra
l'altro, ha una tresca con una
suora (tema gettonatissimo di
derivazione "gotica": si pensi al
"Monaco" di Lewis). Torna la
violenza della vita di bordo in
"Atar-Gull", il secondo libro di
Sue, il cui protagonista è un
negriero. Nella "Salamandra",
invece, è la marina militare ad
essere analizzata dalla penna
sarcastica e un po' truce del
giovane dandy. C'è, in questo ciclo
marinaresco, come
poi
nei
romanzi di ambiente sociale, un
intento enciclopedico, di studio
parascientifico dei diversi tipi che
si incontrano in un dato ambiente
(appunto:
il
pirata,
il
contrabbandiere, il negriero, il
militare). Per questo aspetto, i
romanzi di Sue si imparentano
con la "Commedia umana" di
Balzac e, in generale, con la grande
voga delle "Fisiologie", brevi
monografie che analizzavano i vari
ruoli sociali (l'impiegato, il
giornalista, il pasticciere, il
commesso viaggiatore, eccetera)
con piglio ironico e frequenti
abbozzi narrativi (per quanto oggi
possa sembrare strano, negli anni
Trenta e soprattutto all'inizio degli
anni Quaranta del secolo scorso
questi libretti erano veri e propri
best-seller). Sainte-Beuve noterà
in questo primo Sue il calore
dell'esperienza vissuta, e gli
riconoscerà il merito di avere
introdotto
nella
letteratura
francese
un
genere
nuovo
(appunto, il romanzo marinaresco,
fiorente in area anglosassone e
fermo, in Francia, al "Beauchesne"
di Lesage).
Nella "Salamandra" compare
un procedimento che sarà poi
tipico di tutta la letteratura
popolare (e in particolare dei
"Misteri di Parigi"): la struttura
manichea,
cioè
la
contrapposizione netta e priva di
sfumature fra bene e male, fra
buoni e cattivi: i personaggi sono
tutti d'un pezzo, l'ufficiale modello
è lo specchio di ogni virtù, mentre
il pirata arricchito e trasformatosi
in gran signore, Szaffie, è un
tizzone d'inferno - evidente, già in
questo romanzo, la polemica
contro l'ipocrisia e la corruzione
del bel mondo parigino, di cui
pure Sue faceva parte.
Esaurita
la
tematica
marinaresca, Sue si riallaccia al
filone del romanzo storico alla
Walter Scott, e ancora una volta
immagina un eroe diabolico; un
pirata di terra ferma, brutale e
cinico, un nobilotto normanno
implicato negli intrighi della
Fronda (la rivolta aristocratica
che, a metà Seicento, tenta di
minare
il
centralismo
monarchico):
Latréaumont,
protagonista
dell'omonimo
romanzo. Con "La vedetta di KoatVen" i due generi si innestano:
abbiamo un romanzo storico
marittimo. Tempeste, pirati ed
esotismo non mancano nemmeno
in "Arthur", dove prevale tuttavia
l'analisi psicologica e sociale di
una figura di dandy scettico fino al
cinismo, che dubita di tutto e
particolarmente di se stesso, e non
riconosce l'amore sincero di
Hélène.
Tutti i romanzi che Sue scrive
fra il 1836 e il 1840 escono in
appendice: ma l'autore fatica a
elaborare una forma adeguata alla
pubblicazione
a
puntate,
un'estetica
del
"feuilleton";
anziché modellare il racconto in
funzione delle puntate, segue,
come i romanzieri tradizionali, un
piano strutturale precostituito. È
con
"Mathilde", il
secondo
romanzo di analisi psicologicosociale, che l'autore inizia a
elaborare quelle tecniche che
faranno la fortuna dei "Misteri di
Parigi"
(contemporaneamente,
anche Dumas padre, Frédéric
Soulié e vari altri si stanno
confrontando con i problemi
tecnici posti dalla pubblicazione
su giornale: per cui è difficile
stabilire chi sia il "vero" padre del
romanzo d'appendice). "Mathilde"
è una storia di amore romantico
sullo sfondo della Restaurazione
e, poi, della Rivoluzione del luglio
1830: è analizzata non senza
efficacia l'evoluzione della società
francese, mentre ritorna la
polemica contro il cinismo del bel
mondo.
Ma quali sono i segreti del
romanzo popolare, qui messi alla
prova
e
poi
perfezionati
definitivamente nei "Misteri di
Parigi"? Innanzitutto, bisogna
garantirsi il pubblico, convincere il
lettore a comprare anche la
puntata successiva: ogni episodio
deve dunque contenere una mezza
anticipazione - quanto basta per
suscitare curiosità - e poi
concludersi bruscamente (per
esempio, con la tipica formula
"Ma non anticipiamo i fatti"),
lasciando il lettore nelle peste. È il
trionfo della suspense (non a caso,
proprio in quegli anni, con Poe,
nasce il racconto poliziesco; e il
romanzo popolare - soprattutto i
"Misteri di Parigi" - rigurgita di
crimini e misfatti). Le emozioni
forti possono derivare anche dal
ricorso alle tecniche del fantastico
(frequente in Sue) o al terrore
delle atmosfere del "noir". La
trama,
inevitabilmente,
si
complica: non c'è una storia sola,
lineare, ma un groviglio di vicende
che si incrociano e si rincorrono
nei vari episodi, tenendo il lettore
col fiato sospeso fino allo
scioglimento: alla fine tutto si
chiarisce,
mentre
i
buoni
trionfano con l'immancabile lieto
fine. Ogni episodio deve suscitare
nuove curiosità, ma anche essere
in sé concluso, praticamente
autonomo: i romanzi a puntate
sono sempre "seriali", hanno una
struttura aperta, un numero
indeterminato di personaggi che
possono anche uscire di scena e
perdersi nel nulla (per questo
aspetto, Sue era un inconsapevole
precursore: i
suoi
romanzi
marinareschi
avevano
esattamente questa struttura a
episodi, erano racconti "di scalo":
il viaggio in nave collegava scene
spesso indipendenti).
È facile, oggi, ironizzare su
procedimenti che
i "serial"
televisivi e la peggior letteratura di
consumo hanno reso fin troppo
familiari: in realtà, Sue e
compagni
devono
dispiegare
un'abilità non comune nella
messa a punto di nuove tecniche
narrative,
rispondendo
contemporaneamente
a
un
bisogno diffuso del pubblico cui si
rivolgevano. Il manicheismo dei
caratteri e delle situazioni, tipico
del
romanzo
popolare,
è
fortemente debitore, come ha
dimostrato
lo
studioso
statunitense Peter Brooks, al
modello del melodramma: c'è,
nella letteratura ottocentesca,
tutto
un
filone
"pateticosentimentale",
che
annovera,
accanto al romanzo popolare e al
libretto d'opera, anche testi
senz'altro "alti", come certi
romanzi di Balzac, di Hugo e di
Henry James. La semplificazione
dei conflitti, epurati da ogni
ambivalenza e riportati all'eterna
lotta di bene e male, è funzionale
alla fondazione di una nuova etica
laica, in grado di sostituire le
certezze
religiose
abbattute
dall'Illuminismo;
il
"pathos"
garantisce
una
piena
identificazione fra lettore e
personaggio, favorita anche dalla
forte tensione narrativa.
Nella letteratura popolare la
trama è tutto: motivo per cui non
se ne farà cenno in questa
introduzione: tutto il piacere della
lettura dei "Misteri di Parigi" sta
nel susseguirsi scoppiettante di
eventi
sempre
nuovi
e
imprevedibili (colpi di scena,
peripezie improbabili...), nell'abile
gestione dell'intreccio e della
suspense. Mentre lo stile oscilla
fra la sciatteria di chi scrive in
fretta e troppo, e l'esasperazione
metaforica
di
un
tardo
romanticismo,
appunto,
da
melodramma, che predilige le
immagini
truci
(così
nelle
frequentissime descrizioni).
Un altro aspetto importante, e
assai discusso, dei "Misteri di
Parigi" è la portata ideologica del
testo. Per quanto convertito a un
generico "socialismo" (solo in anni
successivi l'autore si avvicinerà
con cognizione di causa alle
posizioni di Fourier), Sue inizia il
romanzo con l'intento di dare un
quadro pittoresco dei bassifondi
parigini ad uso e consumo del
lettore borghese: non, dunque,
letteratura per il popolo, e
nemmeno letteratura impegnata,
di denuncia, alla Zola: si trattava
anzi di sfruttare gli orrori della
condizione proletaria per dare
emozioni forti a lettori di ben altra
estrazione sociale. Solo in corso
d'opera, incitato dal successo
strepitoso
che
il
romanzo
incontrava proprio perché era
considerato dal popolo (quello
alfabetizzato, beninteso, che non
va confuso con tutta la massa
proletaria) un romanzo "di
sinistra" e a favore del popolo, nei
cui personaggi era possibile
identificarsi, Sue si decide ad
approfondire la denuncia sociale, a
documentarsi
sul
posto,
a
osservare le miserie dei proletari ma con occhio sempre pateticoromantico,
non
certo
prenaturalista. (È questo un altro
elemento tipico della tecnica
dell'appendice: non c'è più un
piano preordinato da seguire; sono
spesso le reazioni del pubblico e le
contingenze della cronaca a
suggerire, di volta in volta, la
continuazione: si perde ogni
disegno
d'insieme,
a
tutto
vantaggio
della
fruizione
immediata dei singoli episodi).
Sue,
più
che
analizzare,
compiange; più che incitare alla
lotta sociale, consola - anche se,
nell'ultima parte, abbondano le
perorazioni politiche e le proposte
di riforme sociali (così negli
episodi ambientati nella fattoria
modello di Bouqueval, paradigma
di un socialismo utopico e in
ultima analisi paternalistico.)
Nell'"Ebreo errante" la vicenda
sociale contemporanea si intreccia
con
motivi
di
derivazione
tradizionale e mitica, offrendo
l'esempio più evidente della
commistione, in Sue, di realismo
romantico e fantastico visionario.
Il protagonista ed Erodiade
portano
un
soccorso
soprannaturale
ai
loro
discendenti, minacciati dal potere
diabolico dei gesuiti: sono i
maneggi ipocriti di questi ultimi
l'obiettivo polemico principale
dell'enorme romanzo, che è un
affresco a tinte forti della recente
storia francese (notevoli le pagine
sul colera del 1832, quasi
personificato) e, insieme, un
repertorio di situazioni tipiche del
"noir" e del soprannaturale. Tratti
che ritornano, in combinazioni di
volta in volta diverse, negli ultimi,
e meno riusciti, romanzi popolari
e sociali di Sue, in particolare nei
"Misteri del popolo". Si accentua
da un lato l'impegno politico (con
le relative tirate socialisteggianti),
dall'altro
il
manicheismo
dell'autore,
sempre
più
schematico e unilaterale: i poveri
sono tutti buoni, i ricchi tutti
cattivi, i preti diabolici (fra le
poche eccezioni, il bellissimo,
ricchissimo e misteriosissimo
protagonista dei "Misteri di
Parigi", il principe tedesco Rodolfo
(Rodolphe) di Gerolstein, che
percorre i bassifondi parigini
dispensando benefici e giustizia). La fortuna.
Il nome di Sue è da sempre
legato essenzialmente ai "Misteri
di Parigi": il travolgente successo
di pubblico scatena un'immediata
corsa all'imitazione, che si protrae
per quasi tutto l'Ottocento: non si
contano i romanzi e romanzacci
che ne riprendono, fin dal titolo
("I misteri di..."), la tematica
metropolitana e miserabilistica.
Nel 1843, appena il "feuilleton" di
Sue è giunto al termine, un altro
scrittore di cassetta, Paul Féval,
lancia sul "Courier Français"
"I misteri di Londra"; l'autore non
sa l'inglese e non ha mai
attraversato la Manica: manda a
Londra degli informatori, ma
punta più sull'avventuroso che
sulla rappresentazione realistica,
ottenendo un enorme consenso di
pubblico. Stesso titolo per l'opera
rettificatrice di un autoctono,
Reynolds, apparsa in dieci anni a
partire dal 1845 sul "London
Journal".
Come ogni best-seller, il
romanzo di Sue offre il fianco alla
parodia: puntualmente, il 5 marzo
del 1844, vanno in scena alle
"Folies dramatiques"
"I misteri di Passy", dramma
burlesco
ambientato
in
un
sobborgo di Parigi (oggi quartiere
elegante
nel
sedicesimo
arrondissement). Naturalmente,
c'è anche chi crede di saperla più
lunga di Sue: nello stesso anno
escono "I veri misteri di Parigi" di
Vidocq; e chi riprende e adatta per
il teatro alcuni episodi o ambienti
del modello: così i "Misteri del
Coniglio Bianco" (la bettola losca
che tanta parte ha nel romanzo). E
la formula è applicata anche ad
altre città: compaiono "I misteri di
Berlino",
quelli
di
Vienna,
eccetera.
Ma non è solo la letteratura
popolare ad essere influenzata dal
modello di Sue: pur con maggiori
ambizioni (e con mezzi artistici
più raffinati), Hugo riprende in
parte la formula dei "Misteri di
Parigi" nei "Miserabili" (1862);
mentre il giovane Zola, non ancora
emancipato
dagli
stereotipi
romantici, scrive addirittura, nel
1867, dei "Misteri di Marsiglia".
Ma
anche
romanzi
ormai
interamente naturalisti (lontani,
dunque,
dal
manicheismo
melodrammatico, dal gusto per i
colpi di scena, dal metaforismo
truculento e dal ricorso al
fantastico tipici di Sue) come "Il
ventre di Parigi" (1873) e
"L'Assommoir" (1877) riprendono,
con strumenti positivisti, l'analisi
dei bassifondi inaugurata da Sue e saranno numerosi anche i testi
che
si
caleranno
programmaticamente nelle viscere
delle grandi città: si pensi al
"Ventre di Napoli" della Serao
(1884).
In Italia la fortuna di Sue,
ricostruita puntualmente da vari
critici, fra cui Enrico Ghidetti e
soprattutto Quinto Marini, è forse
meno immediata ma certamente
più duratura, e dà vita, lungo tutta
la seconda metà dell'Ottocento, a
una vastissima produzione di
romanzi "sociali". Pur avendo
avuto tre precoci traduzioni
italiane, nel 1843-1844 a Firenze e
nel 1848 a Milano e in Ticino, "I
misteri di Parigi" hanno una
diffusione davvero di massa solo a
partire dall'edizione milanese del
1854 (prima della fine del secolo, e
con particolare frequenza negli
anni Ottanta, si conteranno
almeno altre otto versioni, quasi
tutte pubblicate a Milano). Ma già
nel 1853 sono usciti a Volterra "I
misteri di Livorno", firmati
dall'avvocato C. M.; quattro anni
più tardi Carlo Lorenzini (Collodi)
dà alle stampe il primo volume dei
suoi "Misteri di Firenze, scene
sociali",
che
rimarranno
incompiuti. Anche Roma ha i suoi
"Misteri", anonimi, del '61; Milano
può contare su Paolina. "Mistero
del coperto Figini" di Igino Ugo
Tarchetti, pubblicato nel '65; due
anni dopo escono "I misteri di
Genova" di Anton Giulio Barrili.
Ma la città più "misteriosa"
d'Italia, naturalmente, è Napoli: i
celeberrimi "Misteri di Napoli" del
prolifico appendicista Francesco
Mastriani (usciti in novantasette
puntate su "Roma" fra il 1869 e il
1870, e in volume nel 1875: sono
uno degli oltre cento romanzi
dell'autore) furono preceduti da
un'opera omonima dell'avvocato
L. I. e da alcune dispense, presto
interrotte, pubblicate già nel 1847
dal de Sterlich.
La
pubblicazione
monumentale
delle
"Opere
complete" di Sue, in 199 volumi,
avvenuta a Parigi fra il 1904 e il
1907, anziché segnare, come
spesso in questi casi, la definitiva
consacrazione di un "classico",
coincide con il momento più basso
della fortuna critica dello scrittore:
troppo lontani dalla sensibilità
modernistica
del
primo
Novecento, i suoi romanzi sono
liquidati senz'altro come cattiva
letteratura. L'attenzione recente
per la letteratura popolare e la
comunicazione di massa, il gusto
postmoderno per la trama, il
"ritorno dell'intreccio" che dà il
titolo all'Almanacco Bompiani del
1972 (un volume miscellaneo che
segna un momento importante
nella ripresa degli studi sul
romanzo di consumo) hanno fatto
sì che negli ultimi anni Sue
ricominci ad essere letto (anche
grazie all'antologia curata nel 1963
da Jean-Louis Bory) e studiato
(ma la produzione critica resta
tutto sommato esigua).
Quelle di Nora Atkinson, del
1929, e dello stesso Bory, del 1962,
rimangono
le
uniche
due
monografie
complessive
importanti sullo scrittore; la prima
è un'utile fonte di notizie sulla vita
e sull'opera di Sue, mentre la
seconda,
oltre
a
fornire
un'accurata
e
partecipe
ricostruzione biografica, affronta
in maniera più complessa e
approfondita i nodi storico-critici,
eccedendo tuttavia, a tratti, nel
sopravvalutare la portata estetica
della narrativa di Sue (soprattutto
dei
giovanili
romanzi
marinareschi) e nell'apprezzare le
valenze progressiste dei suoi testi
sociali. Sull'ambiguità politica del
romanzo popolare, e dei "Misteri
di Parigi" in particolare, hanno
insistito in modo convincente vari
lettori e studiosi, da Karl Marx a
Umberto Eco. Il primo non tarda a
notare, nella "Sacra famiglia",
come il romanzo di Sue, anziché
aiutare gli sfruttati a prendere
coscienza della propria condizione,
elargisca loro il piacere di un
mondo alternativo, in cui ci sono
sì tutti gli orrori di quello reale,
ma anche la certezza che il bene
trionferà; anzi, l'intervento di
Rodolphe, riformista e non
rivoluzionario, ribadisce la forza
dei pregiudizi cristiani e borghesi.
Per questo Eco può parlare di "una
macchina gratificatoria", il cui
sfondo
ideologico
è
"socialdemocratico-paternalista".
Il semiologo italiano si è occupato
a più riprese dei "Misteri di
Parigi", ravvivando l'interesse
della critica per un testo che, al di
là dei risultati artistici, costituisce
un fenomeno storico-letterario e
un fatto mediatico (un grande
avvenimento nella storia della
comunicazione
di
massa)
straordinariamente significativo.
In anni recenti, lo sviluppo della
critica della ricezione (che studia
non solo - non tanto - il testo
letterario in sé, quanto le sue
vicende editoriali e le ragioni del
suo successo) ha segnato una
netta ripresa di interesse per il
romanzo popolare in generale e
per l'opera di Sue in particolare;
un eccellente quadro complessivo
su queste problematiche si trova
nel volume che Jean-Claude
Vareille ha dedicato nel 1994 a
ideologie e pratiche del romanzo
popolare
francese,
mentre
all'autore dei "Misteri di Parigi" è
consacrato
un
numero
monografico della rivista "Europe"
(1982).
BIBLIOGRAFIA.
- Prime edizioni in volume: E. Sue,
"Les Mystères de Paris", 10
volumi, Gosselin, Parigi, 18421843.
E. Sue, "Les Mystères de
Paris", 4 volumi, Gosselin, Parigi,
1843-1844 (ed. definitiva rivista
dall'autore).
- Prime traduzioni italiane: E.
Sue, "I misteri di Parigi", trad. di F.
Berti, 7 volumi, Pezzati, Firenze,
1843-1844. E. Sue, "I misteri di
Parigi"", Borroni e Scotti, Milano,
1848. E. Sue, "I misteri di Parigi,
Traduzione italiana", 4 volumi,
Tipografia Elvetica, Capolago,
1848. E. Sue, "I misteri di Parigi.
Romanzo", Centenari, Milano,
1854.
- Principali studi in italiano sul
romanzo
d'appendice,
sulla
letteratura
popolare
e
in
particolare su Sue: Autori Vari,
"Cent'anni
dopo. Il
ritorno
dell'intreccio", a cura di U. Eco e C.
Sughi,
Almanacco
Bompiani,
Milano, 1972.
Autori Vari, "L'Italia dei
misteri. Storie di vita e malavita
nei romanzi d'appendice", a cura
di R. Reim, Editori Riuniti, Roma,
1989 (si tratta di un'antologia per
temi del romanzo "sociale"
italiano dell'Ottocento, allestita
con criteri non sempre rigorosi).
Autori
Vari,
"La
paraletteratura. Il melodramma, il
romanzo popolare, il fotoromanzo,
il romanzo poliziesco, il fumetto",
Liguori,
Napoli,
1977
(in
particolare il contributo di J.
Tortel).
A. Bianchini, "Il romanzo
d'appendice", Eri, Torino, 1969 (in
particolare, su Sue, p.p. 85-130).
ID., "La luce a gas e il
feuilleton:
due
invenzioni
dell'Ottocento", Liguori, Napoli,
1988.
P.
Brooks,
"L'immaginazione
melodrammatica",
Pratiche,
Parma, 1985 (l'originale inglese è
del 1974).
ID., "Trame. Intenzionalità e
progetto nel discorso narrativo",
Einaudi,
Torino,
1995
(ed.
originale: 1984; si veda in
particolare il cap. 6, "Il marchio
della
bestia.
Prostituzione,
narrazione, romanzi a puntate").
U. Eco, "Il superuomo di
massa. Retorica e ideologia del
romanzo popolare", Bompiani,
Milano, 1978 (in particolare il
capitolo dedicato a "Sue: il
socialismo e la consolazione").
ID., "Lector in fabula. La
cooperazione interpretativa nei
testi narrativi", Bompiani, Milano,
1979.
E. Ghidetti, "Eugène Sue e il
romanzo
sociale
in
Italia",
Introduzione a E. Sue, "I misteri di
Parigi"", Casini, Firenze-Roma,
1965.
ID., "Per una storia del
romanzo popolare in Italia: i
'misteri' di Toscana", in "Il sogno
della ragione. Dal racconto
fantastico al romanzo popolare",
Editori Riuniti, Roma, 1987.
Q. Marini, "I "Misteri" d'Italia",
Ets, Pisa, 1993.
K. Marx, "Vita terrena e
trasfigurazione
della
'critica
critica' ovvero la 'critica critica'
come
Rodolfo
principe
di
Gerolstein", in K. Marx-F. Engels,
"La sacra famiglia ovvero Critica
della critica critica. Contro Bruno
Bauer e soci", a cura di A. Zanardo,
Editori Riuniti, Roma, 1967 (l'ed.
originale è del 1845).
G. Petronio, "Letteratura di
massa letteratura di consumo.
Guida storica e critica", Laterza,
Bari, 1979.
G. Zaccaria, "Il romanzo
d'appendice.
Aspetti
della
narrativa 'popolare' nei secoli
diciannovesimo e ventesimo",
Paravia, Torino, 1977 (con un'utile
bibliografia ragionata).
- Principali studi in francese:
M.
Angenot,
"Roman
et
idéologie."Les Mystères de Paris"",
"Revue des Langues Vivantes",
38°, 1972.
N. Atkinson, "Eugène Sue et le
roman-feuilleton",
Nizet
&
Bastard, Parigi, 1929.
J.-L. Bachelier, "L'oeil d'eau.
Fonctionnement de la description
dans "Les Mystères de Paris"", in
Autori Vari, "La Description:
Nodier, Sue, Flaubert, Hugo,
Verne, Zola, Alexis, Fénéon",
Editions Universitaires, Université
de Lille III, 1974.
J.-L. Bory, "Eugène Sue, le roi
du roman populaire", Hachette,
Parigi, 1962. ID., "Eugène Sue",
Mercure de France, Parigi, 1963
(antologia delle "più belle pagine"
di Sue, con agile introduzione).
P. Chaunu, "Eugène Sue et la
Deuxième
République",
Puf,
Parigi, 1949.
U.
Eco,
"Rhétorique
et
idéologie dans "Les Mystères de
Paris"
de
Sue",
"Revue
internationale
des
Sciences
Sociales", 19°, 1967.
P. Michel, "Eugène Sue et les
mystères
de
l'insurrection",
"Europe", 715-716, novembredicembre 1988.
Ch.-A. Sainte-Beuve, "Eugène
Sue", "Revue des deux mondes",
1840, 3 (15 settembre).
A.-M. Thiesse, "La Chair de
l'utopie ou La Vulgarisation de la
pensée saint-simonienne dans les
romans d'Eugène Sue", in Autori
Vari, "Regards sur le saintsimonisme
et
les
saint
simoniens", a cura di J. R. Derré,
Presses Universitaires de Lyon,
1986.
J.-C. Vareille, "Le Roman
populaire français (1789-1914).
Idéologies et pratiques", Presses
Universitaires de Limoges-Nuit
Blanche,
1994.
Numero
monografico di rivista dedicato a
Sue:
"Europe",
643-644,
novembre-dicembre
1982
(si
segnalano in particolare gli
interventi di R. Bozzetto,
Carassus e R. Guise).
E.
VOLUME PRIMO.
PARTE PRIMA.
1.
Il tapis-franc.
Un "tapis-franc", nel gergo dei
ladri e degli assassini, significa
un'osteria o una bettola della più
triste specie.
Un uomo già condannato dalla
giustizia, che, in quell'immondo
linguaggio si chiama orco, o una
donna della stessa risma, che si
chiama
orca,
gestiscono
abitualmente siffatte taverne,
frequentate dalla feccia della
popolazione parigina: forzati usciti
di
galera,
truffatori,
ladri,
barattieri.
Appena è stato commesso un
delitto, la polizia getta, se questo
si può dire, una rete in quelle
fogne, e quasi sempre pesca i
colpevoli.
Questo esordio predice al
lettore che dovrà assistere a
sinistre scene, e, se lui vi
consente, penetrerà in bolge
orribili, sconosciute; incontrerà
tipi schifosi, spaventevoli, che
brulicheranno in quelle tristi
cloache, come i rettili nei pantani.
Tutti hanno letto le ammirabili
pagine, in cui Cooper e Walter
Scott hanno descritto i feroci
costumi dei selvaggi, il loro
pittoresco, poetico idioma, le mille
scaltrezze con cui si sottraggono
alle insidie o inseguono i loro
nemici.
Essi fanno fremere i lettori di
città e di campagna al solo
pensiero che così vicino a loro
potessero vivere o s'aggirassero
simili
barbare
tribù,
per
sanguinari costumi respinte ai
margini della civiltà.
Noi tenteremo di mettere sotto
gli occhi del lettore alcuni episodi
della vita di altri barbari, non
meno fuori dalla civiltà degli
orrendi selvaggi così ben dipinti
dal Cooper.
Soltanto i barbari di cui
parliamo stanno in mezzo a noi;
possiamo
incontrarli,
avventurandoci nei covili dove
vivono, dove convengono per
stabilire gli omicidi e i furti, per
dividersi infine le spoglie delle
loro vittime.
Questi uomini hanno costumi
propri,
proprie
femmine,
linguaggio
particolare, parole
misteriose, piene di immagini
funeste, di metafore che grondano
sangue.
Al pari dei selvaggi infine,
questi tipi si chiamano di solito tra
loro con soprannomi improntati
alla loro energia, alla loro crudeltà,
a qualche attributo o a taluna
deformità fisica.
Noi siamo perplessi nel dare
inizio alle scene di questo
racconto.
Temiamo, innanzi tutto, che ci
si accusi di scegliere episodi
ributtanti, e, anche se ci viene
concessa tale licenza, ci sgomenta
l'idea di non esser poi capaci di
riprodurre fedelmente e con
efficacia certe usanze poco
comuni.
Nello scrivere diversi episodi
che ci atterrivano, non potevamo
sottrarci ad una specie di
stringimento di cuore, di dolorosa
ansietà, di paura, di ridicola
eccitazione.
Al pensiero che forse i nostri
lettori proveranno la stessa
tensione, abbiamo riflettuto se
convenisse fermarsi o procedere
nel cammino intrapreso, e se
simili episodi dovessero esporsi
agli occhi del pubblico. Siamo
rimasti pressappoco nel dubbio, e
se non fosse per l'imperiosa
esigenza
del
racconto,
ci
rincrescerebbe d'aver ambientato
in tali luoghi e tra tale gente le
vicende della nostra storia.
Ciononostante contiamo un
poco sulla specie di curiosità
paurosa che destano qualche volta
gli spettacoli terribili.
D'altronde non sottovalutiamo
il potere dei contrasti. Dal punto
di vista dell'arte, è forse bene
riprodurre certi caratteri, certe
esistenze, certe figure, le cui tinte
oscure e forti, talvolta crudeli,
possano servire a mettere meglio
in luce uomini e situazioni di
tutt'altro genere.
Il lettore, avvertito del viaggio
che gli proponiamo fra gli
individui di quella razza infernale
che riempie le prigioni, i
bassifondi, e il cui sangue tinge i
patiboli, il lettore saprà forse
seguirci. Senza dubbio questa
indagine sarà nuova per lui.
Sappia però che, se in principio
posa il piede sul più basso gradino
della scala sociale, a misura che il
racconto
andrà
progredendo,
l'atmosfera si farà via via più pura.
Il 13 dicembre 1838, in una
sera piovosa e fredda un uomo di
statura atletica, vestito d'un lacero
camiciotto, attraversò il Pont au
Change e s'inoltrò nella città
vecchia, labirinto di strade buie,
strette e tortuose, tra il Palazzo di
Giustizia e la cattedrale di NotreDame.
Il quartiere del Palazzo di
Giustizia,
assai
circoscritto,
sorvegliatissimo, serve d'asilo o di
ritrovo ai malviventi di Parigi che
si riuniscono nei "tapis-francs".
Non è straordinario, o fatale, che
un'attrazione irresistibile faccia
gravitare i delinquenti intorno al
terribile tribunale che li condanna
al carcere, ai lavori forzati, alla
ghigliottina? Quella notte dunque
il vento s'inoltrava a raffiche nelle
viuzze di quel lugubre quartiere: il
chiarore pallido, vacillante dei
lampioni agitati dall'aria, si
rifletteva nel rigagnolo d'acqua
nerastra che scorreva in mezzo al
selciato coperto di mota.
Le case, color fango, avevano
rare finestre, con ripari di carta o
di tela, e quasi tutte senza vetri.
Anditi luridi e bui immettevano a
scale nere ed infette, e così erte e
perpendicolari, che appena ci si
poteva arrampicare reggendosi ad
una fune da pozzo, fissata alle
umide mura con ramponi di ferro.
Il pianterreno di qualcuna di
quelle abitazioni era ingombro di
merci di carbonai e rivenditori di
carne avariata.
Malgrado lo scarso valore di
queste derrate, tutte quelle
miserabili botteghe erano munite
di solide inferriate, tanto i
mercanti temevano l'audacia dei
ladri di questo quartiere.
L'uomo da noi descritto,
entrando in rue aux Fèves, situata
nel centro della città vecchia,
rallentò l'andatura: capiva di
essere sul "suo terreno".
La notte era profonda, l'acqua
cadeva a dirotto, folate di vento e
pioggia flagellavano le muraglie.
Suonavano in lontananza le dieci
all'orologio
del
Palazzo
di
Giustizia. Alcune donne, riparate
sotto i vecchi portici, oscuri,
profondi come caverne, cantavano
a mezza voce qualche ritornello
popolare; altre, in piedi, immobili,
una molto discosto dall'altra,
guardavano l'acqua che scendeva a
torrenti.
Una di queste creature era
senza dubbio nota all'uomo del
quale abbiamo parlato; poiché,
fermandosi bruscamente davanti a
lei, l'afferrò per un braccio.
"Buonasera,
Chourineur."
Quell'uomo,
che
aveva
già
scontato condanne infamanti,
aveva avuto tale soprannome ai
lavori forzati.
"Sei tu, Goualeuse?" disse
l'uomo dal camiciotto. "Vieni a
pagarmi l'acquavite, o ti faccio
ballare senza violino!"
"Non ho denari" rispose la donna,
tremando, giacché sapeva di avere
a che fare con uno che incuteva
terrore nel quartiere. "Se hai vuota
la borsa, l'"orca" del "tapis-franc"
ti farà credito sul tuo bel viso."
"Già le devo il nolo degli abiti che
indosso..."
"Ah, osi protestare?" esclamò lo
Chourineur. E diede al buio un
pugno tanto forte che quella
poveretta emise un urlo di dolore.
"Questo è nulla, carina mia, è
soltanto per ammonirti..." Aveva
appena proferito queste parole,
quando
gridò
con
una
spaventevole imprecazione: "Tu
mi hai pugnalato, maledetta! Mi
hai trafitto con le tue forbici." E,
furibondo, si precipitò a inseguire
la Goualeuse nell'oscurità di un
lungo corridoio.
"Non ti avvicinare, o ti cavo gli
occhi con le cesoie" disse costei in
tono risoluto. "Io non ti avevo
fatto niente, perché mi hai
picchiata?"
"Adesso vengo a dirtelo" gridò il
bandito, avanzando nelle tenebre.
"Ah! Ti ho finalmente in mano
e ballerai!" aggiunse, stringendo
nelle mani larghe e robuste una
manina gracile.
"Sei tu che ballerai!" disse una
voce maschile.
"Un uomo! Sei tu, Bras-Rouge?
Rispondi dunque, e non stringere
così forte... Entravo appunto
nell'andito di casa tua... Non puoi
essere che tu..."
"Non sono Bras-Rouge" disse la
voce.
"Bene, poiché non sei un
amico, scorrerà del sangue"
minacciò lo Chourineur. "Ma di
chi è dunque lo zampino che
stringo?"
"È il compagno di questo." Sotto la
pelle morbida e delicata della
mano,
che
gli
stringeva
bruscamente
la
gola,
lo
Chourineur sentì tendersi nervi e
muscoli d'acciaio.
La Goualeuse, scappata in
fondo al corridoio, aveva salito in
fretta parecchi scalini: si trattenne
un istante, e gridò, indirizzandosi
allo sconosciuto difensore: "Oh,
grazie, signore, di aver preso le
mie parti. Lo Chourineur mi ha
aggredita perché non volevo
pagargli l'acquavite. Io mi sono
vendicata, ma non posso avergli
fatto gran male con le mie forbici.
Intanto sono al sicuro, lasciatelo;
badate a voi, è lo Chourineur." Lo
spavento che incuteva quell'uomo
era ben grande, ma lo sconosciuto
sembrava non curarsene.
"Voi non mi capite dunque? Vi
ho detto che è lo Chourineur, uno
che col suo coltello fredda
chiunque!" ripeté la Goualeuse.
"Ed io sono un tipo che non
patisce il freddo" rispose lo
sconosciuto.
Per alcuni istanti s'intese il
rumore di una lotta accanita.
"Ma vuoi dunque che ti faccia a
pezzi?" gridò lo Chourineur
facendo un terribile sforzo per
liberarsi del suo avversario, che
trovava d'una forza straordinaria.
"Bene, bene, tu pagherai per la
Goualeuse e per te" aggiunse,
digrignando i denti.
"Pagare a suon di cazzotti mi fa
sempre
piacere"
rispose
lo
sconosciuto.
"Se non mi lasci libera la gola,
ti mangio il naso" gorgogliò lo
Chourineur, con voce strozzata.
"Ho il naso troppo piccolo,
bello mio, e tu non vedi molto
chiaro!"
"Allora vieni sotto il lampione."
"Andiamo
pure"
riprese
lo
sconosciuto "ci guarderemo nel
bianco
degli
occhi."
E,
avventandosi sullo Chourineur,
che teneva sempre per la gola, lo
fece rinculare sino al portone del
corridoio,
e
lo
spinse
violentemente
sulla
strada,
appena rischiarata dal bagliore del
lampione. Il bandito inciampò,
ma, ripresosi subito, si lanciò con
furia sullo sconosciuto, il cui
corpo snello e asciutto non pareva
forte
come
dimostrava. Lo
Chourineur,
quantunque
di
corporatura atletica e di vantata
abilità in una sorta di pugilato,
detto la "savate", la ciabatta, trovò,
come si dice, il suo maestro. Lo
sconosciuto gli fece lo sgambetto
con una destrezza meravigliosa, e
lo rovesciò due volte. Non volendo
ancora riconoscere la superiorità
del suo avversario, lo Chourineur
ritornò alla carica, ruggendo di
collera.
Allora il difensore della
Goualeuse,
cambiando
bruscamente metodo, fece piovere
sulla testa del bandito una
tempesta di pugni che parevano
dati con una mazza di ferro.
Quei pugni, degni dell'invidia e
dell'ammirazione di Jack Turner,
uno dei più famosi pugili di
Londra, erano d'altronde così fuori
delle regole della "savate", che lo
Chourineur ne fu doppiamente
sbalordito; e per la terza volta
ripiombò come un bue sul selciato
mormorando: "Avete vinto, ne ho
abbastanza!"
"Se rinuncia, non lo finite, abbiate
compassione di lui!" disse la
Goualeuse, che durante la lotta
s'era arrischiata a venire sulla
soglia della casa di Bras-Rouge.
Quindi aggiunse con stupore:
"Ma voi chi siete dunque? Tranne
il Maître d'école o Squelette, non
ce n'è uno da rue Saint-Eloi a
Notre-Dame, che sia capace di
battere lo Chourineur. Vi ringrazio
tanto, signore... Ohimè, se non
c'eravate voi mi avrebbe uccisa."
Lo
sconosciuto,
invece
di
rispondere,
ascoltava
con
attenzione la sua voce. Mai suono
più dolce, più gentile, più
argentino era giunto al suo
orecchio. Cercò di distinguere le
fattezze della Goualeuse, ma non
ci riuscì: la notte era troppo buia,
la luce del lampione troppo
pallida.
Dopo esser rimasto per un po'
a terra come un sacco, lo
Chourineur mosse le gambe, le
braccia, e finalmente provò a
rizzarsi sulla vita.
"Badate!" gridò la Goualeuse,
rifugiandosi di nuovo in fondo al
corridoio e tirando per un braccio
il suo protettore. "Badate, è un
uomo capace di vendicarsi."
"Sta' tranquilla! Se ne vuole
ancora, ne ho da servirlo." Il
furfante intese queste parole.
"Ho la zucca fracassata e gli
occhi pesti" disse allo sconosciuto.
"Per oggi ne ho abbastanza,
non ne voglio proprio più: un'altra
volta non dico di no, se mai ti
trovo."
"Non sei contento? Di che cosa ti
lamenti?" gridò l'altro in tono
minaccioso. "Ti pare che t'abbia
preso a tradimento?"
"No, non mi lagno affatto; sei una
buona lana che ha del coraggio"
disse lo Chourineur in tono
burbero,
ma
con
quella
considerazione rispettosa che la
forza fisica impone sempre a gente
di quella specie.
"Tu
mi
hai
dato
una
risciacquata; e all'infuori del
Maître d'école, che mangerebbe
tre Alcidi a colazione, nessuno
finora poteva vantarsi di avermi
messo i piedi sulla testa."
"Va bene! E dunque?"
"Dunque... Ho trovato il mio
maestro, ecco tutto. Tu troverai il
tuo un giorno o l'altro... tutti
trovano il loro... In mancanza degli
uomini c'è Iddio, come dicono i
preti. Quello che è certo, è che
adesso che ti sei cacciato sotto i
piedi lo Chourineur, puoi far quel
che ti pare nella Cité. Tutte le
sgualdrinelle
ti
correranno
intorno: "orchi" e "orche" non
oseranno negarti il loro appoggio.
Orsù! ma chi sei? Parli furbesco
come babbo e mamma! Se fai il
ladro, io non sono uomo per te.
Ho dato in giro qualche coltellata,
è vero; perché, quando il sangue
mi monta alla testa, vedo tutto
rosso, e bisogna che colpisca... Ma
ho pagato caro il lavoro di coltello
facendomi quindici anni in galera.
I miei anni li ho scontati, non
devo più niente ai giudici, e non
ho mai rubato... Domandalo alla
Goualeuse."
"Questo è vero, non è un ladro"
confermò lei.
"Allora vieni a tracannare un
bicchierino d'acquavite, e mi
conoscerai" disse lo sconosciuto:
"Eh via! senza rancore."
"Troppo gentile! Tu mi hai dato
una lezione, sono d'accordo, ci sai
fare con i pugni, specialmente
quella
mitraglia
alla
fine...
Fulmini! Come fioccavano sulla
nuca! Non avevo mai visto niente
di simile... Parevano martellate
d'incudine. È una maniera nuova...
Bisognerà insegnarmela."
"Ricomincerò quando vorrai."
"Non sempre su di me, oh, non su
di me! Sono ancora sbalordito. Ma
tu dunque conosci Bras-Rouge,
che eri nel corridoio della sua
casa?"
"Bras-Rouge!"
disse
lo
sconosciuto, sorpreso da tale
domanda. "Io non so quello che
dici. Non sarà solo Bras-Rouge che
abita quella casa, immagino?"
"Sì, mio bel gentiluomo... BrasRouge ha le sue buone ragioni per
non volere vicini" disse lo
Chourineur, sorridendo malizioso.
"Ebbene, tanto meglio per lui"
riprese l'altro, che poco si curava
di continuare la conversazione su
questo argomento. "Io non
conosco né Bras-Rouge né BrasNoir. Pioveva, e sono entrato un
momento nel corridoio per
mettermi al riparo; tu hai voluto
picchiare questa povera ragazza, io
ho picchiato te, ecco tutto."
"Tutto a meraviglia: i tuoi affari
non mi riguardano; tutti quelli che
hanno bisogno di Bras-Rouge non
vanno a dirlo in piazza. Parleremo
d'altro." Poi volgendosi alla
Goualeuse: "In coscienza sei una
brava ragazza: ti ho dato una
sventola, mi hai restituito una
forbiciata... Tutto regolare. Ma sei
stata molto buona a non aizzare
contro di me questo brutto diavolo
quando non ne potevo più. Mi farà
piacere se vieni a bere con noi,
visto che questo signore scuce i
quattrini...
A
proposito,
galantuomo"
disse
allo
sconosciuto "se, invece di andare
soltanto a bere dell'acquavite
andassimo a mangiare un boccone
dall'Orca del Coniglio Bianco? È
un "tapis-franc"."
"Qua la mano, offro io la cena.
Vuoi venire, Goualeuse?" disse lo
sconosciuto.
"Oh, avevo molta fame" rispose
"ma a vedere le baruffe mi si
rimescola il sangue, non ho più
appetito."
"Via, via! Ti tornerà mangiando"
disse lo Chourineur "e la cucina, al
Coniglio Bianco, è squisita." E i
nostri tre, ormai in perfetta
armonia, si avviarono alla bettola.
Durante la lotta dello Chourineur
con lo sconosciuto, un carbonaio
di statura colossale, appostatosi in
un altro andito, aveva osservato
con ansietà tutte le alternative
della battaglia, senza porgere però
alcun aiuto alle due parti.
Quando lo sconosciuto, lo
Chourineur e la Goualeuse
s'incamminarono verso la taverna,
il carbonaio li seguì. Il bandito e la
Goualeuse entrarono per primi nel
"tapis-franc": lo sconosciuto li
stava
seguendo,
quando
il
carbonaio si avvicinò e gli disse
sottovoce in inglese con rispettoso
rimprovero:
"Altezza,
abbiate
prudenza!" L'altro si strinse nelle
spalle e raggiunse i suoi compagni.
Il carbonaio non si allontanò
dalla porta della bettola; porgendo
attentamente l'orecchio, guardava
ogni tanto nell'interno attraverso i
pochi spazi lasciati dallo spesso
strato di gesso con cui si è soliti
appannare dal di dentro le vetrine
di questa specie di taverne.
2.
L'Orca.
Il bettolino del Coniglio Bianco
è pressappoco a metà di rue aux
Fèves, al pianterreno d'un alto
edificio, la cui facciata si compone
di due finestre, dette alla
ghigliottina.
Sopra il portone d'un oscuro
corridoio a volta oscilla una
lanterna bislunga, sul cui vetro sta
scritto in lettere rosse: "Locanda
per la notte".
Lo Chourineur, lo sconosciuto
e la Goualeuse entrarono nella
taverna: una vasta sala dal soffitto
basso, affumicato e diviso da travi
nere, rischiarata da una vecchia
lucerna appesa ad una corda. Le
pareti, impiastricciate di calcina,
sono ricoperte qua e là di disegni
volgari e di motti in gergo
furbesco. Il pavimento scrostato è
umido di fango, bracciate di paglia
sono sparse, come un tappeto, ai
piedi del banco della padrona, che
è sulla destra della porta, sotto il
lume.
In ciascun lato di quella
stanzaccia ci sono sei tavoli, da
una estremità appoggiati al muro,
come pure le panche che li
accompagnano. In fondo, una
porta dà sulla cucina; a destra,
presso il banco, un altro uscio dà
sul corridoio, da cui si entra nelle
camere, veri alveari, dove si dorme
a tre soldi per notte.
Adesso
qualche
parola
sull'Orca e sui suoi ospiti.
L'Orca si chiama comare
Ponisse; la sua triplice professione
consiste nel dare alloggi, tenere
bettolino e prestare a nolo il
vestiario alle disgraziate femmine
che
formicolano
in
quelle
immonde
strade.
Ha
circa
quarant'anni. È alta, robusta,
corpulenta, colorita e anche un po'
barbuta. La sua voce chioccia,
maschile, le grosse braccia, le
larghe mani rivelano una forza
poco comune; porta sulla cuffia
uno straccio di seta rossa e gialla;
uno scialle di pelo di coniglio le si
incrocia sul petto e si annoda
dietro alla schiena; la sua sottana
di lana verde lascia vedere zoccoli
neri in parte bruciacchiati dalla
brace dello scaldino; infine ha la
carnagione scura ed arrossata
dall'abuso dei liquori.
Il banco, coperto da una lastra
di piombo, è fornito di boccali
cerchiati di ferro, e diversi
misurini di stagno; sopra uno
scaffale appoggiato alla parete si
vedono molti fiaschi e bicchieri,
collocati in modo da rappresentare
la figura in piedi dell'imperatore.
Queste bottiglie contengono
beveroni dal colore rosa e verde,
con le etichette: "Perfetto amore"
e "Consola-cuori".
Infine un grosso gatto, con le
pupille gialle, accovacciato accanto
alla padrona, sembra il demone
familiare di questo luogo.
Per un contrasto che parrebbe
impossibile (se non sapessimo che
l'anima umana è un abisso
impenetrabile)
un
santo
ramoscello di olivo di Pasqua,
comprato in chiesa dall'Orca, era
collocato dietro alla cassa di un
antico orologio a pendolo.
Due brutti ceffi, dalla barba
ispida, cenciosi, avevano appena
cominciato a vuotare la bottiglia
per loro preparata, e discorrevano
sottovoce, inquieti.
Uno soprattutto, pallidissimo,
calava spesso sulle ciglia un
berrettaccio alla greca che aveva in
testa, teneva la mano sinistra
quasi sempre nascosta, ed aveva
cura di celarla quanto più poteva
quando era costretto a servirsene.
Più in là sedeva un giovane
intorno ai sedici anni, imberbe,
bruno, di faccia scarna e smorta,
ed occhi privi di vivacità; lunghi
capelli neri gli ondeggiavano sul
collo;
questo
giovane,
che
mostrava in volto i segni del vizio
prematuro, fumava una corta pipa
bianca. Appoggiato con le spalle
alla parete, le mani nelle tasche
del camiciotto, le gambe stese
sulla panca, non lasciava la pipa
che per tracannare qualche sorso
d'acquavite.
Gli altri avventori del "tapis-
franc", uomini e donne, non
offrivano nulla di notevole; le loro
fisionomie
erano
feroci
o
abbrutite, lo spirito grossolano o
licenzioso, il silenzio tetro o
stupido.
Tali erano gli ospiti del "tapisfranc", quando entrarono lo
sconosciuto, lo Chourineur e la
Goualeuse.
Questi tre ultimi personaggi
sostengono una parte troppo
importante nel nostro racconto, le
loro
figure
sono
troppo
caratterizzate, perché non si
pongano in migliore rilievo.
Lo Chourineur, alto di statura
e di vigoroso aspetto, ha la
capigliatura
di
un
biondo
chiarissimo, sopracciglia folte ed
enormi, fedine rosso vivo. Il calore
del sole, la miseria, le dure fatiche
dei lavori forzati lo hanno
abbronzato di un colore cupo,
olivastro, tipico, per dir così, dei
galeotti.
Malgrado il suo terribile
soprannome, i lineamenti di
quest'uomo esprimono piuttosto
l'audacia brutale che la ferocia;
sebbene la parte posteriore della
sua testa, molto sviluppata, riveli
il predominio dei desideri violenti
e carnali. Lo Chourineur porta un
sudicio camiciotto turchino, i
pantaloni di velluto scadente, un
tempo verdi, e di cui non si può
più distinguere la tinta sotto le
macchie di fango.
Per contrasto, la Goualeuse
sembrava uno di quei tipi candidi
e angelici che conservano la loro
innocenza anche in mezzo alla
depravazione, come se la creatura
fosse impotente a cancellare con i
suoi vizi il nobile marchio che Dio
ha stampato in fronte ad alcuni
esseri privilegiati. La Goualeuse
aveva sedici anni e mezzo.
Una fronte candida e pura
illuminava un viso perfettamente
ovale; le ciglia alquanto lunghe,
che si arricciavano un poco, le
adombravano gli occhi grandi e
azzurri. La più tenera giovinezza le
splendeva sulle guance rotondette
e vermiglie. La bocca piccola e
porporina, il naso sottile e diritto,
il
mento
ben
conformato,
modellavano con grazia il suo
volto. Dalle tempie una superba
ciocca di capelli biondi le scendeva
sino a metà gota, e ripiegata in
tondo saliva dietro alle orecchie, di
cui si scorgeva il lobo bianco e
roseo, e spariva sotto le pieghe
d'un grande foulard di cotone a
quadretti celeste, legato sul
davanti con una spilla.
Una collana di coralli le girava
intorno al collo, gentile e bianco
come l'avorio. La gonnella scura,
molto larga, lasciava distinguere
una vitina flessibile e snella come
un giunco. Uno scialle color
melarancia, con le frange verdi, le
si incrociava sul seno.
La soavità della voce della
Goualeuse aveva colpito il suo
sconosciuto difensore. Difatti,
quella
voce
dolce,
vibrata,
armoniosa, possedeva una tale
attrattiva, che la folla di scellerati
e puttane fra cui viveva, la
supplicava spesso di cantare, e
l'ascoltava in estasi, e perciò era
soprannominata la Goualeuse.
Aveva ricevuto anche un altro
soprannome, dovuto senza dubbio
al candore verginale della sua
fisionomia...
La
chiamavano
Fleur-de-Marie, che in linguaggio
furbesco significa la Vergine.
Potremo far comprendere al
lettore
la
nostra
singolare
impressione, quando in mezzo
all'infame vocabolario, dove le
parole che esprimono furto,
sangue e omicidio, sono anche più
orribili e spaventose delle cose da
loro espresse, quando, dicevamo,
ci capitò di ascoltare tra quella
gente la metafora d'una poesia
così dolce, così teneramente
pietosa: Fleur-de-Marie? Non la
paragoneremo a un bel giglio che
eleva il candido e profumato suo
calice immacolato in mezzo a un
campo di battaglia? Bizzarro
contrasto,
miracolosa
combinazione! Gli inventori di
quell'orribile
linguaggio
si
innalzarono così fino a una santa
poesia! Diedero un pregio di più al
casto pensiero che intendevano
esprimere! Simili riflessioni non ci
inducono a credere (riflettendo
così su altri paradossi, che spesso
ci sorprendono nelle volgari
abitudini delle vite più colpevoli)
che certi principi di moralità, di
pietà, per così dire innati,
tramandano talvolta qua e là vivi
raggi di luce nelle anime più
tenebrose?
Gli
uomini
completamente scellerati sono
fenomeni assai rari.
Il difensore della Goualeuse
(noi
chiameremo
questo
sconosciuto col nome Rodolphe)
mostrava dai trenta ai trentasei
anni; la sua statura media, svelta e
ben proporzionata, non sembrava
possedere quel particolare vigore
spiegato nella lotta col gigantesco
Chourineur.
Era difficilissimo assegnare un
carattere
alla
fisonomia
di
Rodolphe, giacché offriva i più
bizzarri contrasti. Le sue fattezze
erano regolari e belle... Forse
troppo belle per un uomo! La
carnagione alquanto pallida e
delicata,
gli
occhi
grandi
melanconici,
quasi
sempre
semichiusi e circondati da una
leggera sfumatura d'azzurro, il
portamento svogliato, lo sguardo
distratto, il sorriso ironico,
parevano di un uomo stanco di
tutto, la cui indole, se non
rovinata, era certo indebolita dagli
eccessi di una vita disordinata.
Eppure, con quella mano
elegante e bianca, Rodolphe aveva
atterrato uno dei banditi più
pericolosi, il più temuto di tutto
quel quartiere.
Certe rughe della fronte di
Rodolphe rivelavano il pensatore
profondo, l'uomo eminentemente
contemplativo, e inoltre la serietà
che appariva sulla sua bocca, il
modo imperioso e talvolta ardito
di rizzare il capo, svelavano in lui
l'uomo d'azione, la cui forza fisica
e audacia esercitano sempre sulla
folla un ascendente irresistibile.
Spesso i suoi sguardi avevano
un'ombra di malinconia, e quanto
la commiserazione abbia di più
soccorrevole, quanto la pietà di
più commovente, si esprimeva sul
suo volto. Al contrario, in altre
occasioni lo sguardo di Rodolphe
diventava grave, il suo volto
mostrava tanto sdegno e crudeltà,
che non lo avreste supposto
capace di alcuna emozione.
Il seguito di questo racconto
additerà quale serie di fatti e di
idee suscitavano in lui passioni
così contrarie.
Nella sua lotta con lo
Chourineur, Rodolphe non aveva
mostrato né collera, né odio,
contro questo avversario indegno
di lui. Fidando nella propria forza,
nella propria destrezza e agilità,
non aveva avuto che scherno e
disprezzo per quella specie di
gigante che aveva atterrato.
Per terminare il ritratto di
Rodolphe,
aggiungeremo
che
aveva i capelli castano chiari,
come le ciglia, nobilmente arcuate,
i baffi piccoli ben curati, ed il
mento un po' sporgente, ben
rasato.
Del resto, i modi e la parlata
che affettava con una incredibile
facilità gli davano una grande
somiglianza con gli avventori
dell'Orca. Intorno al collo agile,
modellato quanto quello del Bacco
indiano, portava una cravatta nera
annodata con negligenza, le cui
estremità cadevano sul bavero del
camiciotto sbiadito. Una doppia
fila di chiodi armava le sue
scarpacce. Tranne le mani delicate,
nulla lo distingueva esteriormente
dagli ospiti del "tapis-franc";
benché la sua aria risoluta, e, per
così dire, di temeraria serenità,
stabilisse tra essi un'enorme
distanza.
Nell'entrare nella taverna, lo
Chourineur, posando una delle
sue manacce pelose sulla spalla di
Rodolphe, esclamò: "Salute al
maestro dello Chourineur!... Sì,
amici miei, questa buonalana mi
ha risciacquato ben bene... Avviso
i dilettanti che avessero volontà di
farsi fracassare le reni o spaccare
il cranio, compreso il Maître
d'école,
che
questa
volta
troveranno pane per i loro denti...
Lo garantisco io, e ci scommetto!"
A queste parole, dalla padrona fino
all'ultimo avventore della bettola,
tutti guardarono il vincitore dello
Chourineur con molto rispetto.
Alcuni spostarono boccali e
bicchieri in cima alla tavola che
occupavano, affrettandosi a far
posto a Rodolphe, nel caso avesse
voluto mettersi accanto a loro;
altri
si
accostarono
allo
Chourineur per domandargli a
voce bassa qualche chiarimento su
quello sconosciuto che esordiva
tanto brillantemente nella loro
società.
Anche l'Orca aveva rivolto a
Rodolphe uno dei suoi più graziosi
sorrisi.
Cosa
inaudita,
straordinaria, del tutto fuori dalle
abitudini del Coniglio Bianco, si
era alzata per venire a ricevere le
ordinazioni di Rodolphe e sapere
che cosa si dovesse mettere in
tavola; attenzione che non aveva
mai usato nemmeno al famoso
Maître d'école, terribile furfante,
che faceva tremare lo stesso
Chourineur.
Uno dei due uomini dal truce
aspetto, già descritti (quello che,
pallidissimo, nascondeva una
mano e teneva abbassato sempre
il berretto alla greca sulla fronte)
si chinò verso l'Orca, che
asciugava con premura la tavola di
Rodolphe, e le domandò con voce
fioca: "Il Maître non è venuto
quest'oggi?"
"No" disse comare Ponisse.
"E ieri?"
"Ieri sì."
"Con la sua nuova donna?"
"Ehi dico, mi prendi forse per una
spia? Per i tuoi imbrogli credi che
io voglia denunciare i miei
avventori?"
reagì
l'Orca
brutalmente.
"Ho un appuntamento questa
sera col Maître" ripeté il brigante
"abbiamo affari in società."
"Devono essere puliti i vostri
affari, razza di assassini che non
siete altro!"
"Assassini?" ripeté l'altro con
collera. "Gli assassini sono quelli
che ti danno da vivere."
"Orsù, lasciami in pace!" urlò la
padrona minacciosa, levando su di
lui il fiasco che teneva in mano.
Il bandito ritornò al suo posto,
brontolando.
Fleur-de-Marie, entrando nella
taverna
dell'Orca
dietro
lo
Chourineur, aveva scambiato un
cenno di testa amichevole con il
giovane dalla faccia smorta.
Lo
Chourineur
disse
a
quest'ultimo: "Ehi, Barbillon, bevi
sempre l'acquavite?"
"Sempre! Preferisco digiunare
fuori di quaresima e portare
ciabatte ai piedi, che stare senza
acquavite in gola e tabacco nella
pipa" rispose quello, non mutando
posizione, e mandando boccate di
fumo.
"Buonasera, comare Ponisse"
disse la Goualeuse.
"Buonasera, Fleur-de-Marie"
rispose l'Orca, accostandosi alla
ragazza per esaminare le vesti che
coprivano la sventurata, e che le
aveva dato a nolo.
Dopo questa ispezione, seguitò
a parlare tutta soddisfatta: "È un
piacere prestare la roba a te... Sei
proprio
pulita
come
un
gelsomino... Non avrei mai dato
un così bello scialle a delle
canaglie come la Tourneuse e la
Boulotte. Ma già sono io che t'ho
educata, da quando sei uscita dalla
gattabuia... E, bisogna essere
giusti, non ce n'è una migliore di
te in tutta la rue aux Fèves." La
Goualeuse abbassò il capo, né
parve
sensibile
agli
elogi
dell'ostessa.
"To'" disse Rodolphe "avete
l'olivo
benedetto
dietro
l'orologio?" E additava con la
mano il santo ramoscello.
"Oh s'ha proprio da campare
come i pagani?" replicò l'orribile
femmina.
Poi, rivolgendosi a Fleur-deMarie, aggiunse: "Dimmi un po',
Goualeuse, ci vorrai far sentire
qualche canzoncina?"
"Dopo cena, comare Ponisse" disse
lo Chourineur.
"Che vi devo portare, mio
galantuomo?" chiese l'Orca a
Rodolphe, da cui cercava di farsi
benvolere, e anche, all'occorrenza,
di accaparrarsi l'appoggio.
"Domandatelo
allo
Chourineur: lui ordina e io pago."
"Ebbene, disgraziato, che vuoi per
cena?"
"Due quartini di vino da dodici
soldi, tre pezzi di pane fresco e un
"arlecchino""
ordinò
lo
Chourineur, dopo aver meditato
un momento.
"Vedo che sei sempre un gran
mangione, e che ti dura sempre la
passione per gli arlecchini."
"Ebbene, Goualeuse, adesso hai
fame?"
"No, Chourineur."
"Vuoi forse qualche altra cosa,
piccina mia?" aggiunse Rodolphe.
"Oh! no, la fame mi è
passata..."
"Ma guarda dunque il bel
professore!" gridò lo Chourineur
con
un
ridere
smodato,
accennando Rodolphe. "Non osi
nemmeno sbirciarlo?" La ragazza
arrossì ed abbassò gli occhi senza
rispondere. Poco dopo comare
Ponisse venne ad imbandire la
tavola di Rodolphe con un boccale
di vino, un pane e l'arlecchino,
roba di cui tralasciamo di dare
un'idea al lettore, e che lo
Chourineur
trovò
appetitosa,
poiché esclamò: "Che pazienza,
Signore Iddio, che pazienza, è
come un "omnibus"! Ce n'è per
tutti i gusti, per chi fa di grasso e
di magro, per chi gli piace lo
zucchero o il pepe... Rigaglie di
pollo, code di pesci, ossa di
braciole, croste di pasticcio,
frittura, formaggio, legumi, teste
di beccacce, biscottini e insalata.
Ma mangia dunque, Goualeuse...
È cucinato come si deve... Hai
forse straviziato oggi?"
"Oh! sì, straviziato... Ho mandato
giù stamani, come al solito, un
soldo di pane e un soldo di latte."
L'entrata di un nuovo personaggio
nella taverna interruppe tutte le
conversazioni e fece alzare tutte le
teste. Era un uomo di mezza età,
robusto e lesto, portava la casacca
e
il
berretto
di
pelle;
perfettamente informato delle
usanze del "tapis-franc", adoperò il
linguaggio familiare in quel luogo
per chiedere la cena.
Benché non fosse uno degli
avventori consueti, dopo un
istante nessuno gli badò più: era
stato catalogato. Per riconoscere i
loro simili, i furfanti hanno, come
i galantuomini, un colpo d'occhio
sicuro. Il nuovo arrivato si era
collocato in modo da poter
osservare i due individui loschi,
uno dei quali aveva domandato del
Maître d'école.
Egli non li perdette più di vista;
ma per la loro posizione, quelli
non potevano accorgersi della sua
attenzione.
I discorsi, un momento
sospesi, ripresero il loro corso. Lo
Chourineur, nonostante la sua
solita sfrontatezza, dimostrava
grandi riguardi a Rodolphe e non
osava dargli del tu: non rispettava
le leggi, ma rispettava la forza.
"In coscienza" gli disse "benché
mi abbiate dato un buon rinfresco,
sono
contento
d'avervi
incontrato."
"Hai trovato di tuo gusto
l'arlecchino?"
"Prima di tutto... E poi perché
smanio di vedervi azzuffare con il
Maître; a lui, che me le ha sempre
date, vedergliele dare una volta...
Oh! mi ci divertirò."
"E credi che per divertirti io voglia
avventarmi come un can mastino
addosso al Maître?"
"No, ma si avventerà su voi
appena sentirà dire che siete più
forte di lui" rispose lo Chourineur,
stropicciandosi le mani.
"Ho ancora tanta moneta da
dargli la sua paga!" soggiunse
Rodolphe indifferente.
Poi continuò: "Fa un tempo da
cani... Se ordinassimo una tazza
d'acquavite con lo zucchero, forse
metterebbe in condizione la
Goualeuse di farci sentire la sua
voce..."
"Io ci sto" disse lo Chourineur.
"E per far conoscenza ci
racconteremo chi siamo" aggiunse
Rodolphe.
"L'albino, soprannominato lo
Chourineur,
forzato
liberato,
facchino scaricatore di legna sul
ponte di Saint-Paul, intirizzito dal
freddo d'inverno, arrostito dal sole
in estate, eccovi la mia persona"
disse quello, facendo il saluto
militare con la mano sinistra. "E
voi, caro professore, è questa la
prima volta che vi si vede
bazzicare per la Cité... Non per
farvi un rimprovero, ma ci siete
entrato
maledettamente
indiavolato contro la mia testa e
per batter la diana sulla mia pelle.
Corpo della luna, che rullo! E
specialmente quei colpi finali...
Torno sempre a quelli.. Com'erano
ben assestati! Ma avrete ben un
altro mestiere, oltre quello di dar
botte allo Chourineur, no?"
"Sono pittore di ventagli! E mi
chiamo Rodolphe."
"Pittore di ventagli! Per questo
dunque avete le mani tanto
bianche.
Se tutti i vostri compagni di
lavoro sono come voi, pare ci
voglia
forza
per
questa
professione... Ma, giacché siete
operaio, e senza dubbio operaio
onesto, perché siete venuto in un
"tapis-franc" dove non bazzicano
che ladri, assassini o forzati usciti
di galera, come me, e che non
possono andare altrove?"
"Vengo qui perché amo la buona
compagnia."
"Hum!... hum!" esclamò lo
Chourineur, tentennando il capo
dubbioso.
"Vi ho trovato nell'andito di
Bras-Rouge; insomma, basta... Voi
dite che non lo conoscete?"
"Finirai con l'annoiarmi con il tuo
Bras-Rouge, che vada in malora il
maledetto tanghero!"
"Ecco, mio professore, che adesso
mostrate di diffidare di me, e non
avete torto... A patto che poi
m'insegniate a tirare pugni simili a
quelli della mia risciacquata... Ci
conto."
"Ti accontenterò. Mi dirai la tua
storia, e anche la Goualeuse dirà
la sua."
"Sta bene così" rispose lo
Chourineur. "Fa un
tempo
maledetto, da non far star fuori
nemmeno gli sbirri... Così ci
divertiremo. Che te ne pare,
Goualeuse?"
"Sì, ma per me non sarà una
faccenda lunga" disse Fleur-deMarie.
"E poi ci racconterete la vostra,
amico Rodolphe" osservò lo
Chourineur.
"Certamente."
"Pittore di ventagli" saltò su a dire
la Goualeuse "deve essere un gran
bel mestiere!"
"E
quanto
guadagnate
a
strapazzarvi così?" chiese l'altro.
"Sono pagato secondo il lavoro
che faccio: le mie giornate migliori
vanno a quattro franchi; qualche
volta fino a cinque, ma nell'estate,
quando le giornate sono più
lunghe."
"E ve la filate spesso dal lavoro,
briccone?"
"Sì, finché non mi mancano i
"cumquibus": prima di tutto ci
vogliono sei soldi ogni notte per
dormire."
"Scusate, altezza, un alloggio da
sei soldi è ancora poco per voi..."
ironizzò lo Chourineur ponendo
militarmente la mano al berretto.
Questa parola "altezza", detta
ironicamente, fece sorridere di
soppiatto Rodolphe, che replicò:
"Oh, io amo i miei comodi e la
pulizia."
"Uh, che pari di Francia! Che
banchiere! Che riccone! Paga sei
soldi per dormire."
"E poi" continuò Rodolphe
"quattro soldi di tabacco fanno
dieci; quattro soldi a colazione,
quattordici; quindici soldi a
desinare; uno o due di acquavite,
che fanno circa trenta soldi al
giorno. Quindi non ho bisogno di
lavorare tutta la settimana; il
rimanente del tempo me la godo."
"E la vostra famiglia?" domandò la
ragazza.
"Se l'è portata via il colera"
riprese Rodolphe.
"Che persone erano i vostri
genitori?" chiese ancora lei.
"Rigattieri, stracciai sotto le
logge delle Halles."
"E per questo avete venduto il loro
negozio?" riprese lo Chourineur.
"Allora ero troppo giovane, l'ha
venduto il mio tutore, e quando
fui maggiorenne, ho potuto
incassare trenta franchi... Ecco la
mia eredità."
"E il vostro padrone di bottega di
adesso?"
"Il mio padrone, si chiama Borel,
in rue des Bourdonnais; una vera
bestia... Ma brutale... ladro...
avaro; si farebbe piuttosto levare
un occhio che dar la paga ai suoi
operai: ecco i suoi connotati. Se
mai si smarrisse, lasciatelo
perdere, e non riportatelo alla
fabbrica. Sono stato fattorino da
lui fin dai quindici anni, sto in rue
des Juives, al quarto piano verso
la strada, e mi chiamo Rodolphe
Durand... Eccovi la mia storia."
"Ora tocca a te, Goualeuse" disse
lo Chourineur "io serbo la mia per
il dessert."
3.
Storia della Goualeuse.
"Cominciamo dal principio"
disse lo Chourineur.
"Sì... I tuoi genitori?" domandò
Rodolphe.
"Non li conosco" rispose Fleurde-Marie.
"Ah!
Ohibò!"
disse
lo
Chourineur.
"Né visti, né conosciuti mai:
sono nata sotto un cavolo, come si
suol dire ai fanciulli."
"To' questa è curiosa! Siamo della
medesima famiglia..."
"Anche tu, Chourineur?"
"Orfanello delle strade di Parigi,
come te, mia cara."
"E chi ti allevò?" le chiese
Rodolphe.
"Non lo so neppure io... Quello
che posso ricordarmi è che avevo,
io credo, sette od otto anni,
quando stavo con una vecchia
guercia che
chiamavano
la
Chouette perché aveva il naso
ricurvo come un becco, e un
occhio solo, verde e rotondo come
quelli delle civette."
"Ah!... ah!... ah!... mi par di vederla
la
Chouette!"
esclamò
lo
Chourineur, ridendo di gusto.
"La guercia" riprese Fleur-deMarie "mi mandava a vendere, la
sera, pastiglie d'orzo al Pont-Neuf;
era una scusa per domandare
l'elemosina... Quando non le
portavo a casa almeno dieci soldi
la Chouette mi picchiava, invece di
darmi la cena."
"Capisco, povera ragazza! Una
pedata per pane e due sberle per
companatico."
"Eh, sì, purtroppo!"
"E sei sicura che quella donna non
era tua madre?" le chiese
Rodolphe.
"Sicurissima di questo; anzi la
Chouette mi rinfacciò tante volte
di essere senza babbo e senza
mamma; mi diceva sempre che mi
aveva raccolto in mezzo alla
strada."
"Sicché" ripigliò lo Chourineur "ti
toccavano botte per pietanza
quando non facevi dieci soldi
d'incasso?"
"E un bicchier d'acqua, e mi
cacciava a tremare tutta la notte
su un paglione buttato per terra,
in cui la guercia aveva fatto un
buco per ficcarmici dentro... Molti
credono che la paglia tenga caldo.
Ebbene s'ingannano."
"La
paglia!"
esclamò
lo
Chourineur. "Hai ragione, figliola,
è una vera ghiacciaia; sarebbe
meglio coricarsi in una fossa di
letame... Ma queste canaglie se ne
fregano. Dicono: "È una sporca
orfanella, sta bene anche sulla
paglia!"." Questa facezia fece
sorridere Fleur-de-Marie, che
continuò: "La mattina dopo, la
guercia mi dava per colazione la
stessa porzione che a cena, e mi
mandava a Montfaucon a cercar
lombrichi per i pesci... Perché di
giorno la Chouette metteva banco
di lenze sotto il ponte di NotreDame... Per una fanciulla di sette
anni, che si sente morire di fame e
di freddo, è lontano, sapete, da rue
de la Mortellerie a Montfaucon."
"Il moto ti ha fatta crescere diritta
come un asparago, mia cara; non
te ne devi lamentare" osservò lo
Chourineur, battendo l'acciarino
per accendere la pipa.
"Infine tornavo a casa con un
cestino pieno di lombrichi. Allora,
verso mezzogiorno, mi dava un bel
pezzo di pane, e non lasciavo
indietro la mollica, te l'assicuro."
"Il poco cibo t'ha ridotto la vita
sottile come una farfalla; anche di
questo non ti devi lagnare" disse
ancora lo Chourineur, aspirando
rumorosamente due boccate di
fumo dalla pipa. "Ma che avete,
amico? No, volevo dire professor
Rodolphe...
Avete
un'aria
pensierosa... È perché da piccino
avete patito la fame? Eh via!
Abbiamo avuto tutti la nostra
parte di miseria!"
"Oh, ti sfido ad essere stato
disgraziato come me" ribatté la
ragazza.
"Dici a me, Goualeuse? Ma mi
sembra che tu sia stata una regina
al mio confronto! Almeno quando
eri piccola, dormivi sulla paglia e
mangiavi pane... Io ho dormito le
mie migliori notti nei forni da
gesso di Clichy, come un vero
vagabondo, e mi levavo la fame
con foglie di cavolo che raccattavo
agli angoli delle strade, come un
coniglio; e, più spesso, essendo
troppo lungo andare fino alle
fornaci di Clichy, poiché la
quaresima mi faceva tremar le
gambe, mi sdraiavo sulle grosse
pietre del Louvre... E d'inverno
avevo le lenzuola bianche, quando
fioccava una bella nevicata."
"Che vuol dire! Un uomo resiste
più di una povera bambina" disse
Fleur-de-Marie. "Allora ero gracile
come un'allodola."
"Ti ricordi di questo?"
"Lo credo bene; quando la
Chouette mi picchiava, io cadevo
per terra al primo colpo. Allora si
metteva a pestarmi con i piedi
urlando: "Furfantella, non ha un
mezzo soldo di forza, non è capace
di resistere a due scappellotti". E
poi mi chiamava la "Pegriotte";
non ebbi altro nome, questo fu il
mio battesimo."
"Proprio come me" disse lo
Chourineur. "Io ebbi il battesimo
dei cani randagi, mi chiamavano
l'"Albino". È sorprendente come ci
somigliamo, figliola."
"È vero" soggiunse la Goualeuse,
sempre
rivolgendosi
allo
Chourineur,
perché
aveva
vergogna di Rodolphe, e ardiva
appena alzare gli occhi, per quanto
questi mostrasse appartenere alla
sua stessa classe.
"E dopo aver cercato lombrichi
per la Chouette, che facevi
d'altro?" domandò lo Chourineur.
"La guercia mi mandava a
elemosinare sino a notte, perché
la sera andava a friggere sul PontNeuf. Ahimè, a quell'ora il mio
tozzo di pane era già smaltito, ma
se avevo la disgrazia di chiederle
da mangiare mi batteva dicendo:
"Fa' mezzo franco di elemosina, e
ti darò la cena". Allora io, che
avevo fame e che ero spaventata
dalle minacce e dalle botte,
piangevo come una disperata. La
Chouette m'infilava al collo la mia
cassetta di pastiglie d'orzo, e mi
abbandonava sul Pont-Neuf. Come
singhiozzavo! Tremavo dal freddo
e dalla fame!"
"Sempre come succedeva a me,
cara" interruppe lo Chourineur.
"Non sembra vero, ma la fame fa
proprio tremare come il freddo."
"Insomma, stavo sul Pont-Neuf
fino alle undici di notte, con la mia
piccola scatola al collo e
piangendo lacrime disperate. Nel
vedermi piangere, spesso quelli
che
passavano
ne
erano
commossi, e qualche volta mi
davano sino a dieci e anche
quindici soldi, e io li portavo alla
Chouette."
"Buona serata per un'allodola!"
"Ma eccoti che la guercia, che
vedeva questo..."
"Con un occhio" interruppe lo
Chourineur per far sorridere la
Goualeuse.
"Con un occhio, se vuoi,
giacché ne aveva uno solo... Ed
ecco che prende l'abitudine di
darmi sempre delle botte prima di
mettermi a chiedere la carità sul
Pont, per farmi piangere davanti a
chi passa, e così aumentare
l'incasso della serata."
"Non era una sciocca!"
"Sì, pare così a te, Chourineur? Ho
poi finito con l'abituarmi anche ai
colpi: mi accorgevo che inviperiva
quando non piangevo, e io, per
vendetta, più mi maltrattava e più
ridevo, e la sera invece di
singhiozzare vendendo le pastiglie,
cantavo come un'allodola, benché
non avessi proprio voglia d'aprir
bocca."
"Dimmi, delle pastiglie d'orzo, ne
avrai ben avuto gola, eh,
poveraccia?"
"Oh, figurati! Non ne avevo mai
assaggiate; erano tra le cose più
desiderate, e quella smania mi
rovinò. E adesso sentirai in che
maniera. Un giorno che ritornavo
dall'essere stata a cercar lombrichi
alcuni monelli mi avevano
picchiata e rubato il panierino.
Vado a casa, sapevo quello che
m'aspettava... Ricevo la solita paga
e niente pane. La sera, prima di
andare al Pont-Neuf, la guercia,
infuriata perché il giorno innanzi
non avevo fatto neppure un soldo,
invece di darmi botte come il
solito, per farmi piangere, mi
martirizza a sangue strappandomi
i capelli dalle tempie, dove è più
doloroso."
"Accidenti, questo è troppo!" gridò
l'ex forzato, battendo il pugno
forte sulla tavola e aggrottando le
sopracciglia.
"Battere
una
bambina, passi, ma martirizzarla
così, è troppo!" Rodolphe, che
aveva ascoltato attentamente il
racconto della ragazza, guardò
stupito
lo
Chourineur;
lo
sorprendeva quel lampo di
sensibilità.
"Che cos'hai, amico?" gli
domandò.
"Che cos'ho! che cos'ho! Come,
non vi fa niente, niente a voi,
quella maledetta, quella Chouette
che martirizza questa poverina?
Siete dunque duro di cuore come
di pugno?"
"Continua,
figliola"
disse
Rodolphe a Fleur-de-Marie, senza
rispondere
alle
osservazioni
dell'altro.
"Sicché vi dicevo che la
Chouette mi strappava i capelli
perché
piangessi.
Questo
m'indispettisce, e, per farla
disperare, mi metto a ridere e me
ne vado sul Pont con la mia merce.
La guercia era alla sua padella... Di
tratto in tratto mi mostrava i
pugni. Allora, invece di piangere,
io cantavo più forte... Con tutto
ciò, avevo una fame, una fame! Da
sei mesi maneggiavo le pastiglie
d'orzo e non ne avevo mai
assaggiata una... Che volete, quella
sera non potei trattenermi... Un
po' la fame, un po' per far
arrabbiare la Chouette, ne prendo
una e me la metto in bocca."
"Brava, Goualeuse!"
"Ne mangio due."
"Bravissima! Viva l'abbondanza!"
"Madonna, se erano buone! Ma
ecco che una che vendeva le
melarance, si mette a gridare alla
guercia: "Ohé, Chouette... la
Pegriotte si mangia tutta la tua
bottega!"."
"Oh, fulmini, la cosa si fa seria"
esclamò
lo
Chourineur,
interessato in modo singolare.
"Poverina, chi sa che tremito, eh,
quando la guercia s'accorse delle
pastiglie."
"Come ne sei poi uscita,
ragazzina?"
chiese
Rodolphe,
interessandosi quanto l'altro.
"Madonna mia, se mi costò
fatica! Quello che era bello a
vedere" aggiunse Fleur-de-Marie
ridendo a quel ricordo "era la
Chouette che si rodeva il cuore nel
vedermi ingoiare la sua roba. Non
poteva abbandonare la padella,
perché il fritto bolliva..."
"Ah!... ah!... ah!... Bellissimo! Lì
era il "busillis" della guercia"
esclamò
lo
Chourineur,
smascellandosi dalle risa. Anche la
Goualeuse condivise l'ilarità del
suo compagno, poi continuò: "In
coscienza, pensando alle botte che
m'aspettavano a casa, dissi tra me
e me: "Tanto vale! Non ne piglierò
di più per tre che per una". Prendo
la terza, e prima di metterla in
bocca, siccome la vecchia mi
minacciava da lontano con il suo
forchettone di ferro, così, com'è
vero questo piatto, le faccio vedere
la sua pastiglia d'orzo e me la
metto in bocca."
"Brava, piccina... Adesso capisco la
forbiciata di poco fa... Animo,
animo! Te l'ho già detto, tu hai del
coraggio. Ma la guercia deve averti
scorticata viva dopo quell'azione."
"Terminato di friggere, come
un'indiavolata mi viene incontro...
Avevo fatto tre soldi di elemosina
e avevo mangiato per sei... Quando
mi prese per mano per condurmi a
casa, mi parve di cadere morta
dalla paura. Mi ricordo come fosse
adesso, appunto era verso i primi
giorni dell'anno. Tu sai, ci sono
sempre delle botteghe di ninnoli
sul Pont Neuf; tutta la sera mi ero
confusa la testa, solamente a
guardare le belle bambolette, le
casine... Figurati per una bimba..."
"Eh, non avevi avuti mai dei
balocchi, Goualeuse?"
"Io?
Come
sei
sciocco,
Chourineur! E chi me li poteva
dare? Insomma finisce la serata.
Benché nel rigore dell'inverno,
non avevo che un cencio di
gonnella, non calze, non camicia,
solo un paio di zoccoli! Non avevo
da patire il caldo, ti pare? Eppure,
quando la guercia mi prese per
mano, fui tutta un sudore. Quello
che mi spaventava di più era che,
invece di strillare, di bestemmiare,
la Chouette borbottava fra i denti
per tutta la strada. Soltanto non
mi lasciava libera, e sgambettava
così frettolosamente, che con le
mie piccole gambe mi toccava
correre per poterle tener dietro.
Correndo, avevo perduto uno
zoccolo, e non osavo aprir bocca;
così l'ho seguita con il piede
nudo... Quando arrivai a casa mi
sanguinava."
"Che cagna d'una guercia!" gridò
lo Chourineur, battendo di nuovo
il pugno sulla tavola. "Mi dà una
sensazione terribile il pensare a
questa povera creatura che
trottava dietro a quella vecchiaccia
ladra, con il suo piedino
insanguinato."
"Stavamo in una soffitta in rue de
la Mortellerie; accanto al portone
c'era un liquorista: la Chouette
entrò, tenendomi sempre per
mano, e bevve mezza caraffa di
acquavite al banco."
"Accidenti, non la berrei io senza
ubriacarmi come una bestia."
"Era la sua dose di tutte le sere, e
per questo andava sempre a letto
cotta come un Sileno... Forse per
tal motivo mi batteva sempre. Si
va di sopra; il cuore mi voleva
saltar fuori dal petto, te lo dico io.
Siamo in cima; la Chouette mi fa
entrare con lei, poi chiude l'uscio a
doppio giro di chiave; io mi lascio
cadere ginocchioni, chiedendole
perdono delle pastiglie che le
avevo mangiate. Lei non mi
risponde, e la sento mormorare
mentre cammina per la stanza:
"Che le farò, questa sera, a questa
Pegriotte, a questa ladra delle mie
chicche di zucchero? Pensiamo
che cosa conviene farle". E si
fermava a guardarmi, e girava
intorno l'occhio verde... Io sempre
là in ginocchio. Tutto a un tratto
va verso un armadio e prende un
paio di tenaglie."
"Tenaglie?" ripeté lo Chourineur.
"Sì, tenaglie."
"E per farne che?"
"Per
batterti?"
domandò
Rodolphe.
"Per dartele sulle dita?"
"Eh sì, altro..."
"Per strapparti i capelli?"
"Non lo indovinate. Vi date per
vinti?"
"Io sì."
"Ci arrendiamo."
"Per cavarmi un dente!" Lo
Chourineur cacciò fuori una tal
bestemmia, e l'accompagnò con
imprecazioni così sfrenate, che
tutti gli avventori della taverna si
volsero stupefatti.
"Che ti salta in capo?"
domandò la Goualeuse.
"Cos'ho? La strozzerei se
l'avessi qua, quella guercia! Dov'è?
Dimmelo, dov'è? Se la trovo
l'ammazzo." E così dicendo gli
occhi
dell'antico
galeotto
s'iniettarono di sangue. Rodolphe
era inorridito al pari di lui per la
crudeltà della guercia, ma non
poteva capacitarsi per quale
fenomeno uno che era stato in
galera per omicidio si infuriasse
nell'udire che una vecchia aveva
voluto, per malvagità, strappare
un dente ad una bambina.
"E te lo cavò il dente, l'infame,
eh, povera piccina?" domandò
Rodolphe.
"E come, e non al primo colpo!
Mio Dio, come ho patito! Mi
teneva la testa fra le ginocchia
come in una morsa. Infine, metà
con le tenaglie, metà con le dita,
me lo cavò e poi mi disse, certo
per farmi paura: "Ora te ne
strapperò così uno per giorno,
Pegriotte; e quando non ne avrai
più uno in bocca ti annegherò nel
fiume e sarai mangiata dai pesci, e
così si vendicheranno di te che sei
andata a cercare i lombrichi per
farli prendere". Mi ricordo di
questo, perché mi parve tanto
ingiusto... Come se ci fossi andata
per divertirmi a far tante miglia!"
"Ah, la maledetta guercia! Levare,
strappare i denti a una bambina
della
tua
età!"
gridò
lo
Chourineur, raddoppiando ira.
"E che importa? Non ci se ne
accorge neppure, vedi?" disse
Fleur-de-Marie. E schiuse a metà,
sorridendo,
le
sue
labbra
porporine, mostrando due file di
piccoli denti bianchi come perle.
Era noncuranza, oblio, generosità
naturale in quella infelice?
Rodolphe notò che nel suo
racconto non c'era una parola
d'odio contro la scellerata che
l'aveva tanto torturata.
"E dopo, che cosa hai fatto?"
tornò a dire lo Chourineur.
"Oh, ne avevo abbastanza!
L'indomani, invece d'andare a
cercare lombrichi scappai verso il
Pantheon; camminai tutto il
giorno da quelle parti, tanto avevo
paura della Chouette. Avrei voluto
poter correre fino in capo al
mondo piuttosto che ricadere
sotto le sue unghie.
Intanto che camminavo in quei
quartieri
fuori
mano,
non
incontrai anima viva a cui
chiedere l'elemosina, e poi non
avrei ardito. La notte, dormii in
una legnaia sotto le cataste. Ero
grossa come un topo: cacciandomi
dentro la vecchia porta, mi
aggomitolai sopra un mucchio di
cortecce. Avevo così fame che
provai a masticare un po' di
corteccia, ma non riuscii che a
biascicare un po' di betulla, che è
la più tenera. Quando Dio volle,
mi addormentai. Sul far del
giorno, sentendo rumore, mi
nascosi ancora più sotto le cataste
di legna. Faceva caldo come in una
cantina. Se avessi avuto da
mangiare, non avrei potuto trovar
miglior
luogo
da
passarvi
l'inverno."
"Proprio come me nelle fornaci del
gesso."
"Non
osavo
uscir
fuori,
immaginando che la Chouette mi
cercasse
dappertutto
per
strapparmi i denti, gettarmi ai
pesci, e che avrebbe saputo
raggiungermi quando fossi uscita
di là."
"Senti, non mi parlar più di quella
maledetta, mi fai montare il
sangue agli occhi!"
"Alla fine della seconda giornata,
avevo ancora masticato un po' di
corteccia di betulla e ricominciavo
a pigliar sonno, quando sentii
abbaiare un grosso cane. Mi
svegliai di soprassalto. Tesi
l'orecchio... Il cane abbaiava
ancora avvicinandosi alla catasta.
Ecco che mi prende un'altra paura.
Fortunatamente la bestia, non so
perché, non osava farsi avanti...
Ma adesso riderai, Chourineur."
"Già, con te c'è sempre da ridere...
Sei una brava ragazza, in
coscienza. Vedi, ora mi dispiace
averti picchiata."
"Perché non dovevi picchiarmi? Se
non ho chi mi difenda..."
"E me non mi conti?" esclamò
Rodolphe.
"Siete troppo buono, signor
Rodolphe, ma lo Chourineur non
sapeva che voi eravate là, ed io
nemmeno..."
"Fa lo stesso, sono proprio
davvero dolente d'averti dato
quegli schiaffi."
"Continua a narrare" pregò
Rodolphe.
"Stavo dunque rannicchiata
sotto la catasta, quando sento
abbaiare un cane. Mentre questo
latrava, una grossa voce si mette a
dire: "Il mio cane abbaia! C'è
qualcuno nascosto nella legnaia!",
"Saranno ladri" riprese un'altra
voce... E, "Psi! Psi!", ecco che
aizzano il mastino, gridando:
"Dagli! dagli!" L'animale mi corre
addosso: avendo paura che mi
morda, mi metto a urlare con
quanta voce avevo in gola. "Senti"
dice uno "paiono le grida d'un
bambino." Richiamano il cane,
vanno a prendere un lanternino ed
io, saltata fuori dalla mia tana, mi
trovo in faccia ad un omaccione e
ad un giovane in camiciotto. "Che
fai tu qui ladruncola?" mi chiese
l'uomo
grosso
con
un'aria
minacciosa. "Mio buon signore,
non ho mangiato da due giorni;
sono scappata da casa della
Chouette, che m'ha strappato per
forza un dente e voleva darmi da
mangiare ai pesci; non sapendo
dove riposare, sono entrata in
questa porta e ho passato qui la
notte su quel mucchio di cortecce,
sotto quelle cataste di legna, non
credendo di far male a nessuno."
Ma ecco che il magazziniere si
mette a dire al suo garzone: "Non
mi fido delle sue ciarle! È una
ladruncola che è venuta per rubare
qualche fascina"."
"Ah, che imbecille! che buffone!"
urlò lo Chourineur. "Portargli via
una fascina, tu che avevi otto
anni!"
"Era una sciocchezza... Perciò il
giovane gli rispose: "Come può
derubarvi la piccina, padrone, se è
più piccola delle più piccole delle
vostre tavole di legno?". "Hai
ragione" disse il negoziante "ma se
non è qui per conto suo, fa lo
stesso. I ladri usano appunto
questi bambini per spiare o per
aprir la porta a quelli che devono
venire... Bisogna condurla dal
commissario.""
"Oh, che asino di magazziniere!"
"Mi portano dal commissario. Io
gli spiattello tutto. M'incolpo
d'essere una vagabonda, mi si
manda in prigione. Infine il
tribunale mi condanna a stare fino
a sedici anni in una casa di
correzione. Ho ringraziato di cuore
i giudici della loro bontà... In
prigione avevo da mangiare, non
mi si batteva più, era pur sempre
un paradiso per me in confronto
alla soffitta della Chouette. Di più,
in carcere ho imparato a cucire.
Ma ecco il gran male! Ero pigra e
sbadata ed avevo più gusto a
cantare che a lavorare, soprattutto
quando vedevo il sole... Oh,
quando faceva bel tempo nel
cortile, non potevo far a meno di
cantare... E allora, curioso questo,
a forza di cantare mi pareva di non
essere più prigioniera."
"Vuol dire, ragazza mia, che sei un
vero usignolo fin dalla nascita"
disse Rodolphe sorridendo.
"Troppo
gentile,
signor
Rodolphe. È da molto tempo che
mi chiamano la Goualeuse,
anziché la Pegriotte. Finalmente
arrivo ai sedici anni, esco di
prigione... Sulla porta incontro
l'Orca di qui, e due o tre
vecchiacce che erano venute
qualche volta a trovare le mie
compagne detenute, e mi avevano
sempre detto che il giorno che
fossi stata libera, mi avrebbero
trovato del lavoro."
"Ah, bene, bene, capisco" esclamò
lo Chourineur.
""Mia gioia, mio bell'angiolino,
mia piccina" mi dissero l'Orca e
quelle vecchie "volete venire a
stare con noi? Vi daremo dei bei
vestiti, e non dovrete far altro che
divertirvi..." Capisci, Chourineur,
che non si sta otto anni in carcere
senza imparare ciò che volevano
dire. Io le mando al diavolo, quelle
vecchie laide. Dico tra me: "So ben
cucire, ho trecento franchi da
parte, la gioventù...""
"E che bella gioventù, mia cara!"
aggiunse lo Chourineur.
"Erano otto anni che ero in
prigione; volevo godermi un po' la
vita... Questo non fa danno a
nessuno... Il lavoro sarebbe
venuto poi, quando fossero
mancati i denari... E mi metto a far
saltare i miei trecento franchi.
Questo fu il mio errore" esclamò
Fleur-de-Marie con un sospiro.
"Avrei dovuto prima di tutto farmi
assumere in qualche bottega a
lavorare... Ma non c'era nessuno
che mi desse un buon consiglio...
Ma, adesso è inutile pensarci!
Ormai quel che è fatto è fatto... Mi
metto dunque a far saltare i miei
soldi. Comprai fiori da ornare il
davanzale della mia finestra...
Amo tanto i fiori! E poi comprai
anche un vestito, un bello scialle,
e me ne andai a spasso al Bois de
Boulogne, a Saint-Germain, sul
somaro."
"Con un moroso?" domandò lo
Chourineur.
"In coscienza, no... Volevo
essere padrona di me. Facevo
quelle passeggiate con una mia
compagna di prigione che era stata
all'Orfanotrofio, una buonissima
ragazza; la chiamavano Rigolette,
perché rideva sempre."
"Rigolette... Rigolette!... Non mi
dice niente questo nome" disse lo
Chourineur, come uno che cerchi
raccogliere i suoi ricordi.
"Credo bene che non la
conosci! È molto onesta, Rigolette,
è una brava operaia; ora si
guadagna almeno venticinque
soldi al giorno; ha una casa sua...
E per questo non ho mai avuto
coraggio d'andarla a trovare. In
conclusione, a forza di far saltare i
franchi, me ne rimasero in mano
solo quarantatré."
"Potevi comperare un fondaco di
merceria!"
"Invece, feci anche meglio!...
Avevo per lavandaia una donna
che si chiamava Lorraine, un
angelo di bontà! Era incinta negli
ultimi mesi, eppure stava sempre
con i piedi e le mani nell'acqua del
lavatoio! Giudica tu. Non potendo
più lavorare, aveva chiesto di
entrare all'ospizio, ma non
essendovi più posti, l'avevano
respinta. Non guadagnava più
niente. Eccola vicina a partorire,
senza che avesse neppure da
pagare un letto in una locanda!
Fortunatamente incontro, una
sera, in principio del ponte di
Notre-Dame, la moglie di Goubin,
che
da
quattro
giorni
si
nascondeva nella cantina di un
edificio in demolizione, dietro
l'ospedale."
"Perché si nascondeva di giorno la
moglie di Goubin?"
"Per salvarsi da suo marito, che la
voleva
ammazzare,
usciva
solamente la notte per andare a
procacciarsi il pane. Fu così che
potei aiutare la povera Lorraine,
che non sapeva più dove battere la
testa, perché si aspettava di
partorire
da
un
momento
all'altro... Vedendo questo, la
portai nella cantina dove si
nascondeva la donna di Goubin.
Almeno era un ricovero."
"Aspetta, aspetta! La moglie di
Goubin
non
è
l'Helmina?"
domandò lo Chourineur.
"Sì, una brava persona" rispose
la Goualeuse "era sarta ed ha
lavorato per me e la Rigolette...
Insomma condivise l'alloggio, la
sua paglia e il suo pane con
Lorraine, che mise al mondo là
sotto un bambino. Ma nemmeno
una coperta! Niente altro che
paglia! La Goubin non resse più a
quella vista; a costo di farsi
assassinare dal marito, che la
cercava per mare e per terra,
s'arrischiò ad andar fuori di giorno
e venne a trovarmi. Sapeva che io
avevo qualche soldo da parte, e
che non ero di cuore cattivo.
Appunto, stavo per montare in
carrozzella
con
Rigolette;
dovevamo dar fine ai miei
quarantatré franchi, farci portare
in campagna, in mezzo al verde...
Amo tanto i campi, gli alberi... i
prati... Ma, che vuoi! Appena
l'Helmina mi racconta la disgrazia
della Lorraine, licenzio la carrozza,
corro sopra in camera a pigliar
quel che avevo di biancheria, il
mio materasso, la mia coperta,
faccio caricar tutto sulle spalle di
un facchino, e volo alla cantina
con la Goubin... Ah, bisognava
vedere la contentezza della povera
Lorraine! La vegliammo insieme
io e l'Helmina, e quando si poté
alzare, l'aiutai con il resto delle
mie poche monete, sino che fu in
grado di ritornare al suo lavatoio.
Adesso si guadagna da vivere, e
non mi riesce di fare il conto dei
bucati che le devo! Vedo che vuole
compensarmi in questa maniera!
Ma, se continua, sarò obbligata a
cambiare lavandaia" disse seria la
Goualeuse.
"E l'Helmina?" domandò lo
Chourineur.
"Come! Non lo sai?"
"No, che c'è?"
"Poverina! Goubin mantenne la
parola!... Tre coltellate nella
schiena!... Gli avevano detto che
l'avevano vista nei dintorni
dell'ospedale; e una sera, che era
andata a cercare un po' di latte per
la Lorraine, la uccise."
"Per questo dunque è condannato
alla forca, e farà, a quanto dicono,
il balletto fra otto giorni" osservò
lo Chourineur.
"Precisamente."
"E quando donasti tutto ciò che
avevi alla Lorraine, poi che
facesti?" chiese Rodolphe.
"Allora cercai da lavorare.
Sapendo cucire, mi feci coraggio,
presi una decisione: entrai in una
bottega di biancheria in rue SaintMartin. Per non ingannar nessuno
dissi che ero uscita di carcere da
due mesi e che avevo buona
volontà di lavorare; mi si mostrò
la porta. Pregai di darmi del lavoro
da farsi a casa; mi risposero che
ero un'insolente, pensando che mi
avrebbero potuto affidare anche
una camicia sdrucita. Mentre me
ne andavo tutta dolente, incontrai
l'Orca e una di quelle vecchie, che
mi stavano sempre d'attorno dopo
la mia uscita di prigione... Non
sapevo proprio più come vivere...
Mi condussero con loro, mi fecero
bere dell'acquavite ed ecco che..."
"Capisco" disse lo Chourineur
"ormai ti conosco come se fossi
tuo padre e tua madre, e non
avessi mai abbandonato il focolare
di casa. Ebbene, questa è una
specie di confessione."
"Si direbbe, mia povera ragazza,
che ti dispiace aver raccontato la
tua vita" disse Rodolphe.
"È che sento un dispiacere qui
dentro, nel guardarmi indietro
nella vita; dalla mia infanzia,
questa è la prima volta che mi
avviene di ricordare tutte queste
cose in un fiato... E non sono cose
da farmi felice... Non è vero,
Chourineur?"
"Oh, sì" disse costui con ironia "ti
rincresce
non
essere
stata
sguattera in un'osteria o serva in
casa di qualche vecchiaccia per
aver cura delle sue bestie..."
"Non importa... Dev'essere tanto
bello mantenersi onesta" disse
Fleur-de-Marie, con un sospiro.
"Onesta! Oh che sciocca!" gridò
lo Chourineur, con uno scoppio di
risa. "Onesta!... E perché non
addirittura una santa verginella,
per far onore al babbo e alla
mamma, che non conoscevi?" Dal
volto della ragazza da qualche
istante era sparita quell'aria
d'indifferenza che le era propria, e
rispose: "Senti, Chourineur, io non
sono di quelle che sembra abbiano
le lacrime in tasca... Mio padre e
mia madre m'hanno gettato in un
angolo della strada come un
cagnolino; io non serbo loro
nessun
rancore;
forse
non
avranno avuto da mantenersi
neppur essi. Senza far piagnistei,
posso dire che vi sono delle
persone che hanno più fortuna di
me."
"Ma che ti manca? Sei bella come
una Venere, hai diciassette anni,
canti melodie come un usignolo,
hai l'aria d'una vergine, il nome di
Fleur-de-Marie... e ti lamenti! Ma
dunque che dirai quando ti
toccherà stare con lo scaldino
sotto i piedi e una cuffiaccia in
testa, come la vecchia dell'Orca?"
"Oh, non arriverò mai a quell'età."
"Hai forse un brevetto per non
invecchiare?"
"No, ma non posso continuare una
vita simile! Ho già una tosse
maligna!"
"Ah sì! Mi par di vederti nella
cassa, con i preti a cantarti dietro
il "Miserere". Sei pure sciocca,
sai!"
"Ti prendono spesso queste idee?"
domandò Rodolphe.
"Qualche volta... Ecco, signor
Rodolphe, voi capirete facilmente
questo: la mattina, quando vado a
comprare il mio soldo di latte dalla
lattaia all'angolo della rue de la
Vieille-Draperie, e la vedo che se
ne ritorna nel suo carrettino tirato
da un asinello, mi fa invidia, che
volete... Dico fra me: "Lei se ne va
in campagna, all'aria buona, in
casa sua, dalla sua famiglia e io mi
alzo tutta sola dal canile dell'Orca,
dove non c'è luce neppure a
mezzogiorno...""
"Ebbene, sii onesta, figlia mia,
anche per scherzo, sii onesta!"
disse lo Chourineur.
"Onesta? Mio Dio! E come
vuoi che io sia onesta? Gli abiti
che porto sono dell'Orca; le devo
alloggio e vitto... Non posso
muovermi di qua... Mi farebbe
arrestare come una ladra... Io le
appartengo anima e corpo...
Bisogna che soddisfi i miei
obblighi..." Nel pronunciare queste
ultime ed orribili parole, l'infelice
fu presa da un tremito di
raccapriccio.
"Allora stattene come sei, e
non ti paragonare più ad una
campagnola" ribatté l'ex galeotto.
"Sei matta forse? Non pensi che tu
brilli nella capitale, e quella se ne
va a far la pappa ai suoi
marmocchi, munger le mucche,
coglier l'erba per i conigli, e
pigliarsi le botte dal marito
quando torna ubriaco dall'osteria.
Ecco una di quelle fortunate che
possono vantarsi d'essere oneste!"
"Da bere, Chourineur" disse
bruscamente Fleur-de-Marie dopo
un lungo silenzio; e porse il suo
bicchiere. "Vino no, acquavite, è
più forte" aggiunse con la sua
dolce voce, rifiutando il fiasco di
vino che l'altro avvicinava al suo
bicchiere.
"Acquavite? Da brava dunque!
Così mi piaci di più, allegra!" gridò
il bandito, senza comprender bene
l'intenzione della ragazza, e senza
accorgersi delle lacrime che a
quelle parole le scendevano dagli
occhi.
"Peccato che l'acquavite faccia
tanto male, perché scaccia i cattivi
pensieri" osservò la sventurata,
riponendo sulla tavola il bicchiere,
che aveva vuotato con ripugnanza
e disgusto. Rodolphe aveva
ascoltato il doloroso racconto con
immenso interesse. La miseria,
l'abbandono, più che la cattiva
inclinazione, avevano perduto
quella miserabile e giovane
creatura.
4.
Storia dello Chourineur.
Il lettore non avrà dimenticato
che due degli avventori del "tapisfranc"
erano
attentamente
osservati da un terzo individuo da
poco capitato nella bettola. Uno di
quei due uomini, come abbiamo
già accennato, aveva il berretto
alla greca, teneva nascosta la
mano sinistra, ed aveva più volte
domandato all'Orca se mai fosse
venuto il Maître d'école.
Durante il racconto della
Goualeuse, che essi non potevano
udire, entrambi si erano diverse
volte parlati a voce bassa,
guardando ansiosi verso la porta.
Quello con il berretto disse al
compagno: "Il Maître non viene;
purché compare Squelette non se
ne sia sbarazzato per rubargli la
sua parte."
"Questo sarebbe un bel colpo per
noi, che abbiamo preparato il
furto!" rispose l'altro.
L'ultimo
venuto,
che
li
osservava, era troppo lontano per
udire le loro parole; dopo avere
più volte e di soppiatto esaminato
un foglietto nascosto in fondo al
suo berretto di pelle, parve
soddisfatto dei suoi appunti: si
alzò dal tavolo e disse all'Orca, che
pisolava davanti al banco, con i
piedi sullo scaldino e il gatto nero
sulle ginocchia: "Ohé, comare
Ponisse! Vado e torno subito; bada
al mio boccale e al mio piatto...
perché non c'è troppo da fidarsi."
"Sta'
tranquillo,
mio
bel
galantuomo" disse la padrona "se
il piatto e il fiasco sono vuoti,
nessuno te li tocca." Quegli si mise
a ridere dello scherzo dell'Orca e
sparì senza che alcuno gli badasse.
Nel momento stesso in cui
usciva, Rodolphe distinse sulla
strada il carbonaio dalla statura
colossale, di cui abbiamo già
parlato; e, prima che la porta fosse
rinchiusa, Rodolphe ebbe tempo
di manifestargli con un gesto
d'impazienza quanto gli fosse
importuna la sua protezione, ma
l'altro non per questo si mosse dai
dintorni del "tapis-franc".
La
Goualeuse,
malgrado
l'acquavite
tracannata,
non
riacquistava il suo brio; anzi per
effetto di questo eccitante,
ripiombava
nella
maggiore
tristezza. Con le spalle appoggiate
alla parete, la testa china sul seno
e i grandi occhi azzurri, che
guardavano senza espressione qua
e là, la sventurata sembrava
accasciata dai più tetri pensieri.
Due o tre volte, incontrando lo
sguardo fermo di Rodolphe, aveva
distolto gli occhi. Non sapeva
spiegare a se stessa l'impressione
che le causava quello sconosciuto.
Colpita, messa in soggezione dalla
sua presenza, si rimproverava di
mostrare così poca gratitudine
verso colui che l'aveva liberata
dalle mani dello Chourineur; le
rincresceva perfino d'aver così
sinceramente raccontato la sua
vita davanti a Rodolphe.
All'opposto, lo Chourineur si
trovava al colmo dell'allegria; da
solo aveva divorato l'"arlecchino";
il vino e l'acquavite lo rendevano
più loquace che mai; la vergogna
di aver incontrato il suo maestro,
come diceva, si era dileguata
davanti alle generose maniere di
Rodolphe: riconosceva in lui una
tale
superiorità,
che
all'umiliazione
provata
sul
principio subentrava adesso un
sentimento misto di ammirazione,
di timore e di rispetto.
La mancanza in esso d'ogni
rancore, la selvaggia franchezza
con cui confessava d'aver ucciso
ed essere stato giustamente
punito, il feroce orgoglio con cui
sosteneva di non aver mai rubato,
indicavano
almeno
che,
nonostante i suoi delitti, non era
un uomo del tutto incallito nella
colpa.
Questa distinzione non era
sfuggita alla sagacità di Rodolphe
che aspettava con curiosità la
storia
dello
Chourineur.
L'ambizione è di per sé così
insaziabile e bizzarra nelle infinite
sue pretese, che Rodolphe avrebbe
desiderato l'arrivo del Maître
d'école, di quel terribile brigante,
spodestato dal trono. Esortò
quindi il compagno ad appagare la
propria impazienza con il racconto
delle sue avventure.
"Su dunque, mio caro" gli disse
"noi ti ascoltiamo." Lo Chourineur
vuotò il suo bicchiere, e cominciò
così: "Tu, mia povera Goualeuse,
tu almeno fosti raccolta dalla
Chouette, che il diavolo l'accechi!
Tu hai avuto un covile fino al
momento
in
cui
t'hanno
imprigionata come vagabonda... Io
invece non mi ricordo di avere
toccato qualche cosa di simile a un
letto prima dei diciannove anni...
Bella età in cui mi feci soldato."
"Sei stato militare?" domandò
Rodolphe.
"Tre anni; ma questo verrà
dopo le pietre del Louvre, le
fornaci di Clichy e le cave di pietra
di Mont-Rouge, ecco gli alberghi
dove ho passato la mia gioventù.
Come vedete, avevo casa a Parigi
ed in campagna, nientemeno."
"E che mestiere facevi?"
"Eh, professore mio... Ho la vaga
idea di aver fatto il vagabondo da
bambino
con
un
vecchio
cenciaiolo che mi accoppava a
colpi di rampone.
E bisogna che sia vero, perché
non ho mai incontrato uno di quei
cupidi con il turcasso di giunchi,
senza che non mi sia sentito il
prurito nelle unghie di dargli
addosso: prova che qualcuno di
loro mi deve aver bastonato,
quando ero piccolo. Mio primo
mestiere fu aiutare a macellare i
cavalli a Montfaucon... Avevo dieci
o dodici anni. Sul principio
squartare quelle vecchie bestie mi
ripugnava un po'; dopo un mese
non ci pensavo più; al contrario,
acquistavo interesse
per la
professione. Non c'era un altro che
avesse coltelli affilati e arrotati
bene come i miei... Davano
proprio il piacere di adoperarli!...
Dopo che avevo scannato uno di
quegli animali mi gettavano in
pagamento un pezzo di qualche
cavallo morto di malattia, giacché
quelli a cui si era tagliata la gola si
vendevano agli osti del quartiere
delle Scuole di Medicina, che li
trasformavano in bue, o montone,
o vitello, o selvaggina, secondo i
gusti delle persone...
Appena avevo ricevuto la mia
fetta di cavallo, neppure il re era
più contento di me! Scappavo con
questa roba alla fornace, come un
lupo che se ne va alla sua tana; e
lì, con il permesso dei fornaciai,
improvvisavo sui carboni un
arrosto stupendo. Se questi non
lavoravano, allora correvo a
raccattare
legna
fino
a
Romainville, battevo l'acciarino e
cucinavo l'arrosto tra due pietre.
Faceva sempre sangue ed era
crudo: ma non mi capitava così
tutti i giorni."
"E il tuo nome? Come ti
chiamavano?" chiese Rodolphe.
"Avevo i capelli più simili al
colore della stoppa di adesso, il
sangue mi andava sempre agli
occhi, e per questo mi chiamavano
l'Albino. Gli albini sono come i
conigli bianchi della razza umana,
e hanno appunto gli occhi rossi"
soggiunse
gravemente
lo
Chourineur,
osando
questa
parentesi fisiologica.
"E i tuoi genitori, la tua
famiglia?"
"I miei genitori? Alloggiati allo
stesso numero di quelli della
Goualeuse... Il luogo di nascita? Il
primo angolo di non so quale
strada, sul muricciolo a destra o a
sinistra, di qua o di là del
rigagnolo."
"Hai mai maledetto tuo padre e
tua
madre
perché
ti
abbandonarono?"
"Ne
avrei
avuto
un
bel
vantaggio!... Ma basta, mi hanno
reso un gran bel servizio
mettendomi al mondo... Non mi
lamenterei se mi avessero fatto
come si deve, e come sarebbe bene
che li obbligasse a fare noi poveri.
Quello lassù, cioè senza freddo, né
fame, né sete, che allora non
dureremmo
tanta
fatica
a
conservarci galantuomini."
"Tu hai patito fame, freddo, e non
hai mai rubato?"
"No! E ne avevo della miseria
addosso! Basta, non ci pensiamo
più... Ho digiunato fino a due
giorni di seguito, e, posso giurarlo,
non ho rubato."
"Per paura della prigione?"
"Oh,
tutt'altro!"
fece
lo
Chourineur alzando le spalle e
sghignazzando. "Non dovevo rubar
pane per paura d'avere del pane?...
Galantuomo, morivo di fame,
ladro, mi avrebbero mantenuto in
carcere! No, non rubai perché...
perché... insomma, perché non sta
nel mio modo di pensare essere
ladro." Questa risposta veramente
bella e di cui lo Chourineur non
valutava tutto il peso, colpì assai
Rodolphe. Egli pensò che il
povero,
che
si
conservava
galantuomo fra le più crudeli
privazioni,
era
doppiamente
rispettabile, perché la punizione
del delitto poteva diventare per lui
una risorsa. Stese pertanto la
mano a quell'infelice selvaggio
della nostra civiltà, che la miseria
non aveva del tutto perduto.
Lo
Chourineur
guardò
Rodolphe con stupore, e quasi con
rispetto; osò appena toccare la
mano che gli porgeva. Presentiva
che fra lui e il suo compagno
esisteva un'immensa distanza.
"Bene,
bene"
gli
disse
Rodolphe "tu hai ancora cuore ed
onore."
"Eh, non saprei" soggiunse l'altro
commosso "quel che ora mi dite...
vedete... non avevo mai pensato
altrettanto... Quello che so di
certo, è questo... che i pugni in
testa che mi avete rifilato, così ben
architettati, avrebbero potuto
durare fino a domani, mentre
invece mi pagate la cena... e mi
fate certi discorsi... Basta, per la
vita e la morte, potete contare
sullo
Chourineur."
Rodolphe
seguitò, ma con freddezza, per non
fargli capire l'emozione che
provava: "Rimanesti molto tempo
ad aiutare quel macellaio?"
"Certo che sì... In principio mi
dispiaceva scannare quelle povere
vecchie bestie, poi vi presi gusto.
Ma quando fui vicino ai sedici
anni, oh, allora divenne per me
una mania, una passione quella di
squartare! Avrei fatto a meno di
mangiare e di bere... Non pensavo
ad altro! Bisognava vedermi al
lavoro: tutto nudo, tranne un
vecchio paio di pantaloni di tela.
Quando, con il mio coltello ben
affilato in mano, avevo intorno
(non per vantarmi) fino a quindici
o venti cavalli che aspettavano il
mio coltello... Fulmini! Quando mi
mettevo a sgozzarli, non so che
cosa mi prendeva... Ero come una
furia, mi ronzavano le orecchie!
Vedevo rosso, tutto rosso, e
ammazzavo... ammazzavo sino a
che il coltello mi cadeva dal
pugno!
Fulmini,
che
soddisfazione! Se fossi stato
milionario avrei pagato per far
quel mestiere."
"Di là ti sarà venuta l'abitudine ad
uccidere" osservò Rodolphe.
"Può darsi, ma, quando ebbi
sedici anni, quella mania finì con
il diventare così terribile che, una
volta entrato in vena, ero come
matto, non badavo più a nulla,
rovinavo perfino le pelli a forza di
vibrar coltellate. Un giorno mi
hanno licenziato dal macello. Ho
tentato di impiegarmi presso
qualche beccaio, perché sentivo
tanta inclinazione per quel
mestiere... Ma mi hanno rifiutato,
anzi rimbrottato come farebbero i
calzolai ai ciabattini. Vedendo
questo, ed essendomi un poco
passata in vari anni la gran mania
di squartare, cercai qualche altro
lavoro. Non lo trovai però subito, e
mi toccò digiunare spesso. Mi misi
finalmente a lavorare nelle cave di
pietre di Mont-Rouge. Però dopo
due
anni
ero
stufo
di
arrampicarmi come uno scoiattolo
sulle strade a tirar su pietre per
venti soldi al giorno.
Ero grande e forte, mi arruolai
in un reggimento. Mi hanno
chiesto il nome, l'età, le carte. Il
mio nome? L'Albino! La mia età?
Guardate la barba! Le mie carte?
Ecco il ben servito dello scavatore.
Potevo essere un buon granatiere,
e mi presero."
"Con la tua forza, il tuo coraggio e
la tua mania di uccidere, se in quel
tempo ci fosse stata la guerra,
avresti potuto diventare ufficiale."
"Fulmini, che dite adesso! Fare a
pezzi inglesi e prussiani mi
sarebbe piaciuto ben di più che
ammazzar le cavalle... Ma vedete
la sfortuna, la guerra non c'era, e
la disciplina sì. Un fattorino prova
a dare una bastonata al suo
maestro di bottega, va bene: se è
più debole, la riceve, se è più forte,
la dà: lo licenziano, qualche volta
va in carcere, e non c'è altro. Nel
militare, è cosa diversa. Un giorno
il mio sergente mi rimbrottò per
farmi camminare più in fretta;
aveva
ragione,
perché
io
camminavo di malavoglia. Lui mi
infastidisce, io disubbidisco; mi dà
un urtone, io glielo rendo; mi
afferra per il collo, e io gli
appioppo uno schiaffo. Tutti
corrono contro di me; allora mi
prende la rabbia, il sangue mi
monta agli occhi, vedo tutto
rosso... Avevo il coltello alla mano,
ero di servizio alla cucina, e
avanti! Mi metto a sgozzare... a
sgozzare... come al macello.
Stendo morto il sergente, ferisco
due
soldati!...
Una
vera
carneficina! Undici coltellate fra
quei tre, sì, undici!... Sangue,
sangue come in un mattatoio!"
L'ex forzato abbassò il capo
pensoso e fiero, e rimase un
momento in silenzio.
"A che pensi?" gli domandò
Rodolphe,
osservandolo
con
premura.
"A nulla, a nulla!" rispose
brusco. Poi con la sua brutale
noncuranza
continuò:
"Finalmente
riescono
a
prendermi, mi mettono sotto
processo, e sono condannato a
morte."
"Ti sei dunque salvato?"
"No, ma stetti quindici anni in
galera, invece di essere giustiziato.
M'ero scordato di dirvi, che
quando ero nel reggimento avevo
ripescato due carcerati, che
stavano annegando nella Senna;
noi eravamo di guarnigione a
Melun. Adesso dovrete ridere, e
dire che sono un anfibio da fuoco
e da acqua, salvatore degli uomini
e delle donne! Un'altra volta
dunque, che ero di guarnigione a
Rouen, tutte case di legno, vere
cascine, s'appicca il fuoco ad un
quartiere... Uomini e donne
bruciavano come zolfanelli, io
sono
mandato
sul
luogo
dell'incendio. Arriviamo al fuoco;
mi si dice che una povera vecchia
non può più scendere dalla sua
camera, che comincia ad andare in
fiamme; io corro. Fulmini, quelle
erano fiamme!... Mi vennero in
mente le fornaci, dove avevo
passato i primi anni; in sostanza,
salvo la vecchia. Il mio avvocato
rimestò tanto con i piedi, con le
mani e con la lingua, che mi fece
commutare la pena. Invece di
andare al ballo della corda, ebbi
quindici anni di collegio forzato.
Quando seppi che non mi si
doveva uccidere, la mia prima idea
fu di saltare addosso a quell'asino
chiacchierone per strozzarlo. Voi
mi capite, mio caro professore?"
"Ti dispiaceva che ti fosse
commutata la pena?"
"Sì... Per chi adopera il coltello è
giusta la mannaia; per chi ruba,
ferri alle zampe! A ciascuno il suo.
Ma obbligarvi a vivere, quando
avete assassinato, credete, i giudici
non sanno che effetto produce nei
primi tempi."
"Dunque tu provi dei rimorsi?"
"Rimorsi! No, perché ho espiato la
mia condanna, ma prima non
passava notte che non mi venisse
l'affanno, e mi pareva di vedere i
fantasmi del sergente e dei soldati,
che avevo tolto dal mondo... Cioè
non erano soli" soggiungeva lo
Chourineur con una specie di
terrore "erano a decine, a
centinaia, a migliaia aspettando
ciascuno a chi sarebbe toccato,
come in una specie di mattatoio,
come i cavalli di Montfaucon
anche questi aspettavano che li
sgozzassi. Allora vedevo rosso, e
cominciavo a vibrar colpi..., colpi
micidiali su quegli uomini, come
altre volte sui cavalli. Ma, più
uccidevo soldati, e più ne
comparivano. Nel morire poi mi
guardavano con aria così dolce,
che mi maledicevo di averli uccisi;
ma non potevo farne a meno. Né
era tutto... Non ho mai avuto un
fratello e cominciai a pensare che
tutti quelli che scannavo fossero
appunto miei fratelli..., fratelli,
che, se ne avessi avuti, mi sarei
buttato nel fuoco per loro.
Finalmente mi destavo sconvolto,
bagnato di un sudore freddo, come
se mi si fosse squagliata addosso
la neve."
"Certamente
era
un
sogno
sinistro."
"Oh, sì, eppure nei primi tempi
della galera, tutte le notti, facevo
quel sogno. C'era da impazzire e
da arrabbiarsi come un cane. E
due
volte
ho
tentato
di
ammazzarmi; la prima ingoiando
verderame, l'altra strozzandomi
con una catena. Ma sono robusto
come un toro. Il verderame mi
diede sete e tutto terminò lì;
quanto alla catena che mi ero
messa al collo mi ha fatto una
cravatta naturale turchina. Poi
l'abitudine di vivere prese il
sopravvento, i miei fantasmi
divennero più rari, e feci come
tutti gli altri."
"Eri a una buona scuola per
imparare a rubare."
"Sì,
ma
non
ne
avevo
l'inclinazione. Gli altri galeotti mi
burlavano per questo, ma io li
battevo a colpi di catena. Fu in tal
modo che conobbi il Maître
d'école... tanto di cappello ai suoi
pugni! Mi diede la paga, come voi
me l'avete favorita stasera."
"Era dunque un forzato, e fu
liberato?"
"Cioè era forzato a vita, e si liberò
da sé."
"È
evaso?
E
nessuno
lo
denuncia?"
"Non sarò certo io a denunciarlo:
non vorrei aver l'aria di temerlo!"
"Come mai la polizia non lo
scopre? Non hanno i suoi
connotati?"
"Connotati? Da un pezzo si è fatto
sparire quelli che gli aveva dato
Domineddio. Adesso non c'è altro
che
il
diavolo
che
possa
riconoscerlo, il Maître d'école."
"E come ha fatto?"
"Ha cominciato con accorciarsi il
naso, che aveva lungo una spanna,
poi si è sfigurato il viso con il
vetriolo."
"Eh via, tu scherzi!"
"Se capita questa sera lo vedrete:
aveva un naso che assomigliava al
becco d'un pappagallo, ora l'ha
camuso come quello della morte,
senza contare le labbra grosse
quanto un pugno, ed un viso
olivastro così ricucito come il
giubbone d'un cenciaiolo."
"È ridotto a tal punto da non
essere riconoscibile?"
"Da sei mesi che è evaso da
Rochefort,
le
spie
l'hanno
incontrato cento volte senza
riconoscerlo."
"Perché si trovava al bagno
penale?"
"Per
falsificazione,
furto
e
omicidio. Lo chiamano il Maître
d'école perché ha una bella
scrittura, e sa molte cose."
"È così terribile?"
"Non lo sarà più quando gli avrete
data una salsa come quella che
avete favorito a me. Fulmini, sarei
curioso di vedere una tal scena!"
"Che fa per vivere?"
"Dicono che si vanta d'aver ucciso
e svaligiato, tre settimane fa, un
mercante di buoi sulla strada di
Possy."
"Presto o tardi l'arresteranno."
"Bisogna che siano più di due per
agguantarlo, perché porta sempre
sotto il camiciotto due pistole e
uno stilo. Mastro "Stricch", il boia,
lo aspetta; la sua volta verrà. Ma
prima
di
darsi
vinto,
ne
ammazzerà tanti. Oh, non lo nega,
e, siccome è robusto due volte me
e voi insieme, ci sarà da fare a
tenerlo stretto."
"E, uscito dal bagno penale, che
hai fatto, Chourineur?"
"Sono andato a propormi al capofacchino scaricatore sul ponte di
Saint-Paul, e mi guadagno il
pane."
"Ma, poiché, in realtà, non sei un
ladro, perché stai nei quartieri
della Cité?"
"E dove volete che abiti? Chi
vorrebbe mettersi in compagnia
con uno che è stato condannato ai
lavori forzati? E poi da solo mi
annoio; amo la società, e qui trovo
appunto della gente mia pari.
Qualche volta mi azzuffo... Mi
temono come il fuoco, nella Cité;
il commissario non ha nulla da
dire su di me, se non per le baruffe
che ogni tanto mi mandano per
ventiquattr'ore in gattabuia."
"E quanto guadagni al giorno?"
"Trentacinque soldi. Ciò durerà
finché avrò braccia; quando non
ne potrò più prenderò un uncino e
un cestino, ossia una faretra di
giunchi
all'uso
del
vecchio
cenciaiolo, che mi par sempre di
vedere nella nebbia della mia
infanzia."
"Con tutto questo non sei
disgraziato!"
"Ci sono di quelli che stanno
peggio di me, di sicuro; senza i
maledetti sogni del sergente e dei
soldati che ho ucciso, sogni che
faccio ancora spesso, potrei finir la
mia vita tranquilla come ogni altro
cristiano in un angolo d'una strada
o all'ospedale; ma quei sogni...
vedete... corpo di Dio... Mi fa pena
il solo pensarci." Così dicendo lo
Chourineur vuotò la cenere della
sua pipa su un angolo del tavolo.
La Goualeuse lo aveva ascoltato
distratta, e pareva assorta in
dolorose
meditazioni.
Anche
Rodolphe rimaneva pensoso. Le
due storie che aveva udito
risvegliavano in lui un mucchio di
idee nuove. Un incidente tragico
venne a ricordare ai nostri tre
personaggi in quale luogo si
trovavano.
5.
L'arresto.
L'uomo che era uscito un
istante, dopo aver raccomandato
all'Orca il suo fiasco e il suo piatto,
ritornava accompagnato da un
altro dalle larghe spalle e
dall'aspetto imponente, il quale
disse: "Oh! che miracolo, Borel,
incontrarsi così! Vieni, beviamo
un bicchiere di vino." Lo
Chourineur mormorò piano a
Rodolphe ed alla Goualeuse,
additando il nuovo avventore:
"Potrebbero esserci dei guai!...
Quello è uno spione. Attenti!" I
due banditi, uno dei quali, con il
berretto
alla
greca,
aveva
domandato più volte notizie del
Maître d'école, si scambiarono
un'occhiata
rapidissima,
si
alzarono da tavola, e si avviarono
verso la porta; ma i due agenti di
polizia si serrarono loro addosso,
con un segnale particolare.
S'impegnò una lotta terribile.
Si aprì la porta del "tapisfranc", si riversarono nella taverna
altri poliziotti e di fuori si videro
luccicare i fucili dei gendarmi.
Approfittando del tumulto, il
carbonaio, del quale abbiamo
parlato, s'affacciò alla soglia della
bettola, e, avendo incontrato lo
sguardo di Rodolphe, si mise
l'indice della mano destra sul
labbro.
Rodolphe, con un gesto pronto
e
imperioso,
gli
ordinò
d'allontanarsi, poi continuò a
osservare quanto accadeva nel
"tapis-franc".
Il bandito con il berretto alla
greca urlava per la rabbia d'essere
preso; mezzo disteso sulla tavola,
si dibatteva così disperatamente,
che a stento in tre potevano
tenerlo fermo. Il suo compagno,
abbattuto, livido in volto, con le
labbra bianche e la mascella
inferiore agitata da un tremito,
non oppose resistenza, ma porse
spontaneamente i polsi alle
manette.
L'Orca, seduta al suo banco,
avvezza a simili scene, stava
impassibile, con le mani nelle
tasche del suo grembiule.
"Cosa hanno fatto quei due,
caro signor Borel?" domandò ad
uno degli agenti di polizia, da lei
conosciuto.
"Hanno assassinato ieri una
vecchia in rue Saint-Christophe,
per vuotarle la stanza. La
disgraziata, prima di chiudere gli
occhi, ha detto di aver morso uno
degli assalitori in una mano. Si
son messi gli occhi su questi due
malandrini; il mio compagno è
venuto qui poco fa per assicurarsi
dell'identità, ed eccoli presi."
"Fortuna che mi hanno pagato
anticipatamente la foglietta" disse
l'Orca. "Volete prender nulla,
signor Borel? Un bicchierino di
"perfetto-amore", di "consolacuori"?"
"Grazie, comare Ponisse, bisogna
che io metta in gabbia questi due
bei tomi. Eccone là uno che fa
ancora il bullo!" Infatti, il
malandrino dal berretto alla greca
si dibatteva rabbiosamente, e
quando fecero per trascinarlo in
un "fiacre" che stazionava nella
via, si difese con tale violenza che
fu necessario portarcelo a forza.
Il suo complice, assalito da un
tremito nervoso, si reggeva a mala
pena; muoveva meccanicamente
le labbra violacee come se
parlasse... Lo gettarono, come
corpo morto, nella vettura.
"Ohé,
comare
Ponisse"
raccomandò il poliziotto "non vi
fidate di Bras-Rouge; è una volpe,
e potrebbe compromettervi."
"Bras-Rouge? Sono settimane che
non capita da queste parti, signor
Borel."
"Questo è ovvio, quando è in un
posto nessuno lo vede... Voi lo
sapete pure... Ma non ricevete
nulla da lui in custodia o in
consegna né pacchetti, né oggetti
di qualsiasi specie: sarebbe tener
mano alla roba rubata."
"Dormite tranquillo, signor Borel,
ho più paura di Bras-Rouge che
del demonio. Non si sa dove vada,
né da dove venga. L'ultima volta
che venne a trovarmi, mi raccontò
che era tornato dalla Germania."
"Dunque, io vi ho avvertita...
Persona avvisata..."
"Non sono mica una bambina"
troncò a mezzo la frase la Ponisse.
Prima di lasciare il "tapis-franc", il
poliziotto squadrò uno per uno gli
altri avventori, e disse allo
Chourineur,
in
tono
quasi
affettuoso:
"Anche
tu, qui,
briccone? È da tempo che non si
sente parlare di te! Non hai più
attaccato baruffe? Metti forse
giudizio?"
"Giudizio quanto occorre, signor
Borel: sapete che io non rompo il
muso se non a chi mi stuzzica."
"Non mancherebbe che questa,
che tu provocassi gli altri, forte
come sei!"
"Eppure, ecco il mio professore,
signor
Borel"
soggiunse
lo
Chourineur, posando la mano
sulla spalla di Rodolphe.
"Non lo conosco costui" disse il
poliziotto fissando due occhi
indagatori sul finto pittore di
ventagli.
"E
nemmeno
faremo
conoscenza,
amico"
replicò
Rodolphe.
"Meglio per voi, giovanotto"
disse l'altro. Quindi, voltosi a
salutare
l'Orca:
"Buonasera,
comare Ponisse: è una vera
trappola questo vostro "tapisfranc", ecco il terzo assassino che
vi arresto."
"Spero che non sia l'ultimo, signor
Borel; siamo sempre a vostra
disposizione"
rispose
graziosamente la losca ostessa,
con un inchino ai complimenti del
poliziotto.
Uscito quello, il giovane con il
viso color di piombo, che fumava
sorseggiando l'acquavite, riempì di
tabacco la pipa e domandò con
voce rauca allo Chourineur: "Non
hai riconosciuto quello con il
berretto alla greca? È Velù, il
marito della Boulotte. Quando ho
visto entrare i famigli, ho subito
detto tra me: gatta ci cova. Tanto
più che l'amico badava a tener
nascosta la mano sinistra sotto il
tavolo."
"È stata una vera fortuna per il
Maître d'école non trovarsi qui"
osservò l'Orca. "Quello con il
berretto l'ha cercato più volte per
certi affari che devono avere
insieme... Ma io non voglio tradire
i miei avventori. Che li arrestino,
va bene, ma io non li vendo... To',
a battere i panni compare la
strega" aggiunse la trista femmina,
vedendo un uomo e una donna
entrare nella bettola. "Eccoli tutti
e due, marito e moglie." Tutti gli
occhi si volsero alla porta del
"tapis-franc",
e
in
ognuno
serpeggiò un gelo di terrore.
Anche Rodolphe, malgrado il
suo naturale coraggio, non poté
frenare una leggera emozione in
presenza
di
quel
terribile
masnadiero, e lo squadrò per
qualche minuto con curiosità
mista
a
ripugnanza.
Lo
Chourineur aveva detto la verità; il
Maître era sfigurato nel modo più
orribile.
Non si poteva neppure sognare
un ceffo più spaventoso del volto
di quel galeotto. Aveva il viso
solcato per ogni verso da profonde
e livide cicatrici; il vetriolo aveva
gonfiato le sue labbra; essendo
state tagliate le cartilagini del
naso, c'erano due buchi deformi al
posto delle narici. Gli occhi grigi,
chiarissimi, assai piccoli e rotondi,
saettavano sguardi feroci; la
fronte, piatta come quella della
tigre, spariva per metà sotto un
berretto di pelle, di un pelo lungo
e rossiccio che pareva la criniera
d'un mostro.
Il Maître non era più alto di
cinque piedi e due o tre pollici; la
testa, grossa fuor di misura, era
come incassata fra due spalle
larghe, grosse, robuste e grasse,
che si delineavano anche sotto le
pieghe del camiciotto di tela
greggia; aveva le braccia lunghe e
muscolose, le mani corte, grosse e
villose fino alle estremità delle
dita; le gambe erano un po'
arcuate, ma due polpacci enormi
denotavano la forza atletica di
questo mastino.
Quell'uomo rappresentava, in
una parola, l'esasperazione di
quanto vi può essere di più corto e
vigoroso sul modello dell'Ercole
Farnese.
Quanto
all'espressione
di
crudeltà che traluceva da quella
mostruosa faccia, quanto allo
sguardo
irrequieto,
errante,
ardente come quello d'una belva
del deserto, non è possibile
descriverli.
La donna che l'accompagnava
era vecchia, vestita di stoffa scura,
con uno scialle a quadretti rossi e
neri, e la cuffia bianca. Rodolphe
la vedeva di profilo: l'occhio verde
e rotondo, il naso ricurvo come il
becco d'un uccello rapace, le
labbra sottili, il mento in fuori, e
un'espressione astuta e malvagia,
gli ricordarono la Chouette.
Si accingeva a comunicare una
tale osservazione alla Goualeuse,
quando volgendo gli occhi a quella
disgraziata la vide impallidire.
Fleur-de-Marie guardava atterrita
la schifosissima ganza del Maître;
quindi stringendo con la mano
tremante il braccio di Rodolphe,
gli disse a voce bassa: "La
Chouette! Mio Dio, la Chouette...
la guercia!" In quel momento, il
Maître
dopo
aver
detto
sommessamente alcune parole a
un avventore del "tapis-franc", si
avvicinava alla tavola dove
sedevano Rodolphe, la Goualeuse
e lo Chourineur.
Allora, rivolgendosi a Fleur-deMarie, con una voce chioccia e
fessa che aveva del selvaggio: "Eh"
le disse "bella biondina, adesso
lascerai questi barboni e verrai via
con me..." La disgraziata non ebbe
fiato di rispondergli, le battevano i
denti dallo spavento e si accostò di
più a Rodolphe.
"Ed io... non sarò gelosa"
aggiunse l'orribile guercia, ridendo
a quello scherzo del suo uomo.
Non aveva ancora riconosciuto
nella Goualeuse, la Pegriotte,
l'antica sua vittima.
"Su vieni! Non m'intendi, o fai
orecchio da mercante?" gridò quel
mostro, facendo un altro passo
avanti. "Se non ti muovi, ti pesto
tanto da farti un occhio solo, come
la Chouette. E a te, signorino dai
mustacchi..." disse a Rodolphe "se
non mi fai passare questa
biondina di sopra la tavola, ti
strappo il panciotto..."
"Dio mio, Dio mio, difendetemi!"
esclamò la Goualeuse, stendendo
le mani supplici a Rodolphe. Poi,
riflettendo che lo avrebbe esposto
a un gran pericolo, riprese con
voce più bassa: "No, no, non vi
muovete: se si avvicina, chiamerò
aiuto, e, per timore di uno
scandalo che faccia accorrere la
polizia, l'Orca prenderà le mie
parti."
"Sta' tranquilla figliola" disse
Rodolphe, fissando intrepido quel
brutto ceffo. "Tu sei al mio fianco,
né ti muoverai di qui; e siccome
quel laido animale fa schifo a te e
a me, in un momento, lo porto in
strada..."
"Tu?" urlò il Maître.
"Io!" replicò Rodolphe. E,
malgrado
gli
sforzi
della
Goualeuse per trattenerlo, si alzò
dalla tavola. L'altro rinculò d'un
passo all'aspetto minaccioso dello
sconosciuto.
Fleur-de-Marie
e
lo
Chourineur
furono
anch'essi
colpiti dell'espressione di collera,
di furore diabolico che, in un
momento, apparve sul nobile volto
del loro compagno; non lo si
riconosceva più. Nella sua zuffa
con lo Chourineur s'era mostrato
sprezzante e dileggiatore, ma
davanti al Maître, sembrava colto
da un odio feroce, e le sue pupille,
dilatate dal furore, lampeggiavano
sinistre.
Ci sono certi sguardi che
hanno un potere magnetico,
irresistibile. Molti maestri di
duello devono, si dice, i loro
sanguinosi trionfi al fascino delle
loro pupille, che sbigottisce e
annienta i loro avversari.
Rodolphe
aveva
appunto
quello sguardo fisso, penetrante,
terribile, inevitabile... Sguardo che
turba, soggioga coloro su cui si
posa, che essi sentono quasi
fisicamente, e malgrado ciò, non
se ne sanno distaccare.
Il Maître trasalì, indietreggiò
ancora un passo, e dubitando per
la prima volta della propria forza,
corse con la mano a cercare sotto
il camiciotto il manico del suo
pugnale.
Certamente
un
omicidio
avrebbe insanguinato quella sera
il "tapis" della Ponisse, se la
Chouette, afferrando il suo feroce
amante per un braccio, non avesse
gridato: "Un
momento, un
momento, lasciami dire una
parola... Poi mangerai quei due
musi in un boccone, e non temere
che ti scappino..." Il Maître guardò
con stupore la guercia.
Costei frattanto osservava la
Goualeuse con la massima
attenzione, tentando di raccogliere
le sue memorie. Finalmente non
ebbe più nessun dubbio: la
sciagurata
riconobbe
la
Goualeuse.
"Possibile!" urlò, giungendo le
mani per la sorpresa. "Ma questa è
la Pegriotte, la ladra delle
pastiglie. Ma da dove ti sei
stanata? È dunque Belzebù che ti
manda!" aggiunse mostrando i
pugni alla giovane.
"È destino che tu debba
sempre capitar sotto le mie
unghie? Sta' sicura, se non ti
strappo i denti, ti caverò dagli
occhi tutte le lacrime che hai in
corpo. Ora sì che ti darò pan per
focaccia! Tu non te lo figuri?
Conosco i tuoi parenti... Il Maître
ha visto nel bagno penale quello
che ti consegnò a me quand'eri
piccina... Gli ha detto il nome di
tua madre... E sono ricconi i tuoi
parenti..."
"Come, i miei parenti! Voi li
conoscete?" esclamò la Goualeuse.
"Sì, signorina bella, il mio
uomo sa il nome di tua madre...
Ma gli strapperei piuttosto la
lingua prima di lasciarglielo dire...
Anche ieri ha visto quell'uomo che
ti portò nella mia cuccia, perché
nessuno pagava più sua moglie,
che t'aveva tenuta a balia... Le
premeva assai di te, alla tua
mamma; aveva più caro che avessi
tirato le cuoia... Ma fa lo stesso, se
tu sapessi il suo nome, potresti
fargliele pagare tutte, la mia bella
bastarda. L'uomo che t'ho detto,
ha in mano le carte che cantano
chiaro... sì, Pegriotte. Egli ha le
lettere di tua madre, e se non se
ne serve, è perché ha le sue buone
ragioni... Eh, via struggiti pure
adesso, piangi, Pegriotte... Ma no,
non la conoscerai tua madre, non
la devi conoscere..."
"Ormai preferisco che mi creda
morta" disse la povera ragazza,
asciugandosi gli occhi. Rodolphe,
dimenticando un istante il Maître,
aveva ascoltato con attenzione lo
strano racconto della Chouette.
Intanto il galeotto, non
essendo più dominato dallo
sguardo del compagno dello
Chourineur,
aveva
ripreso
coraggio. Non poteva capacitarsi
che quel giovane, di statura
piccola e svelta, fosse in grado di
misurarsi con lui. Confidando
nella sua erculea forza, si avvicinò
al difensore della Goualeuse,
dicendo
con
autorità
alla
Chouette: "Mi hai infinocchiato
abbastanza di chiacchiere! Voglio
sfigurare questo bellimbusto, e
rompergli il grugno, perché la
bella biondina mi trovi più bello di
lui!" D'un salto Rodolphe fu
dall'altra parte della tavola. S'udì
un fracasso.
"Badate ai miei piatti!" gridò
l'Orca.
Il Maître si mise in guardia, le
mani avanti, il corpo indietro, ben
fermo sulle sue robuste reni, e,
per così dire, piantato sulle sue
gambe che parevano due colonne
di pietra. Nel momento in cui
Rodolphe gli si avventava così
furioso
addosso,
fu
aperta
violentemente la porta e il solito
carbonaio, un colosso d'uomo alto
sei piedi, entrò all'improvviso,
spostò con un urto il Maître, si
accostò a Rodolphe, dicendogli
all'orecchio: "Mio signore, Tom e
Sarah... Sono in fondo alla via." A
queste
misteriose
parole,
Rodolphe fece un movimento di
collera, gettò un luigi sul banco
dell'Orca e corse alla porta. Il
Maître tentò di contrastargli il
passo; ma egli, voltandosi, gli
affibbiò in mezzo alla faccia due
pugni così ben assestati, che quel
toro sbalordito, vacillò, e cadde di
peso sopra una panca.
"Acqua di nespole! Riconosco
la musica dell'ultimo ballo"
esclamò lo Chourineur. "Ancora
un'altra lezione come questa, e
diventerò anch'io maestro..."
"Riavutosi dopo pochi minuti, il
galeotto si lanciò ad inseguire
Rodolphe. Questi era sparito con il
carbonaio nell'oscuro labirinto
delle strade della Cité, ed era
impossibile
raggiungerlo.
Nell'istante in cui il Maître
ritornava, spumando di rabbia,
due uomini venendo dalla parte
opposta a quella per cui era andato
Rodolphe, si precipitarono dentro
la bettola, trafelati come se
avessero fatto una lunga corsa.
Il primo loro movimento fu di
sbirciare intorno ed esaminare la
taverna.
"Maledizione" disse uno "c'è
sfuggito ancora!..."
"Pazienza!" suggerì l'altro. "I
giorni sono di ventiquattr'ore, e la
vita è lunga." Entrambi parlavano
inglese.
6.
Tom e Sarah.
I nuovi venuti appartenevano a
un ceto assai più elevato di quello
dei soliti avventori della taverna.
Uno di essi, alto e aitante nella
persona, aveva i capelli quasi
canuti, le sopracciglia e le fedine
nere, il viso magro e bruno,
l'espressione fosca e burbera.
Portava al cappello un velo crespo,
il soprabito nero abbottonato sino
al collo e, sopra i pantaloni di
panno bigio attillati, aveva certi
stivali,
che
un
tempo
si
chiamavano alla Suwarov.
Il suo compagno, di bassa
statura, vestito in gramaglie, era
pallido, ma bello. La lunga
chioma, le sopracciglia e le pupille
d'un nero cupo facevano risaltare
il pallore del suo volto; dal
portamento, dalla statura, dalla
delicatezza dei lineamenti si
distingueva facilmente che era
una donna travestita da uomo.
"Tom, fate portar da bere, e
domandate di lui a quella gente"
ordinò Sarah, sempre in inglese.
"Sì, lasciate fare a me" rispose
l'uomo dai capelli bianchi e dalle
nere sopracciglia.
E, sedutisi a un tavolo, mentre
la donna si tergeva la fronte, disse
all'Orca in buonissimo francese e
senza alcuna pronuncia forestiera:
"Signora, fateci dare qualche cosa
da bere, per favore." L'ingresso di
quei due nella bettola aveva
suscitato una grande attenzione; il
loro abbigliamento e le maniere li
distinguevano
dagli
abituali
frequentatori di simili osteriacce,
e dalla fisionomia inquieta e
dall'aria premurosa s'indovinava
che erano venuti per motivi
eccezionali.
Lo Chourineur, il Maître e la
Chouette li guardavano con avida
curiosità. La Goualeuse, ancora
sbigottita per l'incontro con la
guercia, spaventata dalle minacce
del Maître che la voleva condurre
con sé, approfittò della poca
attenzione di quei due miserabili,
scivolò lentamente fino alla porta,
rimasta mezza aperta, e scappò
fuori da quel pandemonio. Lo
Chourineur e il Maître, data la
loro rispettiva situazione, non
avevano interesse ad attaccare
nuove risse.
L'Orca, sorpresa dall'arrivo di
quei
singolari
avventori,
condivideva l'attenzione generale.
Tom le disse, per la seconda volta,
con impazienza: "Vi abbiamo,
signora, domandato da bere: vi
prego, favoriteci qualche cosa."
Comare Ponisse, sensibile a tale
cortesia, si alzò dal suo posto e
venne ad appoggiarsi alla tavola di
quei signori.
"Volete" disse a Tom "un litro
di vino, o una bottiglia sigillata?"
"Dateci una bottiglia di vino,
bicchieri e acqua." L'ostessa servì
subito; Tom le porse cinque
franchi, e ricusando il resto che
stava per dargli, le disse: "Tenete
questo per voi, mia buona ostessa,
e accettate con noi un bicchiere di
vino."
"Troppo garbato il signore" rispose
la
padrona
della
taverna,
guardando Tom con più sorpresa
che gratitudine.
"Ditemi un poco" riprese l'altro
"avevamo fissato l'appuntamento
con un nostro amico in un'osteria
di questa strada; non vorremmo
aver sbagliato."
"Qui è il Coniglio Bianco, per
servirla, signore."
"Appunto" continuò Tom, facendo
un segno d'intesa a Sarah. "Sì, è
appunto al Coniglio Bianco che ci
doveva aspettare."
"Non ce ne sono mica due di
Conigli Bianchi in tutta la strada!"
saltò su a dire l'Orca con orgoglio.
"Ma, scusate se v'interrogo, com'è
il vostro amico?"
"Alto e magro, capelli e baffi color
castano chiaro" e Tom diede i
connotati di Rodolphe.
"Aspettate, aspettate, è quello
di poco fa... Un carbonaio grande
come un gigante è venuto a
parlargli, e sono usciti insieme."
"Sono loro!" esclamò Tom.
"Erano soli qui?" chiese Sarah.
"Quel carbonaio c'è stato per
un momento, ma l'altro, il vostro
amico, ha cenato qui, con la
Goualeuse e lo Chourineur." E
l'Orca, così parlando, indicava
quello fra i commensali di
Rodolphe che era rimasto. Tom e
Sarah si diressero allo Chourineur.
Dopo alcuni secondi d'esame,
la donna disse in inglese al suo
compagno: "Conoscete costui?"
"No, Karl aveva perduto di vista
Rodolphe nell'entrare in queste
strade buie. Vedendo Murph,
travestito da carbonaio, ronzare
attorno alla taverna, e fermarsi a
guardare attraverso i vetri, si è
insospettito ed è volato ad
avvertirmi."
Durante
questo
colloquio, fatto a voce bassa, il
Maître parlò in un orecchio alla
Chouette:
"Quel
magruzzo
allampanato ha snocciolato cinque
bei franchi alla Ponisse. Sarà
presto mezzanotte, piove, tira
vento;
quando
escono,
li
seguiremo; io lo colpirò e gli
leverò i denari. È con una donna, e
non oserà fiatare."
"Se la piccolina grida per chiamar
la pattuglia, ho il vetriolo in tasca,
e le rompo la boccetta sulla faccia"
propose la guercia. "Eh, fa sempre
bene dar da bere ai bambini
perché non urlino." Poi soggiunse:
"La prima volta che troviamo la
Pegriotte, la dobbiamo portar via
per forza. Quando l'avremo in
casa, le sfregheremo un po' la
faccia con il vetriolo, così non si
pavoneggerà più perché ha un bel
viso."
"Senti, Chouette, vedo che finirò
con lo sposarti" disse il Maître.
"Non se ne trova una pari a te
per accortezza e coraggio... Già ti
giudicai quella notte del mercante
di buoi... Ho detto subito: ecco la
donna che mi ci vuole, sa far
meglio d'un uomo." Dopo aver
riflettuto qualche istante, Sarah
disse a Tom, indicandogli lo
Chourineur: "Se interrogassimo
costui
su
Rodolphe,
forse
riusciremo a capire perché viene
qui."
"Proviamo"
disse
Tom.
E,
rivolgendosi allo Chourineur:
"Galantuomo"
gli
chiese
"dovevamo trovarci con un nostro
amico in questa bettola: ha cenato,
a quanto ho sentito, con voi;
poiché lo conoscete, fateci il
favore di dirci se sapete dov'è
andato?"
"Lo conosco soltanto da due ore
per avermi rifilato dei solidi pugni,
per difendere la Goualeuse."
"E prima non l'avevate mai visto?"
"Mai... Ci
siamo
incontrati
nell'andito della casa di BrasRouge."
"Ostessa, un'altra bottiglia del
migliore con il tappo!" ordinò
Tom.
Sarah e Tom avevano appena
toccato con le labbra i bicchieri,
che li ritrassero. La Ponisse,
certamente per fare onore alla sua
cantina, aveva vuotato il suo più
volte.
"E ce lo favorirete sulla tavola
di questo signore, se ce lo
permette" seguitò Tom. Così
dicendo andò con Sarah a sedersi
accanto allo Chourineur, che fu
più sorpreso che soddisfatto di
tale gentilezza.
Il Maître e la Chouette
discorrevano sempre dei loro
iniqui progetti.
