la-qualita-sociale-delle-forme... - Hal-SHS

”Forme organizzative del terzo settore e qualit`
a sociale
Ota De Leonardis, Tommaso Vitale
To cite this version:
Ota De Leonardis, Tommaso Vitale. ”Forme organizzative del terzo settore e qualit`a sociale.
Lagrave, Rose-Marie. Le organizzazioni nel nuovo Welfare: l’approccio sociologico, Maggioli,
pp.113-130, 2001. <hal-01027599>
HAL Id: hal-01027599
https://hal-sciencespo.archives-ouvertes.fr/hal-01027599
Submitted on 22 Jul 2014
HAL is a multi-disciplinary open access
archive for the deposit and dissemination of scientific research documents, whether they are published or not. The documents may come from
teaching and research institutions in France or
abroad, or from public or private research centers.
L’archive ouverte pluridisciplinaire HAL, est
destin´ee au d´epˆot et `a la diffusion de documents
scientifiques de niveau recherche, publi´es ou non,
´emanant des ´etablissements d’enseignement et de
recherche fran¸cais ou ´etrangers, des laboratoires
publics ou priv´es.
•
Citare come:
de Leonardis O., Vitale T., 2001, “Forme organizzative del terzo settore e qualità sociale”, in M.
La Rosa (a cura di), Le organizzazioni nel nuovo Welfare: l’approccio sociologico. Pubblico,
privato sociale, cooperazione e non profit, Maggioli, Rimini, pp. 113-130.
Forme organizzative del terzo settore e qualità sociale
Ota de Leonardis e Tommaso Vitale
Premessa
Il dibattito scientifico e culturale che si è sviluppato anche in Italia a partire dalla metà degli anni
’80 sul terzo settore, le sue caratteristiche, il suo ruolo economico e sociale, ha prodotto una grande
quantità di ricerche, riflessioni teoriche e proposte politiche. Il terzo settore è diventato per
sociologi, analisti delle politiche pubbliche ed economisti un osservatorio privilegiato per analizzare
le trasformazioni degli obiettivi e delle forme di regolazione delle politiche sociali, in rapporto
anche alle metamorfosi del lavoro e della struttura produttiva. Pur nella eterogeneità e relativa
incoerenza che caratterizzano questo campo di studi, in termini di definizioni e classificazioni, di
frames interpretativi e di intenzioni politiche sottese 1, vi è in generale un consenso di fondo nel
considerare strategico il ruolo del 3° settore nella riorganizzazione dei sistemi di welfare, in
particolare rispetto all’obiettivo di ricostituire sinergie rinnovate tra sviluppo economico e
benessere sociale.
Nelle pagine che seguono intendiamo sostenere che questa ipotesi debba essere passata al vaglio e
sostanziata focalizzando l’attenzione sulla dimensione organizzativa, che cioè le forme
organizzative che si sviluppano nel campo di azione del 3° settore costituiscano una variabile
cruciale. I modi in cui sono organizzati ed operano gli attori, le culture e le pratiche che esprimono,
le relazioni che instaurano nel tessuto sociale, sono fattori che incidono in misura rilevante sulla
qualità di questo ruolo strategico del 3° settore, sui suoi esiti di trasformazione e riorganizzazione
sociale. Riprendendo una tesi già sviluppata altrove, sosterremo in particolare che l’attenzione alle
forme organizzative è decisiva soprattutto per individuare e analizzare la valenza istituzionale
dell’azione del 3° settore: nel produrre servizi sociali anche quest’ultimo – come prima di esso
l’impalcatura pubblico-statuale del welfare state – genera forme sociali dotate di forza normativa. Si
tratta in questo senso di un terreno di riflessione decisivo se, come riteniamo, nella riorganizzazione
-1-
dei sistemi di welfare non è in gioco soltanto la costruzione di dispositivi di offerta di beni e servizi
sociali più efficienti e più coerenti rispetto alla domanda, più adeguati a rispondere a bisogni e
problemi privati, ma ben più al fondo è in gioco la tenuta e la qualità del tessuto istituzionale che sul
welfare media la possibilità di riconoscervi questioni che interessano la collettività, materie di
discussione e di scelta che riguardano beni, problemi e fini comuni (v. de Leonardis, 1998). Questa
prospettiva di analisi è in altre parole importante per portare alla luce se e a quali condizioni
l’azione del terzo settore può contribuire a contrastare e invertire – sul terreno decisivo delle
politiche sociali - quelle tendenze al “ritiro privatistico dalla cittadinanza” che Habermas (1992,
p.11) a suo tempo segnalava come portato più generale di processi di individualizzazione,
atomizzazione e “marketizzazione” della vita sociale.
L’argomentazione avrà il seguente andamento.
Nella prima sezione
richiameremo le
trasformazioni interne al campo della teoria dell’organizzazione, dando sommariamente conto della
svolta paradigmatica, avviata ormai più di vent’anni fa con il passaggio dalla logica razionalstrumentale (altrimenti detta “paradigma dei fini”) ad una logica generativa. Nella seconda sezione
vedremo come questo cambiamento a livello teorico sia coerente con il fenomeno emergente della
forma organizzativa del servizio. In altre parole, le logiche organizzative specifiche del servizio
possono essere adeguatamente colte e analizzate ricorrendo appunto alla strumentazione concettuale
sviluppata dalla teoria dell’organizzazione post-strumentale. Ne emergeranno alcune coordinate
essenziali per analizzare i servizi sociali, anche quelli costruiti nel 3° settore, e ciò che da essi si
genera nel tessuto sociale in cui operano. Nella terza sezione introdurremo e illustreremo
brevemente la nozione di “qualità sociale”, ricorrendo soprattutto al dibattito sviluppato in
proposito in ambiente europeo: essa vi funziona come un complesso di indicatori per definire e
valutare le politiche –in primis le politiche sociali- e il loro impatto sulle condizioni sociali di
esercizio pieno della cittadinanza. Enunceremo in conclusione tre parametri generali con cui
valutare la qualità sociale dei processi organizzativi in atto nel 3° settore.
