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Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale
Corso di Laurea in Lettere
Commento a Giovenale, Satira 14
Dispensa per il corso magistrale di Letteratura latina
a cura di
Fabiana Zullo
Anno accademico 2013-2014
Introduzione
Dopo avere più volte trattato nei suoi versi del vizio e del suo inarrestabile degenerare,
nella satira 14 Giovenale torna ancora una volta sul medesimo tema, ma ponendosi in
una prospettiva nuova. L’elemento su cui principalmente si sofferma l’attenzione del
poeta, adesso, è quella perversa dinamica che fa sì che i vizi dei padri penetrino a fondo
nell’animo dei figli, per essere poi reiterati e amplificati una volta che questi ultimi siano diventati adulti; ed è proprio questa la caratteristica che più di ogni altra rende esecrabile ogni forma di disonestà: appena compiuta, ogni cattiva azione sarà modello per
azioni peggiori, in un inarrestabile crescendo che continuerà ad allontanare i costumi
della società contemporanea dalla purezza della Roma delle origini.
Il tono che pare sotteso all’intera satira, dunque, non è quello di chi voglia biasimare il
reo in quanto tale o consolare la vittima delle sue ingiustizie: al contrario, proprio a chi
ha in animo di commettere una cattiva azione si rivolge il poeta, esortandolo a desistere
dai suoi propositi se non per amore della giustizia in sé, almeno per non trasmettere il
cattivo esempio ai propri figli e non autorizzarli così a fare di peggio, perché forse a lui
per primo verrà danno dalle loro azioni.
Partendo da tale presupposto Giovenale passa in rassegna i vizi più noti e diffusi, a cominciare dal gioco d’azzardo, la lussuria, la crudeltà, l’impudicizia. Ma l’attenzione
maggiore è data all’avaritia (nelle due valenze di ‘avarizia’ e ‘avidità’, entrambe insite
nel termine latino), cui è dedicata un’ampia digressione che occupa gran parte di questa
satira. Motivo di tanto interesse è il particolare ‘statuto’ di questo vizio: mentre tutti gli
altri sono inconsapevolmente trasmessi ai figli da genitori incapaci di astenersene,
l’avaritia è deliberatamente inculcata nei giovani, poiché a uno sguardo superficiale si
presenta non troppo dissimile dalla virtù della frugalità. Per sgomberare il campo da tale
equivoco, dunque, Giovenale si sofferma a descrivere i tratti più caratteristici della vita
e del comportamento di un avarus: sfilano così la figura ‘tipica’ dell'avaro che si infligge più privazioni di quante debba subirne un mendicante; quella, per molti versi sovrapponibile, dell’avido che non è mai pago dei terreni che possiede e fa ricorso a ogni mezzo per poterne accumulare sempre di più; e ancora quella dell’ambizioso che insegna al
figlio come giungere al potere e alla ricchezza senza alcuno scrupolo. Tutto ciò offre,
agli occhi del saggio che sappia ben osservare, uno spettacolo più interessante di tutte le
scene teatrali: i vani affanni degli uomini, la follia di chi per avidità si espone a enormi
pericoli, e il dramma di chi finisce per esserne rovinato, sono gli esempi che Giovenale
addita al suo interlocutore; ne deriva un’ulteriore esortazione alla frugalità e alla moderazione nella ricerca delle ricchezze: nemmeno le più grandi fortune – conclude il poeta,
portando il discorso su un piano completamente diverso da quello iniziale – potranno
mai apparire sufficienti a chi non sarà in grado di contentarsi del poco.
3
La satira 14 ha avuto meno fortuna di altre negli studi moderni; ciò è dovuto in buona
parte all’insolita struttura bipartita, che a prima vista sembra privare il componimento di
un’unità logico-tematica, smembrandolo in due porzioni distinte (vv. 1-106; vv. 107331). Così appunto si esprimeva Friedländer (cf. FRIEDLÄNDER 1895, pp. 544-545), il
cui giudizio, seppur rivisto o attenuato, ha riecheggiato a lungo nella critica successiva
(cf. ad. es. DUFF 1898, p. 408; D’AGOSTINO 1932), fino a quello – totalmente negativo –
di Highet che, confrontando il componimento con la satira 1, 1, di Orazio, ne ha tacciato
come inadeguato lo schema compositivo: “there is a close tie between Serm. 1, 1 and
Juvenal 14 in several things, even in the fact that both poems apparently begin with one
topic and pass to another which illustrates it” (HIGHET 1954, p. 282). La critica successiva ha smentito almeno in parte simili giudizi troppo severi, riconoscendo alla satira 14
una strutturazione abbastanza salda: come elemento di compattezza, O’Neil sottolinea la
fondamentale ambivalenza del concetto di avaritia (cf. O’NEIL 1960, pp. 251ss.);
Courtney individua nel pezzo uno schema compositivo molto elaborato, una sorta di
‘monumentale chiasmo’ (cf. COURTNEY 1980, pp. 561-562); e Bellandi confuta definitivamente l’idea di una presunta ‘disarticolazione’: “le due parti costitutive sono collegate
da un esplicito rapporto di climax che non è solo di natura retorico-formale” (BELLANDI
1984, p. 155). L’avaritia, infatti, è l’unico vizio trasmesso volontariamente e consapevolmente ai figli, perché mascherabile con facilità dietro l’apparente virtù della frugalitas: e Giovenale, come poeta satirico, non poteva non sottolinearne la centralità, essendo tale vizio fonte – diretta o indiretta – di quasi tutti gli scelera che affliggevano la società romana (cf. STEIN 1970). Partendo da questa riflessione, anche Catherine Keane
(cf. KEANE 2007) ha sostenuto in ultimo l’unitarietà della satira: nella prima sezione
Giovenale si sofferma sugli esempi che i genitori danno ai propri figli attraverso il loro
comportamento, data l’estrema influenza (negativa) che hanno su di essi; “what comes
next is another demonstration of the convertibility of moral-philosophical ideas into a
satiric rhetorical structure. The survey on vices that are transmitted from generation to
generation gives way, at line 107, at a sermon on a single vice: avarice” (KEANE 2007,
p. 36).
Il testo latino qui proposto si fonda su quello stabilito da CLAUSEN 19922, da cui diverge solo – a parte
minimi ritocchi all’interpunzione – al v. 152 (vd. commento ad loc.). Il commento a ciascuna pericope di
testo è preceduto da una traduzione italiana che riprende, pur con frequenti ritocchi, quella recentemente
fornita da SANTORELLI 2011. Sempre all’edizione di Santorelli si deve parte dell’introduzione (supra),
nonché l’articolazione in sezioni qui accolta.
4
Plurima sunt, Fuscine, et fama digna sinistra
[et quod maiorum vitia sequiturque minores]
1a
et nitidis maculam haesuram figentia rebus,
quae monstrant ipsi pueris traduntque parentes.
Si damnosa senem iuvat alea, ludit et heres
bullatus parvoque eadem movet arma fritillo.
5
Nec melius de se cuiquam sperare propinquo
concedet iuvenis, qui radere tubera terrae,
boletum condire et eodem iure natantis
mergere ficedulas didicit nebulone parente
et cana monstrante gula. Cum septimus annus
10
transierit puerum, nondum omni dente renato,
barbatos licet admoveas mille inde magistros,
hinc totidem, cupiet lauto cenare paratu
semper et a magna non degenerare culina.
Mitem animum et mores modicis erroribus aequos
15
praecipit atque animas servorum et corpora nostra
materia constare putat paribusque elementis,
an saevire docet Rutilus, qui gaudet acerbo
plagarum strepitu et nullam Sirena flagellis
conparat, Antiphates trepidi laris ac Polyphemus,
20
tunc felix, quotiens aliquis tortore vocato
uritur ardenti duo propter lintea ferro?
5
Quid suadet iuveni laetus stridore catenae,
quem mire adficiunt inscripta, ergastula, carcer?
Rusticus expectas ut non sit adultera Largae
25
filia, quae numquam maternos dicere moechos
tam cito nec tanto poterit contexere cursu
ut non ter deciens respiret? Conscia matri
virgo fuit, ceras nunc hac dictante pusillas
implet et ad moechum dat eisdem ferre cinaedis.
30
Sic natura iubet: velocius et citius nos
corrumpunt vitiorum exempla domestica, magnis
cum subeant animos auctoribus. Unus et alter
forsitan haec spernant iuvenes, quibus arte benigna
et meliore luto finxit praecordia Titan,
35
sed reliquos fugienda patrum vestigia ducunt
et monstrata diu veteris trahit orbita culpae.
Abstineas igitur damnandis. Huius enim vel
una potens ratio est: ne crimina nostra sequantur
ex nobis geniti, quoniam dociles imitandis
40
turpibus ac pravis omnes sumus, et Catilinam
quocumque in populo videas, quocumque sub axe,
sed nec Brutus erit Bruti nec avunculus usquam.
Nil dictu foedum visuque haec limina tangat
intra quae pater est. Procul, a procul inde puellae
45
6
lenonum et cantus pernoctantis parasiti.
Maxima debetur puero reverentia; si quid
turpe paras, nec tu pueri contempseris annos,
sed peccaturo obstet tibi filius infans.
Nam si quid dignum censoris fecerit ira
50
quandoque et similem tibi se non corpore tantum
nec vultu dederit, morum quoque filius et qui
omnia deterius tua per vestigia peccet,
corripies nimirum et castigabis acerbo
clamore ac post haec tabulas mutare parabis.
55
Unde tibi frontem libertatemque parentis,
cum facias peiora senex vacuumque cerebro
iam pridem caput hoc ventosa cucurbita quaerat?
Hospite venturo cessabit nemo tuorum.
“Verre pavimentum, nitidas ostende columnas,
60
arida cum tota descendat aranea tela,
hic leve argentum, vasa aspera tergeat alter”.
Vox domini furit instantis virgamque tenentis.
Ergo miser trepidas, ne stercore foeda canino
atria displiceant oculis venientis amici,
65
ne perfusa luto sit porticus: et tamen uno
semodio scobis haec emendat servulus unus;
illud non agitas, ut sanctam filius omni
7
aspiciat sine labe domum vitioque carentem?
Gratum est quod patriae civem populoque dedisti,
70
si facis ut patriae sit idoneus, utilis agris,
utilis et bellorum et pacis rebus agendis.
Plurimum enim intererit quibus artibus et quibus hunc tu
moribus instituas. Serpente ciconia pullos
nutrit et inventa per devia rura lacerta:
75
illi eadem sumptis quaerunt animalia pinnis.
Voltur iumento et canibus crucibusque relictis
ad fetus properat partemque cadaveris adfert:
hic est ergo cibus magni quoque volturis et se
pascentis, propria cum iam facit arbore nidos.
80
Sed leporem aut capream famulae Iovis et generosae
in saltu venantur aves, hinc praeda cubili
ponitur: inde autem cum se matura levavit
progenies stimulante fame festinat ad illam
quam primum praedam rupto gustaverat ovo.
85
Aedificator erat Caetronius et modo curvo
litore Caietae, summa nunc Tiburis arce,
nunc Praenestinis in montibus alta parabat
culmina villarum Graecis longeque petitis
marmoribus vincens Fortunae atque Herculis aedem,
90
ut spado vincebat Capitolia nostra Posides.
8
Dum sic ergo habitat Caetronius, inminuit rem,
fregit opes, nec parva tamen mensura relictae
partis erat. Totam hanc turbavit filius amens,
dum meliore novas attollit marmore villas.
95
Quidam sortiti metuentem sabbata patrem
nil praeter nubes et caeli numen adorant,
nec distare putant humana carne suillam,
qua pater abstinuit, mox et praeputia ponunt;
Romanas autem soliti contemnere leges
100
Iudaicum ediscunt et servant ac metuunt ius,
tradidit arcano quodcumque volumine Moyses:
non monstrare vias eadem nisi sacra colenti,
quaesitum ad fontem solos deducere verpos.
Sed pater in causa, cui septima quaeque fuit lux
105
ignava et partem vitae non attigit ullam.
Sponte tamen iuvenes imitantur cetera, solam
inviti quoque avaritiam exercere iubentur.
Fallit enim vitium specie virtutis et umbra,
cum sit triste habitu vultuque et veste severum,
110
nec dubie tamquam frugi laudetur avarus,
tamquam parcus homo et rerum tutela suarum
certa magis quam si fortunas servet easdem
Hesperidum serpens aut Ponticus. Adde quod hunc de
9
quo loquor egregium populus putat adquirendi
115
artificem; quippe his crescunt patrimonia fabris
[sed crescunt quocumque modo maioraque fiunt]
incude adsidua semperque ardente camino.
Et pater ergo animi felices credit avaros
qui miratur opes, qui nulla exempla beati
120
pauperis esse putat; iuvenes hortatur ut illa
ire via pergant et eidem incumbere sectae.
Sunt quaedam vitiorum elementa: his protinus illos
inbuit et cogit minimas ediscere sordes;
mox adquirendi docet insatiabile votum.
125
Servorum ventres modio castigat iniquo
ipse quoque esuriens, neque enim omnia sustinet umquam
mucida caerulei panis consumere frusta,
hesternum solitus medio servare minutal
Septembri nec non differre in tempora cenae
130
alterius conchem aestivam cum parte lacerti
signatam vel dimidio putrique siluro
filaque sectivi numerata includere porri.
Invitatus ad haec aliquis de ponte negabit.
Sed quo divitias haec per tormenta coactas,
135
cum furor haut dubius, cum sit manifesta phrenesis,
ut locuples moriaris, egentis vivere fato?
10
Interea, pleno cum turget sacculus ore,
crescit amor nummi quantum ipsa pecunia crevit,
et minus hanc optat qui non habet. Ergo paratur
140
altera villa tibi, cum rus non sufficit unum
et proferre libet finis maiorque videtur
et melior vicina seges; mercaris et hanc et
arbusta et densa montem qui canet oliva.
Quorum si pretio dominus non vincitur ullo,
145
nocte boves macri lassoque famelica collo
iumenta ad viridis huius mittentur aristas
nec prius inde domum quam tota novalia saevos
in ventres abeant, ut credas falcibus actum.
Dicere vix possis quam multi talia plorent
150
et quot venales iniuria fecerit agros.
“Sed qui sermones, quam foede bucina famae!”
“Quid nocet haec?” inquit. “Tunicam mihi malo lupini
quam si me toto laudet vicinia pago
exigui ruris paucissima farra secantem”.
155
Scilicet et morbis et debilitate carebis
et luctum et curam effugies, et tempora vitae
longa tibi posthac fato meliore dabuntur,
si tantum culti solus possederis agri
quantum sub Tatio populus Romanus arabat.
160
11
Mox etiam fractis aetate ac Punica passis
proelia vel Pyrrhum inmanem gladiosque Molossos
tandem pro multis vix iugera bina dabantur
vulneribus; merces haec sanguinis atque laboris
nulli visa umquam meritis minor aut ingratae
165
curta fides patriae. Saturabat glebula talis
patrem ipsum turbamque casae, qua feta iacebat
uxor et infantes ludebant quattuor, unus
vernula, tres domini; sed magnis fratribus horum
a scrobe vel sulco redeuntibus altera cena
170
amplior et grandes fumabant pultibus ollae.
Nunc modus hic agri nostro non sufficit horto.
Inde fere scelerum causae, nec plura venena
miscuit aut ferro grassatur saepius ullum
humanae mentis vitium quam saeva cupido
175
inmodici census. Nam dives qui fieri volt,
et cito volt fieri; sed quae reverentia legum,
quis metus aut pudor est umquam properantis avari?
“Vivite contenti casulis et collibus istis,
o pueri,” Marsus dicebat et Hernicus olim
180
Vestinusque senex, “panem quaeramus aratro,
qui satis est mensis: laudant hoc numina ruris,
quorum ope et auxilio gratae post munus aristae
12
contingunt homini veteris fastidia quercus.
Nil vetitum fecisse volet, quem non pudet alto
185
per glaciem perone tegi, qui summovet euros
pellibus inversis: peregrina ignotaque nobis
ad scelus atque nefas, quaecumque est, purpura ducit”.
Haec illi veteres praecepta minoribus; at nunc
post finem autumni media de nocte supinum
190
clamosus iuvenem pater excitat: “Accipe ceras,
scribe, puer, vigila, causas age, perlege rubras
maiorum leges; aut vitem posce libello,
sed caput intactum buxo narisque pilosas
adnotet et grandes miretur Laelius alas;
195
dirue Maurorum attegias, castella Brigantum,
ut locupletem aquilam tibi sexagesimus annus
adferat; aut, longos castrorum ferre labores
si piget et trepidum solvunt tibi cornua ventrem
cum lituis audita, pares quod vendere possis
200
pluris dimidio, nec te fastidia mercis
ullius subeant ablegandae Tiberim ultra,
neu credas ponendum aliquid discriminis inter
unguenta et corium: lucri bonus est odor ex re
qualibet. Illa tuo sententia semper in ore
205
versetur dis atque ipso Iove digna poeta:
13
‘Unde habeas quaerit nemo, sed oportet habere’”.
[Hoc monstrant vetulae pueris repentibus assae,
hoc discunt omnes ante alpha et beta puellae.]
Talibus instantem monitis quemcumque parentem
210
sic possem adfari: “Dic, o vanissime, quis te
festinare iubet? Meliorem praesto magistro
discipulum. Securus abi: vinceris, ut Aiax
praeteriit Telamonem, ut Pelea vicit Achilles.
Parcendum est teneris; nondum implevere medullas
215
maturae mala nequitiae. Cum pectere barbam
coeperit et longae mucronem admittere cultri,
falsus erit testis, vendet periuria summa
exigua et Cereris tangens aramque pedemque.
Elatam iam crede nurum, si limina vestra
220
mortifera cum dote subit. Quibus illa premetur
per somnum digitis! Nam quae terraque marique
adquirenda putas brevior via conferet illi;
nullus enim magni sceleris labor. ‘Haec ego numquam
mandavi’ dices olim ‘nec talia suasi.’
225
Mentis causa malae tamen est et origo penes te.
Nam quisquis magni census praecepit amorem
et laevo monitu pueros producit avaros
[et qui per fraudes patrimonia conduplicari]
14
dat libertatem et totas effundit habenas
230
curriculo; quem si revoces, subsistere nescit
et te contempto rapitur metisque relictis.
Nemo satis credit tantum delinquere quantum
permittas: adeo indulgent sibi latius ipsi.
Cum dicis iuveni stultum qui donet amico,
235
qui paupertatem levet attollatque propinqui,
et spoliare doces et circumscribere et omni
crimine divitias adquirere, quarum amor in te
quantus erat patriae Deciorum in pectore, quantum
dilexit Thebas, si Graecia vera, Menoeceus,
240
in quorum sulcis legiones dentibus anguis
cum clipeis nascuntur et horrida bella capessunt
continuo, tamquam et tubicen surrexerit una.
Ergo ignem, cuius scintillas ipse dedisti,
flagrantem late et rapientem cuncta videbis.
245
Nec tibi parcetur misero, trepidumque magistrum
in cavea magno fremitu leo tollet alumnus.
Nota mathematicis genesis tua, sed grave tardas
expectare colus: morieris stamine nondum
abrupto. Iam nunc obstas et vota moraris,
250
iam torquet iuvenem longa et cervina senectus.
Ocius Archigenen quaere atque eme quod Mithridates
15
composuit: si vis aliam decerpere ficum
atque alias tractare rosas, medicamen habendum est,
sorbere ante cibum quod debeat et pater et rex”.
255
Monstro voluptatem egregiam, cui nulla theatra,
nulla aequare queas praetoris pulpita lauti,
si spectes quanto capitis discrimine constent
incrementa domus, aerata multus in arca
fiscus et ad vigilem ponendi Castora nummi,
260
ex quo Mars Ultor galeam quoque perdidit et res
non potuit servare suas. Ergo omnia Florae
et Cereris licet et Cybeles aulaea relinquas:
tanto maiores humana negotia ludi.
An magis oblectant animum iactata petauro
265
corpora quique solet rectum descendere funem
quam tu, Corycia semper qui puppe moraris
atque habitas, Coro semper tollendus et Austro,
perditus ac vilis sacci mercator olentis,
qui gaudes pingue antiquae de litore Cretae
270
passum et municipes Iovis advexisse lagonas?
Hic tamen ancipiti figens vestigia planta
victum illa mercede parat, brumamque famemque
illa reste cavet: tu propter mille talenta
et centum villas temerarius. Aspice portus
275
16
et plenum magnis trabibus mare: plus hominum est iam
in pelago. Veniet classis quocumque vocarit
spes lucri, nec Carpathium Gaetulaque tantum
aequora transiliet, sed longe Calpe relicta
audiet Herculeo stridentem gurgite solem.
280
Grande operae pretium est, ut tenso folle reverti
inde domum possis tumidaque superbus aluta,
Oceani monstra et iuvenes vidisse marinos.
Non unus mentes agitat furor. Ille sororis
in manibus voltu Eumenidum terretur et igni,
285
hic bove percusso mugire Agamemnona credit
aut Ithacum. Parcat tunicis licet atque lacernis,
curatoris eget qui navem mercibus implet
ad summum latus et tabula distinguitur unda,
cum sit causa mali tanti et discriminis huius
290
concisum argentum in titulos faciesque minutas.
Occurrunt nubes et fulgura: “Solvite funem,”
frumenti dominus clamat piperisve coëmpti,
“nil color hic caeli, nil fascia nigra minatur;
aestivom tonat”. Infelix hac forsitan ipsa
295
nocte cadet fractis trabibus fluctuque premetur
obrutus et zonam laeva morsuque tenebit.
Sed cuius votis modo non suffecerat aurum
17
quod Tagus et rutila volvit Pactolus harena,
frigida sufficient velantes inguina panni
300
exiguusque cibus, mersa rate naufragus assem
dum rogat et picta se tempestate tuetur.
Tantis parta malis cura maiore metuque
servantur: misera est magni custodia census.
Dispositis praedives amis vigilare cohortem
305
servorum noctu Licinus iubet, attonitus pro
electro signisque suis Phrygiaque columna
atque ebore et lata testudine. Dolia nudi
non ardent Cynici; si fregeris, altera fiet
cras domus atque eadem plumbo commissa manebit.
310
Sensit Alexander, testa cum vidit in illa
magnum habitatorem, quanto felicior hic qui
nil cuperet quam qui totum sibi posceret orbem
passurus gestis aequanda pericula rebus.
Nullum numen habes, si sit prudentia: nos te,
315
nos facimus, Fortuna, deam. Mensura tamen quae
sufficiat census, si quis me consulat, edam:
in quantum sitis atque fames et frigora poscunt,
quantum, Epicure, tibi parvis suffecit in hortis,
quantum Socratici ceperunt ante penates;
320
numquam aliud natura, aliud sapientia dicit.
18
Acribus exemplis videor te cludere? Misce
ergo aliquid nostris de moribus, effice summam
bis septem ordinibus quam lex dignatur Othonis.
Haec quoque si rugam trahit extenditque labellum,
325
sume duos equites, fac tertia quadringenta.
Si nondum implevi gremium, si panditur ultra,
nec Croesi fortuna umquam nec Persica regna
sufficient animo nec divitiae Narcissi,
indulsit Caesar cui Claudius omnia, cuius
330
paruit imperiis uxorem occidere iussus.
(I) 1-46. Una prima rassegna di vizi propone icasticamente il tema della ‘tramandabilità’ del vizio di padre in figlio. 1-3: l’assunto di partenza è che i vizi peggiori, quelli che
si radicano più a fondo nell’animo dei giovani, sono da essi appresi proprio tra le mura
domestiche grazie all’esempio dei genitori. 4-5: il primo vizio cui si allude, in un solo
distico, è quello del gioco, che sarà inevitabilmente tramandato di padre in figlio. 6-14:
segue il riferimento alla golosità: se fin dall’infanzia il giovane è stato abituato a raffinate ghiottonerie, nemmeno gli insegnamenti dei più severi maestri potranno distoglierlo dal tornare a tali abitudini. 15-24: nella casa di un uomo che gode a punire gli
schiavi non si potrà certo imparare mitezza d’animo e indulgenza. 25-30: lo stesso discorso vale per la casa dell’adultera: la figlia di una che abbia innumerevoli amanti
imparerà da giovane a essere complice della madre e, quando poi sarà il suo turno, ne
seguirà inevitabilmente l’esempio. 31-46: da una simile analisi ‘preliminare’ si deduce
che l’imitazione dei vizi dei genitori da parte dei figli è quasi una legge di natura: meglio allora astenersi dal commettere azioni disonorevoli, soprattutto in presenza dei figli, se non altro perché ciò rischia di comportare un progressivo decadimento dell’intera società: mentre è scontato che non mancheranno mai viziosi, infatti, non è certo che
possano sempre esserci personalità integerrime a contrastarli.
19
1-14. Plurima ~ culina: “Sono moltissimi, o Fuscino, e sia degni di una fama sinistra,
sia tali da imprimere una macchia indelebile anche su ciò che è candido, i comportamenti che i genitori stessi mostrano e trasmettono ai fanciulli. Se al vecchio piacciono i
rovinosi dadi, anche l’erede vi gioca quando ha ancora il ciondolo al collo, e nel suo
piccolo bussolotto muove le medesime armi. Né potrà concedere migliori aspettative su
di sé ad alcun parente quel giovane che ha imparato, sotto la guida dell’antica golosità
di un padre fannullone, a pelare tartufi, a preparar boleti e a immergere nello stesso sugo
dei beccafichi che vi nuotino. Quando il fanciullo avrà compiuto il settimo anno, prima
ancora che gli siano rispuntati tutti i denti, per quanto tu gli metta attorno mille maestri
barbuti di là, e altrettanti di qua, lui desidererà banchettare sempre in gran pompa, e non
degenerare dall’alta cucina”. Sin dal primo verso viene comunicato al lettore quello che
sarà il tema della prima parte della satira: il vitium e la sua naturale imitazione da parte
dei fanciulli, che assistono ad azioni condannabili da parte dei propri genitori. I primi
vizi ad essere stigmatizzati sono il gioco d’azzardo e la golosità. – 1. Plurima sunt: cf.
5, 130-131: Plurima sunt quae / non audent homines pertusa dicere laena. – Fuscine: il
destinatario del componimento è ignoto, così come accade per le satire 11-16. Il poeta,
comunque, dimentica subito il suo interlocutore iniziale, citato solo in questo verso, per
rivolgersi in seguito a un lettore generico. – fama sinistra: cf. 14, 152: Sed qui sermones, quam foede bucina famae!. L’aggettivo sinistra carica fama di un’accezione particolarmente negativa (cf. Tac. Ann. 1, 51, 5: Undique atroces nuntii, sinistra ex urbe fama; 6, 32, 40: Eo de nomine haud sum ignarus sinistram in urbem famam… memorari;
11, 19, 3: Corbulo semina rebellionis praebebat, ut laeta apud plerosque, ita apud quosdam sinistra fama; ThlL V.1, 225, 21-23). – 1a. [et quod… minores]: dopo il v. 1
molti manoscritti (ma non i migliori) riportano questo verso privo di senso, necessariamente omesso dalla traduzione. Probabilmente si tratta di una glossa o di un titolo apposto in apertura della satira ed entrato surrettiziamente nel testo. – 1-2. et… et: questo tipo di correlazione enfatizza i due distinti effetti negativi dei cattivi esempi dei genitori.
