Kenro Izu testo critico - Fondazione Fotografia

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Sara Dolfi Agostini
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Kenro Izu. Il tempo interiore della fotografia
Nel romanzo Amore a Venezia. Morte a Varanasi il critico
perché era caduto in disgrazia. Era solo un vecchio tem-
ma del College of Arts di Tokyo e 150 dollari. Il suo so-
sche di 16 x 20 pollici (40 x 50 cm): una scelta che gli
di fotografia e scrittore Geoff Dyer narra di un viaggio
pio diventato sbilenco e lasciato ai suoi capricci. Al pari di
gno americano inizia con una breve parentesi come la-
provocò non poche difficoltà nelle condizioni aride e in-
che lo porta dagli ambienti ludici e frizzanti dell’inaugu-
un vulcano né attivo né spento – né in una fase inter-
vapiatti in un ristorante giapponese al fianco di un ancora
clementi del deserto, ma che gli permise di ottenere
razione della Biennale di Venezia del 2007 a quelli pieni e
media – veniva ancora bene in fotografia”.
sconosciuto Hiroshi Sugimoto. Poi intercetta il mondo
delle stampe a contatto straordinariamente dettagliate e
precise.
mistici di Varanasi, una città che non esita a definire
Quel tempio per così dire “profanato” nel racconto
della fotografia di moda, di cui presto si stanca, e nel
“un mandala, un cosmogramma”. Lo spaesamento è si-
di Dyer è proprio quello ritratto in Varanasi #105, India,
1974 approda alla fotografia commerciale per dedicarsi
Per il giovane Izu l’attitudine sperimentale di Frith
mile a quello che si prova ad abbandonare il brulicante
scattata da Kenro Izu nel 1997 e inclusa nella serie “Sa-
a oggetti preziosi e nature morte. Il suo studio è rino-
nei confronti della fotografia è uno stimolo a individuare
mondo della fotografia contemporanea per concentrarsi
cred Places”. Il confronto tra parole e immagine è stri-
mato per la qualità tecnica: con abile maestria destreggia
il procedimento tecnico e l’attrezzatura più appropriata a
su “Sacred Places” di Kenro Izu. D’un tratto l’occhio è
dente. Dalla prospettiva di un tempo umano, fatto di
un arsenale di macchine fotografiche, dal 35 mm al
realizzare la propria idea. In occasione della sua prima
privato degli eccessi visivi a cui ci ha assuefatti la foto-
ore e giorni, Dyer descrive il tempio come appare oggi:
grande formato con negativi di 4x5 pollici (10x12 cm).
spedizione, infatti, porta con sé numerose macchine fo-
grafia digitale: immagini sature di colori e di contenuti, tal-
un rudere semi-affossato che non ha mantenuto la sua
Pratica la professione rassicurante di artigiano della fo-
tografiche, dal 35 mm al grande formato 8x10 pollici
volta dense indagini sugli effetti di consumismo, globa-
promessa di durare per sempre come simbolo di incon-
tografia per poco più di un quinquennio, riponendo nel
(20 x 25 cm), ma il risultato non lo soddisfa. Izu dovrà
lizzazione o gentrificazione, talaltra specchietti per le al-
tro trascendente con il divino. Nella fotografia di Izu, in-
cassetto il fascino per le atmosfere esotiche e miste-
perseverare nella sua ricerca formale fino al 1984, anno
lodole che rappresentano gusti e paradossi di una società
vece, è maestoso e solenne: si erge di fronte al fiume
riose degli “antichi sassi” e, soprattutto, delle piramidi
in cui riceve un finanziamento di 16.000 dollari dal Na-
post-industriale. Nella serie “Sacred Places”, che pro-
sacro come se l’effetto dello smottamento non ne aves-
egiziane che lo attiravano da bambino, quando la realtà
tional Endowment for the Arts americano per produrre la
segue idealmente in “Bhutan Sacred Within” e “India
se in alcun modo scalfito le proprietà spirituali. Il foto-
con cui si confrontava era quella di Hiroshima, una città
macchina fotografica trasportabile più imponente mai
Where Prayer Echoes”, Izu non accoglie questa realtà
grafo lo ammira da una certa distanza: non intacca l’aura
a cui la bomba atomica aveva negato ogni rapporto con
esistita. Si affida, dunque, alle sicure competenze di
caotica: con un apparecchio del XIX secolo e un pro-
che riverbera nel paesaggio, e anzi la coglie nelle prime
il passato.