1
Per una prima messa in ordine concettuale delle formazioni discorsive che riempiono il campo di studi sul terzo settore
in Italia, e che si addensano intorno a tre differenti “versioni” di quest’ultimo, il ‘mercato sociale’, la ‘comunità
solidale’, e il ‘welfare civile’ cfr. de Leonardis (1999).
-2-
-3-
1. Organizzazioni: da mezzi per fini a processi generativi
Da ormai più di vent’anni è avvenuta una profonda trasformazione all’interno delle teorie
dell’organizzazione. In estrema sintesi possiamo dire che una pluralità approcci, fra loro senza
dubbio eterogenei, hanno contribuito a mettere in discussione la logica razional-strumentale – il
cosiddetto “paradigma dei fini” -con cui, in precedenza, si guardava alle organizzazioni,
tematizzando le dimensioni simboliche, cognitive e normative dei processi organizzativi. La svolta
è consistita in altre parole nel superamento di quella concezione classica, essenzialmente costruita
sui modelli archetipici della burocrazia weberiana e dell’organizzazione scientifica del lavoro
tayloriana,
che trattava e analizzava l’organizzazione come mezzo,
come strumento
tendenzialmente razionale per fini dati e ad essa esterni.
La messa a tema dei limiti e delle anomalie di questa concezione è, in generale, parte integrante
della rielaborazione della teoria della scelta e dell’azione razionale che si è sviluppata a partire dalla
prospettiva della razionalità limitata enunciata da Simon, con particolare riferimento alle sue
applicazioni nell’ambito delle organizzazioni complesse e dei relativi processi decisionali. Le
ricerche condotte a partire da questa prospettiva hanno evidenziato aspetti costitutivi
dell’organizzazione che l’approccio razional-strumentale aveva lasciato in ombra o trattato come
residuali. Tra cui: l’ “ambiguità” dei fini e delle intenzioni degli attori (March, Olsen, 1976), la
diffusione di sistemi di coordinamento a “legame debole” (Weick, 1976)), il prevalere di logiche
dell’ “appropriatezza” sulle logiche della razionalità nelle scelte (March, 1993)), la molteplicità di
strategie e ragioni degli attori non coerenti con i fini dell’organizzazione (March, 1993; Crozier e
Friedberg, 1978), il carattere “simbolico” delle norme e procedure organizzative (Pondy, 1982).
Nell’insieme queste ricerche, e gli strumenti concettuali che vi sono messi a punto, fanno emergere
l’immagine di un’organizzazione essenzialmente costituita di flussi di interazioni, processi aperti e
con esiti plurimi, tra loro incoerenti e relativamente incerti, comunque non riconducibili ai fini
rispetto a cui l’organizzazione è mezzo. Se pure per l’organizzazione può ancora valere la metafora
della “macchina” –essa resta a significare weberianamente l’aggregarsi degli esseri umani per il
perseguimento di scopi- si tratta però ora di una “macchina non banale”, per riprendere la
formulazione di von Foerster, non progettabile e non razionalizzabile; ciò che essa produce, i suoi
output, non sono riconducibili casualmente agli input che vi sono stati immessi.
Questa visione processuale e non finalistica dell’organizzazione si è poi arricchita dell’apporto
decisivo di nuovi approcci concettuali e analitici che hanno evidenziato il peso delle componenti
simbolico-culturali, cognitive e normative che a diversi livelli e con diverse valenze funzionano da
-4-
addensanti costitutivi dell’organizzazione stessa, e da forze produttive di ciò che essa genera
nell’ambiente in cui opera. L’organizzazione stessa viene riconosciuta e trattata come “cultura”
(Pondy et al., 1982; Frost, et al., 1985; Alvesson, Berg, 1993; Gagliardi, 1990) , come un sistema
relativamente articolato e condiviso di assunti impliciti che conferiscono identità ed esercitano una
potenza normativa (DiMaggio, Powell, 1991); il suo funzionamento viene ricercato prioritariamente
sul livello cognitivo dei “frames” per l’azione (Argyris, Schoen, 1978; Weick, 1977) e le sue
routine acquistano il peso di “istituzioni cognitive” (Lanzara, 1993); ciò che essa fa nel mondo
sociale viene rintracciato nei processi di sensemaking di cui essa si alimenta nel rapporto con quel
mondo (Weick, 1977; 1993; 1996). E così via.
Nel loro insieme, questi contributi di teoria e ricerca – che peraltro hanno arricchito il campo degli
studi organizzativi di una varietà di approcci eterogenei quanto a radici disciplinari, campi di
ricerca e scuole - hanno costruito un patrimonio prezioso per la svolta post-strumentale 2.
Anzitutto vi si è consolidata, acquisendovi anche una maggiore corposità analitica, quella
ridefinizione in senso processuale dell’organizzazione che abbiamo già richiamato. Gli strumenti
concettuali messi a punto da questi approcci sono infatti orientati a osservare non i dati strutturali
ma le dinamiche interattive, le logiche dell’azione organizzativa, i processi: richiamando
l’autorevole espressione di Weick (1993), oggetto di studio non è più l’organizzazione bensì l’
“organizzare”.
In secondo luogo vi si sviluppato un corpo di conoscenze importanti per comprendere il segreto del
cemento e della continuità che rende socialmente riconoscibile un’organizzazione – e altrettanto il
problema della sua persistenza e difficoltà di cambiamento, delle resistenze che le organizzazioni
manifestano a cambiare e ad adeguarsi ai cambiamenti nel mondo sociale che esse stesse
contribuiscono a produrre. Vi è, dicono questi contributi, una densità “istituzionale” nelle
organizzazioni che le rende opache a se stesse, vittime del dato per scontato, e inerti, e che complica
la classica distinzione tra organizzazioni e istituzioni (Scott, 1995; Zucker, 1977).
