Recensione "Corriere della Sera"

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46 Spettacoli
Giovedì 15 Maggio 2014 Corriere della Sera
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In Platea
ESCHILO E ARISTOFANE
7 giorni
sul palco
Orestea Agamennone e
Coefore/Eumenidi, nel cast Elisabetta
Pozzi, Francesco Scianna, Ugo Pagliai;
Le vespe (foto) regia di Avogadro (in
scena al Teatro greco, Siracusa)
di CLAUDIA PROVVEDINI
NUOVE VISIONI
Così fan tutte
Quando si sceglie
di dirigere Mozart
con una tastiera
di ENRICO GIRARDI
Opera Una scena del «Così fan tutte» di Mozart
S
e a 33 anni — 30 al netto del servizio militare
obbligatorio in Israele — un ragazzo ha già diretto
40 titoli d’opera in tutta Europa, parla sette lingue, è
salito più volte sul podio della Scala e diventa ospite
fisso della Staatskapelle di Dresda, la più antica
orchestra del mondo, si può dire quel che si vuole.
Ma nulla sarà mai oggettivo quanto la realtà, che dice
che Omer Meir Wellber è un musicista con una
marcia in più rispetto a ogni altro della sua
generazione. Alla Semperoper di Dresda il direttore
scritturato per la Daphne di Strauss si ammalò alla
vigilia della «prima». Nacque così il rapporto
privilegiato tra Wellber e quel teatro: poche ore ed
egli era lì, in buca, a dirigere quel titolo raro e
difficile. Non così male, se il giorno dopo ancora era
pronto un contratto per lui di sette opere negli anni a
venire. Così fan tutte è una di queste sette. La prima
della trilogia Mozart-Da Ponte che Wellber farà per
intero proprio alla Semperoper, suonando il
clavicordo non solo nei recitativi secchi, come è
prassi, ma anche in diversi numeri musicali. La
partitura mozartiana prescrive, a tal proposito, l’ad
libitum ma quasi nessuno decide di farlo (lo si sente
solo in qualche disco). È un rischio non obbligatorio,
perché mai prenderlo? Se però si realizza il basso
continuo con estro e sensibilità l’effetto è garantito:
si può giocare con le citazioni, dare il tempo del
numero che viene anticipandolo nel recitativo, si
possono cucire recitativi e arie a favore del ritmo
teatrale dello spettacolo. Queste cose Wallber le fa
così bene che spiace non le faccia sistematicamente
in tutta l’opera. Non dirige «dalla» tastiera ma «con»
la tastiera, dettando tempi rapidi, un caleidoscopio
di colori ma anche momenti di indugio elegiaco,
quando necessario. La messinscena è di Andreas
Kriegenburg. Gioca su quanto c’è d’astratto nel
dramma dapontiano ma incide poco. Ha fatto un bel
Ring a Monaco e presto lo si vedrà anche in Italia. In
compenso il cast, pur senza essere di alto livello, è
funzionale alla concertazione di Wellber. Si distingue
il soprano Rachel Willis-Sørensen, giovane e
bravissima Fiordiligi. La Staatskapelle suona
stupendamente, come sa. Questo Così fan tutte e le
Nozze di Figaro incise per Sony da Currentzis sono,
in materia di cose mozartiane, i fatti salienti della
stagione.
teatro e musica
Barbiere di Siviglia A capriole, Quelli
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voto
8
CLASSICA The Gospel According To The Others
Passione per orchestra
nell’oratorio laico di Adams
Nel 2000 John Adams
compose un Oratorio laico
sul tema del Natale.
Ora chiude il cerchio con una
sorta di Passione per soli,
coro e orchestra che affronta
il tema della morte in termini
altrettanto laici, ponendo cioè
l’accento sul riflesso della morte di Cristo
nell’animo dei fratelli Maria Maddalena, Marta e
Lazzaro. Ben congegnato il libretto di Peters Sellars,
una collazione dei testi biblici con frammenti
di vari scrittori, tra cui Primo Levi. Ma la vera
sorpresa viene dalla musica. Il minimalismo
è ormai una pallida matrice sullo sfondo; più in
evidenza arrivano le sonorità della tradizione
Gospel e degli oratori di Elgar e Tippett. Il risultato
di tale alchimia è una musica viva e appassionata,
ben diretta in questo cd DG da Gustavo Dudamel a
capo delle maestranze orchestrali e corali di Los
Angeles. (E. Gir.)
dischi
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voto
8
PIANO E VOCE
Dino Rubino Piano, flicorno, con
Casini e Lanzoni; F. Puglisi piano solo
e con G. Guidi, voce John Di Leo (dal
15, Asioli, Correggio)
Il gabbiano A Firenze il festival teatrale Fabbrica Europa, a Scandicci la nuova «Eneide» di Cauteruccio
Sette ore di «volo» verso la libertà
di FRANCO CORDELLI
I
naugurazioni e ritorni a Firenze lo
scorso fine settimana. Si è inaugurato il Teatro del Maggio, si è celebrato il ritorno in pubblico di Francesco Nuti, a Scandicci Giancarlo Cauteruccio, uno dei nostri maggiori registi, ha allestito l’Eneide trent’anni
dopo il debutto, e alla Stazione Leopolda ha preso il via un’edizione di
Fabbrica Europa tra le più ricche di
proposte degli ultimi anni.