Jack Deardorff, il quale costruisce per lui un apparecchio
cesso di stampa pressoché in disuso dagli anni venti
luci dell’alba, approfitta dell’assenza dei pellegrini e ne re-
del Novecento ritrae monumenti sacri in un paesaggio re-
stituisce un’immagine purificata da ogni elemento aned-
fotografo e imprenditore ottocentesco Francis Frith a
stituito alla sovranità della natura attraverso un com-
dotico e di disturbo. L’aria, poi, è densa: tocca il fiume
ricongiungerlo con le fantasie dell’infanzia e a convincerlo
Tuttavia, la perfezione stilistica è ancora lontana: i
plesso sistema di sottrazioni ed esercizi di stile.
sulla linea dell’orizzonte e abbraccia l’architettura mor-
a intraprendere, primo di molti, il viaggio in Egitto del
procedimenti di stampa convenzionali non convincono
L’apparente affinità iniziale tra la ricerca spirituale
bidamente. Se la descrizione romanzata di Dyer conse-
1979 da cui prende avvio la serie “Sacred Places”. Come
Izu finché non si imbatte nel procedimento al platino
dell’alter ego di Dyer e quella di Izu assume però con-
gna al lettore un’esperienza prosaica, la fotografia di Izu
altri suoi contemporanei (tra i quali Francis Bedford,
palladio, un tipo di stampa che, portato a livelli di eccel-
notazioni assai diverse nell’incontro a tu per tu con il luo-
è una visione che unisce al contributo degli occhi quello
Maxime du Camp e Auguste Salzmann) Frith era partito
lenza da Paul Strand, fu poi abbandonato per la com-
go devozionale. Avvicinatosi a un tempio sprofondato nel
della mente. È una sublimazione della realtà che proiet-
alla scoperta dei monumenti antichi in Egitto e nel vicino
plessità di sviluppo e il costo dei materiali. Come non ha
fango del sacro fiume Gange, il protagonista del libro
ta il tempio in un altrove spazio-temporale e oltrepassa
Medio Oriente nel periodo compreso tra il 1849 e il
esitato a scrivere l’esperto di fotografia Clark Worswick,
commenta: “avevo pensato che la sua vulnerabilità lo
epoche storiche e vite umane per significare un’eternità
1862. Il suo progetto, però, era più ambizioso dal punto
tra i primi a sostenerlo, “Izu aveva forse scoperto la
terrena.
di vista tecnico, in quanto aveva deciso di adoperare
strada più irta e meno accomodante per realizzare una
rendesse un luogo di culto particolarmente ricco di buo-
10
Sarà la scoperta, a fine anni settanta, del lavoro del
capace di montare negativi di 14x20 pollici (35x50 cm):
un esemplare unico al mondo.
ni auspici, ma a quanto pare mi sbagliavo. Era però im-
“Sacred Places” è il progetto di una vita e ha origi-
non il conveniente e sempre più diffuso calotipo conse-
stampa fotografica nella storia del medium”1. Una con-
possibile concludere che fosse del tutto in disuso, che il
ni lontane. Izu arriva a New York dalla nativa Osaka negli
gnato alla storia da William Henry Fox Talbot, bensì il pro-
statazione che spiega l’esiguità della sua produzione, di
suo potere si fosse del tutto esaurito semplicemente
anni settanta poco più che ventenne, in tasca un diplo-
cesso al collodio umido, applicandolo a lastre gigante-
appena duemila scatti fotografici.
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La caparbia insistenza di Izu su una tecnica ad alta
tografo deve vedere e sentire”; e ancora: “se il fotografo
cede e prefigura lo scatto, inducono ad andare oltre l’a-
tività di studio e classificazione di stampo illuminista.
manodopera, in controtendenza rispetto alle proposte fo-
non vede, la macchina fotografica non lo farà per lui”, co-
spetto formale delle stampe fotografiche per indagare la
Per Izu, invece, la fotografia è uno strumento d’indagine:
tografiche di oggi, impone una lunga temporalità e pro-
me spiega in un’intervista a John Paul Caponigro, figlio
dimensione spirituale ed escatologica dell’impresa di
non dei monumenti o delle architetture sacre in quanto
cessualità al suo lavoro. Non a caso “Sacred Places” è
del celebre fotografo.
