IL RECESSO DEL SOCIO DI S.R.L. 22 maggio 2014

IL RECESSO DEL SOCIO DI S.R.L.
Marco Maltoni
1. Funzione del recesso nella società a responsabilità limitata e impostazione del lavoro.
Le pagine seguenti sono alimentate dall’adesione alla tesi per la quale il recesso identifica una
tecnica di disinvestimento1: svolge quindi la funzione di consentire al singolo socio, al verificarsi di
determinate condizioni legali o statutarie, di ottenere la liquidazione anticipata della quota.
In tal senso agisce come diritto2, al punto che, se non si riescono a reperire le risorse patrimoniali
per soddisfare l’istanza di disinvestimento individuale, le alternative sono due: o si rimuove, se
possibile, la ragione fattuale che ne costituisce il presupposto (revoca della delibera), o si procede
alla distribuzione integrale a favore di tutti gli investitori di capitale di rischio (soci) dell’intero
patrimonio netto residuo una volta soddisfatte le ragioni degli investitori di capitale di credito al
termine dell’ordinario procedimento di liquidazione della società (scioglimento della società ai
sensi dell’ultimo comma dell’art.2473 c.c.).
Per tale motivo, ma solo per tale motivo, si condivide l’idea per la quale tramite il recesso si
fornisce al socio “uno strumento di contrattazione con altri soci e con la maggioranza della
società”3, un mezzo “per “costringere” la maggioranza a negoziare con lui anche le misure in
discussione”4, mediante un’attenta valutazione dei costi e benefici “concernenti una decisione che
vede contrapposti diversi soci”5: corollari applicativi, conseguenze, della funzione di
disinvestimento che svolge il diritto di recesso, nell’ambito di, ed in adesione a, una visione
sistematica per la quale la disciplina societaria di presta “ad essere riguardata come disciplina di un
investimento, di un’operazione che prende le mosse da una spesa, il conferimento appunto,e si
conclude con un risultato: spesa e risultato che rappresentano il momento dell’investimento e
rispettivamente, del disinvestimento”6.
1
ZANARONE, Della società a responsabilità limitata, Tratt. Schlesinger, I, Milano, 2010, 777; in termini di funzione
anche di disinvestimento REVIGLIONO, Il recesso nella società a responsabilità limitata, Milano, 2008, 6, per il quale il
recesso da “un lato, realizza una fondamentale ed unitaria funzione di disinvestimento della partecipazione, d’altro lato
è destinato ad assumere diversi significati e a realizzare diverse funzioni in relazione ai diversi assetti che stanno alla
base di numerose ipotesi considerate espressamente dal legislatore.” Nella medesima logica DE NOVA, Il diritto di
recesso del socio di società per azioni come opzione di vendita, in Riv. Dir. Priv., 2004, 329; PISCITELLO, Recesso ed
esclusione, Il nuovo diritto delle società, Liber Amicorum Gian Franco Campobasso, 3, Torino, 2006, 734; GARCEA,
Profili procedimentali del recesso, in S.r.l. commentario, a cura di Dolmetta –Presti, Milano, 2011, 486-487.
2
Si veda in proposito FERRI JR., Investimento e conferimento, Milano, 2001, 157.
3
Così la Relazione illustrativa della legge di riforma.
4
ANGELICI, La riforma delle società di capitali. Lezioni di diritto commerciale, Padova, 2003, 77
5
Ancora la Relazione Illustrativa alla legge di riforma. Così REVIGLIONO, cit., 12, per il quale “in tale prospettiva il
recesso non si risolve in una mera attività di disinvestimento della propria partecipazione da parte del socio, ma può
tradursi in un’operazione più complessa, caratterizzata da una valutazione globale dell’assetto e dell’andamento
economico della società, nella quale sono coinvolti non soltanto i soci, ma anche i potenziali terzi acquirenti della
partecipazione e infine i creditori sociali”.
6
FERRI JR., cit., 119.
1
E’ dunque muovendo da tale visione che si intende proporre non tanto ad un’analisi completa ed
omogenea dell’istituto, già svolta con maestria ed autorevolezza da altri 7, quanto piuttosto
l’approfondimento di questioni puntuali, empiricamente rilevanti sul piano applicativo.
2. Il conflitto con i creditori sociali, investitori di capitale di debito. Le tecniche di liquidazione
della partecipazione.
Essendo una tecnica di disinvestimento, il recesso in ambito societario ha da sempre sollevato un
problema di conflitto con i creditori sociali.
Come efficacemente evidenziato, si assiste ad una duplice concorrente pretesa sul patrimonio
sociale: quella degli investitori di capitale di rischio (soci) e quella degli investitori di capitale di
credito (creditori sociali). Alla soluzione del permanente conflitto fra essi è indirizzata in particolare
la disciplina del patrimonio netto, che si compone infatti di una serie di regole “volte appunto ad
indicare i tempi, limiti e modalità della distribuzione del corrispondente valore tra i soci..”
disciplina che pone questi ultimi in una posizione residuale limitatamente al valore rappresentato da
quella parte del patrimonio netto denominata capitale sociale8.
Anticipando la liquidazione di un socio, il diritto di recesso sembra alterare le regole di concorso fra
investitori sul patrimonio sociale, ed anche alla luce della potenziale lesione degli interessi del ceto
creditorio storicamente se ne era proposta una lettura riduttiva dell’ambito di operatività, negando
l’ammissibilità di cause convenzionali e ritenendo applicabile in via sistematica lo strumento
dell’opposizione dei creditori in caso di riduzione conseguente del capitale sociale9.
A tale capitolo del conflitto economico fra investitori è dedicata la parte finale dell’art.2473 c.c. che
pone in sequenza una serie di tecniche di liquidazioni miranti ad allocare il peso economico della
soddisfazione del socio recedente innanzitutto sugli altri soci o su terzi; in seconda istanza sul
patrimonio sociale, mediante impiego di risorse rappresentate da porzioni del netto diverse dal
7
E’ sufficiente ricordare, fra molti, senza pretesa di completezza: ZANARONE, cit, 775; REVIGLIONO, cit; MAGLIULO, Il
recesso e l’esclusione, in La riforma della società a responsabilità limitata, a cura di Caccavale, Magliulo, Maltoni
Tassinari, , Milano, 2007; CAGNASSO, commento all’art.2473, Il nuovo diritto societario, a cura di Cottino, Cagnasso,
Montalenti, Bologna, 2004, II, 1836 ss; GALLETTI, commento all’art.2473, in Il nuovo diritto societario, a cura di Maffei
Alberti, Padova, 2005, II, 434 ss; ANNUNZIATA, commento all’art.2473, in Commentario alla riforma delle società,
diretto da Marchetti, Bianchi, Ghezzi, Notari, Società a responsabilità Limitata (a cura di Bianchi), Milano, 2008, 451
ss; PERRINO, La “rilevanza del socio” nella s.r.l.: recesso, diritti particolari, esclusione, in Giur Comm, 2003, I, 810 ss;
DACCÒ, Il diritto di recesso,: limiti dell’istituto e limiti all’autonomia privata nella società a responsabilità limitata , in
Riv. Dir. Comm., 2004, I, 471; STELLA RICHTER, Diritto di recesso e autonomia statutaria, in Riv. Dir. Comm., 2004, I,
389 ss.; TOFFOLETTO, L’autonomia privata e i suoi limiti nel recesso convenzionale del società di società di capitali, in
Riv. Dir. Comm., 204, I, 347 ss; VENTORUZZO, Recesso da società a responsabilità limitata e valutazione della
partecipazione del socio recedente, in Nuova Giur.Civ.Comm., 2005, II, 434 ss; PISCITELLO, cit., 717 e ss; TRIMARCHI, Il
recesso del socio dai tipi capitalistici e applicativi notarili, Studio di Impresa n.188-2011 del Consiglio Nazionale del
Notariato, Studi e Materiali, 2012, 2, 515.
8
FERRI JR, Il sistema e le regole del patrimonio netto, in RDS 2010, 26 e ss.
9
Per tutti GRIPPO, Il recesso del socio, Trattato delle Società per Azioni, diretto da Colombo – Portale, 6*, Torino,
1993, 133 ss; rievoca il principio di conservazione dell’integrità del patrimonio sociale come ispiratore della disciplina
previgente anche PISCITELLO, cit,, 718.
2
capitale e solo come terza possibilità, perseguibile esclusivamente in caso di improcedibilità, totale
o parziale, delle tre modalità propedeutiche (acquisto da parte degli altri soci, acquisto da parte di
un terzo, impiego delle riserve disponibili), mediante riduzione del capitale sociale, previo consenso
implicito (alias mancata opposizione) dei creditori sociali.
Dato atto di ciò, giova enfatizzare che nella logica prospettata la prevalenza dell’interesse dei
creditori (investitori di capitale di credito) sull’interesse del socio recedente ad essere liquidato (a
disinvestire) e degli altri soci a liquidarlo è segnata (solo) da due regole:
a) divieto di ridurre il capitale sociale qualora la società possieda riserve disponibili di entità
sufficiente a soddisfare le ragioni del recedente;
b) diritto di opposizione dei creditori sociali all’eventuale riduzione del capitale sociale.
E’ interessante notare, sempre nella medesima prospettiva, che il vittorioso esito del giudizio di
opposizione non si traduce nell’estinzione del diritto al disinvestimento del recedente, ma nella
liquidazione dell’intero patrimonio sociale, che coinvolge tutti i soci (ponendo fine all’iniziativa
economica collettiva) e che, soprattutto, ripristina la corretta sequenza di soddisfazione degli
investitori sul patrimonio sociale: prima quelli di capitale di credito, infine quelli di capitale di
rischio, cioè i soci, residual claimants.
Le considerazioni proposte sono il viatico di due questioni, l’una di interpretazione del testo
normativo, l’altra, sostanziale, afferente il concorso fra soci in sede di rimborso del patrimonio
sociale all’esito del procedimento di liquidazione indotto dall’opposizione dei creditori alla
riduzione del capitale sociale.
Il dato letterale dell’art. 2473 quarto comma c.c. (ai sensi del quale al rimborso mediante riserve
disponibili si può accedere solo qualora “non avvenga” l’acquisto da parte degli altri soci, in
proporzione fra loro, o da parte di un terzo, “concordemente individuato dai soci medesimi”, e,
sempre ai sensi del quale, solo in mancanza di riserve disponibili è possibile ridurre il capitale
sociale), alimenta la tesi, assolutamente maggioritaria, dell’inderogabilità assoluta, in ogni sua
scansione, della sequenza procedimentale di liquidazione disegnata dal legislatore.
La tesi sembra corroborata dalla valutazione degli interessi coinvolti, e quindi in primis
dall’indiscutibile indisponibilità degli interessi dei creditori.
Ne consegue che “non potranno pertanto essere statutariamente invertite né la sopra ricordata
sequenza stabilita dal legislatore fra la fase in cui il rimborso della quota del recedente può avvenire
da parte degli altri soci o di terzi e quella in cui il medesimo rimborso avviene attingendo al
patrimonio sociale, né, all’interno di quest’ultima, la sequenza fra le sottofasi del ricorso alle riserve
disponibili e della riduzione del capitale…”10. Secondo tale orientamento, diversamente ragionando,
10
ZANARONE, cit., 847.
3
infatti, si lederebbero “le esigenze di tutela dei creditori sociali, i quali traggono ovviamente
vantaggio sia dal fatto che il recedente venga rimborsato a spese non della società loro debitrice ma
di altri soggetti, sia dal fatto che ad essere intaccato per ultimo risulti comunque il capitale sociale,
atteso il più elevato livello di garanzia che esso presenta rispetto alle riserve”11.
Non vi possono essere dubbi sul fatto che alla riduzione del capitale possa ricorrersi solo in assenza
di riserve disponibili, al punto da poter desumere, come sopra già evidenziato, un divieto di legge,
che si traduce in una norma imperativa idonea a suffragare la nullità della decisione di riduzione del
capitale assunta in spregio in quanto avente oggetto illecito, ai sensi dell’art.2479 terzo comma c.c..
Non sembra invece giustificabile ugual rigore rispetto alla consequenzialità normativa delle altre
tecniche di liquidazione, proprio alla luce di una valutazione sostanziale degli interessi sottesi.
E’ evidente l’intenzione del legislatore di fissare un itinerario, come palesato ulteriormente, in
chiave sistematica, dalla scelta operata in caso di recesso da s.p.a. (art.2437 quater c.c.); intenzione
che va dunque rispettata.
Al contempo non si può a far a meno di notare che:
a) l’accesso alle tecniche di liquidazione attuate mediante impiego di denaro sociale è rimesso
all’incondizionata disponibilità dei soci;
b) durante la vita della società le riserve disponibili, proprio in quanto tali, sono alla mercè
delle scelte dei soci senza alcun riguardo per gli interessi del ceto creditorio, almeno nella
società a responsabilità limitata12: dunque i soci possono legittimamente decidere, in ogni
momento, di distribuirle, quindi di sottrarre i corrispondenti (per valore) mezzi patrimoniali
alla società, senza che alcuno possa, altrettanto legittimamente, lamentarsi.
Rispetto alla prima proposizione, si deve tener presente che i soci hanno il diritto, ma non l’obbligo
di acquistare, così come non sono tenuti ad accogliere in società terzi estranei (il terzo deve essere
prescelto “concordemente”, quindi all’unanimità, dagli “altri” soci): l’istanza di tutela
dell’equilibrio finanziario e patrimoniale della società è rimessa ad una valutazione degli interessi
individuali senza che un rischio di alterazione di tale equilibrio imponga alla maggioranza di tornare
sui suoi passi, eliminando il movente del recesso alla stregua di quanto previsto in caso di
esclusione del socio, per la cui liquidazione è precluso imperativamente il ricorso a mezzi
patrimoniali della società.
Nulla impedisce poi che i soci decidano di distribuirsi riserve disponibili o utili accantonati e poi
acquistare la partecipazione del receduto con il denaro percepito, qualora, per esempio, solo una
11
ZANARONE, cit., 848. In tal senso anche PISCITELLO, cit., 733; l’inderogabilità della sequenza procedimentale è
affermata anche da REVIGLIONO, cit,342.
12
Meno assoluto è il ragionamento per la s.p.a., laddove abbia emesso obbligazioni, stante il disposto degli artt.2412 e
2413 c.c..
4
parte di essi sia intenzionata a incrementare l’investimento nell’impresa sociale ma non abbia i
mezzi economici per farlo.
Atteso ciò, la tutela del ceto creditorio in definitiva risulta molto timida, come pure la pretesa tutela
dell’equilibrio patrimoniale della società.
