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Registrazione al Tribunale di Velletri n. 9/2004 del 23.04.2004 - Redazione: C.so della Repubblica 343 - 00049 VELLETRI RM - 06.9630051 - fax 0696100596 - [email protected] Mensile a carattere divulgativo e ufficiale per gli atti della Curia e pastorale per la vita della Diocesi di Velletri -Segni Anno 11, numero 4 (107) - Aprile 2014
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Ecclesia in cammino
- Non fuggiamo dalla Resurrezione di Gesù,
+ Vincenzo Apicella
p. 3
- Diffondere il Vangelo della Vita,
S. Fioramonti
p. 4
- Permesso, Grazie, Scusa: l’Amore
Uomo - Donna secondo Papa Francesco,
S. Fioramonti
p. 5
- L’Otto e il Venticinque: il Marzo della Donna
Pier Giorgio Liverani
- Il pensiero cristiano nel Medioevo,
Sara Gilotta
p. 7
p. 8
- Per una partecipazione piena, attiva e
consapevole / 7, don A. Pacchiarotti
p. 9
- La vedova di Naim e la Misericordia,
Claudio Capretti
p. 10
- La carità nella storia della Chiesa / 5,
don Antonio Galati
- Lotta alla povertà: a che punto siamo?
don Cesare Chialastri
p. 12
p. 14
- Simbolo della Fede: Credo la Chiesa / 2,
don Dario Vitali
p. 16
- La preghiera: uno sguardo gettato verso il cielo,
mons. Franco Risi
p. 18
- ... Amore e... fede in Dio! ...,
don Gaetano Zaralli
p. 19
- Incontro con la monaca A. eremita
metropolitana / 2, Alessandro Gentili
p. 20
- Sequela di Cristo: vero senso della nostra vita,
Suore Apostoline Velletri
p. 21
- Riflessioni in vista del Sinodo Straordinario
sulla Famiglia, Pietro Ramellini
p. 22
Bollettino Ufficiale per gli atti di Curia
Mensile a carattere divulgativo e ufficiale per gli atti
della Curia e pastorale per la vita della
Diocesi di Velletri-Segni
- Incontro diocesano dei fidanzati di tutta la
diocesi con il Vescovo,
p. Vincenzo Molinaro
p. 24
Direttore Responsabile
Mons. Angelo Mancini
- Il Sacro intorno a noi: Santuario della
Madonna dei Bisognosi, Pereto (AQ),
Stanislao Fioramonti
p. 26
- Artena, Santuario di S. Maria delle Letizie:
in preparazione della Festa di Maggio, breve
presentazione del Trittico dell’abside,
p. Salvatore Donadio
p. 28
- In Ricordo di P. Nicola Cerasa o.f.m.,
Sara Calì
p. 29
- Una preghiera per P. Ginepro Cocchi,
p. Salvatore Donadio
p. 29
- Colleferro, Parrocchia S. Bruno:
Nuova Via Crucis benedetta dal vescovo,
Giovanni Zicarelli
p. 30
- Progetto Policoro: Mettiamoci le mani.
La Terra ci darà frutto,
F. Proietti e M. D’Emilio
p. 31
- I palmenti nel territorio di Montelanico dal
periodo romano al XX secolo,
Alessandro Ippoliti
p. 32
- Museo Diocesano e la Scuola Elementare
G. Marcelli di Velletri: L’ineffabile bellezza
dell’Arte colpisce i cuori dei bambini veliterni,
Edoardo Baietti
p. 33
- Recensioni:
Giovanni Hajnal. Vetratista nella cattedrale
di Velletri di Claudia Zaccagnini,
Francesco Giulio Farachi
p. 34
Brussel. Bruxelles. 1968 di John Corago,
Costantino Coros
p. 35
- Educazione sentimentale / 2,
Antonio Venditti
p. 36
- Beato Angelico,
Le donne al sepolcro, 1440-1442,
Convento di San Marco , Firenze
don Marco Nemesi
Collaboratori
Stanislao Fioramonti
Tonino Parmeggiani
Mihaela Lupu
Proprietà
Diocesi di Velletri-Segni
Registrazione del Tribunale di Velletri
n. 9/2004 del 23.04.2004
Stampa: Tipolitografia Graphicplate Sr.l.
Redazione
Corso della Repubblica 343
00049 VELLETRI RM
06.9630051 fax 96100596
[email protected]
A questo numero hanno collaborato inoltre:
S.E. mons. Vincenzo Apicella, don Cesare Chialastri, mons.
Franco Risi, don Dario Vitali, don Antonio Galati, don Andrea
Pacchiarotti, don Gaetano Zaralli, p. Salvatore Donadio,
Suore Apostoline Velletri, don Marco Nemesi, p. Vincenzo
Molinaro, Claudio Capretti, Pier Giorgio Liverani, Pietro
Ramellini, Alessandro Gentili, Giovanni Zicarelli, Edoardo
Baietti, Progetto diocesano Policoro, Francesca Proietti,
Marta D’Emilio, Antonio Venditti, Sara Gilotta, Francesco
Giulio Farachi.
Consultabile online in formato pdf sul sito:
www.diocesi.velletri-segni.it
DISTRIBUZIONE GRATUITA
p. 38
p. 37
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artefici e non vincola mai in nessun modo Ecclesìa in Cammino, la direzione e la redazione.
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In copertina:
Resurrezione di Cristo e donne alla tomba
Beato Angelico, 1440-42,
Convento San Marco Firenze.
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Vincenzo Apicella, vescovo
D
obbiamo abituarci a tornare spesso a meditare le pagine dell’Evangelii
Gaudium, l’Esortazione che Papa Francesco ha rivolto a tutti i
cristiani per l’annuncio del Vangelo nel mondo attuale: lì troviamo
i lineamenti che il volto della Chiesa è chiamato ad assumere per essere fedele alla missione che il Signore Risorto ci ha affidato.
Ed è proprio la Pasqua di Resurrezione che costituisce il punto di partenza, il centro e l’energia della vita cristiana e, quindi, dell’evangelizzazione, che necessariamente la manifesta.
“LA GIOIA DEL VANGELO - così inizia il documento - riempie il cuore
e la vita di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano
salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia…Egli
ci permette di rialzare la testa e ricominciare, con una tenerezza che mai
ci delude e che sempre può restituirci la gioia.
NON FUGGIAMO DALLA RESURREZIONE DI GESU’, non diamoci mai
per vinti, accada quel che accada. Nulla possa più della sua vita che ci
spinge in avanti!” (EG,1.3). Resurrezione e Gioia sono un binomio inscindibile: il saluto di Gesù alle donne che si erano recate al suo sepolcro
ormai vuoto è: “Gioite!” (Mt.28,9) e la gioia trabocca fin dal primo incontro con i discepoli (Gv.20,20) come Egli aveva promesso durante la Cena
(Gv.15,11.16,20.22) e porta a compimento il saluto rivolto dall’Angelo a
Maria il giorno dell’Annunciazione: “Gioisci!” (Lc.1,28).
Da allora in poi i discepoli non possono tenere solo per sé quello che
hanno ricevuto, poiché il dono del Signore appassisce e si perde se non
viene a sua volta donato e dovranno comprendere che l’annuncio della Resurrezione non è come la notizia di un telegiornale, ma produce
quello che significa e rende partecipi anche gli altri del mistero che viene annunciato. Ecco perché Papa Francesco tiene a ricordare che sulla bocca del cristiano deve sempre tornare a risuonare questo primo annuncio: “Quando diciamo che questo annuncio è il primo, ciò non significa
che sta all’inizio e dopo si dimentica o si sostituisce con altri contenuti che lo superano. E’ il primo in senso qualitativo, perché è l’annuncio
principale, quello che si deve sempre tornare
ad ascoltare in modi diversi e che si deve
sempre tornare ad annunciare durante
la catechesi in una forma o nell’altra,
in tutte le sue tappe e i suoi momenti” (EG,164).
Questo comporta, prosegue il Papa, che “ Tutta
la formazione cristiana
è prima di tutto l’approfondimento del kerigma (cioè: l’annuncio della Resurrezione) che va
facendosi carne sempre più e sempre
meglio, che mai smette di illuminare l’impegno catechistico e che
permette di comprendere adeguatamente il
significato di qualunque
tema che si sviluppa nella catechesi.
E’ l’annuncio che risponde all’anelito di infinito che c’è in ogni cuore umano. La centralità del kerigma richiede alcune caratteristi-
che dell’annuncio che oggi sono necessarie in ogni luogo: che esprima
l’amore salvifico di Dio previo all’obbligazione morale e religiosa, che non
imponga la verità e che faccia appello alla libertà, che possieda qualche nota di gioia, stimolo, vitalità, ed un’armoniosa completezza che non
riduca la predicazione a poche dottrine a volte più filosofiche che evangeliche” (EG,165). A questo punto si incontra un termine che ormai dovrebbe essere diventato familiare in questa diocesi, visto che è stato usato
e spiegato più volte nelle Lettere pastorali degli scorsi anni: Mistagogia,
che significa, dice il Papa, “essenzialmente due cose: la necessaria progressività dell’esperienza formativa in cui interviene tutta la comunità ed
una rinnovata valorizzazione dei segni liturgici dell’iniziazione cristiana”
(EG,166), quei segni, per intenderci, che si compiono e si rivivono in ogni
celebrazione e, principalmente, nella Madre di tutte le nostre celebrazioni: quella della Veglia della Notte di Pasqua.
La Resurrezione di Cristo, però, non è soltanto l’inizio e il centro della
vita cristiana e dell’evangelizzazione, ma è anche la sorgente continua
e misteriosa dell’energia che le animano e le rendono possibili.
“La sua Resurrezione non è una cosa del passato; contiene una forza
di vita che ha penetrato il mondo. Dove sembra che tutto sia morto, da
ogni parte tornano ad apparire i germogli delle resurrezione.
E’ una forza senza uguali. E’ vero che molte volte sembra che Dio non
esista: vediamo ingiustizie, cattiverie, indifferenze e crudeltà che non diminuiscono. Però è altrettanto certo che nel mezzo dell’oscurità comincia
sempre a sbocciare qualcosa di nuovo, che presto o tardi produce un
frutto. In un campo spianato torna ad apparire la vita, ostinata e invincibile. Ci saranno molte cose brutte, tuttavia il bene tende sempre a ritornare a sbocciare ed a diffondersi.
Ogni giorno nel mondo rinasce la bellezza, che risuscita trasformata attraverso i drammi della storia. I valori tendono sempre a riapparire in nuove forme e di fatto l’essere umano è rinato molte volte da situazioni che
sembravano irreversibili. Questa è la forza della Resurrezione e ogni evangelizzatore è uno strumento di tale dinamismo” (EG,276).
Il cristiano disposto a comprendere ed a vivere ciò che celebra a partire dalla Pasqua di Resurrezione riesce a sperare contro ogni speranza, a non lasciarsi cadere le braccia di fronte a qualsiasi fallimento,
a scoprire la presenza di
Cristo in ogni situazione
della vita.
“La Resurrezione di
Cristo produce in ogni luogo germi di un mondo nuovo; e anche se vengono tagliati, ritornano a
spuntare, perché la
Resurrezione del Signore
ha già penetrato la trama nascosta di questa
storia, perché Gesù non
è resuscitato invano.
Non rimaniamo al margine di questo cammino
della speranza viva!”