Izu. Un aspetto se non assente certo non preponderan-
espressione di un senso di comunità o di un sentire re-
un progetto che il fotografo porta avanti senza soluzione
L’intera serie “Sacred Places” è intrinsecamente
te nel lavoro dei già citati fotografi esploratori del XIX se-
ligioso, bensì di un concetto di eternità che non è affer-
di continuità da oltre trent’anni. Per raggiungere i mo-
connessa all’idea di scoperta, e i viaggi non sono privi di
colo da cui trae ispirazione. Come argomentato da Ye-
rabile fotograficamente se non interrogando ogni volta il
imprevisti. In Mustang #47, Nepal del 1998, per esem-
shayahu Nir , infatti, Frith, Salzmann e Maxime du Camp
all’Isola di Pasqua, dal Messico ai ben più impervi e re-
pio, si vede una bandiera lacerata dalle intemperie e
sono profondi conoscitori di rovine e luoghi biblici che
Nel suo testo Hic Jacet, Robert Pogue Harrison,
moti luoghi di culto di cui sono costellati Tibet, Bhutan,
trattenuta a terra da un cumulo di pietre. Esposto alla
hanno studiato sui libri e che costituiscono, quindi, un pa-
professore di Letteratura italiana all’Università di
India, Cambogia, Laos e Siria, Izu intraprende viaggi di tre
scena dopo una scalata impegnativa, Izu ammette di
trimonio acquisito ricco di significati religiosi o storico-ar-
Stanford, riflette sui segni fondanti dell’umanità e sul va-
settimane con appena ottanta negativi da imprimere, al
essere colto da un’iniziale delusione per la semplicità del
tistici. Non si avventurano in una “terra incognita” da
lore che architettura e cultura materiale possiedono og-
numenti sacri e più misteriosi della terra, da Stonehenge
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paesaggio, alla ricerca delle tracce di un’epifania.
punto che non è inappropriato definire le sue spedizioni
ritrovamento, e tuttavia di sentirsi subito attratto da co-
scoprire, ma vanno a verificare e riportare l’esistenza di
gi, in un’epoca che sembra fagocitare ogni orizzonte di ri-
dei pellegrinaggi. A volte gli spostamenti sono agevoli, la
me quei pochi oggetti rappresentino l’essenza stessa
quanto già in loro possesso: gli inglesi (tra cui Frith) en-
ferimento che non sia ascrivibile all’immediato presente.
meta è turistica: si tratta di restare appostati per ore
della preghiera e della supplica. Nello scattare la foto-
fatizzando il rapporto tra i monumenti e il paesaggio in
Nell’impossibilità di conoscere la provenienza di quello
quando ancora il mondo dorme, in attesa del momento
grafia allarga l’inquadratura alle cime innevate che lo cir-
cui giacciono immersi, con un approccio alla composi-
che mangiamo, di immaginare un possibile ricongiungi-
opportuno, aprendo e chiudendo l’otturatore per man-
condano, combina luce e centralità del soggetto per ac-
zione dell’immagine più simile a quello di Izu seppur
mento con le nostre radici culturali e di sapere dove
tenere il controllo totale sugli elementi compositivi, in
centuare il senso di incursione di quel piccolo segno
ancora spiccatamente documentario; i francesi, invece,
mai saremo sepolti, l’incessante pellegrinaggio fotogra-
particolare luce e soggetto. Più sconfortante, e nondi-
dell’uomo nel paesaggio naturale.
mostrando particolari artistici e architettonici con inqua-
fico di Izu nei luoghi sacri esprime forse la necessità di ristabilire un legame con il nostro essere nel mondo?
meno di grande ispirazione, è la ricerca dei monasteri di-
Questa scelta stilistica ritorna in numerosi scatti ed
drature ravvicinate, ispirate dal desiderio di colmare la-
spersi in zone remote del pianeta, sconosciuti allo sguar-
è talvolta amplificata in fase di stampa, dove è associata
cune culturali e dagli stimoli delle prime spedizioni ar-
do disattento delle masse. Izu immagina di essere un fo-
a contrasti di bianchi e neri, come in Lamayuru Gompa
cheologiche.