Se così è, sul piano sostanziale non mi pare che i creditori sociali soffrano alcuna lesione da una
clausola che inverta l’ordine della sequenza, imponendo in primo luogo il ricorso alle riserve
disponibili e poi al tentativo di vendita ai soci e al terzo, unici limiti sembrando quelli i) della
insopprimibilità delle quattro fasi e ii) della necessaria subordinazione della riduzione del capitale
alla carenza di riserve disponibili13.
Con riferimento alla seconda questione annunciata, si è già rilevato che il vittorioso esperimento
dell’opposizione alla riduzione del capitale da parte dei creditori conduce alla liquidazione della
società, ai sensi dell’inciso finale del quarto comma dell’art.2473 c.c. (“… qualora sulla base di
esso non risulti possibile il rimborso della partecipazione del socio receduto, la società viene posta
in liquidazione”).
Si tratta di capire come si collochi la liquidazione del socio receduto rispetto agli altri soci.
Data per scontato, infatti, stante la sua qualità di investitore di capitale di rischio, la postergazione
rispetto alla soddisfazione dei creditori sociali, la questione attiene in definitiva all’entità del valore
di liquidazione spettante al receduto.
La sua posizione in tale fase deve intendersi equivalente a quella degli altri soci, così che concorre
proporzionalmente al residuo attivo dopo il soddisfacimento dei creditori sociali, oppure deve
essere considerata in qualche misura privilegiata, nel senso che il valore di liquidazione è
cristallizzato al momento della dichiarazione di recesso, a prescindere dalle successive vicende,
anche liquidatorie, della società, fermo il rispetto della prelazione dei creditori sociali?
La questione, dunque, è riconducibile all’alveo del conflitto fra interessi dei soci.
L’ultimo comma dell’art.2473 c.c. sancisce la sopravvenuta inefficacia del recesso qualora sia
deliberato lo scioglimento della società, con l’effetto di porre tutti i soci in posizione equivalente. Si
potrebbe dunque desumere che in ogni caso di scioglimento della società, anche non volontario, si
determini il medesimo effetto.
Entrambi gli orientamenti albergano in dottrina.
Si è sostenuto, infatti, che sembra estranea alla scelta legislativa di liquidare la società a seguito
dell’opposizione dei creditori “ogni intenzione di conciliare l’interesse del socio recedente anche
con quello degli altri soci, in quanto la messa “in liquidazione” ex lege della società conseguente
13
REVIGLIONO, cit., 343, per il quale le tecniche di rimborso fondate sull’acquisto da parte degli altri soci o di terzi
costituiscono “una fase che, nella prospettiva del legislatore, risulta tutt’altro che eventuale, essendo anzi la
“condizione” perché possano legittimamente essere post in essere quelle modalità di rimborso che, per loro natura,
risultano potenzialmente idonee a destabilizzare la struttura finanziaria e patrimoniale dell’ente”.
5
all’infruttuosità del tentativo di ridurre il capitale non comporta affatto, a differenza della
tempestiva deliberazione di scioglimento di cui all’ultimo comma dell’art.2473, che il recesso sia
assolutamente privo di efficacia; con la conseguenza che il socio recedente …… godrà ugualmente
di una posizione privilegiata rispetto agli altri soci in sede di riparto finale dell’attivo, dove la
misura della sua partecipazione a tale riparto finale dell’attivo non sarà in ogni caso inferiore
(ovviamente nei limiti di capienza di tale attivo) al valore di liquidazione stabilito ai sensi
dell’art.2473, terzo comma.”14.
Sull’altro versante si pongono coloro per i quali ogni causa di scioglimento contemplata
nell’art.2473 c.c. conduce all’inefficacia del recesso, e quindi alla conversione del diritto alla
liquidazione della quota in un diritto alla quota di liquidazione sul patrimonio residuo.
Come già rilevato, il conflitto verte sul piano dell’entità della liquidazione del socio receduto.
Se così è, mi pare più corretto domandarsi se il recesso legale sia diretto a consentire al socio di
disinvestire in un momento di mercato favorevole o se la sua funzione sia diversa. In altri termini, la
questione deve essere affrontata sul piano degli interessi che il legislatore ha inteso privilegiare
accordando il diritto.
Sotto tale profilo mi pare che la soluzione non possa essere univoca.
Riferendoci alle cause legali previste nell’art.2473 c.c., con esclusione dell’ipotesi di società
contratta a tempo indeterminato, sembra chiaro che l’interesse tutelato è quello di uscire
dall’investimento allorché la maggioranza modifichi determinate regole che possono mutare il
rischio o le modalità di partecipazione. Dunque, il socio non decide quando disinvestire, in base ad
una valutazione di opportunità di mercato, in quanto deve essere provocato da una decisione non
condivisa assunta dagli soci, i quali possono poi tornare sui loro passi, e impedire il
disinvestimento, anche se fruttuoso, revocando la delibera che vi aveva dato adito.
In tali circostanze l’unico interesse tutelato sembra quello di non partecipare ad un’organizzazione
non più condivisa, a prescindere dal valore della quota di liquidazione: poiché lo scioglimento della
società soddisfa tale istanza, non vedrei motivo per privilegiare sul piano economico, ovvero sul
piano della determinazione dell’entità della liquidazione, il socio recedente.
La conclusione sembra dover essere diversamente articolata qualora il socio abbia facoltà di
scegliere il momento del recesso, alla luce della regola per la quale il valore della partecipazione “è
determinato tenendo con del suo valore di mercato al momento della dichiarazione di recesso”
(art.2473 terzo comma c.c.).
Mi riferisco all’ipotesi del recesso da società contratta a tempo indeterminato, che può essere
esercitato dal socio in ogni momento; mi pare vengano in gioco, nella medesima prospettiva, le
14
ZANARONE, op.cit., 846.
6
cause di recesso di cui all’art.2469 c.c., operanti se l’accesso al mercato delle partecipazioni è reso
particolarmente difficoltoso dalle regole statutarie e dalla conseguente applicazione che ne fanno gli
altri soci o gli organi sociali.
In tali casi, nonché in quelli che la prassi negoziale eventualmente escogiterà (si pensi al recesso ad
nutum, sulla cui ammissibilità si tornerà), l’esercizio del diritto non è condizionato da una scelta
altrui, imponderabile nell’an, ma sembra ispirato da valutazioni di opportunità economica del
disinvestimento, cosicché solo una decisione di scioglimento assunta tempestivamente, ai sensi
dell’ultimo comma dell’art.2473 c.c., può rimettere i soci in posizione di parità “liquidativa”, per il
ridotto impatto sull’entità del quantum che può generare, ma non il verificarsi della diversa causa di
scioglimento rappresentata dall’opposizione dei soci, dovuta al dilatorio tentativo degli altri soci di
liquidare la quota del receduto.
3. In ordine all’entità della riduzione del capitale sociale deciso ai sensi dell’art.2473 c.c.
Per assonanza al tema sopra trattato, ed in coerenza con la promessa disorganicità della trattazione,
si può rilevare che uno dei temi più dibattuti attiene alle modalità tecniche di attuazione della
riduzione del capitale sociale al servizio della liquidazione del socio receduto15.
Il tema non è nuovo, in quanto già presente nella letteratura prima della riforma, e può sintetizzarsi
in un quesito: dato atto che il valore di liquidazione della partecipazione per la quale è stato
esercitato il recesso può essere superiore al valore nominale della stessa, quale deve essere l’entità
della riduzione del capitale sociale prevista nell’art.2473 c.c.? Pari al valore nominale e pari al
valore di liquidazione?
Un orientamento16 si esprime chiaramente per la prima opzione, ritenendo che l’operazione sul
capitale sia funzionale solo all’annullamento della partecipazione del socio receduto, mentre la
restante parte del valore di liquidazione si traduce in una passività cui non corrisponde
necessariamente una perdita di capitale, qualora la società sia dotata, per esempio, di riserve
indisponibili di capienza sufficiente.
15
Non si ritiene necessario affrontare, nella logica delle presenti pagine, il tema della derogabilità/inderogabilità dei
criteri di valutazione della quota, già oggetto di tutti gli interventi in materia di recesso, a cui si rinvia: ex multis,
MAGLIULO, cit., 279 ss; ANNUNZIATA, cit., 523; ZANARONE, cit., 828 ss. Più di ogni altro, VENTORUZZO, Recesso e valore
delal partecipazione nelle società di capitali, Milano, 2012; in precedenza, VENTORUZZO, Recesso da società a
responsabilità limitata e valutazione della partecipazione del socio recedente, in Nuova Giur.Civ.Comm., 2005, II, 434
ss.
16
Orientamento del Consiglio Notarile dei Distretti Riuniti di Firenze, Pistoia e Prato, Massima del 13 luglio 2009, per
il quale “qualora, a seguito del recesso, il rimborso del socio receduto debba essere eseguito, ai sensi degli artt.2437
quater, sesto comma, c.c. e 2473, quarto comma, c.c., mediante riduzione del capitale sociale, la misura della riduzione
imposta dal legislatore in tale occasione è pari al valore nominale della partecipazione del socio receduto che viene
annullata e non all’importo che deve essere liquidato al receduto. Qualora, a seguito di tale riduzione, il capitale sociale
si riduca al di sotto del minimo legale, la società può procedere a tale riduzione purché contestualmente deliberi la
trasformazione in un diverso tipo sociale compatibile con la ridotta misura del capitale ovvero proceda alla
ricostituzione del capitale alla misura minima richiesta”.
7
In tal modo si evita che altresì che la liquidazione sia di fatto “pagata” dagli altri soci, che
diversamente vedrebbero ridotto il valore nominale delle loro partecipazioni, intaccate dalla
riduzione del capitale funzionale alla liberazione di risorse dell’attivo necessarie per liquidare il
receduto.
La proposta interpretativa è stata di recente criticata17.
Si è obiettato che “nella circostanza dell’assenza di utili o riserve disponibili, tanto per la S.p.a. che
per le S.r.l., la legge obbliga alla riduzione del capitale sociale: il che vale quanto dire che
l’operazione di liquidazione della quota deve coincidere – e segnatamente essere seguita – da un
opportuno riadattamento dei valori nominali del capitale sociale ai valori del patrimonio i quali
verranno “alterati” in misura significativa proprio dalla liquidazione della quota del recente”18.
Nella prospettiva segnata la riduzione del capitale sociale è una necessità legale al fine di palesare
immediatamente la grave perdita patrimoniale, così da consentire l’attivazione delle regole di tutela
dei creditori, e segnatamente il rimedio dell’opposizione, per ripristinare la corretta regola di
ripartizione del patrimonio netto.
Dunque, la riduzione del capitale dovrebbe essere di entità equivalente al valore della quota di
liquidazione19.
A ben vedere, la tesi da ultimo prospettata appare convincente.
Infatti, poiché rappresenta un’ipotesi di disinvestimento anticipato, il recesso può coinvolgere solo
quella parte del patrimonio sociale, il patrimonio netto, che sarebbe di spettanza degli investitori di
capitale di rischio, cioè i soci. Il diritto al disinvestimento non può “trasformare” l’investitore di
capitale di rischio in investitore di capitale di credito: ammettendo invece che il capitale sociale si
riduca solo per il valore nominale, ne consegue che la restante parte del valore di liquidazione della
partecipazione del receduto dovrebbe essere collocata fra i debiti della società alla stregua di quella
degli altri creditori, concorrendo a formare il cd. passivo reale, quasi che l’investimento iniziale di
capitale di rischio fosse una sorta di finanziamento soci, in controtendenza con la regola della
postergazione fissata nell’art.2467 c.c. .
In altri termini, se l’eccedenza del valore di rimborso rispetto al valore nominale della
partecipazione del receduto gravasse la società come debito, il peso economico finirebbe per essere
“condiviso” con i creditori sociali, che verrebbero a trovarsi un “concorrente “ ulteriore20.
17
TRIMARCHi, , Studio Consiglio Nazionale del Notariato n.188-2011, 548 ss.
TRIMARCHI, cit., 555.
19
Così anche ZANARONE, cit., 841.
20
In tal senso TRIMARCHI, cit. 559, per il quale “la riduzione non deve mai essere tale da determinare una preferenza del
socio recedente, creditore della quota di liquidazione, rispetto ai creditori anteriori alla delibera di riduzione. Quanto
censurato dalla ratio legis sarebbe, invece, raggiunto, proprio se si consentisse alla società di ripristinare il capitale
sociale o di trasformarsi nel caso in cui l’esito della riduzione fosse tale da portare il valore nominale al di sotto del
minimo prescritto dalla legge per “quel” tipo sociale, e fosse, ovviamente maggiore di un terzo dello stesso. Nel primo
caso, infatti, ripristinato il capitale sociale, la riduzione precedente il ripristino avrebbe consentito la liquidazione del
18
8
Pertanto, sembra da condividere la tesi per la quale la riduzione del capitale deve essere di entità
pari al valore della quota di liquidazione.
Il corollario applicativo più rilevante che consegue all’adesione all’una o altra tesi emerge qualora
l’entità della riduzione richiesta per liquidare il socio receduto sia tale portare il capitale sociale ad
una cifra inferiore al minimo legale.
E’ infatti evidente che per i fautori della prima tesi, secondo i quali, in definitiva, l’eccedenza del
valore di liquidazione della quota del receduto si traduce in una passività, è ben possibile adottare le
tecniche previste nell’art.2482 ter c.c., ovvero la riduzione ed il contestuale aumento del capitale
sociale o la trasformazione21.
La logica della seconda tesi, invece, è rappresentata dall’impossibilità di creare un concorso
paritario fra creditori sociali e socio receduto (investitore di capitale di rischio che disinveste) e
pertanto, qualora di verifichi l’evenienza indicata, non potrà deliberarsi la riduzione del capitale e
la società dovrà essere posta in liquidazione 22, a meno che i soci di maggioranza non preferiscano
tornare, se possibile, sui loro passi
4. Questioni e soluzioni in materia di attuazione delle tecniche di liquidazione della quota del
socio receduto.
Come più volte ricordato, il rimborso delle partecipazioni per cui è stato esercitato il recesso può
avvenire “anche mediante acquisto da parte degli altri soci proporzionalmente alle loro
partecipazioni” (art.2473 c.c.).