Infine vi è stato messo a fuoco come terreno strategico di riflessione il potenziale di azione e
creazione del mondo sociale che si addensa nelle organizzazioni. La nozione di “attivazione” –
enactment - trasferita da Weick dalla psicologia cognitiva di Piaget in questo campo ha completato
la svolta. L’azione organizzativa si manifesta nel dare un ordine e un senso alla realtà sociale, nel
generare significati socialmente riconosciuti: l’organizzazione non è più intesa come una
“macchina”, strumento per fini, ma un processo generativo. Con ciò ha acquistato rilevanza
analitica il livello delle pratiche, come il livello adeguato in cui osservare i processi di sensemaking
all’opera, e in cui
illuminare dell’organizzazione
-5-
non più solo le funzioni esecutive ma il
potenziale produttivo che attiva (enact) gli attori, le interazioni, e l’ambiente in cui operano. Va
inoltre evidenziato in proposito che questo carattere generativo delle organizzazioni si esprime non
solo a livello cognitivo, dando i frames di definizione e riconoscimento della realtà sociale, ma
anche a livello normativo, poiche questi frames hanno anche un potere di definizione di valori e di
regole di condotta per gli attori coinvolti (DiMaggio, Powell 1991; Zucker, 1977). E questo potere
normativo è tanto più rilevante quando le organizzazioni in questione agiscono, come nel caso che
qui c’interessa dei servizi e dei regimi di welfare, sul terreno del trattamento di problemi sociali e
della definizione delle soluzioni corrispondenti, con ciò più in generale plasmando i sistemi di
valore in gioco nelle questioni e nelle scelte di giustizia sociale.
Per completare il quadro aggiungiamo da ultimo che con questa diversa prospettiva lo studio delle
organizzazioni allarga il suo campo di osservazione, uscendo dai confini della singola
organizzazione trattata come mondo a parte separato dall’ambiente sociale: i processi organizzativi
sono immersi nel tessuto sociale, ne sono anzi parte costitutiva, e riguardano non solo la singola
organizzazione ma le reti di organizzazioni, le relazioni interorganizzative (Hannah, Freeman,
1983). E’ questo per l’appunto il terreno in cui si sprigiona il carattere generativo dei processi
organizzativi e il suo potere normativo. La teoria organizzativa, in particolare quella che fa capo
all’approccio “istituzionalista”, ha a questo proposito messo a punto due ulteriori strumenti
concettuali che è opportuno richiamare brevemente.
Il primo è quello di “campo organizzativo” che indica, secondo la definizione di DiMaggio e
Powell (1991), quell’insieme di organizzazioni e di relazioni interoganizzative che costituiscono
un’area distinta e ben riconoscibile della vita sociale. L’esistenza di un campo organozzativo è
contraddistinta da logiche di azione simili, da comuni sistemi di significato (anzitutto vocabolari e
definizioni della realtà), da criteri di appropriatezza simili e da concezioni simili della legittimità di
alcune azioni che definiscono l’appartenza a quel campo organizzativo 3. Questa forza addensante
del campo organizzativo –un campo di forze anzitutto cognitive, simboliche e normative – si
esercita non solo sulle organizzazioni di “settore”, equivalenti nella struttura sociale per le
prestazioni che erogano come nel caso di un insieme di servizi sociali in un dato contesto locale, ma
anche sui destinatari dei servizi, sulle agenzie regolatrici e in generale su tutte quelle organizzazioni
che a vario titolo agiscono nel campo 4.
2
I riferimenti bibliografici segnalati nel testo sono limitati ai contributi più classici. Alcuni di questi sono disponibili in
antologie pubblicate in Italia: v. Zan (1988), Gagliardi (1986); v. anche Bonazzi (1999).
3
Cfr. Scott (1998), p. 83.
4
Questo, onde evitare equivoci, non significa che ci trviamo di fronte a una cultura omogenea e compatta in cui sono
assenti differenze e conflitti. La forza addensante di cui stiamo parlando agisce attraverso alcune coordinate di base che
conferiscono identità agli attori rendendoli reciprocamente riconoscibili, anche proprio nelle loro defferenze, e che
danno una sfrutturazione entro cui le loro interazioni, anche conflitturali, si sviluppano.
-6-
Per identificare e analizzare questa forza addensante è stato introdotto il secondo strumento
concettuale che vogliamo richiamare qui, quello di “isomorfismo istituzionale” (DiMaggio, Powell,
1983; 1991): ad indicare appunto la tendenza degli attori organizzativi di un campo ad assomigliarsi
in alcuni requisiti di base delle pratiche e degli stili di pensiero 5, in forza di meccanismi mimetici,
coercitivi e normativi.
2. La forma organizzativa del servizio
La svolta teorica sintetizzata nel paragrafo precedente ha dunque dato centralità ai requisiti
processuali e interattivi della vita organizzativa, e ha messo a fuoco con essi il potenziale generativo
delle organizzazioni. Vogliamo ora segnalare come queste caratteristiche costitutive delle
organizzazioni, e gli strumenti concettuali per analizzarle, siano coerenti ed appropriate con una
forma organizzativa emergente: quella del servizio.
Enunciamo subito le coordinate centrali della definizione di servizio.
Servizio può essere
considerato come un processo organizzativo costituito da una rete di relazioni che generano altre
relazioni. Legami, comunicazione, cooperazione e conflitto fra gli attori interagenti – “socialità”sono i suoi prodotti: in un servizio le relazioni costituiscono, insieme, il motore principale di ciò che
vi si genera ed il suo principale “ prodotto”.
