Memed il falco

Yashar Kemal
Memed il falco
con un’introduzione dell’autore
s c r i t t o r i
c o n t e m p o r a n e i
Proprietà letteraria riservata
© 1955 by Yashar Kemal
© 2010 RCS Libri S.p.A., Milano
ISBN 978-88-17-03879-9
Titolo originale dell’opera:
Ince Memed
Traduzione dal turco di Antonella Passaro
Prima edizione BUR Scrittori Contemporanei marzo 2010
Per conoscere il mondo BUR visita il sito www.bur.eu
Introduzione
di Yashar Kemal
Da giovane lavoravo in una biblioteca di Adana, la più
grande tra le città dell’Anatolia meridionale. La biblioteca aveva pochi visitatori e l’unica persona che ci lavorava,
oltre me, era il capo bibliotecario. Era un uomo anziano,
che arrivava di buon mattino, fumava la sua bella dose di
sigarette e poi si assopiva in poltrona. Io avevo una stanza al piano superiore. Dopo essermi svegliato e aver rifatto il letto, scendevo a pulire la biblioteca e poi uscivo a
fare colazione in una latteria lì vicino. Al ritorno mi mettevo a leggere il libro che avevo tenuto da parte per quel
giorno. Dapprima lessi i volumi pubblicati dall’Ufficio
governativo per la Traduzione dei Classici. Dopo i classici fu la volta dei romanzi della letteratura mondiale.
L’Ufficio Traduzioni pubblicò un volume con i racconti
brevi di Cˇechov che mi fece una grande impressione. Più
tardi, quando andai ad Ankara per la prima volta, rintracciai il traduttore. Discutemmo di Cˇechov e diventammo amici. In quei giorni scoprii Il Rosso e il Nero di
Stendhal e ne rimasi affascinato.
In seguito venni arruolato e dovetti abbandonare il mio
impiego presso la biblioteca. Ma nell’esercito c’era molto
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tempo libero e continuai a leggere Cˇechov. Scrissi anche i
miei primi racconti e un romanzo, che però poi vennero
sequestrati. Dopo il sevizio militare mi trasferii a Istanbul,
dove cominciai a lavorare per il principale quotidiano
“Cumhuriyet” [“La Repubblica”, N.d.T.]. Portai con me le
prime parti di due romanzi che avevo iniziato quando per
guadagnarmi da vivere stendevo ricorsi per il tribunale con
la macchina da scrivere su un tavolo in mezzo a una strada.
Uno di questi era Memed il falco.
Quando avevo cominciato Memed il falco, portavo
impresso nella mente lo Sceicco di Sakarya, un personaggio storico dell’Impero Ottomano. Avevo dimenticato da
tempo il libro grazie al quale mi ero imbattuto nella sua
vicenda, ma il ricordo della figura dello Sceicco era ancora
vivido. Avevo letto così tante volte le pagine su di lui, che
avrei quasi potuto recitarle a memoria. Finché la fortuna
non mi tese la mano: uno dei maggiori editorialisti del giornale per cui lavoravo scrisse un breve articolo sullo
Sceicco. Era lo stimolo giusto per ricominciare.
Nel 1953 mi ci vollero solo tre mesi per portare a termine Memed il falco. Il romanzo uscì a puntate su
“Cumhuriyet” e in seguito fu pubblicato in volume. Si
rivelò un grande successo in Turchia e divenne un best
seller in Inghilterra, in Francia e nei Paesi Scandinavi. In
seguito fu tradotto in molte altre lingue.
Ma non finisce qui. Memed mi tenne impegnato ancora
per parecchio tempo. Scrissi altri tre libri su di lui. Quando
cominciai a scrivere Memed io avevo venticinque anni e lui
ventuno. Quando terminai il quarto volume, ero ultra sessantenne. Memed aveva solo venticinque anni. Cosa c’era,
in lui, che lo faceva vivere così a lungo nella mia immaginazione?
Torniamo allo Sceicco di Sakarya. Corre l’anno 1538.