Messa in tavola la bottiglia,
Tom e Sarah, in compagnia dello
Chourineur e della padrona, che
aveva considerato superfluo un
secondo invito, proseguirono la
conversazione.
"Ci dicevate, mi pare, che avete
incontrato
il
nostro
amico
Rodolphe sotto l'andito della casa
di Bras-Rouge?" domandò Tom,
bevendo con lo Chourineur.
"Sì, caro signore" rispose
l'altro, vuotando il suo bicchiere.
"Ve', che nome singolare...
Bras-Rouge! Che diavolo vuol dire
questo Bras-Rouge?"
"Fa affari segreti" disse con
indifferenza lo Chourineur. Poi
soggiunse,
volgendosi
alla
Ponisse: "Buono, per la Barba di
Noè, questo gotto, cara comare."
"Per questo non dovete lasciar
vuoto il vostro bicchiere, amico
mio" riprese Tom, mescendogli da
bere.
"Alla vostra salute" disse egli
"ed a quella del vostro giovane
amico che... basta... Se mia zia
fosse un uomo, sarebbe mio zio,
come dice il proverbio... Eh via,
bricconcello, so che quel che
dico..." Sarah arrossì un poco, ma
Tom continuò: "Non ho capito
bene quello che mi avete detto
intorno a Bras-Rouge. Rodolphe
usciva dunque da lui..."
"Vi ho detto che Bras-Rouge fa
affari segreti." Tom guardò
sorpreso lo Chourineur.
"Che significa questo "far affari
segreti"?"
"Ve lo snocciolerò in altre parole:
fa del contrabbando! Pare che
siate un bambino in quanto a
gergo."
"Compare, non vi capisco più."
"Vi ho detto, che non parlate in
gergo come il signor Rodolphe."
"Gergo?" ripeté Tom, guardando
Sarah in atto di grande meraviglia.
"Animo, siete sempliciotti... Ma
il compagno Rodolphe è un
esperto compare, lui; benché
pittore di ventagli, sa darmi lezioni
di furbesco... Orsù, giacché non
parlate quel bel linguaggio, vi
spiattellerò in buon francese che
Bras-Rouge è contrabbandiere. Lo
dico senza malignità, ma tanto a
lui non importa, anzi se ne fa bello
davanti agli stessi doganieri...
Prendetelo
"in
castagna"
e
fermatelo, se potete... È una volpe
vecchia che conosce "i suoi ferri",
Bras-Rouge."
"E che andava a fare Rodolphe da
quell'uomo?" chiese Sarah.
"In coscienza, signore, o
signora, a vostra scelta, io non ne
so nulla di questo; vero, com'è
vero che mando giù questo sorso
di vino. Questa sera volevo
picchiare la Goualeuse... Avevo
torto, è una buona creatura... Lei
si caccia nell'andito di Bras-Rouge,
io l'inseguo... Faceva buio come
nella bocca del lupo; invece
d'acciuffar lei, casco addosso a
mastro Rodolphe, che mi dà una
salsa di quelle proprio piccanti...
Oh, sì, specialmente quei pugni
finali... Fulmini! Come erano
dispensati in regola! Ma mi ha
promesso
d'insegnarmi
il
metodo."
"E Bras-Rouge che uomo è?"
domandò Tom. "Che sorta di
mercanzie vende?"
"Bras-Rouge? Subito detto: vende
tutto quel che è proibito vendere,
fa tutto quello che è proibito fare.
Non è così, Ponisse?"
"Oh, è un pezzo da sessanta!"
esclamò l'Orca.
"E come gabba i doganieri"
soggiunse lo Chourineur. "Sono
scesi più di venti volte nel suo
sotterraneo, e non ci hanno mai
trovato la capocchia d'un chiodo; e
sì che spesso ne vengono fuori
intere casse..."
"Ingannerebbe il demonio quello!"
proseguì l'Orca. "Dicono che abbia
un nascondiglio che porta a un
pozzo, da cui poi si passa alle
catacombe."
"Ma non l'hanno trovato mai, il
nascondiglio:
bisognerebbe
demolire le mura dal tetto alle
fondamenta per venirne a capo"
osservò lo Chourineur.
"E a che numero è la casa di
Bras-Rouge?"
"Numero tredici, rue aux Fèves:
Bras-Rouge, mercante di tutto
quanto si vuole... È conosciuto in
tutta la Cité."
"Voglio scrivere questo indirizzo
sul mio libricino di memorie"
disse Tom. "Se non troviamo
Rodolphe, procurerò d'averne
informazioni da Bras-Rouge." E
scrisse il nome della via e il
numero
della
casa
del
contrabbandiere.
"E potete vantarvi di avere in
padron Rodolphe, un amico di
valore" disse lo Chourineur "e poi
buon figliolo... Senza il carbonaio
era lì lì per suonar la diana sul
grugno al Maître d'école, che
vedete là incantucciato con la
Chouette... Fulmini, non so chi mi
trattenga dall'andare a rompere la
faccia a quella vecchia strega,
quando penso a quello che fece
patire alla Goualeuse... Ma
pazienza, Dio non paga il sabato...
Verrà l'ora anche per lei!"
"Rodolphe
vi
ha
picchiato,
dovreste odiarlo!" disse Sarah.
"Io, odiare un uomo che si è
comportato così bene! Tutt'altro...
Vedete, il Maître d'école mi ha
battuto, e farei festa se lo vedessi
pendere dalla forca... Il signor
Rodolphe m'ha affibbiato dei
pugni più forti, eppure a lui sento
che non posso voler male: anzi gli
voglio bene. Infatti mi sembra che,
quasi quasi, mi getterei nel fuoco
per lui; e sì che lo conosco
solamente da questa sera!"
"Voi parlate così, perché sapete
che siamo suoi amici, mio caro."
"No, fulmini! No, in coscienza...
Vedete, tiene in serbo certi pugni
per l'ultima portata e non ne
insuperbisce, non è più fiero d'un
fanciullo; e non c'è che dire, è un
maestro, un maestro finito... E poi
vi dice certe parole... Cose che vi
rimettono l'anima in corpo... Poi
se vi guarda, gli brilla qualcosa
negli occhi... Vedete, sono stato
soldato, e scommetto che, con un
capo come quello, capite, si
avrebbe il coraggio di dare la
scalata alla luna e alle stelle." Tom
e Sarah si guardavano in silenzio.
"Avrà sempre e dappertutto
quell'immensa potenza del suo
fascino?" disse questa al suo
compagno.
"Sì, finché non avremo vinto
l'incantesimo" rispose Tom.
"Ah, certo, a tutti i costi
bisogna..." E Sarah s'interruppe,
toccandosi con la mano la fronte,
come per scacciarne ricordi di
dolore.
Suonò la mezzanotte al Palazzo
del Municipio. La lampada della
taverna era ridotta ad un lucignolo
che non dava più luce. Ad
eccezione dello Chourineur, dei
suoi due commensali, del Maître e
della Chouette, tutti gli avventori
se n'erano andati uno dopo l'altro.
"Adesso ci apposteremo" disse
piano il Maître alla Chouette "nel
portone di faccia, vedremo quando
escono i due agnellini, e terremo
loro dietro. Se vanno a sinistra, li
aspetteremo sulla cantonata di rue
Saint-Eloi; se vanno a destra
faremo la posta attorno alle case
in demolizione, dalla parte della
macelleria. Là c'è una gran buca e
il piano è bell'e fatto." Ed egli e la
Chouette
si
disposero
ad
andarsene.
"Non mangiate niente questa
sera?" domandò l'Orca.
"No, comare Ponisse... Siamo
entrati un momento per metterci
al coperto dall'acqua" rispose il
Maître.
Ed uscì con la guercia.
7.
O la borsa, o la vita! Al rumore che
fece la porta nel chiudersi, Tom e
Sarah, distolti dai loro profondi
pensieri, accortisi che era tempo di
andarsene,
si
alzarono,
ringraziando lo Chourineur dei
chiarimenti che aveva loro dato.
Questo ispirava ad essi minore
fiducia, dacché aveva espresso a
suo modo, con franchezza, la
propria
ammirazione
per
Rodolphe.
Nel momento in cui usciva lo
Chourineur, il vento si era fatto
più forte, diluviava...
Il Maître e la Chouette,
appiattati in un andito dirimpetto
al Coniglio Bianco poterono
vedere lo Chourineur che si
allontanava dalla parte della
strada dov'era una casa in
demolizione. Presto, i suoi passi,
un po' pesanti per le frequenti
libagioni, si confusero con il sibilo
del vento e con lo scroscio della
pioggia che flagellava le muraglie.
Tom e Sarah abbandonarono la
bettola malgrado il cattivo tempo,
e presero una direzione del tutto
opposta a quella dello Chourineur.
"Sono serviti per le feste" disse
il Maître alla guercia. "Leva il
turacciolo alla tua boccetta e sta'
attenta."
"Leviamoci le scarpe" consigliò
questa "così non ci sentiranno
camminare dietro le spalle."
"Hai ragione, cara la mia
Chouette, hai sempre ragione; io
non ci avevo pensato: faremo
passi come sul velluto." L'orribile
coppia si tolse le scarpe, e si
mosse nell'ombra rasente alle
case... Con questo stratagemma,
non si udiva per nulla il fruscio dei
loro passi, e poterono seguire da
vicino Tom e Sarah senza paura di
essere scoperti: "Per fortuna la
nostra carrozza è allo sbocco della
via" disse Tom "perché la pioggia
ci inzuppa completamente. Non
avete freddo, Sarah?"
"Forse sapremo qualche cosa dal
contrabbandiere, da Bras-Rouge"
mormorò la donna, distratta,
senza rispondere alla domanda del
suo compagno. D'un tratto Tom si
fermò. Non era che a pochi passi
dall'agguato preparato dal Maître
per sorprenderli e spogliarli.
"Ho sbagliato strada" disse
Tom "bisognava prendere a
sinistra uscendo dalla taverna,
dobbiamo passare davanti a un
edificio in demolizione, per
ritrovare la nostra carrozza.
Torniamo indietro." Il Maître e la
Chouette si nascosero nel vano
d'una porta per non esser visti da
Tom e da Sarah, che quasi li
urtarono con i gomiti.
"In sostanza preferisco che
vadano verso le rovine" disse
adagio il Maître. "Se fanno
resistenza so quel che devo fare."
Tom e Sarah, dopo essere ripassati
davanti al Coniglio Bianco,
giunsero presso la casa in
demolizione. Essendo già stati
demoliti i piani superiori e
scoperte le cantine, si era formata
una specie di grande e profonda
buca lungo la strada. Il Maître
balzò dal suo nascondiglio con il
vigore e l'agilità d'una tigre, e con
le sue larghe mani avvinghiò alla
gola Tom, gridandogli all'orecchio:
"Qua i denari, o ti getto nella
fossa!..." E il galeotto, cacciando
Tom all'indietro, gli fece perdere
l'equilibrio, e con una mano lo
tenne quasi sospeso sull'orlo di
quella profonda buca, mentre con
l'altra stringeva il braccio di Sarah,
come in una morsa.
Prima che Tom avesse fatto il
minimo movimento, la Chouette
lo aveva già frugato con incredibile
destrezza. Sarah non gridò, né
tentò di difendersi, solo disse con
voce calma: "Date loro la vostra
borsa, Tom." Quindi rivolta al
delinquente: "Noi non grideremo,
voi non fateci male." La Chouette,
dopo
aver
frugato
scrupolosamente nelle tasche
della donna disse: "Vediamo le tue
mani, se ci sono anelli... No"
brontolò la vecchia malcontenta di
non trovarne. "Non hai dunque
nessuno che ti regala anelli? Che
miseria!" Il sangue freddo di Tom
non si smentì in questa scena
rapida e improvvisa.
"Volete fare un baratto?"
propose al malandrino che lo
teneva sollevato con una mano. "Il
mio portafogli contiene carte che a
voi sarebbero inutili, rendetemelo,
e domani vi darò venticinque
luigi."
"Sì, per tenderci una trappola!"
rispose il furfante. "Eh via! tira
diritto per la strada e non ti
voltare. Devi essere contento per
un pezzo che te la sei cavata con
così poco."
"Un momento" soggiunse la
Chouette. "Se è un gentiluomo,
avrà il suo portafogli, e c'è un
mezzo." Quindi domandò a Tom:
"Sapete dov'è la spianata di SaintDenis?"
"Sì."
"Sapete dov'è Saint-Ouen?"
"Sì..."
"Dirimpetto a Saint-Ouen, in
fondo alla rue de la Révolte, corre
una bella spianata: attraverso i
campi ci si vede da lontano.
Veniteci solo, domattina, portate il
danaro, e mi ci troverete con il
portafogli... Un piccolo scambio,
ed è vostro."
"Ma, Chouette, ti farà arrestare."
"Non sono tanto sciocca! Non è
possibile in quel posto, si vede
troppo bene da lontano... Ho un
occhio solo, ma è buono; se capita
con qualcun altro non mi faccio
trovare e me la batto." A Sarah
venne un pensiero, e disse al
malandrino: "Vuoi guadagnare
denaro?"
"Sì."
"Hai
visto
nella
taverna
dov'eravamo l'uomo di cui è
venuto in cerca il carbonaio?"
"Uno magro con i baffi? Sì, stavo
per mangiargli un bocconcino di
quel suo visetto, ma non me ne ha
dato tempo... Mi ha sorpreso con
due pugni e mi ha gettato sopra
una panca... È la prima volta che
mi succede una cosa simile... Oh,
mi vendicherò!"
"Ebbene, si tratta di lui!" seguitò
Sarah.
"Di lui!" gridò il Maître.
"Datemi mille franchi e lo
ammazzo..."
"Sarah?!" esclamò Tom con
spavento.
"Non si tratta di ucciderlo"
rimediò in fretta la donna.
"No, e di che cosa, dunque?"
"Siate puntuali domani sulla
spianata di Saint-Denis, ci sarà il
mio compagno; vedrete che sarà
solo, e vi dirà ciò che dovete fare.
Non mille franchi, ma duemila ve
ne darò, se riuscirete."
"Perbacco!" osservò sottovoce la
Chouette parlando con il Maître
"c'è da guadagnare un bel
gruzzolo; sono persone ricche, che
vogliono tirare un colpo a un
nemico! Questo nemico è lo stesso
birbone che tu volevi schiacciare...
Bisogna andarci, cioè andrò io per
te... Duemila franchi! Caro il mio
uomo, val bene la pena di una
passeggiata."
"Ebbene, ci verrà la mia donna"
disse il Maître "le direte quel che
deve fare, e poi vedrò."
"Sta bene, domani all'una."
"All'una."
"Sulla spianata di Saint-Denis."
"Intesi."
"Fra Saint-Ouen e rue de la
Révolte, in fondo alla strada."
"D'accordo."
"Vi porterò il portafogli."
"E avrete i cinquecento franchi
promessi, più una caparra per
l'altro
affare,
se
sarete
ragionevole."
"Ora voi prendete a destra e noi a
sinistra, ma non ci seguite,
perché..." Il Maître e la Chouette si
allontanarono solleciti.
"Il demonio è venuto ad
aiutarci"
disse
Sarah
"quel
furfante può esserci utile."
"Sarah, adesso ho paura" esclamò
Tom.
"Io non temo nulla; anzi io
spero... Ma, andiamo, andiamo: la
vettura non dev'essere distante." E
i due nemici di Rodolphe
studiarono i passi, dirigendosi
verso la piazza di Notre-Dame.
Un testimone invisibile aveva
assistito a questa scena. Era lo
Chourineur, che s'era accovacciato
fra le macerie, per ripararsi dalla
pioggia. Le proposte di Sarah al
Maître, relativamente a Rodolphe,
lo interessarono vivamente.
Spaventato dal pericolo che
sovrastava il suo nuovo amico,
provò sommo dispiacere di non
poterlo aiutare, e in tale
sentimento aveva forse qualche
parte l'odio che egli nutriva contro
il Maître e la Chouette, l'aguzzina
della Goualeuse.
Decise di avvertire Rodolphe
del pericolo che correva. Ma come
riuscirvi?
Aveva
dimenticato
l'indirizzo del sedicente pittore di
ventagli. Probabilmente Rodolphe
non sarebbe tornato al "tapisfranc".
E in tal caso come ritrovarlo?
Ruminando simili pensieri, lo
Chourineur
aveva
meccanicamente seguito Tom e
Sarah. Li vide salire in una
carrozza da nolo posteggiata nella
piazza di Notre-Dame.
La vettura partì.
Balenò un'idea luminosa alla
mente dello Chourineur, che saltò
a sedere sulla predella, dietro il
"fiacre".
All'una dopo mezzanotte, la
carrozza si fermò sul boulevard de
l'Observatoir, e Tom e Sarah
sparirono in uno dei tanti vicoli
che da qui si diramano.
In quel buio fitto non ci si
vedeva
abbastanza,
e
lo
Chourineur non poteva rilevare
alcun indizio che gli servisse a
riconoscere il giorno dopo con
precisione i luoghi. Con una
sagacia veramente straordinaria,
trasse di tasca il coltello e fece un
taglio largo e profondo a uno degli
alberi vicino a cui si era fermato il
"fiacre". Poi ritornò sulla strada,
da cui si era allontanato per
seguire i due nemici di Rodolphe.
Per la prima volta dopo tanto
tempo, lo Chourineur gustò nella
sua
stamberga
un
sonno
tranquillo, per nulla interrotto
dalle funeste visioni del "macello
del sergente", come soleva dire nel
suo rozzo linguaggio.
8.
La passeggiata.
All'indomani, cessata nella
notte la pioggia, un magnifico sole
d'autunno brillava in mezzo a un
cielo sereno e terso; e l'orribile
quartiere, dove il lettore ci ha
accompagnati, anche se oscurato
dall'altezza delle case, pareva
meno triste a quella bella luce del
giorno.
Rodolphe intanto, sia che non
temesse più d'incontrare le due
persone evitate la sera innanzi, sia
che non se ne curasse, entrò verso
le undici della mattina nella rue
aux Fèves, avviandosi alla bettola
del Coniglio Bianco.
Era tuttora vestito da operaio,
ma con una certa ricercatezza: una
blusa nuova, aperta sul petto,
lasciava vedere una camicia di
lana rossa, chiusa da diversi
bottoni d'argento; il colletto
d'un'altra camicia di tela bianca
era ripiegato sulla cravatta di seta
nera, annodata con negligenza; dal
berretto di velluto celeste, con la
visiera
colorata,
spuntavano
ciocche di capelli castani; stivaletti
ben lustrati, invece degli scarponi
ferrati della sera precedente,
ponevano in rilievo un bel piede,
che sembrava ancor più piccolo,
sporgendo dai larghi pantaloni
color oliva. Questo abbigliamento
non nuoceva all'eleganza del suo
portamento
singolare,
vera
miscellanea di grazia, forza e
agilità.
L'Orca se ne stava sulla soglia
della bettola, quando Rodolphe vi
arrivò.
"Buongiorno,
giovanotto!
Venite a prendere il resto dei
vostri venti franchi?" disse con
garbo la Ponisse, ricordandosi che
il vincitore dello Chourineur le
aveva gettato un luigi sul banco.
"Vi devo indietro diciassette
franchi e dieci soldi... Ma non è
tutto qui... Ieri capitò a domandar
di voi un signore alto e ben
vestito; aveva gli stivali fatti a
cuore, come un capo tamburo
vestito in borghese, e dava il
braccio a una donnetta con gli
abiti da uomo. Hanno bevuto due
bottiglie di quelle sigillate, con lo
Chourineur."
"Ah, hanno bevuto con lo
Chourineur! E cosa gli hanno
detto?"
"Dire che hanno bevuto sarebbe
una bugia; non hanno fatto altro
che bagnarsi le labbra, accostando
i bicchieri alla bocca, e..."
"Ti domando cosa hanno detto allo
Chourineur?"
"Gli hanno parlato di diverse cose,
e tra le altre di Bras-Rouge, della
pioggia e del tempo."
"Conoscono Bras-Rouge?"
"Al contrario, lo Chourineur ha
spiegato loro chi era, e come gli
avete dato la paga."
"Va bene, non m'importa di queste
ciance."
"Volete il vostro resto?"
"Sì, e condurrò la Goualeuse a
passare la giornata in campagna."
"Oh,
è
impossibile,
caro
giovanotto."
"Perché?"
"Ci mancherebbe che non tornasse
più! I panni che ha indosso sono
miei, senza contare che mi deve
duecentoventi franchi per finire di
saldare il vitto e l'alloggio, dacché
l'ho presa in casa. Se non fosse
una fanciulla a modo com'è, non
la lascerei andare più in là
dell'angolo della strada."
"La
Goualeuse
ti
deve
duecentoventi franchi?"
"Duecentoventi franchi e mezzo,
né più né meno... Ma che interessa
questo a voi, giovanotto? Non mi
direte che siete qui per pagarli?
Suvvia, non fate il milord!"
"Pagati"
rispose
Rodolphe,
gettando sul banco dell'Orca
undici luigi.
"Quanto valgono le carabattole
che le dai a nolo?" La vecchia,
strabiliata, esaminava a uno a uno
quegli undici luigi, con aria di
dubbio e di diffidenza.
"Ohé, dico, credi che io spacci
moneta falsa? Manda a cambiare
quell'oro e finiamola... Quanto
valgono dunque le carabattole che
dai a nolo a quella disgraziata?"
L'Orca, trasecolata, tra la brama di
combinare un buon negozio, lo
stupore di vedere tanto denaro
uscire dalle tasche d'un operaio, e
la paura d'essere ingannata, stette
un momento in silenzio, poi
riprese: "Quella roba vale almeno
cento franchi."
"Simili ciarpe? Eh via! Tienti gli
spiccioli di ieri, e ti darò un altro
luigi, ma non il becco di un
quattrino
di
più.
Lasciarsi
scorticare da te, sarebbe come
rubare ai poveri che hanno diritto
all'elemosina."
"Ebbene, ci accomodiamo subito,
caro giovanotto, io tengo la mia
roba e la Goualeuse sta in casa;
sono padrona di vendere a chi mi
pare e piace."
"Il diavolo ti arrostisca un giorno
secondo i tuoi meriti! Ecco i
quattrini; vai, conducimi la
Goualeuse." La vecchia intascò le
monete,
persuasa
che
quell'operaio avesse commesso un
furto, o riscosso un'eredità, e gli
disse con un laido sorriso:
"Perché, figliolo, non salite voi
stesso a chiamare la Goualeuse?
Le farà piacere la vostra visita,
giacché non mi chiamo più
Ponisse se ieri non vi sbirciava per
benino!"
"Va' a cercarla tu, e dille che la
condurrò
in
campagna...
Nient'altro. Soprattutto non deve
sapere che ho pagato il suo
debito."
"Perché?"
"Che t'importa saperlo?"
"Difatti,
non
m'interessa;
preferisco che si creda sempre
sotto la mia protezione."
"Non la finirai mai! Vuoi salire
una buona volta?"
"Oh, che iracondo! Compatisco le
persone a cui fate il broncio... Eh
via! Vado, vado." E l'Orca salì.
Dopo pochi minuti, discese nella
taverna.
"Non mi voleva credere! Si è
fatta rossa in faccia come una
brace quando ha saputo che
eravate voi... Ma quando poi le ho
soggiunto che le davo il permesso
di andarsene per tutto il giorno in
campagna,
ho
creduto
che
diventasse pazza, e per la prima
volta in vita sua, è stata sul punto
di saltarmi con le braccia al collo."
"Era per la felicità di lasciarti." A
quel punto entrò Fleur-de-Marie
vestita come il giorno prima: la
giubba di bordato scuro, lo scialle
color arancio annodato alle reni,
una pezzuola a quadretti rossi che
lasciava scorgere solamente due
magnifiche ciocche di capelli
biondi.
Arrossì
nel
vedere
Rodolphe, e chinò gli occhi
confusa.
"Volete venire, mia cara, a
passar con me la giornata in
campagna?" le domandò il finto
operaio.
"Ben
volentieri,
signor
Rodolphe" rispose "poiché la
padrona lo permette."
"Ti dò licenza, cuoricino mio, a
causa della tua buona condotta,
che ti fa onore... Suvvia, dammi un
bacio." E la megera porse alla
ragazza la vilissima guancia. La
giovane, procurando di vincere la
propria ripugnanza, accostò la
fronte alle labbra dell'Orca, ma
Rodolphe con una violenta
gomitata respinse la vecchia, prese
a braccetto la ragazza, e uscì dalla
bettola,
accompagnato
dalle
maledizioni dell'Orca.
"Badate, signor Rodolphe" gli
disse la Goualeuse "l'Orca è capace
di attirarvi qualche maledizione
sul capo, è tanto maligna!"
"State di buon animo, ragazza mia.
Ma che avete? Mi sembrate
imbarazzata, malinconica... Vi
rincresce forse di venire con me?"
"Al contrario... Ma mi avete dato il
braccio."
"Ebbene?"
"Siete un operaio... Qualcuno può
riferire al vostro padrone di avervi
incontrato con me... Vi potrebbe
nuocere. I maestri di bottega non
hanno piacere che i loro lavoranti
vadano con donne come me." E
ritirando dolcemente il suo
braccio da quello di Rodolphe,
aggiunse: "Andate avanti solo, vi
verrò dietro, passo passo, fino alla
barriera. Poi fuori, nei campi
tornerò a starvi accanto."
"Non temete nulla" esclamò
Rodolphe, colpito
da
tanta
delicatezza, e riprendendo Fleurde-Marie a braccetto "il mio
padrone non abita in questo
quartiere, e poi prenderemo un
"fiacre" sul quai aux Fleurs."
"Come volete, signor Rodolphe...
Dicevo questo per non esservi poi
causa di qualche dispiacere..."
"Lo credo e ve ne ringrazio. Ma,
sinceramente, preferite andare in
campagna da questa o da un'altra
parte?"
"Per me è tutt'uno, signor
Rodolphe, purché si vada in
campagna... La giornata è così
bella... L'aria aperta allarga i
polmoni! Sapete che da cinque
mesi non sono andata oltre il
mercato dei fiori? E se l'Orca mi
lasciava uscire dalla Cité è perché
sapeva che sarei tornata."
"E quando andavate al mercato,
era per comprare dei fiori?"
"Oh, no, non avevo denaro, andavo
solamente
per
vederli,
per
respirarne il profumo... Nella
mezz'ora in cui l'Orca mi
permetteva di andarmene sulla
piazza i giorni di mercato, ero così
contenta, che dimenticavo tutto."
"E tornando dalla Ponisse in quei
tristi vicoli?"
"Vi tornavo più malinconica di
quando ne ero partita, e divoravo
in segreto le lacrime per non
prendere sberle! Vedete, al
mercato, quello che mi faceva
invidia, oh, molta invidia, era
vedere certe operaie linde che se
ne andavano allegre, con un bel
vaso di fiori fra le braccia."
"Sono persuaso che se ne aveste
avuto uno anche voi sul davanzale
della finestra, vi avrebbe tenuto
compagnia."
"Oh, è vero quello che dite, signor
Rodolphe. Figuratevi che un
giorno l'Orca, il giorno della sua
festa, conoscendo la mia passione
per i fiori, mi ha regalato un
piccolo rosaio. Se sapeste com'era
grazioso! Non mi annoiavo più a
star sola. Passavo ore intere a
guardarlo...
Mi
divertivo
a
contarne le foglie, i bei fiori... Ma
l'aria è così malsana nella Cité, che
dopo due giorni cominciò ad
avvizzire. Allora... Ma adesso
riderete di me, signor Rodolphe?"
"No, no, continuate."
"Ebbene, allora, chiesi all'Orca il
permesso di andare fuori per
portare a spasso il rosaio... Sì,
come avrei condotto a passeggio
un bambino. Lo portavo al
mercato, immaginavo che il
riportarlo ancora tra gli altri fiori,
in mezzo a quell'aria fresca e
olezzante, gli dovesse far bene; gli
inumidivo le foglie gialliccie e
vizze con l'acqua limpida della
fontana, e poi, per asciugargliele,
lo tenevo un quarto d'ora al sole...
Caro, mio bel rosaio, non vedeva
mai il sole, nella Cité, perché in
quella nostra strada non scendeva
più basso del tetto... Poi tornavo a
casa... Ebbene, vi assicuro, signor
Rodolphe, che grazie a quelle
passeggiate, la mia cara pianticella
di rose tenne le sue foglie dieci
giorni di più."
"Lo credo, ma quando il rosaio
morì, dev'essere stata una grande
perdita per voi."
"Piansi, ne ebbi un vero dolore...
E, vedete, signor Rodolphe, poiché
capite che si possa voler bene ai
fiori, posso dirvi anche questo...
Ebbene, provavo per quella pianta
una specie di gratitudine, di... Oh,
questa volta certamente riderete
di me..."
"No, no! Amo io pure... adoro i
fiori, quindi comprendo tutte le
follie che possono farci fare, o
ispirarci."
"Ebbene, ero così grata a quel
povero rosaio di fiorire così bello
per me quantunque, via, malgrado
quello che io ero..." E la Goualeuse
chinò la fronte, e diventò color del
fuoco per la vergogna.
"Disgraziata fanciulla! Con la
coscienza sempre viva della vostra
orribile situazione... E suppongo
che spesso..."
"Avessi voglia di finirla, volete
dire, signor Rodolphe?" esclamò la
Goualeuse interrompendolo. "Oh,
sì, più di una volta ho guardato le
acque della Senna dal parapetto...
Ma poi ho guardato i fiori, il sole...
Allora dicevo: "Il fiume sarà
sempre là; non ho ancora
diciassette anni... Chissà!""
"Nel dire "chissà", speravate?"
"Sì..."
"E cosa speravate?"
"Non so... Speravo. Sì, speravo
quasi mio malgrado... In quei
momenti, mi pareva che non
avessi meritato la mia sorte, che
rimanesse sempre in me qualche
cosa di buono. Dicevo tra me: "Mi
hanno tormentata tanto, ma
almeno, non ho fatto male ad
alcuno... Se avessi avuto chi mi
consigliasse, non sarei ridotta quel
che sono!" Così cacciavo la
malinconia... Poi vi devo dire che
questi pensieri mi erano venuti
soprattutto dopo la perdita del mio
rosaio" aggiunse la Goualeuse con
un tono grave, che fece sorridere
Rodolphe.
"Sempre
quel
gran
dispiacere..."
"Sì, eccolo, osservatelo." E la
ragazza trasse di tasca un
mazzettino di gambi di fiori, legati
leggiadramente
con un bel
nastrino rosa.
"Voi l'avete conservato?"
"Certo! È tutto quello che
possiedo al mondo."
"Come, non avete nulla di vostro?"
"Nulla..."
"Ma questo vezzo di coralli?"
"È dell'Orca."
"Ma come, neppure una pezzuola,
una cuffia, uno scialle?"
"No, nulla, nulla, fuorché questi
gambi secchi del mio povero
rosaio. Ecco perché li tengo tanto
cari..." Lo stupore di Rodolphe
cresceva a ogni parola della
fanciulla;
non
poteva
comprendere quella spaventosa
schiavitù, l'infame vendita del
corpo e dell'anima, per un lercio
ricovero, per pochi cenci e un
immondo
nutrimento(1).
Rodolphe e la Goualeuse giunsero
sul Quai aux Fleurs: al posteggio
c'era una carrozza. Rodolphe vi
fece salire la ragazza, quindi vi
montò anche lui, poi disse al
fiaccheraio:
"A
Saint-Denis...
T'indicherò dopo la strada che devi
percorrere." La vettura partì.
Splendeva un magnifico sole sopra
un cielo senza nubi, ed un'aria un
po' pungente penetrava dai vetri
abbassati.
"Oh, una pelliccia da donna!"
esclamò la Goualeuse, accortasi
d'essersi
seduta
sopra
una
mantellina, che prima non aveva
visto.
"Sì, mia cara, è per voi: l'ho
presa con me, temendo che
avreste
avuto
freddo;
imbacuccatevi bene." La ragazza,
non abituata a simili attenzioni,
guardava attonita Rodolphe; la
soggezione che provava davanti a
lui si faceva sempre maggiore,
come pure una mestizia di cui non
sapeva darsi ragione.
"Mio Dio, come siete buono,
signor
Rodolphe!
Mi
fate
arrossire."
"Perché sono buono?"
"Non so, siete così gentile... Mi
pare che non parliate più come
ieri, che siate tutt'altro..."
"Vediamo, Fleur-de-Marie, quello
che voi preferite: il Rodolphe di
ieri, o il Rodolphe di oggi?"
"Mi piacete di più a questo modo...
Ma, ieri sera mi pareva di più di
essere una vostra pari...". Quindi,
riprendendosi subito, nel dubbio
di avere offeso il suo compagno,
riprese: "Ho detto pari vostra,
signor Rodolphe, ma so che
questo non può essere..."
"In voi, ragazza mia, c'è una cosa
che mi sorprende."
"E che mai, signor Rodolphe?"
"Mi pare che facciate poco caso a
ciò che vi ha detto ieri la Chouette
riguardo ai vostri genitori, al fatto
che conosca vostra madre..."
"Oh,
non
me
ne
sono
dimenticata... Vi ho pensato tutta
la notte, e ho pianto molto. Ma
sono persuasa che non è vero
niente... La guercia avrà inventato
quella storia per mettermi in
pena."
"Può darsi che sia più informata di
quanto supponete. Se fosse vero,
non sareste contenta di ritrovare
la vostra mamma?"
"Ahimè, signor Rodolphe! Se mia
madre non mi ha voluto bene, che
mi importa ritrovarla? Non mi
vorrà nemmeno vedere... Se poi mi
amava, che disonore le farei! Ne
potrebbe morire, forse."
"Se vostra madre vi ha amato,
saprà compatirvi, perdonarvi e
tornerà a portarvi amore... Se vi ha
abbandonata, vedendo a quale
triste vita vi ha ridotto il suo
abbandono,
forse
potrebbe
pentirsi e voi sareste vendicata."
"A che mi serve ora la vendetta? E
poi, se io mi vendicassi, mi pare
che non avrei più diritto di
chiamarmi infelice... E spesso
questo mi consola..."
"Avete forse ragione... Non ne
parliamo più!" In quel momento,
la carrozza arrivava vicino a SaintOuen, da cui si dividono le due
strade di Saint-Denis e della
Révolte. Nonostante la monotonia
del paese, la Goualeuse fu così
lieta di vedere i campi, come
diceva, che, messi in disparte i
tristi ricordi destati in lei dal nome
della Chouette, il suo bel viso si
rasserenò. Fece capolino allo
sportello della vettura e, battendo
le mani, con la gioia di una
bambina, gridò: "Signor Rodolphe,
ah, che piacere! L'erba!... i campi!
Se mi permetteste di smontare... È
così bel tempo! Lasciatemi
scorrazzare un poco per quei
prati..."
"Scendiamo pure, mia cara...
Cocchiere, ferma!"
"Come,
anche
voi,
signor
Rodolphe?"
"Anch'io voglio far festa."
"Che piacere, signor Rodolphe!" E
Rodolphe e la Goualeuse si
presero per mano, scorrazzando,
fino a mancar loro il fiato, tra
l'erba di recente falciata d'un
odoroso prato. Ridire i salti, le
grida liete e l'ebbrezza di Fleur-deMarie, sarebbe impossibile.
Pareva
una
gazzella
lungamente
prigioniera,
che
bevesse le libere praterie. Andava,
veniva, si fermava, ripartiva con
nuovo trasporto. Al vedere alcuni
cespi di margheritine, e di
fiorellini gialli risparmiati dalla
brina, la Goualeuse non poté
trattenere alte grida d'allegria. Si
mise a raccogliere fiori facendone
un mazzetto. Dopo aver corso in
mezzo ai campi, stancatasi presto,
perché era tempo che aveva
perduto l'abitudine all'esercizio, si
riposò a riprender fiato, e sedette
sul tronco d'un albero rovesciato
sull'orlo d'un profondo fosso. La
sua carnagione d'una bianca
trasparenza, ma di solito un poco
pallida, si colorì d'una tinta più
vivace. I suoi grandi occhi celesti
brillavano con dolcezza, la bocca
porporina,
ansante,
lasciava
distinguere due file di umide
perle, il seno palpitava sotto lo
sdrucito scialle color arancio;
passava una mano sul cuore per
comprimerne i palpiti, mentre con
l'altra porgeva a Rodolphe il
mazzolino di fiori che aveva colto
nei campi.
Nulla sembrava più attraente
di quell'espressione di gioia
innocente e pura che le splendeva
in quel momento sull'ingenuo
volto. Quando Fleur-de-Marie fu
in grado di parlare, disse a
Rodolphe, con un accento di
grande
contentezza
e
di
gratitudine quasi religiosa: "Oh,
quanto è grande la bontà di Dio
nel darci una giornata così bella!"
Una lacrima spuntò sul ciglio a
Rodolphe, nell'udire quella povera
creatura abbandonata, disprezzata,
perduta, senza asilo, né pane,
levare un grido di piacere e di
riconoscenza ineffabile verso il
Creatore, perché poteva godere un
raggio di sole e la vista di
un'ampia campagna. Ma lo tolse
dalla sua contemplazione un
imprevisto incidente.
9.
La sorpresa.
Noi dicevamo che la Goualeuse
si era seduta sopra un tronco
d'albero sull'orlo d'un fosso.
Ad un tratto un uomo,
rizzandosi dal fondo di quella
cavità, scosse il fogliame sotto cui
si era rimpiattato, e diede in una
risata strepitosa. La ragazza si
volse con un grido di spavento.
Era lo Chourineur.
"Non aver paura, ragazza mia"
disse, vedendo che si rifugiava
presso il suo compagno. "Ecco un
bell'incontro,
sapete!
Mastro
Rodolphe, voi
non
ve
lo
aspettavate, e nemmeno io..."
Quindi soggiunse con serietà:
"Eppure, mio professore, vedete,
diranno quel che vogliono, ma c'è
qualche cosa per l'aria, là in alto,
sopra il nostro capo... Quel
Padrone di lassù è previdente, e
pare che dica all'uomo: "Va, dove
io ti spingo..." Poiché è lui che vi
ha spinto qui, ed è una cosa
veramente sorprendente!"
"Ma cosa fai tu qui?" gli chiese
Rodolphe assai stupefatto.
"Stavo in guardia per il vostro
bene, mio professore... Ma,
fulmini!
È
una
bella
combinazione, che siate capitato
per l'appunto nei dintorni della
mia casa di campagna... Oh, sì, c'è
qualche cosa, certamente c'è
qualche cosa..."
"Te lo ripeto, che fai in questo
luogo?"
"Fra poco lo saprete, datemi
almeno tempo di andare ad
esaminare i dintorni da sopra la
vostra carrozza." E lo Chourineur
corse verso il "fiacre" fermo a poca
distanza, gettò un lungo sguardo
lontano, sull'immensa pianura, e
tornò subito da Rodolphe.
"Vorrai spiegarmi che cosa
significa tutto questo mistero?"
"Pazienza, pazienza, professore!
Ancora un'altra parola. Che ore
sono?"
"Le dodici e mezzo" rispose
Rodolphe, consultando l'orologio.
"Di bene in meglio... Abbiamo
tempo. La Chouette non sarà qui
prima di mezz'ora."
"La Chouette!" esclamarono a una
voce Rodolphe e Fleur-de-Marie.
"Sì, lei in carne e ossa, che il
demonio l'accechi. In due parole,
vi spiffero per filo e per segno
tutto il fatto. Ieri sera, quando ve
ne siete andato dal Coniglio
Bianco, capitò..."
"Un uomo d'alta statura con una
donna travestita da uomo, e
chiesero di me, lo so. E poi?"
"Poi, mi pagarono da bere, e
cercarono di farmi chiacchierare
sul conto vostro. Io non ho voluto
raccontar niente... Giacché, tranne
la pruriginosa salsa che mi avete
gentilmente fatto assaggiare prima
di cena, io non conoscevo nulla dei
vostri segreti. E li avessi saputi,
sarebbe stato lo stesso. Fra noi,
professor Rodolphe, c'è un legame
per la vita e la morte. Il diavolo mi
porti, adesso, se so quel che voglio
dire, ma sento per voi l'affezione
d'un grosso cane per il suo
padrone, è così... Non capisco, e
non ci voglio pensare, è un affare
che riguarda voi."
"Ti ringrazio, mio caro, ma
continua pure."
"Il signore alto e la signora
travestita, vedendo che non c'era
da saper nulla da me, uscirono
dalla taverna dell'Orca, e anch'io
feci lo stesso: essi dalla parte del
Palazzo di Giustizia, io verso
Notre-Dame. Arrivato alla fine
della
strada,
cominciai
ad
accorgermi che pioveva a rovescio,
una pioggia da vero diluvio. C'era,
per fortuna, lì vicino, una casa in
demolizione. Dissi tra me: "Se
l'acquazzone dura un pezzo, posso
dormire qua dentro invece che
nella mia stamberga." Mi calo in
una specie di sotterraneo e sono al
riparo dal maltempo... Cerco
subito di prepararmi un letto: una
trave per materasso, un pezzo di
muro per guanciale, ed eccomi
accomodato in un talamo, come
un re."
"E poi?"
"Avevamo bevuto in compagnia,
professor Rodolphe, dopo avevo
vuotato qualche altro bicchiere
con quel grande e quella piccina
travestita: per dirvi che avevo la
testa pesante... Con tutto questo
non c'è nulla che mi concili il
sonno come lo scroscio della
pioggia, che manda il cielo.
Cominciavo
dunque
a
sonnecchiare. Non erano forse
cinque minuti, che avevo legato
l'asino, quando un rumore mi
rompe il sonno, e mi desto di
soprassalto: era il Maître che
discorreva amichevolmente con
qualcuno. Ascolto... Fulmini! Chi
riconosco? La voce di quel signore
grande che era venuto al "tapisfranc" con la donnetta travestita."
"Parlavano con il Maître d'école e
con la Chouette?" chiese Rodolphe
sorpreso.
"Con il Maître e la Chouette.
Decidevano di ritrovarsi il giorno
dopo."
"Oggi dunque?" disse Rodolphe.
"All'una."
"Sicché, fra un momento!"
"Al punto dove si dividono le due
strade di Saint-Denis e della
Révolte."
"Ma è qui!"
"Così è, professore, qui!"
"Il
Maître,
badate,
signor
Rodolphe!" gridò Fleur-de-Marie.
"Calmati, figliola... Non deve
venire lui, ma soltanto la
Chouette."
"In che modo quel pendaglio da
forca ha potuto mettersi in
contatto con quei due miserabili?"
domandò Rodolphe.
"Io non ne so più di voi. Può
anche darsi che io mi sia svegliato
verso la fine dell'incontro; perché
quello alto discuteva per riavere il
suo portafogli, che la Chouette
dovrebbe portargli qua in cambio
di cinquecento franchi. Può darsi
che il Maître abbia cominciato con
il rubarglielo, e poi si siano messi
a ragionarci sopra per fare uno
scambio."
"È singolare!"
"Mio Dio, ho paura per voi, signor
Rodolphe!" disse la Goualeuse.
"Il signor Rodolphe non è un
bambino, mia cara, ma, tu dici
bene: la faccenda potrebbe farsi
seria, e perciò eccomi qua."
"Continua, Chourineur."
"L'uomo alto e la donna travestita
promisero duemila franchi al
Maître, per fare qualcosa contro di
voi, non so cosa. La Chouette deve
essere qui fra poco con il
portafogli. Io, curioso, ho voluto
sapere che cosa tramavano quei
due; forse la Chouette andrà a
riferire al Maître i nuovi accordi,
ed egli penserà al resto." Fleur-deMarie trasalì. Rodolphe sorrise
con aria di disprezzo.
"Duemila franchi per imbastire
qualche trappola contro di voi! Mi
fa venire in mente, perdonate il
paragone, quando promettono
cinquecento franchi di mancia per
un cane smarrito, e io dico a me
stesso: "Per te, bestiaccia, se tu ti
perdessi, non darebbero uno
scudo per ritrovarti." Duemila
franchi per farvi del male! Chi
siete mai?"
"A suo tempo lo saprai."
"Basta così, caro professore...
Quando intesi la proposta fatta
alla Chouette, dissi fra me:
"Bisogna che io sappia dove
alloggiano quei ricchi sfondati che
intendono aizzare il Maître contro
il signor Rodolphe, e questo mi
può forse giovare." Intanto che si
allontanavano, io li seguivo
attento come un lupo: raggiunsero
una carrozza sul sagrato di NotreDame e salitici sopra, io appeso
dietro, arriviamo insieme sul
boulevard de l'Observatoire. C'era
buio come in un forno, non ci si
vedeva lontano una spanna. Mi
venne l'idea di fare un taglio in un
albero per rintracciarlo oggi."
"Bella pensata!"
"E questa mattina ci sono tornato.
A dieci passi dal mio albero,
scorgo una stradicciola chiusa da
un cancello, e in fondo a quella
una casa. La tana, m'immagino,
dell'uomo grande e della donna
piccola."
"Grazie, amico, tu mi rendi, senza
saperlo, un grande servizio."
"Scusate e compatite, signor
Rodolphe, ma io me l'immaginavo,
e per questo l'ho fatto."
"Ti credo, mio caro, e vorrei
poterti
ricompensare
più
concretamente che con semplici
parole, ma disgraziatamente non
sono che un povero diavolo
d'operaio, quantunque diano,
come tu dici, duemila franchi per
farmi del male. Ti dirò come
stanno le cose."
"Bene, se non vi dispiace,
altrimenti per me è lo stesso. Si
ordisce contro di voi qualche
intrigo, io mi oppongo... Il resto
non m'interessa."
"Credo di indovinare ciò che
vogliono. Ascoltami bene. Io
posseggo un segreto per tagliare a
macchina l'avorio dei ventagli, ma
questo segreto non l'ho io solo;
aspetto il mio socio per metterlo
in
pratica,
e
sicuramente
intendono impadronirsi a tutti i
costi del modello della macchina
che ho in casa, perché c'è da far
quattrini a bizzeffe con quella
scoperta."
"Quel grande e quella piccola
dunque, sono...?"
"Fabbricanti dai quali lavoravo
prima, e ai quali non ho voluto far
conoscere il mio segreto." Questa
spiegazione parve soddisfacente
allo Chourineur, che non stava
troppo a sottilizzare, e soggiunse:
"Adesso capisco. Vedete un po' i
bricconi! Non hanno neppure
l'audacia di giocarvi il tiro loro
stessi. Ma, per finirla, ecco quel
che ho detto tra me questa
mattina: "So dell'appuntamento
della Chouette e di quel tipo,
voglio andare ad aspettarli, ho
buone gambe... Il mio capo
facchino si spazientirà, peggio per
lui..." Arrivo qua, vedo questa
buca, vado a pigliare una bracciata
di strame laggiù, mi ci nascondo,
ed aspetto la Chouette. Ma ecco
che voi passate sulla strada e
questa povera Goualeuse si mette
proprio a sedere ai margini del
mio nascondiglio; allora mi è
saltato il ticchio di farvi una burla,
ed ho urlato come un dannato,
sgusciando da quella coltre di
fogliame."
"Adesso, che intenzione hai?"
"Aspettare la Chouette, che, di
sicuro, verrà per prima; procurare
di sentire quel che dice a quel tizio
alto, perché questo vi può giovare.
Non c'è altro che quel tronco
d'albero rovesciato là per terra; di
là si può vedere quasi tutta la
campagna, e sembra messo lì
apposta per nascondercisi. Il luogo
del ritrovo della Chouette è
quattro passi più in là, alla
divisione delle due strade, e c'è da
scommettere che verranno qui a
concludere il loro affare. In caso
contrario, cioè che non possa
intendere niente, quando si
saranno separati, acciuffo per la
veste la Chouette, e le pago il
dente che ha strappato alla
Goualeuse, poi le torco il collo e
glielo tiro davvero, affinché mi
dica nome, cognome e patria, tutto
insomma dei genitori di questa
povera ragazza... Che vi pare del
mio progetto, signor Rodolphe?"
"C'è del bello e del buono, ma c'è
anche da correggere qualche
particolare."
"Oh, Chourineur, non andate a
procurarvi guai per me. Se
minaccerete la Chouette, il
Maître..."
"Basta, ragazza... La guercia deve
passare per le mie mani. Fulmini!
Giusto perché il Maître la difende,
voglio raddoppiarle la dose."
"Ascoltami, amico" lo interruppe
Rodolphe. "Io ho un mezzo
migliore
per
vendicare
la
Goualeuse
delle
ribalderie
commesse dalla Chouette. Più
tardi te lo spiegherò. Quanto ad
ora" e si scostò alcuni passi da
Fleur-de-Marie abbassando la
voce "vuoi farmi un vero favore da
buon figliolo?"
"Comandate, signor Rodolphe."
"La Chouette non ti conosce?"
"L'ho vista ieri per la prima volta
al "tapis-franc"."
"Ecco quello che devi fare. Ti
tornerai a nascondere, ma quando
ti accorgerai che si avvicina,
salterai fuori dalla buca..."
"A torcerle il collo?..."
"No, questo più tardi! Per oggi
bisogna solamente impedire che
parli
con
quell'uomo
alto.
Vedendo qualcuno con lei, non
oserà avvicinarsi. Se poi venisse
avanti, non lasciare un minuto
sola la vecchia... In presenza d'un
terzo non potrà farle le sue
proposte."
"Se quello mi accusasse di essere
troppo curioso, me la sbrigo
presto; non è mica un Maître, né
un professore che si chiami
Rodolphe."
"Conosco quel coniglio, non è tipo
da mettersi contro di te."
"Meglio. Seguo la Chouette come
un'ombra. L'altro non pronuncia
una parola, che io non intenda, e
finisce con l'andarsene via..."
"Se
stabiliscono
un
altro
appuntamento, tu lo saprai,
purché non li abbandoni un
istante. Già la tua presenza
basterà
per
allontanare
il
forestiero."
"Perfetto. Poi, dò una stretta alla
Chouette... Questo mi preme."
"Non ancora. La guercia sa che tu
sei un ladro, o no?"
"No, se il Maître non le ha detto
che il furto non è nel mio
repertorio."
"Se glielo ha detto, devi fingere
d'aver cambiato abitudini."
"Io?"
"Tu!"
"Fulmini! Signor Rodolphe. Ma
ditemi prima... Mi va poco a genio
questo genere di burla."
"Tu farai quello che credi. Vedrai
che non ti propongo un'azione
meno che onesta..."
"In quanto a questo, sono
tranquillo."
"E hai ragione."
"Ordinate dunque, obbedirò."
"Allontanato quel tipo, cercherai
di ingraziarti la Chouette."
"Io, quella vecchia guercia? Vorrei
piuttosto fare a pugni con il
Maître. Non so ancora come potrò
tenermi dal non saltarle subito
addosso."
"Allora guasteresti l'affare."
"Ma che devo fare dunque?"
"La Chouette sarà inviperita d'aver
perduto questa buona occasione;
tu
procurerai
di
calmarla,
dicendole che sai che c'è da
tentare un bellissimo colpo, che
sei qua per aspettare il tuo
complice, e che se il Maître ci vuol
stare, c'è da guadagnare una
buona
manciata
d'oro
per
ciascuno."
"To', To'..."
"Dopo averla fatta aspettare
un'ora, le dirai: "Il mio compagno
non viene, dobbiamo rimandare a
un'altra volta..." e tu fissi un
appuntamento con la Chouette e il
Maître per domani di buonissima
ora. Hai ben capito?"
"Capisco."
"E questa sera ti troverai, alle
dieci, all'angolo degli ChampsElysées e dell'allée des Veuves; io
ti raggiungerò e t'informerò del
rimanente."
"Se questo è un tranello, badate! Il
Maître è una volpe... Voi lo avete
battuto: al minimo dubbio, è
capace di ammazzarvi."
"Non ci pensare."
"Fulmini, è davvero curioso... Voi
disponete di me come vi aggrada.
Mi figuro che c'è in serbo una
buona lezione per quei due
furfanti. Ma un'altra parola
ancora, signor Rodolphe..."
"Parla."
"Non che io vi creda capace di
preparare un tranello al Maître per
farlo acchiappare dalla polizia... È
un ribaldo consumato, che merita
cento volte il capestro, ma farlo
arrestare non è affar mio."
"Neppure mio. Ma devo saldare un
certo conto con lui e con la
Chouette,
giacché
prendono
accordi con i miei nemici, e, noi
due, solo noi due, ne verremo a
capo... Se tu mi aiuti."
"Oh, per questo, siccome il
maschio non è meglio della
femmina, ci sto."
"E se ci riusciamo" aggiunse
Rodolphe con tale serietà che
sorprese lo Chourineur "te ne
glorierai come quando salvasti dal
fuoco e dall'acqua l'uomo e la
donna che ti devono la vita."
"Accidenti come sapete dire queste
cose, professore! Non ho mai visto
uno sguardo simile... Ma presto,
presto" gridò lo Chourineur
"scorgo laggiù un punto bianco;
dev'essere la cuffia della Chouette.
Andatevene, io mi rimetto nella
mia cuccia."
"A questa sera, alle dieci..."
"All'angolo tra l'allée des Veuves e
gli
Champs-Elysées...
Siamo
intesi?" Fleur-de-Marie non aveva
ascoltato quest'ultima parte del
colloquio fra Rodolphe e lo
Chourineur. Risalì in carrozza con
il suo compagno.
10.
Il podere.
Dopo il colloquio con lo
Chourineur, Rodolphe rimase
alcuni istanti preoccupato e
pensoso. Fleur-de-Marie, non
osando turbare il suo silenzio, lo
guardava mesta.
Egli alzò il capo e le chiese
gentilmente: "A che pensate?
L'incontro con lo Chourineur vi è
dispiaciuto, non è vero? Eravamo
tanto allegri!"
"Al contrario, è stato un bene per
noi, signor Rodolphe, perché lo
Chourineur potrà esservi utile."
"Costui, fra gli avventori dell'Orca,
era considerato avere ancora
qualche buon sentimento?"
"Non lo so, signor Rodolphe...
Prima della scena di ieri, l'avevo
visto spesso, ma gli avevo parlato
appena, lo credevo malvagio come
gli altri..."
"Non ci occupiamo più di questo,
mia cara, mi rincrescerebbe
rattristarvi, mentre speravo di
farvi passare una buona giornata."
"Oh, sono ben contenta! È molto
tempo che non andavo fuori
Parigi!"
"Dopo le vostre gite in carrozzella
con Rigolette?"
"Mio Dio, sì, signor Rodolphe. Era
primavera, ma, benché adesso si
sia quasi nell'inverno, mi fa lo
stesso piacere. Che bel sole!
Guardate quelle nuvolette color
rosa laggiù... laggiù, e quella
collina, con le belle casette
bianche in mezzo agli alberi... Ci
sono
ancora
le
foglie!
È
sorprendente
nel
mese
di
novembre, non è vero, signor
Rodolphe? A Parigi le foglie
cadono presto... E là in fondo,
quello stormo di colombi, ecco che
vanno a posarsi sul tetto di un
mulino... In campagna non ci si
sazia mai di osservare, tutto
diverte."
"È un piacere vedere quanto siete
sensibile a certe piccolezze, che
pure formano il pregio della
campagna." Infatti, man mano che
Fleur-de-Marie contemplava il
placido e ridente paesaggio, il suo
volto di nuovo si rallegrava.
"E laggiù, quel fuoco di stoppia
fra i campi coltivati, il bel fumo
bianco che sale al cielo!... E
quell'aratro con i suoi due cavalli
grigi... Se fossi un uomo, come mi
piacerebbe
la
vita
dell'agricoltore!... Starsene nella
quieta campagna, guidare l'aratro,
distinguere da lontano boschi
grandissimi, con un tempo come
oggi, per esempio... Questo sì che
invoglia
a
cantare
quelle
canzonette malinconiche, che
fanno venire le lacrime agli occhi,
come "Genoveffa di Brabante".
Conoscete la canzone della
Genoveffa di Brabante, signor
Rodolphe?"
"No, mia cara, ma se sarete
gentile, me la farete sentire,
quando saremo arrivati al podere."
"Che piacere! Noi andiamo in un
podere, signor Rodolphe?"
"Sì, un podere amministrato dalla
mia balia, una buona e degna
donna che mi ha allevato."
"E potremo avere del latte?"
domandò la ragazza, battendo le
mani.
"Sicuramente! Latte, panna
deliziosa, se vi piace, e burro, che
la fattoressa farà alla nostra
presenza, e anche uova fresche."
"E andremo noi stessi a levarle dal
nido?"
"Certamente..."
"E vedremo le vacche nelle stalle?"
"Se volete."
"E andremo anche alla cascina?"
"Senza dubbio."
"E al colombaio?"
"Sì."
"Ah, credete, signor Rodolphe, mi
pare quasi un sogno... Come mi
divertirò! Che bella giornata!... che
bella giornata!" gridò Fleur-deMarie tutta contenta.
Quindi, per un brusco richiamo
al passato, l'infelice, riflettendo
che dopo quelle ore di libertà
passate in campagna le sarebbe
toccato
tornare
nell'infetto
tugurio, si coprì con le mani la
faccia, e ruppe in un pianto
angoscioso.
"Che avete, Fleur-de-Marie?" le
domandò Rodolphe sorpreso "che
cosa vi addolora?"
"Nulla, nulla, signor Rodolphe" e
cercava di asciugarsi gli occhi
sforzandosi
di
sorridere.
"Perdonatemi, se mi affanno, non
ci badate... Non ho nulla, ve lo
giuro... È stata un'idea... Voglio
essere allegra..."
"Lo eravate poco fa!"
"È
per
questo"
rispose
ingenuamente la ragazza, fissando
su Rodolphe gli occhi ancora
umidi di pianto. E non proseguì.
Rodolphe la comprese: indovinò il
segreto dolore di quell'anima.
Volendo scacciare quel malumore
le disse scherzando: "Scommetto
che pensavate al vostro rosaio. Vi
addolora, sono sicuro, non averlo
in questa passeggiata al podere...
Povera pianta! Voi eravate capace
di portarlo a bere il latte!" La
Goualeuse non poté fare a meno
di sorridere al tono scherzoso di
Rodolphe. In breve la leggera nube
di malinconia si dileguò dalla sua
fronte, e tentò di godere del
presente,
senza
preoccuparsi
dell'avvenire.
Erano giunti a Saint-Denis, di
cui si distingueva in lontananza
l'alta guglia della chiesa.
"Oh, che bel campanile!"
esclamò Fleur-de-Marie.
"È il campanile di Saint-Denis;
c'è una magnifica chiesa... Volete
che la vediamo? Faremo fermare
la carrozza." La Goualeuse
abbassò gli occhi.
"Da quando sono in casa
dell'Orca, non ho più varcato la
soglia di una chiesa; non ho avuto
coraggio... In carcere, al contrario,
amavo tanto cantare a messa! E
alla
solennità
del
"Corpus
Domini", mi piaceva raccogliere e
preparare i mazzetti di fiori per
l'altare!"
"Ma Dio è buono e clemente:
perché temere di pregarlo, di
entrare in una chiesa?"
"Oh, no, no, signor Rodolphe...
Sarebbe come un'empietà... È
anche troppo offendere il buon
Dio in altro modo." Dopo un
momento di silenzio, Rodolphe
riprese: "Finora avete mai amato
qualcuno?"
"No mai, signor Rodolphe."
"E perché?"
"Avete visto le persone che
frequentano il "tapis-franc"... E
poi, per amare, bisogna essere
onesta."
"Cosa volete dire?"
"Esser padrona di sé... potere... Eh
via, signor Rodolphe, se non vi
rincresce, ve ne prego, cambiamo
discorso..."
"Sia
pure,
Fleur-de-Marie,
parliamo d'altro... Ma perché mi
guardate con quegli occhi? Eccovi
di nuovo in lacrime. Vi ho forse
angosciata?"
"No, ma avete per me tanta bontà,
che mi vien voglia di piangere... E
poi, non mi date del tu, e si
direbbe che mi abbiate portata in
campagna soltanto per far piacere
a me, tanto siete lieto nel vedermi
allegra. Non vi è bastato avermi
difesa ieri, mi fate passare oggi
una simile giornata con voi..."
"Veramente, tanto felice?"
"Passerà molto tempo prima che
dimentichi questo piacere. È così
raro poterlo godere."
"Oh, sì davvero..., in mancanza di
quello che non ho" disse Rodolphe
"mi trattengo qualche volta a
pensare a quello che vorrei avere,
e a dire fra me: "Ecco quello che
desidererei essere, ecco la fortuna
che bramerei possedere..." E voi,
Fleur-de-Marie, non fate pure dei
sogni uguali, non fabbricate mai
questi bellissimi castelli in aria?"
"Altre volte, sì, in carcere, prima di
stabilirmi dall'Orca, passavo la vita
a sognare felicità ed a cantare, ma
oggi succede meno... E voi, signor
Rodolphe, a cosa ambireste?"
"Io
vorrei
essere
ricco,
ricchissimo,
avere
servitori,
carrozze, un palazzo, entrare nella
più brillante società, tutte le sere a
teatro... E voi Fleur-de-Marie?"
"Io non sarei così difficile da
accontentare; mi basterebbe tanto
denaro da pagare l'Orca, qualche
soldo d'avanzo per aver tempo di
procurarmi lavoro, una bella
cameretta pulita, da dove vedere
gli alberi, intanto che me ne sto a
cucire..."
"Aggiungete qualche fiore sul
davanzale..."
"Oh, certo! Abitare in campagna,
se si potesse, e basta..."
"Una cameretta e del lavoro danno
il necessario, ma quando si tratta
soltanto di desiderare si può
andare anche al superfluo... Non vi
piacerebbe dunque avere un
cocchio, un filo di diamanti, una
filza di perle, dei begli abiti?"
"Non vorrei così tanto... Soltanto
la libertà, vivere fra i campi, ed
essere sicura di non morire
all'ospedale...
Oh,
questo
sopratutto: non morire là dentro...
Credetemi,
signor
Rodolphe,
quando mi balena quel pensiero,
mi scoraggio!"
"Eh, per noi povera gente..."
"Non è per la miseria che dico
questo, e poi, quando una è
morta..."
"E allora?"
"Non sapete che fanno di noi
allora, signor Rodolphe?"
"No..."
"Ci fu una ragazza che avevo
conosciuto in carcere... Morì
all'ospedale... Dettero il cadavere
in mano ai chirurghi" mormorò la
ragazza con raccapriccio.
"Ah, questo è orribile! E avete
spesso, infelice, simili, sinistri
pensieri?"
"Vi sorprende, capisco, signor
Rodolphe,
che
debba
aver
vergogna per dopo morta... Eh,
mio Dio, non mi hanno lasciato
ormai altra vergogna che questa..."
Le dolorose e amare parole
colpirono Rodolphe. Nascose il
viso fra le mani: rifletteva sulla
fatalità che angosciava Fleur-de-
Marie, pensava alla madre di
quella povera creatura... Sua
madre forse era felice, ricca,
onorata, e sua figlia, certamente
sacrificata per sfuggire alla
vergogna,
era
uscita
dalla
stamberga della Chouette per
andare in prigione, dalla prigione
per rintanarsi nell'antro infetto
dell'Orca, e da quest'antro poteva
forse uscire morente sopra un
saccone d'ospedale e dopo la sua
morte..."
Quell'idea
era
spaventosa. La povera Goualeuse,
nel vedere la fronte rannuvolata
del suo compagno, mestamente gli
disse:
"Scusatemi,
signor
Rodolphe, non dovrei avere simili
idee... Mi conducete con voi
perché io sia allegra, e vi parlo di
cose tanto tristi... Mio Dio, non so
come succeda, ma è contro il mio
volere...
Non sono mai stata tanto felice
come oggi, eppure mi sento le
lacrime agli occhi ogni momento...
Non me ne terrete il broncio, vero,
signor Rodolphe? Vedete, la
malinconia comincia a sparire,
com'è venuta... Ecco, adesso non ci
penso più... Sarò ragionevole...
Vedete,
signor
Rodolphe,
guardatemi gli occhi..." E Fleur-deMarie, dopo averli chiusi due o tre
volte per respingere una lacrima
ostinata, riaprì i suoi grandi occhi,
e li fissò su Rodolphe con la più
amabile ingenuità.
"Non preoccupatevi per me,
Fleur-de-Marie, ve ne prego...
Siate pure lieta o mesta, come vi
suggerisce il cuore. Anch'io, e lo sa
Iddio, spesso sono assalito da idee
nere..."
"Davvero, signor Rodolphe, a voi
pure succede così?"
"Certamente, il mio avvenire non
è molto più brillante del vostro...
Sono senza padre, senza madre...
Se domani mi ammalassi, come
farei a vivere? Spendo giorno per
giorno tutto quello che guadagno."
"Oh, questo è mal fatto, signor
Rodolphe" disse la Goualeuse con
un tono di rimprovero, che fece
sorridere il finto operaio "dovreste
mettere alla Cassa di Risparmio
qualche soldo... Vedete, per me fu
una gran disgrazia non aver
risparmiato un po' di denaro per i
tristi giorni... Con duecento
franchi da parte un operaio non è
schiavo di nessuno, non è mai in
cattive acque... Spesso è appunto
questo che porta al male."
"Voi ragionate da giudiziosa e
saggia, mia piccola massaia. Ma
duecento franchi... Come si fa a
raggranellarli?"
"Facilissimo, vi dico: facciamo un
po' i vostri conti; vi farò vedere e
toccare
con
mano...
Voi
guadagnate qualche volta sino a
cinque franchi al giorno, non è
vero?"
"Sì, quando lavoro."
"Dovete
lavorare
tutta
la
settimana. Vi pare d'essere da
compiangere? Un bel mestiere
come il vostro... pittore di
ventagli... Ci dovete trovar gusto a
lavorare... Vedete, voi non vi
sapete organizzare bene, signor
Rodolphe!"
continuava
la
Goualeuse in tono severo. "Un
operaio può vivere agiato con tre
franchi al giorno... Ve ne restano
sempre due, che alla fine di un
mese sono sessanta risparmiati, e
sessanta franchi al mese sono una
fortuna!"
"Sì, ma mi piace divertirmi,
starmene qualche giorno con le
mani in mano!"
"Signor Rodolphe, ancora una
volta ve lo dico: voi non avete più
testa d'un bambino..."
"E va bene, metterò giudizio, mi
avete dato ottimi suggerimenti...
Non ci avevo mai pensato."
"Sì?" esclamò la ragazza battendo
le mani tutta lieta. "Ora mi fate
contenta! Metterete da parte due
franchi al giorno, non è vero?"
"L'ho detto, risparmierò due
franchi" promise Rodolphe con il
sorriso a fior di labbra.
"Proprio
vero?
Non
m'ingannerete?"
"Dò la mia parola..."
"Vedrete come vi troverete
contento a fine mese con le
economie che avete fatto... E poi
non è tutto qui, e se mi promettete
di non adirarvi..."
"Ho forse la faccia arrabbiata?"
"No, ma non so se devo..."
"Voi mi dovete dir tutto, Fleur-deMarie..."
"Ebbene ci vuol poco a capire...
Voi, che valete più degli altri nel
vostro mestiere, come fate a
frequentare taverne simili a quelle
dell'Orca?"
"Se non fossi capitato là, non avrei
oggi il piacere d'essere in
campagna con voi, mia cara Fleurde-Marie."
"Oh, è vero, ma fa lo stesso, signor
Rodolphe... Vedete, sono tanto
contenta di questa giornata,
eppure rinuncerei volentieri a
passarne un'altra eguale, se questo
dovesse farvi torto..."
"Al contrario, giacché mi avete
dato dei buoni consigli sul
governo della casa."
"E li seguirete?"
"Ve l'ho pur promesso, parola
d'onore! Risparmierò almeno due
franchi ogni giorno..."
11.
I desideri.
In quel momento Rodolphe
ordinò al fiaccheraio, che aveva
oltrepassato Sarcelles: "Prendi la
prima
strada
a
destra,
attraverserai Villiers-le-Bel, e poi,
a sinistra, sempre diritto." Poi,
volgendosi
alla
Goualeuse:
"Giacché siete contenta di me,
Fleur-de-Marie, possiamo ben
divertirci, come dicevamo, a
fabbricar castelli in aria. Non
costano caro, e non me ne dovrete
rimproverare la spesa."
"Vediamo, sentiamo il vostro."
"Tocca a voi per prima, Fleur-deMarie."
"Voglio vedere se indovinerete il
mio, signor Rodolphe."
"Proviamo... Suppongo che questa
strada... Dico questa, perché ci
siamo..."
"È giusto, non importa andare a
cercare tanto lontano."
"Suppongo, dunque, che questa
strada ci conduca ad un bel paese,
non molto fuori dalla via
maestra."
"Ci si sta più tranquilli."
"È posto a metà della collina,
contornata da molti alberi."
"E vi scorre un ruscelletto..."
"Certo, un ruscelletto. Ai limiti del
paese si scorge un magnifico
podere: a un lato della casa un
orticello,
dall'altro
un
bel
giardinetto con le aiuole fiorite."
"Mi pare di esserci, signor
Rodolphe!"
"Al pianterreno una gran cucina
per la gente del podere ed una sala
da pranzo per il fattore."
"La casa ha le persiane verdi...
Stanno tanto bene, non è vero,
signor Rodolphe?"
"Le persiane verdi? Sì, sono
anch'io del medesimo avviso, non
c'è cosa più bella delle persiane
verdi... Naturalmente il fattore
sarebbe vostra zia."
"Sicuro, e sarebbe una buona
donna."
"Eccellente! Vi amerebbe come
una madre..."
"Ottima zia! Dev'essere stupendo
essere amati da qualcuno!"
"E anche voi le vorrete bene?"
"Oh, sì!" esclamò Fleur-de-Marie,
congiungendo le mani e levando i
suoi grandi occhi al cielo con
un'espressione
impossibile
a
descriversi. "Oh, se l'amerei! E poi
l'aiuterei a lavorare, a cucire, a
rassettare la biancheria, a lavare, a
mettere in serbo la frutta per
l'inverno, insomma in tutte le
faccende domestiche... Vi assicuro
che non si lagnerebbe di me! Poi
la mattina..."
"Date tempo, Fleur-de-Marie, siete
troppo impaziente! Aspettate che
finisca di descrivervi la casa."
"Lasciate perdere, signor pittore, si
sa che siete abituato a descrivere
paesaggi sui ventagli" disse la
ragazza, scherzando.
"Ma, chiacchierona, lasciatemi
terminare la casa..."
"È vero, non fiato più, è così bello
ascoltarvi, son tutta orecchi!
Finite dunque, signor Rodolphe, la
casa del podere."
"La vostra stanza è al primo
piano."
"La mia stanza! Oh, che piacere!
Vediamo
la
mia
stanza,
vediamola..." E la ragazza si
strinse
al
suo
compagno,
fissandolo con due occhi grandi e
curiosi.
"La vostra stanza ha due
finestre che danno sul giardino e
sopra un prato, in fondo a cui
scorre il ruscello. Dall'altra parte è
un poggio con un bel boschetto di
castagni, e tra le fronde si vede il
campanile della chiesa."
"Come sarà bello, come sarà bello,
signor Rodolphe! Vien proprio
voglia di starci!"
"Tre o quattro graziose mucche
pascolano nella campagna, che è
separata dal giardino da una siepe
di biancospini."
"E le vedo, affacciandomi alla
finestra?"
"Perfettamente!"
"Una di quelle mucche sarà la mia
prediletta... Non vi pare signor
Rodolphe? Le farò un collare con
il suo campanellino, e l'avvezzerò
a venire a mangiare sulla mia
mano."
"E lei ne sarà lieta. È tutta bianca,
giovane ancora, e si chiama
Musetta."
"Ah, che bel nome! Povera
Musetta, come l'amo già."
"Terminiamo la vostra stanza,
Fleur-de-Marie. È tappezzata di
tela celeste, con le tende dello
stesso colore, e ogni mattina,
basta che protendiate un po' il
braccio, per cogliere un mazzetto
di fiori da un gran rosaio e da un
immenso caprifoglio che si sono
abbarbicati alle mura della casa
per far ombra alla finestra."
"Ah, signor Rodolphe, come sapete
dipingere bene!"
"Adesso, ecco in che modo passate
la giornata."
"Sentiamo le mie occupazioni."
"La vostra buona zia viene a
destarvi, baciandovi teneramente
sulla fronte, vi porta una tazza di
latte appena munto, perché avete
lo stomaco debole, poverina! Vi
alzate, andate a fare un giro nel
podere, a vedere Musetta, i polli, i
vostri amici piccioni, i fiori. Alle
nove arriva il vostro maestro di
scuola."
"Il mio maestro?"
"Avete bisogno d'imparare a
leggere, scrivere e far di conti, per
poter aiutare vostra zia a
registrare le entrate e le uscite
della tenuta del podere."
"È vero, signor Rodolphe, è vero
non penso mai a nulla! Bisogna
bene che impari a scrivere, per
aiutare mia zia" disse gravemente
la ragazza, così impressionata dal
ridente quadro di quella vita
tranquilla, che già le pareva reale.
"Dopo la vostra lezione,
lavorate alla biancheria di casa,
oppure ricamate una bella cuffia
di campagna... Verso le due
preparate il compito per la scuola,
e poi andate con vostra zia a fare
una buona passeggiata, a vedere i
mietitori
in
estate,
i
vendemmiatori in autunno: vi
stancate ben bene e portate a casa
grandi mazzi d'erbe dei campi,
scelti da voi per la vostra cara
Musetta."
"Perché si ritorna dalla campagna,
non è vero, signor Rodolphe?"
"Senza dubbio; c'è un ponte di
legno sul ruscello. Al ritorno, sono
le sei o le sette: in questa stagione
brilla un buon fuoco nella gran
cucina del podere; voi andate a
scaldarvi e a discorrere un poco
con le brave persone che cenano,
tornando dai loro lavori. Poi vi
sedete a tavola con vostra zia.
Qualche volta il curato o due
vecchi amici della casa vi tengono
compagnia. Poi leggete o cucite,
intanto che la zia fa la sua partita a
carte. Alle dieci, vi dà un bel
baciozzo in fronte, voi salite alla
vostra stanza, e la mattina dopo si
ricomincia da capo..."
"C'è da campare cent'anni in
questa maniera, signor Rodolphe,
senza aver tempo d'annoiarci un
sol minuto..." Ma questo è nulla. E
le domeniche, e le feste..."
"In quei giorni, signor Rodolphe?"
"Vi fate tutta bella, vi infilate una
bella veste da contadina, con una
cuffietta rotonda, che vi sta a
meraviglia, e montate in un
baroccino di giunchi con la zia e
con Giacomo, il famiglio della
fattoria, per andare alla messa
cantata del villaggio; dopo, in
estate, non mancate di assistere,
in compagnia della zia, a tutte le
feste delle parrocchie vicine. Siete
così gentile, così buona e brava
donna di casa, vostra zia vi ama
tanto, il curato dà di voi
informazioni così favorevoli, che
tutti i giovani dei dintorni
desiderano ballare con voi...
Sembra che in questo modo
comincino i matrimoni... E a poco
a poco ne osservate uno, e..."
Rodolphe, sorpreso dal silenzio
della Goualeuse, la guardò. La
ragazza frenava a stento i
singhiozzi. Illusa per un istante
dalle parole di Rodolphe, aveva
dimenticato il presente, e il
contrasto che c'era fra questo e il
sogno d'una vita dolce e beata le
rappresentava alla mente l'orrore
della sua situazione.
"Fleur-de-Marie che avete?"
"Ah, signor Rodolphe, senza
volerlo, mi avete messo addosso
un grande turbamento. Per un
momento ho creduto a quel
paradiso..."
"Ma, amica mia, questo paradiso
esiste...
Guardate...
Ferma,
cocchiere." La vettura si arrestò.
La Goualeuse scese di carrozza e
alzò meccanicamente la testa. Si
trovava sulla cima di una
collinetta. Quale fu la sua
meraviglia, il suo stupore! Il bel
villaggio a mezzo-poggio, la
fattoria, il prato, le mucche, il
ruscelletto, il castagneto, la chiesa
in lontananza, tutto quel quadro le
stava dinanzi... Non mancava
nulla, perfino Musetta, la bella
giovenca bianca, futura favorita
della Goualeuse. L'ameno paese
era rischiarato da un bel sole di
novembre. Le foglie gialliccie e
purpuree
vestivano
gli
alti
castagni e risaltavano fra l'azzurro
del cielo.
"Ebbene, Fleur-de-Marie, che
ne dite? Non sono un buon
pittore?"
domandò
Rodolphe
sorridendo.
La
Goualeuse
l'ammirava
tra
l'attonita
e
l'inquieta. Le sembrava una cosa
soprannaturale.
"Come mai, signor Rodolphe?
Ma, mio Dio, è un sogno? Mi fa
quasi paura... Come quello che mi
avete detto..."
"Niente di più semplice, mia cara...
La fattoressa è la mia balia, fui
allevato qui... Questa mattina l'ho
fatta avvertire che sarei venuto a
trovarla, e, parlando con voi,
dipingevo al naturale."
"Ah, è vero, signor Rodolphe!"
esclamò la Goualeuse con un
profondo sospiro.
12.
Il podere.
Il podere, dove Rodolphe
condusse Fleur-de-Marie, era
all'estremità
del
paese
di
Bouqueval, una piccola terra
solitaria, nascosta, inoltrata fra i
campi, lontano da Ecouen circa
due leghe.
Il fiaccheraio, obbedendo al
comando di Rodolphe, scese per
una ripida strada, ed entrò in un
lungo viale fiancheggiato da ciliegi
e da meli.
La carrozza procedeva senza
fragore su un tappeto di zolle e di
erbe sottili e corte, di cui di solito
sono coperti i viottoli di
campagna.
La giovane donna, silenziosa e
malinconica, rimaneva, malgrado
ogni suo sforzo, sotto una
dolorosa
impressione,
che
Rodolphe si rimproverava quasi di
averle causato.
Dopo pochi minuti la vettura
passò davanti al portone del
cortile della fattoria, continuò il
suo cammino lungo una fitta siepe
di carpini, e si fermò di fronte a un
piccolo loggiato di legno rustico
mezzo
nascosto
dal
tronco
serpentino e rugoso di una vite,
con i suoi pampini dalle foglie
ingiallite dall'autunno...
"Eccoci
arrivati,
Fleur-deMarie" disse Rodolphe. "Siete
contenta adesso?"
"Sì, signor Rodolphe... Ma sento
che avrò vergogna davanti alla
vostra balia, non oserò mai
guardarla in faccia..."
"E perché, mia cara?"
"Ah, sì, avete ragione, signor
Rodolphe, lei non mi conosce..."
Alla Goualeuse sfuggì dal petto un
sospiro. Certo la carrozza di
Rodolphe era attesa dalla gente
della casa. Il cocchiere aveva
appena aperto lo sportello, che
una donna sui cinquant'anni,
vestita del costume delle ricche
proprietarie delle vicinanze di
Parigi, con una fisionomia al
tempo stesso mesta e dolcissima,
comparve sotto il loggiato e si fece
incontro
a
Rodolphe
con
rispettosa premura. La Goualeuse
divenne di fuoco, e smontò dopo
qualche minuto di titubanza.
"Buon giorno mia buona
signora Georges" disse Rodolphe
alla donna "vedete che sono
puntuale..." Poi, accostandosi al
cocchiere e dandogli alcune
monete,
soggiunse:
"Puoi
ritornare a Parigi, quando credi."
Questi, che era basso e vigoroso,
con il cappello calato sugli occhi
ed il viso quasi tutto nascosto dal
bavero di pelle del suo pastrano,
intascò il denaro, non rispose
parola, salì a cassetta, diede una
voce e una frustata alla bestia e via
per il viale. "Dopo una corsa così
lunga" pensò Rodolphe "costui ha
troppa fretta di andarsene..." E
quindi aggiunse fra sé: "Sono le
due, vorrà essere in città
abbastanza presto per impiegare il
resto della giornata." E dopo
questa seconda osservazione, non
diede altra importanza alla prima.
Fleur-de-Marie gli si accostò
turbata, quasi intimorita, e gli
disse a voce bassa, per paura
d'essere intesa dalla signora
Georges: "Mio Dio, scusate, signor
Rodolphe, voi rimandate la
carrozza... Ma l'Orca, ahimè!...
Bisogna che io sia da lei questa
sera, se no mi considererà una
ladra... I vestiti che indosso sono
suoi, e in più le devo..."
"Calmatevi, mia cara, tocca a me
domandarvi perdono..."
"Perdono? E di che?"
"Di non avervi ancora detto che
non dovete più nulla all'Orca, e
che potrete deporre questi ignobili
panni per altri che vi darà l'ottima
signora Georges. Ne ha di più
adatti alla vostra persona, e si
compiacerà
di
prestarvi
il
necessario.
Voi
vedete
che
comincia già il suo ruolo di zia."
Fleur-de-Marie
credeva
di
sognare, guardava ora la Georges,
ora Rodolphe, né poteva prestar
fede a ciò che udiva.
"Come?" disse con voce
tremante dalla commozione. "Non
ritornerò più a Parigi? Potrò
rimanere qui? E la signora me lo
permetterà?
Ciò
sarebbe
possibile? Quel castello in aria di
poco fa?..."
"Era questo podere appunto...
Eccolo realizzato."
"No, no, ciò sarebbe troppo bello,
troppo piacevole..."
"Non vi è mai troppa felicità,
Fleur-de-Marie."
"Ah, per pietà, signor Rodolphe,
non m'ingannate, ciò mi farebbe
molto male."
"Mia cara, credetemi" disse
Rodolphe con voce affettuosa, ma
con un accento di dignità che
Fleur-de-Marie
ancora
non
conosceva "sì, voi potete, se lo
volete, condurre d'oggi in avanti,
al fianco della signora Georges,
quella vita tranquilla la cui
descrizione vi piaceva tanto.
Benché questa signora non sia
vostra zia, pure, quando vi abbia
conosciuta, avrà per voi la maggior
premura,
inoltre
sarete
egualmente sua nipote agli occhi
della gente del podere; questa
piccola menzogna renderà più
agevole la vostra situazione. Sì, ve
lo ripeto, se vi aggrada, Fleur-deMarie, potrete realizzare il sogno
di poco fa.
Appena sarete vestita da
forosetta" aggiunse sorridendo "vi
condurremo a vedere la vostra
futura favorita, la bella Musetta,
giovenca bianca che non aspetta
che il collare che voi le avete
promesso. Noi andremo a fare una
visita al colombaio, e poi alla
cascina; insomma, visiteremo
tutto il podere; io voglio
adempiere le mie promesse." La
Goualeuse giunse le mani con
forza. Sul suo volto avvenente
apparivano lo stupore, la gioia, la
gratitudine, il rispetto. Le si
riempirono gli occhi di lacrime ed
esclamò: "Signor Rodolphe, voi
siete dunque un angelo del buon
Dio, che fate tanto bene agli
infelici senza conoscerli, e li
salvate dall'onta e dalla miseria!"
"Povera
fanciulla"
rispose
Rodolphe con un sorriso di
profonda malinconia e d'ineffabile
dolcezza "benché giovane ho già
sofferto nella mia vita, e questo vi
spieghi la compassione che provo
per coloro che soffrono. Fleur-deMarie, anzi, vi chiamerò Marie,
andate pure con la signora
Georges. Marie, conservate questo
nome bello e gentile come voi!
Prima che io parta discorreremo
insieme, e partirò, felice solo di
sapervi contenta." La ragazza non
rispose, si avvicinò a Rodolphe, e,
piegate le ginocchia, gli prese la
destra e l'accostò rispettosamente
alle labbra con un atto colmo di
grazia e di modestia.
Quindi seguì la signora
Georges, che la guardava con
molta tenerezza.
13.
Murph e Rodolphe.
Rodolphe si diresse verso il
cortile e trovò l'uomo d'alta
statura che la sera prima, vestito
da carbonaio, era venuto ad
avvertirlo dell'arrivo di Tom e
Sarah.
Murph, tale era il nome di
quell'individuo,
aveva
circa
cinquant'anni,
pochi
capelli
bianchi e altri biondi e ricciuti gli
spiovevano dal cranio quasi calvo;
il suo viso, largo e colorito, era
senza barba, salvo le fedine
cortissime e bionde che non
oltrepassavano
il
lobo
dell'orecchio e si facevano rotonde
sulle gote paffute.
Benché d'età avanzata e
corpulento, Murph era agile e
robusto. La sua fisonomia, che
ricordava un carattere flemmatico,
era però risoluta e insieme
benevola. Portava una cravatta
bianca, panciotto e abito nero con
ampie falde, e i calzoni, di un color
grigio verdastro, della medesima
stoffa delle ghette, con i bottoni di
madreperla, gli arrivavano appena
al ginocchio, e lasciavano scorgere
calze di lana greggia.
L'abbigliamento e il nobile
portamento
di
Murph
presentavano il tipo perfetto di
quel che gli inglesi chiamano un
gentiluomo di campagna.
Ci affretteremo tuttavia a dire
che egli era un vero "squire", cioè
un vero gentiluomo inglese, non
un fattore.
Nel momento in cui Rodolphe
entrava
nel
cortile, Murph
riponeva nella sacca d'un piccolo
calesse da viaggio un paio di
pistole che aveva appena finito di
pulire.
"Che diavolo vuoi fare di quelle
pistole?" gli chiese Rodolphe.
"Questo riguarda me solo,
monsignore"
egli
rispose,
scendendo dal montatoio. "Fate
pure i fatti vostri, che io faccio i
miei."
"Per quale ora hai ordinato i
cavalli?"
"Secondo i vostri comandi, al
cadere della notte."
"Sei arrivato questa mattina?"
"Alle otto. La signora Georges ha
avuto tempo di preparare ogni
cosa."
"Mi sembri imbronciato... Sei
forse scontento di me?"
"Lo sono fin troppo monsignore,
fin troppo... Un giorno o l'altro...
Insomma temo per la vostra vita."
"Non hai torto a parlar così! Se ti
lasciassi libero di fare, tutti i rischi
sarebbero per te solo, e..."
"E se faceste egualmente il bene
senza mettere in pericolo la vostra
vita, che male ci sarebbe,
monsignore?"
"Ma quale piacere ci sarebbe, caro
messer Murph?"
"Voi" seguitava lo "squire",
alzando le spalle "voi bazzicare in
simili taverne!"
"Oh, eccoci alle solite, con voi
John Bull, con i vostri scrupoli
aristocratici! Stimate sempre i
grandi
signori
d'una
pasta
superiore alla vostra, poveri
agnellini che andate superbi dei
vostri macellai!"
"Se foste inglese, monsignore,
comprendereste meglio... Si onora
chi onora. E d'altronde, quando
pure fossi turco, cinese o
americano, direi che avete torto a
esporvi così. Ieri sera, nelle
pericolose strade della Cité,
andando con voi per trovare quel
Bras-Rouge, che sia maledetto!, ci
volle tutto il timore d'irritarvi e
disobbedirvi per trattenermi e non
correre in vostro aiuto nella rissa
con il manigoldo che avete
incontrato nel portico di quella
casa."
"Vale a dire, mio caro, che voi
dubitate della mia forza e del mio
coraggio?"
"Disgraziatamente mi avete mille
volte dimostrato di non dover
dubitare né dell'uno, né dell'altro.
Grazie a Dio, Crabb da Ramsgte vi
ha insegnato a tirare di boxe,
Lacour di Parigi(2) vi ha dato
lezioni di bastone e di pallacorda,
e, in più, vi ha insegnato a parlar
furbesco; il famoso Bertrand vi ha
addestrato nella scherma, e nei
vostri saggi contro quei professori
siete uscito spessissimo vincitore.
Uccidete le rondini al volo con una
pistola,
avete
dei
muscoli
d'acciaio;
quantunque
mingherlino, mi battereste tanto
facilmente quanto un cavallo da
corsa un cavallo da birraio..."
"Questo è vero." Rodolphe aveva
ascoltato con compiacenza l'elenco
dei suoi meriti da gladiatore e,
sorridendo, soggiunse: "E allora,
di che hai paura?"
"Sostengo, monsignore, che non
conviene mettersi a fare a pugni
con il primo cialtrone che vi
capita. E non lo dico perché avete
costretto
un
gentiluomo
a
impiastricciarsi la faccia con il
carbone e a prendere l'aspetto d'un
diavolo... Malgrado i miei capelli
grigi, la tarda età e gravità, mi
maschererei da funambolo, se vi
potesse giovare, ma non mi
rimangerò quanto ho detto."
"Oh, lo so bene, vecchio Murph,
quando un'idea s'è fissata nel tuo
cranio di ferro, quando il tuo zelo
l'ha ribadita nel tuo cuore fermo e
valoroso,
il
demonio
si
spunterebbe i denti e le unghie per
estirparla."
"Adesso mi adulate, monsignore,
meditate forse qualche..."
"Non essere in imbarazzo."
"... qualche pazzia, monsignore?"
"Mio povero Murph, hai scelto un
cattivo momento per farmi
prediche."
"Perché?"
"Sono in uno dei miei momenti
migliori
di
orgoglio
e
di
contentezza... sono qua..."
"In un luogo dove avete fatto del
bene!"
"È un rifugio contro i tuoi
sermoni, è il mio "Temple-Bar"..."
"Se non è così, a cosa diamine
volete che ricorra, monsignore?"
"Signore caro, voi mi adulate, se
volete impedirmi di fare qualche
follia."
"Monsignore, ci sono delle follie
per le quali sono indulgente."
"Quelle di denaro?"
"Sì, perché, innanzi tutto, con
quasi due milioni di rendita..."
"Spesso si è molto ristretti, caro
Murph."
"A chi lo dite, monsignore?"
"Eppure ci sono alcuni piaceri così
vivi, puri e profondi, che costano
tanto poco! Che c'è mai da poter
paragonare a ciò che ho provato
poco fa, quando quella povera
creatura si è sentita al sicuro qui, e
nella sua gratitudine mi ha baciato
la mano? E non è tutto, alla mia
soddisfazione si prepara un lungo
avvenire: domani, dopodomani,
per molti giorni infine, potrò
pensare con delizia a come si
sentirà quella ragazza quando si
sveglierà ogni mattina in questo
tranquillo asilo, presso l'ottima
signora Georges, che l'amerà
teneramente, perché gli sventurati
hanno per gli altri sventurati
grande simpatia."
"Oh,
riguardo
alla
signora
Georges, non vi furono mai
benefici meglio impiegati. Nobile e
coraggiosa donna! Un angelo di
virtù, un vero angelo! È raro che io
mi commuova, ma questo mi
accade per le disgrazie della
signora Georges... Quanto alla
vostra nuova protetta! Non ne
parliamo, monsignore."
"Perché Murph?"
"Monsignore, voi fate sempre ciò
che vi pare meglio."
"Faccio quello che è giusto" ribatté
Rodolphe un poco spazientito.
"Cioè, giusto secondo voi."
"Giusto davanti a Dio e alla mia
coscienza"
replicò
Rodolphe
severo.
"Ecco, monsignore, non ci
intendiamo. Ve lo ripeto, non ne
parliamo più."
"E io vi ordino di parlare" gridò
l'altro imperiosamente.
"Non siamo mai arrivati al
punto da dovermi ordinare di
tacere, spero che non mi
comanderete di parlare" rispose
Murph con dignità.
"Signor
Murph"
gridò
Rodolphe con un accento d'ira
sempre più crescente.
"Monsignore!..."
"Lo sapete che non mi piacciono le
reticenze."
"E a me fa comodo usarne" disse
bruscamente Murph.
"Sappiate, signore, che se
scendo
con
voi
fino
alla
familiarità, è sempre a patto che
voi vi innalziate sino alla
schiettezza."
È
impossibile
descrivere l'alterigia sovrana della
fisonomia di Rodolphe
nel
pronunciare queste ultime parole.
"Monsignore, ho cinquantotto
anni e sono gentiluomo; non
dovete parlarmi in tal modo."
"Tacete!"
"Monsignore!"
"Tacete!"
"Monsignore, è un atto indegno
costringere un uomo di cuore a
ricordarsi dei servizi che ha
prestati."
"I tuoi servizi? E non te li pago io
in
tutti
modi?"
Bisogna
confessarlo, Rodolphe non aveva
inteso dare a quelle dure parole il
senso umiliante che riduceva
Murph
alla
posizione
d'un
mercenario; disgraziatamente le
interpretò in mala parte. Diventò
rosso, portò alla fronte i pugni
stretti, in atto di dolorosa
indignazione; poi, d'un tratto, per
un impulso subitaneo, osservando
Rodolphe, il cui nobile aspetto era
alterato dall'improvvisa collera,
soffocò un sospiro, e gli disse con
voce commossa: "Monsignore,
tornate in voi, avete smarrito la
ragione!" Tali parole fecero
traboccare l'ira di Rodolphe; ebbe
uno sguardo sinistro; gli si fecero
smorte le labbra, e avanzandosi
contro Murph, con un gesto
minaccioso, gridò: "Osi ancora?"
Murph indietreggiò, e rispose con
impeto, e quasi suo malgrado:
"Monsignore,
monsignore,
ricordatevi del 13 gennaio!"
Questa reminiscenza produsse in
Rodolphe un effetto magico: il suo
volto pieno di collera si rasserenò.
Guardò fisso Murph, abbassò il
capo, poi, dopo un momento di
silenzio, mormorò con voce
alterata: "Ah, signore, voi siete
crudele... Io credevo!... E voi
pure!... voi!..." Rodolphe non poté
terminare, gli si estinse la voce;
cadde sopra un muricciolo, e si
nascose il viso fra le mani.
"Monsignore" esclamò Murph
desolato "mio buon signore,
perdonatemi, perdonate al vostro
vecchio e fedele Murph! Ridotto
agli estremi, temendo, non per
me, di sicuro, ma per voi, le
conseguenze del vostro trasporto,
ho parlato così... Ho parlato senza
collera, senza rimprovero, ho
parlato mio malgrado e con
compassione. Monsignore, ho
avuto torto a offendervi... Mio Dio,
chi deve conoscere il vostro
carattere, se non io che non vi ho
abbandonato un istante fin dalla
vostra fanciullezza! Di grazia, dite
che mi perdonate di avervi
rammentato quel giorno funesto...
Ahimè, con quanta espiazione
avete finora..." Rodolphe sollevò la
fronte; era pallidissimo. Si volse al
compagno, e con voce dolce e
malinconica: "Basta, basta, mio
vecchio e buon amico" gli disse "ti
ringrazio di aver calmato con le
tue parole la mia ira. Non ti
domanderò scusa delle cose
spiacevoli che ho dette; tu ben sai
che ci corrono dal cuore alle
labbra,
come
dicono
i
galantuomini da noi. Ero pazzo,
non ne parliamo più."
"Ecco, adesso chissà per quanto ne
sarete afflitto... Che disdetta è la
mia!... Non desidero di meglio che
vedervi uscire dal cattivo umore
che vi persegue, e vi ci faccio
cadere nuovamente con i miei
sciocchi puntigli. Santo Iddio, a
che giova essere un galantuomo e
avere i capelli grigi, se non serve a
far sopportare con pazienza
qualche rampogna non meritata!
Ma no" continuò Murph con una
esaltazione poco meno che
ridicola, poiché contrastava con la
sua flemma naturale "no, bisogna
che mi adulino costantemente,
che mi si dica: "Signor Murph, voi
siete il modello dei servitori!
Signor Murph, non c'è fedeltà pari
alla vostra! Signor Murph voi siete
un uomo ammirabile! Signor
Murph! Diavolo, oh, com'è bello il
signor Murph! Bravo Murph!... Ma
bravo, vecchio pappagallo, fatti
dunque grattare un poco la testa
grigia!"."
Indi,
ricordandosi
dell'affettuoso linguaggio che
Rodolphe
gli
aveva
tenuto
all'inizio, continuò con maggior
forza e con la stessa aria grottesca:
"E notate che mi avete chiamato il
buono, il vecchio, il fedele Murph!
E io, come un tanghero, per una
scappata involontaria, alla mia
età... Santo Dio, è roba da
strapparsi i capelli." E il degno
gentiluomo si portò le mani alle
tempie. Quegli accenti e quel gesto
erano per lui il segno della
disperazione giunta all'estremo.
Disgraziatamente, o forse, anzi,
per sua buona sorte, egli era
totalmente calvo, il che rendeva
innocuo il suo tentativo: e ciò con
suo
grande
e
sincero
rincrescimento.
Aggiungeremo, onde liberare
Murph da ogni sospetto di
finzione o d'inganno, che nel
passato aveva avuta la capigliatura
più folta e più bella che mai abbia
ornato il cranio di un gentiluomo
dello Yorkshire.
Comunemente
tale
scoramento che Murph risentiva a
motivo della sua chioma serviva a
divertire Rodolphe, ma in questa
circostanza i suoi pensieri erano
gravi e affannosi. E però, non
volendo accrescere i dispiaceri del
suo compagno, gli disse con un
sorriso dolce: "Buon Murph, mi
pare che tu elogiassi senza limite
il bene da me fatto alla signora
Georges..."
"Monsignore..."
"E ti stupivi delle mie premure per
quella ragazza."
"Monsignore, di grazia, ho avuto
torto, ho avuto torto!"
"No, comprendo che le apparenze
possono
averti
illuso... Ma
siccome conosci ogni segreto della
mia vita e mi aiuti con altrettanta
fedeltà che coraggio nelle imprese
in cui mi sono messo, è mio
dovere, o se meglio vuoi, per
gratitudine, convincerti che non
opero sconsideratamente."
"Lo so, monsignore."
"Sai quali sono le mie idee intorno
al bene che può fare un uomo.
Soccorrere gli sventurati che si
lagnano è ben fatto, ma informarsi
su quelli che combattono con
cuore ed energia, assisterli,
talvolta senza che essi lo sappiano,
prevedendo il bisogno e la
tentazione che spingono al delitto,
è anche meglio. Ma, quindi,
riabilitarli ai loro stessi occhi, e
rendere sinceramente buoni e
onesti coloro che conservarono
qualche generoso sentimento in
mezzo alla volgarità che li
avvilisce, alla povertà che li
consuma, alla corruzione che li
circonda, e per tale scopo esporci
noi stessi a quella miseria e a quel
fango, è anche più encomiabile.
Infine, perseguitare con odio
fortissimo le vendette implacabili,
il vizio, l'infamia, i misfatti, sia che
giacciano nel fango o che brillino
sulla seta e sull'oro è vera
giustizia...
Ma
soccorrere
ciecamente un'indigenza meritata,
degradare l'elemosina e la pietà,
prostituire queste caste e pie
consolatrici
dell'anima
mia
ulcerata,
prostituirle
rendendosene indegni, infami,
sarebbe orribile, empietà e
sacrilegio. Sarebbe far dubitare di
un Dio. E colui che dà ad altri deve
far sì che in Dio essi credano."
"Monsignore, non volevo dire che
avreste male impiegato le vostre
beneficenze."
"Poche parole ancora, mio vecchio
amico. La signora Georges, e la
povera fanciulla che le ho affidato,
sono partite da due situazioni per
piombare in un abisso comune...
L'una felice, ricca, amata, onorata,
dotata di tutte le virtù, ha visto la
propria
esistenza
rovinata,
consumata, dall'ipocrita scellerato
a cui l'avevano maritata stolti
parenti... Lo dico con giubilo,
senza di me l'infelice sarebbe
morta di stenti e di cordoglio,
poiché la vergogna le impediva di
ricorrere ad alcuno."
"Ah, monsignore, quando salimmo
in quella soffitta, che spaventosa
povertà! Era veramente orribile...
E quando, dopo lunga infermità, si
ridestava, per così dire, in questa
casa
così
tranquilla,
quale
sorpresa! Quale riconoscenza!
Avete ragione, monsignore, nel
soccorrere tali sventurati non si
può fare a meno d'aver fede in
Dio."
"Ed è onorare Iddio aiutarli; lo
sento dentro di me, non c'è cosa
più celeste che la virtù serena e
nata dalla riflessione, nulla di più
rispettabile di una donna come la
signora Georges, che educata da
una
natura
buona
e
pia
nell'intelligente adempimento di
tutti i doveri, non ha mai
mancato... Ha valorosamente
affrontato le più spaventose prove.
Ma forse non è pure onorare Dio
sollevare dal fango una di quelle
rare creature da lui dotate di
stupendi valori? Non merita
compassione, interesse, rispetto,
sì, rispetto, la sventurata ragazza
che, abbandonata, bistrattata,
carcerata, avvilita, infamata, serbò
santamente, in fondo al cuore, i
nobili germi che vi aveva sparso
l'Onnipotente? Se tu l'avessi udita
quella poveretta alle prime parole
di premura che le rivolgevo, alla
prima parola onesta e amica che
mai abbia ascoltato... Oh, come
l'istinto più bello, le inclinazioni
più pure, i pensieri più delicati, i
più poetici, si risvegliavano,
affollandosi nel suo animo
ingenuo,
proprio
come
in
primavera i mille fiori silvestri dei
prati sbocciano al raggio di sole,
improvvisi,
solleciti.
In
quell'incontro di un'ora con un
povero operaio, si sono rivelati in
Fleur-de-Marie tesori di bontà, di
grazia, di saggezza, sì, di saggezza,
mio vecchio Murph. Non riuscii a
trattenere la commozione, quando
nella sua graziosa loquacità, non
priva di giudizio, volle provarmi
che io dovessi risparmiare due
franchi ogni giorno, per non
incappare nella miseria e nelle
cattive tentazioni. Poveretta, me lo
diceva con tono così serio e con
tanta convinzione! Era talmente
soddisfatta nel darmi dei buoni
consigli, così lieta nel sentirmi
promettere che l'avrei ascoltata...
che ne fui commosso... E mi
accusano d'essere sazio della vita,
duro, inflessibile... Oh, no, no,
grazie a Dio! Qualche volta sento
ancora palpitarmi il cuore ardente
e generoso... Ma tu pure sei
intenerito, mio vecchio amico...
Animo dunque! Fleur-de-Marie
non sarà gelosa della signora
Georges, e tu t'interesserai pure
alla sorte di lei..."
"È vero monsignore, quell'idea di
farvi economizzare due franchi al
giorno credendovi un operaio,
invece di lusingarvi a far spese per
lei, sì, quell'idea mi rende
sensibile, forse più di quanto
converrebbe."
"E quando penso che questa
poverina ha una madre ricca,
rispettata, secondo si dice, e che
questa
l'abbandonò
indegnamente. Oh, se così è, lo
saprò, spero, e ti dirò come... Oh,
se così è, guai, guai a quella
femmina! Dovrà subire una
terribile
espiazione...
Murph,
Murph, non provai stimolo d'odio
più implacabile che nel riflettere
ad una tale donna, che pure non
conosco. Tu lo sai, Murph, tu lo
sai, certe vendette mi sono assai
care, certi patimenti preziosi...
Sento sete di certe lacrime!"
"Ahimè, monsignore" disse Murph
angustiato dall'espressione di odio
selvaggio sul volto di Rodolphe "lo
so, coloro che sono degni di
premura e di pietà dissero spesso
di voi: "Questo è un buon
angelo!". Ma quelli che tuttavia
meritano disprezzo ed odio
esclamarono, maledicendovi, nella
loro disperazione: "Questo è il
demonio!"."
"Taci, ecco la signora Georges e
Marie... Fa' disporre l'occorrente
per la nostra partenza; conviene
essere a Parigi di buon'ora."
14.
L'addio.
Marie (così d'ora in poi
chiameremo la Goualeuse), grazie
alle cure della signora Georges
non si riconosceva più.
Una bella cuffietta rotonda da
contadina e due grosse trecce di
capelli le ornavano il viso delicato,
una larga fascia di mussola bianca
le s'incrociava sul petto e spariva
per metà sotto l'alta cintura di un
corto grembiale di taffetà a colori
cangianti, le cui tinte, miste
d'azzurro e rosa, risplendevano sul
campo scuro di una giubba color
pulce,
che
sembrava
fatta
espressamente
per lei. Era
all'aspetto oltremodo pensosa: ci
sono gioie che ci immergono
naturalmente in una mestizia
ineffabile,
in
una
santa
malinconia.
Rodolphe non fu sorpreso dalla
sua
tristezza,
giacché
se
l'aspettava: fosse stata loquace e
lieta, avrebbe avuto di lei meno
considerazione.
Prudente, guardingo, non le
fece complimenti per la sua
bellezza, che appariva più che mai
seducente.
Comprendeva tutto quanto
c'era di solenne, di nobile, in
quella specie di redenzione di
un'anima sottratta al vizio.
Sul volto rassegnato della
signora Georges si distinguevano i
segni di lunghissime pene, di
affanni profondi. Guardava Marie
con una compassione quasi
materna, tanto la grazia e la
docilità di lei erano a tutti gradite.
"Ecco la mia nuova figlia che
viene a ringraziarvi della vostra
bontà"
disse
a
Rodolphe,
presentandogli la ragazza. Marie
volse lentamente gli occhi verso la
nuova
protettrice,
con
un'espressione
inimitabile
di
gratitudine.
"E io, mia cara signora
Georges, vi ringrazio per Marie: è
degna delle vostre premure, e le
meriterà
sempre"
rispose
Rodolphe.
"Signore" disse allora la
ragazza con voce tremula "non
trovo parole per esprimervi i miei
sentimenti."
"Marie, questa vostra commozione
parla abbastanza chiaro."
"Oh, lei comprende che la fortuna
che le è giunta è un prodigio della
Provvidenza" seguitò la signora
Georges. "La prima cosa che abbia
fatto, entrando nella mia camera,
è stata d'inginocchiarsi davanti al
crocifisso."
"Perché adesso, signor Rodolphe,
grazie a voi, ardisco pregare"
aggiunse Marie. Murph si volse; la
flemma inglese e la dignità da
"squire" non gli permettevano di
far capire ad altri quanto lo
toccassero quelle semplici parole
di Marie.
"Figlia mia" disse Rodolphe
"devo parlare con la signora
Georges. Il mio amico Murph vi
condurrà sul podere e vi farà far
conoscenza con i vostri futuri
protetti...
Tra
poco
vi
raggiungeremo... Ebbene, Murph,
Murph!, non mi hai sentito?" Il
buon gentiluomo volgeva appunto
le spalle e fingeva di soffiarsi il
naso, facendo un rumore terribile;
si rimise in tasca il fazzoletto, si
tirò il cappello ben avanti e,
girandosi un poco, offerse il
braccio alla giovane.
Egli aveva operato con tale
accortezza che nessuno osservò la
sua agitazione. Presa a braccetto
Marie, si diresse con lei verso le
campagne
della
fattoria,
e
camminava così svelto che la
ragazza per seguirlo era obbligata
a sgambettare, come quando
teneva dietro alla Chouette.
"Ebbene, signora Georges, che
pensate di Marie?" domandò
Rodolphe.
"Ve l'ho già detto, signor
Rodolphe, appena entrata nella
stanza è corsa a inginocchiarsi
davanti al crocifisso... Non è
possibile esprimervi ciò che c'era
in quell'atto spontaneo e religioso.
Ho subito capito che la sua anima
non è degradata. D'altronde,
signor Rodolphe, i termini di cui si
valeva per dimostrarvi la sua
gratitudine non erano esagerati,
non enfatici, e perciò più sinceri.
Ecco poi un'altra cosa che vi
proverà quanto possa l'istinto
religioso: "Siete rimasta molto
meravigliata" le ho chiesto
"quando il signor Rodolphe vi ha
detto che d'ora in poi starete qui?".
"Ah sì" mi ha risposto "quando me
lo ha detto, non so quel che è
accaduto in me tutto d'un tratto,
ma ho provato un piacere dolce, e
un santo rispetto come entrando
in una chiesa... quando potevo
andarci...
Giacché
sapete,
signora..." Io non ho lasciato
terminare, vedendo che arrossiva.
"Figlia mia" l'ho interrotta "e così
vi chiamerò sempre, se non vi
rincresce... So che patiste molto,
ma Dio benedice quelli che lo
amano e lo temono, quelli che
furono infelici e quelli che si
pentono.""
"Orsù,
mia
buona
signora
Georges, mi lodo doppiamente di
ciò che ho fatto. Credetelo, lei vi
piacerà moltissimo... Non dovrete
far altro che seminare per
raccogliere.
Intanto
avete
indovinato: la sua indole è
eccellente."
"Quel che pure mi è piaciuto,
signor Rodolphe, è che non si è
permessa la minima domanda su
di voi, quantunque la sua curiosità
dovesse essere grande. Incantata
da simile riservatezza, ho voluto
vedere che ne pensasse, e le ho
domandato: "Immagino sarete
ansiosa di sapere chi sia il vostro
misterioso benefattore?". "Io so
soltanto" mi ha subito replicato
con un candore ammirabile "che
lo chiamo il mio benefattore!""
"Così dunque voi l'amate?"
"Sì, mi occuperò di lei come mi
sarei occupata di "lui"!" esclamò la
Georges,
con
fiero
dolore.
Rodolphe le prese la mano: "Ah,
non vi scoraggiate ancora. Se le
nostre indagini sinora sono state
vane, chissà che un giorno..." Lei,
scuotendo
il
capo,
rispose
amaramente: "Il mio povero figlio
avrebbe adesso vent'anni."
"Dite piuttosto che "ha" questa
età."
"Dio vi ascolti e vi esaudisca,
signor Rodolphe!"
"Mi esaudirà, spero... Sono andato
ieri, ma invano, a cercare un certo
Bras-Rouge, che, a quanto mi è
stato detto, avrebbe potuto darmi
notizie di vostro figlio, e mentre
scendevo dalla casa di lui, ho
dovuto sostenere una rissa in cui
era coinvolta questa disgraziata."
"Eh, tanto meglio! Almeno
l'impresa in cui vi siete cacciato
per amor mio vi ha fatto
soccorrere un'altra sventurata,
signor Rodolphe."
"È da molto tempo, d'altronde, che
volevo esplorare quella miserabile
Cité, quasi certo che anche là ci
fossero anime da rapire al vecchio
Satana, cui spesso mi piace fare
qualche
dispetto"
continuò
Rodolphe sorridendo "e al quale
certe volte levo i migliori bocconi."
Poi soggiunse seriamente: "Non
avete notizie da Rochefort?"
"Nessuna" disse la Georges, a voce
bassa e palpitando.
"Meglio così! Quel mostro avrà
trovato la morte nel tentativo di
fuga. I suoi connotati sono
divulgati, è uno scellerato tanto
tremendo che si deve essere
messa in moto tutta la polizia per
ritrovarlo; è da sei mesi circa che è
sparito dal ba..." Rodolphe si
fermò sul punto di pronunciare la
terribile parola.
"Dal bagno! Oh, ditelo pure!"
riprese la sventurata, inorridita e
con voce strozzata. "Il padre di
mio figlio! Oh, se l'infelice è
ancora vivo, se non ha, come me,
cambiato nome, che vergogna!
Che vergogna! E questo è poco
ancora... Suo padre avrà forse
mantenuto l'orribile promessa...
Ah, perdonate, signor Rodolphe,
ma malgrado il vostro aiuto, sono
ancora molto sventurata!"
"Calmatevi, povera donna!"
"A volte mi assale una paura
indicibile. Mi figuro che mio
marito sia scappato sano e salvo
da Rochefort, che mi cerchi per
uccidermi, come forse ha già
ucciso nostro figlio. Poiché, in
sostanza, che ne avrà fatto?"
"In questo mistero si confonde la
mente"
replicò
Rodolphe,
abbattuto.
"Per quale scopo lo sciagurato
aveva portato con sé il bambino,
quando, quindici anni fa, come mi
avete detto, tentò di passare in un
paese straniero? Un bambino di
quell'età non poteva che essergli
d'impaccio nella fuga."
"Ah, signor Rodolphe, quando il
mio sposo" e la donna rabbrividiva
proferendo
questo
nome
"arrestato alla frontiera, fu
ricondotto a Parigi, e messo in
carcere, dove mi venne permesso
l'accesso, mi disse queste terribili
parole: "Ho portato con me tuo
figlio perché tu lo ami, e questo è
un mezzo per costringerti a
mandarmi denaro... Se poi quel
denaro servirà per il bambino non
l'ho ancora deciso... Che egli viva o
muoia, poco m'importa! Ma se
vive sarà in buone mani. E tu
soffrirai la vergogna del figlio
come quella del padre!". Ahimè,
dopo un mese quell'uomo era
condannato ai lavori forzati a
vita... E le mie lettere, piene di
preghiere, di istanze, riuscirono
vane! Nulla potei sapere sulla
sorte di quel fanciullo... Ah, signor
Rodolphe, dove sarà mio figlio?
Quelle funestissime parole mi
tornano sempre più al pensiero:
"Tu soffrirai la vergogna del figlio
come quella del padre!"."
"Ma
sarebbe
un'atrocità
inspiegabile! Sfortunato ragazzo...
E poi, penso, perché toglierlo a
voi?"
"Ve l'ho detto, per costringermi a
spedirgli denari. Benché mi avesse
rovinata, mi restava qualche
piccola risorsa, che fu esaurita.
Malgrado la sua scelleratezza
non potevo immaginarmi che non
impiegasse almeno una parte di
quella somma per far educare la
mia sventuratissima creatura."
"Ed il bambino non aveva un
segno, un indizio che lo facesse
riconoscere?"
"Nessun altro oltre quello di cui vi
ho parlato: un piccolo Spirito
Santo inciso su un medaglione che
portava al collo con una collanina
d'argento.
Questa
reliquia,
benedetta dal Santo Padre,
proveniva dalla mia mamma, e la
tenevo in grande venerazione.
Anch'io l'avevo tenuta addosso, e
poi messa al collo al mio figliolo!...
Ahimè, quel talismano ha perduto
la sua virtù!"
"Chissà? Iddio è onnipotente!"
"Certo, fu la Provvidenza che vi
mise sul mio cammino, signor
Rodolphe!"
"Troppo tardi, mia buona signora
Georges!
Vi
avrei
forse
risparmiato molti anni di pene..."
"Ah, signor Rodolphe, mi avete
abbastanza colmata di benefici."
"E che mai? Ho comperato questo
podere. Nei tempi della vostra
prosperità vi prendevate cura da
sola, per vostro piacere, dei beni
che possedevate; acconsentiste a
farmi le veci di amministratore:
per la vostra premura, attività e
capacità, la fattoria mi rende..."
"Vi rende monsignore?" disse la
donna interrompendolo; "E non
sono io che verso la rendita
all'abate Laporte? E la somma non
è per ordine vostro distribuita da
lui in elemosine?"
"Ebbene,
non
è
un'ottima
rendita?... Ma, a proposito, avete
avvertito l'abate del mio arrivo?
Vorrei raccomandargli la mia
protetta... Ha ricevuto la mia
lettera?"
"Il signor Murph gliel'ha portata
stamani appena giunto."
"Nella
lettera
raccontavo
brevemente al nostro buon curato
la storia della ragazza, giacché non
ero certo di poter venire oggi, ed in
ogni
caso
Murph
l'avrebbe
accompagnata qui." Un garzone
della fattoria interruppe
la
conversazione, che aveva luogo in
giardino.
"Signora, il curato l'aspetta."
"Giovanotto, i cavalli da posta
sono pronti?" domandò Rodolphe.
"Sì, signor
Rodolphe, li
attaccano" e se ne andò. La
Georges, il prete e la gente del
podere conoscevano il protettore
di Marie, soltanto sotto il nome di
Rodolphe.
Murph era di una segretezza
impenetrabile, e quanto con
deferenza
lo
chiamava
monsignore da solo a solo, tanto
davanti a terze persone aveva cura
di chiamarlo signor Rodolphe e
non altrimenti.
"Dimenticavo di dirvi, cara
signora Georges" disse Rodolphe
tornando verso la casa "che, per
quanto io credo, Marie ha i
polmoni poco sani. Le privazioni e
l'indigenza le hanno alterato la
salute; mi ha sorpreso questa
mattina il suo pallore, e negli
occhi mi è sembrato di distinguere
un moto febbrile. Occorreranno
grandi attenzioni."
"Contate su di me, signor
Rodolphe. Grazie al Cielo, nulla c'è
di grave; alla sua età, nei campi,
all'aria buona, con il riposo e
l'animo sereno si rimetterà ben
presto."
"Lo spero anch'io, peraltro non mi
fido
dei vostri dottori di
campagna... Dirò a Murph di
condurre qua un abile medico, che
indicherà il miglior regime da
tenersi. Voi mi darete spesso sue
notizie. Fra qualche tempo,
quando
sarà
più
serena,
penseremo al suo avvenire. Per lei
sarebbe forse meglio restare
sempre presso di voi, se vi
piaceranno il suo carattere e la sua
condotta."
"Io
lo
desidererei,
signor
Rodolphe; mi farebbe le veci del
figlio che piango ogni giorno."
"Ad ogni modo speriamo bene per
voi, e lei." A questo punto del
discorso capitarono Murph e
Marie. Questa era rianimata dalla
passeggiata fatta. Rodolphe fece
osservare alla fattoressa il colorito
delle gote di Marie, che formava
uno straordinario contrasto con la
delicata bianchezza della sua
carnagione.
Murph lasciò di darle braccio,
e, quasi confuso, disse all'orecchio
di Rodolphe: "Questa ragazzetta
mi ha stregato; adesso non so chi
m'interessi di più, se lei o la
signora Georges. Ero una bestia a
oppormi alla vostra benevolenza
nei suoi riguardi."
"Non ti strappare per ciò i capelli,
vecchio mio!" rispose Rodolphe
ridendo e stringendogli le mani.
La signora Georges condusse la
ragazza nel salotto al pianterreno
dove l'attendeva l'abate Laporte. Il
signor Murph andò ad occuparsi
dei preparativi della partenza. La
donna,
Marie
e
Rodolphe
restarono insieme. La stanza,
semplice
ma
comoda,
era
ammobiliata e tappezzata come il
rimanente della casa descritto da
Rodolphe alla fanciulla.
Un morbido tappeto copriva il
pavimento, un buon fuoco ardeva
nel caminetto, e due grossi mazzi
di asteroidi d'ogni colore in due
vasi di cristallo spargevano la loro
balsamica fragranza. Attraverso le
persiane verdi, socchiuse, si
scorgevano i prati, il ruscelletto, e
più oltre il colle ombreggiato da
castagni. L'abate Laporte, che
stava seduto presso il camino,
aveva passato gli ottant'anni; dagli
ultimi giorni della Rivoluzione
dirigeva quella parrocchia. Non si
poteva
vedere
niente
più
venerabile e nel medesimo tempo
più dolcemente imponente del suo
volto senile, magro e alquanto
infermo, contornato da lunghi
capelli bianchi, che cadevano sul
collare dell'abito, rattoppato in più
punti. Il buon abate era tanto
vecchio che gli tremavano sempre
le mani, ed in quel loro
movimento perpetuo esisteva un
non so che di commovente; e se
talvolta le alzava nel parlare,
avresti detto che impartisse la
benedizione. Rodolphe osservava
attentamente Marie.
Se l'avesse conosciuta meno, o
piuttosto meno apprezzata, gli
avrebbe causato stupore vederla
accostarsi al buon prete con un
atteggiamento sereno e devoto. Il
cuore di Marie le diceva che la
vergogna ha termine là dove
hanno inizio il pentimento e
l'espiazione.
"Signor
abate"
disse
rispettosamente Rodolphe "la
signora Georges si compiace
addossarsi la cura di questa
giovane, per la quale io richiedo la
vostra bontà."
"Essa ne ha diritto, signore, come
tutti coloro che vengono verso di
noi. La clemenza di Dio ha larghe
braccia, figlia mia. Egli ve lo ha
provato non abbandonandovi in
mezzo a dolorose prove... Io so
tutto..." E, fra le sue, tremule e
venerabili, stringeva le piccole
mani della ragazza.
"L'uomo generoso che vi ha
redenta dal male ha avverato le
parole della Scrittura: "Il Signore è
presso quelli che lo invocano,
esaudirà le brame di quelli che lo
temono, ascolterà le loro grida e li
salverà". Adesso meritatevi la sua
misericordia
con
la
vostra
condotta; mi troverete sempre
disposto
a
incoraggiarvi
e
sostenervi nella retta via, in cui
ora entrate. Avrete nella signora
Georges un esempio quotidiano,
in me un vigile consigliere, ed il
Signore compirà l'opera sua."
"Ed io lo pregherò per quelli che
hanno pietà di me, e che mi hanno
rimesso sulla buona strada, padre"
rispose Marie. E, con un moto
quasi involontario, si gettò
ginocchioni dinanzi al vecchio
curato. La sua commozione era
troppo forte, i singhiozzi la
soffocavano.
"Alzatevi, figliola" disse il prete
"in breve meriterete l'assoluzione
per i grandi errori di cui foste più
vittima che colpevole, giacché,
parlando sempre con il profeta: "Il
Signore sostiene tutti coloro che
sono prossimi a cadere e solleva
tutti quelli che da altri sono
oppressi"."
"Addio, Marie" le disse Rodolphe,
dandole una crocetta d'oro legata a
un nastro di velluto nero
"conservate questa croce in
memoria di me; vi ho fatto
incidere la data della vostra
liberazione,
della
vostra
redenzione. Ben presto tornerò a
vedervi." La ragazza s'accostò quel
sacro oggetto alle labbra. In quel
momento Murph aprì l'uscio del
salotto.
"Signor Rodolphe, i cavalli
sono pronti."
"Vi saluto, caro abate, e anche voi,
signora Georges. Vi raccomando
vostra figlia... Di nuovo, Marie,
addio!" Il venerabile curato,
appoggiato al braccio della signora
e della ragazza, che lo reggevano,
uscì dal salotto per veder partire
Rodolphe.
Gli ultimi raggi del sole
colorivano con vivacità quel
gruppo di persone così diverse: un
vecchio prete, simbolo di carità, di
perdono e di speranza eterna; una
donna, messa ormai alla prova da
tutti i dolori che possono
angosciare una sposa, una madre;
ed una giovane che, appena uscita
dall'infanzia, era stata gettata
nell'abisso del vizio, della miseria
e della tentazione al delitto.
Rodolphe salì in carrozza, Murph
sedette al suo fianco. I cavalli
partirono al galoppo.
15.
L'appuntamento.
L'indomani del giorno in cui
Rodolphe aveva affidato Marie alla
signora Georges, egli, vestito
sempre da operaio, si trovava a
mezzogiorno preciso sulla porta
della taverna del Paniere Fiorito,
non lontano dalla barriera di
Bercy.
La sera prima, alle dieci, lo
Chourineur
era
stato
puntualissimo all'appuntamento,
che egli aveva fissato, e di cui si
rileverà il risultato dal seguito del
nostro racconto.
Era dunque di pomeriggio.
Pioveva a dirotto, la Senna,
gonfiata dal continuo diluvio
d'acqua, era giunta ad un'altezza
smisurata, inondando gran parte
della strada. Rodolphe guardava
con impazienza verso la barriera:
finalmente,
distinguendo
in
lontananza un uomo ed una
donna che venivano avanti riparati
dall'ombrello, riconobbe in essi la
Chouette e il Maître.
I due furfanti erano del tutto
trasformati.
L'antico
galeotto
aveva deposto gli abiti consueti e
la sua aria di brutalità feroce;
portava un lungo soprabito verde,
un cappello rotondo, una cravatta
e la camicia bianchissima. Senza il
suo brutto aspetto ed il sinistro
lampo dello sguardo, sempre
ardente e mobile, lo si sarebbe
scambiato,
dal
portamento
tranquillo e posato, per un onesto
galantuomo. La guercia, pure in
gran gala, aveva la cuffia bianca,
uno scialle tipo cachemire, e
teneva in mano un paniere.
Essendo la pioggia cessata per
un istante, Rodolphe superò la
propria repulsione e andò incontro
all'iniqua coppia. Al gergo del
"tapis-franc" il Maître aveva
sostituito un linguaggio ricercato,
che sembrava tanto più orribile in
lui, in quanto svelava una mente
coltivata, e faceva contrasto con le
azioni
sanguinarie
di
quel
malandrino. Appena Rodolphe gli
si avvicinò, fece un profondo
inchino, e la Chouette una
riverenza.
"Signore, vostro umilissimo
servitore" disse il Maître. "Sono
contento
di
rinnovare
la
conoscenza con voi, giacché l'altro
ieri mi favoriste due pugni da
abbattere un rinoceronte. Ma non
ne parliamo, per adesso: fu uno
scherzo, da parte vostra, sono
sicuro, un innocentissimo scherzo.
Non ci pensiamo più, ben più gravi
interessi ora ci uniscono.
Ho
visto
ieri
sera
lo
Chourineur al "tapis-franc"; gli ho
dato l'appuntamento qui per
questa mattina, qualora volesse
essere nostro collaboratore; ma
pare deciso a rifiutare."
"Voi dunque accettate?"
"Se non vi spiace, signore, il vostro
nome?"
"Rodolphe."
"Signor Rodolphe, entreremo al
Paniere Fiorito... Né io né la
signora abbiamo mangiato, e si
ragionerà dei nostri piccoli affari
mangiando un bocconcino."
"Volentieri."
"Possiamo discorrere intanto che
si va. Voi e lo Chourineur, senza
farvi
rimprovero,
dovete
indennizzare mia moglie e me... Ci
avete fatto perdere più di duemila
franchi. La Chouette aveva
appuntamento vicino a Saint
Ouen, con un gran signore alto e
vestito di scuro che era venuto a
cercare voi l'altra notte al "tapisfranc": questi proponeva duemila
franchi per farvi non so che cosa...
Lo Chourineur mi ha spiegato
pressappoco l'affare. Ma, a
proposito, Ninette" disse il
furfante "corri a scegliere un
separé al Paniere Fiorito, e a
ordinare la colazione: delle
costolette, un pezzo di vitello,
insalata e due bottiglie di vino di
Beaune, prima qualità; fra poco ti
raggiungeremo." La Chouette non
aveva smesso un momento di
guardare Rodolphe, e se ne andò
dopo aver scambiato un'occhiata
con il Maître, che riprese a dire:
"Vi
dicevo
dunque
signor
Rodolphe, che lo Chourineur mi
aveva "edificato" su quella offerta
dei duemila franchi."
"Che significa "edificare"?"
"È giusto, questo linguaggio è
nuovo per voi: volevo dire che lo
Chourineur mi aveva all'incirca
informato di quel che bramava da
voi l'uomo in lutto, con i suoi
duemila franchi."
"Bene, bene..."
"Non tanto bene, giovanotto:
perché lo Chourineur, avendo
incontrato la Chouette verso
Saint-Ouen,
non
l'ha
più
abbandonata un istante da quando
ha visto giungere il signore in
lutto, per cui quello non ha osato
accostarsi. Sicché sono duemila
franchi
che
dovete
farci
riguadagnare, senza contare i
cinquecento per il portafoglio che
avevamo da rendere, e che però
non si sarebbe restituito dopo aver
fatto l'esame dei fogli, che ci sono
sembrati
di
valore
molto
superiore."
"Contiene dunque effetti di gran
valore?"
"Contiene carte che mi paiono
assai singolari, benché la più parte
scritte in inglese; e le serbo qui"
continuò il Maître, battendo sulla
tasca destra del soprabito. Nel
venire a sapere che il Maître aveva
tuttora i fogli tolti due giorni
prima a Tom, Rodolphe provò la
massima soddisfazione. Erano per
lui di somma importanza. Le
istruzioni date allo Chourineur
tendevano a impedire che Tom si
incontrasse con la Chouette e
ripigliasse il suo portafogli, di cui
Rodolphe
sperava
di
impossessarsi.
"Io considero queste carte
come una sorgente dopo giorni di
sete" disse il bandito "giacché ho
trovato l'indirizzo di quel signore
vestito a lutto, e in un modo o
nell'altro lo rivedrò."
"Potremo contrattare, se lo
gradite: se il nostro accordo riesce,
vi comprerò io questi documenti.
A me, che conosco l'uomo,
convengono più che a voi."
"Si vedrà; ma prima torniamo un
poco ai nostri interessi."
"E va bene... Io avevo progettato
un
bellissimo
affare
allo
Chourineur,
che
prima
ha
accettato, poi si è tirato indietro."
"Ha sempre delle idee bizzarre..."
"Mi ha bensì, nel disdire,
osservato..."
"Cioè vi ha fatto osservare..."
"Caspita! Siete schizzinoso in fatto
di grammatica!"
"Maître d'école, tale è la mia
professione."
"Mi ha fatto osservare che se lui
non amava il sangue, non voleva
però farmi uno sgarbo e perciò mi
avrebbe aiutato, e poi ha aggiunto
che voi avreste potuto darmi una
mano."
"E si potrebbe sapere, senza essere
troppo curioso, perché deste
appuntamento a lui ieri mattina a
Saint-Ouen e come fu che avesse il
bene d'incontrare la Chouette? Nel
rispondere a queste domande lo
Chourineur
era
molto
imbarazzato." Rodolphe si morse
la labbra, e replicò, alzando le
spalle: "Lo credo! Non gli avevo
detto le mie intenzioni che per
metà, non sapendo se fosse
deciso..."
"Ah, era più prudente..."
"Tanto più che io avevo il piede in
due staffe."
"Come?"
"Sicuramente."
"Siete un uomo cauto... Sicché
avevate fissato di trovarvi con lo
Chourineur a Saint-Ouen per...?"
Rodolphe, dopo qualche titubanza,
ebbe l'idea d'immaginare una
favoletta verosimile, per riparare
alla
poca
accortezza
dello
Chourineur, e soggiunse: "Eccovi
l'affare. Il colpo che ho ideato è
buonissimo, perché il proprietario
della casa è in campagna; tutto il
mio timore era che tornasse, e per
essere tranquillo, pensai fra me,
non c'è da far altro che una cosa..."
"Cioè, assicurarsi che il suddetto
proprietario fosse in campagna..."
"Precisamente.
Parto
per
Pierrefitte, dov'è la sua villa... Sta
da lui come serva una mia cugina,
capite?"
"Benone, compare... E poi?"
"Questa ha accertato che il suo
padrone non va a Parigi sino a
dopodomani..."
"Dopodomani?"
"Sì..."
"A meraviglia! Ma io ripeto la mia
domanda: perché stabilire di
combinarsi con lo Chourineur a
Saint-Ouen?"
"Ma non capite niente... Quanto
c'è da Pierrefitte a Saint-Ouen?"
"Circa una lega."
"E da Saint-Ouen a Parigi?"
"Altrettanto."
"Or bene? Se non avessi trovato
gente a Pierrefitte, ma bensì la
casa vuota, anche là c'era da
tentare un colpo... Meno bello che
a Parigi, ma passabile... Tornavo a
Saint-Ouen
a
prendere
lo
Chourineur, che mi aspettava.
Correvamo di nuovo a Pierrefitte
da una strada traversa che
conosco, e..."
"Ho capito: e se al contrario
l'affare era a Parigi?"
"Andavamo alla barriera della
Stella della rue de la Révolte, e di
là all'allée des Veuves..."
"Ci sono due passi, perfetto. A
Saint-Ouen sareste stato pronto
per
due
operazioni...
Bene
immaginato. Adesso mi persuado
della presenza dello Chourineur in
quel posto... Dicevamo, insomma,
che la casa dell'allée des Veuves
sarà
disabitata
sino
a
dopodomani."
"Disabitata, salvo il portinaio..."
"Si
capisce...
E
sarà
una
speculazione vantaggiosa?"
"Mia cugina mi ha parlato di
settantamila franchi in oro nello
scrittoio del padrone."
"E conoscete la distribuzione delle
stanze?"
"Come le mie tasche... La mia
parente ci sta da un anno, e a forza
di udirla discorrere delle somme
che quello ritira di quando in
quando dalla banca per impiegarle
in altra maniera, mi è venuto quel
pensiero... Siccome il portinaio è
un uomo robusto, ho pensato di
fare la proposta allo Chourineur,
che, dopo mille cerimonie, ha
acconsentito... Ma poi ha fatto
mille smorfie... Peraltro non è
capace di compromettere un
amico."
"No, ha delle buone qualità. Oh,
eccoci arrivati! Non so se siete
come me, ma l'aria della mattina
mi ha messo appetito..." La
Chouette era sulla soglia della
bettola.
"Di qua, di qua!" gridò. "Ho
ordinato la colazione." Rodolphe
voleva far passare avanti il Maître,
e aveva per ciò le sue ragioni, ma
quegli insistette talmente a
rifiutare questa gentilezza, che si
decise a entrare per primo. Prima
di sedersi, il Maître picchiò sulle
pareti, per assicurarsi del loro
spessore...
"Non sarà necessario parlare
troppo a bassa voce" disse "il muro
non è sottile. Ci serviranno tutto
in una volta, e non saremo
disturbati
nella
nostra
conversazione." Una serva portò la
colazione. Prima che fosse chiusa
la stanza, Rodolphe vide il
carbonaio
Murph
seduto
gravemente in uno stanzino
contiguo.
Il salotto dove accadeva la
scena che descriviamo era lungo,
stretto, e rischiarato da una
finestra che dava sulla strada,
dirimpetto alla porta.
La Chouette volgeva le spalle a
questa finestra, il Maître era da un
lato della tavola, e Rodolphe
dall'altro.
Uscita la serva, il bandito si
alzò, prese le sue posate, ed andò a
porsi accanto a Rodolphe, in modo
da nascondergli l'uscio.
"Così staremo meglio" gli disse
"e non avremo bisogno di parlare
tanto forte..."
"E poi, volete mettervi fra la porta
e
me
per
impedirmi
di
andarmene" rispose freddamente
Rodolphe.
Il Maître fece un cenno
affermativo, poi, traendo per metà
dalla tasca un lungo pugnale
rotondo e grosso come una penna
d'oca, fisso in un manico di legno
che spariva tra le sue dita pelose:
"Vedete questo?..."
"Sì."
"Avviso a chi ne volesse!" Ed
aggrottando le ciglia con un
movimento che gli aggrinzò la
fronte, larga e schiacciata come
quella di una tigre, fece un gesto
molto espressivo. "Fidatevi di me"
disse la Chouette "sono io che ho
affilato il pugnale del mio uomo."
Rodolphe,
con
grande
disinvoltura, si mise la mano sotto
il camiciotto, ne trasse una pistola
a due canne, la mostrò al Maître, e
tornò a porla in tasca.
"Siamo fatti per intenderci"
disse il Maître "voi però non mi
avete
capito...
Supporrò
l'impossibile...
Se
venisse
qualcuno per arrestarmi, sia che
voi mi abbiate o no preparato la
trappola, vi ammazzerei!" E gettò
su Rodolphe uno sguardo dei più
truci.
"E io gli salterei al collo per
aiutarti" gridò la Chouette.
Rodolphe non rispose, si strinse
nelle spalle, si versò un bicchiere
di vino e lo bevve. Tanto sangue
freddo fece grande effetto sul
Maître.
"Vi avvertivo soltanto."
"Bene, bene, riponete il bucalardo
in tasca; qui non ci sono pollastri
da ungere. Io sono un vecchio
gallo e ho gli sproni duri, mio
caro" disse Rodolphe. "Adesso
trattiamo d'affari."
"Trattiamone pure, ma non dite
male del mio bucalardo. Non fa
chiasso, non dà fastidio a
nessuno..."
"E fa un lavoro pulito, non è
vero?" continuò la Chouette.
"A
proposito"
domandò
Rodolphe a costei "è vero che
conoscete
i
parenti
della
Goualeuse?"
"Mio marito ha trovato nel
portafogli di quello vestito di nero
due lettere che ne parlano. Ma
non le vedrà, la pettegola...
Piuttosto le caverò gli occhi con le
mie mani... Oh, quando la
incontro
al
"tapis-franc",
l'aggiusterò per le feste!"
"Su, Ninette, qui si chiacchiera, si
chiacchiera, e i nostri affari non
vanno avanti..."
"Si può parlare davanti a lei?"
chiese Rodolphe.
"Con tutta confidenza, è
un'esperta, e ci potrà essere di
grande aiuto per far la posta,
prendere
informazioni,
nascondere
robe,
vendere
eccetera, eccetera; ha tutte le
qualità di una brava donna di
governo...
Buona
Ninette"
aggiunse il Maître, porgendo la
mano alla brutta vecchia "non
potete figurarvi i favori che mi ha
fatto... Ma, levati lo scialle,
Ninette, se no, all'uscita avrai
freddo, mettilo sulla seggiola con
il tuo panierino..." La Chouette si
levò lo scialle. Nonostante la sua
presenza di spirito e il dominio
che aveva su se stesso, Rodolphe
non poté frenare un moto di
stupore nel vedere, attaccato con
un anello d'argento ad una grossa
collana di similoro, che la vecchia
aveva al collo, un piccolo Spirito
Santo identico in tutto a quello
che aveva il figlio della signora
Georges quando era sparito.
A tale scoperta, un pensiero
improvviso gli si affacciò alla
mente: secondo lo Chourineur, il
Maître, fuggito di galera da sei
mesi, aveva reso vane tutte le
indagini della Polizia, essendosi
sfigurato, e da sei mesi il consorte
della signora Georges era scappato
dal bagno penale. A così strana
coincidenza, Rodolphe ebbe il
presentimento che il Maître
potesse essere il consorte della
infelice signora.
Quello
sciagurato
aveva
appartenuto alla classe più
agiata... ed il Maître si esprimeva
spesso con parole forbite.
Un ricordo ne ridestò un altro:
Rodolphe rammentò che un
giorno
la
signora
Georges,
raccontandogli
l'arresto
del
marito, aveva parlato della
resistenza disperata di questo
mostro, che fu sul punto di
sfuggire grazie alla sua forza
erculea... Se era realmente il
marito della signora Georges,
doveva conoscere la sorte del
figlio.
Inoltre
aveva
conservato
alcune carte relative alla nascita
della Goualeuse, trovate nel
portafogli rubato da lui al
forestiero, conosciuto sotto il
nome di Tom. Rodolphe aveva
quindi nuovi e gravi motivi per
persistere nei suoi progetti.
Fortunatamente
la
sua
preoccupazione sfuggì al furfante,
intento a servire la Chouette.
Rodolphe disse alla guercia:
"Accidenti, avete
una bella
collana!..."
"Bella, e non cara" rispose la
vecchia. "È d'oro falso ed aspetto
che il mio sposino me ne dia una
d'oro vero."
"Ciò dipenderà da questo signore,
Ninette mia... Se si fa un buon
affare, ti accontento."
"È sorprendente, com'è bene
imitata!" esclamò Rodolphe. "Che
è mai quella cosa turchina, là in
fondo?"
"È un regalo del mio uomo, in
attesa che possa regalarmi un
gioiello... Non è vero, Maître?"
Rodolphe vedeva i suoi sospetti
quasi confermati, e aspettava
ansioso la risposta del Maître.
Questo disse, sempre mangiando:
"Bisognerà serbare questa collana,
nonostante il gioiello, è un
talismano, e porta fortuna."
"Talismano?"
domandò
con
apparente indifferenza Rodolphe.
"Credete ai talismani, voi? E dove
diamine avete trovato quella
collana? Datemi l'indirizzo della
fabbrica."
"Non ne hanno più, mio caro, la
bottega è chiusa... Così, come lo
vedete, questo è un pezzo di
grande antichità, almeno tre
generazioni. Io lo apprezzo molto,
è oggetto di proprietà della
famiglia" proseguì con un orrendo
sorriso "e per questo l'ho dato a
lei, per portarle fortuna nelle
imprese in cui mi asseconda con
molta capacità... La vedrete al
lavoro, la vedrete, se si farà
insieme
qualche
operazione
"commerciale"... Ma, tornando a
noi, voi dite che nella allée des
Veuves..."
"C'è, al numero 17, una casa
abitata da un riccone, che si
chiama signor..."
"Non sarò così indiscreto da
pretendere il suo nome... E ci
covano settantamila franchi in oro
nel suo scrittoio?"
"Settantamila franchi in oro!"
gridò la Chouette. Rodolphe fece
con la testa un cenno affermativo.
"E conoscete bene la pianta
della casa?" continuò il Maître
d'école.
"Benissimo."
"E l'entrarci è difficile?"
"Un muro di sette piedi dalla parte
dell'allée des Veuves, un giardino,
le finestrine basse, la casa non ha
che il pianterreno."
"E non c'è altro che un portinaio
per custodire quel tesoro?"
"Sì!"
"Ora, quale sarebbe il vostro
piano, giovanotto?"
"Semplicissimo, salire sopra il
muro, aprire il portone con il
grimaldello, e forzare l'imposta da
fuori."
"E se il portinaio si sveglia?" disse
il
Maître,
guardando
fisso
Rodolphe.
"Peggio per lui!" ripigliò questo
con un gesto espressivo. "Orsù, vi
interessa, sì o no?"
"Capirete
che
non
posso
rispondervi
prima
di
aver
esaminato tutto di persona, cioè
con l'aiuto della mia donna... Ma
se quanto mi dite è esatto, mi pare
che convenga battere il ferro,
intanto che è caldo... Questa
sera..." E l'uomo della Chouette
continuò
a
tener
d'occhio
Rodolphe.
"Oh, non è possibile..." rispose
l'altro con freddezza.
"Perché?... Se quello non torna
sino a dopodomani?..."
"Sì, ma io non posso stasera..."
"Davvero? Ebbene, io non posso
domani."
"Per quale ragione?"
"Per quella che impedisce a voi di
agire questa sera" ribatté il Maître,
sogghignando.
Dopo
qualche
riflessione, Rodolphe soggiunse:
"Alla buon'ora! Vada per stasera...
Dove ci troveremo?"
"Ritrovarci? Non ci lasceremo"
disse il Maître.
"Come?"
"A che giova separarci? Se il tempo
si schiarisce un poco, andremo,
passeggiando, a dare un'occhiata
fino all'allée des Veuves... Vedrete
come sa lavorare la mia donna. Poi
si andrà a fare una partita a
picchetto e mangiare un boccone
in una trattoria degli ChampsElysées,
che
conosco
io,
vicinissima al fiume... E siccome
l'allée des Veuves è deserto presto,
c'incammineremo
in
quella
direzione, verso le dieci."
"Io dunque alle nove sarò da voi."
"Ma volete, sì, o no, che facciamo
l'affare insieme?"
"Sicuro che voglio."
"Allora non ci lasciamo prima di
sera, se no..."
"Se no?"
"Crederò che vogliate prepararmi
un agguato, e che per questo
appunto cercate di svignarvela..."
"Se voglio tendervi un'insidia, chi
mi impedisce di farlo questa
notte?"
"Tutto: voi non vi aspettavate di
certo che io vi proponessi le cose
tanto in fretta, e, non separandosi,
non potrete avvisare nessuno."
"Diffidate di me?"
"Moltissimo... Però, siccome ci
può essere qualche cosa di vero in
quel che dite, e la metà di
settantamila franchi merita di fare
un tentativo, mi ci proverò... Ma o
stasera o mai! Se dev'essere mai,
saprò che pensare di voi, e vi
renderò a mia volta, un giorno o
l'altro, un piatto della mia cucina."
"Ed io vi renderò cortesia per
cortesia, contateci pure."
"Tutte queste sono sciocchezze!"
esclamò la Chouette. "Io la penso
come il Maître: questa sera, o
niente." Rodolphe non sapeva cosa
decidere: se lasciava sfuggire
questa occasione d'impossessarsi
del Maître, non l'avrebbe avuta
mai più. Il furfante, messo in
sospetto, e divenuto guardingo,
oppure
riconosciuto,
quindi
arrestato e ricondotto in galera,
avrebbe portato con sé i segreti,
che tanto premevano a Rodolphe.
Affidandosi al caso e al suo
coraggio, disse al Maître: "E va
bene, non ci lasceremo fino a
stasera."
"Allora sono con voi... Saranno
presto le due. Da qui all'allée des
Veuves c'è un bel pezzo di strada;
paghiamo il conto, e pigliamo una
carrozza."
"Se si deve prendere una vettura,
potrò prima fumare un sigaro."
"Sicuramente" rispose il Maître.
"Alla mia Ninette non dà noia
l'odore del tabacco."
"Ebbene, vado a procurarmi dei
sigari" disse Rodolphe, alzandosi
da tavola.
"Non vi scomodate" replicò il
Maître trattenendolo "ci sarà per
voi Ninette..." Rodolphe tornò a
sedere. Il Maître aveva intuito il
suo scopo. La Chouette uscì.
"Che bella donnetta ho io, eh?"
saltò su allora a dire lo scellerato.
"È così compiacente! Si
butterebbe nel fuoco per me."
"A proposito di fuoco, accidenti!
Qui non fa affatto caldo" esclamò
Rodolphe, cacciandosi le mani
sotto
il
camiciotto.
Poi
continuando la conversazione con
il Maître, sfilò un lapis ed un
pezzetto di carta dal panciotto, e
senza
che
l'altro
potesse
accorgersene, scrisse in fretta
alcune parole, avendo cura di
tenersi largo con le lettere che
vergava, per non confonderle,
poiché le tracciava sotto i panni e
senza vederci.
Quel biglietto, così sottratto
all'accortezza del Maître, pensava
di farlo pervenire a Murph.
Rodolphe si alzò, si avvicinò alla
finestra, e si mise a canterellare,
accompagnandosi con il battere le
dita sui vetri. Il Maître venne a
guardare alla stessa finestra, e gli
domandò con indifferenza: "Che
cosa cantate?"
"Canto "Non avrai la mia rosa"."
"È un'arietta molto graziosa...
Desideravo vedere se fa tanto
effetto su quelli che passano, da
far sì che si voltino."
"Io non ho questa pretesa."
"Avete torto, giovanotto, perché
sapete battere molto bene sui
cristalli. Ma, ora che ci penso, se il
portinaio di quella casa dell'allée
des Veuves fosse un uomo
risoluto? Se facesse resistenza...?
Voi non avete che una pistola, e fa
troppo rumore, mentre uno
strumento come questo" e, così
dicendo, mostrò a Rodolphe il
manico del suo pugnale "non fa
strepito, e non disturba nessuno."
"Ma vorreste assassinarlo?" grida
Rodolphe. "Se rigirate simili idee
in testa, non ne facciamo niente,
non fate più conto su di me."
"Ma se si svegliasse?"
"Ce ne andremo."
"E va bene, avevo frainteso; è
meglio capirci bene su tutto prima
di passare all'azione... Sarà perciò
un semplice furto con scalata e
scasso..."
"Nient'altro..."
"Sia come dite..."
"E siccome non ti abbandonerò un
minuto"
pensò
Rodolphe
"t'impedirò io di spargere sangue."
16.
Preparativi.
La Chouette rientrò nella
taverna portando i sigari.
"Mi sembra che sia cessato di
piovere"
disse
Rodolphe,
accendendone uno. "Se andassimo
a prendere la carrozza? Il moto ci
sgranchirebbe un po' le gambe."
"Come, non piove più?" replicò il
Maître. "Ma siete cieco? Credete
che io voglia far prendere un
accidente alla mia Ninette?
Arrischiare una vita così preziosa,
e guastarle il bello scialle nuovo?"
"Hai ben ragione, marito caro, fa
un tempo da cani!"
"Ora verrà la serva" seguitò
Rodolphe
"pagandola,
le
ordineremo di chiamare una
carrozza."
"Ecco la cosa più giudiziosa che
abbiate detto finora, giovanotto.
Andremo a farci un giretto dalle
parti dell'allée des Veuves."
Comparve la donna della bettola, e
Rodolphe le diede cinque franchi.
"Ah, signore, non permetterò
mai" disse il Maître.
"Eh, via, una volta per uno."
"Dunque mi rassegno, ma a patto
che più tardi possa ospitarvi io in
una piccola osteria degli ChampsElysées, un luogo stupendo."
"Bene, bene, accetto." Saldato il
conto, tutti si disposero a uscire.
Rodolphe voleva esser l'ultimo per
cortesia verso la Chouette.
Il Maître però non lo permise,
e gli stava accanto, controllando
ogni suo movimento. Il taverniere
teneva anche una rivendita di
vino.