Negli ultimi vent’anni i servizi hanno acquistato rilevanza, come modello archetipico di
organizzazione, anzitutto all’interno delle trasformazioni del sistema economico. Ripercorriamo
dunque brevemente le teorie e ricerche che si sono sviluppate sulla forma organizzativa del servizio
con riferimento all’ambito della produzione e del mercato, che vi hanno identificato la differenza
costitutiva rispetto alla catena gerarchica del comando e dell’autorità sia nell’ambito dei sistemi
produttivi (la fabbrica), sianell’ambito dei sistemi burocratico-amministrativi (l‘azienda) 6.
Il carattere emergente della forma organizzativa del servizio viene identificato e valorizzato
nell’attuale elaborazione scientifica sugli assetti che vanno assumendo i sistemi di produzione e di
scambio nell’economia neo-industriale (o post-industriale), che si caratterizza appunto come service
economy. Pur nella grande varietà di interpretazioni e di accenti, vi è in genere accordo sul fatto che
questa caratteristica emergente dell’economia non sia riducibile al peso crescente del terziario
rispetto sia al valore prodotto che all’occupazione, poiché la componente di servizio è penetrata nel
5
La nozione di stile di pensiero è stata proposta da Fleck e ripresa da Mary Douglas. Indica lo schema concettuale che
“stabilisce le precondizioni di ogni processo cognitivo e determina quello che vale come una domanda ragionevole o
come una vera o falsa risposta”. Cfr. Douglas (1990), in particolare pp. 35-61.
6
Sintetizziamo l’analisi della letteratura condotta in de Leonardis (1998) e i principali elementi concettuali che vi sono
stati sviluppati.
-7-
cuore stesso dell’economia industriale, nei mercati, nei prodotti e nella stessa struttura produttiva. Il
riferimento allo scambio e consumo di beni del modello manifatturiero tende ad essere sostituito dal
riferimento all’accesso e uso di servizi. Crescono le componenti immateriali, informative e
relazionali sia del prodotto che della produzione. Per indicare questa metamorfosi si parla di
prodotto-servizio; e si parla di terziarizzazione della produzione per designare “l’intensificazione
dell’interazione sociale nel seno stesso dei processi produttivi” (Perret, Roustang, 1993). Questa
metamorfosi imprime una trasformazione nelle transazioni e nella competizione, nelle condizioni di
performance delle imprese, e nelle forme organizzative della produzione. La logica del servizio è
infatti incongruente con la logica del prodotto: il servizio ha uno statuto interpersonale, è una
relazione, mentre il prodotto – il bene materiale del modello manifatturiero – è un artefatto che
reifica e sostituisce una relazione. L’economia del servizio è in altre parole “ad alta intensità
relazionale”: essa è un’economia che si basa e si espande sulla creazione di “connessioni”, “reti”,
“gateways”, “interfacce” (Veltz, 1996); in questa economia, lo stesso bene materiale prodotto,
scambiato e usato è veicolo di relazioni (e non viceversa). Processare informazioni e organizzare e
coltivare i flussi comunicativi; coordinare e mettere in rete le relazioni tra attori di sistemi
policentrici e pluralizzati di produzione, progettazione, scambio, uso; creare un prodotto-servizio
che, come abbiamo visto, è a sua volta costituito di relazioni; competere – ma anche altrettanto
cooperare – nella capacità di stabilire e moltiplicare relazioni: il fulcro di questo statuto processuale
e relazionale dell’organizzazione non è più la fabbrica – luogo di produzione di oggetti – bensì il
servizio. Come dicevano poc’anzi, esso è un sistema di relazioni che produce e mette in forma
relazioni, ed ha in questo sua specifica produttività. Quest’ultima non è più riducibile all’equazione
costi-guadagni, misurata come proprietà additiva di singole operazioni e depositata in un prodotto
oggettivato in un bene: essa è ora una proprietà sistemica di relazioni e si misura su vantaggi
organizzativi, su un plus di relazioni, di interdipendenze e legami sociali attivati e messi in forma.
Si potrebbe dire che il servizio misura la sua produttività sulla capacità di generare altre relazioni, e
altri attori organizzativi.
Va infine evidenziata un’ultima decisiva specificità di questa forma organizzativa: diversamente
dalla produzione manifatturiera e dal prodotto, il servizio implica il cosiddetto cliente come partner
della sua relazione costitutiva, e coproduttore del valore che vi si genera. Non riducibile al vecchio
ruolo di consumatore, il cliente è attore, co-agente, della relazione di servizio. Come sottolinea con
enfasi il più classico manuale management dei servizi (Normann, 1984), senza il cliente come coagente il servizio semplicemente non si realizza.
-8-
Fin qui, le caratteristiche fondanti della forma organizzativa del servizio identificate dalla teoria e
dalla ricerca in campo economico. E’ evidente che esse sono pertinenti e rilevanti – anzi
particolarmente dense di implicazioni – se ci spostiamo sul terreno dei servizi sociali. Quali
specificità esse assumono in quest’ambito, e in particolare nel 3° settore? Quali sistemi di relazioni
sono implicati in questo caso nei processi organizzativi? Qual è qui la posizione del “cliente”? Che
cosa generano questi processi? Quali ne sono i requisiti e i parametri di “produttività”? Quali
legami sociali, quale socialità, prende forma da questi processi, con quali significati, con quali
valori?
Questi quesiti inquadrano e precisano la proposta di metodo e di approccio qui sostenuta, la
rilevanza cioè dello studio della dimensione organizzativa delle attività sviluppate dal 3° settore, il
“come” di queste attività (non solo il “chi” ne è beneficiario e il “che cosa” viene erogato) al fine di
riconoscere e valutare i loro esiti. Poiché - per sintetizzare il percorso condotto fin qui - dalla qualità
della forma organizzativa del servizio dipende la qualità dei legami sociali che vi si generano.