Murad IV, il Sultano Ottomano del tempo, sta marciando
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su Baghdad per conquistarla. L’esercito muove da Istanbul
con in testa il Sultano, il Gran Visir e il Comandante in
Capo. Prima di lasciare l’Anatolia si fermano a Konya e vi
stabiliscono un quartier generale temporaneo. Il Gran
Visir e il Comandante in Capo chiedono udienza al sultano
e gli dicono:
«Sua Altezza, mentre noi siamo sulla via per la conquista di Baghdad, lo Sceicco di Sakarya, rimasto alle nostre
spalle con i suoi cinquemila uomini, dopo la nostra partenza potrebbe facilmente prendere Istanbul. Per due volte
abbiamo inviato sessantamila uomini e per due volte non
sono riusciti a catturarlo. Ma ora possiamo inviare un esercito di trecentomila unità».
Il Sultano, essendo sultano, decide di riflettere sulla
questione e ordina ai due di ritornare il giorno seguente.
La mattina successiva il Gran Visir e il Comandante in
Capo giungono di nuovo al cospetto del Sultano, che ordina loro:
«Andate sulle montagne di Sakarya, trovate lo Sceicco e
ditegli: “Il nostro Sultano ti ha conferito il titolo di Visir
con tripla nappa, e ti ha inviato un mantello di zibellino,
una spada e un cavallo. Noi siamo in spedizione alla conquista di Baghdad. Unisciti a noi, guadagnerai merito agli
occhi di Allah”».
Il Gran Visir e il Comandante in Capo si recano dallo
Sceicco sui monti di Sakarya. È un giovane alto con la
barba nera come l’ebano. Sta di fronte a loro, dritto come
una spada conficcata in terra.
Il Gran Visir legge l’ordine del Sultano.
Lo Sceicco risponde: «Non posso farlo».
«E noi non possiamo lasciarti qui, così vicino a Istanbul.
Ti sconfiggeremo con l’esercito di trecentomila uomini
pronto per Baghdad. Ti cattureremo e ti condurremo a
Konya dove ti faremo girare per tutta la città seduto al
rovescio su un asino, poi tireremo le tue giunture finché
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non si spezzeranno, ti scuoieremo vivo e ti caveremo gli
occhi, infine daremo il tuo cadavere in pasto alle bestie…»
Di nuovo lo Sceicco dice: «Non posso».
«E perché mai?»
«La mia missione viene da Dio. Non farò altro che portarla a termine.»
L’esercito ottomano attacca le montagne di Sakarya e
sconfigge le forze dello Sceicco, che viene catturato e
ucciso.
I discendenti del Profeta Muhammad sono chiamati
Ehl-i Beyt. Dodici imam della sua stirpe si sono succeduti uno dopo l’altro. Ali è il primo di essi. Poi vengono i
figli di Ali, Hassan e Hussein. Undici di questi dodici
imam furono assassinati e il dodicesimo, il Mahdi, scomparve. Tutte le diverse correnti dell’Islam credono che
quando il mondo non sarà più degno di viverci, il Mahdi
raccoglierà attorno a sé i virtuosi che ancora sopravvivono e tutti insieme si solleveranno per portare un ordine
migliore nel mondo. La storia ottomana ha visto numerose insurrezioni nel nome di molti Mahdi. Lo Sceicco di
Sakarya è uno di essi.
Ho passato molto tempo a riflettere sullo Sceicco di
Sakarya e ho letto tutto ciò che sono riuscito a trovare
sugli altri Mahdi. Sono giunto a credere che, come Gesù
Cristo e Che Guevara, essi fanno parte della moltitudine
di coloro che nel mondo costituiscono il popolo degli
“inviati”, gente il cui destino è ribellarsi. Per me il mondo
è l’opera di questi ribelli. Una delle cose che mi sono proposto di fare in Memed il falco è proprio sondare gli abissi di questi “inviati”.
