Ernst Theodor Amadeus Hoffmann Gli elisir del diavolo Titolo originale Die Elixiere des Teufels Traduzione di Carlo Pinelli Introduzione di Claudio Magris Copyright 1969 e 1989 Giulio Einaudi editore S.p.A. Torino Copyright 1979 e 1989 per l'introduzione Giulio Einaudi editore S.p.A. Torino Einaudi «... Hoffmann è stato al contempo l'anticipatore del realismo borghese e del surrealismo, il narratore scapigliato di avventure ottocentesche e l'analizzatore dell'inconscio, l'umorista trascendentale e il sognatore delle fiabe, l'antesignano dell'angoscia moderna e della dissociazione pirandelliana della personalità, l'esponente dello slancio romantico e l'ironico superatore dei limiti ideologici del Romanticismo. Gli elisir del diavolo (1815-16) sono, insieme al Gatto Murr, il grande romanzo dell'io inteso quale analisi e costruzione interminabile di un soggetto che ricerca disperatamente la propria identità e il modello di una ragione che possa costituirla. L'io, che si costruisce e si struttura in lotta con gli elementi che lo compongono e rispetto ai quali esso non può né distinguersi né identificarsi, è assai simile al barone di Münchhausen, che vuol uscire dalla palude tirandosi per i capelli; Gli elisir del diavolo sono il grande romanzo di questo paradosso dell'io». Dall'introduzione di Claudio Magris Di E.T.A. Hoffmann (17761822), Einaudi ha pubblicato, nella collana dei "Millenni", tre volumi di Romanzi e racconti. Parigi 1931: non leggete Hoffmann (I passi di Hoffmann vengono citati secondo la traduzione italiana E.T.A. Hoffmann, Romanzi e racconti, a cura di Carlo Pinelli, trad. di Carlo Pinelli, Alberto Spaini e Giorgio Vigolo, prefazione di Claudio Magris, 3 volì, Einaudi, Torino 1969.) A Edda e a Massimo Salvadori Nel catalogo della libreria parigina José Corti, centro del movimento surrealista, erano stampate nel 1931, sul retro della copertina, alcune tabelle che contenevano un elenco degli autori la cui lettura veniva rispettivamente raccomandata e proibita. «Leggete» e «non leggete» s'intitolavano le liste di celebrazione e di proscrizione che imponevano all'attenzione o ponevano al bando, in nome della poetica surrealista, scrittori e filosofi delle più varie epoche. Nella maggior parte dei casi, i perentori elenchi non destavano sorpresa ed emettevano sentenze prevedibili: leggete Lautréamont, non leggete Schiller. Può sembrare invece strano che il nome di Hoffmann figurasse tra quelli messi all'indice, fra gli autori vietati. I surrealisti, teorici dell'accostamento arbitrario e immotivato di cose lontane e fautori di un'arte intesa quale trascrizione immediata del sogno e dell'inconscio, rifiutavano un poeta che era sempre stato considerato, con entusiasmo o con repulsione, un poeta dell'irrazionale e del profondo non mediato dalla logica, un poeta del capriccio e dell'arbitrio. Non solo Walter Scott, ma anche Goethe e Hegel avevano condannato Hoffmann per motivi che avrebbero dovuto conquistargli invece il consenso dei surrealisti: avevano visto in lui un artista del caos e del disordine, uno scrittore lacerato che si compiaceva della propria lacerazione e s'abbandonava alla morbosa seduzione del patologico, un'anima straziata e sfrenata che sottraeva le incalzanti associazioni d'idee e i febbrili processi analogici della psiche a ogni controllo della ragione, trascrivendoli in una sorta di selvaggia scrittura automatica. Se i grandi spiriti classici avevano respinto Hoffmann in nome dell'ordine logico e morale - e in nome della sostanziale positività e razionalità del mondo - i grandi interpreti della crisi moderna avevano salutato in Hoffmann, per le stesse ragioni intese però quale contrassegno di verità poetica anziché di fallimento eticoartistico, un loro fratello e precursore: sono Gogo4l e Nerval, Poe e Dostoevskij, Baudelaire e Freud ad amare Hoffmann e a ritenerlo un geniale poeta della scissione e del perturbante. Tanto più strano dunque che Hoffmann, amato dagli autori che gli stessi surrealisti consideravano loro maestri, venisse spregiativamente affiancato a San Tommaso e a Platone, agli artefici della totalità logica del mondo, anziché a Nerval e a Baudelaire. Il verdetto surrealista era tuttavia estremamente acuto quale giudizio di fatto, anche se traeva da quest'ultimo un discutibilissimo e ottuso giudizio di valore. Anche oggi si tende a scorgere in Hoffmann, sia pure per esaltarlo, un poeta della fantasia sfrenata e della connessione immotivata. Nel film su Hoffmann girato da Höllerer e Ramsbott - nell'ambito delle ricerche sperimentali del Literarisches Colloquium berlinese - con l'intento di realizzare una lettura critica mediante il mezzo cinematografico, le immagini visive si susseguono in un voluto arbitrio, che dovrebbe riprodurre l'anarchia dei procedimenti onirici e della scrittura hoffmanniana. Illudendosi di scorgere nella vita del profondo e del sogno un'anarchia indeterminata anziché una legge ben precisa sebbene diversa da quella della superficie diurna, Höllerer e Ramsbott sono costretti a citare unilateralmente i passi hoffmanniani. Ad esempio essi citano, a sostegno della loro impostazione, una pagina del primo racconto di Hoffmann, Il cavaliere Gluck (1809), in cui si parla della necessità poetica di varcare la porta d'avorio e scendere nel regno dei sogni: «[...] qui lo spettacolo è d'una bizzarria incredibile: tipi di forsennati si aggirano qua e là. [...]. È difficile uscire da quel regno: le vie d'uscita sono sbarrate da mostri, come nel castello di Alcina. [...]. Tutto turbina, gira [...]». A differenza che nel film di Höllerer e Ramsbott, nel racconto di Hoffmann il passo tuttavia continua e ribadisce la necessità poetica di un secondo e complementare momento, la risalita da quel buio profondo e l'uscita da quel regno: «Molti, nel regno dei sogni [...] sognano: si perdono, svaniscono nel sogno. [...]. Non gettano più ombra, altrimenti dall'ombra stessa si accorgerebbero del raggio di luce che illumina quel regno. Soltanto pochi si svegliano, smettono di sognare, e salgono in alto [...]». Più che il poeta del sogno, Hoffmann è il poeta della sua rappresentazione e della sua interpretazione: nella Traumdeutung ciò che gli interessa è la Deutung, come a Freud, piuttosto che il puro (e in realtà inesistente) momento del Traum come a Breton. Se in un passo famoso - e anch'esso tante volte citato unilateralmente - delle Curiose pene di un capocomico (1819) egli afferma che il sogno è il «poeta latente», egli soggiunge che sono la «coscienza dell'io» e l'«intelligenza» a chiamare alla luce il poeta latente e a dargli la forza di entrare «fisicamente, in carne ed ossa» nella vita. Al movimento della discesa e della dispersione nell'indistinto si contrappone sempre, in Hoffmann, quello della risalita verso la luce e l'unità: Elis, nelle Miniere di Falun (1819-20), abbandona sì la fidanzata, e il mondo positivo della norma per scendere nelle viscere della terra, dove lo chiamano l'invito della Madre Regina della miniera e gl'informi amplessi delle creature non ancora differenziate dall'individuazione, ma egli si propone di strappare alla tenebra inarticolata il suo segreto, il fulgido almandino da donare alla sposa quale gioiello per l'abito nuziale. Certo Elis perisce: gli eroi di Hoffmann sono impari al loro compito e finiscono quasi sempre per soggiacere alle forze infere, o a quelle forze che la loro intelligenza non può non considerare infere. La rovina di Elis trascina con sé anche Ulla, la sua fidanzata che vive per lunghissimi anni prigioniera di una fedeltà al ricordo dell'amato irrigidita sino alla follia; Nataniele, nell'Uomo della sabbia (1817), ridà deliberatamente forza e vita ai fantasmi della sua lacerazione, di cui la sua vocazione artistica ha bisogno, e ricade in balìa del loro furore distruttivo. Hoffmann è, nelle sue forme peculiari, un grande razionalista, privo di qualsiasi indulgenza verso l'incontro fortuito di un ombrello e di una macchina da cucire su un tavolo anatomico; il suo sforzo è sempre quello di spiegare, di districare il groviglio del mistero per estrarne uno o più fili, di individuare una legge nella ridda dei fenomeni. A loro modo i surrealisti non avevano torto di preferirgli ad esempio il tanto più modesto Achim von Arnim: la pagina di Arnim è affollata di cortocircuiti fra elementi diversissimi, la cui ipotetica somiglianza è imposta terroristicamente dal poeta medesimo, che costringe i lettori a presupporla in base alla sua stessa mancanza, in base a quel vuoto di significato che il lettore è restìo ad ammettere e che è quindi portato a riempire con ciò che gli ordina la suggestione dell'autore (Guido Morpurgo Tagliabue). In Hoffmann, ben più ricco di Arnim quanto a fantasia creatrice, sull'immaginazione produttrice di somiglianze prevalgono l'analisi e il giudizio, ossia la facoltà di discernere differenze e di ricomporre gli elementi, ottenuti con la scomposizione analitica, in nuove unità dense di significato. Certo Hoffmann è intento a scoprire una legge diversa nel brulicare della vita, un'altra razionalità e un'altra logica rispetto a quelle che gli venivano fornite dalla tradizione e dalla cultura dominante del suo tempo. Sensibilissimo alle nuove «scienze dell'anima» che iniziavano allora a fiorire così vigorosamente, Hoffmann deriva da esse soprattutto la critica dell'unità dell'io o meglio di quell'organizzazione unitaria dell'io che si proclamava assoluta e naturale, mistificando così il proprio carattere di costruzione storica e culturale. La scienza (in primo luogo la medicina) e la filosofia romantica, ben note a Hoffmann, andavano scoprendo sotto la fittizia unità e sostanzialità dell'io non soltanto una dialettica - spesso ancora grezzamente diadica - di conscio e inconscio ma anche una ben più complessa molteplicità di nuclei psichici, coordinati in una costellazione dinamica e mutevole. La narrativa hoffmanniana è la ricostruzione dei sommovimenti che continuamente assestano, turbano e ricompongono l'arcipelago dell'io; la sua analisi, razionalistica in quanto cerca di indagare le leggi e correlazioni di quelle scosse, non si basa su alcun modello di Ragione universale e immutabile. Essa è piuttosto affine a quella che sarà l'analisi «interminabile» di Freud, perché l'unità del soggetto che essa ha in mente è un'unità mobile e in fieri, un assestamento e una composizione dei nuclei psichici che non sono distinguibili dall'analisi - o dall'autoanalisi - la quale, indagandoli, contribuisce a costituirli (Franco Rella). Sovranamente epico anche quando gioca rigorosamente col punto di vista circoscritto dei suoi personaggi, Hoffmann non si identifica ideologicamente o moralmente con la loro prospettiva, ma si pone psicologicamente dal loro angolo visuale, per raffigurare con maggior intensità la crisi che essi vivono e che è la crisi di un soggetto il quale improvvisamente si scopre labile e inadeguato. Privo della garanzia di un ordine trascendente, il soggetto individuale è affidato, nella narrativa di Hoffmann, soltanto alla sua storia, al lavoro degli eventi che lo costituiscono e della sua ragione che si dà forma in questo stesso processo sul quale essa pure inalza un giudizio. Il gatto Murr (1820-22), o meglio la parte kreisleriana del Gatto Murr ovvero quella che narra sul rovescio della biografia del gatto la frantumata storia di Kreisler, è il geniale esempio di un romanzo nel quale la coscienza individuale è il risultato perennemente aperto di un processo, la cristallizzazione e l'intersezione di eventi in un luogo psichico che si costituisce, e acquista una sua concreta autonomia, in questo gioco di rapporti, accadimenti e assunzioni di consapevolezza. Nell'età in cui viene posta in dubbio la distinzione fra ciò che è interno e ciò che è esterno al soggetto (per esempio Lichtenberg) e in cui l'io comincia a percepire in se stesso l'oscura memoria delle sue cellule che ricordano aggregazioni precedenti, oscillando fra la voluttà di dilatarsi nell'annientamento e l'ansia di ripararsi nel limite (per esempio Moritz), Hoffmann non sceglie né l'irrigidimento in una monolitica unità psichica né il dissolvimento in un'indefinita corrente di pulsioni e desideri. Il problema del soggetto - ossia della biografia quale costruzione razionale di una vita e quale rappresentabilità di questa costruzione - gli si pone come il problema della forma o delle forme possibili d'organizzazione dei dati dell'esperienza. Gli elisir del diavolo (1815-16) sono, insieme al Gatto Murr il grande romanzo dell'io inteso quale analisi e costruzione interminabile di un soggetto che ricerca disperatamente la propria identità e il modello di una ragione che possa costituirla. Il tema centrale è il binomio di destino e carattere, il tentativo di discernere un senso nel groviglio che sembra all'inizio confondere, e non identificare, i due termini. Il fittizio redattore, che presenta al lettore le carte nelle quali è scritta l'autobiografia di frate Medardo, parla nella prefazione della conoscenza simbolica - cioè quella che si acquista mediante il sogno e l'immaginazione del filo «collegante e condizionante gli eventi della nostra vita», ma pone in guardia contro la hybris di chi ritiene che la conoscenza di quel filo comporti anche il potere di afferrarlo e strapparlo. In tutto il romanzo infatti Medardo oscilla fra l'angosciosa ignoranza in merito alla sua identità - che lo spinge a cercare ossessivamente d'individuarne origine, essenza e svolgimento - e la tentazione demonica di rovesciare di segno la sua mancanza d'identità, di trasformarla in un pretesto per costruirsi arbitrariamente un carattere e un destino, per arrogarsi un blasfemo potere sulla natura propria ed altrui. Il romanzo è la «camera obscura» in cui vengono proiettati «gli aspetti orrendi, spaventosi, forsennati, farseschi della sua vita», vale a dire una vertiginosa fantasmagoria di frammenti minimi e contraddittori, ch'egli può - o crede di potere - comporre e mettere insieme a suo gradimento. La storia di Medardo è infatti un'autobiografia, la sua vita scritta da lui stesso; questa operazione di scrittura obbedisce a due intenti opposti ma inestricabilmente intrecciati, così come lo sono, nel protagonista, pietà religiosa e profanazione sacrilega. Scrivere la propria vita significa per Medardo anzitutto darsi un'entità, definirsi rispetto al fluttuare degli eventi esterni e al mareggiare dell'inconscio in cui egli rischia a ogni momento di perdersi, distinguersi nei riguardi di quella misteriosa e maledetta totalità atavica che lo condiziona col suo retaggio, che agisce in lui come la linfa di un intricato arbusto, sino a farlo sentire non più di una fugace efflorescenza di quel grande albero. Scrivere la propria storia significa per Medardo anzitutto distinguersi dal sosia che lo aggredisce di continuo, instaurare - col primato del soggetto grammaticale che organizza la frase - il dominio della sua individualità rispetto a quel magma vitale, esteriore e insieme psichico, nel quale egli è sempre in pericolo di sciogliersi. Medardo potrebbe ben far proprie le parole di Troxler, il bizzarro e geniale antroposofo svizzero discepolo di Schelling; «il mio spirito non ha ancora acquistato tanta elevatezza ed ampiezza da cogliere interamente la mia vita. Troppo spesso la materia che è in me ha spezzato la forma che volevo darle». Quando Medardo parla, non è lui a pronunziare le parole bensì «una voce sorda e cavernosa» che parla per lui e in lui: è l'es, grammaticale e psichico, che parla dal suo profondo («so antwortete es aus mir heraus»), è l'Altro che grida e infuria dalla sua bocca. Quando Medardo dice a frate Cirillo d'esser lieto di rinunziare alle vanità mondane, egli deve accorgersi d'una propria duplicità a lui stesso ignota: «una sensazione sconcertante mi avvertì che mentivo»; quando giunge al castello (dove viene ritenuto ora frate Medardo, ora il conte Vittorino travestito da Medardo e cioè un altro camuffato nei suoi stessi panni), egli risponde alle domande sospettose di Rinaldo ripetendo ciecamente quanto una voce segreta sembra suggerirgli. Le tumultuose avventure (la fuga dal convento, l'assassinio - o il creduto assassinio - involontario di Vittorino, la tresca infernale con Eufemia, la pulsione amorosa e distruttiva per Aurelia, i travestimenti, gli scambi di identità, i delitti, gli intrighi) appaiono la gigantesca metafora di un io che non regge al turbinoso assalto del molteplice: «il mio «io», confuso con una personalità estranea, vagava alla deriva in balìa degli eventi imperversanti su di me come marosi infuriati. [...]. Ero colui che sembravo, e non sembravo colui che ero. In quella duplice personalità non riuscivo più a comprendere, a ritrovare me stesso». E più tardi, quando Medardo grida la sua stridula risata negli atri e per le sale del castello, dopo aver colpito Eufemia ed Ermogene: «Ma [...] atroce vista! [...]. Davanti a me [...] davanti a me era sorto il viso insanguinato di Vittorino. [...]. Non io, lui aveva pronunziato quelle parole!» Hoffmann ricorre a tutti gli strumenti stilistici possibili per rendere questa furiosa lotta fra la dispersione dell'io e la forza morale centripeta che cerca di opporvisi; il vero terreno di questo scontro contraddittorio e paradossale è il linguaggio - il quale peraltro, nella finzione narrativa, è il linguaggio di Medardo stesso, il linguaggio cioè col quale Medardo ritrae la propria disgregazione sia psicologica sia linguistica. Se la «stravagante e pazzesca» vita reale si presenta al poeta, come si dice nell'Uomo della sabbia, quale «oscuro riflesso dentro uno specchio senza luce», la poesia deve far sì che quel tenebroso groviglio si sciolga in «immagini luminose». L'io, che si costruisce e si struttura in lotta con gli elementi che lo compongono e rispetto ai quali esso non può né distinguersi né identificarsi, è assai simile al barone di Münchhausen, che vuol uscire dalla palude tirandosi per i capelli; Gli elisir del diavolo sono il grande romanzo di questo paradosso dell'io che si costruisce con un'analisi interminabile. Il linguaggio degli Elisir non rappresenta una struttura psichica già avvenuta, ma coopera al suo stesso formarsi: la scrittura è il processo in cui l'io si dà un'identità e combatte per darsela. Gli espedienti stilistici e retorici tentano febbrilmente di mimare tale processo che pure sono essi a costituire: il periodo è lunghissimo e sinuoso, teso ad abbracciare nel giro delle numerose coordinate l'incalzare simultaneo e la tumultuosa complessità degli eventi, oppure si spezza in unità minori, si infrange a metà di un inciso o di una parola, si frantuma nei puntini di sospensione per raffigurare l'allentamento di ogni ordine, l'emancipazione dei singoli atomi psicolinguistici e la disarticolazione del soggetto. Vi sono frequenti scene - memorabili nel loro tragico dolore e nella loro tortuosa stratificazione di livelli psichici, lapsus, rimozioni ed emersioni del rimosso - che illustrano con grande forza poetica questo processo: soprattutto le furibonde lotte di Medardo col sosia, col loro vertiginoso alternarsi di sdoppiamento e identificazione, incapacità di riconoscere se stesso e distinguersi dall'alterità, perdizione nella moltiplicazione schizofrenica o nell'irrigidimento paranoico. La trama romanzesca, con i suoi orrori gotici e i suoi colpi di scena avventurosi, fornisce un fondale colorito e una convenzione realistica alle peripezie dell'identità: per ogni apparizione del sosia vi può essere anche una spiegazione materiale, una causalità riconducibile al complicatissimo intreccio delle vicende familiari, ma tale spiegazione in termini d'intrigo narrativo non solo è inadeguata alla rilevanza psicologica del tema, ma viene pure spesso ironicamente smentita da altri fattori pertinenti all'intreccio, la cui macchinosità risulta una metafora della futile e rovinosa inestricabilità della vita. Se la cultura scientifica spingeva Hoffmann a indagare la molteplicità dell'inconscio e la filosofia schellinghiana lo induceva a scorgere in essa l'inebriante presenza dell'Uno, il pensiero di Fichte - dal quale pure egli fu intensamente turbato - lo rimandava alla dimensione etica di quel conflitto. Gli elisir del diavolo sono anche il romanzo del rapporto, conflittuale e mutevole, fra morale e psicologia. L'unità del soggetto, inesistente sul piano di quest'ultima, viene inseguita sul piano della prima, non viene mai definitivamente conquistata bensì realizzata in questa lotta incessante: sempre esigenza, mai risultato. La psicologia rinvia a una molteplicità sconnessa dal soggetto: «Un dolce tepore m'invase. Poi avvertii uno strano lavorìo, un formicolìo in tutte le vene. Questa sensazione divenne pensiero, ma il mio «io» era ancora diviso in mille pezzi; ognuno di essi si muoveva, aveva una sua propria consapevolezza della vita, ma inutilmente il cervello impartiva ordini: le membra, come vassalli ribelli, si rifiutavano di riunirsi sotto il suo comando. Poi i pensieri delle singole parti incominciarono a ruotare come punti luminosi, in fretta, sempre più in fretta [...]». Hoffmann concepisce il reale come un turbine di atomi di energia, ognuno dei quali è volto a scontrarsi con gli altri per sopraffarlo o per venirne sopraffatto. Questa sorta di volontà di potenza pervade ognuno di quelli che Baioni chiama, con terminologia intenzionalmente nietzscheana, «dynamische Quanta», senza distinzioni tra sfera umana e non umana. Un'unica energia vitale pulsa in ogni minimo nucleo della vita, spingendolo ad affermarsi a spese degli altri: la bollicina dello champagne che lotta per venire a spumeggiare alla superficie, lo spirito della salamandra che si agita nel fuoco, l'elettricità delle mani innamorate che si sfiorano, il desiderio amoroso che vuole impossessarsi del suo oggetto, l'ispirazione artistica che non sdegna di nutrirsi vampirescamente della vita, come accade nella Chiesa dei gesuiti di G. (1817) e in altri racconti. «L'esistenza è lotta e nasce dalla lotta», proclama il diabolico magnetizzatore Alban, cui fa eco negli Elisir l'analoga morale del dominio di Eufemia. In questa corrente della vitalità eros, aggressività e arte coincidono. L'eros è la manifestazione suprema della forza vitale che si afferma sull'annientamento altrui: in molti racconti - Don Giovanni (1813-14-15), Il vaso d'oro o Mastro Pulce - l'amplesso è una fiamma che divora e distrugge l'oggetto amato. Se la vita è questa danza sull'abisso, l'arte è la più pura conoscenza di tale danza, perché non è offuscata da preoccupazioni morali o religiose che ne velino il ritmo annientante aldilà del bene e del male, e s'identifica con essa sino a far proprio, nella sublimazione creatrice, l'impulso distruttore vissuto quale esaltazione erotica: nei Kreisleriana (1814-15) l'artista vagabondo e straniero uccide la fanciulla che il suo canto ha fatto innamorare, la pittura di Molinari - nella Chiesa dei gesuiti di G. finisce per assorbire e annichilire la vita della donna amata e dell'artista stesso. Nel Murr la follia omicida del pittore Ettlinger esplode in forma di violenza erotico- estetica verso la piccola principessa che lo ama e del cui rosso sangue egli dice di aver bisogno per nutrirsi e per dipingere. Se in altri racconti di Hoffmann la conoscenza del tempio di Iside - ossia il poetico unisono con la vertigine di possesso erotico, lotta e distruzione è un'ebbra identificazione con questa vertigine e una fonte di felicità, negli Elisir prevale un tono di cupa angoscia, dovuto al predominio della dimensione morale su quella cosmico- panica. Il groviglio di amore, odio, devozione e bestialità sacrilega che Medardo prova per Aurelia nella quale egli scorge pure Santa Rosalia e che egli è spinto insieme a venerare con purezza e a profanare oscenamente - è per lui fonte di tormentosa scissione, non conciliazione mistica di tutti gli opposti. Egli cerca di trasformare la sua scissione in un'arma per combattere contro le potenze centrifughe, che lo porterebbero a distruggere se stesso e gli altri: «Il prender coscienza di questa drammatica frattura interiore in un certo senso mi dava conforto perché annunziava il nascere e il maturarsi in me d'una forza mia propria, che un giorno si sarebbe opposta al nemico e lo avrebbe battuto». La scrittura è lo strumento dell'ordine, il mezzo per sdipanare il filo della propria identità e operare distinzioni pure all'interno di se stessi. Sin dall'inizio Medardo cerca di ricostruire il suo io mediante la memoria, intesa non quale registrazione meccanica bensì quale facoltà morale, quale giudizio che salva il fluire della vita e lo passa al vaglio. Ma riandando indietro alla sua infanzia, alla ricerca disperata della sua origine, Medardo s'accorge che i primi ricordi, i quali pongono le fondamenta del suo essere, sono esperienze che egli conosce solo perché gli sono state raccontate da altri. Nella ricerca del proprio Io autentico Medardo s'avvede, con orrore, di doversi affidare a mediazioni incerte, a costruzioni fatte da altri; la verità su se stesso, che egli vorrebbe scoprire nella consapevolezza del suo vissuto, gli viene incontro da labili o macchinose testimonianze altrui: racconti fattigli da altri, che non si sa se lo mettano sulla giusta strada oppure se tendano a sviarlo, pergamene misteriose che gli svelano orribili destini, reazioni di altri - per esempio Eufemia, la quale lo scambia per il suo amante e con ciò fa veramente di lui il suo amante - che gli attribuiscono un sempre nuovo e imprevedibile passato e fanno di lui un altro, un uomo dalla storia diversa. Fra l'origine e il caotico presente della sua avventura si spalanca un'«immensa voragine» e, quand'egli cerca di guardare in se stesso, fosche figure, egli dice, «mi sorgono intorno, si infittiscono, mi stringono sempre più da presso, mi precludono la visuale, mi ottenebrano i sensi». Nella prospettiva morale del romanzo Medardo non può infatti accontentarsi di quell'incerto baluginare che, in altri racconti, accende nell'intimo dell'individuo, come in una lanterna magica, il vago ricordo di un passato antichissimo, di un'esistenza vissuta in altra forma o in altro stadio dell'essere. Giorgio Pepusch, in Mastro Pulce, ha una confusa memoria, osservando il viso della bella olandese, del tempo primordiale in cui lo spirito vitale ora incarnato nella sua persona viveva allo stadio di fiore. L'inconscio, che Schelling identificava con l'oggettivo, lo riconduce - aldilà delle scissioni instaurate dalla coscienza soggettiva - al ritmo del tutto. Secondo la mistica medicina romantica, al centro individuale, collocato nel cervello, fa da contrappeso il «sistema gangliare», attraverso il quale il primo viene innestato nel centro della vita universale. Medardo teme invece proprio di venir risucchiato in questo vortice dell'indistinto, che nel suo caso assume il sembiante di un'inesorabile necessità atavica, di una torva totalità dei labirinti del sangue che minaccia di fagocitarlo nei meandri d'un inconscio collettivo. Medardo è un individuo che lotta, come l'eroe del grande romanzo classico goethiano di poco precedente o quasi contemporaneo, per costruirsi una biografia, per darsi una Bildung, per formarsi nella pienezza della propria personalità. Ma la breve stagione classica tedesca, con la sua utopia di conciliazione armoniosa, è finita e per Hoffmann è finita pure la stagione romantica con la sua fede nella sintesi poetica dei contrasti. Una Bildung armoniosa esiste soltanto per chi si appaga di una gretta e filistea riduzione della vita: è del gatto Murr, prototipo del borghese sornione e meschino, che si può raccontare una biografia esemplare e ordinata, fluente dall'inizio alla fine secondo un «bell'ordine cronologico» e compattamente unitaria nella sua aproblematica piattezza, mentre l'esistenza di Kreisler, posta faccia a faccia con l'autenticità, si sgretola nella follia e nella discontinuità e può essere narrata solo a pezzi e a bocconi, quale incerto risultato di eventi misteriosi che incrociandosi e sovrapponendosi, si cristallizzano in provvisori fasci di rappresentazioni psichiche, dilaniate dal dolore della propria caducità. Medardo, scrivendo, vuole ritagliare il proprio carattere dalla marea del destino. Quest'ultimo assume il volto della famiglia e della catena di colpe familiari dalle quali l'individuo si sente determinato. Il clan familiare appare spesso, nelle opere di Hoffmann, in un'aura di grottesco dolore e di lacerazione struggente: una galleria di zii arcigni e taciturni, ammantati nel rigido decoro di fogge antiquate e segretamente minacciati da impulsi disordinati e anarchici, si presenta quale malacopia caricaturale e bizzarra di un sistema di rapporti totali fra l'io individuale e il mondo. Negli Elisir questa galleria è una forsennata ridda incestuosa, dal cui viluppo Medardo cerca di liberarsi. Il rapporto di Medardo col mondo è tragico in senso hegeliano; la sua personalità morale scinde da sé la natura ponendola come destino per non confondersi con essa (Peter Szondi); la coscienza morale si ritrova dinanzi a sé, in ciò ch'essa ha posto quale destino, le leggi che essa stessa si è data. Medardo lotta per affermare il suo carattere contro il suo destino, perché il destino che incombe su di lui non diventi la sua stessa coscienza. Nel dialogo col Papa, sinistro ma ambiguamente latore di verità e in quello col priore, Medardo dibatte il rapporto fra determinazione e libero arbitrio, fra il ritorno ciclico e immutabile degli eventi predestinati dalla natura e il fenomeno imprevedibile che vi sfugge, fra tendenza innata e possibilità di combatterla. La libertà, una libertà dal margine ristretto e sempre in forse, è vista in questa stessa tensione e nella lotta che ne scaturisce e in cui si costituisce la coscienza. La progressiva scrittura degli Elisir è appunto il costituirsi di questa coscienza nel linguaggio. Sul piano psicologico Medardo non è un io unitario, bensì un variabile amalgama di pulsioni antitetiche, un coagulo di impulsi coatti ed ereditari; la sua unità esiste invece sul piano morale, nella lotta fichtiana con la quale il suo io empirico cerca incessantemente di realizzarsi come io puro (Vittorio Mathieu), dominando il non- io anziché venirne travolto. È un'unità mobile, mai definita ed esistente solo nella dinamica del suo farsi. Il linguaggio è il luogo di tale dinamica. Ma se il linguaggio offre a Medardo la possibilità di afferrare il filo del suo essere, esso gli suggerisce pure una tentazione diabolica, quella di tirare e strappare il filo a suo piacimento, di signoreggiare temerariamente sulla vita. Eccellente predicatore e scrittore e dunque maestro della parola, Medardo è costretto, nella sua fuga, a escogitare un sistema così perfetto di menzogne (come quelle che lo salvano dall'interrogatorio del giudice) che finisce per credervi egli stesso, beandosi nell'illusione di dominare quella potenza da cui egli è invece irretito. Il potere esercitato sulle carte della sua autobiografia lo seduce a vaneggiare di dominare veramente la vita, propria e altrui. Travolto da vicende esterne e interiori che lo sovrastano, egli s'inebria di porsi al loro posto, di essere lui stesso quelle forze che lo rovinano, di essere il destino anziché il bersaglio dei suoi colpi. Pensando all'infamia da commettere contro Aurelia, egli si esalta senz'accorgersi che tale infamia colpirebbe il più alto valore della sua vita - al pensiero che Aurelia «non avrebbe potuto sfuggire al destino. E il destino non ero io stesso?» Egli presta orecchio alla voce del persuasore, che gli parla dal suo intimo: «Vedi come comandi al destino? [...]. Come il caso ti si è sottomesso ed ora si limita soltanto più ad intrecciare i fili che tu hai ordito?» Come nella chiromanzia, egli vuole far coincidere carattere e destino, e scambia la ragnatela che lo stringe per una rete con la quale imprigionare la sorte e l'esistenza. In tal modo egli si irrigidisce nella ripetizione ossessiva dell'esperienza, propria al carattere coatto e privo di libertà, ossia - notava Benjamin - di vero destino. Il passato tende a imprigionare, nelle volute delle sue ripetizioni, Medardo, costretto a muoversi «entro il ristretto spazio di una gabbia». In quei cerchi, Medardo s'illude di essere colui che li traccia intorno agli altri. «Decisi di far pieno uso della mia innata potenza, d'impugnare la bacchetta magica e con essa descrivere i cerchi entro cui avrebbero dovuto agire, muoversi, per mio esclusivo piacere, tutti i personaggi della commedia». Il motivo del cerchio ritorna con insistenza nell'opera di Hoffmann, a indicare una vita imprigionata in una ripetizione ignara di progresso e in limiti soffocanti. In questi cerchi in cui Kreisler sa di essere costretto a danzare come un epilettico, Medardo s'illude di essere lui a guidare la danza. Sulle orme di Jean Paul e di Tieck (William Lovell, 1793-1796) Hoffmann, osserva Vittorio Mathieu, raffigura negli Elisir la possibile catastrofe morale di un io che si crede principio del mondo e signore del bene e del male. Una confusa lettura di Fichte, nota Mathieu, induce questi autori a narrare la diabolica prevaricazione di un soggetto, che s'identifica con l'Io puro, nei confronti dell'Io empirico degli altri. Sia l'abbandono all'impulso oscuro sia la pretesa di progettare la vita con assoluta razionalità conducono al delirio di potenza, ben più di quanto accada nel romanzo nero inglese Il monaco di Lewis, da cui pure Hoffmann aveva preso lo spunto per gli Elisir. La bellissima e diabolica amante di Medardo, Eufemia, gli insegna che la «suprema finalità della vita» consiste nel «dominare la vita». Vi sono nel mondo di Hoffmann molti persuasori demonici che, identificandosi col «principio superiore» («höheres Prinzip, höheres Wesen») scoperto dalla loro intelligenza, e cioè con l'amorale forza distruttiva della natura, ne fanno il perno di una Herrenmoral iniziatica: Eufemia invita Medardo a regnare sull'«insulso mondo di fantocci» e a spezzare «le piccole menti limitate dai pregiudizi convenzionali». Anche il piacere sessuale è piegato a questo scopo; non è un fine perseguito di per sé, bensì uno strumento sorvegliato e controllato per soggiogare gli altri: la dissoluta Eufemia non cerca il godimento erotico, ma lo finalizza al suo sogno di potenza e disprezza chi si abbandona irrazionalmente alla passione e al piacere anziché adoperarli razionalisticamente. Eufemia si vanta di possedere, «oltre alle indefinibili e irresistibili attrattive fisiche naturali della femminilità, una facoltà superiore capace di fondere il fascino fisico con l'intelligenza e dominarlo a proprio piacere. Ciò significa saper uscire da se stessi, saper osservare la propria personalità da un altro punto di vista e vederla come un mezzo duttile al comando d'un volere superiore». Negli Elisir il sesso - sia quello carnale rappresentato da Eufemia sia quello angelicato raffigurato da Aurelia - è sempre un miscuglio di piacere e di crudeltà, una torva gioia di infliggere il male. Per Eufemia il «sublime» è la voluttà di spezzare Aurelia, la purezza dell'anima bella; Medardo stesso, accecato da un furore sadomasochista, si propone di fare della rovina di Aurelia «il centro radioso della mia vita». In questa perversa gioia di far del male gli eroi sadiani di Hoffmann sono delle ingenue vittime: Medardo colpendo Aurelia ferisce se stesso, Eufemia vanta il dominio quando sta per essere distrutta dalla sua stessa perfida macchinazione. L'itinerario di Medardo - la discesa agli inferi simboleggiata dal viaggio in un'Italia sinistra e tenebrosa da romanzo gotico - è l'odissea di una coscienza che vuole costituirsi nella lotta morale contro quelle seduzioni e quelle tentazioni del Male, che verranno proiettate e trasferite sul sosia, del quale alla fine - ma solo alla fine, in punto di morte - Medardo riuscirà a liberarsi. Sempre sul punto di disgregarsi in molteplici e indefiniti «qualcosa», simile egli stesso alle forze elementari evocate dai persuasori del male, Medardo riesce ad organizzare una propria unità della persona sul fondamento di una ragione morale capace di riconoscere dei valori. Ma se egli oppone questa ragione tradizionale alla dispersione della follia, sul suo cammino egli incontra un'altra forma di umanità, irriducibile alla stessa antitesi fra ragione e follia: Peter Schönfeld ovvero Pietro Belcampo. Questi vive aldilà del conflitto, e fa del dissidio - della molteplicità centrifuga della psiche - il suo modo di essere. Se nelle altre opere - e nella stessa figura di Medardo - Hoffmann affronta la follia da un punto di vista tradizionale, e cioè giudicandola in base alla prospettiva stabilita dalla ragione così com'essa si è storicamente assestata nella sua posizione di essenza e rispecchiamento del dominio, alla figura di Belcampo Hoffmann fa pronunciare quel discorso di cui Foucault lamenta l'assenza nella nostra civiltà, e cioè il discorso della follia sulla ragione. Non più oggetto del giudizio promulgato dalla ragione, la follia diviene un soggetto paritetico, che tiene a sua volta giudizio sulla ragione. La vacillante saggezza, dice Belcampo, ha bisogno della follia per sostenersi e «ritrovare la strada di casa, - vale a dire, la strada del manicomio». Belcampo rappresenta un'altra ragione, un'altra forma - rispetto a quella storicamente dominante - di organizzazione della vita psichica. La coscienza del soggetto borghese, che nel Gatto Murr viene definita «una questione di abitudine», appare il risultato di una struttura che reprime e comprime la potenziale ricchezza vitale: è un comando militare «che per ingannare la noia fa esercitare i soldati in piazza d'armi». La Follia è invece una «regina del popolo» che incede a suon di timpani e trombe tirandosi dietro «un codazzo di folla in tripudio» e liberando i «vassalli dai seggi su cui li ha inchiodati la Saggezza: non vogliono più saperne di sedere, di giacere, di contenersi come vorrebbe il pedante precettore». L'aria del manicomio - in cui Belcampo ha portato in salvo Medardo - aiuta a strappare «la giubba di pagliaccio di dosso all'individuo cosciente»; la coscienza è un «dannatissimo daziere o gabelliere [...] il quale, dopo aver aperto il suo misero ufficio in una soffitta» pone un duro veto a entrate e uscite e blocca così lo scambio fra l'io rigidamente strutturato e la molteplicità del mondo, fra un duro principio di realtà e il ventaglio del possibile, fra l'individuo e «la meravigliosa città di Dio». Come il folle Serapione dei racconti omonimi, pure Belcampo oppone alla logica chiusa della ratio un'illimitata apertura, una serie di diverse organizzazioni eventuali dei nuclei psichici e dei frammenti dell'esperienza. Quest'insubordinazione all'interno della gerarchia dell'io è intesa quale festa liberatoria, quale tripudio carnascialesco che emancipa le singole energie e il mare di desideri. Ma è un'insubordinazione, nota Mathieu, ironica e umile, che s'appaga del momento e dell'«Einfall», del capriccio che passa per la testa, senza pretendere di progettare artificialmente la vita. Belcampo è l'ironia, è il gioco scettico verso se stessi; ma gioioso, noncurante di ogni egocentrica pianificazione e aperto ai messaggi dell'esistenza. (È Stravinski, dice Mathieu, contrapposto - secondo la formula di Adorno - alla coerenza autosufficiente di Schönberg). La follia di Belcampo è l'utopia di un'altra ragione, di un'altra struttura possibile dell'io, aldilà dello stesso conflitto da cui è lacerato Medardo. È un motivo alquanto raro nell'opera di Hoffmann, il quale altrimenti ci ha dato piuttosto la tragedia della follia, straziante dolore dell'io che non resiste alla propria disgregazione. Non c'è felicità per Medardo, non c'è per lui un posto nel mondo se non nel ritiro in convento, come per Kreisler; per entrambi l'unica alternativa al convento è il manicomio. Un posto nel mondo esiste soltanto per chi è - e sa tranquillamente di essere - fuori posto, per chi non cerca di superare le contraddizioni bensì di vivere in esse e di esse. «Incolori, grigio su grigio» sono i pensieri annebbiati di Medardo, mentre variopinta è la vita che conduce Belcampo, lasciandosi portare dal vento della follia. In questo spirito nel Gatto Murr Maestro Abramo, regista occulto e benefico delle oscure vicende del romanzo, organizza colorite feste di corte al cui effetto spettacolare concorre pure la natura col vento e i lampi che sconvolgono le luci e i fuochi d'artificio. Anche negli Elisir si dice, secondo un'immagine prediletta di Hoffmann, che «la profondità di spirito rispecchia fedelmente, come un limpido lago, il quadro multicolore della vita». Questa vita, che nel proprio specchio è se stessa più la sua autoconoscenza, non è solo l'identità schellinghiana dell'Uno che si ritrova in tutte le forme, ma è l'infinita apertura del soggetto al vortice dei fenomeni. Questa liberazione dalle proprie catene è tanto più facile quanto più l'io è incrinato da crepe e sconnessioni, che lasciano fluire in lui la totalità dell'esperienza: nel Vaso d'oro è la «frattura creatasi nell'animo suo» che permette ad Anselmo, in una scena indimenticabile, di scorgere nei riflessi dei fuochi d'artificio sull'acqua i serpenti d'oro della sua visione e di udire nel mormorio delle onde la voce delle creature che lo invitano al mitico regno di Atlantide. È la nevrosi, il disagio rispetto al falso mondo dell'apparenza sociale che consente all'individuo di udire il richiamo della totalità, della vita vera. Medardo non sceglie la strada mistica, la proliferazione indistinta dei suoi impulsi centrifughi, bensì la strada umanistica e laica della moralità. Non vuole disfarsi di se stesso, ma costruirsi. Assomiglia al cane Berganza del racconto omonimo, che non cede al fascino del demonico e abbaia al gatto della strega. Il suo cammino lo conduce infatti non negli iridiscenti paesaggi della fiaba, ma per le aspre e difficili vie del mondo. Gli elisir del diavolo sono anche un romanzo realista e corposo, ricco di pennellate sociali e di osservazioni di costume, un affresco del tramonto della vita feudale e della nascita di una robusta vita borghese. È un cammino che costa a Medardo dolore, in luogo dell'ebbrezza che deriva dal perdersi. Gli elisir del diavolo sono il romanzo di una formazione morale che si attua sulla contraddittoria consapevolezza di quanto sia esiguo il campo della sfera morale e di come esso sia confuso e invaso dalla necessità naturale, da impulsi tendenze e meccanismi psichici che tendono ad annullare la sua autonomia. Forse per questo Gli elisir sono il più grande romanzo umanistico dell'età classico- romantica tedesca: senza certezze né visioni dell'essenza, senza ordine ma senza resa al disordine. Sono una selva frondosa e intricata, che talora si vorrebbe, in nome dell'economia estetica, sfoltire e cimare, come faceva quel personaggio di Hoffmann che andava in giro a far collezione di panorami, e, quando ne scorgeva uno di suo gusto, faceva abbattere, se necessario, boschi e foreste per rendere più ariosa la cornice. Ma con questo suo grande romanzo anche farraginoso e impuro, con questo suo Delitto e castigo dell'età romantica, Hoffmann insegna che la grande arte, quella che fornisce risposte alla vita o almeno ne pone le domande fondamentali, è sempre aldilà dell'accorta e avara purezza estetica, della calcolata economia formale. Claudio Magris Nota biografica Ernst Theodor Wilhelm Hoffmann (il cui terzo nome, Wilhelm, fu mutato in Amadeus in segno di omaggio a Mozart) nacque a Königsberg il 24 gennaio 1776 da Christoph Hoffmann, severo giurista non privo di inclinazioni artistiche, e da Luise Albertine Dörffer, donna dal temperamento ipersensibile e soggetta a vere e proprie crisi nevrotiche. Dopo la separazione dei genitori, avvenuta nel 1780, Hoffmann fu affidato alla famiglia materna ove passò la sua infanzia, segnata da esperienze indelebili che non si cancellarono più dalla sua mente e che emergono in molte delle sue opere. Fra queste, decisivo fu l'affetto per la dolce zia Füsschen, morta assai giovane e trasfigurata nel ricordo di Hoffmann come il simbolo della femminilità, come il simbolo di una sublimata esperienza amorosa della fanciullezza in cui lo scrittore vide la prima identificazione di femminilità, Eros, musica e poesia. Accanto al prozio Vöthory, modello dell'indimenticabile Justitiarius del racconto Das Majorat [Il maggiorasco], lo zio Otto Wilhelm Dörffer, rievocato più tardi, costituì il primo incontro con quella categoria di personaggi bizzarri ed eccentrici che affollano la narrativa hoffmanniana e che Hoffmann frequentò sempre con un profondo interesse psicologico, specie durante gli studi universitari a Königsberg (sino al 1796) ove, oltre a studiare legge e a disinteressarsi dell'insegnamento kantiano, coltivò una fervida amicizia per Theodor Hippel, cui scrisse interessantissime lettere ricche di confessioni autobiografiche, e visse la sua prima autentica passione amorosa, quella per Cora Hatt, che ispirò numerosi racconti. Appartengono a quegli anni, in cui s'andava già delineando in Hoffmann la tendenza all'instabilità nervosa e all'eccitabilità, le entusiastiche letture del Werther, di Rousseau, Sterne, Jean Paul e di opere care al gusto «notturno» come Der Genius di Grosse. Promosso nel 1796 referendario a Glogau, vi conobbe il mefistofelico e misterioso pittore Molinari, che egli ritrasse più tardi in alcune delle sue figure sataniche dal tenebroso fascino meridionale. Nel 1798 visitò la Galleria di Dresda ove s'entusiasmò, secondo un'esperienza obbligata per molti autori romantici per la pittura rinascimentale italiana. Dopo un'attività presso il tribunale camerale di Berlino (1798-1800) e un fidanzamento presto sciolto con Minna Dörffer, divenne assessore a Posen e vi rimase dal 1800 al 1802, dividendosi, in un'ardente febbre di vivere, tra il lavoro, la vita di società, gli amori, le amicizie, la passione per l'arte e soprattutto per la musica, e le burle grottesche come quella che gli costò il trasferimento nella cittadina polacca di Plock, dove trascorse due anni solitari e difficili (1802-1804). Sposatosi nel 1802 con la polacca e cattolica Michalina RorerTrzynska («Mischa»), fu trasferito nel 1804 a Varsavia e vi rimase sino al 1807, risentendo un profondo influsso di quel crogiolo di civiltà slavotedesca. Ancor incerto sulle proprie attitudini e indeciso fra pittura, letteratura e musica, Hoffmann tendeva sin da allora a quel processo di trasfigurazione continua della vita nell'arte e a quella compensazione e sublimazione estetica che contrassegnarono più tardi la sua opera. Perduto l'impiego dopo la sconfitta della Prussia ad opera di Napoleone e la conseguente perdita dei territori polacchi, Hoffmann si recò a Berlino dal 1807 al 1808, ove la conoscenza di Fichte, Schleiermacher e Chamisso gli fece conoscere il movimento romantico. Dal 1808 al 1813 fu a Bamberg facendo il recensore musicale, il regista e lo scenografo, rappresentando per la prima volta la Kätchen von Heilbronn di Kleist e inscenando anche alcune opere di Calderon; a Bamberg il fascino del cattolicesimo barocco s'intrecciò all'amore per Julia Mare, modello di quasi tutte le sue protagoniste femminili e identificata, con un processo tipicamente romantico e psicologicamente assai interessante, con l'amore per la musica vista ora come soavità celeste ora come potenza patologica e distruttrice. Nel 1809 uscì la sua prima novella Ritter Gluck [Il cavaliere Gluck], intreccio di minuziosa realtà e fantasia surreale, prima raffigurazione del demone della musica e dell'inquietante «sdoppiamento» della psiche e del reale. Fortemente influenzato, durante un viaggio a Norimberga nel 1812, dall'altro polo del gusto romantico (quello gotico, borghese e protestante) Hoffmann visse da vicino (a Dresda e a Lipsia, nel 1813-14) le ultime campagne napoleoniche e riprese nel 1814 la sua professione di giurista a Berlino esercitandola sino alla morte, nonostante la vita dispersiva e la salute sempre più minacciata, e mantenendo un'esemplare dignità e coerenza nell'oppressivo clima della Restaurazione, che egli non mancò di satireggiare al pari del filisteismo borghese e dello sciovinismo esasperato delle leghe studentesche. Nel 1814-15 uscì la prima raccolta di novelle, i Phantasiestücke in Callots Manier [Pezzi di fantasia alla maniera di Callot] che rivelano già nel titolo il gusto del grottesco e della caricatura cari al grande disegnatore francese. In questa raccolta appare la tormentata figura del musicista Kreisler straziato intimamente dalla sua stessa passione musicale e sprezzato dal mondo borghese, un autoritratto di Hoffmann che ritornerà in tante opere. Mentre alcuni racconti rivelano già un attento studio di traumi psichici, allucinazioni e superstizioni popolari segnando così una delle direzioni del «realismo» hoffmanniano e mentre altri sfumano nel surrealismo della fiaba, la novella Der goldne Topf [Il vaso d'oro] indica il superamento del dissidio interiore del dilacerato eroe romantico in una sintesi di fiaba e realtà, in una magica pacificazione dei contrasti che deriva soprattutto dalla mistica filosofia della natura di Schelling, conciliatrice di tutti gli opposti. Autore di opere teatrali, musicali e critiche (per esempio Prinzessin Blandina, 1815; l'opera Undine, 1816; Seltsame Leiden eines Theaterdirektors [Le curiose pene di un capocomico], 1819), Hoffmann si avvicinò, tramite l'amicizia con alcuni medici alla nuova scienza romantica, allo studio per i fenomeni occulti, ipnotici, telepatici che affiorano nel grande romanzo Die Elixiere des Teufels [Gli elisir del diavolo], 1815-16), magistrale «avventura» d'una schizofrenia in cui si riassume la crisi di tutta una civiltà, e nei Nachtstücke [Racconti notturni], 1817. In questi ultimi l'analisi psicologica, che giunge a risultati di sorprendente modernità come nel Sandmann [L'Orco Insabbia], si allaccia alle indagini della simbologia onirica e della vita dell'inconscio svolte in quegli anni dallo scienziato- teosofo Gotthilf Heinrich Schubert. Dalle serate berlinesi trascorse con Chamisso, Contessa, Fouqué e numerosi medici e scienziati nacquero i racconti usciti a partire dal 1819 nella serie Die Serapionsbrüder, nello spirito del santo - e folle - Serapione che abolisce ogni distinzione fra realtà e sogno, natura e fantasia, in un surrealismo ante litteram: novelle che spaziano nei più diversi generi narrativi, dal racconto avventuroso o addirittura poliziesco allo studio patologico, dalla satira antiborghese all'ironia contro i miti romantici, dalla fiaba surreale al capriccio musicale. La statura europea dell'arte hoffmanniana - Hoffmann fu infatti ammirato e imitato in tutta Europa, da Baudelaire a Gogo4l, da Balzac a Herzen, da Dostoevskij a Pu4skin, e le sue opere furono tradotte in francese fin dal 1833 e in russo, tranne il Murr, fin dal 1838 - consiste infatti nella sua poliedrica ampiezza spirituale: Hoffmann è stato al contempo l'anticipatore del realismo borghese e del surrealismo, il narratore scapigliato di avventure ottocentesche e l'analizzatore dell'inconscio, l'umorista trascendentale e il sognatore delle fiabe, l'antesignano dell'angoscia moderna e della dissociazione pirandelliana della personalità, l'esponente dello slancio romantico e l'ironico superatore dei limiti ideologici del Romanticismo. Nei suoi racconti s'incontra la pittura del mondo provinciale tedesco ancora sacroromano- imperiale e la più alta dimensione della rêverie romantica, l'ossessione freudiana del sosia e una vaga intuizione del mondo dell'Es, un gusto attualissimo della citazione letteraria e un interesse scientifico per i problemi psichici, il più agile e brioso piglio dell'avventura e la reviviscenza del romanzo gotico, lo sguardo nei più cupi abissi dell'inconscio e la pura liberazione nella fiaba, il divertimento spassoso e un procedimento strutturale per simboli di straordinaria attualità. Del 1819 è Klein Zaches genannt Zinnober [Il piccolo Zaccheo detto Cinabro], gustosa e amara satira antilluministica e antiassolutista, del 1820-21 la Prinzessin Brambilla, aereo balletto metafisico in cui ogni dissidio fra Io e sosia, realtà e fantasia, molteplicità e unità si compone in un arabesco musicale di derivazione schellinghiana. Nelle Lebensansichten des Katers Murr nebst fragmentarischer Biographie des Kapellmeisters Johannes Kreisler in zufälligen Makulaturblättern [Punti di vista e considerazioni del gatto Murr sulla vita nei suoi vari aspetti e biografia frammentaria del maestro di cappella Johannes Kreisler su fogli di minuta casualmente inseriti], 1820-22, Hoffmann intreccia con un ardito e precorritore sperimentalismo, tragicità e ironia, la straziata storia di un Amleto romantico e borghese dilacerato dall'arte e dalla nevrosi e la sua parodia grottesca ed estraniante incarnata nel personaggio di un gatto filisteo. Autore del Meister Floh [Maestro Pulce], 1822, deliziosa satira antiassolutistica e al contempo allegoria della grazia poetica, Hoffmann compose numerosi racconti di vario genere da quello borghese- realistico a quello notturno a quello avventuroso o allegorico, continuando a lavorare freneticamente sino alla morte, avvenuta per tabe dorsale il 25 giugno 1822. D'incerta attribuzione è il romanzo libertino Schwester Monika erfäht und erzählt [Esperienze e confessioni di Suor Monica], 1815. C.M. Prefazione del redattore Io vorrei tanto, lettore benevolo, poterti condurre sotto i platani scuri alla cui ombra lessi per la prima volta la storia di frate Medardo. Siederesti con me su quella stessa panchina di pietra, seminascosta fra arbusti e fiori odorosi, insieme a me guarderesti con nostalgia alle fantastiche configurazioni delle catene montuose azzurrine, sorgenti davanti a noi, laggiù, oltre il viale, al fondo dell'ampia valle assolata. Ma poi subito, volgendoti, vedresti a una ventina di passi dietro le nostre spalle un edificio gotico dal portale riccamente adorno di statue. Visi di santi ti fisserebbero attraverso gli scuri rami dei platani con occhi chiari e vivi: gli occhi delle figure dipinte a fresco sulle immense mura. Ecco - il sole pende sulle montagne come un globo di fuoco - si levano le prime brezze della sera. Dovunque è vita, movimento: magiche voci sussurrano, stormiscono fra gli alberi, si ingrossano, giungono fino a noi di lontano, già trasformate in canto, in sonorità d'organo. Uomini severi, in ampi sai fluttuanti, passeggiano silenziosi per i viali del giardino, gli occhi piamente rivolti al cielo. Che le immagini dei santi abbiano preso vita e siano discese dagli alti cornicioni?... Ecco - ti attorniano e poco a poco ti afferrano i misteriosi terrori delle saghe, delle leggende meravigliose colà raffigurate - ti sembra che tutto debba ripetersi davanti ai tuoi occhi - e vuoi, e puoi crederlo possibile. Se dunque leggerai la storia di frate Medardo in tale stato d'animo, le strane visioni del monaco ti parranno forse qualcosa di più d'uno sregolato e troppo fervido gioco di fantasia. Giacché tu, lettore benevolo, hai visto or ora immagini di santi, un convento, una schiera di frati, non ho quasi bisogno di soggiungere che ti ho condotto nello stupendo giardino del convento dei cappuccini, a B. Quando, tempo addietro, trascorsi alcuni giorni colà, il reverendo priore mi mostrò come una rara meraviglia le carte di fra Medardo conservate in archivio; ed io, vincendo a stento le sue perplessità, lo indussi a consegnarmele. Il vecchio priore era, a dire il vero, dell'avviso che quelle carte dovessero venire bruciate. Non senza timore che tu sia della sua stessa opinione, ti pongo fra le mani, lettore benevolo, il libro da esse ricavato. Se ti deciderai a seguire Medardo come un fedele compagno nel tetro mondo delle celle, dei chiostri - e quindi nel variopinto e turbolento mondo dei vivi, se saprai sopportare insieme a lui gli aspetti orrendi, spaventosi, forsennati, farseschi della sua vita, allora la fantasmagoria di immagini proiettate nella «camera obscura» (1) in cui stiamo per introdurti potrà fors'anche divertirti - e talune di esse, apparentemente confuse ed informi, a una più attenta osservazione ti appariranno forse chiare e compiute. Conoscerai così il seme misterioso posto in terra da un tragico destino affinché si trasformasse in rigoglioso arbusto - e crescesse spandendo intorno migliaia di viticci, fino a che un fiore, divenuto frutto, non ne assorbisse tutta la linfa vitale, disseccandolo dalle radici. Dopo aver letto le carte del cappuccino Medardo avidamente e con non poca fatica (... perché la buonanima aveva una calligrafia minutissima, quasi illeggibile, proprio di certosino...), mi parve che quanto noi generalmente chiamiamo «sogno», «immaginazione» possa invece essere la presa di conoscenza - per simboli - del misterioso filo collegante e condizionante gli eventi della nostra vita. Mi parve altresì di dover considerare «perduto» colui il quale, con l'acquisizione di tale conoscenza, creda di aver conquistato anche la forza di strappare violentemente quel filo e sfidare l'oscura potenza imperante su di noi. Forse tu sentirai come me, lettore benevolo; te lo auguro di gran cuore - e non senza buoni motivi. Parte prima Capitolo primo - Gli anni dell'infanzia e la vita in convento Mia madre non mi disse mai quale fosse la situazione sociale di mio padre; ma se richiamo alla memoria tutto ciò che essa mi raccontava di lui fin da quando ero bimbo, devo credere ch'egli fosse un uomo di vasta e profonda cultura, e un grande conoscitore della vita. Sempre dai racconti e da certe frasi isolate di mia madre (comprese soltanto più tardi), ora so che i miei genitori da una vita ricchissima e agiata caddero nella più nera miseria e mio padre, tentato da Satana, si macchiò di peccato mortale commettendo uno spaventoso misfatto. Più tardi, illuminato dalla grazia, volle espiare il proprio peccato recandosi in pellegrinaggio al convento del Sacro Tiglio, nella lontanissima e gelida Prussia.(2) Durante quel disagevole viaggio mia madre, sposata già da molti anni, si accorse che il suo matrimonio non sarebbe rimasto sterile come mio padre temeva; e mio padre, malgrado la miseria e i disagi, ne fu felicissimo perché san Bernardo, apparsogli in una visione, gli aveva promesso perdono e conforto al momento della nascita d'un figlio. La visione si sarebbe dunque avverata! Giunto al convento del Sacro Tiglio, mio padre si ammalò, volle continuare i prescritti esercizi di pietà malgrado la crescente debolezza, si aggravò e morì, in pace con Dio e con se stesso, nel preciso istante in cui io venivo al mondo. Con i primi barlumi di coscienza mi si fissarono nella mente le care immagini del convento e della stupenda chiesa del Sacro Tiglio. Sento ancora intorno a me le voci del bosco cupo, la fragranza delle erbe lussureggianti e piene di fiori che mi furono culla. Nessun animale velenoso, nessun insetto nocivo si annidava nel santuario dei benedettini; neppure il ronzio di una mosca, il frinire d'un grillo turbavano il sacro silenzio rotto soltanto dai canti dei religiosi e dei pellegrini, procedenti in lunghi cortei tra il fumo degli incensieri ondeggianti. Vedo ancora, al centro della chiesa, il tronco rivestito d'argento del tiglio su cui gli angeli deposero l'immagine miracolosa della santa Vergine; dalle pareti, dalle volte dipinte della chiesa mi sorridono ancora i bei visi degli angeli, dei santi!... Tutto ciò che mia madre mi raccontò a proposito del miracoloso convento in cui essa aveva trovato tanto conforto al suo grande dolore mi è rimasto così profondamente impresso, da darmi la sensazione d'averlo visto e sperimentato io stesso, benché sia impossibile che la mia memoria si spinga tanto indietro nel tempo: mia madre infatti lasciò quel luogo santo dopo appena un anno e mezzo. Mi sembra, dunque, d'aver visto una volta nella chiesa vuota la straordinaria figura d'un uomo serio, grave, il quale doveva essere il pittore straniero colà giunto, in tempi remotissimi (appunto quando la chiesa era stata costruita) - l'uomo di cui nessuno comprendeva la lingua, l'artista che in brevissimo tempo e con sorprendente bravura aveva decorato tutta la chiesa di stupendi dipinti, scomparendo subito dopo com'era venuto. Ricordo pure un vecchio pellegrino dalla lunga barba grigia, stranamente vestito, il quale spesso mi portava in braccio nel bosco cercando muschi e sassolini colorati e giocando con me. Lo ricordo, pur essendo certissimo d'essermelo fissato in mente soltanto attraverso le descrizioni fattemene da mia madre. Una volta egli condusse con sé un bellissimo bimbo della mia stessa età. Siedevamo insieme sull'erba facendoci festa; io gli regalavo tutti i miei sassolini colorati ed egli li disponeva per terra formando ogni sorta di disegni, i quali finivano però sempre per risultare in forma di croce. Mia madre sedeva accanto a noi su una panchina di pietra e il vecchio, in piedi dietro di lei, osservava i nostri giochetti con gravità e tenerezza. Ad un tratto dai cespugli sbucarono alcuni giovanotti, venuti al Sacro Tiglio (a giudicare dal loro modo di vestire e di comportarsi) unicamente per curiosità. Uno di essi, vedendoci, scoppiò a ridere e disse: - Oh, guarda!... Una Sacra Famiglia!... Questo sì è un buon soggetto per la mia cartella! - E tirato fuori carta e matita si dispose a ritrarci. Il vecchio pellegrino erse il capo ed esclamò indignato: - Di chi ti fai beffa? miserabile?... Tu vorresti diventare un artista ma non hai mai conosciuto la fiamma della fede e dell'amore: le tue opere rimarranno aride, morte come sei tu, e tu finirai reietto, disperato, nel vuoto e nella solitudine... affonderai nella tua stessa miseria -. I giovani corsero via sgomenti. Allora il vecchio pellegrino disse a mia madre: - Vi ho portato un bimbo prodigioso perché accendesse la scintilla dell'amore in vostro figlio; ma ora devo riprendervelo e voi non rivedrete mai più né lui né me. Vostro figlio ha molte magnifiche doti, ma la colpa del padre gli fermenta ancora nel sangue. Potrebbe tuttavia diventare un valoroso paladino della fede: fatene un religioso! - Queste parole fecero a mia madre un'impressione enorme, incancellabile; più tardi me lo ripeté molte volte. Ciò nonostante essa decise di non forzare in alcun modo le mie inclinazioni naturali e di attendere tranquillamente i segni della provvidenza. E d'altronde, a procurarmi un'educazione superiore a quella che lei stessa era in grado di darmi non poteva neppure pensare. I miei ricordi veramente chiari, dovuti ad esperienza diretta, incominciano da quando, durante il viaggio di ritorno, capitammo con mia madre nel convento delle monache cistercensi. La badessa, una nobildonna di famiglia principesca, aveva conosciuto mio padre e ci accolse cordialmente, come amici. Del periodo compreso fra l'episodio del vecchio pellegrino (che effettivamente ricordo per memoria diretta, anche se mia madre dovette poi completarmelo narrandomi lo scambio di parole avvenuto fra il vecchio e il pittore) e il nostro arrivo dalla badessa, non serbo neppure il più vago ricordo. Superata tale lacuna, mi ritrovo dunque al momento in cui mia madre dovette riordinarmi, rassettarmi gli abiti nei limiti del possibile per rendermi presentabile; comprò qualche nastro in città, mi tagliò i capelli, lunghi, arruffati come quelli di un piccolo selvaggio, mi ripulì con cura e soprattutto mi raccomandò di comportarmi bene, d'essere buono e gentile con la signora badessa. Finalmente, dandole la mano, salii lo scalone di pietra ed entrai nell'alta camera a volta, piena di immagini sacre, in cui trovammo la principessa. Era una bella donna, alta, maestosa. - La veste dell'ordine le conferiva una dignità ispirante soggezione e rispetto. Dopo avermi scrutato con occhi severi e penetranti, domandò a mia madre: - Questo è vostro figlio? - La sua voce, il suo aspetto, l'ambiente sconosciuto, quel camerone alto, i quadri, tutto insomma, mi impressionò talmente, mi diede un tale senso di sgomento che scoppiai a piangere. Lo sguardo della principessa divenne più tenero e affettuoso: - Che cos'hai, piccino? - mi domandò. - Hai paura di me?... Come si chiama vostro figlio, cara signora? - Franz, - rispose mia madre. - Francesco! - esclamò la principessa con profonda tristezza nella voce; e prendendomi in braccio mi strinse a sé impetuosamente. Sentii qualcosa farmi male al collo e urlai di dolore; la principessa, spaventata, mi lasciò; mia madre, allarmata dalla mia condotta, si lanciò verso di me per condurmi via, ma la principessa non glielo permise. Risultò che la croce di diamanti appesa sul petto della badessa mi aveva escoriato il collo mentre lei mi abbracciava: ne portavo il segno arrossato e striato di sangue. - Povero Franz, ti ho fatto male! - disse la principessa, - ma diventeremo buoni amici ugualmente -. Una suora portò confetti e vin dolce. Subito rinfrancato, mi misi a sgranocchiare senza complimenti quelle delizie, tanto più che la bella signora mi aveva preso in grembo e me le metteva in bocca lei stessa. Quando ebbi assaggiato alcune gocce del dolce liquore a me fin là sconosciuto, ritrovai tutta la vivacità e il buon umore che, a detta di mia madre, mi erano sempre stati propri, fin dall'infanzia. Incominciai dunque a ridere, a scherzare, con grande divertimento della badessa e della suora. Ancora non riesco a spiegarmi come venisse in mente a mia madre di invitarmi a parlare del luogo in cui ero nato e delle sue bellezze. Come ispirato da una forza soprannaturale seppi descrivere i bei dipinti del pittore straniero sconosciuto con tanta vivezza da dare la sensazione di averne compreso a fondo lo spirito; passai quindi alle meravigliose storie di santi, come se avessi la massima dimestichezza con gli scritti della chiesa. La principessa, perfino mia madre, mi guardavano stupefatte ed io più parlavo, più mi entusiasmavo. E quando la principessa finalmente mi domandò: - Dimmi un pò, caro bambino, come sai tutte queste cose? - io risposi senza un attimo di esitazione che il bimbo prodigioso condotto dal pellegrino forestiero mi aveva spiegato tutti i dipinti della chiesa, e il significato di certe figure da lui stesso composte con i sassolini colorati, raccontandomi poi anche molte altre piccole storie su argomenti sacri. Suonarono il vespro. La suora riempì un grosso cartoccio di dolciumi e me lo diede; io lo intascai tutto felice. La badessa si alzò e disse a mia madre: Considero vostro figlio come un mio pupillo e d'ora innanzi mi prenderò cura di lui -. Soffocata dall'emozione, mia madre non poté rispondere; le baciò le mani piangendo e fece per uscire ma quando fummo sulla porta la principessa ci raggiunse, mi prese in braccio, scostò con cura la croce e mi abbracciò esclamando fra i singhiozzi: Francesco... Conservati devoto e buono! Sentii le sue lacrime calde cadermi sulla fronte e scoppiai a piangere anch'io, commosso senza saperne il perché. Grazie agli aiuti della badessa le nostre condizioni di vita migliorarono, i disagi finirono. Andammo ad abitare in una piccola fattoria nei pressi del convento ed io, vestito ormai in modo presentabile, venni mandato a studiare dal parroco. Quando questi officiava nella chiesa del convento io gli facevo da corista e da chierichetto. Ricordo quei tempi felici come un bel sogno! Ahimè, com'è lontano il mio nido, la casa della gioia, della spensierata, perfetta letizia infantile! Quando mi guardo indietro vedo spalancata l'immensa voragine che mi separa per sempre da quel paradiso. Con crescente disperazione tento di ritrovare i visi amati che colà mi apparvero come nella luce infocata dell'aurora, mi illudo di riudirne le care voci... Ahimè!... Esiste dunque una voragine invalicabile perfino per le possenti ali dell'amore?... Che cosa sono per l'amore il tempo, lo spazio?... L'amore non vive forse nel pensiero?... E il pensiero conosce misura?... Ma troppe figure fosche mi sorgono intorno, si infittiscono, mi stringono sempre più da presso, mi precludono la visuale, mi ottenebrano i sensi presentandomi le tribolazioni dell'oggi. Perfino la nostalgia di quei luoghi, di quell'età felice, un tempo fonte di ineffabile, seppur dolorosa delizia, ora è diventata mortale, disperato tormento! Il parroco era la bontà in persona. Sapeva tenere a freno la mia eccessiva vivacità mentale e adattare il proprio insegnamento al mio carattere. Guidato da lui imparavo con gioia e facevo rapidi progressi. Sopra tutti amavo mia madre; ma la principessa la veneravo come una santa. Vederla per me era una festa solenne. Ogni volta mi proponevo di brillare davanti a lei con le nozioni acquisite di fresco, ma quando arrivava, quando mi si rivolgeva, cordiale ed affettuosa, non ero più capace di pronunziare una sillaba: riuscivo soltanto a guardarla, ad ascoltarla. Dopo averla incontrata ripensavo alle sue parole per un giorno intero, mi sentivo nobilitato e la sua figura mi accompagnava dovunque, perfino a passeggio. Ah, che sensazione indicibile agitare il turibolo ai piedi dell'altar maggiore mentre la voce dell'organo tuonava dal coro trascinandomi, sollevandomi come su un flutto mugghiante; quando nell'inno riconoscevo, in mezzo a tutte, la voce di lei, la sentivo penetrare in me come un raggio luminoso e suscitare nell'animo mio i presagi delle cose più sublimi e più sante! Ma il giorno più bello, il giorno atteso per intere settimane con trepidante impazienza, quello cui non potevo pensare senza un sussulto di gioia, era la festa di san Bernardo, patrono dei cistercensi, celebrata con la massima solennità - e con la concessione di larghe indulgenze. Già fin dalla vigilia, un'enorme folla di persone si riversava dalle città vicine e da tutti i dintorni per accamparsi sul grande prato fiorito circostante il convento. La gioiosa baraonda durava giorno e notte. La festa di san Bernardo cade in una stagione molto propizia, in agosto, e non ricordo che il tempo le sia stato una sola volta sfavorevole. Era uno spettacolo estremamente pittoresco quel miscuglio, quell'accostamento di pellegrini devoti che cantavano i loro inni e di giovani campagnoli che passeggiavano con ragazzette vestite a festa, di religiosi assorti in contemplazione, a mani giunte, gli occhi rivolti alle nuvole, e di famiglie borghesi sedute sull'erba a rifocillarsi con i loro panieri colmi di provviste. Canzoni gaie e canti religiosi, accorati sospiri di penitenti e risate di gente allegra, lamenti, urla, scherzi, preghiere riempivano l'aria di un assordante concerto. Ma appena suonava la campana del convento quel gran frastuono moriva all'improvviso; tutti si mettevano in fila, cadevano in ginocchio e nel religioso silenzio non si udiva più altro che il mormorio delle preghiere. Ma estinto l'ultimo rintocco, la folla multicolore tornava a mischiarsi, a confondersi e il chiassoso tripudio, interrotto per un attimo, ricominciava. Il giorno di San Bernardo era il vescovo stesso - residente nella vicina città - a celebrare la messa solenne nella chiesa del convento, assistito dai sacerdoti inferiori della comunità. La musica veniva eseguita dalla cappella episcopale, disposta sopra una tribuna decorata di rarissimi arazzi a lato dell'altar maggiore. - Le sensazioni che allora mi facevano tremare il cuore non si sono ancora spente in me. Quando rivolgo il pensiero a quei tempi beati e troppo velocemente trascorsi, esse risorgono giovani e fresche come allora. Ricordo ancora perfettamente un Gloria, eseguito molte volte perché la principessa lo preferiva a tutti gli altri pezzi. Quando il vescovo lo intonava e le voci possenti del coro prorompevano rispondendo: «Gloria in excelsis Deo!», non era come se la gloria del cielo si spalancasse veramente sopra l'altar maggiore?... Come se per un miracolo divino i cherubini, i serafini dipinti prendessero vita e si librassero in volo lodando Iddio col loro canto, col meraviglioso concerto degli strumenti a corda?... - Io cadevo nello stupore estatico del misticismo ispirato e volavo sulle nubi luminose verso la patria lontana... Il bosco profumato era pieno di voci angeliche e il bimbo prodigioso uscendo da alti cespi di gigli, mi veniva incontro e mi domandava: Dove sei stato tutto questo tempo, Francesco?... Io ho molti bei fiori e te li darò tutti, purché tu rimanga con me e mi voglia bene per sempre. Dopo la messa cantata le suore percorrevano in solenne processione le gallerie del convento, la chiesa, al seguito della badessa con la mitria in testa e il pastorale d'argento in mano. Quale santità, quale dignità, quale sovrumana grandezza irradiavano gli sguardi, i movimenti tutti di quella donna straordinaria! Pareva la personificazione della Chiesa Trionfante nell'atto di impartir grazia e benedizione alle folle dei buoni credenti. Quando per caso il suo sguardo si posava su di me, avrei voluto prostrarmi nella polvere ai suoi piedi. Finita la funzione, ai religiosi ed ai componenti la cappella episcopale veniva offerto un pranzo in un grandioso salone; vi partecipavano pure numerosi amici del convento, sacerdoti, mercanti venuti dalla città; e poiché il direttore della cappella episcopale mi aveva preso a benvolere e si occupava volentieri di me, potevo parteciparvi anch'io. Se poc'anzi mi ero rivolto per intero alle cose ultraterrene con animo fervente di devozione, appena seduto a tavola mi ritrovavo immerso nell'atmosfera gaia e colorita della vita mondana. Era un fuoco di fila di racconti allegri, scherzi, facezie, risate; e si continuava a vuotare bottiglie fino al far della sera e al sopraggiungere delle carrozze per ricondurre a casa gli ospiti. Quando compii sedici anni, il parroco mi dichiarò sufficientemente preparato per iniziare i superiori studi teologici nel seminario della vicina città. M'ero infatti deciso per lo stato sacerdotale, con immensa gioia di mia madre la quale vedeva in questo fatto la spiegazione delle misteriose allusioni del pellegrino e l'avverarsi della visione di mio padre (di cui io non sapevo nulla), certamente collegata a quelle allusioni. Mia madre era convinta che soltanto l'ordinazione sacerdotale del figlio avrebbe riscattato le colpe del padre e salvato l'anima sua dai tormenti dell'eterna dannazione. Anche la principessa, che ormai potevo vedere soltanto in parlatorio, approvò altamente il mio proposito e rinnovò la promessa di procurarmi tutto il necessario fino al conseguimento della dignità sacerdotale. La città era così vicina che dalle nostre finestre se ne potevano scorger le torri; i buoni camminatori sceglievano spesso a meta delle loro passeggiate gli ameni dintorni del convento. Eppure, accomiatarmi dalla mia cara madre, dalla straordinaria donna che veneravo così profondamente, dai miei buoni maestri, mi fu penosissimo. Quando una separazione è causa di dolore, una sola spanna oltre la cerchia delle persone care sembra già una distanza immensa. La principessa era molto commossa; mentre mi rivolgeva ancora alcune patetiche parole di ammonimento la voce le tremava per la tristezza. Mi donò quindi un prezioso rosario, un bel libriccino di preghiere illustrato e mi diede una lettera di presentazione per il priore dei cappuccini, raccomandandomi di andare subito a trovarlo perché mi avrebbe consigliato e appoggiato molto efficacemente. Non credo sia facile trovare una località più incantevole di quella ove sorge il convento dei cappuccini, a brevissima distanza dalla città. Passeggiando per i lunghi viali dello stupendo giardino con vista sulle montagne e fermandomi presso questo o quel gruppo di alberi rigogliosi vi scoprivo sempre nuove bellezze. Appunto in quel giardino incontrai il priore Leonardo quando mi recai per la prima volta al convento a consegnargli la lettera di raccomandazione della badessa. L'innata cordialità del priore divenne ancora più calda quando egli ebbe letto la lettera. Aveva conosciuto quella donna eccezionale molti anni addietro, a Roma, e seppe parlarmene in modo così lusinghiero che fin dal primo momento mi conquistò. Egli era circondato dai frati; e quali fossero i suoi rapporti con loro, l'organizzazione, le consuetudini del convento, lo si capiva a prima vista. La pace, la letizia interiore così evidenti nella personalità di frate Leonardo si estendevano a tutti i confratelli. Di quel malanimo, di quella cupezza accidiosa così spesso rilevabili sul viso dei monaci non si scorgeva la minima traccia. Nonostante il rigore della regola, gli esercizi di pietà erano per il priore Leonardo assai più una necessità dello spirito rivolto al cielo che non atti di ascetica penitenza, volta ad espiare le colpe congenite della natura umana; e questo spirito devozionale egli sapeva infonderlo nei suoi frati a tal punto che l'osservanza della regola diventava fonte di letizia e di bontà, e la vita al convento si svolgeva a un livello veramente superiore, pur con tutte le limitazioni delle cose terrene ed umane. Il priore aveva perfino saputo stabilire taluni contatti col mondo, ma così opportuni da non poter non riuscire salutari ai suoi monaci. Le ricche offerte che pervenivano da ogni parte a quel convento venerato da tutti consentivano di invitare, in determinati giorni, amici e protettori dell'ordine. Si apparecchiava al centro del refettorio una lunga tavola, cui sedeva il priore fra gli ospiti. I frati invece prendevano posto al tavolo stretto collocato lungo le pareti e usavano le loro semplici stoviglie, come voleva la regola, mentre la tavola degli ospiti era fornita di porcellane e cristallerie eleganti. Gli ospiti provvedevano al vino e facevano grande onore a certi piatti di magro di cui il cuoco della confraternita aveva la specialità; così i pranzi al convento dei cappuccini davano occasione a cordiali e piacevoli accostamenti di sacro e profano, a scambi di influenze non certo privi di utilità per la vita sia dei monaci che dei laici. Gli individui dediti alle attività mondane, entrando fra quelle mura dove tutto parlava d'una vita diametralmente opposta alla loro dovevano pur riconoscere (se appena una scintilla di religiosità scendeva ad illuminarli), la possibilità di trovar pace e letizia anche per vie diverse da quelle usualmente battute; la possibilità di vivere anche quaggiù un'esistenza superiore, elevando lo spirito al disopra delle cose terrene. Per contro, i monaci ne guadagnavano in prudenza e saggezza di vita perché la conoscenza di quanto avveniva nel mondo, al di là delle mura claustrali, li induceva a considerazioni edificanti, di vario genere. Pur senza attribuire un falso valore alle cose terrene, dovevano riconoscere, attraverso i vari modi di intendere la vita secondo le personali esigenze interiori di ognuno, la necessità di questa rifrazione della luce spirituale, senza la quale tutto rimarrebbe spento ed incolore. Ma in quanto a cultura religiosa e scientifica, il priore Leonardo eccelleva su tutti. Non soltanto era universalmente riconosciuto come dottissimo teologo, capace di sviscerare le materie più difficili con la massima disinvoltura, tanto che spesso i professori del seminario si rivolgevano a lui per consiglio; ma possedeva anche una cultura umanistica assai più vasta di quanto ci si potesse attendere da un religioso di convento. Parlava alla perfezione l'italiano e il francese e per le sue doti particolari molte volte, in passato, gli erano state affidate importanti missioni. Quando io lo conobbi era già molto avanti negli anni; ma se i capelli bianchi tradivano l'età lo sguardo brillava ancora di luce giovanile, e le labbra sempre atteggiate a un sorriso cordiale accentuavano ancora l'espressione di sicurezza e di calma interiore. La stessa grazia che rendeva tanto gradevole il suo modo di parlare la si ritrovava in ogni suo atteggiamento; e perfino il goffo saio dell'ordine si adattava in modo mirabile alla sua elegante corporatura. Non c'era un solo frate che non fosse entrato in convento per libera scelta, anzi, per un'intima necessità spirituale. Ma anche l'infelice che nel convento avesse cercato un porto in cui mettersi in salvo dalla rovina, Leonardo non avrebbe tardato a consolarlo. La penitenza, per costui, si sarebbe ridotta a un breve periodo di transizione dallo smarrimento alla pace; e l'infelice, riconciliato col mondo ma non più attratto dalle sue vanità, si sarebbe ben presto elevato al disopra delle cose terrene, pur continuando a vivere su questa terra. Questi insoliti sistemi di vita claustrale Leonardo li aveva portati dall'Italia, dove il culto e l'intero modo di concepire la vita religiosa sono assai più sereni che non nella Germania cattolica. Come nella costruzione delle chiese si sono conservate le forme delle antiche architetture, così anche un raggio dell'antica letizia pagana pare sia filtrato nella mistica tenebra del cristianesimo, portandovi la luce sfolgorante di cui un tempo erano circonfusi gli dei e gli eroi. Leonardo mi prese a benvolere, mi insegnò l'italiano e il francese; ma alla mia formazione spirituale e culturale contribuirono soprattutto i molti e svariatissimi libri ch'egli mi diede nelle mani. Quasi tutto il tempo libero dagli studi di seminario lo trascorrevo nel convento dei cappuccini; e il desiderio di vestire il saio andò crescendo in me, di giorno in giorno. Lo dissi al priore il quale, pur senza opporsi al mio proposito, mi consigliò di attendere ancora un paio d'anni almeno; e intanto continuassi a guardarmi bene intorno, osservassi il mondo, più attentamente che mai. Io non avevo, è vero, molte conoscenze all'infuori di quelle procuratemi dal maestro della cappella episcopale da cui prendevo lezioni di musica; ma in qualsiasi compagnia, specialmente se c'erano donne, provavo un penoso senso di imbarazzo, la qual cosa, sommata alla mia tendenza alla vita contemplativa, sembrava deporre in modo decisivo in favore di una sicura vocazione per il convento. Una volta il priore mi aveva intrattenuto a lungo su certi aspetti singolari della vita profana; si era addentrato in argomenti assai scabrosi, riuscendo ad evitare, con la grazia, la lievità di espressione abituali, il benché minimo motivo di scandalo, ma toccando sempre il punto giusto. Finalmente mi prese la mano, mi scrutò fisso negli occhi e mi domandò se fossi ancora casto. Mi sentii avvampare di rossore, perché quella domanda insidiosa aveva ridestato ad un tratto un ricordo da molto tempo sopito. - Il maestro di musica aveva una sorella che bella, proprio, non poteva dirsi, ma era comunque una ragazzina nel fiore della giovinezza e molto, molto attraente. Si faceva notare soprattutto per l'estrema purezza e armoniosità delle forme; il colorito, le linee delle braccia, del seno erano quanto di più bello si potesse vedere. Una mattina, mentre stavo entrando dal maestro per la solita lezione, sorpresi sua sorella con indosso una leggera vestaglia e il seno quasi interamente scoperto. La fanciulla si ricoprì in fretta ma io avevo già veduto anche troppo. Rimasi senza parola: un tumulto di sensazioni sconosciute si scatenò in me, il sangue bollente mi salì alla testa, i polsi si misero a battere in modo quasi udibile; il petto, attanagliato da uno spasimo, pareva dovesse scoppiarmi ma, traendo un leggero sospiro, ritrovai finalmente il fiato. La ragazza mi si avvicinò senza alcun imbarazzo domandandomi che cosa avessi, e ciò non fece che peggiorare il male. Per fortuna entrò il maestro e il mio supplizio ebbe fine. Mai presi tanti accordi sbagliati, mai stonai tanto come quel giorno. Ero tuttavia ancora abbastanza timorato di Dio per vedere in quell'episodio una perfida tentazione di satana; e mi ritenni fortunato quando dopo poco tempo credetti di aver battuto il nemico a forza di esercizi ascetici. Ma all'udire l'insidiosa domanda del priore mi rividi davanti quella giovinetta col seno scoperto, ne risentii il caldo respiro, la pressione della mano; e l'angoscia di allora mi riafferrò con crescente violenza. Leonardo continuava a scrutarmi con un vago sorrisetto ironico che mi fece fremere. Non riuscii a reggerne lo sguardo e abbassai gli occhi. - Vedo, figlio mio, che lei mi ha capito, - mi disse lui dandomi un buffetto sulla guancia scottante. Lei è ancora abbastanza sano. Il Signore la guardi dalle seduzioni del mondo!... Esso offre godimenti di breve durata, godimenti possiamo ben dire - su cui pesa una maledizione, perché generano indescrivibile disgusto, infiacchimento fisico e morale, rendono ottusi a tutte le aspirazioni d'ordine superiore, distruggono, insomma, l'elemento spirituale più nobile dell'uomo. Mi sforzai di scordare la domanda del priore e il ricordo da essa evocato, ma inutilmente. E se allora avevo saputo mostrarmi disinvolto in presenza di quella ragazza ora temevo più che mai di rivederla perché il solo pensiero di lei mi metteva in uno stato di agitazione, di angoscia, tanto più pericoloso in quanto si associava a un desiderio dolcissimo, sconosciuto che era, molto probabilmente, colpevole concupiscenza. Ma una sera la situazione equivoca si chiarì. Il maestro di cappella mi aveva invitato ad uno dei suoi consueti trattenimenti musicali fra amici. Oltre alla sorella di lui (la cui sola presenza sarebbe bastata a mozzarmi il respiro...) vi partecipavano parecchie altre signore, e ciò accrebbe ancora il mio imbarazzo. La sorella del maestro era vestita in modo delizioso; mi parve più bella che mai e ne fui irresistibilmente attratto. Così, senza quasi rendermene conto, le rimasi sempre a fianco, pronto a carpirne avidamente ogni sguardo, ogni parola; vicino a lei al punto di sfiorarne la veste, il che mi riempiva d'un piacere misterioso, mai provato. Essa parve accorgersene, e non senza compiacimento; ed io più d'una volta fui tentato di trarla violentemente a me e stringerla in un abbraccio frenetico!... Dopo esser rimasta seduta piuttosto a lungo accanto al pianoforte si alzò, lasciando un guanto sulla sedia. Io lo raccolsi e, in un momento di follia, me lo premetti alle labbra. Una delle signore se ne accorse, si avvicinò alla sorella del maestro e le disse qualcosa all'orecchio; le due donne mi sogguardarono ridacchiando. Rimasi annichilito, come sotto l'effetto di una doccia gelata, persi il controllo di me, corsi via, al collegio, nella mia cella. Pazzo di disperazione mi gettai sul pavimento piangendo a calde lacrime - detestai, maledissi quella fanciulla, me stesso. Poi ricominciai a pregare, e intanto ridevo, ridevo come un insensato. Se le inferriate non me l'avessero fortunatamente impedito mi sarei senza dubbio gettato dalla finestra. Ero in uno stato veramente spaventoso. Soltanto sul far del giorno mi tranquillizzai, ben deciso a non rivederla mai più e a rinunziare per sempre al mondo. La vocazione monastica si ridestò più forte che mai: nessuna tentazione me ne avrebbe mai più distolto. - Appena potei liberarmi dai normali impegni di studio corsi al convento dei cappuccini e manifestai al priore la mia ferma intenzione di iniziare il noviziato; ne avevo informato anche mia madre e la