E’ tesi diffusa che la norma si limiti ad attribuire ad ogni socio una sorta di diritto legale di opzione
all’acquisto della partecipazione del recedente, con facoltà peraltro di esercitare la prelazione
sull’inoptato, a somiglianza della soluzione proposta nell’art.2437 quater c.c. 23, senza al contempo
riconoscere altresì un diritto individuale alla proporzionalità dell’acquisto, tale per cui
l’indisponibilità anche di uno solo dei soci ad acquistare e a rinunciare, anche parzialmente, a tale
recedente, e quindi la sua soddisfazione con provvista rinveniente da valori corrispondenti al capitale sociale, prima
degli altri creditori. Nel secondo caso, esso concorrerebbe quale creditore della trasformata società, avvantaggiandosi
della responsabilità illimitata dei soci (cfr. art.2500 sexies c.c.). Laddove, al contrario, le prescrizioni degli artt.2437
quater e 2473 c.c. declinano un ben diverso principio consistente, appunto, nel diritto del recedente ad essere liquidato
anche con provviste reperite dal capitale sociale attraverso il meccanismo della riduzione, ma cessando tale diritto di
fronte a quello dei creditori cui l’ordinamento riconosce il diritto di opporsi alla riduzione, facoltà di fatto vanificata ove
si obliterasse il potere della società di ricapitalizzare o trasformarsi”.
21
Orientamento del Consiglio Notarile dei Distretti Riuniti di Firenze, Pistoia e Prato, cit.
22
Vedi TRIMARCHI, cit., 559.
23
TRIMARCHI, cit., 546; REVIGLIONO, cit., 350, per il quale “si deve ritenere che non sia affatto necessario il consenso
unanime dei soci per realizzare un acquisto non proporzionale della quota del recedente; quindi che l’eventuale
percentuale rimasta “inoptata” può essere acquistata dagli altri soci.” In tal senso anche VENTORUZZO, cit. 462;
ANNUNZIATA, cit., 526, per il quale “la tutela che è connessa con la regola della proporzionalità non può, infatti, che
esaurirsi all’atto della prima offerta della partecipazione del socio receduto”.
9
diritto costringerebbe ad attivare la seconda modalità, ossia l’offerta a terzi, per non alterare i
reciproci rapporti di forza interni24.
La tesi accolta dalla dottrina dominante ha senza dubbio il pregio di non subordinare la modalità di
attuazione meno invasiva per il patrimonio sociale al veto individuale, anche se, con riferimento alla
facoltà di acquisto dell’inoptato, non pare strettamente coerente all’ambiente sistematico della s.r.l.,
nel quale la rilevanza del socio sul piano della conservazione degli assetti proprietari sembra
ribadita a più riprese25. Significativa in tal senso appare soprattutto la disciplina in tema di aumento
del capitale sociale a pagamento, che non riconosce alcun diritto agli altri soci sulla parte di
aumento del capitale non sottoscritto se non in forza di espressa decisione in tal senso assunta dai
soci medesimi.
Ne deriverebbe che il rifiuto di un socio ad acquistare la quota di partecipazione del receduto a lui
spettante non legittima l’acquisto di detta quota da parte di alcuni o anche di tutti gli altri soci, salvo
che non intervenga un accordo unanime in tal senso26.
Certamente legittima, ed anche auspicabile27, sarebbe la regola statutaria che, al fine di evitare
incertezze, chiarisca che al socio spetta il solo diritto di acquistare proporzionalmente, senza facoltà
di precludere l’acquisto da parte degli altri soci in caso di sua indisponibilità, disciplinando altresì
in maniera puntuale l’esercizio del diritto di prelazione sull’inoptato.
Qualora i soci non acquistino in tutto o in parte la partecipazione del receduto, gli amministratori
potranno procedere all’alienazione a terzi solo se espressamente autorizzati in tal senso dai soci
medesimi.
La disposizione è nitida, ed induce a ritenere che il terzo debba essere scelto all’unanimità, con
indicazione nominativa. Sul piano della prassi è più probabile che il nominativo sia proposto
dall’organo amministrativo, che in definitiva presiede alla procedura, e che il consenso dei soci si
traduca in un gradimento all’unanimità.
Occorre precisare, in termini generali, che l’adozione della tecnica di liquidazione succedanea non
pretende il fallimento integrale di quella precedente, essendo sufficiente che permanga la necessità
di reperire anche parzialmente risorse per rimborsare il socio receduto.
24
In tale ultimo senso sembra orientato MAGLIULO, cit. 288, per il quale la cessione anche a favore di tutti i soci
dovrebbe essere contestuale o comunque non perfezionabile fino a che l’ultimo non ha sottoscritto il contratto di
acquisto.
25
In tale prospettiva, pur cogliendo l’esigenza di tutela del patrimonio sociale sottesa alle ricostruzioni proposte, non
convince pienamente l’affermazione per cui dall’omessa previsione della possibilità di acquistare la quota rimasta
inoptata non pare in alcun modo possibile inferire alcun divieto di utilizzare quella possibilità: REVIGLIONO, cit, 350.
26
ZANARONE, cit. 838, per il quale nella s.r.l.,in difetto di una rinuncia espressa da parte del socio che non può o non
vuole acquistare, “gli altri non sono legittimati a procedere al suddetto acquisto al posto suo; ne discende, poiché tutti i
soci diversi dal receduto sono titolari della medesima pretesa, che solo con decisione unanime degli stessi, se l’atto
costitutivo non dispone diversamente, si può addivenire ad un acquisto non proporzionale della partecipazione
dismessa”. Così anche MAGLIULO, cit., 288.
27
Per l’opportunità si esprimono anche REVIGLIONO, cit., 350; ZANARONE, cit, 838.
10
Dunque, può darsi che la collocazione sul mercato riguardi solo parte della quota del receduto,
ovvero quella non acquistata per rinuncia da parte degli altri soci28.
Ciò detto, la decisione in ordine al terzo potrà essere assunta con metodo extra assembleare e dovrà
essere all’unanimità29; si conviene altresì che i soci potranno non solo esprimersi su di un
nominativo puntuale, ma anche deferire all’organo amministrativo la possibilità di “collocare” la
partecipazione del receduto a terzi purchessia30.
Non si può pensare, tuttavia, che la cessione delle partecipazioni sia attività negoziale rimessa
necessariamente al socio receduto, poiché rende la società schiava degli umori e dell’interesse di
quest’ultimo.
La cessione è atto dovuto; il receduto è obbligato in tal senso per effetto della dichiarazione di
recesso ed ha solo diritto a percepire il valore di liquidazione, diritto azionabile giudizialmente, alla
stregua di un qualunque creditore, se non soddisfatto entro il termine legale di 180 giorni dal
ricevimento della comunicazione di recesso da parte della società. Non è quindi plausibile
ipotizzare la necessità della sua collaborazione che potrebbe tradursi in azioni emulative.
Il trasferimento potrà quindi essere attuato anche dagli amministratori, sia ai soci sia ai terzi, in
forza di una legittimazione legale fondata sulle ragioni indicate 31, alla stregua di quanto avviene in
caso di vendita delle quote del socio moroso32.
Né può temersi un conflitto di interessi qualora gli amministratori siano anche soci, come sovente
accade, poiché la predeterminazione dell’entità del corrispettivo esclude tale possibilità anche ai
sensi dell’art.1395 c.c., in quanto sono definite a priori le condizioni del contratto con sé stesso.
Il prezzo peraltro verrà percepito dalla società, che provvederà a liquidare il socio. Debitore della
liquidazione è e resta sempre la società, nei cui confronti il receduto dovrà agire se non soddisfatto
tempestivamente33.
In proposito val la pena rimarcare che il contratto di cessione non potrà essere arricchito, a mio
avviso, da alcuna garanzia se non quella sulla proprietà della partecipazione e sulla sua libertà da
gravami, in quanto si tratta di tecnica di reperimento delle risorse per liquidare il receduto rimessa
alla discrezionalità della società, e non alla scelta del cedente/ receduto, che sotto tale profilo è
28
In tal senso anche REVIGLIONO, cit., 351; ANNUNZIATA, cit., 526.
Tesi pacifica: per tutti REVIGLIONO, cit., 354; ANNUNZIATA, cit., 526; MAGLIULO, cit., 288.
30
TRIMARCHI, cit., 545.
31
TRIMARCHI, cit., 546.
32
Contra REVIGLIONO, cit., 347, secondo il quale il tessuto normativo dell’art.2473 c.c. non legittimerebbe una
conclusione analoga a quella cui si perviene de plano per le s.p.a. in virtù del disposto dell’art.2437 quater c.c., norma di
natura eccezionale in quanto determina una limitazione delle prerogative proprietarie; in tal senso si esprime anche
ZANARONE, cit., p.839, per il quale “la mancata attribuzione agli amministratori di s.r.l. di un potere dispositivo sulla
partecipazione del recedente simile a quello previsto in materia di s.p.a. dall’art.2437 quater c.c. generi un vero e
proprio obbligo di contrarre (coercibile ex art.2932 c.c.) a carico del recedente”.
33
In ordine al riconoscimento della posizione di debitore solo in capo alla società e all’indifferenza per socio receduto –
creditore delle modalità di liquidazione REVIGLIONO, cit. 339 – 340.
29
11
indifferente, unico suo interesse tutelabile essendo quello di percepire il quantum, a prescindere
dalla provenienza. Con la conseguenza che l’inserzione impropria di clausole di indennità nel
contratto di vendita può cagionare solo una responsabilità patrimoniale della stessa società e non
anche del receduto formalmente cedente.
La società potrà provvedere alla liquidazione, totale o parziale, della partecipazione del receduto
anche avvalendosi delle riserve disponibili.
Poiché l’art.2484 c.c. preclude alle s.r.l. l’acquisto di proprie quote si deve ritenere che si produca
nella circostanza un effetto accrescitivo delle partecipazioni già detenute dagli altri soci, (in deroga
all’art.2474 c.c.), effetto a cui si tende ad ascrivere valore traslativo agli effetti dell’art.2470 c.c.,
con la conseguenza che il relativo atto dovrà essere depositato presso il registro delle imprese dopo
essere stato redatto nelle forme idonee34.
Il punto peraltro non è pacifico. Si è ritenuto che nella circostanza sia ravvisabile un trasferimento
in senso tecnico assimilabile ad una compravendita, operato dagli amministratori sia in nome e per
conto del receduto, sia in nome e per conto degli altri soci, i quali potranno anche non intervenire
all’atto e men che meno inibire l’acquisto proporzionale, “stante la circostanza per cui tale
attribuzione è imposta dalla legge e non comporta a carico loro alcun danno”35.
Sul piano applicativo la differenza fra le due ricostruzioni proposte riverbera sull’identificazione dei
soggetti che devono partecipare all’atto: solo gli amministratori secondo la ricostruzione da ultimo
proposta; sia il recedente sia gli altri soci secondo la tesi dell’accrescimento, in funzione della
stipula di un atto ricognitivo mediante il quale “il primo accetta e riceve la corresponsione della
somma dovuta a titolo di rimborso della propria quota, e dall’altro lato, le parti danno atto
dell’avvenuto acquisto della partecipazione in capo ai restanti soci, secondo la regola della
proporzionalità”36.
Non vi è dubbio, peraltro, qualunque tesi si segua, che l’atto dovrà essere redatto in forma idonea a
consentire la pubblicità presso il Registro delle Imprese del mutamento di titolarità della
partecipazione per la quale è stato esercitato il recesso.
5. Cause di recesso ed autonomia statutaria. A chi serve il recesso ad nutum?
34
REVIGLIONO, cit, 357, per il quale “l’unica modalità concretamente utilizzabile per il rimborso della partecipazione del
recedente nella situazione in esame è dunque costituita da un meccanismo di accrescimento proporzionale e gratuito
della quota a favore degli altri soci; tale accrescimento si realizza nel momento e per effetto della distrazione degli
elementi patrimoniali necessari al rimborso (a cui segue l’effettiva corresponsione della somma al socio recedente)”.
Nello stesso senso anche ZANARONE, cit.,840, ove ampi rinvii; LUPETTI, RUOTOLO E PAOLINI , Recesso nella s.r.l.,
presenza di riserve disponibili, aumento della quota di partecipazione degli altri soci e necessità dell’atto autentico , in
Studi e Materiali, Quaderni semestrali del Consiglio Nazionale del Notariato, Milano, 2, 2007, 1519 ss. MAGLIULO,
cit., 293; ANNUNZIATA, cit, 527.
35
TRIMARCHI, cit., 547.
36
REVIGLIONO, cit. 358.
12
L’incipit dell’art.2473 c.c. consegna espressamente all’autonomia privata il compito di definire le
cause di recesso dalla società (“L’atto costitutivo determina quando il socio può recedere dalla
società e le relative modalità”), soccorrendo la legge, quasi in via residuale, a stabilire la soglia
minima del diritto di exit di cui il socio non può essere privato (“In ogni caso il diritto di recesso
compete ai soci..”).
Dunque, i soci sembrano legittimati a contrattare liberamente le regole di disinvestimento,
affiancando la disciplina sulla circolazione delle partecipazioni con ipotesi convenzionali di
recesso37.
La definizione dell’ampiezza dello spazio concesso all’autonomia privata rappresenta, secondo
taluno, un ulteriore capitolo del conflitto fra investitori di capitale di rischio (soci) e investitori di
capitale di credito (creditori sociali)38.
La ricorrenza di tale problema nell’ambito specifico è opinabile, ma consente agli interpreti di
aprire un ampio dibattito sulla legittimità di talune possibili cause statutarie di recesso, fra cui quella
cosiddetta ad nutum o discrezionale.
In estrema sintesi, si ritiene che gli effetti patrimoniali potenzialmente scaturenti dal recesso
(ovvero la liquidazione del receduto mediante risorse patrimoniali della società) coinvolgano l’
interesse dei creditori sociali che dovrebbe “trovare salvaguardia quantomeno nella possibilità di
conoscere anticipatamente e con sufficiente precisione le circostanze suscettibili di farli incorrere
nel rischio di depauperamento del patrimonio sociale”39.
Emergerebbe dunque, anche in tale ambito, il conflitto fra soci e creditori, fra l’interesse dei primi a
precostiturisi negozialmente possibilità di disinvestimento anticipato ed l’interesse dei secondi ad
essere soddisfatti prioritariamente sul patrimonio sociale; interesse, quest’ultimo, che conoscerebbe
un ulteriore strumento di tutela nella preventiva conoscibilità delle cause di recesso, nel senso che il
fatto generante il diritto di exit del socio dovrebbe poter essere preventivamente apprezzabile anche
dai terzi, e quindi oggettivamente definito e non rimesso alla volontà discrezionale del socio stesso.
L’impostazione e la soluzione della questione non convincono nemmeno parte dei detrattori del
recesso ad nutum40.