Sono cresciuto all’ombra dei monti del Tauro, in una regione della Turchia meridionale conosciuta come la Çukurova
(letteralmente “la piana concava”, l’antica Cilicia). Fino
agli anni Trenta nelle montagne del Tauro si aggiravano
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molti banditi e da bambino ne incontrai alcuni. C’erano
anche i cantastorie che vagavano di città in città, di villaggio in villaggio, narrando l’epopea di Körog˘lu (letteralmente “Il figlio del cieco”). Körog˘lu era un bandito d’onore. Diceva sempre che avrebbe rapinato una carovana per
sfamare mille poveri. I grandi cantastorie curdi, migrati
dall’Anatolia orientale al Sud della Turchia, raccontavano
storie simili. La mia famiglia aveva percorso lo stesso itinerario dei cantori, stabilendosi in un villaggio turcomanno
vicino al Mediterraneo, dove nacqui io. Eravamo l’unica
famiglia curda del villaggio. Fra le mura di casa parlavamo
il curdo, ma nel villaggio ci esprimevamo in turco.
Fu così che ascoltai racconti epici sia in turco che in
curdo. Laggiù, nell’Anatolia orientale, il padre, gli zii e il
fratello di mia madre erano dei banditi locali. Su di loro
ascoltai i racconti di mia madre e le ballate che avevano
composto i cantori del borgo. Ci si arricchisce attraverso
ciò che la vita ci offre. E il banditismo ha arricchito la mia
vita. Anche questo mi condusse verso Memed il falco.
Quando raccontiamo la vicenda di un individuo, non dobbiamo innalzarlo fino al cielo. Deve restare coi piedi ben
piantati a terra. È parte di una rete di relazioni, vive in uno
specifico contesto sociale ed è immerso nella cultura locale. Un individuo è il prodotto delle particolari condizioni
in cui vive. Quando analizziamo il suo modo di pensare,
non possiamo ignorare le circostanze in cui si trova. E nessuno può arrogarsi il diritto di mettere per iscritto una falsa
rappresentazione di queste circostanze.
Io non ho mai creduto negli eroi. Anche nei romanzi in
cui ho posto l’accento sulla ribellione, ho tentato di mettere in evidenza il fatto che quelli che noi chiamiamo eroi
sono in effetti strumenti nelle mani del popolo. La gente
crea e protegge questi strumenti e resiste, o cade, insieme a
essi. Può individuare rapidamente quello che io chiamo
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l’“inviato”, o solamente dopo una laboriosa ricerca. In un
modo o nell’altro lo troverà e se ne approprierà. C’è un
germe di rivolta in ogni singolo essere umano, così come
esiste una forza creativa, ed è questo sentimento di rivolta
che produce gli “inviati”. Perché i poveri non possono
lasciar andare Memed, il figlio di Ibrahim il Miserabile? Lo
sfortunato Memed combatte disperatamente, pur sapendo
che, anche se avesse ucciso mille aga (capiclan), molte altre
migliaia sarebbero spuntate. Fino alla fine, egli non riesce
a liberarsi dalla tragedia dei poveri contadini.
Per me, scrivere Memed il falco è stato più che scrivere un
romanzo; mi ha schiuso un nuovo mondo e la possibilità di
creare nuove immagini. Ho anche scovato quell’idea di
umanità che ha permeato tutto ciò che ho scritto in seguito. Compresi che, quando le persone si vedono costrette in
un angolo, quando provano il dolore della morte nei loro
cuori, tendono a creare un mondo di miti in cui tentano di
rifugiarsi. Attraverso la creazione dei miti, l’evocazione di
mondi onirici, si può resistere alle grandi sofferenze del
mondo e trovare l’amore, l’amicizia, la bellezza e persino,
forse, l’immortalità.