tografo alpinista: una versione contemporanea di Vittorio
#49, Ladakh, India del 1999 o in Mt. Jomolhari #1, Bhutan
Come scrisse Elizabeth Eastlake, una contempo-
cicli della natura, cicli di eterno autorinnovamento e, per
Sella, che a fine Ottocento si arrampicava sulle vette più
del 2002. Anche quando non sono luci brillanti e ombre
ranea di questi pionieri, la fotografia era una “testimone
così dire [citando il poeta americano Wallace Stevens], ‘di
Scrive Pogue Harrison: “Un luogo non può nascere
senza che il tempo umano compia il suo intervento nei
alte delle Alpi armato di macchina fotografica per ripro-
diffuse a indirizzare lo sguardo, l’immagine è attenta-
fidata […] al servizio della meccanica, dell’ingegneria,
arbusto e uccello’. A intervenire nel tempo della natura è
durre in dettaglio ghiacciai e strati geologici. “Sei giorni di
mente calibrata: l’inquadratura del paesaggio è precisa,
della geologia, della storia naturale”, un agente di “fatti
la finitezza umana. Essa ci distingue da ogni altra cosa fi-
viaggio da montagna a montagna, da valle a valle, so-
chirurgica, la composizione che ne scaturisce è un coa-
che non rientrano nell’ambito né dell’arte né della de-
nita, perché la morte reclama da noi la consapevolezza
prattutto a piedi, talvolta a cavallo, a un’altitudine di più di
cervo di linee di forza che mostra uno stato delle cose in
scrizione, ma in quello di una nuova forma di comunica-
prima ancora della vita. Certo, risiediamo nello spazio, ma
4000 metri” scrive il fotografo giapponese nelle sue no-
divenire; un divenire non casuale, lento e inesorabile,
zione tra uomo e uomo – che non è né lettera, né mes-
la nostra dimora è costituita anzitutto dai limiti della no-
te di viaggio dal Nepal. Un calvario, con oltre 90 chili di at-
eppure quasi impercettibile per l’uomo, sempre più in-
saggio, né dipinto”3. Questo impegno nel campo della fo-
stra mortalità. Quando costruiamo qualcosa nella natura,
trezzatura, un numero limitato di negativi e vincoli anche
calzato dai tempi frenetici della società contemporanea.
tografia di viaggio era, dunque, guidato da un progetto
che sia appunto una dimora, un monumento, o persino
nel posizionamento dell’apparecchio fotografico. Da qui
L’esperienza performativa e anacronistica del viag-
enciclopedico che s’intersecava con altre aree del sapere
un fuoco, lì lasciamo un segno del nostro essere visita-
la necessità di imparare a guardare: “Dopotutto, un fo-
gio, unita a quella fenomenologica del guardare che pre-
e che aveva il suo antecedente pre-fotografico nelle at-
tori mortali, che sono di passaggio sulla Terra4”. In que-
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sta prospettiva, le limitazioni fisiche e tecnologiche con
ricamente assai pregnante del linguaggio fotografico,
zione critica ed estetica nei confronti della fotografia, e
sto con i propri occhi. L’istantanea è solo una delle tante
cui si misura Izu nella sua epopea fotografica sono sì ge-
ossia il rapporto fisico e visivo con la stampa. La profon-
certamente un antidoto al culto – o forse all’ansia – dello
possibilità espressive della fotografia: al polo opposto,
nerate da un anelito alla perfezione formale, ma sem-
dità e il livello di dettaglio dell’immagine analogica hanno
scatto, quell’irrefrenabile tentazione a guardare dentro
costruita confrontandosi con tutto ciò che la fotografia co-
brano anche riflettere un confrontarsi con la transito-
così ceduto il campo a cromie e contrasti esasperati dal-
l’immagine che si materializza nello schermo di macchine
me linguaggio e come tecnica ha incarnato in quasi due
rietà della vita: l’umanità al cospetto della propria finitez-
la manipolazione digitale.
fotografiche digitali e smartphone prima ancora di aver vi-
secoli dalla sua invenzione, c’è l’icona di Kenro Izu.
za. Nel suo offrirsi come un viaggio per così dire al di fuo-
Non si tratta di proporre l’ennesima apologia della fo-
ri delle coordinate temporali a cui siamo abituati, “Sacred
tografia analogica contro l’egemonia del digitale: un simile
Places” è la creazione di un memento mori, un ricordar-
approccio critico rischierebbe di relegare l’opera di Izu nel-
ci della morte in un periodo in cui il clima culturale e l’e-
l’ambito di un’archeologia della tecnica fotografica che
stremo positivismo derivante dalle scoperte scientifiche
non le appartiene. A guidare il fotografo giapponese è, in-
e ancor più tecnologiche tendono a rimuoverla, prospet-
vece, un’ambizione di natura estetica che richiama alla
tando una vittoria dell’uomo sui vincoli della biologia e
mente un’idea quasi platonica di bellezza, e una sincera
della natura.