Già se si osserva il fenomeno con un angolo di prospettiva pratico, focalizzato ai risultati applicativi
delle regole di soluzione dei conflitti di interessi (forse definibile anche “criterio interpretativo
37
Rileva PISCITELLO, cit., 728, che “la possibilità di prevedere ulteriori fattispecie di recesso consente di modulare le
ipotesi di dismissione delle partecipazioni sociali in relazione alle caratteristiche di una determinata impresa,
permettendo ai soci di realizzare una disciplina conforme alle peculiari esigenze della stessa”.
38
In tal senso, ZANARONE, cit., 781; DACCÒ, Il diritto di recesso,: limiti dell’istituto e limiti all’autonomia privata nella
società a responsabilità limitata, cit, 477 e ss.; REVIGLIONO, cit, 29 e ss.; PISCITELLO, cit., 729, per il quale “le
conseguenze di una siffatta previsione appaiono tuttavia preoccupanti e foriere di gravi pericoli per il patrimonio sociale
e, di riflesso, per i diritti dei creditori”:
39
ZANARONE, cit., 807.
40
TOFFOLETTO, L’autonomia privata e i suoi limiti nel recesso convenzionale del socio di società di capitali, cit.,, 372.
13
basato sulle conseguenze”41), non risulta facile cogliere la sottile differenza fra recesso esercitato in
virtù di una clausola che lo autorizza in via discrezionale (cioè ad nutum, salvo il principio di
correttezza nell’esecuzione del contratto, che però interessa solo gli altri soci 42) e recesso esercitato,
per esempio, ai sensi dell’art.2469 c.c., per la presenza di una regola di intrasferibilità assoluta delle
partecipazioni sociali o di una regola che ne subordina la trasferibilità al mero gradimento; oppure,
ai sensi dell’art.2473, secondo comma, c.c., per l’assenza del termine di durata della società.
Se è vera, come da più parti sostenuto43, l’interpretazione per la quale, ai sensi dell’art.2469 c.c., la
sola presenza di una clausola di contenuto siffatto autorizza ogni socio a recedere in qualsiasi
momento, se e quando gli aggrada (e quindi ad nutum), a prescindere dalla concreta possibilità di
trasferire ad altri la propria partecipazione (e quindi di disinvestire indirettamente), quale maggior
livello di tutela ottengono i terzi, sul piano della certezza, rispetto ad una clausola schiettamente
“ad nutum”?
Sul piano proposto, il risultato della causa di recesso legale sembra identico a quello della clausola
convenzionale: non preventivabile né nell’an, né nel quando.
Anzi, a ben vedere, l’autorizzazione normativa ad inserire ad libitum clausole di intrasferibilità
assoluta delle partecipazioni, con l’inevitabile corollario del diritto legale di recesso, e quindi la
licenza concessa all’autonomia privata di impedire il disinvestimento mediante ricorso al mercato
dei “beni di secondo grado” (con sostituzione di altri a sé nell’iniziativa economica), “scaricando”
potenzialmente la soddisfazione di colui che disinveste sul patrimonio sociale, dimostra che il
legislatore non ha attribuito alcuna rilevanza nella fase di selezione delle cause di recesso
all’interesse dei creditori, la cui tutela è completamente affidata alle regole di liquidazione della
partecipazione.
A prescindere dalle suggestioni del senso pratico, tenuto conto che in ogni caso la liquidazione della
partecipazione del socio receduto discrezionalmente deve avvenire nel rispetto della procedura
stabilita nel quarto comma del medesimo art. 2473 c.c., “che differenza può.. esistere, nella
prospettiva della tutela dell’integrità del patrimonio e della tutela dei creditori sociali tra il caso in
cui il recesso può essere esercitato liberamente e quello in cui la causa di recesso è collegata ad un
fatto specifico ma estraneo alla vita della società?” 44; ipotesi, quest’ultima, ritenuta generalmente
legittima, se l’unico limite all’autonomia privata è quello di descrivere puntuali e specifiche
situazioni o fatti che legittimano il diritto di recesso45.
41
DACCÒ, cit., 483.
ANNUNZIATA, cit., 506
43
ANNUNZIATA, cit., 497; MAGLIULO, cit., 262, per il quale “quantomeno nel caso in cui sia prevista l’intrasferibilità
della partecipazione il recesso non è dunque ancorato all’assunzione, da parte della società di una determinata
deliberazione, ma è nella sostanza un recesso ad nutum che deriva dal solo fatto che il socio non possa alienare la
propria quota”; ZANARONE, cit., 589, nt.80.
44
TOFFOLETTO, cit., 373.
45
REVIGLIONO, cit., 43; ZANARONE, cit., 784;
42
14
Non ci si può infatti che ritrovare con chi ritiene che “nella prospettiva della tutela dei creditori
sociali, qualunque causa di recesso finisce per avere le stesse implicazioni negative e dunque il
profilo della tutela dei creditori non consente di discriminare le clausole ammissibili da quelle non
ammissibili”46.
Così come, di contro, non sembra corretto argomentare l’esigenza di (apparente) anticipazione della
tutela del ceto creditorio sulla base di un’asserita inefficienza del rimedio dell’opposizione previsto
nello stesso art.2473 c.c.47, come pure si è fatto, perché l’interpretazione non può essere basata su di
un giudizio di valore delle scelte legislative.
In definitiva, sembra che il conflitto fra soci (investitori di capitale di rischio) e creditori sociali
(investitori di capitale di credito) trovi compiuta soluzione nella disciplina già descritta della
liquidazione della partecipazione del receduto, e non assuma quindi rilevanza come potenziale
limite alla facoltà concessa all’autonomia privata di forgiare cause di recesso convenzionali.
Ciò detto, bisogna peraltro precisare che non convincono nemmeno le tesi che argomentano “sotto
il profilo degli interessi tutelati” l’illegittimità del recesso ad nutum, e, di contro, la legittimità del
solo diritto di recesso collegato a situazioni di dissenso del socio.
Si sostiene infatti “che la capacità disgregatrice del recesso, specialmente quando scollegato da
presupposti rigidi, rispetto al progetto imprenditoriale, l’interesse delle parti alla redditività degli
investimenti, l’interesse delle parti alla minimizzazione dei rischi, l’interesse dei terzi alla stabilità
della struttura della propria controparte contrattuale e/o del proprio debitore, l’interesse del sistema
all’afflusso dei capitali di rischio verso le imprese e alla crescita di queste ultime per lo sviluppo
sociale, dimostrano, anche alla luce delle esperienze del passato, come ricorso al recesso
nell’ambito delle società di capitali non possa essere fatto senza tenere conto di tutte le implicazioni
che da ciò derivano. La scelta del legislatore sembra dunque operata alla luce di un oculato
temperamento degli interessi in gioco”48.
Le considerazioni esposte sono certamente condivisibili sul piano dell’opportunità, ma non
sembrano sufficienti a suffragare l’antigiuridicità della clausola in esame.
Quelle stesse argomentazioni possono validamente spiegare, dal punto di vista economico, la scelta
di contenere il novero delle cause legali di recesso, tramite le quali è riconosciuto imperativamente
al socio un diritto insopprimibile di disinvestimento; le stesse, tuttavia, non sembrano poter ergersi a
46
TOFFOLETTO, cit,. 372.
DACCÒ, cit, 478 e ss., per la quale, in ogni caso “si tratta però di valutare se, effettivamente, gli strumenti apprestati
dal legislatore siano in grado di eliminare (o, almeno, attenuare) le conseguenze negative derivanti dall’ampio utilizzo
dell’istituto in esame”; in proposito ricorda che “è stato opportunamente indicato che la tutela accordata ai creditori
sociali mediante lo strumento dell’opposizione è meno incisiva di quanto in apparenza possa sembrare, essendo limitata,
eventuale e circoscritta, oltreché …., anche controproducente”. Nello stesso senso anche REVIGLIONO, cit, 31.
48
TOFFOLETTO, cit., 381-382. Sulla stessa linea di pensiero sembra porsi anche PISCITELLO, cit., 730, per il quale, “non
essendo possibile per la società procedere alla revoca della deliberazione, ne consegue un rischio imprevedibile
collegato all’esercizio del recesso, che potrebbe portare ad una dispersione delle risorse destinate all’impresa”.
47
15
motivo di illegittimità di scelte che le parti, nell’espressione della loro libertà di iniziativa
economica, hanno contrattato, consapevoli delle conseguenze e dei rischi derivanti49. Ogni opzione
interpretativa tesa a sostituirsi ai soci nella valutazione del “bene” loro e della società sembra in
contrasto con la scelta di riconoscere all’autonomia privata, e quindi alla valutazione delle parti
stesse, la possibilità di stabilire “quando il socio può recedere”.
Non convince, in altri termini, l’idea di una sorta di tutela legale offerta ai soci di s.r.l. ( immaginati
sistematicamente come contraenti e non meri investitori anonimi) contro la loro stessa incapacità di
apprezzare gli effetti nefasti dell’inserzione di simile clausola nei patti sociali50.
Al contrario, un minimo di esperienza pratica insegna che i soci hanno ben presente quei rischi e
quegli effetti, al punto che non solo è rarissimo l’impiego della clausola di recesso ad nutum
(circoscritto a pochi casi specifici e con previsione limitata a soci determinati), ma è altresì
centellinato, per il medesimo timore, il ricorso a clausole di gradimento mero o, ancora di più, di
intrasferibilità assoluta delle partecipazioni con vigenza superiore a due anni (visto che l’art.2469,
alinea finale, c.c., consente di escludere il diritto di recesso “per due anni dalla costituzione della
società o dalla sottoscrizione della partecipazione”).
Peraltro, non si può far a meno di rilevare che in talune circostanze la possibilità di gratificare il
singolo socio51 del recesso ad nutum può risultare non solo opportuna, ma anche necessaria. Si pensi
al caso, assai diffuso nella prassi (per esempio, nelle società artigiane), di società a responsabilità
limitata in cui uno o taluno dei soci intendono obbligarsi a prestare la propria attività lavorativa, ma
senza che tale apporto sia capitalizzato (cd. conferimento d’opera spurio, secondo la definizione
offerta da parte della dottrina52). In tal caso può essere interesse delle parti non fissare un limite
49
In tal senso anche ANNUNZIATA, cit., 506, per il quale “in ogni caso, addurre l’inconveniente che potrebbe essere il
portato della clausola di cui si discute non equivale certo a sancirne l’invalidità”, fermo restando che anche la presunta
inefficienza della medesima deve essere provata, poiché, al contrario, in taluni casi potrebbe essere idonea ad attrarre
investitori.
50
Per questo non convince la visione espressa da DACCÒ, cit., 481, per la quale appare “lecito dubitare che il recesso, nel
permettere al socio di uscire dalla società, sia realmente lo strumento che più si confà alle esigenze di questo ultimo”,
mentre, al contrario, “lo strumento del recesso può, in molteplici casi, allontanarsi dall’interesse precipuo del socio di
tali società”. Sulla stessa linea si pone anche REVIGLIONO, cit., 29, al quale sembra che “l’assoluta libertà di recedere e
quindi la possibilità per il socio di sottrarsi in qualsiasi momento e al di fuori di qualunque presupposto agli impegni
derivanti dallo svolgimento dell’attività sociale risulti contraddittoria con gli stessi interessi dei soci, venendo
comunque a pregiudicare la serietà, la stabilità e la continuità di quel progetto imprenditoriale che gli stessi soci si sono
impegnati a realizzare in comune e mediante una partecipazione tendenzialmente attiva e diretta”.
51
La dottrina è generalmente favorevole al riconoscimento di un diritto di recesso ad personam; la tesi è condivisibile,
in particolare nella versione che non vi riconosce un diritto particolare ex art.2468 c.c., ma che ammette in ogni caso la
possibilità di costruire statutariamente situazioni particolari, all’unanimità, che, in quanto non rientranti nel novero dei
diritti particolari, devono intendersi sottratte alla disciplina del terzo comma dell’art.2468 c.c., così che la loro
soppressione potrà avvenire a maggioranza con il consenso del socio leso, alla stregua di qualsiasi diritto soggettivo non
particolare. Nel senso indicato, CERA, cit., 472; per l’ammissibilità di diritti di recesso ad personam anche ZANARONE,
cit., 784, nt.17, ove ampi riferimenti; DACCÒ, cit., 486; REVIGLIONO, cit., 185 e ss.; PISCITELLO, cit., 730.
52
TASSINARI, I conferimenti e la tutela dell’integrità del capitale sociale, in La riforma della società a responsabilità
limitata, a cura di Caccavale, Magliulo, Maltoni Tassinari, , Milano, 2007, 130 - 133, per il quale “l’indeterminatezza
della prestazione d’opera o di servizi, che risponde all’esigenza oggi diffusa nella maggior parte delle società medio –
piccole, fondate sull’impegno lavorativo dei propri soci, dovrà essere accompagnata, stante lo sfavore con il quale
l’ordinamento valuta l’assunzione di vincoli obbligatori perpetui, dalla previsione di una specifica causa convenzionale
16
temporale all’obbligo del socio di prestare la propria attività a favore della società, poiché la sua
stessa partecipazione si giustifica per tale apporto. La previsione di una clausola di recesso ad
nutum, allora, assume una valenza determinativa della prestazione dell’obbligato, a cui è consentito
svincolarsi da un obbligo di contenuto indeterminato. Né si dica che a tal fine si dovrebbe
provvedere con un congruo termine di durata della società, poiché, da un lato, o l’obbligato è
titolare di una partecipazione che gli consente di impedire la proroga o la difesa è spuntata (a meno
che non sia supportata dal diritto di recesso alla stregua di quanto previsto nell’art.2437 c.c., ma
allora la questione non cambia); dall’altro gli altri soci preferiscono sempre subire il rischio della
liquidazione del singolo piuttosto che l’inevitabilità della liquidazione dell’intero patrimonio
sociale, e quindi la fine della vicenda economica collettiva, per volere di uno solo.
Può altresì capitare che vi siano soggetti disponibili a partecipare in qualità di meri investitori, per
un tempo determinato, volendo acquisire la certezza della possibilità di disinvestire decorso il
termine programmato. L’esigenza è fortemente sentita, come dimostra il ricorso ai cd. patti
parasociali di way out, nei quali si riconosce all’investitore un’opzione di vendita (clausola put)
decorso il tempo convenuto. L’interesse dei soci “imprenditori” è evidente, perché in tal modo
riescono a reperire risorse finanziarie per proseguire o potenziare l’impresa. In tale situazione il
riconoscimento del diritto di recesso ad nutum non farebbe altro che “socializzare” l’opzione di
vendita53.