Veniamo da un luogo oscuro e viaggiamo verso un altro
luogo oscuro. Nell’Iliade, Omero dice che di tutte le creature, l’essere umano è quella che più soffre. Perché l’uomo
è l’unica creatura che ha sviluppato una consapevolezza
della morte. Nell’Idiota, Dostoevskij osserva che se anche
si costringesse l’uomo a vivere ai margini di un precipizio,
e lo si obbligasse a reggersi su un piede solo, egli si ostinerebbe a vivere; persino sotto le piogge, nel freddo mortale
dell’inverno, patendo la fame e le privazioni, mai verrebbe
a patti con la morte. Sappiamo in ogni caso che l’umanità
sopravvive di fronte a fame, privazione, sfruttamento,
miseria e umiliazione. Ma allora, perché ci aggrappiamo a
questo mondo? Cos’è tutto questo? È questa la realtà che
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mi sto sforzando di afferrare: cos’è questa gioia insita nell’uomo?
Io canto la canzone della gioia. In tutte le epopee, nell’intera avventura del genere umano, nella musica creata
dalle persone, nelle loro canzoni, qualunque sia la sofferenza, è presente quel sentimento del «ce l’abbiamo
fatta!». Grazie a Dio siamo vivi! Cosa sarebbe se non lo
fossimo… (Il mio secondo romanzo, Al di là della montagna, termina con queste parole: «Già, siamo qui! Siamo
arrivati!». Voglio catturare quella terrificante gioia, quella
gioia di vivere. Questo è ciò che sto cercando di scoprire.
Perché le persone creano miti e sogni e poi si rifugiano in
essi? Creano un nuovo mondo di mito e di sogno per conservare la gioia, per sostenere il peso dell’esistenza. Il
mondo in cui viviamo è inaccettabile, colmo com’è di sofferenza, malattia, paura della morte, distruzione… E l’uomo ancora resiste. E la sua paura persiste, la più grande di
tutte, la paura della morte.
A ogni epoca corrisponde una maniera differente di
creare miti. L’Antico Egitto ha avuto i suoi propri miti,
come i Sumeri e gli Assiri, i Cristiani e i Musulmani, il
Nord e il Sud – lo stile di creazione dei miti varia in continuazione. E perfino nel caotico contesto odierno, quali
miti vengono creati come riparo! Fino al giorno del giudizio l’umanità darà vita a questi luoghi di rifugio. Cos’altro
potrebbero fare le persone, quando viaggiano da un luogo
oscuro a un altro? E con tante privazioni? L’uomo rimane
uomo fintanto che sogna. La sublime rievocazione che noi
chiamiamo amore, non è forse un sogno, perfino un mito?
Lo stesso non vale, per caso, anche per l’eroismo? Se così
non fosse, come potremmo spiegarci che il Don Quixote
resiste nelle nostre biblioteche da quattrocento anni?
Se considero me stesso qualcosa di simile a uno scrittore è perché ho inserito coscientemente il mito e il sogno
all’interno della realtà umana. Eppure temo che, data la
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situazione attuale, potremmo vederci costretti a riparare
negli antichi miti. Messi di fronte al massacro della natura,
il grande flagello della nostra era, del quale non abbiamo
ancora compreso a fondo le conseguenze, creeremo miti di
terrore come fecero i nostri avi. Produrremo e cercheremo
rifugio nei miti del vento e del sole, del gallo e del toro,
della luna e della terra e di Madre Natura.
Per anni, nei romanzi, nelle interviste e nei discorsi, ho insistito su questo: in natura ogni oggetto ha la sua propria identità. Ogni pianta, ogni fiore ha la sua specifica personalità.
Persino la più piccola particella della natura possiede un’identità e ha la sua personalità individuale. Se quando uso il
termine “personalità” sembro procedere a tentoni, se appaio
confuso, è perché non riesco a dargli un nome giusto. Un
giorno gli uomini, gli scienziati, gli scrittori lo troveranno.
Ho scoperto per la prima volta la natura sui Monti del
Tauro, prima di iniziare a scrivere Memed il falco. Il Savrun
è un ruscello fra i tanti ruscelli e i due fiumi che scorrono
dal Tauro alla Çukurova. Se non avessi conosciuto il
Savrun, non sarei stato in grado di avvertire dentro di me
la natura con tanta potenza. Per anni, passeggiando lungo
le sue sponde, ho vissuto in unità con la natura. Per anni
ho lavorato come “supervisore delle acque”, nelle risaie.
