Gli elisir del diavolo

Ernst Theodor
Amadeus Hoffmann
Gli elisir del
diavolo
Titolo originale Die Elixiere
des Teufels
Traduzione di Carlo Pinelli
Introduzione di Claudio
Magris
Copyright 1969 e 1989
Giulio Einaudi editore S.p.A.
Torino
Copyright 1979 e 1989
per l'introduzione
Giulio Einaudi editore S.p.A.
Torino
Einaudi
«... Hoffmann è stato al contempo
l'anticipatore del realismo
borghese e del surrealismo, il
narratore scapigliato di
avventure ottocentesche e
l'analizzatore dell'inconscio,
l'umorista trascendentale e il
sognatore delle fiabe,
l'antesignano dell'angoscia
moderna e della dissociazione
pirandelliana della personalità,
l'esponente dello slancio
romantico e l'ironico superatore
dei limiti ideologici del
Romanticismo. Gli elisir del
diavolo (1815-16) sono, insieme
al Gatto Murr, il grande
romanzo dell'io inteso quale
analisi e costruzione
interminabile di un soggetto che
ricerca disperatamente la
propria identità e il modello di
una ragione che possa
costituirla. L'io, che si
costruisce e si struttura in lotta
con gli elementi che lo
compongono e rispetto ai quali
esso non può né distinguersi né
identificarsi, è assai simile al
barone di Münchhausen, che
vuol uscire dalla palude
tirandosi per i capelli; Gli elisir
del diavolo sono il grande
romanzo di questo paradosso
dell'io».
Dall'introduzione di Claudio
Magris
Di E.T.A. Hoffmann (17761822), Einaudi ha pubblicato,
nella collana dei "Millenni", tre
volumi di Romanzi e racconti.
Parigi 1931: non leggete
Hoffmann
(I passi di Hoffmann vengono
citati secondo la traduzione
italiana E.T.A. Hoffmann,
Romanzi e racconti, a cura di
Carlo Pinelli, trad. di Carlo
Pinelli, Alberto Spaini e Giorgio
Vigolo, prefazione di Claudio
Magris, 3 volì, Einaudi, Torino
1969.)
A Edda e a Massimo Salvadori
Nel catalogo della libreria
parigina José Corti, centro del
movimento surrealista, erano
stampate nel 1931, sul retro della
copertina, alcune tabelle che
contenevano un elenco degli
autori la cui lettura veniva
rispettivamente raccomandata e
proibita. «Leggete» e «non
leggete» s'intitolavano le liste di
celebrazione e di proscrizione che
imponevano
all'attenzione
o
ponevano al bando, in nome della
poetica surrealista, scrittori e
filosofi delle più varie epoche.
Nella maggior parte dei casi, i
perentori elenchi non destavano
sorpresa ed emettevano sentenze
prevedibili: leggete Lautréamont,
non leggete Schiller. Può sembrare
invece strano che il nome di
Hoffmann figurasse tra quelli
messi all'indice, fra gli autori
vietati. I surrealisti, teorici
dell'accostamento arbitrario e
immotivato di cose lontane e
fautori di un'arte intesa quale
trascrizione immediata del sogno
e dell'inconscio, rifiutavano un
poeta che era sempre stato
considerato, con entusiasmo o con
repulsione,
un
poeta
dell'irrazionale e del profondo non
mediato dalla logica, un poeta del
capriccio e dell'arbitrio. Non solo
Walter Scott, ma anche Goethe e
Hegel
avevano
condannato
Hoffmann
per
motivi
che
avrebbero dovuto conquistargli
invece il consenso dei surrealisti:
avevano visto in lui un artista del
caos e del disordine, uno scrittore
lacerato che si compiaceva della
propria
lacerazione
e
s'abbandonava
alla
morbosa
seduzione
del
patologico,
un'anima straziata e sfrenata che
sottraeva le incalzanti associazioni
d'idee e i febbrili processi
analogici della psiche a ogni
controllo
della
ragione,
trascrivendoli in una sorta di
selvaggia scrittura automatica. Se i
grandi spiriti classici avevano
respinto Hoffmann in nome
dell'ordine logico e morale - e in
nome della sostanziale positività e
razionalità del mondo - i grandi
interpreti della crisi moderna
avevano salutato in Hoffmann, per
le stesse ragioni intese però quale
contrassegno di verità poetica
anziché di fallimento eticoartistico, un loro fratello e
precursore: sono Gogo4l e Nerval,
Poe e Dostoevskij, Baudelaire e
Freud ad amare Hoffmann e a
ritenerlo un geniale poeta della
scissione e del perturbante. Tanto
più strano dunque che Hoffmann,
amato dagli autori che gli stessi
surrealisti consideravano loro
maestri, venisse spregiativamente
affiancato a San Tommaso e a
Platone, agli artefici della totalità
logica del mondo, anziché a Nerval
e a Baudelaire.
Il verdetto surrealista era
tuttavia
estremamente
acuto
quale giudizio di fatto, anche se
traeva
da
quest'ultimo
un
discutibilissimo e ottuso giudizio
di valore. Anche oggi si tende a
scorgere in Hoffmann, sia pure
per esaltarlo, un poeta della
fantasia
sfrenata
e
della
connessione immotivata. Nel film
su Hoffmann girato da Höllerer e
Ramsbott - nell'ambito delle
ricerche
sperimentali
del
Literarisches
Colloquium
berlinese - con l'intento di
realizzare una lettura critica
mediante
il
mezzo
cinematografico, le immagini
visive si susseguono in un voluto
arbitrio, che dovrebbe riprodurre
l'anarchia dei procedimenti onirici
e della scrittura hoffmanniana.
Illudendosi di scorgere nella vita
del profondo e del sogno
un'anarchia indeterminata anziché
una legge ben precisa sebbene
diversa da quella della superficie
diurna, Höllerer e Ramsbott sono
costretti a citare unilateralmente i
passi hoffmanniani. Ad esempio
essi citano, a sostegno della loro
impostazione, una pagina del
primo racconto di Hoffmann, Il
cavaliere Gluck (1809), in cui si
parla della necessità poetica di
varcare la porta d'avorio e
scendere nel regno dei sogni: «[...]
qui lo spettacolo è d'una bizzarria
incredibile: tipi di forsennati si
aggirano qua e là. [...]. È difficile
uscire da quel regno: le vie
d'uscita sono sbarrate da mostri,
come nel castello di Alcina. [...].
Tutto turbina, gira [...]». A
differenza che nel film di Höllerer
e Ramsbott, nel racconto di
Hoffmann il passo tuttavia
continua e ribadisce la necessità
poetica
di
un
secondo
e
complementare
momento,
la
risalita da quel buio profondo e
l'uscita da quel regno: «Molti, nel
regno dei sogni [...] sognano: si
perdono, svaniscono nel sogno.
[...]. Non gettano più ombra,
altrimenti dall'ombra stessa si
accorgerebbero del raggio di luce
che illumina quel regno. Soltanto
pochi si svegliano, smettono di
sognare, e salgono in alto [...]».
Più che il poeta del sogno,
Hoffmann è il poeta della sua
rappresentazione e della sua
interpretazione:
nella
Traumdeutung
ciò
che
gli
interessa è la Deutung, come a
Freud, piuttosto che il puro (e in
realtà inesistente) momento del
Traum come a Breton. Se in un
passo famoso - e anch'esso tante
volte citato unilateralmente - delle
Curiose pene di un capocomico
(1819) egli afferma che il sogno è
il «poeta latente», egli soggiunge
che sono la «coscienza dell'io» e
l'«intelligenza» a chiamare alla
luce il poeta latente e a dargli la
forza di entrare «fisicamente, in
carne ed ossa» nella vita. Al
movimento della discesa e della
dispersione
nell'indistinto
si
contrappone
sempre,
in
Hoffmann, quello della risalita
verso la luce e l'unità: Elis, nelle
Miniere di Falun (1819-20),
abbandona sì la fidanzata, e il
mondo positivo della norma per
scendere nelle viscere della terra,
dove lo chiamano l'invito della
Madre Regina della miniera e
gl'informi amplessi delle creature
non
ancora
differenziate
dall'individuazione, ma egli si
propone di strappare alla tenebra
inarticolata il suo segreto, il
fulgido almandino da donare alla
sposa quale gioiello per l'abito
nuziale.
Certo Elis perisce: gli eroi di
Hoffmann sono impari al loro
compito e finiscono quasi sempre
per soggiacere alle forze infere, o a
quelle
forze
che
la
loro
intelligenza
non
può
non
considerare infere. La rovina di
Elis trascina con sé anche Ulla, la
sua fidanzata che vive per
lunghissimi anni prigioniera di
una fedeltà al ricordo dell'amato
irrigidita
sino
alla
follia;
Nataniele, nell'Uomo della sabbia
(1817), ridà deliberatamente forza
e vita ai fantasmi della sua
lacerazione, di cui la sua vocazione
artistica ha bisogno, e ricade in
balìa del loro furore distruttivo.
Hoffmann è, nelle sue forme
peculiari, un grande razionalista,
privo di qualsiasi indulgenza verso
l'incontro fortuito di un ombrello
e di una macchina da cucire su un
tavolo anatomico; il suo sforzo è
sempre quello di spiegare, di
districare il groviglio del mistero
per estrarne uno o più fili, di
individuare una legge nella ridda
dei fenomeni. A loro modo i
surrealisti non avevano torto di
preferirgli ad esempio il tanto più
modesto Achim von Arnim: la
pagina di Arnim è affollata di
cortocircuiti
fra
elementi
diversissimi, la cui ipotetica
somiglianza
è
imposta
terroristicamente
dal
poeta
medesimo, che costringe i lettori a
presupporla in base alla sua stessa
mancanza, in base a quel vuoto di
significato che il lettore è restìo ad
ammettere e che è quindi portato
a riempire con ciò che gli ordina la
suggestione dell'autore (Guido
Morpurgo
Tagliabue).
In
Hoffmann, ben più ricco di Arnim
quanto a fantasia creatrice,
sull'immaginazione produttrice di
somiglianze prevalgono l'analisi e
il giudizio, ossia la facoltà di
discernere
differenze
e
di
ricomporre gli elementi, ottenuti
con la scomposizione analitica, in
nuove unità dense di significato.
Certo Hoffmann è intento a
scoprire una legge diversa nel
brulicare della vita, un'altra
razionalità e un'altra logica
rispetto a quelle che gli venivano
fornite dalla tradizione e dalla
cultura dominante del suo tempo.
Sensibilissimo alle nuove «scienze
dell'anima» che iniziavano allora a
fiorire
così
vigorosamente,
Hoffmann
deriva
da
esse
soprattutto la critica dell'unità
dell'io
o
meglio
di
quell'organizzazione
unitaria
dell'io che si proclamava assoluta
e naturale, mistificando così il
proprio carattere di costruzione
storica e culturale. La scienza (in
primo luogo la medicina) e la
filosofia romantica, ben note a
Hoffmann, andavano scoprendo
sotto
la
fittizia
unità
e
sostanzialità dell'io non soltanto
una dialettica - spesso ancora
grezzamente diadica - di conscio e
inconscio ma anche una ben più
complessa molteplicità di nuclei
psichici,
coordinati
in
una
costellazione
dinamica
e
mutevole.
La
narrativa
hoffmanniana è la ricostruzione
dei
sommovimenti
che
continuamente assestano, turbano
e
ricompongono
l'arcipelago
dell'io; la sua analisi, razionalistica
in quanto cerca di indagare le leggi
e correlazioni di quelle scosse, non
si basa su alcun modello di
Ragione universale e immutabile.
Essa è piuttosto affine a quella che
sarà l'analisi «interminabile» di
Freud, perché l'unità del soggetto
che essa ha in mente è un'unità
mobile e in fieri, un assestamento
e una composizione dei nuclei
psichici che non sono distinguibili
dall'analisi - o dall'autoanalisi - la
quale, indagandoli, contribuisce a
costituirli
(Franco
Rella).
Sovranamente
epico
anche
quando gioca rigorosamente col
punto di vista circoscritto dei suoi
personaggi, Hoffmann non si
identifica
ideologicamente
o
moralmente
con
la
loro
prospettiva,
ma
si
pone
psicologicamente dal loro angolo
visuale, per raffigurare con
maggior intensità la crisi che essi
vivono e che è la crisi di un
soggetto il quale improvvisamente
si scopre labile e inadeguato.
Privo della garanzia di un
ordine trascendente, il soggetto
individuale è affidato, nella
narrativa di Hoffmann, soltanto
alla sua storia, al lavoro degli
eventi che lo costituiscono e della
sua ragione che si dà forma in
questo stesso processo sul quale
essa pure inalza un giudizio. Il
gatto Murr (1820-22), o meglio la
parte kreisleriana del Gatto Murr
ovvero quella che narra sul
rovescio della biografia del gatto la
frantumata storia di Kreisler, è il
geniale esempio di un romanzo
nel quale la coscienza individuale
è il risultato perennemente aperto
di un processo, la cristallizzazione
e l'intersezione di eventi in un
luogo psichico che si costituisce, e
acquista
una
sua
concreta
autonomia, in questo gioco di
rapporti, accadimenti e assunzioni
di consapevolezza. Nell'età in cui
viene posta in dubbio la
distinzione fra ciò che è interno e
ciò che è esterno al soggetto (per
esempio Lichtenberg) e in cui l'io
comincia a percepire in se stesso
l'oscura memoria delle sue cellule
che
ricordano
aggregazioni
precedenti, oscillando fra la
voluttà
di
dilatarsi
nell'annientamento e l'ansia di
ripararsi nel limite (per esempio
Moritz), Hoffmann non sceglie né
l'irrigidimento in una monolitica
unità psichica né il dissolvimento
in un'indefinita corrente di
pulsioni e desideri. Il problema del
soggetto - ossia della biografia
quale costruzione razionale di una
vita e quale rappresentabilità di
questa costruzione - gli si pone
come il problema della forma o
delle
forme
possibili
d'organizzazione
dei
dati
dell'esperienza.
Gli elisir del diavolo (1815-16)
sono, insieme al Gatto Murr il
grande romanzo dell'io inteso
quale analisi e costruzione
interminabile di un soggetto che
ricerca disperatamente la propria
identità e il modello di una
ragione che possa costituirla. Il
tema centrale è il binomio di
destino e carattere, il tentativo di
discernere un senso nel groviglio
che sembra all'inizio confondere, e
non identificare, i due termini. Il
fittizio redattore, che presenta al
lettore le carte nelle quali è scritta
l'autobiografia di frate Medardo,
parla nella prefazione della
conoscenza simbolica - cioè quella
che si acquista mediante il sogno e
l'immaginazione
del
filo
«collegante e condizionante gli
eventi della nostra vita», ma pone
in guardia contro la hybris di chi
ritiene che la conoscenza di quel
filo comporti anche il potere di
afferrarlo e strapparlo. In tutto il
romanzo infatti Medardo oscilla
fra l'angosciosa ignoranza in
merito alla sua identità - che lo
spinge a cercare ossessivamente
d'individuarne origine, essenza e
svolgimento - e la tentazione
demonica di rovesciare di segno la
sua mancanza d'identità, di
trasformarla in un pretesto per
costruirsi
arbitrariamente
un
carattere e un destino, per
arrogarsi un blasfemo potere sulla
natura propria ed altrui. Il
romanzo è la «camera obscura» in
cui vengono proiettati «gli aspetti
orrendi, spaventosi, forsennati,
farseschi della sua vita», vale a
dire
una
vertiginosa
fantasmagoria
di
frammenti
minimi e contraddittori, ch'egli
può - o crede di potere - comporre
e mettere insieme a suo
gradimento.
La storia di Medardo è infatti
un'autobiografia, la sua vita scritta
da lui stesso; questa operazione di
scrittura obbedisce a due intenti
opposti ma inestricabilmente
intrecciati, così come lo sono, nel
protagonista, pietà religiosa e
profanazione sacrilega. Scrivere la
propria vita significa per Medardo
anzitutto darsi un'entità, definirsi
rispetto al fluttuare degli eventi
esterni
e
al
mareggiare
dell'inconscio in cui egli rischia a
ogni momento di perdersi,
distinguersi nei riguardi di quella
misteriosa e maledetta totalità
atavica che lo condiziona col suo
retaggio, che agisce in lui come la
linfa di un intricato arbusto, sino a
farlo sentire non più di una fugace
efflorescenza di quel grande
albero. Scrivere la propria storia
significa per Medardo anzitutto
distinguersi dal sosia che lo
aggredisce di continuo, instaurare
- col primato del soggetto
grammaticale che organizza la
frase - il dominio della sua
individualità rispetto a quel
magma vitale, esteriore e insieme
psichico, nel quale egli è sempre
in pericolo di sciogliersi. Medardo
potrebbe ben far proprie le parole
di Troxler, il bizzarro e geniale
antroposofo svizzero discepolo di
Schelling; «il mio spirito non ha
ancora acquistato tanta elevatezza
ed
ampiezza
da
cogliere
interamente la mia vita. Troppo
spesso la materia che è in me ha
spezzato la forma che volevo
darle».
Quando Medardo parla, non è
lui a pronunziare le parole bensì
«una voce sorda e cavernosa» che
parla per lui e in lui: è l'es,
grammaticale e psichico, che parla
dal suo profondo («so antwortete
es aus mir heraus»), è l'Altro che
grida e infuria dalla sua bocca.
Quando Medardo dice a frate
Cirillo d'esser lieto di rinunziare
alle vanità mondane, egli deve
accorgersi d'una propria duplicità
a lui stesso ignota: «una
sensazione
sconcertante
mi
avvertì che mentivo»; quando
giunge al castello (dove viene
ritenuto ora frate Medardo, ora il
conte Vittorino travestito da
Medardo e cioè un altro camuffato
nei suoi stessi panni), egli
risponde alle domande sospettose
di Rinaldo ripetendo ciecamente
quanto una voce segreta sembra
suggerirgli.
Le
tumultuose
avventure (la fuga dal convento,
l'assassinio - o il creduto
assassinio - involontario di
Vittorino, la tresca infernale con
Eufemia, la pulsione amorosa e
distruttiva
per
Aurelia,
i
travestimenti, gli scambi di
identità, i delitti, gli intrighi)
appaiono la gigantesca metafora di
un io che non regge al turbinoso
assalto del molteplice: «il mio
«io», confuso con una personalità
estranea, vagava alla deriva in
balìa degli eventi imperversanti su
di me come marosi infuriati. [...].
Ero colui che sembravo, e non
sembravo colui che ero. In quella
duplice personalità non riuscivo
più a comprendere, a ritrovare me
stesso». E più tardi, quando
Medardo grida la sua stridula
risata negli atri e per le sale del
castello,
dopo
aver
colpito
Eufemia ed Ermogene: «Ma [...]
atroce vista! [...]. Davanti a me [...]
davanti a me era sorto il viso
insanguinato di Vittorino. [...].
Non io, lui aveva pronunziato
quelle parole!»
Hoffmann ricorre a tutti gli
strumenti stilistici possibili per
rendere questa furiosa lotta fra la
dispersione dell'io e la forza
morale centripeta che cerca di
opporvisi; il vero terreno di questo
scontro
contraddittorio
e
paradossale è il linguaggio - il
quale peraltro, nella finzione
narrativa, è il linguaggio di
Medardo stesso, il linguaggio cioè
col quale Medardo ritrae la propria
disgregazione sia psicologica sia
linguistica. Se la «stravagante e
pazzesca» vita reale si presenta al
poeta, come si dice nell'Uomo
della sabbia, quale «oscuro
riflesso dentro uno specchio senza
luce», la poesia deve far sì che
quel tenebroso groviglio si sciolga
in «immagini luminose». L'io, che
si costruisce e si struttura in lotta
con
gli
elementi
che
lo
compongono e rispetto ai quali
esso non può né distinguersi né
identificarsi, è assai simile al
barone di Münchhausen, che vuol
uscire dalla palude tirandosi per i
capelli; Gli elisir del diavolo sono
il grande romanzo di questo
paradosso dell'io che si costruisce
con un'analisi interminabile. Il
linguaggio
degli
Elisir
non
rappresenta una struttura psichica
già avvenuta, ma coopera al suo
stesso formarsi: la scrittura è il
processo in cui l'io si dà
un'identità e combatte per darsela.
Gli espedienti stilistici e retorici
tentano febbrilmente di mimare
tale processo che pure sono essi a
costituire:
il
periodo
è
lunghissimo e sinuoso, teso ad
abbracciare
nel
giro
delle
numerose coordinate l'incalzare
simultaneo e la tumultuosa
complessità degli eventi, oppure si
spezza in unità minori, si infrange
a metà di un inciso o di una
parola, si frantuma nei puntini di
sospensione
per
raffigurare
l'allentamento di ogni ordine,
l'emancipazione dei singoli atomi
psicolinguistici
e
la
disarticolazione del soggetto. Vi
sono frequenti scene - memorabili
nel loro tragico dolore e nella loro
tortuosa stratificazione di livelli
psichici, lapsus, rimozioni ed
emersioni del rimosso - che
illustrano con grande forza poetica
questo processo: soprattutto le
furibonde lotte di Medardo col
sosia,
col
loro
vertiginoso
alternarsi di sdoppiamento e
identificazione,
incapacità
di
riconoscere
se
stesso
e
distinguersi
dall'alterità,
perdizione nella moltiplicazione
schizofrenica o nell'irrigidimento
paranoico.
La trama romanzesca, con i
suoi orrori gotici e i suoi colpi di
scena avventurosi, fornisce un
fondale
colorito
e
una
convenzione
realistica
alle
peripezie dell'identità: per ogni
apparizione del sosia vi può essere
anche una spiegazione materiale,
una causalità riconducibile al
complicatissimo intreccio delle
vicende
familiari,
ma
tale
spiegazione in termini d'intrigo
narrativo non solo è inadeguata
alla rilevanza psicologica del tema,
ma
viene
pure
spesso
ironicamente smentita da altri
fattori pertinenti all'intreccio, la
cui macchinosità risulta una
metafora della futile e rovinosa
inestricabilità della vita. Se la
cultura
scientifica
spingeva
Hoffmann
a
indagare
la
molteplicità dell'inconscio e la
filosofia
schellinghiana
lo
induceva a scorgere in essa
l'inebriante presenza dell'Uno, il
pensiero di Fichte - dal quale pure
egli fu intensamente turbato - lo
rimandava alla dimensione etica
di quel conflitto. Gli elisir del
diavolo sono anche il romanzo del
rapporto, conflittuale e mutevole,
fra morale e psicologia. L'unità del
soggetto, inesistente sul piano di
quest'ultima, viene inseguita sul
piano della prima, non viene mai
definitivamente conquistata bensì
realizzata
in
questa
lotta
incessante: sempre esigenza, mai
risultato.
La psicologia rinvia a una
molteplicità
sconnessa
dal
soggetto: «Un dolce tepore
m'invase. Poi avvertii uno strano
lavorìo, un formicolìo in tutte le
vene. Questa sensazione divenne
pensiero, ma il mio «io» era
ancora diviso in mille pezzi;
ognuno di essi si muoveva, aveva
una sua propria consapevolezza
della vita, ma inutilmente il
cervello impartiva ordini: le
membra, come vassalli ribelli, si
rifiutavano di riunirsi sotto il suo
comando. Poi i pensieri delle
singole parti incominciarono a
ruotare come punti luminosi, in
fretta, sempre più in fretta [...]».
Hoffmann concepisce il reale
come un turbine di atomi di
energia, ognuno dei quali è volto a
scontrarsi con gli altri per
sopraffarlo
o
per
venirne
sopraffatto. Questa sorta di
volontà di potenza pervade
ognuno di quelli che Baioni
chiama,
con
terminologia
intenzionalmente
nietzscheana,
«dynamische Quanta», senza
distinzioni tra sfera umana e non
umana. Un'unica energia vitale
pulsa in ogni minimo nucleo della
vita, spingendolo ad affermarsi a
spese degli altri: la bollicina dello
champagne che lotta per venire a
spumeggiare alla superficie, lo
spirito della salamandra che si
agita nel fuoco, l'elettricità delle
mani innamorate che si sfiorano,
il desiderio amoroso che vuole
impossessarsi del suo oggetto,
l'ispirazione artistica che non
sdegna
di
nutrirsi
vampirescamente della vita, come
accade nella Chiesa dei gesuiti di
G. (1817) e in altri racconti.
«L'esistenza è lotta e nasce dalla
lotta», proclama il diabolico
magnetizzatore Alban, cui fa eco
negli Elisir l'analoga morale del
dominio di Eufemia. In questa
corrente della vitalità eros,
aggressività e arte coincidono.
L'eros
è
la
manifestazione
suprema della forza vitale che si
afferma sull'annientamento altrui:
in molti racconti - Don Giovanni
(1813-14-15), Il vaso d'oro o
Mastro Pulce - l'amplesso è una
fiamma che divora e distrugge
l'oggetto amato. Se la vita è questa
danza sull'abisso, l'arte è la più
pura conoscenza di tale danza,
perché non è offuscata da
preoccupazioni morali o religiose
che ne velino il ritmo annientante
aldilà del bene e del male, e
s'identifica con essa sino a far
proprio,
nella
sublimazione
creatrice, l'impulso distruttore
vissuto quale esaltazione erotica:
nei Kreisleriana (1814-15) l'artista
vagabondo e straniero uccide la
fanciulla che il suo canto ha fatto
innamorare, la pittura di Molinari - nella Chiesa dei gesuiti di G. finisce per assorbire e annichilire
la vita della donna amata e
dell'artista stesso. Nel Murr la
follia omicida del pittore Ettlinger
esplode in forma di violenza
erotico- estetica verso la piccola
principessa che lo ama e del cui
rosso sangue egli dice di aver
bisogno per nutrirsi e per
dipingere.
Se in altri racconti di
Hoffmann la conoscenza del
tempio di Iside - ossia il poetico
unisono con la vertigine di
possesso
erotico,
lotta
e
distruzione
è
un'ebbra
identificazione
con
questa
vertigine e una fonte di felicità,
negli Elisir prevale un tono di
cupa
angoscia,
dovuto
al
predominio della dimensione
morale su quella cosmico- panica.
Il groviglio di amore, odio,
devozione e bestialità sacrilega
che Medardo prova per Aurelia nella quale egli scorge pure Santa
Rosalia e che egli è spinto insieme
a venerare con purezza e a
profanare oscenamente - è per lui
fonte di tormentosa scissione, non
conciliazione mistica di tutti gli
opposti. Egli cerca di trasformare
la sua scissione in un'arma per
combattere contro le potenze
centrifughe, che lo porterebbero a
distruggere se stesso e gli altri: «Il
prender coscienza di questa
drammatica frattura interiore in
un certo senso mi dava conforto
perché annunziava il nascere e il
maturarsi in me d'una forza mia
propria, che un giorno si sarebbe
opposta al nemico e lo avrebbe
battuto».
La scrittura è lo strumento
dell'ordine, il mezzo per sdipanare
il filo della propria identità e
operare
distinzioni
pure
all'interno di se stessi. Sin
dall'inizio Medardo cerca di
ricostruire il suo io mediante la
memoria, intesa non quale
registrazione meccanica bensì
quale facoltà morale, quale
giudizio che salva il fluire della
vita e lo passa al vaglio. Ma
riandando indietro alla sua
infanzia, alla ricerca disperata
della sua origine, Medardo
s'accorge che i primi ricordi, i
quali pongono le fondamenta del
suo essere, sono esperienze che
egli conosce solo perché gli sono
state raccontate da altri. Nella
ricerca del proprio Io autentico
Medardo s'avvede, con orrore, di
doversi affidare a mediazioni
incerte, a costruzioni fatte da altri;
la verità su se stesso, che egli
vorrebbe
scoprire
nella
consapevolezza del suo vissuto, gli
viene incontro da labili o
macchinose testimonianze altrui:
racconti fattigli da altri, che non si
sa se lo mettano sulla giusta
strada oppure se tendano a sviarlo,
pergamene misteriose che gli
svelano orribili destini, reazioni di
altri - per esempio Eufemia, la
quale lo scambia per il suo amante
e con ciò fa veramente di lui il suo
amante - che gli attribuiscono un
sempre nuovo e imprevedibile
passato e fanno di lui un altro, un
uomo dalla storia diversa. Fra
l'origine e il caotico presente della
sua
avventura
si
spalanca
un'«immensa
voragine»
e,
quand'egli cerca di guardare in se
stesso, fosche figure, egli dice, «mi
sorgono intorno, si infittiscono,
mi stringono sempre più da
presso, mi precludono la visuale,
mi ottenebrano i sensi».
Nella prospettiva morale del
romanzo Medardo non può infatti
accontentarsi
di
quell'incerto
baluginare che, in altri racconti,
accende nell'intimo dell'individuo,
come in una lanterna magica, il
vago ricordo di un passato
antichissimo,
di
un'esistenza
vissuta in altra forma o in altro
stadio
dell'essere.
Giorgio
Pepusch, in Mastro Pulce, ha una
confusa memoria, osservando il
viso della bella olandese, del
tempo primordiale in cui lo spirito
vitale ora incarnato nella sua
persona viveva allo stadio di fiore.
L'inconscio,
che
Schelling
identificava con l'oggettivo, lo
riconduce - aldilà delle scissioni
instaurate
dalla
coscienza
soggettiva - al ritmo del tutto.
Secondo la mistica medicina
romantica, al centro individuale,
collocato nel cervello, fa da
contrappeso
il
«sistema
gangliare», attraverso il quale il
primo viene innestato nel centro
della vita universale.
Medardo teme invece proprio
di venir risucchiato in questo
vortice dell'indistinto, che nel suo
caso assume il sembiante di
un'inesorabile necessità atavica, di
una torva totalità dei labirinti del
sangue che minaccia di fagocitarlo
nei meandri d'un inconscio
collettivo. Medardo è un individuo
che lotta, come l'eroe del grande
romanzo classico goethiano di
poco
precedente
o
quasi
contemporaneo, per costruirsi una
biografia, per darsi una Bildung,
per formarsi nella pienezza della
propria personalità. Ma la breve
stagione classica tedesca, con la
sua utopia di conciliazione
armoniosa, è finita e per
Hoffmann è finita pure la stagione
romantica con la sua fede nella
sintesi poetica dei contrasti. Una
Bildung armoniosa esiste soltanto
per chi si appaga di una gretta e
filistea riduzione della vita: è del
gatto Murr, prototipo del borghese
sornione e meschino, che si può
raccontare
una
biografia
esemplare e ordinata, fluente
dall'inizio alla fine secondo un
«bell'ordine
cronologico»
e
compattamente unitaria nella sua
aproblematica piattezza, mentre
l'esistenza di Kreisler, posta faccia
a faccia con l'autenticità, si
sgretola nella follia e nella
discontinuità e può essere narrata
solo a pezzi e a bocconi, quale
incerto
risultato
di
eventi
misteriosi che incrociandosi e
sovrapponendosi, si cristallizzano
in
provvisori
fasci
di
rappresentazioni
psichiche,
dilaniate dal dolore della propria
caducità.
Medardo, scrivendo, vuole
ritagliare il proprio carattere dalla
marea del destino. Quest'ultimo
assume il volto della famiglia e
della catena di colpe familiari dalle
quali
l'individuo
si
sente
determinato. Il clan familiare
appare spesso, nelle opere di
Hoffmann, in un'aura di grottesco
dolore e di lacerazione struggente:
una galleria di zii arcigni e
taciturni, ammantati nel rigido
decoro di fogge antiquate e
segretamente
minacciati
da
impulsi disordinati e anarchici, si
presenta
quale
malacopia
caricaturale e bizzarra di un
sistema di rapporti totali fra l'io
individuale e il mondo. Negli Elisir
questa galleria è una forsennata
ridda incestuosa, dal cui viluppo
Medardo cerca di liberarsi. Il
rapporto di Medardo col mondo è
tragico in senso hegeliano; la sua
personalità morale scinde da sé la
natura ponendola come destino
per non confondersi con essa
(Peter Szondi); la coscienza
morale si ritrova dinanzi a sé, in
ciò ch'essa ha posto quale destino,
le leggi che essa stessa si è data.
Medardo lotta per affermare il suo
carattere contro il suo destino,
perché il destino che incombe su
di lui non diventi la sua stessa
coscienza. Nel dialogo col Papa,
sinistro ma ambiguamente latore
di verità e in quello col priore,
Medardo dibatte il rapporto fra
determinazione e libero arbitrio,
fra il ritorno ciclico e immutabile
degli eventi predestinati dalla
natura
e
il
fenomeno
imprevedibile che vi sfugge, fra
tendenza innata e possibilità di
combatterla. La libertà, una libertà
dal margine ristretto e sempre in
forse, è vista in questa stessa
tensione e nella lotta che ne
scaturisce e in cui si costituisce la
coscienza.
La progressiva scrittura degli
Elisir è appunto il costituirsi di
questa coscienza nel linguaggio.
Sul piano psicologico Medardo
non è un io unitario, bensì un
variabile amalgama di pulsioni
antitetiche, un coagulo di impulsi
coatti ed ereditari; la sua unità
esiste invece sul piano morale,
nella lotta fichtiana con la quale il
suo
io
empirico
cerca
incessantemente di realizzarsi
come io puro (Vittorio Mathieu),
dominando il non- io anziché
venirne travolto. È un'unità
mobile, mai definita ed esistente
solo nella dinamica del suo farsi.
Il linguaggio è il luogo di tale
dinamica. Ma se il linguaggio offre
a Medardo la possibilità di
afferrare il filo del suo essere, esso
gli suggerisce pure una tentazione
diabolica, quella di tirare e
strappare il filo a suo piacimento,
di signoreggiare temerariamente
sulla vita. Eccellente predicatore e
scrittore e dunque maestro della
parola, Medardo è costretto, nella
sua fuga, a escogitare un sistema
così perfetto di menzogne (come
quelle
che
lo
salvano
dall'interrogatorio del giudice) che
finisce per credervi egli stesso,
beandosi
nell'illusione
di
dominare quella potenza da cui
egli è invece irretito. Il potere
esercitato sulle carte della sua
autobiografia
lo
seduce
a
vaneggiare di dominare veramente
la vita, propria e altrui. Travolto da
vicende esterne e interiori che lo
sovrastano, egli s'inebria di porsi
al loro posto, di essere lui stesso
quelle forze che lo rovinano, di
essere il destino anziché il
bersaglio dei suoi colpi. Pensando
all'infamia da commettere contro
Aurelia,
egli
si
esalta
senz'accorgersi che tale infamia
colpirebbe il più alto valore della
sua vita - al pensiero che Aurelia
«non avrebbe potuto sfuggire al
destino. E il destino non ero io
stesso?» Egli presta orecchio alla
voce del persuasore, che gli parla
dal suo intimo: «Vedi come
comandi al destino? [...]. Come il
caso ti si è sottomesso ed ora si
limita soltanto più ad intrecciare i
fili che tu hai ordito?» Come nella
chiromanzia, egli vuole far
coincidere carattere e destino, e
scambia la ragnatela che lo stringe
per una rete con la quale
imprigionare la sorte e l'esistenza.
In tal modo egli si irrigidisce nella
ripetizione
ossessiva
dell'esperienza,
propria
al
carattere coatto e privo di libertà,
ossia - notava Benjamin - di vero
destino.
Il
passato
tende
a
imprigionare, nelle volute delle
sue ripetizioni, Medardo, costretto
a muoversi «entro il ristretto
spazio di una gabbia». In quei
cerchi, Medardo s'illude di essere
colui che li traccia intorno agli
altri. «Decisi di far pieno uso della
mia innata potenza, d'impugnare
la bacchetta magica e con essa
descrivere i cerchi entro cui
avrebbero dovuto agire, muoversi,
per mio esclusivo piacere, tutti i
personaggi della commedia». Il
motivo del cerchio ritorna con
insistenza nell'opera di Hoffmann,
a indicare una vita imprigionata in
una ripetizione ignara di progresso
e in limiti soffocanti.
In questi cerchi in cui Kreisler
sa di essere costretto a danzare
come un epilettico, Medardo
s'illude di essere lui a guidare la
danza. Sulle orme di Jean Paul e di
Tieck (William Lovell, 1793-1796)
Hoffmann,
osserva
Vittorio
Mathieu, raffigura negli Elisir la
possibile catastrofe morale di un
io che si crede principio del
mondo e signore del bene e del
male. Una confusa lettura di
Fichte, nota Mathieu, induce
questi autori a narrare la diabolica
prevaricazione di un soggetto, che
s'identifica con l'Io puro, nei
confronti dell'Io empirico degli
altri. Sia l'abbandono all'impulso
oscuro sia la pretesa di progettare
la vita con assoluta razionalità
conducono al delirio di potenza,
ben più di quanto accada nel
romanzo nero inglese Il monaco di
Lewis, da cui pure Hoffmann
aveva preso lo spunto per gli
Elisir. La bellissima e diabolica
amante di Medardo, Eufemia, gli
insegna che la «suprema finalità
della vita» consiste nel «dominare
la vita». Vi sono nel mondo di
Hoffmann
molti
persuasori
demonici che, identificandosi col
«principio superiore» («höheres
Prinzip,
höheres
Wesen»)
scoperto dalla loro intelligenza, e
cioè con l'amorale forza distruttiva
della natura, ne fanno il perno di
una
Herrenmoral
iniziatica:
Eufemia invita Medardo a regnare
sull'«insulso mondo di fantocci» e
a spezzare «le piccole menti
limitate
dai
pregiudizi
convenzionali».
Anche il piacere sessuale è
piegato a questo scopo; non è un
fine perseguito di per sé, bensì
uno strumento sorvegliato e
controllato per soggiogare gli altri:
la dissoluta Eufemia non cerca il
godimento erotico, ma lo finalizza
al suo sogno di potenza e
disprezza chi si abbandona
irrazionalmente alla passione e al
piacere
anziché
adoperarli
razionalisticamente. Eufemia si
vanta di possedere, «oltre alle
indefinibili e irresistibili attrattive
fisiche naturali della femminilità,
una facoltà superiore capace di
fondere il fascino fisico con
l'intelligenza e dominarlo a
proprio piacere. Ciò significa saper
uscire da se stessi, saper osservare
la propria personalità da un altro
punto di vista e vederla come un
mezzo duttile al comando d'un
volere superiore». Negli Elisir il
sesso - sia quello carnale
rappresentato da Eufemia sia
quello angelicato raffigurato da
Aurelia - è sempre un miscuglio di
piacere e di crudeltà, una torva
gioia di infliggere il male. Per
Eufemia il «sublime» è la voluttà
di spezzare Aurelia, la purezza
dell'anima bella; Medardo stesso,
accecato
da
un
furore
sadomasochista, si propone di fare
della rovina di Aurelia «il centro
radioso della mia vita».
In questa perversa gioia di far
del male gli eroi sadiani di
Hoffmann sono delle ingenue
vittime:
Medardo
colpendo
Aurelia ferisce se stesso, Eufemia
vanta il dominio quando sta per
essere distrutta dalla sua stessa
perfida
macchinazione.
L'itinerario di Medardo - la discesa
agli inferi simboleggiata dal
viaggio in un'Italia sinistra e
tenebrosa da romanzo gotico - è
l'odissea di una coscienza che
vuole costituirsi nella lotta morale
contro quelle seduzioni e quelle
tentazioni del Male, che verranno
proiettate e trasferite sul sosia, del
quale alla fine - ma solo alla fine,
in punto di morte - Medardo
riuscirà a liberarsi. Sempre sul
punto di disgregarsi in molteplici e
indefiniti «qualcosa», simile egli
stesso alle forze elementari
evocate dai persuasori del male,
Medardo riesce ad organizzare una
propria unità della persona sul
fondamento di una ragione morale
capace di riconoscere dei valori.
Ma se egli oppone questa
ragione
tradizionale
alla
dispersione della follia, sul suo
cammino egli incontra un'altra
forma di umanità, irriducibile alla
stessa antitesi fra ragione e follia:
Peter Schönfeld ovvero Pietro
Belcampo. Questi vive aldilà del
conflitto, e fa del dissidio - della
molteplicità
centrifuga
della
psiche - il suo modo di essere. Se
nelle altre opere - e nella stessa
figura di Medardo - Hoffmann
affronta la follia da un punto di
vista
tradizionale,
e
cioè
giudicandola
in
base
alla
prospettiva stabilita dalla ragione
così com'essa si è storicamente
assestata nella sua posizione di
essenza e rispecchiamento del
dominio, alla figura di Belcampo
Hoffmann fa pronunciare quel
discorso di cui Foucault lamenta
l'assenza nella nostra civiltà, e cioè
il discorso della follia sulla
ragione. Non più oggetto del
giudizio promulgato dalla ragione,
la follia diviene un soggetto
paritetico, che tiene a sua volta
giudizio
sulla
ragione.
La
vacillante
saggezza,
dice
Belcampo, ha bisogno della follia
per sostenersi e «ritrovare la
strada di casa, - vale a dire, la
strada del manicomio». Belcampo
rappresenta
un'altra
ragione,
un'altra forma - rispetto a quella
storicamente dominante - di
organizzazione della vita psichica.
La
coscienza
del
soggetto
borghese, che nel Gatto Murr
viene definita «una questione di
abitudine», appare il risultato di
una struttura che reprime e
comprime la potenziale ricchezza
vitale: è un comando militare «che
per ingannare la noia fa esercitare
i soldati in piazza d'armi». La
Follia è invece una «regina del
popolo» che incede a suon di
timpani e trombe tirandosi dietro
«un codazzo di folla in tripudio» e
liberando i «vassalli dai seggi su
cui li ha inchiodati la Saggezza:
non vogliono più saperne di
sedere, di giacere, di contenersi
come
vorrebbe
il
pedante
precettore». L'aria del manicomio
- in cui Belcampo ha portato in
salvo Medardo - aiuta a strappare
«la giubba di pagliaccio di dosso
all'individuo
cosciente»;
la
coscienza è un «dannatissimo
daziere o gabelliere [...] il quale,
dopo aver aperto il suo misero
ufficio in una soffitta» pone un
duro veto a entrate e uscite e
blocca così lo scambio fra l'io
rigidamente strutturato e la
molteplicità del mondo, fra un
duro principio di realtà e il
ventaglio
del
possibile,
fra
l'individuo e «la meravigliosa città
di Dio». Come il folle Serapione
dei racconti omonimi, pure
Belcampo oppone alla logica
chiusa della ratio un'illimitata
apertura, una serie di diverse
organizzazioni eventuali dei nuclei
psichici
e
dei
frammenti
dell'esperienza.
Quest'insubordinazione all'interno
della gerarchia dell'io è intesa
quale festa liberatoria, quale
tripudio
carnascialesco
che
emancipa le singole energie e il
mare
di
desideri.
Ma
è
un'insubordinazione,
nota
Mathieu, ironica e umile, che
s'appaga
del
momento
e
dell'«Einfall», del capriccio che
passa per la testa, senza
pretendere
di
progettare
artificialmente la vita. Belcampo è
l'ironia, è il gioco scettico verso se
stessi; ma gioioso, noncurante di
ogni egocentrica pianificazione e
aperto ai messaggi dell'esistenza.
(È Stravinski, dice Mathieu,
contrapposto - secondo la formula
di Adorno - alla coerenza
autosufficiente di Schönberg).
La follia di Belcampo è l'utopia
di un'altra ragione, di un'altra
struttura possibile dell'io, aldilà
dello stesso conflitto da cui è
lacerato Medardo. È un motivo
alquanto raro nell'opera di
Hoffmann, il quale altrimenti ci
ha dato piuttosto la tragedia della
follia, straziante dolore dell'io che
non
resiste
alla
propria
disgregazione. Non c'è felicità per
Medardo, non c'è per lui un posto
nel mondo se non nel ritiro in
convento, come per Kreisler; per
entrambi l'unica alternativa al
convento è il manicomio.
Un posto nel mondo esiste
soltanto per chi è - e sa
tranquillamente di essere - fuori
posto, per chi non cerca di
superare le contraddizioni bensì di
vivere in esse e di esse. «Incolori,
grigio su grigio» sono i pensieri
annebbiati di Medardo, mentre
variopinta è la vita che conduce
Belcampo, lasciandosi portare dal
vento della follia. In questo spirito
nel Gatto Murr Maestro Abramo,
regista occulto e benefico delle
oscure vicende del romanzo,
organizza colorite feste di corte al
cui effetto spettacolare concorre
pure la natura col vento e i lampi
che sconvolgono le luci e i fuochi
d'artificio.
Anche negli Elisir si dice,
secondo un'immagine prediletta di
Hoffmann, che «la profondità di
spirito rispecchia fedelmente,
come un limpido lago, il quadro
multicolore della vita». Questa
vita, che nel proprio specchio è se
stessa più la sua autoconoscenza,
non
è
solo
l'identità
schellinghiana dell'Uno che si
ritrova in tutte le forme, ma è
l'infinita apertura del soggetto al
vortice dei fenomeni. Questa
liberazione dalle proprie catene è
tanto più facile quanto più l'io è
incrinato da crepe e sconnessioni,
che lasciano fluire in lui la totalità
dell'esperienza: nel Vaso d'oro è la
«frattura creatasi nell'animo suo»
che permette ad Anselmo, in una
scena indimenticabile, di scorgere
nei riflessi dei fuochi d'artificio
sull'acqua i serpenti d'oro della
sua visione e di udire nel
mormorio delle onde la voce delle
creature che lo invitano al mitico
regno di Atlantide. È la nevrosi, il
disagio rispetto al falso mondo
dell'apparenza
sociale
che
consente all'individuo di udire il
richiamo della totalità, della vita
vera.
Medardo non sceglie la strada
mistica,
la
proliferazione
indistinta
dei
suoi
impulsi
centrifughi, bensì la strada
umanistica e laica della moralità.
Non vuole disfarsi di se stesso, ma
costruirsi. Assomiglia al cane
Berganza del racconto omonimo,
che non cede al fascino del
demonico e abbaia al gatto della
strega. Il suo cammino lo conduce
infatti non negli iridiscenti
paesaggi della fiaba, ma per le
aspre e difficili vie del mondo. Gli
elisir del diavolo sono anche un
romanzo realista e corposo, ricco
di pennellate sociali e di
osservazioni di costume, un
affresco del tramonto della vita
feudale e della nascita di una
robusta vita borghese. È un
cammino che costa a Medardo
dolore, in luogo dell'ebbrezza che
deriva dal perdersi. Gli elisir del
diavolo sono il romanzo di una
formazione morale che si attua
sulla
contraddittoria
consapevolezza di quanto sia
esiguo il campo della sfera morale
e di come esso sia confuso e
invaso dalla necessità naturale, da
impulsi tendenze e meccanismi
psichici che tendono ad annullare
la sua autonomia. Forse per
questo Gli elisir sono il più grande
romanzo
umanistico
dell'età
classico- romantica tedesca: senza
certezze né visioni dell'essenza,
senza ordine ma senza resa al
disordine.
Sono
una
selva
frondosa e intricata, che talora si
vorrebbe, in nome dell'economia
estetica, sfoltire e cimare, come
faceva quel
personaggio
di
Hoffmann che andava in giro a far
collezione di panorami, e, quando
ne scorgeva uno di suo gusto,
faceva abbattere, se necessario,
boschi e foreste per rendere più
ariosa la cornice. Ma con questo
suo grande romanzo anche
farraginoso e impuro, con questo
suo Delitto e castigo dell'età
romantica, Hoffmann insegna che
la grande arte, quella che fornisce
risposte alla vita o almeno ne pone
le domande fondamentali, è
sempre aldilà dell'accorta e avara
purezza estetica, della calcolata
economia formale.
Claudio Magris
Nota biografica
Ernst Theodor Wilhelm Hoffmann
(il cui terzo nome, Wilhelm, fu
mutato in Amadeus in segno di
omaggio a Mozart) nacque a
Königsberg il 24 gennaio 1776 da
Christoph
Hoffmann,
severo
giurista non privo di inclinazioni
artistiche, e da Luise Albertine
Dörffer, donna dal temperamento
ipersensibile e soggetta a vere e
proprie crisi nevrotiche. Dopo la
separazione dei genitori, avvenuta
nel 1780, Hoffmann fu affidato
alla famiglia materna ove passò la
sua
infanzia,
segnata
da
esperienze indelebili che non si
cancellarono più dalla sua mente e
che emergono in molte delle sue
opere. Fra queste, decisivo fu
l'affetto per la dolce zia Füsschen,
morta assai giovane e trasfigurata
nel ricordo di Hoffmann come il
simbolo della femminilità, come il
simbolo
di
una
sublimata
esperienza
amorosa
della
fanciullezza in cui lo scrittore vide
la
prima
identificazione
di
femminilità, Eros, musica e
poesia. Accanto al prozio Vöthory,
modello
dell'indimenticabile
Justitiarius del racconto Das
Majorat [Il maggiorasco], lo zio
Otto Wilhelm Dörffer, rievocato
più tardi, costituì il primo incontro
con quella categoria di personaggi
bizzarri ed eccentrici che affollano
la narrativa hoffmanniana e che
Hoffmann frequentò sempre con
un profondo interesse psicologico,
specie
durante
gli
studi
universitari a Königsberg (sino al
1796) ove, oltre a studiare legge e
a
disinteressarsi
dell'insegnamento
kantiano,
coltivò una fervida amicizia per
Theodor Hippel, cui scrisse
interessantissime lettere ricche di
confessioni autobiografiche, e
visse la sua prima autentica
passione amorosa, quella per Cora
Hatt, che ispirò numerosi racconti.
Appartengono a quegli anni, in cui
s'andava
già
delineando
in
Hoffmann
la
tendenza
all'instabilità
nervosa
e
all'eccitabilità, le entusiastiche
letture del Werther, di Rousseau,
Sterne, Jean Paul e di opere care al
gusto «notturno» come Der
Genius di Grosse.
Promosso
nel
1796
referendario a Glogau, vi conobbe
il mefistofelico e misterioso
pittore Molinari, che egli ritrasse
più tardi in alcune delle sue figure
sataniche dal tenebroso fascino
meridionale. Nel 1798 visitò la
Galleria
di
Dresda
ove
s'entusiasmò,
secondo
un'esperienza obbligata per molti
autori romantici per la pittura
rinascimentale italiana. Dopo
un'attività presso il tribunale
camerale di Berlino (1798-1800) e
un fidanzamento presto sciolto
con Minna Dörffer, divenne
assessore a Posen e vi rimase dal
1800 al 1802, dividendosi, in
un'ardente febbre di vivere, tra il
lavoro, la vita di società, gli amori,
le amicizie, la passione per l'arte e
soprattutto per la musica, e le
burle grottesche come quella che
gli costò il trasferimento nella
cittadina polacca di Plock, dove
trascorse due anni solitari e
difficili (1802-1804). Sposatosi nel
1802 con la polacca e cattolica
Michalina
RorerTrzynska
(«Mischa»), fu trasferito nel 1804
a Varsavia e vi rimase sino al 1807,
risentendo un profondo influsso
di quel crogiolo di civiltà slavotedesca. Ancor incerto sulle
proprie attitudini e indeciso fra
pittura, letteratura e musica,
Hoffmann tendeva sin da allora a
quel processo di trasfigurazione
continua della vita nell'arte e a
quella
compensazione
e
sublimazione
estetica
che
contrassegnarono più tardi la sua
opera.
Perduto l'impiego dopo la
sconfitta della Prussia ad opera di
Napoleone e la conseguente
perdita dei territori polacchi,
Hoffmann si recò a Berlino dal
1807 al 1808, ove la conoscenza di
Fichte,
Schleiermacher
e
Chamisso gli fece conoscere il
movimento romantico. Dal 1808
al 1813 fu a Bamberg facendo il
recensore musicale, il regista e lo
scenografo, rappresentando per la
prima volta la Kätchen von
Heilbronn di Kleist e inscenando
anche alcune opere di Calderon; a
Bamberg
il
fascino
del
cattolicesimo barocco s'intrecciò
all'amore per Julia Mare, modello
di quasi tutte le sue protagoniste
femminili e identificata, con un
processo tipicamente romantico e
psicologicamente
assai
interessante, con l'amore per la
musica vista ora come soavità
celeste
ora
come
potenza
patologica e distruttrice. Nel 1809
uscì la sua prima novella Ritter
Gluck
[Il
cavaliere
Gluck],
intreccio di minuziosa realtà e
fantasia
surreale,
prima
raffigurazione del demone della
musica
e
dell'inquietante
«sdoppiamento» della psiche e del
reale. Fortemente influenzato,
durante un viaggio a Norimberga
nel 1812, dall'altro polo del gusto
romantico
(quello
gotico,
borghese e protestante) Hoffmann
visse da vicino (a Dresda e a
Lipsia, nel 1813-14) le ultime
campagne napoleoniche e riprese
nel 1814 la sua professione di
giurista a Berlino esercitandola
sino alla morte, nonostante la vita
dispersiva e la salute sempre più
minacciata,
e
mantenendo
un'esemplare dignità e coerenza
nell'oppressivo
clima
della
Restaurazione, che egli non
mancò di satireggiare al pari del
filisteismo borghese e dello
sciovinismo esasperato delle leghe
studentesche.
Nel 1814-15 uscì la prima
raccolta
di
novelle,
i
Phantasiestücke in Callots Manier
[Pezzi di fantasia alla maniera di
Callot] che rivelano già nel titolo il
gusto del grottesco e della
caricatura
cari
al
grande
disegnatore francese. In questa
raccolta appare la tormentata
figura del musicista Kreisler
straziato intimamente dalla sua
stessa passione musicale e
sprezzato dal mondo borghese, un
autoritratto di Hoffmann che
ritornerà in tante opere. Mentre
alcuni racconti rivelano già un
attento studio di traumi psichici,
allucinazioni
e
superstizioni
popolari segnando così una delle
direzioni
del
«realismo»
hoffmanniano e mentre altri
sfumano nel surrealismo della
fiaba, la novella Der goldne Topf
[Il
vaso
d'oro]
indica
il
superamento del dissidio interiore
del dilacerato eroe romantico in
una sintesi di fiaba e realtà, in una
magica pacificazione dei contrasti
che deriva soprattutto dalla
mistica filosofia della natura di
Schelling, conciliatrice di tutti gli
opposti. Autore di opere teatrali,
musicali e critiche (per esempio
Prinzessin Blandina, 1815; l'opera
Undine, 1816; Seltsame Leiden
eines Theaterdirektors [Le curiose
pene di un capocomico], 1819),
Hoffmann si avvicinò, tramite
l'amicizia con alcuni medici alla
nuova scienza romantica, allo
studio per i fenomeni occulti,
ipnotici, telepatici che affiorano
nel grande romanzo Die Elixiere
des Teufels [Gli elisir del diavolo],
1815-16), magistrale «avventura»
d'una schizofrenia in cui si
riassume la crisi di tutta una
civiltà,
e
nei
Nachtstücke
[Racconti notturni], 1817. In
questi ultimi l'analisi psicologica,
che
giunge
a
risultati
di
sorprendente modernità come nel
Sandmann [L'Orco Insabbia], si
allaccia
alle
indagini
della
simbologia onirica e della vita
dell'inconscio svolte in quegli anni
dallo scienziato- teosofo Gotthilf
Heinrich Schubert.
Dalle serate berlinesi trascorse
con Chamisso, Contessa, Fouqué e
numerosi medici e scienziati
nacquero i racconti usciti a partire
dal
1819
nella
serie
Die
Serapionsbrüder, nello spirito del
santo - e folle - Serapione che
abolisce ogni distinzione fra realtà
e sogno, natura e fantasia, in un
surrealismo ante litteram: novelle
che spaziano nei più diversi generi
narrativi,
dal
racconto
avventuroso
o
addirittura
poliziesco allo studio patologico,
dalla satira antiborghese all'ironia
contro i miti romantici, dalla fiaba
surreale al capriccio musicale. La
statura
europea
dell'arte
hoffmanniana - Hoffmann fu
infatti ammirato e imitato in tutta
Europa, da Baudelaire a Gogo4l,
da Balzac a Herzen, da Dostoevskij
a Pu4skin, e le sue opere furono
tradotte in francese fin dal 1833 e
in russo, tranne il Murr, fin dal
1838 - consiste infatti nella sua
poliedrica ampiezza spirituale:
Hoffmann è stato al contempo
l'anticipatore
del
realismo
borghese e del surrealismo, il
narratore scapigliato di avventure
ottocentesche e l'analizzatore
dell'inconscio,
l'umorista
trascendentale e il sognatore delle
fiabe, l'antesignano dell'angoscia
moderna e della dissociazione
pirandelliana della personalità,
l'esponente
dello
slancio
romantico e l'ironico superatore
dei
limiti
ideologici
del
Romanticismo. Nei suoi racconti
s'incontra la pittura del mondo
provinciale tedesco ancora sacroromano- imperiale e la più alta
dimensione
della
rêverie
romantica, l'ossessione freudiana
del sosia e una vaga intuizione del
mondo
dell'Es,
un
gusto
attualissimo
della
citazione
letteraria e un interesse scientifico
per i problemi psichici, il più agile
e brioso piglio dell'avventura e la
reviviscenza del romanzo gotico,
lo sguardo nei più cupi abissi
dell'inconscio e la pura liberazione
nella fiaba, il divertimento
spassoso e un procedimento
strutturale
per
simboli
di
straordinaria attualità. Del 1819 è
Klein Zaches genannt Zinnober [Il
piccolo Zaccheo detto Cinabro],
gustosa
e
amara
satira
antilluministica e antiassolutista,
del
1820-21
la
Prinzessin
Brambilla,
aereo
balletto
metafisico in cui ogni dissidio fra
Io e sosia, realtà e fantasia,
molteplicità e unità si compone in
un
arabesco
musicale
di
derivazione schellinghiana. Nelle
Lebensansichten des Katers Murr
nebst fragmentarischer Biographie
des
Kapellmeisters
Johannes
Kreisler
in
zufälligen
Makulaturblättern [Punti di vista
e considerazioni del gatto Murr
sulla vita nei suoi vari aspetti e
biografia
frammentaria
del
maestro di cappella Johannes
Kreisler su fogli di minuta
casualmente inseriti], 1820-22,
Hoffmann intreccia con un ardito
e precorritore sperimentalismo,
tragicità e ironia, la straziata storia
di un Amleto romantico e
borghese dilacerato dall'arte e
dalla nevrosi e la sua parodia
grottesca ed estraniante incarnata
nel personaggio di un gatto
filisteo. Autore del Meister Floh
[Maestro Pulce], 1822, deliziosa
satira antiassolutistica e al
contempo allegoria della grazia
poetica,
Hoffmann
compose
numerosi racconti di vario genere
da quello borghese- realistico a
quello
notturno
a
quello
avventuroso
o
allegorico,
continuando
a
lavorare
freneticamente sino alla morte,
avvenuta per tabe dorsale il 25
giugno
1822.
D'incerta
attribuzione è il romanzo libertino
Schwester Monika erfäht und
erzählt [Esperienze e confessioni
di Suor Monica], 1815. C.M.
Prefazione del redattore
Io vorrei tanto, lettore benevolo,
poterti condurre sotto i platani
scuri alla cui ombra lessi per la
prima volta la storia di frate
Medardo. Siederesti con me su
quella stessa panchina di pietra,
seminascosta fra arbusti e fiori
odorosi, insieme a me guarderesti
con nostalgia alle fantastiche
configurazioni
delle
catene
montuose azzurrine, sorgenti
davanti a noi, laggiù, oltre il viale,
al fondo dell'ampia valle assolata.
Ma poi subito, volgendoti, vedresti
a una ventina di passi dietro le
nostre spalle un edificio gotico dal
portale riccamente adorno di
statue. Visi di santi ti fisserebbero
attraverso gli scuri rami dei
platani con occhi chiari e vivi: gli
occhi delle figure dipinte a fresco
sulle immense mura.
Ecco - il sole pende sulle
montagne come un globo di fuoco
- si levano le prime brezze della
sera.
Dovunque
è
vita,
movimento:
magiche
voci
sussurrano, stormiscono fra gli
alberi, si ingrossano, giungono
fino a noi di lontano, già
trasformate in canto, in sonorità
d'organo. Uomini severi, in ampi
sai
fluttuanti,
passeggiano
silenziosi per i viali del giardino,
gli occhi piamente rivolti al cielo.
Che le immagini dei santi abbiano
preso vita e siano discese dagli alti
cornicioni?... Ecco - ti attorniano e
poco a poco ti afferrano i
misteriosi terrori delle saghe, delle
leggende
meravigliose
colà
raffigurate - ti sembra che tutto
debba ripetersi davanti ai tuoi
occhi - e vuoi, e puoi crederlo
possibile. Se dunque leggerai la
storia di frate Medardo in tale
stato d'animo, le strane visioni del
monaco ti parranno forse qualcosa
di più d'uno sregolato e troppo
fervido gioco di fantasia.
Giacché tu, lettore benevolo,
hai visto or ora immagini di santi,
un convento, una schiera di frati,
non ho quasi bisogno di
soggiungere che ti ho condotto
nello stupendo giardino del
convento dei cappuccini, a B.
Quando,
tempo
addietro,
trascorsi alcuni giorni colà, il
reverendo priore mi mostrò come
una rara meraviglia le carte di fra
Medardo conservate in archivio;
ed io, vincendo a stento le sue
perplessità,
lo
indussi
a
consegnarmele. Il vecchio priore
era, a dire il vero, dell'avviso che
quelle carte dovessero venire
bruciate. Non senza timore che tu
sia della sua stessa opinione, ti
pongo fra le mani, lettore
benevolo, il libro da esse ricavato.
Se ti deciderai a seguire Medardo
come un fedele compagno nel
tetro mondo delle celle, dei
chiostri - e quindi nel variopinto e
turbolento mondo dei vivi, se
saprai sopportare insieme a lui gli
aspetti
orrendi,
spaventosi,
forsennati, farseschi della sua vita,
allora
la
fantasmagoria
di
immagini proiettate nella «camera
obscura» (1) in cui stiamo per
introdurti
potrà
fors'anche
divertirti - e talune di esse,
apparentemente
confuse
ed
informi, a una più attenta
osservazione ti appariranno forse
chiare e compiute. Conoscerai così
il seme misterioso posto in terra
da un tragico destino affinché si
trasformasse in rigoglioso arbusto
- e crescesse spandendo intorno
migliaia di viticci, fino a che un
fiore, divenuto frutto, non ne
assorbisse tutta la linfa vitale,
disseccandolo dalle radici.
Dopo aver letto le carte del
cappuccino Medardo avidamente e
con non poca fatica (... perché la
buonanima aveva una calligrafia
minutissima, quasi illeggibile,
proprio di certosino...), mi parve
che quanto noi generalmente
chiamiamo
«sogno»,
«immaginazione» possa invece
essere la presa di conoscenza - per
simboli - del misterioso filo
collegante e condizionante gli
eventi della nostra vita. Mi parve
altresì di dover considerare
«perduto» colui il quale, con
l'acquisizione di tale conoscenza,
creda di aver conquistato anche la
forza di strappare violentemente
quel filo e sfidare l'oscura potenza
imperante su di noi.
Forse tu sentirai come me,
lettore benevolo; te lo auguro di
gran cuore - e non senza buoni
motivi.
Parte prima
Capitolo primo - Gli anni
dell'infanzia e la vita in
convento
Mia madre non mi disse mai quale
fosse la situazione sociale di mio
padre; ma se richiamo alla
memoria tutto ciò che essa mi
raccontava di lui fin da quando ero
bimbo, devo credere ch'egli fosse
un uomo di vasta e profonda
cultura, e un grande conoscitore
della vita. Sempre dai racconti e da
certe frasi isolate di mia madre
(comprese soltanto più tardi), ora
so che i miei genitori da una vita
ricchissima e agiata caddero nella
più nera miseria e mio padre,
tentato da Satana, si macchiò di
peccato mortale commettendo
uno spaventoso misfatto. Più
tardi, illuminato dalla grazia, volle
espiare
il
proprio
peccato
recandosi in pellegrinaggio al
convento del Sacro Tiglio, nella
lontanissima e gelida Prussia.(2)
Durante
quel
disagevole
viaggio mia madre, sposata già da
molti anni, si accorse che il suo
matrimonio non sarebbe rimasto
sterile come mio padre temeva; e
mio padre, malgrado la miseria e i
disagi, ne fu felicissimo perché
san Bernardo, apparsogli in una
visione, gli aveva promesso
perdono e conforto al momento
della nascita d'un figlio. La visione
si sarebbe dunque avverata!
Giunto al convento del Sacro
Tiglio, mio padre si ammalò, volle
continuare i prescritti esercizi di
pietà malgrado la crescente
debolezza, si aggravò e morì, in
pace con Dio e con se stesso, nel
preciso istante in cui io venivo al
mondo.
Con i primi barlumi di
coscienza mi si fissarono nella
mente le care immagini del
convento e della stupenda chiesa
del Sacro Tiglio. Sento ancora
intorno a me le voci del bosco
cupo, la fragranza delle erbe
lussureggianti e piene di fiori che
mi furono culla. Nessun animale
velenoso, nessun insetto nocivo si
annidava nel santuario dei
benedettini; neppure il ronzio di
una mosca, il frinire d'un grillo
turbavano il sacro silenzio rotto
soltanto dai canti dei religiosi e dei
pellegrini, procedenti in lunghi
cortei tra il fumo degli incensieri
ondeggianti. Vedo ancora, al
centro della chiesa, il tronco
rivestito d'argento del tiglio su cui
gli angeli deposero l'immagine
miracolosa della santa Vergine;
dalle pareti, dalle volte dipinte
della chiesa mi sorridono ancora i
bei visi degli angeli, dei santi!...
Tutto ciò che mia madre mi
raccontò
a
proposito
del
miracoloso convento in cui essa
aveva trovato tanto conforto al suo
grande dolore mi è rimasto così
profondamente
impresso,
da
darmi la sensazione d'averlo visto
e sperimentato io stesso, benché
sia impossibile che la mia
memoria si spinga tanto indietro
nel tempo: mia madre infatti
lasciò quel luogo santo dopo
appena un anno e mezzo. Mi
sembra, dunque, d'aver visto una
volta nella chiesa vuota la
straordinaria figura d'un uomo
serio, grave, il quale doveva essere
il pittore straniero colà giunto, in
tempi
remotissimi
(appunto
quando la chiesa era stata
costruita) - l'uomo di cui nessuno
comprendeva la lingua, l'artista
che in brevissimo tempo e con
sorprendente
bravura
aveva
decorato tutta la chiesa di
stupendi dipinti, scomparendo
subito dopo com'era venuto.
Ricordo
pure
un
vecchio
pellegrino dalla lunga barba grigia,
stranamente vestito, il quale
spesso mi portava in braccio nel
bosco cercando muschi e sassolini
colorati e giocando con me. Lo
ricordo, pur essendo certissimo
d'essermelo fissato in mente
soltanto attraverso le descrizioni
fattemene da mia madre. Una
volta egli condusse con sé un
bellissimo bimbo della mia stessa
età. Siedevamo insieme sull'erba
facendoci festa; io gli regalavo
tutti i miei sassolini colorati ed
egli li disponeva per terra
formando ogni sorta di disegni, i
quali finivano però sempre per
risultare in forma di croce. Mia
madre sedeva accanto a noi su una
panchina di pietra e il vecchio, in
piedi dietro di lei, osservava i
nostri giochetti con gravità e
tenerezza. Ad un tratto dai
cespugli
sbucarono
alcuni
giovanotti, venuti al Sacro Tiglio
(a giudicare dal loro modo di
vestire
e
di
comportarsi)
unicamente per curiosità. Uno di
essi, vedendoci, scoppiò a ridere e
disse: - Oh, guarda!... Una Sacra
Famiglia!... Questo sì è un buon
soggetto per la mia cartella! - E
tirato fuori carta e matita si
dispose a ritrarci. Il vecchio
pellegrino erse il capo ed esclamò
indignato: - Di chi ti fai beffa?
miserabile?...
Tu
vorresti
diventare un artista ma non hai
mai conosciuto la fiamma della
fede e dell'amore: le tue opere
rimarranno aride, morte come sei
tu, e tu finirai reietto, disperato,
nel vuoto e nella solitudine...
affonderai nella tua stessa miseria
-. I giovani corsero via sgomenti.
Allora il vecchio pellegrino disse a
mia madre: - Vi ho portato un
bimbo
prodigioso
perché
accendesse la scintilla dell'amore
in vostro figlio; ma ora devo
riprendervelo e voi non rivedrete
mai più né lui né me. Vostro figlio
ha molte magnifiche doti, ma la
colpa del padre gli fermenta
ancora nel sangue. Potrebbe
tuttavia diventare un valoroso
paladino della fede: fatene un
religioso! - Queste parole fecero a
mia
madre
un'impressione
enorme, incancellabile; più tardi
me lo ripeté molte volte. Ciò
nonostante essa decise di non
forzare in alcun modo le mie
inclinazioni naturali e di attendere
tranquillamente i segni della
provvidenza. E d'altronde, a
procurarmi
un'educazione
superiore a quella che lei stessa
era in grado di darmi non poteva
neppure pensare.
I miei ricordi veramente chiari,
dovuti ad esperienza diretta,
incominciano da quando, durante
il viaggio di ritorno, capitammo
con mia madre nel convento delle
monache cistercensi. La badessa,
una nobildonna di famiglia
principesca, aveva conosciuto mio
padre e ci accolse cordialmente,
come amici. Del periodo compreso
fra
l'episodio
del
vecchio
pellegrino (che effettivamente
ricordo per memoria diretta,
anche se mia madre dovette poi
completarmelo narrandomi lo
scambio di parole avvenuto fra il
vecchio e il pittore) e il nostro
arrivo dalla badessa, non serbo
neppure il più vago ricordo.
Superata tale lacuna, mi ritrovo
dunque al momento in cui mia
madre
dovette
riordinarmi,
rassettarmi gli abiti nei limiti del
possibile
per
rendermi
presentabile; comprò qualche
nastro in città, mi tagliò i capelli,
lunghi, arruffati come quelli di un
piccolo selvaggio, mi ripulì con
cura e soprattutto mi raccomandò
di comportarmi bene, d'essere
buono e gentile con la signora
badessa. Finalmente, dandole la
mano, salii lo scalone di pietra ed
entrai nell'alta camera a volta,
piena di immagini sacre, in cui
trovammo la principessa. Era una
bella donna, alta, maestosa. - La
veste dell'ordine le conferiva una
dignità ispirante soggezione e
rispetto. Dopo avermi scrutato con
occhi
severi
e
penetranti,
domandò a mia madre: - Questo è
vostro figlio? - La sua voce, il suo
aspetto, l'ambiente sconosciuto,
quel camerone alto, i quadri, tutto
insomma,
mi
impressionò
talmente, mi diede un tale senso
di sgomento che scoppiai a
piangere. Lo
sguardo
della
principessa divenne più tenero e
affettuoso: - Che cos'hai, piccino?
- mi domandò. - Hai paura di
me?... Come si chiama vostro
figlio, cara signora?
- Franz, - rispose mia madre.
- Francesco! - esclamò la
principessa con profonda tristezza
nella voce; e prendendomi in
braccio
mi
strinse
a
sé
impetuosamente. Sentii qualcosa
farmi male al collo e urlai di
dolore; la principessa, spaventata,
mi lasciò; mia madre, allarmata
dalla mia condotta, si lanciò verso
di me per condurmi via, ma la
principessa non glielo permise.
Risultò che la croce di diamanti
appesa sul petto della badessa mi
aveva escoriato il collo mentre lei
mi abbracciava: ne portavo il
segno arrossato e striato di
sangue.
- Povero Franz, ti ho fatto
male! - disse la principessa, - ma
diventeremo
buoni
amici
ugualmente -. Una suora portò
confetti e vin dolce. Subito
rinfrancato,
mi
misi
a
sgranocchiare senza complimenti
quelle delizie, tanto più che la
bella signora mi aveva preso in
grembo e me le metteva in bocca
lei stessa. Quando ebbi assaggiato
alcune gocce del dolce liquore a
me fin là sconosciuto, ritrovai
tutta la vivacità e il buon umore
che, a detta di mia madre, mi
erano sempre stati propri, fin
dall'infanzia. Incominciai dunque
a ridere, a scherzare, con grande
divertimento della badessa e della
suora. Ancora non riesco a
spiegarmi come venisse in mente
a mia madre di invitarmi a parlare
del luogo in cui ero nato e delle
sue bellezze. Come ispirato da una
forza
soprannaturale
seppi
descrivere i bei dipinti del pittore
straniero sconosciuto con tanta
vivezza da dare la sensazione di
averne compreso a fondo lo
spirito;
passai
quindi
alle
meravigliose storie di santi, come
se
avessi
la
massima
dimestichezza con gli scritti della
chiesa. La principessa, perfino mia
madre, mi guardavano stupefatte
ed io più parlavo, più mi
entusiasmavo. E quando la
principessa
finalmente
mi
domandò: - Dimmi un pò, caro
bambino, come sai tutte queste
cose? - io risposi senza un attimo
di esitazione che il bimbo
prodigioso condotto dal pellegrino
forestiero mi aveva spiegato tutti i
dipinti della chiesa, e il significato
di certe figure da lui stesso
composte con i sassolini colorati,
raccontandomi poi anche molte
altre piccole storie su argomenti
sacri.
Suonarono il vespro. La suora
riempì un grosso cartoccio di
dolciumi e me lo diede; io lo
intascai tutto felice. La badessa si
alzò e disse a mia madre: Considero vostro figlio come un
mio pupillo e d'ora innanzi mi
prenderò cura di lui -. Soffocata
dall'emozione, mia madre non
poté rispondere; le baciò le mani
piangendo e fece per uscire ma
quando fummo sulla porta la
principessa ci raggiunse, mi prese
in braccio, scostò con cura la croce
e mi abbracciò esclamando fra i
singhiozzi:
Francesco...
Conservati devoto e buono! Sentii le sue lacrime calde cadermi
sulla fronte e scoppiai a piangere
anch'io, commosso senza saperne
il perché.
Grazie agli aiuti della badessa
le nostre condizioni di vita
migliorarono, i disagi finirono.
Andammo ad abitare in una
piccola fattoria nei pressi del
convento ed io, vestito ormai in
modo presentabile, venni mandato
a studiare dal parroco. Quando
questi officiava nella chiesa del
convento io gli facevo da corista e
da chierichetto.
Ricordo quei tempi felici come
un bel sogno! Ahimè, com'è
lontano il mio nido, la casa della
gioia, della spensierata, perfetta
letizia infantile! Quando mi
guardo indietro vedo spalancata
l'immensa voragine che mi separa
per sempre da quel paradiso. Con
crescente disperazione tento di
ritrovare i visi amati che colà mi
apparvero come nella luce infocata
dell'aurora, mi illudo di riudirne le
care voci... Ahimè!... Esiste
dunque una voragine invalicabile
perfino per le possenti ali
dell'amore?... Che cosa sono per
l'amore il tempo, lo spazio?...
L'amore non vive forse nel
pensiero?... E il pensiero conosce
misura?... Ma troppe figure fosche
mi
sorgono
intorno,
si
infittiscono, mi stringono sempre
più da presso, mi precludono la
visuale, mi ottenebrano i sensi
presentandomi le tribolazioni
dell'oggi. Perfino la nostalgia di
quei luoghi, di quell'età felice, un
tempo fonte di ineffabile, seppur
dolorosa delizia, ora è diventata
mortale, disperato tormento!
Il parroco era la bontà in
persona. Sapeva tenere a freno la
mia eccessiva vivacità mentale e
adattare il proprio insegnamento
al mio carattere. Guidato da lui
imparavo con gioia e facevo rapidi
progressi. Sopra tutti amavo mia
madre; ma la principessa la
veneravo come una santa. Vederla
per me era una festa solenne. Ogni
volta mi proponevo di brillare
davanti a lei con le nozioni
acquisite di fresco, ma quando
arrivava, quando mi si rivolgeva,
cordiale ed affettuosa, non ero più
capace di pronunziare una sillaba:
riuscivo soltanto a guardarla, ad
ascoltarla. Dopo averla incontrata
ripensavo alle sue parole per un
giorno
intero,
mi
sentivo
nobilitato e la sua figura mi
accompagnava dovunque, perfino
a passeggio. Ah, che sensazione
indicibile agitare il turibolo ai
piedi dell'altar maggiore mentre la
voce dell'organo tuonava dal coro
trascinandomi,
sollevandomi
come su un flutto mugghiante;
quando nell'inno riconoscevo, in
mezzo a tutte, la voce di lei, la
sentivo penetrare in me come un
raggio luminoso e suscitare
nell'animo mio i presagi delle cose
più sublimi e più sante!
Ma il giorno più bello, il giorno
atteso per intere settimane con
trepidante impazienza, quello cui
non potevo pensare senza un
sussulto di gioia, era la festa di san
Bernardo, patrono dei cistercensi,
celebrata
con
la
massima
solennità - e con la concessione di
larghe indulgenze.
Già fin dalla vigilia, un'enorme
folla di persone si riversava dalle
città vicine e da tutti i dintorni per
accamparsi sul grande prato
fiorito circostante il convento. La
gioiosa baraonda durava giorno e
notte. La festa di san Bernardo
cade in una stagione molto
propizia, in agosto, e non ricordo
che il tempo le sia stato una sola
volta sfavorevole.
Era
uno
spettacolo
estremamente pittoresco quel
miscuglio, quell'accostamento di
pellegrini devoti che cantavano i
loro inni e di giovani campagnoli
che passeggiavano con ragazzette
vestite a festa, di religiosi assorti
in contemplazione, a mani giunte,
gli occhi rivolti alle nuvole, e di
famiglie borghesi sedute sull'erba
a rifocillarsi con i loro panieri
colmi di provviste. Canzoni gaie e
canti religiosi, accorati sospiri di
penitenti e risate di gente allegra,
lamenti, urla, scherzi, preghiere
riempivano l'aria di un assordante
concerto. Ma appena suonava la
campana del convento quel gran
frastuono moriva all'improvviso;
tutti si mettevano in fila, cadevano
in ginocchio e nel religioso
silenzio non si udiva più altro che
il mormorio delle preghiere. Ma
estinto l'ultimo rintocco, la folla
multicolore tornava a mischiarsi, a
confondersi
e
il
chiassoso
tripudio, interrotto per un attimo,
ricominciava.
Il giorno di San Bernardo era il
vescovo stesso - residente nella
vicina città - a celebrare la messa
solenne nella chiesa del convento,
assistito dai sacerdoti inferiori
della comunità.
La musica veniva eseguita
dalla cappella episcopale, disposta
sopra una tribuna decorata di
rarissimi arazzi a lato dell'altar
maggiore. - Le sensazioni che
allora mi facevano tremare il
cuore non si sono ancora spente in
me. Quando rivolgo il pensiero a
quei tempi beati e troppo
velocemente
trascorsi,
esse
risorgono giovani e fresche come
allora.
Ricordo ancora perfettamente
un Gloria, eseguito molte volte
perché la principessa lo preferiva a
tutti gli altri pezzi. Quando il
vescovo lo intonava e le voci
possenti del coro prorompevano
rispondendo: «Gloria in excelsis
Deo!», non era come se la gloria
del cielo si spalancasse veramente
sopra l'altar maggiore?... Come se
per un miracolo divino i cherubini,
i serafini dipinti prendessero vita e
si librassero in volo lodando Iddio
col loro canto, col meraviglioso
concerto
degli
strumenti
a
corda?... - Io cadevo nello stupore
estatico del misticismo ispirato e
volavo sulle nubi luminose verso
la patria lontana... Il bosco
profumato era pieno di voci
angeliche e il bimbo prodigioso
uscendo da alti cespi di gigli, mi
veniva incontro e mi domandava: Dove sei stato tutto questo tempo,
Francesco?... Io ho molti bei fiori e
te li darò tutti, purché tu rimanga
con me e mi voglia bene per
sempre.
Dopo la messa cantata le suore
percorrevano
in
solenne
processione
le
gallerie
del
convento, la chiesa, al seguito
della badessa con la mitria in testa
e il pastorale d'argento in mano.
Quale santità, quale dignità, quale
sovrumana grandezza irradiavano
gli sguardi, i movimenti tutti di
quella donna straordinaria! Pareva
la personificazione della Chiesa
Trionfante nell'atto di impartir
grazia e benedizione alle folle dei
buoni credenti. Quando per caso il
suo sguardo si posava su di me,
avrei voluto prostrarmi nella
polvere ai suoi piedi.
Finita la funzione, ai religiosi
ed ai componenti la cappella
episcopale veniva offerto un
pranzo in un grandioso salone; vi
partecipavano pure numerosi
amici del convento, sacerdoti,
mercanti venuti dalla città; e
poiché il direttore della cappella
episcopale mi aveva preso a
benvolere e si occupava volentieri
di me, potevo parteciparvi anch'io.
Se poc'anzi mi ero rivolto per
intero alle cose ultraterrene con
animo fervente di devozione,
appena seduto a tavola mi
ritrovavo immerso nell'atmosfera
gaia e colorita della vita mondana.
Era un fuoco di fila di racconti
allegri, scherzi, facezie, risate; e si
continuava a vuotare bottiglie fino
al
far
della
sera
e
al
sopraggiungere delle carrozze per
ricondurre a casa gli ospiti.
Quando compii sedici anni, il
parroco
mi
dichiarò
sufficientemente preparato per
iniziare i superiori studi teologici
nel seminario della vicina città.
M'ero infatti deciso per lo stato
sacerdotale, con immensa gioia di
mia madre la quale vedeva in
questo fatto la spiegazione delle
misteriose allusioni del pellegrino
e l'avverarsi della visione di mio
padre (di cui io non sapevo nulla),
certamente collegata a quelle
allusioni. Mia madre era convinta
che
soltanto
l'ordinazione
sacerdotale del figlio avrebbe
riscattato le colpe del padre e
salvato l'anima sua dai tormenti
dell'eterna dannazione.
Anche la principessa, che
ormai potevo vedere soltanto in
parlatorio, approvò altamente il
mio proposito e rinnovò la
promessa di procurarmi tutto il
necessario fino al conseguimento
della dignità sacerdotale. La città
era così vicina che dalle nostre
finestre se ne potevano scorger le
torri;
i
buoni
camminatori
sceglievano spesso a meta delle
loro passeggiate gli ameni dintorni
del
convento.
Eppure,
accomiatarmi dalla mia cara
madre, dalla straordinaria donna
che veneravo così profondamente,
dai miei buoni maestri, mi fu
penosissimo.
Quando
una
separazione è causa di dolore, una
sola spanna oltre la cerchia delle
persone care sembra già una
distanza immensa.
La principessa era molto
commossa; mentre mi rivolgeva
ancora alcune patetiche parole di
ammonimento la voce le tremava
per la tristezza. Mi donò quindi un
prezioso rosario, un bel libriccino
di preghiere illustrato e mi diede
una lettera di presentazione per il
priore
dei
cappuccini,
raccomandandomi
di
andare
subito a trovarlo perché mi
avrebbe consigliato e appoggiato
molto efficacemente.
Non credo sia facile trovare
una località più incantevole di
quella ove sorge il convento dei
cappuccini, a brevissima distanza
dalla città. Passeggiando per i
lunghi viali dello stupendo
giardino con vista sulle montagne
e fermandomi presso questo o
quel gruppo di alberi rigogliosi vi
scoprivo sempre nuove bellezze.
Appunto in quel giardino incontrai
il priore Leonardo quando mi recai
per la prima volta al convento a
consegnargli
la
lettera
di
raccomandazione della badessa.
L'innata cordialità del priore
divenne ancora più calda quando
egli ebbe letto la lettera. Aveva
conosciuto
quella
donna
eccezionale molti anni addietro, a
Roma, e seppe parlarmene in
modo così lusinghiero che fin dal
primo momento mi conquistò.
Egli era circondato dai frati; e
quali fossero i suoi rapporti con
loro,
l'organizzazione,
le
consuetudini del convento, lo si
capiva a prima vista. La pace, la
letizia interiore così evidenti nella
personalità di frate Leonardo si
estendevano a tutti i confratelli. Di
quel malanimo, di quella cupezza
accidiosa così spesso rilevabili sul
viso dei monaci non si scorgeva la
minima traccia. Nonostante il
rigore della regola, gli esercizi di
pietà erano per il priore Leonardo
assai più una necessità dello
spirito rivolto al cielo che non atti
di ascetica penitenza, volta ad
espiare le colpe congenite della
natura umana; e questo spirito
devozionale egli sapeva infonderlo
nei suoi frati a tal punto che
l'osservanza della regola diventava
fonte di letizia e di bontà, e la vita
al convento si svolgeva a un livello
veramente superiore, pur con
tutte le limitazioni delle cose
terrene ed umane. Il priore aveva
perfino saputo stabilire taluni
contatti col mondo, ma così
opportuni da non poter non
riuscire salutari ai suoi monaci.
Le
ricche
offerte
che
pervenivano da ogni parte a quel
convento
venerato
da tutti
consentivano di invitare, in
determinati giorni, amici e
protettori
dell'ordine.
Si
apparecchiava al centro del
refettorio una lunga tavola, cui
sedeva il priore fra gli ospiti. I frati
invece prendevano posto al tavolo
stretto collocato lungo le pareti e
usavano le loro semplici stoviglie,
come voleva la regola, mentre la
tavola degli ospiti era fornita di
porcellane e cristallerie eleganti.
Gli ospiti provvedevano al vino e
facevano grande onore a certi
piatti di magro di cui il cuoco della
confraternita aveva la specialità;
così i pranzi al convento dei
cappuccini davano occasione a
cordiali e piacevoli accostamenti
di sacro e profano, a scambi di
influenze non certo privi di utilità
per la vita sia dei monaci che dei
laici.
Gli individui dediti alle attività
mondane, entrando fra quelle
mura dove tutto parlava d'una vita
diametralmente opposta alla loro
dovevano pur riconoscere (se
appena una scintilla di religiosità
scendeva ad illuminarli), la
possibilità di trovar pace e letizia
anche per vie diverse da quelle
usualmente battute; la possibilità
di
vivere
anche
quaggiù
un'esistenza superiore, elevando
lo spirito al disopra delle cose
terrene. Per contro, i monaci ne
guadagnavano in prudenza e
saggezza di vita perché la
conoscenza di quanto avveniva nel
mondo, al di là delle mura
claustrali,
li
induceva
a
considerazioni edificanti, di vario
genere. Pur senza attribuire un
falso valore alle cose terrene,
dovevano riconoscere, attraverso i
vari modi di intendere la vita
secondo le personali esigenze
interiori di ognuno, la necessità di
questa rifrazione della luce
spirituale, senza la quale tutto
rimarrebbe spento ed incolore.
Ma in quanto a cultura
religiosa e scientifica, il priore
Leonardo eccelleva su tutti. Non
soltanto
era
universalmente
riconosciuto come dottissimo
teologo, capace di sviscerare le
materie più difficili con la
massima disinvoltura, tanto che
spesso i professori del seminario
si rivolgevano a lui per consiglio;
ma possedeva anche una cultura
umanistica assai più vasta di
quanto ci si potesse attendere da
un religioso di convento. Parlava
alla perfezione l'italiano e il
francese e per le sue doti
particolari molte volte, in passato,
gli erano state affidate importanti
missioni. Quando io lo conobbi
era già molto avanti negli anni; ma
se i capelli bianchi tradivano l'età
lo sguardo brillava ancora di luce
giovanile, e le labbra sempre
atteggiate a un sorriso cordiale
accentuavano ancora l'espressione
di sicurezza e di calma interiore.
La stessa grazia che rendeva tanto
gradevole il suo modo di parlare la
si
ritrovava
in
ogni
suo
atteggiamento; e perfino il goffo
saio dell'ordine si adattava in
modo mirabile alla sua elegante
corporatura. Non c'era un solo
frate che non fosse entrato in
convento per libera scelta, anzi,
per un'intima necessità spirituale.
Ma anche l'infelice che nel
convento avesse cercato un porto
in cui mettersi in salvo dalla
rovina, Leonardo non avrebbe
tardato a consolarlo. La penitenza,
per costui, si sarebbe ridotta a un
breve periodo di transizione dallo
smarrimento alla pace; e l'infelice,
riconciliato col mondo ma non più
attratto dalle sue vanità, si sarebbe
ben presto elevato al disopra delle
cose terrene, pur continuando a
vivere su questa terra. Questi
insoliti sistemi di vita claustrale
Leonardo
li
aveva
portati
dall'Italia, dove il culto e l'intero
modo di concepire la vita religiosa
sono assai più sereni che non
nella Germania cattolica. Come
nella costruzione delle chiese si
sono conservate le forme delle
antiche architetture, così anche un
raggio dell'antica letizia pagana
pare sia filtrato nella mistica
tenebra
del
cristianesimo,
portandovi la luce sfolgorante di
cui un tempo erano circonfusi gli
dei e gli eroi.
Leonardo mi prese a benvolere,
mi insegnò l'italiano e il francese;
ma alla mia formazione spirituale
e
culturale
contribuirono
soprattutto i molti e svariatissimi
libri ch'egli mi diede nelle mani.
Quasi tutto il tempo libero dagli
studi di seminario lo trascorrevo
nel convento dei cappuccini; e il
desiderio di vestire il saio andò
crescendo in me, di giorno in
giorno. Lo dissi al priore il quale,
pur senza opporsi al mio
proposito,
mi
consigliò
di
attendere ancora un paio d'anni
almeno; e intanto continuassi a
guardarmi
bene
intorno,
osservassi
il
mondo,
più
attentamente che mai. Io non
avevo, è vero, molte conoscenze
all'infuori di quelle procuratemi
dal
maestro
della
cappella
episcopale da cui prendevo lezioni
di musica; ma in qualsiasi
compagnia,
specialmente
se
c'erano donne, provavo un penoso
senso di imbarazzo, la qual cosa,
sommata alla mia tendenza alla
vita contemplativa, sembrava
deporre in modo decisivo in favore
di una sicura vocazione per il
convento.
Una volta il priore mi aveva
intrattenuto a lungo su certi
aspetti singolari della vita profana;
si era addentrato in argomenti
assai scabrosi, riuscendo ad
evitare, con la grazia, la lievità di
espressione abituali, il benché
minimo motivo di scandalo, ma
toccando sempre il punto giusto.
Finalmente mi prese la mano, mi
scrutò fisso negli occhi e mi
domandò se fossi ancora casto. Mi
sentii avvampare di rossore,
perché quella domanda insidiosa
aveva ridestato ad un tratto un
ricordo da molto tempo sopito. - Il
maestro di musica aveva una
sorella che bella, proprio, non
poteva dirsi, ma era comunque
una ragazzina nel fiore della
giovinezza
e
molto,
molto
attraente.
Si
faceva
notare
soprattutto per l'estrema purezza e
armoniosità delle forme; il
colorito, le linee delle braccia, del
seno erano quanto di più bello si
potesse vedere.
Una mattina, mentre stavo
entrando dal maestro per la solita
lezione, sorpresi sua sorella con
indosso una leggera vestaglia e il
seno quasi interamente scoperto.
La fanciulla si ricoprì in fretta ma
io avevo già veduto anche troppo.
Rimasi senza parola: un tumulto
di sensazioni sconosciute si
scatenò in me, il sangue bollente
mi salì alla testa, i polsi si misero
a battere in modo quasi udibile; il
petto,
attanagliato
da
uno
spasimo,
pareva
dovesse
scoppiarmi ma, traendo un leggero
sospiro, ritrovai finalmente il
fiato. La ragazza mi si avvicinò
senza
alcun
imbarazzo
domandandomi che cosa avessi, e
ciò non fece che peggiorare il
male. Per fortuna entrò il maestro
e il mio supplizio ebbe fine. Mai
presi tanti accordi sbagliati, mai
stonai tanto come quel giorno. Ero
tuttavia
ancora
abbastanza
timorato di Dio per vedere in
quell'episodio
una
perfida
tentazione di satana; e mi ritenni
fortunato quando dopo poco
tempo credetti di aver battuto il
nemico a forza di esercizi ascetici.
Ma
all'udire
l'insidiosa
domanda del priore mi rividi
davanti quella giovinetta col seno
scoperto, ne risentii il caldo
respiro, la pressione della mano; e
l'angoscia di allora mi riafferrò
con crescente violenza. Leonardo
continuava a scrutarmi con un
vago sorrisetto ironico che mi fece
fremere. Non riuscii a reggerne lo
sguardo e abbassai gli occhi.
- Vedo, figlio mio, che lei mi ha
capito, - mi disse lui dandomi un
buffetto sulla guancia scottante. Lei è ancora abbastanza sano. Il
Signore la guardi dalle seduzioni
del mondo!... Esso offre godimenti
di breve durata, godimenti possiamo ben dire - su cui pesa
una maledizione, perché generano
indescrivibile
disgusto,
infiacchimento fisico e morale,
rendono ottusi a tutte le
aspirazioni d'ordine superiore,
distruggono, insomma, l'elemento
spirituale più nobile dell'uomo.
Mi sforzai di scordare la
domanda del priore e il ricordo da
essa evocato, ma inutilmente. E se
allora avevo saputo mostrarmi
disinvolto in presenza di quella
ragazza ora temevo più che mai di
rivederla perché il solo pensiero di
lei mi metteva in uno stato di
agitazione, di angoscia, tanto più
pericoloso in quanto si associava a
un
desiderio
dolcissimo,
sconosciuto che era, molto
probabilmente,
colpevole
concupiscenza.
Ma una sera la situazione
equivoca si chiarì.
Il maestro di cappella mi aveva
invitato ad uno dei suoi consueti
trattenimenti musicali fra amici.
Oltre alla sorella di lui (la cui sola
presenza sarebbe bastata a
mozzarmi
il
respiro...)
vi
partecipavano parecchie altre
signore, e ciò accrebbe ancora il
mio imbarazzo. La sorella del
maestro era vestita in modo
delizioso; mi parve più bella che
mai e ne fui irresistibilmente
attratto.
Così,
senza
quasi
rendermene conto, le rimasi
sempre a fianco, pronto a carpirne
avidamente ogni sguardo, ogni
parola; vicino a lei al punto di
sfiorarne la veste, il che mi
riempiva d'un piacere misterioso,
mai
provato.
Essa
parve
accorgersene,
e
non
senza
compiacimento; ed io più d'una
volta fui tentato di trarla
violentemente a me e stringerla in
un abbraccio frenetico!... Dopo
esser rimasta seduta piuttosto a
lungo accanto al pianoforte si alzò,
lasciando un guanto sulla sedia. Io
lo raccolsi e, in un momento di
follia, me lo premetti alle labbra.
Una delle signore se ne accorse, si
avvicinò alla sorella del maestro e
le disse qualcosa all'orecchio; le
due donne mi sogguardarono
ridacchiando. Rimasi annichilito,
come sotto l'effetto di una doccia
gelata, persi il controllo di me,
corsi via, al collegio, nella mia
cella. Pazzo di disperazione mi
gettai sul pavimento piangendo a
calde lacrime - detestai, maledissi
quella fanciulla, me stesso. Poi
ricominciai a pregare, e intanto
ridevo, ridevo come un insensato.
Se le inferriate non me l'avessero
fortunatamente impedito mi sarei
senza
dubbio
gettato
dalla
finestra. Ero in uno stato
veramente spaventoso. Soltanto
sul far del giorno mi tranquillizzai,
ben deciso a non rivederla mai più
e a rinunziare per sempre al
mondo. La vocazione monastica si
ridestò più forte che mai: nessuna
tentazione me ne avrebbe mai più
distolto. - Appena potei liberarmi
dai normali impegni di studio
corsi al convento dei cappuccini e
manifestai al priore la mia ferma
intenzione di iniziare il noviziato;
ne avevo informato anche mia
madre e la principessa. Di tanto e
così improvviso fervore, Leonardo
parve stupito; e, pur senza
forzarmi, cercò in vario modo di
scoprire quale motivo mi avesse
così, tutt'a un tratto, indotto a
farmi frate; perché già aveva
capito che qualcosa doveva pur
essermi accaduto per spingermi a
tanto. Un invincibile senso di
pudore mi trattenne dal dirgli la
verità. Gli raccontai, invece, col
calore e l'esaltazione di cui ancora
ribollivo,
gli
avvenimenti
straordinari della mia infanzia,
presentandoglieli come indizi di
predestinazione
alla
vita
claustrale. Leonardo mi ascoltò
tranquillamente e, senza proprio
mettere in dubbio le mie visioni,
non mostrò di farne gran caso.
Tutto questo - disse - provava
assai poco la genuinità della mia
vocazione perché qui, appunto, le
illusioni erano più che possibili. In
generale, il priore Leonardo non
parlava volentieri delle visioni dei
santi e neppure dei miracoli dei
primi apostoli cristiani; tanto che
in certi momenti ero tentato di
crederlo uno scettico.
Una volta, per costringerlo a
prender posizione ebbi l'ardire di
accennargli ai detrattori della fede
cattolica,
accanendomi
in
particolar modo contro coloro i
quali, con petulanza puerile,
bollavano la credenza in qualsiasi
manifestazione soprannaturale col
termine
dispregiativo
di
«superstizione».