(EG,278).
Nell’immagine:
Discesa al Limbo,
frammento di Exultet, XII sec.
Scuola di Montecassino,
Museo Diocesano Velletri.
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l compito specifico dell’Accademia, espresso nel Motu proprio “Vitae mysterium”, è di
«studiare, informare e formare circa i principali problemi di biomedicina e di diritto, relativi alla promozione e alla difesa della vita, soprattutto nel diretto rapporto che essi hanno con la
morale cristiana e le direttive del Magistero della Chiesa» (n. 4).
In questo modo voi vi proponete di far conoscere
agli uomini di buona volontà che scienza e tecnica, poste al servizio della persona umana e
dei suoi diritti fondamentali, contribuiscono al bene
integrale della persona.
vo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si
vive, dal momento che in essa non si sta nei
bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono “sfruttati” ma
rifiuti, “avanzi”.(Esort. ap. Evangelii gaudium, 53).
La situazione socio-demografica dell’invecchiamento ci rivela chiaramente questa esclusione della persona anziana, specie se malata, con disabilità, o per qualsiasi ragione vulnerabile.
Si dimentica, infatti, troppo spesso che le relazioni tra gli uomini sono sempre relazioni di dipendenza reciproca, che si manifesta con gradi diversi durante la vita di una persona ed emerge maggiormente nelle situazioni di anzianità, di malat-
I lavori che svolgete in questi giorni hanno per
tema: “Invecchiamento e disabilità”.
È un tema di grande attualità, che sta molto a
cuore alla Chiesa. In effetti, nelle nostre società si riscontra il dominio tirannico di una logica economica che esclude e a volte uccide,
e di cui oggi moltissimi sono vittime, a partire
dai nostri anziani.
“Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto”
che, addirittura, viene promossa. Non si tratta
più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuo-
tia, di disabilità, di sofferenza in generale.
E questo richiede che nei rapporti interpersonali come in quelli comunitari si offra l’aiuto necessario, per cercare di rispondere al bisogno che
la persona presenta in quel momento.
Alla base delle discriminazioni e delle esclusioni
vi è però una questione antropologica: quanto
vale l’uomo e su che cosa si basa questo suo
valore. La salute è certamente un valore importante, ma non determina il valore della persona. La salute inoltre non è di per sé garanzia di felicità: questa, infatti, può verificarsi
Stanislao Fioramonti
I
anche in presenza di una salute precaria.
La pienezza a cui tende ogni vita umana non
è in contraddizione con una condizione di malattia e di sofferenza. Pertanto, la mancanza di
salute e la disabilità non sono mai una buona ragione per escludere o, peggio, per eliminare una persona; e la più grave privazione che le persone anziane subiscono non è l’indebolimento dell’organismo e la disabilità che
ne può conseguire, ma l’abbandono, l’esclusione,
la privazione di amore.
Maestra di accoglienza e solidarietà è, invece, la famiglia: è in seno alla famiglia che l’educazione attinge in maniera sostanziale alle relazioni di solidarietà; nella famiglia si può imparare che la perdita della
salute non è una ragione per
discriminare alcune vite umane; la famiglia insegna a non
cadere nell’individualismo e
equilibrare l’io con il noi.
È lì che il “prendersi cura” diventa un fondamento dell’esistenza
umana e un atteggiamento
morale da promuovere, attraverso i valori dell’impegno e
della solidarietà.
La testimonianza della famiglia diventa cruciale dinanzi
a tutta la società nel riconfermare
l’importanza della persona anziana come soggetto di una comunità, che ha una sua missione
da compiere, e solo apparentemente riceve senza
nulla offrire.
“Ogni volta che cerchiamo di
leggere nella realtà attuale i
segni dei tempi, è opportuno ascoltare i giovani e gli anziani. Entrambi sono la speranza
dei popoli. Gli anziani apportano la memoria e la saggezza
dell’esperienza, che invita a
non ripetere stupidamente gli
stessi errori del passato”
(ibid., 108).
Una società è veramente accogliente nei confronti della vita
quando riconosce che essa
è preziosa anche nell’anzianità, nella disabilità, nella malattia grave e persino quando
si sta spegnendo; quando insegna che la chiamata alla realizzazione umana non esclude la sofferenza, anzi,
insegna a vedere nella persona malata e sofferente un dono per l’intera comunità, una presenza che chiama alla solidarietà e alla responsabilità. È questo il Vangelo della vita che, attraverso la vostra competenza scientifica e professionale
e sostenuti dalla Grazia, siete chiamati a diffondere.
(N. d. r. : sintesi ed evidenziazioni in neretto
del testo a cura dell’autore)
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sintesi a cura di
Stanislao Fioramonti
I
n una piazza San Pietro inondata di sole
e di giovani, venerdì 14 febbraio festa di S.
Valentino patrono degli Innamorati, papa
Francesco ha avuto il suo primo incontro ufficiale con i fidanzati.
La manifestazione è stata organizzata dal Pontificio
Consiglio per la Famiglia, presieduto dal vescovo Vincenzo Paglia, in vista del Sinodo Generale
dei Vescovi in programma dal 20 febbraio in Vaticano,
che discuterà proprio sul tema della famiglia. Sono
stati invitati i giovani che si stanno preparando
al matrimonio religioso seguendo i percorsi specifici preparati nelle parrocchie; hanno risposto
in circa 20 mila, provenienti da tutto il mondo.
Tre di essi hanno anche avuto l’opportunità di
fare domande al papa.
Nelle risposte di papa Francesco, consigli di un
padre ai figli prossimi a sposarsi, è riproposto
il senso sempre attuale del matrimonio cristiano, in un tempo e in un
mondo dove sembra
regnare la precarietà
più assoluta anche nei
rapporti affettivi di coppia. Una anticipazione
significativa del papa
sull’argomento c’era stata già il 4 ottobre scorso ad Assisi, nell’incontro con i giovani
dell’Umbria:
«Che cos’è il matrimonio? È una vera e propria vocazione, come lo
sono il sacerdozio e la
vita religiosa. Due cristiani che si sposano
hanno riconosciuto nella loro storia di amore la
chiamata del Signore, la
vocazione a formare di
due, maschio e femmina, una sola carne, una
sola vita. E il Sacramento
del matrimonio avvolge
questo amore con la grazia
di Dio, lo radica in Dio stesso. Con questo dono, con
la certezza di questa chiamata, si può partire
sicuri, non si ha paura di
nulla, si può affrontare tutto, insieme!».
Domanda 1 : La paura del “per sempre”
Santità, in tanti oggi pensano che promettersi
fedeltà per tutta la vita sia un’impresa troppo difficile; molti sentono che la sfida di vivere insieme per sempre è bella, affascinante, ma troppo esigente, quasi impossibile. Le chiederemmo la sua parola per illuminarci su questo.
E’ importante chiedersi se è possibile amarsi “per
sempre”. Oggi tante persone hanno paura di fare
scelte definitive. Ma è una paura generale, pro-
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pria della nostra cultura. Fare scelte per tutta
la vita, sembra impossibile.
Oggi tutto cambia rapidamente, niente dura a
lungo… E questa mentalità porta tanti che si preparano al matrimonio a dire: “stiamo insieme finché dura l’amore”, e poi? Tanti saluti e ci vediamo… E finisce così il matrimonio. Ma cosa intendiamo per “amore”? Solo un sentimento, uno stato psicofisico? Certo, se è questo, non si può
costruirci sopra qualcosa di solido. Ma se invece l’amore è una relazione, allora è una realtà
che cresce, che si costruisce come una casa.
E la casa si costruisce assieme, non da soli!
Costruire qui significa favorire e aiutare la crescita. Cari fidanzati, voi vi state preparando a
crescere insieme, a costruire questa casa, per
vivere insieme per sempre.
Non volete fondarla sulla sabbia dei sentimenti che vanno e vengono, ma sulla roccia dell’amore vero, l’amore che viene da Dio.
La famiglia nasce da questo progetto d’amore
che vuole crescere come si costruisce una casa
diventare donne e uomini maturi nella fede. Perché,
cari fidanzati, il “per sempre” non è solo una questione di durata!
Un matrimonio non è riuscito solo se dura, ma
è importante la sua qualità. Stare insieme e sapersi amare per sempre è la sfida degli sposi cristiani. Mi viene in mente il miracolo della moltiplicazione dei pani: anche per voi, il Signore
può moltiplicare il vostro amore e donarvelo fresco e buono ogni giorno.Ne ha una riserva infinita! Lui vi dona l’amore che sta a fondamento
della vostra unione e ogni giorno lo rinnova, lo
rafforza. E lo rende ancora più grande quando
la famiglia cresce con i figli.
In questo cammino è importante, è necessaria
la preghiera, sempre. Lui per lei, lei per lui e tutti e due insieme. Chiedete a Gesù di moltiplicare il vostro amore. Nella preghiera del Padre
Nostro noi diciamo: “Dacci oggi il nostro pane
quotidiano”. Gli sposi possono imparare a pregare anche così: “Signore, dacci oggi il nostro
amore quotidiano”, perché l’amore quotidiano
che sia luogo di affetto, di aiuto, di speranza,
di sostegno. Come l’amore di Dio è stabile e per
sempre, così anche l’amore che fonda la famiglia vogliamo che sia stabile e per sempre. Per
favore, non dobbiamo lasciarci vincere dalla “cultura del provvisorio”! Questa cultura che oggi
ci invade tutti. Questo non va!
Dunque come si cura questa paura del “per sempre”? Si cura giorno per giorno affidandosi al Signore
Gesù in una vita che diventa un cammino spirituale quotidiano, fatto di passi - passi piccoli,
passi di crescita comune - fatto di impegno a
degli sposi è il pane, il vero pane dell’anima, quello che li sostiene per andare avanti.
“Signore dacci oggi il nostro amore quotidiano”.
Tutti insieme! Questa è la preghiera dei fidanzati e degli sposi. Insegnaci ad amarci, a volerci bene! Più vi affiderete a Lui, più il vostro amore sarà “per sempre”, capace di rinnovarsi, e vincerà ogni difficoltà.
Domanda 2: Vivere insieme:
lo “stile” della vita matrimoniale
Santità, vivere insieme tutti i giorni è bello, dà
continua a pag. 6
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segue da pag. 5
gioia, sostiene. Ma è una sfida da affrontare. Crediamo
che bisogna imparare ad amarsi. C’è uno “stile” della vita di coppia, una spiritualità del quotidiano che vogliamo apprendere. Può aiutarci
in questo, Padre Santo?
Vivere insieme è un’arte, un cammino paziente, bello e affascinante. Non finisce quando vi
siete conquistati l’un l’altro… Anzi, è proprio allora che inizia! Questo cammino di ogni giorno ha
delle regole che si possono riassumere in tre
parole che ho ripetuto tante volte alle famiglie:
permesso - ossia ‘posso’ - grazie, e scusa.
“Posso-Permesso?”. E’ la richiesta gentile di
poter entrare nella vita di qualcun altro con rispetto e attenzione. Bisogna imparare a chiedere:
posso fare questo? Ti piace che facciamo così?
Che prendiamo questa iniziativa, che educhiamo così i figli? Vuoi che questa sera usciamo?...