Ma prima di procedere su questa strada, e indicare qualche risposta a questi quesiti delineando
alcuni parametri per la qualità della forma organizzativa del servizio in questo ambito, occorre
prima identificare in che cosa essenzialmente consiste la “qualità dei legami sociali”.
3. Qualità sociale
Introduciamo qui la nozione di “qualità sociale” nell’accezione e nelle finalità che essa ha acquisito
nell’ambito del dibattito europeo sulla direzione che le politiche, soprattutto le politiche sociali,
debbono assumere nella costruzione sociale e politica – dunque non soltanto economica –
dell’Europa (Beck et al., 1997). Detto in breve essa designa alcuni requisiti sociali e istituzionali
che non soltanto incidono sulla qualità della vita delle popolazioni europee ma che più al fondo
favoriscono il pieno dispiegarsi delle capacità di esercizio della cittadinanza. La definizione di base
della qualità sociale (v. anche Walker, 2000) comprende infatti quattro requisiti: a) la presenza di
beni e servizi di qualità: un requisito del resto diffuso in letteratura per esempio negli studi sulle
condizioni di funzionamento di servizi e mercati sociali (v. De Vincenti, Montebugnoli, 1997 ; De
Vincenti, Gabriele, 1999); b) la protezione dai rischi sociali, in particolare attraverso politiche e
misure di sicurezza sociale e di prevenzione dei rischi di povertà ed esclusione sociale; c) la
coesione dell’habitat sociale, attraverso la presenza di risorse culturali, politiche e istituzionali che,
nei concreti contesti di vita, contrastino frammentazioni e polarizzazioni sociali e favoriscano la
presenza di spazi di mediazione dei conflitti e di elaborazione collettiva dei problemi; d) il pieno
-9-
dispiegarsi per la totalità della popolazione, per tutti e per ciascuno, delle capacità di partecipazione
alla vita sociale e alle scelte pubbliche pertinenti. Questi quattro requisiti di base mettono subito in
luce come la qualità sociale sia un concetto complesso che attiene all’impatto che politiche,
istituzioni e servizi hanno sulle condizioni sia individuali che sociali di benessere, sia sulla
disponibilità di beni per il soddisfacimento dei bisogni dei singoli che sulla disponibilità di poteri e
risorse per partecipare alla vita pubblica, alle discussioni e deliberazioni relative a questi beni e alla
loro destinazione. La qualità sociale si misura dunque contemporaneamente nella sfera privata e
nella sfera pubblica. Inoltre, poiché in tal modo chiama in causa una pluralità di dimensioni, questo
requisito va elaborato e precisato in relazione alla specificità dei contesti locali. Infine,
considerando l’ambito delle materie sociali in cui si applica, della nozione di qualità sociale va
riconosciuta non soltanto la funzione analitica ma anche normativa: essa è anche un progetto
(Beck, van der Maesen, Walker, 1997, in particolare pp. 297-309; de Leonardis,
1998).
Vale la pena, per inciso, richiamare l’attenzione sulle assonanze che la nozione di qualità sociale,
così connotata, ha con la prospettiva elaborata dall’economista Premio Nobel Amartya Sen a
proposito di “qualità della vita”, in particolare nelle argomentazioni che ripreso e sviluppato di
recente (1999): sono assonanze che avremo modo di richiamare brevemente più avanti.
Qualche ulteriore considerazione merita di essere ancora sviluppata, soprattutto con riferimento alle
implicazioni di questo strumento di analisi e di valutazione quando sia applicato al campo delle
politiche sociali e al ruolo del 3° settore in questo campo 7.
Per ciò che abbiamo detto finora, è chiaro anzitutto che la qualità sociale non è soltanto, o
prioritariamente, un requisito di prodotti bensì di processi sociali: di relazioni più che di beni. E’ in
questo senso che va interpretato il suggerimento, che proviene dal dibattito europeo in materia, di
assumere la qualità come un requisito “societario”, non solo genericamente sociale. Essa attiene al
livello intersoggettivo della vita sociale -né solo oggettivo, né solo soggettivo. Ed è per questo
anche un requisito riflessivo. La qualità sociale è tale soltanto se è materia di discorso sociale,
pubblico, terreno di riflessione e di apprendimento della società su se stessa. Se si tratta di
configurare, e valutare, le politiche sociali e le organizzazioni che vi operano in base al requisito
della qualità sociale, si tratta di vedere se e come in esse sono all’opera processi sociali con questa
qualità riflessiva.
In secondo luogo nella prospettiva qui proposta la qualità sociale si precisa come una qualità
politica, proprio in quanto pertiene alla vita pubblica. E al tempo stesso essa ridefinisce che cosa è
“politica” dislocandola nella vita quotidiana (V. Schowstack Sassoon, 1997; Bauman, 1999). Se di
7
Queste considerazioni vengono tratte da de Leonardis (2000).
- 10 -
nuovo guardiamo all’ambito delle politiche sociali e delle organizzazioni che vi operano, si tratta di
vedere se e come esse favoriscono il riconoscimento della natura politica, pubblica, del loro campo
di azione e delle questioni che vi si trattano. I processi sociali che vi si attivano e vi si alimentano
costituiscono un fattore strategico per la qualità e densità della vita pubblica (o viceversa per il suo
degrado: v. de Leonardis, 1998).
Infine, per queste ragioni, la qualità sociale si misura su aspetti e questioni della politica sociale
lasciati relativamente in ombra nelle analisi e teorie correnti. Come già accennavamo, le scelte
distributive e redistributive vertono infatti per lo più su quali e quante risorse allocare e a quali
categorie sociali destinarle. Se si assume la prospettiva della qualità sociale viene in luce invece
l’importanza cruciale di analizzare altrettanto il “come”: quali organizzazioni e istituzioni
implementano la politica sociale, come sono organizzati i servizi e come agiscono nel sociale, che
relazioni s’instaurano al proprio interno e con i loro interlocutori, quali culture e quali pratiche essi
mettono in atto, ecc. Queste culture e pratiche sono attive nell’alimentare per esempio
assistenzialismo, dipendenza, passività? O viceversa operano per generare “empowerment”, per
redistribuire e generalizzare agency (v. Sen, 1999) , capacità di scelta e di azione, in definitiva
cittadinanza?