- Figlio mio, - mi rispose
Leonardo con un mite sorriso. - La
peggiore delle superstizioni è la
mancanza di fede -. E subito passò
a parlare d'altre cose, di nessun
conto.
Soltanto più tardi riuscii a
comprendere tutta la bellezza del
suo pensiero sul lato mistico della
nostra religione, il lato implicante
la
misteriosa
comunione
dell'animo umano con le entità
superiori; e allora compresi altresì
come tali argomenti sublimi egli giustamente! - li riservasse per la
iniziazione suprema dei propri
discepoli.
Mia
madre
mi
scrisse
dicendomi
di
aver
sempre
presagito che lo stato laico non mi
sarebbe bastato e ad esso avrei
preferito la vita monastica. Nel
giorno di San Medardo soggiungeva - le era apparso il
vecchio pellegrino incontrato al
Sacro Tiglio: mi conduceva per
mano, ed io indossavo il saio di
cappuccino. Anche la principessa
approvò senza riserve il mio
proposito. Le rividi entrambe
prima della mia vestizione, la
quale ebbe luogo molto presto,
avendo
ottenuto,
come
ardentemente
desideravo,
di
dimezzare il periodo di noviziato.
In omaggio alla visione di mia
madre assunsi il nome religioso di
Medardo.
I rapporti con i confratelli, il
genere di vita, le consuetudini
tutte del convento rimasero quali
mi erano apparse fin dal primo
giorno. La serena tranquillità
regnante dovunque mi riempiva
l'anima
di
quella
stessa
paradisiaca pace già conosciuta
durante
la mia primissima
infanzia, nel convento del Sacro
Tiglio. Durante la funzione
solenne della vestizione vidi in
chiesa fra i fedeli la sorella del
maestro di musica; pareva molto
afflitta e, se non erro, aveva gli
occhi pieni di lacrime. Ma il tempo
delle tentazioni era passato; e
forse
fu
colpevole
orgoglio
sorridere di quella facile vittoria.
Frate Cirillo, passandomi accanto,
notò
la
mia
espressione
soddisfatta. - Di che cosa ti
rallegri, fratello? - mi chiese. Non dovrei essere contento di aver
rinunziato alle vanità del mondo?
- risposi.
Ma, confesso, una sensazione
sconcertante mi avvertì che
mentivo. Questo tuttavia fu
l'ultimo
impulso
d'egoismo
terreno, cui subentrò la pace dello
spirito. Potessi non averla perduta
mai! Ma grande è la potenza del
Nemico. Chi può confidare
nell'efficacia delle proprie armi,
della propria vigilanza, quando le
forze
sotterranee
sono
in
agguato?...
Ero in convento già da cinque
anni quando frate Cirillo, ormai
vecchio e debole, dovette, per
ordine del priore, cedermi la
custodia del ricco reliquiario.
Numerosi ossicini di santi,
schegge della santa Croce e molte
altre sacre reliquie erano colà
conservate entro eleganti teche di
vetro; e in determinati giorni
venivano messe in mostra per
l'edificazione dei fedeli. Frate
Cirillo mi illustrò la collezione
pezzo per pezzo, mi mostrò i
documenti di autenticità, mi narrò
i miracoli operati dalle varie
reliquie. In quanto a cultura
religiosa, quell'uomo stava quasi
alla pari col nostro priore, ed io
non ebbi quindi alcun ritegno a
manifestargli taluni miei dubbi
tormentosi. - È mai possibile, frate
Cirillo, - gli dissi, - che tutte
queste cose siano veramente
quello per cui ce le spacciano?... E
se anche qui la cupidigia
truffaldina di qualcuno avesse
fatto entrare qualche oggetto che
ora passa per la reliquia di un
santo e non lo è?... Esiste, ad
esempio, un convento, che
asserisce di possedere la croce del
Redentore; eppure, dappertutto si
mostrano tali e tante schegge di
quella stessa croce che come ha
detto qualcuno con blasfema
ironia - basterebbero a riscaldare
tutto il nostro convento per un
anno intero.
- Non spetta a noi, - disse frate
Cirillo, - sottoporre queste cose a
simili
esami.
Per
dirla
francamente,
sono
convinto
anch'io che ben pochi di questi
oggetti siano ciò per cui li si
spaccia, malgrado i documenti e
gli attestati di autenticità. Ma la
cosa non mi sembra importante.
Ascolta, caro frate Medardo, come
il priore ed io la pensiamo in
proposito; e la nostra religione ti
apparirà in una luce nuova e più
gloriosa. Non è mirabile, caro
fratello, che la Chiesa cerchi di
afferrare i misteriosi fili colleganti
il sensibile col supersensibile?...
Di stimolare il nostro organismo,
creato per l'esistenza terrena, in
modo da farne balzar fuori
evidente l'origine spirituale, la
stretta parentela con l'Essere
meraviglioso
la
cui
forza
compenetra l'intera natura come
un soffio ardente?... Non è questo
un modo di aprir l'animo nostro al
presentimento della vita più alta
di cui già rechiamo in noi il
germe?... Che cosa saranno quel
pezzetto di legno, quell'ossicino,
quel brandello di tessuto?... Una
scheggia della Croce di Cristo,
l'ossicino, il brandello della veste
di un santo, ci dicono. Ma al
credente che vi fissi il pensiero
senza
troppe
considerazioni
critiche, colmeranno l'animo di
divino
entusiasmo,
dischiuderanno il regno delle
beatitudini
fin
là
soltanto
presagito. E così, per azione della
reliquia - non importa se autentica
o creduta tale - agisce l'influenza
del santo, la fede si consolida e
rafforza per opera dello spirito
superiore da cui il credente ha
invocato con tutta l'anima aiuto e
conforto. Sì: quel risveglio di forza
spirituale potrà sanare perfino i
mali fisici; e ciò spiega gli
innegabili miracoli operati dalle
reliquie, spesso al cospetto di
intere folle.
Tutt'a un tratto mi ritornarono
alla mente certi accenni del priore,
perfettamente concordanti con le
parole di frate Cirillo. E allora
cominciai
a
considerare
le
reliquie, che prima mi parevano
trastulli religiosi, con rispetto e
devozione autentici. Frate Cirillo,
cui non era sfuggito l'effetto del
proprio discorso, riprese ad
illustrarmi la collezione pezzo per
pezzo, con commovente fervore.
Tolse infine da un armadio ben
chiuso una cassetta e disse: - Qui
dentro, frate Medardo, c'è la
reliquia
più
misteriosa
e
straordinaria
che
il
nostro
convento possegga. Da quando
sono qui nessuno, all'infuori del
priore e di me, ha preso in mano
questa scatola. Perfino gli altri
confratelli - non diciamo gli
estranei! - ne ignorano l'esistenza.
Io non posso toccarla senza
provare un brivido di terrore. È
come se contenesse un maleficio,
capace di dar morte e rovina a
chiunque
sappia
rendere
inefficace lo scongiuro che ve lo
tiene rinchiuso. L'oggetto qui
contenuto proviene direttamente
dal Nemico, o risale ai tempi in cui
gli era ancora permesso lottare
contro la salvezza del genere
umano assumendo forma visibile.
Guardai frate Cirillo sbalordito.
Ma, senza darmi il tempo di far
commenti, egli continuò: - Su
questo mistero, caro fratello
Medardo,
mi
asterrò
dall'esprimere qualsiasi opinione,
dal formulare ipotesi a casaccio.
Preferisco riferirti fedelmente
quanto ne dicono i documenti. Li
troverai in quell'armadio e potrai
leggerteli dopo, con calma. Tu
certamente conosci la vita di
sant'Antonio. Saprai che per
sfuggire totalmente alle cose
terrene e volgersi a quelle divine,
egli andò nel deserto e dedicò la
vita ai più severi esercizi di
penitenza e di pietà. Il Nemico lo
perseguitava
e
spesso
gli
attraversava il cammino, in forma
visibile per distoglierlo dalle pie
contemplazioni. Così una sera,
verso il crepuscolo, sant'Antonio
vide
avvicinarsi
una figura
tenebrosa: era il Nemico, e in una
ben curiosa tenuta: aveva indosso
un lacero mantello, dai cui strappi
sbucavano tanti colli di bottiglia.
Mentre il santo lo osservava
stupito, il Tenebroso gli domandò
con un sorriso di scherno se non
volesse assaggiare qualcuno dei
suoi elisir. Sant'Antonio non poté
neppure aversela a male: il
Nemico, ormai impotente, non era
più in grado di dargli battaglia e
doveva
limitarsi
alle
punzecchiature
verbali.
Gli
domandò,
dunque,
perché
portasse tante bottiglie in quello
strano modo. «Vedi», rispose il
Nemico, «quando un uomo mi
incontra mi guarda meravigliato e
non può fare a meno di chiedermi
i miei liquori e di assaggiarli
avidamente. Fra i tanti ne trova
certamente uno di proprio gusto,
si scola tutta la bottiglia, prende
una sbornia e... precipita nel mio
regno!...» Questo è quanto dicono
le
leggende. Ma da certi
documenti in nostro possesso
risulta ancora che il Nemico,
andandosene,
lasciò
alcune
bottiglie sull'erba. Sant'Antonio si
affrettò a portarle dentro la grotta
e a nasconderle bene, per timore
che anche nel deserto un
viandante smarrito - magari uno
dei suoi stessi discepoli - potesse
assaggiare l'orrenda bevanda e
perdersi per l'eternità. Per caso dice inoltre il documento sant'Antonio una volta aprì una
delle bottiglie e subito una
fantasmagoria
di
orrende,
conturbanti immagini infernali lo
avvolse, cercò di indurlo in
tentazione. Mediante rigorosi
digiuni e preghiere intense il santo
riuscì a far svanire il diabolico
miraggio.
Questo
scrignetto,
dunque, contiene una bottiglia di
elisir del diavolo. Per quanto ne
riguarda il rinvenimento fra le
cose del santo, dopo la sua morte,
i documenti sono così autentici e
particolareggiati da non lasciar
adito a dubbi. Posso inoltre
assicurarti, caro frate Medardo,
che non ho mai potuto toccare la
bottiglia né la cassetta in cui è
riposta senza provare un senso di
orrore inspiegabile. È come
respirare uno strano profumo
inebriante che turba la pace dello
spirito e distoglie dagli esercizi di
pietà. Anche non volendo credere
a un'azione diretta del demonio,
l'influsso di forze malefiche è
evidente, perché quel turbamento
lo si supera soltanto perseverando
nella preghiera. Ma tu, caro
fratello Medardo, sei ancora così
giovane! Al minimo stimolo, la
fantasia ti presenta immagini tinte
di colori smaglianti... tu confidi
troppo nelle tue forze; sei come un
guerriero forte, sì, valoroso ma
ancora inesperto e forse troppo
temerario... E perciò io ti consiglio
di non aprire questa cassetta, o di
farlo, semmai, fra molti anni. Per
non
lasciarti
tentare
dalla
curiosità fà in modo di non
vederla. Nascondila!
Frate Cirillo tornò a chiudere
la misteriosa cassetta nell'armadio
da cui l'aveva tolta e dell'armadio
mi consegnò la chiave insieme alle
altre, nel mazzo. Il suo racconto
mi aveva molto impressionato; ma
appunto perché sentivo nascere in
me il segreto desiderio di vedere la
straordinaria reliquia, memore dei
consigli
ricevuti,
cercai
di
rendermi difficile la cosa. Rimasto
solo, passai ancora una volta in
rassegna i sacri oggetti a me
affidati, poi tolsi dal mazzo la
chiave del pericoloso armadio e la
nascosi fra le mie carte, bene in
fondo al cassetto del leggìo.
Fra i professori del seminario
c'era un eccellente oratore;
quando predicava lui, la chiesa era
strapiena.
Le
sue
parole
trascinavano
l'uditorio
come
un'irresistibile fiumana di fuoco,
accendendo gli animi alla pietà e
alla fede. Le sue prediche, ispirate,
stupende, entusiasmavano anche
me; ma io gli invidiavo quelle doti
superlative
e
mi
sentivo
fortemente stimolato ad emularlo.
Dopo averlo ascoltato, mi mettevo
a predicare da solo, in camera mia,
abbandonandomi
all'ispirazione
del momento, e parlavo, parlavo,
fino a quando non riuscivo a
fissare idee e parole sulla carta. Il
frate che abitualmente predicava
da noi, in convento, si era molto
invecchiato e indebolito. Le sue
prediche fluivano come un
ruscello in magra, sempre più
faticose ed opache; la carenza di
idee, di parole, ne rendeva lo stile
spaventosamente
prolisso,
la
lunghezza insopportabile. Prima
ancora dell'«amen» i fedeli, cullati
da quella specie di monotono e
vacuo ronzio di mulino, per la
maggior parte sonnecchiavano
beatamente; e per svegliarli ci
voleva la forte voce dell'organo.
Anche padre Leonardo era un
eccellente oratore ma, a motivo
dell'età avanzata, non se la sentiva
più di predicare perché ciò lo
stancava troppo; e all'infuori di lui
non c'era nessun altro in convento
in grado di sostituire il vecchio
frate. Leonardo mi parlò di questo
inconveniente, per cui molti fedeli
disertavano la chiesa. Allora mi
feci coraggio e gli dissi che già fin
da quando ero in seminario mi ero
sentito chiamato alla predicazione
e avevo anche messo per iscritto
alcuni
discorsi
d'argomento
spirituale. Egli volle vederli e ne fu
talmente soddisfatto che mi pregò
di dare il mio primo saggio di
predicazione già fin dal prossimo
giorno
festivo;
non
avrei
certamente fallito - soggiunse perché la natura mi aveva fornito
di tutte le doti necessarie a un
buon
predicatore
figura
simpatica, viso espressivo, voce
sonora e ben timbrata. In quanto
al modo di muovere, di gestire,
volle istruirmi egli stesso.
L'attesa festività giunse. La
chiesa era più affollata del solito
ed io, non senza trepidazione, salii
sul pulpito. Dapprincipio mi
attenni fedelmente al testo scritto;
parlai con voce tremante (come
ebbe poi a dirmi Leonardo) ma la
cosa parve adatta alle meste
considerazioni iniziali del mio
discorso e più d'uno la prese per
un abile accorgimento d'arte
oratoria. Ma ben presto fu come se
una fiammata d'entusiasmo divino
divampasse in me.
Non pensai più al manoscritto
e mi abbandonai all'ispirazione del
momento. Sentivo il sangue
pulsarmi nelle
vene, udivo
tuonare la mia voce nelle navate
del tempio, mi vedevo col capo
eretto, le braccia spalancate,
circonfuso dal fulgore della grazia.
Sintetizzando in una sentenza
come nell'abbagliante fuoco d'una
lente - tutte le cose sante,
stupende
precedentemente
annunziate, conclusi la predica.
L'impressione fu enorme: scoppi
di
pianto,
involontarie
esclamazioni
di
religioso
entusiasmo, preghiere recitate ad
alta voce fecero eco alle mie
parole. I confratelli mi espressero
la
loro
incondizionata
ammirazione,
Leonardo
mi
abbracciò chiamandomi l'orgoglio
del convento. La mia fama si
diffuse in un baleno. Per ascoltare
frate Medardo già un'ora prima
della funzione il fior fiore
dell'aristocrazia e del mondo
culturale cittadino si affollava
nella non vasta chiesa del
convento. Con l'ammirazione
dell'uditorio crebbero la mia cura,
il mio impegno nel dare scioltezza
e perfezione sempre maggiori alle
mie prediche incandescenti; i
fedeli ne rimasero sempre più
avvinti
e
ammaliati
e
l'ammirazione
ogni
giorno
crescente tributatami dovunque
fossi o andassi, divenne ben presto
simile alla venerazione dovuta ad
un santo. Un'ondata di esaltazione
religiosa
scese
sulla
città.
Qualsiasi pretesto era buono per
correre al convento, anche nei
giorni feriali, pur di vedere frate
Medardo, di parlargli. E allora
germogliò in me il pensiero di
essere un eletto del cielo. Le
misteriose circostanze della mia
nascita avvenuta in quel luogo
sacro per riscattare le colpe d'un
padre, i fatti prodigiosi della mia
prima infanzia, tutto stava ad
indicare che il mio spirito, in
diretto contatto col cielo, era stato
predestinato ad innalzarsi al
disopra delle cose terrene già fin
da questo mondo, cui io non
appartenevo, così come non
appartenevo agli uomini se non
per recare loro conforto e salvezza;
perché tale era la mia missione,
quaggiù. Ero ormai convinto che il
vecchio pellegrino del Sacro Tiglio
fosse san Giuseppe, e il bimbo
prodigioso il bambino Gesù, sceso
a salutare in me il santo
predestinato a portare il suo
messaggio nel mondo. Ma quanto
più mi fissavo su tali pensieri,
tanto più l'ambiente in cui vivevo
mi
diventava
fastidioso
e
opprimente. La serenità, la pace
spirituale erano svanite; le bonarie
sortite dei confratelli, la cordialità
del priore mi irritavano: avrebbero
dovuto riconoscere in me «il
santo», prostrarsi nella polvere ad
impetrare la mia intercessione
presso il trono di Dio. Così come li
vedevo
mi
sembravano
incomprensivi, pervicaci negatori.
Perfino predicando feci talune
allusioni all'avvento d'una nuova
èra meravigliosa, al sorgere
d'un'aurora radiosa e al passaggio
sulla terra d'un eletto da Dio,
portatore di conforto e salvezza.
Parlavo della mia presunta
missione velandola di misteriose
metafore, tanto più suggestive per
l'uditorio, quanto meno comprese.
- Ma frate Leonardo si mostrava
sempre più freddo verso di me,
evitava di parlarmi a quattr'occhi.
Una volta, mentre passeggiavamo
per i viali del giardino, per caso i
confratelli ci lasciarono soli, e
allora il suo sfogo finalmente
proruppe:
Non
posso
nasconderti, caro frate Medardo, mi disse, - che da qualche tempo
in qua il tuo atteggiamento non mi
piace più. Qualcosa è sceso
nell'anima tua a distoglierti dalla
vita di religiosa semplicità. Nei
tuoi discorsi c'è un qualcosa di
torbido, di tenebroso, qualcosa che
non osa uscire alla luce perché almeno da me - ti separerebbe per
sempre. Permettimi di essere
franco. In questo momento tu
porti il peso del nostro peccato
d'origine, quello che ci spalanca le
porte della perdizione se appena
noi aspiriamo a spingerci troppo
in alto mediante le nostre facoltà
intellettuali. È così facile perdersi
in voli sconsiderati! Il successo,
l'ammirazione
addirittura
feticistica d'un mondo stolto e
assetato di fatti sensazionali, ti
hanno accecato. Tu ora vedi di te
un'immagine che non è la tua ma
un miraggio fallace che ti attrae
nell'abisso
della
perdizione.
Rientra in te, Medardo! Non
lasciarti ottenebrare da una simile
follia. Io credo di conoscerla! Già
fin d'ora hai perduto la pace dello
spirito, e senza di essa quaggiù
non si trova salvezza. Ascolta il
mio
ammonimento,
sfuggi
all'insidia del nemico. Ritorna ad
essere il buon ragazzo che amavo
con tutta l'anima -. Gli occhi del
priore erano pieni di lacrime.
Dette queste parole mi lasciò la
mano e si allontanò in fretta senza
attendere risposta. Ma le sue
parole mi erano suonate ostili;
quell'accenno
all'enorme
ammirazione tributata alle mie
doti eccezionali mi diceva che il
vero motivo dello sfogo di
scontento
era
una
invidia
meschina. Durante le assemblee
dei monaci io mi tenevo in
disparte, silenzioso, assorto, pieno
di rancore. Tutto compreso della
mia nuova dignità pensavo giorno
e notte al modo di tradurre in
belle parole e annunziare alle folle
le verità rivelatesi in me. E quanto
più mi allontanavo da Leonardo e
dai confratelli, tanto più riuscivo
ad attrarre le folle.
Il giorno di Sant'Antonio la
chiesa era così inverosimilmente
affollata
che
si
dovettero
spalancare le porte per consentire
alla massa di gente rimasta fuori
di ascoltarmi dal sagrato. Parlai
con fuoco, forza, efficacia, come
non avevo parlato mai. Com'è
d'uso, incominciai col narrare
qualche episodio della vita del
santo, traendone spunto per
alcune profonde considerazioni
religiose; parlai quindi delle
tentazioni diaboliche e del diavolo
stesso, cui il peccato originale
aveva dato facoltà di insidiare le
creature umane; trascinato dalla
foga oratoria, passai quasi senza
volerlo alla leggenda degli elisir,
presentandola come un'allegoria
densa di significato. A questo
punto il mio sguardo vagante per
la chiesa, si posò su un uomo alto,
magro, in piedi sopra un banco e
appoggiato a una colonna della
navata laterale; indossava un
manto viola scuro drappeggiato
intorno alla persona e alle braccia
conserte in uno strano modo, non
dei nostri paesi; il viso era d'un
pallore cadaverico, ma lo sguardo
dei grandi occhi neri, sbarrati mi
trapassò il petto come una
stilettata rovente. Un'indicibile
sensazione di sgomento mi fece
rabbrividire;
mi
affrettai
a
guardare altrove e, facendo
appello a tutte le mie forze,
continuai a parlare. Ma, come
attratto da un'irresistibile malia, il
mio sguardo ricadeva sempre su di
lui; ed egli era sempre là,
immobile, gli occhi spettrali fissi
su di me. L'alta fronte corrugata,
la piega amara della bocca
esprimevano odio e disprezzo.
C'era, in quella figura, qualcosa di
spaventoso, di orrendo. Sì!... Era il
pittore sconosciuto del Sacro
Tiglio... Fu come se una mano
gelida, spietata, mi attanagliasse il
petto; la fronte mi si imperlò di
sudori d'angoscia, il mio periodare
si inceppò, il discorso si fece
sempre più confuso. Dall'uditorio,
si levò un sussurro, un mormorio.
Ma il terrificante straniero era
sempre
là,
appoggiato
alla
colonna, lo sguardo fisso su di me.
Allora in un accesso di angoscia
infernale, di folle disperazione,
gridai: - Vattene, maledetto...
vattene!... Perché sant'Antonio...
Sant'Antonio sono io!...
Quando rinvenni dal deliquio
in cui ero caduto pronunziando
quelle parole mi ritrovai nel mio
letto. Frate Cirillo mi sedeva
accanto
curandomi,
consolandomi. Gli raccontai tutto.
Egli cercò di convincermi che s'era
trattato
unicamente
d'una
allucinazione, d'un brutto tiro
della fantasia sovreccitata dalla
foga oratoria, ma le sue parole non
fecero che accrescere in me la
vergogna, il rimorso per essermi
comportato in quel modo sul
pulpito. A quanto appresi in
seguito, gli ascoltatori mi avevano
creduto vittima d'un improvviso
accesso di follia; in particolare
quell'ultima esclamazione aveva
fornito buon motivo a tale
convincimento. Ero annientato,
spiritualmente disfatto. Chiuso
nella mia cella mi sottoposi alle
discipline, alle penitenze più
severe; pregai fervidamente per
rafforzarmi nella lotta contro il
Tentatore che aveva avuto la
sfrontatezza
di
apparirmi
addirittura in luogo consacrato,
assumendo le sembianze del
pittore incontrato al Sacro Tiglio,
per meglio farsi beffa di me. E
all'infuori di me, l'uomo dal manto
viola non l'aveva visto nessuno. Il
priore Leonardo, con la sua
proverbiale bontà, fece correr voce
che la causa del mio turbamento e
dei miei discorsi sconclusionati
era stata una violenta crisi di
febbre. In realtà quando, parecchie
settimane dopo, ripresi la normale
vita di convento ero ancora molto
sofferente. Ciò nonostante ritornai
sul pulpito. Ma, tormentato dalla
paura, perseguitato da quella
tremenda figura pallida, feci fatica
a parlare in modo appena appena
coerente e non potei certamente
più abbandonarmi alla consueta
foga oratoria. Le mie prediche
divennero
insipide,
fredde,
frammentarie. Gli
ascoltatori
rimpiansero la perdita delle mie
doti eccezionali e a poco a poco
disertarono la chiesa. Il vecchio
frate che aveva sempre predicato
prima (... ed ora predicava
evidentemente meglio di me...)
tornò a sostituirmi.
Qualche tempo dopo, un
giovane conte in viaggio col
proprio precettore capitò nel
nostro convento e chiese di
vederne le cose più notevoli.
Dovetti aprirgli la camera delle
reliquie e, mentre vi stavamo
entrando, il priore, dopo aver
visitato con noi la chiesa e il coro,
venne chiamato altrove. Così
rimasi solo con i due forestieri.
Quando
ebbi
mostrato
ed
illustrato il reliquario, pezzo per
pezzo, il conte notò l'elegante
intarsio in antico stile germanico
dell'armadio in cui era chiusa la
cassetta con l'elisir del diavolo.
Cercai di non parlare del
contenuto, ma il conte e il
precettore insisterono tanto che
incominciai col raccontare la
leggenda di sant'Antonio e del
diavolo astuto e finii col ripetere la
storia della straordinaria reliquia
come l'avevo udita da frate Cirillo,
non omettendo neppure il suo
ammonimento circa il pericolo di
aprire lo scrignetto e tirar fuori la
bottiglia. Il conte e il precettore,
benché cattolici, non parvero
prender molto sul serio la
leggenda, anzi, si misero a
ironizzare, a scherzare su quel
comico diavolo che portava le
bottiglie della tentazione infilate
negli strappi del mantello. A un
certo punto il precettore assunse
un tono serio e disse: - Reverendo,
non si crucci per noi, spregiudicati
uomini di mondo. Tanto io quanto
il signor conte veneriamo i santi, li
veneriamo
come
uomini
meravigliosi i quali rinunziarono
ad ogni gioia, sacrificarono la vita
stessa per la salvezza della propria
anima e dell'intera umanità. Ma le
storielle sul tipo di quella che lei ci
ha raccontato, io credo siano
allegorie inventate dai santi stessi
e poi, per malinteso, narrate come
fatti realmente accaduti -. Così
dicendo, fece scattare la chiusura
della cassetta e tirò fuori una
bottiglia nera, di forma strana. Un
forte aroma si diffuse nella
camera, proprio come aveva detto
frate Cirillo, ma non mi causò
alcun stordimento; provai invece,
aspirandolo,
una
piacevole
sensazione di benessere.
- Oh, oh! - esclamò il conte. L'elisir del diavolo non è che un
autentico,
squisito
vino
siracusano, ci scommetterei!
- Senza dubbio, - rispose il
precettore. - E se questa bottiglia
proviene davvero dal lascito di
sant'Antonio lei, reverendo, può
dirsi più fortunato del re di Napoli,
il quale fu privato del piacere di
assaggiare il vino degli antichi
romani dal malvezzo di costoro di
conservarlo non in bottiglie
tappate ma versandovi sopra un
po'
d'olio. Comunque, anche se
questo vino non risale all'èra
precristiana, è indubbiamente il
più vecchio esistente al mondo: e
lei farebbe bene a trarre diretto
profitto
dalla
reliquia
sorseggiandosela tranquillamente.
- Certo! - approvò il conte. Questo siracusano stravecchio le
immetterebbe nuova forza nelle
vene, la risanerebbe... Perché, a
quanto vedo, reverendo, il suo
stato di salute lascia un po'a
desiderare -. Il precettore trasse di
tasca un cavatappi d'acciaio, e,
incurante delle mie proteste, sturò
la bottiglia. Quando il tappo saltò
via mi parve di veder guizzare una
fiammella azzurrina; ma fu
questione di un attimo. Un aroma
fortissimo invase la camera. Il
precettore volle assaggiare per
primo: - Squisito! - esclamò
entusiasta. - È un siracusano
superlativo! Davvero, niente male
la cantina di Sant'Antonio!... E se
il diavolo gli faceva da cantiniere
le sue intenzioni verso il
sant'uomo non dovevano poi
essere così perfide come si crede...
Assaggi, conte! - Il conte assaggiò
e confermò il parere del
precettore. I due ripresero a
scherzare
sulla
reliquia
indiscutibilmente la più insigne di
tutta la collezione! - si augurarono
di possedere una cantina piena di
simili reliquie, e via su questo
tono. Io li ascoltavo in silenzio, a
capo chino, lo sguardo fisso a
terra. Nello stato d'animo in cui
mi trovavo, l'allegria dei due
forestieri mi riusciva penosa.
Insisterono
entrambi
perché
anch'io assaggiassi il vino di
sant'Antonio ma io rifiutai
ostinatamente e tornai a chiudere
la bottiglia ben tappata nella sua
custodia.
Partiti i due stranieri e rimasto
solo nella mia cella, avvertii
un'innegabile
sensazione
di
benessere, una stimolante gaiezza
di spirito. L'aroma spiritoso del
vino mi aveva evidentemente
rinvigorito. Dei perniciosi effetti
cui mi aveva accennato frate
Cirillo
neppure
l'ombra; al
contrario: avvertivo soltanto una
influenza
benefica,
e
assai
pronunziata.
Quanto
più
ripensavo
alla
leggenda
di
sant'Antonio, quanto più chiare
riecheggiavano in me le parole del
precettore,
tanto
più
mi
convincevo che la sua spiegazione
era la giusta. Un pensiero mi
balenò
nella
mente:
quel
malaugurato giorno, quando la
diabolica visione aveva così
rovinosamente interrotto la mia
predica, io stavo appunto per
presentare la leggenda in quello
stesso modo, vale a dire come
un'edificante allegoria inventata
dal santo. A tale pensiero se ne
riallacciò un secondo che in breve
mi prese così completamente da
travolgere
ogni
altra
considerazione. E se questo
liquore miracoloso, - pensai, riaccendesse la fiamma languente
delle tue facoltà intellettuali, la
facesse divampare più viva di
prima?... Come mai lo stesso
aroma che ha stordito il debole
frate Cirillo a te è riuscito
benefico?... Non potrebbe rivelare,
questo fatto, una misteriosa
affinità tra il tuo spirito e le forze
naturali racchiuse in quel vino?...
Nonostante tutto, se appena mi
decidevo a seguire il consiglio
dello straniero una inspiegabile
riluttanza mi impediva di passare
all'azione; quando allungavo la
mano per aprire l'armadio mi
pareva di scorgere nell'intarsio del
pannello l'orribile viso del pittore,
con quegli occhi penetranti,
vivissimi ma cadavericamente
immoti, puntati su di me. Allora,
colto dal terrore, fuggivo dalla
camera delle reliquie per correre
in chiesa a pentirmi della mia
colpevole curiosità. Eppure, il
pensiero che soltanto quel vino
prodigioso avrebbe restituito forza
e vigore al mio spirito non mi dava
tregua.
L'atteggiamento del priore, dei
monaci, i quali mi trattavano con
benintenzionata ma deprimente
indulgenza, come si fa con i malati
di mente, mi metteva alla
disperazione. E quando Leonardo,
per aiutarmi a guarire, mi
dispensò dai normali esercizi di
pietà, durante una tormentosa
notte insonne decisi di tentare
tutto, pur di riacquistare le facoltà
perdute; avesse dovuto costarmi la
vita.
Mi alzai, presi, in corridoio, la
lampada davanti alla statua di
Maria, l'accesi, scivolai come uno
spettro verso la camera delle
reliquie. Alla luce oscillante della
lampada, le sacre immagini della
chiesa sembravano muoversi,
guardare in basso verso di me,
pietosamente; nel cupo ululato del
vento che entrava nel coro
attraverso i vetri rotti sembrava di
udire
lamentose
voci
ammonitrici... Sì!... Era come se
mia madre mi chiamasse da
immense lontananze dicendomi: Medardo, figlio mio, che stai
facendo?...
Desisti
da
quest'impresa pericolosa! - Nel
reliquario tutto era tranquillo e
silenzioso. Apersi l'armadio, presi
la cassetta, la bottiglia... e ne bevvi
un sorso!... Un gran calore mi si
diffuse per le vene dandomi una
sensazione
di
indescrivibile
benessere. Bevetti ancora. Il
piacere, la gioia di una vita nuova
e meravigliosa mi inondò. Chiusi
in fretta lo scrignetto vuoto, corsi
nella mia cella con la benefica
bottiglia, la nascosi nel cassetto
del leggìo. Ciò facendo mi capitò
in mano la piccola chiave che
avevo nascosto per sfuggire alla
tentazione. Eppure avevo aperto
l'armadio senza di essa, non
soltanto pochi minuti prima ma
anche durante la visita dei due
stranieri. Com'era possibile?...
Esaminai il mazzo, ed ecco: fra le
altre c'era anche la chiave
sconosciuta
con
cui, senza
neppure
avvedermene,
avevo
aperto l'armadio, allora ed oggi.
Sussultai. Ma nella mia mente,
come destata di soprassalto da un
sonno profondo, le idee si
accavallarono scacciandosi l'una
con l'altra. Non ebbi un istante di
tregua fino al sorger del giorno.
Allora corsi in giardino per
tuffarmi nei raggi infocati del sole
nascente di dietro i monti.
Leonardo e i confratelli notarono
il mutamento avvenuto in me:
non ero più chiuso e taciturno ma
allegro e vivace, parlavo con foga,
come se tenessi un discorso a
un'intera comunità di fedeli.
Quando rimasi solo con Leonardo
egli mi scrutò a lungo, quasi
volesse leggermi nell'anima, poi
con un impercettibile sorriso
ironico mi disse: - Fratel Medardo
ha forse ricevuto nuova forza,
nuova vita... dall'alto?... Ha avuto
una visione?...
Mi sentii arrossire di vergogna:
quell'esaltazione dovuta a un
sorso di vino vecchio mi parve
tutt'a un tratto indegna e
spregevole. E rimasi là, a capo
chino e occhi bassi. Leonardo mi
lasciò alle mie riflessioni.
Avevo tanto temuto che quel
po'di euforia non potesse durare e
mi lasciasse ancora più spossato di
prima. Invece non fu così.
Riconquistata l'energia, mi sentii
pieno di giovanile coraggio e d'un
irresistibile
bisogno
di
estrinsecare tutte le mie capacità
nel
vasto
campo
d'azione
offertomi dal convento. Insistetti
per predicare di nuovo durante la
prossima funzione festiva. Mi fu
concesso. Poco prima di salir sul
pulpito bevvi qualche sorso del
vino prodigioso; e la predica mi
riuscì focosa, patetica, efficace
come non mai. La notizia della
mia completa ripresa si diffuse in
un baleno, la chiesa tornò ad
affollarsi come un tempo. Ma
nella stessa misura in cui il mio
successo
presso
le
folle
aumentava, Leonardo si mostrava
sempre più severo e riservato
verso di me. Credetti trattarsi di
orgoglio monacale offeso, di
invidia meschina e incominciai ad
odiarlo con tutta l'anima.
Si approssimava il giorno di
San Bernardo. Io bruciavo dalla
impazienza di brillare in piena
luce davanti alla principessa e
perciò pregai il priore di far in
modo che in quella occasione mi
venisse concesso di predicare nel
convento
delle
cistercensi.
Leonardo parve molto sorpreso;
mi disse francamente che sarebbe
stata sua intenzione di predicare
egli stesso in tale circostanza, e di
aver quindi già disposto le cose di
conseguenza. Tuttavia - soggiunse
- gli sarebbe stato facile scusarsi
adducendo
il
pretesto
di
un'indisposizione e mandare me
in propria vece.
E così avvenne. La sera prima
rividi mia madre e la principessa.
Ma ero talmente preso dal
pensiero della predica, dalla
preoccupazione di toccar l'apice
dell'eloquenza - che l'incontro mi
fece scarsa impressione. In città si
era diffusa la voce che avrei
predicato io invece di frate
Leonardo e ciò attrasse una
quantità ancora maggiore di
pubblico colto. Senza scrivere una
riga avevo coordinato la predica in
ogni sua parte così, mentalmente.
Contavo
sull'entusiasmo
che
avrebbero suscitato in me la
funzione solenne, la folla dei
fedeli, perfino la stupenda chiesa
con le sue altissime volte; e non
mi sbagliavo. Le mie parole
proruppero come una fiumana di
fuoco: dalla figura di san Bernardo
trassi argomento di parabole
altamente significative e di
profonde considerazioni religiose.
Negli sguardi, tutti puntati su di
me,
leggevo
ammirazione,
stupore. Non vedevo l'ora di
sentire che cosa avrebbe detto la
principessa; mi attendevo una
manifestazione
di
altissimo
compiacimento. Ero riuscito a
stupirla già fin da bambino ed ora,
intendendo
chiaramente
la
potenza della mia personalità, mi
avrebbe ricevuto - ne ero certo quasi con timore reverenziale. Ma
quando chiesi di parlarle mi fece
rispondere di essersi sentita
improvvisamente poco bene e di
non poter ricevere nessuno,
neppure me. Ciò mi indispose
moltissimo: perché ero talmente
ubriaco d'orgoglio da illudermi che
la badessa, entusiasta della mia
predica, provasse il bisogno di
udire ancora alcune parole dalle
mie labbra. Mia madre pareva
portare in cuore un cruccio
tormentoso; ma non ebbi l'ardire
d'indagarne la causa perché avevo
la segreta sensazione d'esserne la
causa io stesso, pur senza
potermelo spiegare con chiarezza.
Fu lei a consegnarmi un biglietto
della
principessa
con
la
raccomandazione
di
leggerlo
soltanto dopo essere rientrato in
convento. Appena fui nella mia
cella lessi con stupore quanto
segue:
«Con la predica tenuta nella
chiesa del nostro convento, mio
caro figliolo (giacché così voglio
ancora chiamarti), tu mi hai
causato una profonda afflizione.
Le tue parole non provenivano da
un animo religioso, tutto rivolto
alle cose del cielo; il tuo
entusiasmo non era quello che
trascina in alto il credente, come
sulle ali d'un serafino, e gli
consente di scorgere, in un'estasi
santa, il regno celeste. Ahimè, no!
Il tuo orgoglioso sfoggio
oratorio, lo sforzo evidente di dire
soltanto cose sorprendenti e
brillanti, mi hanno dimostrato che
invece di ammaestrare i fedeli e
indurli a pie meditazioni, tu aspiri
unicamente al successo, alla vana
ammirazione delle folle mondane.
Tu hai ipocritamente simulato
sentimenti che non provavi, ti sei
perfino valso di espressioni del
viso, di atteggiamenti studiati,
artificiosi, degni di un attore
vanesio;
e
tutto
questo,
esclusivamente per amore del
successo.
Lo
spirito
della
menzogna è sceso in te, e ti
perderà se non rientrerai in te
stesso, se non rinunzierai al
peccato; perché peccato, peccato
grave è il tuo modo di agire, tanto
più grave in quanto, entrando in
convento,
tu
ti
impegnasti
solennemente a rinunziare alle
umane follie per votarti al cielo.
San Bernardo, così volgarmente
offeso dal tuo insincero discorso,
possa,
nella
sua
celeste
misericordia,
perdonarti,
e
illuminarti, e aiutarti a ritrovare il
retto cammino da cui la seduzione
del maligno ti ha fatto deviare. E
possa anche intercedere per la
salvezza dell'anima tua. Stammi
sano!»
Le parole della badessa mi
lasciarono di sasso - e avvampante
di sdegno. Leonardo - e lo
dimostravano le sue ripetute
stoccate alle mie prediche - aveva
fatto leva sulla bacchettoneria
della
principessa
istigandola
contro il mio talento oratorio.
Quasi non potevo più vederlo
senza un fremito di collera e
covavo pensieri di vendetta di cui
rabbrividivo io per primo. I suoi
rimproveri,
quelli
della
principessa, mi riuscivano tanto
più insopportabili quanto più,
dentro di me, li sentivo giusti. Ciò
nondimeno
persistetti
ostinatamente nella mia linea di
condotta e, rafforzandomi con
qualche goccia di quel vino
misterioso, continuai a fiorire le
prediche con ogni possibile
artificio retorico, a studiare
minuziosamente ogni espressione,
ogni
gesto.
In
tal
modo
l'ammirazione,
il
successo
andarono crescendo di giorno in
giorno.
La luce dell'alba filtrava,
rifranta in raggi multicolori,
attraverso le artistiche vetrate
della chiesa. Io sedevo nel
confessionale,
immerso
in
meditazione; soltanto i passi del
confratello laico addetto alle
pulizie risuonavano sotto le volte
della chiesa. A un tratto intesi un
fruscio e vidi avvicinarsi una
donna, alta, snella, vestita come
una straniera e col viso velato. Era
entrata dalla porta laterale,
evidentemente per confessarsi.
Muovendo con indicibile grazia si
inginocchiò e si lasciò sfuggire un
profondo sospiro. Prima ancor che
parlasse, ne sentii l'alito ardente e
caddi in preda a un'inebriante
malia. Come potrei descrivere
quell'inconfondibile tono di voce,
penetrante,
profondo?...
Mi
confessò di nutrire un amore
proibito - di aver cercato
inutilmente di combatterlo, da
tanto tempo. - Quell'amore era
tanto più riprovevole in quanto
rivolto a una persona legata da
sacri voti perenni. - Folle di
disperazione li aveva maledetti,
quei voti... Esitò un poco, poi
proruppe con voce soffocata dal
pianto: - Sei tu, Medardo!... Sei tu
colui che così perdutamente
amo!... - Tutti i miei nervi
sussultarono come sotto il morso
d'un crampo mortale. Ero fuori di
me... Una sensazione mai provata
mi dilaniava il petto... Vederla,
stringerla fra le braccia... Svanire
in quel voluttuoso tormento... Un
solo istante di beatitudine e poi
accettare
le
pene
eterne
infernali!... Lei taceva... ne udivo il
respiro profondo... Con uno sforzo
disperato,
sovrumano,
mi
dominai, mi ripresi. Che cosa le
dicessi non so... soltanto mi
accorsi che lei si alzava ed usciva
senza parlare, mentre io mi
premevo il fazzoletto sugli occhi
restando impietrito, quasi privo di
sensi, nel confessionale.
Per fortuna più nessuno entrò
in chiesa ed io potei così
sgattaiolare nella mia cella
inosservato. Ma come tutto mi
sembrava diverso!... Come mi
sembravano insulse, stolte le mie
aspirazioni! Non avevo visto in
faccia la sconosciuta, eppure la
sentivo in me... Mi guardava con
soavissimi occhi azzurro cupi
inondati di pianto... le sue lacrime
mi cadevan nell'anima come fuoco
vivo e vi accendevano una fiamma
che nessuna preghiera, nessuna
penitenza avrebbero più domato,
mai. Mi diedi la disciplina, mi
fustigai a sangue con la corda a
nodi per sfuggire all'eterna
dannazione da cui ero minacciato
perché spesso il ricordo di quella
donna misteriosa accendeva in me
concupiscenze peccaminose, fin là
mai conosciute. E non sapevo
come salvarmi da quel voluttuoso
tormento.
Un altare della nostra chiesa
era dedicato a santa Rosalia,
raffigurata da un dipinto stupendo
nell'atto di subire il martirio.
Orbene, quella era la mia amata:
l'avevo
riconosciuta!
Rassomigliava in tutto e per tutto
alla misteriosa penitente, perfino
nelle vesti. Ed io, in preda alla mia
rovinosa follia, me ne restavo per
ore ed ore prostrato bocconi sui
gradini dell'altare, gemendo ed
urlando in modo così disperato
che i monaci si scostavano da me
inorriditi. - Poi, nei momenti di
tregua, scendevo in giardino e la
vedevo passeggiare avanti e
indietro, in nebulose lontananze,
la vedevo sorgere dalle fonti,
aleggiare
sui
prati
fioriti...
dovunque vedevo lei, e soltanto
lei!... Oh, come maledissi il mio
voto, la mia esistenza! Uscire,
andar fuori nel mondo volevo, e
non concedermi tregua prima di
averla ritrovata, di averla ottenuta,
anche a prezzo dell'anima mia.
Riuscii finalmente a reprimere, se
non altro, gli accessi di follia
incomprensibili al priore ed ai
confratelli; riuscii a mostrarmi più
tranquillo;
ma
quel
fuoco
deleterio mi divorava dentro,
sempre più profondo. - Persi il
sonno, la pace. Perseguitato
dall'immagine di lei mi rigiravo
sul duro giaciglio supplicando i
santi non già di salvarmi dal
demoniaco miraggio, non già di
preservare l'anima mia dall'eterna
dannazione, no!... Li supplicavo di
darmi quella donna, di sciogliere i
miei voti, di rendermi la libertà...
la
libertà
di
precipitarmi
nell'abisso del peccato!
Decisi di por fine a tale
supplizio fuggendo dal convento.
Condizione indispensabile per
stringere quella donna tra le
braccia e placare il fuoco della
concupiscenza mi sembrava fosse
sciogliermi dai voti monastici. Mi
sarei dunque reso irriconoscibile
radendomi la barba e indossando
abiti borghesi e poi sarei andato in
giro per la città fino a quando non
l'avessi ritrovata. Alla difficoltà,
all'impossibilità d'affrontare una
simile impresa senza un soldo in
tasca non pensai affatto; e, fuor di
quelle mura, non avevo di che
vivere neppure per ventiquattr'ore.
Giunse finalmente l'ultimo
giorno che avrei dovuto passare in
convento.
Una
fortunata
combinazione mi aveva permesso
di procurarmi degli abiti borghesi
decorosi; sarei fuggito la notte
stessa per non ritornare mai più.
Ma verso sera inaspettatamente il
priore mi fece chiamare. Il sangue
mi diede un tuffo perché credetti
ch'egli si fosse accorto dei miei
preparativi clandestini. Leonardo,
dignitoso, imponente, mi ricevette
con insolita gravità. - Frate
Medardo, - mi disse, - il tuo
comportamento insensato turba la
nostra
pacifica
convivenza,
influisce in modo nefasto sulla
serenità, sulla cordialità di
rapporti che mi sono sempre
sforzato di mantenere tra i
confratelli, e dovrebbero essere il
primo risultato d'una vita fatta di
silenzio e di pietà. Questo tuo
modo d'agire dipenderà, voglio
credere, da una recrudescenza
dell'esaltazione mentale che da
parecchio tempo vai ostentando, e
forse non con assoluta purezza di
intenti;
dipenderà
fors'anche
dall'esserti accaduto qualche fatto
increscioso di cui non hai voluto
parlarmi. Eppure, a me, che ti
sono amico paterno, avresti potuto
confidare qualsiasi cosa, certo di
ricever conforto. Ma tu hai taciuto
- taci - e io non posso entrare in te;
anche perché scoprendo il tuo
segreto potrei perdere un po'
della mia pace; e alla mia età la
pace la apprezzo al disopra d'ogni
altra
cosa.
Tu
hai
dato
ripetutamente grave motivo di
scandalo
non
soltanto
ai
confratelli ma anche agli estranei,
presenti in chiesa per caso,
lasciandoti sfuggire - diciamo, in
un accesso di follia - parole, frasi
rivoltanti ed orribili davanti
all'altare di santa Rosalia. Potrei
punirti severamente secondo la
regola disciplinare del convento,
ma non voglio farlo, appunto
perché
colpevole
del
tuo
smarrimento potrebbe essere una
potenza malefica, forse il maligno
stesso, cui non hai saputo opporti
sufficientemente. Ti raccomando
soltanto di perseverare nella
penitenza e nella preghiera. Io ti
leggo
nell'anima:
tu
vuoi
andartene, libero!
Non potei reggere il suo
sguardo penetrante. Conscio del
mio malvagio proposito mi
prostrai
nella
polvere
singhiozzando.
- Ti capisco, - proseguì
Leonardo. - E credo che il mondo
possa
guarirti
meglio
del
convento, purché tu, beninteso, lo
affronti con animo religioso. Una
questione riguardante il nostro
convento esige
l'invio d'un
confratello a Roma. Ho scelto te; e
domani stesso potrai metterti in
viaggio, munito delle istruzioni e
dei pieni poteri necessari. Ti
considero particolarmente adatto
a questa missione perché sei
giovane, vigoroso, abile negli affari
e perfettamente padrone della
lingua italiana. Adesso rientra
nella cella e prega con fervore per
la salvezza dell'anima tua; io farò
altrettanto. Ma non infliggerti
penitenze
corporali;
ti
indebolirebbero
soltanto,
rendendoti inabile al viaggio.
Domani all'alba ti attendo in
questa camera.
Queste parole mi illuminarono
come un raggio celeste... Lo avevo
odiato; ma l'amore che un tempo
nutrivo per lui si ridestò in me
riempiendomi
di
dolcezza
struggente. Piangendo a calde
lacrime mi premetti le sue mani
alle labbra; egli mi abbracciò e in
quel momento ebbi la precisa
sensazione che conoscesse i miei
pensieri più reconditi e mi desse la
libertà di arrendermi al destino
che, dopo pochi minuti di
ebbrezza, mi avrebbe forse
precipitato
nella
perdizione
eterna.
Inutile fuggire, ormai; avrei
potuto lasciare tranquillamente il
convento e mettermi in cerca di
colei senza la quale non avrei più
avuto bene né pace. Il viaggio, la
missione a Roma doveva esserseli
inventati Leonardo per offrirmi un
pretesto di lasciare decorosamente
il convento.
Trascorsi la notte pregando e
preparandomi al viaggio. Travasai
in una fiaschetta l'avanzo del vino
misterioso per farne uso al
momento opportuno e richiusi la
bottiglia vuota nella sua custodia.
Rimasi non poco stupito nel
ricevere dal priore ulteriori
istruzioni circa la mia missione: la
cosa era dunque vera, e tanto
importante da richiedere la
presenza a Roma di un confratello
munito di pieni poteri. Provai
rimorso al pensiero d'aver deciso
di non voltarmi più indietro, una
volta messo piede fuori del
convento; ma ripensando a lei mi
rincuorai e decisi di mantenermi
fedele al mio piano.
Accomiatarmi dai confratelli
riuniti, e soprattutto da padre
Leonardo, mi colmò di tristezza. Finalmente le porte del convento
si richiusero alle mie spalle e io,
equipaggiato per il lungo viaggio,
mi ritrovai fuori - libero.
Capitolo secondo - L'ingresso
nel mondo
Il convento giaceva laggiù nel
fondovalle, avvolto da vapori
azzurrini. Trasportate dal vento
del mattino le litanie dei frati
giungevano
fino
a
me.
Involontariamente mi associai al
canto. Il globo infocato del sole
spuntò dietro la città, i raggi d'oro
sfavillarono fra gli alberi e un
allegro sgocciolio di rugiada fece
alzare in volo miriadi di ronzanti
insettucci multicolori. Anche gli
uccelli
si
destarono
e
incominciarono a svolazzare per il
bosco cantando, facendosi festa,
sfiorandosi carezzevolmente con
le alucce. Vidi venire alla mia
volta, su per la montagna, un
gruppo
di
contadinelli
e
contadinelle vestite a festa;
incontrandomi mi salutarono con
un - Sia lodato Gesù Cristo! Risposi: - Sempre sia lodato! - e fu
per me come incontrare una
nuova vita, piena di gioia e di
libertà, nei suoi mille aspetti
pittoreschi. Non avevo mai
provato nulla di simile: mi sentivo
un altro. Animato, entusiasmato
da quel risveglio di nuove energie,
seguitai a scendere di buon passo,
attraverso i boschi. Domandai a
un contadino quale fosse la strada
più breve per giungere al paese
segnato sul mio itinerario come
primo luogo di pernottamento.
Egli mi indicò una scorciatoia
attraverso le montagne; l'avrei
trovata poco più avanti, deviando
dalla strada maestra. Camminavo
già da un bel pezzo, in assoluta
solitudine, quando per la prima
volta mi ritornarono alla mente la
sconosciuta e il mio fantastico
piano per ritrovarla... Ma i tratti
erano pallidi, sbiaditi, riconoscibili
a stento, come se una mano
misteriosa li avesse cancellati... E
più cercavo di fissarli, di
trattenerli, più svanivano nel
nulla. Ma la mia inqualificabile
condotta in convento la ricordavo
perfettamente e non capivo come
il priore avesse potuto essere
tanto indulgente da sopportare un
simile scandalo e, invece di
punirmi come meritavo, mi avesse
mandato libero per il mondo. Non
tardai a convincermi che la
sconosciuta fosse stata soltanto
una visione provocata da un
eccesso di fatica. E così, invece di
attribuire
al
Maligno
l'ossessionante miraggio - come
un tempo avrei fatto - lo attribuii
alla mia sovreccitazione mentale.
La circostanza che la signora
sconosciuta vestisse come santa
Rosalia pareva dimostrare la
suggestione esercitata su di me dal
veristico quadro raffigurante la
santa e visibile, sia pur di lontano
e
di
sbieco,
anche
dal
confessionale.
Ammirai
profondamente la saggezza del
priore nell'aver saputo scegliere il
rimedio più adatto a guarirmi.
Rinchiuso fra quelle mura,
circondato sempre dalle stesse
cose, avrei continuato a rodermi, a
almanaccare: e quella visione, resa
sempre più vera ed ossessionante
dalla solitudine, mi avrebbe
condotto
alla
follia.
Familiarizzandomi sempre più con
l'idea di aver sognato, facevo fatica
a non ridere di me stesso; con
insolita frivolezza scherzavo in
cuor mio sul fatto di essermi
illuso che una santa si fosse
innamorata di me... E d'altronde pensavo - una volta non avevo
perfino
creduto
di
essere
sant'Antonio?... Ero in cammino
ormai da parecchi giorni. Sentieri
di montagna - gole racchiuse fra
torreggianti, terrificanti massicci
rocciosi - esili ponticelli gettati
sopra torrenti mugghianti... La
strada diventava sempre più
solitaria
e
disagevole...
Mezzogiorno. Il sole mi scottava il
capo scoperto; morivo di sete ma
sorgenti in vista non ce n'erano; il
villaggio ove dovevo fermarmi non
arrivava mai... Esausto, mi gettai a
sedere su una roccia; mi ero
ripromesso di risparmiare quanto
più possibile il prezioso liquore
ma non seppi resistere alla
tentazione di berne un sorso alla
mia borraccia. Fu come immettere
nuove
forze
nelle
vene.
Rinfrescato, rinvigorito, ripresi il
cammino per raggiungere la meta,
ormai
certamente
non
più
lontana. La pineta diventava
sempre più fitta. Ad un tratto udii
un fruscio nel folto del bosco e
poco dopo un nitrito: qualcuno
aveva legato un cavallo in quei
pressi. Avanzai di alcuni passi e mi
arrestai impietrito dal terrore: ero
sull'orlo
d'una
spaventosa
voragine - sotto di me scrosciava
spumeggiando, gorgogliando una
cascata, il cui fragore assordante
avevo inteso già di lontano. Sopra
uno sperone di roccia proteso sul
precipizio vidi un giovane in
uniforme con accanto un cappello
abbondantemente piumato, una
spada e un portafogli... Doveva
essersi addormentato in quella
posizione e il corpo stava
sbilanciandosi
sempre
più
pericolosamente nel vuoto. La
caduta era inevitabile. Mi feci
animo, mi protesi in avanti, cercai
di afferrarlo gridando: - Per l'amor
di Dio, signore... si svegli!... Oh
Gesù!... - Ma appena l'ebbi
sfiorato, il giovane si destò di
soprassalto, perse l'equilibrio e
precipitò nel vuoto. Vidi il corpo
rimbalzare di roccia in roccia,
sfracellandosi...
L'urlo
agghiacciante si perse nel salto
vertiginoso, divenne un gemito
roco - si spense... - Inebetito dallo
sgomento e dall'orrore, raccolsi
cappello, spada e portafogli e feci
per correr via da quel malaugurato
luogo quando un giovane vestito
da cacciatore mi venne incontro
dal bosco, mi guardò fisso in viso e
scoppiò in una tale risata da farmi
raggelare il sangue: - Benone,
illustre signor conte, - disse
finalmente colui. - La mascherata
è magnifica, perfetta... niente da
dire! Se la gentile signora non ne
fosse stata preavvisata non
riconoscerebbe davvero l'amato
del cuore. Ma dove ha messo
l'uniforme, illustrissimo?... - L'ho
gettata nel precipizio, - rispose per
me una voce sorda e cavernosa perché quelle parole, sfuggite alle
mie labbra, non ero stato io a
pronunziarle. E intanto stringevo
sempre spasmodicamente fra le
mani il cappello, la spada, il
portafogli e continuavo a fissare
l'abisso, domandandomi se il
cadavere sanguinante del conte
non
ne
sarebbe
sorto
a
minacciarmi. Mi pareva d'essere
stato io ad ucciderlo.
- Adesso, illustrissimo, proseguì il giovinotto, - io, col
cavallo, scendo alla cittadina, dove
mi terrò nascosto nella prima casa
fuori porta, a sinistra. E lei se ne
andrà al castello dove stanno già
aspettandola. Il cappello e la spada
li prendo io, - (glieli porsi). Salute, signor conte! E buona
fortuna al castello! - Con questo
augurio, il cacciatore scomparve
nel folto del bosco fischiando e
cantando. Lo sentii sciogliere il
cavallo e partire.
Riavutomi
dallo
sbalordimento,
cercai
di
riesaminare
mentalmente
lo
sconcertante
episodio.
Un
capriccio del caso mi aveva
dunque tutt'a un tratto cacciato in
una ben curiosa situazione! Una
eccezionale rassomiglianza di viso
e di figura con lo sventurato conte
aveva tratto in inganno il
guardiacaccia... Il conte doveva
aver scelto il travestimento da
cappuccino per tentar chissà quale
avventura nel vicino castello. La
morte
lo
aveva
colto
all'improvviso, ed eccomi al suo
posto!... L'irresistibile desiderio di
sostituirmi a lui, come pareva
volesse il destino, travolse ogni
dubbio e mise a tacere la voce
della coscienza che mi accusava di
delitto e di frode. Apersi il
portafogli, lettere, assegni cospicui
mi caddero fra le mani. Avrei
voluto esaminare le carte ad una
ad una, leggere le lettere per
informarmi sulla situazione del
conte; ma l'agitazione, il turbinio
di idee che mi ronzavano in testa
me lo impedirono.
Dopo alcuni passi mi fermai di
nuovo, sedetti su una roccia,
cercai di ricompormi, di calmarmi.
Considerai
il
pericolo
di
avventurarmi in un ambiente
sconosciuto, sotto mentite spoglie,
così impreparato; e mentre
pensavo udii avvicinarsi dei gioiosi
squilli di corno e una confusione
di voci allegre ed urlanti. Il cuore
prese a battermi forte, il respiro
mi si arrestò: un nuovo mondo,
una vita nuova mi si stavano per
dischiudere!... Svoltai in un
sentierino strettissimo, imboccai
una ripida scesa. Quando uscii dal
bosco vidi davanti a me, sul
fondovalle, un castello imponente:
era quello il teatro dell'avventura
preordinata dal conte. Pieno di
baldanzoso coraggio mi diressi
colà. Dopo poco cammino mi
ritrovai nel parco del castello e in
uno scuro vialetto laterale vidi
passeggiare due uomini, uno dei
quali vestito da prete secolare. Mi
si avvicinarono ma non si
accorsero di me e mi passarono
davanti
continuando
a
chiacchierare a bassa voce. Il prete
secolare era un bel giovane ma
mortalmente
pallido;
pareva
angustiato da un dolore profondo
e tormentoso; l'altro, vestito
semplicemente ma con proprietà,
sembrava già molto avanti negli
anni. Sedettero su una panca di
pietra volgendomi le spalle. Non
persi una sola delle loro parole.
- Ermogene, - disse il vecchio, con questo ostinato silenzio lei
mette la sua famiglia alla
disperazione... Si immalinconisce,
si incupisce ogni giorno di più... La
sua giovanile energia è spezzata...
Il bel fiore appassisce! Con la
decisione di farsi religioso lei
distrugge tutte le speranze, tutti i
sogni di suo padre!... Tuttavia egli
rinunzierebbe volentieri ai propri
sogni e non ardirebbe opporsi ai
disegni del destino se lei avesse
sempre dimostrato una vocazione
irresistibile alla solitudine. Ma
questo improvviso mutamento di
carattere dimostra chiaramente il
contrario...
Lei
è
stato
tremendamente scosso - ed è
tuttora tormentato - da qualche
fatto che ha voluto ostinatamente
tacerci. Prima era un ragazzo
allegro, spensierato, pieno di gioia
di vivere! Che cosa può averla
indotta a disperare a tal punto
della umanità da farle credere
impossibile che esista una persona
capace di dare conforto al suo
animo malato?... Lei tace?...
Guarda fisso davanti a sé?...
Sospira?... Ermogene!... Un tempo
lei amava immensamente suo
padre; e se adesso non le è più
possibile aprirgli il cuore, eviti
almeno
di
tormentarlo
ricordandogli con questa veste la
sua terribile decisione. Ermogene,
la scongiuro, getti quest'abito
odioso!... C'è una forza misteriosa
nelle cose esteriori, mi creda; e
non le dispiaccia se per farmi
pienamente intendere ricorro ad
un esempio forse poco intonato
alla circostanza. Un attore, per
immedesimarsi
perfettamente
nello spirito del personaggio da
rappresentare, deve indossarne il
costume. Io sono fatto così: mi
perdoni se le parlo con minor
serietà di quanta ne richiederebbe
l'argomento: non crede che se
quella sottana non la costringesse
a tenere un passo grave e
dignitoso, lei camminerebbe - che
dico! - correrebbe, salterebbe,
allegro e spigliato come una
volta?... Lo scintillio delle spalline,
che le stavano tanto bene sulle
spalle, rifletterebbe un po'di
ardore giovanile sulle sue guance
smorte... e il tintinnio degli
speroni suonerebbe come una
musica deliziosa alle orecchie del
suo focoso cavallo, che le verrebbe
incontro nitrendo e ballonzolando
dalla gioia e piegherebbe il collo
davanti al caro padrone. Animo,
barone!... Basta con i pensieri
tenebrosi: non le si confanno!...
Vogliamo dire a Federico di andare
a tirarle fuori l'uniforme?...
Il vecchio si alzò e fece per
proseguire la passeggiata, ma il
ragazzo gli cadde fra le braccia
esclamando con voce spenta: - Ah,
lei mi mette alla tortura,
Rinaldo!... Mi tormenta in modo
indicibile!... Ma quanto più si
sforza per rimettere in vibrazione
le corde, un tempo armoniose,
dell'animo mio, tanto più sento di
essere stato afferrato, schiacciato
dal ferreo pugno del destino. Sono
come un liuto rotto: non posso più
emettere se non suoni stonati.
- Così le sembra, caro barone, lo interruppe il vecchio. - Lei si
dice
vittima
d'un
destino
mostruoso, ma in che cosa
consista tale destino non lo
precisa. Comunque sia: un
giovane come lei, armato di
volontà,
di
entusiasmo,
di
coraggio, dev'essere in grado di
difendersi dal pugno ferreo di
qualsiasi destino. Sì: deve sapersi
innalzare al disopra di esso,
risvegliare, accendere in sé il
soffio della propria natura divina,
superare le pene di questa nostra
misera vita!... Non saprei, barone,
quale destino potrebbe distruggere
una simile forza di volontà -.
Ermogene fece un passo indietro e
fissando il vecchio con uno
sguardo
torvo,
pieno
d'ira
repressa, esclamò con voce
soffocata: - E allora sappilo: il
destino che mi distrugge sono io
stesso!... Su di me pesa un
mostruoso delitto, un obbrobrioso
misfatto; ed io lo devo espiare
nella miseria e nella disperazione.
Perciò abbi pietà di me e scongiura
mio padre di lasciarmi entrare in
convento! - Barone! - esclamò il
vecchio. - Lei parla così perché ha
l'animo sconvolto. Lei non deve,
non può assolutamente andar via.
Uno di questi giorni arriverà la
baronessa con Aurelia: e lei deve
vederle!
La perfida risata sprezzante del
giovane mi rintronò le orecchie. Ah, devo?... Devo restare?... Sì,
vecchio, hai proprio ragione... Così
la mia espiazione sarà ancor più
crudele che non fra le tetre mura
d'un convento!... - E corse via. Il
vecchio rimase col capo fra le
mani, abbandonandosi tutto al
proprio dolore. Allora mi feci
avanti e salutai: - Sia lodato Gesù
Cristo! - L'altro sobbalzò e mi
guardò stupito; ma subito ebbi la
sensazione che la mia figura gli
ricordasse qualcosa di noto.
Rimase un istante perplesso e poi
disse: - Ah... Lei è certamente il
reverendo di cui la signora
baronessa ci aveva annunziato
l'arrivo! Lei è venuto per recar
conforto
a
questa
famiglia
piombata nel lutto, non è vero?
Assentii. Rinaldo riprese subito
il tono gioviale che evidentemente
gli
era
proprio.
Insieme
attraversammo il bel parco e
giungemmo in un boschetto
vicinissimo al castello; di fronte ad
esso si apriva una stupenda vista
sulle montagne. Dal portale del
castello
stava
uscendo
un
domestico; al richiamo di Rinaldo
accorse e poco dopo ci venne
servita una sontuosa colazione.
Mentre toccavamo i bicchieri
mi parve che Rinaldo mi
osservasse
ancor
più
attentamente, come se facesse
fatica a rinfrescare un ricordo
semicancellato.
Dio
mio,
reverendo!... - sbottò tutt'a un
tratto. - Se non sbaglio di grosso
lei è padre Medardo, del convento
dei cappuccini a -r!... Ma com'è
possibile?... Eppure è proprio lei,
non c'è dubbio... Parli dunque! Queste parole mi fecero sussultare
come un fulmine a ciel sereno. Mi
vidi
smascherato,
scoperto,
accusato
di
assassinio.
La
disperazione mi diede forza: si
trattava di vita o di morte. - Certo,
- risposi, - sono padre Medardo e
vengo dal convento dei cappuccini
di -r! Sto andando a Roma per
incarico dei miei superiori, munito
di pieni poteri -. Dissi questo con
tutta
la
tranquillità
e
la
disinvoltura che fui capace di
simulare. - Allora è capitato qui
per caso?... - disse Rinaldo. - Forse
ha sbagliato strada... Ma come mai
la signora baronessa la conosceva
e l'ha mandata qui?
Ripetendo ciecamente, senza
pensarci su, ciò che una
misteriosa voce interiore pareva
suggerirmi, risposi: - In viaggio
feci conoscenza col confessore
della baronessa, ed egli mi affidò
questo incarico. - Sì, è vero! esclamò Rinaldo. - La signora
baronessa ha scritto proprio così.
Benone: sia ringraziato il cielo che
l'ha condotta qui per la salvezza di
questa famiglia! È una fortuna che
un uomo intelligente e pio come
lei abbia accettato di interrompere
il suo viaggio per venire a portarci
un po'di bene. Alcuni anni fa,
trovandomi per caso a --r ebbi
occasione di ascoltar le sue
prediche
commoventissime,
ispirate veramente da divino
entusiasmo. La sua profonda
religiosità, la sua autentica
vocazione alla salvezza delle
anime perdute, le sue doti
oratorie, frutto di convinzione
ardente, confido riusciranno a fare
quanto noi tutti insieme non
abbiamo saputo. Ho piacere di
averla incontrata prima che lei
parlasse col barone. Ne approfitto
per metterla a conoscenza della
situazione familiare. Sarò sincero
con lei, reverendo: è il meno ch'io
possa fare con un sant'uomo
mandato - si direbbe - dal cielo a
portarci conforto. Affinché lei
possa agire efficacemente e nella
direzione giusta, dovrò farle cenno
anche ad alcune cose che
preferirei tacere. Comunque, non
dovrò spendere troppe parole. Io
crebbi insieme al barone. La
nostra affinità spirituale ci rese
fratelli e annullò le barriere di
casta che, in altre circostanze, la
differenza delle nostre nascite
avrebbe eretto fra noi. Io non lo
lasciavo mai; appena terminati gli
studi accademici, quando, alla
morte del padre, egli prese
possesso dei suoi beni qui, in
montagna, io divenni il suo
intendente. Rimanemmo legati da
amicizia strettissima, fraterna, e
appunto come a un fratello egli mi
confidò sempre anche gli affari più
segreti della propria casa. Suo
padre aveva sempre desiderato
ch'egli sposasse la discendente
d'una famiglia amica; e il giovane
barone fu tanto più felice di
esaudire la volontà paterna
quando vide la sposa prescelta e
ne rimase incantato, perché era
una creatura meravigliosa, dotata
di tutti i più bei doni di natura.
Raramente il volere d'un padre
s'era così bene accordato con il
destino: i due giovani sembravano
fatti l'uno per l'altra, sotto ogni
rapporto. Ermogene e Aurelia
furono i frutti della loro felice
unione. Il più delle volte
svernavano nella capitale; ma
dopo la nascita di Aurelia la
baronessa incominciò a deperire;
le sue condizioni di salute
richiedevano
la
continua
assistenza di medici valenti e
allora
fummo
costretti
a
trascorrere in città anche l'estate.
Verso la primavera, quando già un
apparente miglioramento ci aveva
colmati di rosee speranze, la
signora si spense. Ritornammo
subito qui, e soltanto il tempo
poté lenire il mortale cordoglio del
barone. Ermogene cresceva e si
faceva un magnifico ragazzo;
Aurelia diventava sempre più
rassomigliante a sua madre;
l'educazione dei due giovani era la
nostra cura, la nostra gioia
quotidiana. Poiché Ermogene
mostrava una decisa tendenza alla
vita militare, il barone fu costretto
a mandarlo nella capitale ad
iniziare il tirocinio delle armi sotto
la sorveglianza del governatore,
suo vecchio amico. Soltanto tre
anni fa il barone, con Aurelia e con
me, trascorse di nuovo l'inverno
nella capitale, come ai vecchi
tempi, sia per aver vicino il figlio,
almeno di tanto in tanto, sia per
rivedere alcuni amici i quali non
avevano mai smesso di insistere
che si decidesse a ritornare. In
quel periodo suscitava grande
interesse nella capitale la nipote
del governatore, giunta da poco.
Orfana, si era posta sotto la
protezione dello zio ma viveva per
conto proprio, in un'apposita ala
del palazzo, e radunava intorno a
sé il bel mondo. Senza dilungarmi
a descrivere Eufemia (cosa
d'altronde inutile, dal momento
che presto potrà vederla lei stesso,
reverendo), mi limiterò a dirle che
ravvivava d'una grazia indicibile
qualsiasi cosa facesse o dicesse,
accrescendo così, fino a renderlo
irresistibile, il fascino della
propria
eccezionale
bellezza.
Dovunque si mostrasse creava
intorno a sé un'animazione
meravigliosa; e tutti le rendevano
entusiastico omaggio. Sapeva
accendere
una
scintilla
di
personalità anche negli individui
più opachi e insignificanti; come
per virtù d'ispirazione, costoro si
innalzavano al disopra della
propria mediocrità, beandosi nella
gioia fin là sconosciuta d'una vita
meno banale. Naturalmente non
le mancavano gli adoratori, i quali
ogni giorno la supplicavano come
una dea. Ma non si poteva dire con
certezza che avesse qualche
preferenza: riusciva a tenerli tutti
legati a sé con la droga stimolante
d'una ironia birichina - ma non
mai offensiva; e gli adoratori si
rigiravano incantati, allegri, felici,
entro il suo cerchio magico. Sul
giovane barone quella Circe
produsse
un'impressione
straordinaria; appena lo vide gli
dimostrò
un'attenzione
particolare, dettata, si sarebbe
detto, da una specie di timida
ammirazione infantile. Parlando
con lui rivelò una profondità
d'intelligenza, di cultura, di
sentimenti rara a trovarsi in una
donna. Con delicatissimo tatto
seppe conquistarsi l'amicizia di
Aurelia e prese a proteggerla con
un
calore
quasi
materno,
giungendo ad occuparsi perfino
dei minimi dettagli del suo
vestiario.
Aurelia
era
una
ragazzina ingenua ed inesperta;
Eufemia seppe introdurla negli
ambienti
più
brillanti
ed
appoggiarla in modo così discreto
ed efficace da valorizzarne la
naturale intelligenza, la sensibilità
retta e profonda, mettendola in
grado di distinguersi e di
acquistarsi
la
più
alta
considerazione di tutti. Il barone
in ogni circostanza cantava le lodi
di Eufemia; e su questo punto,
forse per la prima volta in vita
nostra, avvenne che non ci
trovassimo d'accordo. Di solito,
quand'ero in società, io non
partecipavo ai trattenimenti, alle
conversazioni, limitandomi alla
parte dell'osservatore silenzioso.
Avevo quindi osservato molto
attentamente anche Eufemia,
persona interessantissima, la
quale, fedele alla sua abitudine di
non trascurare nessuno, di quando
in quando scambiava alcune
parole gentili perfino con me. Era
indubbiamente la più bella, la più
affascinante delle donne, tutto ciò
che diceva rivelava intelligenza e
sensibilità, dovevo ammetterlo.
Eppure c'era qualcosa in lei che
inspiegabilmente mi respingeva; e
se appena gettava lo sguardo su di
me o incominciava a parlarmi non
riuscivo
a
reprimere
un'indefinibile
sensazione
d'inquietudine e di disagio. Spesso
gli occhi le brillavano d'una luce
strana; e, quando si credeva
inosservata,
quegli
occhi
lanciavano scintille, come se
celassero un fuoco pericoloso,
represso ma pronto a divampare.
Inoltre intorno alla sua bocca
morbida e ben disegnata aleggiava
una odiosa espressione ironica;
indizio
talmente
chiaro
di
sprezzante malanimo da farmi
rabbrividire. In tal modo essa, il
più
delle
volte,
guardava
Ermogene, il quale poco o nulla si
occupava di lei. Ciò mi diede la
certezza che dietro la bella
maschera si celasse qualcosa di
assolutamente insospettato. Alle
sperticate lodi del barone io non
potevo ribattere se non con le mie
osservazioni fisiognomiche di cui,
egli, peraltro, non teneva alcun
conto perché in quella mia
inspiegabile avversione vedeva
unicamente una singolarissima
idiosincrasia. In seguito ad una
lunga
e
seria
discussione
sull'argomento, dopo ch'io ebbi
tentato di giustificare con ogni
possibile motivo il mio giudizio su
quella fanciulla, il barone mi
confidò
che
probabilmente
Eufemia sarebbe entrata a far
parte della famiglia poiché egli si
sarebbe adoperato in ogni modo
per darla in moglie ad Ermogene.
Abituato com'era a trattare tutti gli
affari alla svelta e apertamente,
come vide entrare il figlio lo mise
senz'altro al corrente dei suoi
desideri e dei suoi progetti.
Ermogene
ascoltò
senza
scomporsi
l'entusiastico
panegirico del padre ma poi
rispose
di
non
sentirsi
assolutamente
attratto
da
Eufemia, di essere certo di non
poterla amare mai; e pregò il
padre di rinunziare a qualsiasi
progetto matrimoniale del genere.
Il barone rimase piuttosto male
nel veder naufragare il suo bel
piano alla prima mossa; ma non si
curò d'insistere, anche perché non
conosceva
neppure
ancora
l'opinione di Eufemia in proposito.
Bonario e allegro di natura, si
mise, anzi, a scherzare sulla
futilità dei propri sforzi. Forse
Ermogene, - disse, - condivideva la
mia stessa idiosincrasia; però non
capiva come una donna così bella
ed interessante potesse recare in
sé un qualcosa di tanto repellente.
- I suoi rapporti con Eufemia
rimasero naturalmente immutati;
egli si era talmente abituato a lei
da non poter più fare a meno di
vederla ogni giorno. E così, in un
momento di buon umore, gli
avvenne di dirle scherzando che
nel loro ambiente un solo uomo
non s'era innamorato di lei:
Ermogene!... Egli, come padre,
aveva tanto sperato in un possibile
matrimonio, ma Ermogene aveva
recisamente
respinto
tale
proposta.
- Un certo peso avrebbe dovuto
averlo anche la sua opinione, in
proposito, - osservò Eufemia. - Sì,
avrebbe
molto
gradito
di
imparentarsi con la famiglia del
barone,
ma
non
sposando
Ermogene, perché le pareva
troppo serio e lunatico. Dopo
questo
colloquio
(riferitomi
immediatamente
dall'amico)
Eufemia raddoppiò le attenzioni
per il barone, e con allusioni
delicate giunse a fargli intendere
che - dovendo pensare a un
matrimonio - il suo ideale sarebbe
stato quello di sposare «lui
stesso». E seppe controbattere con
tanta efficacia tutte le possibili
obiezioni negative (differenza
d'età o che so io), e condurre
avanti la cosa con tanta gradualità,
abilità e finezza, passo dopo passo,
da indurre il barone a credere
proprie le idee e le aspirazioni
suggeritegli da lei. Egli era un
uomo dal temperamento troppo
vigoroso ed esuberante per non
innamorarsene
perdutamente,
come un ragazzino. Cercai di
interpormi,
di
frenare
quell'impeto passionale - ma era
già troppo tardi. Non passò molto
tempo. Con immenso stupore di
tutta la capitale, Eufemia divenne
moglie del barone. Fu per me
come se un essere minaccioso e
terribile, che già mi aveva
spaventato di lontano, fosse
entrato nella mia vita; e da quel
momento ebbi l'impressione di
dover vegliare con la massima
attenzione per difendere l'amico e
me stesso. Ermogene prese il
matrimonio del padre con fredda
indifferenza. Aurelia - cara,
presaga bimba! - si sciolse in
lacrime.
- Poco dopo le nozze, Eufemia
manifestò il desiderio di ritornare
in montagna. Giunse qui e, devo
riconoscerlo, si mantenne così
fedele a se stessa e continuò a
portarsi con tanta amabilità da
costringermi, mio malgrado, ad
ammirarla. Ci godemmo due anni
di vita tranquilla e indisturbata;
trascorremmo entrambi gli inverni
nella capitale, e anche là la
baronessa dimostrò un rispetto
così incondizionato per il marito,
tanta attenzione per ogni suo
anche minimo desiderio, che
l'invidia velenosa dovette tacere;
nessuno dei giovani signori i quali
s'erano illusi di trovare presso di
lei libero campo per le loro
galanterie si permise la benché
minima libertà. L'inverno scorso,
ripreso dall'antica e mai del tutto
superata idiosincrasia, io fui forse
l'unico che incominciasse a
nutrire un tremendo sospetto.
Uno dei più assidui adoratori di
Eufemia, prima del matrimonio,
era stato il conte Vittorino, un bel
giovane, maggiore della guardia
d'onore; risiedeva saltuariamente
nella capitale, ed era forse l'unico
a cui lei, in certi momenti, avesse
dimostrato
una
qualche
predilezione. Si era giunti perfino
a mormorare che fra i due ci fosse
qualcosa di più di quanto non
sembrasse, ma la voce morì quasi
sul
nascere.
Quando
vi
giungemmo noi per svernarvi, il
conte Vittorino era nella capitale e
frequentava,
naturalmente,
l'ambiente di Eufemia; ma pareva
non occuparsi affatto di lei, anzi,
ostentava di volerla evitare. Una
sera il governatore diede un
grande ricevimento. Io m'ero
incantonato nel vano d'una
finestra e me ne stavo là,
seminascosto
dall'abbondante
tendaggio; il conte Vittorino era a
due o tre passi da me. Ad un tratto
Eufemia, radiosa di bellezza,
vestita in modo addirittura
incantevole, gli passò accanto,
quasi sfiorandolo; egli, con uno
scatto appassionato la afferrò per
un braccio (... io solo potevo
vederli...) - lei sussultò e gli lanciò
uno sguardo indescrivibile, pieno
di
ardentissimo
amore,
di
voluttuosa sete di piacere; egli le
sussurrò alcune parole che non
compresi; ma senza dubbio
Eufemia mi vide, si volse in fretta
e disse molto chiaramente:
«Siamo osservati!» - Lo stupore,
lo sgomento, il dolore, mi
lasciarono di sasso... Ah, come
potrei descriverle ciò che provai,
reverendo! Pensi al mio affetto,
alla mia devota fedeltà per il
barone... all'avverarsi dei miei
tristi
presentimenti...
Quelle
poche parole mi avevano rivelato
l'esistenza di una segreta intesa
fra la baronessa ed il conte... Per il
momento dovevo tacere, ma la
baronessa avrei continuato ad
osservarla con occhi d'Argo e,
acquisita
la
certezza
del
tradimento, avrei spezzato il
vergognoso legame con cui essa
aveva avvinto il mio sventurato
amico. Ma chi può aver ragione
dell'astuzia satanica?... Tutti i miei
sforzi furono vani. Riferire al
barone quanto avevo visto e udito
sarebbe stato ridicolo perché la
scaltrissima
donna
avrebbe
trovato
mille
scappatoie,
riuscendo a farmi passare per un
povero folle visionario.
- Quando giungemmo qui, la
primavera scorsa, c'era ancora la
neve
sulle
montagne,
ciò
nonostante io talvolta facevo
qualche breve escursione; un
giorno, nel villaggio qui vicino,
incontrai
un
contadino
dall'atteggiamento, dall'andatura
piuttosto insolita; quando volse la
testa verso di me lo riconobbi: era
il
conte
Vittorino;
ma
immediatamente
scomparve
dietro le case e non ci fu più modo
di rintracciarlo. A che cos'altro gli
sarebbe potuto servire quel
travestimento se non alla tresca
con la baronessa?... E adesso so di
sicuro che è di nuovo qui: ho visto
passare
a
cavallo
il
suo
guardiacaccia, però non riesco a
capire perché non sia andato a
cercare la baronessa in città! Tre
mesi fa il governatore si ammalò
gravemente e chiese di vedere
Eufemia; essa partì subito con
Aurelia
e
soltanto
un
contrattempo impedì al barone di
accompagnarla. Poco dopo, la
sciagura ed il lutto piombarono
sulla nostra casa. Eufemia scrisse
al barone che Ermogene era stato
colto da una forma di malinconia
spesso sconfinante nella follia
frenetica; se ne andava in giro
tutto solo, maledicendo se stesso e
la propria sorte; i medici, gli amici
avevano fatto il possibile per
ricondurlo alla ragione, ma tutto
era stato inutile. Può immaginare,
reverendo,
come
rimase
impressionato il barone a questa
notizia; vedere suo figlio in simili
condizioni sarebbe stato un colpo
troppo duro per lui, perciò io partii
per la città. Le energiche cure
avevano, quanto meno, stroncato
le crisi violente, ma il giovane era
caduto in una forma di malinconia
taciturna, a giudizio dei medici,
inguaribile.
Vedendomi
si
commosse moltissimo; mi disse
che uno sventurato destino lo
costringeva a rinunziare per
sempre alla carriera prescelta;
soltanto
facendosi
monaco
avrebbe potuto salvarsi dall'eterna
dannazione. Lo trovai già vestito
come l'ha visto lei poco fa,
reverendo e, vincendo le sue
riluttanze, riuscii finalmente a
ricondurlo qui. Ora è tranquillo,
ma non desiste dalla propria
decisione. Se si riuscisse a scoprire
la causa che l'ha ridotto in questo
stato si potrebbe forse ricorrere a
mezzi efficaci per guarirlo; ma
tutti gli sforzi per carpirgli il suo
segreto sono risultati vani.
- Qualche tempo fa la
baronessa ci scrisse che, su
consiglio del proprio confessore,
avrebbe mandato qui un frate la
cui vicinanza, le cui parole di
esortazione
e
di
conforto
sarebbero forse valse meglio di
qualsiasi altra cura, avendo lo
squilibrio di Ermogene preso una
piega evidentemente religiosa. Mi
rallegro di gran cuore, reverendo,
che un caso fortunato l'abbia
condotto in città e la scelta sia
caduta su di lei. Lei potrà
restituire la pace a una famiglia
afflitta dalla sventura agendo in
due direzioni diverse: cerchi di
scoprire il terribile segreto di
Ermogene; se egli le aprirà il
proprio animo, sia pure in
confessione,
già
si
sentirà
sollevato; e la chiesa, anziché
seppellirlo fra le mura di un
chiostro, lo restituirà alla gaia vita
del mondo cui appartiene. Ma
cerchi anche di avvicinare la
baronessa. Lei ormai sa tutto,
reverendo; converrà con me che,
se pure le mie osservazioni non
sono sufficienti a costituire un
solido atto di accusa, la possibilità
che si tratti d'un errore, d'un
sospetto ingiusto, è quasi da
escludersi. Vedendo e conoscendo
Eufemia lei verrà a condividere
pienamente il mio punto di vista.
Eufemia
è
religiosa
per
temperamento;
forse,
lei
reverendo, col suo straordinario
dono di parola, riuscirà a toccarle
il cuore, a commuoverla, a
migliorarla, a farla desistere dal
tradimento con cui rischia di
dannarsi l'anima. Una cosa ancora,
reverendo: in certi momenti mi
sembra che il barone si porti in
cuore un cruccio di cui mi tace la
causa;
non
soltanto
la
preoccupazione per Ermogene ma
anche qualche altro pensiero lo
perseguita... Mi è venuto in mente
che un caso malaugurato possa
avergli
svelato
ancor
più
chiaramente che a me l'infame
tresca della moglie con quel
maledetto conte. Anche il barone,
l'amico
diletto,
raccomando
dunque alle sue cure spirituali,
reverendo... Possa Iddio benedire
l'opera sua!
Così Rinaldo terminò il suo
racconto.
Ascoltandolo
avevo
sofferto le pene dell'inferno
perché un tumulto di sentimenti
contraddittori si era scatenato in
me. Per il gioco crudele di un caso
capriccioso, il mio «io», confuso
con una personalità estranea,
vagava alla deriva in balìa degli
eventi imperversanti su di me
come marosi infuriati. Non
riuscivo più a raccapezzarmi!...
Evidentemente il caso aveva
guidato, se non la mia volontà, la
mia mano; e Vittorino era
precipitato nella voragine. Io
avevo preso il suo posto; ma
Rinaldo
conosceva
padre
Medardo,
il
predicatore
cappuccino di --r, e così io ero
ritornato ad essere quello che
ero... Ma, trovandomi anche a far
la parte di Vittorino, la tresca con
la baronessa mi ricadeva tra capo e
collo... Ero colui che sembravo, e
non sembravo colui che ero. In
quella duplice personalità non
riuscivo più a comprendere, a
ritrovare me stesso!
Malgrado il tumulto interiore
riuscii a simulare la calma
confacente ad un ecclesiastico; e
venni condotto al cospetto del
barone.
Trovai
un
uomo
attempato ma nei cui tratti spenti
c'erano ancora tracce di una
vigoria non comune. Non l'età ma
gli affanni gli avevano imbiancato
i capelli e scavato profonde rughe
sulla fronte aperta e spaziosa. Ciò
nonostante, il suo modo di
parlare, di comportarsi, erano
ancora improntati alla serena
giovialità che doveva costituire
una
delle
più
irresistibili
attrattive. Quando Rinaldo mi
presentò
come
la
persona
preannunziata dalla baronessa,
egli mi scrutò con uno sguardo
penetrante; ma la sua espressione
divenne via via più affabile mentre
l'intendente gli riferiva di avermi
sentito predicare, molti anni
addietro,
nel
convento
dei
cappuccini a --r e di essere rimasto
convinto delle mie eccezionali doti
oratorie. Volgendosi all'amico, il
barone mi tese cordialmente la
mano e disse: - Non capisco, caro
Rinaldo... il viso del reverendo, lì
per lì mi ha fatto una strana
impressione... ha risvegliato in me
un vago ricordo che inutilmente
cerco di puntualizzare...
Adesso dirà: «Ah! «È il conte
Vittorino!»
pensai.
Perché,
inverosimile a dirsi, credevo
proprio di esserlo. Il sangue mi
diede un tuffo, poi mi salì
impetuoso
alle
guance,
arrossandomele come fuoco vivo.
Contavo sul fatto di essere stato
riconosciuto da Rinaldo per padre
Medardo,
benché
ciò
mi
sembrasse
menzogna;
nulla
riusciva a dissipare lo stato di
confusione in cui mi dibattevo.
Il barone avrebbe desiderato
ch'io facessi subito conoscenza
con Ermogene; ma Ermogene non
fu possibile rintracciarlo: lo
avevano visto avviarsi verso la
montagna, ma nessuno se ne
preoccupava perché già molte altre
volte era rimasto assente per
intere giornate. Rimasi tutto il
giorno in compagnia di Rinaldo e
del barone e a poco a poco ripresi
piena padronanza di me. La sera
stessa già mi sentivo pieno di
energia
e
di
coraggio,
e
dispostissimo ad affrontare con
audacia
le
rocambolesche
avventure
che
parevano
attendermi. Durante la notte
apersi il portafogli e mi convinsi
senza possibilità di dubbio che
l'uomo sfracellatosi nel precipizio
era proprio il conte Vittorino; ma
le lettere indirizzate a lui erano del
tutto insignificanti e non ne trassi
la benché minima informazione
sulle circostanze della sua vita.
Non volli pensarci più e decisi di
attendere l'arrivo della baronessa
abbandonandomi completamente
al
caso.
Essa
giunse
inaspettatamente la mattina dopo,
con Aurelia. Le vidi scendere dalla
carrozza, accolte dal barone e da
Rinaldo, ed entrare nel portale del
castello. Mi misi a passeggiare
inquieto su e giù per la camera ma
la cosa non durò a lungo perché
mi mandarono a chiamare.
La baronessa - una bella, una
splendida donna nel fior degli anni
- mi venne incontro; vedendomi
parve turbarsi, mi parlò con voce
tremante, come se stentasse a
trovar le parole. Il suo evidente
imbarazzo mi diede coraggio; la
guardai
sfrontatamente
negli
occhi e la benedissi all'uso
monastico. Essa impallidì, dovette
sedersi. Rinaldo mi guardava
sorridendo contento e soddisfatto.
In quel momento la porta si
aperse ed entrò il barone con
Aurelia.
Come vidi quella fanciulla
rimasi folgorato: tutte le mie
segrete inquietudini, i voluttuosi
turbamenti,
le
estasi
di
appassionato amore, tutto ciò,
insomma, che mi fermentava
dentro allo stato di vago presagio,
esplose in me come realtà viva. Sì:
soltanto ora la vita mi si
dischiudeva colorita e radiosa;
dietro di me tutto era freddo,
morto, notte deserta... Era lei... lei,
la meravigliosa visione apparsami
nel confessionale! Lo sguardo
malinconico, infantilmente onesto
degli occhi azzurro scuri, le
morbide labbra, l'alta figura
snella... Non era Aurelia, no! Era
santa Rosalia!... Perfino il costume
- lo scialle celeste gettato sulla
veste rosso scura in un fantastico
gioco di pieghe - era identico a
quello della santa del quadro e
della mia penitente sconosciuta!...
Che cos'era mai la rigogliosa
bellezza della baronessa, rispetto
al celestiale fascino di Aurelia?...
Intorno a me tutto disparve - non
vidi più altro che lei... Il mio
turbamento non poteva sfuggire ai
presenti.
Che
cos'ha,
reverendo?...
Mi
sembra
stranamente turbato! - mi disse il
barone.
Queste
parole
mi
richiamarono alla realtà. Sentii
prorompere in me una forza
sovrumana, un coraggio mai
conosciuto. Ero disposto ad
affrontare qualsiasi cosa: la posta
del gioco era lei!...
- Si rallegri, signor barone! esclamai come improvvisamente
rapito in estasi. - Si rallegri!... Qui
fra noi, in questa casa c'è una
santa!... Il cielo sta per aprirsi
luminoso, e lei stessa, santa
Rosalia, attorniata dagli angeli di
Dio, profonderà conforto e
benedizione sui devoti che la
supplicano con pietà e con fede...
Odo gli inni degli spiriti beati che
anelano a vedere la santa e
scendono dalle nubi radiose,
invocandola col canto... La vedo
ergere il capo sfolgorante di gloria
verso il coro dei santi, visibili
soltanto ai suoi occhi!... Sancta
Rosalia, ora pro nobis!
E caddi in ginocchio a mani
giunte, volgendo gli occhi al cielo.
Nessuno mi domandò nulla:
quell'improvviso
trasporto
di
fervore mistico venne attribuito ad
ispirazione divina, tanto che il
barone decise di far dire alcune
messe sull'altare di santa Rosalia,
nella chiesa maggiore della città.
Salvatomi felicemente in tal
modo dal pericoloso imbarazzo,
ero sempre più deciso ad osare
qualsiasi cosa: pur di conquistare
Aurelia avrei dato anche la vita
senza rimpianto. La baronessa mi
parve in uno stato d'animo
alquanto singolare; mi seguiva con
lo sguardo ma, se appena la
guardavo
senza
mostrare
imbarazzo né turbamento, i suoi
occhi vagavano intorno inquieti.
Quando tutti furono usciti mi
affrettai a scendere in giardino e
mi misi a passeggiare per i viali
dibattendo dentro di me migliaia
di idee, piani, decisioni per la
futura vita al castello. Sul far della
sera apparve Rinaldo e mi disse
che la baronessa, commossa dal
mio religioso fervore, desiderava
parlarmi.
Entrai nella sua camera ed essa
mi venne incontro, mi prese per le
braccia, mi scrutò a lungo negli
occhi e finalmente esclamò: - È
possibile... è possibile?... Tu
saresti Medardo, il cappuccino?...
Eppure... la voce, la figura... gli
occhi, i capelli... Parla!... Non
farmi morire nell'angoscia e nel
dubbio... - Vittorino! - sussurrai.
Allora lei mi abbracciò con
sfrenato, voluttuoso furore. Un
fiotto di fuoco mi irruppe nelle
vene, il sangue mi andò in
ebollizione, i sensi svanirono in
una delizia senza nome, in
un'ebbrezza folle. Ma mentre
peccavo tutti i miei pensieri erano
rivolti unicamente ad Aurelia;
infrangendo il voto, a lei sola
sacrificavo la salvezza dell'anima
mia.
Sì!... Soltanto Aurelia viveva in
me, la mia mente era tutta piena
di lei. Ma al pensiero di rivederla
rabbrividivo, e ciò doveva accadere
la sera stessa, a cena. Mi pareva
che il suo sguardo innocente
dovesse accusarmi di peccato
mortale...
già
mi
vedevo
smascherato,
annientato,
precipitato nella rovina e nell'onta.
D'altronde, dopo quanto era
accaduto, non sapevo neppure
decidermi a rivedere la baronessa;
e tutto ciò mi indusse a rimanere
in camera, quando mi chiamarono
a cena, adducendo il pretesto d'un
esercizio di pietà. Ma pochi giorni
mi bastarono a vincere ogni
imbarazzo o timidezza.
La baronessa era l'amabilità in
persona; e quanto più intimi si
facevano i nostri rapporti, e
intensi di peccaminosi piaceri,
tanto più essa si mostrava
premurosa e piena di attenzioni
verso il barone. Mi confessò che
erano stati la mia tonsura, la mia
barba autentica, il mio modo di
camminare perfettamente fratesco
(ora però non lo osservavo più con
lo stesso scrupolo...) a metterla in
apprensione. Sentendomi invocare
con tanto fervore santa Rosalia, si
era quasi convinta che un errore,
una combinazione sventurata,
avessero
sventato
il
piano
minuziosamente
studiato
da
Vittorino e da lei, ponendole a
fianco un cappuccino autentico.
Ammirò tutte le precauzioni da
me prese: facendomi tonsurare e
crescere la barba per davvero,
studiando
scrupolosamente
l'andatura, gli atteggiamenti dei
frati, ero entrato così bene nella
parte che lei stessa, molte volte,
doveva guardarmi bene negli occhi
per non farsi cogliere da dubbi
sconcertanti.
Di quando in quando il
guardiacaccia di Vittorino si faceva
vedere in fondo al parco, travestito
da campagnolo, ed io non
mancavo mai di andargli a parlare
in segreto, raccomandandogli di
tenersi pronto a fuggire con me,
qualora un caso sfortunato mi
avesse messo in pericolo.
Il barone e Rinaldo parevano
estremamente soddisfatti di me e
insistevano perché mi occupassi,
con tutte le energie disponibili, del
malinconico
Ermogene.
Ma
ancora non mi era stato possibile
scambiar
parola
con
lui.
Evidentemente egli evitava ogni
occasione di trovarsi solo con me,
e quando mi incontrava in
compagnia del padre o di Rinaldo
mi guardava in un modo così
strano ch'io facevo fatica a non
mostrare troppo chiaramente il
mio imbarazzo; sembrava volermi
penetrare nell'anima, spiare i miei
pensieri più reconditi. Se appena
mi vedeva, quel suo viso pallido
assumeva
un'espressione
di
malumore incoercibile, d'astio, di
collera repressa a stento. Ma una
volta, mentre passeggiavo nel
parco,
inaspettatamente
mi
avvenne di vedermelo venire
incontro. Credetti finalmente
giunto il momento di chiarire i
nostri opprimenti rapporti. Egli
cercò di evitarmi, ma io fui pronto
a prenderlo per mano e, grazie alla
mia naturale eloquenza, seppi
parlargli in modo così patetico e
convincente ch'egli dapprima si
fece attento e poi non riuscì a
reprimere
la
commozione.
C'eravamo messi a sedere su una
panca di pietra in fondo al parco.