Fra diversi avventori, un
carbonaio con la faccia nera e il
cappellone fin sugli occhi pagava
al banco quel che aveva speso,
quando i tre compagni uscirono
dalla taverna.
Malgrado la sorveglianza del
Maître e della guercia, Rodolphe,
che camminava davanti, scambiò
una rapida ed impercettibile
occhiata con Murph.
Lo sportello della carrozza da
nolo era aperto; Rodolphe si
fermò, deciso ad essere l'ultimo a
salire, perché il carbonaio si era
avvicinato.
La Chouette montò prima di
tutti. Rodolphe dopo molte
cerimonie, fu obbligato a salire
subito dopo, giacché il Maître gli
disse all'orecchio: "Volete dunque
che io diffidi assolutamente di
voi?"
Il
carbonaio
avanzò
fischiando sul portone della
bettola, guardando Rodolphe con
stupore e inquietudine.
"Dove si va padroni?" domandò
il vetturino.
"All'allée des..."
"... des Cassies, al Bois de
Boulogne!"
urlò
il
Maître
interrompendolo, poi soggiunse:
"E sarai pagato bene, vetturino."
Fu chiuso lo sportello.
"Perché diavolo dite dove si va,
dinanzi à quei curiosi?" disse il
Maître. "Se domani si viene a
sapere del furto, un indizio simile
può rovinarci! Ah, giovanotto,
siete troppo imprudente."
"È vero, non ci avevo pensato." La
carrozza si mise in moto.
Rodolphe seguitò: "Con il mio
sigaro vi affumicherò come tante
aringhe: se aprissimo uno di
questi finestrini?" E aggiungendo
l'azione alle parole, lasciò cadere
fuori
il
foglio
piegato
e
sottilissimo su cui aveva scritto
frettolosamente qualche cosa con
la matita.
Il colpo d'occhio del Maître era
talmente
penetrante,
che,
malgrado l'apparente tranquillità
di Rodolphe, distinse una fugace
espressione soddisfatta, e messo il
capo fuori dallo sportello, gridò al
vetturino: "Una frustata dietro! È
salito qualcuno sulle molle della
carrozza." Rodolphe fremette, ma
aggiunse le sue proteste a quelle
del compagno. La vettura si fermò,
il fiaccheraio smontò da cassetta,
guardò e disse: "No, padroni, non
c'è nessuno."
"Perdiana, voglio assicurarmene io
stesso" disse il Maître, saltando
sulla via.
Non vide alcuna persona, e
nessun oggetto poiché da quando
il biglietto era stato gettato, la
carrozza aveva percorso qualche
centinaio di metri.
Il Maître credette di essersi
ingannato.
"Adesso
riderete"
disse
risalendo. "Non so perché, mi ero
figurato ci fosse qualcuno che
volesse
seguirci."
In
quel
momento la vettura prese per una
strada traversa.
Allora Murph, che non l'aveva
perduta di vista e si era accorto
della manovra di Rodolphe, corse
a raccogliere il foglio da terra.
Dopo un quarto d'ora, il Maître
gridò al fiaccheraio: "Ehi, abbiamo
cambiato idea: place de la
Madeleine." Rodolphe lo guardò
attonito.
"Sì" continuò il Maître "da
quella piazza si può svoltare in
cento diverse vie; se uno volesse
darci
qualche
fastidio,
la
deposizione del vetturale non gli
servirebbe." Nel momento in cui si
avvicinavano alla barriera, un
uomo d'alta statura, con un
soprabito grigio e il cappello
abbassato sulla fronte, e che
pareva di faccia molto scura, passò
velocemente, tutto curvo sul collo
di un grosso e magnifico cavallo
da
caccia
a
una
velocità
straordinaria.
"A
bel
corsiero
miglior
cavaliere!" disse Rodolphe, che
aveva riconosciuto Murph. "Come
trotta bene quel grosso uomo...
L'avete visto?"
"Eh, perdio, è passato così
veloce..." rispose il Maître "che
non gli ho badato." Rodolphe
nascose la sua soddisfazione;
Murph aveva decifrato il suo
biglietto.
Il Maître, certo che la carrozza
non era seguita, si tranquillizzò, e
volendo imitare la Chouette che
dormicchiava, o piuttosto faceva
finta,
disse
a
Rodolphe:
"Scusatemi, giovanotto, ma il
dondolio della carrozza mi fa
sempre un effetto singolare: mi
addormenta
come
un
bamboccione." Il furfante, con
quel finto sonno, si proponeva di
esaminare se la fisonomia del suo
compagno avrebbe tradito qualche
emozione. Rodolphe mandò a
vuoto anche questa astuzia.
"Mi sono alzato di buon'ora"
rispose "anch'io ho sonno, e voglio
fare come voi..." E chiuse gli occhi.
Ben presto il respiro sonoro del
Maître e della Chouette, che
russavano all'unisono, ingannò
così bene Rodolphe, che, credendo
i suoi compagni addormentati
profondamente, aprì alquanto gli
occhi.
Il Maître e la Chouette,
malgrado i loro fragorosi respiri,
avevano le pupille aperte, e si
scambiavano segni misteriosi con
le dita piegate bizzarramente sul
palmo della mano.
A un tratto cessò il linguaggio
simbolico. Il furfante, accortosi
senza dubbio, a un segno quasi
impercettibile, che Rodolphe non
dormiva, esclamò ridendo: "Ah,
ah, compare, mettevate alla prova
gli amici, eh?"
"Non dovete stupirvene, voi
russate con gli occhi aperti."
"Per me è differente, giovanotto,
io sono sonnambulo." La carrozza
si fermò sulla place de la
Madeleine.
La pioggia era cessata per un
momento; ma le nubi, spinte dalla
violenza del vento, apparivano così
nere e basse, che era quasi buio.
Rodolphe, la Chouette e il Maître
si diressero verso il cours de la
Reine.
"Giovanotto, ho un'idea che
non è cattiva" disse il furfante.
"Quale?"
"Assicurarmi se quanto mi avete
detto dell'interno della casa
dell'allée des Veuves è esatto."
"Vorreste andarci adesso sotto un
pretesto
qualunque?
Ciò
desterebbe dei sospetti."
"Non sono mica così gonzo,
giovanotto. Ma a che scopo avrei
io una moglie che si chiama
Ninette?" La Chouette drizzò il
capo.
"La vedete, giovanotto? Si
direbbe un cavallo da guerra che
sente suonare la carica."
"Volete mandarla ad esplorare?"
"Appunto."
"Numero 17, allée des Veuves, non
è così, marito mio?" domandò la
guercia
impaziente.
"Sta'
tranquillo, ho un occhio solo, ma è
buono..."
"La vedete, giovanotto, la vedete?
Smania già d'esserci."
"Se trova il modo di entrarci, non
credo che la vostra idea sia
cattiva."
"Tieni l'ombrello, marito... Fra
mezz'ora sono qua, e vedrai quello
che so fare" gridò la Chouette.
"Un momento, Ninette, ora
scenderemo al Cuore sanguinante,
e a due passi da qui. Se c'è il
piccolo Tortillard, lo porterai con
te; egli starà fuori dalla porta a far
la guardia, intanto che tu entri."
"Hai ragione, è scaltro come una
volpe, quel piccolo Tortillard; non
ha ancora dieci anni, e l'altro
giorno..... Un cenno del Maître
interruppe la Chouette.
"Che
cos'è
il
Cuore
sanguinante?
È
un'insegna
singolare per una taverna" disse
Rodolphe.
"Ve ne dovete lagnare con il
taverniere."
"Come si chiama?"
"Il
taverniere
del
Cuore
sanguinante?"
"Sì.."
"Egli non domanda mai il nome
dei suoi avventori."
"Ma pure..."
"Chiamatelo come volete, Pierre,
Thomas, Christophe o Barnabé,
risponderà sempre. Ma eccoci
arrivati, e appena in tempo,
giacché ricomincia il diluvio... E il
fiume come rumoreggia! Si
direbbe un torrente. Guardate là!
Due altre giornate di pioggia, e
l'acqua sorpasserà gli archi del
ponte."
"Avete detto che siamo arrivati...
Dove diavolo è dunque la bettola?
Non vedo nessuna casa qui!"
"Se
vi
guardate
attorno,
sicuramente."
"E dove volete dunque che
guardi?"
"Ai vostri piedi."
"Ai miei piedi?"
"Sì."
"Dove?"
"Ecco, là, non vedete il tetto?
Attento, ci camminate sopra."
Rodolphe non si era infatti accorto
di
una
di
quelle
"caves"
sotterranee, che si vedevano,
qualche anno fa, in certi punti
degli
Champs-Elysées,
e
specialmente vicino al Cours de la
Reine.
Una scala, scavata nella terra
umida e grassa, scendeva al fondo
di quella specie di larga fossa; a
una di quelle estremità, tagliate a
picco, s'addossava una catapecchia
bassa, sudicia, screpolata; il tetto
coperto di tegole muffite arrivava
appena al livello del terreno dove
si trovava Rodolphe; due o tre
baracche di tavole tarlate ad uso di
cellaio, di tettoia e di chiusa da
conigli, erano annesse a quel
mirabile edificio.
Un
viottolo
strettissimo,
attraversando la fossa, portava
dalla scala alla porta della
stamberga; il resto del terreno
spariva sotto un folto pergolato,
che riparava due file di rozze
tavole piantate al suolo. Il vento
faceva cigolare sui cardini una
brutta insegna di latta; attraverso
la ruggine che la copriva si
distingueva ancora un cuore rosso,
trafitto da uno strale! L'insegna
dondolava a un palo eretto al di
sopra di quell'antro, vero covile
umano. Una nebbia fitta e umida
si univa alla pioggia: s'avvicinava
la notte.
"Che dite di questo albergo,
giovanotto?" domandò il Maître.
"Grazie ai rovesci d'acqua che
cadono da quindici giorni, ci
godremo un discreto fresco...
Animo, passate."
"Un momento! Bisogna che io
sappia se c'è l'oste... Attento!" Il
furfante, strofinando con forza la
lingua contro il palato, fece
intendere un grido singolare, una
specie di trillo gutturale, sonoro e
prolungato, che si può accennare
così: "Prrrrrr!" Uno strido uguale
uscì dalla profondità di quella
tana.
"C'è" disse il Maître. "Scusate,
giovanotto... Rispetto alle donne,
lasciate passare la Chouette, io vi
seguo. Badate di non cadere, è
sdrucciolevole."
17.
Il Cuore sanguinante.
L'oste del Cuore sanguinante,
dopo aver risposto al segnale del
Maître, avanzò civilmente fin sulla
porta per riceverlo.
Era lo stesso che Rodolphe era
andato a cercare nella Cité, e che
non conosceva ancora sotto il suo
nome vero, o per meglio dire
usuale, era Bras-Rouge.
Piccolo, gracile, debole, aveva
pressappoco cinquant'anni. Nella
sua fisonomia c'era qualcosa della
donnola e del topo: il naso
appuntito, il mento all'indietro, i
pomelli
delle
guance
che
mostravano le ossa, gli occhietti
neri, vivi e penetranti, gli davano
un'espressione
d'intelligenza,
d'accortezza,
d'astuzia.
Una
vecchia parrucca bionda, o
piuttosto gialla come il suo volto
bilioso, posata in cima al cranio,
lasciava distinguere la nuca,
coperta da peli grigi. Indossava
una casacca rotonda, ed uno di
quei grembiali nericci di cui si
servono i garzoni dei vinai.
I tre forestieri non avevano
ancora sceso l'ultimo gradino, che
un ragazzo di circa dieci anni,
basso,
di
aspetto
maligno,
macilento, zoppo ed un po'
contratto, venne ad unirsi a BrasRouge, al quale somigliava tanto,
che necessariamente si doveva
riconoscere per suo figliolo.
Aveva il medesimo sguardo
acuto e malizioso, la fronte mezzo
nascosta da un bosco di capelli
giallicci, duri ed ispidi come crini.
Un paio di pantaloni di color
marrone ed un camiciotto grigio,
stretto con una cintura di cuoio,
completavano l'abbigliamento di
Tortillard, così soprannominato
per la sua deformità. Se ne stava
accanto a suo padre, ritto sulla
gamba buona, come un airone
sulla riva d'una palude.
"Oh, appunto, ecco il ragazzo"
esclamò il Maître. "Ninette, il
tempo stringe, vien notte, bisogna
approfittare delle poche ore che ci
restano."
"Dici bene, vado a chiedere il
piccoletto a suo padre."
"Buon giorno, amico" disse BrasRouge rivolgendosi al Maître
d'école con una vocina in falsetto,
aspra e acuta. "Che si deve fare per
servirti?"
"Prestare subito il tuo monello a
mia moglie per un quarto d'ora: ha
perduto della roba, e la potrà
aiutare a cercarla." Bras-Rouge
fece con gli occhi un segno
d'intesa, ed ordinò al suo figliolo:
"Tortillard, va' con la signora."
Quel brutto ragazzo, attratto dalla
laidezza e dall'aspetto malvagio
della
Chouette,
come
altri
sarebbero stati allettati da un
aspetto gentile e amorevole, si
affrettò a prendere per mano la
guercia."
"Amore, bambolino caro! Queste
sono creature!" esclamò la
Chouette.
"Come mi viene incontro
subito! Non fa come la Pegriotte,
che pareva avesse il voltastomaco
quando mi si accostava, quella
pezzente!"
"Animo, sbrigati, Ninette... Apri
l'occhio e attenta ai pericoli. Ti
aspetto qui."
"Non starò fuori molto. Passa
avanti, Tortillard." La guercia e lo
zoppetto salirono la lercia scala.
"Ninette, piglia l'ombrello"
gridò l'assassino.
"Eh, mi darebbe più impaccio
che altro" rispose la vecchia.
E sparì con Tortillard fra i
vapori accumulati del crepuscolo
ed il tristo muggito del vento che
scuoteva i rami neri e privi di
foglie degli olmi degli ChampsElysées.
"Entriamo" disse Rodolphe.
Dovette chinarsi per passare
sotto la porta di quella taverna,
divisa in due sale.
In una c'erano un banco e un
biliardo
in
pessimo
stato;
nell'altra, tavole e seggiole da
giardino, un tempo tinte di verde.
Due strettissime finestre, con vetri
rotti e arabescati di ragnatele,
rischiaravano appena quei salotti
dalle pareti verdastre e coperte di
salnitro per l'umidità. Rodolphe
rimase solo un minuto, ed intanto
Bras-Rouge e il Maître ebbero
tempo di scambiarsi rapidamente
qualche parola, e qualche segno
misterioso.
"Bevete un bicchiere di birra o
d'acquavite aspettando Ninette?"
propose poi il Maître d'école.
"No, non ho sete."
"Ognuno faccia a suo modo, io
trincherò
dell'acquavite"
soggiunse il Maître, e sedette
davanti ad una delle tavole verdi
della seconda stanza.
L'oscurità incominciava ad
essere tale in quella tana che non
si poteva vedere, in un angolo
della seconda stanza, l'ingresso di
una di quelle cantine, a cui si
scende per mezzo di una botola a
due sportelli, di cui uno resta
sempre spalancato per comodo di
chi deve scendere.
La tavola a cui sedette il Maître
era vicinissima a questa buca, buia
e profonda, a cui voltava le spalle,
nascondendola del tutto agli occhi
di Rodolphe.
Questo guardava dalla finestra,
tanto per fare qualche cosa e non
far
capire
i
pensieri
che
l'occupavano. L'avere incontrato
Murph, che correva frettoloso
all'allée des Veuves non lo
confortava abbastanza, mentre
temeva che il degno "squire" non
avesse
compreso
tutto
il
significato del suo biglietto, per
necessità così laconico che non
conteneva che queste parole: "Per
questa sera alle ore dieci". Ben
determinato a non recarsi all'allée
des Veuves prima di allora né a
lasciar solo il Maître, più che mai
tremava all'idea di perdere l'unica
occasione per venire in possesso
di
segreti
che
tanto
lo
interessavano.
Sebbene fosse robustissimo e
bene armato, doveva contrastare a
forza d'astuzie con un assassino
terribile, e capace di tutto.
Eppure, si deve dirlo? Tale era
la tempra energica del suo
carattere bizzarro e avido di
emozioni nervose e violente, che
trovava una specie di terribile
gusto nelle inquietudini e negli
ostacoli che si opponevano al
piano da lui combinato il giorno
prima con il suo fedele Murph e
con lo Chourineur.
Non volendo però destare
sospetti, si assise alla tavola del
Maître e chiese un bicchiere.
Bras-Rouge,
dopo
aver
scambiato alcune parole con
quello scellerato, considerava
Rodolphe con aria curiosa,
sardonica e diffidente.
"Secondo me, giovanotto" disse
il Maître "mia moglie tornerà ad
avvertirci che le persone che
vogliamo vedere sono in casa;
potremo andargli a far visita verso
le otto."
"Saremmo in anticipo di due ore"
rispose
Rodolphe
"ciò
le
metterebbe in allarme."
"Credete?"
"Ne sono certo."
"Eh via, tra amici non si fanno
complimenti."
"Io li conosco, e vi ripeto che non
bisogna andarci prima delle dieci."
"Siete caparbio, giovanotto!"
"Questo è il mio parere, e il
diavolo mi bruci se mi muovo di
qui prima delle dieci!"
"Fate pure come vi fa comodo"
disse Bras-Rouge con la sua voce
in falsetto. "Non chiudo mai il
negozio prima di mezzanotte.
Quello è il momento che capitano
i miei migliori avventori, e i miei
vicini non si lagnano del chiasso
che si fa qui da me."
"Bisogna consentire a tutto quanto
volete, giovanotto" riprese il
Maître. "Sia, non partiremo che
alle dieci."
"Ecco la Chouette!" disse BrasRouge, udendo e rispondendo a un
grido convenzionale, simile a
quello già emesso dal Maître
prima di scendere nella cave
sotterranea.
Dopo un minuto la Chouette
entrava nella sala da biliardo.
"C'è tutto! Ogni particolare è
confermato!" gridò la guercia
entrando. Bras-Rouge si ritirò
prudentemente, senza domandar
notizie
di
Tortillard,
che
probabilmente era stato incaricato
di qualche compito.
Alla vecchia grondavano le
vesti.
Sedette di faccia a Rodolphe ed
al Maître.
"Ebbene?" domandò questo.
"Finora questo giovane ha
detto la verità."
"Vedete!" fece Rodolphe.
"Lasciate che la Chouette si
spieghi, giovanotto. Vediamo, di'
pure, Ninette!"
"Sono arrivata al 17; avevo lasciato
Tortillard rannicchiato in una
buca a far la guardia. Era sempre
giorno. Ho scampanellato a una
piccola porta bastarda, con i
cardini di fuori, una fessura di due
dita sotto lo stipite... Niente...
Suono di nuovo, il portinaio mi
apre: è un uomo grande, grosso,
sui cinquant'anni; pare mezzo
addormentato e bonaccione, ha
delle fedine rosse, la testa calva...
Prima di tirare il campanello
mi ero messa in tasca la cuffia per
avere l'aria d'essere una vicina.
Appena vedo il portinaio, mi metto
a
piagnucolare
forte
forte,
gridando che ho perduto il mio
pappagallo, Cocò, una bestiolina
che adoro. Dico che sto di casa
sullo stradone di Marbeuf, che da
un giardino all'altro non faccio che
seguire Cocò.
Infine prego il signore di
lasciarmi cercare la mia bestia..."
"Eh!" fece il Maître con orgogliosa
soddisfazione,
accennando
la
Chouette. "Che donna!"
"È abilissima" rispose Rodolphe.
"Ma poi?"
"Il portinaio mi permette di
cercare la mia bestia, ed eccomi a
scorrazzare
nel
giardino,
chiamando:
Cocò!
Cocò!,
guardando in aria e da tutte le
parti, per veder tutto bene,
all'interno del muro di cinta." Poi
descrisse
nei
particolari
l'abitazione: "Da cima a fondo
delle mura una pergola, che
potrebbe servire da scala; in un
angolo del muro, a sinistra, un
pino fatto come una scala, che una
femmina incinta potrebbe scalare
tranquillamente. La casa ha sei
finestre a pianterreno, nessun
altro piano, quattro spiragli di
cantina senza inferriate. Le
finestre
del
pianterreno
si
chiudono con le imposte, con
saliscendi di sotto, e nottolino di
sopra; pigiare sullo zoccolo, tirare
il fil di ferro, e..."
"Con un nulla" finì il Maître "è
subito aperto." La Chouette
continuò: "La porta d'ingresso è a
vetri, due persiane di fuori.
"Che memoria!" elogiò il
furfante.
"Già, assolutamente come se ci
si fosse" disse Rodolphe.
"A sinistra" riprese la Chouette
"vicino al cortile, un pozzo; la fune
può servire, perché di là non c'è
pergola alle muraglie, in caso che
ci fosse impedito di ritirarci dalla
parte della porta. Entrando nella
casa..."
"Sei entrata in casa? C'è entrata,
giovanotto!" esclamò il Maître con
orgoglio.
"Certo, che ci sono entrata.
Non trovando il pappagallo ho
pianto tanto, e ho gridato fino a
spolmonarmi. Ho chiesto al
portinaio il permesso di sedermi
sullo scalino della sua porta; il
buon'uomo mi ha detto che
passassi dentro, e mi ha offerto un
bicchiere d'acqua e vino. "Un
semplice bicchier d'acqua" ho
detto "un semplice bicchier
d'acqua, mio buon signore." Allora
mi fa entrare in anticamera...
Tappeti
dappertutto:
buona
precauzione,
non
si
sente
camminare, né il rumore dei vetri,
se mai si dovessero rompere; a
destra e a sinistra porte e
serrature a becco d'anitra che si
aprono con un soffio... In fondo
una porta robusta, chiusa a chiave,
una specie di cassa... Ci si sentiva
l'odore dei quattrini! Avevo la mia
cera nel paniere..."
"Aveva la sua cera, giovanotto!
Non va mai senza la sua cera!"
esclamò il furfante.
L'altra continuò: "Bisognava
che mi accostassi all'uscio che
sapeva di denaro. Allora ho fatto
come se mi prendesse una
violenta tosse, che fossi obbligata
ad
appoggiarmi
al
muro.
Sentendomi tossire, il portinaio
mi dice: "Vado a prendervi un
pezzettino di zucchero". Egli ha
probabilmente
cercato
un
cucchiaio, perché ho inteso il
suono dell'argenteria, argenteria
nella stanza di sinistra, non
dimenticarlo, Maître. Intanto che
tossivo e piagnucolavo, mi ero
avvicinata alla porta di fondo...
Avevo la mia cera nel palmo della
mano, mi sono appoggiata alla
serratura, come se niente fosse.
Ecco l'impronta. Se questa non
serve per oggi, servirà per un altro
giorno." E la Chouette diede al
brigante un pezzetto di cera gialla,
dove si vedeva perfettamente
l'impronta.
"Ora ci direte se quello è
propriamente
l'uscio
della
cassaforte" disse la Chouette.
"Precisamente! È là che sta il
denaro..." rispose Rodolphe. Poi
disse tra sé: "Murph è dunque
stato
ingannato
da
questa
miserabile vecchia? Può essere;
non aspetta d'essere attaccato che
alle dieci... Per allora tutte le sue
precauzioni saranno prese"."
"Ma tutto il denaro non è là!"
esclamò la Chouette, a cui brillava
l'occhio verde. "Nell'accostarmi
alle finestre, sempre per cercare
Cocò, ho visto in una delle stanze,
a sinistra della porta, dei sacchi di
scudi sopra uno scrigno, li ho visti
come vedo te, marito mio... Ce
n'erano almeno una dozzina."
"Dov'è
Tortillard?"
domandò
bruscamente il Maître.
"Sempre là nella sua buca, a
due passi dalla porta del giardino...
Ci vede al buio come i gatti. Non
c'è che quell'ingresso al 17;
quando ci andremo, ci avvertirà se
è capitato qualcuno."
"Va
bene."
Aveva
appena
pronunciato queste parole che il
Maître si avventò all'improvviso
addosso a Rodolphe, lo agguantò
per la gola, e lo precipitò nella
botola spalancata dietro la tavola.
Quest'attacco fu così pronto,
repentino
e
vigoroso,
che
Rodolphe non poté né prevederlo,
né evitarlo.
La Chouette, spaventata, diede
un grido acuto, perché non aveva
ancora conosciuto l'esito di quella
lotta momentanea. Cessato il
rumore
che
fece
Rodolphe
cadendo, il Maître, che conosceva
perfettamente
gli
anditi
sotterranei di quella casa, discese
lentamente
nella
cantina,
prestando
orecchio
con
attenzione.
"Maître, non ti fidare!" gridò la
guercia, chinandosi sulla botola.
"Tira fuori lo stiletto." Il furfante
non rispose e sparì. Non s'intese
più nulla, ma dopo qualche
istante, si udì stridere sui cardini
da lontano una porta arrugginita,
nella profondità del sotterraneo, e
poi di nuovo silenzio. L'oscurità
era completa. La Chouette frugò
nel paniere, fece scoppiettare uno
zolfanello e accese un moccolo, la
cui luce si sparse in quella lugubre
stanza.
Nello
stesso
momento
comparve all'apertura della botola
la figura ripugnante del Maître
d'école.
La
Chouette
non
poté
trattenere un urlo di terrore alla
vista di quella faccia pallida,
sfregiata, mutilata, orribile, cogli
occhi quasi fosforescenti, che
sembrava strisciasse dal suolo in
mezzo alle tenebre che il bagliore
della candela dissipava appena.
Rimessasi
dall'emozione,
la
vecchia esclamò con una specie di
spaventevole adulazione: "Devi
pur essere terribile, Maître!... Mi
hai fatto paura... A me!..."
"Presto, presto, all'allée des
Veuves!" disse il furfante, fissando
i due sportelli della botola con una
lastra di ferro. "Fra un'ora forse
sarebbe troppo tardi! Se è una
trappola, non è tesa ancora... Se
non è una trappola, faremo il
colpo da soli!"
18.
Il sotterraneo.
Sotto il colpo della sua orribile
caduta, Rodolphe era rimasto
svenuto, immobile, in fondo alla
scala della cantina.
Il Maître, trascinandolo sino
all'ingresso
di
un
secondo
sotterraneo molto più profondo,
ve lo aveva calato e rinchiuso
dietro una grossa porta chiusa da
chiavistelli. Poi raggiunse la
Chouette, per correre con lei a
commettere il furto, forse un
omicidio, nell'allée des Veuves.
Dopo un'ora circa, Rodolphe
riacquistava a poco a poco i sensi.
Era sdraiato per terra, in mezzo a
fitte tenebre; stese le braccia e
toccò degli scaglioni di pietra.
Avvertendo ai piedi una viva
impressione di freddo, vi portò la
mano. Era una pozzanghera
d'acqua.
Con un violento sforzo riuscì a
sedersi sull'ultimo gradino della
scala; a poco a poco si dissipava il
suo stordimento, fece qualche
movimento. Per fortuna, non
aveva niente di rotto. Si mise in
ascolto... Non sentì null'altro che
una specie di piccolo gorgoglio
sordo, debole, continuo.
Dapprima non ne sospettò
neppure la causa.
Man mano che il suo pensiero
si faceva più lucido, le circostanze
dell'agguato di cui era stato
vittima gli si affacciavano alla
mente, ma lente e incomplete...
Era sul punto di raccogliere tutti i
suoi ricordi, quando avvertì ai
piedi una nuova impressione di
freddo. Si abbassò: aveva l'acqua
fino alla caviglia. E, in mezzo al
ferale silenzio che lo circondava,
intese sempre più distintamente il
piccolo gorgoglio sordo, debole,
continuo.
Questa volta ne comprese la
causa: l'acqua invadeva la cantina.
La piena della Senna era
formidabile,
e
quel
luogo
sotterraneo si trovava al livello del
fiume...
Quel
pericolo
richiamò
totalmente Rodolphe a se stesso.
Rapidamente, salì l'umida
scala. Giunto in cima urtò contro
una porta: invano tentò di
abbatterla, rimase immobile sui
suoi cardini di ferro.
In quella situazione disperata,
il suo primo grido fu per Murph.
"Se non è in guardia, quel mostro
lo assassinerà... E sono io" pensò
"sono io, che avrò causato la sua
morte! Povero Murph!" Quel
pensiero crudele accrebbe le forze
di Rodolphe: puntellandosi sui
piedi e curvando le spalle, si
consumò in inauditi sforzi contro
la porta, senza riuscire a
smuoverla.
Sperando di trovare nella
cantina una leva, di nuovo scese;
sul penultimo scalino, due o tre
corpi
rotondi
ed
elastici
ruzzolarono sotto i suoi piedi:
erano topi che l'acqua cacciava
dalle loro tane.
Rodolphe percorse la cantina a
tastoni, coll'acqua a mezza gamba;
non trovò nulla. Risalì lentamente
la
scala
nella
più
cupa
disperazione.
Contò gli scalini: ce n'erano
tredici, tre erano già sommersi.
Tredici! Numero fatale! In
certe circostanze, gli spiriti i più
fermi non sono esenti da idee
superstiziose; vide in quel numero
un funesto presagio. La sorte di
Murph gli ritornò alla mente.
Cercò invano qualche apertura tra
il suolo e la porta; questa umidità
aveva così gonfiato il legno, che la
porta
aderiva
ermeticamente
all'umida argilla. Rodolphe gettò
urla poderose, sperando di essere
udito dalla gente dell'osteria; poi
stette in ascolto...
Non udì niente, oltre il piccolo
gorgoglio sordo, debole, continuo
dell'acqua che sempre saliva,
saliva, saliva...
Sedette affranto, le spalle
appoggiate alla porta, e pianse per
il suo amico, che forse in quel
momento si dibatteva sotto il
coltello d'un assassino. Allora si
rimproverò amaramente i suoi
imprudenti e audaci progetti, per
quanto generoso ne fosse il
motivo. Lo straziava il ricordo
delle mille prove di devozione di
Murph, che, ricco e stimato, aveva
abbandonato la moglie e il diletto
figlio, e i suoi più cari interessi,
per seguire e aiutare lui nella
valorosa ma strana espiazione che
si era imposto.
L'acqua saliva sempre... Non vi
erano ormai che cinque gradini
all'asciutto.
Alzandosi
dritto
presso la porta, Rodolphe con la
fronte toccava la volta. Poteva
calcolare il tempo che sarebbe
durata la sua agonia. Quella morte
era lenta, silenziosa, spaventevole.
Si ricordò della pistola che
aveva addosso. A rischio di
mutilarsi, sparandola contro la
porta a bruciapelo, avrebbe potuto
forse abbatterla. Oh sciagura,
sciagura! Nella caduta, aveva
perduto quell'arma, o gliela aveva
rubata il Maître.
Senza i suoi timori per Murph,
Rodolphe
avrebbe
atteso
tranquillamente la morte. Aveva
molto
vissuto,
era
stato
ardentemente amato, aveva fatto
del bene, avrebbe voluto farne
ancora, lo sa Iddio! Non
mormorava contro il decreto che
lo colpiva, vedeva in quel destino
un giusto castigo di un'azione
fatale non ancora scontata; i suoi
pensieri
si
elevavano,
giganteggiavano nel pericolo. Un
nuovo tormento venne a mettere
alla prova la rassegnazione di
Rodolphe.
I
topi,
cacciati
dall'acqua, si erano rifugiati di
gradino in gradino, non trovando
uscita.
Potendo
difficilmente
salire sopra una porta od un muro
perpendicolare, si arrampicavano
lungo le vesti di Rodolphe.
Quando se li sentì brulicare
addosso, provò un indicibile
disgusto, un profondo ribrezzo.
Voleva scacciarli e morsi acuti e
freddi gli insanguinavano le mani;
nella caduta, gli si erano aperti la
camicia e il panciotto, sentiva sul
suo nudo petto l'impressione delle
zampette gelate e dei loro corpi
pelosi. Gettava lontano quegli
immondi animali, dopo esserseli
strappati
dagli
abiti,
ma
ritornavano a nuoto.
Rodolphe mandò nuove grida
che
non
furono
intese.
Continuando
era
giunto
il
momento di non poter più gridare,
giacché l'acqua gli giungeva ormai
al collo, ed in breve stava per
arrivargli alla bocca.
L'aria cominciava a mancare in
quel ristretto spazio. I primi
sintomi
d'asfissia
assalirono
Rodolphe. Le arterie delle tempie
battevano violentemente, aveva le
vertigini, stava per morire.
Volse un ultimo pensiero a
Murph ed elevò l'anima a Dio, non
perché lo sottraesse al pericolo,
ma perché accettasse in espiazione
le sue pene.
In quel supremo momento, sul
punto di abbandonare, non solo
tutto ciò che rende la vita felice,
brillante, invidiata, ma anche un
titolo quasi regale, un potere
sovrano, costretto a rinunciare a
un'impresa che, soddisfacendo le
sue due grandissime passioni,
l'amore per il bene e l'odio verso i
malvagi, gli poteva essere un
giorno valutata per la remissione
delle sue colpe, prossimo a perire
di morte spaventevole, Rodolphe
non ebbe alcuno di quegli impulsi
di rabbia o d'insolente frenesia
durante i quali le anime vili
accusano, o maledicono, uno dopo
l'altro, gli uomini, il destino, Dio!
No, finché ebbe lucida la mente,
Rodolphe sopportò la sua sorte
con umiltà, con rispetto. E
allorché l'agonia gli confuse le
idee, abbandonato del tutto
all'istinto vitale, si dibatté, se così
si può dire, fisicamente, ma non
moralmente contro la morte.
La vertigine trasportava i
pensieri di Rodolphe nel suo
rapido e letale vortice; l'acqua gli
gorgogliava nelle orecchie; gli
sembrava di aggirarsi su se stesso,
e l'ultimo barlume della sua
ragione stava già per estinguersi,
quando alcuni passi precipitosi e
uno strepito di voci risuonarono
presso la porta del sotterraneo.
La speranza rianimò le sue
forze cadenti; per una suprema
tensione poté afferrare queste
parole, le ultime che intese e che
comprese: "Come puoi vedere,
non c'è nessuno."
"Fulmini! È vero..." rispose con
accento di tristezza la voce dello
Chourineur.
E i passi si allontanarono.
Rodolphe annichilito non ebbe
più forza di sostenersi, sdrucciolò
lungo la scala. D'un tratto fu
aperta da fuori bruscamente la
porta della cantina; l'acqua
contenuta nel sotterraneo, sfuggì
come all'aprirsi d'una cataratta...
Lo Chourineur poté afferrare le
due braccia di Rodolphe, che,
mezzo annegato, si aggrappava
tuttora alla soglia della porta con
disperazione.
19.
L'infermiere.
Rodolphe,
sottratto
dallo
Chourineur a una morte certa, e
trasportato
nell'abitazione
dell'allée des Veuves, che la
Chouette aveva esplorato, si trovò
coricato
in
una
camera
comodamente arredata.
Un gran fuoco scoppiettava nel
caminetto, e una lampada sopra il
cassettone spandeva vivissimo
chiarore, ma il letto, guarnito da
cortinaggi di damasco verde,
rimaneva un poco all'oscuro.
Un negro di mediocre statura,
bianchi i capelli e le sopracciglia,
vestito assai bene, con un nastro
color
arancio
all'occhiello
dell'abito azzurro, tiene nella
mano sinistra un orologio d'oro
con la sfera dei secondi, e sembra
che lo esamini attento, mentre con
la destra conta i battiti del polso di
Rodolphe.
Il negro è mesto, pensoso e,
con la più tenera premura, guarda
Rodolphe che dorme.
Lo Chourineur, con i suoi
indumenti ordinari, macchiati di
fango, se ne sta immobile ai piedi
del letto, con le braccia penzoloni
e le mani incrociate; ha la barba
lunga, i capelli folti color della
stoppa arruffati e bagnati, i suoi
tratti volgari paiono più bronzei
del solito, ma sotto quella brutta e
rozza
corteccia
traluce
un'ineffabile
espressione
d'interesse e di pietà.
Osa appena respirare, solleva a
stento il petto affannoso; inquieto
per l'atteggiamento pensoso del
medico nero, teme qualche
funesto responso, e finalmente
arrischia
sottovoce
questa
filosofica
riflessione,
contemplando Rodolphe: "Eppure,
a vederlo così debole, chi direbbe
che è quello che mi suona, non a
martello, ma a distesa. Non ci
metterà molto a riacquistare le
forze... Non è vero, dottore? Vorrei
piuttosto che mi buttasse la sua
convalescenza sulle spalle... Ciò lo
scuoterebbe...
Non
è
vero,
dottore?"
Il
nero,
senza
rispondere, fece un piccolo cenno
con la mano. Lo Chourineur non
aprì più bocca.
"La bevanda?" domandò il
nero.
Lo
Chourineur,
che
rispettosamente aveva lasciato alla
porta gli scarponi ferrati, andò
verso il cassettone, camminando
sulle punte dei piedi più
leggermente che poteva ma
facendo
delle
contorsioni,
stendendo le gambe, tentennando
le braccia, muovendo la schiena e
le spalle in tal modo, che in altra
circostanza avrebbe provocato il
riso. Il povero diavolo aveva l'aria
di voler riportare tutto il peso
della sua persona su quella parte
di sé che non toccava terra; e
perciò il tappeto non impediva che
il pavimento scricchiolasse sotto
la pesante corporatura dello
Chourineur.
Per
disgrazia,
nell'ansia di far bene e nella paura
di lasciarsi sfuggire la fiala diafana
che portava con gran cura, ne
strinse tanto il collo con la sua
larga mano, che l'ampolla si ruppe,
e la pozione si sparse. Alla vista
del disastro, lo Chourineur restò
fermo con una delle sue grosse
gambe per aria, le dita dei piedi
contratte
nervosamente
e
guardando confuso ora il medico
ora il collo della boccetta che gli
rimaneva in mano.
"Tanghero indiavolato!" gridò
il nero, spazientito.
"Pezzo d'imbecille!" esclamò lo
Chourineur,
apostrofando
se
stesso.
"Ah!"
fece
il
medico,
guardando
sul
cassettone.
"Fortunatamente
vi
siete
sbagliato, volevo l'altra fiala."
"Quella
piccola
rossiccia?"
domandò
lo
sprovveduto
infermiere.
"Senza dubbio, non c'è che
quella!" Lo Chourineur, girando
sul
calcagno
per
un'antica
abitudine militare, calpestò i
rottami dell'ampolla: piedi più
delicati dei suoi si sarebbero
scorticati, ma l'ex scaricatore era
debitore alla sua professione di un
paio di suole naturali, dure al pari
dello zoccolo d'un cavallo.
"Badate, finirete con il ferirvi!"
gli gridò il medico. Lo Chourineur
non diede retta per nulla a quella
raccomandazione. Profondamente
preoccupato della sua nuova
incombenza, dalla quale bramava
disimpegnarsi bene per far
dimenticare
la
sua
prima
sventatezza, bisognava vedere con
che
delicatezza,
con
che
leggerezza, con quanto scrupolo,
allargando le grosse dita, prese il
sottile cristallo! Una farfalla non
gli avrebbe lasciato nemmeno un
atomo delle sue ali dorate fra il
pollice e l'indice.
Il medico stette in apprensione
per un nuovo incidente, che
poteva succedere per eccesso di
precauzione. Per buona sorte, la
pozione evitò questo scoglio.
Nell'avvicinarsi
al
letto,
lo
Chourineur stritolò nuovamente
sotto i piedi quel che ancora
rimaneva dell'altra boccetta.
"Ma,
disgraziato,
volete
dunque storpiarvi?" gli disse
adagio il medico.
"Eh, con che storpiarmi,
dottore?!"
"È la seconda volta che camminate
sui vetri."
"Se non è che per questo, non vi
date pensiero... Ho la pianta dei
piedi foderata di legno."
"Un cucchiaino!" chiese il nero.
Lo Chourineur ricominciò le
sue leggere evoluzioni recando ciò
che il medico gli domandava.
Dopo qualche cucchiaiata di quella
bevanda, Rodolphe fece un
movimento e agitò debolmente le
mani.
"Bene, bene, si risveglia dal suo
letargo!" disse il medico. "Il
salasso lo ha aiutato, in breve sarà
fuori pericolo."
"Salvato? Bravo! Viva la Francia!"
gridò lo Chourineur in un eccesso
di gioia.
"Ma state dunque tranquillo!"
"Sì, dottore."
"Il polso si normalizza. Di bene in
meglio!"
"E il povero amico del signor
Rodolphe,
dottore?
Fulmini!
Quando saprà... Fortuna che..."
"Silenzio!"
"Sì, dottore..."
"Sedetevi."
"Ma, dott..."
"Sedetevi, dico, mi date fastidio
ronzandomi sempre attorno; mi
distraete... Dunque, sedetevi!"
"Dottore, sono sporco come un
pezzo di legno che si scarica dal
fiume, insudicerei i mobili."
"Dunque, sedete per terra."
"Insudicerò il tappeto."
"Fate come vi pare, ma per carità,
state fermo" disse il medico con
impazienza e, adagiatosi in una
poltrona, si appoggiò la fronte alle
mani.
Dopo un momento di profonda
riflessione, lo Chourineur, più che
per bisogno di riposarsi, per
obbedire al medico, prese con
somma precauzione una seggiola,
e con grande soddisfazione,
l'accomodò con la spalliera sul
tappeto, nell'ottima intenzione di
sedersi
modestamente
sui
poggiapiedi davanti, per non
imbrattar nulla...
Ma per sua disgrazia lo
Chourineur conosceva poco le
leggi dell'equilibrio e della gravità
dei corpi: la sedia barcollò; il
disgraziato,
per
un
moto
involontario protese le mani, e
rovesciò un tavolinetto su cui c'era
una sottocoppa, una tazza ed un
vaso da tè.
A quel rumore il medico
sollevò la testa, trasalendo.
Rodolphe si svegliò di soprassalto,
si rizzò sulla vita, si guardò
attorno ansioso, e, richiamate le
proprie idee, domandò: "Murph!
Dov'è Murph?"
"Vostra Altezza si rassicuri" disse
rispettosamente il nero "ci sono
buone speranze."
"È ferito?" domandò Rodolphe.
"Ahimè, sì, monsignore."
"Dov'è?
Voglio
vederlo."
E
Rodolphe provò ad alzarsi, ma
ricadde vinto dal dolore delle
contusioni, di cui risentiva allora il
contraccolpo.
"Che mi portino subito da
Murph,
poiché
non
posso
camminare!" gridò.
"Monsignore" rispose il medico
"sarebbe pericoloso per ora
cagionargli una viva emozione."
"Ah, voi m'ingannate! Egli è
morto...
Egli
è
morto
assassinato!... E sono stato io, io
ne sono stato la causa!" gridò
Rodolphe con voce straziante,
alzando le mani al cielo.
"Monsignore sa che io sono
incapace di mentire... Affermo
sull'onor mio che Murph è vivo,
assai gravemente ferito, è vero, ma
con probabilità e quasi certezza di
guarigione."
"Mi dite ciò per prepararmi a
qualche triste nuova. È di sicuro in
una situazione disperata!"
"Monsignore..."
"Ne
sono
certo...
Voi
m'ingannate... Voglio che mi si
porti subito presso di lui... La vista
di un amico fa sempre bene."
"Monsignore,
vi
affermo
nuovamente sul mio onore che,
salvo accidenti improbabili, il
signor Murph entrerà presto in
convalescenza."
"Davvero mio caro David?"
"Davvero, monsignore."
"Ascoltatemi, sapete la mia
considerazione per voi; dacché
appartenete alla mia casa aveste
sempre la mia fiducia, non ho mai
messo in dubbio la vostra rara
dottrina, ma, per l'amor del cielo,
se fosse necessario un consulto..."
"Questa, monsignore, fu la mia
prima idea. Per ora un consulto è
assolutamente inutile, voi potete
credermi... D'altronde non ho
voluto
introdurre
qui
dei
forestieri, prima di sapere se i
vostri ordini di ieri..."
"Ma
com'è
avvenuto
tutto
questo?"
chiese
Rodolphe
interrompendo il nero. "Chi mi ha
strappato da quel sotterraneo dove
annegavo? Ho una confusa idea
d'aver sentito lo Chourineur. Mi
sarei forse ingannato?"
"No, no. Quel bravo galantuomo
potrà
raccontarvi
tutto,
monsignore, giacché fu lui a fare
ogni cosa."
"Ma dov'è lui? Dov'è?" Il medico
cercò
con
gli
occhi
quell'infermiere
improvvisato,
che, confuso per la caduta, si era
nascosto dietro il cortinaggio del
letto.
"Eccolo" esclamò il medico "ha
l'aria confusa..."
"Fatti avanti!" disse Rodolphe,
porgendo la mano al suo salvatore.
20.
Racconto dello Chourineur.
La
confusione
dello
Chourineur
era
tanto
più
profonda, in quanto aveva udito il
medico
chiamare
Rodolphe
monsignore diverse volte.
"Ma avvicinati dunque, dammi
la mano!" gli disse Rodolphe.
"Perdono, signore, no, volevo
dire monsignore, ma..."
"Chiamami, come prima, signor
Rodolphe... Lo preferisco."
"E
anch'io
sarò
meno
imbrogliato... Ma, per la mia
mano, scusate, ho fatto tanto
lavoro..." E protese timidamente la
sua mano nera e callosa. Rodolphe
gliela strinse cordialmente.
"Sentiamo, siedi e spiegami
tutto... Come hai scoperto la
cantina? Ma appunto, il Maître
d'école?"
"È al sicuro" lo interruppe il
medico.
"Legati come due salami... lui e
la Chouette... Vista la figura che
devono fare se si guardano, non
hanno da stare allegri l'uno con
l'altro."
"E il mio povero Murph! Mio Dio,
ci penso soltanto adesso. David,
dove è stato ferito?"
"Al lato destro, monsignore,
fortunatamente verso l'ultima
costola..."
"Oh, ci vuole una vendetta
terribile, terribile! David conto su
di voi."
"Monsignore sa che io sono suo
anima
e
corpo"
rispose
freddamente il nero.
"Ma come arrivasti a tempo,
mio prode?" domandò Rodolphe
allo Chourineur.
"Se volete, monsign... no signor
Rodolphe,
comincerò
dal
principio."
"Hai ragione, ti ascolto..."
"Sapete che ieri sera, tornando
dalla campagna, dove eravate
andato con la povera Goualeuse,
mi diceste: "Procura di trovare il
Maître nella Cité. Gli dirai che sai
che c'è da fare un buon colpo, ma
che non te ne vuoi occupare, che
se lui vuole starci al tuo posto
basta che si trovi domani (che era
stamattina) alla barriera di Bercy,
al Paniere Fiorito, e che là vedrà
chi ha preparato il furto"."
"Benissimo!"
"Lasciandovi, trotto alla Cité. Vado
dall'Orca: niente Maître. Giro la
rue Saint-Eloi, la rue aux Fèves e
de la Vieille Draperie: nemmeno.
Finalmente lo intoppo con quel
canchero della Chouette sul
sagrato di Notre-Dame, da un
piccolo
sarto,
rivenditore,
manutengolo e ladro.
Volevano spassarsela con i
denari rubati al signore alto e
vestito di nero che proponeva di
giocarvi
un
brutto
tiro.
Compravano vestiti di ricambio.
La Chouette contrattava uno
scialle rosso... Vecchio mostro!
Spiffero l'affare al Maître: mi
risponde che ci sta, e che verrà al
luogo fissato... Bene! Questa
mattina, secondo i vostri ordini di
ieri, corsi qui a darvi la risposta...
Voi mi diceste: "Torna, mio caro,
domani prima dell'alba, passerai la
giornata in casa, e la sera vedrai
cose che varranno la pena d'essere
viste". E non aggiungeste altro, ma
io capii di più. Dissi tra me: "È un
colpo preparato per fare una burla
domani al Maître con la lusinga di
un affare. È un tipo costui capace
di tutto... Ha assassinato il
mercante di buoi. Ci sto..."
"Feci male a non spiegarti tutto,
mio caro... Questa brutta sventura
non sarebbe forse accaduta."
"Toccava a voi, signor Rodolphe,
quel che dipendeva da me era
servirvi, perché infine, non so
come ciò succeda, già ve l'ho detto,
mi sento come il vostro cane.
Basta... Feci tra me: "Domani è
festa, oggi faccio vacanza, il signor
Rodolphe mi ha pagato le due
giornate che ho perduto, e due
altre anticipate, giacché ne sono
passate tre senza che mi sia fatto
più vedere dal mio capo-facchino,
e non essendo milionario, il lavoro
è il mio pane". Poi soggiungo:
"Alle corte, il signor Rodolphe mi
paga il mio tempo; il mio tempo
gli appartiene, perciò voglio
impiegarlo per lui". Questo mi
fece venire l'idea che adesso vi
spiego: il Maître è furbo, deve aver
paura di una trappola.
Il signor Rodolphe gli proporrà
la faccenda per domani, è vero, ma
il birbone è capace di venire nella
giornata
a
gironzolare
per
esaminare i dintorni, e, se diffida
del signor Rodolphe, chissà non
pensi di portare con sé un altro
ladro, o anche dire: "a domani", e
fare il colpo oggi per suo conto."
"Hai indovinato giusto, così è
appunto
accaduto...
È
la
Provvidenza che ha voluto che io ti
debba la vita!"
"È meraviglioso, signor Rodolphe,
come, dacché vi conosco, mi siano
capitate delle cose che hanno l'aria
d'essere volute dal cielo! E poi mi
balenano certe idee che non ho
mai avuto, dopo che mi diceste:
"Mio caro, tu hai ancora cuore e
onore". Cuore e onore! Fulmini!
Quelle
parole
mi
hanno
rimescolato un non so che nello
stomaco... Già, signor Rodolphe,
quando uno è avvezzo a sentirsi
gridare: "Al lupo! al cane
arrabbiato!"... Quando si ha voglia
solamente di avvicinarsi a gente
dabbene..."
"Sicché, da un po' di tempo ti
vengono dei pensieri che per te
sono nuovi?"
"Certo, signor Rodolphe. Ecco,
andavo avanti dicendo: "Adesso, se
conoscessi qualcuno, che avesse
fatto una cattiva azione, il bere, la
rabbia, gli direi: Amico caro, hai
fatto un errore, va bene... Ma
questo non basta, non per nulla
Domineddio ha creato le persone
che si affogano, che si bruciano o
che crepano di fame... Ora mi farai
un favore, se guadagni quaranta
soldi, di darne venti a qualche
povero vecchio o ai bambini,
insomma, a quelli che, più
tribolati di te, non hanno né pane
né forza... E specialmente non
dimenticare, amico caro, che se c'è
da salvare qualcuno rischiando la
pelle, tocca a te adesso cimentarti!
Facendo questo, e non ritornando
più ai tuoi spropositi, mi troverai
sempre..." Ma scusate, signor
Rodolphe, io ciarlo... e voi siete
curioso..."
"No, mi piace udirti discorrere in
tal modo... Purtroppo tra poco
saprò come è avvenuta la orribile
disgrazia che ha colpito il mio
povero Murph... Mi credevo certo
di non abbandonare d'un passo,
d'un minuto il Maître, in quella
pericolosa impresa... Allora mi
avrebbe ucciso mille volte, prima
di toccare Murph. Ahimè, la sorte
decise altrimenti... Continua mio
caro, continua."
"Deciso dunque ad impiegare il
mio tempo per voi, signor
Rodolphe, ho detto: "Bisogna che
io mi apposti in qualche luogo da
cui vedere le mura, la porta del
giardino, non c'è altro ingresso che
quello... Se trovo una buona
posizione, siccome piove, ci
rimarrò tutta la giornata, la notte
soprattutto, e domattina sarò
pronto". Avevo calcolato così verso
le due a Batignolles, dove ero stato
a mangiare un boccone, quando vi
ho lasciato, signor Rodolphe...
Ritorno agli Champs-Elysées...
Cerco un nascondiglio... Che cosa
vedo? Una piccola taverna a dieci
passi dalla vostra porta... Mi
pianto a terra, presso la finestra,
chiedo un litro ed una manciata di
noci, dicendo che aspetto alcuni
amici, un gobbo ed una donna
alta, così sembra più naturale... Mi
fisso lì, e sto a tener d'occhio la
vostra porta... Pioveva, non
passava nessuno, si faceva notte..."
"Ma"
chiese
Rodolphe,
interrompendo lo Chourineur
"perché non sei venuto da me?"
"Mi avevate detto di tornare la
mattina dopo, signor Rodolphe.
Non ho osato prima. Sarei stato
noioso, importuno, come dicono i
soldati. Prima di tutto, so bene chi
sono io, un forzato liberato; e
quando uno come voi fa con me
come fate voi, signor Rodolphe,
non si deve andar da lui se egli
non ti dice: "Vieni!". Anche se
vedendo un pidocchio sul bavero
dell'abito, ve lo leverei e lo
schiaccerei senza chiedervi il
permesso...
Capite?
Eccomi
dunque alla finestra dell'osteria,
sgusciando le noci e bevendo il
mio vinello, quando, tra la nebbia,
vedo apparire la Chouette con il
bambolo di Bras-Rouge, il piccolo
Tortillard..."
"Bras-Rouge è dunque il padrone
della bettola sotterranea degli
Champs-Elysées?"
domandò
Rodolphe.
"Sì, signor Rodolphe. Non lo
sapevate?"
"No, credevo che abitasse nella
Cité..."
"Sta anche lì, sta dappertutto BrasRouge... È un mariuolo dei più
fini, non dubitate, con la parrucca
gialla e il naso aguzzo! Insomma,
quando
vedo
comparire
la
Chouette e Tortillard, dico tra me:
"Qui l'affare si fa serio!". Difatti,
Tortillard si rannicchia in uno dei
fossi del viale, in faccia alla vostra
porta, come volesse ripararsi
dall'acquazzone e fa la talpa... La
Chouette si leva la cuffia, se la
mette in tasca, e picchia alla porta.
Il povero signor Murph, vostro
amico, viene ad aprire alla guercia,
ed eccola che smania correndo per
il giardino. Mi arrabbiavo a non
poter indovinare ciò che era
venuta a fare la Chouette... Infine
torna fuori, si rimette la cuffia,
dice due parole a Tortillard, che
rientra nella sua buca, e lei se la
svigna...
Eh, dico io, non c'imbrogliamo.
Tortillard è venuto con la
Chouette; il Maître e il signor
Rodolphe sono dunque da BrasRouge. La Chouette è venuta a
tastare il terreno; vogliono dunque
fare il colpo stasera. Se lo fanno
stasera, il signor Rodolphe, che
crede si faccia domani, è tolto di
mezzo. Se il signor Rodolphe è
tolto di mezzo, vado da BrasRouge a vedere che c'è per aria; sì,
ma se intanto arriva il Maître?... È
da pensarci. Allora, tanto peggio,
entrerò in casa, dirò al signor
Murph: "Non vi fidate". Sì, ma
quel briccone di Tortillard che sta
di vedetta alla porta, mi sentirà
suonare, mi vedrà, risveglierà
sospetti alla Chouette; se lei torna,
ti saluto... Tanto più che il signor
Rodolphe avrà forse preso altre
misure per questa sera... Fulmini!
Quei sì, e quei ma, contrastavano
in capo...
Inviperivo, non vedevo altro
che fuoco, non sapevo cosa
decidere.
Pensai: "Andrò fuori, chissà
che l'aria aperta non mi dia
consiglio".
Esco, mi dà consiglio: mi levo
il camiciotto e la cravatta, corro al
fosso di Tortillard, e l'afferro per la
pelle della schiena; ha un bello
sgambettare, graffiarmi e strillare,
lo avvolgo nel mio camiciotto
come in un sacco, ne annodo
un'estremità con le maniche,
l'altra con la mia cravatta,
lasciandogli appena da respirare;
prendo quel fardello sotto il mio
braccio, vedo là vicino un'ortaglia
circondata da un muricciolo: butto
Tortillard in mezzo a un campo di
carote; grugniva forte come un
maialetto, ma a due passi di là non
lo si sentiva più... Fuggo, era
tempo! Mi arrampico sopra uno
dei grossi alberi del viale:
propriamente in faccia alla vostra
porta, sopra il fosso di Tortillard.
Dieci
minuti
dopo,
sento
camminare;
pioveva
sempre.
Faceva così buio, tanto buio che il
diavolo avrebbe viaggiato sulla sua
coda... Sto attento; è la Chouette:
"Tortillard! Tortillard!" domandò
sottovoce. Sì, cerca il tuo
Tortillard! "Piove, al monello sarà
venuto a noia aspettare" disse il
Maître con una bestemmia. "Se
l'acciuffo, lo scortico!"
"Maître" riprese la Chouette
"attento, può darsi che sia venuto
ad avvertirci di qualche cosa. Se
fosse un tranello! L'altro non
voleva fare il colpo che alle dieci."
"È presto" ribatté il Maître "non
sono che le sette. Tu hai visto i
denari... Chi non risica non rosica,
dammi il paletto e lo scalpello...""
"E quegli ordigni?" domandò
Rodolphe.
"Venivano da Bras-Rouge: oh,
ha una casa ben fornita. Con un
niente è forzata la porta. "Sta qui"
ordinò il Maître alla Chouette:
"Attenta, e grida: bada! se senti
qualche cosa."
"Infila lo stiletto ad un occhiello
del tuo panciotto, per poterlo tirar
fuori subito" raccomandò la
guercia. E il Maître entrò nel
giardino. Dico subito tra me: "Il
signor Rodolphe là non c'è; adesso
è morto o è vivo, io non posso
niente, ma gli amici dei nostri
amici sono nostri..." Oh, no,
scusatemi, monsignore!"
"Continua pure... Ebbene?"
""Il Maître può assassinare il
signor Murph, l'amico del signor
Rodolphe, che non s'aspetta
niente. Là sta il guaio!" Salto dal
mio albero, mi avvento sulla
Chouette, la stordisco con due
pugni ben assestati. Lei cade senza
fiatare... Corro nel giardino...
Fulmini, signor Rodolphe, era
troppo tardi!"
"Povero Murph!"
"Sentendo strepito alla porta, era
uscito dal vestibolo; si batteva con
il Maître sulla piccola scala. Già
ferito,
resisteva
ancora
da
valoroso,
senza
chiamare
soccorso. Brav'uomo! Come i
buoni cani, morsicature, non
abbaiamenti... Mi getto in mezzo
ai due, abbrancando il Maître per
un'orecchio, il solo boccone
disponibile in quel momento.
"Viva la Francia, sono io, lo
Chourineur! Levatevi di qui,
signor Murph!"
"Ah! canaglia, di dove sbuchi tu
adesso" mi grida il Maître,
stordito. "Va là, buffone!" gli
rispondo e gli serro una delle
gambe tra le mie ginocchia, lo
piglio per un braccio, era quello
del pugnale, fu una fortuna. "E
Rodolphe?" mi gridava il signor
Murph "e Rodolphe?""
"Bravo,
eccellente
uomo!"
mormorò Rodolphe addolorato.
""Non ne so nulla" faccio io.
"Questo manigoldo l'avrà ucciso."
E raddoppio le botte al Maître, che
cercava di bucarmi con il suo
pugnale; ma mi ero gettato sul suo
braccio, e lui non aveva libero
altro che il pugno. "Siete dunque
solo?" dico al signor Murph,
mentre continuo a battermi con il
Maître. "Qui vicino c'è gente, ma
non ci sentirebbero gridare."
"È lontano?"
"Dieci minuti, non più."
"Chiamiamo aiuto e se passa
qualcuno,
verrà
a
darci
assistenza."
"No, poiché l'abbiamo preso,
conviene tenerlo qui... Ma mi
sento debole, sono ferito" mi disse
il signor Murph. "Fulmini! Allora
correte a cercar soccorso, se avete
tempo. Io tenterò di trattenerlo:
levategli il coltello, aiutatemi
solamente a mettermi addosso a
lui; ancorché sia forte il doppio di
me, una volta che l'ho abbrancato,
ci penso io." Il Maître non faceva
che sbuffare come un bue... Ma
fulmini! Che sforzi! Il signor
Murph non gli poteva strappare il
pugnale, il pugno di quell'uomo
era una morsa. Infine mi riuscì di
passargli due mani dietro al collo e
unirle, come per abbracciarlo.
"Sbrigatevi" grido allora al signor
Murph. "Vi aspetto. Se trovate
qualcuno in aiuto, fate levare la
Chouette dalla porta del giardino,
l'ho stordita." Io resto solo con il
Maître. Egli sapeva quel che
doveva aspettarsi."
"Non lo sapeva! E neppure tu,
amico mio" esclamò Rodolphe,
con aria truce, le sembianze
alterate da quell'espressione dura,
quasi feroce, di cui già si è parlato.
Lo Chourineur attonito rispose
a Rodolphe: "Credevo che se lo
dovesse immaginare, giacché,
fulmini!, non è per vantarmi, ma
c'è stato un momento che
nemmeno io ero nella bambagia.
Mi trovavo mezzo per terra, e
mezzo sull'ultimo gradino della
scala... Avevo le braccia intorno al
suo collo, le mie gote contro le sue
gote. Sentivo stringere i suoi denti.
Faceva buio, pioveva sempre, e la
lampada rimasta nel vestibolo ci
rischiarava un poco. Avevo serrato
una delle sue gambe fra le mie.
Ciò nonostante, quel demonio
aveva le reni tanto forti, che ci
sollevava me e lui due palmi da
terra. Voleva mordermi, ma non
gli riusciva. Non mi ero mai
sentito così forte. Fulmini! Mi
batteva il cuore, ma con buona
intenzione. Dicevo: "Faccio come
uno che si avventa contro un cane
arrabbiato, perché non si getti
sulla gente". "Lasciami scappare, e
non ti farò nulla" mi pregò il
Maître. "Ah, tu sei vile!" rispondo.
"Il tuo coraggio sta tutto nella
forza?
Non
avresti
osato
assassinare il mercante di Poissy
per derubarlo, se fosse stato
solamente forte come me!"
"No" seguitava "ma t'ammazzerò
come lui." Così dicendo, fece uno
sbalzo tanto infuriato e distese
nello stesso tempo le gambe in
maniera, che mi buttò da una
parte, ma tenevo sempre le mani
incrociate sotto la sua testa, e il
suo braccio destro sotto di me.
Una volta che ebbe libere le
gambe, se ne servì da esperto. Ciò
gli rimise animo. Mi rivoltò
sottosopra. Se non gli tenevo
fermo il braccio del pugnale, era
finita per me. In quel momento, il
mio pugno sinistro batté contro
qualcosa; mi toccò slargare le dita.
Fu una sciagura. "Sono sotto"
penso "e lui sopra.
Adesso
m'ammazza.
Che
importa,
preferisco
la
mia
situazione alla sua... Il signor
Rodolphe mi ha detto che ho
cuore ed onore. Sento che è vero."
Ero in quella situazione, quando
scorgo la Chouette affacciarsi sulla
scala, con il suo occhio rotondo e
il suo scialle rosso. Fulmini! Ho
creduto
mi
venisse
l'asma.
"Ninette!" le gridò il Maître. "Mi è
caduto il pugnale; raccattalo... Là,
sotto di lui, e colpisci, in mezzo
alla schiena, fra le due spalle."
"Aspetta, aspetta, Maître, che
possa colpire giusto..." Ed ecco la
Chouette che ci cammina attorno,
ci gira attorno come un uccello del
malaugurio... Finalmente vede il
pugnale. Corre per prenderlo. Io,
che ero sempre steso sul Maître, le
appioppo con il calcagno un colpo
nello stomaco, e la rovescio, ma lei
si rialza, si accanisce. Non ne
potevo più. Mi aggrappavo ancora
al Maître, ma lui, da sotto, mi dava
colpi tanto forti sulle mascelle,
che
stavo
per
lasciarlo.
Cominciavo a stordirmi, quando
vedo tre o quattro gagliardi bene
armati che salgono di volata le
scale... Il signor Murph, tutto
pallido, si sosteneva appena al
braccio
del
dottore.
Si
impadroniscono del Maître e della
Chouette, e li legano come salami.
Non è tutto. Volevo il signor
Rodolphe. Salto addosso alla
Chouette, mi viene in mente il
dente della Goualeuse, le afferro
un braccio e glielo torco, dicendo:
"Dov'è il signor Rodolphe?". Lei
sta zitta. Le dò un secondo
strattone. Allora grida: "Da BrasRouge, nella cantina, al Cuore
Sanguinante". Bene. Passando
voglio prendere Tortillard dal
campo delle carote: era la mia
strada. Guardo... non c'è altro che
il
mio
camiciotto.
L'aveva
rosicchiato con i denti. Arrivo al
Cuore Sanguinante, salto alla gola
di Bras-Rouge. "Dove è il
giovanotto che è stato qui stasera
con il Maître?"
"Non stringermi così forte, te lo
dirò: gli ha voluto fare una burla,
l'ha chiuso nella mia cantina:
andremo ad aprirgli." Scendiamo,
nessuno...
"Sarà uscito mentre avevo le
spalle voltate" disse allora BrasRouge. "Vedi bene che non c'è
nessuno." Me ne andai tutto
mesto, quando al bagliore della
lanterna scorgo un'altra porta.
Corro, tiro a me, ricevo un bel
secchio d'acqua sul capo. Vedo le
vostre due povere braccia in aria.
Vi ripesco e vi porto qui sulle mie
spalle, poiché non c'era nessuno
da mandare per carrozza. Ecco
tutto, signor Rodolphe, e posso
ben dire, senza vantarmi, che sono
proprio contento..."
"Mio caro, ti devo la vita... È un
debito, lo soddisferò, stanne certo,
e in tutti i modi... Tu hai tanto
cuore,
che
comprenderai
i
sentimenti che mi animano in
questo momento... Io provo una
terribile inquietudine per l'amico
che salvasti così valorosamente, e
un bisogno di feroce vendetta
contro colui che fu in procinto di
ucciderci tutti e due."
"Comprendo
tutto,
signor
Rodolphe... Saltarvi addosso a
tradimento, gettarvi in una
cantina e portarvi svenuto nel
sotterraneo per farvi affogare...
Merita una lezione, il Maître... Mi
ha
confessato
che
aveva
assassinato il mercante di buoi. Io
non sono cattivo, ma, fulmini!
Andrei volentieri a chiamare una
guardia e farlo arrestare, il
brigante!"
"David, volete andare a procurarvi
notizie di Murph?" domandò
Rodolphe senza rispondere allo
Chourineur. "Tornerete subito." Il
nero uscì.
"Sai dov'è il Maître, mio caro?"
"In una stanza al pianterreno con
la Chouette. Volete mandar forse a
chiamare la pattuglia, signor
Rodolphe?"
"No!"
"Vorreste forse lasciarlo andare?!
Ah, signor Rodolphe, non fate una
cosa simile. Ve lo ripeto ancora, è
un cane arrabbiato. Guai a quelli
che passano!"
"Non morderà più nessuno, sta'
sicuro."
"Volete dunque rinchiuderlo in
qualche luogo?"
"No! Fra mezz'ora egli uscirà di
qui."
"Il Maître?"
"Sì..."
"Senza gendarmi?"
"Sì..."
"Come! Uscirà libero da qui?"
"Libero..."
"E da solo?"
"Sì, da solo."
"Ma dunque andrà via..."
"Dove vorrà" disse Rodolphe, con
un amaro sorriso, che spaventò lo
Chourineur.
Entrò il nero.
"Ebbene, David? E Murph?"
"Dorme, monsignore" rispose
mestamente il medico. "Ha il
respiro ancora faticoso."
"Sempre in pericolo?"
"Il suo stato è gravissimo,
monsignore. Tuttavia bisogna
sperare..."
"Oh, Murph, vendetta, vendetta!"
gridò Rodolphe con un furore
concentrato.
Quindi aggiunse: "David, una
parola..." E parlò all'orecchio del
nero. Questo trasalì.
"Voi
esitate?"
gli
disse
Rodolphe. "Vi ho già parlato
spesso di questa mia idea... Il
momento
di
metterla
in
esecuzione è venuto."
"Io non esito, monsignore...
Questa idea, l'approvo... Racchiude
una completa riforma penale
degna d'esame da parte dei grandi
criminalisti, perché la pena
sarebbe a un tempo semplice,
terribile e giusta... Nel caso attuale
è applicabile. Senza numerare i
delitti per cui fu mandato al bagno
penale per tutta la vita, ha tentato
tre omicidi: il mercante di buoi,
Murph, e voi. Sarà giustizia..."
"Ed
avrà
sempre
davanti
l'orizzonte senza limite del
pentimento" aggiunse Rodolphe.
"Bene,
David,
voi
mi
comprendete..."
"Monsignore, noi concorreremo
allo stesso scopo." Dopo un breve
silenzio, Rodolphe continuò: "In
seguito, David, cinquemila franchi
gli basteranno?"
"Sì, certo, monsignore..."
"Mio caro" disse Rodolphe allo
Chourineur stupito "devo dire due
parole al signore. Intanto va' nella
stanza qui accanto... Troverai un
gran portafoglio rosso sopra lo
scrittoio. Prendi cinque biglietti da
mille franchi e portameli qui..."
"E per chi i cinquemila franchi?"
domandò
lo
Chourineur
stupefatto.
"Per il Maître, e ordinerai nello
stesso tempo che lo conducano
qui..."
21.
La punizione.
La scena ha luogo in un salotto
parato di rosso, bene illuminato.
Rodolphe, con una lunga veste da
camera di velluto nero, che
accresce maggiormente il pallore
del suo volto, è seduto davanti a
una gran tavola coperta da un
tappeto. Su questa si vedono due
portafogli, quello che fu rubato a
Tom dal Maître nella Cité, e l'altro
che
apparteneva
a
questo
scellerato; la collana di similoro
della Chouette, a cui è appeso il
piccolo Spirito Santo, lo stiletto
ancora insanguinato con cui
Murph è stato ferito, il paletto di
ferro che è servito alla rottura
della porta, e finalmente i cinque
biglietti da mille franchi che lo
Chourineur è andato a prendere
nella stanza vicina.
Il medico nero è seduto da una
parte della tavola, e lo Chourineur
dall'altra.
Il
Maître,
legato
strettamente in modo da non
poter muoversi, giace in una gran
poltrona con le ruote, in mezzo del
salotto. Gli uomini che ve l'hanno
condotto
si
sono
ritirati.
Rodolphe,
il
medico,
lo
Chourineur e l'ex galeotto restano
soli. Rodolphe non è più irritato; è
tranquillo, mesto e aggressivo. Il
medico è pensoso. Lo Chourineur
prova un vago timore; non può
staccare i suoi occhi da quelli di
Rodolphe. Il Maître è livido,
atterrito. Un arresto legale gli
sarebbe forse sembrato meno
terribile, la sua audacia non
l'avrebbe abbandonato davanti a
un tribunale ordinario, ma ciò che
adesso ha intorno lo sorprende, lo
spaventa. Egli è in potere di
Rodolphe, che prima considerava
come un artigiano capace di
tradire o di vacillare al momento
del delitto, e che aveva deciso di
sacrificare per approfittare lui solo
del furto. Ora Rodolphe gli appare
terribile, imponente come la
giustizia. Il più profondo silenzio
regna fuori. Si ode soltanto lo
scroscio della pioggia che cade, e
scroscia giù dal tetto sul selciato.
Rodolphe si rivolge al Maître:
"Evaso dal bagno penale di
Rochefort,
dove
eravate
condannato a vita, per crimini di
falsificazione, furto e omicidio, voi
siete Anselme Duresnel."
"È falso, che lo si provi!" dice il
Maître con voce alterata, girando
intorno il suo sguardo selvaggio e
inquieto.
"Come!" grida lo Chourineur.
"Non
eravamo
insieme
a
Rochefort?" Rodolphe fece un
cenno allo Chourineur, che
tacque, poi continuò: "Voi siete
Anselme Duresnel, più tardi ne
converrete... Avete assassinato e
svaligiato
un
mercante
di
bestiame sulla strada di Poissy."
"È falso!"
"Ne converrete più tardi." Il
bandito osservava con stupore
Rodolphe.
"Questa
notte
vi
siete
introdotto qui per rubare: avete
pugnalato il padrone di questa
casa..."
"Siete voi che mi avete proposto
questo furto" replicò il Maître
prendendo un po' di sicurezza.
"Fui assalito, mi difesi."
"L'uomo che avete colpito non vi
aveva assalito. Era senza armi! Vi
proposi il furto, è vero... Vi dirò in
seguito a quale fine. La sera
prima, dopo avere spogliato un
uomo ed una donna nella Cité,
dopo aver rubato loro questo
portafoglio, vi siete offerto di
uccidermi per mille franchi!"
"E lo sentii io" testimoniò lo
Chourineur. Il Maître gli lanciò
un'occhiata
di
odio
feroce.
Rodolphe
soggiunse: "Vedete
dunque che non avevate bisogno
delle
mie
tentazioni
per
commettere delitti!"
"Voi non siete un giudice, non vi
risponderò più."
"Ecco perché vi avevo proposto
quel furto. Vi sapevo evaso dal
bagno penale, conoscete i genitori
di una disgraziata alla quale la
Chouette, vostra complice, ha
causato un mucchio di sventure.
Volevo tirarvi qui con la speranza
d'un furto, che è la sola capace di
sedurvi. Una volta in mio potere vi
lasciavo la scelta o d'essere
consegnato in mano alla giustizia,
che vi farebbe pagare con la testa
l'assassinio del mercante di
bestiame..."
"È falso! Non sono stato io."
"... o essere esiliato fuori di
Francia, per mezzo mio, in un
luogo di reclusione perpetua, a
patto
che
mi
forniste
le
informazioni che volevo avere. Voi
siete condannato a vita, siete un
evaso. Impossessandomi di voi e
mettendovi nell'impossibilità di
nuocere, avrei fatto cosa utile alla
società, e per mezzo delle vostre
confessioni avrei avuto modo di
rendere forse la sua famiglia ad
una
povera
creatura,
più
sventurata che colpevole. Tale era,
da principio, il mio progetto; non
era legale, ma voi, per la fuga e i
delitti commessi, siete fuori della
legge... Ieri, una rivelazione
provvidenziale mi palesò il vostro
vero nome."
"È falso! Io non mi chiamo
Duresnel." Rodolphe prese dalla
tavola la collana della Chouette, e
mostrando al Maître il piccolo
Spirito Santo: "Sacrilego" gridò
con voce minacciosa. "Avete
prostituito regalandola ad una
creatura infame questa reliquia
santa, tre volte santa, perché
vostro figlio ereditava questo pio
dono da sua madre e da sua
nonna!" Il Maître, meravigliato di
quella scoperta, chinò il capo
senza rispondere.
"Seppi ieri che da quindici anni
avevate tolto vostro figlio a sua
madre e che siete il solo a
conoscere il segreto della sua
esistenza. Questo nuovo misfatto
fu un motivo di più per
impadronirmi di voi; senza parlare
di quello che riguarda me
personalmente, e di cui non
reclamo
per
ora
nessuna
vendetta... Questa notte spargeste
sangue
senza
provocazione.
L'uomo che assassinaste vi si era
fatto incontro con fiducia, non
sospettando del vostro istinto
sanguinario. Vi ha domandato,
cosa volevate: "Il tuo denaro e la
tua vita!" e gli avete inferto un
colpo di pugnale."
"Tale è il racconto del signor
Murph, quando gli ho prestato i
primi soccorsi" disse il medico.
"È falso, ha mentito."
"Murph non mente mai" disse
freddamente Rodolphe. "I vostri
delitti esigono palese riparazione.
Vi siete introdotto a mano armata
in
questo
giardino,
avete
pugnalato un uomo per derubarlo,
avete
commesso
un
altro
assassinio. Dovete morire qui. Per
pietà della vostra consorte e di
vostro figlio vi risparmierò
l'obbrobrio del patibolo. Si dirà
che siete rimasto ucciso in una
rissa a mano armata. Preparatevi,
le
armi
sono
cariche."
L'espressione di Rodolphe era
implacabile. Il Maître aveva visto
in una stanza per cui era passato
due uomini armati di carabina. Il
suo nome era noto: pensò che si
volessero sbarazzare di lui per
seppellire nell'ombra i suoi ultimi
misfatti e risparmiare un nuovo
scandalo alla sua famiglia. Al pari
di tutti i suoi simili, fu tanto vile
quanto era stato feroce. Credendo
giunta la sua ultima ora, cadde in
preda a un tremito; gli si
sbiancarono le labbra, poi con
voce affannosa supplicò: "Grazia!"
"Non c'è grazia per voi" gridò
Rodolphe. "Se, qui, non vi uccidete
da solo, vi attende il patibolo."
"Preferisco il patibolo... Vivrò
almeno altri due o tre mesi. Che
v'importa, poiché dopo sarò
punito! Grazia, grazia..."
"Ma vostra moglie, vostro figlio...
Essi portano il vostro nome..."
"Il mio nome è già disonorato...
Anche se non fosse che per otto
giorni, grazia!"
"Neppure quel disprezzo della vita
che talvolta si trova nei più grandi
delinquenti!" esclamò Rodolphe
con ribrezzo.
"E poi la legge proibisce di farsi
giustizia da sé" disse il Maître
assurdamente.
"La legge!" gridò Rodolphe. "La
legge!... Voi osate invocare la
legge, voi, che da venti anni siete
in aperta ed armata ribellione
contro la società?" Il Maître
abbassò la testa senza rispondere,
poi disse con voce umile:
"Almeno, per pietà, lasciatemi
vivere."
"Mi direte dov'è vostro figlio?"
"Sì, sì, dirò tutto quel che so."
"Mi rivelerete quali siano i
genitori di quella giovane che
nell'infanzia fu maltrattata dalla
Chouette?"
"Là, nel mio portafoglio, vi sono
delle carte che vi metteranno sulle
tracce. Pare che sua madre sia una
grande dama."
"Dov'è vostro figlio?"
"Mi lascerete vivere?"
"Confessate prima tutto..."
"Ma quando saprete" disse il
Maître titubante.
"Tu l'hai ucciso!"
"No, no, lo consegnai ad uno dei
miei complici che, quando fui
arrestato, riuscì a scappare."
"E che ne ha fatto?"
"L'ha allevato, gli ha dato le
istruzioni necessarie per entrare
in commercio, per servircene... Ma
non dirò altro, a meno che mi
promettiate di non uccidermi."
"Dei patti, miserabile!"
"Ebbene no, no, ma pietà! Fatemi
solamente arrestare per il delitto
di stanotte, non parlate dell'altro.
Lasciatemi la possibilità di
salvarmi la testa."
"Vuoi dunque vivere?"
"Oh, sì, sì... Chissà? Non si può
prevedere quel che può avvenire"
disse
involontariamente
il
furfante. Sognava già la possibilità
d'una nuova evasione.
"Vuoi vivere a qualunque
costo, vivere?"
"Sì, vivere, anche se fossi alla
catena! Per un mese, per otto
giorni. Oh, che io non muoia
subito!"
"Confessa i tuoi delitti e vivrai."
"Vivrò? Oh, davvero? Vivrò?"
"Ascolta: per pietà di tua moglie,
per tuo figlio, voglio darti un
saggio consiglio: muori oggi,
muori..."
"Oh, no, no, non ritirate la vostra
promessa, lasciatemi vivere...
L'esistenza più triste, la più
orribile, è un nulla a paragone
della morte."
"Tu lo vuoi?"
"Oh, sì, sì..."
"Tu lo vuoi?"
"Oh, non me ne lagnerò mai."
"E tuo figlio, che ne facesti?"
"Il mio amico, di cui vi parlai, gli
ha fatto imparare la tenuta dei
libri per impiegarlo in qualche
istituto bancario, affinché potesse
informarci su certe cose. Si era
convenuto tra noi. Sebbene fossi a
Rochefort, aspettando di scappare,
pure dirigevo il piano di questa
impresa, trattando in gergo
cifrato."
"Quest'uomo mi spaventa!" gridò
Rodolphe fremendo. "Vi sono
misfatti che non si sospettano
neppure. Confessa, confessa...
Perché volevi che il fanciullo
lavorasse da un banchiere?"
"Per..., mi capite bene?, d'accordo
con noi, senza far mostra di nulla,
acquistare la fiducia del banchiere,
assecondarmi, e..."
"Oh mio Dio, suo figlio, suo
figlio!" esclamò Rodolphe, con
grande orrore, nascondendosi il
viso tra le mani.
"Ma non si trattava d'altro che
di una falsificazione!" seguitò il
Maître. "Quando gli fu spiegato
quel che si attendeva da lui, mio
figlio si sdegnò. Dopo un fiero
alterco con la persona che l'aveva
educato per i nostri progetti, sparì.
Saranno ormai diciotto mesi.
Dopo di allora non si sa che ne sia
stato... Vedrete là, nel mio
portafoglio, l'indicazione delle
indagini fatte da quella persona
per ritrovarlo, per paura che
denunciasse il complotto. Ma a
Parigi se n'è perduta qualunque
traccia. L'ultima casa che ha
abitato è in rue du Temple 14,
sotto il nome di François
Germain: l'indirizzo è nel mio
taccuino. Ecco, ho detto tutto,
tutto... Mantenete la vostra
promessa,
fatemi
soltanto
arrestare per il furto di questa
notte."
"E il mercante di bestiame di
Poissy?"
"È impossibile che lo si scopra,
non ci sono prove. Posso
ammetterlo con voi per mostrarvi
la mia disponibilità, ma davanti al
giudice, negherei."
"Dunque confessi?"
"Ero in miseria, non sapevo come
campare. Fu la Chouette a
trascinarmi. Ora me ne pento. Voi
lo vedete, giacché lo confesso. Ah,
se foste tanto generoso da non
consegnarmi alla giustizia, vi darei
la mia parola d'onore di mai più
ricominciare."
"Vivrai, e non ti consegnerò alla
giustizia."
"Mi perdonate?" esclamò il
Maître, non potendo credere a
quanto udiva.
"Voi mi perdonate?"
"Ti giudico, e ti punisco!" gridò
Rodolphe con voce tonante. "Non
ti consegnerò ai tribunali, perché
andresti in galera o sulla forca, e
non è questo quel che voglio, no,
non è questo. In galera! Per
primeggiare ancora su quella
gentaglia con la tua forza e le tue
scelleratezze? Per continuare a
soddisfare il tuo istinto brutale di
dominazione?
Per
essere
abborrito, temuto da tutti, giacché
anche il delitto ha il suo fascino, e
tu te ne rallegri nella tua
mostruosità... In galera no, no: il
tuo ferreo corpo sfida le fatiche
della galera ed il bastone degli
aguzzini. E poi, le catene si
spezzano, le mura si forano, i
bastioni si scalano, e un giorno
torneresti
ad
evadere
per
avventarti di nuovo contro la
società come una belva arrabbiata,
spargendo, dovunque passassi,
rapine e assassinii... Perché nulla
può salvarsi dalla tua forza
d'Ercole e dal tuo coltello. Non
dev'essere così, no, non deve
essere!
Poiché
in
prigione
spezzeresti la catena, per tornare a
minacciare la società con il tuo
furore. Che
si
può
fare?
Abbandonarti al carnefice?"
"Ma dunque volete la mia morte?"
gemette il delinquente. "Volete la
mia morte?"
"La morte? Non sperarla. Sei
troppo vile, la temi tanto, la morte,
che mai riusciresti ad affrontarla!
Nel tuo attaccamento alla vita, nel
tuo sperare così ostinato, ti
sottrarresti alle angosce del suo
terribile avvicinarsi... Speranza
stolta, insensata, sarebbe la tua,
ma che ti celerebbe l'orrore
espiatore del supplizio: tu non ci
crederesti se non sotto le unghie
del boia! E allora, istupidito dal
terrore, non saresti altro che una
massa inerte, che si offrirebbe in
olocausto. Non deve essere così.
Fino all'ultimo saresti illuso di
salvarti. A te le speranze, mostro?
Come può la speranza venire, con
le sue soavi e consolanti illusioni,
a pascerti, a bearti, sinché il
timore estremo ti oscura le
pupille? No! Troppo ne riderebbe
il vecchio Satana! Se non ti penti,
io non voglio più che tu speri in
questa vita, io..."
"Ma che ho fatto a quest'uomo?
Chi è mai? Che vuole da me? Dove
sono?" urlò il Maître, quasi in
delirio. Rodolphe continuò: "E se
tu affrontassi audacemente la
morte,
nemmeno
allora
si
dovrebbe
abbandonarti
al
supplizio. Per te il patibolo
sarebbe un palco dove, come molti
altri, faresti sfoggio della tua
ferocia, e non valutando la tua
misera vita, danneresti l'anima tua
con
un'ultima
bestemmia!
Neppure questo deve essere! Non
è bene per il popolo vedere il
condannato scherzare con il
patibolo, schernire il carnefice,
soffiare, dileggiando, sulla divina
scintilla che in noi pose il
Creatore. È cosa sacra la salvezza
di un'anima... Qualunque delitto si
sconta, disse il Salvatore, ma per
chi vuole sinceramente espiazione
e pentimento. Dal tribunale alla
ghigliottina è troppo breve il
tragitto. Tu non devi morire così!"
Il Maître era annientato. Per la
prima volta vi fu qualche cosa che
lo atterriva più della morte. Quel
vago timore era orribile. Il dottore
e lo Chourineur guardavano con
angoscia Rodolphe. Ascoltavano,
raccapricciati, le parole dure,
risolute, spietate come il ferro di
una scure; si sentivano stringere il
cuore dolorosamente. Rodolphe
proseguì: "Anselme Duresnel, tu
non andrai in galera, non morrai
più!"
"Ma che pretendete da me? Vi ha
forse mandato l'inferno?"
"Ascoltami"
disse
Rodolphe,
levatosi in piedi, con atto solenne,
con gesto autorevole. "Tu abusasti
criminalmente della tua forza, ed
io paralizzerò la tua forza. I più
robusti tremavano davanti a te, e
tu tremerai davanti ai più deboli.
Assassino, tu immergesti nella
notte eterna molte creature di Dio,
e
le
tenebre
dell'eternità
cominceranno per te in questa
vita. Oggi stesso, a momenti, il tuo
castigo sarà pari ai tuoi misfatti.
Ma" aggiunse con una specie di
dolorosa compassione "questo
castigo spaventoso ti lascerà
almeno
l'illimitato
orizzonte
dell'espiazione. Io sarei reo come
te, se nel punirti appagassi
soltanto una vendetta, per quanto
giusta fosse. Per non essere
sterile, quale sarebbe con la tua
morte, la tua punizione dev'essere
feconda; invece di dannarti, può
farti rimettere le colpe. Se per
toglierti la possibilità di nuocere,
ti privo per sempre della bellezza
della vita, se ti piombo in un buio
impenetrabile, solo, con il ricordo
dei tuoi delitti, è perché tu ne
possa meditare incessantemente
l'enormità. Sì, isolato per sempre
dal mondo esterno sarai costretto
a guardare sempre in te stesso...
Ed allora, io lo spero, la tua fronte,
annerita dall'infamia, arrossirà di
vergogna, l'anima tua, indurita
dall'atrocità, corrosa dal delitto, si
farà
mansueta
per
la
commiserazione. Ogni tuo detto fu
una bestemmia, ogni tua parola
sarà una preghiera. Tu sei ardito e
crudele perché sei forte, sarai
docile ed umile, essendo debole. Il
tuo
cuore
è
chiuso
al
ravvedimento, un giorno piangerai
le
tue
vittime.
Degradasti
l'intelligenza che Dio ti aveva dato,
la riducesti a solo istinto di furto e
di massacri, da uomo ti facesti
bestia selvaggia. Un giorno la tua
intelligenza acquisterà nuova
tempra grazie al rimorso, risorgerà
per
l'espiazione.
Neppure
rispettasti ciò che rispettano le
belve: la loro femmina, i loro
figli... Dopo una lunga esistenza
consacrata alla redenzione delle
tue colpe, l'ultima tua preghiera
sarà per supplicare Dio di
concederti la non sperata felicità
di morire fra tua moglie e tuo
figlio." Proferendo queste ultime
parole, la voce di Rodolphe si era
estremamente alterata. Il Maître
non provava quasi più alcun
terrore. Pensò che si fosse voluto
spaventarlo prima di arrivare a
tutta
quella
morale.
Quasi
riconfortato dal tono ormai più
dolce del suo giudice, egli,
divenendo
insolente,
quanto
prima era avvilito, disse ridendo
grossolanamente: "Ma che si fa,
siamo forse al catechismo? O
stiamo
a
giocare
con
gli
indovinelli?" Il nero guardò
Rodolphe con inquietudine; si
aspettava di vederlo infuriare di
nuovo. Non fu così. Rodolphe
scosse la testa con ineffabile
espressione di mestizia, poi disse
al medico: "David, eseguite, e Dio
punisca me solo, se sbaglio!"
Quindi si nascose la faccia fra le
mani. A quelle parole: "David,
eseguite!"
il
nero
suonò.
Entrarono due uomini vestiti di
nero. Il dottore accennò loro la
porta
di
uno
stanzino.
Trasportarono là il seggiolone a
cui era legato, senza poter fare
alcun movimento, il Maître
d'école. La sua testa era fissata alla
spalliera con una sciarpa che gli
attorniava il collo e le spalle.
"Fissategli anche la fronte alla
poltrona con un fazzoletto, e
mettetegli l'altro come bavaglio"
ordinò David senza entrare nello
stanzino.
"Volete scannarmi? Grazia!"
urlò il Maître. "Grazia!" Poi non
s'intese più nulla, tranne un
mormorio confuso. I due servi
ricomparvero. Il dottore fece loro
un cenno, ed essi se ne andarono.
"Monsignore?" domandò per
l'ultima volta il nero a Rodolphe.
"Fate!" rispose senza cambiar
posizione. David entrò lentamente
nello stanzino.
"Signor Rodolphe, ho paura"
disse lo Chourineur, pallido e con
voce
tremante.
"Sì,
signor
Rodolphe, parlatemi, vi prego, ho
paura... È forse un sogno? Ma che
gli fa il nero, al Maître? Signor
Rodolphe, non si sente niente.
Questo mi fa ancora più paura."
David uscì dallo stanzino; era
pallido come lo diventano i neri,
bianche
le
labbra.
Suonò.
Tornarono i due uomini.
"Riportate il seggiolone." Fu
ricondotto il Maître d'école.
"Levategli il bavaglio." Gli fu
tolto.
"Ma volete mettermi alla
tortura?" esclamò il Maître con
più rabbia che dolore. "Perché
divertirvi a pungermi gli occhi? Mi
avete
fatto
male.
È
per
martirizzarmi ancora nell'ombra,
che avete spento le luci anche qui,
come là dentro." Vi fu un
momento di terribile silenzio.
"Siete cieco" gli disse infine
David, con voce commossa.
"Non è vero, non è possibile!
Avete fatto scuro apposta!" gridò il
bandito,
dibattendosi
sul
seggiolone.
"Scioglietelo; che si alzi, che
cammini" ordinò Rodolphe. I due
uomini tolsero i legami al Maître.
Il Maître si levò con impeto, fece
un passo protendendo le mani, e
indi ricadde sulla poltrona,
stendendo al cielo le braccia.
"David,
dategli
questo
portafoglio!" disse Rodolphe. Il
nero pose nelle mani tremanti del
Maître un piccolo portafoglio.
"Vi è denaro abbastanza per
assicurarti ricovero e pane sino
alla fine dei tuoi giorni in qualche
luogo solitario. Ora sei libero,
vattene, e pentiti... il Signore è
misericordioso!"
"Cieco!"
ripeté
il
Maître,
stringendo meccanicamente il
portafoglio nelle mani.
"Aprite! Che se ne vada!" disse
Rodolphe. Si schiusero le porte
con strepito.
"Cieco! cieco!" ripeté l'altro
atterrito. "Mio Dio! È dunque
vero?"
"Sei libero, hai denari, vattene!"
"Ma non posso andarmene! Come
devo fare? Non ci vedo!" gridò
disperato. "È un delitto orribile
abusare così della forza per..."
"È un delitto abusare della forza!"
lo interruppe Rodolphe con le
stesse sue parole. "E tu della tua
che ne facesti?"
"Oh, la morte... Sì, avrei preferito
la morte! Essere a discrezione di
tutti, aver timore di tutto... Anche
un bambino potrebbe picchiarmi...
Che farò? Mio Dio, mio Dio, che
farò?"
"Tu hai denaro."
"Me lo ruberanno."
"Te lo ruberanno! Attento a quello
che dici, tu che parli ora pieno di
timore, tu, che tanto rubasti...
Vattene!"
"Per l'amor di Dio" proseguì il
Maître
d'école,
in
tono
supplichevole "qualcuno mi guidi!
Come camminerò per le strade?
Ah, uccidetemi! Ecco, uccidetemi!
Ve
lo
chiedo
per
pietà,
uccidetemi!"
"No! Un giorno ti pentirai!"
"Mai mi pentirò, no! mai!" urlò il
Maître,
esacerbato.
"Mi
vendicherò. Sì, mi vendicherò!" E,
digrignando i denti, si levò dalla
poltrona, e serrò i pugni in atto di
minaccia. Ma inciampò al primo
passo.
"No, non posso... Eppure
essere tanto forte! Ah, sono pur da
compiangere!
Nessuno
ha
compassione di me, nessuno!" E
pianse. È impossibile dipingere lo
spavento e lo stupore dello
Chourineur tutto il tempo che
durò quella scena. Sul suo volto
sempre impassibile si leggeva una
enorme
commiserazione.
Accostatosi a Rodolphe, gli disse
piano: "Signor Rodolphe, costui ha
quel che si merita, era un gran
mascalzone! Anche poco fa mi
voleva ammazzare... Ma, adesso è
cieco e piange... Ecco, fulmini!, mi
fa male vederlo... Non sa come
andar via, per la strada potrebbe
restare schiacciato... Volete che io
lo porti in qualche posto dove
almeno
possa
starsene
tranquillo?"
"Va' pure" rispose Rodolphe,
commosso da tanta generosità, e
stringendo
la
mano
allo
Chourineur
"va'
pure."
Lo
Chourineur si avvicinò al Maître
d'école e gli mise la mano sulla
spalla. Il cieco trasalì.
"Chi mi tocca?"
"Io."
"Chi sei tu?"
"Lo Chourineur."
"Vieni anche tu a vendicarti?"
"Non sai come uscire? Attaccati al
mio braccio, ti aiuterò."
"Tu? Tu?"
"Sì, ora mi fai compassione...
Vieni!"
"Vuoi
prepararmi
qualche
inganno?"
"Sai che non sono un vile... Non
approfitterei della tua disgrazia...
Animo, partiamo, fa quasi giorno."
"Giorno! Ah, non vedrò mai più
quando fa giorno, io!" Rodolphe
non poté più sopportare quella
scena, e si ritirò bruscamente
seguito da David, accennando ai
due servi che si allontanassero. Lo
Chourineur e il Maître rimasero
soli.
"È vero che ci sono dei denari
nel portafogli che mi hanno dato?"
domandò lo scellerato, dopo un
lungo silenzio.
"Sì, io stesso ci ho messo
cinquemila franchi. Con questi ti
puoi mettere in pensione, in
qualche luogo di campagna, per
tutto il resto della tua vita...
Oppure vuoi che io ti conduca
dall'Orca?"
"No! Me li ruberebbe."
"Da Bras-Rouge?"
"Mi
darebbe
veleno
per
spogliarmi."
"Dunque, dove ti devo condurre?"
"Non so, tu non sei ladro... To',
nascondi bene il portafogli nella
mia giacchetta, ché la Chouette
non lo veda! Me lo ruberebbe."
"La Chouette? L'hanno portata
all'ospedale di Beaujon; stanotte,
quando mi battevo con voi due, le
ho spezzato una gamba."
"Ma che sarà di me? Mio Dio, con
questo velo nero sempre davanti...
E sopra quel velo nero le figure
pallide e meste di quelle..." Trasalì,
e domandò allo Chourineur:
"L'uomo di stanotte è morto?"
"No."
"Meglio così!" Tacque per un
istante, poi d'un tratto esclamò,
trasportato
dall'ira:
"Eppure,
Chourineur, sei tu la causa di tutto
questo! Farabutto! Senza di te,
ammazzavo quell'uomo, portavo
via un sacco di quattrini... Se sono
cieco, è colpa tua! colpa tua!"
"Non ci pensare più, ti guasti la
salute... Insomma, vieni sì, o no?
Sono stanco, voglio dormire... Ci
siamo
dannati
abbastanza!
Domani torno al lavoro della
legna. Tl conduco adesso dove ti
pare, e poi vado a coricarmi."
"Ma non so dove andare... Nella
mia camera ammobiliata non oso.
Bisognerebbe..."
"Dunque sentimi: vuoi per un
giorno o due venire nella mia
stamberga? E poi forse ti troverò
delle persone dabbene che, non
sapendo chi tu sia, ti piglieranno a
pensione, come un infermo... C'è
per l'appunto un uomo del porto
Saint-Nicolas che conosco, la cui
madre sta a Saint-Mandé, una
brava donna che non ha molti
mezzi... Chissà che non possa
incaricarsi lei di te... Sicché, vieni
o resti?"
"Di
te
mi
posso
fidare,
Chourineur... Non ho paura di
venire da te con il mio denaro...
Non hai mai rubato, non sei
cattivo, sei generoso!"
"Animo, va bene... Basta con gli
elogi!"
"È che ti sono grato per ciò che fai
per me. Chourineur, tu non hai
odio né rancore tu..." seguitò il
brigante, con grande umiltà "sei
meglio di me."
"Fulmini, lo credo bene! Lo ha
detto il signor Rodolphe che avevo
cuore e onore."
"Ma che uomo è quello? Non è un
uomo!"
gridò
il
Maître,
infuriandosi di nuovo. "È un boia,
un mostro!" Lo Chourineur si
strinse nelle spalle, e disse: "Si va
o non si va?"
"Andiamo da te, non è vero,
Chourineur?"
"Sì."
"Non sei in collera per l'affare di
stanotte? Me lo giuri, non è vero?"
"Sì."
"E sei certo che non sia morto,
quello?"
"Ne sono sicuro."
"Sarà sempre uno di meno!" disse
il Maître con voce truce. E
appoggiandosi al braccio dello
Chourineur, abbandonò la casa
dell'allée des Veuves.
PARTE SECONDA.
1.
Ile-Adam.
Noi condurremo il lettore nella
piccola città d'Ile-Adam, situata in
un luogo ameno sulla riva del
fiume Oise ai margini di una
foresta. Era trascorso un mese
dagli avvenimenti narrati. In
provincia i minimi fatterelli
divengono cose gravissime, e
quindi i fannulloni e oziosi di IleAdam, che passeggiavano quella
mattina sulla piazza della chiesa,
morivano dalla voglia di sapere
quando
sarebbe
arrivato
il
compratore del più bel negozio di
macelleria, recentemente ceduto
dalla vedova Dumont alla quale
apparteneva. L'acquirente senza
dubbio era ricco, giacché aveva
fatto sfarzosamente dipingere e
addobbare la bottega. Da tre
settimane gli artigiani vi avevano
lavorato notte e giorno. Un solido
cancello di bronzo guarnito d'oro
impediva l'entrata, e la proteggeva,
lasciando circolare l'aria: ai due
lati larghi pilastri, con in cima due
grosse teste di toro dorate,
sostenevano il vasto cornicione
destinato a collocarvi l'insegna. Il
resto della piccola casa a un piano,
era stato tinto di color sasso, e le
persiane di grigio chiaro. Tutto era
pronto, salvo l'insegna in vetrina,
che era attesa con impazienza
dagli scioperati, bramosi di
conoscere il nome del successore
della vedova. Alla fine fu portato
un gran cartellone, e tutti
poterono leggere a caratteri grandi
dorati,
in
campo
nero:
FRANCOEUR, MACELLAIO La
curiosità degli oziosi di Ile-Adam
non fu che in parte soddisfatta da
quella scoperta. Chi era questo
Francoeur? Uno dei più curiosi
andò a informarsene dal garzone
della macelleria, giovane d'aspetto
allegro e di spalle robuste, che
stava mettendo in ordine tutto
l'occorrente. Questi, interrogato
relativamente al suo padrone,
signor Francoeur, rispose che
ancora non lo conosceva, perché
l'acquisto del negozio era stato
fatto per procura; però non
dubitava che il suo nuovo
principale avrebbe fatto ogni
sforzo
per
meritarsi
come
avventori i migliori cittadini di IleAdam. Tale complimento ai
cittadini, fatto in modo assai
gentile, unito alla pulizia ed
eleganza della bottega, dispose
tutti a favore del signor Francoeur,
e alcuni promisero di provvedersi
da lui, preferendolo agli altri. La
casa aveva un portone che dava
sulla strada della chiesa. Da quella
strada, due ore dopo l'apertura
della macelleria, giunse una
carrozzella, tirata da un buon
cavallo, da cui smontarono due
uomini.
Uno
era
Murph,
perfettamente risanato dalle sue
ferite; l'altro lo Chourineur. A
rischio di ripetere una cosa
risaputa, diremo che il prestigio
dell'abito è così potente che il
nostro frequentatore di bettole
della
Cité
non
era
più
riconoscibile, perché vestito con la
massima decenza. La stessa
metamorfosi era avvenuta nella
sua fisionomia: egli, insieme ai
suoi rozzi panni, aveva deposto
l'aria fiera, brutale e turbolenta; a
vederlo camminare, con le mani
nelle tasche di un lungo bel
soprabito color nocciola, con il
mento sbarbato di fresco, mezzo
nascosto da una sciarpa bianca
dalle punte ricamate, ognuno lo
avrebbe preso per il più docile
galantuomo del mondo. Murph
legò le redini a una campanella di
ferro fissa nel muro, e accennò
allo Chourineur che lo seguisse.
Entrarono in un salottino al
pianterreno, arredato con mobili
di
noce,
che
fungeva
da
retrobottega. Le due finestre
davano sul cortile dove il cavallo
batteva le zampe per la grande
impazienza e vivacità. Murph,
come in casa propria, aprì un
armadio, ne cavò fuori una
bottiglia di acquavite e un
bicchiere,
poi
disse
allo
Chourineur: "Giacché fa freddo,
stamani, vorrete bere con me un
bicchier d'acquavite?"
"Se non v'importa, signor Murph,
non berrò niente."
"Rifiutate?"
"Sì, sono troppo contento, e
l'allegria riscalda... Già, quando
dico contento, forse forse..."
"Come mai?"
"Ieri veniste a trovarmi al porto
Saint-Nicolas, dove faticavo come
una bestia per riscaldarmi... Non
vi avevo più visto da quella notte
che il nero dai capelli bianchi
accecò il Maître d'école... Fulmini,
che effetto mi fece! E il signor
Rodolphe, che viso! Lui che
sembrava un così buon figliolo!
Ne ebbi paura."
"Bene, continua."
"E
mi
dite:
"Buongiorno,
Chourineur". "Buongiorno, signor
Murph. Oh, siete alzato, meglio
così. Fulmini, meglio così: e il
signor Rodolphe?"
"Ha dovuto partire poco dopo
l'affare dell'allée des Veuves, e si è
dimenticato di voi, mio caro."
"Ebbene, signor Murph" vi
rispondo io "se si è dimenticato di
me, me ne dispiace davvero!""
"Intendevo dirvi che si era
scordato di ricompensarvi dei
vostri servizi, ma ne serberà
sempre la memoria."
"E così queste parole, signor
Murph,
mi
danno
subito
coraggio... Fulmini, io non mi
scorderò di lui, no! Mi disse che
avevo cuore e onore... Insomma,
basta!"
"Disgraziatamente,
mio
caro,
monsignore se n'è andato senza
lasciare ordini relativi a voi; io non
possiedo altro che quello che egli
mi dà, e non posso mostrarmi
grato come vorrei di tutto quel che
vi devo per parte mia."
"E no, signor Murph, voi
scherzate..."
"Ma anche voi, perché non
tornaste più all'allée des Veuves
dopo quella notte funesta?
Monsignore non sarebbe partito
senza pensare a voi."
"Dio buono! Non mi fece
chiamare, credevo non avesse più
bisogno di me."
"Ma dovevate riflettere che aveva
almeno necessità di provarvi la
sua riconoscenza!"
"Dunque perché mi avete detto
che il signor Rodolphe si era
scordato di me, signor Murph?"
"Non ne parliamo più... Ho
stentato molto a trovarvi: forse
non andate più dall'Orca?"
"No."
"E perché?"
"Così... Idee mie, sciocchezze..."
"Alla buon'ora, torniamo a quel
che mi dicevate."
"A che, signor Murph?"
"Mi dicevate dunque: "Sono
contento di avervi incontrato, ma
forse...""
"Ah, ecco, signor Murph. Ieri
quando veniste là dove scaricavo
la legna, mi diceste: "Figliolo mio,
non sono ricco, ma posso farvi
avere un lavoro che vi dia meno
fatica di quello che avete qui al
porto, e vi faccia guadagnare
quattro franchi al giorno." Quattro
franchi! Evviva! Non ci potevo
credere... Paga da sottufficiale! Vi
risposi: "Va bene, signor Murph."
"Ma" fate voi "non conviene che
siate vestito come un barbone,
perché spaventereste il padrone
dal quale vi conduco."
"Non ho con che vestirmi in altra
maniera" dico. E voi: "Venite un
momento in rue du Temple." Ci si
va, scelgo quello che c'è di più
bello dalla Hubart, mi anticipate il
denaro per pagare, e in un quarto
d'ora sono ben accomodato come
un possidente o come un
cavadenti; mi date appuntamento
per questa mattina all'alba alla
porta Saint-Denis, vi ci trovo con
la vostra carrozza, ed eccoci qua..."
"Ebbene, che cosa vi può
rincrescere in tutto questo?"
"Niente altro, che d'essere tanto
ben vestito. Vedete, signor Murph,
uno si avvezza male... E poi,
quando ripiglierò quegli stracci
che avevo prima, mi dispiacerà
troppo. E di più, guadagnare
quattro franchi al giorno, quando
ne buscavo due... Tutto a un tratto,
mi sembra tutto troppo bello, e
che non possa durare... Preferirei
dormire sempre sul saccone vuoto
della mia stanzaccia, che cinque o
sei notti sole in buon letto
morbido. Questo è il mio
carattere."
"Non siete privo di buon senso,
ma sarebbe anche meglio riposare
sempre in un buon letto."
"È chiaro. È meglio aver pane da
saziarsi, che morire di fame... Oh,
dico, c'è una macelleria qui!"
soggiunse lo Chourineur, udendo i
colpi di coltello del garzone, e
scorgendo vari pezzi di carne
attraverso i cancelli.
"Sì, mio caro, ed appartiene ad
un mio amico. Intanto che il mio
cavallo
piglia
fiato,
volete
visitarla?"
"Ma sì, davvero! Mi rammenta la
mia gioventù... Anche se avevo
Montfaucon per mattatoio e
vecchie carogne per bestiame.
Curioso, se avessi avuto mezzi, è
un mestiere che mi sarebbe
piaciuto
molto
quello
del
macellaio... Andarsene sopra un
buon puledro a comprar bestie alla
fiera, tornare a casa accanto al
fuoco, scaldarsi se si ha freddo,
asciugarsi se si è bagnati, trovarci
una nostra donnetta, buona,
grassa, allegra con una quantità di
ragazzetti che frugano nelle tasche
per sentire se si è portato
qualcosa. E la mattina acchiappare
un
bue
per
le
corna...
Specialmente quando è cattivo...
Corpo di Belzebù...! Bisogna che
sia fiero! E legarlo, ammazzarlo,
squartarlo... Fulmini! Sarebbe
stata la mia ambizione, come
quella della Goualeuse mangiarsi
le pasticche di zucchero d'orzo,
quando era piccina... A proposito
di quella poveretta, signor Murph,
non
vedendola
più
venire
dall'Orca, mi sono figurato che il
signor Rodolphe l'abbia tolta di
là... Quella è una buona azione,
signor Murph. Poveretta! Non
faceva del male, era tanto giovane!
Ma poi l'abitudine... Insomma, il
signor
Rodolphe
ha
fatto
benissimo..."
"Sono del vostro parere... Ma
dunque volete venire a visitare la
bottega, intanto che il nostro
cavallo fiata?" Lo Chourineur e
Murph entrarono nella bottega, e
poi
passarono
nella
stalla,
dov'erano rinchiusi tre buoi
superbi ed una ventina di castrati,
poi alla rimessa, all'ammazzatoio,
al granaio ed a tutti i locali della
casa, tenuti con attenzione e
pulizia che denotavano un'ottima
condizione sociale e una buona
conduzione dell'attività. Quando
ebbero visto ogni cosa, meno il
piano di sopra, Murph disse allo
Chourineur: "Confessate che il
mio amico è un uomo felice:
questo stabile è tutto suo, senza
contare un migliaio di scudi
sonanti per il suo commercio; ed
aggiungete che ha trentotto anni, è
forte come un toro, ha una salute
di ferro e grande amore per il
mestiere..."
"Il
padrone
che
mi deve
assumere?"
"Sì. E in più può servirsi di questo
bravo e onesto garzone che qui fa
le sue veci con molta capacità
quando lui se ne va alle fiere a
comprare le bestie. Lo ripeto, non
stimate felice quell'uomo, mio
caro?"
"Ah, signor Murph, che volete?, ci
sono i fortunati e gli sfortunati.
Quando penso che ora guadagnerò
quattro franchi al giorno, e che ce
ne sono molti che hanno la metà o
meno..."
"Volete salire a esaminare il
rimanente della casa?"
"Volentieri, signor Murph."
"Appunto abita là il padrone dal
quale dovete avere l'impiego."
"Ve'! Perché non me lo avete detto
prima?"
"Ve lo spiegherò a suo tempo."
"Un
momento!"
disse
lo
Chourineur,
pensieroso
e
trattenendo Murph per un braccio.
"Ho da dirvi una cosa, che il signor
Rodolphe forse non vi ha
raccontato, ma che io non posso
tacere al padrone che mi deve
prendere... Perché, se questo lo
disgusta, è meglio subito, che
dopo..."
"Cioè?"
"Cioè... Che sono un condannato,
che sono stato in galera..."
continuò
mestamente
lo
Chourineur.
"Ah!" disse Murph.
"Ma non ho mai fatto male a
nessuno, e piuttosto creperei di
fame, che rubare... Ah, ho fatto
assai
peggio
che
rubare"
soggiunse, chinando la testa: "ho
ammazzato... per la collera...
Basta, i bottegai non tengono
volentieri un forzato, e hanno
ragione, che non si va mica in
galera per essere troppo buoni... È
questo che mi ha sempre impedito
di trovar da lavorare fuori che sul
porto a scaricare la legna... Perché
a tutti quelli ai quali mi
presentavo, dicevo: "Questo e
quest'altro, volete o non volete...
Preferisco essere rifiutato subito
che scoperto poi..." Sicché adesso
spiffero ogni cosa al macellaio. Voi
lo conoscete: se è un tipo che
rifiuterà ditemelo subito, e sul
momento volto le calcagna."
"Venite pure" rispose Murph. Lo
Chourineur seguì Murph; salirono
una scala, fu aperto un uscio, e si
trovarono davanti a Rodolphe.
"Lasciaci soli, caro Murph"
disse Rodolphe.
2.
Ricompensa.
"Evviva!
Sono
proprio
soddisfatto di ritrovarvi, signor
Rodolphe...
o
piuttosto
monsignore!"
esclamò
lo
Chourineur.
Era veramente contento di
rivedere
Rodolphe.
I
cuori
generosi si affezionano tanto per il
bene che fanno, quanto per quello
che ricevono.
"Buongiorno, mio caro, anch'io
ho gran piacere di vedervi."
"Quel burlone del signor Murph,
diceva che eravate partito. Eppure
monsignore..."
"Chiamatemi signor Rodolphe, lo
preferisco."
"Bene, signor Rodolphe, scusatemi
se non sono tornato a salutarvi
dopo la notte del Maître... Ora
capisco che vi ho fatto una
scortesia. Ma non ce l'avrete con
me, non è così?"
"Ve lo perdono" rispose Rodolphe
sorridendo. E aggiunse: "Murph vi
ha fatto visitare quest'abitazione?"
"Sì signore: bella casa, bella
bottega e a modo! A proposito, io
sì che starò bene con quei quattro
franchi al giorno che mi farà
guadagnare il signor Murph...
Quattro franchi!"
"Ho da proporvi anche di meglio."
"Oh, di meglio... Senza volervi
smentire, è difficile. Quattro
franchi al giorno!"
"Ho da proporvi di meglio, ve lo
ripeto: giacché questa casa, quello
che contiene, questa bottega e
mille scudi in questo portafoglio è
tutta
roba...
vostra!"
Lo
Chourineur fece un sorriso da
stupido, si schiacciò il cappello di
castoro a lungo pelo fra le
ginocchia,
stringendolo
nervosamente, e non capì ciò che
gli si diceva, pur essendo le parole
assai chiare. Rodolphe continuò
amorevolmente: "Comprendo il
vostro stupore, ma ve lo ripeto,
questa casa e questa somma sono
vostre." Lo Chourineur diventò
rosso fuoco, si passò la mano
callosa sulla fronte bagnata di
sudore, e balbettò con voce
alterata:
"Eh...
cioè...
mia
proprietà..."
"Sì, vostra proprietà, perché vi
devo tutto, capite? La mia vita è
vostra..." Lo Chourineur si agitò
sulla sedia, si grattò la testa, tossì,
abbassò gli occhi, e non rispose. Si
sentiva sfuggire il filo delle idee,
intendeva quanto gli era stato
detto, ma non sapeva prestarvi
fede. Tra la miseria profonda e la
degradazione in cui aveva vissuto
sempre, e la posizione che gli si
assicurava, esisteva un abisso, che
neppure il favore da lui reso a
Rodolphe poteva pareggiare.
Rodolphe,
non
volendo
affrettare il momento in cui il suo
protetto doveva aprire gli occhi
alla realtà, godeva piacevolmente
della meraviglia e della confusione
prodotte da una così grande
contentezza.
Considerava con gioia, e
insieme con indicibile amarezza,
come in certe persone è tale
l'abitudine alle sofferenze e alle
disgrazie, che la loro ragione si
rifiuta di ammettere la possibilità
di un avvenire, certo migliore ma
che per molti non sarebbe poi
tanto invidiabile.
Dopo essersi ancora un po'
divertito
del
momentaneo
sbalordimento in cui era rimasto
immerso lo Chourineur, Rodolphe
continuò: "Quel che vi dono è
forse molto superiore alle vostre
speranze?"
"Monsignore"
rispose
lo
Chourineur
alzandosi
bruscamente
"mi
proponete
questa casa e il denaro forse per
tentarmi, ma non posso."
"Che cosa non potete?" chiese
l'altro stupito. Lo Chourineur si
fece coraggio, e superando la
timidezza disse con fermezza: "Mi
offrite tutto questo, lo so, non già
per impegnarmi a rubare, e poi
non ho rubato mai in vita mia, ma
forse per uccidere... io ne ho
abbastanza
del
sogno
del
sergente!" aggiunse lo Chourineur
con voce cupa.
"Ah
disgraziati!"
esclamò
Rodolphe con amarezza. "La
compassione che vi si dimostra è
così
lontana
dalle
vostre
possibilità, che
non
potete
spiegare questi tipi di doni se non
in cambio di qualcosa, e magari di
un delitto? Mi giudicate male, vi
ingannate" disse poi "io nulla
esigerò da voi che non sia
onorevole. Se vi faccio un dono, è
perché lo meritate."
"Io?" gridò lo Chourineur sempre
più stupito "io me lo merito? E
come?"
"Sì, senz'alcuna nozione del bene e
del male, abbandonato ai vostri
istinti, rinchiuso per quindici anni
nel bagno penale con i peggiori
criminali,
tormentato
dalla
miseria, dalla fame, costretto dal
vostro delitto e dal disprezzo degli
onesti a frequentare i malfattori,
non solo rimaneste probo, ma il
rimorso del vostro misfatto
sopravvisse all'espiazione imposta
dalla giustizia!" Questo linguaggio
semplice e nobile fu nuova
sorgente di sorpresa per lo
Chourineur; guardava Rodolphe
con rispetto, timore e gratitudine,
ma non sapeva ancor credere
all'evidenza.
"Come,
signor
Rodolphe?
Perché mi avete battuto, perché
credendovi un operaio come me,
poiché parlate il gergo come uno
di noi, vi ho raccontato a tavola la
mia vita, e dopo questo vi ho
impedito
di
affogare...
voi
insomma... io... la casa, il denaro!
Un signore... Eh via, ripeto, non
può essere!"
"Supponendomi uno dei vostri, mi
narraste la vostra storia senza
fingere, senza celare quel che c'era
stato di colpevole e di generoso. Io
vi giudicai, e mi piace premiarvi."
"Ma non può essere, signor
Rodolphe. No, in sostanza ci sono
dei poveri artigiani che furono
sempre galantuomini, e che..."
"Lo so, e forse per alcuni di loro
ho fatto più di quanto faccia per
voi. Ma se uno, che si mantiene
onesto in mezzo a onesti, merita
premure e appoggio, quello che,
respinto dalle persone perbene,
resta uomo onesto in mezzo ai
peggiori scellerati, non è forse
degno di maggiore appoggio e di
premure? Inoltre voi mi salvaste
la vita, e anche a Murph, il mio
amico più caro. Ciò che io faccio a
vostro favore mi è dunque
suggerito
non
tanto
dalla
riconoscenza mia particolare,
quanto dal desiderio di togliere dal
fango un individuo buono e forte,
che ha sbagliato, ma che non è
perduto... E ciò non basta..."
"Che altro c'è, signor Rodolphe?"
Rodolphe gli prese cordialmente la
mano e gli disse: "Pieno di
compassione per la disgrazia d'un
uomo che prima aveva tentato di
uccidervi,
gli
avete
offerto
assistenza, gli avete dato ricovero
nella vostra povera abitazione, in
piazza di Notre-Dame..."
"Sapete
dove
abito,
signor
Rodolphe?"
"Poiché voi scordate il bene che mi
faceste, non per questo io lo
dimentico. Quando usciste da casa
mia, qualcuno vi seguì, e vi vide
entrare in casa con il Maître."
"Ma il signor Murph mi aveva
detto che non sapevate dove
dimorassi."
"Volevo
tentare
un
ultimo
esperimento: capire se avevate
quel disinteresse che nasce dalla
vera generosità. Dopo la vostra
coraggiosa azione, tornaste alle
vostre fatiche quotidiane, nulla
chiedendo,
nulla
sperando,
neppure proferendo una parola di
biasimo
per
l'apparente
ingratitudine; e, quando ieri
Murph
vi
propose
una
occupazione
appena
meglio
rimunerata del vostro abituale
lavoro, l'accettaste con giubilo, con
riconoscenza!"
"Per questo poi, signor Rodolphe,
quattro franchi al giorno sono
sempre quattro franchi. Quanto
all'aiuto che vi diedi, sono
piuttosto io che devo ringraziarvi."
"Come mai?"
"Sì, sì, signor Rodolphe" aggiunse
con aria mesta "mi sono venute in
mente certe cose... Poiché da
quando vi conosco, e mi avete
detto "hai ancora cuore e onore",
non riesco a smettere di
riflettere... È strano, a ogni modo,
che due parole sole facciano
questo effetto. Seminate due
chicchi di grano, che sono niente
nella vastità della terra, eppure vi
nasceranno delle spighe lunghe
lunghe!"
Questo
paragone,
giustissimo e quasi poetico,
incantò Rodolphe. Infatti due
parole, non di più, ma possenti,
magiche per chi le comprende,
avevano improvvisamente fatto
maturare in quell'indole energica
e buona i generosi frutti che in
germe esistevano.
"Vedete, monsignore" continuò
lo Chourineur "ho liberato il
signor Rodolphe, e un pochino
anche il signor Murph, è vero, ma
quando ne liberassi a centinaia e
migliaia, non rimetterei più al
mondo quelli che..." E lo
Chourineur abbassò la testa
afflittissimo.
"Questo rimorso è salutare, ma
vi fa onore..."
"E poi, in quel che diceste al
Maître a proposito dei suoi delitti
c'erano
cose
che
potevano
adattarsi anche a me, in bene
come
in
male."
Rodolphe,
desiderando troncare il corso dei
tristi pensieri dello Chourineur, gli
disse: "Siete voi che avete
sistemato il Maître a SaintMandé?"
"Sì, signor Rodolphe... Mi fece
cambiare i suoi soldi in tanto oro,
comprargli
una
cintura
e
cucirgliela addosso. Ci si misero
dentro le monete, e buon viaggio!
Sta in pensione a trenta soldi al
giorno da certa brava gente, a cui
fa più comodo che altro."
"Bisogna che mi facciate un altro
favore, mio caro."
"Parlate, signor Rodolphe."
"Fra qualche giorno andrete a
trovarlo con questo foglio. È una
carta di ammissione a vita
nell'ospizio dei Buoni Poveri. Darà
quattromila e cinquecento franchi,
e sarà tenuto là sinché campa.
Tutto è stabilito.
Ho pensato che ciò sarebbe più
conveniente per lui. Così si
assicurerebbe per sempre ricovero
e pane per tutto il resto dei suoi
giorni; e non avrebbe da pensare
ad altro che al pentimento... Anzi,
mi rincresce non avergli dato
subito questo documento invece
di una somma, che può esser
rubata o scialacquata. Ma provavo
per lui tanto orrore, che
desideravo, prima di
tutto,
levarmelo di torno. Voi gli farete
questa offerta, e lo condurrete
all'ospizio. Se per caso rifiutasse,
agiremo diversamente. Andrete
dunque a trovarlo?"
"Signor
Rodolphe,
vi
farei
volentieri, come dite, questo
favore, ma non so se sarò libero. Il
signor Murph mi ha trovato lavoro
presso qualcuno a quattro franchi
al giorno..." Rodolphe guardò
attonito lo Chourineur.
"Come! E la vostra bottega? E
la vostra casa?"
"Suvvia, signor Rodolphe, non vi
prendete gioco d'un povero
diavolo, vi siete già divertito
troppo a fare esperimenti su di
me... La casa e la bottega sono una
canzoncina sulla stessa aria. Avete
pensato:
proviamo
se
quest'asinaccio di Chourineur sarà
tanto babbeo da credere che...
Basta, signor Rodolphe, siete un
burlone... Basta così!"
"Ma come? Non vi ho già
spiegato?"
"Per colorire la faccenda, si sa, si
sa... Eppure, in coscienza, c'ero
quasi cascato... Come sono
baggiano!"
"Siete pazzo, mio caro!"
"No, no, monsignore. Parlatemi un
po' del signor Murph. Benché
straordinaria, la paga di quattro
franchi si può capire... Ma lo
stabile, il macello, denari a
bizzeffe..." E si mise a ridere come
un matto.
"Ma io vi ripeto..."
"Ascoltatemi,
monsignore,
francamente, mi avete un po'
preso in giro. All'inizio ho detto fra
me: "Il signor Rodolphe è un
brav'uomo, avrà qualcosa da
mandare a prendere a casa del
diavolo e dà a me l'incombenza, e
mi dà l'unto perché non abbia
paura di bruciarmi". Dopo ho
pensato che avevo torto ad avere
di queste idee, e ho visto che non
era altro che uno scherzo: perché
se fossi tanto ingenuo da credere
che mi regalaste un capitale per
nulla, oh, allora, monsignore,
direste: "Povero Chourineur, va là,
mi
fai
compassione:
sei
ammattito, o ti senti male?"."
Rodolphe cominciava ad essere
imbarazzatissimo. Perciò gli disse
in tono imponente e quasi severo:
"Non scherzo mai su cose che
riguardano la riconoscenza e la
considerazione che ho per una
nobile condotta. Quanto vi
promisi è vostro, e poiché non
volete credermi, e mi costringete
ad un giuramento, vi dirò sull'onor
mio che vi faccio un dono
assoluto, e per le ragioni che vi ho
di già addotte." All'accento grave,
alla serietà del volto di Rodolphe,
l'altro non ebbe più alcun dubbio.
Lo guardò un poco tacendo, e
quindi rispose senza enfasi, ma
con fortissima commozione: "Vi
credo, monsignore, e vi sono
obbligato. Un pover'uomo come
me, non sa dire belle frasi... Ecco,
di nuovo, vi ringrazio. Posso
assicurarvi che non rifiuterò mai
di soccorrere i disgraziati, perché
la fame e la miseria sono due
Orche all'incirca come quelle che
hanno sedotto la Goualeuse, e,
una volta cacciati nella fogna, non
tutti hanno la forza di tirarsene
fuori."
"Non potevate ringraziarmi in
modo
migliore,
mio
caro.
Troverete in quello scrittoio i
documenti relativi a questo
edificio acquistato per voi a nome
del signor Francoeur."
"Signor Francoeur!"
"Voi non avete nome, io vi dò
questo. È di buon augurio. Sono
sicuro che gli farete onore."
"Monsignore, ve lo prometto."
"Coraggio, mio caro. Voi potete
aiutarmi in una buona opera."
"Io, monsignore?"
"Voi! Agli occhi del mondo sarete
un esempio vivente e salutare. La
fortunata situazione in cui vi
mette la Provvidenza vi farà
provare che le persone cadute
molto in basso possono ancora
risorgere e sperare, quando si
pentono e conservano pure ed
intatte delle buone qualità.
Vedendovi felice perché, dopo
un'azione riprovevole, espiata con
terribile castigo, rimaneste probo,
coraggioso e disinteressato, coloro
che avranno fallito procureranno
di diventare migliori. Io voglio che
nulla si ignori del vostro passato;
presto o tardi sarebbe noto ed è
meglio farne subito una chiara
rivelazione. Tra poco dunque
andrò con voi dal sindaco di
questo comune: è un uomo degno,
e in grado di cooperare all'opera
mia. Darò il mio nome, e sarò
vostro garante. E per stabilire sin
d'ora relazioni decorose fra voi e le
persone
che
rappresentano
moralmente la società di IleAdam, assicurerò per due anni un
sussidio mensile di mille franchi
destinato ai poveri, e ogni mese vi
manderò la somma, il cui impiego
sarà regolato da voi, dal sindaco e
dal curato. Se uno di loro avesse il
minimo scrupolo ad entrare in
rapporto con voi, questo scrupolo
sparirebbe davanti all'esigenza
della carità. Dopo di ciò dipenderà
da voi stesso meritarvi la stima di
quelle due degne persone, e sono
persuaso che ci riuscirete."
"Monsignore, ho capito. Non è a
me solo, Chourineur, che fate
tutto questo bene, ma agli infelici
che si sono trovati, come me, nel
bisogno e nel delitto, e ne sono poi
usciti con cuore e onore. È,
parlando con rispetto, come in un
esercito: quando un battaglione
intero ha fatto prodigi, non si
possono decorare tutti i soldati,
non ci sono che quattro croci per
cinquecento bravi militari, ma
quelli che non hanno la stella
dicono "Bene, l'avrò un'altra
volta!" E all'altra volta fanno
prodigi più grandi." Rodolphe
ascoltava con soddisfazione il suo
protetto. Rendendogli la stima di
sé, riabilitandolo ai suoi occhi,
dandogli l'idea del suo valore,
aveva sviluppato nel cuore e nella
mente di lui riflessioni piene di
buon senso, di dignità, si direbbe
quasi di delicatezza.
"I vostri discorsi, Francoeur"
soggiunse Rodolphe "sono un bel
modo di dimostrarmi la vostra
gratitudine, ne sono contento."
"Meglio così, monsignore; perché
sarei imbarazzato se dovessi
provarvela in altro modo."
"Intanto andiamo a visitare la
vostra casa. Il mio vecchio Murph
s'è già preso questo piacere, voglio
togliermelo anch'io." Rodolphe e
lo Chourineur scesero insieme.
Appena entrarono nel cortile, il
garzone,
indirizzandosi
allo
Chourineur,
gli
disse
rispettosamente:
"Signor
Francoeur, poiché siete il padrone,
vengo a dirvi che le vendite sono
cominciate molto bene. Non vi
sono più costolette né cosciotti, e
bisognerebbe ammazzare subito
un castrato o due."
"Perbacco!" esclamò Rodolphe.
"Ecco una buona occasione per
esercitare la vostra abilità. L'aria
aperta mi ha dato appetito, e
assaggerò le vostre costolette,
benché un po' dure."
"Si devono portare i montoni al
mattatoio, padrone?" domandò il
giovane.
"Sì, e dammi un coltello ben
arrotato, con tanto di filo, e forte
di costola."
"Ho tutto l'occorrente, non
dubitate: ci sarebbe da farcisi la
barba... Tenete."
"Fulmini!" esclamò lo Chourineur,
levandosi
il
soprabito
e
rimboccando le maniche della
camicia, che lasciavano vedere due
braccia da atleta. "Questo mi
rammenterà la mia gioventù e i
mattatoi. Ora vedrete come taglio
là dentro... Corpo di una bomba!
Vorrei già esserci. Il coltello,
ragazzo mio, il coltello! Questo va
bene. Oh, te ne intendi... Che
lama! Chi ne vuole? Fulmini! Con
questo ammazzerei un toro
infuriato."
"Lo
Chourineur
si
accinse
all'opera: gli occhi cominciavano a
iniettarsi di sangue, tornava a
rivelarsi il carattere brutale,
l'istinto sanguinario ricompariva
in tutta la sua tremenda energia.
Il mattatoio era nel cortile. Era
una stanza a volta, oscura,
lastricata di pietre, rischiarata
dall'alto per mezzo d'un finestrino.
Il garzone tirò un montone fin
sulla porta.
"L'ho da legare all'anello,
padrone?"
"Legarlo? Fulmini! E i ginocchi?
Sta fermo, lo stringerò come fra
due tenaglie... Dammi la bestia, e
tu vattene in bottega." Il garzone
rientrò.
Lo Chourineur restò solo con
Rodolphe, che lo esaminava
attentamente, ma quasi con
angoscia.
"Su, al lavoro!" disse.
"Faccio in un momento. Ora
vedrete come maneggio il coltello.
Mi pizzicano le mani, sento un
brulichio nelle orecchie, mi
battono le tempie come quando
ero vicino a veder tutto rosso...
Avanti, vieni qui! Ch'io ti rifinisca!
che ti squarti!" E con gli occhi
luccicanti, e non badando più a
Rodolphe, sollevò l'animale come
una piuma, e, in un salto, lo portò
nella stanza con feroce allegrezza.
Sembrava un lupo che fuggisse
nella tana con la sua preda.
Rodolphe lo seguì, e si appoggiò a
un battente della porta che fu
chiusa.
La beccheria era buia, ma un
vivo raggio di luce che cadeva
perpendicolarmente illuminò la
rozza figura dello Chourineur, i
suoi capelli biondi, le sue fedine
rossicce. Mezzo ripiegato sulla
vita, reggendo con i denti il lungo
coltello, stringeva la bestia fra le
ginocchia; e quando l'ebbe salda,
la pigliò per la testa, le fece torcere
il collo, e la scannò.
L'animale, sentita la lama,
diede un piccolo belato, dolce,
lamentevole, volgendo gli sguardi
moribondi verso lo Chourineur, e
due schizzi di sangue sprizzarono
in viso all'uccisore.
Il grido, lo sguardo, il sangue
gli causarono un'impressione
terribile.
L'arma gli cadde di mano, la
faccia si fece livida, contratta,
spaventata; gli occhi divennero
fissi, gli si rizzarono i capelli... Poi,
d'un
tratto,
indietreggiando
inorridito, esclamò con voce
alterata: "Oh, il sergente, il
sergente!"
"Torna in te, amico mio!"
"Là... là... il sergente" ripeteva lo
Chourineur, indietreggiando con
le pupille fisse, ed accennando con
il dito uno spettro invisibile.
Poi, dando un urlo acuto, come
se la larva lo avesse toccato, si
precipitò in fondo al locale, nel
luogo più oscuro, e là, gettatosi
con il viso, il petto e le braccia
contro il muro, quasi volesse
tentare di smuoverlo, di atterrarlo
per sottrarsi ad un'orribile visione,
ripeteva con voce affannosa e
convulsa: "Oh, il sergente, il
sergente, il sergente!..."
3.
La partenza.
Grazie alle premure di Murph
e di Rodolphe, che calmarono a
stento la sua agitazione, lo
Chourineur tornò in sé dopo una
lunga crisi. Si trovava solo con
Rodolphe in una stanza del primo
piano sopra il macello.
"Monsignore"
disse
nel
massimo abbattimento "avete
avuto per me molta bontà, ma
ecco, vedete, preferirei essere
mille volte più miserabile di quel
che fui, che accettare il mestiere
che mi proponete."
"Riflettete però..."
"Ah, monsignore, quando ho udito
il grido di quella povera bestia che
non si difendeva, e ho sentito il
sangue schizzarmi sulle guance...
un sangue caldo, che pareva vivo...
Oh, voi non sapete che cosa sia!
Allora ho rivisto, in sogno, il
sergente, e quei giovani soldati
che ammazzavo e non si
difendevano, e, morendo, mi
guardavano in un modo così dolce,
così
dolce...
Come
se
compiangessero
me...
Oh,
monsignore, è roba da fare
impazzire!" E lo sventurato si
nascondeva la testa fra le mani,
con un movimento disperato.
"Tranquillo! Calmatevi."
"Scusatemi, monsignore, ma lo
sento... La vista del sangue, di un
coltello, non potrei sopportarla...
Mi tornerebbero quei sogni che
cominciavo a scordarmi. Avere
ogni giorno le mani e i piedi nel
sangue, scannare le bestie, che
non fanno resistenza... No, no,
non potrei... Piuttosto vorrei
essere cieco, come il Maître
d'école che trovarmi ridotto a
questo mestiere." È impossibile
dipingere l'energia del gesto,
dell'accento, della fisionomia dello
Chourineur, mentre così si
esprimeva.
Rodolphe
era
profondamente commosso; capiva
l'orribile impressione che ormai
produceva sul suo protetto la vista
del sangue.
Se per un momento nello
Chourineur, la belva selvaggia,
l'istinto sanguinario aveva vinto
l'uomo, il rimorso subito aveva
vinto l'istinto. Che grande e
bell'insegnamento! E si deve dire a
lode di Rodolphe che egli non
aveva disperato di riscontrare in
lui tali impulsi. Per sua volontà, e
non a caso, si era trovato presente
alla
scena
avvenuta
nella
macelleria.
"Perdonatemi,
monsignore"
disse lo Chourineur timidamente
"io contraccambio male la vostra
bontà, ma..."
"Anzi, andate oltre ogni mia
speranza. Nondimeno, lo confesso,
non ero sicuro di trovare in voi
questa santa esaltazione del
rimorso."
"Come, monsignore?"
"Sentite" disse Rodolphe "ecco
quale era stato il mio pensiero:
avevo scelto per voi il mestiere di
macellaio, perché vi ci portavano i
vostri gusti, le vostre inclinazioni."
"Ahimè, è vero, monsignore...
Senza quel che sapete sarebbe
stato tutta la mia felicità. Anche
poco fa lo dicevo al signor Murph."
"Lo so, mio povero Francoeur, e
per questo, se aveste accettato la
mia offerta, ed avreste potuto farlo
senza perdere la mia stima, tutto
quanto vi è qui sarebbe stato
vostro, e io avrei saldato un debito
sacro... Vi avrei tolto da una
situazione penosa, avrei fatto di
voi un esempio buono e utile per
gli altri, e avrei continuato a
interessarmi al vostro futuro. Se,
all'opposto, la vista del sangue che
vi accingevate a versare vi avesse
ricordato il vostro delitto, se un
ribrezzo involontario mi avesse
provato che il rimorso era desto in
fondo all'anima vostra, le mie
intenzioni
riguardo
a
voi
sarebbero mutate; giacché la
professione da me proposta
sarebbe diventata un supplizio
giornaliero..."
"Oh, sì, è vero signor Rodolphe, un
supplizio orribile."
"Adesso, ecco ciò che vi propongo,
e credo che voi accetterete, tanto
più che ho preso le opportune
misure per questo progetto. Una
persona che possiede molti beni in
Algeria mi ha ceduto per voi (non
manca che firmare l'atto) una
vasta tenuta, destinata ad allevare
il bestiame.
Le terre che ne dipendono
sono fertilissime ed in stato di
perfetta
coltivazione.
Io,
conoscendo il vostro coraggio ed il
bisogno che avete di esercitarlo,
ho acquistato condizionatamente
quei beni, quantunque situati ai
confini dell'Atlantico, vale a dire
agli avamposti e sottomessi ai
frequenti attacchi degli Arabi...
Bisogna essere uomini con il
temperamento di soldati, oltre che
agricoltori; quello è un forte e al
tempo stesso un podere. L'uomo
che lo amministra in assenza del
proprietario vi chiarirà ogni cosa;
egli è, per quel che sappiamo,
onesto e pieno di premura, e
potrete tenerlo con voi finché ne
avrete bisogno. Una volta stabilito
là, non solo potrete migliorare la
vostra situazione mediante il
lavoro e l'intelligenza, ma anche,
con il vostro coraggio, rendere
molti servizi al Paese. I coloni si
uniscono in una specie di milizia.
L'estensione di quei beni ed il
numero dei contadini che ne
dipendono vi renderebbero capo di
una
truppa
armata
assai
considerevole,
la
quale,
disciplinata, elettrizzata dalla
vostra energia, potrebbe essere di
sommo vantaggio per proteggere
le molte tenute sparse nella
pianura. Ve lo ripeto, ho scelto
questo, malgrado il pericolo, o
piuttosto a causa del pericolo,
perché desideravo mettere a
profitto la vostra audacia naturale;
perché avendo da scontare un gran
misfatto, la vostra riabilitazione
sarà più nobile, e completa ed
eroica, quando possa essere
eseguita tra i rischi d'un paese
selvaggio, piuttosto che nelle
tranquille abitudini di una piccola
città. Se sin dall'inizio non vi
offersi questo lavoro, fu per la
probabilità
che
l'altro
vi
soddisfacesse, e perché essendo
questo tanto azzardato, non
dovevo esporvi senza che voi
stesso lo preferiste. Siete sempre
in tempo, se non vi accomoda.
Ditelo
schiettamente,
e
penseremo a un'altra cosa... Se vi
conviene, domani tutto sarà
definito, vi darò i recapiti relativi
al vostro possedimento e andrete
ad Algeri con una persona a ciò
destinata dal vecchio proprietario,
che vi darà in consegna le terre. Vi
saranno dovute due annate di
affitto, e le riscuoterete al vostro
arrivo. La rendita è attualmente di
tremila
franchi:
coltivate,
migliorate, siate attivo e vigilante,
e con facilità accrescerete il vostro
benessere e quello dei coloni, che
sarete in grado di soccorrere,
giacché non ho alcun dubbio che
vi mostrerete sempre caritatevole
e generoso, e che vi rammenterete
che essere ricco vuol dire dare
molto... Io non vi perderò di vista,
benché lontano; non mi scorderò
mai che, tanto io, quanto il
migliore dei miei amici, vi siamo
debitori della vita.
L'unica prova di affetto e
gratitudine che vi chiedo è di
imparare presto a leggere e
scrivere, per potermi informare
ogni settimana di quel che farete,
e rivolgervi a me direttamente
tutte le volte che vi occorressero
consigli e appoggio." È superfluo
descrivere le espressioni di gioia
dello Chourineur. Il suo carattere
e la sua natura sono già noti
abbastanza,
perché
nessun
progetto
poteva
meglio
convenirgli. L'indomani, difatti, lo
Chourineur si imbarcava per
Algeri.
4.
Ricerche.
La
casa
che
possedeva
Rodolphe nell'allée des Veuves
non era il luogo dove abitava di
solito. La sua vera abitazione era
in uno dei più grandi palazzi del
faubourg
Saint-Germain,
all'estremità della rue Plumet.
Per evitare gli onori dovuti al
suo rango, aveva mantenuto
l'incognito sin dal suo arrivo a
Parigi, facendo annunciare dal suo
incaricato d'affari presso la Corte
di Francia che avrebbe fatto le
visite ufficiali indispensabili sotto
il nome e il titolo di conte di
Duren.
Per quest'usanza, frequente
nelle Corti del Nord, un principe
viaggia con altrettanta libertà che
gradimento, e scansa le noie di un
fastidioso
cerimoniale.
Nonostante il suo trasparente
incognito, Rodolphe teneva, come
si conveniva, la casa con grande
sfarzo.
Introdurremo adesso il lettore
nel palazzo di rue Plumet, il
giorno successivo alla partenza
dello Chourineur per l'Algeria.
Erano suonate le dieci del
mattino.
In una vasta stanza a
pianterreno che precedeva lo
studio di Rodolphe, Murph,
seduto a un tavolino, sigillava
diversi dispacci. Un usciere,
vestito di nero, con la collana
d'argento,
aprì
l'uscio
dell'anticamera, ed annunciò: "Sua
eccellenza il barone di Graün!"
Murph, senza interrompere il suo
lavoro, salutò il barone con un
gesto al tempo stesso cordiale e
familiare.
"Signor
console"
disse
sorridendo "favorite accomodarvi,
sarò da voi tra un momento."
"Sir Walter Murph, segretario di
Sua Altezza Serenissima, aspetterò
i
vostri
ordini"
rispose
allegramente il signor di Graün, e,
scherzando, fece un inchino
rispettoso e profondo al degno
"squire".
Il
barone
aveva
circa
cinquant'anni, capelli grigi e radi,
un po' arricciati. Il mento,
alquanto aguzzo, spariva quasi
tutto in un'alta cravatta di
mussola molto inamidata, d'una
bianchezza abbagliante. La sua
fisionomia dimostrava una certa
accortezza, il portamento una
notevole classe, e sotto gli occhiali
d'oro
brillava
uno
sguardo
penetrante e malizioso. Benché
fossero le dieci del mattino, il
barone di Graün vestiva l'abito
nero: così esigeva l'etichetta;
aveva all'occhiello un nastro a
righe a più colori vivaci. Posato il
cappello sopra una poltrona, si
accostò al caminetto, mentre
Murph continuava il suo lavoro.
"Sua Altezza avrà senza dubbio
vegliato parte della notte, mio caro
Murph,
poiché
la
vostra
corrispondenza
mi
pare
voluminosa."
"Monsignore è andato a letto
stamane alle sei. Ha scritto, fra le
altre, una lettera di otto pagine al
gran Maresciallo, e ne ha dettata
una non meno lunga per il capo
del Consiglio Supremo."
"Devo aspettare che Sua Altezza
sia alzata, per farle parte delle
informazioni recate?"
"No, mio caro barone. Monsignore
ha ordinato di non svegliarlo
prima delle due o le tre
pomeridiane; desidera che facciate
partire stamattina questi dispacci
con un corriere speciale, invece di
attendere lunedì. Darete a me le
notizie che vi siete procurato, e io
poi
ne
renderò
conto
a
monsignore. Tali sono le sue
istruzioni."
"A meraviglia. Credo che Sua
Altezza sarà contenta di quel che
ho da riferirle... Ma, caro Murph,
voglio lusingarmi che l'invio di
questo corriere non sia di cattivo
augurio. Gli ultimi dispacci che
ebbi l'onore di trasmettere a Sua
Altezza..."
"Annunziavano che laggiù tutto
andava benissimo: ed appunto
perché
monsignore
brama
esprimere più presto che sia
possibile la sua soddisfazione al
capo del Consiglio Supremo ed al
gran Maresciallo, desidera che
spediate oggi."
"Qui riconosco Sua Altezza. Se si
trattasse di un rimprovero, non
avrebbe tanta fretta. Già, non vi è
che da elogiare la buona ed abile
amministrazione
dei
nostri
governanti. È naturale" aggiunse il
barone sorridendo "l'orologio è
ottimo e perfettamente regolato
dal nostro padrone; non c'è altro
da
fare
che
caricarlo
puntualmente, perché con il suo
funzionamento
invariabile
e
sicuro continui a regolare tutti i
giorni la vita di ogni persona.
L'ordine nel governo produce
sempre la fiducia e la tranquillità
nel popolo, e così si spiegano le
buone notizie che mi date."
"E qui nulla di nuovo, caro
barone? Non è trapelato niente? E
le nostre misteriose avventure?"
"Sono affatto ignote. Dall'arrivo di
monsignore a Parigi in poi,
ciascuno si è assuefatto di vederlo
molto di rado presso quelle
persone a cui si era fatto
presentare; si crede che gli piaccia
vivere ritirato, e faccia frequenti
gite nelle vicinanze della capitale.
Sua Altezza si è saggiamente
sbarazzato per qualche tempo del
ciambellano e dell'aiutante di
campo venuti con lui dalla
Germania."
"E che sarebbero stati per noi
testimoni veramente importuni."
"Sicché, eccettuati la contessa
Sarah Mac-Gregor, suo fratello
Tom Seyton di Halsbury e Karl,
loro demonio incarnato, nessuno
sa dei travestimenti di Sua
Altezza; e questi non hanno
interesse a violare il segreto."
"Ah, mio caro barone" disse
Murph, sospirando "che disgrazia
che quella maledetta contessa
adesso sia vedova!"
"Non si era maritata nel 1828?"
"No, fu nel 1827, poco dopo la
morte dell'infelice bambina, che
avrebbe ora sedici o diciassette
anni, e che monsignore piange
ancora oggi, senza però parlarne
mai."
"Rammarico che tanto più si
comprende, in quanto Sua Altezza
non ha avuto altra prole dal suo
matrimonio."
"È per questo, mio caro barone, ho
indovinato bene?, che lasciando da
parte la pietà che gli ispira la
povera Goualeuse, la premura che
monsignore
ha
per
questa
sfortunata proviene specialmente
dalla circostanza che la figlia che
piange
amaramente
(mentre
aborrisce la contessa sua madre)
avrebbe ora la medesima età."
"È una fatalità che quella Sarah,
dalla quale si doveva credere
sbarazzato per sempre, si ritrovi
libera appunto diciotto mesi dopo
che Sua Altezza ha perduto il
modello fra tutte le mogli dopo
pochi anni d'unione. Sono certo
che la contessa si reputa favorita
dalla sorte per questa duplice
vedovanza."
"E le sue stolte speranze riescono
più ardenti che mai! Anche se sa
che monsignore ha per lei la
maggiore e la più
giusta
avversione. Non fu lei la causa...?
Ah, barone" disse Murph senza
terminare la frase "quella donna è
funesta. Dio voglia che non ci
porti altri guai!"
"Che si può temere da lei, mio
caro Murph? Altre volte ebbe su
monsignore l'influenza che può
avere una donna accorta e
raggiratrice
su
un
giovane
innamorato per la prima volta, e
che si trova soprattutto nelle
circostanze che voi sapete, ma
questa influenza è stata distrutta
dalla scoperta dei suoi indegni
intrighi, e specialmente dal
terribile avvenimento da lei
provocato."
"Adagio, caro di Graün, adagio"
raccomandava Murph. "Ohimè,
siamo appunto nel mese infausto,
e ci avviciniamo alla data non
meno infausta del 13 gennaio;
quest'anniversario mi spaventa
sempre, per monsignore."
"Ma se un grande errore può farsi
perdonare con l'espiazione, Sua
Altezza non può essere assolta?"
"Per favore, mio caro di Graün,
non
ne
parliamo:
resterei
angustiato per tutta la giornata."
"Io dunque vi dicevo che ormai le
pretese della contessa Sarah sono
assurde: la morte della misera
bambina, di cui parlavate poc'anzi,
ha spezzato l'ultimo legame che
poteva tenere ancora monsignore
vincolato a questa donna; è pazza
se persiste nelle sue speranze."
"Sì, ma è una pazza pericolosa. Il
fratello, lo sapete, condivide le sue
idee ambiziose e pertinaci, benché
tutti e due abbiano adesso tanti
motivi per disperare quanti ne
avevano diciotto anni fa per
sperare."
"Ah, quante disgrazie causò anche
allora l'infernale abate Polidori
con la sua iniqua compiacenza!"
"A proposito di quello sciagurato,
ho sentito dire che è qui da un
anno o due, piombato senza
dubbio nella massima abiezione e
occupato in qualche tenebrosa
impresa."