Insomma, chiedere permesso significa saper entrare con cortesia nella vita degli altri. Ma non è
facile. A volte invece si usano maniere un po’
pesanti, come certi scarponi da montagna! L’amore
vero non si impone con durezza e aggressività. Nei Fioretti di san Francesco si trova questa espressione: «Sappi che la cortesia è una
delle proprietà di Dio … e la cortesia è sorella
della carità, la quale spegne l’odio e conserva
l’amore» (Cap. 37).
Sì, la cortesia conserva l’amore. E oggi nelle nostre
famiglie, nel nostro mondo, spesso violento e
arrogante, c’è bisogno di molta più cortesia. E
questo può incominciare a casa.
“Grazie”. Sembra facile pronunciare questa parola, ma sappiamo che non è così… Però è importante! La insegniamo ai bambini, ma poi la dimentichiamo! La gratitudine è un sentimento importante! Un’anziana, una volta, mi diceva a Buenos
Aires: “la gratitudine è un fiore che cresce in terra nobile”. E’ necessaria la nobiltà dell’anima perché cresca questo fiore.
Ricordate il Vangelo di Luca? Gesù guarisce dieci malati di lebbra e poi solo uno torna indietro
a dire grazie. E il Signore dice: e gli altri nove
dove sono? Questo vale anche per noi: sappiamo
ringraziare?
Nella vostra relazione, e domani nella vita matrimoniale, è importante tenere viva la coscienza
che l’altra persona è un dono di Dio, e ai doni
di Dio si dice grazie! Bisogna sapersi dire grazie, per andare avanti bene insieme nella vita
matrimoniale.
“Scusa”. Nella vita facciamo tanti errori. Li facciamo tutti. Forse non c’è giorno in cui non facciamo qualche sbaglio. La Bibbia dice che il più
giusto pecca sette volte al giorno. E così noi facciamo sbagli… Ecco allora la necessità di usare questa semplice parola: “scusa”.
In genere ciascuno di noi è pronto ad accusare l’altro e a giustificare se stesso. Questo è incominciato dal nostro padre Adamo, quando Dio
gli chiede: “Adamo, tu hai mangiato di quel frutto?”. “Io? No! E’ quella che me lo ha dato!”.
E’ un istinto che sta all’origine di tanti disastri.
Impariamo a riconoscere i nostri errori e a chiedere scusa. “Scusa se oggi ho alzato la voce”;
“scusa se sono passato senza salutare”; “scusa se ho fatto tardi”, “se questa settimana sono
stato così silenzioso”, “se ho parlato troppo senza ascoltare mai”; “scusa mi sono dimenticato”;
“scusa ero arrabbiato e me la sono presa con
te”…
Tanti “scusa” al giorno noi possiamo dire. Anche
così cresce una famiglia cristiana. Sappiamo tutti che non esiste la famiglia perfetta, e neppure il marito perfetto, o la moglie perfetta. Non
parliamo della suocera perfetta…. Esistiamo noi,
peccatori.
Gesù, che ci conosce bene, ci insegna un segreto: non finire mai una giornata senza chiedersi perdono, senza che la pace torni nella nostra
casa, nella nostra famiglia. E’ abituale litigare
tra gli sposi, ma per favore ricordate questo: mai
finire la giornata senza fare la pace! perché se
tu finisci la giornata senza fare la pace, quello
che hai dentro il giorno dopo è freddo e duro
ed è più difficile fare la pace. Se impariamo a
chiederci scusa e a perdonarci a vicenda, il matrimonio durerà, andrà avanti.
Domanda 3: Lo stile della celebrazione
del Matrimonio
Santità, in questi mesi stiamo facendo tanti preparativi per le nostre nozze. Può darci qualche
consiglio per celebrare bene il nostro matrimonio? Fate in modo che sia una vera festa - perché il matrimonio è una festa - una festa cristiana,
non una festa mondana!
Il motivo più profondo della gioia di quel giorno ce lo indica il Vangelo di Giovanni: ricordate il miracolo delle nozze di Cana? Gesù si rivela per la prima volta: trasforma l’acqua in vino
e salva la festa di nozze.
Quanto accaduto a Cana duemila anni fa, capita in realtà in ogni festa nuziale: ciò che renderà pieno e profondamente vero il vostro matrimonio sarà la presenza
del Signore che si rivela e
dona la sua grazia. È Lui il
segreto della gioia piena, quella che scalda il cuore veramente. Che sia una belle festa,
ma con Gesù! Non con lo
spirito del mondo, no!
Al tempo stesso, però, è bene
che il vostro matrimonio sia
sobrio e faccia risaltare ciò
che è veramente importante. Alcuni sono più preoccupati
dei segni esteriori, del banchetto, delle fotografie,
dei vestiti e dei fiori... Sono cose importanti in
una festa, ma solo se sono capaci di indicare
il vero motivo della vostra gioia: la benedizione del Signore sul vostro amore.
Fate in modo che, come il vino di Cana, i segni
esteriori della vostra festa rivelino la presenza
del Signore e ricordino a voi e a tutti l’origine e
il motivo della vostra gioia.
Ma il matrimonio è anche un lavoro di tutti i giorni, potrei dire un lavoro artigianale, un lavoro di
oreficeria, perché il marito ha il compito di fare
più donna la moglie e la moglie ha il compito
di fare più uomo il marito.
Crescere anche in umanità, come uomo e come
donna. E questo si fa tra voi.
Questo si chiama crescere insieme.
Questo non viene dall’aria! Il Signore lo benedice, ma viene dalla vostre mani, dai vostri atteggiamenti, dal modo di vivere, dal modo di amarvi. Farci crescere! Sempre fare in modo che l’altro cresca. Lavorare per questo. E così, non so,
penso a te che un giorno andrai per la strada
del tuo paese e la gente dirà: “Ma guarda quella che bella donna, che forte!…”. “Col marito che
ha, si capisce!”. E anche a te: “Guarda quello,
com’è!…”. “Con la moglie che ha, si capisce!”.
E’ questo, arrivare a questo: farci crescere insieme, l’uno l’altro. E i figli avranno questa eredità di aver avuto un papà e una mamma che sono
cresciuti insieme, facendosi - l’un l’altro - più uomo
e più donna!
Aprile
2014
Pier Giorgio Liverani
li articoli apparsi nel numero scorso, quello di Marzo, di questa rivista sono stati
scritti tutti, come accade per ogni numero, intorno alla metà del mese precedente, in
questo caso Febbraio. Nessuno poteva immaginare, allora, come la questione femminile sarebbe stata posta al massimo livello politico del nostro
Paese: il Parlamento, e poi respinta.
Per “questione” s’intende la parità tra uomini e
donne, per la quale, negli ultimi anni, in tutti i
governi passati esisteva un Ministero “senza portafogli” (cioè senza una vera struttura ministeriale e senza un bilancio economico proprio): quello “delle pari opportunità”, soprattutto fra donne e uomini.
L’8 marzo è, da oltre un secolo, la Festa delle
Donne o, meglio, la Giornata internazionale delle Donne, ma qui vogliamo riflettere ben oltre
una sua tardiva celebrazione e oltre l’8 marzo.
Fino a pochi anni fa si credeva che questa festa
fosse stata istituita nel ricordo del rogo di una
fabbrica di New York, la “Cotton”.
In realtà questa era solo una leggenda nata negli
anni successivi alla seconda guerra mondiale,
perché la “Giornata” era nata ufficialmente negli
Stati Uniti il 28 febbraio del 1909 per iniziativa
del Partito Socialista americano e per rivendicare il diritto delle donne al voto politico.
La data fu poi spostata all’8 marzo nel 1917, quando le donne di San Pietroburgo scesero in piazza per chiedere la fine della guerra, fu poi ufficializzata dalla seconda Conferenza internazionale
delle donne comuniste a Mosca e cominciò a
essere celebrata in Italia nel 1922 con la stessa connotazione politica.
Il regime fascista, però, l’abolì subito e la Festa
fu ripresa nel 1945, quando l’Unione Donne Italiane
(sostenuta soprattutto dal Partito comunista, da
quello socialista e dal Partito d’Azione) la celebrò nelle zone dell’Italia già liberate dal fascismo. Veniamo al nostro 2014. Proprio la vigilia
dell’8 marzo, la Camera dei deputati, discutendo
la nuova legge elettorale, rifiutò di stabilire che
il Parlamento dovesse essere composto di un
ugual numero di donne e di uomini: le famose
“quote rosa”.
Per una volta chi scrive queste note è quasi d’accordo con quello che della bocciatura politica
ha scritto, il giorno dopo su La Repubblica, Michele
Serra: «Le quote rosa sono una cosa sbaglia-
G
7
ta; ma necessaria», perché «non esiste principio o virtù che possa essere inverato da una norma o da un
regolamento […]
Ma esistono ingiustizie radicate e vizi
incancreniti che una norma e un regolamento possono arginare e, se necessario, punire» o porvi rimedio.
In questo caso «l’abusata abitudine maschile a considerare “naturale”
il proprio potere e anomalo e
imprevisto il potere delle donne, è
uno di questi vizi. Incorreggibile […]
Le quote rosa sono dunque un arbitrio migliore dell’arbitrio (pessimo)
che intendono intaccare».
Il sottoscritto, dunque, è disposto ad accettare
queste quote che piovono dall’alto senza pretendere che altri siano d’accordo con lui, però
ad alcune condizioni.
Per esempio che non si parli più di femminicidio senza preoccuparsi anche del suo analogo:
il maschicidio, cioè di un fenomeno sul quale,
come tale, i media mettono molto meno entusiasmo cronistico rispetto al primo. Sulla base
di una ricerca condotta in Spagna (“La violenza domestica: quello che non si racconta”), emerge che i maschi rappresentano il 22 per cento
dei morti assassinati all’interno delle mura domestiche e il 44 per cento del totale della violenza tra partner, sposati e non.
La violenza delle donne su mariti, conviventi o
amanti è un fenomeno che dilaga in tutto il mondo. In Germania, un’inchiesta commissionata nel
2004 dal Ministero della Famiglia ha scoperto
che il 25 per cento dei maschi ha subito violenza
fisica all’interno delle mura domestiche, mentre tra il 10
e il 15 per cento è
stato sottoposto
anche a quella psicologica.
In Italia se i crescenti
femminicidi sono
arrivati ai centoventi del 2012, i
casi di maschicidi
sono stati 92 compiuti per mano di donne. Non sono pochi.
Non voglio, però, par-
lare di ciò che la “festa” dell’8 marzo voleva unilateralmente sottolineare: il conflitto dei sessi e
la rivincita delle donne.
Quello che s’intende con il “venticinque” del titolo è qualcosa di molto diverso e che va ben al
di là della questione delle quote rosa: se siano
giuste o se, invece, suggeriscano piuttosto il tentativo di mostrare le donne come appartenenti
a una specie protetta e incapace di far emergere, da sola, la propria ricchezza di doni e di
capacità in ogni campo della vita.
Va affermato che il 25 Marzo - il giorno
dell’Annunciazione - è la festa di una Donna la
cui altezza nessun essere umano ha mai raggiunto e raggiungerà, ma che in virtù della sororità tra donne ha un significato e un valore anche
per tutto il genere femminile.
Se, quando creò il mondo, Dio trasse la donna
dalla costola più vicina al cuore del maschio Adamo,
il 25 marzo di 2014 anni fa fu il giorno in cui la
continua a pag. 8
Aprile
2014
8
Sara Gilotta
T
utta la riflessione filosofica medioevale
fu attraversata dal problema del rapporto
tra ragione e fede,non solo perché sulla ragione si era basata tutta la riflessione filosofica del mondo antico antropocentrico, ma anche
perché il medioevo, accanto alla fede come dimensione fondamentale della conoscenza , non poteva più relegare la ragione ad un ruolo semplicemente subalterno.