devozione alla fotografia intesa come metodo d’indagine
Anche lo straordinario avanzamento nel campo della fotografia ha forse contribuito a esorcizzare questo
cessario guardare, e riguardare sempre di nuovo. Lasciarsi sedurre dall’ampio spettro di grigi che definisce i
Pierre Bourdieu ha definito “l’illusione di vincere il pote-
volumi dei monumenti e le superfici frastagliate di una
re distruttivo del tempo” . Si tratta di una dimensione og-
natura incontaminata che resiste, e anzi domina, le trac-
gi esacerbata dall’uso frenetico che facciamo delle im-
ce di civiltà lasciate nei secoli dall’uomo. L’incontro con
magini: siamo incalzati a produrle di continuo, ma a guar-
queste stampe innesca il bisogno di vedere in profondità
darle per il solo tempo necessario a decidere se condi-
e provare così la sensazione che una singola fotografia
viderle attraverso e-mail e social network. Non è insi-
abbia ancora il potere di fermare quel flusso incessante di
gnificante a questo proposito che Leica, la società che
immagini che potremmo chiamare “povere”, per ri-
lanciò sul mercato la prima macchina fotografica tascabile
prendere una celebre definizione coniata dall’artista Hito
con rullino 35 mm, abbia di recente messo in commercio
Steyerl a proposito della diffusione di jpeg a bassa defi-
modelli integrati con tecnologia wifi per la connessione a
nizione nell’infinito mare di Internet. Definizione che non
L’occhio, che come ogni muscolo deriva le sue prestazioni da abitudine e allenamento, si è assuefatto alle
14
3
Il suo celebre saggio, dal titolo Photography, fu pubblicato in “London Quarterly
Review” (1857). La citazione è di Beaumont
Newhall, tratta da Storia della fotografia, Einaudi, Torino 1984, p.121.
4
La frase è tratta da “Hic Jacet” di Robert
Pogue Harrison, in W.J.T. Mitchell (a cura
di), Landscape and Power, The University of
Chicago Press, 1994, p. 351.
5
Pierre Bourdieu, La Fotografia. Usi e funzioni sociali di un’arte media, Guaraldi, Bologna 1972, p. 52.
Per riuscire ad apprezzare il suo lavoro, allora, è ne-
senso di finitudine. Fin dalle origini, la sua universale
internet in tempo reale.
Clark Worswick e Kenro Izu, Sacred Places,
2001, pp.10 sgg.
2
Yeshayahu Nir, The Bible and the Image:
The History of Photography in the Holy Land
1839–1899, University of Pennsylvania
Press, 1985.
intimamente connesso alla manualità artigianale.
forza attrattiva deriva dalla capacità di suscitare ciò che
5
1
sembra poi fuori luogo estendere genericamente alla
pletora di fotografie prodotte ogni giorno nella nostra
epoca.
incursioni fotografiche nel mondo dei pixel, e in poco più
Visitare la mostra “Kenro Izu. Territori dello spirito” è
di qualche decennio abbiamo perso un altro aspetto sto-
anche questo: un rito iniziatico per recuperare un’atten-
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Kenro Izu. Photography’s Inner Time
In his novel Jeff in Venice. Death in Varanasi the pho-
that it had become entirely obsolete, that its power had
“Sacred Places” is a life-long project whose origins
he chose to use was not the convenient and ever-pop-
tography critic and writer Geoff Dyer recounts the jour-
been completely cut off simply because it had fallen
extend into the distant past. Izu reached New York from
ular calotype – engraved in history by William Henry
ney that led him from the sparkling and light-hearted
on hard times. It was just an old temple that had gone
his home city of Osaka in the 1970s. Just over twenty at
Fox Talbot – but the humid collodion process, which
inauguration of the 2007 Venice Biennale to crowded,
on the wonk and was left to its own devices. Like a vol-
the time, he carried with him a diploma from the Tokyo
he applied to huge 16x20 inch (40x50 cm) plates. This
mystical Varanasi – a city he describes as “a mandala, a
cano which was somehow neither active nor extinct –
College of Arts and 150 dollars in his pocket. Izu’s Amer-
choice caused Frith quite a few inconveniences in the
cosmogram”. The writer’s feeling of estrangement is
nor anything in between – it still looked good in pho-
ican dream began with a brief stint as a dish-washer in a
dry, harsh climate of the desert, yet enabled him to pro-
akin to that one feels when abandoning the buzzing
tographs”.
Japanese restaurant, alongside a yet unknown Hiroshi
duce remarkably detailed and accurate contact prints.
world of contemporary photography to focus on Kenro
Sugimoto. Izu then approached the world of fashion pho-
Frith’s experimental approach to photography provided a stimulus for the young Izu to identify the most
Izu’s “Sacred Places” series. All of a sudden, the eye
as such – is precisely the one portrayed in Varanasi
tography, of which he soon tired. In 1974 he discovered
finds itself deprived of the kind of visual excess it had
#105, India, a photograph Kenro Izu took in 1997 and
commercial photography and chose to focus on valu-
suitable technical procedure and equipment to carry out
grown accustomed to through digital photography: pic-
which is featured in the “Sacred Places” series. The
able objects and still lifes. His studio became famous for
his plan. Izu took a range of different cameras with him
tures saturated with colours and contents – in some
contrast between the words and the picture is striking.