Parlando mi infervorai; gli dissi
ch'era
colpevole
rodersi
in
silenzio, coltivare un cruccio
tormentoso e rifiutare il conforto,
l'aiuto della Chiesa, consolatrice
degli afflitti, opporsi con animo
ribelle alle finalità della vita
assegnate
dall'onnipotente.
Neppure il peggior criminale
doveva dubitare della misericordia
divina, perché appunto il dubbio lo
privava
dell'eterna
salvezza,
sempre acquistabile, invece, col
pentimento, la pietà, la penitenza.
Lo esortai infine a confessarsi, ad
aprirmi l'animo come dinanzi a
Dio: lo avrei assolto da qualsiasi
peccato.
Allora egli balzò in piedi,
corrugò le sopracciglia, un ardente
rossore gli ravvivò il pallor
cadaverico delle guance. - Sei forse
senza peccato, tu? - esclamò con
strana voce stridente. - Tu, che
pretendi di guardare nella mia
coscienza, come se fossi il più
puro degli uomini?... Come se
fossi quell'Iddio stesso di cui ti fai
beffa?... Tu, che osi offrirmi
l'assoluzione dai peccati e ti dibatti
inutilmente per espiare le tue
colpe e conquistarti il paradiso che
ti sei precluso per sempre?...
Miserabile ipocrita! La resa dei
conti è vicina: morirai di morte
ignominiosa, pazzo e disperato,
torcendoti nella polvere come un
verme, invocando inutilmente
aiuto e sollievo ai tuoi inenarrabili
tormenti! - E se ne andò in fretta.
Io rimasi annichilito, affranto...
Tutta la padronanza di me, tutto il
coraggio se n'erano andati. Vidi
uscir dal castello Eufemia vestita
come per una passeggiata, con
scialle e cappello: soltanto da lei
potevo sperare aiuto e conforto. Le
corsi incontro; mi vide talmente
sconvolto che mi domandò
spaventata che cosa mi fosse
accaduto. Le riferii parola per
parola la scena di poc'anzi; forse soggiunsi preoccupato - un caso
inspiegabile aveva rivelato il
nostro segreto al folle Ermogene...
Eufemia non si mostrò molto
scossa: - Inoltriamoci nel parco, mi disse con uno strano sorriso
che mi fece rabbrividire. - Qui
siamo troppo osservati, e si
potrebbe trovare strano che il
reverendo padre Medardo mi parli
accalorandosi tanto -. Appena
fummo in un boschetto molto
solitario, Eufemia mi abbracciò
con impeto appassionato. Sentii
posarsi sulle mie labbra i suoi baci
ardenti. - Stà tranquillo, Vittorino,
- mi disse, - non hai alcun motivo
di apprensione. Ho quasi piacere
che con Ermogene sia andata così
perché ora posso parlarti di alcune
cose che per troppo tempo ti ho
taciute. Devi riconoscere ch'io ho
sempre saputo impormi, in tutti
gli ambienti, con la mia indiscussa
superiorità intellettuale. Ciò riesce
più facile a una donna che a voi,
sempreché la donna in questione
possieda, oltre alle indefinibili e
irresistibili
attrattive
fisiche
naturali della femminilità, una
facoltà superiore capace di fondere
il fascino fisico con l'intelligenza e
dominarlo a proprio piacere. Ciò
significa saper uscire da se stessi,
saper
osservare
la
propria
personalità da un altro punto di
vista e vederla come un mezzo
duttile al comando d'un volere
superiore per conseguire quella
che ci si è posta a suprema finalità
della vita... Ed esiste una finalità
più alta che dominare la vita?...
Dominarne, come per virtù di un
incantesimo potente, tutti i
fenomeni, tutta la immensa
dovizia di piaceri?... Tu, Vittorino,
sei sempre stato uno dei pochi che
mi hanno compresa fino in fondo;
per questo non ho sdegnato di
innalzarti fino a me, porti sul
trono, come sovrano consorte, nel
mio regno superiore. Il segreto ha
accresciuto il fascino della nostra
intesa; l'apparente separazione è
valsa soltanto a dar più ampio
campo al nostro capriccio, al
nostro divertente gioco con le
piccole
banalità
della
vita
quotidiana. Il fatto di trovarci
insieme, adesso, qui, non è forse
un capolavoro di audacia?... La
beffa più solenne che un intelletto
superiore
potesse
giocare
all'impotenza delle piccole menti
limitate
dai
pregiudizi
convenzionali?... Perfino nella tua
figura irriconoscibile - e non
soltanto a motivo dell'abito - mi
sembra di scorgere l'intelligenza
sottomessa al suo elemento
dominante
e
condizionante,
l'intelligenza capace di agire con
così miracolosa efficacia anche
sulle cose materiali, da imporre
perfino alla persona fisica la forma
più atta allo scopo prefisso. Tu
conosci il mio carattere, il mio
modo di vedere le cose; sai come
cordialmente
disprezzi
le
limitazioni
convenzionali
di
qualsiasi genere. Il barone era per
me uno strumento, di cui ora sono
stufa fino alla nausea perché
ormai ha servito allo scopo ed è
diventato inutile, morto, come un
meccanismo logoro. Rinaldo è
troppo limitato perché io mi curi
di lui; Aurelia è soltanto una
buona bambina. Abbiamo a che
fare unicamente con Ermogene.
Come già ti ho confessato, la
prima volta che lo vidi mi fece
un'impressione straordinaria; lo
credetti capace di partecipare alla
vita superiore cui avrei voluto
iniziarlo. Ma, per la prima volta,
ho sbagliato. C'era in lui qualcosa
di ostile, qualcosa che si rivoltava
contro di me, in perenne
contraddizione. Il fascino con cui,
anche senza volerlo, conquistavo
tutti gli altri, lo respingeva; era
freddo, cupo, chiuso; la sua
eccezionale capacità di resistenza
stimolò in me il desiderio di
iniziare la lotta in cui egli avrebbe
dovuto soccombere. Decisi di
battermi quando il barone mi
disse
che
Ermogene
aveva
respinto senza condizioni la sua
proposta di prendermi in moglie.
Fu allora che balenò in me, come
una scintilla divina, l'idea di
sposare il barone stesso e
liberarmi così dei meschini
riguardi convenzionali che spesso
inceppavano
in
modo
insopportabile ogni mia iniziativa.
Ma di questo matrimonio, caro
Vittorino, ti ho già parlato anche
troppo: ho contraddetto ai tuoi
dubbi con i fatti e in pochi giorni
sono riuscita a ridurre il vecchio
allo stato del languido spasimante
incretinito. L'ho costretto a vedere
nella mia volontà l'appagamento
del suo più fervido desiderio, d'un
desiderio che forse non avrebbe
mai osato neppure esprimere. Ma
in fondo al cuore accarezzavo
ancora l'idea della vendetta:
vendicarmi di Ermogene, in quella
situazione, mi sarebbe riuscito più
facile e mi avrebbe dato maggiore
soddisfazione. Attesi a colpire per
portare un colpo preciso e
mortale. Se non ti conoscessi
come ti conosco, se non ti sapessi
capace di elevarti al mio livello e
vedere le cose dall'alto, come le
vedo io, avrei qualche perplessità a
parlarti del fatto, ormai accaduto.
Mi sforzai di comprendere la vera
interiorità di Ermogene. In città
mi mostrai tetra, pensierosa, in
netto contrasto con lui, sempre
allegro, sempre alle prese con le
movimentate occupazioni del
servizio militare. La malattia di
mio zio mi vietava di frequentare
gli ambienti, i ritrovi brillanti ed io
cercavo di evitare anche le visite
delle
persone
più
intime.
Ermogene venne da me forse
soltanto per un doveroso riguardo
filiale, mi trovò immersa in cupe
meditazioni; il grande mutamento
avvenuto in me lo colpì e me ne
chiese la causa con insistenza. Gli
risposi fra le lacrime che lo stato
di
salute
del
barone
era
preoccupante; egli cercava di non
darlo a vedere ma io temevo per
lui, temevo di perderlo, e questo
pensiero mi era insopportabile, mi
terrorizzava
addirittura.
Fingendomi
estremamente
commossa gli descrissi la mia
felicità coniugale, mi soffermai
con speciale tenerezza sui piccoli
particolari della nostra vita in
campagna, misi bene in risalto la
personalità, l'animo mirabile del
barone. Ermogene ne rimase
scosso; e la sua meraviglia, il suo
stupore crebbero nel constatare la
mia totale dedizione, la mia
sconfinata venerazione per mio
marito. Evidentemente lottava con
se stesso; ma la mia forza, la mia
personalità stessa gli erano
entrate nell'animo e avevano vinto
quella sorda ostilità; egli, ora, non
mi resisteva più. Quando lo vidi
ritornare la sera dopo fui certa del
mio trionfo.
- Mi trovò sola, ancor più triste
ed agitata di quanto non lo fossi il
giorno prima; di nuovo gli parlai
del barone e del mio indicibile
desiderio di rivederlo. Poco dopo
Ermogene non era più lo stesso,
non distoglieva gli occhi dai miei,
e dai miei occhi un fuoco
pericoloso entrò in lui e fece
divampare l'incendio. Lo sentivo
sospirare, sentivo la sua mano
contrarsi
spasmodicamente
stringendo la mia... Avevo ben
calcolato
l'apice
della
sua
incontrollata eccitazione; allora
non disdegnai neppure più di
ricorrere ai soliti artifici, abusati e
logori ma pur sempre nuovi ed
efficaci. E vinsi. Le conseguenze
furono più tremende del previsto
ma resero ancor più splendido il
mio trionfo e dimostrarono
luminosamente quanto grande
fosse la mia potenza: vincendo la
sua resistenza ostile (dovuta forse
soltanto
a
qualche
strano
presagio) lo avevo spezzato. Come
sai, egli è stato colto da una forma
di pazzia di cui forse finora
ignoravi la vera causa. È curioso: i
pazzi sembrano essere in più
stretto contatto con lo Spirito;
sono più ricettivi, quantunque
inconsciamente, dei pensieri e
degli stati d'animo altrui; vedono
le cose nascoste in noi e le
riecheggiano, le ripetono in un
modo singolarissimo, dandoci la
sconcertante sensazione di udire
la voce paurosa d'una nostra
seconda personalità. Perciò può
darsi, specialmente dati i rapporti
esistenti fra noi tre, che Ermogene
ti sia tanto avverso per averti
misteriosamente letto nell'animo.
Ma questo per noi non costituisce
il minimo pericolo. Rifletti: anche
se ti si schierasse apertamente
contro e dicesse: «Non fidatevi di
quel finto frate!...» chi non
attribuirebbe una simile sortita
alla sua demenza?... Soprattutto
considerando il fatto che Rinaldo è
stato tanto buono da riconoscerti
per padre Medardo! Tuttavia, ora
tu non dovrai più certamente
influire su Ermogene nel senso
che ti avevo indicato prima. La
mia
vendetta
è
compiuta.
Ermogene ormai è per me come
un giocattolo rotto; non mi serve
più.
Forse
considera
una
penitenza vedermi, mi perseguita
con quei suoi occhi sbarrati di
morto in piedi, mi dà fastidio,
insomma. Deve andarsene di qui.
Ho pensato di servirmi di te per
rafforzare in lui l'idea di entrare in
convento. Dovrai far del tuo
meglio per convincere il barone e
l'amico- consigliere Rinaldo che la
salvezza dell'anima sua dipende da
questa decisione, e indurli ad
accettarla di buon grado. Sì,
Ermogene
mi
è
diventato
insopportabile; vederlo mi turba.
Deve andar via! L'unica persona
che lo vede con occhi diversi è
Aurelia, la buona fanciullina
ingenua; soltanto per mezzo di lei
potrai influire su Ermogene. Farò
in modo che tu la possa
avvicinare.
Se
ne
avrai
l'opportunità
farai
bene
a
confidare a Rinaldo o al barone
che Ermogene ti ha confessato un
grave delitto, senza naturalmente
precisare quale per non venir
meno all'obbligo del segreto. Ma
di questo parleremo ancora in
seguito. Adesso tu sai tutto,
Vittorino; agisci e rimani al mio
fianco. Regna con me su questo
insulso mondo di fantocci! La vita
deve darci i suoi meravigliosi
piaceri senza assoggettarci alle sue
meschinità.
Vedemmo il barone di lontano
e
gli
andammo
incontro
fingendoci
assorti
in
pie
conversazioni.
La dichiarazione di Eufemia
circa il suo modo di intendere la
vita era forse quanto ancora
occorreva
per
darmi
piena
consapevolezza
della
forza
prepotente da cui mi sentivo
animato, come se emanasse da
entità superiori. Qualcosa di
sovrumano era penetrato in me,
elevandomi ad un livello da cui il
senso, i rapporti delle cose, tutto
mi appariva mutato. La forza
spirituale, la capacità di dominare
la vita di cui Eufemia si
vanagloriava
mi
sembravano
degne di amarissima irrisione. Nel
momento stesso in cui osava
intraprendere il proprio gioco
infame e sconsiderato con le
trame più delicate della vita
umana, la sciagurata cadeva in
balìa del caso o del destino
malvagio che mi guidava la mano.
Soltanto la mia forza, infiammata
da misteriose potenze, aveva
potuto accecarla al punto da farle
scambiare per l'amico ed il
complice l'uomo che - per la sua
rovina
casualmente
rassomigliava a quell'amico e la
teneva in pugno come il Maligno
stesso, precludendole ogni libertà
d'azione. Nella sua infatuazione
egoistica e presuntuosa Eufemia
mi era diventata spregevole e la
relazione con lei mi ripugnava
perché soltanto Aurelia portavo in
cuore, soltanto lei era stata la
causa di tutti i miei peccati ammesso che ancora considerassi
peccato ciò che mi sembrava il
culmine dell'umana gioia.
Decisi di far pieno uso della
mia innata potenza, d'impugnare
la bacchetta magica e con essa
descrivere i cerchi entro cui
avrebbero dovuto agire, muoversi,
per mio esclusivo piacere, tutti i
personaggi della commedia. Il
barone e Rinaldo andavano a gara
nel
rendermi
piacevole
il
soggiorno al castello; della mia
relazione con Eufemia non
avevano il minimo sospetto, anzi,
il barone spesso mi dichiarava in
un
impeto
spontaneo
di
gratitudine, che soltanto grazie a
me Eufemia gli era stata
interamente restituita; e in queste
parole io sentivo una chiara
allusione
a conferma della
congettura
di
Rinaldo;
un
disgraziato caso aveva dunque
svelato al barone gli illeciti
intrighi della moglie? Ermogene lo
vedevo di rado; mi evitava con
inquietudine e imbarazzo evidenti;
ma
il
barone
e
Rinaldo
attribuivano tale atteggiamento a
una sorta di soggezione di fronte a
un sant'uomo, capace forse di
leggergli nell'animo sconvolto.
Anche Aurelia pareva sottrarsi
deliberatamente ai miei sguardi;
se poteva mi sfuggiva e quando
parlava con me la vedevo spaurita
e impacciata come Ermogene. Ero
quasi certo che il giovane folle
avesse confidato alla sorella i suoi
tremendi e sconvolgenti sospetti
sul conto mio, ma mi sembrava
ancora possibile controbattere in
lei
la
cattiva
impressione.
Consigliato probabilmente dalla
baronessa (la quale
voleva
avvicinarmi ad Aurelia per poter
influire su Ermogene), il barone
mi pregò di spiegare alla figlia i
supremi misteri della nostra
religione. Fu così Eufemia stessa a
procurarmi il mezzo per giungere
al vagheggiato incontro di cui, con
fervida fantasia, mi ero dipinto
mille immagini voluttuose. Che
cos'altro era stata la mia visione in
chiesa se non una promessa della
superiore potenza operante in
me?... La promessa di darmi
quella donna! Perché null'altro
potevo sperare placasse la bufera
che mi sballottava qua e là, come
sull'onde di un mare infuriato.
Vedere Aurelia, sentirla vicina,
sfiorare la sua veste mi metteva in
fiamme. Un fiotto di sangue
ribollente saliva nell'arcana fucina
del pensiero, ed io parlavo dei
meravigliosi
misteri
della
religione in vivide immagini il cui
occulto
significato
era
la
voluttuosa
follia
della
concupiscenza. Le mie parole
ardenti avrebbero dovuto far
breccia nell'animo di Aurelia come
altrettante scariche elettriche,
render vana qualsiasi corazza,
qualsiasi difesa - le immagini
cadute in lei svilupparsi a sua
insaputa, rivelare luminosamente
il proprio significato recondito,
farle
presagire
il
piacere
sconosciuto, fino a che, torturata,
straziata da desideri inesprimibili,
mi cadesse tra le braccia. Mi
preparai accuratamente a tenere
quelle
cosiddette
«lezioni»,
imparai
ad
accrescere
progressivamente
l'espressività
del mio discorso.
La buona fanciulla mi stette ad
ascoltare a mani giunte e occhi
bassi ma senza tradire né con un
movimento né col più lieve
sospiro l'effetto che mi attendevo
dalle mie parole. I miei sforzi non
mi portarono oltre, anzi; invece di
far divampare in lei il pericoloso
fuoco della seduzione resero ancor
più tormentoso l'ardore che mi
divorava. Smanioso, quasi pazzo di
dolore
e
di
concupiscenza,
meditavo piani per la rovina di
Aurelia; e mentre con Eufemia mi
fingevo innamorato, felice, sentivo
di incominciare ad odiarla d'un
odio implacabile. Questo penoso
conflitto dava ai miei rapporti con
lei un qualcosa di crudele, di
orribile, che la faceva tremare.
Eufemia era lontanissima dal
sospettare il mio segreto ed io
incominciavo a permettermi di
spadroneggiare con lei. Spesso
accarezzavo l'idea di por fine al
mio tormento piegando Aurelia
con un colpo di forza ben
calcolato, ma se appena la vedevo
mi pareva di scorgerle accanto un
angelo pronto a proteggerla e a
fronteggiare la potenza del
nemico. Allora un brivido mi
correva per le membra e il
malvagio proposito si raffreddava.
Pensai infine di ricorrere a un
espediente: pregare con lei. Nelle
preghiere l'ardore mistico si fa più
intenso, gli istinti più segreti
protendono i tentacoli, come
piovre, per ghermire la cosa
sconosciuta con cui placare il
tormentoso struggimento che ci
dilania. I più bassi istinti
materiali, mascherati da mistici
rapimenti, si scatenano in noi
promettendoci, già fin di quaggiù,
l'appagamento dei nostri sogni più
esaltati; la passione inconscia ne
rimane ingannata e l'aspirazione
alle cose sante, ultraterrene si
spezza nell'ineffabile, mai provata
gioia dei sensi. Perfino dalla
recitazione di certe preghiere
composte da me mi ripromettevo
di trarre qualche vantaggio per i
miei fini infami. E così feci.
Mentre Aurelia ripeteva le mie
preghiere con gli occhi rivolti al
cielo, inginocchiata al mio fianco,
la vidi arrossarsi in viso, respirare
affannosamente. Allora, come nel
trasporto della preghiera, le presi
le mani e me le premetti al petto.
Sentivo il calore del suo corpo,
tanto mi era vicina, i suoi capelli
sciolti mi fluttuavano sulle spalle.
Accecato dal desiderio l'abbracciai
selvaggiamente...
Già
stavo
baciandola con frenesia sulla
bocca, sul seno, quando lei si
svincolò dalla stretta, lanciò un
grido penetrante e fuggì veloce
nella camera accanto.
Rimasi come incenerito da una
folgore... non ebbi la forza di
trattenerla!
Nello stesso istante un'altra
porta si aperse e sulla soglia
apparve Ermogene, con quei suoi
occhi terrificanti di folle fissi su di
me. Raccolsi tutte le forze e gli
andai sfrontatamente incontro,
esclamando in tono tracotante e
perentorio: - Che vuoi tu qui?...
Vattene, pazzo!...
Ermogene tese la mano destra
verso di me e disse cupamente: Vorrei battermi con te... ma non
ho la spada... E tu sei il delitto... i
tuoi occhi stillano sangue, e di
sangue hai intrisa la barba!
Ciò detto disparve sbattendo
violentemente la porta e mi lasciò
solo, schiumante di collera contro
me stesso per essermi lasciato
trascinare
da
un
impulso
momentaneo a rischio di tradirmi
e rovinarmi. Nessuno si fece
vedere. Ebbi tempo a sufficienza
per ricompormi e farmi suggerire
dalla misteriosa forza interiore il
mezzo adatto a neutralizzare le
possibili conseguenze dannose del
mio gesto insano.
Appena possibile mi precipitai
da Eufemia e, senza alcun ritegno,
le riferii l'accaduto.
Eufemia parve prender la cosa
meno leggermente di quanto
sperassi.
Compresi
come,
malgrado la sua tanto conclamata
forza d'animo e la sua superiore
visione delle cose, potesse nutrire
una meschina gelosia; ma,
soprattutto, temesse che Aurelia,
accusandomi, potesse distruggere
l'aureola della mia santità e
mettere in pericolo il nostro
segreto.
Per
un'inspiegabile
soggezione, le tacqui tuttavia
l'intervento di Ermogene e le sue
terrificanti parole.
Eufemia rimase silenziosa per
alcuni istanti fissandomi sopra
pensiero, in uno strano modo: M'è venuta un'idea meravigliosa, disse infine, - veramente degna
della mia intelligenza. Tu dovresti
indovinarla, Vittorino... Ma vedo
che non puoi. Andiamo! Sbatti le
ali e preparati a seguirmi
nell'ardito volo! Che tu, malgrado
la pretesa di volerti innalzare al
disopra della vita e dominarne
tutti i fenomeni, non possa
inginocchiarti accanto a una
ragazza appena appena passabile
senza abbracciarla e baciarla,
questo non mi stupisce. E se te n'è
venuta la voglia non te ne biasimo.
Aurelia, per quanto la conosco, si
vergognerà moltissimo della cosa
e starà zitta; tutt'al più troverà un
pretesto qualsiasi per sottrarsi
d'ora innanzi alle tue appassionate
lezioni di dottrina. In quanto
dunque alle possibili conseguenze
spiacevoli della tua leggerezza,
della tua sfrenata libidine, non
nutro alcun timore. Io Aurelia non
la odio; ma la sua modestia, la sua
ipocrita bigotteria silenziosa dietro
cui
si
cela
un
orgoglio
intollerabile, mi irritano. Mi sono
perfino degnata di giocare con lei,
ma non sono mai riuscita a
conquistarmene la fiducia; con me
è sempre stata timida, chiusa. Non
vuol saperne di sottomettersi, mi
evita orgogliosamente; per questo
mi è odiosa. Spezzare, veder
appassire un fiore così orgoglioso
della propria bellezza, dei propri
bei colori vivaci... Non è un'idea
sublime?... Ti concedo di metterla
in atto; non mancheranno i mezzi
per farlo facilmente e con
sicurezza. La colpa dovrà ricadere
sulla testa di Ermogene e
annientarlo!
Eufemia mi parlò ancora a
lungo
del
proprio
piano,
diventandomi più abominevole ad
ogni parola. In lei vedevo soltanto
più una volgare delinquente. Io
bruciavo, sì, dal desiderio di
rovinare Aurelia, ma unicamente
nella speranza di placare così la
mia straziante pena amorosa. Ma
accettare la complicità di quella
donna mi pareva spregevole. Con
suo non lieve stupore, respinsi
perciò la proposta, fermamente
deciso in cuor mio ad agire senza
il suo aiuto.
Come la baronessa aveva
supposto, Aurelia, accampando il
pretesto di un'indisposizione,
rimase nelle sue stanze e non
venne più alle mie lezioni.
Ermogene, contrariamente alla
sua abitudine, stava di nuovo a
lungo in compagnia di Rinaldo e
del barone; sembrava meno
assorto ma più turbolento e
collerico. Lo si udiva spesso
parlare ad alta voce da solo, con
energia, e quando per caso ci
incontravamo mi guardava con
astio represso. L'atteggiamento del
barone e di Rinaldo verso di me
subì, nel giro di pochi giorni, una
strana
trasformazione.
Formalmente continuavano a
trattarmi con l'attenzione e il
rispetto di sempre ma sembravano
non saper più trovare il tono
cordiale di un tempo, quasi come
se un presentimento, un sospetto
li angosciasse. Tutto ciò che mi
dicevano era così forzato, così
raggelante ch'io, dibattendomi
nelle supposizioni, dovevo far
molto sforzo ad apparire per lo
meno disinvolto.
Ma gli sguardi di Eufemia li
sapevo interpretare con esattezza,
ed essi mi dicevano che un
qualche fatto nuovo l'aveva messa
in agitazione. Purtroppo, per tutto
il giorno non ci fu possibile
parlare a quattr'occhi inosservati.
Nel cuor della notte, quando
tutti nel castello dormivano già da
molto tempo ed io mi trovavo
nella mia camera, vidi aprirsi una
porta segreta (di cui non mi ero
mai accorto) ed entrare Eufemia,
sconvolta come non l'avevo vista
mai. - Vittorino, - disse, - siamo
minacciati
di
tradimento.
Ermogene, il folle Ermogene,
guidato da strani presentimenti,
ha scoperto il nostro segreto. Con
continue allusioni, simili a
terrificanti sentenze dettate dalla
potenza oscura imperante su di
noi, è riuscito ad insinuare il
sospetto nell'animo del barone...
Non
una
chiara
accusa,
intendiamoci, nulla di preciso; ma
la cosa mi inquieta e tormenta
moltissimo. Chi tu sia, che sotto
quella tonaca si celi il conte
Vittorino, sembra non l'abbia
indovinato.
Viceversa
va
proclamando che il frate entrato in
questa casa è posseduto da forze
diaboliche, anzi, è il diavolo
stesso, e
macchina insidie,
tradimento per la nostra rovina.
Così non può durare. Sono stanca
di sopportare l'oppressione di quel
vecchio rimbambito, pieno di
morbosa gelosia, che sorveglia
ogni mio passo. Quel giocattolo mi
è venuto a noia. Voglio gettarlo
via. Tu, Vittorino, asseconderai
volentieri il mio desiderio perché
così facendo ti sottrarrai una volta
per tutte al pericolo di venir
scoperto e di veder scadere la
nostra geniale avventura al livello
d'una banale mascherata, di
un'insulsa vicenda coniugale. Il
vecchio importuno deve sparire.
Consigliamoci perché ciò avvenga
nel migliore dei modi; ma prima
ascolta il mio parere. Come sai,
tutte le mattine mentre Rinaldo è
occupato, il barone se ne va solo
su in montagna per godersi il
paesaggio a modo proprio. Cerca
di sgusciar fuori prima di lui e
d'incontrarlo all'uscita del parco.
Non lontano di qui c'è un dirupo
spaventoso, selvaggio; quando lo
si è superato ci si trova a fianco
d'una profondissima voragine,
sopra cui sporge il cosiddetto
«trono del diavolo». Si favoleggia
che dal baratro salgano vapori
velenosi e stordiscano, e facciano
precipitare
senza
scampo
chiunque si azzardi a guardare in
basso per scoprire che cosa si
nasconda laggiù in fondo. Il
barone ha sempre riso di questa
leggenda e molte volte è salito sul
famigerato sperone di roccia per
godersi la vista di lassù. Ti sarà
facile indurlo a ripetere la
pericolosa bravata; e mentre
contemplerà il panorama uno
spintone deciso ci libererà per
sempre di quel povero stolto. - No,
mai! - gridai impetuosamente. Conosco quel precipizio... conosco
il «trono del diavolo»... Questo
mai!... Se mi credi capace d'un
simile delitto tu sbagli... Vattene! Eufemia balzò in piedi con lo
sguardo fiammeggiante di ferocia
e il viso sconvolto dalla furia della
passione: - Miserabile smidollato,
- esclamò, - saresti tanto vile ed
ottuso da opporti alle mie
decisioni?... Preferisci piegare la
schiena al giogo ignominioso
anziché dominare il mondo al mio
fianco?... Ma io ti tengo in pugno:
inutilmente ti dibatti per sottrarti
alla potenza che ti incatena ai miei
piedi! Tu eseguirai il mio ordine.
Vedere quell'uomo è un tormento
per me; domani non dovrà più
essere vivo!
Provai un profondo disprezzo
per la compassionevole boria di
quella donna. La mia risata amara
e sprezzante la fece impallidire
come una morta. Paura e orrore le
si dipinsero in viso. - Pazza! esclamai. - Tu credi di dominare la
vita, di giocare con le sue
manifestazioni. Ma bada! Un
simile
trastullo
potrebbe
trasformarsi fra le tue mani
nell'arma tagliente che ti ucciderà!
Vanamente ti illudi di dominarmi!
Io ti tengo incatenata al mio
potere come il destino stesso. Il
tuo gioco infame è soltanto il
rigirarsi impotente d'una belva in
gabbia... Sappi, miserabile, che il
tuo amante giace sfracellato in
fondo a quel precipizio... E tu non
lui hai abbracciato ma lo spirito
stesso della vendetta!... Vattene e
non sperare!
Eufemia vacillò, scossa da un
tremito convulso, e sarebbe
precipitata a terra se non l'avessi
afferrata e spinta nel corridoio,
attraverso la porta segreta. Mi
balenò il pensiero di ucciderla ma
non lo feci e quasi non me ne
avvidi, perché appena richiusa la
porta dietro di lei ebbi per un
istante la certezza di averlo già
fatto. Udii un grido penetrante, poi
uno sbatter di porte.
M'ero posto su un piano che
mi straniava totalmente dal modo
di pensare e di agire delle persone
normali; ora i colpi si sarebbero
susseguiti
inesorabili,
uno
sull'altro, e io stesso avrei dovuto
compiere l'orrendo misfatto come
il malo spirito della vendetta. La
morte di Eufemia era cosa decisa.
L'odio più implacabile frammisto
all'amore più ardente mi avrebbe
procurato
il
solo
piacere
veramente degno dello spirito
sovrumano disceso in me. Sparita
Eufemia, Aurelia sarebbe stata
mia.
Il giorno dopo Eufemia riuscì a
mostrarsi allegra e disinvolta; la
sua forza d'animo mi lasciò
stupefatto. Osò perfino dire
d'esser caduta, durante la notte, in
una specie di sonnambulismo e
d'aver sofferto di violenti spasmi.
Il barone pareva interessarsi a lei
ma gli sguardi di Rinaldo erano
carichi di dubbio e di diffidenza.
Aurelia rimase nelle proprie
stanze. Meno riuscivo a vederla e
più sentivo crescere in me la furia
della passione. Eufemia mi invitò
a recarmi di nascosto nella sua
camera per la via a me ben nota,
quando tutti nel castello fossero
addormentati. Accettai con gioia
perché il momento era giunto: la
sua mala sorte stava per
compiersi. Nascosi nel saio un
piccolo coltello acuminato che
portavo con me fin da quando ero
ragazzo e di cui mi servivo per
intagliare il legno: e così, deciso al
delitto, andai da lei.
- Credo, - mi disse appena mi
vide, - che ieri abbiamo sofferto
entrambi di incubi angosciosi,
pieni di voragini, di precipizi...
Non è vero?... Ma adesso è
passato, - e si abbandonò, come
sempre, alle mie empie carezze. Il
solo piacere per me fu abusare
della sua ignominia, con l'animo
pieno di orrendo, infernale
disprezzo. Mentre giaceva fra le
mie braccia il coltello mi cadde: lo
raccolsi in fretta e la vidi
rabbrividire, come in preda a
un'angoscia mortale; ma rimandai
ancora il delitto perché il destino
mi dava ben altre armi in mano.
Eufemia aveva fatto porre sul
tavolo vino italiano e frutta
sciroppata:
«Che
espediente
grossolano e abusato!», pensai;
scambiai quindi abilmente i
bicchieri e finsi di mangiare
qualche frutto, facendolo invece
scivolare nelle ampie maniche del
saio. Quand'ebbi bevuto due o tre
bicchieri di vino (ma nel bicchiere
destinato a lei...), Eufemia finse di
udire dei rumori nel castello, e mi
pregò di lasciarla. Secondo i suoi
calcoli avrei dovuto morire nella
mia camera!... Sgattaiolai per i
lunghi
corridoi
fiocamente
illuminati, passai davanti alla
camera di Aurelia e mi fermai
come ammaliato... La vidi... mi
parve di vedermela passare
davanti guardandomi con amore,
come nella visione, e facendomi
cenno di seguirla. La porta cedette
alla pressione della mia mano, mi
trovai dentro... La porta della
camera da letto era soltanto
accostata... Un fiotto d'aria calda,
pesante, mi investì accrescendo
ancora il mio ardore amoroso fino
a stordirmi. Quasi non potevo più
respirare...
Sentii
provenire
dall'interno dei sospiri angosciosi:
forse Aurelia stava sognando
tradimento, delitto... La udii
pregare nel sonno... - Agisci...
agisci!... Perché esiti?... L'attimo
fugge! - mi incitava la voce della
potenza ignota... Avanzai di un
passo...
Scellerato,
frate
assassino... ti tengo, finalmente!
gridò qualcuno dietro di me... Mi
sentii afferrare alle spalle da una
forza erculea: era Ermogene.
Dibattendomi con tutte le forze
riuscii a svincolarmi e feci per
fuggire, ma egli mi riafferrò,
dilaniandomi le spalle a morsi.
Pazzo di collera e di dolore lottai
vanamente, a lungo. Infine con un
energico strattone lo costrinsi a
lasciarmi e mentre stava di nuovo
avventandosi su di me trassi il
coltello,
vibrai
due
colpi.
Ermogene
cadde
a
terra
rantolando; il tonfo rimbombò
cupo nel corridoio, perché,
lottando disperatamente, eravamo
usciti dalla camera.
Caduto
Ermogene,
mi
precipitai giù per le scale come un
forsennato. Tutto il castello si
riempì di grida acutissime: Delitto!... Assassinio!... - ...Un
ondeggiar di lumi nel buio, un
risuonar di passi nelle lunghe
gallerie. Stordito, disorientato dal
terrore, mi ritrovai su una scala
secondaria. Nel castello la luce, il
trambusto,
aumentavano
di
minuto in minuto, le terribili grida
di - Assassinio... delitto! risuonavano sempre più vicine...
Distinsi le voci del barone e di
Rinaldo
che
parlavano
concitatamente con i servi... Dove
fuggire?... Dove nascondermi?...
Ancora pochi istanti prima,
quando volevo uccidere Eufemia
con quello stesso coltello, ero
convinto di poter uscire senza
alcun timore perché, vedendomi
l'arma insanguinata in mano,
nessuno avrebbe osato sbarrarmi
il passo... Ora invece ero in preda a
un terrore mortale... Finalmente,
finalmente ritrovai lo scalone... Il
tumulto s'era spostato verso la
camera della baronessa; intorno a
me la situazione sembrava più
tranquilla. In tre balzi poderosi fui
in fondo alla scala, a due passi dal
portone... Un urlo acutissimo,
come quello udito la notte
precedente, risuonò per gli atrii...
«Èmorta, - dissi in cuor mio, uccisa dal veleno preparato per
me». - Di nuovo una moltitudine
di lumi, di gente urlante, si riversò
dalle camere di Eufemia. Udii
Aurelia chiamare disperatamente
aiuto, poi di nuovo quelle terribili
grida di - Delitto!... Assassinio!... Trasportavano il cadavere di
Ermogene!...
Sentii
Rinaldo
gridare: - Inseguite l'assassino! Scoppiando in una risata rabbiosa
che riecheggiò per gli atrii e le
scale,
esclamai
con
voce
tremenda: - Chi volete prendere,
insensati?... Il destino che ha fatto
giustizia di due peccatori?... - Gli
inseguitori si fermarono come
ammaliati sulla scala, rimasero in
ascolto. Ora non volevo più
fuggire; anzi, sarei andato loro
incontro per annunziare con
parole tonanti la vendetta divina
caduta sugli empi. Ma... atroce
vista!... Davanti a me... davanti a
me era sorto il viso insanguinato
di Vittorino... Non io, lui aveva
pronunziato quelle parole!
Con i capelli ritti mi precipitai
fuori, pazzo di terrore, attraversai
il parco, giunsi in aperta
campagna. Udii uno scalpitio di
cavalli alle mie spalle, feci un
estremo sforzo per sfuggire
all'inseguimento ma inciampai in
una radice e caddi. In un attimo i
cavalli mi furono addosso... Era il
guardiacaccia di Vittorino!... - Per
l'amor di Dio, signore, che cosa
succede al castello?... - mi
domandò subito. - Si grida
«all'assassino!»... Tutto il villaggio
è già in subbuglio... Bene;
comunque sia andata, un'anima
buona mi ha suggerito di far
fagotto e venire qui con i cavalli
dalla cittadina. Le cose sue sono
tutte nella bisaccia del cavallo,
illustrissimo... Momentaneamente
dovremo separarci, perché credo
sia accaduto un grosso guaio, non
è vero?...
Mi ripresi e, balzando in sella,
raccomandai al cacciatore di
ritornare
nella
cittadina
e
attendere là i miei ordini. Appena
l'uomo scomparve nel buio,
smontai di sella e condussi la
cavalcatura
sottomano,
con
precauzione, nella folta pineta che
si stendeva davanti a me.
Capitolo terzo - Le avventure
di viaggio
Quando i primi raggi del sole
filtrarono
attraverso
l'oscura
pineta io mi ritrovai presso un
ruscello, scorrente fresco e chiaro
su un fondo di ghiaiette levigate. Il
cavallo, condotto faticosamente a
mano nel folto del bosco, era là
tranquillo accanto a me ed io, non
avendo di meglio da fare, apersi la
bisaccia legata alla sella e ne
esaminai il contenuto. Mi vennero
fra le mani alcuni capi di
biancheria, di vestiario ed un
borsellino ben pieno. Decisi di
cambiarmi
immediatamente
d'abito. Servendomi d'una piccola
forbice e d'un pettine trovati
dentro un astuccio mi tagliai la
barba e mi riassettai alla meno
peggio i capelli; quindi gettai la
tonaca contenente ancora il fatale
coltello, il portafogli di Vittorino e
la fiaschetta con quanto ancora
avanzava dell'elisir del diavolo.
Quando mi specchiai nel ruscello
e mi vidi in abiti borghesi con un
berretto da viaggio sulla testa,
stentai a riconoscermi. Dopo breve
cammino uscii dal bosco; i fumi in
lontananza, la voce delle campane
mi fecero supporre di trovarmi in
prossimità
d'un
villaggio.
Raggiunta la vetta dell'altura
prospiciente,
vidi
infatti
spalancarsi ai miei piedi una bella
vallata in cui si adagiava un grosso
villaggio. Presi la larga strada
serpeggiante a tornanti e appena
la discesa divenne meno ripida
rimontai a cavallo per esercitarmi
quanto più possibile nell'arte, a
me
del
tutto
ignota,
dell'equitazione. La tonaca l'avevo
nascosta nel cavo di un albero e
con essa mi era parso d'aver
sepolto nel bosco perfino il ricordo
dei drammatici fatti accaduti al
castello. Mi sentivo allegro e
baldanzoso, come se il volto
sanguinante di Vittorino fosse
stato soltanto un prodotto della
mia fantasia sovreccitata e le
ultime parole gridate in faccia agli
inseguitori mi fossero scaturite
inconsapevolmente
dall'animo,
per svelare gli arcani disegni del
caso che mi aveva condotto al
castello e costretto a fare quanto
avevo fatto. Ero capitato là come
una incarnazione del destino
onnipotente per punire i misfatti e
costringere
i
peccatori
all'espiazione, spingendoli nella
fossa già pronta ad attenderli.
Soltanto la soave figura di Aurelia
era ancor viva in me, come
sempre, e non potevo pensare a lei
senza una stretta al cuore, che
dico, senza provare un autentico,
atroce dolore fisico. Eppure avevo
la sensazione di doverla rivedere;
chissà, forse in paesi lontani...
Unita a me da un legame
indissolubile, spinta verso di me
da un impulso irresistibile, un
giorno sarebbe stata mia!...
Notai
che
la
gente,
incontrandomi, si fermava e si
voltava a guardarmi stupefatta; e
l'oste del villaggio rimase senza
parola tanto stupore gli causò il
mio aspetto. Mentre io facevo
colazione e fuori foraggiavano il
mio cavallo, parecchi contadini si
radunarono
nella
trattoria
lanciandomi timide occhiate e
parlottando sottovoce tra loro. In
breve mi vidi circondato e
osservato a bocca aperta, con
balordo stupore, da una vera e
propria folla. Mi sforzai di
rimanere tranquillo e disinvolto,
chiamai forte l'oste, gli ordinai di
farmi sellare e bardare il cavallo.
L'oste, con un sorrisetto ambiguo,
uscì, ma per rientrare quasi subito
in compagnia d'un uomo lungo
lungo, il quale avanzò verso di me
con cupa aria ufficiale e comica
gravità. Mi scrutò attentamente da
capo a piedi; io mi alzai e feci
altrettanto,
andandogli
vicinissimo. Ciò parve metterlo un
tantino a disagio, perché si volse a
guardare i contadini spaurito. Dunque, che c'è?... - esclamai. Pare che vogliate dirmi qualcosa -.
Allora il severo personaggio si
schiarì la gola e disse cercando di
darsi
un
tono
di
grande
importanza: - Signore, voi non ve
ne andrete di qui prima di aver
detto esattamente a noi, giudice
del luogo, chi voi siate - nascita,
dignità e rango - e donde veniate e
dove abbiate intenzione di andare,
specificando il luogo, il nome della
provincia, della città, eccetera,
eccetera. E prima di tutto dovrete
mostrare a noi - al giudice - un
passaporto, scritto, sottoscritto e
suggellato a norma d'uso, di
regolamento e di legge!...
Non avevo mai pensato che mi
fosse necessario assumere un
qualsiasi nome e non m'era
passato neppure per la mente che
il mio aspetto curioso e un
po'sconcertante (... il vestito
borghese non voleva adattarsi al
mio portamento fratesco e la
barba me l'ero rasa malissimo...)
mi ponesse ad ogni momento
nell'imbarazzante situazione di
dover render conto della mia
identità. La domanda del giudice
mi giunse così inattesa che invano
provai ad escogitare una risposta
soddisfacente.
Decisi
di
sperimentare che cosa avrei
ottenuto
comportandomi
sfrontatamente e dissi con voce
ben ferma: - Chi io sia ho motivo
di tacervelo. Inutile dunque
chiedermi il passaporto. Però
guardatevi bene dal trattenere
anche per un solo istante con le
vostre insulse formalità una
persona del mio rango. - Oh oh! esclamò il giudice, traendo di tasca
una grossa tabacchiera in cui,
mentre egli aspirava la presa,
immediatamente si tuffarono,
servendosi abbondantemente, le
cinque mani degli altrettanti
assessori giudiziari. - Oh, oh... Non
prendiamola
così
brusca,
illustrissimo! L'eccellenza vostra
dovrà compiacersi di rispondere a
noi - al giudice - e di mostrarci il
passaporto. Perché, per dirla
chiara, da qualche tempo in qua le
nostre montagne pullulano di
figuri sospetti che di quando in
quando fanno capolino dal bosco e
poi subito spariscono come
satanassi.
Sono
maledette
canaglie, ladri, masnadieri, spiano
i viaggiatori e combinano guai
d'ogni
sorta,
uccidono,
incendiano... E voi, signor mio
illustrissimo, avete un aspetto
piuttosto curioso... tale e quale il
ritratto d'un grande ladrone e
manigoldo emerito, mandato a
noi, giudice, scritto e descritto in
ogni dettaglio, dal preclaro
governo del paese. Dunque bando
ai complimenti e alle parole
cerimoniose e fuori il passaporto.
Altrimenti... in prigione!
Compresi che, trattando in
quel modo, con quell'uomo non
c'era nulla da fare. Mi disposi
perciò a sperimentare un tentativo
d'altro genere. - Eminentissimo
signor giudice, - dissi, - se mi
concederete
di
parlarvi
a
quattr'occhi chiarirò ogni cosa.
Confidando nella vostra saggezza
vi rivelerò il segreto che mi
costringe a vestire in questo
strano modo.
- Ah, ah!... Vogliamo rivelare
segreti!... - disse il giudice. - Credo
di capire dove andrete a parare...
Bene.
Voi,
gente,
uscite!
Sorvegliate porte e finestre e non
lasciate entrare né uscire nessuno!
- Voi vedete in me un infelice,
signor giudice, - incominciai a dire
quando fummo soli, - riuscito,
grazie all'aiuto di amici, a fuggire
finalmente
a
un'ignominiosa
prigionia, e al pericolo di venir
rinchiuso per sempre in convento.
La mia storia è tutta una trama di
macchinazioni e perfidie ordita da
una
famiglia
vendicativa.
Permettetemi di raccontarvela.
Causa delle mie sventure fu
l'amore per una ragazza di basso
ceto. Durante la lunga prigionia
mi era cresciuta la barba e, come
potrete vedere, mi avevano già
perfino tonsurato e costretto a
indossare una tonaca di frate.
Dopo la fuga ho potuto cambiarmi
d'abito soltanto qui vicino, nel
bosco, altrimenti mi avrebbero
raggiunto. Capisco benissimo che
cosa ci sia di sconcertante nel mio
aspetto
per
avervi
così
insospettito. Come vedete non
sono in grado di mostrarvi alcun
passaporto, ma, a dimostrare la
verità di quanto affermo, dispongo
di taluni argomenti che senza
dubbio vi soddisferanno -. Così
dicendo trassi la borsa di denaro e
deposi sul tavolo tre ducati
fiammanti. Un sorrisetto sornione
attenuò la severa gravità del
giudice.
- I vostri argomenti, signor
mio,
rispose,
sono
indubbiamente
abbastanza
illuminanti; ma, non abbiatevela a
male... a norma di regolamento
sono ancora, in un certo qual
senso,
quantitativamente
inadeguati
per
risultare
convincenti... Se volete ch'io
prenda il nero per bianco
dovreste..., come dire... renderli
più consistenti... - Compresi il
briccone e aggiunsi un altro
ducato.
- Adesso vedo, - disse il giudice,
- di avervi sospettato a torto.
Proseguite pure il vostro viaggio
ma, mi raccomando, battete i
sentieri secondari - come penso
siate abituato a fare - e tenetevi
lontano dalle strade maestre fino a
che non vi siate completamente
sbarazzato di quei connotati...
sospetti -. Quindi spalancò la porta
e gridò alla folla radunata là fuori:
Questo
signore
è
un
gentiluomo... una persona di
qualità. Si è dato a conoscere a
noi, giudice, in udienza segreta;
viaggia in incognito... vale a dire,
non desidera essere riconosciuto.
E voi, pezzi di tangheri, non avete
bisogno di saperne di più!
Dunque,
buon
viaggio
illustrissimo! - Quando montai in
sella i contadini si tolsero i
berretti in rispettoso silenzio.
Volevo uscire dalla città a spron
battuto ma il cavallo si impennò, e
la
mia
assoluta
imperizia
nell'equitazione non mi suggerì
alcun mezzo per rimuoverlo dal
luogo su cui s'era impuntato.
L'animale incominciò a girare in
tondo e finì per scaraventarmi fra
le braccia del giudice e dell'oste
prontamente accorsi, suscitando le
più matte risate dei contadini. - È
un cattivo cavallo, - disse il giudice
reprimendo le risa. - Già, un
cattivo
cavallo,
ripetei
spolverandomi
l'abito.
Mi
aiutarono a risalire in sella ma
l'animale di nuovo s'impennò,
soffiando e sbruffando. Non ci fu
modo di fargli varcare la porta.
Allora un vecchio contadino gridò:
- Ehi!... Guardate un po'là!... C'è la
megera... la vecchia Lisa seduta
davanti alla porta... Non lascia
passare l'illustre signore perché
non le ha dato neppure un
centesimo -. Soltanto allora notai
una vecchia mendicante cenciosa
accoccolata proprio davanti alla
porta: mi guardava sghignazzando,
con occhi di folle. - Togliti
immediatamente dai piedi, strega!
- le ingiunse il giudice. - Il fratello
di sangue non mi ha dato neppure
un soldino, - gracidò la vecchia. Non vede il cadavere disteso
davanti a me?... Non può
scavalcarlo, il fratello di sangue! Il
morto si drizzerebbe. Ma io lo
spingerei giù e lo costringerei a
rimanere disteso, se il fratello di
sangue mi desse un soldino!... - Il
giudice aveva preso il cavallo per
le redini e, senza più badare alle
grida insensate della vecchia,
provò a condurlo oltre la porta. Ma
non ci fu verso. E la vecchia
intanto continuava a gridare: Fratello di sangue, dammi un
soldino!... Un soldino, fratello!... Allora mi frugai in tasca e le gettai
in grembo un po'di denaro.
Ululando e gesticolando per la
gioia, la vecchia balzò in piedi ed
esclamò: - Guardate quanti bei
soldini mi ha dato il fratello di
sangue!... Quanti bei soldini...
guardate!... - Con un sonoro
nitrito e un'elegante piroetta, il
cavallo, lasciato libero dal giudice,
oltrepassò le mura. - Adesso
cavalcate che è una meraviglia,
proprio a regola d'arte! - disse il
giudice: e i contadini che m'erano
corsi dietro fin oltre la porta, al
vedermi sobbalzare sulla sella,
incapace di assecondare il trotto,
scoppiarono di nuovo a ridere,
gridando:
Guardatelo...
guardatelo!... Cavalca come un
cappuccino!...
L'incidente
occorsomi
al
villaggio e, in special modo, le
fatali parole della vecchia folle mi
avevano scosso non poco. Le
prime misure da prendersi mi
parvero: cancellare alla prima
occasione quanto vi era di poco
rassicurante nel mio aspetto; e
quindi darmi un nome con cui
poter passare inosservato fra la
gente. La vita mi stava dinanzi
come
un
velario
nero,
impenetrabile: che cosa potevo
fare, povero esiliato fuggiasco, se
non
abbandonarmi
senza
resistenza alle onde del fiume
impetuoso che irresistibilmente
mi trascinavano via?... Tutti i fili
che mi legavano a certe condizioni
di vita erano stati recisi; ed io non
avevo più dove posare.
La strada maestra diventava
sempre
più
animata;
tutto
preannunziava la ricca, alacre città
commerciale
cui
mi
stavo
avvicinando. Pochi giorni dopo,
infatti, me la vidi davanti agli
occhi. Senza che nessuno mi
domandasse nulla, anzi, senza
neppur venire osservato, mi
inoltrai a cavallo nei quartieri
periferici. Mi colpì un grandioso
edificio con luccicanti finestre di
cristallo e un leon d'oro, alato,
appeso sopra la porta. Era un
continuo entrare ed uscire di
persone, un continuo fermarsi e
ripartire di vetture. Dai locali a
piano terreno sentii provenire
risate e tintinnio di bicchieri.
Appena
mi
fermai
davanti
all'ingresso un garzone affannato
e zelante mi corse incontro, prese
il cavallo per le briglie, mi aiutò a
smontare e mi accompagnò
dentro. Sopraggiunse un elegante
domestico col suo tintinnante
mazzo di chiavi e mi precedette su
per la scala. Quando fummo al
secondo
piano
mi
lanciò
un'occhiata di sfuggita e continuò
a salire. Al piano superiore mi
aperse una camera mediocre e mi
chiese
ossequiosamente
se
desiderassi ordinare qualcosa,
perché si pranzava alle due nella
sala numero dieci, a pian terreno,
eccetera, eccetera.
- Mi porti una bottiglia di vino!
- ordinai; e queste furono le prime
parole ch'io riuscissi ad inserire
nelle
ciarliere
premure
del
servizievolissimo domestico.
Appena rimasi solo qualcuno
bussò, e dalla porta fece capolino
un viso molto simile a una certa
maschera comica che avevo visto
una volta: naso rosso, appuntito,
occhietti scintillanti, lungo mento,
torreggiante toupet incipriato che
sul cranio e sulla nuca (me ne
accorsi in seguito), si risolveva
inopinatamente in una pettinatura
«alla Tito»; (3) abbondante jabot,
panciotto rosso vivo, di sotto il
quale ciondolavano due robuste
catene di orologio, pantaloncini al
ginocchio e, indosso, una marsina
qui troppo larga, là troppo stretta,
malcalzante dovunque, insomma.
- Sono il parrucchiere della casa e
vengo a offrirle i miei servizi, i
miei impareggiabili servizi, - disse
il
curioso
personaggio,
completando la riverenza iniziata
sulla porta ed entrando con
cappello, forbici e pettine in mano.
Quella figuretta secca e
striminzita aveva un qualcosa di
così comico che a stento riuscii a
trattenermi dal ridere. Tuttavia
l'omino giungeva a proposito e
non esitai a domandargli se se la
sentisse
di
riassettarmi
la
capigliatura sconvolta e arruffata
dal lungo viaggio e, per giunta, da
un taglio male eseguito. Egli mi
esaminò la testa con critico occhio
professionale e disse ponendosi
graziosamente sul petto la mano
destra spalancata: - Riassettare?...
Oh
Dio,
Pietro
Belcampo,
chiamato
irriguardosamente
«Peter
Schönfeld» (4) dagli
sciocchi invidiosi, così come il
divino pifferaio e cornista del
reggimento Giacomo Punto (5)
viene chiamato Jakob Stich...
Pietro
Belcampo, come
sei
misconosciuto!... Ma non sarai tu
stesso a porre la fiaccola sotto il
moggio, invece di farla risplendere
al cospetto del mondo?... La forma
di questa mano, la scintilla del
genio che irradia dagli occhi e
arrossa il naso, sfiorandolo, come
una tenera aurora, la tua persona
tutta, insomma, non dovrebbe
rivelare al primo sguardo lo spirito
che è in te?... L'anelito all'Ideale?...
Riassettare?...
Che
gelida
espressione, signor mio!...
Pregai il bizzarro ometto di
non scaldarsi tanto; perché davo
piena fiducia alla sua abilità.
- Abilità?... - ripeté quello
infervorandosi. - Che
cos'è
l'abilità?... Chi può dirsi abile?...
Forse colui il quale misurò ad
occhio una distanza di cinque e
spiccò un salto di trenta braccia,
andando a cadere in un fosso?... O
colui che riuscì a far passare una
lenticchia attraverso la cruna d'un
ago, scagliandola da venti passi?...
O l'uomo il quale legato un peso di
cinquecento libbre alla spada, la
tenne in equilibrio sulla punta del
naso per sei ore, sei minuti, sei
secondi più un attimo?... Ah!...
Che cos'è mai l'abilità?... Essa è
ignota
a
Pietro
Belcampo,
compenetrato
di
Arte
sacrosanta!... L'Arte, signor mio,
l'Arte!... La mia fantasia vaga fra
meravigliosi edifici di boccoli, fra
artistiche strutture a spirali
ondeggianti che il soffio di zefiro
compone e distrugge... Là essa
lavora, opera, crea... Ah!... C'è
qualcosa di divino nell'Arte!...
Perché l'Arte, signor mio, non è
ciò di cui tanto si chiacchiera. No.
Essa prende appena le mosse da
ciò che usualmente si chiama arte.
Lei mi comprende, signore... mi
sembra di vederle una testa di
pensatore:
lo
desumo
dai
riccioletti situati sul lato destro
della sua pregevole fronte...
Assicurai
che
lo
capivo
perfettamente;
e
poiché
l'originalissima stramberia di quel
piccoletto mi divertiva un mondo,
decisi di valermi della sua arte
famosa senza turbarne il patetico
fervore. - Che cosa pensa di poter
cavar fuori da questa chioma
arruffata?... - gli domandai. - Tutto
quello che vuole, - rispose lui. Ma se vuol dare un qualche peso
al consiglio dell'artista Pietro
Belcampo, mi permetta prima di
osservare da vicino, da lontano,
per lungo e per largo la sua
preziosa testa, l'assieme della
fisionomia, l'andatura, il gioco, le
sfumature espressive del viso...
Poi le dirò se lei propenda
piuttosto al tipo antico o a quello
romantico, all'eroico, al grandioso,
al sublime, all'idillico, al sarcastico
o all'umoristico... Evocherò i mani
di Caracalla, Tito, Carlomagno,
Enrico Iv, Gustavo Adolfo... di
Virgilio, Tasso, Boccaccio... Ispirati
da cotali spiriti, i muscoli delle
mie dita entreranno in vibrazione,
e sotto il sonoro ticchettio delle
forbici nascerà il capolavoro... Sarò
io, signore, a render vive e perfette
le sue caratteristiche, così come
esse devono risultare. Ma adesso,
prego, passeggi un poco su e giù
per la camera. Voglio osservare,
notare, vedere... Prego!
Mi fu giocoforza arrendermi a
quel
bel
tipo
bizzarro
e
incominciai a passeggiare su e giù
per la camera com'egli voleva,
sforzandomi di nascondere quel
certo non so che di fratesco,
impossibile a perdersi del tutto,
anche avendo lasciato il convento
da moltissimo tempo. Il piccolino
mi osservò attentamente, poi
prese
a saltellarmi intorno
sospirando, gemendo, tergendosi
il
sudore
col
fazzoletto.
Finalmente si fermò. Gli chiesi se
avesse deciso come trattare la mia
capigliatura.
- Ah, signor mio, che cos'è
questo?... - sospirò lui. - Lei non si
è
abbandonato
al
suo
atteggiamento naturale... C'era
qualcosa
di
forzato
nei
movimenti... un conflitto fra due
opposte nature... Ancora un paio
di passi, signore!... - Rifiutai
seccamente di continuare a dargli
spettacolo, dichiarando che se non
si fosse deciso - subito - a
tagliarmi i capelli avrei dovuto
rinunziare a valermi della sua arte.
- Seppellisciti, Pietro! - esclamò il
piccolino con enfasi. - Tu sei
misconosciuto in questo mondo,
dove la lealtà, la sincerità non si
trovano più. Ma lei dovrà suo
malgrado ammirare in me la
capacità di veder nel fondo delle
cose, sì, il genio, signore.
Inutilmente e a lungo ho cercato
di armonizzare gli elementi
contraddittori rilevabili nella sua
personalità, nelle sue movenze...
C'è nella sua andatura un qualcosa
che mi ricorda l'uomo di chiesa...
Ex profundis clamavi ad te
Domine - Oremus - Et in omnia
saecula saeculorum, amen!... - Il
piccolo messere cantò queste
parole con voce roca e chioccia,
imitando alla perfezione le mosse,
gli atteggiamenti dei monaci. Si
volse, come se fosse davanti
all'altare, si inginocchiò, si rialzò.
Infine assunse un'espressione
orgogliosa e caparbia, corrugò la
fronte, spalancò gli occhi e disse: Il mondo è mio!... Io sono più
ricco, più saggio, più intelligente
di tutti voi, razza di talpe.
Prostratevi davanti a me!... Ecco,
signore: questi sono gli ingredienti
principali
del
suo
aspetto
esteriore... Se lo desiderasse,
potrei fondere insieme un po'di
Caracalla,
di
Abelardo,
di
Boccaccio, gettare il miscuglio
incandescente
nello
stampo,
creare la forma e iniziare una
stupenda architettura anticoromantica di riccioli e riccioletti
eterei.
C'era tanto di vero nelle
osservazioni di quel piccolino, che
giudicai opportuno ammettere
d'essere stato effettivamente un
religioso; mi avevano già imposto
la tonsura ed ora desideravo
nasconderla il più possibile.
Accompagnandosi con salti,
smorfie, discorsi strampalati e
bizzarri, il piccolino si accinse ad
acconciarmi la chioma: ora si
incupiva
imbronciato,
ora
sorrideva,
ora
assumeva
atteggiamenti
di
atleta,
si
sollevava sulla punta dei piedi.
Insomma, mi fu molto difficile
non ridere ancor più di quanto già
non facessi involontariamente.
Quando
finalmente
finì,
togliendogli la parola di bocca, lo
pregai di mandarmi su qualcuno a
riassettarmi la barba irsuta
com'egli aveva fatto con i capelli;
allora egli trotterellò senza far
rumore fino al centro della camera
e disse: - Aurea età quella in cui
barba
e
capigliatura
si
confondevano in un unico trionfo
di
boccoli
per
l'ornamento
dell'uomo, ed erano cura d'un solo
artista! Ma, ahimè, quel tempo è
passato... L'uomo ha ripudiato il
proprio ornamento più bello ed è
sorta un'indegna categoria di
specializzati nel recider le barbe
fino alla pelle con orrendi
strumenti.
O
insulsi,
vili
raschiatori e acconciatori di barbe!
Affilate pure le vostre lame su
nere
corregge
unte
d'olio
maleodorante, a spregio dell'arte...
sventolate le borse guarnite di
nappi e fronzoli, sbattacchiate le
catinelle fragorose come timbali,
fate schiumeggiare il sapone
lanciando
intorno
pericolosi
spruzzi
d'acqua
bollente,
domandate con criminale faccia
tosta ai vostri pazienti se
preferiscano farsi radere sul
pollice o sul cucchiaio!.... (6)
Esiste ancora un qualche Pietro
capace di far concorrenza alla
vostra
infame
consorteria
abbassandosi
all'ignominioso
lavoro di sterminar barbe, ma
cercando tuttavia di salvare ciò
che l'onde del tempo non possono
travolgere... Che cosa sono infatti
le fedine, nelle loro mille e mille
varietà?... Fedine a curve, a
graziose spirali, morbidamente
disegnate sulla linea del morbido
ovale, o tristemente cadenti sulle
cavità
del
collo,
oppure
prominenti,
aggressive,
sugli
angoli della bocca... Fedine che si
restringono con modestia in una
striscia sottile, oppure si allargano
in un vistoso ciuffo di riccioli...
Che cosa sono, dico, le fedine, se
non un'invenzione dell'arte nostra
in cui trova libero campo la
suprema aspirazione alle cose più
sante e più belle?... Ah, Pietro!
Mostra quale spirito si celi in te e
che cosa tu non sia capace di fare,
abbassandoti all'odioso mestiere
di barbitonsore!... - Così dicendo,
il piccoletto tirò fuori una
completa attrezzatura di barbiere
ed incominciò a liberarmi della
barba con abilità e leggerezza di
tocco. Effettivamente gli uscii di
sotto le mani trasformato: mi
mancava soltanto più un vestito
che desse meno nell'occhio per
evitare il pericolo di attrarre su di
me l'attenzione della gente. Il
minuscolo barbitonsore si fermò a
contemplarmi sorridendo, con
intima soddisfazione. La città mi
era del tutto sconosciuta, gli dissi,
e avrei gradito potermi vestire
secondo la moda e le usanze locali.
Per il suo disturbo - e per
invogliarlo
a
farmi
da
commissioniere - gli misi in mano
un ducato. Egli adocchiò la
moneta
posata
sul
palmo,
illuminandosi tutto: - Benefattore
e Mecenate illustrissimo, - disse, non mi ero ingannato sul conto
suo! Lo spirito mi ha guidato la
mano: nel volo d'aquila dei favoriti
ho espresso con assoluta purezza
il suo alto sentire. Ho un amico,
un Damone, un Oreste, il quale
compirà sul suo corpo, con
altrettanta profondità d'intuito,
con altrettanta genialità, l'opera da
me iniziata sulla sua chioma.
Come avrà indovinato, signore,
alludo ad un artista del costume
(... lo chiamo così per non usare la
banale espressione di «sarto»...)
Egli si perde volentieri nel mondo
ideale: creando forme e figure con
la fantasia, ha fondato un
magazzino dei più disparati
indumenti di vestiario; Lei vi potrà
vedere l'uomo elegante moderno,
in tutte le possibili «nuances» in
cui ama mostrarsi: ora arrogante,
ardito, tanto da oscurare tutti
attorno a sé, ora cogitabondo,
svagato, ora ingenuamente frivolo
- ironico, faceto, imbronciato,
malinconico, bizzarro, sfrenato,
leggiadro, goliardico... Vedrà il
giovinetto che per la prima volta si
è fatto fare un abito nuovo senza i
consigli inibitori della mamma o
del precettore, il quarantenne,
costretto a incipriarsi i capelli per
mascherar la canizie, il vecchio
gaudente, l'uomo di scienza, come
si presenta in società... Tutto è
appeso ed esposto nella bottega
del mio Damone; e fra pochi
istanti tali capolavori le verranno
sciorinati davanti agli occhi -.
Corse via saltellando e riapparve
poco dopo insieme a un omone
grande e grosso, decorosamente
vestito, il quale, per figura e
carattere, costituiva la più perfetta
antitesi del piccoletto.
Damone mi misurò con gli
occhi e cercò quindi egli stesso,
nel pacco portatogli da un
garzoncello,
alcuni
capi
di
vestiario
perfettamente
rispondenti ai miei desideri.
Soltanto
in
seguito
potei
apprezzare la finezza di tatto di
quell'«artista del costume» (come,
con preziosa espressione, lo aveva
definito il piccolino...), il quale
aveva orientato la propria scelta al
criterio
di
non
farmi
assolutamente notare; dovevo
passare
inosservato
e,
se
osservato, incutere rispetto ma
senza suscitare alcuna curiosità
relativa alla mia condizione, al
mio
mestiere
ecc.,
ecc..
Effettivamente è molto difficile
vestire in modo che il carattere
generale dell'abito non suggerisca
congetture circa la professione di
chi l'indossa, anzi, a nessuno
venga in mente di tentare
supposizioni del genere. L'abito
del cosmopolita è caratterizzato
soprattutto dai propri elementi
negativi; press'a poco come il
cosiddetto «modo di comportarsi
delle persone educate», per le
quali è più importante conoscere
ciò che non si deve di ciò che «si
deve» fare.
Il piccolino si diffuse ancora in
ogni sorta di sproloqui strampalati
e grotteschi; e siccome forse pochi
altri ascoltatori gli avevano mai
prestato così benevolo ascolto
come il sottoscritto, sembrava
arcisoddisfatto
di
potersi
finalmente mettere in piena luce.
Damone, persona seria e - a
quanto mi parve - intelligente, gli
troncò il discorso all'improvviso e
disse, prendendolo per le spalle: Schönfeld, oggi sei di nuovo molto
in vena di dir sciocchezze.
Scommetto che, a furia di
ascoltare le tue frottole, al signore
dolgono già le orecchie -.
Belcampo chinò mestamente il
capo e si avviò alla porta
declamando: - Ecco, perfino il mio
migliore
amico
mi
copre
d'infamia!
- Che razza di scombinato
originale, quel Schönfeld! mi disse
Damone congedandosi. - Il troppo
leggere gli ha dato alla testa. Ma a
parte questo è un buon uomo,
espertissimo nel suo mestiere.
Perciò mi è simpatico... Quando si
è capaci di fare molto bene almeno
una cosa, qualche volta ci si può
anche permettere di passare un
po'i limiti... - Rimasto solo,
incominciai
ad
esercitarmi
sistematicamente a camminare
davanti alla grande specchiera. Il
piccolo barbitonsore mi aveva dato
un avvertimento giustissimo. È
caratteristica dei monaci una certa
qual rapidità di andatura, pesante
e maldestra insieme, causata dalla
lunga tonaca che inceppa il passo
e dallo sforzo di muoversi
velocemente come esige il culto.
Altra
caratteristica
che
difficilmente sfugge all'attenzione,
il corpo leggermente ripiegato
indietro e il portamento delle
braccia non mai penzoloni: perché
il monaco, quando non le tiene
giunte, le infila nelle ampie
maniche del saio. Cercai dunque
di disabituarmi a questi malvezzi
per cancellare ogni traccia del mio
antico stato. Un solo pensiero mi
dava conforto: consideravo l'intera
mia vita come già vissuta, vorrei
dire come un fatto ormai superato
e sentivo di star iniziando una
nuova esistenza; una forza
spirituale sembrava animare il
nuovo personaggio e questo
prendere il sopravvento facendo
impallidire, anzi, cancellando
addirittura perfino il ricordo della
precedente esistenza. L'intenso via
vai di persone, l'incessante fragore
del traffico nelle strade, tutto era
nuovo per me e sembrava fatto
apposta per mantenermi nella
vena di allegria in cui mi aveva
messo
il
piccolo
barbiere.
Indossato il decoroso abito nuovo
mi feci coraggio e scesi a sedere
all'affollata tavola dell'albergo.
Ogni
timore
svanì
quando
constatai
che
nessuno
mi
osservava e neppure il mio vicino
di tavola si prendeva la pena di
alzar gli occhi su di me mentre mi
sedevo. Memore
della
mia
liberazione avvenuta grazie al
priore, nell'elenco dei forestieri mi
ero
firmato
«Leonardo»,
qualificandomi
un
privato
qualsiasi in viaggio di piacere.
Viaggiatori come me dovevano
essercene a bizzeffe in città, perciò
non offersi alcun motivo di
imbarazzanti interrogazioni.
Provavo
un
piacere
particolarissimo nell'andarmene a
zonzo per le vie, mi divertivo un
mondo a guardare gli eleganti
negozi, le insegne dipinte o incise
su rame. Di sera frequentavo le
pubbliche
passeggiate;
ma
sentirmi così sperduto fra tanto
movimento di gente mi riempiva
di
amarezza.
Non
essere
conosciuto da nessuno, non
leggere negli sguardi di nessuno il
più vago interrogativo sul conto
mio - chi fossi, quale strano gioco
del caso mi avesse trascinato colà,
che cosa celassi in me -,
quantunque, date le circostanze,
mi
convenisse,
mi
faceva
rabbrividire di terrore. Mi sentivo
come un'anima in pena vagante
sulla terra fra cose un tempo
amate e piacevoli ed ora morte per
sempre. Se poi ricordavo con
quanta cordialità, quanto rispetto
mi salutavano i passanti quand'ero
il celebre predicatore e con quale
trepidazione
speravano
ch'io
rivolgessi loro qualche parola,
allora una tristezza amarissima
m'invadeva. Ma quel predicatore
era frate Medardo, morto e sepolto
in fondo a un precipizio, fra i
monti. - Non ero io: perché io
vivevo - anzi, soltanto allora ero
nato a nuova vita, una vita
generosa di gioie, di piaceri. Così
pure quando sognavo i fatti
accaduti al castello, mi pareva
fossero accaduti ad un altro, non a
me. Soltanto il pensiero di Aurelia
mi riallacciava in qualche modo
alla mia primitiva esistenza. Ma il
più delle volte un dolore acerbo,
implacabile spegneva sul nascere
ogni
piacere,
e
allora
all'improvviso mi sentivo strappar
via da quei variopinti ambienti ove
la vita mi riafferrava sempre più.
Frequentavo
molto
i
locali
pubblici dove si giocava e beveva,
ma soprattutto mi ero affezionato
a un albergo in cui, per amore del
buon vino, ogni sera si radunava
una numerosa compagnia. Ad un
certo tavolo, in una saletta
laterale, sedevano sempre le
stesse
persone;
la
loro
conversazione
era
vivace,
spiritosa; avevano costituito un
circolo chiuso, ma io riuscii
ugualmente
ad
avvicinarle,
dapprima restandomene zitto e
quieto a bere il mio vino in un
angolo della saletta e finalmente
fornendo loro un'interessante
notizia
letteraria
ch'essi
inutilmente andavano cercando.
Venni perciò invitato al loro
tavolo; e, grazie al sempre più
ricco corredo di nozioni acquisite
approfondendo vari rami della
scienza a me fino allora ignoti,
quel posto mi venne conservato
molto volentieri.
Conoscere quelle persone mi
fece bene; abituandomi sempre
meglio
alla
vita
mondana,
diventavo ogni giorno più spigliato
ed allegro. Avevo ormai smussato
quasi tutti gli spigoli residui della
mia precedente esistenza.
Nella
compagnia
che
frequentavo si parlava molto da
parecchie sere d'un certo pittore
straniero
venuto
ad
aprire
un'esposizione di quadri nella
nostra città. Tutti, all'infuori di
me, l'avevano visitata, e lodavano
talmente l'eccellenza di quelle
opere che finalmente mi decisi ad
andarci anch'io. Quando entrai
nella sala il pittore non c'era; un
vecchio faceva da cicerone,
nominando gli autori dei quadri
esposti dal pittore, insieme ai
propri. Erano pezzi meravigliosi,
per lo più opere originali di celebri
maestri. Ne rimasi incantato.
Dinanzi ad alcuni dipinti definiti
dal vecchio «copie piuttosto
sommarie
di
certi
grandi
affreschi», mi baluginarono nella
memoria sopite reminiscenze
della lontana fanciullezza... ma poi
divennero ricordi, sempre più vivi
e
coloriti.
Quelle
copie
provenivano evidentemente dal
Sacro Tiglio... Nel san Giuseppe
d'una Sacra Famiglia riconobbi il
viso del pellegrino sconosciuto che
aveva
condotto
il
bimbo
prodigioso; guardandolo, una
profonda malinconia mi invase.
Ma
non
potei
reprimere
un'esclamazione
di
stupore
quando, in un ritratto a grandezza
naturale, riconobbi la mia madre
adottiva...
Era
un
ritratto
stupendo, rassomigliante nel più
eletto significato del termine, così
come avrebbe potuto dipingerlo
un Van Dyck... La principessa vi
appariva vestita come quando
doveva
partecipare
alla
processione delle suore, nel giorno
di san Bernardo. Il pittore l'aveva
colta nel momento in cui,
terminata
la
preghiera,
si
accingeva ad uscire dalla propria
camera per dare inizio alla
processione, mentre il popolo
attendeva impaziente radunato
nella chiesa, aperta, in prospettiva,
sullo sfondo. Nello sguardo di
quella donna straordinaria c'era,
perfetta,
l'espressione
d'uno
spirito rivolto al cielo... Ahimè!...
Essa
pareva
implorare
misericordia per il protervo
peccatore strappatosi via con
violenza al suo cuore materno. E
quel peccatore ero io!...
Sentimenti da lungo tempo
sopiti si ridestarono in me, una
indicibile nostalgia del passato mi
riafferrò... Mi rivedevo insieme al
buon parroco del villaggio vicino
al convento delle cistercensi,
rivedevo il ragazzino vivace,
ingenuo, allegro, trepidante di
gioia perché era il giorno di san
Bernardo... Rivedevo lei!... - Sei
stato davvero buono, e devoto,
Francesco?... - mi domandava con
voce velata dall'affetto... Com'era
tenera e armoniosa quella voce!...
Ah!... Che cosa avrei potuto
risponderle?... Avevo accumulato
misfatti su misfatti... all'infrazione
dei voti era seguito il delitto!...
Straziato dal dolore e dal rimorso
mi sentii quasi venir meno, e
caddi in ginocchio con gli occhi
pieni di lacrime. Il vecchio accorse
spaventato: - Che cos'ha?... Che
cosa le succede, signore?... - mi
domandò con affanno. - Il ritratto
della badessa rassomiglia in modo
impressionante a mia madre,
morta di morte crudele, - risposi
con voce spenta rialzandomi e
cercando di riprendere il controllo
di me.
- Venga, signore, - disse il
vecchio. - Sono ricordi troppo
penosi. Bisogna evitarli. C'è qui un
altro ritratto che il mio padrone
giudica il suo migliore. Lo ha
dipinto dal vero e terminato da
poco. Lo abbiamo coperto perché
il sole non rovini i colori non
ancora completamente asciutti -.
Il vecchio mi situò nella luce
migliore e in fretta tirò via il telo
di copertura. Era Aurelia! Fui colto
da un tale terrore che feci fatica a
dominarmi. Sentii la vicinanza del
Nemico... la sua volontà di
risospingermi nel vortice cui ero
appena sfuggito e di annientarmi.
E di nuovo ritrovai il coraggio di
ribellarmi al mostro fasciato di
tenebra misteriosa, imperversante
su di me. I tratti affascinanti di
Aurelia balzavano fuori radiosi da
quel vivissimo dipinto, ed io li
divoravo con gli occhi... Il mite
sguardo infantile della buona
fanciulla pareva accusare l'efferato
assassino del fratello. Ma l'aculeo
velenoso della perfidia, del
dileggio, nascenti in me, spegneva
ogni sentimento di rimorso, mi
risospingeva fuori di quell'aura
amorevole. Un pensiero solo mi
torturava: che quella notte fatale
Aurelia non fosse stata mia. La
comparsa di Ermogene aveva
sventato l'impresa. Ermogene
aveva pagato con la vita!... Ma
Aurelia era ancora viva, e tanto
bastava ad alimentare la speranza
di possederla!... Sì, certamente
sarebbe stata mia, non avrebbe
potuto sfuggire al destino. E il
destino non ero io stesso?... Così,
contemplando il quadro, mi
incitavo al delitto. Il vecchio
pareva stupito e continuava a
blaterare di «disegno», «tonalità»,
«colorito», ecc.... Ma io non lo
udivo. Ero talmente assorto nel
pensiero di Aurelia, nella speranza
di poter ancora compiere l'infamia
differita, che me ne andai via in
fretta senza neppure domandare
del pittore straniero e - forse venir a sapere che cosa si celasse
sotto quei quadri che parevano un
intero ciclo di allusioni alla mia
vita trascorsa.
Per avere Aurelia ero deciso a
osare qualsiasi cosa; mi sentivo
tanto al disopra della mia vita e
delle sue vicissitudini da poter
vedere tutto come in trasparenza,
dall'alto... Dunque non avevo nulla
da «osare» né da temere!...
Rimuginavo ogni sorta di progetti
e di disegni per avvicinarmi al mio
obiettivo, sperando soprattutto di
venir a sapere qualcosa per mezzo
del pittore straniero; volevo
indagare
ancora
su
talune
circostanze a me ignote e
probabilmente assai utili alla
preparazione del mio piano.
Avevo in mente niente meno
che di ritornare al castello nel
nuovo travestimento, e tale
impresa
non
mi
sembrava
neppure tanto azzardata.
Quella sera mi ritrovai con i
soliti amici e mi costò non poca
fatica metter freno alla mia
sempre crescente eccitazione e al
lavorio della fantasia esaltata.
Si parlò molto dei quadri del
pittore straniero e specialmente
della rara espressività dei suoi
ritratti. Mi fu possibile associarmi
a quel coro di lodi magnificando
l'indicibile incanto dell'angelico
viso di Aurelia; mi espressi in
termini molto brillanti, ma il brio
del mio discorso era soltanto un
riflesso della beffarda ironia che
mi divorava come un fuoco
implacabile. Uno dei presenti
disse che la sera seguente avrebbe
condotto il pittore: era un artista
meraviglioso e un uomo molto
interessante,
anche
se
già
piuttosto avanti negli anni; e
doveva trattenersi ancora per
qualche tempo in città per
ultimare alcuni ritratti.
Turbato da sensazioni e
presentimenti strani, la sera dopo
ritornai al convegno più tardi del
solito. Lo straniero sedeva al
tavolo volgendomi le spalle.
Quando sedetti anch'io e lo
guardai mi vidi dinnanzi il
terrificante viso dello sconosciuto
che il giorno di Sant'Antonio,
appoggiato al pilastro della chiesa,
mi aveva riempito d'angoscia e di
orrore. Egli mi guardò a lungo, con
severità; ma lo stato d'animo in
cui mi trovavo da quando avevo
visto il ritratto di Aurelia mi diede
il coraggio e la forza di
sopportarne lo sguardo. Il nemico
aveva finalmente preso forma
visibile: ora si trattava di
ingaggiare con lui una lotta per la
vita e per la morte. Decisi di
attendere l'attacco e di respingerlo
con armi sulla cui efficacia potevo
contare. Lo straniero non parve far
gran caso di me; distolse subito lo
sguardo e riprese la conversazione
interrotta. Si venne a parlare dei
suoi quadri; e tutti lodarono
specialmente il ritratto di Aurelia.
Qualcuno osservò che quell'opera,
benché
a
prima
vista
si
presentasse come un ritratto,
sarebbe potuta servire come
studio per l'immagine d'una santa.
Poiché io avevo illustrato così
egregiamente il quadro e tutti i
suoi pregi, mi chiesero il mio
parere. Risposi quasi senza
pensarci che non riuscivo a
immaginare santa Rosalia con un
viso diverso da quello della
sconosciuta del ritratto. Il pittore
parve quasi non rilevare le mie
parole e subito soggiunse: - Sì,
infatti, quella donna è una santa
che ha dovuto lottare per
innalzarsi alle cose celesti. L'ho
copiata fedelmente mentre una
pena tremenda la torturava; e ciò
nonostante era piena di speranza
nel conforto della religione e
nell'aiuto
della
divina
provvidenza; ho appunto cercato
di rendere l'espressione di tale
speranza: un sentimento concesso
soltanto agli spiriti capaci di
elevarsi molto al disopra delle
cose terrene...
A questo punto si cambiò
discorso. Il buon vino bevuto con
maggiore abbondanza del solito in
onore del pittore straniero,
incominciò a rallegrare gli umori.
Riuscii a raccontare qualcosa di
divertente; lo straniero rideva
soltanto con gli occhi ma di
quando in quando interveniva con
qualche
breve
sortita bene
azzeccata, mantenendo vivace il
tono della conversazione. Quando
mi fissava non potevo reprimere
una
segreta
sensazione
di
smarrimento e d'inquietudine, ma
il terrore che mi aveva colto nel
vederlo ero riuscito a dominarlo.
Parlai di Belcampo, ben noto a
tutti, e ne imitai, con grande
successo gli spassosissimi vezzi.
Un mercante grasso e gioviale
seduto di fronte a me mi assicurò,
ridendo fino alle lacrime, di non
aver mai più trascorso, da molto
tempo, una serata così divertente.
Quando le risate incominciarono a
calmarsi, il pittore domandò di
punto in bianco: - Non avete mai
visto il diavolo, signori?... - Tutti
credettero che quella domanda
preludesse a una nuova facezia, e
risposero in coro di non aver mai
avuto un simile onore. - Poco c'è
mancato che quell'onore non
l'avessi io, - proseguì lo straniero, e precisamente nel castello del
barone F., su in montagna -. Io
trasalii,
ma
gli
altri
lo
incoraggiarono ridendo: - E poi?...
E poi?... - Se per venire in questa
città sono passati attraverso le
montagne, - riprese il pittore, loro
tutti
probabilmente
conosceranno la località selvaggia,
spaventosa che
si
incontra
uscendo dal folto della pineta:
quelle altissime masse rocciose
sotto cui si spalanca una nera e
profonda voragine. È il cosiddetto
«abisso del diavolo», su cui sporge
lo sperone di roccia chiamato «il
trono del diavolo». Si dice che il
conte Vittorino vi si sia seduto
sopra con la mente piena di cattivi
propositi e all'improvviso il
diavolo lo abbia fatto precipitare
nell'abisso, avendo intenzione di
compiere egli stesso la gradevole
impresa
progettata
dallo
sciagurato conte. Il diavolo
comparve quindi nel castello del
barone travestito da cappuccino e,
dopo aver preso piacere con la
baronessa, la spedì all'inferno. Il
figlio del barone, il povero pazzo
che non voleva tollerare il suo
incognito e andava proclamando
ad alta voce: «Quel frate è il
diavolo!... È il diavolo!», venne
bellamente sgozzato dal diavolofrate medesimo; in tal modo
un'anima buona fu salvata dalla
perdizione e sottratta ai perfidi
raggiri del Maligno. Dopodiché, il
cappuccino incomprensibilmente
disparve: fuggito - si disse davanti
a Vittorino, risorto sanguinante
dalla tomba. Comunque sia, posso
garantire che la baronessa morì di
veleno,
Ermogene
venne
proditoriamente assassinato, il
barone poco dopo morì di dolore e
Aurelia - la santa fanciulla che io
ritrassi nel castello, all'epoca della
spaventosa tragedia - fuggì, orfana
e sola, in terra straniera e andò a
rifugiarsi in un convento di suore
cistercensi, la cui badessa era stata
amica di suo padre. Loro hanno
visto nella mia galleria il ritratto di
quella straordinaria fanciulla. Ma
questo signore (e fece cenno a
me...), potrà raccontarci assai
meglio e più dettagliatamente
come siano andate le cose, perché
durante i fatti si trovava al
castello.
Tutti
gli
sguardi
si
appuntarono su di me, pieni di
stupore.
Balzai in piedi indignato: - Ma
come, signore! - protestai con voce
vibrata: - Che c'entro io con le sue
stupide diavolerie?... Con le sue
cronache criminali?... Lei mi
prende per un altro... mi prende
per un altro, le dico!... La prego di
lasciarmi
fuori
da
questa
faccenda!... - Lo sconvolgimento
interiore mi rese piuttosto difficile
dare una sia pur tenue patina di
indifferenza alle mie parole.
L'effetto dell'oscura allusione del
pittore, la mia viva inquietudine
erano già stati anche troppo
evidenti. Il buon umore generale
svanì. Gli amici ricordarono come
mi fossi inserito poco a poco nella
loro compagnia essendo, di fatto,
del
tutto
sconosciuto;
e
incominciarono a guardarmi con
occhi pieni di diffidenza e di
sospetto. Anche il pittore straniero
si era alzato e mi trapassava con lo
sguardo di quei suoi occhi
immobili, di morto resuscitato,
come aveva fatto nella chiesa dei
cappuccini; pareva impietrito,
senza vita... Ma la sua figura
spettrale mi faceva rizzare i capelli
sulla testa... Avevo la fronte
madida di sudore freddo e
tremavo, terrorizzato, in tutte le
fibre. - Vattene!... - urlai fuori di
me. - Sei tu Satana... sei tu il
criminale assassino!... Ma su di
me non hai alcun potere!...
Tutti balzarono in piedi: - Che
succede?... Che significa?... - sentii
gridare confusamente da ogni
parte. I giocatori, spaventati dal
tono terrificante della mia voce,
irruppero tutti insieme dalla sala
vicina. - È ubriaco... È pazzo...
Portatelo via!... - esclamarono
molti avventori. Ma il pittore
straniero era sempre là, davanti a
me, e continuava a fissarmi. Pazzo
di furore e di disperazione, trassi il
coltello con cui avevo ucciso
Ermogene (... lo portavo sempre
con me), e mi avventai contro il
pittore il quale mi stese a terra con
un pugno. La sua risata di scherno
risuonò
agghiacciante
nella
camera: - Frate Medardo, frate
Medardo, tu stai barando... Và, e
disperati nel rimorso e nell'onta! Mi sentii afferrare da non so
quante mani ma mi svincolai e,
lanciandomi
come
un
toro
infuriato contro la folla degli
avventori - molti dei quali
ruzzolarono a terra - mi apersi un
varco e mi precipitai fuori. Mentre
correvo lungo il corridoio, una
porticina laterale si aprì e
qualcuno mi trascinò in una
camera
buia.
Non
opposi
resistenza perché avevo gli
inseguitori alle calcagna. Quando
la schiera di costoro fu passata
oltre, lo sconosciuto mi fece
scendere in cortile per una scaletta
secondaria, e quindi in strada,
dall'uscita
posteriore
del
caseggiato. Qui, alla luce di un
lampione, riconobbi nel mio
salvatore il buffo Belcampo. - A
quanto pare, - mi disse costui, vossignoria
ha
avuto
uno
spiacevole incidente col pittore
straniero. Stavo bevendo un
bicchieretto nella sala attigua
quando
è
scoppiato
il
pandemonio.
Conoscendo
l'ubicazione della casa, ho deciso
di salvarla; perché la colpa
dell'infortunio
è
stata
esclusivamente mia.
- Com'è possibile? - domandai
stupito.
Chi
può
comandare
all'ispirazione del momento?...
Opporsi ai suggerimenti dello
spirito supremo?... - proseguì il
piccolino, con enfasi. - Mentre le
acconciavo i capelli, illustrissimo,
mi balenarono in mente - comme
à l'ordinaire - le idee più sublimi.
Mi
abbandonai
all'impulso
travolgente dell'estro, scordando
non soltanto di metterle in piega il
ricciolo della collera sul cocuzzolo
della testa, ma anche di tagliarle i
ventisette
capelli
della
orripilazione, sulla fronte... Sotto
lo sguardo fisso del pittore (... il
quale è un «revenant», né più né
meno...),
questi
capelli
si
inclinarono con un cigolio verso il
ricciolo della collera che, di scatto,
si
scompigliò
sibilando,
scoppiettando... Io ho visto tutto.
Allora, accecato dal furore, lei,
illustrissimo, ha tratto un coltello
già intriso d'altro sangue... Ma
sarebbe stata fatica vana spedire
nell'Orco
un
uomo
già
appartenente all'Orco. Perché quel
pittore dev'essere Asvero, l'Ebreo
Errante, o Bertram de Bornis,(7) o
Mefistofele, o Benvenuto Cellini, o
san
Pietro...
un
revenant,
insomma. E lo si può esorcizzare
unicamente ritorcendo su un ferro
ben caldo l'idea in cui egli
consiste; oppure arricciando con
pettini elettrici i pensieri ch'egli
deve
assorbire
per
nutrir
quell'idea.
Come
vede,
illustrissimo, per un artista e
fantasista di professione come me,
simili bazzecole sono «pomata»
(8) ... Questo modo di dire, tratto
dal gergo del nostro mestiere, è
molto più importante di quanto
non si creda - sempreché la
pomata in questione contenga olio
di garofano genuino...
La strampalata tiritera del
piccolo messere il quale, così
cianciando, correva insieme a me
per le strade, mi suonava, in quel
momento, quasi sinistra; e se di
tanto in tanto mi voltavo ad
osservare i salti buffoneschi, il
comico viso del nanerottolo
scoppiavo a ridere forte, d'un riso
convulso.
Finalmente giungemmo nella
mia camera. Belcampo mi aiutò a
far bagagli e in breve tutto fu
pronto per il viaggio. Premetti in
mano al piccolino parecchi ducati,
ed egli si mise a saltar per la gioia
gridando: - Evviva!... Finalmente
ho un po'di onorato denaro... oro
zecchino... oro sonante... intriso di
sangue del cuore, iridato di raggi
rossastri... Questa vuol essere
soltanto una battuta, signore...
una battuta faceta, ma niente di
più.
Conclusa la sua esclamazione
con questa frase suggeritagli,
credo,
dal
mio
evidente
turbamento, Belcampo mi chiese
di dare la debita piega al ricciolo
della collera, di accorciarmi i
capelli dell'«orripilazione» e... di
prendersi
per
ricordo
un
riccioletto dell'amore. Lo lasciai
fare, ed egli eseguì il tutto con
mossette
ed
atteggiamenti
farseschi. Infine impugnò il
coltello che, nel cambiarmi
d'abito, avevo deposto sul tavolo,
assunse una posa di schermitore e
incominciò a sciabolar l'aria
gridando: - Io lo uccido, il
Nemico!... E poiché il Nemico è
un'idea allo stato puro deve venire
ucciso da un'altra idea - la mia che io accompagno, per accrescere
l'espressione,
con
opportuni
movimenti del corpo... Apage
Satanas... apage, apage... Ashverus,
allez- vous- en!... Ecco, è fatta, concluse deponendo il coltello, e
ansimando, e tergendosi il sudore,
come se si fosse strapazzato per
compiere un pesante lavoro. Volli
nascondere in fretta il coltello e
me lo infilai nella manica come se
indossassi ancora la tonaca da
frate; egli notò il mio gesto e
sorrise
malizioso.
In
quel
momento il corno del postiglione
squillò davanti alla porta di casa.
Belcampo mutò improvvisamente
d'atteggiamento e di tono, tirò
fuori un fazzolettino, finse di
asciugarsi le lacrime, si inchinò
ossequiosamente un'infinità di
volte, mi baciò la mano e la falda
dell'abito implorando: - Due
messe per la mia nonna, morta
d'indigestione - quattro per mio
padre,
morto
di
digiuno
involontario, reverendo... E per
me, quando sarò morto, una
messa ogni settimana. Per intanto,
assolvetemi dai miei innumerevoli
peccati... Ah, reverendo! In me si
cela un infame briccone peccatore,
e dice: «Peter Schönfeld, non fare
il somaro!... Non credere di esser
te stesso, perché lo sono io... Mi
chiamo Belcampo, sono un'Idea
geniale, e se non lo credi io ti
metto a terra con un pensiero
sottile come un capello». Quest'uomo
diabolico,
detto
Belcampo, reverendo, ha tutti i
vizi possibili - fra l'altro, dubita
spesso della realtà, si ubriaca
spessissimo, si altera e fornica con
certi bei pensierini verginali...
Questo
Belcampo
mi
ha
completamente
confuso
e
disorientato, sicché io, Peter
Schönfeld spesso saltello in modo
sconveniente e deturpo il colore
dell'innocenza perché, calzato di
seta bianca e cantando «in dulci
jubilo», vado a sedermi nella m...
Chiedo perdono per entrambi: per
Pietro Belcampo e per Peter
Schönfeld!
La
ciarlataneria
di
quell'individuo mi infastidì: - Ma
sia serio, una buona volta! - gli
gridai. Entrò il cameriere a
prendere
il
mio
bagaglio.
Belcampo, subito di nuovo allegro,
balzò in piedi e, senza smetter di
chiacchierare, lo aiutò a portarmi
quanto ancora andavo chiedendo,
nella fretta.
- Quel tipo è un cialtrone fatto
e finito, non bisogna dargli troppa
confidenza, - mi disse il cameriere
chiudendo lo sportello della
vettura. Lanciai a Belcampo
un'occhiata
significativa,
ponendomi un dito sulle labbra ed
egli mi gridò sventolando il
cappello: - Fino all'estremo
respiro, illustrissimo!...
Quando
incominciò
ad
albeggiare, la città era ormai molto
lontana dietro le mie spalle e la
terrificante figura dell'uomo che
mi ossessionava come un mistero
insondabile
s'era
dileguata.
L'invariabile domanda del mastro
di posta - Per dove, signore? - mi
ricordava
ogni
volta
implacabilmente come io stessi
andando ramingo per il mondo
sulle onde fluttuanti del caso,
senza più alcun legame con la vita
civile. Ma non era stata forse una
potenza irresistibile a strapparmi
via di forza da tutto ciò che mi era
caro, affinché lo spirito disceso in
me potesse allargare le ali e
librarsi, libero, in volo?... E intanto
continuavo a percorrere quelle
meravigliose
contrade
senza
trovar requie in nessun luogo,
sospinto via, lontano, sempre più
lontano, verso il meridione. Senza
quasi rendermene conto, non mi
ero
scostato
di
molto
dall'itinerario
tracciato
da
Leonardo; e così, la spinta che mi
aveva proiettato nel mondo
continuava, come per virtù di
magia, a farmi procedere nella
giusta direzione. Durante una
notte scura e nuvolosa, attraversai
un foltissimo bosco che si
estendeva fino alla prossima
stazione, il mastro di posta me ne
aveva avvertito, consigliandomi di
attendere fino alla mattina
seguente; ma io, impaziente di
raggiungere al più presto una
meta a me stesso ignota, m'ero
rifiutato di dargli retta. Già al
momento
della
partenza
lampeggiava in lontananza; ma
ben presto neri nuvoloni si
addensarono, avanzando gravidi di
tempesta: il fragore del tuono
rombava spaventoso nell'eco di
mille
voci,
rosse
saette
s'incrociavano sull'orizzonte, a
perdita d'occhio, gli alti pini
scricchiolavano, squassati fino alle
radici, la pioggia cadeva a rovesci.
Ad ogni passo correvamo il rischio
di essere schiacciati dagli alberi, i
cavalli impauriti dal bagliore delle
folgori
si
impennavano
continuamente;
quasi
non
riuscivamo più ad andare avanti. A
un certo punto la carrozza prese
un tale scossone che la ruota
posteriore si schiantò, e così
dovemmo rimanere fermi ad
attendere che il temporale finisse
e la luna spuntasse di dietro le
nubi. Soltanto allora il postiglione
si accorse che ci eravamo scostati
di molto dalla via carrozzabile;
non rimaneva altro da fare che
seguire, bene o male, il sentiero
del bosco in cui ci eravamo
inoltrati, sperando di giungere sul
far del giorno ad un villaggio. La
vettura venne puntellata con un
tronco d'albero e così, passo passo,
proseguimmo. Camminando in
testa al gruppo non tardai a
scorgere un bagliore in lontananza
e mi parve anche di udire un
abbaiar di cani. Non m'ero
sbagliato; infatti, dopo pochi
minuti,
i
latrati
divennero
chiarissimi e ci trovammo davanti
a una ragguardevole casa col
cortile protetto da un muro di
recinzione. Il postiglione bussò
alla porta, i cani balzarono avanti
abbaiando furiosamente ma nella
casa tutto rimase silenzioso e
morto fino a che il postiglione non
diede fiato al corno; allora un
lume tremò al piano superiore,
una finestra si aprì e una voce
profonda ed aspra gridò verso il
basso: - Cristiano, Cristiano!... - Sì,
signore, - rispose qualcuno di
sotto. - Bussano, suonano... riprese la voce dalla finestra. - I
cani sembrano impazziti. Prendi la
lanterna e la carabina numero 3 e
va a vedere che cosa succede.
Udimmo Cristiano richiamare i
cani e finalmente lo vedemmo
venire con la lanterna. - Senza
dubbio, - mi spiegò il postiglione, appena entrati nel bosco, invece di
andare diritto, avevamo piegato
lateralmente, perché ora ci
trovavamo davanti alla casa del
guardiaboschi, situata a un'ora di
strada dall'ultima stazione, sulla
destra.