Un problema importante, dunque, che vide due
soluzioni differenti, una considerò la fede e le
sue verità provenire direttamente dalla rivelazione, che, per sua natura, non può che essere superiore alla ragione, la seconda considerò la ragione più adatta a percorrere le strade della filosofia.
A quale metodo affidarsi, dunque? In un primo tempo si volle identificare le due attività, riconoscendole fuse nell’uomo cristiano, successivamente fede
e ragione furono distinte, ma
non separate, almeno fino a quando esse cominciarono a seguire una via autonoma, certamente
favorita dall’affermarsi della
Scolastica.
Il termine trae origine dalle scholae, dove si insegnavano filosofia
e teologia. Tuttavia è interessante
evidenziare che per alcuni la
Scolastica deve essere considerata solo come il metodo seguito nell’insegnamento, per altri
essa nacque dalla soggezione
della ragione alla fede, che fu
“accusata “di soffocare ogni tentativo di speculazione, facendo
della filosofia semplicemente una
ancilla theologiae. Né poteva
essere altrimenti in un periodo
in cui la fede cristiana dominava
tutti gli aspetti della vita individuale e sociale. Già nell’alto
Medioevo, del resto, si era affermato il concetto di autorità dei
testi sacri ritenuti assolutamente indiscutibili nel contenuto ed è per questo che la Scolastica, nella volontà di trasmettere il sapere contenuto nei libri, comincia o forse meglio ricomincia a glossare, a commentare e persino ad intervenire sui testi pure rite-
nuti intoccabili.
Perché la Chiesa occidentale ebbe sempre un
carattere dinamico, ricco di concili e di condanne
contro le numerose eresie nate proprio dalla
rivendicazione di poter interpretare le scritture.
Ma certamente alla Chiesa fu impresso nuovo
dinamismo dalla fondazione degli ordini mendicanti e dai loro più illustri rappresentanti, che
furono San Bonaventura da Bagnoregio e San
Tommaso d’Aquino, l’uno francescano, l’altro domenicano. San Bonaventura fu esponente di
spicco dell’università di Parigi, dove insegnò ,
convinto che fosse importante confrontarsi con
la cultura laica che si stava affermando prepotentemente nelle Università. Egli così divenne
il primo grande rappresentante di una vera e pro-
pria “scuola teologica “basata sulla convinzione che la sapienza cristiana si dovesse costruire e basare solo sulla fede, mentre parlare di
una qualche autonomia della ragione fosse semplicemente impensabile, perché essa è sempre,
per quanto in modi diversi, assistita dalla grazia.
Compito della filosofia fu, dunque, per Bonaventura
condurre l’uomo alla ricerca di Dio nel mondo,
per tornare dal mondo all’uomo interiore e giungere al Creatore. Così secondo il successore
di San Francesco, alla guida dell’Ordine, la stessa natura non è una realtà autonoma, ma espressione di “qualcos’altro”,che non si può che considerare come vestigium di Dio, così come l’uomo è imago di Dio. Insomma il pensiero di
Bonaventura ebbe un carattere pratico, in funzione, cioè, di una ascesa dell’uomo verso Dio,
un uomo che egli considerò immerso nel mondo e perciò necessariamente posto nelle categorie della ragione, ma anche della caduta, del
peccato , della redenzione e della grazia.
Non a caso l’opera più famosa ed
importante di San Bonaventura è
Itnerarium mentis in Deum, in cui
egli fa della conoscenza della verità il mezzo supremo di salvezza
, quale risultato della pratica del
bene fondata sull’amore e sulla
ricerca di Dio.
In questo senso il Santo mette al
centro del suo pensiero fede, grazia , misticismo, perché comunque si voglia guardare l’uomo, egli
va “rimandato” necessariamente
a Dio, che solo gli può donare la
beatitudine. E con una splendida, quasi epica visione si chiude
il pensiero bonaventuriano:“Così
si vede che la vita eterna è quella sola: che la vita razionale , la
quale emana dalla beatissima Trinità
ed è l’immagine della Trinità, ritorna a modo di circolo nella beatissima
Trinità, mediante la deiformità della gloria”.
Una sintesi davvero grandiosa dove
si fondono mirabilmente elementi di diversa provenienza che
Bonaventura riuscì ad amalgamare grazie al suo intelletto altamente speculativo,all’affetto profondamente umano e all’ardore misticamente cristiano che distinse la sua storia e
il suo pensiero.
Nell’immagine del titolo: Scuola filosofica medioevale,
miniatura, Germania,1400.
segue da pag. 7
prima scintilla del nuovo Adamo venne posta dallo Spirito di Dio - per dirla come piaceva a papa
Giovanni Paolo II - «sotto il cuore della Madre»
e, come ogni altro figlio dell’uomo, alla donna
è anche affidato.
Allora le “quote rosa” dovrebbero fiorire da sole,
nella società e in tutti gli altri campi in cui le “rose”
sono invece appassite, falsificate, artificializzate
e trasformate in oggetti di compravendita come
nella prostituzione, nella moda, nella pubblicità (tutte condizioni al femminile sfruttate dai maschi),
ma anche nei media e nella vita di tante.
La vera Festa della Donna, dunque, non è l’8
marzo astioso, litigioso, competitivo e rivendicativo e, in definitiva, rivelatore di una minorità autoalimentata, ma è il 25 marzo, festa del
duplice dono d’amore divino: per l’uomo onde
riscattarlo a figlio di Dio e per una donna inco-
ronata Madre di Dio affinché nella sua corona
anche ogni altra donna possa in qualche modo
specchiarsi.
Nelle immagini a pag. 7:
in alto, Annunciazione, F. De Champaigne;
in basso foto della votazione in parlamento.
Aprile
2014
don Andrea Pacchiarotti
I
l capitolo terzo di SC che riguarda le indicazioni di riforma degli «Altri sacramenti e
sacramentali», segue quello sull’Eucaristia.
Come sempre l’introduzione è fondativa e significativamente segnata dal ricorrere quattro volte del verbo santificare e dal sostantivo corrispondente.
«I sacramenti sono ordinati alla santificazione degli uomini, alla edificazione del corpo
di Cristo e, infine, a rendere culto a Dio; in
quanto segni hanno poi anche un fine pedagogico. Non solo suppongono la fede, ma con
le parole e gli elementi rituali la nutrono, la
irrobustiscono e la esprimono; perciò vengono
chiamati “sacramenti della fede“.
Conferiscono certamente la grazia, ma la loro
stessa celebrazione dispone molto bene i fedeli a riceverla con frutto, a onorare Dio in modo
debito e a esercitare la carità.
È quindi di grande importanza che i fedeli comprendano facilmente i segni dei sacramenti
e si accostino con somma diligenza a quei
sacramenti che sono destinati a nutrire la vita
cristiana» (SC59).
Appaiono chiaramente alcune intuizioni: la prima conseguenza del dono sacramentale è la
santificazione degli uomini e dei momenti della loro vita, poi l’edificazione del Corpo di Cristo
e solo in terzo luogo si indica il dovere di rendere culto a Dio. In quanto segni, i Sacramenti,
hanno la funzione di educare sia per la trasmissione
sia per l’accoglienza del dono.
Del tutto nuovi, rispetto al passato, appaiono
gli aspetti: ecclesiale, cultuale e pastorale, che
aiutano anche ad una collocazione più precisa di quelli che finora venivano detti Sacramenti
minori e che il Concilio denomina Sacramentali.
«La santa madre Chiesa ha inoltre istituito i
sacramentali. Questi sono segni sacri per mezzo dei quali, ad imitazione dei sacramenti, sono significati, e vengono
ottenuti per intercessione della
Chiesa effetti soprattutto spirituali.
Per mezzo di essi
gli uomini vengono disposti a ricevere l’effetto principale dei sacramenti e vengono
santificate le varie
circostanze della
vita» (SC 60).
Questi segni alle
medesime condizioni ottengono e
comunicano anch’essi effetti spirituali, ma, piuttosto che dalla mediazione diretta di Cristo, essi
nascono dalla maternità della Chiesa. La
9
Costituzione preferisce finalizzare i sacramentali ai Sacramenti,
collocandoli nel contesto
della sollecitudine
pedagogica della
Chiesa, ma anche
legandoli, in continuità di segno e di espressione, ed insieme
unendoli come mezzo
di santificazione. Al valore didattico si aggiunge un forte senso santificatore, diretto soprattutto alle mille occasioni umane che custodiscono il germe e la possibilità di diventare
segno dell’amore di Dio.
«Nel corso dei secoli si sono introdotti nei riti
dei sacramenti e dei sacramentali alcuni elementi, che oggi ne rendono meno chiari la
natura e il fine; è perciò necessario compiere
in essi alcuni adattamenti alle esigenze del
nostro tempo, e per questo il sacro Concilio
stabilisce quanto segue per una loro revisione»
(SC 62).
La conclusione di quest’attenta Riforma dei Sacramenti
e dei sacramentali è finalizzata a far sì che i fedeli ben disposti sia dato di santificare quasi tutti gli avvenimenti della vita per mezzo della grazia divina che fluisce dal mistero pasquale.
Nei numeri seguenti SC si sofferma a parlare:
63 La lingua
73 - 75 L’unzione degli infermi
76 Revisione del rito del sacramento dell’ordine
77 - 78 Revisione del rito del matrimonio
79 Revisione dei sacramentali
80 La professione religiosa
81- 82 Revisione dei riti funebri.
Nella prospettiva della maternità della Chiesa
vanno certamente collocate anche le indicazioni
capaci a ristabilire il catecumenato degli adulti, rivedendo e semplificando il rito del Battesimo
e meglio definendo il suo rapporto con la
Confermazione e la celebrazione della Messa.
I Sacramenti dell’iniziazione cristiana con cui la
Chiesa genera Cristo nei fedeli, ma anche tutti gli altri Sacramenti, una volta meglio specificati, trovano il loro vertice nell’Eucaristia in cui
la Chiesa stessa viene allo stesso modo rigenerata. Anche il rito della Penitenza, seppure
a grandi linee indicata, si desidera una riforma
che esprima più chiaramente la natura e l’effetto del sacramento.
Così per l’Unzione degli Infermi il Concilio non
entra in alcuna discussione teologica, ma sembra privilegiare la componente pastorale, scegliendo la possibilità più ampia di ricevere il
Sacramento durante la malattia grave, anziché rimandare all’imminenza della morte come
suggeriva l’altra denominazione di Estrema
unzione. La stessa sollecitudine pastorale per
una migliore comprensione dei fedeli motiva
l’invito a semplificare il rito dell’Ordine, eccessivamente appesantito in passato.
Per il Matrimonio
invece si auspica una revisione
che chiuda i ponti con gli elementi
quasi esclusivamente canonici
del vecchio rito:
l’aspetto del
sacramento deve
tornare a prevalere su quello
del contratto
coniugale.
Da ultimo i sacramentali cui i principi della verifiI sette Sacramenti, Rogier van der Weyden, 1455-50, Antwerp.
ca rituale sono di
una
cosciente,
attiva
e
facile
partecipazione
64 Il Catecumenato
da parte dei fedeli e avendo riguardo delle neces65 - 71 Revisione del Rito Battesimale
sità dei nostri tempi.