Lo sviluppo del ragionamento attorno a queste tre precisazioni ha consentito di tornare nuovamente
alla tesi centrale di questo testo: le organizzazioni e istituzioni della politica sociale nella loro
attività quotidiana sprigionano un potenziale generativo che struttura la vita sociale, che la mette in
forma. E in particolare per ciò che ci interessa qui, dalla qualità delle culture e delle pratiche delle
organizzazioni e istituzioni del terzo settore dipende un potenziale generativo di qualità sociale: da
essa dipendono non soltanto la disponibilità di risorse per la vita privata dei singoli cittadini e le
loro condizioni di vita, ma soprattutto le condizioni di partecipazione alla vita pubblica, le
condizioni di tenuta e vitalità dei regimi democratici.
Conclusioni: tre parametri di qualità dei processi organizzativi
Al fine di fornire indicazioni per l’analisi della dimensione organizzativa nel campo del 3° settore
ribadiamo anzitutto sinteticamente i principali passaggi del ragionamento.
Le riflessioni fatte sulla forma organizzativa del servizio e le sue caratteristiche costitutive indicate
dagli strumenti di analisi degli studi organizzativi ci indicano la necessità di uno spostamento – sia
concettuale che pratico – dagli attori alle relazioni. Si tratta di un passaggio essenziale per poter
- 11 -
analizzare la qualità delle organizzazioni del terzo settore 8.
Lo spostamento dagli attori alle
relazioni è infatti una condizione di metodo essenziale per poter mettere a fuoco nella sfera di
azione del 3° settore aspetti non soltanto economici – per esempio questioni di efficienza e di
coerenza tra domanda e offerta di servizi - non soltanto morali – per esempio l’impiego di risorse di
altruismo - , bensì politici, e di tematizzare perciò i nodi della cittadinanza e delle condizioni di
partecipazione alla costruzione della società.
A cominciare dal fatto che se si pensa (e si agisce) in termini di relazioni, diventa decisiva la
questione della posizione dei destinatari degli interventi sociali – la posizione dei “clienti” nelle
relazioni di servizio, dicevamo – e diventa discriminante se in queste relazioni essi sono
riconosciuti e trattati come attori, co-agenti delle scelte e delle azioni che li riguardano: anzitutto
coloro che sono di fatto privi di questo statuto, destituiti di soggettività e presenza sulla scena
economica, politica e anche sociale. La loro soggettività, tuttavia, non vi può essere presupposta –
l’ideologia della soddisfazione del cliente è carica di violenza - ma deve essere posta come risorsa
da attivare e valorizzare: soggetti, attori, si diventa; come obiettivo prioritario di scelte di giustizia
sociale che sono o dovrebbero essere il mandato di chi opera nel campo delle politiche sociali. In
queste, e anche nel terzo settore, è per l’appunto in gioco non la (re)distribuzione di beni – dove è
questione semplice di soggetti e oggetti, attori e destinatari dell’azione – bensì la redistribuzione di
poteri, di condizioni di base per l’espressione e l’esercizio della soggettività delle persone, della
loro singolarità e della loro partecipazione alla vita sociale.
Inoltre, questo potenziale generativo delle relazioni può essere riconosciuto e valorizzato come
terreno in cui crescano insieme sia soggetti individuali che contesti sociali – non gli uni o gli altri in
opposizione reciproca e in reciproca sottrazione. Contesti sociali ad alta densità di legami sociali
interpersonali nei quali i soggetti abbiano spazio per l’espressione di sé e del proprio progetto di
vita; e nei quali vi siano margini per sopportare le differenze, anche quelle irriconciliabili. Lo
spostamento dall’attore alle relazioni è foriero di incertezze e contraddizioni aperte. Queste tuttavia,
se non soffocate, possono essere quei moltiplicatori di legami sociali la cui forza e densità alimenta
alla lunga sia la crescita economica che le culture e le pratiche della cittadinanza e della
democrazia. Come abbiamo visto, questa capacità di comprendere nell’azione e di coniugare
8
Paradossalmente la letteratura sul terzo settore sembra fare riferimento esclusivamente alle formule tradizionali
dell’impresa “fordista”, alle sue logiche di mercato, ai suoi criteri di efficienza e produttività, e alla corrispondente
immagine del destinatario come consumatore: un economia di attori non di relazioni. In termini prescrittivi, la
letteratura insiste molto su aspetti riconducibili a tipiche preoccupazioni aziendaliste, .non ultima la temperie relativa
alla certificazione della qualità del processo produttivo attraverso le norme ISO. Anche in termini analitici, sul piano
della ricerca viene esplorata la composizione del gruppo dirigente, i percorsi di carriera, i fattori di consolidamento, i
livelli retributivi, gli organigrammi, la mobilitazione delle risorse umane, le forme di rendicontazione e di ‘bilancio
sociale’, le strategie di comunicazione e di fund raising e, non ultimi, i cosiddetti ‘bisogni formativi’.
- 12 -
insieme la dimensione individuale e la dimensione sociale del benessere è la chiave del criterio
della qualità sociale.
Possiamo a questo punto fornire qualche indicazione più precisa circa i parametri da chiamare in
causa per delineare, e valutare, i processi organizzativi nel terzo settore. Nel indichiamo tre.