– 2. nitidis… rebus: espressione indeterminata, come plurima. L’iperbato permette una
giustapposizione quasi ossimorica di nitidis a maculam, come per sottolineare il contrasto tra il candore dei fanciulli e le nefandezze degli adulti. – figentia: da figere = ‘imprimere’ (cf. OLD2 8b), ad enfatizzare l’influenza dei genitori sui bambini, plasmati come se si trattasse di cera. – 3. monstrant… traduntque: i genitori, comportandosi in
maniera deplorevole, danno ai figli cattivi esempi, e trasmettono loro automaticamente
tutti i vizi peggiori (cf. 10, 363: Monstro quod ipse tibi possis dare). – parentes: il soggetto (inaspettato) della relativa viene posto a fine verso per aumentare l’effetto sorpresa
(cf. 12, 15-16: ob reditum… amici; 16, 54-56: Ergo Coranum… pater): fonte di corruzione sono proprio coloro che dovrebbero invece custodire la tradizione e i buoni costumi. – 4. damnosa… alea: l’iperbato conferisce enfasi al giudizio negativo sul gioco
d’azzardo (cf. 1, 88-89: Alea quando / hos animos?; 11, 176: Alea turpis; Mart. 14, 19,
1: Alea parva nuces et non damnosa videtur). – senem: cf. Suet. Aug. 71, 1: Aleae rumorem nullo modo expavit lusitque simpliciter et palam oblectamenti causa etiam senex
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ac praeterquam Decembri mense aliis quoque festis et profestis diebus. – 5. bullatus: =
praetextatus, più comune in questo senso (cf. 1, 78: praetextatus adulter). La bulla era
un ciondolo d’oro o di cuoio a forma di sfera che i giovani liberi portavano insieme alla
toga praetexta fino al diciassettesimo anno d’età, quando poi la deponevano nel rito di
passaggio all’età adulta. L’uso della bulla, che aveva anche funzione di amuleto contro
il malocchio, proveniva dall’Etruria; varie bullae, infatti, sono state ritrovate nelle tombe etrusche (cf. 5, 164-165: Etruscum puero si contigit aurum / vel nodus tantum et signum de paupere loro?; 13, 33: senior bulla dignissime). – eadem… arma: = tesserae
o tali, cioè i dadi da gioco (cf. 11, 132: tessellae). Metafore belliche sono frequentemente associate al gioco d’azzardo; cf. e. g. 1, 91-92: Proelia quanta illic dispensatore videbis / armigero!; Ov. Trist. 4, 1, 32: nec nisi lusura movimus arma manu. – parvo…
fritillo: il fritillus era il bussolotto in cui venivano agitati i dadi durante il gioco. Il giovane vizioso ne ha già uno proprio ‘piccolo’, cioè commisurato alla sua età. – 6. melius:
i. e. meglio del giovane giocatore d’azzardo. – 7. iuvenis: un giovane, in contrapposizione al bullatus. – tubera terrae: ‘tartufi’, alimento pregiato e costoso (cf. 5,
116: Post hunc tradentur tubera). – 8. boletum: si tratta di un tipo di funghi a cui appartengono varietà commestibili e pregiate, come il porcino (cf. Mart. 12, 17, 4: Cenat
boletos, ostrea, sumen, aprum), e altre fortemente tossiche, come quella che Agrippina
offrì al marito, l’imperatore Claudio, morto perciò avvelenato (cf. 5, 147-148: boletus
domino, sed quales Claudius edit / ante illum uxoris, post quem nihil amplius edit; 6,
620-621: minus ergo nocens erit Agrippinae / boletus; Mart. 1, 20, 4: Boletum qualem
Claudius edit, edas). – eodem iure: eadem al v. 5 potrebbe suggerire che eodem in questo verso vada inteso nel senso di ‘lo stesso di suo padre’, ma la differente struttura della
frase non supporta una tale ipotesi; si tratta qui invece dello ‘stesso sugo’ con cui sono
conditi i funghi (cf. Suet. Tib. 42, 2: boleti et ficedulae et ostrea et turdi; Sen. Epist. 95,
28: uno iure perfusa). – 9. mergere: solitamente implica l’‘ingurgitare’ (cf. 11, 40:
mersis in ventrem), ma in questo contesto è più adatto il comune senso culinario del
verbo: ‘immergere’, che sta bene con i precedenti radere e condire, sebbene natantis
diventi a questo punto pleonastico (cf. Hor. Sat. 2, 8, 42-43: adfertur squillas inter murena natantis / in patina porrecta; Pers. 5, 183: cauda natat thynni). – ficedulas: ‘beccafichi’, così chiamati perché ghiotti di fichi; cf. Mart. 13, 49 (Ficedulae): Cum me ficus
alat, cum pascar dulcibus uvis, / cur potius nomen non dedit uva mihi?. Qui il metro richiede ficĕd-, mentre altrove è ficēd-, così come ci si attende (cf. acrēdula, monēdula,
querquēdula). Data l’insolita prosodia, Lachmann suggeriva di leggere ficellas, che però
è parola non attestata. Meglio quindi mantenere il testo tràdito, considerando anche che
Mart. 13, 48-50 riporta la sequenza boleti, ficedulae, terrae tubera. – 9-10. nebulone…
gula: nebulone parente e cana gula costituiscono complessivamente un’endiadi, e sono
entrambi soggetti di monstrante (ablativo assoluto). – 10. cana… gula: di fatto è astratto per il concreto = ‘un vecchio ghiottone’ (cf. 5, 158: quis melior plorante gula?; 15,
90: prima voluptatem gula senserit). – septimus annus: a sette anni i bambini cominciavano ad andare a scuola, come attesta Quintiliano in Inst. 1, 1, 15: Quidam litteris in-
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stituendos, qui minores septem annis essent, non putaverunt, quod illa primum aetas et
intellectum disciplinarum capere et laborem pati possent. Inoltre, intorno a quest’età
avveniva il fisiologico cambio dei denti, a cui ci si riferisce con dente renato del verso
successivo. Spesso nella letteratura latina il septimus annus viene associato a questo
cambiamento; cf. Varr. ap. Gell. 3, 10, 12: Dentes… cadere annis septimis; Plin. Nat. 7,
68: septimo (sc. dentes) eosdem decidere anno aliosque suffici; Plaut. Men. 1116: Septuennis: nam tunc dentes mihi cadebant primulum. – 12. barbatos magistros: = filosofi, la cui barba lunga era simbolo di austerità. L’educazione del bambino viene affidata a
maestri filosofi, ma neppure questo riuscirà a correggerlo. Sulla barba come simbolo
esteriore ostentato dai filosofi cf. ad es. Pers. 4, 1, che di Socrate dice: barbatum hoc
crede magistrum dicere; Hor. Sat. 2, 3, 35: sapientem pascere barbam. – inde… hinc:
‘da una parte e dall’altra’ (cf. 1, 65: hinc atque inde patens). – 13. paratu: ‘apparecchiatura’ (cf. OLD2 2c; Val. Fl. 2, 652-653: mensaeque paratu / regifico). – 14. degenerare: spesso utilizzato ironicamente (cf. ThlL V.1, 382, 33-40; OLD2 1b): ma in
questo caso il lettore non percepisce tale effetto fino alla parola culina, usata para prosdokian e col valore astratto di ‘cuisine’ (cf. 5, 162: nidore suae… culinae; Hor. Sat. 1,
5, 38: Murena praebente domum, Capitone culinam; ThlL IV, 1288, 68-78).
15-24. Mitem ~ carcer?: “Può forse trasmettere mitezza d’animo e indulgenza verso i
piccoli errori, e pensare che le anime e i corpi dei servi siano fatti della nostra stessa materia e di una medesima sostanza, o non insegna piuttosto a esser crudele, Rùtilo, che
gode dell’acre rumore delle percosse e non mette nessuna Sirena alla pari con le sferze,
lui che per la sua casa terrorizzata è un Antìfate, un Polifemo felice soltanto quando,
convocato l’aguzzino, qualcuno viene marchiato col ferro rovente per un paio di tovaglioli? Che insegnamento può dare a un giovane uno che si rallegra dello stridore della
catena, uno che va in estasi per marchiature a fuoco, ergastoli, celle?”. Prosegue
l’elenco dei comportamenti deprecabili a cui i fanciulli assistono in famiglia: si condanna ora la crudeltà nei confronti dei servi. In realtà, dopo il v. 14 Housman inserisce – a
ragione secondo COURTNEY 1980, p. 564 – i vv. 23-24, in modo tale che il poeta si
chieda prima in generale che tipo di insegnamenti possa mai dare un genitore del genere, e poi si soffermi in particolare sull’esempio trasmesso al figlio con le sue azioni disumane nei confronti degli schiavi (cf. HOUSMAN 1931, p. 124: “23 et 24 ante 15 posui.
Primum universe quid suadeat talis pater interrogatur, deinde num mitem animum
praecipiat; quem ordinem libri invertunt”). L’argomento non ha però un peso sufficiente
a motivare un’alterazione nella sequenza tràdita dei versi, alla quale qui ci si attiene. –
15. Mitem animum et mores modicis: la mitezza di carattere è enfatizzata fonicamente
dall’iterazione di /m/. – mores erroribus aequos: mores… aequos = ‘equanimità’; cf.
Sen. Ira 2, 10, 7: Placidus… sapiens et aequus erroribus, non hostis sed correptor peccantium. – 16. nostrā: concordato con materiā del verso successivo. – 16-17. cenno
(sarcastico) alla dottrina stoica sulla natura degli schiavi, ritenuta uguale a quella degli
22
uomini liberi. Sull’argomento cf. 6, 222: ‘O demens, ita servus homo est?’; Sen. Epist.
47, 10: vis tu cogitare istum, quem servuum tuum vocas, ex isdem seminibus ortum eodem frui caelo, aeque spirare, aeque vivere, aeque mori?; Quint. Inst. 3, 8, 31: liberos
enim natura omnes et eisdem constare elementis et fortasse antiquis etiam nobilibus ortos, dici potest; Macr. Sat. 1, 11, 6: ex isdem tibi et constent et alantur elementis eundemque spiritum ab eodem principe carpant. – 18. Rutilus: non è lo stesso di 11, 2.
Probabilmente il nome è citato in questo caso per indicare genericamente il tipo di padrone severo e sadico con i propri schiavi. – 19. nullam Sirena flagellis conparat: per
il padrone crudele descritto da Giovenale nessun suono, neppure il canto delle Sirene, è
più gradito di quello dei colpi inferti ai poveri schiavi. Per la dizione cf. 12, 121-122:
Laudo meum civem, nec comparo testamento / mille rates. – Sirena: desinenza greca di
accusativo, come assai spesso con i nomi propri. Le Sirene erano esseri con il corpo per
metà di donna e per metà di uccello. Secondo la tradizione omerica (cf. Hom. Od. 12,
39-54) abitavano un’isola mortifera disseminata di cadaveri in putrefazione nei pressi di
Scilla e Cariddi, e con il loro canto riuscivano ad ammaliare i marinai delle navi che
transitavano in quella zona, persuadendoli a sbarcare sulla loro isola, dove avrebbero
trovato la morte (cf. 9, 148-150: nam cum pro me Fortuna vocatur, / adfixit ceras illa de
nave petitas / quae Siculos cantus effugit remige surdo). – flagellis: sempre in riferimento a schiavi cf. 6, 479: rubet ille flagello. – 20. Antiphates: Antìfate era il re dei
Lestrigoni, giganti antropofagi che distrussero la flotta di Ulisse (cf. Hom. Od. 10, 80132). – Polyphemus: Polifemo, il noto ciclope che divorò alcuni compagni di Ulisse e
ne venne poi accecato (cf. Hom. Od. 9, 176-555). In questo caso, insieme ad Antìfate,
costituisce un esempio antonomastico di disumana crudeltà. Le due figure vengono citate in coppia anche in 15, 18: inmanis Laestrygonas et Ciclopas e Ov. Ex Pont. 2, 2, 113115: Nec tamen Aetnaeus vasto Polyphemus in antro / accipiet voces Antiphatesve tuas,
/ sed placidus facilisque parens veniaeque paratus. L’uso di una parola quadrisillaba in
fine di verso non è insolito in caso di lessemi stranieri; la presenza del monosillabo precedente (ac) garantisce il corretto andamento ritmico. – 21. aliquis: ‘qualcuno’ tra gli
schiavi. – tortore vocato: cf. 6, 480: sunt quae tortoribus annua praestent; Sen. Mai.
Contr. 2, 5, 5: tortor vocatur. – 22. uritur: gli schiavi sorpresi a rubare in casa venivano
marchiati a fuoco sulla fronte con la lettera F, che stava appunto per FVR (‘ladro’). –
ardenti… ferro: cioè con lam(m)inae, piastre roventi di metallo usate come marchi (cf.
6, 624: haec poscit ferrum atque ignes). – lintea: metonimia per ‘tovaglioli’ o ‘asciugamani’ di lino (cf. 3, 263: pleno componit lintea guto). Lo schiavo, dunque, viene punito per cose di infimo valore, e ciò aggrava la crudeltà di Rùtilo, che gode
nell’infliggergli una pena tanto dolorosa e infamante. Probabilmente un paio di asciugamani erano stati rubati alle terme, come accadeva spesso (cf. Catull. 12, 2-3: in ioco
atque vino / tollis lintea neglegentiorum; 25, 6: remitte pallium mihi meum, quod involasti; Mart. 12, 28 su un ladro di mappae). – 23. iuveni: i. e. fīlĭō, inutilizzabile per ragioni metriche. Lo stesso espediente è usato anche altrove in questa (vv. 107; 121; 191;
235; 251) ed altre satire (e. g. 3, 158: iuvenes… lanistae; 4, 95: iuvene indigno; 8, 262:
23
iuvenes ipsius consulis; 10, 310: iuvenis specie… tui). – stridore catenae: l’espressione
dal tono epico (cf. Verg. Aen. 6, 558: tum stridor ferri tractaeque catenae) sottolinea
ancora una volta l’estrema crudeltà del padrone; il riferimento, infatti, è al rumore prodotto dalle catene con cui erano legati gli schiavi mentre lavoravano. – 24. adficiunt:
sc. gaudio, suggerito da laetus del verso precedente. – inscripta: sott. stigmata (cf. 10,
183: stigmate dignum; Sen. Ben. 4, 37, 3: avidissimo naufrago stigmata inscriberet;
ThlL VII.1, 1846, 53-60; 1848, 23-26; 1849, 80 - 1850, 6). In Mart. 8, 75, 9 si trova inscripti = στιγματίαι. Altrove inscripta è usato come sostantivo nel senso di ‘titoli, iscrizioni’ (Gell. praef. 9: quaedam alia inscripta nimis lepida; Iuv. 8, 168: inscripta lintea).
– ergastula: l’ergastulum era una sorta di prigione privata, in cui venivano confinati gli
schiavi più pericolosi o indisciplinati. Esso costituiva un tormento in più, dato che in tal
caso gli schiavi erano costretti a vivere e a lavorare nello stesso luogo (cf. 6, 151: pueros omnes, ergastula tota; 8, 180: Nempe in Lucanos aut Tusca ergastula mittas; Apul.
Apol. 47, 6: Quindecim liberi homines populus est, totidem servi familia, totidem vincti
ergastulum). – carcer: la prigione nel latifundium. Per l’accostamento di ergastulum e
carcer cf. Liv. 7, 4, 4: in opus servile, prope in carcerem atque in ergastulum.
25-30. Rusticus ~ cinaedis: “Tu, ingenuo, ti aspetti che non sia adultera la figlia di
Larga, che mai potrebbe dirti i nomi degli amanti della madre tanto in fretta, né metterli
in fila tanto rapidamente, da non doversi fermare a prender fiato una dozzina di volte?
Da ragazza era complice della madre, ora è sotto la sua dettatura che riempie bigliettini,
e li affida agli stessi invertiti perché li portino all’amante”. Giovenale passa ora a trattare la lussuria, attraverso la figura-tipo della donna adultera e lasciva. – 25. Rusticus expectas: in sostanza: ‘Sei così ingenuo da aspettarti che…?’ (cf. 6, 239-240: Scilicet expectas ut tradat mater honestos / atque alios mores quam quos habet?). L’espressione è
probabilmente una reminiscenza di Hor. Epist. 1, 2, 42: rusticus expectat dum defluat
amnis. – Largae: una matrona adultera (come Oppia di 10, 220), non menzionata altrove. Possibili identificazioni conducono a Caecina A. F. Larga o a Larcia Priscilla, rispettivamente moglie e figlia di A. Larcius Lepidus (CIL X, 6659) di Anzio. – 26-28.
quae… respiret: probabilmente si ha qui una doppia iperbole: gli amanti della donna
sono talmente numerosi che la figlia non solo non riesce a ricordarli ed elencarli tutti di
seguito, ma non sarebbe in grado neppure di metterli in fila alla svelta in attesa della
madre. Altrimenti si deve ritenere che qui cursu non sia usato in senso proprio, e che
l’incapacità della ragazza sia solo quella di riuscire a dire i nomi degli amanti in fretta
senza prendere fiato molte volte. Da notare è anche l’allitterazione di /t/ e /c/ nell’intero
verso. Per contexere cf. OLD2 2b. – ter deciens: lett. ‘tre volte (e) dieci volte’, espressione indefinita per indicare un numero piuttosto elevato (cf. it. ‘una dozzina’). Nella
letteratura latina superstite, ‘tredici’ appare utilizzato come numero indefinito solo in
questo caso; l’uso ha invece numerose occorrenze in greco. – respiret: ‘prenda fiato’:
una pausa qui iconizzata dalla susseguente dieresi bucolica, che accentua l’enfasi sul
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deprecabile esempio dato dalla madre alla figlia. – conscia: già da piccola, la ragazza si
faceva complice degli adulterî della madre (cf. 3, 49-50: Quis nunc diligitur nisi conscius et cui fervens / aestuat occultis animus semperque tacendis?; Ov. Ars 3, 621: conscia cum possit scriptas portare tabellas). – 29. ceras: = tabellas (cf. 6, 233: missis a
corruptore tabellis; 277: quae scripta et quot lecture tabellas; 9, 36-37: blandae adsidue densaeque tabellae / sollicitent), tavolette in legno ricoperte di cera e usate anche
per scrivere lettere e bigliettini d’amore (per lo stesso uso di cerae cf. v. 191). – nunc:
quando è ormai ella stessa donna sposata, non più virgo. – hac: la madre della giovane.
– pusillas: solitamente queste tavolette erano di piccole dimensioni, per garantirne la
segretezza e poterle nascondere facilmente; tuttavia COURTNEY 1980, p. 565, basandosi
sul v. 5 (vd. qui il commento ad loc.), non esclude che il poeta possa qui riferirsi a una
sposa-bambina, che come tale usa tavolette più piccole, commisurate alla sua età. L’età
minima stabilita dalla legge per il matrimonio era di dodici anni, ma in alcuni casi accadeva che le fanciulle si sposassero anche prima. – 30. dat… ferre: anziché dat… ferendas: l’infinito ha valore finale (cf. 6, 157-158: Hunc dedit olim / barbarus incestae gestare Agrippa sorori; Verg. Aen. 2, 211: patribusque dedit gestare Latinis; Hor. Carm.
1, 26, 2-3: tradam… portare; ThlL V.1, 1688, 59-73). – eisdem: ĕīsdem, come in Manil. 2, 707: idcirco, quamquam signis nascantur eisdem. – cinaedis: in questo caso i cinedi hanno il ruolo di ‘messaggeri’ tra le matrone e i loro amanti. Nella sat. 6 si fa riferimento ad alcuni cinedi accolti dalle donne in casa propria come insegnanti di danze
lascive e trattati come commensali e amici, quindi complici e consiglieri nei loro affari
adulteri (cf. 6, O 17-20: Horum consiliis nubunt subitaeque recedunt, / his languentem
animum †servant† et seria vitae, / his clunem atque latus discunt vibrare magistris, /
quicquid praeterea scit qui docet).
31-46. Sic ~ parasiti: “Così impone la natura: più in fretta, più rapidamente ci corrompono gli esempi dei vizi ricevuti in famiglia, poiché si insinuano negli animi ad opera di
maestri autorevoli. A disprezzarli potrebbero essere uno, forse due giovani, cui con benevola arte e migliore argilla il Titano plasmò i precordi, ma tutti gli altri li guidano le
orme dei padri, che sarebbero piuttosto da fuggire, e la strada dell’antico vizio, tanto a
lungo indicata. Astieniti, dunque, da ciò che è degno di condanna. C’è una ragione per
farlo, efficace anche se fosse la sola: coloro che noi generiamo non devono seguire i nostri misfatti, perché tutti siamo docili a imitare ciò che è turpe e disonesto, e potrai trovare un Catilina in qualunque popolo, sotto qualunque cielo, ma non ovunque ci sarà
Bruto o lo zio di Bruto. Niente che sia turpe a dirsi e a vedersi sfiori la soglia della casa
in cui c’è un padre. Via, via da lì le ragazze dei lenoni e il canto di un parassita nottambulo!”. Giovenale conclude questa prima sezione della satira formulando l’unica soluzione possibile per arginare tutto ciò che ha descritto nei versi precedenti: evitare comportamenti improntati a vitium che possano influire negativamente sull’educazione dei
fanciulli. – 31. velocius et citius: pleonasmo (cf. 2, 34: iure ac merito). – 32-33. mag-
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nis… auctoribus: ablativo assoluto, piuttosto che semplice strumentale. Il senso di fondo, comunque, non cambia apprezzabilmente. Auctores indica qui coloro che sono in
grado di persuadere con autorevolezza (cf. OLD2 6a), nel caso di specie i genitori. – 33.
Unus et alter: cf. Tac. Ann. 3, 34, 5: ob unius aut alterius imbecillum animum. Di nuovo una dieresi bucolica marca uno stacco che dà enfasi alla susseguente insistenza sulla
pervasività del vizio. – 34. arte benigna: cf. Val. Fl. 4, 554: sociis ducibusque deis
atque arte benigna. – 35. luto: = πηλός, ‘caolino’, un’argilla morbida di origine naturale. Il termine è usato spesso in riferimento alla creazione dell’uomo, quando se ne voglia
sottolineare l’umile origine (cf. 6, 13: compositi luto). La determinazione meliore aggiunge un ulteriore tocco di ironia all’espressione. Cf. per converso Claud. In Eutr. 2,
469: Epimeteo plasmò gli uomini deteriore luto. – finxit: = ἔπλασε, come un vasaio. Cf.
già Call. fr. 493 Pfeiffer: “se Prometeo ti plasmò (ἔπλασε), e non da altro fango sei nato” (tr. D’Alessio). – praecordia: = φρένες, ‘diaframma, petto’, usato come cor, considerato la sede delle qualità mentali e morali (cf. 1, 167: tacita sudant praecordia culpa;
Ov. Met. 11, 149: rursus erant domino stultae praecordia mentis). – Titan: = Prometeo,
il titano che secondo il mito (cf. Hes. Th. 507-616) plasmò l’uomo con la creta, animata
da una particella di fuoco rubato agli dei (cf. Hor. Carm. 1, 16, 13-15: Fertur Prometheus addere principi / limo coactus particulam undique / desectam; Ov. Met. 1, 76-88).
– 36. rĕlĭquōs: Giovenale dà scansione anapestica (qui come in 5, 149: Virro sibi et reliquis Virronibus illa iubebit; 10, 260: portante ac reliquis fratrum cervicibus inter),
mentre solitamente nella poesia epica la prima sillaba viene considerata lunga. – vestigia: la stessa metafora si ritrova al v. 53. – 37. monstrata: cf. v. 3. – orbita: ‘la strada
battuta’, quella indicata dai genitori. Il termine porta avanti la metafora introdotta da vestigia (cf. Cic. Att. 2, 21, 2: sic orbem rei publicae esse conversum ut vix sonitum audire, vix ingressam orbitam videre quis posset). – 38. i primi quattro piedi del verso costituiscono un asserto epigrammatico in sé concluso. – Abstineas: congiuntivo esortativo,
perché non si stanno dando ordini (← imperativo), ma si sta facendo suasione morale. –
38-39. vel / una: anche se fosse l’unica, quella indicata da Giovenale sarebbe una ragione più che sufficiente per evitare comportamenti deprecabili: non bisogna fornire
esempi negativi ai propri figli, giacché i vizi si trasmettono con estrema facilità e perciò
dilagano (vv. 40-42), laddove non è ovvio che vi siano sempre (famiglie di) virtuosi ad
opporsi (v. 43). – 40. cf. Sen. Cons. Helv. 10, 10: cum (sc. Apicius) iuventutem ad imitationem sui sollicitaret etiam sine malis exemplis per se docilem. – 41. turpibus ac pravis: entrambi neutri, interpretabili come dativi (cf. Sil. 1, 237: Nec Cereri terra indocilis
nec inhospita Baccho) o ablativi (cf. Plin. Nat. 10, 120: Latino sermone dociles). – 4143. et Catilinam… usquam: cf. Sen. Epist. 97, 10: omne tempus Clodios, non omne
Catones feret. Ad deteriora faciles sumus. Per Catilina come nome-tipo ad indicare un
criminale cf. 2, 27: Clodius accuset moechos, Catilina Cethegum; 8, 231-232: Quid, Catilina, tuis natalibus atque Cethegi / inveniet quisquam sublimius?; 10, 288: iacuit Catilina cadavere toto. – 42. quocumque… quocumque: = quolibet… quolibet. L’uso
dell’indefinito relativo (quicumque) in luogo di quello assoluto (quilibet) si fa via via
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più frequente nel latino post-classico, affermandosi poi negli esiti romanzi (it. ‘chiunque’, etc.). Per altri esempi in Giovenale vd. ad v. 210. – axe: lett. ‘asse celeste’, cioè
‘cielo’, quindi ‘parte del mondo’ (cf. 8, 116: Gallicus axis). – 43. Brutus: Marco Giunio Bruto il cesaricida, qui ricordato come difensore della libertà repubblicana (cf. 5, 37:
Brutorum et Cassi natalibus). Non è un exemplum comune, trattandosi di un precedente
che risultava ‘scomodo’ in età imperiale, giacché con il principato si era affermata proprio quella autocrazia contro cui Bruto si era battuto, e proprio ad opera del successore –
Augusto – di quel Cesare che Bruto stesso aveva assassinato. – Bruti… avunculus:
Marco Porcio Catone l’Uticense, morto suicida a Utica dopo le vittorie di Cesare su
Pompeo a Farsalo e a Tapso. Era fratellastro di Servilia, madre di Bruto, e quindi zio
materno del cesaricida. È qui citato, insieme al nipote, come uomo probo e custode dei
costumi per antonomasia (cf. 2, 40: Tertius e caelo cecidit Cato). – 44. dictu foedum
visuque: i due supini passivi vengono chiariti chiasticamente nei versi successivi da
cantus (v. 46) e da puellae (v. 45). Il ritmo è lento e solenne, come al v. 49. Sul concetto
qui espresso cf. 11, 162-164: Forsitan expectes ut Gaditana canoro / incipiant prurire
choro plausuque probatae / ad terram tremulo descendant clune puellae; Tac. Dial. 28,
5 - 29, 1: Ac non studia modo curasque, sed remissiones etiam lususque puerorum sanctitate quadam ac verecundia temperabat. Sic Corneliam Gracchorum, sic Aureliam
Caesaris, sic Atiam Augusti [matrem] praefuisse educationibus ac produxisse principes
liberos accepimus. … At nunc natus infans delegatur Graeculae alicui ancillae, cui
adiungitur unus aut alter ex omnibus servis, plerumque vilissimus nec cuiquam serio
ministerio adcommodatus. Horum fabulis et erroribus [et] virides [teneri] statim et
rudes animi imbuuntur; nec quisquam in tota domo pensi habet, quid coram infante
domino aut dicat aut faciat; Quint. Inst. 1, 2, 8: nostras amicas, nostros concubinos vident; omne convivium obscenis canticis strepit, pudenda dictu spectantur. – 45. pater:
pater è lezione dei soli codici P e S, ma è ormai accolta da tutti gli editori, a fronte del
più banale puer degli altri mss. (derivato probabilmente da puero del v. 47), che asseconderebbe l’aspettativa del lettore: non solo i fanciulli, ma anche i padri devono star
lontani da qualunque fonte di corruzione, in maniera tale da scongiurare cattive influenze nei confronti dei figli. – Procul, a procul: a seguire ci si attenderebbe profani, in
modo da completare la formula di avvertimento (πρόρρησις), tipica dei sacrifici, usata
per allontanare coloro che non erano ritenuti degni di partecipare alle cerimonie religiose (cf. Verg. Aen. 6, 258: procul, o procul este, profani; Stat. Silv. 3, 3, 13: Procul hinc,
procul ite nocentes; Sil. 17, 28: procul hinc, moneo, procul hinc, quaecumque profanae;
e anche Ov. Met. 15, 587: procul, a procul omnia… talia di pellant!). L’espressione
implica la sacralità dell’innocenza del bambino, che deve essere protetta da ogni possibile forma di corruzione. – puellae: le ‘ragazze’ che lavoravano per i lenoni, di solito
essendone schiave (cf. 6, 127: lenone suas iam dimittente puellas). – 46. pernoctantis
parasiti: l’allitterazione e il ritmo insolito danno enfasi al verso: Giovenale usa ancora
una volta un personaggio negativo tipico della commedia per descrivere la corruzione
della vita reale. – pernoctantis: cf. 8, 10-12: si luditur alea pernox / ante Numantinos,
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si dormire incipis ortu / luciferi, quo signa duces et castra movebant?. – parasiti: in
questo caso il termine ha già l’accezione negativa mantenuta fino ad oggi, ma a volte
veniva usato anche con il senso positivo di ‘compagno di mensa’ (cf. 1, 139: Nullus iam
parasitus erit).