Dunque, si ritrovano spazi di plausibile ed economicamente logica utilizzabilità della clausola di
recesso ad nutum, senza che i creditori ne soffrano più del dovuto; senza che le modalità attuative o
gli effetti si discostino in maniera plateale da ipotesi legali di recesso, come sopra si è cercato di
ricordare54.
Resta tuttavia il dato della crescente ostilità della dottrina per la clausola in esame, e della sempre
più diffusa conclusione che la stessa sia illegittima 55, per l’idea che si possa disinvestire
coinvolgendo il patrimonio sociale solo a seguito di fatti o ragioni puntualmente individuati in
statuto, qualunque essi siano.
di recesso ion capo al socio d’opera (in funzione determinativa della consistenza della prestazione assunta), oppure
dall’assenza di durata in capo alla società, che configura in sé una legittima causa di recesso in capo a ciascuno dei soci,
a prescindere dall’eventuale obbligazione d’opera”.
53
Secondo la nota ricostruzione proposta da DE NOVA, Il diritto di recesso del socio di società per azioni come opzione
di vendita, in Riv. Dir. Priv., 2004, 329 e ss.
54
In senso favorevole alla legittimità della clausola ANNUNZIATA, cit., 507; STELLA RICHTER, cit., 404; MAGLIULO, cit.,
271-272, ove ampi riferimenti dottrinali; Massima n.74 del Consiglio Notarile di Milano, Milano, 2010, 269.
55
In senso contrario, da ultimo, anche CERA, Le clausole statutarie che determinano il diritto di recesso del socio, in
S.r.l., Commentario, dedicato a Portale, Milano, 2011, 471 e 475, ove anche ampi riferimenti ad altri Autori ugualmente
orientati in senso negativo.
17
Così come , per coerenza, subisce la medesima sorte la clausola di recesso per giusta causa, mutuata
dalla società di persone, che sconta un livello di imprevedibilità assimilabile a quello del recesso ad
nutum,56 dividendo in egual modo, pertanto, la dottrina57.
6. Note sulle cause legali di recesso.
Decisamente meno dibattute sono le cause legali di recesso, siano esse quelle comprese nel catalogo
contenuto nel primo comma dell’art.2473 c.c. (che rinvia anche alle disposizioni in materia di
recesso per le società soggette ad attività di direzione e coordinamento), o quelle racchiuse in altre
disposizioni, segnatamente nell’art.2469 c.c. e nell’art.2481 bis primo comma, c.c..
Talune di esse sembrano di applicazione intuitiva, nella loro nitida oggettività (cambiamento del
tipo, alias trasformazione purchessia, omogenea o eterogenea; fusione o scissione della società;
revoca dello stato di liquidazione, trasferimento della sede all’estero, eliminazione di una o più
cause di recesso previste dall’atto costitutivo, e, ex art.2481 bis c.c., aumento del capitale sociale
con esclusione del diritto di sottoscrizione); per altre conviene spendere qualche riflessione.
Un ruolo centrale sul piano della tutela degli interessi patrimoniali del socio di minoranza è ascritto
ai mutamenti dell’oggetto sociale, ovvero dell’attività di impresa, e quindi delle condizioni di
rischio dell’investimento. Infatti, l’art.2473 c.c. attribuisce il diritto di recesso sia in caso di
decisione di “cambiamento dell’oggetto sociale”, sia in caso di “compimento di operazioni che
comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale determinato nell’atto costitutivo”.
Una prima questione interpretativa è alimentata dal diverso lessico con il quale sono disegnate le
fattispecie: nell’un caso il cambiamento dell’oggetto sociale non è qualificato in alcun modo (a
differenza di quanto previsto nella disciplina del recesso legale da s.p.a., autorizzato ex art.2437 c.c.
solo qualora la modifica dell’oggetto sociale si sostanzi in un significativo cambiamento
dell’attività di impresa), nell’altro il diritto di exit consegue solo ad una sostanziale deviazione
dall’oggetto sociale formale.
La dottrina è divisa fra chi ritiene che una qualsiasi modifica formale 58, anche non significativa59,
dell’oggetto sociale legittimi il diritto di recesso e chi propende per una lettura sistematica, e quindi
56
L’osservazione è comune a tutti gli Autori; in proposito PISCITELLO, cit, 728, evidenzia che “la previsione di una
clausola di recesso per giusta causa comporta l’inserimento di elementi di incertezza nella vita della società e può
determinare un aumento del contenzioso riguardante l’esistenza stessa della fattispecie legittimante il recesso.”
57
In senso favorevole all’ammissibilità, infatti, STELLA RICHTER, cit., 404; ANNUNZIATA, cit, 503-504; Massima n.74 del
Consiglio Notarile di Milano, cit.. In senso contrario, ZANARONE, cit., 807; DACCÒ, cit., 488; REVIGLIONO, cit, 46; CERA,
cit., 473; PISCITELLO, cit., 729, favorevole per il maggior rilievo delle persone dei soci nel tipo s.r.l., “anche se appare
opportuno che, al fine di evitare un incremento del contenzioso, si indichino nell’atto costitutivo le ipotesi che
costituiscono giusta causa di recesso”.
58
In tal senso ZANARONE, cit., 789, in particolare nt.29,ove ampi riferimenti; VENTORUZZO, cit,. 442, In tal senso
ZANARONE, cit., 789, in particolare nt.29,ove ampi riferimenti; VENTORUZZO, cit,. 442,
59
Sebbene non formale, come precisa ZANARONE, cit., 729, nt.29
18
sostanzialmente equivalente delle due ipotesi, concludendo nel senso della necessità che il
cambiamento sia significativo, come prescritto in materia di s.p.a.60.
A supporto della prima tesi militerebbe non solo (e non tanto) la differenza lessicale fra le norme
degli artt.2473 e 2437 c.c., quanto la valutazione per cui la prescrizione del carattere significativo
della modifica dell’oggetto sociale nella s.p.a. “bene rientra in un quadro di minor tutela
complessiva che in questo tipo societario viene accordata al singolo socio di fronte alle istanze di
funzionalità del gruppo di controllo, anche per la maggior facilità che l’azionista ha di utilizzare un
mezzo di trasferimento alternativo al recesso quale il trasferimento della partecipazione”61.
Resta tuttavia da spiegare la ragione per cui, in materia di s.r.l, si sia optato per il termine (e, quindi,
si suppone, per il concetto di) “cambiamento” in luogo di “modifica” dell’oggetto sociale, a
confortare l’idea per cui si sia inteso privilegiare il profilo sostanziale del mutamento delle
condizioni di rischio62 o delle modalità di partecipazione alla società 63, in coerenza sistematica con
la causa di recesso rappresentata dal compimento di operazioni devianti rispetto all’oggetto
statutario.
A proposito di quest’ultima fattispecie, certamente la norma va letta in combinato disposto con
l’art.2479 n.5 c.c., e quindi l’esercizio del diritto di recesso pretende una preventiva decisione dei
soci, e non semplicemente il compimento dell’atto ultra vires64, per tutelarsi dai quali il socio potrà
ricorrere all’azione di responsabilità individuale concessa nell’art.2476 c.c65.
Piuttosto problematica, anche per la rilevante incidenza pratica, risulta l’applicazione del diritto di
recesso legale “qualora l’atto costitutivo preveda l’intrasferibilità delle partecipazioni o ne subordini
60
Così STELLA RICHTER, cit,, 405; ANNUNZIATA, cit., 469; Orientamento I.H.1 del Comitato Triveneto dei Notai in
materia di atti societari, Milano, 2011, 187; MAGLIULO, cit, 253. Nella stessa direzione, in definitiva, sembra muoversi
REVIGLIONO, cit, 82 ss., in particolare 85,, laddove ritiene che non legittimino il recesso non solo le “mere modifiche
formali, come la correzione di errori materiali”, o la “aggiunta di specificazioni od integrazioni allo scopo di chiarire e
determinare con maggior precisione l’ambito dell’attività”, ma anche i) lo “inserimento della clausola, assai ricorrente
nella prassi statutaria, secondo la quale è consentito lo svolgimento di tutte quelle attività che risultino funzionalmente
connesse e preordinate alla realizzazione dell’attività principale” e soprattutto ii) l’introduzione di quelle attività “che
rappresentano, alla luce di valutazione empirica, fondata su un criterio di normalità riferito ad un certo momento
storico, il prevedibile sviluppo e la logica evoluzione dell’attività principale, in una logica di integrazione e
complementarieta’ ”.
61
ZANARONE, cit., 798, nt.29.
62
Così ANNUNZIATA, cit., 470, per il quale la modifica dell’oggetto sociale è significativa “quando comporta un
mutamento delle condizioni di rischio (anche solo potenziali) che il socio aveva originariamente valutato, all’atto
dell’investimento nella società”, anche se non comporta un aggravamento.
63
Si pensi al caso del socio che si è impegnato a prestare attività lavorativa nella società, qualora, pur non mutando il
settore di attività, si mutino per statuto le modalità di azione ed esercizio della stessa attività, così da non rendere più
necessaria la prestazione di quel socio. In tale prospettiva sembra REVIGLIONO, cit, 85, per il quale si tratta di valutare
essenzialmente se la modifica dell’oggetto sociale “comporti un’alterazione della sostanza e dell’identità
dell’operazione d investimento, così come originariamente programmata”.
64
ANNUNZIATA, cit., 489; ZANARONE, cit, 790, nt.30.
65
FRIGENI, Le fattispecie legali di recesso, Commentario, dedicato a Portale, Milano, 2011, 462, ove una casistica delle
operazioni che secondo la dottrina potrebbero attribuire il diritto di recesso, operazioni fra le quali spiccano l’acquisto
di partecipazioni in altre imprese secondo i parametri indicati nell’art.2361 c.c. per le s.p.a.; la cessione di ramo di
azienda, l’affitto o la cessione dell’intero complesso aziendale.
19
il trasferimento al gradimento di organi sociali, di soci o di terzi, senza prevederne condizioni o
limiti”, ai sensi dell’art.2469 c.c..
Già l’identificazione delle fattispecie che fondano il diritto è controversa.
Si è autorevolmente sostenuto, per esempio, che solo l’intrasferibilità assoluta può legittimare il
recesso, che non spetta qualora sia concesso un qualsiasi spiraglio, anche cronologico, alla
trasferibilità della partecipazione66.
In termini generali si potrebbe propendere per il seguente criterio di valutazione: la certezza
oggettiva ed aprioristica di poter disinvestire esclude il recesso; ogni margine di incertezza
autorizza il recesso.
Pertanto, qualora il gruppo si limiti a regolamentare la cessione, che è garantita come risultato certo,
il diritto di recesso non ha più ragione di operare.
Alla luce del criterio proposto risulta agevole aderire alla proposta interpretativa riportata, con
qualche motivo di perplessità rispetto alla clausola di intrasferibilità temporanea 67 se non si
reperisce nelle norme di legge un limite temporale di efficacia superato il quale il recesso diviene un
diritto insopprimibile. Diversamente, infatti, il patto statutario sembra prestarsi ad impieghi elusivi
del diritto di exit del socio mediante la previsione di termini di vigenza commercialmente
inaccettabili, seppur compresi nei limiti di durata della società (si ipotizzi il caso, per esempio, della
clausola di intrasferibilità dalla vigenza “limitata” a quindici anni, nell’ambito dell’organizzazione
di una società della durata di oltre cinquanta anni).
In tale prospettiva un indice normativo significativo sembra offerto dall’inciso finale dell’art.2469
c.c., il quale consente di precludere il recesso al massimo per due anni dalla costituzione della
società o dalla sottoscrizione della partecipazione.
Secondo la lettura maggioritaria, il limite può operare solo a carico dei soci fondatori o di coloro
che sottoscrivono quote di nuova emissione in sede di successivi aumenti del capitale sociale68.
A ben vedere la regola legale autorizza la relativizzazione della compressione del diritto di recesso
rispetto ad ogni singola partecipazione, senza che assuma rilevanza la durata di vigenza della
clausola che vieta la circolazione delle partecipazioni (secondo la scelta compiuta nell’art.2355 bis
66
ZANARONE, cit., 580, per il quale “non legittimano di conseguenza il recesso, in quanto suscettibili di lasciare uno
spiraglio al trasferimento (salvo che non rientrino in una delle suddette ulteriori fattispecie), né un’intrasferibilità
temporanea (quindi neppure quella ultraquinquennale vietata nella s.p.a. dall’art.2355 bis con riferimento alle clausole
statutarie e dall’art.2341 bis con riferimento ai patti parasociali), né un’intrasferibilità parziale (come quella che
escludesse la divisione della partecipazione) né un’intrasferibilità soggettivamente limitata dal punto di vista dei
destinatari (come quella che consentisse il trasferimento ai soli soci o ai soli soggetti in possesso di determinate
caratteristiche professionali o strutturali) né un’intrasferibilità condizionata (come quella che consentisse il
trasferimento solo al verificarsi di certi eventi quali la manifestazione di un gradimento non mero, o il mancato esercizio
di un diritto di prelazione”.
67
In tal senso anche FELLER, commento all’art.2473, in Commentario alla riforma delle società, diretto da Marchetti,
Bianchi, Ghezzi, Notari, Società a responsabilità Limitata (a cura di Bianchi), Milano, 2008, 342.
68
In tal senso GALLETTI, Commento all’art.2469, in Codice Commentato delle S.r.l., diretto a Benazzo e Patriarca,
Torino, 2007, 162; FELLER, cit., 2470.
20
c.c.) : infatti, ogni socio, in qualunque momento “sottoscriva” una nuova quota di capitale, anche se
decorsi molti anni dall’introduzione in statuto del limite alla circolazione, è soggetto all’interdizione
biennale
dell’esercizio
del diritto
di recesso. Sembra
quindi
un’ulteriore
ipotesi di
soggettivizzazione delle regole organizzative della s.r.l., in ciò potendosi cogliere e spiegare la
differenza rispetto alla disciplina della s.p.a., che invece rende oggettiva la regola imponendo un
termine di efficacia alla clausola interdittiva della circolazione azionaria69.
Mi pare di poter concludere che qualunque clausola di intrasferibilità delle partecipazioni, ad
eccezione di quella ad efficacia contenuta nel limite di due anni dall’introduzione, legittima il diritto
di recesso.
Problema topico resta quello, a cui in precedenza si è fatto cenno, del momento nel quale può essere
esercitato il diritto di recesso.