72 Revisione del Rito della Penitenza
Aprile
2014
10
Claudio Capretti
“Non i morti lodano il Signore
né quelli che scendono nel silenzio”.
io Signore, se certa è questa Parola, perché hai ripreso a
Te mio figlio? Forse disdegni la sua lode? In che cosa ho
mancato per meritare tutto questo? La mia vedovanza non
era già una dura prova? Perdona la mia ribellione, una donna come
me non dovrebbe osare tanto, ma questo dolore è così forte, che
mi impedisce di rientrare in me stessa, sarà per questo che ti sento così lontano da me.
Quando venne a mancare mio marito, il rabbino mi strinse forte e
mi disse: “Difensore delle vedove è Dio nella sua santa dimora”.
Mi furono di grande consolazione quelle parole, ma ora dinnanzi a
tutto ciò ti domando: perché Signore non mi hai difeso da questo
dolore? “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Come vorrei che si manifestasse a me un profeta al pari di Elia, il quale invocandoti restituì la vita al figlio della vedova di Sarepta.
M
La povera donna, rassegnata dal dolore non sperava più in niente,
ne voleva chiedere nulla al più grande dei profeti. Fu questi, che mosso a pietà, le tolse dalle braccia il figlio che giaceva morto, invocò
con insistenza il Signore, e la sua preghiera trovò grazia presso l’Onnipotente.
Anche Eliseo, operò un medesimo prodigio.
In questo caso la madre Sunnamita di nascosto dal marito, si rivolse a lui sapendo che, come aveva interceduto per lei presso il Signore
per donarle un figlio, era certa che attraverso la preghiera di Eliseo,
il Signore gli avrebbe restituito suo figlio vivo; e così accadde.
Elia, Eliseo, voci dell’Onnipotente dove siete? Perché non sorgono
più profeti al vostro pari in terra d’Israele? Se ve ne fossero, correrei da loro, li implorerei in ginocchio affinché il Signore faccia tornare in vita ciò che è parte di me stessa. Figlio mio, ti ho custodito
nel mio ventre per nove mesi, ti ho dato alla luce, ho avuto cura di
te negli anni della fanciullezza, ed ora, è toccato a me lavare il tuo
corpo inerme, avvolgerlo nel lenzuolo e deporlo dentro una bara.
O Nain, anche tu ti unisci alla mia sofferenza, e ti appresti ad accompagnare la salma del mio fanciullo verso il luogo dove verrà sepolto. Tutto è ormai pronto per iniziare il tuo ultimo viaggio figlio mio, il
corteo si stringe sempre di più intorno a me come a volermi sostenere e incoraggiare.
L’unica voce che si leva, è il pianto delle donne che mi
accompagnano ed così forte da coprire il mio lamento. I
piedi non vorrebbero varcare la porta della città, tutta la
mia anima desidera trattenerti ancora un po’ con me e
non condurti verso il nulla, ma non ho alternative. Faccio
cenno con il capo ai portatori che possono iniziare il loro
servizio. Iniziano ad incamminarsi, non si fermeranno che
davanti al sepolcro. Seppur stordita dal dolore, non posso non notare un Uomo che a capo di corteo apparentemente festoso, viene incontro al nostro. Sembra quasi
che i due volti della vita debbano fronteggiarsi: il dolore
che avanza verso la porta della città per uscirne, e la gioia
che entra in città attraverso la medesima porta. Il corteo
continua nella pag. accanto
Aprile
2014
11
segue da pag. 10
festoso si ferma immobile, si zittisce dinnanzi al nostro.
La loro gioia sembra spegnersi di colpo dinnanzi a ciò che non occorre descrivere per comprendere. Ed è come se volesse divenire una
sola cosa con noi, e sembra quasi che il corteo funebre abbia preso il sopravvento su quello festoso senza colpo ferire.
E’ giusto così. Il lutto non merita forse rispetto? L’Uomo che ne era
a capo si distacca dal suo corteo e avanza verso di me.
Si incrociano i nostri sguardi e comprendo, senza capirne il perché,
che profonda e la sua compassione per me. Poco importa chi sei o
Sconosciuto, sento di doverti consegnare la mia angoscia, ma le parole non escono dalla bocca, il dolore le ha sigillate nel mio cuore. Con
un cenno della testa ti indico la bara, e non occorrono altre parole.
Ti stai facendo sempre più prossimo a me, ti avvicini, mi fissi fin dentro l’anima e mi dici: “Non piangere” . In molti oggi mi hanno detto
di farmi coraggio, di non piangere e ben poca consolazione hanno
recato al mio cuore.
Sento che queste tue parole sono diverse da tutte le altre udite finora, sento che sono portatrici di una speranza che non oso neanche
sperare. Il silenzio regna, tutti rimangono in attesa di un qualcosa
che ancora nessuno immagina, mentre è solo la voce del vento a
regnare sopra di noi.
Ti avvicini alla bara, la tua mano tocca il legno ed immediatamente
i portatori si fermano. Impietriti non possono più avanzare, sembra
che l’inesorabile viene ora fermato dalla tua mano. E’ la tua voce
ora ad imporsi sopra la voce del vento: “Ragazzo, dico a te, alzati”.
Il brusio si alza forte nel mio corteo, voci di sconcerto si alternano a voci di scherno, mentre il
tuo corteo, o Sconosciuto, tace, sembra quasi che siano in attesa che mio figlio si ridesti
realmente dal sonno della morte.
Chi sei Tu, per comandare alla morte di retrocedere e di restituirmi mio figlio? Sei forse un
profeta al pari di Elia o del suo discepolo Eliseo?
I pensieri si interrompono di colpo, tacciono
le voci incredule del mio corteo, mentre il tuo
o Signore, prorompe in grida di giubilo. Ciò che
hai appena comandato si avvera contro ogni
speranza. Il mio fanciullo si alza dalla bara, si
mette seduto e inizia a parlare.
Ti guarda, ed è come se ti conoscesse da sempre, ed è come se avesse riconosciuto in Te,
Colui che lo ha ridestato dal sonno della morte. Prendi ora la sua mano e lo restituisci a
me, e i sigilli del dolore si spezzano.
Veramente o Signore attraverso questo grande Profeta hai difeso la mia vita dall’angoscia
in cui era caduta, e per la seconda volta mi
doni questo tuo figlio. Se Elia ed Eliseo hanno implorato con insistenza l’Onnipotente affinché i giovani rivivessero, questo Profeta che
oggi hai inviato a me, ha ordinato alla morte
di restituirmi mio figlio, e questa le ha obbedito.
Non conosco ancora il tuo nome, ma sento che
Tu sei la Vita, che si affianca alle nostre miserie, che non ne rimane insensibile e se ne fa
carico.
Si, Tu sei la Vita, che irrompe nelle nostre storie, che avanza con
potenza e delicatezza. Tu sei la Vita ammantata di Misericordia che
cura le nostre ferite con l’olio della Compassione. Tu sei la Vita il
cui passaggio in mezzo a noi rende visibile la presenza del Dio di
Abramo. Tu sei la Vita che senza riserve si dona a noi affinché abbiamo la vita, e la vita in abbondanza.
Tu, mio Signore sei la vittoriosa Vita, che nessun sepolcro può trattenere per se.
Tu sei la Vita o Signore, quell’unica vita di cui ne abbiamo un disperato bisogno.
Tu sei la Vita che annunci una Verità che mai si consuma.
Tu sei la Vita che oggi ha fermato l’inesorabile.
Tu sei la Vita che apre dinnanzi a noi nuovi orizzonti, che spalanca
nuovi cieli.
Tu sei la sorgente della vita, alla cui luce vediamo la luce e dinnanzi
a tutto ciò non ho altro da dire che: “Cosa posso rendere al Signore
per quello che mi ha fatto?”.
Entrambi i cortei si fondono in uno solo. L’affluente che era destinato a morire in uno stagno, confluisce in un Fiume di acqua viva,
che conduce alla foce della Vita. Qualcuno che prima non ti conosceva desidera incontrarti, chiedono ai tuoi chi Tu sia, e grande è
lo stupore che esce dalle loro bocche. Immensa è la gratitudine verso il Signore, e tutti proclamano: “Un grande profeta è sorto tra noi”,
e :”Dio ha visitato il suo popolo”.
Aprile
2014
12
don Antonio Galati
Juan Ciudad (1495-1550), meglio conosciuto
con il nome di Giovanni di Dio.
San Giovanni di Dio e gli Ospedalieri del
Fatebenefratelli
spedali e loro fondatori: dall’esperienza della malattia all’impegno gratuito per
alleviarla. Il contesto storico in cui si recupera e si rinnova, nella Chiesa, il servizio ospedaliero1 è lo stesso di quello in cui si affacciano nella storia le prime istituzioni pubbliche e
gratuite per l’educazione dei poveri. Un contesto,
cioè, in cui la questione sociale della povertà
diventa una questione di stato.
Riguardo alla povertà fisica, cioè riguardo alla
Nel 1539 si trovò a Granada e lì ascoltò predicare san Giovanni d’Avila, che stava commentando
le beatitudini secondo la versione di Luca.
Dopo quest’ascolto iniziò a vagare per la città
di Granada lamentandosi con le persone che
incontrava dei suoi peccati.
Considerato pazzo per questo suo atteggiamento
malattia, bisogna dire, però, che la situazione
è differente rispetto a quella della povertà intellettuale. Infatti se per quest’ultima non c’era interesse da parte dello Stato o dell’opinione pubblica, la malattia trovava già negli ospedali pubblici la risposta della società alla questione.
Se questa cosa, da una parte, significa l’interesse dello Stato per il problema della malattia, dall’altro si richiedono, come operatori, persone il cui unico requisito è quello di essere in
grado di svolgere il lavoro infermieristico e medico. Ma esperti nel lavoro non significa necessariamente esperti di umanità.
È l’esperienza fatta direttamente dal portoghese
fu rinchiuso in un ospedale per malati mentali
e lì subì diversi maltrattamenti.
Quando ne uscì comprese che la sua vocazione
era quella di dare un’alternativa più umana alle
persone che avevano bisogno di assistenza ospedaliera o di chi non veniva accolto, perché considerato irrecuperabile ma comunque non un
pericolo per la società, e che quindi non necessitava di un ricovero, ma era lasciato a vivere
per strada.
Per questo motivo, con l’aiuto di altri, prese una
casa, la dotò del necessario e iniziò ad accogliere tutti coloro che ne avevano bisogno, andando anche a cercarli per le strade2.
O
Nasce in questo modo la congregazione religiosa degli Ospedalieri e l’istituzione del
Fatebenefratelli.
Come lui, anche i suoi discepoli devono, quando serve, sentire le difficoltà delle persone che
poi andranno ad aiutare, altrimenti non riusciranno, secondo Giovanni di Dio, ad avere la giusta compassione per loro, rischiando di compiere gli stessi errori degli infermieri e dei dottori degli ospedali statali:
«sarà bene che andiate un po’ a macerare le
vostre carni e a soffrire vita dura, fame e sete
e ignominie e stanchezze, e angustie e affan-
ni e contrarietà; tutto ciò si deve patire per Dio,
perché se venite qui, dovete soffrire tutto questo per amore di Dio. […]
Ricordatevi di nostro Signore Gesù Cristo e della sua benedetta Passione, che restituì, per il
male che gli facevano, il bene: così dovete fare
voi, figlio mio Battista, che quando verrete alla
casa di Dio, sappiate conoscere il male e il bene»3.