Udito il racconto della nostra
disavventura, Cristiano aprì subito
il portone e ci aiutò a far entrare la
carrozza. I cani, ammansiti, ci
giravano intorno, scodinzolando e
annusandoci, e l'uomo alla
finestra continuava a gridare: - Chi
è là?... Chi è là?... Che razza di
carovana è questa?... - Ma né
Cristiano né alcuno di noi gli diede
spiegazioni. Mentre conducevano
al riparo cavalli e carrozza, entrai
finalmente in casa e mi vidi venire
incontro un omone robusto, col
viso abbronzato dal sole, un
cappellaccio con pennacchio verde
sulla testa e un coltello da caccia
in mano. L'omone, però, era in
camicia da notte e pantofole: Donde venite? - mi gridò con
asprezza. - È il modo di disturbare
la gente di notte?... Questo non è
un albergo né una stazione di
posta: qui abita il guardiaboschi,
che sono io! Cristiano è stato un
somaro ad aprirvi la porta!
Gli raccontai molto umilmente
il nostro infortunio, spiegandogli
come fossimo capitati là per
assoluta forza maggiore. L'omone
divenne più malleabile: - Sì, certo,
disse, - abbiamo avuto un
temporale tremendo; ma il
postiglione è stato un tanghero a
perder la strada. Un tipo come lui
dovrebbe saper viaggiare nel bosco
a occhi chiusi, esserci di casa,
come uno di noi -. Quindi mi
condusse di sopra, depose il
coltello, il cappello, si gettò
addosso un vestito e mi pregò di
non
interpretare
male
l'accoglienza sgarbata. Abitando in
un luogo così isolato bisognava
stare sempre in guardia perché il
bosco pullulava di gentaglia. Con i
bracconieri, poi, si
trovava
addirittura in guerra aperta; già
parecchie volte avevano attentato
alla sua vita. - Ma quei manigoldi
non possono nulla contro di me, proseguì, - perché, con l'aiuto di
Dio, io faccio onestamente e
lealmente il mio dovere; e fidando
in Dio e nel mio buon fucile posso
tener testa alle loro angherie -. Per
antica consuetudine mi lasciai
involontariamente sfuggire alcune
untuose parole sulla forza della
fede in Dio. Il guardiaboschi si
schiarì ancor di più. Incurante
delle mie proteste volle svegliare
sua moglie. Costei, una matrona
attempata ma tranquilla e gioviale,
benché svegliata in piena notte
diede un cordiale benvenuto
all'ospite e, per ordine del marito,
si mise subito a preparare un
boccone di cena.
Il guardiaboschi impose come
castigo al postiglione di ritornare
con la carrozza rotta alla stazione
di posta donde eravamo partiti,
entro la notte stessa. Alla
prossima stazione mi avrebbe
condotto egli stesso quando mi
fosse piaciuto. La proposta mi
tornò assai gradita perché proprio
sentivo la necessità d'un breve
riposo.
Risposi
che
avrei
desiderato
restare
fino
a
mezzogiorno dell'indomani per
rimettermi
dalla
stanchezza
causatami da molti giorni di
viaggio ininterrotto. - Se posso
darle un consiglio, signore, - disse
il guardiaboschi, - si trattenga
ancora tutta la giornata di domani;
doman l'altro mando il mio
figliolo maggiore alla residenza del
principe e ad accompagnarla alla
prossima stazione
di posta
penserà lui -. Anche questa
seconda proposta mi soddisfece
perché sostare in quel luogo
solitario mi tentava moltissimo.
- Vede, signore, - spiegò il
guardiaboschi, - questo luogo non
è solitario. Secondo il concetto dei
cittadini bisognerebbe chiamare
solitaria
qualsiasi
abitazione
situata in un bosco, mentre la cosa
dipende molto da chi ci vive. Ecco,
quando in questo antico castello
abitava un vecchio signore
bisbetico e se ne rimaneva chiuso
fra le sue quattro mura, senza
avere alcun gusto per il bosco né
per la caccia, allora questa poteva
ben dirsi una dimora solitaria. Ma
da quando quel signore è morto e
il principe ha adibito il castello a
residenza
del
guardiaboschi,
questa è diventata una casa molto
animata. Lei è ancora molto
cittadino, signore, e non può
nemmeno immaginare che vita
allegra, meravigliosa conduciamo
noialtri, cacciatori. Io e i miei
garzoni formiamo come una sola
grande famiglia... Forse lo troverà
curioso... ma in questa famiglia io
comprendo anche i miei bravi
cani... Ah, se mi capiscono!
Sempre attenti ad ogni mia parola,
ad ogni mio cenno... fedeli fino
alla morte. Osservi con che occhi
intelligenti mi guarda il mio
Waldmann: capisce che sto
parlando di lui!... Vede, signore:
nel bosco c'è quasi sempre
qualcosa da fare. Di sera,
preparativi, lavori di casa; alle
prime luci del mattino mi alzo e
esco
suonando
un'allegra
canzoncina di caccia col mio
corno. Allora tutti si svegliano, si
precipitano dal letto; i cani
abbaiano, frementi di gioia e di
desiderio di caccia. I ragazzi si
vestono in fretta: carniere a
tracolla, fucile in spalla, e corrono
tutti insieme nel tinello dove la
mia vecchia ha preparato la
colazione dei cacciatori. E poi via,
fuori, allegri e festosi. Arrivati
vicino
ai
nascondigli
della
selvaggina, ognuno di noi si
apposta a una certa distanza
dall'altro. I cani avanzano quatti
quatti, la testa puntata verso terra,
annusando, fiutando la preda e
sbirciando il cacciatore con occhi
quasi umani... E il cacciatore è là,
immobile, come radicato al suolo
e trattiene il respiro, col dito sul
grilletto. Ma quando la selvaggina
schizza fuori dalla macchia e i cani
si slanciano ad inseguirla fra il
crepitare delle fucilate, eh, signor
mio, allora sì che il cuore si mette
a battere e ci si sente un altro. E
ognuna di queste battute ha
sempre qualcosa di nuovo, perché
ogni volta succede qualcosa di
speciale, di non mai successo
prima. Il semplice fatto che la
selvaggina sia stagionale e le varie
specie di animali saltino fuori in
momenti diversi, rende la cosa
talmente affascinante che nessun
uomo
al
mondo
potrebbe
saziarsene. E poi, signore, anche il
bosco, il bosco di per se stesso, è
così allegro e vivo che io non mi ci
sento mai solo. Conosco ogni
angoletto, ogni albero; e ogni
albero cresciuto sotto i miei occhi
mi pare debba riconoscermi e
volermi bene perché l'ho coltivato
e curato; quando li sento stormire,
mormorare, protendendo nell'aria
le vette splendenti, mi sembra che
mi parlino con voci tutte speciali:
è un vero e proprio inno di lode a
Dio e alla sua onnipotenza, una
preghiera non ripetibile con
parole. Insomma, un cacciatore
onesto e buono conduce una vita
gioiosa, magnifica, perché gli è
rimasta ancora un po'dell'antica
libertà degli uomini che vivevano
interamente nella natura e non
sapevano nulla delle smancerie,
delle leziosaggini con cui voi vi
tormentate, nelle vostre prigioni
di pietra. Ormai voi ignorate
completamente le meraviglie di
cui Iddio ci ha circondati per la
nostra edificazione e la nostra
gioia, mentre gli uomini liberi
vivevano in perfetta armonia con
la natura, come ancora si può
leggere nelle antiche storie.
Il vecchio guardiaboschi mi
disse queste cose con un tono di
voce, con un'espressione così
sentiti e convinti, ch'io non potei
fare a meno di invidiargli quella
vita felice e quella tranquillità
d'animo poggiata su basi così
profonde, e tanto lontana dallo
stato d'animo mio.
In un'altra ala dell'edificio, per
la verità più vasto di quanto non
mi fosse parso a tutta prima, il
vecchio mi assegnò una cameretta
linda e pulita, in cui già trovai il
mio bagaglio: e mi lasciò,
assicurandomi che non sarei stato
svegliato
anzitempo
dal
movimento
e
dal
chiasso
mattiniero perché mi trovavo
assolutamente isolato dagli altri
coabitanti. Avrei quindi potuto
dormire fino a quando mi fosse
piaciuto; appena sveglio non avevo
che da chiamare e mi avrebbero
portato la colazione; ma lui, il
guardiaboschi, lo avrei riveduto
soltanto a pranzo perché la
mattina presto andava nel bosco
con i garzoni per non rientrare
prima di mezzogiorno.
Mi gettai sul letto e, stanco
com'ero, mi addormentai quasi
subito. Ma un sogno orribile mi
turbò
il
riposo.
Molto
stranamente, il sogno incominciò
con la coscienza di star prendendo
sonno. Dicevo a me stesso: «Ah, è
meraviglioso
addormentarsi
subito e poter dormire d'un sonno
così stretto e tranquillo... Questo
mi rimetterà completamente dalla
stanchezza... Soltanto, non devo
più aprire gli occhi»; e invece
sentivo di non poterne fare a
meno. Ad un tratto la porta si
aperse ed entrò una figura
tenebrosa in cui riconobbi con
orrore me stesso, vestito da
cappuccino, con tanto di barba e di
chierica. La figura si avvicinò
piano piano al mio letto... Io
rimasi immobile... feci per gridare
ma il grido mi morì nella strozza.
Il frate sedette sul mio letto e
mi fissò sogghignando: - Adesso
dovrai venire con me, - mi disse, saliremo insieme sul tetto, sotto la
banderuola che sta cigolando una
gaia canzoncina nuziale perché il
gufo va a nozze... Lassù ci
batteremo: colui che butterà giù
l'altro sarà re e potrà bere
sangue... - Mi sentii afferrare e
trascinare in alto... allora la
disperazione mi restituì le forze: Tu non sei me stesso... tu sei il
diavolo!... - urlai adunghiando il
volto del terrificante fantasma...
Sentii affondare le dita entro
cavità profonde... e la figura
scoppiò di nuovo in una risata
raggelante...
Mi
svegliai
sobbalzando sul letto, come
sospinto da una molla: ma la
risata risuonava ancora nella
camera. Balzai a sedere: i raggi
chiari
dell'aurora
filtravano
attraverso la finestra... In piedi
davanti al tavolo, le spalle rivolte a
me, vidi una figura vestita da
cappuccino. Il terrore mi raggelò il
sangue... lo spaventevole sogno si
avverava! Il cappuccino stava
frugando fra gli oggetti posati sul
tavolo; ad un tratto si volse: vidi
un viso sconosciuto con ispida
barba nera e, negli occhi, il riso
vacuo della demenza; non so
perché,
mi
ricordava
lontanamente Ermogene... Ripresi
coraggio e decisi di stare a vedere
che cosa stesse facendo; al primo
gesto minaccioso lo avrei fermato.
- Il mio stiletto era là, a portata di
mano, sulla mia forza fisica potevo
ben contare; perciò, anche senza
l'aiuto d'altre persone mi sentivo
in grado di fronteggiare il frate.
Questi pareva giocare come un
bambino con le cose mie e,
soprattutto, divertirsi con il
portafogli rosso... Lo girava e
rigirava fra le mani osservandolo
davanti alla finestra e ogni tanto
salterellava in un modo curioso.
Finalmente trovò la fiaschetta con
l'avanzo del vino misterioso, la
aperse, l'annusò e lanciò un urlo
raccapricciante, tremando in tutte
le membra.
Un orologio di casa suonò le
tre. Il frate si mise a piangere
come se soffrisse le pene
dell'inferno ma subito scoppiò
nella stessa risata agghiacciante
udita in sogno e si mise a saltare
come un forsennato; poi bevette
alcuni sorsi dalla fiaschetta, la
gettò via e uscì di corsa. Mi alzai in
fretta e cercai di inseguirlo; ma era
già sparito. Lo sentii scendere a
rotta di collo giù per una scala
lontana, poi udii un tonfo sordo,
come d'una porta sbattuta con
violenza. Mi chiusi in camera, a
scanso di altre visite, e di nuovo
mi gettai sul letto: ero troppo
sfinito per non riaddormentarmi
immediatamente. Mi
svegliai
fresco e riposato con la camera già
piena di sole. Il guardiano era
andato nel bosco con i figli e i
garzoni, come mi aveva detto.
Mentre la maggiore delle sue
figliole si dava da fare in cucina
con la madre, la più giovane - una
fanciulla fiorente e gentile - mi
portò la colazione e si mise a
raccontarmi con molto garbo della
loro allegra e serena vita comune:
solo talvolta, quando il principe
veniva a cacciare nella riserva e
pernottava in casa, c'era un grande
andirivieni
di
gente.
Così
chiacchierando trascorsero un
paio d'ore. A mezzogiorno voci
gioiose e squilli di corno
annunziarono il rientro del
guardiaboschi, dei figli (quattro
magnifici ragazzi pieni di salute, il
più giovane dei quali poteva avere
sì e no quindici anni) e di tre
garzoni. Il vecchio s'informò se
avevo dormito bene e non ero
stato svegliato anzi tempo dal
chiasso troppo mattiniero. Non
volli raccontargli la mia avventura
perché l'apparizione del sinistro
monaco in carne ed ossa si era
così strettamente collegata al
sogno, che quasi non riuscivo più
a stabilire con esattezza a qual
punto il sogno fosse diventato
realtà.
La minestra fumava sulla
tavola apparecchiata; il vecchio
stava togliendosi il berretto per
recitare le preghiere, quando la
porta si aperse ed entrò il
cappuccino apparsomi durante la
notte, non più con quel viso di
demente ma con un'espressione
truce e caparbia. - Benvenuto,
reverendo! - gli disse il vecchio
vedendolo entrare. - Reciti il
gratias e pranzi con noi -. Il frate
girò
attorno
uno
sguardo
fiammeggiante di collera e urlò
con voce spaventosa: - Che Satana
possa sbranare te, il tuo reverendo
e le tue maledette preghiere!...
Non mi hai forse attratto qui
dentro con la frode perché io fossi
il tredicesimo?... Per potermi far
uccidere
dal
forestiero
assassino?... Non mi hai messo
addosso questa tonaca perché
nessuno potesse riconoscere il
conte, tuo padrone e signore?...
Ma guardati, maledetto, dalla mia
collera!... - e, preso dalla tavola un
pesante boccale, lo scagliò contro
il guardiano il quale non ne ebbe
la testa spaccata soltanto perché
fu pronto ad evitare il colpo. Il
boccale andò a fracassarsi in mille
pezzi contro la parete. I garzoni
agguantarono il folle e lo
immobilizzarono. - Come! esclamò il guardiaboschi. - Come
osi
comportarti
così,
da
forsennato, fra noi brava gente?...
Attentare alla mia vita, dopo ch'io
ti ho tolto da uno stato bestiale e
salvato dall'eterna dannazione?...
Ah, monaco infame e sacrilego!...
Via, nella torre!... - Il frate cadde
in ginocchio e implorò pietà
singhiozzando. - Andrai nella
torre, - ripeté il vecchio, - e non
ritornerai più qui prima di aver
rinunziato al diavolo che ti acceca.
Altrimenti morirai!
Il monaco si mise a urlare
disperatamente, ma i garzoni lo
trascinarono via. Riferirono che
appena entrato nella camera della
torre, il monaco si era calmato; e
Cristiano, il sorvegliante, ci disse
più tardi che per tutta la notte era
andato in giro nei corridoi facendo
baccano e, verso l'alba, si era
messo a gridare: - Dammi ancora
di quel tuo vino!... Dammene... e
mi abbandonerò completamente a
te... Vino... ancora vino!... - A
Cristiano era parso che il frate
barcollasse come un ubriaco; ma
non riusciva a capire come avesse
potuto
procurarsi
bevande
inebrianti.
A questo punto non ebbi più
alcun scrupolo di raccontare la
mia disavventura notturna, senza
omettere
l'episodio
della
fiaschetta.
- Ah, gran brutto affare! esclamò il vecchio. - Lei dev'essere
un uomo di fegato e in pace con
Dio... Un altro sarebbe morto di
spavento! - Lo pregai di spiegarmi
che cosa ci facesse in casa sua quel
frate demente. - Ah, è una storia
lunga e complicata, - rispose lui. Una storia non adatta da
raccontarsi a pranzo. È già stato
abbastanza
spiacevole
essere
disturbati dalla brutale scenata di
quel tipaccio proprio mentre
stavamo per goderci allegri e
contenti questi doni di Dio. E
adesso, a tavola! - Così dicendo si
tolse
il
berretto
e
recitò
devotamente
il
gratias;
e,
conversando di argomenti allegri e
piacevoli, consumammo il robusto
e gustoso pasto paesano. Il
guardiano fece portare del buon
vino vecchio in onore dell'ospite e
ne bevve alla mia salute una bella
coppa, secondo la tradizione
patriarcale.
Sparecchiata la tavola, i garzoni
distaccarono i corni dalla parete e
suonarono un'aria di caccia; al
secondo ritornello si unì il canto
delle ragazze e la strofa conclusiva
fu ripetuta in coro anche dai figli
del guardiano. Mi sentivo allargare
deliziosamente il cuore: da molto
tempo non provavo più una simile
sensazione di intimo benessere,
come fra quella buona gente
semplice. I giovani continuarono a
cantare canzoni gaie e piacevoli
fino a che il vecchio non si alzò e
vuotò il bicchiere esclamando: Evviva i valorosi appassionati
della nobile arte venatoria! - Noi
tutti facemmo coro e così si
concluse
il
lieto
simposio,
solennizzato col vino e col canto in
mio onore.
- Adesso, signore, mi getto a
dormire per una mezz'oretta, - mi
disse il vecchio. - Poi andremo nel
bosco e le racconterò come il
monaco sia capitato in casa mia e
tutto ciò che so di lui. Intanto
verrà l'ora del tramonto; e
andremo alle poste perché, a
quanto ha detto Franz, ci sono
delle pernici. Daremo anche a lei
un buon fucile, così potrà tentare
la buona sorte!
La cosa mi tornava nuova
perché in seminario avevo sì,
tirato qualche volta al bersaglio,
ma alla selvaggina mai. Accettai la
proposta con grande soddisfazione
del guardiaboschi il quale, prima
ancora di andare a dormire, cercò
di impartirmi alla svelta le prime
nozioni indispensabili al maneggio
delle armi da fuoco.Equipaggiato
di fucile e carniere andai nel bosco
col guardiano che mi raccontò la
storia dello strano monaco così
come io la ripeto:
- Circa due anni fa i miei
garzoni incominciarono a sentire,
qui nel bosco, delle orribili urla
lamentose; erano urla che ben
poco avevano di umano, eppure
Franz - il mio apprendista assunto
più di recente - sosteneva che
potessero anche provenire da un
uomo. Il predestinato a venir
preso in giro dal mostro urlante
pareva proprio Franz: quando si
appostava, quegli ululati si
facevano sentire proprio vicino a
lui e spaventavano gli animali; e
una volta egli si accorse che
quando
stava
puntando
la
selvaggina, un essere irsuto,
sfigurato, sbucava dalla macchia e
gli mandava a vuoto il colpo. Franz
aveva la testa piena di tutte le
magiche leggende di caccia
narrategli dal padre - un vecchio
cacciatore - e propendeva a
credere che quell'essere fosse
Satana in persona e volesse
disamorarlo del mestiere, o
tendergli chissà quali insidie. Gli
altri garzoni, e perfino i miei figli,
finirono per pensarla come lui e
perciò vidi la necessità di chiarire
la cosa, soprattutto perché, a mio
avviso, si trattava d'un astuto
stratagemma dei bracconieri per
spaventare i miei cacciatori e
allontanarli dalle poste. Ordinai
perciò ai ragazzi di chiamare il
misterioso individuo appena si
mostrasse e, se questi non si fosse
fermato e dato a conoscere, di
sparargli
addosso
senz'altro,
secondo il diritto di caccia. Toccò
di nuovo a Franz di essere il primo
ad incontrarlo: spianò il fucile e lo
chiamò - l'uomo si ritrasse nei
cespugli, Franz premette il
grilletto ma l'arma fece cilecca.
Allora egli corse verso i compagni
terrorizzato e ormai convinto che
quell'essere fosse veramente il
diavolo, venuto a spaventare la
selvaggina, per fargli dispetto, e a
stregargli il fucile. Infatti da quel
giorno, pur essendo un ottimo
tiratore, non riuscì più a colpire
un solo animale. La voce che il
bosco fosse infestato dagli spiriti
si diffuse; nel villaggio già si
mormorava che Satana era
apparso a Franz, gli aveva offerto
proiettili magici, infallibili e altre
fandonie del genere. Decisi di por
fine allo scandalo e di andare io
stesso alla ricerca del mostro, in
cui non mi ero mai imbattuto. Per
molto tempo non ebbi fortuna;
finalmente, in una nebbiosa sera
di novembre, mentre stavo
appostato proprio là dove Franz lo
aveva visto per la prima volta, udii
un fruscio nella macchia. Senza
far rumore spianai il fucile,
supponendo la presenza d'un
animale, e invece vidi sbucare
l'orrenda figura d'un cencioso con
gli occhi arrossati, sfavillanti, la
barba nera, irsuta... Il mostruoso
individuo mi fissava ululando in
modo raccapricciante... Signore!...
Un simile spettacolo avrebbe
messo paura anche al più
coraggioso
degli
uomini...
Davvero, mi parve di vedermi
davanti il Diavolo e incominciai a
sudar freddo; ma recitando una
preghiera ad alta voce ritrovai
subito tutto il mio coraggio.
Quando pronunziai il nome di
Gesù Cristo il mostro urlò ancora
più furiosamente e alla fine
proruppe in un diluvio di
bestemmie spaventose. «Smettila
di bestemmiare Iddio, maledetto
briccone», gli gridai allora, «o
sparo e ti ammazzo come un
cane!» - Egli si gettò a terra
piagnucolando e chiedendo pietà.
Accorsero
i
garzoni,
lo
acciuffarono e lo portammo a
casa. Lo feci chiudere nella torre,
accanto al fabbricato annesso, con
l'intenzione di denunziare il caso
all'autorità la mattina dopo.
Appena entrato nella cella lo
sciagurato venne meno. La
mattina seguente lo ritrovai steso
sul giaciglio di paglia che piangeva
disperatamente. Mi cadde ai piedi
e mi supplicò d'aver pietà di lui:
viveva nel bosco da molte
settimane cibandosi d'erbe e frutta
selvatiche...
era
un
povero
cappuccino fuggito dalla prigione
d'un lontano convento, ove lo
avevano rinchiuso perché affetto
da pazzia. Lo vidi infatti in uno
stato
deplorevole,
ne
ebbi
compassione e gli feci portare cibo
e vino per rimetterlo in forze. Si
sentì subito meglio e mi pregò di
tollerarlo in casa per pochi giorni
soltanto; poi, se gli avessi
procurato una tonaca nuova,
sarebbe ritornato da solo al
convento. Lo accontentai e la sua
follia
parve
effettivamente
recedere; le crisi divennero meno
violente e più rare; ma quando lo
coglievano gli facevano dire cose
orribili. Osservai che se lo
rimproveravo e minacciavo di
morte cadeva in uno stato di
prostrazione
e
si
puniva,
supplicando Iddio e tutti i santi di
salvarlo dalle pene infernali. Alle
volte
credeva
di
essere
sant'Antonio; ma negli accessi
furiosi tempestava di essere il
conte, il padrone assoluto e
minacciava di farci uccidere tutti
appena giungessero i suoi servi.
Negli intervalli lucidi mi pregava
che, per l'amor di Dio, non lo
scacciassi, perché sentiva che
soltanto il soggiorno in casa mia
avrebbe potuto giovargli. Una sola
volta ancora fece una scenata
violenta, e precisamente quando il
principe venne a caccia in riserva e
pernottò qui. Dopo averlo visto in
mezzo al suo seguito brillante, il
frate parve trasformarsi: era
chiuso, caparbio, taciturno, se ne
andava
in
fretta
quando
pregavamo, fremeva tutto se
appena sentiva una sola parola di
devozione. Non solo: ma guardava
mia figlia, Anna, con occhi così
concupiscenti che decisi di
mandarlo via per evitare uno
scandalo. La notte prima di
mettere in atto il mio proposito,
fui svegliato da un urlo terribile...
Balzai dal letto e corsi col lume
acceso verso la camera delle mie
figliole. Il monaco, spinto dalle
sue voglie bestiali, era fuggito
dalla torre dove, di notte, lo tenevo
sempre chiuso, per correre dalle
mie ragazze. Per fortuna Franz si
era svegliato con una gran sete e
stava andando in cucina a
prendere un po'd'acqua; udì il
baccano, accorse e agguantò il
frate alle spalle mentre stava
sfondando la porta con un calcio.
Franz era troppo debole per tener
testa a quel forsennato: si
azzuffarono mentre le mie figliole,
svegliate in pieno sonno, urlavano
terrorizzate. Io giunsi proprio
nell'istante in cui il monaco,
atterrato
il
garzone,
stava
agguantandolo alla gola per
strangolarlo... Senza esitare li
separai ma, all'improvviso nelle
mani del frate vidi brillare un
coltello. Mi avrebbe colpito se
Franz, rialzatosi in piedi, non gli
avesse fermato il braccio. Forte
come sono, riuscii a premerlo
contro il muro fino a mozzargli il
respiro. Svegliati da quel gran
chiasso tutti i garzoni accorsero.
Legammo il monaco e lo
chiudemmo nella torre. Io presi lo
staffile e, per togliergli la voglia di
ritentare mai più imprese del
genere, lo frustai di santa
ragione... Il disgraziato urlava e
gemeva. Ma io gli dissi: «È ancora
troppo poco, canaglia, per la tua
infamia!... Volevi oltraggiare mia
figlia, hai tentato di uccidermi...
Morire dovresti!...», e lui gridava,
gridava terrorizzato: la paura della
morte
sembrava
addirittura
distruggerlo. La mattina dopo non
fu possibile portarlo via: era
disteso là, esausto, sembrava
morto... Ne provai veramente
compassione. Gli feci preparare un
buon letto in una camera migliore
e la mia vecchia si prese cura di lui
preparandogli minestre nutrienti,
dandogli qualche rimedio della
nostra farmacia domestica. La mia
vecchia ha la buona abitudine di
cantare una canzone religiosa,
quando è sola; ma certe volte, se
proprio vuole ristorarsi l'anima,
preferisce che gliela canti mia
figlia Anna, con la sua bella vocina
fresca. Così fecero anche accanto
al letto del malato. L'infelice
sospirava, guardava mia moglie e
Anna con occhi tristissimi,
sovente col viso rigato di lacrime.
Ogni tanto muoveva la mano, le
dita, come per farsi il segno di
croce ma non ci riusciva: la mano
gli ricadeva inerte; oppure gemeva
piano, come se volesse provare a
cantare con loro. Finalmente
incominciò a migliorare, riprese a
segnarsi sovente, come usano fare
i frati, a pregare sottovoce. Poi,
tutt'a un tratto - e chi se lo sarebbe
aspettato?... - si mise a cantare
canzoni latine. La mia vecchia e
Anna non ne capivano una parola
ma quelle melodie meravigliose
toccavano loro il cuore; e non si
stancavano di ripetere quanto le
edificasse quel malato!... Il
monaco guarì completamente, si
alzò, riprese a camminare per
casa; ma non sembrava più quello
di prima! Camminava piano piano,
compunto, a mani giunte, proprio
come si usa in convento, non
aveva più quel bagliore cattivo
negli occhi, il suo sguardo era
diventato mite... Ogni traccia di
pazzia, insomma, era scomparsa.
Si nutriva esclusivamente di pane,
acqua, verdure. Soltanto qualche
volta, negli ultimi tempi, ero
riuscito a farlo sedere alla nostra
tavola, a fargli accettare un po'di
pietanza, un pò di vino. Prima di
sedere a pranzo recitava il gratias
e poi ci intratteneva conversando;
era un piacere ascoltarlo, perché
parlava come pochi altri. Sovente
andava a passeggiare nel bosco da
solo. Una volta lo incontrai e così,
senza pensarci, gli domandai se
avesse intenzione di ritornare
presto al convento. Si turbò
moltissimo, mi prese la mano e
disse: «Amico mio, ti devo la
salvezza dell'anima; tu mi hai
salvato dall'eterna dannazione...
Ma non posso ancora lasciarti.
Permettimi di rimanere in casa
tua. Abbi pietà di me!... Satana mi
aveva adescato e sarei stato
irrimediabilmente perduto se il
santo tante volte invocato nelle
ore di angoscia non mi avesse
condotto, demente, in questo
bosco. Tu mi hai trovato ridotto in
condizioni inumane, e neppure
adesso immagineresti ch'io possa
esser stato un giovane dei più
generosamente dotati da madre
natura. Soltanto un'esagerata,
quasi morbosa tendenza alla
solitudine e agli studi profondi mi
spinse al convento. Tutti i
confratelli mi benvolevano in
modo eccezionale... Vivevo felice,
come soltanto in convento è
possibile. La pietà, il contegno
esemplare mi fecero far molta
strada; ero già considerato il
futuro priore. Ma un giorno uno
dei confratelli rientrò da un lungo
viaggio portando in convento
parecchie reliquie procuratesi
lungo la via. Fra queste c'era una
bottiglia, presa - dicevano - da
sant'Antonio al Diavolo che l'aveva
riempita di un elisir di perdizione;
anche
la
bottiglia
venne
conservata religiosamente, benché
a me la cosa paresse assurda e
contraria allo spirito di devozione
che dovrebbero ispirare le vere
reliquie. Ciò nonostante mi prese
un desiderio indescrivibile di
vedere che cosa veramente
contenesse quella bottiglia. Riuscii
a metterla in disparte - la apersi vi trovai un liquore forte,
dall'aroma
meraviglioso,
dal
sapore dolcissimo: e lo bevetti fino
all'ultima goccia. Occorre dirlo?...
Mi trasformai radicalmente nel
carattere, nella mentalità, divenni
assetato di piacere; il vizio, nei
suoi aspetti più seducenti, mi
parve la meta suprema della vita.
Insomma, la mia vita divenne una
catena di vergognosi misfatti;
cosicché, quando, malgrado la mia
diabolica astuzia, venni tradito, il
priore mi condannò alla prigione
perpetua. Trascorsi parecchie
settimane in quel carcere pieno di
tanfo e di umidità, incominciai a
maledire me stesso, la mia
esistenza - a bestemmiare Iddio e i
santi. Allora, entro un rosso alone
di fuoco, Satana mi apparve e mi
disse che se avessi distolto
interamente
l'anima
mia
dall'Altissimo per servire lui, mi
avrebbe
liberato.
Caddi
in
ginocchio piangendo ed esclamai:
«Io non servo alcun Iddio - Tu sei
il mio signore, dal tuo fuoco
scaturisce tutto il piacere della
vita!...» - Ed ecco, nell'aria si
scatenò turbinando una bufera...
le
mura
tremarono
come
squassate dal terremoto - un sibilo
tagliente attraversò il carcere... le
inferriate delle finestre caddero in
pezzi. Io fui proiettato fuori da
una forza invisibile e mi trovai nel
cortile del convento. La luna
splendeva chiara fra le nubi, alla
sua luce risplendeva la statua di
sant'Antonio situata accanto alla
fontana, nel centro del cortile...
Un'angoscia indicibile mi dilaniò il
cuore - mi prostrai contrito
davanti al santo - rinnegai il
Maligno - implorai misericordia.
Allora il cielo si coperse di
nuvoloni neri, l'uragano si scatenò
una seconda volta ed io persi i
sensi. - Quando ripresi coscienza
correvo in giro per il bosco, dove
mi ha ritrovato lei, pazzo di fame e
di
disperazione».
Questo
racconto mi fece una tale
impressione, che anche a distanza
di anni sarei in grado di ripeterlo
parola per parola. Però dopo
quell'ultima infamia, il frate aveva
ripreso a comportarsi in modo
esemplare e noi tutti gli volevamo
bene ormai. Non riesco ancora a
capire come abbia di nuovo potuto
dar segni di pazzia, la scorsa notte.
- Non sa da quale convento di
cappuccini provenga?... - gli
domandai troncandogli la parola. Non me l'ha detto, - rispose il
guardiaboschi, - e non oso
domandarglielo perché sono quasi
certo che sia proprio lui l'infelice
di cui, tempo fa, si parlava tanto a
corte, pur senza immaginare che si
trovasse
così
vicino.
Naturalmente, per il suo bene,
non ho ripetuto a corte questa mia
supposizione.
- Ma a me può ripeterla. Sono
un amico e - se questo non
bastasse - posso promettere
solennemente di tacere.
- Deve sapere, - riprese il
guardiano, - che la sorella della
nostra principessa è badessa d'un
convento di suore cistercensi a
***. Costei aveva preso sotto la sua
protezione e fatto educare il figlio
d'una povera donna, il cui marito
pare
avesse
avuto
qualche
rapporto piuttosto misterioso con
la nostra corte. Il ragazzo si fece
cappuccino per vocazione e
divenne un predicatore famoso in
tutto il paese. La badessa scriveva
spesso alla sorella parlando di lui;
e tempo fa ne lamentò la perdita.
Il frate pare avesse commesso un
grave peccato violando una certa
reliquia e fosse stato scacciato dal
convento di cui per tanto tempo
era stato il vanto. Tutto questo lo
so
per
aver
udito
una
conversazione
del
medico
personale del principe con un
signore della corte... Alludevano
ad
alcune
circostanze
singolarissime che non compresi
bene non conoscendo a fondo
tutta la storia... Il monaco
racconta l'evasione dal carcere a
modo proprio, attribuendola a
Satana; ma questo io non lo
credo... Deve essere una sua
immaginazione, un residuo di
follia. Secondo me il nostro
monaco è semplicemente quel fra
Medardo fatto educare e avviato
alla carriera religiosa dalla badessa
- e poi indotto dal Diavolo a
commettere peccati d'ogni sorta,
fino a che Iddio non l'ha punito
colpendolo con una forma di
demenza bestiale...
Al sentir pronunziare il nome
di Medardo rabbrividii. Ogni
parola di quel racconto era stata
per me come una trafittura
mortale.
Ero anche troppo convinto che
il monaco avesse detto la pura
verità, perché soltanto quel
liquore infernale avrebbe potuto
ripiombarlo nella sua empia e
blasfema follia. Ma io stesso mi
sentivo svilito al rango di un
trastullo della misteriosa potenza
malvagia
e
inesorabilmente
impigliato nei suoi lacci... Mi
credevo
libero,
ma
stavo
muovendomi entro il ristretto
spazio d'una gabbia, imprigionato
senza scampo. Mi ritornarono alla
mente i buoni - e non ascoltati ammonimenti del pio frate Cirillo,
la comparsa del conte e del suo
frivolo
precettore,
tutto,
insomma... Ora capivo donde
provenissero quegli improvvisi
fermenti, quel mutamento di
mentalità, di carattere... Mi
vergognavo delle mie azioni
delittuose e, in quel momento,
scambiavo
la vergogna per
rimorso e contrizione profonda...
sentimenti che avrei dovuto
provare soltanto espiando...
Assorto in tali pensieri quasi
non udivo più il vecchio, il quale,
ritornato agli argomenti venatori,
mi descriveva alcune scaramucce
dei perfidi bracconieri. Incominciò
ad imbrunire. Eravamo giunti
davanti alla macchia entro cui
dovevano nascondersi le pernici. Il
guardiaboschi mi assegnò il mio
posto, raccomandandomi di non
parlare, di muovere il meno
possibile e di stare all'erta con i
cani alzati. I cacciatori strisciarono
silenziosamente
verso
gli
appostamenti ed io rimasi solo,
nella crescente oscurità... E
dall'oscurità del bosco vidi balzar
fuori vari personaggi della mia
vita... vidi mia madre, la badessa,
che mi guardavano con occhi pieni
di rimprovero... Ed ecco avanzare
Eufemia, pallida come una morta,
con quei suoi ardenti occhi neri
fissi su di me, sollevando
minacciosa le mani insanguinate...
Ah!... Erano gocce di sangue
sgorgate dalla mortale ferita di
Ermogene!... Lanciai un urlo... Un
frullo d'ali, di molte ali, mi passò
sul capo... Sparai in aria, alla cieca
e... due pernici caddero. - Bravo! mi gridò il garzone appostato non
lontano,
alle
mie
spalle,
abbattendone
una
terza.
Tutt'intorno fu un gran crepitare
di schioppettate. Poi i cacciatori si
radunarono, portando ognuno la
propria preda.
Il garzone raccontò, non senza
maliziose strizzatine d'occhi alla
mia intenzione, che sentendomi
volare le pernici sulla testa avevo
gridato, come se mi fossi
spaventato moltissimo... E poi
avevo sparato alla cieca, senza
neppure mirare, e abbattuto,
chissà come, due pernici... Già. Nel
buio gli era parso che avessi
puntato il fucile in un'altra
direzione... Eppure le pernici
erano cadute lo stesso! - Il vecchio
scoppiò a ridere: possibile che le
pernici mi avessero fatto paura?...
Avevo sparato nel volo per
difendermi?... - Del resto, concluse, - voglio sperare, signore,
che lei sia un onesto cacciatore
timorato di Dio e non uno di quei
franchi tiratori (9) in combutta col
Maligno, che possono sparare
dove vogliono senza mai mancare
il bersaglio!... - Lo scherzo, senza
dubbio innocente, mi colpì; e
perfino quella fortunata doppietta,
sparata in uno stato di angosciosa
eccitazione, a ripensarci mi fece
paura... In crescente conflitto con
me stesso, giunsi al punto di
sentirmi un individuo equivoco...
Un senso di orrore mi sopraffece,
con deleteria violenza.
Quando rientrammo, Cristiano
riferì che il monaco se n'era
rimasto tranquillo nella propria
cella, ma senza dire una parola né
prender cibo di sorta.
- Non posso continuare a
tenerlo in casa mia, - disse il
guardiaboschi. - Chi mi garantisce
che la sua pazzia - evidentemente
incurabile - non esploda di nuovo,
magari anche fra molto tempo,
cagionando
qualche
orribile
guaio?... Domattina prestissimo
andrà in città con Franz e
Cristiano. La mia relazione sul
caso è pronta da molto tempo.
Dovranno internarlo in un
manicomio -. Quando fui solo in
camera mi vidi dinnanzi la figura
di Ermogene. Mi sforzai di
osservarla con attenzione e la
figura si trasformò in quella del
monaco pazzo. I due visi mi si
confondevano
nella
mente:
diventavano qualcosa come un
monito rivoltomi dall'Onnipotente
mentre stavo sull'orlo di un
baratro. Sul pavimento giaceva
ancora la fiaschetta. La scostai con
un calcio: il monaco l'aveva
vuotata fino all'ultima goccia; così
non avrei mai più avuto la
tentazione di assaggiarne di nuovo
il contenuto. Ma benché vuota la
bottiglia emanava un fortissimo
profumo inebriante ed io, per
distruggere
ogni
possibile
influenza del fatale elisir, la
scaraventai dalla finestra, oltre il
muro di cinta. - Poi, a poco a poco,
mi tranquillizzai e mi feci coraggio
al pensiero che, in ogni caso, dal
punto di vista spirituale io dovevo
essere superiore a quel monaco:
avevamo bevuto entrambi lo
stesso liquore - ma lui era
diventato pazzo furioso e io no.
Sentivo tuttavia di aver sfiorato
quell'orribile sorte. Il vecchio
guardiaboschi aveva pur preso
quel
monaco
per
l'infelice
Medardo - cioè per me! - e questo
mi pareva indicare che le sante
potenze del cielo non volessero
ancora lasciarmi
sprofondare
nell'eterna desolazione. E la follia
che si parava sempre sul mio
cammino
non
valeva forse
soltanto a far sì ch'io vedessi più
chiaro dentro di me?... E ad
ammonirmi
sempre
più
istantemente contro lo spirito
malvagio divenuto visibile agli
occhi miei - (almeno, così
credevo) - nella minacciosa figura
dello spettrale pittore?...
Mi sentivo irresistibilmente
attratto verso la residenza dei
principi. La sorella della mia
madre
adottiva
(rassomigliantissima alla badessa,
per
quanto
avevo
potuto
constatare dai ritratti...), mi
avrebbe ricondotto alla vita buona
e innocente di un tempo... Mi
sarebbe bastato vederla per
ritrovare tutti i ricordi di allora e
ricominciare da capo. Ma volevo
che fosse il caso ad avvicinarmi a
lei.
Appena
incominciò
ad
albeggiare udii la voce del
guardiaboschi in cortile. Dovendo
partire di buonora con suo figlio,
mi vestii in fretta. Quando scesi
vidi davanti alla porta, pronto a
partire, un carro a rastrelliera
imbottito di paglia. Condussero
fuori il monaco: era pallidissimo,
sconvolto ma lasciava fare senza
reagire. Non rispose ad alcuna
domanda, non volle mangiare
nulla; pareva quasi non accorgersi
delle persone che gli stavano
intorno. Lo caricarono sul carro, lo
legarono con solide funi, perché il
suo stato rimaneva preoccupante e
lasciava sempre temere improvvisi
accessi di furore. Sentendosi
legare le mani contrasse il viso in
una smorfia penosa e gemette
debolmente. Vederlo in quello
stato mi straziò l'anima: mi era
quasi diventato parente... forse
dovevo
la
mia
salvezza
unicamente alla sua rovina!...
Cristiano e un garzone presero
posto accanto a lui; soltanto
quando il carro si mosse, l'infelice
posò lo sguardo su di me e parve
profondamente
stupito.
Lo
seguimmo fin oltre la recinzione,
ed egli rimase voltato a guardarmi
mentre il carro si allontanava.
- Vede come la guarda?... - mi
disse il vecchio guardiano. - Credo
che il fatto di averla vista
inaspettatamente in sala da
pranzo abbia molto contribuito a
provocare
quel
suo
gesto
inconsulto; perché, anche durante
i periodi migliori, era sempre
pieno di sospetto e di paura:
temeva che un forestiero venisse
per ammazzarlo. E aveva un
terrore irragionevole della morte.
Molte volte sono riuscito a
stroncare le sue crisi furiose
minacciando di farlo uccidere a
fucilate se non la smetteva -.
Allontanato il monaco in cui si
rispecchiavano,
orrendamente
distorti, i tratti della mia
personalità, mi sentivo finalmente
leggero e sollevato. Ero felice al
pensiero di recarmi alla residenza
del principe perché avevo la
sensazione che colà mi sarebbe
stato tolto il pesante - lo
schiacciante - fardello del mio
fosco destino, colà avrei trovato la
forza di sottrarmi alla potenza
malvagia che incatenava la mia
vita.
Quand'ebbimo finito di far
colazione, la bella carrozza da
viaggio
del
guardiaboschi
equipaggiata di veloci cavalli, si
fermò alla porta. Non mi fu facile
far accettare un po'di danaro alla
padrona di casa in cambio della
generosa ospitalità con cui mi
aveva accolto e alcuni oggettini di
lusso - che per caso portavo con
me - alle due graziosissime figlie.
Tutta la famiglia si accomiatò
da me con tanto affetto come se
fossi stato un vecchio amico. Il
vecchio scherzò ancora parecchio
sulla mia bravura venatoria, poi la
carrozza si mosse ed io partii,
pieno d'allegria e di buon umore.
Capitolo quarto - Vita alla
corte del principe
La
residenza
del
principe
contrastava nettamente con la
città commerciale lasciata da poco.
Assai meno estesa e meno
popolosa
era
tuttavia
di
costruzione più bella e regolare.
Parecchie
strade
alberate
sembravano piuttosto adiacenze di
un parco che non vie cittadine.
Tutti vi si muovevano in una
specie di solennità silenziosa,
raramente turbata dal fragore
d'una carrozza. Nel modo di
comportarsi, e perfino di vestire,
delle persone, anche le più
modeste, si notava una certa qual
eleganza, uno sforzo di mostrarsi
formalmente educati.
Il palazzo del principe non
poteva certamente dirsi grande né
tanto meno costruito in istile
grandioso; ma in quanto ad
eleganza e proporzione di linee era
uno degli edifici più belli che
avessi mai visto. Lo circondava un
magnifico parco, tenuto sempre
aperto ai cittadini dalla liberalità
del principe.
Nell'albergo in cui scesi mi
dissero che la famiglia principesca
aveva l'abitudine di uscire ogni
sera a passeggio in quel parco; e
molti cittadini non perdevano mai
l'occasione di vedere il loro buon
sovrano. Ci andai subito anch'io.
Alla solita ora il principe uscì dal
castello con la moglie ed un
piccolo seguito. Ah!... Bastò un
attimo, e non ebbi più occhi che
per
la
principessa,
così
rassomigliante alla mia madre
adottiva!... La stessa maestà, la
stessa grazia di movimenti... lo
stesso sguardo spirituale
e
intelligente, la stessa fronte
spaziosa,
lo
stesso
sorriso
angelico... Soltanto di forme mi
parve più piena, più giovanile della
badessa. La vidi intrattenersi
cordialmente con parecchie donne
presenti nel viale, mentre il
principe sembrava assorto in
un'interessante conversazione con
un signore dall'aspetto serio. Il
modo di vestire, di comportarsi dei
principi e delle persone del
seguito,
tutto
armonizzava
perfettamente col tono d'assieme.
Si
vedeva
bene
che
quell'atteggiamento generale di
decoro esteriore, in una cornice di
calma e di garbata eleganza senza
pretese, proveniva dalla corte. Per
caso mi trovavo accanto a un
signore molto intelligente, il quale
sapeva rispondere a qualsiasi
domanda inserendo anche nelle
proprie
risposte
talune
osservazioni spiritose. Quando i
principi furono passati oltre, quel
signore mi propose di fare una
passeggiata
nel
parco
per
mostrarmi - giacché ero forestiero
- i bei monumenti di cui era pieno.
Io non desideravo di meglio.
Dappertutto trovai diffuso quel
senso di grazia, di gusto ben
regolato... Ma nelle costruzioni
sparse qua e là notai una strana
contraddizione: l'architetto aveva
evidentemente voluto ricreare le
forme classiche (che tollerano
soltanto proporzioni grandiose),
ma poi si era accontentato di
riprodurle in formato ridotto. Ora,
vedere una colonna antica il cui
capitello un uomo un po'alto di
statura può quasi raggiungere con
la mano è, in effetti, abbastanza
ridicolo... In un'altra parte del
parco sorgevano invece alcuni
edifici gotici, anche questi troppo
piccoli
per
non
risultare
addirittura meschini. Credo che
imitare lo stile gotico sia ancor più
pericoloso che voler rifare lo stile
classico. È vero, anche una
cappelletta avrebbe potuto offrire
all'architetto campo sufficiente
per costruire in quello stile (pur
sempre tenendo conto delle
inevitabili limitazioni impostegli
dallo spazio e dai costi), ma la cosa
non avrebbe dovuto esser fatta
così, con archi acuti, colonnine
bizzarre, arzigogoli ricopiati da
questa o da quella chiesa... No: in
un simile stile può creare qualcosa
di vero soltanto l'architetto ricco
di comprensione e di spiritualità,
come gli antichi maestri i quali
sapevano
fondere
in
opere
stupende, organiche e piene di
significato anche gli elementi in
apparenza
più
arbitrari
ed
eterogenei... In una parola,
l'architetto
gotico
dev'essere
guidato da un raro senso del
romantico perché qui, a differenza
dallo stile classico, non regnano
canoni scolastici di sorta.
Ripetei queste considerazioni
al mio accompagnatore il quale si
dichiarò perfettamente d'accordo
ma tentò soltanto di giustificare il
formato ridotto delle costruzioni
con le esigenze di varietà imposte
da un parco e l'opportunità di
offrire ai visitatori alcuni luoghi in
cui riposare o mettersi al riparo in
caso di improvvisi acquazzoni.
In tal caso - replicai - a quei
tempietti, a quelle cappellette
avrei di gran lunga preferito
alcune
casine
da
giardino,
semplici, senza pretese, oppure
qualche
tettoia
di
paglia
appoggiata ai tronchi d'albero e
seminascosta fra i cespugli... Ma
se proprio si dovevano far lavori di
carpenteria e muratura, un
architetto intelligente - anche se
costretto a tenersi entro certi
limiti per il problema dei costi e
delle dimensioni - avrebbe potuto
scegliere uno stile grazioso,
piacevole, inteso semplicemente a
soddisfar l'occhio dell'osservatore,
uno stile tendente magari al
classico, o al gotico, ma senza far
opera di pedissequa imitazione e
soprattutto senza la pretesa di
eguagliare in grandiosità gli
antichi modelli.
- Sono pienamente del suo
parere,
rispose
il
mio
accompagnatore. - Ma queste
costruzioni, come l'intero tracciato
del parco, sono creazioni del
principe; e, almeno per quanto
riguarda noialtri del posto, questo
mette a tacere ogni critica. Il
principe è l'uomo migliore del
mondo; ha sempre governato
come un padre, mettendo in
pratica la massima secondo cui i
sudditi non vengono al mondo per
il bene dei principi, bensì i principi
per il bene dei sudditi. La piena
libertà di manifestare il proprio
pensiero, l'esiguità delle imposte e
il conseguente basso costo dei
generi di prima necessità, la
discrezione della polizia che si
limita a reprimere la delinquenza
senza tanto chiasso e senza mai
infastidire cittadini né forestieri
con odiosi eccessi di zelo
burocratico,
l'assenza
di
soldataglie
intemperanti
e
disordinate, la serena tranquillità
in cui si praticano commerci e
mestieri, tutto questo le renderà
assai piacevole il soggiorno nel
nostro piccolo paese. Scommetto
che finora nessuno le ha ancora
chiesto nome e generalità e
l'albergatore non le si è presentato
portando solennemente sotto il
braccio il grande registro su cui entro un quarto d'ora dall'arrivo, e
dovunque si capiti - si è costretti a
scarabocchiare i propri dati
segnaletici come su un mandato di
cattura, con penne spuntate e
inchiostri sbiaditi. Insomma, nel
nostro piccolo stato regna la vera
saggezza, e il merito di tale
ordinamento risale tutto al nostro
impareggiabile principe. Perché, a
quanto mi è stato detto, un tempo
la gente qui veniva infastidita
dalla stupida pedanteria di una
corte ove si pretendeva di
riprodurre in formato tascabile le
grandi corti dei paesi vicini. Il
principe ama le arti e le scienze,
perciò
qualsiasi
artista
o
scienziato di valore è sempre il
benvenuto qui. Il livello culturale
è l'unica patente di nobiltà che
sancisca il diritto a venir ammessi
fra gli intimi del principe. Ma
proprio nella mentalità artistica e
scientifica di questo principe così
intelligente e versatile si è
infiltrata un po'della pedanteria
dei suoi educatori; e adesso essa si
manifesta
nel
pedissequo
attaccamento a certe forme
prestabilite.
Il
principe
ha
disegnato
e
prescritto
agli
architetti con pavida minuziosità
ogni
dettaglio
di
queste
costruzioni; e il minimo divario
dai modelli faticosamente scovati
e ricavati da tutte le possibili
opere di antiquariato gli avrebbe
messo paura, così come lo avrebbe
spaventato constatare che tali
modelli, per certi versi, non erano
adatti alla riproduzione in scala
ridotta. Anche il nostro teatro
soffre dello stesso male; se si
innamora d'una certa forma, il
principe non se ne discosta e a
essa devono adattarsi tutti gli
elementi, anche i più eterogenei. Il
principe, inoltre, propende alle
infatuazioni
passeggere
infatuazioni,
peraltro,
assolutamente innocue. Quando si
allestiva il parco era appassionato
di architettura e giardinaggio; poi
la grande fioritura musicale di
questi ultimi tempi lo ha
entusiasmato,
e
a
quell'entusiasmo dobbiamo la
fondazione
d'una
orchestra
eccellente; poi è stata la volta della
pittura, che egli stesso pratica con
eccezionale talento. E perfino nei
passatempi quotidiani, a corte, si
verificano continui mutamenti.
Prima si ballava molto, adesso si
tiene un tavolo di faraone e il
principe, pur non essendo affatto
un giocatore, si diverte ad
osservare le curiose combinazioni
del caso... Ma basterebbe uno
spunto
qualsiasi
a
portare
qualcos'altro all'ordine del giorno.
Questa volubilità nelle sue
predilezioni ha valso al buon
principe il rimprovero di mancare
di quella profondità di spirito che
rispecchia fedelmente, come un
limpido lago, il quadro multicolore
della vita. Secondo me gli si fa
torto; perché è proprio la
eccezionale vivacità di spirito che
lo induce a seguire con passione
qualsiasi impulso, senza peraltro
dimenticare né trascurare i
precedenti e non meno nobili
interessi. Perciò lei vede questo
parco così ben tenuto, perciò il
nostro teatro, la nostra orchestra
sussistono e
ricevono ogni
possibile appoggio, e la pinacoteca
viene continuamente arricchita,
nel limite delle nostre forze. In
quanto
poi
al
continuo
mutamento dei passatempi a
corte, questo è come un piacevole
gioco;
e
chiunque
desideri
distrarsi dalle proprie occupazioni
serie, spesso gravose, deve esserne
grato al principe!
Stavamo passando davanti a un
gruppo d'alberi e cespugli disposti
in modo estremamente pittorico.
Manifestai la mia ammirazione. Tutti questi raggruppamenti di
piante, di fiori, - spiegò il mio
accompagnatore, - sono opera
della
nostra
straordinaria
principessa.
È
un'eccellente
pittrice paesista, e il suo studio
preferito sono le scienze naturali.
Lei troverà perciò alberi esotici,
fiori e piante rare - non messi in
mostra come rarità ma disposti
con gusto e intelligenza, come se
fossero cresciuti sul loro suolo
d'origine, senza alcun artificio. La
principessa aveva in odio tutti
quegli dei, quelle dee, naiadi,
driadi, scolpite goffamente in
pietra arenaria, di cui il parco
pullulava. Ora sono tutte sparite.
Lei troverà ancora qualche buona
copia di opere antiche che il
principe ha voluto conservare nel
parco, probabilmente in omaggio a
qualche caro ricordo, e la
principessa
delicatamente
comprensiva dei gusti del marito ha saputo far collocare in modo da
ottenere un effetto stupendo,
anche per chi non conosca il
retroscena della storia.
Si era fatto tardi. Uscimmo dal
parco;
io
invitai
il
mio
accompagnatore a cenare con me
in albergo, egli accettò e
finalmente si diede a conoscere
per l'ispettore della pinacoteca di
corte.
Cenando
il
tono
della
conversazione
si
fece
più
confidenziale ed io allora gli
manifestai il mio vivo desiderio di
avvicinare la famiglia del principe.
- Niente di più facile, - mi rispose
lui. - Qualsiasi straniero colto e
intelligente è il benvenuto a corte.
Le basterà fare una visita al
maresciallo di corte e pregarlo di
presentarla al principe -. Tale via
diplomatica per giungere là dove
volevo mi garbava assai poco,
perché non potevo sperare di
evitar certe domande imbarazzanti
circa il luogo di provenienza, il
mio stato, il mio carattere e via
dicendo.
Decisi
perciò
di
rimettermi al caso: forse mi si
sarebbe
dischiusa
spontaneamente una via più facile
e breve. E così infatti avvenne,
assai presto. Una mattina, mentre
passeggiavo nel parco ancora
deserto, incontrai il principe con
indosso un semplice soprabito. Lo
salutai, come se non lo conoscessi,
ed
egli
subito
si
fermò
domandandomi se fossi forestiero.
Risposi
affermativamente,
soggiungendo che ero arrivato da
un paio di giorni con l'intenzione
di proseguire; ma poi le attrattive
del luogo e specialmente la
tranquillità, la cordialità regnanti
dovunque, mi avevano trattenuto.
Essendo
indipendente,
occupandomi soltanto d'arte, di
studi, contavo ora di rimanere a
lungo perché quell'ambiente mi
attraeva e mi si confaceva
moltissimo. Il principe parve
soddisfatto delle mie parole e si
offerse di mostrarmi i monumenti
del parco e farmi da cicerone. Mi
guardai bene dal dirgli che avevo
già visto ogni cosa e mi lasciai
condurre per le grotte, i tempietti,
le cappellette gotiche, i vari
padiglioni,
ascoltando
pazientemente
i
prolissi
commentari su ogni singolo
monumento. Il principe citava
volta a volta i vari edifici presi a
modello, richiamando la mia
attenzione sulla fedeltà delle
riproduzioni e diffondendosi ad
illustrare i criteri cui egli si era
ispirato nel tracciare quel parco e
avrebbero dovuto valere per ogni
altro tipo di parco. Mi chiese
quindi il mio parere. Io lodai la
piacevolezza
del
luogo,
la
stupenda, rigogliosa vegetazione
ma, in quanto ai fabbricati, risposi
a lui come già avevo risposto
all'ispettore della pinacoteca. Egli
mi ascoltò attentamente, parve
non disapprovare del tutto talune
mie opinioni ma poi troncò la
discussione dicendo che, sì, da un
punto di vista ideale potevo anche
aver ragione, ma forse non mi
rendevo conto delle esigenze
pratiche, delle realtà concrete
della vita. Il discorso andò a
cadere sull'arte. Io mi mostrai un
buon intenditore di pittura e,
come musicista pratico, osai
contraddirlo su alcuni punti. I suoi
giudizi erano intelligenti e precisi,
rivelavano
una
convinzione
sincera ma lasciavano anche
intendere che la sua cultura
artistica, pur di gran lunga
superiore a quella di tanti altri
«grandi» - era ancor sempre
troppo
superficiale
per
consentirgli anche soltanto di
sospettare a quali livelli di
profondità si dischiudesse l'Arte al
vero artista e nell'artista si
accendesse la scintilla divina
dell'anelito al Vero.
Le mie contestazioni, le mie
osservazioni,
gli
parvero
altrettante
riprove
d'un
dilettantismo non illuminato da
alcun senso pratico. Cercò di
erudirmi circa le vere finalità della
pittura, della musica, mi spiegò le
norme basilari d'un quadro, di
un'opera. Appresi molte cose sul
colorito, i drappeggi, i gruppi
piramidali, la musica seria e buffa,
le scene per la primadonna, i cori,
gli effetti, i chiaroscuri, i giochi di
luce ecc'ecc.. Il principe pareva
prender moltissimo gusto alla
conversazione ed io lo ascoltavo
senza interromperlo. Finalmente
si
interruppe
da
sé,
domandandomi a bruciapelo: - Lei
gioca a faraone?... - Risposi di no. È un gioco magnifico, - disse lui. Nella sua estrema semplicità è il
vero gioco per le persone
intelligenti. È un po'come uscire di
se stessi, o meglio, come porsi su
un piano da cui si sia in grado di
osservare
le
combinazioni
stranissime intrecciate con filo
invisibile dalla misteriosa potenza
che noi chiamiamo «caso».
Guadagno e perdita sono i due
cardini su cui ruota la macchina
misteriosa: noi le diamo la spinta
d'avvio e poi essa continua a girare
spontaneamente,
per
forza
propria. Lei deve imparare questo
gioco: glielo insegnerò io stesso!
Replicai che fino a allora non
avevo mai provato alcun desiderio
di giocare perché, a quanto mi era
stato detto e ripetuto, il gioco era
estremamente pericoloso e poteva
condurre alla rovina. - Eh, no! disse il principe fissandomi
intensamente con quei suoi occhi
chiari e vivaci. - Questo lo dicono
le persone d'animo infantile. Mi
crede un giocatore che voglia
attrarla nella rete?... Io sono il
principe. Se la mia residenza le
piace, rimanga qui e venga a
trovarmi. Nel mio circolo qualche
volta si gioca a faraone, ma io non
permetto mai che qualcuno venga
a trovarsi in imbarazzo, benché il
gioco, per interessare, debba
essere consistente: il caso si
impigrisce quando gli si offrono
poste insignificanti.
Stava già per lasciarmi ma
ritornò verso di me e mi chiese: Potrei sapere con chi ho parlato? Risposi
che
mi
chiamavo
Leonardo; ero uno studioso, un
privato qualsiasi, non certo nobile
di nascita; perciò non avrei forse
potuto approfittare del suo cortese
invito a frequentare l'ambiente di
corte.
- Ma che nobile e nobile! esclamò il principe con vivacità. A quanto ho capito lei è un uomo
intelligente e coltissimo. La
cultura la nobilita e rende degno
di frequentare il mio ambiente.
Adieu,
signor
Leonardo.
Arrivederci!
E così il mio desiderio era stato
appagato più presto e facilmente
di quanto non sperassi. Per la
prima volta in vita mia sarei
dunque apparso in una corte, anzi,
in un certo senso, vi sarei vissuto.
Mi ritornarono alla mente tutte le
rocambolesche
storielle
di
intrighi, macchinazioni, raggiri di
cortigiani,
compulsate
dagli
ingegnosi autori di romanzi e
commedie. A detta di costoro un
principe dovrebbe essere circuito e
ingannato da ogni sorta di
malfattori, in primo luogo il
maresciallo di corte - (un
aristocratico altezzoso ed inetto) e
il primo ministro - (un briccone
avido e intrigante). I gentiluomini
di camera dovrebbero esser tutti
quanti dissoluti, seduttori di
fanciulle... Visi artificiosamente
atteggiati all'affabilità, ma cuori
pieni di inganno e di menzogna.
Tutti
si
sdilinquiscono
in
espressioni d'amicizia e di affetto,
strisciano,
s'inchinano
uno
davanti all'altro, ma sono nemici
mortali e cercano di farsi lo
sgambetto; precipitato il primo,
quello che gli sta dietro prende il
suo posto e lo tiene fino a quando
non capita a lui la stessa cosa. Le
dame di corte sono brutte,
orgogliose, intriganti e, per di più,
innamorate: tendono reti ed
insidie da cui ci si deve guardare
come
dal
fuoco!
Questa
l'immagine ch'io m'ero fatto d'una
corte, da quel molto che avevo
letto sull'argomento in seminario;
mi sembrava ancor sempre che il
diavolo
vi
spadroneggiasse
indisturbato. E benché Leonardo,
il quale di corti aveva personale
esperienza, mi avesse raccontato
alcune cose esorbitanti dai miei
schemi, mi era rimasto un certo
qual timore residuo di tutte le
corti, in genere; e ora, alla vigilia
di vederne una vera, me lo sentivo
ritornare a galla. Ma più forte era
il desiderio di avvicinare la
principessa e di seguire la voce
interiore
che
mi
ripeteva
incessantemente in oscure parole
che «là» si sarebbe decisa la mia
sorte. Perciò all'ora stabilita mi
trovai, pieno di trepidazione,
nell'antisala del castello.
L'abbastanza
lunga
permanenza nella città imperiale e
commerciale era valsa a togliermi
di dosso ogni residuo di monacale
goffaggine, rigidità, angolosità di
movimenti.
Il
mio
corpo,
naturalmente flessuoso e ben
costruito, si era abituato con
facilità agli atteggiamenti spigliati
e disinvolti dell'uomo di mondo. Il
pallore che alterava i bei
lineamenti del giovane monaco
era scomparso dal mio viso... La
mia età, l'età del massimo vigore
fisico, mi coloriva le guance,
irradiava dagli occhi. I capelli
inanellati, castano scuri, celavano
anche l'ultima traccia della
tonsura. Indossavo, inoltre, un
elegante abito nero all'ultimissima
moda acquistato nella città
commerciale e non potevo quindi
mancare di produrre una buona
impressione sugli invitati; i quali
me
lo
dimostrarono
comportandosi verso di me con
premurosa cortesia ma sempre
entro i limiti d'un'estrema finezza,
vale a dire senz'ombra di
indiscrezione. Secondo la mia
teoria ricavata dai romanzi e dalle
commedie il principe, dandosi a
conoscere
nel
parco,
nel
pronunziare le parole: - Io sono il
principe!
- avrebbe
dovuto
sbottonarsi
rapidamente
il
soprabito e mostrarmi una grande
stella di diamanti. Ed ora, allo
stesso modo, i signori del suo
seguito
avrebbero
dovuto
indossare giubbe ricamate, portare
acconciature alte, rigide, e via
dicendo. Invece, con mio grande
stupore, li vidi tutti vestiti con
gusto,
sì,
ma
molto
semplicemente. Constatai allora
che il mio concetto della vita a
corte poggiava su pregiudizi
infantili e persi ogni imbarazzo.
Mi rinfrancai del tutto quando il
principe mi venne incontro
esclamando: - Oh guarda: il signor
Leonardo! - e si mise a scherzare
sul severo occhio critico con cui
avevo ispezionato il suo parco.
Le porte si apersero e la
principessa, accompagnata da due
dame di corte, entrò nella sala di
conversazione.
Come
trasalii
vedendola! Alla luce delle candele
era ancor più rassomigliante alla
mia madre adottiva!... Le signore
le si fecero incontro, io le fui
presentato ed essa mi guardò con
stupore e emozione evidente;
sussurrò alcune parole che non
compresi, si volse a una vecchia
signora e le disse qualcosa
sottovoce. La signora mi scrutò
attentamente, con inquietudine:
tutto ciò avvenne in un attimo. Poi la compagnia si divise in vari
gruppi, più o meno numerosi, e le
conversazioni si accesero vivaci, in
un tono di libertà, di disinvoltura;
si sentiva di trovarsi a corte, in
vicinanza del principe, ma senza
provarne il minimo senso di
oppressione. Non vidi una sola
persona corrispondente all'idea
che m'ero fatta dei «cortigiani»: il
maresciallo di corte era un vecchio
godimondo, intelligente e brioso; i
gentiluomini di camera, giovanotti
svegli, senza per nulla aver l'aria di
macchinare iniquità; le due dame
della principessa sembravano
sorelle, giovani e insignificanti
entrambe ma, fortunatamente,
vestite senza pretese. Contribuiva
a
tener
desta
l'animazione
soprattutto un piccolo signore dal
naso voltato in su, dagli occhi
scintillanti e vivaci, vestito di nero
con lunga spada al fianco, il quale
serpeggiava fra gli invitati, passava
da un gruppo all'altro con
incredibile rapidità, senza fermarsi
mai, senza attaccare discorso con
nessuno ma lanciando intorno
una pioggia sfavillante di facezie,
di motti arguti e sarcastici. Era il
medico personale del principe. La vecchia signora che aveva
parlato con la principessa seppe
circuirmi con tanta abilità, che,
quasi senza avvedermene, venni a
trovarmi solo con lei nel vano
della finestra; la conversazione,
per
quanto
scaltramente
impostata, tradì subito il suo
unico scopo: quello di indagare
sulle circostanze della mia vita. Io
ero preparato a una simile
eventualità; e, convinto che in tali
casi il modo più sicuro di evitare il
pericolo fosse quello di raccontare
le cose più semplici e naturali, mi
limitai a dire d'aver studiato
dapprima teologia e poi, dopo aver
ereditato una notevole fortuna da
mio padre, di esser partito in
viaggio di piacere. Situai il mio
luogo di nascita nella Prussia
polacca e gli diedi un nome
talmente barbaro da spezzare
denti e lingua nel pronunziarlo; la
vecchia signora ne ebbe l'orecchio
offeso e le passò ogni voglia di
domandarmelo una seconda volta.
- Eh, signore, - mi disse, - il suo
viso, qui, potrebbe ridestare tristi
ricordi. Lei è forse qualcosa di più
di quanto non voglia sembrare... Il
suo contegno non fa pensare
affatto a uno studente di
teologia!...
Vennero serviti i rinfreschi e
quindi si passò nella sala in cui
c'era il tavolo del faraone. Il
maresciallo di corte teneva banco
ma - a quanto mi dissero - era
d'accordo
col
principe
di
trattenersi tutte le vincite; le
perdite, qualora il banco si
indebolisse, gli sarebbero state
rifuse. Tutti gli uomini si
affollarono intorno al tavolo meno
il dottore il quale non giocava
assolutamente mai e rimase
insieme alle signore non partecipi
al gioco. Il principe mi chiamò
vicino a sé, mi spiegò brevemente
il meccanismo del gioco e scelse le
carte per me. Le sue risultarono
tutte perdenti ed io, avendo
seguito scrupolosamente i suoi
consigli, persi come lui. La
puntata minima era di un luigi
d'oro: la perdita stava diventando
notevole, la mia cassa scemava...
Mi domandavo che sarebbe stato
di me una volta sfumati gli ultimi
luigi...
Il
gioco
minacciava
d'impoverirmi tutt'a un tratto e mi
diventava sempre più odioso.
Incominciò una nuova «taille». Pregai il principe di lasciarmi fare:
evidentemente ero un giocatore
sfortunato e portavo sfortuna
anche a lui. Egli mi rispose
sorridendo
che
lasciandomi
consigliare da un giocatore esperto
avrei ancora potuto rifarmi della
perdita; comunque, giacché fidavo
tanto in me stesso, voleva stare a
vedere come me la sarei cavata.
Tirai una carta dal mazzo così alla
cieca, senza guardare: era la dama.
Parrà ridicolo a dirsi, ma in quella
pallida figura senza vita mi parve
di ritrovare i tratti di Aurelia!
Rimasi a fissare la carta incantato
riuscendo a stento a nascondere la
mia emozione. La chiamata del
banchiere («Il gioco è fatto?») mi
strappò da quell'intontimento.
Senza riflettere cavai di tasca gli
ultimi cinque luigi d'oro e li deposi
sulla dama. La dama vinse.
Insistei nel puntare sulla stessa
carta cifre sempre più alte, a
misura che la vincita aumentava.
Ad ogni puntata i giocatori
esclamavano: - No!... Non è
possibile!... La dama finirà per
tradirvi!... - E invece tutte le loro
carte continuavano a perdere. - È
miracoloso!... È inaudito!... - si
esclamava da ogni parte mentre io,
silenzioso e assorto, pensavo
unicamente ad Aurelia senza quasi
badare all'oro che il banchiere
andava ammucchiando davanti a
me. Per farla breve: durante le
ultime quattro tailles la dama
vinse senza interruzione... e io mi
ritrovai con le tasche piene d'oro.
Per mezzo della dama la fortuna
mi aveva largito ben duemila luigi;
ma io, benché fuori ormai d'ogni
imbarazzo, mi sentivo addosso un
invincibile senso di inquietudine...
Vedevo una singolare correlazione
fra le pernici abbattute sparando a
casaccio e quell'inattesa fortuna al
tavolo da gioco. Non io - questo
era chiaro - ma la misteriosa
potenza entrata in me operava
simili prodigi; io ero soltanto lo
strumento privo di volontà di cui
essa si serviva per fini a me ignoti.
Il prender coscienza di questa
drammatica frattura interiore in
un certo senso mi dava conforto
perché annunziava il nascere e il
maturarsi in me d'una forza mia
propria, che un giorno si sarebbe
opposta al nemico e lo avrebbe
battuto. Il continuo riaffiorare
della figura di Aurelia non poteva
essere che una tentazione al
misfatto; abusare in modo così
infame di quella cara e casta
immagine mi riempiva di ribrezzo
e di orrore.
La mattina seguente, mentre
mi aggiravo nel parco, di pessimo
umore, incontrai il principe il
quale era solito uscire a passeggio
a quell'ora. - Dunque, signor
Leonardo, - mi disse. - Che cosa
gliene pare del mio faraone?... Che
ne dice del caso capriccioso che le
ha perdonato tutte le sue pazzie
ricoprendola d'oro?... Per sua
fortuna lei aveva messo le mani
sulla carta «favorita», ma così
ciecamente lei farà bene a non più
fidarsi neppure di quella carta, - e
si diffuse a spiegarmi il proprio
concetto della «carta- favorita»,
mi suggerì tutte le norme più
oculate per farla in barba al caso e
concluse dicendosi certo che d'ora
innanzi non avrei più smesso di
perseguire la fortuna al tavolo da
gioco. Risposi con franchezza che
ero fermamente deciso a non
toccare mai più una carta. Il
principe mi guardò meravigliato. È stata proprio la mia eccezionale
fortuna di ieri a farmi prendere
questa decisione, - continuai, perché mi ha confermato tutto ciò
che avevo inteso dire sulla
disastrosa pericolosità del gioco.
Ho scelto alla cieca una carta
qualsiasi; quella carta ha ridestato
in me un ricordo doloroso,
straziante; ed io - orribile a dirsi! sono caduto in balìa d'una forza
sconosciuta che mi ha gettato in
pasto la fortuna, il guadagno, il
denaro... Quella forza agiva come
se scaturisse da me, come se io,
pensando alla persona uscita dalla
carta inanimata per balzarmi
incontro viva e vera, potessi
comandare al caso, conoscendone
le trame più arcane. - Capisco, - mi
interruppe il principe. - Lei ha
avuto un amore infelice, la carta le
ha richiamato alla memoria la
figura
dell'amata
perduta...
benché, col suo permesso, se
immagino il comico faccione
sbiadito della dama di cuori
capitatale in mano, la cosa mi
sembri
piuttosto
ridicola...
Insomma, lei ha pensato alla
donna amata ed essa le è stata più
fedele e benefica nel gioco che non
forse nella realtà. Ma che cosa ci
sia di orribile e di spaventoso in
tutto questo io proprio non lo
capisco. La fortuna le è stata
benigna: dovrebbe rallegrarsene!
Comunque sia, se il rapporto fra la
fortuna al gioco e il suo amore le è
parso un segno così sinistro e di
cattivo augurio, la colpa non è del
gioco ma del suo personale stato
d'animo. - Può darsi, vostra grazia,
- risposi. - Ma sento troppo
chiaramente che non il pericolo di
venire a trovarsi in una situazione
difficile per una grossa perdita
rende il gioco così disastroso, ma
piuttosto la temerarietà di voler
sfidare in campo aperto la
misteriosa potenza che esce dal
buio come un luminoso miraggio
per attrarci in una regione ove ci
può ghermire e schiacciare,
facendosi beffa di noi. L'uomo,
fidando con infantile incoscienza
nelle proprie forze, affronta questa
lotta come un'attraente bravata; e
fatto il primo passo non potrà più
tornare indietro perché, anche
ridotto agli estremi, continuerà a
sperare nella vittoria. Da questo
deriva, secondo me, la passione
folle dei giocatori di faraone e lo
sconvolgimento mentale che li
rovina - e non può dipendere dalla
sola perdita di denaro, che del
resto basta già da sola a causare
contrarietà infinite e a mettere in
grave
imbarazzo
anche
un
giocatore immune da quella
rovinosa passione e indotto al
gioco
dalle
circostanze.
Le
confesso, illustrissimo, ieri sono
stato a un pelo dal veder sfumare
tutti i miei fondi di viaggio. - Sarei
venuto a saperlo, - disse
prontamente il principe, - e le
avrei rifuso il triplo della perdita,
perché non voglio che nessuno si
rovini per il mio piacere. Ma
questo da me non può succedere:
conosco i miei giocatori e non li
perdo d'occhio.
- Un simile controllo sopprime
la libertà del gioco, illustrissimo, risposi, - e pone un limite alle
singolari combinazioni del caso
che rendono il gioco tanto
interessante a vostra grazia. E poi,
un giocatore veramente posseduto
dalla passione del gioco non
troverà modo ugualmente di
eludere la sua sorveglianza,
creando in se stesso una rovinosa
incongruenza? Perdoni la mia
franchezza, illustrissimo. Io credo
proprio che qualsiasi limitazione
della libertà, anche ove della
libertà si faccia abuso, sia cosa
addirittura incompatibile con la
natura
umana,
e
quindi
insopportabile.
- A quanto sembra, signor
Leonardo, lei non è mai del mio
parere, - disse lui; e gettandomi là
un piccolo «adieu» a denti stretti,
si allontanò in fretta. Benché nella
città commerciale avessi molte
volte assistito, da semplice
spettatore, a giochi con banchi
cospicui e riflettuto abbastanza
sulla questione del gioco per
formarmi la precisa convinzione
in
proposito
che
ora
involontariamente mi era salita
alle labbra, pure non riuscivo
quasi a capire come avessi potuto
esprimermi con tanta franchezza.
Mi spiaceva essermi giocato così il
favore del principe e aver perduto
il diritto di frequentare l'ambiente
di corte e avvicinare la principessa.
Ma mi sbagliavo: la sera stessa
ricevetti un biglietto d'invito per
un concerto, a corte.
- Buona sera, signor Leonardo,
- mi disse il principe con affabile
ironia, passandomi accanto. Voglia il cielo che l'orchestra si
faccia onore e la mia musica le
piaccia più del mio parco!
L'esecuzione
riuscì
infatti
molto garbata e precisa; la scelta
dei pezzi non mi parve tuttavia
felice perché un pezzo distruggeva
l'effetto dell'altro. Mi annoiò
cordialmente soprattutto una
lunga scena lirica, composta su
una formula stantia. Mi guardai
bene
dall'esprimere
la mia
opinione e ciò fu molto saggio
perché - a quanto mi dissero in
seguito - proprio quella scena era
una composizione del principe.
Ritornai
al
prossimo
ricevimento a corte senza più
alcuna perplessità. Pensavo di
partecipare al gioco del faraone
per riconciliarmi completamente
col principe ma constatai con
stupore che il banco non c'era più.
Si andavano invece formando
alcuni dei soliti tavolini da gioco,
mentre fra gli altri invitati, seduti
intorno al principe, ferveva una
conversazione
vivace
e
intelligente. Ciascuno cercava di
raccontare qualcosa di divertente e
largo spazio era dato agli aneddoti
arguti, mordaci. La mia facilità di
parola mi tornò utilissima; riuscii
a porgere in modo assai piacevole
alcuni episodi di vita vissuta,
ammantati, naturalmente, d'un
velo
di
poetica
romantica,
conquistandomi così l'attenzione e
il consenso dell'uditorio. Il
principe preferiva però i racconti
allegri, umoristici; e qui nessuno
superava il medico di corte il
quale, in fatto di trovate comiche e
sortite spiritose, era veramente
inesauribile.
Questo tipo di trattenimento
ebbe successo e la cosa andò più
in là; qualcuno incominciò a
portare con sé i propri scritti e a
leggerli ad alta voce, sì che ben
presto i ricevimenti a corte
presero l'aspetto di ben organizzati
convegni
esteticoletterari
presieduti dal principe e durante i
quali ciascuno si impegnava nella
materia che meglio gli conveniva.
Una volta uno scienziato - un
fisico illustre - ci sbalordì con
alcune interessanti scoperte nel
proprio campo. Ma quanto più
l'argomento trovava rispondenza
fra gli ascoltatori sufficientemente
preparati per comprendere le
spiegazioni
scientifiche
del
professore, tanto più gli altri si
annoiavano. Perfino il principe
sembrava non trovar nulla di
speciale nelle idee dello scienziato
e attendere con viva impazienza la
conclusione.
Quando
questa
finalmente venne, il medico di
corte tirò un sospiro di sollievo, si
profuse in parole di ammirazione
e di lode ma subito soggiunse che
alle
profonde
elucubrazioni
scientifiche doveva pur seguire
qualcosa per ricreare lo spirito. I
deboli, affranti dalla poderosità
della scienza ad essi ignota, si
rianimarono e anche sul viso del
principe
passò
un
sorriso
abbastanza eloquente per dire
quanto egli fosse soddisfatto di
rimettere i piedi sulla terra.
- Come lei sa, grazioso signore,
- disse il medico volgendosi a lui, quando sono in viaggio ho
l'abitudine di riportare fedelmente
nel mio diario tutti gli aneddoti
divertenti
colti
dal
vero,
soprattutto quelli più comici e
originali. Ora desidero raccontarne
uno che, pur senza essere
particolarmente importante, mi
sembra molto spassoso. Durante il
viaggio dello scorso anno giunsi a
notte inoltrata in quel grosso
villaggio a quattro ore da B.. Scesi
nel migliore albergo dove fui
accolto
da
un
albergatore
premuroso, benché svegliato in
pieno sonno. Stanco, anzi sfinito,
dal lungo viaggio, appena fui in
camera mi infilai nel letto per
farmi una bella dormita; ma,
diciamo verso l'una, fui svegliato
dalla voce vicinissima di un flauto.
Non avevo mai sentito suonare in
quel modo, in vita mia. Quel
flautista doveva avere polmoni
mostruosi: continuava a ripetere
lo stesso passaggio con un suono
così penetrante, così stridente, da
rendere irriconoscibile il timbro
dello
strumento.
Impossibile
immaginare
una
cosa
più
esecrabile e assurda. Imprecai,
maledissi il dannato musicante
maniaco che mi rubava il sonno e
straziava le orecchie, ma quello
continuò
imperterrito
a
snocciolare il suo passaggio, come
un orologio caricato a molla, fino a
quando il tonfo sordo d'un oggetto
scagliato contro la parete non lo
zittì; ed io potei riaddormentarmi
tranquillamente.
- La mattina dopo udii un
violento alterco al piano di sotto;
distinsi la voce dell'albergatore e
quella d'un altro che continuava a
gridare: «È stato il diavolo a
condurmi qui dentro! In questo
albergo non si può bere un sorso
né mangiare un boccone!... Tutto
perfido... e tutto cento volte più
caro che altrove! Eccole il suo
denaro.
Addio.
Nella
sua
maledetta stamberga non mi
rivedrà mai più!» - Così strillando,
un ometto secco come una canna,
vestito color caffè e con un
cappello
grigio
infilato
marzialmente a sghimbescio su
una parrucca rossiccia, uscì quasi
di corsa dall'albergo e si diresse
verso la scuderia donde lo vidi
uscire di galoppo pesante in sella a
un ronzino piuttosto impedito nei
movimenti.
- Lo credetti naturalmente un
forestiero che partiva per aver
litigato con l'albergatore, e perciò
a mezzogiorno mi meravigliai non
poco vedendo entrare in sala da
pranzo e sedersi a tavola senza
cerimonie lo stesso comico
personaggio vestito color caffè,
con la stessa parrucca rossiccia,
che avevo visto partire a cavallo la
mattina. Non m'era mai capitato
d'incontrare un viso più brutto e al
tempo stesso più comico del suo;
c'era, in quello strano tipo, una
gravità
così
buffa
che,
osservandolo, riusciva difficile
trattenersi dal ridere. Mentre
pranzavamo insieme, scambiai
poche parole di conversazione con
l'albergatore;
il
forestiero
mangiava a quattro palmenti e alla
nostra laconica conversazione non
si associò. Fu (me ne resi conto in
seguito), una malignità bella e
buona da parte dell'albergatore
condurre il discorso su certe
caratteristiche
nazionali.
Mi
domandò se io conoscessi gli
irlandesi e sapessi qualcosa dei
loro
cosiddetti
«bulls». (10)
«Come no!», risposi, mentre un
intero repertorio di «bulls» mi
ritornava alla memoria. Raccontai
quello dell'irlandese il quale,
quando gli domandarono perché
portasse una calza alla rovescia
ingenuamente rispose: «Perché
sul diritto c'è un buco!»; ricordai
quindi
lo
stupendo
«bull»
dell'irlandese che dormiva nello
stesso letto con uno scozzese
irascibile e, dormendo, aveva
messo il piede nudo fuori della
coperta; un inglese presente nella
camera se ne accorse e in un
baleno tolse lo sperone dallo
stivale dell'irlandese e glielo
affibbiò al piede. L'irlandese,
continuando a dormire, ritirò il
piede sotto le coperte e graffiò con
lo sperone lo scozzese che si
svegliò e gli diede uno schiaffo
solenne. Dopodiché, fra i due si
svolse il seguente sensatissimo
dialogo: «Che diavolo ti prende?...
Perché mi schiaffeggi...» - «Perché
mi hai graffiato con lo sperone!» «Com'è possibile?... Se mi sono
coricato a piedi nudi!...» - «Eppure
è così: guarda!» - «Dio mi
fulmini... hai ragione!... Quel
dannato briccone di domestico mi
ha sfilato lo stivale e ha
dimenticato di togliermi lo
sperone». - L'albergatore scoppiò
in una clamorosa risata; lo
straniero, invece, finì di mangiare,
tracannò un grosso bicchiere di
birra, mi guardò serio e disse: «Lei
ha
ragione,
gli
irlandesi
commettono
spesso
simili
spropositi, ma ciò non dipende
affatto dalla popolazione, che è
attiva e intelligente: dipende da
una certa arietta dannata che tira
da quelle parti e ti fa buscare la
balordaggine come ti buscheresti
un raffreddore. Infatti, signor mio,
io, in realtà, sono inglese, ma nato
e educato in Irlanda, perciò sono
affetto dal dannato morbo dei
«bulls»».
- L'albergatore rise ancora più
forte ed io fui costretto, mio
malgrado, ad imitarlo; perché era
troppo divertente che un irlandese
al solo parlare di «bulls» ce ne
porgesse uno così squisito. Il
forestiero,
lontanissimo
dall'offendersi per le nostre risate,
spalancò gli occhi, si mise le dita
davanti al naso e disse: «In
Inghilterra gli irlandesi sono il
condimento forte aggiunto per
insaporire la popolazione. Io
personalmente
rassomiglio
a
Falstaff su quest'unico punto: che
non soltanto sono arguto e
spiritoso ma rendo tali anche gli
altri; (11) il che, nel nostro tempo
insulso, non è merito di poco
conto. Lo crederebbe?... Per
merito mio molte volte diventa
arguto perfino quest'animo di
birraio, vuoto e coriaceo. Ma, in
fondo, è un buon oste; non intacca
mai il suo sparuto capitale di
trovate geniali ma di quando in
quando ne impresta qualcuna - ad
alto interesse! - qua e là,
nell'ambiente dei ricchi. E se non
è garantito dagli interessi, come
per esempio adesso, mostra tutt'al
più la rilegatura del libro mastro, e
cioè la sua crassa risata. Dentro la
risata c'è avvolta la barzelletta.
Salve, signori miei!» - Così
dicendo quel bel tipo originale
uscì ed io subito domandai di lui
all'albergatore. «Quell'irlandese»,
mi rispose lui, «si chiama Ewson e
pretende di essere inglese perché
il suo albero genealogico ha radici
in Inghilterra. Si trova qui soltanto
da poco tempo: da ventidue anni,
per
l'esattezza.
Ero
ancora
giovane; avevo appena comprato
quest'albergo e stavo festeggiando
il mio matrimonio, quando il
signor Ewson, giovane anch'egli
ma già fin d'allora con tanto di
parrucca rossiccia, cappello grigio,
abito color caffè identico a quello
che indossava oggi, rientrando in
patria capitò qui di passaggio e
venne attirato dentro dalla allegra
musica da ballo. Giurò e spergiurò
che soltanto sulla nave, dove
aveva imparato lui fin da bambino
si
sapeva
ballare;
e
per
dimostrarcelo si esibì in uno
H o r n p i p e (12) fischiettandone
orrendamente il motivo fra i denti;
ma
nell'eseguire
un
salto
magistrale si slogò un piede così
in malo modo da esser costretto a
coricarsi nel mio albergo e farsi
curare. Da allora non mi ha più
lasciato. Però mi mette in croce
con le sue stramberie; da anni
litiga con me, tutti i santi giorni; si
accanisce contro il nostro genere
di vita, mi rinfaccia di strozzarlo
coi prezzi, dichiara di non poter
vivere senza roastbeef e senza
p o r t e r ; (13) poi fa fagotto,
ammucchia le tre parrucche una
sull'altra, si congeda, monta sul
vecchio ronzino e se ne va. Ma si
tratta soltanto d'una passeggiatina
a cavallo, perché a mezzogiorno
rientra dall'altra porta, siede
tranquillamente a tavola davanti
alle solite pietanze immangiabili,
come lei ha visto poco fa, e mangia
per tre. Una volta all'anno riceve
una cospicua lettera di credito;
allora mi dice tristemente addio
chiamandomi «il suo miglior
amico», e lacrimando, tanto che
anche a me vengono le lacrime
agli occhi (ma per lo sforzo di
trattenermi dal ridere...) e, dopo
aver steso le sue ultime volontà,
per la vita e per la morte, legando
ogni avere alla mia figlia
maggiore, sale a cavallo tutto
commosso e si avvia pian piano
verso la città. Ma dopo tre o
quattro giorni al massimo è di
nuovo qui, con due vestiti color
caffè, tre parrucche rossicce, una
più sgargiante dell'altra, sei
camicie, un cappello grigio nuovo
e vari altri capi di vestiario. Alla
mia figliola maggiore, la sua
prediletta, porta un cartoccino di
confetti come se fosse ancora una
bimba, mentre ha già sedici anni
compiuti. Non pensa neppure
lontanamente a rimanere in città o
a tornarsene in patria!... Regola il
conto sera per sera e il prezzo
della colazione me lo getta
rabbiosamente
addosso
ogni
mattina, prima di andarsene a
cavallo per non ritornare mai più.
A parte questo, è il miglior uomo
del mondo; colma i miei figli di
regali ad ogni occasione, benefica i
poveri del villaggio. Soltanto il
parroco non può soffrire perché
una volta fece cambiare in
centesimi di rame una moneta
d'oro che egli aveva infilato nella
cassetta delle elemosine; Ewson è
venuto a saperlo dal maestro di
scuola e da quel giorno evita
perfino di andare in chiesa per
non vedere il parroco, il quale, per
rivalsa, va dichiarandolo «ateo» ai
quattro venti. Come le ho detto,
mi dà continuamente delle grane
perché è impulsivo, irascibile,
capriccioso, imprevedibile. Ancora
ieri, mentre rincasavo, ho udito
urlare già da lontano e ho subito
riconosciuto la sua voce. Sono
entrato in casa e l'ho trovato alle
prese con la cameriera. Come
sempre quando va in collera aveva
gettato via giacca e parrucca e così,
a capo nudo e in maniche di
camicia, spingeva un grosso libro
sotto il naso della domestica e le
additava qualcosa sulla pagina
urlando e imprecando. La ragazza,
con i pugni puntati sui fianchi, gli
strillava che per le sue bricconate
se ne cercasse pure un'altra... era
un uomo cattivo... non credeva a
niente, eccetera eccetera. Con
molta fatica riuscii a separarli e a
farmi spiegare la causa del litigio:
Ewson aveva chiesto alla fantesca
di portargli alcuni cialdini per
sigillare le lettere; la ragazza
dapprima non aveva capito, poi le
era venuto in mente che i cialdini
fossero le ostie usate per la
Comunione ed Ewson - quel
negatore di Dio, come lo chiamava
il parroco - volesse recare qualche
sfregio
sacrilego
all'ostia.
Naturalmente aveva reagito; e
l'altro, credendo d'esser stato
frainteso per difetto di pronunzia,
messo mano al dizionario inglesetedesco, cercava di mostrare alla
contadinella analfabeta che cosa le
avesse chiesto, parlando però
soltanto più in inglese; e alla
fantesca pareva di sentire in quel
linguaggio una confusa tiritera
diabolica.
Soltanto
il
mio
intervento credo abbia impedito al
signor Ewson di tagliar corto
passando alle vie di fatto».
- Interruppi l'albergatore per
domandargli se fosse stato il
signor Ewson a disturbarmi e a
straziarmi le orecchie durante la
notte con quel terribile flauto. «Ah, signor mio», rispose lui.
«Questa è un'altra delle sue
specialità! Mi spaventa i clienti,
per poco non me li fa scappare!...
Tre anni fa mio figlio ritornò dalla
città. Il ragazzo suona il flauto;
aveva un ottimo strumento e si
esercitava a suonare, molto
assiduamente. Questo ricordò al
signor Ewson che anch'egli, un
tempo, aveva suonato il flauto:
allora non diede più pace al mio
Fritz fino a quando non riuscì a
comprargli per una bella somma
di denaro lo strumento e un
concerto pure acquistato in città.
Da quel giorno il signor Ewson,
totalmente privo di orecchio,
negato alla musica, al ritmo, si
mise a studiare quel concerto con
tutto l'impegno; ma, arrivato al
secondo a solo del primo allegro,
incappò in un passaggio per lui
ineseguibile; e così da tre anni,
quasi ogni giorno, continua a
ripetere centinaia e centinaia di
volte quello stesso passaggio, e
sempre va a finire che monta su
tutte le furie e scaraventa contro il
muro il flauto prima, la parrucca
poi.
Poiché
pochi
flauti
sopportano un simile trattamento,
gliene occorrono spesso di nuovi,
per cui ora ne ha abitualmente tre
o quattro sotto mano. Ma quando
trova rotta una piccola vite, o una
valvoletta difettosa getta lo
strumento
dalla
finestra
imprecando:
«Maledizione!...
Soltanto in Inghilterra si sanno
costruire strumenti che valgano
qualcosa!...» - La cosa più
tremenda è che questa passione
musicale lo coglie per lo più di
notte, e così molte volte mi sveglia
i clienti a suon di piffero. Lei non
lo crederà, ma qui nell'ufficio
amministrativo vive un dottore
inglese quasi dalla stessa epoca in
cui il signor Ewson capitò qui da
me. Si chiama Green e simpatizza
col signor Ewson per il fatto di
essere un originale come lui e
altrettanto pieno di estroso
umorismo. Litigano in continuità
ma non possono vivere l'uno
senza l'altro. A proposito! Oggi il
signor Ewson mi ha ordinato il
punch per una serata a cui ha
invitato il podestà e il dottor
Green. Se lei, signore, vorrà
trattenersi fino a domattina avrà
occasione di vedere qui, nel mio
albergo, il più comico terzetto del
mondo». - Come può immaginare,
grazioso signore, rimandai ben
volentieri la partenza perché
speravo proprio di vedere il signor
Ewson nel pieno fulgore della sua
gloria. Giunse appena si fece sera
e fu tanto gentile da invitarmi al
punch, esprimendomi tutto il suo
disappunto per essere costretto ad
offrirmi l'ignobile bevanda che qui
da noi si chiama punch... Il punch
lo si sapeva bere soltanto in
Inghilterra, dove contava di
ritornare prestissimo; se una volta
o l'altra ci fossi capitato anch'io mi
avrebbe dimostrato di sapere
come si prepara quella squisita
bevanda!... Io già sapevo che cosa
pensare di quella faccenda. Di lì a
poco giunsero gli invitati. Il
podestà era un ometto piccolino,
tondo come una palla, con due
occhietti dallo sguardo giocondo e
il nasino rosso; il dottor Green era
invece un omone robusto, di
mezza età, con una faccia
inequivocabilmente
inglese,
vestito alla moda ma con
trasandatezza, occhiali sul naso,
cappello in testa. Avanzò verso
l'albergatore, lo agguantò per il
petto, lo scosse con energia
declamando
pateticamente:
«Datemi dello spumante! Tanto
spumante da farmi arrossare gli
occhi!... Parla, briccone d'un
Cambise!
Dove
sono
le
principesse?... Qui sento odor di
caffè, non di nettare degli dei!...»
- «Lasciami, o eroe!», gemette
l'oste ansimando. «Giù quella
ferrea man... Nel tuo furore - mi
stritoli il costato!» «Non prima,
vile femminuccia», tuonò il
dottore, «che il dolce aroma del
punch ci abbia solleticato il naso e
obnubilato i sensi... Non prima ti
lascerò, indegnissimo oste!...» Ma a questo punto Ewson gli fu
addosso
urlando
furente:
«Indegnissimo Green!... Dovrai
vedere
verde
e
gemere
nell'afflizione (14) se non desisti
dalla vile impresa!...» - Pensai che
stesse per scatenarsi un putiferio,
invece il dottore si limitò a dire:
«Me ne infischio della viltà
impotente... Preferisco rimanere
tranquillo ad attendere il divin
nettare da te ammannito, egregio
Ewson...», e, lasciato libero
l'albergatore che sgusciò via alla
svelta, sedette al tavolo con un
viso di Catone, mise mano alla
pipa già carica e incominciò a
sbuffare dense nubi di fumo.
«Non le sembra di essere a
teatro?...», mi chiese il podestà
tutto affabile. «Il dottore non
prende mai un libro in mano; ma
da quando ha trovato per caso in
casa mia lo Shakespeare tradotto
da Schlegel non fa che suonare a
modo
proprio
melodie
antichissime e stranote su uno
strumento non suo... Avrà notato
che perfino l'albergatore parla in
metro. Il dottore l'ha, per così dire,
giambizzato».
- L'albergatore portò la caraffa
di punch fumante. Ewson e Green,
giurando e spergiurando che era
imbevibile,
ne
tracannarono
parecchi bicchieri uno sull'altro.
Avviammo una conversazione
discreta. Green, avaro di parole,
interveniva solo di quando in
quando,
tenendosi
sistematicamente all'opposizione.
Un esempio: il podestà stava
parlando del teatro civico ed io
osservavo che, a mio avviso, il
primo
attore
recitava
magnificamente. - «Non trovo!»,
saltò su il dottore. «Se recitasse
sei volte meglio non sarebbe assai
più meritevole di successo?... Non
crede?...» Fui costretto a dargli
ragione. Soggiunsi tuttavia che di
recitare sei volte meglio avrebbe
avuto assai maggior bisogno l'altro
attore, quello che tragicizzava in
modo così pietoso le parti del
tenero padre. (15) - «Non trovo»,
ribatté Green. «Quell'uomo dà
tutto quello che ha. Se ha
tendenza alla cattiva recitazione
che cosa ne può?... Ma nella
cattiva recitazione ha raggiunto un
grado di perfezione notevole, e
quindi dobbiamo lodarlo».