Rispetto alla clausola di intrasferibilità assoluta, vi è sostanziale concordia in dottrina: ogni socio,
anche se di maggioranza, può comunicare in ogni momento la propria volontà di recedere a
prescindere dal verificarsi di un’occasione di vendita, potendo quindi scegliere l’occasione più
propizia per disinvestire sotto il profilo patrimoniale70.
Maggiori dubbi sorgono allorché il diritto di recesso sia fondato sulla presenza di una clausola di
gradimento mero. Il tenore letterale dell’art.2469 c.c., infatti, autorizza la conclusione per la quale la
sola presenza della clausola legittima ogni socio ad esercitare il diritto di exit, alla stregua di quanto
accade in caso di intrasferibilità assoluta, a prescindere quindi dal verificarsi di un’opportunità di
alienazione della partecipazione e dall’ostacolo rappresentato dal rifiuto di placet espresso da chi è
statutariamente legittimato (organo sociale, altri soci, terzi)71.
La proposta interpretativa, per quanto un tempo perorata anche dal sottoscritto, risulta in fin dei
conti inadeguata sul piano del contemperamento degli interessi in gioco, come segnalato anche dalla
dottrina più recente.
Infatti, finché il gradimento non è stato negato, e quindi si è materializzato per il socio il rischio di
restare prigioniero della società, risulta potenzialmente intatta la possibilità di disinvestire mediante
69
Dunque sembra così spiegarsi la diversa disciplina della s.r.l. rispetto a quella della s.p.a.. Nella prima il termine
biennale di esclusione del diritto di recesso di fatto si “rinnova” ogni volta rispetto alle quote di nuova emissione, così
che potrebbero esservi soci con diritto di recesso e soci impossibilitati ad esercitare quello stesso diritto per almeno due
anni; nella s.p.a., al contrario, il termine è fisso, di cinque anni, decorsi il limite alla circolazione non opera, a meno che
non sia prevista la facoltà di recesso: facoltà che tuttavia potrà essere esercitata da chiunque a prescindere dal momento
di sottoscrizione o acquisto delle partecipazioni.
Piuttosto, rispetto alla s.r.l., se si condivide la proposta interpretativa, può emergere un problema nel caso di
quote sottoscritte da un medesimo socio nel corso di più anni, stante la regola dell’unitarietà della partecipazione.
70
In tal senso OLIVERI, Il trasferimento inter vivos delle quote, in S.r.l., Commentario, dedicato a Portale, Milano, 2011,
327; ZANARONE, cit., 589, nt.80; nonché l’Orientamento I.I.13 del Comitato Triveneto dei Notai in materia di atti
societari, Milano, 2011, 193.
71
ANNUNZIATA, cit., 497; ZANARONE, cit., 589, nt.80.
21
trasferimento ad altri della partecipazione, poiché non è detto che il legittimato (solitamente gli altri
soci) si frapponga.72
Dunque, perché concedere al socio una sorta di tutela anticipata, da “pericolo di intrasferibilità”, a
prescindere dal fatto?
Merita attenzione sul piano applicativo la causa di recesso rappresentata dalla decisione di compiere
operazioni che comportano una rilevante modificazione dei diritti particolari di cui all’art.2468
quarto comma c.c..
Non convince la tesi per la quale la decisione in merito a tali operazioni dovrebbe essere
ordinariamente assunta all’unanimità, per i riflessi che genera sui diritti particolari, in conformità a
quanto disposto nell’art.2468 c.c., e che pertanto la peculiare causa di recesso viene in gioco solo
allorché in sede statutaria si sia derogato, come consentito, alla disciplina legale73.
Già il riferimento alle “operazioni” ed alla loro idoneità ad incidere in maniera “rilevante” sui diritti
particolari suggerisce l’idea che si abbia a che fare con qualcosa di diverso rispetto ad una modifica
diretta dei medesimi diritti: è preferibile ritenere, da un lato, che l’art.2473 c.c. si preoccupi delle
modifiche indirette; dall’altro, che il recesso debba essere attribuito in via interpretativa qualora i
patti sociali consentano la modifica a maggioranza dei diritti particolari, in questo caso a
prescindere dal fatto che la modifica sia rilevante o meno74.
La fattispecie legale rappresenta un punto di mediazione fra l’interesse della maggioranza ad
operare e quello della minoranza a conservare l’intangibilità dei diritti particolari di fronte ad atti
che possano determinarne il sostanziale indebolimento o lo svuotamento.
Giova innanzitutto rammentare che ai sensi dell’art.2479 secondo comma n.5) c..c ogni operazione
capace di incidere sui diritti dei soci, genericamente intesi, deve essere decisa da questi ultimi: nel
novero rientrano certamente anche le operazioni indicate nell’art.2473 c.c.75.
Dunque, il diritto di recesso sorge solo a fronte di una decisione dei soci, e spetta secondo la
dottrina pacifica 76 non solo a coloro che, in quanto titolari del diritto particolare, siano direttamente
lesi, ma ad ogni socio non consenziente, in coerenza con le regola legale per la quale per le
modifiche dei diritti particolari occorre il consenso unanime, a conferma della loro rilevanza
organizzativa.
Sono stati proposti più esempi pratici di operazioni idonee a generare tale diritto: il conferimento di
azienda in altra società, per esempio, idoneo ad incidere in maniera rilevante sia sul diritto a
72
Cosi FELLER, cit,, 2469, per il quale, “il diritto di recesso, anche in questo caso, scatterà non per il solo fatto che la
clausola statutaria esista, ma esclusivamente laddove il gradimento sia negato”; nello stesso senso l’Orientamento I.I.13
del Comitato Triveneto dei Notai in materia di atti societari, cit.; OLIVERI, cit., 327;
73
Così ANNUNZIATA, cit., 492 nello stesso senso sembra REVIGLIONO, cit,, 152.
74
ZANARONE, cit., 794.
75
Per un’esaustiva analisi delle questioni che tale fattispecie di recesso propone si rinvia a FRIGENI, cit,, 464.
76
Per tutti, FRIGENI, cit., 465,ove ampi rinvii.
22
partecipare all’amministrazione sia sul diritto agli utili, in quanto l’impresa sociale, a seguito
dell’apporto, verrebbe gestita solo indirettamente e la distribuzione del dividendo dipenderebbe da
una decisione assunta dai soci della partecipata; la nomina di managers che di fatto svolgano una
serie di funzioni gestionali con “diminutio” dell’eventuale diritto particolare a partecipare
all’amministrazione della società77.
Una ultima annotazione riguarda il diritto legale di recesso da società contratta a tempo
indeterminato.
Non rientra nella fattispecie la durata eccedente la vita umana, sulla falsariga di quanto previsto
nell’art.2285 c.c. in materia di società di persone: non tanto in ragione del fatto che i terzi non
avrebbero certezza circa la ricorrenza o meno della causa di recesso78 (essendo già tutelati dalle
regole relative alla liquidazione della partecipazione), quanto perché quell’incertezza graverebbe in
maniera drammatica sui soci, specialmente se trovasse applicazione la regola della libera
trasferibilità delle quote (non sapendo a priori chi è l’acquirente e quindi ignorando la sua età).
La situazione è ben diversa, nella circostanza, da quella che sussiste allorché sia previsto nei patti
sociali il diritto di recesso ad nutum: in tal caso, infatti, i soci accettano consapevolmente il rischio
che ognuno di essi possa disinvestire da un momento all’altro. Invece, qualora si ritenga di
attribuire rilevanza all’età del singolo socio rispetto alla durata della società, non ricorre una scelta
volontaria, ed accettata, ma la facoltà di disinvestimento è affidata alla sorte, nel senso che dipende
dalle condizioni soggettive di coloro che via via entreranno a far parte della compagine sociale, e
come tale avvolta nella nebbia dell’incertezza per i partecipanti all’operazione economica, unici che
potrebbero risultare gravemente lesi da una richiesta imprevedibile di liquidazione.
Occorre infatti non trascurare che la regola dell’art.2285 c.c. trova applicazione rispetto a modelli
organizzativi nei quali la circolazione della partecipazione è preclusa ex lege senza il consenso degli
altri soci, operando come modifica contrattuale ai sensi dell’art.2252 c.c., profilo che sembra
rendere impropria l’applicazione estensiva della causa legale di recesso all’ambito sistematico della
società a responsabilità limitata, caratterizzato dalla libera trasferibilità della partecipazione, o
comunque dalla facoltà di disinvestimento, come stabilito dall’art.2469 c.c.79.
Non sembra infine aver ragione nemmeno di porsi la questione se l’unico socio, o tutti i soci
contestualmente, di società a tempo indeterminato possano recedere: se l’unico socio o tutti i soci
all’unisono decidono di disinvestire formalizzeranno lo scioglimento volontario e l’apertura della
fase di liquidazione, per la banale considerazione che non sussistono quelle ragioni di conflitto
77
FRIGENI, cit.., 464.
Cosi ZANARONE, cit, 799.
79
Dunque, non sembra ricorrere quell’esigenza di omogeneità di soluzione con le società di persone invocata dal
ANNUNZIATA, cit., 495.
78
23
(definizione del tempo massimo del disinvestimento se non è prefissata la durata) la cui soluzione è
rappresentata dal recesso.
7. Modalità di esercizio del diritto di recesso. Il recesso parziale.
Se il primo comma dell’art.2473 c.c. rimette all’atto costitutivo la definizione delle modalità di
esercizio del diritto di recesso, emerge pur sempre la necessità di individuare norme di riferimento
sia per definire i limiti entro i quali l’autonomia priva può muoversi, sia per ovviare a sue eventuali
carenze.
Infatti, sotto il primo profilo si deve ritenere applicabile anche nelle s.r.l., sebbene non
espressamente sancita, la regola per la quale è nullo ogni patto diretto a rendere più gravoso
l’esercizio del diritto di recesso80, regola che, basandosi su di una valutazione relativa, presuppone
un termine normativo sul quale misurare l’incremento di gravosità; sotto il secondo profilo non è
pensabile che la mancanza di una regolamentazione pattizia renda impraticabile un diritto che, in
virtù di quanto detto, la legge considerare essenziale per l’equilibrio dei rapporti sociali fra
investitori81.
E’ tesi condivisa82 che al problema si possa ovviare mediante l’applicazione analogica razionale, e
non pedissequa, dell’art.2437 bis c.c. dettato in materia di s.p.a..
Ne deriva che, al di fuori dei casi previsti dalla legge (art.2473 comma secondo, c.c., art. 2469 c.c.83,
e art.34 D.lgs.5/2003), nel silenzio dei patti sociali il recesso dovrà essere esercitato entro quindici
dall’iscrizione nel registro delle imprese della delibera che lo legittima, oppure entro trenta giorni
dalla conoscenza del fatto che ne è causa da parte del socio, soluzione che è ritenuta funzionale alle
esigenze di operatività dell’organizzazione sociale84.
La questione del termine di esercizio e della sua decorrenza resta peraltro aperta rispetto a quelle
decisioni che non sono soggette ad iscrizione nel registro delle imprese (decisione di compiere atti
che comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale, per esempio).
Sembrano plausibili, in primo luogo, la soluzione di prendere come riferimento la loro trascrizione
nel libro delle decisioni dei soci, sulla falsariga di quanto previsto nell’art.2479 ter c.c. in materia di
impugnazione, poiché l’avvenuta convocazione ha reso nota al socio la possibilità del verificarsi di
una causa di recesso, con conseguente onere a suo carico di tenersi informato in merito, se
80
Così anche ZANARONE, cit., 816.
ZANARONE, cit., 809, per il quale una sanzione così drastica sarebbe in contrasto con la ratio dell’istituto.
82
Per ampi riferimenti si veda da ultimo GARCEA, Profili procedimentali del recesso, Commentario, dedicato a Portale,
Milano, 2011, 487; Orientamento I.H.2 del Comitato Triveneto dei Notai in materia di atti societari, Milano, 2011, 193.
83
Con riferimento al recesso azionato in virtù di quanto disposto nell’art.2469 c.c. si rinvia alle pagine che precedono,
ricordando che per larga parte della dottrina in tal caso “la decisione del socio di recedere è rimessa alla sua
insindacabile ed arbitraria determinazione”: così MAGLIULO, cit.,, 274.
84
MAGLIULO, cit., 276; ZANARONE, cit., 812; ANNUNZIATA, cit, 514.
81
24
interessato85; in secondo luogo, la scelta di concedere un termine di trenta giorni 86, assimilando tali
decisioni al “fatto” di cui all’art.2437 bis c.c., categoria capace di ricomprendere, per la sua
genericità, ogni causa di recesso diversa dalla delibera suscettibile di iscrizione nel registro delle
imprese.
E’ auspicabile, peraltro, che lo statuto contribuisca a fare chiarezza sul punto, rammentando che
rispetto alla cause legali di recesso opera il principio per cui è nullo ogni patto diretto a rendere più
gravoso l’esercizio del diritto, con l’effetto che il rinvio alla, o la riproposizione della, disciplina
della s.p.a. sembra rappresentare la soglia minima di garanzia del socio; conclusione, quest’ultima,
che non può essere riproposta rispetto a cause volontarie, che potrebbero anche non essere concesse,
e rispetto alle quali pertanto la maggior gravosità opera come gradazione della non spettanza.
Il termine di decadenza per l’esercizio del diritto deve intendersi rispettato con il solo invio, e non
con la ricezione da parte della società, poiché la natura recettizia della comunicazione assume
rilevanza non sotto tale profilo, ma solo sulla decorrenza degli effetti dell’esercizio del recesso, a
cominciare dall’obbligo di liquidare la quota87.
Circa le modalità di esercizio del diritto, in assenza di diversa previsione statutaria, la dottrina
attualmente maggioritaria propende per un’applicazione restrittiva della regola in tema di mezzi di
comunicazione, sostenendo che “sussiste anche nella s.r.l. quell’esigenza di conoscere senza
incertezze la consistenza della compagine sociale che ha indotto il legislatore della s.p.a. a scegliere
uno strumento particolarmente sicuro come la raccomandata, anche perché …. la figura di cui
sopra già appartiene al regime delle comunicazioni sociali di questo tipo societario”88.
Non sembra tuttavia necessario ascrivere al rinvio alla raccomandata una funzione diversa da quella
di garantire la prova dell’avvenuta spedizione entro il termine legale89.
Ne consegue che, da un lato, i patti sociali potranno sostituire o affiancare il mezzo postale con altro
strumento che assicuri la medesima prova legale (purché tale, rispetto alle cause legali di recesso,
da non rendere più gravoso l’esercizio del diritto); dall’altro, in assenza sia di previsioni
convenzionali sia di una disciplina legale suppletiva, il socio eserciterà validamente il suo diritto
avvalendosi a sua scelta di uno qualunque di tali mezzi (raccomandata a mano controfirmata per
ricevuta, posta elettronica certificata, fax). Anche una dichiarazione resa a verbale al termine
85
TANZI, sub. art.2473, in Società di capitali, Commentario a cura di Niccolini e Stagno D’Alcontres, 3, Napoli, 2004,
1537.