Fu in quei giorni che compresi gradualmente che nessuno
dei fiori sul ramo di un albero era identico all’altro. E che
nessuna delle foglioline in un prato, nessuna delle formiche
in un formicaio, nessuno dei tanti ruscelli che scorrono dal
Tauro alla pianura somigliavano agli altri.
Il Savrun mi condusse nei multiformi dettagli della
natura. Mi piacerebbe vivere il più possibile, fino al mio
ultimo respiro, con la natura, con gli esseri umani e le loro
relazioni, fiorire con il mondo, perfino con l’universo…
prolungare il mio fidanzamento con la natura. Voglio frugare dentro al segreto dell’unicità delle cose…
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Se non avessi scoperto la letteratura moderna, sarei diventato un bardo, un cantore di poemi epici. Ero in bilico, poi
cominciai le scuole elementari in un villaggio vicino al mio.
Proseguii leggendo i classici della letteratura russa, francese e inglese, così come quelle di Oriente e Occidente e fu
così che ebbi maestri come Stendhal, Cˇechov e Charlie
Chaplin.
(Traduzione dal turco di Simone Abramo)
Memed il falco
Per i termini in lingua turca si rimanda al Glossario.
I
Rocce bianche, lambite dal mare schiumoso, sorgono
dalla costa meridionale della Turchia e si innalzano lentamente sempre più alte. I monti del Tauro nascono dal
Mediterraneo. Corrono nell’entroterra seguendo una tangente all’arco costiero. Perennemente sospesi sopra la
distesa delle acque, cumuli di nuvole bianche. Tra il mare
e la fascia montuosa il litorale è candido e levigato; qui il
terreno è ricco, nutriente come la carne, per chilometri e
chilometri verso l’interno ha il sapore della salsedine, dell’acuto odore del mare. Al di là di questa terra grassa e
piana, ha inizio la vegetazione della Çukurova. Grovigli di
rovi, canne, more e altre piante selvatiche si addensano in
una vasta distesa di un verde cupo e intenso dove l’oscurità è più fonda che in una foresta vergine.
Poco oltre, in direzione di Islâhiye, lasciando da un lato
l’Anavarza e dell’altro Osmaniye, si giunge a una zona
paludosa. Nei mesi estivi, le acque e il fango di queste
paludi ribollono per la calura, inavvicinabili per la puzza.
Odorano di erbe, rovi e arbusti in decomposizione, che
ricoprono tutta la superficie dell’acqua stagnante.
D’inverno ritornano limpide e pulite come un lenzuolo
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appena steso. Oltrepassata la palude si incontrano finalmente le terre coltivate: grasse, calde, rigogliose, pronte a
restituire centuplicate le sementi che hanno accolto nel
grembo. Subito al di là delle alture pervase dall’odore
greve e acuto del mirto, appaiono le rocce e con le rocce i
pini. Gocce di resina lucenti come cristalli scorrono lente
lungo i tronchi fino a terra. Superata la linea dei pini, ecco
gli altipiani. Qui la terra è arida, come fosse di calce. Da
questa altezza, quasi a portata di mano, appaiono le cime
nevose del Tauro.
Uno di questi elevati pianori, l’altopiano dei cardi, è il
Dikenli, che comprende cinque piccoli villaggi. La popolazione è dedita all’agricoltura; ma nessuno è proprietario di
terra. Questa terra appartiene tutta ad Abdi Aga.
L’altipiano di Dikenli è fuori dal mondo. Anzi è un mondo
a sé, con leggi e usanze proprie. Pochi dei suoi abitanti ne
hanno varcato i confini. Il resto del mondo sembra ignorarne
l’esistenza, né alcuno sa in quale modo e di che cosa vivano i
contadini. Persino l’esattore delle tasse arriva laggiù solo una
volta ogni due o tre anni e i suoi contatti si limitano a una visita ad Abdi Aga, poiché i contadini non contano.