Da notare, nello stralcio di lettera appena citata, come san Giovanni di Dio considerava il suo
ospedale come la casa di Dio, cioè un un luogo santo, dove, attraverso i malati, Gesù si fa
presente al mondo4.
continua a pag.13
Aprile
2014
13
segue da pag. 12
San Camillo de Lellis e i Camilliani
Camillo de Lellis (1550-1615) fu un altro testimone del fatto che l’esperienza diretta e negativa in un determinato ambiente dovrebbe spingere chi la prova all’impegno per una risposta
alternativa e più positiva della stessa realtà. Infatti,
come san Giovanni di Dio aveva sperimentato i maltrattamenti nei manicomi spagnoli, Camillo
de Lellis sperimentò, a causa di una piaga ad
un piede, la situazione disastrosa degli ospedali romani, in cui lavoravano persone spinte
solo dalla paga e dalla routine.
Comprese, quindi, la necessità di entrare nel
mondo dell’assistenza ospedaliera e, raccogliendo
accanto a sé personale esperto e professionale
mosso solo dalla carità verso Dio e verso il prossimo, spese la sua vita per l’assistenza negli
ospedali5 e, stando in prima fila durante le pestilenze italiane, accompagnò spesso i malati verso la morte, conquistando per sé e per i suoi
compagni gli appellativi di “Padri della buona
morte” o “Padri del bel morire”6.
Come religiosi, i Camilliani fanno il quarto voto
dell’assistenza corporale e spirituale a tutti i poveri malati, anche se non cattolici7.
Per circa trent’anni Camillo de Lellis svolge il
suo ministero a Roma nell’ospedale Santo Spirito
in Sassia, accolto in un complesso medievale
fatto restaurare da papa Sisto IV che consta,
tra l’altro, di una galleria lunga 120 metri, larga 20 e alta 30, dove venivano sistemati i let-
ti dei malati.
Al centro di questa galleria, sotto una cupola
ottagonale, è presente un tabernacolo per la
custodia dell’eucaristia.
Questa disposizione ha un duplice e forte simbolismo8: è la rappresentazione reale e incarnata dell’episodio di Gesù che viene circondato
da una folla di malati che cercano in Lui la speranza della guarigione9; tabernacolo e malati
rappresentano i due “luoghi” della presenza del
Signore nel mondo.
Per una conclusione teologica
Accostando questi testimoni della carità la cosa
più facile da concludere, ma anche la più importante, è che scelte radicali di amore/carità dipendono pure dall’aver fatto esperienza diretta dell’indigenza e della malattia, la quale spinge a
fondare la propria scelta di vita sul comandamento dell’amore verso il prossimo: «amerai il
prossimo tuo come te stesso»10.
Inoltre, la costanza e la serenità, che questi testimoni dimostrano nel portare a termine le loro
opere fino in fondo, sono una conferma del fatto che l’amore verso il prossimo è un comandamento che viene da Dio, il quale non abbandona che si rivolge a Lui ma, anzi, sostiene coloro che, nelle Sue mani, divengono strumenti del
suo agire nel mondo.
1
Dico si recupera e si rinnova perché nella sua storia,
la Chiesa è sempre stata sollecita alla malattia e alle esigenze di cura fisica. Infatti già dai primi secoli le comunità cristiane istituivano luoghi che erano associabili, come
intenzione, alla cura ospedaliera, anche se venivano accolti anche pellegrini, senza tetto e indigenti di vario tipo
(cfr. J. M. LABOA, Storia della carità nella vita del cristianesimo, pag. 41.49).
2
Cfr. J. M. LABOA, Storia della carità nella vita del cristianesimo, pag. 161s.
3
SAN GIOVANNI DI DIO, Lettera a Luis Bautista, n. 9-11
[http://www.ohsjd.org/Objects/Pagina.asp?ID=233].
4
Cfr. Mt 25, 31-46.
5
Cfr. J. M. LABOA, Storia della carità nella vita del cristianesimo,
pag. 163s.
6
Cfr. A. M. ERBA - P. L. GUIDUCCI, La Chiesa nella storia. Duemila anni di cristianesimo, pag. 447s.
7
Ibid., pag. 447.
8
Cfr. J. M. LABOA, Storia della carità nella vita del cristianesimo,
pag. 165s.
9
Cfr. Mt 15,30.
10
Mt 22,39.
Nell’immagine:
San Camillo De Lellis soccorre i malati
durante l’inondazione del Tevere del 1598,
Pierre Subleyras, 1746, Museo di Roma.
Aprile
2014
14
don Cesare Chialastri *
C
ontinuiamo a parlare di
povertà, anzi essa ha riguadagnato, seppure attraverso episodi drammatici e non senza fatica, cittadinanza informatica
e politica: è stato argomento di dibattito nella Legge di stabilità 2013,
emerge come questione rilevante
per esponenti significativi della politica e anche degli esecutivi (in modo
particolare il Governo Letta con il
ministro delle Lavoro e delle politiche sociali Giovannini.... l’attuale esecutivo ancora non si pronuncia).
La crisi sociale ed economica che
stiamo vivendo, ha avuto un paradossale effetto positivo: si può parlare di povertà senza essere additati come estremisti o ingenui…i ristoranti pieni o altre amenità del passato recente non sono più sufficienti
per distrarre dalle condizioni di fatica di tantissimi italiani.
Tra il 2011 e il 2012 sono cresciuti
di circa un milione e mezzo sia i
poveri di “povertà relativa” sia i poveri di “povertà assoluta”; la disoccupazione ha raggiunto la cifra record
di oltre 3 milioni, colpendo tutto l’arco dell’età lavorative e in particolare i giovani, con pesanti conseguenze sociali, relazionali e psicologiche, oltre che economiche.
La povertà non ha più le caratteristiche tipiche di un fenomeno transitorio “vedrete tra poco tutto ritorna a posto! Stringiamo i denti!”, ha assunto un volto con
connotati strutturali, che allarga le disuguaglianze sociali, va a
ledere i diritti fondamentali di cittadinanza. Per questo essa chiama in causa le grandi scelte politiche, richiede che le forze sociali, culturali si mobilitino.
La Caritas mentre continua a dare risposte di pronto intervento
(cibo, vestiti, igiene personale, sostegno alle esigenze abitative,
microcredito, sanità), cerca di far comprendere che non è possibile rimediare attraverso interventi marginali di carattere assistenzialistico.
Da un lavoro elaborato nel 2013 dalla Caritas Italiana e dalle ACLI
è venuta fuori, per contrastare in modo radicale la povertà, una
proposta di tipo strutturale.
Essa è stata assunta dal
Governo Letta nel settembre
2013 con la denominazione Sia
(Sostegno per l’inclusione
sociale).
E’ una proposta di portata storica per il nostro Paese poiché “da oltre un decennio il
nostro Paese condivide con
la Grecia il poco invidiabile primato di essere l’unica nazione dell’Europa a 15 priva di
una misura nazionale contro
la povertà assoluta…..
Per affrontare questa drammatica situazione si propone
l’introduzione del Reddito
d’Inclusione Sociale (Reis) in
Italia.
Il Reis è rivolto a tutte le famiglie in povertà assoluta nel nostro
Paese e consiste in un trasferimento monetario, d’importo
adeguato a farle uscire da questa condizione, accompagnato da servizi alla persona
per l’attivazione e il reinserimento sociale.
Le altre misure oggi utilizzate per contrastare la povertà
assoluta saranno assorbite al
suo interno” (Acli e Caritas
Italiana 2013).
L’allora ministro del Lavoro
Giovannini accolse questa
idea creando un gruppo di lavoro, che ha apportato qualche
modifica allo studio di Caritas Italiana e Acli e ha elaborato una
proposta inserendola nella Legge di stabilità 2013. Essa aveva
l’obiettivo di permettere a tutti l’acquisto di un paniere di beni e
servizi ritenuto decoroso sulla base degli stili di vita prevalenti.
Questo sostegno non è stato pensato come “incondizionato”: il
beneficiario infatti si impegna a raggiungere concreti obiettivi di
inclusione sociale e lavorativa, accettando di essere inserito in
misurabili percorsi di formazione, orientamento e inserimento lavorativo.
In sintesi deve mettere in moto comportamenti che ci si aspetta da un buon cittadino, è un patto di reciprocità e di responsabilità tra colui che ne beneficia e l’amministrazione pubblica. Si
continua nella pag. accanto
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tratta di ripartire con i poveri, non senza di loro perché così si
istituzionalizzano le risposte (sempre limitate e precarie) e i destinatari: “non puoi aiutarmi senza di me!”.
Questa bella idea sulla carta non si è tradotta in prassi: il disegno di Legge di stabilità varato ad ottobre 2013 non contiene il
Sostegno di inclusione attiva.
Le sole risorse inserite nella legge di stabilità per il contrasto alla
povertà sono costituite da 250 milioni di euro per il rifinanziamento
della vecchia carta acquisti (c.d. social card), ora estesa anche
ai residenti stranieri, e 5 milioni per il fondo per la distribuzione
di derrate alimentari alle persone indigenti. Si resta sostanzialmente nell’assistenzialismo.
Perché non si è riusciti ad inserire la proposta di inclusione e di
responsabilità?
Dal governo non è venuta nessuna risposta, anzi c’è stato un
imbarazzante silenzio. Soltanto un dirigente del Ministero del Welfare
Raffaele Tangorra ha riferito: “ Ci speravo....sapevo che era una
battaglia non facile e che l’ordine di grandezza delle risorse era
difficilmente reperibile in una Legge di stabilità con i vincoli dati
da Bruxelles”.
Le risorse ha spiegato sono reperibili solo se questo tema diventa un “obiettivo prioritario” per il Paese. “Deve esserci una condivisione da parte di tutti, ma penso che il Paese nelle sue forze sociali non ha ancora maturato questa esigenza.”
E poi pare che questo provvedimento non piacesse a tutti.
“Ci sono ancora alcuni settori importanti del Paese che rispetto
alla presentazione del Sia non hanno mostrato particolari entusiasmi - spiega Tangorra - probabilmente non siamo ancora pronti a varare una misura di questo tipo, non ne sentiamo ancora
la necessità e l’urgenza come Paese”.
Si deve constatare con amarezza che l’idea iniziale è stata abortita e che il difficile “vivere” quotidiano dei poveri dovrà aspet-
tare altri anni, visto che la discussione sulle scelte politiche per
la lotta strutturale contro la povertà riprenderà quando gli studi
saranno finiti. La strada per contrastare la povertà è ancora lunga e travagliata.
Questa lunga crisi e la fragilità delle risposte sociali e politiche,
almeno ha qualche riflesso positivo: ci ha fatto capire che da essa
non si uscirà, senza un cambiamento culturale e negli stili di vita.
È fuori ogni logica pensare che dopo la crisi, si possa ricominciare ad impostare la vita sotto il dominio del consumismo e dell’individualismo… si allargherebbero sempre di più le scandalose disuguaglianze oggi esistenti.
Non è accettabile una società, nella quale una parte, grazie alla
propria abilità e spesso alla propria scaltrezza, si arricchisce sempre più, mentre tante altre parti che non hanno avute le medesime opportunità siano condannate alla miseria.