86
TRIMARCHI, cit, 534, il quale si discosta dalla tesi proposta laddove assimila tout court la decisione non iscritta nel
registro delle imprese al fatto, con la conseguenza di ritenere il termine decorrente dalla conoscenza da parte del socio,
quando essa sia.
87
Così ZANARONE, cit., 813, n.91; MAGLIULO, cit., 278, che invoca anche l’analogia con la disciplina legale della s.p.a..
88
ZANARONE, cit., 816, ove ampi riferimenti; nello stesso senso MAGLIULO, cit., 277, con le stesse argomentazioni,
ovvero evidenziando che il metodo della raccomandata è già conosciuto, in funzione suppletiva, nel sistema normativo
della s.r.l. per la convocazione dell’assemblea, ovvero in altro ambito nel quale è necessario garantire la prova della
spedizione; così anche ANNUNZIATA, cit., 515.
89
TRIMARCHI, cit, 531.
25
dell’assemblea può essere sufficiente, con la precisazione che “laddove la società prenda atto, a
mezzo del legale rappresentante presente in assemblea, dell’avvenuta comunicazione del recesso,
tale circostanza, lungi dal potersi qualificare come accettazione, giova esclusivamente a determinare
la conoscenza ex parte societatis dell’esercizio del recesso da parte di chi ne aveva conoscenza”90.
E’ legittimo il recesso parziale?
Può quindi il socio decidere di ridurre l’entità del suo
investimento, e non disinvestire completamente, come concesso espressamente nell’art.2437 bis c.c.
per le s.p.a.?
La questione è stata oggetto di attenzione fin dai primi commenti successivi alla riforma.
Sul punto la dottrina assolutamente maggioritaria propende per l’inammissibilità del recesso
parziale, in virtù della natura unitaria della partecipazione sociale o per la centralità della persona
del socio nell’ambito sistematico della s.r.l. 91, anche se si ammette la legittimità di un patto
statutario di segno opposto, in quanto migliorativo della posizione del recedente92.
Se il fronte teorico sembra compatto nel senso indicato, sul piano applicativo la soluzione risulta
certamente penalizzante per il socio, di solito di minoranza, e favorevole alla società; non sembra
espressione di un favor per il diritto di exit, inteso quale strumento di contrattazione con altri soci e
con la maggioranza della società, un mezzo “per “costringere” la maggioranza a negoziare le misure
in discussione, mediante un’attenta valutazione dei costi e benefici concernenti una decisione che
vede contrapposti diversi soci, come già ricordato in sede introduttiva, poiché lo stesso recedente è
posto di fronte ad un dilemma drastico: o dentro o fuori dalla società.
Normalmente, il fine della partecipazione, se non corredata di altri obblighi personali accessori e
non capitalizzati (come l’obbligo di prestare attività lavorativa proprio delle società artigiane), è pur
sempre quello tipico di un investimento, diretto ad ottenere una remunerazione del capitale
investito.
In tale prospettiva non sembra coerente costringere il socio di s.r.l., a fronte di una decisione invisa
incidente sulle prospettive del suo investimento, ad uscire dalla società, senza consentirgli invece di
ridurre quel suo investimento, specialmente se gli stessi patti sociali gli consentono una cessione
parziale della partecipazione, e quindi un disinvestimento parziale, pur nel rispetto di determinati
limiti alla circolazione della partecipazione. Limiti che spesso trovano un corrispondente nella
90
TRIMARCHI, cit., 534.
Così, ex multis, MAGLIULO, cit., 278, ove ampi riferimenti; ZANARONE, cit., 775 ss, nt.1; ANNUNZIATA, cit. 513-514;
STELLA RICHTER, cit., 410, per il quale, con argomentazione comune sostanzialmente a tutt, “in una società caratterizzata
dalla “rilevanza dei rapporti contrattuali tra i soci” (così l’art.3, comma 1, lett.a), l.3 ottobre 2001, n.366) quale è la
società a responsabilità limitata, lo stesso recesso non può che essere visto in termini non troppo disomogenei rispetto
alla figura del recesso negoziale come tale sempre inteso in termini di unitaria risoluzione unilaterale del contratto.
In tal senso anche REVIGLIONO, cit., 335-336, per il quale “l’inammissibilità del recesso parziale non deriva da
un impedimento di natura strutturale, legato cioè alla natura ed alla struttura unitaria ed inscindibile della
partecipazione, ma dalla considerazione del ruolo di preminenza che … il legislatore ha chiaramente inteso attribuire
alla persona del socio e alla sua identificazione con la partecipazione stessa”.
92
Orientamento I.H.11 del Comitato Triveneto dei Notai in materia di atti societari, Milano, 2011, 193.
91
26
disciplina del procedimento legale di recesso, laddove prevede l’interpello preventivo degli altri
soci e la possibilità di questi ultimi di indicare un terzo disposto ad acquistare la partecipazione del
recedente, secondo una formula che riecheggia quella della c.d. clausola di gradimento alla
francese.
E’ certamente vero che la “centralità del socio” che connota l’ambiente sistematico della società a
responsabilità limitata potrebbe condurre a soluzioni organizzative tali da costringere a non giocare
la partita del recesso integralmente nel campo capitalistico. Il socio, per esempio, potrebbe risultare
gratificato di diritti non correlati alla quantità della partecipazione, come i diritti particolari di cui
all’art.2468 c.c., con la conseguenza che potrebbe sembrare eccessivamente penalizzante per gli
altri soci la facoltà di ridurre volontariamente la misura della partecipazione conservando integri i
diritti, a differenza di quanto avviene nella s.p.a., nella quale eventuali situazione soggettive
peculiari sono sempre correlate ad azioni, seppur di categoria, con l’effetto che il recesso parziale
riduce anche la rilevanza del socio.
Se così è, il problema pretende una soluzione non astratta e generalizzante, ma calibrata sulla
configurazione degli assetti societari creati dai patti sociali.
Se l’oggetto sociale e i patti evidenziano una logica di mero investimento sottesa alla partecipazione
(per esempio: attività immobiliare o produzione di energie rinnovabili), con facoltà di cessione
parziale, seppur “controllata”, della partecipazione, non vedo ostacoli, per coerenza, ad ammettere
la possibilità di un recesso parziale, tecnica di disinvestimento alternativa alla cessione.
Qualora invece lo statuto sia caratterizzato dall’attribuzione a singoli soci di situazioni soggettive
peculiari e diversificate rispetto al resto della compagine, si dovrebbe valutare come i soci hanno
complessivamente disciplinato il loro disinvestimento, sempre facendo riferimento alle clausole
volte a disciplinare la cessione della partecipazione di tali soci e gli effetti sulle loro situazioni
soggettive: allo stesso modo a mio avviso potrà operare il recesso93.
In termini esemplificativi: se in una società di mero investimento, senza attribuzione di diritti
particolari, si prevede la clausola di intrasferibilità assoluta, ne desumerei che anche il recesso non
può che essere totale. Se in una società sono attribuiti a determinati soci diritti particolari e si
93
Il parallelismo fra regole di circolazione della partecipazione e disciplina del recesso, nella prospettiva in esame, è
stato oggetto di puntuale critica da parte di REVIGLIONO, cit., 336, che considera “l’argomentazione non fondata, in
quanto “l’inammissibilità del recesso parziale non deriva da un impedimento di natura strutturale, legato cioè alla natura
ed alla struttura unitaria ed inscindibile della partecipazione, ma dalla considerazione del ruolo di preminenza che … il
legislatore ha chiaramente inteso attribuire alla persona del socio e alla sua identificazione con la partecipazione stessa”.
La giustificazione non convince, poiché sembra fondata su di una presa di posizione teorica, che non trova
riscontro sul piano economico e su quello degli interessi in gioco.
Nel senso proposto nel senso PISCITELLO, cit., 725, per il quale “la questione dell’ammissibilità del diritto di
recesso parziale appare correlata a quella della possibilità di cessione parziale della quota, nonché alla soluzione accolta
in ordine al problema della divisibilità delle quote nella società a responsabilità limitata. Infatti, in seguito al recesso
parziale si verifica una frammentazione della quota del recedente, che viene in parte mantenuta ed in parte liquidata,
realizzando un frazionamento della partecipazione di cui è titolare il recedente, non diversamente da quanto avviene in
seguito ad una cessione parziale della partecipazione”.
27
consente loro di ridurre l’entità della loro partecipazione, mediante cessione volontaria, senza
ripercussioni sul diritto particolare, allo stesso modo non vedo ragione per non consentire il recesso
parziale94.
Come ricordato, tuttavia, la dottrina assolutamente maggioritaria volge in altra direzione. Viene
allora da chiedersi: di fronte al recesso, necessariamente integrale, di un socio, gli amministratori e
gli altri soci possono giungere ad una mediazione concordando un exit parziale in assenza di una
clausola statutaria autorizzativa in tal senso?
Mi pare che la regola possa essere reperita tramite una ponderazione degli interessi coinvolti.
Esclusa qualsiasi rilevanza dell’interesse del ceto creditorio, per quanto già espresso in precedenza,
mi pare che si debba prestare attenzione solo a quello dei soci. Quindi non vedrei argomenti
plausibili ad una soluzione negativa in presenza del consenso unanime dei protagonisti della
vicenda economica, il recedente e gli altri soci.
9. Gli effetti della dichiarazione di recesso.
Il tema rappresenta certamente uno dei più dibattuti, se non il più dibattuto, per le rilevanti
implicazioni pratiche, ma pretende una puntualizzazione: oggetto del contendere interpretativo è la
determinazione della data dalla quale il recedente non è più ammesso all’esercizio dei diritti sociali.
La questione si risolve infatti in un dilemma: il ricevimento della dichiarazione di recesso determina
l’avvio del procedimento di liquidazione e la perdita dello status socii oppure solo l’avvio del
procedimento di liquidazione, dipendendo la perdita della qualità di socio dall’avvenuta
liquidazione della quota (essendo quindi effetto di quest’ultima)?
Il tema è stato oggetto di un recente contributo, analitico 95; sulla questione è intervenuta anche la
giurisprudenza, che, a parte una voce isolata96, si è per ora schierata a favore della tesi per la quale
l’esercizio del diritto di recesso priva da subito il recedente della qualità di socio e quindi della
legittimazione all’esercizio dei diritti sociali97, in questo contraddetta dalla dottrina maggioritaria,
più favorevole alla soluzione opposta98.
94
Nel senso del testo, da ultimo SPOLIDORO, Questioni in tema di recesso dalle società di capitali a margine di un libro
recente, Riv. Soc., 2012, Marzo – Giugno 2012, tratto da Archivio De Jure.
95
TRIMARCHI, Il recesso del socio dai tipi societari capitalistici e applicativi notarili, cit.
96
Trib. Tivoli, decr. 19 gennaio 2011, in Società, 2011, 1277, per il quale “il rapporto sociale dei soci receduti permane
in vita fino a quando le azioni vengano acquistate dagli altri soci o dai terzi, oppure dalla stessa società,o fino a quando
il rapporto sociale è sciolto singolarmente mediante la riduzione del capitale sociale o complessivamente mediante la
procedura di liquidazione della società”.
97
In tal senso, Trib. Napoli, ord., 11 gennaio 2011, in Società, 2011, 1152, per il quale “il recesso è un negozio
unilaterale recettizio giuridicamente efficace dal momento in cui la relativa dichiarazione è ricevuta dalla società. Da
tale momento il socio perde il suo status e, di conseguenza, la legittimazione ad esercitare i diritti sociali, divenendo
creditore della società per la liquidazione della quota.”; in precedenza, Trib. Roma 11 maggio 2005, in Società, 2006,
54; Trib. Trapani, 21 marzo 2007, in Giur. Comm. 2009, II, 524; Trib. Milano, 5 marzo 2007, in Giur. It., 2007, 12,
2775.
98
Per tutti si vedano ZANARONE, cit., 821 ss; REVIGLIONO, cit., 301; MAGLIULO, cit.,290; per puntuali riferimenti alla
dottrina TRIMARCHI, cit., 518, nt.9.
28
Il conflitto interpretativo certifica che il dato letterale delle norme non è dirimente, e può essere
utilizzato a favore dell’una o dell’altra tesi.
La partita si gioca sul tavolo degli interessi coinvolti, che sono due, quello del recedente e quello
degli altri soci, poiché la tutela del ceto creditorio è affidata alla disciplina delle modalità di
liquidazione.
Come rilevato con chiarezza99, la tesi che circoscrive l’efficacia della dichiarazione di recesso
all’avvio del procedimento di liquidazione, condivisa da gran parte della dottrina, evidenzia
un’istanza pressante di tutela del recedente, determinata dal fatto che non ha ancora ricevuto la
liquidazione e potrebbe essere costretto a rimanere in società per l’adozione di una delle modalità
legali di rimozione della causa di recesso (ai sensi dell’ultimo comma dell’art.2473 c.c.). La
precarietà della sua posizione giustificherebbe quindi la conservazione della legittimazione
all’esercizio dei diritti sociali, e trarrebbe conforto testuale dal dato per cui la partecipazione non si
estingue con il ricevimento della dichiarazione di recesso, in quanto costituisce oggetto di atti
traslativi100.
Il problema della contraddizione fra “sopravvivenza” della partecipazione e perdita dello status
socii non sembra tale: l’esercizio dei diritti sociali afferisce al piano della legittimazione, non a
quello dominicale, e si può essere proprietari della partecipazione senza essere legittimati ad
esercitare tali diritti101.
Sembra sufficiente rammentare, in proposito, le conclusioni cui perviene la dottrina in merito al
caso della violazione delle regole in tema di circolazione delle partecipazioni: “lo statuto non può
incidere sul regime di circolazione della partecipazione intesa come bene, ma può soltanto impedire
che chi ha acquistato la partecipazione in violazione dello statuto eserciti i diritti sociali (o i più
importanti fra tali diritti)”.102 Se ne desume che l’unico effetto delle clausole limitative della
circolazione è quello di incidere sulla legittimazione all’esercizio dei diritti sociali, senza assumere
rilevanza rispetto al trasferimento fra le parti (in assenza di una precisa volontà in tal senso delle
medesime), che risulta perfezionato in virtù del principio consensualistico (o della girata)103.