principessa. Di tanto e così improvviso fervore, Leonardo parve stupito; e, pur senza forzarmi, cercò in vario modo di scoprire quale motivo mi avesse così, tutt'a un tratto, indotto a farmi frate; perché già aveva capito che qualcosa doveva pur essermi accaduto per spingermi a tanto. Un invincibile senso di pudore mi trattenne dal dirgli la verità. Gli raccontai, invece, col calore e l'esaltazione di cui ancora ribollivo, gli avvenimenti straordinari della mia infanzia, presentandoglieli come indizi di predestinazione alla vita claustrale. Leonardo mi ascoltò tranquillamente e, senza proprio mettere in dubbio le mie visioni, non mostrò di farne gran caso. Tutto questo - disse - provava assai poco la genuinità della mia vocazione perché qui, appunto, le illusioni erano più che possibili. In generale, il priore Leonardo non parlava volentieri delle visioni dei santi e neppure dei miracoli dei primi apostoli cristiani; tanto che in certi momenti ero tentato di crederlo uno scettico. Una volta, per costringerlo a prender posizione ebbi l'ardire di accennargli ai detrattori della fede cattolica, accanendomi in particolar modo contro coloro i quali, con petulanza puerile, bollavano la credenza in qualsiasi manifestazione soprannaturale col termine dispregiativo di «superstizione». - Figlio mio, - mi rispose Leonardo con un mite sorriso. - La peggiore delle superstizioni è la mancanza di fede -. E subito passò a parlare d'altre cose, di nessun conto. Soltanto più tardi riuscii a comprendere tutta la bellezza del suo pensiero sul lato mistico della nostra religione, il lato implicante la misteriosa comunione dell'animo umano con le entità superiori; e allora compresi altresì come tali argomenti sublimi egli giustamente! - li riservasse per la iniziazione suprema dei propri discepoli. Mia madre mi scrisse dicendomi di aver sempre presagito che lo stato laico non mi sarebbe bastato e ad esso avrei preferito la vita monastica. Nel giorno di San Medardo soggiungeva - le era apparso il vecchio pellegrino incontrato al Sacro Tiglio: mi conduceva per mano, ed io indossavo il saio di cappuccino. Anche la principessa approvò senza riserve il mio proposito. Le rividi entrambe prima della mia vestizione, la quale ebbe luogo molto presto, avendo ottenuto, come ardentemente desideravo, di dimezzare il periodo di noviziato. In omaggio alla visione di mia madre assunsi il nome religioso di Medardo. I rapporti con i confratelli, il genere di vita, le consuetudini tutte del convento rimasero quali mi erano apparse fin dal primo giorno. La serena tranquillità regnante dovunque mi riempiva l'anima di quella stessa paradisiaca pace già conosciuta durante la mia primissima infanzia, nel convento del Sacro Tiglio. Durante la funzione solenne della vestizione vidi in chiesa fra i fedeli la sorella del maestro di musica; pareva molto afflitta e, se non erro, aveva gli occhi pieni di lacrime. Ma il tempo delle tentazioni era passato; e forse fu colpevole orgoglio sorridere di quella facile vittoria. Frate Cirillo, passandomi accanto, notò la mia espressione soddisfatta. - Di che cosa ti rallegri, fratello? - mi chiese. Non dovrei essere contento di aver rinunziato alle vanità del mondo? - risposi. Ma, confesso, una sensazione sconcertante mi avvertì che mentivo. Questo tuttavia fu l'ultimo impulso d'egoismo terreno, cui subentrò la pace dello spirito. Potessi non averla perduta mai! Ma grande è la potenza del Nemico. Chi può confidare nell'efficacia delle proprie armi, della propria vigilanza, quando le forze sotterranee sono in agguato?... Ero in convento già da cinque anni quando frate Cirillo, ormai vecchio e debole, dovette, per ordine del priore, cedermi la custodia del ricco reliquiario. Numerosi ossicini di santi, schegge della santa Croce e molte altre sacre reliquie erano colà conservate entro eleganti teche di vetro; e in determinati giorni venivano messe in mostra per l'edificazione dei fedeli. Frate Cirillo mi illustrò la collezione pezzo per pezzo, mi mostrò i documenti di autenticità, mi narrò i miracoli operati dalle varie reliquie. In quanto a cultura religiosa, quell'uomo stava quasi alla pari col nostro priore, ed io non ebbi quindi alcun ritegno a manifestargli taluni miei dubbi tormentosi. - È mai possibile, frate Cirillo, - gli dissi, - che tutte queste cose siano veramente quello per cui ce le spacciano?... E se anche qui la cupidigia truffaldina di qualcuno avesse fatto entrare qualche oggetto che ora passa per la reliquia di un santo e non lo è?... Esiste, ad esempio, un convento, che asserisce di possedere la croce del Redentore; eppure, dappertutto si mostrano tali e tante schegge di quella stessa croce che come ha detto qualcuno con blasfema ironia - basterebbero a riscaldare tutto il nostro convento per un anno intero. - Non spetta a noi, - disse frate Cirillo, - sottoporre queste cose a simili esami. Per dirla francamente, sono convinto anch'io che ben pochi di questi oggetti siano ciò per cui li si spaccia, malgrado i documenti e gli attestati di autenticità. Ma la cosa non mi sembra importante. Ascolta, caro frate Medardo, come il priore ed io la pensiamo in proposito; e la nostra religione ti apparirà in una luce nuova e più gloriosa. Non è mirabile, caro fratello, che la Chiesa cerchi di afferrare i misteriosi fili colleganti il sensibile col supersensibile?... Di stimolare il nostro organismo, creato per l'esistenza terrena, in modo da farne balzar fuori evidente l'origine spirituale, la stretta parentela con l'Essere meraviglioso la cui forza compenetra l'intera natura come un soffio ardente?... Non è questo un modo di aprir l'animo nostro al presentimento della vita più alta di cui già rechiamo in noi il germe?... Che cosa saranno quel pezzetto di legno, quell'ossicino, quel brandello di tessuto?... Una scheggia della Croce di Cristo, l'ossicino, il brandello della veste di un santo, ci dicono. Ma al credente che vi fissi il pensiero senza troppe considerazioni critiche, colmeranno l'animo di divino entusiasmo, dischiuderanno il regno delle beatitudini fin là soltanto presagito. E così, per azione della reliquia - non importa se autentica o creduta tale - agisce l'influenza del santo, la fede si consolida e rafforza per opera dello spirito superiore da cui il credente ha invocato con tutta l'anima aiuto e conforto. Sì: quel risveglio di forza spirituale potrà sanare perfino i mali fisici; e ciò spiega gli innegabili miracoli operati dalle reliquie, spesso al cospetto di intere folle. Tutt'a un tratto mi ritornarono alla mente certi accenni del priore, perfettamente concordanti con le parole di frate Cirillo. E allora cominciai a considerare le reliquie, che prima mi parevano trastulli religiosi, con rispetto e devozione autentici. Frate Cirillo, cui non era sfuggito l'effetto del proprio discorso, riprese ad illustrarmi la collezione pezzo per pezzo, con commovente fervore. Tolse infine da un armadio ben chiuso una cassetta e disse: - Qui dentro, frate Medardo, c'è la reliquia più misteriosa e straordinaria che il nostro convento possegga. Da quando sono qui nessuno, all'infuori del priore e di me, ha preso in mano questa scatola. Perfino gli altri confratelli - non diciamo gli estranei! - ne ignorano l'esistenza. Io non posso toccarla senza provare un brivido di terrore. È come se contenesse un maleficio, capace di dar morte e rovina a chiunque sappia rendere inefficace lo scongiuro che ve lo tiene rinchiuso. L'oggetto qui contenuto proviene direttamente dal Nemico, o risale ai tempi in cui gli era ancora permesso lottare contro la salvezza del genere umano assumendo forma visibile. Guardai frate Cirillo sbalordito. Ma, senza darmi il tempo di far commenti, egli continuò: - Su questo mistero, caro fratello Medardo, mi asterrò dall'esprimere qualsiasi opinione, dal formulare ipotesi a casaccio. Preferisco riferirti fedelmente quanto ne dicono i documenti. Li troverai in quell'armadio e potrai leggerteli dopo, con calma. Tu certamente conosci la vita di sant'Antonio. Saprai che per sfuggire totalmente alle cose terrene e volgersi a quelle divine, egli andò nel deserto e dedicò la vita ai più severi esercizi di penitenza e di pietà. Il Nemico lo perseguitava e spesso gli attraversava il cammino, in forma visibile per distoglierlo dalle pie contemplazioni. Così una sera, verso il crepuscolo, sant'Antonio vide avvicinarsi una figura tenebrosa: era il Nemico, e in una ben curiosa tenuta: aveva indosso un lacero mantello, dai cui strappi sbucavano tanti colli di bottiglia. Mentre il santo lo osservava stupito, il Tenebroso gli domandò con un sorriso di scherno se non volesse assaggiare qualcuno dei suoi elisir. Sant'Antonio non poté neppure aversela a male: il Nemico, ormai impotente, non era più in grado di dargli battaglia e doveva limitarsi alle punzecchiature verbali. Gli domandò, dunque, perché portasse tante bottiglie in quello strano modo. «Vedi», rispose il Nemico, «quando un uomo mi incontra mi guarda meravigliato e non può fare a meno di chiedermi i miei liquori e di assaggiarli avidamente. Fra i tanti ne trova certamente uno di proprio gusto, si scola tutta la bottiglia, prende una sbornia e... precipita nel mio regno!...» Questo è quanto dicono le leggende. Ma da certi documenti in nostro possesso risulta ancora che il Nemico, andandosene, lasciò alcune bottiglie sull'erba. Sant'Antonio si affrettò a portarle dentro la grotta e a nasconderle bene, per timore che anche nel deserto un viandante smarrito - magari uno dei suoi stessi discepoli - potesse assaggiare l'orrenda bevanda e perdersi per l'eternità. Per caso dice inoltre il documento sant'Antonio una volta aprì una delle bottiglie e subito una fantasmagoria di orrende, conturbanti immagini infernali lo avvolse, cercò di indurlo in tentazione. Mediante rigorosi digiuni e preghiere intense il santo riuscì a far svanire il diabolico miraggio. Questo scrignetto, dunque, contiene una bottiglia di elisir del diavolo. Per quanto ne riguarda il rinvenimento fra le cose del santo, dopo la sua morte, i documenti sono così autentici e particolareggiati da non lasciar adito a dubbi. Posso inoltre assicurarti, caro frate Medardo, che non ho mai potuto toccare la bottiglia né la cassetta in cui è riposta senza provare un senso di orrore inspiegabile. È come respirare uno strano profumo inebriante che turba la pace dello spirito e distoglie dagli esercizi di pietà. Anche non volendo credere a un'azione diretta del demonio, l'influsso di forze malefiche è evidente, perché quel turbamento lo si supera soltanto perseverando nella preghiera. Ma tu, caro fratello Medardo, sei ancora così giovane! Al minimo stimolo, la fantasia ti presenta immagini tinte di colori smaglianti... tu confidi troppo nelle tue forze; sei come un guerriero forte, sì, valoroso ma ancora inesperto e forse troppo temerario... E perciò io ti consiglio di non aprire questa cassetta, o di farlo, semmai, fra molti anni. Per non lasciarti tentare dalla curiosità fà in modo di non vederla. Nascondila! Frate Cirillo tornò a chiudere la misteriosa cassetta nell'armadio da cui l'aveva tolta e dell'armadio mi consegnò la chiave insieme alle altre, nel mazzo. Il suo racconto mi aveva molto impressionato; ma appunto perché sentivo nascere in me il segreto desiderio di vedere la straordinaria reliquia, memore dei consigli ricevuti, cercai di rendermi difficile la cosa. Rimasto solo, passai ancora una volta in rassegna i sacri oggetti a me affidati, poi tolsi dal mazzo la chiave del pericoloso armadio e la nascosi fra le mie carte, bene in fondo al cassetto del leggìo. Fra i professori del seminario c'era un eccellente oratore; quando predicava lui, la chiesa era strapiena. Le sue parole trascinavano l'uditorio come un'irresistibile fiumana di fuoco, accendendo gli animi alla pietà e alla fede. Le sue prediche, ispirate, stupende, entusiasmavano anche me; ma io gli invidiavo quelle doti superlative e mi sentivo fortemente stimolato ad emularlo. Dopo averlo ascoltato, mi mettevo a predicare da solo, in camera mia, abbandonandomi all'ispirazione del momento, e parlavo, parlavo, fino a quando non riuscivo a fissare idee e parole sulla carta. Il frate che abitualmente predicava da noi, in convento, si era molto invecchiato e indebolito. Le sue prediche fluivano come un ruscello in magra, sempre più faticose ed opache; la carenza di idee, di parole, ne rendeva lo stile spaventosamente prolisso, la lunghezza insopportabile. Prima ancora dell'«amen» i fedeli, cullati da quella specie di monotono e vacuo ronzio di mulino, per la maggior parte sonnecchiavano beatamente; e per svegliarli ci voleva la forte voce dell'organo. Anche padre Leonardo era un eccellente oratore ma, a motivo dell'età avanzata, non se la sentiva più di predicare perché ciò lo stancava troppo; e all'infuori di lui non c'era nessun altro in convento in grado di sostituire il vecchio frate. Leonardo mi parlò di questo inconveniente, per cui molti fedeli disertavano la chiesa. Allora mi feci coraggio e gli dissi che già fin da quando ero in seminario mi ero sentito chiamato alla predicazione e avevo anche messo per iscritto alcuni discorsi d'argomento spirituale. Egli volle vederli e ne fu talmente soddisfatto che mi pregò di dare il mio primo saggio di predicazione già fin dal prossimo giorno festivo; non avrei certamente fallito - soggiunse perché la natura mi aveva fornito di tutte le doti necessarie a un buon predicatore figura simpatica, viso espressivo, voce sonora e ben timbrata. In quanto al modo di muovere, di gestire, volle istruirmi egli stesso. L'attesa festività giunse. La chiesa era più affollata del solito ed io, non senza trepidazione, salii sul pulpito. Dapprincipio mi attenni fedelmente al testo scritto; parlai con voce tremante (come ebbe poi a dirmi Leonardo) ma la cosa parve adatta alle meste considerazioni iniziali del mio discorso e più d'uno la prese per un abile accorgimento d'arte oratoria. Ma ben presto fu come se una fiammata d'entusiasmo divino divampasse in me. Non pensai più al manoscritto e mi abbandonai all'ispirazione del momento. Sentivo il sangue pulsarmi nelle vene, udivo tuonare la mia voce nelle navate del tempio, mi vedevo col capo eretto, le braccia spalancate, circonfuso dal fulgore della grazia. Sintetizzando in una sentenza come nell'abbagliante fuoco d'una lente - tutte le cose sante, stupende precedentemente annunziate, conclusi la predica. L'impressione fu enorme: scoppi di pianto, involontarie esclamazioni di religioso entusiasmo, preghiere recitate ad alta voce fecero eco alle mie parole. I confratelli mi espressero la loro incondizionata ammirazione, Leonardo mi abbracciò chiamandomi l'orgoglio del convento. La mia fama si diffuse in un baleno. Per ascoltare frate Medardo già un'ora prima della funzione il fior fiore dell'aristocrazia e del mondo culturale cittadino si affollava nella non vasta chiesa del convento. Con l'ammirazione dell'uditorio crebbero la mia cura, il mio impegno nel dare scioltezza e perfezione sempre maggiori alle mie prediche incandescenti; i fedeli ne rimasero sempre più avvinti e ammaliati e l'ammirazione ogni giorno crescente tributatami dovunque fossi o andassi, divenne ben presto simile alla venerazione dovuta ad un santo. Un'ondata di esaltazione religiosa scese sulla città. Qualsiasi pretesto era buono per correre al convento, anche nei giorni feriali, pur di vedere frate Medardo, di parlargli. E allora germogliò in me il pensiero di essere un eletto del cielo. Le misteriose circostanze della mia nascita avvenuta in quel luogo sacro per riscattare le colpe d'un padre, i fatti prodigiosi della mia prima infanzia, tutto stava ad indicare che il mio spirito, in diretto contatto col cielo, era stato predestinato ad innalzarsi al disopra delle cose terrene già fin da questo mondo, cui io non appartenevo, così come non appartenevo agli uomini se non per recare loro conforto e salvezza; perché tale era la mia missione, quaggiù. Ero ormai convinto che il vecchio pellegrino del Sacro Tiglio fosse san Giuseppe, e il bimbo prodigioso il bambino Gesù, sceso a salutare in me il santo predestinato a portare il suo messaggio nel mondo. Ma quanto più mi fissavo su tali pensieri, tanto più l'ambiente in cui vivevo mi diventava fastidioso e opprimente. La serenità, la pace spirituale erano svanite; le bonarie sortite dei confratelli, la cordialità del priore mi irritavano: avrebbero dovuto riconoscere in me «il santo», prostrarsi nella polvere ad impetrare la mia intercessione presso il trono di Dio. Così come li vedevo mi sembravano incomprensivi, pervicaci negatori. Perfino predicando feci talune allusioni all'avvento d'una nuova èra meravigliosa, al sorgere d'un'aurora radiosa e al passaggio sulla terra d'un eletto da Dio, portatore di conforto e salvezza. Parlavo della mia presunta missione velandola di misteriose metafore, tanto più suggestive per l'uditorio, quanto meno comprese. - Ma frate Leonardo si mostrava sempre più freddo verso di me, evitava di parlarmi a quattr'occhi. Una volta, mentre passeggiavamo per i viali del giardino, per caso i confratelli ci lasciarono soli, e allora il suo sfogo finalmente proruppe: Non posso nasconderti, caro frate Medardo, mi disse, - che da qualche tempo in qua il tuo atteggiamento non mi piace più. Qualcosa è sceso nell'anima tua a distoglierti dalla vita di religiosa semplicità. Nei tuoi discorsi c'è un qualcosa di torbido, di tenebroso, qualcosa che non osa uscire alla luce perché almeno da me - ti separerebbe per sempre. Permettimi di essere franco. In questo momento tu porti il peso del nostro peccato d'origine, quello che ci spalanca le porte della perdizione se appena noi aspiriamo a spingerci troppo in alto mediante le nostre facoltà intellettuali. È così facile perdersi in voli sconsiderati! Il successo, l'ammirazione addirittura feticistica d'un mondo stolto e assetato di fatti sensazionali, ti hanno accecato. Tu ora vedi di te un'immagine che non è la tua ma un miraggio fallace che ti attrae nell'abisso della perdizione. Rientra in te, Medardo! Non lasciarti ottenebrare da una simile follia. Io credo di conoscerla! Già fin d'ora hai perduto la pace dello spirito, e senza di essa quaggiù non si trova salvezza. Ascolta il mio ammonimento, sfuggi all'insidia del nemico. Ritorna ad essere il buon ragazzo che amavo con tutta l'anima -. Gli occhi del priore erano pieni di lacrime. Dette queste parole mi lasciò la mano e si allontanò in fretta senza attendere risposta. Ma le sue parole mi erano suonate ostili; quell'accenno all'enorme ammirazione tributata alle mie doti eccezionali mi diceva che il vero motivo dello sfogo di scontento era una invidia meschina. Durante le assemblee dei monaci io mi tenevo in disparte, silenzioso, assorto, pieno di rancore. Tutto compreso della mia nuova dignità pensavo giorno e notte al modo di tradurre in belle parole e annunziare alle folle le verità rivelatesi in me. E quanto più mi allontanavo da Leonardo e dai confratelli, tanto più riuscivo ad attrarre le folle. Il giorno di Sant'Antonio la chiesa era così inverosimilmente affollata che si dovettero spalancare le porte per consentire alla massa di gente rimasta fuori di ascoltarmi dal sagrato. Parlai con fuoco, forza, efficacia, come non avevo parlato mai. Com'è d'uso, incominciai col narrare qualche episodio della vita del santo, traendone spunto per alcune profonde considerazioni religiose; parlai quindi delle tentazioni diaboliche e del diavolo stesso, cui il peccato originale aveva dato facoltà di insidiare le creature umane; trascinato dalla foga oratoria, passai quasi senza volerlo alla leggenda degli elisir, presentandola come un'allegoria densa di significato. A questo punto il mio sguardo vagante per la chiesa, si posò su un uomo alto, magro, in piedi sopra un banco e appoggiato a una colonna della navata laterale; indossava un manto viola scuro drappeggiato intorno alla persona e alle braccia conserte in uno strano modo, non dei nostri paesi; il viso era d'un pallore cadaverico, ma lo sguardo dei grandi occhi neri, sbarrati mi trapassò il petto come una stilettata rovente. Un'indicibile sensazione di sgomento mi fece rabbrividire; mi affrettai a guardare altrove e, facendo appello a tutte le mie forze, continuai a parlare. Ma, come attratto da un'irresistibile malia, il mio sguardo ricadeva sempre su di lui; ed egli era sempre là, immobile, gli occhi spettrali fissi su di me. L'alta fronte corrugata, la piega amara della bocca esprimevano odio e disprezzo. C'era, in quella figura, qualcosa di spaventoso, di orrendo. Sì!... Era il pittore sconosciuto del Sacro Tiglio... Fu come se una mano gelida, spietata, mi attanagliasse il petto; la fronte mi si imperlò di sudori d'angoscia, il mio periodare si inceppò, il discorso si fece sempre più confuso. Dall'uditorio, si levò un sussurro, un mormorio. Ma il terrificante straniero era sempre là, appoggiato alla colonna, lo sguardo fisso su di me. Allora in un accesso di angoscia infernale, di folle disperazione, gridai: - Vattene, maledetto... vattene!... Perché sant'Antonio... Sant'Antonio sono io!... Quando rinvenni dal deliquio in cui ero caduto pronunziando quelle parole mi ritrovai nel mio letto. Frate Cirillo mi sedeva accanto curandomi, consolandomi. Gli raccontai tutto. Egli cercò di convincermi che s'era trattato unicamente d'una allucinazione, d'un brutto tiro della fantasia sovreccitata dalla foga oratoria, ma le sue parole non fecero che accrescere in me la vergogna, il rimorso per essermi comportato in quel modo sul pulpito. A quanto appresi in seguito, gli ascoltatori mi avevano creduto vittima d'un improvviso accesso di follia; in particolare quell'ultima esclamazione aveva fornito buon motivo a tale convincimento. Ero annientato, spiritualmente disfatto. Chiuso nella mia cella mi sottoposi alle discipline, alle penitenze più severe; pregai fervidamente per rafforzarmi nella lotta contro il Tentatore che aveva avuto la sfrontatezza di apparirmi addirittura in luogo consacrato, assumendo le sembianze del pittore incontrato al Sacro Tiglio, per meglio farsi beffa di me. E all'infuori di me, l'uomo dal manto viola non l'aveva visto nessuno. Il priore Leonardo, con la sua proverbiale bontà, fece correr voce che la causa del mio turbamento e dei miei discorsi sconclusionati era stata una violenta crisi di febbre. In realtà quando, parecchie settimane dopo, ripresi la normale vita di convento ero ancora molto sofferente. Ciò nonostante ritornai sul pulpito. Ma, tormentato dalla paura, perseguitato da quella tremenda figura pallida, feci fatica a parlare in modo appena appena coerente e non potei certamente più abbandonarmi alla consueta foga oratoria. Le mie prediche divennero insipide, fredde, frammentarie. Gli ascoltatori rimpiansero la perdita delle mie doti eccezionali e a poco a poco disertarono la chiesa. Il vecchio frate che aveva sempre predicato prima (... ed ora predicava evidentemente meglio di me...) tornò a sostituirmi. Qualche tempo dopo, un giovane conte in viaggio col proprio precettore capitò nel nostro convento e chiese di vederne le cose più notevoli. Dovetti aprirgli la camera delle reliquie e, mentre vi stavamo entrando, il priore, dopo aver visitato con noi la chiesa e il coro, venne chiamato altrove. Così rimasi solo con i due forestieri. Quando ebbi mostrato ed illustrato il reliquario, pezzo per pezzo, il conte notò l'elegante intarsio in antico stile germanico dell'armadio in cui era chiusa la cassetta con l'elisir del diavolo. Cercai di non parlare del contenuto, ma il conte e il precettore insisterono tanto che incominciai col raccontare la leggenda di sant'Antonio e del diavolo astuto e finii col ripetere la storia della straordinaria reliquia come l'avevo udita da frate Cirillo, non omettendo neppure il suo ammonimento circa il pericolo di aprire lo scrignetto e tirar fuori la bottiglia. Il conte e il precettore, benché cattolici, non parvero prender molto sul serio la leggenda, anzi, si misero a ironizzare, a scherzare su quel comico diavolo che portava le bottiglie della tentazione infilate negli strappi del mantello. A un certo punto il precettore assunse un tono serio e disse: - Reverendo, non si crucci per noi, spregiudicati uomini di mondo. Tanto io quanto il signor conte veneriamo i santi, li veneriamo come uomini meravigliosi i quali rinunziarono ad ogni gioia, sacrificarono la vita stessa per la salvezza della propria anima e dell'intera umanità. Ma le storielle sul tipo di quella che lei ci ha raccontato, io credo siano allegorie inventate dai santi stessi e poi, per malinteso, narrate come fatti realmente accaduti -. Così dicendo, fece scattare la chiusura della cassetta e tirò fuori una bottiglia nera, di forma strana. Un forte aroma si diffuse nella camera, proprio come aveva detto frate Cirillo, ma non mi causò alcun stordimento; provai invece, aspirandolo, una piacevole sensazione di benessere. - Oh, oh! - esclamò il conte. L'elisir del diavolo non è che un autentico, squisito vino siracusano, ci scommetterei! - Senza dubbio, - rispose il precettore. - E se questa bottiglia proviene davvero dal lascito di sant'Antonio lei, reverendo, può dirsi più fortunato del re di Napoli, il quale fu privato del piacere di assaggiare il vino degli antichi romani dal malvezzo di costoro di conservarlo non in bottiglie tappate ma versandovi sopra un po' d'olio. Comunque, anche se questo vino non risale all'èra precristiana, è indubbiamente il più vecchio esistente al mondo: e lei farebbe bene a trarre diretto profitto dalla reliquia sorseggiandosela tranquillamente. - Certo! - approvò il conte. Questo siracusano stravecchio le immetterebbe nuova forza nelle vene, la risanerebbe... Perché, a quanto vedo, reverendo, il suo stato di salute lascia un po'a desiderare -. Il precettore trasse di tasca un cavatappi d'acciaio, e, incurante delle mie proteste, sturò la bottiglia. Quando il tappo saltò via mi parve di veder guizzare una fiammella azzurrina; ma fu questione di un attimo. Un aroma fortissimo invase la camera. Il precettore volle assaggiare per primo: - Squisito! - esclamò entusiasta. - È un siracusano superlativo! Davvero, niente male la cantina di Sant'Antonio!... E se il diavolo gli faceva da cantiniere le sue intenzioni verso il sant'uomo non dovevano poi essere così perfide come si crede... Assaggi, conte! - Il conte assaggiò e confermò il parere del precettore. I due ripresero a scherzare sulla reliquia indiscutibilmente la più insigne di tutta la collezione! - si augurarono di possedere una cantina piena di simili reliquie, e via su questo tono. Io li ascoltavo in silenzio, a capo chino, lo sguardo fisso a terra. Nello stato d'animo in cui mi trovavo, l'allegria dei due forestieri mi riusciva penosa. Insisterono entrambi perché anch'io assaggiassi il vino di sant'Antonio ma io rifiutai ostinatamente e tornai a chiudere la bottiglia ben tappata nella sua custodia. Partiti i due stranieri e rimasto solo nella mia cella, avvertii un'innegabile sensazione di benessere, una stimolante gaiezza di spirito. L'aroma spiritoso del vino mi aveva evidentemente rinvigorito. Dei perniciosi effetti cui mi aveva accennato frate Cirillo neppure l'ombra; al contrario: avvertivo soltanto una influenza benefica, e assai pronunziata. Quanto più ripensavo alla leggenda di sant'Antonio, quanto più chiare riecheggiavano in me le parole del precettore, tanto più mi convincevo che la sua spiegazione era la giusta. Un pensiero mi balenò nella mente: quel malaugurato giorno, quando la diabolica visione aveva così rovinosamente interrotto la mia predica, io stavo appunto per presentare la leggenda in quello stesso modo, vale a dire come un'edificante allegoria inventata dal santo. A tale pensiero se ne riallacciò un secondo che in breve mi prese così completamente da travolgere ogni altra considerazione. E se questo liquore miracoloso, - pensai, riaccendesse la fiamma languente delle tue facoltà intellettuali, la facesse divampare più viva di prima?... Come mai lo stesso aroma che ha stordito il debole frate Cirillo a te è riuscito benefico?... Non potrebbe rivelare, questo fatto, una misteriosa affinità tra il tuo spirito e le forze naturali racchiuse in quel vino?... Nonostante tutto, se appena mi decidevo a seguire il consiglio dello straniero una inspiegabile riluttanza mi impediva di passare all'azione; quando allungavo la mano per aprire l'armadio mi pareva di scorgere nell'intarsio del pannello l'orribile viso del pittore, con quegli occhi penetranti, vivissimi ma cadavericamente immoti, puntati su di me. Allora, colto dal terrore, fuggivo dalla camera delle reliquie per correre in chiesa a pentirmi della mia colpevole curiosità. Eppure, il pensiero che soltanto quel vino prodigioso avrebbe restituito forza e vigore al mio spirito non mi dava tregua. L'atteggiamento del priore, dei monaci, i quali mi trattavano con benintenzionata ma deprimente indulgenza, come si fa con i malati di mente, mi metteva alla disperazione. E quando Leonardo, per aiutarmi a guarire, mi dispensò dai normali esercizi di pietà, durante una tormentosa notte insonne decisi di tentare tutto, pur di riacquistare le facoltà perdute; avesse dovuto costarmi la vita. Mi alzai, presi, in corridoio, la lampada davanti alla statua di Maria, l'accesi, scivolai come uno spettro verso la camera delle reliquie. Alla luce oscillante della lampada, le sacre immagini della chiesa sembravano muoversi, guardare in basso verso di me, pietosamente; nel cupo ululato del vento che entrava nel coro attraverso i vetri rotti sembrava di udire lamentose voci ammonitrici... Sì!... Era come se mia madre mi chiamasse da immense lontananze dicendomi: Medardo, figlio mio, che stai facendo?... Desisti da quest'impresa pericolosa! - Nel reliquario tutto era tranquillo e silenzioso. Apersi l'armadio, presi la cassetta, la bottiglia... e ne bevvi un sorso!... Un gran calore mi si diffuse per le vene dandomi una sensazione di indescrivibile benessere. Bevetti ancora. Il piacere, la gioia di una vita nuova e meravigliosa mi inondò. Chiusi in fretta lo scrignetto vuoto, corsi nella mia cella con la benefica bottiglia, la nascosi nel cassetto del leggìo. Ciò facendo mi capitò in mano la piccola chiave che avevo nascosto per sfuggire alla tentazione. Eppure avevo aperto l'armadio senza di essa, non soltanto pochi minuti prima ma anche durante la visita dei due stranieri. Com'era possibile?... Esaminai il mazzo, ed ecco: fra le altre c'era anche la chiave sconosciuta con cui, senza neppure avvedermene, avevo aperto l'armadio, allora ed oggi. Sussultai. Ma nella mia mente, come destata di soprassalto da un sonno profondo, le idee si accavallarono scacciandosi l'una con l'altra. Non ebbi un istante di tregua fino al sorger del giorno. Allora corsi in giardino per tuffarmi nei raggi infocati del sole nascente di dietro i monti. Leonardo e i confratelli notarono il mutamento avvenuto in me: non ero più chiuso e taciturno ma allegro e vivace, parlavo con foga, come se tenessi un discorso a un'intera comunità di fedeli. Quando rimasi solo con Leonardo egli mi scrutò a lungo, quasi volesse leggermi nell'anima, poi con un impercettibile sorriso ironico mi disse: - Fratel Medardo ha forse ricevuto nuova forza, nuova vita... dall'alto?... Ha avuto una visione?... Mi sentii arrossire di vergogna: quell'esaltazione dovuta a un sorso di vino vecchio mi parve tutt'a un tratto indegna e spregevole. E rimasi là, a capo chino e occhi bassi. Leonardo mi lasciò alle mie riflessioni. Avevo tanto temuto che quel po'di euforia non potesse durare e mi lasciasse ancora più spossato di prima. Invece non fu così. Riconquistata l'energia, mi sentii pieno di giovanile coraggio e d'un irresistibile bisogno di estrinsecare tutte le mie capacità nel vasto campo d'azione offertomi dal convento. Insistetti per predicare di nuovo durante la prossima funzione festiva. Mi fu concesso. Poco prima di salir sul pulpito bevvi qualche sorso del vino prodigioso; e la predica mi riuscì focosa, patetica, efficace come non mai. La notizia della mia completa ripresa si diffuse in un baleno, la chiesa tornò ad affollarsi come un tempo. Ma nella stessa misura in cui il mio successo presso le folle aumentava, Leonardo si mostrava sempre più severo e riservato verso di me. Credetti trattarsi di orgoglio monacale offeso, di invidia meschina e incominciai ad odiarlo con tutta l'anima. Si approssimava il giorno di San Bernardo. Io bruciavo dalla impazienza di brillare in piena luce davanti alla principessa e perciò pregai il priore di far in modo che in quella occasione mi venisse concesso di predicare nel convento delle cistercensi. Leonardo parve molto sorpreso; mi disse francamente che sarebbe stata sua intenzione di predicare egli stesso in tale circostanza, e di aver quindi già disposto le cose di conseguenza. Tuttavia - soggiunse - gli sarebbe stato facile scusarsi adducendo il pretesto di un'indisposizione e mandare me in propria vece. E così avvenne. La sera prima rividi mia madre e la principessa. Ma ero talmente preso dal pensiero della predica, dalla preoccupazione di toccar l'apice dell'eloquenza - che l'incontro mi fece scarsa impressione. In città si era diffusa la voce che avrei predicato io invece di frate Leonardo e ciò attrasse una quantità ancora maggiore di pubblico colto. Senza scrivere una riga avevo coordinato la predica in ogni sua parte così, mentalmente. Contavo sull'entusiasmo che avrebbero suscitato in me la funzione solenne, la folla dei fedeli, perfino la stupenda chiesa con le sue altissime volte; e non mi sbagliavo. Le mie parole proruppero come una fiumana di fuoco: dalla figura di san Bernardo trassi argomento di parabole altamente significative e di profonde considerazioni religiose. Negli sguardi, tutti puntati su di me, leggevo ammirazione, stupore. Non vedevo l'ora di sentire che cosa avrebbe detto la principessa; mi attendevo una manifestazione di altissimo compiacimento. Ero riuscito a stupirla già fin da bambino ed ora, intendendo chiaramente la potenza della mia personalità, mi avrebbe ricevuto - ne ero certo quasi con timore reverenziale. Ma quando chiesi di parlarle mi fece rispondere di essersi sentita improvvisamente poco bene e di non poter ricevere nessuno, neppure me. Ciò mi indispose moltissimo: perché ero talmente ubriaco d'orgoglio da illudermi che la badessa, entusiasta della mia predica, provasse il bisogno di udire ancora alcune parole dalle mie labbra. Mia madre pareva portare in cuore un cruccio tormentoso; ma non ebbi l'ardire d'indagarne la causa perché avevo la segreta sensazione d'esserne la causa io stesso, pur senza potermelo spiegare con chiarezza. Fu lei a consegnarmi un biglietto della principessa con la raccomandazione di leggerlo soltanto dopo essere rientrato in convento. Appena fui nella mia cella lessi con stupore quanto segue: «Con la predica tenuta nella chiesa del nostro convento, mio caro figliolo (giacché così voglio ancora chiamarti), tu mi hai causato una profonda afflizione. Le tue parole non provenivano da un animo religioso, tutto rivolto alle cose del cielo; il tuo entusiasmo non era quello che trascina in alto il credente, come sulle ali d'un serafino, e gli consente di scorgere, in un'estasi santa, il regno celeste. Ahimè, no! Il tuo orgoglioso sfoggio oratorio, lo sforzo evidente di dire soltanto cose sorprendenti e brillanti, mi hanno dimostrato che invece di ammaestrare i fedeli e indurli a pie meditazioni, tu aspiri unicamente al successo, alla vana ammirazione delle folle mondane. Tu hai ipocritamente simulato sentimenti che non provavi, ti sei perfino valso di espressioni del viso, di atteggiamenti studiati, artificiosi, degni di un attore vanesio; e tutto questo, esclusivamente per amore del successo. Lo spirito della menzogna è sceso in te, e ti perderà se non rientrerai in te stesso, se non rinunzierai al peccato; perché peccato, peccato grave è il tuo modo di agire, tanto più grave in quanto, entrando in convento, tu ti impegnasti solennemente a rinunziare alle umane follie per votarti al cielo. San Bernardo, così volgarmente offeso dal tuo insincero discorso, possa, nella sua celeste misericordia, perdonarti, e illuminarti, e aiutarti a ritrovare il retto cammino da cui la seduzione del maligno ti ha fatto deviare. E possa anche intercedere per la salvezza dell'anima tua. Stammi sano!» Le parole della badessa mi lasciarono di sasso - e avvampante di sdegno. Leonardo - e lo dimostravano le sue ripetute stoccate alle mie prediche - aveva fatto leva sulla bacchettoneria della principessa istigandola contro il mio talento oratorio. Quasi non potevo più vederlo senza un fremito di collera e covavo pensieri di vendetta di cui rabbrividivo io per primo. I suoi rimproveri, quelli della principessa, mi riuscivano tanto più insopportabili quanto più, dentro di me, li sentivo giusti. Ciò nondimeno persistetti ostinatamente nella mia linea di condotta e, rafforzandomi con qualche goccia di quel vino misterioso, continuai a fiorire le prediche con ogni possibile artificio retorico, a studiare minuziosamente ogni espressione, ogni gesto. In tal modo l'ammirazione, il successo andarono crescendo di giorno in giorno. La luce dell'alba filtrava, rifranta in raggi multicolori, attraverso le artistiche vetrate della chiesa. Io sedevo nel confessionale, immerso in meditazione; soltanto i passi del confratello laico addetto alle pulizie risuonavano sotto le volte della chiesa. A un tratto intesi un fruscio e vidi avvicinarsi una donna, alta, snella, vestita come una straniera e col viso velato. Era entrata dalla porta laterale, evidentemente per confessarsi. Muovendo con indicibile grazia si inginocchiò e si lasciò sfuggire un profondo sospiro. Prima ancor che parlasse, ne sentii l'alito ardente e caddi in preda a un'inebriante malia. Come potrei descrivere quell'inconfondibile tono di voce, penetrante, profondo?... Mi confessò di nutrire un amore proibito - di aver cercato inutilmente di combatterlo, da tanto tempo. - Quell'amore era tanto più riprovevole in quanto rivolto a una persona legata da sacri voti perenni. - Folle di disperazione li aveva maledetti, quei voti... Esitò un poco, poi proruppe con voce soffocata dal pianto: - Sei tu, Medardo!... Sei tu colui che così perdutamente amo!... - Tutti i miei nervi sussultarono come sotto il morso d'un crampo mortale. Ero fuori di me... Una sensazione mai provata mi dilaniava il petto... Vederla, stringerla fra le braccia... Svanire in quel voluttuoso tormento... Un solo istante di beatitudine e poi accettare le pene eterne infernali!... Lei taceva... ne udivo il respiro profondo... Con uno sforzo disperato, sovrumano, mi dominai, mi ripresi. Che cosa le dicessi non so... soltanto mi accorsi che lei si alzava ed usciva senza parlare, mentre io mi premevo il fazzoletto sugli occhi restando impietrito, quasi privo di sensi, nel confessionale. Per fortuna più nessuno entrò in chiesa ed io potei così sgattaiolare nella mia cella inosservato. Ma come tutto mi sembrava diverso!... Come mi sembravano insulse, stolte le mie aspirazioni! Non avevo visto in faccia la sconosciuta, eppure la sentivo in me... Mi guardava con soavissimi occhi azzurro cupi inondati di pianto... le sue lacrime mi cadevan nell'anima come fuoco vivo e vi accendevano una fiamma che nessuna preghiera, nessuna penitenza avrebbero più domato, mai. Mi diedi la disciplina, mi fustigai a sangue con la corda a nodi per sfuggire all'eterna dannazione da cui ero minacciato perché spesso il ricordo di quella donna misteriosa accendeva in me concupiscenze peccaminose, fin là mai conosciute. E non sapevo come salvarmi da quel voluttuoso tormento. Un altare della nostra chiesa era dedicato a santa Rosalia, raffigurata da un dipinto stupendo nell'atto di subire il martirio. Orbene, quella era la mia amata: l'avevo riconosciuta! Rassomigliava in tutto e per tutto alla misteriosa penitente, perfino nelle vesti. Ed io, in preda alla mia rovinosa follia, me ne restavo per ore ed ore prostrato bocconi sui gradini dell'altare, gemendo ed urlando in modo così disperato che i monaci si scostavano da me inorriditi. - Poi, nei momenti di tregua, scendevo in giardino e la vedevo passeggiare avanti e indietro, in nebulose lontananze, la vedevo sorgere dalle fonti, aleggiare sui prati fioriti... dovunque vedevo lei, e soltanto lei!... Oh, come maledissi il mio voto, la mia esistenza! Uscire, andar fuori nel mondo volevo, e non concedermi tregua prima di averla ritrovata, di averla ottenuta, anche a prezzo dell'anima mia. Riuscii finalmente a reprimere, se non altro, gli accessi di follia incomprensibili al priore ed ai confratelli; riuscii a mostrarmi più tranquillo; ma quel fuoco deleterio mi divorava dentro, sempre più profondo. - Persi il sonno, la pace. Perseguitato dall'immagine di lei mi rigiravo sul duro giaciglio supplicando i santi non già di salvarmi dal demoniaco miraggio, non già di preservare l'anima mia dall'eterna dannazione, no!... Li supplicavo di darmi quella donna, di sciogliere i miei voti, di rendermi la libertà... la libertà di precipitarmi nell'abisso del peccato! Decisi di por fine a tale supplizio fuggendo dal convento. Condizione indispensabile per stringere quella donna tra le braccia e placare il fuoco della concupiscenza mi sembrava fosse sciogliermi dai voti monastici. Mi sarei dunque reso irriconoscibile radendomi la barba e indossando abiti borghesi e poi sarei andato in giro per la città fino a quando non l'avessi ritrovata. Alla difficoltà, all'impossibilità d'affrontare una simile impresa senza un soldo in tasca non pensai affatto; e, fuor di quelle mura, non avevo di che vivere neppure per ventiquattr'ore. Giunse finalmente l'ultimo giorno che avrei dovuto passare in convento. Una fortunata combinazione mi aveva permesso di procurarmi degli abiti borghesi decorosi; sarei fuggito la notte stessa per non ritornare mai più. Ma verso sera inaspettatamente il priore mi fece chiamare. Il sangue mi diede un tuffo perché credetti ch'egli si fosse accorto dei miei preparativi clandestini. Leonardo, dignitoso, imponente, mi ricevette con insolita gravità. - Frate Medardo, - mi disse, - il tuo comportamento insensato turba la nostra pacifica convivenza, influisce in modo nefasto sulla serenità, sulla cordialità di rapporti che mi sono sempre sforzato di mantenere tra i confratelli, e dovrebbero essere il primo risultato d'una vita fatta di silenzio e di pietà. Questo tuo modo d'agire dipenderà, voglio credere, da una recrudescenza dell'esaltazione mentale che da parecchio tempo vai ostentando, e forse non con assoluta purezza di intenti; dipenderà fors'anche dall'esserti accaduto qualche fatto increscioso di cui non hai voluto parlarmi. Eppure, a me, che ti sono amico paterno, avresti potuto confidare qualsiasi cosa, certo di ricever conforto. Ma tu hai taciuto - taci - e io non posso entrare in te; anche perché scoprendo il tuo segreto potrei perdere un po' della mia pace; e alla mia età la pace la apprezzo al disopra d'ogni altra cosa. Tu hai dato ripetutamente grave motivo di scandalo non soltanto ai confratelli ma anche agli estranei, presenti in chiesa per caso, lasciandoti sfuggire - diciamo, in un accesso di follia - parole, frasi rivoltanti ed orribili davanti all'altare di santa Rosalia. Potrei punirti severamente secondo la regola disciplinare del convento, ma non voglio farlo, appunto perché colpevole del tuo smarrimento potrebbe essere una potenza malefica, forse il maligno stesso, cui non hai saputo opporti sufficientemente. Ti raccomando soltanto di perseverare nella penitenza e nella preghiera. Io ti leggo nell'anima: tu vuoi andartene, libero! Non potei reggere il suo sguardo penetrante. Conscio del mio malvagio proposito mi prostrai nella polvere singhiozzando. - Ti capisco, - proseguì Leonardo. - E credo che il mondo possa guarirti meglio del convento, purché tu, beninteso, lo affronti con animo religioso. Una questione riguardante il nostro convento esige l'invio d'un confratello a Roma. Ho scelto te; e domani stesso potrai metterti in viaggio, munito delle istruzioni e dei pieni poteri necessari. Ti considero particolarmente adatto a questa missione perché sei giovane, vigoroso, abile negli affari e perfettamente padrone della lingua italiana. Adesso rientra nella cella e prega con fervore per la salvezza dell'anima tua; io farò altrettanto. Ma non infliggerti penitenze corporali; ti indebolirebbero soltanto, rendendoti inabile al viaggio. Domani all'alba ti attendo in questa camera. Queste parole mi illuminarono come un raggio celeste... Lo avevo odiato; ma l'amore che un tempo nutrivo per lui si ridestò in me riempiendomi di dolcezza struggente. Piangendo a calde lacrime mi premetti le sue mani alle labbra; egli mi abbracciò e in quel momento ebbi la precisa sensazione che conoscesse i miei pensieri più reconditi e mi desse la libertà di arrendermi al destino che, dopo pochi minuti di ebbrezza, mi avrebbe forse precipitato nella perdizione eterna. Inutile fuggire, ormai; avrei potuto lasciare tranquillamente il convento e mettermi in cerca di colei senza la quale non avrei più avuto bene né pace. Il viaggio, la missione a Roma doveva esserseli inventati Leonardo per offrirmi un pretesto di lasciare decorosamente il convento. Trascorsi la notte pregando e preparandomi al viaggio. Travasai in una fiaschetta l'avanzo del vino misterioso per farne uso al momento opportuno e richiusi la bottiglia vuota nella sua custodia. Rimasi non poco stupito nel ricevere dal priore ulteriori istruzioni circa la mia missione: la cosa era dunque vera, e tanto importante da richiedere la presenza a Roma di un confratello munito di pieni poteri. Provai rimorso al pensiero d'aver deciso di non voltarmi più indietro, una volta messo piede fuori del convento; ma ripensando a lei mi rincuorai e decisi di mantenermi fedele al mio piano. Accomiatarmi dai confratelli riuniti, e soprattutto da padre Leonardo, mi colmò di tristezza. Finalmente le porte del convento si richiusero alle mie spalle e io, equipaggiato per il lungo viaggio, mi ritrovai fuori - libero. Capitolo secondo - L'ingresso nel mondo Il convento giaceva laggiù nel fondovalle, avvolto da vapori azzurrini. Trasportate dal vento del mattino le litanie dei frati giungevano fino a me. Involontariamente mi associai al canto. Il globo infocato del sole spuntò dietro la città, i raggi d'oro sfavillarono fra gli alberi e un allegro sgocciolio di rugiada fece alzare in volo miriadi di ronzanti insettucci multicolori. Anche gli uccelli si destarono e incominciarono a svolazzare per il bosco cantando, facendosi festa, sfiorandosi carezzevolmente con le alucce. Vidi venire alla mia volta, su per la montagna, un gruppo di contadinelli e contadinelle vestite a festa; incontrandomi mi salutarono con un - Sia lodato Gesù Cristo! Risposi: - Sempre sia lodato! - e fu per me come incontrare una nuova vita, piena di gioia e di libertà, nei suoi mille aspetti pittoreschi. Non avevo mai provato nulla di simile: mi sentivo un altro. Animato, entusiasmato da quel risveglio di nuove energie, seguitai a scendere di buon passo, attraverso i boschi. Domandai a un contadino quale fosse la strada più breve per giungere al paese segnato sul mio itinerario come primo luogo di pernottamento. Egli mi indicò una scorciatoia attraverso le montagne; l'avrei trovata poco più avanti, deviando dalla strada maestra. Camminavo già da un bel pezzo, in assoluta solitudine, quando per la prima volta mi ritornarono alla mente la sconosciuta e il mio fantastico piano per ritrovarla... Ma i tratti erano pallidi, sbiaditi, riconoscibili a stento, come se una mano misteriosa li avesse cancellati... E più cercavo di fissarli, di trattenerli, più svanivano nel nulla. Ma la mia inqualificabile condotta in convento la ricordavo perfettamente e non capivo come il priore avesse potuto essere tanto indulgente da sopportare un simile scandalo e, invece di punirmi come meritavo, mi avesse mandato libero per il mondo. Non tardai a convincermi che la sconosciuta fosse stata soltanto una visione provocata da un eccesso di fatica. E così, invece di attribuire al Maligno l'ossessionante miraggio - come un tempo avrei fatto - lo attribuii alla mia sovreccitazione mentale. La circostanza che la signora sconosciuta vestisse come santa Rosalia pareva dimostrare la suggestione esercitata su di me dal veristico quadro raffigurante la santa e visibile, sia pur di lontano e di sbieco, anche dal confessionale. Ammirai profondamente la saggezza del priore nell'aver saputo scegliere il rimedio più adatto a guarirmi. Rinchiuso fra quelle mura, circondato sempre dalle stesse cose, avrei continuato a rodermi, a almanaccare: e quella visione, resa sempre più vera ed ossessionante dalla solitudine, mi avrebbe condotto alla follia. Familiarizzandomi sempre più con l'idea di aver sognato, facevo fatica a non ridere di me stesso; con insolita frivolezza scherzavo in cuor mio sul fatto di essermi illuso che una santa si fosse innamorata di me... E d'altronde pensavo - una volta non avevo perfino creduto di essere sant'Antonio?... Ero in cammino ormai da parecchi giorni. Sentieri di montagna - gole racchiuse fra torreggianti, terrificanti massicci rocciosi - esili ponticelli gettati sopra torrenti mugghianti... La strada diventava sempre più solitaria e disagevole... Mezzogiorno. Il sole mi scottava il capo scoperto; morivo di sete ma sorgenti in vista non ce n'erano; il villaggio ove dovevo fermarmi non arrivava mai... Esausto, mi gettai a sedere su una roccia; mi ero ripromesso di risparmiare quanto più possibile il prezioso liquore ma non seppi resistere alla tentazione di berne un sorso alla mia borraccia. Fu come immettere nuove forze nelle vene. Rinfrescato, rinvigorito, ripresi il cammino per raggiungere la meta, ormai certamente non più lontana. La pineta diventava sempre più fitta. Ad un tratto udii un fruscio nel folto del bosco e poco dopo un nitrito: qualcuno aveva legato un cavallo in quei pressi. Avanzai di alcuni passi e mi arrestai impietrito dal terrore: ero sull'orlo d'una spaventosa voragine - sotto di me scrosciava spumeggiando, gorgogliando una cascata, il cui fragore assordante avevo inteso già di lontano. Sopra uno sperone di roccia proteso sul precipizio vidi un giovane in uniforme con accanto un cappello abbondantemente piumato, una spada e un portafogli... Doveva essersi addormentato in quella posizione e il corpo stava sbilanciandosi sempre più pericolosamente nel vuoto. La caduta era inevitabile. Mi feci animo, mi protesi in avanti, cercai di afferrarlo gridando: - Per l'amor di Dio, signore... si svegli!... Oh Gesù!... - Ma appena l'ebbi sfiorato, il giovane si destò di soprassalto, perse l'equilibrio e precipitò nel vuoto. Vidi il corpo rimbalzare di roccia in roccia, sfracellandosi... L'urlo agghiacciante si perse nel salto vertiginoso, divenne un gemito roco - si spense... - Inebetito dallo sgomento e dall'orrore, raccolsi cappello, spada e portafogli e feci per correr via da quel malaugurato luogo quando un giovane vestito da cacciatore mi venne incontro dal bosco, mi guardò fisso in viso e scoppiò in una tale risata da farmi raggelare il sangue: - Benone, illustre signor conte, - disse finalmente colui. - La mascherata è magnifica, perfetta... niente da dire! Se la gentile signora non ne fosse stata preavvisata non riconoscerebbe davvero l'amato del cuore. Ma dove ha messo l'uniforme, illustrissimo?... - L'ho gettata nel precipizio, - rispose per me una voce sorda e cavernosa perché quelle parole, sfuggite alle mie labbra, non ero stato io a pronunziarle. E intanto stringevo sempre spasmodicamente fra le mani il cappello, la spada, il portafogli e continuavo a fissare l'abisso, domandandomi se il cadavere sanguinante del conte non ne sarebbe sorto a minacciarmi. Mi pareva d'essere stato io ad ucciderlo. - Adesso, illustrissimo, proseguì il giovinotto, - io, col cavallo, scendo alla cittadina, dove mi terrò nascosto nella prima casa fuori porta, a sinistra. E lei se ne andrà al castello dove stanno già aspettandola. Il cappello e la spada li prendo io, - (glieli porsi). Salute, signor conte! E buona fortuna al castello! - Con questo augurio, il cacciatore scomparve nel folto del bosco fischiando e cantando. Lo sentii sciogliere il cavallo e partire. Riavutomi dallo sbalordimento, cercai di riesaminare mentalmente lo sconcertante episodio. Un capriccio del caso mi aveva dunque tutt'a un tratto cacciato in una ben curiosa situazione! Una eccezionale rassomiglianza di viso e di figura con lo sventurato conte aveva tratto in inganno il guardiacaccia... Il conte doveva aver scelto il travestimento da cappuccino per tentar chissà quale avventura nel vicino castello. La morte lo aveva colto all'improvviso, ed eccomi al suo posto!... L'irresistibile desiderio di sostituirmi a lui, come pareva volesse il destino, travolse ogni dubbio e mise a tacere la voce della coscienza che mi accusava di delitto e di frode. Apersi il portafogli, lettere, assegni cospicui mi caddero fra le mani. Avrei voluto esaminare le carte ad una ad una, leggere le lettere per informarmi sulla situazione del conte; ma l'agitazione, il turbinio di idee che mi ronzavano in testa me lo impedirono. Dopo alcuni passi mi fermai di nuovo, sedetti su una roccia, cercai di ricompormi, di calmarmi. Considerai il pericolo di avventurarmi in un ambiente sconosciuto, sotto mentite spoglie, così impreparato; e mentre pensavo udii avvicinarsi dei gioiosi squilli di corno e una confusione di voci allegre ed urlanti. Il cuore prese a battermi forte, il respiro mi si arrestò: un nuovo mondo, una vita nuova mi si stavano per dischiudere!... Svoltai in un sentierino strettissimo, imboccai una ripida scesa. Quando uscii dal bosco vidi davanti a me, sul fondovalle, un castello imponente: era quello il teatro dell'avventura preordinata dal conte. Pieno di baldanzoso coraggio mi diressi colà. Dopo poco cammino mi ritrovai nel parco del castello e in uno scuro vialetto laterale vidi passeggiare due uomini, uno dei quali vestito da prete secolare. Mi si avvicinarono ma non si accorsero di me e mi passarono davanti continuando a chiacchierare a bassa voce. Il prete secolare era un bel giovane ma mortalmente pallido; pareva angustiato da un dolore profondo e tormentoso; l'altro, vestito semplicemente ma con proprietà, sembrava già molto avanti negli anni. Sedettero su una panca di pietra volgendomi le spalle. Non persi una sola delle loro parole. - Ermogene, - disse il vecchio, con questo ostinato silenzio lei mette la sua famiglia alla disperazione... Si immalinconisce, si incupisce ogni giorno di più... La sua giovanile energia è spezzata... Il bel fiore appassisce! Con la decisione di farsi religioso lei distrugge tutte le speranze, tutti i sogni di suo padre!... Tuttavia egli rinunzierebbe volentieri ai propri sogni e non ardirebbe opporsi ai disegni del destino se lei avesse sempre dimostrato una vocazione irresistibile alla solitudine. Ma questo improvviso mutamento di carattere dimostra chiaramente il contrario... Lei è stato tremendamente scosso - ed è tuttora tormentato - da qualche fatto che ha voluto ostinatamente tacerci. Prima era un ragazzo allegro, spensierato, pieno di gioia di vivere! Che cosa può averla indotta a disperare a tal punto della umanità da farle credere impossibile che esista una persona capace di dare conforto al suo animo malato?... Lei tace?... Guarda fisso davanti a sé?... Sospira?... Ermogene!... Un tempo lei amava immensamente suo padre; e se adesso non le è più possibile aprirgli il cuore, eviti almeno di tormentarlo ricordandogli con questa veste la sua terribile decisione. Ermogene, la scongiuro, getti quest'abito odioso!... C'è una forza misteriosa nelle cose esteriori, mi creda; e non le dispiaccia se per farmi pienamente intendere ricorro ad un esempio forse poco intonato alla circostanza. Un attore, per immedesimarsi perfettamente nello spirito del personaggio da rappresentare, deve indossarne il costume. Io sono fatto così: mi perdoni se le parlo con minor serietà di quanta ne richiederebbe l'argomento: non crede che se quella sottana non la costringesse a tenere un passo grave e dignitoso, lei camminerebbe - che dico! - correrebbe, salterebbe, allegro e spigliato come una volta?... Lo scintillio delle spalline, che le stavano tanto bene sulle spalle, rifletterebbe un po'di ardore giovanile sulle sue guance smorte... e il tintinnio degli speroni suonerebbe come una musica deliziosa alle orecchie del suo focoso cavallo, che le verrebbe incontro nitrendo e ballonzolando dalla gioia e piegherebbe il collo davanti al caro padrone. Animo, barone!... Basta con i pensieri tenebrosi: non le si confanno!... Vogliamo dire a Federico di andare a tirarle fuori l'uniforme?... Il vecchio si alzò e fece per proseguire la passeggiata, ma il ragazzo gli cadde fra le braccia esclamando con voce spenta: - Ah, lei mi mette alla tortura, Rinaldo!... Mi tormenta in modo indicibile!... Ma quanto più si sforza per rimettere in vibrazione le corde, un tempo armoniose, dell'animo mio, tanto più sento di essere stato afferrato, schiacciato dal ferreo pugno del destino. Sono come un liuto rotto: non posso più emettere se non suoni stonati. - Così le sembra, caro barone, lo interruppe il vecchio. - Lei si dice vittima d'un destino mostruoso, ma in che cosa consista tale destino non lo precisa. Comunque sia: un giovane come lei, armato di volontà, di entusiasmo, di coraggio, dev'essere in grado di difendersi dal pugno ferreo di qualsiasi destino. Sì: deve sapersi innalzare al disopra di esso, risvegliare, accendere in sé il soffio della propria natura divina, superare le pene di questa nostra misera vita!... Non saprei, barone, quale destino potrebbe distruggere una simile forza di volontà -. Ermogene fece un passo indietro e fissando il vecchio con uno sguardo torvo, pieno d'ira repressa, esclamò con voce soffocata: - E allora sappilo: il destino che mi distrugge sono io stesso!... Su di me pesa un mostruoso delitto, un obbrobrioso misfatto; ed io lo devo espiare nella miseria e nella disperazione. Perciò abbi pietà di me e scongiura mio padre di lasciarmi entrare in convento! - Barone! - esclamò il vecchio. - Lei parla così perché ha l'animo sconvolto. Lei non deve, non può assolutamente andar via. Uno di questi giorni arriverà la baronessa con Aurelia: e lei deve vederle! La perfida risata sprezzante del giovane mi rintronò le orecchie. Ah, devo?... Devo restare?... Sì, vecchio, hai proprio ragione... Così la mia espiazione sarà ancor più crudele che non fra le tetre mura d'un convento!... - E corse via. Il vecchio rimase col capo fra le mani, abbandonandosi tutto al proprio dolore. Allora mi feci avanti e salutai: - Sia lodato Gesù Cristo! - L'altro sobbalzò e mi guardò stupito; ma subito ebbi la sensazione che la mia figura gli ricordasse qualcosa di noto. Rimase un istante perplesso e poi disse: - Ah... Lei è certamente il reverendo di cui la signora baronessa ci aveva annunziato l'arrivo! Lei è venuto per recar conforto a questa famiglia piombata nel lutto, non è vero? Assentii. Rinaldo riprese subito il tono gioviale che evidentemente gli era proprio. Insieme attraversammo il bel parco e giungemmo in un boschetto vicinissimo al castello; di fronte ad esso si apriva una stupenda vista sulle montagne. Dal portale del castello stava uscendo un domestico; al richiamo di Rinaldo accorse e poco dopo ci venne servita una sontuosa colazione. Mentre toccavamo i bicchieri mi parve che Rinaldo mi osservasse ancor più attentamente, come se facesse fatica a rinfrescare un ricordo semicancellato. Dio mio, reverendo!... - sbottò tutt'a un tratto. - Se non sbaglio di grosso lei è padre Medardo, del convento dei cappuccini a -r!... Ma com'è possibile?... Eppure è proprio lei, non c'è dubbio... Parli dunque! Queste parole mi fecero sussultare come un fulmine a ciel sereno. Mi vidi smascherato, scoperto, accusato di assassinio. La disperazione mi diede forza: si trattava di vita o di morte. - Certo, - risposi, - sono padre Medardo e vengo dal convento dei cappuccini di -r! Sto andando a Roma per incarico dei miei superiori, munito di pieni poteri -. Dissi questo con tutta la tranquillità e la disinvoltura che fui capace di simulare. - Allora è capitato qui per caso?... - disse Rinaldo. - Forse ha sbagliato strada... Ma come mai la signora baronessa la conosceva e l'ha mandata qui? Ripetendo ciecamente, senza pensarci su, ciò che una misteriosa voce interiore pareva suggerirmi, risposi: - In viaggio feci conoscenza col confessore della baronessa, ed egli mi affidò questo incarico. - Sì, è vero! esclamò Rinaldo. - La signora baronessa ha scritto proprio così. Benone: sia ringraziato il cielo che l'ha condotta qui per la salvezza di questa famiglia! È una fortuna che un uomo intelligente e pio come lei abbia accettato di interrompere il suo viaggio per venire a portarci un po'di bene. Alcuni anni fa, trovandomi per caso a --r ebbi occasione di ascoltar le sue prediche commoventissime, ispirate veramente da divino entusiasmo. La sua profonda religiosità, la sua autentica vocazione alla salvezza delle anime perdute, le sue doti oratorie, frutto di convinzione ardente, confido riusciranno a fare quanto noi tutti insieme non abbiamo saputo. Ho piacere di averla incontrata prima che lei parlasse col barone. Ne approfitto per metterla a conoscenza della situazione familiare. Sarò sincero con lei, reverendo: è il meno ch'io possa fare con un sant'uomo mandato - si direbbe - dal cielo a portarci conforto. Affinché lei possa agire efficacemente e nella direzione giusta, dovrò farle cenno anche ad alcune cose che preferirei tacere. Comunque, non dovrò spendere troppe parole. Io crebbi insieme al barone. La nostra affinità spirituale ci rese fratelli e annullò le barriere di casta che, in altre circostanze, la differenza delle nostre nascite avrebbe eretto fra noi. Io non lo lasciavo mai; appena terminati gli studi accademici, quando, alla morte del padre, egli prese possesso dei suoi beni qui, in montagna, io divenni il suo intendente. Rimanemmo legati da amicizia strettissima, fraterna, e appunto come a un fratello egli mi confidò sempre anche gli affari più segreti della propria casa. Suo padre aveva sempre desiderato ch'egli sposasse la discendente d'una famiglia amica; e il giovane barone fu tanto più felice di esaudire la volontà paterna quando vide la sposa prescelta e ne rimase incantato, perché era una creatura meravigliosa, dotata di tutti i più bei doni di natura. Raramente il volere d'un padre s'era così bene accordato con il destino: i due giovani sembravano fatti l'uno per l'altra, sotto ogni rapporto. Ermogene e Aurelia furono i frutti della loro felice unione. Il più delle volte svernavano nella capitale; ma dopo la nascita di Aurelia la baronessa incominciò a deperire; le sue condizioni di salute richiedevano la continua assistenza di medici valenti e allora fummo costretti a trascorrere in città anche l'estate. Verso la primavera, quando già un apparente miglioramento ci aveva colmati di rosee speranze, la signora si spense. Ritornammo subito qui, e soltanto il tempo poté lenire il mortale cordoglio del barone. Ermogene cresceva e si faceva un magnifico ragazzo; Aurelia diventava sempre più rassomigliante a sua madre; l'educazione dei due giovani era la nostra cura, la nostra gioia quotidiana. Poiché Ermogene mostrava una decisa tendenza alla vita militare, il barone fu costretto a mandarlo nella capitale ad iniziare il tirocinio delle armi sotto la sorveglianza del governatore, suo vecchio amico. Soltanto tre anni fa il barone, con Aurelia e con me, trascorse di nuovo l'inverno nella capitale, come ai vecchi tempi, sia per aver vicino il figlio, almeno di tanto in tanto, sia per rivedere alcuni amici i quali non avevano mai smesso di insistere che si decidesse a ritornare. In quel periodo suscitava grande interesse nella capitale la nipote del governatore, giunta da poco. Orfana, si era posta sotto la protezione dello zio ma viveva per conto proprio, in un'apposita ala del palazzo, e radunava intorno a sé il bel mondo. Senza dilungarmi a descrivere Eufemia (cosa d'altronde inutile, dal momento che presto potrà vederla lei stesso, reverendo), mi limiterò a dirle che ravvivava d'una grazia indicibile qualsiasi cosa facesse o dicesse, accrescendo così, fino a renderlo irresistibile, il fascino della propria eccezionale bellezza. Dovunque si mostrasse creava intorno a sé un'animazione meravigliosa; e tutti le rendevano entusiastico omaggio. Sapeva accendere una scintilla di personalità anche negli individui più opachi e insignificanti; come per virtù d'ispirazione, costoro si innalzavano al disopra della propria mediocrità, beandosi nella gioia fin là sconosciuta d'una vita meno banale. Naturalmente non le mancavano gli adoratori, i quali ogni giorno la supplicavano come una dea. Ma non si poteva dire con certezza che avesse qualche preferenza: riusciva a tenerli tutti legati a sé con la droga stimolante d'una ironia birichina - ma non mai offensiva; e gli adoratori si rigiravano incantati, allegri, felici, entro il suo cerchio magico. Sul giovane barone quella Circe produsse un'impressione straordinaria; appena lo vide gli dimostrò un'attenzione particolare, dettata, si sarebbe detto, da una specie di timida ammirazione infantile. Parlando con lui rivelò una profondità d'intelligenza, di cultura, di sentimenti rara a trovarsi in una donna. Con delicatissimo tatto seppe conquistarsi l'amicizia di Aurelia e prese a proteggerla con un calore quasi materno, giungendo ad occuparsi perfino dei minimi dettagli del suo vestiario. Aurelia era una ragazzina ingenua ed inesperta; Eufemia seppe introdurla negli ambienti più brillanti ed appoggiarla in modo così discreto ed efficace da valorizzarne la naturale intelligenza, la sensibilità retta e profonda, mettendola in grado di distinguersi e di acquistarsi la più alta considerazione di tutti. Il barone in ogni circostanza cantava le lodi di Eufemia; e su questo punto, forse per la prima volta in vita nostra, avvenne che non ci trovassimo d'accordo. Di solito, quand'ero in società, io non partecipavo ai trattenimenti, alle conversazioni, limitandomi alla parte dell'osservatore silenzioso. Avevo quindi osservato molto attentamente anche Eufemia, persona interessantissima, la quale, fedele alla sua abitudine di non trascurare nessuno, di quando in quando scambiava alcune parole gentili perfino con me. Era indubbiamente la più bella, la più affascinante delle donne, tutto ciò che diceva rivelava intelligenza e sensibilità, dovevo ammetterlo. Eppure c'era qualcosa in lei che inspiegabilmente mi respingeva; e se appena gettava lo sguardo su di me o incominciava a parlarmi non riuscivo a reprimere un'indefinibile sensazione d'inquietudine e di disagio. Spesso gli occhi le brillavano d'una luce strana; e, quando si credeva inosservata, quegli occhi lanciavano scintille, come se celassero un fuoco pericoloso, represso ma pronto a divampare. Inoltre intorno alla sua bocca morbida e ben disegnata aleggiava una odiosa espressione ironica; indizio talmente chiaro di sprezzante malanimo da farmi rabbrividire. In tal modo essa, il più delle volte, guardava Ermogene, il quale poco o nulla si occupava di lei. Ciò mi diede la certezza che dietro la bella maschera si celasse qualcosa di assolutamente insospettato. Alle sperticate lodi del barone io non potevo ribattere se non con le mie osservazioni fisiognomiche di cui, egli, peraltro, non teneva alcun conto perché in quella mia inspiegabile avversione vedeva unicamente una singolarissima idiosincrasia. In seguito ad una lunga e seria discussione sull'argomento, dopo ch'io ebbi tentato di giustificare con ogni possibile motivo il mio giudizio su quella fanciulla, il barone mi confidò che probabilmente Eufemia sarebbe entrata a far parte della famiglia poiché egli si sarebbe adoperato in ogni modo per darla in moglie ad Ermogene. Abituato com'era a trattare tutti gli affari alla svelta e apertamente, come vide entrare il figlio lo mise senz'altro al corrente dei suoi desideri e dei suoi progetti. Ermogene ascoltò senza scomporsi l'entusiastico panegirico del padre ma poi rispose di non sentirsi assolutamente attratto da Eufemia, di essere certo di non poterla amare mai; e pregò il padre di rinunziare a qualsiasi progetto matrimoniale del genere. Il barone rimase piuttosto male nel veder naufragare il suo bel piano alla prima mossa; ma non si curò d'insistere, anche perché non conosceva neppure ancora l'opinione di Eufemia in proposito. Bonario e allegro di natura, si mise, anzi, a scherzare sulla futilità dei propri sforzi. Forse Ermogene, - disse, - condivideva la mia stessa idiosincrasia; però non capiva come una donna così bella ed interessante potesse recare in sé un qualcosa di tanto repellente. - I suoi rapporti con Eufemia rimasero naturalmente immutati; egli si era talmente abituato a lei da non poter più fare a meno di vederla ogni giorno. E così, in un momento di buon umore, gli avvenne di dirle scherzando che nel loro ambiente un solo uomo non s'era innamorato di lei: Ermogene!... Egli, come padre, aveva tanto sperato in un possibile matrimonio, ma Ermogene aveva recisamente respinto tale proposta. - Un certo peso avrebbe dovuto averlo anche la sua opinione, in proposito, - osservò Eufemia. - Sì, avrebbe molto gradito di imparentarsi con la famiglia del barone, ma non sposando Ermogene, perché le pareva troppo serio e lunatico. Dopo questo colloquio (riferitomi immediatamente dall'amico) Eufemia raddoppiò le attenzioni per il barone, e con allusioni delicate giunse a fargli intendere che - dovendo pensare a un matrimonio - il suo ideale sarebbe stato quello di sposare «lui stesso». E seppe controbattere con tanta efficacia tutte le possibili obiezioni negative (differenza d'età o che so io), e condurre avanti la cosa con tanta gradualità, abilità e finezza, passo dopo passo, da indurre il barone a credere proprie le idee e le aspirazioni suggeritegli da lei. Egli era un uomo dal temperamento troppo vigoroso ed esuberante per non innamorarsene perdutamente, come un ragazzino. Cercai di interpormi, di frenare quell'impeto passionale - ma era già troppo tardi. Non passò molto tempo. Con immenso stupore di tutta la capitale, Eufemia divenne moglie del barone. Fu per me come se un essere minaccioso e terribile, che già mi aveva spaventato di lontano, fosse entrato nella mia vita; e da quel momento ebbi l'impressione di dover vegliare con la massima attenzione per difendere l'amico e me stesso. Ermogene prese il matrimonio del padre con fredda indifferenza. Aurelia - cara, presaga bimba! - si sciolse in lacrime. - Poco dopo le nozze, Eufemia manifestò il desiderio di ritornare in montagna. Giunse qui e, devo riconoscerlo, si mantenne così fedele a se stessa e continuò a portarsi con tanta amabilità da costringermi, mio malgrado, ad ammirarla. Ci godemmo due anni di vita tranquilla e indisturbata; trascorremmo entrambi gli inverni nella capitale, e anche là la baronessa dimostrò un rispetto così incondizionato per il marito, tanta attenzione per ogni suo anche minimo desiderio, che l'invidia velenosa dovette tacere; nessuno dei giovani signori i quali s'erano illusi di trovare presso di lei libero campo per le loro galanterie si permise la benché minima libertà. L'inverno scorso, ripreso dall'antica e mai del tutto superata idiosincrasia, io fui forse l'unico che incominciasse a nutrire un tremendo sospetto. Uno dei più assidui adoratori di Eufemia, prima del matrimonio, era stato il conte Vittorino, un bel giovane, maggiore della guardia d'onore; risiedeva saltuariamente nella capitale, ed era forse l'unico a cui lei, in certi momenti, avesse dimostrato una qualche predilezione. Si era giunti perfino a mormorare che fra i due ci fosse qualcosa di più di quanto non sembrasse, ma la voce morì quasi sul nascere. Quando vi giungemmo noi per svernarvi, il conte Vittorino era nella capitale e frequentava, naturalmente, l'ambiente di Eufemia; ma pareva non occuparsi affatto di lei, anzi, ostentava di volerla evitare. Una sera il governatore diede un grande ricevimento. Io m'ero incantonato nel vano d'una finestra e me ne stavo là, seminascosto dall'abbondante tendaggio; il conte Vittorino era a due o tre passi da me. Ad un tratto Eufemia, radiosa di bellezza, vestita in modo addirittura incantevole, gli passò accanto, quasi sfiorandolo; egli, con uno scatto appassionato la afferrò per un braccio (... io solo potevo vederli...) - lei sussultò e gli lanciò uno sguardo indescrivibile, pieno di ardentissimo amore, di voluttuosa sete di piacere; egli le sussurrò alcune parole che non compresi; ma senza dubbio Eufemia mi vide, si volse in fretta e disse molto chiaramente: «Siamo osservati!» - Lo stupore, lo sgomento, il dolore, mi lasciarono di sasso... Ah, come potrei descriverle ciò che provai, reverendo! Pensi al mio affetto, alla mia devota fedeltà per il barone... all'avverarsi dei miei tristi presentimenti... Quelle poche parole mi avevano rivelato l'esistenza di una segreta intesa fra la baronessa ed il conte... Per il momento dovevo tacere, ma la baronessa avrei continuato ad osservarla con occhi d'Argo e, acquisita la certezza del tradimento, avrei spezzato il vergognoso legame con cui essa aveva avvinto il mio sventurato amico. Ma chi può aver ragione dell'astuzia satanica?... Tutti i miei sforzi furono vani. Riferire al barone quanto avevo visto e udito sarebbe stato ridicolo perché la scaltrissima donna avrebbe trovato mille scappatoie, riuscendo a farmi passare per un povero folle visionario. - Quando giungemmo qui, la primavera scorsa, c'era ancora la neve sulle montagne, ciò nonostante io talvolta facevo qualche breve escursione; un giorno, nel villaggio qui vicino, incontrai un contadino dall'atteggiamento, dall'andatura piuttosto insolita; quando volse la testa verso di me lo riconobbi: era il conte Vittorino; ma immediatamente scomparve dietro le case e non ci fu più modo di rintracciarlo. A che cos'altro gli sarebbe potuto servire quel travestimento se non alla tresca con la baronessa?... E adesso so di sicuro che è di nuovo qui: ho visto passare a cavallo il suo guardiacaccia, però non riesco a capire perché non sia andato a cercare la baronessa in città! Tre mesi fa il governatore si ammalò gravemente e chiese di vedere Eufemia; essa partì subito con Aurelia e soltanto un contrattempo impedì al barone di accompagnarla. Poco dopo, la sciagura ed il lutto piombarono sulla nostra casa. Eufemia scrisse al barone che Ermogene era stato colto da una forma di malinconia spesso sconfinante nella follia frenetica; se ne andava in giro tutto solo, maledicendo se stesso e la propria sorte; i medici, gli amici avevano fatto il possibile per ricondurlo alla ragione, ma tutto era stato inutile. Può immaginare, reverendo, come rimase impressionato il barone a questa notizia; vedere suo figlio in simili condizioni sarebbe stato un colpo troppo duro per lui, perciò io partii per la città. Le energiche cure avevano, quanto meno, stroncato le crisi violente, ma il giovane era caduto in una forma di malinconia taciturna, a giudizio dei medici, inguaribile. Vedendomi si commosse moltissimo; mi disse che uno sventurato destino lo costringeva a rinunziare per sempre alla carriera prescelta; soltanto facendosi monaco avrebbe potuto salvarsi dall'eterna dannazione. Lo trovai già vestito come l'ha visto lei poco fa, reverendo e, vincendo le sue riluttanze, riuscii finalmente a ricondurlo qui. Ora è tranquillo, ma non desiste dalla propria decisione. Se si riuscisse a scoprire la causa che l'ha ridotto in questo stato si potrebbe forse ricorrere a mezzi efficaci per guarirlo; ma tutti gli sforzi per carpirgli il suo segreto sono risultati vani. - Qualche tempo fa la baronessa ci scrisse che, su consiglio del proprio confessore, avrebbe mandato qui un frate la cui vicinanza, le cui parole di esortazione e di conforto sarebbero forse valse meglio di qualsiasi altra cura, avendo lo squilibrio di Ermogene preso una piega evidentemente religiosa. Mi rallegro di gran cuore, reverendo, che un caso fortunato l'abbia condotto in città e la scelta sia caduta su di lei. Lei potrà restituire la pace a una famiglia afflitta dalla sventura agendo in due direzioni diverse: cerchi di scoprire il terribile segreto di Ermogene; se egli le aprirà il proprio animo, sia pure in confessione, già si sentirà sollevato; e la chiesa, anziché seppellirlo fra le mura di un chiostro, lo restituirà alla gaia vita del mondo cui appartiene. Ma cerchi anche di avvicinare la baronessa. Lei ormai sa tutto, reverendo; converrà con me che, se pure le mie osservazioni non sono sufficienti a costituire un solido atto di accusa, la possibilità che si tratti d'un errore, d'un sospetto ingiusto, è quasi da escludersi. Vedendo e conoscendo Eufemia lei verrà a condividere pienamente il mio punto di vista. Eufemia è religiosa per temperamento; forse, lei reverendo, col suo straordinario dono di parola, riuscirà a toccarle il cuore, a commuoverla, a migliorarla, a farla desistere dal tradimento con cui rischia di dannarsi l'anima. Una cosa ancora, reverendo: in certi momenti mi sembra che il barone si porti in cuore un cruccio di cui mi tace la causa; non soltanto la preoccupazione per Ermogene ma anche qualche altro pensiero lo perseguita... Mi è venuto in mente che un caso malaugurato possa avergli svelato ancor più chiaramente che a me l'infame tresca della moglie con quel maledetto conte. Anche il barone, l'amico diletto, raccomando dunque alle sue cure spirituali, reverendo... Possa Iddio benedire l'opera sua! Così Rinaldo terminò il suo racconto. Ascoltandolo avevo sofferto le pene dell'inferno perché un tumulto di sentimenti contraddittori si era scatenato in me. Per il gioco crudele di un caso capriccioso, il mio «io», confuso con una personalità estranea, vagava alla deriva in balìa degli eventi imperversanti su di me come marosi infuriati. Non riuscivo più a raccapezzarmi!... Evidentemente il caso aveva guidato, se non la mia volontà, la mia mano; e Vittorino era precipitato nella voragine. Io avevo preso il suo posto; ma Rinaldo conosceva padre Medardo, il predicatore cappuccino di --r, e così io ero ritornato ad essere quello che ero... Ma, trovandomi anche a far la parte di Vittorino, la tresca con la baronessa mi ricadeva tra capo e collo... Ero colui che sembravo, e non sembravo colui che ero. In quella duplice personalità non riuscivo più a comprendere, a ritrovare me stesso! Malgrado il tumulto interiore riuscii a simulare la calma confacente ad un ecclesiastico; e venni condotto al cospetto del barone. Trovai un uomo attempato ma nei cui tratti spenti c'erano ancora tracce di una vigoria non comune. Non l'età ma gli affanni gli avevano imbiancato i capelli e scavato profonde rughe sulla fronte aperta e spaziosa. Ciò nonostante, il suo modo di parlare, di comportarsi, erano ancora improntati alla serena giovialità che doveva costituire una delle più irresistibili attrattive. Quando Rinaldo mi presentò come la persona preannunziata dalla baronessa, egli mi scrutò con uno sguardo penetrante; ma la sua espressione divenne via via più affabile mentre l'intendente gli riferiva di avermi sentito predicare, molti anni addietro, nel convento dei cappuccini a --r e di essere rimasto convinto delle mie eccezionali doti oratorie. Volgendosi all'amico, il barone mi tese cordialmente la mano e disse: - Non capisco, caro Rinaldo... il viso del reverendo, lì per lì mi ha fatto una strana impressione... ha risvegliato in me un vago ricordo che inutilmente cerco di puntualizzare... Adesso dirà: «Ah! «È il conte Vittorino!» pensai. Perché, inverosimile a dirsi, credevo proprio di esserlo. Il sangue mi diede un tuffo, poi mi salì impetuoso alle guance, arrossandomele come fuoco vivo. Contavo sul fatto di essere stato riconosciuto da Rinaldo per padre Medardo, benché ciò mi sembrasse menzogna; nulla riusciva a dissipare lo stato di confusione in cui mi dibattevo. Il barone avrebbe desiderato ch'io facessi subito conoscenza con Ermogene; ma Ermogene non fu possibile rintracciarlo: lo avevano visto avviarsi verso la montagna, ma nessuno se ne preoccupava perché già molte altre volte era rimasto assente per intere giornate. Rimasi tutto il giorno in compagnia di Rinaldo e del barone e a poco a poco ripresi piena padronanza di me. La sera stessa già mi sentivo pieno di energia e di coraggio, e dispostissimo ad affrontare con audacia le rocambolesche avventure che parevano attendermi. Durante la notte apersi il portafogli e mi convinsi senza possibilità di dubbio che l'uomo sfracellatosi nel precipizio era proprio il conte Vittorino; ma le lettere indirizzate a lui erano del tutto insignificanti e non ne trassi la benché minima informazione sulle circostanze della sua vita. Non volli pensarci più e decisi di attendere l'arrivo della baronessa abbandonandomi completamente al caso. Essa giunse inaspettatamente la mattina dopo, con Aurelia. Le vidi scendere dalla carrozza, accolte dal barone e da Rinaldo, ed entrare nel portale del castello. Mi misi a passeggiare inquieto su e giù per la camera ma la cosa non durò a lungo perché mi mandarono a chiamare. La baronessa - una bella, una splendida donna nel fior degli anni - mi venne incontro; vedendomi parve turbarsi, mi parlò con voce tremante, come se stentasse a trovar le parole. Il suo evidente imbarazzo mi diede coraggio; la guardai sfrontatamente negli occhi e la benedissi all'uso monastico. Essa impallidì, dovette sedersi. Rinaldo mi guardava sorridendo contento e soddisfatto. In quel momento la porta si aperse ed entrò il barone con Aurelia. Come vidi quella fanciulla rimasi folgorato: tutte le mie segrete inquietudini, i voluttuosi turbamenti, le estasi di appassionato amore, tutto ciò, insomma, che mi fermentava dentro allo stato di vago presagio, esplose in me come realtà viva. Sì: soltanto ora la vita mi si dischiudeva colorita e radiosa; dietro di me tutto era freddo, morto, notte deserta... Era lei... lei, la meravigliosa visione apparsami nel confessionale! Lo sguardo malinconico, infantilmente onesto degli occhi azzurro scuri, le morbide labbra, l'alta figura snella... Non era Aurelia, no! Era santa Rosalia!... Perfino il costume - lo scialle celeste gettato sulla veste rosso scura in un fantastico gioco di pieghe - era identico a quello della santa del quadro e della mia penitente sconosciuta!... Che cos'era mai la rigogliosa bellezza della baronessa, rispetto al celestiale fascino di Aurelia?... Intorno a me tutto disparve - non vidi più altro che lei... Il mio turbamento non poteva sfuggire ai presenti. Che cos'ha, reverendo?... Mi sembra stranamente turbato! - mi disse il barone. Queste parole mi richiamarono alla realtà. Sentii prorompere in me una forza sovrumana, un coraggio mai conosciuto. Ero disposto ad affrontare qualsiasi cosa: la posta del gioco era lei!... - Si rallegri, signor barone! esclamai come improvvisamente rapito in estasi. - Si rallegri!... Qui fra noi, in questa casa c'è una santa!... Il cielo sta per aprirsi luminoso, e lei stessa, santa Rosalia, attorniata dagli angeli di Dio, profonderà conforto e benedizione sui devoti che la supplicano con pietà e con fede... Odo gli inni degli spiriti beati che anelano a vedere la santa e scendono dalle nubi radiose, invocandola col canto... La vedo ergere il capo sfolgorante di gloria verso il coro dei santi, visibili soltanto ai suoi occhi!... Sancta Rosalia, ora pro nobis! E caddi in ginocchio a mani giunte, volgendo gli occhi al cielo. Nessuno mi domandò nulla: quell'improvviso trasporto di fervore mistico venne attribuito ad ispirazione divina, tanto che il barone decise di far dire alcune messe sull'altare di santa Rosalia, nella chiesa maggiore della città. Salvatomi felicemente in tal modo dal pericoloso imbarazzo, ero sempre più deciso ad osare qualsiasi cosa: pur di conquistare Aurelia avrei dato anche la vita senza rimpianto. La baronessa mi parve in uno stato d'animo alquanto singolare; mi seguiva con lo sguardo ma, se appena la guardavo senza mostrare imbarazzo né turbamento, i suoi occhi vagavano intorno inquieti. Quando tutti furono usciti mi affrettai a scendere in giardino e mi misi a passeggiare per i viali dibattendo dentro di me migliaia di idee, piani, decisioni per la futura vita al castello. Sul far della sera apparve Rinaldo e mi disse che la baronessa, commossa dal mio religioso fervore, desiderava parlarmi. Entrai nella sua camera ed essa mi venne incontro, mi prese per le braccia, mi scrutò a lungo negli occhi e finalmente esclamò: - È possibile... è possibile?... Tu saresti Medardo, il cappuccino?... Eppure... la voce, la figura... gli occhi, i capelli... Parla!... Non farmi morire nell'angoscia e nel dubbio... - Vittorino! - sussurrai. Allora lei mi abbracciò con sfrenato, voluttuoso furore. Un fiotto di fuoco mi irruppe nelle vene, il sangue mi andò in ebollizione, i sensi svanirono in una delizia senza nome, in un'ebbrezza folle. Ma mentre peccavo tutti i miei pensieri erano rivolti unicamente ad Aurelia; infrangendo il voto, a lei sola sacrificavo la salvezza dell'anima mia. Sì!... Soltanto Aurelia viveva in me, la mia mente era tutta piena di lei. Ma al pensiero di rivederla rabbrividivo, e ciò doveva accadere la sera stessa, a cena. Mi pareva che il suo sguardo innocente dovesse accusarmi di peccato mortale... già mi vedevo smascherato, annientato, precipitato nella rovina e nell'onta. D'altronde, dopo quanto era accaduto, non sapevo neppure decidermi a rivedere la baronessa; e tutto ciò mi indusse a rimanere in camera, quando mi chiamarono a cena, adducendo il pretesto d'un esercizio di pietà. Ma pochi giorni mi bastarono a vincere ogni imbarazzo o timidezza. La baronessa era l'amabilità in persona; e quanto più intimi si facevano i nostri rapporti, e intensi di peccaminosi piaceri, tanto più essa si mostrava premurosa e piena di attenzioni verso il barone. Mi confessò che erano stati la mia tonsura, la mia barba autentica, il mio modo di camminare perfettamente fratesco (ora però non lo osservavo più con lo stesso scrupolo...) a metterla in apprensione. Sentendomi invocare con tanto fervore santa Rosalia, si era quasi convinta che un errore, una combinazione sventurata, avessero sventato il piano minuziosamente studiato da Vittorino e da lei, ponendole a fianco un cappuccino autentico. Ammirò tutte le precauzioni da me prese: facendomi tonsurare e crescere la barba per davvero, studiando scrupolosamente l'andatura, gli atteggiamenti dei frati, ero entrato così bene nella parte che lei stessa, molte volte, doveva guardarmi bene negli occhi per non farsi cogliere da dubbi sconcertanti. Di quando in quando il guardiacaccia di Vittorino si faceva vedere in fondo al parco, travestito da campagnolo, ed io non mancavo mai di