(II) 47-85. Circoscrivendo il proprio discorso, Giovenale immagina ora di parlare direttamente a un padre, invitandolo a non lasciare al proprio figlio insegnamenti ed
esempi di cui egli stesso avrà a pentirsi. 47-58: il padre deve mantenere un comportamento onesto soprattutto in considerazione della giovane età del figlio e della sua rapidità di apprendimento: se un giorno il figlio itererà le stesse colpe del padre, con che
animo potrà mai quest’ultimo biasimarlo? 59-69: una gran cura si pone di solito nel tirare a lustro la propria dimora quando sta per arrivare un ospite: ma è proprio nei
confronti dei figli che si deve porre la cura più grande, perché essi possano vedere
sempre la propria casa pura e non contaminata dal vizio. 70-85: è cosa meritoria avere
dato alla patria un nuovo cittadino, ma al padre spetta il compito di renderlo anche degno del ruolo che lo attende; e in questo sarà fondamentale la scelta degli insegnamenti
con cui si plasmeranno i suoi costumi, perché ad essi il giovane tornerà sempre quando
sarà cresciuto, come gli animali che, una volta adulti, continuano ad andare a caccia di
ciò che i genitori insegnano loro a mangiare da piccoli.
47-58. Maxima ~ quaerat: “Al fanciullo si deve il massimo rispetto; se prepari qualcosa di disonesto, non mancare comunque di riguardo per l’età di quel fanciullo, e anzi un
figlio infante ti trattenga, quando tu abbia cattive intenzioni. Se infatti un domani commetterà qualcosa di degno dell’ira del censore, e non solo nel fisico e nelle fattezze si
mostrerà simile a te, ma sarà figlio anche dei tuoi costumi, tale da commettere sulle tue
orme, in peggio, ogni delitto, tu naturalmente lo riprenderai, lo punirai con aspre grida,
e poi ti preparerai a cambiare testamento. Ma dove prenderai faccia e libertà di padre, se
da vecchio fai cose peggiori, e questa tua testa, priva di cervello, già da tempo la insegue la ventosa?”. La sezione si apre con un verso dal carattere sentenzioso, un epigramma dall’alto valore morale che detta il principio basilare nell’educazione dei fanciulli: non pensare mai che tuo figlio sia troppo giovane per meritare rispetto. Se poi
commetterai nefandezze in sua presenza, un domani non avrai l’autorevolezza per correggerlo, quando sarà lui a compiere malefatte ancora peggiori. – 47. puero: = τῷ παιδί,
‘a tuo figlio’; il riferimento non è a un ragazzo qualsiasi, ma al contesto familiare (cf. 3,
228: vive bidentis amans et culti vilicus horti). – reverentia: cf. Quint. Inst. 11, 1, 66:
cuique personae debetur reverentia; Plin. Epist. 7, 24, 5: cum factura esset alterutrum,
semper se nepoti suo praecepisse abiret studeretque; quod mihi non amore eius magis
facere quam reverentia videbatur; Ov. Fast. 5, 50: (Maiestas) comes pueris virginibusque venit. L’espressione, tuttavia, sembra in qualche modo in contrasto con il concetto
espresso in 13, 53-56: Improbitas illo fuit admirabilis aevo, / credebant quo grande ne-
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fas et morte piandum / si iuvenis vetulo non adsurrexerat et si / barbato cuicumque
puer. – 48. turpe: cf. v. 41. – nec… contempseris: cf. Cic. Fin. 1, 25: nec mihi illud
dixeris. Qui peraltro nec equivale al semplice ne. – tu: tu generico, non enfatico ma
spesso aggiunto nelle esortazioni e nelle ammonizioni (cf. 2, 61: Tu nube atque tace:
donant arcana cylindros; 8, 228-229: ante pedes Domiti longum tu pone Thyestae /
syrma; 10, 342-343: interea tu / obsequere imperio; Hor. Sat. 2, 2, 20: tu pulmentaria
quaere / sudando). – 49. peccaturo | obstet: iato in cesura pentemimere, come altre
volte in Giovenale in questa posizione (cf. e. g. 10, 281: bellorum | pompa animam
exhalasset opimam). Combinato con il ritmo spondiaco, tale iato conferisce particolare
solennità, ‘mimando’ icasticamente l’idea dell’ostacolo (-ro | obstet) ai cattivi propositi
del padre. Per il concetto cf. v. 44; Sen. Epist. 11, 9: magna pars peccatorum tollitur, si
peccaturis testis assistit. Aliquem habeat animus quem vereatur. Il participio futuro è
usato in questo caso per esprimere un’intenzione (cf. e. g. 5, 32: cardiaco numquam cyathum missurus amicos). – infans: più giovane di un puer. Il termine ha valore enfatico
(e quasi iperbolico): finanche di fronte a un bambino ancora nella culla, incapace di parlare, bisogna mantenere un comportamento irreprensibile. – 50. censoris: il censore era
il giudice dei costumi in età repubblicana, ma in epoca imperiale questa carica cessò di
essere assegnata (Claudio e i Flavi furono gli unici imperatori ad assumere il titolo di
censor): erano i prìncipi stessi a svolgere – con altri titoli, come praefectus morum – alcuni dei compiti un tempo spettanti a quei magistrati. Giovenale, dunque, utilizza il
termine senza alcun riferimento specifico, ma semplicemente per indicare comportamenti lontani da quei mores di cui i censori erano custodi (cf. 2, 121: O proceres, censore opus est an haruspice nobis?). – 51. quandoque: ‘in futuro’ (cf. 2, 82: Foedius
hoc aliquid quandoque audebis amictu; 5, 172: praebebis quandoque caput nec dura
timebis), anche se dopo si ci si attenderebbe piuttosto quando. – 51-52. se… dederit:
qui se dare = ‘comportarsi, mostrarsi’ (cf. ThlL V.1, 1699, 32-36; OLD2 21). – 52. morum quoque filius: filius è apposizione del soggetto sottinteso di fecerit e se… dederit.
A rigore dopo similem… se non corpore tantum… dederit ci aspetteremmo sed etiam
morum filium; ci troviamo invece di fronte a una costruzione asimmetrica, che crea una
sorta di anacoluto. – filius: qui nel senso di ‘erede’ (cf. Plin. Epist. 5, 16, 9: Amisit enim
filiam, quae non minus mores eius quam os vultumque referebat, totumque patrem mira
similitudine exscripserat). – et qui: la congiunzione può essere omessa nella traduzione,
dato il valore consecutivo di qui (identica costruzione in 7, 211-212: cantabat patriis in
montibus et cui non tunc / eliceret risum citharoedi cauda magistri). – 53. omnia: accusativo interno, oggetto di peccet. – tua per vestigia: torna la metafora dei vv. 36-37
(vestigia patrum; veteris… orbita culpae): il figlio seguirà le orme del padre anche (e
soprattutto) nel vizio. – peccet: congiuntivo con valore consecutivo, introdotto da qui =
talis ut. – 54. nimirum: sarcastico, come in 7, 77-78: constat leviori belua sumptu / nimirum et capiunt plus intestina poetae. – ēt cāstīgābīs ācērbō: la sequenza di spondei
(che include anche il quinto piede) enfatizza la gravitas del comportamento punitivo assunto dal padre. È però una gravitas solo presunta, non a caso introdotta da nimirum
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(vd. supra). – 55. tabulas mutare: allusione al cambio del testamento (vergato di norma su tavolette) e alla conseguente exheredatio del figlio (cf. 12, 123: delebit tabulas).
Sui molteplici usi delle tabulae cf. ad v. 191. – 56. Unde tibi frontem: introdotta da
asindeto avversativo (= sed unde…), la domanda sottintende sumes o sim. come verbo
reggente. L’ellissi del verbo è comune dopo un dativo di persona (cf. Hor. Sat. 2, 7,
116: unde mihi lapidem?) e dopo quo (cf. 8, 9-10: Effigies quo / tot bellatorum…?; 14,
135: Sed quo divitias haec per tormenta coactas…?; 15, 61: Et sane quo tot rixantis milia turbae…?). – frontem: cf. 2, 8: Frontis nulla fides; 13, 242: frons paterna; Ter.
Phorm. 1042: quo ore illum obiurgabis? (in riferimento a un padre in circostanze simili). – libertatem: = παρρησίαν, la libertà nel parlare. – 57. peiora: in contraddizione
con deterius (v. 53). Giovenale si lascia trascinare nell’incoerenza dal suo discorso di
condanna (cf. Sen. Ira 2, 28, 8: tempestiva filii convivia pater deterior filio castigat). –
senex: cf. v. 4. – 58. hoc: = istud. La permutabilità fra hic e ista si fa via via più frequente nel latino post-classico; in Giovenale cf. pure e. g. cf. 9, 6: non erit hac facie miserabilior Crepereius; 10, 345: praebenda est gladio pulchra haec et candida cervix. –
cucurbita ventosa: uno strumento a forma di coppa (in vetro o rame) impiegato per curare casi di follia. L’oggetto veniva applicato sul cranio perforato del paziente e permetteva, grazie al vuoto che si creava all’interno, di drenare il sangue e gli umori ritenuti
causa della malattia. Si trattava, in pratica, di una sorta di salasso, dato che la follia era
ricondotta a un eccesso di sangue nel cervello (per un altro caso di salasso in Giovenale
cf. 6, 46: O medici, nimiam pertundite venam). Questo strumento veniva definito cucurbita, cioè ‘zucca’, per la sua forma tondeggiante; l’aggettivo ventosa (‘piena di vento’)
alludeva probabilmente al sibilo prodotto dall’aria alla rimozione dell’oggetto. Per la
pratica cf. Petron. 90, 4: quotiescunque coeperis a te exire, sanguinem tibi a capite mittam; Cels. 3, 18, 16: Neque alienum est, si neque sanguis ante missus est, neque mens
constat, neque somnus accedit, occipitio inciso cucurbitulam admovere, quae quia levat
morbum, potest etiam somnum facere. Si noti che, nel nostro passo, è lo strumento stesso – pressoché personificato – che ‘va in cerca’ (cf. quaerat) della testa da salassare.
59-69. Hospite ~ carentem?: “Se sta per arrivare un ospite, nessuno in casa tua se ne
starà fermo. ‘Spazza il pavimento, fa’ splendere le colonne, quel ragno venga giù, secco,
con tutta la sua ragnatela, uno lucidi l’argento liscio, un altro i cesellati’. Infuria la voce
del padrone, che incalza brandendo la verga. E così, meschino, ti agiti nel timore che
l’atrio, sporco di sterco di cane, possa dispiacere agli occhi dell’amico che arriva, che il
portico possa essere insozzato di fango: eppure a ripulire tutto ciò basta uno schiavetto
con appena mezzo moggio di segatura; non ti affanni invece perché tuo figlio veda la
casa pura da ogni colpa, ed esente dal vizio?”. La pericope si apre con una scena tipica
della commedia; cf. Plaut. Asin. 424-426: Iussin, sceleste, ab ianua hoc stercus hinc
auferri? / Iussin columnis deici operas araneorum? / Iussin in splendorem dari bullas
has foribus nostris?; Pseud. 161-164: Tibi hoc praecipio, ut niteant aedes. Habes quod
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facias: propera, abi intro. / Tu esto lectisterniator. Tu argentum eluito, idem exstruito. /
Haec, quom ego a foro revortar, facite ut offendam parata, / vorsa sparsa, tersa strata,
lautaque unctaque omnia ut sint; Stich. 347-349: Munditias volo fieri. Ecferte huc scopas simulque harundinem, / ut operam omnem araneorum perdam et texturam improbem / deiciamque eorum omnis telas. – 59. Hospite venturo: cf. v. 65: venientis amici.
Sintatticamente, si ha qui un ablativo assoluto con valore temporale-ipotetico. – 60. pavimentum: probabilmente un pavimento fatto con materiali pregiati, quale un mosaico
in marmo (cf. 11, 175: Lacedaemonium… orbem). – columnas: le colonne che formavano il peristilio, o quelle della porticus. – 61. cum tota… tela: la ragnatela e tutto il
resto (cf. 6, 171: cum tota Carthagine; 13, 61: cum tota aerugine). – descendat: cf. 10,
58: descendunt statuae. – aranea tela: analoghe clausole in Catull. 68, 49: nec tenuem
texens sublimis aranea telam; Ov. Met. 6, 145: stamen et antiquas exercet aranea telas;
Mart. 8, 33, 15: nec vaga tam tenui discurrit aranea tela. – 62. lēve: = purum, cioè liscio, senza decori o cesellature (cf. 9, 141 e 10, 19: argenti vascula puri). – argentum… tergeat: esistevano servi ad argentum, cioè schiavi specializzati nella pulizia
dell’argenteria. Solitamente si usava il carbone per evitare che l’argento annerisse e il
gesso per lucidarlo, talvolta anche l’aceto o il carbonato di sodio (cf. Plin. Nat. 33, 131;
35, 199). Nel palazzo esisteva pure una sorta di maggiordomo praepositus argenti escari. – vasa aspera: i vasi cesellati, con decorazioni a rilievo, definiti anche toreumata
(cf. 1, 76: argentum vetus et stantem extra pocula caprum; 5, 38-39: Heliadum crustas
et inaequales berullo / Virro tenet phialas), in contrasto con il precedente leve argentum
(cf. Verg. Aen. 5, 267: cymbiaque argento perfecta atque aspera signis). – 63. virgam:
cf. Sen. Epist. 47, 3: At infelicibus servis movere labra ne in hoc quidem, ut loquantur,
licet; virga murmur omne compescitur, et ne fortuita quidem verberibus excepta sunt,
tussis, sternumenta, singultus; magno malo ulla voce interpellatum silentium luitur:
nocte tota ieiuni mutique perstant. – 64-69. la pericope è costruita per paratassi, ma i vv.
64-67 presuppongono, quanto al senso, un’articolazione ipotattica (= trepidas verens
ne..., ne…, cum tamen… emendet…). – 64. stercore… canino: quello dei cani da guardia, di solito numerosi nelle dimore dei ricchi, per tenere lontani ladri e malintenzionati
(cf. 9, 104-105: iumenta loquentur / et canis et postes et marmora). – venientis amici:
cf. v. 59. – 66. porticus: alle spalle dell’atrium (v. 65), circondato da un peristilio. Solitamente nei portici delle case nobiliari venivano esposti i busti degli antenati più illustri
(cf. 6, 162-163: vetustos / porticibus disponat avos). – 66-67. uno… unus: il poliptoto
in clausola sottolinea che basta davvero poco per tenere materialmente pulita la casa. –
67. semodio: mezzo moggio corrispondeva a 4, 37 litri. – scobis: la segatura, estremamente economica, veniva sparsa a terra prima dei banchetti e poi spazzata via (cf. Petron. 68, 1: Interposito deinde spatio cum secundas mensas Trimalchio iussisset afferri,
sustulerunt servi omnes mensas et alias attulerunt, scobemque croco et minio tinctam
sparserunt et, quod nunquam ante videram, ex lapide speculari pulverem tritum; Hor.
Sat. 2, 4, 81: vilibus in scopis, in mappis, in scobe quantus / consistit sumptus?; Sen.
Mai. Contr. 9, 2, 4: inter purgamenta et iactus cenantium et sparsam in convivio sco-
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bem humanus sanguis everritur). – 68. omni: nel senso di ulla (cf. 8, 109: Ergo ignominiam graviorem pertulit omni). – sine labe domum: cf. Ov. Trist. 2, 110: sine labe domus.
70-85. Gratum ~ ovo: “Ti si è grati per aver dato un cittadino alla patria e al popolo, se
fai in modo che sia valido per la patria, utile ai campi, utile alle necessità sia della guerra che della pace. Sarà infatti della massima importanza con quali metodi e con quali
abitudini tu lo educhi. La cicogna nutre i suoi pulcini con la serpe e con la lucertola trovate per campi impervi: e quelli, una volta messe le piume, vanno in cerca degli stessi
animali. L’avvoltoio, lasciate le giumente, i cani e le croci, si affretta a tornare dai suoi
piccoli portando loro un pezzo di carcassa: sicché questo è il cibo dell’avvoltoio anche
quando è cresciuto e si nutre da sé, quando ormai fa nidi sul proprio albero. Le nobili
aquile invece, ancelle di Giove, cacciano lepre e capriolo nei boschi, è da qui che la
preda viene servita al nido: e quando poi si alza da esso, ormai cresciuta, la nidiata,
spinta dalla fame, si affretta a quella preda che aveva assaggiato la prima volta allo
schiudersi dell’uovo”. – 70. Gratum est: tipica forma di ringraziamento (cf. ThlL VI.2,
2261, 35-50; OLD2 2d). – patriae populoque: cf. Hor. Carm. 3, 6, 20: in patriam populumque fluxit; Ov. Met. 15, 572: patriae laetum populoque Quirini. L’incremento demografico era una preoccupazione costante (cf. 3, 3: civem donare; Lucan. 2, 387-388:
Venerisque hic maximus usus, / progenies). – 71. patriae: è lezione concorde del secondo ramo della tradizione (Φ), mentre i codici P e S leggono patria. A sostegno della
variante con l’ablativo c’è un passo della Rhetorica ad Herennium (3, 5) in cui si legge:
humiles contemnere oportere nec idoneas dignitate sua iudicare; in questo caso, però, si
ha l’ablativo con idoneus per analogia con dignus (evitato per via del susseguente dignitate). Invero, proprio dalla possibile analogia di comportamento tra dignus e idoneus alcuni traggono supporto per accettare patria; si tratta però di una motivazione troppo debole per sostenere la presenza dell’ablativo, per cui appare più corretto accettare il dativo patriae (cf. COURTNEY 1980, p. 569). – agris: sc. colendis. – 72. utilis et bellorum
et pacis rebus agendis: cf. 8, 169: maturus bello Armeniae Syriaeque tuendis. – 73.
Plurimum enim intererit: frase dal tono prosaico (cf. Quint. Inst. 5, 4, 2: plurimum intererit, quis et quem postulet). Metricamente, plurim(um) enim comporta sinalefe di parola dattilica in -m, consentita da alcuni poeti solo nel primo o quinto piede. È comunque rara in Giovenale, in cui si ritrova altrimenti solo in 6, 151: quantulum in. – artibus: ‘attività’ (cf. OLD2 7). – 74. ciconia: cf. Verg. Georg. 2, 320: Candida venit avis
longis invisa colubris. – 75. per devia rura: sintagma di matrice ovidiana (cf. Met. 1,
676; 3, 370; Fast. 2, 369). – 76. sumptis… pinnis: cf. 3, 80: sumpsit pinnas (a proposito di Dedalo). – 77. iumento et canibus: si riferisce ai loro corpi ormai senza vita (cf.
Phaedr. 1, 27, 9-11: ‘O canis, merito iaces, / qui concupisti subito regales opes, / trivio
conceptus, educatus stercore’). Si noti che è ĭūm-, come di norma. – crucibus: fa riferimento alle croci sulle quali venivano lasciati appesi per giorni i corpi dei suppliziati
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morti, che diventavano inevitabilmente fonte di cibo per i rapaci (cf. Hor. Epist. 1, 16,
48: non pasces in cruce corvos; e anche Petron. 111, 6: miles, qui cruces asservabat, ne
quis ad sepulturam corpus detraheret). – 79. magni: ‘adulto’ (cf. 1, 169: magnis fratribus). – 80. arbore nidos: in realtà gli avvoltoi nidificano tra le rocce, non sugli alberi.
Lo stesso errore era già in Ov. Am. 1, 12, 20: vulturis in ramis… ova tulit. – 81. Sed: la
particella avversativa segna lo stacco tra gli avvoltoi che si cibano di cadaveri e le aquile che vanno a caccia di prede vive. – famulae Iovis: sono le aquile, tradizionalmente
considerate uccelli sovrani del cielo e per questo sacre a Giove (cf. Hor. Carm. 4, 4, 1:
ministrum fulminis alitem; ThlL II, 370, 57-61). – 82. in saltu: in contrasto con per devia rura del v. 75. – hinc: = ex leporibus aut capreis. – cubili: potrebbe significare ‘nel
nido’, ma sembra preferibile intendere ‘per il proprio nido’ (cf. 5, 143: gaudebit nido). –
83. ponitur: = apponitur (cf. 1, 141: ponit apros). – inde: = ex cubili. – 84. famē: stessa prosodia anche in 6, 424 e 15, 102, e spesso altrove (vd. ThlL VI.1, 228, 76 - 229, 4).
(III) 86-106. Due esempi di abitudini rovinose o comunque bizzarre che i figli apprendono direttamente da quelle del proprio padre. 86-95: se uno ha la mania di costruirsi
ville sempre più numerose e sempre più sfarzose, probabilmente si ridurrà in rovina da
solo; ma, se non ci riuscirà, potrà contare sull’opera del figlio, che dal suo esempio
partirà per costruirsi a sua volta ville ancora più lussuose, e così manderà a rotoli quel
che era avanzato del patrimonio paterno. 96-106: chi nasce da un adepto al culto giudaico non potrà che ridursi a praticare gli stessi incomprensibili riti del padre, finendo
per disprezzare ogni legge e ogni costume romano e, come già suo padre, restandosene
in ozio un giorno ogni sette.
86-95. Aedificator ~ villas: “Cetronio era un costruttore accanito, e ora sul curvo litorale di Gaeta, ora in cima alla rocca di Tivoli, ora sui monti di Preneste allestiva alte ville svettanti, con marmi greci o fatti venire da lontano, superando il tempio della Fortuna
e quello di Ercole, come Posìde l’eunuco superava il nostro Campidoglio. Avendo simili abitazioni, dunque, Cetronio decurtò il patrimonio, compromise le sue sostanze: e tuttavia non era esigua l’entità della parte che gliene rimaneva. Questa la sperperò del tutto
quel pazzo del figlio, costruendo nuove ville di un marmo ancor più pregiato”. La smania di costruire ville sempre più estese e lussuose, dissipando a questo scopo interi patrimoni, è il vitium preso di mira in questa pericope. Insieme alla brama di ricchezze e
oggetti di lusso, l’aedificatio smodata è trattata spesso come una delle cause della degenerazione morale diffusasi a Roma a partire dalla metà del II sec. a. C., ed è quindi motivo di ispirazione per molti autori che si soffermano sulla diagnosi moralistica di questi
secoli. Così è più volte ad es. per Orazio: Carm. 2, 15, 1-10 propone l’immagine di una
città invasa da lussuose costruzioni private, un luogo in cui l’utile ha lasciato posto a
tutto ciò che può lasciar intravedere una smisurata ricchezza: enormi piscine, giardini
artificiali pieni di piante decorative ma improduttive, alberi importati a puro scopo esor-
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nativo; 3, 1, 33-37 si sofferma sull’insoddisfazione di questi uomini ricchi e spregiudicati: la terraferma non basta più, vogliono costruire anche sull’acqua, e il mare sembra
restringersi per far posto alle ville affacciate su di esso; 3, 24, 1-8 riallaccia la condanna
della selvaggia edilizia privata, e del lusso in genere, al motivo gnomico – agganciato
alla morale epicurea – dell’inutilità della ricchezza di fronte alla morte. Ma si veda anche la celebre, particolareggiata descrizione della villa di Faustino a Baia in Mart. 3, 58.
– 86. Aedificator: l’uomo è completamente preso dalla smania di costruire, e come tale
viene qualificato in modo pregnante dal nomen agentis in -tor. – Caetronius: non identificabile, data l’ampia diffusione del nome: una villa di Cetronio è per es. a Pompei (cf.
DELLA CORTE 1954, p. 41), ma Cetronio è anche il nome di due comandanti del I sec. d.
C. (cf. Tac. Ann. 1, 44, 2: ad legatum legionis… C. Caetronium; Hist. 4, 50, 3: praefectum… castrorum Caetronium Pisanum); inoltre Cetronius è attestato in CIL VI, 25015.
– 87. Caietae: la moderna Gaeta, città del litorale laziale situata tra Terracina e Minturno, che secondo il mito deve il nome alla balia di Enea, morta proprio in quella zona
(cf. Verg. Aen. 7, 1-2: Tu quoque litoribus nostris, Aeneia nutrix, / aeternam moriens
famam, Caieta, dedisti). – Tiburis arce: insieme a Gaeta, Preneste e Baia, Tivoli era
una delle città preferite dai ricchi Romani per la costruzione di ville in cui trascorrere gli
ozi lontano da Roma (cf. 3, 192: proni Tiburis arce; Hor. Carm. 3, 4, 22-24: seu mihi
frigidum / Praeneste seu Tibur supinum / seu liquidae placuere Baiae). – 88. Praenestinis: di Preneste, l’attuale Palestrina, poco distante da Roma (cf. 3, 190: gelidā Praeneste). – alta… culmina villarum: cf. Mart. 4, 64, 9-10: puris leniter admoventur astris /
celsae culmina delicata villae. – 89-90. Graecis longeque petitis marmoribus: i marmi provenienti dalla Grecia, rari e costosi, erano particolarmente richiesti per la costruzione e l’abbellimento di ville private; molto famoso era ad es. il marmo verde della Laconia (cf. 11, 175: Lacedaemonium pytismate lubricat orbem). Non meno famose erano
altre varietà estratte in terre più lontane, come il marmo bianco con venature rosse proveniente dalla Frigia, noto come ‘pavonazzetto’, e il ‘giallo antico’ di Numidia (cf. 7,
182: parte alia longis Numidarum fulta columnis). – 89. longeque petitis: allusione agli
alti costi di trasporto che questi materiali richiedevano (cf. Plaut. Most. 822-823: Quanti
hosce emeras? / Tris minas pro istis duobus praeter vecturam dedi). Il -que ha qui valore disgiuntivo = vel (cf. OLD2 7). – 90. vincens: le ville private di Cetronio superano in
sfarzo e bellezza anche alcuni templi (cf. 2, 143: Vicit et hoc monstrum tunicati fuscina
Gracchi; Sen. Ben. 7, 10, 5: O miserum, si quem delectat patrimonii sui liber magnus et
vasta spatia terrarum colenda per vinctos et inmensi greges pecorum per provincias ac
regna pascendi et familia bellicosis nationibus maior et aedificia privata laxitatem urbium magnarum vincentia!). – Fortunae atque Herculis aedem: il tempio dedicato alla
Fortuna Primigenia, costruito a Preneste intorno al II sec. a. C., e quello coevo eretto a
Tivoli in onore di Ercole Vincitore. – 91. spado… Posides: l’eunuco Posìde era un ricco liberto di Claudio (cf. Suet. Claud. 28, 1: Libertorum praecipue suspexit Posiden
spadonem). – Capitolia: plurale poetico, usato anche in 10, 65: duc in Capitolia. Evidentemente Posìde si era fatto costruire una villa lussuosa nei pressi del tempio di Giove
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Capitolino. – nostra: sc. della città di Roma, in contrasto con le origini straniere di Posìde (cf. 3, 84: nostra infantia). – 92. Dum: ha valore eminentemente causale, come in
1, 60-61: dum pervolat axe citato / Flaminiam puer Automedon; 6, 176: dum sibi nobilior Latonae gente videtur; 14, 95: dum meliore novas attollit marmore villas. – inminuit rem: il ritmo insolito (con monosillabo a fine verso) sottolinea il disprezzo per
quel tipo di comportamento. – 93. fregit opes: cf. Hor. Sat. 2, 3, 18-19: Postquam omnis res mea Ianum / ad medium fracta est. – 94. hanc: sc. partem relictam. – turbavit:
conturbavit sarebbe stato più normale in questo senso = ‘mandare in rovina’. Cf. comunque Cael. ap. Cic. Fam. 8, 8, 2: M. Servilius postquam, ut coeperat, omnibus in rebus turbabat... – 95. attollit: cf. 1, 94: Quis totidem erexit villas.