its technical quality: Izu skilfully handled a range of dif-
on his first expedition: from a 35 mm camera to a 8x10
cases investigations into the effects of consumerism,
From the perspective of human time, made up of hours
ferent cameras, from 35-mm ones to large-format mod-
inch (20x25 cm) large format one. The results, however,
globalization or gentrification, in others mere window
and days, Dyer is describing the temple as it appears to-
els with 4x5 inch (10x12 cm) negatives. However, he pur-
proved unsatisfactory. Izu was to persist in his formal re-
dressing reflecting the tastes and paradoxes of post-in-
day: half-sunk ruins that have not kept true to their
sued the steady career of an artisan of photography for
search until 1984, the year in which he received a
dustrial society. In “Sacred Places”, which ideally con-
promise of enduring as a symbol of the transcendent en-
just over five years, setting aside his fascination with
$16,000 grant from the US National Endowment for the
tinues in “Bhutan Sacred Within” e “India Where Prayer
counter with the divine. Izu’s photograph instead shows
the exotic and awe-inspiring atmospheres of the “an-
Arts, which he used to purchase the most impressive
Echoes”, Izu does not take in this chaotic reality: relying
a majestic, solemn building: it stands facing the holy
cient stones” and especially of the Egyptian pyramids.
portable camera ever manufactured. The photographer
on a nineteenth-century camera and a printing process
river as though its slumping had in no way affected its
These had been attracting the photographer’s interest
chose to rely on the proven expertise of Jack Deardorff,
that was almost abandoned in the 1920s, he portrays sa-
spiritual properties. The photograph admiringly views
ever since his childhood in Hiroshima, a city in which
who built him a device that could be fitted with 14x20
cred monuments within a landscape brought back under
the temple from a distance: far from altering its aura, he
the atomic bomb had severed all links with the past.
inch (35x50 cm) negatives: a truly unique model.
nature’s control through a complex system of subtrac-
captures it at daybreak, when no pilgrims are yet in
Izu’s discovery, in the late 1970s, of the work of the
Stylistic perfection, however, was still nowhere
tions and exercises in style.
sight. The resulting image is purified of anecdotal or
nineteenth-century photographer and entrepreneur Fran-
near: distrustful of conventional printing methods, Izu fi-
disturbing elements. The air is dense: it touches the
cis Frith is what led him back to his childhood dreams
nally discovered platinum/palladium printing, a technique
Dyer’s alter-ego and that of Izu, however, acquires very
river along a horizontal line and softly envelops the ar-
and persuaded him to embark on a journey to Egypt –
which had been brought to the highest levels by Paul
different connotations when it comes to the subjective
chitecture. Whereas Dyer’s fictional account presents
the first in a long series. This 1979 trip was to inspire the
Strand but had then been abandoned because of the
encounter with the place of worship. When approaching
the reader with a rather prosaic experience, Izu’s pho-
“Sacred Places” series. Like many of his contempo-
complexity of its development process and the costli-
a temple sunk into the mud by the banks of the holy riv-
tograph offers a vision that combines eyes and mind. It
raries (including Francis Bedford, Maxime du Camp and
ness of the materials required. As unhesitatingly stated
er Ganges, the protagonist of the book observes: “I’d
is a sublimation of reality which projects the temple into
Auguste Salzmann), Frith had set off to explore the an-
by photography expert Clark Worswick, who was among
thought its vulnerability might have made it a particular-
a different spatio-temporal dimension, transcending all
cient monuments in Egypt and the Middle East in the
the first to support the artist, “Izu had discovered pos-
ly auspicious place to worship, but this, apparently, was
historical ages and human lives as the embodiment of
years between 1849 and 1862. His plans were even
sibly the hardest and least compromising path to pro-
not the case. It was, however, impossible to conclude
earthly eternity.
more ambitious from a technical perspective, since what
ducing a photographic print in the whole medium”.1
The apparent affinity between the spiritual quest of
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Dyer’s desecrated temple – if it may be described
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This observation helps account for the limited extent
tives and even restrictions in the way the photo camera
but a slow and inexorable one that is nonetheless almost
new form of communication between man and man –
of his production: no more than two thousand pho-
can be positioned, such journeys can prove a real or-
imperceptible for man, increasingly driven as he is by the
neither letter, message, nor picture – which now happily
tographs.
deal. Hence the need to learn how to see things: “After
frenzied rhythm of contemporary society.