Il più vasto dei villaggi dell’altipiano di Dikenli è
Degirmenolu che guarda a levante, posato ai piedi di una
catena di rocce violacee, striate di venature bianche, argentee, verdi. Qui abita Abdi Aga.
Proprio sotto le rocce c’è un vecchio platano dai rami
contorti: gli anni l’hanno piegato sino a terra. A cento, cinquanta metri di distanza, non si ode un suono né un fremito. Una pace profonda e una calma spaventosa tutt’intorno. A dieci metri regna ancora un silenzio assoluto.
Soltanto quando ormai si è vicini alle rocce e quasi ai piedi
del platano si viene investiti da un sinistro rumore, tanto
forte da assordare al primo istante. Proviene dalla sorgente di Degirmenolu, la sorgente del mulino. Poi, allontanandosi, il suono si perde rapidamente.
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In realtà non si tratta di una vera e propria sorgente, ma
così la chiamano. L’acqua gorgoglia ribollendo ai piedi di
una roccia sulla quale spande un’enorme quantità di schiuma. Se vi si getta un pezzo di legno, questo ruota nel gorgo
per un giorno, due, anche per una settimana. La vera sorgente non è in questo punto. Le acque vengono da molto
lontano, dal folto dei pini dell’Akçadag, la Montagna
Bianca. Scendendo portano il profumo di timo e di maggiorana, si nascondono sotto le rocce per poi riemergere ai
piedi del platano con un brontolio frenetico.
Da qui all’Akçadag i monti del Tauro si stendono così
rocciosi e impervi che invano si cercherebbe uno spiazzo per
costruirvi una casetta. Grandi pini isolati s’innalzano verso
il cielo. Non esiste alcun segno di vita animale su queste
rampe rocciose. Talvolta, dall’alto d’una rupe appare un
cervo solitario dalle corna attorcigliate ricadenti sul dorso,
diritto sulle zampe, gli occhi volti all’infinito.
II
I cardi crescono in terre ingrate, aride e secche. Un terreno bianco, candido come latte, dove non spuntano alberi,
né erba, né fichi d’India. Eppure crescono rigogliosi e fitti,
sino a ricoprire palmo a palmo tutta la superficie. Nei terreni fertili e dissodati non attecchiscono: ai cardi non piace
la terra buona. I cardi prosperano nelle terre incolte, e i
contadini degli altipiani del Tauro devono tagliarli ed estirparli prima di seminare. Queste piante raggiungono anche
un metro di altezza e hanno molti fiori a cinque petali,
come delle stelle, con al centro un robusto pungiglione.
Ogni pianta ha centinaia di fiori. Non crescono a gruppi,
ma in grovigli così fitti e intricati che nemmeno un serpente riuscirebbe ad attraversarli. In primavera sono anemici,
di un colore verde chiaro. La brezza più lieve può piegarli
sino a terra.
A estate inoltrata le prime venature blu appaiono sul
fusto e lentamente sia il fusto sia i rami mutano il loro
verde in un azzurro che diviene sempre più scuro finché
l’immensa distesa dei campi appare come un grande mare.
Al tramonto, quando spira un po’ di vento, i cardi s’increspano e, come le acque del mare, sussurrano. Verso l’au20
tunno, inaridiscono e si scolorano in bianco. Si ode un continuo scricchiolio prodotto da migliaia e migliaia di piccole lumache, bianche come il latte e non più grosse di un
bottone.
Il villaggio di Degirmenolu è circondato da una distesa
di cardi. Non vi sono orti né frutteti o vigneti. Nient’altro
che cardi.
Fra i cardi, il ragazzo correva ansimando. Da molto
tempo ormai correva senza fermarsi. A un tratto si arrestò.