andargli a parlare in segreto, raccomandandogli di tenersi pronto a fuggire con me, qualora un caso sfortunato mi avesse messo in pericolo. Il barone e Rinaldo parevano estremamente soddisfatti di me e insistevano perché mi occupassi, con tutte le energie disponibili, del malinconico Ermogene. Ma ancora non mi era stato possibile scambiar parola con lui. Evidentemente egli evitava ogni occasione di trovarsi solo con me, e quando mi incontrava in compagnia del padre o di Rinaldo mi guardava in un modo così strano ch'io facevo fatica a non mostrare troppo chiaramente il mio imbarazzo; sembrava volermi penetrare nell'anima, spiare i miei pensieri più reconditi. Se appena mi vedeva, quel suo viso pallido assumeva un'espressione di malumore incoercibile, d'astio, di collera repressa a stento. Ma una volta, mentre passeggiavo nel parco, inaspettatamente mi avvenne di vedermelo venire incontro. Credetti finalmente giunto il momento di chiarire i nostri opprimenti rapporti. Egli cercò di evitarmi, ma io fui pronto a prenderlo per mano e, grazie alla mia naturale eloquenza, seppi parlargli in modo così patetico e convincente ch'egli dapprima si fece attento e poi non riuscì a reprimere la commozione. C'eravamo messi a sedere su una panca di pietra in fondo al parco. Parlando mi infervorai; gli dissi ch'era colpevole rodersi in silenzio, coltivare un cruccio tormentoso e rifiutare il conforto, l'aiuto della Chiesa, consolatrice degli afflitti, opporsi con animo ribelle alle finalità della vita assegnate dall'onnipotente. Neppure il peggior criminale doveva dubitare della misericordia divina, perché appunto il dubbio lo privava dell'eterna salvezza, sempre acquistabile, invece, col pentimento, la pietà, la penitenza. Lo esortai infine a confessarsi, ad aprirmi l'animo come dinanzi a Dio: lo avrei assolto da qualsiasi peccato. Allora egli balzò in piedi, corrugò le sopracciglia, un ardente rossore gli ravvivò il pallor cadaverico delle guance. - Sei forse senza peccato, tu? - esclamò con strana voce stridente. - Tu, che pretendi di guardare nella mia coscienza, come se fossi il più puro degli uomini?... Come se fossi quell'Iddio stesso di cui ti fai beffa?... Tu, che osi offrirmi l'assoluzione dai peccati e ti dibatti inutilmente per espiare le tue colpe e conquistarti il paradiso che ti sei precluso per sempre?... Miserabile ipocrita! La resa dei conti è vicina: morirai di morte ignominiosa, pazzo e disperato, torcendoti nella polvere come un verme, invocando inutilmente aiuto e sollievo ai tuoi inenarrabili tormenti! - E se ne andò in fretta. Io rimasi annichilito, affranto... Tutta la padronanza di me, tutto il coraggio se n'erano andati. Vidi uscir dal castello Eufemia vestita come per una passeggiata, con scialle e cappello: soltanto da lei potevo sperare aiuto e conforto. Le corsi incontro; mi vide talmente sconvolto che mi domandò spaventata che cosa mi fosse accaduto. Le riferii parola per parola la scena di poc'anzi; forse soggiunsi preoccupato - un caso inspiegabile aveva rivelato il nostro segreto al folle Ermogene... Eufemia non si mostrò molto scossa: - Inoltriamoci nel parco, mi disse con uno strano sorriso che mi fece rabbrividire. - Qui siamo troppo osservati, e si potrebbe trovare strano che il reverendo padre Medardo mi parli accalorandosi tanto -. Appena fummo in un boschetto molto solitario, Eufemia mi abbracciò con impeto appassionato. Sentii posarsi sulle mie labbra i suoi baci ardenti. - Stà tranquillo, Vittorino, - mi disse, - non hai alcun motivo di apprensione. Ho quasi piacere che con Ermogene sia andata così perché ora posso parlarti di alcune cose che per troppo tempo ti ho taciute. Devi riconoscere ch'io ho sempre saputo impormi, in tutti gli ambienti, con la mia indiscussa superiorità intellettuale. Ciò riesce più facile a una donna che a voi, sempreché la donna in questione possieda, oltre alle indefinibili e irresistibili attrattive fisiche naturali della femminilità, una facoltà superiore capace di fondere il fascino fisico con l'intelligenza e dominarlo a proprio piacere. Ciò significa saper uscire da se stessi, saper osservare la propria personalità da un altro punto di vista e vederla come un mezzo duttile al comando d'un volere superiore per conseguire quella che ci si è posta a suprema finalità della vita... Ed esiste una finalità più alta che dominare la vita?... Dominarne, come per virtù di un incantesimo potente, tutti i fenomeni, tutta la immensa dovizia di piaceri?... Tu, Vittorino, sei sempre stato uno dei pochi che mi hanno compresa fino in fondo; per questo non ho sdegnato di innalzarti fino a me, porti sul trono, come sovrano consorte, nel mio regno superiore. Il segreto ha accresciuto il fascino della nostra intesa; l'apparente separazione è valsa soltanto a dar più ampio campo al nostro capriccio, al nostro divertente gioco con le piccole banalità della vita quotidiana. Il fatto di trovarci insieme, adesso, qui, non è forse un capolavoro di audacia?... La beffa più solenne che un intelletto superiore potesse giocare all'impotenza delle piccole menti limitate dai pregiudizi convenzionali?... Perfino nella tua figura irriconoscibile - e non soltanto a motivo dell'abito - mi sembra di scorgere l'intelligenza sottomessa al suo elemento dominante e condizionante, l'intelligenza capace di agire con così miracolosa efficacia anche sulle cose materiali, da imporre perfino alla persona fisica la forma più atta allo scopo prefisso. Tu conosci il mio carattere, il mio modo di vedere le cose; sai come cordialmente disprezzi le limitazioni convenzionali di qualsiasi genere. Il barone era per me uno strumento, di cui ora sono stufa fino alla nausea perché ormai ha servito allo scopo ed è diventato inutile, morto, come un meccanismo logoro. Rinaldo è troppo limitato perché io mi curi di lui; Aurelia è soltanto una buona bambina. Abbiamo a che fare unicamente con Ermogene. Come già ti ho confessato, la prima volta che lo vidi mi fece un'impressione straordinaria; lo credetti capace di partecipare alla vita superiore cui avrei voluto iniziarlo. Ma, per la prima volta, ho sbagliato. C'era in lui qualcosa di ostile, qualcosa che si rivoltava contro di me, in perenne contraddizione. Il fascino con cui, anche senza volerlo, conquistavo tutti gli altri, lo respingeva; era freddo, cupo, chiuso; la sua eccezionale capacità di resistenza stimolò in me il desiderio di iniziare la lotta in cui egli avrebbe dovuto soccombere. Decisi di battermi quando il barone mi disse che Ermogene aveva respinto senza condizioni la sua proposta di prendermi in moglie. Fu allora che balenò in me, come una scintilla divina, l'idea di sposare il barone stesso e liberarmi così dei meschini riguardi convenzionali che spesso inceppavano in modo insopportabile ogni mia iniziativa. Ma di questo matrimonio, caro Vittorino, ti ho già parlato anche troppo: ho contraddetto ai tuoi dubbi con i fatti e in pochi giorni sono riuscita a ridurre il vecchio allo stato del languido spasimante incretinito. L'ho costretto a vedere nella mia volontà l'appagamento del suo più fervido desiderio, d'un desiderio che forse non avrebbe mai osato neppure esprimere. Ma in fondo al cuore accarezzavo ancora l'idea della vendetta: vendicarmi di Ermogene, in quella situazione, mi sarebbe riuscito più facile e mi avrebbe dato maggiore soddisfazione. Attesi a colpire per portare un colpo preciso e mortale. Se non ti conoscessi come ti conosco, se non ti sapessi capace di elevarti al mio livello e vedere le cose dall'alto, come le vedo io, avrei qualche perplessità a parlarti del fatto, ormai accaduto. Mi sforzai di comprendere la vera interiorità di Ermogene. In città mi mostrai tetra, pensierosa, in netto contrasto con lui, sempre allegro, sempre alle prese con le movimentate occupazioni del servizio militare. La malattia di mio zio mi vietava di frequentare gli ambienti, i ritrovi brillanti ed io cercavo di evitare anche le visite delle persone più intime. Ermogene venne da me forse soltanto per un doveroso riguardo filiale, mi trovò immersa in cupe meditazioni; il grande mutamento avvenuto in me lo colpì e me ne chiese la causa con insistenza. Gli risposi fra le lacrime che lo stato di salute del barone era preoccupante; egli cercava di non darlo a vedere ma io temevo per lui, temevo di perderlo, e questo pensiero mi era insopportabile, mi terrorizzava addirittura. Fingendomi estremamente commossa gli descrissi la mia felicità coniugale, mi soffermai con speciale tenerezza sui piccoli particolari della nostra vita in campagna, misi bene in risalto la personalità, l'animo mirabile del barone. Ermogene ne rimase scosso; e la sua meraviglia, il suo stupore crebbero nel constatare la mia totale dedizione, la mia sconfinata venerazione per mio marito. Evidentemente lottava con se stesso; ma la mia forza, la mia personalità stessa gli erano entrate nell'animo e avevano vinto quella sorda ostilità; egli, ora, non mi resisteva più. Quando lo vidi ritornare la sera dopo fui certa del mio trionfo. - Mi trovò sola, ancor più triste ed agitata di quanto non lo fossi il giorno prima; di nuovo gli parlai del barone e del mio indicibile desiderio di rivederlo. Poco dopo Ermogene non era più lo stesso, non distoglieva gli occhi dai miei, e dai miei occhi un fuoco pericoloso entrò in lui e fece divampare l'incendio. Lo sentivo sospirare, sentivo la sua mano contrarsi spasmodicamente stringendo la mia... Avevo ben calcolato l'apice della sua incontrollata eccitazione; allora non disdegnai neppure più di ricorrere ai soliti artifici, abusati e logori ma pur sempre nuovi ed efficaci. E vinsi. Le conseguenze furono più tremende del previsto ma resero ancor più splendido il mio trionfo e dimostrarono luminosamente quanto grande fosse la mia potenza: vincendo la sua resistenza ostile (dovuta forse soltanto a qualche strano presagio) lo avevo spezzato. Come sai, egli è stato colto da una forma di pazzia di cui forse finora ignoravi la vera causa. È curioso: i pazzi sembrano essere in più stretto contatto con lo Spirito; sono più ricettivi, quantunque inconsciamente, dei pensieri e degli stati d'animo altrui; vedono le cose nascoste in noi e le riecheggiano, le ripetono in un modo singolarissimo, dandoci la sconcertante sensazione di udire la voce paurosa d'una nostra seconda personalità. Perciò può darsi, specialmente dati i rapporti esistenti fra noi tre, che Ermogene ti sia tanto avverso per averti misteriosamente letto nell'animo. Ma questo per noi non costituisce il minimo pericolo. Rifletti: anche se ti si schierasse apertamente contro e dicesse: «Non fidatevi di quel finto frate!...» chi non attribuirebbe una simile sortita alla sua demenza?... Soprattutto considerando il fatto che Rinaldo è stato tanto buono da riconoscerti per padre Medardo! Tuttavia, ora tu non dovrai più certamente influire su Ermogene nel senso che ti avevo indicato prima. La mia vendetta è compiuta. Ermogene ormai è per me come un giocattolo rotto; non mi serve più. Forse considera una penitenza vedermi, mi perseguita con quei suoi occhi sbarrati di morto in piedi, mi dà fastidio, insomma. Deve andarsene di qui. Ho pensato di servirmi di te per rafforzare in lui l'idea di entrare in convento. Dovrai far del tuo meglio per convincere il barone e l'amico- consigliere Rinaldo che la salvezza dell'anima sua dipende da questa decisione, e indurli ad accettarla di buon grado. Sì, Ermogene mi è diventato insopportabile; vederlo mi turba. Deve andar via! L'unica persona che lo vede con occhi diversi è Aurelia, la buona fanciullina ingenua; soltanto per mezzo di lei potrai influire su Ermogene. Farò in modo che tu la possa avvicinare. Se ne avrai l'opportunità farai bene a confidare a Rinaldo o al barone che Ermogene ti ha confessato un grave delitto, senza naturalmente precisare quale per non venir meno all'obbligo del segreto. Ma di questo parleremo ancora in seguito. Adesso tu sai tutto, Vittorino; agisci e rimani al mio fianco. Regna con me su questo insulso mondo di fantocci! La vita deve darci i suoi meravigliosi piaceri senza assoggettarci alle sue meschinità. Vedemmo il barone di lontano e gli andammo incontro fingendoci assorti in pie conversazioni. La dichiarazione di Eufemia circa il suo modo di intendere la vita era forse quanto ancora occorreva per darmi piena consapevolezza della forza prepotente da cui mi sentivo animato, come se emanasse da entità superiori. Qualcosa di sovrumano era penetrato in me, elevandomi ad un livello da cui il senso, i rapporti delle cose, tutto mi appariva mutato. La forza spirituale, la capacità di dominare la vita di cui Eufemia si vanagloriava mi sembravano degne di amarissima irrisione. Nel momento stesso in cui osava intraprendere il proprio gioco infame e sconsiderato con le trame più delicate della vita umana, la sciagurata cadeva in balìa del caso o del destino malvagio che mi guidava la mano. Soltanto la mia forza, infiammata da misteriose potenze, aveva potuto accecarla al punto da farle scambiare per l'amico ed il complice l'uomo che - per la sua rovina casualmente rassomigliava a quell'amico e la teneva in pugno come il Maligno stesso, precludendole ogni libertà d'azione. Nella sua infatuazione egoistica e presuntuosa Eufemia mi era diventata spregevole e la relazione con lei mi ripugnava perché soltanto Aurelia portavo in cuore, soltanto lei era stata la causa di tutti i miei peccati ammesso che ancora considerassi peccato ciò che mi sembrava il culmine dell'umana gioia. Decisi di far pieno uso della mia innata potenza, d'impugnare la bacchetta magica e con essa descrivere i cerchi entro cui avrebbero dovuto agire, muoversi, per mio esclusivo piacere, tutti i personaggi della commedia. Il barone e Rinaldo andavano a gara nel rendermi piacevole il soggiorno al castello; della mia relazione con Eufemia non avevano il minimo sospetto, anzi, il barone spesso mi dichiarava in un impeto spontaneo di gratitudine, che soltanto grazie a me Eufemia gli era stata interamente restituita; e in queste parole io sentivo una chiara allusione a conferma della congettura di Rinaldo; un disgraziato caso aveva dunque svelato al barone gli illeciti intrighi della moglie? Ermogene lo vedevo di rado; mi evitava con inquietudine e imbarazzo evidenti; ma il barone e Rinaldo attribuivano tale atteggiamento a una sorta di soggezione di fronte a un sant'uomo, capace forse di leggergli nell'animo sconvolto. Anche Aurelia pareva sottrarsi deliberatamente ai miei sguardi; se poteva mi sfuggiva e quando parlava con me la vedevo spaurita e impacciata come Ermogene. Ero quasi certo che il giovane folle avesse confidato alla sorella i suoi tremendi e sconvolgenti sospetti sul conto mio, ma mi sembrava ancora possibile controbattere in lei la cattiva impressione. Consigliato probabilmente dalla baronessa (la quale voleva avvicinarmi ad Aurelia per poter influire su Ermogene), il barone mi pregò di spiegare alla figlia i supremi misteri della nostra religione. Fu così Eufemia stessa a procurarmi il mezzo per giungere al vagheggiato incontro di cui, con fervida fantasia, mi ero dipinto mille immagini voluttuose. Che cos'altro era stata la mia visione in chiesa se non una promessa della superiore potenza operante in me?... La promessa di darmi quella donna! Perché null'altro potevo sperare placasse la bufera che mi sballottava qua e là, come sull'onde di un mare infuriato. Vedere Aurelia, sentirla vicina, sfiorare la sua veste mi metteva in fiamme. Un fiotto di sangue ribollente saliva nell'arcana fucina del pensiero, ed io parlavo dei meravigliosi misteri della religione in vivide immagini il cui occulto significato era la voluttuosa follia della concupiscenza. Le mie parole ardenti avrebbero dovuto far breccia nell'animo di Aurelia come altrettante scariche elettriche, render vana qualsiasi corazza, qualsiasi difesa - le immagini cadute in lei svilupparsi a sua insaputa, rivelare luminosamente il proprio significato recondito, farle presagire il piacere sconosciuto, fino a che, torturata, straziata da desideri inesprimibili, mi cadesse tra le braccia. Mi preparai accuratamente a tenere quelle cosiddette «lezioni», imparai ad accrescere progressivamente l'espressività del mio discorso. La buona fanciulla mi stette ad ascoltare a mani giunte e occhi bassi ma senza tradire né con un movimento né col più lieve sospiro l'effetto che mi attendevo dalle mie parole. I miei sforzi non mi portarono oltre, anzi; invece di far divampare in lei il pericoloso fuoco della seduzione resero ancor più tormentoso l'ardore che mi divorava. Smanioso, quasi pazzo di dolore e di concupiscenza, meditavo piani per la rovina di Aurelia; e mentre con Eufemia mi fingevo innamorato, felice, sentivo di incominciare ad odiarla d'un odio implacabile. Questo penoso conflitto dava ai miei rapporti con lei un qualcosa di crudele, di orribile, che la faceva tremare. Eufemia era lontanissima dal sospettare il mio segreto ed io incominciavo a permettermi di spadroneggiare con lei. Spesso accarezzavo l'idea di por fine al mio tormento piegando Aurelia con un colpo di forza ben calcolato, ma se appena la vedevo mi pareva di scorgerle accanto un angelo pronto a proteggerla e a fronteggiare la potenza del nemico. Allora un brivido mi correva per le membra e il malvagio proposito si raffreddava. Pensai infine di ricorrere a un espediente: pregare con lei. Nelle preghiere l'ardore mistico si fa più intenso, gli istinti più segreti protendono i tentacoli, come piovre, per ghermire la cosa sconosciuta con cui placare il tormentoso struggimento che ci dilania. I più bassi istinti materiali, mascherati da mistici rapimenti, si scatenano in noi promettendoci, già fin di quaggiù, l'appagamento dei nostri sogni più esaltati; la passione inconscia ne rimane ingannata e l'aspirazione alle cose sante, ultraterrene si spezza nell'ineffabile, mai provata gioia dei sensi. Perfino dalla recitazione di certe preghiere composte da me mi ripromettevo di trarre qualche vantaggio per i miei fini infami. E così feci. Mentre Aurelia ripeteva le mie preghiere con gli occhi rivolti al cielo, inginocchiata al mio fianco, la vidi arrossarsi in viso, respirare affannosamente. Allora, come nel trasporto della preghiera, le presi le mani e me le premetti al petto. Sentivo il calore del suo corpo, tanto mi era vicina, i suoi capelli sciolti mi fluttuavano sulle spalle. Accecato dal desiderio l'abbracciai selvaggiamente... Già stavo baciandola con frenesia sulla bocca, sul seno, quando lei si svincolò dalla stretta, lanciò un grido penetrante e fuggì veloce nella camera accanto. Rimasi come incenerito da una folgore... non ebbi la forza di trattenerla! Nello stesso istante un'altra porta si aperse e sulla soglia apparve Ermogene, con quei suoi occhi terrificanti di folle fissi su di me. Raccolsi tutte le forze e gli andai sfrontatamente incontro, esclamando in tono tracotante e perentorio: - Che vuoi tu qui?... Vattene, pazzo!... Ermogene tese la mano destra verso di me e disse cupamente: Vorrei battermi con te... ma non ho la spada... E tu sei il delitto... i tuoi occhi stillano sangue, e di sangue hai intrisa la barba! Ciò detto disparve sbattendo violentemente la porta e mi lasciò solo, schiumante di collera contro me stesso per essermi lasciato trascinare da un impulso momentaneo a rischio di tradirmi e rovinarmi. Nessuno si fece vedere. Ebbi tempo a sufficienza per ricompormi e farmi suggerire dalla misteriosa forza interiore il mezzo adatto a neutralizzare le possibili conseguenze dannose del mio gesto insano. Appena possibile mi precipitai da Eufemia e, senza alcun ritegno, le riferii l'accaduto. Eufemia parve prender la cosa meno leggermente di quanto sperassi. Compresi come, malgrado la sua tanto conclamata forza d'animo e la sua superiore visione delle cose, potesse nutrire una meschina gelosia; ma, soprattutto, temesse che Aurelia, accusandomi, potesse distruggere l'aureola della mia santità e mettere in pericolo il nostro segreto. Per un'inspiegabile soggezione, le tacqui tuttavia l'intervento di Ermogene e le sue terrificanti parole. Eufemia rimase silenziosa per alcuni istanti fissandomi sopra pensiero, in uno strano modo: M'è venuta un'idea meravigliosa, disse infine, - veramente degna della mia intelligenza. Tu dovresti indovinarla, Vittorino... Ma vedo che non puoi. Andiamo! Sbatti le ali e preparati a seguirmi nell'ardito volo! Che tu, malgrado la pretesa di volerti innalzare al disopra della vita e dominarne tutti i fenomeni, non possa inginocchiarti accanto a una ragazza appena appena passabile senza abbracciarla e baciarla, questo non mi stupisce. E se te n'è venuta la voglia non te ne biasimo. Aurelia, per quanto la conosco, si vergognerà moltissimo della cosa e starà zitta; tutt'al più troverà un pretesto qualsiasi per sottrarsi d'ora innanzi alle tue appassionate lezioni di dottrina. In quanto dunque alle possibili conseguenze spiacevoli della tua leggerezza, della tua sfrenata libidine, non nutro alcun timore. Io Aurelia non la odio; ma la sua modestia, la sua ipocrita bigotteria silenziosa dietro cui si cela un orgoglio intollerabile, mi irritano. Mi sono perfino degnata di giocare con lei, ma non sono mai riuscita a conquistarmene la fiducia; con me è sempre stata timida, chiusa. Non vuol saperne di sottomettersi, mi evita orgogliosamente; per questo mi è odiosa. Spezzare, veder appassire un fiore così orgoglioso della propria bellezza, dei propri bei colori vivaci... Non è un'idea sublime?... Ti concedo di metterla in atto; non mancheranno i mezzi per farlo facilmente e con sicurezza. La colpa dovrà ricadere sulla testa di Ermogene e annientarlo! Eufemia mi parlò ancora a lungo del proprio piano, diventandomi più abominevole ad ogni parola. In lei vedevo soltanto più una volgare delinquente. Io bruciavo, sì, dal desiderio di rovinare Aurelia, ma unicamente nella speranza di placare così la mia straziante pena amorosa. Ma accettare la complicità di quella donna mi pareva spregevole. Con suo non lieve stupore, respinsi perciò la proposta, fermamente deciso in cuor mio ad agire senza il suo aiuto. Come la baronessa aveva supposto, Aurelia, accampando il pretesto di un'indisposizione, rimase nelle sue stanze e non venne più alle mie lezioni. Ermogene, contrariamente alla sua abitudine, stava di nuovo a lungo in compagnia di Rinaldo e del barone; sembrava meno assorto ma più turbolento e collerico. Lo si udiva spesso parlare ad alta voce da solo, con energia, e quando per caso ci incontravamo mi guardava con astio represso. L'atteggiamento del barone e di Rinaldo verso di me subì, nel giro di pochi giorni, una strana trasformazione. Formalmente continuavano a trattarmi con l'attenzione e il rispetto di sempre ma sembravano non saper più trovare il tono cordiale di un tempo, quasi come se un presentimento, un sospetto li angosciasse. Tutto ciò che mi dicevano era così forzato, così raggelante ch'io, dibattendomi nelle supposizioni, dovevo far molto sforzo ad apparire per lo meno disinvolto. Ma gli sguardi di Eufemia li sapevo interpretare con esattezza, ed essi mi dicevano che un qualche fatto nuovo l'aveva messa in agitazione. Purtroppo, per tutto il giorno non ci fu possibile parlare a quattr'occhi inosservati. Nel cuor della notte, quando tutti nel castello dormivano già da molto tempo ed io mi trovavo nella mia camera, vidi aprirsi una porta segreta (di cui non mi ero mai accorto) ed entrare Eufemia, sconvolta come non l'avevo vista mai. - Vittorino, - disse, - siamo minacciati di tradimento. Ermogene, il folle Ermogene, guidato da strani presentimenti, ha scoperto il nostro segreto. Con continue allusioni, simili a terrificanti sentenze dettate dalla potenza oscura imperante su di noi, è riuscito ad insinuare il sospetto nell'animo del barone... Non una chiara accusa, intendiamoci, nulla di preciso; ma la cosa mi inquieta e tormenta moltissimo. Chi tu sia, che sotto quella tonaca si celi il conte Vittorino, sembra non l'abbia indovinato. Viceversa va proclamando che il frate entrato in questa casa è posseduto da forze diaboliche, anzi, è il diavolo stesso, e macchina insidie, tradimento per la nostra rovina. Così non può durare. Sono stanca di sopportare l'oppressione di quel vecchio rimbambito, pieno di morbosa gelosia, che sorveglia ogni mio passo. Quel giocattolo mi è venuto a noia. Voglio gettarlo via. Tu, Vittorino, asseconderai volentieri il mio desiderio perché così facendo ti sottrarrai una volta per tutte al pericolo di venir scoperto e di veder scadere la nostra geniale avventura al livello d'una banale mascherata, di un'insulsa vicenda coniugale. Il vecchio importuno deve sparire. Consigliamoci perché ciò avvenga nel migliore dei modi; ma prima ascolta il mio parere. Come sai, tutte le mattine mentre Rinaldo è occupato, il barone se ne va solo su in montagna per godersi il paesaggio a modo proprio. Cerca di sgusciar fuori prima di lui e d'incontrarlo all'uscita del parco. Non lontano di qui c'è un dirupo spaventoso, selvaggio; quando lo si è superato ci si trova a fianco d'una profondissima voragine, sopra cui sporge il cosiddetto «trono del diavolo». Si favoleggia che dal baratro salgano vapori velenosi e stordiscano, e facciano precipitare senza scampo chiunque si azzardi a guardare in basso per scoprire che cosa si nasconda laggiù in fondo. Il barone ha sempre riso di questa leggenda e molte volte è salito sul famigerato sperone di roccia per godersi la vista di lassù. Ti sarà facile indurlo a ripetere la pericolosa bravata; e mentre contemplerà il panorama uno spintone deciso ci libererà per sempre di quel povero stolto. - No, mai! - gridai impetuosamente. Conosco quel precipizio... conosco il «trono del diavolo»... Questo mai!... Se mi credi capace d'un simile delitto tu sbagli... Vattene! Eufemia balzò in piedi con lo sguardo fiammeggiante di ferocia e il viso sconvolto dalla furia della passione: - Miserabile smidollato, - esclamò, - saresti tanto vile ed ottuso da opporti alle mie decisioni?... Preferisci piegare la schiena al giogo ignominioso anziché dominare il mondo al mio fianco?... Ma io ti tengo in pugno: inutilmente ti dibatti per sottrarti alla potenza che ti incatena ai miei piedi! Tu eseguirai il mio ordine. Vedere quell'uomo è un tormento per me; domani non dovrà più essere vivo! Provai un profondo disprezzo per la compassionevole boria di quella donna. La mia risata amara e sprezzante la fece impallidire come una morta. Paura e orrore le si dipinsero in viso. - Pazza! esclamai. - Tu credi di dominare la vita, di giocare con le sue manifestazioni. Ma bada! Un simile trastullo potrebbe trasformarsi fra le tue mani nell'arma tagliente che ti ucciderà! Vanamente ti illudi di dominarmi! Io ti tengo incatenata al mio potere come il destino stesso. Il tuo gioco infame è soltanto il rigirarsi impotente d'una belva in gabbia... Sappi, miserabile, che il tuo amante giace sfracellato in fondo a quel precipizio... E tu non lui hai abbracciato ma lo spirito stesso della vendetta!... Vattene e non sperare! Eufemia vacillò, scossa da un tremito convulso, e sarebbe precipitata a terra se non l'avessi afferrata e spinta nel corridoio, attraverso la porta segreta. Mi balenò il pensiero di ucciderla ma non lo feci e quasi non me ne avvidi, perché appena richiusa la porta dietro di lei ebbi per un istante la certezza di averlo già fatto. Udii un grido penetrante, poi uno sbatter di porte. M'ero posto su un piano che mi straniava totalmente dal modo di pensare e di agire delle persone normali; ora i colpi si sarebbero susseguiti inesorabili, uno sull'altro, e io stesso avrei dovuto compiere l'orrendo misfatto come il malo spirito della vendetta. La morte di Eufemia era cosa decisa. L'odio più implacabile frammisto all'amore più ardente mi avrebbe procurato il solo piacere veramente degno dello spirito sovrumano disceso in me. Sparita Eufemia, Aurelia sarebbe stata mia. Il giorno dopo Eufemia riuscì a mostrarsi allegra e disinvolta; la sua forza d'animo mi lasciò stupefatto. Osò perfino dire d'esser caduta, durante la notte, in una specie di sonnambulismo e d'aver sofferto di violenti spasmi. Il barone pareva interessarsi a lei ma gli sguardi di Rinaldo erano carichi di dubbio e di diffidenza. Aurelia rimase nelle proprie stanze. Meno riuscivo a vederla e più sentivo crescere in me la furia della passione. Eufemia mi invitò a recarmi di nascosto nella sua camera per la via a me ben nota, quando tutti nel castello fossero addormentati. Accettai con gioia perché il momento era giunto: la sua mala sorte stava per compiersi. Nascosi nel saio un piccolo coltello acuminato che portavo con me fin da quando ero ragazzo e di cui mi servivo per intagliare il legno: e così, deciso al delitto, andai da lei. - Credo, - mi disse appena mi vide, - che ieri abbiamo sofferto entrambi di incubi angosciosi, pieni di voragini, di precipizi... Non è vero?... Ma adesso è passato, - e si abbandonò, come sempre, alle mie empie carezze. Il solo piacere per me fu abusare della sua ignominia, con l'animo pieno di orrendo, infernale disprezzo. Mentre giaceva fra le mie braccia il coltello mi cadde: lo raccolsi in fretta e la vidi rabbrividire, come in preda a un'angoscia mortale; ma rimandai ancora il delitto perché il destino mi dava ben altre armi in mano. Eufemia aveva fatto porre sul tavolo vino italiano e frutta sciroppata: «Che espediente grossolano e abusato!», pensai; scambiai quindi abilmente i bicchieri e finsi di mangiare qualche frutto, facendolo invece scivolare nelle ampie maniche del saio. Quand'ebbi bevuto due o tre bicchieri di vino (ma nel bicchiere destinato a lei...), Eufemia finse di udire dei rumori nel castello, e mi pregò di lasciarla. Secondo i suoi calcoli avrei dovuto morire nella mia camera!... Sgattaiolai per i lunghi corridoi fiocamente illuminati, passai davanti alla camera di Aurelia e mi fermai come ammaliato... La vidi... mi parve di vedermela passare davanti guardandomi con amore, come nella visione, e facendomi cenno di seguirla. La porta cedette alla pressione della mia mano, mi trovai dentro... La porta della camera da letto era soltanto accostata... Un fiotto d'aria calda, pesante, mi investì accrescendo ancora il mio ardore amoroso fino a stordirmi. Quasi non potevo più respirare... Sentii provenire dall'interno dei sospiri angosciosi: forse Aurelia stava sognando tradimento, delitto... La udii pregare nel sonno... - Agisci... agisci!... Perché esiti?... L'attimo fugge! - mi incitava la voce della potenza ignota... Avanzai di un passo... Scellerato, frate assassino... ti tengo, finalmente! gridò qualcuno dietro di me... Mi sentii afferrare alle spalle da una forza erculea: era Ermogene. Dibattendomi con tutte le forze riuscii a svincolarmi e feci per fuggire, ma egli mi riafferrò, dilaniandomi le spalle a morsi. Pazzo di collera e di dolore lottai vanamente, a lungo. Infine con un energico strattone lo costrinsi a lasciarmi e mentre stava di nuovo avventandosi su di me trassi il coltello, vibrai due colpi. Ermogene cadde a terra rantolando; il tonfo rimbombò cupo nel corridoio, perché, lottando disperatamente, eravamo usciti dalla camera. Caduto Ermogene, mi precipitai giù per le scale come un forsennato. Tutto il castello si riempì di grida acutissime: Delitto!... Assassinio!... - ...Un ondeggiar di lumi nel buio, un risuonar di passi nelle lunghe gallerie. Stordito, disorientato dal terrore, mi ritrovai su una scala secondaria. Nel castello la luce, il trambusto, aumentavano di minuto in minuto, le terribili grida di - Assassinio... delitto! risuonavano sempre più vicine... Distinsi le voci del barone e di Rinaldo che parlavano concitatamente con i servi... Dove fuggire?... Dove nascondermi?... Ancora pochi istanti prima, quando volevo uccidere Eufemia con quello stesso coltello, ero convinto di poter uscire senza alcun timore perché, vedendomi l'arma insanguinata in mano, nessuno avrebbe osato sbarrarmi il passo... Ora invece ero in preda a un terrore mortale... Finalmente, finalmente ritrovai lo scalone... Il tumulto s'era spostato verso la camera della baronessa; intorno a me la situazione sembrava più tranquilla. In tre balzi poderosi fui in fondo alla scala, a due passi dal portone... Un urlo acutissimo, come quello udito la notte precedente, risuonò per gli atrii... «Èmorta, - dissi in cuor mio, uccisa dal veleno preparato per me». - Di nuovo una moltitudine di lumi, di gente urlante, si riversò dalle camere di Eufemia. Udii Aurelia chiamare disperatamente aiuto, poi di nuovo quelle terribili grida di - Delitto!... Assassinio!... Trasportavano il cadavere di Ermogene!... Sentii Rinaldo gridare: - Inseguite l'assassino! Scoppiando in una risata rabbiosa che riecheggiò per gli atrii e le scale, esclamai con voce tremenda: - Chi volete prendere, insensati?... Il destino che ha fatto giustizia di due peccatori?... - Gli inseguitori si fermarono come ammaliati sulla scala, rimasero in ascolto. Ora non volevo più fuggire; anzi, sarei andato loro incontro per annunziare con parole tonanti la vendetta divina caduta sugli empi. Ma... atroce vista!... Davanti a me... davanti a me era sorto il viso insanguinato di Vittorino... Non io, lui aveva pronunziato quelle parole! Con i capelli ritti mi precipitai fuori, pazzo di terrore, attraversai il parco, giunsi in aperta campagna. Udii uno scalpitio di cavalli alle mie spalle, feci un estremo sforzo per sfuggire all'inseguimento ma inciampai in una radice e caddi. In un attimo i cavalli mi furono addosso... Era il guardiacaccia di Vittorino!... - Per l'amor di Dio, signore, che cosa succede al castello?... - mi domandò subito. - Si grida «all'assassino!»... Tutto il villaggio è già in subbuglio... Bene; comunque sia andata, un'anima buona mi ha suggerito di far fagotto e venire qui con i cavalli dalla cittadina. Le cose sue sono tutte nella bisaccia del cavallo, illustrissimo... Momentaneamente dovremo separarci, perché credo sia accaduto un grosso guaio, non è vero?... Mi ripresi e, balzando in sella, raccomandai al cacciatore di ritornare nella cittadina e attendere là i miei ordini. Appena l'uomo scomparve nel buio, smontai di sella e condussi la cavalcatura sottomano, con precauzione, nella folta pineta che si stendeva davanti a me. Capitolo terzo - Le avventure di viaggio Quando i primi raggi del sole filtrarono attraverso l'oscura pineta io mi ritrovai presso un ruscello, scorrente fresco e chiaro su un fondo di ghiaiette levigate. Il cavallo, condotto faticosamente a mano nel folto del bosco, era là tranquillo accanto a me ed io, non avendo di meglio da fare, apersi la bisaccia legata alla sella e ne esaminai il contenuto. Mi vennero fra le mani alcuni capi di biancheria, di vestiario ed un borsellino ben pieno. Decisi di cambiarmi immediatamente d'abito. Servendomi d'una piccola forbice e d'un pettine trovati dentro un astuccio mi tagliai la barba e mi riassettai alla meno peggio i capelli; quindi gettai la tonaca contenente ancora il fatale coltello, il portafogli di Vittorino e la fiaschetta con quanto ancora avanzava dell'elisir del diavolo. Quando mi specchiai nel ruscello e mi vidi in abiti borghesi con un berretto da viaggio sulla testa, stentai a riconoscermi. Dopo breve cammino uscii dal bosco; i fumi in lontananza, la voce delle campane mi fecero supporre di trovarmi in prossimità d'un villaggio. Raggiunta la vetta dell'altura prospiciente, vidi infatti spalancarsi ai miei piedi una bella vallata in cui si adagiava un grosso villaggio. Presi la larga strada serpeggiante a tornanti e appena la discesa divenne meno ripida rimontai a cavallo per esercitarmi quanto più possibile nell'arte, a me del tutto ignota, dell'equitazione. La tonaca l'avevo nascosta nel cavo di un albero e con essa mi era parso d'aver sepolto nel bosco perfino il ricordo dei drammatici fatti accaduti al castello. Mi sentivo allegro e baldanzoso, come se il volto sanguinante di Vittorino fosse stato soltanto un prodotto della mia fantasia sovreccitata e le ultime parole gridate in faccia agli inseguitori mi fossero scaturite inconsapevolmente dall'animo, per svelare gli arcani disegni del caso che mi aveva condotto al castello e costretto a fare quanto avevo fatto. Ero capitato là come una incarnazione del destino onnipotente per punire i misfatti e costringere i peccatori all'espiazione, spingendoli nella fossa già pronta ad attenderli. Soltanto la soave figura di Aurelia era ancor viva in me, come sempre, e non potevo pensare a lei senza una stretta al cuore, che dico, senza provare un autentico, atroce dolore fisico. Eppure avevo la sensazione di doverla rivedere; chissà, forse in paesi lontani... Unita a me da un legame indissolubile, spinta verso di me da un impulso irresistibile, un giorno sarebbe stata mia!... Notai che la gente, incontrandomi, si fermava e si voltava a guardarmi stupefatta; e l'oste del villaggio rimase senza parola tanto stupore gli causò il mio aspetto. Mentre io facevo colazione e fuori foraggiavano il mio cavallo, parecchi contadini si radunarono nella trattoria lanciandomi timide occhiate e parlottando sottovoce tra loro. In breve mi vidi circondato e osservato a bocca aperta, con balordo stupore, da una vera e propria folla. Mi sforzai di rimanere tranquillo e disinvolto, chiamai forte l'oste, gli ordinai di farmi sellare e bardare il cavallo. L'oste, con un sorrisetto ambiguo, uscì, ma per rientrare quasi subito in compagnia d'un uomo lungo lungo, il quale avanzò verso di me con cupa aria ufficiale e comica gravità. Mi scrutò attentamente da capo a piedi; io mi alzai e feci altrettanto, andandogli vicinissimo. Ciò parve metterlo un tantino a disagio, perché si volse a guardare i contadini spaurito. Dunque, che c'è?... - esclamai. Pare che vogliate dirmi qualcosa -. Allora il severo personaggio si schiarì la gola e disse cercando di darsi un tono di grande importanza: - Signore, voi non ve ne andrete di qui prima di aver detto esattamente a noi, giudice del luogo, chi voi siate - nascita, dignità e rango - e donde veniate e dove abbiate intenzione di andare, specificando il luogo, il nome della provincia, della città, eccetera, eccetera. E prima di tutto dovrete mostrare a noi - al giudice - un passaporto, scritto, sottoscritto e suggellato a norma d'uso, di regolamento e di legge!... Non avevo mai pensato che mi fosse necessario assumere un qualsiasi nome e non m'era passato neppure per la mente che il mio aspetto curioso e un po'sconcertante (... il vestito borghese non voleva adattarsi al mio portamento fratesco e la barba me l'ero rasa malissimo...) mi ponesse ad ogni momento nell'imbarazzante situazione di dover render conto della mia identità. La domanda del giudice mi giunse così inattesa che invano provai ad escogitare una risposta soddisfacente. Decisi di sperimentare che cosa avrei ottenuto comportandomi sfrontatamente e dissi con voce ben ferma: - Chi io sia ho motivo di tacervelo. Inutile dunque chiedermi il passaporto. Però guardatevi bene dal trattenere anche per un solo istante con le vostre insulse formalità una persona del mio rango. - Oh oh! esclamò il giudice, traendo di tasca una grossa tabacchiera in cui, mentre egli aspirava la presa, immediatamente si tuffarono, servendosi abbondantemente, le cinque mani degli altrettanti assessori giudiziari. - Oh, oh... Non prendiamola così brusca, illustrissimo! L'eccellenza vostra dovrà compiacersi di rispondere a noi - al giudice - e di mostrarci il passaporto. Perché, per dirla chiara, da qualche tempo in qua le nostre montagne pullulano di figuri sospetti che di quando in quando fanno capolino dal bosco e poi subito spariscono come satanassi. Sono maledette canaglie, ladri, masnadieri, spiano i viaggiatori e combinano guai d'ogni sorta, uccidono, incendiano... E voi, signor mio illustrissimo, avete un aspetto piuttosto curioso... tale e quale il ritratto d'un grande ladrone e manigoldo emerito, mandato a noi, giudice, scritto e descritto in ogni dettaglio, dal preclaro governo del paese. Dunque bando ai complimenti e alle parole cerimoniose e fuori il passaporto. Altrimenti... in prigione! Compresi che, trattando in quel modo, con quell'uomo non c'era nulla da fare. Mi disposi perciò a sperimentare un tentativo d'altro genere. - Eminentissimo signor giudice, - dissi, - se mi concederete di parlarvi a quattr'occhi chiarirò ogni cosa. Confidando nella vostra saggezza vi rivelerò il segreto che mi costringe a vestire in questo strano modo. - Ah, ah!... Vogliamo rivelare segreti!... - disse il giudice. - Credo di capire dove andrete a parare... Bene. Voi, gente, uscite! Sorvegliate porte e finestre e non lasciate entrare né uscire nessuno! - Voi vedete in me un infelice, signor giudice, - incominciai a dire quando fummo soli, - riuscito, grazie all'aiuto di amici, a fuggire finalmente a un'ignominiosa prigionia, e al pericolo di venir rinchiuso per sempre in convento. La mia storia è tutta una trama di macchinazioni e perfidie ordita da una famiglia vendicativa. Permettetemi di raccontarvela. Causa delle mie sventure fu l'amore per una ragazza di basso ceto. Durante la lunga prigionia mi era cresciuta la barba e, come potrete vedere, mi avevano già perfino tonsurato e costretto a indossare una tonaca di frate. Dopo la fuga ho potuto cambiarmi d'abito soltanto qui vicino, nel bosco, altrimenti mi avrebbero raggiunto. Capisco benissimo che cosa ci sia di sconcertante nel mio aspetto per avervi così insospettito. Come vedete non sono in grado di mostrarvi alcun passaporto, ma, a dimostrare la verità di quanto affermo, dispongo di taluni argomenti che senza dubbio vi soddisferanno -. Così dicendo trassi la borsa di denaro e deposi sul tavolo tre ducati fiammanti. Un sorrisetto sornione attenuò la severa gravità del giudice. - I vostri argomenti, signor mio, rispose, sono indubbiamente abbastanza illuminanti; ma, non abbiatevela a male... a norma di regolamento sono ancora, in un certo qual senso, quantitativamente inadeguati per risultare convincenti... Se volete ch'io prenda il nero per bianco dovreste..., come dire... renderli più consistenti... - Compresi il briccone e aggiunsi un altro ducato. - Adesso vedo, - disse il giudice, - di avervi sospettato a torto. Proseguite pure il vostro viaggio ma, mi raccomando, battete i sentieri secondari - come penso siate abituato a fare - e tenetevi lontano dalle strade maestre fino a che non vi siate completamente sbarazzato di quei connotati... sospetti -. Quindi spalancò la porta e gridò alla folla radunata là fuori: Questo signore è un gentiluomo... una persona di qualità. Si è dato a conoscere a noi, giudice, in udienza segreta; viaggia in incognito... vale a dire, non desidera essere riconosciuto. E voi, pezzi di tangheri, non avete bisogno di saperne di più! Dunque, buon viaggio illustrissimo! - Quando montai in sella i contadini si tolsero i berretti in rispettoso silenzio. Volevo uscire dalla città a spron battuto ma il cavallo si impennò, e la mia assoluta imperizia nell'equitazione non mi suggerì alcun mezzo per rimuoverlo dal luogo su cui s'era impuntato. L'animale incominciò a girare in tondo e finì per scaraventarmi fra le braccia del giudice e dell'oste prontamente accorsi, suscitando le più matte risate dei contadini. - È un cattivo cavallo, - disse il giudice reprimendo le risa. - Già, un cattivo cavallo, ripetei spolverandomi l'abito. Mi aiutarono a risalire in sella ma l'animale di nuovo s'impennò, soffiando e sbruffando. Non ci fu modo di fargli varcare la porta. Allora un vecchio contadino gridò: - Ehi!... Guardate un po'là!... C'è la megera... la vecchia Lisa seduta davanti alla porta... Non lascia passare l'illustre signore perché non le ha dato neppure un centesimo -. Soltanto allora notai una vecchia mendicante cenciosa accoccolata proprio davanti alla porta: mi guardava sghignazzando, con occhi di folle. - Togliti immediatamente dai piedi, strega! - le ingiunse il giudice. - Il fratello di sangue non mi ha dato neppure un soldino, - gracidò la vecchia. Non vede il cadavere disteso davanti a me?... Non può scavalcarlo, il fratello di sangue! Il morto si drizzerebbe. Ma io lo spingerei giù e lo costringerei a rimanere disteso, se il fratello di sangue mi desse un soldino!... - Il giudice aveva preso il cavallo per le redini e, senza più badare alle grida insensate della vecchia, provò a condurlo oltre la porta. Ma non ci fu verso. E la vecchia intanto continuava a gridare: Fratello di sangue, dammi un soldino!... Un soldino, fratello!... Allora mi frugai in tasca e le gettai in grembo un po'di denaro. Ululando e gesticolando per la gioia, la vecchia balzò in piedi ed esclamò: - Guardate quanti bei soldini mi ha dato il fratello di sangue!... Quanti bei soldini... guardate!... - Con un sonoro nitrito e un'elegante piroetta, il cavallo, lasciato libero dal giudice, oltrepassò le mura. - Adesso cavalcate che è una meraviglia, proprio a regola d'arte! - disse il giudice: e i contadini che m'erano corsi dietro fin oltre la porta, al vedermi sobbalzare sulla sella, incapace di assecondare il trotto, scoppiarono di nuovo a ridere, gridando: Guardatelo... guardatelo!... Cavalca come un cappuccino!... L'incidente occorsomi al villaggio e, in special modo, le fatali parole della vecchia folle mi avevano scosso non poco. Le prime misure da prendersi mi parvero: cancellare alla prima occasione quanto vi era di poco rassicurante nel mio aspetto; e quindi darmi un nome con cui poter passare inosservato fra la gente. La vita mi stava dinanzi come un velario nero, impenetrabile: che cosa potevo fare, povero esiliato fuggiasco, se non abbandonarmi senza resistenza alle onde del fiume impetuoso che irresistibilmente mi trascinavano via?... Tutti i fili che mi legavano a certe condizioni di vita erano stati recisi; ed io non avevo più dove posare. La strada maestra diventava sempre più animata; tutto preannunziava la ricca, alacre città commerciale cui mi stavo avvicinando. Pochi giorni dopo, infatti, me la vidi davanti agli occhi. Senza che nessuno mi domandasse nulla, anzi, senza neppur venire osservato, mi inoltrai a cavallo nei quartieri periferici. Mi colpì un grandioso edificio con luccicanti finestre di cristallo e un leon d'oro, alato, appeso sopra la porta. Era un continuo entrare ed uscire di persone, un continuo fermarsi e ripartire di vetture. Dai locali a piano terreno sentii provenire risate e tintinnio di bicchieri. Appena mi fermai davanti all'ingresso un garzone affannato e zelante mi corse incontro, prese il cavallo per le briglie, mi aiutò a smontare e mi accompagnò dentro. Sopraggiunse un elegante domestico col suo tintinnante mazzo di chiavi e mi precedette su per la scala. Quando fummo al secondo piano mi lanciò un'occhiata di sfuggita e continuò a salire. Al piano superiore mi aperse una camera mediocre e mi chiese ossequiosamente se desiderassi ordinare qualcosa, perché si pranzava alle due nella sala numero dieci, a pian terreno, eccetera, eccetera. - Mi porti una bottiglia di vino! - ordinai; e queste furono le prime parole ch'io riuscissi ad inserire nelle ciarliere premure del servizievolissimo domestico. Appena rimasi solo qualcuno bussò, e dalla porta fece capolino un viso molto simile a una certa maschera comica che avevo visto una volta: naso rosso, appuntito, occhietti scintillanti, lungo mento, torreggiante toupet incipriato che sul cranio e sulla nuca (me ne accorsi in seguito), si risolveva inopinatamente in una pettinatura «alla Tito»; (3) abbondante jabot, panciotto rosso vivo, di sotto il quale ciondolavano due robuste catene di orologio, pantaloncini al ginocchio e, indosso, una marsina qui troppo larga, là troppo stretta, malcalzante dovunque, insomma. - Sono il parrucchiere della casa e vengo a offrirle i miei servizi, i miei impareggiabili servizi, - disse il curioso personaggio, completando la riverenza iniziata sulla porta ed entrando con cappello, forbici e pettine in mano. Quella figuretta secca e striminzita aveva un qualcosa di così comico che a stento riuscii a trattenermi dal ridere. Tuttavia l'omino giungeva a proposito e non esitai a domandargli se se la sentisse di riassettarmi la capigliatura sconvolta e arruffata dal lungo viaggio e, per giunta, da un taglio male eseguito. Egli mi esaminò la testa con critico occhio professionale e disse ponendosi graziosamente sul petto la mano destra spalancata: - Riassettare?... Oh Dio, Pietro Belcampo, chiamato irriguardosamente «Peter Schönfeld» (4) dagli sciocchi invidiosi, così come il divino pifferaio e cornista del reggimento Giacomo Punto (5) viene chiamato Jakob Stich... Pietro Belcampo, come sei misconosciuto!... Ma non sarai tu stesso a porre la fiaccola sotto il moggio, invece di farla risplendere al cospetto del mondo?... La forma di questa mano, la scintilla del genio che irradia dagli occhi e arrossa il naso, sfiorandolo, come una tenera aurora, la tua persona tutta, insomma, non dovrebbe rivelare al primo sguardo lo spirito che è in te?... L'anelito all'Ideale?... Riassettare?... Che gelida espressione, signor mio!... Pregai il bizzarro ometto di non scaldarsi tanto; perché davo piena fiducia alla sua abilità. - Abilità?... - ripeté quello infervorandosi. - Che cos'è l'abilità?... Chi può dirsi abile?... Forse colui il quale misurò ad occhio una distanza di cinque e spiccò un salto di trenta braccia, andando a cadere in un fosso?... O colui che riuscì a far passare una lenticchia attraverso la cruna d'un ago, scagliandola da venti passi?... O l'uomo il quale legato un peso di cinquecento libbre alla spada, la tenne in equilibrio sulla punta del naso per sei ore, sei minuti, sei secondi più un attimo?... Ah!... Che cos'è mai l'abilità?... Essa è ignota a Pietro Belcampo, compenetrato di Arte sacrosanta!... L'Arte, signor mio, l'Arte!... La mia fantasia vaga fra meravigliosi edifici di boccoli, fra artistiche strutture a spirali ondeggianti che il soffio di zefiro compone e distrugge... Là essa lavora, opera, crea... Ah!... C'è qualcosa di divino nell'Arte!... Perché l'Arte, signor mio, non è ciò di cui tanto si chiacchiera. No. Essa prende appena le mosse da ciò che usualmente si chiama arte. Lei mi comprende, signore... mi sembra di vederle una testa di pensatore: lo desumo dai riccioletti situati sul lato destro della sua pregevole fronte... Assicurai che lo capivo perfettamente; e poiché l'originalissima stramberia di quel piccoletto mi divertiva un mondo, decisi di valermi della sua arte famosa senza turbarne il patetico fervore. - Che cosa pensa di poter cavar fuori da questa chioma arruffata?... - gli domandai. - Tutto quello che vuole, - rispose lui. Ma se vuol dare un qualche peso al consiglio dell'artista Pietro Belcampo, mi permetta prima di osservare da vicino, da lontano, per lungo e per largo la sua preziosa testa, l'assieme della fisionomia, l'andatura, il gioco, le sfumature espressive del viso... Poi le dirò se lei propenda piuttosto al tipo antico o a quello romantico, all'eroico, al grandioso, al sublime, all'idillico, al sarcastico o all'umoristico... Evocherò i mani di Caracalla, Tito, Carlomagno, Enrico Iv, Gustavo Adolfo... di Virgilio, Tasso, Boccaccio... Ispirati da cotali spiriti, i muscoli delle mie dita entreranno in vibrazione, e sotto il sonoro ticchettio delle forbici nascerà il capolavoro... Sarò io, signore, a render vive e perfette le sue caratteristiche, così come esse devono risultare. Ma adesso, prego, passeggi un poco su e giù per la camera. Voglio osservare, notare, vedere... Prego! Mi fu giocoforza arrendermi a quel bel tipo bizzarro e incominciai a passeggiare su e giù per la camera com'egli voleva, sforzandomi di nascondere quel certo non so che di fratesco, impossibile a perdersi del tutto, anche avendo lasciato il convento da moltissimo tempo. Il piccolino mi osservò attentamente, poi prese a saltellarmi intorno sospirando, gemendo, tergendosi il sudore col fazzoletto. Finalmente si fermò. Gli chiesi se avesse deciso come trattare la mia capigliatura. - Ah, signor mio, che cos'è questo?... - sospirò lui. - Lei non si è abbandonato al suo atteggiamento naturale... C'era qualcosa di forzato nei movimenti... un conflitto fra due opposte nature... Ancora un paio di passi, signore!... - Rifiutai seccamente di continuare a dargli spettacolo, dichiarando che se non si fosse deciso - subito - a tagliarmi i capelli avrei dovuto rinunziare a valermi della sua arte. - Seppellisciti, Pietro! - esclamò il piccolino con enfasi. - Tu sei misconosciuto in questo mondo, dove la lealtà, la sincerità non si trovano più. Ma lei dovrà suo malgrado ammirare in me la capacità di veder nel fondo delle cose, sì, il genio, signore. Inutilmente e a lungo ho cercato di armonizzare gli elementi contraddittori rilevabili nella sua personalità, nelle sue movenze... C'è nella sua andatura un qualcosa che mi ricorda l'uomo di chiesa... Ex profundis clamavi ad te Domine - Oremus - Et in omnia saecula saeculorum, amen!... - Il piccolo messere cantò queste parole con voce roca e chioccia, imitando alla perfezione le mosse, gli atteggiamenti dei monaci. Si volse, come se fosse davanti all'altare, si inginocchiò, si rialzò. Infine assunse un'espressione orgogliosa e caparbia, corrugò la fronte, spalancò gli occhi e disse: Il mondo è mio!... Io sono più ricco, più saggio, più intelligente di tutti voi, razza di talpe. Prostratevi davanti a me!... Ecco, signore: questi sono gli ingredienti principali del suo aspetto esteriore... Se lo desiderasse, potrei fondere insieme un po'di Caracalla, di Abelardo, di Boccaccio, gettare il miscuglio incandescente nello stampo, creare la forma e iniziare una stupenda architettura anticoromantica di riccioli e riccioletti eterei. C'era tanto di vero nelle osservazioni di quel piccolino, che giudicai opportuno ammettere d'essere stato effettivamente un religioso; mi avevano già imposto la tonsura ed ora desideravo nasconderla il più possibile. Accompagnandosi con salti, smorfie, discorsi strampalati e bizzarri, il piccolino si accinse ad acconciarmi la chioma: ora si incupiva imbronciato, ora sorrideva, ora assumeva atteggiamenti di atleta, si sollevava sulla punta dei piedi. Insomma, mi fu molto difficile non ridere ancor più di quanto già non facessi involontariamente. Quando finalmente finì, togliendogli la parola di bocca, lo pregai di mandarmi su qualcuno a riassettarmi la barba irsuta com'egli aveva fatto con i capelli; allora egli trotterellò senza far rumore fino al centro della camera e disse: - Aurea età quella in cui barba e capigliatura si confondevano in un unico trionfo di boccoli per l'ornamento dell'uomo, ed erano cura d'un solo artista! Ma, ahimè, quel tempo è passato... L'uomo ha ripudiato il proprio ornamento più bello ed è sorta un'indegna categoria di specializzati nel recider le barbe fino alla pelle con orrendi strumenti. O insulsi, vili raschiatori e acconciatori di barbe! Affilate pure le vostre lame su nere corregge unte d'olio maleodorante, a spregio dell'arte... sventolate le borse guarnite di nappi e fronzoli, sbattacchiate le catinelle fragorose come timbali, fate schiumeggiare il sapone lanciando intorno pericolosi spruzzi d'acqua bollente, domandate con criminale faccia tosta ai vostri pazienti se preferiscano farsi radere sul pollice o sul cucchiaio!.... (6) Esiste ancora un qualche Pietro capace di far concorrenza alla vostra infame consorteria abbassandosi all'ignominioso lavoro di sterminar barbe, ma cercando tuttavia di salvare ciò che l'onde del tempo non possono travolgere... Che cosa sono infatti le fedine, nelle loro mille e mille varietà?... Fedine a curve, a graziose spirali, morbidamente disegnate sulla linea del morbido ovale, o tristemente cadenti sulle cavità del collo, oppure prominenti, aggressive, sugli angoli della bocca... Fedine che si restringono con modestia in una striscia sottile, oppure si allargano in un vistoso ciuffo di riccioli... Che cosa sono, dico, le fedine, se non un'invenzione dell'arte nostra in cui trova libero campo la suprema aspirazione alle cose più sante e più belle?... Ah, Pietro! Mostra quale spirito si celi in te e che cosa tu non sia capace di fare, abbassandoti all'odioso mestiere di barbitonsore!... - Così dicendo, il piccoletto tirò fuori una completa attrezzatura di barbiere ed incominciò a liberarmi della barba con abilità e leggerezza di tocco. Effettivamente gli uscii di sotto le mani trasformato: mi mancava soltanto più un vestito che desse meno nell'occhio per evitare il pericolo di attrarre su di me l'attenzione della gente. Il minuscolo barbitonsore si fermò a contemplarmi sorridendo, con intima soddisfazione. La città mi era del tutto sconosciuta, gli dissi, e avrei gradito potermi vestire secondo la moda e le usanze locali. Per il suo disturbo - e per invogliarlo a farmi da commissioniere - gli misi in mano un ducato. Egli adocchiò la moneta posata sul palmo, illuminandosi tutto: - Benefattore e Mecenate illustrissimo, - disse, non mi ero ingannato sul conto suo! Lo spirito mi ha guidato la mano: nel volo d'aquila dei favoriti ho espresso con assoluta purezza il suo alto sentire. Ho un amico, un Damone, un Oreste, il quale compirà sul suo corpo, con altrettanta profondità d'intuito, con altrettanta genialità, l'opera da me iniziata sulla sua chioma. Come avrà indovinato, signore, alludo ad un artista del costume (... lo chiamo così per non usare la banale espressione di «sarto»...) Egli si perde volentieri nel mondo ideale: creando forme e figure con la fantasia, ha fondato un magazzino dei più disparati indumenti di vestiario; Lei vi potrà vedere l'uomo elegante moderno, in tutte le possibili «nuances» in cui ama mostrarsi: ora arrogante, ardito, tanto da oscurare tutti attorno a sé, ora cogitabondo, svagato, ora ingenuamente frivolo - ironico, faceto, imbronciato, malinconico, bizzarro, sfrenato, leggiadro, goliardico... Vedrà il giovinetto che per la prima volta si è fatto fare un abito nuovo senza i consigli inibitori della mamma o del precettore, il quarantenne, costretto a incipriarsi i capelli per mascherar la canizie, il vecchio gaudente, l'uomo di scienza, come si presenta in società... Tutto è appeso ed esposto nella bottega del mio Damone; e fra pochi istanti tali capolavori le verranno sciorinati davanti agli occhi -. Corse via saltellando e riapparve poco dopo insieme a un omone grande e grosso, decorosamente vestito, il quale, per figura e carattere, costituiva la più perfetta antitesi del piccoletto. Damone mi misurò con gli occhi e cercò quindi egli stesso, nel pacco portatogli da un garzoncello, alcuni capi di vestiario perfettamente rispondenti ai miei desideri. Soltanto in seguito potei apprezzare la finezza di tatto di quell'«artista del costume» (come, con preziosa espressione, lo aveva definito il piccolino...), il quale aveva orientato la propria scelta al criterio di non farmi assolutamente notare; dovevo passare inosservato e, se osservato, incutere rispetto ma senza suscitare alcuna curiosità relativa alla mia condizione, al mio mestiere ecc., ecc.. Effettivamente è molto difficile vestire in modo che il carattere generale dell'abito non suggerisca congetture circa la professione di chi l'indossa, anzi, a nessuno venga in mente di tentare supposizioni del genere. L'abito del cosmopolita è caratterizzato soprattutto dai propri elementi negativi; press'a poco come il cosiddetto «modo di comportarsi delle persone educate», per le quali è più importante conoscere ciò che non si deve di ciò che «si deve» fare. Il piccolino si diffuse ancora in ogni sorta di sproloqui strampalati e grotteschi; e siccome forse pochi altri ascoltatori gli avevano mai prestato così benevolo ascolto come il sottoscritto, sembrava arcisoddisfatto di potersi finalmente mettere in piena luce. Damone, persona seria e - a quanto mi parve - intelligente, gli troncò il discorso all'improvviso e disse, prendendolo per le spalle: Schönfeld, oggi sei di nuovo molto in vena di dir sciocchezze. Scommetto che, a furia di ascoltare le tue frottole, al signore dolgono già le orecchie -. Belcampo chinò mestamente il capo e si avviò alla porta declamando: - Ecco, perfino il mio migliore amico mi copre d'infamia! - Che razza di scombinato originale, quel Schönfeld! mi disse Damone congedandosi. - Il troppo leggere gli ha dato alla testa. Ma a parte questo è un buon uomo, espertissimo nel suo mestiere. Perciò mi è simpatico... Quando si è capaci di fare molto bene almeno una cosa, qualche volta ci si può anche permettere di passare un po'i limiti... - Rimasto solo, incominciai ad esercitarmi sistematicamente a camminare davanti alla grande specchiera. Il piccolo barbitonsore mi aveva dato un avvertimento giustissimo. È caratteristica dei monaci una certa qual rapidità di andatura, pesante e maldestra insieme, causata dalla lunga tonaca che inceppa il passo e dallo sforzo di muoversi velocemente come esige il culto. Altra caratteristica che difficilmente sfugge all'attenzione, il corpo leggermente ripiegato indietro e il portamento delle braccia non mai penzoloni: perché il monaco, quando non le tiene giunte, le infila nelle ampie maniche del saio. Cercai dunque di disabituarmi a questi malvezzi per cancellare ogni traccia del mio antico stato. Un solo pensiero mi dava conforto: consideravo l'intera mia vita come già vissuta, vorrei dire come un fatto ormai superato e sentivo di star iniziando una nuova esistenza; una forza spirituale sembrava animare il nuovo personaggio e questo prendere il sopravvento facendo impallidire, anzi, cancellando addirittura perfino il ricordo della precedente esistenza. L'intenso via vai di persone, l'incessante fragore del traffico nelle strade, tutto era nuovo per me e sembrava fatto apposta per mantenermi nella vena di allegria in cui mi aveva messo il piccolo barbiere. Indossato il decoroso abito nuovo mi feci coraggio e scesi a sedere all'affollata tavola dell'albergo. Ogni timore svanì quando constatai che nessuno mi osservava e neppure il mio vicino di tavola si prendeva la pena di alzar gli occhi su di me mentre mi sedevo. Memore della mia liberazione avvenuta grazie al priore, nell'elenco dei forestieri mi ero firmato «Leonardo», qualificandomi un privato qualsiasi in viaggio di piacere. Viaggiatori come me dovevano essercene a bizzeffe in città, perciò non offersi alcun motivo di imbarazzanti interrogazioni. Provavo un piacere particolarissimo nell'andarmene a zonzo per le vie, mi divertivo un mondo a guardare gli eleganti negozi, le insegne dipinte o incise su rame. Di sera frequentavo le pubbliche passeggiate; ma sentirmi così sperduto fra tanto movimento di gente mi riempiva di amarezza. Non essere conosciuto da nessuno, non leggere negli sguardi di nessuno il più vago interrogativo sul conto mio - chi fossi, quale strano gioco del caso mi avesse trascinato colà, che cosa celassi in me -, quantunque, date le circostanze, mi convenisse, mi faceva rabbrividire di terrore. Mi sentivo come un'anima in pena vagante sulla terra fra cose un tempo amate e piacevoli ed ora morte per sempre. Se poi ricordavo con quanta cordialità, quanto rispetto mi salutavano i passanti quand'ero il celebre predicatore e con quale trepidazione speravano ch'io rivolgessi loro qualche parola, allora una tristezza amarissima m'invadeva. Ma quel predicatore era frate Medardo, morto e sepolto in fondo a un precipizio, fra i monti. - Non ero io: perché io vivevo - anzi, soltanto allora ero nato a nuova vita, una vita generosa di gioie, di piaceri. Così pure quando sognavo i fatti accaduti al castello, mi pareva fossero accaduti ad un altro, non a me. Soltanto il pensiero di Aurelia mi riallacciava in qualche modo alla mia primitiva esistenza. Ma il più delle volte un dolore acerbo, implacabile spegneva sul nascere ogni piacere, e allora all'improvviso mi sentivo strappar via da quei variopinti ambienti ove la vita mi riafferrava sempre più. Frequentavo molto i locali pubblici dove si giocava e beveva, ma soprattutto mi ero affezionato a un albergo in cui, per amore del buon vino, ogni sera si radunava una numerosa compagnia. Ad un certo tavolo, in una saletta laterale, sedevano sempre le stesse persone; la loro conversazione era vivace, spiritosa; avevano costituito un circolo chiuso, ma io riuscii ugualmente ad avvicinarle, dapprima restandomene zitto e quieto a bere il mio vino in un angolo della saletta e finalmente fornendo loro un'interessante notizia letteraria ch'essi inutilmente andavano cercando. Venni perciò invitato al loro tavolo; e, grazie al sempre più ricco corredo di nozioni acquisite approfondendo vari rami della scienza a me fino allora ignoti, quel posto mi venne conservato molto volentieri. Conoscere quelle persone mi fece bene; abituandomi sempre meglio alla vita mondana, diventavo ogni giorno più spigliato ed allegro. Avevo ormai smussato quasi tutti gli spigoli residui della mia precedente esistenza. Nella compagnia che frequentavo si parlava molto da parecchie sere d'un certo pittore straniero venuto ad aprire un'esposizione di quadri nella nostra città. Tutti, all'infuori di me, l'avevano visitata, e lodavano talmente l'eccellenza di quelle opere che finalmente mi decisi ad andarci anch'io. Quando entrai nella sala il pittore non c'era; un vecchio faceva da cicerone, nominando gli autori dei quadri esposti dal pittore, insieme ai propri. Erano pezzi meravigliosi, per lo più opere originali di celebri maestri. Ne rimasi incantato. Dinanzi ad alcuni dipinti definiti dal vecchio «copie piuttosto sommarie di certi grandi affreschi», mi baluginarono nella memoria sopite reminiscenze della lontana fanciullezza... ma poi divennero ricordi, sempre più vivi e coloriti. Quelle copie provenivano evidentemente dal Sacro Tiglio... Nel san Giuseppe d'una Sacra Famiglia riconobbi il viso del pellegrino sconosciuto che aveva condotto il bimbo prodigioso; guardandolo, una profonda malinconia mi invase. Ma non potei reprimere un'esclamazione di stupore quando, in un ritratto a grandezza naturale, riconobbi la mia madre adottiva... Era un ritratto stupendo, rassomigliante nel più eletto significato del termine, così come avrebbe potuto dipingerlo un Van Dyck... La principessa vi appariva vestita come quando doveva partecipare alla processione delle suore, nel giorno di san Bernardo. Il pittore l'aveva colta nel momento in cui, terminata la preghiera, si accingeva ad uscire dalla propria camera per dare inizio alla processione, mentre il popolo attendeva impaziente radunato nella chiesa, aperta, in prospettiva, sullo sfondo. Nello sguardo di quella donna straordinaria c'era, perfetta, l'espressione d'uno spirito rivolto al cielo... Ahimè!... Essa pareva implorare misericordia per il protervo peccatore strappatosi via con violenza al suo cuore materno. E quel peccatore ero io!... Sentimenti da lungo tempo sopiti si ridestarono in me, una indicibile nostalgia del passato mi riafferrò... Mi rivedevo insieme al buon parroco del villaggio vicino al convento delle cistercensi, rivedevo il ragazzino vivace, ingenuo, allegro, trepidante di gioia perché era il giorno di san Bernardo... Rivedevo lei!... - Sei stato davvero buono, e devoto, Francesco?... - mi domandava con voce velata dall'affetto... Com'era tenera e armoniosa quella voce!... Ah!... Che cosa avrei potuto risponderle?... Avevo accumulato misfatti su misfatti... all'infrazione dei voti era seguito il delitto!... Straziato dal dolore e dal rimorso mi sentii quasi venir meno, e caddi in ginocchio con gli occhi pieni di lacrime. Il vecchio accorse spaventato: - Che cos'ha?... Che cosa le succede, signore?... - mi domandò con affanno. - Il ritratto della badessa rassomiglia in modo impressionante a mia madre, morta di morte crudele, - risposi con voce spenta rialzandomi e cercando di riprendere il controllo di me. - Venga, signore, - disse il vecchio. - Sono ricordi troppo penosi. Bisogna evitarli. C'è qui un altro ritratto che il mio padrone giudica il suo migliore. Lo ha dipinto dal vero e terminato da poco. Lo abbiamo coperto perché il sole non rovini i colori non ancora completamente asciutti -. Il vecchio mi situò nella luce migliore e in fretta tirò via il telo di copertura. Era Aurelia! Fui colto da un tale terrore che feci fatica a dominarmi. Sentii la vicinanza del Nemico... la sua volontà di risospingermi nel vortice cui ero appena sfuggito e di annientarmi. E di nuovo ritrovai il coraggio di ribellarmi al mostro fasciato di tenebra misteriosa, imperversante su di me. I tratti affascinanti di Aurelia balzavano fuori radiosi da quel vivissimo dipinto, ed io li divoravo con gli occhi... Il mite sguardo infantile della buona fanciulla pareva accusare l'efferato assassino del fratello. Ma l'aculeo velenoso della perfidia, del dileggio, nascenti in me, spegneva ogni sentimento di rimorso, mi risospingeva fuori di quell'aura amorevole. Un pensiero solo mi torturava: che quella notte fatale Aurelia non fosse stata mia. La comparsa di Ermogene aveva sventato l'impresa. Ermogene aveva pagato con la vita!... Ma Aurelia era ancora viva, e tanto bastava ad alimentare la speranza di possederla!... Sì, certamente sarebbe stata mia, non avrebbe potuto sfuggire al destino. E il destino non ero io stesso?... Così, contemplando il quadro, mi incitavo al delitto. Il vecchio pareva stupito e continuava a blaterare di «disegno», «tonalità», «colorito», ecc.... Ma io non lo udivo. Ero talmente assorto nel pensiero di Aurelia, nella speranza di poter ancora compiere l'infamia differita, che me ne andai via in fretta senza neppure domandare del pittore straniero e - forse venir a sapere che cosa si celasse sotto quei quadri che parevano un intero ciclo di allusioni alla mia vita trascorsa. Per avere Aurelia ero deciso a osare qualsiasi cosa; mi sentivo tanto al disopra della mia vita e delle sue vicissitudini da poter vedere tutto come in trasparenza, dall'alto... Dunque non avevo nulla da «osare» né da temere!... Rimuginavo ogni sorta di progetti e di disegni per avvicinarmi al mio obiettivo, sperando soprattutto di venir a sapere qualcosa per mezzo del pittore straniero; volevo indagare ancora su talune circostanze a me ignote e probabilmente assai utili alla preparazione del mio piano. Avevo in mente niente meno che di ritornare al castello nel nuovo travestimento, e tale impresa non mi sembrava neppure tanto azzardata. Quella sera mi ritrovai con i soliti amici e mi costò non poca fatica metter freno alla mia sempre crescente eccitazione e al lavorio della fantasia esaltata. Si parlò molto dei quadri del pittore straniero e specialmente della rara espressività dei suoi ritratti. Mi fu possibile associarmi a quel coro di lodi magnificando l'indicibile incanto dell'angelico viso di Aurelia; mi espressi in termini molto brillanti, ma il brio del mio discorso era soltanto un riflesso della beffarda ironia che mi divorava come un fuoco implacabile. Uno dei presenti disse che la sera seguente avrebbe condotto il pittore: era un artista meraviglioso e un uomo molto interessante, anche se già piuttosto avanti negli anni; e doveva trattenersi ancora per qualche tempo in città per ultimare alcuni ritratti. Turbato da sensazioni e presentimenti strani, la sera dopo ritornai al convegno più tardi del solito. Lo straniero sedeva al tavolo volgendomi le spalle. Quando sedetti anch'io e lo guardai mi vidi dinnanzi il terrificante viso dello sconosciuto che il giorno di Sant'Antonio, appoggiato al pilastro della chiesa, mi aveva riempito d'angoscia e di orrore. Egli mi guardò a lungo, con severità; ma lo stato d'animo in cui mi trovavo da quando avevo visto il ritratto di Aurelia mi diede il coraggio e la forza di sopportarne lo sguardo. Il nemico aveva finalmente preso forma visibile: ora si trattava di ingaggiare con lui una lotta per la vita e per la morte. Decisi di attendere l'attacco e di respingerlo con armi sulla cui efficacia potevo contare. Lo straniero non parve far gran caso di me; distolse subito lo sguardo e riprese la conversazione interrotta. Si venne a parlare dei suoi quadri; e tutti lodarono specialmente il ritratto di Aurelia. Qualcuno osservò che quell'opera, benché a prima vista si presentasse come un ritratto, sarebbe potuta servire come studio per l'immagine d'una santa. Poiché io avevo illustrato così egregiamente il quadro e tutti i suoi pregi, mi chiesero il mio parere. Risposi quasi senza pensarci che non riuscivo a immaginare santa Rosalia con un viso diverso da quello della sconosciuta del ritratto. Il pittore parve quasi non rilevare le mie parole e subito soggiunse: - Sì, infatti, quella donna è una santa che ha dovuto lottare per innalzarsi alle cose celesti. L'ho copiata fedelmente mentre una pena tremenda la torturava; e ciò nonostante era piena di speranza nel conforto della religione e nell'aiuto della divina provvidenza; ho appunto cercato di rendere l'espressione di tale speranza: un sentimento concesso soltanto agli spiriti capaci di elevarsi molto al disopra delle cose terrene... A questo punto si cambiò discorso. Il buon vino bevuto con maggiore abbondanza del solito in onore del pittore straniero, incominciò a rallegrare gli umori. Riuscii a raccontare qualcosa di divertente; lo straniero rideva soltanto con gli occhi ma di quando in quando interveniva con qualche breve sortita bene azzeccata, mantenendo vivace il tono della conversazione. Quando mi fissava non potevo reprimere una segreta sensazione di smarrimento e d'inquietudine, ma il terrore che mi aveva colto nel vederlo ero riuscito a dominarlo. Parlai di Belcampo, ben noto a tutti, e ne imitai, con grande successo gli spassosissimi vezzi. Un mercante grasso e gioviale seduto di fronte a me mi assicurò, ridendo fino alle lacrime, di non aver mai più trascorso, da molto tempo, una serata così divertente. Quando le risate incominciarono a calmarsi, il pittore domandò di punto in bianco: - Non avete mai visto il diavolo, signori?... - Tutti credettero che quella domanda preludesse a una nuova facezia, e risposero in coro di non aver mai avuto un simile onore. - Poco c'è mancato che quell'onore non l'avessi io, - proseguì lo straniero, e precisamente nel castello del barone F., su in montagna -. Io trasalii, ma gli altri lo incoraggiarono ridendo: - E poi?... E poi?... - Se per venire in questa città sono passati attraverso le montagne, - riprese il pittore, loro tutti probabilmente conosceranno la località selvaggia, spaventosa che si incontra uscendo dal folto della pineta: quelle altissime masse rocciose sotto cui si spalanca una nera e profonda voragine. È il cosiddetto «abisso del diavolo», su cui sporge lo sperone di roccia chiamato «il trono del diavolo». Si dice che il conte Vittorino vi si sia seduto sopra con la mente piena di cattivi propositi e all'improvviso il diavolo lo abbia fatto precipitare nell'abisso, avendo intenzione di compiere egli stesso la gradevole impresa progettata dallo sciagurato conte. Il diavolo comparve quindi nel castello del barone travestito da cappuccino e, dopo aver preso piacere con la baronessa, la spedì all'inferno. Il figlio del barone, il povero pazzo che non voleva tollerare il suo incognito e andava proclamando ad alta voce: «Quel frate è il diavolo!... È il diavolo!», venne bellamente sgozzato dal diavolofrate medesimo; in tal modo un'anima buona fu salvata dalla perdizione e sottratta ai perfidi raggiri del Maligno. Dopodiché, il cappuccino incomprensibilmente disparve: fuggito - si disse davanti a Vittorino, risorto sanguinante dalla tomba. Comunque sia, posso garantire che la baronessa morì di veleno, Ermogene venne proditoriamente assassinato, il barone poco dopo morì di dolore e Aurelia - la santa fanciulla che io ritrassi nel castello, all'epoca della spaventosa tragedia - fuggì, orfana e sola, in terra straniera e andò a rifugiarsi in un convento di suore cistercensi, la cui badessa era stata amica di suo padre. Loro hanno visto nella mia galleria il ritratto di quella straordinaria fanciulla. Ma questo signore (e fece cenno a me...), potrà raccontarci assai meglio e più dettagliatamente come siano andate le cose, perché durante i fatti si trovava al castello. Tutti gli sguardi si appuntarono su di me, pieni di stupore. Balzai in piedi indignato: - Ma come, signore! - protestai con voce vibrata: - Che c'entro io con le sue stupide diavolerie?... Con le sue cronache criminali?... Lei mi prende per un altro... mi prende per un altro, le dico!... La prego di lasciarmi fuori da questa faccenda!... - Lo sconvolgimento interiore mi rese piuttosto difficile dare una sia pur tenue patina di indifferenza alle mie parole. L'effetto dell'oscura allusione del pittore, la mia viva inquietudine erano già stati anche troppo evidenti. Il buon umore generale svanì. Gli amici ricordarono come mi fossi inserito poco a poco nella loro compagnia essendo, di fatto, del tutto sconosciuto; e incominciarono a guardarmi con occhi pieni di diffidenza e di sospetto. Anche il pittore straniero si era alzato e mi trapassava con lo sguardo di quei suoi occhi immobili, di morto resuscitato, come aveva fatto nella chiesa dei cappuccini; pareva impietrito, senza vita... Ma la sua figura spettrale mi faceva rizzare i capelli sulla testa... Avevo la fronte madida di sudore freddo e tremavo, terrorizzato, in tutte le fibre. - Vattene!... - urlai fuori di me. - Sei tu Satana... sei tu il criminale assassino!... Ma su di me non hai alcun potere!... Tutti balzarono in piedi: - Che succede?... Che significa?... - sentii gridare confusamente da ogni parte. I giocatori, spaventati dal tono terrificante della mia voce, irruppero tutti insieme dalla sala vicina. - È ubriaco... È pazzo... Portatelo via!... - esclamarono molti avventori. Ma il pittore straniero era sempre là, davanti a me, e continuava a fissarmi. Pazzo di furore e di disperazione, trassi il coltello con cui avevo ucciso Ermogene (... lo portavo sempre con me), e mi avventai contro il pittore il quale mi stese a terra con un pugno. La sua risata di scherno risuonò agghiacciante nella camera: - Frate Medardo, frate Medardo, tu stai barando... Và, e disperati nel rimorso e nell'onta! Mi sentii afferrare da non so quante mani ma mi svincolai e, lanciandomi come un toro infuriato contro la folla degli avventori - molti dei quali ruzzolarono a terra - mi apersi un varco e mi precipitai fuori. Mentre correvo lungo il corridoio, una porticina laterale si aprì e qualcuno mi trascinò in una camera buia. Non opposi resistenza perché avevo gli inseguitori alle calcagna. Quando la schiera di costoro fu passata oltre, lo sconosciuto mi fece scendere in cortile per una scaletta secondaria, e quindi in strada, dall'uscita posteriore del caseggiato. Qui, alla luce di un lampione, riconobbi nel mio salvatore il buffo Belcampo. - A quanto pare, - mi disse costui, vossignoria ha avuto uno spiacevole incidente col pittore straniero. Stavo bevendo un bicchieretto nella sala attigua quando è scoppiato il pandemonio. Conoscendo l'ubicazione della casa, ho deciso di salvarla; perché la colpa dell'infortunio è stata esclusivamente mia. - Com'è possibile? - domandai stupito. Chi può comandare all'ispirazione del momento?... Opporsi ai suggerimenti dello spirito supremo?... - proseguì il piccolino, con enfasi. - Mentre le acconciavo i capelli, illustrissimo, mi balenarono in mente - comme à l'ordinaire - le idee più sublimi. Mi abbandonai all'impulso travolgente dell'estro, scordando non soltanto di metterle in piega il ricciolo della collera sul cocuzzolo della testa, ma anche di tagliarle i ventisette capelli della orripilazione, sulla fronte... Sotto lo sguardo fisso del pittore (... il quale è un «revenant», né più né meno...), questi capelli si inclinarono con un cigolio verso il ricciolo della collera che, di scatto, si scompigliò sibilando, scoppiettando... Io ho visto tutto. Allora, accecato dal furore, lei, illustrissimo, ha tratto un coltello già intriso d'altro sangue... Ma sarebbe stata fatica vana spedire nell'Orco un uomo già appartenente all'Orco. Perché quel pittore dev'essere Asvero, l'Ebreo Errante, o Bertram de Bornis,(7) o Mefistofele, o Benvenuto Cellini, o san Pietro... un revenant, insomma. E lo si può esorcizzare unicamente ritorcendo su un ferro ben caldo l'idea in cui egli consiste; oppure arricciando con pettini elettrici i pensieri ch'egli deve assorbire per nutrir quell'idea. Come vede, illustrissimo, per un artista e fantasista di professione come me, simili bazzecole sono «pomata» (8) ... Questo modo di dire, tratto dal gergo del nostro mestiere, è molto più importante di quanto non si creda - sempreché la pomata in questione contenga olio di garofano genuino... La strampalata tiritera del piccolo messere il quale, così cianciando, correva insieme a me per le strade, mi suonava, in quel momento, quasi sinistra; e se di tanto in tanto mi voltavo ad osservare i salti buffoneschi, il comico viso del nanerottolo scoppiavo a ridere forte, d'un riso convulso. Finalmente giungemmo nella mia camera. Belcampo mi aiutò a far bagagli e in breve tutto fu pronto per il viaggio. Premetti in mano al piccolino parecchi ducati, ed egli si mise a saltar per la gioia gridando: - Evviva!... Finalmente ho un po'di onorato denaro... oro zecchino... oro sonante... intriso di sangue del cuore, iridato di raggi rossastri... Questa vuol essere soltanto una battuta, signore... una battuta faceta, ma niente di più. Conclusa la sua esclamazione con questa frase suggeritagli, credo, dal mio evidente turbamento, Belcampo mi chiese di dare la debita piega al ricciolo della collera, di accorciarmi i capelli dell'«orripilazione» e... di prendersi per ricordo un riccioletto dell'amore. Lo lasciai fare, ed egli eseguì il tutto con mossette ed atteggiamenti farseschi. Infine impugnò il coltello che, nel cambiarmi d'abito, avevo deposto sul tavolo, assunse una posa di schermitore e incominciò a sciabolar l'aria gridando: - Io lo uccido, il Nemico!... E poiché il Nemico è un'idea allo stato puro deve venire ucciso da un'altra idea - la mia che io accompagno, per accrescere l'espressione, con opportuni movimenti del corpo... Apage Satanas... apage, apage... Ashverus, allez- vous- en!... Ecco, è fatta, concluse deponendo il coltello, e ansimando, e tergendosi il sudore, come se si fosse strapazzato per compiere un pesante lavoro. Volli nascondere in fretta il coltello e me lo infilai nella manica come se indossassi ancora la tonaca da frate; egli notò il mio gesto e sorrise malizioso. In quel momento il corno del postiglione squillò davanti alla porta di casa. Belcampo mutò improvvisamente d'atteggiamento e di tono, tirò fuori un fazzolettino, finse di asciugarsi le lacrime, si inchinò ossequiosamente un'infinità di volte, mi baciò la mano e la falda dell'abito implorando: - Due messe per la mia nonna, morta d'indigestione - quattro per mio padre, morto di digiuno involontario, reverendo... E per me, quando sarò morto, una messa ogni settimana. Per intanto, assolvetemi dai miei innumerevoli peccati... Ah, reverendo! In me si cela un infame briccone peccatore, e dice: «Peter Schönfeld, non fare il somaro!... Non credere di esser te stesso, perché lo sono io... Mi chiamo Belcampo, sono un'Idea geniale, e se non lo credi io ti metto a terra con un pensiero sottile come un capello». Quest'uomo diabolico, detto Belcampo, reverendo, ha tutti i vizi possibili - fra l'altro, dubita spesso della realtà, si ubriaca spessissimo, si altera e fornica con certi bei pensierini verginali... Questo Belcampo mi ha completamente confuso e disorientato, sicché io, Peter Schönfeld spesso saltello in modo sconveniente e deturpo il colore dell'innocenza perché, calzato di seta bianca e cantando «in dulci jubilo», vado a sedermi nella m... Chiedo perdono per entrambi: per Pietro Belcampo e per Peter Schönfeld! La ciarlataneria di quell'individuo mi infastidì: - Ma sia serio, una buona volta! - gli gridai. Entrò il cameriere a prendere il mio bagaglio. Belcampo, subito di nuovo allegro, balzò in piedi e, senza smetter di chiacchierare, lo aiutò a portarmi quanto ancora andavo chiedendo, nella fretta. - Quel tipo è un cialtrone fatto e finito, non bisogna dargli troppa confidenza, - mi disse il cameriere chiudendo lo sportello della vettura. Lanciai a Belcampo un'occhiata significativa, ponendomi un dito sulle labbra ed egli mi gridò sventolando il cappello: - Fino all'estremo respiro, illustrissimo!... Quando incominciò ad albeggiare, la città era ormai molto lontana dietro le mie spalle e la terrificante figura dell'uomo che mi ossessionava come un mistero insondabile s'era dileguata. L'invariabile domanda del mastro di posta - Per dove, signore? - mi ricordava ogni volta implacabilmente come io stessi andando ramingo per il mondo sulle onde fluttuanti del caso, senza più alcun legame con la vita civile. Ma non era stata forse una potenza irresistibile a strapparmi via di forza da tutto ciò che mi era caro, affinché lo spirito disceso in me potesse allargare le ali e librarsi, libero, in volo?... E intanto continuavo a percorrere quelle meravigliose contrade senza trovar requie in nessun luogo, sospinto via, lontano, sempre più lontano, verso il meridione. Senza quasi rendermene conto, non mi ero scostato di molto dall'itinerario tracciato da Leonardo; e così, la spinta che mi aveva proiettato nel mondo continuava, come per virtù di magia, a farmi procedere nella giusta direzione. Durante una notte scura e nuvolosa, attraversai un foltissimo bosco che si estendeva fino alla prossima stazione, il mastro di posta me ne aveva avvertito, consigliandomi di attendere fino alla mattina seguente; ma io, impaziente di raggiungere al più presto una meta a me stesso ignota, m'ero rifiutato di dargli retta. Già al momento della partenza lampeggiava in lontananza; ma ben presto neri nuvoloni si addensarono, avanzando gravidi di tempesta: il fragore del tuono rombava spaventoso nell'eco di mille voci, rosse saette s'incrociavano sull'orizzonte, a perdita d'occhio, gli alti pini scricchiolavano, squassati fino alle radici, la pioggia cadeva a rovesci. Ad ogni passo correvamo il rischio di essere schiacciati dagli alberi, i cavalli impauriti dal bagliore delle folgori si impennavano continuamente; quasi non riuscivamo più ad andare avanti. A un certo punto la carrozza prese un tale scossone che la ruota posteriore si schiantò, e così dovemmo rimanere fermi ad attendere che il temporale finisse e la luna spuntasse di dietro le nubi. Soltanto allora il postiglione si accorse che ci eravamo scostati di molto dalla via carrozzabile; non rimaneva altro da fare che seguire, bene o male, il sentiero del bosco in cui ci eravamo inoltrati, sperando di giungere sul far del giorno ad un villaggio. La vettura venne puntellata con un tronco d'albero e così, passo passo, proseguimmo. Camminando in testa al gruppo non tardai a scorgere un bagliore in lontananza e mi parve anche di udire un abbaiar di cani. Non m'ero sbagliato; infatti, dopo pochi minuti, i latrati divennero chiarissimi e ci trovammo davanti a una ragguardevole casa col cortile