96-106. Quidam ~ ullam: “Alcuni, che in sorte hanno avuto un padre timorato del sabato, non adorano altro che le nubi e la divina maestà del cielo, né pensano che sia diversa dalla carne umana quella di maiale, da cui già il padre si asteneva, e tra poco deporranno i prepuzi; abituati poi a disprezzare le leggi di Roma, imparano a puntino, osservano e temono il diritto giudaico, quale che sia il precetto tramandato da Mosè in un
arcano rotolo: non indicare la strada se non a chi segue la stessa religione, accompagnare alla fonte che uno cerca soltanto i circoncisi. Ma la colpa è del padre, che passò
nell’ozio un giorno ogni sette e non ebbe relazione alcuna con la vita”. – 96. Quidam:
si introduce subito il nuovo soggetto: gli Ebrei. Per loro questo fu un periodo di forti
tensioni: nel 132 d. C. vi fu infatti la cd. rivolta di Bar Kochva (vd. ad v. 99). – metuentem: nel senso tecnico di ‘timorato di Dio’. Il riferimento è ai molti proseliti romani, favorevoli al giudaismo, che ne rispettavano i precetti ma non erano ancora entrati del tutto nella comunità ebraica. Con la stessa accezione ritroviamo metuere anche al v. 101
(cf. ThlL VIII, 906, 29-41; OLD2 1d). – sabbata: neutro plurale. È il settimo giorno, il
nostro sabato, per il quale la legge giudaica prevede il riposo (cf. 6, 159-160: observant
ubi festa mero pede sabbata reges / et vetus indulget senibus clementia porcis; Hor. Sat.
1, 9, 68-70: ‘Memini bene, sed meliore / tempore dicam; hodie tricensima sabbata: vin
tu / curtis Iudaeis oppedere?’; Ov. Rem. 219-220: nec te peregrina morentur / sabbata;
Pers. 5, 184: labra moves tacitus recutitaque sabbata palles; Mart. 4, 4, 7: ieiunia sabbatariarum). – 97. nil… adorant: per l’assenza di immagini e statue nei templi e il divieto di pronunciare il nome di Dio, si riteneva che gli Ebrei adorassero il cielo, considerato anche che erano soliti volgere lo sguardo ad esso durante la preghiera. Cf. 6, 545:
summi fida internuntia caeli; Tac. Hist. 5, 5, 4: Iudaei mente sola unumque numen intelligunt: profanos, qui deum imagines mortalibus materiis in species hominum effingant;
summum illud et aeternum neque imitabile neque interiturum. Igitur nulla simulacra urbibus suis, nedum templis sinunt; Strab. 16, 2, 35: ἓν τοῦτο μόνον θεός, τὸ περιέχον
ἡμᾶς ἅπαντας καὶ θάλατταν, ὃ καλοῦμεν οὐρανόν. – nubes: sottolinea ironicamente la
natura confusa e inconsistente del dio degli Ebrei agli occhi dei Romani, abituati a divinità dalle sembianze antropomorfe (cf. Lucan. 2, 592-593: dedita sacris / incerti Iudaea
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dei). – caeli numen: l’idea che gli Ebrei venerassero il cielo deriva dal fatto che il nome
proprio di Dio non poteva essere pronunciato se non durante la preghiera, e veniva usato
spesso al suo posto ‘Cielo’. – 98. humana carne suillam: a detta di Giovenale, gli
Ebrei non consumano carne suina perché la considerano al pari di quella umana, quindi
mangiarne sarebbe un atto di cannibalismo. Tacito spiega l’astinenza dalla carne di maiale come ricordo di un’epidemia di lebbra che un tempo colpì gli Ebrei, messa in relazione con la frequente lebbra dei maiali (cf. Hist. 5, 4, 2: Sue abstinent, memoria cladis, quod ipsos scabies quondam turpaverat, cui id animal obnoxium). – 99. mox et:
l’et non può essere intensivo = ‘anche’ (non si è parlato finora di null’altro da ‘deporre’); meglio quindi pensare a un’anastrofe = et mox. – praeputia ponunt: il riferimento
è alla circoncisione, altro precetto della religione ebraica. Adriano la proibì, scatenando
una sollevazione degli Ebrei (la cd. rivolta di Bar Kochva; cf. Script. Hist. Aug. Hadr.
14, 2: Moverunt ea tempestate et Iudaei bellum, quod vetabantur mutilare genitalia);
Antonino Pio rese la pratica nuovamente lecita. Secondo Tacito la circoncisione era un
segno di riconoscimento e di distinzione dagli altri popoli (cf. Hist. 4, 5, 2: Circumcidere genitalia instituerunt, ut diversitate noscantur), ma le origini e i significati di questa
pratica possono essere molteplici (un rito di iniziazione, un’offerta sacrificale, una prova di sopportazione, una pratica igienica…). – 100. Romanas… contemnere leges: le
fonti sogliono attribuire agli Ebrei un disprezzo nei confronti di tutti gli altri popoli; cf.
Tac. Hist. 5, 5, 1-2: adversus omnis alios hostile odium. … Transgressi in morem eorum
idem usurpant, nec quicquam prius imbuuntur quam contemnere deos, exuere patriam,
parentes liberos fratres vilia habere; Quint. Inst. 3, 7, 21: perniciosam ceteris gentem. –
101. Giovenale satireggia la nota venerazione degli Ebrei per la loro legge. – ediscunt:
cf. ad v. 124. – 102. arcano… volumine: il Pentateuco, composto dai primi cinque libri
della Bibbia, attribuiti a Mosè, che gli Ebrei chiamano Torah, ‘Legge’. L’aggettivo arcanus non si riferisce alla segretezza dei libri ebraici, ma più semplicemente allude
all’esclusivismo tipico di questa religione, analogo a quello dei riti misterici. – Moyses:
qui bisillabo (Mo͜ y|ses); altrove è invece Moȳses, trisillabo. Come noto, Mosè è figura
guida per il popolo ebraico. Fu lui a liberare gli Ebrei dalla schiavitù in Egitto, riconducendoli in Palestina, e fu lui a ricevere sul monte Sinai i Dieci Comandamenti. – 103104. non monstrare… verpos: indicare la via a un viandante e condurlo a una fonte a
cui abbeverarsi erano considerati i doveri più elementari dell’humanitas (cf. Cic. De. or.
1, 203: ut commonstrarem tantum viam et, ut fieri solet, digitum ad fontis intenderem;
Off. 1, 51-52: Omnium… communia hominum videntur eqs.; Sen. Ben. 4, 29, 1: ‘Ergo…
nec aquam haurire permittes, nec viam monstrabis erranti? …’; Epist. 95, 51). Gli
Ebrei però, secondo Giovenale, avrebbero ricevuto direttamente da Mosè il comandamento di non compiere tali doveri se non verso gli adepti della loro stessa religione. Si
tratta di due esempi con cui si allude alla chiusura e all’ostilità delle comunità giudaiche
verso chi non vi apparteneva (cf. Tac. Hist. 5, 5, 2: Separati epulis, discreti cubilibus,
proiectissima ad libidinem gens: alienarum concubitu abstinent, inter se nihil inlicitum). – 104. verpos: verpus = ‘circonciso’ è termine popolare di etimologia incerta, al
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pari di verpa = ‘pene’. – 105. Septima quaeque lux: qui è senz’altro ‘ogni settimo
giorno’, dato che si tratta evidentemente del sabato, giorno di riposo per gli Ebrei (assurda l’esegesi di HOWARD 1958, p. 6: ‘ogni venerdì’). Il passo mostra che in 7, 160161 si deve analogamente intendere sexta / quaque die = ‘ogni sesto giorno’, con calcolo esclusivo (cf. STRAMAGLIA 2008, p. 196). Tacito spiega il rispetto del settimo giorno
da parte degli Ebrei come ricordo della fine delle loro fatiche (Hist. 5, 4, 2: Septimo die
otium placuisse ferunt, quia is finem laborum tulerit; cf. Rut. Nam. 1, 391: septima
quaeque dies turpi damnata veterno; Agath. ap. Ioseph. C. Apion. 1, 209: ἀργεῖν εἰθισμένοι δι’ ἑβδόμης ἡμέρας). – 106. ignava: Giovenale mette in evidenza l’ozio del sabato con la lentezza degli spondei.
(IV) 107-302. Si apre ora una sezione sproporzionata rispetto alle precedenti, dedicata
a un vizio su cui Giovenale insiste più che su ogni altro, poiché esso è deliberatamente
insegnato dai genitori quasi come se fosse una virtù: l’avarizia. 107-125: per l’austerità di cui è ammantata, l’avarizia pare a molti una virtù; peraltro, il comportamento di
un avaro è proprio quello più adatto a far lievitare un patrimonio: i genitori allora si
sforzano di educare i figli a una simile scuola, mettendo il proprio impegno nell’insegnare ai giovani i rudimenti di questo vizio, e lasciando che via via la crescente brama
di ricchezza faccia il resto. 126-137: descrizione della vita tipica dell’avaro, che si infligge continui tormenti pur di non intaccare il proprio patrimonio: un’evidente follia,
che porta a morire ricchi dopo una vita vissuta tra gli stenti. 138-155: intanto, più l’avaro possiede e più cresce in lui la brama di possedere: tutto ciò che si potrà comprare,
allora, lo si acquisterà, a costo anche di costringere con mezzi poco leciti eventuali
venditori renitenti, senza naturalmente curarsi del disonore che una simile condotta
comporterà. 156-172: inevitabile il confronto con il passato remoto e semimitico di
Roma: il terreno che ora un solo avaro possiede è pari a quello che l’intero popolo romano arava ai tempi di Romolo e Tito Tazio; perfino dopo le guerre puniche, i reduci
da battaglie tanto sanguinose si accontentavano di soli due iugeri di terra con cui sfamare se stessi, la propria famiglia e i relativi schiavi, mentre oggi quello stesso terreno
pare troppo piccolo anche per ospitare un orticello. 173-209: un nuovo sguardo al passato concerne gli insegnamenti da dare ai figli: i popoli italici di un tempo intuivano
come dall’avidità provenissero tutti i mali, e allora istruivano i figli a procurarsi col
proprio lavoro solo ciò che bastasse a una vita semplice e onesta; l’avido genitore moderno, invece, spingerà suo figlio fin dall’infanzia a procurarsi potere e ricchezza in
ogni modo, poiché importante è possedere, non in che modo si giunga a possedere. 210255: replicando idealmente a un tale maestro, Giovenale lo invita a non mettere fretta a
suo figlio, perché basterà la natura a far sì che le malefatte delle nuove generazioni superino quelle dei genitori; e quando il figlio avrà commesso una scelleratezza peggiore,
magari proprio a spese del padre, questi capirà quanto sia difficile circoscrivere quell’incendio di cui egli stesso, con i suoi insegnamenti, ha appiccato le prime scintille.
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256-302: spettacolo più interessante di tutti i ludi è il comportamento di un uomo avido
che, per la brama di guadagno, non esita a salpare per i mari più pericolosi, sprezzante
di ogni pericolo; ma poi una tempesta basta a ridurlo in miseria e, naufrago, dovrà
passare il resto dei suoi giorni a elemosinare.
107-125. Sponte ~ votum: “Ma se tutti gli altri vizi i giovani li imitano spontaneamente, all’avarizia hanno l’ordine di esercitarsi anche se non vogliono. È un vizio, infatti, che inganna per la sua parvenza ed ombra di virtù, essendo austero nell’aspetto e
nell’espressione del volto e severo nella veste: e senza dubbio si loderebbe un avaro
come parsimonioso, come uomo parco, come custode delle proprie sostanze più sicuro
che se alle stesse fortune badasse il serpente delle Esperidi o del Ponto. Aggiungi poi
che il tipo di cui ti parlo è ritenuto dal popolo un maestro del far soldi; è certo che con
questi fabbri i patrimoni crescono [e crescono in ogni modo e diventano più grandi], a
furia di battere senza sosta l’incudine e di tenere sempre accesa la fornace. Ecco dunque
che ritiene felici nell’animo gli avari, quel padre che ammira le ricchezze, che ritiene
non esista alcun esempio di povero appagato; esorta allora i giovani a incamminarsi su
quella via, e ad applicarsi alla stessa regola di vita. I vizi hanno, per così dire, i loro rudimenti: egli inizia i figli prima a questi, costringendoli a imparare ben bene le più minute spilorcerie; poi insegnerà loro l’insaziabile brama di guadagno”. Giovenale insiste
sull’avaritia molto più che su qualsiasi altro vizio, perché è insegnata scientemente dai
genitori – quasi come fosse una virtù – ai propri figli, e nel contempo perché è alla base
di tutti i comportamenti peggiori: gli uomini avari sono i più abili nel moltiplicare ricchezza e disonestà. – 107-108: cf. Sen. Cons. Helv. 10, 10: cum iuventutem (sc. Apicius)
ad imitationem sui sollicitaret etiam sine malis exemplis per se docilem; Epist. 115, 11:
Admirationem nobis parentes auri argentique fecerunt, et teneris infusa cupiditas altius
sedit crevitque nobiscum. – 107. Sponte: l’omissione di sua è tipica della poesia e della
prosa tarda. – 108. il verso ha una cesura tritemimere dopo inviti e una quasi-cesura
prima di exercere (cf. 10, 358: qui spatium vitae extremum inter munera ponat). – 109.
specie virtutis et umbra: l’avarizia inganna con la sua falsa maschera di frugalità, e si
diffonde grazie a una vaga somiglianza con essa (cf. Ov. Met. 9, 460: mendaci… diu
pietatis fallitur umbra; Aug. Conf. 2, 6, 12: est quaedam defectiva species et umbratica
vitiis fallentibus; Hier. Epist. 107, 6, 2: vitia non decipiunt nisi sub specie umbraque virtutum; e anche Hor. Ars 25: decipimur specie recti). Per l’ordine delle parole cf. 13,
129: templum et violati numinis aras; solitamente, in Giovenale, un genitivo che modifica due sostantivi viene posto tra di essi e talvolta, come in questo caso, prima della
congiunzione. – 110: l’avarizia (qui personificata) ha un aspetto ingannevole, ma Frontis nulla fides (cf. 2, 8). – 111. nec dubie… laudetur: = et laudetur non dubie. – avarus: cf. Hor. Sat. 2, 2, 194: quantum discordet parcus avaro. – frugi: cf. Hor. Sat. 1, 3,
49: parcius hic vivit: frugi dicatur. – 112. tamquam: cf. 3, 47-48: atque ideo nulli comes exeo tamquam / mancus et extinctae corpus non utile dextrae. – parcus: Parsimonia est scientia vitandi sumptus supervacuos aut ars re familiari moderate utendi (Sen.
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Ben. 2, 34, 3). Sulla difficoltà di porre un confine tra vizi e virtù cf. già Aristot. Rhet. 1,
1367a, 32ss.; poi fra gli altri Quint. Inst. 2, 12, 4: Est… quaedam virtutum vitiorumque
vicinia; 3, 7, 25: (Aristoteles) praecipit…, … quia sit quaedam vitiis ac virtutibus vicinitas, utendum proxima depravatione verborum, ut pro… avaro parcum vocemus; Tac.
Hist. 1, 37, 4: quae alii scelera, hic remedia vocat, dum falsis nominibus severitatem
pro saevitia, parsimoniam pro avaritia… appellat. – rerum tutela suarum: cf. Hor.
Epist. 1, 1, 103: rerum tutela mearum; Ov. Trist. 5, 14, 15: rerum sola es tutela
mearum; Val. Fl. 5, 644: est amor et rerum cunctis tutela suarum. – tutela: = tutor,
astratto per il concreto, secondo una tendenza particolarmente marcata nella lingua letteraria post-classica in genere. – 113. certa magis: Giovenale usa più volte magis – spesso in anastrofe, come qui – per il comparativo di aggettivi che, come certus, ammetterebbero la normale forma sintetica in -ior (cf. pure 1, 7: nota magis; 6, 188: turpe magis; 6, 413: magis intolerabile). – 114. Hesperidum serpens: il giardino delle Esperidi,
le ninfe che custodivano l’albero dai pomi d’oro che Gea aveva offerto a Era e Zeus
come dono nuziale, era sorvegliato dal drago Ladone, ucciso da Ercole quando fu inviato a rubare gli straordinari frutti (cf. Verg. Aen. 4, 484-485: Hesperidum templi custos,
epulasque draconi / quae dabat et sacros servabat in arbore ramos). Le Esperidi venivano chiamate anche ‘sorelle africane’ (cf. 5, 152: sororibus Afris) perché, secondo il
mito, il prodigioso giardino si trovava all’estremità occidentale della costa d’Africa. –
Ponticus: il drago del Ponto era quello che custodiva nella Colchide il vello d’oro, rubato da Giasone – con l’aiuto di Medea – per tentare di recuperare il trono paterno usurpato dallo zio Pelia. – Adde quod hunc de: la dieresi bucolica, associata a monosillabo
articolatorio a fine verso (de), spezza marcatamente la sequenza naturale dei versi con
un effetto di ‘negligenza’, secondo un procedimento ricorrente in Giovenale. Qui tale
procedimento, unito per di più a una tipica espressione prosastica (adde quod: vd. appresso), evidenzia l’intento ironico del precedente parallelo mitico. – Adde quod: in sostanza = ‘inoltre’; l’uso di imperativi in Giovenale è un espediente frequente per passare
da un elemento all’altro del tema in questione (cf. 2, 166: Aspice quid faciant commercia; 7, 36: Accipe nunc artes; 8, 91: Respice quid moneant leges; 15, 47-48: Adde quod
et facilis victoria de madidis et / blaesis atque mero titubantibus). – de: per de in fine di
verso cf. 5, 33: aliquid de montibus aut de / Setinis. – 114-115. Hunc de / quod loquor:
un avarus qualunque. – adquirendi: adquirere è qui usato assolutamente, come ai vv.
125 e 223 (cf. ThlL I, 427, 65-79). Da notare la cadenza spondiaca del verso: gli ultimi
due piedi sono costituiti da una singola parola formata da quattro sillabe (ciò accade altre sedici volte, su un totale di trentatrè versi con quinto piede spondiaco). Quest’uso
metrico, caratteristico della poesia epica, nel nostro caso enfatizza il comportamento
deplorevole degli avari e sottolinea il tono satirico del poeta. – 116. artificem: l’avarus
viene considerato quasi come un artigiano che produce la sua stessa ricchezza (cf. 4, 18:
Consilium laudo artificis). La metafora viene portata avanti nei versi seguenti con fabris, incude, camino. – patrimonia: indica l’intero patrimonio, come in Sen. Rem. fort.
16, 7: auriculis utrimque patrimonia bina dependeant. In Giovenale spesso significa
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semplicemente ‘ricchezza’, non necessariamente in riferimento al patrimonio ereditato
(cf. 7, 113: hinc centum patrimonia causidicorum; 10, 13: cuncta exuperans patrimonia
census; 14, 229: per fraudes patrimonia conduplicari). – his… fabris: è più probabilmente un ablativo assoluto che un dativo di vantaggio. Per la variatio dal singolare al
plurale cf. 1, 137-138: (reges horum) de tot pulchris et latis orbibus et tam / antiquis
una comedunt patrimonia mensa. – 117. il verso viene espunto da Jahn (seguito fra gli
altri da Clausen), perché considerato non rilevante, dato che ripete nel significato il verso precedente. È possibile, però, che Giovenale abbia volutamente inserito la ripetizione, proprio per rimarcare la smania di possesso dovuta all’avaritia; in tal caso il verso
andrebbe posto tra parentesi o tra virgole. Cf. 3, 232-234: Plurimus hic aeger moritur
vigilando (sed ipsum / languorem peperit cibus inperfectus et haerens / ardenti stomacho). – sed: se il verso è sano, questo sed andrà probabilmente considerato avversativo,
a sottolineare la mancanza di scrupoli di siffatti uomini (cf. vv. 204-205: lucri bonus est
odor ex re / qualibet); l’alternativa è che abbia valore intensivo, come accade spesso
nelle parentetiche (cf. 5, 147: boletus domino, sed quales Claudius edit). – quocumque
modo: cf. Hor. Epist. 1, 1, 65: rem facias, rem, / si possis, recte, si non, quocumque
modo, rem. – 118. incude adsidua: espressione proverbiale che porta avanti la metafora
dei fabri (cf. Cic. De or. 2, 162: Ego autem, si quem nunc plane rudem institui ad dicendum velim, his potius tradam adsiduis uno opere eandem incudem diem noctemque
tundentibus; Amm. 18, 4, 2: eandem incudem, ut dicitur, diu noctuque tundendo). –
119. ergo: riassume ciò che viene detto nei versi precedenti. – animi felices: il genitivo
animi (in origine un locativo), spesso seguito dall’aggettivo felix, è usato per indicare la
sede del sentimento (cf. e. g. Verg. Aen. 4, 529: infelix animi). – 120. il verso richiama
Hor. Carm. 3, 29, 11-12, ove si invita a non ammirare i ricchi cittadini di Roma: omitte
mirari beatae / fumum et opes strepitumque Romae. – beati pauperis: un ossimoro
nell’ottica dell’avaro genitore, dato che beatus ‘felice’ assume spesso anche la valenza
di ‘ricco’ (cf. 1, 39: vetulae vesica beatae; Sil. 1, 609: castaque beatos / paupertate patres). – 121-122. illā / … viā: ablativo prosecutivo. L’enjambement enfatizza il perdurare del cammino. – 122. incumbere: cf. 8, 76: miserum est aliorum incumbere famae. –
sectae: ‘stile di vita, modo di pensare’; cf. Plin. Pan. 45, 4: quae tibi secta vitae, quod
hominus genus placeat; Suet. Rhet. 28, 4: quod in re publica administranda potissimum
consularis Isaurici sectam sequeretur. – 123. elementa: sono i ‘principi di base, rudimenti’. Cf. Quint. Inst. 1, 1, 1 tit.: Quemadmodum prima elementa tradenda sint; Hor.
Carm. 3, 24, 51-54: Eradenda cupidinis / pravi sunt elementa et tenerae nimis / mentes
asperioribus / formandae studiis; Lucr. 1, 80-81: vereor ne forte rearis / impia te rationis inire elementa. – protinus: in questo caso significa ‘prima’, ‘all’inizio’ (cf. 3, 140:
protinus ad censum, de moribus ultima fiet / quaestio). – 124. inbuit: il verbo è usato
sempre per indicare un inizio (in questo caso dell’educazione dei bambini); cf. Catull.
61, 11: imbuere Amphitriten, a proposito della nave Argo, la prima a navigare; per una
tazza riempita per la prima volta Marziale usa imbuat (cf. 8, 51, 17). – et: esplicativo
(lett. ‘e infatti’), non copulativo. – ediscere: ‘apprendere (per filo e per segno)’, come se
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si trattasse dell’alfabeto o comunque fosse a scopo educativo (cf. v. 101: Iudaicum ediscunt… ius). – 125. mox: ‘in seguito’, dopo aver appreso le minimae sordes (quelle che
verranno meglio definite nei vv. 126-137). Il tono ironico-denigratorio del verso condanna inequivocabilmente questo tipo di insegnamenti. – adquirendi… insatiabile votum: quello che verrà descritto dal v. 138 in poi.
126-137. Servorum ~ fato?: “Le pance dei servi li castiga con un moggio minore del
dovuto, morendo di fame anche lui stesso: infatti non ha mai il coraggio di finire tutti i
pezzi ammuffiti di un pane azzurrino, abituato a metter da parte, a metà settembre, lo
spezzatino del giorno prima, e pure a rimandare per la cena del giorno dopo le fave
dell’estate, conservate sotto sigillo insieme a un pezzo di sgombro o a un siluro a metà e
andato a male, e a metter sotto chiave, dopo averle contate, foglie di porro sèttile. Se si
inviterà un accattone a mangiare queste cose, dirà di no. Ma a che pro ricchezze accumulate attraverso simili tormenti, quando è indubbia follia, quando è un manifesto delirio vivere la sorte di un bisognoso per morire da ricco?”. Comincia la descrizione delle
minimae sordes, cioè degli atteggiamenti più meschini a cui i figli dell’avarus assistono,
e che acquisiscono quindi automaticamente: l’uomo si infligge svariati tormenti, sacrificandosi in tutto, pur di salvaguardare il patrimonio e morire da ricco. – 126. Servorum
ventres: cf. 3, 166-167: magno (sc. constant) / servorum ventres. – modio: il moggio è
un’unità di misura per la capacità degli aridi, originariamente impiegato per la misura
dei cereali, corrispondente a poco più di otto litri. In questo caso modius indica il contenitore in cui il padrone pone la razione di cereali che spetta ai suoi servi. Gli schiavi, infatti, ricevevano una determinata quantità (demensum) di grano, olive, vino e fichi mensilmente (menstrua cibaria) o quotidianamente (diaria); cf. Sen. Epist. 80, 7: servus est:
quinque modios accipit et quinque denarios. – iniquo: il modius viene definito iniquus
(termine tecnico per indicare piccole quantità: cf. ThlL VII.1, 1643, 80 - 1644, 3; OLD2
2b) perché si tratta di una quantità troppo scarsa: l’avaro padrone raggira anche i suoi
schiavi, dando loro meno del dovuto, pur di accumulare ricchezze (cf. Liv. 5, 48, 9:
pondera ab Gallis adlata iniqua; Pers. 1, 130: fregerit heminas Arreti aedilis iniquas). –
127. neque… sustinet: ‘e non riesce, non ha il coraggio’ (OLD2 6; cf. 6, 104-105: quid
vidit propter quod ludia dici / sustinuit?; 15, 87-88: qui mordere cadaver / sustinuit nil
umquam hac carne libentius edit; Ov. Met. 6, 367-368: nec dicere sustinet ultra / verba
minora dea). – omnia: l’uomo è talmente spilorcio che non si decide neppure a finire
tutte le croste di pane avanzato. – 128. mucida: cf. 5, 68: solidae iam mucida frusta farinae. – cerulei panis: il pane che l’uomo continua a mangiare e a mettere da parte è
talmente vecchio da essere ormai diventato bluastro per la muffa che vi si è formata. –
129. hesternum: ‘del giorno precedente’, e quindi stantìo (cf. ThlL VI.2, 2669, 1-15). –
servare: cf. Mart. 1, 103, 7: deque decem plures semper servantur olivae; 3, 58, 42: nec
avara servat crastinas dapes mensa. – minutal: sorta di spezzatino di carne, pesce e
verdure, fatti a pezzi e conditi (cf. ThlL VIII, 1045, 77-83; Mart. 11, 31, 11: Hinc exit
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varium coco minutal). Per esempio, lo Pseudo-Apicio (4, 3) ne descrive una versione
con pesce, olio, salsa, vino, porro e coriandolo. – 130. Septembri: settembre era il mese
più caldo e meno adatto a conservare cibo a Roma, visto l’arrivo dell’Austro, un vento
caldo-umido del sud che favoriva spesso la diffusione di malattie e pestilenze (cf. 4, 59:
tamen hic properat, velut urgueat auster; 6, 517: grande sonat metuique iubet Septembris et austri / adventum). Neppure la consapevolezza che il cibo sarebbe andato di sicuro a male riusciva a frenare l’avaro dal metter da parte gli avanzi. – cenae alterius: i. e.
‘la cena del giorno seguente’; cf. Mart. 1, 103, 8: explicat et cenas unica mensa duas. –
131. conchem… cum parti lacerti: si tratta di cibo particolarmente economico e comune: la fava con la buccia, che d’estate non si conservava, e un pesce di mare simile
allo sgombro (cf. Mart. 7, 78, 1-2: Cum Saxetani ponatur coda lacerti / et, bene si cenas, conchis inuncta tibi). – 132. signatam: ‘chiuse sotto sigillo’ per evitare che gli
schiavi le rubassero (cf. Mart. 9, 87, 7: nunc signat meus anulus lagonam; Plin. Nat. 33,
26: nunc cibi quoque ac potus anulo vindicantur a rapina… aliter apud antiquos omnem victum in promiscuo habebant nec ulla domi a domesticis custodia opus erat). – siluro: altro tipo di pesce, anch’esso di facile deterioramento (cf. 4, 33: fracta de merce
siluros). – 133. filaque: le cime verdi del porro (cf. OLD2 4b; Mart. 11, 52, 6: porris fila
resecta; 13, 18, 1: fila Tarentini graviter redolentia porri). – sectivi… porri: c’erano
due specie di porro: quello sectile, di cui si tagliavano le foglie, che poi riscrescevano
(cf. 3, 293: sectile porrum), e quello capitatum, che si lasciava crescere senza taglio. –
numerata: le foglie erano state contate prima di essere messe sotto chiave, proprio per
poter controllare poi se ne fossero mancate alcune. – 134. aliquis de ponte: un accattone, un mendicante (cf. 4, 116: a ponte satelles). Ponti e marciapiedi, già in antico, erano
i luoghi dove trovavano posto persone senza fissa dimora (Mart. 12, 32, 23-25: Quid
quaeris aedes vilicosque derides, / habitare gratis, o Vacerra, cum possis? / Haec sarcinarum pompa convenit ponti). – negabit: su un povero che declina un invito cf. Hor.