"Che caduta per un uomo di tante
cognizioni, di tanto spirito, di
tanta intelligenza!"
"Ma dite anche di una perversità
immonda! Voglia il cielo che non
incontri la contessa! L'unione di
quei due spiriti maligni sarebbe
molto pericolosa!"
"Ve lo ripeto, mio caro Murph,
l'interesse stesso della contessa,
per quanto irragionevole sia la sua
ambizione, le impedirà sempre di
profittare del gusto di avventure di
monsignore per tentare qualche
cattiva azione."
"Lo spero come voi: eppure il caso
ha mandato a vuoto non so qual
progetto, sicuramente abbietto,
che lei aveva commissionato al
Maître
d'école,
quell'orribile
scellerato che ormai non è più in
grado di nuocere ad alcuno, che
vive sconosciuto, forse pentito,
presso alcuni onesti contadini del
villaggio di Saint-Mandé. Ahimè,
io
sono
convinto
che,
specialmente per vendicare me,
monsignore, infliggendogli un
tremendo castigo, rischiò di
mettersi in qualche grosso guaio."
"Guaio? No, no, mio caro Murph...
In sostanza la questione è questa:
un forzato fuggito, un omicida
riconosciuto, s'introduce in casa
vostra, e vi dà una pugnalata; voi
potete ucciderlo per diritto di
legittima difesa o mandarlo al
patibolo; in ambedue i casi il
criminale deve morire. Ora, invece
di privarlo della vita o consegnarlo
al carnefice, con un castigo
formidabile,
ma
meritato,
impedite a questo mostro la
possibilità di nuocere alla società.
Chi può accusarvi? La giustizia
comparirà come parte civile contro
di voi in favore di un simile
delinquente?
Sarete
da
condannare per essere andato
meno in là di quel che la legge vi
permetteva, per aver tolta soltanto
la vista a colui che potevate
legalmente uccidere? Come, per
difendere la mia vita o per
vendicarmi di un adulterio
flagrante la società riconosce in
me il diritto di vita e di morte sul
mio simile... Diritto tremendo,
diritto formidabile, diritto senza
eccezione, senza appello, che mi
costituisce giudice e carnefice... E
non potrò modificare a mio
talento la pena capitale, che avrei
potuto applicare impunemente? E
soprattutto, quando si tratta
dell'iniquo di cui parliamo? Perché
lì sta la questione. Io lascio da
parte la posizione di principe
sovrano della Confederazione
Germanica. So che in diritto
questo nulla significa, ma vi sono
delle
immunità
necessarie...
D'altronde, supponete un tal
processo
intentato
contro
monsignore:
quante
azioni
generose parlerebbero a suo
favore! Quante elemosine, quanti
benefici si manifesterebbero! Lo
ripeto, nelle condizioni in cui si
presenta,
immaginate
questa
stranissima causa mossa davanti a
un tribunale. Che credete ne
risulterebbe?"
"Monsignore me lo ha sempre
detto: accetterebbe l'accusa, e non
profitterebbe
minimamente
dell'immunità che può assicurargli
la situazione. Ma chi può rendere
pubblico il terribile avvenimento?
Voi conoscete l'assoluta segretezza
di David e dei quattro servitori
ungheresi della casa dell'allée des
Veuves. Lo Chourineur, beneficato
da monsignore, non ha mai
proferito
una
parola
sulla
punizione del Maître per timore di
trovarsi compromesso. Prima di
partire per Algeri mi giurò di
serbare il segreto su questo fatto.
Quanto allo stesso assassino, sa
che andare a ricorrere sarebbe lo
stesso che portare la sua testa al
carnefice."
"Insomma, né Sua Altezza, né voi,
né io parleremo, non è così? Mio
caro Murph, questo segreto,
benché alcune persone ne siano a
parte, resterà ben custodito. Nella
peggiore ipotesi vi sarebbe da
temere
solamente
qualche
inconveniente momentaneo, ma
verrebbero alla luce cose grandi e
nobili per cui il processo, lo ripeto,
finirebbe in un trionfo per Sua
Altezza."
"Voi
mi
rassicurate
completamente... Dicevate, mi
pare, di aver ottenuto alcuni
chiarimenti per mezzo della
lettera trovata addosso al Maître e
delle dichiarazioni fatte dalla
Chouette durante il ricovero in
ospedale, da dove è uscita pochi
giorni or sono, ben guarita dalla
sua frattura alla gamba."
"Ecco le informazioni avute"
rispose il barone, sfilando di tasca
un foglio. "Sono relative alle
indagini sulla nascita della
giovane chiamata la Goualeuse, ed
al luogo di dimora attuale di
François Germain, figlio del
Maître."
"Volete leggermi questi appunti,
mio caro di Graün? Conosco le
intenzioni di monsignore, e
vedremo
se
queste
notizie
bastano. Siete sempre contento
del vostro agente?"
"È un uomo prezioso, pieno di
capacità, di accorgimento e
segretezza. Alcune volte sono
persino obbligato a moderare il
suo zelo, giacché sapete che Sua
Altezza riserba per sé certi
chiarimenti."
"E ignora sempre la parte che
monsignore ha in tutta questa
faccenda?"
"Assolutamente. La mia situazione
diplomatica serve di ottimo
pretesto alle ricerche di cui lo
incarico. Il signor Badinot (così ha
nome) ha molte persone note, e
relazioni manifeste e occulte in
quasi tutte le classi della società.
Già procuratore legale, costretto a
vendere
il
suo
studio
in
conseguenza di certi abusi di
fiducia, ha però conservato
esattissime
cognizioni
sulle
fortune e la posizione degli antichi
suoi clienti; conosce molti segreti,
di cui si gloria sfacciatamente di
aver fatto mercimonio: due o tre
volte arricchitosi, e rovinatosi poi
negli affari, troppo conosciuto
perché possa tentare ulteriori
speculazioni, ridotto a campare
giorno per giorno con vari mezzi
più o meno illeciti, è una specie di
Figaro molto interessante da
ascoltare. Finché il suo tornaconto
glielo permette, appartiene corpo e
anima a chi lo paga, e non è nel
suo
interesse
ingannarci.
D'altronde, lo faccio sorvegliare in
modo che non si abbiano sorprese
da lui."
"Le informazioni che ci diede
erano precise."
"Ha una sorta di probità a modo
suo, e vi assicuro, mio caro
Murph, che il signor Badinot è un
tipo di quelli che non s'incontrano
né sono possibili che a Parigi.
Divertirebbe assai Sua Altezza, se
non vi fosse la necessità di tenerlo
lontano da ogni rapporto con la
sua persona."
"Si potrebbe aumentare la paga del
signor Badinot: vi pare opportuna
questa gratificazione?"
"Cinquecento franchi al mese, e le
altre spese, ascendenti a un
dipresso alla medesima somma,
mi sembrano sufficienti; pare
contentissimo; poi si vedrà in
seguito."
"E non si vergogna del mestiere
che fa?"
"Lui! Se ne fa anzi un vanto! Non
manca mai, nel presentarmi i suoi
rapporti, di assumere un'aria
d'importanza,
quasi
direi
diplomatica. Il briccone fa mostra
che si tratti d'affari di Stato e si
meraviglia delle occulte relazioni
che possono esistere fra gli
interessi più diversi dei singoli e i
destini degli imperi. Sì, certe volte
ha l'impudenza di dirmi: "Quante
complicazioni ignote al volgo nel
governo di uno Stato! Chi direbbe,
signor barone, che le note che io vi
trasmetto influiscono in qualche
modo
sul
sistema
politico
dell'Europa!"."
"Eh, già, i farabutti si procurano
sempre qualche illusione sulla
propria viltà; è sempre lusinghiero
per la gente onesta. Ma queste
notizie, mio caro barone?"
"Eccole,
quasi
interamente
compilate su rapporto del signor
Badinot."
"Vi ascolto." Il signor di Graün
lesse ciò che segue: NOTA
RELATIVA A FLEUR-DE-MARIE
""Verso il principio del 1827, un
uomo
chiamato
Pierre
Tournemine,
attualmente
detenuto
nella
prigione
di
Rochefort
per
delitti
di
falsificazione, propose alla donna
Gervaise, detta la Chouette, di
addossarsi per sempre la cura di
una bambina di cinque o sei anni,
ricevendo per salario mille franchi
in una sola volta."" "Ahimè,
barone,"
disse
Murph,
interrompendo il signor di Graün
"nel 1827 monsignore ebbe notizia
della morte della disgraziata
bambina che piange con tanto
dolore... Per questa e molte altre
cause fu quell'annata funestissima
al nostro padrone."
"Gli anni felici sono rari, mio
povero Murph! Ma continuiamo.
"Concluso il negozio, la
bambina restò con questa donna
durante due anni, alla fine dei
quali sparì, volendo sottrarsi alle
angherie da cui era oppressa. La
Chouette non ne aveva più sentito
parlare da parecchio tempo,
quando la rivide circa sei
settimane fa, per la prima volta, in
una bettola della Cité. La
ragazzetta, ormai diventata una
fanciulla,
portava
allora
il
soprannome di Goualeuse.
"Pochi giorni prima di tale
incontro, Tournemine, che il
Maître ha conosciuto nella
prigione di Rochefort, aveva fatto
consegnare a Bras-Rouge (solito e
misterioso corrispondente dei
forzati detenuti o liberati) una
lettera
particolareggiata
concernente
la
creatura
in
precedenza affidata alla Gervaise,
detta la Chouette. Da questa
lettera e dalle dichiarazioni della
Chouette medesima, risulta che
una certa Séraphine, serva di un
notaio chiamato Jacques Ferrand,
aveva incaricato Tournemine, nel
1827, di trovarle una donna che
per mille franchi acconsentisse a
prendere presso di sé una ragazza
di cinque o sei anni che si aveva
intenzione
di
abbandonare,
conforme a quanto accennato di
sopra. La Chouette accettò la
proposta.
"Lo scopo di Tournemine, nel
dare questi chiarimenti a BrasRouge, era di porre quest'ultimo
in grado di fare, per mezzo di una
terza persona, qualche estorsione
alla Séraphine, minacciandola di
pubblicare quell'avventura, da
lungo
tempo
dimenticata.
Tournemine assicura che la
suddetta Séraphine era stata
incaricata da personaggi incogniti.
"Bras-Rouge aveva confidato
quella sua missiva alla Chouette,
associatasi da qualche tempo ai
delitti del Maître d'école; il che
spiega in qual maniera queste
informazioni si trovassero nelle
mani dell'assassino, e come
all'atto del suo incontro con la
Goualeuse
alla taverna del
Coniglio Bianco la Chouette, per
dar tormento a Fleur-de-Marie, le
dicesse: 'Si sono ritrovati i tuoi
parenti, ma tu non li conoscerai!'.
"La questione era sapere se la
lettera di Tournemine, relativa alla
ragazza e consegnata da lui in
passato alla Chouette, contenesse
la verità. Si sono ricercati nuovi
lumi presso la signora Séraphine
ed il notaio Jacques Ferrand.
Costoro esistono ambedue. Il
notaio abita in rue du Sentier 41;
passa per devoto e austero, e
frequenta molto le chiese; tiene
nel trattamento degli affari una
regolarità eccessiva che si taccia di
durezza; il suo studio è eccellente;
vive con tale economia, che si
accosta all'avarizia; ed ha sempre
per donna di fatica la signora
Séraphine. Egli, che prima era
povero, ha comprato uno studio
avviato per trecentocinquantamila
franchi. Il denaro gli è stato
somministrato, mediante buone
garanzie, dal signor Charles
Robert, ufficiale superiore nello
Stato Maggiore della Guardia
Nazionale di Parigi, bel giovane in
gran voga in certi ambienti, e che
divide con il signor Jacques
Ferrand i profitti dello studio
medesimo, valutati sui franchi
cinquantamila all'anno: ben inteso
senza ingerirsi per nulla nelle
funzioni notariali.
"Vi sono dei maldicenti che
asseriscono che in seguito a
fortunate speculazioni, ossia a
giochi di borsa, tentati d'accordo
con Charles Robert, il legale
sarebbe a quest'ora in grado di
rimborsare
i
trecentocinquantamila
franchi
ricevuti; ma molti ritengono
queste voci orribili calunnie, data
la buona reputazione di cui egli
gode. Sembra dunque sicuro che la
signora Séraphine, donna di fatica
in casa di questo sant'uomo, possa
fornire delle notizie preziose sopra
la nascita della Goualeuse.""
"A meraviglia, caro barone!" disse
Murph. "Vi è qualcosa di
interessante nelle relazioni di quel
Tournemine. Forse troveremo
presso il notaio i mezzi per
scoprire i genitori di quella
infelice giovane. Adesso, avete
ragguagli ugualmente importanti
sul figliolo del Maître?"
"Forse meno precisi, ma assai
soddisfacenti."
"Davvero, il vostro signor Badinot
è un tesoro."
"Vedete che quel Bras-Rouge è la
molla di tutto questo maneggio.
Badinot, che deve avere rapporti
con la polizia, ce lo aveva di già
segnalato come intermediario di
parecchi forzati all'epoca dei primi
passi fatti da monsignore per
ritrovare il figlio della signora
Georges Duresnel, disgraziata
moglie di quel mostro del Maître."
"Sicuramente:
ed
appunto
nell'andare a cercare Bras-Rouge
nel suo stambugio della Cité in
rue aux Fèves 13, monsignore
incontrò lo Chourineur e la
Goualeuse. Sua Altezza aveva
voluto assolutamente profittare
dell'occasione
per
visitare
quell'orribile tana, pensando che
vi
avrebbe
trovato
qualche
creatura da togliere all'abiezione. I
suoi
presentimenti
non
lo
ingannavano. Ma, oh Dio, a costo
di quanti pericoli!"
"Pericoli,
ai
quali
voi
coraggiosamente vi associaste,
mio caro Murph!"
"E non sono io per questo
"carbonaio ordinario" di Sua
Altezza?" rispose sorridendo lo
"squire".
"Dite
piuttosto
intrepida
guardia del corpo, mio degno
amico. Ma già, il parlare del vostro
coraggio e del vostro zelo non è
che una continua ripetizione. Io
dunque proseguo il mio rapporto...
Ecco la nota relativa a François
Germain, figlio della signora
Georges e di Anselme Duresnel
detto altrimenti il Maître d'école."
5.
Notizie su François Germain.
Il signor di Graün continuò:
""Circa diciotto mesi fa, un
giovane, di
nome
François
Germain,
giunse
a
Parigi,
proveniente da Nantes, dov'era
impiegato
presso
l'istituto
bancario Noël e Co.
"Appare dalle dichiarazioni del
Maître d'école, e da molte lettere
trovategli
addosso,
che
lo
scellerato a cui aveva affidato il
proprio figlio, per pervertirlo e
impegnarlo in seguito in azioni
criminali, svelò quest'orribile
trama al giovane, proponendogli di
assecondare un tentativo di furto e
falsificazione
che
si voleva
commettere a danno dell'istituto
Noël e Co. presso la quale lavorava
François Germain. Quest'ultimo
ricusò l'offerta con indignazione,
ma non intendendo denunciare
l'uomo che lo aveva allevato,
scrisse un biglietto anonimo al
suo principale, lo informò del
complotto,
e
abbandonò
segretamente Nantes per sottrarsi
a coloro che avevano procurato di
renderlo strumento e complice dei
loro misfatti.
"Questi sciagurati, udito della
partenza di Germain, vennero a
Parigi, si abboccarono con BrasRouge, e si misero a cercare il
figlio del Maître, senza dubbio con
sinistre intenzioni, poiché questo
sapeva i loro progetti. Dopo molte
e lunghe ricerche, riuscirono a
scoprire il suo domicilio, ma era
tardi. Perché Germain, avendo
incontrato colui che aveva cercato
di
corromperlo,
cambiò
improvvisamente dimora, e in tal
modo sfuggì di nuovo ai suoi
persecutori.
"Sono circa sei settimane che
questi riuscirono a sapere che egli
abitava in rue du Temple 17; e una
sera, nel tornarsene a casa, fu in
procinto di rimanere vittima di un
tranello. (Il Maître d'école aveva
celato questa circostanza a
monsignore.) Germain indovinò
da dove venisse il colpo, lasciò la
rue du Temple, e quindi si
ricominciò a ignorare il luogo
della sua residenza.
"Le cose erano a questo punto,
quando il Maître fu punito dei
suoi delitti. E ora le ricerche sono
state riprese per ordine di
monsignore. Eccone il risultato:
"François Germain ha abitato
quasi tre mesi in rue du Temple
17, in una casa curiosissima per i
costumi e per le singolari
industrie della maggior parte di
quelli che la occupano. Egli era
assai ben visto in grazia del suo
carattere gioviale, servizievole e
schietto. Benché mostrasse vivere
di rendite o di paghe molto
modeste, aveva usato le più
commoventi attenzioni a una
famiglia indigente che sta nelle
soffitte di quella casa. Invano si
sono fatte in detta rue du Temple
domande sul nuovo alloggio di
François
Germain
e
sulla
professione da lui esercitata; ma si
suppone che fosse impiegato in
qualche ufficio o in una ditta
commerciale, giacché andava fuori
la mattina e tornava la sera verso
le dieci. L'unica persona che
sappia con certezza dove egli si
trovi attualmente è una pigionale
di rue du Temple: costei, che
sembra in intima relazione con
Germain,
è
una
vezzosa
artigianella, chiamata Rigolette.
Essa occupa una stanza vicina a
quella che aveva Germain, la cui
stanza, vacante dopo la sua
partenza, è ora da appigionare, e
appunto sotto il pretesto di volerla
prendere in affitto, si è potuto
raccogliere
queste
informazioni...""
"Rigolette!" fece d'un tratto
Murph, che da un po' sembrava
riflettere. "Rigolette! Ma io
conosco questo nome!"
"Come, Sir Walther Murph?" disse
ridendo il barone. "Come, voi,
degno e rispettabile padre di
famiglia,
conoscete
delle
artigianelle, ed il nome di una
Rigolette non vi giunge nuovo?
Ohibò, ohibò!"
"Perbacco! Monsignore mi ha
messo in grado di avere delle
relazioni così bizzarre, che non
avreste motivo di stupirvi di
questa,
barone
mio!
Ma
aspettate... Sì, adesso mi ricordo...
Monsignore, raccontandomi la
storia della Goualeuse, non poteva
fare a meno di ridere di questo
nome di Rigolette... Se ben
ricordo, era un'amica di prigione
della povera Fleur-de-Marie."
"Ebbene, al punto in cui siamo,
madamigella
Rigolette
può
diventarci utilissima. Io termino il
mio rapporto: "Sarebbe forse
vantaggioso il pigliare a pigione la
cameretta vacante nella casa della
rue du Temple. Non si aveva
ordine di portare oltre le indagini:
ma dietro alcune parole sfuggite
alla portinaia, c'è da credere non
solo che si possano rinvenire in
quel caseggiato notizie certe sopra
il figlio del Maître per mezzo della
giovane Rigolette, ma che sia
facile a monsignore osservare là
costumi, industrie e soprattutto
miserie,
che
egli
neppure
immagina che esistano.""
6.
Il marchese d'Harville.
"Sicché, vedete, caro Murph"
disse il signore di Graün terminata
la lettura della nota, che consegnò
allo "squire"
"secondo i dati da noi raccolti,
bisogna individuare dal notaio
Jacques Ferrand le tracce dei
genitori della Goualeuse, e dalla
Rigolette l'attuale abitazione di
François Germain. Mi pare che sia
già molto sapere dove cercare quel
che si cerca."
"Senza dubbio, barone; per di più
monsignore troverà, ne sono
certo,
un'ampia
messe
di
informazioni nella casa di cui si
parla. Ma questo non basta: vi
siete informato sul marchese
d'Harville?"
"Sì, e almeno sul particolare dei
denari i timori di Sua Altezza non
sono fondati; il signor Badinot
afferma, e io lo credo bene
informato, che la ricchezza del
marchese non sia stata mai più
solida e meglio amministrata di
adesso."
"Che volete? Dopo aver tentato
inutilmente di sapere la causa
della grave preoccupazione che
consumava il signor d'Harville,
monsignore si era immaginato che
fosse in ristrettezze economiche:
allora avrebbe fatto di tutto pur di
soccorrerlo, pur con quella
delicatezza che conoscete; ma
poiché si è ingannato, gli converrà
rinunciare
a
spiegare
quest'enigma, con suo sommo
dispiacere, poiché ha per il signor
d'Harville un grandissimo affetto."
"È naturale! Sua Altezza non ha
dimenticato quanto suo padre
deve al padre del marchese. Vi è
noto, mio caro Murph, che nel
1815,
all'epoca
del
nuovo
ordinamento degli Stati della
Confederazione Germanica, il
padre di Sua Altezza correva
rischio di esser rimosso a motivo
del suo attaccamento conosciuto e
provato per Napoleone? Il defunto
vecchio marchese gli rese in tale
occasione immensi servizi, grazie
all'amicizia di cui l'onorava
l'imperatore Alessandro; amicizia
che
aveva
avuto
inizio
dall'emigrazione del marchese in
Russia, e che, da esso invocata,
ebbe una potentissima influenza
sulle deliberazioni del Congresso
dove si dibattevano gl'interessi dei
principi della Confederazione
Germanica."
"E vedete, barone, come spesso le
azioni nobili si incatenino; nel '92
il padre del marchese è proscritto;
trova in Germania, presso il padre
di monsignore, l'ospitalità più
generosa: dopo un soggiorno di tre
anni nella nostra Corte, parte per
la Russia, laggiù si merita la
benevolenza dello zar, e con l'aiuto
di questo è poi utilissimo al
principe
che
l'aveva
così
nobilmente accolto."
"Non fu nel 1815, durante la
permanenza del vecchio d'Harville
presso il granduca allora regnante,
che
cominciò
l'intimità fra
monsignore
e
il
giovane
d'Harville?"
"Sì, ed ambedue conservarono i
più cari ricordi di quel periodo
della loro giovinezza. Né basta:
monsignore ha tanta gratitudine
verso l'uomo, ormai scomparso,
che con le sue premure fu così
utile al padre, che tutti coloro che
appartengono
alla
famiglia
d'Harville hanno diritto alla
benevolenza di Sua Altezza. È così:
non tanto alle sventure ed alle
virtù sue, che a questa parentela,
la povera signora Georges è
debitrice
delle
incessanti
attenzioni di Sua Altezza."
"La signora Georges! La moglie di
Duresnel,
del
forzato
soprannominato
il
Maître
d'école?" esclamò il barone.
"Appunto: la madre di François
Germain, che noi ricerchiamo, e
che, spero, troveremo..."
"È parente del signor d'Harville?"
"Era cugina ed intima amica di sua
madre. Il vecchio marchese aveva
per la Georges il più vivo
attaccamento."
"Ma come mai la famiglia
d'Harville le lasciò sposare quel
mostro di Duresnel, mio caro
Murph?"
"Il padre di questa infelice, il
signor di Lagny, intendente della
Linguadoca
prima
della
Rivoluzione, possedeva dei beni
estesissimi. Si sottrasse alla
proscrizione. Nei primi giorni di
calma,
che
succedettero
a
quell'epoca terribile, pensò di dar
marito alla figlia. Si presentò
Duresnel.
Apparteneva
a
un'ottima famiglia della nobiltà di
toga; era ricco; celava le sue
perverse inclinazioni con molta
ipocrisia, e sposò madamigella di
Lagny. I suoi vizi, dissimulati per
qualche tempo, in breve si
manifestarono:
scialacquatore,
giocatore sfrenato, datosi alla
crapula più abbietta, trascinò nella
disgrazia la consorte. Questa non
si lagnò; occultò le proprie pene, e
dopo la morte del padre si ritirò in
un suo podere, che amministrava
da sé per distrarsi. Ben presto il
marito
ingoiò
il
comune
patrimonio nel gioco e nella fogna
d'ogni vizio; il podere dove la
Georges
Duresnel
si
era
ricoverata, fu venduto. Allora lei,
conducendo con sé il figlio, andò a
trovare la sua parente, marchesa
d'Harville,
alla
quale
era
affezionata come ad una sorella.
Duresnel, dopo aver dissipato tutti
i suoi averi e la dote della moglie,
si vide ridotto a ricorrere ad altri
guadagni. Si procurò, per mezzo
del delitto, nuove risorse, divenne
falsificatore, ladro, assassino, fu
condannato alla galera a vita, e
rubò il figlio alla consorte per
consegnarlo a un briccone della
sua risma. Voi sapete il resto."
"Ma monsignore come ritrovò la
Duresnel?"
"Quando Duresnel fu mandato in
galera, la moglie, ridotta in
estrema miseria, assunse il nome
di Georges."
"Ed in questa dura situazione, non
si rivolse dunque alla marchesa
d'Harville sua congiunta e buona
amica?"
"La marchesa era morta prima
della condanna di Duresnel, e,
dopo la sua scomparsa, la signora
Georges, per la troppa vergogna,
non osò mai presentarsi alla sua
famiglia, che invece le avrebbe
dato tutto l'aiuto che meritava
tanta sfortuna. Una sola volta,
spinta dall'indigenza e dalle
malattie, si risolse ad implorare
assistenza dal signor d'Harville, il
figlio della sua migliore amica... E
fu così che monsignore la
incontrò."
"In qual modo?"
"Egli andava un giorno dal signor
d'Harville; a pochi passi, davanti a
lui, camminava una povera donna,
vestita modestamente, pallida,
sofferente,
avvilita.
Questa,
arrivata al portone del palazzo
d'Harville, al momento di bussare
esitò
molto,
poi
con
un
movimento repentino se ne tornò
indietro, quasi le mancasse il
coraggio. Monsignore, attonito, la
seguì, attratto dall'espressione di
dolcezza e di mestizia del suo
volto. Lei entrò in una misera
casa. Monsignore prese delle
informazioni, e le ebbe ottime. Lei
lavorava per mantenersi, ma le
mancavano appunto il lavoro e la
salute, si vedeva ridotta alla più
orribile miseria. L'indomani andai
da lei con monsignore. Si giunse
appena in tempo perché non
morisse di fame. Dopo lunga
infermità, durante la quale le fu
prodigata la massima assistenza,
la signora Georges, grata alla
bontà di monsignore, gli raccontò
(benché non sapesse, e tuttora
l'ignora, il nome di lui e il suo
rango) la propria vita, la condanna
di Duresnel e il ratto del figlio."
"Fu dunque così che Sua Altezza
seppe che la Georges apparteneva
alla casa d'Harville?"
"Precisamente. E dopo questa
spiegazione, monsignore, che
aveva apprezzato le buone qualità
della signora Georges, le fece
abbandonare Parigi, e la stabilì
nella fattoria di Bouqueval, dove è
attualmente,
insieme
alla
Goualeuse. Lei ritrovò in quel
tranquillo ritiro, se non la felicità,
almeno la quiete, e poté distrarsi
dalle sue pene amministrando da
sola quel podere... Monsignore,
tanto per risparmiare la dolorosa
suscettibilità
della
signora
Georges, e anche perché non gli
piace ostentare ciò che fa, ha
lasciato
ignorare
al
signor
d'Harville di aver tolta la sua
parente da un'orribile situazione."
"Adesso comprendo il duplice
interesse per rintracciare il figlio
di quella disgraziata donna!"
"E da ciò, inoltre, giudicherete,
barone caro, l'attaccamento che ha
per tutti gli individui di quella
casa, e il rincrescimento che sente
vedendo il marchese afflitto,
mentre ha ora qualche buona
ragione per essere più contento."
"Infatti, che manca ora al signor
d'Harville? Egli ha tutto: nascita,
ricchezze, spirito, gioventù: ha una
moglie molto gentile, savia non
meno che bella..."
"È verissimo. E Sua Altezza non
pensò
a
procurarsi
delle
informazioni se non dopo che
ebbe tentato inutilmente di
penetrare la causa di una così tetra
malinconia. Il signor d'Harville si
è mostrato assai riconoscente alle
sue premure, ma è sempre
rimasto in perfetto silenzio sulle
cause della sua mestizia..."
"Eppure
lo
dicono
molto
innamorato della moglie, e lei non
gli dà motivo di gelosia. Io la vedo
spesso: è attorniata da molti, come
succede sempre a una dama bella
e graziosa; ma la sua reputazione
non
ne
ha
mai
sofferto
minimamente."
"Oh, il marchese loda sempre sua
moglie... Ebbe soltanto con lei una
piccola disputa a proposito della
contessa Sarah Mac-Gregor."
"La frequenta dunque?"
"Per
una
delle
più
tristi
coincidenze, il padre del marchese
d'Harville conobbe, sono già
trascorsi diciassette o diciotto
anni, Sarah Seyton di Halsbury e
suo
fratello
Tom,
quando
soggiornavano a Parigi protetti
dall'ambasciatrice
d'Inghilterra.
Sentendo che si trasferivano in
Germania, il vecchio signor
d'Harville diede loro delle lettere
di presentazione per il padre di
monsignore, con il quale era in
corrispondenza. Ahimè, mio caro
di Graün! Forse senza tali
raccomandazioni non sarebbero
accaduti
tanti
guai, perché
monsignore non avrebbe avuto a
che fare con quella donna. Quando
la contessa Sarah è tornata qui,
sapendo l'amicizia di Sua Altezza
per il marchese, si è fatta
presentare al palazzo d'Harville,
con la speranza d'incontrarvi
monsignore, giacché è tanto
accanita nel perseguitarlo, quanto
egli è tenace a scansarla."
"Travestirsi da uomo per scovare
Sua Altezza fino nella Cité! Non ci
voleva che lei per simili idee..."
"Si lusingava forse di commuovere
monsignore
e
forzarlo
a
quell'incontro che egli ha sempre
evitato. Riguardo alla signora
d'Harville, come dicevo, suo
marito, a cui monsignore aveva
parlato di Sarah, le ha consigliato
di praticarla il meno possibile; ma
la marchesa, sedotta dalle ipocrite
adulazioni della contessa, si è un
poco
sdegnata
di
tale
suggerimento. E da questo sono
nati alcuni piccoli dissapori, che
però non possono certo causare il
fosco abbattimento del marchese."
"Ah, le donne... le donne! Mio caro
Murph, mi rincresce molto che la
signora d'Harville si trovi in
rapporto con questa Sarah. Questa
giovane e avvenente marchesina
non può aver altro che guai o
dispiaceri da quella creatura
diabolica..."
"A
proposito
di
creature
diaboliche" disse Murph "ecco un
dispaccio relativo a Cecily, indegna
sposa del degno David."
"A dirla fra noi, amico Murph,
questa audace meticcia si sarebbe
ben meritata il tremendo castigo
che il suo consorte, il caro dottore,
inflisse al Maître per ordine di Sua
Altezza: anche lei ha fatto scorrere
il sangue, e la sua corruzione fa
spavento."
"E malgrado ciò, è tanto bella e
seducente! Un'anima perversa
dietro un volto graziosissimo, mi
fa sempre doppio orrore."
"Per questo Cecily è ancor più
detestabile. Ma io spero che
questo dispaccio annulli gli ultimi
ordini
dati
da
monsignore
relativamente a quella sciagurata."
"Al contrario, barone."
"Monsignore vuol sempre che
l'aiutino a fuggire dal forte dov'era
stata rinchiusa a vita?"
"Sì."
"E che il suo supposto rapitore la
conduca in Francia? a Parigi?"
"Sì, e vuole di più: impone di
sollecitare nel miglior modo
possibile la partenza di Cecily, e
farla viaggiare assai rapidamente
perché arrivi qui al più tardi fra
quindici giorni."
"Io mi confondo: monsignore
aveva sempre manifestato tanta
avversione per lei..."
"E ne dimostra adesso più che
mai, se è possibile."
"Eppure la fa venire presso di sé!
Del resto capisco che sarà più
facile, avrà pensato Sua Altezza,
ottenere l'estradizione di Cecily se
non adempie a ciò che ci si aspetta
da lei. Si ordina al figlio del
custode
della
fortezza
di
Gerolstein di rapire Cecily,
fingendo d'esserne invaghito, e gli
si procurano tutti i mezzi
necessari per eseguire questo
progetto. La meticcia, mille volte
felice d'avere quest'occasione di
scappare, se ne andrà con il
supposto rapitore, e giungerà a
Parigi. Questo sta bene. Ma
rimarrà sotto la minaccia della sua
condanna. In sostanza sarà una
prigioniera evasa, ed io sono
pienamente
in
grado
di
reclamarne l'estradizione appena
monsignore lo desideri."
"Si vedrà, si vedrà, caro di Graün.
Intanto vi prego, dietro ordine di
monsignore, di scrivere alla nostra
cancelleria
per
chiedere,
rapidamente, una copia legalizzata
del contratto di matrimonio di
David, poiché si sposò nel palazzo
ducale, in qualità di ufficiale della
casa di Sua Altezza."
"Scrivendo con il corriere d'oggi,
avremo questo documento tutt'al
più fra otto giorni."
"Quando David ha saputo da
monsignore del prossimo arrivo di
Cecily, è stato un colpo, ma poi ha
esclamato: "Spero che Vostra
Altezza non mi obbligherà a
vedere quel mostro". "State
tranquillo"
ha
risposto
monsignore "non la vedrete... ma
ho bisogno di lei per certi
progetti..." A David è sembrato di
essere sollevato da un peso
enorme. Nonostante, ne sono
certo, ricordi ben dolorosi si siano
risvegliati in lui."
"Povero dottore! È capace di
volerle sempre bene. La vantano
ancora tanto bella!"
"Oh, è
avvenente... Troppo
avvenente! Ci vorrebbe l'occhio
spietato di un creolo per scoprire il
sangue misto nell'impercettibile
color rame che tinge leggermente
la punta delle unghie di quella
meticcia; le nostre fresche beltà
del Nord non hanno una
carnagione più trasparente, una
pelle più bianca, capelli di un
castano più dorato."
"Io ero in Francia, quando
monsignore venne dall'America
riconducendo David e Cecily: so
che quel brav'uomo è affezionato a
Sua Altezza, ma ho sempre
ignorato per quale ragione si sia
messo al servizio del nostro
padrone, e come abbia sposato
Cecily, che vidi per la prima volta
circa un anno dopo le sue nozze.
Dio sa quanti scandali c'erano già
stati per causa sua!"
"Io
posso
perfettamente
informarvi su ciò che bramate
sapere, caro barone: ero con
monsignore in quel viaggio in
America in cui egli salvò David e la
meticcia dalla sorte più orrenda."
"Raccontate, amico Murph, io
sono qua disposto ad ascoltarvi..."
disse il barone.
7.
Storia di David e di Cecily.
Murph incominciò: "Il signor
Willis, ricco piantatore americano
della Florida, aveva potuto
apprezzare in uno dei suoi giovani
schiavi neri, chiamato David e
addetto all'infermeria della sua
piantagione, non solo l'abilità, ma
anche commiserazione profonda e
solerte attenzione per i poveri
ammalati, ai quali prestava
amorosamente
l'assistenza
prescritta dai medici, insomma
una vocazione tanto singolare per
lo studio della botanica applicata
alla medicina, che senza alcuna
istruzione aveva composto e
ordinato una specie di collezione
delle piante del luogo e delle
vicinanze. La tenuta del signor
Willis, situata in riva al mare, era
lontana circa quindici o venti
leghe dalla città più vicina; e i
medici del paese, d'altronde
ignoranti,
difficilmente
si
pigliavano l'incomodo di andarvi, a
motivo della distanza e del disagio
delle vie di comunicazione. Per
rimediare a questo inconveniente,
assai grave in contrade soggette a
forti epidemie, e per aver sempre
presso di sé un abile praticante, il
colono pensò di mandare David in
Francia a imparare la medicina e
la chirurgia. Il giovane nero partì
per Parigi. Il coltivatore pagò le
spese dei suoi studi, e dopo otto
anni di assiduo lavoro, David,
addottorato nel modo migliore,
ritornò in America a porre la sua
scienza a disposizione del proprio
padrone."
"Ma
David
doveva
essersi
considerato libero ed emancipato
di fatto e di diritto, mettendo
piede in Francia" osservò il
barone.
"David però è leale" riprese
Murph. "Aveva promesso al signor
Willis di tornare, e tornò. E poi
non considerava, diremo così,
come cosa propria un'istruzione
acquisita con i denari del padrone.
Inoltre si lusingava di poter
mitigare
moralmente
e
fisicamente le sofferenze degli
schiavi suoi antichi compagni, e si
proponeva di essere non solo il
medico, ma anche il loro sostegno
e il loro difensore presso il
colono."
"Bisogna, infatti, esser dotati di
una rara probità e di un santo
amore per i propri simili, per
riassoggettarsi a un padrone, dopo
una permanenza di otto anni a
Parigi, in mezzo alla gioventù più
democratica d'Europa."
"Da questo tratto giudicate
dell'uomo. Eccolo dunque in
Florida, e, conviene dirlo, trattato
dal signor Willis con molta
considerazione
e
bontà,
mangiando alla sua mensa,
alloggiato
nella
sua
casa.
D'altronde questo colono, stupido,
malvagio, sensuale, e despota,
come sono alcuni creoli, si
credette generosissimo, dandogli
un salario di seicento franchi.
Dopo
pochi
mesi
scoppia
un'epidemia
di
tifo
nella
piantagione: il signor Willis si
ammala, e in breve guarisce per le
assidue cure di David. Su trenta
neri gravemente infermi, due
soltanto muoiono. Il piantatore,
riconoscente per i servizi resi da
David, accresce la sua paga a mille
e duecento franchi. Il nostro
dottore nero si trovava molto
bene. Gli antichi compagni lo
consideravano la loro Provvidenza,
egli aveva ottenuto con difficoltà
dal
signor
Willis
qualche
miglioramento
nella
loro
condizione, e contava di ottenere
di meglio nell'avvenire. Intanto li
moralizzava, li consolava, li
esortava
alla
rassegnazione,
parlando loro di Dio, che vigila sui
neri come sui bianchi, di un altro
mondo, non popolato di padroni e
di schiavi, ma di giusti e di
perversi, di un'altra vita eterna,
dove i neri non erano più la
proprietà, e le bestie da soma dei
bianchi, ma dove le vittime erano
così felici che pregavano in cielo
per i loro carnefici... Che vi dirò? A
disgraziati che, all'opposto degli
altri uomini, contano con gioia
amara il passo che ogni giorno
muoiono verso la tomba, a quei
disgraziati che speravano soltanto
nel nulla, nella distruzione di sé,
David fece sperare una libertà
immortale, e le catene parevano a
essi meno pesanti, ed i lavori
meno faticosi. David era il loro
idolo. Così trascorse un anno
all'incirca. Fra le più belle schiave
dell'abitazione si distingueva una
meticcia
di
quindici
anni,
chiamata Cecily. Il signor Willis
ebbe per questa un capriccio da
sultano, e, forse per la prima volta
nella sua vita, fu respinto, ed
incontrò
ostinata
resistenza.
Cecily amava... Amava David, che
durante l'ultima epidemia l'aveva
curata e salvata con ammirabile
zelo: l'amore, il più casto amore,
pagava
il
debito
della
riconoscenza. David era troppo
delicato per rendere pubblica la
sua felicità prima del momento in
cui avrebbe potuto unirsi a lei con
il matrimonio, e attendeva che lei
avesse compiuto i sedici anni. Il
signor Willis, ignaro di quello
scambievole
affetto,
gettò
superbamente il fazzoletto alla
leggiadra
meticcia.
Questa,
piangente, sgomenta, raccontò a
David i brutali tentativi a cui si era
a grande stento sottratta. Il nero la
rassicurò, e andò difilato dal
signor Willis a domandargliela in
moglie."
"Diavolo, caro Murph, temo
d'indovinare la risposta del
sultano americano... Un rifiuto?"
"Un rifiuto. Disse che la ragazza
gli piaceva e mai, in vita sua, aveva
sopportato il disprezzo di una
schiava, che voleva Cecily, e
l'avrebbe avuta, e che David
avrebbe dovuto scegliersi un'altra
sposa, o un'altra amica, a suo
talento, essendovi nella tenuta
dieci meticce, belle al pari di lei.
David parlò
dell'amor
suo,
contraccambiato già da molto
tempo. Il coltivatore si strinse
nelle spalle. Il buon nero
insistette, ma tutto fu vano. Il
creolo ebbe l'impudenza di dirgli
che sarebbe stato un cattivo
esempio vedere un padrone cedere
a uno schiavo, e che non sarebbe
sceso a questo per appagare il
capriccio
di
David.
Costui
supplicò,
l'altro
s'impazientì.
David, vergognandosi di umiliarsi
di più, rammentò con fermezza i
servizi che prestava ed il proprio
disinteresse,
dacché
si
accontentava di una paga così
bassa.
Il signor Willis, irritato, gli
rispose con disprezzo, dicendogli
che era trattato anche troppo bene
per uno schiavo. A tali parole
l'indignazione di David non ebbe
freno, e per la prima volta egli
parlò da uomo illuminato intorno
ai propri diritti. Willis furibondo
lo
chiamò
servo
ribelle,
minacciandolo dei ceppi. David
proferì qualche parola amara e
violenta... Due ore dopo, legato a
un palo, lo squarciavano i colpi di
una frusta, mentre dinanzi ai suoi
occhi si trascinava Cecily nelle
stanze del piantatore."
"Il contegno di questo colono era
assurdo e orribile... Stupidità e
crudeltà al tempo stesso. Egli
aveva bisogno di David, e
nonostante ciò..."
"Tanto bisogno, che quel giorno
stesso l'impeto di furore da cui si
era lasciato trasportare, unito
all'ubriachezza in cui s'immergeva
bestialmente ogni sera, gli tirò
addosso
una
malattia
infiammatoria delle più serie, e se
ne manifestarono i sintomi con
tutta la rapidità particolare a tali
morbi. Il piantatore si mise a letto
con una febbre terribile. Manda
un espresso a cercare un medico,
ma questi non può giungere prima
di trentasei ore."
"In verità questo sembrava un
colpo della Provvidenza. La fatale
malattia era bene meritata."
"Il male avanzava. Solo David
poteva salvare il colono, ma Willis,
diffidente come tutti gli scellerati,
era convinto che il nero, per
vendicarsi, lo avrebbe avvelenato
con qualche mistura. Dopo essere
stato flagellato con le verghe,
David era stato rinchiuso in una
segreta... Dopo alcune ore, però,
impaurito dal corso della malattia,
tormentato da forti dolori, pensa,
esita, e riflettendo che, morto per
morto, gli resta almeno una
probabilità
affidandosi
alla
generosità del suo schiavo, fa
sciogliere David dalle catene..."
"E David guarì il piantatore!"
"Per cinque giorni e cinque notti
lo vegliò come avrebbe fatto con
suo
padre, combattendo
la
terribile infermità con un'abilità
sorprendente, e gli riuscì di
vincerla,
con
grandissima
meraviglia del medico chiamato,
che arrivò soltanto il terzo giorno."
"Ed una volta risanato, il
colono...?"
"Non potendo ammettere di
doversi vergognare davanti al suo
servo, fece dei sacrifici enormi pur
di trattenere nell'abitazione il
medico che erano corsi a cercare; e
David fu rimesso in carcere."
"Che orrore! Ma non me ne
stupisco. Per lui David sarebbe
stato un rimorso vivente."
"E, d'altronde, questo barbaro
contegno non era suggerito
unicamente da vendetta e gelosia.
I neri del signor Willis amavano
David con tutto il sentimento della
gratitudine; egli era stato per loro
il salvatore del corpo e dell'anima.
Sapevano le cure che egli aveva
prodigato al colono nel momento
del pericolo... Sicché, uscendo per
miracolo dall'avvilente apatia, in
cui la schiavitù fa piombare di
solito
le
creature,
quegli
sventurati
dimostrarono
chiaramente la loro indignazione,
o piuttosto il cordoglio che
provavano
quando
vedevano
David sotto i colpi di sferza... A
Willis, esacerbato, sembrò di
scorgere in quelle manifestazioni i
principi d'una sommossa...
Pensando all'influenza che
David si era acquistato su tutti, lo
credette capace di porsi alla testa
di una ribellione per vendicarsi
dell'esecrabile ingratitudine del
suo padrone... Questo assurdo
timore fu per il colono un motivo
di più per opprimere David con i
peggiori trattamenti."
"Da questo punto di vista la sua
condotta si può capire, anche se
assolutamente
non
si
può
giustificare e rimanga comunque
sempre feroce."
"Poco dopo questo avvenimento,
noi approdammo in America.
Monsignore aveva noleggiato un
brigantino danese a Saint-Thomas,
e visitammo in incognito tutte le
abitazioni del litorale americano
che costeggiavamo. Il signor Willis
ci ricevette magnificamente.
All'indomani del nostro arrivo,
la sera, dopo aver bevuto, tanto
per l'eccitazione del vino, come
per naturale iniquità ed orribile
cinismo, ci raccontò, scherzando,
la storia di David e di Cecily. Io mi
sono scordato di avvertirvi che
anche lei era stata carcerata per
averlo
respinto.
A
questo
spaventoso racconto, Sua Altezza
credette che Willis esagerasse o
fosse ubriaco. Era ubriaco, ma non
esagerava.
Per convincerci, si alzò da
tavola ordinando a uno schiavo di
prendere una lanterna e di
condurci alla prigione di David."
"Ebbene?"
"In vita mia non vidi uno
spettacolo più straziante. Scarni,
mezzo ignudi, coperti di lividi,
David e la misera donna,
incatenati alle due estremità del
carcere, somigliavano a due
spettri. La lanterna che ci
rischiarava spargeva su questa
scena una tinta anche più lugubre.
David al nostro apparire non
profferì parola; aveva uno sguardo
fermo e truce.
"Willis gli disse con barbara
ironia: ""Ebbene dottore, come
stai? Tu, che sei tanto sapiente,
salvati dunque!"
"Il nero rispose con una parola ed
un gesto, entrambi sublimi: alzò
lentamente la mano destra
coll'indice teso verso il soffitto, e,
senza guardare il colono, disse in
tono solenne: "Iddio lo farà!" e
tacque.
""Dio?" ripeté il piantatore con
una risata. "Digli pure che venga a
strapparti dalle mie mani! Lo
sfido!"
"E Willis, trasportato dalla collera
e dal vino, stendeva i pugni verso
il
cielo,
e,
bestemmiando,
esclamava: ""Sì, io sfido Iddio a
levarmi i miei schiavi, prima che
siano morti! Se non lo fa, non è
vero che esiste!""
"Era un pazzo stupido!"
"Ci prese un gran ribrezzo.
Monsignore non disse nulla. Si
uscì dalla prigione. Quell'antro era
situato in riva al mare. Torniamo
sul nostro brigantino, ancorato a
poca distanza. All'una di notte, nel
momento
in
cui
tutti
nell'abitazione
giacevano
nel
sonno più profondo, monsignore
scese a terra con otto uomini bene
armati, corse al carcere, ne fece
atterrare le porte, e liberò David e
Cecily. Le due vittime furono
trasportate a bordo senza che
nessuno se ne accorgesse. Poi
monsignore e io ci recammo alla
casa del signor Willis. Strana
bizzarria! Quegli uomini straziano
i loro schiavi, e non prendono per
sé alcuna precauzione; dormono
con gli usci e le finestre aperte.
Entriamo facilmente nella camera
del colono. Quello balza a sedere,
con il cervello ancora confuso dai
fumi dell'ebbrezza.
""Voi avete sfidato Dio a
togliervi le due vittime prima che
morissero, ed ecco che ve le ha
tolte..." disse monsignore. Poi,
prendendo un sacco che io portavo
e in cui erano venticinquemila
franchi in oro, glielo gettò sul
letto.
""Ecco quanto basta" gli gridò
"per indennizzarvi della perdita
dei due schiavi. Alla vostra
violenza che uccide, io oppongo
una violenza che salva; Dio ci
giudicherà!"
"E ce ne andammo, lasciando
Willis
stupefatto,
immoto,
credendo di sognare. Pochi minuti
dopo eravamo sul bastimento e ci
mettevamo alla vela."
"Mi sembra, caro Murph, che Sua
Altezza
indennizzasse
ben
largamente quel birbante della
perdita dei suoi schiavi, poiché, a
rigore, David non gli apparteneva
più."
"Avevamo calcolato pressappoco la
spesa fatta per i suoi studi nel
corso di otto anni, poi triplicato
almeno il valore suo e quello di
Cecily come semplici schiavi. Il
nostro operato era contrario al
diritto delle genti, lo so, ma se
aveste visto in che stato si
trovavano quegli infelici, quasi
agonizzanti, se aveste udita la
sfida sacrilega mandata all'Eterno
da quell'uomo ebbro di vino e di
ferocia, comprendereste perché
monsignore abbia voluto, come
disse in tale circostanza, farsi
ministro della Provvidenza."
"È un comportamento che può
essere sia criticato sia giustificato,
come il castigo inflitto al Maître,
mio degno "squire". E poi questa
avventura
non
ebbe
conseguenze?"
"Non poteva averne: il brigantino
batteva bandiera danese. Sua
Altezza era in perfetto incognito,
noi passavamo per ricchi inglesi:
con chi avrebbe ardito lagnarsi il
signor Willis? A chi avrebbe osato
avanzare reclami? Ci aveva detto
egli stesso (ed il medico di Sua
Altezza lo dichiarò in un processo
verbale) che i due schiavi non
sarebbero vissuti otto giorni di più
in quella spaventosa prigione. Ci
volle una grandissima assistenza
per strapparli alla morte, e da
allora in poi David è rimasto
addetto a monsignore in qualità di
medico, ed ha per lui la più sincera
devozione."
"Immagino che abbia sposato
Cecily appena giunto in Europa..."
"Questo matrimonio, che pareva
dovesse essere tanto fortunato, fu
celebrato nella cappella del
palazzo di monsignore. Ma per
uno straordinario succedersi dei
fatti, Cecily, pervenuta a una
condizione
mai
sperata,
dimenticando tutto quello che
David e lei stessa avevano
sofferto, vergognandosi in questo
mondo, affatto nuovo per lei, di
esser maritata a un nero, sedotta
da
un
uomo
orribilmente
depravato, commise un primo
delitto. Sembrava che la perversità
naturale di quella sciagurata, sino
allora sopita, attendesse soltanto
quel momento per manifestarsi
con una tremenda energia. Voi
sapete il resto, e lo scandalo delle
sue avventure. Dopo due anni,
David, che aveva avuto in Cecily
tanta fiducia quanto era l'amore
che nutriva per lei, conobbe tutte
queste infamie: un colpo di
fulmine lo tolse dalla sua cieca
tranquillità!"
"Dicono che fu sul punto di
uccidere la moglie."
"Sì, ma per le preghiere di
monsignore, acconsentì che fosse
rinchiusa per tutta la vita in una
fortezza; ed è quel carcere da cui
ora Sua Altezza la fa fuggire, con
vostra grande sorpresa, ed anche
mia, non ve lo nascondo, caro
barone."
"A parlar chiaro, la decisione di
monsignore mi fa tanto più
stupore, in quanto il Governatore
del forte lo ha avvertito varie volte
che quella donna è perversa e non
si è potuto mai vincere il suo
carattere audace e ostinato nel
vizio... E tuttavia Sua Altezza
persiste a chiamarla qui... A che
scopo? per quale motivo?"
"Ecco, barone, ciò che ignoro come
voi. Ma è tardi, e Sua Altezza
desidera che il vostro corriere
parta, al più presto possibile, per
Gerolstein."
"Prima di due ore sarà in viaggio.
Sicché, mio caro Murph, a
stasera..."
"A stasera?"
"Vi siete forse scordato che c'è un
gran ballo all'ambasciata di * e che
Sua Altezza deve andarci?"
"È vero, dopo l'assenza del
colonnello Warner e del conte
d'Harneim, mi dimentico sempre
che svolgo contemporaneamente
le funzioni di ciambellano e
d'aiutante di campo."
"A proposito del conte e del
colonnello, quando tornano? Le
loro missioni saranno presto
terminate?"
"Monsignore, voi lo sapete, li tiene
lontani più che può per avere
maggiore libertà e solitudine. In
quanto all'incombenza che ha dato
loro
per
sbarazzarsene
pulitamente, mandandoli uno ad
Avignone e l'altro a Strasburgo, ve
la confiderò... un giorno che
saremo tutti e due di malumore,
giacché sfido il più cupo
ipocondriaco a non scoppiare dalle
risa non soltanto nel sentire
questo racconto, ma anche
nell'ascoltare certi brani dei
dispacci di quei due degni
gentiluomini che prendono i loro
supposti incarichi con una serietà
singolare."
"Sinceramente non ho mai capito
perché Sua Altezza abbia preso il
colonnello e il conte al suo
servizio particolare."
"Come! Il colonnello Warner non
è il tipo mirabilissimo di militare?
C'è in tutta la Confederazione
Germanica un più bell'uomo, più
bei baffi, un più bel portamento
marziale? E quando è in tenuta di
gala, attillato, gingillato, quasi
imbrigliato nella sua bella divisa,
si può vedere un più trionfante,
più glorioso, più altero, più bello
animale?"
"È vero, ma appunto questi pregi
gli impediscono di essere molto
spiritoso."
"Ebbene, monsignore dice che
grazie al colonnello si è abituato a
trovare tollerabili le persone più
fastidiose del mondo. Prima di
certe udienze lunghissime, eterne,
si rinchiude una mezz'ora con il
colonnello, e poi esce di là vispo,
allegro e pronto a sfidare la stessa
noia."
"Proprio come il soldato romano
prima di una marcia calzava
sandali di piombo per trovare,
dopo averli tolti, più leggera ogni
altra fatica. Adesso apprezzo tutta
l'utilità del colonnello... Ma il
conte d'Harneim?"
"È
anch'egli
utilissimo
a
monsignore. Udendo sempre al
suo fianco rumoreggiare quel
vecchio sonaglio vuoto, brillante e
sonoro, osservando quella bolla di
sapone così gonfia, così magnifica
e diafana, che rappresenta la parte
teatrale e puerile del potere
sovrano, monsignore sente più
che mai quanta sia la vanità di tali
sterili pompe, e, per contrasto,
spesso dal contemplare l'inutile e
lucente ciambellano gli sono
venute le idee le più serie e
feconde."
"Bisogna poi essere giusti, caro
Murph: io vi domando in che
Corte si troverebbe un modello
più completo del ciambellano? Chi
conosce
meglio
di
questo
eccellente
d'Harneim
le
innumerevoli regole e tradizioni
dell'etichetta? Chi sa portare con
maggior gravità una croce di
smalto al collo e con più maestria
una chiave d'oro addosso?"
"A questo proposito, barone,
monsignore dice che il didietro di
un ciambellano ha una fisionomia
tutta sua, cioè, dice, incute un po'
di soggezione e molto rispetto,
giacché, oh peccato!, dietro al
ciambellano risplende il segno
simbolico della sua carica, e, a
detta di monsignore, pare che il
degno
d'Harneim
si
voglia
presentare con le spalle voltate
alla gente perché si giudichi subito
tutta la sua importanza."
"Il fatto è che l'incessante oggetto
delle meditazioni del conte è la
questione di sapere per quale
impulso fatale la chiave sia stata
messa dietro agli uomini della sua
carica, mentre, come osserva
giudiziosamente,
ma
con
corruccio: "Che diavolo! Non si
aprono mica gli usci con le
spalle!"."
"Barone, il corriere! il corriere!"
disse
Murph,
additandogli
l'orologio a pendolo.
"Ah, siete un benedetto uomo
che mi fate chiacchierare! È tutta
colpa vostra... Presentate i miei
ossequi a Sua Altezza" rispose il
signor di Graün, correndo a
prendere il suo cappello "e a
stasera, caro Murph."
"A stasera, barone, un po' tardi
però, giacché sono sicuro che
monsignore vorrà visitare oggi
stesso la misteriosa casa della rue
du Temple."
8.
Un caseggiato nella rue du
Temple.
Per trarre profitto dalle notizie
che il barone di Graün aveva
raccolto sulla Goualeuse e su
Germain, figlio del Maître,
Rodolphe doveva recarsi in rue du
Temple e dal notaio Ferrand. Da
questo, per ottenere dalla signora
Séraphine qualche indizio sulla
famiglia di Fleur-de-Marie; nella
casa in rue du Temple, poco prima
occupata da Germain, per qualche
indicazione sulla nuova abitazione
di questo giovane dalla Rigolette.
Impresa molto difficile, poiché
probabilmente Rigolette sapeva
quanto importasse al figlio del
Maître che tutti ignorassero il suo
domicilio.
Prendendo a pigione nella casa
in rue du Temple la stanza già
abitata da Germain, Rodolphe
agevolava le indagini, e si metteva
in grado di osservare da vicino le
varie persone che abitavano la
casa. Nel giorno stesso della
conversazione fra Murph e di
Graün, si recò verso le tre
pomeridiane nella rue du Temple,
benché facesse un pessimo tempo
invernale. Quel caseggiato, al
centro di un quartiere popoloso e
mercantile, nulla offriva di
particolare
all'aspetto:
si
componeva
del
pianterreno,
occupato da un venditore di
liquori, e quattro piani superiori
con le soffitte.
Un andito, stretto e scuro,
conduceva a una piccola chiostra,
o piuttosto a una specie di pozzo
quadrato di cinque o sei piedi di
larghezza, privo d'aria e di luce,
infetto ricettacolo di tutte le
immondizie che vi piovevano dai
piani superiori, gettate da certi
abbaini senza vetri. Ai piedi di una
scala umida e nera si vedeva lo
stanzino del portinaio, oscuro,
affumicato da una lampada anche
in
pieno
pomeriggio
per
rischiarare quell'antro dove noi
accompagneremo
Rodolphe,
vestito come usano i giovani di
bottega
nei
giorni
feriali.
Indossava un soprabito di colore
molto
incerto, un
cappello
gualcito, la cravatta rossa, grosse
scarpe
e
l'ombrello.
Per
completare l'illusione, teneva
sotto il braccio un rotolo di stoffe
diligentemente avvolto.
Entrò
dal
portinaio
per
chiedere che lo conducessero a
vedere la stanza libera.
Una lucerna di latta, posta
dietro un globo di vetro pieno
d'acqua, mandava una scarsa luce.
In fondo c'era il letto, coperto da
una trapunta formata da una
quantità di pezzetti di stoffa di più
specie e colori; a sinistra un
cassettone di noce, con il ripiano
di marmo.
Un piccolo san Giovanni di
cera, con l'agnellino bianco e la
parrucca bionda, sotto una
campana di vetro, le cui crepe
erano ingegnosamente consolidate
da strisce di carta blu, due vecchi
candelieri placcati, arrossati dal
tempo, che invece di candele
reggevano due arance ornate di
borchiette, offerte senza dubbio
recentemente alla portinaia come
regalo di capodanno; infine due
scatole, una di paglia a vari colori,
e l'altra coperta da piccole
conchiglie. Questi due oggetti
d'arte puzzavano di galera o di
casa di detenzione(3). Infine fra
queste scatole, e sotto una
pendola, si ammirava un paio di
stivali, piccoli, di marocchino
rosso, adatti a un fantoccio, ma
ben lavorati.
Questo capo d'opera, come
dicevano gli antichi artigiani,
unito a un orribile puzzo di cuoio
stantio, ed a fantastici arabeschi
formati lungo le pareti da un
numero immenso di scarpe usate,
testimoniavano che il calzolaio
aveva lavorato molto prima di
abbassarsi a rattoppare. Quando
Rodolphe si avventurò in quel
bugigattolo, essendo assente il
portinaio Pipelet, ne faceva le veci
la Pipelet, sua consorte, che
seduta vicino a una stufa in mezzo
alla guardiola, sembrava attenta a
sentir bollire la pignatta.
L'Hogarth francese, Henri
Monnier, ha così egregiamente
dipinto la portinaia, che noi ci
accontenteremo di pregare il
lettore, qualora voglia figurarsi la
Pipelet,
di
richiamarsi
alla
memoria la portinaia più brutta,
grinzosa, bernoccoluta, sordida,
lacera, stizzosa e velenosa, fra
tutte quelle immortalate da quel
valentissimo artista.
Il
solo
tratto
che
ci
permettiamo di aggiungere a
questo ideale, è la bizzarra
capigliatura, composta di una
parrucca tonda, bionda in origine,
ma cosparsa dall'uso e dal tempo
di tinte rossicce, scure e giallastre,
che, per così dire, smaltavano
alcune ciocche di capelli, duri, irti
ed arruffati. La signora Pipelet
non abbandonava mai quest'unico
e sempiterno ornamento del suo
cranio sessagenario. Nel vedere
Rodolphe pronunciò con tono
burbero queste parole di rito:
"Dove andate?"
"Signora, c'è in questa casa, se non
sbaglio, una camera e un salottino
da affittare?" chiese Rodolphe,
calcando sul vocabolo "signora",
che lusingò non poco la Pipelet.
Ed essa rispose meno aspramente:
"C'è difatti una camera al quarto
piano, ma non si può visitare
perché Alfred è fuori."
"Vostro
figlio,
m'immagino,
signora... Tornerà presto?"
"Signor no, non è mio figlio, è mio
marito. Forse Pipelet non può aver
nome Alfred?"
"Oh, ne ha tutto il diritto, signora,
ma se non vi dispiace, aspetterò
un momento che venga. Vorrei
prendere in affitto la camera. Il
quartiere e la posizione vanno
proprio bene per me, la casa mi
piace, perché mi pare tenuta a
modo, ma prima di visitare
l'abitazione, desidero sapere se
potete incaricarvi, signora, di
farmi le faccende di casa. Sono
solito non servirmi d'altri che dei
custodi,
quando
essi
lo
gradiscono." La proposta, espressa
con il termine cortese di custode,
vinse l'animo della signora Pipelet,
che rispose: "Certo, signor mio, vi
farò le faccende... Anzi lo riterrò
un onore, e per sei franchi al mese
sarete servito, come un principe."
"Siano pure sei franchi, signora...
Il vostro nome?"
"Pomone
Fortunée
Anastasie
Pipelet."
"Ebbene, signora Pipelet, sono
d'accordo per sei franchi al mese,
se la stanza è di mio gusto... E che
prezzo ha?"
"Col
salottino
sono
centocinquanta franchi; non c'è da
levare un soldo... Il principale
amministratore è un cane, un cane
che caverebbe il pelo a sua
madre."
"E lo chiamate?"
"Il signor Bras-Rouge." Questo
nome e i ricordi che destava fecero
scuotere Rodolphe.
"Avete detto, signora Pipelet,
che l'amministratore si chiama?"
"Ebbene, Bras-Rouge."
"E abita?"
"In rue aux Fèves, al numero 13;
tiene anche una bettola sui fossi
degli
Champs-Elysées."
Non
restava più dubbio che fosse
proprio lui; e a Rodolphe
sembrava strano l'incontro.
"Se il signor Bras-Rouge è
l'amministratore" egli domandò
"chi è poi il proprietario del
caseggiato?"
"Il signor Bourdon: ma io tratto
sempre con il signor Bras-Rouge."
Per ispirarle un po' di fiducia,
Rodolphe soggiunse: "Mia cara
signora, sono stanco, il freddo mi
ha intirizzito... Fatemi il favore di
andare dal venditore di liquori che
sta in questa stessa casa, mi
porterete una boccia di rosolio e
due bicchierini, o piuttosto tre,
poiché tra poco arriverà il vostro
consorte." E diede cinque franchi
alla donna.
"Ma, dico, volete dunque
essere amato, adorato, subito a
prima vista?" esclamò la portinaia,
le cui bolle sul naso s'arrossavano
già per l'avidità di bere.
"Sì, signora Pipelet, voglio
essere adorato."
"L'idea è buona, e mi garba, ma
bastano due bicchieri, perché
Alfred e io beviamo sempre nello
stesso... Povero il mio cucco! Lui è
così goloso di tutto ciò che è
femminile."
"Andate
pure,
aspetteremo
Alfred."
"Ma se venisse qualcuno... Badate
voi alla guardiola?"
"State tranquilla, ci bado io." La
vecchia uscì. Rodolphe, rimasto
solo,
rifletté
alla
singolare
combinazione che lo riavvicinava a
Bras-Rouge; si stupiva soltanto
che François Germain avesse
potuto trattenersi tre mesi in
quella casa, prima che lo
scoprissero i complici del Maître,
che erano in relazione con BrasRouge.
In quel momento picchiò ai
vetri il fattorino della posta, passò
dentro il braccio, e porse due
lettere dicendo: "Tre soldi!"
"Sei soldi, giacché sono due"
rispose Rodolphe.
"Una è franca" rispose il
portalettere.
Rodolphe, dopo aver pagato,
guardò le lettere che aveva
ricevuto con indifferenza; ma poi
gli parve che meritassero un più
attento esame.
Una, indirizzata alla signora
Pipelet, mandava, attraverso la
busta di carta finissima, un odore
molto forte; sul sigillo di ceralacca
rossa, si vedevano le maiuscole C.
R., con sopra un elmo appoggiato
a un sostegno ornato della croce
della Legion d'Onore; l'indirizzo
era scritto con un bel carattere
chiaro: la pretenzione araldica
dell'elmo e della croce fece
sorridere Rodolphe, e lo confermò
nell'idea che quella lettera non
fosse scritta da una donna. Ma chi
poteva essere il corrispondente
profumato e blasonato della
signora Pipelet? L'altra lettera,
d'una carta grigia ordinaria, chiusa
da un'ostia bucherellata con uno
spillo, era per il signor Cesare
Bradamanti, chirurgo-dentista. Il
carattere
della
soprascritta,
evidentemente
artefatto,
si
componeva tutto di maiuscole.
Fosse presentimento, o capriccio
della sua immaginazione, o realtà,
sembrò a Rodolphe che vi dovesse
essere qualche cosa di triste.
Osservò
sull'indirizzo
una
cancellatura dov'era un po'
logorata la carta. C'era caduta una
lacrima. Entrò la portinaia con il
rosolio e i bicchierini.
"Sono stata a cinguettare
molto, non è vero? Ma quando si
fa tanto d'andare in bottega da
Joseph non c'è più modo di
uscire...
Ah,
che
vecchio
indiavolato! Credereste che a una
donna d'una certa età come sono
io... Ma quello è un mandrillo!"
"Diamine! Se Alfred lo sapesse?"
"Non me ne parlate, mi si rivolta il
sangue solamente a pensarci, è
geloso come un beduino! E sì che
Joseph fa per scherzo, senza
cattiva intenzione!"
"Ecco due lettere che ha portato
l'uomo
della
posta"
disse
Rodolphe.
"Ah, mio Dio... Scusate,
signore. E l'avete pagato?"
"Sì."
"Troppo gentile. Dunque li
tratterrò sugli spiccioli che ho da
rendervi. Quant'è?"
"Tre soldi" rispose Rodolphe,
sorpreso del singolare sistema di
rimborso adottato dalla signora
Pipelet.
"Come tre soldi? Devono
essere sei! Sono due le lettere."
"Potrei abusare della vostra
fiducia facendovi trattenere sulla
mia moneta sei soldi invece di tre,
ma non ne sono capace: una delle
due lettere a voi diretta è franca,
signora Pipelet. E, senza entrare
nei fatti vostri, mi fa piacere dirvi
che avete un corrispondente i cui
bigliettini amorosi hanno un gran
buon'odore."
"Vediamo" fece la portinaia,
prendendo la busta. "È vero, sì,
pare un biglietto amoroso... E
questa è bella! Chi è quel briccone
che ardirebbe?"
"E se si fosse trovato qui Alfred,
signora Pipelet?"
"Non dite questo, o svengo nelle
vostre braccia!"
"Non lo dico più, signora Pipelet!"
"Ma che sciocca sono! Ecco, ecco...
Io so... lo so... è del Comandante.
Ah, che paura ho avuto! Basta,
questo non impedisce di fare il
nostro conto: vediamo, sono tre
soldi per quell'altra, non è così?
Sicché diremo: 15 di rosolio e tre
porto di lettera, che mi trattengo,
fanno 18...18 e 2 sono 20... e
quattro franchi fanno cinque...
Conti chiari, amici cari."
"E questo, mia cara, sarà un franco
per voi... Avete un modo tanto
miracoloso di restituire le spese
fatte per voi, che sento il bisogno
di incoraggiarvi."
"Venti soldi! Mi date venti soldi? E
perché?" esclamò la donna,
attonita e quasi spaventata da una
generosità per lei favolosa.
"Sarà un acconto sulla caparra,
se prendo la camera."
"Così l'accetto, ma avvertirò
Alfred."
"Certamente... Ecco l'altra lettera,
è per il signor Cesare Bradamanti."
"Sì, sì, il dentista del terzo piano...
La metterò nello stivale delle
lettere." Rodolphe credeva di avere
male inteso, ma lei prese la lettera
e la gettò in un vecchio stivale
appeso al muro. Egli la guardava
meravigliato.
"Come?" gli disse. "Voi mettete
quella lettera...?"
"Ebbene, signore, la metto nello
stivale delle lettere. Così non si
perde nulla: quando gli inquilini
vengono a casa, Alfred o io
scuotiamo lo stivale, così si fa la
scelta, e ognuno ha la sua busta."
"La vostra casa è così ben tenuta,
che sempre più mi vien voglia di
abitarvi: un tale servizio di
corrispondenza mi piace in modo
speciale."
"Dio buono, è una cosa semplice"
replicò con modestia la Pipelet.
"Alfred aveva uno stivale
vecchio e scompagnato; non è
meglio adoperarlo a vantaggio
degli inquilini?" Chiacchierando in
tal modo, la portinaia dissigillava
la busta a lei diretta, e la girava per
tutti i versi: dopo un qualche
imbarazzo disse a Rodolphe:
"Tocca sempre ad Alfred a leggere,
perché
io
non
so.
Vi
compiacereste, signore, di fare
come Alfred?"
"Per leggere questa lettera,
volentieri"
rispose
Rodolphe,
curioso di sapere con chi avesse
carteggio la vecchia. E trovò ciò
che segue nella carta sottile,
cifrata con l'elmo, le lettere C.R., il
sostegno delle armi e la croce
d'onore: "Domani venerdì, alle
undici, si accenderà un gran fuoco
nelle due stanze; si puliranno gli
specchi, e si leveranno le fodere
dai mobili, badando bene di non
sciupare
la
doratura
nello
spolverarli. Se per caso io non
fossi arrivato quando giungerà
una signora in vettura di piazza
verso l'una a domandare di me
sotto nome del signor Charles, si
farà salire all'appartamento, e si
porterà giù la chiave per
consegnarla a me quando verrò."
Malgrado lo stile poco elegante del
biglietto, Rodolphe capì di che si
trattava, e domandò alla portinaia:
"Chi sta al primo piano?" La
portinaia si avvicinò al labbro il
dito giallo e grinzoso, e rispose
con un sogghigno maliziosetto:
"Zitto... Sono raggiretti amorosi."
"Ve lo domando, mia cara signora
Pipelet, perché prima di alloggiare
in una casa, si desidera sapere..."
"È naturale... Dimmi con chi vai, e
ti dirò chi sei... Non è così?"
"Appunto, stavo per dirvelo."
"Del resto, posso informarvi di
quello che so di questo affare: ci
vuole poco. Circa sei settimane fa,
capitò
qua
un
tappezziere,
esaminò il primo piano, che era da
affittare: chiese che prezzo aveva,
e il giorno dopo tornò con un bel
giovanotto biondo con le basette
piccole, la croce d'onore, e della
bellissima biancheria addosso... Il
tappezziere
lo
chiamava
Comandante."
"Sicché è un militare?"
"Militare!"
fece
la
Pipelet
stringendosi nelle spalle. "Eh, è
come se Alfred lo si chiamasse
custode."
"Come?"
"È della Guardia Nazionale, nello
Stato Maggiore... L'altro diceva
Comandante per insaponarlo,
come s'insapona Alfred a dirgli
custode. Insomma quando il
Comandante (non lo conosciamo
per altro nome) ebbe visto ogni
cosa,
disse
al
tappezziere:
"Benissimo,
fa
per
me,
accomodate tutto, parlate con il
proprietario". "Sì, Comandante..."
rispose l'altro. E il giorno dopo il
tappezziere firmò il contratto, a
nome suo, con il signor BrasRouge e gli pagò sei mesi
anticipati, perché pare che il
giovane
non
voglia
essere
conosciuto. Subito dopo sono
venuti i lavoranti a demolire tutto
il primo piano, e hanno portato
divani, cortine di seta, specchi
dorati, mobili superbi... Eh, c'è
pulito come in un caffè dei
boulevards! Senza contare tappeti
dappertutto, così grossi e morbidi
che pare di camminare su delle
bestie... Quando ebbero finito,
eccoti il Comandante a vedere il
lavoro, e dice ad Alfred: "Potete
incaricarvi di mantenere in ordine
questo appartamento, dove io
verrò di rado, accenderci il fuoco
ogni
tanto,
e
preparare
l'occorrente per ricevermi quando
io ve lo ordinerò con la posta di
città?". "Sì, Comandante" gli
risponde quell'adulatore di Alfred.
"E quanto mi piglierete al mese?"
"Venti franchi, Comandante." E il
nostro gran signorone si mette a
stiracchiare come uno spilorcio, a
scorticare la povera gente per una
o due misere monete da cinque
franchi, quando fa spese del
diavolo per un quartiere che non
vuole abitare! Infine, a forza di
discussioni, abbiamo ottenuto
dodici franchi... Dodici franchi!
Ma dite se non è roba da far
sudare! Va là, Comandante da due
quattrini! Che differenza da voi,
signor mio!" aggiunse la portinaia
gentile, rivolgendosi a Rodolphe.
"Non
vi
fate
chiamare
Comandante, non mostrate di
essere nulla, e subito vi accordate
con me per sei franchi!"
"E poi, quel giovane è ritornato?"
"Ora sentirete la cosa più curiosa.
Pare che lo facciano struggere... Il
Comandante ha già scritto tre
biglietti, come oggi, di accendere il
fuoco e mettere tutto a posto,
perché sarebbe arrivata una
signora... Ma sì, aspettala!"
"E nessuno è comparso?"
"Ma ascoltate... La prima volta
arrivò
tutto
azzimato,
canterellando fra i denti, con aria
fiera; aspettò due ore intere...
Nessuno! Quando ripassò davanti
alla guardiola, gli facevamo la
posta Pipelet ed io per vedere che
faccia avesse, e sfotterlo un po'
senza parere.
"Comandante, non c'è stata
nessuna signorina a cercare di
voi..." dico io. "Va bene, va bene!"
mi risponde lui tutto rosso e
stizzito, e se ne va mogio mogio,
rosicandosi le unghie dalla rabbia.
La seconda volta, prima che
arrivasse, un facchino portò una
letterina indirizzata al signor
Charles: immaginando che l'affare
andasse in fumo di nuovo, ci
facciamo grosse risate io e Pipelet,
e, quando arriva il Comandante, io
gli faccio, mettendomi il rovescio
della mano sulla parrucca come
un vero soldato: "Comandante,
eccovi una lettera, pare che anche
oggi
ci
sia
ordine
di
contromarcia!". Mi guardò fiero
come un Artabano, aprì la lettera,
e lettala, diventò rosso come un
gambero cotto, poi ci dice,
mostrando
di
non
provare
dispiacere: "Sapevo che non
sarebbe venuta; sono corso qui per
raccomandarvi di badare alla mia
roba". Non era mica vero, sapete,
ma non voleva farsi vedere
scornato, e parlava così. Se ne
andò fischiettando e canterellando
fra i denti. Ma era indispettito... E
gli sta bene! benone! Comandante
da due soldi! Imparerai a non dare
altro che dodici franchi al mese
per il tuo servizio."
"E la terza volta?"
"Oh, la terza volta credetti che
fosse
sul
serio. Arrivò
il
Comandante tutto impettito; gli
uscivano fuori dal capo gli occhi,
da tanto che pareva contento e
sicuro dei fatti suoi... Bellissimo
giovane, in verità, e vestito a
modo, e odoroso come una
puzzola. Non posava i piedi in
terra da tanto si gonfiava... Prese
la chiave, e andando su ci disse
con aria di scherno e tutto tronfio,
quasi volesse ricattarsi degli altri
giorni: "Avviserete quella signora
che l'uscio è accostato". Buono!
Pipelet e io eravamo così curiosi di
vedere la damina, benché ci
credessimo poco, che uscimmo
dalla guardiola per metterci a
curiosare sulla soglia della porta.
Una vettura azzurra, con le
tendine abbassate, si fermò
davanti a casa nostra...
"Ottimamente! È lei" dico al
mio Alfred. "Ritiriamoci un po',
perché
non
si
senta
in
soggezione." Il vetturale aprì lo
sportello, e vedemmo una signora
piccolina, con il manicotto sulle
ginocchia, e il velo nero che le
nascondeva il viso, senza contare
il fazzoletto che teneva sulla
bocca. Pareva che piangesse. Ma,
calato il montatoio, invece di
scendere, disse due parole al
cocchiere, e questo, tutto sorpreso,
chiuse la carrozza."
"La donna dunque non scese?"
"Signor no, si cacciò in fondo alla
carrozza, mettendosi le mani sugli
occhi. Io corro, e prima che il
cocchiere salisse a cassetta, gli
gridai: "Oh galantuomo, ve ne
tornate via?". "Sì..." mi risponde.
"E dove?" gli domandai. "Di dove
son venuto."
"E da dove venite?"
"Da
rue
Saint-Dominique,
all'angolo di rue Belle-Chasse."" A
tali parole Rodolphe ebbe una
scossa. Il marchese d'Harville, uno
dei suoi migliori amici, da gran
tempo oppresso dalla massima
malinconia, come abbiamo già
accennato, abitava in rue SaintDominique all'angolo di rue BelleChasse. Che fosse la marchesa
d'Harville, quella che correva
incontro alla propria rovina? Che
il marito avesse il sospetto della
sua condotta, forse causa unica
della pena che lo tormentava?
Questi dubbi gli si affollavano alla
mente. Peraltro, conosceva le
persone che frequentava la
marchesa, né si rammentava di
aver mai visto uno che somigliasse
al Comandante. La signora in
questione poteva poi aver preso
una carrozza in quel luogo senza
abitarvi. Non c'erano prove che
fosse la marchesa; tuttavia
Rodolphe provava qualche vago e
doloroso
sospetto.
La
sua
espressione, inquieta e pensierosa,
non sfuggì alla portinaia.
"Orsù, a che cosa pensate,
signore?" gli chiese.
"Cerco di capire per quale
ragione quella donna, venuta sino
all'uscio, abbia poi cambiato
improvvisamente decisione."
"Che volete? Un'idea, una paura,
una superstizione... Noi povere
donne siamo tanto deboli, tanto
vigliacche!" disse la portinaia con
aria timida e leziosa. "Mi pare che
se io fossi andata così, di nascosto,
per tradire Alfred, mi sarei pentita
e ripentita non so quante volte!
Ma mai e poi mai avrei ceduto!
Povero il mio cucco! Non c'è uno
sulla terra che si possa vantare..."
"Vi credo, signora Pipelet... Ma
quella giovane signora?"
"Non so se sia giovane... Non le si
vedeva la punta del naso... Fatto è,
che ripartì, com'era venuta, zitta
zitta. Se ci avessero dati dieci
franchi, ad Alfred ed a me, non ci
saremmo divertiti di più."
"E perché tanto divertimento?"
"Pensando al muso che avrebbe
fatto il Comandante, c'era da
sbellicarsi dalle risa. Invece di
andare subito a dirgli che la
signora era tornata indietro, lo
lasciammo stare in ansia e
brontolare un'ora. Poi andai di
sopra... Non avevo ai piedi che le
pianelle... Mi avvicino all'uscio,
che era accostato, lo spingo... La
scala era buia come un forno, e
anche
l'ingresso
dell'appartamento... Ecco che,
appena entrata, il Comandante mi
prende fra le braccia, dicendomi in
tono carezzevole: "Dio buono,
angelo mio, sei venuta tardi!..."."
Nonostante la gravità dei pensieri
che lo dominavano, Rodolphe non
poté fare a meno di ridere,
specialmente nel vedere la faccia
grinzosa e piena di bolle
dell'eroina
del
curiosissimo
equivoco. La Pipelet soggiunse,
con un'ilarità che la rendeva anche
più brutta: "Eh, eh, eh, questa è
bella! Ma ora sentirete. Non
rispondo, trattengo il respiro, lo
lascio fare, e, d'un tratto, ecco che
grida,
quel
villanaccio,
respingendomi disgustato come se
avesse toccato un rospo: "Ma chi
diavolo
siete?".
"Sono
io,
Comandante,
la
Pipelet,
la
portinaia... E dovreste tenere le
mani al vostro posto, e non
prendermi per la vita, né
chiamarmi angelo vostro, né dirmi
che sono venuta tardi... Se ci fosse
stato Alfred!"
"Che volete?" urla furibondo.
"Comandante, la damina è venuta
in carrozza..."
"Orsù, fatela salire. Siete una
sciocca! Non vi ho ordinato di
farla salire?" Lo lascio smaniare a
suo agio. "Sì, Comandante, è vero,
mi avete detto così..."
"Ebbene?"
"Ma la damina..."
"Parlate!"
"È ripartita."
"Ohimè, avete fatto qualche
bestialità!" strilla sempre più in
collera. "No, Comandante, non è
scesa dalla carrozza. Quando il
vetturino ha aperto lo sportello lei
gli ha detto di ricondurla a casa
sua."
"La vettura non
dev'essere
lontana!" grida il Comandante,
correndo verso la porta. "Eh sì, è
più di un'ora che è andata via..." gli
rispondo. "Un'ora!... un'ora!... E
perché avete tardato tanto ad
avvertirmi?" grida con più rabbia
che mai. "Madonna! Perché
avevamo paura che vi dispiacesse
di essere rimasto senza anche
questa volta." 'O bevila!' dico fra
me,
'zerbinotto
sguaiato!
Imparerai a provare disgusto per
avermi toccata!' "Uscite di qua!
Non fate né dite mai altro che
spropositi!"
ruggì
infuriato,
levandosi la veste da camera, e
gettando in terra il berretto di
velluto ricamato d'oro... Bel
berretto, bella veste, però...
abbagliavano sino gli occhi... Il
Comandante pareva una lucciola
che mandasse luce."
"E poi, né lui né la signora sono
più tornati?" domandò Rodolphe.
"No, no... Ma aspettate la fine
della storia" disse la Pipelet.
9.
I tre piani.
"La fine della storia, eccola"
riprese la Pipelet: "Io scesi lesta
lesta dal mio Alfred. Per l'appunto
c'erano nella nostra guardiola la
portinaia del numero 19, e
l'ostricaia che sta fuori del portone
del venditore di liquori; gli
racconto come il Comandante mi
avesse chiamata angelo suo e
presa per la vita... Oh, che risata
abbiamo fatto! E benché Alfred sia
molto... mela... cioè, mali... sì,
malinconico, come dice sempre,
dopo le azioni infami di quel
mostro di Cabrion..." Rodolphe
guardava attonito la portinaia.
"Sì, un giorno, quando avremo
fatta più amicizia, lo saprete...
Insomma, tant'è che Alfred,
nonostante la sua malinconia, si
mette a chiamarmi angelo suo... In
quel momento il Comandante esce
dal suo appartamento e chiude
l'uscio per andarsene; ma siccome
ci sente ridere, non ha più il
coraggio di scendere per paura che
lo prendiamo in giro, giacché non
può fare a meno di passarci
davanti. Noi indoviniamo tutto;
l'ostricaia, con la sua grossa voce,
comincia a gridare: "Pipelet,
angelo mio, sei venuta tardi!". Il
Comandante rientra in casa e
chiude la porta con un fracasso
terribile, da uomo rabbioso. In
sostanza, riaprì e richiuse più di
dieci volte per ascoltare se c'era
sempre gente: ce n'era davvero! E
non si muovevano. Alla fine,
vedendo che restavamo là, si
decise, venendo giù di corsa, e
buttandomi la chiave senza dir
nulla. Scappa tutto infuriato in
mezzo ai nostri scrosci di risa,
intanto che l'ostricaia continuava
a dire: "Sei venuta tardi angelo
mio!"."
"Ma rischiavate che lui non si
servisse più di voi" osservò
Rodolphe.
"Non ne avrebbe il coraggio,
l'abbiamo nelle mani. Sappiamo
dove sta la sua amorosa, e se
aprisse bocca, gli si minaccerebbe
di sventare la tresca. E poi, per i
suoi maledetti dodici franchi, chi
si piglierebbe l'incarico di fargli le
faccende? Qualche donna di fuori?
Oh, le renderemmo dura la vita a
quella, noi! Spilorcio birbante, che
si provi! Ma, signor mio,
credereste che ha la meschineria
di controllare la legna e calcolare il
numero dei pezzi che si può
bruciare aspettandolo? È di sicuro
qualche disperato arricchito; ha la
testa da signore e il cuore da
miserabile; spende di qua, e lesina
di là... Non gli voglio male, ma me
la godo a vedere che la sua bella lo
fa ammattire. Scommetto che
domani ci sarà spettacolo, e però
vado ad avvertire l'ostricaia, e ci
divertiremo insieme. Se viene la
signora, vedremo se è bruna o
bionda, se è bellina o no... Ma,
dico io, riflettendo, c'è sotto un
gonzo di marito... È ridicola, non è
vero? Basta, ci ha i suoi guai,
poveretta! Noi domani vedremo la
dama, e, nascosta com'è, bisognerà
che scenda a terra perché
sappiamo di che colore ha gli
occhi... Anche queste donne sono
qualcosa di bizzarro! Vanno in
casa d'un uomo, e fanno finta di
aver paura... Ma, scusate, scusate,
che tiro giù la pentola dal fuoco:
ha finito di bollire, perciò la trippa
è pronta per essere mangiata... È
trippa di bue. Metterà ad Alfred un
po' di buonumore, giacché, come
dice tante volte, per la trippa
tradirebbe anche la Francia, la sua
bella Francia, il mio vecchio
cucco!" Mentre la Pipelet badava a
queste
faccende
domestiche,
Rodolphe faceva tristi riflessioni.
La dama in questione (fosse o
no la marchesa d'Harville) aveva
senza dubbio esitato prima di
concedere un primo e un secondo
appuntamento; poi, intimorita
dalle conseguenze della sua
imprudenza, un rimorso salutare
le aveva forse impedito di
adempiere la pericolosa promessa.
Cedendo alla fine a un potere
irresistibile, correva piangendo,
agitata da mille timori, fino alla
soglia di quella casa, ma, sul punto
di rovinarsi per sempre, si faceva
udire in lei la voce del dovere, e
sfuggiva ancora una volta al
proprio disonore. E per chi
affrontava tanto rischio, tale
vergogna? Rodolphe conosceva il
mondo e il cuore umano. Giudicò
quasi con certezza il carattere del
Comandante, ai pochi tratti
abbozzati dalla portinaia con
grossolana naturalezza. Era un
uomo così scioccamente vanitoso
da dare importanza a un grado
così insignificante dal punto di
vista militare; un uomo così privo
di senno da non preoccuparsi di
tenere segreta la tresca colpevole
d'una donna che tutto rischiava
per lui; un uomo, infine, così vile e
avaro da non comprendere che per
risparmiare
qualche
luigi
esponeva la sua amante agli
insolenti e ignobili dileggi della
gente di quel caseggiato.
Così, spinta dal fatale impulso,
benché senta l'enormità del suo
sbaglio, senz'altro che la sostenga
se non la fiducia nella segretezza,
nell'onore di colui al quale dà più
che la propria vita, l'infelice
giovane
verrà al convegno,
palpitante, smarrita, e perciò
costretta a sopportare gli sguardi
curiosi e sfacciati di alcuni
sciagurati, e forse a udire i loro
scherni indecenti. Che vituperio!
Quale lezione! Che disinganno per
una donna che fino allora aveva
vissuto soltanto delle più belle e
poetiche illusioni dell'amore! E
quello per cui andava incontro a
tanto obbrobrio, a tanti pericoli,
sarà almeno sensibile al tormento,
agli affanni che le cagiona? No.
Sventurata! la passione l'acceca
e la getta per l'ultima volta
sull'orlo dell'abisso. Pure, un
coraggioso sforzo di virtù la
salva...
Che proverà il suo seduttore al
pensiero di questa lotta dolorosa e
santa? Proverà dispetto, collera,
ira, nel rammentare che si è
scomodato tre volte per nulla, e
che la sua vanità è compromessa,
in faccia al suo portinaio... E
anche, ultimo tratto di rozzezza e
malcostume, parla in quel modo, e
si mette in vestaglia per quel
primo colloquio, che deve far
morire di confusione e di vergogna
una donna già oppressa dal peso
della vergogna e della confusione!
"Oh" pensava Rodolphe "che
tremendo insegnamento, se la
signora (che spero mi sia ignota),
avesse potuto udire in quali
termini vergognosi si parlava di lei
e del suo atto, certamente
colpevole, ma che a lei tanto
costava d'amore, di pianto e di
rimorsi!" Quindi considerando che
la marchesa d'Harville poteva
essere l'eroina di una così abbietta
avventura, si domandava per quale
aberrazione, per quale fatalità, al
signor
d'Harville,
giovane,
spiritoso, affettuoso, e generoso, e
specialmente
innamorato
all'eccesso della consorte, poteva
essere preferito un individuo
stolido, avaro, egoista e ridicolo.
La marchesa non si era dunque
invaghita se non dell'aspetto di
costui, che si diceva così bello?
Eppure Rodolphe conosceva la
signora d'Harville per una donna
di spirito, di buon gusto e di
carattere elevatissimo, né mai il
minimo discorso aveva intaccato
la sua reputazione. Dove aveva
conosciuto
quel
miserabile?
Rodolphe la vedeva di frequente, e
non si ricordava di avere
incontrato nel suo palazzo alcuno
che somigliasse al Comandante!
Dopo mature riflessioni, finì quasi
con il persuadersi che non si
trattasse della marchesa.
La Pipelet, avendo eseguite le
sue
mansioni
di
cucina,
ricominciò la conversazione con
Rodolphe.
"Chi ci sta al secondo piano?"
domandò lui alla portinaia.
"La Burette, una donna famosa
per le carte! Vi legge sulla mano,
come in un libro. Ci sono delle
persone che vengono a trovarla
per farsi astrologare... Guadagna
più soldi di quanto pesa. E notate
che è uno solo dei suoi tanti
mestieri, quello dell'indovina."
"Che fa anche?"
"Tiene un Monte di Pietà
particolare."
"Come?"
"Ve
lo
dico
perché
siete
giovanotto:
e
questo
può
confermarvi nell'intenzione di
diventare nostro inquilino."
"E perché?"
"Saremo tra poco agli ultimi giorni
di carnevale, un periodo in cui
tutti sono in moto, donne,
facchini, turchi, selvaggi; un
periodo in cui anche quelli che più
guadagnano possono dilapidare un
patrimonio... Fa comodo avere una
risorsa nel caseggiato, invece di
essere obbligati a correre da mia
zia, dove c'è più umiliazione,
perché ci si va sotto gli occhi della
legge."
"Vostra zia? Forse dà prestiti su
pegno?"
"Che diamine! Non sapete? Su,
volete scherzare! Mi fate da
innocentino, alla vostra età!"
"Faccio l'ingenuo? E in che cosa?"
"A domandarmi se mia zia presta
su pegno."
"Perché?"
"Ve'! Perché tutti quelli che sono
in età di ragione, capiscono che
"mettere qualcosa al Monte" si
dice "andare da mia zia"."
"Ah capisco: quella del secondo
piano dà pure su pegno?"
"Sicuro, e a prezzo meno caro che
al Monte Grande... E poi, non c'è
imbroglio... Non si ha l'imbarazzo
di un mucchio di fogliacci, di
polizze, di numeri... Niente,
niente... Mettiamo il caso: si porta
alla Burette una camicia che vale
tre franchi; vi dà dieci soldi, e
dopo otto giorni gliene rendete
venti; se no, si tiene la camicia...
Com'è semplice questo, eh?
Sempre numero tondo! Anche un
bambino lo capirebbe!"
"Veramente, è chiarissimo! Ma
credevo fosse proibito prestare
così su pegno."
"Ah, ah, ah!" esclamò la Pipelet,
sbellicandosi dalle risa. "Venite
forse dalla campagna, ragazzo
mio? Compatite, ma vi parlo come
fossi vostra madre, e foste il mio
figliolo..."
"Troppa bontà!"
"Certo che è proibito! Ma se non si
facesse altro che quello che è
permesso, che vi pare?, ci sarebbe
da starsene con le braccia
ciondoloni. La Burette non scrive,
non dà ricevute, sicché non ci
sono prove contro di lei, e si burla
della polizia... È proprio curioso
vedere la quantità di roba di tutte
le sorte che le consegnano... Voi
non crederete su cosa presta
qualche volta? Io l'ho vista dar
quattrini fino sopra un pappagallo
bigio, che bestemmiava come un
indiavolato, quel briccone!"
"Su un pappagallo? Ma per che
valore?"
"Aspettate!... Era conosciuto, era il
pappagallo della vedova di un
portalettere che abita qui vicino
nella rue Saint-Avoie: la signora
Herbelot. Tutti sapevano che lei
gli voleva più bene che ai suoi
occhi; la Burette le disse: "Vi dò
dieci franchi sulla vostra bestia;
ma se fra otto giorni, a
mezzogiorno, non ho i miei venti
franchi..."."
"Cioè i suoi dieci franchi..."
"Con gli interessi facevano per
l'appunto venti: sempre conti
tondi... "Se non ho i miei venti
franchi
e
le
spese
di
mantenimento, gli dò una bella
insalatina di prezzemolo condita
con l'arsenico." Con quella paura
la Burette ebbe capitale e frutti in
capo a sette giorni, e la signora
Herbelot
si
portò
via
quell'animalaccio
che
cianciugliava dalla mattina alla
sera certi bu... e ca... e cu... che
facevano arrossire il mio Alfred,
che è un po' bacchettone. Già è
naturale! Suo padre era curato...
Nella rivoluzione, capite, vi furono
dei
curati
che
sposarono
monache..."
"E la Burette, m'immagino, non ha
altro mestiere?"
"Non ne avrà altri, se volete. Ma io
non so che cosa siano certi pasticci
che a volte manipola in una
cameretta
dove
non
entra
nessuno, se non il signor BrasRouge e una vecchia guercia,
chiamata la Chouette." Rodolphe
guardò, stupito, la portinaia.
Questa, interpretando a suo modo
la sorpresa del futuro inquilino,
continuò: "È un nome curioso
Chouette, è vero?"
"Sì... E viene qui spesso?"
"Per sei settimane non è più
venuta, ma ieri l'altro la vidi, che
zoppicava un tantino."
"E che ci viene a fare dalla
maliarda?"
"Ecco quello che non so! Per
quanto puzzi d'imbroglio quella
stanza dove entrano soltanto la
Chouette, Bras-Rouge e la Burette,
ho notato che in quei giorni la
guercia viene con un involto nel
paniere, e Bras-Rouge con un
pacchetto sotto il pastrano, ma
non riportano indietro niente."
"E gli involti, che contengono?"
"Non ne so nulla, se non che
lavorano a certi guazzabugli di
stagno fuso; e poi soffiano,
soffiano, soffiano, come fossero
fabbri... Di sicuro, la Burette va
macchinando qualche sortilegio...
Così mi conferma il signor Cesare
Bradamanti, l'inquilino del terzo
piano.
Quello sì che è speciale, quel
signor Cesare! Dico speciale
perché è italiano, quantunque
parli bene francese quanto voi e
me, salvo una lieve inflessione
forestiera... Ma non importa, è un
dottorone! Conosce le piante e la
chimica, vi cava i denti, non per
denari, ma per onore. Signorsì, per
puro onore. Se aveste sei denti
guasti, lo dice lui stesso a chi lo
stia a sentire, vi leverebbe i primi
cinque per niente, e non vi fa
pagare che il sesto... Non è colpa
vostra se non ne avete altri..."
"È
generoso
il
suo
comportamento!"
"In
più
vende
un'acqua
buonissima, che fa sì che non
cadano i capelli, guarisce i mali
d'occhi, i calli dei piedi, le
debolezze di stomaco, e distrugge i
topi senza l'arsenico."
"Quella stessa acqua guarisce il
mal di stomaco?"
"La stessa acqua."
"E distrugge anche i topi?"
"Senza che se ne salvi uno, perché
quel che giova alla salute per
l'uomo, è assai nocivo per gli
animali..."
"Bene, signora Pipelet, non ci
avevo pensato."
"E la prova che è ottima, è che è
fatta con delle piante raccolte dal
signor Cesare sulle montagne del
Libano, presso quel paese di
americani, di dove ha portato
anche il suo cavallo, che pare una
tigre, tutto bianco brizzolato di
baio... Ah, quando il signor
Bradamanti è sulla sua bestia, con
l'abito rosso ad alamari gialli, e il
cappello con il pennacchio, ci
sarebbe da pagare per vederlo,
perché, parlando con rispetto,
somiglia a Giuda Iscariota con la
barba lunga e rossiccia... Da un
mese ha preso al suo servizio il
figlio del signor Bras-Rouge, il
piccolo Tortillard, e lo ha vestito
da trovatore, con la toga nera, un
colletto bianco e la giacchetta
color albicocca... Questo batte il
tamburo attorno al signor Cesare
per richiamare gli avventori, senza
contare poi che ha cura di
custodirgli il cavallo tigrato."
"Mi sembra che il figlio del vostro
principale inquilino abbia così un
impiego ben meschino."
"Il padre dice che vuol far patire di
tutto a quel ragazzo, perchè se no
finirebbe sulla forca. Difatti è il
più maligno scimmiotto che ci sia:
ha fatto tante brutte burle al
povero signor Bradamanti, che
invece è il fiore delle genti, giacché
ha
guarito
Alfred
da
un
reumatismo, e tanto che lo
teniamo proprio sul cuore!
Ebbene, signore, ci sono delle
persone così snaturate, che... Ma
no, no, fa rizzare in testa i capelli!
Alfred sostiene che, se fosse vero,
sarebbe un caso da galera..."
"Ma pure..."
"Ah, non ardisco... non ardirò
mai..."
"Non ne parliamo più..."
"È che a dire certe cose a un
giovanotto..."
"Non
ne
parliamo, signora
Pipelet."
"In sostanza, siccome sarete
nostro inquilino, è meglio che
sappiate che sono bugie. Voi siete
in grado di fare amicizia e società
con il signor Bradamanti: se
aveste
dato
retta,
quelle
chiacchiere vi avrebbero forse
impedito
di
fare
la
sua
conoscenza."
"Dite, vi ascolto."
"Taluni dicono che quando, per
esempio,
una
fanciulla
ha
commesso
un
errore...
Mi
capite?...
E
ha
delle
conseguenze..."
"Ebbene?"
"Ecco! Adesso non ho più
coraggio..."
"Ma seguitate..."
"No, no... Alla fine
sono
sciocchezze..."
"Ma dite, su!"
"Bugie!"
"Ma insomma finite..."
"Cattive lingue..."
"Avanti!"
"Gente che ha invidia del suo
cavallo tigrato."
"Sarà così... Ma che dicono?"
"Mi vergogno..."
"Che ha da fare una ragazza, che
ha commesso un errore con un
ciarlatano?"
"Non assicuro che sia vero..."
"In nome del cielo, che c'è
dunque?"
gridò
Rodolphe,
spazientito dalle bizzarre reticenze
della Pipelet.
"Sentite" continuò la portinaia
con aria solenne "mi giurate sul
vostro onore di non dirlo mai a
nessuno?"
"Quando saprò che cosa sia, vi farò
o no il giuramento."
"Se ve lo racconto, non è per i sei
franchi che mi avete promesso, né
a causa del rosolio..."
"Bene, bene."
"Ma soltanto per la confidenza che
m'ispirate..."
"Sia pure."
"E per giovare al signor Cesare
Bradamanti discolpandolo..."
"È ottima la vostra intenzione,
non ne dubito... E poi?"
"Dicono... Ma che non esca da
questo stanzino, almeno..."
"Certissimo... Dicono dunque..."
"Ecco! da capo, non oso... Ma zitto,
ve lo racconterò all'orecchio, farò
meno
fatica...
Come
sono
bambina, eh?" E la vecchia
balbettò a voce bassa alcune
parole a Rodolphe, e questo trasalì
inorridito.
"Questo è orribile!" gridò
alzandosi, e guardandosi intorno
atterrito, come se quella casa fosse
stata maledetta.
"Mio Dio, mio Dio! " pensava
con doloroso stupore. "Sono
possibili delitti così abominevoli?
E questa orrenda vecchia che è
quasi indifferente alla nefanda
rivelazione che ora mi ha fatto!"
La portinaia non capì Rodolphe, e
continuava,
occupandosi
dei
preparativi per il desinare: "Non è
vero che sono una massa di
malelingue? Come? uno che ha
guarito Alfred dai reumatismi, uno
che si è portato il cavallo tigrato
dal Libano, uno che si esibisce a
levarvi gratis cinque denti su sei,
uno che ha certificati di tutta
l'Europa, e che paga le mesate
puntualissimo...? Ohibò, piuttosto
la morte che credere a cose
simili!" Mentre la portinaia
manifestava la sua indignazione
contro i calunniatori, Rodolphe si
ricordava della lettera indirizzata a
quel saltimbanco, scritta su carta
grossa, di carattere contraffatto e
mezzo cancellata dal segno di una
lacrima. In quella lacrima, nel
foglio misterioso indirizzato a
quell'uomo, Rodolphe scorgeva un
dramma intero. Un dramma
terribile!
Un
involontario
presentimento gli diceva che le
voci atroci che correvano attorno
all'italiano erano fondate.
"Oh, ecco Alfred" esclamò la
portinaia. "Anche lui vi dirà che
sono linguacce, se incolpano di
tanti orrori il povero signor Cesare
Bradamanti, che lo guarì dai dolori
reumatici."
10.
Pipelet.
Noi ricordiamo al lettore che
tutte queste cose succedevano nel
1838.
Pipelet entrò con aria grave,
pieno di sussiego. Aveva circa
sessant'anni,
un
naso
spropositato,
una
badiale
grassezza, un viso larghissimo e
rosso al modo di quei burattini di
legno che si fanno a Norimberga.
Questa strana maschera portava in
testa un vecchio cappello da caccia
con le tese larghe e sporche, che
non abbandonava mai, come sua
moglie non lasciava un giorno la
sua vecchia parrucca.
Indossava un abito verde
sdrucito e così inzaccherato, che
qua e là sembrava d'un grigio
lucente. Nonostante il cappello da
caccia e l'abito verde, che
denotavano
affettazione
nel
vestire, portava però sempre il
modesto
emblema
del
suo
mestiere: un grembiale di cuoio
formava un triangolo scuro sopra
un lungo panciotto screziato a
tanti colori, quanti ne aveva la
coperta arlecchino della Pipelet.
Il saluto che fece il portinaio a
Rodolphe non mancava di una
qualche affabilità, ma ahimè, il
suo sorriso era assai amaro. Vi si
leggeva l'espressione di una
profonda malinconia, proprio
come la Pipelet aveva detto a
Rodolphe.
"Alfred, questo signore è un
inquilino per la stanza e il
salottino del quarto piano" disse la
Pipelet, presentando Rodolphe ad
Alfred "e ti abbiamo aspettato per
bere un bicchiere di rosolio, che
lui stesso ha voluto offrire."
Questo tratto di gentilezza ispirò
subito a Pipelet una simpatia per
Rodolphe; il portinaio si pose la
mano sulla tesa del cappello, e gli
disse con voce di basso, degna di
un cantore di cattedrale: "Vi
soddisferemo, signor mio, come
portinai, nella stessa maniera che
voi ci soddisferete come inquilino,
perché gli uomini, Dio li fa, e poi li
accoppia..." E, interrompendosi,
Pipelet
soggiunse
inquieto:
"Sempreché, però, non siate
pittore."
"No, sono commesso di un
mercante."
"Allora, signor mio, vi sono servo e
schiavo. Mi congratulerò con la
natura per non avervi fatto
nascere simile a quei mostri di
artisti!..."
"Gli artisti... mostri?" osservò
Rodolphe.
La
Pipelet,
invece
di
rispondere, alzò le mani verso il
soffitto facendo udire una specie
di gemito corrucciato.
"Sono i pittori che hanno
avvelenato la vita al mio Alfred!
Sono loro che l'hanno reso
malinconico, come vi dicevo" fece
osservare la Pipelet adagio a
Rodolphe; poi continuò più forte,
in tono carezzevole. "Animo,
Alfred, abbi giudizio, non pensare
a quel birbone... Ti guasterai lo
stomaco, e non potrai pranzare."
"No, avrò senno e coraggio"
replicò Pipelet con mesta dignità e
rassegnazione. "Mi ha fatto molto
male, è stato il mio persecutore, il
mio carnefice per tanto tempo! Ma
adesso lo disprezzo... I pittori!"
continuò, volgendosi a Rodolphe.
"Ah signore! Sono la peste d'una
casa, la sua rovina."
"Avevate
alloggiato
qui
un
pittore?"
"Ah, signor sì, ne avevamo uno!
Un pittore che si chiamava
Cabrion!"
A
quel
ricordo,
malgrado
volesse
ostentare
coraggio, il portinaio chiuse i
pugni con rabbia.
"Era forse l'ultimo inquilino
che abitò le stanze che io vengo a
occupare?" domandò Rodolphe.
"No, no: l'ultimo era un bravo,
un degno giovane di nome
Germain; ma prima di lui ci fu
Cabrion. Ah" disse Pipelet con
amarezza "dalla sua partenza, quel
Cabrion ha fatto di tutto per farmi
diventare pazzo."
"Vi dispiacque dunque la sua
partenza?" chiese Rodolphe.
"Cabrion? Dispiacermi che sia
andato via? Rimpiangere Cabrion!
Ma figuratevi che il signor BrasRouge gli pagò due mesate per
farlo uscire di qui, giacché
avevamo avuto la disgrazia di
firmargli un contratto... Che
scellerato! Non avete idea delle
brutte azioni che ha fatto a noi e
agli altri casigliani! Per parlarvi
intanto di una sola, non c'è uno
strumento a fiato che non abbia
vilmente strimpellato per rompere
l'anima agli inquilini: sì, dal corno
sino al fagotto, signor mio! Ha
abusato di tutti, spingendo la
villania fino a stonare apposta
sopra una medesima nota per ore
intere... C'era da diventar matti! Si
fecero più di venti suppliche
all'amministratore signor BrasRouge, perché scacciasse quel
miserabile: alla fine ci riuscì,
pagandogli due mesi... È bella,
questa eh? Uno piglia le stanze in
affitto, e gli si pagano i mesi
invece di riscuoterli! Ma gliene
avrebbe abbonati tre per levarselo
d'attorno. Se ne va... Immaginate
sia finita con Cabrion? Ora
sentirete! L'indomani, alle undici
di sera ero a letto. Pan! pan! pan!
Tiro il cordone. Viene uno nello
stanzino: "Buona sera, portinaio"
dice una voce "vorreste favorirmi
una ciocca dei vostri capelli?". Mia
moglie mi fa: "È qualcuno che ha
sbagliato d'uscio!".
"Non è qui" rispondo allo
sconosciuto "provate al portone
accanto."
"Eppure è questo il n. 17. E il
portinaio si chiama Pipelet?"
"Sì" replico io "mi chiamo Pipelet."
"Orbene, Pipelet, amico mio,
vengo a chiedervi una ciocca dei
vostri capelli per Cabrion; si è
messo quest'idea in testa, la
desidera, la vuole."" Pipelet fissava
in viso Rodolphe, tentennando il
capo e incrociando le braccia, in
posa come una statua.
"Capite, signore? A me, suo
nemico mortale, che aveva offeso
tanto, veniva impudentemente a
domandare una ciocca di capelli!
Un favore che le dame negano
qualche volta al loro prediletto!"
"Almeno il vostro Cabrion fosse
stato buon vicino come il signor
Germain!" disse Rodolphe con
imperturbabile sangue freddo.
"Quando anche fosse stato
buono, eccellente, non gliel'avrei
accordata" ribatté solenne il
portinaio ostentando ancora di più
il suo curioso cappello da caccia.
"È cosa che non rientra nelle mie
abitudini. Ma mi sarei fatto un
dovere di rifiutargliela con più
cortesia."
"E non basta!" soggiunse la
portinaia. "Figuratevi, signore, che
da quella volta in poi, di mattina,
di sera, di notte, a tutte le ore, il
maledetto Cabrion ha scatenato
una caterva di manigoldi che
vengono uno dopo l'altro a
chiedere ad Alfred una ciocca di
capelli, e sempre per Cabrion!"
"E dite un po' se io avrei dovuto
cedere!" continuò Pipelet, molto
risoluto. "Piuttosto, signore, mi
sarei
lasciato
trascinare
al
patibolo! Dopo tre o quattro mesi
d'ostinazione da parte loro e di
resistenza da parte mia, la mia
costanza
ha
trionfato
dell'accanimento
di
quei
miserabili. Hanno visto che si
attaccavano ad una piastra di
ferro, e sono stati costretti a
rinunciare alle loro insolenti
pretese... Ma tuttavia io sono stato
ferito qui!" Alfred si pose la mano
sul cuore. "Avessi commesso
delitti orribili, non avrei avuto il
sonno più agitato. Ogni momento
mi destavo scuotendomi tutto, e
mi pareva udire la voce di
quell'infernale Cabrion. Diffidavo
di tutti, in ciascuno supponevo un
nemico, perdevo il mio brio, non
potevo vedere una faccia forestiera
presentarsi al finestrino senza
venirmi al pensiero che fosse della
masnada di Cabrion... E anche
adesso, signore, non prendo più
piacere a nulla..." Qui la Pipelet si
mise l'indice su un occhio come
per asciugarsi una lacrima, e fece
con la testa un cenno di conferma.
L'altro proseguì in tono più
lamentevole:
"Mi
rinchiudo
sempre più in me stesso, e ormai,
signore, guardo trascorrere il
fiume della vita... Avevo torto,
forse, nel dirvi che Cabrion ha
avvelenato la mia esistenza?" E
Pipelet, mandando un profondo
sospiro, si calò sugli occhi il
cappello da caccia sotto il peso di
una così immensa disgrazia.
"Ora comprendo che non
vogliate bene ai pittori" disse
Rodolphe. "Ma almeno quel
Germain, di cui parlavate, vi ha
compensato dei tormenti sofferti
con Cabrion?"
"Oh, sì, signore! Ecco un ottimo
giovane, schietto come l'oro,
servizievole, non superbo, e
allegro... Ma di un'allegria buona,
che non faceva male agli altri,
senza
essere
insolente
e
motteggiatore come quel Cabrion,
che Dio lo fulmini!"
"Orsù, calmatevi, mio caro signor
Pipelet, non pronunciate più quel
nome... E adesso, chi è il padrone
di casa che ha la fortuna di
ospitare il signor Germain, quella
perla d'inquilino?"
"Buio, e poi buio... Nessuno sa, né
saprà dove stia il signor Germain...
Fuorché la signora Rigolette."
"E chi è la signora Rigolette?"
chiese Rodolphe.
"Una sarta, l'altra vicina del
quarto piano" rispose Pipelet.
"Sì, la sarta del quarto piano"
aggiunse la Pipelet. "Anche quella
è una gioia! Paga i mesi anticipati,
ed è tanto linda nella sua
cameretta, è così garbata con tutti
e briosa, una vera colomba di Dio,
benedetta per cortesia e buon
cuore... E in più, assidua al lavoro
quanto un castoro, e si guadagna a
volte sino a due franchi al giorno,
ma con molta fatica!"
"Come mai è l'unica che sappia
dove abiti il signor Germain?"
"Quando il signor Germain se ne è
andato, ci disse: "Non aspetto
lettere, ma se per caso ne
venissero, le consegnerete alla
signora Rigolette"."
"E badate che lei merita davvero la
sua fiducia, anche fossero lettere
raccomandate... Non è così
Alfred?"
"Il fatto è che sulla signora
Rigolette non c'è proprio niente da
ridire" fece il portinaio con gran
severità "non avesse la debolezza
di
lasciarsi
corteggiare
da
quell'infame Cabrion..."
"In quanto a questo, Alfred"
replicò la portinaia "sai che non fu
colpa sua... Dipende dal locale... Lo
stesso fu con il viaggiatore che
aveva la stanza prima di Cabrion...
E dopo questo pittore di croste la
corteggiò il signor Germain... Oh,
non può essere altrimenti!
Dipende dal locale."
"Sicché" disse Rodolphe "quelli
che prendono in affitto la stanza
che sto per affittare io, fanno
necessariamente la corte alla
signora Rigolette?"
"Per forza, signore, e ora lo
capirete. Si diventa vicino della
signora Rigolette, le due camere
sono contigue: ebbene, fra ragazza
e giovanotto, o c'è un lume da
accendere, o un tantino di brace da
farsi prestare, o un po' d'acqua...
Oh, per l'acqua, poi, si sta sicuri di
trovarne, da quella! Non gliene
manca mai, è tutto il suo lusso. È
una vera anatra! Appena ha un
momento libero corre subito a
lavare i vetri, il focolare... E per
questo da lei c'è sempre una
pulizia! Oh, vedrete..."
"Dunque il signor Germain,
essendo
così
disposto
l'appartamento, fu, come voi dite,
un ottimo vicino per la signora
Rigolette?"
"Sì, signore; ed è il caso di dire che
erano nati l'uno per l'altra.
Così giovani, gentili. Faceva
piacere vederli scendere le scale, la
domenica, unico giorno di vacanza
per tutti due, poveretti! Lei tutta
attillata con una bella cuffietta, e
la sua veste da venticinque soldi il
metro, cucita da lei stessa, ma che
le stava come a una regina; lui
vestito come un ganimede..."
"E il signor Germain non ha più
rivisto la signora Rigolette dopo
aver
abbandonato
questo
caseggiato?"
"Signor no, a meno che sia stato di
domenica, perché gli altri giorni la
signora Rigolette non ha tempo di
pensare agli innamorati. Si alza
alle cinque o alle sei, e lavora sino
alle dieci, e qualche volta alle
undici di sera; non si muove mai
dalla camera, fuorché la mattina
per andare a far la spesa, per sé e
per i suoi due canarini. Fra tutti
mangiano così poco... Che ci
vuole? Due soldi di latte, un po' di
pane, centonchio, insalata, miglio,
e freschissima acqua chiara; e
tuttavia ciarlano e gorgheggiano
tutti e tre, la piccina e gli uccelli,
che è una benedizione sentirli!
Poi, buona e caritatevole, dà quel
che può, cioè delle sue ore di
sonno e di attenzioni: giacché pur
stando a cucire dieci o dodici ore
di seguito, è ancora tanto se ci si
guadagna da campare... Ecco, a
quei disgraziati su in soffitta, che
il signor Bras-Rouge metterà in
mezzo alla strada fra tre o quattro
giorni, la signora Rigolette e il
signor Germain vegliarono i
bambini per diverse notti di
seguito."
"C'è qui una famiglia così
disgraziata?"
"Disgraziata,
Signore
Iddio?
Eccome! Cinque bambini piccoli,
la madre a letto quasi moribonda,
la nonna scema, e, per mantenere
tutta questa gente, un uomo che
non ha pane nemmeno per se
stesso, benché fatichi come un
negro... Perché è un bravo operaio!
Su ventiquattro ore, tre di sonno,
ecco tutto quel che si piglia! E non
riesce nemmeno a dormire, se si
pensa che nel pieno della notte i
bambini gridano: "Pane!", e la
consorte ammalata geme su un
saccone, o la vecchia matta si
mette a urlare come una lupa per
la fame... Perché quella vecchia
non ha più giudizio d'una bestia, e
quando ha troppa voglia di
mangiare la si sente di fondo alle
scale: ruggisce."
"Ahi, che situazione orribile!"
esclamò Rodolphe. "E nessuno li
aiuta?"
"Madonna! Si fa quel che si può,
tra poveri... Da quando il
Comandante mi dà quei dodici
franchi al mese per rassettargli le
stanze, metto la pentola al fuoco
una volta la settimana, e quei
meschini hanno un po' di brodo...
La signora Rigolette impiega parte
delle sue nottate, e le costa
sempre un bel po' di lume, a fare,
con dei ritagli di stoffa, vesticciole
e cuffiette ai bambini... Il povero
signor Germain, che non era
nemmeno
molto
denaroso,
fingeva di ricevere ogni tanto da
casa sua qualche bottiglia di vin
vecchio e allora Morel (così si
chiamava l'operaio) beveva un
buon bicchierino che lo riscaldava
e gli rimetteva per un momento
l'anima in corpo."
"E il ciarlatano non fa niente per
quella povera gente?"
"Il signor Bradamanti?" disse la
portinaia.
"Mi guarì d'un reumatismo"
soggiunse Pipelet "è vero, e lo
venero e lo rispetto, ma da allora
in poi dissi alla mia sposa:
"Anastasie, il signor Bradamanti...
uhm!...". Te lo dissi, Anastasie?"
"È vero, me lo dicesti... Ma a
quello gli piace scherzare a suo
modo... E non per questo apre la
borsa."
"Che fece dunque?"
"Ecco, quando gli parlai della
miseria di Morel, una volta che si
lagnava che la vecchia pazza aveva
urlato tutta la notte e aveva
impedito a lui di dormire, mi
disse: "Poiché sono tanto infelici,
se hanno denti da cavarsi non gli
farò pagare neppure il sesto, e di
più avranno una boccetta della
mia acqua a metà prezzo"."
"E devo dirlo" esclamò Pipelet
"quantunque mi abbia risanato dal
reumatismo, sostengo che è stata
una bravata indecente... Già, fa
sempre così! E anche non fosse
altro che leggerezza..."
"Ma, Alfred, pensa che è italiano, e
che forse quella è la maniera di
scherzare laggiù da loro."
"No, signora Pipelet" disse
Rodolphe alla portinaia. "Io non
posso avere una buona opinione di
costui, e non farò, come voi
speravate, né amicizia né società
con lui... E quella che presta a
pegno fu più caritatevole?"
"Uhm, del genere del signor
Bradamanti" disse la portinaia.
"Prestò loro denaro a valere sui
miseri cenci che avevano, e tutto
passò nelle sue mani, sino
all'ultimo materasso... Già, fu
affare di poco, non ne hanno avuto
mai più di due!"
"E adesso non li soccorre?"
"La Burette? Oh, sì, è così
taccagna! In quanto a questo è
proprio come il suo ganzo...
Giacché, dico, Bras-Rouge e la
Burette..." aggiunse la Pipelet,
facendo
l'occhiolino
e
tentennando malignamente la
testa.
"Davvero?"
domandò
Rodolphe.
"Altro che! E alla morte!... e
allegri come matti! L'estate di San
Martino è calda al pari dell'altra...
Non è così, il mio cucco?" Pipelet,
per
unica
risposta,
agitò
mestamente il cappello da caccia.
Da quando la portinaia aveva
dimostrato un sentimento di
carità in favore degli sventurati
della
soffitta,
sembrava
a
Rodolphe meno disgustosa.
"Che mestiere fa quel povero
operaio?"
"Incisore di pietre false; lavora a
cottimo, e si è logorato in questo
mestiere. Lo vedrete... In sostanza,
un uomo è un uomo, e non può
far altro che quel che può, dico
bene? E quando si deve dar pane a
una famiglia di sette persone,
senza contare lui, c'è da diventar
matti! La figlia maggiore lo aiuta
come può, ma può far poco..."
"Di che età è la figlia?"
"Diciassette anni... E bella come
un sole! È serva da un vecchio
tanghero, un riccone capace di
comprarsi tutta Parigi, un notaio,
il signor Jacques Ferrand."
"Jacques
Ferrand!"
esclamò
Rodolphe, meravigliato di quella
nuova coincidenza, giacché da lui
o dalla sua donna di servizio
doveva attingere le informazioni
riguardanti la Goualeuse. "Il
signor Jacques Ferrand, che abita
in rue du Sentier?"
"Appunto... Lo conoscete?"
"È il notaio del negozio dove sono
impiegato."
"Ebbene! Allora dovete sapere che
è un usuraio famoso, ma, siamo
giusti, probo e devoto... Tutte le
domeniche va a messa e al vespro,
osserva la pasqua e si confessa; e
se bazzica, bazzica con i preti,
bevendo
acqua
benedetta,
mangiando pane benedetto... Un
santo uomo, ve'! È la cassa di
risparmio della povera gente, che
mettono in mano sua quel che
hanno da parte... Ma, Madonna!,
avaro e duro con gli altri come con
se stesso! Sono diciotto mesi che
quella povera Louise, la figlia
dell'incisore, è serva in casa sua: è
un agnellino per la docilità, un
cavallo per la fatica. Fa di tutto, e
non ha che diciotto franchi al
mese, né più né meno; tiene sei
franchi per le spese, e dà il resto
alla famiglia... Questo è qualcosa...
Ma quando ci devono rosicchiare
sette persone!..."
"Ma il lavoro del padre, tanto
industrioso?"
"Se è industrioso? Non s'è visto
mai l'eguale... È un uomo probo e
lavoratore, che non si può dire di
più; non chiederebbe a Dio altra
ricompensa che di fargli durare la
giornata quarant'otto ore, per
poter guadagnare un poco più di
pane per i suoi ragazzi."
"La sua professione dunque gli
rende pochissimo?"
"È stato ammalato tre mesi, e così
è costretto a fare i salti mortali per
pagare i debiti, e la moglie si è
rovinata la salute per assisterlo, e
adesso è moribonda. In questo
periodo è stato necessario vivere
con i dodici franchi di Louise, e
con i denari presi su pegno dalla
Burette, e anche qualche scudo
che gli ha prestato la sensale di
pietre false per cui lavora. Ma
sono in otto! Siamo sempre lì... E
se vedeste il bugigattolo dove
stanno!... Basta, signore, via, non
ne parliamo più, il nostro pranzo è
pronto, e solamente a pensare alla
loro soffitta mi fa stomacare... Per
fortuna, il signor Bras-Rouge ne
sbarazzerà presto lo stabile...
Quando dico per fortuna, non è
per cattivo animo. Ma se hanno da
essere infelici, quei Morel, e noi
non ci possiamo far nulla, è
meglio che siano infelici fuori di
qui. È un crepacuore di meno."
"Ma se sono cacciati di qua, dove
andranno?"
"Oh, non lo so, io!"
"Quanto può guadagnare al giorno
quel povero operaio?"
"Se non fosse obbligato ad
assistere la suocera, la moglie e i
figli, arriverebbe a quattro o
cinque franchi, perché è indefesso
davvero; ma, siccome perde i tre
quarti del tempo a far le faccende
di casa, raggruzzola tutt'al più
quaranta soldi."
"Infatti è poco... Povera gente!"
"Sì, povera gente!... Ben detto...
Ma ce ne sono tanti dei miserabili,
che non si può far niente,
conviene consolarsi... Non è così,
Alfred? Ma, a proposito di
consolazione, e al rosolio non gli
si dicono due parole?"
"Sinceramente, signora Pipelet,
quel che mi avete raccontato mi
stringe il cuore: berrete voi alla
mia salute con vostro marito."
"Molto gentile, signore..." disse il
portinaio. "Intanto desiderate
vedere la camera?"
"Volentieri, e se la stanza mi
piacerà, vi darò la caparra." Il
portinaio uscì dal suo antro.
Rodolphe lo seguì.
11.
I quattro piani.
La scala umida e oscura pareva
anche più buia in quella triste
giornata d'inverno. L'ingresso di
ciascuno degli appartamenti di
quella casa offriva, per così dire,
all'occhio dell'osservatore una
fisionomia particolare.
La porta dell'appartamento del
Comandante era dipinta di fresco
di un colore scuro, venato; un
bottoncino
di
rame
dorato
luccicava alla serratura, e un bel
cordone da campanello con la
nappa di seta rossa contrastava
con la vecchiezza e il sucidume
delle pareti.
L'uscio del secondo piano,
abitato dall'indovina, che prestava
su pegno, presentava un aspetto
più singolare: un civettone
impagliato, uccello simbolico e
cabalistico, era inchiodato per le
zampe e per le ali al disopra
dell'intelaiatura; un finestrino con
la grata di fil di ferro, permetteva
di esaminare chi bussava, prima di
aprire.
La dimora del ciarlatano
italiano, sospetto di esercitare un
orribile mestiere, si distingueva
per la bizzarria della entrata. Il suo
nome si leggeva combinato con
denti di cavallo incrostati sopra
una specie di quadro nero di legno
appeso alla porta. Il cordone del
campanello, invece di terminare
classicamente con una zampa di
lepre o con un piede di capriolo,
finiva in un avambraccio e una
mano di scimmia mummificati.
Quel braccio secco, quella
piccola mano dalle cinque dita
articolate con le falangi e
terminanti in lunghe unghie, era
assai disgustosa.
L'avreste detta la mano di una
bambina
morta
da
tempo.
Passando
davanti
a
questa
porticina di colore oscuro, pareva
a Rodolphe di udire dei singhiozzi
soffocati. E d'un tratto, un grido
acuto, convulso, orribile, che
sembrava si sprigionasse dalle
viscere, rimbombò nel silenzio del
caseggiato.
Rodolphe ebbe un brivido.
Con un moto più rapido del
pensiero corse alla porta e suonò
con violenza.
"Che avete, signore?" gli
domandò il portinaio attonito.
"Quell'urlo..." disse. "Non lo
avete sentito?"
"Sì, signore: sarà qualche cliente, a
cui il signor Cesare Bradamanti
cava un dente... o forse due." La
spiegazione aveva del verosimile,
ma non soddisfece Rodolphe.
Il grido terribile che aveva
udito, gli era parso non solo
un'esclamazione di dolore fisico,
ma anche, se così si può dire, un
grido di dolore morale. Egli aveva
suonato con somma violenza. Da
principio non gli fu risposto. Varie
porte si schiusero una dopo l'altra;
poi, da dietro il vetro di un
finestrino situato vicino all'uscio,
su
cui
Rodolphe
fissava
macchinalmente lo sguardo, vide
apparire una figura scarna e di un
pallore cadaverico, con una faccia
schifosa, contornata da un bosco
di capelli rossicci e in parte grigi, e
terminante in una lunga barba
dello
stesso
colore
della
capigliatura.
La visione sparì in un attimo.
Rodolphe era rimasto come
pietrificato.
Nel poco tempo che era durata
quell'apparizione, aveva creduto di
riconoscere
certi
tratti
caratteristici di quell'uomo. Gli
occhi verdastri e brillanti come
l'alga
marina,
sotto
grossi
sopraccigli irti e rossicci, quel
livido pallore, il naso sottile, lungo
e ricurvo a becco d'aquila, e le cui
narici, bizzarramente slargate e
intagliate, lasciavano distinguere
parte della mucosa interna, gli
ricordavano quel Polidori, già
maledetto da Murph nella sua
conversazione con il barone di
Graün.
Benché Rodolphe non avesse
più visto l'abate Polidori da sedici
o diciassette anni, pure aveva
mille ragioni per ricordarselo. Ma
ciò che confondeva i suoi ricordi e
lo faceva dubitare dell'identità di
quei due individui, era che quello
che pensava di riconoscere sotto la
barba e capelli rossi del ciarlatano
aveva la faccia molto bruna.
E se Rodolphe (supponendo
che i suoi sospetti fossero fondati)
non si stupiva di ritrovare un
uomo che era stato prete, e del
quale gli erano noti il sommo
criterio, la gran dottrina e lo
spirito rarissimo, caduto a quel
punto di degradazione e forse
d'infamia, è perché non ignorava
come in lui le doti e il sapere
andavano
congiunti
a
una
profonda malvagità, ad una
condotta sregolata, a tanta
inclinazione per la crapula, e
specialmente ad una così nera
impostura, ad un disprezzo tanto
fiero degli uomini e delle cose, che
ormai, ridotto a meritata miseria,
poteva, e quasi diremmo doveva,
aver cercato di arrangiarsi nel
modo più spregevole, ed anche
provare
una
specie
di
soddisfazione ironica e sacrilega
nell'esercitare, lui, veramente
distinto per le doti dello spirito e
rivestito di un sacro carattere, il
vile
mestiere
di
sfacciato
saltimbanco.
Ma,
noi
lo
ripetiamo,
quantunque Rodolphe avesse
lasciato l'abate Polidori nel vigore
degli anni, e questo dovesse avere
l'età del ciarlatano, esistevano
però tra le due persone differenze
così notevoli, che Rodolphe non si
persuadeva della loro identità.
Tuttavia domandò a Pipelet: "È
un pezzo che il signor Bradamanti
abita in questa casa?"
"Circa un anno signore. Sì,
appunto, ci venne nel mese di
gennaio... È un inquilino che paga
puntualmente, mi ha guarito da
un terribile reumatismo, ma come
vi dicevo, ha il difetto di essere
troppo sguaiato e di non rispettare
niente nei suoi discorsi."
"In che modo?"
"In sostanza" precisò gravemente
Pipelet "io non sono un santo...
Ma tra scherzare e scherzare c'è di
mezzo il mare!"
"È dunque molto allegro?"
"Non è che sia allegro; all'opposto,
ha una faccia da morto... Ma non
ride con la bocca, ride con le
parole. Per lui non c'è padre, né
madre, né Dio, né diavolo... Di
tutto si burla, perfino della sua
acqua per gli ammalati! Anche di
quella! Ma, non ve lo nascondo,
questi scherni a volte mi
spaventano, mi danno come un
brivido... Quando è stato un
quarto d'ora a cicalare senza
decenza nel nostro stanzino, sopra
le donne dei diversi paesi selvaggi
che ha girato e io mi ritrovo poi
solo con Anastasie... Ebbene,
signore, io, che da trentasette anni
ho l'abitudine, mi sono fatto una
legge, di amarla... Anastasie...
Ecco, mi pare di volerle meno
bene... Adesso riderete, ma anche
qualche volta, quando il signor
Cesare se n'è andato, dopo avermi
descritto le orge dei principi che
ha conosciuto in quei viaggi,
ebbene, mi sembra che quel che io
mangio sia amaro, e perdo
l'appetito... Insomma, ho cara la
mia professione, signore, e la
tengo a onore. Avrei potuto esser
calzolaio come tanti, ma credo
rendermi
egualmente
utile
rattoppando scarpe vecchie. E,
guardate, signore, ci sono dei
giorni che quel demonio del signor
Cesare con le sue ciniche storie mi
fa rammaricare di non essere
fabbricante di stivali, parola
d'onore! Poi, ha un modo di
parlare delle donne che ha
conosciuto... Ve lo ripeto, io non
sono un santo, ma a sentirlo,
accidenti!, divento rosso" aggiunse
Pipelet, con molta indignazione.
"E la vostra consorte soffre per
queste cose?"
"Anastasie va matta per quelli che
hanno spirito, e il signor Cesare
con tutte le sue manieracce ne ha
molto, e per questo gli perdona
tutto..."
"Vostra moglie mi ha informato
sulle voci che corrono..."
"Ve le ha dette?"
"State tranquillo, io so tacere."
"Ebbene, signore, a queste voci io
non ci credo, e non ci crederò mai.
Anche se tuttavia non posso fare a
meno di pensarci, e aumentano
quell'effetto singolare che mi
producono le storielle del signor
Bradamanti... Animo, per dirvela
schietta, sicuramente io detesto il
signor Cabrion, è un odio quello,
che porterò con me nella tomba...
Eppure ci son dei momenti che
quasi preferirei ancora le vilissime
burle che quello aveva la
sfacciataggine
di
fare
nel
caseggiato, piuttosto che le storie
che racconta il signor Cesare, così
a muso duro, stringendo le labbra
con un brutto movimento che mi
ricorda sempre l'agonia di mio zio
Brousselot, che nel suo ultimo
rantolo stringeva le labbra per
l'appunto
come
il
signor
Bradamanti." Alcune parole di
Pipelet sulla continua ironia con
cui il ciarlatano parlava di tutto e
di tutti, e che avviliva le più
innocenti storielle, confermavano
i primi sospetti di Rodolphe:
anche l'abate Polidori quando
deponeva
la
maschera
dell'ipocrisia, ostentava il più
audace e disgustoso scetticismo.
Ben deciso a chiarire i propri
dubbi e avvertendo che la
presenza di quel prete in quel
caseggiato
poteva
essergli
d'ostacolo, e sentendosi più
disposto
a
interpretare
sinistramente l'urlo terribile che
prima aveva udito, Rodolphe seguì
il portinaio al piano superiore,
dove era la camera che intendeva
prendere in affitto.
Vicino a questa, l'abitazione
della Rigolette era facile a
riconoscersi, per un tratto di
galanteria del pittore nemico
mortale di Pipelet.
Una mezza dozzina di Amorini,
paffutelli, dipinti con il gusto di
Watteau, stavano in gruppo
attorno a una sorta di targa, e
allegoricamente portavano, uno
un ditale, l'altro le forbici, uno il
ferro da stiro, l'altro un piccolo
specchio eccetera, e in mezzo alla
targa, su un fondo bell'azzurro
chiaro, si leggeva in lettere color
rosa: RIGOLETTE, SARTA il tutto
contornato da una ghirlanda di
fiori che si distaccava a meraviglia
sul fondo verdeazzurro della porta.
E la porta era piccola e bella, e
formava perciò un gran contrasto
con la bruttezza della scala.
A
rischio
d'inasprire
le
sanguinose piaghe di Alfred,
Rodolphe gli disse, indicando la
porta di Rigolette: "Questo sarà
senza dubbio lavoro del signor
Cabrion?"
"Sì, signore, si è arrogato il diritto
di rovinare la tinta di questa porta
con quegli indecenti scarabocchi
di bimbetti nudi, che chiama
Amorini. Se non fossi stato
pregato e ripregato dalla signora
Rigolette, e se il signor BrasRouge non fosse stato tanto
debole, io avrei raschiato ogni
cosa, come anche la tavolozza con
cui quel mostro ha rovinato l'uscio
della vostra stanza.
Infatti una tavolozza di vari
colori, che pareva appesa ad un
chiodo, era dipinta sulla porta con
tale maestria che sembrava vera e
veniva voglia di staccarla.
Rodolphe seguì il portinaio
nella camera, assai spaziosa,
preceduta da un salottino, e
rischiarata da due finestre che
davano sulla rue du Temple.
Alcuni fantastici sbozzi fatti sul
secondo uscio da Cabrion, erano
stati rispettati scrupolosamente da
Germain.
Rodolphe aveva troppi motivi
di voler abitare nel caseggiato per
non confermare subito l'alloggio;
sicché, dando quaranta soldi al
portinaio, gli disse: "La stanza mi
va bene. Eccovi la caparra. Domani
manderò qualche mobile... Non
sarà necessario, penso, che io parli
all'amministratore, al signor BrasRouge?"
"No, no... Viene qui di rado, non
per altro, che per gli imbrogli della
Burette...
Tutti
trattano
direttamente con me. Soltanto vi
domanderò il vostro nome."
"Rodolphe."
"Rodolphe... che?"
"Rodolphe
solamente,
signor
Pipelet."
"Ah, allora va bene... Non insistevo
mica per curiosità: i nomi e la
volontà sono liberi."
"Ditemi, signor Pipelet: domani,
come nuovo vicino, non potrei
andare a domandare ai Morel se
posso aiutarli in qualcosa, giacché
il
mio
predecessore
signor
Germain li aiutava a seconda dei
suoi mezzi?"
"Sicuro,
signore,
potete
benissimo! È vero che servirà a
poco, poiché saranno cacciati via,
ma lo gradiranno." Come colpito
da un'idea improvvisa, Pipelet
esclamò, guardando Rodolphe
malizioso: "Capisco, capisco! È un
buon principio, per finire poi da
buon vicino della signorina
accanto."
"Signora o signorina, questa
Rigolette?"
"Signorina, signorina, anche se
mia moglie dice sempre signora..."
"Bene, bene... Allora ci conto."
"In questo state tranquillo, è
l'usanza. E in più sono certo che la
Rigolette avendo inteso che si
visitava la stanza, starà a sbirciare
per vederci scendere. Voglio far
rumore apposta nel girare la
chiave, e voi state attento
passando sul pianerottolo." Infatti
Rodolphe si accorse che la
porticina graziosamente adorna di
Amorini di Watteau era appena
socchiusa, e dalla stretta apertura
distinse la punta di un bel nasino,
e un occhio nero, vivace e curioso;
ma siccome egli rallentava il
passo, fu serrata bruscamente la
porta.
"Ve lo dicevo, che era in
attesa!" disse Pipelet, e poi
soggiunse: "Scusate, signore!... Io
vado al mio piccolo osservatorio".
"Che cos'è mai?"
"In cima a questa scala di legno c'è
il pianerottolo dov'è la soffitta dei
Morel; dietro a un soppalco si
trova una specie di buco
oscurissimo dove io ripongo le
ciabatte vecchie; siccome il muro è
tutto guasto e screpolato, quando
sono là dentro vedo in casa loro, e
li sento come se ci fossi... Non è
che voglia far loro la spia... Giusto
cielo! Ma vado a guardare, come si
va a un melodramma molto triste;
e scendendo di là nel mio
stanzino, mi pare d'essere in un
palazzo... Ma venite, dunque,
signore, se vi regge il cuore, prima
che se ne vadano... È cosa
spiacevole, ma curiosa: quando
vedono qualcuno diventano come
selvaggi,
perché
sono
in
soggezione..."
"Avete troppa bontà, signor
Pipelet... Un altro giorno, forse
domani, approfitterò della vostra
offerta..."
"A vostro comodo, signore, io però
debbo salire al mio osservatorio,
perché ho bisogno di un pezzo di
cuoio. Se intanto volete scendere,
vi raggiungerò subito." Pipelet
cominciò,
sulla
scala
che
conduceva alla soffitta, una salita
molto faticosa per un uomo
dell'età sua.
Rodolphe
dava
un'ultima
occhiata alla porta della Rigolette,
pensando che questa giovane, ex
compagna
della
sventurata
Goualeuse, sapeva senza dubbio
dove abitava il figlio del Maître,
allorché udì, dal piano di sotto,
uscire qualcuno dalla casa del
ciarlatano, e riconobbe il passo
leggero di una donna e lo
stropiccio di una veste di seta. Si
fermò un istante per prudenza.
Quando non sentì più niente,
discese.
Arrivato al secondo piano, vide
e raccolse da terra un fazzolettino
sugli ultimi gradini; di certo
apparteneva alla persona uscita
dalle stanze del ciarlatano.
Rodolphe si accostò a una delle
strette finestre che davano luce
alla scala, ed esaminò la pezzuola,
magnificamente ricamata, e che
portava in un angolo una L ed una
N, sormontate da una corona
ducale.
Il
fazzoletto
era
letteralmente
inzuppato
di
lacrime.
Prima idea di Rodolphe fu di
affrettarsi
per
rendere
il
fazzolettino alla donna che lo
aveva perduto; ma rifletté che
forse, nell'attuale circostanza, la
sua premura sarebbe
stata
attribuita a una disdicevole
curiosità; perciò lo mise in tasca,
trovandosi così senza volere
intricato in una misteriosa e
sicuramente tristissima avventura.
Giunto dalla portinaia le disse:
"Non è scesa adesso una donna?"
"Sì, signore. Era una bella signora,
alta e magra, e con il velo nero.
È andata dal signor Cesare. Il
piccolo Tortillard era stato a
cercare una carrozza, e lei c'è salita
di corsa... Quel che mi sorprende è
che quel monellaccio si è appeso
dietro alla carrozza. Ma suppongo,
per sapere dove vada la signora,
perché è curioso quanto una
gazza, e lesto più d'un folletto,
benché abbia il piede zoppo."
Rodolphe pensò tra sé: "Il nome e
l'indirizzo di lei interesseranno al
ciarlatano, se ha ordinato a
Tortillard
di
seguire
la
sconosciuta".
"Ebbene, signore, la camera fa
per voi?" domando la Pipelet.
"Perfettamente: la piglio, e
domani manderò la mia mobilia."
"Dio vi benedica, signore, di essere
passato davanti al nostro portone:
avremo un buonissimo inquilino
di più. Avete la faccia di un ottimo
ragazzo; Pipelet vi vorrà subito
bene. Lo farete ridere, come faceva
il signor Germain, che aveva
sempre pronta qualche facezia;
perché, pover'uomo, non ha
bisogno d'altro che di ridere un
po'... Scommetto che prima di un
mese sarete amiconi..."
"Eh, signora Pipelet, voi mi
adulate."
"Niente affatto: quel che vi dico è
come se vi aprissi tutto il mio
cuore... E se siete gentile con
Alfred, vi sarà riconoscente.
Vedrete come vi metterò in ordine
la casa! Io sono un leone per la
pulizia. E se la domenica gradite
pranzare in casa, vi cucinerò certa
roba da leccarvi le dita."
"Sta bene, farete voi. Domani vi
porteranno i mobili, ed io verrò a
badare alla loro sistemazione."
Rodolphe se ne andò.
I risultati della sua visita nella
casa di rue du Temple erano
rilevanti sia per lo scioglimento
del mistero che voleva chiarire, sia
per le nuove occasioni di far del
bene e impedire il male.
Tali erano questi risultati:
Rigolette conosceva sicuramente il
domicilio di François Germain,
figlio del Maître. Una giovane che,
secondo le apparenze, poteva
essere
disgraziatamente
la
marchesa d'Harville, aveva dato al
Comandante per l'indomani un
appuntamento che forse l'avrebbe
rovinata per sempre. E per mille
ragioni Rodolphe nutriva il
maggior interesse per il signor
d'Harville, di cui sembravano
crudelmente compromessi l'onore
ed il riposo.
Un operaio onesto e laborioso,
oppresso dalla più squallida
miseria, sarebbe stato, con la sua
famiglia, messo in mezzo alla
strada per volontà di Bras-Rouge.
Inoltre, Rodolphe, per caso,
aveva scoperto qualche traccia di
un raggiro, di cui il ciarlatano
Cesare Bradamanti (forse l'abate
Polidori), ed una donna che senza
dubbio apparteneva al ceto più
elevato, erano gli attori principali.
In più, la Chouette, da poco
tempo uscita dall'ospedale, dov'era
entrata
dopo
l'avvenimento
dell'allée des Veuves, aveva oscuri
rapporti con la Burette, indovina e
prestatrice di denaro su pegno, che
occupava il secondo piano del
caseggiato.
Raccolti questi diversi dati,
Rodolphe se ne tornò a casa in rue
Plumet, differendo all'indomani la
sua visita al notaio Jacques
Ferrand.
La sera, come sappiamo,
doveva recarsi alla gran festa da
ballo dell'ambasciatore di *.
Prima di seguire il nostro eroe
in quelle nuove escursioni, noi
daremo un'occhiata retrospettiva
su Tom e Sarah, personaggi
importanti nella nostra storia.
12.
Tom e Sarah.
Sarah Seyton, allora vedova del
conte Mac-Gregor, e in età di
trentasette trentotto anni, era di
un'ottima famiglia scozzese, figlia
di un baronetto di campagna.
Di perfetta bellezza, orfana a
diciassette
anni,
aveva
abbandonato la Scozia con il
fratello Tom Seyton di Halsbury.
Le assurde predizioni di una
vecchia balia avevano esaltato
quasi sino alla follia i due vizi
capitali di Sarah, l'orgoglio e
l'ambizione, presagendole, con
estrema convinzione e pertinacia,
il più alto destino, diciamolo pure,
un destino sovrano! La giovane
scozzese aveva creduto alle
predizioni della nutrice, e per
confermare le vane speranze
diceva fra sé di continuo: era pure
una zingara quella che promise
una corona all'eccellente
e
bellissima creola che un giorno
sedette sul trono di Francia, e fu
regina per bontà e per grazia,
come tante altre lo sono per
grandezza e maestà! Cosa strana!
Tom
Seyton,
non
meno
superstizioso
di
Sarah,
la
incoraggiava nelle sue stolte
lusinghe ed aveva deciso di
consacrare la propria vita alla
realizzazione del sogno di Sarah,
quel sogno privo di buonsenso, ma
pieno di seduzione.
Però il fratello e la sorella non
erano tanto ciechi da credere
fatale il presagio della nutrice, e da
mirare ad un trono di prim'ordine,
con sprezzo di reami secondari e
di principi regnanti. No! Purché la
leggiadra scozzese cingesse un
giorno la fronte imperiosa con una
corona,
l'orgogliosa
coppia
avrebbe chiuso alquanto gli occhi
sulla
maggiore
o
minore
importanza del regno, sulla grande
o piccola estensione dei suoi
domini.
Col soccorso dell'"Almanacco
di Gotha" per l'anno di grazia 1819,
Tom
Seyton,
nell'atto
di
abbandonare la Scozia, compilò
una specie di quadro sinottico in
ordine d'età di tutti i re e delle
altezze sovrane di Europa allora
non ancora sposati.
Benché assurda, l'ambizione di
Tom e Sarah rifuggiva però da
metodi illeciti o privi di scrupoli.
Tom doveva aiutare la sorella
soltanto a tendere una trappola
coniugale in cui lei si proponeva di
catturare un principe qualsiasi.
Avrebbe preso parte a tutte le
astuzie ed agli intrighi che
potevano far pervenire la sorella
ad un tale risultato; ma avrebbe
ucciso la sorella piuttosto che
vederla amante di un sovrano,
nella certezza di un matrimonio
riparatore.
L'inventario che si compilò
dietro
le
indagini
fatte
sull'"Almanacco di Gotha" fu assai
soddisfacente.
La Confederazione Germanica
somministrava
un
numero
contingente di giovani principi,
eredi
presunti.
Sarah
era
protestante. Tom non ignorava la
facilità degli sposalizi tedeschi
volgarmente detti "con la mano
sinistra" a cui si sarebbe in ultima
ipotesi rassegnato per Sarah.
Deliberarono pertanto di andare
prima di tutto in Germania a
cominciare la caccia.
Se il progetto sembra assurdo,
e le loro vedute paiono pazze, noi
risponderemo che un'ambizione
sfrenata, fomentata inoltre da una
credenza superstiziosa, rare volte
si picca di esser ragionevole nei
suoi divisamenti, e anzi propende
sempre all'impossibile. Tuttavia,
richiamando
certi
fatti
contemporanei, dopo augusti e
rispettabili matrimoni morganatici
tra sovrani e sudditi, fino
all'amorosa odissea di miss
Penelope e del principe di Capua,
non si può rifiutare qualche
probabilità di felice successo alla
immaginazione di Tom e di Sarah.
E aggiungeremo che la superba
scozzese univa a una portentosa
bellezza, le più idonee disposizioni
ai piaceri carnali, e una forza di
seduzione tanto più pericolosa, in
quanto all'animo arido e duro, allo
spirito accorto e maligno, alla
profonda
dissimulazione,
al
carattere ostinato e assoluto,
accompagnava tutte le apparenze
di un'indole generosa, ardente e
appassionata.
Nel fisico, la sua persona
mentiva così perfidamente, come
nel morale.
Gli occhi grandi e neri, ora
fulgidi ora languidi sotto le
sopracciglia d'ebano, sapevano
fingere il fuoco, lussureggiare di
voluttà:
eppure
le
calde
aspirazioni
dell'amore
non
dovevano mai infiammare il suo
gelido petto, nessuna dolcezza del
cuore o dei sensi doveva
scomporre i calcoli tranquilli e
freddi di questa femmina scaltra
ed egoista.
Arrivata sul continente, Sarah,
dietro i consigli del fratello, non
volle dare inizio alle sue tresche
prima di aver fatto un soggiorno a
Parigi, dove desiderava affinare la
sua educazione, o addolcire la sua
rigidezza britannica, con la
frequentazione
di
persone
eleganti, colte e aristocratiche.
Sarah fu introdotta nella
società più elevata grazie ad
alcune lettere di raccomandazione,
e mediante il benevolo patrocinio
dell'ambasciatrice d'Inghilterra e
del vecchio marchese d'Harville,
che
in
Inghilterra
aveva
conosciuto suo padre.