protetto da un muro di recinzione. Il postiglione bussò alla porta, i cani balzarono avanti abbaiando furiosamente ma nella casa tutto rimase silenzioso e morto fino a che il postiglione non diede fiato al corno; allora un lume tremò al piano superiore, una finestra si aprì e una voce profonda ed aspra gridò verso il basso: - Cristiano, Cristiano!... - Sì, signore, - rispose qualcuno di sotto. - Bussano, suonano... riprese la voce dalla finestra. - I cani sembrano impazziti. Prendi la lanterna e la carabina numero 3 e va a vedere che cosa succede. Udimmo Cristiano richiamare i cani e finalmente lo vedemmo venire con la lanterna. - Senza dubbio, - mi spiegò il postiglione, appena entrati nel bosco, invece di andare diritto, avevamo piegato lateralmente, perché ora ci trovavamo davanti alla casa del guardiaboschi, situata a un'ora di strada dall'ultima stazione, sulla destra. Udito il racconto della nostra disavventura, Cristiano aprì subito il portone e ci aiutò a far entrare la carrozza. I cani, ammansiti, ci giravano intorno, scodinzolando e annusandoci, e l'uomo alla finestra continuava a gridare: - Chi è là?... Chi è là?... Che razza di carovana è questa?... - Ma né Cristiano né alcuno di noi gli diede spiegazioni. Mentre conducevano al riparo cavalli e carrozza, entrai finalmente in casa e mi vidi venire incontro un omone robusto, col viso abbronzato dal sole, un cappellaccio con pennacchio verde sulla testa e un coltello da caccia in mano. L'omone, però, era in camicia da notte e pantofole: Donde venite? - mi gridò con asprezza. - È il modo di disturbare la gente di notte?... Questo non è un albergo né una stazione di posta: qui abita il guardiaboschi, che sono io! Cristiano è stato un somaro ad aprirvi la porta! Gli raccontai molto umilmente il nostro infortunio, spiegandogli come fossimo capitati là per assoluta forza maggiore. L'omone divenne più malleabile: - Sì, certo, disse, - abbiamo avuto un temporale tremendo; ma il postiglione è stato un tanghero a perder la strada. Un tipo come lui dovrebbe saper viaggiare nel bosco a occhi chiusi, esserci di casa, come uno di noi -. Quindi mi condusse di sopra, depose il coltello, il cappello, si gettò addosso un vestito e mi pregò di non interpretare male l'accoglienza sgarbata. Abitando in un luogo così isolato bisognava stare sempre in guardia perché il bosco pullulava di gentaglia. Con i bracconieri, poi, si trovava addirittura in guerra aperta; già parecchie volte avevano attentato alla sua vita. - Ma quei manigoldi non possono nulla contro di me, proseguì, - perché, con l'aiuto di Dio, io faccio onestamente e lealmente il mio dovere; e fidando in Dio e nel mio buon fucile posso tener testa alle loro angherie -. Per antica consuetudine mi lasciai involontariamente sfuggire alcune untuose parole sulla forza della fede in Dio. Il guardiaboschi si schiarì ancor di più. Incurante delle mie proteste volle svegliare sua moglie. Costei, una matrona attempata ma tranquilla e gioviale, benché svegliata in piena notte diede un cordiale benvenuto all'ospite e, per ordine del marito, si mise subito a preparare un boccone di cena. Il guardiaboschi impose come castigo al postiglione di ritornare con la carrozza rotta alla stazione di posta donde eravamo partiti, entro la notte stessa. Alla prossima stazione mi avrebbe condotto egli stesso quando mi fosse piaciuto. La proposta mi tornò assai gradita perché proprio sentivo la necessità d'un breve riposo. Risposi che avrei desiderato restare fino a mezzogiorno dell'indomani per rimettermi dalla stanchezza causatami da molti giorni di viaggio ininterrotto. - Se posso darle un consiglio, signore, - disse il guardiaboschi, - si trattenga ancora tutta la giornata di domani; doman l'altro mando il mio figliolo maggiore alla residenza del principe e ad accompagnarla alla prossima stazione di posta penserà lui -. Anche questa seconda proposta mi soddisfece perché sostare in quel luogo solitario mi tentava moltissimo. - Vede, signore, - spiegò il guardiaboschi, - questo luogo non è solitario. Secondo il concetto dei cittadini bisognerebbe chiamare solitaria qualsiasi abitazione situata in un bosco, mentre la cosa dipende molto da chi ci vive. Ecco, quando in questo antico castello abitava un vecchio signore bisbetico e se ne rimaneva chiuso fra le sue quattro mura, senza avere alcun gusto per il bosco né per la caccia, allora questa poteva ben dirsi una dimora solitaria. Ma da quando quel signore è morto e il principe ha adibito il castello a residenza del guardiaboschi, questa è diventata una casa molto animata. Lei è ancora molto cittadino, signore, e non può nemmeno immaginare che vita allegra, meravigliosa conduciamo noialtri, cacciatori. Io e i miei garzoni formiamo come una sola grande famiglia... Forse lo troverà curioso... ma in questa famiglia io comprendo anche i miei bravi cani... Ah, se mi capiscono! Sempre attenti ad ogni mia parola, ad ogni mio cenno... fedeli fino alla morte. Osservi con che occhi intelligenti mi guarda il mio Waldmann: capisce che sto parlando di lui!... Vede, signore: nel bosco c'è quasi sempre qualcosa da fare. Di sera, preparativi, lavori di casa; alle prime luci del mattino mi alzo e esco suonando un'allegra canzoncina di caccia col mio corno. Allora tutti si svegliano, si precipitano dal letto; i cani abbaiano, frementi di gioia e di desiderio di caccia. I ragazzi si vestono in fretta: carniere a tracolla, fucile in spalla, e corrono tutti insieme nel tinello dove la mia vecchia ha preparato la colazione dei cacciatori. E poi via, fuori, allegri e festosi. Arrivati vicino ai nascondigli della selvaggina, ognuno di noi si apposta a una certa distanza dall'altro. I cani avanzano quatti quatti, la testa puntata verso terra, annusando, fiutando la preda e sbirciando il cacciatore con occhi quasi umani... E il cacciatore è là, immobile, come radicato al suolo e trattiene il respiro, col dito sul grilletto. Ma quando la selvaggina schizza fuori dalla macchia e i cani si slanciano ad inseguirla fra il crepitare delle fucilate, eh, signor mio, allora sì che il cuore si mette a battere e ci si sente un altro. E ognuna di queste battute ha sempre qualcosa di nuovo, perché ogni volta succede qualcosa di speciale, di non mai successo prima. Il semplice fatto che la selvaggina sia stagionale e le varie specie di animali saltino fuori in momenti diversi, rende la cosa talmente affascinante che nessun uomo al mondo potrebbe saziarsene. E poi, signore, anche il bosco, il bosco di per se stesso, è così allegro e vivo che io non mi ci sento mai solo. Conosco ogni angoletto, ogni albero; e ogni albero cresciuto sotto i miei occhi mi pare debba riconoscermi e volermi bene perché l'ho coltivato e curato; quando li sento stormire, mormorare, protendendo nell'aria le vette splendenti, mi sembra che mi parlino con voci tutte speciali: è un vero e proprio inno di lode a Dio e alla sua onnipotenza, una preghiera non ripetibile con parole. Insomma, un cacciatore onesto e buono conduce una vita gioiosa, magnifica, perché gli è rimasta ancora un po'dell'antica libertà degli uomini che vivevano interamente nella natura e non sapevano nulla delle smancerie, delle leziosaggini con cui voi vi tormentate, nelle vostre prigioni di pietra. Ormai voi ignorate completamente le meraviglie di cui Iddio ci ha circondati per la nostra edificazione e la nostra gioia, mentre gli uomini liberi vivevano in perfetta armonia con la natura, come ancora si può leggere nelle antiche storie. Il vecchio guardiaboschi mi disse queste cose con un tono di voce, con un'espressione così sentiti e convinti, ch'io non potei fare a meno di invidiargli quella vita felice e quella tranquillità d'animo poggiata su basi così profonde, e tanto lontana dallo stato d'animo mio. In un'altra ala dell'edificio, per la verità più vasto di quanto non mi fosse parso a tutta prima, il vecchio mi assegnò una cameretta linda e pulita, in cui già trovai il mio bagaglio: e mi lasciò, assicurandomi che non sarei stato svegliato anzitempo dal movimento e dal chiasso mattiniero perché mi trovavo assolutamente isolato dagli altri coabitanti. Avrei quindi potuto dormire fino a quando mi fosse piaciuto; appena sveglio non avevo che da chiamare e mi avrebbero portato la colazione; ma lui, il guardiaboschi, lo avrei riveduto soltanto a pranzo perché la mattina presto andava nel bosco con i garzoni per non rientrare prima di mezzogiorno. Mi gettai sul letto e, stanco com'ero, mi addormentai quasi subito. Ma un sogno orribile mi turbò il riposo. Molto stranamente, il sogno incominciò con la coscienza di star prendendo sonno. Dicevo a me stesso: «Ah, è meraviglioso addormentarsi subito e poter dormire d'un sonno così stretto e tranquillo... Questo mi rimetterà completamente dalla stanchezza... Soltanto, non devo più aprire gli occhi»; e invece sentivo di non poterne fare a meno. Ad un tratto la porta si aperse ed entrò una figura tenebrosa in cui riconobbi con orrore me stesso, vestito da cappuccino, con tanto di barba e di chierica. La figura si avvicinò piano piano al mio letto... Io rimasi immobile... feci per gridare ma il grido mi morì nella strozza. Il frate sedette sul mio letto e mi fissò sogghignando: - Adesso dovrai venire con me, - mi disse, saliremo insieme sul tetto, sotto la banderuola che sta cigolando una gaia canzoncina nuziale perché il gufo va a nozze... Lassù ci batteremo: colui che butterà giù l'altro sarà re e potrà bere sangue... - Mi sentii afferrare e trascinare in alto... allora la disperazione mi restituì le forze: Tu non sei me stesso... tu sei il diavolo!... - urlai adunghiando il volto del terrificante fantasma... Sentii affondare le dita entro cavità profonde... e la figura scoppiò di nuovo in una risata raggelante... Mi svegliai sobbalzando sul letto, come sospinto da una molla: ma la risata risuonava ancora nella camera. Balzai a sedere: i raggi chiari dell'aurora filtravano attraverso la finestra... In piedi davanti al tavolo, le spalle rivolte a me, vidi una figura vestita da cappuccino. Il terrore mi raggelò il sangue... lo spaventevole sogno si avverava! Il cappuccino stava frugando fra gli oggetti posati sul tavolo; ad un tratto si volse: vidi un viso sconosciuto con ispida barba nera e, negli occhi, il riso vacuo della demenza; non so perché, mi ricordava lontanamente Ermogene... Ripresi coraggio e decisi di stare a vedere che cosa stesse facendo; al primo gesto minaccioso lo avrei fermato. - Il mio stiletto era là, a portata di mano, sulla mia forza fisica potevo ben contare; perciò, anche senza l'aiuto d'altre persone mi sentivo in grado di fronteggiare il frate. Questi pareva giocare come un bambino con le cose mie e, soprattutto, divertirsi con il portafogli rosso... Lo girava e rigirava fra le mani osservandolo davanti alla finestra e ogni tanto salterellava in un modo curioso. Finalmente trovò la fiaschetta con l'avanzo del vino misterioso, la aperse, l'annusò e lanciò un urlo raccapricciante, tremando in tutte le membra. Un orologio di casa suonò le tre. Il frate si mise a piangere come se soffrisse le pene dell'inferno ma subito scoppiò nella stessa risata agghiacciante udita in sogno e si mise a saltare come un forsennato; poi bevette alcuni sorsi dalla fiaschetta, la gettò via e uscì di corsa. Mi alzai in fretta e cercai di inseguirlo; ma era già sparito. Lo sentii scendere a rotta di collo giù per una scala lontana, poi udii un tonfo sordo, come d'una porta sbattuta con violenza. Mi chiusi in camera, a scanso di altre visite, e di nuovo mi gettai sul letto: ero troppo sfinito per non riaddormentarmi immediatamente. Mi svegliai fresco e riposato con la camera già piena di sole. Il guardiano era andato nel bosco con i figli e i garzoni, come mi aveva detto. Mentre la maggiore delle sue figliole si dava da fare in cucina con la madre, la più giovane - una fanciulla fiorente e gentile - mi portò la colazione e si mise a raccontarmi con molto garbo della loro allegra e serena vita comune: solo talvolta, quando il principe veniva a cacciare nella riserva e pernottava in casa, c'era un grande andirivieni di gente. Così chiacchierando trascorsero un paio d'ore. A mezzogiorno voci gioiose e squilli di corno annunziarono il rientro del guardiaboschi, dei figli (quattro magnifici ragazzi pieni di salute, il più giovane dei quali poteva avere sì e no quindici anni) e di tre garzoni. Il vecchio s'informò se avevo dormito bene e non ero stato svegliato anzi tempo dal chiasso troppo mattiniero. Non volli raccontargli la mia avventura perché l'apparizione del sinistro monaco in carne ed ossa si era così strettamente collegata al sogno, che quasi non riuscivo più a stabilire con esattezza a qual punto il sogno fosse diventato realtà. La minestra fumava sulla tavola apparecchiata; il vecchio stava togliendosi il berretto per recitare le preghiere, quando la porta si aperse ed entrò il cappuccino apparsomi durante la notte, non più con quel viso di demente ma con un'espressione truce e caparbia. - Benvenuto, reverendo! - gli disse il vecchio vedendolo entrare. - Reciti il gratias e pranzi con noi -. Il frate girò attorno uno sguardo fiammeggiante di collera e urlò con voce spaventosa: - Che Satana possa sbranare te, il tuo reverendo e le tue maledette preghiere!... Non mi hai forse attratto qui dentro con la frode perché io fossi il tredicesimo?... Per potermi far uccidere dal forestiero assassino?... Non mi hai messo addosso questa tonaca perché nessuno potesse riconoscere il conte, tuo padrone e signore?... Ma guardati, maledetto, dalla mia collera!... - e, preso dalla tavola un pesante boccale, lo scagliò contro il guardiano il quale non ne ebbe la testa spaccata soltanto perché fu pronto ad evitare il colpo. Il boccale andò a fracassarsi in mille pezzi contro la parete. I garzoni agguantarono il folle e lo immobilizzarono. - Come! esclamò il guardiaboschi. - Come osi comportarti così, da forsennato, fra noi brava gente?... Attentare alla mia vita, dopo ch'io ti ho tolto da uno stato bestiale e salvato dall'eterna dannazione?... Ah, monaco infame e sacrilego!... Via, nella torre!... - Il frate cadde in ginocchio e implorò pietà singhiozzando. - Andrai nella torre, - ripeté il vecchio, - e non ritornerai più qui prima di aver rinunziato al diavolo che ti acceca. Altrimenti morirai! Il monaco si mise a urlare disperatamente, ma i garzoni lo trascinarono via. Riferirono che appena entrato nella camera della torre, il monaco si era calmato; e Cristiano, il sorvegliante, ci disse più tardi che per tutta la notte era andato in giro nei corridoi facendo baccano e, verso l'alba, si era messo a gridare: - Dammi ancora di quel tuo vino!... Dammene... e mi abbandonerò completamente a te... Vino... ancora vino!... - A Cristiano era parso che il frate barcollasse come un ubriaco; ma non riusciva a capire come avesse potuto procurarsi bevande inebrianti. A questo punto non ebbi più alcun scrupolo di raccontare la mia disavventura notturna, senza omettere l'episodio della fiaschetta. - Ah, gran brutto affare! esclamò il vecchio. - Lei dev'essere un uomo di fegato e in pace con Dio... Un altro sarebbe morto di spavento! - Lo pregai di spiegarmi che cosa ci facesse in casa sua quel frate demente. - Ah, è una storia lunga e complicata, - rispose lui. Una storia non adatta da raccontarsi a pranzo. È già stato abbastanza spiacevole essere disturbati dalla brutale scenata di quel tipaccio proprio mentre stavamo per goderci allegri e contenti questi doni di Dio. E adesso, a tavola! - Così dicendo si tolse il berretto e recitò devotamente il gratias; e, conversando di argomenti allegri e piacevoli, consumammo il robusto e gustoso pasto paesano. Il guardiano fece portare del buon vino vecchio in onore dell'ospite e ne bevve alla mia salute una bella coppa, secondo la tradizione patriarcale. Sparecchiata la tavola, i garzoni distaccarono i corni dalla parete e suonarono un'aria di caccia; al secondo ritornello si unì il canto delle ragazze e la strofa conclusiva fu ripetuta in coro anche dai figli del guardiano. Mi sentivo allargare deliziosamente il cuore: da molto tempo non provavo più una simile sensazione di intimo benessere, come fra quella buona gente semplice. I giovani continuarono a cantare canzoni gaie e piacevoli fino a che il vecchio non si alzò e vuotò il bicchiere esclamando: Evviva i valorosi appassionati della nobile arte venatoria! - Noi tutti facemmo coro e così si concluse il lieto simposio, solennizzato col vino e col canto in mio onore. - Adesso, signore, mi getto a dormire per una mezz'oretta, - mi disse il vecchio. - Poi andremo nel bosco e le racconterò come il monaco sia capitato in casa mia e tutto ciò che so di lui. Intanto verrà l'ora del tramonto; e andremo alle poste perché, a quanto ha detto Franz, ci sono delle pernici. Daremo anche a lei un buon fucile, così potrà tentare la buona sorte! La cosa mi tornava nuova perché in seminario avevo sì, tirato qualche volta al bersaglio, ma alla selvaggina mai. Accettai la proposta con grande soddisfazione del guardiaboschi il quale, prima ancora di andare a dormire, cercò di impartirmi alla svelta le prime nozioni indispensabili al maneggio delle armi da fuoco.Equipaggiato di fucile e carniere andai nel bosco col guardiano che mi raccontò la storia dello strano monaco così come io la ripeto: - Circa due anni fa i miei garzoni incominciarono a sentire, qui nel bosco, delle orribili urla lamentose; erano urla che ben poco avevano di umano, eppure Franz - il mio apprendista assunto più di recente - sosteneva che potessero anche provenire da un uomo. Il predestinato a venir preso in giro dal mostro urlante pareva proprio Franz: quando si appostava, quegli ululati si facevano sentire proprio vicino a lui e spaventavano gli animali; e una volta egli si accorse che quando stava puntando la selvaggina, un essere irsuto, sfigurato, sbucava dalla macchia e gli mandava a vuoto il colpo. Franz aveva la testa piena di tutte le magiche leggende di caccia narrategli dal padre - un vecchio cacciatore - e propendeva a credere che quell'essere fosse Satana in persona e volesse disamorarlo del mestiere, o tendergli chissà quali insidie. Gli altri garzoni, e perfino i miei figli, finirono per pensarla come lui e perciò vidi la necessità di chiarire la cosa, soprattutto perché, a mio avviso, si trattava d'un astuto stratagemma dei bracconieri per spaventare i miei cacciatori e allontanarli dalle poste. Ordinai perciò ai ragazzi di chiamare il misterioso individuo appena si mostrasse e, se questi non si fosse fermato e dato a conoscere, di sparargli addosso senz'altro, secondo il diritto di caccia. Toccò di nuovo a Franz di essere il primo ad incontrarlo: spianò il fucile e lo chiamò - l'uomo si ritrasse nei cespugli, Franz premette il grilletto ma l'arma fece cilecca. Allora egli corse verso i compagni terrorizzato e ormai convinto che quell'essere fosse veramente il diavolo, venuto a spaventare la selvaggina, per fargli dispetto, e a stregargli il fucile. Infatti da quel giorno, pur essendo un ottimo tiratore, non riuscì più a colpire un solo animale. La voce che il bosco fosse infestato dagli spiriti si diffuse; nel villaggio già si mormorava che Satana era apparso a Franz, gli aveva offerto proiettili magici, infallibili e altre fandonie del genere. Decisi di por fine allo scandalo e di andare io stesso alla ricerca del mostro, in cui non mi ero mai imbattuto. Per molto tempo non ebbi fortuna; finalmente, in una nebbiosa sera di novembre, mentre stavo appostato proprio là dove Franz lo aveva visto per la prima volta, udii un fruscio nella macchia. Senza far rumore spianai il fucile, supponendo la presenza d'un animale, e invece vidi sbucare l'orrenda figura d'un cencioso con gli occhi arrossati, sfavillanti, la barba nera, irsuta... Il mostruoso individuo mi fissava ululando in modo raccapricciante... Signore!... Un simile spettacolo avrebbe messo paura anche al più coraggioso degli uomini... Davvero, mi parve di vedermi davanti il Diavolo e incominciai a sudar freddo; ma recitando una preghiera ad alta voce ritrovai subito tutto il mio coraggio. Quando pronunziai il nome di Gesù Cristo il mostro urlò ancora più furiosamente e alla fine proruppe in un diluvio di bestemmie spaventose. «Smettila di bestemmiare Iddio, maledetto briccone», gli gridai allora, «o sparo e ti ammazzo come un cane!» - Egli si gettò a terra piagnucolando e chiedendo pietà. Accorsero i garzoni, lo acciuffarono e lo portammo a casa. Lo feci chiudere nella torre, accanto al fabbricato annesso, con l'intenzione di denunziare il caso all'autorità la mattina dopo. Appena entrato nella cella lo sciagurato venne meno. La mattina seguente lo ritrovai steso sul giaciglio di paglia che piangeva disperatamente. Mi cadde ai piedi e mi supplicò d'aver pietà di lui: viveva nel bosco da molte settimane cibandosi d'erbe e frutta selvatiche... era un povero cappuccino fuggito dalla prigione d'un lontano convento, ove lo avevano rinchiuso perché affetto da pazzia. Lo vidi infatti in uno stato deplorevole, ne ebbi compassione e gli feci portare cibo e vino per rimetterlo in forze. Si sentì subito meglio e mi pregò di tollerarlo in casa per pochi giorni soltanto; poi, se gli avessi procurato una tonaca nuova, sarebbe ritornato da solo al convento. Lo accontentai e la sua follia parve effettivamente recedere; le crisi divennero meno violente e più rare; ma quando lo coglievano gli facevano dire cose orribili. Osservai che se lo rimproveravo e minacciavo di morte cadeva in uno stato di prostrazione e si puniva, supplicando Iddio e tutti i santi di salvarlo dalle pene infernali. Alle volte credeva di essere sant'Antonio; ma negli accessi furiosi tempestava di essere il conte, il padrone assoluto e minacciava di farci uccidere tutti appena giungessero i suoi servi. Negli intervalli lucidi mi pregava che, per l'amor di Dio, non lo scacciassi, perché sentiva che soltanto il soggiorno in casa mia avrebbe potuto giovargli. Una sola volta ancora fece una scenata violenta, e precisamente quando il principe venne a caccia in riserva e pernottò qui. Dopo averlo visto in mezzo al suo seguito brillante, il frate parve trasformarsi: era chiuso, caparbio, taciturno, se ne andava in fretta quando pregavamo, fremeva tutto se appena sentiva una sola parola di devozione. Non solo: ma guardava mia figlia, Anna, con occhi così concupiscenti che decisi di mandarlo via per evitare uno scandalo. La notte prima di mettere in atto il mio proposito, fui svegliato da un urlo terribile... Balzai dal letto e corsi col lume acceso verso la camera delle mie figliole. Il monaco, spinto dalle sue voglie bestiali, era fuggito dalla torre dove, di notte, lo tenevo sempre chiuso, per correre dalle mie ragazze. Per fortuna Franz si era svegliato con una gran sete e stava andando in cucina a prendere un po'd'acqua; udì il baccano, accorse e agguantò il frate alle spalle mentre stava sfondando la porta con un calcio. Franz era troppo debole per tener testa a quel forsennato: si azzuffarono mentre le mie figliole, svegliate in pieno sonno, urlavano terrorizzate. Io giunsi proprio nell'istante in cui il monaco, atterrato il garzone, stava agguantandolo alla gola per strangolarlo... Senza esitare li separai ma, all'improvviso nelle mani del frate vidi brillare un coltello. Mi avrebbe colpito se Franz, rialzatosi in piedi, non gli avesse fermato il braccio. Forte come sono, riuscii a premerlo contro il muro fino a mozzargli il respiro. Svegliati da quel gran chiasso tutti i garzoni accorsero. Legammo il monaco e lo chiudemmo nella torre. Io presi lo staffile e, per togliergli la voglia di ritentare mai più imprese del genere, lo frustai di santa ragione... Il disgraziato urlava e gemeva. Ma io gli dissi: «È ancora troppo poco, canaglia, per la tua infamia!... Volevi oltraggiare mia figlia, hai tentato di uccidermi... Morire dovresti!...», e lui gridava, gridava terrorizzato: la paura della morte sembrava addirittura distruggerlo. La mattina dopo non fu possibile portarlo via: era disteso là, esausto, sembrava morto... Ne provai veramente compassione. Gli feci preparare un buon letto in una camera migliore e la mia vecchia si prese cura di lui preparandogli minestre nutrienti, dandogli qualche rimedio della nostra farmacia domestica. La mia vecchia ha la buona abitudine di cantare una canzone religiosa, quando è sola; ma certe volte, se proprio vuole ristorarsi l'anima, preferisce che gliela canti mia figlia Anna, con la sua bella vocina fresca. Così fecero anche accanto al letto del malato. L'infelice sospirava, guardava mia moglie e Anna con occhi tristissimi, sovente col viso rigato di lacrime. Ogni tanto muoveva la mano, le dita, come per farsi il segno di croce ma non ci riusciva: la mano gli ricadeva inerte; oppure gemeva piano, come se volesse provare a cantare con loro. Finalmente incominciò a migliorare, riprese a segnarsi sovente, come usano fare i frati, a pregare sottovoce. Poi, tutt'a un tratto - e chi se lo sarebbe aspettato?... - si mise a cantare canzoni latine. La mia vecchia e Anna non ne capivano una parola ma quelle melodie meravigliose toccavano loro il cuore; e non si stancavano di ripetere quanto le edificasse quel malato!... Il monaco guarì completamente, si alzò, riprese a camminare per casa; ma non sembrava più quello di prima! Camminava piano piano, compunto, a mani giunte, proprio come si usa in convento, non aveva più quel bagliore cattivo negli occhi, il suo sguardo era diventato mite... Ogni traccia di pazzia, insomma, era scomparsa. Si nutriva esclusivamente di pane, acqua, verdure. Soltanto qualche volta, negli ultimi tempi, ero riuscito a farlo sedere alla nostra tavola, a fargli accettare un po'di pietanza, un pò di vino. Prima di sedere a pranzo recitava il gratias e poi ci intratteneva conversando; era un piacere ascoltarlo, perché parlava come pochi altri. Sovente andava a passeggiare nel bosco da solo. Una volta lo incontrai e così, senza pensarci, gli domandai se avesse intenzione di ritornare presto al convento. Si turbò moltissimo, mi prese la mano e disse: «Amico mio, ti devo la salvezza dell'anima; tu mi hai salvato dall'eterna dannazione... Ma non posso ancora lasciarti. Permettimi di rimanere in casa tua. Abbi pietà di me!... Satana mi aveva adescato e sarei stato irrimediabilmente perduto se il santo tante volte invocato nelle ore di angoscia non mi avesse condotto, demente, in questo bosco. Tu mi hai trovato ridotto in condizioni inumane, e neppure adesso immagineresti ch'io possa esser stato un giovane dei più generosamente dotati da madre natura. Soltanto un'esagerata, quasi morbosa tendenza alla solitudine e agli studi profondi mi spinse al convento. Tutti i confratelli mi benvolevano in modo eccezionale... Vivevo felice, come soltanto in convento è possibile. La pietà, il contegno esemplare mi fecero far molta strada; ero già considerato il futuro priore. Ma un giorno uno dei confratelli rientrò da un lungo viaggio portando in convento parecchie reliquie procuratesi lungo la via. Fra queste c'era una bottiglia, presa - dicevano - da sant'Antonio al Diavolo che l'aveva riempita di un elisir di perdizione; anche la bottiglia venne conservata religiosamente, benché a me la cosa paresse assurda e contraria allo spirito di devozione che dovrebbero ispirare le vere reliquie. Ciò nonostante mi prese un desiderio indescrivibile di vedere che cosa veramente contenesse quella bottiglia. Riuscii a metterla in disparte - la apersi vi trovai un liquore forte, dall'aroma meraviglioso, dal sapore dolcissimo: e lo bevetti fino all'ultima goccia. Occorre dirlo?... Mi trasformai radicalmente nel carattere, nella mentalità, divenni assetato di piacere; il vizio, nei suoi aspetti più seducenti, mi parve la meta suprema della vita. Insomma, la mia vita divenne una catena di vergognosi misfatti; cosicché, quando, malgrado la mia diabolica astuzia, venni tradito, il priore mi condannò alla prigione perpetua. Trascorsi parecchie settimane in quel carcere pieno di tanfo e di umidità, incominciai a maledire me stesso, la mia esistenza - a bestemmiare Iddio e i santi. Allora, entro un rosso alone di fuoco, Satana mi apparve e mi disse che se avessi distolto interamente l'anima mia dall'Altissimo per servire lui, mi avrebbe liberato. Caddi in ginocchio piangendo ed esclamai: «Io non servo alcun Iddio - Tu sei il mio signore, dal tuo fuoco scaturisce tutto il piacere della vita!...» - Ed ecco, nell'aria si scatenò turbinando una bufera... le mura tremarono come squassate dal terremoto - un sibilo tagliente attraversò il carcere... le inferriate delle finestre caddero in pezzi. Io fui proiettato fuori da una forza invisibile e mi trovai nel cortile del convento. La luna splendeva chiara fra le nubi, alla sua luce risplendeva la statua di sant'Antonio situata accanto alla fontana, nel centro del cortile... Un'angoscia indicibile mi dilaniò il cuore - mi prostrai contrito davanti al santo - rinnegai il Maligno - implorai misericordia. Allora il cielo si coperse di nuvoloni neri, l'uragano si scatenò una seconda volta ed io persi i sensi. - Quando ripresi coscienza correvo in giro per il bosco, dove mi ha ritrovato lei, pazzo di fame e di disperazione». Questo racconto mi fece una tale impressione, che anche a distanza di anni sarei in grado di ripeterlo parola per parola. Però dopo quell'ultima infamia, il frate aveva ripreso a comportarsi in modo esemplare e noi tutti gli volevamo bene ormai. Non riesco ancora a capire come abbia di nuovo potuto dar segni di pazzia, la scorsa notte. - Non sa da quale convento di cappuccini provenga?... - gli domandai troncandogli la parola. Non me l'ha detto, - rispose il guardiaboschi, - e non oso domandarglielo perché sono quasi certo che sia proprio lui l'infelice di cui, tempo fa, si parlava tanto a corte, pur senza immaginare che si trovasse così vicino. Naturalmente, per il suo bene, non ho ripetuto a corte questa mia supposizione. - Ma a me può ripeterla. Sono un amico e - se questo non bastasse - posso promettere solennemente di tacere. - Deve sapere, - riprese il guardiano, - che la sorella della nostra principessa è badessa d'un convento di suore cistercensi a ***. Costei aveva preso sotto la sua protezione e fatto educare il figlio d'una povera donna, il cui marito pare avesse avuto qualche rapporto piuttosto misterioso con la nostra corte. Il ragazzo si fece cappuccino per vocazione e divenne un predicatore famoso in tutto il paese. La badessa scriveva spesso alla sorella parlando di lui; e tempo fa ne lamentò la perdita. Il frate pare avesse commesso un grave peccato violando una certa reliquia e fosse stato scacciato dal convento di cui per tanto tempo era stato il vanto. Tutto questo lo so per aver udito una conversazione del medico personale del principe con un signore della corte... Alludevano ad alcune circostanze singolarissime che non compresi bene non conoscendo a fondo tutta la storia... Il monaco racconta l'evasione dal carcere a modo proprio, attribuendola a Satana; ma questo io non lo credo... Deve essere una sua immaginazione, un residuo di follia. Secondo me il nostro monaco è semplicemente quel fra Medardo fatto educare e avviato alla carriera religiosa dalla badessa - e poi indotto dal Diavolo a commettere peccati d'ogni sorta, fino a che Iddio non l'ha punito colpendolo con una forma di demenza bestiale... Al sentir pronunziare il nome di Medardo rabbrividii. Ogni parola di quel racconto era stata per me come una trafittura mortale. Ero anche troppo convinto che il monaco avesse detto la pura verità, perché soltanto quel liquore infernale avrebbe potuto ripiombarlo nella sua empia e blasfema follia. Ma io stesso mi sentivo svilito al rango di un trastullo della misteriosa potenza malvagia e inesorabilmente impigliato nei suoi lacci... Mi credevo libero, ma stavo muovendomi entro il ristretto spazio d'una gabbia, imprigionato senza scampo. Mi ritornarono alla mente i buoni - e non ascoltati ammonimenti del pio frate Cirillo, la comparsa del conte e del suo frivolo precettore, tutto, insomma... Ora capivo donde provenissero quegli improvvisi fermenti, quel mutamento di mentalità, di carattere... Mi vergognavo delle mie azioni delittuose e, in quel momento, scambiavo la vergogna per rimorso e contrizione profonda... sentimenti che avrei dovuto provare soltanto espiando... Assorto in tali pensieri quasi non udivo più il vecchio, il quale, ritornato agli argomenti venatori, mi descriveva alcune scaramucce dei perfidi bracconieri. Incominciò ad imbrunire. Eravamo giunti davanti alla macchia entro cui dovevano nascondersi le pernici. Il guardiaboschi mi assegnò il mio posto, raccomandandomi di non parlare, di muovere il meno possibile e di stare all'erta con i cani alzati. I cacciatori strisciarono silenziosamente verso gli appostamenti ed io rimasi solo, nella crescente oscurità... E dall'oscurità del bosco vidi balzar fuori vari personaggi della mia vita... vidi mia madre, la badessa, che mi guardavano con occhi pieni di rimprovero... Ed ecco avanzare Eufemia, pallida come una morta, con quei suoi ardenti occhi neri fissi su di me, sollevando minacciosa le mani insanguinate... Ah!... Erano gocce di sangue sgorgate dalla mortale ferita di Ermogene!... Lanciai un urlo... Un frullo d'ali, di molte ali, mi passò sul capo... Sparai in aria, alla cieca e... due pernici caddero. - Bravo! mi gridò il garzone appostato non lontano, alle mie spalle, abbattendone una terza. Tutt'intorno fu un gran crepitare di schioppettate. Poi i cacciatori si radunarono, portando ognuno la propria preda. Il garzone raccontò, non senza maliziose strizzatine d'occhi alla mia intenzione, che sentendomi volare le pernici sulla testa avevo gridato, come se mi fossi spaventato moltissimo... E poi avevo sparato alla cieca, senza neppure mirare, e abbattuto, chissà come, due pernici... Già. Nel buio gli era parso che avessi puntato il fucile in un'altra direzione... Eppure le pernici erano cadute lo stesso! - Il vecchio scoppiò a ridere: possibile che le pernici mi avessero fatto paura?... Avevo sparato nel volo per difendermi?... - Del resto, concluse, - voglio sperare, signore, che lei sia un onesto cacciatore timorato di Dio e non uno di quei franchi tiratori (9) in combutta col Maligno, che possono sparare dove vogliono senza mai mancare il bersaglio!... - Lo scherzo, senza dubbio innocente, mi colpì; e perfino quella fortunata doppietta, sparata in uno stato di angosciosa eccitazione, a ripensarci mi fece paura... In crescente conflitto con me stesso, giunsi al punto di sentirmi un individuo equivoco... Un senso di orrore mi sopraffece, con deleteria violenza. Quando rientrammo, Cristiano riferì che il monaco se n'era rimasto tranquillo nella propria cella, ma senza dire una parola né prender cibo di sorta. - Non posso continuare a tenerlo in casa mia, - disse il guardiaboschi. - Chi mi garantisce che la sua pazzia - evidentemente incurabile - non esploda di nuovo, magari anche fra molto tempo, cagionando qualche orribile guaio?... Domattina prestissimo andrà in città con Franz e Cristiano. La mia relazione sul caso è pronta da molto tempo. Dovranno internarlo in un manicomio -. Quando fui solo in camera mi vidi dinnanzi la figura di Ermogene. Mi sforzai di osservarla con attenzione e la figura si trasformò in quella del monaco pazzo. I due visi mi si confondevano nella mente: diventavano qualcosa come un monito rivoltomi dall'Onnipotente mentre stavo sull'orlo di un baratro. Sul pavimento giaceva ancora la fiaschetta. La scostai con un calcio: il monaco l'aveva vuotata fino all'ultima goccia; così non avrei mai più avuto la tentazione di assaggiarne di nuovo il contenuto. Ma benché vuota la bottiglia emanava un fortissimo profumo inebriante ed io, per distruggere ogni possibile influenza del fatale elisir, la scaraventai dalla finestra, oltre il muro di cinta. - Poi, a poco a poco, mi tranquillizzai e mi feci coraggio al pensiero che, in ogni caso, dal punto di vista spirituale io dovevo essere superiore a quel monaco: avevamo bevuto entrambi lo stesso liquore - ma lui era diventato pazzo furioso e io no. Sentivo tuttavia di aver sfiorato quell'orribile sorte. Il vecchio guardiaboschi aveva pur preso quel monaco per l'infelice Medardo - cioè per me! - e questo mi pareva indicare che le sante potenze del cielo non volessero ancora lasciarmi sprofondare nell'eterna desolazione. E la follia che si parava sempre sul mio cammino non valeva forse soltanto a far sì ch'io vedessi più chiaro dentro di me?... E ad ammonirmi sempre più istantemente contro lo spirito malvagio divenuto visibile agli occhi miei - (almeno, così credevo) - nella minacciosa figura dello spettrale pittore?... Mi sentivo irresistibilmente attratto verso la residenza dei principi. La sorella della mia madre adottiva (rassomigliantissima alla badessa, per quanto avevo potuto constatare dai ritratti...), mi avrebbe ricondotto alla vita buona e innocente di un tempo... Mi sarebbe bastato vederla per ritrovare tutti i ricordi di allora e ricominciare da capo. Ma volevo che fosse il caso ad avvicinarmi a lei. Appena incominciò ad albeggiare udii la voce del guardiaboschi in cortile. Dovendo partire di buonora con suo figlio, mi vestii in fretta. Quando scesi vidi davanti alla porta, pronto a partire, un carro a rastrelliera imbottito di paglia. Condussero fuori il monaco: era pallidissimo, sconvolto ma lasciava fare senza reagire. Non rispose ad alcuna domanda, non volle mangiare nulla; pareva quasi non accorgersi delle persone che gli stavano intorno. Lo caricarono sul carro, lo legarono con solide funi, perché il suo stato rimaneva preoccupante e lasciava sempre temere improvvisi accessi di furore. Sentendosi legare le mani contrasse il viso in una smorfia penosa e gemette debolmente. Vederlo in quello stato mi straziò l'anima: mi era quasi diventato parente... forse dovevo la mia salvezza unicamente alla sua rovina!... Cristiano e un garzone presero posto accanto a lui; soltanto quando il carro si mosse, l'infelice posò lo sguardo su di me e parve profondamente stupito. Lo seguimmo fin oltre la recinzione, ed egli rimase voltato a guardarmi mentre il carro si allontanava. - Vede come la guarda?... - mi disse il vecchio guardiano. - Credo che il fatto di averla vista inaspettatamente in sala da pranzo abbia molto contribuito a provocare quel suo gesto inconsulto; perché, anche durante i periodi migliori, era sempre pieno di sospetto e di paura: temeva che un forestiero venisse per ammazzarlo. E aveva un terrore irragionevole della morte. Molte volte sono riuscito a stroncare le sue crisi furiose minacciando di farlo uccidere a fucilate se non la smetteva -. Allontanato il monaco in cui si rispecchiavano, orrendamente distorti, i tratti della mia personalità, mi sentivo finalmente leggero e sollevato. Ero felice al pensiero di recarmi alla residenza del principe perché avevo la sensazione che colà mi sarebbe stato tolto il pesante - lo schiacciante - fardello del mio fosco destino, colà avrei trovato la forza di sottrarmi alla potenza malvagia che incatenava la mia vita. Quand'ebbimo finito di far colazione, la bella carrozza da viaggio del guardiaboschi equipaggiata di veloci cavalli, si fermò alla porta. Non mi fu facile far accettare un po'di danaro alla padrona di casa in cambio della generosa ospitalità con cui mi aveva accolto e alcuni oggettini di lusso - che per caso portavo con me - alle due graziosissime figlie. Tutta la famiglia si accomiatò da me con tanto affetto come se fossi stato un vecchio amico. Il vecchio scherzò ancora parecchio sulla mia bravura venatoria, poi la carrozza si mosse ed io partii, pieno d'allegria e di buon umore. Capitolo quarto - Vita alla corte del principe La residenza del principe contrastava nettamente con la città commerciale lasciata da poco. Assai meno estesa e meno popolosa era tuttavia di costruzione più bella e regolare. Parecchie strade alberate sembravano piuttosto adiacenze di un parco che non vie cittadine. Tutti vi si muovevano in una specie di solennità silenziosa, raramente turbata dal fragore d'una carrozza. Nel modo di comportarsi, e perfino di vestire, delle persone, anche le più modeste, si notava una certa qual eleganza, uno sforzo di mostrarsi formalmente educati. Il palazzo del principe non poteva certamente dirsi grande né tanto meno costruito in istile grandioso; ma in quanto ad eleganza e proporzione di linee era uno degli edifici più belli che avessi mai visto. Lo circondava un magnifico parco, tenuto sempre aperto ai cittadini dalla liberalità del principe. Nell'albergo in cui scesi mi dissero che la famiglia principesca aveva l'abitudine di uscire ogni sera a passeggio in quel parco; e molti cittadini non perdevano mai l'occasione di vedere il loro buon sovrano. Ci andai subito anch'io. Alla solita ora il principe uscì dal castello con la moglie ed un piccolo seguito. Ah!... Bastò un attimo, e non ebbi più occhi che per la principessa, così rassomigliante alla mia madre adottiva!... La stessa maestà, la stessa grazia di movimenti... lo stesso sguardo spirituale e intelligente, la stessa fronte spaziosa, lo stesso sorriso angelico... Soltanto di forme mi parve più piena, più giovanile della badessa. La vidi intrattenersi cordialmente con parecchie donne presenti nel viale, mentre il principe sembrava assorto in un'interessante conversazione con un signore dall'aspetto serio. Il modo di vestire, di comportarsi dei principi e delle persone del seguito, tutto armonizzava perfettamente col tono d'assieme. Si vedeva bene che quell'atteggiamento generale di decoro esteriore, in una cornice di calma e di garbata eleganza senza pretese, proveniva dalla corte. Per caso mi trovavo accanto a un signore molto intelligente, il quale sapeva rispondere a qualsiasi domanda inserendo anche nelle proprie risposte talune osservazioni spiritose. Quando i principi furono passati oltre, quel signore mi propose di fare una passeggiata nel parco per mostrarmi - giacché ero forestiero - i bei monumenti di cui era pieno. Io non desideravo di meglio. Dappertutto trovai diffuso quel senso di grazia, di gusto ben regolato... Ma nelle costruzioni sparse qua e là notai una strana contraddizione: l'architetto aveva evidentemente voluto ricreare le forme classiche (che tollerano soltanto proporzioni grandiose), ma poi si era accontentato di riprodurle in formato ridotto. Ora, vedere una colonna antica il cui capitello un uomo un po'alto di statura può quasi raggiungere con la mano è, in effetti, abbastanza ridicolo... In un'altra parte del parco sorgevano invece alcuni edifici gotici, anche questi troppo piccoli per non risultare addirittura meschini. Credo che imitare lo stile gotico sia ancor più pericoloso che voler rifare lo stile classico. È vero, anche una cappelletta avrebbe potuto offrire all'architetto campo sufficiente per costruire in quello stile (pur sempre tenendo conto delle inevitabili limitazioni impostegli dallo spazio e dai costi), ma la cosa non avrebbe dovuto esser fatta così, con archi acuti, colonnine bizzarre, arzigogoli ricopiati da questa o da quella chiesa... No: in un simile stile può creare qualcosa di vero soltanto l'architetto ricco di comprensione e di spiritualità, come gli antichi maestri i quali sapevano fondere in opere stupende, organiche e piene di significato anche gli elementi in apparenza più arbitrari ed eterogenei... In una parola, l'architetto gotico dev'essere guidato da un raro senso del romantico perché qui, a differenza dallo stile classico, non regnano canoni scolastici di sorta. Ripetei queste considerazioni al mio accompagnatore il quale si dichiarò perfettamente d'accordo ma tentò soltanto di giustificare il formato ridotto delle costruzioni con le esigenze di varietà imposte da un parco e l'opportunità di offrire ai visitatori alcuni luoghi in cui riposare o mettersi al riparo in caso di improvvisi acquazzoni. In tal caso - replicai - a quei tempietti, a quelle cappellette avrei di gran lunga preferito alcune casine da giardino, semplici, senza pretese, oppure qualche tettoia di paglia appoggiata ai tronchi d'albero e seminascosta fra i cespugli... Ma se proprio si dovevano far lavori di carpenteria e muratura, un architetto intelligente - anche se costretto a tenersi entro certi limiti per il problema dei costi e delle dimensioni - avrebbe potuto scegliere uno stile grazioso, piacevole, inteso semplicemente a soddisfar l'occhio dell'osservatore, uno stile tendente magari al classico, o al gotico, ma senza far opera di pedissequa imitazione e soprattutto senza la pretesa di eguagliare in grandiosità gli antichi modelli. - Sono pienamente del suo parere, rispose il mio accompagnatore. - Ma queste costruzioni, come l'intero tracciato del parco, sono creazioni del principe; e, almeno per quanto riguarda noialtri del posto, questo mette a tacere ogni critica. Il principe è l'uomo migliore del mondo; ha sempre governato come un padre, mettendo in pratica la massima secondo cui i sudditi non vengono al mondo per il bene dei principi, bensì i principi per il bene dei sudditi. La piena libertà di manifestare il proprio pensiero, l'esiguità delle imposte e il conseguente basso costo dei generi di prima necessità, la discrezione della polizia che si limita a reprimere la delinquenza senza tanto chiasso e senza mai infastidire cittadini né forestieri con odiosi eccessi di zelo burocratico, l'assenza di soldataglie intemperanti e disordinate, la serena tranquillità in cui si praticano commerci e mestieri, tutto questo le renderà assai piacevole il soggiorno nel nostro piccolo paese. Scommetto che finora nessuno le ha ancora chiesto nome e generalità e l'albergatore non le si è presentato portando solennemente sotto il braccio il grande registro su cui entro un quarto d'ora dall'arrivo, e dovunque si capiti - si è costretti a scarabocchiare i propri dati segnaletici come su un mandato di cattura, con penne spuntate e inchiostri sbiaditi. Insomma, nel nostro piccolo stato regna la vera saggezza, e il merito di tale ordinamento risale tutto al nostro impareggiabile principe. Perché, a quanto mi è stato detto, un tempo la gente qui veniva infastidita dalla stupida pedanteria di una corte ove si pretendeva di riprodurre in formato tascabile le grandi corti dei paesi vicini. Il principe ama le arti e le scienze, perciò qualsiasi artista o scienziato di valore è sempre il benvenuto qui. Il livello culturale è l'unica patente di nobiltà che sancisca il diritto a venir ammessi fra gli intimi del principe. Ma proprio nella mentalità artistica e scientifica di questo principe così intelligente e versatile si è infiltrata un po'della pedanteria dei suoi educatori; e adesso essa si manifesta nel pedissequo attaccamento a certe forme prestabilite. Il principe ha disegnato e prescritto agli architetti con pavida minuziosità ogni dettaglio di queste costruzioni; e il minimo divario dai modelli faticosamente scovati e ricavati da tutte le possibili opere di antiquariato gli avrebbe messo paura, così come lo avrebbe spaventato constatare che tali modelli, per certi versi, non erano adatti alla riproduzione in scala ridotta. Anche il nostro teatro soffre dello stesso male; se si innamora d'una certa forma, il principe non se ne discosta e a essa devono adattarsi tutti gli elementi, anche i più eterogenei. Il principe, inoltre, propende alle infatuazioni passeggere infatuazioni, peraltro, assolutamente innocue. Quando si allestiva il parco era appassionato di architettura e giardinaggio; poi la grande fioritura musicale di questi ultimi tempi lo ha entusiasmato, e a quell'entusiasmo dobbiamo la fondazione d'una orchestra eccellente; poi è stata la volta della pittura, che egli stesso pratica con eccezionale talento. E perfino nei passatempi quotidiani, a corte, si verificano continui mutamenti. Prima si ballava molto, adesso si tiene un tavolo di faraone e il principe, pur non essendo affatto un giocatore, si diverte ad osservare le curiose combinazioni del caso... Ma basterebbe uno spunto qualsiasi a portare qualcos'altro all'ordine del giorno. Questa volubilità nelle sue predilezioni ha valso al buon principe il rimprovero di mancare di quella profondità di spirito che rispecchia fedelmente, come un limpido lago, il quadro multicolore della vita. Secondo me gli si fa torto; perché è proprio la eccezionale vivacità di spirito che lo induce a seguire con passione qualsiasi impulso, senza peraltro dimenticare né trascurare i precedenti e non meno nobili interessi. Perciò lei vede questo parco così ben tenuto, perciò il nostro teatro, la nostra orchestra sussistono e ricevono ogni possibile appoggio, e la pinacoteca viene continuamente arricchita, nel limite delle nostre forze. In quanto poi al continuo mutamento dei passatempi a corte, questo è come un piacevole gioco; e chiunque desideri distrarsi dalle proprie occupazioni serie, spesso gravose, deve esserne grato al principe! Stavamo passando davanti a un gruppo d'alberi e cespugli disposti in modo estremamente pittorico. Manifestai la mia ammirazione. Tutti questi raggruppamenti di piante, di fiori, - spiegò il mio accompagnatore, - sono opera della nostra straordinaria principessa. È un'eccellente pittrice paesista, e il suo studio preferito sono le scienze naturali. Lei troverà perciò alberi esotici, fiori e piante rare - non messi in mostra come rarità ma disposti con gusto e intelligenza, come se fossero cresciuti sul loro suolo d'origine, senza alcun artificio. La principessa aveva in odio tutti quegli dei, quelle dee, naiadi, driadi, scolpite goffamente in pietra arenaria, di cui il parco pullulava. Ora sono tutte sparite. Lei troverà ancora qualche buona copia di opere antiche che il principe ha voluto conservare nel parco, probabilmente in omaggio a qualche caro ricordo, e la principessa delicatamente comprensiva dei gusti del marito ha saputo far collocare in modo da ottenere un effetto stupendo, anche per chi non conosca il retroscena della storia. Si era fatto tardi. Uscimmo dal parco; io invitai il mio accompagnatore a cenare con me in albergo, egli accettò e finalmente si diede a conoscere per l'ispettore della pinacoteca di corte. Cenando il tono della conversazione si fece più confidenziale ed io allora gli manifestai il mio vivo desiderio di avvicinare la famiglia del principe. - Niente di più facile, - mi rispose lui. - Qualsiasi straniero colto e intelligente è il benvenuto a corte. Le basterà fare una visita al maresciallo di corte e pregarlo di presentarla al principe -. Tale via diplomatica per giungere là dove volevo mi garbava assai poco, perché non potevo sperare di evitar certe domande imbarazzanti circa il luogo di provenienza, il mio stato, il mio carattere e via dicendo. Decisi perciò di rimettermi al caso: forse mi si sarebbe dischiusa spontaneamente una via più facile e breve. E così infatti avvenne, assai presto. Una mattina, mentre passeggiavo nel parco ancora deserto, incontrai il principe con indosso un semplice soprabito. Lo salutai, come se non lo conoscessi, ed egli subito si fermò domandandomi se fossi forestiero. Risposi affermativamente, soggiungendo che ero arrivato da un paio di giorni con l'intenzione di proseguire; ma poi le attrattive del luogo e specialmente la tranquillità, la cordialità regnanti dovunque, mi avevano trattenuto. Essendo indipendente, occupandomi soltanto d'arte, di studi, contavo ora di rimanere a lungo perché quell'ambiente mi attraeva e mi si confaceva moltissimo. Il principe parve soddisfatto delle mie parole e si offerse di mostrarmi i monumenti del parco e farmi da cicerone. Mi guardai bene dal dirgli che avevo già visto ogni cosa e mi lasciai condurre per le grotte, i tempietti, le cappellette gotiche, i vari padiglioni, ascoltando pazientemente i prolissi commentari su ogni singolo monumento. Il principe citava volta a volta i vari edifici presi a modello, richiamando la mia attenzione sulla fedeltà delle riproduzioni e diffondendosi ad illustrare i criteri cui egli si era ispirato nel tracciare quel parco e avrebbero dovuto valere per ogni altro tipo di parco. Mi chiese quindi il mio parere. Io lodai la piacevolezza del luogo, la stupenda, rigogliosa vegetazione ma, in quanto ai fabbricati, risposi a lui come già avevo risposto all'ispettore della pinacoteca. Egli mi ascoltò attentamente, parve non disapprovare del tutto talune mie opinioni ma poi troncò la discussione dicendo che, sì, da un punto di vista ideale potevo anche aver ragione, ma forse non mi rendevo conto delle esigenze pratiche, delle realtà concrete della vita. Il discorso andò a cadere sull'arte. Io mi mostrai un buon intenditore di pittura e, come musicista pratico, osai contraddirlo su alcuni punti. I suoi giudizi erano intelligenti e precisi, rivelavano una convinzione sincera ma lasciavano anche intendere che la sua cultura artistica, pur di gran lunga superiore a quella di tanti altri «grandi» - era ancor sempre troppo superficiale per consentirgli anche soltanto di sospettare a quali livelli di profondità si dischiudesse l'Arte al vero artista e nell'artista si accendesse la scintilla divina dell'anelito al Vero. Le mie contestazioni, le mie osservazioni, gli parvero altrettante riprove d'un dilettantismo non illuminato da alcun senso pratico. Cercò di erudirmi circa le vere finalità della pittura, della musica, mi spiegò le norme basilari d'un quadro, di un'opera. Appresi molte cose sul colorito, i drappeggi, i gruppi piramidali, la musica seria e buffa, le scene per la primadonna, i cori, gli effetti, i chiaroscuri, i giochi di luce ecc'ecc.. Il principe pareva prender moltissimo gusto alla conversazione ed io lo ascoltavo senza interromperlo. Finalmente si interruppe da sé, domandandomi a bruciapelo: - Lei gioca a faraone?... - Risposi di no. È un gioco magnifico, - disse lui. Nella sua estrema semplicità è il vero gioco per le persone intelligenti. È un po'come uscire di se stessi, o meglio, come porsi su un piano da cui si sia in grado di osservare le combinazioni stranissime intrecciate con filo invisibile dalla misteriosa potenza che noi chiamiamo «caso». Guadagno e perdita sono i due cardini su cui ruota la macchina misteriosa: noi le diamo la spinta d'avvio e poi essa continua a girare spontaneamente, per forza propria. Lei deve imparare questo gioco: glielo insegnerò io stesso! Replicai che fino a allora non avevo mai provato alcun desiderio di giocare perché, a quanto mi era stato detto e ripetuto, il gioco era estremamente pericoloso e poteva condurre alla rovina. - Eh, no! disse il principe fissandomi intensamente con quei suoi occhi chiari e vivaci. - Questo lo dicono le persone d'animo infantile. Mi crede un giocatore che voglia attrarla nella rete?... Io sono il principe. Se la mia residenza le piace, rimanga qui e venga a trovarmi. Nel mio circolo qualche volta si gioca a faraone, ma io non permetto mai che qualcuno venga a trovarsi in imbarazzo, benché il gioco, per interessare, debba essere consistente: il caso si impigrisce quando gli si offrono poste insignificanti. Stava già per lasciarmi ma ritornò verso di me e mi chiese: Potrei sapere con chi ho parlato? Risposi che mi chiamavo Leonardo; ero uno studioso, un privato qualsiasi, non certo nobile di nascita; perciò non avrei forse potuto approfittare del suo cortese invito a frequentare l'ambiente di corte. - Ma che nobile e nobile! esclamò il principe con vivacità. A quanto ho capito lei è un uomo intelligente e coltissimo. La cultura la nobilita e rende degno di frequentare il mio ambiente. Adieu, signor Leonardo. Arrivederci! E così il mio desiderio era stato appagato più presto e facilmente di quanto non sperassi. Per la prima volta in vita mia sarei dunque apparso in una corte, anzi, in un certo senso, vi sarei vissuto. Mi ritornarono alla mente tutte le rocambolesche storielle di intrighi, macchinazioni, raggiri di cortigiani, compulsate dagli ingegnosi autori di romanzi e commedie. A detta di costoro un principe dovrebbe essere circuito e ingannato da ogni sorta di malfattori, in primo luogo il maresciallo di corte - (un aristocratico altezzoso ed inetto) e il primo ministro - (un briccone avido e intrigante). I gentiluomini di camera dovrebbero esser tutti quanti dissoluti, seduttori di fanciulle... Visi artificiosamente atteggiati all'affabilità, ma cuori pieni di inganno e di menzogna. Tutti si sdilinquiscono in espressioni d'amicizia e di affetto, strisciano, s'inchinano uno davanti all'altro, ma sono nemici mortali e cercano di farsi lo sgambetto; precipitato il primo, quello che gli sta dietro prende il suo posto e lo tiene fino a quando non capita a lui la stessa cosa. Le dame di corte sono brutte, orgogliose, intriganti e, per di più, innamorate: tendono reti ed insidie da cui ci si deve guardare come dal fuoco! Questa l'immagine ch'io m'ero fatto d'una corte, da quel molto che avevo letto sull'argomento in seminario; mi sembrava ancor sempre che il diavolo vi spadroneggiasse indisturbato. E benché Leonardo, il quale di corti aveva personale esperienza, mi avesse raccontato alcune cose esorbitanti dai miei schemi, mi era rimasto un certo qual timore residuo di tutte le corti, in genere; e ora, alla vigilia di vederne una vera, me lo sentivo ritornare a galla. Ma più forte era il desiderio di avvicinare la principessa e di seguire la voce interiore che mi ripeteva incessantemente in oscure parole che «là» si sarebbe decisa la mia sorte. Perciò all'ora stabilita mi trovai, pieno di trepidazione, nell'antisala del castello. L'abbastanza lunga permanenza nella città imperiale e commerciale era valsa a togliermi di dosso ogni residuo di monacale goffaggine, rigidità, angolosità di movimenti. Il mio corpo, naturalmente flessuoso e ben costruito, si era abituato con facilità agli atteggiamenti spigliati e disinvolti dell'uomo di mondo. Il pallore che alterava i bei lineamenti del giovane monaco era scomparso dal mio viso... La mia età, l'età del massimo vigore fisico, mi coloriva le guance, irradiava dagli occhi. I capelli inanellati, castano scuri, celavano anche l'ultima traccia della tonsura. Indossavo, inoltre, un elegante abito nero all'ultimissima moda acquistato nella città commerciale e non potevo quindi mancare di produrre una buona impressione sugli invitati; i quali me lo dimostrarono comportandosi verso di me con premurosa cortesia ma sempre entro i limiti d'un'estrema finezza, vale a dire senz'ombra di indiscrezione. Secondo la mia teoria ricavata dai romanzi e dalle commedie il principe, dandosi a conoscere nel parco, nel pronunziare le parole: - Io sono il principe! - avrebbe dovuto sbottonarsi rapidamente il soprabito e mostrarmi una grande stella di diamanti. Ed ora, allo stesso modo, i signori del suo seguito avrebbero dovuto indossare giubbe ricamate, portare acconciature alte, rigide, e via dicendo. Invece, con mio grande stupore, li vidi tutti vestiti con gusto, sì, ma molto semplicemente. Constatai allora che il mio concetto della vita a corte poggiava su pregiudizi infantili e persi ogni imbarazzo. Mi rinfrancai del tutto quando il principe mi venne incontro esclamando: - Oh guarda: il signor Leonardo! - e si mise a scherzare sul severo occhio critico con cui avevo ispezionato il suo parco. Le porte si apersero e la principessa, accompagnata da due dame di corte, entrò nella sala di conversazione. Come trasalii vedendola! Alla luce delle candele era ancor più rassomigliante alla mia madre adottiva!... Le signore le si fecero incontro, io le fui presentato ed essa mi guardò con stupore e emozione evidente; sussurrò alcune parole che non compresi, si volse a una vecchia signora e le disse qualcosa sottovoce. La signora mi scrutò attentamente, con inquietudine: tutto ciò avvenne in un attimo. Poi la compagnia si divise in vari gruppi, più o meno numerosi, e le conversazioni si accesero vivaci, in un tono di libertà, di disinvoltura; si sentiva di trovarsi a corte, in vicinanza del principe, ma senza provarne il minimo senso di oppressione. Non vidi una sola persona corrispondente all'idea che m'ero fatta dei «cortigiani»: il maresciallo di corte era un vecchio godimondo, intelligente e brioso; i gentiluomini di camera, giovanotti svegli, senza per nulla aver l'aria di macchinare iniquità; le due dame della principessa sembravano sorelle, giovani e insignificanti entrambe ma, fortunatamente, vestite senza pretese. Contribuiva a tener desta l'animazione soprattutto un piccolo signore dal naso voltato in su, dagli occhi scintillanti e vivaci, vestito di nero con lunga spada al fianco, il quale serpeggiava fra gli invitati, passava da un gruppo all'altro con incredibile rapidità, senza fermarsi mai, senza attaccare discorso con nessuno ma lanciando intorno una pioggia sfavillante di facezie, di motti arguti e sarcastici. Era il medico personale del principe. La vecchia signora che aveva parlato con la principessa seppe circuirmi con tanta abilità, che, quasi senza avvedermene, venni a trovarmi solo con lei nel vano della finestra; la conversazione, per quanto scaltramente impostata, tradì subito il suo unico scopo: quello di indagare sulle circostanze della mia vita. Io ero preparato a una simile eventualità; e, convinto che in tali casi il modo più sicuro di evitare il pericolo fosse quello di raccontare le cose più semplici e naturali, mi limitai a dire d'aver studiato dapprima teologia e poi, dopo aver ereditato una notevole fortuna da mio padre, di esser partito in viaggio di piacere. Situai il mio luogo di nascita nella Prussia polacca e gli diedi un nome talmente barbaro da spezzare denti e lingua nel pronunziarlo; la vecchia signora ne ebbe l'orecchio offeso e le passò ogni voglia di domandarmelo una seconda volta. - Eh, signore, - mi disse, - il suo viso, qui, potrebbe ridestare tristi ricordi. Lei è forse qualcosa di più di quanto non voglia sembrare... Il suo contegno non fa pensare affatto a uno studente di teologia!... Vennero serviti i rinfreschi e quindi si passò nella sala in cui c'era il tavolo del faraone. Il maresciallo di corte teneva banco ma - a quanto mi dissero - era d'accordo col principe di trattenersi tutte le vincite; le perdite, qualora il banco si indebolisse, gli sarebbero state rifuse. Tutti gli uomini si affollarono intorno al tavolo meno il dottore il quale non giocava assolutamente mai e rimase insieme alle signore non partecipi al gioco. Il principe mi chiamò vicino a sé, mi spiegò brevemente il meccanismo del gioco e scelse le carte per me. Le sue risultarono tutte perdenti ed io, avendo seguito scrupolosamente i suoi consigli, persi come lui. La puntata minima era di un luigi d'oro: la perdita stava diventando notevole, la mia cassa scemava... Mi domandavo che sarebbe stato di me una volta sfumati gli ultimi luigi... Il gioco minacciava d'impoverirmi tutt'a un tratto e mi diventava sempre più odioso. Incominciò una nuova «taille». Pregai il principe di lasciarmi fare: evidentemente ero un giocatore sfortunato e portavo sfortuna anche a lui. Egli mi rispose sorridendo che lasciandomi consigliare da un giocatore esperto avrei ancora potuto rifarmi della perdita; comunque, giacché fidavo tanto in me stesso, voleva stare a vedere come me la sarei cavata. Tirai una carta dal mazzo così alla cieca, senza guardare: era la dama. Parrà ridicolo a dirsi, ma in quella pallida figura senza vita mi parve di ritrovare i tratti di Aurelia! Rimasi a fissare la carta incantato riuscendo a stento a nascondere la mia emozione. La chiamata del banchiere («Il gioco è fatto?») mi strappò da quell'intontimento. Senza riflettere cavai di tasca gli ultimi cinque luigi d'oro e li deposi sulla dama. La dama vinse. Insistei nel puntare sulla stessa carta cifre sempre più alte, a misura che la vincita aumentava. Ad ogni puntata i giocatori esclamavano: - No!... Non è possibile!... La dama finirà per tradirvi!... - E invece tutte le loro carte continuavano a perdere. - È miracoloso!... È inaudito!... - si esclamava da ogni parte mentre io, silenzioso e assorto, pensavo unicamente ad Aurelia senza quasi badare all'oro che il banchiere andava ammucchiando davanti a me. Per farla breve: durante le ultime quattro tailles la dama vinse senza interruzione... e io mi ritrovai con le tasche piene d'oro. Per mezzo della dama la fortuna mi aveva largito ben duemila luigi; ma io, benché fuori ormai d'ogni imbarazzo, mi sentivo addosso un invincibile senso di inquietudine... Vedevo una singolare correlazione fra le pernici abbattute sparando a casaccio e quell'inattesa fortuna al tavolo da gioco. Non io - questo era chiaro - ma la misteriosa potenza entrata in me operava simili prodigi; io ero soltanto lo strumento privo di volontà di cui essa si serviva per fini a me ignoti. Il prender coscienza di questa drammatica frattura interiore in un certo senso mi dava conforto perché annunziava il nascere e il maturarsi in me d'una forza mia propria, che un giorno si sarebbe opposta al nemico e lo avrebbe battuto. Il continuo riaffiorare della figura di Aurelia non poteva essere che una tentazione al misfatto; abusare in modo così infame di quella cara e casta immagine mi riempiva di ribrezzo e di orrore. La mattina seguente, mentre mi aggiravo nel parco, di pessimo umore, incontrai il principe il quale era solito uscire a passeggio a quell'ora. - Dunque, signor Leonardo, - mi disse. - Che cosa gliene pare del mio faraone?... Che ne dice del caso capriccioso che le ha perdonato tutte le sue pazzie ricoprendola d'oro?... Per sua fortuna lei aveva messo le mani sulla carta «favorita», ma così ciecamente lei farà bene a non più fidarsi neppure di quella carta, - e si diffuse a spiegarmi il proprio concetto della «carta- favorita», mi suggerì tutte le norme più oculate per farla in barba al caso e concluse dicendosi certo che d'ora innanzi non avrei più smesso di perseguire la fortuna al tavolo da gioco. Risposi con franchezza che ero fermamente deciso a non toccare mai più una carta. Il principe mi guardò meravigliato. È stata proprio la mia eccezionale fortuna di ieri a farmi prendere questa decisione, - continuai, perché mi ha confermato tutto ciò che avevo inteso dire sulla disastrosa pericolosità del gioco. Ho scelto alla cieca una carta qualsiasi; quella carta ha ridestato in me un ricordo doloroso, straziante; ed io - orribile a dirsi! sono caduto in balìa d'una forza sconosciuta che mi ha gettato in pasto la fortuna, il guadagno, il denaro... Quella forza agiva come se scaturisse da me, come se io, pensando alla persona uscita dalla carta inanimata per balzarmi incontro viva e vera, potessi comandare al caso, conoscendone le trame più arcane. - Capisco, - mi interruppe il principe. - Lei ha avuto un amore infelice, la carta le ha richiamato alla memoria la figura dell'amata perduta... benché, col suo permesso, se immagino il comico faccione sbiadito della dama di cuori capitatale in mano, la cosa mi sembri piuttosto ridicola... Insomma, lei ha pensato alla donna amata ed essa le è stata più fedele e benefica nel gioco che non forse nella realtà. Ma che cosa ci sia di orribile e di spaventoso in tutto questo io proprio non lo capisco. La fortuna le è stata benigna: dovrebbe rallegrarsene! Comunque sia, se il rapporto fra la fortuna al gioco e il suo amore le è parso un segno così sinistro e di cattivo augurio, la colpa non è del gioco ma del suo personale stato d'animo. - Può darsi, vostra grazia, - risposi. - Ma sento troppo chiaramente che non il pericolo di venire a trovarsi in una situazione difficile per una grossa perdita rende il gioco così disastroso, ma piuttosto la temerarietà di voler sfidare in campo aperto la misteriosa potenza che esce dal buio come un luminoso miraggio per attrarci in una regione ove ci può ghermire e schiacciare, facendosi beffa di noi. L'uomo, fidando con infantile incoscienza nelle proprie forze, affronta questa lotta come un'attraente bravata; e fatto il primo passo non potrà più tornare indietro perché, anche ridotto agli estremi, continuerà a sperare nella vittoria. Da questo deriva, secondo me, la passione folle dei giocatori di faraone e lo sconvolgimento mentale che li rovina - e non può dipendere dalla sola perdita di denaro, che del resto basta già da sola a causare contrarietà infinite e a mettere in grave imbarazzo anche un giocatore immune da quella rovinosa passione e indotto al gioco dalle circostanze. Le confesso, illustrissimo, ieri sono stato a un pelo dal veder sfumare tutti i miei fondi di viaggio. - Sarei venuto a saperlo, - disse prontamente il principe, - e le avrei rifuso il triplo della perdita, perché non voglio che nessuno si rovini per il mio piacere. Ma questo da me non può succedere: conosco i miei giocatori e non li perdo d'occhio. - Un simile controllo sopprime la libertà del gioco, illustrissimo, risposi, - e pone un limite alle singolari combinazioni del caso che rendono il gioco tanto interessante a vostra grazia. E poi, un giocatore veramente posseduto dalla passione del gioco non troverà modo ugualmente di eludere la sua sorveglianza, creando in se stesso una rovinosa incongruenza? Perdoni la mia franchezza, illustrissimo. Io credo proprio che qualsiasi limitazione della libertà, anche ove della libertà si faccia abuso, sia cosa addirittura incompatibile con la natura umana, e quindi insopportabile. - A quanto sembra, signor Leonardo, lei non è mai del mio parere, - disse lui; e gettandomi là un piccolo «adieu» a denti stretti, si allontanò in fretta. Benché nella città commerciale avessi molte volte assistito, da semplice spettatore, a giochi con banchi cospicui e riflettuto abbastanza sulla questione del gioco per formarmi la precisa convinzione in proposito che ora involontariamente mi era salita alle labbra, pure non riuscivo quasi a capire come avessi potuto esprimermi con tanta franchezza. Mi spiaceva essermi giocato così il favore del principe e aver perduto il diritto di frequentare l'ambiente di corte e avvicinare la principessa. Ma mi sbagliavo: la sera stessa ricevetti un biglietto d'invito per un concerto, a corte. - Buona sera, signor Leonardo, - mi disse il principe con affabile ironia, passandomi accanto. Voglia il cielo che l'orchestra si faccia onore e la mia musica le piaccia più del mio parco! L'esecuzione riuscì infatti molto garbata e precisa; la scelta dei pezzi non mi parve tuttavia felice perché un pezzo distruggeva l'effetto dell'altro. Mi annoiò cordialmente soprattutto una lunga scena lirica, composta su una formula stantia. Mi guardai bene dall'esprimere la mia opinione e ciò fu molto saggio perché - a quanto mi dissero in seguito - proprio quella scena era una composizione del principe. Ritornai al prossimo ricevimento a corte senza più alcuna perplessità. Pensavo di partecipare al gioco del faraone per riconciliarmi completamente col principe ma constatai con stupore che il banco non c'era più. Si andavano invece formando alcuni dei soliti tavolini da gioco, mentre fra gli altri invitati, seduti intorno al principe, ferveva una conversazione vivace e intelligente. Ciascuno cercava di raccontare qualcosa di divertente e largo spazio era dato agli aneddoti arguti, mordaci. La mia facilità di parola mi tornò utilissima; riuscii a porgere in modo assai piacevole alcuni episodi di vita vissuta, ammantati, naturalmente, d'un velo di poetica romantica, conquistandomi così l'attenzione e il consenso dell'uditorio. Il principe preferiva però i racconti allegri, umoristici; e qui nessuno superava il medico di corte il quale, in fatto di trovate comiche e sortite spiritose, era veramente inesauribile. Questo tipo di trattenimento ebbe successo e la cosa andò più in là; qualcuno incominciò a portare con sé i propri scritti e a leggerli ad alta voce, sì che ben presto i ricevimenti a corte presero l'aspetto di ben organizzati convegni esteticoletterari presieduti dal principe e durante i quali ciascuno si impegnava nella materia che meglio gli conveniva. Una volta uno scienziato - un fisico illustre - ci sbalordì con alcune interessanti scoperte nel proprio campo. Ma quanto più l'argomento trovava rispondenza fra gli ascoltatori sufficientemente preparati per comprendere le spiegazioni scientifiche del professore, tanto più gli altri si annoiavano. Perfino il principe sembrava non trovar nulla di speciale nelle idee dello scienziato e attendere con viva impazienza la conclusione. Quando questa finalmente venne, il medico di corte tirò un sospiro di sollievo, si profuse in parole di ammirazione e di lode ma subito soggiunse che alle profonde elucubrazioni scientifiche doveva pur seguire qualcosa per ricreare lo spirito. I deboli, affranti dalla poderosità della scienza ad essi ignota, si rianimarono e anche sul viso del principe passò un sorriso abbastanza eloquente per dire quanto egli fosse soddisfatto di rimettere i piedi sulla terra. - Come lei sa, grazioso signore, - disse il medico volgendosi a lui, quando sono in viaggio ho l'abitudine di riportare fedelmente nel mio diario tutti gli aneddoti divertenti colti dal vero, soprattutto quelli più comici e originali. Ora desidero raccontarne uno che, pur senza essere particolarmente importante, mi sembra molto spassoso. Durante il viaggio dello scorso anno giunsi a notte inoltrata in quel grosso villaggio a quattro ore da B.. Scesi nel migliore albergo dove fui accolto da un albergatore premuroso, benché svegliato in pieno sonno. Stanco, anzi sfinito, dal lungo viaggio, appena fui in camera mi infilai nel letto per farmi una bella dormita; ma, diciamo verso l'una, fui svegliato dalla voce vicinissima di un flauto. Non avevo mai sentito suonare in quel modo, in vita mia. Quel flautista doveva avere polmoni mostruosi: continuava a ripetere lo stesso passaggio con un suono così penetrante, così stridente, da rendere irriconoscibile il timbro dello strumento. Impossibile immaginare una cosa più esecrabile e assurda. Imprecai, maledissi il dannato musicante maniaco che mi rubava il sonno e straziava le orecchie, ma quello continuò imperterrito a snocciolare il suo passaggio, come un orologio caricato a molla, fino a quando il tonfo sordo d'un oggetto scagliato contro la parete non lo zittì; ed io potei riaddormentarmi tranquillamente. - La mattina dopo udii un violento alterco al piano di sotto; distinsi la voce dell'albergatore e quella d'un altro che continuava a gridare: «È stato il diavolo a condurmi qui dentro! In questo albergo non si può bere un sorso né mangiare un boccone!... Tutto perfido... e tutto cento volte più caro che altrove! Eccole il suo denaro. Addio. Nella sua maledetta stamberga non mi rivedrà mai più!» - Così strillando, un ometto secco come una canna, vestito color caffè e con un cappello grigio infilato marzialmente a sghimbescio su una parrucca rossiccia, uscì quasi di corsa dall'albergo e si diresse verso la scuderia donde lo vidi uscire di galoppo pesante in sella a un ronzino piuttosto impedito nei movimenti. - Lo credetti naturalmente un forestiero che partiva per aver litigato con l'albergatore, e perciò a mezzogiorno mi meravigliai non poco vedendo entrare in sala da pranzo e sedersi a tavola senza cerimonie lo stesso comico personaggio vestito color caffè, con la stessa parrucca rossiccia, che avevo visto partire a cavallo la mattina. Non m'era mai capitato d'incontrare un viso più brutto e al tempo stesso più comico del suo; c'era, in quello strano tipo, una gravità così buffa che, osservandolo, riusciva difficile trattenersi dal ridere. Mentre pranzavamo insieme, scambiai poche parole di conversazione con l'albergatore; il forestiero mangiava a quattro palmenti e alla nostra laconica conversazione non si associò. Fu (me ne resi conto in seguito), una malignità bella e buona da parte dell'albergatore condurre il discorso su certe caratteristiche nazionali. Mi domandò se io conoscessi gli irlandesi e sapessi qualcosa dei loro cosiddetti «bulls». (10) «Come no!», risposi, mentre un intero repertorio di «bulls» mi ritornava alla memoria. Raccontai quello dell'irlandese il quale, quando gli domandarono perché portasse una calza alla rovescia ingenuamente rispose: «Perché sul diritto c'è un buco!»; ricordai quindi lo stupendo «bull» dell'irlandese che dormiva nello stesso letto con uno scozzese irascibile e, dormendo, aveva messo il piede nudo fuori della coperta; un inglese presente nella camera se ne accorse e in un baleno tolse lo sperone dallo stivale dell'irlandese e glielo affibbiò al piede. L'irlandese, continuando a dormire, ritirò il piede sotto le coperte e graffiò con lo sperone lo scozzese che si svegliò e gli diede uno schiaffo solenne. Dopodiché, fra i due si svolse il seguente sensatissimo dialogo: «Che diavolo ti prende?... Perché mi schiaffeggi...» - «Perché mi hai graffiato con lo sperone!» «Com'è possibile?... Se mi sono coricato a piedi nudi!...» - «Eppure è così: guarda!» - «Dio mi fulmini... hai ragione!... Quel dannato briccone di domestico mi ha sfilato lo stivale e ha dimenticato di togliermi lo sperone». - L'albergatore scoppiò in una clamorosa risata; lo straniero, invece, finì di mangiare, tracannò un grosso bicchiere di birra, mi guardò serio e disse: «Lei ha ragione, gli irlandesi commettono spesso simili spropositi, ma ciò non dipende affatto dalla popolazione, che è attiva e intelligente: dipende da una certa arietta dannata che tira da quelle parti e ti fa buscare la balordaggine come ti buscheresti un raffreddore. Infatti, signor mio, io, in realtà, sono inglese, ma nato e educato in Irlanda, perciò sono affetto dal dannato morbo dei «bulls»». - L'albergatore rise ancora più forte ed io fui costretto, mio malgrado, ad imitarlo; perché era troppo divertente che un irlandese al solo parlare di «bulls» ce ne porgesse uno così squisito. Il forestiero, lontanissimo dall'offendersi per le nostre risate, spalancò gli occhi, si mise le dita davanti al naso e disse: «In Inghilterra gli irlandesi sono il condimento forte aggiunto per insaporire la popolazione. Io personalmente rassomiglio a Falstaff su quest'unico punto: che non soltanto sono arguto e spiritoso ma rendo tali anche gli altri; (11) il che, nel nostro tempo insulso, non è merito di poco conto. Lo crederebbe?... Per merito mio molte volte diventa arguto perfino quest'animo di birraio, vuoto e coriaceo. Ma, in fondo, è un buon oste; non intacca mai il suo sparuto capitale di trovate geniali ma di quando in quando ne impresta qualcuna - ad alto interesse! - qua e là, nell'ambiente dei ricchi. E se non è garantito dagli interessi, come per esempio adesso, mostra tutt'al più la rilegatura del libro mastro, e cioè la sua crassa risata. Dentro la risata c'è avvolta la barzelletta. Salve, signori miei!» - Così dicendo quel bel tipo originale uscì ed io subito domandai di lui all'albergatore. «Quell'irlandese», mi rispose lui, «si chiama Ewson e pretende di essere inglese perché il suo albero genealogico ha radici in Inghilterra. Si trova qui soltanto da poco tempo: da ventidue anni, per l'esattezza. Ero ancora giovane; avevo appena comprato quest'albergo e stavo festeggiando il mio matrimonio, quando il signor Ewson, giovane anch'egli ma già fin d'allora con tanto di parrucca rossiccia, cappello grigio, abito color caffè identico a quello che indossava oggi, rientrando in patria capitò qui di passaggio e venne attirato dentro dalla allegra musica da ballo. Giurò e spergiurò che soltanto sulla nave, dove aveva imparato lui fin da bambino si sapeva ballare; e per dimostrarcelo si esibì in uno H o r n p i p e (12) fischiettandone orrendamente il motivo fra i denti; ma nell'eseguire un salto magistrale si slogò un piede così in malo modo da esser costretto a coricarsi nel mio albergo e farsi curare. Da allora non mi ha più lasciato. Però mi mette in croce con le sue stramberie; da anni litiga con me, tutti i santi giorni; si accanisce contro il nostro genere di vita, mi rinfaccia di strozzarlo coi prezzi, dichiara di non poter vivere senza roastbeef e senza p o r t e r ; (13) poi fa fagotto, ammucchia le tre parrucche una sull'altra, si congeda, monta sul vecchio ronzino e se ne va. Ma si tratta soltanto d'una passeggiatina a cavallo, perché a mezzogiorno rientra dall'altra porta, siede tranquillamente a tavola davanti alle solite pietanze immangiabili, come lei ha visto poco fa, e mangia per tre. Una volta all'anno riceve una cospicua lettera di credito; allora mi dice tristemente addio chiamandomi «il suo miglior amico», e lacrimando, tanto che anche a me vengono le lacrime agli occhi (ma per lo sforzo di trattenermi dal ridere...) e, dopo aver steso le sue ultime volontà, per la vita e per la morte, legando ogni avere alla mia figlia maggiore, sale a cavallo tutto commosso e si avvia pian piano verso la città. Ma dopo tre o quattro giorni al massimo è di nuovo qui, con due vestiti color caffè, tre parrucche rossicce, una più sgargiante dell'altra, sei camicie, un cappello grigio nuovo e vari altri capi di vestiario. Alla mia figliola maggiore, la sua prediletta, porta un cartoccino di confetti come se fosse ancora una bimba, mentre ha già sedici anni compiuti. Non pensa neppure lontanamente a rimanere in città o a tornarsene in patria!... Regola il conto sera per sera e il prezzo della colazione me lo getta rabbiosamente addosso ogni mattina, prima di andarsene a cavallo per non ritornare mai più. A parte questo, è il miglior uomo del mondo; colma i miei figli di regali ad ogni occasione, benefica i poveri del villaggio. Soltanto il parroco non può soffrire perché una volta fece cambiare in centesimi di rame una moneta d'oro che egli aveva infilato nella cassetta delle elemosine; Ewson è venuto a saperlo dal maestro di scuola e da quel giorno evita perfino di andare in chiesa per non vedere il parroco, il quale, per rivalsa, va dichiarandolo «ateo» ai quattro venti. Come le ho detto, mi dà continuamente delle grane perché è impulsivo, irascibile, capriccioso, imprevedibile. Ancora ieri, mentre rincasavo, ho udito urlare già da lontano e ho subito riconosciuto la sua voce. Sono entrato in casa e l'ho trovato alle prese con la cameriera. Come sempre quando va in collera aveva gettato via giacca e parrucca e così, a capo nudo e in maniche di camicia, spingeva un grosso libro sotto il naso della domestica e le additava qualcosa sulla pagina urlando e imprecando. La ragazza, con i pugni puntati sui fianchi, gli strillava che per le sue bricconate se ne cercasse pure un'altra... era un uomo cattivo... non credeva a niente, eccetera eccetera. Con molta fatica riuscii a separarli e a farmi spiegare la causa del litigio: Ewson aveva chiesto alla fantesca di portargli alcuni cialdini per sigillare le lettere; la ragazza dapprima non aveva capito, poi le era venuto in mente che i cialdini fossero le ostie usate per la Comunione ed Ewson - quel negatore di Dio, come lo chiamava il parroco - volesse recare qualche sfregio sacrilego all'ostia. Naturalmente aveva reagito; e l'altro, credendo d'esser stato frainteso per difetto di pronunzia, messo mano al dizionario inglesetedesco, cercava di mostrare alla contadinella analfabeta che cosa le avesse chiesto, parlando però soltanto più in inglese; e alla fantesca pareva di sentire in quel linguaggio una confusa tiritera diabolica. Soltanto il mio intervento credo abbia impedito al signor Ewson di tagliar corto passando alle vie di fatto». - Interruppi l'albergatore per domandargli se fosse stato il signor Ewson a disturbarmi e a straziarmi le orecchie durante la notte con quel terribile flauto. «Ah, signor mio», rispose lui. «Questa è un'altra delle sue specialità! Mi spaventa i clienti, per poco non me li fa scappare!... Tre anni fa mio figlio ritornò dalla città. Il ragazzo suona il flauto; aveva un ottimo strumento e si esercitava a suonare, molto assiduamente. Questo ricordò al signor Ewson che anch'egli, un tempo, aveva suonato il flauto: allora non diede più pace al mio Fritz fino a quando non riuscì a comprargli per una bella somma di denaro lo strumento e un concerto pure acquistato in città. Da quel giorno il signor Ewson, totalmente privo di orecchio, negato alla musica, al ritmo, si mise a studiare quel concerto con tutto l'impegno; ma, arrivato al secondo a solo del primo allegro, incappò in un passaggio per lui ineseguibile; e così da tre anni, quasi ogni giorno, continua a ripetere centinaia e centinaia di volte quello stesso passaggio, e sempre va a finire che monta su tutte le furie e scaraventa contro il muro il flauto prima, la parrucca poi. Poiché pochi flauti sopportano un simile trattamento, gliene occorrono spesso di nuovi, per cui ora ne ha abitualmente tre o quattro sotto mano. Ma quando trova rotta una piccola vite, o una valvoletta difettosa getta lo strumento dalla finestra imprecando: «Maledizione!... Soltanto in Inghilterra si sanno costruire strumenti che valgano qualcosa!...» - La cosa più tremenda è che questa passione musicale lo coglie per lo più di notte, e così molte volte mi sveglia i clienti a suon di piffero. Lei non lo crederà, ma qui nell'ufficio amministrativo vive un dottore inglese quasi dalla stessa epoca in cui il signor Ewson capitò qui da me. Si chiama Green e simpatizza col signor Ewson per il fatto di essere un originale come lui e altrettanto pieno di estroso umorismo. Litigano in continuità ma non possono vivere l'uno senza l'altro. A proposito! Oggi il signor Ewson mi ha ordinato il punch per una serata a cui ha invitato il podestà e il dottor Green. Se lei, signore, vorrà trattenersi fino a domattina avrà occasione di vedere qui, nel mio albergo, il più comico terzetto del mondo». - Come può immaginare, grazioso signore, rimandai ben volentieri la partenza perché speravo proprio di vedere il signor Ewson nel pieno fulgore della sua gloria. Giunse appena si fece sera e fu tanto gentile da invitarmi al punch, esprimendomi tutto il suo disappunto per essere costretto ad offrirmi l'ignobile bevanda che qui da noi si chiama punch... Il punch lo si sapeva bere soltanto in Inghilterra, dove contava di ritornare prestissimo; se una volta o l'altra ci fossi capitato anch'io mi avrebbe dimostrato di sapere come si prepara quella squisita bevanda!... Io già sapevo che cosa pensare di quella faccenda. Di lì a poco giunsero gli invitati. Il podestà era un ometto piccolino, tondo come una palla, con due occhietti dallo sguardo giocondo e il nasino rosso; il dottor Green era invece un omone robusto, di mezza età, con una faccia inequivocabilmente inglese, vestito alla moda ma con trasandatezza, occhiali sul naso, cappello in testa. Avanzò verso l'albergatore, lo agguantò per il petto, lo scosse con energia declamando pateticamente: «Datemi dello spumante! Tanto spumante da farmi arrossare gli occhi!... Parla, briccone d'un Cambise! Dove sono le principesse?... Qui sento odor di caffè, non di nettare degli dei!...» - «Lasciami, o eroe!», gemette l'oste ansimando. «Giù quella ferrea man... Nel tuo furore - mi stritoli il costato!» «Non prima, vile femminuccia», tuonò il