Epist. 1, 7, 63-64: ‘Neget ille mihi?’ ‘Negat improbus et te / neglegit aut horret’; Mart.
2, 69, 8: Si vir es, ecce, nega. – 135-137. la pericope sulle minimae sordes termina con
una riflessione su un tema caro alla tradizione satirica: a che serve vivere da poveri per
morire da ricchi? Cf. 10, 12-14: sed pluris nimia congesta pecunia cura / strangulat et
cuncta exuperans patrimonia census / quanto delphinis ballaena Britannica maior. –
136. furor: cf. 1, 92-93: Simplexne furor sestertia centum / perdere et horrenti tunicam
non reddere servo?; Mart. 2, 80: Hostem cum fugeret, se Fannius ipse peremit. / Hic,
rogo, non furor est, ne moriare, mori?. – phrenēsis: cf. Cels. 3, 18, 3: Phrenesis vero
tum demum est, cum continua dementia esse incipit. Qui come di frequente, il grecismo
lessicale assume una connotazione negativa nello ‘xenofobo’ Giovenale.
138-155. Interea ~ secantem: “Intanto, mentre il borsellino è gonfio, pieno fino all’orlo, cresce l’amore per i quattrini, proprio di quanto il patrimonio stesso è cresciuto, e chi
non ne ha lo desidera di meno. E così ti compri un’altra fattoria, quando un solo campo
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non ti basta più, e ti vien voglia di allargarne i confini, e la messe del vicino ti pare più
grande e più bella; cerchi di comprare anche questa, e i vigneti, e la collina che i fitti
oliveti imbiancano. E se il padrone di questi non si lascia convincere da nessuna offerta,
di notte saranno mandati tra le sue spighe verdeggianti buoi macilenti e giumente affamate dal collo stanco e non torneranno a casa prima che l’intero raccolto possa sparire
nei loro ventri crudeli, sicché crederesti che l’operazione si stata fatta con le falci. Difficilmente si potrebbe dire quanti piangano per cose di questo genere, e quanti campi siano stati messi in vendita dal sopruso. ‘Ma che chiacchiere poi, come squillerà vergognosamente la tromba del disonore!’ ‘E che danno portano queste cose?’ dice lui. ‘Preferisco per me la buccia di un lupino, piuttosto che il vicinato mi lodi in tutto il villaggio
mentre mieto lo scarsissimo farro di un minuscolo campo’”. Inizia qui la sezione
sull’insatiabile votum adquirendi, la smania di accumulare ricchezze. L’autore comincia
subito a descrivere l’ingordigia del ricco avaro: più si possiede e più si desidera (concetto frequente; cf. Hor. Carm. 3, 16, 17-18: crescentem sequitur cura pecuniam / maiorque fames; Ov. Fast. 1, 211-212: creverunt et opes et opum furiosa cupido, / et, cum
possideant plurima, plura petunt; Pers. 6, 78-80: Rem duplica. ‘Feci; iam triplex, iam
mihi quarto, / iam decies redit in rugam. Depunge ubi sistam: / inventus, Chrysippe, tui
finitor acervi’), e si fa di tutto pur di ottenerlo, anche spingendosi oltre ciò che è lecito.
– 138. cum: Heinrich suggerisce dum, sulla base del confronto con 8, 155-156: Interea,
dum lanatas robumque iuvencum / more Numae caedit. – sacculus: diminutivo di saccus, piccolo sacco o borsa, usato per filtrare il vino, per conservare il grano, e soprattutto – come in questo caso – come portamonete (cf. 11, 27-29: hic tamen idem / ignorat
quantum ferrata distet ab arca / sacculus; Plin. Nat. 2, 52: aurum et aes et argentum liquatur intus, sacculis ipsis nullo modo ambustis ac ne confuso quidem signo cerae;
Mart. 5, 39, 7: Excussi loculosque sacculumque; 11, 3, 6: Quid prodest? Nescit sacculus
ista meus). – 139. crescit… crevit: il poliptoto sottolinea la proporzionalità dell’aumento della brama di denaro in relazione all'incremento del patrimonio; il verso è ripreso da
Columb. Ad Hunauld. 54: crescit amor nummi quantum ipsa pecunia crescit. – 140.
non habet: = caret (cf. Mart. 3, 8: Thaida Quintus amat: quam Thaida? Thaidam luscam. / Unum oculum Thais non habet, ille duos). – Ergo: la dieresi bucolica marca
l’inizio della narrazione dell’atteggiamento ossessivo dei ricchi, smaniosi di accumulare
terre e ricchezze. – paratur: qui parare = comparare, che nel latino colloquiale spesso
significa ‘comprare’ (cf. OLD2 4; e in Giovenale anche 3, 224: domus… paratur; 5, 56:
pretio maiore paratus; 14, 200: pares quod vendere possis). – 141. altera villa: solitamente i ricchi possedevano più di una dimora: si tratta sempre di ulteriori possedimenti
che vanno ad ampliare i loro patrimoni. – 143-144. et… et… et: la triplice congiunzione e il doppio monosillabo in clausola (hanc et) enfatizzano sul piano ritmico
l’incalzante brama di accumulo del ricco. – melior vicina seges: cf. Ov. Ars 1, 349-350:
Fertilior seges est alienis semper in agris / vicinumque pecus grandius uber habet. – vicina: i terreni seminati appartenenti ai vicini. – mercaris: mercari = ‘trattare, negoziare’ (cf. OLD2 b). – 144. arbusta: qui ‘vigneti’; più precisamente, si fa riferimento alla
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piantagione di alberi su cui sono appoggiate le viti (ThlL II, 430, 34-69; OLD2 2; cf.
Verg. Buc. 3, 10: Tum, credo, cum me arbustum videre Miconis / atque mala vitis incidere falce novellas; Georg. 2, 416: iam vinctae vites, iam falcem arbusta reponunt). In
6, 150 Giovenale parla di ulmi, ma il riferimento è sempre ai vigneti: in Italia le viti venivano spesso appoggiate su tronchi di olmo, che si prestava bene a quest’uso per il suo
fogliame rado. – canet oliva: riferimento al colore verde-grigiastro delle foglie d’olivo,
che nell’insieme sembrano imbiancare la collina (cf. Stat. Theb. 3, 466-467: Hoc gemini
vates sanctam canentis olivae / fronde comam; Lucr. 5, 1373-1374: olearum / caerula…
plaga; e già Pind. Ol. 3, 13 γλαυκόχροα κόσμον ἐλαίας). – 145. Quorum: è riferito a
dominus. – 146. nocte: sottolinea l’intento doloso del pascolo abusivo, visto che le
greggi vengono mandate di notte, furtivamente, a pascolare sui terreni vicini. – boves
macri: tori da riproduzione emaciati. – lassoque famelica collo iumenta: giovenche
usate per trainare gli strumenti agricoli, affamate e appesantite dal giogo, in maniera tale
che il loro collo sia già piegato, in posizione favorevole al pascolo (cf. 8, 66: trito et ducunt epiraedia collo). – 148. Nec… domum: sc. abibunt. – novalia: si riferisce ai campi coltivati (cf. OLD2 3). – saevos: ‘crudeli, feroci’ perché affamati e quindi capaci di
danni rilevanti (cf. 5, 94: gula saevit). – 149. falcibus actum: il pascolo abusivo corrisponde, per l’effetto devastante che ottiene, all’opera di falci e contadini: le bestie divorano tutto, senza lasciare alcuna speranza di ripresa. – 150-151. l’avaritia spinge fra
l’altro ad appropriarsi, anche con mezzi illeciti, delle terre confinanti con la propria, per
tentare di soddisfare un’insaziabile bramosia di estendere i propri possedimenti. Nello
specifico, Giovenale denuncia il caso di danneggiamento nei confronti di piccoli proprietari terrieri che, in seguito alla devastazione dei loro campi, causata da bestiame altrui mandato a pascolare su quei terreni proprio con l’intento di distruggere interi raccolti, si vedono costretti a svendere le loro proprietà e a trasferirsi, permettendo quindi
l’annessione del proprio terreno a quelli del ricco e prepotente vicino che li ha messi in
condizione di doversene andare. Per quello che ci viene lasciato intendere, si trattava di
un malcostume molto diffuso nella Roma del tempo, e sebbene Giovenale non ci offra
indicazioni precise al riguardo, ma si limiti a denunciare il fatto, l’atto illecito che egli
adombra è riconducibile alla tipologia del damnum iniuria datum, punito dalla lex Aquilia de damno. Per riscontri in ambito letterario vd. Cic. Tull. 7-11; Rosc. com. 32; Sen.
Mai. Contr. 3, 6; 5, 5; e soprattutto Ps.-Quint. Decl. mai. 13, che presenta un caso molto
simile a quello descritto da Giovenale (sul pezzo vd. ora KRAPINGER 2005 e, per il rapporto con la legislazione reale, MANTOVANI 2007). Per casi antecedenti di ‘sconfinamento’ contra ius, o comunque pertinenti alla tipologia del damnum iniuria datum, cf.
Cic. Mil. 26; 74; Hor. Carm. 2, 18, 23-26; Sat. 2, 6, 5-9; Ov. Fast. 5, 282-286; Sen.
Epist. 90, 36; 39; Apul. Met. 9, 35, 1-4; Mart. 2, 32; in Giovenale vd. pure 16, 36-39. –
150. plorent: = deplorent, con uso poetico del verbo semplice per il composto (cf. 13,
134: ploratur lacrimis amissa pecunia veris; 15, 134-135: Plorare ergo iubet causam
dicentis amicis squaloremque rei). – 152-155. Clausen ritiene il v. 152 pronunciato direttamente da Giovenale; con Santorelli seguo invece Knoche nel considerare tale verso
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come l’intervento di un interlocutore fittizio (e stamparlo quindi come discorso diretto).
All’anonimo interlocutore risponde subito uno dei ricchi disonesti in questione (vv.
153-155): in nome della ricchezza non c’è remora morale che tenga, nulla riesce a porre
limite a questo comportamento illecito, neppure il disonore che ne deriverebbe. – 152.
Sermones: cf. 10, 88: Hi sermones tunc de Seiano. – quam foede: sc. sonabit; sottolinea la vergogna e la riprovazione che suscitano quelle parole. – 153. inquit: ha un soggetto indefinito, come in 3, 153 e 7, 242. Giovenale introduce spesso in questo modo
un’obiezione nel discorso. – tunicam… lupini: si riferisce al baccello del lupino, quindi indica qualcosa di indegno e di poco valore (cf. Hor. Epist. 1, 7, 23: nec tamen ignorat quid distent aera lupinis; Pers. 4, 30: tunicatum… caepe; Stat. Silv. 4, 9, 30: bulborum tunicae mihi malo). – 154. toto… pago: ablativo di luogo. – 155. Exigui ruris:
Giovenale pensa probabilmente (Ferguson) a Verg. Georg. 2, 412-413: laudato ingentia
rura, / exiguum colito, consiglio che qui non viene però preso in considerazione.
156-160. Scilicet ~ arabat: “Naturalmente starai al riparo da malattie e infermità, sfuggirai a lutti e ansie, e d’ora in poi ti sarà data vita lunga con un destino ancora migliore,
se tu da solo arriverai a possedere tanti terreni coltivati quanti l’intero popolo romano ne
arava sotto Tazio”. I versi, chiaramente ironici – come sottolinea l’avverbio iniziale –,
stigmatizzano l’inutilità di quest’accumulo di ricchezze di fronte all’inesorabilità del destino che ci attende, arrivando fino all’immagine iperbolica del confronto fra i tempi mitici di Roma e il presente corrotto (cf. Hor. Epist. 1, 2, 47-49: Non domus et fundus, non
aeris acervus et auri / aegroto domini deduxit corpore febris, / non animo curas). – 156.
debilitate: infermità fisiche (cf. 10, 227: ille umero, hic lumbis, hic coxa debilis). –
159-160. tantum… solus possederis… / quantum sub Tatio populus Romanus arabat: uno solo dei latifondi del tempo di Giovenale era esteso quanto l’intero dominio
dei primi Romani. – 159. culti… agri: terreno arato, distinto da quello destinato al pascolo. – 160. Tatio: Tito Tazio era il re dei Sabini: governò con Romolo in seguito alla
fusione del suo popolo con i Romani; cf. Ov. Fast. 6, 93-94: haec ubi narravit Tatium
fortemque Quirinum / binaque cum populis regna coisse suis. In altri passi troviamo
nominato Tazio per indicare quel periodo, quando non è possibile usare Rōmŭlō per ragioni metriche; cf. Ov. Med. fac. 11: Forsitan antiquae Tatio sub rege Sabinae; Ars 3,
118: de stipula Tatio regna tenente fuit.
161-172. Mox ~ horto: “In seguito, anche a quelli che erano debilitati per l’età e che
avevano patito le guerre puniche, il feroce Pirro e le spade molosse, in cambio delle tante ferite venivano dati dopo tanto sforzo due iugeri; e questa ricompensa per il sangue e
le sofferenze a nessuno sembrò mai inadeguata ai propri meriti, o segno del riconoscimento incompleto di una patria ingrata. Una zolla tanto piccola bastava a saziare il padre stesso e tutta la moltitudine della sua catapecchia, in cui giaceva una moglie incinta
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e giocavano quattro bambini, di cui uno schiavo e tre padroni; per i loro fratelli maggiori, poi, che tornavano dallo scavar fosse e solchi, c’era un’altra, più sostanziosa cena, e
grandi pentoloni fumavano di polenta. Ora invece questa estensione di terra non basta al
nostro giardino”. Anche dopo le guerre puniche, i reduci di quelle battaglie si accontentavano dei due iugeri di terra che venivano loro assegnati, senza sentirsi per questo ricompensati inadeguatamente. Al tempo di Giovenale, invece, quella stessa quantità di
terreno non bastava neppure per il piccolo orto coltivato dietro casa. – 161. fractis: sc.
Quiritibus. – Punica… proelia: le tre guerre che i Romani combatterono contro Cartagine. La marcata allitterazione di /p/ (Punica passis proelia… Pyrrum) sottolinea la durata e le difficoltà di quelle guerre. – 162. Pyrrhum: Pirro, re dell’Epiro, condusse
campagne militari in Italia intorno al 280-275 a.C., quando per la prima volta i Romani
entrarono in contatto con gli elefanti. – inmanem: forse non solo ‘spietato, feroce’ ma
anche ‘enorme, prodigioso’, in obliquo riferimento alle inusuali dimensioni degli elefanti, portati proprio da Pirro in Italia per la prima volta. – Molossos: popolazione che
abitava, insieme ad altre, la regione balcanica dell’Epiro (cf. 12, 108: Hannibali et nostris ducibus regique Molosso). – 163. iugera bina: tradizionalmente due iugeri costituivano la quantità di terra che veniva assegnata ad ogni colono. Essi costituivano un
heredium, possedimento così definito perché poteva essere trasmesso in eredità ai propri
figli (cf. Varr. Rust. 1, 10, 2: Bina iugera quod a Romulo primum divisa dicebantur viritim, quae heredem sequerentur, heredium appellarunt). – 165. meritis minor: = minor
quam pro meritis (comparatio compendiaria). Si trattava di una ricompensa misera in
confronto alle azioni compiute (cf. Planc. ap. Cic. Fam. 10, 9, 3: Nihil… exigue a patria civi tributum potest videri). – 166. curta fides: segno di rottura nel rapporto di lealtà e fiducia con la patria. Qui fides = ‘compimento di una promessa, riconoscimento’
(cf. OLD2 3). – Saturabat: ‘era sufficiente a nutrire’ (cf. 8, 118: qui saturant urbem
circo scenaeque vacantem). – glebula: cf. Petron. 57, 6: Glebulas emi, lamellulas paravi. – 167. Turbam… casae: i membri dell’intera casa, compresi gli schiavi, ma non necessariamente molti; per esempio, Stazio parla di turba in riferimento a due soli figli
(Silv. 4, 8, 43: en hilaris circumstat turba tuorum). – uxor… feta: le donne plebee, a
differenza delle matrone, non si sottraevano ai rischi e alle conseguenze del parto, facevano figli e allattavano, senza ricorrere ad artes o medicamina che potessero renderle
sterili o causare l’aborto (che comunque non era considerato un delitto). Cf. 6, 592-594:
hae tamen et partus subeunt discrimen et omnis / nutricis tolerant fortuna urguente labores, / sed iacet aurato vix ulla puerpera lecto. – 168. uxor et infantes: i due termini
non si trovano accostati altrove nella letteratura latina classica: di solito si preferisce
uxor et liberi o nati (cf. 10, 201: uxori natisque). – 169. vernula: verna indica lo schiavo nato in casa da altri schiavi, quindi allevato in quella stessa dimora e destinato a servire gli stessi padroni. In questo caso il diminutivo sottolinea la giovane età dello schiavo, che cresce e gioca insieme ai figli del padrone (cf. 5, 105: vernula riparum, detto
scherzosamente di un pesce; Mart. 10, 3, 1: Vernaculorum dicta). – domini: = ingenui,
nati liberi (cf. Tac. Dial. 29, 1: coram infante domino). – 170. a scrobe vel sulco: dopo
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il loro ritorno dai campi, dove avevano scavato e arato tutto il giorno. – altera cena:
una seconda cena, cioè dopo che gli altri avessero avuto la loro. – 171. pultibus ollae:
cf. Mart. 13, 8: Inbue plebeias Clusinis pultibus ollas, / ut satur in vacuis dulcia musta
bibas. La puls era una sorta di polenta fatta di farro, alimento base per i contadini romani antichi, spesso accompagnata da miele e uova; cf. Varr. L. Lat. 5, 105: De victu antiquissima puls; Plin. Nat. 18, 83: (far) primus antiquis Latii cibus… Pulte autem, non
pane, vixisse longo tempore Romanos manifestum. – 172. Nunc: l’avverbio sottolinea la
contrapposizione del presente degenerato rispetto ai felici tempi antichi di Roma. – modus hic: = bina iugera. Cf. Hor. Sat. 2, 6, 1-2: modus agri non ita magnus, / hortus ubi
et tecto vicinus iugis aquae fons; Plin. Nat. 18, 32: Modus hic probatur, ut neque fundus
villam quaeratneque villa fundum.
173-178. Inde ~ avari?: “Di qui, solitamente, le ragioni dei delitti: non c’è vizio dell’animo umano che abbia servito più veleni, o che ricorra più spesso alla spada, della feroce brama di un patrimonio smisurato. Chi vuol diventare ricco, infatti, vuol diventarlo
anche presto; ma quale rispetto delle leggi, quale timore o quale vergogna può mai avere un avido che abbia anche fretta?”. Da questo vitium, che i genitori trasmettono ‘automaticamente’ ai fanciulli, derivano tutti gli scelera della società contemporanea. La sententia dei vv. 176-177 spiega il perché: il più delle volte, l’avidità è accompagnata dalla
fretta di arricchirsi. – 173. Inde: sc. dal desiderio di accumulare ricchezze; cf. Tac. Hist.
4, 13, 1: inde causae irarum; Sen. Ira 3, 33, 1: (pecunia) venena miscet, gladios… percussoribus… tradit. – causae: ‘incentivi, motivi’: un’accezione molto comune del termine (cf. 8, 84: vivendi perdere causas; 10, 139: causas discriminis atque laboris; Mart.
7, 93, 5: Quid Nomentani causam mihi perdis agelli…?). – 174. Miscuit aut… grassatur: perfetto gnomico coordinato con un presente. Per questo tipo frequente di coordinazione cf. 2, 110: sedet… iacuit; 10, 17: clausit… obsidet; 12, 54-55 reccidit… explicat. – ferro grassatur: grassari (+ abl.) = ‘ricorrere a’ (OLD2 3); cf. Tac. Ann. 15, 20,
2: ut ferro grassaretur, quando venenum non processerat; e anche Iuv. 3, 305: ferro…
grassator agit rem. – 175. vitium: personificazione dell’avidità, che mescola veleni e
compie omicidi. – 177. et: ‘anche’, congiunzione rafforzativa che accresce l’enfasi della
sententia. – 178. properantis avari: ‘di un avido che ha fretta’, sc. di arricchirsi; qui
properare è usato come festinare (cf. v. 212).
179-188. ‘Vivite ~ ducit’: “‘Vivete contenti di queste casette, di queste colline, fanciulli’ diceva un tempo il Marso, l’Ernico e l’anziano Vestino. ‘Chiediamo all’aratro il pane
che basti alle nostre mense: ecco ciò che i numi della terra approvano, e dal loro aiuto e
sostegno, dopo il dono della gradita spiga, può venire all’uomo il disgusto per l’antica
quercia. Non vorrà aver commesso nulla di ciò che è vietato chi non si vergogna di coprirsi, in mezzo ai ghiacci, di un alto stivale, chi fa fronte ai venti con pelli rivoltate:
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straniera e a noi ignota, la porpora, qualunque cosa essa sia, conduce al delitto e alla
scelleratezza’”. Guardando di nuovo al passato, l’autore inserisce un (immaginario) discorso esemplare pronunciato dai membri di antichi popoli italici. Essi insegnavano ai
loro figli ad accontentarsi di quello che era necessario a una vita semplice, perché sapevano che dall’avidità e dall’accumulo di ricchezze derivavano solo mali. Un discorso
simile è quello di Ofello, che dà lo stesso consiglio ai suoi pueri (cf. Hor. Sat. 2, 2, 135:
quocirca vivite fortes). – 179. casulis: le catapecchie in cui queste popolazioni erano solite vivere; oltre a enfatizzare la modestia delle abitazioni, il diminutivo rivela anche il
consueto affetto di Giovenale per questi popoli rustici (cf. 11, 153). – 180-181. Marsus… Hernicus… Vestinus: i Marsi (cf. 3, 169), gli Ernici e i Vestini erano tre antiche
popolazioni italiche del ceppo osco-umbro, che Giovenale cita come simbolo della pura
semplicità della vita agreste di un tempo. I Marsi erano stanziati nell’area del lago Fucino, nella zona dell’Abruzzo che oggi conserva il nome di ‘Marsica’; gli Ernici occupavano l’area limitrofa del Lazio, compresa tra il Fucino e il fiume Sacco; i Vestini erano
stanziati nella regione settentrionale dell’Abruzzo, tra la valle dell’Aterno e il mare
Adriatico. Queste tre tribù combatterono contro Roma e, dopo la loro sottomissione, al
suo fianco (cf. Enn. Ann. 315 Vahlen2 = 229 Skutsch: Marsa manus, Peligna cohors,
Vestina virum vis). – 182. numina ruris: le divinità connesse alla terra, come Tellus,
Cerere, Libero, Priapo (cf. Verg. Georg. 1, 7-9: Liber et alma Ceres, vestro si munere
tellus / Chaoniam pingui glandem mutavit arista / poculaque inventis Acheloia miscuit
uvis; Ov. Fast. 4, 401-402: Prima Ceres homini ad meliora alimenta vocato / mutavit
glandes utiliore cibo). – 183. ope et auxilio: dittologia sinonimica. – post munus: sc.
datum (cf. 15, 99). – 184. veteris: le ghiande che avevano costituito nutrimento per lungo tempo (cf. 13, 57: maiores glandis acervos). – fastidia quercus: la spiga e la ghianda (indicata per metonimia da quercus) sono i simboli con cui tradizionalmente si allude
al primo processo di civilizzazione dell’uomo, che abbandona un’alimentazione selvatica e animalesca imparando a coltivare i cereali. L’espressione è una variante di Lucr. 5,
1416: Sic odium coepit glandis. – 185. fecisse: ‘essere colpevole di’ (cf. 6, 638: sed clamat Pontia ‘Feci, / confiteor’); indipendentemente da questa particolare accezione del
verbo, velle seguito da un infinito perfetto è utilizzato spesso in contesti legali. – 186.
perone: il pero era uno stivale pesante indossato spesso dai contadini per i lavori agricoli (cf. Pers. 5, 102: peronatus arator; Virgilio lo riconduce proprio agli Ernici in Aen.
7, 690: crudus… pero). – summovet: ‘respingere’, ‘tenere lontano’ (cf. OLD2 2b; Sen.
Cons. Helv. 10, 2: (corpus) frigus submoveri vult; Lucan. 2, 384-385: magnique penates
/ summovisse hiemem tecto). – euros: qui generico = ‘venti’. Di per sé l’Eurus, odierno
Levante, è un vento proveniente da sud-est, fresco e umido, portatore di nebbia e precipitazioni. Nella mitologia greca, Euro, figlio del titano Astreo e della dea Eos, era effigiato di solito avvolto in un mantello. – 187. pellibus inversis: vesti foderate di pelliccia, o indossate con il lato pelo verso l’interno, per ottenere una maggiore sensazione di
calore. – peregrina: la porpora, pigmento violaceo estratto da un murice e usato spesso
per tingere stoffe, in passato era sconosciuta ai Romani; proveniva da zone lontane, in
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particolare dalla città fenicia di Tiro, dove si produceva quella più pregiata (cf. 1, 27:
Tyrias… lacernas; 7, 134: Tyrio… purpura filo), ma anche dalla Laconia (cf. 8, 101:
Spartana chlamys). – 188. quaecumque est: implica l’ignota del verso precedente (cf.
Verg. Aen. 5, 83: Ausonium, quicumque est, quaerere Tybrim). Quest’antico italico non
ha mai visto di cosa si tratti, o almeno è quello che ostenta. – purpura: sta per ‘vesti
lussuose’, in opposizione alle pelli di bestiame (cf. Lucr. 5, 1423-1424: Tunc igitur pelles, nunc aurum et purpura curis / exercent hominum vitam).
189-209. Haec ~ puellae: “Tali precetti davano quegli anziani ai loro giovani; ora invece, dopo la fine dell’autunno, il padre urlante sveglia nel cuore della notte il figlio che
dorme, dicendogli: ‘Eccoti le tavolette, scrivi, ragazzo, veglia, allenati a discutere cause,
leggi e rileggi le norme degli avi scritte in rosso; oppure chiedi con una petizione il bastone di centurione, ma bada che Lelio noti il tuo capo non toccato dal pettine e le narici
pelose, e che ammiri le tue grandi spalle; distruggi le capanne dei Mauri e i castelli dei
Briganti, perché il sessantesimo anno ti porti l’aquila straricca; oppure, se hai fastidio a
sopportare le lunghe fatiche della milizia, e udire il suono dei corni e dei flauti ti scioglie il ventre terrorizzato, procurati qualcosa da poter vendere a prezzi maggiorati della
metà, e non lasciar insinuare in te il disgusto per qualche genere di merce che va tenuta
oltre il Tevere, e non pensare che si debba fare qualche distinzione tra cuoi e oli profumati: il profumo del guadagno è soave, da qualunque cosa provenga. Sia sempre sulla
tua bocca quella massima degna degli dei e di un Giove fattosi poeta: ‘Nessuno chiede
da dove venga ciò che tu hai, l’importante è averlo’. [Questo mostrano le vecchie balie
ai fanciulli che ancora vanno carponi, questo imparano tutte le fanciulle prima ancora
dell’alfabeto]”. A differenza degli antichi, gli avidi genitori moderni spingono i loro figli, fin dall’infanzia, a procurarsi potere e ricchezze in qualunque modo: la carriera nell’esercito, l’avvocatura, il commercio. L’importante è possedere, non come si sia giunti
a farlo. – 189. veteres: probabilmente qui significa ‘anziani’ (cf. v. 181: senex), in opposizione al seguente minoribus. Per indicare gli ‘uomini dell’antichità’ sarebbe stato
più comune l’utilizzo di antiqui, anche se Cicerone e Tibullo utilizzano veteres proprio
in tal senso (cf. Cic. Phil. 5, 47: maiores nostri veteres illi admodum antiqui; Tib. 2, 1,
27: nunc mihi fumosos veteris proferte Falernos consulis). – praecepta: sc. dabant. –
minoribus: termine ambiguo: di per sé può indicare sia i bambini che le generazioni future. Naturalmente, considerando veteres nel senso di ‘anziani, padri’, bisogna intendere
minores come ‘fanciulli, figli’ (cf. 1, 148: eadem facient cupientque minores; 2, 146:
Catuli Paulique minoribus et Fabiis; 8, 234: Senonumque minores). – nunc: in opposizione a illi del v. 180. – 190. post finem autumni: all’inizio dell’inverno (per i Romani
da metà novembre in poi), quando le notti diventano più lunghe e fredde. I fanciulli si
aspetterebbero di poter dormire di più perché al mattino fa giorno più tardi, mentre i genitori li fanno svegliare presto e cominciano a farli esercitare alla luce di una lampada.