Credo che questo ci porti a recuperare la distinzione legata all’etica tradizionale tra beni necessari, beni utili e beni superflui e
alla sapienza dei Padri della Chiesa, quando affermavano che i
beni superflui appartenevano ai poveri, cioè ai quanti erano privi dei beni necessari per una vita dignitosa.
Il superamento del latifondismo, nei secoli passati, è stato attuato con coraggio, secondo questa etica sociale e secondo la logica del “bene comune”.
Anche per la ricchezza va seguito il medesimo criterio: prendere una parte del superfluo a chi l’ha accumulato, per passarlo a
chi manca del necessario. Non è usurpazione ma realizzazione
di giustizia e di equità.
*Direttore Caritas diocesana
Nell’immagine: un’opera pittorica di Cristian Aviles.
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don Dario Vitali*
«Credo la Chiesa una, santa, cattolica
e apostolica»: i quattro aggettivi fissano le quattro proprietà essenziali della Chiesa. Se ne mancasse anche soltanto una, la Chiesa non sarebbe
quella comunità di salvezza, nella quale è celebrata e vissuta la fede in Dio
che è Padre, Figlio e Spirito santo.
Il significato dei termini è intuitivo. Perciò,
più che dare una spiegazione dettagliata
di ogni termine, vorrei provare a vedere come questa sequenza di aggettivi
si sia formata. Il fatto che i termini non
siano attestati allo stesso modo nei simboli di fede precedenti, dove a volte non
compare nemmeno l’articolo sulla
Chiesa, come nel caso del concilio di
Nicea, oppure ci si limiti a sottolineare
la «Chiesa santa» o, in progressione,
la «santa Chiesa cattolica», la «santa
Chiesa cattolica apostolica», o ancora
la «Chiesa santa, una, cattolica», senza un ordine fisso nella sequenza, invita a verificare come si sia formata l’autocoscienza della Chiesa, espressa nelle quattro note.
La prima nota che si è certamente imposta è quella della santità: «credo la Chiesa
santa», dicono semplicemente molti dei
simboli più antichi. L’aggettivo si impone da subito per dire che la Chiesa si
comprende unicamente a partire dall’azione
dello Spirito che la santifica.
«Chiesa santa», ma anche «santa
Madre Chiesa» è l’equivalente di «communio sanctorum», formula presente in
altri antichi simboli.
Oggi non si avverte più tale corrispondenza, perché la formula è compresa
soprattutto come comunione di quanti
sono in cielo, o comunque tra quanti sono
ancora in cammino su questa terra e quanti già partecipano della comunione
con Dio.
Più che alle persone, in origine la com-
munio era riferita alle cose sante, ai doni
che provengono dallo Spirito.
Tra questi doni spiccano i sacramenti,
soprattutto l’Eucaristia: la comunione al
corpo e al Sangue di Cristo è certamente
il dono che alimenta l’unione del credente con Cristo ma non solo: è anche
espressione dell’unità della Chiesa, corpo di Cristo, significata dall’assemblea
raccolta per la celebrazione e “concorporata”
dallo Spirito.
Basta richiamare qui un passaggio giustamente famoso di s. Ireneo, il quale
nella sua opera Adversus Haereses così
diceva: «Dove è la Chiesa, là è lo Spirito
di Dio e ogni dono, e lo Spirito è la Verità.
Perciò, allontanarsi dalla Chiesa è
rifiutare lo Spirito escludendosi dalla vita…,
perché la Chiesa è garanzia della incorruzione, la conferma della nostra fede,
la scala per ascendere a Dio» (AH III,24,1).
L’immagine che sta dietro la santità è
quella della Chiesa-sposa che Cristo «si
è fatto comparire davanti senza macchia né ruga né alcunché di simile, ma
santa e immacolata» (Ef 5, 25ss).
La nota della santità porta con sé quella dell’unità, che nel suo primo significato non riguarda tanto l’unità interna
dei membri della Chiesa, ma si riferisce alla Chiesa stessa: «unam Ecclesiam»
è l’«unica Chiesa», la sola che possa
vantare questo nome.
L’affermazione è rivolta contro gli eretici, i quali intendevano la santità della Chiesa in senso esclusivo, come riferita a una comunità di puri, di santi perché impeccabili. Si trattava di gruppi rigoristi (si pensi ai montanisti, a cui aderì anche Tertulliano, a ai donatisti, osteggiati da s. Agostino) che pretendevano
di escludere dalla Chiesa quanti, durante la persecuzione, avevano per paura sacrificato agli dei.
Se per costoro, in quanto si erano macchiati dell’atto imposto dal magistrato
continua nella pag. accanto
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romano di infondere incenso in un braciere
davanti alla statua di un dio o dell’imperatore, o avevano brigato per ottenere un falso attestato dell’avvenuto omaggio, gli eretici pretendevano la ripetizione del battesimo, reso invalido dal loro peccato, la Chiesa
preferiva una disciplina maggiormente ispirata alla misericordia, imponendo sì una penitenza, ma non reiterando il battesimo. Il motivo era che un atto dell’uomo non poteva annullare un dono di Dio: figli di Dio di è per sempre. D’altronde, non è un piccolo gruppo che
possa decidere di una prassi così rilevante,
ma tutta la Chiesa.
Perciò l’unica Chiesa è anche la Chiesa una,
data dall’unità di tutte le Chiese che vivono
in una singularis conspiratio, un sentire comune, attestato dalla professione della stessa
fede, pur essendo sparse su tutta la faccia
della terra. Diceva uno dei Padri della
Chiesa, Antimo di Nicomedia (†302):
«Come c’è un solo Dio, un Figlio di Dio, uno
Spirito santo, così Dio ha creato un solo uomo,
un cosmo solo, e c’è una sola Chiesa cattolica e apostolica e un solo battesimo per
tutto il cosmo, che osserva ancora oggi la fede
ricevuta dagli apostoli».L’unità così intesa è
un po’ il rovescio della medaglia della cattolicità, la quale altro non sarebbe che l’estensione dell’unità
nello spazio. La nota già compare nei primi scritti cristiani, riferita non alla totalità delle Chiese sparse sulla faccia della terra, ma ad
ogni singola Chiesa particolare,
che era la «santa Chiesa cattolica» in quel luogo.
In altre parole, il termine indica la
totalità delle Chiese che, sparse
sulla faccia della terra, manifestano,
ciascuna nel luogo dove è posta,
la fecondità della Chiesa.
La Chiesa non è un’entità astratta, ma la communio Ecclesiarum,
la comunione di tutte le Chiese, che
sono tutte la Chiesa di Cristo (come
ogni particola consacrata è il corpo di Cristo), senza che ognuna
esaurisca in sé sola la Chiesa.
La nota della cattolicità implica due
dimensioni: una estensiva, di
carattere geografico, perché indica tutte le Chiese sparse sulla faccia della terra, nate dalla predicazione
apostolica; una intensiva, e riguarda la dottrina, dal momento che tutte condividono la
medesima fede. «Perché la Chiesa è detta
cattolica?», si domandava Cirillo di Gerusalemme
nelle sue catechesi battesimali.
«È cattolica perché si trova in tutto il mondo, da un confine all’altro dell’universo; perché insegna tutti i dogmi di cui è utile che
gli uomini vengano a conoscenza e che trattano delle cose visibili e invisibili, di quelle
del cielo e della terra» (Catechesi XVIII, 23).
L’ultima nota è quella dell’apostolicità. È l’ultima a comparire, e costituisce la prova per
l’affermazione che «la santa Chiesa cattolica» è la vera Chiesa, perché può mostrare,
attraverso la successione ininterrotta dei vescovi, di risalire fino agli apostoli e, attraverso
di loro, a Cristo stesso.
Agli eretici, che sventolano la purezza della loro fede, la Chiesa oppone la dottrina degli
apostoli giunta fino al presente attraverso la
predicazione degli apostoli e dei loro successori.
D’altra parte, come mostra bene anche la Dei
verbum, la Chiesa nasce dal dinamismo della Parola di Dio annunciata dagli apostoli e
dai vescovi, loro successori.
Come si vede, le quattro note lasciano emergere un’autocoscienza altissima della Chiesa,
la quale non può mai essere ridotta a un insieme di uomini, a un’istituzione mondana, ma
deve essere pensata come realtà spirituale, che esiste in ragione dello Spirito di Cristo
che la anima: ubi Spiritus, ibi Ecclesia.
Il concilio Vaticano II ha espresso questa realtà, parlando di «una non debole analogia tra
il mistero del Verbo incarnato e quello della Chiesa» (LG 8): come il Verbo eterno «ha
assunto la natura umana come vivo organo
di salvezza a lui indissolubilmente unito, in
modo non dissimile la compagine sociale della Chiesa serve allo Spirito vivificante di Cristo
come mezzo per far crescere il corpo».
È questa l’idea di Chiesa di cui abbiamo bisogno oggi, per essere testimoni credibili di una
salvezza che non è mai opera dell’uomo, ma
sempre iniziativa di Dio a cui l’uomo aderisce nella fede.
*Docente ordinario alla
P.U.G. di Roma
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mons. Franco Risi
I
l Cardinal Ratzinger nel documento
Alcuni punti della meditazione cristiana,
da lui emanato il 15 ottobre 1989, ha fatto la seguente constatazione: «in molti cristiani
del nostro tempo è vivo il desiderio di imparare a pregare in modo autentico ed approfondito,
nonostante le non poche difficoltà che la cultura moderna pone all’avvertita esigenza di silenzio, di raccoglimento e di meditazione».
Tutto ciò ci porta naturalmente ad affermare
che la preghiera cristiana è essenzialmente dono
di Dio, che dovrà sempre tener conto che è
necessario mettere in atto due libertà: quella
infinita di Dio con quella finita dell’uomo.
La preghiera oltre ad essere dono di Dio è anche
conquista dell’uomo, che cerca sempre una
relazione profonda e autentica con Dio, che
è Padre, Figlio e Spirito Santo, infatti essa introduce l’uomo alla vita trinitaria. Da tutto questo scaturisce che la preghiera è uno dei valori insegnatoci da Gesù per giungere all’incontro
personale con Dio.
Santa Teresa D’Avila nel suo Castello interiore
afferma che «la cosa importante non è pensare molto, ma amare molto; fai dunque qualsiasi cosa ti stimoli più ad amare»: in questa
prospettiva la preghiera interiore porta la nostra
mente all’ascolto di Dio, con l’impegno di mettere in pratica quanto Lui ci fa conoscere per
la salvezza di tutti gli uomini.
Per questo il cristiano deve sempre coltivare
il desiderio di pregare in quanto è segno che
vuole vivere la sua vita alla presenza costante del Signore. È importante cercare di
rispondere a tre domande: come si impara a
pregare? La preghiera può essere estranea
alla nostra vita quotidiana? La preghiera del
cuore ci insegna a lodare e ringraziare con gioia
Dio? La prima domanda ci fa riflettere che è
bene conoscere che: «la preghiera è eleva-
zione dell’anima a Dio o la domanda di beni
convenienti» (San Giovanni Damasceno, De
fide ortodoxa); oppure è sufficiente quanto Santa
Teresa di Gesù Bambino afferma nei suoi manoscritti autobiografici: «Per me la preghiera è
uno slancio del cuore, un semplice sguardo
gettato verso il cielo, un grido di gratitudine e
di amore nella prova, come nella gioia».