dottore, «che il dolce aroma del punch ci abbia solleticato il naso e obnubilato i sensi... Non prima ti lascerò, indegnissimo oste!...» Ma a questo punto Ewson gli fu addosso urlando furente: «Indegnissimo Green!... Dovrai vedere verde e gemere nell'afflizione (14) se non desisti dalla vile impresa!...» - Pensai che stesse per scatenarsi un putiferio, invece il dottore si limitò a dire: «Me ne infischio della viltà impotente... Preferisco rimanere tranquillo ad attendere il divin nettare da te ammannito, egregio Ewson...», e, lasciato libero l'albergatore che sgusciò via alla svelta, sedette al tavolo con un viso di Catone, mise mano alla pipa già carica e incominciò a sbuffare dense nubi di fumo. «Non le sembra di essere a teatro?...», mi chiese il podestà tutto affabile. «Il dottore non prende mai un libro in mano; ma da quando ha trovato per caso in casa mia lo Shakespeare tradotto da Schlegel non fa che suonare a modo proprio melodie antichissime e stranote su uno strumento non suo... Avrà notato che perfino l'albergatore parla in metro. Il dottore l'ha, per così dire, giambizzato». - L'albergatore portò la caraffa di punch fumante. Ewson e Green, giurando e spergiurando che era imbevibile, ne tracannarono parecchi bicchieri uno sull'altro. Avviammo una conversazione discreta. Green, avaro di parole, interveniva solo di quando in quando, tenendosi sistematicamente all'opposizione. Un esempio: il podestà stava parlando del teatro civico ed io osservavo che, a mio avviso, il primo attore recitava magnificamente. - «Non trovo!», saltò su il dottore. «Se recitasse sei volte meglio non sarebbe assai più meritevole di successo?... Non crede?...» Fui costretto a dargli ragione. Soggiunsi tuttavia che di recitare sei volte meglio avrebbe avuto assai maggior bisogno l'altro attore, quello che tragicizzava in modo così pietoso le parti del tenero padre. (15) - «Non trovo», ribatté Green. «Quell'uomo dà tutto quello che ha. Se ha tendenza alla cattiva recitazione che cosa ne può?... Ma nella cattiva recitazione ha raggiunto un grado di perfezione notevole, e quindi dobbiamo lodarlo». - Il podestà, col suo dono di provocar le sortite, i giudizi più strampalati dei due amici, sedeva in mezzo a loro come una specie di elemento eccitante... Continuarono su questo tono fino a che gli effetti del punch forte non incominciarono a farsi sentire. Allora Ewson divenne sfrenatamente allegro, cantò con voce gracidante canzoni nazionali, gettò giacca e parrucca dalla finestra e, accompagnandosi con le più inverosimili smorfie, si mise a ballare in modo così buffo da farci morir dal ridere. Il dottore si manteneva serio ma soffriva di allucinazioni: scambiata la caraffa del punch per un contrabbasso, voleva accompagnare i canti di Ewson menando il mestolo a mò di archetto. Soltanto le violente proteste dell'albergatore riuscirono a farlo desistere dall'insano proposito. Il podestà si era fatto sempre più silenzioso; ad un tratto avanzò incespicando fino all'angolo della camera dove sedevo io e scoppiò in pianto disperato. Compresi a volo il cenno dell'oste e gli domandai quale fosse il motivo di tanta afflizione. «Ah, ah!...» gemette il buon uomo fra i singhiozzi. «Il principe Eugenio... il grande condottiero... l'eroico principe... è morto!... Ah, ah!...», e riprese a piangere ancora più forte, stillando lacrime giù per le guance. Cercai di consolarlo della perdita del valoroso principe, avvenuta tanto tempo fa, nel secolo scorso, ma invano. - Il dottor Green aveva frattanto dato di piglio a un enorme smoccolatoio e lo vibrava puntandolo verso la finestra aperta: pretendeva di smoccolare niente meno che la luna, luminosa e chiara. Ewson continuava a saltare e ad urlare come se avesse mille diavoli in corpo e non la smise fino a quando entrò il garzone dell'albergo con una grossa lanterna (malgrado il bel chiaro di luna), gridando forte: «Eccomi, signori! Ora possiamo andare». Il dottore gli si piantò davanti e soffiandogli una nube di fumo sulla faccia declamò: «Benvenuto amico! Sei tu colui che reca il chiar di luna, e il cane, e il biancospino?... Ti ho smoccolato, briccone, ecco perché risplendi in questo modo! Buona notte! Di dolce succo ne ho bevuto assai. Buona notte, oste mio egregio, buona notte, o mio Pilade!». (16) - Ewson giurò che nessuno sarebbe ritornato a casa senza rompersi il collo, ma nessuno gli diede retta. Il garzone afferrò il dottore con un braccio, con l'altro il podestà (che continuava a piangere la perdita del principe Eugenio) e così si avviarono barcollando verso il municipio. Con molta fatica portammo quel pazzo scatenato di Ewson nella sua camera, dove imperversò col suo flauto per l'altra mezza nottata non lasciandoci chiuder occhio. Soltanto quando fui in vettura potei rimettermi dalla estenuante serata. Il racconto del medico fu ripetutamente interrotto da risate più sonore di quanto non si sia soliti udirne negli ambienti di corte. Il principe sembrava essersi molto divertito: - Una sola figura del quadro, - disse al medico -lei ha lasciato troppo nello sfondo: la sua! Perché scommetto che con quel suo umorismo talvolta un tantino maligno avrà certamente istigato lo stravagante Ewson e il patetico dottore a commettere chissà quali mattane! In realtà, l'elemento stimolante della riunione era lei e non quel lamentevole podestà, come ha voluto farci credere. - Le assicuro, grazioso signore, - rispose il medico, - che quel club di rarissimi mattacchioni era già talmente perfetto così come l'ho descritto che qualsiasi elemento estraneo sarebbe stato una stonatura. Per attenermi alla similitudine musicale potrei aggiungere che quei tre bei tipi formavano un «accordo perfetto»: ciascuno di essi dava una nota diversa ma armonicamente consonante con le altre due. L'albergatore vi si era sovrapposto come una settima. Continuammo a conversare dal più al meno su questo tono fino a quando i principi non si ritirarono nelle proprie stanze, come d'abitudine, e la riunione si sciolse in un clima di buon umore generale. Io ormai mi muovevo sereno e soddisfatto in un mondo nuovo; e quanto più mi assuefacevo alla vita tranquilla e cordiale della residenza e della corte, sentendo di poter ricoprire con onore e con successo il posto che colà mi veniva offerto, tanto meno ripensavo al passato o all'eventualità che la mia situazione in quel mondo potesse un giorno cambiare. Il principe sembrava apprezzare particolarmente la mia compagnia, e da certi suoi fuggevoli accenni credevo di poter concludere ch'egli avesse intenzione di darmi comunque una sistemazione stabile accanto a sé, nel proprio ambiente. Innegabilmente, quella certa uniformità di educazione e di cultura, quella maniera convenzionale di considerare qualsiasi attività scientifica o artistica propagatasi dalla corte in tutta la residenza, doveva aver reso la vita difficile a più d'un uomo intelligente e abituato all'incondizionata libertà. Ma, a rendermi meno fastidiose tali limitazioni, mi tornava assai utile l'antica consuetudine di regolare almeno gli atti esteriori della vita su certe forme prestabilite. Senza dubbio la vita di convento influiva ancora inavvertitamente su di me. Come ho già detto, se il principe mi prediligeva, la principessa, per quanto mi sforzassi di attrarne l'attenzione, rimaneva fredda e chiusa, anzi, la mia presenza molte volte sembrava stranamente turbarla; anche soltanto rivolgermi qualche parola gentile come a tutti gli altri già le costava fatica. Miglior fortuna godevo presso le dame del seguito; il mio aspetto le aveva bene impressionate e, vivendo molto nel loro ambiente ero riuscito ad acquistare in breve tempo quella singolare forma di buona creanza detta «galanterie», la quale in null'altro consiste se non nel dare anche alla conversazione la duttilità, la scioltezza di movimenti caratteristiche degli individui sempre perfettamente «a posto», in ogni luogo o circostanza. La «galanterie» consiste, insomma, nella singolare facoltà di parlar di nulla con parole importanti, suscitando nelle donne una piacevole sensazione di benessere di cui esse non sanno rendersi chiaro conto. Che questa superiore, genuina galanteria non debba confondersi con la crassa adulazione è già implicito in quanto si è detto. Tuttavia, quelle interessanti chiacchierate (molto simili ad inni di adorazione...) penetrano così profondamente nell'animo delle signore da dar loro l'illusione di veder chiaro dentro di sé, nonché la soddisfazione di rispecchiarsi nel riflesso della propria personalità. Chi avrebbe ancora potuto riconoscere in me il fraticello?... L'unico luogo pericoloso per me era forse ancora la chiesa, dove mi riusciva difficile praticare gli esercizi di pietà senza caratterizzarli con un ritmo, con una cadenza inequivocabilmente monastici. Il medico di corte era il solo a non avere accettato lo stampo uniforme con cui tutto veniva coniato come una stessa moneta, e ciò mi aveva attratto verso di lui. Egli, a sua volta, si era avvicinato a me perché, come ben sapeva, sulle prime io mi ero schierato all'opposizione, e le mie franche dichiarazioni avevano convinto il principe, così sensibile alla schietta verità, a bandire una volta per tutte dalla corte l'odiato gioco del faraone. Perciò stavamo spesso insieme a chiacchierare d'arte, di scienza o più semplicemente dei casi della vita, in genere. Il medico venerava la principessa quanto la veneravo io; a suo dire, lei soltanto era capace di raddrizzare talune mancanze di gusto nel principe, lei soltanto sapeva dissipare (ponendogli in mano quasi di soppiatto qualche giocattolo inoffensivo) quell'indefinibile noia che lo faceva fluttuare qua e là, alla superficie delle cose. Colsi l'occasione per fare al medico la mia lamentela; mi ero accorto, gli dissi - di causare alla principessa un insopportabile senso di disagio, senza riuscire a scoprirne il motivo. Il medico si alzò di scatto, andò a prendere nella scrivania (eravamo in casa sua) una piccola miniatura e me la porse, raccomandandomi di osservarla bene. O stupore! Nel ritratto di quello sconosciuto riconobbi... me stesso! Sarebbe bastato cambiare la pettinatura, il vestito fuori moda, aggiungere i folti favoriti (... il capolavoro di Belcampo!...) per fare di quel ritratto il mio. Lo dissi al medico senza reticenze. - È stata appunto questa rassomiglianza, - rispose lui, - a impressionare e inquietare la principessa. Il suo viso ha ridestato in lei il ricordo d'un fatto orrendo abbattutosi sulla corte come una folgore molti anni fa. Il medico mio predecessore e maestro, morto da alcuni anni, me lo confidò e mi diede questo ritratto miniato di Francesco, l'allora favorito del principe. Come lei vede, pittoricamente parlando è un autentico capolavoro. Lo dipinse un pittore forestiero, un tipo stranissimo il quale a quell'epoca si trovava a corte e nella tragedia ebbe la parte di maggior rilievo. Osservando il ritratto provai sensazioni confuse, indefinibili, che invano tentai di chiarire. Quel drammatico avvenimento mi pareva dovesse racchiudere un mistero in cui fossi coinvolto io stesso. Insistetti dunque perché il medico mi raccontasse il fatto: la mia casuale rassomiglianza con Francesco mi pareva mi desse il diritto di conoscerlo. Capisco come questa circostanza singolare stuzzichi la sua curiosità, - disse lui. - Io parlo molto malvolentieri di quell'avvenimento. Su di esso almeno per me - grava ancora un velo di mistero ed io non ho alcuna intenzione di sollevarlo. Comunque voglio dirle quanto ne so. Molti anni sono passati; i protagonisti della vicenda sono ormai usciti di scena. Rimane soltanto il ricordo - ed è un ricordo estremamente penoso. La prego di non rivelare a nessuno quanto sto per dirle -. Glielo promisi ed egli incominciò così: - All'epoca in cui il nostro principe si ammogliò, il marchese (17) suo fratello giunse qui di ritorno da un lungo viaggio in compagnia d'un individuo che egli chiamava Francesco (benché fosse notoriamente un tedesco) e di un pittore. Il marchese era un uomo come se ne vedono pochi, di gran lunga superiore al nostro principe non soltanto per bellezza fisica ma anche per esuberanza vitale, vigoria intellettuale. Egli produsse perciò una straordinaria impressione sulla giovane, bellissima principessa, allora vivace fino all'eccesso, troppo forse per armonizzare col freddo formalismo del principe. E la simpatia fu reciproca. Pur senza nutrire intenzioni colpevoli, entrambi dovettero cedere a una forza irresistibile, essendo la loro vita sentimentale condizionata da un'unica possibilità: quella d'accendersi di reciproco amore. Alimentarono così la fiamma che fuse i loro esseri in uno solo. L'unico per ogni verso degno di esser posto a fianco dell'amico era Francesco. Egli fece colpo sulla sorella maggiore della principessa così come il marchese aveva fatto sulla cognata; si rese immediatamente conto della propria fortuna e seppe valersene con astuzia finissima. L'inclinazione della principessa divenne in breve tempo appassionato, ardentissimo amore. Il principe era troppo sicuro della virtù della moglie per non respingere con sdegno le insinuazioni maligne; avvertiva, tuttavia, con angoscia la tensione di rapporti creatasi col fratello; e soltanto Francesco, che egli aveva preso a benvolere a motivo della sua intelligenza e della sua prudenza di esperto uomo di mondo, riusciva a mantenerlo in uno stato di relativo equilibrio morale. Il principe avrebbe voluto conferirgli uno dei ranghi più eminenti a corte ma Francesco preferì accontentarsi dei meno vistosi privilegi di favorito e dell'amore della principessa. La vita di corte ruotava dunque, bene o male, attorno a questa situazione; ma in quell'Eldorado d'amore, precluso a tutti gli altri, soltanto i quattro personaggi legati da segreti vincoli affettivi erano felici. - All'insaputa di tutti il principe aveva predisposto il solenne arrivo a corte d'una principessa italiana, un tempo già destinata in sposa al marchese il quale, venutosi a trovare durante un viaggio alla corte del padre di lei, le aveva dimostrato una spiccata simpatia. Doveva trattarsi di una creatura eccezionalmente bella, piacente, affascinante; e lo testimonia lo stupendo ritratto che lei può ancora vedere nella pinacoteca. La sua presenza rianimò la corte piombata nel grigiore e nella noia e mise in ombra tutte le altre donne, non escluse la principessa e sua sorella. Poco dopo l'arrivo di costei, Francesco mutò vistosamente di atteggiamento; divenne chiuso, imbronciato come se fosse roso da un cruccio segreto; e incominciò a trascurare l'augusta amante. Anche il marchese era diventato pensieroso, evidentemente in lotta con un sentimento più forte di lui. Per la principessa l'arrivo dell'italiana fu come una stilettata nel cuore; per sua sorella, già tendenzialmente esaltata, con l'amore di Francesco era svanito ogni motivo di gioia. E così, i quattro personaggi tanto felici e invidiabili si ritrovarono piombati nel turbamento e nell'afflizione. Il marchese si riprese per primo: la rigida virtù della cognata gli rese ancor più irresistibili le attrattive dell'affascinante italiana; la spontanea, fanciullesca infatuazione per la principessa fu travolta dai piaceri ineffabili che l'italiana gli riprometteva; cosicché, in breve egli ricadde nei lacci cui era da poco sfuggito. Quanto più il marchese si abbandonava a quell'amore, tanto più strano diventava il comportamento di Francesco. Non si mostrava quasi più a corte, andava girovagando tutto solo, spesso si assentava dalla residenza per intere settimane. Al contrario, l'originale, il misantropo pittore si faceva vedere assai più spesso e lavorava particolarmente volentieri nello studio fattogli approntare dall'italiana nei propri appartamenti. Quivi la ritrasse parecchie volte, dandole un'espressione impareggiabile; sembrava, invece, aver preso in antipatia la principessa - e sistematicamente si rifiutava di ritrarla. Dipinse invece un ritratto stupendo, somigliantissimo, della sorella di lei, pur senza averla fatta posare neppure una volta. L'italiana gli dimostrava tali attenzioni ed egli gliele ricambiava con una galanteria così confidenziale che il marchese si ingelosì. Un giorno entrò nello studio mentre l'artista stava lavorando - lo sguardo fisso alla testa dell'italiana, di nuovo magicamente riprodotta sulla tela - e gli disse chiaro e tondo che gli facesse il favore di cercarsi un altro atelier e andarsene a lavorare altrove. Il pittore quasi non lo aveva udito entrare. In silenzio, senza scomporsi, scrollò il pennello e tolse la tela dal cavalletto. L'altro, con uno scatto di collera, gliela strappò di mano: la rassomiglianza - disse - era perfetta - quel ritratto se lo sarebbe tenuto per sé. Sempre calmo, imperturbabile, il pittore lo pregò che gli permettesse soltanto di ultimarlo con un paio di tocchi. Il marchese rimise la tela sul cavalletto ma quando la riebbe, dopo due minuti, rimase atterrito: il bel viso era stato orrendamente deturpato. Scoppiando in una sonora risata, il pittore si avviò lentamente per uscire, ma giunto sulla soglia ritornò indietro, fissò sul marchese uno sguardo severo e penetrante e gli disse cupo e solenne: «Ora tu sei perduto!» - Questo avvenne quando l'italiana era già fidanzata ufficialmente col marchese - a pochi giorni dalle nozze. Il pittore aveva fama di mezzo matto e perciò il marchese non fece alcun caso alla sua reazione. Ora, a quanto si diceva, era tornato a chiudersi nella propria cameretta e se ne stava a fissare per giornate intere una grande tela bianca, asserendo di lavorare, per l'appunto in quei giorni, ai suoi quadri più stupendi. - Intanto, a palazzo fervevano i preparativi per le sontuose nozze del marchese con l'italiana. La principessa si era rassegnata alla propria sorte, rinunziando a un amore impossibile e privo di scopo. Sua sorella pareva trasfigurata, perché l'amato Francesco era riapparso, più fiorente e allegro che mai. Il marchese e la sposa avrebbero occupato un'ala del palazzo che il principe stava facendo approntare allo scopo. Tali lavori lo avevano posto al centro della propria sfera d'azione: non lo si vedeva più se non attorniato da architetti, pittori, tappezzieri, intento a consultare grossi volumi, a spiegare davanti a sé piani, abbozzi, schizzi, per lo più di propria creazione e talvolta, a dire il vero, alquanto scadenti. Né il marchese né la sposa ebbero il permesso di vedere l'appartamento arredato a nuovo fino alla sera delle nozze. Allora, in lungo e solenne corteo, vennero accompagnati dal principe attraverso le camere addobbate e decorate sontuosamente e con gusto. Un ballo nella cornice d'uno stupendo salone aperto su un giardino fiorito conchiuse la festa. Durante la notte negli appartamenti del marchese si intese un rumore, dapprima sordo e poi sempre più forte. Il principe ne fu svegliato. Colto da un triste presentimento balzò in piedi e, accompagnato dalla sua guardia personale, accorse verso quella lontana ala del palazzo. Giunse nel vasto corridoio mentre stavano trasportando il corpo del marchese: lo avevano trovato morto, con la gola trafitta da una pugnalata, davanti alla porta della camera matrimoniale. È facile immaginare l'orrore del principe, la disperazione della giovane marchesa, lo strazio della principessa. Quando il principe si fu un po'calmato incominciò a chiedersi come fosse avvenuto il delitto, come avesse potuto l'assassino fuggire per i corridoi sorvegliati da ogni parte. Si frugarono tutti i possibili nascondigli ma invano. Il paggio addetto al servizio del marchese raccontò che il suo signore, turbato da un cattivo presagio, aveva passeggiato a lungo avanti e indietro nel salotto, inquieto, impaurito. Finalmente egli lo aveva aiutato a svestirsi e accompagnato, facendogli luce col candeliere, fino al vestibolo della camera matrimoniale; qui il marchese, toltogli il candeliere di mano, lo aveva mandato indietro. Ma appena uscito dalla camera il paggio udiva un grido soffocato, un tonfo, il tintinnio del doppiere caduto sul pavimento; ritornava di corsa sui suoi passi e, alla luce d'una candela ancora accesa, scorgeva il marchese steso a terra davanti alla porta della camera nuziale, con accanto uno stiletto insanguinato. Allora chiamava soccorso. - Secondo il racconto della sposa, l'infelice marchese, appena uscite le cameriere, era entrato in fretta senza alcun candeliere in mano, aveva spento tutti i lumi e, trattenutosi con lei per una mezz'ora, se n'era andato. Pochi istanti dopo avveniva il delitto. - Quando si furono esaurite tutte le congetture circa il possibile assassino e non si fu trovato alcun mezzo per rintracciarlo, saltò su una cameriera la quale aveva udito dalla camera attigua la sconcertante scena fra il marchese e il pittore; e la riferì in ogni dettaglio. Udito questo fatto nessuno più dubitò che il pittore si fosse introdotto furtivamente nel palazzo per uccidere il marchese; e se ne ordinò l'arresto immediato. Ma il pittore era scomparso da due giorni e nessuno sapeva dove fosse andato. Tutte le ricerche furono infruttuose. - La corte, l'intera residenza, erano piombate nel lutto. Ormai soltanto l'assidua presenza di Francesco riusciva a portare, come per incanto, un piccolo raggio di sole nella ristretta cerchia familiare dei principi. La marchesa sentì di essere incinta. Essendo chiaro che l'autore dell'inganno non poteva essere stato che l'assassino del marito, il quale aveva approfittato d'una certa rassomiglianza fisica con la propria vittima per commettere l'azione infame, la marchesa si trasferì in un lontano castello di proprietà del principe, affinché il parto avvenisse nell'ombra e il frutto dell'infernale misfatto non infamasse la memoria dell'infelice sposo almeno agli occhi del mondo, cui la leggerezza della servitù doveva aver già rivelato gli avvenimenti della notte nuziale. - Durante il periodo di lutto i rapporti di Francesco con la sorella della principessa e l'amicizia dei principi verso di lui divennero sempre più stretti e cordiali. Il principe, da molto tempo a conoscenza del segreto di Francesco, non poté più opporsi alle insistenti preghiere della moglie e della cognata e acconsentì a che i due innamorati si sposassero segretamente. Il matrimonio sarebbe stato reso noto soltanto dopo che Francesco avesse acquistato un alto grado militare presso una corte straniera, dove la cosa era possibile grazie alle relazioni del principe. Giunse il giorno del matrimonio. Dovevano assistere alla cerimonia nella piccola cappella del palazzo soltanto il principe, la principessa e due personaggi fidati, uno dei quali era il mio predecessore. Un unico paggio, messo a parte del segreto, sorvegliava le porte. - La coppia si inginocchiò davanti all'altare. Il cappellano dei principi, un vecchio e venerabile sacerdote, recitata la messa bassa, incominciò a leggere il formulario del sacramento. A questo punto Francesco impallidì, sbarrò gli occhi in direzione di un pilastro a lato dell'altar maggiore e mormorò con voce strozzata: «Che vuoi da me?...» - Appoggiato al pilastro c'era il pittore, in un bizzarro costume straniero, il manto violetto gettato sulle spalle, i neri occhi infossati, spettrali, puntati su Francesco. La principessa parve sul punto di svenire, tutti fremettero inorriditi. Soltanto il prete si mantenne calmo e disse a Francesco: «Se la tua coscienza è netta, perché la figura di quell'uomo ti spaventa?...» Francesco balzò in piedi e si avventò contro il pittore con uno stiletto in pugno; ma prima di averlo raggiunto lanciò un urlo soffocato e cadde privo di sensi. Il pittore disparve dietro la colonna. Riavendosi da una specie di intontimento, tutti accorsero in aiuto di Francesco, steso a terra come morto. Per evitare uno scandalo lo fecero trasportare dai due personaggi fidati negli appartamenti del principe. Appena rinvenne chiese con insistenza che lo lasciassero ritornare nelle proprie camere ma non volle rispondere a nessuna domanda sul misterioso fatto avvenuto in chiesa. La mattina dopo era scomparso dalla residenza, fuggito portando con sé gli oggetti preziosi donatigli dalla benevolenza del principe. Questi non desistette dall'indagare il mistero e dai tentativi di rintracciare il fantomatico pittore. La cappella aveva due soli ingressi: uno, proveniente dalle camere interne del palazzo, dava nel loggiato dietro l'altar maggiore, l'altro, proveniente dall'ampio corridoio centrale, dava nella navata. Il primo era rimasto chiuso, l'altro era stato sorvegliato dal paggio affinché nessun curioso si avvicinasse. Come dunque il pittore fosse potuto apparire nella cappella e poi tutt'a un tratto sparirne, rimaneva un fatto incomprensibile. Cadendo svenuto Francesco aveva continuato a stringere nella mano contratta il pugnale brandito contro il pittore. Il paggio (lo stesso che durante l'infausta notte nuziale aveva aiutato il marchese a spogliarsi ed era stato incaricato di sorvegliare la porta della cappella), asserì essere lo stesso trovato accanto al proprio signore assassinato: l'impugnatura di tersissimo argento lo rendeva inequivocabilmente riconoscibile. - Non molto tempo dopo questi misteriosi avvenimenti giunsero notizie della marchesa: lo stesso giorno in cui avrebbero dovuto celebrarsi le nozze di Francesco aveva dato alla luce un bimbo ed era morta poche ore dopo il parto. Il principe ne pianse la perdita, ancorché il mistero della notte nuziale lo turbasse moltissimo e gli suggerisse qualche ingiusto sospetto sul conto di lei. Il figlio, frutto dell'odioso misfatto, venne educato in un paese lontano sotto il nome di conte Vittorino. La sorella della principessa, straziata da quel susseguirsi di tragedie, entrò in convento. Come lei saprà, attualmente è badessa del convento di suore cistercensi, a***. Strano a dirsi: un fatto molto simile a questo è avvenuto poco tempo fa nel castello del barone F.. - Fra le due tragedie sembra esista una misteriosa correlazione: infatti la badessa, commossa dalle misere condizioni d'una povera donna capitata al convento con un bimbo nato da poco, durante un pellegrinaggio al Sacro Tiglio, aveva... A questo punto il racconto del medico venne interrotto da una visita; e ciò mi consentì di nascondere il tumulto scatenatosi nell'animo mio. Finalmente vedevo chiaro! Francesco era mio padre... e aveva trucidato il marchese con lo stesso coltello con cui io avevo ucciso Ermogene!... Per sfuggire al cerchio fatale entro cui la potenza malvagia mi aveva costretto, decisi di partire per l'Italia dopo pochi giorni. La stessa sera però ritornai a un ricevimento di corte; si parlava molto d'una stupenda fanciulla giunta il giorno prima per assumere le funzioni di dama di compagnia della principessa; sarebbe stata presentata a corte quella sera. Le porte si apersero; entrò la principessa accompagnata dalla straniera. - Riconobbi Aurelia. Parte seconda Capitolo primo -Il vertice della parabola Esiste una sola creatura umana cui il meraviglioso mistero d'amore, custodito nei più profondi recessi dell'animo, non si sia rivelato almeno una volta nella vita?... Chiunque tu sia, tu che un giorno leggerai questi fogli, richiama alla memoria quel supremo momento solare, rievoca una volta ancora la soave figura di donna che venne a te come l'incarnazione dello spirito d'amore. In essa soltanto credevi di riconoscere la tua essenza più alta. Ricordi ancora come i ruscelli gorgoglianti, i sussurranti cespugli, il carezzevole vento della sera ti parlassero chiaramente di lei, dell'amor tuo?... Riesci ancora a rivedere gli occhi limpidi, affettuosi dei fiori rivolti a te per recarti il suo saluto, il suo bacio?... Poi veniva lei, e voleva esser tua, tutta tua. La stringevi a te, ardente di desiderio e, sciolto dal peso delle cose terrene, avresti voluto annullarti in una vampata di passione!... Ma il mistero rimaneva incompiuto: mentre tu volevi librarti in volo con lei verso le supreme sfere d'un promesso aldilà, una forza oscura ti traeva irresistibilmente a terra. Prima ancora che tu osassi sperare, lei era perduta, ogni voce, ogni suono estinto; soltanto più il lamento della solitudine senza speranza risuonava sinistro nel buio deserto. Straniero! Sconosciuto!... Se mai provasti lo strazio d'una così indicibile pena, associati allo sconsolato lamento del monaco ingrigito che, nella sua cella oscura, piange lacrime di sangue sul duro giaciglio, ricordando la stagione solare del proprio amore, e riempie di angosciosi sospiri di morte i tetri corridoi del convento nella notte silenziosa. Ma anche tu, a me così spiritualmente affine, anche tu credi che la suprema estasi d'amore, il compimento del mistero, ci siano dati nella morte. Così ci annunziano le cupe voci profetiche giungendo a noi dalla notte dei primordi, da lontananze umanamente incommensurabili. E anche per noi - così come la celebravano nei misteri i figli infanti di madre natura - la festa sacrale dell'amore è la morte! Fu come se un fulmine scoccasse in me, mozzandomi il respiro. I polsi, il cuore presero a battere impazziti, il petto parve volermi scoppiare... Da lei, da lei!... Trarla a me in un impeto di folle furore amoroso!... - «Perché resisti, sciagurato, alla forza che ti incatena indissolubilmente a me?... Non sei forse tu mio?... Mio per sempre?...» Seppi tuttavia contenere l'impeto insensato della passione meglio di quanto non avessi fatto vedendo Aurelia per la prima volta nel castello baronale. Inoltre tutti gli sguardi erano puntati su di lei e potei quindi rigirarmi a mio agio in quel gruppo di persone indifferenti, senza che nessuno mi notasse in special modo o mi rivolgesse la parola. Ciò mi sarebbe stato insopportabile perché in quel momento volevo vedere - udire - pensare unicamente lei. Non mi si dica che una semplice veste di casa sia il migliore ornamento per una fanciulla veramente bella. L'eleganza, nelle donne, esercita un fascino misterioso cui difficilmente sappiamo resistere. Sarà forse una peculiarità dell'intima natura femminile quel pieno estrinsecarsi e risplendere della bellezza nell'eleganza: anche i fiori ci appaiono perfetti soltanto quando sbocciano in tutta la rigogliosa pienezza dei loro bei colori smaglianti. Vedendo per la prima volta la fanciulla amata vestita a festa non ti sentisti correre un piccolo, inspiegabile brivido per i nervi e le vene?... Ti pareva distante, quasi estranea, ma perfino questo le dava un fascino ineffabile. Ah, quale delizioso, voluttuoso palpito avrai provato nel premerle furtivamente la mano! - Non avevo mai visto Aurelia se non vestita semplicemente da casa; ma quella sera, per ragioni di etichetta, si era messa in gran gala. Com'era bella!... Che dolcissimo brivido di piacere provai nel vederla! - Ma lo spirito del male divenne potente in me, alzò la voce ed io gli prestai orecchio: - Vedi, Medardo, - mi sussurrò. - Vedi come comandi al destino?... Come il caso ti si è sottomesso ed ora si limita soltanto più ad intrecciare i fili che tu hai ordito?... - C'erano, a corte, parecchie donne ben degne di considerarsi autentiche bellezze; ma di fronte al fascino di Aurelia impallidivano, sbiadivano tutte. Anche i più pigri sembravano presi da un'insolita eccitazione, perfino i vecchi perdevano all'improvviso il filo delle solite conversazioni di corte, fatte esclusivamente di parole e ricavanti, bene o male, un senso dalle cose esteriori. Ed era spassoso vedere come ognuno, parlando, muovendo, si sforzasse di apparire «vestito a festa» agli occhi della bella straniera. Aurelia accoglieva questi omaggi ad occhi bassi, arrossendo con indicibile grazia. Quando però il principe radunò intorno a sé gli uomini più maturi e alcuni bei giovanotti le si avvicinarono timidamente rivolgendole parole gentili, essa divenne subito più allegra e disinvolta. Riuscì a farsi notare da lei soprattutto un maggiore della guardia; e fra i due non tardò ad accendersi una vivace conversazione. Conoscevo il maggiore per un emerito beniamino delle donne; con un modesto impiego di mezzi in apparenza innocenti egli riusciva ad interessare, ad avvincere la fantasia e lo spirito; sapeva cogliere, con orecchio finissimo, le risonanze più impercettibili e subito far vibrare, come un abile musicista, accordi affini, sicché le belle signore, tratte in inganno, credevano di udire in quei suoni estranei la propria musica interiore. Io stavo non lontano da Aurelia ma lei sembrava non avermi notato; avrei voluto avvicinarla ma ero come inchiodato sul posto e non riuscivo a muovermi. Osservando ancora e più attentamente il maggiore ebbi l'improvvisa sensazione di vedere accanto ad Aurelia - Vittorino! - Allora scoppiai in una risata rabbiosa, sprezzante: - Oh, guarda, guarda!... Dì un pò, sciagurato ribaldo: devi aver trovato un letto ben morbido in fondo all'abisso del diavolo se, nella tua folle lascivia, osi porre gli occhi sulla favorita del monaco!...Non so se pronunziassi veramente queste parole, ma udii la mia risata; e, quando il vecchio maresciallo di corte, prendendomi garbatamente per mano, mi domandò: - Di che cosa si rallegra tanto, caro signor Leonardo?... sussultai come se mi destassi da un sonno profondo - e un brivido freddo mi raggelò. Non erano, queste, le stesse parole rivoltemi dal pio frate Cirillo durante la vestizione per domandarmi il motivo del mio sorriso sfrontato?... Riuscii a mala pena a pronunziare qualche frase sconnessa... Sentii che Aurelia non mi era più vicina ma non fui capace di alzar gli occhi per accertarmene - e corsi via attraverso le sale piene di luce. Il mio comportamento dovette sembrare assai sconcertante perché, mentre scendevo - che dico! - mentre mi precipitavo a rotta di collo giù per lo scalone, vidi tutti scansarsi impauriti. Da quella sera evitai di ritornare a corte, parendomi impossibile rivedere Aurelia senza correre il rischio di tradire il mio più geloso segreto. Me ne andavo in giro solitario per boschi e campi pensando soltanto a lei - vedendo unicamente lei. E mi rafforzavo sempre più nella convinzione che un tenebroso fato avesse legato la sua sorte alla mia; quindi, ciò che mi era parso delitto, peccato, non era stato che il compiersi d'un eterno, immutabile decreto. Così rincuorandomi, ridevo del pericolo che avrei corso se Aurelia mi avesse riconosciuto per l'assassino di Ermogene, eventualità, d'altronde, estremamente improbabile. Quale pietà mi facevano quei giovanotti vanesi che si illudevano di corteggiarla! Lei era esclusivamente mia: perfino il suo più tenue respiro mi sembrava dipendesse dalla nostra consustanzialità. Che cos'erano per me quei conti, baroni, camerieri segreti, ufficiali nelle loro sgargianti uniformi cariche d'ori e di decorazioni?... Minuscoli insetti impotenti agghindati a festa, da schiacciare col pugno se appena mi fossero diventati importuni. Sarei andato in mezzo a loro con indosso la tonaca e stringendo fra le braccia Aurelia vestita da sposa! E quella principessa orgogliosa e proterva avrebbe dovuto preparare con le sue stesse mani il letto nuziale per il monaco tanto disprezzato! Ruminando tali pensieri, spesso chiamavo forte Aurelia per nome e urlavo, e ridevo come un insensato. Ma l'uragano non tardò a placarsi; ritrovai la calma e la capacità di decidere in qual modo avrei avvicinato Aurelia. Un giorno, mentre appunto mi aggiravo nel parco riflettendo se fosse consigliabile recarmi a una serata indetta dal principe, qualcuno dietro di me mi batté un colpetto sulla spalla. Mi volsi: era il medico di corte. - Vuol favorirmi il suo pregiato polso? - disse guardandomi fisso negli occhi e prendendomi per un braccio. - Che cosa significa?... - domandai stupito. - Oh, niente di grave, fece lui. - Pare che una strana sorta di follia vada serpeggiando da queste parti per aggredire le persone alla maniera dei banditi e metter loro in mente certe cose da farle parlare ad alta voce e ridere insensatamente da sole. Ma, in fondo, quel «fantasma» - o quel diavolo - potrebbe anche esser soltanto una leggera febbriciattola intermittente. Perciò mi favorisca il polso, carissimo! - Le assicuro, signore, che non capisco una sola parola di tutta questa storia! replicai. Ma il medico già mi aveva preso il polso e - uno... due... tre... - contava le pulsazioni volgendo gli occhi in alto. Poiché continuavo a non capire dovetti insistere perché mi dicesse chiaro che cosa voleva. - Dunque, lei non sa, egregio signor Leonardo, - spiegò lui, - che recentemente ha seminato il terrore e la costernazione in tutta la corte? La moglie del maggiordomo ha ancora il convulso e il presidente concistoriale deve disertare le sedute più importanti perché quella sera le è piaciuto passare di corsa sui suoi piedi podagrosi. Ora è costretto a rimanere in poltrona, mugghiando per le fitte atroci. Ciò accadde, per l'esattezza, quando, in un accesso di follia, lei si precipitò fuori dalla sala dopo esser scoppiato a ridere senza plausibili motivi, facendo rizzare i capelli sulla testa a tutti per lo sgomento -. Lì per lì mi venne in mente il maresciallo di corte e dissi che ricordavo di aver riso tra me; ma la cosa non poteva aver provocato un effetto così sensazionale dal momento che il maresciallo di corte mi aveva domandato nel tono più blando di che cosa mi rallegrassi tanto. - Eh, eh! ridacchiò il dottore. - Questo non significa nulla. Il maresciallo di corte è notoriamente un «homo impavidus»... Non si lascerebbe impressionare neppure dal diavolo, ed infatti seppe conservare la sua proverbiale dolcezza (18) anche quando il summenzionato presidente concistoriale asserì esser stato indubbiamente il diavolo a ridere in quel modo per bocca sua, mio caro, e la nostra bella Aurelia colta da un tale terrore da render vani tutti gli sforzi dei presenti signori per tranquillizzarla dovette ritirarsi quasi subito, per la disperazione dei signori suddetti, cui i fumi dell'ardore amoroso parevano uscire dai «toupets» sureccitati. Quando lei, egregio signor Leonardo, scoppiò a ridere in quel piacevolissimo modo, Aurelia pare esclamasse con accento straziante: «Ermogene, Ermogene!...» Ahimè... che cosa avrà voluto dire?... Forse lei potrebbe saperlo. Lei è una gran cara persona, intelligente, vivace... non rimpiango di averle confidato l'incredibile storia di Francesco. Chissà, forse un giorno potrebbe diventarle istruttiva... - E intanto il medico continuava a tenermi per il braccio e a guardarmi fisso negli occhi. - Io non so, - dissi svincolandomi piuttosto bruscamente. - Non riesco a spiegarmi i suoi stranissimi discorsi, signor mio. Ma quando vidi Aurelia circondata da quegli eleganti signori cui, come lei spiritosamente ha osservato, «i fumi dell'ardore amoroso parevano uscire dai toupets sureccitati», quando la vidi così, mi ritornò alla memoria, glielo confesso, un amaro ricordo della mia vita passata. Allora per la rabbia, il disprezzo, non potei far a meno di scoppiare a ridere sulla stoltezza di certa gente. Mi dispiace di aver causato tanti guai senza volerlo: ne faccio ammenda esiliandomi volontariamente dalla corte per qualche tempo. Spero che la principessa, che Aurelia mi perdoneranno... - Eh, eh, caro signor Leonardo, - insistette il medico. - Può capitare a tutti di attraversare qualche crisi; ma le crisi si superano facilmente se si è puri di cuore. - Chi può vantarsi di tanto, quaggiù? - domandai con voce sorda, quasi parlando a me stesso. Il medico mutò tutt'a un tratto di espressione e di tono: - Lei mi sembra veramente ammalato, - mi disse con dolcezza. - È pallido, stravolto... occhi infossati, arrossati... polso febbrile... voce velata... Devo prescriverle qualcosa?... - Veleno, - mormorai quasi in un soffio... - Oh, oh!... Siamo a questi punti?... - esclamò lui. - Quand'è così, invece del veleno le prescriverò un rimedio deprimente: distrarsi in società!... Però potrebbe anche darsi che... Eppure è strano... davvero, stranissimo... Forse... - La prego, signore, - esclamai irritato, - non mi tormenti con questi discorsi sconnessi e incomprensibili. Mi dica piuttosto francamente... - Alt! - mi interruppe lui. Alt!... Capita di prendere incredibili abbagli, caro signor Leonardo... Sì, ne sono quasi certo: su una impressione momentanea si dev'essere costruita un'ipotesi destinata forse a cadere nel nulla in pochi minuti. Stanno venendo la principessa e Aurelia. Approfitti dell'incontro casuale per scusarsi della sua condotta... In fin dei conti... Dio mio, in fin dei conti, lei ha soltanto riso... In un modo un po'strano, non dico... Ma se qualche persona un po'debole di nervi se n'è spaventata, che colpa ne ha lei?... Adieu! - E il medico guizzò via con la caratteristica lestezza di movimenti. La principessa stava venendo giù per il viale con Aurelia. Mi sentii tremare ma facendo appello a tutte le mie forze riuscii a dominarmi; e coraggiosamente mi feci loro incontro. Quando Aurelia mi vide lanciò un grido soffocato e cadde come morta. Mi slanciai per soccorrerla ma la principessa mi fermò con un gesto di avversione e di orrore, chiamando aiuto ad alta voce. Corsi via come sotto la sferza di demoni e furie, mi chiusi in casa e mi gettai sul letto, schiumante di rabbia e di disperazione. Si fece sera, e poi notte. Sentii aprire il portone... un confuso mormorio di molte voci... colpi, rumor di passi su per le scale... Poi qualcuno bussò alla porta ordinandomi di aprire in nome della legge. Pur senza aver chiara coscienza di quale pericolo stessi correndo, credetti di sentirmi perduto. Salvarmi, fuggire... pensai, e apersi la finestra: vidi uomini armati davanti alla casa, e uno di essi subito vide me... Dove nascondermi?, mi domandai. Ma in quel momento la porta della camera da letto venne forzata e un gruppo di uomini irruppe: alla luce della loro lanterna li riconobbi per soldati di polizia. Mi mostrarono il mandato di arresto emesso dalla magistratura criminale. Resistere sarebbe stato follia. Mi gettarono in una carrozza ferma davanti alla porta e quando - giunti a destinazione domandai dove mi trovassi, mi risposero: - Alla fortezza alta -. Colà venivano rinchiusi, lo sapevo, i delinquenti pericolosi durante i processi. Poco dopo mi portarono un letto e il carceriere mi chiese se desiderassi qualche altra cosa per la mia comodità. Risposi di no e rimasi solo. La lunga eco dei passi, l'aprirsi e chiudersi di molte porte mi fecero capire che mi trovavo in una delle prigioni più interne della fortezza. Non so neppure io come mai, ma durante il piuttosto lungo tragitto mi ero stranamente tranquillizzato; le immagini che mi passavano accanto le vedevo pallide, sbiadite, come in una specie di intontimento. Non presi propriamente sonno ma caddi in uno stato di sfinimento paralizzante il pensiero e la fantasia. Quando mi ripresi, a giorno chiaro, ritrovai a poco a poco il ricordo dell'accaduto. La camera a volta, simile in tutto e per tutto a una cella monastica, non mi sarebbe parsa una prigione se non fosse stato per la finestrella munita di robuste inferriate e aperta così in alto da rendermi impossibile, non dico guardar fuori, ma nemmeno raggiungerla stendendo il braccio quant'era lungo. Vi filtrava a stento qualche raggio di sole. Mi venne la curiosità di dare un'occhiata ai dintorni della fortezza. Accostai il letto alla parete, vi posi sopra il tavolo e feci per inerpicarmi verso la finestra ma subito entrò il carceriere, mi guardò stupito e mi domandò che cosa stessi facendo. Risposi che volevo soltanto guardare fuori. Senza dire una parola, quello portò via il letto e il tavolo e richiuse la porta. Neppure un'ora dopo riapparve accompagnato da due uomini. Facendomi percorrere lunghi corridoi, salire e scendere per non so quante scale, mi scortarono in una saletta dove mi attendeva il giudice criminale. Gli sedeva a fianco un giovane cui egli, in seguito, dettò tutte le mie risposte. Dovevo la cortesia con cui venni trattato ai miei antichi rapporti con la corte e alla generale stima goduta per tanto tempo; ma io ne dedussi anche che a provocare il mio arresto fossero state soltanto alcune supposizioni basate essenzialmente sulla presaga sensibilità di Aurelia. Il giudice mi invitò ad esporre dettagliatamente le circostanze della mia vita trascorsa. Io lo pregai di dirmi prima il motivo del mio improvviso arresto. A suo tempo avrei appreso di quale reato mi si accusava - rispose lui. - Ora si trattava di conoscere esattamente tutta la mia vita fino all'arrivo nella residenza. Doveva ricordarmi - soggiunse - che alla magistratura criminale non sarebbero mancati i mezzi per accertare fin nei minimi dettagli la veridicità della mia deposizione. Mi attenessi perciò rigorosamente al vero. Questo ammonimento, pronunziato con ridicola voce chioccia dal giudice (un omino piccolo, secco, dai capelli rossi come il pelo della volpe e gli occhi grigi spalancati su di me) cadde in un terreno assai fecondo: perché mi ricordò che avrei dovuto riprendere e intessere gli stessi fili della storia già accennata a corte nel rivelare il mio nome e il mio luogo di nascita. Lì per lì mi venne in mente un giovane polacco, compagno di studi in seminario, e decisi di far mie le circostanze della sua semplice vita. Ciò stabilito incominciai a deporre: - Può ben darsi che mi si accusi di un grave delitto, - dissi. - Ma qui sono vissuto sotto gli occhi del principe e dell'intera città e durante il periodo della mia permanenza non si è commesso alcun delitto di cui io possa essere stato l'autore od il complice. Suppongo, dunque, sia stato un forestiero ad accusarmi d'un delitto commesso in precedenza. E, poiché so di essere del tutto innocente, la supposizione della mia colpevolezza dev'esser sorta da una disgraziata rassomiglianza con non so chi. Trovo quindi tanto più duro esser rinchiuso in un carcere criminale come un delinquente di provata colpevolezza unicamente in base a supposizioni inconsistenti o a chissà quali idee preconcette. Perché non mi si mette a confronto col mio sconsiderato, e forse malintenzionato, accusatore?... Si tratterà certamente di un povero sciocco, e quindi... Piano, piano, signor Leonardo, - gracidò il giudice. Misuri le parole. Potrebbero urtare spiacevolmente qualche alto personaggio; e la persona che l'ha riconosciuta, signor Leonardo o signor... - qui il giudice si morse le labbra... - bene... quella persona non è sconsiderata né sciocca... Al contrario... E poi abbiamo buone notizie da... - E nominò il luogo in cui si trovava la proprietà dei baroni F.. Allora tutto mi si chiarì: Aurelia mi aveva riconosciuto per il monaco uccisore di suo fratello, la cosa era certa. Ma quel monaco era frate Medardo, il celebre predicatore cappuccino del convento di B-. Il padre di quel Medardo era Francesco - la badessa lo sapeva - e la mia rassomiglianza con lui (risultata così sconvolgente per la principessa, fin dal primo momento...) aveva quasi trasformato in certezza le supposizioni probabilmente già scambiatesi per lettera dalla principessa e dalla badessa. Era anche possibile che si fossero assunte informazioni dirette al convento dei cappuccini di B- e, seguite le mie tracce, stabilita la mia identità col monaco Medardo. Tutte queste cose le pensai in un attimo e vidi la pericolosità della mia posizione. Intanto il giudice continuava a blaterare e ciò mi permise di ritrovare finalmente il nome della cittadina polacca di cui, parlando con quella vecchia signora, a corte, avevo fatto il mio luogo di nascita. Quando il giudice ebbe conchiuso il proprio sermone ingiungendomi bruscamente di raccontare, senza tante storie, i miei trascorsi, incominciai: - Il mio vero nome è Leonardo Krczynski; sono l'unico figlio d'un nobiluomo stabilitosi a Kwiecziczewo dopo aver venduto la sua piccola proprietà. - Come?... Cosa?... - esclamò il giudice sforzandosi invano di ripetere il mio nome e quello del mio luogo di nascita. Non sapendo il redattore del protocollo come scrivere quelle due parole, dovetti scriverle io stesso. - Avrà notato, signore, - continuai, - quanto sia difficile a un tedesco pronunziare nomi così zeppi di consonanti. Ecco perché, appena arrivato in Germania, ho rinunziato al mio cognome facendomi chiamare semplicemente Leonardo. A parte questo, non credo esista una vita più semplice della mia. Mio padre, uomo di discreta cultura, assecondò la mia decisa inclinazione per gli studi. Voleva mandarmi a Cracovia, da un sacerdote nostro parente Stanislaw Krczynski - ma proprio allora morì. Nessuno si curò più di me. Vendetti la nostra piccola proprietà, riscossi alcuni crediti e con tutto il patrimonio ereditato da mio padre me ne andai a Cracovia, dove studiai per alcuni anni sotto la sorveglianza di quel nostro parente. Poi andai a Danzica e Königs- berg; e finalmente cedetti al desiderio irresistibile di fare un viaggio nel meridione. Speravo di cavarmela con gli avanzi del mio piccolo capitale e poi di trovare un posto presso qualche università. Ma qui le cose mi sarebbero andate molto male se una cospicua vincita al faraone, in casa del principe, non mi avesse messo in grado di continuare a vivere molto agiatamente in questa città e quindi di proseguire per il mio viaggio in Italia, come avevo progettato. Nella mia vita non è mai accaduto nulla di notevole, nulla che meriti di venir raccontato. Devo tuttavia aggiungere che mi sarebbe facile provare la verità di quanto dico se un caso singolarissimo non mi avesse privato del portafogli in cui serbavo il passaporto, l'itinerario del viaggio e diverse altre carte certamente utili allo scopo -. Il giudice ebbe un evidente moto di stupore e, scrutandomi con occhi duri mi domandò in tono quasi canzonatorio quale caso mi avesse reso impossibile provare la mia identità come si richiedeva. Parecchi mesi fa, - raccontai. - Mi trovavo sui monti, in viaggio per venire qui. La buona stagione, gli stupendi paesaggi romantici, mi indussero a proseguire a piedi. Un giorno sedevo nell'albergo d'un piccolo villaggio; ero stanco, mi ero fatto portare un rinfresco e avevo tirato fuori dal portafogli un foglietto per annotare qualcosa. Il portafogli era sul tavolo davanti a me. Poco dopo giunse un cavaliere trafelato, il suo strano modo di vestire, il suo aspetto selvatico, abbrutito, attrassero la mia attenzione. Entrò nel locale, chiese da bere e sedette al tavolo di fronte al mio guardandomi torvo, direi impaurito. Quell'uomo aveva qualcosa di inquietante, perciò preferii uscire. Dopo pochi minuti egli fece altrettanto, pagò l'oste, balzò in sella e, lanciandomi un saluto di sfuggita, ripartì al galoppo. Stavo per ripartire anch'io, quando mi ricordai del portafogli dimenticato sul tavolo: rientrai e lo ritrovai al suo posto. Soltanto il giorno dopo, tirandolo fuori di tasca, mi accorsi che non era il mio ma probabilmente apparteneva a quello sconosciuto il quale doveva averlo scambiato col mio. Vi trovai soltanto alcuni appunti per me incomprensibili, e parecchie lettere dirette a un certo conte Vittorino. Nel mio, come le ho detto, c'erano il passaporto, l'itinerario del viaggio e - ora me ne ricordo! - perfino il certificato di battesimo. Quello scambio di portafogli mi ha fatto perdere tutti i documenti. Il giudice si fece descrivere da capo a piedi il cavaliere sconosciuto. Con grande abilità cercai di assommare in quel personaggio tutte le possibili caratteristiche del conte Vittorino e di me stesso, così com'ero al momento della fuga dal castello del barone F.. Il giudice non la smetteva più di interrogarmi sulle anche minime circostanze del fatto; e, mentre gli rispondevo in modo soddisfacente, l'intera vicenda divenne così chiara e perfetta nella mia immaginazione che finii per crederci anch'io e non corsi più alcun pericolo di confondermi o contraddirmi. Posso ben dire d'aver avuto una felice idea nel giustificare il possesso delle lettere dirette al conte Vittorino immischiando in quella storia un personaggio fittizio che, in seguito, sarebbe potuto diventare frate Medardo fuggitivo o il conte Vittorino, a seconda delle circostanze. Inoltre mi venne in mente che fra le carte di Eufemia potevano forse trovarsi alcune lettere facenti cenno al progetto di Vittorino di presentarsi al castello travestito da monaco. Ciò avrebbe ulteriormente imbrogliato la storia. Mentre il giudice mi interrogava io continuavo a lavorar di fantasia e a inventare sempre nuovi ripieghi per mettermi al sicuro dal venire scoperto, giungendo alla certezza di poter fronteggiare qualsiasi eventualità, anche la peggiore. Esposte e sviscerate più che a sufficienza le circostanze della mia vita, in generale, credetti che il giudice venisse finalmente a parlar del delitto di cui ero accusato. Ma non fu così. Mi domandò invece perché avessi tentato di fuggire dalla prigione. Assicurai che ciò non mi era neppure passato per la mente; ma la testimonianza del carceriere che mi aveva sorpreso ad arrampicarmi verso la finestra sembrava deporre contro di me. Il giudice mi minacciò di farmi incatenare se mi ci fossi provato una seconda volta. E venni ricondotto in carcere. Trovai invece del letto un giaciglio di paglia, per terra, il tavolo inchiodato al pavimento e invece della sedia una panca bassissima. Passarono tre giorni senza che più nessuno chiedesse di me. Vedevo soltanto il viso burbero d'un vecchio secondino che mi portava da mangiare e alla sera accendeva il lume. Allora i miei nervi cedettero. Prima mi pareva di star combattendo un'allegra battaglia per la vita e per la morte, con la certezza di riuscire bravamente a cavarmela; ma a quella tensione subentrò un cupo stato depressivo. Tutto mi divenne indifferente; perfino la figura di Aurelia mi era sparita dalla memoria. Mi scuotevo, ma soltanto per provare ancor più forte l'angosciosa sensazione prodotta dalla solitudine, dal tanfo del carcere. Ed io non ero in grado di resistere. Non riuscivo più a dormire. Nei fantasmagorici riflessi della torbida lucerna tremolanti sulle pareti e sul soffitto vedevo sogghignare ogni sorta di figure distorte. Spegnevo la lampada, mi nascondevo sotto i cuscini pieni di paglia, ma allora udivo risuonare in modo ancora più atroce nel pauroso silenzio notturno i gemiti soffocati dei prigionieri, il trascinio delle loro catene. Spesso mi pareva di udire il rantolo mortale di Eufemia, di Vittorino: - Sono io il colpevole della vostra morte? - gridavo. Non foste voi stessi, scellerati, a gettarvi sotto il mio braccio vendicatore?... - Poco dopo un lungo, ansimante sospiro di morte passava per l'aria: - Sei tu, Ermogene! - tornavo a gridare. La vendetta è vicina... Non c'è più scampo!... Una notte - forse la nona sopraffatto dalla paura e dall'orrore, caddi semisvenuto sul freddo pavimento del carcere; e da quella posizione udii distintamente sotto di me un bussare di colpetti leggeri, misurati. Tesi l'orecchio: i colpi si ripeterono, frammisti a strane risatine. Balzai in piedi e mi buttai sul pagliericcio... Ma le risa, i colpi continuavano... e udivo anche dei gemiti. Finalmente una voce rauca, orrenda, balbettò piano, pianissimo: - Medar- do!... Medardo!... - Mi sentii raggelare in tutte le membra ma mi feci forza e risposi: - Chi è?... Chi è là?... - Le risate, i colpi, i gemiti si fecero più forti, e il balbettio più aspro: - Medardo... Me- dardo!... - Balzai a sedere sul giaciglio: - Chiunque tu sia, - gridai nell'oscurità, - tu che infesti questa camera e ti burli di me, renditi visibile... fà ch'io possa vederti... oppure smettila di importunarmi con le tue risate... i tuoi colpi!... - Ma sotto i miei piedi sentii bussare ancora più forte; e il balbettio riprese: - Ih... ih... ihihih... Fra- tel- lino... Fra- tellino... Me- dardo... Sono io... sono io... Aprimi... aprimi... Andiamo nel bosco... nel bosco...! - Ora la voce mi risuonava dentro come una voce nota... L'avevo già udita ma non - almeno, mi pareva - non così rotta e balbettante. Sì: con indicibile orrore credetti di riconoscere il mio tono di voce. Inconsciamente, quasi per provarmi che era proprio così, rifeci il balbettio: - Me- dardo... Me- dardo!... - La risatina si ripeté sprezzante, rabbiosa: - Fra- tellino... Fra- tel- lino... mi... mi hai ri- co... ri- cono- sciuto?... Aprimi... andiamo... nel bosco... nel bosco! Povero pazzo, mormorai cupamente, quasi parlando fra me. - Povero pazzo... Non posso aprirti, non posso uscire con te nel bosco a respirare la deliziosa arietta di primavera che deve tirare là fuori... Sono chiuso in questo tetro carcere, anch'io come te!... - Udii un lamento sconsolato; poi il picchiettio divenne sempre più lieve, quasi impercettibile, fino a cessare del tutto. La luce del mattino filtrò dalla finestra, le serrature cigolarono e il carceriere, che durante tutto quel tempo non avevo più visto, entrò: - Stanotte, - mi disse, abbiamo sentito ogni sorta di rumori nella sua cella, e anche parlare forte. Che cosa significa?... - Ho l'abitudine di parlare nel sonno, - risposi. - E se parlo da solo anche da sveglio credo mi sia permesso. - Immagino lei sappia, continuò il carceriere, - che qualsiasi tentativo di fuga o di intesa con altri detenuti viene severamente punito -. Spergiurai di non aver mai pensato a niente di simile. Un paio d'ore dopo mi condussero di sopra, al tribunale. Non il giudice che mi aveva interrogato la prima volta ma un altro, un uomo piuttosto giovane il quale a prima vista mi parve di gran lunga più scaltro e perspicace del collega, mi venne cortesemente incontro e mi invitò a sedere. Mi pare ancora di vederlo: era piuttosto corpulento per la sua età, quasi completamente calvo, e portava gli occhiali. Aveva un modo di fare così alla buona che - me ne resi subito conto - doveva esser difficile resistergli, a meno di essere un delinquente dei più incalliti. Gettava là le sue domande con leggerezza, quasi in tono di conversazione; ma erano domande così ben ponderate e poste con tale precisione da non consentire risposte approssimative. - Devo anzitutto domandarle, - incominciò, - se quanto lei ha deposto circa la sua vita fosse veramente fondato, o se invece, dopo più matura riflessione, non le sia venuta in mente qualche altra circostanza che ritenga opportuno menzionare. - Circa la mia semplice vita ho detto tutto ciò che sapevo. - Non ha mai avuto a che fare con religiosi?... Con monaci?... - Sì. A Cracovia, Danzica, Frauenburg, Königsberg. - Lei prima non ci aveva detto di essere stato anche a Frauenburg. - Perché mi pareva non meritasse la pena di citare una breve sosta - di otto giorni, se ben ricordo - durante il viaggio da Danzica a Königsberg. - Lei dunque è nato a Kwiczicze- wo? - Questa domanda il giudice me la rivolse all'improvviso in polacco, e più precisamente in dialetto polacco, parlato con la massima disinvoltura. Ebbi un attimo di smarrimento ma mi vinsi. Cercai di ricordare quel po'di polacco imparato dall'amico Krczynski in seminario e risposi: - Sì, nella piccola proprietà di mio padre, presso Kwicziczewo. - Come si chiama quella tenuta? - Krcziniewo, la nostra tenuta di famiglia. - Per essere un polacco, lei la sua lingua non la parla in modo straordinario ma, per dirla francamente, con forte accento dialettale tedesco. Come si spiega? - Non parlo più che in tedesco da molti anni. Anche quand'ero a Cracovia vivevo sempre in mezzo a tedeschi che volevano imparare il polacco da me. Così, senza accorgermene devo essermi abituato al loro dialetto. È facile prendere un accento provinciale dimenticando la pronunzia migliore, corretta. Il giudice mi guardò con un impercettibile sorriso, poi si volse al cancelliere e gli dettò qualcosa sottovoce. Afferrai bene le parole: evidentemente in imbarazzo. Avrei voluto diffondermi sui motivi del mio cattivo polacco ma il giudice mi domandò: - Non è mai stato a B.? - Mai. - Eppure, venendo qui da Königs- berg avrebbe dovuto passarci. - Ho preso un'altra strada. - Non ha mai conosciuto qualche monaco del convento dei cappuccini di B.? - No. Il giudice suonò il campanello e impartì un ordine sottovoce all'usciere. Poco dopo la porta si aperse: immaginate il mio sussulto di terrore nel vedere entrare padre Cirillo! - Conosce quest'uomo? - mi domandò il giudice. - No!... Non l'ho mai visto, prima d'ora. Allora frate Cirillo fissò su di me gli occhi sbarrati, mi si avvicinò, congiunse le mani e, lacrimando abbondantemente, esclamò: - Medardo, fratello Medardo!... Per l'amor di Cristo... in che stato ti ritrovo... nel delitto, nel peccato. Fratello Medardo, ritorna in te, confessa, pentiti... La misericordia di Dio è infinita! - Il giudice non parve molto soddisfatto di questo discorso e lo interruppe con la domanda: - Riconosce quest'uomo per il monaco Medardo del convento dei cappuccini di B.?... - Com'è vero che ripongo in Cristo la mia eterna salvezza, rispose Cirillo, - così è vero che quest'uomo, benché indossi abiti laici, è quello stesso Medardo che fu novizio e ricevette gli ordini sotto i miei occhi, nel convento dei cappuccini di B.. Non posso credere altrimenti. Comunque, Medardo aveva un segno di croce, rosso, sul lato sinistro del collo, e se anche quest'uomo... - Come vede, - lo interruppe il giudice volgendosi a me, - si ha motivo di ritenere che lei sia il cappuccino Medardo, fuggito dal convento di B.. Egli è stato accusato di un grave delitto. Se lei è chi afferma di essere le sarà facile dimostrarlo, perché quel monaco recava un segno particolare sul collo. E lei, se la sua deposizione è veritiera, non può averlo. Si scopra il collo. - Non occorre, - risposi senza turbarmi. - Uno strano destino sembra avermi reso in tutto e per tutto identico all'accusato perché anch'io, sul lato sinistro del collo, ho un segno di croce rosso -. Così era, infatti: la scalfittura prodottami dalla croce di diamanti della badessa mi aveva lasciato una piccola cicatrice rossa, in forma di croce, che il tempo non aveva fatto sparire. - Si scopra il collo, - ripeté il giudice. Ubbidii. - Santa madre di Dio, esclamò Cirillo. - Eccolo... è proprio questo... il segno di croce rosso... Medardo... ah, fratello Medardo... Hai dunque rinunziato per sempre all'eterna salvezza?... E il frate si abbandonò quasi privo di sensi su una sedia, piangendo. Che cosa risponde all'affermazione di questo venerabile religioso? mi domandò il giudice. In quel momento mi sentii come percosso da una folgore: lo sbigottimento che minacciava di sopraffarmi mi abbandonò. Ah!... Fu certamente il Nemico stesso a sussurrarmi: - Che cosa possono queste deboli creature contro la tua forza d'intelletto e di spirito?... Aurelia non dovrà dunque esser tua?... Replicai con sprezzante aggressività, quasi in tono di sfida: - Quel monaco mezzo svenuto sulla sedia è un povero vecchio imbecille che va farneticando di riconoscere in me, forse a motivo d'una vaga rassomiglianza, un cappuccino fuggito dal suo convento -. Il giudice fino a allora era rimasto calmo e non aveva mai mutato di tono né d'espressione. Per la prima volta il suo viso si incupì, il suo sguardo si fissò su di me, scrutandomi severo. Perfino lo scintillio degli occhiali mi riuscì terrificante, insopportabile, lo confesso. Non potei più parlare; fui preso da un furore rabbioso, disperato e, portandomi i pugni chiusi alla fronte, invocai ad alta voce: - Aurelia!... - Cos'è?... Che significa questo nome?... domandò impetuosamente il giudice. - Un fosco destino mi condanna a una morte ignominiosa, - risposi con voce strozzata. - Ma sono innocente... Certo, sono del tutto innocente... Mi lasci andare... abbia pietà di me... Sento già la pazzia scatenarsi nei nervi, nelle vene... Mi lasci andare!... Il giudice, di nuovo calmissimo, dettò al cancelliere una quantità di cose che non compresi. Infine mi lesse il verbale contenente tutte le sue domande e le mie risposte, nonché il risultato del confronto con frate Cirillo. Dovetti firmarlo. Quindi il giudice mi ingiunse di scrivere alcune righe in polacco e in tedesco. Io lo feci. Il giudice prese il foglio scritto in tedesco e lo porse a frate Cirillo, il quale frattanto si era riavuto, domandandogli: Questa calligrafia è simile a quella del suo confratello Medardo?... - È la sua... è la sua... la riconosco fin nei minimi particolari! - rispose Cirillo, e si volse di nuovo a me per parlarmi. Ma il giudice gli impose il silenzio con un'occhiata, quindi si alzò, mi venne vicinissimo e disse in tono grave e reciso: - Lei non è polacco. Questo scritto è totalmente scorretto, pieno d'errori ortografici e grammaticali. - Nessun polacco scriverebbe così, pur essendo assai meno istruito di quanto lei non sia. - Sono nato a Krcziniewo, e per conseguenza polacco. Ma anche se non lo fossi, se circostanze misteriose mi costringessero a falsificare il mio nome e il mio stato, non per questo potrei essere il cappuccino Medardo, fuggito - a quanto devo credere - dal convento di B.. - Ah, fratello Medardo, intervenne Cirillo. - Il nostro reverendo priore Leonardo non ti ha forse mandato a Roma fidando nella tua onestà, nella tua pietà?... Medardo, fratello, per l'amor di Cristo non ostinarti a rinnegare empiamente il sacro stato cui hai voluto sottrarti!... La prego di non interromperci, - gli disse il giudice; e volgendosi a me soggiunse: - Devo farle osservare che la dichiarazione insospettabile di questo reverendo padre rende assai attendibile la supposizione che lei sia veramente quel Medardo di cui si parlava. Inoltre non posso nasconderle che lei verrà posto a confronto con molte altre persone dalle quali è stato riconosciuto senz'ombra di dubbio per quel monaco; fra esse ce n'è una da cui, se le supposizioni risulteranno fondate, avrà molto da temere. Sì. Perfino fra i suoi effetti personali si è trovato qualcosa che aggrava i sospetti a suo carico. E, infine, ci giungeranno presto le informazioni circa la sua effettiva situazione familiare, richieste all'autorità giudiziaria di Posen. Tutto questo glielo dico anche più apertamente di quanto non esigerebbe il mio ufficio affinché lei si convinca che io non conto affatto di indurla ad ammettere la verità - dato sempre che le nostre supposizioni siano fondate - mediante sotterfugi di sorta. Si prepari come vuole. Se lei è veramente l'accusato Medardo, l'occhio del giudice non tarderà, mi creda, a penetrare anche il più fitto dei veli. Allora lei conoscerà esattamente di quale delitto la si accusi. Se lei dovesse invece essere quel Leonard Krczynski per cui si spaccia, se un curioso scherzo di natura l'avesse reso simile a frate Medardo finanche in taluni segni particolari, lei troverà facilmente il mezzo di dimostrarlo. Poco fa l'ho vista in uno stato di grande eccitazione, perciò preferisco interrompere il dibattito, anche per darle modo di riflettere meglio. Dopo quanto è accaduto non gliene mancherà argomento. - Lei dunque crede false le mie deposizioni?... Mi crede Medardo, il frate fuggiasco?... - domandai. - Adieu signor von Krczynski, rispose il giudice con un lieve inchino. E venni ricondotto in carcere. Le parole del giudice mi torturavano come aculei roventi. Tutte le mie deposizioni mi parevano assurde, superficiali. La «temibile» persona con cui sarei stato messo a confronto era indubbiamente Aurelia. Come avrei potuto sopportarlo?... Pensai a che cosa potessero aver trovato di sospetto fra i miei effetti personali e, con una stretta al cuore, mi venne in mente di aver serbato un anello con su inciso il nome di Eufemia, nonché la bisaccia di Vittorino, tuttora legata col mio cordone di frate! E mi sentii perduto. Mi misi a passeggiare disperato su e giù per la cella. Mi parve allora che qualcuno mi sussurrasse - mi sibilasse - all'orecchio: - Pazzo, perché ti perdi d'animo?... Non pensi a Vittorino?... - Ah!..., esclamai. - La partita non è persa, ma vinta! - Che lavorio, che ribollio si scatenò in me! Già prima avevo pensato che fra le carte di Eufemia potessero aver trovato qualche accenno all'arrivo al castello di Vittorino travestito da frate. Basandomi su tale ipotesi avrei, in qualche modo, inventato un incontro con lui, o magari con me stesso. Medardo... Avrei raccontato, come per sentito dire, la tragica avventura al castello, intrecciando opportunamente nella storia - in modo però da non nuocermi - la mia rassomiglianza con entrambi... Dovevo soppesare, vagliare il racconto fin nei minimi dettagli. Decisi perciò di metter per scritto il romanzo che avrebbe dovuto salvarmi. Chiesi ed ottenni l'occorrente per scrivere, col pretesto di dover ancora annotare alcune circostanze taciute al processo. Lavorai accanitamente fino a tarda notte. Scrivendo, la fantasia mi si riscaldò, tutto si organizzò, prese forma come d'un poema perfetto; e sempre più fitta si fece la trama delle innumerevoli menzogne con cui speravo di velare la verità ai giudici. L'orologio della torre aveva appena suonato la mezzanotte quando udii di nuovo - sommesso e lontano - quel misterioso bussare che mi aveva tanto turbato, la notte precedente. Cercai di non farci caso, ma i colpi divennero sempre più forti, scanditi a intervalli regolari e di nuovo intercalati da gemiti e risatine. Battendo un pugno sul tavolo gridai: - Silenzio là sotto! nella speranza di farmi coraggio e scacciare il terrore che mi stava riafferrando. Passò nell'aria una risata squillante, tagliente, e la voce di nuovo balbettò: - Fra- tellino... fra- tel- lino... salgo... salgo da te... Aprimi... aprimi! - Poi, vicinissimo a me, sentii raschiare, frugare, grattare nel pavimento, poi di nuovo gemiti, risate, e raschiare, grattare sempre più forte. E, di tanto in tanto, un tonfo sordo, come se cadesse un corpo pesante. Mi ero alzato con la lampada in mano: sentii qualcosa muovere sotto il piede, arretrai d'un passo e, nel punto su cui posavo il piede, vidi sgretolarsi una pietra del pavimento. L'afferrai, con poca fatica la sollevai completamente. Dall'apertura filtrò una luce fioca e ne uscì un braccio nudo, teso verso di me con un coltello in pugno. Arretrai ancora, inorridito: - Fra- tel- lino... fra- tel- lino!... balbettò la solita voce. - Me- dardo è qui... qui... Prendi... prendi... Rompi... rompi... Nel bosco... nel bosco!... Fuggire, salvarmi, pensai; scordai ogni terrore, presi il coltello da quella mano e mi misi a scalzare furiosamente la malta fra le pietre del pavimento. L'altro intanto spingeva con forza di sotto. Rimossi quattro o cinque blocchi vidi improvvisamente sbucare fino alle anche un uomo nudo che mi guardò ghignando con occhi di spettro e poi scoppiò in una risata raggelante, di folle. La luce della lampada gli cadde in pieno viso: riconobbi me stesso!... E persi i sensi. Una sensazione dolorosa alle braccia mi destò dal deliquio. Intorno a me era chiaro: il carceriere mi stava davanti reggendo una lucerna accecante; la cella risonava di martellate e rumor di ferri. Mi stavano incatenando. Oltre che mettermi i ceppi alle mani e ai piedi mi avevano stretto la vita in un anello di ferro incatenato al muro. - Ora il signore la smetterà, credo, di pensare a fuggire sfondando i muri, - disse il carceriere. - Che ha fatto questo briccone?... - gli domandò il fabbro. - Come, non lo sai, Jost?... rispose il carceriere. - In città non si parla d'altro. Èun dannato cappuccino che ha ucciso tre persone. Hanno già scoperto tutta la tresca. Fra pochi giorni avremo grande spettacolo di gala: lavoreranno le ruote -. Non udii altro perché persi di nuovo i sensi. Quando ritornai faticosamente in me era buio pesto; finalmente qualche pallida striscia di luce diurna entrò nella bassissima cripta - alta sei piedi appena - in cui mi avvidi con terrore d'esser stato trasportato. Avevo sete; afferrai la brocca posta accanto a me: qualcosa di freddo, di viscido mi guizzò fra le mani e uno schifosissimo rospo rigonfio si allontanò saltando pesantemente. Gettai la brocca con ribrezzo. Aurelia! - gemetti conscio ormai dell'indicibile miseria in cui ero piombato: - Per che cosa, dunque, tutte quelle meschine menzogne al tribunale?... Per che cosa, diabolico ipocrita, quella miseranda commedia?... Per prolungare d'un'ora una penosissima vita di strazi?... Che cosa pretendi, pazzo! Possedere Aurelia, che soltanto un delitto inaudito potrebbe far tua?... Perché, quand'anche, a furia di menzogne, tu riuscissi ad apparire innocente agli occhi del mondo, lei prima o poi ti riconoscerebbe per lo scellerato assassino di Ermogene, e avrebbe orrore di te. Miserabile pazzo delirante! Dove sono finiti i tuoi castelli in aria, la tua fede in una sovrumana potenza, con cui vaneggiavi di guidare a tuo piacere lo stesso destino?... Il verme che ti rode il cuore non sei stato capace di ucciderlo! Anche se il braccio della giustizia ti risparmierà, finirai nell'onta e nella disperazione!... Così lamentandomi ad alta voce, mi gettai sulla paglia e avvertii una pressione al petto prodotta, pareva, da un corpo duro nella tasca anteriore del panciotto. Mi palpai e tirai fuori uno stiletto. Da quando ero in prigione non avevo mai più portato addosso coltelli: doveva dunque trattarsi di quello portomi dal mio sosia spettrale. Mi rialzai a fatica e protesi l'arma verso la finestra da cui ora filtrava qualche raggio di luce più viva: vidi l'impugnatura d'argento!... Destino imperscrutabile!... Era lo stesso pugnale (smarrito alcune settimane addietro) con cui avevo ucciso Ermogene... Ma, tutt'a un tratto, un'ondata di conforto e di speranza mi illuminò. Il modo inverosimile in cui avevo ritrovato il pugnale era un cenno della divina provvidenza per additarmi come espiare il mio delitto e riconciliarmi con Aurelia nella morte. Ora soltanto più l'amore per Aurelia divampava in me, come un raggio divino, un fuoco purissimo; ogni desiderio colpevole era estinto. Mi sembrava di vederla, come allora, quando mi era apparsa nel confessionale, al convento... - Certo che ti amo, Medardo, - mi sussurrava la sua voce aleggiante nell'aria. - Ma tu non mi hai compresa... Il mio amore è la morte! - Presi allora l'incrollabile decisione di raccontare spontaneamente al giudice l'incredibile storia dei miei traviamenti, e quindi di togliermi la vita. Il carceriere mi portò cibi migliori del solito e, in più, una bottiglia di vino. - Ordine del principe, - disse apparecchiando la tavola spinta dentro da un secondino. Poi sciolse la catena che mi legava al muro. Lo pregai di dire al giudice che desideravo venire interrogato, avendo da rivelare molte cose che mi pesavano sul cuore. Promise di eseguire il mio incarico, ma io attesi invano di venir condotto all'interrogatorio. Più nessuno si fece vedere fino a che, fattosi buio, non venne il secondino ad accendere la lucerna appesa al soffitto. Dentro di me ero tranquillo come non mai, ma mi sentivo sfinito e quasi subito caddi profondamente addormentato... Mi conducevano in una lunga sala tetra; su alti seggi, lungo le pareti, vedevo una fila di religiosi in nere vesti talari. Al centro, davanti a una tavola ricoperta d'un tappeto rosso sangue, sedeva il giudice con a fianco un domenicano nella divisa dell'ordine. - Ora tu sei stato consegnato al tribunale ecclesiastico, - mi diceva il giudice con voce dignitosa e solenne. Monaco peccatore pervicace: tu rinnegasti il tuo nome e il tuo stato. Francesco, in religione chiamato Medardo, parla: di quale delitto ti sei macchiato?... - Avrei voluto confessare sinceramente i delitti, i peccati commessi, ma me ne rendevo conto con terrore tutto ciò che dicevo non era affatto ciò che pensavo e volevo dire. Anziché confessare mostrandomi pentito, mi perdevo in una quantità di discorsi fuor di proposito e sconclusionati. Allora il domenicano, ergendosi gigantesco davanti a me e trapassandomi con uno sguardo spaventosamente scintillante, esclamava - Alla tortura, monaco ostinato e caparbio! - Le strane figure sedute lungo le pareti della sala si alzavano in piedi protendendo le lunghe braccia verso di me e ripetevano in lugubre coro: - Alla tortura! - Io estraevo il pugnale e me lo vibravo al cuore - ma il braccio deviava, la lama colpiva il collo, dove recavo il segno di croce, spezzandosi come vetro, senza ferirmi. Subito i carnefici mi afferravano e trascinavano giù, in un profondo sotterraneo. Il giudice e il domenicano scendevano dietro di me; questi mi ingiungeva ancora una volta di confessare e io, ancora una volta, mi sforzavo. Ma c'era come una frattura fra le parole e il pensiero. Pentito, contrito, umiliato, confessavo tutto, dentro di me, ma dalla mia bocca continuavano a uscire discorsi confusi, assurdi, insensati. A un cenno del domenicano i carnefici mi spogliavano nudo, mi legavano le mani dietro la schiena, mi sollevavano con gli argani... Sentivo le membra scricchiolare, tendersi fino a spezzarsi... Pazzo di disperazione e di dolore cacciai un urlo... e mi svegliai... Il dolore alle mani ed ai piedi persisteva, certo per effetto delle pesanti catene. Avvertivo inoltre come una pressione sugli occhi che mi impediva di aprirli. Infine fu come se mi togliessero di colpo un grosso peso dalla fronte. Balzai a sedere: davanti al mio giaciglio vidi un frate domenicano. Il sogno s'era dunque fatto realtà... Un fiotto gelido mi corse per le vene. Il frate stava là, immobile come una statua, a braccia conserte, e mi fissava con due occhi neri, infossati. Riconobbi il terrificante pittore e ricaddi indietro svenuto... Era forse soltanto un inganno dei sensi eccitati dal sogno?... Mi feci forza, mi risollevai; ma il monaco stava sempre là, immobile, gli occhi neri, infossati, fissi su di me. - Vattene, orrendo uomo!... - urlai, pazzo di disperazione. - No... tu non sei un uomo... sei il Demonio stesso, e vuoi precipitarmi nella dannazione eterna... Vattene scellerato, vattene!... - Povero pazzo dalla vista corta... Quello che cerca di irretirti, di stringerti entro indissolubili lacci di ferro, di distoglierti dall'opera santa cui l'Onnipotente ti ha chiamato, non sono io!... Medardo... Povero cieco, povero pazzo!... Ti sono parso spaventoso, orrendo quando scherzavi come un giocoliere incosciente sull'orlo del baratro spalancato, sull'orlo della dannazione eterna... Io ti ho ammonito, ma tu non mi hai compreso. Alzati, avvicinati! - La voce del frate era bassa, accorata, implorante, il suo sguardo, sempre così terribile, era diventato mite, dolce, più morbidi i lineamenti del viso. Un'ondata di tristezza indicibile mi sopraffece... Lo spaventoso pittore mi pareva ora un inviato dall'Onnipotente a risollevarmi, a consolarmi della mia infinita miseria. Mi alzai dal giaciglio, mi avvicinai, gli toccai la veste: no, non era un fantasma! Senza volerlo caddi in ginocchio, ed egli mi pose la mano sul capo come per benedirmi. Allora mi apparve una visione stupenda, vivida, smagliante... - Ah!... Ero nel sacro bosco!... Sì, nello stesso luogo in cui, al tempo della mia fanciullezza, il pellegrino dalla veste esotica mi aveva condotto il bimbo prodigioso. Volevo proseguire, entrare nella chiesa, a pochi passi davanti a me, perché là sentivo di dover ottenere, espiando, pentendomi, l'assoluzione dai miei gravi peccati... Invece rimanevo immobile, non riuscivo a scorgere, ad afferrare la mia vera personalità. Allora una voce sorda, cavernosa mi disse: - Il pensiero è azione! - Il sogno svanì. Era stato il pittore a dirmi quelle parole. - Creatura incomprensibile, mormorai. - Eri tu, quella sciagurata mattina, nella chiesa dei cappuccini a B.?... E nella città imperiale?... E adesso?... - Zitto, - mi interruppe il pittore. - Sì, ero io, sempre io, accanto a te per salvarti dalla rovina e dall'onta. Ma i tuoi sensi sono rimasti chiusi. L'opera cui sei stato chiamato dovrai portarla a compimento per la tua salvezza. - Ah! - esclamai disperato, perché non mi hai trattenuto il braccio quando stavo per colpire quel giovane?... - Non mi era concesso, rispose il pittore. Non domandarmi altro! È da temerari voler anticipare i decreti dell'Onnipotente. Medardo: tu stai andando verso la meta. Domani! Un brivido mi raggelò perché credetti di comprendere: il pittore conosceva e approvava i miei propositi suicidi. A passi incerti si avviò verso la porta della cella. - Quando ti rivedrò?... - Alla meta, - rispose lui volgendosi ancora una volta verso di me. La sua voce, forte e solenne, riecheggiò nella cella. - Dunque, a domani?... La porta girò silenziosamente sui cardini. Il pittore era scomparso. Appena si fece giorno entrò il carceriere con i secondini i quali mi tolsero i ceppi dai polsi e dai piedi piagati. Fra breve sarei stato condotto all'udienza, mi dissero. Profondamente assorto, familiarizzato ormai con l'idea della morte, salii nella sala di udienza. Mi ero organizzato bene la mia confessione e speravo di condensarla in un racconto breve ma dettagliatissimo. Il giudice mi venne premurosamente incontro. Dovevo essere assai mal ridotto perché, non appena mi vide, il sorriso gli morì sulle labbra e il viso assunse un'espressione di profonda pietà. Mi prese le mani e mi sospinse con garbo a sedere sulla sua poltrona. Poi, guardandomi fisso e scandendo bene le sillabe, mi disse solennemente: - Ho buone notizie da darle: lei è libero! Èstato scambiato per un'altra persona a causa di una rassomiglianza assolutamente incredibile. La sua innocenza è provata - provata nel più luminoso dei modi. Lei è libero! Tutto si mise a ronzare, a frullare, a girarmi intorno. Intravidi come in una fitta nebbia il viso del giudice in centinaia di sfaccettature, poi tutto svanì nel buio. Mi sentii massaggiare la fronte con un'essenza forte e rinvenni dal profondo deliquio in cui ero caduto. Il giudice mi diede lettura di un breve protocollo, ove si precisava che la chiusura del procedimento e il mio conseguente rilascio dal carcere mi erano stati notificati. Firmai in silenzio, non essendo in grado di profferir parola. Una sensazione indicibile mi annichiliva soffocando ogni palpito di gioia. Quando il giudice mi guardò e il suo sguardo buono, cordiale, mi scese fino in fondo al cuore, mi parve di dovergli confessare spontaneamente - proprio adesso che credeva nella mia innocenza e stava per mandarmi libero - tutti gli abominevoli delitti commessi e poi infiggermi il pugnale nel cuore. Volevo parlare, ma il giudice sembrava desiderare che me ne andassi. Mi avvicinai alla porta; egli mi seguì e disse sottovoce: - Adesso non sono più il giudice. Dal primo momento che l'ho vista ho provato un enorme interesse per lei. Quantunque (e lei stesso dovrà ammetterlo) tutte le apparenze le fossero contrarie, ho sempre sperato che lei non fosse quell'orribile frate criminale per cui era stato preso. Ora posso dirglielo in tutta confidenza. Però... Lei non è polacco. Non è nato a Kwiecziczewo. Non si chiama Leonard von Krczynski. - No, - risposi calmo e con fermezza. - E non è neppure un religioso?... - mi domandò ancora il giudice abbassando gli occhi, probabilmente per risparmiarmi lo sguardo dell'inquisitore. Mi sentii ribollire. - Bene, - sbottai, - e allora ascolti... - Silenzio! - mi interruppe il giudice. - Quello che ho creduto fin dapprincipio e credo ancora si dimostra vero. Qui sotto ci dev'essere un enigma. Un misterioso scherzo del destino deve averla coinvolta nelle vicende private di certi personaggi di corte. Non spetta a me indagare. Sarebbe indiscrezione da parte mia volerle estorcere qualsiasi notizia circa la sua persona e le circostanze probabilmente assai singolari della sua vita. Tuttavia, che ne direbbe di sottrarsi a una situazione perturbatrice della sua quiete andandosene di qui?... Dopo quanto è accaduto, rimanere non potrebbe giovarle. Appena ebbi udito queste parole fu come se i nuvoloni neri addensatisi minacciosi sul mio capo tutt'a un tratto si dissipassero. Avevo riconquistato la vita! La sete di piacere di nuovo mi divampava nei nervi, nelle vene... Aurelia!... Di nuovo pensavo a lei... E avrei dovuto andarmene proprio ora?... Lasciarla?... - Lasciarla?... - ripetei ad alta voce con un sospiro. Il giudice mi guardò sbalordito e disse in fretta: - Ah!... Ora credo di vederci chiaro!... Mi si precisa un cattivo presentimento. Voglia il cielo, signor Leonardo, che non si avveri. Mi ero immaginato tutt'altra cosa. Ogni pentimento svanì. E fu forse sfrontatezza delinquenziale, da parte mia, rivolgere al giudice l'ipocrita domanda: - Dunque, lei mi crede colpevole?... - Mi permetta, signore, rispose lui in tono molto serio, - di tenere per me le mie convinzioni, basate unicamente su una sensazione, anche se molto precisa. È stato dimostrato nel modo e nella forma più ineccepibili che lei non può essere frate Medardo perché frate Medardo si trova qui. Padre Cirillo - che poco fa si era lasciato ingannare da una rassomiglianza impressionante lo ha riconosciuto ed egli stesso non nega di essere il cappuccino accusato. Insomma, è successo tutto ciò che poteva succedere per scagionarla da ogni sospetto e per conseguenza io devo credere che lei si senta mondo di ogni colpa. In quel momento il giudice fu chiamato da un usciere e la conversazione venne interrotta proprio quando incominciava a diventarmi penosa. Rientrai nella mia abitazione e vi ritrovai tutto come lo avevo lasciato. Le carte, messe sotto sequestro, giacevano sulla scrivania entro una busta suggellata. Mancavano soltanto il portafogli di Vittorino, l'anello di Eufemia e il cordone del saio di frate. Quanto avevo supposto in prigione era dunque esatto. Poco dopo un domestico di corte venne a consegnarmi una preziosa tabacchiera d'oro tempestata di gemme e accompagnata da un biglietto di pugno del principe. - Le è stato giocato un brutto tiro, signor von Krczynski, - diceva il biglietto. - Lei rassomiglia in modo incredibile a un uomo molto malvagio. Ma ora tutto è stato chiarito a suo favore. Le invio un piccolo segno della mia benevolenza e spero di rivederla presto. La benevolenza del principe mi lasciò indifferente quanto il suo dono. La prigionia mi aveva lasciato addosso una cupa, mortale tristezza. Sentivo il bisogno di tirarmi su fisicamente e mi fece quindi doppiamente piacere la visita del medico di corte. Non è una strana combinazione, - mi disse lui appena mi vide, - che proprio quando si era ormai giunti alla convinzione che lei fosse l'esecrabile monaco, responsabile di tanta sciagura nella famiglia del barone von F., il vero colpevole sia saltato fuori a scagionarla d'ogni sospetto?... - Non sono informato circa le esatte circostanze della mia scarcerazione, gliel'assicuro, risposi. - Il giudice mi ha appena fatto cenno alla comparsa del ricercato, frate Medardo, quello per cui io ero stato scambiato. - Non è ricomparso. Lo hanno portato qui ben legato su un carro e - ciò che è più strano - dal più al meno lo stesso giorno in cui è arrivato qui lei. A proposito. Mi viene in mente che, mentre stavo raccontandole i fatti incredibili avvenuti alla nostra corte tempo fa, fui interrotto quando ero giunto a parlarle dell'infame Medardo, figlio di Francesco, e delle sue criminali imprese nel castello del barone von F.. Riprendo il filo del racconto da quello stesso punto. La sorella della nostra principessa, badessa, come lei sa, del convento cistercense di B., aveva affettuosamente accolto una povera donna col suo bimbo, di ritorno da un pellegrinaggio al Sacro Tiglio... - La donna era la