fills up the space between them?” This commitment to
Izu’s perseverance in the use of such a toilsome
all a photographer has to see and feel”, Izu states in an
The performative and somewhat outmoded quality
the field of travel photography, then, was guided by an en-
technique, in open contrast to the photography of his
interview with John Paul Caponigro, the son of the fa-
of these travels, combined with the phenomenologi-
cyclopaedic ambition that crossed paths with other areas
own day, makes his work a lengthy and progressive
mous photographer. “If the photographer doesn’t see,
cal experience of gazing, which precedes and prefigures
of knowledge and found an antecedent, before the time
one. No wonder that the photographer has been pursuing
the camera won’t see”.
the actual act of photographing, encourage us to go
of photography, in the study and cataloguing work of
the “Sacred Places” project for over thirty years. In order
The “Sacred Places” series as a whole is closely
beyond the formal aspect of the photographic prints
the Enlightenment. Izu, by contrast, approaches photog-
to visit the world’s most inaccessible and awe-inspiring
connected with the idea of discovery, and the journeys
in order to explore the spiritual and eschatological di-
raphy as a means of exploration: not of sacred monu-
monuments – from Stonehenge to Easter Island, from
are not without their vagaries. In Mustang #47, Nepal
mension of Izu’s endeavour. While not utterly lacking,
ments and architectures as expressions of given com-
Mexico down to the remote places of worship studded
1998, for instance, we see a weather-torn flag anchored
this is not a central aspect in the work of the afore-
munal or religious feelings, but of a concept of eternity
across Tibet, Bhutan, India, Cambodia, Laos and Syria –
to the ground by a heap of stones. Faced with this
mentioned nineteenth-century photographer-explorers
that cannot be grasped photographically, if not by con-
Izu embarks on three-week expeditions with a mere
scene after a challenging ascent, Izu admits that he
who inspired Izu. As Yeshayahu Nir has argued,2 Frith,
stantly scanning the landscape in search of the traces of
eighty negatives. In this respect, his expeditions may
was initially disappointed by its simplicity, even though
Salzmann and Du Camp had a profound knowledge of
an epiphany.
almost be described as pilgrimages. At times the travel-
he was immediately captivated by the fact that those
biblical ruins and sites, which they had read much about
In his text Hic Jacet Robert Pogue Harrison, professor
ling is easy: the destination is a tourist one, so it is only a
few objects embodied the very essence of prayer and
and which therefore significantly contributed to their re-
of Italian Literature at Stanford University, reflects on the
matter of waiting a few hours for the right moment,
supplication. In taking his photograph, Izu broadened
ligious and art-historical background. These photogra-
distinguishing features of mankind and the value of archi-
when most people are still asleep – opening and closing
the view to include the snowy peaks in the background,
phers were not setting out to discover an “unknown
tecture and material culture today, in an age which seems
the shutter in order to keep complete control over all
combining the lighting with the central position of the
land”, but to verify and record what they already knew:
to be eclipsing any horizon of reference not limited to the
compositional elements, especially the light and the sub-
subject, in such a way as to emphasize the impression
the British, including Frith, emphasized the relation be-
present moment. Given the impossibility of knowing the
ject. More daunting, yet at the same time highly inspiring,
produced by that small sign of man’s presence, as an in-
tween the monuments and their settings through an ap-
provenance of what we eat, of envisaging a reconnection
is the hunt for monasteries in remote locations, unknown
road into the natural landscape.
proach to the composition of pictures similar to that
with our cultural roots and of knowing where we will be
of Izu, albeit still markedly documentary in character; the
buried, may Izu’s incessant photographic pilgrimage across
to the casual gaze of the crowd. Izu pictures himself as a
18
The same stylistic choice is to be found in many of
mountaineering photographer, a contemporary version of
Izu’s shots and is sometimes heightened in the printing
French, by contrast, focused on artistic and architectural
sacred places be seen as an expression of the need to re-
Vittorio Sella, who in the late nineteenth century as-
phase through black and white contrasts, as in Lamayu-
details through the use of close-ups, driven by the de-
store the broken link with our being in the world?
cended the highest alpine peaks with a camera in order
ru Gompa #49, Ladakh, India, 1999 and Mt. Jomolhari
sire to make up for their cultural gaps and inspired by
to portray glaciers and geological layers in the greatest
#1, Bhutan, 2002. Even when it is not bright lights or
early archaeological expeditions.