Prima di parlarvi dell’in patria celebratissimo Gabbiano di Tomi Janežic
(nato a Lubiana nel 1972 e detto «il
Peter Brook slavo» ma anche «un Mozart del teatro contemporaneo») voglio dire due parole proprio sull’Eneide, uguale e diversa da quella del ricordo. Era uguale per come salivano
dal nulla le immagini dell’addio alla
Grecia e quelle di una costa sconosciuta, il litorale del Lazio: figure disegnate come nei fumetti, figure imponenti come ci appaiono nell’infanzia. Era uguale per la musica dal vivo,
la musica travolgente dei Beau Geste
(Gianni Maroccolo, Antonio Aiazzi e
Francesco Maielli, tutti provenienti
dai Litfiba e da ormai lungo tempo
autonomi). Era uguale per la voce del
racconto, mentre lo stesso regista traversava su e giù la scena: voce remota,
dolente e trionfale. Era diversa in due
cose: per l’uso dei laser, che questa
volta rendeva la scena tridimensionale invece che bidimensionale; e per
quel raggio rosso che compare all’improvviso, come a tagliare tutto in due,
a spaccare in due il mondo. Era il segnale di una rottura, di una liberazione dal testo, dalla sua ipoteca, dal suo
peso. Se oltre che conoscenza, a teatro cerchiamo piacere, quello fu un
segnale di piacere assoluto, totale.
Si potrebbe parlare di liberazione
dal testo anche per Il gabbiano, ma in
tutt’altro senso. Qui siamo nel cuore
del teatro occidentale contemporaneo. Lo voglio dire meglio: nel brodo
di coltura del contemporaneo. È come se non si riuscisse a uscire dal recinto di ciò che in letteratura si chiama autofiction e in teatro è il teatro
chiuso in se stesso: non nella drammatica riflessione su di sé nel senso
di Pirandello ma nel senso della pura
domesticità, della vita quotidiana,
come essa entra, penetra, si insinua
nelle pieghe di ogni drammaturgia e
di ogni scrittura scenica. Gli attori di
Janežic colpiscono per tecnica, carattere e fisicità. Ma siamo lontani da ciò
che il vecchio Tanizaki intendeva in
Sulla maestria (ora tradotto per
Prima nazionale Una scena di «Il gabbiano» di Cechov del Teatro Nazionale Serbo, per la regia di Tomi Janežic
Adelphi). Tanizaki parla di tecnica
come concentrazione spirituale e come esercizio in levare. Qui siamo all’opposto. Nel primo tempo (due ore)
gli attori, vestiti con i propri abiti, dicono cose come: occorrono nuove
forme; chi sono io? come sono? com’è
Trigorin? non lo capisco, è molto riservato; Nina dice che ama: ma in che
modo lo dice? qui c’è solo declamazione e in un pezzo teatrale ci deve essere un po’ di amore; gli attori sono
persone che vengono scelte, se non lo
sei non vali niente; di fronte a un’attrice sono tutti in ginocchio, e io sulla
scena mi sento ebbra. Tutte cose così,
ripeto: per due ore.
Poi comincia Il gabbiano, con i costumi. Ma si procede nel senso consunto e disinvolto della destrutturazione del testo attraverso la coazione
gestuale (l’attore che fa Trigorin si
spoglia e riveste per quaranta minuti), la ripetizione (d’una stessa frase),
la dilatazione (d’una sillaba), il denudamento (di un corpo, quello di Nina). Noi ascoltiamo con le cuffie, siamo quindi condizionati. E anche se i
quattro atti cambiano quattro volte
prospettiva (la quarta è analoga alla
seconda) la durata di oltre sette ore
più che liberare Il gabbiano dal testo
lo sfibra, e sfibra lo spettatore.
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voto
7
Enrico IV Branciaroli dirige e interpreta il dramma di Pirandello
La follia per difendersi dall’accusa di omicidio
di MAGDA POLI
N
ell’Enrico IV di Luigi Pirandello al
Sociale di Brescia con la regia di
Franco Branciaroli, c’è una netta separazione espressiva tra il primo e il secondo atto. Quasi una dicotomia insanabile, il primo è recitato sopra le righe in un grottesco stilizzato a significare ipocrisia, vacuità, sventatezza
mentre nel secondo prende sopravvento un crudo, nostalgico ragionare,
con Branciaroli che offre di Enrico una
interpretazione bellissima, carica di
crudeltà, fatica di vivere, lucidità verso
un senso della vita che sfugge e bisogna reinventare, rendendo quasi visibile il processo del reale che perde peso e consistenza nella misura in cui la
finzione e l’arte ne acquistano: la realtà
dei personaggi reali è ben poca cosa ri-
POP Mini World
In scena Branciaroli (a destra) sul palco
spetto alla verità complessa della «finzione» del personaggio «irreale.