Si guardò le gambe. Il sangue scorreva dai graffi. Non riusciva più a reggersi in piedi. Aveva paura. Si volse a guardare
dietro di sé. Non vide nessuno. Rincuorato riprese a correre
piegando a destra. Poi, esausto, si lasciò cadere a terra fra i
cardi. A sinistra vide un formicaio. Grosse formiche brulicavano davanti all’ingresso, in febbrile attività. Per qualche
istante, guardandole, dimenticò ogni cosa. Poi raccogliendo
le forze si alzò e riprese a correre nella stessa direzione.
Appena fuori del folto cadde in ginocchio. Accorgendosi
che la testa sporgeva al di sopra dei cardi si rannicchiò. Le
gambe sanguinavano molto. Si mise a strofinare le ferite con
un po’ di terra, pur provando un acuto dolore.
Le rocce erano ormai vicine, con un ultimo sforzo si
rialzò e riprese la corsa. Giunse sotto il platano. Il terreno
cavo ai piedi dell’albero era coperto da foglie gialle, dorate, striate di rosso, che arrivavano sin quasi a metà del tronco. Le foglie secche scricchiolarono quando vi si distese.
Un uccello posato su uno dei rami spogli volò via spaventato dal rumore. Al ragazzo, stanco com’era, sarebbe piaciuto dormire tutta la notte su quel letto di foglie. Ma non
era possibile. Pensò: “Il bosco è pieno di uccelli rapaci e di
lupi che mangiano gli uomini”. Le ultime foglie cadevano
lentamente dall’albero unendosi alle altre sul terreno.
Qualcuna si posava sul suo corpo.
Cominciò a parlare con se stesso, bisbigliando, come se
qualcuno potesse udirlo.
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«Me ne vado» diceva. «Me ne vado e troverò il villaggio.
Nessuno sa che sono scappato. Non ritornerò mai più.
Lavorerò la terra, farò il guardiano di capre. Mi cerchi pure
mia madre, mi cerchi finché vuole. Quel caprone barbuto non
vedrà più la mia faccia. E se non trovassi il villaggio? Non
importa, morirò di fame. Morirò e sarà la cosa migliore.»
Il sole autunnale era caldo. Accarezzava le rocce, il platano e la coltre di foglie, che rilucevano ai suoi raggi. Già
sbocciava qualche fiore d’autunno. Gli asfodeli mandavano un profumo amaro e pungente. In autunno tutte le
montagne del Tauro sono pervase da questo profumo.
Da quanto tempo era lì? Un’ora, due ore? Non lo sapeva. Il sole era già tramontato dietro alla giogaia dei monti.
Il ragazzo smise di parlare con se stesso, e all’improvviso
pensò che forse lo stavano inseguendo. Una paura gelida lo
invase. Non aveva neppure notato da che parte fosse tramontato il sole. Dove andare? In quale direzione? Una
stretta mulattiera serpeggiava fra le rocce. La seguì, rimettendosi a correre senza badare agli arbusti e alle pietre
aguzze. La stanchezza era svanita.
Vide una lucertola su un tronco secco. Per un istante
rimase incantato a guardarla. Ma la lucertola guizzò via.
Macchie nere gli balenavano davanti agli occhi. La terra
sembrava ruotare come una girandola. Le mani e le gambe
cominciarono a tremargli. Guardò un’altra volta dietro di
sé e riprese a correre. Da un arbusto vicino alcune pernici
si alzarono in volo. Trasalì impaurito. Al minimo rumore il
cuore gli batteva forte. Si guardò ancora alle spalle. Sul suo
viso il sangue si mescolava al sudore. Le ginocchia gli si
piegarono e cadde a terra sfinito. Il sentiero sassoso scendeva ripido. Aspirò profondamente l’odore acre del sudore. Fece uno sforzo per aprire gli occhi. Sollevò la testa e
guardò in basso, pieno di sgomento. Il giorno stava per
finire, le ombre si allungavano. Vide più in là un tetto di
fango e il cuore gli balzò in petto per la gioia. Dal camino
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