vedova di Francesco, e il bimbo - Medardo. - Appunto. Ma lei come lo sa?... - Le misteriose peripezie del cappuccino Medardo, fino al momento della sua fuga dal castello del barone von F., mi vennero rese note fin nei minimi dettagli, in modo stranissimo. - Ma come?... Da chi?... - In sogno. Un sogno quasi vero... - Lei scherza! - Niente affatto. È proprio come se avessi udito in sogno la storia di un infelice, divenuto un trastullo nelle mani di forze oscure e sbattuto qua e là, da un delitto all'altro. Venendo qui, il postiglione smarrì la strada nella foresta di --tz e mi condusse nella casa del guardiaboschi. - Ah, ho capito. E là incontrò il monaco. - Infatti. Ma era pazzo. - Pare non lo sia più. Anche allora aveva dei momenti di lucidità. E le ha confidato tutto? - Non proprio. Durante la notte, non sapendo del mio arrivo, mi capitò in camera. Vedendomi così perfettamente rassomigliante a lui si spaventò. Mi credette il suo «doppio», venuto per annunziargli la morte, si confuse, e incominciò a confessare qualcosa balbettando. Io, stanco del viaggio, senza accorgermene mi addormentai, ma mi parve che egli continuasse a parlare tranquillamente. Ancora adesso non so bene come e a che punto incominciasse il sogno. Mi pare che il frate asserisse di non essere stato lui ad uccidere Eufemia e Ermogene, ma il conte Vittorino. - Strano, stranissimo. Ma perché non lo disse al giudice? - Come potevo sperare che desse qualche peso a una storia così fantastica?... Può un tribunale illuminato credere l'inverosimile?... - Avrebbe almeno dovuto supporre d'essere stato scambiato per il frate pazzo e segnalarlo come il possibile Medardo... - Certo. Specialmente quando un vecchio imbecille (mi pare si chiamasse Cirillo...), insistette nel riconoscermi per un suo confratello. Ma non mi venne in mente che quel pazzo potesse essere Medardo né il suo delitto l'oggetto del mio processo. A quanto ho saputo dal guardiaboschi, il frate non gli aveva mai detto il proprio nome. Come si è giunti a scoprirlo?... - Nel più semplice dei modi. Il frate, come lei sa, si trattenne parecchio tempo in casa del guardiaboschi. Sembrava già guarito quando tutt'a un tratto la pazzia esplose di nuovo, tremenda, e il guardiaboschi si vide costretto a portarlo qui, al manicomio. Per giorni e notti rimase rigido come una statua, senza batter ciglio né dire una parola. Dovettero nutrirlo a forza perché si rifiutava di muovere un dito. Provarono inutilmente parecchi rimedi per trarlo da quello stato di irrigidimento; ai mezzi drastici non si volle ricorrere nel timore di provocare nuove crisi di pazzia furiosa. Pochi giorni fa il figlio maggiore del guardiaboschi venne qui e andò al manicomio per rivedere il frate. Mentre usciva tutto sconvolto dallo stato miserando di quel poveretto, vide passare un cappuccino, padre Cirillo, e lo pregò di visitare uno sventurato confratello chiuso là dentro, perché la parola di un religioso appartenente al suo stesso ordine avrebbe potuto giovargli. Quando padre Cirillo vide il frate balzò indietro inorridito: «Santa madre di Dio!», esclamò, «Medardo... sciagurato Medardo!...» - Gli occhi vitrei del frate si rianimarono; egli si alzò e ricadde al suolo con un grido soffocato. Cirillo e tutti i presenti al fatto andarono subito dal presidente della corte criminale a riferire. Il giudice cui era stata affidata l'istruttoria del processo contro di lei si recò al manicomio con padre Cirillo. Ritrovarono il frate molto spossato ma perfettamente in sé. Ed egli confessò subito di essere frate Medardo, il cappuccino fuggito dal convento di B.. Padre Cirillo ammise senz'altro di essersi lasciato ingannare dalla sua incredibile rassomiglianza con quell'uomo, e soltanto allora notò quanto il suo modo di parlare, il suo sguardo, i suoi modi differissero da quelli del frate che aveva sott'occhio. Si scoperse anche, sul lato sinistro del collo, il famoso segno di croce che aveva avuto tanto peso nel suo processo. Il frate venne quindi interrogato sui fatti avvenuti nel castello del barone von F.. «Sono un criminale, un mostro», rispose lui con un filo di voce. «Mi pento amaramente di quanto ho fatto. Ahimè, mi sono lasciato ingannare... ho perduto me stesso e la mia anima immortale! Abbiate pietà!... Datemi tempo... confesserò... confesserò tutto!...» - Il principe, informato della cosa, ordinò immediatamente di chiudere il procedimento a suo carico e di rimetterla in libertà. Il frate è stato condotto nel carcere criminale. - E ha ammesso tutto?... Eufemia, Ermogene li ha uccisi lui?... E il conte Vittorino allora?... - Per quanto ne so, il vero e proprio processo penale contro il frate incomincia soltanto oggi. In quanto al conte Vittorino si direbbe proprio che tutto ciò che ha qualche rapporto coi fatti avvenuti alla nostra corte debba rimanere oscuro e incomprensibile. - Infatti non riesco proprio a vedere come si possa collegare la tragedia avvenuta al castello del barone von F. con la catastrofe avvenuta qui. - Veramente alludevo più ai protagonisti che ai fatti. - Non la capisco. - Ricorda esattamente il mio racconto della catastrofe in cui il marchese trovò la morte? - Senza dubbio. - Non le è apparso chiarissimo che Francesco amava l'italiana d'un amore colpevole?... Che fu lui a insinuarsi nella camera matrimoniale, precedendo il marchese per poi trucidarlo a pugnalate?... Vittorino fu il frutto dell'odioso misfatto. Egli e Medardo sono figli d'uno stesso padre. Ma Vittorino scomparve senza lasciar traccia. Tutte le ricerche furono vane. - Il frate lo sospinse nell'abisso del diavolo. Sia maledetto il pazzo fratricida! Mentre pronunziavo la violenta imprecazione, ecco di nuovo - lieve, lievissimo - il bussare dell'orribile spettro, come lo avevo udito in carcere. Invano tentai di vincere il terrore che andava riafferrandomi. Il medico pareva non udire i colpi né accorgersi della mia lotta interiore. - Come? - esclamò. - Il frate ha ammesso di aver ucciso anche Vittorino? - Sì! O almeno, mettendo in rapporto certe sue frasi tronche con la scomparsa di Vittorino, devo ritenere che le cose siano andate proprio così. Maledizione sul pazzo fratricida!... I colpi, i sospiri, i gemiti si fecero più forti. Una risatina sottile sibilò nell'aria, articolandosi, mi parve, in queste parole: - Medardo... Medardo... Ai... ai... aiuto!... Senza accorgersi di nulla, il medico proseguì: - Anche sulle origini di Francesco sembra ci sia un mistero. Molto probabilmente è imparentato con la famiglia del principe. Una cosa è certa: Eufemia è figlia... Con uno schianto tremendo che fece scricchiolare i cardini, la porta si spalancò. Una risata tagliente irruppe nella camera. - Oh... oh... oh... Fratellino!... gridai come impazzito. - Oh... oh... Qui, presto... presto... se vuoi combattere con me... Il gufo va a nozze... Saliamo a batterci sul tetto... Chi getta giù l'altro diventa re e può bere sangue... - Cos'è?... Che significa?... esclamò il dottore afferrandomi per un braccio. - Lei è ammalato... senza dubbio... gravemente ammalato... Presto, presto, a letto! Io guardavo fisso alla porta aperta per vedere se il mio orribile sosia non entrasse per davvero. Non vidi nulla e quasi subito mi ripresi dal terrore selvaggio che mi aveva afferrato con gelidi artigli. Il medico insistette nel dichiararmi più ammalato di quanto io stesso non volessi credere. Conseguenza del carcere - disse - e delle emozioni causatemi dal processo. Presi i suoi rimedi, ma assai più dell'arte medica mi aiutò a guarire in fretta la totale remissione dei colpi e l'apparente scomparsa dello spaventevole sosia. Una mattina i raggi dorati del sole inondavano la mia camera di una luce deliziosa; dalla finestra aperta entrava un dolce profumo di fiori. Provai un indicibile desiderio di uscire all'aria libera e, malgrado il divieto del medico, scesi nel parco. Alberi e cespugli salutarono sussurrando e stormendo il povero convalescente, scampato a una mortale malattia. Come destandomi da un interminabile incubo respirai a pieni polmoni la buon'aria pura. Le impronunziabili espressioni di delizia con cui feci coro al gioioso cinguettio degli uccelli, al gaio ronzio metallico degli insetti multicolori, furono profondi sospiri. Sì!... Non soltanto quell'ultimo periodo di tempo ma l'intera mia vita, da quando avevo lasciato il convento, da quando non passeggiavo più all'ombra di un viale di platani scuri, mi parevano un sogno angoscioso... Ero di nuovo nel giardino dei cappuccini, a B...' Al disopra del bosco lontano vedevo ergersi l'alta croce, davanti alla quale tante volte mi ero devotamente inginocchiato ad implorare la forza di resistere alle tentazioni. Ora quella croce mi sembrava la meta a cui mi traeva la furia dei marosi; avrei dovuto pentirmi, espiare nella polvere, ai piedi di quel legno, i sogni colpevoli, i satanici miraggi, il delitto. E camminavo, lo sguardo fisso alla croce, levando le mani giunte. L'aria spirava sempre più forte; mi pareva di udire gli inni dei confratelli ma erano soltanto le magiche voci del bosco destate dal passaggio del vento fra gli alberi. Quell'aria mi mozzava il respiro. Ben presto dovetti fermarmi e appoggiarmi, sfinito, a un albero per non cadere. Ma una forza irresistibile continuava a sospingermi verso la croce lontana. Raccolsi tutte le mie energie e mi rimisi in cammino vacillando; a mala pena riuscii a giungere ai margini del bosco, presso il sedile coperto di musco. E qui una spossatezza mortale mi paralizzò. Mi abbandonai a sedere, adagio, come un debole vecchio e cercai sollievo all'oppressione di petto gemendo sottovoce. Qualcosa frusciò nel viale, a pochi passi da me... Aurelia... pensai; e mentre quel nome mi balenava alla mente lei era già lì, davanti a me. Lacrime d'amore e di mestizia le velavano gli occhi di cielo, ma pur fra le lacrime vidi brillare una vivida luce: era l'espressione ineffabile - inconsueta sul viso di Aurelia - della passione ardente... Ma era anche lo stesso sguardo appassionato della misteriosa creatura apparsami nel confessionale e riveduta, poi, tante volte nei miei dolcissimi sogni. - Potrà mai perdonarmi?... sussurrò lei. Pazzo di gioia caddi in ginocchio, le presi le mani: Aurelia... Aurelia!... Per te anche il martirio, la morte!... - Mi sentii risollevare dolcemente: Aurelia mi si abbandonò sul petto... Mi persi in un delirio di ardentissimi baci. Spaventata da un appressarsi di passi, Aurelia si svincolò dall'abbraccio e fuggì. Non potei trattenerla. - Tutte le mie speranze, i miei sogni sono appagati! - mormorai, e in quel momento vidi venir lungo il viale la principessa. Mi ritrassi nel bosco e solo allora mi accorsi di aver stranamente scambiato un tronco secco, grigiastro, per il crocifisso. Non provavo più alcun senso di spossatezza ormai: i baci di Aurelia mi avevano immesso nelle vene il fuoco d'una nuova forza vitale. Era come se il mistero di tutta la mia esistenza mi si fosse finalmente dischiuso, radioso, stupendo... Ah!... Era il prodigioso mistero dell'amore, svelato nella piena luce della sua gloria! Avevo ormai raggiunto il punto culminante della vita; ora, perché si compisse il destino segnato dalla suprema potenza, sarebbe iniziata la parabola discendente. Quando incominciai ad annotare ciò che mi accadde dopo aver ritrovato Aurelia, quel periodo di tempo lo rividi come un sogno celestiale. Straniero, sconosciuto che un giorno leggerai questi fogli: ti avevo pregato di richiamare alla memoria il supremo momento solare della tua vita onde poter capire lo sconsolato dolore del monaco ingrigito nel rimorso e nella penitenza e unirti ai suoi lamenti. Ora torno a pregarti: rievoca quel tempo, ed io non avrò più bisogno di dirti come l'amore di Aurelia mi trasfigurasse e trasfigurasse ogni cosa intorno a me, come il mio spirito desto, recettivo, scorgesse e cogliesse la vita nella vita ed io, insufflato di entusiasmo divino, mi sentissi traboccante di sovrumana felicità. Più nessun pensiero tetro mi tormentava: l'amore di Aurelia mi aveva purificato e redento. Sì: per un singolare miracolo prendeva forma in me e si rafforzava la convinzione di non esser stato io il criminale assassino di Eufemia ed Ermogene, bensì il monaco pazzo incontrato in casa del guardiaboschi... Il mio racconto al medico di corte non mi sembrava menzogna, bensì il reale svolgimento dei fatti, anche se io stesso non riuscivo a capirlo. Il principe mi accolse come un amico creduto perso e ritrovato, dando così il tono cui tutti dovettero, naturalmente, adeguarsi. Soltanto la principessa, benché un po'più affabile del solito, si manteneva seria e riservata. Aurelia mi si abbandonò con infantile spontaneità; il suo amore non le sembrava una colpa da doversi nascondere agli occhi del mondo e, d'altronde, neppure io riuscivo minimamente a celare il sentimento ch'era la mia sola ragione di vita. Tutti avevano notato e compreso la natura dei nostri rapporti ma nessuno ne parlava perché si leggeva chiaro negli occhi del principe che, se non proprio favorire il nostro amore, intendeva tollerarlo in silenzio. Potevo dunque vedere sovente Aurelia, senza alcun impaccio e talvolta anche senza testimoni. Allora la stringevo fra le braccia e lei ricambiava i miei baci; ma la sentivo così tremante di verginale pudore da non provare più alcuna concupiscenza colpevole; in quel dolcissimo brivido, ogni cattivo pensiero moriva sul nascere. Lei pareva ignara del pericolo, e infatti pericoli non ne correva. Molte volte quando mi sedeva accanto, sola con me in una camera, e il suo fascino celestiale irradiava da lei più potente che mai, e la cieca passione minacciava di divampare e travolgermi, lei mi guardava con due occhi talmente puri e mansueti da darmi la sensazione che il cielo avesse concesso al peccatore pentito di avvicinare una santa, già qui, su questa terra. Sì. Aurelia era santa Rosalia; ed io mi prostravo ai suoi piedi esclamando: - O pia, sublime santa... È lecito amarti d'un amore terreno?... - Lei mi porgeva la mano e rispondeva con voce dolce e gentile: - Non sono una santa sublime... Ma pia lo sono... E ti amo tanto! Non l'avevo più vista da parecchi giorni perché si era recata con la principessa in un vicino castello di diporto. Non resistetti più e corsi a raggiungerla. Giunsi a tarda sera, incontrai in giardino una dama di compagnia e mi feci indicare da lei la camera di Aurelia. - Apersi piano, piano la porta: una folata d'aria calda, pesante, carica di profumo di fiori mi investì annebbiandomi i sensi. I ricordi si ridestarono come torbidi sogni sopiti! Non era quella la camera di Aurelia nel castello del barone, dove io avevo?... Appena formulato questo pensiero sentii ergersi alle mie spalle una figura tenebrosa... «Ermogene!», gridai dentro di me, e corsi avanti inorridito. La porta del vestibolo era soltanto accostata: vidi, di schiena, Aurelia in ginocchio davanti a uno sgabello con sopra un libro aperto. Ancora impaurito mi guardai involontariamente indietro, non vidi nulla ed esclamai estasiato: Aurelia, Aurelia!... - Ella si volse di scatto ma, prima ancora che si rialzasse, le ero inginocchiato accanto e la stringevo forte. Leonardo, amor mio! - bisbigliò. Mi sentii ribollire di desideri colpevoli, di selvaggia libidine. Lei mi si era abbandonata senza forze fra le braccia... Le chiome inanellate, scioltasi la pettinatura, mi ricadevano abbondanti sulle spalle, il seno di fanciulla usciva dalla scollatura della veste... La sollevai: gemeva, sembrava spossata, una luce nuova, conturbante, le brillava negli occhi... le sue labbra ricambiavano con ardore i miei baci frenetici. Persi la testa. Ma dietro di noi qualcosa, come un possente colpo d'ala, frusciò nell'aria... una voce penetrante, simile al grido d'angoscia d'un uomo ferito a morte, echeggiò nella camera. Ermoge- ne!... - gridò Aurelia; e, scivolandomi fra le braccia, si afflosciò svenuta. Allora, pazzo di terrore, fuggii. Nel corridoio incontrai la principessa di ritorno da una passeggiata; mi squadrò severa, superba e disse: - Mi meraviglio molto di vederla qui, signor Leonardo! - Ero sconvolto, ma mi dominai; e assumendo un tono forse anche più reciso del lecito risposi che non sempre era facile resistere a certi impulsi, e che spesso le cose in apparenza più sconvenienti potevano diventare convenienti e opportune. Mentre ritornavo in tutta fretta alla residenza, nel buio della notte, mi parve che qualcuno corresse al mio fianco e mi sussurrasse: - S... sempre... sono... con te, fra... fra... tellino Medardo! - Mi guardai intorno e vidi bene che il fantasma del sosia infieriva soltanto nella mia fantasia, eppure non riuscii a liberarmi della terrificante presenza; mi parve, anzi, di dovergli parlare, di dovergli dire che ero stato di nuovo un solennissimo sciocco e di nuovo mi ero lasciato impaurire da Ermogene, il folle... che santa Rosalia sarebbe stata mia molto presto, perché per quello scopo mi ero fatto frate, avevo ricevuto gli ordini... - Allora il mio doppio si mise a ridere, a gemere, a balbettare come aveva fatto allora: - Sì... ma presto... presto! - Un po'di pazienza, - risposi. - Un po'di pazienza, ragazzo mio. Tutto andrà per il meglio... Ermogene non l'ho colpito bene, perché anche lui, come me, ha quella dannata croce sul collo... Ma il mio stiletto è ancora aguzzo e tagliente abbastanza... - Ih... ih... ihh... Colpisci bene... colpisci bene!... - bisbigliò la voce, perdendosi nel vento del mattino spirante dal cielo infocato d'oriente. Appena rientrato mi mandarono a chiamare al palazzo. Il principe mi venne incontro festoso, cordiale: - Lei si è conquistata tutta la mia simpatia, signor Leonardo, - mi disse. - Il mio affetto per lei, non posso nasconderglielo, è diventato autentica amicizia. Non vorrei perderla, e vorrei vederla felice. Le sono dovute le più ampie riparazioni per quanto ha sofferto. Lei sa, signor Leonardo, chi è stato l'unico e solo responsabile del malaugurato processo?... Sa chi l'ha accusato?... - No, vostra grazia. - La baronessa Aurelia! Stupito?... Sì, sì, signor Leonardo, la baronessa Aurelia - (e qui il principe scoppiò a ridere) - l'ha presa per un cappuccino! Ah, per Dio, se ciò fosse vero lei sarebbe il più amabile cappuccino che mai si sia visto! Dica la verità, signor Leonardo: lei è proprio un simile avanzo di convento?... - Io non so, vostra grazia, quale malvagio destino voglia sempre far di me un monaco. Io... - Basta, basta... Non sono un inquisitore. Sarebbe però molto seccante se qualche voto religioso la legasse. Veniamo al fatto: vorrebbe prendersi una piccola vendetta su Aurelia per il grosso guaio in cui l'ha cacciata?... - E chi mai potrebbe nutrire pensieri del genere contro quella incantevole creatura?... - Lei ama Aurelia?... - Questa domanda il principe me la pose facendosi serio e guardandomi fisso negli occhi. Mi portai una mano al petto e non risposi. - Lei ama Aurelia, lo so, riprese il principe, - l'ama fin da quando la vide entrare in sala per la prima volta, con la principessa. E Aurelia la ricambia con un ardore di cui, francamente non l'avrei creduta capace. Vive unicamente per lei: la principessa mi ha detto tutto. Lo crederebbe?... Dopo il suo arresto si è disperata al punto di ammalarsi; poco è mancato che morisse. La credeva l'assassino di suo fratello e ciò nonostante anche allora l'amava... Il suo dolore ci era incomprensibile. Dunque, signor Leonardo, o meglio, signor von Krczynski: lei è nobile di nascita. Le darò una sistemazione stabile e, credo, molto piacevole, qui a corte: sposerà Aurelia. Fra alcuni giorni celebreremo il fidanzamento. Io farò le veci del padre della sposa. Rimasi senza parola, combattuto dai sentimenti più contraddittori. - Adieu, signor Leonardo! esclamò il principe salutandomi con un cordiale cenno di mano. Ed uscì. Aurelia mia moglie!... La moglie d'un frate criminale! No!... Questo non potevano volerlo neppure le potenze tenebrose, qualsiasi fosse la sorte designata alla poveretta. Tale pensiero prevalse su ogni possibile obiezione contraria. Dovevo prendere subito una decisione; ma inutilmente tentai di escogitare un mezzo per separarmi da Aurelia senza dolore. Non rivederla più mi era insopportabile... ma il pensiero che lei dovesse diventare mia moglie mi riempiva d'un orrore di cui io stesso non sapevo darmi ragione. Avevo il chiaro presentimento che, se il frate criminale si fosse presentato davanti all'altare del Signore per farsi sacrilega beffa dei sacri voti, il pittore sconosciuto gli sarebbe apparso - non più benevolo, consolatore come in prigione, ma tremendo, implacabile annunziatore di vendetta e rovina, come al matrimonio di Francesco per precipitarlo nell'onta e nella perdizione temporale ed eterna. Una voce tenebrosa saliva dal fondo della coscienza e mi diceva: - Eppure, Aurelia dev'essere tua!... Pazzo, idiota, come pensi di poter mutare la sorte segnata per entrambi?... - Giù, giù, prosternati nella polvere! - diceva un'altra voce: - Cieco! Tu commetti un delitto!... Aurelia non potrà mai essere tua... È santa Rosalia che ti illudi di poter abbracciare ed amare d'un amore terreno! Così in balìa di due potenze tremende in conflitto, non ero più capace di pensare e non avevo la benché minima idea di che cosa dovessi fare per sfuggire alla rovina incombente su di me da ogni parte. Ora, la mia vita trascorsa e la tragedia nel castello del barone von F. non potevo più considerarle un semplice sogno angoscioso; l'entusiasmo, l'euforia si erano esauriti. In preda al più nero sconforto vedevo in me soltanto più un volgare, libidinoso delinquente. Tutto ciò che avevo raccontato al giudice e al medico di corte non era altro che un cumulo di stupide menzogne male inventate; e più nessuna voce mi parlava, come allora, per convincermi del contrario. Un giorno mi trascinavo per la strada profondamente assorto, senza sentire né vedere nulla intorno a me. Mi ridestarono il grido d'un cocchiere, il fragore d'un veicolo in corsa. Mi scansai di lato con un balzo: era la carrozza della principessa. Il medico si sporse dal finestrino e mi fece un cenno di saluto. Lo seguii a piedi fino a casa; qui egli scese e mi condusse dentro dicendomi: Vengo adesso da Aurelia. Ho qualcosa da dirle -; e quando fummo nella sua camera riprese: Ahi, ahi!... Ragazzo sconsiderato e impulsivo... che cosa mi ha combinato?... Si è mostrato ad Aurelia così, all'improvviso, come uno spettro, e la povera creatura, già debole di nervi, si è spaventata fino ad ammalarsene... Via, via... soggiunse vedendomi impallidire. - La cosa non è poi così grave! Aurelia esce già di nuovo in giardino e domani ritornerà alla residenza con la principessa. Mi ha parlato molto di lei: desidera ardentemente rivederla e... scusarsi! Teme di esserle apparsa una sciocca... Ripensai a quanto era avvenuto in quel castello di diporto e non seppi spiegarmi la sortita di Aurelia. Il medico pareva a conoscenza delle intenzioni del principe a mio riguardo, e me lo fece chiaramente intendere. La sua vivacità contagiosa riuscì ben presto ad aver ragione del mio umor nero. E la conversazione prese un tono gioviale. Egli mi descrisse ancora una volta come aveva trovato Aurelia: distesa in letto, con la testolina appoggiata sulla mano e gli occhi socchiusi, ancora pieni di lacrime ma già sorridenti, proprio come una bambina incapace di riaversi da un brutto sogno. Il medico ripeté le sue parole imitando la voce rotta, i sospiri sommessi della timida giovinetta angustiata da visioni morbose, ne rifece, in tono alquanto caricaturale, alcuni lamenti, seppe, insomma, rievocare il grazioso quadretto in chiave di arguta ironia; poi, per contrasto, imitò la severa gravità della principessa, e ciò mi divertì non poco. - Avrebbe mai immaginato, quando giunse nella residenza, - concluse, - che le sarebbero capitate tante e così incredibili avventure?... Prima, il malaugurato equivoco che l'ha portata davanti alla corte criminale, poi la fortuna veramente invidiabile offertale dal suo serenissimo amico! Infatti, lo ammetto: l'affettuosa accoglienza del principe sulle prime mi ha molto riconfortato. Ma adesso sento troppo di dovere esclusivamente all'ingiustizia subita la maggiore stima riacquistata presso di lui e tutta la corte. - Non tanto all'ingiustizia subita quanto a un'altra piccola circostanza che lei certamente indovinerà. - Non ne ho la minima idea. - Qui continuano a chiamarla semplicemente Leonardo, è vero, perché a lei piace così. Però adesso tutti sanno che lei è nobile, perché le notizie giunte da Posen hanno confermato le sue dichiarazioni. - E quale influenza può avere questo fatto sul principe e sulla stima di cui godo a corte?... Quando il principe mi conobbe e mi invitò a frequentare le sue sale io lo avvertii che ero di origine borghese; ed egli mi rispose che la cultura mi nobilitava e rendeva degno di comparire a palazzo. - Sì, questo lo dice, e ne è veramente convinto, quando si mette a civettare con le arti e le scienze atteggiandosi a spirito illuminato. Avrà notato, a corte, la presenza di alcuni artisti e scienziati borghesi. Ma i più sensibili, i più fini d'intuito fra costoro, quelli cui non sfugge la sostanziale leggerezza dei cortigiani e non possono così, per ischerzo, porsi sul piedestallo che li innalzerebbe al disopra degli altri, quelli si fanno vedere di rado, anzi, preferiscono non mostrarsi affatto. C'è sempre, nel comportamento dei nobili verso i borghesi, e malgrado tutta la miglior volontà, da parte dei primi, di mostrarsi spregiudicati, un certo non so che, assai simile ad un abbassarsi, a un sopportare una situazione sconveniente. E questo nessuno lo tollera, meno che mai gli individui giustamente orgogliosi di sé, i quali, quando sono in compagnia di aristocratici, sentono di essere i soli a doversi abbassare, tollerando la banalità, la meschinità intellettuale. Lei è nobile, signor Leonardo; ma, a quanto sento, è anche una persona colta, intelligente. Ed è perciò possibile che lei sia il primo aristocratico in cui, finanche nei nobili ambienti di corte, io non abbia mai avvertito nulla di «aristocratico» - nel senso deteriore del termine. Lei potrà credere ch'io parli in questo modo basandomi sulle solite opinioni preconcette diffuse tra i borghesi, o che qualcosa mi sia accaduto per rendermi schiavo di tali pregiudizi. Ma non è così. Io appartengo a una classe la quale, eccezionalmente, non soltanto è tollerata, ma addirittura portata in palmo di mano. Medici e confessori sono signori sovrani: regnano sui corpi e sugli spiriti e quindi vengono considerati senz'altro appartenenti alla migliore nobiltà. L'indigestione, come la dannazione eterna, non dovrebbero incomodare un tantino anche i personaggi più qualificati a frequentare le corti?... Ho detto confessori, ma alludevo soltanto ai preti cattolici. I pastori protestanti, specialmente in campagna, sono poco più che dei domestici i quali, dopo aver toccato le coscienze degli illustri signori, siedono in fondo in fondo alla tavola a rifocillarsi umilmente con vini ed arrosti. Certo, non dev'essere facile deporre un pregiudizio così profondamente radicato. Ma molte volte si tratta unicamente di mancanza di buona volontà; perché molti nobiluomini temono di poter, soltanto come tali, mantenere un posto nella vita cui altrimenti nulla al mondo darebbe loro il diritto di ambire. L'orgoglio del casato è un fenomeno curiosissimo, quasi ridicolo nel nostro tempo tendente sempre più a spiritualizzarsi. Dalla cavalleria, la guerra, le armi, si è formata una casta destinata esclusivamente a proteggere e difendere tutte le altre: il rapporto di subordinazione dei protetti verso i protettori ne è conseguito da sé. Si vantino pure, il dotto del proprio sapere, l'artista della propria arte, l'operaio, il mercante del proprio mestiere. - «Guardate un pò», dice il cavaliere. «Sta venendo un nemico protervo cui voi, inesperti di guerra, non potete opporvi; ma io, valente uomo d'armi, mi pongo davanti a voi con la mia spada da combattimento e quasi per piacere, per gioco, vi salvo la vita, i beni, gli averi!» Ma la forza bruta tende sempre più a sparire dalla faccia della terra; l'intelletto lavora e crea sempre più intensamente; la sua forza si dispiega sempre più vasta. Presto ci si renderà conto che un pugno vigoroso, una corazza, una spada, non bastano a vincere ciò che vuole lo spirito. La guerra, l'arte delle armi si piegheranno al principio spirituale del tempo. Ognuno di noi dovrà sempre più bastare a se stesso, attingere alle proprie capacità spirituali e intellettuali per farsi valere nel mondo, anche se il rango gli conferisca un qualche lustro esteriore. L'orgoglio del casato, discendente dalla cavalleria, poggia invece sul principio opposto. La sua divisa è la seguente: «I miei antenati erano degli eroi, perciò anch'io sono un eroe». - E, più addietro si deve risalire nel tempo, tanto meglio; perché è facile chiudere un occhio sulle origini e la natura dell'eroismo d'un bisavolo e sulla motivazione del suo brevetto nobiliare, ma più difficile prender sul serio questi fatti quando sono troppo recenti. Le belle leggende vogliono sfumare nelle nebbie del passato remoto!...Insomma, si deve ancor sempre risalire all'eroismo e alla forza fisica. Genitori forti e vigorosi procreano, almeno per regola, una prole altrettanto robusta, e così pure sono ereditari il coraggio e lo spirito guerriero. Mantenere pura la casta dei cavalieri era dunque un'esigenza, ai tempi della cavalleria; per una damigella di antico casato non era merito di poco conto partorire un paladino cui il povero mondo borghese avrebbe dovuto rivolgersi supplicando: «Per favore, non ci divorare ma difendici dagli altri nobili cavalieri tuoi pari». Per le facoltà intellettuali e spirituali le cose non vanno così: padri saggissimi generano spesso figlioletti sciocchini; e poiché l'evolversi dei tempi ha sostituito la cavalleria dello spirito a quella fisica, farebbe più paura trattandosi di dimostrare la propria nobiltà ereditaria discendere da Leibnitz che non da Amadis de Gaula o da un qualsiasi altro antichissimo cavaliere della Tavola Rotonda. Lo spirito del tempo avanza inesorabilmente nella direzione ormai segnata e la situazione dell'aristocrazia, fiera del proprio casato, va notevolmente peggiorando. Perciò quel comportamento così privo di tatto verso taluni borghesi di alto valore per il mondo e lo stato, quel misto di riconoscimento dei meriti e di odiosa condiscendenza, può essere il prodotto d'un oscuro senso di soggezione, o del timore, da parte dei nobili, di apparire agli occhi dei saggi nella loro ridicola nudità, una volta caduti i vecchi orpelli d'un tempo irrimediabilmente trascorso... Grazie al cielo, oggi molti aristocratici, uomini e donne, hanno compreso lo spirito dei tempi, e si librano in voli superbi, alle altezze loro dischiuse dall'arte e dalla scienza. Saranno costoro i veri esorcizzatori di quel mostro. La disquisizione del medico mi aveva condotto in un campo ancora inesplorato. Mai mi era avvenuto di riflettere sulla nobiltà e i suoi rapporti con la borghesia. Certamente il mio interlocutore non poteva supporre che un tempo io fossi appartenuto al secondo stato, quello appunto che, a suo modo di vedere, non feriva l'orgoglio dell'aristocrazia. Non avevo forse frequentato le più distinte e nobili case di B., nella mia qualità di stimatissimo e veneratissimo confessore?... Continuando a riflettere mi resi conto di essere stato una volta di più l'artefice del mio destino perché, nominando la località di Kwiecziczewo nel corso della conversazione con quella vecchia signora a corte, avevo dato origine alla mia nascita nobiliare e suggerito al principe l'idea di farmi sposare Aurelia. Appena ritornata la principessa, accorsi da Aurelia, la quale mi accolse con deliziosa ritrosia verginale. Quando la strinsi fra le braccia credetti di nuovo che avrebbe potuto diventare mia moglie. La ritrovai più tenera e sottomessa del consueto. Aveva gli occhi pieni di lacrime e mi parlava in tono di umile preghiera, come una bimba quando ha finito di tenere il broncio dopo esser stata cattiva. Non potei fare a meno di ripensare alla mia visita nel castello della principessa; e, impaziente di sapere tutto, pregai con insistenza Aurelia di confidarmi che cosa la avesse tanto spaventata. Lei tacque e abbassò gli occhi; ma io, riafferrato dal ricordo del mio terrificante sosia gridai: - Aurelia, per tutti i santi, dimmi, quale figura spaventosa hai visto dietro di noi?... - Mi guardò piena di stupore, con fissità crescente, poi balzò in piedi e fece per fuggire, ma rimase e scoppiò in singhiozzi premendosi le mani sugli occhi: No... no... no!... Non può essere lui!... - esclamò. La cinsi dolcemente e lei di nuovo si abbandonò a sedere, affranta. Lui?... Lui chi?... - le domandai con affanno, ben sapendo che cosa accadesse nell'animo suo. - Ah, amico mio... amor mio, sussurrò lei con tristezza. - Non mi crederai una pazza visionaria se ti dirò tutto... tutto ciò che continua a turbare la felicità del mio purissimo amore?... Un sogno spaventoso mi perseguita... si è interposto fra noi con le sue orrende immagini fin da quando ti vidi per la prima volta... E quella sera, quando tu entrasti così all'improvviso nella mia camera, ho sentito il battito delle sue ali... ed è stato come se mi investisse il gelido sogno della morte. Ascolta: un monaco empio una volta si inginocchiò accanto a me, come facesti tu, e col pretesto della santa preghiera tentò di commettere un'azione infame. Mentre mi insidiava di soppiatto, con l'astuzia d'una belva in agguato, trucidò mio fratello!... Ah... e tu!... Il tuo viso... la tua voce... quella scena!... Non farmi parlare... non farmi parlare!... Aurelia si abbandonò indietro, adagiandosi quasi supina nell'angolo del divano, la testa appoggiata sulla mano... Le linee sinuose del suo corpo giovanile si stagliarono ancora più evidenti. Io le stavo di fronte... l'occhio si smarriva in quell'incanto infinito, mentre una voce di scherno diabolico urlava in me, quasi sopraffacendo la concupiscenza: Tu, sciagurata, comprata a Satana... Sfuggisti al monaco che voleva indurti al peccato nella preghiera?... Ora sei la sua sposa... la sua sposa!... - In quel momento tutto l'amore, divampato in me come fiamma divina quando avevo rivisto Aurelia nel parco dopo esser sfuggito alla prigionia e alla morte, si spense. Non ebbi più che un pensiero: far della rovina di lei il centro radioso della mia vita. Aurelia fu mandata a chiamare dalla principessa. Era chiaro ormai: fra la vita di quella fanciulla e la mia correvano relazioni a me ancora sconosciute e non trovavo modo di scoprirle. Aurelia, malgrado le mie preghiere, non voleva assolutamente spiegarmi il significato di certi accenni gettati là come per caso; e fu proprio il caso a rivelarmi quanto lei mi taceva. Un giorno mi trovavo nell'ufficio dell'addetto alla corrispondenza del principe e della sua casa. Il funzionario era assente. Entrò la cameriera di Aurelia e depose sul tavolo già ingombro di posta una lettera molto voluminosa: era di pugno d'Aurelia e indirizzata (mi bastò uno sguardo per accorgermene) alla madre superiora, sorella della principessa. Mi balenò il presentimento che in quel plico fosse racchiuso quanto ancora non ero riuscito a scoprire. E prima ancora che il funzionario rientrasse io ero già uscito con la lettera in tasca. Tu, religioso o laico, se intendi trarre motivo di ammaestramento e di monito dalla mia vita, leggi i fogli qui inseriti, leggi le confessioni della pura e pia giovinetta, intrisi di lacrime amare dal peccatore pentito e disperato. Possa, quello spirito di bontà, illuminarti e consolarti nell'ora della tentazione e del peccato. aurelia alla badessa del conven -to delle suore cistercensi. Mia cara e buona madre! con quali parole posso annunziarti che la tua figliola è felice?... Che la sinistra ombra nera, entrata nella mia vita come uno spettro minaccioso a devastarne i fiori, a distruggerne ogni speranza, ne è stata finalmente bandita dalla divina magia dell'amore?... Mi sarebbe molto penoso se tu, ricordando mio fratello e il mio sventurato padre, morto di dolore, mi rimproverassi di non averti aperto completamente il cuore, come in confessione, quando ero così disperata; ma soltanto oggi posso svelare il fosco segreto finora tenuto gelosamente racchiuso in fondo all'anima. Era come se una potenza tenebrosa e malvagia volesse trarmi in inganno facendomi apparire come un sinistro spauracchio ciò che per me sarebbe stata la suprema felicità. E mi sentivo sbatacchiata qua e là, in balìa d'un mare tempestoso, con la certezza di dover miseramente perire. Ma il cielo mi ha porto miracoloso aiuto proprio nel momento in cui credevo di toccare il fondo della disperazione. Per dirti tutto, proprio tutto, devo ritornare indietro, alla primissima infanzia, perché già fin da allora venne gettato in me il germe del male destinato a svilupparsi tanto, per la mia rovina. Era una bellissima giornata di primavera; io avrò avuto due o tre anni e giocavo nel giardino del nostro castello con Ermogene. Coglievamo fiori, e mio fratello, per solito non troppo propenso a simili passatempi, si degnava di intrecciare ghirlande perché io mi facessi bella. - Adesso andiamo dalla mamma, - dissi quando fui coperta di fiori dalla testa ai piedi. Restiamo qui, invece, piccolina! gridò rabbiosamente Ermogene balzando in piedi. - La mamma è nel salottino azzurro e sta parlando col Diavolo! - Non compresi che cosa volesse dire ma mi spaventai moltissimo lo stesso e mi misi a piangere. - Ma perché strilli, sciocchina? disse Ermogene. - La mamma parla tutti i giorni col Diavolo, e lui non le fa niente di male! - Ermogene mi guardava così di brutto e la sua voce era tanto aspra che ne ebbi paura e tacqui. La mamma allora era già molto cagionevole di salute; spesso la coglievano tremende crisi spasmodiche, seguite da uno stato di collasso, che la lasciavano come morta. Quando ciò accadeva noi bambini ci portavano via. Io piangevo, ma Ermogene borbottava fra i denti: Il Diavolo le ha fatto male! - Sorse così nella mia mente infantile il pensiero che la mamma avesse qualcosa a che fare con un brutto e cattivo babao perché, digiuna di catechismo com'ero, il diavolo non potevo immaginarmelo diversamente. Un giorno mi lasciarono sola, e proprio nel salottino azzurro... Mi prese una tale paura che non potei neppure fuggire. Quand'ecco la porta si aperse ed entrò la mamma, pallida come una morta, si avvicinò a una parete nuda e chiamò con voce lamentosa: Francesco, Francesco! - Qualcosa frusciò di fuori, la parete si aprì ed apparve il ritratto a grandezza naturale d'un bell'uomo, drappeggiato in un meraviglioso manto violetto. Quel viso, quella figura mi fecero un'impressione indescrivibile. Al mio gridarello di gioia la mamma si volse e mi vide: - Che vuoi, Aurelia?... Chi ti ha portato qui dentro?... - La mamma, sempre così buona e tenera era in collera come non l'avevo vista mai. - Ah... - balbettai fra le lacrime, sentendomi in colpa. - Mi hanno lasciata sola... io non volevo... -; poi mi avvidi che il quadro era sparito e gridai: - Ah... quel bel quadro!... Dov'è quel bel quadro?... - La mamma mi prese in braccio, mi vezzeggiò, mi baciò e disse: Tu sei la mia buona, la mia cara bambina... Ma quel quadro non deve vederlo nessuno. È andato via per sempre! - Non confidai a nessuno quel fatto; soltanto a Ermogene dissi una volta: - Sai?... La mamma non parla col diavolo ma con un uomo molto bello. Però è soltanto un quadro, e salta fuori dal muro quando la mamma lo chiama -. Ermogene guardò fisso davanti a sé e mormorò: - Il diavolo può essere come gli pare, tanto alla mamma non farà niente di male. Lo dice anche il reverendo -. Di nuovo ebbi paura e pregai mio fratello di non parlarmi mai più del diavolo. Poi ci trasferimmo nella capitale; scordai il quadro e quando, morta la mamma, ritornammo in campagna io ridivenni vivace come sempre. L'ala del castello in cui era situato il salottino azzurro rimase disabitata; erano gli appartamenti della mamma dove mio padre non metteva piede per evitar di risvegliare dolorosissimi ricordi. Una riparazione all'edificio rese infine necessario aprire quelle camere. Io entrai nel salottino azzurro mentre gli operai stavano rimuovendo l'impiantito. Mentre uno di essi sollevava una tavola al centro della camera, si udì uno scricchiolio dietro la parete, questa si aperse ed apparve il ritratto a grandezza naturale di uno sconosciuto. Nel pavimento si scoperse la molla, premendo la quale si azionava il congegno di apertura. Allora ricordai con perfetta chiarezza quell'episodio della mia infanzia, rividi mia madre, piansi a calde lacrime senza però riuscire a distogliere lo sguardo dal bellissimo sconosciuto che mi guardava con occhi vividi e scintillanti. Entrò mio padre, evidentemente informato dell'accaduto, e mi vide ancora davanti al ritratto; gli gettò un'occhiata, si arrestò inorridito mormorando sordamente fra i denti: - Francesco, Francesco!... Poi si volse in fretta agli operai e ordinò con voce vibrata: - Smurate immediatamente quel quadro, arrotolatelo e consegnatelo a Rinaldo -. Mi parve di non dover rivedere mai più quell'uomo meraviglioso, quel suo manto superbo che me lo faceva sembrare un principe degli spiriti; ma una timidezza invincibile mi impedì di pregare mio padre che non facesse distruggere il quadro. Comunque, pochi giorni bastarono per cancellare del tutto dalla mia mente l'impressione riportata da quella scena. Avevo ormai compiuto quattordici anni ed ero una ragazzina selvatica, sventata, tutt'all'opposto di Ermogene, sempre così serio e dignitoso. Nostro padre diceva sovente che lui sembrava una ragazzina tranquilla ed io un ragazzaccio sfrenato. Ma la situazione non tardò a capovolgersi. Ermogene incominciò ad appassionarsi all'esercizio delle armi; non pensava più che a combattere e, poiché appunto c'era una guerra in vista, mio padre dovette adoprarsi per farlo assumere immediatamente in servizio. Io, invece, durante quello stesso periodo, caddi, senza capirne il motivo, in uno stato d'animo che in breve tempo mi lasciò completamente distrutta; uno strano malessere, di origine evidentemente psichica, aggrediva tutti i miei centri vitali. Ero sempre sull'orlo del deliquio, poi sopraggiungevano sogni, visioni fantastiche di ogni genere. Mi sembrava di dover scorgere un cielo radioso, pieno di delizie e di beatitudini, ma non potevo aprir gli occhi, come una bambina cascante di sonno. Senza saperne il perché, passavo dalla tristezza mortale all'allegria più sfrenata. Per un nonnulla mi venivano le lacrime agli occhi, una nostalgia inspiegabile mi invadeva e ingigantiva, molte volte fino al limite del dolore fisico; sussultavo in tutte le membra, scossa da crampi spasmodici. Mio padre si rese conto del mio stato ma lo attribuì a una sovraeccitazione nervosa e ricorse all'opera dei medici i quali mi prescrissero ogni sorta di rimedi senza risultato alcuno. Non so nemmeno io come avvenne, ma tutt'a un tratto mi rividi davanti come se fosse viva la figura dimenticata di quello sconosciuto, con lo sguardo pieno di compassione fisso su di me. Ah! - esclamai. - Dovrò dunque morire?... Cos'è che mi tormenta in questo modo?... - Tu mi ami, Aurelia, - rispose la visione di sogno sorridendomi. - Questa è la tua pena. Ma potresti mai infrangere i voti di un uomo consacrato a Dio?... - Mi avvidi con sbigottimento che lo sconosciuto indossava un saio di cappuccino. Faticosamente riuscii a strapparmi da quello stato di sogno. Quel monaco non poteva essere che un'illusione, un prodotto della mia fantasia, ne ero convinta, eppure sentivo anche troppo chiaramente che il mistero dell'amore mi si era dischiuso. Sì!... Io amavo lo Sconosciuto con tutta la forza dei miei sentimenti appena desti... lo amavo con tutto l'ardore, con tutta la passione di cui sia capace un cuore giovanile. In quei momenti di dormiveglia sognante, quando credevo di vedere lo sconosciuto, il mio malessere, anche se giunto al culmine dell'esasperazione, svaniva; mi sentivo subito meglio, non davo più segni di debolezza nervosa. Soltanto l'immobile fissità di quell'immagine, il fantastico amore per una creatura esistente dentro di me e non altrove, mi davano l'aspetto di una sognatrice. Ed ero insensibile a qualsiasi altra sollecitazione; se mi trovavo in compagnia me ne stavo immobile, assorta nella contemplazione del mio ideale, non badavo a ciò che mi dicevano, rispondevo a sproposito e la gente mi prendeva per una povera sciocca. Vidi un giorno nella camera di mio fratello la traduzione di un romanzo inglese: Il monaco (19) e, con un fremito di orrore, mi balenò il pensiero che il mio amato sconosciuto fosse appunto un monaco... Mai avevo sospettato che l'amore per un religioso potesse essere colpevole. Mi ritornarono alla memoria - e soltanto allora mi ferirono profondamente, cadendomi sulla coscienza come un peso immane le parole dell'apparizione: Potresti mai infrangere i voti d'un uomo consacrato a Dio? - Forse quel libro mi avrebbe dato qualche chiarimento, pensai; lo presi e mi misi a leggerlo. La storia meravigliosa mi trascinò. Ma quando avviene il primo delitto, quando il monaco infame si macchia di colpe sempre più esecrabili e infine si allea col Maligno, un orrore indicibile mi colse perché ricordai le parole di Ermogene: - La mamma sta parlando col Diavolo! - E credetti che anche lo Sconosciuto, come il monaco del romanzo, fosse un'anima venduta al Diavolo, venuta a me per indurmi al male. Eppure non riuscivo a comandare al cuore. Per la prima volta mi rendevo conto che esistevano amori colpevoli, ne provavo orrore, cercavo di soffocare i miei sentimenti ma questo conflitto mi rendeva estremamente irritabile. Spesso, quando mi trovavo insieme a un uomo, una sensazione sinistra, inquietante, mi faceva temere di aver accanto il monaco, pronto a ghermirmi e a trascinarmi in perdizione. Rinaldo, di ritorno da un viaggio, ci parlò molto di un certo cappuccino Medardo, famoso in tutto il paese come predicatore; egli lo aveva sentito predicare a -r e ne era rimasto entusiasta. Ciò mi fece pensare al monaco del romanzo e mi suggerì lo strano presentimento che l'amata e temuta immagine di sogno potesse essere appunto quel tale Medardo. Questo pensiero mi fece inorridire e il mio stato d'animo divenne penoso e sconvolgente al punto da non potersi più sopportare. Nuotavo in un mare di presentimenti e di sogni, ma invano cercavo di scacciare da me la figura del monaco... Sventurata fanciulla!... Non potevo più resistere all'amore colpevole per l'uomo consacrato a Dio! Un sacerdote venne a trovare mio padre, come già altre volte aveva fatto, e si diffuse a parlare delle innumerevoli tentazioni diaboliche. Talune parole del suo discorso mi caddero nell'animo come scintille, specialmente quand'egli accennò allo stato di desolazione in cui versa una giovane coscienza insidiata dal Maligno e incapace di opporgli valida resistenza. Mio padre soggiunse qualcosa, come se stesse parlando di me. Solamente un'illimitata, incrollabile fiducia disse il sacerdote - non tanto nelle persone amiche quanto nella religione e i suoi ministri, poteva, in tali casi, offrire salvezza. Quella singolare conversazione mi decise a cercare il conforto della Chiesa e ad alleviarmi l'animo accostandomi sinceramente pentita alla santa confessione. Ci trovavamo, allora, nella residenza. All'alba del giorno seguente sarei andata nella chiesa del convento poco distante dalla nostra casa. Passai una notte orribile, tormentosissima, circondata da una fantasmagoria di immagini ripugnanti, sacrileghe, quali mai avevo visto né immaginato. Al centro c'era il monaco - mi porgeva la mano come per salvarmi e diceva: - Dillo soltanto che mi ami, e sarai libera d'ogni pena! - Senza volerlo fui costretta a gridare: - Sì, Medardo, ti amo!... - e tutti gli spiriti infernali svanirono. Finalmente mi alzai, mi vestii e andai nella chiesa del convento. La luce del mattino incominciava appena a filtrare in raggi iridati attraverso le vetrate multicolori; un frate laico stava scopando i corridoi. Non lontano dalla porta laterale per cui ero entrata c'era un altare dedicato a santa Rosalia. Mi fermai per una breve orazione e subito mi diressi al confessionale in cui avevo visto un frate. Cielo pietà!... Era Medardo!... Nessun dubbio: una voce superiore me lo diceva. Pazza d'amore e di paura sentii tuttavia di potermi salvare soltanto con risoluto coraggio. E confessai a quel frate perfino il mio amore colpevole per un uomo votato a Dio, anzi, di più... Eterno Iddio!... Sentii di aver già molte volte, nella mia disperazione, maledetto quei voti. E confessai anche questo. Tu, tu stesso, Medardo, sei colui che così indicibilmente amo!... furono le ultime parole che potei pronunziare. Dalle labbra del frate (il quale ora non mi sembrava più Medardo), fluivano come balsamo celeste le parole consolatrici della Chiesa. Poco dopo, un vecchio e venerando pellegrino mi prese fra le braccia e, attraverso le navate della chiesa, mi condusse lentamente all'ingresso principale, sussurrandomi parole meravigliose, sublimi. Ma io, credo, mi assopii come una bimba cullata da un tenero, dolcissimo canto. E persi i sensi. Quando rinvenni giacevo vestita sul divano della mia camera. - Sia lode a Dio e a tutti i santi! - esclamò una voce. - La crisi è superata... Si riprende!... Era il medico che così parlava a mio padre. Mi avevano trovata quella mattina, mi dissero, rigida come una morta. Si era temuto un'apoplessia nervosa. - Come ben vedi, mia cara e pia madre, la confessione a frate Medardo era stata soltanto un sogno molto vivido, provocato da sovreccitazione nervosa. Fu santa Rosalia, che pregavo sovente e invocavo anche in sogno, a darmi quella illusione, per salvarmi dalle astute insidie del Maligno. Il folle amore per la fallace immagine di sogno vestita da monaco era estinto. Mi ripresi molto in fretta e ricominciai a vivere normalmente, allegra e spensierata come prima. Ma, giusto Iddio!, l'odiato monaco doveva colpirmi a morte ancora una volta. Nel frate giunto al nostro castello riconobbi immediatamente Medardo. Quello è il Diavolo che parlava con la mamma! - continuava a gridare dentro di me la voce dell'infelice Ermogene. - Guardati, guardati!... Ti sta insidiando!... - Ah!... Non avevo bisogno di simili ammonimenti!... Provai ribrezzo e orrore per quel frate fin dal primo momento, fin da quando prese a guardarmi con occhi lucidi di concupiscenza e invocò santa Rosalia, fingendo ipocritamente di cadere in estasi. Tu ben conosci lo spaventoso seguito della vicenda, mia buona e cara madre. Ma, ahimè, devo ancora confessarti una cosa: il frate mi era tanto più pericoloso in quanto andava destandosi nel fondo dell'animo mio (come già allora quel primo pensiero di colpa) la sensazione di dover lottare contro l'insidie del maligno. In certi momenti ero talmente infatuata da dar fiducia ai discorsi religiosi di quell'ipocrita, come se da lui dovesse scaturire la scintilla divina capace di accendermi d'un puro amore ultraterreno. Ma perfino nei più fervidi trasporti di misticismo egli, con astuzia perversa, riusciva ad accendere in me una fiamma proveniente, invece, dall'inferno. Poi i santi, così ardentemente invocati, mi mandarono come un angelo custode mio fratello. Immagina, cara madre, il mio terrore quando, poco dopo la prima comparsa a corte, mi vidi venire incontro un uomo in cui, alla prima occhiata, credetti di riconoscere frate Medardo, malgrado vestisse in borghese! Al vederlo svenni; e rinvenendo, fra le braccia della principessa, gridai: - È lui... è lui!... L'assassino di mio fratello!... - Sì, è lui, - disse la principessa, - il monaco spretato, fuggito dal convento. L'impressionante rassomiglianza con suo padre, Francesco... - Cielo pietà!... Mentre scrivo questo nome rabbrividisco, raggelo. Il quadro di mia madre era dunque il ritratto di Francesco... la tormentosa visione di sogno vestita da frate ne aveva gli identici lineamenti... gli identici lineamenti aveva Medardo nel magico sogno della confessione; Medardo è figlio di Francesco... è quel Franz che tu, mia buona madre, facesti così santamente educare e poi precipitò nel peccato e nel delitto. Quale legame correva dunque fra quel Francesco e mia madre perché essa ne conservasse di nascosto il ritratto per poi contemplarlo abbandonandosi, si sarebbe detto, ai ricordi d'un tempo felice?... Come mai Ermogene vedeva il diavolo in quel ritratto?... Quella era stata l'origine dei miei strani smarrimenti. Affondo in un mare di presentimenti e di dubbi. Santo Iddio!... Sono davvero sfuggita alla pania della potenza malefica?... No, non posso scrivere più. Mi sembra di venire inghiottita da una notte nera in cui non filtri un solo raggio di speranza ad additarmi benevolo la via da percorrere! (Alcuni giorni dopo). No! Più nessun dubbio tenebroso dovrà offuscare le belle giornate di sole sorte finalmente per me. Il reverendo padre Cirillo ti ha già riferito dettagliatamente, lo so, della cattiva piega presa dal processo contro Leonardo, consegnato nelle mani della corte criminale dalla mia precipitazione. Il vero Medardo è stato arrestato, la sua pazzia - probabilmente simulata - è svanita. Egli ha confessato i propri delitti ed attende ora il giusto castigo. Tutto questo, mia cara madre, lo sai e non insisto a parlartene perché troppo ti ferirebbe l'ignominia del delinquente che da ragazzo ti era così caro. A corte non si parlava più d'altro che di quel sensazionale processo. Tutti giudicavano Leonardo un criminale scaltro e ostinato perché insisteva nel respingere ogni accusa. Dio del cielo!... Certi discorsi mi ferivano come stilettate perché una magica voce continuava a ripetere dentro di me: «È innocente... La sua innocenza risulterà luminosa come la luce del sole». Provavo per lui una profonda compassione, anzi, pensandolo mi commuovevo in un modo sulla cui interpretazione non potevano sussistere dubbi. Sì!... Lo amavo già indicibilmente quando egli ancora passava agli occhi del mondo per un odioso criminale. Un miracolo doveva salvare lui e me: perché se Leonardo fosse finito per mano del carnefice io sarei morta. Egli è innocente, mi ama, presto sarà tutto mio. Così il vago presentimento infantile, che una potenza avversa aveva perfidamente cercato di intorbidare, si avvera stupendo, meraviglioso, per la mia immensa felicità. O, dacci la tua benedizione, buona madre, a me ed al mio amato! Ah, poter riversare nel tuo cuore la mia ineffabile gioia! - Leonardo rassomiglia in tutto e per tutto a quel Francesco, soltanto sembra più alto e si distingue notevolmente da lui e da frate Medardo per certe caratteristiche peculiari della sua razza (come sai, è polacco). È stato ben sciocco da parte mia scambiare, sia pure per un solo istante, l'intelligente, l'elegante, il meraviglioso Leonardo con un frate spretato. Eppure, la spaventosa impressione delle atroci scene avvenute nel nostro castello è ancora così forte che certe volte, quando Leonardo mi si avvicina all'improvviso e mi guarda con quei suoi occhi sfavillanti (... rassomiglia, ahimè, troppo a Medardo!...) inorridisco senza volerlo e corro il rischio di offenderlo con reazioni puerili. A mio modo di sentire, soltanto la benedizione del sacerdote potrà dissipare per sempre le figure tenebrose che ancora adesso gettano qualche ombra sulla mia vita. Ricordaci entrambi nelle tue sante preghiere, cara madre! - Il principe desidera che il matrimonio si celebri al più presto. Ti scriverò la data affinché tu possa pensare alla tua figliola nell'ora più solenne e fatale della sua vita, ecc'ecc...' Lessi e rilessi innumerevoli volte i fogli di Aurelia. Fu come se l'angelica innocenza che ne irradiava entrasse in me, estinguendo, nella sua luce purissima, ogni colpevole ardore. Al vedere Aurelia provai una sorta di timor reverenziale, non osai più accarezzarla con la consueta frenesia; e lei notò il mio diverso modo di comportarmi. Le confessai, pentito, la sottrazione della lettera dicendo, per giustificarmi, di esservi stato indotto da un impulso inspiegabile e irresistibile. Una potenza d'ordine superiore - dissi - aveva evidentemente voluto farmi conoscere l'episodio della visione nel confessionale per dimostrarmi come la nostra indissolubile unione facesse parte degli eterni disegni. - Sì, angelo mio, - le dissi. - Anch'io una volta feci un sogno straordinario: tu mi dicevi di amarmi; ma io ero un infelice monaco calpestato dal destino, roso da mille infernali tormenti. Ti amavo, ti amavo con immenso ardore, ma il mio era un amore colpevole, doppiamente colpevole - sacrilego - perché io ero un monaco e tu - santa Rosalia. - O Dio! - esclamò Aurelia con un sussulto di spavento. - Nelle nostre vite deve celarsi un profondo, un insondabile mistero. Ah, Leonardo... guardiamoci dal sollevare il velo che lo avvolge perché chissà quali orrende, spaventevoli cose dovremmo scoprire! Cerchiamo di mantenerci buoni, fedelmente uniti... così potremo contrastare alla tenebrosa potenza i cui spiriti forse ci insidiano minacciosi. Tu hai letto la mia lettera: si vede che doveva accadere... Ah! Avrei dovuto confessarti io stessa ogni cosa perché fra noi non devono esistere segreti. Eppure ho la sensazione che qualcosa ti tormenti... forse un ricordo della vita passata si rifiuta di salirti alle labbra per un ingiustificato ritegno. Sii sincero, Leonardo! Pensa quale sollievo ti darebbe una franca confessione, e come renderebbe più limpido il nostro amore!... A queste parole sentii con immensa pena fino a qual punto lo spirito della menzogna fosse entrato in me e come avessi vilmente ingannato l'innocente creatura ancora pochi minuti prima. Tale sensazione si fece più forte. Tutto, tutto avrei dovuto rivelare ad Aurelia - e malgrado tutto conquistarmi il suo amore! Aurelia, - dissi. - Tu, mia santa, che mi salvi da... - In quel momento entrò la principessa: mi bastò vederla per sentirmi ricacciare giù, nell'inferno, pieno di pensieri sprezzanti, cattivi. Ora quella donna orgogliosa avrebbe dovuto sopportarmi. Ed io rimasi e le tenni sfrontatamente testa nella mia qualità di fidanzato di Aurelia. In generale, i pensieri cattivi mi lasciavano unicamente quando ero solo con lei. Ma in quel momento, di fronte alla principessa, per la prima volta desiderai con tutta l'anima di sposare la povera fanciulla. Una notte mi apparve mia madre, come se fosse viva. Feci per prenderle la mano ma... era soltanto una forma di nebbia. - Perché questo stupido inganno?... - esclamai irritato. Allora gli occhi di mia madre incominciarono a stillare limpide lacrime, che divennero sfavillanti stelle d'argento e fecero cadere su di me una pioggia di gocce lucenti, come per formare un'aureola intorno al mio capo. Ma una spaventosa mano nera spezzava continuamente l'anello di luce. - Ti ho generato mondo di colpa, - mi diceva con dolcissima voce mia madre. - È dunque spezzata la tua forza, che non puoi più opporti alle lusinghe di Satana?... Ora soltanto posso veder chiaro dentro di te, perché mi è stato tolto il peso della materia. Alzati, Francesco! Voglio adornarti con nastri e fiori perché oggi è il giorno di San Bernardo e tu devi ritornare ad essere un buon ragazzo! - Mi parve di dover intonare, come allora, un inno in lode del santo. Ma un fragore orrendo si scatenò: il mio canto divenne un urlo selvaggio e neri veli calarono fluttuando fra la figura di mia madre e me. Parecchi giorni dopo questa visione incontrai per istrada il giudice della corte criminale. Mi venne incontro con cordiale affabilità: - Ha già saputo, - mi domandò, - che nel processo a carico del cappuccino Medardo sono di nuovo sorti alcuni dubbi?... La sentenza - molto probabilmente una sentenza di morte - avrebbe già dovuto essere stilata, ma il frate ha dato nuovi segni di pazzia. Il tribunale ricevette notizia della morte di sua madre; io gliela comunicai, ed egli scoppiò in una risata selvaggia urlando con una voce che avrebbe fatto inorridire anche il più coraggioso degli uomini: «Ah, ah, ah!... La marchesa di... (e nominò la moglie del fratello del nostro principe, morto assassinato), è già morta da un pezzo!...» Ora è stata ordinata una nuova perizia medica perché pare si tratti di pazzia simulata. Mi feci dire il giorno e l'ora della morte di mia madre! Mi era apparsa in quello stesso istante!... La mia buona madre, troppo dimenticata, si era dunque interposta come mediatrice fra me e la pura anima angelica destinata a diventar mia. Ciò mi commosse profondamente. Divenni più dolce, più mansueto, e mi parve finalmente di comprendere per intero l'amore di Aurelia. Non potevo quasi più staccarmi da lei: essa era per me come una specie di santa protettrice. Il tragico segreto, da quando essa aveva smesso d'insistere perché glielo rivelassi, era diventato anche per me un imperscrutabile disegno della suprema potenza. E venne il giorno fissato dal principe per il matrimonio. Per desiderio di Aurelia, le nozze avrebbero dovuto celebrarsi di buon mattino nella vicina chiesa del convento, davanti all'altare di santa Rosalia. Trascorsi tutta la notte insonne, pregando - per la prima volta dopo tanto tempo! con grande fervore. Incosciente! Non mi accorgevo che la preghiera con cui mi preparavo al peccato era sacrilegio infernale! Quando andai a prendere Aurelia essa mi venne incontro vestita di bianco, adorna di rose odoranti, soave e bella come un angelo. La sua veste, l'acconciatura dei capelli, avevano un qualcosa di singolarmente arcaico. Dapprima sorse in me un oscuro ricordo, poi un brivido atroce mi colse: mi stava davanti, viva, la figura del quadro appeso sopra l'altare approntato per il nostro matrimonio! Nel dipinto raffigurante il martirio di santa Rosalia, la santa vestiva esattamente come Aurelia. Mi fu difficile celare l'impressione terribile che ne provai. Con uno sguardo in cui vidi un paradiso d'amore e di felicità, Aurelia mi porse la mano; io la trassi a me, me la strinsi al petto; e nel rapimento d'un bacio di nuovo ebbi la sensazione che soltanto per mezzo di quella giovinetta l'anima mia avrebbe potuto salvarsi. Un servitore del principe ci annunziò che i signori erano pronti a riceverci. Aurelia si infilò in fretta i guanti, io le porsi il braccio ma mentre stavamo avviandoci la cameriera si accorse che qualcosa era andato fuori di posto nell'acconciatura della sposa e corse a prendere delle forcine. Rimanemmo ad attendere sulla porta. Aurelia parve contrariata dal contrattempo. In quel momento salì dalla strada un brusio confuso, un incrociarsi di richiami aspri, poi il fragor di ruote d'un veicolo lento e pesante. Corsi alla finestra: condotta dai garzoni del carnefice stava passando davanti al palazzo la carretta d'un condannato a morte. Su di essa sedeva a ritroso il frate, mortalmente pallido, stravolto, con la barba irsuta, e davanti a lui un cappuccino in fervente orazione. La carretta rimase bloccata per un attimo dalla calca, poi tornò ad avviarsi. Bastò quell'attimo: il frate levò su di me due orrendi occhi sfavillanti, spiritati e urlò scoppiando a ridere: - Sposo; sposo... vieni, vieni sul tetto... Ci batteremo lassù... e chi getterà giù l'altro diventerà re e potrà bere sangue!... - Orribile uomo, che vuoi da me?... - gridai io. Aurelia mi trasse via a viva forza dalla finestra esclamando: - Dio mio... Vergine santissima... Conducono a morte Medardo, l'assassino di mio fratello... Leonardo... Leonardo!... Allora gli spiriti d'inferno si destarono in me, e s'impennarono con l'irresistibile potere loro concesso sui peccatori perversi. Afferrai Aurelia, la scossi rabbiosamente: - Ah, ah!... Pazza... stolta!... Io, il tuo adoratore, il tuo fidanzato... io sono Medardo... l'assassino di tuo fratello... E tu, sposa di frate, vorresti piagnucolare sulla perdizione del promesso sposo?... Ah, ah, ah... Io sono re... E bevo sangue!... - Trassi il coltello omicida... Aurelia era già scivolata a terra... La colpii. Un fiotto di sangue mi zampillò sulla mano. Mi precipitai giù per le scale... in istrada... mi feci largo tra la folla accalcata fino alla carretta... afferrai il monaco... lo trassi a terra. Mi agguantarono. Colpii ancora, furiosamente, intorno a me... mi svincolai... balzai via. La gente si lanciò ad inseguirmi... Un colpo di punta mi raggiunse in un fianco ma, menando il coltello con la destra e distribuendo vigorosi pugni con la sinistra, riuscii ancora a farmi largo fin sotto il muro del parco che scavalcai con un acrobatico salto, mentre intorno a me si infittivan le grida di: - Assassino!... Delitto!... Fermatelo... prendete l'assassino!... - Intesi un fragore di legni e ferraglia: la folla cercava di sfondare il portone del parco. Corsi, corsi via senza fermarmi. Giunsi al largo fossato che separava il parco dal bosco, lo scavalcai con una poderosa falcata e ripresi a correre, a correre per il bosco fino a che non crollai sfinito ai piedi d'un albero. Quando mi ridestai dal torpore in cui ero caduto era già notte fonda. Un unico pensiero mi dominava: fuggire come un animale braccato. Mi alzai; ma avevo fatto appena pochi passi quando qualcuno sbucato dalla macchia mi saltò sulle spalle e mi cinse il collo col braccio. Invano mi divincolai cercando di farlo cadere... Mi gettai per terra, provai a schiacciarlo premendo la schiena contro gli alberi. Tutto inutile... L'uomo ridacchiava, sghignazzava come per schernirmi. Finalmente un raggio di luna filtrò attraverso i pini neri... e il mostruoso, cadaverico viso del frate - del presunto Medardo - del mio doppio - fissò su di me lo stesso orrendo sguardo lanciatomi dalla carretta. - Ih, ih, ih... Fratellino... fratellino... Sono sempre... sempre con te... non ti lascio... non ti lascio... Non posso co... correre come te... Devi por... devi portarmi... Vengo dalla for... dalla forca... Vo... volevano arrotarmi... Ih, ih!... - Così balbettava fra le risa l'orribile spettro mentre io, reso ancor più forte dal terrore folle, saltavo e mi dibattevo come una tigre presa fra le spire d'un mostruoso serpente. Mi scagliavo contro alberi e rocce, se non proprio per ammazzarlo, almeno per ferirlo così gravemente da costringerlo a lasciarmi; ma egli rideva ancora più forte ed ero soltanto io a provare il dolore dell'urto. Mi stringeva le mani intorno al collo, sotto il mento; tentai di sciogliergliele ma la forza di quel mostro minacciava di strangolarmi. Finalmente, dopo una corsa pazza me lo scrollai di dosso, ma fatti pochi passi lo riebbi sulla schiena, lo riudii sghignazzare, balbettare le stesse orripilanti parole. Un altro sforzo furibondo, selvaggio, e rieccomi libero... poi, subito, riafferrato per il collo dal terrificante fantasma. No, non mi è possibile ridire con esattezza per quanto tempo continuassi a fuggire nel bosco buio, inseguito dal sosia. Mi sembra di aver corso per mesi e mesi senza prender cibo né bevanda. Ricordo con chiarezza un solo istante di lucidità, dopo di che caddi nell'incoscienza. Ero appena riuscito a gettare a terra il mio sosia, quando un luminoso raggio di sole, e insieme una soave voce familiare attraversarono il bosco. Era la campana d'un convento che chiamava al mattutino. Un pensiero, gelido come le braccia della morte, mi afferrò: «Hai ucciso Aurelia!...» E caddi a terra privo di sensi. Capitolo secondo L'espiazione Un dolce tepore m'invase. Poi avvertii uno strano lavorio, un formicolio in tutte le vene. Questa sensazione divenne pensiero, ma il mio «io» era ancora diviso in mille pezzi; ognuno di essi muoveva, aveva una sua propria consapevolezza della vita, ma inutilmente il cervello impartiva ordini: le membra, come vassalli ribelli, si rifiutavano di riunirsi sotto il suo comando. Poi i pensieri delle singole parti incominciarono a ruotare come punti luminosi, in fretta, sempre più in fretta, venendo a formare un cerchio di fuoco che rimpicciolì con l'aumentare della velocità, fino ad apparire una sfera ignea, immobile. Dalla sfera emanarono rossi raggi roventi e si mossero in un multicolore gioco pirotecnico. «... Sono le mie membra che si muovono... Adesso mi sveglio...», pensai, ma in quel momento un dolore improvviso mi fece sussultare: chiari rintocchi di campana mi feriron l'orecchio: Fuggire!... Via... via di corsa!... gridai cercando di sollevarmi, ma ricaddi indietro esausto. Soltanto allora riuscii ad aprire gli occhi: i rintocchi di campana si ripetevano, e io credevo di essere ancora nel bosco. Ma quale non fu il mio stupore quando osservai gli oggetti intorno a me... quando vidi me stesso!... Con indosso il saio di cappuccino, giacevo disteso su un materasso bene imbottito in una camera alta, quasi spoglia. Un paio di sedie di canna, un tavolino e un povero letto ne costituivano tutto l'arredamento. Il mio stato di incoscienza era dunque durato a lungo e in quel frattempo mi avevano trasportato in un convento adibito alla cura degli ammalati. Forse, essendo i miei abiti a brandelli, mi avevano messo addosso provvisoriamente una tonaca. Comunque, ero scampato al pericolo, o almeno così credevo. Tranquillizzato da questo pensiero, decisi di attendere gli eventi: di un malato qualcuno si sarebbe pur preso cura. Mi sentivo debolissimo, ma non provavo dolore di sorta. Alcuni minuti dopo aver ripreso piena conoscenza, udii avvicinarsi dei passi per un lungo corridoio. La porta si aperse e vidi due uomini, uno vestito in borghese, l'altro col saio dei fratelli della Misericordia. Mi si avvicinarono in silenzio: quello in borghese mi scrutò attentamente e parve molto stupito. - Ho ripreso i sensi, signore, - dissi con voce fioca. - Sia ringraziato il cielo che mi ha richiamato alla vita. Ma... dove mi trovo?... Come sono capitato qui?... - Senza rispondermi, il borghese si volse al religioso e gli disse in italiano: - È davvero sbalorditivo!... Lo sguardo è del tutto cambiato... La voce è ancora debole, ma l'articolazione mi sembra chiara. Dev'essersi verificata una crisi risolutiva. - Mi sembra che la guarigione sia ormai indubbia, - commentò il religioso. - Dipenderà da come si metteranno le cose nei prossimi giorni, - rispose il borghese. - Lei capisce un pò di tedesco?... Almeno tanto da potergli parlare?... - Purtroppo no, - rispose il religioso. - Io capisco e parlo l'italiano, - mormorai. - Ditemi, dove sono? E come sono arrivato qui?... - L'uomo in borghese, evidentemente un medico, parve gradevolmente sorpreso. Benone! - esclamò. - Vi trovate in un luogo dove si sta facendo tutto il possibile per il vostro bene, reverendo. Vi hanno portato qui tre mesi fa in condizioni assai preoccupanti. Eravate molto malato ma, grazie alle nostre assidue cure, pare siate in via di guarigione. Se avremo la fortuna di guarirvi del tutto potrete riprendere tranquillamente il vostro viaggio; perché, a quanto sento, stavate andando a Roma! - Sono arrivato da voi con la veste che ho addosso? - domandai. - Certamente, - rispose il dottore. Ma non fate altre domande, non inquietatevi. Saprete tutto più tardi. Adesso l'essenziale è aver cura della vostra salute -. Mentre il medico mi auscultava il polso, il frate andò a prendere una tazza e me la porse. - Bevete, - disse il medico. - E poi ditemi che cos'è, secondo voi, questa bevanda. - È brodo, - dissi io dopo averne bevuto qualche sorso. - È un buon brodo di carne, molto ristretto. Bene, - disse il dottore sorridendo soddisfatto. - Molto bene! - e uscì col religioso. Dunque, la mia supposizione si dimostrava giusta: mi trovavo in un pubblico ospedale. Continuarono a curarmi con cibi corroboranti e rimedi ricostituenti; e dopo tre giorni ero già in grado di alzarmi. Il frate aprì una finestra; entrò una folata d'aria tiepida, deliziosa, quale non avevo respirata mai. L'edificio era circondato da un giardino in cui verdeggiavano e fiorivano stupendi alberi esotici; rigogliosi tralci di vite si abbarbicavano ai muri - ma soprattutto il cielo mi colpì: un cielo azzurro intenso, vaporoso, un cielo di paese incantato. - Ma dove sono? esclamai estasiato. - I santi mi hanno dunque reso degno di abitare in paradiso? - Siete in Italia, fratello, in Italia, - mi rispose il frate con un sorriso compiaciuto. Il mio stupore crebbe al massimo grado. Lo pregai di dirmi con esattezza in quali circostanze fossi capitato in quell'ospedale; il frate mi fece cenno di rivolgermi al dottore; e dal dottore seppi finalmente che tre mesi prima un bizzarro individuo mi aveva condotto colà, pregando che mi accogliessero. Mi trovavo, precisamente, in un ospedale tenuto dai fratelli della Misericordia. Man mano che riacquistavo le forze, notavo che il medico e il religioso si intrattenevano a conversare con me sui più svariati argomenti, dandomi occasione di parlar molto e a lungo; le mie vaste e varie nozioni scientifiche mi fornivano sempre abbondante materia di conversazione. Il dottore talvolta mi pregava di metter giù qualcosa per iscritto e rileggendo i fogli, in mia presenza, pareva molto soddisfatto. Però, invece di lodare i miei lavori, si limitava a ripetere: - Certo... Sicuro... Va bene... Non mi ero ingannato!... Straordinario, straordinario!... - e ciò mi colpiva stranamente. Soltanto a determinate ore mi era permesso scendere in giardino, dove talvolta vedevo uomini orrendamente sfigurati, pallidi, scheletrici, accompagnati da frati della Misericordia. Un giorno, mentre già stavo rientrando, incontrai, condotto per le braccia da due religiosi, un individuo alto, magro, con uno strano mantello giallastro; l'uomo dopo ogni passo spiccava un buffissimo salto accompagnandolo con un fischio penetrante. Mi fermai stupito, ma il mio accompagnatore mi trascinò via in fretta dicendomi: - Venite, venite, caro frate Medardo. Non è affare per voi. - Per Dio! esclamai. - Come sapete il mio nome?... - L'impeto con cui pronunziai queste parole parve inquietare il mio accompagnatore. - E come potremmo non sapere il vostro nome? - mi rispose. - Ce l'ha detto l'uomo che vi ha condotto qui. E nel registro siete stato iscritto come Medardo, frate cappuccino del convento di B. -. Mi sentii raggelare. Chiunque fosse lo sconosciuto che mi aveva condotto nell'ospedale, doveva essere a conoscenza del mio tragico segreto. Ma non poteva volermi male se si era preso cura di me come un amico - ed io ero libero. Un giorno giacevo presso la finestra aperta respirando a pieni polmoni. La deliziosa aria tiepida mi entrava a fiotti nelle fibre, nelle vene, ridestandomi a nuova vita; quand'ecco, vidi avanzare a passetti saltellanti verso l'ospedale una figuretta secca, piccina, con indosso un misero soprabito sbiadito e un cappelluccio appuntito sulla testa. Appena mi vide l'omino subito prese a sventolare il cappello e a gettarmi baci sulla punta delle dita. Quella figuretta aveva qualcosa di noto, ma la distanza mi impedì di distinguere i tratti del viso; e d'altronde essa scomparve sotto gli alberi prima che potessi ricordare chi fosse. Ma poco dopo bussarono alla porta; aprii, e l'ometto visto poc'anzi in giardino entrò. Schönfeld! esclamai stupefatto, - Schönfeld, in nome del cielo, com'è arrivato qui?... Era il bizzarro friseur che mi aveva salvato da quel grave pericolo nella città commerciale. - Ahi, ahi, ahi!... - sospirò lui contraendo il viso in una comica smorfia piagnucolosa. - E come sarei potuto giungere qui, se non gettato, scagliato su questi lidi dalla mala sorte che perseguita i geni?... Ho dovuto fuggire per via di un delitto... - Di un delitto?... - esclamai con affanno. - Sì, di un delitto, - spiegò lui. In un momento di collera ho assassinato la basetta sinistra e gravemente ferito la destra del più giovane consigliere commerciale della città. - La prego, - lo interruppi di nuovo. - Lasci stare gli scherzi... Sia serio una volta tanto... E mi racconti sensatamente come sono andate le cose. Altrimenti mi lasci. - Ah, caro frate Medardo, riprese Schönfeld facendosi tutto a un tratto serissimo. - Adesso che sei guarito vorresti mandarmi via. Ma quando stavi male, ed io ti ero compagno di camera e dormivo in quel letto, dovevi pure sopportare la mia vicinanza! - Che significa?... - esclamai con sgomento. - Medardo?... Come le è venuto in mente questo nome?... - Abbia la compiacenza di osservare l'orlo destro della sua tonaca, - disse lui sorridendo. Io lo feci e rimasi di sasso per lo spavento e lo stupore: nell'orlo interno della tonaca era cucito ad ago il nome di Medardo; e ad un più attento esame, alcuni altri segni inconfondibili mi diedero la certezza d'avere indosso lo stesso saio che indossavo fuggendo dal castello del barone von F'e più tardi avevo nascosto nel cavo di un albero. Schönfeld notò il mio turbamento e sorrise sornione. Mettendosi l'indice sul naso e alzandosi sulla punta dei piedi mi scrutò negli occhi. Io ero rimasto senza parola. - L'eccellenza vostra, - riprese lui parlando sottovoce con fare circospetto, - sembra stupirsi della veste che le è stata messa addosso. Eppure le calza a pennello! Assai meglio, comunque, dell'abito color noce dai volgari bottoni di treccia fornitole dal mio incomparabile Damone. Sono stato io, io, il misconosciuto, l'esiliato Pietro Belcampo, a ricoprire le sue nudità con questo saio. Frate Medardo! Il vostro stato non era propriamente invidiabile, perché per soprabito, spencer, e marsina all'inglese, indossavate in tutto e per tutto la vostra riverita pelle. E in quanto a pettinatura - è meglio non parlarne: il Caracalla (20) ve lo pettinavate, rubandomi il mestiere, col pettine a dieci denti fornitovi da madre natura... A questo punto scattai: Basta!... Basta con le follie, Schönfeld!... - Qui in Italia mi chiamo Pietro Belcampo! protestò lui incollerito. - E, sappilo, Medardo: io - io stesso sono la follia che ti segue dovunque per puntellare la tua vacillante saggezza. Che tu lo veda o no, soltanto nella follia trovi scampo, perché la tua saggezza è una povera, una miserabile cosa: non si tiene in piedi, ciondola, barcolla come un bambino malaticcio e deve andare a braccetto con la follia per sostenersi e ritrovare la strada di casa - vale a dire, la strada del manicomio. Infatti, eccoci entrambi arrivati a destinazione, fratellino Medardo. Rabbrividii. Ripensai agli sventurati visti in giardino, a quell'individuo saltellante col soprabito giallo stinto. E non ebbi più dubbio: Schönfeld, nella sua follia, mi stava dicendo la verità! - Sì, fratellino Medardo, riprese il piccolo parrucchiere alzando la voce e gesticolando con foga. - Sì, fratellino mio caro: la Follia, in questo mondo, è la vera regina degli spiriti. La saggezza ne è soltanto la pigra luogotenente. La saggezza non si cura affatto di quanto avviene oltre i confini del proprio regno; per ingannare la noia fa esercitare i soldati in piazza d'armi; ma se poi un nemico vero attacca dall'esterno, quegli stessi soldati non sanno mettere un solo colpo a segno. Invece la Follia, - vera regina del popolo - incede a suon di timpani e trombe: «Urrah!... Evviva!...», e, dietro, un codazzo di folla in tripudio. I vassalli si alzano dai seggi su cui li ha inchiodati la Saggezza: non vogliono più saperne di sedere, di giacere, di contenersi come vorrebbe il pedante precettore. Questi ne osserva i numeri, uno dopo l'altro e dice: Guardate! La Follia mi ha sottratto i migliori allievi; sì, me li ha sottratti, distratti... squilibrati... Ed eccoli diventati degli squilibrati! È un gioco di parole, fratellino Medardo. È un gioco di parole, nelle mani della Follia, è come una pinza rovente per arricciare i pensieri. - Vi prego ancora una volta, esclamai togliendo la parola di bocca a quello sciocco, - di smetterla, se vi è possibile, con queste chiacchiere e di dirmi come siete giunto qui e che cosa sapete di me e della veste che indosso -. Così dicendo lo avevo preso per le mani e costretto a sedere. Egli chiuse gli occhi ed aspirò profondamente come per concentrare le idee. - Le ho salvato la vita per la seconda volta, - riprese a dire con voce bassa e spenta. - Fui io ad aiutarla a fuggire dalla città commerciale, e fui ancora io a condurla qui. - Ma, in nome di Dio e di tutti i santi: dove mi ha trovato? - gridai lasciandogli le mani. Belcampo balzò in piedi e gridò anche lui con occhi sfavillanti: - Eh, fratello Medardo!... Se io, piccolo e debole come sono, non ti avessi trascinato via sulle spalle, a quest'ora saresti sulla ruota con le membra in poltiglia. Sussultai e ricaddi a sedere annichilito. In quel momento entrò il frate infermiere: - Com'è venuto qui?... - disse in tono aggressivo a Belcampo. - Chi le ha dato il permesso di entrare in questa camera?... - Ah, reverendo! - frignò Belcampo con le lacrime agli occhi. - Non ho più potuto resistere al desiderio di parlare con l'amico che ho salvato da un mortale pericolo! - Ditemi, fratello, - intervenni io già un po'rinfrancato.