Nel «pazzo» Enrico la finzione è
l’unica «realtà» percorribile sia perché
rinsavito dopo anni gli sarebbe impossibile rientrare in una vita che gli risulta estranea, sia perché uccide il responsabile della sua sventura e la «follia» diventa protezione. Paradosso di
JAZZ Play Blue
questo affascinante spettacolo, il secondo atto sembra venire a spiegare il
primo, è come se i personaggi che arrivano ipocritamente benevoli per aiutare a uscire dalla sua gabbia mentale
Enrico, siano come lui li pensa, mediocri e corrotti, convenzionali e inconsistenti, fissati da sempre e per sempre
nei loro stilemi di perbenismo, capaci
di uccidere e seppellire la vita altrui.
Bravi gli attori Melania Giglio, Antonio Zanoletti, Giorgio Lanza, Tommaso Cardarelli che efficacemente seguono il dettato registico. Folgorante il finale nel quale Enrico, nella bella scena
di Margherita Palli, sale su un cavalluccio da giostra pronto a scomparire tra
essere e apparire.
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voto
8
ROCK Turn Blue
Indila, nei sussurri leggeri Le improvvisazioni di Bley Black Keys di nicchia
c’è il fascino dell’Asia
insofferenti ad ogni regola ma allargano gli orizzonti
Ogni tanto dalla Francia arriva una
ventata di freschezza e di novità
(ricordate Vanessa Paradis, Guesch
Patti, Alizée o la più recente Zaz?).
Il nuovo fenomeno della scena
musicale francese si chiama Indila,
cantautrice di origini indiane che
con il singolo «Dernière Danse» ha
raggiunto 39 milioni di visualizzazioni su YouTube.
Considerata la nuova Edith Piaf, con il disco d’esordio
«Mini World» (Capitol) spopola nelle classifiche del suo
Paese e si prepara a conquistare anche il pubblico
italiano. È un concentrato di stilemi musicali d’Oltralpe:
eleganza, intensità, sussurri leggeri e gusto sofisticato, a
cui si aggiunge il fascino dell’Asia meridionale presente in
molte atmosfere musicali. Lei è graziosa e ha un timbro
vocale ammaliante. Un po’ come la Bjork degli inizi,
unisce melodie d’altri tempi a sonorità moderne. Canzoni
come «Tourner Dans Le Vide», «Comme Un Bateau» e
«Tu Ne M’Entends Pas» possiedono una magia
incontaminata e naif. (Mario Luzzatto Fegiz)
«Play Blue» è anagramma del
nome di Paul Bley, il
protagonista di questo
potente recital per pianoforte
registrato a Oslo nell’agosto
2008 e ora pubblicato dall’Ecm.
Il rapporto dello storico jazzista
canadese (classe 1932, un
passato al fianco di grandi nomi quali Ornette
Coleman, Charles Mingus e Sonny Rollins) con
l’etichetta tedesca è antico: quarantenne aveva
realizzato per essa «Open, To Love», uno dei dischi
imprescindibili del jazz contemporaneo. Questa
musica è tutt’altro: quattro lunghe improvvisazioni
(più un bis che rivisita appunto un brano di Rollins,
«Pent Up House») basate su sentimenti più che su
temi strutturati, una pubblica confessione che da un
lato conferma Bley come uno dei grandi del free jazz
storico, dall’altro ne esalta l’afflato lirico insofferente a
ogni regola. Come ogni poeta, in fondo, dovrebbe
essere. (Claudio Sessa)
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di Grock. Egumteatro Bellas
Mariposas fiaba crudele (Dal 15; fino
al 18, Franco Parenti, Milano)
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La nicchia per tutti. Sembra un
controsenso, anzi lo è. Ma è la
chiave del successo dei Black Keys.
Con «Turn Blue» (Nonesuch/
Warner) gli americani Dan
Auerbach e Patrick Carney sono
arrivati all’ottavo album, fanno
musica per rock-snob ma con
numeri da popstar. A differenza del precedente «El
Camino» che puntava sulle canzoni, qui si privilegia il
collettivo. L’impianto resta quel blues-rock ruvido e
scarno che gli ha fatto vincere 6 Grammy: chitarra e
batteria restano i cardini su cui girano storie d’amore
finite male (Dan ha appena divorziato) come «It’s Up to
You Now», ma più spesso lasciano il posto di guida ad
altri strumenti. «Weight of Love» apre psichedelica alla
Pink Floyd di «Wish You Were Here», la ritmica apre gli
spazi e la voce di Dan arriva dopo 2 minuti abbondanti.
«Fever» ha un irresistibile riff di synth, «Year in Review»
ricorda gli Arctic Monkeys (e c’è un campione di Nico
Fidenco). Uno dei dischi dell’anno. (Andrea Laffranchi)
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