Le persone finte, fredde e
riflessive
assumono
con
straordinaria
prontezza
il
linguaggio ed i modi più opposti al
loro carattere; in esse tutto è
esterno, superficie, apparenza,
vernice, corteccia: appena si
penetra più addentro, subito le si
capisce per ciò che sono e loro si
sentono perdute: quindi l'istinto di
conservazione di cui sono dotate
le rende pronte all'ipocrisia
morale; esse si camuffano, e
mutano costumi, con la prontezza
e
l'abilità
di
un
esperto
commediante.
Per cui dopo sei mesi di
permanenza nella capitale di
Francia, Sarah avrebbe potuto
gareggiare con la parigina più
parigina per leggiadria, per
graziosissimo brio, per una certa
civetteria di buon gusto, e per la
simulata ingenuità nello sguardo,
provocatore a un tempo e
appassionato.
Tom, quando credette la
sorella armata a sufficienza, partì
con lei per la Germania, munito di
ottime presentazioni.
Il
primo
Stato
della
Confederazione Germanica che
appariva
segnato
nel
loro
itinerario era il granducato di
Gerolstein,
indicato
nel
diplomatico
ed
infallibile
"Almanacco di Gotha", per l'anno
1819, come segue: GENEALOGIA
DEI SOVRANI D'EUROPA E
DELLE
LORO
FAMIGLIE
GEROLSTEIN
"Granduca
MASSIMILIANO RODOLFO, nato
il 20 dicembre 1764, succeduto a
suo padre CARLO FEDERICO
RODOLFO, il 21 aprile 1785.
Vedovo, gennaio 1808, di LUIGIA,
figliola del principe GIOVANNI
AUGUSTO Dl BURGLEN.
Figlio: GUSTAVO RODOLFO,
nato il 17 aprile 1803.
Madre:
Granduchessa
GIUDITTA, vedova del granduca
CARLO FEDERICO RODOLFO, il
21 aprile 1785." Non solo Tom, con
grande avvedutezza, aveva iscritto
in primo luogo sulla sua lista le
case in cui esistevano principi più
giovani, pensando che questi assai
più degli uomini in età matura
sono facili da sedurre, ma, come
già abbiamo detto, lui e Sarah
erano
stati
particolarmente
raccomandati al Sovrano di
Gerolstein dal vecchio d'Harville,
infatuato, al pari di ogni altro, di
Sarah, della quale non finiva di
lodare la bellezza, il garbo e
l'indole piacevolissima.
Rodolfo, l'erede presunto della
corona, aveva appena diciotto
anni, allorché i due scozzesi
vennero presentati a suo padre.
L'arrivo della giovane straniera fu
un grande avvenimento in quella
piccola Corte, quieta, semplice,
seria, e per così dire patriarcale.
L'ottimo Granduca governava i
suoi Stati con saggia fermezza e
paterna bontà: nulla di più
materialmente e moralmente
felice di quel principato. La
popolazione, industriosa, grave,
sobria, contenta, devota, offriva il
tipo ideale del carattere tedesco.
Quelle brave genti godevano di
una sorte felice, ed erano così
soddisfatte della loro condizione,
che il sovrano non aveva dovuto
fare gran fatica per preservarle
dalla mania delle innovazioni
costituzionali.
Per quanto concerneva le
moderne scoperte, le idee pratiche
che potevano avere una giovevole
influenza sul benessere e la
morale del popolo, il Granduca se
ne andava informando, e le
applicava incessantemente, non
avendo altro incarico i ministri
residenti presso le varie potenze
d'Europa,
che
di
tenerlo
regolarmente
informato
dei
progressi delle scienze sotto il
punto di vista della utilità pubblica
e pratica.
Noi
l'abbiamo
detto,
il
Granduca provava tanto affetto
quanta gratitudine per il vecchio
marchese d'Harville, che nel 1815
gli aveva reso inestimabili servizi;
per
cui,
raccomandati
da
quest'ultimo, Tom e Sarah Seyton
di Halsbury furono accolti alla
Corte di Gerolstein con particolare
benevolenza e distinzione.
Quindici giorni dopo l'arrivo,
Sarah, dotata di notevole intuito,
aveva agevolmente capito la
fermezza, la schiettezza, la lealtà
del Granduca. Prima di sedurne il
figlio, cosa che reputava certa,
aveva
voluto
cautamente
assicurarsi della disponibilità del
genitore, che dimostrava di amare
così profondamente Rodolfo, che
Sarah per un momento lo giudicò
capace di accettare un parentado
di rango inferiore, piuttosto che
fare l'infelicità del figlio. Ma la
scozzese non tardò a convincersi
che quel padre, anche se tenero,
non avrebbe mai derogato dalle
tradizioni, da certe idee, e dai
doveri dei principi. Non già che ci
fosse in lui un eccesso di orgoglio,
ma coscienza, ragione e dignità. E
un uomo di quella tempra, così
energica, tanto più buono ed
affettuoso quanto più forte e
risoluto, nulla avrebbe ceduto in
ciò che urta la coscienza, la
ragione, la dignità.
Sarah si trovò a dover
rinunciare all'impresa, in vista di
quegli ostacoli quasi insuperabili;
ma riflettendo d'altra parte che
Rodolfo era giovanissimo, che
tutti vantavano la dolcezza, la
bontà e l'indole qualche volta
timida e distratta, lo credette
debole, e persistette nel suo
progetto e nelle sue speranze. In
quest'occasione la sua condotta e
quella di Tom furono un
capolavoro di abilità. La giovane
seppe conciliarsi tutti gli animi, e
specialmente le persone che
avrebbero potuto esser gelose o
invidiose dei suoi pregi; fece
dimenticare la bellezza e le grazie
di cui era adorna, mediante la
modestia e la semplicità con cui le
rese irresistibili. In breve diventò
l'idolo non solo del Granduca, ma
anche
di
sua
madre
la
Granduchessa
vedova,
che,
malgrado o a motivo dei suoi
novant'anni, amava oltremodo le
persone giovani ed avvenenti.
Parecchie volte Tom e Sarah
parlarono della loro partenza. Il
sovrano non volle mai consentirvi,
e per vincolare più saldamente il
fratello e la sorella presso di sé,
pregò il baronetto Tom Seyton di
Halsbury d'accettare la carica
vacante di primo scudiero e
supplicò miss Sarah di non
abbandonare la granduchessa
Giuditta, che non poteva più stare
senza di lei. Dopo una ostentata
titubanza,
contrastata
dalle
insistenze di tutti, Tom e Sarah
aderirono a quelle brillanti
proposte e si stabilirono alla Corte
di Gerolstein, dov'erano giunti da
circa due mesi.
Sarah, eccellente filarmonica,
indovinando
l'amore
della
Granduchessa
per
i
vecchi
musicisti, e fra gli altri per Gluck,
fece eseguire le opere di
quell'illustre maestro, e incantò la
principessa
con
la
sua
disponibilità e la valentia non
comune con cui cantava quelle
arie antiche, di bellezza semplice
ed espressiva. Tom, da parte sua,
seppe
rendersi
utilissimo
nell'incarico
affidatogli
dal
Granduca. Lo scozzese era un
perfetto conoscitore di cavalli,
aveva molta consuetudine ed
esperienza in quel lavoro, e in
poco tempo trasformò quasi del
tutto il servizio delle scuderie del
sovrano, prima disorganizzato
dalla negligenza di chi lo
sorvegliava. Ben presto fratello e
sorella furono a Corte amati,
festeggiati e benvoluti da tutti. La
preferenza del padrone sollecitava
le preferenze dei sottoposti.
D'altronde Sarah, per i suoi piani
futuri, aveva bisogno di tanti punti
d'appoggio, che non poteva
tralasciare alcun mezzo per
procacciarsi dei partigiani. La sua
ipocrisia, rivestita delle più vaghe
forme, ingannò la maggior parte di
quelle franche e ingenue persone,
e l'affezione generale si aggiunse a
quella del Granduca.
Ecco dunque la nostra coppia
alla Corte di Gerolstein, bene ed
onoratamente installata, senza che
ancora si sia fatta menzione di
Rodolfo. Per un fortunato caso,
pochi giorni dopo l'arrivo di Sarah,
era partito per una ispezione alle
truppe, con un suo aiutante di
campo ed il fedele Murph.
Questa assenza, doppiamente
propizia alle mire di Sarah, le
permise di disporre a suo agio i
principali fili della trama che
tesseva, senza che punto la
disturbasse la presenza del
giovane
principe,
la
cui
ammirazione
troppo
marcata
avrebbe forse destato i sospetti del
Granduca, che infatti, essendo
assente il figlio, non pensò di aver
accolto troppo leggermente una
donna di rara bellezza e di bello
spirito, che in seguito si sarebbe
trovata in troppa intimità con
Rodolfo a ogni ora del giorno.
Sarah rimase insensibile alla
cortese e generosa accoglienza, ed
alla nobile fiducia con cui era
introdotta in seno alla famiglia
sovrana.
Né lei né Tom si scostarono un
solo momento dai loro sinistri
proponimenti. Erano venuti con
puntiglio e malizia a provocare
scompiglio ed affanni in quella
Corte tranquilla e felice, e
calcolavano con freddezza i
probabili risultati delle crudeli
lacerazioni
che
avrebbero
dilaniato un padre e un figlio sino
allora uniti teneramente.
13.
Sir Walter Murph e l'abate
Polidori.
Rodolfo, nella sua infanzia, era
di struttura gracilissima. Suo
padre
fece
fra sé
questo
ragionamento,
bizzarro
all'apparenza, ed in fondo assai
sensato:
"I
gentiluomini
campagnoli d'Inghilterra sono
generalmente notabili per una
robusta salute. Tale vantaggio
dipende in gran parte dalla loro
educazione fisica, che semplice,
rozza, agreste, sviluppa in loro il
vigore. Rodolfo viene troppo
educato dalle donne, è di
temperamento delicato: forse
avvezzandolo a vivere al modo di
un fattore inglese (salvo qualche
riguardo), fortificherò la sua
costituzione."
Con
questo
proposito
il
Granduca fece
ricercare in Inghilterra un uomo
degno e capace di dirigere quella
sorta di educazione fisica: Sir
Walter Murph, modello atletico
del gentiluomo di campagna dello
Yorkshire, fu incaricato di una
cura così importante. Il sistema
che tenne con il giovane principe
corrispose appieno alle vedute del
Granduca.
Murph ed il suo allievo stettero
per vari anni in una bella fattoria,
posta fra campi e boschi, a poche
leghe di distanza dalla città di
Gerolstein, nella situazione più
pittoresca e salubre che mai.
Rodolfo, libero da qualunque
etichetta, accudendo con Murph ai
lavori di agricoltura adatti alla sua
età, condusse la vita sobria,
maschile e regolata dei campi,
avendo,
per
distrazioni
e
divertimenti, esercizi violenti, la
lotta, il pugilato, le corse a cavallo
e la caccia. Parve che in mezzo
all'aria pura dei prati, dei boschi e
dei monti il giovane principe
potesse
trasformarsi:
crebbe
vigoroso come una giovane
quercia; al suo pallore alquanto
malaticcio subentrarono i bei
colori della piena salute; benché
sempre snello nella persona,
resistette alle più dure fatiche; la
destrezza, l'energia ed il coraggio
supplendo a quel che gli mancava
di forza muscolare, presto poté
gareggiare con vantaggio con
individui alquanto maggiori di età.
Aveva ormai quindici o sedici
anni. La sua educazione scientifica
subiva
necessariamente
le
conseguenze della preferenza
accordata a quella fisica: Rodolfo
sapeva poco. Ma il Granduca
pensava saggiamente, che per
ottener molto dallo spirito è
d'uopo che questo sia sostenuto da
un forte vigore fisico.
Il buon Walter Murph non era
dotto, e non poté dare a Rodolfo se
non alcune cognizioni primarie.
Nessuno meglio di lui però poteva
inspirargli il sentimento di ciò che
era giusto, leale, e generoso, e
l'orrore di ciò che fosse meschino,
abbietto e vile. Quegli odi e quelle
ammirazioni energici e salutari si
radicarono per sempre nell'anima
di Rodolfo; più tardi siffatti
principi ricevettero terribili scosse
dalle procelle delle passioni, ma
non furono mai divelti dal suo
cuore. Il fulmine colpisce, solca e
schianta un albero, piantato saldo
e profondamente, ma il succo
ribolle nelle sue radici, e mille
verdi rami ricrescono dal ceppo
che credevate inaridito. Murph
diede dunque a Rodolfo, se ci è
lecito dirlo, la salute del corpo e
quella dell'anima: lo rese robusto,
agile e audace, pronto a quel che
era buono e bene, restio a tutto
quanto fosse male e malvagio.
Compiuto così mirabilmente il suo
incarico lo "squire", richiamato in
Inghilterra da gravi interessi,
abbandonò la Germania per
qualche tempo, con sommo
rincrescimento del giovane che
teneramente lo amava.
Murph
doveva
ritornare
definitivamente in Gerolstein con
la sua famiglia, quando avesse
terminati alcuni affari per lui
importantissimi, e sperava non
dover rimanere assente più di un
anno.
Il Granduca, tranquillo per la
salute del figlio, pensò seriamente
alla sua istruzione. Un certo abate
Cesare Polidori, rinomato filologo,
medico distintissimo, storiografo
erudito, dotto nelle scienze esatte
e fisiche, fu incaricato di
fecondare il suolo, ricco, ma
vergine, tanto ben predisposto da
Murph. E questa volta fu
disgraziatissima la scelta del
Granduca; la sua religione fu
crudelmente
ingannata
dalla
persona che gli presentò l'abate, e
l'indusse ad accettare un prete
cattolico per istitutore d'un
principe
protestante.
Quell'innovazione parve a molti
un'enormità, e generalmente di
funesto presagio per l'educazione
di Rodolfo. Ed il caso, o piuttosto
l'indole
perversa
dell'abate,
avverarono in parte il triste
presagio.
Empio,
scaltro,
ipocrita,
sprezzatore sacrilego di quanto c'è
di più sacro fra gli uomini, pieno
d'arte e di astuzia, dissimulando la
più perniciosa immoralità, il più
orribile
scetticismo,
sotto
apparenza
di
austerità
e
devozione, ostentando una falsa
umiltà cristiana per occultare la
viltà con la quale cercava
insinuarsi, così come affettava
grande benevolenza e un candido
ottimismo per nascondere la
perfidia della sua adulazione
interessata;
conoscendo
profondamente gli uomini, o, per
dir meglio, non avendo di essi
sperimentato che la parte debole e
maligna e le vituperose passioni,
l'abate Polidori era il peggior
mentore che si potesse dare a un
ragazzo.
Rodolfo, abbandonata con
sommo
rammarico
la
vita
indipendente ed attiva, condotta
sino allora con Murph, per andare
a dannarsi sui libri e sottoporsi
alle usanze cerimoniose della
Corte di suo padre, prese subito in
avversione il Polidori. E così
doveva essere. Il povero "squire",
nel lasciare il suo allievo lo aveva
paragonato, non senza ragione, ad
un puledro selvaggio, pieno di
grazia e di fuoco, che si togliesse ai
bei prati, dove libero e allegro
capriolava, per sottometterlo al
freno
ed allo
sprone, ed
insegnargli a moderare e ad
impiegare proficuamente le forze,
adoperate fino allora a correre e
saltellare a suo capriccio. Rodolfo
incominciò con il dichiarare al
precettore
che
non sentiva
vocazione alcuna per lo studio;
che aveva bisogno, più che d'altro,
di esercitare le braccia e le gambe,
di respirare l'aria dei campi, di
aggirarsi fra i boschi e le
montagne; e che un buon fucile ed
un ottimo cavallo gli sembravano
preferibili ai più bei libri del
mondo. Il prete replicò all'alunno
non esservi infatti cosa più
fastidiosa dello studio, ma che
troppo rozzi e grossolani erano
quei piaceri di cui parlava, degni
soltanto di uno stupido fattore
tedesco.
L'abate fece un quadro così
buffonesco, così ridicolo di quella
vita semplice e campestre, che per
la prima volta Rodolfo si vergognò
di essersi reputato felice, e
ingenuamente si domandò in che
modo si potesse passare il tempo,
allorché non si aveva alcun genio
né per lo studio, né per la caccia,
né per la vita libera dei campi. E
l'abate gli rispose misteriosamente
che in seguito ne sarebbe stato
informato.
Bisogna dire che, sebbene sotto
altro rapporto, le speranze di quel
prete non erano meno ambiziose
di quelle di Sarah. Quantunque il
Granducato di Gerolstein fosse
uno Stato di second'ordine, pure
l'abate si era immaginato di
diventarne un giorno il Richelieu,
e di preparare Rodolfo alla parte di
principe incapace.
Principiò
dunque
con
l'assecondare il suo discepolo, a
forza di compiacenze e d'ossequi, e
portarlo pian piano a porre in
oblio Murph.
Siccome Rodolfo continuava ad
esser
contrario
ad
ogni
applicazione allo studio, l'abate
celava
al
Granduca
quella
malavoglia del giovane principe ad
acquisire istruzione, anzi, vantò la
sua indefessa assiduità ed i
sorprendenti progressi; ed alcuni
rapidi
colloqui
concertati
anticipatamente fra lui e Rodolfo,
ma che parvero improvvisati,
mantennero il sovrano (uomo di
poca cultura) nella sua fiducia e
completa cecità.
Gradatamente l'avversione che
il prete aveva subito ispirato a
Rodolfo si mutò in una familiarità,
molto diversa però dal serio
attaccamento che portava al buon
Murph. E di mano in mano,
Rodolfo si trovò legato all'abate
(benché
per
cause
innocentissime) da quella sorta di
solidarietà che unisce insieme due
complici. Egli doveva, presto o
tardi, disprezzare un uomo del
carattere e dell'età di quel
precettore, che indegnamente
mentiva
per
scusare
l'infingardaggine del discepolo. Il
prete lo sapeva. Ma non ignorava
che chi non si allontana subito con
disgusto dagli esseri corrotti si
avvezza poi, suo malgrado, a poco
a poco, al loro spirito, spesso
seducente, ed insensibilmente
giunge alla fine a udire, senza
vergogna
né
indignazione,
schernire e offendere ciò che
prima adorava e venerava.
D'altronde il prete era troppo
accorto per prendere di petto certe
nobili idee di Rodolfo, frutto
dell'educazione datagli da Murph.
Dopo avere a lungo celiato e
motteggiato sulla rozzezza dei
divertimenti che il suo allievo
godeva negli anni infantili,
deponeva per metà l'austera
maschera,
e
fortemente
risvegliava in lui la massima
curiosità,
mediante
qualche
piccola confidenza sulla vita
deliziosa di alcuni principi dei
tempi trascorsi; e quindi, cedendo
alle insistenze di Rodolfo, e
leggermente scherzando sopra la
gravità cerimoniosa della Corte del
Granduca,
infiammava
l'immaginazione del giovane con i
racconti esagerati e pieni di calore
dei piaceri e delle galanterie che
avevano illustrato i regni di Luigi
Quattordicesimo, del Reggente, e
specialmente
di
Luigi
Quindicesimo, l'eroe di Cesare
Polidori. E asseriva al disgraziato
suo allievo, che lo ascoltava con
una avidità funesta, che le voluttà
spinte all'eccesso, lungi dal
guastare l'indole di un principe, lo
rendevano spesso clemente e
generoso, perché appunto le
persone buone non sono mai
tanto disposte alla benevolenza ed
agli affetti più dolci, che quando si
trovano in mezzo alle cose gioiose.
Luigi Quindicesimo, il beneamato,
era la prova innegabile di quanto
affermava.
"E poi" gli diceva l'abate
"quanti grandi uomini dei tempi
antichi e moderni furono dediti al
più raffinato epicureismo! Da
Alcibiade sino a Maurizio di
Sassonia; da Antonio sino al gran
Condé; da Cesare sino a
Vendôme!" Tali colloqui dovevano
produrre danni tremendi in un
cuore giovanile, ardente e vergine.
Ed inoltre Polidori traduceva con
molta eloquenza al suo alunno le
odi di Orazio, in cui quel raro
ingegno esalta con modi così
persuasivi le molli delizie di una
vita tutta consacrata all'amore ed
alle più squisite sensualità. Poi,
tratto tratto, onde velare il
pericolo di teorie simili, e
assecondare quei germi d'innata
generosità che esistevano nel
carattere di Rodolfo, lo pasceva
con le utopie più lusinghiere ed
incantevoli. Gli diceva che un
principe
giudiziosamente
voluttuoso, poteva migliorare i
popoli
mediante
i
piaceri,
assuefarli alla morale rendendoli
contenti, e condurre i più increduli
al sentimento religioso esaltando
la loro gratitudine verso il
Creatore, che nell'ordine materiale
colmava gli uomini di godimenti
con una prodigalità veramente
inesauribile. Godere di tutto e
sempre, era, secondo quel prete,
glorificare Dio nella magnificenza
e nell'eternità dei suoi doni!
Quelle teorie produssero i loro
frutti. In mezzo a quella Corte
regolata e virtuosa, abituata
dall'esempio del padrone agli
onesti piaceri ed alle innocenti
distrazioni, Rodolfo, istruito dal
Polidori, sognava già le folli
nottate di Versailles, le orge di
Choisy, le violente voluttà del Parc
des Cerfs, e anche di quando in
quando, per contrasto, qualche
amore romanzesco. Il precettore
non aveva mancato di fargli
osservare che un principe della
Confederazione Germanica non
poteva avere altra ambizione
militare, se non quella di mandare
il suo contingente alla Dieta. Ed
inoltre, lo spirito di quell'epoca
non era più volto alla guerra.
Trascorrere nelle delizie e
nell'inerzia i suoi giorni fra il lusso
e le donne, riposarsi quindi
dall'ebbrezza dei sensuali diletti
mediante qualche ricreazione
attinta nelle belle arti, cercare
qualche volta nella caccia, non da
selvaggio
Nemrod,
ma
da
intelligente
epicureo,
quelle
fatiche momentanee, che poi
raddoppiano
il
pregio
dell'indolenza e della pigrizia; tale
era, secondo l'abate, l'unica vita
possibile per un principe, il quale,
per colmo di felicità, trovava un
primo ministro capace di dedicarsi
coraggiosamente alla grave e
fastidiosa fatica degli affari dello
Stato.
Rodolfo, lasciandosi trascinare
da supposizioni, in cui nulla vi era
di colpevole, poiché non uscivano
dal circolo delle probabilità, si
proponeva, quando Dio avesse
richiamato a sé il Granduca, di
dedicarsi a quell'esistenza che
l'abate gli dipingeva con colori
tanto belli e vivaci, e prendere il
precettore medesimo per suo
primo ministro.
Rodolfo, lo ripetiamo, amava
teneramente suo padre, e lo
avrebbe pianto sinceramente,
anche se la sua morte gli avesse
permesso di fare il Sardanapalo;
ed è inutile dire che teneva
profondamente
segrete
le
sciagurate speranze che in lui
fermentavano.
Sapendo che gli eroi prediletti
del Granduca erano Gustavo
Adolfo, Carlo Dodicesimo ed il
gran
Federico
(Massimiliano
aveva l'onore di appartenere molto
da vicino alla famiglia reale di
Brandebourg) Rodolfo pensava
con ragione che il sovrano di
Gerolstein, che professava una
somma ammirazione per quei recapitani sempre calzati di stivali e
di sproni, cavalieri e guerrieri,
avrebbe considerato suo figlio
come perduto irrimediabilmente,
qualora l'avesse stimato capace di
voler sostituire nella sua Corte la
tedesca gravità con i costumi
disinvolti e
licenziosi della
Reggenza.
Così passò un anno, passarono
diciotto mesi, e Murph ancora non
tornava, quantunque annunciasse
prossimo il suo arrivo.
Superata la prima ripugnanza
per l'abate, Rodolfo approfittò dei
suoi insegnamenti scientifici, ed
acquistò, se non una estesa
erudizione,
almeno
delle
cognizioni superficiali, che, unite
ad uno spirito naturale e sagace,
gli permettevano di figurare come
assai più istruito di quanto fosse,
facendo in tal modo onore alle
premure del suo precettore.
Ritornò
finalmente
dall'Inghilterra il buon Murph,
insieme con la sua famiglia, e
pianse
dall'allegrezza
nell'abbracciare l'antico allievo.
Dopo pochi giorni, senza poter
capire
il
motivo
di
un
cambiamento che lo affliggeva, il
degno "squire" trovò Rodolfo
verso di lui assai freddo ed
imbarazzato, e scorse una qualche
ironia nei suoi discorsi quando gli
ricordava la vita fatta prima in
comune fra le occupazioni e le
ricreazioni della campagna.
Certo della bontà di cuore del
giovane principe, e avvertito da un
interno presentimento, Murph
giudicò che l'avesse guastato la
perniciosa influenza del Polidori,
che già istintivamente detestava, e
che
perciò
si
prefisse
di
sorvegliare con attenzione.
Il precettore, dal canto suo,
molto dolente del ritorno di
Murph, del quale temeva la
franchezza, il buon senso e la
sagacia, non ebbe che un solo
pensiero: quello di far decadere il
gentiluomo nella stima di Rodolfo.
Fu in tale epoca che Tom e Sarah
vennero presentati ed accolti alla
Corte di Gerolstein con grandi
privilegi.
Qualche tempo prima che
giungessero, Rodolfo era partito
con un aiutante di campo e con
Murph per passare in rivista le
truppe di alcune guarnigioni.
Trattandosi di una parata militare,
il
Granduca
aveva
creduto
conveniente di escluderne il
Polidori, e questi, con estremo
rincrescimento,
vide
Murph
riassumere per qualche giorno le
sue funzioni presso il principe
ereditario.
Lo "squire" contava su questa
occasione per chiarire la causa
della freddezza di Rodolfo.
Disgraziatamente
questi,
già
ammaestrato
nell'arte
di
dissimulare, e supponendo che
fosse pericoloso lasciar scoprire
dal suo vecchio tutore i suoi
progetti per l'avvenire, lo trattò
con maniere cortesissime, e finse
di serbare dolcissima memoria
degli anni della sua prima
giovinezza
e
degli
esercizi
campestri, quasi giungendo a
tranquillizzarlo. Diciamo quasi,
perché le persone affettuose e
zelanti sono dotate di un istinto
ammirabile, e, malgrado le
dimostrazioni di amicizia di
Rodolfo, Murph
si
accorse
vagamente che c'era tuttavia
qualcosa di poco pulito sotto le
apparenze. Procurò di chiarire i
suoi sospetti, ed ogni tentativo
riuscì
vano
contro
la
dissimulazione veramente precoce
di Rodolfo.
Durante quel viaggio il prete
non era stato inoperoso. Gli
avventurieri si riconoscono fra
loro da certi segni misteriosi, che
permettono
di
osservarsi
scambievolmente, fino a che
l'interesse li decida ad un'alleanza
o ad un'ostilità dichiarata. Pochi
giorni dopo l'installamento di
Sarah e di suo fratello alla Corte
del Granduca, Tom era in stretta
relazione con l'abate Polidori.
Quest'ultimo
conveniva,
con
odioso cinismo, di avere una
propensione
naturale,
quasi
involontaria, per gli ipocriti ed i
malvagi, e quindi, diceva, senza
indovinare precisamente lo scopo
a cui tendevano i due scozzesi, che
si era sentito attrarre verso di loro
da una simpatia troppo forte,
perché non avesse da supporli
occupati in qualche diabolico
disegno. Varie domande di Tom
Seyton sopra il carattere e gli
antecedenti di Rodolfo, che
sarebbero state di nessuna
importanza per un uomo meno
all'erta del Polidori, illuminarono
questo ad un tratto sopra le mire
del fratello e della sorella; soltanto
non credette probabile che la
giovane scozzese avesse al tempo
stesso delle vedute così oneste e
così ambiziose.
L'arrivo di quella leggiadra
donna gli parve un colpo di
fortuna.
Rodolfo aveva la mente
infiammata da amorose chimere;
Sarah doveva essere la realtà
incantatrice destinata a subentrare
alle tante deliziose visioni; giacché
egli rifletteva che prima di arrivare
alla scelta dei divertimenti ed alla
variazione dei piaceri, quasi
sempre si comincia da un amore
esclusivo e passionale.
Luigi Quattordicesimo e Luigi
Quindicesimo furono fedeli forse
soltanto a Maria Mancini e a
Rosetta d'Arcy. E così, secondo il
Polidori, doveva accadere a
Rodolfo e alla bella scozzese.
Questa avrebbe avuto senza
dubbio immensa influenza su un
cuore sottomesso al potere
irresistibile d'un primo amore:
dirigere, coltivare quell'influsso, e
valersene per perdere per sempre
Murph, fu il piano a cui si applicò
l'abate. Da uomo abile, fece
perfettamente capire ai due
ambiziosi che alla fine avrebbero
dovuto fare i conti con lui,
essendo lui solo responsabile
presso il Granduca della vita
privata del giovane principe. Né
ciò bastava: occorreva, disse loro,
stare in guardia contro il
precedente maestro di Rodolfo,
che proprio allora era andato con
lui ad una parata militare: rozzo,
zotico, duro, pieno di assurdi
pregiudizi, aveva avuto in passato
un grande ascendente su Rodolfo,
e quindi poteva essere un
antagonista pericoloso, che invece
di scusare o tollerare le graziose
follie di gioventù, si sarebbe
sentito in dovere di denunciarle
alla severa morale del vecchio
sovrano. Tom e Sarah compresero
tutto, benché non avessero
rivelato al Polidori i loro occulti
disegni.
Al ritorno di Rodolfo e dello
"squire", i tre ambiziosi, vincolati
dal comune interesse, avevano
tacitamente formato una lega
contro Murph, loro terribile
nemico.
14.
Un primo amore.
Accadde ciò che doveva
accadere: Rodolfo, al suo ritorno,
vedendo ogni giorno Sarah, se ne
invaghì follemente. Lei in breve gli
confessò che ricambiava il suo
amore, benché questo, diceva,
avrebbe causato ad entrambi
gravissimi affanni. Non avrebbero
potuto mai essere felici: li
separava una distanza troppo
grande.
E
pertanto
gli
raccomandava
la
massima
prudenza per non far nascere
sospetti nel Granduca, che,
inesorabile, li avrebbe privati
dell'unica felicità che potevano
permettersi: quella, cioè, di
vedersi tutti i giorni. Rodolfo
promise di esser cauto e di tener
nascosta la sua passione. La
scozzese era troppo accorta e
sicura di sé per compromettersi e
tradirsi agli occhi della Corte. Il
giovane comprendeva la necessità
di dissimulare, e imitò il contegno
di Sarah. Il segreto del loro amore
restò per qualche tempo custodito
benissimo.
Quando fratello e sorella
ritennero la passione sfrenata di
Rodolfo giunta ormai al più alto
grado, e la sua esaltazione, sempre
crescente, troppo difficile da
controllarsi, ogni giorno sul punto
di palesarsi e quindi di far crollare
i loro piani, vibrarono il gran
colpo.
Autorizzandoli il ruolo e
l'ipocrisia del prete a confidenze
sugli scopi morali dei loro
progetti, Tom si rivolse a lui
manifestandogli la necessità di un
matrimonio fra Rodolfo e Sarah;
altrimenti, aggiunse, lui e la
sorella avrebbero abbandonato
immediatamente
Gerolstein.
Sarah contraccambiava l'affetto
del principe, ma preferiva la morte
al disonore, e non poteva essere
altro che moglie a Sua Altezza.
Di tali pretese si stupì molto il
precettore; non aveva creduto
Sarah
così
audacemente
ambiziosa. Quelle nozze, soggette
a innumerevoli difficoltà e a
pericoli d'ogni specie, gli parvero
impossibili, ed egli riferì con
franchezza a Tom le ragioni per
cui il Granduca non avrebbe mai
acconsentito a una simile unione.
Tom ascoltò le ragioni addotte,
ne riconobbe l'importanza, ma
propose, come espediente, un
matrimonio segreto, in piena
regola, da dichiararsi soltanto
dopo la morte del Granduca
regnante. Sarah era di nobile e
antico
casato; ai
progettati
sponsali
non
mancavano
i
precedenti. Tom dava al precettore
e, quindi, al principe, otto giorni
per decidersi; la sorella non
avrebbe sopportato oltre le
angosce dell'incertezza: se doveva
rinunciare a Rodolfo, avrebbe
preso almeno una così dolorosa
decisione il più presto possibile.
Al fine di motivare la partenza
repentina che a questa ipotesi
avrebbe avuto luogo, Tom, per
ogni evenienza, aveva diretto ad
un suo amico in Inghilterra una
missiva, in cui chiedeva di
mandargli da Londra false lettere
di sollecitazione con la scusa che
gravi impegni richiamavano Tom e
Sarah e li obbligavano a lasciare la
Corte di Gerolstein.
Questa volta l'abate, assistito
dalla sua cattiva opinione degli
uomini, indovinò la verità.
Cercando sempre un secondo fine
anche nei sentimenti più onesti,
quando seppe che Sarah voleva
legittimare l'amor suo mediante
un matrimonio, vide in ciò una
prova, non di virtù, ma di
ambizione.
Avrebbe
creduto
disinteressata la sua passione se
lei avesse sacrificato il proprio
onore a Rodolfo, come in principio
lui credeva avesse fatto, quando
supponeva
avesse
soltanto
l'intenzione di essere l'amica del
suo alunno.
Secondo le massime del prete,
sacrificare l'amore per obbedire al
dovere non era amare.
"Debole e freddo amore"
esclamava "è quello che si
preoccupa del cielo e della terra!"
Sicuro di non ingannarsi sulle
mire di Sarah, rimase dunque
assai perplesso. In sostanza il
desiderio espresso da Tom in
nome della sorella, era dei più
decorosi. Che chiedeva in fondo?
O una separazione o un'unione
legittima.
Nonostante il suo cinismo, il
Polidori non avrebbe osato
mostrarsi sorpreso dei delicati
motivi che sembrava suggerire la
condotta di Tom, e dirgli in faccia
che lui e Sarah avevano intrigato
per condurre Rodolfo a nozze
tanto sproporzionate.
L'abate aveva tre partiti a cui
appigliarsi: avvertire il Granduca
della trama matrimoniale; aprire
gli occhi a Rodolfo sugli intrighi di
Tom e Sarah; e, infine, agevolare
quel matrimonio.
Ma avvertire il Granduca era lo
stesso che alienarsi per sempre
l'erede alla corona. Illuminare il
principe sulle mire interessate di
Sarah, equivaleva esporsi ad
essere frainteso e forse a farsi un
nemico, come succede quando si
va da un innamorato a sprezzare la
donna che ama; e poi che colpo
tremendo per la vanità e per il
cuore del giovanotto: dirgli che
Sarah voleva sposare soprattutto
la sua posizione di sovrano! E poi,
infine, lui, prete, doveva forse
biasimare il contegno di una
zitella che bramava mantenersi
pura, e non accordare che al
marito i diritti di un amante? Al
contrario, dando mano alle nozze,
vincolava il principe e la moglie
con un obbligo di profonda
gratitudine, o perlomeno di
complicità
in
una
azione
vergognosa e segreta.
Certo poteva darsi che tutto
fosse scoperto, ed allora lui si
esponeva
alla
collera
del
Granduca:
ma
ormai
il
matrimonio
sarebbe
stato
concluso, l'atto valido, la burrasca
sarebbe passata, ed il futuro
sovrano di Gerolstein si sarebbe
sentito tanto più stretto da
riconoscenza verso il precettore, in
quanto questi si sarebbe esposto
ai più gravi rischi per servirlo.
Dopo
mature
riflessioni
Polidori, dunque, si decise ad
assecondare Sarah, pur con
qualche riserva, di cui parleremo.
La passione di Rodolfo era
arrivata al suo acme; fortemente
esasperata dalle ritrosie e dalle
abili seduzioni della scozzese, che
sembrava soffrisse anche più di lui
degli ostacoli invincibili che
l'onore ed il dovere opponevano
alla loro felicità. Ancora pochi
giorni e il giovane principe si
sarebbe scoperto da sé.
Era un primo amore, un amore
ardente e ingenuo, fiducioso e
focoso! Per eccitarlo Sarah aveva
adoperato le risorse infernali della
civetteria più raffinata. No,
giammai le vergini emozioni di un
giovane
pieno
di
cuore,
d'immaginazione e di fuoco,
furono più a lungo e con più
abilità stimolate; mai una donna
fu più perniciosamente seducente
di Sarah. Ora scherzosa ed ora
malinconica, ora casta ed ora
focosa, ora pudica ed ora
provocatrice, lei, con i suoi grandi
occhi neri, languidi e sfavillanti,
accendeva nell'anima di Rodolfo
una fiamma inestinguibile.
Quando
Rodolfo
udì
il
precettore proporgli di non vedere
mai più l'avvenente straniera, o di
possederla per mezzo d'uno
sposalizio segreto, gli saltò al
collo, lo chiamò suo salvatore, suo
amico, suo padre. Se il tempio ed il
ministro fossero stati pronti, si
sarebbe ammogliato sul momento.
Polidori, per suoi motivi
particolari,
volle
assumersi
l'incarico. E trovò il ministro e i
testimoni, e l'unione (alle cui
formalità vegliava attentissimo
Tom) fu occultamente celebrata,
durante una breve assenza del
Granduca, chiamato
a
una
conferenza
della
Dieta.
Le
predizioni
della
montanara
scozzese si realizzavano: Sarah
sposava l'erede di una corona.
Senza sopire il fuoco del suo
amore, il possesso rese però
Rodolfo più circospetto, e calmò
gli impeti che avrebbero potuto
compromettere il segreto del suo
amore per Sarah. La giovane
coppia protetta da Tom e dal prete,
s'intese così bene, usò di tanta
riservatezza nelle sue relazioni,
che queste sfuggirono agli occhi di
tutti.
Nei primi tre mesi del suo
matrimonio Rodolfo fu l'uomo più
beato.
Quando,
succeduta
la
riflessione ai trasporti, contemplò
a sangue freddo la sua posizione,
non si pentì di essersi legato a
Sarah con un nodo indissolubile,
rinunciò senza rammarico alla vita
galante, voluttuosa, effeminata
che aveva sognato, e fece con la
consorte i più bei progetti sul
futuro regno. In quella lontana
ipotesi la parte di primo ministro
che il prete aveva destinato a sé
diminuiva molto d'importanza:
Sarah si riserbava quelle funzioni
governative; troppo imperiosa per
non ambire il potere e il dominio,
sperava di regnare al posto di
Rodolfo.
Un
avvenimento
aspettato
da
Sarah
con
impazienza, convertì però la
quiete in tempesta. Stava per
diventare madre... Allora si
manifestarono in questa donna
esigenze del tutto nuove ed
esecrabili per Rodolfo.
Lei dichiarò, prorompendo in
finte lacrime, che non poteva più
sopportare la soggezione in cui
viveva, e che il suo stato di
gravidanza rendeva ancora più
penosa.
Proponeva
quindi
risolutamente a Rodolfo di
confessare tutto al Granduca;
sapendo che questo, come la
vecchia granduchessa, si era
sempre più affezionato a Sarah.
"Senza dubbio" aggiungeva lei
"si indignerà sul principio, andrà
in collera, ma ama tanto il figlio, e
ha per me tanta affezione che l'ira
sua, a poco a poco, si placherà, e io
prenderò alla fine nella Corte di
Gerolstein quel rango che mi
spetta,
quasi
diremmo,
doppiamente,
poiché
sono
prossima a dare un figlio all'erede
presuntivo del sovrano." Queste
pretese spaventarono Rodolfo:
conosceva il grande affetto che gli
portava il genitore, ma non gli era
neppure ignota l'inflessibilità delle
sue condizioni intorno ai doveri di
un principe.
A tutte le sue obiezioni Sarah
spietatamente rispondeva: "Io
sono vostra moglie davanti a Dio e
agli uomini. Fra qualche mese non
potrò più celare la mia gravidanza;
non voglio più vergognarmi di una
situazione di cui vado anzi
superba, e di cui posso altamente
gloriarmi." La paternità aveva
accresciuto la tenerezza di Rodolfo
per Sarah.
Posto fra il desiderio di aderire
ai suoi voti e il timore dello
sdegno del padre, egli provava uno
strazio terribile.
Tom sosteneva la sorella.
"Il matrimonio è indissolubile"
diceva al suo serenissimo cognato.
"Il Granduca può bandire dalla sua
Corte voi e la vostra sposa, e
niente più. Vi ama troppo per
risolversi a una simile misura, e
preferirà tollerare ciò che non ha
potuto
impedire."
Questi
ragionamenti, d'altronde molto
giusti, non
diminuivano
le
inquietudini di Rodolfo. Frattanto
Tom fu incaricato dal Granduca di
viaggiare in Austria per osservare
varie razze di cavalli. Questa
incombenza, che non poteva
rifiutare,
non
lo
avrebbe
trattenuto fuori più di quindici
giorni, ed egli partì con sommo
dispiacere in un momento così
decisivo per la sorella. Sarah fu al
tempo stesso dolente e soddisfatta
che il fratello si allontanasse:
perdeva l'appoggio dei suoi
consigli, ma nel caso che tutto si
fosse scoperto, Tom sarebbe stato
al sicuro dalla collera del
Granduca.
Sarah doveva informare Tom
giorno per giorno dell'andamento
di un affare così importante per
ambedue. Per corrispondere con
più
cautela
e
segretezza,
convennero uno speciale cifrario.
E tale precauzione prova che
Sarah aveva da scrivere anche di
altre cose oltre che del suo amore
per Rodolfo. Infatti, in questa
donna egoista, fredda, ambiziosa,
non si era sciolto il ghiaccio del
cuore,
nonostante
l'incendio
acceso nel petto del consorte. Per
lei la maternità fu soltanto un
mezzo di più per agire su Rodolfo,
ma non intenerì l'anima sua di
bronzo. La giovinezza, la folle
passione,
l'inesperienza
del
principe, quasi un ragazzo, e così
perfidamente impaniato in quella
scabrosa situazione, non le
ispiravano nemmeno pietà. Nelle
sue intime confidenze dirette a
Tom si lagnava con amaro sdegno
della debolezza di quel ragazzo,
che tremava davanti al più paterno
fra tutti i principi tedeschi. E
arrivava persino a scrivere che
quel padre aveva una vita troppo
lunga! Insomma, il carteggio tra
fratello
e
sorella
svelava
chiaramente
l'egoismo,
la
cupidigia, i calcoli, l'ambizione,
l'impazienza poco meno che
omicida di regnare, e metteva in
piena luce tutti i fili della trama
tenebrosa attorno al matrimonio
di Rodolfo.
Pochi giorni dopo la partenza
di Tom, Sarah era intenta ad un
colloquio
con
la
vecchia
Granduchessa. Parecchie signore
la guardavano meravigliate e
bisbigliavano
fra
loro.
La
granduchessa Giuditta, malgrado i
suoi novant'anni, aveva le orecchie
fini e la vista buona; si accorse di
qualche cosa, fece cenno ad una
delle dame del suo servizio di
avvicinarsi, e così le fu riferito che
madamigella Sarah Seyton di
Halsbury
sembrava
alquanto
ingrossata e appesantita, o almeno
meno snella e disinvolta del solito.
La vecchia principessa adorava
la sua protetta, e si sarebbe fatta
garante in faccia a Dio della sua
virtù. Sdegnata dalla malignità di
tali osservazioni, si strinse nelle
spalle, e dal fondo della sala dove
stava, disse ad alta voce.
"Ascoltate una parola, mia cara
Sarah!" Sarah si alzò.
Le fu necessario attraversare
quel cerchio di dame per arrivare
sino alla principessa, che appunto
per benevolenza immaginava,
facendola passare in mezzo ad
esse, di confondere le calunniatrici
e provare luminosamente che la
bella scozzese non aveva perduto
la grazia e la sveltezza di prima.
Ahimè, la nemica più perfida non
avrebbe inventato di peggio nel
desiderio di difendere Sarah!
Occorse tutto il rispetto che si
aveva per l'eccellente principessa,
perché si frenasse un mormorio di
sorpresa e d'indignazione quando
la giovane attraversava la sala.
Le
persone
meno
chiaroveggenti si accorsero di ciò
che Sarah non voleva più
nascondere... Giacché, bisogna
dirlo, lei avrebbe potuto occultare
il proprio strato, ma aveva
procurato
apposta
quella
rivelazione pubblica, al solo scopo
di forzare Rodolfo a dichiarare il
suo matrimonio.
La Granduchessa, però, non
cedendo ancora all'evidenza, disse
piano a Sarah: "Mia cara, siete
vestita pur male! Voi che avete
una vita da stringere con due dita,
oggi sembrate tutt'altra..." Noi
riferiremo
in
seguito
le
conseguenze di questa scoperta,
che causò grandi e terribili
avvenimenti, ma fin da ora diremo
ciò che il lettore ha senza dubbio
già indovinato, cioè che la
Goualeuse, Fleur-de-Marie, era il
frutto di quella malaugurata
unione, era la figlia di Rodolfo e di
Sarah, e che entrambi la
credevano morta.
Intanto non dimentichiamo
che Rodolfo, dopo aver visitato il
caseggiato di rue du Temple, se
n'era tornato a casa e doveva
quella stessa sera recarsi alla festa
da ballo che dava l'ambasciata di *.
E là accompagneremo Sua
Altezza il Granduca di Gerolstein,
Gustavo Adolfo, che viaggiava in
Francia sotto il nome di conte di
Duren.
15.
La festa da ballo.
La sera, alle undici, uno
svizzero in gran gala spalancava il
portone di un palazzo della rue
Plumet, per lasciare uscire una
magnifica carrozza di color celeste,
con due grossi e superbi cavalli
con criniera e coda lunghissime.
Sul sedile, coperto da un ampio
cuscino guarnito di frange di seta,
stava impettito un enorme
cocchiere,
reso
anche
più
spropositato dal pastrano blu
foderato di pelle, con il collare di
martora, strisce di pelle sulle
cuciture, e cordoni ed alamari; e
dietro alla carrozza un servitore
gigantesco in livrea blu, ornata di
nastri gialli e lametta d'argento,
era accanto ad un cacciatore dai
baffi formidabili, ingallonato come
un capo tamburo, e il cui cappello
a larghe tese era mezzo nascosto
da un mazzo di penne gialle ed
azzurre.
I
lampioni
illuminavano
l'interno della carrozza foderata di
raso; vi si poteva intravedere
Rodolphe, con il barone di Graün
alla sinistra, e dirimpetto il fedele
Murph.
Per riguardo verso il sovrano,
rappresentato
in
Parigi
dall'ambasciatore alla cui festa egli
stava andando, Rodolphe portava
sull'abito la decorazione in
brillanti dell'ordine di *.
Il nastro color arancio e la
croce
di
smalto
di
Gran
Commendatore dell'Aquila d'Oro
pendevano al collo di Sir Walter
Murph. Della stessa insegna era
decorato il barone di Graün; non
parleremo, poi, di una grandissima
quantità di croci di ogni paese che
ciondolavano da una catenella
d'oro fissata fra i due primi
occhielli del suo vestito.
"Sono veramente contento"
disse Rodolphe "delle ottime
notizie che la signora Georges mi
dà sulla mia povera protetta, dal
podere di Bouqueval; le premure
di David hanno operato prodigi: a
parte la mestizia che l'opprime, sta
molto meglio... Ed a proposito
della
Goualeuse,
confessate,
signor
Murph"
proseguì
sorridendo "che se qualcuno dei
vostri loschi amici della Cité vi
vedesse così travestito, oh, mio
valoroso carbonaio, rimarrebbe
stupefatto!"
"Ma, monsignore, io credo che
Vostra Altezza produrrebbe la
stessa sorpresa se volesse andare
questa sera in rue du Temple a
fare una visita amichevole alla
signora Pipelet, con l'intenzione di
dissipare alquanto la malinconia
del suo Alfred, che non brama
altro che di affezionarsi a Vostra
Altezza, a quel che dice la
stimabilissima portinaia."
"Monsignore ci ha dipinto tanto
bene quell'Alfred, con il suo
maestoso abito verde, l'aria da
saccentone,
e
l'invariabile
cappellone da caccia" soggiunse il
barone "che mi pare di vederlo con
quell'aspetto grave e autoritario
nel suo bugigattolo oscuro e
affumicato... Del resto, oso sperare
che Vostra Altezza sia soddisfatta
delle indicazioni del mio agente
segreto. Il caseggiato della rue du
Temple ha corrisposto appieno
alla sua aspettativa?"
"Sì" rispose Rodolphe "anzi, ho
trovato là più di quel che mi
aspettavo." E, dopo un momento
di silenzio, e per scacciare l'idea
penosa che gli causavano i suoi
timori a proposito della marchesa
d'Harville, riprese a dire in tono
più gaio: "Non oso confessare la
mia puerilità, ma trovo molto
piacere in questi frangenti: una
volta, pittore di ventagli, mi
impanco a tavola in una
stamberga di rue aux Fèves,
stamani
commesso
di
un
mercante, offro un bicchierino di
rosolio alla Pipelet; e stasera, sono
uno dei privilegiati, per grazia di
Dio, che regnano in questo basso
mondo...
L'uomo da quaranta scudi dice
"le mie rendite", come direbbe un
milionario..." continuò Rodolphe,
alludendo alla piccola estensione
dei suoi Stati.
"Ma
molti
milionari,
monsignore, non hanno il raro ed
ammirabile buon senso dell'uomo
da quaranta scudi!" disse il
barone.
"Ah, mio caro Graün, siete
troppo buono, troppo buono
davvero!"
riprese
Rodolphe,
ostentando al tempo stesso
soddisfazione
ed
imbarazzo,
mentre il barone guardava Murph
come uno che troppo tardi si
accorge di aver detto uno
sproposito.
"Certo" proseguì Rodolphe con
la faccia seria "non so, caro Graün,
come mostrarmi grato alla buona
opinione che vi compiacete avere
di me, e specialmente come
contraccambiarvi."
"Monsignore, ve ne supplico, non
vi prendete un tale incomodo!"
rispose il barone, dimenticando
per un momento che Rodolphe si
vendicava sempre con qualche
pungente
motteggio
delle
adulazioni,
che
aborriva
all'eccesso.
"Oh, no, no, barone, non voglio
rimanere in debito con voi... Ecco
disgraziatamente tutto quello che
posso
offrirvi
ora
per
contraccambiarvi: in fede mia, voi
mi sembrate un ragazzo di
vent'anni, e la statua di Antinoo
non ha fattezze più belle delle
vostre!"
"Ah, monsignore, grazia! grazia!"
"Dite un po', Murph, l'Apollo del
Belvedere ha forme più snelle, più
eleganti e più giovanili?"
"Monsignore... Era tanto tempo
che non mi accadeva..."
"E quel manto di porpora, oh,
come gli sta bene!"
"Monsignore, mi correggerò!" Noi
ci
ricorderemo
che
aveva
cinquant'anni, i capelli grigi e
increspati, un'alta cravatta bianca,
il viso magro, e gli occhiali d'oro.
"Vivaddio, guardate, Murph!
Non gli manca altro che la faretra
d'argento sull'omero, e l'arco nella
destra, per somigliare al vincitore
del serpente Pitone!"
"Chiedo
perdono
per
lui,
monsignore; non lo abbattete
sotto il peso di tanta mitologia!"
disse lo "squire", ridendo. "Io sono
garante verso Vostra Altezza che
per un pezzo non gli verrà più
voglia di adularvi..."
"Come, anche tu, vecchio Murph,
osi sino a questo punto!"
"Altezza, questo povero Graün mi
fa pietà: desidero partecipare al
suo castigo."
"Mio signor carbonaio ordinario,
ecco uno zelo amichevole che vi fa
onore... Ma, caro Graün, sul serio,
come potete dimenticare che non
permetto l'adulazione, se non ai
tipi come d'Harneim ed i suoi
pari? Giacché, bisogna essere
giusti, essi non saprebbero dire
altro; è il gorgheggio che si
combina alle loro belle piume,
come vantava al corvo la volpe...
Ma un uomo del vostro gusto e del
vostro spirito, non ci deve cadere,
barone!"
"Ebbene, monsignore!" replicò il
barone risolutamente "io dico che
c'è molto orgoglio, mi perdoni
Vostra
Altezza,
nella
sua
avversione per le lodi."
"Alla buon'ora, barone, ora mi
piacete! Spiegatevi."
"Sì, monsignore, è come se una
leggiadrissima donna dicesse ad
uno dei suoi ammiratori: "Mio
Dio! So che sono bella, la vostra
approvazione è inutile e fastidiosa.
A che giova affermare l'evidenza?
C'è forse bisogno di gridare per le
strade: il sole rischiara?"."
"Qua, barone, c'è più arte, e
maggior pericolo... E perciò, per
variare il vostro supplizio, vi
confesserò che l'infernale Polidori
non avrebbe trovato di meglio per
nascondere
il
veleno
dell'adulazione."
"Monsignore, io sto zitto."
"Sicché Vostra Altezza" domandò
Murph, cambiando tono "non ha
più alcun dubbio che fosse
Polidori quello che ha incontrato
sotto il nome di Cesare il
ciarlatano?"
"Non ne dubito più, poiché siete
stato avvertito che è a Parigi da
qualche tempo."
"Avevo dimenticato, o piuttosto
omesso di parlare di lui a Vostra
Altezza" disse Murph "perché so
quanto il suo ricordo le è odioso."
Rodolphe tornò a farsi pensoso e
mesto, e tacque un poco, finché la
carrozza entrò nel cortile del
palazzo.
Tutte le finestre brillavano
illuminate; una fila di lacché, in
grande
livrea, si
estendeva
dall'atrio e dalle anticamere sino
ai salotti che precedevano le sale,
dove stavano i camerieri. Era un
lusso imponente, regale! Il conte e
la contessa * si erano trattenuti
nel salone da ricevimento ad
aspettare Rodolphe.
Questi entrò, seguito da Murph
e dal signor di Graün.
Rodolphe
aveva
allora
trentasei anni, ma la perfetta
regolarità dei suoi lineamenti,
come già dicemmo, forse troppo
belli per un uomo, e l'aria affabile
e dignitosa, lo avrebbero reso
sempre notabile, anche se a tali
pregi non si fosse unito, a dare
maggior
lustro,
l'augusto
splendore del suo grado.
Quando comparve nel primo
salone dell'ambasciata, lo avreste
creduto trasformato: non si
vedeva più in lui l'attaccabrighe,
l'andatura ardita del pittore di
ventagli
vincitore
dello
Chourineur,
né
quella
del
commesso viaggiatore che tanto
s'interessava alle sciagure della
Pipelet. Era un principe, in tutto il
poetico ideale del termine.
Era vestito semplicemente:
aveva la cravatta ed il panciotto
bianco; un abito blu, abbottonato
sino al collo, a sinistra, la
piastrella con i diamanti gli
modellava la vita snella e graziosa.
Un tratto maschile e risoluto nel
portamento correggeva quel che
poteva esservi di troppo delicato
nell'insieme della sua persona.
Rodolphe compariva poco in
società, ed aveva un aspetto così
principesco, che la sua comparsa
produsse
sensazione;
tutti
fissarono gli sguardi su di lui
quando fece il suo ingresso nel
salone
dell'ambasciata,
accompagnato da Murph e dal
barone di Graün, che gli stavano
dietro a poca distanza.
Uno
degli
addetti
all'ambasciatore, incaricato di
sorvegliare il suo arrivo, corse
subito ad avvertire la contessa, e
questa, con il marito, si fece
incontro a Rodolphe dicendo:
"Non so come esprimere a Vostra
Altezza la mia gratitudine per il
favore di cui si degna oggi
onorarci."
"Voi sapete, signora, che è mio
piacere riverirvi, e che sono
sempre lieto di poter dire al signor
ambasciatore quanto gli sono
affezionato.
Siamo
vecchi
conoscenti."
"Vostra Altezza ha troppa bontà
nel compiacersi di ricordar sene, e
darmi così nuovo motivo per
apprezzare i suoi tratti di
benevolenza."
"Vi assicuro, signor conte, che non
è merito mio se certe persone mi
sono sempre nel cuore: ho la
fortuna di conservare memoria
soltanto di ciò che mi fu molto
gradevole."
"Ma Vostra Altezza ha un dono
portentoso!" disse sorridendo la
contessa di *.
"Non è così, signora? Quando
fra molti anni avrò il bene di
ricordarmi di questa serata, e
dell'ottimo gusto e della somma
eleganza che presiedono alla
vostra festa... Posso dirvelo
schiettamente
e
sottovoce,
nessun'altra dama sa dare simili
feste..."
"Monsignore!"
"E ciò non basta: ditemi un po',
signor conte, perché le donne mi
paiono sempre più belle qui che in
altri luoghi?"
"Vostra Altezza vorrebbe avere la
gentilezza di spiegarmi questo
prodigio?" domandò, sorridendo,
la contessa.
"È cosa semplicissima, signora:
sapete accogliere tutte le dame
con tanta cortesia, con tanta
grazia, e dite a ciascuna una
parolina così dolce e lusinghiera,
che quelle che non la meritano..."
seguitò
Rodolphe
con
un
sorrisetto malizioso "esultano
d'essere da voi distinte, mentre
quelle che ne sono degne godono
di vedersi apprezzate. Queste
innocenti adulazioni rendono
serene e allegre tutte le donne, ed
il piacere fa avvenenti anche
quelle che non lo sarebbero... Ecco
perché, signora contessa, le donne
sembrano più belle in casa vostra
che altrove. Sono sicuro che il
signor
ambasciatore
sarà
d'accordo con me."
"Ed io, monsignore" replicò la
contessa di * "a rischio di
diventare vezzosa quanto le
leggiadre dame che non meritano i
miei elogi, accetto la gentile
spiegazione di Vostra Altezza con
gratitudine e piacere, come fosse
una verità."
"Per
convincervi,
signora,
facciamo qualche osservazione
sugli effetti dei vostri elogi sulle
fisionomie femminili."
"Ah, Altezza, sarebbe un'insidia,
un tradimento!" disse scherzando
la contessa di *.
"Ebbene,
signora
ambasciatrice, rinuncerò al mio
progetto, a patto
che
mi
concediate di offrirvi il braccio per
un momento. Mi si è parlato di un
giardino di fiori davvero magico
nel mese di gennaio... Avreste la
bontà di condurmi in quella
meraviglia da "Mille e una
notte"?"
"Con tutto il piacere, monsignore.
Ma a Vostra Altezza hanno fatto
una descrizione esagerata... Del
resto, adesso ne giudicherà,
sempre che non la illuda la sua
usuale indulgenza..." Rodolphe
diede il braccio all'ambasciatrice,
ed entrò con lei nelle altre sale,
mentre il conte di * discorreva con
il barone di Graün e con Murph,
che conosceva da gran tempo.
16.
Il giardino d'inverno.
Infatti, non poteva esserci un
luogo più magico e più degno delle
"Mille e una notte", del giardino di
cui Rodolphe aveva parlato con la
contessa di *.
Immaginiamo, dopo una lunga
e splendida galleria, uno spazio di
duecentoquaranta piedi, largo
cent'ottanta, coperto da una specie
di volta a vetri alta circa cinquanta
piedi. Le pareti, incrostate di
cristalli, su cui s'incrociavano i
piccoli rombi di un graticcio di
vimini a scacchi strettissimi,
facevano somigliare la serra ad un
chiosco illuminato dal riverbero
dei lumi sugli specchi; una
spalliera di melaranci grossi come
quelli delle Tuileries, e camelie
non più piccole, gli uni carichi di
frutti d'oro sopra foglie di un
verde lucente, e le altre smaltate
di fiori porporini, tappezzavano
tutta l'estensione di quelle pareti.
Cinque o sei gruppi enormi di
alberi e di arboscelli d'India o dei
Tropici, piantati in piccole aiuole,
avevano attorno dei viali selciati
d'un bel mosaico, e larghi
abbastanza perché due o tre
persone potessero passeggiarvi di
fronte.
È
impossibile
descrivere
l'effetto che produceva nel cuore
dell'inverno in mezzo ad una festa
da ballo una così ricca e
straordinaria vegetazione esotica!
Alti banani arrivavano poco meno
che ai cristalli della volta,
mischiando le loro larghe foglie di
un verde lucidissimo, lanceolate, a
quelle delle grandi magnolie, di
cui alcune avevano già dei fiori
fragranti quanto magnifici; dal
loro calice a campana, all'esterno
purpureo ed argenteo all'interno,
sporgevano stami dorati. Più oltre
palmizi, datteri del Levante,
latanie rosse e fichi d'India, tutti
vigorosi,
brillanti,
fronzuti,
completavano
l'immensa
vegetazione pittoresca e vivace
come è sempre quella dei Tropici.
Lungo i pergolati, fra i
melaranci e gli alberi diversi, ed
intrecciati da uno all'altro, qui a
ghirlande, là a spirale, e altrove
mescolati come in una rete
inestricabile,
correvano,
serpeggiando, e arrampicandosi
sino alla cima della cupola a vetri,
innumerevoli edere; e giù, al
contrario,
ricadevano
le
granadiglie
rampicanti,
le
passiflore con le larghe corolle
purpuree, striate d'azzurro e
coronate da una punta viola
bruna, pur sembrando risalirvi,
protendendo i loro viticci verso
l'estremità degli aloe giganteschi.
Altrove una begonia indiana
dal lungo calice giallo come lo
zolfo, a foglie sottilissime, era
circondata da stefanoidi con i
fiorellini bianchi, che spargevano
una soave fragranza; e queste due
liane insieme allacciate formavano
con la loro frangia verde e con i
loro campanellini d'oro e d'argento
il contorno alle foglie larghe e
vellutate di un bel fico d'India. Più
in là sorgevano e poi ricascavano
pieni di rigoglio e variopinti mille
steli di asclepiadi, le
cui
pannocchie di quindici o venti
fiorellini stellati erano così folte e
pulite, che le avreste dette
mazzetti di smalto di color rosato,
attorniati da lamelline di un
vaghissimo verde.
I contorni si componevano di
crecchie del Capo di Buona
Speranza, tulipani di Thol, narcisi
di Costantinopoli, giacinti di
Persia, e ciclamini ed iridi, che
formavano una specie di tappeto
naturale, dove tutte le tinte si
confondevano alla vista nel modo
più soddisfacente.
Lampioni alla cinese di seta
trasparente, alcuni celeste chiaro e
altri rosa pallido, qua e là mezzo
celati dalle fronde, rischiaravano il
giardino. È impossibile dare
un'idea del chiarore dolce e
misterioso
che
risultava
dall'insieme
di
queste
due
gradazioni; una luce gradevole e
fantastica nella limpidezza cerula
d'una tranquilla notte d'estate,
leggermente ravvivata dai riflessi
vermigli di un'aurora boreale.
Si arrivava ad un'immensa
serra, più bassa di due o tre piedi,
da una lunga galleria sfavillante di
dorature, di specchi, di cristalli, di
lumi, che con il loro folgorante
chiarore, avvolgevano per così
dire, la penombra, in cui si
scorgevano gli alberi del giardino
d'inverno, visibile soltanto da
un'ampia entrata, per metà chiusa
da due alte cortine di velluto
cremisi. L'avreste presa per una
finestra gigantesca aperta verso
qualche
superba
campagna
dell'Asia, durante il sereno di un
fulgido crepuscolo notturno. Vista
dal fondo del giardino, dov'erano
disposti larghi divani, sotto una
cupola di fogliame e di fiori, la
galleria presentava un contrasto
straordinario con il poco chiarore
del tiepidario.
Si vedeva in lontananza una
sorta di nuvola trasparente ed in
parte dorata in cui risplendevano
le tinte diverse e appariscenti degli
abbigliamenti delle dame, e le
scintillanti
luminosità
dei
diamanti e delle altre gemme.
I
suoni
dell'orchestra,
indeboliti dalla distanza e dal
sordo e festevole trapestio della
galleria, venivano a morire
melodiosamente tra il fogliame
immobile dei grandi alberi esotici.
Accadeva involontariamente, che
si parlasse sommesso. Si udiva
appena il leggero fruscio dei passi
e degli abiti di raso, e l'aria al
tempo stesso lieve, tiepida e
balsamica per i soavissimi odori
delle erbe aromatiche, e la musica,
un poco lontana, immergevano i
sensi in una dolce e voluttuosa
quiete.
Arrivando
nell'incantevole
giardino d'inverno, Rodolphe non
poté trattenere un'esclamazione di
sorpresa, e disse all'ambasciatrice:
"In verità, signora, non avrei mai
immaginato una tale meraviglia.
Non si tratta soltanto di un gran
lusso, unito al gusto più squisito,
ma di una poesia messa in azione;
invece di descrivere come un
poeta e di dipingere come un
grande artista, voi create quello
che essi oserebbero appena
immaginare!"
"Vostra Altezza è sempre troppo
buono!"
"Oh, sinceramente, confessate
signora, che chi sapesse riprodurre
fedelmente
questo
grazioso
quadro con tutti i suoi pregi di
colori e di contrasti, là il tumulto
della festa, qui l'asilo della pace,
confessate signora, colui, pittore o
poeta,
farebbe
un'opera
ammirabile, e ciò unicamente con
il ricopiare la vostra."
"Le
lodi
che
l'indulgenza
suggerisce a Vostra Altezza sono
tanto più pericolose in quanto non
si può fare a meno d'essere
incantate dallo spirito che le
accompagna, e per questo si
ascoltano
anche
involontariamente con estremo
piacere...
Ma
guardate,
monsignore, com'è avvenente
quella giovane signora! Mi
concederà Vostra Altezza che la
marchesa d'Harville deve essere
bella dappertutto. Non è adorna di
grazie? Non è ancora più
avvenente vicino all'austera beltà
che l'accompagna?" La contessa
Sarah Mac-Gregor e la marchesa
d'Harville scendevano appunto i
pochi gradini che dalla galleria
conducevano
d'inverno.
al
giardino
17.
L'appuntamento.
Gli elogi che la moglie
dell'ambasciatore faceva della
signora d'Harville non erano
esagerati.
Noi non sapremo dare una
giusta idea di quella figura
seducente in cui allora appariva
tutto il fiore di una delicata
bellezza, più pregevole ancora non
tanto per l'armonia dei lineamenti,
quanto per l'inesprimibile soavità
della fisionomia, e perché il
leggiadro volto della marchesa era
modestamente velato, per così
dire, da una dolce espressione di
bontà.
E
se
ci
fermiamo
su
quest'ultima parola, è perché al
solito la bontà non è quella che
predomina sul volto di una
giovane signora di vent'anni, bella,
spiritosa,
ricercata,
adulata,
com'era la d'Harville. Ed è per
questo che ognuno s'interessava
in singolar modo al contrasto
prodotto da tale dolcezza con i
successi che otteneva la marchesa,
senza contare d'altronde i vantaggi
di nascita, di nome e di ricchezza,
che in sé riuniva.
Ma
qui
occorre
far
comprendere profondamente il
nostro concetto.
Troppo dignitosa, e troppo
fornita di bellissime doti, per
andare vanamente in cerca di
omaggi, la signora d'Harville si
mostrava grata e affettuosa per
quelli che le venivano offerti come
se appena li avesse meritati; non
ne era superba, ma contenta;
indifferente alle lodi, ma sensibile
all'altrui benevolenza, distingueva
a meraviglia l'adulazione dalla
simpatia.
Col suo spirito retto, accorto,
talvolta maliziosetto, ma non già
maligno,
perseguitava
con
motteggio
grazioso
e
non
offensivo
certe
persone
soddisfattissime di sé, intente
sempre ad accattivarsi l'attenzione
degli
altri,
a
far
pompa
costantemente di un aspetto
gioviale, e di sciocche allegrezze e
di uno stolto orgoglio, persone,
diceva con molto garbo, che in
tutta la loro vita sembra che
ballino "l'a solo" davanti ad uno
specchio invisibile, a cui sorridono
beate di se stesse. Il carattere nel
medesimo tempo timido e quasi
altero della signora di Harville
ispirava per lei, al contrario, un
deciso interesse.
Con queste poche parole
avremo forse contribuito a far
comprendere quale fosse il suo
genere di bellezza.
La carnagione di un'assoluta
bianchezza si coloriva leggermente
di un puro vermiglio; lunghi ricci
castani chiari le scendevano sulle
spalle, lucide e salde come un
marmo perfettissimo... E che
diremo dell'angelica vaghezza dei
suoi occhi cerulei, contornati da
lunghe ciglia nere? La bocca
vermiglia, di soave forma, stava a
confronto di quelle vezzose
pupille, come l'affabile favella con
lo sguardo dolce e insieme
malinconico. Per non dire della
statura
elegante,
e
della
distinzione che appariva in tutta la
sua persona. Indossava un abito di
crespo
bianco,
guarnito
di
fiorellini color rosa a foglie verdi,
e alcuni diamanti, nascosti in più
punti, brillavano come altrettante
stille di rugiada; una ghirlanda
consimile era posta con somma
maestria sulla sua fronte pura e
bianca.
Il genere di bellezza della
contessa Sarah Mac-Gregor dava
anche maggiore risalto alla
marchesa d'Harville. Sarah, di
circa trentacinque anni, ne
dimostrava appena trenta. Non c'è
cosa che sembri più confacente
alla salute del corpo, che il freddo
egoismo. Oh, in questa specie di
ghiaccio c'è da mantenersi freschi
per lungo tempo! Certi animi
aridi, duri, non alterabili dalle
emozioni che logorano il cuore e
guastano i lineamenti, non
risentono altro se non i disappunti
dell'orgoglio
e
dell'ambizione
delusa; dispiaceri che sul fisico
agiscono poco.
Lo stato di conservazione di
Sarah provava ciò che noi
enunciamo.
Tolta una certa mollezza, che
dava un che di voluttuoso al suo
alto e flessuoso corpo, anche se
non morbido come quello della
signora d'Harville, Sarah sfoggiava
un aspetto tutto giovanile; pochi
potevano sostenere il fuoco
ingannevole delle sue nere e
ardenti pupille: le labbra umide e
rosee (e tuttavia menzognere)
esprimevano
risolutezza
e
sensualità; la traccia cerulea delle
vene alle tempie e al collo
traluceva sotto il candore latteo
della pelle sottile e trasparente.
La
contessa
Mac-Gregor
portava una giubba di seta color
paglierino sotto un abito di crespo
dello stesso colore; una semplice
ghirlanda di foglie naturali di un
verde smeraldo le cingeva la
fronte, e combinava perfettamente
con le sue trecce nere come
l'inchiostro, spartite su quella
bella fronte a cui sottostava il naso
aquilino, con le narici alquanto
dilatate.
Questa
grave
acconciatura dava un carattere,
che chiameremmo all'antica, alla
faccia imperiosa e appassionata di
questa donna.
Vi sono alcuni che, illusi dalle
proprie apparenze, leggono nella
loro fisionomia una vocazione
irresistibile. Uno crede di avere
l'aspetto da Achille, e guerreggia;
quello da rimatore, e si mette a
comporre rime; un altro da Bruto,
e cospira; uno da Machiavelli, e
tratta di politica; l'altro da padre
Segneri e scrive omelie. Sarah, che
in sé trovava, e non senza ragione,
un'aria assolutamente regale,
credeva ciecamente nei responsi a
metà realizzati della sua nutrice, e
si riteneva l'eroina di un destino
sovrano.
La marchesa e Sarah avevano
visto Rodolphe nel giardino
d'inverno mentre scendevano, ma
il principe finse di non averle
scorte.
"Il principe è tanto occupato
con l'ambasciatrice, che non ha
badato a noi" disse la signora
d'Harville a Sarah.
"Non ne siate certa, cara
Clémence" le rispose la contessa,
con lei in grande intimità "anzi ci
ha viste sicuramente, ma io gli ho
fatto paura... Mi fa sempre il
sostenuto..."
"Meno che mai posso capire la sua
ostinazione a scansarvi; più volte
gli ho rimproverato la singolarità
del suo contegno verso di voi, sua
vecchia amica. "La contessa Sarah
ed io" così mi ha risposto
scherzando
"siamo
nemici
mortali; io ho fatto voto di non
parlarle mai" ha soggiunto. E
bisogna che questo voto sia sacro
per privarmi di conversare con
una persona tanto amabile. Sicché,
mia buona Sarah, per quanto
strana mi sembrasse la sua
replica, ho dovuto accontentarmi
di essa."(4) "Vi assicuro che la
causa
di
questo
terribile
risentimento, per metà ridicola e
per
metà
seria,
è
però
innocentissima. Se non ci fosse
interessato un terzo, da molto
tempo vi avrei confidato il gran
segreto... Ma che avete, mia cara,
mi sembrate distratta?"
"Non è niente. Pocanzi c'era un'afa
nella galleria, che ho sofferto un
po' d'emicrania. Sediamoci qui un
momento, e dileguerà... spero..."
"Avete ragione: eccoci appunto in
un angolino al buio, dove sarete
protetta
da
quelli
che
si
dispereranno
per
la
vostra
assenza"
continuò
Sarah
sorridendo e calcando su queste
ultime parole.
E si sedettero su un divano.
"Ho detto quelli che si
dispereranno, Clémence mia...
Non mi siete grata della
discrezione?" La giovane donna
arrossì, chinò il capo e non
rispose.
"Avete ben poco giudizio!" le
disse Sarah, in tono di dolce
rimprovero. "Non avete fiducia in
me, mia cara figlia... Sì, figlia
perché ho l'età per chiamarvi
così!"
"Non ho fiducia in voi?" replicò
mestamente la marchesa. "Non vi
ho detto anzi quel che non dovevo
confessare mai neppure a me
stessa?"
"A meraviglia! Orsù, parliamo di
lui: avete dunque giurato di farlo
disperare a morte?"
"Ah!" esclamò spaventata la
d'Harville. "Che dite mai?"
"Non lo conoscete ancora, povera
creatura! È un uomo d'una tale
energia, che per lui la vita è poco o
nulla... È stato sempre tanto
sfortunato! E si direbbe che anche
voi
prendiate
piacere
a
tormentarlo!"
"Lo credete davvero? Buon Dio!"
"Forse senza volerlo. Oh, se
sapeste come coloro che sono stati
perseguitati dalla sorte sono
delicati e facili ad affliggersi! Poco
fa io gli ho visto scorrere negli
occhi due grosse lacrime. Certo! E
in mezzo ad una festa da ballo; a
rischio di esser messo in ridicolo,
se qualcuno se ne fosse accorto...
Sapete che bisogna essere molto
innamorati per soffrire a questo
modo? E specialmente per non
pensare a nascondere agli altri che
si soffre..."
"Di grazia, non me ne parlate"
disse commossa la d'Harville "mi
fate troppo male... Purtroppo
conosco quell'espressione di pena
e di rassegnazione al tempo
stesso... Ahimè, la pietà da lui
ispirata fu quella che mi rovinò"
continuò involontariamente.
Sarah non mostrò di aver
capito l'importanza di queste
ultime parole, e riprese: "Che
esagerazione! Rovinata per essere
in rapporti di semplice galanteria
con un uomo che spinge la
prudenza e la riservatezza sino al
punto di non farsi presentare a
vostro marito per paura di
compromettervi! Il signor Charles
Robert non è forse dotato di
onore, di delicatezza, di cuore? Se
lo difendo con tanto calore, è
perché voi lo conosceste, e perché
lo vedeste prima di tutto in casa
mia, ed ha per voi non meno
rispetto che attaccamento."
"Non ho mai dubitato delle sue
nobili qualità; me ne diceste
sempre tanto bene! Ma lo sapete,
le sue disgrazie furono quelle che
lo resero interessante ai miei
occhi."
"E come merita, e come giustifica
questo
interesse!
Via,
confessatelo... D'altronde può
essere che un viso così ammirabile
non sia l'immagine dell'anima?
Col suo alto e bel corpo mi
rammenta i prodi dei tempi
cavallereschi. Una volta lo vidi in
uniforme: che aspetto marziale!
Oh, se la nobiltà si misurasse dal
merito e dal volto, egli, invece di
essere semplicemente il signor
Charles Robert, sarebbe già duca e
pari... Non rappresenterebbe forse
egregiamente uno dei più eccelsi
nomi di Francia?"
"Non ignorate che per me la
nobiltà di nascita è poco o nulla,
che più volte mi rimproveraste di
essere un po' repubblicana" ribatté
con un sorriso la d'Harville.
"Sì, io ho pensato sempre come
voi, che il signor Charles Robert
non ha bisogno di titoli per essere
amabile. E poi, che talento, che
voce armonica! Di quanto aiuto ci
fu nei nostri esercizi di musica! Ve
ne ricordate? La prima mattina
che cantaste insieme, quanta
espressione metteva nel duetto
con voi, quanta emozione!"
"Su, ve ne prego" ripeté la
d'Harville dopo un breve silenzio
"cambiamo discorso."
"Perché?"
"Questo mi rattrista troppo, e quel
che mi avete detto della sua
disperazione..."
"Oh, vi posso assicurare che,
nell'eccesso
del
dolore,
un
carattere così appassionato può
cercare nella morte un sollievo..."
"Tacete, tacete, per carità!" disse la
d'Harville, interrompendo Sarah.
"Mi è già venuta quest'idea." Poi,
dopo una nuova pausa, la
marchesa disse: "Ma sì, parliamo
d'altro... del vostro nemico
mortale," aggiunse con affettata
ilarità "del principe, che da un
pezzo io non vedevo... Sapete che è
sempre amabilissimo, quantunque
sovrano? Per repubblicana che io
sia, trovo che vi sono pochi
uomini tanto gentili!" Sarah diede
di scorcio un'occhiata indagatrice
e sospettosa alla d'Harville, e
replicò gioviale: "Convenite, cara
Clémence,
che
siete
capricciosissima. Io ho notato in
voi un'alternanza di ammirazione
e di avversione per il principe
molto strana. Pochi mesi fa,
quando arrivò qui, ne eravate
talmente infatuata che, a dirla fra
noi, temevo che dovesse essere in
pericolo il vostro cuore..."
"Penso di doverlo a voi se" replicò
con un sorrisetto la marchesa "la
mia ammirazione non fu di lunga
durata; rappresentaste così bene la
parte di sua nemica! Mi faceste
poi tali rivelazioni, che l'antipatia
subentrò all'infatuazione che vi
diede tanto da pensare per la
quiete del mio cuore... Ma lui
questa tranquillità non si curava
di turbarla.
Anche prima che mi diceste
tutte
quelle
cose,
egli,
continuando a frequentare con
grande intimità mio marito, aveva
quasi cessato d'onorarmi delle sue
visite."
"A proposito! Il vostro consorte è
qui, stasera?" domandò Sarah.
"No, non ha avuto voglia di
uscire" rispose la d'Harville, un po'
confusa.
"Va sempre meno in società, se
non sbaglio, no?"
"Sì, qualche volta preferisce
starsene a casa." La marchesa era
in un orribile imbarazzo; Sarah se
ne accorse, e proseguì: "L'ultima
volta che lo incontrai mi parve più
pallido del solito."
"Sì, è stato alquanto indisposto."
"Ecco, mia cara Clémence, volete
che sia schietta?"
"Anzi ve ne prego..."
"Quando si tratta del vostro
consorte, entrate subito in una
certa agitazione..."
"Io? Che pazzia!"
"Nel ragionare di lui, vostro
malgrado, la vostra fisionomia
esprime... Dio buono! Come potrei
dire?"
E
Sarah
proferiva
lentamente le seguenti parole,
come se volesse leggere in fondo
all'anima di Clémence: "Sì, la
vostra fisionomia esprime una
specie di ritrosia paurosa." Sul
principio il volto sostenuto della
marchesa
sfidò
lo
sguardo
inquisitore di Sarah, ma poi
questa si avvide d'un tremito quasi
impercettibile che le agitava il
labbro inferiore.
Non volendo spingere più oltre
le sue indagini, e soprattutto
eccitare qualche diffidenza nella
sua amica, la contessa si affrettò a
terminare la frase diversamente
dall'intenzione.
"Sì, una ritrosia paurosa, come
l'ispira ordinariamente un burbero
geloso." A tale interpretazione il
leggero moto nervoso delle labbra
della signora d'Harville cessò;
sembrò sollevata da un peso
enorme, e rispose: "Ma no,
d'Harville non è geloso, né
burbero..." Poi, cercando un
pretesto
per
troncare
una
conversazione che le riusciva assai
spiacevole, esclamò d'un tratto:
"Oh, mio Dio, ecco l'insopportabile
duca di Lucenay, uno degli amici
di mio marito... Almeno non ci
vedesse! Di dove diamine è
sgusciato? Lo credevo lontano
mille miglia..."
"Infatti, dicevano che fosse andato
a fare un viaggio d'un anno o due
in Oriente, e sono appena cinque
mesi che partì da Parigi. Questo
improvviso ritorno dev'essere
rincresciuto molto alla duchessa
di Lucenay. Benché lui però non le
ispiri soggezione..." disse Sarah,
con un maligno sorriso. "E non
sarà la sola a maledire un così
sollecito arrivo... Il signor di SaintRemy ne proverà un eguale
dispiacere."
"Non siate maldicente, mia cara
Sarah, dite piuttosto che il suo
ritorno dispiacerà a tutti. Il signor
di Lucenay è così fastidioso, che
potete generalizzare il vostro
rimprovero."
"Maldicente? Oh, no, io non faccio
altro che ripetere come un'eco...
Corre voce che il signor di
Saint-Remy,
modello
dei
bellimbusti, che abbagliava con il
suo fasto la nostra capitale, sia
quasi rovinato, sebbene non
diminuisca
il
suo
modo
principesco di vivere... È vero però
che la signora di Lucenay è
ricchissima."
"Ah, che orrore!"
"Ma se vi dico che io ripeto come
l'eco... Ohimè, il duca ci ha viste.
Viene qua, bisognerà che ci
rassegniamo... È pur noioso! Non
conosco al mondo un uomo più
insopportabile... E spesso tanto
rozzo, triviale! Ride forte delle sue
sciocchezze, fa uno strepito da
sbalordire. Se vi preme la vostra
boccetta di profumo o il vostro
ventaglio, difendeteli con coraggio,
perché ha anche l'inconveniente di
rompere tutto quello che tocca, e
ciò con un'aria di scherno e di
soddisfazione che infastidisce." Il
duca di Lucenay, disceso dai
magnanimi lombi d'una delle più
grandi famiglie di Francia, tuttora
giovane, di figura che non sarebbe
stata
spiacevole
senza
la
lunghezza smisurata e grottesca
del suo naso, univa a una
turbolenza
e
un'agitazione
perpetua, la voce ed il modo di
ridere tanto clamorosi, e discorsi
così
indecenti,
e
un
comportamento talmente incivile,
che bisognava ad ogni istante
ricordarsi il suo nome per non
stupirsi di vederlo nella società
più distinta di Parigi, e per
comprendere che si tollerassero i
suoi modi e il suo linguaggio, a cui
l'abitudine aveva ormai assicurata
una specie di prescrizione legale o
d'impunità.
Lo si fuggiva come la peste,
sebbene non gli mancasse un
certo spirito, che traluceva di
quando in quando in mezzo alla
strabocchevole esuberanza di
parole. Era uno di quegli individui
vendicativi, nelle cui mani molti
desidererebbero veder cadere le
persone ridicole o odiose.
La duchessa di Lucenay, una
delle dame più graziose ed anche
più in voga di Parigi, nonostante i
suoi trent'anni suonati, aveva fatto
sovente parlare di sé; ma veniva
quasi scusata la leggerezza della
sua condotta, ripensando alle
insopportabili bizzarrie del marito.
Un ultimo tratto di quel
carattere
spiacevole
era
l'intemperanza ed il cinismo a
proposito
di
assurde
indisposizioni,
o
supposte
infermità, che si divertiva a
immaginare negli interlocutori per
compiangerli ad alta voce e fosse
pure davanti a cento persone.
Essendo però coraggioso, pieno di
valore,
non
evitando
le
conseguenze dei suoi arrischiati
motteggi, aveva dato e ricevuto
molti colpi di spada senza però
correggersi.
Stabilito tutto questo, noi
faremo sentire al lettore la voce
aspra e lacerante del signor di
Lucenay, che, quando da lontano
distinse la signora d'Harville con
Sarah, si diede subito a vociare:
"Ebbene, ebbene, che c'è? che
vedo? Come, la più bella donna
della festa se ne sta in disparte? È
forse lecito agire così? Era
necessario che io venissi dall'altra
parte del mondo per far cessare un
simile scandalo? Marchesa, se
continuate
a
sottrarvi
all'ammirazione generale, griderò
come un energumeno, denuncerò
la sparizione del più vago
ornamento di questo festino!" E
per concludere si gettò di colpo sul
divano accanto alla marchesa, poi
incrociò la gamba sinistra sulla
destra, e si accomodò il piede nella
mano.
"Oh, signor duca, siete già di
ritorno da Costantinopoli?" disse
la signora d'Harville, scostandosi
molto contrariata.
"Di già? Voi dite proprio come
la mia signora moglie, che non ha
voluto stasera accompagnarmi nel
mio reingresso in società. Correte
a far delle sorprese agli amici, per
essere ricevuti a questo modo!"
"È naturale! Vi era tanto facile
rimanere amabile... laggiù!" disse
la d'Harville con un mezzo sorriso.
"Cioè di starmene assente, eh?
Che orrore, che infamia è questa
che voi dite!" esclamò il signore di
Lucenay, separando le gambe e
battendo sul suo cappello come si
farebbe sopra un cembalo.
"Per amor del cielo, signor di
Lucenay, non gridate tanto forte, e
state fermo, o ci farete alzare dal
nostro posto!" pregò la d'Harville
di malumore.
"Levarvi dal posto! Sarebbe
forse per prendermi a braccetto e
andare insieme a fare un giro nella
galleria?"
"Con voi? No di certo. Eh via, vi
prego, non sciupate questo
bouquet... Per favore, lasciate
stare quel ventaglio, lo farete in
pezzi, al solito."
"Se non c'è altro, ne ho rotti più
che
non
pensiate!
E
particolarmente uno magnifico
cinese
che
la
signora
di
Vaudemont aveva regalato a mia
moglie." Ciarlando così per
rassicurare le signore, il duca si
divertiva a stuzzicare i fili di
alcune piante appese al muro; e
siccome le tirava, a poco a poco,
finì con lo staccarle dall'albero che
le sosteneva, e quelle, cadendogli
sulla testa, quasi lo incoronarono.
Allora furono scrosci di risa
così pazze, forti, inaudite, che la
d'Harville sarebbe fuggita subito
se non avesse intravisto il signor
Charles Robert (il Comandante,
come lo chiamava la Pipelet) che
giungeva dall'altra estremità del
viale. Lei temette che si potesse
credere che gli andasse incontro, e
restò vicina al signor di Lucenay.
"Dico, signora MacGregor, non
somigliavo al Dio Pane, a una
naiade, ad un silvano, o ad un
selvaggio
con
quelle
foglie
addosso?" disse questo a Sarah,
accanto alla quale andò subito a
mettersi. "Oh, a proposito di
selvaggi, bisogna che io vi racconti
una storia niente affatto pulita...
Figuratevi che ad Otaiti..."
"Signor duca!" fece Sarah in tono
imperioso.
"Ebbene, non ve la dirò; la
serberò per la signora di
Fonbonne, che... Eccola." Era
questa una donnetta grassa e
bassa,
di
cinquant'anni,
ridicolissima e piena di sussiego, a
cui il mento arrivava quasi al
petto, che spalancava gli occhi
discorrendo dei languori, dei
bisogni, delle aspirazioni della sua
anima... Aveva quella sera un
mostruoso turbante color rame
con un guazzabuglio di disegni
verdi.
"La serbo appunto per la
signora di Fonbonne!" gridò il
signor di Lucenay.
"Che
c'è,
signor
duca?"
domandò la Fonbonne, con una
specie di trillo, facendo mille
moine, rinculando e stralunando
gli occhi.
"C'è, madama, una storia
orribilmente incongrua, indecente,
sguaiata..."
"Ah, Dio mio, chi ardirebbe? Chi
oserebbe dirla?"
"Io stesso... È roba da fare
arrossire il vecchio Chamboran.
Ma conosco i vostri gusti. Sentite,
sentite..."
"Signor duca!"
"Oh no, non ditemi che sapete la
mia storia... Ma cosa avete
stasera? Perché voi, che vi vestite
sempre tanto bene, con buon
gusto, con eleganza, avete stasera
un turbante che, permettetemi di
dirlo, somiglia, parola d'onore, a
una teglia corrosa dal verderame."
E il duca si sganasciava dalle risa.
"Se siete venuto dal Levante
per ricominciare le vostre sciocche
burle che si tollerano perché siete
mezzo matto" disse la donna
grassa incollerita "tutti non
vedranno l'ora che ve ne andiate di
nuovo, signor mio." E si allontanò
con passo maestoso.
"Mi tocca trattenermi per non
andare a strapparle il turbante, a
quella brutta caricatura..." fece il
signor di Lucenay. "Ma la rispetto
perché è orfana!... Ah, ah, ah! Ve',
il
signor
Charles
Robert!"
soggiunse. "L'ho incontrato alle
terme sui Pirenei; è un giovane di
grandissimi pregi, canta come un
cigno... Ora vedrete, marchesa,
come lo confondo... Volete che ve
lo presenti?"
"State
fermo,
e
lasciateci
tranquille..." disse Sarah.
Mentre Charles Robert si
avvicinava pian piano fingendo di
ammirare qua e là i fiori, il duca di
Lucenay aveva manovrato assai
abilmente per impadronirsi della
boccetta di Sarah, e si occupava in
silenzio e con grande attenzione di
togliere il tappo.
Il signor Charles Robert
continuava ad avanzare. La sua
alta
corporatura
era
ben
proporzionata, il volto molto bello,
ed era elegantissimo. Ma il volto
ed il portamento mancavano di
grazia e di distinzione; camminava
impettito e con imbarazzo, aveva
le mani e i piedi grossi e ordinari...
Appena
vide
la
signora
d'Harville all'indifferenza solita
succedette
un'espressione
di
malinconia
profonda,
troppo
subitanea perché fosse vera, ma
simulata con moltissima arte.
Sembrava così afflitto, infelice,
quando si accostò alla signora
d'Harville, che questa non poté
fare a meno di ripensare alle tristi
parole di Sarah sugli eccessi a cui
lo avrebbe potuto portare la
disperazione.
"Eh, buon giorno, mio caro!"
gli disse il signor di Lucenay,
trattenendolo. "Non ho più avuto
la fortuna di vedervi dopo il nostro
incontro alle terme... Ma che
avete? Sembrate così abbattuto!"
Il signor Charles Robert diede una
lunga e malinconica occhiata alla
signora d'Harville, e rispose al
duca, con voce lamentevole:
"Infatti,
signore,
soffro
alquanto..."
"Dio santo! Dio buono! Non
sapete dunque liberarvi dalla
vostra rinite?" gli domandò il
signor
di
Lucenay,
commiserandolo.
Questa domanda era tanto
assurda che per un momento
Charles Robert restò stupefatto,
impietrito: poi, il rossore della
collera salendogli alla fronte,
rispose con fermezza laconica:
"Signore, poiché avete tanta
premura per la mia salute, spero,
signore, che verrete domani a
chiedere mie notizie..."
"Come, mio caro...? Ma certo,
manderò..." replicò il duca con
alterigia.
Il signor Charles Robert fece
un mezzo saluto e si ritirò.
"Il più bello è che ha la rinite
come il gran Sultano..." disse il
signor di Lucenay, sdraiandosi di
nuovo accanto a Sarah. "A meno
che io abbia indovinato senza
saperlo...
Dico,
signora
MacGregor, vi pare che abbia la
rinite quel signore?" Sarah gli
voltò bruscamente le spalle senza
dir nulla. Tutto questo era
accaduto in un attimo. Sarah
aveva frenato a stento le risa. La
signora d'Harville aveva sofferto
molto pensando alla crudele
situazione di un uomo che si vede
interpellato in modo così ridicolo
davanti alla donna da lui amata, e
si spaventava all'idea che potesse
aver luogo un duello. Trascinata
da un sentimento di pietà
irresistibile, si alzò subito, prese a
braccetto Sarah, raggiunse Charles
Robert, che si divorava dalla
rabbia, e passandogli vicino, gli
disse adagio: "Domani all'una...
Verrò!" Quindi ritornò nella
galleria con la contessa, e poco
dopo abbandonò la festa.
18.
Sei venuta tardi, angelo mio!
Rodolphe, recandosi a quel ballo
per adempiere a un obbligo,
desiderava anche scoprire se erano
fondati i suoi timori riguardo alla
signora d'Harville, e se era proprio
lei l'eroina del racconto della
Pipelet.
Dopo essere uscito con la
contessa di * dal giardino
d'inverno,
aveva
percorso
inutilmente diverse sale nella
speranza di incontrare la signora
d'Harville
sola.
Tornava
al
radiatore della serra ed ecco che,
trattenutosi un momento sul
primo gradino della scala, fu
spettatore della rapida scena
avvenuta fra la signora d'Harville e
Charles
Robert,
dopo
la
detestabile burla del duca di
Lucenay. Rodolphe si accorse di
uno scambio di occhiate molto
significative.
Un
interno
presentimento gli diceva che quel
giovane
doveva
essere
il
Comandante, e per accertarsene,
rientrò nella galleria.
Incominciava un valzer.
Dopo alcuni minuti Rodolphe
vide il signor Charles Robert in
piedi nel vano di un uscio.
Sembrava soddisfattissimo della
risposta data al duca di Lucenay (il
signor
Charles
Robert
era
coraggioso, malgrado le sue
ridicolaggini) e dell'appuntamento
avuto dalla signora d'Harville per
l'indomani.
Rodolphe andò a trovare
Murph.
"Vedi quel giovanotto biondo,
in mezzo a quel gruppo di gente là
in giardino?"
"Quello alto, che pare tanto
contento di sé? Sì, monsignore."
"Procura di avvicinarti a lui
abbastanza per dire sottovoce,
senza che ti veda ed in modo che ti
oda lui solo, queste parole: "Sei
venuta tardi, angelo mio!"" Lo
"squire" guardò Rodolphe con
stupore.
"Sul serio, monsignore?"
"Sul serio! Se si volta a queste
parole, rimani là, con quel sangue
freddo che spesso ho ammirato in
te, perché non possa indovinare
che tu sei quello che ha parlato
così."
"Non capisco niente, monsignore,
ma obbedisco." Il bravo Murph,
prima della fine del valzer era
arrivato a mettersi appunto dietro
a Charles Robert. Rodolphe,
collocandosi in modo da non
perdere di vista l'effetto di tale
esperimento, rimase attento a
guardare Murph; dopo un minuto
vide Charles Robert volgersi
stupefatto. Lo "squire" non si
mosse, rimase impassibile, e
certamente quell'uomo alto, calvo,
di aspetto grave, era l'ultimo che il
Comandante potesse sospettare di
aver proferito quella frase.
Terminato il valzer, Murph
ritornò verso Rodolphe.
"Ebbene, monsignore, quel
giovane si è girato d'un balzo come
gli avessi dato un morso. Erano
dunque parole magiche?"
"Magiche davvero, mio vecchio
amico; e mi hanno svelato ciò che
desideravo sapere." A Rodolphe
non restava che compiangere la
marchesa d'Harville di un errore
tanto più pericoloso, in quanto
cominciava ad immaginarsi che
Sarah ne fosse complice o
confidente.
A tale pensiero sentì un acuto
dolore, non dubitò più della causa
della malinconia del signor
d'Harville, che egli teneramente
amava: era prodotta dalla gelosia.
Dunque la moglie, dotata di
qualità, si donava ad un uomo che
non lo meritava. Rodolphe, in
possesso di un segreto carpito per
caso, e incapace di abusarne, senza
poter
tentare
niente
per
illuminare la signora d'Harville
che cedeva al cieco trasporto della
passione, si vedeva condannato a
rimanere testimone impotente
della rovina di quella giovane
donna.
Da siffatte riflessioni lo trasse
il signor di Graün.
"Se Vostra Altezza vuole
accordarmi un momento di
colloquio nel salotto in fondo,
dove non c'è nessuno, avrò l'onore
di
renderle
conto
delle
informazioni che mi ha ordinato
di prendere." Rodolphe seguì il
barone.
"La sola duchessa, il cui nome
possa riferirsi alle iniziali N e L è
la duchessa di Lucenay, nata
Noirmont" disse il signor di
Graün. "Lei non è qui questa sera.
Ho visto poco fa il suo consorte, il
signor di Lucenay, che era partito
cinque mesi fa per un viaggio in
Levante, che doveva durare più di
un
anno,
ed
è
tornato
improvvisamente due o tre giorni
fa." Noi ci ricordiamo che nella
visita fatta al caseggiato della rue
du Temple, Rodolphe aveva
trovato
sul
pianerottolo
dell'appartamento del ciarlatano
Cesare Bradamanti un fazzolettino
molle di lacrime, guarnito di
merletti, con le lettere N ed L
sormontate da una corona ducale.
Rodolphe comprese tutto.
Non
aveva
motivo
d'interessarsi alla signora di
Lucenay; ma non poté non
indignarsi pensando che se era
andata davvero dal ciarlatano, lo
sciagurato, che in sostanza era
l'abate Polidori, sapeva come si
chiamasse la signora che aveva
fatto seguire da Tortillard, e
poteva abusare del funesto segreto
che poneva la duchessa a sua
discrezione.
"Accadono qualche volta delle
coincidenze
ben
singolari,
monsignore..." riprese a dire il
signor di Graün.
"Perché mai?"
"Mentre il signor di Grangeneuve
veniva a darmi quelle notizie sui
coniugi Lucenay, aggiungendo
assai maliziosamente che l'arrivo
inaspettato del signor di Lucenay
doveva essere rincresciuto molto
alla duchessa e ad uno dei più
scelti damerini di Parigi, cioè al
visconte
di
Saint-Remy,
l'ambasciatore mi ha domandato
se io ritenevo che Vostra Altezza
gli
avrebbe
permesso
di
presentarle il visconte che,
essendo da poco addetto alla
legazione
di
Gerolstein,
si
reputerebbe fortunato di avere
questa occasione d'ossequiare
l'Altezza Vostra." Rodolphe ebbe
un moto d'impazienza, e rispose:
"Mi dispiace molto; ma non posso
esimermi. Animo, dite al conte di *
di presentarmi il signor di SaintRemy."
Malgrado
fosse
contrariato, egli conosceva troppo
bene il suo dovere di principe per
mancare in una simile circostanza.
D'altronde, si supponeva che
Saint-Remy fosse l'amante della
duchessa di Lucenay, e ciò
stimolava molto la curiosità di
Rodolphe. Il visconte di SaintRemy si avvicinò, condotto dal
conte di *. Era un giovane assai
gentile, di venticinque anni,
magro, svelto, di portamento
nobile, di figura assai avvenente:
aveva la carnagione molto bruna,
ma
d'un
bruno
vellutato,
trasparente, color ambra, come un
ritratto del Murillo; i suoi capelli,
neri con un riflesso azzurrino,
divisi da una riga al disopra della
tempia sinistra, e molto lisci sulla
fronte,
s'inanellavano
graziosamente intorno al viso, e
lasciavano scorgere appena il lobo
delle orecchie; il nero cupissimo
delle
pupille
spiccava
fulgidamente
sul
bianco
dell'occhio, che, invece di essere
del colore del latte, era abbellito
da quel ceruleo che dà allo
sguardo degli indiani un ché di
vivace. Per un capriccio della
natura, le basette folte, benché di
pelo finissimo, contrastavano
coll'apparenza giovanile del mento
e delle guance imberbi come
quelle di una fanciulla. Egli
portava una cravatta di seta nera
che lasciava vedere la forma
delicata del suo collo degno di
essere dipinto. E le pieghe di quel
fazzoletto erano fermate soltanto
da una perla di raro valore per la
sua grossezza e per lo splendore.
L'abbigliamento di ottimo gusto
del signor di Saint-Remy si
combinava a meraviglia con quella
gemma
di
una
magnifica
semplicità.
Era
difficile
dimenticarsi il volto e l'eleganza di
questo
ganimede,
tanto
si
distingueva dagli altri "dandies".
Sfoggiava cocchi e cavalli; grande e
buon scommettitore alle corse,
non giocava annualmente meno di
due o tremila luigi. Si citava la sua
casa della rue di Chaillot come un
modello di graziosa sontuosità: in
essa teneva tavola squisita, e poi
gioco infernale, in cui sovente
perdeva somme considerevoli con
la massima indifferenza. Eppure
tutti sapevano che il suo
patrimonio era già da gran tempo
dissipato. Per spiegare la sua
incomprensibile prodigalità, gli
invidiosi e i malvagi parlavano,
come aveva fatto Sarah, delle
enormi ricchezze della duchessa di
Lucenay;
ma
costoro
dimenticavano che, sorvolando
sulla viltà di tali supposizioni, il
signor di Lucenay sorvegliava
attentamente i capitali della sua
sposa,
e
che
Saint-Remy
dilapidava, a dir poco, da
centocinquanta a duecentomila
franchi ogni anno.
Altri
chiacchieravano
sull'imprudenza di alcuni usurai,
troppo corrivi con lui. E c'era pure
chi
asseriva che
egli
era
"soverchiamente" fortunato al
"turf"(5), e bisbigliava di fantini e
jockey da lui corrotti, per
trattenere i cavalli contro i quali
aveva scommesso molto denaro.
Ma la maggior parte delle persone
del bel mondo si preoccupavano
poco dei mezzi con cui si
procurava tanto lusso. Saint-Remy
apparteneva per nascita al ceto più
elevato; era allegro, coraggioso,
pieno
di
spirito,
piacevole
compagno, molto ospitale; dava
ottimi pranzi, reggeva qualunque
posta gli si proponesse al gioco...
Che si voleva di più? Le donne
lo adoravano; non si arrivava ad
enumerare i suoi trionfi di ogni
genere. Era giovane, bello, galante,
e splendido in tutte le occasioni in
cui un uomo può esserlo con le
signore che più brillano nel gran
mondo.
Insomma era così favorevole
l'opinione che generalmente si
aveva di lui, che persino
l'inesplicabile fonte dei suoi
copiosi redditi era considerata
qualcosa
di
misterioso
e
d'interessante nella sua vita, e
molti dicevano con un sorriso
d'indifferenza: "Bisogna che quel
diavolo di Saint-Remy abbia
trovato la pietra filosofale!"
Quando si seppe che si era
procurato l'impiego presso la
legazione di Francia alla Corte di
Gerolstein, taluni immaginarono
che
intendesse
ritirarsi
onorevolmente.
Il conte di * disse dunque a
Rodolphe presentandogli il signor
Saint-Remy: "Ho l'onore di
presentare a Vostra Altezza il
signor visconte di Saint-Remy,
addetto
alla
legazione
di
Gerolstein." Il visconte fece un
profondo inchino, e disse a
Rodolphe.
"Vostra Altezza si degnerà di
scusare l'impazienza che provavo
di offrirle i miei ossequi... Sono
forse troppo sollecito nel voler
godere di un onore, a cui annetto
la massima importanza."
"Signore, avrò sommo piacere di
rivedervi
a
Gerolstein.
Vi
proponete di andarvi presto?"
"La permanenza di Vostra Altezza
a Parigi mi fa avere meno fretta di
partire."
"La quiete delle nostre corti
tedesche vi sorprenderà molto,
assuefatto come siete alla vita
parigina."
"Oso assicurare Vostra Altezza che
la benevolenza che mi dimostra
m'impedirebbe
di
provare
rammarico per aver lasciato
Parigi."
"Mi sarà grato, signore, se potrò
darvi modo di pensarla sempre
così nel tempo che vi tratterrete a
Gerolstein." E Rodolphe fece un
lieve saluto con il capo, che
annunziava al signore di SaintRemy
la
fine
della
sua
presentazione. Il visconte, dopo
una profonda riverenza, si ritirò.
Rodolphe
era
un
ottimo
fisionomista, e soggetto a simpatie
e antipatie sempre giustificate.
Dopo le poche parole scambiate
con Saint-Remy, ebbe per lui,
senza poterne spiegare la causa,
una specie di avversione. Gli
sembrò di scorgere in lui qualche
cosa di scaltro e quasi di perfido
nello sguardo, una fisionomia
pericolosa. Noi ritroveremo SaintRemy
in
circostanze
che
contrasteranno orribilmente con
la brillante situazione in cui era
all'epoca della sua presentazione a
Rodolphe, e allora si giudicherà
della realtà dei presentimenti del
principe.
Rodolphe,
liberatosi
della
presenza del visconte, e riflettendo
sui bizzarri incontri prodotti dal
caso,
discese
nel
giardino
d'inverno.
Era l'ora della cena; le sale
divenivano poco meno che
deserte. Il luogo più remoto vicino
al radiatore di serra si trovava
dietro un gruppo di alberi,
all'angolo di due muri che un
enorme
banano
nascondeva
pressoché
interamente;
una
porticina, celata dal pergolato, e
che immetteva nel salone del
buffet per mezzo di un lungo
corridoio, era rimasta socchiusa.
Rodolphe si sedette riparato da
quel paravento di foglie. Da un po'
era
immerso
in
profonda
meditazione, quando lo scosse
d'un
tratto
il
suo
nome
pronunciato da una voce ben nota.
Sarah, seduta al lato opposto del
gruppo di alberi che nascondeva
Rodolphe, parlava in inglese con
suo fratello Tom.
Benché
avesse
soltanto
qualche anno più di Sarah, aveva i
capelli quasi bianchi, il suo viso
rivelava una volontà fredda, ma
tenace; l'accento era secco e
risoluto, lo sguardo truce, la voce
rauca.
Rodolphe ascoltò attentamente
il
seguente
colloquio:
"La
marchesa è andata alla festa da
ballo del barone di Nerval:
fortunatamente se n'è andata
senza poter parlare a Rodolphe,
che la cercava. Io ho sempre
timore dell'influsso che egli
esercita su di lei, e che tanta fatica
mi è costato combattere e in parte
distruggere... Infine questa rivale,
che mi ha fatto sempre paura, per
certi miei presentimenti, e che, in
seguito, avrebbe potuto impedire i
miei progetti, questa rivale sarà
compromessa, rovinata. Sentite,
Tom, si tratta di cose serie."
"Vi ingannate, Rodolphe non ha
mai pensato alla marchesa."
"È arrivato il momento di darvi
qualche spiegazione su questo
argomento. Sono avvenute molte
cose durante il vostro ultimo
viaggio.
È necessario agire più presto di
quello che io pensavo, questa sera,
subito, nell'uscire di qui. Intanto
sarebbe bene che parlassimo un
po'. Per fortuna siamo soli."
"Vi ascolto."
"Prima di aver visto Rodolphe,
questa donna, ne sono certa, non
aveva mai amato. Non so per
quale ragione abbia una decisa
avversione per il marito che
l'adora. C'è un mistero, che invano
ho voluto penetrare. La presenza
di Rodolphe aveva eccitato nel
cuore di Clémence mille nuove
emozioni. Io soffocai quella
fiamma
nascente
mediante
rivelazioni terribili relative al
principe. Ma in lei si era
risvegliato il bisogno di amare.
Incontrò in casa mia Charles
Robert, e fu colpita dalla sua
bellezza, colpita come alla vista di
un quadro. Costui, per disgrazia, è
uno sciocco, ma ha un non so che
d'interessante nello sguardo. Io
esaltai la nobiltà dell'animo suo e
la dignità del suo carattere:
conoscevo la bontà naturale della
marchesa d'Harville; attribuii a
Robert diverse commoventissime
disgrazie, gli raccomandai di
fingere sempre una mestizia
mortale, di non parlare con noi
che a forza di sospiri e di ahimè!, e
soprattutto di parlare poco. Egli ha
seguito i miei consigli. Con
l'abilità nel cantare, con il volto
gentile,
con
l'apparenza
di
un'afflizione insanabile, si è quasi
conquistato l'affetto di Clémence,
che in tal modo soddisfa quel
bisogno di amare che ha destato in
lei Rodolphe. Adesso mi capite?"
"Benissimo: continuate."
"Robert e la signora d'Harville non
si vedevano che in casa mia: due
volte la settimana facevamo un
poco di musica fra noi tre, di
mattina.
Il bell'angustiato sospirava,
diceva a voce bassa qualche
paroletta tenera. Ma un giorno
fece scivolare nella manina tre
biglietti. A me davano anche più
timore i suoi scritti, che la sue
ciarle, ma una donna è sempre
indulgente
con
le
prime
dichiarazioni che riceve; e quelle
del mio protetto non fecero danni.
Per lui quello che importava era
ottenere un appuntamento. La
marchesina ha meno sentimenti
amorosi che scrupoli morali, o, per
dir meglio, non ha abbastanza
amore da dimenticare i suoi
scrupoli. In fondo all'animo suo,
senza accorgersene, c'è ancora un
forte e indefinibile ricordo di
Rodolphe, che quasi veglia, per
così dire, su lei, e combatte la
debole inclinazione nata per il
signor
Charles
Robert.
Inclinazione più fittizia che reale,
ma
alimentata
dal
grande
interesse che lei nutre per le
sventure immaginarie di Robert, e
dall'incessante esagerazione delle
mie lodi su questo bellissimo
Apollo senza cervello. Però so che
un
giorno
Clémence, vinta
dall'aria disperata dell'infelice
adoratore, si risolse ad accordargli
l'appuntamento tanto bramato."
"Dunque
vi
ha fatta sua
confidente?"
"Mi aveva confessato il suo
attaccamento per Charles Robert,
e niente altro. Io non cercai di
sapere di più. Ma egli, pieno di
contentezza o piuttosto di vanità,
mi disse del biglietto e della
promessa, senza dirmi però il
luogo
né
il
giorno
dell'appuntamento."
"E come lo sapeste?"
"Karl, per mio ordine, andò
all'indomani e il giorno dopo di
buon'ora a spiare il signor Robert,
e lo seguì. Il secondo giorno, verso
il
pomeriggio,
il
nostro
innamorato in una carrozza di
piazza si avviò a un quartiere della
rue du Temple. Smontò ad una
casa di modesto aspetto, vi stette
circa un'ora e mezzo, poi se ne
andò. Karl aspettò un pezzo per
vedere se dopo di lui veniva fuori
qualcuno. Nessuno uscì; la
marchesa aveva mancato alla
promessa. Io ne fui informata il
giorno seguente dall'amoroso,
malinconico e corrucciato. Gli
suggerii di mostrarsi più disperato
che mai. Clémence si mosse
nuovamente
a
pietà:
altro
appuntamento, ma invano come il
primo. Alla terza volta lei arrivò
sino al portone. Era questo un bel
passo, ma conferma i suoi travagli
interni. E perché? Perché (ne sono
certa, ed è questo che causa il mio
odio) lei ha sempre nel cuore, e
senza neppure saperlo, il pensiero
di Rodolphe; pensiero che pare
proteggerla.
Stasera, però, la marchesa ha
dato a Charles Robert un
appuntamento per domani; questa
volta ci andrà, non ne dubito. Il
duca di Lucenay ha così
grossolanamente
messo
in
ridicolo quel giovane, che la
marchesa, implorata dal suo
amante, gli ha concesso per pietà
ciò che non gli avrebbe forse
accordato altrimenti. Questa volta,
ve lo ripeto, manterrà il suo
impegno."
"E qual è?"
"Questa donna obbedisce ad una
specie di pietà caritatevole ed
esaltata, ma non all'amore.
Charles Robert è così poco capace
di comprendere la delicatezza del
sentimento che l'ha guidata, che
domani
vorrà
approfittare
dell'abboccamento, e perderà del
tutto il favore di Clémence che, ve
lo ripeto, agisce per compassione,
e non per trasporto amoroso. In
una parola, io sono certa che lei ci
vada per dar prova di coraggio e
d'interesse, ma perfettamente
calma e con intenzione di non
dimenticare un solo istante i suoi
doveri. Charles Robert non vorrà
capire
questa
faccenda,
la
marchesa lo conoscerà meglio e lo
detesterà, e, distrutta l'illusione,
ricadrà
sotto
l'influsso
di
Rodolphe che è sempre nel suo
cuore."
"Ebbene?"
"Ebbene, voglio che intanto sia per
sempre compromessa in faccia a
Rodolphe. Questo, ne sono
persuasa, avrebbe, presto o tardi,
tradito l'amicizia del signor
d'Harville,
corrispondendo
all'affetto di Clémence, ma adesso
la odierà sapendola caduta per un
uomo come Robert, preferito a lui:
questo per un uomo è un delitto
imperdonabile.
Adducendo
l'attaccamento
che
ha
per
d'Harville, non rivedrà mai più
quella
signora,
che
ha
indegnamente ingannato l'amico
caro."
"Volete dunque avvertire il
marito?"
"Sì, stasera, subito, salvo il vostro
parere. Secondo ciò che mi ha
detto Clémence, egli ha qualche
sospetto, e non sa su chi fissarlo.
È mezzanotte, andiamocene da
questa festa. Voi scenderete al
primo caffè che troveremo,
scriverete al signor d'Harville che
la moglie deve recarsi domani
all'una in rue du Temple 17 per un
appuntamento amoroso. È geloso,
la sorprenderà, e voi indovinate il
resto!"
"È un'azione abominevole" disse
freddamente il gentiluomo."
"Avete degli scrupoli, Tom?"
"Farò sempre quel che bramate;
ma vi ripeto che è un'azione
abominevole."
"Ma farete quel che vi ho detto?"
"Sì, questa sera il signor d'Harville
sarà istruito su tutto... Ma mi pare
che ci sia qualcuno, dietro quel
cespuglio" disse d'un tratto Tom
interrompendosi
e
parlando
sommesso. "Mi è parso di aver
sentito muoversi..."
"Guardate allora!" ordinò Sarah,
con inquietudine.
Tom si alzò, fece il giro del
cespuglio e non vide anima viva.
Rodolphe era sparito dalla
porticina sotto il pergolato.
"Mi sono ingannato" disse Tom
ritornando "non c'è nessuno."
"È che sembrava anche a me..."
"Ascoltatemi, Sarah. Io non credo
la marchesa tanto pericolosa per i
vostri progetti come pensate.
Rodolphe ha certi principi che non
infrangerà mai. La giovane, che ha
condotto nel podere sei settimane
fa travestito da operaio, quella di
cui si piglia tanta cura, alla quale
dà una scelta educazione, e che è
stato a visitare parecchie volte,
suscita in me timori più fondati.
Noi ignoriamo chi sia, benché
sembri appartenere ad una classe
oscura della società. Ma la rara
bellezza di cui, a quanto si dice, è
dotata,
il
travestimento
di
Rodolphe per condurla al villaggio,
la premura sempre maggiore per
lei, tutto prova che questo suo
affetto non è di poca importanza.
Perciò io ho prevenuto i vostri
desideri.
Per
allontanare
quest'ostacolo, a parer mio più
reale, è stato necessario agire con
somma prudenza, e informarsi
bene sulla gente del podere e sulle
abitudini della ragazza. Tali notizie
io le ho avute; è arrivato il
momento di venire ai fatti. Il caso
mi
ha
fatto
reincontrare
quell'orrenda vecchia che aveva
conservato il mio indirizzo. Le
relazioni che ha con persone della
risma di quel delinquente che ci
assalì nella Cité ci aiuteranno
molto. Tutto è previsto. Non ci
sarà prova alcuna contro di noi. E
d'altronde, se la giovane, come
sembra, appartiene al ceto degli
artigiani, non resterà titubante fra
le nostre offerte e la sorte,
quantunque brillante, che si può
sognare facendo la mantenuta di
un principe. In sostanza, domani
la questione sarà risolta. Se no,
vedremo."
"Rimossi questi due ostacoli, Tom,
allora il nostro grande piano..."
"Presenta sempre delle difficoltà,
ma può riuscire."
"Confessate che ci sarà una
probabilità favorevole in più, se lo
eseguiamo mentre Rodolphe sarà
sconvolto dallo scandalo della
condotta della signora d'Harville e
dalla sparizione di quella creatura
a cui tanto si interessa."
"Lo credo anch'io. Ma se
quest'ultima speranza si perde,
allora io sarò libero" disse Tom,
guardando la sorella in modo
truce.
"Sarete libero!"
"Non rinnoverete più le preghiere
che, per due volte, sospesero, mio
malgrado, la mia vendetta!" Poi
mostrando a Sarah il lutto che
velava il suo cappello, ed i guanti
neri che aveva alle mani, Tom
soggiunse con un amaro sorriso:
"Io aspetto sempre... Voi lo sapete,
io porto questo lutto da sedici
anni, e non lo lascerò se non
quando..."
"Vi dico che sarete libero, Tom!
Perché allora quella fiducia che mi
ha confortata sino adesso in
circostanze così diverse, in cui è
stata giustificata al
di là
dell'umana
previdenza,
mi
abbandonerà interamente. Ma
fino a quel punto, non c'è al
mondo un pericolo, anche lieve,
che io non voglia allontanare ad
ogni costo. Il successo dipende
sovente dalle più piccole cose.
Ostacoli più grandi mi si
presenteranno, quando starò per
giungere alla meta. Voglio libero il
campo, li spezzerò! I miei mezzi
sono odiosi, e che importa? Si
ebbero forse riguardi per me?"
esclamò
Sarah,
alzando
involontariamente
la
voce.
"Silenzio, hanno finito la cena!"
disse Tom. "Poiché giudicate
opportuno avvertire il marchese
d'Harville
dell'appuntamento,
partiamo. È già tardi!"
"L'ora della notte in cui gli sarà
recapitato il biglietto gliene
proverà
l'importanza."
Ed
ambedue abbandonarono il ballo
dell'ambasciatore di *.
19.
Gli appuntamenti.
Rodolphe, che in qualunque
modo voleva avvertire la signora
d'Harville del pericolo che la
sovrastava, uscì dal palazzo senza
attendere la fine del colloquio tra
Tom e Sarah, così non seppe del
complotto che tramavano contro
Fleur-de-Marie, e del pericolo
imminente che correva la giovane.
E, nonostante il suo zelo,
Rodolphe non poté salvare la
marchesa, come sperava. Questa,
abbandonando
il
palazzo
dell'ambasciatore, doveva, per
convenienza, farsi vedere un
istante dalla signora di Nerval; ma,
oppressa dalle emozioni che
l'agitavano, non ebbe il coraggio di
andare a quella seconda festa, e se
ne tornò a casa. Un tale
contrattempo rovinò ogni cosa.
Il signor di Graün, come quasi
tutte le persone che erano al ballo
della contessa *, era invitato dalla
signora di Nerval. Rodolphe ve lo
condusse sollecitamente, con
l'ordine di cercare la marchesa
d'Harville, e avvertirla che il
principe, desiderando dirle la sera
stessa alcune cose della massima
premura, si sarebbe trovato a piedi
davanti il palazzo d'Harville, e si
sarebbe avvicinato alla carrozza di
lei per parlarle dallo sportello,
mentre i servi provvedevano
all'apertura del portone.
Dopo molto tempo, perduto
per cercare la signora d'Harville, il
barone riferì a Rodolphe che non
era comparsa al festino. Rodolphe
ne fu desolato. Aveva saggiamente
pensato che era necessario, prima
di tutto, informare la marchesa del
complotto, perché così la lettera di
Sarah al marito sarebbe passata
per una calunnia.
Ma era troppo tardi... La lettera
infame era stata consegnata al
marchese all'una di notte.
La mattina dopo il signor
d'Harville camminava avanti e
indietro nella sua camera da letto,
ammobiliata
con
elegante
semplicità, e adorna di un
assortimento di armi moderne in
un armadio, e una scansia di libri.
Il letto non era stato disfatto,
ma la trapunta di seta pendeva
ridotta in brandelli; una sedia e un
tavolino d'ebano con i piedi torti
erano stati gettati a terra vicino al
caminetto; si scorgevano sul
tappeto i pezzi di un bicchiere
rotto, candele mezzo schiacciate,
ed un candeliere a due bracci
rovesciato.
Il signor d'Harville aveva circa
trent'anni, una figura maschia e
decisa, un volto di solito affabile e
dolce, ma allora scomposto;
portava addosso gli abiti della sera
precedente; aveva il collo nudo, il
panciotto aperto; la camicia
lacerata sembrava macchiata qua e
là da qualche goccia di sangue; i
capelli scuri, di solito ricciuti,
ricadevano irti e arruffati sulla
fronte livida.
Dopo aver camminato un
pezzo, le braccia conserte, la testa
bassa, lo sguardo fisso, gli occhi
rossi, si fermò bruscamente
davanti al caminetto, spento
malgrado il freddo acuto della
notte. Prese dal marmo una lettera
e la rilesse con attenzione, con
un'ansietà spasmodica al fosco
chiarore
di
quella giornata
d'inverno: "Domani, all'una, vostra
moglie andrà in rue du Temple al
n. 17 per un appuntamento
amoroso. Seguitela e saprete
tutto... fortunato sposo!" Man
mano che scorreva quelle righe,
già rilette tante volte, pareva che
le sue labbra, illividite dal freddo,
compitassero
convulsamente
sillaba per sillaba le lettere di
quello sciagurato biglietto. Fu
aperto l'uscio in quel momento, ed
entrò un cameriere. Costui, già
vecchio, aveva i capelli grigi e un
viso buono e onesto. Il marchese
girò bruscamente il capo, senza
cambiar
posizione,
tenendo
sempre il foglio tra le mani.
"Che vuoi?" domandò con
asprezza.
Costui, invece di rispondere,
contemplava attonito ed afflitto lo
scompiglio della camera; poi,
guardando
attentamente
il
padrone, esclamò: "Sangue sulla
camicia... Mio Dio, mio Dio,
signore, siete ferito? Eravate solo,
perché non avete suonato, come al
solito, quando avete risentito le..."
"Vattene!"
"Ma, signor marchese, cosa dite?
Il fuoco è spento, fa un freddo
mortale, e specialmente dopo il
vostro..."
"Vuoi star zitto? Lasciami!"
"Ma, signor marchese" riprese il
vecchio servo tremando "avete
dato ordine al signor Doublet di
esser qui questa mattina alle dieci
e mezzo; è di là con il notaio."
"Va bene" disse amaramente il
signor
d'Harville,
ostentando
calma. "Quando si è ricchi,
bisogna pensare agli affari... È una
cosa tanto bella la ricchezza!" E
poi soggiunse: "Fa' passare il
signor Doublet nel mio studio."
"C'è già, signor marchese."
"Dammi gli abiti, che possa
vestirmi. Presto dovrò uscire."
"Ma, signor marchese..."
"Fa' quel che ti dico, Joseph..."
seguitò d'Harville in tono più
dolce, poi aggiunse: "Ha già
chiamato mia moglie?"
"Non credo che la signora
marchesa
abbia
suonato
il
campanello."
"Appena suona, mi avvertirete."
"Sì, signor marchese."
"Di' a Philippe che venga ad
aiutarti. Non la finirai più!"
"Ma, signore, aspettate che abbia
accomodato un po' qua" rispose
mestamente
Joseph.
"Si
accorgerebbero
di
questo
disordine, e non capirebbero quel
che possa essere accaduto al
signor marchese."
"E se lo capissero sarebbe un
brutto affare, non è vero?" ripigliò
il signor d'Harville con aria
crudele e sardonica.
"Ah, signore" esclamò Joseph
"grazie a Dio, nessuno sospetta..."
"Nessuno? No, nessuno!" replicò il
marchese, più cupo di prima.
Mentre il cameriere era
occupato a rassettare ogni cosa
nella stanza, il padrone andò
difilato all'armadio, esaminò per
qualche minuto le armi, e fece un
gesto di sinistra soddisfazione.
"Sono sicuro" disse a Joseph
"che ti sei dimenticato di far pulire
i miei fucili che sono lassù nel
corredo da caccia."
"Il signor marchese non me ne
aveva parlato..." disse il servitore
con gran meraviglia.
"Sì, ma tu te lo sei scordato."
"Protesto, signor marchese..."
"Devono essere in uno stato
davvero ottimo!"
"È appena un mese che sono stati
riportati
dal
negozio
dell'armaiolo."
"Non importa. Appena sarò
vestito, vai a cercare quella
cassetta; può darsi che domani o
domani l'altro io vada a caccia,
voglio rivedere quei fucili."
"Li porterò qui fra poco." Rimesso
tutto in ordine, un secondo servo
venne a dare una mano a Joseph.
Il signor d'Harville, finito di
vestirsi, entra nello studio, dove lo
attendevano il signor Doublet, suo
intendente, e lo scrivano del
notaio.
"Ecco l'atto che veniamo a
leggere al signor marchese" disse
l'intendente. "Non rimane altro
che firmarlo."
"L'avete letto, signor Doublet?"
"Sì, signor marchese."
"Dunque basta così, lo firmo."
Sottoscrisse, e lo scrivano uscì.
"Mediante questo acquisto,
signor
marchese"
disse
l'intendente con aria trionfante "la
vostra rendita fondiaria è salita a
126 mila franchi. Sapete che è una
cosa rara, signor marchese,
un'entrata di 126 mila franchi in
effetti fondiari?"
"Sono un uomo fortunato, eh,
signor Doublet? 126 mila franchi
in beni fondiari! Non c'è una
felicità eguale!"
"Senza contare il portafogli del
marchese, senza contare..."
"Certo, senza contare tanti altri
doni della sorte..."
"Sia lodato Iddio, nulla vi manca:
gioventù, ricchezza, bontà, salute...
Tutti beni riuniti insieme... E fra
questi"
soggiunse
Doublet,
sorridendo
graziosamente
"o
piuttosto sopra tutti, io pongo
quello di essere sposo della
signora marchesa, e di avere
un'amabile figlioletta che pare un
cherubino." Il signor d'Harville
diede
un'occhiata
sinistra
all'intendente.
Noi rinunciamo a dipingere
l'espressione di amara ironia, con
cui gli disse poi, battendogli
familiarmente sulla spalla: "Con
126 mila franchi di rendita, una
moglie come la mia, e una
bambina che somiglia a un
cherubino, nulla rimane da
desiderare, non è così?"
"Eh, eh, signor marchese" rispose
l'altro ingenuamente "resta da
desiderare di vivere più che si
possa per maritare la signorina, ed
esser nonno... Arrivare ad esser
nonno è cosa che io auguro di
cuore al signor marchese, come
alla signora marchesa di esser
nonna e bisnonna..."
"Che caro signor Doublet! Pensate
a Filemone e Bauci! Siete sempre
pieno di bellissime idee."
"Troppa
bontà,
mio
signor
marchese... Ha niente altro da
comandarmi?"
"Nulla... Ah, sì quanto avete in
cassa?"
"Ho 19300 e poche lire, senza
contare il denaro depositato alla
Banca."
"Preleverete stamani 10 mila
franchi in oro, e li consegnerete a
Joseph se io sono fuori."
"Questa mattina?"
"Per l'appunto."
"Fra un'ora avrà la somma... Ha
più nulla da dirmi, signor
marchese?"
"No, signor Doublet."
"126 mila franchi di rendita!"
ripeteva l'intendente, mentre se ne
andava. "Che bel giorno è questo
per me! Temevo che ci sfuggisse
quella fattoria, che è un così buon
affare!..."
"Arrivederci, signor Doublet."
Appena se ne fu andato, d'Harville
si gettò abbattuto sulla poltrona,
appoggiò i gomiti sul tavolino e si
nascose il viso fra le mani.
Per la prima volta, da quando
aveva ricevuto il fatale biglietto di
Sarah, poté piangere.
"Oh," diceva "amara derisione
del destino, che mi fece ricco!... E
adesso, che metterò a confronto di
tanto oro? La mia vergogna,
l'infamia di Clémence!... Infamia
che uno scandalo farà forse
riversare persino sulla fronte di
mia figlia! Ed a questo scandalo
debbo risolvermi, oppure aver
compassione di..." Poi rialzandosi,
con gli occhi brillanti e i denti
serrati, esclamò: "No, no... Sangue,
sangue! Il terribile salva dal
ridicolo! Ora comprendo la sua
avversione
sciagurata!"
Ma,
fermatosi d'un tratto atterrito da
una riflessione subitanea, riprese
con voce cupa: "Avversione! Oh,
so ben io quale ne è la causa... Io
le faccio orrore, la spavento!" E
dopo una lunga pausa: "Ma è colpa
mia? Per questo deve ingannarmi?
Invece di odio, non merito pietà?
No, no, sangue! Tutti e due, tutti e
due! giacché lei, senza dubbio, gli
avrà detto tutto!" Questo pensiero
raddoppiò le smanie del marchese.
Alzò verso il cielo i pugni chiusi, e
poi passandosi la mano ardente
sugli occhi, e sentendo la necessità
di star calmo davanti alla servitù,
rientrò in camera con apparente
tranquillità, e vi trovò Joseph.
"Ebbene, i fucili?"
"Eccoli, signor marchese; sono in
ottimo stato."
"Voglio
assicurarmene.
Mia
moglie ha chiamato?"
"Non so, signor marchese." Il
vecchio servo uscì. Il signor
d'Harville si affrettò a prendere
dalla cassa una borsa da polvere
ed alcune pallottole, quindi la
chiuse e si tenne la chiave. Prese
pure dalla panoplia un paio di
pistole di Manton di mezza
grandezza, le caricò, e se le mise
nella tasca del lungo soprabito da
mattina. Ritornò Joseph.
"Signore, si può passare dalla
signora marchesa."
"Ha forse ordinato la carrozza?"
"Signor no; madamigella Juliette
ha detto davanti a me al cocchiere
della
marchesa,
venuto
a
domandare gli ordini per il
mattino, che essendo tempo
freddo ed asciutto, la padrona
andrà a piedi, se dovesse andare
fuori."
"Benissimo. Oh, mi scordavo... Se
vado a caccia, sarà domani o
domani l'altro. Di' a Williams che
visiti la piccola "briscka" verde
questa stessa mattina..."
"Non mancherò, signor marchese.
Volete la vostra mazza?"
"No... Non c'è qui vicino una
piazza con vetture da nolo?"
"Qui all'angolo della rue de Lille."
Dopo un momento di silenzio e di
indecisione,
il
marchese
soggiunse: "Va' a domandare a
madamigella Juliette se la signora
può ricevermi." Joseph obbedì.
"Animo, sarà uno spettacolo
come un altro... Sì, voglio andare
da lei, ed osservare la maschera di
perfidia e di finta tenerezza sotto
cui nasconde l'adulterio... Udrò la
sua bocca mentirmi, mentre le
leggerò scritto nel cuore il delitto.
Sì, è curioso vedere come vi guardi
e vi parli, e vi risponda, una donna
che dopo un momento andrà ad
avvilire il vostro nome con una di
quelle macchie ridicole ed orribili,
che si lavano soltanto con il
sangue. Pazzo che sono! Mi
guarderà, come sempre, con il
sorriso sulle labbra, con il candore
sulla fronte! Mi guarderà come
guarda la sua figliola, baciandola,
e facendola pregare Iddio... Lo
sguardo... lo specchio dell'anima"
e si stringeva nelle spalle "più è
dolce e pudico, più è falso ed
iniquo! Lei me lo prova!... Ed io ci
sono caduto come un balordo...
Oh, rabbia! Con che freddo ed
insolente disprezzo doveva mai
considerarmi attraverso quello
specchio
impostore,
quando
essendo forse sul punto di andare
a trovare lui, io la colmavo di
dimostrazioni di stima e di affetto,
e le parlavo come ad una giovane
madre casta e grave, in cui avevo
riposto la speranza di tutta la mia
vita... No, no!" gridò d'Harville,
sentendo accrescere il suo furore.
"No! Non la vedrò, non voglio
vederla... E neppure mia figlia. Mi
scoprirei, comprometterei la mia
vendetta!" Uscendo dalla stanza,
invece di passare in quella di
madama, il marchese d'Harville
avvertì così la cameriera di sua
moglie: "Direte alla vostra signora
che desideravo parlarle questa
mattina, ma devo uscire per un
momento. Nel caso desiderasse far
colazione con me, sarò qui a
mezzogiorno; diversamente non si
prenda pensiero di me."
"All'idea che io debba tornare e
starmene in casa" diceva fra sé il
signor d'Harville "si crederà molto
più libera." E si recò nella vicina
piazza, al posteggio di carrozze.
"Vetturino, vi prendo a ore."
"Sì, padrone: sono le undici e
mezzo; dove si va?"
"In rue de Belle-Chasse, all'angolo
di rue Saint-Dominique, e lungo il
muro di un giardino ti fermerai."
"Sì, padrone." Il signor d'Harville
calò le tendine. La carrozza si
mosse, e presto arrivò quasi
dirimpetto
all'abitazione
del
marchese. Da quel luogo nessuno
poteva uscire di casa senza esser
visto da lui. L'appuntamento
accordato dalla moglie era per
l'una. Attese con gli occhi fissi alla
porta.
Suonava mezzogiorno a Saint-
Thomas, ed ecco il portone del
palazzo aprirsi adagio e venir fuori
la marchesa.
"Di già!... Oh che attenzione!
Teme di farlo aspettare!" disse fra
sé il signor d'Harville con truce
ironia. Il freddo era pungente, e le
strade asciutte.
Clémence aveva un cappellino
nero coperto da un velo, un
cappotto di seta color uva passa; il
suo
grandissimo
scialle
di
cachemire blu cupo ricadeva sino
alla guarnizione della gonna, che
alzò leggermente e graziosamente
per attraversare la via. Per quel
piccolo movimento si vide sino
alla caviglia il suo piedino, calzato
a meraviglia in uno stivaletto di
raso turco. Cosa strana, malgrado
le idee funeste che lo straziavano,
il signor d'Harville considerò il
piedino della consorte, che mai
non gli era sembrato più bello e
gentile! Sentì forte gli acuti morsi
della gelosia sensuale, e gli parve
di vedere il rivale in ginocchio
baciare con ebbrezza amorosa quel
piede ben fatto... Allora, per la
prima volta in vita sua, provò al
cuore un atroce dolore fisico, uno
spasimo profondo, intenso, acuto,
che gli strappò un grido affannoso.
Sino a quel momento l'animo suo
soltanto aveva sofferto, poiché
sino a quel momento non aveva
pensato che alla santità dei doveri
oltraggiati.
La sua impressione fu così
crudele,
che
poté
appena
dissimulare l'alterazione della
voce nel dire al vetturino, alzando
per metà le tendine: "Vede quella
signora con lo scialle blu e il
cappello nero, che cammina
rasente al muro?"
"Sì, padrone."
"Va' di passo e seguila... Se va alla
piazza delle vetture, fermati, e poi
corri dietro alla carrozza su cui
sarà salita."
"Sì, padrone... Ci sarà da
divertirsi!" La signora d'Harville
andò alla piazza, e salì su una
carrozza da nolo. La vettura del
marchese la seguì a debita
distanza.
Dopo un breve tratto, con gran
stupore del marchese, l'altra
carrozza prese la strada della
chiesa di Saint-Thomas, e lì si
fermò.
"Ebbene, che fai?"
"Padrone, la signora è andata in
chiesa... Accidenti, che belle
gambe! Oh come mi diverto!"
Mille idee diverse agitarono il
signor d'Harville.
All'inizio credette che la
consorte,
accortasi
d'essere
seguita, volesse confondere chi la
controllava. Poi pensò che forse la
lettera poteva essere una indegna
calunnia. Se
Clémence
era
colpevole, a che giovava quella
finta devozione? Non era anzi una
derisione sacrilega? E, per alcuni
istanti, ebbe come un barlume di
speranza, tanto era grande il
contrasto fra quella devozione e
l'adulterio di cui incolpava la
sposa.
Poco
durò
quell'illusione
consolatoria. Il fiaccheraio si
chinò, e disse: "Padrone, la
signorina risale in carrozza."
"Valle dietro."
"Sì, padrone... Oh che gusto! Oh
che spasso!" La carrozza passò i
Ponti, il Palazzo del Municipio, la
rue de Saint-Avoie, ed entrò nella
rue du Temple.
"Padrone!" gridò il fiaccheraio,
voltandosi
verso
il
signor
d'Harville. "Il mio collega si è
fermato al numero 17, noi siamo
al 13: ci dobbiamo trattenere qui?"
"Sì."
"Padrone, la signorina entra nel
portone del numero 17."
"Apri!"
"Sì, padrone." Ed in pochi minuti
d'Harville entrava nello stesso
portone, sui passi della moglie.
20.
Un angelo.
La marchesa d'Harville entrò
nel caseggiato.
Richiamati dalla curiosità, la
Pipelet, Alfred e l'ostricaia erano
sulla porta dello stanzino.
La scala era tanto buia che,
venendo di fuori, non si poteva
distinguerla.
La
marchesa,
obbligata a rivolgersi alla Pipelet
le domandò con voce alterata,
quasi si sentisse mancare: "Il
signor Charles, signora?"
"Signor... chi?" fece la vecchia,
fingendo di non aver udito, per dar
tempo al marito e all'ostricaia di
osservare i lineamenti della donna
sotto il velo.
"Domando...
del
signor
Charles"
ripeté
Clémence,
tremando ed abbassando il capo
per sottrarre il suo viso agli
sguardi, che la squadravano con
insolente curiosità.
"Ah, il signor Charles? Alla
buon'ora! Parlate tanto piano, che
non avevo sentito... Ebbene,
signorina, poiché andate dal
signor Charles, bel giovane poi...
Salite diritto, è l'uscio di faccia."
La marchesa tutta confusa, mise il
piede sul primo gradino.
"Eh, eh, eh" continuò la
vecchia sogghignando. "Pare che
oggi sia la giornata buona. Viva le
nozze e allegri i suonatori!"
"Insomma pare che se ne intenda
il Comandante" notò l'ostricaia.
"Non è mica da buttar via la sua
dama." Se non fosse stata la
necessità di passar di nuovo
davanti a loro, la signora
d'Harville, che moriva di vergogna
e di paura, sarebbe ridiscesa. Fece
un ultimo sforzo, ed arrivò sul
pianerottolo.
Quale fu il suo stupore! Si
trovò a faccia a faccia con
Rodolphe, che, mettendole in
mano una borsa, le disse
rapidamente: "Vostro marito sa
tutto, vi segue!" In quel punto si
udì la voce aspra della Pipelet
gridare: "Dove andate, signore?"
"È lui!" fece Rodolphe.
E aggiunse spingendo quasi la
marchesa verso la scala del
secondo piano.
"Salite
al
quinto
piano!
Venivate a portar soccorso ad una
famiglia
di
disgraziati...
Si
chiamano Morel..."
"Signore, dovrete uccidermi prima
di salire senza dirmi dove andate"
urlava la Pipelet, impedendo il
passo al signor d'Harville.
Avendo visto dal fondo del
corridoio la moglie che parlava
con la portinaia, si era fermato un
istante.
"Sono con quella signora che è
entrata poco fa" disse il marchese.
"Allora è tutt'altro, passate." Il
signor Charles Robert, avendo
inteso un rumore insolito, schiuse
un tantino il suo uscio. Rodolphe
entrò bruscamente da lui, e vi si
chiuse dentro nel momento in cui
il
marchese
arrivava
sul
pianerottolo. Rodolphe, temendo,
malgrado l'oscurità, di esser
riconosciuto dal signor d'Harville,
aveva approfittato di quella
occasione pur di non farsi vedere.
Il signor Charles Robert,
elegantemente paludato nella sua
veste arabescata da camera e con il
berretto alla greca di velluto
ricamato,
rimase
stupefatto
all'apparizione di Rodolphe, che
aveva visto la sera prima
dall'ambasciatore, e che ora era
vestito più che semplicemente.
"Signore, che vuol dire?"
"Silenzio!" lo interruppe Rodolphe
a voce bassa e con tale espressione
d'angoscia che Charles Robert
tacque.
Si udì un rumore violento
come quello di un corpo che cade
e che rotola sopra alcuni scalini.
"Il disgraziato, l'ha uccisa!"
esclamò Rodolphe.
"Uccisa, chi? Ma che accade
dunque?"
domandò
Charles
Robert sbalordito.
Rodolphe, senza rispondergli,
aprì un poco la porta. Vide
scendere a salti e zoppicando il
piccolo Tortillard.
Aveva in mano la borsa di seta
rossa che Rodolphe aveva dato
poco
prima
alla
marchesa.
Tortillard sparì giù dalle scale. Si
udirono i passi leggeri della
signora d'Harville, e quelli più
gravi del consorte, che continuava
a seguirla ai piani superiori.
Non comprendendo come mai
Tortillard fosse in possesso di
quella
borsa,
ma
alquanto
tranquillizzatosi, Rodolphe disse
al signor Robert: "Non vi muovete
di qua. Stavate per provocare un
vero disastro."
"Ma insomma" riprese Charles
Robert spazientito "mi direte che
significa tutto questo? Chi siete, e
con quale diritto..."
"Significa che il signor d'Harville
sa tutto, che ha seguito la moglie
sino al vostro uscio e che la sta
seguendo su per le scale."
"Ah, mio Dio, mio Dio!" esclamò
l'altro a mani giunte con spavento.
"Ma che va a fare lei di sopra?"
"Non vi deve importare. Restate in
casa vostra, e non vi muovete
prima che la portinaia vi abbia
avvertito." Rodolphe se ne andò
nello stanzino di Alfred, lasciando
Robert spaventato ed attonito.
"Ehi, dico!" fece la Pipelet,
tutta allegra. "Affari seri! Affari
seri! C'è un uomo che pedina la
signorina. Sarà di certo il marito,
quel gialliccio! L'ho indovinato
subito, io, e l'ho fatto salire... Ora
si
ammazzeranno
con
il
Comandante, ci sarà grande
strepito nel quartiere, tutti
correranno per venire a veder la
casa, come fecero al numero 36
quando ci fu un assassinio."
"Mia cara signora Pipelet, volete
farmi un gran favore?" E
Rodolphe fece scivolare cinque
luigi nella mano della portinaia.
"Quando quella signora scende,
domandatele come se la passano i
poveri Morel, ditele che fa
un'opera buona assistendoli come
aveva promesso, venendo a dar
loro conforto e a prendere
informazioni."
La
portinaia
guardava con stupore il denaro e
Rodolphe.
"Come... signore... quest'oro... è
per me? E quella signorina...
Dunque non è dal Comandante?"
"Quello che la rincorre è il marito.
Avvertita a tempo, l'infelice ha
potuto andare dai Morel, ai quali
finge di portar soccorsi. Mi
capite?"
"Se capisco? Se vi devo aiutare a
infamare il marito, mi sta bene, mi
calza come un guanto! Eh, eh, eh,
parrà che io non abbia fatto altro
mestiere in vita mia... Dite pure!"
Qui si vide il cappellone da caccia
di Pipelet spuntare all'improvviso
dall'ombra dello stanzino.
"Anastasie!" disse gravemente
Alfred. "Ecco che tu non rispetti
niente sulla terra, come il signor
Cesare Bradamanti; ci sono delle
cose che non si devono mai dire,
neppure
nelle
delizie
dell'intimità..."
"Eh via! Il mio cucco! Non far da
bacchettone, non t'ingrossare gli
occhi come le palline della
tombola... Vedi pure che dico per
scherzo. Non sai forse che non c'è
al mondo nessuno che possa
vantarsi di... Insomma basta così!
Se faccio un piacere a quella
giovane, è per accontentare il
nostro nuovo inquilino, che è
tanto buono!" Poi, rivolgendosi a
Rodolphe: "Adesso mi vedrete
lavorare...
Volete
star
là,
nell'angolo dietro la porta? Ecco,
scendono, li sento." Rodolphe si
nascose. Scendevano il marchese
d'Harville e la consorte.
Il marito dava il braccio alla
moglie. Giunto davanti allo
stanzino il marchese sembrava
soddisfatto,
ed
insieme
meravigliato e confuso.
Clémence era pallida, ma
tranquilla.
"Ebbene,
signora
mia!"
l'apostrofò la Pipelet sbucando dal
suo bugigattolo. "Li avete visti
quei poveri Morel? C'è da sentirsi
scoppiare il cuore eh? Ah, mio
Dio, fate davvero una grand'opera
buona!... Ve lo avevo detto che
erano da compiangere, l'ultima
volta che veniste a cercare
informazioni... Siate certa, mia
buona signora, non farete mai
troppo per quella brava gente...
Non è vero, Alfred?" Alfred, la cui
naturale rettitudine si sdegnava al
pensiero di mescolarsi in quel
complotto anticoniugale, rispose
in modo da non essere inteso e
con una specie di grugnito
negativo.
La Pipelet continuò: "Alfred ha
il solito male al piloro, per questo
non si sente parlare; se no, vi
direbbe come vi dico io, che quei
disgraziati pregheranno Iddio per
voi, mia degna signora!" Il
marchese guardava la consorte
con ammirazione, e ripeteva: "Un
angelo! Un angelo! Oh, che
calunnia!"
"Un angelo! Avete ragione, signor
mio, e anche un buon angelo di
Dio benedetto!"
"Andiamo, mio caro..." disse
Clémence, che pativa orribilmente
dell'umiliazione
impostasi
dall'ingresso in quel caseggiato, e
sentiva
che
le
forze
l'abbandonavano d'un tratto.
"Andiamo pure" rispose il
marchese.
E, nel momento che uscivano
dall'andito, le disse: "Clémence, ho
bisogno di perdono e di pietà!"
"Chi non ne ha bisogno?" replicò
la giovane donna con un sospiro.
Rodolphe
uscì
dal
suo
nascondiglio. Era profondamente
commosso da quella scena
angosciosa e ridicola, bizzarro
scioglimento d'un dramma che
aveva sollevato tante passioni
diverse.
"Ehi!" disse la Pipelet. "Mi pare
di averlo corbellato benino quel
gialliccio no? Ora sarebbe capace
di riporre la moglie sotto una
campana di cristallo... Poveraccio...
E i vostri mobili, signor Rodolphe?
Non li hanno portati."
"Me ne occuperò subito... Ormai
potete avvertire il Comandante
che può scendere."
"È vero, sì... Ma, dico, che burla!
Quello ha preso in affitto
l'appartamento per zero via zero...
Ben gli sta! Coi suoi maledetti
dodici franchi al mese..." Rodolphe
se ne andò.
"Ohé,
Alfred!"
disse
la
portinaia. "Adesso
tocca
al
Comandante... Quanto
voglio
ridere!" E salita dal signor Charles
Robert, suonò il campanello, e
quello aprì.
"Comandante!" e Anastasie
portava militarmente il rovescio
della mano sulla parrucca. "Vengo
a scarcerarvi. Sono andati via a
braccetto, marito e moglie, alla
barba vostra... ma non importa,
l'avete scampata bella, grazie al
signor Rodolphe; gli dovete un
grande favore!"
"Quel signore magro, con i baffi, è
il signor Rodolphe?"
"Precisamente."
"Che roba è quell'uomo?"
"Che roba è?" gridò la Pipelet
sdegnata. "È quanto un altro!
quanto due! È un commesso
viaggiatore, nostro inquilino, che
ha una stanza sola, e non bada a
lesinare... Mi ha dato sei franchi
per fargli le faccende, sei franchi
di primo botto!... Sei franchi senza
tanto stiracchiare!"
"Bene, bene, tenete, ecco la
chiave."
"Dobbiamo accendere il fuoco
domani, Comandante?"
"No!"
"E dopodomani?"
"No! no!"
"Ebbene, Comandante, ve ne
ricordate? Ve lo avevo pur detto,
che avreste buttato via i vostri
soldi!" Charles Robert diede
un'occhiata sprezzante alla donna,
ed uscì non potendo comprendere
in che modo un commesso
viaggiatore avesse potuto sapere
del suo appuntamento con la
marchesa.
Nel momento in cui usciva dal
portone, s'incontrò con Tortillard
che arrivava zoppicando.
"Sei qui, birbone?" disse la
Pipelet.
"La guercia non è venuta a
cercarmi?" domandò il ragazzo
alla portinaia, senza risponderle.
"La Chouette? No, brutto
mostro! Perché deve venire a
cercarti?"
