Arturo Pérez-reverte Il cecchino paziente

Arturo Pérez-reverte
Il cecchino paziente
Traduzione di Bruno Arpaia
Proprietà letteraria riservata
© 2013 by Arturo Pérez-Reverte
© 2014 RCS Libri S.p.A., Milano
ISBN 978-88-17-07563-3
Titolo originale dell’opera:
el francotirador paciente
Prima edizione: ottobre 2014
Realizzazione editoriale: Librofficina, Roma
Il cecchino paziente
C’era una volta una razza speciale di persone
chiamate writers. Hanno combattuto una fera battaglia contro la società. L’esito è ancora
ignoto.
Ken, grafftaro
Su un muro di New York, 1986
Nel complesso mondo dei graffti, per il suo carattere spesso clandestino,
le frme dei writers sono numerose e mutevoli, per cui risulta impossibile
stilarne un elenco uffciale. Per questo motivo, tutti i nomi che fgurano nel
romanzo, tranne quelli dei grafftari e degli artisti molto noti, che vengono
menzionati in modo esplicito, devono essere considerati immaginari o frutto
di coincidenze accidentali.
Nella città. 1990
Erano lupi notturni, cacciatori clandestini di muri e superfci, bombardieri impietosi che si spostavano nello spazio urbano, cauti, sulle suole silenziose delle loro scarpe da ginnastica.
Molto giovani e agili. Uno alto e l’altro basso. Indossavano jeans
e felpe nere per camuffarsi nell’oscurità; quando si spostavano,
nei loro zainetti macchiati di pittura tintinnavano le bombolette
provviste di tappini adatti a pezzi rapidi e di scarsa precisione.
Il più anziano dei due aveva sedici anni. Si erano riconosciuti nel metrò due settimane prima, dagli zainetti e dall’aspetto,
guardandosi di sottecchi fnché uno non aveva fatto con il dito
sul fnestrino il gesto di dipingere qualcosa. Di scrivere su un
muro, su una macchina, sulla saracinesca di un negozio. Avevano stretto amicizia in fretta, cercando insieme spazi liberi o
pezzi di altri su muri saturi, fabbriche abbandonate in periferia
e strutture ferroviarie, aggirandosi con le loro bombolette fn
quando vigilanti o poliziotti non li mettevano in fuga. Erano
plebei, semplice fanteria. Il gradino più basso della loro tribù
urbana. Paria di una società individualista e singolare in cui si
saliva di grado soltanto per meriti conquistati da soli o in piccoli gruppi, imponendo ciascuno il proprio nome di battaglia
con impegno e costanza, moltiplicandolo all’infnito in tutti gli
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angoli della città. Quei due erano da poco arrivati in strada,
ancora con poca pittura sotto le unghie. Toys, per dirla in gergo: writers novellini dalla frma ripetuta ovunque, poco attenti
allo stile, senza rispetto per niente e per nessuno. Disposti a
imporsi «crossando» qualunque cosa, frmando comunque su
pezzi di altri, pur di farsi una reputazione. Cercavano, in particolare, opere di writers consacrati, di re della strada; graffti di
qualità dove scrivere il proprio logo, la tag, la frma mille volte
provata, prima su un foglio, a casa, e adesso su qualunque superfcie adatta in cui si imbattevano lungo il cammino. Nel loro
mondo fatto di codici, regole non scritte e simboli per iniziati,
dove di solito un veterano si ritirava poco dopo aver compiuto
vent’anni, crossare la frma di qualche altro era sempre una dichiarazione di guerra; una violazione di nome, territorio, fama
altrui. I duelli erano frequenti, ed era questo che i due ragazzi
cercavano. Avevano bevuto Coca-Cola e ballato break fno a
mezzanotte. E ora si sentivano ambiziosi e temerari. Sognavano
di fare bombing e di bruciare con le loro frme i muri della città,
i cartelli dell’autostrada. Sognavano di ricoprire superfci mobili tradizionali come un autobus o un treno locale. Sognavano
il pezzo più diffcile e ambito da qualunque grafftaro di qualunque posto del mondo: un pannello. Un vagone del metrò.
o, per il momento, in mancanza del vagone, di crossare la tag
di uno dei grandi: Tito7, Snow, Rafta o Tifón, per esempio. o
addirittura, con un po’ di fortuna, di Bleck o Glub in persona.
o di Muelle, il padre di tutti loro.