La validazione. Il primo parametro chiama in causa la capacità delle organizzazioni di contrastare e
invertire le condizioni di invalidazione in cui per lo più si trovano gli utenti o clienti del welfare
(esser tali infatti è già di per sé invalidante) e di creare agency: come argomenta Sen (1999) ciò che
diviene discriminante è anzitutto invertire i processi di deprivazione ed destituzione delle capacità
di scelta e di azione delle persone, dando credito al loro ruolo di “agenti” e non di “pazienti” –
destinatari passivi degli interventi che li riguardano. Non si tratta più di distribuire benefici per
colmare dei gap, bensì di investire per valorizzare delle risorse potenziali. Il parametro della
validazione richiede infatti una piccola rivoluzione copernicana delle organizzazioni, e soprattutto
delle relazioni che esse instaurano con i loro beneficiari (v. de Leonardis, 1998). Questi ultimi sono
definiti non più dalle loro carenze, bisogni, deficit da individuare e curare – come accade di solito bensì dalle loro capacità e si tratta di riconoscerle e farle crescere mettendole all’opera. Questa
piccola rivoluzione copernicana è difficile da realizzare, perché mette in discussione culture
dell’aiuto e della cura –professionali o volontarie- e forme di potere profondamente radicate nei
servizi sociali (non soltanto nel terzo settore); ed è difficile da realizzare tanto più quando si tratti di
relazioni con soggetti particolarmente deboli, deprivati e privi di contrattualità, ben lontani da
quella figura dell’attore che l’ideologia contrattualista della domanda e dell’offerta presuppone
come interlocutore dei servizi.
(b) La socialità. Il secondo parametro aiuta a valorizzare il radicamento sociale delle
organizzazioni del terzo settore. E’ la loro doppia embeddedness, allo stesso tempo sociale e
politica, che ne può garantire la qualità sociale (de Leonardis, 1999). Si tratta, da un lato, di far sì
che i beneficiari siano riconosciuti e si riconoscano come attori nei contesti sociali in cui vivono,
capaci di agire, di partecipare e di perseguire progetti di vita; allo stesso tempo bisogna curare e
trasformare questi contesti - di solito ostili o problematici - in modo da renderli ricchi di relazioni e
capaci di ricettività e di integrazione, capaci cioè di sopportare le differenze e le contraddizioni che
quei beneficiari impersonano. In questo non si può eludere la questione dell’asimmetria di potere: si
tratta semmai di affrontarla nella stessa relazione di servizio e portarla in luce negli ambienti sociali
in cui si agisce, rendendola pubblica, materia di scelte, discussioni e azioni collettive.
Organizzazioni che funzionano in modo “riflessivo”, come moltiplicatori di socialità, generatori di
attori, relazioni, legami sociali fanno sicuramente opera di socializzazione, di societing come si dice
nel campo dei servizi per il mercato, esercitandosi, come abbiamo visto, su materie problematiche,
- 13 -
coinvolgendo autorità pubbliche e creando spazi di discorso e di azione pubblica: facendo dei
problemi e dei beni trattati dalle politiche sociali qualcosa che riguarda tutti, terreno di
apprendimento collettivo e di corresponsabilità nei confronti della cosa pubblica.
La socialità, in quanto parametro di qualità sociale, implica perciò un duplice esito delle pratiche
delle organizzazioni del terzo settore. Da un lato il creare visibilità e discorso pubblico sui problemi
e sulle modalità di affrontarli, e dall’altro generare e generalizzare l’‘insocievole socievolezza’ di
cui parlavano i classici: la possibilità di intessere scambi tra estranei, la larghezza, la varietà e il
lasco di relazioni universalistiche che, nella loro impersonalità, alimentano l’interesse generale allo
scambiare più che interessi particolari implicati.
(c) La costruzione di istituzioni. Infine l’ultimo criterio, quello più difficile da affrontare
nell’attuale dibattito.I modi di interpretare e praticare l’azione sociale nel terzo settore promettono
innovazione e sono circondati da generale favore, così che vengono spesso considerati come il
reagente principale della nuova ingegneria sociale. Ma questa influenza del terzo settore, come
abbiamo detto, si può esercitare in direzioni molto diverse, e con esiti opposti rispetto al criterio
interpretativo qui adottato: il riconoscimento del carattere pubblico dei problemi affrontati e delle
soluzioni adottate nella politica sociale. Ciò che si sviluppa nel terzo settore e nel mercato sociale
può spingere verso il ritiro privatistico dalla cittadinanza, la privatizzazione dei problemi sociali e la
loro sottrazione dal campo dei discorsi e delle pratiche sulla società come mondo comune, come
costruzione sociale condivisa. O viceversa il terzo settore può contribuire in misura decisiva a
mantenere le questioni trattate dalla politica sociale nello spazio pubblico, a tradurle in ambiti di
esercizio della cittadinanza e della partecipazione democratica articolati nella quotidianità della vita
sociale.
Ma questo può accadere soltanto se le trasformazioni sociali in atto in questo campo incontrano
innovazioni istituzionali, e se il processi di institution building che vi s’innescano e le istituzioni
che ne risultano rispettano alcuni requisiti di qualità.