"To', per portarmi in campagna..."
rispose
Tortillard indugiando
accanto alla porta dello stanzino.
"E il tuo padrone?"
"Mio padre ha chiesto al signor
Bradamanti di darmi vacanza per
oggi, per andare in campagna... in
campagna... in campagna!" ripeté
il
figlio
di
Bras-Rouge,
canterellando e picchiando con le
dita sui vetri.
"La vuoi finire, satanasso, mi
romperai tutti i vetri! Oh, ecco una
carrozza..."
"Ah, bene, è la Chouette!" disse il
ragazzo. "Che gusto andare in
vettura!" Infatti, attraverso le
tendine, si vedeva il disgustoso ed
orribile profilo della guercia, che
fece un cenno a Tortillard, e
questo accorse. Il fiaccheraio aprì
lo sportello, ed egli salì sulla
carrozza. La Chouette non era
sola.
Dall'altra
parte
della
carrozza, imbacuccato in un
vecchio pastrano con il collare di
pelle, e la faccia mezzo nascosta da
un berretto di seta nera che gli
cadeva fino sulle ciglia, si scorgeva
il Maître d'école. Le sue palpebre
rosse lasciavano intravvedere due
occhi bianchi, immobili, senza
pupille, che rendevano anche più
spaventoso il suo volto, ricucito e
cosparso di macchie cerulee e
livide.
"Animo, animo, cuoricino mio!
Buttati giù sui piedi del mio uomo,
e gli farai caldo..." disse la guercia
a Tortillard, che si accovacciò,
come un cane, fra le gambe della
Chouette e del Maître d'école.
"Ora" domandò il vetturino "al
podere di Bouqueval, non è così,
Chouette? Vedrai se so guidare."
"E specialmente sollecita il
cavallo!" gli raccomandò il Maître.
"Sta' quieto Senz'occhi, il mio
Sozzo correrà sino alla svolta."
"Vuoi che ti dia un consiglio?" fece
il Maître.
"E quale?" chiese il fiaccheraio.
"Fa' presto nel passare davanti
ai
doganieri
delle
barriere;
potrebbero riconoscerti, giacché
sei stato fin troppe volte a ronzare
attorno alle porte." Riportiamo
questo dialogo, perché prova che il
finto cocchiere era un birbante,
degno compagno del Maître.
La vettura lasciò la rue du
Temple. Due ore dopo, verso
l'imbrunire, la carrozza che
racchiudeva il Maître, la Chouette
e Tortillard, si fermò davanti ad
una croce di legno a cui faceva
capo una strada bassa e deserta,
che portava alla fattoria di
Bouqueval, dov'era la Goualeuse
sotto la protezione della signora
Georges.
21.
Idillio.
Suonavano le cinque alla
chiesa del piccolo villaggio di
Bouqueval; il freddo era vivo, il
cielo chiaro; il sole, abbassandosi
lentamente dietro i grandi boschi
sfogliati che coronano le alture di
Ecouen, imporporava l'orizzonte, e
tramandava i suoi raggi pallidi e
obliqui sulle
vaste
pianure
indurite dal ghiaccio. Nei campi
ogni
stagione
offre
aspetti
gradevoli.
Ora la candida neve muta la
campagna in un immenso piano di
alabastro, che spiega il suo puro
splendore sotto un cielo d'un color
grigio rosato. Talvolta, verso
l'imbrunire, salendo al colle o
scendendo alle valli, il fattore in
ritardo torna a casa; cappello,
pastrano, cavallo, tutto è coperto
di neve; è pungente il freddo, il
vento gelato, la notte oscura: ma
laggiù in mezzo agli alberi spogli
di fogliame, le piccole finestre del
podere
sono
lietamente
illuminate; l'alto camino di
mattoni manda per l'aria una
densa colonna di fumo, che dice al
castaldo che è aspettato; fuoco
acceso, cena abbondante; e poi
veglia, conversazione, caldo e
riposo, mentre di fuori fischia la
tramontana, e i cani dei diversi
poderi, disseminati nella pianura,
vanno rispondendosi a ululati.
Sorto appena il mattino, la brina
sospende agli alberi i suoi
goccioloni di cristallo, che il sole
invernale fa scintillare come
diamanti; la terra arata, umida e
grassa, è rigata da lunghi solchi
dove si ricovera la lepre, dove
corrono liete le pernici. Qua e là si
ode il malinconico scampanellare
del caprone, generale di un bel
gregge di montoni sparso sul
verde ed erboso pendio delle
strade, mentre, avvolto ben bene
nel cappotto bigio a righe nere, il
pastore, seduto sotto un albero,
canta, intrecciando un panierino
di vimini.
Qualche volta la scena è più
vivace: l'eco rimanda i suoni già
indeboliti del corno da caccia e i
latrati dei veltri; un cervo
spaventato balza ad un tratto sulle
siepi della macchia, salta fuggendo
per il piano, e va a perdersi in
mezzo ad altri boschi. Le trombe e
i latrati si avvicinano; escono da
questa o quella parte della cupa
boscaglia
cani
bianchi
o
macchiettati di scuro, e corrono
sul terreno, e vanno sopra i
maggesi; con il naso intento al
suolo inseguono mugolando le
orme del daino. Dietro vengono i
cacciatori vestiti di rosso, curvati
sul collo dei rapidi corsieri,
incoraggiando le mute con il corno
e con il grido. Quel turbine
sonante passa via come il fulmine!
Scemando lo strepito, a poco a
poco ogni cosa tace...
e veltri, e cavalli, e cacciatori
spariscono in selve lontane ove il
daino è volato a rintanarsi. Allora
torna la calma, e il profondo
silenzio delle ampie pianure e la
tranquillità dell'esteso orizzonte
non sono più interrotti se non dal
canto monotono del pastorello!
Simili
scene,
simili
luoghi
campestri non sono rari nei
dintorni
del
villaggio
di
Bouqueval, collocato, nonostante
la sua vicinanza con Parigi, in una
specie di deserto, ove non si può
giungere che per vie traverse. Il
podere in cui stava la Goualeuse,
nascosto in estate dagli alberi
come un nido tra le foglie, nella
stagione di cui parliamo, appariva
interamente privo del suo velo di
vegetazione.
L'acqua gelata del fiumicello
somigliava a un lungo nastro
d'argento non brunito, sciorinato
là in mezzo ai prati sempre
verdeggianti, nei quali molte
bellissime
vacche
passavano
lentamente tornando alla stalla.
Stormi di piccioni, richiamati
dall'approssimarsi della sera, si
fermavano l'uno dopo l'altro sulla
cima acuminata del colombaio; i
grossi noci che nell'estate davano
ombra al cortile e agli edifici della
tenuta, privi allora di fogliame,
lasciavano vedere i tetti di tegole e
di stoppie, vellutati da un muschio
color smeraldo. Una pesante
carretta tirata da quattro cavalli
robusti, di folta criniera e pelo
lucente, con i collari turchini
adorni di sonagli e nappe di lana
rossa,
riportava
i
covoni
provenienti da uno dei pagliai già
fatti nel piano. Quella pesante
vettura arrivava dal portone di
fondo, mentre un branco di
montoni si affollava ad una delle
entrate laterali. Bestie e persone
sembravano ansiose di sottrarsi
alla brezza della notte e di gustare
le dolcezze del riposo; i corsieri
nitrivano lietamente al vedere la
stalla, gli
agnelli
belavano,
assediando la porta dell'ovile, gli
agricoltori volgevano lo sguardo
impaziente alla finestra della
cucina, dove si apparecchiava una
buonissima cena.
Regnava in ogni luogo un
ordine raro, una pulizia minuziosa
e altrove insolita.
Invece d'essere inzaccherati di
mota secca, sparsi qua e là, ed
esposti alle intemperie delle
stagioni, gli erpici, gli aratri, i rulli
e gli altri strumenti da lavoro,
parecchi dei quali d'invenzione
tutta nuova, si trovavano schierati,
puliti e ben tinti sotto un'ampia
tettoia, dove i barocciai se ne
venivano a riporre in bella
simmetria i finimenti dei loro
cavalli. Il cortile vastissimo, e
tenuto con la massima pulizia,
coperto di arena, alberato, non
offriva alla vista quei mucchi di
letame, quelle pozze d'acqua
limacciosa
e
verdastra
che
guastano i più bei poderi della
Beauce e della Bie; il cortile del
pollame, circondato da una rete
metallica verde, racchiudeva tutta
la turba piumata, che vi giungeva,
svolazzando, da una porticina, che
dava sui campi.
Noi, senza entrare in altri
particolari, diremo che in tutto e
per tutto, quella tenuta passava
giustamente
nel
paese
per
esemplare, sia per l'ottimo ordine
stabilito, sia per l'eccellente
coltivazione e la dovizia dei
raccolti, sia per la probità e la
morigeratezza delle numerose
persone che l'accudivano.
Spiegheremo fra poco la causa
di una così prospera superiorità;
adesso è necessario condurre il
lettore alla rete metallica che
attornia il pollaio, che non era da
meno del podere per l'eleganza
campestre delle sue stie, dei suoi
posatoi e del piccolo canale
inalveato nel vivo sasso, dove
scorreva di continuo un'acqua
chiara
e
limpida,
allora
felicemente
sbarazzata
dai
ghiaccioli che avrebbero potuto
darle impaccio. Successe una
specie di rivoluzione fra gli alati
abitatori di questo pollaio: le
galline,
chiocciando,
abbandonarono le pertiche, i galli
d'India strillarono ed i piccioni
partirono dal tetto del colombaio e
tubando calarono sulla sabbia.
Di tutta questa confusione era
causa la comparsa di Fleur-deMarie.
Greuze
o
Watteau
non
avrebbero ideato un più vago
modello se le guance della
Goualeuse fossero state più
rotondette e vermiglie: pure,
malgrado il pallore, e la magrezza
del
volto, l'espressione
dei
lineamenti,
l'insieme
della
persona, la grazia dei modi, erano
degni di occupare il pennello dei
sommi pittori.
Le copriva la fronte e la treccia
dai biondi capelli una cuffietta
rotonda, alla maniera di quasi
tutte le contadine delle vicinanze
di Parigi; sopra questa portava,
fissata dietro la testa con due
spilli, una larga seta indiana rossa,
le
cui
punte
ricadevano
svolazzando
sulle
spalle:
acconciatura pittoresca e graziosa,
che
la
Svizzera
e
l'Italia
dovrebbero invidiare ai francesi.
Un fazzolettino di batista bianca,
incrociato sul seno, era mezzo
nascosto dall'alto e largo pettorale
del grembiale di tela cruda; un
corpetto di grosso panno turchino
con le maniche attillate, le
stringeva la vita sottile, e spiccava
sull'ampia giubba di fustagno
bigio a righe scure; le calze
bianchissime e gli stivaletti, celati
da piccoli zoccoli neri, guarniti al
collo del piede da un quadrato di
pelle d'agnello, completavano
quell'abito campestre e semplice, a
cui la naturale bellezza di Marie
dava un pregio maggiore.
Reggendosi con una mano il
grembiule
rialzato,
prendeva
dentro a questo una manciata di
grano, e lo distribuiva alla torma
di pennuti che la circondava.
Un bel piccione bianco come la
neve, dal becco e dalle zampe
rosse, più audace o più domestico
dei suoi compagni, dopo avere
svolazzato per un po' intorno a
Marie, si posò finalmente sulla
spalla di lei.
La ragazza, avvezza certamente
a quei liberi modi, non cessò di
gettare agli altri tutto il grano che
aveva portato, ma, volgendo un
tantino il leggiadrissimo viso, ed
alzando un poco il capo, poneva,
sorridendo, le rosee sue labbra sul
becco dell'innocente suo amico.
Gli ultimi raggi del sole sul
tramonto mandavano un aureo
riflesso su quel semplice quadro.
22.
Inquietudini.
Mentre la Goualeuse attendeva
a tali cure campestri, la signora
Georges e l'abate Laporte, curato
di Bouqueval, seduti in un salotto
accanto al fuoco parlavano di
Fleur-de-Marie, oggetto per loro
sempre
interessante
di
conversazione.
Il vecchio curato, pensoso,
raccolto, a testa bassa, e con i
gomiti appoggiati sulle ginocchia
stendeva istintivamente davanti al
caminetto le sue tremule mani. La
signora Georges, occupata a
cucire, guardava il prete come
aspettasse da lui una risposta.
Dopo un momento di silenzio,
egli disse: "Avete ragione, signora
Georges,
bisognerà
avvertire
Rodolphe; se lui affronterà Marie,
lei gli è tanto grata, che forse
confesserà al suo benefattore ciò
che a noi vuole tener nascosto..."
"Non è così, signor curato?
Dunque questa sera stessa
scriverò all'indirizzo che mi diede,
in allée des Veuves."
"Poveretta!" soggiunse il prete.
"Dovrebbe reputarsi così felice!
Ormai
quale
affanno
può
struggerla?"
"Non c'è nulla che la distragga da
quella tristezza, signor curato,
neppure l'applicazione che mette
allo studio...".
"Ha fatto veramente progressi
straordinari nel poco tempo che ci
occupiamo della sua educazione."
"Che ne dite, signor abate? Ha
imparato a leggere e scrivere quasi
correntemente, a saper far di
conto abbastanza per aiutarmi a
tenere i libri della fattoria! E poi,
quella cara fanciulla, mi asseconda
in modo così attivo in tutto, che io
ne sono commossa e meravigliata.
Oh, non si è forse, contro la mia
volontà, affaticata al punto da
farmi stare inquieta per la sua
salute?"
"Fortunatamente, quel medico
nero
ci
ha
tolto
ogni
preoccupazione sulla tosse che ci
spaventava..."
"È pur buono il signor David! Ha
tanta premura! Mio Dio, come
tutti quelli che la conoscono... Qui
ognuno l'ama e la rispetta... E non
è un miracolo, poiché per le
generose ed elevate vedute del
signor Rodolphe la gente di questa
fattoria è il fiore del paese. Ma
anche le persone più grossolane e
indifferenti subirebbero il fascino
di quella sua dolcezza angelica e
timida per cui pare sempre che
chieda grazia, come se fosse
colpevole!" L'abate riprese, dopo
aver riflettuto qualche minuto:
"Non mi diceste che la tristezza di
Marie cominciò, per così dire, dal
soggiorno che la signora Dubreuil,
fattoressa del duca di Lucenay ad
Arnouville, fece qua per la festa di
Ognissanti?"
"Sicuro, signor curato, mi pare di
essermene accorta. Eppure la
signora Dubreuil, e specialmente
la sua figliola Clara, modello di
candore e di bontà, subirono,
come gli altri, l'influenza delle
buone qualità di Marie; le usarono
giornalmente mille dimostrazioni
di amicizia. Lo sapete pure, la
domenica le nostre amiche
d'Arnouville vengono da noi, o noi
andiamo da loro... Ebbene, sembra
che ogni visita aumenti la
malinconia della nostra ragazza,
benché Clara le voglia già bene
come a una sorella."
"In verità, signora Georges, è un
mistero singolare. Quale può
essere il motivo di quella occulta
pena? Dovrebbe stimarsi tanto
felice! Tra la sua vita presente e
quella passata c'è differenza come
dall'inferno al paradiso... E sì, non
c'è
modo
di
tacciarla
d'ingratitudine!"
"Lei, giusto Dio, ha una così
tenera riconoscenza per le nostre
premure! Non fa tutto quello che
può per guadagnarsi, diremo così,
la
vita?
Non
procura
di
compensare con il suo lavoro
l'ospitalità che le viene data? E
non basta: eccetto la domenica, in
cui si veste un poco per venire con
me in chiesa, non vuole portare
che panni rozzi quanto quelli delle
ragazze di campagna. E malgrado
questo, si manifesta in lei una
certa distinzione, un garbo così
naturale, che anche con quei
panni sembra sempre una dama...
Non è vero signor curato?"
"Ah, riconosco in questi discorsi
l'orgoglio materno!" disse il
vecchio prete sorridendo.
A queste parole si riempirono
alla Georges gli occhi di lacrime:
pensava a suo figlio.
L'abate indovinò la causa della
sua emozione, e soggiunse:
"Coraggio! Dio vi ha mandata
questa povera creatura per
aiutarvi ad attendere il momento
in cui ritroverete vostro figlio. E
poi, un vincolo sacro fra poco vi
unirà a Marie: una comare quando
comprende santamente la sua
funzione è quasi una madre. Il
signor Rodolphe poi le ha dato,
per dir così, la vita dell'anima
traendola
dall'abisso,
ha
adempiuti anticipatamente i suoi
doveri di padrino."
"La
trovate
sufficientemente
istruita per accordarle quel
sacramento che, senza dubbio, la
sventurata
non
ha
ancora
ricevuto?"
"Or ora, tornando con lei al
presbiterio, l'avvertirò che la
cerimonia si farà probabilmente
fra quindici giorni."
"Forse, signor curato, presiederete
un giorno ad un'altra cerimonia,
anche quella ben dolce e molto
grave!"
"E sarebbe?"
"Se Marie fosse amata quanto
merita, se scegliesse un bravo ed
onest'uomo, perché non dovrebbe
maritarsi?"
L'abate
scosse
mestamente il capo, e rispose:
"Maritarla?
Pensateci
bene,
signora Georges: l'obbligo della
verità imporrà di dir tutto a colui
che volesse sposare Marie... E
quale uomo, malgrado le sue
assicurazioni e le vostre, non
rifletterebbe sul passato che
profanò la gioventù di questa
infelice? Nessuno la vorrebbe."
"Ma il signor Rodolphe è
generoso; farà per la sua protetta
più che non abbia fatto sinora;
una dote..."
"Ahimè!"
disse
il
curato
interrompendo la signora Georges.
"Guai a Marie, se la sola cupidigia
deve sopire gli scrupoli di chi la
prenderà per moglie! Sarebbe
condannata alla sorte più penosa,
e
crude
recriminazioni
succederebbero ad un'unione di
questo genere."
"Avete ragione, signor abate,
sarebbe orribile! Ah, che tremendo
avvenire dunque le è riservato!"
"Ha grandi mancanze da espiare!"
disse il prete gravemente.
"Dio buono! Ma, signor curato,
abbandonata tanto giovane, senza
mezzi, senza appoggio, quasi senza
nozione del bene e del male,
trascinata suo malgrado nelle vie
del vizio, come doveva non
peccare?"
"Il buon senso morale avrebbe
dovuto sostenerla, illuminarla.
Cercò forse di sottrarsi a quella
triste sorte? Le anime caritatevoli
sono forse così rare?"
"No, di certo. Ma dove si va a
cercarle? Prima di trovarne una,
quanti rifiuti, quanta indifferenza!
E poi, per Marie non si trattava di
una elemosina momentanea, ma
di un'assistenza continua che la
potesse mettere in grado di
guadagnarsi onoratamente da
vivere... Molte madri, di sicuro,
avrebbero avuto compassione di
lei, ma bisognava aver la fortuna
d'incontrarle. Ah, credete a me, io
ho provato la miseria... A meno
che
non
intervenga
la
Provvidenza, come nel caso
dell'incontro di Marie con il signor
Rodolphe, i disgraziati, quasi
sempre respinti brutalmente si
convincono presto di non poter
trovare aiuto né pietà, e, stretti
dalla fame e dal bisogno, cercano
all'estremo nel vizio le risorse che
non sperano di ottenere dall'altrui
commiserazione."
In
quel
momento, entrava la Goualeuse
nel salotto.
"Di dove venite, mia cara?" le
chiese con premura la signora
Georges.
"Sono stata a controllare la
frutta, signora, dopo aver chiuso il
pollaio. È ben conservata, meno
poche mele che ho buttato via."
"Perché non avete detto a
Claudine di far questa faccenda,
Marie? Vi sarete stancata da capo."
"No, signora, mi piace tanto
andarci! L'odore della frutta
matura è così gradevole."
"Bisognerà, signor abate, che un
giorno vediate il frutteto di Marie"
disse la signora Georges. "Non
potete immaginare con che buon
gusto lo ha accomodato, con le
ghirlande di pampini che separano
ogni specie di frutta, e queste poi
suddivise dal muschio..."
"Oh, signor curato, sono certa che
sarete
contento..."
disse
ingenuamente
la
Goualeuse.
"Vedrete che effetto fa il muschio
intorno alle mele rosse e alle pere
color oro. Ci sono soprattutto le
mele appiole piccolette, di un bel
colore rosa e bianco che sembrano
teste di cherubini nel loro nido di
muschio
verde..."
aggiungeva
Marie, nell'esaltazione per l'opera
sua.
Il prete guardò la signora
Georges, sorridendo, e disse a
Fleur-de-Marie: "Ho già ammirato
la cascina che dirigete; farebbe
invidia alla donna più esperta ed
esigente:
andrò
anche
ad
osservare la frutta che custodite,
le mele rosse, le pere dorate e le
mele cherubine nel loro nido di
muschio." E il buon prete se la
rideva.
"Oh" seguitò "il sole è quasi
tramontato. Avrete appena il
tempo di accompagnarmi al
presbiterio e tornare qui prima di
notte.
Prendete
la
vostra
mantellina e mettiamoci in
cammino, figliola... Ma anzi, ora
che ci penso, è troppo freddo;
restate qui, mi accompagnerà
qualcuno del podere."
"Ah, signor curato, le fareste
dispiacere" disse la signora
Georges "le piace così tanto venire
ogni sera con voi fino alla
canonica."
"Signor curato" continuò la
Goualeuse, fissando sul prete i
suoi grandi occhi celesti e timidi
"crederei che non foste contento
di me se non mi accettaste,
secondo il solito."
"Io? Ma cosa dite? E allora pigliate
la mantellina, e copritevi bene."
Fleur-de-Marie s'affrettò a gettarsi
sulle spalle una specie di manto
con il cappuccio di grossa stoffa di
lana bianca, orlato con un nastro
di velluto nero, e diede il braccio
all'abate.
"Per buona sorte" disse questo
"non c'è molta strada, e le vie sono
sicure."
"Siccome è un po' più tardi degli
altri giorni" fece la signora
Georges "volete, Marie, che venga
con voi qualcuno del podere?"
"Mi
considererebbero
una
paurosa!" rispose ridendo la
ragazza.
"Grazie, signora, non state a
disturbare nessuno per me; non
c'è un quarto d'ora di strada da qui
alla canonica, e sarò tornata prima
che sia notte."
"Io non insisto, giacché, lode al
cielo, non si è mai sentito parlare
di vagabondi in questo paese."
"Se ciò non fosse, non condurrei
via questa cara ragazza" disse il
curato "benché mi sia di molto
aiuto." L'abate uscì dal podere,
appoggiato al braccio di Marie, e
lei regolava il suo passo svelto e
leggero, sull'andatura lenta e
faticosa del vegliardo.
In pochi minuti il prete e la
Goualeuse arrivarono vicino alla
strada bassa, dov'erano imboscati
il Maître, la Chouette e Tortillard.
VOLUME SECONDO.
PARTE TERZA.
1.
L'imboscata.
La chiesa e il presbiterio di
Bouqueval
sorgevano
a
mezzogiorno, in mezzo a un
castagneto, che sovrastava il
villaggio.
Fleur-de-Marie
e
l'abate
presero per una via tortuosa che
conduceva alla casa parrocchiale
passando per la strada bassa, da
cui la collina era attraversata
diagonalmente.
La Chouette e Tortillard videro
il prete e la Goualeuse scendere
nel burrone ed uscirne da un
pendio alquanto ripido, mentre
erano rannicchiati ad una curva di
quel sentiero assieme al Maître. Il
volto della ragazza era celato dal
cappuccio per cui la guercia non
riconobbe la sua vittima.
"Sta zitto, marito" disse la
vecchia al Maître "la giovane e il
prete hanno passato la strada
bassa. È proprio lei, secondo i
connotati che ci ha dato l'uomo
alto con il lutto: vestito da
campagnola,
statura
media,
gonnella a righe scure, cappottina
di lana coll'orlo nero... Così
accompagna tutti i giorni il prete
alla sua canonica, e se ne torna poi
sola. Quando ripasserà per un
momento là in fondo alla strada,
bisogna correrle sopra e portarla
via per cacciarla nella carrozza."
"E se grida aiuto?" disse il Maître.
"La sentiranno dal podere, giacché
dite che qui vicino si distinguono
le case... Voialtri ci credete!..."
soggiunse con voce cupa.
"Di sicuro si vedono le case"
fece Tortillard. "Poco fa mi sono
arrampicato alla base del muro
trascinandomi sul ventre. Ho
sentito un carrettiere che parlava
ai suoi cavalli in quel cortile
laggiù."
"Allora, ecco che si deve fare"
riprese a dire il Maître dopo una
lieve pausa: "Tortillard starà a far
la posta al principio della via,
quando vede la piccolina arrivare
da lontano, le andrà incontro
gridando che è il figlio d'una
povera vecchia che si è fatta male
cascando nella strada bassa, e la
pregherà di venirla ad assistere."
"Ho capito, marito. La povera
vecchia sarà la tua Chouette... Ben
ragionato, uomo! Tu sarai sempre
il re degli uomini con il cervello
fino. E poi che cosa farò?"
"Ti caccerai dalla parte dove
aspetta Barbillon con la vettura...
Io mi nasconderò vicino. Quando
Tortillard ti avrà portato la ragazza
in mezzo al fosso, smetti di
piangere e saltale addosso; una
mano attorno al collo e l'altra sulla
bocca per impedire che gridi..."
"Si sa, si sa, marito... Come a
quella donna del canale di SaintMartin, che facemmo affogare
dopo averle tolto la cassetta che
aveva sotto il braccio... La stessa
cosa, non è vero?"
"Sì, proprio a quel modo... Intanto
che tu tieni ferma la ragazza,
Tortillard correrà a cercare me.
Insieme la avvolgiamo nel mio
pastrano, la portiamo nella
carrozza di Barbillon, e via! alla
spianata di Saint-Denis, dove ci
aspetta quello con il lutto."
"Questo sì che è pensar fino!
Senti, marito, non c'è nessuno in
gamba come te! Se avessi dindi, ti
farei un bel fuoco d'artifizio sulla
testa e t'illuminerei con i
bicchierini colorati, il giorno della
festa del boia. Hai capito, tu
piccino? Se vuoi diventare un
bravo manigoldo guarda là il mio
testone: questo è un uomo!" disse
la Chouette con orgoglio a
Tortillard.
Poi, rivolta al Maître d'école:
"A proposito, non sai? Barbillon
ha avuto una paura da cani di
esser condannato al taglio della
zucca."
"Perché?"
"Ha ammazzato, poco tempo fa, in
una rissa, il marito di una lattaia
che veniva il mattino dalla
campagna, con il carrettino tirato
da un ciuco, a vender latte nella
Cité, all'angolo della rue de la
Vieille Draperie, vicino all'Orca del
Coniglio Bianco." Il figlio di BrasRouge, non intendendo il gergo,
ascoltava
con
curiosità
e
malcontento.
"Avresti voglia di capire quel
che diciamo, eh, piccinaccio?"
"To', di certo..."
"Se sei buono, t'insegnerò il
furbesco. Fra poco sarai in età che
ti può giovare... Ci avrai gusto,
bambolaccio?"
"Lo credo, guercia! E poi avrei
maggior piacere a restare con voi,
che con quel ladraccio del mio
ciarlatano a pestar le droghe e
strigliare il cavallo... Se sapessi
dove tiene nascosto il veleno da
topi per le genti, gliene ficcherei
nella minestra per non essere più
obbligato a consumarmi con lui..."
La Chouette si mise a ridere, e
disse a Tortillard, tirandolo a sé:
"Vieni subito a baciar la mamma,
diavoletto! Sei pur carino! Oh,
come sai che ha il veleno da topi, il
tuo padrone?"
"Glielo sentii dire una volta che
ero nascosto nello stanzino nero
della sua camera, dove tiene le
boccette e gli apparecchi, e dove
prepara impiastri
con
quei
barattoli..."
"L'hai sentito dire che cosa?"
domandò la Chouette.
"Diceva così a un signore, a cui
dava una polverina dentro un
foglio: "Uno che pigliasse questa
roba in tre volte andrebbe a
dormire sotto terra, senza che si
sapesse né come, né perché, e
senza
che
restasse
nessun
segno..."."
"E chi era quel signore?" chiese il
Maître.
"Un bel giovane, che aveva i
baffi neri e un visino come una
donna...
Tornò un altro giorno, ma
allora, quando se ne andò, lo
pedinai, perché
me
l'aveva
ordinato il signor Bradamanti per
sapere dove andasse... Quel
giovane entrò in rue de Chaillot, in
un bel caseggiato. Il mio padrone
mi aveva detto: "In qualunque
luogo vada, stagli dietro, e
aspettalo sulla porta, se esce
ancora, vagli dietro ovunque vada:
così avremo la prova di dove sta di
casa, e allora, tu, stortaccio,
storciti quanto puoi per scoprire il
suo nome, se no, ti storcerò io gli
orecchi per bene!"."
"Sicché?"
"Sicché, mi storsi, arrancai, e seppi
il nome di quel bel signorino."
"E come facesti?"
"Ve'!... Non son mica una bestia:
entrai dal portinaio del caseggiato
di rue de Chaillot, da dove
quell'uomo non era più uscito; un
portinaio incipriato, con un
bell'abito scuro con le mostre
gialle e gallonato di argento... Gli
parlai in questo modo: "Mio buon
signore, vengo a farmi dare cinque
franchi, che il padrone di qui mi
ha promesso, perché ho ritrovato
il suo cane, e gliel'ho reso, una
bella bestiolina nera, che si
chiama Trombetta. Il padrone è un
tipo bruno, ha le basette nere, il
soprabito bianchiccio e pantaloni
blu chiaro, e mi ha detto che stava
in Chaillot all'11 e si chiamava
Dupont"... "Il signore di cui tu dici
è il mio padrone, e si chiama
visconte di Saint-Remy; qui non
c'è altro cane che te, monellaccio!
Dunque ambula, trotta, o ti dò una
strigliata per insegnarti a volermi
truffare cinque franchi!" mi
risponde il portiere, e mi
scaraventa una furiosa pedata.
Non importa, tanto sapevo il
casato del signorino con i baffi che
veniva dal signor Bradamanti a
pigliare il veleno da topi... Era il
visconte di Saint-Remy... my...
my... Saint-Remy..." aggiungeva il
figlio di Bras-Rouge, canterellando
al solito l'ultima parola.
"Ma vuoi che io ti mangi,
amore degli amori!" gridò la
guercia, abbracciando Tortillard.
"Com'è furbo! Va' scellerato,
meriteresti che io fossi tua
madre!" Queste parole produssero
un'impressione singolare sullo
zoppetto: la sua cera da scaltro, da
maligno, divenne mesta; parve
prendere
sul
serio
le
dimostrazioni
materne
della
Chouette, e disse: "Anch'io vi
voglio bene, perché mi baciaste
tanto il primo giorno quando
veniste a pigliarmi al Cuore
Sanguinante dal mio babbo...
Dopo la mamma, che è morta, non
c'è altro che voi che mi abbiate
accarezzato; tutti mi picchiano o
mi scacciano come un cane
rognoso, tutti, tutti, persino la
Pipelet, la portinaia!"
"Vecchia stracciona! Proprio lei
deve fare la schizzinosa!" fece la
Chouette con aria di sdegno
"disprezzare una gioia di creatura
come questa!" E abbracciava di
nuovo
Tortillard
con
un'affettazione ridicolissima.
Il
figlio
di
Bras-Rouge,
commosso da tali prove di affetto,
le contraccambiava con calore, e
nella sua riconoscenza, esclamò:
"Comandatemi soltanto e vedrete
come vi obbedirò, come vi
servirò!"
"Davvero? Ebbene, non te ne
pentirai."
"Oh, vorrei pure rimanere con
voi!"
"Se sei buono, si vedrà; non ci
lascerai più, mio marito e me."
"Sì" soggiunse il Maître "mi
condurrai come un povero cieco,
dirai che sei il mio figliolo;
c'introdurremo nelle case, e, corpo
di mille morti!" seguitava con
impeto "coll'aiuto della Chouette,
faremo dei bei colpi! Mostrerò a
quell'indiavolato Rodolphe che mi
accecò, che non sono finiti i miei
delitti... Mi ha tolto la vista, ma
non il pensiero del male: io sarò la
testa, questo zoppo sarà gli occhi,
e tu la mano, Chouette. Mi
assisterai, eh?"
"E non sono tua per la corda e la
forca, marito? Quando uscendo
dall'ospedale seppi che avevi fatto
domandare di me in casa dell'Orca
da quello sciocco di Saint-Mandé,
non corsi subito al tuo villaggio,
da quegli imbecilli contadini,
dicendo che ero tua moglie?"
Queste parole della guercia
ridestarono dolorosi ricordi nel
Maître, ed egli, cambiando
bruscamente maniere e linguaggio
con la Chouette, esclamò con voce
corrucciata: "Certo, mi annoiava
star solo con quei galantuomini;
dopo un mese non potevo più
reggere... Avevo paura... Allora mi
venne l'idea di farti dire che tu
venissi a trovarmi... Bella cosa!"
continuava ancor più irritato. "Il
giorno dopo il tuo arrivo, ero
spogliato del resto dei denari che
mi aveva dato quel maledetto
dall'allée des Veuves. Sì mi fu
rubata la cintura piena d'oro
mentre dormivo... Non c'eri che tu
che potesse farmela! Ecco perché
adesso sono nelle tue mani! Senti,
veh!, tutte le volte che ci penso,
non so perché non ti scanno
all'istante, vecchiaccia ladra!" E
mosse un passo, dirigendosi verso
la guercia.
"Oh badate, se fate male alla
Chouette!" gridò Tortillard.
"Vi leverò dal mondo tutt'e
due, tu e lei, infami vipere!" urlò
incollerito il furfante.
E udendo che il figlio di BrasRouge parlava vicino a lui, gli
sferrò un pugno così forte, che lo
avrebbe accoppato se l'avesse
preso.
Tortillard, per vendicare sé e la
Chouette, colse da terra un sasso,
prese di mira il Maître e lo colpì
nella fronte. Il colpo non fu
pericoloso, ma acutissimo il
dolore. Il masnadiero si alzò
furibondo, terribile come un toro
ferito: fece qualche passo avanti,
ed a caso, ma inciampò.
"Fiaccati il collo!" beffò la
guercia, con uno scroscio di risa
fino alle lacrime.
Malgrado i vincoli che la
legavano a quel mostro, vedeva
per molte ragioni, con gioia feroce,
abbattuto, annientato quell'uomo,
tremendo e superbo dell'atletica
sua forza.
Ed in ciò la guercia giustificava
a suo modo il triste concetto di
Larochefoucauld, che sempre
troviamo
qualche
cosa
di
soddisfacente nelle disgrazie dei
nostri migliori amici.
Il brutto ragazzo dai capelli
fulvi e dal naso di donnola non era
meno allegro della guercia. Al
nuovo vacillare del Maître, si mise
a sua volta a schernirlo: "Sgrana
l'occhio, vecchio mio, aprilo, su!
Mi sembra che tu vada un po'
storto... Forse non ci vedi chiaro?
Oh, asciugati meglio i vetri degli
occhiali!"
L'assassino,
nell'impossibilità di raggiungere
quel discolo, si fermò, batté i
piedi, si mise i due enormi pugni
sugli occhi, e mandò un ruggito
rauco, come quello di una tigre
sotto la museruola.
"Hai la tosse, vecchietto?"
disse il figlio di Bras-Rouge.
"Tieni! Eccoti del sugo di
liquirizia: me l'ha dato un
gendarme.
Non
fare
lo
schizzinoso!" E presa da terra una
manciata di terra sottile, la buttò
sulla faccia del galeotto, che,
percosso sul volto da quella
pioggia di sabbia, sofferse più di
quel nuovo insulto, che della
sassata; emise una specie di
rantolo, stese le braccia in atto di
disperazione inesprimibile, e,
levando verso il cielo il viso
spaventoso, proferì con voce oltre
ogni dire supplichevole, le parole:
"Oh mio Dio, mio Dio, mio Dio!"
Da parte di un uomo pronto ad
ogni crimine, e dinanzi al quale
tremavano i furfanti più risoluti,
quell'invocazione involontaria alla
divina misericordia sembrava
davvero molto strana.
"Ah, ah, il Maître che fa il
santo" esclamò la Chouette,
burlandolo.
"Perché non chiami piuttosto il
diavolo a soccorrerti?"
"Ma almeno un coltello, un
coltello, che io mi ammazzi! Un
coltello,
poiché
tutti
mi
abbandonano..." urlò lo sciagurato,
mordendosi le mani.
"Un coltello? L'hai in tasca,
Maître, e anche affilato! Ma tra il
dire e il fare c'è di mezzo il mare...
Prendilo dunque il tuo coltello!" Il
Maître, così sfidato a eseguire la
minaccia, cambiò discorso e
riprese con voce cupa e afflitta:
"Lo Chourineur era buono, non mi
derubò, ebbe compassione di
me..."
"Perché mi hai detto che t'ho
rubato il tuo oro?" chiese la
guercia, frenando a stento la
voglia di ridere.
"Tu sola entrasti nella mia
camera" disse il brigante. "Mi fu
preso nella notte che eri arrivata;
chi vuoi che io sospetti? Quei
contadini non erano capaci di ciò."
"Sentiamo un po' perché non
possono rubare come gli altri, i
contadini? Forse perché bevono il
latte e vanno a raccoglier erba per
i conigli?"
"Insomma mi fu grattato!"
"E ci ha colpa la tua Chouette?
Suvvia, ma pensa un poco: se ti
avessi vuotato la scarsella, sarei
rimasta con te dopo fatto il colpo?
Sei pur gonzo! Certo, ti avrei
ripulito dei tuoi denari, se potevo;
ma, da Chouette quale sono, mi
avresti rivista quando li avessi
scialacquati tutti... Perché bada,
mi piaci anche così con i tuoi occhi
bianchi, canaglia! Animo, sta'
buono, non ti sciupare i denti a
stringerli forte..."
"Par che rompa le noci!" disse
Tortillard.
"Ah, ah, ah! Hai ragione,
Tortillard... Calmati, marito, e
lascialo ridere; sono cose della sua
età... Ma confessa che non sei
giusto. Quando quello con il lutto
che pareva un beccamorto mi
disse: "Ci sono mille franchi per
voi se portate via una ragazza che
è nella fattoria di Bouqueval e me
la consegnate in un luogo della
pianura di Saint-Denis, che io vi
indicherò!" rispondi, babbuino,
non ti proposi subito di stare con
me, invece di scegliere qualcuno
che ci vedesse e mi fosse d'aiuto?
Dunque, è come una elemosina
che ti faccio... Perché, fuorché
trattenere la giovane, intanto che
io e Tortillard la imballeremo, tu
mi servirai tanto come la quinta
ruota a un omnibus...
Ma non importa, lasciando
andare che ti avrei derubato se
potevo, ho gusto di farti del bene,
voglio che tu sia obbligato di tutto
alla tua cara Chouette... Oh, io
sono così! Daremo duecento
franchi a Barbillon, per aver
condotta la carrozza ed essere già
venuto qui una volta con il
servitore di quello in lutto a
riconoscere il punto dove ci
dovevamo nascondere per aspettar
la ragazza, e ci resteranno
ottocento franchi a noi da
scialare... Che ne dici, eh? Sei
sempre arrabbiato con la tua
vecchietta?"
"Chi mi assicura che tu mi dia
qualcosa, dopo che il colpo sarà
fatto?" disse il bandito con
diffidenza.
"Potrei non darti nulla, è vero,
giacché tu sei dentro alla mia
padella, mio bell'uomo, com'era
un tempo la Goualeuse. Sicché
t'hai da lasciar friggere come
voglio, fintanto che il diavolo ti
porta a casa.
Eh, eh, eh! Animo, orbetto!
Che? fai il broncio alla tua
Chouette?" continuò la guercia,
battendo sulla spalla al Maître,
che rimaneva muto ed oppresso.
"Hai ragione!" replicò poi con
un sospiro d'ira soffocato. "Ecco la
mia sorte... Io... io... a discrezione
di un ragazzaccio e di una donna,
che in passato avrei ammazzati
con un soffio! Oh, se non avessi
tanta paura della morte!" E si
buttò giù abbattuto.
"Sei pur vile, adesso, sei pur
vile!" disse la Chouette con
disprezzo.
"Parla un po' della tua
coscienza, sarai più ridicolo. Se
non hai più coraggio, prendo la via
tra le gambe e ti lascio."
"E non potermi vendicare di
quell'uomo che, martirizzandomi
così, mi ha gettato in questo
orribile buio, di dove non uscirò
mai!"
aggiunse
il
Maître,
inviperendo nella sua rabbia. "Ah,
ho molta paura della morte, sì, ho
molta paura... Ma se mi dicessero:
"Ti daranno adesso fra le braccia
quest'uomo, e dopo vi getteranno
tutt'e due in un abisso!", direi:
"Presto, gettatemi!". Sì, perché
sarei sicuro di non lasciarlo prima
di
arrivare
in
fondo.
E
precipitando insieme, lo morderei
sulle guance, alla gola, al cuore; lo
ucciderei infine con i miei denti,
che non avrebbero invidia di un
coltello!"
"Alla buon'ora, Maître, così mi
piaci sempre... Sta' quieto, che lo
ritroveremo quel birbone di
Rodolphe, e anche lo Chourineur...
Uscita dall'ospedale, sono stata a
girellare nell'allée des Veuves...
Era tutto chiuso. Ma ho detto al
signore, a quello in lutto: "In
passato ci volevate pagare per fare
del male a quel mostro del signor
Rodolphe, ora, dopo l'affare della
ragazza che aspettiamo, non si
potrebbe metter su qualche
trappola contro di lui?"
"Forse sì..." mi ha risposto.
Capisci, Maître? "Forse sì..."
Coraggio,
marito!
Ce
lo
mangeremo quel Rodolphe, te lo
assicuro io, che ce lo mangeremo!"
"Davvero non mi abbandonerai?"
disse il brigante, docile e
diffidente, alla Chouette. "Adesso
se tu mi abbandonassi, che
sarebbe di me?"
"Oh, questo è vero... Dico,
orbaccio, che burletta sarebbe se
io e Tortillard ce la filassimo con
la carrozza e ti lasciassimo qui in
mezzo ai campi, questa notte, che
il freddo dev'essere da cani?
Sarebbe da ridere, eh?, birbante!"
A tale minaccia il Maître
rabbrividì; si avvicinò di più alla
guercia, e le disse tremando: "No,
no, non mi farai un'azione simile,
Chouette... E tu nemmeno,
Tortillard...
Sarebbe
troppo
crudele!"
"Ah! ah! ah! troppo crudele!
Com'è sciocco! E il vecchio della
rue du Roule? E il mercante di
buoi? E la donna del canale di
Saint-Martin? E quello dell'allée
des Veuves? Credi che ti abbiano
trovato amabile e grazioso con il
tuo coltellaccio? Perché dunque
non potremmo noi fare un bello
scherzo a te?"
"Va bene, lo confesso" rispose
truce l'assassino "ho avuto torto di
sospettarvi, ho avuto torto di voler
picchiare Tortillard. Ti domando
perdono, capisci, e anche a te,
Tortillard, sì, domando perdono a
tutt'e due."
"Io voglio che s'inginocchi a
chieder scusa di avere insultato la
Chouette!" impose lo zoppaccio.
"Amore degli amori, com'è
scherzoso!" disse la Chouette
ridendo. "Mi viene voglia di vedere
che figura farai in ginocchio
davanti a me, caro il mio
bell'uomo!
Giù
dunque, in
ginocchio, come se tu parlassi
d'amore alla tua Chouette...
Sbrigati, o ti piantiamo; e bada che
fra mezz'ora è notte!"
"Notte o giorno, che gli fa a lui?"
disse Tortillard, canzonandolo.
"Ha sempre le imposte chiuse; ha
paura di prender aria!"
"Eccomi inginocchiato... Ti chiedo
perdono, Chouette, e anche a te,
Tortillard...
Ebbene,
siete
contenti?"
disse
il
Maître
tremando. "Non mi abbandonerete
più, dite?" Era orribile vedere quel
gruppo stranissimo nel fondo del
burrone rischiarato dal chiarore
rossastro del crepuscolo.
Il Maître in mezzo alla strada,
in atto supplice stendeva verso la
guercia le mani poderose; l'incolta
e folta capigliatura gli ricadeva
come una criniera sulla livida
fronte,
le
palpebre
rosse,
smisuratamente
aperte
dallo
spavento, lasciavano scoperta la
pupilla, vitrea, oscura, smorta... lo
sguardo d'un cadavere!" Egli
curvava umilmente le spalle
formidabili... Ercole genuflesso e
tremante ai piedi d'una vecchia e
di un ragazzo! La guercia, avvolta
nel suo scialle di lana rossa,
coperta la testa da una cuffia di
velo nero, che lasciava vedere
qualche ciocca di capelli grigi,
sovrastava il Maître in tutta la sua
altezza. Il viso secco, bruno, livido
e grinzoso esprimeva una gioia
insultante e feroce. L'occhio fulvo
le brillava come un tizzone
infiammato; un funesto sogghigno
le contraeva le labbra adombrate
da lunghi peli, e mostrava tre o
quattro grossi denti gialli e radi.
Tortillard, con il suo camiciotto di
tela e la cintura di cuoio, ritto
sopra un solo piede, si appoggiava
al braccio della Chouette per
mantenersi in equilibrio. La faccia
malaticcia e scaltra di quel
ragazzo, di colore così pallido
com'erano chiari i capelli, aveva
espressioni di malvagità, di un
cinismo diabolico.
L'ombra che li avvolgeva in
quel burrone raddoppiava l'orrore
di quella scena, celata dall'oscurità
che andava crescendo.
"Almeno promettetemi di non
lasciarmi!" ripeté il Maître,
spaventato dal silenzio della
Chouette e di Tortillard, che
godevano di vederlo atterrito.
"Ché? non siete più qui?" aggiunse
chinandosi
per
ascoltare,
brancolando nel buio.
"Sì, sì, mio bell'uomo, siamo
qua, non aver paura. Lasciarti?
Piuttosto morire! Una volta per
tutte, bisogna che io ti metta
l'animo in pace, e che ti dica
perché non ti abbandonerò mai.
Ascoltami bene: ho sempre avuto
la smania di avere qualcuno a cui
far sentire le mie unghie, bestia o
persona. Prima della Pegriotte
(che il diavolo me la rimandi,
perché io ho fissa in capo la mia
idea... di deturparla con il
vetriolo!), prima della Pegriotte,
avevo un bimbo, che morì di
tormenti. Per questo stetti in
prigione sei anni. In quel periodo
straziavo
degli
uccellini;
li
addomesticavo per poi spennarli
vivi. Ma non ci godevo molto,
perché duravano poco. Quando
uscii di prigione mi cascò sotto le
grinfie la Goualeuse, ma la
scellerata mi scappò, proprio
quando cominciavo a divertirmi
sulla sua pelle... Poi ebbi un cane
che patì quanto lei, e cominciai
con il tagliargli una zampa di
dietro ed una davanti, e così aveva
certe mosse tanto buffe che ne
ridevo, ne ridevo a crepapelle..."
"To', voglio far lo stesso io a un
cane che conosco e che mi ha
morso!" sentenziò Tortillard.
"Quando incontrai te, marito
mio" proseguì la Chouette "stavo
lavorandomi un gattino... Ebbene,
tu sarai il mio gatto, il mio cane, il
mio uccello, la mia Pegriotte,
sarai, insomma, la mia "bestia da
torturare"...
Capisci,
mio
bell'uomo?
Invece
di
un
passerotto o di una creaturina,
tormentare un lupo o una tigre,
questo sì che è un bel cambio."
"Vecchia furia!" gridò il Maître,
rialzandosi sdegnato.
"Ecco, torni da capo a fare il
cattivo con la tua vecchia! Bene,
lasciala, sei padrone, non ti piglio
mica a tradimento."
"Sì, la porta è aperta, vattene via,
"Senz'occhi", e va' sempre diritto!"
aggiunse Tortillard, dando in uno
scroscio di risa.
"Oh, morire!... morire!" urlò il
Maître, torcendosi le braccia.
"Ma che armeggi, marito?
Questo lo hai già detto. Tu morire!
Sei matto? Ma sei forte come il
Pont Neuf!... Eh, via! camperai per
la felicità della tua Chouette. Io ti
strazierò di tanto in tanto, perché
questo è il mio godimento, e
perché bisogna che tu ti guadagni
il pane che ti darò; ma, se sei
buono, mi aiuterai a fare bei colpi
come oggi, e altri meglio, dove
potrai servire a qualcosa... In
conclusione, sarai la mia bestia.
Quando ti dirò: "Porta qua!",
porterai; "Mordi!", morderai... E
poi del resto, mio bell'uomo, non
ti voglio mica pigliare per forza, io!
Se invece della vita che ti
propongo, hai più caro vivere di
rendita, passeggiare in carrozza
con una bella moglie giovane,
esser decorato della croce d'onore,
esser nominato gran giudice, e
vederci chiaro invece di esser
cieco, non far complimenti, è
facile, basta che tu lo dica, ti
serviranno a tuo piacere... Non è
vero, Tortillard?"
"A
suo
piacere,
a
sua
soddisfazione,
anzi
subito,
subito!" aggiunse, schernendolo, il
figlio di Bras-Rouge.
Poi, d'un tratto chinandosi
verso terra, disse piano: "Sento
camminare;
rimpiattiamoci.
Questa non è la giovane, perché
viene dalla parte da dove lei è
venuta." Infatti una robusta
contadina, sul vigore degli anni,
seguita da un grosso cane, e
portando sulla testa una cesta
coperta, comparve dopo pochi
minuti attraverso il burrone, e
prese la stessa via che avevano
percorso il prete e la Goualeuse.
Noi raggiungeremo questi due,
e lasceremo i tre complici
imboscati nella strada bassa.
2.
Il presbiterio.
Gli ultimi barlumi del sole si
estinguevano lentamente dietro la
mole imponente del castello
d'Ecouen e dei boschi che lo
circondavano; da ogni parte si
estendevano, fin dove giungeva la
vista, pianure dai solchi oscuri
induriti dal ghiaccio... Vasta
solitudine, di cui il borgo di
Bouqueval pareva l'oasi. Il cielo
sereno era colorato, a ponente, da
lunghe strisce purpuree, segno
sicuro di vento e di freddo, e
quelle strisce, tinte prima di rosso
acceso, divenivano violacee via via
che
il
crepuscolo
ricopriva
l'atmosfera. La mezza luna, sottile
e arcata come la metà di un anello
d'argento, cominciava a brillare
sopra un campo d'ombra e di
azzurro. Il silenzio era assoluto,
l'ora solenne. Il curato si soffermò
sul colle per godere di una così
bella serata.
Dopo qualche istante di
raccoglimento,
stendendo
la
destra
tremante
verso
la
profondità dell'orizzonte, mezzo
celata dall'imbrunire della sera,
disse a Marie, che camminava al
suo fianco pensosa: "Guardate
dunque figliola, quell'immensità
di cui non si scorgono i limiti, più
non si ode il minimo rumore,
sembra che il silenzio e l'infinito ci
diano quasi un'idea dell'eternità...
Vi dico questo, Marie, perché voi
siete sensibile alle bellezze del
creato. Più volte mi ha commosso
l'ammirazione religiosa che vi
inspira, voi, che per lungo tempo
ne foste priva. Non vi avvince
come me, la calma che regna in
quest'ora?" La Goualeuse non
rispose. L'abate, attonito, la
guardò: piangeva.
"Che avete mai, figlia mia."
"Padre, sono molto infelice!"
"Infelice? Voi, adesso, infelice?"
"Non so se ho diritto di lagnarmi
della mia sorte dopo quanto è
stato fatto per me, ma pure..."
"Eppure?"
"Ah, padre, perdonate questa
tristezza, che forse offende i miei
benefattori."
"Marie, ascoltatemi: spesso vi
abbiamo domandato il motivo
della mestizia che vi opprime, e
che causa alla vostra seconda
madre grandissime inquietudini;
avete evitato di risponderci, e noi
abbiamo voluto rispettare il vostro
segreto, affliggendoci però di non
potervi sollevare dalle vostre
pene."
"Ahimè, non posso spiegarvi quel
che passa in me; anch'io poco fa,
come voi, mi sentivo commossa
nel considerare questa placida e
malinconica serata. Mi è mancato
il cuore, ed ho pianto."
"Ma che avete, Marie? Sapete pure
quanto siete amata. Animo,
confessatemi tutto... Io posso dirvi
questo: si avvicina il giorno in cui
la signora Georges ed il signor
Rodolphe vi presenteranno al
fonte battesimale, prendendo
davanti a Dio l'impegno di
proteggervi sempre."
"Il signor Rodolphe? Lui, che già
mi salvò!" esclamò Marie. "Lui
vorrà darmi questa nuova prova di
affetto? Oh padre, non voglio
nascondervi niente, temo di essere
ingrata."
"Ingrata? E come?"
"Per farmi capire, bisogna che
parli dei primi giorni, quando
venni al podere."
"Vi
ascolto;
discorreremo
camminando."
"Sarete indulgente, padre? Quel
che sto per dirvi è male..."
"Il Signore vi ha provato che è
misericordioso. Fatevi coraggio."
"Quando, arrivando qui, seppi che
non dovevo più abbandonare la
fattoria della signora Georges,
credetti di fare un bel sogno. Sul
principio sentivo una contentezza
che mi confondeva la mente,
pensavo al signor Rodolphe.
Spesso,
in
solitudine
e
spontaneamente, alzavo gli occhi
al cielo per ringraziarlo. Ma, lo
confesso, padre, pensavo più al
signor Rodolphe, che a Dio;
giacché aveva fatto per me quel
che Dio solo avrebbe potuto fare...
Ero felice. Felice come una che sia
fuggita per sempre da un gran
pericolo. Voi e la signora Georges
avevate per me tanta bontà, che
allora mi reputavo più da
compiangere, che da biasimare." Il
curato guardò la Goualeuse con
sorpresa.
Lei continuò: "A poco a poco
mi abituai a questa vita così dolce:
non avevo timore, nel destarmi, di
ritrovarmi in casa dell'Orca:
sentivo che potevo dormire con
sicurezza; il mio unico piacere era
aiutare la signora Georges nei suoi
lavori, applicarmi alle lezioni che
voi mi davate e anche approfittare
delle vostre esortazioni. Salvo
qualche momento di vergogna,
quando riflettevo sul passato, mi
pareva d'essere eguale a tutti,
perché tutti erano buoni verso di
me. Un giorno, però..." Qui i
singhiozzi troncarono la voce a
Fleur-de-Marie.
"Su calmatevi, fatevi animo,
proseguite." Lei, asciugati gli occhi
riprese: "Vi rammentate, padre?
Per la festa d'Ognissanti la signora
Dubreuil, fattoressa del duca di
Lucenay ad Arnouille, venne qui a
passare qualche tempo con la
figliola..."
"Certo, e vidi con piacere che
faceste conoscenza con Clara
Dubreuil; è dotata delle migliori
qualità."
"È un angelo, padre, un angelo.
Quando seppi che doveva venire
per un po' al podere, ne fui molto
felice; non vedevo l'ora di stare un
po' con quella compagna tanto
desiderata. Finalmente arrivò. Io
ero nella mia camera; dovevo
occuparla con lei, e l'adornavo
meglio che potessi.
Mi mandarono a chiamare. La
signora Georges, mostrandomi
quella
bella
fanciulla,
di
fisionomia buona, docile
e
modesta, mi disse: "Marie, eccovi
un'amica". "Spero" soggiunse la
Dubreuil, che voi e mia figlia
sarete presto come due sorelle."
Appena la madre aveva detto
queste parole, Clara corse ad
abbracciarmi. Allora, padre!" e così
dicendo Marie piangeva "non so
quel che accadde dentro di me...
Ma, nel sentire il viso puro e
fresco di Clara posarsi sulla mia
guancia avvilita, mi feci rossa,
ardente di vergogna e di rimorso...
Mi ricordai ciò che avevo fatto. Per
me, per me, l'abbraccio e l'amore
di una giovane così onesta! Oh,
mentre mi abbracciava, mi pareva
di ingannarla, di commettere
un'indegna ipocrisia..."
"Ma, figliola..."
"Ah, padre!" esclamò Marie,
interrompendo il curato con
dolorosa esaltazione. "Quando il
signor Rodolphe mi condusse via
dalla Cité, avevo già un'idea
confusa della mia degradazione...
Ma credete forse che l'educazione,
i consigli, gli esempi che ho avuto
dalla signora Georges e da voi,
illuminandomi la mente, non mi
abbiano
fatto
comprendere,
ohimè!, che ero stata anche più
colpevole, che disgraziata? Prima
dell'arrivo della signorina Clara,
quando
questi
pensieri
mi
tormentavano, io li scacciavo
procurando di accontentare la
signora Georges, e voi, padre mio.
Se arrossivo del passato, era
soltanto fra me... Ma la vista di
quella fanciulla dell'età mia, così
amabile e così virtuosa, mi fece
riflettere sulla distanza che
sempre ci sarebbe stata fra noi
due. Per la prima volta mi accorsi
che ci sono macchie che non
possono esser mai cancellate. Da
quel momento, quest'idea non mi
lascia, e mio malgrado, ci penso
continuamente, e non ho più un
momento di riposo." La Goualeuse
si asciugò gli occhi umidi di
pianto.
L'abate soggiunse, dopo averla
contemplata
con
tenera
commiserazione: "Riflettete, figlia
mia, che se la signora Georges
voleva
vedervi
amica
della
Dubreuil, è perché vi conosceva
degna di questa relazione. I
rimproveri che vi fate si ritorcono
sulla vostra seconda madre."
"Lo so padre mio, avevo torto, ma
non potevo superare la vergogna e
il timore. E questo non è tutto...
Ho bisogno di coraggio per
terminare..."
"Continuate, Marie. Sinora i vostri
scrupoli o piuttosto i rimorsi sono
prove a favore del vostro cuore."
"Stabilitasi Clara nel podere, fui
tanto afflitta quanto prima mi ero
illusa di dover essere allegra, di
aver una compagna della mia età.
Lei,
al
contrario,
era
di
buonissimo umore. Le era stato
preparato un letto nella mia
stanza. La prima sera, prima di
coricarsi, mi abbracciò, e mi disse
che già mi amava, che aveva molta
simpatia per me; insistette perché
la chiamassi Clara, come lei mi
avrebbe chiamata Marie. Poi pregò
Dio, e promise che avrebbe
aggiunto il mio nome alle sue
orazioni, e se io volevo aggiungere
il suo alle mie. Non osai dire di no.
Dopo aver chiacchierato per un
po', si addormentò. Io non mi ero
coricata, mi avvicinai; guardavo,
piangendo,
quel
suo
viso
angelico... Poi considerando che
lei dormiva nella mia stessa
camera, con me, che ero stata in
casa dell'Orca con dei ladri e
assassini, tremavo come avessi
commesso una cattiva azione,
provavo una specie di terrore... Mi
pareva che Dio dovesse, una volta
o l'altra, punirmi... Mi coricai, feci
sogni terribili, rividi quelle triste
facce che quasi avevo dimenticato,
lo Chourineur, il Maître, la
Chouette, quella vecchia guercia,
che mi tormentò da piccola... Oh,
che notte, mio Dio! che notte!...
Che sogni!" disse la Goualeuse,
raccapricciando al ricordo.
"Povera Marie" le
disse
commosso il curato. "E perché
prima d'ora non mi faceste queste
dolorose confidenze? Vi avrei
riconfortata... Ma continuate, vi
prego."
"Avevo preso sonno tardissimo.
Clara
venne
a
destarmi,
abbracciandomi. Per vincere ciò
che lei credeva la mia freddezza e
provarmi la sua amicizia, mi volle
confidare un segreto: doveva
unirsi, quando avesse compiuto
diciotto anni, al figlio di un fattore
di Goussainville, che amava
teneramente; il matrimonio era da
molto tempo combinato tra le due
famiglie. Poi mi narrò brevemente
la sua vita trascorsa, semplice,
tranquilla, felice: non aveva mai
lasciato la sua mamma, né
l'avrebbe lasciata, giacché il suo
fidanzato doveva amministrare il
podere insieme con la signora
Dubreuil. "Adesso Marie" mi disse
"mi conoscete come se foste mia
sorella; raccontatemi dunque la
vostra vita..." A queste parole mi
parve di morire di vergogna.
Arrossii, balbettai. Non sapevo ciò
che la signora Georges aveva detto
di me, e tremavo di smentirla.
Risposi superficialmente, che
orfana ed allevata da persone
severissime, non ero stata molto
fortunata nell'infanzia e che ogni
mia fortuna era cominciata con il
mio soggiorno presso la signora
Georges. Clara, più per premura
che per curiosità, mi domandò
dove fossi stata educata, se in città
od in campagna, e come si
chiamasse mio padre, e se mi
ricordassi di aver visto mia madre.
Ognuna di queste domande
m'imbarazzava e mi affliggeva,
giacché
mi
toccava
dirle
altrettante bugie... E voi, padre,
m'insegnaste quanto sia male
mentire. Però non immaginò che
io potessi ingannarla. Finsi che la
mia titubanza derivasse dal
dispiacere che mi causavano le
tristi
memorie
della
mia
fanciullezza. Clara mi credette, e
mi compianse con una bontà, che
mi toccava il cuore. Oh padre! Non
potrete mai avere un'idea di ciò
che soffersi in quel primo
colloquio, e quanto mi dolesse
proferire parole che erano soltanto
falsità ed ipocrisia!"
"Povera cara, l'ira di Dio non sarà
clemente con coloro che, avendovi
gettata in questo dolore, forse vi
hanno condannata a subirlo per
tutta la vita."
"Oh sì, furono molto perversi!"
soggiunse amaramente Marie.
"Giacché la mia vergogna è
indelebile. Né basta. Man mano
che Clara mi parlava della felicità
che le era riservata, delle sue
nozze, del suo quieto vivere
domestico, non potevo astenermi
dal paragonare la mia sorte alla
sua: poiché, malgrado la bontà
somma che si ha per me, il mio
destino sarà sempre misero! Voi e
la signora Georges, facendomi
comprendere la virtù, mi avete
fatto anche conoscere l'orrore
della mia passata abiezione, né c'è
rimorso che riesca a far sì che io
non sia stata la feccia di quanto di
più vile c'è al mondo... Ah, poiché
la cognizione del bene e del male
doveva essermi così funesta,
perché non mi avete lasciato nel
mio disgraziatissimo stato?"
"Oh Marie, Marie!"
"Ma non è vero? Dico male,
padre? Ecco quel che io non osavo
confessarvi. Sì, a volte sono tanto
ingrata da non apprezzare la bontà
di cui mi ricolmano, e dico fra me:
"Se non mi avessero strappata
all'infamia, ebbene, la miseria e le
percosse mi avrebbero presto
uccisa; almeno sarei morta
nell'ignoranza di una purezza che
sempre rimpiangerò di non aver
avuta!"."
"Marie, questo è purtroppo fatale!
Una persona, anche dotata
generosamente
dal
Creatore,
quando sia stata avvilita, un sol
giorno, nel peccato da dove voi
foste tratta, ne conserva i segni
indelebili... Tale è l'immutabilità
della divina giustizia."
"Lo vedete, padre" esclamò
angosciosamente Marie "debbo
restare senza speranza sino alla
morte."
"Non dovete illudervi di cancellare
dalla vostra esistenza quella
tristissima pagina" disse il prete,
in tono mesto e grave "ma sperare
nella
misericordia
infinita
dell'Onnipotente.
Quaggiù
saranno per voi, povera creatura,
pianto, rimorso ed espiazione; ma
lassù" aggiungeva il buon abate,
levando la destra verso il
firmamento, che cominciava a
cospargersi di stelle "lassù,
perdono, felicità eterna!"
"Pietà, pietà, mio Dio... Sono tanto
giovane, e la mia vita sarà forse
ancora così lunga!" disse la
Goualeuse con voce che straziava
l'anima, cadendo in ginocchio ai
piedi del curato.
Il prete stava ritto in cima alla
collina,
non
lontano
dal
presbiterio; la sua sottana nera, il
volto venerabile, contornato dai
lunghi capelli e rischiarato dagli
ultimi chiarori vespertini, si
stagliavano nel limpido orizzonte,
tinto nel dolce colore d'orientale
zaffiro.
Questa scena grandiosa e
commovente offriva un bizzarro
contrasto con quella ignobile,
infame, che quasi nello stesso
istante aveva luogo nel burrone
della strada bassa, tra il Maître e la
Chouette.
"Guai a me, guai!" diceva la
Goualeuse disperata. "L'intera mia
esistenza, fosse pur così lunga e
così pura quanto la vostra, padre,
sarà d'ora innanzi avvilita dalla
coscienza e dalla memoria del
passato. Guai a me!"
"Buon per voi, al contrario, Marie!
Buon per voi, a cui il Signore
manda questi rimorsi, pieni di
amarezze, ma salutari, e che
provano la religiosa delicatezza
dell'animo vostro. Tante altre,
meno nobilmente dotate di voi,
avrebbero nella vostra situazione
dimenticato il passato, per godere
del bene presente! Un'anima
gentile come la vostra incontra
pene, là dove il volgo non sente
alcun dolore; ma ognuna di queste
pene,
credetemi,
vi
sarà
ricompensata lassù! E non lo disse
Egli stesso? "Quelli che fanno il
bene senza contrasti e vengono a
me con il sorriso sulle labbra sono
i miei eletti; ma quelli che, usciti
dalla lotta, vengono a me feriti e
insanguinati, sono gli eletti fra i
miei eletti!" Coraggio dunque,
figliola!
Sostegno,
appoggio,
consigli, nulla vi mancherà. Io
sono molto vecchio, ma la signora
Georges, ma il signor Rodolphe,
hanno ancora lunghi anni da
vivere... Specialmente il signor
Rodolphe, che vi dimostra tanto
interesse, che si occupa dei vostri
progressi con premura e con
sollecitudine... Ditemi, Marie,
potreste forse dolervi di averlo
incontrato?" La Goualeuse stava
per rispondere, ma l'interruppe la
contadina, che noi abbiamo già
menzionata, la quale, facendo la
medesima strada, aveva raggiunto
lei e l'abate: era una serva del
podere.
"Con permesso, signor curato"
disse "la signora Georges mi ha
ordinato di portare questo paniere
di frutta al presbiterio e di
ricondurre con me Marie, perché
si fa tardi. Ho portato anche
Turco" e la serva accarezzava un
cane enorme dei Pirenei, che
avrebbe sfidato un orso.
"Quantunque qui non si
facciano cattivi incontri, è sempre
prudenza."
"Avete ragione, Claudine, e poi
siamo bell'e arrivati al presbiterio;
ringrazierete per me la signora
Georges" rispose il curato.
E, voltosi alla Goualeuse, le
disse seriamente: "Domani mi
tocca andare alla Congregazione
della diocesi, ma tornerò verso le
cinque. Se volete, figlia mia, vi
aspetterò alla canonica.
Dal vostro stato capisco che
avete bisogno di altri colloqui con
me."
"Vi ringrazio, padre" rispose
Marie.
"Verrò,
giacché
lo
permettete."
"Oh, eccoci al portone del
giardino" disse il prete. "Posate
questo paniere, Claudine: lo
prenderà la mia donna di casa.
Ritornate presto al podere con
Marie, perché è quasi notte e
cresce il freddo. Addio Marie,
addio, a domani, alle cinque."
"A domani, padre." La Goualeuse e
Claudine, seguite da Turco,
ritornarono sulla strada del
podere.
3.
L'incontro.
Era calata la notte, chiara ma
fredda.
Uniformandosi ai suggerimenti
del Maître, la Chouette era andata
con lui a un lato della strada
bassa, la più lontana dalla via
maestra e più prossima al
crocevia, dove Barbillon attendeva
con la sua carrozza.
Tortillard, messo di sentinella,
aspettava Fleur-de-Marie che
doveva attirare in quell'imboscata,
chiedendole di venire in soccorso
ad una misera vecchia.
Il figlio di Bras-Rouge, che era
risalito dal burrone per andare ad
esplorare, porse l'orecchio, e udì
da lontano la Goualeuse parlare
con
la
contadina
che
l'accompagnava.
Marie,
non
essendo più sola, il piano era
andato a vuoto.
Tortillard si affrettò a scendere
di nuovo nel fossato ad avvisare la
guercia.
"C'è gente con la ragazza" disse
ansante e a voce bassa.
"Che il boia le scavezzi il collo,
a quella malandrina!" rispose la
Chouette infuriata.
"Con chi è?" domandò il
Maître.
"Sarà certo con la contadina
che poco fa è passata sulla strada,
e che aveva con sé un grosso cane.
Ho riconosciuto la voce della
donna"
replicò
Tortillard.
"Sentite... sentite il rumore degli
zoccoli?" Nel silenzio notturno, le
scarpe di legno battevano sul
terreno, indurito dal ghiaccio.
"Sono due!" avvertì la guercia.
"Io posso pensare alla ragazza con
la cappottina bigia, ma per l'altra
come si fa? L'orbaccio non ci vede,
e Tortillard è troppo debole per
dare addosso all'altra, che il
diavolo la strozzi! Come si fa?"
"Badate, io non ho molta forza"
ripeté Tortillard. "Ma, se volete,
mi butterò fra le gambe della
contadina che ha il cane, mi
attaccherò a lei con le mani e con i
denti, e non la lascerò andare, no,
non dubitate. Intanto porterete via
la ragazza..."
"E se urlano? E se fanno
resistenza? Le sentiranno dalla
fattoria" osservò la guercia "ed
avranno il tempo di venirle ad
aiutare prima che siamo arrivati
alla vettura di Barbillon. Non è
mica facile portar via una donna
che si dibatte!"
"E per di più quando hanno un
cagnaccio con loro!" aggiunse
Tortillard.
"Ohibò, se non fosse altro, con
una scarpa sul muso la schiaccerei
io, quella bestia!" replicò la
Chouette.
"Vengono per di qua..." avvisò
Tortillard, prestando di nuovo
orecchio allo scalpiccio dei passi.
"A momenti scenderanno al
burrone."
"Ma parla tu, Maître!" gridò la
vecchia. "Che consiglio dai,
testone? Che? Sei ammutolito?"
"Non c'è da far niente per oggi..."
rispose il furfante.
"E i mille franchi dell'uomo in
lutto?" esclamò la Chouette.
"Devono sfumare per aria? Eh,
non scherzo! Il tuo coltello,
Maître... Qui, subito... Ammazzo la
compagna, perché non ci dia
impaccio; e poi la ragazza, tra me e
Tortillard ci riuscirà di portarla
via."
"Ma l'uomo con il lutto non vuole
che si uccida nessuno..."
"Ebbene, il sangue che si versa lo
metteremo in più sul suo conto;
gli toccherà pagarci, poiché sarà
nostro complice."
"Eccoli, scendono" disse a voce
bassa Tortillard.
"Il tuo coltello, marito!" chiese
la Chouette, adagio ma irosa.
"Ohi, Chouette" disse però
Tortillard, spaventato e stendendo
le mani "ammazzarla... è troppo!
No, no."
"Il coltello, ti dico..." ripeté la
guercia,
senza
badare
alle
raccomandazioni dello sciancato, e
levandosi in fretta le scarpe. "Ora
mi
scalzo"
aggiunse
"per
sorprenderle, camminando senza
far rumore dietro a loro; è già
scuro, ma riconoscerò la piccina
con la cappotta, e stenderò morta
quell'altra."
"No" disse il furfante "stasera è
inutile; faremo a tempo domani."
"Hai paura, smorfioso!" ribatté la
Chouette con truce disprezzo.
"Non ho paura, ma puoi
mancare il colpo e rovinare tutto."
Il mastino che seguiva la
contadina, fiutando la gente
nascosta nella strada bassa, si
fermò, abbaiò forte, e non rispose
alle chiamate di Marie e della
contadina.
"Senti il cane? Eccoli, presto, il
coltello, se no..." urlò la guercia in
tono minaccioso.
"Vieni a prenderlo...!" gridò il
Maître.
"È finita, è troppo tardi"
esclamò la Chouette, dopo avere
ascoltato attentamente. "Sono
passate... Va', me la pagherai,
maledetto!" e
così
dicendo
mostrava il pugno al suo complice.
"Mille franchi perduti per colpa
tua!"
"Mille, duemila, forse tremila
guadagnati, al contrario!" replicò il
Maître con autorità. "Ascoltami,
Chouette, e vedrai se avevo torto.
Torna subito da Barbillon, andate
tutt'e due, con la carrozza, al luogo
dell'appuntamento, dove vi aspetta
quell'uomo... Ditegli che per oggi
non si può far nulla, ma che
domani la porteremo via."
"E tu?" mormorò la Chouette,
sempre adirata.
"Dammi retta: la fanciulla va
sola, ogni sera, a ricondurre il
prete a casa sua; è un caso che
oggi abbia incontrato gente; è
facile che domani ci riesca
meglio... Dunque ritornerai alla
stessa ora al crocicchio con
Barbillon e la sua carrozza."
"Ma tu? ma tu?"
"Adesso Tortillard mi porterà al
podere dove sta la ragazza, dirà
che ci siamo smarriti, che io sono
suo padre, un povero operaio
accecato
per disgrazia; che
andavamo a Louvres da un
parente che ci potrebbe dare
soccorso, e ci siamo perduti fra i
campi, volendo prendere la strada
più
corta.
Chiederemo
di
pernottare nel podere, in una
stalla.
Non è cosa che si rifiuti. I
contadini ci crederanno e ci
daranno da dormire. Tortillard
esaminerà ben bene le porte, le
finestre, tutte le uscite della casa;
da quella gente c'è sempre denaro
al tempo dei pagamenti degli
affitti. Io, che possedevo dei
terreni" aggiunse con amarezza "io
lo so. Siamo adesso alla prima
metà di gennaio, è il momento,
ora si pagano i fitti. La fattoria è in
un luogo solitario; una volta che
ne conosceremo l'entrata e le
uscite, potremo ritornare con gli
amici; è un affare da non
tralasciare..."
"Sempre testone! Oh, che zucca!"
disse
la
guercia,
alquanto
raddolcita. "Tira avanti, Maître."
"Domattina invece di andarmene,
mi lagnerò d'un dolore che
m'impedisce di camminare. Se
non mi credono, mostrerò la piaga
che mi è rimasta da quando ruppi
l'anello della mia catena da
forzato, e che mi fa ancora
soffrire. Dirò che è una bruciatura
fattami con una lastra di ferro nel
mio mestiere di fabbro; e mi
crederanno. Così resterò parte
della giornata in modo che
Tortillard possa osservare ogni
cosa. Verso sera, quando la
ragazza uscirà con il prete, dirò
che mi sento meglio e che sono in
grado di andarmene. Io e
Tortillard la seguiremo da lontano,
e verremo ad aspettarla qui, fuori
dal burrone. Quella, conoscendoci,
non avrà diffidenza nel rivederci, e
noi l'acchiapperemo... Una volta
che la prendo con una mano, è
mia, lo garantisco, e i mille franchi
son nostri... E c'è dell'altro; fra due
o tre giorni potremo incaricare
Barbillon o qualche altro della
faccenda del podere, e poi spartire
quel che ci sarà, giacché saremo
noi quelli che avremo preparato il
furto."
"Vieni, Senz'occhi! Te lo dico io
che non hai rivali!" gridò la
Chouette, abbracciando il Maître.
"Ma se per caso domani sera la
giovane non va con l'abate?"
"Si ritenta dopodomani. È uno di
quei bocconi che vanno mangiati
freddi e adagio; e poi così
s'aggiungeranno delle spese che
cresceranno il conto dell'uomo
con il lutto. E poi, una volta
entrato
nel
podere,
saprò
giudicare, da quello che sentirò, se
c'è modo di portar via la ragazza
come s'è pensato, e, se no, si farà
in altro modo."
"Benissimo, il mio uomo! È
perfetto il tuo piano. Senti,
orbaccio, quando sarai infermo del
tutto, dovrai farti ricettatore e
progettatore di colpi. Guadagnerai
denari come un avvocato. Animo,
abbraccia la tua Chouette, e
sbrigati... Quei villani son gente
che vanno a letto presto come le
galline. Io scappo a ritrovare
Barbillon; domani alle quattro
saremo al crocevia con lui e la sua
vettura, a meno che lo arrestino
per aver ammazzato il marito della
lattaia. Già se non è lui sarà un
altro, perché tanto la carrozza è
del signore con il lutto. Dopo un
quarto d'ora dal mio arrivo al
crocevia, sarò qui ad aspettarti."
"Farabutto chi manca! Addio, a
domani, Chouette."
"Oh, mi scordavo di dare un po' di
cera a Tortillard, caso mai dovesse
prendere l'impronta di qualche
serratura... Tieni, che saprai farne
buon uso, zoppetto" disse la
guercia, dando un pezzo di cera al
ragazzo.
"Eh, non dubitate! Il papà mi
ha insegnato. Ho preso per lui
l'impronta di una cassettina di
ferro che il mio padrone, il
ciarlatano, tiene nascosta nel suo
stanzino nero."
"Perché non si appiccichi, sta'
attento a bagnarla, dopo che l'avrai
riscaldata nella mano."
"Si sa, si sa!" replicò Tortillard.
"Vedete, faccio tutto quel che mi
dite perché mi volete un po' di
bene... Non è così, Chouette?"
"Se ti voglio bene? Te ne voglio
come ti avessi avuto dal defunto
Napoleone!" disse la donna,
baciandolo. "A domani, Maître"
salutò poi la Chouette.
"Addio" rispose il Maître.
La guercia andò a raggiungere
la vettura.
Il Maître e Tortillard uscirono
dalla strada bassa, e si avviarono
dalla parte del podere; il lume che
brillava dietro le finestre servì loro
di guida.
Strana fatalità, che ravvicinava
Anselme Duresnel alla moglie, che
non aveva più visto dopo la
condanna ai lavori forzati.
4.
La veglia.
Non c'è cosa che più rallegri
d'una cucina in una fattoria all'ora
del
pasto
della
sera,
e
particolarmente d'inverno; non c'è
cosa che meglio descriva i
godimenti della vita campestre. E
di ciò che affermiamo si sarebbe
potuto avere una prova nel vedere
la cucina del podere di Bouqueval.
Il gran camino, alto sei piedi e
largo otto, somigliava ad un ampio
vano
sopra
una
fornace;
nell'oscuro focolare brillava un
ceppo di faggio e di quercia.
Quell'enorme braciere mandava
tanta luce quanto calore e rendeva
inutile il lume di una lampada
appesa al trave principale del
soffitto.
Sugli scaffali erano disposte,
ben pulite, grosse pignatte e
casseruole di rame; un gran
mestolo all'antica dello stesso
metallo, luccicava come uno
specchio, poco distante da una
madia di noce diligentemente
lustrata, da cui esalava un grato
odore di pane caldo.
La tavola, lunga, solida, coperta
dalla tovaglia, di tela grossolana,
ma linda, stava in mezzo alla
stanza. Il posto di ciascun
commensale era segnato da un
piatto di maiolica, scuro fuori e
bianco dentro, e dalle posate di
ferro, lucide come l'argento. In
mezzo al desco un'ampia zuppiera,
colma di minestra di legumi,
fumava come un cratere, ed
avvolgeva con il suo gustoso
vapore un immenso piatto di
"salcraut" con il prosciutto, ed un
altro, egualmente rispettabile, di
castrato in umido con le patate; un
quarto
di
vitello
arrosto,
contornato da due insalate, e due
ceste di mele e due forme di cacio,
completavano il pasto. Tre o
quattro mezzine di creta, piene di
sidro spumante, fatto nel podere,
ed altrettante pagnotte alla
casalinga, grandi come macine da
molino, stavano a discrezione dei
buoni villici.
Un vecchio cane da pastore,
nero, quasi sdentato, il più
anziano della torma canina della
fattoria, andava debitore all'età ed
agli antichi servizi del permesso di
rimaner vicino al fuoco, e
valendosi,
con
modestia
e
discrezione di tale privilegio, con il
muso allungato sulle due zampe
davanti,
badava
ai
diversi
preparativi che precedevano la
cena.
Questo
venerabile
quadrupede rispondeva al nome,
bucolico, di Lisandro.
La signora Georges (in ciò
eseguendo
le
intenzioni
di
Rodolphe) trattava meglio che
poteva i contadini, scelti fra le
persone più oneste e laboriose del
paese. Erano questi ben pagati, e
la loro sorte era così invidiabile
che entrare come castaldo nella
fattoria
di
Bouqueval,
era
l'ambizione dei più abili coltivatori
della
contrada,
ambizione
innocente, che manteneva fra loro
un'emulazione tanto più lodevole,
in quanto a profitto dei padroni.
Dopo aver terminati i preparativi
per la cena, e messo sulla mensa
un boccale di vino vecchio
destinato a far compagnia alla
frutta, la cuoca andò a suonare la
campana.
A quella lieta chiamata,
agricoltori, domestici, lattivendole,
ragazze di servizio, in numero di
dodici o quindici, entrarono
allegramente in cucina. Gli uomini
avevano un aspetto veramente
maschio e schietto, le donne erano
bellocce e robuste, le fanciulle
vivacissime: in tutte quelle
fisionomie
si
scorgeva
il
buonumore, la calma dell'animo,
la
contentezza
di
sé.
Si
accingevano con gran appetito a
far onore a quel pasto, ben
guadagnato con le aspre fatiche
della giornata.
A capo tavola si sedette un
vecchio agricoltore con i capelli
bianchi, faccia franca, sguardo
ardito,
bocca
un
poco
motteggiatrice, vero tipo del
contadino di giudizio, uno di
quegli spiriti solidi e retti, chiari,
rozzi, astuti, che si riconoscono
subito come discendenti delle
antiche popolazioni galliche. Papà
Chatelain (così si chiamava quel
Nestore), che dall'infanzia non
aveva mai abbandonato la fattoria,
era impiegato come direttore dei
lavori
dei
campi.
Quando
Rodolphe comprò la tenuta gli fu
giustamente raccomandato; e
Rodolphe lo tenne nella fattoria e
lo investì, sotto gli ordini della
Georges,
d'una
specie
di
sopraintendenza
per
quanto
concerneva la coltivazione e la
lavorazione dei terreni. Papà
Chatelain aveva sulla gente del
podere una somma influenza,
dovuta alla sua età, al suo sapere,
alla sua esperienza.
I contadini sedettero a tavola.
Dopo aver detto ad alta voce il
"Benedicite",
papà
Chatelain,
uniformandosi ad un'antica e
santa usanza, segnò una croce
sopra un pane con la punta del
coltello e ne tagliò un pezzo, che
rappresentava la parte della
Madonna, ossia la parte del
povero; quindi versò un bicchiere
di vino, e pose tutto sopra un
tondo, che fu devotamente
collocato in mezzo al desco.
In tal momento i cani di
guardia abbaiarono forte; Lisandro
rispose con un brontolio, aggrinzò
le labbra, e mostrò due o tre
dentoni ancora rispettabili.
"C'è qualcuno nel cortile!"
disse Chatelain.
Aveva appena parlato che
suonò il campanello del portone.
"Chi può essere, così tardi?"
disse. "Tutti sono tornati a casa...
Va un po' a vedere, Jean-René."
Jean-René, garzone del luogo,
rimise, con rincrescimento, nella
sua
scodella
un'enorme
cucchiaiata di zuppa caldissima, su
cui soffiava con forza ed uscì dalla
cucina.
"È la prima volta che la signora
Georges e la signorina Marie non
vengono accanto al fuoco, ad
assistere alla nostra cena" osservò
papà Chatelain. "Io ho fame, e
molto! Ma mangio con meno
voglia."
"La signora Georges è salita in
camera della signorina Marie,
perché questa, nel tornare dal
curato, si è sentita male e si è
messa a letto" disse Claudine, la
robusta
ragazza
che
aveva
ricondotto la Goualeuse dalla
Canonica.
"La nostra buona Marie sarà
solamente un pochino indisposta,
ma non ammalata, non è vero?"
domandò
il
vecchio,
con
inquietudine.
"No, no, grazie a Dio, la signora
Georges ha detto che non sarà
nulla" soggiunse Claudine. "Se no,
avrebbe mandato a chiamare il
signor David, quel medico che
curò la signorina quando soffriva
tanto. Eppure è sorprendente, un
dottore nero! Se fosse per me, non
ne avrei fiducia! Un medico
bianco, alla buon'ora! Almeno è
cristiano."
"Ma il signor David non la guarì
allora?"
"Sì, papà Chatelain."
"Ebbene?"
"Non importa, un dottore nero a
me mi mette qualcosa che mi fa
paura!"
"Non risanò anche la vecchia
Anna, che per una piaga alla
gamba non poteva muoversi dal
letto da più di tre anni?"
"Sì, sì papà Chatelain, ma un
medico nero... Pensate un po',
nero, nero..."
"Senti, figlia mia, di che colore è la
tua giovenca, Musetta?"
"Bianca come un cigno, e buona
mucca, questo poi si può dire con
tutta sincerità."
"E la tua giovenca Rosetta?"
"Nera come un corvo, papà
Chatelain! E anche quella, che
latte dà! Oh, bisogna esser giusti!"
"E il latte della vacca nera, di che
colore è?"
"Accidenti a voi, bianco, papà
Chatelain. È naturale... Come
volete che sia il latte di qualsiasi
mucca? Bianco quanto la neve!"
"È buono come quello della
Musetta?"
"Di sicuro."
"Quantunque Rosetta sia nera?"
"Quantunque sia nera... Che gli fa
al latte, che la vacca sia nera, rossa
o bianca?"
"Non fa niente?"
"Nulla
e
poi
nulla,
papà
Chatelain."
"Oh dunque, allora, perché non
vuoi che un medico nero sia
buono quanto uno bianco?"
"Eh sì, papà Chatelain, per via
della pelle" disse la forosetta, dopo
un momento di riflessione
serissima. "Però, se Rosetta che è
nera, ha il latte buono come la
Musetta, che è bianca, la pelle non
deve entrarci un bel niente."
Queste osservazioni di Claudine
sulla diversità delle razze furono
interrotte dal ritorno di JeanRené, che si soffiava nelle dita con
tanta forza, come aveva soffiato
sulla minestra.
"Oh, che freddo, che freddo fa
stanotte... Gela da tagliare le
pietre" disse entrando. "È meglio
star dentro che fuori, con questo
tempo... Che freddo!"
"Gelo con il vento di levante avrà
durata e sarà duro come il
diamante! Tu lo devi sapere,
ragazzo mio" commentò l'anziano
agricoltore.
"Ma
chi
aveva
suonato?"
"Un povero cieco e uno zoppetto
che lo guida..."
5.
L'ospitalità.
"Che vuole quel cieco?"
domandò papà Chatelain a JeanRené.
"Il pover'uomo e suo figlio si
sono smarriti volendo andare a
Louvres
per
la
scorciatoia;
siccome fa un freddo da bestia, e
la serata è buia perché il cielo si
copre, chiedono di pernottare nel
podere in un angolo della stalla."
"La signora Georges è tanto buona
che non ricusa mai ospitalità a un
disgraziato. Consentirà di certo
che si dia da dormire a
quest'infelice...
Ma
bisogna
avvertirla. Vacci tu, Claudine."
Claudine sparì.
"E
dove
aspetta
quel
galantuomo?" domandò papà
Chatelain.
"Nel piccolo granaio."
"Perché l'hai messo là?"
"Se fosse restato nel cortile i cani
l'avrebbero mangiato crudo, lui e il
suo ragazzo. Eh sì, badavo a dire
io: "Piano, Medoro!... qua Turco!...
basso, Sultano!". Non li ho mai
visti scatenati a quel modo...
Eppure, noialtri non li avvezziamo
mica a mordere i poverelli!"
"Miei cari, questa sera la parte del
povero sarà serbata davvero...
Stringetevi un tantino. Bene,
mettiamo due posate di più, una
per il cieco, l'altra per il figlio,
giacché sono sicuro che la signora
Georges lascerà che passino qui la
nottata."
"Ma è curioso, a ogni modo, che i
cani si siano infuriati così!"
osservò
Jean-René.
"C'era
specialmente Turco, che Claudine
aveva portato con sé stasera
nell'andare al presbiterio che
pareva
indemoniato.
Nell'accarezzarlo per ammansirlo,
gli ho sentito il pelo tutto irto
come ad un porcospino. Che ne
dite, eh, papà Chatelain, voi che
sapete tutto?"
"Dico, ragazzo mio, che le bestie
ne sanno spesso anche più di me.
Quando vi fu l'uragano di questo
autunno, che il ruscello era
diventato un torrente, io me ne
tornavo di notte con i miei cavalli
da lavoro, e, seduto sul più vecchio
rabicano, che io sia maledetto se
avrei saputo dove passare, giacché
non ci si vedeva più che in un
forno! Ebbene, lasciai la briglia sul
collo alla mia bestia, e questa
trovò da sola quel che io non avrei
mai trovato. Chi le ha insegnato?"
"Appunto, papà Chatelain, chi ha
insegnato a quel cavallaccio?"
"Quello che insegna alle rondini a
fare il nido sui tetti, e alle
cutrettole a farselo tra le canne,
caro mio... Oh, Claudine" disse il
vecchio alla lattaia, che veniva con
sotto il braccio due paia di
lenzuola pulite, che mandavano
un odore di salvia e d'erba
colombina "ebbene? La signora
Georges ha ordinato che cenino e
dormano qui il cieco e il figliolo?"
"Ecco le lenzuola per fare i letti
nella cameretta in fondo al
corridoio" rispose Claudine.
"Animo, Jean-René, va' a
chiamarli... Tu, figlia mia, accosta
al
fuoco
due
seggiole, si
scalderanno un momento prima di
mettersi a tavola... Giacché la
brezza è fina questa sera."
S'intesero di nuovo i latrati dei
cani e la voce di Jean-René che
cercava di calmarli. Si aperse ad
un tratto l'uscio della cucina; il
Maître e Tortillard entrarono, con
precipitazione,
come
fossero
inseguiti.
"Badate ai cani!" esclamò il
Maître spaventato. "Sono stati lì lì
per morderci!"
"Mi hanno strappato un pezzo del
mio camiciotto" gridò Tortillard,
pallido per la paura.
"Scusate galantuomo" disse
Jean-René, chiudendo la porta
"ma non li ho mai veduti tanto
cattivi. Sarà stato di certo il freddo
che li punzecchia. Non hanno
giudizio, vorranno forse mordere
per scaldarsi!"
"Oh, adesso quest'altro!" disse
papà Chatelain, fermando il
vecchio Lisandro, che ringhiando
stava per scagliarsi sui due
sopraggiunti.
"Ha sentito gli altri abbaiare a
squarciagola
e
vuol
fare
altrettanto.
Vuoi andar subito a cuccia,
brutto selvaggio? Ci vuoi andare,
eh?" A queste parole di papà
Chatelain, accompagnate da una
pedata molto espressiva, Lisandro,
sempre ringhioso si rimise al suo
posto prediletto, accanto al
focolare. Il Maître e Tortillard
stavano sulla porta della cucina,
senza osare venire avanti.
L'assassino,
avvolto
nel
pastrano blu con il collare di pelle
ed il cappello nero che gli celava
quasi tutta la fronte, stringeva la
mano di Tortillard, che gli si
stringeva vicino, sbirciando i
contadini con diffidenza: l'onestà
di quelle fisionomie confondeva e
quasi dava spavento al figlio di
Bras-Rouge. Anche le cattive
coscienze hanno le loro antipatie e
le loro simpatie.
L'aspetto del Maître d'école era
così orrendo, che i villici rimasero
per un po' colpiti, chi da disgusto e
chi da timore. Questa impressione
non sfuggì a Tortillard; il loro
sbigottimento fu anzi di conforto:
egli si rassicurava della paura che
inspirava il suo compagno.
Passato il primo stupore, papà
Chatelain, non pensando che ad
adempiere
gli
obblighi
dell'ospitalità, disse al Maître:
"Brav'uomo, venite vicino al
fuoco; prima vi scalderete, poi
cenerete con noi, giacché capitate
nel momento che andiamo a
tavola. Ecco, sedete là... Ma dove
ho la testa? Non l'ho da dire a voi,
ma al vostro ragazzo, poiché, per
disgrazia, voi siete cieco... Su,
piccolo, conduci tuo padre vicino
al focolare."
"Sì, mio buon signore" rispose
Tortillard, con voce nasale e
ipocrita. "Iddio ricompensi la
vostra carità! Vieni con me, povero
babbo..." E lo zoppetto guidò i
passi dell'assassino verso il
camino. Sul principio Lisandro
ringhiava soltanto, ma dopo,
fiutato il Maître, mandò d'un
tratto quella sorta di ululato
lugubre per cui comunemente si
dice che i cani urlano a morte.
"Oh inferno!" disse tra sé il
Maître. "Questi maledetti animali
avessero a sentire l'odore del
sangue? Avevo questi pantaloni la
notte dell'assassinio del mercante
di buoi..."
"Questo mi meraviglia!" disse
piano Jean-René "Lisandro che
uggiola a morte, nel fiutare quel
buon uomo!" Allora accadde una
cosa stranissima. Gli ululati di
Lisandro erano così penetranti e
prolungati che gli altri cani lo
udirono (il cortile non essendo
separato dalla cucina se non per
mezzo di una finestra con i vetri),
e, secondo l'abitudine della razza
cagnesca, ripeterono a gara quegli
urli lamentevoli. Benché poco
superstiziosi, i contadini si
guardarono in faccia l'un l'altro
quasi con sgomento.
Infatti, accadeva qualcosa di
strano. Un uomo, che non avevano
potuto accogliere senza un senso
di orrore, entrava nel podere. Le
bestie, sino allora tranquille,
infuriavano subito e mandavano
quei gridi sinistri che, secondo le
credenze popolari, presagiscono
prossima la morte. Il Maître
stesso, malgrado l'abitudine al
male e l'infernale sua audacia, si
scosse nell'ascoltare quegli ululati
funebri, che prorompevano alla
comparsa di lui, di lui, assassino!
Tortillard
soltanto,
scettico,
sfacciato, vero monello di Parigi,
corrotto, per così dire, sin da
quando
poppava,
restò
indifferente all'effetto morale di
quella scena. Liberatosi della
paura di esser morso, quel piccolo
sciancato sprezzò e nemmeno capì
ciò
che
ancora
faceva
raccapricciare il Maître.
Passato il primo stupore, JeanRené uscì, e presto s'udirono gli
schiocchi della sua frusta, che
dissiparono
i
lugubri
presentimenti di Turco, di Sultano
e di Medoro. A poco a poco le facce
dei contadini si rasserenarono.
Dopo qualche istante l'orribile
deformità del Maître destò in loro
più compassione, che ribrezzo;
compiansero lo zoppetto della sua
infermità, lo trovarono vispo ed
interessante, ed elogiarono molto
le premure che aveva per il
genitore.
Il
loro
appetito,
dimenticato per poco, si svegliò
con nuova energia, né altro
s'intese che il rumore delle
forchette.
Mentre facevano onore meglio
che potevano ai buoni cibi
campestri, uomini e donne
esaminavano,
con
vera
commozione, le attenzioni del
ragazzino per il cieco. Tortillard,
seduto vicino al Maître, gli
preparava e gli porgeva i bocconi,
gli tagliava il pane, gli mesceva da
bere, fingendo una premura del
tutto figliale.
Questo era il lato buono della
medaglia: ecco adesso il rovescio.
Tanto per crudeltà, che per
spirito
d'imitazione,
naturale
all'età sua, Tortillard provava un
triste godimento a tormentare il
Maître, come aveva visto fare alla
Chouette, per la quale aveva
particolare affezione.
Come mai quel perverso
fanciullo sentiva il bisogno
d'essere amato? Come traeva
estremo piacere dall'apparente
attaccamento della guercia? Come
poteva essere sensibile al lontano
ricordo degli amplessi di sua
madre? E proprio per la Chouette,
il piccolo Tortillard decise di far
soffrire il Maître mentre erano a
tavola con i contadini ed era
costretto a sopportare per non
insospettirli. Per cui cominciò a
bilanciare
ciascuna
delle
gentilezze verso il supposto padre,
con una occulta pedata di sotto
alla tavola, diretta specialmente
sulla piaga che il Maître aveva alla
gamba.
Ed era necessario un coraggio
tanto più stoico, per celare a tutti
il dolore e la rabbia ad ogni colpo,
in quanto il perfido Tortillard per
porre la sua vittima in posizione
ancor più difficile, sceglieva, per
percuoterlo, i momenti in cui il
Maître beveva, o quelli in cui
discorreva.
Tuttavia, l'impassibilità del
bandito non si smentiva. Frenò
meravigliosamente la collera e lo
spasimo pensando (e su ciò
contava il degno figlio di BrasRouge) che sarebbe stato dannoso
per la riuscita dei suoi progetti,
lasciare
indovinare
quanto
accadeva.
"Tieni, povero babbo, ecco una
noce bell'e sbucciata" disse
Tortillard, ponendo nel piatto del
Maître gli spicchi di uno di quei
frutti, diligentemente staccati dal
guscio.
"Bene, ragazzo mio!" disse
papà Chatelain.
E, rivolto al Maître: "Siete
certo molto da compiangere,
galantuomo; ma avete un figlio
tanto buono, che vi dovete
consolare non poco."
"Sì, sì, la mia disgrazia è grande; e
se non fosse la tenerezza del mio
caro figlio..." E il Maître non poté
trattenere un grido.
Questa volta il figlio di BrasRouge aveva colpito nel vivo della
piaga, ed il dolore fu tale da non
reggersi.
"Mio Dio, che hai povero
padre?" esclamò Tortillard, in aria
di piagnisteo, e, essendosi alzato,
si gettò al collo del Maître.
Nel primo impeto di collera e
di odio, il bandito voleva soffocare
lo zoppetto fra le sue braccia
erculee, e se lo strinse così forte al
petto che il ragazzo, mancandogli
il respiro, mandò un gemito lento
ed affannoso. Ma poi, riflettendo
che non poteva fare a meno di
Tortillard, il Maître si trattenne e
lo respinse sulla seggiola. In tutto
ciò i contadini non videro che uno
scambio di tenerezze paterne e
figliali; il pallore e l'oppressione di
Tortillard parvero loro causate
dall'emozione di quel buon figlio.
"Che
avete,
mio
caro?"
domandò papà Chatelain. "L'urlo
ha fatto paura al bambino.
Poveretto! Può appena respirare!"
"Non è niente" rispose il Maître,
riprendendo il suo solito sangue
freddo. "Io sono fabbro di
mestiere; tempo fa lavoravo a
martello una verga di ferro
rovente, mi cascò sullo stinco, e
mi fece una scottatura tanto
profonda, che ancora non è
cicatrizzata...
Poco
fa
ho
inciampato ad un piede della
tavola, e non ho potuto fare a
meno di gridare dal dolore."
"Povero
babbo!"
soggiunse
Tortillard, calmatosi, e volgendo
uno sguardo diabolico al Maître.
"Povero padre! Eppure, è vero,
miei buoni signori, non c'è stato
mai modo di guarirgli la gamba...
Oh, vorrei averlo io, il suo male,
purché non l'avesse più lui, povero
babbo!" Le donne contemplarono,
intenerite, lo sciancato.
"Ah, galantuomo!" disse papà
Chatelain. "È una disgrazia per voi
non essere capitato qui tre
settimane fa, piuttosto che
stasera."
"Perché?"
"Perché abbiamo avuto per
qualche giorno un dottore di
Parigi che ha un rimedio potente
per il male alle gambe. Una
vecchierella del villaggio non
poteva camminare da tre anni,
quel medico le ha applicato sulle
contusioni un poco del suo
unguento, e adesso corre come
una lepre, e si propone di andare
quanto prima a ringraziare il suo
salvatore a Parigi, in allée des
Veuves... Vedete che di qua c'è un
bel pezzo di strada... Ma che vi
sentite? Da capo quella maledetta
ferita?" Le parole: "allée des
Veuves" richiamavano così orribili
memorie al Maître, che non poté
astenersi dal trasalire e dal
raggrinzire i suoi laidi lineamenti.
"Sì" disse "un'altra fitta..."
"Papà mio, sta' quieto, stasera ti
laverò la gamba" disse Tortillard.
"Poverino,"
fece
Claudine
"come vuol bene a suo padre!"
"È proprio un peccato" soggiunse
papà Chatelain, volgendosi al
Maître "che quel degno professore
non sia qua. È tanto caritatevole
quanto
è
sapiente;
sicché,
tornando a Parigi, fatevi condurre
da lui, e sono certo che vi guarirà.
L'indirizzo non è difficile da
tenersi a mente: allée des Veuves,
17. Se vi scordate il numero, poco
importa; non ci sono molti medici
in quel luogo, e specialmente
medici neri... Giacché dovete
sapere che è un nero, sì, l'ottimo
dottor David." Il volto del Maître
era così sfigurato dalle cicatrici
che non si poteva capire quando si
alterava per un'emozione mentre
papà Chatelain gli parlava del
medico.
Impallidì però, e orribilmente,
udendo prima citare il numero
della casa di Rodolphe, e poi
parlare di David, il dottore nero,
quel nero che, per ordine di
Rodolphe, gli aveva inflitto lo
spaventoso castigo di cui sentiva
ad ogni istante le conseguenze.
Per la prima volta in vita sua
provò una specie di terrore
superstizioso. Si chiese se c'era un
nesso fra tutte le varie coincidenze
di quella sfortunata giornata.
Papà
Chatelain,
non
accorgendosi della sua agitazione,
continuò: "Del resto, buon uomo,
quando
partirete,
daremo
l'indirizzo del dottore al vostro
figliolo, e faremo un piacere al
signor David, mettendolo in grado
di giovare a qualcuno. È tanto
buono! Tanto buono... Peccato che
abbia sempre
quella faccia
malinconica!...
Ma,
animo,
beviamo un bicchierino alla salute
del vostro futuro guaritore."
"Grazie, non ho più sete" rispose
truce il Maître.
"Bevi, caro papà, e farà bene al
tuo povero stomaco" insistette
Tortillard, ponendogli in mano il
bicchiere.
"No, non voglio più bere"
replicò il Maître.
"Non vi ho versato sidro, è vino
vecchio!" disse il contadino. "Oh,
ci sono molti signori di città che
non ne trincano di eguale a
questo. Il nostro non è un podere
come tanti altri... Che ne dite del
nostro pranzo?"
"Buonissimo" rispose il Maître,
sempre più assorto in tristi
pensieri.
"Ebbene, è tutti i giorni così!
Buon lavoro e buon pasto, buona
coscienza e buoni letti: ecco in
quattro parole la nostra vita.
Siamo qui in sette uomini, e,
senza vantarci, facciamo per
quattordici; ma anche siamo
pagati per quattordici... Ai semplici
contadini centocinquanta scudi,
alle mungitrici e alle ragazze della
fattoria sessanta scudi, e da
ripartirsi fra noi un quinto dei
prodotti...
Capite, alla terra non diamo un
momento di riposo, giacché da
buona
nutrice,
quanto
più
produce, e tanto più abbiamo noi!"
"Il vostro padrone non deve
arricchirsi molto, trattandovi in
questo modo" osservò il Maître.
"Il padrone? Oh, non è come
gli altri: ha un modo di arricchire
che è tutto suo."
"Che volete dire?" domandò il
cieco,
desiderando
mutar
conversazione per distrarsi dai
neri pensieri che lo tormentavano.
"Dunque
è
un
uomo
straordinario?"
"Straordinario in tutto, mio caro.
Ma poiché il caso vi ha portato
qui, e questo villaggio è lontano da
qualunque strada maestra, e per
certo non ci tornerete mai più,
almeno voglio che non ci lasciate
senza sapere chi è il nostro
padrone, e cosa fa di questa
tenuta. E adesso ve lo dico in due
parole, a patto che le ripetiate a
tutti quanti. Vedrete, sono cose
buone a dirsi, come a sentirle."
"Vi ascolto" rispose il Maître.
6.
Una fattoria esemplare.
"E non vi rincrescerà di avermi
ascoltato" prese a dire papà
Chatelain. "Figuratevi che un
giorno il nostro padrone pensò fra
sé: "Sono ricchissimo, va bene, ma
siccome non per questo pranzo
due volte, se facessi pranzare
quelli che non hanno pranzo, e
mangiar meglio tanti altri che non
ne hanno abbastanza per vivere...
Sì, mi piace! Presto, all'opera!". E
ci si accinse subito. Comprò
questo podere, che allora dava
poca
rendita,
e
impiegava
solamente due aratri... Io lo so
perché ci sono nato... Aumentò i
terreni, e tra poco sentirete il
perché. Alla direzione della
fattoria mise una brava donna,
rispettabile quanto disgraziata...
Già lui sceglie sempre così... E poi
disse: "Questa casa sarà come la
casa di Dio benedetto, aperta ai
buoni, chiusa per i birbanti; ne
saranno cacciati gli accattoni
infingardi, ma si darà l'elemosina
del lavoro a quelli che hanno
voglia d'industriarsi: elemosina
che non umilia chi la riceve, e
porta profitto a chi la dà. Il ricco
che non la faccia, è un cattivo
ricco". Ecco come pensa il nostro
padrone e ha ragione davvero! E
non gli basta dirlo, ma opera su
quell'idea. Tempo addietro c'era
una strada diretta da qui a Ecouen,
che scorciava d'una lega intera,
ma,
corbezzoli!,
era
tanto
sfondata, che non ci si poteva più
passare: era una morte per i
cavalli e per le vetture. Un po' di
fatica e di denaro somministrato
dai
fattori
delle
vicinanze,
l'avrebbe rimessa in buono stato,
ma tanto desideravano vedere la
strada rimessa in sesto, quanto
non avevano voglia di sborsare
quattrini e fatiche. Il nostro
padrone allora disse: "La strada si
farà; ma, siccome quelli che
potrebbero
contribuire
non
contribuiscono, siccome è quasi
un lusso, sarà utile in avvenire a
chi ha carrozza e cavalli, ma prima
deve giovare a quelli che non
hanno altro che braccia, cuore e
scarsità di lavoro.
Se, per esempio, un pezzo
d'uomo robusto bussa al podere,
gridando: 'Ho fame, e mi manca
impiego!...' 'Figlio mio, eccoti una
buona pala e una zappa, va sulla
via di Ecouen, fa ogni giorno due
tese di ghiaia, e la sera avrai un
paio di franchi; una tesa un
franco, mezza tesa dieci soldi... Se
no, nulla!...' Io poi, all'imbrunire,
tornando dai campi, vengo ad
esaminare ogni cosa, e controllo
quel che ha fatto ciascuno..."."
"E quando si pensa che ci sono
stati degli uomini senza cuore,
tanto canaglie da mangiarsi la
minestra e poi rubare la zappa e la
pala!" disse Jean-René, con
indignazione. "Oh, vale la pena di
far loro del bene?"
"Oh, questo è vero!" ripeterono
insieme parecchi contadini.
"Eh via, miei cari" riprese papà
Chatelain. "Così non si farebbero
né piantagioni né sementi, se
stiamo a badare che ci sono
arzavole, punteruoli ed altri cattivi
insetti che ci rodono le foglie e
sbriciolano il grano! No, no! Si dà
addosso a quelle razzacce. Dio
benedetto, che non è avaro, fa
spuntare nuovi rampolli, nuove
spighe, il danno si ripara, e non ci
accorgiamo nemmeno che sono
passate quelle bestie maligne. Non
è così, galantuomo?" domandò il
vecchio.
"Sicuro, sicuro" rispose Maître,
che da qualche momento rifletteva
profondamente.
"Oh, per le donne e i ragazzi c'è
da lavorare secondo le forze"
soggiunse papà Chatelain.
"E però" obiettò Claudine "la
strada non si fa in fretta!"
"Madonna! È segno che, per
fortuna, in questi paesi alla brava
gente non manca lavoro."
"Ma ad un infermo, a me, per
esempio" disse d'un tratto il
Maître "non si accorderebbe per
carità un posto in qualunque
angolo del podere, un tozzo di
pane, un po' di ricovero, per il
poco tempo che mi resta da
vivere? Ah, se questo potesse
essere, mie buone genti, passerei
tutta la vita a ringraziare il vostro
padrone." Il Maître parlava sul
serio. Non che si pentisse dei suoi
delitti, ma l'esistenza quieta e
felice di quei villici eccitava tanto
più in lui l'invidia, quanto più
rifletteva sull'orribile avvenire
riserbatogli
dalla
Chouette,
avvenire che non aveva previsto, e
che lo faceva rammaricare di
avere, chiamando la sua complice,
perduto per sempre la possibilità
di vivere fra persone oneste,
presso le quali lo aveva accasato lo
Chourineur.
Papà Chatelain guardò attonito
il Maître.
"Ma pover'uomo, non vi
credevo affatto privo di mezzi!"
"Ah sì, Dio buono! Ho perduto la
vista per una disgrazia nel mio
mestiere, e vado a Louvres a
chiedere aiuto a parenti lontani,
ma, capite, qualche volta gli
uomini sono tanto egoisti, sono
così duri" disse il furfante.
"Oh, qui non c'entrano gli
egoisti!" fece papà Chatelain. "Un
onesto operaio come voi, infelice
come siete, con un ragazzo così
carino
e
tanto
amoroso,
commuoverebbe anche le pietre...
Ma il padrone che vi impiegava
prima di quella disgrazia, non fa
niente a vostro favore?"
"È morto" disse l'assassino, dopo
qualche titubanza. "Era il mio solo
protettore."
"Ma all'ospizio dei ciechi?"
"Non sono in età per esserci
ammesso."
"Poveretto!
Fate
davvero
compassione."
"Ma dunque credete che, se io non
trovassi a Louvres l'assistenza che
spero, il vostro padrone, che già
rispetto senza conoscerlo, non
avrà pietà di me?"
"Vedete, caro, il podere non è un
ospizio. Ordinariamente si accorda
agli infermi di passarci una notte
od una giornata, poi si dà loro un
sussidio, e Iddio li aiuti!"
"Sicché
non
c'è
mezzo
d'interessare il vostro padrone alla
mia triste sorte?"
"Vi ho detto il regolamento, amico
mio, ma il padrone è così
compassionevole e generoso, che è
capace di trovarvi un posto
qualsiasi qui da noi."
"Sì, eh?" esclamò il Maître.
"Sarebbe
possibile
che
acconsentisse a lasciarmi vivere
qui
in
un
angolino?
Mi
accontenterei di poco!"
"Vi ripeto che è capace di tutto. Se
accetta di tenervi nella fattoria,
non ci sarebbe bisogno che vi
nascondeste in un angolo. Sareste
trattato come noi... Nello stesso
modo di stasera... Si troverebbe da
occupare
il
vostro
ragazzo,
secondo le sue forze, e non gli
mancherebbero buoni consigli e
migliori
esempi:
il
nostro
venerabile parroco lo istruirebbe
insieme agli altri fanciulli del
villaggio, crescerebbe bene, come
si suol dire... Ma, badiamo,
bisognerebbe
discorrerne
domattina,
francamente,
alla
nostra
Signora
del
Buon
Soccorso."
"Come?" chiese il Maître.
"Così chiamiamo la nostra
padrona... Se lei si interessa per
voi, l'affare è assicurato. In
materia di carità, il nostro
proprietario nulla rifiuta a quella
signora."
"Oh, allora le parlerò, le parlerò!"
esclamò allegro il Maître, che si
vedeva già libero dalla tirannia
della Chouette.
Tale speranza non fu condivisa
da Tortillard, che non si sentiva
disposto ad approfittare delle
offerte del vecchio contadino ed a
crescere sotto il controllo di un
rispettabile
parroco.
Aveva
aspirazioni
tutt'altro
che
campestri, e lo spirito poco adatto
alla vita pastorale. Inoltre, fedele
agli insegnamenti della Chouette,
avrebbe
visto
con
sommo
dispiacere che il Maître si
sottraesse al loro dispotismo.
Voleva dunque richiamare alla
realtà l'iniquo ladrone, che già si
smarriva tra villerecce e soavi
illusioni.
"Oh, sì!" ripeté il Maître.
"Parlerò alla vostra Signora del
Buon
Soccorso...
Lei
avrà
compassione, e..." Tortillard diede
in quel momento un calcio
fortissimo al Maître, e lo colpì
proprio sulla piaga. Il dolore
interruppe la frase del manigoldo,
che dopo essersi scosso per lo
spasimo, ripeté: "Sì, spero che si
muoverà a pietà."
"Povero papà!" seguitò Tortillard.
"Ma dunque tu non ricordi la mia
buona zia, la signora Chouette,
che ti vuole tanto bene. Povera zia
Chouette!
Oh,
non
ti
abbandonerà... Sarebbe capace di
venire a prenderti anche qui, con il
nostro cugino il signor Barbillon."
"Costui ha certi parenti nella razza
degli uccelli e in quella dei pesci!"
disse piano Jean-René, ma con
molta malizia, dando di gomito a
Claudine che gli era accanto.
"Ah, voi siete senza cuore!
Ridete di quel disgraziato?"
rispose questa adagio, rendendo a
Jean-René una tal gomitata da
rompergli le costole.
"La signora Chouette è vostra
parente?"
domandò
papà
Chatelain.
"Sì, è nostra parente..." rispose
il Maître abbattuto, smanioso.
In caso gli fosse riuscito di aver
nel podere un non sperato rifugio,
temeva che la guercia, per
malignità, sarebbe venuta a
denunciarlo.
Temeva anche che i nomi
singolari
di
quei
supposti
congiunti, citati da Tortillard,
risvegliassero i sospetti.
"È quella che andate a trovare
a Louvres?" chiese ancora papà
Chatelain.
"Sì" disse il brigante "ma credo
che mio figlio s'inganni se fa
assegnamento su di lei."
"Oh, caro papà, non m'inganno,
no. È tanto buona la mia zia
Chouette... Lo sai pure che fu lei a
mandarti l'acqua con cui ti bagnO
la gamba e anche a insegnarmi il
modo di servirmene. Fu lei che mi
raccomandò: "Fa' per il tuo povero
papà quel che farei io stessa, e Dio
ti benedirà...". Oh, la mia zia
Chouette ti vuole bene, te ne vuole
tanto, che..."
"Buono, buono..." disse il Maître,
interrompendolo. "Tutto questo
non impedisce in ogni caso che io
discorra domattina alla buona
signora, e implori il suo appoggio
presso il rispettabile proprietario
della fattoria... Ma" soggiunse per
cambiare la conversazione e porre
un termine alle imprudenti parole
di Tortillard "a proposito del
proprietario del podere, qualcuno
mi aveva promesso di raccontarmi
quel che c'è di particolare nella
sistemazione della fattoria dove
noi siamo."
"Sono io che ve l'ho promesso"
fece papà Chatelain "e ora
mantengo. Il padrone, dopo avere
immaginato quella che chiama
l'elemosina del lavoro, disse fra sé:
"Ci sono stabilimenti, e persino
premi,
per
incoraggiare
il
perfezionamento dei cavalli, degli
altri animali, degli aratri e di
molte altre cose... Perbacco,
sarebbe tempo di studiare come
perfezionare gli uomini. Buone
bestie, va bene; buone genti,
sarebbe meglio, ma è più difficile.
Biada greve e grassi prati, acqua
viva e aria pura, premure assidue e
ricovero certo: cavalli ed altri
animali cresceranno come si vuole
e daranno ogni soddisfazione... Ma
per la gente, eh, eh, è tutt'altro:
non si fa virtuoso un uomo come
si fa grasso un bue. Però, l'erba fa
bene al bue perché gli piace di
sapore e lo nutre. Dunque penso
che per far sì che all'uomo
facciano bene i suoi consigli,
bisogna procurare che trovi il suo
vantaggio a seguirli"."
"Come il bue lo trova nel
mangiarsi l'erba, non è vero, papà
Chatelain?" notò un contadino.
"Precisamente, ragazzo mio."
"Ma papà Chatelain" fece un altro
contadino "nei tempi passati si
chiacchierò tanto di una specie di
fattoria dove diversi giovani ladri,
che avevano avuto però una
condotta stupenda, imparavano
l'agricoltura, ed erano tenuti e
accoccolati come principini!"
"È vero, ragazzi, in questo c'è del
buono: è umano e caritatevole non
disperare mai dei cattivi, ma
bisognerebbe anche far sperare i
buoni.
Se un onesto ragazzo robusto,
industrioso, che avesse voglia di
far bene e imparare, si presentasse
a quella tenuta di ex ladroni, gli si
domanderebbe: "Di', su, hai
rubato, un bricciolino? Sei stato
vagabondo?". "No."
"Dunque qui non c'è posto per
te."."
"Avete
ragione,
veh,
papà
Chatelain, nelle cose che dite"
assentì Jean-René. "Fanno per i
bricconi quel che non vogliono
fare per la gente come si deve; si
migliorano le bestie, e non le
persone."
"E per dare l'esempio e rimediare
a questo malanno, mio caro, il
nostro padrone, come raccontavo
a
questo
galantuomo,
ha
sistemato questo podere... "So
bene" disse fra sé "che lassù vi
sono delle ricompense per le
persone oneste! Ma lassù, eh,
Madonna, è troppo in alto e troppo
lontano! E taluni (e badate vanno
compianti) taluni non hanno la
vista e il fiato tanto larghi da
arrivarci. E poi, durante il giorno,
dall'alba al tramonto, curvi sulla
terra, la vangano e la rivangano
per utile del padrone; la notte,
dormono, spossati, sopra un
lettuccio.
Le
domeniche
si
ubriacano
alla
bettola
per
scordarsi le fatiche di ieri e quelle
di domani... Perché quelle fatiche
sono sterili per loro, povera gente!
Dopo un lavoro forzato, hanno
forse un pane meno nero, il letto
meno duro, figli meno macilenti,
la moglie meno smunta a forza
d'allattarli? Allattarli! La donna
stessa non mangia tanto da cavarsi
la fame! No, no! Tuttavia il loro
pane è nero, ma è pane; il saccone
è duro ma è un saccone; sono
sparuti i figli, ma campano: e
sopporterebbero forse la loro sorte
allegramente se credessero che
tutti
fossero
nella
stessa
situazione. Ma vanno in città, o
nel sobborgo quando si fa
mercato, e là vedono pagnotte
bianche,
materassi
pieni
e
morbidi, ragazzi color delle rose di
maggio e così ben pasciuti che
gettano le ciambelle ai cani...
Madonna!...
Allora, tornando alla capanna,
sulla panca, al cibo ordinario, e
vedendo i loro bambini malaticci,
magri, affamati, ai quali avrebbero
voluto portare una di quelle
ciambelle che gli altri gettano alle
bestie, dicono fra sé: 'Giacché ci
devono essere ricchi e poveri,
perché noi non siamo nati ricchi?
O perché non tocca una volta per
uno?'. Eh, giovanotti miei, questo
che dicono non è privo di
buonsenso... Ma non li solleva dal
giogo; e il giogo gravissimo, che
qualche volta li opprime, li
abbatte, bisogna che lo portino
sempre, e senza speranza di
riposarsi, e di conoscere, anche un
sol giorno, le contentezze che dà
una condizione migliore... Tutta la
vita, così breve, pare ad essi molto
lunga! Lunga come una giornata
di pioggia, senza un raggio di sole.
Poi vanno al lavoro tristi e
svogliati. E la maggior parte
dicono: 'A che giova lavorare di più
e meglio? che la spiga sia pesante
o leggera? Per me non è tutt'uno.
Perché mi devo strapazzare?
Manteniamoci onesti: il male è
punito, non si faccia il male; il
bene non ha ricompensa, non si
faccia il bene... Conserviamo le
qualità delle buone bestie da
soma, pazienza, forza e docilità!'. E
questi pensieri risultano a danno,
figlioli. Da questa noncuranza
all'indifferenza morale ci corre
poco, e dall'indifferenza al vizio c'è
anche meno. Disgraziatamente,
quelli che, né buoni né cattivi, non
fanno bene né male, sono il
maggior numero. Dunque questi"
disse il nostro padrone "è
necessario migliorarli, come se
avessero l'onore di essere cavalli, o
animali
cornuti,
o
lanuti.
Facciamo che abbiano interesse ad
esser savi, laboriosi, istruiti,
zelanti nei loro doveri, proviamo
loro che, diventando migliori,
diventeranno materialmente più
felici... Tutti ci guadagneranno.
Perché i buoni consigli giovino,
diamo loro quaggiù un saggio
della felicità che lassù è riservata
ai giusti..." Fissato il suo piano,
fece sapere nelle vicinanze che gli
occorrevano sei coltivatori e
altrettante donne o ragazze. Ma
voleva sceglierli tutti fra i migliori
del paese, dopo aver preso
informazioni dai sindaci, dai curati
o da altri. Dovevano esser pagati
(come lo siamo) da principi, e
mantenuti meglio dei signori di
città.
E poi stabilì di dividere fra i
lavoratori un quinto dei prodotti
del raccolto. Li avrebbe tenuti due
anni nella fattoria, per dare poi il
posto ad altri agricoltori, presi agli
stessi patti. "Dopo cinque anni"
disse
inoltre
"potrei
anche
accordare
il
permesso
di
ripresentarsi qualora ci fossero
impieghi vacanti." Così da quando
fu stabilito il podere, contadini e
operai dei dintorni dicono: "Siamo
attivi, galantuomini, laboriosi,
distinguiamoci per la nostra
buona condotta, e un giorno
potremo entrare nella fattoria di
Bouqueval; là vivremo per due
anni come in un paradiso, ci
perfezioneremo nel mestiere,
porteremo via un buon capitale, e
per di più tutti faranno a gara per
averci, poiché per essere ammessi
là ci vuole l'attestato di capace e
onesto"."
"Io sono già d'accordo per andare
al podere di Arnouille, dal signor
Dubreuil" disse Jean-René.
"E io sono accaparrato da
Gonesse" aggiunse un altro
contadino.
"Vedete, mio caro, tutti hanno
dei vantaggi. E i fattori dei
dintorni
ne
approfittano
doppiamente. Non ci sono che
dodici posti per uomini e donne,
ma forse ci sono più di cinquanta
candidati. E quelli che non hanno
ottenuto il posto non per questo
smettono di comportarsi bene.
Tanto più che quelli a cui non
tocca sperano di averlo in seguito,
e così si hanno molte ottime
persone. Ecco, parlando con
rispetto, per un cavallo che vince il
premio della corsa, o per la forza,
o per la bellezza, si addestrano
cento cavalli capaci di guadagnarsi
quel premio. Ebbene, quelli che
non l'hanno avuto, non sono
meno buoni e bravi... Eh, mio
caro, quando vi dicevo che il
nostro podere non era un podere
come gli altri, né il nostro padrone
un padrone come tanti altri, non vi
raccontavo frottole."
"Oh, no, di certo!" gridò il Maître.
"E appunto perché mi pare
grandissimo in bontà e generosità,
mi lusingo che si muova a
compassione della mia triste
sorte; un uomo che fa il bene così
nobilmente e con tanto giudizio,
non deve badare ad un beneficio di
più o di meno."
"Anzi, ci bada" disse Chatelain "ma
per gloriarsi di una nuova buona
azione. Ma mi pare che vi
rivedremo qui da noi, e che non
sarà questa l'ultima volta che
sedete alla nostra tavola."
"Non è così? Io ci spero... Oh, se
sapeste come sono contento e
grato!" esclamò il Maître.
"Non ne dubito, è tanto buono
il nostro proprietario!"
"Ma che io sappia almeno il suo
nome e quello della donna che
chiamate Nostra Signora del Buon
Soccorso!" disse con impeto il
Maître.
"Così
che
possa
anticipatamente benedire quei cari
nomi."
"Capisco la vostra impazienza"
rispose papà Chatelain. "Oh,
Madonna, vi aspettate forse nomi
di grande risonanza? Oh no! Sono
semplici e dolci come quelli dei
santi: la Nostra Signora del Buon
Soccorso si chiama signora
Georges, e il nostro padrone,
signor Rodolphe."
"Mia moglie! il mio carnefice!"
mormorò il Maître, fulminato da
tale scoperta.
7.
La notte.
Rodolphe! la signora Georges!
Il Maître non poteva credersi
illuso da una casuale somiglianza
di nomi. Rodolphe, prima di
condannarlo ad un terribile
supplizio, gli aveva detto di nutrire
per la signora Georges un vivo
interesse. Infine la presenza di
David, il nero, in quella tenuta, gli
provava che non s'ingannava.
Riconobbe qualche cosa di
superiore,
di
fatale,
in
quest'ultimo
incontro,
che
distruggeva la speranza, per un
momento
alimentata,
sulla
generosità del proprietario del
podere. La sua prima idea fu
quella di fuggire.
Rodolphe gli inspirava un
terrore insormontabile: chissà che
a quell'ora non fosse nella
fattoria?
L'assassino,
appena
riavutosi dallo stupore, si alzò
dalla tavola, prese per mano
Tortillard, e disse gravemente:
"Andiamo via... Usciamo di qui!" I
contadini
si
guardarono
meravigliati.
"Andar via adesso? Ma dove
volete andare, pover'uomo?" disse
papà Chatelain. "Ma che ghiribizzo
vi è nato? Siete forse pazzo?"
Tortillard approfittò accortamente
di queste parole, mandò un grosso
sospiro, fece con il capo un cenno
affermativo, e mettendosi l'indice
sulla fronte diede a intendere che
il suo supposto padre non era
certo molto sano di testa. Il
vecchio contadino gli rispose con
un segno d'intelligenza e di
compassione.
"Vieni, vieni, usciamo!" ripeté
il Maître, cercando di trascinare
via il ragazzo.
Tortillard,
assolutamente
deciso a non lasciare un così buon
ricovero per correre al freddo per i
campi, disse con voce dolente: "Oh
Dio, povero papà, ti ritorna il tuo
solito attacco? Calmati, non andar
fuori a questo addiaccio, ti farebbe
male! Vorrei piuttosto avere il
dispiacere di disobbedirti, che
portarti fuori a quest'ora!" Poi
rivolto ai contadini: "Non è vero,
miei buoni signori, che mi
aiuterete
a
impedirgli
di
andarsene?"
"Sì, sì, sta' quieto, ragazzo mio"
disse
papà
Chatelain
"non
apriremo il portone... Così sarà
costretto a dormir qua."
"Non mi obbligherete a restarci!"
gridò il Maître. "E poi, darei noia
al vostro padrone, al signor
Rodolphe... Mi avete detto che la
fattoria non è un ospizio... Sicché,
lo ripeto, lasciatemi uscire..."
"Dar noia al nostro padrone? Ma
vi pare! Purtroppo, non abita qua e
non ci viene spesso, come
vorremmo tutti, ma anche se ci
fosse, non gli dareste fastidio...
Questa casa non è un ospizio, ma
vi ho detto che gli infermi da
compiangere come voi, possono
trattenervisi un giorno e una
notte."
"Non è qui, stasera, il vostro
padrone?" domandò il Maître,
meno spaventato.
"No, deve venire, secondo il
suo solito, fra cinque o sei giorni...
Sicché, vedete, non c'è ragione
che abbiate paura. Ormai è
difficile che stasera scenda la
buona
signora.
Lei
vi
tranquillizzerebbe del tutto: non
ha forse ordinato che vi si faccia il
letto? Ma se non la vedrete subito,
le parlerete domani prima di
partire; le farete la vostra piccola
supplica, perché interessi, a vostro
favore, il padrone e vi trattenga
nel podere."
"No, no" disse il Maître, di nuovo
allarmato "ho cambiato idea. Mio
figlio dice bene, la mia parente di
Louvres avrà pietà di me. Andrò a
trovarla."
"Come
volete"
rispose
con
compiacenza
papà
Chatelain,
pensando di aver a che fare con un
pazzo. "Ve ne andrete domattina.
Mettervi in viaggio di notte con
questo povero ragazzo, oh, non lo
sperate! Siamo qua per impedirlo."
Benché Rodolphe non fosse nella
fattoria, non si calmavano del
tutto i timori del Maître.
Quantunque
mostruosamente
sfigurato, egli dubitava di essere
ancora riconosciuto dalla moglie,
che poteva scendere da un
momento all'altro; in tal caso era
persuaso che lei lo avrebbe
denunciato e fatto arrestare,
poiché era certo che Rodolphe,
nell'infliggergli l'orribile castigo,
avesse
voluto
specialmente
assecondare l'odio e la vendetta
della signora Georges. Ma l'iniquo
non poteva muoversi, si trovava a
discrezione di Tortillard.
Quindi si rassegnò, e per
evitare d'esser sorpreso dalla
consorte, disse al contadino:
"Poiché mi assicurate che non
darò disturbo al padrone né alla
signora, accetto l'ospitalità che mi
offrite; ma siccome sono molto
stanco, se permettete, mi metterò
subito a letto; vorrei partire
all'alba."
"Oh, domattina sì, a vostro
comodo. Qui tutti si alzano presto,
e, perché non vi smarriate ancora,
qualcuno vi metterà sulla vostra
strada."
"Se volete, accompagnerò io
questo pover'uomo per un bel
pezzo della via" propose JeanRené. "La signora mi ha detto di
prendere il calesse per andare a
riscuotere del denaro dal notaio, a
Villiers-le-Bel."
"Mi fa piacere che tu metta questo
cieco sulla sua strada, ma ci andrai
con le tue gambe" disse papà
Chatelain. "La signora ha mutato
pensiero; dice, con ragione, che
non c'è bisogno di avere nella
fattoria una così grossa somma; si
potrà andare a Villiers-le-Bel
lunedì prossimo, e intanto le
monete stanno bene in mano al
notaio come qua.
"La signora sa meglio di me
quel che bisogna fare. Ma che c'è
da temere per i quattrini, papà
Chatelain?"
"Nulla, grazie a Dio! Ma non serve,
preferirei aver qui cinquecento
sacchi di grano, che dieci sacchi di
scudi... Animo" soggiunse il
vecchio agricoltore rivolgendosi al
furfante ed a Tortillard "venite,
galantuomo, e anche tu ragazzo."
Prese
un
candeliere,
poi,
precedendo i due ospiti, si avviò ad
una cameretta del pianterreno,
dove arrivarono, dopo aver
attraversato un lungo corridoio, su
cui davano parecchi usci. Papà
Chatelain pose la candela accesa
sopra una tavola, e disse al Maître:
"Ecco la vostra stanza; Dio
benedetto vi dia la buona notte. E
tu, monello, dormirai bene: così
succede all'età tua." Il brigante
andò a sedersi pensoso e tetro
sulla sponda del letto, vicino a cui
fu condotto da Tortillard.
Questi fece un cenno d'intesa
al contadino che usciva dalla
camera, e lo seguì nel corridoio.
"Che vuoi, figliolo?" domandò
il contadino.
"Mio buon signore, sono ben
disgraziato! Qualche volta il mio
povero padre ha certi attacchi
durante la notte... Sono come
convulsioni. Io non lo posso
assistere da solo. Se fossi
obbligato
a chiedere
aiuto,
qualcuno mi sentirebbe?"
"Caro ragazzo! Sta quieto" disse
l'altro con compassione. "Vedi
quell'uscio accanto alla scala?"
"Sì, signore, lo vedo."
"Ebbene! Uno dei famigli del
podere dorme sempre là; basta che
tu vada a destarlo, c'è la chiave alla
serratura, e verrà a darti una mano
nel soccorrere tuo padre."
"Ahimè! Quel garzone ed io forse
non ce la faremo con mio padre se
gli prendono le convulsioni... Non
potreste venire anche voi, che
avete la faccia da buono, tanto
buono!"
"Ragazzo mio, io dormo, come gli
altri, in una parte della casa che è
in fondo al cortile. Ma non
dubitare, Jean-René è robusto,
atterrerebbe un toro, prendendolo
per le corna. D'altronde, se
servisse qualcuno per darvi aiuto,
egli andrebbe ad avvertire la
vecchia cuoca; questa dorme al
primo piano accanto alla signora
Georges e alla signorina, e,
occorrendo, serve di assistente agli
ammalati, tanto è piena di
attenzione."
"Oh, grazie, grazie, mio degno
signore; pregherò Dio per voi,
giacché siete così caritatevole da
aver pietà del mio povero papà."
"Bene, bene, figliolo, buona notte.
Speriamo che non avrai necessità
di nessuno per tenere a freno tuo
padre. Va' dentro, può darsi che ti
aspetti."
"Corro subito. Buona notte,
signore."
"Dio ti conservi, mio caro." E papà
Chatelain si allontanò.
Appena ebbe girato le spalle, lo
zoppaccio gli fece quel gesto
derisorio e insultante familiare ai
monelli di Parigi, che consiste nel
battersi più volte la nuca con il
rovescio della mano sinistra.
Con astuzia diabolica, quel
pericoloso ragazzo si era procurato
alcune
informazioni
per
assecondare i sinistri progetti
della Chouette e del Maître.
Sapeva già che l'edificio dove loro
avrebbero dormito non era abitato
che dalla signora Georges, da
Marie, da una vecchia cuoca e da
un famiglio della fattoria. Tornato
nella camera che gli era destinata,
si guardò bene dall'avvicinarsi al
Maître, ma questo lo sentì, e gli
disse piano: "Di dove vieni,
scellerato?"
"Siete pur curioso, Senz'occhi!"
"Oh, adesso mi pagherai tutto
quello che mi hai fatto patire,
disgraziata creatura" esclamò il
Maître, e si alzò furibondo,
cercando a tastoni Tortillard, e
appoggiandosi al muro per
orientarsi. "Ti strozzerò, vipera
maledetta!"
"Povero papà! Siete in buona vena
se volete giocare a mosca cieca con
il vostro amato figlioletto!" disse
Tortillard,
schernendolo
e
sfuggendogli facilmente.
Il Maître, prima trasportato da
improvvisa collera, fu in breve
costretto, come al solito, a
rinunciare a raggiungere il figlio di
Bras-Rouge. Obbligato a subire le
sue
impudenti
persecuzioni,
soffocando l'ira impotente si gettò
sul letto bestemmiando.
"Povero papà che avete? La
rabbia
ai
denti?
Perché
bestemmiate così? Che vi direbbe
il parroco se vi sentisse? Vi
metterebbe in penitenza..."
"Bene!" disse il Maître, frenandosi
a stento e con voce roca.
"Deridimi, abusa dei miei
malanni, vile che sei! Bella cosa,
bella generosità!"
"Oh, che parole! Generosità! Chi
lo dice?" gridò Tortillard con uno
scroscio di risa. "Scusate, caro...
Voi sì, che vi mettevate i guanti
per menar pugni a tutti, a diritto e
a rovescio quando non eravate
guercio da due occhi!"
"Ma non ti ho fatto mai male, a
te... Perché mi tormenti così?"
"Perché avete detto delle cosacce
alla Chouette, prima di tutto... E
poi, a pensarci, perché il signorino
pretendeva di restar qui, di fare
l'innocentino con i contadini... Il
signorino voleva forse far la cura
del latte d'asina?"
"Carogna! Se avessi avuto la
possibilità di rimanere in questa
fattoria, che ora una saetta la
distrugga, tu quasi me lo avresti
impedito con le tue insolenze."
"Voi star qui? Oh, questo è uno
scherzo! E allora chi sarebbe la
bestia da strapazzo della signora
Chouette? Forse io? Grazie, grazie,
non voglio star tanto bene!"
"Brutto aborto!"
"Aborto! Ecco, ecco una ragione di
più! Come dice mia zia Chouette,
non c'è miglior divertimento che
farvi arrabbiare a morte, voi, che
mi ammazzereste con un pugno...
C'è più gusto che se foste debole.
Com'eravate ridicolo, stasera, a
tavola! Dio buono, quanto me la
godevo! Proprio certe scene
comiche del teatrino della Gaité! A
ogni calcio che vi rifilavo di
soppiatto, vi saliva il sangue alla
testa per la collera, i vostri occhi
bianchi diventavano rossi; non ci
mancava altro che un po' di blu in
mezzo per farli tricolori... Due vere
coccarde da gendarmi!"
"Animo, su, sei sempre disposto a
scherzare... Sei allegro tu... Eh,
sono cose della tua età, non me la
prendo..." disse il Maître in tono
affettuoso,
sperando
di
commuovere
Tortillard.
"Ma
invece di stare a molestarmi,
faresti meglio a ricordarti di quel
che ti ha detto la Chouette,
giacché le vuoi tanto bene:
esaminare tutto, pigliare le
impronte... Hai inteso? Parlavano
di una grossa somma che avranno
qui lunedì. Ci si potrebbe tornare
con gli amici, e fare un buon
colpo...
Ah, s'ero bestia a rimaner qui...
Mi sarei stancato dopo otto giorni,
di questi gonzi di contadini... Non
è vero, piccolo?" domandò il
furfante, piaggiando Tortillard.
"Mi avreste fatto un gran
dispiacere, parola d'onore!" replicò
il figlio di Bras-Rouge, burlandolo.
"Sì, c'è da fare un buon colpo...
e anche se non ci fosse nulla da
rubare, tornerei in questa casa con
la Chouette per vendicarmi"
seguitò l'assassino, con voce
alterata dal furore e dall'odio.
"Poiché di certo è mia moglie che
ha
suscitato
contro
me
quell'infernale Rodolphe. E quello,
maledetto, mi ha accecato e messo
in balia di ogni farabutto, della
Chouette, d'un monello come te...
Bene, poiché non posso rifarmi su
di lui, mi rifarò su mia moglie... Sì,
lei pagherà per tutti! Dovessi
appiccar fuoco alla casa, e
seppellirmi io stesso sotto le
rovine! Oh, lo vorrei, sì, lo vorrei!"
"Vorreste averla nelle mani, la
vostra sposina, eh, vecchio?... E a
pensare che è distante da voi dieci
passi... È roba da crepare! Io, se
volessi, vi porterei all'uscio della
camera... Io, perché lo so dov'è, lo
so... lo so... lo so!" aggiunse
Tortillard, canterellando secondo
il solito.
"Sai dov'è la sua camera?" urlò
il Maître con gioia feroce. "Lo
sai?"
"Ora vi ci prendo..." continuò lo
stortaccio "ora vi faccio mettere da
bravo sulle zampe di dietro, come
un cane quando gli si mostra un
osso... Animo, su ritto, Melampo!"
"Sai dov'è la stanza della mia
consorte?"
ripeté
l'assassino,
volgendosi dalla parte ove udiva
parlare Tortillard.
"Sì, lo so. E quel che è meglio,
è che un famiglio solo dorme nel
locale dove siamo noi; so dov'è
l'uscio; la chiave c'è attaccata...
Crac, una giratina, e si chiude
subito...
Animo,
su,
ritto,
Melampo!"
"Chi te lo ha detto?" gridò il
Maître,
alzandosi
involontariamente.
"Bene,
Melampo,
bene!...
Accanto alla stanza di vostra
moglie dorme una vecchia cuoca...
Un'altra giratina di chiave, e siamo
padroni della casa, padroni di
vostra moglie e della ragazza con
la cappottina bigia che venivamo a
portar via... Ora, la zampa, vecchio
Melampo! Fatevi bello per il
padroncino! Subito!"
"Tu dici una bugia... Dici una
bugia! Come puoi saperlo?"
"Zoppo, sì, ma non stupido...
Poc'anzi ho inventato a quel
gocciolone di coltivatore che nella
notte voi avete qualche volta le
convulsioni, e gli ho domandato
dove avrei potuto trovare aiuto se
vi avesse preso un attacco... Allora
mi ha risposto che, se mai, potevo
svegliare il famiglio e la cuoca, e
mi ha insegnato dove dormivano,
l'uno giù, l'altra su, al primo piano,
accanto a vostra moglie... vostra
moglie... vostra moglie!" E
Tortillard si divertiva a ripetere il
suo canto monotono.
Dopo un lungo silenzio, il
Maître gli disse, con quiete
apparente, ma con terribile
risoluzione: "Ascolta... Ne ho
abbastanza della vita. Poco fa, sì,
lo confesso, ho avuto una
speranza che adesso mi fa parere
la mia sorte anche più orribile... La
prigione, la galera, la ghigliottina,
sono un nulla in confronto a
quello che patisco da stamane. E
questo avrò da patirlo sempre!
Conducimi alla stanza di mia
moglie; ho qui il coltello,
l'ammazzerò... Poi uccideranno
me, non importa... L'odio mi
soffoca.
Sarò vendicato, questo mi
solleverà... Quel che sopporto è
troppo...
Sì, è troppo, per me che vedevo
tremare tutti davanti a me. Senti,
se tu sapessi quel che soffro,
avresti pietà di me. Mi pare che il
cranio stia per farsi in pezzi, le
vene mi battono come volessero
spaccarsi, mi si confonde il
cervello..."
"Hai la rinite, vecchio mio? Si sa,
si sa! Starnutisci, così passa!"
disse Tortillard, smascellandosi
dalle risa. "Volete una presa?" E
picchiandosi forte sul rovescio
della mano sinistra ben chiusa,
come avrebbe fatto sul coperchio
d'una tabacchiera, canterellò:
"Buono è il tabacco Di questa
scatola, Ma no, per Bacco. Non è
per te..."
"Oh Dio, Dio, vogliono farmi
diventar pazzo!" esclamò il Maître,
divenuto delirante e smanioso per
quella
vendetta,
sanguinaria,
ardente, implacabile, che invano
cercava di compiere. L'esuberanza
delle forze di quel mostro non
poteva essere eguagliata che
dall'impotenza.
Figuratevi un lupo famelico,
infuriato, idrofobo, tormentato
ogni giorno da un bambino
attraverso i ferri della sua gabbia,
e che il lupo a due passi fiuti una
vittima, che appagherebbe ad un
tempo la sua fame e la sua rabbia.
All'ultimo
sarcasmo
di
Tortillard il cieco perdette quasi la
testa.
Per un momento fu deciso ad
uccidersi; e se avesse avuto in
mano una pistola carica non
avrebbe esitato. Si frugò nella
tasca, ne trasse un lungo coltello,
lo aprì, lo alzò per trafiggersi... Ma
per quanto rapidi fossero questi
movimenti, li precorsero la
riflessione, la paura, l'istinto
vitale. Mancò all'omicida il
coraggio; il braccio armato gli
cadde sulle ginocchia.
Tortillard aveva osservato, con
attenzione, ogni suo movimento.
Quando vide lo scioglimento
pacifico
di
quelle
tragiche
disposizioni,
esclamò,
scompisciandosi
dalle
risa:
"Cameriere, un duello! Tirate il
collo ad un'anitra..." Il Maître,
temendo di perdere il senno del
tutto, in un ultimo ed inutile
accesso di furore, volle scansare
un nuovo insulto di Tortillard, che
scherniva insolentemente la viltà
di questo assassino che tremava
all'idea del suicidio. Disperando di
potersi sottrarre alla crudeltà di
quel fanciullo maledetto, risolse di
tentare
un
ultimo
sforzo
allettando la cupidigia del figlio di
Bras-Rouge.
"Oh" gli disse, in atto quasi
supplichevole "conducimi all'uscio
di mia moglie! Prenderai quel che
vuoi nella sua stanza, e poi,
scappando, mi lascerai solo...
Griderai aiuto! assassini! Mi
arresteranno, mi ammazzeranno...
Tanto meglio! Morrò vendicato,
giacché non ho il coraggio di
finirla da me... Oh, conducimi,
conducimi... Certo da lei c'è
dell'oro, ci sono delle gioie: ti
piglierai tutto, per te, per te solo...
Capisci? Per te solo... Non ti
chiedo altro che di guidarmi sino
alla porta, vicino a lei..."
"Sì, capisco, volete che vi guidi
sino alla porta, e poi al suo letto...
E poi che vi dica dove dovete
ferire, e che vi diriga il braccio,
non è vero? Insomma intendete
che io serva di manico al vostro
coltello, vecchio mostro!" disse
Tortillard con disprezzo e orrore, e
per la prima volta in tutta la
giornata il suo viso da faina
divenne
serio,
sino
allora
motteggiatore
e
sfacciato.
"Piuttosto
vorrei
che
mi
strozzassero, capite?, che esser
forzato a portarvi da vostra
moglie."
"Rifiuti?" Il figlio di Bras-Rouge
non rispose. Si avvicinò, a piedi
scalzi e senza essere sentito, al
Maître che, seduto sul letto,
teneva sempre il coltello; poi, con
arte e rapidità meravigliose, gli
tolse l'arma e balzò all'altra
estremità della stanza.
"Il mio coltello, il mio
coltello!" urlò il Maître, stendendo
le braccia.
"No, perché sareste capace di
chiedere domattina di parlare alla
vostra sposa, e avventarvi su di lei
e ammazzarla... Giacché ne avete
abbastanza della vita, come avete
detto, e siete tanto codardo da non
ardire di uccidervi da voi stesso..."
"Oh, adesso difende contro di me
la mia consorte!" gridò il bandito a
cui cominciava ad offuscarsi la
mente. "Ma è dunque un demonio,
questo mostro? Dove sono?
Perché la difendi?"
"Per farti arrovellare" disse
Tortillard, e riprese la solita
espressione d'impudenza e di
scherno.
"Ah! è così!" mormorò il
Maître fuori di sé "Ebbene, dò
fuoco alla casa! Bruceremo tutti,
tutti! Ho più cara questa fornace,
che l'altra... La candela... dammi la
candela!"
"Ah, ah, ah!" gridò ridendo
Tortillard. "Se non ti avessero
spento le candele... a te... e per
sempre, vedresti che la nostra è
spenta da più di un'ora.
"Oh che mai sento! Oh che
disgrazia, Il lume è spento, Fuoco
non c'è." Il Maître diede un cupo
gemito, stese le braccia, cadde
come corpo morto in terra,
bocconi, mandò sangue e poi
rimase immobile.
"Ti conosco al pelo" disse
Tortillard. "Sono finzioni per farmi
venire vicino e darmi una sberla.
Quando sarai stato abbastanza sui
mattoni, ti alzerai." E il figlio di
Bras-Rouge,
deciso
a
non
addormentarsi per paura di essere
sorpreso dal Maître, rimase
seduto, fissando attentamente,
persuaso che gli tendesse un
tranello, e non credendolo affatto
in pericolo.
Per procurarsi una piacevole
occupazione, lo sciancatello si levò
misteriosamente di tasca una
borsina rossa di seta, e contò, lesto
e con avidità e allegrezza, le
diciassette monete d'oro che
conteneva.
Noi ci ricordiamo che la
signora d'Harville era in procinto
d'essere sorpresa da suo marito, in
occasione del fatale appuntamento
da lei accordato al Comandante.
Rodolphe le aveva detto di salire al
quinto piano dai Morel, con il
pretesto di recare ad essi qualche
soccorso, e a tale scopo le aveva
dato una borsa. Mentre lei saliva
sollecitamente
la
scala,
lo
sciancatello, che scendeva dalla
casa del ciarlatano, l'addocchiò,
fece finta di cascare nel passarle
vicino, la urtò, e, in quell'attimo, le
portò via improvvisamente la
borsa. La signora d'Harville,
confusa, smarrita perché udiva i
passi del consorte, si affrettò ad
arrivare al quinto piano, senza
potersi lagnare del furto dello
zoppaccio. Tortillard, dopo aver
contato e ricontato quell'oro, non
sentì più rumore nella fattoria, e
se ne andò, a piedi scalzi,
porgendo l'orecchio, riparando il
lume con la mano, a prendere le
impronte delle quattro serrature
che davano sul corridoio, pronto a
dire
se
qualcuno
l'avesse
incontrato fuori della camera, che
correva a cercare aiuto per suo
padre. Al suo ritorno, trovò il
Maître
ancora
steso
sul
pavimento.
Ebbe
qualche
inquietudine, gli si accostò, sentì
che
respirava, credette
che
prolungasse lo stratagemma.
"Sempre la stessa burletta,
vecchio mio?" gli disse.