«Lì» disse il più alto.
Si era fermato a un incrocio e indicava la strada vicina, illuminata da un lampione che diffondeva un cerchio di luce cruda
sul marciapiede, l’asfalto e parte del muro di mattoni di un ga-
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rage con la saracinesca abbassata. C’era qualcuno lì, davanti al
muro, in piena scrittura, proprio al confne tra la luce e l’ombra.
Dal loro angolo, lo si poteva vedere solo di spalle: magro, aria
giovane, una felpa con il cappuccio alzato sulla testa, lo zainetto
aperto davanti ai piedi, una bomboletta nella mano sinistra con
la quale in quel momento riempiva di rosso un’enorme r, sesta
lettera di una tag scritta con caratteri di un metro d’altezza e
dall’aspetto singolare: uno stile bubble ombreggiato, semplice e
avvolgente, flettato con un outline blu, spesso, in cui sembrava
esplodere, come una pennellata o uno sparo, il rosso di ciascuna delle lettere che conteneva.
«Minchia minchia» mormorò il ragazzo alto.
Era immobile accanto al suo compagno, con uno sguardo
meravigliato. Quello che stava lavorando sul muro aveva fnito
di colorare le lettere, e adesso, dopo aver cercato nello zainetto
aiutandosi con una piccola torcia, impugnava uno spray bianco
con il quale colorava l’interno del punto della lettera centrale,
che era una i. Con movimenti rapidi, con tocchi brevi e precisi,
il writer riempì il cerchio e quindi lo sbarrò in verticale e in
orizzontale con due linee nere che gli davano un aspetto simile
a una croce celtica. Poi, senza nemmeno guardare il risultato
fnale, si chinò per riporre la bomboletta, chiudere lo zaino e
metterselo in spalla. Adesso il punto della i era diventato il cerchio del visore di un mirino telescopico, come quello dei fucili.
Il writer scomparve in fondo alla strada, nel buio, il volto
nascosto dal cappuccio. Agile e silenzioso come un’ombra. Fu
allora che i due ragazzi si spostarono dall’incrocio e si avvicinarono al muro. rimasero per qualche istante fermi alla luce
del lampione, a guardare il lavoro appena fnito. odorava di
pittura fresca, di scrittura ben fatta. Per loro, il miglior odore
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del mondo. odore di gloria urbana, di libertà illegale, di fama
nell’anonimato. Di fotti, bum, bum, bum, di adrenalina. Erano
sicuri che non esistesse un odore più bello. Nemmeno quello di
una ragazza. o di un hamburger.
«Andiamo» disse il ragazzo basso.
Era il più giovane dei due. Aveva preso una bomboletta dallo
zaino per scrivere sul pezzo appena dipinto sul muro. Pronto
a un crossing ben fatto; non una, ma tutte le volte che fosse
possibile. A un implacabile bombing. Anche se ciascuno di loro
aveva la propria tag – Blimp la sua, Goofy quella dell’altro –
quando agivano insieme ne utilizzavano una comune, ikTf:
Indovina Ki ti Fotte.
Il ragazzo alto guardò il compagno, che scuoteva la bomboletta per mescolare la vernice: Novelty nera da duecento millilitri e tappino stretto, rubata in un negozio di ferramenta. Fare
bombing come lo facevano loro, con una grossolana frma ripetuta di continuo, non aveva bisogno di alcuna sofsticazione. La
questione non stava nel fatto che il logo fosse bello, ma che fosse dovunque. A volte, con tempo e calma, pensando a un futuro
più o meno immediato, cercavano di realizzare pezzi complessi
con diversi colori, su muri di cinta mezzo distrutti o pareti di
fabbriche abbandonate. Ma non era quello il caso. Si trattava di
un’incursione di routine, di punizione di massa. Per la faccia.
Quello che impugnava lo spray si avvicinò alla parete con il
dito pronto, cercando un posto dove crossare per primo. Si era
appena deciso per il cerchio bianco sulla lettera centrale, quando il compagno lo prese per un braccio.
«Aspetta.»
Il ragazzo alto osservava il pezzo, il cui rosso brillante sembrava esplodere alla luce del lampione come gocce di sangue