Codice cliente: 5718638 46 Spettacoli Giovedì 15 Maggio 2014 Corriere della Sera italia: 54565057555257 In Platea ESCHILO E ARISTOFANE 7 giorni sul palco Orestea Agamennone e Coefore/Eumenidi, nel cast Elisabetta Pozzi, Francesco Scianna, Ugo Pagliai; Le vespe (foto) regia di Avogadro (in scena al Teatro greco, Siracusa) di CLAUDIA PROVVEDINI NUOVE VISIONI Così fan tutte Quando si sceglie di dirigere Mozart con una tastiera di ENRICO GIRARDI Opera Una scena del «Così fan tutte» di Mozart S e a 33 anni — 30 al netto del servizio militare obbligatorio in Israele — un ragazzo ha già diretto 40 titoli d’opera in tutta Europa, parla sette lingue, è salito più volte sul podio della Scala e diventa ospite fisso della Staatskapelle di Dresda, la più antica orchestra del mondo, si può dire quel che si vuole. Ma nulla sarà mai oggettivo quanto la realtà, che dice che Omer Meir Wellber è un musicista con una marcia in più rispetto a ogni altro della sua generazione. Alla Semperoper di Dresda il direttore scritturato per la Daphne di Strauss si ammalò alla vigilia della «prima». Nacque così il rapporto privilegiato tra Wellber e quel teatro: poche ore ed egli era lì, in buca, a dirigere quel titolo raro e difficile. Non così male, se il giorno dopo ancora era pronto un contratto per lui di sette opere negli anni a venire. Così fan tutte è una di queste sette. La prima della trilogia Mozart-Da Ponte che Wellber farà per intero proprio alla Semperoper, suonando il clavicordo non solo nei recitativi secchi, come è prassi, ma anche in diversi numeri musicali. La partitura mozartiana prescrive, a tal proposito, l’ad libitum ma quasi nessuno decide di farlo (lo si sente solo in qualche disco). È un rischio non obbligatorio, perché mai prenderlo? Se però si realizza il basso continuo con estro e sensibilità l’effetto è garantito: si può giocare con le citazioni, dare il tempo del numero che viene anticipandolo nel recitativo, si possono cucire recitativi e arie a favore del ritmo teatrale dello spettacolo. Queste cose Wallber le fa così bene che spiace non le faccia sistematicamente in tutta l’opera. Non dirige «dalla» tastiera ma «con» la tastiera, dettando tempi rapidi, un caleidoscopio di colori ma anche momenti di indugio elegiaco, quando necessario. La messinscena è di Andreas Kriegenburg. Gioca su quanto c’è d’astratto nel dramma dapontiano ma incide poco. Ha fatto un bel Ring a Monaco e presto lo si vedrà anche in Italia. In compenso il cast, pur senza essere di alto livello, è funzionale alla concertazione di Wellber. Si distingue il soprano Rachel Willis-Sørensen, giovane e bravissima Fiordiligi. La Staatskapelle suona stupendamente, come sa. Questo Così fan tutte e le Nozze di Figaro incise per Sony da Currentzis sono, in materia di cose mozartiane, i fatti salienti della stagione. teatro e musica Barbiere di Siviglia A capriole, Quelli © RIPRODUZIONE RISERVATA voto 8 CLASSICA The Gospel According To The Others Passione per orchestra nell’oratorio laico di Adams Nel 2000 John Adams compose un Oratorio laico sul tema del Natale. Ora chiude il cerchio con una sorta di Passione per soli, coro e orchestra che affronta il tema della morte in termini altrettanto laici, ponendo cioè l’accento sul riflesso della morte di Cristo nell’animo dei fratelli Maria Maddalena, Marta e Lazzaro. Ben congegnato il libretto di Peters Sellars, una collazione dei testi biblici con frammenti di vari scrittori, tra cui Primo Levi. Ma la vera sorpresa viene dalla musica. Il minimalismo è ormai una pallida matrice sullo sfondo; più in evidenza arrivano le sonorità della tradizione Gospel e degli oratori di Elgar e Tippett. Il risultato di tale alchimia è una musica viva e appassionata, ben diretta in questo cd DG da Gustavo Dudamel a capo delle maestranze orchestrali e corali di Los Angeles. (E. Gir.) dischi 1111111111 voto 8 PIANO E VOCE Dino Rubino Piano, flicorno, con Casini e Lanzoni; F. Puglisi piano solo e con G. Guidi, voce John Di Leo (dal 15, Asioli, Correggio) Il gabbiano A Firenze il festival teatrale Fabbrica Europa, a Scandicci la nuova «Eneide» di Cauteruccio Sette ore di «volo» verso la libertà di FRANCO CORDELLI I naugurazioni e ritorni a Firenze lo scorso fine settimana. Si è inaugurato il Teatro del Maggio, si è celebrato il ritorno in pubblico di Francesco Nuti, a Scandicci Giancarlo Cauteruccio, uno dei nostri maggiori registi, ha