Probabilmente i mesi invernali erano ritenuti i più adatti allo studio, fra l’altro, proprio
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per il numero maggiore di ore di buio. – media de nocte: = post sextam horam, ‘dopo
mezzanotte’; cf. Censorin. 24, 2: tempus quod (sc. mediae nocti) proximum est vocatur
de media nocte; ed anche Plin. Epist. 3, 5, 8: Lucubrare Vulcanalibus (il 23 agosto) incipiebat, non auspicandi causa, sed studendi, statim a nocte multa, hieme vero ab hora
septima,… saepe sexta; Plaut. Rud. 898: de nocte qui abiit. – supinum: cf. Hor. Sat. 1,
5, 19: sterti… supinus. – 191. iuvenem pater excitat: cf. Sen. Prov. 2, 5: (patres) excitari iubent liberos ad studia obeunda mature, feriatis quoque diebus non patiuntur esse
otiosos. – Accipe: le parole del padre sono modellate sull’esempio di Pers. 5, 132-137:
Mane piger stertis. ‘Surge,’ inquit Avaritia, ‘eia / surge’. Negas. Instat. ‘Surge’ inquit.
‘Non queo’. ‘Surge’. / ‘Et quid agam?’ ‘Rogat! En saperdas advehe Ponto, / castoreum,
stuppas, hebenum, tus, lubrica Coa. / Tolle recens primus piper et sitiente camelo. /
Verte aliquid; iura’. – ceras: = tabulas ceratas, pugillares, cioè tavolette per scrivere.
In questo caso si fa riferimento a tavolette di legno rettangolari con i bordi rialzati, ricoperte di cera solitamente scura, sulle quali veniva incisa la scrittura con uno strumento
sottile e appuntito (stilus). Venivano usate per redigere testamenti (cf. 2, 58: tabulas impleverit Hister; 4, 19: precipuam in tabulis ceram; 6, 601: impleret tabulas; 14, 55: tabulas mutare), per scrivere lettere e bigliettini (cf. 14, 29: ceras nunc hac dictante pusillas implet), e come quaderni per gli esercizi dagli studenti. Marziale ci dà notizia anche
di tavolette fatte di altri materiali; cf. 14, 3 (Pugillares citrei): Secta nisi in tenues essemus ligna tabellas, / essemus Libyci nobile dentis onus; 14, 5 (Pugillares eborei):
Languida ne tristes obscurent lumina cerae, / nigra tibi niveum littera pingat ebur; 14,
7 (Pugillares membranei): Esse puta ceras, licet haec membrana vocetur: / delebis,
quotiens scripta novare voles. – 192. causas age: esercitarsi come avvocato a preparare
discorsi, professione che poteva offrire cospicui guadagni, in particolare se si faceva
sfoggio di ricchezze, anche non vere (cf. 7, 112ss.). – rubras: nei testi giuridici destinati allo studio degli aspiranti oratori, il titolo e la prima parola delle leggi erano scritte
con il colore rosso, dato dal minio (cf. Petron. 46, 7, ove un padre dice: Emi ergo nunc
puero aliquot libra rubricata quia volo illum… aliquid de iure gustare). – 193. vitem:
vitis, il bastone fatto di legno di vite, simbolo dell’autorità del centurione, usato anche
per punire i soldati indisciplinati (cf. 8, 247: nodosam post haec frangebat vertice vitem;
Plin. Nat. 14, 19: centurionum in manu vitis… optimo praemio tardos ordines ad lentas
perducit aquilas). – libello: ‘petizione’, cioè la richiesta ufficiale, da inoltrare al funzionario imperiale addetto proprio a ricevere petizioni (ab epistulis), per ottenere un posto
da centurione (cf. Plin. Epist. 10, 47, 2: Exegi ut quae dicebant quaeque recitabant libello complecterentur; quem tibi qualem acceperam misi, quamvis intellegerem pleraque ex illo ad id, de quo quaeritur, non pertinere). Dalle parole del padre si deduce che
il giovane apparteneva alla plebs, visto che mira a rimanere centurione per tutta la vita,
e a congedarsi come primipilaris, il più alto grado a cui poteva aspirare un comune soldato. Gli equites, infatti, non consideravano quel tipo di servizio militare come una professione da poter svolgere per la loro intera carriera, ma solo come un passaggio obbligatorio che permetteva di giungere poi a ricoprire posti meglio retribuiti. – 194-195. il
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padre esorta il figlio a ostentare gli stessi simboli esterni di sobrietà dei sedicenti censori
della satira 2 (cf. 2, 12-13), che avrebbero potuto confermare la sua adeguatezza a unirsi
alla gens hircosa centurionum (Pers. 3, 77). – 194. buxo: un pettine di legno di bosso.
Avere una chioma folta e scomposta era considerato segno di mascolinità; cf. Ov. Fast.
6, 229: non mihi detonso crinem depectere buxo; Mart. 14, 25 (Pectines): Quid faciet
nullos hic inventura capillos, / multifido buxus quae tibi dente datur?. – naris… pilosas: anche l’avere molti peli sul resto del corpo era considerato simbolo di virilità, mentre un’eccessiva cura del corpo e delle vesti era ritenuta segno di effeminatezza (cf. 2,
12-13: Hispida membra quidem et durae per bracchia saetae / promittunt atrocem animum; Sen. Epist. 115, 2: nosti comptulos iuvenes barba et coma nitidos, de capsula totos; nihil ab illis speraveris forte, nihil solidum). – 195. Laelius: la persona che avrebbe
dovuto appoggiare la carriera militare del giovane, probabilmente un ufficiale di alto
rango. – grandes… alas: ‘spalle grandi’: il centurione doveva avere un fisico possente.
Probabilmente l’allusione è alla regola introdotta da Adriano; cf. Script Hist. Aug.
Hadr. 10, 2: nulli vitem nisi robusto et bonae famae daret. – 196. il giovane viene invitato a percorrere tutti i teatri di guerra, dal sud al nord del mondo conosciuto. Il riferimento ai Mauri e ai Briganti lascia però perplessi, visto che quei popoli vennero sconfitti nel 123, mentre le altre satire del quinto libro sicuramente furono scritte dopo il 127.
Potrebbe trattarsi di un altro spunto satirico: il padre, troppo preso dal preoccuparsi per
la carriera del figlio, non si rende conto della effettiva situazione contemporanea. Questo verso è uno dei pochissimi in Giovenale ad avere solo cesura eftemimere, dato che la
tritemimere viene oscurata dalla sinalefe (cf. v. 256 e e. g. 1, 135; 6, 366). – Maurorum: Adriano nel 117 condusse una campagna militare nel nord-ovest dell’Africa, per
sedare una rivolta dei Mauri contro Roma. – attegias: attegia è parola molto rara, attestata altrove solo in un’iscrizione (CIL XIII, 6054 = ILS 3204). Il termine usato comunemente per indicare le capanne africane è mapalia. – castella Brigantum: i Briganti
erano la tribù più potente della Britannia, e ne occupavano la maggior parte delle attuali
sei contee del nord: Lancashire, Durham, Westmoreland, Cumberland, Northumberland
e Yorkshire (cf. Sen. Apoc. 12, 3, vv. 13-17: Ille Britannos ultra noti / litora ponti / et
caeruleos scuta Brigantas / dare Romuleis colla catenis / iussit). Anch’essi si ribellarono a Roma sotto Adriano (cf. Tac. Agr. 17, 1: Et terrorem statim intulit Petilius Cerialis
Brigantum civitatem, quae numerosissima proviciae totius perhibetur, aggressus. Multa
proelia et aliquando non incruenta; magnamque Brigantum partem aut victoria amplexus est aut bello). L’imperatore visitò quella regione nel 122 e decise la costruzione
del Vallum Adriani, proprio per proteggere la provincia dalle invasioni da parte dei popoli del nord (cf. Hist. Aug. Hadr. 11, 2: Britanniam petit [A. D. 120/1], in qua multa
correxit murumque per octoginta milia primus duxit, qui Barbaros Romanosque divideret). – 197. locupletem aquilam: l’aquila indica il potere militare che, una volta raggiunto, poteva essere molto remunerativo per un giovane studente. Il riferimento è al
centurio primi pili, il centurione anziano a capo della prima coorte e di tutti gli altri centurioni, al quale era affidata l’aquila della legione. Era il grado più alto che un giovane
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di umili origini potesse raggiungere (vd. ad v. 193); garantiva notevoli guadagni e benefici, e dopo il congedo permetteva l’ingresso nel rango equestre (cf. Mart. 6, 58, 10: referes pili praemia clarus eques). – sexagesimus annus: il congedo era consentito, ma
non obbligatorio, dopo il ventesimo anno di servizio. Sessant’anni era considerata
un’età adeguata per ritirarsi dalla vita militare (cf. Aug. Quaest. ev. 19: solet enim otium
concedi sexagenariis post militiam; Sen. Brev. v. 3, 5: Audies plerosque dicentes:
‘Quinquagesimo anno in otium secedam. Sexagesimus me annus ab officiis dimittet’). –
199. trepidum… ventrem: le viscere erano considerate la sede del timore e del peccato. – solvunt tibi… ventrem: ‘ti scombussolano (lett. ‘sciolgono’) l’intestino’; cf. Aristot. Probl. 27, 10: Διὰ τί τοῖς φοβουμένοις αἱ κοιλίαι λύονται; Plin. Nat. 20, 74: ventrem solvit; Cels. 2, 8, 19: venter resolutus est. – cornua: grandi trombe con entrambe
le estremità curve, come a formare una C (cf. Ov. Met. 1, 98: aeris cornua flexi). – 200.
lituis: strumenti a fiato a una sola canna, tipici della cavalleria. Insieme ai corni erano
usati per dare il segnale di guerra (cf. Hor. Carm. 2, 1, 17-18: Iam nunc minaci murmure cornuum / perstringis auris, iam litui strepunt). – pares: il commercio al dettaglio
era un altro modo per fare fortuna. Questo consiglio conferma che il giovane a cui è rivolta l’esortazione non appartiene al rango senatorio, dato che un senatore non si sarebbe mai dedicato ad attività commerciali (per l’uso di parare cf. ad v. 140). – 201. pluris
dimidio: genitivo di prezzo + ablativo di misura. Il padre lo sollecita ad avviare un
commercio che gli frutti il 50% dei profitti (cf. Suet. Vesp. 16, 1: negotiationes quoque
vel privato pudendas propalam exercuit, coemendo quaedam tantum ut pluris postea distraheret). – 201-202. nec… ultra: le attività manifatturiere inquinanti, o che producevano odori sgradevoli, erano confinate sulla sponda destra del Tevere, fuori dal centro
abitato. Ciò accadeva, per esempio, per la concia del cuoio o per la lavorazione dello
zolfo (cf. Quint. Inst. 1, 12, 17: Dicant sine his in foro multi et adquirant, dume sit locupletior aliquis sordidae mercis negotiator; Mart. 1, 41, 3-5: Hoc quod transtiberinus
ambulator, / qui pallentia sulphurata fractis / permutat vitreis; 6, 93, 4: Tam male Thais
olet, quam… / non detracta cani transtiberina cutis). – 203. neu: è l’unico caso in cui
Giovenale usi neu per introdurre un divieto: ben più comune è nec (cf. 3, 302; 6, 450; 8,
188; 11, 186). – 204. lucri bonus est odor ex re: allusione a un episodio relativo a Tito,
che non era d’accordo con la tassa sugli orinatoi istituita dal padre: Reprehendenti filio
Tito, quod etiam urinae vectigal commentus esset, (Vespasianus) pecuniam ex prima
pensione admovit ad nares sciscitans num odore offenderetur; et illo negante ‘Atquin’
inquit ‘e lotio est’ (Suet. Vesp. 23, 3). – 206. dis atque ipso Iove digna poeta: ‘un verso degno delle capacità poetiche di tutti gli dei e di Giove stesso’. La combinazione di
un plurale generico (dis) con un singolare ben definito (Iove) costituisce figura poetica
(cf. Verg. Aen. 1, 30: Danaum atque immitis Achilli; Cic. Cat. 1, 5, 11: dis immortalibus… atque huic ipsi Iovi Statori). – 207. sententia di origine ignota (= FPL4 inc. fr.
74); nemō suggerisce con forza che essa sia antecedente a Giovenale, dato che questi altrove in simili casi ha sempre -ŏ, conformemente alla prosodia del tempo. Una sequenza
di massime dal senso affine è in Sen. Epist. 115, 14: ‘Sine me vocari pessimum, ut dives
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vocer’. ‘An dives, omnes quaerimus, nemo, an bonus’. ‘Non quare et unde, quid habeas
tantum rogant’. – habeas… habere: poliptoto; usato assolutamente, il verbo è spesso
riferito proprio all’avarizia (cf. 10, 90-91: Visne salutari sicut Seianus, habere / tantundem…?; Ov. Met. 1, 131: amor sceleratus habendi; Plin. Epist. 90, 30, 4: Ea invasit homines habendi cupido, ut possideri magis quam possidere videantur; ThlL VI.2, 2400,
9-37. – 208-209. questi due versi vengono espunti da Jahn (seguito da tutti gli editori
successivi), che li ritiene fuori posto, dato che si sta parlando dell’influenza sui figli da
parte dei genitori. È tuttavia possibile che il riferimento alla balia fosse parte del discorso del padre, contesto a cui i versi sembrerebbero essere adatti. – 208. monstrant: anche le nutrici contribuiscono con il loro esempio a educare – o meno – i fanciulli (cf.
Quint. Inst. 1, 1, 4: Ante omnia ne sit vitiosus sermo nutricibus; Tac. Dial. 29, 1 [cit. ad
v. 44]). Per l’uso di monstrare cf. 10, 363: Monstro quod ipse tibi possis dare. – repentibus: repere = ‘camminare sulle mani e le ginocchia’ (cf. OLD2 1b), cioè ‘gattonare’
(cf. Quint. Inst. 1, 2, 6: Quid non adultus concupiscet qui in purpuris repit?; Stat. Theb.
9, 427: Ad hunc certe repsit Tirynthius amnem). – assae: propriamente: ‘balia asciutta’.
Spiega lo scoliasta (pp. 219-220 Wessner): Assa nutrix dicitur, quae lac non praestat
infantibus sed solum diligentiam et munditiam adhibet (cf. CIL VI, 29497: Volumnia C.
f. Procla nutrici assae et lib[ertae]). – 209. alpha et beta: si riferisce al nostro alfabeto,
termine derivato dalle prime due lettere che lo compongono in greco (cf. Arat. ap.
Steph. Byz., s. v. Γάργαρα: Γαργαρέων παισὶν βῆτα καὶ ἄλφα λέγων). La parola alphabetum è tarda, ma ἀναλφάβητος appare già nel IV sec. a. C. I Romani colti imparavano
il greco e il latino contemporaneamente, sin da bambini (cf. Quint. Inst. 1, 1, 12: a sermone Graeco puerum incipere malo).
210-224: Talibus ~ labor: “A ogni padre che incalzi il figlio con tali moniti potrei dire
così: ‘Dimmi, razza d’uno sciocco, chi ti mette tanta fretta? Ti garantisco che il discepolo è migliore del maestro. Sta’ tranquillo: sarai superato, come Aiace passò avanti a Telamone e Achille superò Peleo. Bisogna avere riguardo dell’età ancora tenera; le colpe
di un’adulta malizia non hanno ancora riempito quelle midolla. Quando avrà cominciato
a pettinarsi la barba e, una volta lunga, ad avvicinarle la lama del coltello, tuo figlio sarà
testimone mendace e venderà spergiuri per pochi soldi, toccando l’altare e il piede di
Cerere. E la nuora, considerala già sepolta, se varca la vostra soglia con una dote portatrice di morte. Da che dita sarà soffocata nel sonno! Perché tutte le cose che tu credi si
debbano cercare per terra e per mare, a lui le porterà una via più breve: non costa fatica
commettere un grave delitto”. L’autore, replicando idealmente alle parole del padre dei
versi precedenti, lo invita a non mettere fretta al figlio, perché basterà la natura a far sì
che le azioni dei figli superino in scelleratezza quelle dei genitori: saranno i giovani
stessi ben presto a rendersi conto di poter ottenere ciò desiderano senza alcun impegno,
semplicemente ricorrendo a una comodissima disonestà. – 210. instantem: il padre risulta insistente con i suoi consigli (cf. 14, 63: vox domini… instantis). – quaecumque:
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= quaelibet. Cf. ad v. 42, inoltre e. g. 6, 412: quocumque in trivio… narrat; 8, 27: quocumque alto de sanguine rarus. – 211. per l’uso di indirizzare discorsi a un interlocutore
ipotetico, in questo caso il padre, cf. 5, 107: Ipsi pauca velim, facilem si praebeat aurem. – vanissime: da vanus = ‘stupido’ (cf. 14, 57-58: cum facias peiora senex vacuumque cerebro / iam pridem caput hoc ventosa cucurbita quaerat?; 3, 59: Sic libitum vano… Othoni). – 212. festinare: cf. vv. 176-178. – praesto: da praestare = ‘garantire’
(OLD2 14a). – meliorem… magistro discipulum: il poeta rassicura ironicamente il padre: l’allievo supererà ben presto il maestro in quanto ad avaritia (cf. 1, 71: instituitque
rudes melior Lucusta propinquas). – 213. securus abi: s’intenda: lascialo tranquillamente a se stesso, “molti allievi sono migliori dei loro maestri” (Cic. Fam. 9, 7, 2). –
214. Gli esempi illustri che vengono citati contribuiscono a sottolineare l’error dell’insegnamento paterno (cf. Ov. Met. 15, 850-851: nati… videns bene facta fatetur / esse
suis maiora et vinci gaudet ab illo; 855-856: Sic magnus cedit titulis Agamemnonis
Atreus, / Aegea sic Theseus, sic Pelea vicit Achilles). – Aiax… Telamonem: Telamone,
secondo il mito fratello di Peleo, era uno degli Argonauti. Si stabilì sull’isola di Salamina, di cui divenne re, e generò Aiace, secondo solo ad Achille tra i guerrieri greci che
combatterono a Troia. – Pelea… Achilles: un esempio classico di figlio che supera il
padre: il figlio di Teti era destinato a superare in grandezza suo padre da assai prima
della nascita. Da notare Peleă, accusativo con desinenza alla greca. – 215. parcendum
est teneris: adattamento ironico di un verso virgiliano (Georg. 2, 363), che dà istruzioni
sui giovani tralci di vite. – 215-216: nondum implevere medullas / maturae mala nequitiae: l’allitterazione combinata di /m/ e /n/ crea un particolare effetto fonico. Da fanciulli non si è ancora del tutto contaminati dai vizi degli adulti; cf. Sen. Ira 1, 16, 2-3: In
te duriora remedia iam solida nequitia desiderat… perbibisti nequitiam et ita visceribus
immiscuisti, ut nisi cum ipsis exire non possit. – 215. implevere: qui implere = ‘contagiare’, come ἀναπιμπλάναι (cf. Liv. 4, 30, 8: scabie alia absumpta, volgatique in homines morbi. Et primo in agrestes ingruerant servitiaque; urbs deinde impletur). – 217.
longae: sc. barbae. – cultri: un coltello o delle forbici, non un rasoio, per spuntare la
barba. Il momento della barbae depositio, cioè la prima vera e propria rasatura, era considerato a Roma come rito di passaggio dall’infanzia alla giovinezza. In seguito al primo
taglio, l’uomo portava la barba corta e curata fino ai quarant’anni, quando era uso radersi completamente il volto (cf. Mart. 9, 76, 3-6: Creverat hic vultus bis denis fortior annis, / gaudebatque suas pingere barba genas, / et libata semel summos modo purpura
cultros / sparserat). – 218. vendet periuria: cf. Ov. Am. 1, 10, 37: vendunt periuria. –
219. summa exigua: una somma insignificante – et: solitamente inteso nel senso di
‘anche, addirittura’, cosicché l’azione spergiura del giovane risulti ancora più grave, visto che un giuramento a una divinità legata a culti misterici è particolarmente solenne
(cf. 3, 144: tantum habet et fidei); l’altra ipotesi è che et funga semplicemente da congiunzione tra summa exigua e tangens (cf. 2, 98: per Iunonem domini iurante ministro).
In entrambi i casi l’allusione è al mondo greco. – Cereris: Demetra, regina del mondo
sotterraneo, guardiana, con sua figlia Kore, di tutti i giuramenti più sacri (cf. 3, 320:
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quoque ad Helvinam Cererem vestramque Dianam). Le due donne erano al centro dei
riti misterici di Eleusi. – aramque pedemque: toccare l’altare sacro e il piede della statua della dea era considerato un comportamento estremamente irrispettoso se non si era
intenzionati a prestare fede al giuramento (cf. Plaut. Rud. 1333: Tange aram hanc Veneris; Liv. 21, 1, 4: Fama est etiam Hannibalem annorum fere novem… altaribus admotum tactis sacris iure iurando adactum se cum primum posset hostem fore populo Romano). – 220. elatam: già sepolta, quindi morta (cf. 1, 72: nigros efferre maritos). Si
tratta, naturalmente, di un’esagerazione ironica. – vestra: ‘tua e di tuo figlio’; l’usanza
era quella di vivere insieme alla famiglia del marito (cf. Sen. Mai. Contr. 1, 6, 1: Pro di
boni, et haec puella hospitio patris excepta est?). Attraversare la soglia della casa dello
sposo era elemento fondamentale del rito matrimoniale, e segnava il passaggio della
donna dalla potestas del padre a quella del marito. – 221. mortifera… dote: la dote con
cui la donna entrava nella nuova famiglia era per lei ‘portatrice di morte’, se il marito
ambiva esclusivamente ad essa. – premetur: premere = ‘strozzare, soffocare’ (cf. OLD2
26; Ov. Met. 9, 78: angebar, ceu guttura forcipe pressus). L’allusione è ai frequenti casi
di uxoricidio, anche per strangolamento, da parte di uomini che miravano alle doti delle
mogli. – 223. putas: ci si potrebbe aspettare un soggetto espresso con un pronome (tu)
per enfatizzare il contrasto con illi. – via: lucri vias (Sen. Ben. 7, 26, 4: alius lucri totus
est, cuius summam, non vias, spectat). – 224. lo stacco creato dalla dieresi bucolica dopo labor concorre a far risaltare il carattere sentenzioso dell’asserto (nullus… magni
sceleris labor).
224-234. Haec ~ ipsi: “‘Ma io non gli ho mai detto di fare queste cose,’ dirai allora ‘né
l’ho indotto a tanto’. Eppure la causa e l’origine della sua indole malvagia è in te.
Chiunque infatti instilla l’amore per un gran patrimonio, e con i suoi sinistri ammonimenti alleva fanciulli avari, [e chi attraverso gli inganni insegna a raddoppiar patrimoni]
lascia libero corso e allenta completamente le briglie al carro: se poi provi a frenarlo,
non può fermarsi, e senza curarsi di te si precipita lontano dalle mete. Nessuno ritiene
sufficiente peccare solo per quel tanto che tu gli permetti: a tal punto quelli si fanno da
sé concessioni più ampie”. Giovenale continua a mostrare come i genitori siano causa
dei vizi dei figli e come li inizino a tali comportamenti in maniera quasi spontanea; saranno le nuove generazioni, poi, a peggiorare autonomamente la propria condotta morale. – 225. Mandavi: mandare = ‘dare ordine, incarico’ (cf. OLD2 6a). – olim: in questo
caso è utilizzato nel senso di aliquando; altrove può stare per interdum (cf. 10, 142-143:
patriam tamen obruit olim / gloria paucorum), iamdudum (cf. e. g. 3, 163: debuerant
olim tenues migrasse Quirites) o quondam (cf. e. g. 5, 110-111: namque et titulis et fascibus olim / maior habebatur donandi gloria). – nec: ‘e nemmeno’, come al v. 246. –
226. causa et origo penes te: chiaro richiamo alle parole rivolte da Scipione ai soldati
ribelli in Liv. 28, 27, 11-12: causa atque origo omnis furoris penes auctores est: vos
contagione insanistis (cf. Tac. Ann. 4, 1, 1: initium et causa penes Aelium Seianum). –
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228. laevo: = sinistro, cioè ‘perverso, errato’. – producit: ‘alleva, educa’ (cf. 6, 241: filiolam turpi vetulae producere turpem; 8, 271: quam te Thersitae similem producat
Achilles). Da notare è il cambiamento del tempo verbale dopo praecepit (v. 227); cf. 2,
84-87: sumunt… et… posuere… atque… placant; 13, 29-30: invenit… posuit. – avaros: qui prolettico = ‘educati ad essere avari’. – 229. espunzione di Jahn, recepita da
Clausen. Secondo però COURTNEY 1980, p. 581, il verso non può essere un’interpolazione, perché preso singolarmente non ha alcun senso; Jahn lo espunge perché assente
in alcuni manoscritti, ma tale omissione – spiega ancora Courtney – potrebbe essere dovuta solo a omeoarcto o a un tentativo di restituire senso alla pericope. Certo è che conduplicari non può dipendere da praecepit o producit, perché altrimenti per fraudes non
avrebbe senso; cf. HOUSMAN 19312, p. 131: “non de fraudolento patre haec dicuntur, cui
sane non displiciturus erat fraudolentus factus filius, verum de avaro, qui filium, dum
avarum ac sui similem efficere studet, fraudolentum efficit invitus”. Housman ha perciò
supposto che vi sia una lacuna dopo questo verso, proponendo: <cum videant, cupiant
sic et sua conduplicari> per tentare di sanarla e fornire così un verbo da cui per fraudes
possa dipendere. Courtney dà credito all’ipotesi, citando esempi di versi consecutivi che
terminano con la stessa parola (5, 147-148: boletus domino, sed quales Claudius edit /
ante illum uxoris, post quem nihil amplius edit; 7, 143-144: Ideo conducta Paulus
agebat / sardonyche, atque ideo pluris quam Gallus agebat). Pur nella consapevolezza
che il luogo resta dubbio, si è qui optato pur sempre per l’espunzione. – patrimonia: cf.
v. 116. – conduplicari: cf. Lucr. 3, 70: divitias conduplicant. – 230. totas effundit habenas: l’emistichio è di matrice virgiliana (cf. Aen. 5, 818: omnis effundit habenas).
Metafore che rimandano al mondo dello sport e dei giochi sono molto frequenti nella
letteratura latina, per la predilezione che i Romani avevano per essi; cf. Verg. Georg. 2,
364 (riguardo al vino): palmes… laxis per purum inmissus habenis; Liv. 34, 2, 13 (Catone parla in difesa della lex Oppia): date frenos impotenti naturae et indomito animali
et sperate ipsas modum licentiae facturas. – totas: = omnes, secondo una caratteristica
tipologia di osmosi semantiche (omnis al posto di ullus, e. g. 8, 209: ignominiam graviorem pertulit omni vulnere; omnis al posto di totus, e. g. 1, 59-60: caret omni maiorum censu; totus al posto di omnis, e. g. 6, 61: cuneis totis; 8, 255: pro totis legionibus),
che prende origine dalla lingua d’uso. – 231. curriculo: i. e. equis; cf. currus in Verg.
Georg. 1, 514: fertur equis auriga neque audit currus habenas. – quem: potrebbe essere riferito a curriculo, visto che i grammatici riferiscono (ma senza esempi) di una forma maschile di questo termine usata regolarmente da Cicerone e Varrone nel senso di
‘carro’ (cf. ThlL IV, 1505, 57-70; OLD2 5), e a Giovenale piace usare come soggetto la
cosa al posto della persona; oppure dovremmo pensare che l’antecedente sia pueros (v.