- Il podestà, col suo dono di
provocar le sortite, i giudizi più
strampalati dei due amici, sedeva
in mezzo a loro come una specie di
elemento
eccitante...
Continuarono su questo tono fino
a che gli effetti del punch forte
non incominciarono a farsi
sentire. Allora Ewson divenne
sfrenatamente allegro, cantò con
voce gracidante canzoni nazionali,
gettò giacca e parrucca dalla
finestra e, accompagnandosi con
le più inverosimili smorfie, si mise
a ballare in modo così buffo da
farci morir dal ridere. Il dottore si
manteneva serio ma soffriva di
allucinazioni: scambiata la caraffa
del punch per un contrabbasso,
voleva accompagnare i canti di
Ewson menando il mestolo a mò
di archetto. Soltanto le violente
proteste
dell'albergatore
riuscirono a farlo desistere
dall'insano proposito. Il podestà si
era fatto sempre più silenzioso; ad
un tratto avanzò incespicando fino
all'angolo della camera dove
sedevo io e scoppiò in pianto
disperato. Compresi a volo il
cenno dell'oste e gli domandai
quale fosse il motivo di tanta
afflizione. «Ah, ah!...» gemette il
buon uomo fra i singhiozzi. «Il
principe Eugenio... il grande
condottiero... l'eroico principe... è
morto!... Ah, ah!...», e riprese a
piangere
ancora
più
forte,
stillando lacrime giù per le
guance. Cercai di consolarlo della
perdita del valoroso principe,
avvenuta tanto tempo fa, nel
secolo scorso, ma invano.
- Il dottor Green aveva
frattanto dato di piglio a un
enorme smoccolatoio e lo vibrava
puntandolo verso la finestra
aperta: pretendeva di smoccolare
niente meno che la luna, luminosa
e chiara. Ewson continuava a
saltare e ad urlare come se avesse
mille diavoli in corpo e non la
smise fino a quando entrò il
garzone dell'albergo con una
grossa lanterna (malgrado il bel
chiaro di luna), gridando forte:
«Eccomi, signori! Ora possiamo
andare». Il dottore gli si piantò
davanti e soffiandogli una nube di
fumo sulla faccia declamò:
«Benvenuto amico! Sei tu colui
che reca il chiar di luna, e il cane, e
il
biancospino?...
Ti
ho
smoccolato, briccone, ecco perché
risplendi in questo modo! Buona
notte! Di dolce succo ne ho bevuto
assai. Buona notte, oste mio
egregio, buona notte, o mio
Pilade!». (16)
- Ewson giurò che nessuno
sarebbe ritornato a casa senza
rompersi il collo, ma nessuno gli
diede retta. Il garzone afferrò il
dottore con un braccio, con l'altro
il podestà (che continuava a
piangere la perdita del principe
Eugenio) e così si avviarono
barcollando verso il municipio.
Con molta fatica portammo quel
pazzo scatenato di Ewson nella
sua camera, dove imperversò col
suo flauto per l'altra mezza nottata
non lasciandoci chiuder occhio.
Soltanto quando fui in vettura
potei rimettermi dalla estenuante
serata.
Il racconto del medico fu
ripetutamente interrotto da risate
più sonore di quanto non si sia
soliti udirne negli ambienti di
corte. Il principe sembrava essersi
molto divertito: - Una sola figura
del quadro, - disse al medico -lei
ha lasciato troppo nello sfondo: la
sua! Perché scommetto che con
quel suo umorismo talvolta un
tantino maligno avrà certamente
istigato lo stravagante Ewson e il
patetico dottore a commettere
chissà quali mattane! In realtà,
l'elemento
stimolante
della
riunione era lei e non quel
lamentevole podestà, come ha
voluto farci credere. - Le assicuro,
grazioso signore, - rispose il
medico, - che quel club di
rarissimi mattacchioni era già
talmente perfetto così come l'ho
descritto che qualsiasi elemento
estraneo sarebbe stato una
stonatura. Per attenermi alla
similitudine
musicale
potrei
aggiungere che quei tre bei tipi
formavano un «accordo perfetto»:
ciascuno di essi dava una nota
diversa
ma
armonicamente
consonante con le altre due.
L'albergatore vi si era sovrapposto
come una settima. Continuammo
a conversare dal più al meno su
questo tono fino a quando i
principi non si ritirarono nelle
proprie stanze, come d'abitudine, e
la riunione si sciolse in un clima
di buon umore generale.
Io ormai mi muovevo sereno e
soddisfatto in un mondo nuovo; e
quanto più mi assuefacevo alla
vita tranquilla e cordiale della
residenza e della corte, sentendo
di poter ricoprire con onore e con
successo il posto che colà mi
veniva offerto, tanto meno
ripensavo
al
passato
o
all'eventualità
che
la
mia
situazione in quel mondo potesse
un giorno cambiare. Il principe
sembrava
apprezzare
particolarmente la mia compagnia,
e da certi suoi fuggevoli accenni
credevo di poter concludere ch'egli
avesse intenzione di darmi
comunque
una
sistemazione
stabile accanto a sé, nel proprio
ambiente. Innegabilmente, quella
certa uniformità di educazione e di
cultura,
quella
maniera
convenzionale
di
considerare
qualsiasi attività scientifica o
artistica propagatasi dalla corte in
tutta la residenza, doveva aver
reso la vita difficile a più d'un
uomo intelligente e abituato
all'incondizionata libertà.
Ma,
a
rendermi
meno
fastidiose tali limitazioni, mi
tornava
assai
utile
l'antica
consuetudine di regolare almeno
gli atti esteriori della vita su certe
forme prestabilite. Senza dubbio la
vita di convento influiva ancora
inavvertitamente su di me.
Come ho già detto, se il
principe
mi
prediligeva,
la
principessa, per quanto mi
sforzassi di attrarne l'attenzione,
rimaneva fredda e chiusa, anzi, la
mia
presenza
molte
volte
sembrava stranamente turbarla;
anche soltanto rivolgermi qualche
parola gentile come a tutti gli altri
già le costava fatica. Miglior
fortuna godevo presso le dame del
seguito; il mio aspetto le aveva
bene impressionate e, vivendo
molto nel loro ambiente ero
riuscito ad acquistare in breve
tempo quella singolare forma di
buona creanza detta «galanterie»,
la quale in null'altro consiste se
non
nel
dare
anche
alla
conversazione la duttilità, la
scioltezza
di
movimenti
caratteristiche degli individui
sempre perfettamente «a posto»,
in ogni luogo o circostanza. La
«galanterie» consiste, insomma,
nella singolare facoltà di parlar di
nulla con parole importanti,
suscitando nelle donne una
piacevole sensazione di benessere
di cui esse non sanno rendersi
chiaro
conto.
Che
questa
superiore, genuina galanteria non
debba confondersi con la crassa
adulazione è già implicito in
quanto si è detto. Tuttavia, quelle
interessanti chiacchierate (molto
simili ad inni di adorazione...)
penetrano così profondamente
nell'animo delle signore da dar
loro l'illusione di veder chiaro
dentro
di
sé,
nonché
la
soddisfazione di rispecchiarsi nel
riflesso della propria personalità.
Chi
avrebbe
ancora potuto
riconoscere in me il fraticello?...
L'unico luogo pericoloso per
me era forse ancora la chiesa, dove
mi riusciva difficile praticare gli
esercizi
di
pietà
senza
caratterizzarli con un ritmo, con
una cadenza inequivocabilmente
monastici.
Il medico di corte era il solo a
non avere accettato lo stampo
uniforme con cui tutto veniva
coniato come una stessa moneta, e
ciò mi aveva attratto verso di lui.
Egli, a sua volta, si era avvicinato a
me perché, come ben sapeva, sulle
prime io mi ero schierato
all'opposizione, e le mie franche
dichiarazioni avevano convinto il
principe, così sensibile alla
schietta verità, a bandire una volta
per tutte dalla corte l'odiato gioco
del faraone.
Perciò stavamo spesso insieme
a chiacchierare d'arte, di scienza o
più semplicemente dei casi della
vita, in genere. Il medico venerava
la principessa quanto la veneravo
io; a suo dire, lei soltanto era
capace di raddrizzare talune
mancanze di gusto nel principe, lei
soltanto
sapeva
dissipare
(ponendogli in mano quasi di
soppiatto
qualche
giocattolo
inoffensivo) quell'indefinibile noia
che lo faceva fluttuare qua e là,
alla superficie delle cose. Colsi
l'occasione per fare al medico la
mia lamentela; mi ero accorto, gli dissi - di causare alla
principessa un insopportabile
senso di disagio, senza riuscire a
scoprirne il motivo. Il medico si
alzò di scatto, andò a prendere
nella scrivania (eravamo in casa
sua) una piccola miniatura e me la
porse,
raccomandandomi
di
osservarla bene. O stupore! Nel
ritratto di quello sconosciuto
riconobbi... me stesso! Sarebbe
bastato cambiare la pettinatura, il
vestito fuori moda, aggiungere i
folti favoriti (... il capolavoro di
Belcampo!...) per fare di quel
ritratto il mio. Lo dissi al medico
senza reticenze.
- È stata appunto questa
rassomiglianza, - rispose lui, - a
impressionare e inquietare la
principessa. Il suo viso ha
ridestato in lei il ricordo d'un fatto
orrendo abbattutosi sulla corte
come una folgore molti anni fa. Il
medico mio predecessore e
maestro, morto da alcuni anni, me
lo confidò e mi diede questo
ritratto miniato di Francesco,
l'allora favorito del principe. Come
lei vede, pittoricamente parlando è
un autentico capolavoro. Lo
dipinse un pittore forestiero, un
tipo stranissimo il quale a
quell'epoca si trovava a corte e
nella tragedia ebbe la parte di
maggior rilievo.
Osservando il ritratto provai
sensazioni confuse, indefinibili,
che invano tentai di chiarire. Quel
drammatico
avvenimento
mi
pareva dovesse racchiudere un
mistero in cui fossi coinvolto io
stesso. Insistetti dunque perché il
medico mi raccontasse il fatto: la
mia casuale rassomiglianza con
Francesco mi pareva mi desse il
diritto di conoscerlo.
Capisco
come
questa
circostanza singolare stuzzichi la
sua curiosità, - disse lui. - Io parlo
molto
malvolentieri
di
quell'avvenimento. Su di esso almeno per me - grava ancora un
velo di mistero ed io non ho
alcuna intenzione di sollevarlo.
Comunque voglio dirle quanto ne
so. Molti anni sono passati; i
protagonisti della vicenda sono
ormai usciti di scena. Rimane
soltanto il ricordo - ed è un ricordo
estremamente penoso. La prego di
non rivelare a nessuno quanto sto
per dirle -. Glielo promisi ed egli
incominciò così:
- All'epoca in cui il nostro
principe si ammogliò, il marchese
(17) suo fratello giunse qui di
ritorno da un lungo viaggio in
compagnia d'un individuo che egli
chiamava Francesco (benché fosse
notoriamente un tedesco) e di un
pittore. Il marchese era un uomo
come se ne vedono pochi, di gran
lunga superiore al nostro principe
non soltanto per bellezza fisica ma
anche per esuberanza vitale,
vigoria intellettuale. Egli produsse
perciò
una
straordinaria
impressione
sulla
giovane,
bellissima
principessa,
allora
vivace fino all'eccesso, troppo
forse per armonizzare col freddo
formalismo del principe. E la
simpatia fu reciproca. Pur senza
nutrire
intenzioni
colpevoli,
entrambi dovettero cedere a una
forza irresistibile, essendo la loro
vita sentimentale condizionata da
un'unica
possibilità:
quella
d'accendersi di reciproco amore.
Alimentarono così la fiamma che
fuse i loro esseri in uno solo. L'unico per ogni verso degno di
esser posto a fianco dell'amico era
Francesco. Egli fece colpo sulla
sorella maggiore della principessa
così come il marchese aveva fatto
sulla
cognata;
si
rese
immediatamente
conto
della
propria fortuna e seppe valersene
con
astuzia
finissima.
L'inclinazione della principessa
divenne
in
breve
tempo
appassionato,
ardentissimo
amore. Il principe era troppo
sicuro della virtù della moglie per
non respingere con sdegno le
insinuazioni maligne; avvertiva,
tuttavia, con angoscia la tensione
di rapporti creatasi col fratello; e
soltanto Francesco, che egli aveva
preso a benvolere a motivo della
sua intelligenza e della sua
prudenza di esperto uomo di
mondo, riusciva a mantenerlo in
uno stato di relativo equilibrio
morale. Il principe avrebbe voluto
conferirgli uno dei ranghi più
eminenti a corte ma Francesco
preferì accontentarsi dei meno
vistosi privilegi di favorito e
dell'amore della principessa. La
vita di corte ruotava dunque, bene
o male, attorno a questa
situazione; ma in quell'Eldorado
d'amore, precluso a tutti gli altri,
soltanto i quattro personaggi
legati da segreti vincoli affettivi
erano felici.
- All'insaputa di tutti il principe
aveva predisposto il solenne arrivo
a corte d'una principessa italiana,
un tempo già destinata in sposa al
marchese il quale, venutosi a
trovare durante un viaggio alla
corte del padre di lei, le aveva
dimostrato una spiccata simpatia.
Doveva trattarsi di una creatura
eccezionalmente bella, piacente,
affascinante; e lo testimonia lo
stupendo ritratto che lei può
ancora vedere nella pinacoteca. La
sua presenza rianimò la corte
piombata nel grigiore e nella noia
e mise in ombra tutte le altre
donne, non escluse la principessa
e sua sorella. Poco dopo l'arrivo di
costei,
Francesco
mutò
vistosamente di atteggiamento;
divenne chiuso, imbronciato come
se fosse roso da un cruccio
segreto; e incominciò a trascurare
l'augusta amante. Anche
il
marchese
era
diventato
pensieroso, evidentemente in lotta
con un sentimento più forte di lui.
Per
la
principessa
l'arrivo
dell'italiana fu come una stilettata
nel cuore; per sua sorella, già
tendenzialmente esaltata, con
l'amore di Francesco era svanito
ogni motivo di gioia. E così, i
quattro personaggi tanto felici e
invidiabili si ritrovarono piombati
nel turbamento e nell'afflizione. Il marchese si riprese per primo:
la rigida virtù della cognata gli
rese ancor più irresistibili le
attrattive
dell'affascinante
italiana; la spontanea, fanciullesca
infatuazione per la principessa fu
travolta dai piaceri ineffabili che
l'italiana
gli
riprometteva;
cosicché, in breve egli ricadde nei
lacci cui era da poco sfuggito.
Quanto più il marchese si
abbandonava a quell'amore, tanto
più
strano
diventava
il
comportamento di Francesco. Non
si mostrava quasi più a corte,
andava girovagando tutto solo,
spesso si assentava dalla residenza
per intere settimane. Al contrario,
l'originale, il misantropo pittore si
faceva vedere assai più spesso e
lavorava
particolarmente
volentieri nello studio fattogli
approntare dall'italiana nei propri
appartamenti. Quivi la ritrasse
parecchie
volte,
dandole
un'espressione
impareggiabile;
sembrava, invece, aver preso in
antipatia la principessa - e
sistematicamente si rifiutava di
ritrarla. Dipinse invece un ritratto
stupendo, somigliantissimo, della
sorella di lei, pur senza averla fatta
posare
neppure
una
volta.
L'italiana gli dimostrava tali
attenzioni ed egli gliele ricambiava
con
una
galanteria
così
confidenziale che il marchese si
ingelosì. Un giorno entrò nello
studio mentre l'artista stava
lavorando - lo sguardo fisso alla
testa dell'italiana, di nuovo
magicamente riprodotta sulla tela
- e gli disse chiaro e tondo che gli
facesse il favore di cercarsi un
altro atelier e andarsene a lavorare
altrove. Il pittore quasi non lo
aveva udito entrare. In silenzio,
senza
scomporsi, scrollò
il
pennello e tolse la tela dal
cavalletto. L'altro, con uno scatto
di collera, gliela strappò di mano:
la rassomiglianza - disse - era
perfetta - quel ritratto se lo
sarebbe tenuto per sé. Sempre
calmo, imperturbabile, il pittore lo
pregò che gli permettesse soltanto
di ultimarlo con un paio di tocchi.
Il marchese rimise la tela sul
cavalletto ma quando la riebbe,
dopo due minuti, rimase atterrito:
il bel viso era stato orrendamente
deturpato. Scoppiando in una
sonora risata, il pittore si avviò
lentamente per uscire, ma giunto
sulla soglia ritornò indietro, fissò
sul marchese uno sguardo severo
e penetrante e gli disse cupo e
solenne: «Ora tu sei perduto!»
- Questo avvenne quando
l'italiana
era
già
fidanzata
ufficialmente col marchese - a
pochi giorni dalle nozze. Il pittore
aveva fama di mezzo matto e
perciò il marchese non fece alcun
caso alla sua reazione. Ora, a
quanto si diceva, era tornato a
chiudersi nella propria cameretta
e se ne stava a fissare per giornate
intere una grande tela bianca,
asserendo
di
lavorare,
per
l'appunto in quei giorni, ai suoi
quadri più stupendi.
- Intanto, a palazzo fervevano i
preparativi per le sontuose nozze
del marchese con l'italiana. La
principessa si era rassegnata alla
propria sorte, rinunziando a un
amore impossibile e privo di
scopo.
Sua
sorella
pareva
trasfigurata,
perché
l'amato
Francesco era riapparso, più
fiorente e allegro che mai. Il
marchese e la sposa avrebbero
occupato un'ala del palazzo che il
principe stava facendo approntare
allo scopo. Tali lavori lo avevano
posto al centro della propria sfera
d'azione: non lo si vedeva più se
non attorniato da architetti,
pittori, tappezzieri, intento a
consultare grossi volumi, a
spiegare davanti a sé piani,
abbozzi, schizzi, per lo più di
propria creazione e talvolta, a dire
il vero, alquanto scadenti. Né il
marchese né la sposa ebbero il
permesso
di
vedere
l'appartamento arredato a nuovo
fino alla sera delle nozze. Allora,
in lungo e solenne corteo, vennero
accompagnati
dal
principe
attraverso le camere addobbate e
decorate sontuosamente e con
gusto. Un ballo nella cornice d'uno
stupendo salone aperto su un
giardino fiorito conchiuse la festa.
Durante
la
notte
negli
appartamenti del marchese si
intese un rumore, dapprima sordo
e poi sempre più forte. Il principe
ne fu svegliato. Colto da un triste
presentimento balzò in piedi e,
accompagnato dalla sua guardia
personale, accorse verso quella
lontana ala del palazzo. Giunse nel
vasto corridoio mentre stavano
trasportando
il
corpo
del
marchese: lo avevano trovato
morto, con la gola trafitta da una
pugnalata, davanti alla porta della
camera matrimoniale. È facile
immaginare l'orrore del principe,
la disperazione della giovane
marchesa,
lo
strazio
della
principessa. Quando il principe si
fu un po'calmato incominciò a
chiedersi come fosse avvenuto il
delitto, come avesse potuto
l'assassino fuggire per i corridoi
sorvegliati da ogni parte. Si
frugarono
tutti
i
possibili
nascondigli ma invano. Il paggio
addetto al servizio del marchese
raccontò che il suo signore,
turbato da un cattivo presagio,
aveva passeggiato a lungo avanti e
indietro nel salotto, inquieto,
impaurito. Finalmente egli lo
aveva aiutato a svestirsi e
accompagnato, facendogli luce col
candeliere, fino al vestibolo della
camera matrimoniale; qui il
marchese, toltogli il candeliere di
mano, lo aveva mandato indietro.
Ma appena uscito dalla camera il
paggio udiva un grido soffocato,
un tonfo, il tintinnio del doppiere
caduto sul pavimento; ritornava di
corsa sui suoi passi e, alla luce
d'una candela ancora accesa,
scorgeva il marchese steso a terra
davanti alla porta della camera
nuziale, con accanto uno stiletto
insanguinato. Allora chiamava
soccorso.
- Secondo il racconto della
sposa, l'infelice marchese, appena
uscite le cameriere, era entrato in
fretta senza alcun candeliere in
mano, aveva spento tutti i lumi e,
trattenutosi con lei per una
mezz'ora, se n'era andato. Pochi
istanti dopo avveniva il delitto.
- Quando si furono esaurite
tutte le congetture circa il
possibile assassino e non si fu
trovato
alcun
mezzo
per
rintracciarlo,
saltò
su
una
cameriera la quale aveva udito
dalla
camera
attigua
la
sconcertante scena fra il marchese
e il pittore; e la riferì in ogni
dettaglio. Udito questo fatto
nessuno più dubitò che il pittore si
fosse introdotto furtivamente nel
palazzo per uccidere il marchese; e
se ne ordinò l'arresto immediato.
Ma il pittore era scomparso da due
giorni e nessuno sapeva dove
fosse andato. Tutte le ricerche
furono infruttuose.
- La corte, l'intera residenza,
erano piombate nel lutto. Ormai
soltanto l'assidua presenza di
Francesco riusciva a portare, come
per incanto, un piccolo raggio di
sole
nella
ristretta
cerchia
familiare dei principi. La marchesa
sentì di essere incinta. Essendo
chiaro che l'autore dell'inganno
non poteva essere stato che
l'assassino del marito, il quale
aveva approfittato d'una certa
rassomiglianza fisica con la
propria vittima per commettere
l'azione infame, la marchesa si
trasferì in un lontano castello di
proprietà del principe, affinché il
parto avvenisse nell'ombra e il
frutto dell'infernale misfatto non
infamasse la memoria dell'infelice
sposo almeno agli occhi del
mondo, cui la leggerezza della
servitù doveva aver già rivelato gli
avvenimenti della notte nuziale.
- Durante il periodo di lutto i
rapporti di Francesco con la
sorella
della
principessa
e
l'amicizia dei principi verso di lui
divennero sempre più stretti e
cordiali. Il principe, da molto
tempo a conoscenza del segreto di
Francesco, non poté più opporsi
alle insistenti preghiere della
moglie e della cognata e
acconsentì a che i due innamorati
si sposassero segretamente. Il
matrimonio sarebbe stato reso
noto soltanto dopo che Francesco
avesse acquistato un alto grado
militare
presso
una
corte
straniera, dove la cosa era
possibile grazie alle relazioni del
principe. Giunse il giorno del
matrimonio. Dovevano assistere
alla cerimonia nella piccola
cappella del palazzo soltanto il
principe, la principessa e due
personaggi fidati, uno dei quali era
il mio predecessore. Un unico
paggio, messo a parte del segreto,
sorvegliava le porte.
- La coppia si inginocchiò
davanti all'altare. Il cappellano dei
principi, un vecchio e venerabile
sacerdote, recitata la messa bassa,
incominciò a leggere il formulario
del sacramento. A questo punto
Francesco impallidì, sbarrò gli
occhi in direzione di un pilastro a
lato dell'altar maggiore e mormorò
con voce strozzata: «Che vuoi da
me?...» - Appoggiato al pilastro
c'era il pittore, in un bizzarro
costume straniero, il manto
violetto gettato sulle spalle, i neri
occhi infossati, spettrali, puntati
su Francesco. La principessa parve
sul punto di svenire, tutti
fremettero inorriditi. Soltanto il
prete si mantenne calmo e disse a
Francesco: «Se la tua coscienza è
netta, perché la figura di
quell'uomo ti spaventa?...» Francesco balzò in piedi e si
avventò contro il pittore con uno
stiletto in pugno; ma prima di
averlo raggiunto lanciò un urlo
soffocato e cadde privo di sensi. Il
pittore disparve dietro la colonna.
Riavendosi da una specie di
intontimento, tutti accorsero in
aiuto di Francesco, steso a terra
come morto. Per evitare uno
scandalo lo fecero trasportare dai
due
personaggi fidati negli
appartamenti del principe. Appena
rinvenne chiese con insistenza che
lo lasciassero ritornare nelle
proprie camere ma non volle
rispondere a nessuna domanda sul
misterioso fatto avvenuto in
chiesa. La mattina dopo era
scomparso dalla residenza, fuggito
portando con sé gli oggetti preziosi
donatigli dalla benevolenza del
principe. Questi non desistette
dall'indagare il mistero e dai
tentativi
di
rintracciare
il
fantomatico pittore. La cappella
aveva due soli ingressi: uno,
proveniente dalle camere interne
del palazzo, dava nel loggiato
dietro l'altar maggiore, l'altro,
proveniente dall'ampio corridoio
centrale, dava nella navata. Il
primo era rimasto chiuso, l'altro
era stato sorvegliato dal paggio
affinché
nessun
curioso
si
avvicinasse. Come dunque il
pittore fosse potuto apparire nella
cappella e poi tutt'a un tratto
sparirne, rimaneva un fatto
incomprensibile. Cadendo svenuto
Francesco aveva continuato a
stringere nella mano contratta il
pugnale brandito contro il pittore.
Il paggio (lo stesso che durante
l'infausta notte nuziale aveva
aiutato il marchese a spogliarsi ed
era stato incaricato di sorvegliare
la porta della cappella), asserì
essere lo stesso trovato accanto al
proprio
signore
assassinato:
l'impugnatura
di
tersissimo
argento
lo
rendeva
inequivocabilmente riconoscibile.
- Non molto tempo dopo questi
misteriosi avvenimenti giunsero
notizie della marchesa: lo stesso
giorno in cui avrebbero dovuto
celebrarsi le nozze di Francesco
aveva dato alla luce un bimbo ed
era morta poche ore dopo il parto.
Il principe ne pianse la perdita,
ancorché il mistero della notte
nuziale lo turbasse moltissimo e
gli suggerisse qualche ingiusto
sospetto sul conto di lei. Il figlio,
frutto dell'odioso misfatto, venne
educato in un paese lontano sotto
il nome di conte Vittorino. La
sorella della principessa, straziata
da quel susseguirsi di tragedie,
entrò in convento. Come lei saprà,
attualmente
è
badessa
del
convento di suore cistercensi,
a***. Strano a dirsi: un fatto molto
simile a questo è avvenuto poco
tempo fa nel castello del barone
F.. - Fra le due tragedie sembra
esista una misteriosa correlazione:
infatti la badessa, commossa dalle
misere condizioni d'una povera
donna capitata al convento con un
bimbo nato da poco, durante un
pellegrinaggio al Sacro Tiglio,
aveva...
A questo punto il racconto del
medico venne interrotto da una
visita; e ciò mi consentì di
nascondere il tumulto scatenatosi
nell'animo
mio.
Finalmente
vedevo chiaro! Francesco era mio
padre... e aveva trucidato il
marchese con lo stesso coltello
con
cui
io
avevo
ucciso
Ermogene!... Per sfuggire al
cerchio fatale entro cui la potenza
malvagia mi aveva costretto, decisi
di partire per l'Italia dopo pochi
giorni. La stessa sera però ritornai
a un ricevimento di corte; si
parlava molto d'una stupenda
fanciulla giunta il giorno prima
per assumere le funzioni di dama
di compagnia della principessa;
sarebbe stata presentata a corte
quella sera.
Le porte si apersero; entrò la
principessa accompagnata dalla
straniera. - Riconobbi Aurelia.
Parte seconda
Capitolo primo -Il vertice
della parabola
Esiste una sola creatura umana
cui il meraviglioso mistero
d'amore,
custodito
nei
più
profondi recessi dell'animo, non si
sia rivelato almeno una volta nella
vita?...
Chiunque tu sia, tu che un
giorno leggerai questi fogli,
richiama alla memoria quel
supremo momento solare, rievoca
una volta ancora la soave figura di
donna che venne a te come
l'incarnazione
dello
spirito
d'amore. In essa soltanto credevi
di riconoscere la tua essenza più
alta. Ricordi ancora come i ruscelli
gorgoglianti,
i
sussurranti
cespugli, il carezzevole vento della
sera ti parlassero chiaramente di
lei, dell'amor tuo?... Riesci ancora
a rivedere gli occhi limpidi,
affettuosi dei fiori rivolti a te per
recarti il suo saluto, il suo bacio?...
Poi veniva lei, e voleva esser tua,
tutta tua. La stringevi a te, ardente
di desiderio e, sciolto dal peso
delle cose terrene, avresti voluto
annullarti in una vampata di
passione!...
Ma
il
mistero
rimaneva incompiuto: mentre tu
volevi librarti in volo con lei verso
le supreme sfere d'un promesso
aldilà, una forza oscura ti traeva
irresistibilmente a terra. Prima
ancora che tu osassi sperare, lei
era perduta, ogni voce, ogni suono
estinto; soltanto più il lamento
della solitudine senza speranza
risuonava sinistro nel buio
deserto.
Straniero!
Sconosciuto!... Se mai provasti lo
strazio d'una così indicibile pena,
associati allo sconsolato lamento
del monaco ingrigito che, nella sua
cella oscura, piange lacrime di
sangue
sul
duro
giaciglio,
ricordando la stagione solare del
proprio amore, e riempie di
angosciosi sospiri di morte i tetri
corridoi del convento nella notte
silenziosa.
Ma anche tu, a me così
spiritualmente affine, anche tu
credi che la suprema estasi
d'amore, il compimento del
mistero, ci siano dati nella morte.
Così ci annunziano le cupe voci
profetiche giungendo a noi dalla
notte dei primordi, da lontananze
umanamente incommensurabili.
E anche per noi - così come la
celebravano nei misteri i figli
infanti di madre natura - la festa
sacrale dell'amore è la morte!
Fu come se un fulmine
scoccasse in me, mozzandomi il
respiro. I polsi, il cuore presero a
battere impazziti, il petto parve
volermi scoppiare... Da lei, da
lei!... Trarla a me in un impeto di
folle furore amoroso!... - «Perché
resisti, sciagurato, alla forza che ti
incatena
indissolubilmente
a
me?... Non sei forse tu mio?... Mio
per sempre?...»
Seppi
tuttavia
contenere
l'impeto insensato della passione
meglio di quanto non avessi fatto
vedendo Aurelia per la prima volta
nel castello baronale. Inoltre tutti
gli sguardi erano puntati su di lei e
potei quindi rigirarmi a mio agio
in quel gruppo di persone
indifferenti, senza che nessuno mi
notasse in special modo o mi
rivolgesse la parola. Ciò mi
sarebbe
stato
insopportabile
perché in quel momento volevo
vedere
- udire
- pensare
unicamente lei.
Non mi si dica che una
semplice veste di casa sia il
migliore ornamento per una
fanciulla
veramente
bella.
L'eleganza, nelle donne, esercita
un
fascino
misterioso
cui
difficilmente sappiamo resistere.
Sarà
forse
una
peculiarità
dell'intima natura femminile quel
pieno estrinsecarsi e risplendere
della bellezza nell'eleganza: anche
i fiori ci appaiono perfetti soltanto
quando sbocciano in tutta la
rigogliosa pienezza dei loro bei
colori smaglianti. Vedendo per la
prima volta la fanciulla amata
vestita a festa non ti sentisti
correre un piccolo, inspiegabile
brivido per i nervi e le vene?... Ti
pareva distante, quasi estranea,
ma perfino questo le dava un
fascino ineffabile. Ah, quale
delizioso, voluttuoso palpito avrai
provato nel premerle furtivamente
la mano! - Non avevo mai visto
Aurelia
se
non
vestita
semplicemente da casa; ma quella
sera, per ragioni di etichetta, si era
messa in gran gala. Com'era
bella!... Che dolcissimo brivido di
piacere provai nel vederla! - Ma lo
spirito del male divenne potente
in me, alzò la voce ed io gli prestai
orecchio: - Vedi, Medardo, - mi
sussurrò. - Vedi come comandi al
destino?... Come il caso ti si è
sottomesso ed ora si limita
soltanto più ad intrecciare i fili che
tu hai ordito?... - C'erano, a corte,
parecchie donne ben degne di
considerarsi autentiche bellezze;
ma di fronte al fascino di Aurelia
impallidivano, sbiadivano tutte.
Anche i più pigri sembravano presi
da un'insolita eccitazione, perfino
i vecchi perdevano all'improvviso
il filo delle solite conversazioni di
corte, fatte esclusivamente di
parole e ricavanti, bene o male, un
senso dalle cose esteriori. Ed era
spassoso vedere come ognuno,
parlando, muovendo, si sforzasse
di apparire «vestito a festa» agli
occhi della bella straniera.
Aurelia
accoglieva
questi
omaggi ad occhi bassi, arrossendo
con indicibile grazia. Quando però
il principe radunò intorno a sé gli
uomini più maturi e alcuni bei
giovanotti le si avvicinarono
timidamente rivolgendole parole
gentili, essa divenne subito più
allegra e disinvolta. Riuscì a farsi
notare da lei soprattutto un
maggiore della guardia; e fra i due
non tardò ad accendersi una
vivace conversazione. Conoscevo il
maggiore
per
un
emerito
beniamino delle donne; con un
modesto impiego di mezzi in
apparenza innocenti egli riusciva
ad interessare, ad avvincere la
fantasia e lo spirito; sapeva
cogliere, con orecchio finissimo, le
risonanze più impercettibili e
subito far vibrare, come un abile
musicista, accordi affini, sicché le
belle signore, tratte in inganno,
credevano di udire in quei suoni
estranei
la
propria
musica
interiore. Io stavo non lontano da
Aurelia ma lei sembrava non
avermi notato; avrei voluto
avvicinarla
ma
ero
come
inchiodato sul posto e non
riuscivo a muovermi. Osservando
ancora e più attentamente il
maggiore
ebbi
l'improvvisa
sensazione di vedere accanto ad
Aurelia - Vittorino! - Allora
scoppiai in una risata rabbiosa,
sprezzante: - Oh, guarda, guarda!...
Dì un pò, sciagurato ribaldo: devi
aver trovato un letto ben morbido
in fondo all'abisso del diavolo se,
nella tua folle lascivia, osi porre gli
occhi sulla favorita del monaco!...Non so se pronunziassi veramente
queste parole, ma udii la mia
risata; e, quando il vecchio
maresciallo di corte, prendendomi
garbatamente per mano, mi
domandò: - Di che cosa si rallegra
tanto, caro signor Leonardo?... sussultai come se mi destassi da
un sonno profondo - e un brivido
freddo mi raggelò. Non erano,
queste, le stesse parole rivoltemi
dal pio frate Cirillo durante la
vestizione per domandarmi il
motivo
del
mio
sorriso
sfrontato?... Riuscii a mala pena a
pronunziare
qualche
frase
sconnessa... Sentii che Aurelia non
mi era più vicina ma non fui
capace di alzar gli occhi per
accertarmene - e corsi via
attraverso le sale piene di luce. Il
mio
comportamento
dovette
sembrare
assai
sconcertante
perché, mentre scendevo - che
dico! - mentre mi precipitavo a
rotta di collo giù per lo scalone,
vidi tutti scansarsi impauriti.
Da quella sera evitai di
ritornare a corte, parendomi
impossibile rivedere Aurelia senza
correre il rischio di tradire il mio
più geloso segreto. Me ne andavo
in giro solitario per boschi e campi
pensando soltanto a lei - vedendo
unicamente lei. E mi rafforzavo
sempre più nella convinzione che
un tenebroso fato avesse legato la
sua sorte alla mia; quindi, ciò che
mi era parso delitto, peccato, non
era stato che il compiersi d'un
eterno, immutabile decreto. Così
rincuorandomi, ridevo del pericolo
che avrei corso se Aurelia mi
avesse riconosciuto per l'assassino
di
Ermogene,
eventualità,
d'altronde,
estremamente
improbabile.
Quale pietà mi facevano quei
giovanotti vanesi che si illudevano
di
corteggiarla!
Lei
era
esclusivamente mia: perfino il suo
più tenue respiro mi sembrava
dipendesse
dalla
nostra
consustanzialità. Che cos'erano
per me quei conti, baroni,
camerieri segreti, ufficiali nelle
loro sgargianti uniformi cariche
d'ori e di decorazioni?... Minuscoli
insetti impotenti agghindati a
festa, da schiacciare col pugno se
appena mi fossero diventati
importuni. Sarei andato in mezzo
a loro con indosso la tonaca e
stringendo fra le braccia Aurelia
vestita da sposa! E quella
principessa orgogliosa e proterva
avrebbe dovuto preparare con le
sue stesse mani il letto nuziale per
il monaco tanto disprezzato!
Ruminando
tali
pensieri,
spesso chiamavo forte Aurelia per
nome e urlavo, e ridevo come un
insensato. Ma l'uragano non tardò
a placarsi; ritrovai la calma e la
capacità di decidere in qual modo
avrei avvicinato Aurelia. Un
giorno, mentre appunto mi
aggiravo nel parco riflettendo se
fosse consigliabile recarmi a una
serata indetta dal principe,
qualcuno dietro di me mi batté un
colpetto sulla spalla. Mi volsi: era
il medico di corte. - Vuol favorirmi
il suo pregiato polso? - disse
guardandomi fisso negli occhi e
prendendomi per un braccio. - Che
cosa significa?... - domandai
stupito. - Oh, niente di grave, fece lui. - Pare che una strana
sorta di follia vada serpeggiando
da queste parti per aggredire le
persone alla maniera dei banditi e
metter loro in mente certe cose da
farle parlare ad alta voce e ridere
insensatamente da sole. Ma, in
fondo, quel «fantasma» - o quel
diavolo - potrebbe anche esser
soltanto una leggera febbriciattola
intermittente. Perciò mi favorisca
il polso, carissimo! - Le assicuro,
signore, che non capisco una sola
parola di tutta questa storia! replicai. Ma il medico già mi aveva
preso il polso e - uno... due... tre...
- contava le pulsazioni volgendo
gli
occhi
in
alto.
Poiché
continuavo a non capire dovetti
insistere perché mi dicesse chiaro
che cosa voleva.
- Dunque, lei non sa, egregio
signor Leonardo, - spiegò lui, - che
recentemente ha seminato il
terrore e la costernazione in tutta
la
corte?
La
moglie
del
maggiordomo
ha
ancora
il
convulso
e
il
presidente
concistoriale deve disertare le
sedute più importanti perché
quella sera le è piaciuto passare di
corsa sui suoi piedi podagrosi. Ora
è costretto a rimanere in poltrona,
mugghiando per le fitte atroci. Ciò
accadde, per l'esattezza, quando, in
un accesso di follia, lei si precipitò
fuori dalla sala dopo esser
scoppiato a ridere senza plausibili
motivi, facendo rizzare i capelli
sulla testa a tutti per lo sgomento
-. Lì per lì mi venne in mente il
maresciallo di corte e dissi che
ricordavo di aver riso tra me; ma
la cosa non poteva aver provocato
un effetto così sensazionale dal
momento che il maresciallo di
corte mi aveva domandato nel
tono più blando di che cosa mi
rallegrassi tanto. - Eh, eh! ridacchiò il dottore. - Questo non
significa nulla. Il maresciallo di
corte è notoriamente un «homo
impavidus»... Non si lascerebbe
impressionare
neppure
dal
diavolo,
ed
infatti
seppe
conservare la sua proverbiale
dolcezza (18) anche quando il
summenzionato
presidente
concistoriale asserì esser stato
indubbiamente il diavolo a ridere
in quel modo per bocca sua, mio
caro, e la nostra bella Aurelia colta da un tale terrore da render
vani tutti gli sforzi dei presenti
signori per tranquillizzarla dovette ritirarsi quasi subito, per
la
disperazione
dei
signori
suddetti, cui i fumi dell'ardore
amoroso parevano uscire dai
«toupets» sureccitati. Quando lei,
egregio signor Leonardo, scoppiò a
ridere in quel piacevolissimo
modo, Aurelia pare esclamasse
con
accento
straziante:
«Ermogene,
Ermogene!...»
Ahimè... che cosa avrà voluto
dire?... Forse lei potrebbe saperlo.
Lei è una gran cara persona,
intelligente,
vivace...
non
rimpiango di averle confidato
l'incredibile storia di Francesco.
Chissà, forse un giorno potrebbe
diventarle istruttiva... - E intanto il
medico continuava a tenermi per
il braccio e a guardarmi fisso negli
occhi. - Io non so, - dissi
svincolandomi
piuttosto
bruscamente. - Non riesco a
spiegarmi i suoi stranissimi
discorsi, signor mio. Ma quando
vidi Aurelia circondata da quegli
eleganti signori cui, come lei
spiritosamente ha osservato, «i
fumi
dell'ardore
amoroso
parevano uscire dai toupets
sureccitati», quando la vidi così,
mi ritornò alla memoria, glielo
confesso, un amaro ricordo della
mia vita passata. Allora per la
rabbia, il disprezzo, non potei far a
meno di scoppiare a ridere sulla
stoltezza di certa gente. Mi
dispiace di aver causato tanti guai
senza volerlo: ne faccio ammenda
esiliandomi volontariamente dalla
corte per qualche tempo. Spero
che la principessa, che Aurelia mi
perdoneranno...
- Eh, eh, caro signor Leonardo,
- insistette il medico. - Può
capitare a tutti di attraversare
qualche crisi; ma le crisi si
superano facilmente se si è puri di
cuore. - Chi può vantarsi di tanto,
quaggiù? - domandai con voce
sorda, quasi parlando a me stesso.
Il medico mutò tutt'a un tratto di
espressione e di tono: - Lei mi
sembra veramente ammalato, - mi
disse con dolcezza. - È pallido,
stravolto...
occhi
infossati,
arrossati... polso febbrile... voce
velata...
Devo
prescriverle
qualcosa?... - Veleno, - mormorai
quasi in un soffio... - Oh, oh!...
Siamo a questi punti?... - esclamò
lui. - Quand'è così, invece del
veleno le prescriverò un rimedio
deprimente: distrarsi in società!...
Però potrebbe anche darsi che...
Eppure è strano... davvero,
stranissimo... Forse...
- La prego, signore, - esclamai
irritato, - non mi tormenti con
questi discorsi sconnessi e
incomprensibili. Mi dica piuttosto
francamente...
- Alt! - mi interruppe lui. Alt!...
Capita
di
prendere
incredibili abbagli, caro signor
Leonardo... Sì, ne sono quasi
certo:
su
una
impressione
momentanea
si
dev'essere
costruita un'ipotesi destinata forse
a cadere nel nulla in pochi minuti.
Stanno venendo la principessa e
Aurelia. Approfitti dell'incontro
casuale per scusarsi della sua
condotta... In fin dei conti... Dio
mio, in fin dei conti, lei ha
soltanto riso... In un modo un
po'strano, non dico... Ma se
qualche persona un po'debole di
nervi se n'è spaventata, che colpa
ne ha lei?... Adieu! - E il medico
guizzò via con la caratteristica
lestezza
di
movimenti.
La
principessa stava venendo giù per
il viale con Aurelia. Mi sentii
tremare ma facendo appello a
tutte le mie forze riuscii a
dominarmi; e coraggiosamente mi
feci loro incontro. Quando Aurelia
mi vide lanciò un grido soffocato e
cadde come morta. Mi slanciai per
soccorrerla ma la principessa mi
fermò con un gesto di avversione e
di orrore, chiamando aiuto ad alta
voce.
Corsi via come sotto la sferza
di demoni e furie, mi chiusi in
casa e mi gettai sul letto,
schiumante di rabbia e di
disperazione. Si fece sera, e poi
notte. Sentii aprire il portone... un
confuso mormorio di molte voci...
colpi, rumor di passi su per le
scale... Poi qualcuno bussò alla
porta ordinandomi di aprire in
nome della legge. Pur senza aver
chiara coscienza di quale pericolo
stessi
correndo, credetti
di
sentirmi
perduto.
Salvarmi,
fuggire... pensai, e apersi la
finestra: vidi uomini armati
davanti alla casa, e uno di essi
subito
vide
me...
Dove
nascondermi?, mi domandai. Ma
in quel momento la porta della
camera da letto venne forzata e un
gruppo di uomini irruppe: alla
luce della loro lanterna li
riconobbi per soldati di polizia. Mi
mostrarono il mandato di arresto
emesso
dalla
magistratura
criminale. Resistere sarebbe stato
follia. Mi gettarono in una
carrozza ferma davanti alla porta e
quando - giunti a destinazione domandai dove mi trovassi, mi
risposero: - Alla fortezza alta -.
Colà venivano rinchiusi, lo sapevo,
i delinquenti pericolosi durante i
processi. Poco dopo mi portarono
un letto e il carceriere mi chiese se
desiderassi qualche altra cosa per
la mia comodità. Risposi di no e
rimasi solo. La lunga eco dei passi,
l'aprirsi e chiudersi di molte porte
mi fecero capire che mi trovavo in
una delle prigioni più interne della
fortezza. Non so neppure io come
mai, ma durante il piuttosto lungo
tragitto mi ero stranamente
tranquillizzato; le immagini che
mi passavano accanto le vedevo
pallide, sbiadite, come in una
specie di intontimento. Non presi
propriamente sonno ma caddi in
uno
stato
di
sfinimento
paralizzante il pensiero e la
fantasia. Quando mi ripresi, a
giorno chiaro, ritrovai a poco a
poco il ricordo dell'accaduto. La
camera a volta, simile in tutto e
per tutto a una cella monastica,
non mi sarebbe parsa una prigione
se non fosse stato per la finestrella
munita di robuste inferriate e
aperta così in alto da rendermi
impossibile, non dico guardar
fuori, ma nemmeno raggiungerla
stendendo il braccio quant'era
lungo. Vi filtrava a stento qualche
raggio di sole. Mi venne la
curiosità di dare un'occhiata ai
dintorni della fortezza. Accostai il
letto alla parete, vi posi sopra il
tavolo e feci per inerpicarmi verso
la finestra ma subito entrò il
carceriere, mi guardò stupito e mi
domandò che cosa stessi facendo.
Risposi che volevo soltanto
guardare fuori. Senza dire una
parola, quello portò via il letto e il
tavolo e richiuse la porta. Neppure
un'ora
dopo
riapparve
accompagnato da due uomini.
Facendomi
percorrere
lunghi
corridoi, salire e scendere per non
so quante scale, mi scortarono in
una saletta dove mi attendeva il
giudice criminale. Gli sedeva a
fianco un giovane cui egli, in
seguito, dettò tutte le mie risposte.
Dovevo la cortesia con cui venni
trattato ai miei antichi rapporti
con la corte e alla generale stima
goduta per tanto tempo; ma io ne
dedussi anche che a provocare il
mio arresto fossero state soltanto
alcune
supposizioni
basate
essenzialmente
sulla
presaga
sensibilità di Aurelia. Il giudice mi
invitò ad esporre dettagliatamente
le circostanze della mia vita
trascorsa. Io lo pregai di dirmi
prima il
motivo
del
mio
improvviso arresto. A suo tempo
avrei appreso di quale reato mi si
accusava - rispose lui. - Ora si
trattava di conoscere esattamente
tutta la mia vita fino all'arrivo
nella residenza. Doveva ricordarmi
- soggiunse - che alla magistratura
criminale non sarebbero mancati i
mezzi per accertare fin nei minimi
dettagli la veridicità della mia
deposizione. Mi attenessi perciò
rigorosamente al vero. Questo
ammonimento, pronunziato con
ridicola voce chioccia dal giudice
(un omino piccolo, secco, dai
capelli rossi come il pelo della
volpe e gli occhi grigi spalancati su
di me) cadde in un terreno assai
fecondo: perché mi ricordò che
avrei
dovuto
riprendere
e
intessere gli stessi fili della storia
già accennata a corte nel rivelare il
mio nome e il mio luogo di
nascita. Lì per lì mi venne in
mente un giovane polacco,
compagno di studi in seminario, e
decisi di far mie le circostanze
della sua semplice vita. Ciò
stabilito incominciai a deporre: -
Può ben darsi che mi si accusi di
un grave delitto, - dissi. - Ma qui
sono vissuto sotto gli occhi del
principe e dell'intera città e
durante il periodo della mia
permanenza non si è commesso
alcun delitto di cui io possa essere
stato l'autore od il complice.
Suppongo, dunque, sia stato un
forestiero ad accusarmi d'un
delitto commesso in precedenza.
E, poiché so di essere del tutto
innocente, la supposizione della
mia colpevolezza dev'esser sorta
da una disgraziata rassomiglianza
con non so chi. Trovo quindi tanto
più duro esser rinchiuso in un
carcere
criminale
come
un
delinquente
di
provata
colpevolezza unicamente in base a
supposizioni inconsistenti o a
chissà quali idee preconcette.
Perché non mi si mette a
confronto col mio sconsiderato, e
forse
malintenzionato,
accusatore?...
Si
tratterà
certamente di un povero sciocco, e
quindi...
Piano,
piano,
signor
Leonardo, - gracidò il giudice. Misuri le parole. Potrebbero
urtare spiacevolmente qualche
alto personaggio; e la persona che
l'ha riconosciuta, signor Leonardo
o signor... - qui il giudice si morse
le labbra... - bene... quella persona
non è sconsiderata né sciocca... Al
contrario... E poi abbiamo buone
notizie da... - E nominò il luogo in
cui si trovava la proprietà dei
baroni F.. Allora tutto mi si chiarì:
Aurelia mi aveva riconosciuto per
il monaco uccisore di suo fratello,
la cosa era certa. Ma quel monaco
era frate Medardo, il celebre
predicatore
cappuccino
del
convento di B-. Il padre di quel
Medardo era Francesco - la
badessa lo sapeva - e la mia
rassomiglianza con lui (risultata
così
sconvolgente
per
la
principessa,
fin
dal
primo
momento...)
aveva
quasi
trasformato
in
certezza
le
supposizioni probabilmente già
scambiatesi per lettera dalla
principessa e dalla badessa. Era
anche possibile che si fossero
assunte informazioni dirette al
convento dei cappuccini di B- e,
seguite le mie tracce, stabilita la
mia identità col monaco Medardo.
Tutte queste cose le pensai in un
attimo e vidi la pericolosità della
mia posizione. Intanto il giudice
continuava a blaterare e ciò mi
permise di ritrovare finalmente il
nome della cittadina polacca di
cui, parlando con quella vecchia
signora, a corte, avevo fatto il mio
luogo di nascita. Quando il giudice
ebbe conchiuso il proprio sermone
ingiungendomi bruscamente di
raccontare, senza tante storie, i
miei trascorsi, incominciai:
- Il mio vero nome è Leonardo
Krczynski; sono l'unico figlio d'un
nobiluomo
stabilitosi
a
Kwiecziczewo dopo aver venduto
la sua piccola proprietà. - Come?...
Cosa?... - esclamò il giudice
sforzandosi invano di ripetere il
mio nome e quello del mio luogo
di nascita. Non sapendo il
redattore del protocollo come
scrivere quelle due parole, dovetti
scriverle io stesso. - Avrà notato,
signore, - continuai, - quanto sia
difficile a un tedesco pronunziare
nomi così zeppi di consonanti.
Ecco perché, appena arrivato in
Germania, ho rinunziato al mio
cognome facendomi chiamare
semplicemente Leonardo. A parte
questo, non credo esista una vita
più semplice della mia. Mio padre,
uomo
di
discreta
cultura,
assecondò
la
mia
decisa
inclinazione per gli studi. Voleva
mandarmi a Cracovia, da un
sacerdote
nostro
parente
Stanislaw Krczynski - ma proprio
allora morì. Nessuno si curò più di
me. Vendetti la nostra piccola
proprietà, riscossi alcuni crediti e
con tutto il patrimonio ereditato
da mio padre me ne andai a
Cracovia, dove studiai per alcuni
anni sotto la sorveglianza di quel
nostro parente. Poi andai a
Danzica e Königs- berg; e
finalmente cedetti al desiderio
irresistibile di fare un viaggio nel
meridione. Speravo di cavarmela
con gli avanzi del mio piccolo
capitale e poi di trovare un posto
presso qualche università. Ma qui
le cose mi sarebbero andate molto
male se una cospicua vincita al
faraone, in casa del principe, non
mi avesse messo in grado di
continuare
a
vivere
molto
agiatamente in questa città e
quindi di proseguire per il mio
viaggio in Italia, come avevo
progettato. Nella mia vita non è
mai accaduto nulla di notevole,
nulla che meriti di venir
raccontato.
Devo
tuttavia
aggiungere che mi sarebbe facile
provare la verità di quanto dico se
un caso singolarissimo non mi
avesse privato del portafogli in cui
serbavo il passaporto, l'itinerario
del viaggio e diverse altre carte
certamente utili allo scopo -. Il
giudice ebbe un evidente moto di
stupore e, scrutandomi con occhi
duri mi domandò in tono quasi
canzonatorio quale caso mi avesse
reso impossibile provare la mia
identità come si richiedeva. Parecchi mesi fa, - raccontai. - Mi
trovavo sui monti, in viaggio per
venire qui. La buona stagione, gli
stupendi paesaggi romantici, mi
indussero a proseguire a piedi. Un
giorno sedevo nell'albergo d'un
piccolo villaggio; ero stanco, mi
ero fatto portare un rinfresco e
avevo tirato fuori dal portafogli un
foglietto per annotare qualcosa. Il
portafogli era sul tavolo davanti a
me. Poco dopo giunse un cavaliere
trafelato, il suo strano modo di
vestire, il suo aspetto selvatico,
abbrutito, attrassero la mia
attenzione. Entrò nel locale,
chiese da bere e sedette al tavolo
di fronte al mio guardandomi
torvo, direi impaurito. Quell'uomo
aveva qualcosa di inquietante,
perciò preferii uscire. Dopo pochi
minuti egli fece altrettanto, pagò
l'oste, balzò in sella e, lanciandomi
un saluto di sfuggita, ripartì al
galoppo. Stavo per ripartire
anch'io, quando mi ricordai del
portafogli dimenticato sul tavolo:
rientrai e lo ritrovai al suo posto.
Soltanto il giorno dopo, tirandolo
fuori di tasca, mi accorsi che non
era il mio ma probabilmente
apparteneva a quello sconosciuto
il quale doveva averlo scambiato
col mio. Vi trovai soltanto alcuni
appunti per me incomprensibili, e
parecchie lettere dirette a un certo
conte Vittorino. Nel mio, come le
ho detto, c'erano il passaporto,
l'itinerario del viaggio e - ora me
ne ricordo! - perfino il certificato
di battesimo. Quello scambio di
portafogli mi ha fatto perdere tutti
i documenti.
Il giudice si fece descrivere da
capo
a
piedi
il
cavaliere
sconosciuto. Con grande abilità
cercai di assommare in quel
personaggio tutte le possibili
caratteristiche del conte Vittorino
e di me stesso, così com'ero al
momento della fuga dal castello
del barone F.. Il giudice non la
smetteva più di interrogarmi sulle
anche minime circostanze del
fatto; e, mentre gli rispondevo in
modo
soddisfacente,
l'intera
vicenda divenne così chiara e
perfetta nella mia immaginazione
che finii per crederci anch'io e non
corsi più alcun pericolo di
confondermi
o
contraddirmi.
Posso ben dire d'aver avuto una
felice idea nel giustificare il
possesso delle lettere dirette al
conte Vittorino immischiando in
quella storia un personaggio
fittizio che, in seguito, sarebbe
potuto diventare frate Medardo
fuggitivo o il conte Vittorino, a
seconda delle circostanze. Inoltre
mi venne in mente che fra le carte
di Eufemia potevano forse trovarsi
alcune lettere facenti cenno al
progetto di Vittorino di presentarsi
al castello travestito da monaco.
Ciò
avrebbe
ulteriormente
imbrogliato la storia. Mentre il
giudice
mi
interrogava
io
continuavo a lavorar di fantasia e
a inventare sempre nuovi ripieghi
per mettermi al sicuro dal venire
scoperto, giungendo alla certezza
di poter fronteggiare qualsiasi
eventualità, anche la peggiore.
Esposte e sviscerate più che a
sufficienza le circostanze della mia
vita, in generale, credetti che il
giudice venisse finalmente a
parlar del delitto di cui ero
accusato. Ma non fu così. Mi
domandò invece perché avessi
tentato di fuggire dalla prigione.
Assicurai che ciò non mi era
neppure passato per la mente; ma
la testimonianza del carceriere che
mi
aveva
sorpreso
ad
arrampicarmi verso la finestra
sembrava deporre contro di me. Il
giudice mi minacciò di farmi
incatenare se mi ci fossi provato
una seconda volta. E venni
ricondotto in carcere. Trovai
invece del letto un giaciglio di
paglia, per terra, il tavolo
inchiodato al pavimento e invece
della sedia una panca bassissima.
Passarono tre giorni senza che più
nessuno chiedesse di me. Vedevo
soltanto il viso burbero d'un
vecchio secondino che mi portava
da mangiare e alla sera accendeva
il lume. Allora i miei nervi
cedettero. Prima mi pareva di star
combattendo un'allegra battaglia
per la vita e per la morte, con la
certezza di riuscire bravamente a
cavarmela; ma a quella tensione
subentrò
un
cupo
stato
depressivo. Tutto mi divenne
indifferente; perfino la figura di
Aurelia mi era sparita dalla
memoria. Mi scuotevo, ma
soltanto per provare ancor più
forte
l'angosciosa
sensazione
prodotta dalla solitudine, dal tanfo
del carcere. Ed io non ero in grado
di resistere. Non riuscivo più a
dormire.
Nei
fantasmagorici
riflessi della torbida lucerna
tremolanti sulle pareti e sul
soffitto vedevo sogghignare ogni
sorta di figure distorte. Spegnevo
la lampada, mi nascondevo sotto i
cuscini pieni di paglia, ma allora
udivo risuonare in modo ancora
più atroce nel pauroso silenzio
notturno i gemiti soffocati dei
prigionieri, il trascinio delle loro
catene. Spesso mi pareva di udire
il rantolo mortale di Eufemia, di
Vittorino: - Sono io il colpevole
della vostra morte? - gridavo. Non foste voi stessi, scellerati, a
gettarvi sotto il mio braccio
vendicatore?... - Poco dopo un
lungo, ansimante sospiro di morte
passava per l'aria: - Sei tu,
Ermogene! - tornavo a gridare. La vendetta è vicina... Non c'è più
scampo!...
Una notte - forse la nona sopraffatto
dalla
paura
e
dall'orrore, caddi semisvenuto sul
freddo pavimento del carcere; e da
quella
posizione
udii
distintamente sotto di me un
bussare
di
colpetti
leggeri,
misurati. Tesi l'orecchio: i colpi si
ripeterono, frammisti a strane
risatine. Balzai in piedi e mi buttai
sul pagliericcio... Ma le risa, i colpi
continuavano... e udivo anche dei
gemiti. Finalmente una voce
rauca, orrenda, balbettò piano,
pianissimo: - Medar- do!... Medardo!... - Mi sentii raggelare in
tutte le membra ma mi feci forza e
risposi: - Chi è?... Chi è là?... - Le
risate, i colpi, i gemiti si fecero più
forti, e il balbettio più aspro: - Medardo... Me- dardo!... - Balzai a
sedere sul giaciglio: - Chiunque tu
sia, - gridai nell'oscurità, - tu che
infesti questa camera e ti burli di
me, renditi visibile... fà ch'io possa
vederti... oppure smettila di
importunarmi con le tue risate... i
tuoi colpi!... - Ma sotto i miei piedi
sentii bussare ancora più forte; e il
balbettio riprese: - Ih... ih...
ihihih... Fra- tel- lino... Fra- tellino... Me- dardo... Sono io... sono
io... Aprimi... aprimi... Andiamo
nel bosco... nel bosco...! - Ora la
voce mi risuonava dentro come
una voce nota... L'avevo già udita
ma non - almeno, mi pareva - non
così rotta e balbettante. Sì: con
indicibile orrore credetti di
riconoscere il mio tono di voce.
Inconsciamente,
quasi
per
provarmi che era proprio così,
rifeci il balbettio: - Me- dardo...
Me- dardo!... - La risatina si ripeté
sprezzante, rabbiosa: - Fra- tellino... Fra- tel- lino... mi... mi hai
ri- co... ri- cono- sciuto?... Aprimi...
andiamo... nel bosco... nel bosco! Povero
pazzo,
mormorai
cupamente, quasi parlando fra me.
- Povero pazzo... Non posso aprirti,
non posso uscire con te nel bosco
a respirare la deliziosa arietta di
primavera che deve tirare là
fuori... Sono chiuso in questo tetro
carcere, anch'io come te!... - Udii
un lamento sconsolato; poi il
picchiettio divenne sempre più
lieve, quasi impercettibile, fino a
cessare del tutto.
La luce del mattino filtrò dalla
finestra, le serrature cigolarono e
il carceriere, che durante tutto
quel tempo non avevo più visto,
entrò:
- Stanotte, - mi disse, abbiamo sentito ogni sorta di
rumori nella sua cella, e anche
parlare forte. Che cosa significa?...
- Ho l'abitudine di parlare nel
sonno, - risposi. - E se parlo da
solo anche da sveglio credo mi sia
permesso. - Immagino lei sappia, continuò il carceriere, - che
qualsiasi tentativo di fuga o di
intesa con altri detenuti viene
severamente punito -. Spergiurai
di non aver mai pensato a niente
di simile. Un paio d'ore dopo mi
condussero di sopra, al tribunale.
Non il giudice che mi aveva
interrogato la prima volta ma un
altro, un uomo piuttosto giovane il
quale a prima vista mi parve di
gran lunga più scaltro e perspicace
del
collega,
mi
venne
cortesemente incontro e mi invitò
a sedere. Mi pare ancora di
vederlo: era piuttosto corpulento
per
la
sua
età,
quasi
completamente calvo, e portava gli
occhiali. Aveva un modo di fare
così alla buona che - me ne resi
subito conto - doveva esser
difficile resistergli, a meno di
essere un delinquente dei più
incalliti. Gettava là le sue
domande con leggerezza, quasi in
tono di conversazione; ma erano
domande così ben ponderate e
poste con tale precisione da non
consentire
risposte
approssimative. - Devo anzitutto
domandarle, - incominciò, - se
quanto lei ha deposto circa la sua
vita fosse veramente fondato, o se
invece,
dopo
più
matura
riflessione, non le sia venuta in
mente qualche altra circostanza
che
ritenga
opportuno
menzionare.
- Circa la mia semplice vita ho
detto tutto ciò che sapevo.
- Non ha mai avuto a che fare
con religiosi?... Con monaci?...
- Sì. A Cracovia, Danzica,
Frauenburg, Königsberg.
- Lei prima non ci aveva detto
di
essere
stato
anche
a
Frauenburg.
- Perché mi pareva non
meritasse la pena di citare una
breve sosta - di otto giorni, se ben
ricordo - durante il viaggio da
Danzica a Königsberg.
- Lei dunque è nato a
Kwiczicze- wo? - Questa domanda
il
giudice
me
la
rivolse
all'improvviso in polacco, e più
precisamente in dialetto polacco,
parlato
con
la
massima
disinvoltura. Ebbi un attimo di
smarrimento ma mi vinsi. Cercai
di ricordare quel po'di polacco
imparato dall'amico Krczynski in
seminario e risposi:
- Sì, nella piccola proprietà di
mio padre, presso Kwicziczewo.
- Come si chiama quella
tenuta?
- Krcziniewo, la nostra tenuta
di famiglia.
- Per essere un polacco, lei la
sua lingua non la parla in modo
straordinario
ma, per dirla
francamente, con forte accento
dialettale tedesco. Come si spiega?
- Non parlo più che in tedesco
da molti anni. Anche quand'ero a
Cracovia vivevo sempre in mezzo a
tedeschi che volevano imparare il
polacco da me. Così, senza
accorgermene
devo
essermi
abituato al loro dialetto. È facile
prendere un accento provinciale
dimenticando
la
pronunzia
migliore, corretta.
Il giudice mi guardò con un
impercettibile sorriso, poi si volse
al cancelliere e gli dettò qualcosa
sottovoce. Afferrai bene le parole:
evidentemente in imbarazzo. Avrei
voluto diffondermi sui motivi del
mio cattivo polacco ma il giudice
mi domandò:
- Non è mai stato a B.?
- Mai.
- Eppure, venendo qui da
Königs- berg avrebbe dovuto
passarci.
- Ho preso un'altra strada.
- Non ha mai conosciuto
qualche monaco del convento dei
cappuccini di B.?
- No.
Il giudice suonò il campanello
e impartì un ordine sottovoce
all'usciere. Poco dopo la porta si
aperse:
immaginate
il
mio
sussulto di terrore nel vedere
entrare padre Cirillo!
- Conosce quest'uomo? - mi
domandò il giudice.
- No!... Non l'ho mai visto,
prima d'ora.
Allora frate Cirillo fissò su di
me gli occhi sbarrati, mi si
avvicinò, congiunse le mani e,
lacrimando
abbondantemente,
esclamò: - Medardo, fratello
Medardo!... Per l'amor di Cristo...
in che stato ti ritrovo... nel delitto,
nel peccato. Fratello Medardo,
ritorna in te, confessa, pentiti... La
misericordia di Dio è infinita! - Il
giudice
non
parve
molto
soddisfatto di questo discorso e lo
interruppe con la domanda:
- Riconosce quest'uomo per il
monaco Medardo del convento dei
cappuccini di B.?...
- Com'è vero che ripongo in
Cristo la mia eterna salvezza, rispose Cirillo, - così è vero che
quest'uomo, benché indossi abiti
laici, è quello stesso Medardo che
fu novizio e ricevette gli ordini
sotto i miei occhi, nel convento dei
cappuccini di B.. Non posso
credere altrimenti. Comunque,
Medardo aveva un segno di croce,
rosso, sul lato sinistro del collo, e
se anche quest'uomo...
- Come vede, - lo interruppe il
giudice volgendosi a me, - si ha
motivo di ritenere che lei sia il
cappuccino Medardo, fuggito dal
convento di B.. Egli è stato
accusato di un grave delitto. Se lei
è chi afferma di essere le sarà
facile dimostrarlo, perché quel
monaco
recava
un
segno
particolare sul collo. E lei, se la
sua deposizione è veritiera, non
può averlo. Si scopra il collo.
- Non occorre, - risposi senza
turbarmi. - Uno strano destino
sembra avermi reso in tutto e per
tutto identico all'accusato perché
anch'io, sul lato sinistro del collo,
ho un segno di croce rosso -. Così
era,
infatti:
la
scalfittura
prodottami dalla croce di diamanti
della badessa mi aveva lasciato
una piccola cicatrice rossa, in
forma di croce, che il tempo non
aveva fatto sparire.
- Si scopra il collo, - ripeté il
giudice.
Ubbidii. - Santa madre di Dio, esclamò Cirillo. - Eccolo... è
proprio questo... il segno di croce
rosso... Medardo... ah, fratello
Medardo... Hai dunque rinunziato
per sempre all'eterna salvezza?... E il frate si abbandonò quasi privo
di sensi su una sedia, piangendo.
Che
cosa
risponde
all'affermazione
di
questo
venerabile
religioso?
mi
domandò il giudice.
In quel momento mi sentii
come percosso da una folgore: lo
sbigottimento che minacciava di
sopraffarmi mi abbandonò. Ah!...
Fu certamente il Nemico stesso a
sussurrarmi: - Che cosa possono
queste deboli creature contro la
tua forza d'intelletto e di spirito?...
Aurelia non dovrà dunque esser
tua?...
Replicai
con
sprezzante
aggressività, quasi in tono di sfida:
- Quel monaco mezzo svenuto
sulla sedia è un povero vecchio
imbecille che va farneticando di
riconoscere in me, forse a motivo
d'una vaga rassomiglianza, un
cappuccino fuggito dal suo
convento -. Il giudice fino a allora
era rimasto calmo e non aveva mai
mutato di tono né d'espressione.
Per la prima volta il suo viso si
incupì, il suo sguardo si fissò su di
me, scrutandomi severo. Perfino
lo scintillio degli occhiali mi riuscì
terrificante, insopportabile, lo
confesso. Non potei più parlare;
fui preso da un furore rabbioso,
disperato e, portandomi i pugni
chiusi alla fronte, invocai ad alta
voce: - Aurelia!...
- Cos'è?... Che significa questo
nome?...
domandò
impetuosamente il giudice.
- Un fosco destino mi
condanna
a
una
morte
ignominiosa, - risposi con voce
strozzata. - Ma sono innocente...
Certo, sono del tutto innocente...
Mi lasci andare... abbia pietà di
me... Sento già la pazzia scatenarsi
nei nervi, nelle vene... Mi lasci
andare!...
Il
giudice,
di
nuovo
calmissimo, dettò al cancelliere
una quantità di cose che non
compresi. Infine mi lesse il
verbale contenente tutte le sue
domande e le mie risposte, nonché
il risultato del confronto con frate
Cirillo. Dovetti firmarlo. Quindi il
giudice mi ingiunse di scrivere
alcune righe in polacco e in
tedesco. Io lo feci. Il giudice prese
il foglio scritto in tedesco e lo
porse a frate Cirillo, il quale
frattanto
si
era
riavuto,
domandandogli:
Questa
calligrafia è simile a quella del suo
confratello Medardo?...
- È la sua... è la sua... la
riconosco
fin
nei
minimi
particolari! - rispose Cirillo, e si
volse di nuovo a me per parlarmi.
Ma il giudice gli impose il silenzio
con un'occhiata, quindi si alzò, mi
venne vicinissimo e disse in tono
grave e reciso:
- Lei non è polacco. Questo
scritto è totalmente scorretto,
pieno
d'errori
ortografici
e
grammaticali.
- Nessun polacco scriverebbe
così, pur essendo assai meno
istruito di quanto lei non sia.
- Sono nato a Krcziniewo, e per
conseguenza polacco. Ma anche se
non lo fossi, se circostanze
misteriose mi costringessero a
falsificare il mio nome e il mio
stato, non per questo potrei essere
il cappuccino Medardo, fuggito - a
quanto devo credere - dal
convento di B..
- Ah, fratello Medardo, intervenne Cirillo. - Il nostro
reverendo priore Leonardo non ti
ha forse mandato a Roma fidando
nella tua onestà, nella tua pietà?...
Medardo, fratello, per l'amor di
Cristo non ostinarti a rinnegare
empiamente il sacro stato cui hai
voluto sottrarti!...
La
prego
di
non
interromperci, - gli disse il giudice;
e volgendosi a me soggiunse:
- Devo farle osservare che la
dichiarazione insospettabile di
questo reverendo padre rende
assai attendibile la supposizione
che lei sia veramente quel
Medardo di cui si parlava. Inoltre
non posso nasconderle che lei
verrà posto a confronto con molte
altre persone dalle quali è stato
riconosciuto senz'ombra di dubbio
per quel monaco; fra esse ce n'è
una da cui, se le supposizioni
risulteranno fondate, avrà molto
da temere. Sì. Perfino fra i suoi
effetti personali si è trovato
qualcosa che aggrava i sospetti a
suo
carico.
E,
infine,
ci
giungeranno
presto
le
informazioni circa la sua effettiva
situazione familiare, richieste
all'autorità giudiziaria di Posen.
Tutto questo glielo dico anche più
apertamente di quanto non
esigerebbe il mio ufficio affinché
lei si convinca che io non conto
affatto di indurla ad ammettere la
verità - dato sempre che le nostre
supposizioni siano fondate -
mediante sotterfugi di sorta. Si
prepari come vuole. Se lei è
veramente l'accusato Medardo,
l'occhio del giudice non tarderà,
mi creda, a penetrare anche il più
fitto dei veli. Allora lei conoscerà
esattamente di quale delitto la si
accusi. Se lei dovesse invece
essere quel Leonard Krczynski per
cui si spaccia, se un curioso
scherzo di natura l'avesse reso
simile a frate Medardo finanche in
taluni segni particolari, lei troverà
facilmente
il
mezzo
di
dimostrarlo. Poco fa l'ho vista in
uno stato di grande eccitazione,
perciò preferisco interrompere il
dibattito, anche per darle modo di
riflettere meglio. Dopo quanto è
accaduto non gliene mancherà
argomento.
- Lei dunque crede false le mie
deposizioni?... Mi crede Medardo,
il frate fuggiasco?... - domandai.
- Adieu signor von Krczynski, rispose il giudice con un lieve
inchino. E venni ricondotto in
carcere.
Le parole del giudice mi
torturavano come aculei roventi.
Tutte le mie deposizioni mi
parevano assurde, superficiali. La
«temibile» persona con cui sarei
stato messo a confronto era
indubbiamente Aurelia. Come
avrei potuto sopportarlo?... Pensai
a che cosa potessero aver trovato
di sospetto fra i miei effetti
personali e, con una stretta al
cuore, mi venne in mente di aver
serbato un anello con su inciso il
nome di Eufemia, nonché la
bisaccia di Vittorino, tuttora legata
col mio cordone di frate! E mi
sentii perduto. Mi misi a
passeggiare disperato su e giù per
la cella. Mi parve allora che
qualcuno mi sussurrasse - mi
sibilasse - all'orecchio: - Pazzo,
perché ti perdi d'animo?... Non
pensi a Vittorino?... - Ah!..., esclamai. - La partita non è persa,
ma vinta! - Che lavorio, che
ribollio si scatenò in me! Già
prima avevo pensato che fra le
carte di Eufemia potessero aver
trovato qualche accenno all'arrivo
al castello di Vittorino travestito
da frate. Basandomi su tale ipotesi
avrei, in qualche modo, inventato
un incontro con lui, o magari con
me stesso. Medardo... Avrei
raccontato, come per sentito dire,
la tragica avventura al castello,
intrecciando
opportunamente
nella storia - in modo però da non
nuocermi - la mia rassomiglianza
con entrambi... Dovevo soppesare,
vagliare il racconto fin nei minimi
dettagli. Decisi perciò di metter
per scritto il romanzo che avrebbe
dovuto salvarmi. Chiesi ed ottenni
l'occorrente per scrivere, col
pretesto di dover ancora annotare
alcune circostanze taciute al
processo. Lavorai accanitamente
fino a tarda notte. Scrivendo, la
fantasia mi si riscaldò, tutto si
organizzò, prese forma come d'un
poema perfetto; e sempre più fitta
si fece la trama delle innumerevoli
menzogne con cui speravo di
velare la verità ai giudici.
L'orologio della torre aveva
appena suonato la mezzanotte
quando udii di nuovo - sommesso
e lontano - quel misterioso
bussare che mi aveva tanto
turbato, la notte precedente.
Cercai di non farci caso, ma i colpi
divennero sempre più forti,
scanditi a intervalli regolari e di
nuovo intercalati da gemiti e
risatine. Battendo un pugno sul
tavolo gridai: - Silenzio là sotto! nella speranza di farmi coraggio e
scacciare il terrore che mi stava
riafferrando. Passò nell'aria una
risata squillante, tagliente, e la
voce di nuovo balbettò: - Fra- tellino... fra- tel- lino... salgo... salgo
da te... Aprimi... aprimi! - Poi,
vicinissimo a me, sentii raschiare,
frugare, grattare nel pavimento,
poi di nuovo gemiti, risate, e
raschiare, grattare sempre più
forte. E, di tanto in tanto, un tonfo
sordo, come se cadesse un corpo
pesante. Mi ero alzato con la
lampada in mano: sentii qualcosa
muovere sotto il piede, arretrai
d'un passo e, nel punto su cui
posavo il piede, vidi sgretolarsi
una
pietra
del
pavimento.
L'afferrai, con poca fatica la
sollevai
completamente.
Dall'apertura filtrò una luce fioca
e ne uscì un braccio nudo, teso
verso di me con un coltello in
pugno. Arretrai ancora, inorridito:
- Fra- tel- lino... fra- tel- lino!... balbettò la solita voce. - Me- dardo
è qui... qui... Prendi... prendi...
Rompi... rompi... Nel bosco... nel
bosco!...
Fuggire,
salvarmi,
pensai;
scordai ogni terrore, presi il
coltello da quella mano e mi misi
a scalzare furiosamente la malta
fra le pietre del pavimento. L'altro
intanto spingeva con forza di
sotto. Rimossi quattro o cinque
blocchi vidi improvvisamente
sbucare fino alle anche un uomo
nudo che mi guardò ghignando
con occhi di spettro e poi scoppiò
in una risata raggelante, di folle.
La luce della lampada gli cadde in
pieno viso: riconobbi me stesso!...
E persi i sensi.
Una sensazione dolorosa alle
braccia mi destò dal deliquio.
Intorno a me era chiaro: il
carceriere mi stava davanti
reggendo una lucerna accecante;
la cella risonava di martellate e
rumor di ferri. Mi stavano
incatenando. Oltre che mettermi i
ceppi alle mani e ai piedi mi
avevano stretto la vita in un anello
di ferro incatenato al muro. - Ora
il signore la smetterà, credo, di
pensare a fuggire sfondando i
muri, - disse il carceriere.
- Che ha fatto questo
briccone?... - gli domandò il
fabbro.
- Come, non lo sai, Jost?... rispose il carceriere. - In città non
si parla d'altro. Èun dannato
cappuccino che ha ucciso tre
persone. Hanno già scoperto tutta
la tresca. Fra pochi giorni avremo
grande
spettacolo
di
gala:
lavoreranno le ruote -. Non udii
altro perché persi di nuovo i sensi.
Quando ritornai faticosamente in
me era buio pesto; finalmente
qualche pallida striscia di luce
diurna entrò nella bassissima
cripta - alta sei piedi appena - in
cui mi avvidi con terrore d'esser
stato trasportato. Avevo sete;
afferrai la brocca posta accanto a
me: qualcosa di freddo, di viscido
mi guizzò fra le mani e uno
schifosissimo rospo rigonfio si
allontanò saltando pesantemente.
Gettai la brocca con ribrezzo. Aurelia! - gemetti conscio ormai
dell'indicibile miseria in cui ero
piombato: - Per che cosa, dunque,
tutte quelle meschine menzogne
al tribunale?... Per che cosa,
diabolico
ipocrita,
quella
miseranda
commedia?...
Per
prolungare
d'un'ora
una
penosissima vita di strazi?... Che
cosa pretendi, pazzo! Possedere
Aurelia, che soltanto un delitto
inaudito potrebbe far tua?...
Perché, quand'anche, a furia di
menzogne, tu riuscissi ad apparire
innocente agli occhi del mondo, lei
prima o poi ti riconoscerebbe per
lo
scellerato
assassino
di
Ermogene, e avrebbe orrore di te.
Miserabile pazzo delirante! Dove
sono finiti i tuoi castelli in aria, la
tua fede in una sovrumana
potenza, con cui vaneggiavi di
guidare a tuo piacere lo stesso
destino?... Il verme che ti rode il
cuore non sei stato capace di
ucciderlo! Anche se il braccio della
giustizia ti risparmierà, finirai
nell'onta e nella disperazione!...
Così lamentandomi ad alta
voce, mi gettai sulla paglia e
avvertii una pressione al petto
prodotta, pareva, da un corpo duro
nella tasca anteriore del panciotto.
Mi palpai e tirai fuori uno stiletto.
Da quando ero in prigione non
avevo mai più portato addosso
coltelli: doveva dunque trattarsi di
quello portomi dal mio sosia
spettrale. Mi rialzai a fatica e
protesi l'arma verso la finestra da
cui ora filtrava qualche raggio di
luce più viva: vidi l'impugnatura
d'argento!...
Destino
imperscrutabile!... Era lo stesso
pugnale
(smarrito
alcune
settimane addietro) con cui avevo
ucciso Ermogene...
Ma, tutt'a un tratto, un'ondata
di conforto e di speranza mi
illuminò. Il modo inverosimile in
cui avevo ritrovato il pugnale era
un cenno della divina provvidenza
per additarmi come espiare il mio
delitto e riconciliarmi con Aurelia
nella morte. Ora soltanto più
l'amore per Aurelia divampava in
me, come un raggio divino, un
fuoco purissimo; ogni desiderio
colpevole era estinto. Mi sembrava
di vederla, come allora, quando mi
era apparsa nel confessionale, al
convento... - Certo che ti amo,
Medardo, - mi sussurrava la sua
voce aleggiante nell'aria. - Ma tu
non mi hai compresa... Il mio
amore è la morte! - Presi allora
l'incrollabile
decisione
di
raccontare spontaneamente al
giudice l'incredibile storia dei miei
traviamenti, e quindi di togliermi
la vita.
Il carceriere mi portò cibi
migliori del solito e, in più, una
bottiglia di vino. - Ordine del
principe, - disse apparecchiando la
tavola spinta dentro da un
secondino. Poi sciolse la catena
che mi legava al muro. Lo pregai
di dire al giudice che desideravo
venire interrogato, avendo da
rivelare molte cose che mi
pesavano sul cuore. Promise di
eseguire il mio incarico, ma io
attesi invano di venir condotto
all'interrogatorio. Più nessuno si
fece vedere fino a che, fattosi buio,
non venne il secondino ad
accendere la lucerna appesa al
soffitto. Dentro di me ero
tranquillo come non mai, ma mi
sentivo sfinito e quasi subito caddi
profondamente addormentato...
Mi conducevano in una lunga
sala tetra; su alti seggi, lungo le
pareti, vedevo una fila di religiosi
in nere vesti talari. Al centro,
davanti a una tavola ricoperta d'un
tappeto rosso sangue, sedeva il
giudice
con
a
fianco
un
domenicano
nella
divisa
dell'ordine. - Ora tu sei stato
consegnato
al
tribunale
ecclesiastico, - mi diceva il giudice
con voce dignitosa e solenne. Monaco peccatore pervicace: tu
rinnegasti il tuo nome e il tuo
stato. Francesco, in religione
chiamato Medardo, parla: di quale
delitto ti sei macchiato?... - Avrei
voluto confessare sinceramente i
delitti, i peccati commessi, ma me ne rendevo conto con terrore tutto ciò che dicevo non era affatto
ciò che pensavo e volevo dire.
Anziché confessare mostrandomi
pentito, mi perdevo in una
quantità di discorsi fuor di
proposito e sconclusionati. Allora
il
domenicano,
ergendosi
gigantesco davanti a me e
trapassandomi con uno sguardo
spaventosamente
scintillante,
esclamava - Alla tortura, monaco
ostinato e caparbio! - Le strane
figure sedute lungo le pareti della
sala si
alzavano
in
piedi
protendendo le lunghe braccia
verso di me e ripetevano in
lugubre coro: - Alla tortura! - Io
estraevo il pugnale e me lo vibravo
al cuore - ma il braccio deviava, la
lama colpiva il collo, dove recavo il
segno di croce, spezzandosi come
vetro, senza ferirmi. Subito i
carnefici
mi
afferravano
e
trascinavano giù, in un profondo
sotterraneo. Il giudice e il
domenicano scendevano dietro di
me; questi mi ingiungeva ancora
una volta di confessare e io,
ancora una volta, mi sforzavo. Ma
c'era come una frattura fra le
parole e il pensiero. Pentito,
contrito, umiliato, confessavo
tutto, dentro di me, ma dalla mia
bocca continuavano a uscire
discorsi
confusi,
assurdi,
insensati. A un cenno del
domenicano
i
carnefici
mi
spogliavano nudo, mi legavano le
mani dietro la schiena, mi
sollevavano con gli argani...
Sentivo le membra scricchiolare,
tendersi fino a spezzarsi... Pazzo di
disperazione e di dolore cacciai un
urlo... e mi svegliai...
Il dolore alle mani ed ai piedi
persisteva, certo per effetto delle
pesanti catene. Avvertivo inoltre
come una pressione sugli occhi
che mi impediva di aprirli. Infine
fu come se mi togliessero di colpo
un grosso peso dalla fronte. Balzai
a sedere: davanti al mio giaciglio
vidi un frate domenicano. Il sogno
s'era dunque fatto realtà... Un
fiotto gelido mi corse per le vene.
Il frate stava là, immobile come
una statua, a braccia conserte, e
mi fissava con due occhi neri,
infossati. Riconobbi il terrificante
pittore e ricaddi indietro svenuto...
Era forse soltanto un inganno dei
sensi eccitati dal sogno?... Mi feci
forza, mi risollevai; ma il monaco
stava sempre là, immobile, gli
occhi neri, infossati, fissi su di me.
- Vattene, orrendo uomo!... - urlai,
pazzo di disperazione. - No... tu
non sei un uomo... sei il Demonio
stesso, e vuoi precipitarmi nella
dannazione
eterna...
Vattene
scellerato, vattene!...
- Povero pazzo dalla vista
corta... Quello che cerca di irretirti,
di stringerti entro indissolubili
lacci di ferro, di distoglierti
dall'opera santa cui l'Onnipotente
ti ha chiamato, non sono io!...
Medardo... Povero cieco, povero
pazzo!... Ti sono parso spaventoso,
orrendo quando scherzavi come
un giocoliere incosciente sull'orlo
del baratro spalancato, sull'orlo
della dannazione eterna... Io ti ho
ammonito, ma tu non mi hai
compreso. Alzati, avvicinati! - La
voce del frate era bassa, accorata,
implorante, il suo sguardo, sempre
così terribile, era diventato mite,
dolce, più morbidi i lineamenti del
viso. Un'ondata di tristezza
indicibile mi sopraffece... Lo
spaventoso pittore mi pareva ora
un inviato dall'Onnipotente a
risollevarmi, a consolarmi della
mia infinita miseria. Mi alzai dal
giaciglio, mi avvicinai, gli toccai la
veste: no, non era un fantasma!
Senza volerlo caddi in ginocchio,
ed egli mi pose la mano sul capo
come per benedirmi. Allora mi
apparve una visione stupenda,
vivida, smagliante... - Ah!... Ero nel
sacro bosco!... Sì, nello stesso
luogo in cui, al tempo della mia
fanciullezza, il pellegrino dalla
veste esotica mi aveva condotto il
bimbo
prodigioso.
Volevo
proseguire, entrare nella chiesa, a
pochi passi davanti a me, perché là
sentivo
di
dover
ottenere,
espiando,
pentendomi,
l'assoluzione dai miei gravi
peccati...
Invece
rimanevo
immobile, non riuscivo a scorgere,
ad
afferrare
la
mia
vera
personalità. Allora una voce sorda,
cavernosa mi disse: - Il pensiero è
azione! - Il sogno svanì. Era stato
il pittore a dirmi quelle parole.
- Creatura incomprensibile, mormorai. - Eri tu, quella
sciagurata mattina, nella chiesa
dei cappuccini a B.?... E nella città
imperiale?... E adesso?...
- Zitto, - mi interruppe il
pittore. - Sì, ero io, sempre io,
accanto a te per salvarti dalla
rovina e dall'onta. Ma i tuoi sensi
sono rimasti chiusi. L'opera cui sei
stato chiamato dovrai portarla a
compimento per la tua salvezza.
- Ah! - esclamai disperato, perché non mi hai trattenuto il
braccio quando stavo per colpire
quel giovane?...
- Non mi era concesso, rispose
il
pittore.
Non
domandarmi altro! È da temerari
voler
anticipare
i
decreti
dell'Onnipotente. Medardo: tu stai
andando verso la meta. Domani! Un brivido mi raggelò perché
credetti di comprendere: il pittore
conosceva e approvava i miei
propositi suicidi. A passi incerti si
avviò verso la porta della cella.
- Quando ti rivedrò?...
- Alla meta, - rispose lui
volgendosi ancora una volta verso
di me. La sua voce, forte e
solenne, riecheggiò nella cella.
- Dunque, a domani?...
La porta girò silenziosamente
sui cardini. Il pittore era
scomparso.
Appena si fece giorno entrò il
carceriere con i secondini i quali
mi tolsero i ceppi dai polsi e dai
piedi piagati. Fra breve sarei stato
condotto all'udienza, mi dissero.
Profondamente
assorto,
familiarizzato ormai con l'idea
della morte, salii nella sala di
udienza. Mi ero organizzato bene
la mia confessione e speravo di
condensarla in un racconto breve
ma dettagliatissimo. Il giudice mi
venne premurosamente incontro.
Dovevo essere assai mal ridotto
perché, non appena mi vide, il
sorriso gli morì sulle labbra e il
viso assunse un'espressione di
profonda pietà. Mi prese le mani e
mi sospinse con garbo a sedere
sulla
sua
poltrona.
Poi,
guardandomi fisso e scandendo
bene
le
sillabe, mi disse
solennemente: - Ho buone notizie
da darle: lei è libero! Èstato
scambiato per un'altra persona a
causa di una rassomiglianza
assolutamente incredibile. La sua
innocenza è provata - provata nel
più luminoso dei modi. Lei è
libero!
Tutto si mise a ronzare, a
frullare, a girarmi
intorno.
Intravidi come in una fitta nebbia
il viso del giudice in centinaia di
sfaccettature, poi tutto svanì nel
buio.
Mi sentii massaggiare la fronte
con un'essenza forte e rinvenni dal
profondo deliquio in cui ero
caduto. Il giudice mi diede lettura
di un breve protocollo, ove si
precisava che la chiusura del
procedimento
e
il
mio
conseguente rilascio dal carcere
mi erano stati notificati. Firmai in
silenzio, non essendo in grado di
profferir parola. Una sensazione
indicibile
mi
annichiliva
soffocando ogni palpito di gioia.
Quando il giudice mi guardò e il
suo sguardo buono, cordiale, mi
scese fino in fondo al cuore, mi
parve di dovergli confessare
spontaneamente - proprio adesso
che credeva nella mia innocenza e
stava per mandarmi libero - tutti
gli abominevoli delitti commessi e
poi infiggermi il pugnale nel
cuore. Volevo parlare, ma il
giudice sembrava desiderare che
me ne andassi. Mi avvicinai alla
porta; egli mi seguì e disse
sottovoce: - Adesso non sono più il
giudice. Dal primo momento che
l'ho vista ho provato un enorme
interesse per lei. Quantunque (e
lei stesso dovrà ammetterlo) tutte
le apparenze le fossero contrarie,
ho sempre sperato che lei non
fosse quell'orribile frate criminale
per cui era stato preso. Ora posso
dirglielo in tutta confidenza.
Però... Lei non è polacco. Non è
nato a Kwiecziczewo. Non si
chiama Leonard von Krczynski.
- No, - risposi calmo e con
fermezza.
- E non è neppure un
religioso?... - mi domandò ancora
il giudice abbassando gli occhi,
probabilmente per risparmiarmi lo
sguardo dell'inquisitore.
Mi sentii ribollire.
- Bene, - sbottai, - e allora
ascolti...
- Silenzio! - mi interruppe il
giudice. - Quello che ho creduto
fin dapprincipio e credo ancora si
dimostra vero. Qui sotto ci
dev'essere
un
enigma.
Un
misterioso scherzo del destino
deve averla coinvolta nelle vicende
private di certi personaggi di corte.
Non spetta a me indagare. Sarebbe
indiscrezione da parte mia volerle
estorcere qualsiasi notizia circa la
sua persona e le circostanze probabilmente assai singolari della sua vita. Tuttavia, che ne
direbbe di sottrarsi a una
situazione perturbatrice della sua
quiete andandosene di qui?...
Dopo quanto è accaduto, rimanere
non potrebbe giovarle.
Appena ebbi udito queste
parole fu come se i nuvoloni neri
addensatisi minacciosi sul mio
capo
tutt'a
un
tratto
si
dissipassero. Avevo riconquistato
la vita! La sete di piacere di nuovo
mi divampava nei nervi, nelle
vene... Aurelia!... Di nuovo
pensavo a lei... E avrei dovuto
andarmene
proprio
ora?...
Lasciarla?...
- Lasciarla?... - ripetei ad alta
voce con un sospiro.
Il giudice mi guardò sbalordito
e disse in fretta: - Ah!... Ora credo
di vederci chiaro!... Mi si precisa
un cattivo presentimento. Voglia il
cielo, signor Leonardo, che non si
avveri.
Mi ero immaginato tutt'altra
cosa. Ogni pentimento svanì. E fu
forse sfrontatezza delinquenziale,
da parte mia, rivolgere al giudice
l'ipocrita domanda:
- Dunque, lei mi crede
colpevole?...
- Mi permetta, signore, rispose lui in tono molto serio, - di
tenere per me le mie convinzioni,
basate
unicamente
su
una
sensazione, anche se molto
precisa. È stato dimostrato nel
modo
e
nella
forma
più
ineccepibili che lei non può essere
frate Medardo perché frate
Medardo si trova qui. Padre Cirillo
- che poco fa si era lasciato
ingannare da una rassomiglianza
impressionante
lo
ha
riconosciuto ed egli stesso non
nega di essere il cappuccino
accusato. Insomma, è successo
tutto ciò che poteva succedere per
scagionarla da ogni sospetto e per
conseguenza io devo credere che
lei si senta mondo di ogni colpa.
In quel momento il giudice fu
chiamato da un usciere e la
conversazione venne interrotta
proprio quando incominciava a
diventarmi penosa.
Rientrai nella mia abitazione e
vi ritrovai tutto come lo avevo
lasciato. Le carte, messe sotto
sequestro,
giacevano
sulla
scrivania
entro
una
busta
suggellata. Mancavano soltanto il
portafogli di Vittorino, l'anello di
Eufemia e il cordone del saio di
frate. Quanto avevo supposto in
prigione era dunque esatto. Poco
dopo un domestico di corte venne
a consegnarmi una preziosa
tabacchiera d'oro tempestata di
gemme e accompagnata da un
biglietto di pugno del principe.
- Le è stato giocato un brutto
tiro, signor von Krczynski, - diceva
il biglietto. - Lei rassomiglia in
modo incredibile a un uomo molto
malvagio. Ma ora tutto è stato
chiarito a suo favore. Le invio un
piccolo
segno
della
mia
benevolenza e spero di rivederla
presto.
La benevolenza del principe mi
lasciò indifferente quanto il suo
dono. La prigionia mi aveva
lasciato addosso una cupa,
mortale tristezza. Sentivo il
bisogno di tirarmi su fisicamente e
mi fece quindi doppiamente
piacere la visita del medico di
corte.
Non
è
una
strana
combinazione, - mi disse lui
appena mi vide, - che proprio
quando si era ormai giunti alla
convinzione
che
lei
fosse
l'esecrabile monaco, responsabile
di tanta sciagura nella famiglia del
barone von F., il vero colpevole sia
saltato fuori a scagionarla d'ogni
sospetto?...
- Non sono informato circa le
esatte circostanze della mia
scarcerazione, gliel'assicuro, risposi. - Il giudice mi ha appena
fatto cenno alla comparsa del
ricercato, frate Medardo, quello
per cui io ero stato scambiato.
- Non è ricomparso. Lo hanno
portato qui ben legato su un carro
e - ciò che è più strano - dal più al
meno lo stesso giorno in cui è
arrivato qui lei. A proposito. Mi
viene in mente che, mentre stavo
raccontandole i fatti incredibili
avvenuti alla nostra corte tempo
fa, fui interrotto quando ero
giunto a parlarle dell'infame
Medardo, figlio di Francesco, e
delle sue criminali imprese nel
castello del barone von F.. Riprendo il filo del racconto da
quello stesso punto. La sorella
della nostra principessa, badessa,
come lei sa, del convento
cistercense
di
B.,
aveva
affettuosamente
accolto
una
povera donna col suo bimbo, di
ritorno da un pellegrinaggio al
Sacro Tiglio...
- La donna era la vedova di
Francesco, e il bimbo - Medardo.
- Appunto. Ma lei come lo sa?...
- Le misteriose peripezie del
cappuccino Medardo, fino al
momento della sua fuga dal
castello del barone von F., mi
vennero rese note fin nei minimi
dettagli, in modo stranissimo.
- Ma come?... Da chi?...
- In sogno. Un sogno quasi
vero...
- Lei scherza!
- Niente affatto. È proprio
come se avessi udito in sogno la
storia di un infelice, divenuto un
trastullo nelle mani di forze
oscure e sbattuto qua e là, da un
delitto all'altro. Venendo qui, il
postiglione smarrì la strada nella
foresta di --tz e mi condusse nella
casa del guardiaboschi.
- Ah, ho capito. E là incontrò il
monaco.
- Infatti. Ma era pazzo.
- Pare non lo sia più. Anche
allora aveva dei momenti di
lucidità. E le ha confidato tutto?
- Non proprio. Durante la
notte, non sapendo del mio arrivo,
mi capitò in camera. Vedendomi
così perfettamente rassomigliante
a lui si spaventò. Mi credette il suo
«doppio», venuto per annunziargli
la morte, si confuse, e incominciò
a confessare qualcosa balbettando.
Io, stanco del viaggio, senza
accorgermene mi addormentai,
ma mi parve che egli continuasse
a parlare tranquillamente. Ancora
adesso non so bene come e a che
punto incominciasse il sogno. Mi
pare che il frate asserisse di non
essere stato lui ad uccidere
Eufemia e Ermogene, ma il conte
Vittorino.
- Strano, stranissimo. Ma
perché non lo disse al giudice?
- Come potevo sperare che
desse qualche peso a una storia
così fantastica?... Può un tribunale
illuminato
credere
l'inverosimile?...
- Avrebbe almeno dovuto
supporre d'essere stato scambiato
per il frate pazzo e segnalarlo
come il possibile Medardo...
- Certo. Specialmente quando
un vecchio imbecille (mi pare si
chiamasse Cirillo...), insistette nel
riconoscermi
per
un
suo
confratello. Ma non mi venne in
mente che quel pazzo potesse
essere Medardo né il suo delitto
l'oggetto del mio processo. A
quanto
ho
saputo
dal
guardiaboschi, il frate non gli
aveva mai detto il proprio nome.