Per pura combinazione il
Maître si era salvato da una
congestione
cerebrale
senza
dubbio mortale: la sua caduta
aveva causato un'abbondante ed
efficace emorragia di sangue dal
naso. Era poi piombato in una
specie di torpore febbrile, mezzo
sonno e mezzo delirio, e aveva
fatto allora questo stranissimo,
spaventoso sogno!
8.
Il sogno.
Questo è il sogno del Maître
d'école.
Egli
rivede
Rodolphe
nell'abitazione
dell'allée
des
Veuves.
Non c'è alcun cambiamento
nella sala, dove l'assassino subì
l'orribile supplizio. Rodolphe è
seduto dietro la tavola, su cui sono
i fogli del Maître ed il piccolo
Spirito Santo dato alla Chouette.
Mesto, grave è Rodolphe. Alla sua
destra, David il nero, impassibile e
tacito, sta in piedi; alla sinistra è lo
Chourineur,
che
osserva
spaventato questa scena. Il Maître
non è più cieco, ma vede
attraverso un sangue limpido, che
gli riempie la cavità delle occhiaie.
Tutti gli oggetti gli sembrano
colorati di una tinta rossa.
Come gli uccelli di rapina
librati sulle ali stanno immobili in
aria al disopra della vittima che
ammaliano prima di divorarla, una
civetta mostruosa, che ha per testa
l'orrendo ceffo della guercia, si
tiene in alto al di sopra del
Maître... Fissa incessantemente su
di lui un occhio rotondo, verdastro
e fiammeggiante. Quello sguardo
continuo gli grava sul petto come
un peso enorme.
Avvezzandosi all'oscurità, si
distinguono, a poco a poco, oggetti
che prima erano impercettibili,
così il Maître si accorge che un
lago immenso di sangue lo separa
dalla tavola a cui siede Rodolphe.
Quel giudice inflessibile acquista
gradatamente,
e
così
lo
Chourineur e il nero, forme
colossali... Quei tre spettri, via via
crescendo, arrivano alle cornici del
soffitto, che, di mano in mano,
s'innalzano.
Il lago di sangue è calmo,
levigato come uno specchio rosso.
Il Maître vi vede riflettersi
l'orrenda sua immagine. Ma in
breve l'immagine sparisce al
gorgogliare delle onde che si
gonfiano. E dalla loro superficie
agitata sorge la fetida esalazione di
una palude, e una nebbia livida,
del colore delle labbra dei defunti.
Ma quanto la nebbia sale, sale, le
figure
di
Rodolphe,
dello
Chourineur e del nero continuano
a
crescere,
a
crescere
smisuratamente,
e
sempre
sovrastando quel triste vapore. In
mezzo a questo vapore, il Maître
vede apparire squallidi fantasmi, e
scene di uccisioni in cui egli è
l'attore.
Nella
visione
fantastica
discerne prima un piccolo vecchio,
il cranio calvo, con il soprabito
scuro, i tempiali di seta verde, in
una stanza tutta sconquassata,
occupato a contare e a porre in
ordine, al lume di una lucerna,
mucchi
di
monete
d'oro.
Attraverso la finestra, rischiarata
dalla pallida luna che imbianca le
cime di alcuni grandi alberi scossi
dal vento, il Maître mira se stesso
di fuori, che tiene fissa sui vetri la
laida sua faccia. Con occhi febbrili
osserva ogni minimo movimento
del vecchio, poi rompe un vetro,
apre la finestra, balza addosso alla
vittima e le pianta un lungo
coltello fra le due spalle. L'azione
è così rapida, il colpo tanto sicuro,
che il cadavere del vecchio resta
sulla sedia senza cadere...
L'omicida vuol ritirare il ferro
da quel corpo morto. Non può.
Raddoppia gli sforzi. Sono vani.
Vorrebbe abbandonare il suo
coltello.
Impossibile!
La
mano
dell'assassino è attaccata al
manico, come la lama rimane
attaccata al cadavere dell'ucciso.
L'assassino ode tintinnare
sciabole e risuonare sproni sulle
lastre di una camera contigua. Per
fuggire, a ogni costo, vuol portare
con sé il meschino corpo del
vecchio, da cui non può staccare
né il ferro né la mano. Quel sottile
e piccolo cadavere pesa come un
masso di piombo.
Malgrado
le
sue
spalle
d'Ercole, e gli sforzi disperati, il
Maître non può neppure sollevare
quell'enorme peso. Lo strepito di
sonanti passi e di sciabole
trascinate si avvicina sempre più...
È girata una chiave nella
toppa... Si apre una porta. Si
dilegua la visione... Ed allora la
civetta, starnazzando le ali, grida:
"È il riccone della rue du Roule. Il
primo passo nella carriera di
assassino... di assassino... di
assassino!..." Il vapore, che copre
il lago di sangue e che si era
oscurato un momento, ridiventa
trasparente, e lascia scorgere un
altro spettro...
Comincia ad apparire il giorno,
la nebbia è folta e scura... Un
uomo, vestito come i mercanti di
bestiame, è steso morto sull'argine
di una strada maestra. Il terreno
calpestato, l'erba divelta, provano
che fece ostinata resistenza.
Quell'uomo ha cinque ferite nel
petto... È morto, eppure fischia ai
suoi cani, e chiama aiuto: "A me! a
me!". Ma fischia, chiama da quelle
cinque larghe piaghe, i cui orli
sono aperti e si agitano come
labbra che parlino...
E le cinque voci e i cinque sibili
simultanei, che
escono dal
cadavere per la bocca delle sue
ferite, sono terribili a udirsi...
In quel momento, la civetta
scuote le ali, e fa la parodia dei
gemiti funebri di quel defunto,
con cinque scrosci di riso, ma di
un riso stridulo, orribile come
quello dei pazzi, e grida: "Il
venditore di buoi di Poissy...
Assassino! assassino! assassino!"
L'eco di sotterra, prolungandosi,
ripete altissime le risa sguaiate
della civetta; poi sembra che
queste vadano a perdersi nelle
viscere della terra. A quel rumore,
due grossi cani, neri come l'ebano,
con gli occhi sfavillanti come
brace accesa, e sempre fissi sul
Maître, cominciano ad uggiolare...
e a girare... girare... girare...
intorno a lui con la rapidità d'un
vortice. E quasi lo toccano; eppure
i loro ululati sono tanto lontani,
che paiono recati dalla brezza del
mattino.
A poco a poco sfumano gli
spettri, dileguano come le ombre,
e spariscono nel livido vapore che
ascende di continuo. Una nuova
esalazione ricopre la superficie del
lago di sangue.
È una sorta di nebbione
verdastro, trasparente; lo si
direbbe il taglio verticale di un
canale colmo d'acqua.
Prima si scorge l'alveo della
gora ingombra da una densa
melma, composta di innumerevoli
rettili comunemente impercettibili
all'occhio ma che, accresciutisi
come visti con il microscopio,
assumono aspetto mostruoso, e
forme enormi, in proporzione alla
loro reale grossezza.
Non è più limo, è una massa
compatta, vivente, gorgogliante,
un miscuglio inesplicabile, che
pullula e formicola, stretto e
pigiato in tal modo, che una
incompresa e lenta ondulazione
solleva appena la superficie di
quella melma, o piuttosto di quel
brulichio d'impuri animali.
Passa al di sopra, scorrendo
pian piano, un'acqua fangosa,
densa, morta, che trascina nel
pesante suo corso le immondezze
poc'anzi vomitate dalle cloache di
una grande città, e rottami di ogni
sorta e cadaveri di animali.
D'un tratto, il Maître ode il
tonfo di un corpo che cade a fondo
nell'acqua. Nel repentino riflusso,
l'onda mossa gli spruzza sul viso...
Attraverso il gorgoglio delle
bollicine d'aria che salgono a galla
della gora, vede inabissarsi
rapidamente una donna che si
agita con le mani e con i piedi... E
vede se stesso e la Chouette
fuggire precipitosamente dalle
sponde del canale di Saint-Martin,
trasportando una cassa avvolta in
tela nera. Tuttavia egli assiste a
tutti i sintomi dell'agonia della
vittima che lui e la Chouette poco
prima avevano gettato nel canale.
Dopo la prima immersione,
osserva la donna che risale a fior
d'acqua e che agita le braccia alla
maniera di chi, non sapendo
nuotare, tenta invano salvarsi. Poi
ode un grido acuto.
Quel grido estremo, disperato,
termina con uno sciacquìo
prodotto
dall'annegamento
forzato, e la donna ripiomba
un'altra volta al fondo.
La civetta, sempre librata sulle
ali ed immobile, fa la parodia del
rantolo affannoso dell'annegata,
come prima la faceva dei gemiti
del mercante di bestiame. E tra le
risa funebri la civetta va
ripetendo: "Glu... glu... glu...". E
l'eco di sotterra ripete quelle grida.
Sommersa una seconda volta,
la donna si sente asfissiare; fa, suo
malgrado, un moto violento di
aspirazione, ma invece d'aria,
aspira acqua... Allora le casca
all'indietro la testa, il viso si
chiazza, diventa blu, il collo si fa
livido e gonfio, le braccia si
intirizziscono,
ed
un'ultima
convulsione le scuote i piedi, che
posavano sulla belletta. E la
circonda un fondiglio di melma
nericcia che risale a galla. Appena
l'affogata esala l'ultimo respiro,
già le formicola sopra uno sciame
di rettili visibili con il microscopio,
infetti, voraci, schifosi vermi della
belletta.
Galleggia
per
un
momento il cadavere, oscilla
ancora un poco, poi s'inabissa
lentamente, orizzontalmente con i
piedi più bassi che il capo, e
comincia a seguire la corrente
della gora. E qualche volta si gira
su se stesso, e il suo volto si trova
di faccia al Maître, ed allora lo
spettro guarda lui con due occhi
grossi color del piombo, vitrei ed
opachi e scuote le labbra violacee.
Il
Maître
sta
lontano
dall'annegata; eppure lei gli
mormora all'orecchio: "Glu... glu...
glu...", accompagnando questi
accenti bizzarri con il gorgoglìo
singolare che produce una boccia
di cristallo sommersa che si
riempia di acqua.
E la civetta ripete: "Glu... glu...
glu..." e, muovendo forte le ali,
grida: "La donna del canale di
Saint-Martin!
Assassino...
assassino... assassino!..." E l'eco, di
sotterra, le risponde, ma, invece di
perdersi adagio nelle viscere della
terra, diviene sempre più sonante,
e sembra che si approssimi. Al
Maître pare di udire quegli scrosci
di risa rimbombare da un polo
all'altro.
Sparisce
la
visione
dell'annegata.
Il lago di sangue, oltre il quale
il Maître contempla sempre
Rodolphe, si fa di un nero bronzo,
quindi si arrossa, e poi subito si
cambia in liquida fornace, simile a
quella di metallo in fusione; poi
quel lago di fuoco s'innalza, e
sorge, va verso il cielo, come
un'immensa tromba marina.
Ben presto è tutto un orizzonte
che
brilla
come
ferro
incandescente.
Quest'orizzonte
immenso,
infinito, abbaglia e brucia a un
tempo gli occhi del Maître, ed egli,
inchiodato al suo posto, non ne
può distogliere la vista. Allora su
quel campo di lava ardente, il cui
riverbero lo divora, distingue nel
passare, a uno a uno, i fantasmi
neri e giganteschi delle sue
vittime.
E la civetta, battendo le ali e
torcendosi dalle risa, gli grida: "La
lanterna magica del rimorso... del
rimorso...
del
rimorso!..."
Malgrado l'insopportabile dolore
che gli causa l'incessante sua
contemplazione, il Maître ha
sempre gli occhi fissi sugli spettri
che si muovono in quel pelago di
fiamme.
Ed egli prova allora un dolore
tremendo al cuore.
Passando per le rupi di una
tortura senza nome, a forza di
guardare quell'abbagliante fornace
sente le sue pupille, subentrate al
sangue che gli riempiva gli occhi,
diventare calde, scottanti e
struggersi, fumare, grillettare,
bollire e finalmente calcinarsi
nelle loro orbite come due crogioli
di ferro rovente. E, per una
terribile facoltà che gli è data,
dopo aver visto e sentito le
successive trasformazioni delle
pupille
incenerite,
ripiomba
nuovamente nelle tenebre della
sua prima cecità.
Ma d'un tratto le insopportabili
doglie si calmano per incanto... Un
alito aromatico di deliziosa
freschezza gli è passato sulle
orbite ancora scottanti. È, questo
soffio, un soave miscuglio delle
fragranze di primavera, che
tramandano i fiori dei campi
bagnati dall'umida rugiada.
Il Maître ode intorno un lieve
rumore, come quello del venticello
che scherza tra le foglie, o di una
sorgente d'acqua viva che scorre,
mormorando nel suo letto di
ciottoli e di muschio. Uccelletti a
migliaia gorgheggiano le ariette
più melodiose; poi tacciono. Voci
infantili di angelica purezza
cantano parole strane, ignote,
parole che quasi diremmo alitare,
e che il Maître ode ascendere ai
cieli con lievissimo fremito. Un
senso di benessere morale, di
mollezza, di languore indefinibile,
gradatamente s'impossessa di lui.
Trasporti del cuore, estasi dello
spirito, ebbrezza dell'animo, di cui
nessuna impressione fisica, per
forte che sia, potrebbe dare
un'idea... Egli si sente soavemente
librato in una sfera luminosa,
eterea! Gli sembra di innalzarsi a
una distanza incommensurabile
dall'umanità! Dopo alcuni istanti
di quella felicità ineffabile, ricade
nel tenebroso abisso dei suoi
usuali pensieri. Sogna sempre, ma
ormai è tornato l'assassino con la
museruola, che bestemmia e si
danna negli impeti di un furore
impotente.
Echeggia una voce, sonora,
solenne... È la voce di Rodolphe. Il
Maître raccapriccia; ha una
confusa idea di aver sognato; ma il
terrore che gli ispira Rodolphe è
così formidabile, che egli fa,
invano, ogni sforzo per fuggire a
questa nuova visione.
La voce parla, egli ascolta.
L'accento di Rodolphe non è di ira,
tutt'altro, ma pieno di pietà e di
mestizia.
"Povero miserabile!" dice al
Maître. "Per te non è ancora
suonata l'ora del pentimento; e
Dio solo sa quando debba
giungere! La punizione dei tuoi
delitti è tuttora incompleta. Tu
soffristi, e non espiasti: il destino
prosegue
l'opera sua d'alta
giustizia. I tuoi complici divennero
tuoi tormentatori; una donna e un
fanciullo ti domano e ti straziano...
Nell'infliggerti un castigo terribile
come i tuoi misfatti, io te lo dissi,
te lo dissi! Ricorda le mie parole:
"Tu abusasti criminalmente della
tua forza, io la tua forza
paralizzerò...
I
più
robusti
tremavano dinanzi a te, tu
tremerai dinanzi ai più deboli!".
"Abbandonasti l'oscuro asilo
dove potevi vivere per il
pentimento e per l'espiazione...
Avesti timore del silenzio e della
solitudine. Poco fa invidiavi la vita
tranquilla dei villici di questi
campi, ma era tardi, troppo tardi!
Quasi senza difesa, torni a gettarti
in mezzo ad una caienna di
scellerati e di assassini, e ti duoli
di rimanere oltre presso oneste
persone, presso le quali eri stato
accasato. Volesti stordirti con
nuovi misfatti... Mandi una sfida
feroce a colui che aveva voluto
toglierti la possibilità di nuocere ai
tuoi simili, ed è vana la sfida. E
ora, malgrado la tua audacia, la
tua iniquità, la tua forza, sei
avvinto, incatenato. La sete di
delitti
ti
divora, né
puoi
soddisfarla... Poco fa, in un impeto
terribile e sanguinario, intendevi
uccidere la tua consorte. E qui,
sotto lo stesso tuo tetto; dorme
non difesa; tu hai il coltello; la sua
camera è a soli due passi; nessun
ostacolo ti trattiene, puoi giungere
sino a lei: l'unica cosa che la
sottragga al tuo furore è la tua
impotenza! "Il sogno di poc'anzi,
quello che fai anche adesso,
potrebbe essere per te di grande
insegnamento, e forse potrebbe
salvarti... Le immagini misteriose
di questo sogno hanno un senso
profondo.
Il lago di sangue, in cui
apparvero le vittime, è il sangue
che tu spargesti. La lava ardente
che vi subentrava, è il rimorso
divoratore che avrebbe dovuto
consumarti, finché un giorno Dio,
mosso a pietà dalle lunghe tue
torture, ti chiamasse a sé e ti
facesse gustare le ineffabili
dolcezze del perdono. Ma ciò non
avverrà mai... No, no, inutili
riusciranno questi avvenimenti!
Invece di ravvederti, rimpiangerai
ogni
giorno,
con
orrende
bestemmie, quei tempi nei quali
commettevi i tuoi delitti. Ahimè,
in questa lotta perpetua fra le tue
inclinazioni
sanguinarie
e
l'impossibilità di appagarle, fra le
tue abitudini di fiera violenza e la
necessità di sottoporti ad esseri
deboli e crudeli, ne verrà per te
una sorte spaventosa, orribile! Oh,
povero miserabile!" E si alterava a
Rodolphe la voce.
Tacque un istante, quasi che
l'emozione e il terrore gli avessero
vietato di proseguire. Il Maître si
sentì rizzare i capelli. Che sorte
era mai quella, che impietosiva
persino il suo carnefice? "Il
destino che ti sovrasta è così
orribile" soggiungeva Rodolphe
"che quando Dio nella sua
vendetta
inesorabile
ed
onnipossente volesse fare espiare
a te solo le colpe di tutti gli
uomini, non immaginerebbe un
supplizio più tremendo. Guai a te!
guai! Vuole la fatalità che tu
sappia l'atroce punizione che ti
attende, e che nulla tu operi onde
a quella sottrarti. Che l'avvenire ti
sia noto!" Parve al Maître che gli
fosse ridonata la vista.
Aperse gli occhi... e vide...
Ma quel che vide lo assalì di
tale sbigottimento, che mandò un
grido acuto, e si destò di
soprassalto,
tutto
atterrito
dall'orribile sogno.
9.
La lettera.
Suonavano le nove del mattino
all'orologio
del
podere
di
Bouqueval, quando la signora
Georges entrò adagio nella camera
di Marie.
Era così leggero il sonno della
ragazza, che si destò quasi subito.
Un
fulgido
sole
d'inverno,
vibrando i suoi raggi, attraverso le
persiane e le portiere di tela scura
foderate di "ghingam" color rosa,
spargeva una tinta vermiglia nella
stanza, e dava al pallido e dolce
viso della Goualeuse i colori che le
mancavano.
"Ebbene, figlia mia" disse la
signora Georges, sedendo sul letto
della ragazza e baciandola in
fronte "come state?"
"Meglio, signora... Vi ringrazio."
"Non vi siete svegliata troppo
presto stamani?"
"No, signora."
"Meglio così! Quel povero cieco e
suo figlio, ai quali fu dato ieri sera
da
dormire,
hanno
voluto
abbandonare all'alba la fattoria, e
temevo che il rumore fatto
nell'aprire le porte vi avesse tolto
il sonno."
"Infelici! Perché sono partiti così
presto?"
"Non lo so. Ieri sera, lasciandovi
alquanto più calma, scesi in cucina
per vederli; ma tutti e due erano
tanto stanchi, che avevano chiesto
licenza di ritirarsi. Papà Chatelain
mi disse che il cieco sembrava non
aver la testa molto sana, e tutta la
nostra gente ha preso il più grande
interesse alle amorevoli attenzioni
che gli prodigava il figlio. Ma,
Marie, avete un po' di febbre! Non
voglio che oggi vi esponiate al
freddo; non uscirete dal salotto."
"Oh, signora, scusate, ma bisogna
che alle cinque io vada al
presbiterio; il signor curato mi
aspetta."
"Sarebbe un'imprudenza; sono
certa che avete passato una cattiva
nottata. Avete gli occhi affaticati,
avete dormito male."
"È vero, ed anche ho avuto dei
tristi sogni... Mi pareva di rivedere
la donna che mi tormentò quando
ero bambina: mi sono svegliata
tremante, spaventata. È una
debolezza ridicola, e me ne
vergogno."
"E a me questa debolezza dà
afflizione, poiché vi fa patire, mia
cara" disse la signora Georges con
tenera premura, vedendo che alla
Goualeuse si riempivano gli occhi
di lacrime.
Questa, gettandosi al collo
della madre, nascose il proprio
volto nel suo seno.
"Dio buono, che avete Marie?
Voi mi inquietate!"
"Avete per me tanta bontà, che io
mi rimprovero di non avervi
confidato quel che ho detto al
signor parroco: domani lui vi dirà
tutto; mi sarebbe troppo penoso
ripetervi quella confessione."
"Animo figliola, siate ragionevole!
Sono sicura che vi sarà più da
lodare, che da biasimare in quel
gran segreto che avevate da
comunicare al signor abate. Non
piangete così, mi fate male."
"Compatitemi, signora, ma non so
perché da due giorni mi sento
spezzare il cuore. Mio malgrado
mi vengono le lacrime agli occhi.
Ho dei presentimenti. Mi pare che
stia per accadermi qualche
disgrazia."
"Marie, Marie... Vi sgriderò, se vi
lasciate prendere in tal modo da
paure puramente immaginarie.
Non bastano forse le pene reali
che ci opprimono?"
"Dite bene... Sì, ho torto, cercherò
di superare questa debolezza. Se
sapeste quando mi dispiace di non
poter essere sempre contenta,
allegra come vorrei! La mia
malinconia vi deve sembrare
ingratitudine!" La signora Georges
si accingeva a confortare la
Goualeuse, ma entrò Claudine,
dopo aver bussato all'uscio.
"Che volete Claudine?"
"Signora, c'è giù Pierre, che viene
da Arnouville con il calesse della
signora Dubreuil; porta questa
lettera per voi e dice che è
urgente." La signora Georges lesse
ad alta voce ciò che segue: "Mia
cara signora Georges, mi fareste
un vero servizio, e potreste
levarmi da un grande imbarazzo,
venendo subito alla fattoria; Pierre
vi
condurrebbe,
e
poi
vi
riaccompagnerebbe indietro dopo
pranzo. Non so davvero dove
battere la testa. Il signor Dubreuil
è a Pontoise per la vendita delle
sue lane, ed io, per questo, ricorro
a voi ed a Marie. Clara abbraccia la
sua buona sorellina, e l'attende
con impazienza. Procurate di
venire alle undici per far
colazione.
Vostra sincera amica Dubreuil"
"Che mai ci sarà?" disse la signora
Georges a Marie. "Peraltro il tono
della lettera della Dubreuil prova
che non si tratta di cose gravi."
"Devo accompagnarvi, signora?"
domandò la Goualeuse.
"Non sarà forse prudente,
perché è freddo. Ma, in sostanza,
vi servirà da svago; coprendovi
bene, questa gita vi sarà utile..."
"Ma, signora" replicò la ragazza,
dopo aver riflettuto "il signor
parroco mi aspetta, alle cinque al
presbiterio."
"Avete ragione, Marie... Saremo di
ritorno prima delle cinque, ve lo
prometto."
"Oh, grazie, grazie, signora, sono
felice di rivedere la signorina
Clara."
"E sempre da capo" disse la
signora Georges in tono di dolce
rimprovero: "La signorina Clara!
Dice forse signorina Marie,
quando lei parla di voi?"
"No,
signora"
rispose
la
Goualeuse, abbassando gli occhi.
"È che io, io..."
"Voi, voi! Siete una creatura
crudele, che non pensate se non a
tormentare
voi
stessa.
Dimenticate già le promesse che
mi avete fatto poco fa? Vestitevi
presto, e copritevi bene. Potremo
essere prima delle undici ad
Arnouville." Ed uscendo con
Claudine, la signora Georges disse
a questa: "Pierre aspetti un
momento, saremo pronte fra
pochi minuti."
10.
Riconoscimento.
Mezz'ora
dopo
questa
conversazione, la signora Georges
e Fleur-de-Marie salivano in uno
di quei grandi calessi di cui si
servono i ricchi castaldi delle
vicinanze di Parigi; ed in poco
tempo questa carrozza, tirata da
un robusto cavallo guidato da
Pierre, corse rapidamente sulla
strada erbosa che da Bouqueval va
sino ad Arnouville. I vasti cascinali
e le molte dipendenze della
fattoria amministrata dal signor
Dubreuil attestavano l'importanza
di quel magnifico possedimento,
che madamigella Césarine de
Noirmont aveva recato in dote al
duca di Lucenay. Lo schiocco
sonoro della frusta di Pierre
avvertì la signora Dubreuil
dell'arrivo di Marie e della signora
Georges.
Queste,
scendendo,
furono accolte lietamente da lei e
da sua figlia.
La signora Dubreuil aveva
cinquant'anni; era di fisionomia
dolce e affabile; il volto della figlia,
bella brunetta con gli occhi azzurri
e le guance fresche e vermiglie,
sprigionava bontà e candore.
La Goualeuse, allorché Clara le
saltò al collo, vide con stupore che
era vestita come lei da contadina,
invece d'indossare un abito da
ricevimento.
"Come, Clara! Anche voi vi
siete vestita da contadina?" disse
la signora Georges, abbracciando
la ragazza.
"E non deve imitare in tutto
sua sorella Marie?" rispose la
Dubreuil.
"Oh, non ha avuto requie
sinché non ha avuto anche lei la
camiciola di panno, la giubba di
fustagno, come la vostra Marie...
Ma c'è altro che i ghiribizzi di
questa ragazza, mia povera signora
Georges!"
fece
sospirando.
"Venite, che io vi racconti tutte le
mie
preoccupazioni!"
Clara,
arrivata nel salotto con la madre e
la signora Georges, sedette
accanto a Marie, le diede il primo
posto vicino al fuoco, le usò molte
attenzioni, le prese le mani fra le
sue per assicurarsi che non
fossero più fredde, l'abbracciò
nuovamente,
e
la
chiamò
sorellaccia, facendole, sottovoce,
dolcissimi rimproveri, sul lungo
intervallo tra le sue visite.
"Che vi è mai successo, mia
cara signora Dubreuil?" domandò
la signora Georges. "In che potrò
aiutarvi?"
"Dio mio, in molte cose. Adesso
mi spiegherò. Voi non sapevate,
credo,
che
questa
fattoria
apparteneva alla duchessa di
Lucenay. Noi abbiamo a che fare
direttamente con lei, senza
passare per la trafila del
maggiordomo del signor duca."
"Infatti,
ignoravo
questa
circostanza."
"Ora sentirete perché ve ne
informo... Alla duchessa, dunque,
o alla Simon, sua prima cameriera,
noi paghiamo i fitti. La duchessa è
tanto buona, benché un po' vivace,
che è un vero piacere aver rapporti
con lei: Dubreuil ed io ci
getteremmo nel fuoco per servirla.
E poi è una cosa naturale. L'ho
vista bambina quando veniva qui
con suo padre, il defunto principe
di Noirmont. Anche ultimamente
ci chiese sei mesi di affitto
anticipato. Quarantamila franchi
non si trovano mica sotto la
zampa di un cavallo, come si suol
dire; ma avevamo da parte questa
somma, la dote della nostra Clara,
e da un giorno all'altro la signora
duchessa l'ebbe in tanti bei luigi
d'oro... Queste signorone hanno
bisogno di tanto lusso! Ma non è
più di un anno che è diventata così
precisa
nel
riscuotere
alla
scadenza! Prima pareva che non le
occorressero mai soldi. Adesso, è
tutt'altro!"
"Finora, cara signora Dubreuil,
non vedo in che potrei esservi
utile."
"Eccoci, eccoci: vi dicevo questo
per farvi capire che la signora ha
in noi piena fiducia. Senza contare
che all'età di dodici o tredici anni
fu comare, e suo padre compare,
della mia Clara, e le ha sempre
prestato mille attenzioni... Sicché,
ieri sera, ricevo con un espresso
questa sua lettera: "Mia cara
signora
Dubreuil,
bisogna
assolutamente che la palazzina
dell'orto sia messa in condizione
d'essere abitata domani sera.
Fateci trasportare tutti i mobili
necessari,
tappeti,
portiere,
eccetera, eccetera; infine che nulla
vi manchi, e specialmente sia
'confortevole' quanto si può."
''Confortevole''!, capite, signora
Georges, ed anche sottolineato!"
notò
la
signora
Dubreuil,
guardando la sua amica, con aria
meditativa ed imbarazzata; e poi
continuò: "Fateci fuoco notte e
giorno per togliere l'umidità,
giacché è un pezzo che non è stata
abitata. Tratterete la persona che
verrà a dimorarvi come trattereste
me stessa. Un biglietto che da
questa
vi
sarà
consegnato
v'istruirà su quanto desidero dal
vostro zelo e dalla vostra
gentilezza. Io ci conto anche
questa volta, senza timore di
abusarne; so quanto siete buona e
premurosa. Addio mia cara
signora Dubreuil; abbracciate la
mia bella figlioccia, e credete ai
miei affettuosi sentimenti.
Noirmont de Lucenay P.S. La
persona, che deve abitare da voi,
arriverà dopodomani, alla sera.
Non vi dimenticate soprattutto, ve
ne prego, di fare in modo che la
palazzina sia il più 'confortevole'
possibile."
"Vedete! Da capo l'imbroglio di
quella parola sottolineata!" disse
la signora Dubreuil, rimettendosi
in tasca la lettera.
"Ebbene, non c'è cosa più
semplice"
disse
la
signora
Georges. "Come, semplice? Ma
non
avete
inteso?
Vuole
soprattutto che la casa sia "il più
confortevole possibile"... E per
questo vi ho pregato di venir qui.
Clara ed io ci siamo ammazzate a
cercare che volesse dire quel
"confortevole", e non ci siamo
riuscite... E sì, che Clara è stata in
pensione a Villiers-le-Bel, ed ha
ottenuto non so quanti premi in
storia e geografia... Ebbene, non
importa, non è meglio informata
di me riguardo a quel termine
stravagante. Deve essere un
vocabolo di corte o di alta società...
Ma capite che imbroglio? Vuole
che
sia
"confortevole",
contrassegna la parola, la ripete
due volte, e noi non sappiamo che
intenda dire!"
"Grazie a Dio, posso spiegarvi io
questo gran mistero" rispose
sorridendo la signora Georges:
""Confortevole", in questo caso,
significa
un
appartamento
comodo, ben addobbato, ben
chiuso, ben caldo, insomma
un'abitazione in cui nulla manchi
del necessario, ed anche del
superfluo..."
"Ah, mio Dio, ora capisco! Ma
allora sono più imbarazzata che
mai!"
"E perché?"
"La signora duchessa discorre di
tappeti, di mobili e di molti
"eccetera". Ma noi qui non
abbiamo tappeti, i nostri mobili
sono più che comuni; e poi non so
se l'individuo che dobbiamo
aspettarci è uomo o donna, e tutto
dev'esser pronto per domani sera...
Come si fa? Qui non ci sono
mezzi... In verità, mia cara signora,
c'è da perdere la testa."
"Mamma" propose Clara "se tu
pigliassi la mobilia di camera mia?
Intanto che questa fosse rimessa
in ordine, potrei andare tre o
quattro giorni a Bouqueval con
Marie..."
"La tua camera? Ti pare che sia
così bella?" replicò la Dubreuil,
stringendosi nelle spalle. "È
molto, molto "confortevole", come
dice la signora duchessa? Dio
buono, Dio buono, dove vanno a
cercare simili parole?"
"La palazzina è dunque di solito
disabitata?" domandò la signora
Georges.
"Certo. È quella casetta bianca
là in fondo all'orto. Il signor
principe la fece fabbricare per la
signora duchessa quando era
ragazza; e tutte le volte che veniva
alla fattoria con suo padre, ci si
riposavano tutti e due. Ci sono tre
belle stanze, ed all'estremità del
giardino uno chalet, dove la
signora duchessa da bambina si
divertiva a far da lattaia. Dopo il
suo matrimonio l'abbiamo vista
qui due sole volte, e ogni volta si è
trattenuta qualche ora. La prima,
saranno sei anni fa, venne a
cavallo con..." Quasi che la
presenza di Marie e di Clara le
impedisse di dire altro, la signora
Dubreuil s'interruppe da sé.
"Ma io bado a discorrere, e così
non mi so sbrigare. Aiutatemi un
poco, mia cara signora Georges,
aiutatemi un poco!"
"Sentiamo, ditemi: com'è arredata
adesso questa palazzina?"
"È appena ammobiliata: nella
stanza principale, una stuoia di
paglia sul pavimento, un divano di
giunchi e poltrone simili, un
tavolino, poche seggiole, niente
più.
Da
questa
roba
al
"confortevole" ci corre, come
vedete."
"Al vostro posto, ecco che cosa
farei: sono le undici, manderei a
Parigi un uomo capace..."
"Il nostro factotum. Non c'è uomo
più sollecito."
"A meraviglia... In due ore, al più,
arriva a Parigi, va da un
tappezziere
della
Chaussée
d'Antin, poco importa da quale; gli
dà la nota che io farò tra un
momento, quando avrò visto quel
che vi manca, e gli dice che a
qualunque costo..."
"Oh, di certo! Purché la signora
duchessa sia contenta, non starò a
lesinare..."
"Che a qualunque costo, bisogna
che gli oggetti segnati nella lista
siano qui stasera o nella nottata,
come anche tre o quattro garzoni
di tappezziere per mettere tutto a
posto..."
"Potranno venire con la vettura di
Gonesse, che parte alle otto di sera
da Parigi."
"E siccome non c'è altro che
trasportare
diversi
mobili,
inchiodare i tappeti, accomodare
le tendine, tutto può facilmente
essere pronto per domani sera."
"Ah, mia buona signora Georges,
da che imbarazzo mi salvate! Io,
vedete, non avevo pensato a
questo.
Voi
siete
la
mia
provvidenza! Adesso avrete la
bontà di farmi la nota di quanto
occorre perché la palazzina sia..."
"Confortevole!... Sì, senza dubbio."
"Ah, Dio buono, un'altra difficoltà!
Lo ripeto, non sappiamo se è
uomo o donna quello che si
aspetta... Nella lettera la signora
duchessa dice: "Una persona"! Qui
sta il "busillis"!"
"Preparatevi come se attendeste
una donna, cara signora Dubreuil;
se poi è un uomo sarà anche
meglio."
"Avete ragione, sempre ragione."
Comparve una serva ad avvertire
che la colazione era in tavola.
"Verremo subito" disse la
signora Georges "ma intanto che
scrivo la lista di quanto è
necessario, fate prendere la
misura delle tre camere per
l'altezza e l'estensione, perché si
possano disporre le tendine e i
tappeti..."
"Bene, bene, vado subito a dirlo al
mio factotum."
"Signora" disse la serva "c'è anche
quella lattaia di Stains, e la sua
roba di casa in un carrettino tirato
da un asino. Madonna, non è
pesante il suo sgombero!"
"Poveretta!" esclamò la signora
Dubreuil.
"Chi è costei?" chiese la
signora Georges.
"Una contadina di Stains, che
aveva quattro vacche, e faceva i
fatti suoi andando ogni mattina a
vendere il latte a Parigi. Suo
marito era maniscalco. Un giorno,
avendo da comprare del ferro, va
con la moglie, e si danno
appuntamento sulla cantonata
della strada dove di solito lei stava
a
smerciare
il
suo
latte.
Disgraziatamente era un pessimo
quartiere quello. Il maniscalco
torna e trova la consorte che si
batte con due manigoldi ubriachi
che le hanno vuotato tutte le
fiasche nel fosso. Quello protesta,
e i bricconi lo maltrattano; si
difende, e nella rissa riceve una
coltellata, che lo stende a terra
morto."
"Che orrore!" esclamò la signora
Georges. "E l'assassino è stato
arrestato?"
"Disgraziatamente no. Scappò nel
tumulto. La povera vedova
assicura che lo riconoscerebbe
benissimo; lo ha visto diverse
volte con altri suoi compagni che
frequentano quel quartiere, ma
finora tutte le ricerche sono state
inutili. Insomma, dopo la morte
del marito, la disgraziata, per
pagare qualche debito, è stata
costretta a vendere le vacche e un
piccolo terreno che possedeva. Il
fattore di Stains me l'ha
raccomandata come un'ottima
creatura, tanto infelice quanto
onesta, giacché ha tre figli, il
maggiore dei quali non ha ancora
dodici anni. Io avevo per l'appunto
un posto vacante, gliel'ho dato, e
lei viene a stare nel podere."
"Quest'atto di bontà, da parte
vostra, non mi stupisce, mia cara
signora Dubreuil."
"Dimmi, Clara, vuoi andare a
sistemare quella buona donnetta
nella sua piccola abitazione,
intanto che io vado a dire al
factotum che si prepari a partire
per Parigi?"
"Sì, mamma, e Marie verrà con
me."
"S'intende! Potete stare una senza
l'altra?" disse la fattoressa.
"Ed io" soggiunse la signora
Georges, sedendo davanti a un
tavolino "comincio la mia lista per
non perdere tempo, giacché
dobbiamo essere di ritorno a
Bouqueval verso le quattro."
"Alle quattro? Avete dunque gran
fretta" fece la signora Dubreuil.
"Sì, bisogna che Marie sia al
presbiterio alle cinque."
"Oh, se si tratta del buon abate
Laporte, è un impegno sacro!"
disse la signora Dubreuil. "Vado a
dare gli ordini. Queste due ragazze
hanno molte cose da dirsi. Bisogna
dar loro il tempo di parlarsi."
"Partiremo dunque alle tre, mia
cara signora Dubreuil."
"Siamo d'accordo... Ma lasciate che
vi ringrazi di nuovo! Che buona
idea è stata pregarvi di venir qui
ad assistermi! Andiamo, Clara,
andiamo, Marie!" Mentre la
signora Georges scriveva, la
signora Dubreuil uscì da una
parte, e le due fanciulle dall'altra
con la serva che aveva annunciato
l'arrivo della lattaia di Stains.
"Dov'è
quella
poveretta?"
domandò Clara.
"È con i suoi figli, la carretta e
l'asinello nel cortile dell'aia."
"Ora la vedrai" disse Clara,
prendendo
il
braccio
della
Goualeuse.
"Poveretta! Com'è pallida, e
che aspetto afflitto ha mai, tutta in
lutto! L'ultima volta che venne a
trovare la mamma mi fece male al
cuore: piangeva nel parlare di suo
marito, e poi, tutto ad un tratto, le
lacrime le si fermavano, e le
pigliavano impeti di furore contro
l'assassino. Allora, mi faceva
paura, tanto pareva forsennata!
Ma il suo risentimento è naturale.
Ci sono persone molto sfortunate,
non è vero, Marie?"
"Oh, sì, sì, senza dubbio" rispose la
Goualeuse, distratta e sospirando
"ce ne sono sfortunatissime...
Avete ragione, signorina..."
"Oh, via!" gridò Clara, battendo i
piedi con impazienza e dispiacere.
"Ecco da capo che mi dai del
voi, e mi chiami signorina! Ma
dunque sei arrabbiata con me?"
"Io? Ma come è possibile?"
"Ebbene, dunque, perché mi dai
del voi? Lo sai che mia madre e la
signora Georges ti hanno già
sgridata per questo... Ti avverto,
non lo voglio più sentire!"
"Clara,
perdonami,
ero
pensierosa..."
"Pensierosa, quando mi rivedi
dopo più di otto giorni di
separazione?" rispose mestamente
Clara. "Distratta... Anche questo
sarebbe male! Ma no, no, non è
questo... Senti, Marie, finirò con il
credere che tu sia superba!" Marie
divenne pallida come una morta e
non rispose. Al vederla, la donna
in lutto aveva emesso un urlo di
collera e d'orrore. Era la lattaia
che, ogni mattina, vendeva il latte
alla Goualeuse quando abitava
dall'Orca del "tapis-franc".
11.
La lattaia.
La scena che stiamo per
narrare accadeva in un cortile del
podere, alla presenza dei contadini
e delle donne di servizio che
tornavano dai loro lavori per
desinare. Sotto una tettoia si
vedeva un carrettino tirato da un
asinello, che conteneva la rustica e
miserabile mobilia della vedova;
un ragazzetto di dodici anni,
aiutato da due bambini di minore
età, cominciava a scaricare la roba.
La lattaia, tutta vestita di nero,
era una donna intorno ai
quarant'anni, di aspetto rozzo,
maschile e risoluto, ed aveva le
palpebre rosse per le lacrime
versate di recente.
Scorgendo Marie, diede prima
un urlo di paura, ma subito il
dolore, l'indignazione, la collera, le
scomposero la faccia; si avventò
addosso alla Goualeuse, la prese
brutalmente per un braccio, e,
mostrandola a tutti, esclamò:
"Ecco una scellerata che conosce
l'assassino
del
mio
povero
marito... L'ho vista venti volte
parlare a quel brigante, quando
vendevo il latte all'angolo della rue
de la Vieille Draperie. Veniva da
me a comprarsene un soldo, ogni
mattina. Devo sapere chi è quel
delinquente. Come tutte le sue
pari, è della razza di quel
pendaglio da forca! Oh, non mi
scapperai, puttanaccia!" E, così
gridando, ed esacerbata da ingiusti
sospetti, afferrò l'altro braccio di
Fleur-de-Marie, che, tremante e
smarrita, voleva fuggire.
Clara, stupefatta da una così
repentina aggressione, non aveva
potuto proferire un accento, ma, a
tale eccesso di violenza, gridò alla
vedova: "Ma siete pazza! La collera
e il dolore vi han fatto perdere la
testa! V'ingannate!"
"M'inganno?" disse la lattaia con
amara ironia. "M'inganno? Oh,
signora no, non m'inganno...
Vedete, guardate com'è già pallida,
la miserabile, come le battono i
denti! Oh, la giustizia ti forzerà a
parlare! Verrai subito con me dal
signor sindaco... Capisci?... Oh,
non c'è da resistere... Ho un buon
pugno fermo... Io ti ci porterò."
"Insolente che siete!" esclamò
Clara esasperata. "Uscite di qua!
Ardite mancare così di rispetto alla
mia amica, a mia sorella?"
"Vostra sorella? Eh via, signorina!
Siete voi la matta!" replicò
grossolanamente
la
vedova.
"Vostra sorella? una baldracca che
per sei mesi ho visto far la
sgualdrina in giro per la Cité?" A
queste parole i contadini si misero
a mormorare contro Fleur-deMarie. Naturalmente prendevano
le parti della lattaia, che era della
loro classe e le cui sventure erano
note a tutti. I tre ragazzi, udendo
che la madre alzava la voce, le
corsero intorno piangendo, senza
sapere di che si trattasse. L'aspetto
di quei miseri bambini, vestiti a
lutto, raddoppiò la simpatia che
ispirava la madre, ed accrebbe
l'indignazione generale contro
Fleur-de-Marie.
Clara,
intimorita
dalle
dimostrazioni quasi minacciose
dei villici, disse loro molto
alterata: "Fate andar via costei! Vi
ripeto che il dolore la trasporta.
Marie, Marie, perdona! Mio Dio, è
pazza, non sa quello che dice..." La
Goualeuse, pallida, a testa china
per celarsi a tutti gli sguardi,
rimaneva mesta, abbattuta, e
neppure faceva alcun movimento
per sottrarsi alla lattaia, che
sempre più la stringeva.
Clara, che attribuiva il suo
avvilimento
allo
spavento
prodotto da una scena simile,
disse di nuovo ai contadini: "Non
mi avete sentito? Vi ordino di
cacciar via questa donna... Poiché
insiste nelle ingiurie, per punirla
della sua impertinenza non avrà
più il posto che mia madre le
aveva promesso; in vita sua non
rimetterà mai più piede nella
fattoria." Nessuno si mosse per
obbedire a Clara; ed anzi uno osò
dire: "Eh, signorina! Se è una
sgualdrina, e conosce l'assassino
del marito di questa povera donna,
deve venire a spiegarsi davanti al
sindaco..."
"Vi ripeto che non entrerete mai
più qui" disse Clara alla lattaia "se
non chiedete subito perdono alla
signorina Marie."
"Mi scacciate, signorina, pazienza"
replicò con amarezza, la vedova.
"Andiamo,
miei
disgraziati
orfanelli" aggiunse abbracciando i
figli "ricaricate il baroccino, e
andremo a guadagnarci il pane in
un altro luogo. Dio avrà pietà di
noi. Ma intanto condurremo dal
sindaco questa ladra, e sarà
costretta a dire il nome di quello
che ammazzò il mio povero
marito. Giacché questa puttana
conosce tutta la masnada! E voi,
signorina, perché siete ricca"
continuò, guardando la giovane
Dubreuil con insolenza "e perché
avete delle amiche fra questa
specie di gentaglia, non per questo
dovete trattar male la povera
gente!"
"È vero" disse uno dei contadini
"la lattaia ha ragione..."
"Povera donna!"
"Ha ragione! Ha diritto..."
"Le hanno assassinato il marito!
Deve forse provar piacere?"
"Nessuno le può impedire di far di
tutto per scoprire gli scellerati che
hanno commesso il delitto!"
"È ingiusto mandarla via."
"È colpa sua se l'amica di
madamigella
Clara
è
una
donnaccia?"
"Non si mette fuori una donna
onesta, una madre di famiglia, a
causa di una bagascia simile!"
Clara esclamò: "Sia lodato Iddio,
ecco mia madre!" Difatti la signora
Dubreuil, tornando dalla palazzina
dell'orto, attraversava il cortile.
"Ebbene, Clara, ebbene, Marie"
disse la fattoressa avvicinandosi
"venite a far colazione? Andiamo,
figliole, è già tardi."
"Mamma" gridò Clara "difendete
mia sorella dagli insulti di questa
donna. Per favore, mandatela
fuori. Se sapeste tutti gli oltraggi
che ha l'audacia di dire a Marie..."
"Come? oserebbe?..."
"Sì" e indicò la vedova. "Vedete,
mamma, la mia sorellina, come
trema... Può appena reggersi... È
vergogna per noi che una scena
tale abbia luogo in casa nostra.
Marie, perdonaci, te ne supplico!"
"Ma che significa tutto questo?"
domandò la signora Dubreuil,
guardandosi
attorno
con
inquietudine, dopo aver notato
l'abbattimento della Goualeuse.
"La padrona sarà giusta, di
sicuro..." bisbigliarono i villici.
"Ecco la signora Dubreuil! Ora
toccherà a te di esser mandata via"
disse a Fleur-de-Marie la lattaia.
"È dunque vero?" gridò la
fattoressa a quest'ultima che
reggeva sempre la Goualeuse per
un braccio. "Ardite parlare in
questo modo all'amica di mia
figlia? Così contraccambiate la
mia bontà? Volete lasciar in pace
questa ragazza!"
"Io vi rispetto, signora, e vi sono
grata della vostra bontà" rispose la
vedova, lasciando libero il braccio
di Marie "ma prima d'incolparmi e
di scacciarmi con i miei figli,
interrogate questa infame. Forse
non avrà la faccia di negare che mi
conosce e che la conosco anch'io."
"Marie, Dio buono! Sentite quel
che dice?" domandò la signora
Dubreuil al colmo della sorpresa.
"Ti chiami, sì o no, la
Goualeuse?" chiese la lattaia.
"Sì" rispose l'infelice a voce
bassa, atterrita, e senza alzare gli
occhi sulla signora Dubreuil. "Sì,
mi chiamavano così."
"Ah, vedete!" urlarono tutti i
contadini sdegnati. "Confessa,
confessa..."
"Confessa?
Ma
che
cosa
confessa?" gridò la signora
Dubreuil, mezzo spaventata dalla
confessione di Marie.
"Lasciatela
rispondere,
signora" soggiunse la vedova. "Ora
confesserà che era in una casa
infame di rue aux Fèves, nella
Cité, dove io le vendevo un soldo
di latte ogni mattina; confesserà
che spesso ha parlato davanti a me
con l'assassino del mio povero
marito... Oh, lo conosce bene, ne
sono certa... Un giovane pallido,
che fumava sempre, e che portava
un caschetto, il camiciotto e i
capelli lunghi; deve sapere il suo
nome... È vero? Vuoi rispondere,
disgraziata? Vuoi rispondere?"
gridava la lattaia.
"Può essere che io abbia
discorso con quello che uccise il
vostro sposo, giacché c'è, per
sfortuna, più di un assassino nella
Cité" disse Fleur-de-Marie, che si
sentiva mancare "ma non so chi
intendete accusare."
"Come? che ha detto?" fece
sbigottita la signora Dubreuil. "Lei
ha parlato con assassini?"
"Le creature come lei non hanno
altre relazioni che quelle..."
rispose la vedova.
La fattoressa, in principio
stupefatta dalla strana rivelazione,
giustificata dalle ultime parole di
Marie, comprese ormai ogni cosa,
retrocedette con ribrezzo, trasse
con forza e bruscamente a sé sua
figlia, che si era avvicinata alla
Goualeuse per sostenerla, ed
esclamò: "Oh, che orrore! Clara,
badate, non vi accostate a quella
sciagurata... Come mai la signora
Georges ha potuto riceverla in
casa sua? Come ha osato
presentarmela, e permettere che la
mia figliola... Mio Dio, mio Dio!
Ma questo è un vituperio... A
malapena posso credere a quel che
vedo! Ma no, ma no, la signora
Georges è incapace di una simile
birbonata... Sarà stata ingannata
come noi... Diversamente... Ah, in
lei sarebbe abominevole!" Clara,
desolata, spaventata da quella
scena crudele, credeva di sognare.
Nella sua candida ignoranza non
comprendeva le terribili accuse
che si gridavano contro la sua
amica; le si spezzava il cuore.
Le si riempirono gli occhi di
lacrime nel vedere la Goualeuse
avvilita come una delinquente
davanti ai suoi giudici.
"Vieni, vieni, figlia mia cara..."
disse a Clara la signora Dubreuil.
E poi, volta a Marie: "E voi,
indegna, Dio vi punirà della vostra
infame ipocrisia. Avete ardito
permettere che mia figlia, un
angelo di virtù, vi chiamasse
amica, sorella... Sua amica, sua
sorella! Voi, la feccia di quanto è al
mondo
di
più
vile!
Che
sfacciataggine!...
E
osate
mescolarvi
con
le
persone
dabbene, mentre meritate di andar
a ritrovare le vostre simili in
carcere."
"Sì, sì" urlarono in coro i contadini
"deve andare in carcere... Conosce
l'assassino!"
"E forse è una complice!"
"Vedi che c'è una giustizia in
cielo..." disse la vedova, mostrando
il pugno alla Goualeuse.
"In quanto a voi, mia buona
donna" così parlò la Dubreuil alla
lattaia "invece di licenziarvi, vi
sono grata del servizio che mi
avete reso scoprendo questa
sgualdrinella."
"Alla buon'ora, la nostra padrona è
giusta..." bisbigliarono i contadini.
"Vieni, Clara" soggiunse la
fattoressa "la signora Georges ci
spiegherà il suo contegno, se no,
non la rivedrò più in vita mia:
giacché se non è stata ingannata,
agisce verso di noi in un modo da
far ribrezzo."
"Ma, cara madre, guardate la
misera Marie..."
"Che crepi dalla vergogna, se
vuole...
Tanto
meglio!
Disprezzala... Non voglio che tu le
stia un momento vicina... È una di
quelle creature con le quali una
fanciulla come te non può parlare
senza disonorarsi."
"Mio Dio, mio Dio, mamma" disse
Clara, opponendosi alla madre che
cercava di condurla via. "Non so
cosa significhi... Marie può essere
colpevole, poiché voi lo dite: ma
vedete,
sviene...
Abbiate
compassione, almeno..."
"Ah, signorina Clara, voi siete
buona, voi mi perdonate. Fu mio
malgrado,
credetelo,
che
v'ingannai...
Spesso
me
lo
rimproverai io stessa..." disse la
sventurata, volgendo sulla sua
protettrice
uno
sguardo
di
gratitudine ineffabile.
"Madre mia, siete dunque
senza pietà?" esclamò Clara, con
una voce che straziava il cuore.
"Pietà per lei? Eh via! Se non
fosse che la signora Georges ce la
leverà subito d'attorno, la farei
gettar fuori dal podere come
un'appestata..."
rispose
aspramente la fattoressa.
E trascinò la figlia, che
girandosi per l'ultima volta verso
la Goualeuse, le gridava: "Marie,
sorella mia! Non so di che ti
accusano, ma sono certa che tu
non sei colpevole, e ti amo
sempre."
"Taci, taci!" gridava la signora
Dubreuil, ponendole la mano sulla
bocca. "Sta' zitta... Fortuna che
tutti sono testimoni che, dopo
questa disgustosa scoperta, non
sei rimasta un momento solo con
quella donna... Non è vero, miei
cari?"
"Sì, signora" dissero i contadini
"siamo testimoni che la signorina
Clara non è stata un momento con
questa baldracca, che di certo è
una ladra, poiché ha relazione con
gli
assassini."
La
Dubreuil
condusse via Clara.
La Goualeuse restò sola in
mezzo al gruppo di persone
minacciose che le si era affollato
intorno. Malgrado le ingiurie della
Dubreuil, la presenza di questa e
di Clara erano come riparo all'ira
scatenata dei contadini. Ma dopo
che quelle si furono allontanate,
trovandosi in balia dei contadini,
Marie si sentì mancare le forze, e
fu costretta ad appoggiarsi al
parapetto dell'abbeveratoio dei
cavalli del podere.
Quasi ritta all'orlo della pietra,
con la testa china, nascosta fra le
mani, il collo e il seno coperti dalle
punte del fazzoletto d'indiana che
le attorniava la cuffietta, la
Goualeuse, immobile, sembrava
l'immagine più naturale del dolore
e della rassegnazione. A pochi
passi di distanza, la vedova
dell'ucciso, trionfante, ed anche
esacerbata contro Marie dalle
imprecazioni della fattoressa, la
mostrava a dito ai suoi figli ed alla
folla con parole terribili.
I
contadini
del
podere,
radunati in circolo, non celavano i
sentimenti ostili che li animavano:
sulle loro rozze fisionomie si
scorgevano
l'indignazione,
la
collera, ed una specie di dileggio
brutale ed insultante; le donne
parevano ancor più furibonde e
più disgustate degli uomini, e la
bellezza della Goualeuse non era
forse una delle più piccole cause
del loro accanimento. Nessuno,
insomma, poteva perdonare a
Fleur-de-Marie di essere stata sino
ad allora trattata come loro eguale
e amica dei padroni. Ed inoltre,
siccome
vari
contadini
di
Arnouville non erano stati in
grado di presentare referenze
favorevoli per ottenere nel podere
di Bouqueval uno degli impieghi
tanto invidiati in paese, molti di
costoro nutrivano contro la
signora
Georges
un
certo
malcontento di cui la sua protetta
doveva ora risentire gli effetti. I
primi impulsi delle persone
incolte sono sempre estremi... Ma
divengono poi pericolosi quando,
riunite in molte, credono la loro
brutalità autorizzata da torti reali
o apparenti di coloro contro cui è
rivolto l'odio, o la loro rabbia.
Sebbene non tutti gli abitanti
della fattoria avessero un motivo
per non avere poi molti riguardi, e
forse anche una decisa diffidenza
verso
la
Goualeuse,
pure
sembrava
che
fossero
contagiosamente esasperati anche
solo dalla presenza di lei, e si
sdegnavano nel pensare a che
razza di progenie apparteneva la
sfortunata, che inoltre confessava
di aver avuto rapporti con
assassini.
Occorreva di più per eccitare
l'ira dei campagnoli già spinti
dall'esempio
della
signora
Dubreuil? "Bisogna portarla dal
sindaco..." gridò uno.
"Sì, sì, e se non vuol
camminare, la si spinga."
"E ha anche il becco di vestirsi
come le ragazze oneste di
campagna!" aggiunse una delle più
sguaiate e sciatte del podere.
"Con la sua faccia da
gabbasanti, chi non se ne sarebbe
fidato?"
"Non aveva la sfacciataggine di
andare a messa?"
"Pettegola!... Anzi doveva fare la
comunione.
"E si voleva strofinare attorno
alle padrone!"
"Come fossimo gente troppo bassa
in confronto a lei!"
"Ma, per fortuna, tocca una volta
per uno!"
"Oh, parlerai per forza! Altroché,
se dirai il nome dell'assassino!"
aggiunse la vedova. "Già siete tutti
della stessa cricca. E non sono ben
sicura di non averti visto quello
stesso giorno con gli altri... Animo,
animo, è inutile che tu pianga, ora
che sei riconosciuta... Mostraci la
tua faccia, che è così bella a
vedersi..." E la vedova abbassò
brutalmente le due mani della
ragazza, che si nascondeva il viso
bagnato di lacrime.
La Goualeuse, sul principio
rossa per la vergogna, cominciava
a tremare di paura, trovandosi sola
in balìa di quelle furie. Giunse
insieme le mani, girò verso la
lattaia le pupille supplichevoli e
paurose, e disse dolcemente: "Mio
Dio, da due mesi sono ritirata nel
podere di Bouqueval... Dunque
non posso essere stata presente
alla disgrazia di cui parlate, e..." La
timida voce di Marie fu coperta
dalle grida di tutti.
"Portiamola dal sindaco... Si
spiegherà."
"Animo, marcia, bellezza!" E
poiché il gruppo minaccioso si
accostava
maggiormente
alla
Goualeuse, questa, incrociate le
mani
per
un
movimento
involontario, guardava da una
parte e dall'altra con terrore, e
pareva implorasse assistenza.
"Oh" proseguì la lattaia "è
inutile che ti cerchi attorno! Non
c'è più la signorina Clara a
difenderti, non ci scapperai..."
"Ahimè!" disse tremando Marie.
"Non voglio sfuggirvi; non rifiuto
di rispondere a quello che mi sarà
domandato se può giovarvi... Ma
che male ho fatto a tutti questi che
mi minacciano?"
"Ci hai fatto, che hai avuto la
sfacciataggine di andare di qua e di
là con le nostre padrone, mentre
non potevamo andarci noialtre,
che siamo mille volte meglio di
te... Ecco cosa ci hai fatto!"
"E poi perché volevi che fosse
cacciata di qui la povera vedova
con i figlioli?" disse un altro.
"Non sono stata io, ma la
signorina Clara voleva..."
"Ma
piantala"
qualcuno
la
interruppe "non hai nemmeno
chiesto grazia per lei; eri contenta
di vederle togliere il pane."
"Sì, è vero, non ha domandato
grazia!"
"È pure maligna!"
"A una misera vedova, madre di
tre creature..."
"Se non mi sono raccomandata in
suo favore" disse Marie "è che non
avevo fiato per dire una parola."
"Avevi fiato per parlare con gli
assassini!" Come nelle sommosse
popolari, quei contadini, più stolti
che malvagi, s'irritavano, si
eccitavano, si inebriavano dello
strepito delle parole, e si
inviperivano
quanto
più
aumentavano le ingiurie alla loro
vittima. Così la plebe arriva
talvolta, senza saperlo e mediante
un'esaltazione
progressiva,
all'esecuzione degli atti più
ingiusti e più feroci. Il gruppo
minaccioso
dei
villani
si
appressava sempre più alla
ragazza. Tutti agitavano i pugni
strillando;
la
vedova
del
maniscalco non poteva più
contenersi.
Fleur-de-Marie, separata dal
profondo
abbeveratoio
dal
parapetto a cui si appoggiava,
temette
di
essere
gettata
nell'acqua, e stendendo supplice le
braccia, esclamò: "Ma, mio Dio
che volete da me? Non mi fate del
male!" E, siccome la lattaia le si
scagliava contro, puntandole i due
pugni quasi sul viso, Marie,
spaventata e buttandosi indietro,
soggiunse: "Ve ne scongiuro, non
fatemi del male! Mi farete cadere
in acqua!" Queste parole di Fleurde-Marie risvegliarono in quelle
rozze persone un'idea crudele.
Non pensando che di fare una di
quelle burle da contadini che
spesso costano la vita, vi fu uno
dei più forsennati che gridò: "Un
tuffo! Facciamole fare un tuffo!"
"Sì... sì... nell'acqua" ripeterono
tutti con risate ed applausi
frenetici.
"Bene, un buon tuffo! Non
morrà mica per questo!"
"E imparerà a venirsi a mischiare
con la gente onesta!"
"Sì, sì... nell'acqua, nell'acqua!"
"Appunto
stamane
è
stato
sdiacciato."
"La bella puttana si ricorderà dei
bravi lavoratori della fattoria
d'Arnouville!" Sentendo queste
grida disumane e i barbari
motteggi, vedendo l'inasprimento
di
tutte
quelle
persone
stupidamente
irritate
che
venivano minacciose verso di lei,
Marie si credette morta.
Al
suo
primo
spavento
succedette una specie di amara
contentezza: vedeva l'avvenire così
terribile,
che
ringraziò
mentalmente il cielo di abbreviare
le sue pene; non proferì più alcun
lamento,
cadde
ginocchioni,
s'incrociò religiosamente le mani
sul petto, chiuse gli occhi, ed
aspettò pregando.
I villici, meravigliati dalla sua
arrendevolezza e dalla sua tacita
rassegnazione,
esitarono
un
momento ad effettuare i loro
selvaggi progetti; ma derisi per
l'improvvisa, pietosa debolezza,
dalle più eccitate donne del
gruppo,
ricominciarono
a
schiamazzare
per
acquistar
coraggio a compiere l'efferato
disegno.
Due dei più furibondi stavano
per afferrare Marie, quando una
voce commossa, sonora, gridò:
"Fermatevi!" La signora Georges
giunse come una folgore, decisa,
severa, spingendo e minacciando i
più recalcitranti.
Arrivò accanto all'infelice in
ginocchio, la prese nelle sue
braccia, e l'alzò dicendole: "In
piedi, figlia mia, in piedi, cara
figliola! Non ci si inginocchia che
dinanzi a Dio!" L'espressione e i
gesti della signora Georges erano
tanto imponenti, che l'orda rinculò
e stette muta.
L'indignazione
colorì
vivamente il volto della signora
Georges, di solito pallida. Guardò
con occhi terribili la torma dei
contadini e gridò con voce alta e
minacciosa: "Disgraziati... Non vi
vergognate
a compiere
tali
violenze contro questa poveretta?"
"È una..."
"È mia figlia" gridò la signora
Georges,
interrompendo
un
villano. "Il signor abate Laporte,
che tutti benedicono e venerano,
l'ama e la protegge, e quelli che da
lui sono stimati devono essere
rispettati
da
tutti."
Queste
semplici parole frenarono i
contadini. Il parroco di Bouqueval
era considerato in paese come un
santo, e molti sapevano quanto
s'interessasse della Goualeuse.
Tuttavia si udiva sempre un sordo
mormorio.
La signora Georges, che ne
comprese il senso, proseguì:
"Quand'anche
questa infelice
fosse l'infima tra tutte le donne,
quando
fosse
da
ognuno
abbandonata, la vostra condotta
verso di lei sarebbe iniqua. Di che
volete castigarla? E poi, con qual
diritto? Quale è la vostra autorità?
La forza? E non è vergogna, non è
viltà, per tanti uomini, prendere
per vittima una ragazzina priva di
difesa? Vieni, Marie, vieni, figliola
cara; ritorniamo a casa nostra; là
almeno tu sei conosciuta e
apprezzata..." La buona donna
prese a braccetto Marie. I villani,
accorgendosi della brutalità del
loro contegno, si allontanarono
rispettosamente.
La vedova sola si fece innanzi,
dicendo risoluta alla signora
Georges: "Questa ragazza non
uscirà di qui finché non abbia
fatto la sua deposizione al sindaco
sull'assassinio del mio povero
marito."
"Mia cara" le rispose la signora
Georges, riuscendo a controllarsi
"non è obbligata a far qui alcuna
deposizione. In seguito, se la
giustizia riterrà opportuno averla
per testimone, sarà chiamata, ed
io l'accompagnerò. Sino a quel
punto
nessuno
ha
diritto
d'interrogarla."
"Ma signora, io vi dico..." La
signora Georges interruppe la
lattaia e le disse severamente: "La
disgrazia che avete sofferto serve
appena a scusare la vostra
condotta. Un giorno vi pentirete
delle violenze che avete eccitate
con tanta imprudenza. Marie abita
con me al podere di Bouqueval;
informatene
il
giudice
che
ricevette la vostra prima denuncia,
ed aspetteremo i suoi ordini." La
vedova non seppe cosa replicare a
un così saggio discorso; sedette
sul parapetto dell'abbeveratoio, e
si mise a piangere amaramente,
abbracciando i suoi figli. Pochi
minuti dopo quella scena, Pierre
condusse là il calesse, e la signora
Georges e Marie vi salirono per
ritornare a Bouqueval.
Nel passare davanti alla casa
della fattoressa d'Arnouville, la
Goualeuse vide Clara, che, mezzo
nascosta dietro una persiana
socchiusa, le faceva con il
fazzoletto un cenno di addio.
12.
Consolazioni.
"Ah, signora, che vergogna per
me, e che dolore per voi!" disse
Fleur-de-Marie
alla
madre
adottiva quando con lei si trovò
sola nel salottino del podere di
Bouqueval. "Voi, senza dubbio,
siete in rotta per sempre con la
signora Dubreuil, e per causa
mia... Oh, i miei presentimenti!
Dio mi ha punita per aver
ingannato così quella signora e
sua figlia. Io sono un oggetto di
discordia fra voi e la vostra
amica..."
"La mia amica è un'ottima donna,
mia cara, ma ha la testa un po'
debole... Del resto, siccome ha il
cuore buonissimo, sono certa che
domani si pentirà dei suoi atti e
delle parole di oggi..."
"Ah, non crediate che io voglia
giustificarla incolpando voi, mio
Dio! Ma la vostra bontà a mio
favore vi ha forse accecata...
Mettetevi nei panni della signora
Dubreuil: pensate, la compagna
della sua onesta figliola... è..., era...
quella che io fui... E poi dite se si
può biasimare la sua materna
indignazione?" Disgraziatamente
la signora Georges non sapeva che
cosa rispondere a tale domanda.
"La scena avvilente" continuò
Marie con esaltazione "che io ho
subito domani sarà sulla bocca di
tutti! Non temo per me, ma la
reputazione di Clara... Non ne sarà
pregiudicata, e per sempre, per
avermi chiamata sua amica, sua
sorella? Io avrei dovuto seguire i
miei primi impulsi, resistere alla
simpatia che mi spingeva verso la
signorina Dubreuil, e, a rischio
d'irritarla, rifiutare l'amicizia che
mi veniva offerta. Ma dimenticai
la distanza che da lei mi
separava... Ne ho avuto il castigo:
forse ho causato un danno
irreparabile a quella fanciulla
virtuosa e buona..."
"Figlia mia" disse la signora
Georges, dopo un momento di
riflessione "avete torto nel farvi
così aspri rimproveri. Il vostro
passato
fu
colpevole,
sì,
colpevolissimo... Ma è forse nulla
l'avere, con il vostro pentimento,
meritato
la
protezione
del
venerabile nostro parroco? Non
fu, con i suoi elogi, con la mia
stima, che foste presentata alla
signora Dubreuil? E le vostre
buone qualità non le ispirarono
l'attaccamento che per voi aveva
concepito?... Non vi chiese lei
stessa che chiamaste Clara vostra
sorella? E infine, come io dicevo
poco fa, giacché nulla volevo né
dovevo celarle, sicura com'ero del
vostro ravvedimento, potevo io
propalare il passato e rendere più
penosa
e,
chissà,
anche
impossibile,
la
vostra
riabilitazione? e levarvi ogni
speranza, e abbandonarvi al
disprezzo di persone che, qualora
fossero
state
per
disgrazia
abbandonate come voi, non
avrebbero
forse
come
voi
conservato l'istinto dell'onore e
della virtù? La rivelazione di
quella donna è triste, è funesta...
Ma io dovevo, prevenendola,
sacrificare il vostro futuro ad una
eventualità improbabile?"
"Ah, signora! Quel che prova
quanto la mia situazione sia per
sempre falsa e misera è appunto
che, per affetto verso di me, avete
dovuto nascondere il mio passato,
e che la madre di Clara ha avuto
ragione di offendersi e di
disprezzarmi a causa di quello
stesso passato. E tutti, d'ora in poi,
mi sprezzeranno, giacché ciò che è
accaduto ad Arnouville sarà noto,
sarà pubblico... Oh, ne morrò di
vergogna,
non
potrò
più
sopportare gli sguardi di alcuno!"
"Nemmeno i miei? Povera figlia"
disse
la
signora
Georges,
prorompendo
in
pianto
ed
aprendo le braccia per stringersi al
seno Marie "ah, voi non troverete
nel mio cuore altro che la
tenerezza e la premura di una
madre... Coraggio, Marie! Vi sia
sempre
presente
il
vostro
pentimento.
Qui siete circondata da amici.
Ebbene questa casa sarà per voi
tutto l'universo. Noi preverremo le
rivelazioni che tanto vi danno da
temere; l'ottimo nostro abate
adunerà tutta la gente del podere,
che già vi è affezionata, e dirà la
verità
sul
vostro
passato.
Credetemi, figliola, le sue parole
hanno una tale autorità, che la sua
dichiarazione vi renderà anche più
interessante di prima."
"Ho fede in voi, signora, e mi
rassegnerò. Ieri
nel
nostro
colloquio il signor parroco aveva
predetto
dolorose
espiazioni:
questo è l'inizio, né debbo
farmene meraviglia. Mi disse
ancora che un giorno mi sarà
tenuto conto dei miei patimenti...
Lo spero. Sostenuta in questa
esperienza da voi e da lui, non me
ne lagnerò più."
"Tra poco lo vedrete. I suoi
consigli non vi saranno stati mai
più salutari. Sono le quattro e
mezzo: preparatevi ad andare alla
canonica, figlia mia... Io voglio
scrivere al signor Rodolphe per
fargli noto quanto è avvenuto
nella fattoria d'Arnouville. Un
espresso gli porterà la mia lettera.
Poi verrò a trovarvi dal nostro
buon abate, giacché è necessario
che discorriamo tutti e tre un poco
insieme." Poco dopo Marie usciva
dal podere per recarsi alla
canonica, lungo quella strada
bassa dove la vigilia avevano
stabilito di incontrarsi con il
Maître, la Chouette e Tortillard.
13.
Riflessioni.
Come qualcuno può avere
osservato dai colloqui di Fleur-deMarie con la signora Georges e
con il parroco di Bouqueval, la
ragazza aveva approfittato così
nobilmente dei consigli dei suoi
benefattori, e si era così bene
immedesimata nei loro principi,
che sempre più si doleva nel
riflettere sul suo passato.
Il suo spirito si era sviluppato
in armonia con gli ottimi impulsi
del suo cuore in quell'atmosfera di
onore e di purezza in cui ormai
viveva. Se Marie fosse stata fornita
di meno alto criterio, di meno
squisita
sensibilità,
d'immaginazione meno vivace,
presto si sarebbe consolata. Si era
pentita, un venerabile sacerdote
l'aveva perdonata, e quindi poteva
ben dimenticare le nefandezze
della Cité fra le dolcezze della vita
campestre con la signora Georges;
avrebbe potuto godere senza
riserve
l'amicizia
di
Clara
Dubreuil, e non per noncuranza
degli errori commessi, ma per
cieca fiducia nella parola di coloro
che apprezzava tanto, e che le
dicevano: "Adesso la vostra buona
condotta vi rende eguale alle
persone oneste". Un'altra certo si
sarebbe afflitta alla triste scena
della fattoria d'Arnouville, ma non
avrebbe
sparso
amarissime
lacrime al solo pensiero del suo
passato, o provato confusi rimorsi
guardando Clara dormire pura e
innocente nella stessa camera con
una ex cliente dell'Orca. Infelice!
Nel silenzio delle lunghe veglie,
non aveva rivolto a se stessa
ingiurie mille volte più offensive
di quelle gridatele in faccia dai
contadini del villaggio? Ciò che
lentamente la uccideva era
l'esame, l'analisi incessante, i
rimproveri che si faceva; era in
particolare il costante confronto
fra l'avvenire che le era imposto
dall'inesorabile
passato,
e
l'avvenire che senza di questo
avrebbe sognato. Lo spirito
autocritico,
l'autoanalisi,
il
confronto, sono quasi sempre
inerenti
alla
superiorità
dell'intendimento. Questo spirito,
negli animi alteri, superbi, induce
dubbio e disdegno contro gli altri;
negli animi timidi e delicati induce
dubbio e disdegno contro di sé. I
primi sono condannati e si
assolvono da se stessi. I secondi
sono assoluti, e si condannano da
se stessi. Il parroco di Bouqueval,
malgrado la sua santità, la signora
Georges, malgrado la sua virtù, o
piuttosto entrambi a causa della
virtù e della santità, non erano in
grado d'intendere ciò che soffriva
la Goualeuse, dacché l'animo suo,
libero da ogni macchia, poteva
contemplare tutta la profondità
dell'abisso in cui era stata
precipitata. Non sapevano che i
tremendi ricordi della Goualeuse
avevano quasi la potenza, la forza
della realtà; non sapevano che
questa
giovane
di
squisita
sensibilità, di mente riflessiva,
d'immaginazione
poetica,
d'impressioni
dolorose,
non
passava un sol giorno, non diremo
senza ricordarsi, ma anche senza
risentire, con un'angoscia mista a
disgusto e spavento, le vergognose
miserie della trascorsa sua
esistenza. Figuriamoci una pura e
candida fanciulla di sedici anni
che ha la coscienza della sua
purezza e del suo candore,
scagliata da qualche potenza
infernale
nell'infame
taverna
dell'Orca,
ed
inevitabilmente
sottomessa al volere di quella
megera! Così sopra Marie influiva
il passato sul presente.
E faremo noi comprendere
quella specie di sentimento
retroattivo,
o
piuttosto
il
contraccolpo morale che pativa la
Goualeuse in un modo così atroce
da rammaricarsi, anche più spesso
di quanto avesse confessato
all'abate, di non esser morta
soffocata nel fango della sua vita
precedente? Chiunque rifletta ed
abbia una qualche esperienza del
mondo, considererà come un
paradosso ciò che noi stiamo per
dire.
Quello che rendeva Marie
tanto degna d'interesse e di pietà,
è che non solo lei non aveva
amato mai, ma che i suoi sensi
erano rimasti sempre intorpiditi e
gelidi. Se sovente in certe donne,
forse meno delicate di Marie, caste
ripulse succedono per lungo
tempo al matrimonio, c'è da
stupirsi che questa infelice,
ubriacata dall'Orca, ed all'età di
sedici anni gettata in mezzo al
branco di bestie selvatiche o feroci
che infestavano la Cité, provasse
unicamente orrore e spavento, ed
uscisse moralmente pura da
quella sentina? Le ingenue
confidenze di Clara Dubreuil
sull'onesto amor suo per il fattore,
a cui doveva sposarsi, avevano
angustiato Marie. Lei pure sentiva
che
avrebbe
amato
coraggiosamente, che avrebbe
provato l'amore con quanto ha di
devoto, di nobile, di puro e di
grande; e non le era più possibile
nutrire e ispirare questo amore!
Poiché se avesse amato avrebbe
riversato il suo amore su qualcuno
di alto sentire ed eletto dal meglio
dell'anima sua, e più la scelta
fosse stata degna di lei, più lei
doveva reputarsene indegna.
14.
La strada bassa.
Tramontava
il
sole
all'orizzonte; era deserta e tacita la
pianura.
Fleur-de-Marie si avvicinava al
principio della strada bassa, che
doveva attraversare per trasferirsi
alla canonica, quando vide sbucare
dal burrone un ragazzo zoppo, che
portava il camiciotto grigio ed un
berretto blu. Pareva smanioso, e,
appena distinse la Goualeuse, le
corse incontro.
"Oh, buona signora, abbiate
compassione di me, se potete..."
esclamò, ed univa le mani in atto
supplichevole.
"Che volete? Che avete,
bambino?"
gli
domandò
premurosamente la Goualeuse.
"Ahimè, buona signora! La mia
povera nonna, che è vecchia, è
cascata laggiù nello scendere nel
fossato, e si è fatta tanto male...
Ho paura che si sia rotta una
gamba... Sono troppo debole per
aiutarla ad alzarsi... Dio mio, come
farò se non mi date soccorso?
Povera nonna, forse è lì lì per
morire!"
"Neppur io sono molto forte" disse
commossa la Goualeuse "ma forse
potrò aiutarvi ad assistere vostra
nonna... Andiamo presto... Io abito
in quel podere là in fondo... Se la
misera vecchia non può venire con
noi,
manderò
qualcuno
a
prenderla."
"Mia buona signora, Iddio vi
benedirà di sicuro... È qui, a due
passi, nella strada bassa, come vi
dicevo, è caduta mentre scendeva
dall'argine."
"Non siete dunque del paese?"
domandò la Goualeuse seguendo
Tortillard, che i lettori avranno di
certo riconosciuto.
"No, buona signora, veniamo
da Ecouen."
"E dove andate?"
"Da un bravo parroco che sta
lassù, su quella collina..." rispose
il figlio di Bras-Rouge, per ispirare
a Fleur-de-Marie maggior fiducia.
"Forse dall'abate Laporte?"
"Per l'appunto, dal signor abate
Laporte; la mia nonna lo conosce
bene..."
"Precisamente andavo anch'io da
lui; che incontro..." disse Fleur-deMarie, e s'inoltrava di più nella via
bassa.
"Nonna, eccomi, eccomi! Abbi
pazienza, ti porto soccorso!" urlò
Tortillard per avvertire il Maître e
la Chouette di star pronti ad
assalire la vittima.
"Dunque la vostra parente non
è caduta lontano di qui?" chiese la
Goualeuse.
"No, mia buona signora: dietro
a quel grosso albero, là alla svolta
distante una ventina di passi." Ad
un tratto Tortillard si fermò: aveva
udito nella pianura il rumore di un
cavallo che veniva al galoppo.
"Siamo rovinati di nuovo" disse fra
sé.
La strada faceva un angolo
molto marcato, poco più oltre il
luogo dov'erano Marie ed il
ragazzo.
Comparve a quella svolta un
uomo a cavallo e si soffermò
quando fu vicino alla fanciulla.
Allora si udì il trotto di un altro
cavallo.
Dopo
qualche
momento
sopraggiunse un servitore, che
indossava un soprabito scuro con i
bottoni d'argento, calzoni di pelle
bianca e stivali con le borchie; una
cintura di cuoio rossiccio gli
stringeva dietro alla vita il
pastrano a "machintosh" del suo
padrone. Ed il padrone, vestito
semplicemente con un soprabito
color bronzo e pantaloni grigio
chiaro, montava, con bel garbo, un
destriero baio di razza pura, di
singolare bellezza, il cui mantello
cangiante
dorato
non
era
appannato dal minimo sudore,
benché avesse corso molto. Anche
l'animale su cui stava immobile il
"groom", a pochi passi di distanza,
poteva dirsi fornito di rarissimi
pregi.
Nel signore, di volto bruno e
gentile, Tortillard ravvisò il
visconte di Saint-Remy, che taluni
supponevano
amante
della
duchessa di Lucenay.
"Bella ragazza" disse il visconte
alla Goualeuse, che gli parve
oltremodo leggiadra "favorireste
indicarmi la via del villaggio di
Arnouville?" Lei, chinando gli
occhi ai suoi sguardi impertinenti
e maliziosi, rispose: "Signore,
all'uscire dalla strada bassa
prendete la prima a destra; quella
vi condurrà a un viale di ciliegi,
che
porta
direttamente
ad
Arnouville."
"Mille grazie, mia vezzosissima
fanciulla... Voi mi avete indicato
meglio di una vecchia che ho
trovato più in là sotto un albero, e
dalla quale non ho potuto ricavare
altro che urla e sospiri."
"Povera
nonna!"
mormorò
Tortillard.
"E adesso, un'altra parola..."
soggiunse il signor di Saint-Remy,
rivolto sempre alla Goualeuse.
"Potete
dirmi
se
troverò
facilmente, ad Arnouville, la
fattoria del signor Dubreuil?"
Fleur-de-Marie non poté fare a
meno di sussultare a quel nome,
che le ricordava l'increscioso
avvenimento del mattino.
"L'edificio
della
fattoria"
rispose "è appunto lungo il viale
che dovete seguire per andare ad
Arnouville."
"Grazie di nuovo, bella ragazza!"
replicò l'altro, e partì di galoppo
con il suo "groom" dietro.
Il bel viso del visconte si era
rasserenato
alquanto
mentre
parlava a Marie, ma una profonda
inquietudine tornò ad intorbidirlo
appena
fu
solo.
Marie,
rammentandosi dell'incognito per
cui si allestiva la palazzina su
ordine della signora di Lucenay,
tenne per certo che si trattasse di
quel
giovane
e
leggiadro
gentiluomo
che
l'aveva
interrogata. I cavalli al galoppo
batterono per qualche tempo il
terreno indurito dal ghiaccio;
scemò il rumore, e poi cessò del
tutto.
E fu silenzio come prima.
Tortillard respirò. Nell'intenzione
di tranquillizzare ed avvertire i
suoi complici, uno dei quali, il
Maître, non era stato visto dal
visconte, il figlio di Bras-Rouge
gridò: "Nonna, eccomi, con una
buona signora che ti viene a dare
aiuto..."
"Presto, presto, figlio! Quel
signore a cavallo ci ha fatto
perdere alcuni minuti..." disse la
Goualeuse affrettandosi.
Era appena giunta alla svolta,
che la Chouette, in agguato, disse
piano: "Tocca a me, Maître!" E,
saltando addosso a Marie, l'afferrò
al collo con una mano, e con l'altra
le tappò la bocca mentre Tortillard
le si aggrappava alle gambe, per
impedirle di muovere un passo.
Ciò fu fatto con tale rapidità,
che la Chouette non aveva avuto
tempo di osservare il volto della
Goualeuse, ma nei pochi momenti
che occorsero al Maître per uscire
dalla
buca,
dove
si
era
rannicchiato, e venire avanti a
tentoni, la vecchia riconobbe la
sua vittima.
"La
Pegriotte!"
esclamò
stupefatta.
Poi con gioia feroce: "Sei tu?
Ah, il diavolo ti manda... È destino
che tu caschi sempre sotto le mie
unghie!... Là nella carrozza ho il
mio vetriolo; questa volta devo
conciare il tuo bel visetto... Perché
mi fai proprio schifo con la tua
faccia
da
verginella...
Su,
bell'uomo, bada che non ti morda,
e reggila bene intanto che la
imballiamo..." Il Maître, con le sue
mani robuste, strinse fortemente
Marie, e, prima che potesse dare
un grido, la Chouette le gettò sulla
testa il pastrano e ve l'infagottò
tutta.
In un istante Marie, legata,
imbavagliata,
si
trovò
nell'impossibilità di fare alcun
movimento
o
di
chiamare
soccorso.
"Ora, carica il fagotto, marito!"
disse la Chouette.
E continuò: "Eh, eh, pesa meno
di quella donna annegata nel
canale di Saint-Martin... Non è
vero?" E, poiché il Maître
sussultava a quelle parole che gli
rammentavano il sogno della
notte,
la
guercia,
ridendo,
aggiunse: "Insomma, che hai,
marito?... Pare che tu tremi da
stamane in qua, ogni tanto batti i
denti come avessi la febbre, e
allora guardi per aria, come
cercassi qualcosa..."
"Mangiapane a tradimento! Sta a
vedere le mosche che volano!"
derise Tortillard.
"Animo, presto, scappiamo!
Imballami la Pegriotte. Bene."
proseguì la Chouette, vedendo che
l'assassino prendeva fra le sue
braccia Marie come avrebbe fatto
con una bambinella che dormisse.
"Sbrigati! Alla carrozza!..."
"Ma chi condurrà me?" grugnì il
Maître, reggendo quel fardello tra
le sue braccia d'Ercole.
"Uh, che testone! pensa
proprio a tutto!" disse la Chouette.
E si tirò da parte lo scialle, si
sciolse una sciarpa rossa che aveva
attorno allo scarno collo, la torse
per il lungo a guisa di fune e disse
al Maître: "Apri la bocca...
Acchiappa una cocca del fazzoletto
fra i dentini, stringi bene.
Tortillard agguanterà l'altra cocca
con una mano, e tu gli andrai
appresso... A buon cieco, buon
cane... Su, piccino!" Lo sciancato
fece un salto, imitò comicamente
l'abbaiare di un cane, prese in
mano l'altra cocca della sciarpa, e
condusse in tal modo il cieco,
mentre la Chouette affrettava i
passi per avvertire Barbillon.
Noi abbiamo rinunciato a
descrivere il terrore che assalì
Marie quando si vide in balia della
Chouette e del Maître. Si sentì
venir meno, né poté opporre la
minima resistenza.
Dopo
pochi
minuti,
la
Goualeuse era trasportata nella
vettura guidata di Barbillon.
Benché fosse notte, furono calate
le tendine, e i tre complici
s'incamminarono, con la loro
vittima quasi moribonda, verso la
spianata di Saint-Denis, dove Tom
li aspettava.
15.
Clémence d'Harville.
Il lettore ci scuserà se
abbandoniamo una delle eroine di
questa storia in una così critica
situazione di cui diremo dopo che
si sarà risolta. Le esigenze di
questo racconto complicato, e
disgraziatamente
spezzettato
troppo nella sua unità, ci
costringono
a
passare
incessantemente dall'uno all'altro
individuo, per poter far continuare
e progredire l'interesse generale
dell'opera, se pure ha un qualche
interesse quest'opera così difficile,
ma coscienziosa ed imparziale.
Dobbiamo
ancora
accompagnare alcuni degli attori
della nostra narrazione in quelle
soffitte dove tremano di freddo e
di fame dei miserabili rassegnati,
probi ed industriosi.
Nelle prigioni d'uomini e di
donne, prigioni spesso ben adorne
e fiorite, e sovente cupe e funebri,
ma sempre vaste scuole di
perdizione, atmosfera nauseante e
viziosa, in cui l'innocenza si
scolora e si avvilisce, scellerato
luogo, dove l'accusato può entrare
puro, ma da cui esce quasi sempre
corrotto. Negli ospedali, dove il
povero, trattato rare volte con
dolce umanità, ricorda talvolta con
rammarico il triste letto che
bagnava con gelido sudore della
febbre.
In quegli asili misteriosi, dove
la donna, sedotta e abbandonata,
dà alla luce, piangendo amare
lacrime, il figlio che forse non
dovrà rivedere mai più. In quei
luoghi terribili, ove la pazzia
commovente, ridicola, stupida o
feroce, si mostra sotto aspetti
sempre spaventosi, dall'insensato
tranquillo, che mestamente ride
d'un riso che fa piangere, al
frenetico, che rugge come una
belva,
reggendosi
ed
arrampicandosi ai ferri della sua
gabbia.
E dobbiamo anche esplorare...
Ma a che giova enumerare tante
cose? Con ciò non potremo forse
incutere qualche timore nel
lettore? Egli, che già si è
compiaciuto di seguirci in luoghi
abbastanza strani, chissà che non
esiti ad accompagnarci in nuove
avventure più bizzarre ancora.
Dunque andiamo avanti.
Rammentiamo che nel giorno
antecedente a quello in cui
accadeva quanto da noi narrato (il
rapimento della Goualeuse ad
opera della Chouette), Rodolphe
aveva salvato madama d'Harville
da un pericolo imminente,
suscitato dalla gelosia di Sarah,
che aveva avvertito il signor
d'Harville
dell'appuntamento
accordato imprudentemente dalla
marchesa a Charles Robert.
Rodolphe, profondamente scosso
da quella scena, era tornato a casa
sua, uscendo dalla casa della rue
du
Temple,
e
differendo
all'indomani la visita che si era
proposto di fare a Rigolette ed alla
famiglia dell'infelice artigiano di
cui abbiamo parlato.
Per
sfortuna,
aveva
dimenticato che Tortillard si era
impossessato della borsa, di cui
sappiamo già in qual modo questo
piccolo zoppo avesse commesso il
furto audace.
Verso le quattro, il principe
ricevette la seguente lettera...
L'aveva portata una donna che se
n'era andata senza aspettare la
risposta.
"Monsignore, vi debbo più che
la vita; vorrei esprimervi oggi
subito la mia riconoscenza. Forse
domani mi renderà muta la mia
vergogna. Se poteste farmi l'onore
di venire da me questa sera,
terminereste la giornata come
l'avete cominciata, monsignore,
con un'azione generosa.
D'Orbigny d'Harville P.S. Non
vi
prendete
l'incomodo
di
rispondermi, monsignore; sarò a
casa mia tutta la sera." A
Rodolphe, contento di aver reso
alla signora d'Harville un grande
favore, rincresceva però quella
specie d'intimità forzata che una
tale circostanza faceva nascere
d'un tratto fra lui e la marchesa.
Incapace di tradire l'amicizia che
aveva per il signor d'Harville, ma
non indifferente alla grazia, allo
spirito, alla bellezza di Clémence,
appena si fu accorto della simpatia
che per lei sentiva, aveva
rinunciato a frequentarla, dopo
che per un mese si era mostrato
verso di lei molto assiduo.
E quindi si doleva al ricordo
della conversazione udita nel
palazzo dell'ambasciatore di * tra
Tom e Sarah. Quest'ultima, per
motivare l'odio e la gelosia, aveva
asserito, non senza ragione, che la
signora d'Harville provava, quasi
senza saperlo, un grande affetto
per Rodolphe. Troppo era sagace,
astuta,
sentimentalmente
smaliziata, per non aver compreso
che
Clémence,
credendosi
trascurata e disprezzata da un
uomo
che
forse
amava,
indispettita,
e
cedendo
ai
suggerimenti di un animo perfido,
potesse
interessarsi
alle
immaginarie disgrazie di Charles
Robert, pur senza dimenticare
Rodolphe.
Altre donne, fedeli al ricordo
dell'uomo che per primo era
entrato nel loro cuore, sarebbero
rimaste indifferenti alle occhiate
malinconiche del Comandante. E
dunque Clémence fu doppiamente
colpevole, poiché non aveva
tradito soltanto il marito, ma,
cedendo alla pietà, aveva offuscato
il sentimento che in fondo al
cuore nutriva ancora per il
principe.
Rodolphe,
pensando
al
prossimo incontro con la signora
d'Harville, era assalito da una
serie di emozioni e pensieri
contraddittori. Deciso fermamente
a resistere alla simpatia che lo
trascinava verso di lei, ora si
stimava
felice
di
poterle
rimproverare una così triste scelta,
quale quella di Charles Robert;
ora, al contrario, si rammaricava
amaramente di veder cadere la
stima con cui sempre l'aveva
considerata.
Clémence pure attendeva quel
colloquio con ansietà; i due
sentimenti che la dominavano
erano:
dolorosa
confusione
quando pensava a Rodolphe,
avversione
somma
quando
pensava a Robert. Molti elementi
ormai
alimentavano
quest'avversione.
Una donna può mettere in
pericolo la sua quiete, il suo
onore, per un uomo; ma non gli
perdonerà mai di averla messa in
una situazione umiliante o
ridicola. Ora la signora d'Harville,
esposta ai sarcasmi ed agli sguardi
insultanti della Pipelet, era stata
sul punto di morire dalla
vergogna. Né ciò bastava. Ricevuto
da Rodolphe l'avviso del pericolo
che la sovrastava, era salita
precipitosamente al quinto piano,
ma, nell'andar su, aveva visto
Robert in veste da camera aprire
l'uscio con quell'aria tronfia e
soddisfatta. L'insolente vanità e
l'abbigliamento indecente del
Comandante le fecero capire
quanto si era ingannata su di lui.
Spinta dalla bontà dell'animo suo,
dalla generosità del suo carattere,
ad
un
passo
che
poteva
comprometterla, rovinarla, gli
aveva concesso quel convegno,
non per amore, ma per consolarlo
della figura ridicola che davanti a
lei gli avevano fatto fare in casa
dell'ambasciatore. È immaginabile
dunque il dispiacere, il disgusto
che provò nel vedere Charles
Robert vestito a quel modo!
Suonavano le nove al pendolo del
salottino di madama d'Harville.
Le modiste e gli osti hanno
talmente abusato degli arredi in
uso
ai
tempi
di
Luigi
Quindicesimo, che la marchesa, di
gusto raffinato, aveva bandito dal
suo appartamento quella specie di
ridondanza, ormai divenuta troppo
volgare, conservandola soltanto
nella parte del suo palazzo
destinata ai grandi ricevimenti.
Nulla si può pensare di più scelto
ed elegante dell'arredamento del
salotto in cui la marchesa
aspettava Rodolphe.
Le tappezzerie e le portiere,
senza ornamenti, erano di drappo
delle Indie paglierino; su quel
fondo erano stati ricamati, in seta
del medesimo colore, arabeschi
vaghissimi e capricciosi. Doppie
tendine di merletto di Alençon
ricoprivano i vetri. Gli usci erano
adorni di fregi e rilievi d'argento
dorato, finemente cesellati: sopra
ogni anta un medaglione ovale di
porcellana di Sèvres, di circa
mezzo braccio di diametro, che
rappresentava uccelli e fiori di
egregia fattura. Le cornici degli
specchi e gli astragali delle
tappezzerie erano del medesimo
legno, ed ugualmente ornati. Il
marmo del caminetto ed i suoi due
colonnini, di genere antico e molto
graziosi,
erano
opera
del
Marocchetti. Due candelabri e due
candelieri
d'argento
dorato,
prezioso lavoro di Gouttière,
accompagnavano
l'orologio
a
pendolo, masso quadrato di
lapislazzuli, posato su un dado di
diaspro orientale, cui soprastava
un magnifico vaso d'oro smaltato
ed arricchito di perle e rubini dei
più bei tempi della scuola
fiorentina.
Vari eccellenti quadri della
scuola veneziana, di media
grandezza, completavano questo
splendido salottino.
C'era inoltre un tocco di
raffinatezza: la stanza riceveva un
dolce chiarore da una lampada, il
cui globo di cristallo era mezzo
ricoperto da un mazzo di fiori
naturali,
contenuti
in
una
profonda coppa di porcellana dai
colori azzurro, porpora e oro,
appesa al soffitto mediante tre
grosse catene d'argento dorato, a
cui si intrecciavano i verdi fusti di
parecchie piante; alcuni dei loro
ramoscelli pieghevoli e carichi di
fiori, sporgendo dalla coppa,
ricadevano come una frangia di
fresca vegetazione sopra la
porcellana smaltata d'oro, di
porpora e d'azzurro. Noi ci
tratteniamo in questi particolari,
inutili in se stessi, per dare un'idea
del naturale buon gusto della
signora d'Harville (comunemente
indizio sicuro di uno spirito
elevato), e perché certe ignote
miserie, certe oscure sventure,
sembrano ancora più terribili,
quando si paragonano a quei lussi
che agli occhi di tutti rendono la
vita felice e invidiabile.
Clémence d'Harville era seduta
in una poltrona ricoperta di
drappo paglierino come gli altri
mobili: i capelli ben pettinati,
indossava una veste di velluto
nero accollata, su cui spiccavano i
ricami rari del largo bavero e dei
polsini di trina d'Inghilterra, che
attenuavano il colore cupo del
velluto e davano risalto alla
straordinaria bianchezza delle sue
mani e del collo.
Man mano che si avvicinava il
momento
dell'incontro
con
Rodolphe, cresceva in lei una
confusa
commozione.
Alla
confusione però subentrarono
pensieri più risoluti, e, dopo
lunghe riflessioni, decise di
confidare a Rodolphe un grande,
un crudele segreto, nella speranza
di accattivarsi, con la schiettezza,
quella stima che tanto bramava.
E la sua prima simpatia per il
principe,
ravvivata
dalla
gratitudine, acquistava nuove
forze. Uno di quei presentimenti,
che di rado ingannano i cuori
amorosi, le diceva che non il caso
soltanto aveva condotto Rodolphe
in un momento così opportuno
per salvarla, e che egli, cessando di
frequentarla da qualche mese,
aveva
ceduto
a
tutt'altro
sentimento
che
a
quello
dell'avversione. Ed anche un
indefinibile istinto sollevava nella
sua mente dei dubbi sulla
sincerità dell'amicizia di Sarah.
Dopo pochi minuti, una
cameriera,
avendo
bussato
prudentemente all'uscio, entrò e
disse a Clémence: "Signora
marchesa, vuol ricevere la signora
Asthon e madamigella?"
"Sicuramente, come al solito"
rispose la signora d'Harville.
E sua figlia entrò lentamente
nel salottino.
Era una bambina di quattro
anni, che sarebbe stata assai
leggiadra,
senza
l'estrema
magrezza della persona e il pallore
del viso. La signora Asthon, sua
governante, la teneva per mano.
Clairette (così la bambina aveva
nome), nonostante fosse debole,
corse sollecita verso la madre,
porgendole le braccia aperte. Due
fiocchi
di
nastro
rosso
raccoglievano i capelli scuri,
spartiti ai lati della fronte. Era di
salute tanto gracile, che portava
una piccola giacca trapuntata di
seta cupa, invece della bella
giubbetta di mussola guarnita con
nastri, tanto in uso. I suoi occhi,
grandi e neri, apparivano enormi a
causa della magrezza delle guance.
Malgrado
il
suo
aspetto
mingherlino, un gentile e grazioso
sorriso le rischiarò il volto appena
fu sulle ginocchia della madre, che
l'abbracciava con tenerezza e al
tempo stesso con mestizia.
"Com'è stata in queste ultime
ore, signora Asthon?" domandò la
signora d'Harville alla governante.
"Bene,
signora
marchesa"
rispose questa "quantunque per
un momento ho avuto timore..."
"Di nuovo!" esclamò Clémence,
stringendosi al petto la bambina
con un atto involontario di paura.
"Ma per fortuna m'ingannavo"
soggiunse la signora Asthon.
"L'attacco non ha avuto luogo, si è
calmata, e, solamente, è restata un
po' fiacca... Ha dormito un po'
dopo pranzo, ma non ha voluto
mettersi a letto senza venire a
darvi un bacio, signora marchesa."
"Povero caro angelo mio!" disse la
signora d'Harville, abbracciando
ancora, e più volte, la piccola con
un trasporto veramente infantile.
Un cameriere spalancò l'uscio
del salotto, ed annunciò: "Sua
Altezza Serenissima il granduca di
Gerolstein!" Clairette, che era ritta
sulle ginocchia della marchesa, le
teneva le braccia attorno. Al
comparire di Rodolphe, Clémence
arrossì, posò piano la bambina sul
tappeto, fece segno alla signora
Asthon che la conducesse fuori, e
si alzò.
"Mi permettete, madama"
disse Rodolphe dopo aver salutato
rispettosamente la marchesa "di
far nuovamente amicizia con la
mia giovane amica, che temo si sia
dimenticata di me." E, chinandosi,
porse la mano a Clairette.
Questa lo fissò curiosa; quindi,
avendolo riconosciuto, fece un
vaghissimo cenno con la testa, e
gli mandò un bacio con la punta
delle sue scarne dita.
"Riconoscete
monsignore,
figlia mia?" domandò Clémence a
Clairette.
La piccina abbassò il capo in
atto di affermazione e mandò a
Rodolphe un secondo bacio.
"Pare che stia assai meglio
dacché non l'ho vista" disse il
principe con premura.
"Sì, monsignore" rispose la
signora d'Harville "un poco
meglio, ma soffre sempre." La
marchesa
ed
il
principe,
imbarazzati
nel
pensare
all'imminente
colloquio,
si
attardavano approfittando della
presenza della bambina.
Questa fu condotta fuori
prudentemente dalla governante,
e Rodolphe e Clémence rimasero
soli.
16.
Confessioni.
La poltrona della signora
d'Harville era alla destra del
caminetto su cui Rodolphe,
rimasto in piedi, posava un
gomito.
In Clémence non avevano
prodotto mai tanta sensazione le
nobili e delicate sembianze del
principe, né la sua voce le era
sembrata mai così dolce e sonora.
Rodolphe, accorgendosi che le
era penoso iniziare lei la
conversazione, le disse: "Madama,
siete stata vittima di un indegno
tradimento; poco è mancato che
non vi rovinasse una vile
delazione della contessa Sarah
Mac-Gregor."
"È vero?" esclamò Clémence.
"Dunque i miei presentimenti non
mi ingannavano? E come Vostra
Altezza ha potuto sapere?"
"Ieri, casualmente, alla festa della
contessa di * scopersi il segreto di
questa infamia. Ero in una parte
isolata del giardino d'inverno.
Ignorando che un gruppo di
cespugli, dietro cui mi trovavo, mi
dava l'opportunità di udirli, la
contessa Sarah e suo fratello
vennero a parlare vicino a me dei
loro progetti e dell'infamia che
ordivano a vostro danno. Io,
volendo avvertirvi del pericolo che
vi sovrastava, mi recai in fretta al
festino della signora di Nerval,
sperando che voi foste là; non
c'eravate. Scrivervi qui sarebbe
stato imprudente: la mia lettera
avrebbe potuto cadere nelle mani
del marchese, che doveva avere
qualche sospetto. Ho preferito
attendervi nella rue du Temple,
per sventare il tradimento. Mi
perdonerete, non è vero, di
parlarvi tanto a lungo di una cosa
che dev'esservi spiacevole? Senza
il biglietto che avete avuto la
bontà di scrivermi, non ve ne avrei
mai accennato." La signora
d'Harville rispose, dopo breve
silenzio: "Monsignore, io non ho
che un solo mezzo per provarvi la
mia
gratitudine:
farvi
una
confessione che non ho mai fatto
a nessuno. Questa non mi
giustificherà, ma forse vi farà
considerare meno biasimevole la
mia condotta."
"Sinceramente, madama" disse
Rodolphe, sorridendo "io sono
verso di voi in una situazione che
mi dà qualche imbarazzo..."
Clémence, stupita del tono leggero
del principe, lo guardò attonita:
"Come, monsignore?"
"Per una circostanza che senza
dubbio indovinerete, io sono
costretto a fare da vecchio zio in
una disavventura che, vi prego di
crederlo, tranne l'odiosa insidia
tesavi dalla contessa Sarah, non
meritava davvero di esser presa
sul serio. Ma" aggiunse Rodolphe
con una gravità dolce ed
amorevole "il vostro consorte è
per me quasi un fratello; mio
padre nutriva per il suo la più
sincera riconoscenza. Sicché mi
congratulo davvero con voi per
aver restituito a vostro marito la
quiete e la fiducia."
"Ed appunto, monsignore, perché
onorate il signor d'Harville della
vostra amicizia, mi preme rivelarvi
ogni cosa, e su una scelta che deve
parervi malaugurata quanto lo è ai
miei stessi occhi, e sulla mia
condotta, che offende colui che
Vostra Altezza chiama quasi un
fratello."
"Signora, sarei sempre lieto, e mi
riterrei onorato di ottenere la
vostra confidenza. Permettetemi
però di dirvi, riguardo alla scelta di
cui parlate, che io so che cedeste
sia ad un sentimento di sincera
compassione, che alle insinuazioni
tormentose della contessa Sarah
Mac-Gregor, che aveva altre
ragioni per volervi disonorare... So
inoltre che avete esitato molto
prima di arrivare a quel passo di
cui
provate
ora
grande
rammarico." Clémence osservava
sorpresa il principe.
"Forse vi fa meraviglia? Vi
spiegherò un'altra volta il mio
segreto, per non passare davanti a
voi per uno stregone" replicò
Rodolphe scherzoso. "Ma vostro
marito è del tutto tranquillo?"
"Sì,
monsignore"
rispose
Clémence confusa e chinando gli
occhi. "Lo confesso, io patisco
nell'udirlo chiedermi perdono di
avermi sospettata, e lodare la mia
modestia e il mio silenzio sulle
mie azioni caritatevoli."
"È fortunato nella sua illusione;
non ve ne fate rimprovero, ed anzi
mantenetelo sempre in un così
gradevole errore... Se non dovessi
evitare
di
discorrere
con
leggerezza di questa avventura, e
se non si trattasse di voi, signora,
direi che una donna non è mai
tanto amabile verso il marito,
come quando ha da occultargli
qualche sua colpa. Non si può aver
idea delle seducenti moine che
suggerisce una coscienza un poco
colpevole, non si può immaginare
i bellissimi fiori che sbocciano
talvolta
dopo
un
inganno
amoroso... Quando ero giovane"
continuò Rodolphe con ilarità
"diffidavo sempre, mio malgrado,
di certe insolite ed eccessive
tenerezze, e siccome, dal canto
mio, mi sentivo più che mai in
forza quando avevo qualche
cosarella da farmi perdonare, così
appena una dama si mostrava con
me tanto buona nello stesso modo
che io ostentavo verso di lei, ero
sicuro che quella concordia
d'intenzioni
nascondeva
una
scambievole infedeltà." La signora
d'Harville stupiva sempre più
nell'udire
Rodolphe
parlare
scherzosamente di un fatto che
era stato sul punto di portarla a
terribili conseguenze; ma subito,
riflettendo
che
con
questa
affettata indifferenza cercava di
diminuire l'importanza del favore
fattole, fu commossa dalla sua
delicatezza,
e
gli
disse:
"Monsignore, comprendo tutta la
vostra generosità. Ormai siete
padrone di celiare e scordarvi del
rischio a cui mi avete sottratta...
Ma ciò che ho da dirvi è così grave,
così doloroso, ed ha tanti rapporti
con gli avvenimenti di questa
mattina, ed i vostri consigli
possono
essermi
talmente
giovevoli, che vi supplico di
considerare che mi avete salvato
l'onore e la vita... Sì, monsignore,
la vita... Mio marito era armato!
Egli stesso me lo ha detto
nell'eccesso del suo pentimento:
voleva uccidermi!"
"Gran Dio!" esclamò Rodolphe
con viva emozione.
"E ne aveva diritto..." rispose
amaramente la marchesa.
"Credetemi, signora" soggiunse
Rodolphe con tutta serietà "io
sono
incapace
di
restare
indifferente
a
quello
che
v'interessa. Se poco fa ho celiato, è
perché non volevo riportare con
troppo peso e dolore il vostro
pensiero su questa mattinata, che
deve
avervi
causato
una
impressione tremenda. Adesso,
signora, vi ascolto religiosamente,
perché mi fate la grazia di dirmi
che i miei consigli possono esservi
di qualche utilità."
"Oh, utilissimi, monsignore. Però
prima di chiederveli, concedetemi
di dirvi due parole su precedenti di
cui siete ignaro, cioè sugli anni
anteriori al mio matrimonio con il
signor
d'Harville."
Rodolphe
s'inchinò, e Clémence proseguì: "A
sedici anni perdetti mia madre..."
Nel proferire queste parole non
poté trattenere una lacrima.
"Non vi dirò a qual punto io
l'adorassi. Figuratevi, monsignore,
il modello ideale della bontà sulla
terra; era estremo il suo affetto
per me, ed in questo attingeva un
conforto alle amare sue pene...
Poco propensa alla mondanità, di
salute delicata, sedentaria per
natura, il suo maggior piacere era
stato assumere da sola la cura
della mia istruzione, perché le
cognizioni solide e variate che
possedeva la mettevano in grado
di compiere meglio di chiunque
altro l'impresa a cui si dedicava.
Immaginate il suo stupore ed il
mio, quando, avendo io sedici
anni, nel punto in cui la mia
educazione
era
pressoché
terminata, mio padre, adducendo a
pretesto la debole complessione di
mia madre, ci partecipò che una
giovane vedova di gran merito,
bisognosa a causa di alcune
sventure, si addossava l'incarico di
completare
ciò
che
aveva
cominciato mia madre... Mia
madre all'inizio rifiutò; io stessa lo
supplicai di non porre fra mia
madre e me un'estranea; fu
inesorabile, malgrado il nostro
pianto. La signora Roland, vedova,
così si spacciava, di un colonnello
morto nelle Indie, venne ad
abitare da noi, ed ebbe il compito
di eseguire presso di me le
funzioni di precettrice."
"Come, quella Roland che vostro
padre sposò quasi subito dopo che
voi foste maritata?"
"Sì, monsignore."
"Era dunque molto bella?"
"Mediocremente, monsignore."
"Elevata di spirito forse?"
"Finta, astuta, e niente altro.
Aveva circa venticinque anni,
capelli biondi chiari, ciglia quasi
bianche, occhi grandi, rotondi e
celesti; di aspetto umile, leziosa e
di carattere perfido sino alla
crudeltà, si mostrava in apparenza
compiacente fino alla bassezza."
"Ed in quanto all'istruzione?"
"Nessuna, monsignore. Ed io non
posso capire come mio padre, fino
allora attento alle convenzioni
sociali, non avesse pensato che la
mancanza di istruzione e di
qualità in quella donna avrebbe
rivelato scandalosamente il vero
motivo per cui stava da lui. La mia
mamma gli fece osservare che la
signora
Roland
era
affatto
ignorante; le rispose, con un tono
che non ammetteva repliche, che
dotta o no, quella avrebbe
continuato ad avere in casa nostra
il posto a cui l'aveva destinata. Io
lo seppi in seguito. Da quel
momento la mia povera madre
comprese tutto, e si afflisse molto,
deplorando meno, io penso,
l'infedeltà del consorte, che i
disordini domestici a cui doveva
condurre una simile amicizia, che
un giorno poteva esser nota anche
a me."
"Ma infatti, pur considerata la
stolta passione, il vostro signor
padre faceva, a mio parere, un
pessimo calcolo, introducendo
quella donna nella vostra dimora."
"E
più
sareste
sorpreso,
monsignore, se sapeste che è
l'uomo più obbediente alle
convenzioni ed alle formalità che
ci possa essere. Per spingerlo a un
simile sprezzo d'ogni decenza,
occorreva tutta la malefica
influenza della signora Roland,
influenza tanto più efficace, in
quanto
la
dissimulava
con
l'apparente attaccamento per lui."
"Ma che età aveva allora il vostro
signor padre?"
"Circa sessant'anni."
"E credeva all'amore di quella
giovane?"
"Mio padre è stato uno dei più noti
impacciati con le donne del suo
tempo;
la
signora
Roland,
obbedendo alla propria indole o a
scaltri consigli..."
"Consigli?
E
chi
poteva
consigliarla?"
"Fra poco ve lo dirò, monsignore.
Sapendo che un uomo assuefatto
ai raggiri amorosi, quando giunge
alla vecchiezza, gradisce d'essere
adulato intorno i suoi pregi
esteriori, perché tali lodi gli
rammentano i migliori tempi della
sua vita, quella triste donna, lo
credereste,
monsignore?,
decantava a mio padre la beltà e la
grazia
del
suo
volto,
l'impareggiabile
eleganza
del
corpo e del portamento...
Ed egli aveva sessant'anni. Da
tutti era apprezzato il suo buon
criterio, e tuttavia cadde nella
trappola di quelle false lodi. Tale
fu, e tale è ancora, non ne dubito,
la causa del potere di quella donna
su di lui. E in verità, monsignore,
malgrado i miei tristissimi
pensieri, non posso fare a meno di
sorridere nel ricordarmi di avere
spesso inteso dire e sostenere
dalla signora, prima delle mie
nozze, che quell'età, che chiamava
"maturità reale" era la più bella
della vita... Maturità reale che
incominciava, s'intende, verso i
cinquantacinque e i sessant'anni."
"L'età di vostro padre?"
"Sì, monsignore. Allora soltanto,
diceva la signora Roland, lo spirito
e l'esperienza arrivano al loro
pieno sviluppo; allora un uomo
posto in un'ottima posizione nella
società
gode
di
tutta
la
considerazione
che
può
pretendere; allora l'insieme delle
sue qualità fisiche e morali, la
cortesia e la raffinatezza dei modi
tendono alla perfezione, ed in
quell'epoca della vita la fisionomia
offre una rara e divina armonia di
serenità e gravità dolcissime.
Finalmente, secondo lei, una lieve
tinta di malinconia, prodotta dai
dispiaceri che sempre porta
l'esperienza, completa il pregio
irresistibile della "maturità reale",
che però viene valutata soltanto,
aggiungeva, dalle donne di spirito
e di cuore, che hanno giudizio
sufficiente per volgere le spalle e
mantenersi
indifferenti
alle
scappate giovanili di quegli
immaturi fra i trentacinquequarant'anni, il cui carattere non
dà alcuna sicurezza, e le cui azioni
non hanno ancora acquistato la
cognizione profonda della vita."
Rodolphe non poté astenersi dal
ridere, dato il tono iroso con cui la
signora d'Harville faceva il ritratto
della sua bella matrigna.
"C'è una cosa che io non
perdono
mai
alle
persone
ridicole..." disse alla marchesa.
"E quale, monsignore?"
"D'esser maligne... Con ciò
impediscono che ci divertiamo a
loro spese..."
"E forse lo fanno apposta" riprese
Clémence.
"Lo penso anch'io, ed è un
peccato! Giacché, per esempio, se
io potessi dimenticare che la
signora Roland vi ha fatto molto
male, mi divertirebbero assai le
sue idee sulla "maturità reale"
opposta alla folle giovinezza dei
bambini di quarant'anni, che, a
sentirla, sembra siano appena
usciti dal "noviziato della balia",
come avrebbero detto i nostri
padri."
"Almeno mio padre gode delle
illusioni in cui lo tiene la mia
matrigna."
"È sin d'ora punita delle sue
falsità, e subisce certo le
conseguenze
delle
sue
simulazioni; giacché vostro padre
l'ha presa in parola, e la ricolma di
amore e d'isolamento. La vita della
signora Roland dev'essere tanto
insopportabile,
quanto
felice
quella del marito; figuratevi
l'orgogliosa contentezza di un
uomo sessagenario, avvezzo ai
buoni successi, e che si reputa
ancora amato con passione da una
giovane donna da ispirarle la
brama di star rinchiusa con lui in
una perfetta solitudine."
"Ed è perciò, monsignore, che una
volta che mio padre si stima felice,
non avrei forse motivo per
dolermi di madama Roland. Ma
l'orribile condotta verso mia
madre, e la parte attiva che prese,
per mia sventura, al mio
matrimonio, sono quelle che
eccitano contro lei la mia
avversione!" disse la signora
d'Harville, dopo aver indugiato
alquanto.
Rodolphe
la
guardò
meravigliato.
"Monsignore, mio marito è
vostro amico" seguitò Clémence
con voce ferma. "Io conosco la
gravità delle parole che adesso ho
pronunciato, e fra poco mi direte
se sono giuste... Ma torniamo alla
signora Roland. Stabilitasi presso
di me come maestra, malgrado la
sua incapacità, mia madre ebbe su
questo particolare uno spiacevole
alterco con il marito, e gli
comunicò che, volendo almeno
protestare contro l'intollerabile
posizione assegnata a quella
donna, lei non sarebbe più
comparsa a tavola qualora la
signora Roland non avesse
abbandonato immediatamente la
sua casa... Oh, mia madre era la
docilità in persona, ma diventava
di una fermezza invincibile
quando si trattava della sua
dignità personale... Mio padre fu
inflessibile.
Lei mantenne la promessa, e
da quell'istante noi vivemmo
ritirate nel suo appartamento.
Allora mio padre dimostrò per me
altrettanta freddezza quanto per
sua moglie, mentre la signora
Roland aveva pubblicamente il
ruolo di rappresentante di casa
nostra."
"A quali estremi una folle
passione spinge le menti più
elevate! E poi gli altri ci fanno
insuperbire molto di più adulando
le qualità o i meriti che non
possediamo, che lodando le doti
che abbiamo. Provare a un vecchio
di sessant'anni che ne ha trenta
soltanto, è l'abbicì dell'adulazione,
e l'adulazione più è grossolana,
meglio riesce...
Ahimè, ben lo sappiamo,
noialtri principi!"
"A tal proposito, sono stati fatti
tanti esperimenti su Vostra
Altezza!"
"In quanto a questo, il vostro
signor padre è stato trattato da
re... Vostra madre doveva soffrire
orribilmente."
"E più per me che per se stessa,
monsignore,
poiché
pensava
all'avvenire... La sua salute, già
molto precaria, s'indebolì: si
ammalò gravemente. Fatalità volle
che il nostro medico, il signor
Sorbier, venisse a morire; mia
madre aveva in lui piena fiducia, e
ne
provò
grandissimo
rincrescimento. La signora Roland
aveva per medico ed amico un
dottore italiano di gran merito,
diceva: mio padre, ingannato, lo
consultò più volte, se ne trovò
contento, e lo propose a mia
madre. Questa lo accolse presso di
sé, e, Dio mio, fu lui che la curò
nell'ultima sua malattia..." A tali
parole si riempirono gli occhi di
lacrime alla signora d'Harville.
"Mi vergogno di confessare a
Vostra Altezza la mia debolezza"
soggiunse "ma solo perché era
stato presentato a mio padre dalla
signora Roland, io avevo allora per
lui, senza ragione, una certa
ripugnanza; mi addolorò che mia
madre gli accordasse la sua
fiducia, quantunque quanto a
dottrina, il dottor Polidori..."
"Che dite, madama?" esclamò
Rodolphe.
"Che
avete, monsignore?"
domandò Clémence, stupefatta
dell'alterazione sul volto del
principe.
"Ma, no" disse Rodolphe, come
parlasse a se stesso "io forse
sbaglio... Sono cinque o sei anni...
E mi è stato assicurato che
Polidori non era a Parigi se non da
due anni circa sotto un nome
falso... È ben lui che rividi ieri, il
ciarlatano Bradamanti... Oppure
due medici con lo stesso nome...
(6) Che incontro singolare!
Signora, poche parole, di grazia, su
questo dottor Polidori" disse
Rodolphe alla signora d'Harville,
che lo esaminava con sempre
maggiore curiosità. "Che età aveva
quell'italiano?"
"Circa cinquant'anni."
"E il volto, la fisionomia?"
"Sinistra... Non mi dimenticherò
mai gli occhi d'un color verde
chiaro, il naso curvo, come il becco
di un'aquila..."
"È lui! è lui!" gridò Rodolphe. "E
credete, signora, che Polidori sia
tuttora a Parigi?"
"Non saprei... Quasi un anno dopo
il matrimonio di mio padre, partì
da Parigi; una mia amica, di cui
quell'italiano era pure il medico
curante in quell'epoca, madama di
Lucenay..."
"La
duchessa
di
Lucenay!"
esclamò il principe.
"Sì, monsignore... Perché tanta
sorpresa?"
"Lasciate che ve ne taccia la
causa... Ma, in quel tempo, che vi
diceva di lui la signora di
Lucenay?"
"Che dopo la sua partenza da
Parigi, le giungevano spesso sue
lettere spiritosissime sui diversi
paesi
che
visitava... Poiché
viaggiava molto. Adesso mi
ricordo che pressappoco un mese
fa, domandando a madama di
Lucenay se riceveva sempre
notizie del signor Polidori, mi
rispose con aria d'imbarazzo che
da un pezzo non se ne sentiva più
parlare, che ignorava che ne
potesse essere accaduto, e che
taluni lo supponevano morto."
"È singolare" disse Rodolphe
ricordando la visita della duchessa
di
Lucenay
al
ciarlatano
Bradamanti.
"Lo
conoscevate
dunque,
monsignore?"
"Sì, per mia sventura... Ma, di
grazia, continuate il vostro
racconto; poi vi dirò chi è questo
Polidori..."
"Come? il dottore?"
"Ah,
dite
piuttosto
l'uomo
macchiato dei più orrendi delitti!"
"Delitti!" gridò spaventata la
marchesa. "Ha commesso dei
delitti l'amico della signora
Roland, il medico di mia madre?
Ma mia madre morì fra le sue
mani, dopo pochi giorni di
malattia... Ah, monsignore, voi mi
atterrite... O mi dite troppo, o non
ancora abbastanza."
"Senza accusarlo d'un misfatto in
più, senza incolpare la vostra
matrigna di un'orribile complicità,
sostengo, però, che forse dovete
ringraziare Dio che vostro padre,
dopo le sue nozze con la signora
Roland, non abbia avuto bisogno
dell'assistenza di Polidori."
"Mio Dio, mio Dio!" gridò la
signora
d'Harville,
con
un'espressione
che
straziava
l'anima.
"Dunque
non
m'ingannavano
i
miei
presentimenti!"
"Presentimenti?"
"Sì, poco fa, quando parlavo della
ripugnanza che avevo per quel
medico introdotto nella nostra
casa dalla signora Roland, non vi
ho detto tutto, monsignore..."
"Come?"
"Temevo
di
accusare
un
innocente, di dar troppo ascolto
all'amarezza del mio cordoglio. Ma
ora posso spiegarvi tutto. La
malattia di mia madre durava da
cinque giorni; io l'avevo vegliata
sempre. Una sera andai sul
terrazzo a respirare l'aria del
giardino; dopo un quarto d'ora,
rientrai da un'oscura galleria. Al
debole chiarore che trapelava
dall'uscio dell'appartamento della
signora Roland, vidi uscire il
Polidori. Lei lo accompagnava. Io
ero nell'ombra, e non potevano
vedermi. Lei gli disse piano alcune
parole, che non capii. Il medico
rispose più forte, ma solo queste
parole:
"Doman
l'altro". E,
siccome la Roland continuava a
parlargli sottovoce, replicò con un
tono
veramente
strano:
"Dopodomani,
vi
dico,
dopodomani..."."
"Che significavano queste parole?"
"Che significavano, monsignore?
Mercoledì sera Polidori diceva
quelle parole, venerdì mia madre
era morta!"
"Oh, è terribile!"
"Allorché
potei
riflettere
e
ricordare, mi tornarono in mente
quelle parole: "Dopodomani", che
sembrava avessero presagito la
morte di mia madre. Credetti che
il Polidori, istruito dalla scienza
medica, cosciente del poco tempo
che ancora restava a mia madre, si
fosse affrettato ad avvertirne la
signora Roland, che aveva tante
ragioni per rallegrarsi di tale
disgrazia. Presi ad aborrirli tutti e
due; ma non avrei osato
supporre... Oh, no, no! Neppure
adesso posso supporre un simile
delitto!"
"Il Polidori fu l'unico medico che
assistesse l'infelice vostra madre?"
"Il giorno prima a quello in cui la
perdetti, egli aveva condotto con
sé a consulto un suo collega; e,
secondo quanto disse mio padre,
questo trovò mia madre in
grandissimo pericolo. Dopo il
funesto avvenimento io fui
condotta presso una parente della
nostra famiglia, che era stata
attaccatissima a mia madre.
Deposta ogni riservatezza per l'età
mia, mi palesò senza mezzi
termini quanto avessi motivo di
odiare la Roland, e m'illuminò
sulle ambiziose speranze che
ormai doveva nutrire.
"Una tale scoperta mi accasciò.
Compresi tutto ciò che aveva
dovuto patire mia madre. Quando
rividi mio padre mi si straziò il
cuore; egli veniva a prendermi per
condurmi in Normandia, dove
dovevamo passare i primi tempi
del nostro lutto. In viaggio pianse
molto, e mi disse che non aveva
altri che me per aiutarlo a
sopportare quel colpo tremendo.
Gli risposi sinceramente che a
me neppure lui rimaneva dopo la
perdita della più adorata fra tutte
le madri. Scambiate poche parole
sull'imbarazzo in cui si sarebbe
trovato qualora costretto a
lasciarmi sola per i suoi affari, mi
partecipò immediatamente, e
come cosa naturalissima, che per
far onore a lui ed a me la signora
Roland acconsentiva ad assumere
la direzione della casa ed essermi
guida ed amica. Lo stupore, il
dolore,
l'indignazione
mi
ammutolirono; piansi in silenzio.
Me ne domandò la causa.
Esclamai, certo con troppa
amarezza, che mai sarei stata nella
stessa casa con la signora Roland,
poiché la disprezzavo per gli
affanni da lei causati alla mia
mamma.
Si mantenne calmo, respinse
ciò che chiamava una ragazzata, e
mi rispose che la sua risoluzione
era irremovibile, e che io dovevo
sottomettermi. Lo supplicai di
concedere che mi ritirassi al Sacro
Cuore, ove avevo delle amiche, e
dove sarei rimasta fino al
momento in cui avrebbe giudicato
opportuno darmi marito. Mi fece
osservare che erano passati i
tempi in cui le fanciulle si
maritavano
alla
grata
d'un
convento, e che la mia premura di
abbandonarlo lo avrebbe afflitto
troppo se nei miei discorsi non
avesse ravvisato un'esaltazione,
scusabile, sì, ma poco sensata, che
in seguito si sarebbe placata. Poi
mi baciò in fronte, chiamandomi
"ostinatuccia".
"Ahimè,
mi
toccò
sottomettermi.
Figuratevi,
monsignore, i miei tormenti!
Passar la vita ogni giorno con una
donna a cui quasi attribuivo la
morte di mia madre! Prevedevo i
contrasti più terribili fra mio
padre
e
me:
nessuna
considerazione poteva impedirmi
di dimostrare tutta la mia
avversione alla signora Roland, e
così mi pareva di vendicare
l'estinta, mentre la minima parola
affettuosa detta a quella donna mi
sarebbe sembrata una viltà, un
sacrilegio!"
"Dio buono! Quanto penosa
doveva essere quell'esistenza...
Ero lontano dall'immaginare che
aveste già sofferto tanto! Quando
io avevo il piacere di vedervi più
spesso, non mi avevate mai fatto
sospettare con un solo accenno..."
"Perché allora, monsignore, io non
dovevo scusarmi dinanzi a Vostra
Altezza
di
una
debolezza
imperdonabile... Se così a lungo vi
parlo di quell'epoca della mia vita,
è per farvi comprendere in quale
posizione mi trovavo quando mi
maritai, e perché, malgrado un
avvertimento che avrebbe dovuto
illuminarmi, sposai il signor
d'Harville.
"Giunti che fummo agli
Aubiers (è questo il nome della
tenuta di mio padre), la prima
persona che ci venne incontro fu
la signora Roland.
Era andata ad abitare là il
giorno dopo la morte della mia
mamma.
Nonostante l'aspetto umile e
sdolcinato, trapelava un'allegrezza,
un trionfo, che malamente aveva
cura di dissimulare. Non scorderò
mai quello sguardo ironico e
maligno che mi diede al mio
arrivo; pareva mi dicesse: "Qui
sono in casa mia, siete voi la
forestiera!". Mi era riserbato un
nuovo dolore: fosse imperdonabile
inavvertenza,
fosse
decisa
impudenza, la signora Roland
occupava l'appartamento di mia
madre. Nello sdegno che n'ebbi,
mi lagnai con mio padre di una
tale sconvenienza. Mi rispose
severamente, che tanto meno
dovevo
meravigliarmene
in
quanto occorreva mi abituassi a
considerare e rispettare la signora
Roland come una seconda madre.
Gli dissi che ciò sarebbe stato
come profanare quel sacro nome,
e, a dispetto della sua collera, non
trascurai occasione di dar prova
della mia avversione per quella
donna. Parecchie volte egli andò
su tutte le furie e mi sgridò
aspramente davanti a lei.
"Mi
rimproverava
d'ingratitudine, di freddezza verso
l'angelo
consolatore
che
la
Provvidenza ci aveva mandato.
"Ah, ve ne prego, padre mio" gli
dissi un giorno "parlate per voi
solo." Mi trattò duramente. La
Roland con voce melata, ma con
molta ipocrisia, intercedette a mio
favore: "Siate indulgente con
Clémence! Il rammarico che prova
per l'ottima persona che noi tutti
piangiamo è così naturale, così
lodevole,
che
bisogna
aver
riguardo alla sua prima afflizione
e compatirla anche nei suoi
trasporti". "Eh?" diceva mio padre,
additandomela con ammirazione
"l'udite? Non è buona? Non è
generosa? Dovreste risponderle
gettandovi nelle sue braccia."
"È inutile, padre mio, lei mi odia,
ed io la detesto."
"Ah, Clémence, mi fate pur male.
Ma vi perdono" aggiunse la
signora Roland, alzando gli occhi
al cielo. "Amica mia, nobile amica
mia!" esclamava mio padre con
accento commosso. "Calmatevi, ve
ne prego, per riguardo a me
abbiate compassione di una che ha
la disgrazia di non sapere
apprezzarvi!" Ed urlò, volgendo su
me gli occhi severi: "Tremate, se
osate ancora oltraggiare la più
bell'anima che esista al mondo;
chiedetele scusa all'istante". "Mia
madre mi vede e mi ode, né mi
perdonerebbe mai tanta viltà."
Così replicai, ed uscii subito,
lasciandolo occupato a consolare
la signora Roland, ad asciugare le
sue
finte
lacrime...
Ah,
monsignore! Scusate se mi
dilungo in puerili particolari, ma
essi solo possono darvi un'idea
della vita che io conducevo allora."
"Mi pare di assistere, signora, ad
una di quelle scene domestiche
tanto tristemente ed umanamente
vere... In quante famiglie debbono
essersi rinnovate, e quante altre
volte si ripeteranno! Nulla vi è di
più volgare, eppure nulla di più
abile, del contegno della signora
Roland... La semplicità dei mezzi
di cui si valeva nella sua perfidia la
pone al livello di molti spiriti
mediocri... Ma non che lei fosse
accorta, è che vostro padre era
cieco! Ed in che qualità presentava
ai suoi vicini la signora Roland?"
"Come mia maestra e sua amica...
E così veniva accolta."
"Non occorre domandarvi se
viveva nel solito isolamento?"
"Eccettuata qualche rara visita,
obbligatoria per relazioni di
vicinanza o di affari, non
vedevamo un'anima. Mio padre,
interamente dominato dalla sua
passione, cedendo senza dubbio
alle esortazioni della signora
Roland, depose il lutto dopo tre
mesi appena, adducendo che il
lutto si porta nel cuore... La sua
freddezza per me aumentava
sempre più. La sua indifferenza
giungeva al punto di lasciarmi una
libertà disdicevole ad una fanciulla
dell'età mia. Io lo vedevo all'ora
della colazione, poi egli si ritirava
nelle sue stanze con la sua amica,
la quale gli serviva come
segretaria
nella
sua
corrispondenza d'affari, poi usciva
con lei a piedi o in carrozza, e non
tornava che un'ora prima di
pranzo. La signora Roland si
abbigliava con eleganza; egli si
vestiva
con
un'affettazione
stranissima per un uomo della sua
età. Qualche volta, dopo pranzo
riceveva le persone che non poteva
fare a meno di ammettere in casa;
poi faceva sino alle dieci la partita
a tavola reale con la signora
Roland; dopo di che le dava il
braccio per condurla nella camera
della mia mamma, le baciava
rispettosamente la mano, e se ne
andava nelle sue stanze. In quanto
a me, potevo disporre a mio
talento della giornata; andare a
cavallo seguita da un domestico, o
fare, se preferivo, lunghissime
passeggiate nei boschi intorno alla
villa.
Certi
giorni,
presa
da
malinconia, non comparivo a
colazione, e mio padre non se ne
dava pensiero..."
"Che
trascuratezza!
Che
abbandono!"
"Avendo più volte di seguito
incontrato uno dei nostri vicini
nelle macchie dov'ero solita
cavalcare rinunciai a quelle gite, e
non mi mossi più dal parco."
"Ma quale contegno aveva con voi
quella donna quando eravate sola
con lei?"
"Tanto lei come me scansavamo il
più possibile le occasioni. Un
giorno, peraltro, alludendo a
qualche frase un poco aspra che le
avevo detto la sera prima, mi disse
con
apparente
tranquillità:
"Badate che, se volete litigare con
me, sarete annientata". "Come mia
madre?" le risposi: "È un peccato,
signora, che il signor Polidori non
sia qui a confermarvi che questo
succederà 'dopodomani!'". Queste
parole produssero sulla signora
Roland una profonda impressione,
ma presto la superò. Adesso,
monsignore, che per grazia vostra
so che uomo è il Polidori e di che
cosa è capace, quello smarrimento
che
la
colse
nell'udirmi
rammentare le misteriose parole
forse
confermerebbe
orribili
sospetti... Ma no, no! Non voglio
crederci. Troppo mi atterrirebbe il
pensare che a quest'ora mio padre
è quasi in balia di quella donna."
"E che vi replicò quando le
ricordaste le parole di Polidori?"
"Prima arrossì; poi, nascondendo
la sua commozione, mi domandò
tranquillamente cosa intendessi
dire. "Signora" ribattei "quando
sarete sola, interrogate su di ciò
voi stessa e voi stessa vi
risponderete." Poco tempo dopo
aveva luogo una discussione che
decise, per così dire, la mia sorte.
Tra molti quadri di famiglia, che
adornavano un salotto dove ci
riunivamo la sera, c'era un ritratto
di mia madre. Mi accorsi un
giorno che era sparito. Due nostri
vicini avevano pranzato con noi.
Uno d'essi, il signor Dorval, notaio
del paese, aveva sempre avuto per
mia madre la più sincera
venerazione.
Arrivata nel salotto, domandai
a mio padre: "Dov'è il ritratto della
mia mamma?". "La vista di quel
dipinto mi addolorava troppo" fece
imbarazzato e, con un'occhiata,
accennandomi le persone presenti.
"Ma adesso, dov'è, padre mio?". E,
voltosi verso la signora Roland,
facendole prima dei cenni, e poi
con un movimento d'impazienza,
le chiese: "Dov'è stato messo il
ritratto?". "Nello stanzone degli
utensili" disse lei dandomi
un'occhiata di sfida, e credendo
che la presenza dei vicini mi
avrebbe impedito di parlare.
"Capisco,
signora"
soggiunsi
indirizzandomi a lei "che lo
sguardo di mia madre vi dovesse
essere di molto peso, ma non era
una ragione sufficiente per
confinare in soffitta il ritratto di
una donna che, quando eravate
miserabile,
vi
permise
caritatevolmente di venire a vivere
in casa sua!"."
"Benissimo!" esclamò Rodolphe.
"Questo gelato disprezzo era un
colpo di fulmine."
""Signorina!" gridò mio padre.
"Confesserete, però" lo interruppi
"che una persona che oltraggia
vilmente la memoria di colei che
le diede l'elemosina non merita
altro che disprezzo ed avversione."
"Mio padre restò per un momento
stupefatto. La signora Roland si
fece rossa dalla vergogna e dalla
rabbia. I vicini confusi chinarono
la fronte e stettero zitti.
""Signorina" riprese poi mio
padre "dimenticate che la signora
era l'amica della vostra mamma,
dimenticate che ha vigilato e vigila
tuttora sulla vostra educazione,
con premura materna, dimenticate
che io professo per lei la massima
stima... E poiché vi permettete
uno sgarbo così indecente davanti
a questi signori, io vi dirò che
ingrati e vili sono quelli che,
scordandosi dei più elementari
doveri, osano rinfacciare un
momento di bisogno ad una donna
che merita lode e rispetto."
"Non mi permetterò, padre mio, di
discutere
con
voi
questa
questione" dissi in tono di
sottomissione.
"Avrò
anch'io
questo favore?" esclamò la signora
Roland, trasportata dalla collera
oltre i limiti della sua abituale
prudenza. "Forse mi farete grazia,
non di discutere, ma di confessare
che,
oltre
a
non
dovere
riconoscenza a vostra madre, non
posso
rammentarmi
che
l'avversione che lei mi dimostrò
sempre, giacché fu contro il suo
volere che io..."
"Oh
signora!"
dissi
interrompendola "per rispetto a
mio padre, per pudore verso voi
stessa, dispensateci da così
vergognose rivelazioni; mi fareste
avere il rammarico di avervi
esposta a confessioni troppo
umilianti."
"Come, madamigella!" gridò quasi
forsennata. "Osate dire?..."
"Dico" la interruppi di nuovo "che
mia
madre,
degnandosi
di
permettere che viveste in casa sua
invece di farvi scacciare come ne
aveva diritto, deve avervi provato,
con il suo disprezzo, che la
tolleranza verso di voi le era
imposta.""
"Meglio
che
mai"
esclamò
Rodolphe "completa giustizia. E
lei?"
"Lei con un mezzo molto volgare,
ma assai comodo, diede fine alla
conversazione gridando: "Dio mio,
Dio mio!". E cadde in deliquio.
Mediante questo espediente, i
due
testimoni
dell'alterco
uscirono, con il pretesto d'andare
a cercare qualche soccorso, ed io
feci altrettanto, mentre mio padre
prodigava alla signora Roland le
più premurose attenzioni."
"Come doveva essere incollerito
vostro padre quando lo rivedeste!"
"Venne da me la mattina dopo, e
mi disse: "Perché non si rinnovino
più dispute simili a quella di ieri,
vi dichiaro che appena sarà
trascorso il termine di rigore per il
vostro lutto e per il mio, sposerò la
signora Roland. Sicché, d'ora
innanzi, dovrete trattarla con il
rispetto e con i riguardi che merita
mia moglie... Per certe particolari
ragioni è necessario che voi vi
maritiate prima di me. Il
patrimonio di vostra madre
ascende a più di un milione,
questa è la vostra dote. Da oggi in
poi mi occuperò di assicurarvi una
unione conveniente, esaminando
qualche proposta che già per voi
mi fu fatta.
La pertinacia con cui, malgrado
le mie preghiere, tormentate una
persona che mi è cara mi dà
un'idea del vostro affetto per me.
La signora Roland non si cura di
queste impertinenze, ma io non
sopporterò che tali indecenze si
ripetano davanti ad estranei, nella
mia abitazione. D'ora innanzi non
entrerete o non starete in sala, se
non quando vi saremo, soli, la
signora Roland ed io".
"Dopo quest'ultimo discorso,
rimasi anche più solitaria. Non
vedevo mio padre che alle ore dei
pasti, ed i nostri pasti si
svolgevano in un cupo silenzio.
Era così triste la mia vita, che
aspettavo con impazienza il
momento in cui mio padre mi
avesse proposto un matrimonio
qualunque.
"La signora Roland, avendo
rinunziato a sparlare di mia
madre, se ne vendicava con il
farmi
soffrire
un
supplizio
continuo: per angustiarmi, si
serviva con ostentazione di tutte
quelle
cose
che
prima
appartenevano a mia madre: la
sua poltrona, il suo telaio, i suoi
libri sino ad un ventaglio che per
lei avevo ricamato, e su cui erano
cucite le sue iniziali. Tutto era da
quella donna profanato."
"Oh, sì, capisco che doveva
produrre orrore in voi questa
profanazione."
"E poi, la solitudine rende anche
più gravi le pene..."
"E non avevate alcuno, a cui
confidarvi?"
"Nessuno... Ricevetti però una
prova di attenzione, che mi
commosse, e che avrebbe dovuto
aprirmi gli occhi sull'avvenire.
Uno dei due testimoni del diverbio
in cui avevo strapazzato la signora
Roland era il signor Dorval,
vecchio ed onesto notaio, a cui
mia madre aveva reso qualche
favore facendo qualcosa per una
delle sue nipoti. In seguito al
divieto di mio padre io non
scendevo mai in sala quando
c'erano terze persone, e così non
avevo più rivisto il signor Dorval.
Con mio grande stupore, venne un
giorno, con aria misteriosa, a
trovarmi in un viale del parco,
luogo per me consueto di
passeggio.
""Signorina" mi disse "temo
che mi sorprenda il signor conte,
leggete questa lettera, e poi
bruciatela: è cosa per voi
importantissima." E subito sparì.
In quel biglietto, mi diceva che
volevano
maritarmi
con
il
marchese
d'Harville.
Questo
partito sembrava conveniente
sotto
tutti
i
rapporti.
Si
decantavano le buone qualità del
signor d'Harville: era giovane,
ricco a milioni, di spirito, di
amabile aspetto. Ma le famiglie di
due ragazze, a cui tempo prima si
era quasi combinato di darlo per
marito, una dopo l'altra avevano
annullato all'improvviso ogni
impegno preso a questo proposito.
Il notaio non poteva spiegarmi il
motivo di tale cambiamento
repentino, ma credeva obbligo suo
di avvertirmene, senza però dire se
la causa di quello scioglimento
fosse pregiudizievole al signor
d'Harville. Le due signorine in
questione erano figlie, una del
signore di Beauregard, pari di
Francia; l'altra di lord Boltrop. Il
signor Dorval mi faceva questa
confidenza, perché mio padre,
impazientissimo di concludere per
me il mio matrimonio, non
mostrava
valutar
molto
le
circostanze di cui mi si faceva
cenno."
"Infatti" disse Rodolphe, avendo
riflettuto alquanto "adesso mi
ricordo che vostro marito, nel
corso di un anno, mi diede la
partecipazione di due progettati
matrimoni
andati
a monte
all'improvviso, nel momento di
essere conclusi, per qualche
problema di interesse..." La
signora d'Harville, con un amaro
sorriso, rispose: "Fra poco saprete
la verità, monsignore. Letto il
biglietto del notaio, fui altrettanto
curiosa, quanto inquieta. Chi era il
signor d'Harville? Mio padre non
me ne aveva parlato mai. Invano
consultavo i miei ricordi, non
trovavo questo nome. Ben presto
la signora Roland, con mia somma
sorpresa, partì per Parigi. La sua
assenza doveva durare, tutt'al più,
una settimana; eppure mio padre
ebbe di quella breve separazione il
più gran dispiacere: s'inasprì
maggiormente il suo carattere, fu
con me più trascurato di prima. E
un giorno che gli domandai come
stava, mi rispose: "Sto male, e per
colpa vostra".
"Colpa mia?"
"Certo: sapete quanto sono
abituato alla compagnia della
signora Roland, e questa donna
ammirabile, che avete insultata, fa
per solo vostro interesse un
viaggio che la trattiene lontana da
me."
"Un tale moto di zelo a mio favore
da parte della signora Roland mi
fece spavento: ebbi un'idea
confusa che si trattasse del mio
matrimonio. Vi lascio immaginare,
monsignore,
quale
fosse
l'allegrezza di mio padre al ritorno
della mia futura matrigna. Il
giorno
successivo,
mi
fece
chiamare nelle sue stanze: era
solo con lei. "Da molto tempo" mi
disse "ho pensato ad accasarvi. Fra
un mese appunto termina il vostro
lutto. Domani arriverà il signor
marchese
d'Harville,
giovane
adorno di ogni pregio, ricchissimo,
e per tutti i versi capace di
assicurare la vostra felicità. Vi ha
vista in qualche luogo, desidera
caldamente
quest'unione,
ed
abbiamo insieme regolato tutto
quel che concerne gli interessi.
Dipenderà dunque da voi d'esser
maritata prima che passino sei
settimane. Se per un capriccio, che
neppure
voglio
immaginare,
rifiuterete una tale proposta,
superiore a qualunque speranza,
io ad ogni modo mi sposerò
appena finito il tempo del lutto. In
quest'ultimo caso, occorre dirlo
chiaramente, la vostra presenza in
casa mia non potrà essermi
gradita, se non quando mi
promettiate di dimostrare alla mia
consorte l'attaccamento ed il
rispetto di cui è degna."
"Vi capisco, padre mio: se non
sposo il signor d'Harville, voi ad
ogni modo prendete moglie, ed
allora né per voi né per la signora
ci saranno obiezioni ad un mio
ritiro al Sacro Cuore."
"Nessuna" mi rispose in tono
freddissimo."
"Ah, non è più debolezza, è
crudeltà" esclamò Rodolphe.
"Sapete, monsignore, ciò che
mi ha sempre impedito di serbare
contro mio padre il minimo
rancore? Un presentimento mi
dice che un giorno pagherà,
ahimè, a caro prezzo la sua cieca
passione per la signora Roland...
E, lode al cielo, quel giorno non è
ancora giunto."
"E nulla gli diceste di quanto vi
aveva partecipato il notaio sui due
sposalizi annullati dalle famiglie
con cui stava per imparentarsi il
signor d'Harville?"
"Sì, monsignore... Quel giorno
stesso lo pregai di accordarmi un
breve colloquio da solo a sola.
"Non ho segreti per madama
Roland" mi rispose "potete parlare
davanti a lei." Io tacqui. Lui
soggiunse austeramente: "Ve lo
ripeto, non ho segreti per madama
Roland.
Spiegatevi
dunque
chiaramente".
"Se
me
lo
concedete, padre mio, aspetterò
che siate solo." La signora Roland
si alzò indispettita e uscì. "Eccovi
soddisfatta" mi disse lui. "Ebbene,
dite pure."
"Io non rifiuto l'unione che mi
proponete, ma soltanto ho saputo
che il signor d'Harville, essendo
stato due volte in procinto di
sposarsi..."
"Bene, bene" m'interruppe "so
come andò. Lo scioglimento ebbe
luogo per certe dispute d'interesse
in cui però figurò ottimamente la
delicatezza del signor d'Harville.
Se non avete altre obiezioni che
questa, potete considerarvi come
maritata, e maritata benissimo,
giacché io non voglio se non la
vostra felicità.""
"M'immagino che la signora
Roland fosse molto contenta di
questa unione!"
"Contentissima,
monsignore!"
disse mestamente Clémence. "Era
opera sua: ne aveva suggerito il
primo pensiero a mio padre...
Sapeva
la
vera
causa
dell'annullamento delle due prime
trattative del signor d'Harville...
Ecco perché bramava tanto che
fosse mio sposo."
"Ma a quale scopo?"
"Voleva
vendicarsi,
abbandonandomi ad una sorte
orribile."
"Ma vostro padre?"
"Ingannato
da lei, credette
realmente
che
questioni
pecuniarie avessero fatto svanire
gli altri progetti."
"Che trama! E la ragione
misteriosa?"
"Ora ve la dirò, monsignore.
Arrivò il signor d'Harville agli
Aubiers.
Mi piacquero di lui l'aspetto, le
maniere e lo spirito. Pareva
buono, di carattere docile ed un
po' malinconico. In lui c'era
qualcosa che mi sorprendeva,
eppure mi era simpatico: con una
mente
colta,
con
fortune
invidiabili, di nascita illustre,
talvolta la sua fisionomia, di solito
energica e risoluta, esprimeva una
specie di timidezza, e quasi di
timore, di abbattimento, di
insicurezza di sé, che mi piacevano
molto. Mi soddisfaceva anche la
bontà con cui trattava un vecchio
cameriere che lo aveva allevato, e
da cui soltanto voleva essere
assistito. Qualche tempo dopo il
suo arrivo restò due giorni
rinchiuso nelle sue stanze: mio
padre desiderava vederlo, ed il
servo vi si oppose. Adducendo una
forte emicrania, disse che non
poteva ricevere alcuno. Quando
ricomparve, lo trovai pallido,
alterato nel volto. Poi provava una
certa impazienza e malumore se
gli si parlava di quella sua
passeggera indisposizione. Man
mano che imparavo a conoscerlo,
riscontravo in lui delle qualità
simpatiche. Avendo tante ragioni
per essere contento, mi piaceva la
sua modestia. Fissata l'epoca delle
nostre nozze, preveniva ogni mia
brama nei progetti che facevamo
per l'avvenire. Se qualche volta gli
domandavo il motivo della sua
mestizia, mi parlava dei suoi
genitori, che sarebbero andati
superbi nel vederlo ammogliato
secondo il suo cuore, e la sua
inclinazione. Dal canto mio
sarebbe stato fuori luogo non
ammettere ragioni che erano per
me tanto lusinghiere...
"Indovinò i rapporti con la
signora Roland e con mio padre,
benché questo, soddisfattissimo
del
mio
matrimonio,
che
affrettava il suo, fosse tornato a
dimostrarmi grandi tenerezze. In
vari colloqui, il signor d'Harville
mi fece comprendere con bel
modo e somma riserva che mi
amava forse di più a motivo
appunto dei miei passati affanni.
Credetti doverlo prevenire che
mio padre pensava di riprendere
moglie, e mentre gli parlavo del
cambiamento che da ciò sarebbe
sopravvenuto nei miei averi, non
mi lasciò terminare, e mi diede
prova del più nobile disinteresse.
Io riflettei che le famiglie a cui era
stato vicino ad imparentarsi
dovevano essere molto sordide se
avevano avuto con lui difficoltà
pecuniarie."
"L'avete proprio descritto come
l'ho sempre conosciuto" disse
Rodolphe "tutto cuore, tutto
affetto, tutto delicatezza. Ma non
gli parlaste mai dei due matrimoni
andati a monte?"