Proprio su questo terreno acquista un peso decisivo la qualità dei processi sociali, e in particolare la
qualità delle relazioni e delle partnership che si instaurano tra i diversi attori
9
. L’obiettivo della
qualità sociale richiede che le interazioni sulla politica sociale tra iniziative della società civile e
istituzioni competenti si configurino come un continuo rinvio reciproco tra le spinte dall’alto e dal
basso (bottom up e top down). In questo modo le prime trovano spazio e interlocutori che
trasformano in beni pubblici le esperienze e gli interessi soggettivi e privati; e le seconde trovano
soggetti e pratiche concreti e plurali che traducono nella quotidianità l’interesse pubblico. Possiamo
9
Poiché gli attuali regimi di regolazione delle politiche pubbliche si configurano su più livelli istituzionali, la qualità di
queste di partnership dipende anche dalla “capacità della politica di modernizzarsi, di funzionare secondo una logica più
- 14 -
definire questo processo di institution building un sandwich, per sottolineare il fatto che la qualità
sociale è il risultato della convergenza e alimentazione reciproca di queste due spinte, e che la
densità e ricchezza del tessuto sociale
dipende dalla loro cooperazione. Questo sandwich si
costruisce non attraverso contratti formali e compiuti, bensì attraverso la corresponsabilità su
progetti comuni, che tiene aperta la discussione pubblica sui fini e che si apre alla pluralità di attori,
di voci e di “vocabolari” sui problemi e le soluzioni sul tappeto. In definitiva processi di ‘institution
building così configurati, basati su questo tipo di partnership, favoriscono il mutuo apprendimento e
danno luogo ad una elaborazione congiunta degli standard di qualità sociale che si perseguono.
Questa qualità di processo richiede e a sua volta riproduce qualità delle istituzioni (nel senso di
Donolo, 1997). Una qualità, in particolare, che si misura sulle loro capacità di apprendimento.
Permette di andare oltre i particolarismi propri delle relazioni interpersonali e di costruire
condizioni di fiducia istituzionali.
Bibliografia
Alvesson, M., Berg, P.
(1993) L’organizzazione e i suoi simboli, Cortina, Milano
Argyris C., Schon D. A.
(1978) Organizational Learning. A Theory of Action Perspective, Addison-Wesley, Reading (MA).
Bauman Z.,
(1999) La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano
Beck W., van der Maesen L., Walker A. (a cura di),
The Social Quality of Europe, Kluwer Law International, Londra 1997.
Bifulco L., de Leonardis, O.
(1997), a cura di, L’innovazione difficile. Studi sul cambiamento organizzativo nella pubblica
amministrazione, Angeli, Milano
Bonazzi G.
(1999), Dire fare pensare: decisioni e creazione di senso nelle organizzazioni, Angeli, Milano.
Crozier e Friedman,
(1977), Attore sociale e sistema, Etas, Milano
De Leonardis O.,
(1998), In un diverso welfare. Sogni ed incubi, Feltrinelli, Milano.
universalistica che bilancia ed orienta il particolarismo”: Trigilia (1999: 431). In genere sull’innovazione istituzionale
v. Bifulco, de Leonardis, 1997)
- 15 -
De Leonardis O.,
(1999), Terzo settore: la doppia embeddedness dell’azione economica, Sociologia del Lavoro, n. 3,
pp. 230-250.
De Leonardis O.,
(2000)“Social Market, Social Quality, and the Quality of Social Institutions”, in The European
Journal of Social Quality, n. ½
De Vincenti, C., Montebugnoli, A.,
(1997) L’economia delle relazioni, Laterza, Roma
De Vincenti C., Gabriele S. (a cura di), (1999), I mercati di qualità sociale, Laterza, Bari.
DiMaggio P. J., Powell W. W.,
(1983) “The Iron Cage Revisited: Institutional Isomorphism and Collective Rationality in
Organizational Fields”, American Sociological Review, n. 48
(1991) The New Istitutionalism in Organizational Fields, University of Chicago Press, Chicago
Donolo C.
(1997), L’intelligenza delle istituzioni, Feltrinelli, Milano.
Douglas M.
(1990) Come pensano le istituzioni, il Mulino, Bologna
Gagliardi P. (a cura di)
(1986), Le imprese come culture, ISEDI, Torino.
Frost, P. et al. (eds)
(1985) Organizational Culture, Sage, Beverly Hills
Hannah, M., Freeman , J.,
(1983) “The Population Ecology of Organizations”, American Journal of Sociology, n. 88
Habermas J.,
(1992) Citizenship and National Identity: Some Reflections on the Future of Europe : “Praxis
International”, n. 1.
Lanzara G. F.,
(1993) Capacità negativa. Competenze progettuali e modelli di intervento nelle organizzazioni, il
Mulino, Bologna
March, J. G.
(1993) Decisioni e organizzazioni, Il Mulino, Bologna
March J. G., Olsen J. P.,
(1976) Ambiguity and Choice in Organizations, Univeristetsforlaget, Bergen
Normann, R.,
(1984) Service Management: Strategy and Leadership in Service Business, Wiley and Sons,
Chirchester (trad. it Etas Libri 1995, 2° ed.)
- 16 -
Perret B., Roustang G.,
(1993) L’economie contre la société, Seuil, Paris
Pondy, L. R., et al (eds)
(1982) Organizational Symbolism, JAI, Greenwich
Scott R. W.,
(1995) trad. it. Istituzioni ed organizzazioni, il Mulino, Bologna 1998.
Sen A. K.,
(1999) Development as Freedom, Oxford University Press, Oxford
Trigilia, C.,
(1999) “Capitale sociale e sviluppo locale”, Stato e mercato, n. 57
Veltz P.,
(1996) Mondialisation, villes et territoires, PUF, Paris
Walker, A.
(2000) “Social quality and the Future of European Union”, The European Journal of Social Quality,
n. 1/2
Weick K.E.
(1976) „Educational Organizations as Loosely Coupled Systems“, Administrative Science
Quarterly, n. 21
(1977) „Enactment Processes in Organizations“, in Staw B. Salancik, G., eds., New Directions in
Organizational Behavior, St.Clair Press, Chicago
(1993) Organizzare: la psicologia sociale dei processi organizzativi, ISEDI, Torino
(1997) Senso e significato nell’organizzazione, Cortina, Milano
Zan, S., a cura di,
(1988) Logiche di azione organizzativa, Il Mulino, Bologna
Zucker, L.
(1978) “The Role of Institutionalization in Cultural persistence”, American Sociological Review,
n. 42
- 17 -