99
TRIMARCHI, cit., 525.
Si veda esplicitamente in tal senso, fra gli altri MAGLIULO, cit., 290.
101
Contraddice in maniera autorevole tale asserzione ZANARONE, cit, 823, secondo il quale la tesi è “insostenibile dal
punto di vista sia sistematico sia degli interessi tutelati”, in quanto, sotto il primo profilo, la disgiunzione della
legittimazione dalla titolarità “potrebbe trovare il proprio fondamento solo nel diritto positivo, che qui risulta invece
silente”.
102
STANGHELLINI, cit, p.561.
103
STANGHELLINI , cit.,p.589, per il quale “l’acquisto del terzo non è di per sé nullo, in quanto non compete allo statuto
incidere sulla validità o sull’invalidità di atti stipulati fra terzi, né la violazione della clausola statutaria può essere
equiparata alla violazione di norma imperativa”
100
29
La digressione consente di ribadire che le regole organizzative della società, a cui partecipa anche il
recesso, si limitano a definire i criteri e le modalità “mediante i quali il soggetto si inserisce nella e
partecipa all’azione societaria.”104.
Non sembra quindi impossibile qualificare il ricevimento della comunicazione di recesso come fatto
che incide sulla legittimazione all’esercizio dei diritti sociali, ferma restando la proprietà della
partecipazione.
Il problema resta sul piano della tutela degli interessi contrapposti.
Come accennato, secondo la maggior parte degli interpreti è dirimente la facoltà riconosciuta alla
società, quindi agli altri soci (o almeno a quelli rappresentanti la maggioranza), di privare di
efficacia il recesso, evento a seguito del quale il recedente potrebbe vedere, suo malgrado,
consolidarsi per tutta la durata della società “un rapporto da cui aveva inteso liberarsi e sul quale
solo altri avrebbero avuto nel frattempo la possibilità di influire qualora venisse negata la possibilità
di esercitare medio tempore i diritti di socio”105. Si prospetta a titolo di esempio il rischio di
annacquamento della partecipazione qualora la società nel frattempo abbia deliberato un aumento di
capitale a cui il receduto non abbia potuto partecipare, essendo stato privato della legittimazione
all’esercizio dei diritti sociali106.
Il rischio paventato è immanente, ma forse occorre una valutazione più analitica.
La società può vanificare il recesso in due modi, deliberando lo scioglimento o deliberando la
revoca della decisione dei soci che lo legittima.
Quest’ultima possibilità riguarda solo le ipotesi di recesso originato da delibera, e non quelle
determinate da altri fatti107. Dunque, l’area del rischio si restringe108.
Aggiungerei, ulteriormente, che la decisione dei soci può essere revocata se non eseguita, secondo
le regole generali in materia di revocabilità delle delibere109.
Qualora sia stato stipulato l’atto di fusione o di scissione, oppure qualora la trasformazione sia stata
iscritta nel registro delle imprese, non vi è più spazio per la revoca110.
104
ANGELICI, Le azioni, in Commentari. Scialoja -Branca, Milano, 1992, 360 e ss.
ZANARONE, cit., 824.
106
ZANARONE, cit., 824, nt.114.
107
In tal senso ZANARONE, cit., 819; TRIMARCHI, cit., 535, per il quale “quando il recesso sia originato da un “fatto”, alla
società che intenda paralizzarne gli effetti non resta che reagire con la messa in liquidazione”. In senso contrario
REVIGLIONO, cit., 326, secondo il quale la società potrebbe in altro modo, in applicazione logico- estensiva della
disposizione, rimuovere la causa legittimante il recesso; così anche ANNUNZIATA, cit., 519.
108
A meno che non si voglia ammettere estensivamente la facoltà per la società di rimuovere ogni possibile causa di
recesso, se materialmente possibile. In tal senso REVIGLIONO, cit.,
109
REVIGLIONO, cit. 321, per il quale “la revoca deve considerarsi preclusa nel momento in cui la delibera si sia tradotta
nel compimento di quell’atto “esecutivo” che consente di realizzare compiutamente gli effetti “esterni” che
necessariamente discendono dalla sua natura….” ; nello stesso senso TRIMARCHI, cit., 536.
110
Così anche REVIGLIONO, cit, 318 ss.
105
30
In termini generali, deve escludersi la revocabilità di ogni delibera cha abbia avuto un principio di
esecuzione, “in quanto l’avvio dell’esecuzione della delibera esprime la precisa volontà da parte
della società di dare seguito al risultato avverso il quale il recesso si è manifestato”111.
I limiti individuati alla revocabilità della deliberazione che è causa di recesso non sembrano tuttavia
assicurare al recedente un livello sufficiente di tutela.
Se la logica della facoltà concessa alla società nell’ultimo comma dell’art.2473 c.c. è quella “di
evitare che l’esercizio del recesso da parte di uno o più soci ed il conseguente obbligo di rimborso
del valore delle rispettive partecipazioni possa determinare una rilevante alterazione della situazione
patrimoniale e finanziaria della società, e quindi, in definitiva, un’eventuale compromissione
dell’operatività stessa dell’ente”112, un razionale equilibrio di interessi postula che per effetto della
revoca sia ripristinata integralmente la posizione del socio recedente. In altri termini, la revoca priva
di efficacia il recesso sul presupposto implicito che, per effetto di tale scelta, il recedente si ritrovi
nella posizione esistente prima della delibera revocata, a mio avviso anche sotto il profilo della
caratura della sua partecipazione113.
Il che non è se nelle more fra la comunicazione del recesso e la revoca della decisione che lo ha
legittimato la società ha assunte altre delibere idonee, per contenuto, ad alterare le condizioni
dell’investimento del recedente: non solo delibere di aumento del capitale, per richiamare l’esempio
proposto, ma anche quelle di trasformazione, di fusione, di scissione, e più in generale quelle che
costituiscono, per legge o per statuto, causa di recesso.
Peraltro, di fronte a tali ipotesi non sembra che la conservazione medio tempore della legittimazione
all’esercizio dei diritti sociali rappresenti per il recedente un valido strumento di tutela: è sufficiente
rammentare, in proposito, che è socio di minoranza, poiché diversamente non si sarebbe prodotta
nemmeno la fattispecie che legittima il recesso. La tutela resterebbe allora affidata solo alla difficile
impugnazione per abuso della maggioranza.
Mi sembra allora che il bilanciamento degli interessi pretenda che il ricorso alla revoca della
delibera che legittima il recesso sia possibile solo se consente l’invarianza delle condizioni di
partecipazione preesistenti alla delibera revocata; se nel frattempo la società ha assunto ulteriori
delibere capaci di alterare le caratteristiche della partecipazione, e quindi le condizioni
dell’investimento, la strada della revoca non è più percorribile.
Infatti, diversamente ragionando, anche ammesso che nel frattempo il recedente fosse legittimato ad
esercitare i diritti sociali, quale reazione potrebbe esercitare di fronte a tali delibere? Inviare
111
TRIMARCHI, cit., 536.
REVIGLIONO, cit., 316.
113
A meno che il mutamento di caratura di carattere relativo, cioè rispetto all’assetto generale della compagine sociale,
non sia dovuto a fatti o situazioni che lo stesso avrebbe dovuto subire anche se fosse stato socio: per esempio,
mutamenti di titolarità della partecipazione sociale in assenza di clausole limitative della circolazione.
112
31
un’ulteriore dichiarazione di recesso, laddove consentito per legge o per statuto, capace di operare
se viene revocata la delibera antecedente che lo aveva indotto a disinvestire? Oppure, in presenza di
una delibera di aumento del capitale a pagamento, sottoscrivere l’aumento e versare il
conferimento, per conservare il peso proporzionale della partecipazione a fronte della possibile
revoca della delibera che aveva legittimato il suo recesso? Quindi investire ancora mentre sta
tentando di disinvestire?
L’esperienza induce a dubitare della plausibilità concreta, economica, di tali soluzioni. Sembra
preferibile pretendere un atteggiamento coerente e corretto da parte dei protagonisti, oltre la lettera
della norma.
Se si condivide la visione, ne deriva che non è necessario affermare la permanenza della
legittimazione all’esercizio dei diritti sociali in capo al recedente, con il pericolo, dall’altro lato, di
esporre “la società alla presenza di un “socio” in fatto oramai esclusivamente interessato alla sola
realizzazione del proprio credito che non all’amministrazione, alla gestione, alla conservazione
dell’ente o allo sviluppo della sua attività d’impresa”114.
In definitiva, l’esigenza di contemperamento degli interessi in gioco rende preferibile la tesi per la
quale la dichiarazione di recesso determina anche la cessazione della legittimazione all’esercizio dei
diritti sociali del recedente, tutelato da un lato dalle regole in tema di determinazione del valore di
liquidazione, cristallizzato alla data della comunicazione del recesso, dall’altro dalla revocabilità
condizionata alla possibilità di effettiva rimessione in pristino del medesimo sotto il profilo delle
condizioni di partecipazione.
10. L’inefficacia e il venir meno della dichiarazione di recesso.
Della revocabilità della delibera causa di recesso da parte della società si è già detto.
Resta da precisare il termine entro il quale tale fatto debba accadere, poiché l’art.2473 c.c. è silente
sul punto, a differenza della disciplina legale della s.p.a..
Due le proposte interpretative in campo: applicazione analogica dell’art.2437 bis c.c., e quindi del
termine di novanta giorni ivi previsto, oppure riconoscimento della facoltà di revoca fino allo
spirare del termine per la liquidazione della quota del receduto, quindi fino alla scadenza del
centottantesimo giorno da quando è pervenuta la dichiarazione di recesso.
Se per alcuni la prima soluzione “rappresenta una soddisfacente bilanciamento degli interessi in
gioco, ovvero, da un lato, quello del socio recedente ad eliminare nel più breve tempo possibile la
situazione di incertezza che deriva dalla sussistenza della facoltà di revoca della delibera che ha
legittimato il recesso, d’altro lato quello della società ad avere u congruo lasso di tempo per
114
TRIMARCHI, cit., 528.
32
decidere sull’opportunità di rimuovere la delibera stessa”115, risulta prevalente l’orientamento116 che
riconosce alla società il maggior termine di 180 giorni, a patto che non ricorrano le condizioni
ostative in precedenza evidenziate117, o, in alternativa, che non abbia avuto inizio la liquidazione
della quota del receduto118.
In alternativa, ed entro il medesimo termine, la società potrà deliberare lo scioglimento, facendo
venir meno l’efficacia del recesso esercitato per sopravvenuta carenza funzionale: all’istanza di
disinvestimento individuale segue una decisione di disinvestimento collettivo di tutti i soci, così che
la prima non ha più ragione d’essere, conseguendo il socio recedente ugualmente il suo scopo
economico.
Lo stesso socio recedente, peraltro, potrebbe maturare un diverso convincimento e pentirsi del
recesso.
La revoca è generalmente ammessa ma solo fino a quando la comunicazione non è pervenuta alla
società, essendo comune convincimento che debbano applicarsi alla fattispecie i principi i generali
in tema di dichiarazioni recettizie119.
E’ certamente possibile che receduto e società si accordino per porre nel nulla la dichiarazione di
recesso già pervenuta120, in quanto si tratta di un interesse degli stessi, quindi disponibile.
L’unico profilo di dubbio riguarda la competenza decisionale in merito nella società: spetta
all’organo amministrativo o all’assemblea dei soci?.
Si è già rilevato che il recesso è strumento che interferisce nella dialettica fra maggioranza e
minoranza, nel senso che può valere per quest’ultima come arma di contrattazione a cui la prima
peraltro può non piegarsi, preferendo la liquidazione del socio piuttosto che la rinuncia ai suoi
progetti imprenditoriali; al contempo, una volta esercitato, il recesso determina il diritto degli altri
115
REVIGLIONO, cit., 324; nello stesso senso ZANARONE, cit., 817, nt.98.
In tal senso, STELLA RICHTER, cit., 233, TRIMARCHI, cit., 536; ANNUNZIATA, cit., 517; MAGLIULO, cit., 295;
Orientamento I.H.7 del Comitato Triveneto dei Notai in materia di atti societari, cit., per il quale “in mancanza di un
termine determinato dalla legge si ritiene che la società possa adottare la revoca della delibera che legittima il recesso,
ovvero della delibera di scioglimento della società, entro il termine di centottanta giorni previsto per l’eventuale
rimborso delle partecipazioni.”
117
Così anche l’ Orientamento I.H.8 del Comitato Triveneto dei Notai in materia di atti societari, cit., per il quale “la
revoca della delibera che legittima il recesso, ancorchè adottata nei termini, non rende esercitatile tale diritti o inefficace
quello già esercitato nell’ipotesi in cui la delibera revocata abbia prodotto effetti sostanziali nel periodo di validità (ad
esempio sono stati compiuti atti di amministrazione finalizzati al perseguimento del diverso oggetto sociale deliberato e
poi revocato)”.
118
Così anche TRIMARCHI, cit., 536; ANNUNZIATA, cit., 518.
119
Così, fra gli altri ZANARONE, cit., 827; TRIMARCHI, cit, 532; MAGLIULO, cit., 295, ove ampi rinvii ad altra dottrina ed
alla giurisprudenza Di diverso avviso è REVIGLIONO, cit., 300-301, per il quale la revoca sarebbe sempre possibile, per il
socio, fin quando non è spirato il termine per l’esercizio del diritto di recesso; secondo tale dottrina, infatti, “è vero che
in conseguenza della ricezione della dichiarazione di recesso questo diventa efficace per la società, ma, come si è visto,
il momento in cui si realizza un’effettiva attivazione da parte dell’ente delle procedure volte al rimborso della quota ed
in relazione al quale si pone l’esigenza, per l’ente medesimo, di conoscere esattamente ed in via definitiva il numero e
l’entità dei recessi è essenzialmente quello dello spirare del termine per l’esercizio del recesso; pertanto, solo da questo
momento in poi le richiamate esigenze di certezza e di stabilità organizzativa portano senz’altro ad escludere che le
dichiarazioni di recesso possano ancora essere ritrattate o revocate”.
120
In tal senso TRIMARCHI, cit., 533; MAGLIULO, cit., 296;
116
33
soci di acquistare la quota del receduto in funzione liquidativa, accrescendo la propria
partecipazione al capitale.
Alla luce di tali suggestioni mi pare, in definitiva, che la decisione di consentire al receduto di
rinunciare al recesso una volta divenuto efficace non possa essere rubricata fra gli atti di valenza
meramente gestionale, ma possieda un significato organizzativo che pretende il voto favorevole
della maggioranza degli altri soci.
34