"Monsignore,
lo
confesso,
vedendolo così buono e leale, più
volte mi venne questa domanda,
ma subito, per timore di offendere
tanta bontà e tanta lealtà, non osai
entrare in questo argomento. Più
si avvicinava il momento delle
nostre nozze, e più si diceva felice.
Ma due o tre volte lo vidi
tristissimo. Un giorno fissò su di
me gli occhi in cui scorreva una
lacrima;
sembrava
oppresso,
pareva che volesse e non ardisse
confidarmi
un
importante
segreto... Mi tornarono alla mente
i suoi due matrimoni svaniti. Lo
confesso, ebbi paura... Un interno
presentimento mi avvertì che
forse si trattava della disgrazia di
tutta la mia vita. Ma ero così
maltrattata nella casa paterna, che
superai ogni apprensione."
"E nulla vi palesò il signor
d'Harville?"
"Nulla. Quando gli domandavo la
causa della sua malinconia, mi
rispondeva: "Perdonatemi, ma il
troppo bene mi opprime". Queste
parole, pronunciate con voce
commossa, mi riconfortavano
alquanto... E poi, come osare in
quell'istante in cui le lacrime gli
bagnavano il ciglio, dimostrargli
un'oltraggiosa diffidenza?"
"E
nessun
altro
vi
fece
rivelazioni?"
"I testimoni del signor d'Harville,
cioè i signori di Lucenay e di
Saint-Remy, giunsero agli Aubiers
pochi giorni prima del mio
matrimonio. A questo furono
invitati solamente i miei parenti
più prossimi. Dovevamo subito,
dopo la messa, partire per Parigi.
Io non avevo alcun amore per
d'Harville, ma provavo per lui una
certa tenerezza: il suo carattere
m'ispirava della stima. Se non
fosse stato per gli avvenimenti che
succedettero a quella fatale
unione, un sentimento più tenero
mi avrebbe senza dubbio legata a
lui per sempre.
Fummo maritati." A queste
parole, la marchesa impallidì,
tacque
un
momento.
Poi
soggiunse: "Subito dopo lo
sposalizio, mio padre mi strinse
teneramente al seno. Anche la
signora Roland mi abbracciò: non
potevo, dinanzi a tanta gente,
sottrarmi a questo nuovo atto
d'ipocrisia. Con la sua mano
magra e bianca strinse la mia in
modo da farmi male, e mi disse
all'orecchio, con voce dolce, ma in
sostanza perfidissima, queste
parole che non scorderò mai:
"Pensate a me qualche volta nella
vostra felicità, giacché sono io che
volli il vostro matrimonio!". Oh
Dio, ero lontana dal capire allora il
vero senso di questa frase. Ci
eravamo sposati alle undici; poco
dopo salimmo in carrozza, con una
donna al mio servizio, ed il
vecchio cameriere di d'Harville: e
andavamo lesti, perché dovevamo
essere a Parigi prima delle dieci di
sera.
"Mi avrebbero fatto meraviglia
la taciturnità e la mestizia del
signor d'Harville, se non mi avesse
assicurato che il troppo bene
l'opprimeva. Ed anch'io ero
angustiata: tornavo nella capitale
per la prima volta dopo la morte di
mia madre, e quantunque non
avessi motivo di desiderare il tetto
paterno, là ero in casa mia... la
lasciavo per un'abitazione dove
tutto sarebbe stato nuovo e
sconosciuto, dove sarei giunta sola
con il mio consorte, noto appena
da sei settimane, e che fino al
giorno prima non mi avrebbe
rivolto
una
parola
senza
accompagnarla
con
qualche
formula rispettosissima. La gente
non si fa forse una conveniente
idea del timore che si desta in noi
per quel mutamento improvviso di
modi e di tono a cui sono soggetti
uomini anche ben educati appena
noi donne diventiamo di loro
proprietà. Non si pensa che la
donna non può in poche ore
dimenticare la sua timidezza, i
suoi pudori virginali. Non c'è cosa
che mi sia sembrata più barbara,
selvaggia, dell'uso di portar via
bruscamente una ragazza come
una preda, mentre il matrimonio
dovrebbe essere soltanto la
consacrazione del diritto di
adoperare ogni mezzo amoroso ed
ogni tenerezza per farsi amare.
"Allora
comprendete,
monsignore, lo strazio del cuore e
la specie di spavento con cui
tornai a Parigi, in questa città dove
mia madre era morta da un anno
appena... Arriviamo al palazzo
d'Harville." Si accrebbe l'emozione
della marchesa, il rossore le salì
alle guance, e poi continuò, con un
tono che faceva male ascoltare:
"Peraltro è necessario che sappiate
ogni cosa... Senza ciò, vi sembrerei
troppo spregevole. Bene!" ripigliò
a dire con risolutezza quasi
disperata. "Fui condotta nella
stanza destinatami. Mi lasciarono
sola... Venne il signor d'Harville a
raggiungermi.
Nonostante
le
proteste del suo affetto, io morivo
di paura, i singhiozzi mi
soffocavano... Ero sua. Dovetti
rassegnarmi. Ma, d'un tratto, mio
marito mi stringe un braccio in
modo da strapparmelo, e dà un
grido terribile... Invano tento di
liberarmi da tale stretta di ferro,
ed imploro pietà, egli non mi ode...
Gli contraffanno il volto tremiti
tremendi, gira le pupille con una
rapidità che mi sbigottisce, la
bocca gli si storce e si chiazza di
schiuma sanguinosa... Con la
mano continua a stringermi. Io,
disperata, faccio uno sforzo, le sue
dita, rigide, alfine mi lasciano, e
svengo nel momento in cui egli si
dibatte
nel
parossismo
di
quell'orribile attacco... Ecco la mia
notte di sposa, monsignore. Ecco
la vendetta di madama Roland!"
"Disgraziata!" disse Rodolphe
addolorato.
"Capisco,
un
epilettico... Ah questo è orribile!"
"Né questo basta" continuò
Clémence con voce affannosa.
"Ah, la funesta notte! Sia
maledetta per sempre! Mia figlia,
quel povero angelo, ha avuto in
eredità una così spaventosa
malattia!"
"Vostra figlia pure? Come? Il suo
pallore, la sua debolezza...?"
"Appunto, mio Dio! Ed i medici
dicono che è insanabile, perché è
un male di famiglia!" La marchesa
si nascose la testa fra le mani, ed
oppressa dalla penosa rivelazione
da lei fatta non aveva più coraggio
di proseguire. Anche Rodolphe
restò ammutolito. Lo atterriva il
pensiero di quella prima notte. Si
figurava una giovane, già attristata
dal ritorno nella città dov'era
morta la madre, in una casa a lei
ignota, sola con l'uomo per cui
aveva stima e premura, ma non
amore, nulla di ciò che agita
piacevolmente, nulla di ciò che
inebria, nulla di ciò che fa obliare
ad una donna il suo casto timore
nei trasporti di una passione
legittima e scambievole! No,
tremante d'un timore pudico,
Clémence arrivava là, mesta e
fredda, afflitto il cuore, la fronte
rossa di vergogna, gli occhi pieni
di lacrime. Si rassegnava, e poi,
invece di udire parole di
riconoscenza,
di
amore,
di
tenerezza, che la consolassero
della felicità che ha data, vede
cadere ai piedi un uomo fuori di
sé, che si contorce, e spuma, e
rugge nelle orrende convulsioni
d'una delle
più
spaventose
infermità che possano colpire un
uomo.
Ed inoltre la figlia, povero
angelo innocente, lei pure ne è
affetta sin dalla nascita.
Queste dolorose e tristi
confessioni
suscitavano
in
Rodolphe amare riflessioni. "Tale
è la legge del paese!" pensava.
"Una ragazza bella e pura, leale e
piena di fiducia, vittima di una
fatale dissimulazione, unisce il
suo destino a quello di un uomo
affetto
da
una
spaventosa
malattia, che deve trasmettere in
eredità alla sua prole. La
sventurata
scopre
l'orribile
mistero: che può fare? Niente.
Non altro che soffrire e piangere;
non altro che procurare di vincere
il disgusto, il ribrezzo; non altro
che passare i giorni in angoscia, in
terrore infinito, non altro forse
che cercare consolazioni fuori
della sua desolata esistenza.
Queste
leggi
stranissime"
proseguiva Rodolphe "costringono
talvolta a paragoni vergognosi,
avvilenti per l'umanità. In essi, i
bruti sembrano sempre superiori
agli uomini, per le cure che a loro
si dedicano, per i miglioramenti
che loro si procacciano, per la
protezione che loro si concede, per
le garanzie che loro si accordano.
Comprate qualunque animale:
dopo l'acquisto si scopre una
malattia imprevista: è annullata la
vendita. "Perché, pensate che
indegnità, che delitto di lesa
società, sarebbe condannare un
tale a tenersi una bestia che
spesso tossisce, o zoppica, o
recalcitra! È uno scandalo, una
mostruosità che non ha eguale!
Figuratevi se uno deve essere
costretto a tenere sempre, sinché
vivono, un mulo che tossisce, un
cavallo che recalcitra, un asino che
zoppica!
Che
tremende
conseguenze potrebbero risultarne
per la salvezza dell'intera umanità!
E quindi non c'è patto che regga,
non parola che impegni, non
contratto che obblighi... La legge
onnipossente scioglie qualsiasi
vincolo. "Ma se si tratta d'una
creatura fatta a immagine di Dio,
se si tratta di una giovane
fanciulla, che per la fede
innocentemente riposta nella
sincerità d'un uomo a cui si è
unita, accorgendosene poi si trova
compagna di un epilettico, di un
disgraziato assalito da infermità
terribile, le cui conseguenze
morali e fisiche sono spaventose,
da infermità che può spargere lo
scompiglio e l'avversione nelle
famiglie, eternare un malore,
atrofizzare le generazioni... "Oh,
questa legge, tanto inesorabile
quando si tratta di bestie che
zoppicano,
o
tossiscono,
o
recalcitrano, la legge, ammirabile
e previdente, che non vuole che un
cavallo difettoso sia atto alla
riproduzione, questa legge si
astiene dal liberare la vittima di
una unione siffatta... Quei vincoli
sono sacri, indissolubili.
Spezzandoli, si offenderebbero
gli uomini e Dio! In verità"
continuava Rodolphe "l'uomo è
talvolta
di
un'umiltà
vergognosissima, di un orgoglioso
egoismo ben esecrabile: si pone al
di sotto della bestia."
17.
La carità.
Rodolphe biasimava molto il
signor d'Harville, ma si proponeva
di scusarlo agli occhi di Clémence,
quantunque
persuaso
(alle
lacrimevoli
rivelazioni
di
quest'ultima) che il marchese si
era per sempre alienato il suo
cuore.
E, da un pensiero passando ad
un altro, diceva tra sé: "Per dovere,
mi sono allontanato da una donna
che amavo, e che forse per me
sentiva una segreta simpatia. Sia
perché il suo cuore era libero, sia
per impulso di commiserazione, è
stata in procinto di perdere
l'onore, la vita, per uno stolido che
credeva infelice. Se, invece di
scostarmi da lei, le avessi
prodigato
attenzioni,
amore,
rispetto, il mio contegno riservato
non
avrebbe
minimamente
intaccato la sua reputazione, e non
si sarebbero eccitati i sospetti del
marito, mentre adesso è quasi in
balia della sciocca vanità di
Charles Robert... E questo, temo,
sarà tanto più ciarliero e
imprudente, quanto meno ha
ragione di esserlo. "E poi, chissà,
se, malgrado i pericoli in cui è
incorsa, il cuore della signora
d'Harville resterà sempre freddo?
Ormai è impossibile ogni suo
ritorno agli affetti coniugali.
Giovane, bella, corteggiata, di
carattere dolce e caritatevole...
Quanti rischi, quanti scogli per il
signor d'Harville, che pene, che
angosce! Geloso, innamorato della
moglie, che non può sormontare
la ripugnanza, il ribrezzo che egli
le ispira da quella prima e
funestissima notte
del suo
matrimonio. Ah, che sorte è la
sua!" Clémence, con la fronte
posata sulla mano, gli occhi umidi,
ardenti le guance per l'imbarazzo,
per la confusione, evitava lo
sguardo di Rodolphe, tanto le era
stato penoso fare quel suo
racconto.
"Ah, ora capisco" disse il
principe, dopo lungo silenzio
"adesso sì che mi spiego l'origine
della malinconia del signor
d'Harville; malinconia che prima
d'ora non riuscivo a capire.
Comprendo i suoi rammarichi..."
"I suoi rammarichi!" esclamò la
marchesa.
"Monsignore,
dite
piuttosto i suoi rimorsi, se pure ne
prova... Giacché non vi fu mai
delitto meditato con maggiore
sangue freddo."
"Delitto, signora?"
"E
che
cosa
è
dunque,
monsignore, incatenare a sé, con
legami indissolubili, una vergine
che si affida all'onor vostro,
quando uno sa di essere
fatalmente soggetto ad una
malattia che suscita paura e
orrore? Che cos'è, condannare con
certezza un'infelice bambina alle
stesse miserie? Chi obbligava il
signor d'Harville a far due vittime?
Una passione cieca, insensata? No,
a lui piacevano la mia nascita, le
mie fortune, la mia persona. Volle
contrarre un matrimonio di
convenienza, perché di sicuro lo
infastidiva la vita da scapolo."
"Oh, signora, almeno la pietà..."
"Pietà! Sapete chi la merita, questa
pietà? Mia figlia, povera vittima di
quella odiosa unione. Quante
notti, quanti giorni trascorsi
presso di lei! Quante amare
lacrime sparse per i suoi dolori
immeritati!"
"Ma suo padre patisce gli stessi
dolori non meritati!"
"Ma suo padre è quello che la
dannò a un'infanzia malaticcia, a
una giovinezza tormentosa, e, se
sopravvive,
a
una
vita
d'isolamento e d'angustie, poiché
non si mariterà. Oh, no, l'amo
troppo, per esporla un giorno a
piangere sulla sua creatura
fatalmente ammalata, come io
piango su di lei. Troppo ho
sofferto da quel tradimento, per
rendermi
colpevole
di
un
tradimento simile!"
"Oh avevate ragione, fu orribile la
condotta della vostra matrigna.
Ma pazienza, forse sarete a vostra
volta vendicata" disse Rodolphe,
dopo un istante di riflessione.
"Che
intendete
dire,
monsignore?"
domandò
Clémence,
meravigliata
dell'alterazione della sua voce.
"Nella mia vita ho visto più di
una volta i malvagi puniti, e
atrocemente puniti quando meno
se l'aspettavano" egli soggiunse
con un tono che fece rabbrividire
Clémence. "Ma, all'indomani di
quella terribile serata, che vi disse
vostro marito?"
"Mi confessò, con una singolare
ingenuità, che le famiglie a cui
doveva imparentarsi
avevano
scoperto il segreto del suo male, e
sciolto perciò gli sponsali proposti.
Così, dopo essere stato respinto
due volte, osò... Ah, infamia! Ed
ecco quel che si chiama nel mondo
un gentiluomo di cuore, di onore!"
"Voi, sempre tanto buona, signora,
adesso siete crudele!"
"Sono
crudele
perché
fui
iniquamente ingannata. Il signor
d'Harville, sapendo che ero buona,
perché non si rivolse a me
lealmente per dirmi tutta la
verità?"
"Lo avreste forse respinto."
"Questa risposta lo condanna,
monsignore; la sua condotta era
un indegno tradimento. Se aveva
un simile timore..."
"Ma vi amava!"
"Se mi amava, doveva sacrificarmi
al suo egoismo? Mio Dio! Ero così
tormentata, così ansiosa di
abbandonare la casa paterna, che,
se fosse stato sincero, forse mi
avrebbe commossa. Se mi avesse
detto
di
quei
rifiuti,
dell'isolamento a cui lo esponeva
l'avversa e fatale sorte, sì,
sapendolo ad un tempo così
sventurato e schietto, forse non
avrei avuto il coraggio di
respingerlo. E se avessi assunto
l'impegno sacro di subire le
conseguenze del mio affetto per
lui,
l'avrei
coraggiosamente
rispettato. Ma volermi forzare a
quell'affetto
e
a
quella
compassione come ad un dovere
di moglie, lui, che violava i suoi
doveri d'uomo onesto, era follia e
viltà! Io confidavo nell'integrità
del signor d'Harville, ed egli
m'ingannava!
La sua dolce
mestizia,
la
sua
timidezza
m'interessavano, e queste, che
fingeva attribuire a dolci ricordi,
non erano altro che l'effetto della
sua incurabile malattia!"
"Ma, in sostanza, quando anche vi
fosse stato estraneo, nemico, i
suoi patimenti dovevano placarvi.
Avete pure un cuore nobile e
generoso!"
"E posso io calmarli quei
patimenti? Se la mia voce venisse
ascoltata, se uno sguardo di
gratitudine contraccambiasse il
mio di tenerezza...
Ma no! Ah, monsignore! Non
sapete come orribili siano quelle
crisi in cui l'uomo si dibatte in un
selvaggio furore, e nulla vede, né
ode, né sente, e non esce da tale
frenesia, se non per ricadere in
una sorta di torpore feroce.
Quando mia figlia soccombe ad
uno di quegli attacchi, non posso
far altro che disperarmi, mi sento
straziare
l'anima,
bacio,
piangendo, le sue braccia irrigidite
da convulsioni che la uccidono.
Ma è mia figlia, è mia figlia! Ed
allorché la vedo soffrire in tal
modo, maledico mille volte di più
suo padre. Se gli spasimi della mia
creatura
sembrano
mitigarsi,
diminuisce
anche
la
mia
irritazione contro mio marito, ed
allora, sì, lo compatisco, perché
sono
buona, ed alla mia
avversione subentra un senso di
dolorosa pietà. Ma infine, mi sono
maritata a diciassette anni per
provare
soltanto
queste
alternative
di
odio
e
di
commiserazione acerbissima? per
lacrimare con una sfortunata
bambina,
che
forse
non
sopravviverà? Ed a proposito di
mia
figlia,
monsignore,
promettetemi di prevenire un
rimprovero che certo mi merito, e
che non osate farmi. È così forte
l'amore per lei che dovrebbe
bastare ad occupare il mio cuore,
poiché l'amo ardentemente. Ma
questo affetto è misto a tante
amarezze presenti, a timori per
l'avvenire, che il mio attaccamento
per lei si esaurisce sempre nel
pianto. Vicino a lei io sono sempre
inquieta, tormentata, torturata;
perché nell'impossibilità di por
rimedio ai suoi mali, che si dicono
irreparabili.
"Ebbene, per uscire da quella
tristissima e sinistra atmosfera, ho
sognato un affetto, nelle cui
dolcezze mi sarei rifugiata,
riposata...
Oh, mi illusi! E mi illusi
indegnamente, lo confesso, e
ripiombo nell'angosciosa esistenza
che mi destinò il mio sposo... Dite,
monsignore, era questa la vita che
dovevo aspettarmi? Sono io sola
colpevole di tutti i torti che questa
mattina il signor d'Harville voleva
farmi pagare con il mio sangue?
Essi sono grandi, lo so, e più
ancora perché devo arrossire della
mia scelta. Per mia fortuna,
monsignore, ciò che udiste del
colloquio fra la contessa Sarah e
suo fratello mi risparmierà la
vergogna
di
questa
nuova
dichiarazione...
Ma almeno spero che adesso vi
parrò meritevole tanto di pietà,
come
di
biasimo,
e
vi
compiacerete di consigliarmi nella
durissima situazione in cui mi
trovo."
"Signora, non posso esprimervi
quanto mi abbia commosso il
vostro racconto; dalla morte di
vostra madre sino alla nascita di
vostra figlia, quante pene soffriste,
quante ansie avete occultato, voi,
così brillante, così ammirata, così
invidiata!"
"Ah,
monsignore,
credetemi,
quando si soffrono simili dolori,
come fa male udir gli altri che
dicono: "Com'è felice!"."
"È vero, non c'è cosa che faccia più
male! Eppure non siete sola a
patire per un così atroce contrasto
fra quello che è e ciò che appare."
"Come, Altezza?"
"Agli occhi di chiunque, vostro
marito deve sembrare anche più
fortunato di voi, poiché vi
possiede... E non è forse da
compiangere? C'è al mondo una
vita più crudele della sua? Grandi
sono le sue mancanze verso di voi;
ma ne è punito barbaramente! Vi
ama come lo meritate, e sa che
non vi è dato di avere per lui se
non una repulsione insuperabile.
Nella figlia macilenta, malaticcia
vede un incessante rimprovero. E
ciò non basta? Viene inoltre ad
agitarlo la gelosia..."
"E che posso farci, monsignore?
Non dargli occasione d'ingelosirsi,
va bene. Ma, poiché il mio cuore
non sarà di alcuno, sarà per questo
più suo? Egli sa di no. Dopo la
spaventosa scena che vi ho
raccontato, viviamo separati; però
in faccia agli estranei ho per lui i
riguardi che sono imposti dalle
convenienze, ed a nessuno ho
detto,
eccettuato
a
voi,
monsignore, una
parola
di
quest'arcano funesto."
"Ed io, signora, vi assicuro che se
il favore che vi ho reso fosse
degno di premio, mi stimerei mille
volte pagato dalla vostra fiducia.
Ora, siccome mi chiedete un
consiglio, e mi concedete di
parlarvi con franchezza..."
"Oh, sì, monsignore, ve ne
supplico..."
"Lasciate che vi dica che, non per
impiegare bene una delle vostre
qualità più pregevoli, perdete
grandi soddisfazioni, che non solo
soddisferebbero i bisogni del
vostro cuore, ma vi distrarrebbero
dagli
affanni
domestici,
e
corrisponderebbero
a
quella
necessità di emozioni vivaci, forti
e, ardirò aggiungere (perdonate la
cattiva opinione che ho delle
donne), all'inclinazione naturale
per il mistero e per i sotterfugi,
che ha sulle donne tanto impero."
"Che
mai
vorreste
dire,
monsignore?"
"Che se voleste davvero far del
bene, non vi sarebbe cosa che più
vi piacesse o v'interessasse." La
marchesa
guardava
attonita
Rodolphe.
"Capite" egli continuò "che non
vi parlo di inviare con noncuranza,
e quasi con disprezzo, una copiosa
elemosina a disgraziati che non
conoscete, e che spesso non
meritano i vostri benefici. Ma se vi
divertiste, come faccio io, a
rappresentare la parte della
Provvidenza, vedreste che molte
volte certe opere buone hanno
tutta la poesia di un bel romanzo."
"Monsignore, io non avevo mai
pensato a considerare la carità nel
suo aspetto divertente!" disse
Clémence, lei pure sorridendo.
"Oh, questa è una scoperta di
cui sono debitore all'orrore che
provo per tutto ciò che è
fastidioso,
orrore
che
specialmente mi è causato dalle
conferenze politiche con i miei
ministri. Ma per tornare alla
nostra beneficenza ricreativa,
ohimè, non ho la virtù di quegli
spiriti disinteressati che affidano
ad altri la cura d'impiegare le loro
elemosine.
Se
si
trattasse
semplicemente di mandare un
mio ciambellano a portare qualche
centinaio di luigi ad ogni
circondario di Parigi, riconosco, a
mio grande scorno, che non ci
troverei
molta soddisfazione;
mentre, invece, far del bene come
io l'intendo è la maggior
ricreazione che vi sia al mondo.
Insisto su questa parola, perché
per me esprime tutto quel che
piace, che alletta, che incanta... E
davvero, signora, se voleste
divenire mia complice in alcuni
tenebrosi raggiri di questo genere,
vedreste, ve lo ripeto, che, anche
messa da parte la nobiltà
dell'azione, spesso non c'è cosa più
curiosa, che attragga di più, che
più richiami, e che più diverta di
quelle caritatevoli avventure... E
poi, quanti misteri per occultare le
nostre
beneficenze!
Quante
precauzioni per non essere
conosciuti!
Quante
emozioni
diverse e possenti nel vedere le
povere e buone persone che
piangono di allegria nel vederci!
Mio Dio, sono cose assai migliori
della faccia burbera di un amante
geloso o infedele...
Che poi, badate, sono un po'
l'uno, un po' l'altro... Ecco, le
sensazioni di cui vi parlo sono
all'incirca quelle che avete provato
stamane, andando nella rue du
Temple. Vestita con somma
semplicità
per
non
essere
osservata, uscireste ancora di casa
con il cuore palpitante, salireste
ancora inquietissima su una
carrozza, e calereste le tendine per
non essere vista, e poi, volgendo
ancora gli occhi dall'uno all'altro
lato per timore d'esser sorpresa,
entrereste
furtivamente
in
qualche
casa
di
meschina
apparenza...
Proprio
come
stamane,
vi
dico.
L'unica
differenza è che dicevate: "Se
qualcuno
mi
scopre,
sono
perduta!" e ora direste invece: "Se
qualcuno
mi
scopre,
sarò
benedetta!". Ma siccome avete la
modestia che conviene agli
adorabili vostri pregi, adoprereste
le astuzie più fini e più diaboliche
per non esser benedetta!"
"Ah, monsignore" esclamò la
signora d'Harville, intenerita "voi
mi salvate! Non posso esprimervi
le nuove idee, le consolanti
speranze che destano in me le
vostre parole. Avete detto bene:
occupare il cuore e la mente a farsi
adorare da coloro che soffrono, è
come amare... Che dico! È meglio
che amare. Quando paragono
l'esistenza
che
comincio
a
intravedere con quella in cui mi
avrebbe
cacciata
quell'errore
riprovevole, divengono più aspre
le rampogne che rivolgo a me
stessa..."
"Mi rincresce molto" replicò
sorridendo Rodolphe "perché il
mio desiderio segreto è di aiutarvi
a dimenticare il passato, e provarvi
soltanto quanto è ampia la scelta
delle distrazioni di cuore. I mezzi
del bene e del male sono sovente
pressappoco i medesimi, il fine è
quello che muta. In realtà, se il
bene piace, diverte quanto il male:
perché preferire quest'ultimo?
Ecco, io farò una comparazione
volgarissima. Perché tante donne
prendono per amanti uomini che
sono molto da meno dei loro
mariti? Perché il più grande
incanto dell'amore è l'attrattiva del
frutto proibito... Convenite che se
da quell'amore si togliessero i
timori, le angosce, le difficoltà, i
misteri, i pericoli, resterebbe
nulla, o poco: niente altro che
l'amante nella sua semplicità. In
conclusione, sarebbe il caso di
colui al quale uno diceva: "Perché
non sposate questa vedova, che è
già vostra amica?". "Dio buono"
rispose "ci avevo pensato anch'io,
ma allora non saprei dove andare
a passar la serata...""
"In questo c'è un po' troppa verità,
monsignore!" disse la signora
d'Harville con un sorriso.
"Ebbene, se io trovo il modo di
farvi risentire
quel timore,
quell'angoscia, quell'inquietudine
che ci dà questa gelosia, e se metto
a profitto la vostra propensione
per il mistero e per le avventure, e
la
vostra
inclinazione
alla
dissimulazione ed alle astuzie, e
quel maledetto mio concetto delle
donne, lo vedete, affiora sempre a
mio
dispetto"
aggiungeva
Rodolphe
con
ilarità
"non
cambierò in qualità generose certi
istinti
imperiosi,
inesorabili,
ottimi se si volgono al bene, e
funesti se male s'adoperano?
Orsù, dite, volete che fra noi due
macchiniamo ogni sorta di
complotti benefici? Bricconate
caritatevoli di cui saranno vittime,
secondo il solito, buonissime
persone? Avremmo i nostri
appuntamenti, il nostro carteggio,
i nostri segreti e, soprattutto,
dovremo ingannare il marchese
giacché la visita di questa mattina
dai Morel deve farlo stare all'erta.
In sostanza, se lo gradite, si
organizzerebbe un intrigo in
perfetta regola."
"Accetto volentieri, con tutta
gratitudine, questa tenebrosa
associazione" disse lietamente
Clémence. "E per iniziare il nostro
romanzo ritornerò da quegli
sfortunati ai quali stamattina non
ho potuto recare se non qualche
parola di conforto, giacché,
approfittando della mia agitazione,
un ragazzetto zoppo mi ha rubato
la borsa che Vostra Altezza mi
aveva
consegnata.
Ah,
monsignore, se sapeste che
vergogna!" fece Clémence, e la sua
fisionomia perdette l'aria divertita
che per un momento l'aveva
animata. "Che miseria! che quadro
orribile! No, non credevo che
potessero esistere simili dolori... E
mi lagno, ed accuso il mio
destino!" Rodolphe, non volendo
lasciar capire alla marchesa
quanto gli toccava il cuore quel
suo modo di ripensare alla propria
situazione, che pur provava la
bellezza dell'animo suo, le rispose
giocondamente: "Se vi fa piacere,
escluderò i Morel dalla nostra
operazione in comune. Io stesso
mi addosserò la cura di quella
povera
gente,
e
voi
mi
prometterete di non tornare in
quella triste casa... Poiché io ci
abito."
"Voi, monsignore? Che scherzo è
questo?"
"Sul serio... Un piccolo alloggio, è
vero, da duecento franchi all'anno;
più sei franchi per le faccende
domestiche,
liberalmente
accordati per ogni mese alla
portinaia Pipelet, la bruttissima
vecchia che sapete. Aggiungete che
ho per vicina la più leggiadra
artigianella del quartiere, la
signorina Rigolette, e capirete che
per un commesso di bottega che
guadagna mille ottocento franchi...
Io passo per commesso di un
negozio!... non c'è poi tanto male!"
"La vostra presenza non sperata in
quella fatale casa mi dimostra che
dite il vero, monsignore. Certo, là
vi richiamava una qualche azione
generosa... Ma dunque, a quale
opera buona mi riservate? Che
parte mi assegnerete?"
"Quella
di
un
angelo
di
consolazione, e, scusate questa
parolaccia, di un demone per
accortezza e astuzia: poiché, se vi
sono
delle
piaghe
delicate,
dolorose, che possono essere
medicate e risanate dalla mano di
una donna, vi sono anche degli
sventurati così alteri, orgogliosi,
occulti, che ci vuole una rara
penetrazione per scoprirli, ed
un'attrattiva
irresistibile
per
accattivarsi la loro confidenza."
"E quando potrò far uso di questa
penetrazione ed abilità che in me
supponete?"
domandò
con
impazienza la signora d'Harville.
"Tra poco, io spero, avrete da
fare una conquista degna di voi;
ma occorrerà che impieghiate le
vostre astuzie più machiavelliche."
"Ed in che giorno, Altezza, mi
comunicherete il grande mistero?"
"Vedete?
Eccoci
già
agli
appuntamenti. Potrete ricevermi
fra quattro giorni?"
"Tanto tardi!" disse Clémence con
ingenuità.
"Ma il mistero? Ma le
convenienze? Figuratevi: se ci
credessero
complici,
si
diffiderebbe di noi! Ma avrò
probabilmente da scrivervi.
Chi è quella donna che stasera
mi ha portato il vostro biglietto?"
"Un'anziana cameriera di mia
madre: la segretezza, la sicurezza
personificate."
"A lei dunque invierò le mie
lettere, e lei ve le darà. Se voi
avrete la cortesia di rispondermi,
scrivete: "Al signor Rodolphe in
rue Plumet" e spedirà la vostra
cameriera."
"Spedirò io stessa, facendo la mia
solita passeggiata a piedi."
"Andate spesso fuori sola e a
piedi?"
"Quando è bel tempo, quasi ogni
giorno."
"A meraviglia! È un'abitudine che
dovrebbero prendere tutte le
donne nei primi mesi che sono
maritate. Con buona o cattiva
intenzione, l'usanza esiste, è un
precedente,
come
dicono
i
procuratori, ed in seguito quelle
gite non danno più adito a
pericolose interpretazioni.
Se fossi stato donna (e, a dirla
fra noi, sarei stato molto generoso
e frivolo), il giorno dopo il mio
matrimonio avrei assunto il più
misterioso contegno. Mi sarei, pur
senza colpa, circondato delle
apparenze più atte a dar sospetto,
sempre
per
stabilire
dei
precedenti, e potere in seguito far
visita ai miei poveri, oppure al mio
amante."
"Ma questa è un'orrenda perfidia,
monsignore!" disse sorridendo la
signora d'Harville.
"Voi, signora, per fortuna, non
siete mai stata in grado di
comprendere le opportunità ed il
vantaggio
di
simili
provvedimenti..." La marchesa
non sorrise più; chinò la fronte,
arrossì, e rispose mestissima:
"Monsignore, non siete generoso!"
Rodolphe
guardò
fisso
la
marchesa, e poi soggiunse: "Vi
capisco, signora. Ma una volta per
sempre, stabiliamo chiaramente la
vostra situazione in faccia al
signor Charles Robert. Un giorno
una vostra amica vi mostra uno di
quei mendicanti vagabondi che
stralunano gli occhi languidissimi
e generalmente mandano lamenti
per impietosire i viandanti. "È un
buon povero" vi dice "ed ha
almeno sette figli, e la moglie
sorda, muta, cieca."
"Ah, meschino!" voi replicate,
dandogli l'elemosina. Ed ogni
volta che lo incontrate, appena vi
vede, le sue pupille implorano, e
tornano i suoni lamentevoli, e la
vostra carità cade nella sua sacca.
Infine,
sempre
più
compassionando, per insinuazione
dell'amica, il buon povero che
perfidamente abusava del vostro
buon cuore, vi adattate ad andare
a far visita al disgraziato in mezzo
alle sue miserie. Arrivate, e ohimè,
non più lamenti affannosi, non
più sguardi tristi e supplici, ma un
pezzo di imbecille, allegro, svelto,
robusto che intona una canzone
da taverna.
E subito alla pietà subentra in
voi il disprezzo, giacché avevate
preso un cattivo povero per un
povero buono, né più né meno...
Non è così?" La signora d'Harville
non seppe contenere il riso a
questo singolare apologo, e
rispose a Rodolphe: "Monsignore,
per quanto ammissibile possa
essere questa giustificazione, mi
sembra però troppo facile."
"In sostanza, non avete commesso
altro che una nobile e generosa
imprudenza; vi rimangono troppi
mezzi per ripararla, perché abbiate
da rammaricarvene. Questa sera
non vedrò il signor d'Harville?"
"No, monsignore; l'accaduto lo ha
agitato talmente che si sente
male" disse a voce bassa la
marchesa.
"Ah,
capisco"
rispose
Rodolphe.
"Animo,
coraggio!
Mancava uno scopo alla vostra
vita, una distrazione alle vostre
pene, come dicevate.
Lasciatemi
credere
che
troverete
questa
distrazione
nell'avvenire di cui vi ho parlato.
Allora l'animo vostro sarà così
ricolmo di dolci consolazioni, che
forse non ci sarà più posto per il
risentimento contro vostro marito.
Proverete anzi per lui una parte di
quell'interesse che portate alla
vostra povera figlia. Ed in quanto a
questa creatura, ora che so la
causa del suo stato malaticcio,
oserei quasi dirvi di sperare un
poco."
"Sarebbe possibile, monsignore? E
come?" esclamò Clémence, a mani
giunte e con gratitudine.
"Ho per medico un uomo
pochissimo conosciuto e molto
dotto; egli stette gran tempo in
America, e mi ricordo che mi ha
parlato di due o tre cure quasi
miracolose da lui fatte sopra degli
schiavi
affetti
da
quella
spaventosa malattia."
"Ah, monsignore, e potrebbe
essere che...?"
"Guardatevi dal contarci troppo,
ché crudele sarebbe poi il
disinganno.
Soltanto
non
disperate del tutto." Clémence
volgeva al nobile volto di
Rodolphe
uno
sguardo
di
riconoscenza ineffabile. Era quasi
un re quello che la riconfortava
con tanto buonsenso, con bontà e
con grazia soave. Domandò a se
stessa come mai avesse potuto
pensare a Charles Robert. Questo
pensiero l'atterrì.
"Quanto
vi
debbo,
monsignore!" disse commossa
oltre ogni ritegno. "Mi consolate,
mi date delle speranze per mia
figlia, mi mostrate un nuovo
avvenire che sarebbe, al tempo
stesso, un conforto, un piacere ed
un merito. Non avevo ragione a
scrivervi che, se foste venuto qui
stasera, avreste finito la giornata
come l'avevate incominciata, con
una buona azione?"
"Ed aggiungete, signora, con una
di quelle buone azioni come
piacciono a me, al mio egoismo,
piene di soddisfazioni e di un certo
incanto"
disse
Rodolphe,
alzandosi, mentre suonavano le
undici e mezzo all'orologio del
salotto.
"Addio, monsignore, non vi
scordate di darmi certe notizie di
quella povera gente della rue du
Temple."
"Li vedrò domattina, giacché,
disgraziatamente,
mi
ero
dimenticato che lo zoppetto vi
aveva rubato la borsa, e quegli
infelici saranno in una terribile
situazione. Fra quattro giorni,
degnatevi di non dimenticarlo,
verrò a concretare la parte che
accettate di rappresentare. Devo
soltanto avvertirvi che forse sarà
indispensabile un travestimento."
"Travestimento?
Oh,
che
contentezza!
E
quale,
monsignore?"
"Non posso ancora dirvelo. Vi
lascerò libera scelta." Il principe,
ritornando alla sua abitazione, si
congratulava con se stesso per gli
effetti del suo colloquio con la
signora d'Harville. Si era proposto:
Occupare la mente ed il cuore di
quella
giovane
donna,
che
un'insuperabile
repulsione
allontanava da suo marito;
risvegliare in lei abbastanza
romanzesca curiosità, misteriosa
premura,
indipendentemente
dall'amore, per soddisfare ai
bisogni della sua immaginazione e
dell'animo suo, e cautelarla così da
un amore nuovo.
Ovvero: ispirare a Clémence
d'Harville una passione così
profonda, insanabile, ed insieme
pura e nobile, per cui lei, ormai
incapace di provare un amore
meno
elevato,
non
compromettesse mai la quiete del
signor d'Harville, a cui Rodolphe
era affezionato come a un fratello.
18.
Miseria.
Non ci siamo dimenticati che
un'infelice famiglia, il cui capo
aveva nome Morel, occupava la
soffitta della casa della rue du
Temple.
Condurremo il lettore in quella
squallida abitazione.
È la mattina, alle cinque.
Fuori è profondo silenzio,
oscurità e freddo; nevica.
Una candela, sorretta da due
pezzi di legno sopra una tavoletta
quadra, dirada appena, con il suo
scarso lume, le tenebre della
soffitta, luogo stretto, basso, dove
il tetto, a rapido pendio, forma un
angolo con il pavimento, e sulla
stanza grava il soffitto di tegole
verdastre. Le
sottili
pareti,
arricciate, di gesso, nero per la
vecchiezza, e con numerose crepe,
lasciano intravedere le travi tarlate
che le compongono; ad una parete
si apre una porta malferma che dà
sulla scala. Sul pavimento, di un
colore che non ha nome, infetto ed
umido, sono sparsi qua e là paglia
fradicia, stracci sudici, e alcune di
quelle grosse ossa che i poveri
comprano dagli infimi rivenditori
di carne per rosicarne le
cartilagini.
Una tale negligenza denota
sempre o pessime abitudini, o una
miseria onesta, ma tanto abietta,
tanto disperata, che l'uomo,
degradato, annientato, non sente
più né volontà, né energia, né
bisogno di uscire dal suo fango; e
marcisce come una bestia nel
covile. Durante il giorno quella
stamberga è rischiarata da un
abbaino stretto e bislungo, aperto
sul pendio del tetto, e guarnito da
un'impannata con i vetri che si
apre e si chiude con una catenella
di ferro. Nell'ora di cui parliamo
un denso strato di neve ricopriva il
finestrino. La candela, posata circa
al centro della soffitta sul banco
dell'incisore, emette un pallido
lume, che, scemando a poco a
poco, si perde nell'ombra in cui
resta sepolto tutto il meschino
locale; ombra in mezzo a cui si
disegnano
vagamente
alcune
forme bianchicce.
Sul banco, tavola quadra di
quercia, rozza e pesantissima,
imbrattata di grasso e di sego,
brillano scintillanti molti diamanti
e rubini di grossezza e splendore
ammirabili. Morel era incisore di
pietre fini e non di pietre false,
come si diceva e si credeva nel
caseggiato di rue du Temple.
Mediante questa innocente bugia,
gli oggetti che gli erano affidati
tutti li credevano di così poco
valore che lui poteva tenerli senza
timore che glieli rubassero. Tante
ricchezze in balia di tanta miseria
ci dispensano dal parlare della
probità di Morel.
Seduto su uno sgabello senza
spalliera,
abbattuto
dalla
stanchezza, dal freddo e dal sonno,
dopo una lunga nottata d'inverno
spesa a lavorare, si è lasciato
cadere sul banco, la testa pesante
sulle braccia intormentite; la sua
fronte si appoggia ad una larga
mola, collocata orizzontalmente
sulla tavola, e di solito messa in
moto da una piccola ruota a mano.
Una sega di acciaio fino ed altri
arnesi stanno vicini all'artefice, di
cui non si distingue altro che il
cranio calvo circondato da capelli
grigi; è vestito con una vecchia
casacca di lana turchina a maglia,
che tiene sulla nuda carne, e con
pessimi pantaloni di tela; le
ciabatte,
tutte
rotte,
gli
nascondono appena i piedi, lividi
per il freddo, posati in terra.
C'è, in quella soffitta, un
freddo così glaciale e penetrante,
che l'operaio, nonostante quella
specie di sonnolenza in cui lo ha
gettato l'esaurimento delle forze,
prova a tratti dei brividi in tutto il
corpo.
La breve lunghezza ed il
brucicchio del lucignolo indicano
che dorme già da qualche tempo;
si ode soltanto il suo respiro
affannoso; giacché gli altri sei
abitanti della stamberga non
dormono...
Sì,
nell'angusta
stamberga vivono sette persone.
Cinque figli, e il più giovane ha
quattro anni, il maggiore, tutt'al
più dodici. E la loro madre è
inferma. E poi una ottuagenaria,
mentecatta, madre della loro
madre.
Il freddo dev'essere ben rigido,
se il calore naturale di sette
individui ammucchiati in un così
piccolo
spazio
neppure
intiepidisce
quella
gelida
atmosfera; è che questi corpi
gracili, macilenti, tremanti, sfiniti,
dai bambini sino all'ava "hanno
poco potere calorico", come
direbbe un medico. Eccettuato il
capofamiglia, assopitosi un istante
perché gli mancano le forze,
nessuno dorme, no, nessuno! Ché
il freddo, la fame, la malattia,
tengono
gli
occhi
aperti,
spalancati. Nessuno sa quanto è
raro e prezioso per il povero il
sonno profondo, salutare, in cui
ritempra le sue forze e dimentica i
suoi guai. Egli si desta lieto,
svelto, atto alle più aspre fatiche,
dopo una di quelle notti benefiche,
che anche i meno religiosi, nel
senso cattolico di questo vocabolo,
provano
un
sentimento
di
gratitudine verso Dio, o almeno
verso il sonno: e chi benedice
l'effetto, benedice pure la causa.
All'aspetto dell'orrenda miseria
di quell'artigiano e al valore delle
gemme che gli sono affidate, si è
sorpresi da uno di quei contrasti
che straziano ed al tempo stesso
esaltano l'animo.
Quest'uomo ha sott'occhio
incessantemente
il
tetro
spettacolo dei dolori familiari, ché
tutto li opprime, dalla fame sino
alla pazzia, eppure rispetta quelle
gemme, una sola delle quali
toglierebbe sua moglie e i suoi
figli
dalle
privazioni
che
lentamente li uccidono.
Certo, fa il suo dovere, il suo
dovere di onest'uomo, e nulla più.
Ma perché un tale dovere è
semplice, è perciò meno bello,
meno grande l'adempierlo? Le
circostanze in cui si compie il
proprio obbligo non possono forse
renderne l'esercizio ancor più
meritorio? E poi quest'operaio,
che
rimane
miserabile
ma
galantuomo accanto a quel tesoro,
non rappresenta l'immensa e
formidabile pluralità degli uomini,
che condannati per sempre alle
privazioni,
ma
tranquilli,
industriosi e rassegnati, vedono
ogni giorno, senza odio né amara
invidia, sfolgorare dinanzi ai loro
occhi la magnificenza dei ricchi? E
non è nobile e consolante
riflettere, che non già la forza né il
terrore, ma il buon senso morale
soltanto trattiene, frena il terribile
oceano popolare, che straripando
potrebbe sommergere l'intera
società, schernendo le sue leggi e
la sua potenza, come il mare
infuriato prende a scherno le
dighe e i moli? Allora come si
potrà non provare simpatia, con
tutto il vigore dell'animo e dello
spirito, per questi cuori generosi,
che chiedono unicamente un po'
di posto al sole per tanta fatica,
tanto
coraggio,
tanta
rassegnazione? Si torni a quel
modello, ahi, troppo reale, di
spaventosa povertà, che tenteremo
di dipingere nella sua nudità
veramente tremenda.
Morel non possedeva più che
un sottile materasso ed un cencio
di coperta, destinato alla vecchia
mentecatta, che nel suo stupido e
duro egoismo non voleva nessuno
nel suo letto. Sul principio
dell'inverno,
era
diventata
sclerotica,
ed
aveva
quasi
soffocato la più giovane delle sue
nipoti, che aveva cercato di
metterle al suo fianco una
bambina di quattro anni, tisica da
molto tempo, e che troppo pativa
il gelo sul saccone dove riposava
con i fratelli e le sorelle.
Tra poco spiegheremo questo
sistema di coricarsi adottato dai
poveri.
Al loro confronto le bestie sono
trattate da sibariti: almeno ad esse
si cambia lo strame. Tale è il
quadro incompleto che presenta la
soffitta dell'artigiano, quando pure
si può penetrare con la vista fra la
penombra, in cui vengono a
morire i deboli barlumi della
candela.
Rasente il muro maestro,
meno umido delle altre pareti, è
steso al suolo il materasso dove è
accovacciata
la
mentecatta.
Siccome nulla può sopportare in
testa, i suoi capelli bianchi, tagliati
cortissimi, fanno apparire la forma
del
cranio, con la fronte
schiacciata;
folte
sopracciglia
grigie adombrano le profonde
occhiaie nelle quali brilla uno
sguardo di furore selvaggio. Le
guance scarne, livide, con mille
grinze, sono appiccicate ai pomelli
ed ai lati della mascella.
Sdraiata
su
un
fianco,
raggomitolata, in modo che il
mento quasi le tocca le ginocchia,
trema sotto una coperta di lana
bigia, troppo piccola per avvolgerla
tutta, e che mette in mostra le sue
gambe spolpate ed il fondo di una
gonnellaccia
lacera
che
ha
indosso.
Da quel canile esala un lezzo
insopportabile. Poco distante dal
capezzale della nonna, si estende,
ancora in linea parallela alla
muraglia, il saccone che serve da
letto ai cinque bambini. Ed ecco in
che modo: Sono stati fatti due
tagli per il largo sulla tela, uno da
un capo, uno da quello opposto,
poi si sono ficcate le creature nella
paglia fradicia e puzzolente: e
quella tela serve loro da lenzuolo e
da coperta. Due femmine, una
ammalata gravemente, battono i
denti da un lato; e dall'altro tre
maschi. Questi e quelle sono
coricati vestiti, se vesti possono
chiamarsi i loro cenci. Folte
chiome bionde, senza lucentezza,
arruffate, che la madre lascia
crescere perché li ripari alquanto
dal freddo, nascondono in parte le
loro
facce
pallide,
patite,
angustiate. Uno dei ragazzi, con le
dita intirizzite, tira a sé fino al
mento la fodera del saccone per
coprirsi un po' meglio; uno, nel
timore di esporre le mani al gelo,
la regge con i denti, che stridono
di continuo; il terzo si accoscia in
mezzo ai due fratelli.
La seconda delle due ragazze,
consunta dalla tisi, appoggia
languidamente il visetto, già
azzurrognolo e livido, sul petto
ghiacciato della sorellina, che ha
cinque anni, e che invano cerca di
riscaldarla fra le sue braccia e la
veglia attenta e ansiosa. Sopra un
altro pagliericcio, che in fondo a
quella topaia è dirimpetto a quello
dei fanciulli, giace la moglie del
lavorante, ammalata, sfinita da
una febbre lenta e da dolori che da
più mesi le impediscono d'alzarsi.
Madeleine Morel ha trentasei
anni. Uno sdrucito fazzoletto di
cotone blu, stretto intorno alla
fronte, fa risaltare ancora di più il
pallore bilioso del magro volto. Un
cerchio ceruleo le contorna gli
occhi profondi, appannati; e molte
crepe le deformano le labbra
scolorite. La sua fisionomia
afflitta, abbattuta, i lineamenti
privi d'espressione, denotano uno
di quei caratteri docili, ma
sprovvisti di energia, che non
contrastano con la sorte avversa,
ma cedono, soccombono e si
sfogano in gemiti. Debole, inerte,
buona a nulla, si era conservata
onesta perché onesto era il marito;
fosse stata abbandonata a se
stessa, le disgrazie l'avrebbero
potuta depravare e spingere al
male. Amava i figli ed il marito,
ma non aveva né il coraggio né la
forza di frenare le amare sue
querele sulla loro comune povertà.
E spesso, l'incisore, il cui costante
cruccio era quello di non avere il
tempo per il lavoro necessario a
mantenere la famiglia, si trovava
costretto a sospendere il lavoro
per andare a confortare la
meschina.
Sotto
un
brutto
lenzuolo di grossa tela cruda,
bucato, che aveva addosso la
moglie, Morel per riscaldarla
aveva posto alcuni panni tanto
vecchi e rattoppati che non gli era
riuscito d'impegnarli.
Un fornello, un tegame ed una
pignatta sbrecciata, due e tre tazze
scheggiate sparse per terra, una
conca, un lavatoio di legno, ed una
brocca accanto all'angolo del tetto
vicino alla porta, così poco salda
che il vento la smuoveva ad ogni
momento, ecco tutte le masserizie
da cucina di quella gente. Il
desolante quadro è rischiarato
dalla candela, la cui fiamma,
agitata dalla brezza che soffia tra
le fessure delle tegole, ora manda
su quelle miserie qualche barlume
vacillante, ed ora fa scintillare di
mille fuochi e risplendere di
altrettante prismatiche faville il
bel gruppo di diamanti e rubini
esposto
sul
banco,
dove
sonnecchia l'operaio.
Per impulso, diremo noi,
meccanico, le pupille di quegli
sventurati, tutti taciti, tutti desti,
dall'ava sino alla più piccola
creatura, si fissavano su lui, unica
loro speranza, loro sola risorsa; e
nel loro innocente egoismo
s'inquietavano
di
vederlo
inoperoso ed oppresso dalla fatica
già fatta. La madre pensava ai figli.
I figli pensavano a sé. La
mentecatta evidentemente non
pensava a nulla.
Quest'ultima però, d'un tratto,
si rizzò sulla vita, sopra il petto da
scheletro incrociò le lunghe
braccia secche e gialle, guardò il
lume battendo le ciglia, poi piano
si levò, trascinandosi dietro, come
un sudario, lo straccio di coperta.
Era altissima di statura; la testa,
quasi rasa, pareva estremamente
piccola,
un
movimento
spasmodico le agitava il labbro
inferiore grosso e pendente; quella
maschera esprimeva una feroce
stupidità.
Avanzò verso il banco con
circospezione, come un bambino
che
voglia
fare
qualche
marachella.
Giunta alla candela, accostò
alla fiamma le tremule mani; e
tanto erano magre, che il lume a
cui facevano riparo dava loro una
specie
di
livida
diafanità.
Madeleine dal suo lettuccio
badava ad ogni minimo atto della
vecchia.
Questa,
continuando
a
riscaldarsi alla fiamma, chinava il
capo, e considerava con curiosità
da folle il luccicare dei rubini e dei
diamanti che splendevano sulla
tavola.
Assorta
in
questa
contemplazione, non mantenne le
dita a sufficiente distanza dalla
fiamma, e si bruciò. Mandò un
urlo rauco.
A quel rumore Morel si destò
trasalendo, ed alzò il capo con
impeto.
Egli aveva quarant'anni, un
aspetto dolce, intelligente e
franco, ma il volto era sfatto per
l'indigenza; la barba grigia, lunga
da più settimane, gli copriva le
guance, butterate dal vaiolo,
alcune rughe premature gli
apparivano sulla fronte già calva,
ed aveva rosse le palpebre per lo
strapazzo e le veglie protratte. Uno
di quei fenomeni, però frequenti
presso
gli
artigiani
di
complessione debole e dediti al
lavoro sedentario, che costringe a
rimanere tutto il giorno in una
posizione quasi immutata, aveva
deformato la sua gracile persona.
Obbligato di continuo a star
curvo sul banco e chinarsi sul lato
destro per dar moto alla mola, si
era per così dire pietrificato,
ossificato in quell'attitudine, che
teneva per dodici-quindici ore di
seguito, e perciò stava curvo e
piegato da una parte. Poi, il suo
braccio destro, esercitato senza
posa dal faticoso maneggio della
ruota, aveva preso un grandissimo
sviluppo muscolare, mentre il
braccio e la mano sinistra, inerti
sempre ed appoggiati sul legno per
presentare le faccette dei diamanti
all'azione del bulino, erano ridotti
ad uno stato di magrezza
sorprendente; le gambe, secche,
quasi annientate dalla totale
mancanza d'esercizio, potevano a
malapena sostenere quel corpo
spossato, la cui sostanza, vitalità,
forza muscolare sembrava del
tutto concentrata nella sola parte
che il lavoro metteva sempre in
moto.
E perciò Morel diceva con
dolorosa rassegnazione: "Se mi
curo di mangiare non è tanto per
me come per rinvigorire il braccio
che gira la ruota." Svegliatosi
all'improvviso, l'incisore si trovò
faccia a faccia con la suocera
pazza.
"Che
avete?
che
volete,
mamma?" le disse.
Poi temendo di destare la
famiglia, che supponeva immersa
nel
sonno,
aggiunse
più
sommessamente: "Andate a letto,
mamma. Non fate chiasso;
Madeleine e i bambini dormono."
"Io non dormo, cerco di riscaldare
Adèle" disse la maggiore delle
figlie.
"Ho troppa fame per poter
dormire" disse uno dei maschi.
"Ieri sera non toccava a me andare
a cena come i miei fratelli dalla
signora Rigolette."
"Poverini!" fece Morel, angustiato.
"Credevo che dormiste, almeno!"
"Morel!" chiamò la moglie. "Avevo
paura di svegliarti, se no ti avrei
chiesto un po' d'acqua. Ho sete, mi
torna la febbre!"
"Subito" rispose l'operaio. "Ma
prima bisogna che io faccia andare
a letto tua madre... Su, via, lasciate
stare le mie gemme" diceva alla
vecchia, che voleva impossessarsi
di un rubino che, con il suo
fulgore, attirava la sua attenzione.
"Andate dunque a letto,
mamma!" ripeté.
"Questo, questo" disse la folle,
mostrando
la
gemma
che
bramava.
"Badate che mi arrabbio!"
replicò Morel più forte per
spaventare la suocera, e le
respinse adagio la mano.
"Dio mio, Dio mio, come ho
sete, Morel!" mormorò Madeleine.
"Vieni a darmi da bere!"
"Ma come vuoi che faccia, anch'io?
Non posso lasciare che tua madre
tocchi questa roba... perché mi
perda un brillante, come un anno
fa! E Dio sa, quanto ci costa quel
brillante, e quanto ci costerà
ancora." E l'incisore si pose
afflittissimo la mano sulla fronte.
Poi, rivolto a uno dei figli:
"Félix, va' a dar da bere a tua
madre, giacché non dormi."
"No, no, aspetterò... Prenderebbe
freddo" soggiunse Madeleine.
"Eh sì, non avrò più freddo
fuori, che dentro al saccone" disse
il ragazzo, alzandosi.
"Ma insomma, la smettete?"
gridò Morel, con voce minacciosa,
per scacciare la vecchia, che non
voleva scostarsi dal banco e si
ostinava a volere impadronirsi di
una di quelle gioie.
"Mamma, l'acqua della brocca
è ghiacciata" gridò Félix.
"Dunque rompi il ghiaccio"
rispose Madeleine.
"È troppo alto, non posso..."
"Morel, rompi il ghiaccio della
brocca" continuò Madeleine, con
voce dolente e d'impazienza.
"Poiché non ho altro da bere che
acqua, almeno che la possa bere...
Mi lasci morir di sete!"
"Oh, mio Dio, mio Dio, che
pazienza. Come vuoi che faccia?
Ho tua madre qui, addosso"
esclamò lo sventurato lavorante.
E non riusciva a sbarazzarsi
della mentecatta, che cominciando
ad irritarsi della resistenza
oppostale emetteva una specie di
sordo brontolio.
"Chiamala tu" disse Morel alla
consorte "qualche volta ti dà retta,
a te!"
"Mamma, andate a letto... Se siete
buona, vi darò del caffè, che vi
piace tanto."
"Questo, questo" replicò la
vecchia, cercando di afferrare il
rubino che desiderava.
Morel la tirò in là con buona
maniera, ma inutilmente.
"Dio buono, sai pure che non la
finirai più con lei se non le fai
paura con la frusta" esclamò
Madeleine. "Non c'è altro mezzo
per farla star quieta."
"Eh, bisognerà far così; ma benché
sia pazza, minacciare con la sferza
una vecchia mi ripugna" fece
Morel.
E, volgendosi alla suocera, che
tentava di morderlo, e che egli
tratteneva con una mano, strillò
con voce terribile: "Badate, prendo
la frusta, se non andate a letto
subito." Ed anche quelle minacce
furono vane.
Prese, di sotto al banco, un
frustino, lo fece schioccare, e
ripeté alla folle: "A letto subito! a
letto!" Allo schiocco della frusta, la
vecchia si allontanò subito dalla
tavola. Dopo si fermò, borbottò fra
i denti, e diede occhiate di collera
al genero.
"A letto! a letto" continuò
questi avanzando e facendo di
nuovo schioccare il frustino.
Allora la folle, adagio adagio, e
camminando all'indietro, se ne
tornò al suo lettino, mostrando i
pugni al genero. Morel, che
desiderava porre fine alla scena
crudele per portare da bere alla
consorte,
avanzò
vicinissimo
all'ottuagenaria, agitò per aria di
nuovo la sferza, senza toccarla
però, e le ripeté in tono di
minaccia: "A letto, subito!" La
vecchia, spaventata, si mise a levar
altissime grida, corse a gettarsi sul
saccone e vi si accucciò come un
cane, senza cessare le urla. I
bambini sbigottiti, credendo che il
loro padre avesse percosso la
vecchia, gli gridavano piangendo:
"Babbo, non picchiare la nonna!
Non la picchiare!" È impossibile
descrivere il triste effetto di quella
scena notturna, accompagnato
dalle grida supplichevoli dei
bambini, dalle strida furibonde
della folle, e dagli affannosi
lamenti della moglie dell'incisore.
19.
Il debito.
Morel si era trovato spesso in
circostanze simili a quelle di cui
abbiamo fatto il racconto; ma
questa volta, disperato e buttando
la sferza sotto il banco, esclamò:
"Oh, che vita! che vita!"
"È colpa mia, se mia madre è
scema?"
disse
piangendo
Madeleine.
"È colpa mia?" replicò Morel.
"Che
cosa
chiedo
io?
Di
ammazzarmi sul lavoro per tutti
voialtri. Giorno e notte son qui a
logorarmi la salute, non mi lagno,
finché avrò forza andrò avanti, ma
non posso nemmeno fare il mio
mestiere, e intanto custodire la
pazza, l'ammalata e i ragazzi... No,
non c'è giustizia in cielo! Non c'è
giustizia. Troppi tormenti per un
uomo solo" continuò con un tono
che straziava il cuore.
E abbattuto, cadde sullo
sgabello, con la testa nascosta fra
le mani.
"Se non hanno voluto prender
mia madre all'ospedale perché non
era abbastanza pazza, che ci ho da
far io? Su, via!" domandò
Madeleine
nel
suo
tono
strascicato,
flemmatico
e
lamentevole. "Quando ti sarai
tormentato per cose che non puoi
rimediare, a che ti gioverà?"
"A nulla" disse Morel, e si asciugò
gli occhi "a nulla, hai ragione...
Ma quando tutti ci danno
addosso non si è padroni di sé,
qualche volta."
"Oh, Dio mio, Dio mio, come ho
sete! Ho i brividi e la febbre mi
brucia" fece Madeleine.
"Aspetta, ora ti darò qualcosa."
Morel andò a prendere la brocca
sotto il letto, e, dopo avere, con
difficoltà, rotto il ghiaccio che
copriva l'acqua, riempì una tazza, e
si accostò al lettuccio della moglie,
che tendeva verso di lui le mani
ansiosa.
Ma, avendo riflettuto un
momento, le disse: "No! Sarebbe
troppo fredda, e, con l'impeto della
febbre, ti farebbe male..."
"Mi farà male? Meglio così!
Dunque
dammela"
riprese
Madeleine con amarezza "sarà
finita più presto, ti sbarazzerai di
me, non dovrai pensare altro che
alla
pazza
e
ai
bambini.
L'ammalata non ci sarà più..."
"Perché mi parli così, Madeleine?
Non me lo merito" rispose
mestamente Morel. "Animo, non
mi affliggere, è già molto se mi
rimane un po' di ragione e di fiato
per lavorare, non ho la testa ben
ferma... Non ci resisterei. E allora
che sarebbe di voi tutti? Io parlo
per voi, se si trattasse soltanto di
me, penserei poco all'indomani.
Grazie a Dio, il fiume c'è per
tutti!"
"Povero Morel!" disse intenerita la
donna. "È vero, ho avuto torto di
dirti con rabbia che ti vorrei levare
l'imbarazzo... Non te ne avere a
male, l'intenzione era buona. Sì,
perché tanto, io vi sono inutile, a
te e ai nostri figli... Da sedici mesi
sono in un letto... Oh, Dio mio,
come ho sete! Te ne prego, dammi
da bere!"
"Ora, cerco di scaldare la tazza con
le mani."
"Quanto sei buono! E io ti dico di
quelle cose!"
"Poveretta, tu patisci, e questo
inasprisce il carattere... Dimmi
tutto quello che vuoi, ma non che
vorresti mi sbarazzassi di te!"
"Ma a che ti servo?"
"E a che servono i nostri figli?"
"A darti più da fare che mai!"
"Sicuro, ma per voi trovo la forza
di starmene sul lavoro qualche
volta venti ore di seguito, tanto
che sono diventato deforme e
storpio... Credi che se no, farei, per
amore solo di me, il mestiere che
faccio? Oh, no, la vita non è tanto
bella: la finirei ben io!"
"Come succederebbe a me"
soggiunse Madeleine "se non
fossero le nostre creature. Da
molto tempo ti avrei detto:
"Morel, tu ne hai abbastanza, e
anch'io; il tempo d'accendere una
palettata di carbone, in un
braciere, e non si pensa più alla
miseria"... Ma quelle creature!"
"Dunque vedi che servono a
qualcosa!"
disse
Morel
ingenuamente. "Animo, tieni, bevi,
ma a piccoli sorsi, perché è sempre
fredda..."
"Oh, grazie!" disse Madeleine,
ingoiando l'acqua con avidità.
"Basta, basta..."
"Era troppo gelata, aumentano i
brividi" proseguì la consorte,
rendendogli la tazza.
"Dio santo, te l'avevo detto, ora
soffri..."
"Non
posso
nemmeno
più
tremare, mi pare di essere tutta
intirizzita, come un pezzo di
ghiaccio..." Morel si tolse la
casacca, la mise sui piedi della
moglie, e restò a torso nudo. Lo
sventurato non aveva camicia.
"Ma adesso ti gelerai, Morel."
"Tra un momento, se mi sento
male, mi rimetterò la giacchetta."
"Pover'uomo! Oh, hai ragione, non
c'è giustizia! Che abbiamo fatto
per esser così disgraziati?"
"Ognuno ha i suoi guai, i grandi
come i piccoli."
"Sì, ma i grandi hanno guai che
non avviliscono loro lo stomaco e
non gli fanno battere i denti. Senti,
quando penso che con il prezzo di
uno di questi diamanti che tu
pulisci ci sarebbe da vivere
comodamente, noi e i nostri figli,
inviperisce l'anima! Ma a che
servono a loro quei diamanti?"
"Se continuamente dovessimo
chiedere: "IA che serve questo?",
oh, sarebbe lunga... È come se tu
domandassi: "Che gli giova, a quel
signore che la Pipelet chiama il
Comandante, di aver preso a
pigione e ammobiliato il primo
piano di questo caseggiato, dove
non viene mai? A che gli giova
averci buoni materassi, buone
coperte, se abita fuori di qui?"."
"È vero, sì, vi sarebbe da
riscaldare, per un pezzo, più d'una
povera famiglia come la nostra...
Senza contare che ogni giorno la
Pipelet accende il fuoco perché
l'umidità non gli sciupi la
mobilia... Tanto calore buttato via,
mentre noi si trema! Ma già mi
risponderai: "Noi non siamo
mobili". Oh, quei ricchi, sono così
duri!"
"Eh, duri quanto gli altri,
Madeleine. Ma non sanno, capisci,
che cos'è la miseria. Nascono
felici, vivono felici, muoiono felici:
perché vuoi che badino a noi? E
poi, ti ripeto, non sanno. Come
hanno da farsi un'idea delle
privazioni degli altri? Hanno
fame? Meglio, pranzano con
miglior pro. Fa freddo? Bene, lo
chiamano "una bella brinata"! È
naturale. Se vanno fuori a piedi,
tornano subito a casa accanto al
caminetto, e il freddo fa sì che
trovino più grato il fuoco. Dunque
non possono compiangerci molto,
poiché a loro il ghiaccio e la fame
danno piacere. Non sanno, vedi,
non sanno, e noi al loro posto si
farebbe lo stesso."
"Sicché la povera gente è meglio di
tutti loro, poiché si danno la mano
l'un con l'altro... Quella brava
signora Rigolette, che tanto spesso
ci ha vegliati, me o i bambini,
durante le malattie, portò ieri
Pierre e Jérôme a cena con lei. E la
sua cena è ben poca cosa: un
bicchier di latte e un po' di pane.
Alla sua età c'è buon appetito;
certo si sarà privata..."
"Brava ragazza! Sì, è buona
davvero!
E perché?
Perché
conosce gli stenti. È come dico
sempre:
"Oh,
se
i
ricchi
sapessero!"."
"E quella signorina, che venne
l'altro ieri, tutta sbigottita a
domandarci se avevamo bisogno
di qualcosa, ora sa benissimo,
quella, che cosa sono i disgraziati,
eppure non è tornata..."
"Forse
tornerà:
perché,
nonostante la faccia spaventata,
aveva un aspetto molto dolce e da
persona per bene."
"Già con te, una volta che uno è
ricco ha sempre ragione. Pare che i
ricchi siano fatti d'altra pasta che
noi."
"Non è questo" riprese con
dolcezza Morel "al contrario, io
sostengo che hanno i loro difetti, e
noi i nostri. Il male è che non
sanno... E anche che ci sono, per
esempio, molti agenti per scoprire
i
delinquenti
che
hanno
commesso dei delitti, e non ci
sono agenti per scoprire gli onesti
operai, carichi di famiglia, che
sono nell'estrema indigenza, e che,
per mancanza di un po' di
soccorso, a volte si lasciano
tentare... Va bene punire il male,
ma sarebbe meglio impedirlo.
Siete stato probo sino ai
cinquant'anni, ma la povertà e la
fame vi spingono a mal fare, ed
ecco un criminale di più...
All'opposto, se si fosse saputo...
Ma a che serve riflettere a questo?
Il mondo è come è. Io sono misero
e disperato, parlo così; se fossi
nell'opulenza, discorrerei di feste e
divertimenti... Insomma, moglie
mia, come stai?"
"Sempre al solito... Non mi sento
più le gambe. Ma tu tremi!
Ripiglia la tua giacchetta. Spegni la
candela, che si consuma per nulla,
è giorno..." Infatti, una pallida
luce, filtrando con difficoltà
attraverso la neve che copriva il
vetro dell'abbaino, cominciava a
spandersi
nell'interno
della
soffitta, e rendeva l'aspetto di
questa ancora più squallido.
L'ombra della notte velava
almeno la visione della sporcizia e
del disordine.
"Aspetterò che sia più chiaro
per rimettermi a lavorare" disse
l'operaio, sedendo sulla sponda del
pagliericcio della consorte, ed
appoggiando la fronte fra le mani.
Dopo un momento di silenzio,
Madeleine gli domandò: "Quando
deve tornare la signora Mathieu a
prendere le pietre lavorate?"
"Questa mattina. Non ho più che
da levigare e pulire la faccetta di
un falso diamante."
"Falso? Tu, che non ti occupi che
di pietre fini, nonostante quel che
credono nel caseggiato!"
"Come, non sai? Ah, sì, tu dormivi
quando venne la signora Mathieu,
l'altro giorno. Mi diede sei
diamanti falsi, pietre del Reno, da
tagliare per l'appunto della stessa
grossezza e nello stesso modo di
quelle fini, e sono quelle insieme
ai rubini... Non ho mai visto
brillanti di una più bell'acqua.
Quei sei valgono di certo più di
sessantamila franchi."
"E perché ti fa fare quelle
imitazioni?"
"Una gran signora, alla quale
appartengono i rubini, una
duchessa, se non sbaglio, ha
incaricato il gioielliere Baudoin di
vendere il suo gioiello, e di
fargliene fare invece uno di pietre
false. La Mathieu, sensale del
signor Baudoin, me lo raccontò
nel portarmi le vere, perché io
dessi alle altre lo stesso taglio e la
stessa forma. Essa ha dato simile
incombenza a quattro incisori,
perché ci sono da tagliare
quaranta o cinquanta pietre, ed io
non potevo farle tutte; dovevano
esser pronte questa mattina, e ci
vuol tempo a Baudoin per
incastonarle. La signora Mathieu
mi diceva che spesso le signore
sostituiscono così ai loro diamanti
delle pietre del Reno."
"Lo vedi? Le gioie false fanno lo
stesso effetto che le vere, e le
grandi dame, che se ne ornano
solamente per gala, non avrebbero
mai l'idea di sacrificare uno di
quei diamanti per sollevare dei
poveretti come noi!"
"Povera moglie! Sii ragionevole... I
dispiaceri ti rendono ingiusta. E
chi c'è che sappia che noi, Morel,
siamo tanto bisognosi?"
"Oh, che uomo, che uomo! Se ti
tagliassero a pezzi, diresti sempre
grazie!" Morel si strinse nelle
spalle.
"E quanto ti darà, stamattina,
la signora Mathieu?"
"Niente,
poiché
ho
avuto
centoventi franchi anticipati."
"Niente? Ma, l'altro ieri terminò
l'ultimo franco che ci restava!"
"Sì!" disse Morel, abbattuto.
"E come faremo?"
"Non so."
"Il fornaio non ci vuol fare più
credito..."
"Eh lo so... Ieri presi a prestito un
quarto di pane dalla signora
Pipelet."
"La signora Burette non ci
potrebbe prestare qualche cosa?"
"Ti pare? Adesso che ha tutte le
nostre robe in pegno, su cosa ci
può dar denaro? sui nostri figli?"
domandò Morel, con un amaro
sorriso.
"Ma, mia madre, i ragazzi e tu
mangiaste ieri solamente una
libbra e mezzo di pane fra tutti...
Non potete morire di fame... Già,
in sostanza, è colpa tua; non hai
voluto farti segnare quest'anno
all'Ufficio di carità."
"Si segnano soltanto quelli che
hanno dei mobili, e noi non ne
abbiamo più! Ci considerano come
gente che stiano a pensione. E per
essere
ammessi
nelle
sale
dell'asilo bisogna che i bambini
abbiano almeno un camiciotto, e i
nostri figli non hanno addosso che
stracci. E bisognava andare e
venire
almeno
venti
volte
all'Ufficio di Carità, giacché non
avevamo protezioni. Ci avrei
perduto più di quel che avremmo
incassato."
"Ma dunque come si fa?"
"Può essere che quella signora di
ieri non si scordi di noi."
"Oh, sì, facci assegnamento! Ma la
signora Mathieu t'impresterà ben
cinque franchi; tu lavori per lei da
dieci anni, non può essere che
pianti in una simile miseria un
artigiano onorato, carico di
famiglia."
"Non credo che ci possa fare un
altro prestito. Fece quanto poteva,
anticipandomi, a poco a poco,
centoventi franchi. Per lei è una
gran somma. Perché è sensale di
gioie, e in certe occasioni ne
possiede
per il
valore
di
cinquantamila lire, non per questo
è benestante. Quando guadagna
cento franchi al mese, è anche
troppo contenta, giacché ha molte
spese, e due nipoti da educare.
Cento franchi per lei fanno come
cinque per noi... Essendo già mia
creditrice di molto, non può levare
il pane di bocca a sé ed ai suoi..."
"Vedi che cos'è lavorare per i
mezzani invece che per i
gioiellieri? Qualche volta questi
stanno meno a badare... Ma tu ti
fai sempre mangiare la torta dagli
altri: è colpa tua!"
"Colpa
mia?"
esclamò
lo
sventurato,
esacerbato
da
quell'assurdo rimprovero. "Non è
forse tua madre, sì o no, la causa
di tutte le nostre miserie? Se non
si fosse dovuto pagare il diamante
che ha perduto, non saremmo in
queste condizioni: si riscuoterebbe
il prezzo delle mie giornate, si
avrebbero i mille e cento franchi
che ritirammo dalla cassa di
risparmio e non dovremmo
rimborsare i mille e trecento
imprestatici da quel signor
Jacques Ferrand, che sia pure
maledetto!"
"Tu ti ostini ancora a non
chiedergli nulla, a quello là! E poi,
è tanto avaro, che forse non ci
darebbe niente. Ma, insomma,
tanto si prova....."
"A lui, rivolgermi a lui?" gridò
Morel. "Piuttosto vorrei bruciare a
fuoco lento! Senti, via, non mi
parlare di quell'uomo, che mi
faresti diventar matto." Nel
proferire
queste
parole,
la
fisionomia dell'operaio, di solito
tranquilla e rassegnata, ebbe un
moto di cupa ribellione. Sulla
faccia pallida apparve un lieve
rossore. Si alzò bruscamente dal
saccone, e si mise a camminare
per la soffitta a passi concitati.
"Io non sono cattivo" esclama
"in vita mia non ho mai fatto male
a nessuno; ma a quel notaio!, oh,
gli auguro tanto male quanto ne
ha fatto a me!" Poscia, mettendosi
ambe le mani sulla fronte, seguitò:
"Mio Dio! perché una tristissima
sorte, che non ho meritata, vuole
che io ed i miei siamo con i piedi e
con le mani legati in balia di
quell'ipocrita? E avrà diritto di far
uso della sua ricchezza per
rovinare, corrompere e desolare?"
"Bravo, bravo!" disse Madeleine
"scatenati contro di lui; ti gioverà
di molto quando ti avrà fatto
carcerare, come può, da un giorno
all'altro... per il biglietto di mille e
trecento franchi, per il quale ha
ottenuto sentenza da tre mesi... Ti
tiene come un uccellino legato a
un filo di refe... Lo detesto anch'io
quel notaio, ma poiché siamo
sotto di lui!... bisogna pure..."
"Lasciar disonorare nostra figlia,
non è così?" urlò l'incisore con
voce tonante.
"Dio buono! Sta' zitto... i
piccini son desti... ti sentono..."
"Eh, via, via! tanto meglio!"
rispose Morel con una terribile
ironia "sarà un bell'esempio per le
due nostre figliole più piccole... Ci
si prepareranno; non c'è altro che
un giorno gliene salti il capriccio a
quel notaio!... Noi siamo sotto di
lui? Come tu dici sempre... Su,
ripetilo, che mi può far carcerare:
su, parla schietto... gli si ha da
abbandonare nelle mani nostra
figlia, non è vero?" E l'infelice
terminò la sua imprecazione con
forti singhiozzi; giacché l'ottima e
onesta sua natura non poteva
reggere un tono pieno di
sarcasmo.
"Oh, creature mie" continuò,
prorompendo in pianto "povere
mie creature! Louise mia, mia
buona e bella Louise! Troppo
bella, troppo! È per questo che sei
così sfortunata. Se non fossi stata
tanto bella, quel maledetto non mi
avrebbe proposto di prestarmi il
denaro. Io sono galantuomo e
laborioso, il gioielliere mi avrebbe
accordato del tempo, non mi sarei
obbligato con quel vecchio mostro,
e non avrebbe potuto abusare del
favore che ci fece per procurare
disonore a mia figlia. Io non l'avrei
lasciata un giorno in casa sua... Ma
per forza, per forza! Mi tiene nelle
sue grinfie... Oh, miseria, miseria,
quanti oltraggi fai ingoiare!"
"Ma allora cosa avremmo potuto
fare? Disse a Louise: "Se te ne vai,
faccio mettere tuo padre in
prigione!"."
"Sì, le dà del tu come ad una
sguattera!"
"Se non fosse che questo, si
farebbe una ragione; ma se lei
pianta il notaio, lui ti farà
imprigionare; e quando sarai in
carcere, che sarà di me, sola, con i
figli e mia madre? Qualora Louise
guadagnasse venti franchi al mese
in un altro posto, ci si potrebbe
campar sopra in sei persone?"
"Già, per campare lasciamo che
disonori Louise..."
"Ma tu esageri sempre! Il notaio le
fa la corte, è vero, lei ce lo ha
detto, ma è onesta, lo sai."
"Ah, sì, è onesta, buona, attiva!
Quando
perdemmo
quel
diamante,
vedendoci
nelle
ristrettezze, volle impiegarsi per
non esserci d'aggravio; non te lo
dissi, ma quanto soffrii. Lei a
servire, maltrattata, umiliata,
tanto altera per natura, ché noi
ridendo... Te ne ricordi? Si rideva
allora!... La chiamavamo la
principessa, perché diceva sempre
che, a forza di pulizia, avrebbe
trasformato la nostra soffitta in un
piccolo palazzo... cara ragazza,
sarebbe stato stupendo tenerla
presso di noi, anche avessi dovuto
passare le notti al lavoro... E
quando vedevo quel buon visetto
colorito, quei begli occhi scuri,
davanti a me, là accanto al mio
banco, e l'ascoltavo cantare, mi
pareva minore la fatica... Povera
Louise, così laboriosa e tanto
allegra! Perfino di tua madre
riusciva a fare quel che voleva. Eh,
se vi guardava, se vi parlava, non
si poteva fare a meno di fare a suo
modo... E te, come ti assisteva!
come ti svagava! E dei fratelli e
delle sorelline, quanto aveva cura!
Trovava tempo per far tutto... E
così con Louise, tutta la nostra
felicità, tutto, tutto è sparito!"
"Via, Morel, non mi rammentare
queste cose, mi spezzi il cuore"
disse Madeleine, fondendosi in
lacrime.
"E pensare che forse quel
vecchio mostro... Oh, vedi, a
questa idea mi gira la testa, mi
prende la voglia di andare ad
ammazzarlo, e poi ammazzare me
stesso."
"E noialtri come si resterebbe? E
poi, te lo torno a dire, tu esageri...
Il notaio glielo avrà forse detto,
così per scherzo... Va alla messa,
tutte le domeniche, frequenta
molti preti... Ci sono tanti che
dicono che è più sicuro il denaro
depositato da lui, che alla Cassa di
Risparmio."
"E che mi prova questo? Ch'è ricco
e impostore. Io conosco Louise, è
onesta, sì, ma ci ama come
nessuno può mai amare: il suo
cuore gronda sangue per la nostra
indigenza. Sa che, senza di me,
morreste tutti di fame; e se quello
l'ha minacciata di farmi carcerare,
la disgraziata sarà stata forse
capace... Oh, la mia povera testa!
C'è da impazzire."
"Dio mio, se così fosse successo, il
notaio le avrebbe dato denaro e
fatto dei regali, e, certo, lei non se
li sarebbe tenuti per sé, ce ne
avrebbe fatto approfittare..."
"Taci, non capisco nemmeno come
tu possa avere simili pensieri...
Louise accettare, Louise..."
"Ma non per lei, per noialtri..."
"Taci, mi fai abbrividire! Senza di
me, non so cosa saresti diventata,
e anche le mie creature, con idee
di questa specie..."
"Che male c'è in quel che ho
detto?"
"Nessuno."
"Ebbene, perché hai paura?"
Morel spazientito interruppe: "Ho
paura perché osservo che, da tre
mesi a questa parte, tutte le volte
che Louise viene qui e mi
abbraccia, arrossisce."
"Dal piacere di vederti!"
"O dalla vergogna... Si fa sempre
più afflitta..."
"Perché ci vede sempre più
infelici... E poi, anzi, quando le
parlo del notaio, mi dice che ora
non
la
minaccia
più
d'imprigionarti."
"Sì, ma a che prezzo non la
minaccia più? Lei non lo dice, e
arrossisce nell'abbracciarmi... Oh,
mio Dio! È certo già terribile se un
padrone può dire a una brava
ragazza che dipende da lui: "Vieni
a letto con me o ti mando via! E se
qualcuno viene a domandare
informazioni di te, risponderò che
sei una pessima impiegata, per
impedire che tu possa andare a
lavorare da altri". Ma dirle: "Vieni
a letto, o farò mettere tuo padre in
carcere" e questo sapendo che sul
lavoro di quel padre ha il pane
un'intera famiglia, ah, è mille
volte più infame!"
"E pensare che con uno di questi
diamanti che sono sul tuo banco,
potresti rimborsare il notaio, far
uscire di casa sua la nostra figliola
e tenerla qui da noi" disse
lentamente Madeleine.
"Anche se tu mi ripetessi mille
volte la stessa cosa, a che
gioverebbe? Sicuro, se fossi ricco
non sarei misero" fece Morel, con
dolorosa impazienza.
La probità era talmente
naturale, e, per così dire, organica,
in quest'uomo, che non gli si
affacciava alla mente che la
consorte, abbattuta, inasprita dalle
sciagure, potesse avere qualche
secondo fine e volesse mettere in
tentazione la irreprensibile sua
integrità.
Egli
riprese
a
dire
amaramente:
"Bisogna
rassegnarsi! Beati quelli che
possono avere i figli presso di sé e
difenderli da ogni insidia... Ma una
ragazza del popolo, chi la
garantisce? Nessuno. È in età da
guadagnare qualche cosa? Va la
mattina al negozio, e torna la sera:
e intanto la madre lavora da una
parte e il padre dall'altra. Il tempo
è il nostro capitale, e il pane è così
caro, che non ci resta tempo per
badare alla condotta delle nostre
creature... E poi si declama contro
il mal costume delle ragazze
povere! Come se i genitori
avessero i mezzi di tenersele al
fianco, o agio di sorvegliarle,
quando sono fuori. Le privazioni
sono un nulla per noi, in
confronto al dispiacere di lasciare
la moglie, le figliole, nostro
padre... A noi misere genti, la vita
in famiglia sarebbe utile e
consolante. Ma appena i nostri
ragazzi sono in età di ragione, ci
tocca separarci da loro!" In quel
momento bussarono con forza alla
porta della soffitta.
20.
La sentenza.
L'incisore, attonito, si alzò e
corse ad aprire.
Due uomini entrarono nella
soffitta.
Uno, magro, alto, faccia
ignobile e piena di bolle, con
grosse fedine tra nere e bigie,
teneva in mano una mazza con il
piombo in fondo, portava un
cappellaccio sgualcito ed un lungo
soprabito verde, inzaccherato di
mota, abbottonato ben stretto; il
bavero, di velluto nero consunto,
lasciava scorgere un collo lungo,
rosso e spelacchiato come quello
d'un avvoltoio. Si chiamava
Malicorne. L'altro, più piccolo, di
faccia non meno abbietta, pelo
rossiccio, grosso e panciuto, era
vestito con una sorta di lusso
ridicolo. Bottoncini di brillanti gli
fermavano le pieghe della camicia,
di una pulizia alquanto dubbia;
una collana d'oro gli serpeggiava
sul corpetto a quadretti di drappo
vecchissimo, su cui aveva il
soprabito di un bigio quasi giallo.
Si chiamava Bourdin.
"Oh, che puzzo di miseria e di
morte c'è qui!" disse Malicorne,
fermandosi sulla soglia.
"Certo, non c'è fragranza di
muschio! Che clienti!" soggiunse
Bourdin, con un gesto di disgusto
e disprezzo.
Poi avanzò verso l'incisore, che
lo guardava con sorpresa e
indignazione.
Attraverso l'uscio socchiuso si
vide passare il viso maligno,
attento e scaltro di Tortillard, che,
avendo seguito i due senza che
essi lo sapessero, se ne stava ad
osservare, ascoltando.
"Che
volete?"
disse
bruscamente Morel, sdegnato per
le villanie di quei due.
"Jérôme Morel?" domandò
Bourdin.
"Sono io..."
"Lavorante in pietre?"
"Sono io."
"Di certo?"
"Certo che sono io! Mi avete
seccato! Che volete? Spiegatevi o
andatevene!"
"Assai garbato, eh? Grazie. Ehi,
Malicorne"
disse
l'uomo,
volgendosi al collega "non ci sono
belle cose... non è come dal
visconte di Saint-Remy!"
"Sì, ma quando vi sono belle cose
si trova l'uscio chiuso come in rue
de Chaillot. Il passerotto si era
involato la sera prima, e anche ben
ripulito! Al contrario, i disgraziati
come questo rimangono fissi nel
canile."
"Lo credo! Hanno gusto a esser
carcerati per avere da mangiare."
"E bisogna che il creditore sia un
buon gonzo! Gli costerà più del
valore... Ma basta, questo è affar
suo."
"Oh, sentite" disse Morel, irritato
"se non foste ubriachi, come
sembrate, mi fareste montare in
collera. Uscite di casa mia
immediatamente."
"Ah, ah, ah! È curioso lo
sciancato!"
esclamò
Bourdin,
facendo un'insultante allusione
alla
deformità
dell'operaio.
"Dimmi un po', Malicorne, ha
tanto muso da chiamar casa sua
una topaia dove non alloggerei
neppure il mio cane!"
"Ma, Dio mio" gridò Madeleine,
così sbigottita che ancora non
aveva potuto proferire una parola
"chiama aiuto! Saranno ladri...
Bada ai tuoi diamanti." Infatti,
vedendo quei due sconosciuti
dalla faccia sinistra avvicinarsi
maggiormente al banco dov'erano
le pietre, Morel temette qualche
malvagia intenzione, corse alla
tavola, e con le mani coprì le sue
gioie.
Tortillard, sempre in agguato e
spiando, tenne a memoria le
parole di Madeleine, notò l'atto del
marito, e poi pensò fra sé: "To', to',
dicevano che l'incisore lavorava di
falso... Se quella roba fosse falsa,
non avrebbe paura che gliela
rubassero. È bene saperlo...
Dunque la comare Mathieu, che
viene qui tanto spesso, è mezzana
di roba buona, dunque sono
diamanti veri che ha nello
scatolino... È bene saperlo: lo dirò
alla Chouette, alla Chouette, alla
Chouette" ripeté il figlio di BrasRouge con la sua cantilena.
"Se non ve ne andate da casa
mia, chiamo la guardia" fece
Morel.
I ragazzi, sgomenti, si misero a
piangere, e la vecchia mentecatta
si rizzò a sedere.
"Se qualcuno ha diritto di
chiamare la guardia siamo noi...
Capite, signor sciancato?" disse
Bourdin.
"Giacché deve prestarci man
forte ed arrestarvi se fate il
difficile" aggiunse Malicorne.
"Non abbiamo con noi il giudice di
pace, è vero, ma se vi preme
godere della sua compagnia, ve ne
faremo avere uno caldo e bollente,
che esce appena dal forno...
Bourdin vallo a chiamare."
"In prigione? Io?" grida Morel
meravigliato.
"Sì, a Clichy..."
"A Clichy?" ripeté
atterrito
l'operaio. "Che testa dura ha
questo!" disse Malicorne.
"Nel carcere dei debitori... Vi
piace più a questo modo?"
continuò Bourdin.
"Ma voi siete?... Come?... il
notaio?... Ah, Dio mio!" E
l'operaio, pallido come un morto,
cadde sullo sgabello senza poter
dire altro.
"Siamo guardie giudiziarie per
aggiustarvi a modo, se ci bastasse
l'animo...
Adesso
capite,
amicone?"
"Morel, il biglietto del padrone di
Louise... Siamo rovinati!" disse
Madeleine.
"Ecco la sentenza" proseguì
Malicorne, traendo dal portafogli
un atto bollato.
Dopo avere biascicato, secondo
l'uso, una parte dell'istanza in
modo quasi da non capirsi, ne
proferì chiara la fine, purtroppo
decisiva
per
l'operaio:
"E
giudicando inappellabilmente, il
tribunale condanna il signor
Jérôme Morel a pagare al signor
Pierre Petit-Jean, negoziante(7),
con tutte le vie di diritto, ed anche
con arresto personale, la somma
di franchi mille e trecento, con più
gli interessi a decorrere dalla data
del protesto, e la condanna alle
spese.
Fatto e giudicato in Parigi addì
13 settembre 1838." "E Louise,
allora? e Louise?" esclamò Morel,
quasi fuori di sé, senza badare a
quella lettura. "Dov'è? Dunque è
uscita dalla casa del notaio?
Poiché lui mi fa carcerare...
Louise... Dio mio, che ne è di
Louise?"
"Che Louise?" domandò Bourdin.
"Lascialo
stare"
replica
brutalmente Malicorne "non vedi
che dà i numeri? Animo!" e si
accostò all'incisore. "In piedi, e in
marcia! Su svigniamocela, ho
bisogno di pigliar aria... Qui ci si
appesta!"
"Morel, non ci andare, difenditi!"
gridò Madeleine, smaniosa.
"Ammazzali, quei bricconi! Oh,
come sei vile! Ti lascerai condurre
via da loro? ci abbandonerai?"
"Signora,
faccia
senza
complimenti" disse in tono
sardonico Bourdin "ma se il caro
sposino alza la mano addosso a
me,
lo
schiaccio."
Morel,
preoccupato per Louise, non udiva
ciò che gli altri dicevano.
Ad un tratto, un lampo di
amarissima allegrezza gli brillò sul
viso.
"Louise non è più dal notaio!"
esclamò. "Vado volentieri in
prigione!" Poi, girando gli occhi
intorno: "E mia moglie? e sua
madre, gli altri miei figli, chi li
manterrà?
Nessuno
vorrà
affidarmi delle gioie per lavorarle
in prigione.
Crederanno che io ci vada per
cattiva condotta. Ma dunque il
notaio vuole la mia morte, la
morte dei miei?"
"Una buona volta, la finiamo?"
grida Bourdin. "Oh! ci siete venuto
a noia! Vestitevi, e via."
"Miei buoni signori, scusatemi per
quel che ho detto prima" pregava
Madeleine dal suo letto. "Non
avrete cuore di portar via Morel...
Che volete che io faccia con i miei
cinque figli e mia madre, che è
matta?
Vedete,
eccola
là,
rannicchiata sul materasso... È
matta, miei buoni signori, è
matta!"
"La vecchia rapata?"
"Ma certo, è vero, è rapata"
schernì Malicorne "credevo avesse
un berrettino bianco!"
"Figliuoli, buttatevi in ginocchio
davanti a quei buoni signori!"
gridò Madeleine, volendo, come
ultimo tentativo, intenerire gli
sbirri. "Pregateli di non portar via
il vostro papà, che è il nostro solo
sostegno..." Malgrado gli ordini
della madre, i bambini, intimoriti,
piangevano, e non osavano
muoversi dal pagliericcio. Al
chiacchierio insolito, all'aspetto
degli sgherri che non conosceva, la
mentecatta cominciò a gettare
spaventose urla, ritraendosi verso
il muro.
Morel sembrava estraneo a
quanto accadeva; il colpo era per
lui inaspettato e terribile; le
conseguenze di quell'arresto gli
parevano così tremende, che
nemmeno vi poteva credere.
Indebolito da privazioni d'ogni
genere, gli mancavano le forze: era
pallido, stralunato, seduto sullo
sgabello, abbattuto, con le braccia
penzoloni, e la testa china sul
petto.
"Orsù, corpo di un diavolo! La
finite?"
grugnì
Malicorne.
"Credete che siamo qui per
divertirci? Camminate, o vi lego."
E mise una mano sulla spalla al
lavorante, e lo spinse rozzamente.
La minaccia ed il gesto causarono
ai bambini il massimo spavento; i
tre piccoli maschi sbucarono dal
saccone mezzi nudi, e vennero
lacrimando a gettarsi ai piedi delle
guardie giudiziarie, a mani giunte,
e supplicando con voce che
avrebbe impietosito una tigre.
"Grazia!
grazia!
Non
ammazzate il nostro babbo!" Al
vedere quegli infelici bambini
tremanti di freddo e di paura,
Bourdin, nonostante la sua
naturale crudeltà e l'assuefazione
ad incontri consimili, fu quasi
commosso. Lo spietato suo
compagno liberò con mal garbo la
gamba dalle braccia dei ragazzi,
che
gliela
stringevano,
raccomandandosi.
"Via, monelli!... Che maledetto
mestiere, se si avesse a far sempre
con dei pezzenti di questa razza!"
Un orribile episodio rese anche
più tetra la scena.
La maggiore delle bambine,
rimasta nel pagliericcio con la
sorella ammalata, chiamò d'un
tratto: "Mamma, mamma, non so
che cos'ha Adèle... È fredda,
fredda... Mi guarda sempre, non
respira più!" La povera creatura
tisica era spirata placidamente,
senza proferire un lamento; ed il
suo sguardo stava ancor fisso
verso la sorella, da lei amata
tenerissimamente. È impossibile
ridire quale grido mandasse la
moglie di Morel. Aveva purtroppo
compreso! Fu uno di quei gridi
angosciosi, convulsi, strappati dal
più profondo delle viscere di una
madre.
"Pare che sia morta, ho paura,
Dio, Dio!" disse la ragazzetta, e
balzò giù in un attimo, e corse a
nascondersi fra le braccia della
madre.
E questa, dimenticando che le
gambe indebolite e paralizzate non
la reggevano, fece uno sforzo per
alzarsi e per andar vicino alla
figliola. Ma non poté, cadde in
terra, dando un'ultima voce di
disperazione. Quella voce trovò
un'eco nel cuore di Morel; egli
uscì dal suo torpore, d'un passo fu
al saccone e vi prese la sua
creaturina in età di quattro anni.
Era morta! Il freddo e la penuria
avevano affrettata la sua fine,
benché la sua malattia, frutto della
miseria, fosse senza rimedio.
Le sue povere e piccole
membra erano già irrigidite e
ghiacciate.
PARTE QUARTA.
1.
Louise.
Morel, con i capelli irti per la
disperazione e lo spavento, restava
immobile, e tenendosi al seno la
figlia morta, la contemplava con
occhio asciutto, fisso, come
ottuso.
"Morel! Morel! Dammi qua
l'Adèle" esclamava la sventurata
madre protendendo le braccia
verso il marito. "Non è vero, eh,
non è morta? Vedrai, io la
riscalderò..." La curiosità della
mentecatta fu ancora eccitata dalla
premura dei due sbirri di portar
via l'incisore, che non voleva
separarsi dalla bambina. La
vecchia cessò di urlare, si alzò dal
lettuccio, si avvicinò adagio, cacciò
la brutta testa al di sopra della
spalla del genero, e, per qualche
momento, considerò il cadavere
della nipote. Il suo volto
conservava l'abituale espressione
di stupidità feroce. Dopo un
minuto, fece udire uno sbadiglio
rauco come quello di una bestia
famelica, e, ritornando al suo
canile, vi si buttò
sopra,
mugolando: "Fame! fame!"
"Vedete, signori! Vedete una
povera bimba di quattro anni, la
mia Adèle... Si chiama Adèle... Solo
ieri sera la baciavo, e stamane...
Ecco, direte che è una di meno da
mantenere, che ho fortuna, non è
così?" disse l'operaio quasi in
delirio.
La sua ragione cominciava a
vacillare dopo tanti colpi.
"Morel! Voglio la mia figliola!
la voglio!" gridò Madeleine.
"È giusto, uno alla volta" disse
l'operaio, andando a posare la
bambina nelle braccia della madre.
Poi si nascose la faccia tra le
mani gemendo. Madeleine, non
meno smarrita dello sposo,
nascose nella paglia del saccone il
corpo della figlia, e la guardava
con una specie di selvaggia
gelosia, mentre gli altri ragazzi,
accasciati, singhiozzavano.
Gli sgherri, per un momento
commossi dalla morte della
bambina, ripresero quasi subito le
abituali prepotenze, convinti di
dover assolvere un dovere.
"Animo,
camerata"
belò
Malicorne "la vostra figliola è
morta. È una disgrazia, siamo tutti
mortali; non ci possiamo far
niente, e voi neppure... Dovete
venire con noi. Abbiamo da
agguantare un altro debitore,
perché oggi è giornata di caccia."
Morel non lo udiva.
Assillato dai più funebri
pensieri, diceva da solo con
affanno,
e
interrompendosi:
"Bisognerà pur seppellirla, mia
figlia... Vegliarla sino a che
vengano a prenderla. Seppellirla!
Ma con che? Non abbiamo nulla.
E la bara... Chi ci farà credito? Oh,
una cassa tanto piccola per una
creatura di quattro anni non deve
costare caro... E poi senza carro...
Si mette sotto il braccio... Ah, ah,
ah!" aggiunse con una risata
spaventevole.
"Come sono fortunato! Poteva
morire a diciotto anni, all'età di
Louise, e non mi avrebbero data a
credito una cassa così grande..."
"Ma, dico io, questo è capace di
perdere la zucca" fece Bourdin
rivolto a Malicorne. "Guarda che
occhi, fa proprio paura! Oh,
benissimo! Ora la vecchia matta
che brontola, che ha fame... Uh,
che famiglia!"
"Tanto s'ha da farla finita...
Benché
l'arresto
di
questo
disgraziato sia in tariffa per soli
settantasei
franchi
e
settantacinque centesimi, noi,
come giusto, cresceremo le spese a
duecentoquaranta o cinquanta
franchi. E il creditore paga."
"Ma dimmi chi sborsa? Perché è
questo disperato che deve pagare i
violini, se è lui che ha da ballare."
"Oh, quando avrà abbastanza soldi
per soddisfare il suo creditore di
duemila e cinquecento franchi tra
capitale, interessi e spese, dovrà
essere un bel giorno di sole."
"Non sarà come qui, che è buio e
freddo" disse lo sbirro, soffiandosi
sulle dita. "Terminiamo, su,
imballiamolo, piagnucolerà per la
strada... Ci abbiamo colpa noi se è
crepata la sua piccina?"
"Quando si è in miseria non si
fanno figli."
"Imparerà!" seguitò Malicorne.
E, picchiando sulla spalla a
Morel:
"Andiamo,
andiamo,
amicone! Non abbiamo tempo da
aspettare. Giacché non potete
pagare, in prigione!"
"In prigione il signor Morel?"
esclamò una voce giovanile.
Ed una fanciulla, fresca,
brunotta, colorita, entrò sollecita
nella soffitta.
"Ah, signorina Rigolette" le
disse uno dei bambini "siete tanto
buona... Salvate il babbo, vogliono
portarlo in carcere, e la mia
sorellina è morta!"
"Adèle è morta?" gridò la ragazza,
e gli occhi neri, grandi e vivaci le si
riempirono di lacrime. "Vostro
padre in carcere? Oh, non può
essere!" E non riusciva a smettere
di
guardare
alternativamente
Morel, la moglie e gli sgherri.
Bourdin le si avvicinò.
"Su, bella ragazza, voi, che siete
a sangue freddo, fate intendere la
ragione a quel galantuomo: la sua
bambina è morta, alla buon'ora!
Ma bisogna che venga con noi a
Clichy, alla prigione dei debitori;
siamo guardie giudiziarie."
"È dunque vero?" fece Rigolette.
"Verissimo! La madre ha la
bimba nel suo letto, non gliela si
può levare, la tiene nascosta... Il
padre dovrebbe approfittare del
momento per uscire."
"Dio, Dio, che disgrazia" disse
Rigolette "che disgrazia! Come si
fa?"
"O si paga o si va in carcere, non
c'è via di mezzo... Avete due o tre
biglietti da mille da imprestargli?"
domandò Malicorne in atto di
dileggio. "Se li avete, andate alla
cassa, e snocciolate, non vogliamo
altro noi."
"Oh, è terribile" fece la giovane,
sdegnata. "Osar scherzare davanti
a disperazioni simili!"
"E va bene, senza scherzi" disse
l'altro agente "poiché volete
rendervi utile, procurate che la
moglie non ci veda condur fuori il
marito. Risparmierete a tutti e due
un
triste
quarto
d'ora."
Quantunque brutale, il consiglio
era buono. Rigolette, adottandolo,
si appressò a Madeleine. Questa,
fuori di sé dal dolore, non parve
badasse a lei che s'inginocchiava
accanto al letto insieme ai ragazzi.
Dopo il primo terribile stupore,
Morel era piombato nella più cupa
desolazione.
Abituato
alla
rassegnazione,
considerava
l'orrore della propria situazione.
Il notaio era il responsabile di
quell'azione spregevole, gli agenti
facevano il loro mestiere. Era
inutile prendersela con loro.
"Sicché, si va finalmente?"
domandò Bourdin.
"Non posso lasciar qui questi
diamanti; la mia consorte è fuori
di sé" disse Morel, mostrando le
gioie sparse sul banco. "La sensale
per la quale lavoro deve venire a
prenderli stamane o in giornata;
ve ne sono per una somma assai
forte."
"Bene!" disse piano Tortillard, che
era sempre rimasto accosto l'uscio
socchiuso. "Bene! Lo saprà la
Chouette!"
"Accordatemi soltanto sino a
domani" soggiungeva Morel "che
possa consegnare le gemme alla
sensale."
"È impossibile, finiamola subito!"
"Ma non posso lasciar qui questi
brillanti, e rischiare che si
perdano!"
"Portateli con voi; la vettura è giù,
la pagherete con le altre spese.
Andremo dalla sensale; se non
c'è, depositerete le gioie alla
cancelleria, a Clichy. Saranno
sicure come in banca. Animo,
sbrighiamoci, ce ne andiamo senza
che vi vedano la moglie e i figli."
"Concedetemi sino a domani; che
io possa far seppellire mia figlia"
domandò
Morel
con
voce
supplichevole ed alterata dalle
lacrime che tentava di frenare.
"No, abbiamo perduto più di
un'ora..."
"E a sotterrarla vi dispererete
ancora di più" disse Malicorne.
"Sì, ne morirei" disse Morel
con un amaro sorriso. "Avete tanto
timore di affliggere la gente!
Dunque, una sola ed ultima
parola."
"Presto, maledizione, sbrigatevi"
grugnì Malicorne spazientito.
"Da quando avete l'ordine di
arrestarmi?"
"La sentenza è firmata da quattro
mesi, ma ieri fu detto all'usciere
dal notaio di farla eseguire."
"Ieri appena? Perché così tardi?"
"E che ne so io... Su, fate fagotto!"
"Ieri! E Louise non è venuta qui...
E dov'è allora? Che ne è di lei?"
continuò Morel, levando dal banco
una scatola di cartone piena di
bambagia
ed
accomodandovi
dentro le gioie. "Ma non si pensi a
questo, avrò tempo di pensarci in
carcere."
"Lesto! Fate il vostro fagotto e
vestitevi."
"Non ho di che far fagotti; ho
solamente questi diamanti che
consegnerò alla cancelleria."
"Dunque vestitevi!"
"Non ho altri panni che questi."
"Verreste fuori con questi stracci?"
disse Bourdin.
"Vi farò vergognare di certo"
rispose con amarezza Morel.
"No, si va in carrozza" replicò
Malicorne.
"Babbo! La mamma ti chiama"
fece uno dei ragazzi.
"Ascoltatemi" disse sottovoce
Morel ad uno degli agenti "non
siate
disumano,
accordatemi
un'ultima
grazia...
Non
ho
coraggio di dire addio alla mia
sposa ed alle mie creature, mi si
spezzerebbe il cuore... Se vedono
che mi conducete via mi
correranno appresso...
Vorrei evitare questo dolore.
Ve ne supplico, ditemi forte che
tornerete fra tre o quattro giorni, e
fingete
d'andarvene,
ed
attendetemi al piano di sotto.
Uscirò dopo cinque minuti, e
risparmierò quell'addio... Non ci
resisterei,
ve
l'assicuro,
impazzirei... Anche prima c'è
mancato poco..."
"Sì, bello, vorreste farla a me"
disse Malicorne "intendereste
scappare, vecchio buffone!"
"Dio, Dio!" esclamò Morel, con
dolorosa indignazione.
"Non credo che ci sia malizia"
disse adagio Bourdin al collega.
"Facciamo quel che domanda,
se no non usciremo più di qui. Io
rimarrò fuori, alla porta; non ci
sono altre uscite dalla soffitta, non
ci potrà sfuggire."
"Bene, ma il diavolo se lo porti...
Che
pitocco,
che
pitocco!"
Malicorne si rivolse a Morel a voce
bassa: "Siamo d'accordo, vi
aspetteremo al quarto piano... Fate
le vostre cose e sbrighiamoci!"
"Vi ringrazio" disse l'operaio.
"Va bene" soggiunse Bourdin
più forte, guardando l'operaio con
aria d'intesa "giacché è così, e
promettete di pagare, vi lasciamo:
saremo qui fra cinque o sei giorni.
Ma allora siate puntuale."
"Sì, signori, allora spero di poter
pagare" rispose l'incisore.
Gli
sbirri
si
ritirarono.
Tortillard, nel timore di essere
sorpreso, era sparito per le scale
nel momento in cui le guardie
giudiziarie abbandonavano la
soffitta.
"Signora Madeleine, avete
inteso?" disse Rigolette alla
moglie dell'operaio per toglierla
dalla sua lugubre contemplazione.
"Lasciano qui vostro marito, quei
due se ne sono andati."
"Mamma, lo senti? Non portano
via il babbo" aggiunse il maggiore
dei maschi.
"Morel, ascoltami... Piglia uno
di quei grossi diamanti, nessuno
lo saprà, e saremo salvi" mormorò
Madeleine nel suo delirio. "La
nostra Adèle non avrà più freddo,
non sarà più morta." L'operaio,
approfittando di un istante in cui
non lo guardavano, uscì con
precauzione.
Lo sbirro lo attendeva al
pianerottolo a cui pure il tetto
faceva da soffitto.
Su questo dava la porta dello
stanzino accanto alla soffitta di
Morel in cui il signor Pipelet
serbava le sue provviste di cuoio.
Il degno portinaio chiamava quel
bugigattolo il suo "palchetto
all'opera" perché, mediante un
buco fatto nel tramezzo, era
spesso spettatore di ciò che
succedeva dai Morel. L'usciere
osservò quella porta, e per un
momento pensò che il suo
carcerato avesse contato su quel
mezzo per fuggire o nascondersi.
"Animo,
camminiamo,
canaglia!" disse, mettendo il piede
sul primo gradino, e facendo
cenno all'operaio di seguirlo.
"Un altro minuto, per favore"
pregò Morel.
S'inginocchiò in terra, da una
delle fessure dell'uscio diede un
ultimo sguardo alla sua famiglia e
disse, versando amare lacrime:
"Addio, miseri figli miei, addio,
mia misera moglie, addio!"
"Insomma, la finite con queste
antifone?"
disse
brutalmente
Bourdin.
"Ha ragione Malicorne: che
pitocco, che pitocco!" Morel si
alzò.
Stava per seguire l'agente,
quando udì per la scala: "Padre
mio, padre mio!"
"Louise"
esclamò
l'artigiano,
levando le mani al cielo. "Potrò
abbracciarti prima di partire."
"Grazie, mio Dio! Sono arrivata in
tempo"
proseguì
la
voce,
avvicinandosi.
E si sentivano i passi salire
precipitosamente.
"State quieta, ragazza mia"
diceva un'altra voce ansante,
affannosa, da un punto più basso.
"Se occorre, mi pianto nell'andito
con il mio vecchio cucco, e con la
granata, e non usciranno di qui
sinché abbiate parlato, quei
manigoldi!" Era la Pipelet, che,
meno svelta di Louise, saliva
dietro a lei lentamente.
Dopo pochi minuti la figlia di
Morel era fra le braccia del padre.
"Sei tu, Louise! Cara, buona
Louise!" diceva Morel piangendo.
"Oh come sei pallida! Dio santo,
che hai?"
"Nulla, nulla" quella rispose,
balbettando. "Ho corso così tanto!
Ecco il denaro..."
"Come?"
"Sei libero!"
"Dunque sapevi?"
"Sì, sì... Ecco, signori, pigliate il
denaro" disse la ragazza, e diede a
Malicorne un pugno d'oro.
"Ma quel denaro, Louise, quel
denaro?"
"Saprai tutto, sta' tranquillo...
Vieni a riconfortare la mia
mamma."
"No, no, ora no" disse Morel,
mettendosi davanti alla porta, e
pensando
alla
morte
della
bambina, ancora ignota a Louise.
"Aspetta, ho da parlarti... Ma quel
denaro?"
"Un momento!" fece Malicorne,
che terminava di contare le
monete e se le poneva in
saccoccia.
"Settantaquattro,
settantacinque... Sono mille e
trecento franchi... Non avete altro,
piccina?"
"Ma tu devi soltanto mille e
trecento franchi!" disse Louise
meravigliata, rivolgendosi a suo
padre.
"Sì" rispose Morel.
"Un momento" replicò l'altro.
"Il debito è di mille e trecento, sta
bene, e così il debito è pagato. E
però le spese? Senza quelle
dell'arresto, arrivano già a mille e
centoquaranta franchi."
"Oh, mio Dio, mio Dio" esclamò
Louise "credevo che fossero mille
e trecento... Ma, signori, più tardi
vi sarà dato il rimanente... Questo
è un buon acconto, non è vero,
babbo?"
"Più
tardi?
Ottimamente,
portatelo in cancelleria, e vostro
padre sarà liberato. Su, marcia!"
"Lo conducete via?"
"Sicuro! È un acconto, paghi il
resto, e sarà libero. Vai avanti,
Bourdin."
"Grazia!
grazia!"
supplicava
Louise.
"Ah,
che
tormento!
Ricominciano i piagnistei... È roba
da
far
sudare
nel
cuore
dell'inverno, parola d'onore!" disse
lo sbirro brutalmente.
Ed avanzandosi verso Morel:
"Animo, camminate, e subito! Se
no, vi piglio per il collo, e vi faccio
scendere al volo... È una bella
seccatura!"
"Oh, povero padre mio! Ed io che
lo credevo salvo!" disse la giovane,
oppressa, annichilita.
"No, no, Dio non è giusto!"
gridò Morel con voce disperata e
battendo i piedi con rabbia.
"Sì, Dio è giusto! Ed ha sempre
pietà delle persone oneste che
soffrono." Così gridò una voce
dolce ad un tempo e sonora. E
comparve Rodolphe sull'uscio
dello stanzino, d'onde, non veduto,
aveva seguito alcune scene di
quelle che qui narriamo. Era
smorto in viso e commosso.
Alla repentina comparsa gli
sbirri retrocedettero. Morel e la
figlia guardarono attoniti quello
sconosciuto.
Rodolphe, levandosi dalla tasca
del panciotto un pacco di biglietti
di banca piegati, ne prese tre, li
presentò a Malicorne, e gli disse:
"Ecco duemila e cinquecento
franchi; rendete a questa ragazza il
denaro che vi ha dato." L'agente,
sempre più stupefatto, pigliò i
soldi, indeciso, li esaminò per ogni
verso, li voltò, li rivoltò, ed alla
fine li mise in tasca.
Tornando di nuovo grossolano
e altezzoso man mano che
svanivano lo stupore e lo
spavento, squadrò da cima a fondo
Rodolphe, e gli disse: "Sono buoni
i vostri soldi, ma in che modo
avete nelle vostre mani una tal
somma?
È
proprio
vostra
almeno?" Rodolphe era vestito
con grande semplicità, e tutto
coperto di polvere per essersi
trattenuto nel bugigattolo di
Pipelet.
"Ti ho detto di restituire
quell'oro a questa fanciulla!"
replicò con tono duro e imperioso.
""Ti ho detto"?! E come osi
darmi del tu?" urlò lo sgherro,
facendosi incontro a Rodolphe in
atto minaccioso.
"Quell'oro!
quell'oro!"
continuò il principe, e strinse così
forte il pugno a Malicorne, che
questo si curvò a così ferrea
pressione.
"Ahi,
mi
fate
male...
Lasciatemi!"
"Rendi dunque l'oro! Sei pagato,
vattene, senza dire insolenze, o ti
faccio fare un volo dalla scala."
"Ebbene! Ecco il denaro." E
Malicorne porse a Louise il suo
oro.
"Ma voi non mi date del tu, e
non ne approfittate perché siete
più robusto di me" soggiunse,
volgendosi a Rodolphe.
"È vero, sì... Chi siete voi, per
darvi tante arie?" domandò
Bourdin, riparandosi pera dietro il
collega. "Chi siete?"
"Chi è, brutti ceffi? È il mio
inquilino, il re degli inquilini,
sbirraglia! canaglia!" strillò la
Pipelet, arrivando dalle scale
ansante, con la solita parrucca
tonda fuori posto.
Aveva in mano un tegame
pieno di minestra ancora fumante,
che, caritatevolmente, portava ai
Morel.
"Cosa vuole quella vecchia
befana?" fece Bourdin.
"Ehi, se offendete vi salto
addosso e vi mordo" esclamò la
portinaia.
"E poi il mio re degli inquilini
vi scaraventa giù per la scala,
come ha detto. E io vi spazzerò
con la scopa come un mucchio di
sudiciume, quali siete!"
"Questa è capace di metter tutto il
caseggiato sottosopra contro di
noi. Siamo impiegati, abbiamo
fatto il nostro dovere, andiamo
via!" osservò Bourdin a Malicorne.
"Ecco i vostri scartafacci!"
disse quest'ultimo, gettando il
fascio dei documenti processuali
ai piedi di Morel.
"Raccoglili da terra!" gli gridò
Rodolphe. "Sei pagato per trattare
con rispetto la gente!" E,
fermando lo sbirro con una mano,
con l'altra gli additava i fogli sparsi
a terra.
Accorgendosi, da quella nuova
e terribile stretta, che non poteva
contrastare
con
un
simile
avversario, l'agente si chinò
borbottando, riprese i documenti e
li consegnò a Morel, che credeva
di sognare.
"E voi, benché abbiate il pugno
d'un facchino, badate a non cader
mai sotto le nostre unghie!" disse
Malicorne.
E, minacciando con il pugno il
principe, in un salto scese dieci
scalini, seguito da Bourdin, che si
guardava indietro con timore.
La Pipelet si accinse a
vendicare Rodolphe dalle minacce
dello sbirro; guardò il tegame con
aria ispirata, ed eroicamente
esclamò: "I debiti di Morel sono
saldati. Avranno da mangiare, non
hanno più bisogno della mia
pappa. Bada là, di sotto!" E,
chinatasi sulla ringhiera, vuotò
tutta la brodaglia del tegame sui
due agenti, che in quel momento
giungevano al primo piano.
"E allegri eh! allegri!" urlò poi.
"Eccoli bagnati e molli come una
zuppa, anzi due zuppe! Ah, ah, ah,
è proprio da ridere!"
"Corpo di mille e mille bombe!"
urlò Malicorne colpito sulle spalle
da quella pioggia di nuovo genere.
"Volete badare a quel che fate, là
in alto, vecchia del demonio!"
"Alfred!" strillò la Pipelet, con
voce acuta da forare il timpano ad
un sordo. "Alfred, dagli addosso,
cucco mio! Volevano fare i beduini
con la tua Anastasie, quei due
indecenti... Mi hanno sconvolta.
Dagli addosso con la scopa! Di'
all'ostricaia e al vinaio che ti diano
una mano. A voi, a voi, a voi! Via il
gatto! Ladri!... ladri!... aiuto!...
Kiss!... kiss... paff!... puff!... Dagli
addosso, il mio vecchio cucco!
Bum!... bum!..." E, per chiudere in
modo
adeguato
queste
imprecazioni,
che
aveva
accompagnate con uno scalpitare
furibondo, la portinaia, trasportata
dal piacere della vittoria, scagliò
giù il tegame a terra, che,
frantumandosi
con
orribile
fracasso nell'istante in cui i due
sbirri sbalorditi dalle sue strida
scendevano,
o
piuttosto
ruzzolavano, gli ultimi gradini,
accrebbe
prodigiosamente
lo
spavento.
"E allegri, eh!" esclamò allora
Anastasie, dando in uno scoppio di
risa, ed incrociando le braccia in
segno di trionfo.
Mentre
la
portinaia
perseguitava gli sgherri con
ingiurie e fischi, Morel si era
gettato ai piedi di Rodolphe.
"Ah signore, voi ci salvate la
vita! A chi siamo debitori di un
soccorso così inaspettato?"
"A Dio! Egli ha sempre pietà della
gente onesta!"
2.
Rigolette.
Louise, la figlia dell'incisore,
era di una bellezza notevole.
Alta e svelta, somigliava
all'antica immagine di Venere per
la regolarità dei lineamenti, e di
Diana cacciatrice per l'eleganza.
Malgrado il colore bruno della
carnagione, e il rosa scuro delle
mani, che erano bellissime ma
indurite dai lavori domestici,
malgrado gli abiti più che umili,
questa ragazza aveva un aspetto di
elevata nobiltà che l'operaio nella
sua
paterna
ammirazione
chiamava "aria di principessa".
Noi non ci proveremo a
descrivere la riconoscenza, lo
stupore e la gioia della famiglia,
strappata d'un tratto ad una sorte
spaventevole.
In quell'ebbrezza subitanea fu
per un momento dimenticata la
morte della bambina. Rodolphe
notò soltanto l'estremo pallore di
Louise, ed i cupi pensieri che
sembrava la avvilissero ancora,
nonostante la liberazione del
padre. Volendo tranquillizzare
interamente i Morel sulla loro
futura esistenza, e spiegare un
atto di generosità che poteva
compromettere il suo incognito,
egli disse all'artigiano, dopo averlo
tratto in disparte sul pianerottolo,
e mentre Rigolette preparava
Louise alla notizia della triste fine
della sorellina: "Ieri l'altro in
mattinata venne da voi una
signora?"
"Sì, e parve molto dolente dello
stato in cui ci vide."
"Dopo Dio, dovete ringraziare lei,
e non me."
"Davvero, signore, quella giovane
signora..."
"È la vostra benefattrice. Io ho
portato spesso delle stoffe in casa
sua: ieri l'altro, venendo qui a
prendere a pigione una stanza al
quarto piano, seppi dalla portinaia
la vostra crudele situazione.
Contando sulla carità di quella
signora, corsi da lei. L'altro ieri lei
era qui appunto per prendere
conoscenza delle vostre sventure,
e ne fu molto commossa; ma
siccome queste potrebbero essere
effetto di mala condotta, ha
incaricato me di ottenere, il più
presto possibile, informazioni a
vostro
riguardo,
desiderando
aiutarvi in proporzione alla vostra
probità."
"Buona, eccellente dama, avevo
ragione io di dire..."
"Di dire a Madeleine: "Se i ricchi
sapessero!" non è così?"
"Come, signore, conoscete il nome
di mia moglie? E chi vi ha detto
che?..."
"Da stamani alle sei" interruppe
Rodolphe "sono nascosto nello
stanzino attiguo alla vostra
soffitta."
"Voi, signore?"
"Ed ho udito tutto, ottimo ed
onesto uomo!"
"Mio Dio, ma come eravate colà?"
"O in bene o in male, non potevo
essere informato meglio che da
voi stesso... Ho voluto vedere,
udire ogni cosa a vostra insaputa.
Il portinaio mi aveva parlato di
quel bugigattolo, proponendomi di
cedermelo per riporvi la legna.
Questa mattina gli ho chiesto di
visitarlo, ci sono rimasto un'ora,
ed ho potuto convincermi che non
c'è un carattere più probo, più
nobile e più coraggiosamente
rassegnato del vostro."
"Dio buono, non c'è gran merito:
sono nato così, e non potrei fare
altrimenti..."
"Lo so, e quindi non vi lodo, ma vi
apprezzo... Ero sul punto di uscire
da quel camerino per liberarvi
dagli uscieri, quando ho inteso la
voce di vostra figlia. Ho voluto
lasciarle la soddisfazione di
salvarvi... Disgraziatamente, la
rapacità delle guardie giudiziarie
le ha tolto questo piacere, ed
allora io sono comparso. Avevo
riscosso ieri alcune somme che mi
erano dovute, e sono stato in
grado di fare un esborso per la
vostra benefattrice, pagando per
voi quel malaugurato debito. Ma
nella vostra disgrazia siete stato
così grande, onesto, degno, che
l'interesse che si ha per voi, e di
cui siete meritevole, non si
fermerà qui. Io posso, in nome del
vostro angelo salvatore, garantirvi
un avvenire tranquillo, felice, per
voi ed i vostri."
"Possibile? Ma, signore, almeno il
suo nome, il nome di quell'angelo,
come lo chiamate!"
"Sì, è un angelo. Ed avevate
ragione anche quando diceste che,
grandi e piccoli, ciascuno aveva i
suoi guai."
"Che? Quella signora forse è
sventurata?"
"E chi non ha le sue pene? Ma non
vedo motivo di tacervi il suo
nome. Ebbene, si chiama..."
Rodolphe, riflettendo che la
Pipelet non ignorava esser venuta
la signora d'Harville nel caseggiato
a domandare del Comandante,
ebbe timore delle ciarle della
portinaia e, dopo breve silenzio,
soggiunse: "Vi dirò il nome, ad un
patto..."
"Oh, dite pure, signore!"
"Che a nessuno ripetiate quel
nome. Mi capite?... A nessuno..."
"Oh, ve lo giuro... Ma non potrei
almeno
ringraziarla,
quella
Provvidenza dei miseri?"
"Lo domanderò alla signora
d'Harville;
non
dubito
che
acconsentirà."
"Quella signora è dunque...?"
"La marchesa d'Harville."
"Oh non scorderò mai questo
nome. Sarà l'oggetto della mia
adorazione... Quando penso che
per grazia sua mia moglie ed i miei
figli sono salvi... Salvi? Ah, non
tutti, non tutti... La mia povera
Adèle, non la rivedremo più!
Ohimè, bisogna dire che un giorno
l'avremmo perduta, che era già
molto malata..." E l'operaio si
asciugava le lacrime.
"In quanto ai funerali per la
sventurata bambina, se date retta
a me, ecco ciò che dovete fare... Io
non occupo ancora la mia camera;
è grande, sana, ariosa; c'è già un
letto, e vi si trasporterà quel che è
necessario perché voi e la vostra
famiglia possiate sistemarvici,
intanto che madama d'Harville
trovi d'accasarvi in modo migliore.
Il corpo della vostra creatura
resterà nella soffitta, dove sarà
stanotte vegliato e custodito da un
prete. Adesso io pregherò la
Pipelet di pigliarsi la cura di
queste dolorosissime cose."
"Ma, signore, privarvi della vostra
stanza! Oh, non potete farlo! Ora
che siamo tranquilli, che non ho
più paura d'andare in carcere, la
mia soffitta mi parrà un palazzo,
specialmente se ci rimane la mia
Louise per badare a tutto come un
tempo."
"La vostra Louise non vi lascerà
più. Dicevate che il vostro sogno
sarebbe di averla sempre vicina a
voi... Sarà anche meglio, sarà la
vostra ricompensa..."
"Oh Dio, e può esser vero? Mi
sembra un sogno. Non sono stato
mai devoto, ma una cosa come
questa, un tal soccorso della
Provvidenza, farebbe credere..."
"Credete
sempre!"
esortò
Rodolphe. "Che arrischia un
povero credendo?"
"È vero" rispose ingenuamente
Morel "che si rischia?"
"Se il dolore di un padre potesse
conoscere compensazioni, vi direi
che vi è tolta una figlia, ma l'altra
vi è restituita."
"È così! Adesso avremo la nostra
Louise."
"Accettate la mia stanza? Se no,
come farete con quella triste
vecchia folle? Pensate alla vostra
consorte, che ha già la testa tanto
debole...
Lasciarle,
per
ventiquattro ore, sotto gli occhi un
così lugubre spettacolo!"
"Voi riflettete a tutto. Oh, quanto
siete buono, signore!"
"Dovete ringraziare il vostro
angelo benefattore; la sua bontà è
quella che mi ispira. Io vi dico ciò
che lei vi direbbe... Approverà di
certo ciò che faccio... Sicché
accettate, siamo d'accordo. Ora,
ditemi: quel Jacques Ferrand?"
Una nube passò sulla fronte di
Morel.
"Questo Jacques Ferrand"
riprese Rodolphe "è proprio quel
Ferrand notaio che abita in rue du
Sentier?"(8) "Sì, signore. Lo
conoscete?" E Morel, preso di
nuovo dal timore per la sua
Louise, esclamò: "Ah, poiché lo
conoscete, dite, dite, ho forse torto
di detestarlo? Chissà se la mia
figliola, la mia Louise..." E non
potendo terminare, si coprì la
faccia con le mani.
Rodolphe lo comprese.
"La perfida condotta del notaio
deve mettervi tranquillo" disse "vi
faceva arrestare senza dubbio per
vendicarsi del disprezzo di vostra
figlia. Inoltre ho molti motivi per
ritenerlo un uomo disonesto. Se è
così" seguitò il principe dopo un
momento di silenzio "confidiamo
nella Provvidenza per punirlo."
"È molto ricco, e molto ipocrita,
signore."
"Voi eravate povero e disperato!
La Provvidenza vi è mancata?"
"No, mio Dio, non crediate che io
dica questo per ingratitudine."
"Un angelo salvatore è venuto
davanti a voi, un vendicatore
inesorabile forse coglierà il
notaio!" In quel momento uscì
dalla
soffitta
Rigolette,
asciugandosi gli occhi.
Rodolphe le disse: "Non è così,
vicina mia? Il signor Morel non
farà bene ad occupare con tutti i
suoi la mia stanza, intanto che il
suo protettore, di cui io sono
l'agente, e non altro, gli abbia
procurato
una
convenevole
abitazione?" Rigolette riguardò
Rodolphe con stupore.
"Come, signore! Sareste così
generoso?"
"Sì, ma ad un patto che dipende da
voi, vicina mia..."
"Oh, per tutto ciò che sta in me..."
"Avevo da regolare certi conti di
gran premura per il mio
principale, e qualcuno deve venire
tra poco a pigliarli... Le mie carte
sono giù.
Se, in qualità di vicina, mi
permetteste di fare questo lavoro
in casa vostra, in un angolo del
vostro tavolino, mentre voi
cucirete, ve ne sarò grato. Non vi
darei disturbo, ed i Morel
potrebbero subito, aiutati dai
coniugi Pipelet, venire da me."
"Se non c'è altro che questo, molto
volentieri. Tra vicini bisogna
aiutarsi. Voi ne date l'esempio con
quello che fate per il buon Morel.
Ai vostri ordini, signore."
"Chiamatemi vicino, se no, mi
metterei in soggezione, e non
oserei
approfittarne"
disse,
sorridendo, il principe.
"Oh, poco male! Posso ben
dirvi mio vicino, poiché lo siete."
"Babbo, mamma ti vuole... Vieni,
vieni!" disse uno dei ragazzi a
Morel, uscendo dalla soffitta.
"Andate, caro signor Morel.
Quando tutto sarà pronto, vi
faremo avvertire." L'operaio corse
in soffitta, anche per mettere al
corrente la moglie delle novità.
"Adesso, vicina mia" continuò
Rodolphe, rivolto a Rigolette "mi
occorre da voi un altro favore."
"Con tutto il cuore, se posso,
vicino."
"Voi dovete essere, ne sono certo,
una brava donna di casa. Si
tratterebbe di comprar subito
quanto è necessario perché i
Morel siano vestiti, alloggiati e
sistemati per bene nella mia
camera, dove non c'è, per ora, se
non la mia mobilia da scapolo (e
non è molta) che fu portata ieri.
Come faremo per procurarci
presto quel che desidero per
questa gente?" Rigolette rifletté
un istante, e rispose: "Tra meno di
due ore avrete ogni cosa, vestiti
belli e fatti, buoni e puliti,
biancheria ottima per tutti, due
lettini per i ragazzi, uno per la
nonna,
insomma
quel
che
occorre... Ma costerà molto, eh!"
"E quanto?"
"Almeno cinque o seicento
franchi."
"In tutto?"
"Eh sì! Vedete, ci vogliono molti
denari!"
disse
Rigolette,
spalancando
gli
occhi
e
tentennando il capo.
"E avremo tutto?"
"Tra un paio d'ore!"
"Ma dunque, vicina mia, siete una
fata?"
"Oh no, Dio buono, ci vuol poco...
Il Temple è a due passi, e ci
troverete quel che bramate."
"Il Temple?"
"Sì, il Temple."
"E che cos'è mai?"
"Non conoscete il Temple, vicino
mio?"
"No, vicina."
"Eppure è lì che la gente come me
e voi compra i suoi mobili e i suoi
vestiti, quando vuol risparmiare. È
meno caro che altrove ed è roba
buona."
"Davvero?"
"Lo credo! Ecco, supponiamo,
quanto vi costa il vostro
soprabito?"
"Ma
non
vi
saprei
dire
precisamente..."
"Come, vicino, non sapete quel
che vi costa il vostro soprabito?"
"Vi dirò, in confidenza, vicina, che
non compro io, sicché, capite, non
posso sapere..."
"Ah, vicino, mi pare non abbiate
molta cura dei vostri affari!"
"Ahimè, no, vicina."
"Dovete correggervi da questo
difetto, se volete che siamo amici.
E già mi accorgo che lo saremo...
Sembrate tanto buono! Vedrete
che non vi rincrescerà avermi per
vicina. Mi aiuterete, e vi aiuterò, si
è vicini per questo. Io avrò cura
della vostra biancheria, voi mi
darete una mano a dar la cera ai
mattoni della mia camera. Io sono
mattiniera, e vi sveglierò perché
non facciate troppo tardi a
bottega... Picchierò al vostro
tramezzo sinché mi direte:
"Buongiorno, vicina"."
"Siamo d'accordo: mi sveglierete,
vi occuperete della mia biancheria,
ed io vi darò la cera ai mattoni."
"E sarete più previdente?"
"Di sicuro!"
"E quando avrete da comprare
qualcosa andrete al Temple?
Perché, ecco, per esempio, questo
vestito vi costa ottanta franchi,
suppongo, ebbene al Temple lo
avreste avuto per trenta."
"Ma queste sono meraviglie!
Perciò credete che con cinque o
seicento franchi questi poveri
Morel?..."
"Sarebbero forniti di tutto, e
benissimo, e in fretta.
"Vicina mia, un'idea!"
"Sentiamo l'idea!"
"Ve n'intendete di oggetti di casa,
di masserizie?"
"Eh,
un
pochino"
rispose
Rigolette, con un certo amor
proprio.
"Vi darò il braccio, e andremo
al Temple a provveder tutto per i
Morel: si può?"
"Oh, che piacere, poveretti! Ma i
denari?"
"Ne ho."
"Cinquecento franchi?"
"Il protettore di Morel mi ha dato
carta bianca, e nulla risparmierò
perché quelle brave persone siano
sistemate nel modo migliore. Se
anche c'è qualche posto dove si
compri roba più bella che al
Temple..."
"Non c'è di meglio in nessun
posto. Là c'è ogni cosa pronta,
giubbette per i bambini, gonnelle
per la madre..."
"Andiamo dunque al Temple,
vicina..."
"Oh Dio, ma..."
"Che cosa?"
"Nulla. È che, vedete, il tempo è
tutto quel che io possiedo. Ne ho
già perso un bel po', correndo a
vegliare la povera Morel, e, capite,
un'ora da una parte, una dall'altra,
a poco a poco si fa una giornata!
una giornata sono trenta soldi, e i
giorni che non si guadagna,
bisogna campare egualmente... Ma
basta. Che importa? Mi rifarò
nella notte. E poi, sì, i divertimenti
sono così rari, e non mi par vero di
godermi questo. Mi parrà d'esser
ricca, ricchissima, come
se
comprassi con i miei quattrini
quelle belle cose per i disgraziati
Morel. Orsù, lasciatemi il tempo di
mettere lo scialle e la cuffietta, e
sono con voi, vicino."
"Se non avete da mettervi altro,
vicina, volete che intanto io porti
da voi le mie carte?"
"Volentieri, così vedrete la mia
camera" disse Rigolette, con
qualche orgoglio. "È già rassettata,
e questo vi prova che mi alzo
presto, e che se siete dormiglione
e infingardo, peggio per voi: vi
considererò un pessimo vicino." E
Rigolette, vispa come un uccello,
scese la scala, seguita da
Rodolphe, che andò nella propria
stanza a spazzolarsi dalla polvere
presa nel bugigattolo di Pipelet.
Spiegheremo in seguito perché
Rodolphe
non
era
ancora
informato del rapimento di Fleurde-Marie, che aveva avuto luogo il
giorno precedente al podere di
Bouqueval, e perché non era
venuto a visitare la famiglia Morel
l'indomani dell'abboccamento con
la signora d'Harville. In più
rammentiamo al lettore che
essendo Rigolette l'unica a
conoscere il nuovo indirizzo di
François Germain, figlio della
signora Georges, Rodolphe aveva
grande interesse a penetrare un
così importante segreto.
La passeggiata al Temple da lui
proposta alla sarta lo avrebbe fatto
entrare in confidenza, e lo avrebbe
distratto
dai
tristi
pensieri
suscitati
dalla
morte
della
bambina di Morel. La figlia che
Rodolphe ancora piangeva doveva
esser morta all'incirca alla stessa
età. A quell'età Fleur-de-Marie era
stata consegnata alla Chouette
dalla donna di servizio del notaio
Jacques Ferrand.
Diremo in seguito a quale
scopo ed in quale circostanza.
Rodolphe, munito di un
enorme pacco d'incartamenti,
tanto per dimostrare di aver tanto
lavoro da fare, entrò nella stanza
di Rigolette.
Rigolette aveva pressappoco
l'età della Goualeuse, sua amica di
prigione. C'era tra queste due
giovani la differenza che c'è fra il
riso ed il pianto; tra la lieta
noncuranza e la meditazione
malinconica; tra la più audace
imprevidenza e un cupo ed
incessante pensiero dell'avvenire;
tra un'indole delicata, squisita,
nobile, poetica, dolorosamente
sensibile, alterata insanabilmente
dal rimorso, ed un'indole allegra,
vivace, contenta, variabile, quasi
non riflessiva, ancorché buona e
compassionevole.
Rigolette non provava altre
pene che quelle altrui, ed a queste
simpatizzava con tutta la sua
forza, e si dedicava corpo e anima
a quelli che pativano; ma non ci
pensava più appena aveva voltato
le spalle, come suol dirsi.
Spesso
interrompeva
una
grande
risata
per
piangere
sinceramente, e dal piangere
passava al riso per un nonnulla.
Da vera parigina, Rigolette
preferiva il tumulto alla calma, il
moto al riposo, la sonora armonia
di un'orchestra durante le feste da
ballo della Chartreuse o del
Colisée al lieve mormorio del
vento, delle acque e delle foglie; il
frastuono delle strade di Parigi,
alla solitudine delle campagne; il
bagliore dei fuochi artificiali, lo
sfavillare dei razzi, il fracasso delle
bombe, alla serenità di una notte
stellata fra l'ombra ed il silenzio.
Ah, sì, la buona ragazza amava più
la mota nera delle vie della
capitale che la verzura dei prati; il
lastrico fangoso o riarso di quelle,
che la fresca e morbida erbetta dei
boschi cosparsi di viole; la polvere
che soffoca alle barriere o sui
boulevard, che il movimento delle
spighe dorate, lo scarlatto dei
rosolacci e l'azzurro dei fiordalisi.
Rigolette non lasciava mai la sua
camera se non la domenica, e poi
la mattina degli altri giorni per
fare la sua provvista di insalata, di
pane, di latte e di miglio per sé ed i
suoi due uccellini, come già aveva
detto la Pipelet. Ma viveva a Parigi
per amore di Parigi, e si sarebbe
disperata se avesse dovuto stare
lontano dalla capitale.
Un'altra anomalia! Nonostante
questa inclinazione ai piaceri della
grande città; nonostante la libertà,
o piuttosto l'abbandono in cui si
trovava essendo sola al mondo,
nonostante
l'economia
strettissima
che
le
toccava
osservare nelle minime spese per
campare con circa un franco e
mezzo al giorno; nonostante il più
grazioso, vivace e adorabile visetto
che si potesse immaginare,
Rigolette non si sceglieva mai gli
innamorati (non diremo gli
amanti, giacché l'avvenire proverà
che si devono considerare le
chiacchiere della Pipelet riguardo
ai vicini della sarta come calunnie
o discorsi imprudenti), Rigolette,
diciamo, non si sceglieva dunque
gli innamorati se non della sua
classe sociale, vale a dire, non
altro che i vicini, e questa
eguaglianza, calcolata con il metro
dell'affitto, era molto concreta.
Un opulento e celebre artista,
un moderno Raffaello, di cui
Cabrion era un aiutante, aveva
visto un ritratto di Rigolette.
Sorpreso dai vaghi lineamenti
della
fanciulla,
il
maestro
sostenne che l'alunno aveva
poetizzato, idealizzato il modello.
Cabrion, che andava superbo della
gentile coinquilina, propose al
maestro di fargliela incontrare una
domenica alla festa da ballo del
Romitorio. Il Raffaello, incantato
da una così avvenente figura, fece
ogni sforzo per rubare il posto al
suo Giulio Romano. Le furono
avanzate le offerte più splendide e
seducenti, e lei eroicamente le
ricusò; mentre la domenica
accettava, senza cerimonie né
scrupoli, dal coinquilino un
pranzetto al Méridien (rinomata
osteria sul boulevard du Temple),
ed un posto in galleria al teatrino
della Gaité o dell'Ambigu. Tali atti
d'intimità
potevano
comprometterla,
potevano
suscitare singolari sospetti sulla
virtù di Rigolette. Senza ancora
spiegarci a questo proposito, noi
osserveremo
che
ci
sono
argomenti
molto
delicati
e
comportamenti che è meglio
lasciare nel vago.
Poche parole sull'aspetto di
Rigolette, e poi introdurremo
Rodolphe nella camera della sua
vicina.
Rigolette aveva appena diciotto
anni; statura media, ed anzi
piccola,
ma
formata
graziosamente, era rotondetta con
una certa voluttà nei movimenti e
così bene il suo corpo morbido ed
elastico corrispondeva al suo
passo sciolto, eppure qualche volta
furtivo, che sembrava perfetta; un
pollice di altezza avrebbe forse
pregiudicato un tantino l'insieme
leggiadrissimo; il moto dei piedini,
sempre calzati a dovere con gli
stivaletti di cachemire nero di
suola un poco grossa, rammentava
il portamento snello, un po' vano,
eppure riservato e guardingo della
quaglia o della cutrettola. Non
pareva che camminasse; toccava
appena il pavimento, scorreva
rapidamente, quasi si tenesse lieve
a galla.
Questa andatura, particolare
alle piccole artigiane, agile,
attraente ed alquanto stizzosa,
deve
senza
alcun
dubbio
attribuirsi a tre cause: al loro
desiderio di comparire leggiadre;
al timore di un'ammirazione che si
spieghi con atti un po' troppo
espressivi; alla brama che hanno
sempre di perdere meno tempo
che
possono
nelle
loro
passeggiate.
Rodolphe non aveva visto
Rigolette se non alla scarsa luce
della soffitta di Morel, o sopra un
pianerottolo non meno oscuro:
perciò lo sorprese l'aspetto di
questa ragazza quando entrò piano
piano nella sua stanza, rischiarata
da due larghe finestre. Stette un
momento immobile a contemplare
il graziosissimo quadro che aveva
sotto gli occhi.
Rigolette, in piedi davanti ad
uno specchio che era sul
caminetto, terminava di annodarsi
sotto il mento i lacci di una
cuffietta di tulle ricamato, adorna
di nastri color ciliegia.
Quella
cuffia,
stretta
e
accomodata
molto
indietro,
lasciava scoperte due larghe e folte
ciocche di capelli lisci, brillanti
come specchi, che le cadevano
sulla fronte. Le sopracciglia sottili
sembravano
segnate
con
l'inchiostro,
e
venivano
ad
arrotondarsi sopra un paio d'occhi
grandi, neri e vispi. Le gote,
pienotte e dure, erano fresche a
toccarsi, come una pesca colorita,
resa molle dalla fredda rugiada del
mattino. Il nasino in su, furbetto,
sfacciatello, avrebbe fatto la
fortuna di una servetta o di una
cameriera! Sulla bocca, piuttosto
grande, con le labbra rosee e
umide, e i denti piccoli, bianchi,
stretti, lucenti, il suo sorriso aveva
come un lampo di dileggio. Di tre
vaghe fossette che davano una
grazia
maliziosa
alla
sua
fisionomia, due stavano sulle
guance, l'altra sul mento, proprio
vicino a un segno di bellezza, cioè
un neo color dell'ebano, in
posizione strategica all'angolo
della bocca.
Tra il camicino guarnito
all'angolo ed il fondo della cuffia,
increspato con un nastro rosso, si
scorgeva un ciuffo di bei capelli
rialzati con tanta maestria che la
radice di essi appariva nera e
pulita come se fosse stata dipinta
sull'avorio del perfettissimo collo.
Una giubba di merinos color d'uva
passa, con la vita liscia e le
maniche attillate, fatta con gran
premura da Rigolette, faceva
risaltare un corpo così sottile e
snello che la signorina non era
mai costretta a portare il busto.
Un'agilità,
una
disinvoltura
veramente insolita in qualunque
movimento delle spalle e del petto
ricordava l'ondeggiare delle gatte.
Figuratevi un vestito bene stretto
sulle forme rotonde e lisce come il
marmo, e converrete che Rigolette
poteva bene fare a meno di
quell'oggetto
accessorio
dell'abbigliamento cui poc'anzi
accennavamo. La cintura di un
cortissimo grembiale di levantina
verde cupo le attorniava la vita,
che con le dieci dita si poteva
stringere tutta.
Credendo di essere sola
(giacché Rodolphe se ne stava
tuttora sull'uscio immobile e non
veduto), Rigolette, dopo essersi
con il rovescio della mano, piccola,
bianca e pulitissima, distese le
trecce, posò il piede sopra una
seggiola, e si chinò ad affibbiarsi la
stringa dello stivaletto. E questo
gesto non poteva eseguirlo senza
esporre allo sguardo curioso di
Rodolphe l'orlo di una calza di
cotone simile alla neve, e la metà
di
una
gamba
di
fattura
ammirabile.
Dalla minuta descrizione che
abbiamo dato del suo abito, è
facile indovinare che l'artigianella
aveva scelto la cuffietta più bella
ed il miglior grembiule per far
onore al vicino nella visita che
entrambi si accingevano a fare al
Temple.
Lei trovava molto di suo genio
il supposto commesso di bottega,
la cui faccia, al tempo stesso
buona, altera e ardita, le piaceva
assai; e poi egli si mostrava tanto
compassionevole verso i Morel,
cedendo ad essi generosamente la
stanza, che, per questa prova di
buon cuore e forse anche per
l'amabilità del suo aspetto,
Rodolphe,
senza
neppure
immaginarlo, aveva fatto passi di
gigante nell'acquistarsi la fiducia
della nostra lavorante. E infatti,
conformemente alle sue idee
pratiche
sopra
l'intimità
obbligatoria e i doveri scambievoli
che
impone
il
vicinato,
schiettamente
si
stimava
fortunata che un inquilino della
specie
di
Rodolphe
fosse
subentrato al viaggiatore di
commercio, a Cabrion ed a
François
Germain;
mentre
cominciava a pensare che la
camera contigua rimasta vacante
già da un pezzo chissà se sarebbe
stata
occupata,
e
temeva
soprattutto di vederla occupare da
qualche malfattore o da qualche
sfacciato bellimbusto.
Rodolphe approfittava della
sua posizione, che lo rendeva
invisibile, per volgere ansioso lo
sguardo in quell'abitazione, che gli
sembrava superiore anche agli
encomi della Pipelet per quanto
riguardava l'estrema pulizia del
ristrettissimo alloggio di Rigolette.
E nulla può dirsi di più
grazioso e meglio sistemato di
quella camerina. Una tappezzeria
di carta grigia a rappe verdi
copriva le pareti; il pavimento,
color rosso acceso, luccicava come
uno specchio; una stufa di terra
bianca era posta dentro al
caminetto, dove si vedevano in
simmetria molti pezzi di legna
tagliati corti e minuti.
Sul caminetto di pietra, si
vedevano due vasi di fiori ordinari
tutti di un verde smeraldo, vasi
che in tutta la bella stagione erano
pieni sempre di fiori di campo, ma
profumati; un piccolo cassettino di
bosso, con dentro un orologio
d'argento, faceva le veci di
pendola; da una parte una bugia di
rame, risplendente come l'oro, con
un pezzetto di cerino; dall'altra,
non meno risplendente, una di
quelle lampade formate con un
cilindro ed un tettino di ottone
sopra un gambo di acciaio, e con il
piede di piombo; e sopra tutto
questo, uno specchio grande e
quadro con la cornice di legno
nero. Le tendine di tela grigia e
verde, con in fondo una frangia di
lana, tagliate e cucite da Rigolette,
e da lei stessa montate su
sottilissimi ferri, addobbavano le
finestre ed anche il letto su cui
stava una trapunta consimile. Due
comodini a vetri, posti da ogni lato
dell'alcova, contenevano senza
dubbio gli utensili di casa, il
fornello, la fonte, la scopa,
eccetera, poiché nessuno di questi
oggetti guastava l'elegantissimo
aspetto
della
camera.
Un
cassettone di noce ben venato, ben
lustro, le sedie dello stesso genere,
una gran tavola per lavorare e
stirare, con sopra una di quelle
tovaglie di lana verde che si
trovano talvolta nelle case dei
contadini, una poltrona di paglia
con uno sgabellino da piedi
uguale, solito seggio della vezzosa
padroncina, componevano tutta la
mobilia. E finalmente, nel vano di
una finestra, la gabbia dei due
canarini, commensali fedeli della
Rigolette. Per una di quelle idee
industriose che vengono soltanto
in testa ai poveri, questa gabbia
era posta in mezzo a una gran
cassa di legno fonda mezzo
braccio, collocata sopra una
tavola; e quella cassa, chiamata da
Rigolette il giardino dei suoi
uccelli, era piena di terra, cosparsa
di muschio durante l'inverno, e
nella primavera vi si seminavano
erbette e fiorellini.
Rodolphe
considerava
la
dimora della ragazza con vero
interesse, e comprendeva che lei
dovesse essere dell'umore più
giocondo. Si figurava quella
solitudine divagata alquanto dal
gorgheggio dei canarini e dal canto
della fanciulla. Nell'estate, certo,
lei cuciva accanto alla finestra
aperta, mezzo nascosta da una
tendina verdeggiante di piselli
odorosi, di nasturzi color arancio e
di convolvoli bianchi e turchini; e
d'inverno vegliava accosto alla
stufa, al dolce chiarore della sua
lampada. Però ogni domenica si
distraeva da quella vita laboriosa
mediante una buona giornata di
divertimento, insieme con un
giovane
vicino,
allegro,
spensierato, innamorato come lei.
(Poiché allora Rodolphe non aveva
ragione di credere nella grande
virtù di Rigolette.) Il lunedì
riprendeva
i
suoi
lavori,
riflettendo sui piaceri goduti e su
quelli avvenire.
Rodolphe compre