228) rivolto al singolare illi (v. 223), per cui il riferimento sarebbe al giovane figlio. –
revoces: termine tecnico utilizzato per indicare il richiamo dei partecipanti a una gara
dopo una falsa partenza. – nescit: qui nescire = ‘non essere in grado di’, come in 5, 6061: nescit tot milibus emptus / pauperibus miscere puer; 10, 360: animum… nesciat irasci; 13, 239-240: natura… fixa et mutari nescia. – 232. rapitur: in questi contesti è più
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comune il composto corripere, ma cf. Sen. Ira 1, 7, 4: ulteriora nos vi sua rapiunt nec
regressum relinquunt. – metis: continua la metafora della competizione: le metae erano
le colonnine di forma conica che nella pista del circo segnavano il punto in cui gli aurighi dovevano girare. – 233. Satis credit: satis credere = ‘ritenere abbastanza’, quindi
‘essere soddisfatto’. – tantum… quantum permittas: ‘solo nella misura in cui gli viene insegnato, e non di più’ (cf. Sen. Ira 1, 8, 1: (ira) faciet de cetero quantum volet, non
quantum permiseris). – 234. indulgent: sc. omnes (da nemo del verso precedente). – latius: cf. Hor. Sat. 2, 2, 113-114: Integris opibus novi non latius usum / quam nunc accisis.
235-243. Cum ~ una: “Quando dici a un figlio che è sciocco uno che faccia doni a un
amico, o che allevi e rinfranchi la povertà di un parente, gli insegni anche a rapinare, a
raggirare e a procurarsi con ogni malefatta quelle ricchezze di cui in te c’è tanto amore
quanto nel petto dei Deci ce n’era per la patria, quanto Meneceo – se la Grecia è sincera
– ebbe cara Tebe, nei cui solchi nascono, da denti di drago, legioni armate di scudo, che
subito ingaggiano tremenda battaglia, come se anche il trombettiere fosse spuntato insieme a loro”. L’autore prosegue nel condannare gli esempi dei genitori, sottolineando
la loro smania di ricchezze con paragoni mitologici. – 235. stultum: sc. eum esse. Giovenale probabilmente ha in mente la tipica scena della commedia in cui un padre premuroso tenta di convincere il figlio a mettere da parte l’idea di aiutare un amico spendaccione (cf. e. g. Plaut. Trin. 327-343). – donet: il verbo regge di solito un accusativo, ma
ci sono altri casi, come questo, in cui viene usato assolutamente (cf. 5, 111: donandi
gloria; Mart. 4, 40, 7: Iam donare potes, iam perdere). – 236. propinqui: ‘di un parente’. – 237. et… et… et: la triplice anafora enfatizza il pessimo esempio dato dal padre.
La prima delle tre congiunzioni vale qui ‘anche’. – spoliare: cf. 1, 46: cum populum
gregibus comitum premit hic spoliator pupilli. – doces: è il verbo principale: qui comincia la frase reggente. – circumscribere: cf. 10, 222: circumscripserit Hirrus pupillos; 15, 136: pupillum ad iura vocantem circumscriptorem. – 238. crimine divitias: cf.
1, 75-76: Criminibus debent hortos, praetoria, mensas / argentum vetus et stantem extra
pocula caprum. – amor: sc. tantus est. Giovenale omette quasi sempre tantus prima di
quantus. – 239. Deciorum: i Deci erano stati menzionati già in 8, 254, con il riferimento ai tre generali di estrazione plebea (i tre Publio Decio Mure), noti per aver sacrificato
la vita agli dei per ottenere in cambio la vittoria delle truppe romane (secondo la pratica
della devotio, che consacrava agli dei degli inferi e alla madre Terra il comandante che
decideva di prendere per sé, sicuro di perdervi la vita, l’azione più pericolosa della battaglia). L’allusione, dunque, è alla nobiltà morale e al grande amore per la patria di queste tre generazioni, a cui in questo caso è equiparabile lo smodato amore per la ricchezza che i genitori trasmettono ai figli. – 240. si Graecia vera: sc. est. L’autore si dimostra scettico riguardo alla veridicità della storia greca; cf. già 10, 174-175: quidquid
Graecia mendax / audet in historia. – Menoceus: Meneceo, figlio di Creonte, fu uno
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degli eroi che, durante la guerra dei Sette contro Tebe, si posero a difesa della città, e si
uccise quando gli fu profetizzato da Tiresia che la sua vita era richiesta dagli dei in
cambio della salvezza della patria. La storia è narrata nelle Fenicie di Euripide (vv.
913ss.) e nella Tebaide di Stazio (10, 628-782). – 241-243. Giovenale espone qui uno
dei suoi dubbi sulla storia greca, sostenendo in modo ironico che a Tebe avviene quotidianamente quel prodigio di cui fu testimone Cadmo: inviato dal padre Agenore in cerca
della sorella Europa, Cadmo si recò a Delfi per chiedere l’aiuto dell’oracolo di Apollo,
ma in risposta il dio gli disse di abbandonare le ricerche perché il suo destino era quello
di fondare una città in un luogo che gli sarebbe stato mostrato da una vacca bianca.
Cadmo incontrò l’animale, che lo condusse insieme ai suoi compagni nel cuore della
Beozia, dove gli uomini si prepararono a fondare la città uccidendo la vacca e compiendo un sacrificio. Quando però stavano per sacrificare l’animale ad Atena, furono attaccati da un drago che sterminò tutti i compagni di Cadmo, lasciando solo lui in vita.
L’eroe, allora, portò a termine da solo il sacrificio, e Atena in segno di riconoscenza gli
suggerì di arare la terra e di seminarvi i denti del drago. Cadmo seguì le istruzioni della
dea, e dai denti seminati nacquero dei guerrieri armati, gli Sparti, che si attaccarono a
vicenda quando Cadmo lanciò tra loro dei sassi. Solo cinque di essi riuscirono a sopravvivere: furono loro ad aiutare Cadmo a fondare la rocca di Tebe, chiamata da lui
Cadmea (cf. Ov. Met. 3, 104ss.). – 241. quorum: sc. Thebanorum, ricavato da Thebas.
– dentibus: ablativo dipendente da nascuntur. – 242. nascuntur: il verbo al presente
sottolinea il tono ironico dei versi. La cesura al terzo trocheo, presente qui e altre dodici
volte in Giovenale, è quella più rara nella poesia latina. – 243. Giovenale, per potenziare
l’effetto ironico, quasi suggerisce che anche il trombettiere incaricato di dare il segnale
di guerra sia nato da quegli stessi denti seminati. – tubicen: ‘il trombettiere’; cf. 1, 169:
ante tubas; 15, 52: animis ardentibus haec tuba rixae.
244-255. Ergo ~ rex: “E così quel fuoco di cui tu stesso desti le prime scintille, lo vedrai divampare in lungo e in largo, e travolgere ogni cosa. E nemmeno di te, sventurato,
si avrà riguardo: nell’arena il tremante maestro sarà tolto di mezzo, con un gran ruggito,
dal leone che ha allevato. Il tuo oroscopo è noto agli astrologi, ma è dura attendere la
lunga conocchia: morirai allora quando il tuo stame non sarà ancora stato tagliato. Già
adesso sei d’intralcio e ostacoli i suoi desideri, già la tua vecchiaia, lunga e annosa come
quella d’un cervo, tormenta il giovane. Affrèttati a chiamare Archigene e a comprarti
quel che si preparò Mitridate: se vuoi arrivare a cogliere ancora un fico e a carezzare ancora rose, devi procurarti quell’antidoto che prima di toccar cibo dovrebbero assumere
sia il padre, sia il re’”. Solo quando i comportamenti scellerati del figlio si ritorceranno
contro suo padre, questi capirà quanto è difficile spegnere quell’incendio di cui fu proprio lui l’artefice. – 244-245. cambia qui l’ambito metaforico: l’amore smodato per la
ricchezza viene adesso rappresentato come un incendio ormai indomabile. – 244. Ergo:
riprende il v. 238; cf. igitur in 6, 92. – 246-247. Torna il riferimento allegorico all’arena
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e ai giochi. – 246. nec tibi: qui probabilmente il nec è intensivo: ‘nemmeno nei tuoi
confronti’. – trepidumque magistrum: il domatore che ha addestrato il leone, spaventato dalla sua stessa creatura. Anche Marziale riporta il caso di un domatore ucciso dal
suo leone, in Spect. 12, 1: Laeserat ingrato leo perfidus ore magistro (cf. Lucan. 4, 242:
a trepido vix abstinet ira magistro). – 247. cavea: può essere inteso sia come ‘gabbia’
che come ‘arena’. – fremitu: cf. 8, 36-37: nomen erit Pardus, Tigris, Leo, si quid adhuc
est / quod fremat in terris violentius. – leo alumnus: il figlio viene paragonato a un leone; la metafora proviene da Aesch. Agam. 717-736. Alumnus deriva da aluminus, antica
forma di participio presente passivo di alere (cf. gr. -μενος). – 248. mathematicis: il figlio aveva consultato gli astrologi (chiamati anche Caldei, dal nome del popolo mesopotamico padre della disciplina; cf. 6, 553: Chaldaeis sed maior erit fiducia) per conoscere
l’oroscopo del padre, e sapere quindi quando l’uomo sarebbe morto. Questo tipo di consultazioni era molto frequente nel mondo romano; cf. 3, 42-44: motus / astrorum ignoro; funus promittere patris / nec volo nec possum; 6, 565: consulit ictericae lento de funere matris. – genesis: ‘oroscopo’, cioè le posizioni degli astri al momento della nascita, foriere di tutto il corso successivo della vita di un individuo. – 248-249: grave tardas / expectare colus: evidentemente la vita a cui il padre è destinato risulta troppo
lunga per le aspettative del figlio, che allora cercherà di liberarsi del genitore in altro
modo (cf. 6, 565: lento… funere; Ov. Met. 1, 148: filius ante diem patrios inquirit in
annos; Fast. 2, 625: cui pater est vivax, qui matris digerit annos; Stat. Silv. 3, 3, 20: Celeres genitoris filius annos / … nigrasque putat properasse sorores). – 249. stamine
nondum abrupto: sc. il filo della vita dell’uomo, che le tre Parche tessono e che Atropo taglia quando si compiono i giorni fissati dal destino al momento della nascita (cf. 3,
27: superest Lachesi quod torqueat; 12, 64-66: Parcae meliora benigna / pensa manu
ducunt hilares et staminis albi / lanificae; Stat. Theb. 8, 12-13: Fatorum deprensa colus,
visoque paventes / augure tunc demum rumpebant stamina Parcae). Era credenza comune che le morti non naturali giungessero prima che il filo venisse tagliato. – 250. vota moraris: cf. Ov. Her. 17, 5: cur mea vota morantur…?; 18, 95: ventos timeo mea vota morantes; Vell. 2, 67, 2: difficilis est hominibus utcumque conceptae spei mora. –
251. torquet: nel senso di ‘torturare, tormentare’; cf. 1, 9: torqueat umbras Aeacus. –
iuvenem: cf. ad v. 23. – longa: ‘troppo lunga’ (cf. 6, 221: nulla umquam de morte
hominis cunctatio longa est; Stat. Silv. 3, 3, 14-15: si cui corde nefas tacitum fessique
senectus / longa patris). – cervina: era antica credenza comune (negata però da Aristot.
Hist. an. 6, 578b, 23ss.) che i cervi avessero una vita lunghissima: circa novecento anni
(cf. Plin. Nat. 7, 153 = Hes. fr. 304 Merkelbach-West: Hesiodus… cornici novem nostras attribuit aetates, quadruplum eius cervis, id triplicatum corvis). – 252. Archigenen: nome di medico del tempo di Traiano (cf. 6, 235-236: tum corpore sano / advocat
Archigenen onerosaque pallia iactat). – Mithridates: Mitridate, re del Ponto, noto per
il suo antidoto (cf. 6, 660-661: si praegustarit Atrides / Pontica ter victi cautus medicamina regis; Mart. 5, 76, 1-2: Profecit poto Mithridates saepe veneno / toxica ne possent
saeva nocere sibi). Composto da quarantaquattro ingredienti (cf. Plin. Nat. 29, 24), con-
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sisteva in una lenta assuefazione del corpo ai veleni, per difendersi da eventuali tentativi
di veneficio. L’antidoto era raccomandato anche da Cels. 5, 23, 3: Nobilissimum est (sc.
antidotum) Mithridatis, quod cotidie sumendo rex ille dicitur adversus venenorum pericula tutum corpus suum reddidisse. – 253. aliam… ficum: metonimia per ‘un altro autunno’ (cf. Hor. Epist. 1, 7, 5-6: dum ficus prima calorque / dissignatorem decorat lictoribus atris). – 254. Alias… rosas: metonimia per ‘altre primavere’. – medicamen: bisognava procurarsi un antidoto, come Mitridate, prima di mangiare, oppure avere un
praegustator che assaggiasse le pietanze per testarle (cf. 6, 633: timidus praegustet pocula papas). – 255. et pater et rex: un padre doveva temere un possibile omicidio da
parte di suo figlio, non meno di quanto dovesse farlo un re, proprio a causa dei suoi
stessi insegnamenti.
256-264. Monstro ~ ludi: “Ti posso mostrare uno straordinario spettacolo, non paragonabile con nessun teatro, con nessuna delle scene offerte da un pretore munifico, se solo
ti metti a guardare quanti pericoli mortali siano il prezzo dell’ampliamento di un patrimonio, di un’ingente somma chiusa in un forziere borchiato, di denari da affidare alla
sorveglianza del vigile Castore – da quando persino Marte Ultore non riuscì a difendere
le sue sostanze e smarrì anche l’elmo. Lascia perdere allora tutti i sipari di Flora, di Cerere e di Cìbele: le faccende degli uomini sono spettacoli ben più grandi!”. Inizia una
nuova sezione della satira, in cui l’avaritia diventa tema in sé: il comportamento di un
avaro che tenta di accrescere il proprio patrimonio affrontando qualunque pericolo è
uno spettacolo più divertente di qualunque altra forma di intrattenimento (cf. 5, 157158: nam quae comoedia, mimus / quis melior plorante gula?; Hor. Sat. 2, 8, 79: Nullos
his mallem ludos spectasse; Plin. Epist. 4, 25, 4: ista ludibria scaena et pulpito digna). –
256. Monstro: cf. 10, 363: monstro quod ipse tibi possis dare. – voluptatem: ‘spettacolo’ (cf. OLD2 4), quello offerto dagli avari che tentano di ampliare le proprie ricchezze.
– egregiam: è un altro (cf. ad v. 196) dei pochi versi in Giovenale ad avere solo cesura
eftemimere, dato che la cesura pentemimere è qui oscurata dalla sinalefe. – 257. aequare: qui nella rara accezione di comparare (cf. ThlL I, 1020, 75-84). – praetoris: da Augusto in poi la gestione dei giochi e degli spettacoli pubblici, in precedenza compito degli edili, passò ai pretori (cf. 8, 194: praetoris… ludis; 11, 194-195: similisque triumpho
/ … praetor sedet). – pulpita: il pulpitum era la scena di un teatro (cf. 3, 174: redit ad
pulpita). – lauti: ‘munifico’, e che perciò ha un’aria di grande rispettabilità (cf. 11, 1:
Atticus eximie si cenat, lautus habetur; OLD2 2a). – 258. spectes: come uno spectator a
teatro: Giovenale gioca sul luogo comune della vita come spettacolo. – capitis discrimine: ‘pericolo di vita’. – 259. domus: = rei domesticae. – aerata… arca: una cassaforte in bronzo (cf. 11, 26: ferrata… arca). – 260. fiscus: è il tesoro imperiale (laddove
l’aerarium era l’antica cassa senatoria); in questo caso è usato ironicamente in riferimento alla smisurata ricchezza di un privato. – ad vigilem ponendi Castora nummi:
per maggiore sicurezza il denaro privato veniva spesso depositato e custodito nei templi.
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Il tempio dedicato ai Dioscuri (noto come ‘tempio di Castore’), fatto costruire nel foro
romano dal dittatore Aulo Postumio, che secondo la tradizione aveva vinto grazie al loro intervento la battaglia del lago Regillo contro Tarquinio il Superbo, era spesso utilizzato a questo scopo e presidiato da un’apposita guardia armata (da qui l’epiteto vigil). In
questo caso ad sta per apud, oppure Castora sta per templum Castoris (cf. Cic. Quinct.
4, 17: nisi ad Castoris quaesisses quantum solveretur). – 261. ex quo: sc. tempore. Il
tempio di Marte Vendicatore fu eretto sul finire del I sec. a. C. nel foro di Augusto per
volere dello stesso imperatore, che aveva fatto voto alla divinità prima della battaglia di
Filippi. – galeam… perdidit: la frase è proverbiale (cf. Plaut. Rud. 801: Eheu, scelestus
galeam in navi perdidi) e si fonda su un evidente paradosso: persino Marte, onorato a
Roma come dio della vendetta, non riesce a proteggere i suoi averi, e, pur essendo il
Vendicatore per antonomasia, non è in grado di rendere giustizia a se stesso.
L’espressione ha qui anche valore letterale: l’allusione è a un furto ai danni della statua
del dio; chi entrava per rubare denaro e tesori, portava via anche ciò che riusciva a staccare dall’effigie in oro di Marte. – 262. suas: ha valore enfatico: Marte non riesce a salvaguardare nemmeno ciò che è suo, figurarsi ciò che appartiene ad altri. – 262-263.
Florae et Cereris… Cybeles aulaea: il riferimento è ai principali ludi scaenici che si
tenevano a Roma: i ludi Florales, celebrati dal 28 aprile al 3 maggio in onore di Flora,
antica dea italica associata alla primavera e ai fiori, per propiziare l’abbondanza dei raccolti (cf. Ov. Fast. 5, 361ss.); i Ceriales, che si svolgevano dal 12 al 19 aprile in onore
di Cerere (cf. Tac. Ann. 15, 53), e i Megalenses, i ludi dedicati alla Magna Mater che si
tenevano dal 4 al 10 aprile. Durante tutti questi festeggiamenti si mettevano in scena
spettacoli, rappresentazioni teatrali e combattimenti gladiatori. – 263. aulaea: cf. 6, 6769: quotiens aulaea recondita cessant, / et vacuo clusoque sonant fora sola theatro, /
atque a plebeis longe Megalesia, eqs. – 264. humana negotia: soggetto; ludi è predicato. Per il concetto cf. Hor. Epist. 2, 1, 197-198: spectaret populum ludis attentius ipsis, /
ut sibi praebentem nimio spectacula plura; Tac. Ann. 3, 18: ludibria rerum mortalium
cunctis in negotiis.
265-275. An ~ temerarius: “O forse corpi lanciati in alto da un trampolino, oppure
quelli che sono abituati a scendere da una corda tesa, possono dilettare l’animo più di te,
che sempre ti attardi e finisci per abitare sulla poppa di una nave di Còrico, sempre a rischio di essere portato via dal Cauro e dall’Austro, incallito e gretto mercante di sacchi
profumati, che godi ad aver importato dalla costa di Creta denso vino passito e brocche
compaesane di Giove? Almeno, quello che lentamente avanza su piedi insicuri, col
compenso di quel lavoro si procura da mangiare, con quella fune si difende dal freddo e
dalla fame: tu ti fai temerario per mille talenti e cento ville”. Il poeta continua sulla scia
dei versi precedenti: lo spettacolo offerto da questi ricchi incalliti, che affrontano ogni
genere di pericolo in nome dell’avidità, è molto più divertente di quelli messi in scena
da acrobati e atleti di professione, che mettono a repentaglio la loro vita per avere una
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fonte di sostentamento. – 265. petauro: la parola ha origine greca (cf. LSJ s. v. πέτευρον) e inizialmente indicava un ‘bastone da pollaio’. In latino il petaurum era una sorta
di trampolino (a volte un trapezio, a volte una ruota) usato dagli acrobati per le loro evoluzioni (cf. Mart. 2, 86, 7-8: Quid si per gracilis vias petauri / invitum iubeas subire Ladan?; 5, 439: corpora quae valido saliunt excussa petauro; cf. anche Petron. 53: petauristarii, esattamente i nostri ‘acrobati’). – 266. rectum descendere funem: l’allusione
qui è a un funambulus o schoenobates (cf. 3, 77), che si esibiva calandosi da una fune
tesa dal soffitto del teatro (cf. Hor. Epist. 2, 1, 210-211: ille per extentum funem mihi
posse videtur / ire poeta meum qui pectus inaniter angit). – 267. Corycia: Còrico era
una città della Cilicia situata presso le foci del fiume Calicadno (l’odierno Göksu, in
Turchia), e sin dal I sec. a. C. fu un’importante stazione delle rotte commerciali con
l’Oriente. L’epiteto è concordato con puppe, ma il riferimento non è tanto ai cantieri
navali della città, quanto ai carichi di pregiato zafferano che da lì provenivano (cf. Plin.
Nat. 21, 31). – 268. habitas: questi mercanti passano così tanto tempo sulla nave, che
essa diventa per loro una vera e propria abitazione. – Coro… et Austro: vengono menzionati due venti per indicarli tutti. Il Coro è un vento di nord-ovest (cf. Sen. Nat. 5, 16,
5: A solstitiali occidente corus venit, qui apud quosdam argestes dicitur: mihi non videtur, quia cori violenta vis est et in unam partem rapax, argestes fere mollis est et tam
euntibus communis quam redeuntibus); l’Austro è un vento che spira da sud (cf. 5, 100102: nam dum se continet Auster, / dum sedet et siccat madidas in carcere pinnas, /
contemnunt mediam temeraria lina Charybdim; 12, 69-70: Iam deficientibus Austris /
spes vitae cum sole redit; Hor. Sat. 1, 1, 6: contra mercator navim iactantibus Austris).
Entrambi potevano causare tempeste e quindi essere d’intralcio alla navigazione. – tollendus: spesso il gerundivo ha valore di participio futuro passivo (cf ad v. 314, e e. g.
12, 61: sumendas), ma qui – come osserva COURTNEY 1980, p. 584 – non è necessario
postulare un tale uso. – 269. perditus: qui nel senso di temerarius (cf. v. 275; 5, 129130: Quis vestrum temerarius usque adeo, quis / perditus, ut dicat regi: ‘Bibe’?; 3, 73:
audacia perdita). – ac vilis: espressione discussa, spesso ritenuta corrotta. Essa però
può essere ben spiegata (con PAOLICCHI 1996, p. 769 sulla scia di COURTNEY 1980, p.
584): vilis è riferito a mercator – così come perditus, a cui è unito da ac – e va inteso
nel senso di ‘gretto’ (cf. Hor. Carm. 3, 27, 57: Vilis Europe… / quid mori cessas?), dato
che il mercante non affronta i rischi per guadagnare ciò che gli serve per vivere, ma per
arricchirsi smisuratamente. – sacci… olentis: il riferimento è ai sacchi pieni di zafferano, spesso usato per profumare i teatri: lo zafferano liquido veniva diffuso nell’aria tramite i getti di apposite fontane, chiamate sparsiones (cf. Mart. Spect. 3, 8: Et Cilices
nimbis hic maduere suis; 5, 25, 7-8: rubro pulpita nimbo / spargere, et effuso permaduisse croco). – 270. pingue: il passito viene così definito perché aveva una consistenza
densa come il miele. – antiquae… Cretae: il luogo di nascita di Giove, allevato in segreto presso gli antri del monte Ida per sfuggire al padre Saturno, che divorava i figli alla nascita per evitare di essere spodestato. – 271. passum: passito, fatto con uve esposte
(pando) al sole a essiccare; cf. Mart. 13, 106: (Passum): Gnosia Minoae genuit vinde-
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mia Cretae / hoc tibi, quod mulsum pauperis esse solet; Plin. Nat. 14, 81. – municipes
Iovis… lagonas: date le origini cretesi di Giove, i fiaschi vengono definiti ironicamente
suoi compaesani (cf. 4, 33: municipes [sc. Crispini]… siluros; Mart. 10, 87, 10: Cadmi
municipes… lacernas). – 272. hic: ancora un’allusione al funambolo, citato poco prima.
– figens vestigia: da figere = ‘fissare bene’, per trovare l’equilibrio e camminare su una
fune tesa (cf. Verg. Aen. 6, 159: paribus curis vestigia figit). – 273. victum... parat: ‘si
procura da vivere’. – illa mercede: cf. Sen. Ira 2, 12, 5: tam pertinacis studii non digna
merces fuit. – brumamque famemque: cf. 6, 360: frigusque famemque. – 274. mille: è
usato, come il successivo centum, per indicare un numero elevato indeterminato. – talenta: un talento corrispondeva a 6000 denarii. – 275. centum villas: cf. vv. 86-95.
275-283. Aspice ~ marinos: “Guarda i porti, guarda il mare colmo di grandi travi: ormai la maggior parte degli uomini è in mare aperto. Arriverà una flotta dovunque la
chiamerà la speranza di un profitto, e non oltrepasserà soltanto le acque di Carpato e
quelle della Getulia, ma, lasciatasi alle proprie spalle, lontana, anche Calpe, oserà andare a raggiungere il sole che sfrigola nei gorghi d’Ercole. Vale davvero la pena di vedere
i mostri dell’Oceano e i figli del mare, per poter far ritorno a casa, di lì, con la borsa ben
piena, superbi del gonfiore di quel cuoio”. – 275. Aspice: cf. ad v. 144. – portūs: sc.
plenos trabibus. – 276. plus: sc. quam in terris; Giovenale sottolinea l’iperbole con la
dieresi bucolica (per l’iperbole cf. 3, 310: Maximus in vinclis ferri modus). – 277. Veniet… lucri: cf. Petron. 119, 5-7: si qua foret tellus, quae fulvum mitteret aurum,…
quaerebantur opes. – 278. Carpathium: sc. aequor, le acque che circondano l’isola di
Carpato nell’Egeo, cioè quelle comprese tra Creta e Rodi, proverbialmente tempestose
(cf. Prop. 2, 5, 11: Non ita Carpathiae variant Aquilonibus undae; 3, 7, 12: nunc tibi
pro tumulo Carpathium omne mare est; Stat. Silv. 3, 2, 88: quae pax Carpathio). – Gaetula: = Gaetulica (cf. 6, 544: legum Solymarum; 15, 23: populum Phaeaca). – Gaetula… aequora: il mare della Getulia, la regione dell’Africa nord-sahariana, che si estendeva immediatamente a sud dei confini di Mauretania e Numidia. Probabilmente in questo caso Giovenale vuole alludere alle Sirti, due grandi insenature situate tra Cirene e
Cartagine, dove la navigazione era particolarmente pericolosa per la presenza di banchi
di sabbia in cui le navi potevano incagliarsi. – 279. transiliet: cf. Hor. Carm. 1, 3, 24:
non tangenda rates transiliunt vada; Pers. 5, 146: Tu mare transilias?. – Calpĕ: dal raro
nominativo Calpis. Il riferimento è al promontorio che sovrasta l’odierna Gibiliterra;
con esso solitamente si indicava anche la città posta sulla costa iberica delle Colonne
d’Ercole, che rappresentava l’estremo ovest del mondo conosciuto (cf. 10, 1-2: Omnibus in terris, quae sunt a Gadibus usque / Auriram et Gangen). – 280. Herculeo…
gurgite: il mare d’Ercole, quello al di là delle cosiddette colonne d’Ercole, cioè
l’oceano Atlantico. Secondo il mito l’eroe, in una delle sue dodici fatiche, aveva raggiunto la Spagna ed eretto come ricordo delle sue imprese le due colonne che portavano
il suo nome: Calpe (sulla costa europea, l’odierna Rocca di Gibilterra) e Abila (sulla co-
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sta africana), considerate i limiti estremi del mondo, oltre i quali era vietato il passaggio
a tutti i mortali (cf. Sil. 1, 141-142: atque hominum finem Gades Calpenque secutus /
dum fert Herculeis Garamantica signa columnis). – stridentem… solem: l’immagine
del sole che al tramonto sfrigola come ferro rovente in acqua è ricorrente; cf. e. g. Stat.
Silv. 2, 7, 27: stridoremque rotae cadentis audis, e a proposito del sole che sorge Tac.