Come si è giunti a scoprirlo?...
- Nel più semplice dei modi. Il
frate, come lei sa, si trattenne
parecchio tempo in casa del
guardiaboschi.
Sembrava
già
guarito quando tutt'a un tratto la
pazzia esplose di nuovo, tremenda,
e il guardiaboschi si vide costretto
a portarlo qui, al manicomio. Per
giorni e notti rimase rigido come
una statua, senza batter ciglio né
dire una parola. Dovettero nutrirlo
a forza perché si rifiutava di
muovere un dito. Provarono
inutilmente parecchi rimedi per
trarlo
da
quello
stato
di
irrigidimento; ai mezzi drastici
non si volle ricorrere nel timore di
provocare nuove crisi di pazzia
furiosa. Pochi giorni fa il figlio
maggiore del guardiaboschi venne
qui e andò al manicomio per
rivedere il frate. Mentre usciva
tutto
sconvolto
dallo
stato
miserando di quel poveretto, vide
passare un cappuccino, padre
Cirillo, e lo pregò di visitare uno
sventurato confratello chiuso là
dentro, perché la parola di un
religioso appartenente al suo
stesso ordine avrebbe potuto
giovargli. Quando padre Cirillo
vide il frate balzò indietro
inorridito: «Santa madre di Dio!»,
esclamò, «Medardo... sciagurato
Medardo!...» - Gli occhi vitrei del
frate si rianimarono; egli si alzò e
ricadde al suolo con un grido
soffocato. Cirillo e tutti i presenti
al fatto andarono subito dal
presidente della corte criminale a
riferire. Il giudice cui era stata
affidata l'istruttoria del processo
contro di lei si recò al manicomio
con padre Cirillo. Ritrovarono il
frate
molto
spossato
ma
perfettamente in sé. Ed egli
confessò subito di essere frate
Medardo, il cappuccino fuggito dal
convento di B.. Padre Cirillo
ammise senz'altro di essersi
lasciato ingannare dalla sua
incredibile rassomiglianza con
quell'uomo, e soltanto allora notò
quanto il suo modo di parlare, il
suo sguardo, i suoi modi
differissero da quelli del frate che
aveva sott'occhio. Si scoperse
anche, sul lato sinistro del collo, il
famoso segno di croce che aveva
avuto tanto peso nel suo processo.
Il frate venne quindi interrogato
sui fatti avvenuti nel castello del
barone von F.. «Sono un
criminale, un mostro», rispose lui
con un filo di voce. «Mi pento
amaramente di quanto ho fatto.
Ahimè,
mi
sono
lasciato
ingannare... ho perduto me stesso
e la mia anima immortale! Abbiate
pietà!...
Datemi
tempo...
confesserò... confesserò tutto!...»
- Il principe, informato della
cosa, ordinò immediatamente di
chiudere il procedimento a suo
carico e di rimetterla in libertà. Il
frate è stato condotto nel carcere
criminale.
- E ha ammesso tutto?...
Eufemia, Ermogene li ha uccisi
lui?... E il conte Vittorino allora?...
- Per quanto ne so, il vero e
proprio processo penale contro il
frate incomincia soltanto oggi. In
quanto al conte Vittorino si
direbbe proprio che tutto ciò che
ha qualche rapporto coi fatti
avvenuti alla nostra corte debba
rimanere
oscuro
e
incomprensibile.
- Infatti non riesco proprio a
vedere come si possa collegare la
tragedia avvenuta al castello del
barone von F. con la catastrofe
avvenuta qui.
- Veramente alludevo più ai
protagonisti che ai fatti.
- Non la capisco.
- Ricorda esattamente il mio
racconto della catastrofe in cui il
marchese trovò la morte?
- Senza dubbio.
- Non le è apparso chiarissimo
che Francesco amava l'italiana
d'un amore colpevole?... Che fu lui
a
insinuarsi
nella
camera
matrimoniale,
precedendo
il
marchese per poi trucidarlo a
pugnalate?... Vittorino fu il frutto
dell'odioso misfatto. Egli e
Medardo sono figli d'uno stesso
padre. Ma Vittorino scomparve
senza lasciar traccia. Tutte le
ricerche furono vane.
- Il frate lo sospinse nell'abisso
del diavolo. Sia maledetto il pazzo
fratricida!
Mentre
pronunziavo
la
violenta imprecazione, ecco di
nuovo - lieve, lievissimo - il
bussare dell'orribile spettro, come
lo avevo udito in carcere. Invano
tentai di vincere il terrore che
andava riafferrandomi. Il medico
pareva non udire i colpi né
accorgersi
della
mia
lotta
interiore. - Come? - esclamò. - Il
frate ha ammesso di aver ucciso
anche Vittorino?
- Sì! O almeno, mettendo in
rapporto certe sue frasi tronche
con la scomparsa di Vittorino,
devo ritenere che le cose siano
andate proprio così. Maledizione
sul pazzo fratricida!...
I colpi, i sospiri, i gemiti si
fecero più forti. Una risatina
sottile
sibilò
nell'aria,
articolandosi, mi parve, in queste
parole: - Medardo... Medardo...
Ai... ai... aiuto!...
Senza accorgersi di nulla, il
medico proseguì: - Anche sulle
origini di Francesco sembra ci sia
un mistero. Molto probabilmente
è imparentato con la famiglia del
principe. Una cosa è certa:
Eufemia è figlia...
Con uno schianto tremendo
che fece scricchiolare i cardini, la
porta si spalancò. Una risata
tagliente irruppe nella camera.
- Oh... oh... oh... Fratellino!... gridai come impazzito. - Oh... oh...
Qui, presto... presto... se vuoi
combattere con me... Il gufo va a
nozze... Saliamo a batterci sul
tetto... Chi getta giù l'altro diventa
re e può bere sangue...
- Cos'è?... Che significa?... esclamò il dottore afferrandomi
per un braccio. - Lei è ammalato...
senza
dubbio...
gravemente
ammalato... Presto, presto, a letto!
Io guardavo fisso alla porta
aperta per vedere se il mio orribile
sosia non entrasse per davvero.
Non vidi nulla e quasi subito mi
ripresi dal terrore selvaggio che mi
aveva afferrato con gelidi artigli. Il
medico insistette nel dichiararmi
più ammalato di quanto io stesso
non volessi credere. Conseguenza
del carcere - disse - e delle
emozioni causatemi dal processo.
Presi i suoi rimedi, ma assai più
dell'arte medica mi aiutò a guarire
in fretta la totale remissione dei
colpi e l'apparente scomparsa
dello spaventevole sosia.
Una mattina i raggi dorati del
sole inondavano la mia camera di
una luce deliziosa; dalla finestra
aperta entrava un dolce profumo
di fiori. Provai un indicibile
desiderio di uscire all'aria libera e,
malgrado il divieto del medico,
scesi nel parco. Alberi e cespugli
salutarono
sussurrando
e
stormendo
il
povero
convalescente, scampato a una
mortale
malattia.
Come
destandomi da un interminabile
incubo respirai a pieni polmoni la
buon'aria
pura.
Le
impronunziabili espressioni di
delizia con cui feci coro al gioioso
cinguettio degli uccelli, al gaio
ronzio metallico degli insetti
multicolori,
furono
profondi
sospiri.
Sì!... Non soltanto quell'ultimo
periodo di tempo ma l'intera mia
vita, da quando avevo lasciato il
convento,
da
quando
non
passeggiavo più all'ombra di un
viale di platani scuri, mi parevano
un sogno angoscioso...
Ero di nuovo nel giardino dei
cappuccini, a B...' Al disopra del
bosco lontano vedevo ergersi l'alta
croce, davanti alla quale tante
volte
mi
ero
devotamente
inginocchiato ad implorare la
forza di resistere alle tentazioni.
Ora quella croce mi sembrava la
meta a cui mi traeva la furia dei
marosi; avrei dovuto pentirmi,
espiare nella polvere, ai piedi di
quel legno, i sogni colpevoli, i
satanici miraggi, il delitto. E
camminavo, lo sguardo fisso alla
croce, levando le mani giunte.
L'aria spirava sempre più forte; mi
pareva di udire gli inni dei
confratelli ma erano soltanto le
magiche voci del bosco destate dal
passaggio del vento fra gli alberi.
Quell'aria mi mozzava il respiro.
Ben presto dovetti fermarmi e
appoggiarmi, sfinito, a un albero
per non cadere. Ma una forza
irresistibile
continuava
a
sospingermi verso la croce
lontana. Raccolsi tutte le mie
energie e mi rimisi in cammino
vacillando; a mala pena riuscii a
giungere ai margini del bosco,
presso il sedile coperto di musco.
E qui una spossatezza mortale mi
paralizzò. Mi abbandonai a sedere,
adagio, come un debole vecchio e
cercai sollievo all'oppressione di
petto
gemendo
sottovoce.
Qualcosa frusciò nel viale, a pochi
passi da me... Aurelia... pensai; e
mentre quel nome mi balenava
alla mente lei era già lì, davanti a
me. Lacrime d'amore e di mestizia
le velavano gli occhi di cielo, ma
pur fra le lacrime vidi brillare una
vivida luce: era l'espressione
ineffabile - inconsueta sul viso di
Aurelia - della passione ardente...
Ma era anche lo stesso sguardo
appassionato della misteriosa
creatura
apparsami
nel
confessionale e riveduta, poi, tante
volte nei miei dolcissimi sogni.
- Potrà mai perdonarmi?... sussurrò lei. Pazzo di gioia caddi
in ginocchio, le presi le mani: Aurelia... Aurelia!... Per te anche il
martirio, la morte!... - Mi sentii
risollevare dolcemente: Aurelia mi
si abbandonò sul petto... Mi persi
in un delirio di ardentissimi baci.
Spaventata da un appressarsi di
passi,
Aurelia
si
svincolò
dall'abbraccio e fuggì. Non potei
trattenerla. - Tutte le mie
speranze, i miei sogni sono
appagati! - mormorai, e in quel
momento vidi venir lungo il viale
la principessa. Mi ritrassi nel
bosco e solo allora mi accorsi di
aver stranamente scambiato un
tronco secco, grigiastro, per il
crocifisso.
Non provavo più alcun senso di
spossatezza ormai: i baci di
Aurelia mi avevano immesso nelle
vene il fuoco d'una nuova forza
vitale. Era come se il mistero di
tutta la mia esistenza mi si fosse
finalmente dischiuso, radioso,
stupendo... Ah!... Era il prodigioso
mistero dell'amore, svelato nella
piena luce della sua gloria! Avevo
ormai
raggiunto
il
punto
culminante della vita; ora, perché
si compisse il destino segnato
dalla suprema potenza, sarebbe
iniziata la parabola discendente.
Quando incominciai ad annotare
ciò che mi accadde dopo aver
ritrovato Aurelia, quel periodo di
tempo lo rividi come un sogno
celestiale. Straniero, sconosciuto
che un giorno leggerai questi fogli:
ti avevo pregato di richiamare alla
memoria il supremo momento
solare della tua vita onde poter
capire lo sconsolato dolore del
monaco ingrigito nel rimorso e
nella penitenza e unirti ai suoi
lamenti. Ora torno a pregarti:
rievoca quel tempo, ed io non avrò
più bisogno di dirti come l'amore
di Aurelia mi trasfigurasse e
trasfigurasse ogni cosa intorno a
me, come il mio spirito desto,
recettivo, scorgesse e cogliesse la
vita nella vita ed io, insufflato di
entusiasmo divino, mi sentissi
traboccante di sovrumana felicità.
Più nessun pensiero tetro mi
tormentava: l'amore di Aurelia mi
aveva purificato e redento. Sì: per
un singolare miracolo prendeva
forma in me e si rafforzava la
convinzione di non esser stato io il
criminale assassino di Eufemia ed
Ermogene, bensì il monaco pazzo
incontrato
in
casa
del
guardiaboschi... Il mio racconto al
medico di corte non mi sembrava
menzogna,
bensì
il
reale
svolgimento dei fatti, anche se io
stesso non riuscivo a capirlo.
Il principe mi accolse come un
amico creduto perso e ritrovato,
dando così il tono cui tutti
dovettero,
naturalmente,
adeguarsi. Soltanto la principessa,
benché un po'più affabile del
solito, si manteneva seria e
riservata.
Aurelia mi si abbandonò con
infantile spontaneità; il suo amore
non le sembrava una colpa da
doversi nascondere agli occhi del
mondo e, d'altronde, neppure io
riuscivo minimamente a celare il
sentimento ch'era la mia sola
ragione di vita. Tutti avevano
notato e compreso la natura dei
nostri rapporti ma nessuno ne
parlava perché si leggeva chiaro
negli occhi del principe che, se
non proprio favorire il nostro
amore, intendeva tollerarlo in
silenzio. Potevo dunque vedere
sovente Aurelia, senza alcun
impaccio e talvolta anche senza
testimoni. Allora la stringevo fra le
braccia e lei ricambiava i miei
baci; ma la sentivo così tremante
di verginale pudore da non
provare più alcuna concupiscenza
colpevole; in quel dolcissimo
brivido, ogni cattivo pensiero
moriva sul nascere. Lei pareva
ignara del pericolo, e infatti
pericoli non ne correva. Molte
volte quando mi sedeva accanto,
sola con me in una camera, e il
suo fascino celestiale irradiava da
lei più potente che mai, e la cieca
passione minacciava di divampare
e travolgermi, lei mi guardava con
due occhi talmente puri e
mansueti da darmi la sensazione
che il cielo avesse concesso al
peccatore pentito di avvicinare
una santa, già qui, su questa terra.
Sì. Aurelia era santa Rosalia; ed io
mi prostravo ai suoi piedi
esclamando: - O pia, sublime
santa... È lecito amarti d'un amore
terreno?... - Lei mi porgeva la
mano e rispondeva con voce dolce
e gentile: - Non sono una santa
sublime... Ma pia lo sono... E ti
amo tanto!
Non l'avevo più vista da
parecchi giorni perché si era recata
con la principessa in un vicino
castello di diporto. Non resistetti
più e corsi a raggiungerla. Giunsi a
tarda sera, incontrai in giardino
una dama di compagnia e mi feci
indicare da lei la camera di
Aurelia. - Apersi piano, piano la
porta: una folata d'aria calda,
pesante, carica di profumo di fiori
mi investì annebbiandomi i sensi.
I ricordi si ridestarono come
torbidi sogni sopiti! Non era
quella la camera di Aurelia nel
castello del barone, dove io
avevo?... Appena formulato questo
pensiero sentii ergersi alle mie
spalle una figura tenebrosa...
«Ermogene!», gridai dentro di me,
e corsi avanti inorridito. La porta
del
vestibolo
era
soltanto
accostata: vidi, di schiena, Aurelia
in ginocchio davanti a uno
sgabello con sopra un libro aperto.
Ancora impaurito mi guardai
involontariamente indietro, non
vidi nulla ed esclamai estasiato: Aurelia, Aurelia!... - Ella si volse di
scatto ma, prima ancora che si
rialzasse, le ero inginocchiato
accanto e la stringevo forte. Leonardo, amor mio! - bisbigliò.
Mi sentii ribollire di desideri
colpevoli, di selvaggia libidine. Lei
mi si era abbandonata senza forze
fra le braccia... Le chiome
inanellate, scioltasi la pettinatura,
mi ricadevano abbondanti sulle
spalle, il seno di fanciulla usciva
dalla scollatura della veste... La
sollevai:
gemeva,
sembrava
spossata,
una
luce
nuova,
conturbante, le brillava negli
occhi... le sue labbra ricambiavano
con ardore i miei baci frenetici.
Persi la testa. Ma dietro di noi
qualcosa, come un possente colpo
d'ala, frusciò nell'aria... una voce
penetrante, simile
al
grido
d'angoscia d'un uomo ferito a
morte, echeggiò nella camera. Ermoge- ne!... - gridò Aurelia; e,
scivolandomi fra le braccia, si
afflosciò svenuta. Allora, pazzo di
terrore, fuggii.
Nel corridoio incontrai la
principessa di ritorno da una
passeggiata; mi squadrò severa,
superba e disse: - Mi meraviglio
molto di vederla qui, signor
Leonardo! - Ero sconvolto, ma mi
dominai; e assumendo un tono
forse anche più reciso del lecito
risposi che non sempre era facile
resistere a certi impulsi, e che
spesso le cose in apparenza più
sconvenienti potevano diventare
convenienti e opportune.
Mentre ritornavo in tutta fretta
alla residenza, nel buio della notte,
mi parve che qualcuno corresse al
mio fianco e mi sussurrasse: - S...
sempre... sono... con te, fra... fra...
tellino Medardo! - Mi guardai
intorno e vidi bene che il fantasma
del sosia infieriva soltanto nella
mia fantasia, eppure non riuscii a
liberarmi
della
terrificante
presenza; mi parve, anzi, di
dovergli parlare, di dovergli dire
che ero stato di nuovo un
solennissimo sciocco e di nuovo
mi ero lasciato impaurire da
Ermogene, il folle... che santa
Rosalia sarebbe stata mia molto
presto, perché per quello scopo mi
ero fatto frate, avevo ricevuto gli
ordini... - Allora il mio doppio si
mise a ridere, a gemere, a
balbettare come aveva fatto allora:
- Sì... ma presto... presto!
- Un po'di pazienza, - risposi. -
Un po'di pazienza, ragazzo mio.
Tutto andrà per il meglio...
Ermogene non l'ho colpito bene,
perché anche lui, come me, ha
quella dannata croce sul collo...
Ma il mio stiletto è ancora aguzzo
e tagliente abbastanza...
- Ih... ih... ihh... Colpisci bene...
colpisci bene!... - bisbigliò la voce,
perdendosi nel vento del mattino
spirante
dal
cielo
infocato
d'oriente.
Appena
rientrato
mi
mandarono a chiamare al palazzo.
Il principe mi venne incontro
festoso, cordiale: - Lei si è
conquistata tutta la mia simpatia,
signor Leonardo, - mi disse. - Il
mio affetto per lei, non posso
nasconderglielo,
è
diventato
autentica amicizia. Non vorrei
perderla, e vorrei vederla felice. Le
sono dovute le più ampie
riparazioni per quanto ha sofferto.
Lei sa, signor Leonardo, chi è stato
l'unico e solo responsabile del
malaugurato processo?... Sa chi
l'ha accusato?...
- No, vostra grazia.
- La baronessa Aurelia!
Stupito?... Sì, sì, signor Leonardo,
la baronessa Aurelia - (e qui il
principe scoppiò a ridere) - l'ha
presa per un cappuccino! Ah, per
Dio, se ciò fosse vero lei sarebbe il
più amabile cappuccino che mai si
sia visto! Dica la verità, signor
Leonardo: lei è proprio un simile
avanzo di convento?...
- Io non so, vostra grazia, quale
malvagio destino voglia sempre
far di me un monaco. Io...
- Basta, basta... Non sono un
inquisitore. Sarebbe però molto
seccante se qualche voto religioso
la legasse. Veniamo al fatto:
vorrebbe prendersi una piccola
vendetta su Aurelia per il grosso
guaio in cui l'ha cacciata?...
- E chi mai potrebbe nutrire
pensieri del genere contro quella
incantevole creatura?...
- Lei ama Aurelia?... - Questa
domanda il principe me la pose
facendosi serio e guardandomi
fisso negli occhi. Mi portai una
mano al petto e non risposi.
- Lei ama Aurelia, lo so, riprese il principe, - l'ama fin da
quando la vide entrare in sala per
la prima volta, con la principessa.
E Aurelia la ricambia con un
ardore di cui, francamente non
l'avrei creduta capace. Vive
unicamente per lei: la principessa
mi
ha
detto
tutto.
Lo
crederebbe?... Dopo il suo arresto
si è disperata al punto di
ammalarsi; poco è mancato che
morisse. La credeva l'assassino di
suo fratello e ciò nonostante
anche allora l'amava... Il suo
dolore ci era incomprensibile.
Dunque, signor Leonardo, o
meglio, signor von Krczynski: lei è
nobile di nascita. Le darò una
sistemazione stabile e, credo,
molto piacevole, qui a corte:
sposerà Aurelia. Fra alcuni giorni
celebreremo il fidanzamento. Io
farò le veci del padre della sposa.
Rimasi
senza
parola,
combattuto dai sentimenti più
contraddittori.
- Adieu, signor Leonardo! esclamò il principe salutandomi
con un cordiale cenno di mano. Ed
uscì.
Aurelia mia moglie!... La
moglie d'un frate criminale! No!...
Questo non potevano volerlo
neppure le potenze tenebrose,
qualsiasi fosse la sorte designata
alla poveretta. Tale pensiero
prevalse
su
ogni
possibile
obiezione
contraria.
Dovevo
prendere subito una decisione; ma
inutilmente tentai di escogitare un
mezzo per separarmi da Aurelia
senza dolore. Non rivederla più mi
era insopportabile... ma il pensiero
che lei dovesse diventare mia
moglie mi riempiva d'un orrore di
cui io stesso non sapevo darmi
ragione.
Avevo
il
chiaro
presentimento che, se il frate
criminale si fosse presentato
davanti all'altare del Signore per
farsi sacrilega beffa dei sacri voti,
il pittore sconosciuto gli sarebbe
apparso - non più benevolo,
consolatore come in prigione, ma
tremendo,
implacabile
annunziatore di vendetta e rovina,
come al matrimonio di Francesco
per precipitarlo nell'onta e nella
perdizione temporale ed eterna.
Una voce tenebrosa saliva dal
fondo della coscienza e mi diceva:
- Eppure, Aurelia dev'essere tua!...
Pazzo, idiota, come pensi di poter
mutare la sorte segnata per
entrambi?... - Giù, giù, prosternati
nella polvere! - diceva un'altra
voce: - Cieco! Tu commetti un
delitto!... Aurelia non potrà mai
essere tua... È santa Rosalia che ti
illudi di poter abbracciare ed
amare d'un amore terreno!
Così in balìa di due potenze
tremende in conflitto, non ero più
capace di pensare e non avevo la
benché minima idea di che cosa
dovessi fare per sfuggire alla
rovina incombente su di me da
ogni parte. Ora, la mia vita
trascorsa e la tragedia nel castello
del barone von F. non potevo più
considerarle un semplice sogno
angoscioso; l'entusiasmo, l'euforia
si erano esauriti. In preda al più
nero sconforto vedevo in me
soltanto più un volgare, libidinoso
delinquente. Tutto ciò che avevo
raccontato al giudice e al medico
di corte non era altro che un
cumulo di stupide menzogne male
inventate; e più nessuna voce mi
parlava,
come
allora,
per
convincermi del contrario.
Un giorno mi trascinavo per la
strada profondamente assorto,
senza sentire né vedere nulla
intorno a me. Mi ridestarono il
grido d'un cocchiere, il fragore
d'un veicolo in corsa. Mi scansai di
lato con un balzo: era la carrozza
della principessa. Il medico si
sporse dal finestrino e mi fece un
cenno di saluto. Lo seguii a piedi
fino a casa; qui egli scese e mi
condusse dentro dicendomi: Vengo adesso da Aurelia. Ho
qualcosa da dirle -; e quando
fummo nella sua camera riprese: Ahi, ahi!... Ragazzo sconsiderato e
impulsivo... che cosa mi ha
combinato?... Si è mostrato ad
Aurelia così, all'improvviso, come
uno spettro, e la povera creatura,
già debole di nervi, si è spaventata
fino ad ammalarsene... Via, via... soggiunse vedendomi impallidire.
- La cosa non è poi così grave!
Aurelia esce già di nuovo in
giardino e domani ritornerà alla
residenza con la principessa. Mi
ha parlato molto di lei: desidera
ardentemente
rivederla
e...
scusarsi! Teme di esserle apparsa
una sciocca...
Ripensai
a
quanto
era
avvenuto in quel castello di
diporto e non seppi spiegarmi la
sortita di Aurelia.
Il medico pareva a conoscenza
delle intenzioni del principe a mio
riguardo, e me lo fece chiaramente
intendere.
La
sua
vivacità
contagiosa riuscì ben presto ad
aver ragione del mio umor nero. E
la conversazione prese un tono
gioviale. Egli mi descrisse ancora
una volta come aveva trovato
Aurelia: distesa in letto, con la
testolina appoggiata sulla mano e
gli occhi socchiusi, ancora pieni di
lacrime ma già sorridenti, proprio
come una bambina incapace di
riaversi da un brutto sogno. Il
medico ripeté le sue parole
imitando la voce rotta, i sospiri
sommessi della timida giovinetta
angustiata da visioni morbose, ne
rifece,
in
tono
alquanto
caricaturale, alcuni lamenti, seppe,
insomma, rievocare il grazioso
quadretto in chiave di arguta
ironia; poi, per contrasto, imitò la
severa gravità della principessa, e
ciò mi divertì non poco. - Avrebbe
mai immaginato, quando giunse
nella residenza, - concluse, - che le
sarebbero capitate tante e così
incredibili avventure?... Prima, il
malaugurato equivoco che l'ha
portata
davanti
alla
corte
criminale,
poi
la
fortuna
veramente invidiabile offertale dal
suo serenissimo amico!
Infatti,
lo
ammetto:
l'affettuosa
accoglienza
del
principe sulle prime mi ha molto
riconfortato. Ma adesso sento
troppo di dovere esclusivamente
all'ingiustizia subita la maggiore
stima riacquistata presso di lui e
tutta la corte.
- Non tanto all'ingiustizia
subita quanto a un'altra piccola
circostanza che lei certamente
indovinerà.
- Non ne ho la minima idea.
- Qui continuano a chiamarla
semplicemente Leonardo, è vero,
perché a lei piace così. Però adesso
tutti sanno che lei è nobile, perché
le notizie giunte da Posen hanno
confermato le sue dichiarazioni.
- E quale influenza può avere
questo fatto sul principe e sulla
stima di cui godo a corte?...
Quando il principe mi conobbe e
mi invitò a frequentare le sue sale
io lo avvertii che ero di origine
borghese; ed egli mi rispose che la
cultura mi nobilitava e rendeva
degno di comparire a palazzo.
- Sì, questo lo dice, e ne è
veramente convinto, quando si
mette a civettare con le arti e le
scienze atteggiandosi a spirito
illuminato. Avrà notato, a corte, la
presenza di alcuni artisti e
scienziati borghesi. Ma i più
sensibili, i più fini d'intuito fra
costoro, quelli cui non sfugge la
sostanziale
leggerezza
dei
cortigiani e non possono così, per
ischerzo, porsi sul piedestallo che
li innalzerebbe al disopra degli
altri, quelli si fanno vedere di
rado, anzi, preferiscono non
mostrarsi affatto. C'è sempre, nel
comportamento dei nobili verso i
borghesi, e malgrado tutta la
miglior volontà, da parte dei primi,
di mostrarsi spregiudicati, un
certo non so che, assai simile ad
un abbassarsi, a un sopportare
una situazione sconveniente. E
questo nessuno lo tollera, meno
che mai gli individui giustamente
orgogliosi di sé, i quali, quando
sono in compagnia di aristocratici,
sentono di essere i soli a doversi
abbassare, tollerando la banalità,
la meschinità intellettuale. Lei è
nobile, signor Leonardo; ma, a
quanto sento, è anche una persona
colta, intelligente. Ed è perciò
possibile che lei sia il primo
aristocratico in cui, finanche nei
nobili ambienti di corte, io non
abbia mai avvertito nulla di
«aristocratico»
- nel senso
deteriore del termine. Lei potrà
credere ch'io parli in questo modo
basandomi sulle solite opinioni
preconcette diffuse tra i borghesi,
o che qualcosa mi sia accaduto per
rendermi schiavo di tali pregiudizi.
Ma non è così. Io appartengo a
una
classe
la
quale,
eccezionalmente, non soltanto è
tollerata, ma addirittura portata in
palmo di mano. Medici e
confessori sono signori sovrani:
regnano sui corpi e sugli spiriti e
quindi
vengono
considerati
senz'altro
appartenenti
alla
migliore nobiltà. L'indigestione,
come la dannazione eterna, non
dovrebbero
incomodare
un
tantino anche i personaggi più
qualificati a frequentare le corti?...
Ho detto confessori, ma alludevo
soltanto ai preti cattolici. I pastori
protestanti,
specialmente
in
campagna, sono poco più che dei
domestici i quali, dopo aver
toccato le coscienze degli illustri
signori, siedono in fondo in fondo
alla tavola a rifocillarsi umilmente
con vini ed arrosti. Certo, non
dev'essere facile deporre un
pregiudizio così profondamente
radicato. Ma molte volte si tratta
unicamente di mancanza di buona
volontà; perché molti nobiluomini
temono di poter, soltanto come
tali, mantenere un posto nella vita
cui altrimenti nulla al mondo
darebbe loro il diritto di ambire.
L'orgoglio del casato è un
fenomeno curiosissimo, quasi
ridicolo nel nostro tempo tendente
sempre più a spiritualizzarsi. Dalla
cavalleria, la guerra, le armi, si è
formata una casta destinata
esclusivamente a proteggere e
difendere tutte le altre: il rapporto
di subordinazione dei protetti
verso i protettori ne è conseguito
da sé. Si vantino pure, il dotto del
proprio sapere, l'artista della
propria arte, l'operaio, il mercante
del proprio mestiere. - «Guardate
un pò», dice il cavaliere. «Sta
venendo un nemico protervo cui
voi, inesperti di guerra, non potete
opporvi; ma io, valente uomo
d'armi, mi pongo davanti a voi con
la mia spada da combattimento e
quasi per piacere, per gioco, vi
salvo la vita, i beni, gli averi!» Ma
la forza bruta tende sempre più a
sparire dalla faccia della terra;
l'intelletto lavora e crea sempre
più intensamente; la sua forza si
dispiega sempre più vasta. Presto
ci si renderà conto che un pugno
vigoroso, una corazza, una spada,
non bastano a vincere ciò che
vuole lo spirito. La guerra, l'arte
delle armi si piegheranno al
principio spirituale del tempo.
Ognuno di noi dovrà sempre più
bastare a se stesso, attingere alle
proprie capacità spirituali e
intellettuali per farsi valere nel
mondo, anche se il rango gli
conferisca un qualche lustro
esteriore. L'orgoglio del casato,
discendente
dalla
cavalleria,
poggia invece sul principio
opposto. La sua divisa è la
seguente: «I miei antenati erano
degli eroi, perciò anch'io sono un
eroe». - E, più addietro si deve
risalire nel tempo, tanto meglio;
perché è facile chiudere un occhio
sulle
origini
e
la
natura
dell'eroismo d'un bisavolo e sulla
motivazione del suo brevetto
nobiliare, ma più difficile prender
sul serio questi fatti quando sono
troppo recenti. Le belle leggende
vogliono sfumare nelle nebbie del
passato remoto!...Insomma, si
deve
ancor sempre
risalire
all'eroismo e alla forza fisica.
Genitori forti e vigorosi procreano,
almeno per regola, una prole
altrettanto robusta, e così pure
sono ereditari il coraggio e lo
spirito guerriero. Mantenere pura
la casta dei cavalieri era dunque
un'esigenza, ai
tempi
della
cavalleria; per una damigella di
antico casato non era merito di
poco conto partorire un paladino
cui il povero mondo borghese
avrebbe
dovuto
rivolgersi
supplicando: «Per favore, non ci
divorare ma difendici dagli altri
nobili cavalieri tuoi pari». Per le
facoltà intellettuali e spirituali le
cose non vanno così: padri
saggissimi
generano
spesso
figlioletti sciocchini; e poiché
l'evolversi dei tempi ha sostituito
la cavalleria dello spirito a quella
fisica, farebbe più paura trattandosi di dimostrare la
propria nobiltà ereditaria discendere da Leibnitz che non da
Amadis de Gaula o da un qualsiasi
altro antichissimo cavaliere della
Tavola Rotonda. Lo spirito del
tempo avanza inesorabilmente
nella direzione ormai segnata e la
situazione dell'aristocrazia, fiera
del
proprio
casato,
va
notevolmente peggiorando. Perciò
quel comportamento così privo di
tatto verso taluni borghesi di alto
valore per il mondo e lo stato, quel
misto di riconoscimento dei meriti
e di odiosa condiscendenza, può
essere il prodotto d'un oscuro
senso di soggezione, o del timore,
da parte dei nobili, di apparire agli
occhi dei saggi nella loro ridicola
nudità, una volta caduti i vecchi
orpelli
d'un
tempo
irrimediabilmente
trascorso...
Grazie al cielo, oggi molti
aristocratici, uomini e donne,
hanno compreso lo spirito dei
tempi, e si librano in voli superbi,
alle altezze loro dischiuse dall'arte
e dalla scienza. Saranno costoro i
veri esorcizzatori di quel mostro.
La disquisizione del medico mi
aveva condotto in un campo
ancora inesplorato. Mai mi era
avvenuto di riflettere sulla nobiltà
e i suoi rapporti con la borghesia.
Certamente il mio interlocutore
non poteva supporre che un
tempo io fossi appartenuto al
secondo stato, quello appunto che,
a suo modo di vedere, non feriva
l'orgoglio dell'aristocrazia. Non
avevo forse frequentato le più
distinte e nobili case di B., nella
mia qualità di stimatissimo e
veneratissimo
confessore?...
Continuando a riflettere mi resi
conto di essere stato una volta di
più l'artefice del mio destino
perché, nominando la località di
Kwiecziczewo nel corso della
conversazione con quella vecchia
signora a corte, avevo dato origine
alla mia nascita nobiliare e
suggerito al principe l'idea di farmi
sposare Aurelia.
Appena
ritornata
la
principessa, accorsi da Aurelia, la
quale mi accolse con deliziosa
ritrosia verginale. Quando la
strinsi fra le braccia credetti di
nuovo
che
avrebbe
potuto
diventare mia moglie. La ritrovai
più tenera e sottomessa del
consueto. Aveva gli occhi pieni di
lacrime e mi parlava in tono di
umile preghiera, come una bimba
quando ha finito di tenere il
broncio dopo esser stata cattiva.
Non potei fare a meno di ripensare
alla mia visita nel castello della
principessa; e, impaziente di
sapere tutto, pregai con insistenza
Aurelia di confidarmi che cosa la
avesse tanto spaventata. Lei
tacque e abbassò gli occhi; ma io,
riafferrato dal ricordo del mio
terrificante sosia gridai: - Aurelia,
per tutti i santi, dimmi, quale
figura spaventosa hai visto dietro
di noi?... - Mi guardò piena di
stupore, con fissità crescente, poi
balzò in piedi e fece per fuggire,
ma rimase e scoppiò in singhiozzi
premendosi le mani sugli occhi: No... no... no!... Non può essere
lui!... - esclamò. La cinsi
dolcemente e lei di nuovo si
abbandonò a sedere, affranta. Lui?... Lui chi?... - le domandai
con affanno, ben sapendo che cosa
accadesse nell'animo suo.
- Ah, amico mio... amor mio, sussurrò lei con tristezza. - Non
mi crederai una pazza visionaria
se ti dirò tutto... tutto ciò che
continua a turbare la felicità del
mio purissimo amore?... Un sogno
spaventoso mi perseguita... si è
interposto fra noi con le sue
orrende immagini fin da quando ti
vidi per la prima volta... E quella
sera, quando tu entrasti così
all'improvviso nella mia camera,
ho sentito il battito delle sue ali...
ed è stato come se mi investisse il
gelido sogno della morte. Ascolta:
un monaco empio una volta si
inginocchiò accanto a me, come
facesti tu, e col pretesto della
santa
preghiera
tentò
di
commettere un'azione infame.
Mentre mi insidiava di soppiatto,
con l'astuzia d'una belva in
agguato, trucidò mio fratello!...
Ah... e tu!... Il tuo viso... la tua
voce... quella scena!... Non farmi
parlare... non farmi parlare!... Aurelia si abbandonò indietro,
adagiandosi
quasi
supina
nell'angolo del divano, la testa
appoggiata sulla mano... Le linee
sinuose del suo corpo giovanile si
stagliarono ancora più evidenti. Io
le stavo di fronte... l'occhio si
smarriva in quell'incanto infinito,
mentre una voce di scherno
diabolico urlava in me, quasi
sopraffacendo la concupiscenza: Tu, sciagurata, comprata
a
Satana... Sfuggisti al monaco che
voleva indurti al peccato nella
preghiera?... Ora sei la sua sposa...
la sua sposa!... - In quel momento
tutto l'amore, divampato in me
come fiamma divina quando avevo
rivisto Aurelia nel parco dopo
esser sfuggito alla prigionia e alla
morte, si spense. Non ebbi più che
un pensiero: far della rovina di lei
il centro radioso della mia vita.
Aurelia fu mandata a chiamare
dalla principessa. Era chiaro
ormai: fra la vita di quella
fanciulla e la mia correvano
relazioni a me ancora sconosciute
e non trovavo modo di scoprirle.
Aurelia,
malgrado
le
mie
preghiere,
non
voleva
assolutamente
spiegarmi
il
significato di certi accenni gettati
là come per caso; e fu proprio il
caso a rivelarmi quanto lei mi
taceva. Un giorno mi trovavo
nell'ufficio
dell'addetto
alla
corrispondenza del principe e della
sua casa. Il funzionario era
assente. Entrò la cameriera di
Aurelia e depose sul tavolo già
ingombro di posta una lettera
molto voluminosa: era di pugno
d'Aurelia e indirizzata (mi bastò
uno sguardo per accorgermene)
alla madre superiora, sorella della
principessa.
Mi
balenò
il
presentimento che in quel plico
fosse racchiuso quanto ancora non
ero riuscito a scoprire. E prima
ancora
che
il
funzionario
rientrasse io ero già uscito con la
lettera in tasca. Tu, religioso o
laico, se intendi trarre motivo di
ammaestramento e di monito
dalla mia vita, leggi i fogli qui
inseriti, leggi le confessioni della
pura e pia giovinetta, intrisi di
lacrime amare dal peccatore
pentito e disperato. Possa, quello
spirito di bontà, illuminarti e
consolarti nell'ora della tentazione
e del peccato.
aurelia alla badessa del conven
-to delle suore cistercensi. Mia
cara e buona madre!
con
quali
parole
posso
annunziarti che la tua figliola è
felice?... Che la sinistra ombra
nera, entrata nella mia vita come
uno
spettro
minaccioso
a
devastarne i fiori, a distruggerne
ogni speranza, ne è stata
finalmente bandita dalla divina
magia dell'amore?... Mi sarebbe
molto penoso se tu, ricordando
mio fratello e il mio sventurato
padre, morto di dolore, mi
rimproverassi di non averti aperto
completamente il cuore, come in
confessione, quando ero così
disperata; ma soltanto oggi posso
svelare il fosco segreto finora
tenuto gelosamente racchiuso in
fondo all'anima.
Era come se una potenza
tenebrosa e malvagia volesse
trarmi in inganno facendomi
apparire
come
un
sinistro
spauracchio ciò che per me
sarebbe stata la suprema felicità. E
mi sentivo sbatacchiata qua e là,
in balìa d'un mare tempestoso,
con
la
certezza
di
dover
miseramente perire. Ma il cielo mi
ha porto miracoloso aiuto proprio
nel momento in cui credevo di
toccare il fondo della disperazione.
Per dirti tutto, proprio tutto, devo
ritornare indietro, alla primissima
infanzia, perché già fin da allora
venne gettato in me il germe del
male destinato a svilupparsi tanto,
per la mia rovina. Era una
bellissima giornata di primavera;
io avrò avuto due o tre anni e
giocavo nel giardino del nostro
castello
con
Ermogene.
Coglievamo fiori, e mio fratello,
per solito non troppo propenso a
simili passatempi, si degnava di
intrecciare ghirlande perché io mi
facessi bella.
- Adesso andiamo dalla
mamma, - dissi quando fui coperta
di fiori dalla testa ai piedi. Restiamo qui, invece, piccolina! gridò rabbiosamente Ermogene
balzando in piedi. - La mamma è
nel salottino azzurro e sta
parlando col Diavolo! - Non
compresi che cosa volesse dire ma
mi spaventai moltissimo lo stesso
e mi misi a piangere. - Ma perché
strilli,
sciocchina?
disse
Ermogene. - La mamma parla tutti
i giorni col Diavolo, e lui non le fa
niente di male! - Ermogene mi
guardava così di brutto e la sua
voce era tanto aspra che ne ebbi
paura e tacqui. La mamma allora
era già molto cagionevole di
salute; spesso la coglievano
tremende
crisi
spasmodiche,
seguite da uno stato di collasso,
che la lasciavano come morta.
Quando ciò accadeva noi bambini
ci portavano via. Io piangevo, ma
Ermogene borbottava fra i denti: Il Diavolo le ha fatto male! - Sorse
così nella mia mente infantile il
pensiero che la mamma avesse
qualcosa a che fare con un brutto
e cattivo babao perché, digiuna di
catechismo com'ero, il diavolo non
potevo
immaginarmelo
diversamente. Un giorno mi
lasciarono sola, e proprio nel
salottino azzurro... Mi prese una
tale paura che non potei neppure
fuggire. Quand'ecco la porta si
aperse ed entrò la mamma, pallida
come una morta, si avvicinò a una
parete nuda e chiamò con voce
lamentosa:
Francesco,
Francesco! - Qualcosa frusciò di
fuori, la parete si aprì ed apparve il
ritratto a grandezza naturale d'un
bell'uomo, drappeggiato in un
meraviglioso manto violetto. Quel
viso, quella figura mi fecero
un'impressione indescrivibile. Al
mio gridarello di gioia la mamma
si volse e mi vide: - Che vuoi,
Aurelia?... Chi ti ha portato qui
dentro?... - La mamma, sempre
così buona e tenera era in collera
come non l'avevo vista mai. - Ah...
- balbettai fra le lacrime,
sentendomi in colpa. - Mi hanno
lasciata sola... io non volevo... -;
poi mi avvidi che il quadro era
sparito e gridai: - Ah... quel bel
quadro!... Dov'è quel bel quadro?...
- La mamma mi prese in braccio,
mi vezzeggiò, mi baciò e disse: Tu sei la mia buona, la mia cara
bambina... Ma quel quadro non
deve vederlo nessuno. È andato
via per sempre! - Non confidai a
nessuno quel fatto; soltanto a
Ermogene dissi una volta: - Sai?...
La mamma non parla col diavolo
ma con un uomo molto bello. Però
è soltanto un quadro, e salta fuori
dal muro quando la mamma lo
chiama -. Ermogene guardò fisso
davanti a sé e mormorò: - Il
diavolo può essere come gli pare,
tanto alla mamma non farà niente
di male. Lo dice anche il reverendo
-. Di nuovo ebbi paura e pregai
mio fratello di non parlarmi mai
più del diavolo. Poi ci trasferimmo
nella capitale; scordai il quadro e
quando, morta la mamma,
ritornammo in campagna io
ridivenni vivace come sempre.
L'ala del castello in cui era situato
il
salottino
azzurro
rimase
disabitata; erano gli appartamenti
della mamma dove mio padre non
metteva piede per evitar di
risvegliare dolorosissimi ricordi.
Una riparazione all'edificio rese
infine necessario aprire quelle
camere. Io entrai nel salottino
azzurro mentre gli operai stavano
rimuovendo l'impiantito. Mentre
uno di essi sollevava una tavola al
centro della camera, si udì uno
scricchiolio dietro la parete,
questa si aperse ed apparve il
ritratto a grandezza naturale di
uno sconosciuto. Nel pavimento si
scoperse la molla, premendo la
quale si azionava il congegno di
apertura. Allora ricordai con
perfetta chiarezza quell'episodio
della mia infanzia, rividi mia
madre, piansi a calde lacrime
senza però riuscire a distogliere lo
sguardo
dal
bellissimo
sconosciuto che mi guardava con
occhi vividi e scintillanti.
Entrò
mio
padre,
evidentemente
informato
dell'accaduto, e mi vide ancora
davanti al ritratto; gli gettò
un'occhiata, si arrestò inorridito
mormorando sordamente fra i
denti: - Francesco, Francesco!... Poi si volse in fretta agli operai e
ordinò con voce vibrata: - Smurate
immediatamente quel quadro,
arrotolatelo e consegnatelo a
Rinaldo -. Mi parve di non dover
rivedere mai più quell'uomo
meraviglioso, quel suo manto
superbo che me lo faceva
sembrare un principe degli spiriti;
ma una timidezza invincibile mi
impedì di pregare mio padre che
non facesse distruggere il quadro.
Comunque, pochi giorni bastarono
per cancellare del tutto dalla mia
mente l'impressione riportata da
quella
scena.
Avevo
ormai
compiuto quattordici anni ed ero
una ragazzina selvatica, sventata,
tutt'all'opposto
di
Ermogene,
sempre così serio e dignitoso.
Nostro padre diceva sovente che
lui sembrava una ragazzina
tranquilla ed io un ragazzaccio
sfrenato.
Ma la situazione non tardò a
capovolgersi.
Ermogene
incominciò
ad
appassionarsi
all'esercizio delle armi; non
pensava più che a combattere e,
poiché appunto c'era una guerra in
vista, mio padre dovette adoprarsi
per
farlo
assumere
immediatamente in servizio. Io,
invece, durante quello stesso
periodo, caddi, senza capirne il
motivo, in uno stato d'animo che
in breve tempo mi lasciò
completamente distrutta; uno
strano malessere, di origine
evidentemente psichica, aggrediva
tutti i miei centri vitali. Ero
sempre sull'orlo del deliquio, poi
sopraggiungevano sogni, visioni
fantastiche di ogni genere. Mi
sembrava di dover scorgere un
cielo radioso, pieno di delizie e di
beatitudini, ma non potevo aprir
gli occhi, come una bambina
cascante di sonno. Senza saperne
il perché, passavo dalla tristezza
mortale all'allegria più sfrenata.
Per un nonnulla mi venivano le
lacrime agli occhi, una nostalgia
inspiegabile
mi
invadeva e
ingigantiva, molte volte fino al
limite del dolore fisico; sussultavo
in tutte le membra, scossa da
crampi spasmodici. Mio padre si
rese conto del mio stato ma lo
attribuì a una sovraeccitazione
nervosa e ricorse all'opera dei
medici i quali mi prescrissero ogni
sorta di rimedi senza risultato
alcuno. Non so nemmeno io come
avvenne, ma tutt'a un tratto mi
rividi davanti come se fosse viva la
figura dimenticata di quello
sconosciuto, con lo sguardo pieno
di compassione fisso su di me. Ah! - esclamai. - Dovrò dunque
morire?... Cos'è che mi tormenta
in questo modo?... - Tu mi ami,
Aurelia, - rispose la visione di
sogno sorridendomi. - Questa è la
tua pena. Ma potresti mai
infrangere i voti di un uomo
consacrato a Dio?... - Mi avvidi con
sbigottimento che lo sconosciuto
indossava un saio di cappuccino.
Faticosamente riuscii a strapparmi
da quello stato di sogno. Quel
monaco non poteva essere che
un'illusione, un prodotto della mia
fantasia, ne ero convinta, eppure
sentivo anche troppo chiaramente
che il mistero dell'amore mi si era
dischiuso. Sì!... Io amavo lo
Sconosciuto con tutta la forza dei
miei sentimenti appena desti... lo
amavo con tutto l'ardore, con tutta
la passione di cui sia capace un
cuore giovanile. In quei momenti
di dormiveglia sognante, quando
credevo di vedere lo sconosciuto, il
mio malessere, anche se giunto al
culmine
dell'esasperazione,
svaniva; mi sentivo subito meglio,
non davo più segni di debolezza
nervosa.
Soltanto
l'immobile
fissità di quell'immagine, il
fantastico amore per una creatura
esistente dentro di me e non
altrove, mi davano l'aspetto di una
sognatrice. Ed ero insensibile a
qualsiasi altra sollecitazione; se
mi trovavo in compagnia me ne
stavo immobile, assorta nella
contemplazione del mio ideale,
non badavo a ciò che mi dicevano,
rispondevo a sproposito e la gente
mi prendeva per una povera
sciocca.
Vidi un giorno nella camera di
mio fratello la traduzione di un
romanzo inglese: Il monaco (19) e,
con un fremito di orrore, mi
balenò il pensiero che il mio
amato sconosciuto fosse appunto
un monaco... Mai avevo sospettato
che l'amore per un religioso
potesse essere colpevole. Mi
ritornarono alla memoria - e
soltanto allora mi ferirono
profondamente, cadendomi sulla
coscienza come un peso immane le parole dell'apparizione: Potresti mai infrangere i voti d'un
uomo consacrato a Dio? - Forse
quel libro mi avrebbe dato qualche
chiarimento, pensai; lo presi e mi
misi a leggerlo. La storia
meravigliosa mi trascinò. Ma
quando avviene il primo delitto,
quando il monaco infame si
macchia di colpe sempre più
esecrabili e infine si allea col
Maligno, un orrore indicibile mi
colse perché ricordai le parole di
Ermogene: - La mamma sta
parlando col Diavolo! - E credetti
che anche lo Sconosciuto, come il
monaco del romanzo, fosse
un'anima venduta al Diavolo,
venuta a me per indurmi al male.
Eppure non riuscivo a comandare
al cuore. Per la prima volta mi
rendevo conto che esistevano
amori colpevoli, ne provavo
orrore, cercavo di soffocare i miei
sentimenti ma questo conflitto mi
rendeva estremamente irritabile.
Spesso, quando mi trovavo
insieme a un uomo, una
sensazione sinistra, inquietante,
mi faceva temere di aver accanto il
monaco, pronto a ghermirmi e a
trascinarmi in perdizione.
Rinaldo, di ritorno da un
viaggio, ci parlò molto di un certo
cappuccino Medardo, famoso in
tutto il paese come predicatore;
egli lo aveva sentito predicare a -r
e ne era rimasto entusiasta. Ciò mi
fece pensare al monaco del
romanzo e mi suggerì lo strano
presentimento che l'amata e
temuta immagine di sogno
potesse essere appunto quel tale
Medardo. Questo pensiero mi fece
inorridire e il mio stato d'animo
divenne penoso e sconvolgente al
punto da non potersi più
sopportare. Nuotavo in un mare di
presentimenti e di sogni, ma
invano cercavo di scacciare da me
la figura del monaco... Sventurata
fanciulla!... Non potevo più
resistere all'amore colpevole per
l'uomo consacrato a Dio!
Un sacerdote venne a trovare
mio padre, come già altre volte
aveva fatto, e si diffuse a parlare
delle innumerevoli tentazioni
diaboliche. Talune parole del suo
discorso mi caddero nell'animo
come
scintille,
specialmente
quand'egli accennò allo stato di
desolazione in cui versa una
giovane coscienza insidiata dal
Maligno e incapace di opporgli
valida resistenza. Mio padre
soggiunse qualcosa, come se
stesse parlando di me. Solamente
un'illimitata, incrollabile fiducia disse il sacerdote - non tanto nelle
persone amiche quanto nella
religione e i suoi ministri, poteva,
in tali casi, offrire salvezza.
Quella singolare conversazione
mi decise a cercare il conforto
della Chiesa e ad alleviarmi
l'animo
accostandomi
sinceramente pentita alla santa
confessione. Ci trovavamo, allora,
nella residenza. All'alba del giorno
seguente sarei andata nella chiesa
del convento poco distante dalla
nostra casa. Passai una notte
orribile,
tormentosissima,
circondata da una fantasmagoria
di
immagini
ripugnanti,
sacrileghe, quali mai avevo visto
né immaginato. Al centro c'era il
monaco - mi porgeva la mano
come per salvarmi e diceva: - Dillo
soltanto che mi ami, e sarai libera
d'ogni pena! - Senza volerlo fui
costretta a gridare: - Sì, Medardo,
ti amo!... - e tutti gli spiriti
infernali svanirono. Finalmente
mi alzai, mi vestii e andai nella
chiesa del convento.
La
luce
del
mattino
incominciava appena a filtrare in
raggi iridati attraverso le vetrate
multicolori; un frate laico stava
scopando i corridoi. Non lontano
dalla porta laterale per cui ero
entrata c'era un altare dedicato a
santa Rosalia. Mi fermai per una
breve orazione e subito mi diressi
al confessionale in cui avevo visto
un frate. Cielo pietà!... Era
Medardo!... Nessun dubbio: una
voce superiore me lo diceva. Pazza
d'amore e di paura sentii tuttavia
di potermi salvare soltanto con
risoluto coraggio. E confessai a
quel frate perfino il mio amore
colpevole per un uomo votato a
Dio, anzi, di più... Eterno Iddio!...
Sentii di aver già molte volte, nella
mia disperazione, maledetto quei
voti. E confessai anche questo. Tu, tu stesso, Medardo, sei colui
che così indicibilmente amo!... furono le ultime parole che potei
pronunziare. Dalle labbra del frate
(il quale ora non mi sembrava più
Medardo), fluivano come balsamo
celeste le parole consolatrici della
Chiesa. Poco dopo, un vecchio e
venerando pellegrino mi prese fra
le braccia e, attraverso le navate
della
chiesa,
mi
condusse
lentamente all'ingresso principale,
sussurrandomi
parole
meravigliose, sublimi. Ma io,
credo, mi assopii come una bimba
cullata da un tenero, dolcissimo
canto. E persi i sensi.
Quando
rinvenni
giacevo
vestita sul divano della mia
camera. - Sia lode a Dio e a tutti i
santi! - esclamò una voce. - La
crisi è superata... Si riprende!... Era il medico che così parlava a
mio padre. Mi avevano trovata
quella mattina, mi dissero, rigida
come una morta. Si era temuto
un'apoplessia nervosa. - Come ben
vedi, mia cara e pia madre, la
confessione a frate Medardo era
stata soltanto un sogno molto
vivido,
provocato
da
sovreccitazione nervosa. Fu santa
Rosalia, che pregavo sovente e
invocavo anche in sogno, a darmi
quella illusione, per salvarmi dalle
astute insidie del Maligno.
Il folle amore per la fallace
immagine di sogno vestita da
monaco era estinto. Mi ripresi
molto in fretta e ricominciai a
vivere normalmente, allegra e
spensierata come prima.
Ma, giusto Iddio!, l'odiato
monaco doveva colpirmi a morte
ancora una volta. Nel frate giunto
al nostro castello riconobbi
immediatamente
Medardo.
Quello è il Diavolo che parlava con
la mamma! - continuava a gridare
dentro di me la voce dell'infelice
Ermogene. - Guardati, guardati!...
Ti sta insidiando!... - Ah!... Non
avevo
bisogno
di
simili
ammonimenti!... Provai ribrezzo e
orrore per quel frate fin dal primo
momento, fin da quando prese a
guardarmi con occhi lucidi di
concupiscenza e invocò santa
Rosalia, fingendo ipocritamente di
cadere in estasi. Tu ben conosci lo
spaventoso seguito della vicenda,
mia buona e cara madre. Ma,
ahimè, devo ancora confessarti
una cosa: il frate mi era tanto più
pericoloso in quanto andava
destandosi nel fondo dell'animo
mio (come già allora quel primo
pensiero di colpa) la sensazione di
dover lottare contro l'insidie del
maligno. In certi momenti ero
talmente infatuata da dar fiducia
ai
discorsi
religiosi
di
quell'ipocrita, come se da lui
dovesse scaturire la scintilla
divina capace di accendermi d'un
puro amore ultraterreno. Ma
perfino nei più fervidi trasporti di
misticismo egli, con astuzia
perversa, riusciva ad accendere in
me una fiamma proveniente,
invece, dall'inferno. Poi i santi,
così ardentemente invocati, mi
mandarono come un angelo
custode mio fratello. Immagina,
cara madre, il mio terrore quando,
poco dopo la prima comparsa a
corte, mi vidi venire incontro un
uomo in cui, alla prima occhiata,
credetti di riconoscere frate
Medardo, malgrado vestisse in
borghese! Al vederlo svenni; e
rinvenendo, fra le braccia della
principessa, gridai: - È lui... è lui!...
L'assassino di mio fratello!... - Sì, è
lui, - disse la principessa, - il
monaco spretato, fuggito dal
convento.
L'impressionante
rassomiglianza con suo padre,
Francesco... - Cielo pietà!... Mentre
scrivo questo nome rabbrividisco,
raggelo. Il quadro di mia madre
era
dunque
il
ritratto
di
Francesco... la tormentosa visione
di sogno vestita da frate ne aveva
gli identici lineamenti... gli identici
lineamenti aveva Medardo nel
magico sogno della confessione;
Medardo è figlio di Francesco... è
quel Franz che tu, mia buona
madre, facesti così santamente
educare e poi precipitò nel peccato
e nel delitto. Quale legame correva
dunque fra quel Francesco e mia
madre perché essa ne conservasse
di nascosto il ritratto per poi
contemplarlo abbandonandosi, si
sarebbe detto, ai ricordi d'un
tempo
felice?...
Come
mai
Ermogene vedeva il diavolo in
quel ritratto?... Quella era stata
l'origine
dei
miei
strani
smarrimenti. Affondo in un mare
di presentimenti e di dubbi. Santo
Iddio!... Sono davvero sfuggita alla
pania della potenza malefica?...
No, non posso scrivere più. Mi
sembra di venire inghiottita da
una notte nera in cui non filtri un
solo raggio di speranza ad
additarmi benevolo la via da
percorrere!
(Alcuni giorni dopo).
No!
Più
nessun
dubbio
tenebroso dovrà offuscare le belle
giornate di sole sorte finalmente
per me. Il reverendo padre Cirillo
ti ha già riferito dettagliatamente,
lo so, della cattiva piega presa dal
processo
contro
Leonardo,
consegnato nelle mani della corte
criminale dalla mia precipitazione.
Il vero Medardo è stato arrestato,
la sua pazzia - probabilmente
simulata - è svanita. Egli ha
confessato i propri delitti ed
attende ora il giusto castigo. Tutto
questo, mia cara madre, lo sai e
non insisto a parlartene perché
troppo ti ferirebbe l'ignominia del
delinquente che da ragazzo ti era
così caro. A corte non si parlava
più
d'altro
che
di
quel
sensazionale
processo.
Tutti
giudicavano
Leonardo
un
criminale scaltro e ostinato perché
insisteva nel respingere ogni
accusa. Dio del cielo!... Certi
discorsi
mi
ferivano
come
stilettate perché una magica voce
continuava a ripetere dentro di
me: «È innocente... La sua
innocenza risulterà luminosa
come la luce del sole». Provavo
per lui una profonda compassione,
anzi, pensandolo mi commuovevo
in
un
modo
sulla
cui
interpretazione non potevano
sussistere dubbi. Sì!... Lo amavo
già indicibilmente quando egli
ancora passava agli occhi del
mondo per un odioso criminale.
Un miracolo doveva salvare lui e
me: perché se Leonardo fosse
finito per mano del carnefice io
sarei morta. Egli è innocente, mi
ama, presto sarà tutto mio. Così il
vago presentimento infantile, che
una potenza avversa aveva
perfidamente
cercato
di
intorbidare, si avvera stupendo,
meraviglioso, per la mia immensa
felicità.
O,
dacci
la
tua
benedizione, buona madre, a me
ed al mio amato! Ah, poter
riversare nel tuo cuore la mia
ineffabile gioia! - Leonardo
rassomiglia in tutto e per tutto a
quel Francesco, soltanto sembra
più
alto
e
si
distingue
notevolmente da lui e da frate
Medardo per certe caratteristiche
peculiari della sua razza (come sai,
è polacco). È stato ben sciocco da
parte mia scambiare, sia pure per
un solo istante, l'intelligente,
l'elegante,
il
meraviglioso
Leonardo con un frate spretato.
Eppure, la spaventosa impressione
delle atroci scene avvenute nel
nostro castello è ancora così forte
che certe volte, quando Leonardo
mi si avvicina all'improvviso e mi
guarda con quei suoi occhi
sfavillanti (... rassomiglia, ahimè,
troppo a Medardo!...) inorridisco
senza volerlo e corro il rischio di
offenderlo con reazioni puerili. A
mio modo di sentire, soltanto la
benedizione del sacerdote potrà
dissipare per sempre le figure
tenebrose che ancora adesso
gettano qualche ombra sulla mia
vita. Ricordaci entrambi nelle tue
sante preghiere, cara madre! - Il
principe
desidera
che
il
matrimonio si celebri al più
presto. Ti scriverò la data affinché
tu possa pensare alla tua figliola
nell'ora più solenne e fatale della
sua vita, ecc'ecc...'
Lessi e rilessi innumerevoli
volte i fogli di Aurelia. Fu come se
l'angelica innocenza che ne
irradiava
entrasse
in
me,
estinguendo, nella sua luce
purissima, ogni colpevole ardore.
Al vedere Aurelia provai una sorta
di timor reverenziale, non osai più
accarezzarla con la consueta
frenesia; e lei notò il mio diverso
modo
di
comportarmi.
Le
confessai, pentito, la sottrazione
della
lettera
dicendo,
per
giustificarmi, di esservi stato
indotto da un impulso inspiegabile
e irresistibile. Una potenza
d'ordine superiore - dissi - aveva
evidentemente
voluto
farmi
conoscere l'episodio della visione
nel confessionale per dimostrarmi
come la nostra indissolubile
unione facesse parte degli eterni
disegni. - Sì, angelo mio, - le dissi.
- Anch'io una volta feci un sogno
straordinario: tu mi dicevi di
amarmi; ma io ero un infelice
monaco calpestato dal destino,
roso da mille infernali tormenti. Ti
amavo, ti amavo con immenso
ardore, ma il mio era un amore
colpevole, doppiamente colpevole
- sacrilego - perché io ero un
monaco e tu - santa Rosalia.
- O Dio! - esclamò Aurelia con
un sussulto di spavento. - Nelle
nostre vite deve celarsi un
profondo, un insondabile mistero.
Ah, Leonardo... guardiamoci dal
sollevare il velo che lo avvolge
perché chissà quali orrende,
spaventevoli
cose
dovremmo
scoprire! Cerchiamo di mantenerci
buoni, fedelmente uniti... così
potremo
contrastare
alla
tenebrosa potenza i cui spiriti
forse ci insidiano minacciosi. Tu
hai letto la mia lettera: si vede che
doveva accadere... Ah! Avrei
dovuto confessarti io stessa ogni
cosa perché fra noi non devono
esistere segreti. Eppure ho la
sensazione
che
qualcosa ti
tormenti... forse un ricordo della
vita passata si rifiuta di salirti alle
labbra per un ingiustificato
ritegno. Sii sincero, Leonardo!
Pensa quale sollievo ti darebbe
una franca confessione, e come
renderebbe più limpido il nostro
amore!...
A queste parole sentii con
immensa pena fino a qual punto
lo spirito della menzogna fosse
entrato in me e come avessi
vilmente ingannato l'innocente
creatura ancora pochi minuti
prima. Tale sensazione si fece più
forte. Tutto, tutto avrei dovuto
rivelare ad Aurelia - e malgrado
tutto conquistarmi il suo amore! Aurelia, - dissi. - Tu, mia santa,
che mi salvi da... - In quel
momento entrò la principessa: mi
bastò
vederla
per
sentirmi
ricacciare giù, nell'inferno, pieno
di pensieri sprezzanti, cattivi. Ora
quella donna orgogliosa avrebbe
dovuto sopportarmi. Ed io rimasi e le tenni sfrontatamente testa
nella mia qualità di fidanzato di
Aurelia. In generale, i pensieri
cattivi mi lasciavano unicamente
quando ero solo con lei. Ma in
quel momento, di fronte alla
principessa, per la prima volta
desiderai con tutta l'anima di
sposare la povera fanciulla.
Una notte mi apparve mia
madre, come se fosse viva. Feci
per prenderle la mano ma... era
soltanto una forma di nebbia.
- Perché questo stupido
inganno?... - esclamai irritato.
Allora gli occhi di mia madre
incominciarono a stillare limpide
lacrime, che divennero sfavillanti
stelle d'argento e fecero cadere su
di me una pioggia di gocce lucenti,
come per formare un'aureola
intorno al mio capo. Ma una
spaventosa mano nera spezzava
continuamente l'anello di luce. - Ti
ho generato mondo di colpa, - mi
diceva con dolcissima voce mia
madre. - È dunque spezzata la tua
forza, che non puoi più opporti
alle lusinghe di Satana?... Ora
soltanto posso veder chiaro dentro
di te, perché mi è stato tolto il
peso
della
materia.
Alzati,
Francesco! Voglio adornarti con
nastri e fiori perché oggi è il
giorno di San Bernardo e tu devi
ritornare ad essere un buon
ragazzo! - Mi parve di dover
intonare, come allora, un inno in
lode del santo. Ma un fragore
orrendo si scatenò: il mio canto
divenne un urlo selvaggio e neri
veli calarono fluttuando fra la
figura di mia madre e me.
Parecchi giorni dopo questa
visione incontrai per istrada il
giudice della corte criminale. Mi
venne incontro con cordiale
affabilità: - Ha già saputo, - mi
domandò, - che nel processo a
carico del cappuccino Medardo
sono di nuovo sorti alcuni
dubbi?... La sentenza - molto
probabilmente una sentenza di
morte - avrebbe già dovuto essere
stilata, ma il frate ha dato nuovi
segni di pazzia. Il tribunale
ricevette notizia della morte di sua
madre; io gliela comunicai, ed egli
scoppiò in una risata selvaggia
urlando con una voce che avrebbe
fatto inorridire anche il più
coraggioso degli uomini: «Ah, ah,
ah!... La marchesa di... (e nominò
la moglie del fratello del nostro
principe, morto assassinato), è già
morta da un pezzo!...» Ora è stata
ordinata una nuova perizia medica
perché pare si tratti di pazzia
simulata.
Mi feci dire il giorno e l'ora
della morte di mia madre! Mi era
apparsa in quello stesso istante!...
La mia buona madre, troppo
dimenticata, si era dunque
interposta come mediatrice fra me
e la pura anima angelica destinata
a diventar mia. Ciò mi commosse
profondamente. Divenni più dolce,
più mansueto, e mi parve
finalmente di comprendere per
intero l'amore di Aurelia. Non
potevo quasi più staccarmi da lei:
essa era per me come una specie
di santa protettrice. Il tragico
segreto, da quando essa aveva
smesso d'insistere perché glielo
rivelassi, era diventato anche per
me un imperscrutabile disegno
della suprema potenza.
E venne il giorno fissato dal
principe per il matrimonio. Per
desiderio di Aurelia, le nozze
avrebbero dovuto celebrarsi di
buon mattino nella vicina chiesa
del convento, davanti all'altare di
santa Rosalia. Trascorsi tutta la
notte insonne, pregando - per la
prima volta dopo tanto tempo! con grande fervore. Incosciente!
Non mi accorgevo che la preghiera
con cui mi preparavo al peccato
era sacrilegio infernale!
Quando andai a prendere
Aurelia essa mi venne incontro
vestita di bianco, adorna di rose
odoranti, soave e bella come un
angelo.
La
sua
veste,
l'acconciatura dei capelli, avevano
un qualcosa di singolarmente
arcaico. Dapprima sorse in me un
oscuro ricordo, poi un brivido
atroce mi colse: mi stava davanti,
viva, la figura del quadro appeso
sopra l'altare approntato per il
nostro matrimonio! Nel dipinto
raffigurante il martirio di santa
Rosalia,
la
santa
vestiva
esattamente come Aurelia. Mi fu
difficile
celare
l'impressione
terribile che ne provai. Con uno
sguardo in cui vidi un paradiso
d'amore e di felicità, Aurelia mi
porse la mano; io la trassi a me,
me la strinsi al petto; e nel
rapimento d'un bacio di nuovo
ebbi la sensazione che soltanto per
mezzo di quella giovinetta l'anima
mia avrebbe potuto salvarsi. Un
servitore del principe ci annunziò
che i signori erano pronti a
riceverci. Aurelia si infilò in fretta
i guanti, io le porsi il braccio ma
mentre stavamo avviandoci la
cameriera si accorse che qualcosa
era andato fuori di posto
nell'acconciatura della sposa e
corse a prendere delle forcine.
Rimanemmo ad attendere sulla
porta. Aurelia parve contrariata
dal contrattempo.
In quel momento salì dalla
strada un brusio confuso, un
incrociarsi di richiami aspri, poi il
fragor di ruote d'un veicolo lento e
pesante. Corsi alla finestra:
condotta dai garzoni del carnefice
stava passando davanti al palazzo
la carretta d'un condannato a
morte. Su di essa sedeva a ritroso il frate, mortalmente pallido,
stravolto, con la barba irsuta, e
davanti a lui un cappuccino in
fervente orazione. La carretta
rimase bloccata per un attimo
dalla calca, poi tornò ad avviarsi.
Bastò quell'attimo: il frate levò su
di me due orrendi occhi sfavillanti,
spiritati e urlò scoppiando a
ridere: - Sposo; sposo... vieni, vieni
sul tetto... Ci batteremo lassù... e
chi getterà giù l'altro diventerà re
e potrà bere sangue!...
- Orribile uomo, che vuoi da
me?... - gridai io. Aurelia mi trasse
via a viva forza dalla finestra
esclamando: - Dio mio... Vergine
santissima... Conducono a morte
Medardo, l'assassino di mio
fratello... Leonardo... Leonardo!...
Allora gli spiriti d'inferno si
destarono in me, e s'impennarono
con l'irresistibile potere loro
concesso sui peccatori perversi.
Afferrai
Aurelia,
la
scossi
rabbiosamente: - Ah, ah!... Pazza...
stolta!... Io, il tuo adoratore, il tuo
fidanzato... io sono Medardo...
l'assassino di tuo fratello... E tu,
sposa
di
frate,
vorresti
piagnucolare sulla perdizione del
promesso sposo?... Ah, ah, ah... Io
sono re... E bevo sangue!... - Trassi
il coltello omicida... Aurelia era già
scivolata a terra... La colpii. Un
fiotto di sangue mi zampillò sulla
mano.
Mi precipitai giù per le scale...
in istrada... mi feci largo tra la
folla accalcata fino alla carretta...
afferrai il monaco... lo trassi a
terra. Mi agguantarono. Colpii
ancora, furiosamente, intorno a
me... mi svincolai... balzai via. La
gente si lanciò ad inseguirmi... Un
colpo di punta mi raggiunse in un
fianco ma, menando il coltello con
la destra e distribuendo vigorosi
pugni con la sinistra, riuscii
ancora a farmi largo fin sotto il
muro del parco che scavalcai con
un acrobatico salto, mentre
intorno a me si infittivan le grida
di: - Assassino!... Delitto!...
Fermatelo...
prendete
l'assassino!... - Intesi un fragore di
legni e ferraglia: la folla cercava di
sfondare il portone del parco.
Corsi, corsi via senza fermarmi.
Giunsi al largo fossato che
separava il parco dal bosco, lo
scavalcai con una poderosa falcata
e ripresi a correre, a correre per il
bosco fino a che non crollai sfinito
ai piedi d'un albero.
Quando mi ridestai dal torpore
in cui ero caduto era già notte
fonda. Un unico pensiero mi
dominava: fuggire come un
animale braccato. Mi alzai; ma
avevo fatto appena pochi passi
quando qualcuno sbucato dalla
macchia mi saltò sulle spalle e mi
cinse il collo col braccio. Invano
mi divincolai cercando di farlo
cadere... Mi gettai per terra, provai
a schiacciarlo premendo la schiena
contro gli alberi. Tutto inutile...
L'uomo ridacchiava, sghignazzava
come per schernirmi. Finalmente
un raggio di luna filtrò attraverso i
pini neri... e il mostruoso,
cadaverico viso del frate - del
presunto Medardo - del mio
doppio - fissò su di me lo stesso
orrendo sguardo lanciatomi dalla
carretta. - Ih, ih, ih... Fratellino...
fratellino... Sono sempre... sempre
con te... non ti lascio... non ti
lascio... Non posso co... correre
come te... Devi por... devi
portarmi... Vengo dalla for... dalla
forca... Vo... volevano arrotarmi...
Ih, ih!... - Così balbettava fra le
risa l'orribile spettro mentre io,
reso ancor più forte dal terrore
folle, saltavo e mi dibattevo come
una tigre presa fra le spire d'un
mostruoso serpente. Mi scagliavo
contro alberi e rocce, se non
proprio per ammazzarlo, almeno
per ferirlo così gravemente da
costringerlo a lasciarmi; ma egli
rideva ancora più forte ed ero
soltanto io a provare il dolore
dell'urto. Mi stringeva le mani
intorno al collo, sotto il mento;
tentai di sciogliergliele ma la forza
di quel mostro minacciava di
strangolarmi. Finalmente, dopo
una corsa pazza me lo scrollai di
dosso, ma fatti pochi passi lo
riebbi sulla schiena, lo riudii
sghignazzare, balbettare le stesse
orripilanti parole. Un altro sforzo
furibondo, selvaggio, e rieccomi
libero... poi, subito, riafferrato per
il collo dal terrificante fantasma.
No, non mi è possibile ridire
con esattezza per quanto tempo
continuassi a fuggire nel bosco
buio, inseguito dal sosia. Mi
sembra di aver corso per mesi e
mesi senza prender cibo né
bevanda. Ricordo con chiarezza un
solo istante di lucidità, dopo di che
caddi nell'incoscienza. Ero appena
riuscito a gettare a terra il mio
sosia, quando un luminoso raggio
di sole, e insieme una soave voce
familiare attraversarono il bosco.
Era la campana d'un convento che
chiamava al mattutino. Un
pensiero, gelido come le braccia
della morte, mi afferrò:
«Hai ucciso Aurelia!...»
E caddi a terra privo di sensi.
Capitolo secondo L'espiazione
Un dolce tepore m'invase. Poi
avvertii uno strano lavorio, un
formicolio in tutte le vene. Questa
sensazione divenne pensiero, ma
il mio «io» era ancora diviso in
mille pezzi; ognuno di essi
muoveva, aveva una sua propria
consapevolezza della vita, ma
inutilmente il cervello impartiva
ordini: le membra, come vassalli
ribelli, si rifiutavano di riunirsi
sotto il suo comando. Poi i
pensieri delle
singole
parti
incominciarono a ruotare come
punti luminosi, in fretta, sempre
più in fretta, venendo a formare
un cerchio di fuoco che rimpicciolì
con l'aumentare della velocità,
fino ad apparire una sfera ignea,
immobile. Dalla sfera emanarono
rossi raggi roventi e si mossero in
un multicolore gioco pirotecnico.
«... Sono le mie membra che si
muovono... Adesso mi sveglio...»,
pensai, ma in quel momento un
dolore
improvviso
mi
fece
sussultare: chiari rintocchi di
campana mi feriron l'orecchio: Fuggire!... Via... via di corsa!... gridai cercando di sollevarmi, ma
ricaddi indietro esausto. Soltanto
allora riuscii ad aprire gli occhi: i
rintocchi
di
campana
si
ripetevano, e io credevo di essere
ancora nel bosco. Ma quale non fu
il mio stupore quando osservai gli
oggetti intorno a me... quando vidi
me stesso!... Con indosso il saio di
cappuccino, giacevo disteso su un
materasso bene imbottito in una
camera alta, quasi spoglia. Un paio
di sedie di canna, un tavolino e un
povero letto ne costituivano tutto
l'arredamento. Il mio stato di
incoscienza era dunque durato a
lungo e in quel frattempo mi
avevano
trasportato
in
un
convento adibito alla cura degli
ammalati. Forse, essendo i miei
abiti a brandelli, mi avevano
messo addosso provvisoriamente
una tonaca. Comunque, ero
scampato al pericolo, o almeno
così credevo. Tranquillizzato da
questo
pensiero,
decisi
di
attendere gli eventi: di un malato
qualcuno si sarebbe pur preso
cura. Mi sentivo debolissimo, ma
non provavo dolore di sorta.
Alcuni minuti dopo aver ripreso
piena conoscenza, udii avvicinarsi
dei passi per un lungo corridoio.
La porta si aperse e vidi due
uomini, uno vestito in borghese,
l'altro col saio dei fratelli della
Misericordia. Mi si avvicinarono
in silenzio: quello in borghese mi
scrutò attentamente e parve molto
stupito. - Ho ripreso i sensi,
signore, - dissi con voce fioca. - Sia
ringraziato il cielo che mi ha
richiamato alla vita. Ma... dove mi
trovo?... Come sono capitato
qui?... - Senza rispondermi, il
borghese si volse al religioso e gli
disse in italiano: - È davvero
sbalorditivo!... Lo sguardo è del
tutto cambiato... La voce è ancora
debole, ma l'articolazione mi
sembra
chiara.
Dev'essersi
verificata una crisi risolutiva. - Mi
sembra che la guarigione sia
ormai indubbia, - commentò il
religioso. - Dipenderà da come si
metteranno le cose nei prossimi
giorni, - rispose il borghese. - Lei
capisce un pò di tedesco?...
Almeno
tanto
da
potergli
parlare?... - Purtroppo no, - rispose
il religioso. - Io capisco e parlo
l'italiano, - mormorai. - Ditemi,
dove sono? E come sono arrivato
qui?... - L'uomo in borghese,
evidentemente un medico, parve
gradevolmente
sorpreso.
Benone! - esclamò. - Vi trovate in
un luogo dove si sta facendo tutto
il possibile per il vostro bene,
reverendo. Vi hanno portato qui
tre mesi fa in condizioni assai
preoccupanti.
Eravate
molto
malato ma, grazie alle nostre
assidue cure, pare siate in via di
guarigione. Se avremo la fortuna
di guarirvi del tutto potrete
riprendere tranquillamente il
vostro viaggio; perché, a quanto
sento, stavate andando a Roma!
- Sono arrivato da voi con la
veste che ho addosso? - domandai.
- Certamente, - rispose il dottore. Ma non fate altre domande, non
inquietatevi. Saprete tutto più
tardi. Adesso l'essenziale è aver
cura della vostra salute -. Mentre
il medico mi auscultava il polso, il
frate andò a prendere una tazza e
me la porse. - Bevete, - disse il
medico. - E poi ditemi che cos'è,
secondo voi, questa bevanda. - È
brodo, - dissi io dopo averne
bevuto qualche sorso. - È un buon
brodo di carne, molto ristretto. Bene, - disse il dottore sorridendo
soddisfatto. - Molto bene! - e uscì
col religioso.
Dunque, la mia supposizione si
dimostrava giusta: mi trovavo in
un
pubblico
ospedale.
Continuarono a curarmi con cibi
corroboranti
e
rimedi
ricostituenti; e dopo tre giorni ero
già in grado di alzarmi. Il frate aprì
una finestra; entrò una folata
d'aria tiepida, deliziosa, quale non
avevo respirata mai. L'edificio era
circondato da un giardino in cui
verdeggiavano
e
fiorivano
stupendi alberi esotici; rigogliosi
tralci di vite si abbarbicavano ai
muri - ma soprattutto il cielo mi
colpì: un cielo azzurro intenso,
vaporoso, un cielo di paese
incantato. - Ma dove sono? esclamai estasiato. - I santi mi
hanno dunque reso degno di
abitare in paradiso?
- Siete in Italia, fratello, in
Italia, - mi rispose il frate con un
sorriso compiaciuto. Il mio
stupore crebbe al massimo grado.
Lo pregai di dirmi con esattezza in
quali circostanze fossi capitato in
quell'ospedale; il frate mi fece
cenno di rivolgermi al dottore; e
dal dottore seppi finalmente che
tre mesi prima un bizzarro
individuo mi aveva condotto colà,
pregando che mi accogliessero. Mi
trovavo, precisamente, in un
ospedale tenuto dai fratelli della
Misericordia. Man mano che
riacquistavo le forze, notavo che il
medico
e
il
religioso
si
intrattenevano a conversare con
me sui più svariati argomenti,
dandomi occasione di parlar molto
e a lungo; le mie vaste e varie
nozioni scientifiche mi fornivano
sempre abbondante materia di
conversazione. Il dottore talvolta
mi pregava di metter giù qualcosa
per iscritto e rileggendo i fogli, in
mia presenza, pareva molto
soddisfatto. Però, invece di lodare
i miei lavori, si limitava a ripetere:
- Certo... Sicuro... Va bene... Non
mi ero ingannato!... Straordinario,
straordinario!... - e ciò mi colpiva
stranamente.
Soltanto a determinate ore mi
era permesso scendere in giardino,
dove talvolta vedevo uomini
orrendamente sfigurati, pallidi,
scheletrici, accompagnati da frati
della Misericordia. Un giorno,
mentre già stavo rientrando,
incontrai, condotto per le braccia
da due religiosi, un individuo alto,
magro, con uno strano mantello
giallastro; l'uomo dopo ogni passo
spiccava un buffissimo salto
accompagnandolo con un fischio
penetrante. Mi fermai stupito, ma
il mio accompagnatore mi trascinò
via in fretta dicendomi: - Venite,
venite, caro frate Medardo. Non è
affare per voi. - Per Dio! esclamai. - Come sapete il mio
nome?... - L'impeto con cui
pronunziai queste parole parve
inquietare il mio accompagnatore.
- E come potremmo non sapere il
vostro nome? - mi rispose. - Ce
l'ha detto l'uomo che vi ha
condotto qui. E nel registro siete
stato iscritto come Medardo, frate
cappuccino del convento di B. -.
Mi sentii raggelare. Chiunque
fosse lo sconosciuto che mi aveva
condotto nell'ospedale, doveva
essere a conoscenza del mio
tragico segreto. Ma non poteva
volermi male se si era preso cura
di me come un amico - ed io ero
libero.
Un giorno giacevo presso la
finestra aperta respirando a pieni
polmoni. La deliziosa aria tiepida
mi entrava a fiotti nelle fibre, nelle
vene, ridestandomi a nuova vita;
quand'ecco, vidi avanzare a
passetti saltellanti verso l'ospedale
una figuretta secca, piccina, con
indosso un misero soprabito
sbiadito
e
un
cappelluccio
appuntito sulla testa. Appena mi
vide l'omino subito prese a
sventolare il cappello e a gettarmi
baci sulla punta delle dita. Quella
figuretta aveva qualcosa di noto,
ma la distanza mi impedì di
distinguere i tratti del viso; e
d'altronde essa scomparve sotto
gli alberi prima che potessi
ricordare chi fosse. Ma poco dopo
bussarono alla porta; aprii, e
l'ometto visto poc'anzi in giardino
entrò.
Schönfeld!
esclamai
stupefatto, - Schönfeld, in nome
del cielo, com'è arrivato qui?... Era il bizzarro friseur che mi aveva
salvato da quel grave pericolo
nella città commerciale. - Ahi, ahi,
ahi!... - sospirò lui contraendo il
viso in una comica smorfia
piagnucolosa. - E come sarei
potuto giungere qui, se non
gettato, scagliato su questi lidi
dalla mala sorte che perseguita i
geni?... Ho dovuto fuggire per via
di un delitto...
- Di un delitto?... - esclamai
con affanno.
- Sì, di un delitto, - spiegò lui. In un momento di collera ho
assassinato la basetta sinistra e
gravemente ferito la destra del più
giovane consigliere commerciale
della città.
- La prego, - lo interruppi di
nuovo. - Lasci stare gli scherzi...
Sia serio una volta tanto... E mi
racconti sensatamente come sono
andate le cose. Altrimenti mi lasci.
- Ah, caro frate Medardo, riprese Schönfeld facendosi tutto a
un tratto serissimo. - Adesso che
sei guarito vorresti mandarmi via.
Ma quando stavi male, ed io ti ero
compagno di camera e dormivo in
quel letto, dovevi pure sopportare
la mia vicinanza!
- Che significa?... - esclamai
con sgomento. - Medardo?... Come
le è venuto in mente questo
nome?...
- Abbia la compiacenza di
osservare l'orlo destro della sua
tonaca, - disse lui sorridendo. Io lo
feci e rimasi di sasso per lo
spavento e lo stupore: nell'orlo
interno della tonaca era cucito ad
ago il nome di Medardo; e ad un
più attento esame, alcuni altri
segni inconfondibili mi diedero la
certezza d'avere indosso lo stesso
saio che indossavo fuggendo dal
castello del barone von F'e più
tardi avevo nascosto nel cavo di un
albero. Schönfeld notò il mio
turbamento e sorrise sornione.
Mettendosi l'indice sul naso e
alzandosi sulla punta dei piedi mi
scrutò negli occhi. Io ero rimasto
senza parola. - L'eccellenza vostra,
- riprese lui parlando sottovoce
con fare circospetto, - sembra
stupirsi della veste che le è stata
messa addosso. Eppure le calza a
pennello!
Assai
meglio,
comunque, dell'abito color noce
dai volgari bottoni di treccia
fornitole dal mio incomparabile
Damone. Sono stato io, io, il
misconosciuto, l'esiliato Pietro
Belcampo, a ricoprire le sue nudità
con questo saio. Frate Medardo! Il
vostro stato non era propriamente
invidiabile, perché per soprabito,
spencer, e marsina all'inglese,
indossavate in tutto e per tutto la
vostra riverita pelle. E in quanto a
pettinatura - è meglio non
parlarne: il Caracalla (20) ve lo
pettinavate,
rubandomi
il
mestiere, col pettine a dieci denti
fornitovi da madre natura...
A questo punto scattai: Basta!... Basta con le follie,
Schönfeld!...
- Qui in Italia mi chiamo Pietro
Belcampo!
protestò
lui
incollerito. - E, sappilo, Medardo:
io - io stesso sono la follia che ti
segue dovunque per puntellare la
tua vacillante saggezza. Che tu lo
veda o no, soltanto nella follia
trovi scampo, perché la tua
saggezza è una povera, una
miserabile cosa: non si tiene in
piedi, ciondola, barcolla come un
bambino malaticcio e deve andare
a braccetto con la follia per
sostenersi e ritrovare la strada di
casa - vale a dire, la strada del
manicomio.
Infatti,
eccoci
entrambi arrivati a destinazione,
fratellino Medardo.
Rabbrividii.
Ripensai
agli
sventurati visti in giardino, a
quell'individuo saltellante col
soprabito giallo stinto. E non ebbi
più dubbio: Schönfeld, nella sua
follia, mi stava dicendo la verità!
- Sì, fratellino Medardo, riprese il piccolo parrucchiere
alzando la voce e gesticolando con
foga. - Sì, fratellino mio caro: la
Follia, in questo mondo, è la vera
regina degli spiriti. La saggezza ne
è soltanto la pigra luogotenente.
La saggezza non si cura affatto di
quanto avviene oltre i confini del
proprio regno; per ingannare la
noia fa esercitare i soldati in
piazza d'armi; ma se poi un
nemico vero attacca dall'esterno,
quegli stessi soldati non sanno
mettere un solo colpo a segno.
Invece la Follia, - vera regina del
popolo - incede a suon di timpani
e trombe: «Urrah!... Evviva!...», e,
dietro, un codazzo di folla in
tripudio. I vassalli si alzano dai
seggi su cui li ha inchiodati la
Saggezza: non vogliono più
saperne di sedere, di giacere, di
contenersi come vorrebbe il
pedante precettore. Questi ne
osserva i numeri, uno dopo l'altro
e dice: Guardate! La Follia mi ha
sottratto i migliori allievi; sì, me li
ha sottratti, distratti... squilibrati...
Ed
eccoli
diventati
degli
squilibrati! È un gioco di parole,
fratellino Medardo. È un gioco di
parole, nelle mani della Follia, è
come una pinza rovente per
arricciare i pensieri.
- Vi prego ancora una volta, esclamai togliendo la parola di
bocca a quello sciocco, - di
smetterla, se vi è possibile, con
queste chiacchiere e di dirmi come
siete giunto qui e che cosa sapete
di me e della veste che indosso -.
Così dicendo lo avevo preso per le
mani e costretto a sedere. Egli
chiuse gli occhi ed aspirò
profondamente
come
per
concentrare le idee.
- Le ho salvato la vita per la
seconda volta, - riprese a dire con
voce bassa e spenta. - Fui io ad
aiutarla a fuggire dalla città
commerciale, e fui ancora io a
condurla qui.
- Ma, in nome di Dio e di tutti i
santi: dove mi ha trovato? - gridai
lasciandogli le mani. Belcampo
balzò in piedi e gridò anche lui con
occhi sfavillanti: - Eh, fratello
Medardo!... Se io, piccolo e debole
come sono, non ti avessi
trascinato via sulle spalle, a
quest'ora saresti sulla ruota con le
membra in poltiglia.
Sussultai e ricaddi a sedere
annichilito. In quel momento
entrò il frate infermiere: - Com'è
venuto qui?... - disse in tono
aggressivo a Belcampo. - Chi le ha
dato il permesso di entrare in
questa camera?...
- Ah, reverendo! - frignò
Belcampo con le lacrime agli
occhi. - Non ho più potuto
resistere al desiderio di parlare
con l'amico che ho salvato da un
mortale pericolo!
- Ditemi, fratello, - intervenni
io già un po'rinfrancato.- È stato
veramente
quest'uomo
a
condurmi qui?
Il frate esitava a rispondere. Adesso so dove mi trovo, - ripresi.
- Dovevo essere in uno stato
pietoso, suppongo; ma, come
vedete,
sono
completamente
guarito. E se prima tacevate per
timore di emozionarmi, adesso
potete dirmi tutto.
- È così, infatti, - rispose il
frate. - Quest'uomo vi ha portato
nel nostro ospedale saranno tre
mesi, tre mesi e mezzo fa. A
quanto ci ha detto, vi aveva
trovato come morto a quattro
miglia di qui, nel bosco che separa
la regione di *** dalla nostra, e vi
ha riconosciuto per il cappuccino
Medardo, del convento di B., il
quale, in viaggio per Roma era
passato nella città in cui egli, il
signor
Schönfeld,
risiedeva.
Eravate in uno stato di totale
apatia.
Se
vi
conducevano
camminavate, se vi lasciavano vi
fermavate, se vi indicavano la
direzione vi siedevate, oppure vi
gettavate a terra lungo disteso. Per
farvi mangiare e bere bisognava
imboccarvi, emettevate soltanto
suoni inarticolati, incomprensibili.
Avevate lo sguardo di un cieco.
Belcampo vi è sempre rimasto
accanto
come
un
fedele
infermiere.
Dopo
quattro
settimane si è scatenata una
forma terrificante di pazzia
furiosa: fummo costretti ad
isolarvi in una delle camere
apposite. Sembravate una bestia
feroce... Ma non voglio insistere
nel descrivervi il vostro stato
perché ricordarlo vi sarebbe
troppo doloroso. Dopo altre
quattro
settimane
ricadeste
all'improvviso nell'apatia e quindi
nello stato di rigidità catalettica da
cui vi siete svegliato guarito -.
Mentre
il frate
raccontava,
Belcampo si era seduto con la
testa poggiata sulla mano, come
assorto in profonda meditazione. Già, - disse a un certo punto. - Alle
volte io sono un balordo buffone,
lo so benissimo. Ma l'aria del
manicomio - deleteria per le
persone sane - a me ha fatto molto
bene. Incomincio a ragionare su
me stesso, e questo non è affatto
un cattivo segno. Se io davvero
esisto unicamente in funzione
della mia coscienza, occorre
semplicemente che la coscienza
strappi la giubba di pagliaccio di
dosso all'individuo cosciente e si
presenti da sola, come un solido
gentleman. O Dio!... Ma un
parrucchiere geniale non è già di
per se stesso un balordo fatto e
finito?... La balordaggine protegge
contro qualsiasi forma di pazzia.
E, vi assicuro, reverendo, io sono
in
grado
di
distinguere
perfettamente un campanile da un
lampione, anche quando tira il
maestrale.
- Se è davvero così, - dissi io, lo dimostri raccontandomi con
calma come sono andate le cose dove mi ha trovato - come mi ha
portato qui.
- Lo farò, - rispose Schönfeld, nonostante il viso preoccupato del
qui
presente
reverendo.
Permettimi
tuttavia,
fratello
Medardo, giacché sei il mio
protetto,
di
darti
confidenzialmente del tu. La
mattina dopo la tua fuga, il pittore
straniero
misteriosamente
scomparve con tutta la sua
collezione di quadri. Lì per lì la
cosa fece molto chiasso ma, per
l'incalzare di nuovi avvenimenti,
venne quasi subito dimenticata.
Soltanto quando si seppe del
delitto avvenuto nel castello del
barone F., quando il tribunale di
*** spiccò mandato di cattura
contro quel tale cappuccino del
convento di B., soltanto allora la
gente ricordò che il pittore aveva
raccontato tutta la storia in
birreria e riconosciuto in te - frate
Medardo.
Il
proprietario
dell'albergo
in
cui
abitavi
confermò la supposizione che io
avessi favorito la tua fuga.
Incominciarono
a
tenermi
d'occhio, poi si parlò di mettermi
in prigione. Mi fu facile decidere
di sottrarmi a una vita che da
tanto
tempo
mi
soffocava,
venendo in Italia, dove esistono
ancora abati e «frisures». Lungo
via, ti vidi nella residenza del
principe di ***. Si parlava delle tue
nozze
con
Aurelia
e
dell'esecuzione
del
monaco
Medardo. Vidi anche quel monaco.
Già. Lui può essere chi gli pare ma
- per me - il vero Medardo sei tu.
Ti venni fra i piedi - tu non mi
notasti. Allora lasciai la residenza
per proseguire il mio viaggio.
Dopo lungo cammino, una
mattina all'alba, mentre stavo
attraversando un bosco cupo e
nero, sentii frusciare nel folto
della macchia e un uomo coi
capelli e la barba arruffati ma
elegantemente vestito mi passò
davanti di corsa. Il suo sguardo era
selvaggio e smarrito. In un attimo
lo persi di vista. Proseguii. Ma ti
lascio immaginare il mio orrore
quando quasi inciampai in una
figura umana distesa a terra, nuda.
Pensai ad un delitto - mi chinai sul
corpo - ti riconobbi. Respiravi
appena. Accanto a te c'era il saio di
frate che ora indossi. Ti vestii e ti
trascinai
via.
Finalmente
rinvenisti; ma il tuo stato era
quello descritto poco fa dal
reverendo. Non mi costò poca
fatica portarti sulle spalle. Difatti,
soltanto verso sera giunsi a
un'osteria situata nel centro del
bosco. Ti lasciai, ubriaco di sonno,
disteso su un prato ed entrai a
prendere da mangiare e da bere.
Nell'osteria c'erano alcuni dragoni
di ***, mandati - mi disse l'ostessa
- a perlustrare la zona di confine
per catturare un monaco, autore
d'un
grave
delitto,
inspiegabilmente fuggito mentre
stava per essere giustiziato. Era un
mistero per me come tu, dalla
residenza, fossi capitato in quel
bosco; ma la certezza che tu fossi
veramente Medardo, il ricercato,
mi indusse ad agire con la
massima prudenza per sottrarti al
pericolo che pareva minacciare
entrambi. Per vie traverse ti
trascinai fin oltre confine e giunsi
in questo ospedale dove mi
accolsero insieme a te, avendo io
dichiarato di non volerti lasciare.
Qui eri al sicuro perché in nessun
caso avrebbero consegnato ad
autorità straniere un ammalato
dopo il ricovero. Quando dormivo
con te in questa camera e ti
curavo, il funzionamento dei tuoi
cinque sensi - la mobilità delle tue
membra - non erano molto
brillanti, te l'assicuro. Noverre e
V e s t r i s (21)
ti
avrebbero
profondamente disprezzato perché
la testa ti ciondolava sul petto e
quando provavamo a drizzarti in
piedi ruzzolavi giù come un birillo
difettoso. Anche la facoltà di
parola
era
in
condizioni
estremamente
pietose.
Ti
esprimevi
per
dannatissimi
monosillabi e nei momenti di
lucidità arrivavi a dire: «Uh...
uh...», oppure «Me... me...» il che
non faceva molto bene intendere
la tua volontà e il tuo pensiero,
anzi, dava quasi luogo a credere
che ti avessero tradito entrambi
per andarsene ciascuno per conto
proprio. Finalmente divenisti
tutt'a un tratto allegrissimo, ti
mettesti a saltare, a sbraitare
felice, ti strappasti di dosso la
tonaca
per
liberarti
d'ogni
innaturale inibizione. Il tuo
appetito poi...
- Basta, Schönfeld! - lo
interruppi
esasperato
da
quell'insopportabile fuoco di fila
di facezie. - Si fermi! Mi hanno già
informato
delle
condizioni
spaventose in cui ero ridotto.
Ringraziamo l'eterna bontà e
misericordia
del
Signore,
ringraziamo l'intercessione della
beata Vergine e dei Santi che mi
hanno salvato!
- Ahimè, reverendo - riattaccò
Schönfeld. - E che cosa glien'è
venuto?... Intendo dire, in quanto
alla particolare funzione dello
spirito chiamata «coscienza»?...
La coscienza, amico mio, altro non
è se non la dannata attività di un
dannatissimo daziere - o gabelliere
- o primo assistente ai controlli di
dogana che dir si voglia -, il quale,
dopo aver aperto il suo misero
ufficio in una soffitta, si fa portar
su le mercanzie e brontola: «Ahi,
ahi!... Proibita l'esportazione!...