Pogue Harrison writes: “A place cannot come into
being without human time’s intervention in nature’s
3
detail. “Six days of travelling from mountain to mountain,
broad shadows that direct the viewer’s gaze, the picture
As noted by Elizabeth Eastlake, a contemporary of
eternally self-renewing cycles – the cycles of ‘bird and
valley to valley, mostly on foot, sometimes on horse-
is always carefully balanced: the framing of the land-
these pioneers, photography was “the sworn witness …
bush’, as it were [the author is here quoting the Amer-
back at an altitude of over 4,000 meters”, the Japanese
scape is painstakingly accurate and the resulting com-
in the service of mechanics, engineering, geology, and
ican poet Wallace Stevens]. What intervenes in natural
photographer writes in his Nepali travelogue. With over
position emerges as a combination of lines of force that
natural history”, a means to convey “facts which are
time is human finitude, which is unlike other finite
90 kg of equipment to carry, a limited number of nega-
illustrates a process of becoming; not a random process,
neither the province of art nor of description, but that of a
things in that death claims our awareness before it
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claims our lives. We dwell in space, to be sure, but
The eye, which like every other muscle bases its
Visiting Kenro Izu. Territories of the Soul exhibi-
smartphone even before gazing with our own eyes.
we dwell first and foremost within the limits of our
performances on the force of habit and practice, has
tion, then, also amounts to this: embarking on a journey
Snap-shots only represent one out of many possible
mortality. When we build something in nature, be it a
grown used to photographic forays into the world of
of initiation to regain an aesthetic, critical attention to-
modes of photographic expression: at the opposite pole
dwelling, a monument, or even a fire, we leave a sign
pixels: as such, in just a few decades, we have lost a his-
wards photography. Certainly, it means finding an anti-
– engaging with everything that photography has stood
there of our being mortal sojourners on the earth”.4 In
torically significant aspect of the language of photogra-
dote to the worship of – or perhaps obsession with –
for as a language and technique for almost two cen-
this respect, the physical and technological restrictions
phy, namely its physical and visual connection to printing.
photo shots, the irrepressible urge to look at the image
turies – are Kenro Izu’s icons.
that Izu faces in his photographic endeavour certainly
The depth and detail of analogical pictures have been re-
which crops up on the screen of our digital camera or
stem from a yearning for formal perfection, but also
placed by colours and contrasts processed to the ex-
appear to reflect a wish to engage with the fleetingness
treme by digital means. It is not a matter of formulating
of life: mankind’s finiteness. Presenting itself as a jour-
yet another vindication of analog photography against the
ney outside conventional temporal coordinates, so to
hegemony of the digital. A critical approach of this sort
speak, “Sacred Places” is a kind of memento mori, a re-
risks confining Izu’s work to the field of photographic ar-
membrance of death in an age in which the cultural
chaeology, which is quite foreign to it. What guides the
climate and the extreme positivism deriving from sci-
Japanese photographer is rather an aesthetic ambition
entific and particularly technological discoveries tend
that betrays an almost Platonic idea of beauty, an
to erase the idea of death by foreseeing man’s victory
earnest devotion to photography, envisaged as a method
over all biological and natural limits.
of enquiry closely intertwined with manual skill.
The remarkable advances made in the field of pho-
In order to appreciate Izu’s work, then, we must
tography may also have helped exorcize this sense of
gaze at his pictures over and over again. We must yield
finiteness. From the very beginning, the universal appeal
to the charm of the wide range of greys that mark out
of photography has stemmed from its ability to elicit
the volumes of monuments and the jagged surfaces of
what Pierre Bourdieu describes as the illusion of con-
a pristine nature which withstands, or indeed conquers,
5
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quering the destructive power of time. This impres-
the traces left by human civilizations throughout the
sion is exacerbated nowadays by the frenzied use of im-
centuries. The encounter with these prints triggers a
ages: we are encouraged to constantly produce them,
need to examine the pictures in detail, a feeling that
but to only look at them for the time required to decide
each of them still has the power to stop the incessant
whether to share them via email or our social network of
flow of what we may describe as “poor images” – to
choice. In this regard, it is significant that Leica – the
borrow a famous definition coined by Hito Steyerl with
company which launched the first portable camera on
regard to the spread of low-definition JPEG images in
the market, with a 35 mm film – recently commercialized
the boundless sea of the Internet. This definition may
models equipped with Wi-Fi technology enabling users
aptly be extended to the plethora of photographs that are
to connect to the Internet in real time.
produced every single day in the present age.
1
Clark Worswick and Kenro Izu, Sacred
Places (Santa Fe: Arena Editions, 2001),
pp. 10 ff.
2
Yeshayahu Nir, The Bible and the Image:
The History of Photography in the Holy
Land 1839–1899 (Philadelphia: University
of Pennsylvania Press, 1985).
3
Eastlake’s famous essay “Photography”
was published in the London Quarterly Review in 1857.
4
Robert Pogue Harrison, “Hic Jacet”, in
W. J. T. Mitchell (ed.), Landscape and Pow-
er (Chicago: University of Chicago Press,
1994), p. 351.
5
Pierre Bourdieu, Photography: a MiddleBrow Art (Stanford: Stanford University
Press, 1990).
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