Germ. 45, 1: sonum insuper emergentis audiri… persuasio adicit. – 281. Grande operae pretium est: andare incontro ai mostri marini era considerato il prezzo da pagare
per diventare ricchi (cf. 12, 127: grande operae pretium faciat iugulata Mycenis). – tenso folle: ‘con la borsa piena’ (cf. 13, 61: veterem… follem). – 282. aluta: una borsa in
pelle; in 7, 192 lo stesso termine indica una scarpa. – 283. Oceani monstra: secondo la
mitologia i mari al di là delle Colonne d’Ercole erano popolati da mostri di vario tipo:
tritoni, serpenti marini, sirene (cf. Hor. Carm. 1, 3, 17: monstra natantia; Tac. Ann. 2,
24: miracula narrabant,… monstra maris, ambiguas hominum et beluarum formas). –
iuvenes… marinos: probabilmente i Tritoni e le Nereidi. Da notare che in questo caso
sono considerati come possibili pericoli, non come oggetto di curiosità (cf. Plin. Nat. 9,
10).
284-295. Non ~ tonat: “E non è di un solo genere la pazzia che sconvolge le menti.
Quello, tra le braccia della sorella, è terrorizzato dal volto e dal fuoco delle Eumenidi;
questo, colpito un bue, crede che a mugghiare sia Agammennone o l’Itacese. Se anche
evita di lacerarsi le vesti e i mantelli, ha comunque bisogno di un tutore, uno che riempie di merci una nave fino al bordo delle fiancate e si lascia separare dai flutti solo da
una tavola, quando causa di un così grande male e di un tale pericolo non è altro che un
pezzo d’argento inciso di iscrizioni e minuscoli volti. Ecco arrivare nubi e folgori:
‘Mollate gli ormeggi!’ grida il padrone del frumento e del pepe comprato in blocco;
‘Questo colore del cielo, questa striscia nera, non minacciano nulla: sono tuoni
d’estate’”. L’avarus viene ora considerato alla stregua di un folle: la brama di ricchezze
gli ha ottenebrato la mente, ed egli non è più in grado di distinguere la realtà dall’immaginazione. A questo proposito Giovenale allude a due esempi mitici di follia: da una
parte Oreste, perseguitato dalle Erinni e reso folle dal matricidio, compiuto per vendicare il padre Agamennone, ucciso anni prima dalla madre e dall’amante di lei Egisto;
dall’altra Aiace, re di Salamina, guerriero valoroso e secondo solo ad Achille, che dopo
la morte di quest’ultimo, irato per non aver ricevuto le armi dell’amico morto, in un
momento di cieca follia fa strage di armenti, credendo di infierire sui suoi compagni. –
284. ille: Oreste (cf. Eur. Or. 260-264). – sororis: Elettra. – 285. Eumenidum terretur: i due termini vengono giustapposti con ironica incongruenza. Le Erinni che terrorizzano Oreste dopo l’uccisione della madre vengono qui chiamate Eumenidi; in realtà
la loro trasformazione in Eumenidi avvenne dopo il processo a Oreste nel tribunale di
Atene. – igni: le torce con cui le Erinni minacciavano Oreste. – 286. hic: Aiace (cf.
Soph. Ai. 97ss.; 295ss.). – 287. Ithacum: Ulisse (cf. 10, 257: fas Ithacum lugere natan-
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tem). – Parcat: anche se non si strappa le vesti di dosso, che sarebbe sintomo evidente
di follia (cf. 2, 71: Nudus agas: minus est insania turpis). – curatoris eget: = insanus
est, quindi ha bisogno di un tutore che amministri i suoi beni (cf. Hor. Epist. 1, 1, 101103: insanire putas sollemnia me neque ridens, / nec medici credis nec curatoris egere /
a praetore dati). Solitamente il pretore trasferiva i beni della persona interdetta sotto la
custodia di uno dei suoi agnati, che assumeva il ruolo di curator (cf. Hor. Sat. 2, 3, 217218: interdicto huic omne adimat ius / praetor et ad sanos abeat tutela propinquos). –
289. tabula distinguitur unda: la nave su cui l’avarus si avventura in mare è estremamente pericolosa, data la sua scarsa consistenza (cf. 12, 58-59: confisus ligno, digitis a
morte remotus / quattuor aut septem, si sit latissima, taedae). Da notare che tabulā è
ablativo strumentale, undā di separazione. – 290. causa mali tanti: parodia di uno stilema virgiliano: l’emistichio è presente due volte nell’Eneide (cf. 6, 93; 11, 480), nella
stessa sede metrica, in riferimento a Lavinia, oggetto di contesa tra Enea e Turno. – 291.
Perifrasi ironico-dispregiativa per indicare monete d’argento, che recavano l’iscrizione
(tituli) e l’incisione del volto (facies) dell’imperatore. – minutas: participio (lett. ‘rimpicciolite’), come in 13, 189: minuti… animi. – 292. ‘Solvite funem’: i. e. ‘Salpate’. –
funem: cima dell’ormeggio (cf. Ov. Am. 2, 11, 23-24: Sero respicitur tellus, ubi fune
soluto / currit in inmensum panda carina salum). – 293. frumenti: il ‘granaio’
dell’impero era allora l’Africa, e importare frumento era attività molto proficua. – piperis: il miglior pepe veniva importato dall’India e arrivava via terra ad Alessandria; da lì
veniva portato via mare a Roma (cf. Pers. 5, 136: Tolle recens primus piper; Plin. Nat.
12, 29-30). – 294. fascia nigra: una striscia di nuvole nere che minacciano tempesta. –
295. aestivom tonat: riferimento a temporali estivi. L’espressione è modellata su intonuit laevum (cf. Enn. Ann. 527 Vahlen2 = Skutsch 541; Verg. Aen. 2, 693; 9, 628);
l’arcaismo morfologico (-vom = -vum), documentato concordemente dai codici e infrequente in Giovenale, indica forse che l’espressione è una citazione poetica o un antico
modo di dire.
295-302. Infelix ~ tuetur: “Disgraziato, forse questa notte stessa cadrà dalle travi sfasciate e, sopraffatto, sarà sommerso dalle onde, eppure ancora terrà la borsa del denaro
nella sinistra o tra i denti. Poi però ai suoi desideri, cui non era bastato l’oro fatto rotolare dal Tago e dal Pattòlo in fulve sabbie, dovranno bastare degli stracci che velino
l’inguine raggelato e un po’ di cibo, una volta colata a picco la sua nave, mentre naufrago elemosina una monetina, e si sostenta con una tempesta dipinta”. Anche in caso di
naufragio il folle avarus resta abbarbicato al denaro, ma alla fine, proprio a causa della
sua insaziabile bramosia di ricchezze, sarà costretto ad elemosinare per tutta la vita. –
295. hac.. ipsa: cf. 10, 76: hac ipsa Seianum diceret hora. – 296. cadet: = excidet (cf.
3, 270-271: fenestris / vasa cadant; Verg. Aen. 6, 339: exciderat puppi). – fractis trabibus: ablativo di separazione: l’avarus cadrà dalla nave in pezzi (cf. Pers. 1, 89: cum
fracta te in trabe pictum). – fluctu… obrutus: cf. Petron. 115, 17: fluctibus obruto non
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contingit sepultura. – 297. et: avversativo = ‘tuttavia, nondimento’. – zonam: una cintura a cui i viaggiatori erano soliti attaccare la borsa contenente il denaro (cf. 8, 120:
cum tenuis nuper Marius discinxerit Afros; Phaedr. 4, 23, 11-12: Hi zonas, illi res pretiosas colligunt / subsidium vitae; Hor. Epist. 2, 2, 40: zonam perdidit; OLD2 1). – laeva:
l’uomo, nonostante rischi di annegare, nuota solo con il braccio destro, tenendo nella
mano sinistra la borsa con il denaro. – morsu: inteso letteralmente, i. e. mordicus: pur
di non abbandonare i suoi averi, tiene la borsa tra i denti. – 299. Tagus: il Tago è il
fiume più lungo della penisola iberica, ricco di sabbie aurifere (cf. 3, 55: omnis harena
Tagi quodque in mare volvitur aurum; Catull. 29, 19: amnis aurifer Tagus). – Pactolus:
il Pattòlo è un fiume della Lidia (Asia Minore), che attraversava Sardi, e che un tempo
aveva sabbie ricche di elettro, una lega naturale di oro e argento (vd. ad v. 307); cf. Hor.
Epod. 15, 20: tibi Pactolus fluat. – rutila… harena: riferito ἀπὸ κοινοῦ sia al Tagus
che al Pactolus. – 300. sufficient: sc. ei, come antecedente di cuius del v. 298. – 302.
picta: il naufrago diventa mendicante e cerca di impietosire la gente mostrando un quadretto che raffigura la sua sventura, forse un dipinto fatto proprio su un pezzo di legno
della nave (cf. Pers. 1, 88-90: cantet si naufragus, assem / protulerim? Cantas, cum
fracta te in trabe pictum / ex umero portes?; Mart. 12, 57, 12: nec fasciato naufragus
loquax trunco; Hor. Ars 20-21: quid hoc, si fractis enatat exspes / navibus, aere dato
qui pingitur?). – tuetur: ‘sostenta’ (OLD2 5a).
(V) 303-331. Chiude la satira una riflessione sulle preoccupazioni che accompagnano
un grande patrimonio, e di cui invece un povero è libero: si accontenti allora l’uomo di
quel che basta a far fronte alla fame e al freddo; chi non riuscirà a contentarsi del poco, infatti, non troverà sufficiente nemmeno il censo di tre cavalieri, nemmeno le fortune di Creso o del re di Persia, e neppure quelle che riuscì ad accumulare, venendo a un
caso più vicino al lettore, quel Narcisso cui persino l’imperatore Claudio obbediva.
303-316. Tantis ~ deam: “Beni acquisiti con rischi tanto grandi vengono conservati con
maggiore ansia e timore: è una pena dover proteggere un gran patrimonio. Il ricchissimo
Lìcino, piazzati i secchi per gli incendi, ordina a una coorte di servi di vegliare, ansioso
per la sua ambra e le sue statue, per le colonne di marmo frigio, gli avori e le enormi testuggini. Le botti di un cinico nudo invece non bruciano; se ne romperai una, domani
un’altra sarà la sua casa, anzi resterà la stessa di prima, tenuta insieme dal piombo.
Alessandro dovette capire, vedendo in quel coccio un grande abitante, quanto costui che
non desiderava nulla fosse più felice di chi pretendeva per sé il mondo intero, destinato
a patire pericoli commisurati alle sue imprese. Nessuna potenza divina tu hai, se c’è
saggezza: siamo noi, noi a renderti una dea, o Fortuna!”. Se è difficile accumulare ricchezze, è ancora più difficile mantenerle al sicuro; tanto meglio quindi accontentarsi del
necessario. – 303. cura maiore: cf. Sen. Epist. 115, 16: maiore tormento pecunia possidetur quam quaeritur; Hor. Carm. 3, 16, 17: Crescentem sequitur cura pecuniam. –
304. misera… census: cf. Sen. Cons. Polyb. 9, 5: magnae felicitatis tutela sollicita est.
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– misera: qui con valore attivo: ‘che crea difficoltà, ansia’. – 305. praedives: Giovenale riprende ironicamente l’aggettivo usato per Seneca in 10, 16: Senecae praedivitis. –
amis: le (h)amae erano secchi antincendio, cioè contenitori d’acqua in cuoio o legno
che venivano appesi negli edifici pubblici o nelle ricche case private (come in questo
caso), come strumenti da usare in caso di incendio (cf. Plin. Epist. 10, 33, 2: nullus umquam in publico sipho, nulla hama, nullum denique instrumentum ad incendia compescenda). – cohortem servorum: il ricco Lìcino aveva le sue personali guardie antincendio (vigiles siphonarii), sebbene Augusto avesse istituito nel 6 d. C. sette pubbliche
cohortes vigilum – cioè dei vigili e delle guardie notturne preposte alla prevenzione e
allo spegnimento degli incendi – munite di centones, siphones, perticae, calae e hamae
(cf. Suet. Aug. 30, 1: Adversus incendia excubias nocturnas vigilesque commentus est;
Tac. Ann. 15, 43, 4: subsidia reprimendis ignibus in propatulo quisque haberet). – 306.
Licinus: si tratta probabilmente dello stesso Lìcino citato in 1, 109: condotto a Roma da
Cesare come prigioniero di guerra, una volta affrancato fece carriera sotto Augusto e si
arricchì come procurator della Gallia. Il suo nome, proprio per l’enorme ricchezza che
egli aveva accumulato, viene usato qui e altrove come antonomasia dell’arricchito. – attonitus pro: ‘terrorizzato, preoccupato per’, come il greco δεδιὼς περί; solitamente nella lingua classica questo genere di verbi – timere e sim. – non è seguito da pro, ma si
costruisce col dativo (cf. 6, 17-18: cum furem nemo timeret / caulibus ac pomis). Anche
il ritmo insolito del verso – che termina con una preposizione monosillabica, come già il
v. 114 – concorre a sottolineare l’ansia di Lìcino per le sue ricchezze; per altri esempi di
preposizione monosillabica in fine di verso cf. 5, 33: [cit. ad v. 114]; 6, 58: Quis tamen
adfirmat nil actum in montibus aut in). – 307. electro: potrebbe indicare sia l’ambra (cf.
5, 37-38: capaces / Heliadum crustas; Apul. Met. 2, 19, 1: Hic vitrum fabre sigillatum,
ibi cristallum inpunctum, argentum alibi clarum et aurum fulgurans et sicinum mire cavatum et lapides), che una lega di oro e argento, così chiamata per il suo colore ambrato
(cf. Plin. Nat. 9, 139; 33, 80; e vd. ad v. 299). È difficile stabilire il significato più adeguato, ma in ogni caso si trattava di oggetti di valore. – Phrygiaque columna: singolare
collettivo (cf. 3, 142: quam multa magnaque paropside cenat?). Si tratta di colonne di
marmo sinnadico, cioè proveniente dalla città frigia di Sinnada, centro di produzione ed
esportazione del famoso e pregiato ‘pavonazzetto’: un marmo bianco con venature color
porpora (cf. ad 14, 89; Stat. Silv. 2, 2, 88-89: marmore picto / candida purpureo distinguitur area gyro; Hor. Carm. 3, 1, 41: Phrygius lapis; Plin. Nat. 35, 1; 36, 24; 102). –
308. ebore: l’avorio proveniva in gran parte dall’India e dall’Africa centro-meridionale:
in particolare da Siene, l’odierna Assuan, il punto più a sud dell’impero (cf. 11, 123124: grande ebur et magno sublimis pardus hiatu / dentibus ex illis quos mittit porta
Syenes). – testudine: solitamente con i gusci di testuggine a Roma si intarsiavano i sostegni e la testata del letto (cf. 11, 94-95: qualis in Oceani fluctu testudo nataret, / clarum Troiugenis factura et nobile fulcrum). – Dolia…: la nuova scena è introdotta con
asindeto avversativo: “Invece i dolia…” (plurale probabilmente effettivo, non ‘poetico’:
cf. vv. 309-310). A rigore, dolium = ‘giara’; qui si è convenzionalmente mantenuta la
resa ‘botte’, in ossequio alla tradizione antica su Diogene di Sinòpe, filosofo fondatore
della scuola cinica, che in segno di αὐτάρκεια viveva appunto in una botte (cf. Diog.
Laert. 6, 23: “Diogene fu il primo a raddoppiare il mantello… per il fatto di avere anche
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necessità di dormire in esso, e si portava appresso una bisaccia, dove erano riposti i suoi
viveri, e continuò a servirsi di qualsiasi luogo per tutto: consumare i pasti, dormire,
conversare. … Una volta aveva chiesto a un tale di preoccuparsi di trovargli una casetta;
e poiché quello tardava, prese come casa la botte che stava nel Metroon”; trad. G. Reale). – nudi: Diogene viveva seminudo e scalzo, coperto solo con un panno; cf. 13, 121122: Stoica… / a Cynicis tunica distantia; Sen. Epist. 13, 3: qui male vestitum et pannosum vidit, nudum se vidisse dicit; 90, 14: Diogenes… se conplicuit in dolio et in eo cubitavit; Sen. Ben. 5, 4, 3: (Diogenes) per medias Macedonum gazas nudus incessit. –
309. non ardent: la ‘botte’ di Diogene non poteva prendere fuoco perché fatta di argilla
(vd. ad v. 308). – Cynici: la definizione di ‘Cinico’ deriva dal soprannome che fu dato a
Diogene: κύων (‘cane’). – 310. atque: ha valore avversativo-correttivo = ‘anzi’: anche
rotta la vecchia botte servirà. – plumbo commissa: la botte veniva riparata con una sorta di cinghia in piombo, che serviva a tenere insieme i pezzi (cf. Cato Agr. 39, 1: dolia
plumbo vincito; per committere = ‘riparare’ cf. OLD2 2b). – 311. Alexander: Giovenale
allude al celebre incontro tra Diogene e Alessando Magno a Corinto, per cui cf. Diog.
Laert. 6, 38: “Mentre egli [Diogene] stava prendendo il sole nel Craneo, Alessandro
Magno gli si pose in piedi davanti e gli disse: ‘Chiedimi quello che vuoi’. E quello rispose: ‘Non farmi ombra’” (trad. G. Reale). Sullo stesso episodio cf. anche Cic. Tusc.
5, 91-92. – testa: lett. ‘coccio’, e per sineddoche un qualsiasi recipiente in terracotta, in
questo caso il dolium. – 312. magnum: solitamente epiteto di Alessandro, in questo caso è riferito a habitatorem: il vero ‘grande’ era Diogene, non Alessandro Magno. – 313.
cf. Sen. Ben. 5, 4, 4: multo potentior, multo locupletior fuit omnia tunc possidente Alexandro: plus enim erat quod hic nollet accipere quam quod ille posset dare. – totum
sibi posceret orbem: il congiuntivo lascia intendere che si tratta della riflessione di
Alessandro (cf. 10, 168: Unus Pellaeo iuveni non sufficit orbis). – 314. aequanda: =
conferenda; il gerundivo ha qui valore di participio futuro passivo, come di frequente
(cf. ad v. 268). – 315-316. Nullum… deam: il periodo conclusivo della sezione ricorreva identico alla fine della satira 10; l’autore lo ripropone come se volesse tornare alla
riflessione sul ruolo della Fortuna fatta in quella sede: essa è niente, è l’essere umano
che la rende dea. Al di sopra di tutto rimane il libero arbitrio: la tranquillità dell’animo
dipende da noi, e l’unica via per raggiungere la felicità è quella della virtù. Suggestiva
ma poco probabile sembra l’ipotesi di CAMPANA 2004, p. 55, che considera la ripetizione di questi versi nella satira 14, insieme ad altre somiglianze tra i due componimenti,
una prova che nella nostra satira sia confluito un rifacimento che Giovenale avrebbe deciso della satira 10.
316-331. Mensura ~ iussus: “Se poi uno mi venisse a chiedere quale sia la misura sufficiente per un patrimonio, risponderei: quanto è richiesto dalla sete, dalla fame e dal
freddo, quanto, o Epicuro, bastò a te nei tuoi piccoli giardini, quanto già prima avevano
potuto contenere i Penati di Socrate; non succede mai che la natura dica una cosa, la
saggezza un’altra. Ti sembra che io ti stia rinserrando fra modelli troppo severi? Aggiungi allora qualcosa che sia tratto dai nostri costumi, arriva alla somma che la legge di
Otone stima degna delle prime quattordici file. E se anch’essa ti fa corrugare la fronte e
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storcere il labbro, tieniti pure il censo di due cavalieri, o fa’ quattrocentomila per tre. Se
ancora non ti ha colmato la tasca, se quella si apre ancora, al tuo animo non basteranno
né le fortune di Creso, né i regni di Persia, né le ricchezze di Narcisso, cui Claudio Cesare concesse ogni cosa, e ai cui comandi obbedì, quando ebbe l’ordine di uccidere sua
moglie». Il tema della giusta misura di un patrimonio occupa l’ultima sezione della satira: bisogna vivere secondo natura, lontani da smisurate e inutili ricchezze, seguendo
l’esempio di Epicuro e di Socrate. La riflessione satirica sull’avaritia termina con tre
esempi di favolose ricchezze – disposti in un’anticlimax evidentemente degradante per
la società romana –, che chiudono l’intero componimento. – 316-317. tamen… edam:
cf. 1, 19-21: Cur tamen hoc potius libeat decurrere campo, / per quem magnus equos
Auruncae flexit alumnus, / … edam. Da notare, in questo contesto come nel nostro, che
tamen ha valore essenzialmente prosecutivo (‘poi’), non avversativo. – 318. cf. 5, 1011: tam ieiuna fames (sc. est), cum possit honestius illic / et tremere et sordes farris
mordere canini?; Sen. Epist. 119, 7: ‘At parum habet qui tantum non alget, non esurit,
non sitit’. Plus Iuppiter non habet. Numquam parum est quod satis est, et numquam
multum est quod satis non est; Cons. Helv. 10, 2. Corporis exigua desideria sunt: frigus
summoveri vult, alimentis famem ac sitim extinguere; quidquid extra concupiscitur, vitiis, non usibus laboratur. – in quantum: = quantum, uso comune nella prosa argentea,
ma raro in poesia. In questo caso risulta particolarmente anomalo, a fronte dei semplici
quantum che aprono i vv. 319-320. – 319. Epicure: anche la morale di Epicuro era basata sull’aderenza alla vita della Natura, rifiutando tutti i piaceri non necessari e non naturali. La proposta di un modello greco concorre a dare tono ironico a questi versi (cf.
ad v. 36). – parvis: la precisazione viene aggiunta perché altrimenti il termine hortus
potrebbe far pensare a un grande e ricco giardino (cf. 13, 122-123: non Epicurum / suspicit exigui laetum plantaribus horti). – 320. Socratici… penates: i Penati erano gli
dei romani protettori della famiglia e dello Stato. Qui indicano per sineddoche la casa di
famiglia (cf. OLD2 3), non però di un romano, ma di un greco: Socrate, figura spesso
lodata per la sua vita semplice e morigerata (cf. Xen. Mem. 2, 1ss.). – ceperunt: cf. 11,
171: Non capit has nugas humilis domus; 11, 197: totam hodie Romam circus capit. –
321. natura… sapientia: la coincidenza fra natura e sapienza è insegnamento base di
molte scuole filosofiche di età ellenistica. Il verso racchiude un epigramma in sé concluso e ricercato: secundum naturam vivere, come insegnavano gli stoici e gli epicurei (cf.
Hor. Sat. 1, 1, 73-75: Nescis, quo valeat nummus, quem praebeat usum? / Panis ematur,
holus, vini sextarius, adde / quis humana sibi doleat natura negatis; Sen. Epist. 16, 7:
Istuc quoque ab Epicuro dictum est: ‘Si ad naturam vives, numquam eris pauper; si ad
opiniones, numquam eris dives’; M. Aurel. 5, 9: φιλοσοφία μόνα ἃ θέλει ἡ φύσις σου
θέλει, ἀκολούθως τῇ φύσει ζῆν). – sapientia: = filosofia (cf. 13, 20: victrix fortunae sapientia). – 322. Acribus: ‘severi, rigorosi’, cioè che richiedono troppo dalla natura
umana. – exemplis: in senso retorico: modelli da imitare, quelli di Epicuro e Socrate
(cf. 8, 183-184: Quid si numquam adeo foedis adeoque pudendis / utimur exemplis, ut
non peiora supersint?; 13, 1-2: Exemplo quodcumque malo committitur, ipsi / displicet
auctori). – 323. nostris: il riferimento è ai costumi contemporanei, non a quelli relativi
al tempo che l’autore sta rievocando (cf. nos in 15, 106). – summam: 400.000 sesterzi,
il censo richiesto per accedere all’ordine dei cavalieri (cf. 1, 105-106: Sed quinque ta-
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bernae / quadringenta parant). – 324. nel 67 a. C. la lex Roscia theatralis stabilì che
agli equites venissero riservate le prime quattordici file di posti a sedere nella cavea del
teatro, alle spalle dei senatori. Questa legge cadde parzialmente in disuso sotto Augusto,
per tornare poi ad essere rigorosamente osservata con Domiziano. Il verso lascia trapelare l’amarezza di Giovenale: è il denaro, e non la nobiltà morale o quella di stirpe,
l’unico requisito che persino la legge stabilisce per il conferimento di cariche o onori
(cf. 3, 153-159: ‘Exeat,’ inquit, / ‘si pudor est, et de pulvino surgat equestri, / cuius res
legi non sufficit, et sedeant hic / lenonum pueri quocumque ex fornice nati, / hic plaudat
nitidus praeconis filius inter / pinnirapi cultos iuvenes iuvenesque lanistae’. / Sic libitum vano, qui nos distinxit, Othoni). – Othonis: Lucio Roscio Otone fu il tribuno che
fece approvare la lex Roscia theatralis. – 325. Haec: sc. summa. – rugam… labellum:
‘ti fa aggrottare le ciglia e mettere il broncio’, cioè ‘non ti soddisfa’ (cf. 13, 215-216:
ostendas melius, densissima ruga / cogitur in frontem; Plin. Epist. 9, 17: Vis tu remittere
aliquid ex rugis?; Sen. Ben. 6, 7, 1: voltus tuus, cui regendum me tradidi, colligit rugas
et trahit frontem, quasi longius exeam; Ov. Am. 2, 2, 33: traxit vultum rugasque coegit).
– 326. duos equites: = duorum equitum censum; si usa il concreto per l’astratto: a chi
non si accontenta del patrimonio di un cavaliere, Giovenale ironicamente concede di accumularne il doppio. – fac tertia quadrigenta: il poeta, ironicamente generoso, arriva
addirittura a triplicare il censo di un cavaliere per accontentare l’avarus (cf. 6, 229: Sic
crescit numerus, sic fiunt octo mariti; 12, 50: Non propter vitam faciunt patrimonia quidam). – 327. gremium: cf. 1, 87-88: Quando / maior avaritiae patuit sinus?; 7, 215216: Quis gremio Celadi doctique Palaemonis adfert / quantum grammaticus meruit labor?. – 328. Croesi: Creso, ultimo re della Lidia, era noto per le enormi ricchezze del
suo regno (cf. 10, 273-275: Festino ad nostros et regem transeo Ponti / et Croesum,
quem vox iusti facunda Solonis / respicere ad longae iussit spatia ultima vitae). – fortuna: singolare per il plurale, come in 16, 34: contra fortunam armati contraque pudorem. – Persica regna: altro proverbiale esempio di ricchezza, quello dei re persiani, accostato anche altrove a quello di Creso (cf. Stat. Silv. 1, 3, 105: digne Midae Croesique
bonis et Perside gaza; Claud. In Ruf. 1, 212-213: iungatur solium Croesi Cyrique tiara /
numquam dives eris, numquam satiabere quaestu). – 329. Narcissi: all’apice dell’anticlimax troviamo l’esempio di Narcisso, il liberto favorito di Claudio, suo segretario (ab epistulis), il quale accumulò un’enorme ricchezza diventando uno dei tre liberti
più ricchi e potenti, insieme a Pallante e Callistrato (cf. Suet. Claud. 28, 1: sed ante omnis Narcissum ab epistulis et Pallantem a rationibus; Plin. Nat. 33, 134). – 330-331. Per
sottolineare ulteriormente il potere assunto da Narcisso, Giovenale compie un ironico
rovesciamento di ruoli: a dare gli ordini, compreso quello di uccidere Messalina, è proprio Narcisso, a cui Claudio concede qualsiasi cosa (cf. Plin. Pan. 88, 1: Plerique principes, cum essent civium domini, libertorum erant servi). – 331. imperiis: è Narcisso ad
essere ora imperator (cf. Tac. Ann. 11, 35, 1: omnia liberto oboediebant; Plin. Epist. 8,
6, 12: imaginare Caesarem liberti precibus, vel potius imperio… obtemperantem). –
uxorem occidere: Messalina, moglie dell’imperatore Claudio, aveva approfittato
dell’assenza del marito, impegnato momentaneamente ad Ostia, per sposare il suo
amante Gaio Silio. Secondo Tacito fu proprio Narcisso a informare l’imperatore dello
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scandalo provocato da quelle nozze, e nell’indecisione di Claudio fu lui a dare l’ordine
di uccidere la donna (cf. Ann. 11, 37-38).
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