Questo deve rimanere dentro lo
stato... dentro lo stato...» Così i più
bei gioielli vengono interrati come
volgare semenza e ne nasceranno,
al massimo, barbabietole, da cui la
pratica potrà ricavare un quarto
d'oncia di pessimo zucchero per
ogni centomila libbre di peso.
Ahimè!...
E
pensare
che
quell'esportazione avrebbe dovuto
dare l'avvio a uno scambio
commerciale con la meravigliosa
città di Dio - lassù - dove tutto è
così solenne e sublime!... Dio del
cielo!... Signore!... Tutte le mie
ciprie - à la Maréchale, à la
Pompadour, à la reine Golconde le mie ciprie acquistate a così caro
prezzo, tutte le avrei gettate nel
fiume, dove l'acqua è più
profonda, se soltanto avessi
potuto avere di lassù, grazie a un
permesso di transito per merci di
importazione, un solo pizzico di
pulviscolo solare per incipriarne le
parrucche dei miei dottissimi
professori e compagni di scuola e, prima di tutte, la mia! Che dico!
Se l'amico Damone, invece di
quella marsina color pulce, avesse
potuto fornirle, reverendissimo
padre, uno di quei soprabiti estivi
che i ricchi e altezzosi borghesi
della città di Dio si infilano per
andare a confessarsi, (22) allora,
veramente, in quanto a dignità e
decoro, tutto sarebbe andato
altrimenti. Invece, così, la gente
ha scambiato lei per un volgare
«glebae adscriptus» e il diavolo
per un suo «cousin germain».
Schönfeld si era alzato e
camminava, o meglio, salterellava
da un'estremità all'altra della
camera gesticolando con impeto e
facendo buffissime smorfie. Al suo
solito, era in gran vena di esaltarsi
inventando paradossi strampalati.
Perciò lo afferrai per le mani e
dissi: - Vuoi dunque davvero
prender stabile dimora qui dentro,
in vece mia?... Non ti è proprio
possibile non ricadere nella farsa
dopo un minuto di discorsi seri e
sensati?...
Egli
sorrise
stranamente:
- È davvero così sciocco, disse, - ciò che dico quando lo
spirito scende su di me?...
- È appunto questo il guaio! risposi io. - In fondo alle tue
fanfaluche
c'è
spesso
un
significato sostanziale. Ma tu ci
aggiungi tali e tanti fronzoli e
frange d'ogni colore che anche
un'idea buona e genuina risulta
inconsistente e ridicola, come un
bell'abito guarnito di cenci
pezzati... Sembri un ubriaco: non
sei capace di camminare su una
cordicella tesa in linea retta, vai a
zig zag... Ecco, sei orientato a
sghimbescio!
- Orientato?... - ripeté lui
sottovoce sempre con lo stesso
sorriso agrodolce. - Che cos'è
l'orientamento, reverendo padre
cappuccino?...
L'orientamento,
caro il mio fraticello, non
presuppone forse una meta?... È
sicuro, lei, della sua meta, mio
caro monaco?... Non teme d'aver
fin qui mangiato troppo poca
cervella di gatto e consumato
invece un po'troppe bevande
spiritose, là nell'osteria, accanto
alla famosa funicella tesa in linea
retta?... E di vedere adesso due
mete, come un copritore di tetti in
preda alle vertigini, senza sapere
quale delle due sia la giusta?... E
poi, reverendo, perdona a un
uomo del mio mestiere se si porta
in petto lo spirito burlesco come
una gustosa minestra di cavolfiore
e pepe di Spagna. Senza di questo,
un artista della capigliatura
sarebbe
un
ben
misero
personaggio, un povero sciocco,
che si porta in tasca un privilegio
senza saperlo utilizzare per il
proprio piacere.
Il religioso continuava ad
osservare attentamente ora me,
ora Schönfeld e le sue smorfie,
senza capire una parola perché
parlavamo in tedesco. Ma a questo
punto intervenne:
- Perdonatemi, signori, - disse,
- se il mio dovere mi costringe a
interrompere una conversazione
che certamente non può giovare a
nessuno di voi due. Voi, fratello
mio, siete ancora troppo debole
per parlare così a lungo di cose che
probabilmente
vi
ricordano
circostanze dolorose del vostro
passato. E voi, - soggiunse
volgendosi a Schönfeld, - avete
una curiosa maniera di esporre:
non
raccontate,
recitate,
rappresentate...
In
Germania
immagino passiate per una testa
matta, ma perfino qui da noi
fareste un eccellente «buffone»...
(23) Sì, potreste far fortuna nel
teatro comico.
Schönfeld spalancò gli occhi
sul religioso poi, rizzatosi in punta
di piedi, batté le mani al disopra
del capo ed esclamò in italiano: Ecco! La voce dello spirito... la
voce del destino ha parlato per
bocca di questo reverendo!...
Belcampo, Belcampo!... Come hai
potuto così misconoscere la tua
vera vocazione?... Ma adesso è
deciso!... - e uscì di corsa.
La mattina seguente ritornò
vestito da viaggio: - Mio caro frate
Medardo, - mi disse. - Ormai sei
completamente guarito e non hai
più bisogno della mia assistenza.
Io me ne vado là dove mi chiama
la mia intima, autentica vocazione.
Addio!... Ma permetti che per
l'ultima volta io eserciti su di te
l'arte mia, anche se ora la
considero soltanto più un vile
mestiere, - e, tirato fuori pettine,
forbici e rasoio, mi riassettò la
barba e la tonsura con mille
smorfie e discorsi faceti. Malgrado
la
fedeltà
dimostratami,
quell'uomo mi conturbava. E
quando se ne andò fui contento.
Gli energici rimedi del medico
mi avevano fatto abbastanza bene;
avevo riacquistato un colorito più
fresco e recuperato le forze grazie
a sempre più lunghe passeggiate
quotidiane. Convinto di poter
affrontare un viaggio a piedi,
lasciai quel ricovero - benefico,
forse, per un ammalato di mente
ma orrendo, sinistro per un uomo
sano. Mi avevano attribuito
l'intenzione
di
recarmi
in
pellegrinaggio a Roma; decisi di
andarci per davvero e perciò mi
feci indicare la via e m'incamminai
in quella direzione. Benché
mentalmente
guarito,
avevo
tuttavia la consapevolezza d'uno
stato d'incoscienza che gettava un
velo scuro su ogni nascente
visualizzazione mentale; cosicché,
tutti i pensieri mi sembravano
incolori: grigio su grigio. Non
serbando chiaro ricordo del
passato, vivevo tutto assorbito
dalle piccole cure del presente.
Aguzzavo la vista per scorgere da
lontano i luoghi dove poter
bussare ad una porta, mendicare
un po'di cibo, un asilo per la notte.
Quando i buoni devoti mi avevano
riempito ben bene la bisaccia e la
fiaschetta mi sentivo felice; e
meccanicamente
borbottavo
preghiere alla loro intenzione.
Perfino in ispirito mi ero svilito al
rango del comune
monaco
questuante idiota. Giunsi così
finalmente al grande convento
cappuccino a poche ore da Roma:
un edificio isolato fra masserie e
cascinali. Là un confratello
dell'ordine sarebbe stato bene
accolto, pensai; avrei dunque
avuto modo di rifocillarmi e
riposarmi in tutta comodità.
Dissi che, in seguito alla
soppressione del mio convento in
Germania, ero andato pellegrino
per il mondo, col desiderio di
entrare in un altro convento dello
stesso ordine. Mi venne offerta
larga ospitalità, con la cortesia
propria dei monaci italiani. Il
priore dichiarò che, se nessun voto
speciale
mi
costringeva
a
proseguire il pellegrinaggio, avrei
potuto rimanere fino a quando mi
fosse piaciuto. Era l'ora del vespro;
i frati andarono nel coro ed io
entrai in chiesa. L'ardita, stupenda
architettura della navata centrale
mi lasciò stupefatto; ma il mio
spirito, rivolto alla terra, non fu
più capace di sollevarsi come
allora quando, bambino appena
cosciente, avevo visto la chiesa del
Sacro
Tiglio.
Recitata
una
preghiera
davanti
all'altar
maggiore, percorsi le navate
laterali, osservando i dipinti
raffiguranti, come di consueto, il
martirio dei santi cui i vari altari
erano dedicati. Entrai infine in
una cappella laterale, il cui altare
era magicamente illuminato dai
raggi di sole filtranti attraverso le
vetrate multicolori. Volli osservare
il quadro - salii gli scalini e vidi...
Santa Rosalia... la fatale pala
d'altare del mio convento...
Ahimè!... Aurelia mi guardava!
Tutta la mia vita - i miei mille
peccati - i miei misfatti -
l'assassinio di Ermogene - di
Aurelia - tutto, tutto si condensò
in un unico orribile pensiero per
lancinarmi il cervello come uno
spuntone rovente... - Sentii il
petto, le vene, le fibre, straziati da
un dolore selvaggio, dalla più
crudele delle torture. Ma il
sollievo della morte non venne!...
Folle di disperazione, mi gettai a
terra, mi lacerai il saio, piansi,
urlai, riempii la chiesa di
sconsolati
singhiozzi:
Maledetto... Sono maledetto!...
Nessuna grazia per me, nessun
conforto, né quaggiù né lassù!...
All'inferno,
all'inferno...
Dannazione eterna su di me,
infame peccatore!...
Mi risollevarono: la cappella
era piena di frati - davanti a me
stava il priore, un alto, venerando
vegliardo. Mi guardò con gravità e
tenerezza indescrivibili, mi prese
le mani: fu come se un santo,
pieno di celeste compassione,
trattenesse nell'aria il peccatore
perduto, al disopra del magma
infocato in cui stava per
precipitare.
- Tu sei malato, fratello, - mi
disse. - Ti porteremo nel
convento... Guarirai -. Gli baciai le
mani, la veste, senza poter parlare.
Soltanto
profondi, angosciosi
sospiri
rivelavano
lo
sconvolgimento dell'anima mia.
Mi portarono nel refettorio. A un
cenno del priore i monaci uscirono
ed io rimasi solo con lui. - Tu mi
sembri oppresso dal peso di un
grave peccato, fratello, - mi disse il
priore. - Soltanto il più disperato
rimorso per qualche orrendo
misfatto può ridurre un uomo in
questo stato. Ma grande è la
misericordia del Signore, potente
l'intercessione dei Santi. Abbi
fiducia. Io ti confesserò; e quando
avrai espiato riceverai il conforto
della Chiesa!
In quel momento mi parve che
il priore fosse il vecchio pellegrino
del Sacro Tiglio - nonché l'unico
uomo sulla faccia della terra a cui
avrei dovuto rivelare la storia della
mia vita piena di peccati e di
misfatti. Ancor sempre incapace di
articolar parola, mi prostrai nella
polvere, ai piedi del vegliardo. - Io
vado nella cappella del convento, mi disse lui in tono solenne; ed
uscì.
Mi ricomposi, lo seguii, lo vidi
entrare nel confessionale; e senza
indugi feci ciò che lo spirito mi
traeva irresistibilmente a fare.
Confessai tutto - tutto!
Tremenda fu la penitenza
impostami dal priore. Giacqui
nella
cripta
mortuaria
del
convento, tenendomi a mala pena
in vita con insipide verdure cotte
nell'acqua,
flagellandomi,
straziandomi le carni con gli
strumenti di tortura inventati
dalla crudeltà più raffinata,
alzando la voce solo per accusare
me stesso o per invocare salvezza:
perché le fiamme dell'inferno già
divampavano in me. Ma quando il
sangue sgorgava da cento ferite,
quando il dolore scottava come
cento
velenose
punture
di
scorpione e il corpo finalmente
cedeva e il sonno lo cingeva con le
sue braccia protettrici, come un
bimbo sfinito, ecco, un nuovo
mortale tormento incominciava: i
sogni. Tutta la mia vita mi si
svolgeva
dinnanzi
in
uno
spettacolo
atroce.
Vedevo
avvicinarsi Eufemia, nella sua
rigogliosa bellezza. - Che vuoi da
me, sciagurata?... - gridavo. - No!...
L'inferno non mi avrà! - Allora lei
apriva la veste... e il brivido della
dannazione mi invadeva... Il suo
corpo era disseccato, ridotto ad
uno scheletro e, nello scheletro,
brulicava un groviglio di serpi che
ergevano il capo, protendendo
verso di me le rosse lingue
infuocate. - Lasciami! - urlavo. Le tue serpi mi mordono il petto
ferito... Vogliono suggermi il
sangue del cuore... Morirò!...
Morirò!... La morte mi strapperà
alla tua vendetta!...
- Le mie serpi possono suggerti
il sangue del cuore, gridava a me
l'apparizione. - Tu non sentirai
nulla perché non è questo il tuo
tormento: il tuo tormento è in te,
e non può ucciderti, perché tu vivi
di esso. Il tuo tormento è il ricordo
del delitto, ed esso è eterno!...
Sorgeva l'ombra sanguinante di
Ermogene; Eufemia fuggiva e
l'ombra trascorreva via con un
fruscio, additandomi la ferita alla
gola - una ferita in forma di croce.
Volevo pregare ma intorno a me si
scatenava una ridda ubriacante,
assordante: persone già viste mi
apparivano
deformate
come
grottesche, inverosimili maschere.
Teste poggiate su gambe di
cavalletta uscenti di sotto le
orecchie mi strisciavano intorno
sghignazzando - strani mostri
alati, corvi dai visi umani,
svolazzavano
nell'aria.
Riconoscevo il primo violino di B.
con sua sorella che piroettava in
un valzer frenetico, mentre lui
suonava menando l'archetto sul
proprio torace, trasformato in
violino. Belcampo, con un laido
muso di lucertola, a cavallo d'uno
schifoso verme alato si gettava su
di me, cercando di pettinarmi la
barba con un pettine di ferro
rovente, ma senza riuscirci. La
ridda diventava sempre più
frenetica, più strane, più assurde
le
figure:
dalle
minuscole
formichette danzanti su piedini
umani fino a un lunghissimo
scheletro di cavallo con occhi di
fuoco e la propria pelle gettata sul
dorso in guisa di gualdrappa; e in
groppa
un
cavaliere
dalla
fosforescente testa di civetta, con
un calice sfondato per armatura e
un imbuto capovolto per elmo.
La farsa infernale è al
parossismo: odo la mia risata - ma
è una risata che fa male al cuore.
Il dolore diventa più bruciante, più
copioso sgorga il sangue dalle
ferite. Appare, luminosa, una
figura femminile, avanza verso di
me
mentre
il
mostruoso
brulicame
recede.
Ah!...
È
Aurelia!...
- Io vivo, e sono tutta tua! dice l'apparizione. Allora lo spirito
del male si scatena in me. Come
pazzo, stringo la fanciulla fra le
braccia con selvaggia libidine non più prostrato, non più
sfinito... Ma il petto preme contro
qualcosa di rovente - ruvide setole
mi graffiano gli occhi. - E poi la
risata agghiacciante di Satana: Ecco, sei tutto mio! - Con un urlo
di orrore mi sveglio. Sotto la sferza
aculeata, con cui disperatamente
mi do la disciplina, il sangue
scorre a fiotti. Anche il sogno è
peccato - anche d'un solo pensiero
colpevole
devo
doppiamente
punirmi.
Finalmente il duro periodo
espiatorio impostomi dal priore
trascorse. Risalii dalla cripta
funeraria,
fui
alloggiato
in
convento ma in una cella isolata,
separato dai confratelli, per
iniziare
nuovi
esercizi
di
mortificazione. Poi, per stadi di
penitenza sempre più attenuati,
mi venne concesso di entrare in
chiesa e nel coro dei monaci. Ma
quest'ultima fase di penitenza,
consistente
nella
consueta
fustigazione quotidiana, non mi
bastava.
Respingevo
ostinatamente
qualsiasi
cibo
migliore mi venisse offerto,
giacevo, solo nella mia cella, per
giorni interi sul freddo pavimento
di marmo, di fronte al quadro di
santa Rosalia, martirizzandomi
nel più crudele dei modi, sperando
di sopire attraverso le sofferenze
fisiche l'atroce tormento interiore.
Tutto era inutile: le immagini
generate dal pensiero ritornavano
continuamente; ero ormai caduto
in balìa di Satana che mi
tormentava e induceva al peccato
beffeggiandomi.
La
dura
penitenza, il modo inaudito in cui
me
l'imponevo,
destarono
l'attenzione dei monaci. Essi mi
guardavano con timor reverenziale
e li udivo perfino sussurrare fra
loro: - Quell'uomo è un santo! Ciò mi faceva fremer d'orrore
perché ricordavo anche troppo
bene, il tragico momento nella
chiesa dei cappuccini quando,
pazzo di presunzione, avevo
gridato fissando il pittore: Sant'Antonio sono io!...
Trascorso
anche
l'ultimo
periodo di penitenza, e benché il
fisico fosse sul punto di cedere
alle sofferenze, non smisi di
torturarmi. Quasi non vedevo più,
ero ridotto ad uno scheletro
piagato e sanguinante, ridotto al
punto di non aver più la forza di
alzarmi da solo dopo essere
rimasto qualche ora disteso sul
pavimento. - Il priore mi fece
condurre nel parlatorio: - Ti senti
spiritualmente sollevato dalla
dura penitenza, fratello? - mi
domandò. - Ti è stato concesso il
conforto del cielo? - No, reverendo
padre, - risposi sordamente, con la
disperazione
nella
voce.
Imponendoti la più rigorosa delle
penitenze, dopo aver udito la
confessione dei tuoi orrendi
misfatti, - disse il priore alzando la
voce, - ho ubbidito alle leggi della
Chiesa, le quali vogliono che il reo
sfuggito al braccio della giustizia,
ma il quale abbia confessato,
pentendosi, i propri delitti a un
servo del Signore, manifesti anche
mediante azioni esteriori la
sincerità del proprio pentimento.
Egli deve rivolgere lo spirito
esclusivamente alle cose celesti,
mortificando la carne, affinché i
tormenti fisici controbilancino il
demoniaco piacere provato nel
fare il male. Tuttavia io credo - e
non pochi celebri dottori della
Chiesa concordano con me - che
neppure
le
più
crudeli
automortificazioni allevino d'una
sola oncia il peso dei peccati
commessi se il peccatore ripone
tutta la fiducia nella penitenza
anziché nella grazia di Dio. Con
quale metro l'Eterno commisuri le
nostre azioni è un mistero
imperscrutabile per la ragione
umana; ed è perduto colui il quale,
pur non avendo commesso colpe
concrete, presuma di espugnare il
cielo mediante atti di pietà
esteriori. - Il peccatore che,
compiuta la penitenza, crede
estinto il proprio peccato dimostra
l'insincerità del pentimento. Ma
tu, caro frate Medardo, non provi
ancora alcun senso di conforto, e
ciò dimostra che sei veramente
pentito. Ora io ti ordino di
sospendere le flagellazioni, di
nutrirti con cibi migliori, di non
sfuggire più la compagnia dei
confratelli.
Sappi
che
le
straordinarie,
complicatissime
vicende della tua vita misteriosa io
le conosco tutte, forse meglio di
te. Un destino cui tu non potesti
sfuggire ti diede in potere di
Satana e, peccando, ne divenisti lo
strumento. Non illuderti per
questo di essere meno colpevole
agli occhi del Signore, perché la
forza di combattere e vincere
Satana ti era stata concessa. In
quale cuore umano non si scatena
il Maligno per opporsi al Bene?...
Ma senza lotta non esisterebbe
alcuna virtù, perché la virtù
consiste unicamente nella vittoria
del Bene sul Male, così come dal
caso inverso ha origine la colpa.
Sappi dunque anzitutto che uno
dei delitti di cui ti accusi l'hai
commesso
soltanto
nell'intenzione. Aurelia è viva - in
un accesso di pazzia furiosa hai
ferito te stesso; il sangue di cui ti
sei intriso le mani sgorgava dalla
tua ferita. Aurelia è viva... lo so.
Caddi in ginocchio, levai le
mani in preghiera sospirando,
piangendo.
- Sappi ancora, - proseguì il
priore, - che il vecchio pittore
straniero di cui mi parlasti in
confessione,
da
tempo
immemorabile
viene
periodicamente in visita al nostro
convento - e forse ricapiterà
presto. Mi ha dato in consegna un
libro, contenente parecchi disegni
ma essenzialmente una storia cui,
ad ogni nuova visita, egli aggiunge
alcune righe. Non mi ha proibito
di consegnarlo ad altri; perciò io te
lo affido volentieri perché lo
ritengo un mio sacrosanto dovere.
Conoscerai le complicate trame
del singolare destino che ora ti
solleva in un mondo di prodigiose
visioni, ora ti precipita nella più
bassa materialità della vita. Si dice
che i prodigi siano scomparsi dal
mondo. Io non lo credo. Noi non
vogliamo più chiamare con questo
nome neppure le cose più
prodigiose che ci circondano
quotidianamente perché in un
determinato
susseguirsi
di
fenomeni abbiamo scoperto la
regola del ritorno ciclico. Ma a
quel ciclo spesso un fenomeno
sfugge per farsi beffa di tutta la
nostra saggezza; e noi, ottusi e
ostinati
come
siamo,
non
potendolo capire non vogliamo
crederlo vero. Ci ostiniamo perciò
a negare i fenomeni visibili
soltanto all'occhio interiore e
troppo trasparenti per riflettersi
sulla
grossolana
superficie
dell'occhio fisico. Quello strano
pittore io lo annovero fra i
fenomeni
straordinari
che
irridono a qualsiasi regola; e nutro
molti dubbi circa l'appartenenza
della sua persona fisica alla
categoria delle cose da noi definite
reali. Nessuno lo ha mai visto
compiere le comuni azioni della
vita, questo è certo. Io, ad
esempio, non lo vidi mai scrivere
né disegnare, benché nel libro in
cui mi pareva leggesse, le pagine
scritte aumentassero dopo ogni
sua visita. Altro fatto strano: in
quel libro a tutta prima mi era
sembrato di non veder altro che
scarabocchi e schizzi confusi; ma,
udita la tua confessione, caro
fratello Medardo, tutto mi è
apparso chiaro e leggibile. Non
voglio dilungarmi sulle congetture
circa il pittore. Indovinerai tu
stesso - o meglio - il mistero ti si
chiarirà da sé. Ora và. Rimettiti in
forze e se, come penso, fra pochi
giorni ti sentirai rinfrancato nello
spirito, ti consegnerò quel libro
straordinario.
Seguii la volontà del priore sedetti a mensa con i confratelli e
smisi di darmi la disciplina,
limitandomi a pregare con fervore
davanti agli altari dei santi.
Il cuore ferito sanguinava
ancor
sempre,
il
tormento
interiore non si attenuava. Ma i
sogni orrendi non si ripeterono; e
spesso, mentre languivo sfinito a
morte sul mio duro giaciglio senza
poter prender sonno, mi sentivo
investire da un alito lieve, come il
batter d'ali d'un angelo, e vedevo
la soave figura di Aurelia curvarsi
su di me, gli occhi pieni di lacrime
e di celestiale compassione. Essa
stendeva la mano sopra il mio
capo, quasi a proteggermi - e le
mie palpebre si abbassavano e un
dolce
sonno
riparatore
mi
immetteva nuova forza vitale nelle
vene.
Quando il priore mi vide
spiritualmente
un
poco
rinfrancato mi diede il libro del
pittore,
raccomandandomi
di
leggerlo attentamente nella sua
cella. Lo apersi; e per prima cosa
mi caddero sott'occhio gli schizzi,
e poi gli abbozzi in bianco e nero,
degli affreschi del Sacro Tiglio.
Non provai il minimo stupore né
la minima curiosità di sciogliere in
fretta l'enigma. No!... Non c'erano
più enigmi per me: sapevo ormai
da un pezzo che cosa contenesse
quel libro!
Ciò che il pittore aveva
riportato nelle ultime pagine, a
caratteri minutissimi, appena
leggibili, tracciati con inchiostri di
vari colori, erano i miei sogni, i
miei presentimenti. Ma descritti
con una chiarezza, un'incisività,
una precisione di cui io non sarei
mai stato capace.
annotazione
inserita
dal
redattore.
Senza diffondersi in ulteriori
commenti circa il contenuto del
libro del pittore, frate Medardo a
questo punto riprende la sua
narrazione: descrive il commiato
dal priore, dai buoni confratelli, il
pellegrinaggio
a
Roma,
le
preghiere nelle chiese di San
Pietro, San Sebastiano, San
Lorenzo,
San
Giovanni
in
Laterano, Santa Maria Maggiore
ecc'ecc.. Narra come finisse per
attrarre l'attenzione perfino del
papa ed entrare addirittura in
odore di santità. La qual cosa sapendo egli ormai d'essere un
povero peccatore e null'altro - lo
indusse a lasciar Roma.
Ma noi - (intendo parlare di me
e di te, lettore benevolo) - ne
sappiamo troppo poco sui sogni e i
presentimenti di frate Medardo
per poter trovare e districare il
bandolo dell'aggrovigliata matassa
senza leggere le cronache del
pittore; anzi, per dirla con una
similitudine migliore, a noi manca
il punto focale da cui si dipartono i
molteplici e variopinti raggi della
vicenda. Il manoscritto del
defunto cappuccino era conservato
entro una vecchia pergamena
ingiallita; sulla pergamena, uno
scritto in caratteri minutissimi,
quasi illeggibili, rivelanti una
mano assai originale, destarono la
mia curiosità. A prezzo di molta
fatica riuscii a decifrare caratteri e
parole; e grande fu la mia
meraviglia quando mi resi conto
che si trattava della storia
riportata nel libro del pittore, cui
Medardo fa cenno. La storia è
scritta in un italiano arcaico, in
istile di cronaca, molto aforistico.
Il tono suona strano alle orecchie
di noi tedeschi, aspro e sordo ad
un tempo, come un vetro
incrinato. Per la comprensione del
tutto mi sarà necessario inserirne
qui la traduzione; il che farò dopo
aver
aggiunto,
molto
a
malincuore,
le
precisazioni
seguenti.
La famiglia principesca da cui
discendeva il tante volte nominato
Francesco, vive ancora in Italia,
come pure vivono i discendenti del
principe nella cui residenza
Medardo si fermò. Ciò rese allora
impossibile far nomi; ma ora
sarebbe
il
colmo
della
dabbenaggine e dell'inettitudine
porti questo libro fra le mani,
lettore benevolo, inventando i
nomi dei personaggi quando i
nomi già esistono ed hanno una
bella sonorità romantica.
Il
sottoscritto
redattore
pensava di cavarsela abbastanza
bene limitandosi a citare i titoli di
«principe», «barone», ecc.. Ma ora
che il vecchio pittore ha messo in
chiaro le misteriose e intricate
vicende della famiglia, egli si
rende conto di non poter venir ben
compreso servendosi unicamente
di tali generiche definizioni
perché, così facendo, dovrebbe
inzeppare ed appesantire le
semplici cronache corali del
pittore
con
spiegazioni
e
avvertimenti
continui.
Presentandomi dunque come
redattore
ti
prego,
lettore
benevolo, di voler, prima di
proseguire la lettura, porre a
mente quanto segue:
Camillo, principe di P. , è il
capostipite della famiglia da cui
discenderà Francesco, padre di
Medardo.
Teodoro, principe von W. , è il
padre del principe Alessandro von
W. , alla cui corte giungerà
Medardo.
Il fratello di Alessandro,
Giovanni, (24) marchese von W. ,
sposerà la principessa italiana
Giacinta. La famiglia del barone
F., residente in montagna, è già
nota. Si tenga soltanto presente
che anche la baronessa von F.
proveniva dall'Italia, essendo figlia
del conte Pietro S., figlio a sua
volta del conte Filippo S..
Tutto ti apparirà chiaro, caro
lettore, se tu terrai a mente questi
pochi nomi e le relative iniziali.
Ora, prima di proseguire il
racconto, inseriamo:
la pergamena del vecchio pitto
-re.
...ed avvenne che, essendo la
Repubblica di Genova duramente
molestata dai corsari algerini, si
rivolse al grande eroe marinaro
Camillo,
principe
di
P.
,
invitandolo ad assumere
il
comando d'una spedizione di
guerra
contro
i
tracotanti
predatori, a bordo di quattro
galeoni armati ed equipaggiati di
tutto punto. Camillo, assetato di
gesta gloriose, scrisse subito al
figlio
primogenito
Francesco
perché venisse ad assumere, in
sua assenza, il governo del paese.
Francesco esercitava la pittura alla
scuola di Leonardo da Vinci, e lo
spirito
dell'arte
si
era
impossessato di lui a tal punto da
non consentirgli di pensare a
null'altro. Egli poneva l'arte al
disopra di tutti gli onori, di tutti i
fasti del mondo; ogni altra attività
umana gli sembrava un pietoso
affaticarsi per amore di bagattelle
prive di significato. Non potendosi
distaccare dall'arte e dal proprio
maestro, già molto avanti negli
anni, rispose al padre dichiarando
di saper maneggiare il pennello
ma non lo scettro, e di voler
restare accanto a Leonardo.
L'orgoglioso
conte
Camillo,
sdegnato, rimproverò al figlio di
essere un pazzo, un indegno e
spedì alcuni servitori fidati con
l'incarico di ricondurlo a casa.
Francesco si rifiutò recisamente di
ritornare - disse che un Principe
circondato dagli splendori del
trono era, secondo lui, un essere
compassionevole rispetto a un
valente pittore - le più grandi
imprese guerresche, un gioco
crudele - mentre le creazioni d'un
artista erano il puro riflesso dello
spirito divino nell'uomo. Camillo,
l'eroe del mare, si incollerì; e giurò
che avrebbe ripudiato Francesco e
passata la successione al figlio
minore, Zenobio.
Francesco,
soddisfattissimo
della decisione paterna, abdicò al
trono, con atto solenne e formale,
in favore del fratello. E così,
quando il vecchio principe Camillo
perse la vita in una dura e
sanguinosa battaglia contro gli
algerini, Zenobio salì al trono
mentre Francesco, rinnegato il
proprio nome e il proprio rango,
continuò a fare il pittore, vivendo
piuttosto
poveramente
della
magra
rendita
annuale
assegnatagli dal fratello.
Soltanto il vecchio Leonardo
sapeva tenere a freno la natura
prepotente e orgogliosa del
giovane Francesco, il quale,
quando rinunziò al rango di
principe, divenne per lui come un
buon figlio. Lo aiutò a terminare
alcune grandi opere, si portò quasi
all'altezza del maestro, divenne
celebre e fu chiamato a dipingere
qualche pala d'altare per chiese e
conventi. Il vecchio Leonardo lo
consigliò ed assistette fino a
quando
morì,
in
età
avanzatissima. Allora l'orgoglio e
l'arroganza
proruppero
nel
giovane
come
un
incendio
faticosamente represso per tanto
tempo. Egli si mise in mente di
essere il più grande pittore
dell'epoca e, per adeguare al
proprio
rango
la
raggiunta
perfezione artistica, si autodefinì il
principe dei pittori. E incominciò a
parlare con disprezzo del vecchio
Leonardo, si scostò dalla purezza
del semplice stile religioso per
darsi a una nuova maniera e
colpire gli occhi delle folle con la
voluttuosità delle figure e la
smagliante chiassosità dei colori.
Le lodi sperticate lo resero ancor
più vanesio e tracotante.
A Roma entrò in un gruppo di
giovani sfrenati e dissoluti; e, con
la sua mania di primeggiare, di
eccellere in tutte le cose, divenne
il più ardito dei navigatori anche
sui tumultuosi mari del vizio.
Sedotti dagli ingannevoli e falsi
splendori del paganesimo, quei
giovani - con Francesco alla testa fondarono una lega segreta al fine
di farsi sacrilega beffa del
cristianesimo e imitare le usanze
degli antichi greci, celebrando
feste orgiastiche, peccaminose, in
compagnia
di
impudenti
prostitute. Facevano parte della
consorteria alcuni pittori, ma più
numerosi erano gli scultori.
Costoro non volevano saperne che
di arte classica e deridevano tutto
ciò che artisti più recenti,
ispirandosi
allo
spirito
del
cristianesimo, avevano ideato e
stupendamente realizzato per
glorificarlo. Francesco, ardente
d'entusiasmo profano, dipinse
molti quadri su soggetti ricavati
dal menzognero mondo mitico.
Nessuno come lui sapeva rendere
con tanta verità l'allettante
esuberanza delle figure femminili;
copiava gli incarnati da modelle
viventi, gli atteggiamenti, le
forme, da antichi marmi. Invece di
edificarsi, come faceva un tempo,
nelle chiese e nei chiostri, di
fronte agli stupendi dipinti degli
antichi maestri timorati di Dio, e
di assorbirne lo spirito con
devozione degna d'un vero artista,
non si stancava di riprodurre le
false deità pagane. Ma una figura
soprattutto lo suggestionava: una
famosa statua di Venere, che
aveva sempre in mente.
La
pensione
annuale
assegnatagli dal fratello una volta
tardò ad arrivare. Francesco
scialacquava tutti i suoi guadagni,
non voleva rinunziare alla vita
dissoluta e venne perciò a trovarsi
in grave imbarazzo finanziario.
Allora si ricordò d'un certo quadro
di santa Rosalia, commissionatogli
molto tempo addietro da un
convento
di
cappuccini
e,
malgrado la sua avversione per
tutti i santi cristiani, decise di
eseguirlo alla svelta, unicamente
per
intascare
il
cospicuo
compenso pattuito. E gli venne
un'idea: avrebbe raffigurato la
santa nuda, simile in tutto e per
tutto a quella statua di Venere. Il
bozzetto gli riuscì benissimo; i
compagni di bagordi lo colmarono
di lodi: collocare nella chiesa dei
frati anziché una santa cristiana
una dea pagana era una magnifica
trovata! Ma quando Francesco
incominciò a dipingere, ecco,
l'opera andò configurandosi in
modo del tutto diverso dalle idee e
dalle intenzioni originarie. Uno
spirito più potente sopraffece lo
spirito della menzogna da cui egli
era dominato. Dall'alto regno dei
cieli discese un viso d'angelo, ed
incominciò a baluginargli davanti
agli occhi, sebbene ancora confuso
e come fasciato di nebbia.
Francesco, preso da timore di
commetter sacrilegio e di cadere
sotto il giudizio e il castigo di Dio,
non osò ultimare il viso della
santa. Sul corpo nudo dipinse una
castigatissima veste rosso scura,
ricca di pieghe, e un bel manto
azzurro.
Nella
lettera
di
ordinazione, i cappuccini avevano
parlato soltanto di santa Rosalia,
senza precisare se il bozzetto
dovesse contenere anche una
storia della sua vita; perciò
Francesco si era limitato a porre
nel centro del foglio la figura della
santa. Ma ora, guidato dallo
spirito, le dipinse intorno una folla
di figure, coordinate in modo da
rappresentare
la
scena
del
martirio.
Francesco
era
totalmente
assorbito dal proprio quadro - o
per meglio dire - il quadro stesso
era diventato lo spirito possente
che lo cingeva fra le braccia per
innalzarlo
al
disopra
della
peccaminosa vita mondana fino a
allora condotta. Ma il viso della
santa non riusciva a finirlo; e ciò
divenne per lui un tormento
lancinante, infernale. Non pensava
più alla figura di Venere, ma gli
sembrava che il vecchio maestro
Leonardo lo guardasse, pieno
d'ansia e di pena, con espressione
accorata e gli dicesse: «Ah!...
Vorrei aiutarti, ma non mi è
permesso.
Tu
devi
prima
rinunziare alle azioni colpevoli,
pentirti, e implorare umilmente
l'intercessione dei santi contro cui
peccasti».
I giovani amici, per tanto
tempo trascurati e abbandonati,
andarono a cercarlo nel suo
laboratorio e lo trovarono disteso
sul letto, stremato, come un
infermo. Ma quando Francesco
confidò loro la propria pena,
spiegando come uno spirito
maligno gli avesse tolto le forze e
reso impossibile ultimare il
quadro
di
santa
Rosalia,
scoppiarono a ridere tutti insieme.
- Ehilà, fratello! - esclamarono. Come mai ti sei ammalato così,
tutt'a un tratto?... Coraggio,
offriamo
una
libagione
a
Esculapio e alla benigna Igea,
perché ti guariscano!
Si fecero portare del vino
siracusano, riempirono i bicchieri
e bevvero, davanti al quadro
incompiuto, offrendo la libagione
alle
deità
pagane.
Poi
incominciarono a gozzovigliare sul
serio, offersero il vino a Francesco
ma questi si rifiutò di bere e non
volle assolutamente prender parte
al
festino
degli
scapigliati
confratelli,
inneggianti
freneticamente a Venere. Allora
uno di essi disse: - Quello sciocco
d'un pittore deve essere ammalato
per davvero, di corpo e di mente.
Vado a chiamare un medico -. Ciò
detto, si gettò addosso il mantello
e affibiatasi la spada alla cintola
uscì; ma pochi istanti dopo
ricomparve. - Ehi, voi, guardate un
pò! - disse ai compagni: - Eccolo il
dottore che curerà quell'infermo.
Il ragazzo s'era infatti reso
abbastanza simile a un vecchio
dottore; camminava a passetti
saltellanti flettendo le ginocchia e
contraeva il viso in modo da
renderlo pieno di rughe come
quello d'un bruttissimo vecchio. I
giovani risero a crepapelle: Guardate, guardate, che arie
dottorali è capace di assumere il
«signor dottore»! - esclamarono.
Il dottore si avvicinò a
Francesco: - Ehi, tu, povero
diavolo, - gli disse con voce aspra e
sprezzante. - Dobbiamo guarirti da
questa depressione malinconica...
Ehh!... Come ti vedo pallido e
malridotto!... Così non piaceresti
di certo a madama Venere... Ma, se
guarisci, chissà che perfino donna
Rosalia non ti faccia l'occhietto!...
Andiamo,
ragazzo,
prova
a
assaggiare
il
mio
rimedio
miracoloso.
Giacché
vuoi
dipingere santi, questa pozione ti
gioverà: è un vino delle cantine di
Sant'Antonio.
Il finto medico trasse una
bottiglia di sotto il mantello e
l'aprì. Ne emanò uno stranissimo
aroma inebriante; i giovani,
storditi e colti da sonnolenza si
abbandonarono sulle sedie e
chiusero gli occhi. Ma Francesco,
furibondo nel sentirsi prendere in
giro e trattare come un individuo
malaticcio e impotente, strappò la
bottiglia di mano al dottore e
bevve a grandi sorsate.
- Buon pro ti faccia! - esclamò
il buontempone, riprendendo il
suo viso giovanile e la sua
andatura energica. Poi scosse i
compagni caduti in sopore ed essi
lo seguirono giù per la scala
barcollando.
Nell'animo di Francesco si
scatenò una tempesta di fuoco,
come avviene nel Vesuvio quando
entra in eruzione con terrificanti
boati. Tutte le storie pagane da cui
aveva tratto soggetti per le proprie
pitture gli riapparvero vive davanti
agli occhi.
- Ah, vieni, vieni, amatissima
dea! - gridò a piena voce. - Ti
voglio viva... ti voglio mia... o mi
consacrerò agli dei inferi!
Accanto al quadro gli apparve
Venere e gli fece un tenero cenno
d'invito. Egli balzò dal letto e si
mise a dipingere la testa di santa
Rosalia con la ferma intenzione di
riprodurre
fedelmente
l'affascinante viso della dea. Ma,
come se la volontà non potesse
comandare alla mano, il pennello
scivolava via dall'alone di nebbia
in cui la testa della santa era
avvolta per dipingere le teste dei
barbari circostanti. Ciò malgrado il
viso
celestiale
della
santa
diventava sempre più visibile e
tutt'a un tratto guardò Francesco
con occhi così vivi e radiosi da
farlo cadere a terra come colpito a
morte da una folgore. Quand'ebbe
ripreso un certo dominio dei
propri sensi si rialzò. - Non osò
guardare il quadro di cui ora aveva
terrore ma sgusciò a capo chino
fin presso il tavolo su cui c'era la
bottiglia di vino del dottore. E ne
bevve un'altra sorsata. Subito si
sentì di nuovo in forze, guardò il
quadro e lo vide perfettamente
finito. Non il viso di santa Rosalia,
ma l'amata immagine di Venere gli
sorrideva dalla tela lanciandogli
occhiate lascive. Francesco fu
colto all'istante da un selvaggio,
furibondo accesso di bramosia.
Ricordò la leggenda dello scultore
pagano Pigmalione e, come lui,
supplicò Venere, urlando, di
insufflare la vita nel suo dipinto.
Gli parve, infatti, che la figura
muovesse ma quando si slanciò
per stringerla fra le braccia toccò
soltanto la tela inanimata. Allora
si scompigliò i capelli e prese a
smaniare come un indemoniato.
Dopo due giorni e due notti di
insanie, mentre stava rigido come
una statua davanti al quadro, udì
aprirsi la porta alle sue spalle e
quindi avvicinarsi un fruscio
d'abiti femminili. Si volse e vide
una donna in cui subito riconobbe
l'originale del quadro. Sì: la figura
elaborata mentalmente sul ricordo
d'una statua di marmo gli stava
dinnanzi viva, bella d'una bellezza
inimmaginabile.
Per
poco
Francesco non perse di nuovo i
sensi: gettò un'occhiata al quadro
e
vi
scorse,
rabbrividendo,
l'immagine
fedele
della
sconosciuta, come riflessa in uno
specchio. Gli accadde ciò che
accadrebbe a chiunque vedesse
apparire un fantasma: la lingua gli
si inceppò, le ginocchia gli si
fletterono. Cadendo in ginocchio
davanti alla sconosciuta, levò le
mani in atto di adorazione. La
donna lo risollevò sorridendo. Gli
disse di averlo già visto molte
volte, fin dai tempi in cui egli
ancora lavorava alla scuola di
Leonardo da Vinci, e di essere
stata presa, benché ancora quasi
bambina, d'un indicibile amore
per lui. Aveva abbandonato
genitori e parenti per venirsene
sola a Roma e ritrovarlo; perché
una voce interiore le diceva che
egli la amava, e l'aveva dipinta per
il gran desiderio di vederla. Ora
constatava che era tutto vero!
Francesco
comprese:
una
misteriosa affinità spirituale lo
legava a quella sconosciuta; il folle
amore per lei, il quadro stupendo
ne erano le conseguenze.
Abbracciò appassionatamente
la donna e volle subito condurla in
chiesa affinché il sacerdote li
unisse per sempre nel santo
sacramento del matrimonio. La
donna parve inorridire alla
proposta: - Francesco, amor mio! esclamò. - Tu, un valente artista,
vorresti lasciarti legare dai vincoli
della chiesa cristiana?... Non ti sei
dato corpo ed anima al sano, al
gioioso paganesimo e ai suoi dei,
amici della vita?... Cos'hanno a che
vedere con la nostra unione gli
squallidi preti che sprecano la vita
in lamenti senza speranza fra le
tetre
mura
dei
chiostri?...
Celebriamo nella luce, nella gioia,
la festa del nostro amore!
Le
parole
della
donna
convinsero Francesco. E così, la
sera stessa egli festeggiò la sua
unione con la sconosciuta all'uso
pagano, insieme
ai giovani
dissoluti, impenitenti che gli si
dicevano amici. La donna aveva
portato con sé uno scrigno pieno
di gioielli e monete, e ciò permise
a Francesco di vivere a lungo con
lei abbandonandosi a piaceri
colpevoli e rinunziando alla
propria arte. Un giorno la sua
compagna si sentì incinta; ma
anche così era bella, d'una bellezza
sempre più fiorente, luminosa,
stupenda; e sempre più simile alla
statua di Venere richiamata in
vita. Francesco quasi non reggeva
più agli eccessivi piaceri di quella
vita voluttuosa. Una notte fu
svegliato da un gemito sordo,
angoscioso;
balzò
in
piedi
spaventato, prese un lume e
accorse: la sua donna gli aveva
partorito un maschietto. I servitori
dovettero correre in tutta fretta a
chiamare la levatrice ed il medico.
Mentre Francesco raccoglieva il
bimbo dal grembo della madre,
questa lanciò un urlo terrificante e
si contrasse tutta come sotto la
stretta d'una mano mostruosa.
Giunsero la levatrice e la sua
aiutante, seguite dal dottore,
fecero per portare aiuto alla
puerpera ma balzarono indietro
inorridite: la donna era già rigida
nella morte, il collo, il petto
deturpati da ripugnanti macchie
azzurre, il bel viso giovanile
rattrappito e distorto in una
maschera rugosa - gli occhi vitrei,
sbarrati. Alle grida delle due
donne accorsero i vicini. Già da
tempo si mormoravano le cose più
strane sul conto della forestiera; la
vita dissoluta che conduceva con
Francesco aveva dato scandalo a
tutti; già qualcuno parlava di
denunziare quell'unione colpevole
all'autorità ecclesiastica. Ora,
vedendo il cadavere sfigurato, tutti
ebbero la certezza che la donna
fosse vissuta in lega col demonio,
e questi ora se la fosse ripresa. La
gente accorsa fuggì spaventata,
nessuno volle toccare la morta.
Francesco
finalmente
comprese con chi avesse avuto a
che fare e uno sgomento terribile
lo invase: rivide tutti i propri
misfatti e la punizione di Dio
incominciò a colpirlo quaggiù, su
questa terra, perché le fiamme
dell'inferno divamparono in lui. Il
giorno dopo, un delegato del
tribunale ecclesiastico venne con
gli sbirri per arrestarlo; ma
Francesco, ritrovati il coraggio e la
fierezza d'un tempo, mise mano
alla spada, si fece largo e fuggì.
A un buon tratto di strada oltre
Roma, trovò una grotta e vi si
nascose sfinito. Senza quasi
rendersene conto, fuggendo aveva
avvolto nel mantello e portato con
sé il neonato. Ora lo vide, ripensò
alla diabolica donna che lo aveva
generato, e in impeto di rabbia
selvaggia lo sollevò per sfracellarlo
contro le rocce. Ma il lamentoso
vagito
della
creaturina
lo
impietosì; depose il bimbo su un
morbido giaciglio di musco, gli
stillò in bocca alcune gocce
d'un'arancia che portava con sé.
Trascorse
così
parecchie
settimane in quella grotta, come
un
eremita
in
penitenza,
rinnegando la vita di peccato e
pregando con fervore i santi del
paradiso - soprattutto santa
Rosalia - così gravemente offesa di intercedere per lui presso il
trono del Signore.
Una sera, mentre pregava in
ginocchio nel bosco, osservò il
sole che si immergeva nelle onde
infocate del mare occidentale, e
quando l'incendio incominciò a
sbiadire nel grigiore delle nebbie
serali, vide, lassù
nell'aria,
tremolare un alone di luce rosata
e, poco a poco, prendere una
forma precisa: inginocchiata sopra
una nube e circondata da angeli,
santa Rosalia pregava; da un
mormorio
dolce,
confuso,
uscirono udibili le parole: Signore, perdona a colui che, per
umana debolezza, non seppe
resistere alle lusinghe di Satana!
Subito il roseo alone fu
squassato dalle folgori e un cupo
brontolio di tuono percosse le
nubi: - Quale altro peccatore si è
reso colpevole come costui?... Non
troverà grazia da vivo né pace
nella tomba fintantoché il ceppo
generato
dal
suo
delitto
continuerà
a
crescere
e
moltiplicarsi nel peccato! Francesco si prosternò nella
polvere: la condanna era stata
pronunziata
e
un
destino
implacabile lo avrebbe mandato
ramingo e privo di conforto pel
mondo.
Senza pensare al bimbo nella
grotta fuggì e, non potendo
dipingere, visse nella più squallida
miseria. Alle volte gli pareva di
dover dipingere quadri stupendi in
gloria della religione cristiana, ed
elaborava
mentalmente
composizioni
grandiose
per
disegno e colore: le storie della
Vergine, di santa Rosalia... Ma
come avrebbe potuto creare simili
opere senza possedere uno scudo
con cui acquistare tele e colori,
vivendo miseramente delle magre
elemosine racimolate alle porte
delle chiese?...
Un giorno, mentre dipingeva
col pensiero fissando la parete
nuda di una chiesa, fu avvicinato
da due donne velate, una delle
quali gli disse con soave voce
d'angelo: - Nella lontana Prussia è
stata eretta una chiesa in onore
della Vergine Maria, nel luogo in
cui gli angeli del Signore deposero
l'immagine di Lei su un albero di
tiglio. La chiesa manca ancora
d'ogni
decorazione
pittorica.
Recati colà, pratica l'arte tua in
religioso raccoglimento e troverai
celeste
conforto
all'animo
straziato -. Francesco levò lo
sguardo sulle donne e le vide
svanire in un tenero bagliore di
raggi rosati. Un intenso profumo
di rose e gigli riempì la chiesa.
Francesco comprese chi fossero
quelle due donne, e decise di
mettersi in viaggio la mattina
seguente. Ma la sera stessa un
servitore di Zenobio, rintracciatolo
dopo lunghe e laboriose ricerche,
gli consegnò la pensione di due
anni e lo invitò alla corte del suo
signore. - Francesco tenne per sé
soltanto una minima parte della
somma, divise il resto fra i poveri
e si mise in cammino verso la
lontana Prussia. La sua strada
passava per Roma, sicché, nei
pressi della città, egli giunse al
convento di cappuccini per cui
aveva dipinto santa Rosalia. Rivide
il quadro incastrato nell'altare;
ma, osservandolo meglio, si
accorse che era soltanto una copia.
I monaci - com'egli apprese in
seguito - non avevano conservato
l'originale a motivo delle voci
inquietanti corse sul conto del
pittore; avuto il quadro, lasciato
indietro da lui fuggendo, e fattane
fare una copia, lo avevano venduto
al convento cappuccino di B..
Dopo
lungo
e
faticoso
peregrinare, Francesco giunse al
convento del Sacro Tiglio, nella
Prussia orientale; e fece ciò che la
santa Vergine stessa gli aveva
ordinato di fare. Decorò la chiesa
in modo stupendo; e dipingendo si
rese conto che lo spirito della
Grazia incominciava ad agire in
lui. Allora nell'animo suo scese il
conforto del cielo.
Ora avvenne che il conte
Filippo S., trovandosi a cacciare in
una località remota e selvaggia,
venisse sorpreso da un furioso
temporale. Il vento ululava fra i
crepacci, la pioggia cadeva a
rovesci; pareva si fosse scatenato
un nuovo diluvio a travolgere
uomini e animali.
Il conte trovò finalmente una
grotta e vi si mise in salvo,
trascinandovi dentro a fatica
anche il cavallo. La nuvolaglia
nera si era stesa su tutto
l'orizzonte perciò, specialmente
nella spelonca, faceva così scuro
che il conte, sulle prime, non
riuscì a vedere né distinguere
nulla. Udendo poi un lieve rumore
frusciante lì da presso, temette di
essere capitato dentro la tana
d'una fiera e sguainò la spada,
pronto a difendersi. Ma, passato il
temporale, quando i raggi del sole
entrarono nella caverna, vide con
stupore, disteso su un giaciglio di
foglie, un bambinello nudo che lo
guardava con due limpidi occhietti
scintillanti. Posato lì accanto, c'era
un calice d'avorio con dentro
ancora alcune gocce di vino
fortemente aromatico. Il bimbo le
succhiò avidamente.
Il conte diede fiato al corno e
poco a poco la gente del seguito,
sparpagliatasi qua e là, in cerca di
riparo, si radunò intorno a lui. Chi
aveva deposto il bimbo nella
grotta forse sarebbe ritornato a
prenderlo; perciò Filippo ordinò di
attendere. Ma quando incominciò
ad imbrunire disse: - Non posso
lasciare
qui
questo
bimbo
indifeso. Lo prenderò con me e lo
farò sapere dappertutto, di modo
che i genitori, o chi altri lo abbia
lasciato qui dentro, possano venire
a riprenderselo. E così fu fatto.
Ma passarono settimane, mesi,
anni senza che alcuno si facesse
vivo.
Il conte fece battezzare il
trovatello imponendogli il nome di
Francesco. Il fanciullo crebbe,
divenne
un
giovane
straordinariamente
bello
e
intelligente, tanto che, a motivo
delle sue doti eccezionali, il conte,
non avendo altra prole, prese a
benvolerlo come un figlio e decise
di lasciargli l'intero patrimonio.
Francesco aveva già venticinqe
anni quando il conte fu preso da
un amore insensato per una
fanciulla ancor quasi adolescente,
povera ma bellissima; e, pur
essendo già molto avanti negli
anni, la sposò.
Francesco non tardò a nutrire
un desiderio colpevole per la
giovane contessa e, malgrado ella
fosse buona, virtuosa e non
volesse rompere la fede giurata,
dopo lunga lotta egli con arti
diaboliche riuscì a irretirla e
piegarla alle
proprie
voglie
peccaminose, ripagando così con
la più nera ingratitudine e col
tradimento il proprio benefattore.
I due bimbi - Pietro e Angiola - che
il vecchio Filippo si strinse al
cuore
traboccante
di
amor
paterno, erano i frutti dell'unione
colpevole destinata a rimanere
nascosta agli occhi suoi e del
mondo.
Per suggerimento d'una voce
interiore andai da mio fratello
Zenobio e gli dissi: - Ho rinunziato
al trono; e, anche se tu dovessi
morire prima di me senza figli,
voglio rimanere un povero pittore
e dedicare la vita all'arte in
silenzioso raccoglimento. Ma il
nostro piccolo stato non deve
cadere in mano di potenze
straniere. Quel Francesco, allevato
dal conte Filippo S., è mio figlio.
Fui io, durante la mia disperata
fuga, ad abbandonarlo nella
caverna in cui lo trovò il conte.
Sulla coppa d'avorio rinvenuta
presso il bambino è incisa l'arma
della nostra famiglia; ma ancor
più di questo ti garantisce da ogni
possibilità d'errore l'aspetto del
ragazzo,
inequivocabilmente
caratteristico della nostra famiglia.
- Zenobio, fratello
mio,
accoglilo dunque come un figlio e
fanne il tuo successore!
Mi adoprai affinché il papa
sancisse un atto di adozione e ciò
dissipò i dubbi di Zenobio circa la
possibile nascita del giovane da
un'unione illegittima. E così mio
figlio
pose
fine
alla
sua
riprovevole vita nell'adulterio, si
sposò regolarmente ed ebbe un
figlio legittimo che fu chiamato
Paolo Francesco. Ecco: il seme
colpevole s'era moltiplicato nella
colpa!... Ma non potrà mio figlio
espiare
il
proprio
misfatto
pentendosi?...
Io potei pormi dinnanzi a lui
come il tribunale del Signore
perché leggevo chiaramente nella
sua coscienza. Ciò che il mondo
ignorava me lo rivelò lo spirito,
quello spirito che ogni giorno si fa
più potente in me e mi solleva
sopra le onde tumultuose della
vita permettendomi di guardare
nel fondo del baratro senza
precipitarvi.
L'allontanamento di Francesco
significò la morte per la contessa
S., perché soltanto allora essa
prese piena consapevolezza della
colpa commessa e non riuscì a
sopravvivere alla lotta fra l'amore
per il colpevole e il rimorso per la
propria azione. Il conte Filippo
giunse all'età di novant'anni e
morì rimbambito. Il giovane
Pietro, creduto suo figlio, si recò
con la sorella Angiola alla corte del
successore di Zenobio, Francesco.
Feste sontuose celebrarono il
fidanzamento di Paolo Francesco
con la principessa Vittoria von M..
- Ma quando Pietro vide la sposa,
fulgida di bellezza, se ne innamorò
perdutamente e, incurante d'ogni
pericolo, cercò di conquistarne i
favori. La sua manovra sfuggì
tuttavia all'attenzione di Paolo
Francesco, essendosi egli stesso
perdutamente innamorato della
sorella di lui, Angiola, la quale lo
respingeva con freddezza. Vittoria
lasciò la corte col pretesto di
dover,
prima
delle
nozze,
adempiere a un sacro voto in
silenziosa solitudine. Ritornò
soltanto
un
anno
dopo,
nell'imminenza del matrimonio,
celebrato il quale il conte Pietro
sarebbe ritornato nella propria
città con la sorella Angiola... Le
ferme, ostinate ripulse di costei
avevano addirittura esasperato
l'amore di Paolo Francesco,
rendendolo simile alla brama
famelica d'una bestia selvaggia. Lo
sciagurato si teneva a freno
unicamente
nella
speranza
dell'appagamento; e per giungere a
tanto ordì il più infame dei
tradimenti. Fatta somministrare
durante il pranzo nuziale una
bevanda oppiata ad Angiola, la
sorprese nel sonno, prima che si
recasse nell'alcova, ed abusò di lei;
ma poi, quando la fanciulla in
seguito all'infame oltraggio andò
in punto di morte, tormentato dal
rimorso confessò il proprio
misfatto. Nel primo impeto di
collera Pietro avrebbe voluto
trucidare il traditore; ma ricordò
d'essersi già vendicato in ben altro
modo, e il braccio gli ricadde
inerte. La piccola Giacinta di B., da
tutti creduta figlia della sorella di
Vittoria, era nata in realtà da un
segreto rapporto fra Pietro e la
sposa di Paolo Francesco.
Pietro si recò in Germania con
Angiola, dove essa mise al mondo
un figlio che venne chiamato
Franz e fatto educare con ogni
cura. L'innocente Angiola si
consolò infine dell'onta subita e
rifiorì. Vedendola così piena di
grazia e di bellezza, il principe
Teodoro von W. se ne innamorò
perdutamente e fu da lei
ricambiato con altrettanto amore.
Poco dopo i due si sposarono e
contemporaneamente il conte
Pietro sposò una fanciulla tedesca
da cui ebbe una figlia. Angiola,
invece, al principe von W. generò
un figlio. Ora la buona creatura
avrebbe ben potuto sentirsi a
posto con la coscienza, eppure,
quando le ritornava alla mente
come un brutto sogno l'odioso
misfatto di Paolo Francesco,
cadeva
in
uno
stato
di
prostrazione, parendole che la
colpa, benché inconsciamente
commessa, fosse meritevole di
castigo e dovesse ricadere su di lei
o sulla sua discendenza. Non bastò
a tranquillizzarla neppure la piena
assoluzione
ricevuta
dal
confessore. Dopo lungo tormento,
come un'ispirazione del cielo, le
venne alfine l'idea di dover
rivelare ogni cosa al marito. Pur
rendendosi conto di quanto le
sarebbe costato affrontare quel
difficile
passo,
si
impegnò
solennemente con se stessa ad
osarlo. E mantenne l'impegno.
Nell'apprendere l'azione infame
commessa da Paolo Francesco, il
principe Teodoro inorridì; e ne
rimase così scosso che quasi non
si trattenne dal riversare il proprio
furore
anche
sulla
moglie
innocente. Per tale motivo essa
andò a trascorrere alcuni mesi in
un lontano castello. Durante quel
periodo il principe seppe vincere la
propria amarezza; e non soltanto
si riconciliò con la moglie ma,
all'insaputa di lei, volle perfino
provvedere
all'educazione
di
Franz. Nessuno fra i discendenti
del pittore divenne, crescendo,
così rassomigliante per mentalità
e aspetto fisico al trovatello
Francesco allevato dal conte
Filippo, come questo Franz; un
giovane meraviglioso, animato da
idealità superiori, focoso e pronto
nel pensiero come nell'azione.
Possa la colpa del padre,
dell'antenato, non ricadere su di
lui, e possa egli resistere sempre ai
perfidi allettamenti di Satana!
Prima che il principe Teodoro
morisse, i suoi due figli,
Alessandro e Giovanni partirono
per la bella terra d'Italia; ma giunti
a Roma si separarono a causa, non
tanto d'un esplicito disaccordo,
quanto d'una sostanziale diversità
di
inclinazioni
e
tendenze.
Alessandro, giunto alla corte di
Paolo Francesco, s'innamorò della
figlia più giovane di lui e di
Vittoria e decise di sposarla. Ma il
principe Teodoro si mostrò
recisamente
avverso
a
quell'unione, quasi la avesse in
orrore; Alessandro non riuscì a
darsi ragione di tale atteggiamento
e soltanto dopo la morte del padre
poté sposare la figlia di Paolo
Francesco.
Frattanto
il
marchese
Giovanni, durante il viaggio di
ritorno, aveva conosciuto Franz e
simpatizzato talmente con lui (pur
senza
sospettare
d'essergli
fratello!) da non volersene più
separare; e unicamente per questo
motivo, invece di rientrare alla
residenza del fratello, ritornava in
Italia.
Gli imperscrutabili disegni del
destino vollero che i due giovani Franz e Giovanni - vedessero
Giacinta, la figlia di Vittoria e di
Pietro, e se ne innamorassero
pazzamente entrambi. Chi può
opporsi alle tenebrose potenze?...
Sì, i peccati e le colpe della mia
giovinezza furono certamente
orrendi.
Ma
grazie
all'intercessione
della
beata
Vergine e di santa Rosalia mi
salvai dalla dannazione eterna,
essendomi stato concesso di
soffrire quaggiù, su questa terra,
le pene dell'inferno fino a che il
ceppo maledetto non si dissecchi
ed isterilisca. Il peso della materia
mi opprime, soffocando le forze
spirituali. Vorrei spingere lo
sguardo nel fosco futuro ma gli
ingannevoli, variopinti splendori
della vita mi abbagliano, e il mio
povero occhio miope si confonde
in un gioco di immagini
evanescenti, senza riuscire ad
afferrarne la reale conformazione
interiore. Spesso intravedo i fili
intessuti dalla potenza tenebrosa
per contrastare alla salvezza
dell'anima mia - e credo - povero
stolto! - di poterli afferrare,
strappare... Invece devo portare
pazienza, sopportare con fede e
pietà, in continuo stato di
penitenza e di rimorso, il martirio
impostomi ad espiazione dei miei
peccati.
Sì, sono riuscito ad allontanare
il marchese Giovanni e Franz da
Giacinta; ma Satana, vigile e
attivo, instancabilmente si adopra
per sospingere Franz verso
l'inevitabile rovina.
I due giovani, Franz e
Giovanni, giunsero nel luogo in
cui risiedeva il conte Pietro con la
moglie e la figlia Aurelia, appena
quindicenne. E, come già lo
scellerato Paolo Francesco si era
acceso di concupiscenza bestiale
vedendo Angiola, così nel figlio di
lui divampò il fuoco dei desideri
proibiti quando egli vide Aurelia,
la soave fanciulla; ed usando ogni
diabolica arte di seduzione Franz
riuscì a circonvenirla. La candida
giovinetta, appena adolescente, gli
si diede con tutta l'anima, e cadde
nel peccato prima ancora d'aver
acquisito nozione del male.
Quando non fu più possibile
celare le conseguenze del misfatto,
Franz si gettò disperato ai piedi
della madre di Aurelia, e confessò
tutto. Il conte Pietro, pur
essendosi macchiato dello stesso
delitto, avrebbe certamente ucciso
sia Aurelia che il suo seduttore. La
moglie fece sentire a Franz tutto il
peso
della
propria
collera
scacciandolo per sempre dagli
occhi suoi e della figlia con la
minaccia di rivelare ogni cosa al
conte Pietro e, prima che questi si
accorgesse
dell'accaduto,
allontanò Aurelia la quale mise
poi al mondo una figlioletta in un
rifugio sicuro. Ma Franz non
seppe rinunziare ad Aurelia, riuscì
a scoprire dove si era nascosta ed
irruppe nella camera di lei mentre
la contessa, allontanati i servitori,
sedeva accanto al letto della figlia,
con in grembo la piccina di appena
otto giorni. Vedendo comparire
all'improvviso il ribaldo, la
contessa balzò in piedi sgomenta e
inorridita: - Fuori di qui! - esclamò
respingendolo verso la porta e
cercando di intimorirlo. - Vattene
o sei perduto! Il conte Pietro sa ciò
che hai fatto, scellerato! - Allora
Franz, accecato da un furore
selvaggio, diabolico, strappatale
dalle braccia la creaturina, vibrò
un pugno nel petto alla donna
facendola cadere riversa e fuggì.
Aurelia svenne. Quando riprese i
sensi sua madre non era più in
vita perché nella caduta aveva
battuto la testa contro una cassa
laminata di ferro, uccidendosi.
Franz, deciso a sopprimere la
creaturina, l'avvolse strettamente
nei suoi pannolini e scese la scala
di corsa, al buio, essendo già sera
inoltrata. Stava per lasciare la casa
quando udì un pianto soffocato
proveniente, gli parve, da una
camera
a
piano
terreno.
Istintivamente si fermò in ascolto,
poi si avvicinò a quella camera;
nello stesso istante ne uscì una
donna in lacrime: era la bambinaia
della baronessa S.nella cui casa
egli abitava. Franz le domandò
perché si disperasse così: - Ah,
signore, - rispose la donna, - sono
rovinata!... Ancora pochi minuti fa
la piccola Eufemia rideva e giocava
tutta felice sul mio grembo... e
tutt'a un tratto ha reclinato la
testolina ed è morta... Le sono
usciti certi brutti lividi azzurri
sulla fronte... Daranno la colpa a
me... Diranno che l'ho lasciata
cadere!... Franz entrò in fretta,
vide la bimba morta e comprese: il
destino voleva che la sua creatura
vivesse... Le due piccine si
rassomigliavano come due gocce
d'acqua!... - La governante, forse
non così irresponsabile del tragico
accaduto come voleva far credere,
si
prestò
alla
sostituzione,
invogliata anche da un cospicuo
dono di Franz. Questi avvolse la
morticina in un telo e la gettò nel
fiume.
Così la bimba di Aurelia venne
cresciuta
come
figlia
della
baronessa von S., sotto il nome di
Eufemia. Le sue vere origini
rimasero
nascoste
a
tutti.
L'infelice non venne accolta in
seno alla Chiesa mediante il
sacramento del battesimo perché
la bimba alla cui morte essa
doveva la vita era già stata
battezzata.
Parecchi anni dopo, Aurelia
andò in moglie al barone von F..
Due figli, Ermogene ed Aurelia,
furono il frutto della loro unione.
Quando il marchese decise di
recarsi con Francesco (com'egli
chiamava Franz, alla maniera
italiana), nella città residenziale
del
principe
suo
fratello,
l'Onnipotente
mi
concesse
d'incontrarli ed unirmi a loro.
Avrei voluto trattenere, con
energica mano, il giovane Franz
già vacillante sull'orlo del baratro
spalancato... Folle impresa per un
debole peccatore non ancora
rientrato nella grazia di Dio!
Francesco, dopo aver così
obbrobriosamente abusato di
Giacinta, ne trucidò il fratello. Suo
figlio fu lo sventurato fanciullo
fatto allevare dal principe sotto il
nome di conte Vittorino. E lui,
Francesco, il fratricida, avrebbe
voluto sposare la buona e pia
sorella della principessa; ma io
riuscii ad impedire tale sacrilegio
nell'istante stesso in cui stava per
venir
perpetrato,
ai
piedi
dell'altare.
Tormentato dal pensiero d'una
colpa non estinguibile, Franz
fuggì. E per indurlo al pentimento
fu ben necessaria la disperata
miseria in cui cadde. Prostrato
dall'afflizione e dalla malattia,
incontrò, nel corso della fuga, un
conterraneo che gli offerse
cordiale ospitalità. La figlia di
costui, una mite e buona fanciulla,
fu presa d'uno straordinario
amore per il forestiero e si prodigò
nel curarlo. Quando Francesco
guarì ricambiò l'amore della
fanciulla e si unì con lei nel santo
sacramento
del
matrimonio.
Grazie
alle
proprie
doti
d'intelligenza e cultura riuscì a
farsi strada, ad accrescere la già
cospicua eredità paterna ed a
godere d'un notevole benessere
materiale. Ma vana e malcerta è la
fortuna
del
peccatore
non
riconciliato con Dio. Franz ricadde
nella più nera miseria, in una
miseria veramente totale perché
anche le sue energie intellettuali e
fisiche andavano declinando ed
egli si sentiva ormai ridotto ad un
invalido. La sua vita divenne una
continua penitenza. Finalmente il
cielo gli mandò un raggio di
conforto: avrebbe dovuto recarsi
in pellegrinaggio al Sacro Tiglio e
là il ritorno alla grazia del Signore
gli sarebbe stata annunziata dalla
nascita di un bimbo.
Nel bosco circostante il
convento
del
Sacro
Tiglio,
avvicinai la povera madre in
pianto sulla creaturina priva di
padre e le dissi parole di conforto.
Prodigiosa si manifesta la
grazia del Signore nel fanciullo
nato nell'aura benedetta del
santuario
della
beatissima
Vergine!... Spesso il Bambino
Gesù gli si è reso visibile e lo ha
avvicinato
per
accendere
precocemente la scintilla d'amore
nell'animo suo infantile.
La madre, presentandolo al
santo battesimo, gli ha imposto il
nome del padre - Franz!
Sarai tu, Francesco, il fanciullo
nato nel luogo sacro, a riscattare
con una vita di pietà le colpe dei
padri e a dar loro pace nella
tomba?... Il fanciullo dovrà
crescere lontano dal mondo e dalle
sue
seduzioni, per volgersi
unicamente alle cose del cielo.
Diventerà un religioso. Questo ha
profetizzato il santo uomo alla
madre, colmando l'animo mio di
sovrumano conforto. Credo sia
stata questa profezia di grazia e
conferirmi il prodigioso dono della
chiaroveggenza, per cui mi par di
scorgere con gli occhi dello spirito
il quadro vivente dei tempi a
venire. Vedo il giovane impegnato
in una lotta mortale contro la
tenebrosa potenza che lo assale
con terribili armi! Cade! Ma una
donna divina gli pone sul capo il
serto del vincitore. È santa
Rosalia! Sarà lei a salvarlo.
Dovunque mi sarà concesso
dall'Onnipotente sarò al suo
fianco, a fianco del fanciullo, del
giovinetto,
dell'uomo,
per
proteggerlo con tutte le mie forze.
Sarà come...
Nota del redattore.
A questo
punto, lettore
benevolo, lo scritto già mezzo
sbiadito del vecchio pittore
diventa talmente illeggibile da
render
vano
ogni
ulteriore
tentativo di decifrazione.
Ritorniamo
quindi
al
manoscritto
del
singolare
cappuccino Medardo.
Capitolo terzo - Il ritorno in
convento
Le cose erano giunte a tal punto
che, ovunque mi mostrassi, per le
vie di Roma alcuni fra i passanti si
fermavano reclinando umilmente
il capo ad implorare la mia
benedizione. Probabilmente quel
mio persistere nei severi esercizi
di penitenza aveva suscitato
scalpore; ma sta di fatto che uno
straniero, un bizzarro personaggio
come me, doveva prima o poi
diventare leggendario nella fervida
fantasia dei romani. E questi
forse, a mia insaputa, avevano già
fatto di me l'eroe di qualche pia
favoletta.
Spesso un coro di mormorii e
di timidi sospiri mi distoglieva
dalle profonde contemplazioni in
cui ero immerso, sugli scalini
dell'altare. Alzavo lo sguardo e mi
vedevo circondato da fedeli in
ginocchio
che
sembravano
implorare la mia intercessione.
Come già in quel tale convento di
cappuccini, mi avveniva di sentire
esclamare alle mie spalle: - Il
santo!... - e ciò mi causava
dolorose fitte al cuore. Decisi di
andarmene
da
Roma;
ma
immaginate come rimasi atterrito
quando il priore del convento di
cui ero ospite mi annunziò che il
papa mi aveva mandato a
chiamare. Fui colto da neri
presentimenti: la potenza malefica
voleva forse di nuovo irretirmi in
un viluppo di situazioni rovinose.
Ma mi feci animo e, all'ora
stabilita, andai in Vaticano.
Il papa, un uomo prestante,
ancor nell'età del pieno vigore, mi
ricevette assiso su un tronetto
riccamente
intarsiato.
Due
bellissimi fanciulli vestiti da
chierichetti gli porgevano bevande
ghiacciate e arieggiavano la sala
con flabelli di airone per
mantenerla fresca, essendo la
giornata torrida. Mi avvicinai
umilmente,
feci
le
rituali
genuflessioni. Il papa mi scrutò
con occhio penetrante ma non
privo d'una certa espressione di
benevolenza. Di lontano m'era
parso severo, accigliato, ma ora lo
vidi illuminarsi tutto in un mite
sorriso. Mi domandò donde
venissi, che cosa mi avesse
condotto a Roma, mi fece,
insomma, le solite domande circa
la mia situazione personale. Poi si
alzò in piedi e disse: - Vi abbiamo
fatto chiamare per aver sentito
parlare della vostra rara pietà.
Perché, frate Medardo, pratichi i
tuoi esercizi di devozione in
pubblico,
nelle
chiese
più
frequentate? Se lo fai per
sembrare un santo e venir
venerato dal popolino fanatico,
esamina bene la tua coscienza esamina la natura del pensiero che
ti induce ad agire così. Se non sei
puro dinnanzi al Signore ed a Noi,
suo vicario, farai ben presto una
fine ignominiosa, frate Medardo! Il papa pronunziò queste parole
con voce forte e vibrata. I suoi
occhi sprizzavano saette.
Per la prima volta dopo tanto
tempo, sentii di non essere
colpevole del peccato di cui mi si
accusava; perciò, non soltanto non
mi scomposi, ma, certo d'essere
stato spinto alla penitenza da uno
spirito d'autentica contrizione,
riuscii a parlare come un ispirato:
- Beatissimo padre, - dissi. - A
voi, vicario di Dio, è certamente
stata concessa la facoltà di
leggermi nella coscienza. Saprete
dunque quanto mi opprima
l'immane peso dei miei peccati - e
conoscerete pure la sincerità del
mio pentimento. Lungi da me il
pensiero di ipocrite finzioni - lungi
da
me
qualsiasi
ambizioso
proposito
d'ingannare
indegnamente
il
popolo.
Concedete, beatissimo padre, a un
povero monaco penitente, di
rivelarvi in brevi parole i propri
delittuosi trascorsi, e di dirvi
anche quanto stia ora facendo
nella contrizione e nel rimorso -.
Dopo questo esordio, gli narrai più
succintamente possibile - e senza
far nomi - l'intera mia vita.
Il papa si fece attentissimo.
Dapprima rimase seduto, la testa
appoggiata sulla mano, lo sguardo
a terra; e poi si alzò di scatto,
incrociò le braccia e spinse avanti
il piede destro, sempre fissandomi
con occhi sfavillanti, come per
venirmi incontro. Quand'ebbi
finito tornò a sedersi.
- La vostra storia, frate Medardo, - disse, - è la più straordinaria
ch'io abbia mai udito. Credete voi
all'azione esplicita, visibile d'una
potenza malefica - quella che la
Chiesa chiama «Demonio»?... Feci per rispondere, ma egli
continuò: - Credete che il vino da
voi sottratto al reliquiario e poi
bevuto vi abbia indotto a
commettere tutti quei delitti?...
- Ha rafforzato - come
un'acqua intossicata da esalazioni
venefiche - il germe del male
riposto in me, aiutandolo a
germogliare, a moltiplicarsi...
Il papa tacque per un attimo,
poi riprese con espressione grave e
raccolta: - E che ne direste se la
natura seguisse anche nel campo
spirituale le leggi dell'organismo
fisico? Se cioè anche qui un
germe, un seme, potessero
riprodurre
soltanto
germi
identici?... Se, come la forza
racchiusa nel seme ritorna a tinger
di verde le foglie dell'albero nato
dal seme stesso, così pure la
volontà,
le
tendenze
si
trasmettessero di padre in figlio,
sopprimendo
ogni
arbitrio?...
Esistono intere
famiglie
di
assassini, di briganti!... Ecco,
questo sarebbe il vero «peccato
originale», l'eterna maledizione
non estinguibile mediante alcuna
offerta sacrificale, gravante su una
stirpe colpevole!
- Ma se dunque chi è nato da
un peccatore, - lo interruppi io, -
dovesse necessariamente ricadere
nel peccato a motivo dei caratteri
ereditari, allora non esisterebbe
più colpa alcuna.
- E invece non è così, - disse il
papa. - L'Eterno spirito ha creato
un gigante, capace di domare e
incatenare la cieca bestia che
infuria dentro di noi. Questo
gigante si chiama «Coscienza», e
dalla sua lotta contro la Bestia
scaturisce la spontaneità. La
vittoria del gigante è la Virtù;
quella della bestia - il Peccato.
Il papa tacque per qualche
istante, poi il suo sguardo si
schiarì: - Frate Medardo, - disse
quasi con dolcezza, - credete si
addica al vicario di Dio sofisticare
con voi sulla Virtù e sul Peccato?...
- Santissimo padre, - risposi. Giacché avete giudicato degno
questo vostro umile servo di
conoscere la vostra profonda
concezione dell'umana esistenza,
non disdegnate di parlargli anche
della lotta da voi combattuta e
gloriosamente vinta, da ormai
lungo tempo.
- Tu hai una buona opinione di
me, frate Medardo, - sospirò il
papa. - O non credi piuttosto che
la tiara mi sia stata posta sul capo
come il serto d'alloro dell'Eroe, del
Vincitore, affinché il mondo mi
riconosca tale?...
- Essere re, regnare su un
popolo è certamente una grande
cosa, - risposi. - A chi è situato così
in alto, nella vita, tutte le cose
circostanti devono apparire più
raggruppate, più commensurabili
sotto ogni aspetto. E la situazione
elevata deve pure sviluppare la
prodigiosa facoltà della visione
panoramica, facoltà conferita,
come una sorta di superiore
consacrazione, ai principi di
sangue.
- Intendi dire, - mi interruppe
il papa, - che neppure i principi
deboli d'intelletto e di volontà
sono del tutto privi d'una certa
sagacia, che viene scambiata per
saggezza e riesce ad imporsi al
rispetto delle masse?... Ma questo
che cosa c'entra?...
- Intendevo parlare della
consacrazione dei principi «di
questo mondo», - ripresi. - Ma poi
anche della sacra, divina unzione
del vicario di Dio. Lo Spirito Santo
misteriosamente illumina gli alti
sacerdoti rinchiusi nel Conclave.
Raccolti in pie meditazioni
nell'isolamento delle loro celle, lo
spirito anelante alla rivelazione,
essi vengono illuminati da un
raggio celeste. Allora, come un
inno di lode all'Onnipotente, dalle
loro labbra prorompe un nome. Il
disegno dell'Eterno, la scelta del
suo degno vicario in terra,
vengono soltanto annunziati in
linguaggio umano. Ecco perché,
beatissimo padre, la vostra corona,
il cui triplice serto simboleggia il
mistero del Signore Iddio, vostro e
del mondo, è effettivamente
l'alloro che designa in voi l'Eroe, il
Vincitore. Il vostro regno non è di
questa terra, ma voi siete
chiamato a regnare su tutti i regni
della terra, raccogliendo i membri
della Chiesa Invisibile sotto il
vessillo del Signore! Il regno
terrestre a voi riservato è
unicamente il vostro trono
rigoglioso
di
paradisiaco
splendore.
- Secondo te, dunque, - mi
interruppe il papa, - io avrei
motivo d'essere soddisfatto del
trono assegnatomi. Infatti, la mia
Roma è rigogliosa di paradisiaco
splendore; te ne sarai reso conto
anche tu, frate Medardo, se i tuoi
occhi non sono completamente
chiusi alle cose di questo mondo...
Tuttavia, non credo sia così... Tu
sei un buon parlatore e mi hai
detto
cose
profondamente
assennate...
- A quanto ho capito, ci
intenderemo
anche
meglio...
Rimani qui!... Fra alcuni giorni
forse sarai priore, e più avanti
potrei anche sceglierti per mio
confessore... Va...' Non far più
tante stramberie nelle chiese... Un
santo non lo diventerai, in ogni
caso... Il calendario è al completo.
Và.
Queste ultime parole del papa,
come
del
resto
il
suo
comportamento, mi lasciarono
molto
perplesso
perché
contrastavano troppo con l'idea
che mi ero fatto del supremo capo
della cristianità, di Colui cui era
stato conferito il potere di
sciogliere e di legare. Non c'era
dubbio: tutto ciò che gli avevo
detto circa la divina sublimità del
suo ministero doveva averlo preso
per una vacua, astuta adulazione.
Egli era certamente partito
dall'idea ch'io volessi farmi
passare per un santo; e poiché, per
motivi suoi particolari, aveva
dovuto impedirmelo, pensava mi
preoccupassi
unicamente
di
mettermi in evidenza e rendermi
influente in altro modo. Ma in
questo, sempre per suoi speciali
motivi a me altrettanto ignoti,
intendeva assecondarmi.
Senza pensare che prima
d'essere chiamato dal papa avevo
intenzione di andarmene da
Roma, decisi di continuare i miei
esercizi di pietà. Ma dentro di me
ero troppo agitato per potermi
volgere con tutta l'anima alle cose
del cielo, come facevo prima.
Involontariamente
perfino
pregando pensavo alla mia vita
passata. Il ricordo delle colpe
impallidiva... Mi vedevo dinnanzi
soltanto più la brillante carriera
iniziata come favorito d'un
principe,
proseguita
quale
confessore del papa e destinata a
raggiungere chissà quali vette. E
così, non già perché il papa me lo
avesse impedito, ma senza volerlo,
presi gusto a bighellonare per le
vie di Roma. Un giorno mentre
passavo in piazza di Spagna vidi
una piccola folla raggruppata
davanti alla baracca di un
burattinaio.
Udii
i
comici
schiamazzi di Pulcinella e le
scroscianti risate del pubblico. Era
finito il primo atto - si stava
allestendo il secondo. Il siparietto
si alzò: apparve Davide giovinetto
con la sua fionda e un bel sacco
pieno
di
ciottoli.
Accompagnandosi con buffissimi
lazzi, Davide promise che avrebbe
senza fallo abbattuto il rozzo
gigante Golia e salvato Israele. Si
intese un fruscio, un brontolio
soffocato: e l'enorme testone del
gigante Golia sbucò dal basso.
Rimasi senza fiato per lo stupore:
Golia era... quel bel matto di
Belcampo!... L'avevo riconosciuto
al primo sguardo. Mediante uno
speciale congegno, si era attaccato
proprio sotto la testa un piccolo
corpo con braccine e gambette... Il
manto drappeggiato di Golia gli
copriva le spalle e le braccia vere...
Scuotendo grottescamente il
corpicino di nano e facendo le più
inverosimili smorfie, il gigante
tenne un'orgogliosa concione,
punteggiata soltanto dalle sottili
risatine sprezzanti di Davide. La
gente si sbellicava dalle risa; ed io
stesso, sbalordito dalla nuova
favolosa
metamorfosi
di
Belcampo, mi lasciai trascinare e
risi - risi come non ridevo più da
tanto tempo - spontaneamente, di
cuore, come un bambino... Troppe
volte, ahimè, la mia risata s'era
ridotta ad una smorfia convulsa,
sotto la fitta del dolore atroce.
Una lunga disputa precedette
la lotta contro il gigante. Con dotto
e forbito linguaggio, Davide
dimostrò come qualmente egli
dovesse - e potesse - accoppare il
terrificante avversario. Belcampo
contraeva tutti i muscoli del viso
in un gioco di smorfie, mobile
come una crepitante lingua di
fuoco in una stoppia e cercava
intanto di colpire con le braccine
minuscole il piccolissimo Davide,
il quale si scansava chinandosi con
agilità e riapparendo talvolta
addirittura di sotto il fluttuante
manto del gigante. Finalmente il
sasso scoccò - crollò Golia colpito
in piena fronte, e il sipario cadde.
Stavo ridendo a più non posso
per le matte trovate di Belcampo
quando qualcuno mi bussò
leggermente sulla spalla: accanto a
me c'era un abate: - Mi rallegro
reverendo, - disse costui, - che non
abbiate perso la facoltà di
divertirvi alle cose mondane. Dopo
aver assistito ai vostri straordinari
esercizi di devozione quasi non vi
avrei più creduto capace di ridere
per simili sciocchezze -. Mi parve
che l'abate mi parlasse così per
farmi vergognare della mia
allegria: e senza pensarci mi
lasciai sfuggire queste parole, di
cui subito amaramente mi pentii: Credete a me, signor abate, - gli
dissi. - A chi ha saputo
gagliardamente nuotare nel mare
burrascoso
della
vita,
non
mancherà mai la forza di emergere
dai torbidi flutti e rialzare
coraggiosamente il capo.
- Ah! - esclamò l'abate
guardandomi con occhi sfavillanti.
- Questa sì è una felice metafora!
Adesso credo di conoscervi, e vi
ammiro, credetemi, con tutta
l'anima!
- Non capisco, signore, risposi, - come un povero monaco
penitente possa destare la vostra
ammirazione.
- Splendido, reverendo! Ecco,
ora ricadete nella vostra parte. Voi
siete il beniamino del papa, non è
vero?...
- A sua santità è piaciuto
degnarmi del suo sguardo. L'ho
venerato
prostrandomi
nella
polvere, come esige la dignità
conferitagli
dall'Eterno
allorquando lo ha trovato ricolmo
di celesti virtù.
- Bene, degnissimo vassallo del
triregno. Assolverai il tuo ufficio
in modo esemplare. Ma, credimi,
l'attuale vicario di Dio è un
gioiello di virtù rispetto a
Alessandro Vi. E forse potresti
aver fatto male i tuoi calcoli. Ma
recita, recita pure la tua parte... La
commedia
così
allegramente
iniziata sarà presto finita. Stammi
sano, reverendissimo padre!
E, con una stridula risata di
scherno, l'abate s'allontanò. Io
rimasi là, impietrito. Mettendo
insieme le sue ultime parole con
le mie personali osservazioni mi
apparve chiaro che il papa non era
affatto «l'Incoronato», il «Vincitor
della Bestia» come avevo creduto.
Al pubblico poi, o almeno, a quella
parte di esso più addentro alle
segrete cose, la mia penitenza
doveva esser parsa un'ipocrita
manovra per spingermi in alto ad
ogni
costo.
Profondamente
umiliato rientrai in convento e mi
appartai a pregare con fervore
nella chiesa deserta. Allora il velo
mi cadde dagli occhi: vidi la
tentazione
della
tenebrosa
potenza, il nuovo tentativo di
prendermi nelle sue reti... Vidi la
mia
colpevole
debolezza,
l'incombente castigo divino... Fuggire, subito: non avevo altra
possibilità di scampo! E perciò
decisi di mettermi in viaggio la
mattina dopo, all'alba.
Era già quasi notte quando
qualcuno tirò con energia la
campanella esterna del convento;
e poco dopo il frate portiere entrò
nella mia cella ad annunziare che
un uomo stranamente vestito
voleva assolutamente parlarmi.
Andai nel parlatorio: il visitatore
era Belcampo. Con le sue solite
movenze di buffone mi corse
incontro, mi strinse fra le braccia,
mi trascinò in un angolo: Medardo, - mi disse parlando in
fretta e sottovoce. - Se proprio
vuoi rovinarti fà pure a modo tuo.
Ma, bada: la follia ti incalza alle
spalle sulle ali del maestrale, o
dell'austro, o del libeccio - del
vento che ti pare, insomma - e se
un solo lembo della tua cotta
sporge ancora dall'abisso, ti afferra
e ti porta via!... O Medardo, capisci
una buona volta!... Renditi conto
di quanto possano l'amicizia,
l'affetto!... Credi a Davide e a
Gionata, caro il mio cappuccino!...
Io
veramente
l'avevo
ammirata nella parte di Golia, dissi
per
interrompere
la
chiacchierata. - Ma mi dica presto,
di che si tratta?... Cosa l'ha
condotta qui?...
- Di che si tratta?! - esclamò
Belcampo. - Cosa mi ha condotto
qui?!... L'amore dissennato per un
cappuccino a cui un giorno
riassettai la capigliatura!... Per un
frate che spandeva a piene mani
ducati
d'oro
leggermente
macchiati di sangue, se la diceva
con
certi
orripilantissimi
revenants e, un giorno, dopo aver
commesso un delittuccio da
niente, stava già per sposare alla
moda borghese - o, diciamo
meglio, aristocratica - la fanciulla
più bella del mondo...
- Basta! - gridai. - Taci, perfido
buffone insolente!... Ciò che tu mi
rinfacci l'ho già duramente
espiato!
- O, signore! - sospirò
Belcampo. - È dunque ancora così
sensibile la cicatrice di quella
brutta ferita?... Ahi, ahi... Allora
non siete ancora completamente
guarito. Bene. Sarò tranquillo e
quieto come un bimbo buono...
Non farò più capriole, né in senso
fisico né in senso metaforico. Ti
dirò questo soltanto: ti voglio
tanto bene proprio a causa della
tua sublime follia; e poiché
ritengo estremamente utile che
ogni germe di follia viva e prosperi
il più a lungo possibile su questa
terra, continuo a salvarti dai
pericoli mortali in cui tu vai così
allegramente
a
cacciarti.
Origliando dall'interno della mia
baracca di burattinaio; ho carpito
una conversazione che ti riguarda:
il papa vuole farti priore del nostro
convento di cappuccini e ha
intenzione di sceglierti a suo
confessore personale... Scappa...
vattene da Roma più presto che
puoi! Nell'ombra ci sono pugnali
pronti a colpirti... Conosco il bravo
incaricato di spedirti nel regno dei
cieli. Hai attraversato la strada al
domenicano, attuale confessore
del papa, e a tutti quelli del suo
partito. Domani non dovrai più
essere qui -. Questa novità
coincideva perfettamente con le
parole dell'abate sconosciuto. Ne
rimasi così colpito che quasi non
mi accorsi dei ripetuti, calorosi
abbracci di Belcampo, né delle
solite comiche smorfie con cui,
salterellando, si congedò.
Doveva essere già mezzanotte
passata quando udii aprirsi il
portone del convento e il fragore
d'una carrozza sul selciato del
cortile. Qualcuno si avvicinò alla
mia porta, per il corridoio, e bussò.
Apersi: era il padre guardiano
seguito da un uomo mascherato
con una torcia in mano.
- Frate Medardo, - mi disse il
guardiano. - Un morituro richiede
la vostra assistenza spirituale e
l'estrema unzione. Fate il vostro
dovere.
Quest'uomo
vi
accompagnerà dove c'è bisogno di
voi. Seguitelo.
Con un brivido freddo ebbi il
presentimento
che
volessero
condurmi a morte. Ma rifiutarmi
non potevo, perciò seguii l'uomo
mascherato, il quale aperse lo
sportello della carrozza e mi invitò
a salire. Dovetti sedere in mezzo a
due sconosciuti. Domandai dove
mi stessero conducendo e chi,
esattamente, avesse richiesto la
mia
assistenza
e
l'estrema
unzione.
Nessuna
risposta.
Proseguimmo nel più assoluto
silenzio, percorrendo parecchie
strade. Dal rumore credetti di
capire che eravamo già fuori
Roma;
poco
dopo
udii
chiaramente il rimbombo del
veicolo sotto l'arco d'una porta, poi
di nuovo il rumor delle ruote su
strade selciate. Finalmente la
carrozza si fermò; in fretta mi
legarono le mani e calarono uno
spesso cappuccio sul viso. - Non vi
accadrà nulla di male, - mi disse
una voce aspra. - Ma non una
parola di quanto vedrete ed udrete
qui dentro, o morirete all'istante -.
Quindi mi fecero scendere. Udii
uno strider di serrature e un
portone aprirsi ruotando su
cardini rozzi e male oliati. Poi
dovetti percorrere lunghi corridoi,
scendere un'infinità di scale. L'eco
dei passi mi disse che mi trovavo
in un sotterraneo - a quale scopo
adibito lo compresi dal penetrante
odor di cadavere. Alfine mi fecero
fermare, mi slegarono le mani, mi
tolsero la cappa. Mi trovavo,
effettivamente, in un'ampia cripta
sotterranea, fiocamente illuminata
da un lume ad olio. Davanti a me
stava un uomo incappucciato di
nero - probabilmente lo stesso che
era venuto a prendermi - e
tutt'intorno, su bassi sedili,
sedevano frati domenicani. Mi
ritornò alla memoria il macabro
sogno fatto in carcere, ed ebbi la
certezza di star per morire fra i
tormenti. Dopo alcuni istanti di
cupo silenzio, carico di aspettativa,
un frate mi si avvicinò e mi disse
con voce sorda: - Abbiamo
condannato
uno
dei
vostri
confratelli, frate Medardo, e la
condanna dev'essere eseguita. Egli
attende da voi, che siete un
sant'uomo, assoluzione e conforto
nell'ora della morte. Andate e
compite il vostro ufficio.
L'intabarrato mi prese per un
braccio e, attraverso uno stretto
cunicolo, mi condusse in una
piccola cella, in un angolo della
quale, sopra uno strame di paglia,
giaceva una creatura pallida,
consunta, ricoperta di cenci - un
autentico
scheletro
umano.
L'intabarrato posò la lucerna sulla
tavola di pietra, al centro della
cella. Mi avvicinai al prigioniero, e
questi si volse faticosamente verso
di me. Raggelai: in quel volto
scarnito avevo riconosciuto i
venerandi lineamenti del pio frate
Cirillo!
Vedendomi
egli
si
trasfigurò in un sorriso di
sovrumana dolcezza: - Dunque, i
perfidi
servitori
di
Satana
dimoranti qui dentro non mi
hanno ingannato!... - mormorò
con voce fioca. - Da loro ho saputo
che ti trovavi a Roma, caro fratello
Medardo. Sapevo di averti fatto un
grave torto e desideravo tanto
vederti;
perciò
mi
hanno
promesso
che
ti
avrebbero
condotto da me nell'ora della
morte. L'ora è giunta. Hanno
mantenuto la promessa.
Mi inginocchiai accanto al pio
e venerabile vecchio e lo
scongiurai di dirmi, prima di tutto,
come
fosse
stato
possibile
incarcerarlo e condannarlo a
morte.
- Medardo, caro fratello mio, rispose lui. - Soltanto dopo averti
confessato,
pentendomi,
il
colpevole errore commesso nei
tuoi confronti, soltanto quando tu
mi avrai riconciliato con Dio,
potrò parlarti delle mie miserie e
della mia rovina. Come già sai, io e con me tutto il nostro convento ti avevamo creduto il più perverso
dei peccatori. Credendo che sul
tuo capo gravassero i più
mostruosi delitti ti avevamo
bandito dalla comunità. Invece
s'era trattato soltanto d'un fatale
attimo di smarrimento: il diavolo
ti aveva accalappiato e trascinato
via per il collo dai luoghi santi!...
Assumendo il tuo nome, il tuo
abito, la tua figura, era stato un
diabolico ipocrita a commettere i
delitti per cui tu rischiasti di
subire
la
morte
infame
dell'assassino. Ma l'Eterno ha
miracolosamente rivelato che
avevi, sì, agito con leggerezza, e
peccato, e coltivato perfino il
proposito di infrangere i voti, ma
di quegli orrendi delitti eri
innocente. Ritorna al nostro
convento, Medardo! Il priore
Leonardo, i confratelli che ti
avevano
creduto
perso,
ti
accoglieranno con affetto, con
gioia... O, Medardo!... - Stremato
dalla debolezza, il vecchio ricadde
indietro e perse i sensi. Dominai
l'emozione causatami dalle sue
parole e dalla rivelazione, a quanto
m'era parso di capire, d'un nuovo
fatto inaudito. Pensai unicamente
a lui, alla sua anima; e, in
mancanza d'ogni altro mezzo,
cercai di richiamarlo in vita con un
semplice sistema in uso nel nostro
convento, praticandogli, cioè, un
lento e leggero massaggio alla
testa ed al petto. Cirillo si riprese
quasi subito. E lui, il sant'uomo si confessò a me, l'iniquo
peccatore!
Le
sue
colpe
consistevano unicamente in taluni
dubbi di nessun conto. Ma,
mentre gli impartivo l'assoluzione,
mi parve si accendesse in me uno
spirito divino - mi sentii
trasformato nell'arto fisico di cui
si serve l'Onnipotente per parlare,
già fin di quaggiù, in linguaggio
umano, all'uomo non ancor sciolto
dal peso della materia. Cirillo levò
al cielo uno sguardo pieno di
devozione: - O, fratello Medardo, mi disse. - Quale sollievo mi
hanno dato le tue parole!... Ora
vado lieto incontro alla morte
preparata per me da quei malvagi.
Muoio vittima della mostruosa
falsità, del peccato che circondano
il trono del triregno!
Si appressò un sordo rumore di
passi - le serrature stridettero. Con
uno sforzo supremo, Cirillo si
rizzò a sedere, mi prese la mano e
mi sussurrò all'orecchio: - Ritorna
al nostro convento! Leonardo è
informato di tutto; sa come
muoio... Scongiuralo di tacere! Io
sono un povero vecchio stremato:
la morte mi avrebbe comunque
raggiunto prestissimo. Addio,
fratello! Prega per la salvezza
dell'anima
mia!...
Quando
celebrerete l'ufficio funebre per
me, in convento, io sarò con voi.