- È stato veramente quest'uomo a condurmi qui? Il frate esitava a rispondere. Adesso so dove mi trovo, - ripresi. - Dovevo essere in uno stato pietoso, suppongo; ma, come vedete, sono completamente guarito. E se prima tacevate per timore di emozionarmi, adesso potete dirmi tutto. - È così, infatti, - rispose il frate. - Quest'uomo vi ha portato nel nostro ospedale saranno tre mesi, tre mesi e mezzo fa. A quanto ci ha detto, vi aveva trovato come morto a quattro miglia di qui, nel bosco che separa la regione di *** dalla nostra, e vi ha riconosciuto per il cappuccino Medardo, del convento di B., il quale, in viaggio per Roma era passato nella città in cui egli, il signor Schönfeld, risiedeva. Eravate in uno stato di totale apatia. Se vi conducevano camminavate, se vi lasciavano vi fermavate, se vi indicavano la direzione vi siedevate, oppure vi gettavate a terra lungo disteso. Per farvi mangiare e bere bisognava imboccarvi, emettevate soltanto suoni inarticolati, incomprensibili. Avevate lo sguardo di un cieco. Belcampo vi è sempre rimasto accanto come un fedele infermiere. Dopo quattro settimane si è scatenata una forma terrificante di pazzia furiosa: fummo costretti ad isolarvi in una delle camere apposite. Sembravate una bestia feroce... Ma non voglio insistere nel descrivervi il vostro stato perché ricordarlo vi sarebbe troppo doloroso. Dopo altre quattro settimane ricadeste all'improvviso nell'apatia e quindi nello stato di rigidità catalettica da cui vi siete svegliato guarito -. Mentre il frate raccontava, Belcampo si era seduto con la testa poggiata sulla mano, come assorto in profonda meditazione. Già, - disse a un certo punto. - Alle volte io sono un balordo buffone, lo so benissimo. Ma l'aria del manicomio - deleteria per le persone sane - a me ha fatto molto bene. Incomincio a ragionare su me stesso, e questo non è affatto un cattivo segno. Se io davvero esisto unicamente in funzione della mia coscienza, occorre semplicemente che la coscienza strappi la giubba di pagliaccio di dosso all'individuo cosciente e si presenti da sola, come un solido gentleman. O Dio!... Ma un parrucchiere geniale non è già di per se stesso un balordo fatto e finito?... La balordaggine protegge contro qualsiasi forma di pazzia. E, vi assicuro, reverendo, io sono in grado di distinguere perfettamente un campanile da un lampione, anche quando tira il maestrale. - Se è davvero così, - dissi io, lo dimostri raccontandomi con calma come sono andate le cose dove mi ha trovato - come mi ha portato qui. - Lo farò, - rispose Schönfeld, nonostante il viso preoccupato del qui presente reverendo. Permettimi tuttavia, fratello Medardo, giacché sei il mio protetto, di darti confidenzialmente del tu. La mattina dopo la tua fuga, il pittore straniero misteriosamente scomparve con tutta la sua collezione di quadri. Lì per lì la cosa fece molto chiasso ma, per l'incalzare di nuovi avvenimenti, venne quasi subito dimenticata. Soltanto quando si seppe del delitto avvenuto nel castello del barone F., quando il tribunale di *** spiccò mandato di cattura contro quel tale cappuccino del convento di B., soltanto allora la gente ricordò che il pittore aveva raccontato tutta la storia in birreria e riconosciuto in te - frate Medardo. Il proprietario dell'albergo in cui abitavi confermò la supposizione che io avessi favorito la tua fuga. Incominciarono a tenermi d'occhio, poi si parlò di mettermi in prigione. Mi fu facile decidere di sottrarmi a una vita che da tanto tempo mi soffocava, venendo in Italia, dove esistono ancora abati e «frisures». Lungo via, ti vidi nella residenza del principe di ***. Si parlava delle tue nozze con Aurelia e dell'esecuzione del monaco Medardo. Vidi anche quel monaco. Già. Lui può essere chi gli pare ma - per me - il vero Medardo sei tu. Ti venni fra i piedi - tu non mi notasti. Allora lasciai la residenza per proseguire il mio viaggio. Dopo lungo cammino, una mattina all'alba, mentre stavo attraversando un bosco cupo e nero, sentii frusciare nel folto della macchia e un uomo coi capelli e la barba arruffati ma elegantemente vestito mi passò davanti di corsa. Il suo sguardo era selvaggio e smarrito. In un attimo lo persi di vista. Proseguii. Ma ti lascio immaginare il mio orrore quando quasi inciampai in una figura umana distesa a terra, nuda. Pensai ad un delitto - mi chinai sul corpo - ti riconobbi. Respiravi appena. Accanto a te c'era il saio di frate che ora indossi. Ti vestii e ti trascinai via. Finalmente rinvenisti; ma il tuo stato era quello descritto poco fa dal reverendo. Non mi costò poca fatica portarti sulle spalle. Difatti, soltanto verso sera giunsi a un'osteria situata nel centro del bosco. Ti lasciai, ubriaco di sonno, disteso su un prato ed entrai a prendere da mangiare e da bere. Nell'osteria c'erano alcuni dragoni di ***, mandati - mi disse l'ostessa - a perlustrare la zona di confine per catturare un monaco, autore d'un grave delitto, inspiegabilmente fuggito mentre stava per essere giustiziato. Era un mistero per me come tu, dalla residenza, fossi capitato in quel bosco; ma la certezza che tu fossi veramente Medardo, il ricercato, mi indusse ad agire con la massima prudenza per sottrarti al pericolo che pareva minacciare entrambi. Per vie traverse ti trascinai fin oltre confine e giunsi in questo ospedale dove mi accolsero insieme a te, avendo io dichiarato di non volerti lasciare. Qui eri al sicuro perché in nessun caso avrebbero consegnato ad autorità straniere un ammalato dopo il ricovero. Quando dormivo con te in questa camera e ti curavo, il funzionamento dei tuoi cinque sensi - la mobilità delle tue membra - non erano molto brillanti, te l'assicuro. Noverre e V e s t r i s (21) ti avrebbero profondamente disprezzato perché la testa ti ciondolava sul petto e quando provavamo a drizzarti in piedi ruzzolavi giù come un birillo difettoso. Anche la facoltà di parola era in condizioni estremamente pietose. Ti esprimevi per dannatissimi monosillabi e nei momenti di lucidità arrivavi a dire: «Uh... uh...», oppure «Me... me...» il che non faceva molto bene intendere la tua volontà e il tuo pensiero, anzi, dava quasi luogo a credere che ti avessero tradito entrambi per andarsene ciascuno per conto proprio. Finalmente divenisti tutt'a un tratto allegrissimo, ti mettesti a saltare, a sbraitare felice, ti strappasti di dosso la tonaca per liberarti d'ogni innaturale inibizione. Il tuo appetito poi... - Basta, Schönfeld! - lo interruppi esasperato da quell'insopportabile fuoco di fila di facezie. - Si fermi! Mi hanno già informato delle condizioni spaventose in cui ero ridotto. Ringraziamo l'eterna bontà e misericordia del Signore, ringraziamo l'intercessione della beata Vergine e dei Santi che mi hanno salvato! - Ahimè, reverendo - riattaccò Schönfeld. - E che cosa glien'è venuto?... Intendo dire, in quanto alla particolare funzione dello spirito chiamata «coscienza»?... La coscienza, amico mio, altro non è se non la dannata attività di un dannatissimo daziere - o gabelliere - o primo assistente ai controlli di dogana che dir si voglia -, il quale, dopo aver aperto il suo misero ufficio in una soffitta, si fa portar su le mercanzie e brontola: «Ahi, ahi!... Proibita l'esportazione!... Questo deve rimanere dentro lo stato... dentro lo stato...» Così i più bei gioielli vengono interrati come volgare semenza e ne nasceranno, al massimo, barbabietole, da cui la pratica potrà ricavare un quarto d'oncia di pessimo zucchero per ogni centomila libbre di peso. Ahimè!... E pensare che quell'esportazione avrebbe dovuto dare l'avvio a uno scambio commerciale con la meravigliosa città di Dio - lassù - dove tutto è così solenne e sublime!... Dio del cielo!... Signore!... Tutte le mie ciprie - à la Maréchale, à la Pompadour, à la reine Golconde le mie ciprie acquistate a così caro prezzo, tutte le avrei gettate nel fiume, dove l'acqua è più profonda, se soltanto avessi potuto avere di lassù, grazie a un permesso di transito per merci di importazione, un solo pizzico di pulviscolo solare per incipriarne le parrucche dei miei dottissimi professori e compagni di scuola e, prima di tutte, la mia! Che dico! Se l'amico Damone, invece di quella marsina color pulce, avesse potuto fornirle, reverendissimo padre, uno di quei soprabiti estivi che i ricchi e altezzosi borghesi della città di Dio si infilano per andare a confessarsi, (22) allora, veramente, in quanto a dignità e decoro, tutto sarebbe andato altrimenti. Invece, così, la gente ha scambiato lei per un volgare «glebae adscriptus» e il diavolo per un suo «cousin germain». Schönfeld si era alzato e camminava, o meglio, salterellava da un'estremità all'altra della camera gesticolando con impeto e facendo buffissime smorfie. Al suo solito, era in gran vena di esaltarsi inventando paradossi strampalati. Perciò lo afferrai per le mani e dissi: - Vuoi dunque davvero prender stabile dimora qui dentro, in vece mia?... Non ti è proprio possibile non ricadere nella farsa dopo un minuto di discorsi seri e sensati?... Egli sorrise stranamente: - È davvero così sciocco, disse, - ciò che dico quando lo spirito scende su di me?... - È appunto questo il guaio! risposi io. - In fondo alle tue fanfaluche c'è spesso un significato sostanziale. Ma tu ci aggiungi tali e tanti fronzoli e frange d'ogni colore che anche un'idea buona e genuina risulta inconsistente e ridicola, come un bell'abito guarnito di cenci pezzati... Sembri un ubriaco: non sei capace di camminare su una cordicella tesa in linea retta, vai a zig zag... Ecco, sei orientato a sghimbescio! - Orientato?... - ripeté lui sottovoce sempre con lo stesso sorriso agrodolce. - Che cos'è l'orientamento, reverendo padre cappuccino?... L'orientamento, caro il mio fraticello, non presuppone forse una meta?... È sicuro, lei, della sua meta, mio caro monaco?... Non teme d'aver fin qui mangiato troppo poca cervella di gatto e consumato invece un po'troppe bevande spiritose, là nell'osteria, accanto alla famosa funicella tesa in linea retta?... E di vedere adesso due mete, come un copritore di tetti in preda alle vertigini, senza sapere quale delle due sia la giusta?... E poi, reverendo, perdona a un uomo del mio mestiere se si porta in petto lo spirito burlesco come una gustosa minestra di cavolfiore e pepe di Spagna. Senza di questo, un artista della capigliatura sarebbe un ben misero personaggio, un povero sciocco, che si porta in tasca un privilegio senza saperlo utilizzare per il proprio piacere. Il religioso continuava ad osservare attentamente ora me, ora Schönfeld e le sue smorfie, senza capire una parola perché parlavamo in tedesco. Ma a questo punto intervenne: - Perdonatemi, signori, - disse, - se il mio dovere mi costringe a interrompere una conversazione che certamente non può giovare a nessuno di voi due. Voi, fratello mio, siete ancora troppo debole per parlare così a lungo di cose che probabilmente vi ricordano circostanze dolorose del vostro passato. E voi, - soggiunse volgendosi a Schönfeld, - avete una curiosa maniera di esporre: non raccontate, recitate, rappresentate... In Germania immagino passiate per una testa matta, ma perfino qui da noi fareste un eccellente «buffone»... (23) Sì, potreste far fortuna nel teatro comico. Schönfeld spalancò gli occhi sul religioso poi, rizzatosi in punta di piedi, batté le mani al disopra del capo ed esclamò in italiano: Ecco! La voce dello spirito... la voce del destino ha parlato per bocca di questo reverendo!... Belcampo, Belcampo!... Come hai potuto così misconoscere la tua vera vocazione?... Ma adesso è deciso!... - e uscì di corsa. La mattina seguente ritornò vestito da viaggio: - Mio caro frate Medardo, - mi disse. - Ormai sei completamente guarito e non hai più bisogno della mia assistenza. Io me ne vado là dove mi chiama la mia intima, autentica vocazione. Addio!... Ma permetti che per l'ultima volta io eserciti su di te l'arte mia, anche se ora la considero soltanto più un vile mestiere, - e, tirato fuori pettine, forbici e rasoio, mi riassettò la barba e la tonsura con mille smorfie e discorsi faceti. Malgrado la fedeltà dimostratami, quell'uomo mi conturbava. E quando se ne andò fui contento. Gli energici rimedi del medico mi avevano fatto abbastanza bene; avevo riacquistato un colorito più fresco e recuperato le forze grazie a sempre più lunghe passeggiate quotidiane. Convinto di poter affrontare un viaggio a piedi, lasciai quel ricovero - benefico, forse, per un ammalato di mente ma orrendo, sinistro per un uomo sano. Mi avevano attribuito l'intenzione di recarmi in pellegrinaggio a Roma; decisi di andarci per davvero e perciò mi feci indicare la via e m'incamminai in quella direzione. Benché mentalmente guarito, avevo tuttavia la consapevolezza d'uno stato d'incoscienza che gettava un velo scuro su ogni nascente visualizzazione mentale; cosicché, tutti i pensieri mi sembravano incolori: grigio su grigio. Non serbando chiaro ricordo del passato, vivevo tutto assorbito dalle piccole cure del presente. Aguzzavo la vista per scorgere da lontano i luoghi dove poter bussare ad una porta, mendicare un po'di cibo, un asilo per la notte. Quando i buoni devoti mi avevano riempito ben bene la bisaccia e la fiaschetta mi sentivo felice; e meccanicamente borbottavo preghiere alla loro intenzione. Perfino in ispirito mi ero svilito al rango del comune monaco questuante idiota. Giunsi così finalmente al grande convento cappuccino a poche ore da Roma: un edificio isolato fra masserie e cascinali. Là un confratello dell'ordine sarebbe stato bene accolto, pensai; avrei dunque avuto modo di rifocillarmi e riposarmi in tutta comodità. Dissi che, in seguito alla soppressione del mio convento in Germania, ero andato pellegrino per il mondo, col desiderio di entrare in un altro convento dello stesso ordine. Mi venne offerta larga ospitalità, con la cortesia propria dei monaci italiani. Il priore dichiarò che, se nessun voto speciale mi costringeva a proseguire il pellegrinaggio, avrei potuto rimanere fino a quando mi fosse piaciuto. Era l'ora del vespro; i frati andarono nel coro ed io entrai in chiesa. L'ardita, stupenda architettura della navata centrale mi lasciò stupefatto; ma il mio spirito, rivolto alla terra, non fu più capace di sollevarsi come allora quando, bambino appena cosciente, avevo visto la chiesa del Sacro Tiglio. Recitata una preghiera davanti all'altar maggiore, percorsi le navate laterali, osservando i dipinti raffiguranti, come di consueto, il martirio dei santi cui i vari altari erano dedicati. Entrai infine in una cappella laterale, il cui altare era magicamente illuminato dai raggi di sole filtranti attraverso le vetrate multicolori. Volli osservare il quadro - salii gli scalini e vidi... Santa Rosalia... la fatale pala d'altare del mio convento... Ahimè!... Aurelia mi guardava! Tutta la mia vita - i miei mille peccati - i miei misfatti - l'assassinio di Ermogene - di Aurelia - tutto, tutto si condensò in un unico orribile pensiero per lancinarmi il cervello come uno spuntone rovente... - Sentii il petto, le vene, le fibre, straziati da un dolore selvaggio, dalla più crudele delle torture. Ma il sollievo della morte non venne!... Folle di disperazione, mi gettai a terra, mi lacerai il saio, piansi, urlai, riempii la chiesa di sconsolati singhiozzi: Maledetto... Sono maledetto!... Nessuna grazia per me, nessun conforto, né quaggiù né lassù!... All'inferno, all'inferno... Dannazione eterna su di me, infame peccatore!... Mi risollevarono: la cappella era piena di frati - davanti a me stava il priore, un alto, venerando vegliardo. Mi guardò con gravità e tenerezza indescrivibili, mi prese le mani: fu come se un santo, pieno di celeste compassione, trattenesse nell'aria il peccatore perduto, al disopra del magma infocato in cui stava per precipitare. - Tu sei malato, fratello, - mi disse. - Ti porteremo nel convento... Guarirai -. Gli baciai le mani, la veste, senza poter parlare. Soltanto profondi, angosciosi sospiri rivelavano lo sconvolgimento dell'anima mia. Mi portarono nel refettorio. A un cenno del priore i monaci uscirono ed io rimasi solo con lui. - Tu mi sembri oppresso dal peso di un grave peccato, fratello, - mi disse il priore. - Soltanto il più disperato rimorso per qualche orrendo misfatto può ridurre un uomo in questo stato. Ma grande è la misericordia del Signore, potente l'intercessione dei Santi. Abbi fiducia. Io ti confesserò; e quando avrai espiato riceverai il conforto della Chiesa! In quel momento mi parve che il priore fosse il vecchio pellegrino del Sacro Tiglio - nonché l'unico uomo sulla faccia della terra a cui avrei dovuto rivelare la storia della mia vita piena di peccati e di misfatti. Ancor sempre incapace di articolar parola, mi prostrai nella polvere, ai piedi del vegliardo. - Io vado nella cappella del convento, mi disse lui in tono solenne; ed uscì. Mi ricomposi, lo seguii, lo vidi entrare nel confessionale; e senza indugi feci ciò che lo spirito mi traeva irresistibilmente a fare. Confessai tutto - tutto! Tremenda fu la penitenza impostami dal priore. Giacqui nella cripta mortuaria del convento, tenendomi a mala pena in vita con insipide verdure cotte nell'acqua, flagellandomi, straziandomi le carni con gli strumenti di tortura inventati dalla crudeltà più raffinata, alzando la voce solo per accusare me stesso o per invocare salvezza: perché le fiamme dell'inferno già divampavano in me. Ma quando il sangue sgorgava da cento ferite, quando il dolore scottava come cento velenose punture di scorpione e il corpo finalmente cedeva e il sonno lo cingeva con le sue braccia protettrici, come un bimbo sfinito, ecco, un nuovo mortale tormento incominciava: i sogni. Tutta la mia vita mi si svolgeva dinnanzi in uno spettacolo atroce. Vedevo avvicinarsi Eufemia, nella sua rigogliosa bellezza. - Che vuoi da me, sciagurata?... - gridavo. - No!... L'inferno non mi avrà! - Allora lei apriva la veste... e il brivido della dannazione mi invadeva... Il suo corpo era disseccato, ridotto ad uno scheletro e, nello scheletro, brulicava un groviglio di serpi che ergevano il capo, protendendo verso di me le rosse lingue infuocate. - Lasciami! - urlavo. Le tue serpi mi mordono il petto ferito... Vogliono suggermi il sangue del cuore... Morirò!... Morirò!... La morte mi strapperà alla tua vendetta!... - Le mie serpi possono suggerti il sangue del cuore, gridava a me l'apparizione. - Tu non sentirai nulla perché non è questo il tuo tormento: il tuo tormento è in te, e non può ucciderti, perché tu vivi di esso. Il tuo tormento è il ricordo del delitto, ed esso è eterno!... Sorgeva l'ombra sanguinante di Ermogene; Eufemia fuggiva e l'ombra trascorreva via con un fruscio, additandomi la ferita alla gola - una ferita in forma di croce. Volevo pregare ma intorno a me si scatenava una ridda ubriacante, assordante: persone già viste mi apparivano deformate come grottesche, inverosimili maschere. Teste poggiate su gambe di cavalletta uscenti di sotto le orecchie mi strisciavano intorno sghignazzando - strani mostri alati, corvi dai visi umani, svolazzavano nell'aria. Riconoscevo il primo violino di B. con sua sorella che piroettava in un valzer frenetico, mentre lui suonava menando l'archetto sul proprio torace, trasformato in violino. Belcampo, con un laido muso di lucertola, a cavallo d'uno schifoso verme alato si gettava su di me, cercando di pettinarmi la barba con un pettine di ferro rovente, ma senza riuscirci. La ridda diventava sempre più frenetica, più strane, più assurde le figure: dalle minuscole formichette danzanti su piedini umani fino a un lunghissimo scheletro di cavallo con occhi di fuoco e la propria pelle gettata sul dorso in guisa di gualdrappa; e in groppa un cavaliere dalla fosforescente testa di civetta, con un calice sfondato per armatura e un imbuto capovolto per elmo. La farsa infernale è al parossismo: odo la mia risata - ma è una risata che fa male al cuore. Il dolore diventa più bruciante, più copioso sgorga il sangue dalle ferite. Appare, luminosa, una figura femminile, avanza verso di me mentre il mostruoso brulicame recede. Ah!... È Aurelia!... - Io vivo, e sono tutta tua! dice l'apparizione. Allora lo spirito del male si scatena in me. Come pazzo, stringo la fanciulla fra le braccia con selvaggia libidine non più prostrato, non più sfinito... Ma il petto preme contro qualcosa di rovente - ruvide setole mi graffiano gli occhi. - E poi la risata agghiacciante di Satana: Ecco, sei tutto mio! - Con un urlo di orrore mi sveglio. Sotto la sferza aculeata, con cui disperatamente mi do la disciplina, il sangue scorre a fiotti. Anche il sogno è peccato - anche d'un solo pensiero colpevole devo doppiamente punirmi. Finalmente il duro periodo espiatorio impostomi dal priore trascorse. Risalii dalla cripta funeraria, fui alloggiato in convento ma in una cella isolata, separato dai confratelli, per iniziare nuovi esercizi di mortificazione. Poi, per stadi di penitenza sempre più attenuati, mi venne concesso di entrare in chiesa e nel coro dei monaci. Ma quest'ultima fase di penitenza, consistente nella consueta fustigazione quotidiana, non mi bastava. Respingevo ostinatamente qualsiasi cibo migliore mi venisse offerto, giacevo, solo nella mia cella, per giorni interi sul freddo pavimento di marmo, di fronte al quadro di santa Rosalia, martirizzandomi nel più crudele dei modi, sperando di sopire attraverso le sofferenze fisiche l'atroce tormento interiore. Tutto era inutile: le immagini generate dal pensiero ritornavano continuamente; ero ormai caduto in balìa di Satana che mi tormentava e induceva al peccato beffeggiandomi. La dura penitenza, il modo inaudito in cui me l'imponevo, destarono l'attenzione dei monaci. Essi mi guardavano con timor reverenziale e li udivo perfino sussurrare fra loro: - Quell'uomo è un santo! Ciò mi faceva fremer d'orrore perché ricordavo anche troppo bene, il tragico momento nella chiesa dei cappuccini quando, pazzo di presunzione, avevo gridato fissando il pittore: Sant'Antonio sono io!... Trascorso anche l'ultimo periodo di penitenza, e benché il fisico fosse sul punto di cedere alle sofferenze, non smisi di torturarmi. Quasi non vedevo più, ero ridotto ad uno scheletro piagato e sanguinante, ridotto al punto di non aver più la forza di alzarmi da solo dopo essere rimasto qualche ora disteso sul pavimento. - Il priore mi fece condurre nel parlatorio: - Ti senti spiritualmente sollevato dalla dura penitenza, fratello? - mi domandò. - Ti è stato concesso il conforto del cielo? - No, reverendo padre, - risposi sordamente, con la disperazione nella voce. Imponendoti la più rigorosa delle penitenze, dopo aver udito la confessione dei tuoi orrendi misfatti, - disse il priore alzando la voce, - ho ubbidito alle leggi della Chiesa, le quali vogliono che il reo sfuggito al braccio della giustizia, ma il quale abbia confessato, pentendosi, i propri delitti a un servo del Signore, manifesti anche mediante azioni esteriori la sincerità del proprio pentimento. Egli deve rivolgere lo spirito esclusivamente alle cose celesti, mortificando la carne, affinché i tormenti fisici controbilancino il demoniaco piacere provato nel fare il male. Tuttavia io credo - e non pochi celebri dottori della Chiesa concordano con me - che neppure le più crudeli automortificazioni allevino d'una sola oncia il peso dei peccati commessi se il peccatore ripone tutta la fiducia nella penitenza anziché nella grazia di Dio. Con quale metro l'Eterno commisuri le nostre azioni è un mistero imperscrutabile per la ragione umana; ed è perduto colui il quale, pur non avendo commesso colpe concrete, presuma di espugnare il cielo mediante atti di pietà esteriori. - Il peccatore che, compiuta la penitenza, crede estinto il proprio peccato dimostra l'insincerità del pentimento. Ma tu, caro frate Medardo, non provi ancora alcun senso di conforto, e ciò dimostra che sei veramente pentito. Ora io ti ordino di sospendere le flagellazioni, di nutrirti con cibi migliori, di non sfuggire più la compagnia dei confratelli. Sappi che le straordinarie, complicatissime vicende della tua vita misteriosa io le conosco tutte, forse meglio di te. Un destino cui tu non potesti sfuggire ti diede in potere di Satana e, peccando, ne divenisti lo strumento. Non illuderti per questo di essere meno colpevole agli occhi del Signore, perché la forza di combattere e vincere Satana ti era stata concessa. In quale cuore umano non si scatena il Maligno per opporsi al Bene?... Ma senza lotta non esisterebbe alcuna virtù, perché la virtù consiste unicamente nella vittoria del Bene sul Male, così come dal caso inverso ha origine la colpa. Sappi dunque anzitutto che uno dei delitti di cui ti accusi l'hai commesso soltanto nell'intenzione. Aurelia è viva - in un accesso di pazzia furiosa hai ferito te stesso; il sangue di cui ti sei intriso le mani sgorgava dalla tua ferita. Aurelia è viva... lo so. Caddi in ginocchio, levai le mani in preghiera sospirando, piangendo. - Sappi ancora, - proseguì il priore, - che il vecchio pittore straniero di cui mi parlasti in confessione, da tempo immemorabile viene periodicamente in visita al nostro convento - e forse ricapiterà presto. Mi ha dato in consegna un libro, contenente parecchi disegni ma essenzialmente una storia cui, ad ogni nuova visita, egli aggiunge alcune righe. Non mi ha proibito di consegnarlo ad altri; perciò io te lo affido volentieri perché lo ritengo un mio sacrosanto dovere. Conoscerai le complicate trame del singolare destino che ora ti solleva in un mondo di prodigiose visioni, ora ti precipita nella più bassa materialità della vita. Si dice che i prodigi siano scomparsi dal mondo. Io non lo credo. Noi non vogliamo più chiamare con questo nome neppure le cose più prodigiose che ci circondano quotidianamente perché in un determinato susseguirsi di fenomeni abbiamo scoperto la regola del ritorno ciclico. Ma a quel ciclo spesso un fenomeno sfugge per farsi beffa di tutta la nostra saggezza; e noi, ottusi e ostinati come siamo, non potendolo capire non vogliamo crederlo vero. Ci ostiniamo perciò a negare i fenomeni visibili soltanto all'occhio interiore e troppo trasparenti per riflettersi sulla grossolana superficie dell'occhio fisico. Quello strano pittore io lo annovero fra i fenomeni straordinari che irridono a qualsiasi regola; e nutro molti dubbi circa l'appartenenza della sua persona fisica alla categoria delle cose da noi definite reali. Nessuno lo ha mai visto compiere le comuni azioni della vita, questo è certo. Io, ad esempio, non lo vidi mai scrivere né disegnare, benché nel libro in cui mi pareva leggesse, le pagine scritte aumentassero dopo ogni sua visita. Altro fatto strano: in quel libro a tutta prima mi era sembrato di non veder altro che scarabocchi e schizzi confusi; ma, udita la tua confessione, caro fratello Medardo, tutto mi è apparso chiaro e leggibile. Non voglio dilungarmi sulle congetture circa il pittore. Indovinerai tu stesso - o meglio - il mistero ti si chiarirà da sé. Ora và. Rimettiti in forze e se, come penso, fra pochi giorni ti sentirai rinfrancato nello spirito, ti consegnerò quel libro straordinario. Seguii la volontà del priore sedetti a mensa con i confratelli e smisi di darmi la disciplina, limitandomi a pregare con fervore davanti agli altari dei santi. Il cuore ferito sanguinava ancor sempre, il tormento interiore non si attenuava. Ma i sogni orrendi non si ripeterono; e spesso, mentre languivo sfinito a morte sul mio duro giaciglio senza poter prender sonno, mi sentivo investire da un alito lieve, come il batter d'ali d'un angelo, e vedevo la soave figura di Aurelia curvarsi su di me, gli occhi pieni di lacrime e di celestiale compassione. Essa stendeva la mano sopra il mio capo, quasi a proteggermi - e le mie palpebre si abbassavano e un dolce sonno riparatore mi immetteva nuova forza vitale nelle vene. Quando il priore mi vide spiritualmente un poco rinfrancato mi diede il libro del pittore, raccomandandomi di leggerlo attentamente nella sua cella. Lo apersi; e per prima cosa mi caddero sott'occhio gli schizzi, e poi gli abbozzi in bianco e nero, degli affreschi del Sacro Tiglio. Non provai il minimo stupore né la minima curiosità di sciogliere in fretta l'enigma. No!... Non c'erano più enigmi per me: sapevo ormai da un pezzo che cosa contenesse quel libro! Ciò che il pittore aveva riportato nelle ultime pagine, a caratteri minutissimi, appena leggibili, tracciati con inchiostri di vari colori, erano i miei sogni, i miei presentimenti. Ma descritti con una chiarezza, un'incisività, una precisione di cui io non sarei mai stato capace. annotazione inserita dal redattore. Senza diffondersi in ulteriori commenti circa il contenuto del libro del pittore, frate Medardo a questo punto riprende la sua narrazione: descrive il commiato dal priore, dai buoni confratelli, il pellegrinaggio a Roma, le preghiere nelle chiese di San Pietro, San Sebastiano, San Lorenzo, San Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore ecc'ecc.. Narra come finisse per attrarre l'attenzione perfino del papa ed entrare addirittura in odore di santità. La qual cosa sapendo egli ormai d'essere un povero peccatore e null'altro - lo indusse a lasciar Roma. Ma noi - (intendo parlare di me e di te, lettore benevolo) - ne sappiamo troppo poco sui sogni e i presentimenti di frate Medardo per poter trovare e districare il bandolo dell'aggrovigliata matassa senza leggere le cronache del pittore; anzi, per dirla con una similitudine migliore, a noi manca il punto focale da cui si dipartono i molteplici e variopinti raggi della vicenda. Il manoscritto del defunto cappuccino era conservato entro una vecchia pergamena ingiallita; sulla pergamena, uno scritto in caratteri minutissimi, quasi illeggibili, rivelanti una mano assai originale, destarono la mia curiosità. A prezzo di molta fatica riuscii a decifrare caratteri e parole; e grande fu la mia meraviglia quando mi resi conto che si trattava della storia riportata nel libro del pittore, cui Medardo fa cenno. La storia è scritta in un italiano arcaico, in istile di cronaca, molto aforistico. Il tono suona strano alle orecchie di noi tedeschi, aspro e sordo ad un tempo, come un vetro incrinato. Per la comprensione del tutto mi sarà necessario inserirne qui la traduzione; il che farò dopo aver aggiunto, molto a malincuore, le precisazioni seguenti. La famiglia principesca da cui discendeva il tante volte nominato Francesco, vive ancora in Italia, come pure vivono i discendenti del principe nella cui residenza Medardo si fermò. Ciò rese allora impossibile far nomi; ma ora sarebbe il colmo della dabbenaggine e dell'inettitudine porti questo libro fra le mani, lettore benevolo, inventando i nomi dei personaggi quando i nomi già esistono ed hanno una bella sonorità romantica. Il sottoscritto redattore pensava di cavarsela abbastanza bene limitandosi a citare i titoli di «principe», «barone», ecc.. Ma ora che il vecchio pittore ha messo in chiaro le misteriose e intricate vicende della famiglia, egli si rende conto di non poter venir ben compreso servendosi unicamente di tali generiche definizioni perché, così facendo, dovrebbe inzeppare ed appesantire le semplici cronache corali del pittore con spiegazioni e avvertimenti continui. Presentandomi dunque come redattore ti prego, lettore benevolo, di voler, prima di proseguire la lettura, porre a mente quanto segue: Camillo, principe di P. , è il capostipite della famiglia da cui discenderà Francesco, padre di Medardo. Teodoro, principe von W. , è il padre del principe Alessandro von W. , alla cui corte giungerà Medardo. Il fratello di Alessandro, Giovanni, (24) marchese von W. , sposerà la principessa italiana Giacinta. La famiglia del barone F., residente in montagna, è già nota. Si tenga soltanto presente che anche la baronessa von F. proveniva dall'Italia, essendo figlia del conte Pietro S., figlio a sua volta del conte Filippo S.. Tutto ti apparirà chiaro, caro lettore, se tu terrai a mente questi pochi nomi e le relative iniziali. Ora, prima di proseguire il racconto, inseriamo: la pergamena del vecchio pitto -re. ...ed avvenne che, essendo la Repubblica di Genova duramente molestata dai corsari algerini, si rivolse al grande eroe marinaro Camillo, principe di P. , invitandolo ad assumere il comando d'una spedizione di guerra contro i tracotanti predatori, a bordo di quattro galeoni armati ed equipaggiati di tutto punto. Camillo, assetato di gesta gloriose, scrisse subito al figlio primogenito Francesco perché venisse ad assumere, in sua assenza, il governo del paese. Francesco esercitava la pittura alla scuola di Leonardo da Vinci, e lo spirito dell'arte si era impossessato di lui a tal punto da non consentirgli di pensare a null'altro. Egli poneva l'arte al disopra di tutti gli onori, di tutti i fasti del mondo; ogni altra attività umana gli sembrava un pietoso affaticarsi per amore di bagattelle prive di significato. Non potendosi distaccare dall'arte e dal proprio maestro, già molto avanti negli anni, rispose al padre dichiarando di saper maneggiare il pennello ma non lo scettro, e di voler restare accanto a Leonardo. L'orgoglioso conte Camillo, sdegnato, rimproverò al figlio di essere un pazzo, un indegno e spedì alcuni servitori fidati con l'incarico di ricondurlo a casa. Francesco si rifiutò recisamente di ritornare - disse che un Principe circondato dagli splendori del trono era, secondo lui, un essere compassionevole rispetto a un valente pittore - le più grandi imprese guerresche, un gioco crudele - mentre le creazioni d'un artista erano il puro riflesso dello spirito divino nell'uomo. Camillo, l'eroe del mare, si incollerì; e giurò che avrebbe ripudiato Francesco e passata la successione al figlio minore, Zenobio. Francesco, soddisfattissimo della decisione paterna, abdicò al trono, con atto solenne e formale, in favore del fratello. E così, quando il vecchio principe Camillo perse la vita in una dura e sanguinosa battaglia contro gli algerini, Zenobio salì al trono mentre Francesco, rinnegato il proprio nome e il proprio rango, continuò a fare il pittore, vivendo piuttosto poveramente della magra rendita annuale assegnatagli dal fratello. Soltanto il vecchio Leonardo sapeva tenere a freno la natura prepotente e orgogliosa del giovane Francesco, il quale, quando rinunziò al rango di principe, divenne per lui come un buon figlio. Lo aiutò a terminare alcune grandi opere, si portò quasi all'altezza del maestro, divenne celebre e fu chiamato a dipingere qualche pala d'altare per chiese e conventi. Il vecchio Leonardo lo consigliò ed assistette fino a quando morì, in età avanzatissima. Allora l'orgoglio e l'arroganza proruppero nel giovane come un incendio faticosamente represso per tanto tempo. Egli si mise in mente di essere il più grande pittore dell'epoca e, per adeguare al proprio rango la raggiunta perfezione artistica, si autodefinì il principe dei pittori. E incominciò a parlare con disprezzo del vecchio Leonardo, si scostò dalla purezza del semplice stile religioso per darsi a una nuova maniera e colpire gli occhi delle folle con la voluttuosità delle figure e la smagliante chiassosità dei colori. Le lodi sperticate lo resero ancor più vanesio e tracotante. A Roma entrò in un gruppo di giovani sfrenati e dissoluti; e, con la sua mania di primeggiare, di eccellere in tutte le cose, divenne il più ardito dei navigatori anche sui tumultuosi mari del vizio. Sedotti dagli ingannevoli e falsi splendori del paganesimo, quei giovani - con Francesco alla testa fondarono una lega segreta al fine di farsi sacrilega beffa del cristianesimo e imitare le usanze degli antichi greci, celebrando feste orgiastiche, peccaminose, in compagnia di impudenti prostitute. Facevano parte della consorteria alcuni pittori, ma più numerosi erano gli scultori. Costoro non volevano saperne che di arte classica e deridevano tutto ciò che artisti più recenti, ispirandosi allo spirito del cristianesimo, avevano ideato e stupendamente realizzato per glorificarlo. Francesco, ardente d'entusiasmo profano, dipinse molti quadri su soggetti ricavati dal menzognero mondo mitico. Nessuno come lui sapeva rendere con tanta verità l'allettante esuberanza delle figure femminili; copiava gli incarnati da modelle viventi, gli atteggiamenti, le forme, da antichi marmi. Invece di edificarsi, come faceva un tempo, nelle chiese e nei chiostri, di fronte agli stupendi dipinti degli antichi maestri timorati di Dio, e di assorbirne lo spirito con devozione degna d'un vero artista, non si stancava di riprodurre le false deità pagane. Ma una figura soprattutto lo suggestionava: una famosa statua di Venere, che aveva sempre in mente. La pensione annuale assegnatagli dal fratello una volta tardò ad arrivare. Francesco scialacquava tutti i suoi guadagni, non voleva rinunziare alla vita dissoluta e venne perciò a trovarsi in grave imbarazzo finanziario. Allora si ricordò d'un certo quadro di santa Rosalia, commissionatogli molto tempo addietro da un convento di cappuccini e, malgrado la sua avversione per tutti i santi cristiani, decise di eseguirlo alla svelta, unicamente per intascare il cospicuo compenso pattuito. E gli venne un'idea: avrebbe raffigurato la santa nuda, simile in tutto e per tutto a quella statua di Venere. Il bozzetto gli riuscì benissimo; i compagni di bagordi lo colmarono di lodi: collocare nella chiesa dei frati anziché una santa cristiana una dea pagana era una magnifica trovata! Ma quando Francesco incominciò a dipingere, ecco, l'opera andò configurandosi in modo del tutto diverso dalle idee e dalle intenzioni originarie. Uno spirito più potente sopraffece lo spirito della menzogna da cui egli era dominato. Dall'alto regno dei cieli discese un viso d'angelo, ed incominciò a baluginargli davanti agli occhi, sebbene ancora confuso e come fasciato di nebbia. Francesco, preso da timore di commetter sacrilegio e di cadere sotto il giudizio e il castigo di Dio, non osò ultimare il viso della santa. Sul corpo nudo dipinse una castigatissima veste rosso scura, ricca di pieghe, e un bel manto azzurro. Nella lettera di ordinazione, i cappuccini avevano parlato soltanto di santa Rosalia, senza precisare se il bozzetto dovesse contenere anche una storia della sua vita; perciò Francesco si era limitato a porre nel centro del foglio la figura della santa. Ma ora, guidato dallo spirito, le dipinse intorno una folla di figure, coordinate in modo da rappresentare la scena del martirio. Francesco era totalmente assorbito dal proprio quadro - o per meglio dire - il quadro stesso era diventato lo spirito possente che lo cingeva fra le braccia per innalzarlo al disopra della peccaminosa vita mondana fino a allora condotta. Ma il viso della santa non riusciva a finirlo; e ciò divenne per lui un tormento lancinante, infernale. Non pensava più alla figura di Venere, ma gli sembrava che il vecchio maestro Leonardo lo guardasse, pieno d'ansia e di pena, con espressione accorata e gli dicesse: «Ah!... Vorrei aiutarti, ma non mi è permesso. Tu devi prima rinunziare alle azioni colpevoli, pentirti, e implorare umilmente l'intercessione dei santi contro cui peccasti». I giovani amici, per tanto tempo trascurati e abbandonati, andarono a cercarlo nel suo laboratorio e lo trovarono disteso sul letto, stremato, come un infermo. Ma quando Francesco confidò loro la propria pena, spiegando come uno spirito maligno gli avesse tolto le forze e reso impossibile ultimare il quadro di santa Rosalia, scoppiarono a ridere tutti insieme. - Ehilà, fratello! - esclamarono. Come mai ti sei ammalato così, tutt'a un tratto?... Coraggio, offriamo una libagione a Esculapio e alla benigna Igea, perché ti guariscano! Si fecero portare del vino siracusano, riempirono i bicchieri e bevvero, davanti al quadro incompiuto, offrendo la libagione alle deità pagane. Poi incominciarono a gozzovigliare sul serio, offersero il vino a Francesco ma questi si rifiutò di bere e non volle assolutamente prender parte al festino degli scapigliati confratelli, inneggianti freneticamente a Venere. Allora uno di essi disse: - Quello sciocco d'un pittore deve essere ammalato per davvero, di corpo e di mente. Vado a chiamare un medico -. Ciò detto, si gettò addosso il mantello e affibiatasi la spada alla cintola uscì; ma pochi istanti dopo ricomparve. - Ehi, voi, guardate un pò! - disse ai compagni: - Eccolo il dottore che curerà quell'infermo. Il ragazzo s'era infatti reso abbastanza simile a un vecchio dottore; camminava a passetti saltellanti flettendo le ginocchia e contraeva il viso in modo da renderlo pieno di rughe come quello d'un bruttissimo vecchio. I giovani risero a crepapelle: Guardate, guardate, che arie dottorali è capace di assumere il «signor dottore»! - esclamarono. Il dottore si avvicinò a Francesco: - Ehi, tu, povero diavolo, - gli disse con voce aspra e sprezzante. - Dobbiamo guarirti da questa depressione malinconica... Ehh!... Come ti vedo pallido e malridotto!... Così non piaceresti di certo a madama Venere... Ma, se guarisci, chissà che perfino donna Rosalia non ti faccia l'occhietto!... Andiamo, ragazzo, prova a assaggiare il mio rimedio miracoloso. Giacché vuoi dipingere santi, questa pozione ti gioverà: è un vino delle cantine di Sant'Antonio. Il finto medico trasse una bottiglia di sotto il mantello e l'aprì. Ne emanò uno stranissimo aroma inebriante; i giovani, storditi e colti da sonnolenza si abbandonarono sulle sedie e chiusero gli occhi. Ma Francesco, furibondo nel sentirsi prendere in giro e trattare come un individuo malaticcio e impotente, strappò la bottiglia di mano al dottore e bevve a grandi sorsate. - Buon pro ti faccia! - esclamò il buontempone, riprendendo il suo viso giovanile e la sua andatura energica. Poi scosse i compagni caduti in sopore ed essi lo seguirono giù per la scala barcollando. Nell'animo di Francesco si scatenò una tempesta di fuoco, come avviene nel Vesuvio quando entra in eruzione con terrificanti boati. Tutte le storie pagane da cui aveva tratto soggetti per le proprie pitture gli riapparvero vive davanti agli occhi. - Ah, vieni, vieni, amatissima dea! - gridò a piena voce. - Ti voglio viva... ti voglio mia... o mi consacrerò agli dei inferi! Accanto al quadro gli apparve Venere e gli fece un tenero cenno d'invito. Egli balzò dal letto e si mise a dipingere la testa di santa Rosalia con la ferma intenzione di riprodurre fedelmente l'affascinante viso della dea. Ma, come se la volontà non potesse comandare alla mano, il pennello scivolava via dall'alone di nebbia in cui la testa della santa era avvolta per dipingere le teste dei barbari circostanti. Ciò malgrado il viso celestiale della santa diventava sempre più visibile e tutt'a un tratto guardò Francesco con occhi così vivi e radiosi da farlo cadere a terra come colpito a morte da una folgore. Quand'ebbe ripreso un certo dominio dei propri sensi si rialzò. - Non osò guardare il quadro di cui ora aveva terrore ma sgusciò a capo chino fin presso il tavolo su cui c'era la bottiglia di vino del dottore. E ne bevve un'altra sorsata. Subito si sentì di nuovo in forze, guardò il quadro e lo vide perfettamente finito. Non il viso di santa Rosalia, ma l'amata immagine di Venere gli sorrideva dalla tela lanciandogli occhiate lascive. Francesco fu colto all'istante da un selvaggio, furibondo accesso di bramosia. Ricordò la leggenda dello scultore pagano Pigmalione e, come lui, supplicò Venere, urlando, di insufflare la vita nel suo dipinto. Gli parve, infatti, che la figura muovesse ma quando si slanciò per stringerla fra le braccia toccò soltanto la tela inanimata. Allora si scompigliò i capelli e prese a smaniare come un indemoniato. Dopo due giorni e due notti di insanie, mentre stava rigido come una statua davanti al quadro, udì aprirsi la porta alle sue spalle e quindi avvicinarsi un fruscio d'abiti femminili. Si volse e vide una donna in cui subito riconobbe l'originale del quadro. Sì: la figura elaborata mentalmente sul ricordo d'una statua di marmo gli stava dinnanzi viva, bella d'una bellezza inimmaginabile. Per poco Francesco non perse di nuovo i sensi: gettò un'occhiata al quadro e vi scorse, rabbrividendo, l'immagine fedele della sconosciuta, come riflessa in uno specchio. Gli accadde ciò che accadrebbe a chiunque vedesse apparire un fantasma: la lingua gli si inceppò, le ginocchia gli si fletterono. Cadendo in ginocchio davanti alla sconosciuta, levò le mani in atto di adorazione. La donna lo risollevò sorridendo. Gli disse di averlo già visto molte volte, fin dai tempi in cui egli ancora lavorava alla scuola di Leonardo da Vinci, e di essere stata presa, benché ancora quasi bambina, d'un indicibile amore per lui. Aveva abbandonato genitori e parenti per venirsene sola a Roma e ritrovarlo; perché una voce interiore le diceva che egli la amava, e l'aveva dipinta per il gran desiderio di vederla. Ora constatava che era tutto vero! Francesco comprese: una misteriosa affinità spirituale lo legava a quella sconosciuta; il folle amore per lei, il quadro stupendo ne erano le conseguenze. Abbracciò appassionatamente la donna e volle subito condurla in chiesa affinché il sacerdote li unisse per sempre nel santo sacramento del matrimonio. La donna parve inorridire alla proposta: - Francesco, amor mio! esclamò. - Tu, un valente artista, vorresti lasciarti legare dai vincoli della chiesa cristiana?... Non ti sei dato corpo ed anima al sano, al gioioso paganesimo e ai suoi dei, amici della vita?... Cos'hanno a che vedere con la nostra unione gli squallidi preti che sprecano la vita in lamenti senza speranza fra le tetre mura dei chiostri?... Celebriamo nella luce, nella gioia, la festa del nostro amore! Le parole della donna convinsero Francesco. E così, la sera stessa egli festeggiò la sua unione con la sconosciuta all'uso pagano, insieme ai giovani dissoluti, impenitenti che gli si dicevano amici. La donna aveva portato con sé uno scrigno pieno di gioielli e monete, e ciò permise a Francesco di vivere a lungo con lei abbandonandosi a piaceri colpevoli e rinunziando alla propria arte. Un giorno la sua compagna si sentì incinta; ma anche così era bella, d'una bellezza sempre più fiorente, luminosa, stupenda; e sempre più simile alla statua di Venere richiamata in vita. Francesco quasi non reggeva più agli eccessivi piaceri di quella vita voluttuosa. Una notte fu svegliato da un gemito sordo, angoscioso; balzò in piedi spaventato, prese un lume e accorse: la sua donna gli aveva partorito un maschietto. I servitori dovettero correre in tutta fretta a chiamare la levatrice ed il medico. Mentre Francesco raccoglieva il bimbo dal grembo della madre, questa lanciò un urlo terrificante e si contrasse tutta come sotto la stretta d'una mano mostruosa. Giunsero la levatrice e la sua aiutante, seguite dal dottore, fecero per portare aiuto alla puerpera ma balzarono indietro inorridite: la donna era già rigida nella morte, il collo, il petto deturpati da ripugnanti macchie azzurre, il bel viso giovanile rattrappito e distorto in una maschera rugosa - gli occhi vitrei, sbarrati. Alle grida delle due donne accorsero i vicini. Già da tempo si mormoravano le cose più strane sul conto della forestiera; la vita dissoluta che conduceva con Francesco aveva dato scandalo a tutti; già qualcuno parlava di denunziare quell'unione colpevole all'autorità ecclesiastica. Ora, vedendo il cadavere sfigurato, tutti ebbero la certezza che la donna fosse vissuta in lega col demonio, e questi ora se la fosse ripresa. La gente accorsa fuggì spaventata, nessuno volle toccare la morta. Francesco finalmente comprese con chi avesse avuto a che fare e uno sgomento terribile lo invase: rivide tutti i propri misfatti e la punizione di Dio incominciò a colpirlo quaggiù, su questa terra, perché le fiamme dell'inferno divamparono in lui. Il giorno dopo, un delegato del tribunale ecclesiastico venne con gli sbirri per arrestarlo; ma Francesco, ritrovati il coraggio e la fierezza d'un tempo, mise mano alla spada, si fece largo e fuggì. A un buon tratto di strada oltre Roma, trovò una grotta e vi si nascose sfinito. Senza quasi rendersene conto, fuggendo aveva avvolto nel mantello e portato con sé il neonato. Ora lo vide, ripensò alla diabolica donna che lo aveva generato, e in impeto di rabbia selvaggia lo sollevò per sfracellarlo contro le rocce. Ma il lamentoso vagito della creaturina lo impietosì; depose il bimbo su un morbido giaciglio di musco, gli stillò in bocca alcune gocce d'un'arancia che portava con sé. Trascorse così parecchie settimane in quella grotta, come un eremita in penitenza, rinnegando la vita di peccato e pregando con fervore i santi del paradiso - soprattutto santa Rosalia - così gravemente offesa di intercedere per lui presso il trono del Signore. Una sera, mentre pregava in ginocchio nel bosco, osservò il sole che si immergeva nelle onde infocate del mare occidentale, e quando l'incendio incominciò a sbiadire nel grigiore delle nebbie serali, vide, lassù nell'aria, tremolare un alone di luce rosata e, poco a poco, prendere una forma precisa: inginocchiata sopra una nube e circondata da angeli, santa Rosalia pregava; da un mormorio dolce, confuso, uscirono udibili le parole: Signore, perdona a colui che, per umana debolezza, non seppe resistere alle lusinghe di Satana! Subito il roseo alone fu squassato dalle folgori e un cupo brontolio di tuono percosse le nubi: - Quale altro peccatore si è reso colpevole come costui?... Non troverà grazia da vivo né pace nella tomba fintantoché il ceppo generato dal suo delitto continuerà a crescere e moltiplicarsi nel peccato! Francesco si prosternò nella polvere: la condanna era stata pronunziata e un destino implacabile lo avrebbe mandato ramingo e privo di conforto pel mondo. Senza pensare al bimbo nella grotta fuggì e, non potendo dipingere, visse nella più squallida miseria. Alle volte gli pareva di dover dipingere quadri stupendi in gloria della religione cristiana, ed elaborava mentalmente composizioni grandiose per disegno e colore: le storie della Vergine, di santa Rosalia... Ma come avrebbe potuto creare simili opere senza possedere uno scudo con cui acquistare tele e colori, vivendo miseramente delle magre elemosine racimolate alle porte delle chiese?... Un giorno, mentre dipingeva col pensiero fissando la parete nuda di una chiesa, fu avvicinato da due donne velate, una delle quali gli disse con soave voce d'angelo: - Nella lontana Prussia è stata eretta una chiesa in onore della Vergine Maria, nel luogo in cui gli angeli del Signore deposero l'immagine di Lei su un albero di tiglio. La chiesa manca ancora d'ogni decorazione pittorica. Recati colà, pratica l'arte tua in religioso raccoglimento e troverai celeste conforto all'animo straziato -. Francesco levò lo sguardo sulle donne e le vide svanire in un tenero bagliore di raggi rosati. Un intenso profumo di rose e gigli riempì la chiesa. Francesco comprese chi fossero quelle due donne, e decise di mettersi in viaggio la mattina seguente. Ma la sera stessa un servitore di Zenobio, rintracciatolo dopo lunghe e laboriose ricerche, gli consegnò la pensione di due anni e lo invitò alla corte del suo signore. - Francesco tenne per sé soltanto una minima parte della somma, divise il resto fra i poveri e si mise in cammino verso la lontana Prussia. La sua strada passava per Roma, sicché, nei pressi della città, egli giunse al convento di cappuccini per cui aveva dipinto santa Rosalia. Rivide il quadro incastrato nell'altare; ma, osservandolo meglio, si accorse che era soltanto una copia. I monaci - com'egli apprese in seguito - non avevano conservato l'originale a motivo delle voci inquietanti corse sul conto del pittore; avuto il quadro, lasciato indietro da lui fuggendo, e fattane fare una copia, lo avevano venduto al convento cappuccino di B.. Dopo lungo e faticoso peregrinare, Francesco giunse al convento del Sacro Tiglio, nella Prussia orientale; e fece ciò che la santa Vergine stessa gli aveva ordinato di fare. Decorò la chiesa in modo stupendo; e dipingendo si rese conto che lo spirito della Grazia incominciava ad agire in lui. Allora nell'animo suo scese il conforto del cielo. Ora avvenne che il conte Filippo S., trovandosi a cacciare in una località remota e selvaggia, venisse sorpreso da un furioso temporale. Il vento ululava fra i crepacci, la pioggia cadeva a rovesci; pareva si fosse scatenato un nuovo diluvio a travolgere uomini e animali. Il conte trovò finalmente una grotta e vi si mise in salvo, trascinandovi dentro a fatica anche il cavallo. La nuvolaglia nera si era stesa su tutto l'orizzonte perciò, specialmente nella spelonca, faceva così scuro che il conte, sulle prime, non riuscì a vedere né distinguere nulla. Udendo poi un lieve rumore frusciante lì da presso, temette di essere capitato dentro la tana d'una fiera e sguainò la spada, pronto a difendersi. Ma, passato il temporale, quando i raggi del sole entrarono nella caverna, vide con stupore, disteso su un giaciglio di foglie, un bambinello nudo che lo guardava con due limpidi occhietti scintillanti. Posato lì accanto, c'era un calice d'avorio con dentro ancora alcune gocce di vino fortemente aromatico. Il bimbo le succhiò avidamente. Il conte diede fiato al corno e poco a poco la gente del seguito, sparpagliatasi qua e là, in cerca di riparo, si radunò intorno a lui. Chi aveva deposto il bimbo nella grotta forse sarebbe ritornato a prenderlo; perciò Filippo ordinò di attendere. Ma quando incominciò ad imbrunire disse: - Non posso lasciare qui questo bimbo indifeso. Lo prenderò con me e lo farò sapere dappertutto, di modo che i genitori, o chi altri lo abbia lasciato qui dentro, possano venire a riprenderselo. E così fu fatto. Ma passarono settimane, mesi, anni senza che alcuno si facesse vivo. Il conte fece battezzare il trovatello imponendogli il nome di Francesco. Il fanciullo crebbe, divenne un giovane straordinariamente bello e intelligente, tanto che, a motivo delle sue doti eccezionali, il conte, non avendo altra prole, prese a benvolerlo come un figlio e decise di lasciargli l'intero patrimonio. Francesco aveva già venticinqe anni quando il conte fu preso da un amore insensato per una fanciulla ancor quasi adolescente, povera ma bellissima; e, pur essendo già molto avanti negli anni, la sposò. Francesco non tardò a nutrire un desiderio colpevole per la giovane contessa e, malgrado ella fosse buona, virtuosa e non volesse rompere la fede giurata, dopo lunga lotta egli con arti diaboliche riuscì a irretirla e piegarla alle proprie voglie peccaminose, ripagando così con la più nera ingratitudine e col tradimento il proprio benefattore. I due bimbi - Pietro e Angiola - che il vecchio Filippo si strinse al cuore traboccante di amor paterno, erano i frutti dell'unione colpevole destinata a rimanere nascosta agli occhi suoi e del mondo. Per suggerimento d'una voce interiore andai da mio fratello Zenobio e gli dissi: - Ho rinunziato al trono; e, anche se tu dovessi morire prima di me senza figli, voglio rimanere un povero pittore e dedicare la vita all'arte in silenzioso raccoglimento. Ma il nostro piccolo stato non deve cadere in mano di potenze straniere. Quel Francesco, allevato dal conte Filippo S., è mio figlio. Fui io, durante la mia disperata fuga, ad abbandonarlo nella caverna in cui lo trovò il conte. Sulla coppa d'avorio rinvenuta presso il bambino è incisa l'arma della nostra famiglia; ma ancor più di questo ti garantisce da ogni possibilità d'errore l'aspetto del ragazzo, inequivocabilmente caratteristico della nostra famiglia. - Zenobio, fratello mio, accoglilo dunque come un figlio e fanne il tuo successore! Mi adoprai affinché il papa sancisse un atto di adozione e ciò dissipò i dubbi di Zenobio circa la possibile nascita del giovane da un'unione illegittima. E così mio figlio pose fine alla sua riprovevole vita nell'adulterio, si sposò regolarmente ed ebbe un figlio legittimo che fu chiamato Paolo Francesco. Ecco: il seme colpevole s'era moltiplicato nella colpa!... Ma non potrà mio figlio espiare il proprio misfatto pentendosi?... Io potei pormi dinnanzi a lui come il tribunale del Signore perché leggevo chiaramente nella sua coscienza. Ciò che il mondo ignorava me lo rivelò lo spirito, quello spirito che ogni giorno si fa più potente in me e mi solleva sopra le onde tumultuose della vita permettendomi di guardare nel fondo del baratro senza precipitarvi. L'allontanamento di Francesco significò la morte per la contessa S., perché soltanto allora essa prese piena consapevolezza della colpa commessa e non riuscì a sopravvivere alla lotta fra l'amore per il colpevole e il rimorso per la propria azione. Il conte Filippo giunse all'età di novant'anni e morì rimbambito. Il giovane Pietro, creduto suo figlio, si recò con la sorella Angiola alla corte del successore di Zenobio, Francesco. Feste sontuose celebrarono il fidanzamento di Paolo Francesco con la principessa Vittoria von M.. - Ma quando Pietro vide la sposa, fulgida di bellezza, se ne innamorò perdutamente e, incurante d'ogni pericolo, cercò di conquistarne i favori. La sua manovra sfuggì tuttavia all'attenzione di Paolo Francesco, essendosi egli stesso perdutamente innamorato della sorella di lui, Angiola, la quale lo respingeva con freddezza. Vittoria lasciò la corte col pretesto di dover, prima delle nozze, adempiere a un sacro voto in silenziosa solitudine. Ritornò soltanto un anno dopo, nell'imminenza del matrimonio, celebrato il quale il conte Pietro sarebbe ritornato nella propria città con la sorella Angiola... Le ferme, ostinate ripulse di costei avevano addirittura esasperato l'amore di Paolo Francesco, rendendolo simile alla brama famelica d'una bestia selvaggia. Lo sciagurato si teneva a freno unicamente nella speranza dell'appagamento; e per giungere a tanto ordì il più infame dei tradimenti. Fatta somministrare durante il pranzo nuziale una bevanda oppiata ad Angiola, la sorprese nel sonno, prima che si recasse nell'alcova, ed abusò di lei; ma poi, quando la fanciulla in seguito all'infame oltraggio andò in punto di morte, tormentato dal rimorso confessò il proprio misfatto. Nel primo impeto di collera Pietro avrebbe voluto trucidare il traditore; ma ricordò d'essersi già vendicato in ben altro modo, e il braccio gli ricadde inerte. La piccola Giacinta di B., da tutti creduta figlia della sorella di Vittoria, era nata in realtà da un segreto rapporto fra Pietro e la sposa di Paolo Francesco. Pietro si recò in Germania con Angiola, dove essa mise al mondo un figlio che venne chiamato Franz e fatto educare con ogni cura. L'innocente Angiola si consolò infine dell'onta subita e rifiorì. Vedendola così piena di grazia e di bellezza, il principe Teodoro von W. se ne innamorò perdutamente e fu da lei ricambiato con altrettanto amore. Poco dopo i due si sposarono e contemporaneamente il conte Pietro sposò una fanciulla tedesca da cui ebbe una figlia. Angiola, invece, al principe von W. generò un figlio. Ora la buona creatura avrebbe ben potuto sentirsi a posto con la coscienza, eppure, quando le ritornava alla mente come un brutto sogno l'odioso misfatto di Paolo Francesco, cadeva in uno stato di prostrazione, parendole che la colpa, benché inconsciamente commessa, fosse meritevole di castigo e dovesse ricadere su di lei o sulla sua discendenza. Non bastò a tranquillizzarla neppure la piena assoluzione ricevuta dal confessore. Dopo lungo tormento, come un'ispirazione del cielo, le venne alfine l'idea di dover rivelare ogni cosa al marito. Pur rendendosi conto di quanto le sarebbe costato affrontare quel difficile passo, si impegnò solennemente con se stessa ad osarlo. E mantenne l'impegno. Nell'apprendere l'azione infame commessa da Paolo Francesco, il principe Teodoro inorridì; e ne rimase così scosso che quasi non si trattenne dal riversare il proprio furore anche sulla moglie innocente. Per tale motivo essa andò a trascorrere alcuni mesi in un lontano castello. Durante quel periodo il principe seppe vincere la propria amarezza; e non soltanto si riconciliò con la moglie ma, all'insaputa di lei, volle perfino provvedere all'educazione di Franz. Nessuno fra i discendenti del pittore divenne, crescendo, così rassomigliante per mentalità e aspetto fisico al trovatello Francesco allevato dal conte Filippo, come questo Franz; un giovane meraviglioso, animato da idealità superiori, focoso e pronto nel pensiero come nell'azione. Possa la colpa del padre, dell'antenato, non ricadere su di lui, e possa egli resistere sempre ai perfidi allettamenti di Satana! Prima che il principe Teodoro morisse, i suoi due figli, Alessandro e Giovanni partirono per la bella terra d'Italia; ma giunti a Roma si separarono a causa, non tanto d'un esplicito disaccordo, quanto d'una sostanziale diversità di inclinazioni e tendenze. Alessandro, giunto alla corte di Paolo Francesco, s'innamorò della figlia più giovane di lui e di Vittoria e decise di sposarla. Ma il principe Teodoro si mostrò recisamente avverso a quell'unione, quasi la avesse in orrore; Alessandro non riuscì a darsi ragione di tale atteggiamento e soltanto dopo la morte del padre poté sposare la figlia di Paolo Francesco. Frattanto il marchese Giovanni, durante il viaggio di ritorno, aveva conosciuto Franz e simpatizzato talmente con lui (pur senza sospettare d'essergli fratello!) da non volersene più separare; e unicamente per questo motivo, invece di rientrare alla residenza del fratello, ritornava in Italia. Gli imperscrutabili disegni del destino vollero che i due giovani Franz e Giovanni - vedessero Giacinta, la figlia di Vittoria e di Pietro, e se ne innamorassero pazzamente entrambi. Chi può opporsi alle tenebrose potenze?... Sì, i peccati e le colpe della mia giovinezza furono certamente orrendi. Ma grazie all'intercessione della beata Vergine e di santa Rosalia mi salvai dalla dannazione eterna, essendomi stato concesso di soffrire quaggiù, su questa terra, le pene dell'inferno fino a che il ceppo maledetto non si dissecchi ed isterilisca. Il peso della materia mi opprime, soffocando le forze spirituali. Vorrei spingere lo sguardo nel fosco futuro ma gli ingannevoli, variopinti splendori della vita mi abbagliano, e il mio povero occhio miope si confonde in un gioco di immagini evanescenti, senza riuscire ad afferrarne la reale conformazione interiore. Spesso intravedo i fili intessuti dalla potenza tenebrosa per contrastare alla salvezza dell'anima mia - e credo - povero stolto! - di poterli afferrare, strappare... Invece devo portare pazienza, sopportare con fede e pietà, in continuo stato di penitenza e di rimorso, il martirio impostomi ad espiazione dei miei peccati. Sì, sono riuscito ad allontanare il marchese Giovanni e Franz da Giacinta; ma Satana, vigile e attivo, instancabilmente si adopra per sospingere Franz verso l'inevitabile rovina. I due giovani, Franz e Giovanni, giunsero nel luogo in cui risiedeva il conte Pietro con la moglie e la figlia Aurelia, appena quindicenne. E, come già lo scellerato Paolo Francesco si era acceso di concupiscenza bestiale vedendo Angiola, così nel figlio di lui divampò il fuoco dei desideri proibiti quando egli vide Aurelia, la soave fanciulla; ed usando ogni diabolica arte di seduzione Franz riuscì a circonvenirla. La candida giovinetta, appena adolescente, gli si diede con tutta l'anima, e cadde nel peccato prima ancora d'aver acquisito nozione del male. Quando non fu più possibile celare le conseguenze del misfatto, Franz si gettò disperato ai piedi della madre di Aurelia, e confessò tutto. Il conte Pietro, pur essendosi macchiato dello stesso delitto, avrebbe certamente ucciso sia Aurelia che il suo seduttore. La moglie fece sentire a Franz tutto il peso della propria collera scacciandolo per sempre dagli occhi suoi e della figlia con la minaccia di rivelare ogni cosa al conte Pietro e, prima che questi si accorgesse dell'accaduto, allontanò Aurelia la quale mise poi al mondo una figlioletta in un rifugio sicuro. Ma Franz non seppe rinunziare ad Aurelia, riuscì a scoprire dove si era nascosta ed irruppe nella camera di lei mentre la contessa, allontanati i servitori, sedeva accanto al letto della figlia, con in grembo la piccina di appena otto giorni. Vedendo comparire all'improvviso il ribaldo, la contessa balzò in piedi sgomenta e inorridita: - Fuori di qui! - esclamò respingendolo verso la porta e cercando di intimorirlo. - Vattene o sei perduto! Il conte Pietro sa ciò che hai fatto, scellerato! - Allora Franz, accecato da un furore selvaggio, diabolico, strappatale dalle braccia la creaturina, vibrò un pugno nel petto alla donna facendola cadere riversa e fuggì. Aurelia svenne. Quando riprese i sensi sua madre non era più in vita perché nella caduta aveva battuto la testa contro una cassa laminata di ferro, uccidendosi. Franz, deciso a sopprimere la creaturina, l'avvolse strettamente nei suoi pannolini e scese la scala di corsa, al buio, essendo già sera inoltrata. Stava per lasciare la casa quando udì un pianto soffocato proveniente, gli parve, da una camera a piano terreno. Istintivamente si fermò in ascolto, poi si avvicinò a quella camera; nello stesso istante ne uscì una donna in lacrime: era la bambinaia della baronessa S.nella cui casa egli abitava. Franz le domandò perché si disperasse così: - Ah, signore, - rispose la donna, - sono rovinata!... Ancora pochi minuti fa la piccola Eufemia rideva e giocava tutta felice sul mio grembo... e tutt'a un tratto ha reclinato la testolina ed è morta... Le sono usciti certi brutti lividi azzurri sulla fronte... Daranno la colpa a me... Diranno che l'ho lasciata cadere!... Franz entrò in fretta, vide la bimba morta e comprese: il destino voleva che la sua creatura vivesse... Le due piccine si rassomigliavano come due gocce d'acqua!... - La governante, forse non così irresponsabile del tragico accaduto come voleva far credere, si prestò alla sostituzione, invogliata anche da un cospicuo dono di Franz. Questi avvolse la morticina in un telo e la gettò nel fiume. Così la bimba di Aurelia venne cresciuta come figlia della baronessa von S., sotto il nome di Eufemia. Le sue vere origini rimasero nascoste a tutti. L'infelice non venne accolta in seno alla Chiesa mediante il sacramento del battesimo perché la bimba alla cui morte essa doveva la vita era già stata battezzata. Parecchi anni dopo, Aurelia andò in moglie al barone von F.. Due figli, Ermogene ed Aurelia, furono il frutto della loro unione. Quando il marchese decise di recarsi con Francesco (com'egli chiamava Franz, alla maniera italiana), nella città residenziale del principe suo fratello, l'Onnipotente mi concesse d'incontrarli ed unirmi a loro. Avrei voluto trattenere, con energica mano, il giovane Franz già vacillante sull'orlo del baratro spalancato... Folle impresa per un debole peccatore non ancora rientrato nella grazia di Dio! Francesco, dopo aver così obbrobriosamente abusato di Giacinta, ne trucidò il fratello. Suo figlio fu lo sventurato fanciullo fatto allevare dal principe sotto il nome di conte Vittorino. E lui, Francesco, il fratricida, avrebbe voluto sposare la buona e pia sorella della principessa; ma io riuscii ad impedire tale sacrilegio nell'istante stesso in cui stava per venir perpetrato, ai piedi dell'altare. Tormentato dal pensiero d'una colpa non estinguibile, Franz fuggì. E per indurlo al pentimento fu ben necessaria la disperata miseria in cui cadde. Prostrato dall'afflizione e dalla malattia, incontrò, nel corso della fuga, un conterraneo che gli offerse cordiale ospitalità. La figlia di costui, una mite e buona fanciulla, fu presa d'uno straordinario amore per il forestiero e si prodigò nel curarlo. Quando Francesco guarì ricambiò l'amore della fanciulla e si unì con lei nel santo sacramento del matrimonio. Grazie alle proprie doti d'intelligenza e cultura riuscì a farsi strada, ad accrescere la già cospicua eredità paterna ed a godere d'un notevole benessere materiale. Ma vana e malcerta è la fortuna del peccatore non riconciliato con Dio. Franz ricadde nella più nera miseria, in una miseria veramente totale perché anche le sue energie intellettuali e fisiche andavano declinando ed egli si sentiva ormai ridotto ad un invalido. La sua vita divenne una continua penitenza. Finalmente il cielo gli mandò un raggio di conforto: avrebbe dovuto recarsi in pellegrinaggio al Sacro Tiglio e là il ritorno alla grazia del Signore gli sarebbe stata annunziata dalla nascita di un bimbo. Nel bosco circostante il convento del Sacro Tiglio, avvicinai la povera madre in pianto sulla creaturina priva di padre e le dissi parole di conforto. Prodigiosa si manifesta la grazia del Signore nel fanciullo nato nell'aura benedetta del santuario della beatissima Vergine!... Spesso il Bambino Gesù gli si è reso visibile e lo ha avvicinato per accendere precocemente la scintilla d'amore nell'animo suo infantile. La madre, presentandolo al santo battesimo, gli ha imposto il nome del padre - Franz! Sarai tu, Francesco, il fanciullo nato nel luogo sacro, a riscattare con una vita di pietà le colpe dei padri e a dar loro pace nella tomba?... Il fanciullo dovrà crescere lontano dal mondo e dalle sue seduzioni, per volgersi unicamente alle cose del cielo. Diventerà un religioso. Questo ha profetizzato il santo uomo alla madre, colmando l'animo mio di sovrumano conforto. Credo sia stata questa profezia di grazia e conferirmi il prodigioso dono della chiaroveggenza, per cui mi par di scorgere con gli occhi dello spirito il quadro vivente dei tempi a venire. Vedo il giovane impegnato in una lotta mortale contro la tenebrosa potenza che lo assale con terribili armi! Cade! Ma una donna divina gli pone sul capo il serto del vincitore. È santa Rosalia! Sarà lei a salvarlo. Dovunque mi sarà concesso dall'Onnipotente sarò al suo fianco, a fianco del fanciullo, del giovinetto, dell'uomo, per proteggerlo con tutte le mie forze. Sarà come... Nota del redattore. A questo punto, lettore benevolo, lo scritto già mezzo sbiadito del vecchio pittore diventa talmente illeggibile da render vano ogni ulteriore tentativo di decifrazione. Ritorniamo quindi al manoscritto del singolare cappuccino Medardo. Capitolo terzo - Il ritorno in convento Le cose erano giunte a tal punto che, ovunque mi mostrassi, per le vie di Roma alcuni fra i passanti si fermavano reclinando umilmente il capo ad implorare la mia benedizione. Probabilmente quel mio persistere nei severi esercizi di penitenza aveva suscitato scalpore; ma sta di fatto che uno straniero, un bizzarro personaggio come me, doveva prima o poi diventare leggendario nella fervida fantasia dei romani. E questi forse, a mia insaputa, avevano già fatto di me l'eroe di qualche pia favoletta. Spesso un coro di mormorii e di timidi sospiri mi distoglieva dalle profonde contemplazioni in cui ero immerso, sugli scalini dell'altare. Alzavo lo sguardo e mi vedevo circondato da fedeli in ginocchio che sembravano implorare la mia intercessione. Come già in quel tale convento di cappuccini, mi avveniva di sentire esclamare alle mie spalle: - Il santo!... - e ciò mi causava dolorose fitte al cuore. Decisi di andarmene da Roma; ma immaginate come rimasi atterrito quando il priore del convento di cui ero ospite mi annunziò che il papa mi aveva mandato a chiamare. Fui colto da neri presentimenti: la potenza malefica voleva forse di nuovo irretirmi in un viluppo di situazioni rovinose. Ma mi feci animo e, all'ora stabilita, andai in Vaticano. Il papa, un uomo prestante, ancor nell'età del pieno vigore, mi ricevette assiso su un tronetto riccamente intarsiato. Due bellissimi fanciulli vestiti da chierichetti gli porgevano bevande ghiacciate e arieggiavano la sala con flabelli di airone per mantenerla fresca, essendo la giornata torrida. Mi avvicinai umilmente, feci le rituali genuflessioni. Il papa mi scrutò con occhio penetrante ma non privo d'una certa espressione di benevolenza. Di lontano m'era parso severo, accigliato, ma ora lo vidi illuminarsi tutto in un mite sorriso. Mi domandò donde venissi, che cosa mi avesse condotto a Roma, mi fece, insomma, le solite domande circa la mia situazione personale. Poi si alzò in piedi e disse: - Vi abbiamo fatto chiamare per aver sentito parlare della vostra rara pietà. Perché, frate Medardo, pratichi i tuoi esercizi di devozione in pubblico, nelle chiese più frequentate? Se lo fai per sembrare un santo e venir venerato dal popolino fanatico, esamina bene la tua coscienza esamina la natura del pensiero che ti induce ad agire così. Se non sei puro dinnanzi al Signore ed a Noi, suo vicario, farai ben presto una fine ignominiosa, frate Medardo! Il papa pronunziò queste parole con voce forte e vibrata. I suoi occhi sprizzavano saette. Per la prima volta dopo tanto tempo, sentii di non essere colpevole del peccato di cui mi si accusava; perciò, non soltanto non mi scomposi, ma, certo d'essere stato spinto alla penitenza da uno spirito d'autentica contrizione, riuscii a parlare come un ispirato: - Beatissimo padre, - dissi. - A voi, vicario di Dio, è certamente stata concessa la facoltà di leggermi nella coscienza. Saprete dunque quanto mi opprima l'immane peso dei miei peccati - e conoscerete pure la sincerità del mio pentimento. Lungi da me il pensiero di ipocrite finzioni - lungi da me qualsiasi ambizioso proposito d'ingannare indegnamente il popolo. Concedete, beatissimo padre, a un povero monaco penitente, di rivelarvi in brevi parole i propri delittuosi trascorsi, e di dirvi anche quanto stia ora facendo nella contrizione e nel rimorso -. Dopo questo esordio, gli narrai più succintamente possibile - e senza far nomi - l'intera mia vita. Il papa si fece attentissimo. Dapprima rimase seduto, la testa appoggiata sulla mano, lo sguardo a terra; e poi si alzò di scatto, incrociò le braccia e spinse avanti il piede destro, sempre fissandomi con occhi sfavillanti, come per venirmi incontro. Quand'ebbi finito tornò a sedersi. - La vostra storia, frate Medardo, - disse, - è la più straordinaria ch'io abbia mai udito. Credete voi all'azione esplicita, visibile d'una potenza malefica - quella che la Chiesa chiama «Demonio»?... Feci per rispondere, ma egli continuò: - Credete che il vino da voi sottratto al reliquiario e poi bevuto vi abbia indotto a commettere tutti quei delitti?... - Ha rafforzato - come un'acqua intossicata da esalazioni venefiche - il germe del male riposto in me, aiutandolo a germogliare, a moltiplicarsi... Il papa tacque per un attimo, poi riprese con espressione grave e raccolta: - E che ne direste se la natura seguisse anche nel campo spirituale le leggi dell'organismo fisico? Se cioè anche qui un germe, un seme, potessero riprodurre soltanto germi identici?... Se, come la forza racchiusa nel seme ritorna a tinger di verde le foglie dell'albero nato dal seme stesso, così pure la volontà, le tendenze si trasmettessero di padre in figlio, sopprimendo ogni arbitrio?... Esistono intere famiglie di assassini, di briganti!... Ecco, questo sarebbe il vero «peccato originale», l'eterna maledizione non estinguibile mediante alcuna offerta sacrificale, gravante su una stirpe colpevole! - Ma se dunque chi è nato da un peccatore, - lo interruppi io, - dovesse necessariamente ricadere nel peccato a motivo dei caratteri ereditari, allora non esisterebbe più colpa alcuna. - E invece non è così, - disse il papa. - L'Eterno spirito ha creato un gigante, capace di domare e incatenare la cieca bestia che infuria dentro di noi. Questo gigante si chiama «Coscienza», e dalla sua lotta contro la Bestia scaturisce la spontaneità. La vittoria del gigante è la Virtù; quella della bestia - il Peccato. Il papa tacque per qualche istante, poi il suo sguardo si schiarì: - Frate Medardo, - disse quasi con dolcezza, - credete si addica al vicario di Dio sofisticare con voi sulla Virtù e sul Peccato?... - Santissimo padre, - risposi. Giacché avete giudicato degno questo vostro umile servo di conoscere la vostra profonda concezione dell'umana esistenza, non disdegnate di parlargli anche della lotta da voi combattuta e gloriosamente vinta, da ormai lungo tempo. - Tu hai una buona opinione di me, frate Medardo, - sospirò il papa. - O non credi piuttosto che la tiara mi sia stata posta sul capo come il serto d'alloro dell'Eroe, del Vincitore, affinché il mondo mi riconosca tale?... - Essere re, regnare su un popolo è certamente una grande cosa, - risposi. - A chi è situato così in alto, nella vita, tutte le cose circostanti devono apparire più raggruppate, più commensurabili sotto ogni aspetto. E la situazione elevata deve pure sviluppare la prodigiosa facoltà della visione panoramica, facoltà conferita, come una sorta di superiore consacrazione, ai principi di sangue. - Intendi dire, - mi interruppe il papa, - che neppure i principi deboli d'intelletto e di volontà sono del tutto privi d'una certa sagacia, che viene scambiata per saggezza e riesce ad imporsi al rispetto delle masse?... Ma questo che cosa c'entra?... - Intendevo parlare della consacrazione dei principi «di questo mondo», - ripresi. - Ma poi anche della sacra, divina unzione del vicario di Dio. Lo Spirito Santo misteriosamente illumina gli alti sacerdoti rinchiusi nel Conclave. Raccolti in pie meditazioni nell'isolamento delle loro celle, lo spirito anelante alla rivelazione, essi vengono illuminati da un raggio celeste. Allora, come un inno di lode all'Onnipotente, dalle loro labbra prorompe un nome. Il disegno dell'Eterno, la scelta del suo degno vicario in terra, vengono soltanto annunziati in linguaggio umano. Ecco perché, beatissimo padre, la vostra corona, il cui triplice serto simboleggia il mistero del Signore Iddio, vostro e del mondo, è effettivamente l'alloro che designa in voi l'Eroe, il Vincitore. Il vostro regno non è di questa terra, ma voi siete chiamato a regnare su tutti i regni della terra, raccogliendo i membri della Chiesa Invisibile sotto il vessillo del Signore! Il regno terrestre a voi riservato è unicamente il vostro trono rigoglioso di paradisiaco splendore. - Secondo te, dunque, - mi interruppe il papa, - io avrei motivo d'essere soddisfatto del trono assegnatomi. Infatti, la mia Roma è rigogliosa di paradisiaco splendore; te ne sarai reso conto anche tu, frate Medardo, se i tuoi occhi non sono completamente chiusi alle cose di questo mondo... Tuttavia, non credo sia così... Tu sei un buon parlatore e mi hai detto cose profondamente assennate... - A quanto ho capito, ci intenderemo anche meglio... Rimani qui!... Fra alcuni giorni forse sarai priore, e più avanti potrei anche sceglierti per mio confessore... Va...' Non far più tante stramberie nelle chiese... Un santo non lo diventerai, in ogni caso... Il calendario è al completo. Và. Queste ultime parole del papa, come del resto il suo comportamento, mi lasciarono molto perplesso perché contrastavano troppo con l'idea che mi ero fatto del supremo capo della cristianità, di Colui cui era stato conferito il potere di sciogliere e di legare. Non c'era dubbio: tutto ciò che gli avevo detto circa la divina sublimità del suo ministero doveva averlo preso per una vacua, astuta adulazione. Egli era certamente partito dall'idea ch'io volessi farmi passare per un santo; e poiché, per motivi suoi particolari, aveva dovuto impedirmelo, pensava mi preoccupassi unicamente di mettermi in evidenza e rendermi influente in altro modo. Ma in questo, sempre per suoi speciali motivi a me altrettanto ignoti, intendeva assecondarmi. Senza pensare che prima d'essere chiamato dal papa avevo intenzione di andarmene da Roma, decisi di continuare i miei esercizi di pietà. Ma dentro di me ero troppo agitato per potermi volgere con tutta l'anima alle cose del cielo, come facevo prima. Involontariamente perfino pregando pensavo alla mia vita passata. Il ricordo delle colpe impallidiva... Mi vedevo dinnanzi soltanto più la brillante carriera iniziata come favorito d'un principe, proseguita quale confessore del papa e destinata a raggiungere chissà quali vette. E così, non già perché il papa me lo avesse impedito, ma senza volerlo, presi gusto a bighellonare per le vie di Roma. Un giorno mentre passavo in piazza di Spagna vidi una piccola folla raggruppata davanti alla baracca di un burattinaio. Udii i comici schiamazzi di Pulcinella e le scroscianti risate del pubblico. Era finito il primo atto - si stava allestendo il secondo. Il siparietto si alzò: apparve Davide giovinetto con la sua fionda e un bel sacco pieno di ciottoli. Accompagnandosi con buffissimi lazzi, Davide promise che avrebbe senza fallo abbattuto il rozzo gigante Golia e salvato Israele. Si intese un fruscio, un brontolio soffocato: e l'enorme testone del gigante Golia sbucò dal basso. Rimasi senza fiato per lo stupore: Golia era... quel bel matto di Belcampo!... L'avevo riconosciuto al primo sguardo. Mediante uno speciale congegno, si era attaccato proprio sotto la testa un piccolo corpo con braccine e gambette... Il manto drappeggiato di Golia gli copriva le spalle e le braccia vere... Scuotendo grottescamente il corpicino di nano e facendo le più inverosimili smorfie, il gigante tenne un'orgogliosa concione, punteggiata soltanto dalle sottili risatine sprezzanti di Davide. La gente si sbellicava dalle risa; ed io stesso, sbalordito dalla nuova favolosa metamorfosi di Belcampo, mi lasciai trascinare e risi - risi come non ridevo più da tanto tempo - spontaneamente, di cuore, come un bambino... Troppe volte, ahimè, la mia risata s'era ridotta ad una smorfia convulsa, sotto la fitta del dolore atroce. Una lunga disputa precedette la lotta contro il gigante. Con dotto e forbito linguaggio, Davide dimostrò come qualmente egli dovesse - e potesse - accoppare il terrificante avversario. Belcampo contraeva tutti i muscoli del viso in un gioco di smorfie, mobile come una crepitante lingua di fuoco in una stoppia e cercava intanto di colpire con le braccine minuscole il piccolissimo Davide, il quale si scansava chinandosi con agilità e riapparendo talvolta addirittura di sotto il fluttuante manto del gigante. Finalmente il sasso scoccò - crollò Golia colpito in piena fronte, e il sipario cadde. Stavo ridendo a più non posso per le matte trovate di Belcampo quando qualcuno mi bussò leggermente sulla spalla: accanto a me c'era un abate: - Mi rallegro reverendo, - disse costui, - che non abbiate perso la facoltà di divertirvi alle cose mondane. Dopo aver assistito ai vostri straordinari esercizi di devozione quasi non vi avrei più creduto capace di ridere per simili sciocchezze -. Mi parve che l'abate mi parlasse così per farmi vergognare della mia allegria: e senza pensarci mi lasciai sfuggire queste parole, di cui subito amaramente mi pentii: Credete a me, signor abate, - gli dissi. - A chi ha saputo gagliardamente nuotare nel mare burrascoso della vita, non mancherà mai la forza di emergere dai torbidi flutti e rialzare coraggiosamente il capo. - Ah! - esclamò l'abate guardandomi con occhi sfavillanti. - Questa sì è una felice metafora! Adesso credo di conoscervi, e vi ammiro, credetemi, con tutta l'anima! - Non capisco, signore, risposi, - come un povero monaco penitente possa destare la vostra ammirazione. - Splendido, reverendo! Ecco, ora ricadete nella vostra parte. Voi siete il beniamino del papa, non è vero?... - A sua santità è piaciuto degnarmi del suo sguardo. L'ho venerato prostrandomi nella polvere, come esige la dignità conferitagli dall'Eterno allorquando lo ha trovato ricolmo di celesti virtù. - Bene, degnissimo vassallo del triregno. Assolverai il tuo ufficio in modo esemplare. Ma, credimi, l'attuale vicario di Dio è un gioiello di virtù rispetto a Alessandro Vi. E forse potresti aver fatto male i tuoi calcoli. Ma recita, recita pure la tua parte... La commedia così allegramente iniziata sarà presto finita. Stammi sano, reverendissimo padre! E, con una stridula risata di scherno, l'abate s'allontanò. Io rimasi là, impietrito. Mettendo insieme le sue ultime parole con le mie personali osservazioni mi apparve chiaro che il papa non era affatto «l'Incoronato», il «Vincitor della Bestia» come avevo creduto. Al pubblico poi, o almeno, a quella parte di esso più addentro alle segrete cose, la mia penitenza doveva esser parsa un'ipocrita manovra per spingermi in alto ad ogni costo. Profondamente umiliato rientrai in convento e mi appartai a pregare con fervore nella chiesa deserta. Allora il velo mi cadde dagli occhi: vidi la tentazione della tenebrosa potenza, il nuovo tentativo di prendermi nelle sue reti... Vidi la mia colpevole debolezza, l'incombente castigo divino... Fuggire, subito: non avevo altra possibilità di scampo! E perciò decisi di mettermi in viaggio la mattina dopo, all'alba. Era già quasi notte quando qualcuno tirò con energia la campanella esterna del convento; e poco dopo il frate portiere entrò nella mia cella ad annunziare che un uomo stranamente vestito voleva assolutamente parlarmi. Andai nel parlatorio: il visitatore era Belcampo. Con le sue solite movenze di buffone mi corse incontro, mi strinse fra le braccia, mi trascinò in un angolo: Medardo, - mi disse parlando in fretta e sottovoce. - Se proprio vuoi rovinarti fà pure a modo tuo. Ma, bada: la follia ti incalza alle spalle sulle ali del maestrale, o dell'austro, o del libeccio - del vento che ti pare, insomma - e se un solo lembo della tua cotta sporge ancora dall'abisso, ti afferra e ti porta via!... O Medardo, capisci una buona volta!... Renditi conto di quanto possano l'amicizia, l'affetto!... Credi a Davide e a Gionata, caro il mio cappuccino!... Io veramente l'avevo ammirata nella parte di Golia, dissi per interrompere la chiacchierata. - Ma mi dica presto, di che si tratta?... Cosa l'ha condotta qui?... - Di che si tratta?! - esclamò Belcampo. - Cosa mi ha condotto qui?!... L'amore dissennato per un cappuccino a cui un giorno riassettai la capigliatura!... Per un frate che spandeva a piene mani ducati d'oro leggermente macchiati di sangue, se la diceva con certi orripilantissimi revenants e, un giorno, dopo aver commesso un delittuccio da niente, stava già per sposare alla moda borghese - o, diciamo meglio, aristocratica - la fanciulla più bella del mondo... - Basta! - gridai. - Taci, perfido buffone insolente!... Ciò che tu mi rinfacci l'ho già duramente espiato! - O, signore! - sospirò Belcampo. - È dunque ancora così sensibile la cicatrice di quella brutta ferita?... Ahi, ahi... Allora non siete ancora completamente guarito. Bene. Sarò tranquillo e quieto come un bimbo buono... Non farò più capriole, né in senso fisico né in senso metaforico. Ti dirò questo soltanto: ti voglio tanto bene proprio a causa della tua sublime follia; e poiché ritengo estremamente utile che ogni germe di follia viva e prosperi il più a lungo possibile su questa terra, continuo a salvarti dai pericoli mortali in cui tu vai così allegramente a cacciarti. Origliando dall'interno della mia baracca di burattinaio; ho carpito una conversazione che ti riguarda: il papa vuole farti priore del nostro convento di cappuccini e ha intenzione di sceglierti a suo confessore personale... Scappa... vattene da Roma più presto che puoi! Nell'ombra ci sono pugnali pronti a colpirti... Conosco il bravo incaricato di spedirti nel regno dei cieli. Hai attraversato la strada al domenicano, attuale confessore del papa, e a tutti quelli del suo partito. Domani non dovrai più essere qui -. Questa novità coincideva perfettamente con le parole dell'abate sconosciuto. Ne rimasi così colpito che quasi non mi accorsi dei ripetuti, calorosi abbracci di Belcampo, né delle solite comiche smorfie con cui, salterellando, si congedò. Doveva essere già mezzanotte passata quando udii aprirsi il portone del convento e il fragore d'una carrozza sul selciato del cortile. Qualcuno si avvicinò alla mia porta, per il corridoio, e bussò. Apersi: era il padre guardiano seguito da un uomo mascherato con una torcia in mano. - Frate Medardo, - mi disse il guardiano. - Un morituro richiede la vostra assistenza spirituale e l'estrema unzione. Fate il vostro dovere. Quest'uomo vi accompagnerà dove c'è bisogno di voi. Seguitelo. Con un brivido freddo ebbi il presentimento che volessero condurmi a morte. Ma rifiutarmi non potevo, perciò seguii l'uomo mascherato, il quale aperse lo sportello della carrozza e mi invitò a salire. Dovetti sedere in mezzo a due sconosciuti. Domandai dove mi stessero conducendo e chi, esattamente, avesse richiesto la mia assistenza e l'estrema unzione. Nessuna risposta. Proseguimmo nel più assoluto silenzio, percorrendo parecchie strade. Dal rumore credetti di capire che eravamo già fuori Roma; poco dopo udii chiaramente il rimbombo del veicolo sotto l'arco d'una porta, poi di nuovo il rumor delle ruote su strade selciate. Finalmente la carrozza si fermò; in fretta mi legarono le mani e calarono uno spesso cappuccio sul viso. - Non vi accadrà nulla di male, - mi disse una voce aspra. - Ma non una parola di quanto vedrete ed udrete qui dentro, o morirete all'istante -. Quindi mi fecero scendere. Udii uno strider di serrature e un portone aprirsi ruotando su cardini rozzi e male oliati. Poi dovetti percorrere lunghi corridoi, scendere un'infinità di scale. L'eco dei passi mi disse che mi trovavo in un sotterraneo - a quale scopo adibito lo compresi dal penetrante odor di cadavere. Alfine mi fecero fermare, mi slegarono le mani, mi tolsero la cappa. Mi trovavo, effettivamente, in un'ampia cripta sotterranea, fiocamente illuminata da un lume ad olio. Davanti a me stava un uomo incappucciato di nero - probabilmente lo stesso che era venuto a prendermi - e tutt'intorno, su bassi sedili, sedevano frati domenicani. Mi ritornò alla memoria il macabro sogno fatto in carcere, ed ebbi la certezza di star per morire fra i tormenti. Dopo alcuni istanti di cupo silenzio, carico di aspettativa, un frate mi si avvicinò e mi disse con voce sorda: - Abbiamo condannato uno dei vostri confratelli, frate Medardo, e la condanna dev'essere eseguita. Egli attende da voi, che siete un sant'uomo, assoluzione e conforto nell'ora della morte. Andate e compite il vostro ufficio. L'intabarrato mi prese per un braccio e, attraverso uno stretto cunicolo, mi condusse in una piccola cella, in un angolo della quale, sopra uno strame di paglia, giaceva una creatura pallida, consunta, ricoperta di cenci - un autentico scheletro umano. L'intabarrato posò la lucerna sulla tavola di pietra, al centro della cella. Mi avvicinai al prigioniero, e questi si volse faticosamente verso di me. Raggelai: in quel volto scarnito avevo riconosciuto i venerandi lineamenti del pio frate Cirillo! Vedendomi egli si trasfigurò in un sorriso di sovrumana dolcezza: - Dunque, i perfidi servitori di Satana dimoranti qui dentro non mi hanno ingannato!... - mormorò con voce fioca. - Da loro ho saputo che ti trovavi a Roma, caro fratello Medardo. Sapevo di averti fatto un grave torto e desideravo tanto vederti; perciò mi hanno promesso che ti avrebbero condotto da me nell'ora della morte. L'ora è giunta. Hanno mantenuto la promessa. Mi inginocchiai accanto al pio e venerabile vecchio e lo scongiurai di dirmi, prima di tutto, come fosse stato possibile incarcerarlo e condannarlo a morte. - Medardo, caro fratello mio, rispose lui. - Soltanto dopo averti confessato, pentendomi, il colpevole errore commesso nei tuoi confronti, soltanto quando tu mi avrai riconciliato con Dio, potrò parlarti delle mie miserie e della mia rovina. Come già sai, io e con me tutto il nostro convento ti avevamo creduto il più perverso dei peccatori. Credendo che sul tuo capo gravassero i più mostruosi delitti ti avevamo bandito dalla comunità. Invece s'era trattato soltanto d'un fatale attimo di smarrimento: il diavolo ti aveva accalappiato e trascinato via per il collo dai luoghi santi!... Assumendo il tuo nome, il tuo abito, la tua figura, era stato un diabolico ipocrita a commettere i delitti per cui tu rischiasti di subire la morte infame dell'assassino. Ma l'Eterno ha miracolosamente rivelato che avevi, sì, agito con leggerezza, e peccato, e coltivato perfino il proposito di infrangere i voti, ma di quegli orrendi delitti eri innocente. Ritorna al nostro convento, Medardo! Il priore Leonardo, i confratelli che ti avevano creduto perso, ti accoglieranno con affetto, con gioia... O, Medardo!... - Stremato dalla debolezza, il vecchio ricadde indietro e perse i sensi. Dominai l'emozione causatami dalle sue parole e dalla rivelazione, a quanto m'era parso di capire, d'un nuovo fatto inaudito. Pensai unicamente a lui, alla sua anima; e, in mancanza d'ogni altro mezzo, cercai di richiamarlo in vita con un semplice sistema in uso nel nostro convento, praticandogli, cioè, un lento e leggero massaggio alla testa ed al petto. Cirillo si riprese quasi subito. E lui, il sant'uomo si confessò a me, l'iniquo peccatore! Le sue colpe consistevano unicamente in taluni dubbi di nessun conto. Ma, mentre gli impartivo l'assoluzione, mi parve si accendesse in me uno spirito divino - mi sentii trasformato nell'arto fisico di cui si serve l'Onnipotente per parlare, già fin di quaggiù, in linguaggio umano, all'uomo non ancor sciolto dal peso della materia. Cirillo levò al cielo uno sguardo pieno di devozione: - O, fratello Medardo, mi disse. - Quale sollievo mi hanno dato le tue parole!... Ora