allestito l’Eneide trent’anni dopo il debutto, e alla Stazione Leopolda ha preso il via un’edizione di Fabbrica Europa tra le più ricche di proposte degli ultimi anni. Prima di parlarvi dell’in patria celebratissimo Gabbiano di Tomi Janežic (nato a Lubiana nel 1972 e detto «il Peter Brook slavo» ma anche «un Mozart del teatro contemporaneo») voglio dire due parole proprio sull’Eneide, uguale e diversa da quella del ricordo. Era uguale per come salivano dal nulla le immagini dell’addio alla Grecia e quelle di una costa sconosciuta, il litorale del Lazio: figure disegnate come nei fumetti, figure imponenti come ci appaiono nell’infanzia. Era uguale per la musica dal vivo, la musica travolgente dei Beau Geste (Gianni Maroccolo, Antonio Aiazzi e Francesco Maielli, tutti provenienti dai Litfiba e da ormai lungo tempo autonomi). Era uguale per la voce del racconto, mentre lo stesso regista traversava su e giù la scena: voce remota, dolente e trionfale. Era diversa in due cose: per l’uso dei laser, che questa volta rendeva la scena tridimensionale invece che bidimensionale; e per quel raggio rosso che compare all’improvviso, come a tagliare tutto in due, a spaccare in due il mondo. Era il segnale di una rottura, di una liberazione dal testo, dalla sua ipoteca, dal suo peso. Se oltre che conoscenza, a teatro cerchiamo piacere, quello fu un segnale di piacere assoluto, totale. Si potrebbe parlare di liberazione dal testo anche per Il gabbiano, ma in tutt’altro senso. Qui siamo nel cuore del teatro occidentale contemporaneo. Lo voglio dire meglio: nel brodo di coltura del contemporaneo. È come se non si riuscisse a uscire dal recinto di ciò che in letteratura si chiama autofiction e in teatro è il teatro chiuso in se stesso: non nella drammatica riflessione su di sé nel senso di Pirandello ma nel senso della pura domesticità, della vita quotidiana, come essa entra, penetra, si insinua nelle pieghe di ogni drammaturgia e di ogni scrittura scenica. Gli attori di Janežic colpiscono per tecnica, carattere e fisicità. Ma siamo lontani da ciò che il vecchio Tanizaki intendeva in Sulla maestria (ora tradotto per Prima nazionale Una scena di «Il gabbiano» di Cechov del Teatro Nazionale Serbo, per la regia di Tomi Janežic Adelphi). Tanizaki parla di tecnica come concentrazione spirituale e come esercizio in levare. Qui siamo all’opposto. Nel primo tempo (due ore) gli attori, vestiti con i propri abiti, dicono cose come: occorrono nuove forme; chi sono io? come sono? com’è Trigorin? non lo capisco, è molto riservato; Nina dice che ama: ma in che modo lo dice? qui c’è solo declamazione e in un pezzo teatrale ci deve essere un po’ di amore; gli attori sono persone che vengono scelte, se non lo sei non vali niente; di fronte a un’attrice sono tutti in ginocchio, e io sulla scena mi sento ebbra. Tutte cose così, ripeto: per due ore. Poi comincia Il gabbiano, con i costumi. Ma si procede nel senso consunto e disinvolto della destrutturazione del testo attraverso la coazione gestuale (l’attore che fa Trigorin si spoglia e riveste per quaranta minuti), la ripetizione (d’una stessa frase), la dilatazione (d’una sillaba), il denudamento (di un corpo, quello di Nina). Noi ascoltiamo con le cuffie, siamo quindi condizionati. E anche se i quattro atti cambiano quattro volte prospettiva (la quarta è analoga alla seconda) la durata di oltre sette ore più che liberare Il gabbiano dal testo lo sfibra, e sfibra lo spettatore. © RIPRODUZIONE RISERVATA 1111111111 voto 7 Enrico IV Branciaroli dirige e interpreta il dramma di Pirandello La follia per difendersi dall’accusa di omicidio di MAGDA POLI N ell’Enrico IV di Luigi Pirandello al Sociale di Brescia con la regia di Franco Branciaroli, c’è una netta separazione espressiva tra il primo e il secondo atto. Quasi una dicotomia insanabile, il primo è recitato sopra le righe in un grottesco stilizzato a significare ipocrisia, vacuità, sventatezza mentre nel secondo prende sopravvento un crudo, nostalgico ragionare, con Branciaroli che offre di Enrico una interpretazione bellissima, carica di crudeltà, fatica di vivere, lucidità verso un senso della vita che sfugge e bisogna reinventare, rendendo quasi visibile il processo del reale che perde peso e consistenza nella misura in cui la finzione e l’arte ne acquistano: la realtà dei personaggi reali è ben poca cosa ri- POP Mini World In scena Branciaroli (a destra) sul palco spetto alla verità complessa della «finzione» del personaggio «irreale. Nel «pazzo» Enrico la finzione è l’unica «realtà» percorribile sia perché rinsavito dopo anni gli sarebbe impossibile rientrare in una vita che gli risulta estranea, sia perché uccide il responsabile della sua sventura e la «follia» diventa protezione. Paradosso di JAZZ Play Blue questo affascinante spettacolo, il secondo atto sembra venire a spiegare il primo, è come se i personaggi che arrivano ipocritamente benevoli per aiutare a uscire dalla sua gabbia mentale Enrico, siano come lui li pensa, mediocri e corrotti, convenzionali e inconsistenti, fissati da sempre e per sempre nei loro stilemi di perbenismo, capaci di uccidere e seppellire la vita altrui. Bravi gli attori Melania Giglio, Antonio Zanoletti, Giorgio Lanza, Tommaso Cardarelli che efficacemente seguono il dettato registico. Folgorante il finale nel quale Enrico, nella bella scena di Margherita Palli, sale su un cavalluccio da giostra pronto a scomparire tra essere e apparire. © RIPRODUZIONE RISERVATA 1111111111 voto 8 ROCK Turn Blue Indila, nei sussurri leggeri Le improvvisazioni di Bley Black Keys di nicchia c’è il fascino dell’Asia insofferenti ad ogni regola ma allargano gli orizzonti Ogni tanto dalla Francia arriva una ventata di freschezza e di novità (ricordate Vanessa Paradis, Guesch Patti, Alizée o la più recente Zaz?). Il nuovo fenomeno della scena musicale francese si chiama Indila, cantautrice di origini indiane che con il singolo «Dernière Danse» ha raggiunto 39 milioni di visualizzazioni su YouTube. Considerata la nuova Edith Piaf, con il disco d’esordio «Mini World» (Capitol) spopola nelle classifiche del suo Paese e si prepara a conquistare anche il pubblico italiano. È un concentrato di stilemi musicali d’Oltralpe: eleganza, intensità, sussurri leggeri e gusto sofisticato, a cui si aggiunge il fascino dell’Asia meridionale presente in molte atmosfere musicali. Lei è graziosa e ha un timbro vocale ammaliante. Un po’ come la Bjork degli inizi, unisce melodie d’altri tempi a sonorità moderne. Canzoni come «Tourner Dans Le Vide», «Comme Un Bateau» e «Tu Ne M’Entends Pas» possiedono una magia incontaminata e naif. (Mario Luzzatto Fegiz) «Play Blue» è anagramma del nome di Paul Bley, il protagonista di questo potente recital per pianoforte registrato a Oslo nell’agosto 2008 e ora pubblicato dall’Ecm. Il rapporto dello storico jazzista canadese (classe 1932, un passato al fianco di grandi nomi quali Ornette Coleman, Charles Mingus e Sonny Rollins) con l’etichetta tedesca è antico: quarantenne aveva realizzato per essa «Open, To Love», uno dei dischi imprescindibili del jazz contemporaneo. Questa musica è tutt’altro: quattro lunghe improvvisazioni (più un bis che rivisita appunto un brano di Rollins, «Pent Up House») basate su sentimenti più che su temi strutturati, una pubblica confessione che da un lato conferma Bley come uno dei grandi del free jazz storico, dall’altro ne esalta l’afflato lirico insofferente a ogni regola. Come ogni poeta, in fondo, dovrebbe essere. (Claudio Sessa) © RIPRODUZIONE RISERVATA © RIPRODUZIONE RISERVATA © RIPRODUZIONE RISERVATA 1111111111 di Grock. Egumteatro Bellas Mariposas fiaba crudele (Dal 15; fino al 18, Franco Parenti, Milano) 1111111111 voto 8 1111111111 voto La nicchia per tutti. Sembra un controsenso, anzi lo è. Ma è la chiave del successo dei Black Keys. Con «Turn Blue» (Nonesuch/ Warner) gli americani Dan Auerbach e Patrick Carney sono arrivati all’ottavo album, fanno musica per rock-snob ma con numeri da popstar. A differenza del precedente «El Camino» che puntava sulle canzoni, qui si privilegia il collettivo. L’impianto resta quel blues-rock ruvido e scarno che gli ha fatto vincere 6 Grammy: chitarra e batteria restano i cardini su cui girano storie d’amore finite male (Dan ha appena divorziato) come «It’s Up to You Now», ma più spesso lasciano il posto di guida ad altri strumenti. «Weight of Love» apre psichedelica alla Pink Floyd di «Wish You Were Here», la ritmica apre gli spazi e la voce di Dan arriva dopo 2 minuti abbondanti. «Fever» ha un irresistibile riff di synth, «Year in Review» ricorda gli Arctic Monkeys (e c’è un campione di Nico Fidenco). Uno dei dischi dell’anno. (Andrea Laffranchi) 8 11111111r 1 1 © RIPRODUZIONE RISERVATA voto 8,5
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