Promettimi di tacere tutto ciò che
hai appreso: provocheresti la tua
rovina e coinvolgeresti il nostro
convento in un mare di guai! Glielo promisi. Entrarono alcuni
uomini incappucciati, sollevarono
il vecchio dal giaciglio e, fattomi
cenno di seguirli, lo trascinarono non essendo egli in grado di
camminare
per
l'estrema
debolezza, in un lungo corridoio
fino alla sala sotterranea in cui ero
già stato prima. I domenicani si
erano disposti in cerchio; gli
aguzzini condussero il vecchio al
centro del medesimo e, messogli
in mano un crocifisso, lo fecero
inginocchiare su un mucchietto di
terra. Ritenendo che ciò facesse
parte del mio ufficio, anch'io ero
entrato nel cerchio e pregavo ad
alta voce. Un domenicano mi
prese per un braccio e mi trasse in
disparte. In quel momento, fra le
mani d'uno degli incappucciati
penetrato nel circolo alle nostre
spalle, vidi balenare una spada - e
la testa sanguinante di Cirillo mi
rotolò fra i piedi. Allora persi i
sensi e crollai a terra.
Quando rinvenni ero in una
cameretta molto simile ad una
cella monastica. Mi si avvicinò un
domenicano, dicendomi con un
sorriso cattivo: - Vi siete molto
spaventato,
fratello!
Eppure
dovreste esser lieto di aver
personalmente assistito a un così
bel martirio! Penso si debba dire
così, trattandosi di un frate del
vostro convento: non siete forse
tutti santi, voialtri?...
- Non siamo santi, - risposi, ma nel nostro convento non si è
mai assassinato un innocente.
Adesso lasciatemi andare. Ho
assolto al mio ufficio con gioia. Lo
spirito di quel martire mi sarà
vicino se un giorno dovrò anch'io
cadere fra le mani di scellerati
assassini.
- Il compianto frate Cirillo sarà
certamente in grado di assistervi
in un simile frangente - non ne
dubito. Ma, caro fratello, non
dovreste
chiamare
la
sua
esecuzione un assassinio. Cirillo si
era reso gravemente colpevole
verso il vicario di Dio; ed è stato lo
stesso santo Padre ad ordinarne la
morte. Tutto questo ve lo avrà già
detto egli stesso, in confessione;
inutile continuare a parlarne.
Piuttosto,
accettate
questo
rinfresco per rimettervi un po'in
forze: siete ancora molto pallido e
sconvolto -. Così dicendo, il
domenicano mi porse una coppa
in cui spumeggiava un vino rosso
scuro,
fortemente
aromatico.
Quando lo portai alle labbra non
so quale presentimento mi
illuminasse; ma sta di fatto che mi
bastò annusarlo per riconoscere lo
stesso vino offertomi da Eufemia,
quella
notte
fatale.
Così,
istintivamente,
fingendomi
abbagliato dalla lucerna, mi portai
la mano sinistra davanti agli occhi
e versai nella manica il vino,
invece di berlo.
- Buon pro vi faccia! - esclamò
il domenicano, affrettandosi a
spingermi verso la porta. Mi
gettarono nella carrozza - vuota,
con mio stupore - e la carrozza
partì. Lo spavento, gli orrori della
tragica notte, la tensione nervosa,
il profondo dolore per la morte
dell'infelice
Cirillo,
mi
piombarono in uno stato di
intontimento; tanto che, quando
mi trassero fuori dalla vettura e
mi
gettarono
piuttosto
brutalmente a terra, lasciai fare
senza opporre resistenza alcuna.
Alle prime luci del giorno, mi
ritrovai disteso davanti al portone
del convento. Mi alzai, tirai la
campanella. Nel vedermi così
pallido e stravolto, il portiere si
spaventò e corse, credo, ad
avvertire il priore perché questi,
subito dopo la prima messa, entrò
nella
mia
cella
con
viso
preoccupato. Alle sue domande
risposi piuttosto evasivamente: la
morte dell'uomo che ero stato
chiamato ad assolvere - dissi - era
stata troppo crudele per non
sconvolgermi
fin
in
fondo
all'anima. Ma a questo punto
l'atroce dolore al braccio sinistro
mi impedì di proseguire - e mi
costrinse ad urlare.
Accorse
il
chirurgo
del
convento, strappò la manica già
incollata alle carni e trovò tutto il
braccio dilaniato e corroso da una
sostanza caustica. - Mi hanno dato
del vino da bere, - gemetti
sentendomi venir meno per lo
strazio. - E io l'ho versato nella
manica...
- Quel vino conteneva un
veleno corrosivo! - esclamò il
chirurgo,
affrettandosi
ad
impiegare rimedi atti ad attenuare,
almeno, le disumane sofferenze.
L'abilità del chirurgo e le cure
fattemi
prestare
dal
priore
riuscirono a salvare il braccio, che
sulle prime pareva dovesse
venirmi amputato; ma la forza, la
mobilità
dell'arto
rimasero
distrutti dal letale succo di cicuta.
- Adesso vedo chiaro, - disse il
priore. - Capisco che cosa si
nasconda sotto l'intrigo che vi è
costato il braccio. Il buon padre
Cirillo
era
misteriosamente
scomparso dal convento e da
Roma; e voi, caro frate Medardo,
farete la stessa fine se non lasciate
al più presto questa città. Mentre
eravate
ammalato
parecchi
individui sospetti sono venuti a
chiedere vostre informazioni.
Potete ringraziare la mia vigilanza
e la solidarietà dei buoni
confratelli se il delitto non è
penetrato fin fra le mura della
vostra cella. A me, ve lo confesso,
avete dato l'impressione di essere
un uomo fuor del comune,
coinvolto, qui e dovunque, in una
rete di segreti pericolosi; e,
durante
la
vostra
breve
permanenza a Roma, dovete
esservi fatto notare un po'troppo
perché
certe
persone
non
desiderino ora togliervi di mezzo.
Ritornate in patria, al vostro
convento!... E la pace sia con voi!
Fintantoché fossi rimasto a
Roma la mia vita sarebbe stata in
continuo pericolo; questo lo
sapevo, lo sentivo anch'io. Ma ora,
al tormentoso rimorso dei miei
misfatti - che neppure le più
severe penitenze erano valse a
placare - si aggiungeva il dolore
fisico causatomi dal braccio
rovinato. Era dunque, la mia, una
vita d'infermità, di sofferenze, da
non tenersi più in alcun conto, un
fardello di cui volentieri mi sarei
sbarazzato, se a qualcuno fosse
piaciuto darmi una rapida morte.
E all'idea della morte violenta
andavo abituandomi ogni giorno
di più; vedevo in essa come un
glorioso martirio, il premio delle
mie dure penitenze. Già mi pareva
di assistere alla scena: io uscivo
dalla porta del convento e una
figura tenebrosa fulmineamente
mi trafiggeva con un pugnale. Il
popolo si affollava intorno al mio
cadavere insanguinato... Udivo i
gemiti,
le
esclamazioni
di
cordoglio: «Medardo... Il pio
penitente Medardo - è stato
assassinato!... - Alcune donne si
inginocchiavano a tergere con
candidi lini la ferita sanguinante.
Una di esse scorgeva la cicatrice in
forma di croce: «È un martire... un
santo!...», esclamava. «Guardate
qui... sul collo... Il segno del
Signore!...» - Allora tutti cadevano
in ginocchio - Beato chi poteva
toccare il corpo, sfiorare la veste
del Santo!... - Deponevano la
salma inghirlandata di fiori in una
bara e questa, presa in spalla da
giovinetti, veniva portata in
trionfale corteo, fra canti e
preghiere, a San Pietro!... - Così a
vividi colori elaboravo nella
fantasia il quadro della mia
glorificazione in terra. E, senza
avvertire in tale pensiero la nuova
diabolica tentazione del colpevole
spirito
d'orgoglio, decisi
di
rimanere a Roma, quando fossi
completamente guarito, e di
continuare a vivere come fin là
avevo fatto. Così, o sarei morto
gloriosamente, oppure il papa mi
avrebbe sottratto ai miei nemici
per farmi assurgere alle massime
dignità della Chiesa.
La mia costituzione robusta,
vitale, mi permise di sopportare le
inenarrabili sofferenze e di reagire
all'azione del tossico infernale che
aveva cercato di distruggermi,
aggredendomi
dall'esterno. Il
medico mi preconizzò un pronto
ristabilimento; ed infatti soltanto
più nei momenti di dormiveglia
delirante che precedono il sonno
venivo colto da accessi febbrili,
con alternanze di brividi freddi e
vampate di calore. Suggestionato
com'ero dalla visione del martirio,
fu appunto in uno di tali momenti
che mi rividi assassinato con una
pugnalata in pieno petto. Ma, a
differenza dalle altre volte, non
ero più disteso in piazza di Spagna
e attorniato da una folla
acclamante
alla
mia
santificazione; giacevo, bensì,
abbandonato in un viale solitario,
nel giardino del convento di B..
Dalla vasta ferita colava, anziché
sangue, una ripugnante sierosità
incolore. - È questo, dunque, il
sangue del martirio?... - esclamava
una voce. - Ma io voglio purificare,
colorire quest'umore impuro.
Soltanto allora il Fuoco, vincitor
della Luce, incoronerà il Martire!...
- Ero stato io stesso a parlare così.
Ma, sentendomi distaccare dal
corpo privo di vita, mi rendevo
conto di essere l'idea astratta del
mio io - e immediatamente mi
riconoscevo nel color rosso
soffuso per l'etere. Mi libravo in
alto, verso le vette luminose dei
monti - volevo entrare nel Regno
attraverso una porta di nubi
rosate, ma centinaia di folgori
scoccavano, intrecciandosi come
serpi di fuoco, davanti alla volta
celeste - ed io, trasformato in
un'umida
nebbia
incolore,
precipitavo. «Io, io, - diceva il
pensiero. - Sono io che tingo i
vostri fiori, il vostro sangue... Fiori
e sangue sono il vostro ornamento
nuziale!»
Continuando
a
sprofondare sempre più in basso,
vedevo il cadavere con nel petto la
vasta ferita slabbrata da cui fluiva
a fiotti quel liquido impuro. Il mio
alito avrebbe dovuto trasformarlo
in sangue, ma ciò non avveniva. Il
cadavere si rizzava a sedere e,
fissandomi con macabre orbite
vuote, ululava come la tramontana
nel fondo dei crepacci: «Stolto!...
Folle pensiero!... Non v'è lotta fra
Luce e Fuoco - ma la Luce è il
battesimo del fuoco, operato
mediante quel color rosso che tu
cerchi di intossicare». - Il cadavere
ricadeva all'indietro. Tutti i fiori
dei prati, dei campi, reclinavano le
corolle appassite. Uomini, simili a
pallidi spettri, si gettavano a terra
e un coro di mille voci
lamentevoli, sconsolate, si levava
nell'aria:
- O, Signore, Signore!... È
dunque così immane il peso delle
nostre colpe perché tu conceda al
Nemico la forza di mortificare
l'olocausto del nostro sangue?... Il lamento cresceva, ingigantiva,
simile alle mugghianti onde del
mare - e in quella voce possente il
pensiero era sul punto di
polverizzarsi.
Venni strappato al sogno come
da una scarica elettrica. L'orologio
del campanile batteva le dodici;
dalle finestre della chiesa una luce
abbagliante irradiava nella mia
cella.
«I morti sorgono dai sepolcri
per celebrare l'ufficio divino»,
dissi dentro di me. E mi misi a
pregare.
In
quel
momento
qualcuno bussò piano alla mia
porta. Credetti fosse un frate - ma,
con terrore indicibile udii la ben
nota, raggelante risata del mio
sosia spettrale: - Fratellino...
Fratellino, - biascicò la vocetta
beffarda. - Eccomi di nuovo con
te... La ferita sanguina... la ferita
sanguina... Rosso... Rosso - Vieni
con me, fratellino Medardo - Vieni
con me!...
Volli balzare dal letto ma il
terrore aveva steso su di me una
coltre di ghiaccio. Ogni tentativo
di movimento si risolveva in un
lacerante
crampo
muscolare.
Potevo soltanto pensare - e il
pensiero era ardente preghiera.
Invocavo salvezza perché dalle
porte spalancate dell'inferno le
potenze
tenebrose
volevano
irrompere in me.
Ma la preghiera formulata
mentalmente, io la udivo come se
la pronunziassi ad alta voce - e il
rumor di colpi, le sghignazzanti
risate, il sinistro balbettio del
sosia
terrificante
ne
erano
sopraffatti. Poi, poco a poco, le
parole
della
preghiera
si
perdevano in uno strano ronzio,
come quando il vento caldo del
sud risveglia sciami d'insetti
nocivi, e questi si avventano con i
pungiglioni
avvelenati
sui
rigogliosi raccolti.
Ed
ecco,
il
ronzio
si
trasformava
nello
sconsolato
lamento dell'umanità. - «Non è
questo il sogno profetico, - diceva
l'anima mia, - che vorrebbe
posarsi come un benefico balsamo
sulla piaga sanguinante?...» Contemporaneamente, la torbida
nebbia incolore si accendeva di
porpora, come un cielo al
tramonto. - E, nell'alone infocato,
si delineava - altissima - una
figura. Era il Cristo. - Le Sue
piaghe stillavano sangue - e il
Rosso veniva restituito alla terra e il pianto umano prorompeva in
un inno di esultanza - perché il
Rosso era la Grazia del Signore
scesa sull'intera umanità!
Soltanto il sangue di Medardo
continuava a gemere incolore
dalla ferita. - Io, solo io in tutto il
vasto mondo, - piangeva Medardo,
- devo essere abbandonato senza
speranza alle pene dell'eterna
dannazione?...
Allora, fra i cespugli, si
muoveva una rosa, imporporata
dai riflessi sanguigni del cielo ergeva il capo e fissava Medardo
con mite sorriso d'angelo, lo
avvolgeva
d'un
profumo
dolcissimo. - E il profumo era il
magico splendore del purissimo
etere primaverile.
- Non il Fuoco ha vinto. - Fra
Luce e Fuoco non c'è stata lotta. Fuoco è la parola che illumina il
peccatore. - Era stata la rosa a
parlare così?... La rosa - una soave
figura di donna... Nella candida
veste, gli scuri capelli intrecciati di
rose... mi veniva incontro...
- Aurelia! - Con questo grido
mi destai.
Un delizioso profumo di rose
inondava la cella. Fu forse un
inganno dei sensi: ma mi parve di
scorgere veramente la figura di
Aurelia, di sentire su di me lo
sguardo dei suoi occhi - e poi di
vederla svanire come nebbia nella
luce del mattino.
Compresi
la
tentazione
demoniaca - la mia colpevole
debolezza, e scesi di corsa a
pregare con fervore davanti
all'altare di santa Rosalia. Non mi
fustigai, non mi imposi altre
penitenze all'uso monastico. Ma i
raggi perpendicolari del sole di
mezzodì mi ritrovarono già a
molte ore di cammino da Roma.
Non soltanto l'avvertimento di
frate Cirillo ma anche una
irresistibile nostalgia della patria
mi indussero a seguire la stessa
via percorsa per venire a Roma.
Senza volerlo, anzi, col preciso
proposito di sottrarmi alla mia
missione,
avevo
preso
esattamente la strada assegnatami
dal priore Leonardo.
Evitai la residenza del principe,
non
per
timore
d'essere
riconosciuto e riconsegnato alla
giustizia, ma perché come avrei
potuto evitare lo strazio dei ricordi
ritornando nei luoghi dove, con
criminale
aberrazione,
m'ero
lanciato alla conquista d'una
felicità terrena cui avevo fatto
rinunzia, votandomi a Dio?...
Dove, ahimè, rinnegando l'eterno,
puro spirito d'amore, avevo mirato
alla soddisfazione degli istinti più
bassi come al supremo vertice
della vita, al radioso punto di luce
in cui il sensibile e l'ultrasensibile
divampano in un'unica fiamma?...
Dove la vita viva, piena, nutrita di
tutte le sue ricchezze, mi era parsa
un motivo di ribellione violenta
contro ogni forma di mistica
ascesi, e l'aspirazione alle cose del
cielo io avevo osato definirla
«autonegazione», atto contro
natura?...
E ancor più!... L'influsso della
tenebrosa potenza infernale, già
troppe volte subìto, mi avrebbe
forse imposto un conflitto che,
malgrado la condotta ineccepibile
e le lunghe durissime penitenze,
non mi sentivo la forza di
sostenere con successo. Rivedere
Aurelia!... Rivederla, forse ancor
più bella, più affascinante di
quando l'avevo lasciata! Lo avrei
potuto senza venir sopraffatto
dallo spirito del male tuttora
divampante, ribollente nel sangue
in fermento?... Quante volte mi
riappariva Aurelia!... E quante
volte, ripensandola, si ridestavano
in me sensazioni indubbiamente
colpevoli che io dovevo reprimere
usando tutta la mia forza di
volontà.
Se ora credevo nella sincerità
della mia contrizione, era soltanto
per aver preso coscienza di tutto
ciò che mi induceva ad esaminare
lucidamente me stesso - era
perché mi sentivo impotente ad
affrontare il conflitto e volevo
evitarlo. Se non altro, avevo
finalmente deposto l'infernale
spirito d'orgoglio, la temeraria
pretesa di voler sfidare le potenze
oscure.
Dopo non molto cammino mi
ritrovai fra i monti; e una mattina,
dalle nebbie d'una valle aperta
davanti a me, vidi emergere un
castello che, avvicinandomi, ben
riconobbi: mi trovavo nelle
proprietà del barone von F.. - Il
parco era in istato di abbandono,
le strade, i viali invasi da erbacce.
Sul bello spiazzo antestante il
castello, pascolava il bestiame fra
l'erba alta. Guardai l'edificio: qua e
là, vetri rotti alle finestre l'ingresso in rovina. Tutt'intorno
non c'era anima viva. Mi fermai
muto, impietrito in quella paurosa
solitudine e, da un boschetto
ancora abbastanza ben conservato,
udii
provenire
un
pianto
sommesso. Fra gli alberi sedeva
un vecchio canuto il quale parve
non accorgersi di me, malgrado gli
fossi
abbastanza
vicino.
Avvicinandomi ancor più ne udii
le parole: - Morti!... Coloro che
amavo sono tutti morti!... Ah,
Aurelia!...
L'ultima!...
Morta,
morta anche tu!... - Lo riconobbi:
era il vecchio Rinaldo. - Aurelia
morta?...
No!
esclamai
fermandomi. - Ti sbagli, vecchio:
l'Onnipotente l'ha protetta dal
coltello dell'infame assassino!
Il vecchio sussultò come
folgorato: - Chi è là?... Chi è là?... gridò. - Leopoldo!... Leopoldo!... Accorse un ragazzetto. Vedendomi
si inchinò profondamente e mi
salutò con un «Laudetur Jesus
Christus!» - «In omnia saecula
saeculorum!» - risposi io. Allora il
vecchio balzò in piedi gridando
ancor più forte: - Chi è là?... Chi
c'è?...
Soltanto allora mi accorsi che
era cieco.
- Un reverendo, - rispose il
fanciullo. - Un frate cappuccino.
- Via, via ragazzo! - esclamò il
vecchio come terrorizzato. -
Conducimi dentro... in casa... E
chiudi le porte... E che Pietro
faccia buona guardia... Via, via...
dentro!... - E, raccogliendo tutte le
sue forze, fuggì come si fugge
davanti a una belva feroce. Il
ragazzetto mi guardava spaventato
e sbalordito; ma il vecchio,
anziché farsi condurre da lui, lo
trascinò via. In un attimo furono
in casa e poi li udii chiudere ben
bene la porta dall'interno.
Anch'io mi affrettai a fuggire
dal teatro dei miei peggiori delitti;
quella scena me li aveva
ripresentati più vivi che mai. E
poco dopo ero già nel folto del
bosco.
Sedetti, sfinito, sul musco, ai
piedi d'un albero, a pochi passi da
un piccolo tumulo di terra
sovrastato da una croce; e mi
assopii. Destandomi, mi trovai
accanto un vecchio contadino il
quale, appena mi vide ben sveglio,
si cavò rispettosamente il berretto
e disse in tono estremamente
bonario e cordiale: - Eh... dovete
aver camminato ed esservi
stancato un bel pò, reverendo, per
addormertarvi così sodo in un
posticino sinistro come questo!...
O forse non sapete che cos'è
accaduto qui?... - Risposi che,
essendo forestiero e di ritorno da
un pellegrinaggio in Italia, non
potevo sapere che cosa fosse
accaduto in quel luogo. - Eppure la
cosa riguarda da vicino voi e i frati
del vostro ordine, - disse lui. - Vi
confesso che quando vi ho visto
dormire così beatamente mi sono
seduto qui per proteggervi da ogni
eventuale pericolo. Si dice che
molti anni fa qui sia stato
assassinato un cappuccino. Una
cosa certa: un cappuccino giunse
al nostro villaggio e, dopo avervi
pernottato, si incamminò su per i
monti. Quello stesso giorno, un
mio vicino di casa, passando per
un sentiero a fondovalle sotto
l'abisso del diavolo, udì un urlo
lontano,
ma
penetrante,
acutissimo, prolungato. - E
credette perfino di vedere (... ma
questo mi sembra impossibile...),
credette di vedere una figura
umana precipitare nella voragine,
dalla cima del monte. Noi tutti del
villaggio,
chissà
perché,
pensammo
si
trattasse
del
cappuccino. Parecchi di noi si
calarono
quant'era
possibile
calarsi senza rischiare la vita, per
ritrovare almeno il cadavere dello
sventurato. - Ma non si trovò
nulla. Perciò ci facemmo quattro
buone risate alle spalle di quel tale
vicino, quando questi, in una notte
di luna, rientrò mezzo morto di
paura, assicurando di aver visto un
uomo nudo che tentava di risalire
lungo le pareti dell'«abisso del
diavolo». - Naturalmente, era pura
immaginazione. Più tardi, però si
venne a sapere che un cappuccino
- Dio sa perché - era stato
assassinato per davvero, e poi
gettato
nell'abisso,
da
un
nobiluomo. Sono convinto che il
delitto sia avvenuto proprio in
questo luogo. Perché - state a
sentire, reverendo - una volta
sedevo qui e guardavo quell'albero
mezzo scavato, pensando ai fatti
miei. A un tratto mi sembra di
veder spuntare da una fessura un
lembo di panno scuro. - Mi alzo tiro - e salta fuori una tonaca di
cappuccino, bell'e nuova. Su una
manica, tracce di sangue e,
ricamato in un bordo, il nome
«Medardo».
Benché
poverissimo, pensai di fare una
buona azione: vendere la tonaca e
usare il ricavato per far dire alcune
messe in suffragio del povero
frate, assassinato senza aver avuto
il tempo di prepararsi alla morte,
di fare un esame di coscienza.
Portai la tonaca in città, ma
nessun rigattiere me la volle
comperare. Conventi di cappuccini
qui intorno non ce n'erano.
Finalmente un individuo vestito
da
guardiacaccia
o
da
guardiaboschi - mi disse di aver
per l'appunto bisogno d'una
tonaca come quella. - E me la pagò
profumatamente.
Allora
feci
subito dire una bella messa dal
nostro signor parroco e, non
essendo
possibile
scendere
nell'abisso del diavolo, posi una
croce qui, in memoria del tragico
fatto. Ma quel frate, buonanima,
doveva averne combinate d'ogni
colore, perché la sua ombra pare si
aggiri ancora qui nei dintorni. La
messa del signor parroco non deve
avergli giovato un gran che. Perciò
vi prego, reverendo, appena sarete
rientrato sano e salvo in patria,
dite anche voi una messa per
l'anima del vostro confratello
Medardo... Promettetemelo!
- Siete in errore, amico mio, risposi. - Il cappuccino Medardo
che, molti anni fa, passò per il
vostro villaggio, diretto in Italia,
non fu assassinato. Non gli
occorrono messe di suffragio,
perché è ancora vivo e può ancora
operare per la propria eterna
salvezza. Quel Medardo sono io! Così dicendo apersi la tonaca e gli
mostrai il nome ricamato nell'orlo.
Il contadino impallidì - rimase
alcuni
istanti
a
fissarmi,
paralizzato dal terrore, poi si alzò
di scatto e corse via a rotta di collo
per il bosco urlando come un
forsennato. Evidentemente mi
aveva preso per lo spettro vagante
dell'ucciso, e inutile sarebbe stato
da parte mia qualsiasi tentativo di
spiegargli l'errore.
Il luogo solitario, il silenzio
rotto soltanto dal cupo boato del
vicino torrente erano quanto mai
adatti a suscitare fantasie paurose.
Ripensai rabbrividendo al mio
orribile sosia e, suggestionato
dalla paura del contadino, mi
parve di vederlo sbucare da ogni
cespuglio. Ma mi dominai e
proseguii il cammino. Ero stato
scambiato per il fantasma «di me
stesso»!... Soltanto quando mi fui
liberato da quella macabra idea mi
resi conto d'aver finalmente
appreso in che modo il monaco
folle fosse venuto in possesso
della tonaca, acquistata, per suo
desiderio,
in
città
dal
guardiaboschi che l'aveva soccorso
ed ospitato - poi lasciata indietro
nel corso della fuga, e ritrovata da
me, e riconosciuta con certezza
per mia. Mi colpì molto constatare
quale strana deformazione avesse
subìto, nella voce popolare, il
tragico fatto avvenuto nell'«abisso
del diavolo»: tutte le circostanze
avevano dunque concorso a render
possibile il malaugurato scambio
di persona e a permettermi di
spacciarmi per il conte Vittorino.
Molto importante mi parve la
visione notturna del pavido vicino
di casa. Ormai nutrivo fiducia di
ottenere
chiarimenti
ancora
maggiori, senza peraltro neppure
supporre donde e per quale via.
Finalmente, dopo settimane e
settimane
di
ininterrotto
cammino, mi avvicinai alla patria.
Col cuore in tumulto, vidi sorgere
dinnanzi a me le torri del
convento
delle
monache
cistercensi. Giunsi al villaggio;
nella piazza antestante la chiesa
udii venir di lontano un coro di
voci virili. - Poi apparve una croce,
seguita da un corteo di monaci, in
doppia fila. - Riconobbi, ahimè, i
miei confratelli, con alla testa il
venerando
priore
Leonardo,
guidato da un giovane frate che
non conoscevo. Mi passarono
davanti
cantando,
senza
osservarmi, ed entrarono nel
portone del convento. Poco dopo
sfilarono allo stesso modo i
domenicani ed i francescani di B.,
e
quindi,
in
carrozze
ermeticamente chiuse, le suore
clarisse provenienti dalla stessa
città. Tutto mi diceva che si stava
per
celebrare
una
festività
straordinaria. La porta della chiesa
era spalancata - entrai - vidi gente
indaffarata a scopare, a ripulire
ogni cosa con cura. Si stavano
addobbando l'altar maggiore e gli
altari laterali con ghirlande di
fiori; un sacrestano parlava molto
di certe rose fresche attese per
l'indomani mattina; perché di rose
doveva
venir
ornato
l'altar
maggiore, per espresso ordine
della signora badessa.
Risoluto a presentarmi senza
indugio ai confratelli, mi rafforzai
con una intensa preghiera, quindi
andai al convento e chiesi del
priore Leonardo. La portiera mi
condusse in una sala dove
Leonardo sedeva in poltrona
circondato dai frati. Mi gettai ai
suoi piedi singhiozzando, straziato
dal
rimorso,
incapace
di
pronunziar parola.
- Medardo!... - esclamò lui.
Un sordo mormorio corse fra
le fila dei confratelli:
- Medardo!... Frate Medardo è
ritornato!... Finalmente!...
Mi risollevarono, mi strinsero
al petto, in un confuso intrecciarsi
di esclamazioni e domande:
- Lode al cielo!... Sei salvo!...
Scampato alle reti del mondo
infido!... Ma racconta... racconta,
fratello!...
Il priore si alzò e mi fece cenno
di seguirlo nella sala usualmente
adibita agli incontri con i visitatori
esterni.
- Medardo, - mi disse quando
fummo soli. - Tu hai commesso
sacrilegio; hai infranto i voti.
Invece di eseguire l'incarico a te
affidato, sei vergognosamente
fuggito - hai ingannato il convento
nel più indegno dei modi. Se
volessi attenermi alle severe leggi
dell'ordine, potrei farti murare
vivo!
Giudicatemi,
reverendo
padre, - risposi, - condannatemi
secondo la legge. Ah!... Con gioia
getterò il fardello d'una misera
vita di tormenti... Lo sentivo che la
durissima penitenza cui mi sono
sottoposto non mi avrebbe recato
alcun conforto, quaggiù!...
- Fatti animo, - disse Leonardo.
- Ha parlato il priore. Ora può
parlarti l'amico, il padre. Tu sei
scampato miracolosamente alla
morte, a Roma... Soltanto Cirillo è
caduto vittima di...
- Dunque, voi sapete?... domandai stupefatto.
- Tutto, - rispose il priore. - So
che
assistesti
il
poveretto
nell'estrema agonia; so che
tentarono
di
assassinarti
offrendoti per rinfresco un
bicchiere di vino avvelenato.
Benché sorvegliato dagli occhi
d'Argo dei monaci, suppongo avrai
trovato modo di versare via tutto
quel vino - perché, se ne avessi
bevuto una sola goccia, in dieci
minuti saresti stato spacciato.
- Sì: sospettai l'insidia e mi
versai il vino nella manica.
Guardate
qui!
esclamai
scoprendomi il braccio.
- Hai espiato la tua gravissima
colpa!... - mormorò sordamente
Leonardo, arretrando inorridito
alla raccapricciante vista dell'arto
mummificato. - Ma Cirillo... ah,
povero vecchio!...
Dissi che ignoravo la vera
causa di quella esecuzione segreta.
- Forse avresti subìto la stessa
sorte, - riprese Leonardo, - se ti
fossi presentato invece di Cirillo
come plenipotenziario del nostro
convento. Come sai, i diritti da noi
avanzati, avrebbero privato il
cardinale *** di tutti i redditi
illegittimamente percepiti. Fu
questo il motivo per cui egli si
alleò improvvisamente con un suo
acerrimo nemico, il domenicano
confessore del papa, ed acquistò in
lui un valido avversario da
contrapporre a Cirillo. L'astuto
monaco non tardò infatti a trovare
il mezzo di sbarazzarsi del nostro
buon confratello. - Lo condusse
egli stesso dal papa, e seppe
presentarglielo in modo tale da
farglielo apparire una personalità
d'eccezione. Così Cirillo entrò nel
gruppo dei religiosi più vicini al
vicario di Dio, ma ben presto
dovette toccare con mano come
questi cercasse un po'troppo il
proprio regno quaggiù, in questo
mondo e nei suoi piaceri, e fosse
divenuto un trastullo nelle mani
di una banda di ipocriti i quali, con
i mezzi più abietti, riuscivano a
piegarne lo spirito, naturalmente
forte ma sempre combattuto fra
cielo ed inferno. Il sant'uomo,
com'era prevedibile, ne provò una
pena immensa; e si sentì chiamato
a scuotere la coscienza del papa, a
distoglierne l'animo dai beni di
questa terra con discorsi ardenti,
ispirati dallo spirito. Il papa, come
tutti gli uomini adagiati nelle
mollezze, rimase, di fatto, molto
scosso dalle parole del santo
vecchio. Approfittando del suo
stato di turbamento, fu facile al
domenicano preparare abilmente
il colpo destinato ad abbattersi sul
povero Cirillo. Disse al papa che si
stava tramando niente meno che
una congiura per presentarlo alla
Chiesa come indegno di cingere il
triregno. Cirillo aveva avuto
l'incarico di condurre le cose a tal
punto; avrebbe intrapreso una
pubblica penitenza, e ciò sarebbe
stato il segnale convenuto per far
scoppiare
la
rivolta
già
serpeggiante fra i cardinali. Non fu
difficile al papa credere di scoprire
un'intenzione recondita negli
appassionati discorsi del nostro
fratello. Egli lo prese in odio ma
continuò a tollerarlo vicino a sé
per qualche tempo ancora, onde
evitare di prendere iniziative
vistose. Cirillo quando ebbe ancor
una volta occasione di parlargli
senza testimoni, gli disse chiaro e
tondo che colui il quale non
sapeva
rinunziare
incondizionatamente ai piaceri del
mondo
per
condurre
un'intemerata vita di santità, non
poteva essere un degno vicario di
Dio e della Chiesa. - Un simile
pontefice era un'onta, un motivo
di maledizione, di cui la Chiesa
doveva liberarsi.
Appena Cirillo fu visto uscire
dagli
appartamenti
papali,
qualcuno si accorse che l'acqua
ghiacciata destinata al pontefice
era stata avvelenata. Che Cirillo
fosse innocente non ho bisogno di
dirtelo. - Tu hai conosciuto il
sant'uomo, e tanto basta. Ma il
papa lo credette colpevole; e la
conseguenza di tutto ciò fu
l'ordine
di
giustiziarlo
segretamente nel convento dei
domenicani. - La tua presenza a
Roma aveva dato nell'occhio. Il
modo in cui tu parlasti al papa, e
specialmente il racconto della tua
vita, gli aveva fatto supporre
d'esser legato a te da una certa
affinità spirituale. Egli credeva di
potersi porre, insieme a te, su un
piano superiore - e distrarsi, e
rinfrancarsi
mediante
disquisizioni colpevoli sulla virtù,
la religione e via dicendo, in modo
- oserei dire - di poter peccare con
legittimo entusiasmo per il
peccato. I tuoi esercizi di
penitenza li aveva creduti un
astuto, un ipocrita espediente per
salire in alto. Ti ammirava - si
beava ai tuoi brillanti discorsi
laudativi. Così, prima ancora che il
domenicano se ne rendesse conto,
tu eri salito nei favori del
pontefice,
diventando
più
pericoloso, per quella malvagia
genia di intriganti, di quanto mai
non lo fosse stato Cirillo. Come
vedi,
Medardo,
sono
perfettamente informato dei tuoi
trascorsi romani. Conosco le tue
conversazioni col papa, parola per
parola. E in questo non c'è niente
di misterioso, se ti dico che il
nostro convento ha un amico,
molto vicino a sua santità, il quale
mi riferisce tutto, per filo e per
segno. Perfino quando credevi di
essere solo col papa, egli vi era
abbastanza vicino per poter
afferrare ogni vostra parola.
Quando tu iniziasti i severi
esercizi di penitenza nel convento
dei cappuccini - il cui priore è un
mio stretto parente - io credetti
sincero il tuo pentimento. E così
era, infatti. Ma a Roma ti lasciasti
riprendere dal malo spirito
dell'orgoglio colpevole, al quale già
soggiacesti quando eri con noi.
Perché ti sei accusato davanti al
papa di un delitto che non avevi
commesso?... Sei mai stato, tu, nel
castello del barone von F.?...
- Ah, reverendo padre! esclamai annichilito dal dolore. Fu quello il luogo dei miei misfatti
più orrendi. E la più dura
punizione
dell'imperscrutabile
potenza divina consiste proprio
nel fatto ch'io, qui, su questa terra,
non possa apparire purificato dalla
colpa commessa in un momento
di cieca follia. Anche per voi,
reverendo padre, io sono dunque
un ipocrita peccatore?...
- Effettivamente, - rispose il
priore, - adesso che ti vedo e ti
parlo, sono quasi convinto che,
compiuta la penitenza, tu non
saresti più stato capace di mentire.
Però, per me, c'è ancora un punto
misterioso, inspiegabile. Poco
dopo la fuga dalla residenza - (il
cielo non permise il sacrilegio che
stavi per commettere, e volle
salvare la buona Aurelia) - poco
dopo la fuga, dunque, e dopo che il
monaco scambiato per te perfino
da Cirillo si mise in salvo come
per miracolo, si seppe che non tu,
ma il conte Vittorino travestito da
frate era stato nel castello del
barone. Alcune lettere ritrovate fra
le
cose
di
Eufemia
già
accennavano a questo fatto - ma si
credette che Eufemia stessa fosse
stata ingannata, perché Rinaldo
aveva
dichiarato
di
averti
conosciuto troppo bene per poter
ammettere la possibilità d'un
errore, malgrado la tua enorme
rassomiglianza con Vittorino.
L'accecamento
di
Eufemia
rimaneva
incomprensibile.
A
questo punto saltò fuori il
palafreniere del conte. - Questi
riferì che il suo padrone, dopo
esser vissuto per mesi, solo, fra le
montagne, gli era comparso
davanti all'improvviso travestito
da cappuccino, nei pressi del
cosiddetto «abisso del diavolo». Dove si fosse procurato la tonaca,
il palafreniere non lo sapeva; ma il
travestimento non lo aveva
stupito,
avendogli
il
conte
confidato
il
proposito
di
presentarsi al castello del barone
travestito da monaco, di portare
quell'abito per un anno intero e
far altre grandi cose ancora.
Poteva tuttavia supporre donde
provenisse la tonaca, perché il
giorno prima il conte gli aveva
detto di aver visto un cappuccino
nel villaggio; e se costui si fosse
trovato a passare per il bosco, in
un modo o nell'altro la tonaca
gliel'avrebbe presa. Il palafreniere
non poteva asserire d'aver visto il
cappuccino; aveva udito un grido;
e poco dopo, al villaggio, già si
parlava d'un frate assassinato nel
bosco. Garantiva però di aver
riconosciuto il proprio padrone
senza possibilità di equivoco,
avendogli parlato a lungo anche
dopo la fuga dal castello. Queste
dichiarazioni del palafreniere
rafforzarono il convincimento di
Rinaldo. Soltanto la scomparsa di
Vittorino
rimaneva
incomprensibile. La principessa
avanzò l'ipotesi che il sedicente
signor
von
Krczynski
da
Kwiecziczewo potesse essere stato
appunto il conte Vittorino. Tale
convinzione
poggiava
sulla
straordinaria,
incredibile
rassomiglianza del conte con
Francesco (della cui colpevolezza
nessuno
più
dubitava),
e
sull'emozione da lei provata ogni
qualvolta lo vedeva. Molti si
schierarono dalla sua parte,
pretendendo
d'aver
notato,
malgrado tutto, una grande
distinzione
di
tratto
in
quell'avventuriero.
Averlo
scambiato per un finto monaco
era stato semplicemente ridicolo.
La
vicenda
del
monaco
mentecatto, vissuto nel bosco e
poi accolto ed ospitato dal
guardiaboschi,
pareva
avere,
almeno nel racconto di costui,
qualche nesso col misfatto di
Vittorino,
sempreché
si
accettassero per vere talune
circostanze. Un frate del convento
di
B'aveva
esplicitamente
riconosciuto Medardo in quel
povero folle, quindi doveva
esserlo. Spinto nel precipizio da
Vittorino, Medardo, per un caso
non poi così inverosimile, si era
salvato
riuscendo,
benché
gravemente ferito alla testa, a
trarsi fuori dal baratro. Ma il
dolore della ferita, la fame, la sete
lo avevano reso pazzo, frenetico.
Così, egli era andato vagando per i
monti, sfamato, forse, di quando
in quando, e ricoperto di cenci da
qualche
contadino
pietoso,
giungendo infine presso la casa
del guardiaboschi. In questa
versione due punti della vicenda
rimanevano tuttavia inspiegabili:
come Medardo avesse potuto far
tanta strada fra le montagne senza
venire fermato, e per quale motivo
avesse insistito nell'accusarsi di
colpe non commesse, finanche nei
momenti di perfetta lucidità,
constatati dai medici. Gli assertori
di questa ipotesi, per dimostrarne
la
verisimiglianza,
facevano
osservare come non si sapesse
assolutamente nulla della sorte di
Medardo, dal momento in cui era
scampato all'abisso del diavolo. La
pazzia poteva essere esplosa
soltanto quando egli già si trovava
a vagare nei pressi dell'abitazione
del guardiaboschi, e la spontanea
confessione
di
delitti
non
commessi poteva dipender dal
fatto ch'egli, in realtà, non fosse
mai guarito, neppure quando
pareva rientrato in senno; e la
convinzione d'essere veramente
l'autore dei delitti di cui lo si
accusava si era trasformata, nella
sua mente, in una vera e propria
idea fissa.
- Il giudice della corte
criminale, sulla cui sagacia si
faceva
molto
affidamento,
richiesto della propria opinione in
proposito rispose: «Il sedicente
signor von Krczynski non era
polacco né conte - e tanto meno
era il conte Vittorino. Ma
innocente non lo era di certo. Il
monaco non ha mai smesso di
essere un pazzo irresponsabile né
di comportarsi come tale. Perciò il
tribunale sarebbe stato propenso a
tenerlo in carcere, quanto meno
per misura di sicurezza». - Ma di
una condanna del genere il
principe non volle saperne; i fatti
di sangue avvenuti nel castello del
barone lo avevano scosso troppo
profondamente - e fu lui, lui
soltanto, a commutare nella pena
capitale la pena detentiva proposta
dai giudici. Ma nella nostra
misera, effimera vita umana,
qualsiasi cosa, azioni, fatti, per
quanto
mostruosi
possano
apparire in un primo momento,
scadono ben presto d'attualità e
d'interesse. E così, il dramma che
aveva sconvolto la residenza, e in
particolar modo la corte, si svilì al
livello
d'un
increscioso
pettegolezzo. L'ipotesi che lo
sposo fuggiasco di Aurelia fosse il
conte Vittorino riportò a galla la
vicenda dell'italiana. Anche coloro
che la ignoravano ne vennero
messi al corrente da chi non si
credeva ormai più in obbligo di
tacere. Chiunque aveva visto
Medardo trovava naturale la sua
impressionante rassomiglianza col
conte Vittorino, essendo entrambi
figli di uno stesso padre. Il medico
di corte, convinto di questa verità,
disse al principe: «Rallegriamoci,
vostra grazia, che quei due loschi
messeri se ne siano andati. Le
prime indagini sono rimaste
infruttuose:
non
indaghiamo
oltre!» - Il principe si associò di
gran cuore. Troppe volte era stato
indotto in errore da quel Medardo
bifronte. - «Questa triste vicenda
rimarrà sempre un mistero»,
disse, «e noi non cercheremo più
di sollevare il velo pietosamente
steso su di essa da un singolare
destino. Soltanto Aurelia...»
- Aurelia!... - esclamai con
impeto. - Per l'amor di Dio,
reverendo padre, che cosa n'è stato
di Aurelia?...
- Medardo, Medardo, - mi
ammonì il priore sorridendo
indulgente. - La terribile fiamma
non si è dunque ancor spenta in
te?... Basta così poco per farla di
nuovo divampare?... Se tu non ti
sei ancora liberato dei sentimenti
colpevoli cui hai ceduto, come
posso creder sincero il tuo
pentimento?...
Come
posso
credere che lo spirito della
menzogna ti abbia interamente
abbandonato?... Io crederò sincero
il
tuo
pentimento,
sappilo
Medardo, soltanto quando mi
convincerò che tu hai veramente
commesso i delitti di cui ti accusi.
Perché soltanto in questo caso
potrò credere che tu fossi
talmente sconvolto da scordare
tutti i miei ammaestramenti circa
la penitenza interiore ed esteriore,
e da ricorrere, per espiare, ad
espedienti falsi e meschini, come
fa il naufrago aggrappandosi alla
prima malsicura assicella. In tal
modo dovevi necessariamente
apparire un imbroglione vanesio,
non soltanto agli occhi di un Papa
perverso ma anche a quelli d'ogni
buon credente. Ed ora dimmi,
Medardo: quando pensavi ad
Aurelia, le tue devozioni, i tuoi
aneliti a Dio, erano assolutamente
immacolati?...
Abbassai gli occhi, annichilito.
- Sei sincero, Medardo, continuò il priore. - Il tuo silenzio
mi dice tutto. L'individuo che, alla
residenza, si spacciava per un
nobiluomo polacco e voleva
sposare Aurelia eri tu. Lo sapevo.
N'ero perfettamente convinto. Ti
ho seguito abbastanza da presso
lungo tutto il tuo cammino. Uno
strano tipo, un certo Belcampo,
parrucchiere,
che
incontrasti
ultimamente a Roma, mi recò tue
notizie. Ero convinto, del pari, che
fossi stato tu ad assassinare in
quell'esecrabile modo Ermogene
ed Eufemia, e tanto più inorridivo
al pensiero che tu volessi prendere
Aurelia nelle tue diaboliche reti.
Avrei potuto rovinarti; ma, ben
lontano dal credermi designato al
compito di vendicatore, ti lasciai al
tuo destino e alla provvidenza di
Dio. Riuscisti a salvarti in modo
miracoloso, e tanto bastò a
convincermi che la tua rovina, qui
in terra, non era ancora decisa. Ed
ora
ascolta
quali
singolari
circostanze mi fecero credere, in
seguito,
che
fosse
stato
effettivamente
Vittorino
a
presentarsi nel castello del barone
von F. travestito da frate. Non
molto tempo fa, frate Sebastiano,
il portiere, venne svegliato da
gemiti fiochi, angosciosi, simili al
rantolo di un moribondo. Era già
quasi l'alba. - Sebastiano si alzò,
aperse il portone e vide un uomo
disteso
davanti
all'ingresso.
L'infelice, mezzo intirizzito dal
freddo, balbettò a stento di essere
Medardo, il monaco fuggito dal
nostro convento. Sebastiano corse
da me, spaventato, mi riferì. Scesi
con i fratelli, portammo l'uomo
svenuto nel refettorio: il suo viso
era stravolto fino all'inverosimile,
eppure ci parve di riconoscere i
tuoi lineamenti. - Se qualche
dubbio
sussisteva,
osservò
qualcuno, non poteva dipendere
che dal diverso modo di vestire.
Medardo lo conoscevamo bene,
tutti quanti! L'uomo aveva barba e
tonsura ma indossava abiti
secolari, laceri, rovinati, benché
originariamente eleganti: calze di
seta - ancora una fibbia d'oro ad
una delle scarpe - panciotto di raso
bianco...
- Giubba castano scuro, di
panno finissimo, - continuai io, biancheria ricamata, un semplice
cerchietto d'oro al dito...
- Esattamente! - esclamò
Leonardo stupito. - Ma tu come
sai?...
- Ah!... Così vestivo la fatale
mattina delle nozze!...
Mi risorse dinnanzi il «sosia»!
- Non era stato l'incorporeo,
l'orrendo demone della follia ad
inseguirmi, a balzarmi sulle spalle
come una belva smaniosa di
dilaniarmi corpo ed anima. No!...
Era stato il monaco pazzo a
rincorrermi, a prendermi i vestiti,
a gettarmi addosso la tonaca
quando mi aveva visto a terra
privo di sensi!... L'uomo disteso
davanti alla porta del convento era
lui - la sinistra ripetizione di me
stesso!... - Pregai il priore di
proseguire il racconto. Ma già
intravedevo
gli
straordinari
sviluppi della misteriosa vicenda.
- Quell'uomo non tardò a dare
indubbi segni di demenza, riprese Leonardo. - Ma benché,
come ho detto, ti rassomigliasse in
modo impressionante, benché
continuasse a gridare: «Io sono
Medardo!... Sono il frate fuggito da
questo convento!... voglio espiare
qui, da voi!...», io mi convinsi ben
presto che si trattava d'una
fissazione. Lo vestimmo da
cappuccino, lo conducemmo in
chiesa, lo invitammo ai consueti
esercizi di devozione; ma, dal
modo in cui si sforzava di
praticarli, ci accorgemmo subito
che non era mai stato in un
convento. Allora mi venne un'idea:
«E se costui fosse il frate fuggito
dalla residenza?», pensai. «Se
fosse Vittorino?...» - La storia data
ad intendere al guardiaboschi dal
demente era venuta a mia
conoscenza. Ma, secondo me, il
fatto di aver ritrovato e finito di
bere l'elisir del diavolo, la visione
in carcere, tutte le circostanze,
insomma,
relative
alla
permanenza
in
convento,
potevano essere scaturite dalla sua
mente malata, sotto l'inspiegabile
suggestione psichica della tua
personalità.
Era
strano,
a
proposito, che durante le crisi
peggiori, il pazzo gridasse sempre
di essere conte - signore - sovrano!
Decisi
di
trasferirlo
nel
manicomio di San Fedele. Se
esisteva una sola possibilità di
guarigione,
il
direttore
di
quell'istituto, un medico geniale,
profondo conoscitore di tutte le
anomalie dell'organismo umano,
lo avrebbe probabilmente guarito,
permettendomi
di
scoprire,
almeno in parte, con l'aiuto di
quell'infelice rientrato in senno, le
misteriose trame ordite dalle
potenze ignote. Ma ciò non
avvenne. La terza notte fui
svegliato dalla campanella che,
come sai, viene suonata quando
qualcuno nella camera degli
ammalati ha bisogno di me. Andai
a vedere. Lo sconosciuto, mi
dissero,
aveva
chiesto
insistentemente di parlarmi. Non
sembrava
più
pazzo
probabilmente voleva confessarsi
perché era talmente stremato da
far temere che non avrebbe
passato la notte. - «Perdonatemi»,
mi disse, dopo che io gli ebbi
rivolto alcune parole di religioso
conforto.
«Perdonatemi,
reverendo, se ho avuto l'ardire di
ingannarvi. Io non sono frate
Medardo. In me voi vedete il conte
Vittorino - anzi, dovrei dire il
«principe» perché discendo da
stirpe principesca - e vi consiglio
di tenerlo presente per non
incorrere nella mia collera». Principe o conte, risposi, la cosa,
in quelle circostanze, in quel
luogo, non aveva importanza
alcuna. Mi sembrava meglio che
scordasse le vanità di questo
mondo per rimettersi, in piena
umiltà, ai voleri della provvidenza.
L'uomo mi guardò fisso. Le forze
parvero
venirgli
meno. Gli
vennero date alcune gocce cordiali
e tosto si riprese. «Credo di star
per morire», disse. «E prima
vorrei togliermi un peso dal cuore.
Voi siete più forte di me. Cercate
di non darmelo a vedere, ma io
l'ho capito: siete sant'Antonio - e
sapete benissimo quali disastri
abbiano causato i vostri elisir.
Quando mi decisi a travestirmi da
frate, con una gran barba e un saio
di panno marrone, avevo grandi
cose in mente. Ma mentre
meditavo i miei piani fu come se i
pensieri più reconditi uscissero da
me,
per
trasformarsi
in
un'orrenda,
sinistra
creatura
corporea. - E l'essere orrendo ero
io. Quel secondo io aveva una
forza rabbiosa; e quando, fra le
nere rupi sul fondo dell'abisso, la
principessa candida come la neve
emerse dalle acque spumeggianti,
il mostro mi scaraventò giù. La
principessa mi raccolse fra le
braccia, lavò le ferite, mi fece
passare ogni dolore. Purtroppo, si
sa, ero un monaco; ma il secondo
io, nato dal mio pensiero, era più
forte di me, e mi costrinse ad
uccidere la principessa che mi
aveva salvato ed amavo, insieme a
suo fratello. Mi gettarono in
carcere. Ma voi, sant'Antonio, ben
sapete
come
mi
salvaste,
portandomi via in volo, dopo
avermi ubriacato col vostro
maledetto liquore. Il verde re
Silvano mi accolse malamente,
pur riconoscendo la mia dignità di
principe. L'io dei miei pensieri si
rese visibile anche a lui, mi
rinfacciò ogni sorta di brutte cose,
pretendendo di rimanere sempre
con me perché avevamo agito in
combutta. E con me rimase. Poi,
mentre fuggivamo perché ci
volevano
tagliare
la
testa,
diventammo
nemici.
Quella
ridicola copia di me stesso
pretendeva di nutrirsi in eterno
dei miei pensieri, perciò io lo
scaraventai a terra, gliele diedi di
santa ragione, gli presi gli abiti».
Fin qui il discorso dello sventurato
era, bene o male, comprensibile,
ma poi si perse nel vaniloquio
sconclusionato della demenza.
Un'ora dopo, quando suonò la
campanella della prima messa,
l'uomo,
lanciando
un
urlo
terrificante, balzò a sedere e
ricadde indietro come morto. Lo
feci trasportare nella camera
mortuaria, per poi seppellirlo in
terra consacrata, nel nostro
giardino. Ma quando ritornammo
per metterlo nella bara e portarlo
via, il cadavere era scomparso.
Puoi immaginare se rimanemmo
stupefatti e sgomenti! Tutte le
ricerche
furono
vane. Così
rinunziai
per
sempre
ad
apprendere qualcosa di più
preciso, di più illuminante, circa i
misteriosi
rapporti
che
ti
coinvolgevano nelle vicende del
conte Vittorino.
- Tuttavia, se associavo tutte le
circostanze a me note circa la
tragedia avvenuta nel castello ai
discorsi confusi del povero folle,
quasi non avevo più dubbi che il
morto fosse il conte Vittorino.
Dagli accenni del palafreniere, il
conte, dopo aver ucciso un
cappuccino lassù fra le montagne,
gli aveva preso la tonaca per
mettere in atto i propri piani, in
casa del barone. Poi, andando
forse oltre le intenzioni, aveva
concluso l'infame commedia con
l'assassinio
di
Eufemia
ed
Ermogene. Probabilmente era
pazzo già fin da allora, come
sosteneva
Rinaldo,
oppure,
tormentato dal rimorso, era
impazzito durante la fuga. La veste
che indossava e l'uccisione del
monaco avevano generato in lui la
fissazione di essere veramente un
cappuccino, scindendo la sua
personalità in due elementi
diversi, in conflitto. Rimane
oscuro
soltanto
il
periodo
compreso tra la fuga dal castello e
l'arrivo
alla
casa
del
guardiaboschi;
ed
è
pure
inspiegabile
in
qual
modo
prendesse forma nella sua mente
il racconto relativo al periodo
trascorso in convento e alla fuga
dal carcere. L'apporto di taluni
elementi esterni è indubbio. Ma è
straordinario che quel racconto
ripetesse, sia pure incompleta e
deformata, la tua stessa storia. La
data
dell'arrivo
del
frate
all'abitazione del guardiaboschi,
stando alle dichiarazioni di costui,
non coincide col giorno della fuga
di Vittorino dal castello, indicato
da
Rinaldo.
A
detta
del
guardiaboschi,
Vittorino,
già
pazzo, si sarebbe fatto vedere nel
bosco subito dopo il suo arrivo al
castello del barone. Secondo
Rinaldo, invece...
- Tacete! - lo interruppi io. Basta, reverendo padre. Ormai
devo deporre ogni speranza di
ottenere la grazia del Signore e
l'eterna salvezza nonostante il
peso dei miei peccati. Ch'io possa
morire disperato, maledicendo me
stesso e la mia vita, se non vi
rivelerò pentendomi, come già feci
in confessione, tutto ciò che
accadde dal giorno in cui lasciai il
convento!
E raccontai. La completa,
circostanziata storia della mia vita
lasciò il priore stupefatto.
- Devo crederti, - mi disse
infine. - Devo crederti, frate
Medardo. Mentre parlavi ti ho
letto in viso i segni di un
pentimento profondo e sincero.
Ma chi può penetrare il mistero
dell'affinità spirituale esistente fra
due fratelli, nati da uno stesso
padre colpevole, e uniti finanche
nel delitto?... Vittorino, dunque,
scampò
miracolosamente
dal
precipizio in cui tu lo gettasti - lui
era il monaco folle raccolto dal
guardiaboschi - lui il tuo
persecutore - il tuo sosia, che
venne poi a morire qui in
convento. Tutto questo è certo. Ma
egli era soltanto uno strumento
delle forze del male penetrate in te
- non tuo compagno - un essere
inferiore posto sul tuo cammino
per precluderti la vista della meta
luminosa che forse ti avrebbe
arriso. Ah, frate Medardo! Il
diavolo circola ancora pel mondo e
senza posa va offrendo i propri
elisir agli uomini! Chi può dire di
non aver assaggiato - e gustato almeno una delle sue infernali
bevande?... Ma il cielo vuole che
l'uomo si renda cosciente dei
rovinosi effetti di un traviamento
anche
passeggero,
e
dalla
consapevolezza tragga la forza di
resistere alla tentazione. Come la
vita naturale è condizionata dal
veleno, così il Bene vuol'essere
condizionato dal Male: in questo
mistero si manifesta la potenza
del Signore. Posso parlarti così,
Medardo, perché so che tu non mi
fraintenderai.
Ora
và
a
raggiungere i confratelli.
La nostalgia del mio supremo
amore mi afferrò tutt'a un tratto,
mordendomi i nervi, le vene, come
uno spasmo dilaniante.
- Aurelia... Oh, Aurelia! esclamai.
Il priore si alzò e mi disse in
tono grave e severo: - Non hai
notato i preparativi d'una funzione
solenne, in convento?... Domani
Aurelia prenderà il velo. Assumerà
il nome di Rosalia -. Rimasi muto,
di sasso.
- Và dai confratelli! - esclamò il
priore quasi con sdegno. Senza
rendermi chiaro conto di quanto
facevo,
scesi
nel
refettorio
dov'erano radunati i monaci. Di
nuovo fui tempestato di domande,
ma circa la mia vita non riuscii a
dire neppure una parola. Tutte le
immagini del passato si erano
ottenebrate in me: soltanto la
figura di Aurelia emergeva
sfolgorante, radiosa. Col pretesto
di dover compiere un esercizio di
devozione lasciai i confratelli e
andai nella cappella situata in
fondo all'ampio giardino del
convento. Avrei voluto pregare,
ma il benché minimo rumore,
perfino il lieve fruscio del
fogliame, là fuori, mi distraeva e
impediva di concentrarmi in
contemplazione. «È lei!...» gridava
una voce dentro di me. «Sta
venendo... la rivedrò!...», e il cuore
mi balzava in petto per la delizia e
l'angoscia. Mi parve, ad un tratto,
di udire una conversazione
sommessa. Balzai in piedi, uscii
dalla cappella ed ecco, a pochi
passi da me, due suore con nel
mezzo una novizia. Ah!... Era
certamente Aurelia. Un tremito
nervoso mi mozzò il respiro. Feci
per avanzare ma non potei
muovere un passo - e crollai a
terra.
Che giornata!... Che notte!...
Aurelia - sempre e soltanto
Aurelia - nessun'altra immagine,
nessun altro pensiero trovava
posto in me...
Alle prime luci dell'alba le
campane del convento suonarono
a festa per la vestizione di Aurelia,
e poco dopo i frati si riunirono in
una grande sala. Accompagnata da
due suore, la madre badessa entrò.
Quale impressione indescrivibile
provai nel rivederla!... Nel rivedere
colei che aveva tanto amato mio
padre, per poi riversare - malgrado
egli avesse brutalmente troncato
con azioni delittuose il legame da
cui avrebbe potuto trarre tanta
fortuna, tanto bene - per poi
riversare, malgrado tutto questo,
sul figlio di lui l'affetto che aveva
distrutto la propria felicità.
Avrebbe voluto educare alla pietà,
alla virtù quel figliolo; ma
anch'egli,
come
il
padre,
accumulando delitti su delitti,
aveva distrutto nella buona madre
adottiva ogni speranza di trar
conforto dalle virtù del figlio alla
perdizione del padre.
A capo chino, lo sguardo a
terra, ascoltai il breve discorso con
cui la badessa annunziò una volta
ancora ai religiosi colà adunati
l'ingresso di Aurelia in convento,
esortandoli a pregare con fervore
affinché il Nemico non avesse il
potere di turbar l'animo e i sensi
della pia vergine.
- Questa innocente fanciulla, disse la badessa, - dovette
superare dure, durissime prove. Il
Nemico tentò di indurla al male e
l'inferno usò tutte le possibili
malizie per confonderla, di modo
che ella peccasse senza sospettare
di far il male, e poi, come
destandosi
da
un
sogno,
precipitasse nell'onta e nella
perdizione. Ma l'Onnipotente
protesse l'angelica creatura; e se
oggi ancora il Nemico tentasse di
avvicinarla per trarla a rovina, la
Sua vittoria su di lui riuscirebbe
ancor più gloriosa. Pregate
dunque, pregate fratelli - non già
affinché la sposa di Cristo non
vacilli, ché saldo è il suo spirito e
volto ormai tutto alle cose del
cielo - ma affinché nessuna
sciagura contingente abbia a
interrompere il sacro rito. Un
timore di cui non so liberarmi si è
impossessato dell'animo mio!...
Era evidente: la badessa vedeva
in me, e in me soltanto, il demone
della tentazione - metteva in
rapporto la mia venuta con la
vestizione
di
Aurelia,
attribuendomi
chissà
quali
propositi insani. Conscio di
essermi sinceramente pentito, di
aver
espiato,
convinto
del
profondo mutamento avvenuto in
me, mi ribellai. La badessa non mi
degnava d'uno sguardo. Offeso,
indignato, sentii ridestarsi in me
quello
stesso
odio
amaro,
sprezzante, provato nel vedere la
principessa, alla corte del principe.
E se prima mi sarei gettato nella
polvere, ai suoi piedi, dopo aver
udito quelle parole fui tentato di
affrontarla senza alcun ritegno e
dirle coraggiosamente: «Fosti tu,
dunque sempre una donna così
sovrumana
da
ignorare
le
tentazioni del mondo?... Quando
vedevi mio padre ti comportavi
sempre in modo da non dar adito
neppure
a
un
pensiero
colpevole?... E quando già portavi
mitria e pastorale, dimmi, il
ricordo di mio padre, nei momenti
di abbandono, non suscitava
ancora in te qualche nostalgia di
piaceri proibiti?... Che cosa
provasti,
donna
orgogliosa,
quando stringesti al cuore il figlio
del
tuo
amore
perduto
invocandone così dolorosamente il
nome, benché egli fosse un
peccatore perverso? Non dovesti
mai lottare contro le forze del
male, così come feci io?... E puoi
davvero rallegrarti d'una vittoria, e
crederla autentica, se non fu
preceduta da durissime lotte?... Ti
senti tanto forte da disprezzare
colui che soggiacque al potente
Nemico ma per poi risollevarsi nel
pentimento, nell'espiazione?...»
Quell'improvviso mutamento
avvenuto nel corso dei miei
pensieri, la trasformazione del
penitente nell'uomo fiero della
propria vittoria e deciso a rientrar
nella vita riconquistata, dovette
apparire evidente anche agli
osservatori ignari; infatti, il frate
in piedi accanto a me mi
domandò:
Che
cos'hai,
Medardo?... Perché lanci occhiate
così strane e sdegnate a quella
santa donna?...
- Sì, - risposi a mezza voce. Può ben essere una santa donna,
perché si è sempre tenuta tanto in
alto da non lasciarsi mai neppure
raggiungere dalle cose profane.
Ma, piuttosto che una suora
cristiana, mi da l'impressione di
essere una sacerdotessa pagana
già pronta, col coltello in pugno, a
celebrare sacrifici umani -. Come
potessi dire parole così esorbitanti
dal mio ordine d'idee, non so. Ma
esse si trascinarono dietro un
confuso turbinio di immagini, rese
coerenti da un'unica nota comune:
il terrore. Aurelia doveva dunque
lasciare il mondo per sempre doveva, come già avevo fatto io,
pronunziando voti che ora mi
sembravano
un
mostruoso
paradosso di follia religiosa -
rinunziare a tutte le gioie della
vita?... E come già allora, quando,
venduto a Satana, vaneggiavo di
raggiungere nella colpa, nel
peccato il supremo punto di luce,
il vertice radioso della vita umana,
di nuovo pensai che Aurelia ed io
dovessimo godere almeno per un
attimo della suprema gioia
d'amore e poi morire insieme,
consacrati agli inferi. Sì. Come un
orrendo mostro, come Satana
stesso, risorse in me il pensiero
del delitto!... Ah, stolto, cieco!...
Mentre ascoltavo le parole della
badessa come se fossero rivolte a
me, non mi avvedevo di star
attraversando la più dura, forse, di
tutte le prove, non mi avvedevo di
essere ricaduto sotto il dominio di
Satana e da lui tentato all'azione
più spaventevole fra quante mai
ne avessi commesse.
Il frate mi guardò allibito: Gesù... Vergine santissima... che
state dicendo?... - esclamò. Io
guardai la badessa, ormai sul
punto di lasciare la sala. Il suo
sguardo cadde su di me; essa
rimase per un istante a fissarmi,
pallidissima. - La vidi vacillare - le
suore dovettero sorreggerla. Mi
parve di udirla mormorare: - Santi
del
paradiso!...
Il
mio
presentimento! - Poco dopo il
priore Leonardo fu mandato a
chiamare da lei, e quando rientrò
le campane del convento avevano
ripreso a suonare, confondendosi
con la voce tonante dell'organo e i
canti sacri delle suore adunate nel
coro. I religiosi dei vari ordini si
avviarono in solenne corteo verso
la chiesa, affollata quasi come nel
giorno di San Bernardo. A lato
dell'altar maggiore, addobbato di
rose, erano disposti gli alti seggi
riservati al clero e, dirimpetto, la
tribuna della cappella episcopale.
Celebrava il vescovo in persona.
Leonardo mi chiamò al suo fianco.
Mi accorsi che mi sorvegliava
inquieto, tenendo d'occhio ogni
mio movimento. Mi invitò a
pregare senza alzar gli occhi dal
breviario. Le monache clarisse si
radunarono in uno spazio accanto
all'altar maggiore, dietro una
bassa parete graticolata.
Giunse il momento decisivo.
Dall'interno
del
convento,
passando attraverso un cancello
aperto dietro l'altare, le suore
cistercensi introdussero Aurelia.
Al suo apparire un mormorio
corse tra la folla - l'organo tacque:
rimasero soltanto gli accordi puri,
commoventissimi, del semplice
inno cantato dalle suore. Io non
avevo ancora alzato gli occhi; ma a
questo punto un'ansia indicibile
mi invase. Scosso da un sussulto
spasmodico, lasciai cadere il
breviario.
Mi
chinai
per
raccoglierlo ma un'improvvisa
vertigine mi avrebbe fatto cadere a
testa avanti da tutta l'altezza del
seggio, se Leonardo non fosse
stato pronto a sorreggermi. - Che
hai, Medardo? - mi domandò
sottovoce. - Sei molto agitato. Il
Nemico ti incalza: resisti!... Facendo appello a tutte le mie
forze mi dominai - alzai gli occhi vidi Aurelia in ginocchio davanti
all'altare... O, Dio del cielo!... Era
radiosa di bellezza, di grazia, come
non l'avevo vista mai!... Sembrava
una sposa... Ah!... Vestiva proprio
come nel giorno fatale in cui
avrebbe dovuto essere mia!... Rose
e mirti intrecciati nell'artistica
pettinatura, le guance accese per
la mistica commozione del
momento solenne, lo sguardo
estatico
rivolto
al
cielo.
L'emozione provata vedendola per
la prima volta, rivedendola alla
corte del principe, non era stata
nulla in confronto a quanto provai
nel rivederla così!... L'amore, la
passione,
la
bramosia
più
selvaggia divamparono in me con
inaudita violenza. O Dio!... O voi,
santi del paradiso!... Fate che non
impazzisca... soltanto che non
impazzisca!... Salvatemi, salvatemi
da questa pena infernale!... Ch'io
soltanto
non
impazzisca,
altrimenti
sarò
costretto
a
commettere l'azione orrenda e ad
abbandonare l'anima mia alla
dannazione eterna! Così pregavo
in
cuor
mio,
sentendomi
sopraffare dallo spirito del male.
Io solo ero colpevole, eppure
vedevo in Aurelia la mia complice,
sul punto di pronunziare davanti
all'altare del Signore non già i
sacri voti, ma il
solenne
giuramento di essere mia. - Non la
sposa di Cristo vedevo in lei, ma la
empia donna del frate rinnegato...
Abbracciarla
con
passione
selvaggia, e poi darle la morte!...
Ossessionato da questo pensiero,
trascinato
sempre
più
irresistibilmente dallo spirito del
male, avrei
voluto
gridare:
«Fermatevi,
pazzi!...
Non
vedete?... Volete elevare alla
dignità di sposa del Signore non
una vergine pura d'ogni passione
umana, ma la donna del frate!...»
avrei voluto slanciarmi fra le
suore, strappar loro dalle mani
Aurelia... Già frugavo nella tonaca
cercando il coltello ma, nel
frattempo, la cerimonia era giunta
al punto culminante: Aurelia
aveva cominciato a pronunziare le
parole del voto. Quando udii la sua
voce fu come se un tenero
chiarore lunare filtrasse attraverso
un cielo nero di nubi tempestose.
La luce si fece in me - riconobbi lo
spirito del male e ad esso
disperatamente mi opposi. Ogni
parola di Aurelia mi dava nuova
forza; e dall'estenuante lotta ben
presto uscii vincitore: ogni
tenebroso pensiero sacrilego, ogni
brama colpevole svanì. Quei voti
erano la mia consolazione, la mia
speranza. Un empito di divina
letizia mi illuminò. Leonardo (di
cui soltanto allora tornai ad
avvertire la presenza) parve
accorgersi
del
mutamento
avvenuto in me, perché mi disse: Hai resistito al nemico, figliolo.
Questa è stata l'ultima durissima
prova cui ha voluto sottoporti
l'Onnipotente.
Pronunziati che furono i voti,
mentre le clarisse intonavano un
canto responsoriale, le suore si
accinsero alla vestizione di
Aurelia. Già le avevano sciolto dal
capo le ghirlande di rose e mirto e
stavano per reciderle le lunghe
chiome fluenti, inanellate, quando
in fondo alla chiesa si scatenò un
trambusto.
Vidi
la
folla
ondeggiare, come sotto la spinta di
qualcuno, gente cadere a terra. Il
tumulto ingrossò, avvicinandosi e un uomo con un saio di
cappuccino a brandelli sul corpo
seminudo, un bruto forsennato
dagli occhi belluini iniettati di
sangue, si fece largo rovesciando a
pugni chiunque gli si parasse
dinnanzi... Ah!... Era il mio sosia,
l'orrida ripetizione di me stesso!...
Intuii la tragedia e feci per
slanciarmi verso di lui - ma il
mostro
demente
già
aveva
scavalcato d'un balzo la balaustra
dell'altar maggiore e, mentre le
monache
si
sparpagliavano
urlando e la badessa stringeva
Aurelia fra le braccia, s'era messo
a sbraitare con voce stridente
brandendo un coltello: - Ah... ah...
ah!...
Volevate
rubarmi
la
principessa?... Ma la principessa è
mia!... È la mia sposina!... - E,
sollevata
Aurelia
con
uno
strattone, le infisse il coltello nel
cuore, fino all'impugnatura. - Alto
zampillò il sangue.
- Evviva!... Evviva!... - sbraitò il
forsennato. - Evviva!... Mi sono
preso la mia sposina!... Mi sono
preso la principessa!... - E
scomparve per la cancellata dietro
l'altare, nelle gallerie del convento.
Le suore, il popolo, tutti
urlarono inorriditi: - Delitto!...
Delitto!... Sangue sull'altare del
Signore!...
- Sbarrate le uscite del
convento, che l'assassino non
sfugga!... - tuonò Leonardo. La
gente si precipitò fuori, e perfino i
più validi fra i monaci, dato di
piglio alle mazze processionali, si
slanciarono all'inseguimento del
pazzo.
Tutto ciò era avvenuto in un
attimo.
Io subito mi inginocchiai
accanto ad Aurelia, mentre le
suore cercavano di fasciare alla
meglio la ferita con candidi
pannolini e prestavano soccorso
alla badessa svenuta.
- Sancta Rosalia, ora pro nobis!
- invocò una voce robusta a pochi
passi da me.
- Miracolo!... Miracolo!... È una
martire!... - fecero coro tutti i
fedeli rimasti in chiesa. - «Sancta
Rosalia, ora pro nobis!...»
Alzai gli occhi - e mi vidi a
fianco il vecchio pittore - grave,
benevolo come mi era apparso nel
carcere. Ma ormai né il dolore per
la morte di Aurelia, né lo
sgomento per l'apparizione del
pittore potevano più toccarmi,
perché nella mia mente andava
facendosi
luce
andavano
sciogliendosi i nodi dell'enigma
allacciati dalle forze oscure.
- Miracolo... Miracolo!... continuava a gridare la folla. Vedete il vecchio col manto
violetto?... È sceso dal quadro
dell'altar maggiore... Io l'ho visto...
Anch'io...
Anch'io!...
Così
esclamando, tutti caddero in
ginocchio, e il vociare confuso si
estinse in un sordo mormorio di
preghiere, intercalato da pianti e
singhiozzi.
- Aurelia! - esclamò con lo
strazio nella voce la badessa
appena rinvenne. - Aurelia...
bambina
mia...
Mia
buona
figliola!... Eterno Iddio - sia fatta
la tua volontà!
Quando sollevarono Aurelia
per deporla sopra una barella
imbottita di coperte e cuscini, essa
emise un profondo sospiro e
aperse gli occhi. In piedi dietro di
lei, il pittore le aveva posto una
mano sul capo. Il suo aspetto era
quello di un santo potente, e tutti,
perfino la badessa, lo guardavano
stupefatti e compresi di timor
reverenziale. Io mi inginocchiai
presso la barella. - Lo sguardo di
Aurelia cadde su di me - allora -
allo spettacolo del doloroso
martirio di quella santa, una pena
immensa mi invase. Feci per
parlare ma non riuscii ad emettere
che un singhiozzo strozzato.
- Perché piangi?... - mi disse
dolcemente Aurelia. - Il cielo si è
degnato di togliermi da questo
mondo proprio nel momento in
cui stavo riconoscendo la vanità di
tutte le cose umane - e anelavo
soltanto più al regno della gioia e
della beatitudine eterna... - Mi
alzai, mi feci ancor più vicino:
- Aurelia, - dissi. - Santa
fanciulla!... Per un attimo soltanto
abbassa su di me lo sguardo, dalle
supreme regioni in cui ti trovi, o
mi perderò nel più atroce e
sconvolgente
dei
dubbi...
Aurelia!... Mi sono posto sul tuo
cammino come Satana stesso... ho
distrutto la tua vita... Sono un
peccatore sacrilego e perverso...
Mi
disprezzi?...
Ah!...
Ho
duramente espiato, ma so, so bene
che nessuna penitenza sminuirà
mai il peso delle mie colpe...
Aurelia!... Sarai in pace con me
nella morte?... - Come accarezzata
da un'ala d'angelo essa sorrise e
chiuse gli occhi. - O, salvatore del
mondo, - pregai. - Vergine
santissima!...
Dovrò
dunque
rimanere quaggiù sconsolato,
disperato?... Salvatemi, salvatemi
dalla perdizione infernale!...
- Medardo! - bisbigliò Aurelia
riaprendo gli occhi ancora una
volta. - Tu hai ceduto alle forze del
male. Ma non ho forse peccato
anch'io quando speravo di trovare
la felicità su questa terra in un
amore colpevole?... Un misterioso
decreto dell'Eterno ci aveva
designati entrambi ad espiare le
gravissime colpe della nostra
stirpe perversa. Ecco perché ci ha
uniti quell'amore che regna
soltanto sulle stelle e non ha nulla
in comune col piacere dei sensi.
Ma l'astuto nemico è riuscito a
velarci il profondo significato del
nostro amore, a tentarci, a
confonderci al punto da farcelo
intendere in senso umano, mentre
esso doveva essere divino. Ah!
Non fui io a rivelarti il mio amore
nel confessionale?... E invece di
accendere in te il pensiero
dell'amore
eterno
ho
fatto
divampare il fuoco infernale della
lussuria - e tu, per non esserne
distrutto,
hai
cercato
di
estinguerlo nel sacrilegio. Fatti
animo, Medardo!... Il povero
demente indotto dal demonio a
credere di dover compiere l'opera
da te iniziata, era uno strumento
del cielo - e del cielo ha realizzato i
disegni. Coraggio, Medardo. Presto... presto... - Pronunziate
queste parole già ad occhi chiusi e
con sforzo evidente, Aurelia perse
conoscenza.
- Si è confessata a voi,
reverendo?... Si è confessata?... domandarono le suore curiose.
- No, - risposi. - Non lei a me.
Io a lei. E mi ha colmato l'anima di
celestiale conforto.
- Buon per te, Medardo, - mi
disse il pittore. - Il tempo delle tue
prove sarà presto finito. E me
felice, allora!
- Non abbandonatemi, dunque,
uomo meraviglioso! - gli dissi
avvicinandomi; e mentre stavo per
parlargli ancora, non so neppure
io come, fui colto da uno strano
intontimento e caddi in uno stato
di dormiveglia. Un forte vociare
confuso mi svegliò. Il pittore non
c'era più. Contadini, borghesi,
soldati avevano fatto irruzione in
chiesa e reclamavano a gran voce
il permesso di perlustrare il
convento per scovar l'assassino di
Aurelia. La badessa, temendo
giustamente disordini, tentava di
rifiutare, di opporsi, ma neppure
la sua autorità era sufficiente a
calmare gli spiriti esagitati. La
gente le rinfacciava di voler
nascondere il criminale per un
meschino ritegno, unicamente
perché si trattava di un monaco. Il
tumulto si faceva sempre più
minaccioso e violento; la folla
sembrava sul punto di voler
irrompere di prepotenza nel
monastero. Allora Leonardo salì
sul pulpito e, dopo alcune
energiche
parole
sulla
profanazione
dei
luoghi
consacrati,
spiegò
come
l'assassino non fosse affatto un
monaco, ma un pazzo, accolto e
curato nel convento. Giorni
addietro, poiché pareva fosse
morto, egli lo aveva fatto rivestire
d'un saio dell'ordine e trasportare
nella camera mortuaria donde il
pazzo,
morto
soltanto
in
apparenza, era fuggito. Ma se si
trovava ancora nel convento si
erano già prese misure tali da
precludergli ogni via di scampo. La
folla si calmò; chiese soltanto che
Aurelia non venisse trasportata
nel chiostro per i corridoi interni,
ma attraverso il cortile, in
processione solenne. Così fu fatto.
Le suore, ancora impaurite,
sollevarono la barella ricoperta di
rose, così come di rose e mirti era
inghirlandata Aurelia. La badessa,
sorretta da due consorelle, si avviò
subito dietro la barella, sopra la
quale quattro monache reggevano
il baldacchino; poi si mossero le
altre suore con le clarisse, poi i
frati dei diversi ordini, e infine il
popolo tutto. Il corteo attraversò
la chiesa. La suora organista
ritornò di sopra, nel coro, così
quando il corteo giunse al centro
della navata principale, cupi e
tremendi rimbombarono dall'alto
gli accordi dell'organo.
Ma ecco! Aurelia si sollevò
lentamente a sedere, le mani
giunte levate al cielo. La folla
ricadde in ginocchio invocando: «Sancta Rosalia, ora pro nobis!» Così si avverò ciò che io,
ottenebrato da Satana, avevo
annunziato con sacrilega ipocrisia
vedendo Aurelia per la prima
volta.
Quando, deposta la barella in
una sala a pian terreno, suore e
frati le si disposero attorno in
cerchio, pregando, Aurelia trasse
un profondo sospiro e si accasciò
fra le braccia della badessa
inginocchiata accanto a lei. Era
morta.
La folla accalcata davanti alle
porte del convento non aveva
voluto allontanarsi; e, quando le
campane annunziarono il trapasso
della pia vergine, tutti proruppero
in singhiozzi e lamenti. Molti
fecero voto di rimanere nel
villaggio fino alle esequie di
Aurelia, osservando un rigoroso
digiuno. La notizia del mostruoso
crimine e del martirio sofferto
dalla sposa del Signore si diffuse
in un baleno, cosicché, quattro
giorni dopo, i funerali di Aurelia,
più che di una funzione funebre,
assunsero il carattere di solenne
glorificazione di una santa. Come
per la festa di san Bernardo, già fin
dalla vigilia, il prato antestante il
convento
era
letteralmente
coperto di gente stesa a terra in
attesa del mattino; soltanto,
invece del gioioso trambusto, si
udivano sospiri e mormorio di
preghiere. Il racconto dell'orrendo
misfatto perpetrato ai piedi
dell'altare correva di bocca in
bocca; e se per caso qualcuno
alzava la voce era per imprecare
all'assassino,
ancor
sempre
introvabile.
Quei quattro giorni, trascorsi
in quasi assoluta solitudine nella
cappella in fondo al giardino,
ebbero sull'animo mio una
ripercussione assai più profonda e
salutare che non le lunghe e
severe penitenze praticate nel
convento dei cappuccini, a Roma.
Le ultime parole di Aurelia mi
avevano svelato il segreto delle
mie colpe, ed ora finalmente
capivo: benché armato di virtù e di
pietà, mi ero arreso a Satana come
un
codardo,
favorendolo
nell'intento di far prosperare il
mio ceppo perverso. Minimo era il
germe del male annidato in me
quando avevo visto la sorella del
violinista e commesso il primo
peccato di orgoglio - ma il veleno
maledetto - l'elisir insinuatomi fra
le mani da Satana, mi aveva messo
il sangue in fermento. A nulla
erano valse le severe ammonizioni
del pittore, del priore, della
badessa. - L'apparizione di Aurelia
nel confessionale doveva fare di
me un delinquente perfetto. Sotto
l'azione di quel veleno, la tendenza
al peccato era esplosa come una
vera e propria malattia psichica.
Caduto in balìa di Satana, come
avrei potuto vedere un simbolo
dell'eterno amore nel legame con
cui il cielo mi aveva unito ad
Aurelia?... - Satana, malizioso e
perfido, mi aveva inoltre legato a
un essere abietto, costringendomi
ad identificarmi con esso e a
subirne
l'influsso
spirituale.
Attribuita a me stesso la morte
apparente di costui (... forse
soltanto un fallace miraggio
diabolico...), mi familiarizzai con
l'idea del delitto, e a ciò seguì poi
l'inganno e tutta l'infernale
commedia. Così, il
fratello
generato nella colpa e quindi
assurto a principio malefico, mi
spingeva ai più orrendi delitti, mi
trascinava alle pene più atroci.
Fino a quando Aurelia, realizzando
i disegni della divina provvidenza,
non aveva pronunziato i voti, io
non mi ero purificato dalle mie
colpe. Ma la miracolosa pace
spirituale, la divina letizia scese su
di me come un raggio di luce
dall'alto mentre la fanciulla
martire pronunziava le sue ultime
parole, mi avevano fatto sentire
con certezza che in quella morte
c'era la promessa della redenzione.
Quando il requiem solenne
cantato dal coro giunse alle parole:
- «Confutatis maledictis flammis
acribus addictis» - mi sentii
tremare; ma al «Voca me cum
benedictis» mi parve di scorgere
Aurelia in un nembo di luce
paradisiaca.
Essa
abbassava
dapprima lo sguardo su di me e
poi sollevava il capo aureolato di
stelle sfolgoranti verso l'Altissimo,
a pregare per la salvezza
dell'anima mia. - «Oro supplex et
acclinis cor contritum quasi
cinis». A questo punto mi prostrai
nella polvere. Ma, quanto poco
rassomigliavano
quei
miei
sentimenti, l'umiltà della mia
supplice preghiera, alla passionale
contrizione, alle crudeli, inumane
penitenze praticate nel convento
romano! Ora soltanto il mio
spirito era capace di discernere il
vero dal falso - e tale chiara
coscienza rendeva vano ogni
nuovo assalto del Nemico. - Non la
morte di Aurelia, ma il modo
orrendo in cui essa era avvenuta
mi aveva tanto scosso in un primo
momento.
Compresi
tuttavia
molto presto che era stata la grazia
dell'Onnipotente a volere l'orrore
supremo - il martirio della sposa
di Cristo, già purificata attraverso
tante prove. Era perduta per me?...
No!... Soltanto ora, sciolta dalle
pene di questa terra essa risorgeva
luminosa nell'animo mio, come
un raggio dell'Eterno Amore. Sì! la
morte di Aurelia era la festa
sacrale di quell'amore che, come
ella stessa diceva, nulla ha in
comune con le cose terrene. Tali
pensieri
mi
aiutarono
a
trascendere
ogni
individuale
egoismo. E così, le giornate
trascorse nel convento delle
cistercensi
furono
le
più
beatificanti della mia vita.
La mattina seguente, dopo il
trasporto funebre, Leonardo volle
ritornare in città con i frati, e
mentre già stavano per avviarsi in
corteo, la badessa mi mandò a
chiamare. La trovai sola nella sua
cella, estremamente commossa,
con gli occhi pieni di lacrime. - So
tutto ora, so tutto, Medardo, figlio
mio! - esclamò. - Sì, così voglio di
nuovo chiamarti perché hai
superato - infelice te! - le tue
durissime prove!... Ah, Medardo,
lei sola, lei che ora può intercedere
per noi presso il trono di Dio, è
rimasta pura ed innocente. Non
ero anche io sull'orlo del
precipizio quando, piena di
desideri
mondani,
volevo
vendermi
all'assassino?...
Medardo, figlio mio: quante
lacrime colpevoli piansi, sola nella
mia cella, pensando a tuo padre!...
Và, ora, figliolo. Temevo di aver
fatto di te, con la mia colpa, il più
perverso dei peccatori - ma questo
dubbio è svanito, ormai.
Leonardo aveva certamente
rivelato alla badessa quanto essa
ancora ignorava della mia vita; e
con il suo atteggiamento mi lasciò
intendere d'avermi perdonato
anche lui, affidandomi al giudizio
dell'Altissimo.
L'antica regola del convento
era rimasta immutata - ed io
rientrai tra le fila dei confratelli
come prima.
Un giorno Leonardo mi disse: Una penitenza ancora vorrei
importi,
frate
Medardo
-.
Umilmente domandai di che si
trattasse. - Dovresti scrivere
fedelmente la storia della tua vita,
- rispose, - ma senza tralasciare
nulla, neppure i fatti più
insignificanti; e, soprattutto, nulla
di quanto ti accadde durante la
turbinosa parentesi mondana. La
fantasia ti ricondurrà realmente
nel mondo - ti farà rivivere le ore
di gioia, di terrore, gli episodi
terrificanti, le scene grottesche...
Chissà... forse rivedrai Aurelia, e
non sotto l'aspetto della martire
suor Rosalia... Ma se lo spirito del
male ti ha davvero lasciato, se ti
sei veramente distaccato dalle
cose di questo mondo, saprai
tenerti al disopra d'ogni passione e l'impressione non lascerà traccia
alcuna.
Feci come mi aveva detto il
priore.
Ahimè!...
Come
si
avverarono le sue predizioni!...
Dolore e gioia - terrore e piacere raccapriccio e delizia infuriarono
in me mentre scrivevo la storia
della mia vita.
Tu, che un giorno leggerai
questi fogli! Quando la figura di
Aurelia si profilò nella mia vita io
ti parlai del supremo momento
solare dell'amore!... Ma esiste
qualcosa di più alto dell'umano
piacere, fonte quasi sempre di
rovina per l'uomo stolto e
sconsiderato.
Il
supremo
momento solare è quello in cui
l'amata viene a te come un raggio
di luce divina, per accenderti
nell'animo - sgombro d'ogni
pensiero o desiderio colpevole - i
sentimenti più alti, le aspirazioni
più sublimi - i doni profusi come
una benedizione
dal
regno
dell'Amore sulla povera umanità.
Questo pensiero mi dava conforto
quando il ricordo delle ore
meravigliose vissute nel mondo
mi strappava lacrime cocenti e
faceva di nuovo sanguinare le
ferite da tempo rimarginate. So
che nell'ora della morte sarà forse
concessa ancora una volta al
Nemico la potestà di tormentare il
monaco peccatore. Ciò nonostante
attendo senza timore, anzi, con
ansiosa impazienza il momento
del distacco da questa terra perché soltanto allora si compirà
tutto ciò che Aurelia - ahimè, no! che santa Rosalia stessa mi
promise morendo.
Prega, prega per me, vergine
santa, nell'ora della tenebra,
affinché le forze dell'inferno cui
tante volte soggiacqui non mi
sopraffacciano e traggano nella
palude dell'eterna dannazione!
appendice aggiunta dal padre
cappuccino spiridione, biblioteca
-rio del convento di B..
Nella notte fra il tre e il quattro
settembre dell'anno 17** molti
fatti straordinari accaddero nel
nostro convento. Poteva essere
all'incirca mezzanotte quando,
nella cella di frate Medardo,
attigua alla mia, udii come se
qualcuno ridesse, sghignazzasse in
modo strano, sullo sfondo di un
gemito ansimante, soffocato. Mi
parve inoltre di udire molto
chiaramente
queste
parole,
pronunziate da una brutta e
sgradevole voce: - Vieni con me,
fratellino Medardo, andiamo a
cercare la sposa -. Mi alzai per
andare a vedere ma, colto da un
terrore indicibile, mi misi a
tremare come se avessi la febbre.
Invece che nella cella di Medardo
corsi dal priore, lo svegliai non
senza fatica e gli riferii ciò che
avevo udito. Il priore Leonardo,
molto impressionato, balzò in
piedi e mi ordinò di andare a
prendere i ceri benedetti e poi di
accompagnarlo da frate Medardo.
Ubbidii, accesi i ceri alla lampada
della Madonna e salii insieme al
priore. Restammo a lungo in
ascolto, ma la orribile voce non si
fece più sentire; udimmo invece
come un dolcissimo scampanio
lontano, mentre si diffondeva un
tenue profumo di rose. Ci
avvicinammo. La porta della cella
si aperse e ne uscì un personaggio
fantastico: un uomo altissimo, con
la barba bianca increspata, avvolto
in un manto violetto. Tutte le
porte erano ben chiuse - nessun
estraneo poteva entrare - doveva
dunque trattarsi di un fantasma,
pensai terrorizzato. Leonardo,
invece, lo guardò senza batter
ciglio né dire una parola.
- L'ora del compimento non è
lontana, - disse lo sconosciuto in
tono grave e solenne. E sparì
nell'andito buio.
Per poco non lasciai cadere la
candela, tanto tremavo. Ma il
priore, forte e armato di fede a
sufficienza per non far troppo
conto dei fantasmi, mi prese per
un braccio: - Entriamo nella cella
di frate Medardo, - disse.
Entrammo.
Medardo,
già
molto indebolito da parecchio
tempo, era in punto di morte;
aveva già la lingua paralizzata e
rantolava debolmente. Leonardo
rimase con lui ed io andai a
svegliare
i
confratelli,
scampanellando
forte
e
chiamando ad alta voce: - Alzatevi,
alzatevi! Frate Medardo sta
morendo!
Tutti, dal primo all'ultimo, si
alzarono, e tutti insieme, con i ceri
accesi,
ci
recammo
dall'agonizzante. Commossi e
turbati (... io avevo ormai superato
lo spavento...) portammo Medardo
in chiesa, sopra una barella, e lo
deponemmo
davanti
all'altar
maggiore. Allora, con nostra
grande meraviglia, egli riprese
conoscenza e si mise a parlare.
Leonardo stesso, dopo averlo
confessato ed assolto, gli impartì
l'estrema unzione; poi rimase a
parlare con lui mentre noi frati
salivamo nel coro a cantare gli
inni di rito per la salvezza del
confratello moribondo.
Il giorno dopo, e cioè il cinque
settembre dell'anno 17**, mentre
la campana suonava le cinque
pomeridiane, frate Medardo spirò
fra le braccia del priore. Strana
coincidenza: esattamente un anno
prima, lo stesso giorno, alla stessa
ora, suor Rosalia era stata
barbaramente uccisa subito dopo
aver pronunziato i voti.
Durante le funzioni funebri
avvenne ancora quanto segue:
mentre cantavano il requiem si
diffuse nell'aria un forte profumo
di rose: proveniva da un mazzo di
rose fresche (rare, di quella
stagione!...) fissato all'immagine
di santa Rosalia, il bellissimo
quadro dipinto da un vecchio
pittore italiano sconosciuto e da
noi acquistato, per una notevole
somma di denaro, a un convento
di cappuccini sito nelle vicinanze
di
Roma.
Detto
convento,
vendendo a noi l'originale, si era
trattenuto una copia del dipinto. Il
frate guardiano riferì che la
mattina
di
buon'ora
un
mendicante cencioso, dall'aspetto
miserabile,
era
entrato
di
soppiatto a porre il mazzo di rose
accanto al quadro. Lo stesso
mendicante ricomparve durante il
trasporto funebre e cercò di
intrufolarsi tra i frati. Volevamo
scacciarlo ma il priore Leonardo,
dopo averlo fissato attentamente,
ci ordinò di lasciarlo rimanere con
noi: e lo accolse nel convento
come frate laico. Si chiamava, al
secolo, Peter Schönfeld, e noi lo
chiamammo frate Pietro. Gli
concedemmo
quel
nome
importante perché era un uomo
estremamente buono e mansueto;
parlava poco e di tanto in tanto
scoppiava a ridere in modo così
comico e innocente che ci
divertiva moltissimo. Il priore
Leonardo una volta ci disse che la
luce intellettuale di Pietro si era
spenta nelle nebbie della follia; la
sua innata ironia era degenerata
nella
demenza.
Noi
non
comprendemmo bene che cosa
egli intendesse esattamente dire
con questo; ma confidammo nella
sua grande saggezza. Una cosa
capimmo di certo: che frate Pietro
doveva
essere
una
vecchia
conoscenza del priore.
Così, ai fogli contenenti - credo
- la vita di frate Medardo, io, pur
senza averli letti, ho faticosamente
aggiunto, «ad majorem Dei
gloriam», la descrizione della sua
morte. Pace e riposo al defunto
frate Medardo. Possa il Signore del
cielo concedergli di risorgere nella
gioia e accoglierlo nel coro dei
santi, poiché esemplare fu la sua
morte.
Fine
NOTE:
(1)Camera obscura: apparecchio inventato
nel secolo Xvi da Erasmus Reinhold da
Wittemberg, o da Leonardo da Vinci, per
proiettare pallide immagini rovesciate in un
ambiente scuro.
(2) Convento del Sacro Tiglio, celebre meta
di pellegrinaggi nella regione di Rastenburg
(Prussia orientale).
(3)Toupet: parrucca di moda intorno al
1780, con codino e capelli rialzati sulla
fronte. «Alla Tito»: pettinatura venuta di
moda alla fine del secolo Xviii: capelli corti a
riccioli fitti.
(4) Peter Schönfeld, Jakob Stich, traduzione
letterale dei due nomi italiani: Pietro
Belcampo e Giacomo Punto.
(5) Giacomo Punto (Johan Wenzel Stich,
1750-1803) detto: Giovanni Punto. Celebre
cornista. Beethoven compose per lui una
sonata per corno.
(6) ...Infilati in bocca per tendere la pelle
della guancia [N.d.T.].
(7) Trovatore provenzale (1140-1215).
(8) Gioco di parole intraducibile. «Das ist
mir ganz Pomade» significa «non me ne
importa nulla, me ne infischio» [N.d.T.].
(9) Chi conclude un patto col diavolo
ottiene, secondo la credenza popolare,
proiettili infallibili che non mancano mai il
bersaglio. (Vedi l'opera Der Freischütz di
Carl Maria von Weber).
(10) Assurdità, controsenso, incongruenza,
sproposito, sortita priva di nesso logico e
quindi comica [N.d.T.].
(11) Cfr. Shakespeare, Enrico Iv, parte Ii,
atto I, scena II.
(12) Danza inglese, celtica, di marinai e
contadini, che viene accompagnata dalla
cornamusa.
(13) Porter: birra nera, forte.
(14) Bisticcio intraducibile sul nome Green
(in inglese: verde), il suo significato letterale
e le sue assonanze con certi vocaboli
tedeschi: «Grün solì s dir werden vor den
Augen, ja (Grein) en sollst du (Gram)
erfüllt, wenn du nicht ablässt von
schmachvoller Tat!» [N.d.T.].
(15) Allusione ai molti e svariati «teneri
padri» delle commedie di Kotzebue e
Iffland.
(16) Shakespeare, Sogno d'una notte di
mezza estate, atto V, scena I.
(17) Nel testo si ha Fürst, Fürstin, per
principe e principessa regnanti; Prinz,
Prinzessin per gli altri membri della
famiglia. Non esistendo in italiano un esatto
equivalente di Fürst, e dovendosi entrambi i
termini
(Fürst,
Prinz)
tradurre
indistintamente col vocabolo «principe»,
allo scopo di facilitare la comprensione
dell'intricatissima vicenda ho creduto
opportuno designare col titolo di marchese il
principe cadetto (fratello del Fürst) [N.d.T.].
(18) In italiano nel testo.
(19) Ambrosio, or the Monk (1795),
romanzo di Mattew Gregory Lewis (17751818) [trad.it.Einaudi, Torino 1970].
(20) Caracalla: intendi pettinatura alla.
(21) Jean George Noverre (1727-1810),
ballerino e maestro di balletti, francese;
Vestris, danzatore italiano all'opera di Parigi.
(22) Nel testo «zu Stuhle gehen». Significa
ordinariamente «andare al gabinetto»,
«andar di corpo»; e così avremmo tradotto
senza esitazioni se una nota all'edizione
tedesca
non
avesse
corretto
«zur
Beichtstuhl», cioè al confessionale, a
confessarsi. Benché un po'dubbio, ci siamo
perciò attenuti a questa interpretazione
[N.d.T.].
(23) In italiano nel testo.
(24)
Nel
testo
Hoffmann
scrive
erroneamente «Albert, Fürst von W.». In
quanto al titolo di marchese, cfr. vol.III, p.
79, nota n. 8 [N.d.T.].