vado lieto incontro alla morte preparata per me da quei malvagi. Muoio vittima della mostruosa falsità, del peccato che circondano il trono del triregno! Si appressò un sordo rumore di passi - le serrature stridettero. Con uno sforzo supremo, Cirillo si rizzò a sedere, mi prese la mano e mi sussurrò all'orecchio: - Ritorna al nostro convento! Leonardo è informato di tutto; sa come muoio... Scongiuralo di tacere! Io sono un povero vecchio stremato: la morte mi avrebbe comunque raggiunto prestissimo. Addio, fratello! Prega per la salvezza dell'anima mia!... Quando celebrerete l'ufficio funebre per me, in convento, io sarò con voi. Promettimi di tacere tutto ciò che hai appreso: provocheresti la tua rovina e coinvolgeresti il nostro convento in un mare di guai! Glielo promisi. Entrarono alcuni uomini incappucciati, sollevarono il vecchio dal giaciglio e, fattomi cenno di seguirli, lo trascinarono non essendo egli in grado di camminare per l'estrema debolezza, in un lungo corridoio fino alla sala sotterranea in cui ero già stato prima. I domenicani si erano disposti in cerchio; gli aguzzini condussero il vecchio al centro del medesimo e, messogli in mano un crocifisso, lo fecero inginocchiare su un mucchietto di terra. Ritenendo che ciò facesse parte del mio ufficio, anch'io ero entrato nel cerchio e pregavo ad alta voce. Un domenicano mi prese per un braccio e mi trasse in disparte. In quel momento, fra le mani d'uno degli incappucciati penetrato nel circolo alle nostre spalle, vidi balenare una spada - e la testa sanguinante di Cirillo mi rotolò fra i piedi. Allora persi i sensi e crollai a terra. Quando rinvenni ero in una cameretta molto simile ad una cella monastica. Mi si avvicinò un domenicano, dicendomi con un sorriso cattivo: - Vi siete molto spaventato, fratello! Eppure dovreste esser lieto di aver personalmente assistito a un così bel martirio! Penso si debba dire così, trattandosi di un frate del vostro convento: non siete forse tutti santi, voialtri?... - Non siamo santi, - risposi, ma nel nostro convento non si è mai assassinato un innocente. Adesso lasciatemi andare. Ho assolto al mio ufficio con gioia. Lo spirito di quel martire mi sarà vicino se un giorno dovrò anch'io cadere fra le mani di scellerati assassini. - Il compianto frate Cirillo sarà certamente in grado di assistervi in un simile frangente - non ne dubito. Ma, caro fratello, non dovreste chiamare la sua esecuzione un assassinio. Cirillo si era reso gravemente colpevole verso il vicario di Dio; ed è stato lo stesso santo Padre ad ordinarne la morte. Tutto questo ve lo avrà già detto egli stesso, in confessione; inutile continuare a parlarne. Piuttosto, accettate questo rinfresco per rimettervi un po'in forze: siete ancora molto pallido e sconvolto -. Così dicendo, il domenicano mi porse una coppa in cui spumeggiava un vino rosso scuro, fortemente aromatico. Quando lo portai alle labbra non so quale presentimento mi illuminasse; ma sta di fatto che mi bastò annusarlo per riconoscere lo stesso vino offertomi da Eufemia, quella notte fatale. Così, istintivamente, fingendomi abbagliato dalla lucerna, mi portai la mano sinistra davanti agli occhi e versai nella manica il vino, invece di berlo. - Buon pro vi faccia! - esclamò il domenicano, affrettandosi a spingermi verso la porta. Mi gettarono nella carrozza - vuota, con mio stupore - e la carrozza partì. Lo spavento, gli orrori della tragica notte, la tensione nervosa, il profondo dolore per la morte dell'infelice Cirillo, mi piombarono in uno stato di intontimento; tanto che, quando mi trassero fuori dalla vettura e mi gettarono piuttosto brutalmente a terra, lasciai fare senza opporre resistenza alcuna. Alle prime luci del giorno, mi ritrovai disteso davanti al portone del convento. Mi alzai, tirai la campanella. Nel vedermi così pallido e stravolto, il portiere si spaventò e corse, credo, ad avvertire il priore perché questi, subito dopo la prima messa, entrò nella mia cella con viso preoccupato. Alle sue domande risposi piuttosto evasivamente: la morte dell'uomo che ero stato chiamato ad assolvere - dissi - era stata troppo crudele per non sconvolgermi fin in fondo all'anima. Ma a questo punto l'atroce dolore al braccio sinistro mi impedì di proseguire - e mi costrinse ad urlare. Accorse il chirurgo del convento, strappò la manica già incollata alle carni e trovò tutto il braccio dilaniato e corroso da una sostanza caustica. - Mi hanno dato del vino da bere, - gemetti sentendomi venir meno per lo strazio. - E io l'ho versato nella manica... - Quel vino conteneva un veleno corrosivo! - esclamò il chirurgo, affrettandosi ad impiegare rimedi atti ad attenuare, almeno, le disumane sofferenze. L'abilità del chirurgo e le cure fattemi prestare dal priore riuscirono a salvare il braccio, che sulle prime pareva dovesse venirmi amputato; ma la forza, la mobilità dell'arto rimasero distrutti dal letale succo di cicuta. - Adesso vedo chiaro, - disse il priore. - Capisco che cosa si nasconda sotto l'intrigo che vi è costato il braccio. Il buon padre Cirillo era misteriosamente scomparso dal convento e da Roma; e voi, caro frate Medardo, farete la stessa fine se non lasciate al più presto questa città. Mentre eravate ammalato parecchi individui sospetti sono venuti a chiedere vostre informazioni. Potete ringraziare la mia vigilanza e la solidarietà dei buoni confratelli se il delitto non è penetrato fin fra le mura della vostra cella. A me, ve lo confesso, avete dato l'impressione di essere un uomo fuor del comune, coinvolto, qui e dovunque, in una rete di segreti pericolosi; e, durante la vostra breve permanenza a Roma, dovete esservi fatto notare un po'troppo perché certe persone non desiderino ora togliervi di mezzo. Ritornate in patria, al vostro convento!... E la pace sia con voi! Fintantoché fossi rimasto a Roma la mia vita sarebbe stata in continuo pericolo; questo lo sapevo, lo sentivo anch'io. Ma ora, al tormentoso rimorso dei miei misfatti - che neppure le più severe penitenze erano valse a placare - si aggiungeva il dolore fisico causatomi dal braccio rovinato. Era dunque, la mia, una vita d'infermità, di sofferenze, da non tenersi più in alcun conto, un fardello di cui volentieri mi sarei sbarazzato, se a qualcuno fosse piaciuto darmi una rapida morte. E all'idea della morte violenta andavo abituandomi ogni giorno di più; vedevo in essa come un glorioso martirio, il premio delle mie dure penitenze. Già mi pareva di assistere alla scena: io uscivo dalla porta del convento e una figura tenebrosa fulmineamente mi trafiggeva con un pugnale. Il popolo si affollava intorno al mio cadavere insanguinato... Udivo i gemiti, le esclamazioni di cordoglio: «Medardo... Il pio penitente Medardo - è stato assassinato!... - Alcune donne si inginocchiavano a tergere con candidi lini la ferita sanguinante. Una di esse scorgeva la cicatrice in forma di croce: «È un martire... un santo!...», esclamava. «Guardate qui... sul collo... Il segno del Signore!...» - Allora tutti cadevano in ginocchio - Beato chi poteva toccare il corpo, sfiorare la veste del Santo!... - Deponevano la salma inghirlandata di fiori in una bara e questa, presa in spalla da giovinetti, veniva portata in trionfale corteo, fra canti e preghiere, a San Pietro!... - Così a vividi colori elaboravo nella fantasia il quadro della mia glorificazione in terra. E, senza avvertire in tale pensiero la nuova diabolica tentazione del colpevole spirito d'orgoglio, decisi di rimanere a Roma, quando fossi completamente guarito, e di continuare a vivere come fin là avevo fatto. Così, o sarei morto gloriosamente, oppure il papa mi avrebbe sottratto ai miei nemici per farmi assurgere alle massime dignità della Chiesa. La mia costituzione robusta, vitale, mi permise di sopportare le inenarrabili sofferenze e di reagire all'azione del tossico infernale che aveva cercato di distruggermi, aggredendomi dall'esterno. Il medico mi preconizzò un pronto ristabilimento; ed infatti soltanto più nei momenti di dormiveglia delirante che precedono il sonno venivo colto da accessi febbrili, con alternanze di brividi freddi e vampate di calore. Suggestionato com'ero dalla visione del martirio, fu appunto in uno di tali momenti che mi rividi assassinato con una pugnalata in pieno petto. Ma, a differenza dalle altre volte, non ero più disteso in piazza di Spagna e attorniato da una folla acclamante alla mia santificazione; giacevo, bensì, abbandonato in un viale solitario, nel giardino del convento di B.. Dalla vasta ferita colava, anziché sangue, una ripugnante sierosità incolore. - È questo, dunque, il sangue del martirio?... - esclamava una voce. - Ma io voglio purificare, colorire quest'umore impuro. Soltanto allora il Fuoco, vincitor della Luce, incoronerà il Martire!... - Ero stato io stesso a parlare così. Ma, sentendomi distaccare dal corpo privo di vita, mi rendevo conto di essere l'idea astratta del mio io - e immediatamente mi riconoscevo nel color rosso soffuso per l'etere. Mi libravo in alto, verso le vette luminose dei monti - volevo entrare nel Regno attraverso una porta di nubi rosate, ma centinaia di folgori scoccavano, intrecciandosi come serpi di fuoco, davanti alla volta celeste - ed io, trasformato in un'umida nebbia incolore, precipitavo. «Io, io, - diceva il pensiero. - Sono io che tingo i vostri fiori, il vostro sangue... Fiori e sangue sono il vostro ornamento nuziale!» Continuando a sprofondare sempre più in basso, vedevo il cadavere con nel petto la vasta ferita slabbrata da cui fluiva a fiotti quel liquido impuro. Il mio alito avrebbe dovuto trasformarlo in sangue, ma ciò non avveniva. Il cadavere si rizzava a sedere e, fissandomi con macabre orbite vuote, ululava come la tramontana nel fondo dei crepacci: «Stolto!... Folle pensiero!... Non v'è lotta fra Luce e Fuoco - ma la Luce è il battesimo del fuoco, operato mediante quel color rosso che tu cerchi di intossicare». - Il cadavere ricadeva all'indietro. Tutti i fiori dei prati, dei campi, reclinavano le corolle appassite. Uomini, simili a pallidi spettri, si gettavano a terra e un coro di mille voci lamentevoli, sconsolate, si levava nell'aria: - O, Signore, Signore!... È dunque così immane il peso delle nostre colpe perché tu conceda al Nemico la forza di mortificare l'olocausto del nostro sangue?... Il lamento cresceva, ingigantiva, simile alle mugghianti onde del mare - e in quella voce possente il pensiero era sul punto di polverizzarsi. Venni strappato al sogno come da una scarica elettrica. L'orologio del campanile batteva le dodici; dalle finestre della chiesa una luce abbagliante irradiava nella mia cella. «I morti sorgono dai sepolcri per celebrare l'ufficio divino», dissi dentro di me. E mi misi a pregare. In quel momento qualcuno bussò piano alla mia porta. Credetti fosse un frate - ma, con terrore indicibile udii la ben nota, raggelante risata del mio sosia spettrale: - Fratellino... Fratellino, - biascicò la vocetta beffarda. - Eccomi di nuovo con te... La ferita sanguina... la ferita sanguina... Rosso... Rosso - Vieni con me, fratellino Medardo - Vieni con me!... Volli balzare dal letto ma il terrore aveva steso su di me una coltre di ghiaccio. Ogni tentativo di movimento si risolveva in un lacerante crampo muscolare. Potevo soltanto pensare - e il pensiero era ardente preghiera. Invocavo salvezza perché dalle porte spalancate dell'inferno le potenze tenebrose volevano irrompere in me. Ma la preghiera formulata mentalmente, io la udivo come se la pronunziassi ad alta voce - e il rumor di colpi, le sghignazzanti risate, il sinistro balbettio del sosia terrificante ne erano sopraffatti. Poi, poco a poco, le parole della preghiera si perdevano in uno strano ronzio, come quando il vento caldo del sud risveglia sciami d'insetti nocivi, e questi si avventano con i pungiglioni avvelenati sui rigogliosi raccolti. Ed ecco, il ronzio si trasformava nello sconsolato lamento dell'umanità. - «Non è questo il sogno profetico, - diceva l'anima mia, - che vorrebbe posarsi come un benefico balsamo sulla piaga sanguinante?...» Contemporaneamente, la torbida nebbia incolore si accendeva di porpora, come un cielo al tramonto. - E, nell'alone infocato, si delineava - altissima - una figura. Era il Cristo. - Le Sue piaghe stillavano sangue - e il Rosso veniva restituito alla terra e il pianto umano prorompeva in un inno di esultanza - perché il Rosso era la Grazia del Signore scesa sull'intera umanità! Soltanto il sangue di Medardo continuava a gemere incolore dalla ferita. - Io, solo io in tutto il vasto mondo, - piangeva Medardo, - devo essere abbandonato senza speranza alle pene dell'eterna dannazione?... Allora, fra i cespugli, si muoveva una rosa, imporporata dai riflessi sanguigni del cielo ergeva il capo e fissava Medardo con mite sorriso d'angelo, lo avvolgeva d'un profumo dolcissimo. - E il profumo era il magico splendore del purissimo etere primaverile. - Non il Fuoco ha vinto. - Fra Luce e Fuoco non c'è stata lotta. Fuoco è la parola che illumina il peccatore. - Era stata la rosa a parlare così?... La rosa - una soave figura di donna... Nella candida veste, gli scuri capelli intrecciati di rose... mi veniva incontro... - Aurelia! - Con questo grido mi destai. Un delizioso profumo di rose inondava la cella. Fu forse un inganno dei sensi: ma mi parve di scorgere veramente la figura di Aurelia, di sentire su di me lo sguardo dei suoi occhi - e poi di vederla svanire come nebbia nella luce del mattino. Compresi la tentazione demoniaca - la mia colpevole debolezza, e scesi di corsa a pregare con fervore davanti all'altare di santa Rosalia. Non mi fustigai, non mi imposi altre penitenze all'uso monastico. Ma i raggi perpendicolari del sole di mezzodì mi ritrovarono già a molte ore di cammino da Roma. Non soltanto l'avvertimento di frate Cirillo ma anche una irresistibile nostalgia della patria mi indussero a seguire la stessa via percorsa per venire a Roma. Senza volerlo, anzi, col preciso proposito di sottrarmi alla mia missione, avevo preso esattamente la strada assegnatami dal priore Leonardo. Evitai la residenza del principe, non per timore d'essere riconosciuto e riconsegnato alla giustizia, ma perché come avrei potuto evitare lo strazio dei ricordi ritornando nei luoghi dove, con criminale aberrazione, m'ero lanciato alla conquista d'una felicità terrena cui avevo fatto rinunzia, votandomi a Dio?... Dove, ahimè, rinnegando l'eterno, puro spirito d'amore, avevo mirato alla soddisfazione degli istinti più bassi come al supremo vertice della vita, al radioso punto di luce in cui il sensibile e l'ultrasensibile divampano in un'unica fiamma?... Dove la vita viva, piena, nutrita di tutte le sue ricchezze, mi era parsa un motivo di ribellione violenta contro ogni forma di mistica ascesi, e l'aspirazione alle cose del cielo io avevo osato definirla «autonegazione», atto contro natura?... E ancor più!... L'influsso della tenebrosa potenza infernale, già troppe volte subìto, mi avrebbe forse imposto un conflitto che, malgrado la condotta ineccepibile e le lunghe durissime penitenze, non mi sentivo la forza di sostenere con successo. Rivedere Aurelia!... Rivederla, forse ancor più bella, più affascinante di quando l'avevo lasciata! Lo avrei potuto senza venir sopraffatto dallo spirito del male tuttora divampante, ribollente nel sangue in fermento?... Quante volte mi riappariva Aurelia!... E quante volte, ripensandola, si ridestavano in me sensazioni indubbiamente colpevoli che io dovevo reprimere usando tutta la mia forza di volontà. Se ora credevo nella sincerità della mia contrizione, era soltanto per aver preso coscienza di tutto ciò che mi induceva ad esaminare lucidamente me stesso - era perché mi sentivo impotente ad affrontare il conflitto e volevo evitarlo. Se non altro, avevo finalmente deposto l'infernale spirito d'orgoglio, la temeraria pretesa di voler sfidare le potenze oscure. Dopo non molto cammino mi ritrovai fra i monti; e una mattina, dalle nebbie d'una valle aperta davanti a me, vidi emergere un castello che, avvicinandomi, ben riconobbi: mi trovavo nelle proprietà del barone von F.. - Il parco era in istato di abbandono, le strade, i viali invasi da erbacce. Sul bello spiazzo antestante il castello, pascolava il bestiame fra l'erba alta. Guardai l'edificio: qua e là, vetri rotti alle finestre l'ingresso in rovina. Tutt'intorno non c'era anima viva. Mi fermai muto, impietrito in quella paurosa solitudine e, da un boschetto ancora abbastanza ben conservato, udii provenire un pianto sommesso. Fra gli alberi sedeva un vecchio canuto il quale parve non accorgersi di me, malgrado gli fossi abbastanza vicino. Avvicinandomi ancor più ne udii le parole: - Morti!... Coloro che amavo sono tutti morti!... Ah, Aurelia!... L'ultima!... Morta, morta anche tu!... - Lo riconobbi: era il vecchio Rinaldo. - Aurelia morta?... No! esclamai fermandomi. - Ti sbagli, vecchio: l'Onnipotente l'ha protetta dal coltello dell'infame assassino! Il vecchio sussultò come folgorato: - Chi è là?... Chi è là?... gridò. - Leopoldo!... Leopoldo!... Accorse un ragazzetto. Vedendomi si inchinò profondamente e mi salutò con un «Laudetur Jesus Christus!» - «In omnia saecula saeculorum!» - risposi io. Allora il vecchio balzò in piedi gridando ancor più forte: - Chi è là?... Chi c'è?... Soltanto allora mi accorsi che era cieco. - Un reverendo, - rispose il fanciullo. - Un frate cappuccino. - Via, via ragazzo! - esclamò il vecchio come terrorizzato. - Conducimi dentro... in casa... E chiudi le porte... E che Pietro faccia buona guardia... Via, via... dentro!... - E, raccogliendo tutte le sue forze, fuggì come si fugge davanti a una belva feroce. Il ragazzetto mi guardava spaventato e sbalordito; ma il vecchio, anziché farsi condurre da lui, lo trascinò via. In un attimo furono in casa e poi li udii chiudere ben bene la porta dall'interno. Anch'io mi affrettai a fuggire dal teatro dei miei peggiori delitti; quella scena me li aveva ripresentati più vivi che mai. E poco dopo ero già nel folto del bosco. Sedetti, sfinito, sul musco, ai piedi d'un albero, a pochi passi da un piccolo tumulo di terra sovrastato da una croce; e mi assopii. Destandomi, mi trovai accanto un vecchio contadino il quale, appena mi vide ben sveglio, si cavò rispettosamente il berretto e disse in tono estremamente bonario e cordiale: - Eh... dovete aver camminato ed esservi stancato un bel pò, reverendo, per addormertarvi così sodo in un posticino sinistro come questo!... O forse non sapete che cos'è accaduto qui?... - Risposi che, essendo forestiero e di ritorno da un pellegrinaggio in Italia, non potevo sapere che cosa fosse accaduto in quel luogo. - Eppure la cosa riguarda da vicino voi e i frati del vostro ordine, - disse lui. - Vi confesso che quando vi ho visto dormire così beatamente mi sono seduto qui per proteggervi da ogni eventuale pericolo. Si dice che molti anni fa qui sia stato assassinato un cappuccino. Una cosa certa: un cappuccino giunse al nostro villaggio e, dopo avervi pernottato, si incamminò su per i monti. Quello stesso giorno, un mio vicino di casa, passando per un sentiero a fondovalle sotto l'abisso del diavolo, udì un urlo lontano, ma penetrante, acutissimo, prolungato. - E credette perfino di vedere (... ma questo mi sembra impossibile...), credette di vedere una figura umana precipitare nella voragine, dalla cima del monte. Noi tutti del villaggio, chissà perché, pensammo si trattasse del cappuccino. Parecchi di noi si calarono quant'era possibile calarsi senza rischiare la vita, per ritrovare almeno il cadavere dello sventurato. - Ma non si trovò nulla. Perciò ci facemmo quattro buone risate alle spalle di quel tale vicino, quando questi, in una notte di luna, rientrò mezzo morto di paura, assicurando di aver visto un uomo nudo che tentava di risalire lungo le pareti dell'«abisso del diavolo». - Naturalmente, era pura immaginazione. Più tardi, però si venne a sapere che un cappuccino - Dio sa perché - era stato assassinato per davvero, e poi gettato nell'abisso, da un nobiluomo. Sono convinto che il delitto sia avvenuto proprio in questo luogo. Perché - state a sentire, reverendo - una volta sedevo qui e guardavo quell'albero mezzo scavato, pensando ai fatti miei. A un tratto mi sembra di veder spuntare da una fessura un lembo di panno scuro. - Mi alzo tiro - e salta fuori una tonaca di cappuccino, bell'e nuova. Su una manica, tracce di sangue e, ricamato in un bordo, il nome «Medardo». Benché poverissimo, pensai di fare una buona azione: vendere la tonaca e usare il ricavato per far dire alcune messe in suffragio del povero frate, assassinato senza aver avuto il tempo di prepararsi alla morte, di fare un esame di coscienza. Portai la tonaca in città, ma nessun rigattiere me la volle comperare. Conventi di cappuccini qui intorno non ce n'erano. Finalmente un individuo vestito da guardiacaccia o da guardiaboschi - mi disse di aver per l'appunto bisogno d'una tonaca come quella. - E me la pagò profumatamente. Allora feci subito dire una bella messa dal nostro signor parroco e, non essendo possibile scendere nell'abisso del diavolo, posi una croce qui, in memoria del tragico fatto. Ma quel frate, buonanima, doveva averne combinate d'ogni colore, perché la sua ombra pare si aggiri ancora qui nei dintorni. La messa del signor parroco non deve avergli giovato un gran che. Perciò vi prego, reverendo, appena sarete rientrato sano e salvo in patria, dite anche voi una messa per l'anima del vostro confratello Medardo... Promettetemelo! - Siete in errore, amico mio, risposi. - Il cappuccino Medardo che, molti anni fa, passò per il vostro villaggio, diretto in Italia, non fu assassinato. Non gli occorrono messe di suffragio, perché è ancora vivo e può ancora operare per la propria eterna salvezza. Quel Medardo sono io! Così dicendo apersi la tonaca e gli mostrai il nome ricamato nell'orlo. Il contadino impallidì - rimase alcuni istanti a fissarmi, paralizzato dal terrore, poi si alzò di scatto e corse via a rotta di collo per il bosco urlando come un forsennato. Evidentemente mi aveva preso per lo spettro vagante dell'ucciso, e inutile sarebbe stato da parte mia qualsiasi tentativo di spiegargli l'errore. Il luogo solitario, il silenzio rotto soltanto dal cupo boato del vicino torrente erano quanto mai adatti a suscitare fantasie paurose. Ripensai rabbrividendo al mio orribile sosia e, suggestionato dalla paura del contadino, mi parve di vederlo sbucare da ogni cespuglio. Ma mi dominai e proseguii il cammino. Ero stato scambiato per il fantasma «di me stesso»!... Soltanto quando mi fui liberato da quella macabra idea mi resi conto d'aver finalmente appreso in che modo il monaco folle fosse venuto in possesso della tonaca, acquistata, per suo desiderio, in città dal guardiaboschi che l'aveva soccorso ed ospitato - poi lasciata indietro nel corso della fuga, e ritrovata da me, e riconosciuta con certezza per mia. Mi colpì molto constatare quale strana deformazione avesse subìto, nella voce popolare, il tragico fatto avvenuto nell'«abisso del diavolo»: tutte le circostanze avevano dunque concorso a render possibile il malaugurato scambio di persona e a permettermi di spacciarmi per il conte Vittorino. Molto importante mi parve la visione notturna del pavido vicino di casa. Ormai nutrivo fiducia di ottenere chiarimenti ancora maggiori, senza peraltro neppure supporre donde e per quale via. Finalmente, dopo settimane e settimane di ininterrotto cammino, mi avvicinai alla patria. Col cuore in tumulto, vidi sorgere dinnanzi a me le torri del convento delle monache cistercensi. Giunsi al villaggio; nella piazza antestante la chiesa udii venir di lontano un coro di voci virili. - Poi apparve una croce, seguita da un corteo di monaci, in doppia fila. - Riconobbi, ahimè, i miei confratelli, con alla testa il venerando priore Leonardo, guidato da un giovane frate che non conoscevo. Mi passarono davanti cantando, senza osservarmi, ed entrarono nel portone del convento. Poco dopo sfilarono allo stesso modo i domenicani ed i francescani di B., e quindi, in carrozze ermeticamente chiuse, le suore clarisse provenienti dalla stessa città. Tutto mi diceva che si stava per celebrare una festività straordinaria. La porta della chiesa era spalancata - entrai - vidi gente indaffarata a scopare, a ripulire ogni cosa con cura. Si stavano addobbando l'altar maggiore e gli altari laterali con ghirlande di fiori; un sacrestano parlava molto di certe rose fresche attese per l'indomani mattina; perché di rose doveva venir ornato l'altar maggiore, per espresso ordine della signora badessa. Risoluto a presentarmi senza indugio ai confratelli, mi rafforzai con una intensa preghiera, quindi andai al convento e chiesi del priore Leonardo. La portiera mi condusse in una sala dove Leonardo sedeva in poltrona circondato dai frati. Mi gettai ai suoi piedi singhiozzando, straziato dal rimorso, incapace di pronunziar parola. - Medardo!... - esclamò lui. Un sordo mormorio corse fra le fila dei confratelli: - Medardo!... Frate Medardo è ritornato!... Finalmente!... Mi risollevarono, mi strinsero al petto, in un confuso intrecciarsi di esclamazioni e domande: - Lode al cielo!... Sei salvo!... Scampato alle reti del mondo infido!... Ma racconta... racconta, fratello!... Il priore si alzò e mi fece cenno di seguirlo nella sala usualmente adibita agli incontri con i visitatori esterni. - Medardo, - mi disse quando fummo soli. - Tu hai commesso sacrilegio; hai infranto i voti. Invece di eseguire l'incarico a te affidato, sei vergognosamente fuggito - hai ingannato il convento nel più indegno dei modi. Se volessi attenermi alle severe leggi dell'ordine, potrei farti murare vivo! Giudicatemi, reverendo padre, - risposi, - condannatemi secondo la legge. Ah!... Con gioia getterò il fardello d'una misera vita di tormenti... Lo sentivo che la durissima penitenza cui mi sono sottoposto non mi avrebbe recato alcun conforto, quaggiù!... - Fatti animo, - disse Leonardo. - Ha parlato il priore. Ora può parlarti l'amico, il padre. Tu sei scampato miracolosamente alla morte, a Roma... Soltanto Cirillo è caduto vittima di... - Dunque, voi sapete?... domandai stupefatto. - Tutto, - rispose il priore. - So che assistesti il poveretto nell'estrema agonia; so che tentarono di assassinarti offrendoti per rinfresco un bicchiere di vino avvelenato. Benché sorvegliato dagli occhi d'Argo dei monaci, suppongo avrai trovato modo di versare via tutto quel vino - perché, se ne avessi bevuto una sola goccia, in dieci minuti saresti stato spacciato. - Sì: sospettai l'insidia e mi versai il vino nella manica. Guardate qui! esclamai scoprendomi il braccio. - Hai espiato la tua gravissima colpa!... - mormorò sordamente Leonardo, arretrando inorridito alla raccapricciante vista dell'arto mummificato. - Ma Cirillo... ah, povero vecchio!... Dissi che ignoravo la vera causa di quella esecuzione segreta. - Forse avresti subìto la stessa sorte, - riprese Leonardo, - se ti fossi presentato invece di Cirillo come plenipotenziario del nostro convento. Come sai, i diritti da noi avanzati, avrebbero privato il cardinale *** di tutti i redditi illegittimamente percepiti. Fu questo il motivo per cui egli si alleò improvvisamente con un suo acerrimo nemico, il domenicano confessore del papa, ed acquistò in lui un valido avversario da contrapporre a Cirillo. L'astuto monaco non tardò infatti a trovare il mezzo di sbarazzarsi del nostro buon confratello. - Lo condusse egli stesso dal papa, e seppe presentarglielo in modo tale da farglielo apparire una personalità d'eccezione. Così Cirillo entrò nel gruppo dei religiosi più vicini al vicario di Dio, ma ben presto dovette toccare con mano come questi cercasse un po'troppo il proprio regno quaggiù, in questo mondo e nei suoi piaceri, e fosse divenuto un trastullo nelle mani di una banda di ipocriti i quali, con i mezzi più abietti, riuscivano a piegarne lo spirito, naturalmente forte ma sempre combattuto fra cielo ed inferno. Il sant'uomo, com'era prevedibile, ne provò una pena immensa; e si sentì chiamato a scuotere la coscienza del papa, a distoglierne l'animo dai beni di questa terra con discorsi ardenti, ispirati dallo spirito. Il papa, come tutti gli uomini adagiati nelle mollezze, rimase, di fatto, molto scosso dalle parole del santo vecchio. Approfittando del suo stato di turbamento, fu facile al domenicano preparare abilmente il colpo destinato ad abbattersi sul povero Cirillo. Disse al papa che si stava tramando niente meno che una congiura per presentarlo alla Chiesa come indegno di cingere il triregno. Cirillo aveva avuto l'incarico di condurre le cose a tal punto; avrebbe intrapreso una pubblica penitenza, e ciò sarebbe stato il segnale convenuto per far scoppiare la rivolta già serpeggiante fra i cardinali. Non fu difficile al papa credere di scoprire un'intenzione recondita negli appassionati discorsi del nostro fratello. Egli lo prese in odio ma continuò a tollerarlo vicino a sé per qualche tempo ancora, onde evitare di prendere iniziative vistose. Cirillo quando ebbe ancor una volta occasione di parlargli senza testimoni, gli disse chiaro e tondo che colui il quale non sapeva rinunziare incondizionatamente ai piaceri del mondo per condurre un'intemerata vita di santità, non poteva essere un degno vicario di Dio e della Chiesa. - Un simile pontefice era un'onta, un motivo di maledizione, di cui la Chiesa doveva liberarsi. Appena Cirillo fu visto uscire dagli appartamenti papali, qualcuno si accorse che l'acqua ghiacciata destinata al pontefice era stata avvelenata. Che Cirillo fosse innocente non ho bisogno di dirtelo. - Tu hai conosciuto il sant'uomo, e tanto basta. Ma il papa lo credette colpevole; e la conseguenza di tutto ciò fu l'ordine di giustiziarlo segretamente nel convento dei domenicani. - La tua presenza a Roma aveva dato nell'occhio. Il modo in cui tu parlasti al papa, e specialmente il racconto della tua vita, gli aveva fatto supporre d'esser legato a te da una certa affinità spirituale. Egli credeva di potersi porre, insieme a te, su un piano superiore - e distrarsi, e rinfrancarsi mediante disquisizioni colpevoli sulla virtù, la religione e via dicendo, in modo - oserei dire - di poter peccare con legittimo entusiasmo per il peccato. I tuoi esercizi di penitenza li aveva creduti un astuto, un ipocrita espediente per salire in alto. Ti ammirava - si beava ai tuoi brillanti discorsi laudativi. Così, prima ancora che il domenicano se ne rendesse conto, tu eri salito nei favori del pontefice, diventando più pericoloso, per quella malvagia genia di intriganti, di quanto mai non lo fosse stato Cirillo. Come vedi, Medardo, sono perfettamente informato dei tuoi trascorsi romani. Conosco le tue conversazioni col papa, parola per parola. E in questo non c'è niente di misterioso, se ti dico che il nostro convento ha un amico, molto vicino a sua santità, il quale mi riferisce tutto, per filo e per segno. Perfino quando credevi di essere solo col papa, egli vi era abbastanza vicino per poter afferrare ogni vostra parola. Quando tu iniziasti i severi esercizi di penitenza nel convento dei cappuccini - il cui priore è un mio stretto parente - io credetti sincero il tuo pentimento. E così era, infatti. Ma a Roma ti lasciasti riprendere dal malo spirito dell'orgoglio colpevole, al quale già soggiacesti quando eri con noi. Perché ti sei accusato davanti al papa di un delitto che non avevi commesso?... Sei mai stato, tu, nel castello del barone von F.?... - Ah, reverendo padre! esclamai annichilito dal dolore. Fu quello il luogo dei miei misfatti più orrendi. E la più dura punizione dell'imperscrutabile potenza divina consiste proprio nel fatto ch'io, qui, su questa terra, non possa apparire purificato dalla colpa commessa in un momento di cieca follia. Anche per voi, reverendo padre, io sono dunque un ipocrita peccatore?... - Effettivamente, - rispose il priore, - adesso che ti vedo e ti parlo, sono quasi convinto che, compiuta la penitenza, tu non saresti più stato capace di mentire. Però, per me, c'è ancora un punto misterioso, inspiegabile. Poco dopo la fuga dalla residenza - (il cielo non permise il sacrilegio che stavi per commettere, e volle salvare la buona Aurelia) - poco dopo la fuga, dunque, e dopo che il monaco scambiato per te perfino da Cirillo si mise in salvo come per miracolo, si seppe che non tu, ma il conte Vittorino travestito da frate era stato nel castello del barone. Alcune lettere ritrovate fra le cose di Eufemia già accennavano a questo fatto - ma si credette che Eufemia stessa fosse stata ingannata, perché Rinaldo aveva dichiarato di averti conosciuto troppo bene per poter ammettere la possibilità d'un errore, malgrado la tua enorme rassomiglianza con Vittorino. L'accecamento di Eufemia rimaneva incomprensibile. A questo punto saltò fuori il palafreniere del conte. - Questi riferì che il suo padrone, dopo esser vissuto per mesi, solo, fra le montagne, gli era comparso davanti all'improvviso travestito da cappuccino, nei pressi del cosiddetto «abisso del diavolo». Dove si fosse procurato la tonaca, il palafreniere non lo sapeva; ma il travestimento non lo aveva stupito, avendogli il conte confidato il proposito di presentarsi al castello del barone travestito da monaco, di portare quell'abito per un anno intero e far altre grandi cose ancora. Poteva tuttavia supporre donde provenisse la tonaca, perché il giorno prima il conte gli aveva detto di aver visto un cappuccino nel villaggio; e se costui si fosse trovato a passare per il bosco, in un modo o nell'altro la tonaca gliel'avrebbe presa. Il palafreniere non poteva asserire d'aver visto il cappuccino; aveva udito un grido; e poco dopo, al villaggio, già si parlava d'un frate assassinato nel bosco. Garantiva però di aver riconosciuto il proprio padrone senza possibilità di equivoco, avendogli parlato a lungo anche dopo la fuga dal castello. Queste dichiarazioni del palafreniere rafforzarono il convincimento di Rinaldo. Soltanto la scomparsa di Vittorino rimaneva incomprensibile. La principessa avanzò l'ipotesi che il sedicente signor von Krczynski da Kwiecziczewo potesse essere stato appunto il conte Vittorino. Tale convinzione poggiava sulla straordinaria, incredibile rassomiglianza del conte con Francesco (della cui colpevolezza nessuno più dubitava), e sull'emozione da lei provata ogni qualvolta lo vedeva. Molti si schierarono dalla sua parte, pretendendo d'aver notato, malgrado tutto, una grande distinzione di tratto in quell'avventuriero. Averlo scambiato per un finto monaco era stato semplicemente ridicolo. La vicenda del monaco mentecatto, vissuto nel bosco e poi accolto ed ospitato dal guardiaboschi, pareva avere, almeno nel racconto di costui, qualche nesso col misfatto di Vittorino, sempreché si accettassero per vere talune circostanze. Un frate del convento di B'aveva esplicitamente riconosciuto Medardo in quel povero folle, quindi doveva esserlo. Spinto nel precipizio da Vittorino, Medardo, per un caso non poi così inverosimile, si era salvato riuscendo, benché gravemente ferito alla testa, a trarsi fuori dal baratro. Ma il dolore della ferita, la fame, la sete lo avevano reso pazzo, frenetico. Così, egli era andato vagando per i monti, sfamato, forse, di quando in quando, e ricoperto di cenci da qualche contadino pietoso, giungendo infine presso la casa del guardiaboschi. In questa versione due punti della vicenda rimanevano tuttavia inspiegabili: come Medardo avesse potuto far tanta strada fra le montagne senza venire fermato, e per quale motivo avesse insistito nell'accusarsi di colpe non commesse, finanche nei momenti di perfetta lucidità, constatati dai medici. Gli assertori di questa ipotesi, per dimostrarne la verisimiglianza, facevano osservare come non si sapesse assolutamente nulla della sorte di Medardo, dal momento in cui era scampato all'abisso del diavolo. La pazzia poteva essere esplosa soltanto quando egli già si trovava a vagare nei pressi dell'abitazione del guardiaboschi, e la spontanea confessione di delitti non commessi poteva dipender dal fatto ch'egli, in realtà, non fosse mai guarito, neppure quando pareva rientrato in senno; e la convinzione d'essere veramente l'autore dei delitti di cui lo si accusava si era trasformata, nella sua mente, in una vera e propria idea fissa. - Il giudice della corte criminale, sulla cui sagacia si faceva molto affidamento, richiesto della propria opinione in proposito rispose: «Il sedicente signor von Krczynski non era polacco né conte - e tanto meno era il conte Vittorino. Ma innocente non lo era di certo. Il monaco non ha mai smesso di essere un pazzo irresponsabile né di comportarsi come tale. Perciò il tribunale sarebbe stato propenso a tenerlo in carcere, quanto meno per misura di sicurezza». - Ma di una condanna del genere il principe non volle saperne; i fatti di sangue avvenuti nel castello del barone lo avevano scosso troppo profondamente - e fu lui, lui soltanto, a commutare nella pena capitale la pena detentiva proposta dai giudici. Ma nella nostra misera, effimera vita umana, qualsiasi cosa, azioni, fatti, per quanto mostruosi possano apparire in un primo momento, scadono ben presto d'attualità e d'interesse. E così, il dramma che aveva sconvolto la residenza, e in particolar modo la corte, si svilì al livello d'un increscioso pettegolezzo. L'ipotesi che lo sposo fuggiasco di Aurelia fosse il conte Vittorino riportò a galla la vicenda dell'italiana. Anche coloro che la ignoravano ne vennero messi al corrente da chi non si credeva ormai più in obbligo di tacere. Chiunque aveva visto Medardo trovava naturale la sua impressionante rassomiglianza col conte Vittorino, essendo entrambi figli di uno stesso padre. Il medico di corte, convinto di questa verità, disse al principe: «Rallegriamoci, vostra grazia, che quei due loschi messeri se ne siano andati. Le prime indagini sono rimaste infruttuose: non indaghiamo oltre!» - Il principe si associò di gran cuore. Troppe volte era stato indotto in errore da quel Medardo bifronte. - «Questa triste vicenda rimarrà sempre un mistero», disse, «e noi non cercheremo più di sollevare il velo pietosamente steso su di essa da un singolare destino. Soltanto Aurelia...» - Aurelia!... - esclamai con impeto. - Per l'amor di Dio, reverendo padre, che cosa n'è stato di Aurelia?... - Medardo, Medardo, - mi ammonì il priore sorridendo indulgente. - La terribile fiamma non si è dunque ancor spenta in te?... Basta così poco per farla di nuovo divampare?... Se tu non ti sei ancora liberato dei sentimenti colpevoli cui hai ceduto, come posso creder sincero il tuo pentimento?... Come posso credere che lo spirito della menzogna ti abbia interamente abbandonato?... Io crederò sincero il tuo pentimento, sappilo Medardo, soltanto quando mi convincerò che tu hai veramente commesso i delitti di cui ti accusi. Perché soltanto in questo caso potrò credere che tu fossi talmente sconvolto da scordare tutti i miei ammaestramenti circa la penitenza interiore ed esteriore, e da ricorrere, per espiare, ad espedienti falsi e meschini, come fa il naufrago aggrappandosi alla prima malsicura assicella. In tal modo dovevi necessariamente apparire un imbroglione vanesio, non soltanto agli occhi di un Papa perverso ma anche a quelli d'ogni buon credente. Ed ora dimmi, Medardo: quando pensavi ad Aurelia, le tue devozioni, i tuoi aneliti a Dio, erano assolutamente immacolati?... Abbassai gli occhi, annichilito. - Sei sincero, Medardo, continuò il priore. - Il tuo silenzio mi dice tutto. L'individuo che, alla residenza, si spacciava per un nobiluomo polacco e voleva sposare Aurelia eri tu. Lo sapevo. N'ero perfettamente convinto. Ti ho seguito abbastanza da presso lungo tutto il tuo cammino. Uno strano tipo, un certo Belcampo, parrucchiere, che incontrasti ultimamente a Roma, mi recò tue notizie. Ero convinto, del pari, che fossi stato tu ad assassinare in quell'esecrabile modo Ermogene ed Eufemia, e tanto più inorridivo al pensiero che tu volessi prendere Aurelia nelle tue diaboliche reti. Avrei potuto rovinarti; ma, ben lontano dal credermi designato al compito di vendicatore, ti lasciai al tuo destino e alla provvidenza di Dio. Riuscisti a salvarti in modo miracoloso, e tanto bastò a convincermi che la tua rovina, qui in terra, non era ancora decisa. Ed ora ascolta quali singolari circostanze mi fecero credere, in seguito, che fosse stato effettivamente Vittorino a presentarsi nel castello del barone von F. travestito da frate. Non molto tempo fa, frate Sebastiano, il portiere, venne svegliato da gemiti fiochi, angosciosi, simili al rantolo di un moribondo. Era già quasi l'alba. - Sebastiano si alzò, aperse il portone e vide un uomo disteso davanti all'ingresso. L'infelice, mezzo intirizzito dal freddo, balbettò a stento di essere Medardo, il monaco fuggito dal nostro convento. Sebastiano corse da me, spaventato, mi riferì. Scesi con i fratelli, portammo l'uomo svenuto nel refettorio: il suo viso era stravolto fino all'inverosimile, eppure ci parve di riconoscere i tuoi lineamenti. - Se qualche dubbio sussisteva, osservò qualcuno, non poteva dipendere che dal diverso modo di vestire. Medardo lo conoscevamo bene, tutti quanti! L'uomo aveva barba e tonsura ma indossava abiti secolari, laceri, rovinati, benché originariamente eleganti: calze di seta - ancora una fibbia d'oro ad una delle scarpe - panciotto di raso bianco... - Giubba castano scuro, di panno finissimo, - continuai io, biancheria ricamata, un semplice cerchietto d'oro al dito... - Esattamente! - esclamò Leonardo stupito. - Ma tu come sai?... - Ah!... Così vestivo la fatale mattina delle nozze!... Mi risorse dinnanzi il «sosia»! - Non era stato l'incorporeo, l'orrendo demone della follia ad inseguirmi, a balzarmi sulle spalle come una belva smaniosa di dilaniarmi corpo ed anima. No!... Era stato il monaco pazzo a rincorrermi, a prendermi i vestiti, a gettarmi addosso la tonaca quando mi aveva visto a terra privo di sensi!... L'uomo disteso davanti alla porta del convento era lui - la sinistra ripetizione di me stesso!... - Pregai il priore di proseguire il racconto. Ma già intravedevo gli straordinari sviluppi della misteriosa vicenda. - Quell'uomo non tardò a dare indubbi segni di demenza, riprese Leonardo. - Ma benché, come ho detto, ti rassomigliasse in modo impressionante, benché continuasse a gridare: «Io sono Medardo!... Sono il frate fuggito da questo convento!... voglio espiare qui, da voi!...», io mi convinsi ben presto che si trattava d'una fissazione. Lo vestimmo da cappuccino, lo conducemmo in chiesa, lo invitammo ai consueti esercizi di devozione; ma, dal modo in cui si sforzava di praticarli, ci accorgemmo subito che non era mai stato in un convento. Allora mi venne un'idea: «E se costui fosse il frate fuggito dalla residenza?», pensai. «Se fosse Vittorino?...» - La storia data ad intendere al guardiaboschi dal demente era venuta a mia conoscenza. Ma, secondo me, il fatto di aver ritrovato e finito di bere l'elisir del diavolo, la visione in carcere, tutte le circostanze, insomma, relative alla permanenza in convento, potevano essere scaturite dalla sua mente malata, sotto l'inspiegabile suggestione psichica della tua personalità. Era strano, a proposito, che durante le crisi peggiori, il pazzo gridasse sempre di essere conte - signore - sovrano! Decisi di trasferirlo nel manicomio di San Fedele. Se esisteva una sola possibilità di guarigione, il direttore di quell'istituto, un medico geniale, profondo conoscitore di tutte le anomalie dell'organismo umano, lo avrebbe probabilmente guarito, permettendomi di scoprire, almeno in parte, con l'aiuto di quell'infelice rientrato in senno, le misteriose trame ordite dalle potenze ignote. Ma ciò non avvenne. La terza notte fui svegliato dalla campanella che, come sai, viene suonata quando qualcuno nella camera degli ammalati ha bisogno di me. Andai a vedere. Lo sconosciuto, mi dissero, aveva chiesto insistentemente di parlarmi. Non sembrava più pazzo probabilmente voleva confessarsi perché era talmente stremato da far temere che non avrebbe passato la notte. - «Perdonatemi», mi disse, dopo che io gli ebbi rivolto alcune parole di religioso conforto. «Perdonatemi, reverendo, se ho avuto l'ardire di ingannarvi. Io non sono frate Medardo. In me voi vedete il conte Vittorino - anzi, dovrei dire il «principe» perché discendo da stirpe principesca - e vi consiglio di tenerlo presente per non incorrere nella mia collera». Principe o conte, risposi, la cosa, in quelle circostanze, in quel luogo, non aveva importanza alcuna. Mi sembrava meglio che scordasse le vanità di questo mondo per rimettersi, in piena umiltà, ai voleri della provvidenza. L'uomo mi guardò fisso. Le forze parvero venirgli meno. Gli vennero date alcune gocce cordiali e tosto si riprese. «Credo di star per morire», disse. «E prima vorrei togliermi un peso dal cuore. Voi siete più forte di me. Cercate di non darmelo a vedere, ma io l'ho capito: siete sant'Antonio - e sapete benissimo quali disastri abbiano causato i vostri elisir. Quando mi decisi a travestirmi da frate, con una gran barba e un saio di panno marrone, avevo grandi cose in mente. Ma mentre meditavo i miei piani fu come se i pensieri più reconditi uscissero da me, per trasformarsi in un'orrenda, sinistra creatura corporea. - E l'essere orrendo ero io. Quel secondo io aveva una forza rabbiosa; e quando, fra le nere rupi sul fondo dell'abisso, la principessa candida come la neve emerse dalle acque spumeggianti, il mostro mi scaraventò giù. La principessa mi raccolse fra le braccia, lavò le ferite, mi fece passare ogni dolore. Purtroppo, si sa, ero un monaco; ma il secondo io, nato dal mio pensiero, era più forte di me, e mi costrinse ad uccidere la principessa che mi aveva salvato ed amavo, insieme a suo fratello. Mi gettarono in carcere. Ma voi, sant'Antonio, ben sapete come mi salvaste, portandomi via in volo, dopo avermi ubriacato col vostro maledetto liquore. Il verde re Silvano mi accolse malamente, pur riconoscendo la mia dignità di principe. L'io dei miei pensieri si rese visibile anche a lui, mi rinfacciò ogni sorta di brutte cose, pretendendo di rimanere sempre con me perché avevamo agito in combutta. E con me rimase. Poi, mentre fuggivamo perché ci volevano tagliare la testa, diventammo nemici. Quella ridicola copia di me stesso pretendeva di nutrirsi in eterno dei miei pensieri, perciò io lo scaraventai a terra, gliele diedi di santa ragione, gli presi gli abiti». Fin qui il discorso dello sventurato era, bene o male, comprensibile, ma poi si perse nel vaniloquio sconclusionato della demenza. Un'ora dopo, quando suonò la campanella della prima messa, l'uomo, lanciando un urlo terrificante, balzò a sedere e ricadde indietro come morto. Lo feci trasportare nella camera mortuaria, per poi seppellirlo in terra consacrata, nel nostro giardino. Ma quando ritornammo per metterlo nella bara e portarlo via, il cadavere era scomparso. Puoi immaginare se rimanemmo stupefatti e sgomenti! Tutte le ricerche furono vane. Così rinunziai per sempre ad apprendere qualcosa di più preciso, di più illuminante, circa i misteriosi rapporti che ti coinvolgevano nelle vicende del conte Vittorino. - Tuttavia, se associavo tutte le circostanze a me note circa la tragedia avvenuta nel castello ai discorsi confusi del povero folle, quasi non avevo più dubbi che il morto fosse il conte Vittorino. Dagli accenni del palafreniere, il conte, dopo aver ucciso un cappuccino lassù fra le montagne, gli aveva preso la tonaca per mettere in atto i propri piani, in casa del barone. Poi, andando forse oltre le intenzioni, aveva concluso l'infame commedia con l'assassinio di Eufemia ed Ermogene. Probabilmente era pazzo già fin da allora, come sosteneva Rinaldo, oppure, tormentato dal rimorso, era impazzito durante la fuga. La veste che indossava e l'uccisione del monaco avevano generato in lui la fissazione di essere veramente un cappuccino, scindendo la sua personalità in due elementi diversi, in conflitto. Rimane oscuro soltanto il periodo compreso tra la fuga dal castello e l'arrivo alla casa del guardiaboschi; ed è pure inspiegabile in qual modo prendesse forma nella sua mente il racconto relativo al periodo trascorso in convento e alla fuga dal carcere. L'apporto di taluni elementi esterni è indubbio. Ma è straordinario che quel racconto ripetesse, sia pure incompleta e deformata, la tua stessa storia. La data dell'arrivo del frate all'abitazione del guardiaboschi, stando alle dichiarazioni di costui, non coincide col giorno della fuga di Vittorino dal castello, indicato da Rinaldo. A detta del guardiaboschi, Vittorino, già pazzo, si sarebbe fatto vedere nel bosco subito dopo il suo arrivo al castello del barone. Secondo Rinaldo, invece... - Tacete! - lo interruppi io. Basta, reverendo padre. Ormai devo deporre ogni speranza di ottenere la grazia del Signore e l'eterna salvezza nonostante il peso dei miei peccati. Ch'io possa morire disperato, maledicendo me stesso e la mia vita, se non vi rivelerò pentendomi, come già feci in confessione, tutto ciò che accadde dal giorno in cui lasciai il convento! E raccontai. La completa, circostanziata storia della mia vita lasciò il priore stupefatto. - Devo crederti, - mi disse infine. - Devo crederti, frate Medardo. Mentre parlavi ti ho letto in viso i segni di un pentimento profondo e sincero. Ma chi può penetrare il mistero dell'affinità spirituale esistente fra due fratelli, nati da uno stesso padre colpevole, e uniti finanche nel delitto?... Vittorino, dunque, scampò miracolosamente dal precipizio in cui tu lo gettasti - lui era il monaco folle raccolto dal guardiaboschi - lui il tuo persecutore - il tuo sosia, che venne poi a morire qui in convento. Tutto questo è certo. Ma egli era soltanto uno strumento delle forze del male penetrate in te - non tuo compagno - un essere inferiore posto sul tuo cammino per precluderti la vista della meta luminosa che forse ti avrebbe arriso. Ah, frate Medardo! Il diavolo circola ancora pel mondo e senza posa va offrendo i propri elisir agli uomini! Chi può dire di non aver assaggiato - e gustato almeno una delle sue infernali bevande?... Ma il cielo vuole che l'uomo si renda cosciente dei rovinosi effetti di un traviamento anche passeggero, e dalla consapevolezza tragga la forza di resistere alla tentazione. Come la vita naturale è condizionata dal veleno, così il Bene vuol'essere condizionato dal Male: in questo mistero si manifesta la potenza del Signore. Posso parlarti così, Medardo, perché so che tu non mi fraintenderai. Ora và a raggiungere i confratelli. La nostalgia del mio supremo amore mi afferrò tutt'a un tratto, mordendomi i nervi, le vene, come uno spasmo dilaniante. - Aurelia... Oh, Aurelia! esclamai. Il priore si alzò e mi disse in tono grave e severo: - Non hai notato i preparativi d'una funzione solenne, in convento?... Domani Aurelia prenderà il velo. Assumerà il nome di Rosalia -. Rimasi muto, di sasso. - Và dai confratelli! - esclamò il priore quasi con sdegno. Senza rendermi chiaro conto di quanto facevo, scesi nel refettorio dov'erano radunati i monaci. Di nuovo fui tempestato di domande, ma circa la mia vita non riuscii a dire neppure una parola. Tutte le immagini del passato si erano ottenebrate in me: soltanto la figura di Aurelia emergeva sfolgorante, radiosa. Col pretesto di dover compiere un esercizio di devozione lasciai i confratelli e andai nella cappella situata in fondo all'ampio giardino del convento. Avrei voluto pregare, ma il benché minimo rumore, perfino il lieve fruscio del fogliame, là fuori, mi distraeva e impediva di concentrarmi in contemplazione. «È lei!...» gridava una voce dentro di me. «Sta venendo... la rivedrò!...», e il cuore mi balzava in petto per la delizia e l'angoscia. Mi parve, ad un tratto, di udire una conversazione sommessa. Balzai in piedi, uscii dalla cappella ed ecco, a pochi passi da me, due suore con nel mezzo una novizia. Ah!... Era certamente Aurelia. Un tremito nervoso mi mozzò il respiro. Feci per avanzare ma non potei muovere un passo - e crollai a terra. Che giornata!... Che notte!... Aurelia - sempre e soltanto Aurelia - nessun'altra immagine, nessun altro pensiero trovava posto in me... Alle prime luci dell'alba le campane del convento suonarono a festa per la vestizione di Aurelia, e poco dopo i frati si riunirono in una grande sala. Accompagnata da due suore, la madre badessa entrò. Quale impressione indescrivibile provai nel rivederla!... Nel rivedere colei che aveva tanto amato mio padre, per poi riversare - malgrado egli avesse brutalmente troncato con azioni delittuose il legame da cui avrebbe potuto trarre tanta fortuna, tanto bene - per poi riversare, malgrado tutto questo, sul figlio di lui l'affetto che aveva distrutto la propria felicità. Avrebbe voluto educare alla pietà, alla virtù quel figliolo; ma anch'egli, come il padre, accumulando delitti su delitti, aveva distrutto nella buona madre adottiva ogni speranza di trar conforto dalle virtù del figlio alla perdizione del padre. A capo chino, lo sguardo a terra, ascoltai il breve discorso con cui la badessa annunziò una volta ancora ai religiosi colà adunati l'ingresso di Aurelia in convento, esortandoli a pregare con fervore affinché il Nemico non avesse il potere di turbar l'animo e i sensi della pia vergine. - Questa innocente fanciulla, disse la badessa, - dovette superare dure, durissime prove. Il Nemico tentò di indurla al male e l'inferno usò tutte le possibili malizie per confonderla, di modo che ella peccasse senza sospettare di far il male, e poi, come destandosi da un sogno, precipitasse nell'onta e nella perdizione. Ma l'Onnipotente protesse l'angelica creatura; e se oggi ancora il Nemico tentasse di avvicinarla per trarla a rovina, la Sua vittoria su di lui riuscirebbe ancor più gloriosa. Pregate dunque, pregate fratelli - non già affinché la sposa di Cristo non vacilli, ché saldo è il suo spirito e volto ormai tutto alle cose del cielo - ma affinché nessuna sciagura contingente abbia a interrompere il sacro rito. Un timore di cui non so liberarmi si è impossessato dell'animo mio!... Era evidente: la badessa vedeva in me, e in me soltanto, il demone della tentazione - metteva in rapporto la mia venuta con la vestizione di Aurelia, attribuendomi chissà quali propositi insani. Conscio di essermi sinceramente pentito, di aver espiato, convinto del profondo mutamento avvenuto in me, mi ribellai. La badessa non mi degnava d'uno sguardo. Offeso, indignato, sentii ridestarsi in me quello stesso odio amaro, sprezzante, provato nel vedere la principessa, alla corte del principe. E se prima mi sarei gettato nella polvere, ai suoi piedi, dopo aver udito quelle parole fui tentato di affrontarla senza alcun ritegno e dirle coraggiosamente: «Fosti tu, dunque sempre una donna così sovrumana da ignorare le tentazioni del mondo?... Quando vedevi mio padre ti comportavi sempre in modo da non dar adito neppure a un pensiero colpevole?... E quando già portavi mitria e pastorale, dimmi, il ricordo di mio padre, nei momenti di abbandono, non suscitava ancora in te qualche nostalgia di piaceri proibiti?... Che cosa provasti, donna orgogliosa, quando stringesti al cuore il figlio del tuo amore perduto invocandone così dolorosamente il nome, benché egli fosse un peccatore perverso? Non dovesti mai lottare contro le forze del male, così come feci io?... E puoi davvero rallegrarti d'una vittoria, e crederla autentica, se non fu preceduta da durissime lotte?... Ti senti tanto forte da disprezzare colui che soggiacque al potente Nemico ma per poi risollevarsi nel pentimento, nell'espiazione?...» Quell'improvviso mutamento avvenuto nel corso dei miei pensieri, la trasformazione del penitente nell'uomo fiero della propria vittoria e deciso a rientrar nella vita riconquistata, dovette apparire evidente anche agli osservatori ignari; infatti, il frate in piedi accanto a me mi domandò: Che cos'hai, Medardo?... Perché lanci occhiate così strane e sdegnate a quella santa donna?... - Sì, - risposi a mezza voce. Può ben essere una santa donna, perché si è sempre tenuta tanto in alto da non lasciarsi mai neppure raggiungere dalle cose profane. Ma, piuttosto che una suora cristiana, mi da l'impressione di essere una sacerdotessa pagana già pronta, col coltello in pugno, a celebrare sacrifici umani -. Come potessi dire parole così esorbitanti dal mio ordine d'idee, non so. Ma esse si trascinarono dietro un confuso turbinio di immagini, rese coerenti da un'unica nota comune: il terrore. Aurelia doveva dunque lasciare il mondo per sempre doveva, come già avevo fatto io, pronunziando voti che ora mi sembravano un mostruoso paradosso di follia religiosa - rinunziare a tutte le gioie della vita?... E come già allora, quando, venduto a Satana, vaneggiavo di raggiungere nella colpa, nel peccato il supremo punto di luce, il vertice radioso della vita umana, di nuovo pensai che Aurelia ed io dovessimo godere almeno per un attimo della suprema gioia d'amore e poi morire insieme, consacrati agli inferi. Sì. Come un orrendo mostro, come Satana stesso, risorse in me il pensiero del delitto!... Ah, stolto, cieco!... Mentre ascoltavo le parole della badessa come se fossero rivolte a me, non mi avvedevo di star attraversando la più dura, forse, di tutte le prove, non mi avvedevo di essere ricaduto sotto il dominio di Satana e da lui tentato all'azione più spaventevole fra quante mai ne avessi commesse. Il frate mi guardò allibito: Gesù... Vergine santissima... che state dicendo?... - esclamò. Io guardai la badessa, ormai sul punto di lasciare la sala. Il suo sguardo cadde su di me; essa rimase per un istante a fissarmi, pallidissima. - La vidi vacillare - le suore dovettero sorreggerla. Mi parve di udirla mormorare: - Santi del paradiso!... Il mio presentimento! - Poco dopo il priore Leonardo fu mandato a chiamare da lei, e quando rientrò le campane del convento avevano ripreso a suonare, confondendosi con la voce tonante dell'organo e i canti sacri delle suore adunate nel coro. I religiosi dei vari ordini si avviarono in solenne corteo verso la chiesa, affollata quasi come nel giorno di San Bernardo. A lato dell'altar maggiore, addobbato di rose, erano disposti gli alti seggi riservati al clero e, dirimpetto, la tribuna della cappella episcopale. Celebrava il vescovo in persona. Leonardo mi chiamò al suo fianco. Mi accorsi che mi sorvegliava inquieto, tenendo d'occhio ogni mio movimento. Mi invitò a pregare senza alzar gli occhi dal breviario. Le monache clarisse si radunarono in uno spazio accanto all'altar maggiore, dietro una bassa parete graticolata. Giunse il momento decisivo. Dall'interno del convento, passando attraverso un cancello aperto dietro l'altare, le suore cistercensi introdussero Aurelia. Al suo apparire un mormorio corse tra la folla - l'organo tacque: rimasero soltanto gli accordi puri, commoventissimi, del semplice inno cantato dalle suore. Io non avevo ancora alzato gli occhi; ma a questo punto un'ansia indicibile mi invase. Scosso da un sussulto spasmodico, lasciai cadere il breviario. Mi chinai per raccoglierlo ma un'improvvisa vertigine mi avrebbe fatto cadere a testa avanti da tutta l'altezza del seggio, se Leonardo non fosse stato pronto a sorreggermi. - Che hai, Medardo? - mi domandò sottovoce. - Sei molto agitato. Il Nemico ti incalza: resisti!... Facendo appello a tutte le mie forze mi dominai - alzai gli occhi vidi Aurelia in ginocchio davanti all'altare... O, Dio del cielo!... Era radiosa di bellezza, di grazia, come non l'avevo vista mai!... Sembrava una sposa... Ah!... Vestiva proprio come nel giorno fatale in cui avrebbe dovuto essere mia!... Rose e mirti intrecciati nell'artistica pettinatura, le guance accese per la mistica commozione del momento solenne, lo sguardo estatico rivolto al cielo. L'emozione provata vedendola per la prima volta, rivedendola alla corte del principe, non era stata nulla in confronto a quanto provai nel rivederla così!... L'amore, la passione, la bramosia più selvaggia divamparono in me con inaudita violenza. O Dio!... O voi, santi del paradiso!... Fate che non impazzisca... soltanto che non impazzisca!... Salvatemi, salvatemi da questa pena infernale!... Ch'io soltanto non impazzisca, altrimenti sarò costretto a commettere l'azione orrenda e ad abbandonare l'anima mia alla dannazione eterna! Così pregavo in cuor mio, sentendomi sopraffare dallo spirito del male. Io solo ero colpevole, eppure vedevo in Aurelia la mia complice, sul punto di pronunziare davanti all'altare del Signore non già i sacri voti, ma il solenne giuramento di essere mia. - Non la sposa di Cristo vedevo in lei, ma la empia donna del frate rinnegato... Abbracciarla con passione selvaggia, e poi darle la morte!... Ossessionato da questo pensiero, trascinato sempre più irresistibilmente dallo spirito del male, avrei voluto gridare: «Fermatevi, pazzi!... Non vedete?... Volete elevare alla dignità di sposa del Signore non una vergine pura d'ogni passione umana, ma la donna del frate!...» avrei voluto slanciarmi fra le suore, strappar loro dalle mani Aurelia... Già frugavo nella tonaca cercando il coltello ma, nel frattempo, la cerimonia era giunta al punto culminante: Aurelia aveva cominciato a pronunziare le parole del voto. Quando udii la sua voce fu come se un tenero chiarore lunare filtrasse attraverso un cielo nero di nubi tempestose. La luce si fece in me - riconobbi lo spirito del male e ad esso disperatamente mi opposi. Ogni parola di Aurelia mi dava nuova forza; e dall'estenuante lotta ben presto uscii vincitore: ogni tenebroso pensiero sacrilego, ogni brama colpevole svanì. Quei voti erano la mia consolazione, la mia speranza. Un empito di divina letizia mi illuminò. Leonardo (di cui soltanto allora tornai ad avvertire la presenza) parve accorgersi del mutamento avvenuto in me, perché mi disse: Hai resistito al nemico, figliolo. Questa è stata l'ultima durissima prova cui ha voluto sottoporti l'Onnipotente. Pronunziati che furono i voti, mentre le clarisse intonavano un canto responsoriale, le suore si accinsero alla vestizione di Aurelia. Già le avevano sciolto dal capo le ghirlande di rose e mirto e stavano per reciderle le lunghe chiome fluenti, inanellate, quando in fondo alla chiesa si scatenò un trambusto. Vidi la folla ondeggiare, come sotto la spinta di qualcuno, gente cadere a terra. Il tumulto ingrossò, avvicinandosi e un uomo con un saio di cappuccino a brandelli sul corpo seminudo, un bruto forsennato dagli occhi belluini iniettati di sangue, si fece largo rovesciando a pugni chiunque gli si parasse dinnanzi... Ah!... Era il mio sosia, l'orrida ripetizione di me stesso!... Intuii la tragedia e feci per slanciarmi verso di lui - ma il mostro demente già aveva scavalcato d'un balzo la balaustra dell'altar maggiore e, mentre le monache si sparpagliavano urlando e la badessa stringeva Aurelia fra le braccia, s'era messo a sbraitare con voce stridente brandendo un coltello: - Ah... ah... ah!... Volevate rubarmi la principessa?... Ma la principessa è mia!... È la mia sposina!... - E, sollevata Aurelia con uno strattone, le infisse il coltello nel cuore, fino all'impugnatura. - Alto zampillò il sangue. - Evviva!... Evviva!... - sbraitò il forsennato. - Evviva!... Mi sono preso la mia sposina!... Mi sono preso la principessa!... - E scomparve per la cancellata dietro l'altare, nelle gallerie del convento. Le suore, il popolo, tutti urlarono inorriditi: - Delitto!... Delitto!... Sangue sull'altare del Signore!... - Sbarrate le uscite del convento, che l'assassino non sfugga!... - tuonò Leonardo. La gente si precipitò fuori, e perfino i più validi fra i monaci, dato di piglio alle mazze processionali, si slanciarono all'inseguimento del pazzo. Tutto ciò era avvenuto in un attimo. Io subito mi inginocchiai accanto ad Aurelia, mentre le suore cercavano di fasciare alla meglio la ferita con candidi pannolini e prestavano soccorso alla badessa svenuta. - Sancta Rosalia, ora pro nobis! - invocò una voce robusta a pochi passi da me. - Miracolo!... Miracolo!... È una martire!... - fecero coro tutti i fedeli rimasti in chiesa. - «Sancta Rosalia, ora pro nobis!...» Alzai gli occhi - e mi vidi a fianco il vecchio pittore - grave, benevolo come mi era apparso nel carcere. Ma ormai né il dolore per la morte di Aurelia, né lo sgomento per l'apparizione del pittore potevano più toccarmi, perché nella mia mente andava facendosi luce andavano sciogliendosi i nodi dell'enigma allacciati dalle forze oscure. - Miracolo... Miracolo!... continuava a gridare la folla. Vedete il vecchio col manto violetto?... È sceso dal quadro dell'altar maggiore... Io l'ho visto... Anch'io... Anch'io!... Così esclamando, tutti caddero in ginocchio, e il vociare confuso si estinse in un sordo mormorio di preghiere, intercalato da pianti e singhiozzi. - Aurelia! - esclamò con lo strazio nella voce la badessa appena rinvenne. - Aurelia... bambina mia... Mia buona figliola!... Eterno Iddio - sia fatta la tua volontà! Quando sollevarono Aurelia per deporla sopra una barella imbottita di coperte e cuscini, essa emise un profondo sospiro e aperse gli occhi. In piedi dietro di lei, il pittore le aveva posto una mano sul capo. Il suo aspetto era quello di un santo potente, e tutti, perfino la badessa, lo guardavano stupefatti e compresi di timor reverenziale. Io mi inginocchiai presso la barella. - Lo sguardo di Aurelia cadde su di me - allora - allo spettacolo del doloroso martirio di quella santa, una pena immensa mi invase. Feci per parlare ma non riuscii ad emettere che un singhiozzo strozzato. - Perché piangi?... - mi disse dolcemente Aurelia. - Il cielo si è degnato di togliermi da questo mondo proprio nel momento in cui stavo riconoscendo la vanità di tutte le cose umane - e anelavo soltanto più al regno della gioia e della beatitudine eterna... - Mi alzai, mi feci ancor più vicino: - Aurelia, - dissi. - Santa fanciulla!... Per un attimo soltanto abbassa su di me lo sguardo, dalle supreme regioni in cui ti trovi, o mi perderò nel più atroce e sconvolgente dei dubbi... Aurelia!... Mi sono posto sul tuo cammino come Satana stesso... ho distrutto la tua vita... Sono un peccatore sacrilego e perverso... Mi disprezzi?... Ah!... Ho duramente espiato, ma so, so bene che nessuna penitenza sminuirà mai il peso delle mie colpe... Aurelia!... Sarai in pace con me nella morte?... - Come accarezzata da un'ala d'angelo essa sorrise e chiuse gli occhi. - O, salvatore del mondo, - pregai. - Vergine santissima!... Dovrò dunque rimanere quaggiù sconsolato, disperato?... Salvatemi, salvatemi dalla perdizione infernale!... - Medardo! - bisbigliò Aurelia riaprendo gli occhi ancora una volta. - Tu hai ceduto alle forze del male. Ma non ho forse peccato anch'io quando speravo di trovare la felicità su questa terra in un amore colpevole?... Un misterioso decreto dell'Eterno ci aveva designati entrambi ad espiare le gravissime colpe della nostra stirpe perversa. Ecco perché ci ha uniti quell'amore che regna soltanto sulle stelle e non ha nulla in comune col piacere dei sensi. Ma l'astuto nemico è riuscito a velarci il profondo significato del nostro amore, a tentarci, a confonderci al punto da farcelo intendere in senso umano, mentre esso doveva essere divino. Ah! Non fui io a rivelarti il mio amore nel confessionale?... E invece di accendere in te il pensiero dell'amore eterno ho fatto divampare il fuoco infernale della lussuria - e tu, per non esserne distrutto, hai cercato di estinguerlo nel sacrilegio. Fatti animo, Medardo!... Il povero demente indotto dal demonio a credere di dover compiere l'opera da te iniziata, era uno strumento del cielo - e del cielo ha realizzato i disegni. Coraggio, Medardo. Presto... presto... - Pronunziate queste parole già ad occhi chiusi e con sforzo evidente, Aurelia perse conoscenza. - Si è confessata a voi, reverendo?... Si è confessata?... domandarono le suore curiose. - No, - risposi. - Non lei a me. Io a lei. E mi ha colmato l'anima di celestiale conforto. - Buon per te, Medardo, - mi disse il pittore. - Il tempo delle tue prove sarà presto finito. E me felice, allora! - Non abbandonatemi, dunque, uomo meraviglioso! - gli dissi avvicinandomi; e mentre stavo per parlargli ancora, non so neppure io come, fui colto da uno strano intontimento e caddi in uno stato di dormiveglia. Un forte vociare confuso mi svegliò. Il pittore non c'era più. Contadini, borghesi, soldati avevano fatto irruzione in chiesa e reclamavano a gran voce il permesso di perlustrare il convento per scovar l'assassino di Aurelia. La badessa, temendo giustamente disordini, tentava di rifiutare, di opporsi, ma neppure la sua autorità era sufficiente a calmare gli spiriti esagitati. La gente le rinfacciava di voler nascondere il criminale per un meschino ritegno, unicamente perché si trattava di un monaco. Il tumulto si faceva sempre più minaccioso e violento; la folla sembrava sul punto di voler irrompere di prepotenza nel monastero. Allora Leonardo salì sul pulpito e, dopo alcune energiche parole sulla profanazione dei luoghi consacrati, spiegò come l'assassino non fosse affatto un monaco, ma un pazzo, accolto e curato nel convento. Giorni addietro, poiché pareva fosse morto, egli lo aveva fatto rivestire d'un saio dell'ordine e trasportare nella camera mortuaria donde il pazzo, morto soltanto in apparenza, era fuggito. Ma se si trovava ancora nel convento si erano già prese misure tali da precludergli ogni via di scampo. La folla si calmò; chiese soltanto che Aurelia non venisse trasportata nel chiostro per i corridoi interni, ma attraverso il cortile, in processione solenne. Così fu fatto. Le suore, ancora impaurite, sollevarono la barella ricoperta di rose, così come di rose e mirti era inghirlandata Aurelia. La badessa, sorretta da due consorelle, si avviò subito dietro la barella, sopra la quale quattro monache reggevano il baldacchino; poi si mossero le altre suore con le clarisse, poi i frati dei diversi ordini, e infine il popolo tutto. Il corteo attraversò la chiesa. La suora organista ritornò di sopra, nel coro, così quando il corteo giunse al centro della navata principale, cupi e tremendi rimbombarono dall'alto gli accordi dell'organo. Ma ecco! Aurelia si sollevò lentamente a sedere, le mani giunte levate al cielo. La folla ricadde in ginocchio invocando: «Sancta Rosalia, ora pro nobis!» Così si avverò ciò che io, ottenebrato da Satana, avevo annunziato con sacrilega ipocrisia vedendo Aurelia per la prima volta. Quando, deposta la barella in una sala a pian terreno, suore e frati le si disposero attorno in cerchio, pregando, Aurelia trasse un profondo sospiro e si accasciò fra le braccia della badessa inginocchiata accanto a lei. Era morta. La folla accalcata davanti alle porte del convento non aveva voluto allontanarsi; e, quando le campane annunziarono il trapasso della pia vergine, tutti proruppero in singhiozzi e lamenti. Molti fecero voto di rimanere nel villaggio fino alle esequie di Aurelia, osservando un rigoroso digiuno. La notizia del mostruoso crimine e del martirio sofferto dalla sposa del Signore si diffuse in un baleno, cosicché, quattro giorni dopo, i funerali di Aurelia, più che di una funzione funebre, assunsero il carattere di solenne glorificazione di una santa. Come per la festa di san Bernardo, già fin dalla vigilia, il prato antestante il convento era letteralmente coperto di gente stesa a terra in attesa del mattino; soltanto, invece del gioioso trambusto, si udivano sospiri e mormorio di preghiere. Il racconto dell'orrendo misfatto perpetrato ai piedi dell'altare correva di bocca in bocca; e se per caso qualcuno alzava la voce era per imprecare all'assassino, ancor sempre introvabile. Quei quattro giorni, trascorsi in quasi assoluta solitudine nella cappella in fondo al giardino, ebbero sull'animo mio una ripercussione assai più profonda e salutare che non le lunghe e severe penitenze praticate nel convento dei cappuccini, a Roma. Le ultime parole di Aurelia mi avevano svelato il segreto delle mie colpe, ed ora finalmente capivo: benché armato di virtù e di pietà, mi ero arreso a Satana come un codardo, favorendolo nell'intento di far prosperare il mio ceppo perverso. Minimo era il germe del male annidato in me quando avevo visto la sorella del violinista e commesso il primo peccato di orgoglio - ma il veleno maledetto - l'elisir insinuatomi fra le mani da Satana, mi aveva messo il sangue in fermento. A nulla erano valse le severe ammonizioni del pittore, del priore, della badessa. - L'apparizione di Aurelia nel confessionale doveva fare di me un delinquente perfetto. Sotto l'azione di quel veleno, la tendenza al peccato era esplosa come una vera e propria malattia psichica. Caduto in balìa di Satana, come avrei potuto vedere un simbolo dell'eterno amore nel legame con cui il cielo mi aveva unito ad Aurelia?... - Satana, malizioso e perfido, mi aveva inoltre legato a un essere abietto, costringendomi ad identificarmi con esso e a subirne l'influsso spirituale. Attribuita a me stesso la morte apparente di costui (... forse soltanto un fallace miraggio diabolico...), mi familiarizzai con l'idea del delitto, e a ciò seguì poi l'inganno e tutta l'infernale commedia. Così, il fratello generato nella colpa e quindi assurto a principio malefico, mi spingeva ai più orrendi delitti, mi trascinava alle pene più atroci. Fino a quando Aurelia, realizzando i disegni della divina provvidenza, non aveva pronunziato i voti, io non mi ero purificato dalle mie colpe. Ma la miracolosa pace spirituale, la divina letizia scese su di me come un raggio di luce dall'alto mentre la fanciulla martire pronunziava le sue ultime parole, mi avevano fatto sentire con certezza che in quella morte c'era la promessa della redenzione. Quando il requiem solenne cantato dal coro giunse alle parole: - «Confutatis maledictis flammis acribus addictis» - mi sentii tremare; ma al «Voca me cum benedictis» mi parve di scorgere Aurelia in un nembo di luce paradisiaca. Essa abbassava dapprima lo sguardo su di me e poi sollevava il capo aureolato di stelle sfolgoranti verso l'Altissimo, a pregare per la salvezza dell'anima mia. - «Oro supplex et acclinis cor contritum quasi cinis». A questo punto mi prostrai nella polvere. Ma, quanto poco rassomigliavano quei miei sentimenti, l'umiltà della mia supplice preghiera, alla passionale contrizione, alle crudeli, inumane penitenze praticate nel convento romano! Ora soltanto il mio spirito era capace di discernere il vero dal falso - e tale chiara coscienza rendeva vano ogni nuovo assalto del Nemico. - Non la morte di Aurelia, ma il modo orrendo in cui essa era avvenuta mi aveva tanto scosso in un primo momento. Compresi tuttavia molto presto che era stata la grazia dell'Onnipotente a volere l'orrore supremo - il martirio della sposa di Cristo, già purificata attraverso tante prove. Era perduta per me?... No!... Soltanto ora, sciolta dalle pene di questa terra essa risorgeva luminosa nell'animo mio, come un raggio dell'Eterno Amore. Sì! la morte di Aurelia era la festa sacrale di quell'amore che, come ella stessa diceva, nulla ha in comune con le cose terrene. Tali pensieri mi aiutarono a trascendere ogni individuale egoismo. E così, le giornate trascorse nel convento delle cistercensi furono le più beatificanti della mia vita. La mattina seguente, dopo il trasporto funebre, Leonardo volle ritornare in città con i frati, e mentre già stavano per avviarsi in corteo, la badessa mi mandò a chiamare. La trovai sola nella sua cella, estremamente commossa, con gli occhi pieni di lacrime. - So tutto ora, so tutto, Medardo, figlio mio! - esclamò. - Sì, così voglio di nuovo chiamarti perché hai superato - infelice te! - le tue durissime prove!... Ah, Medardo, lei sola, lei che ora può intercedere per noi presso il trono di Dio, è rimasta pura ed innocente. Non ero anche io sull'orlo del precipizio quando, piena di desideri mondani, volevo vendermi all'assassino?... Medardo, figlio mio: quante lacrime colpevoli piansi, sola nella mia cella, pensando a tuo padre!... Và, ora, figliolo. Temevo di aver fatto di te, con la mia colpa, il più perverso dei peccatori - ma questo dubbio è svanito, ormai. Leonardo aveva certamente rivelato alla badessa quanto essa ancora ignorava della mia vita; e con il suo atteggiamento mi lasciò intendere d'avermi perdonato anche lui, affidandomi al giudizio dell'Altissimo. L'antica regola del convento era rimasta immutata - ed io rientrai tra le fila dei confratelli come prima. Un giorno Leonardo mi disse: Una penitenza ancora vorrei importi, frate Medardo -. Umilmente domandai di che si trattasse. - Dovresti scrivere fedelmente la storia della tua vita, - rispose, - ma senza tralasciare nulla, neppure i fatti più insignificanti; e, soprattutto, nulla di quanto ti accadde durante la turbinosa parentesi mondana. La fantasia ti ricondurrà realmente nel mondo - ti farà rivivere le ore di gioia, di terrore, gli episodi terrificanti, le scene grottesche... Chissà... forse rivedrai Aurelia, e non sotto l'aspetto della martire suor Rosalia... Ma se lo spirito del male ti ha davvero lasciato, se ti sei veramente distaccato dalle cose di questo mondo, saprai tenerti al disopra d'ogni passione e l'impressione non lascerà traccia alcuna. Feci come mi aveva detto il priore. Ahimè!... Come si avverarono le sue predizioni!... Dolore e gioia - terrore e piacere raccapriccio e delizia infuriarono in me mentre scrivevo la storia della mia vita. Tu, che un giorno leggerai questi fogli! Quando la figura di Aurelia si profilò nella mia vita io ti parlai del supremo momento solare dell'amore!... Ma esiste qualcosa di più alto dell'umano piacere, fonte quasi sempre di rovina per l'uomo stolto e sconsiderato. Il supremo momento solare è quello in cui l'amata viene a te come un raggio di luce divina, per accenderti nell'animo - sgombro d'ogni pensiero o desiderio colpevole - i sentimenti più alti, le aspirazioni più sublimi - i doni profusi come una benedizione dal regno dell'Amore sulla povera umanità. Questo pensiero mi dava conforto quando il ricordo delle ore meravigliose vissute nel mondo mi strappava lacrime cocenti e faceva di nuovo sanguinare le ferite da tempo rimarginate. So che nell'ora della morte sarà forse concessa ancora una volta al Nemico la potestà di tormentare il monaco peccatore. Ciò nonostante attendo senza timore, anzi, con ansiosa impazienza il momento del distacco da questa terra perché soltanto allora si compirà tutto ciò che Aurelia - ahimè, no! che santa Rosalia stessa mi promise morendo. Prega, prega per me, vergine santa, nell'ora della tenebra, affinché le forze dell'inferno cui tante volte soggiacqui non mi sopraffacciano e traggano nella palude dell'eterna dannazione! appendice aggiunta dal padre cappuccino spiridione, biblioteca -rio del convento di B.. Nella notte fra il tre e il quattro settembre dell'anno 17** molti fatti straordinari accaddero nel nostro convento. Poteva essere all'incirca mezzanotte quando, nella cella di frate Medardo, attigua alla mia, udii come se qualcuno ridesse, sghignazzasse in modo strano, sullo sfondo di un gemito ansimante, soffocato. Mi parve inoltre di udire molto chiaramente queste parole, pronunziate da una brutta e sgradevole voce: - Vieni con me, fratellino Medardo, andiamo a cercare la sposa -. Mi alzai per andare a vedere ma, colto da un terrore indicibile, mi misi a tremare come se avessi la febbre. Invece che nella cella di Medardo corsi dal priore, lo svegliai non senza fatica e gli riferii ciò che avevo udito. Il priore Leonardo, molto impressionato, balzò in piedi e mi ordinò di andare a prendere i ceri benedetti e poi di accompagnarlo da frate Medardo. Ubbidii, accesi i ceri alla lampada della Madonna e salii insieme al priore. Restammo a lungo in ascolto, ma la orribile voce non si fece più sentire; udimmo invece come un dolcissimo scampanio lontano, mentre si diffondeva un tenue profumo di rose. Ci avvicinammo. La porta della cella si aperse e ne uscì un personaggio fantastico: un uomo altissimo, con la barba bianca increspata, avvolto in un manto violetto. Tutte le porte erano ben chiuse - nessun estraneo poteva entrare - doveva dunque trattarsi di un fantasma, pensai terrorizzato. Leonardo, invece, lo guardò senza batter ciglio né dire una parola. - L'ora del compimento non è lontana, - disse lo sconosciuto in tono grave e solenne. E sparì nell'andito buio. Per poco non lasciai cadere la candela, tanto tremavo. Ma il priore, forte e armato di fede a sufficienza per non far troppo conto dei fantasmi, mi prese per un braccio: - Entriamo nella cella di frate Medardo, - disse. Entrammo. Medardo, già molto indebolito da parecchio tempo, era in punto di morte; aveva già la lingua paralizzata e rantolava debolmente. Leonardo rimase con lui ed io andai a svegliare i confratelli, scampanellando forte e chiamando ad alta voce: - Alzatevi, alzatevi! Frate Medardo sta morendo! Tutti, dal primo all'ultimo, si alzarono, e tutti insieme, con i ceri accesi, ci recammo dall'agonizzante. Commossi e turbati (... io avevo ormai superato lo spavento...) portammo Medardo in chiesa, sopra una barella, e lo deponemmo davanti all'altar maggiore. Allora, con nostra grande meraviglia, egli riprese conoscenza e si mise a parlare. Leonardo stesso, dopo averlo confessato ed assolto, gli impartì l'estrema unzione; poi rimase a parlare con lui mentre noi frati salivamo nel coro a cantare gli inni di rito per la salvezza del confratello moribondo. Il giorno dopo, e cioè il cinque settembre dell'anno 17**, mentre la campana suonava le cinque pomeridiane, frate Medardo spirò fra le braccia del priore. Strana coincidenza: esattamente un anno prima, lo stesso giorno, alla stessa ora, suor Rosalia era stata barbaramente uccisa subito dopo aver pronunziato i voti. Durante le funzioni funebri avvenne ancora quanto segue: mentre cantavano il requiem si diffuse nell'aria un forte profumo di rose: proveniva da un mazzo di rose fresche (rare, di quella stagione!...) fissato all'immagine di santa Rosalia, il bellissimo quadro dipinto da un vecchio pittore italiano sconosciuto e da noi acquistato, per una notevole somma di denaro, a un convento di cappuccini sito nelle vicinanze di Roma. Detto convento, vendendo a noi l'originale, si era trattenuto una copia del dipinto. Il frate guardiano riferì che la mattina di buon'ora un mendicante cencioso, dall'aspetto miserabile, era entrato di soppiatto a porre il mazzo di rose accanto al quadro. Lo stesso mendicante ricomparve durante il trasporto funebre e cercò di intrufolarsi tra i frati. Volevamo scacciarlo ma il priore Leonardo, dopo averlo fissato attentamente, ci ordinò di lasciarlo rimanere con noi: e lo accolse nel convento come frate laico. Si chiamava, al secolo, Peter Schönfeld, e noi lo chiamammo frate Pietro. Gli concedemmo quel nome importante perché era un uomo estremamente buono e mansueto; parlava poco e di tanto in tanto scoppiava a ridere in modo così comico e innocente che ci divertiva moltissimo. Il priore Leonardo una volta ci disse che la luce intellettuale di Pietro si era spenta nelle nebbie della follia; la sua innata ironia era degenerata nella demenza. Noi non comprendemmo bene che cosa egli intendesse esattamente dire con questo; ma confidammo nella sua grande saggezza. Una cosa capimmo di certo: che frate Pietro doveva essere una vecchia conoscenza del priore. Così, ai fogli contenenti - credo - la vita di frate Medardo, io, pur senza averli letti, ho faticosamente aggiunto, «ad majorem Dei gloriam», la descrizione della sua morte. Pace e riposo al defunto frate Medardo. Possa il Signore del cielo concedergli di risorgere nella gioia e accoglierlo nel coro dei santi, poiché esemplare fu la sua morte. Fine NOTE: (1)Camera obscura: apparecchio inventato nel secolo Xvi da Erasmus Reinhold da Wittemberg, o da Leonardo da Vinci, per proiettare pallide immagini rovesciate in un ambiente scuro. (2) Convento del Sacro Tiglio, celebre meta di pellegrinaggi nella regione di Rastenburg (Prussia orientale). (3)Toupet: parrucca di moda intorno al 1780, con codino e capelli rialzati sulla fronte. «Alla Tito»: pettinatura venuta di moda alla fine del secolo Xviii: capelli corti a riccioli fitti. (4) Peter Schönfeld, Jakob Stich, traduzione letterale dei due nomi italiani: Pietro Belcampo e Giacomo Punto. (5) Giacomo Punto (Johan Wenzel Stich, 1750-1803) detto: Giovanni Punto. Celebre cornista. Beethoven compose per lui una sonata per corno. (6) ...Infilati in bocca per tendere la pelle della guancia [N.d.T.]. (7) Trovatore provenzale (1140-1215). (8) Gioco di parole intraducibile. «Das ist mir ganz Pomade» significa «non me ne importa nulla, me ne infischio» [N.d.T.]. (9) Chi conclude un patto col diavolo ottiene, secondo la credenza popolare, proiettili infallibili che non mancano mai il bersaglio. (Vedi l'opera Der Freischütz di Carl Maria von Weber). (10) Assurdità, controsenso, incongruenza, sproposito, sortita priva di nesso logico e quindi comica [N.d.T.]. (11) Cfr. Shakespeare, Enrico Iv, parte Ii, atto I, scena II. (12) Danza inglese, celtica, di marinai e contadini, che viene accompagnata dalla cornamusa. (13) Porter: birra nera, forte. (14) Bisticcio intraducibile sul nome Green (in inglese: verde), il suo significato letterale e le sue assonanze con certi vocaboli tedeschi: «Grün solì s dir werden vor den Augen, ja (Grein) en sollst du (Gram) erfüllt, wenn du nicht ablässt von schmachvoller Tat!» [N.d.T.]. (15) Allusione ai molti e svariati «teneri padri» delle commedie di Kotzebue e Iffland. (16) Shakespeare, Sogno d'una notte di mezza estate, atto V, scena I. (17) Nel testo si ha Fürst, Fürstin, per principe e principessa regnanti; Prinz, Prinzessin per gli altri membri della famiglia. Non esistendo in italiano un esatto equivalente di Fürst, e dovendosi entrambi i termini (Fürst, Prinz) tradurre indistintamente col vocabolo «principe», allo scopo di facilitare la comprensione dell'intricatissima vicenda ho creduto opportuno designare col titolo di marchese il principe cadetto (fratello del Fürst) [N.d.T.]. (18) In italiano nel testo. (19) Ambrosio, or the Monk (1795), romanzo di Mattew Gregory Lewis (17751818) [trad.it.Einaudi, Torino 1970]. (20) Caracalla: intendi pettinatura alla. (21) Jean George Noverre (1727-1810), ballerino e maestro di balletti, francese; Vestris, danzatore italiano all'opera di Parigi. (22) Nel testo «zu Stuhle gehen». Significa ordinariamente «andare al gabinetto», «andar di corpo»; e così avremmo tradotto senza esitazioni se una nota all'edizione tedesca non avesse corretto «zur Beichtstuhl», cioè al confessionale, a confessarsi. Benché un po'dubbio, ci siamo perciò attenuti a questa interpretazione [N.d.T.]. (23) In italiano nel testo. (24) Nel testo Hoffmann scrive erroneamente «Albert, Fürst von W.». In quanto al titolo di marchese, cfr. vol.III, p. 79, nota n. 8 [N.d.T.].
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