Queste due definizioni sono molto efficaci per
l’incontro con Dio, ma non escludono che «a
pregare si impara pregando» (Evagrio, un antico maestro spirituale nell’Oriente); questo ci
fa capire che la preghiera è esperienza e non
si impara solo dai libri, ma soprattutto vivendola. I Santi affermano che la preghiera del
cristiano deve essere esercizio attuato nella
propria vita quotidiana: a chi chiede come possa imparare a pregare rispondi senza indugio:
«prega e imparerai». Certamente la preghiera deve essere orientata sempre a Cristo, che
è lo stesso «ieri, oggi e sempre» (Eb 13,8).
La Liturgia è, scrive il Catechismo della Chiesa
Cattolica al numero 1073, «partecipazione alla
preghiera di Cristo, rivolta al Padre nello Spirito
Santo. In essa ogni preghiera cristiana trova
la sua sorgente e il suo termine. Per mezzo
della liturgia, l’uomo interiore è radicato e fondato nel “grande amore con il quale il Padre
ci ha amati”(Ef 2, 4), nel suo Figlio diletto. Ciò
che viene vissuto e interiorizzato da ogni preghiera, in ogni tempo, “nello Spirito” (Ef 6, 18)
è la stessa “meraviglia di Dio”».
Nell’Eucaristia, che è il suo culmine ci mettiamo
in comunione con Cristo e poi, con l’aiuto dello Spirito Santo, ci mettiamo in comunione con
tutta la Chiesa terrestre e celeste.
Questo ci fa comprendere che, se è vero che
la preghiera si impara vivendola, è altrettanto vero che si impara alla scuola dei grandi
Santi. Come a dipingere si impara dipingendo, alla scuola e sotto lo sguardo di un maestro, così il nostro maestro diretto ed unico che
ci insegna a pregare è lo Spirito Santo, infatti san Paolo ai Galati parla dei frutti dello Spirito
che sono amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, fedeltà, mitezza e dominio di sé (cfr.
Gal 5, 22-23), questi frutti evidenziano una vera
vita di preghiera: crescere seguendo i frutti dello Spirito sta a significare che siamo sulla strada giusta verso la santità.
Per la seconda domanda è opportuno partire
dal seguente principio: una buona preghiera
non può mai essere separata dalla vita quotidiana: pregare non è allontanarsi dalle
nostre ansie quotidiane, per entrare in un mondo di fantasia.
Il cristiano che prega non è mai estraneo alla
realtà in cui vive: pregare è portare «le gioie
e le speranze, le tristezze e le angosce degli
uomini di oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono» (Gaudium et spes 1)
davanti a Dio. Questo ci fa comprendere che
non è mai corretto considerare la preghiera un
modo per manipolare Dio: usarla, cioè, per realizzare i nostri desideri personali.
Per superare questa difficoltà è necessario che
il cristiano impari l’arte dell’ascolto della
Parola di Dio, fatta nel silenzio, in quanto esso
è la base di una preghiera sincera e gradita
a Dio. Tutto ciò comporta che la preghiera è
da sperimentare in modo totalmente personale.
Certamente vi sono molti tipi di preghiera e non
c’è una sola via per incontrarsi con il Signore,
ma ogni cristiano deve trovare il suo stile di
preghiera, fatto con il cuore, cioè nell’interiorità della persona. La terza domanda ci stimola
a vivere la preghiera come una lode e un ringraziamento a Dio.
Papa Francesco, in un’omelia fatta nella Cappella
di Santa Marta, parlando della preghiera di lode,
così si è espresso: «una bella domanda che
noi possiamo farci oggi: come va la preghiera di lode? Io so lodare il Signore? So lodare il Signore o quando prego il Gloria o prego il Sanctus lo faccio solo con la bocca e non
con tutto il cuore?». E continua dicendo che
la nostra lode al Signore ci renda fecondi nel
fare il bene nella quotidianità e, nello stesso
tempo, ci metta in guardia dal pregare superficialmente o per abitudine, in quanto questo
tipo di preghiera ci rende sterili e non ci fa uscire dal formalismo, capace solo di farci compiere il male. Per questo motivo il Papa ci invita a non chiuderci «in una preghiera fredda»,
ma ad essere capaci di «lodare Dio» con tutto noi stessi nella gioia: l’esultanza del cristiano
nella preghiera è simile alla gioia del tifoso che
esulta per la propria squadra del cuore quando fa goal!
Aprile
2014
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don Gaetano Zaralli
O
ggi Alessia non era presente all’incontro per la Cresima. E’ venuta la mamma. Ho chiesto sue notizie… “La gravidanza è all’ottavo mese - mi ha detto - e il pancione pesa troppo sull’esile
struttura ancora bambina,… per questo ha preferito starsene a letto”.
I ragazzi sono al corrente della storia di Alessia, ne parlammo fin dal
primo incontro, quando lei un po’ imbarazzata venne a sedersi giovane tra i giovani con una maternità in corso. La naturalezza è la migliore arma contro qualsiasi forma di malizia, avevamo pensato. Se poi alla
naturalezza si aggiunge la semplicità di linguaggio, si ha come risultato un discorso chiaro, essenziale e vero che può essere di grande utilità come esperienza da acquisire e come conoscenza da approfondire. Alessia aveva solo 15 anni quando rimase incinta.
La mamma alla notizia, dopo i primi comprensibili dieci minuti di smarrimento, nella responsabilità di chi la maternità l’ha già vissuta, aprì le
braccia e l’accoglienza da parte sua fu totale. Ed ora eccole lì le due
madri… La madre quasi nonna ringiovanita dallo choc provocato dall’improvvisa notizia e la madre quasi bambina resa dolcissima dalla responsabilità di una scelta straordinariamente matura. Abbiamo chiesto alla
mamma di Alessia se per caso si fosse dimenticata di informare la figlia
sul come nascono i bambini. Al sorriso spontaneo, e complice nello stesso tempo, è seguito uno sfogo accorato: “Quanto è difficile fare i genitori!… Mia figlia pensavo fosse informata su tutto… e lo era… Però poi
le cose accadono…”. La scuola, a mio parere, in appoggio ai genitori,
potrebbe essere un’ottima palestra per l’iniziazione all’attività sessuale. Saltando il “nido”, dove è solo faccenda di pannolini, presto ci si ritrova nell’asilo infantile alle prese con bambini che spediscono bacetti e
giocano già a fare i fidanzatini.
Nelle scuole elementari, poi, è famosa la bravura delle maestre che,
abbandonata la foglia di cavolo e la cicogna, sfruttano i mezzi audiovisivi messi a disposizione dalla Direzione per intrattenere i bambini sugli
spermatozoi viaggianti. Nelle scuole medie, invece, è bene tenere sotto controllo gli alunni del secondo anno: è l’età giusta questa per spie-
gare ai ragazzetti che la loro intemperanza è conseguenza di faccende che
accadono a chi mette sotto il naso la prima peluria, e per raccomandare alle ragazzette di fare più attenzione al mondo che
le circonda, perché stanno diventando
“donne”. Nelle classi superiori, infine, la
teoria incomincia a essere pratica e, siccome non ci sono interrogazioni in materia, né esami che accertino la giusta informazione ricevuta negli anni precedenti
sulla funzione e sulle conseguenze dell’attività sessuale … si salvi chi può.
Quando insegnavo Religione, toccò a me
fare “educazione sessuale” presso quel
Liceo Scientifico. Le ragazze, le più preparate, venivano in classe con i testi dove
si spiegava tutto con l’ausilio dei disegnini. Le più studiose si accomodavano alla lavagna e davano lezione a chi
ne aveva bisogno: i più disinformati erano proprio i ragazzi che del loro bendiddio
spesso non sapevano cosa farne.
E la chiesa, così preoccupata dei peccati impuri, cosa programma concretamente perché al comandamento che vieta tutto corrisponda un’adeguata e discreta informazione?
Ormai l’argine della buona condotta sessuale, curata per anni dalle confessioni minuziose e imbarazzanti, presenta falle paurose e non ci sono ragioni al mondo che possano convincere le nuove generazioni alla virtuosa castità di un tempo. E intanto il vuoto che si produce presso i confessionali concede alle coscienze uno spazio più ampio di libertà, libertà che dai pulpiti viene considerata semplicemente porta aperta al lassismo.
Per stabilire la moralità di un atto e per sistemare certi comportamenti entro un normale uso della propria sessualità, ancor prima di vietare
e di condannare, penso, sia necessario offrire un’adeguata informazione
alle giovani potenzialità affettive e assicurare a chi ne gode una serena educazione all’amore.
Tra qualche settimana Alessia metterà al mondo il suo bambino… La
vidi serena quel giorno in cui col suo pancione sedette tra i ragazzi della Cresima. Non sentì il bisogno di accusarsi di alcun peccato, perché
aveva concepito il figlio nell’amore, e l’amore non è una colpa - lei dice
- soprattutto quando si apre al progetto che coinvolge un Dio.
- Alessia, ma tu credi in Dio?
- Per me questo è un argomento molto importante: c’è stato un periodo della mia vita in cui non credevo più in Dio perché, in un modo o
nell’altro, tutto quello che facevo era contro di me.
Da quando sono rimasta incinta ho capito che quello che mi stava succedendo non era venuto per caso ma come dono di Dio, e così ho pensato che forse non era così sbagliato credere in Lui. Molte persone rimangono sorprese dalla mia età e mi chiedo perché mai, secondo loro, avrei
dovuto temere un qualcosa di così grande… perché non hanno fiducia
in me... Cosa avrei dovuto fare? Buttare via una vita che mi era stata
data e non assumermi le mie responsabilità?
No, non l’avrei mai fatto anche perché quella vita è stata accolta con
amore e consapevolezza. Oggi posso dire che sono felice di come sono
andate le cose e ringrazio Dio per avermi dato un tesoro così grande
di cui avrò sempre cura.
Alessia non mi chiese di essere assolta.
Nell’immagine del titolo un’opera pittorica di Kuang Jian.
Aprile
2014
20
ne. Ormai ci capiamo al volo…
Ho regalato alcune tele al Monastero dove stavo prima. Ma mi sa che non hanno capito la mia
pittura: una suora mi ha consigliato di rivolgermi
ad uno psichiatra. Però devo essere obiettiva:
pochi, pochissimi apprezzano, forse l’uno per
cento. Comunque ho cambiato testamento: non
lascio niente a quelle suore, ho paura che brucino tutto.
Si alza e tocca il vetro dell’acquario: i pesci non
si allontanano. Indossa un paio di pantaloni chiari che le arrivano alle caviglie, una maglietta bianca e gli occhiali che penzolano davanti. I capelli, lunghi, sono di un nero intenso.
Sono un po’ il segno di lei: prima se li era tagliati, poi li ha lasciati ricrescere, liberi, sani, naturali. Ha un’aria giovanile, sbarazzina.
Longilinea, un bel sorriso (diremmo: mediterraneo), soprattutto molto tranquilla, rilassata, indaffarata, ma non eccessivamente, come una qualsiasi padrona di casa.
Alessandro Gentili
iamo arrivati poco prima di mezzogiorno e lei è uscita ad accoglierci in strada. L’eremo è una casetta sepolta in mezzo a villini. Sulla cassetta postale e sopra il portone alcune scritte (versetti delle Sacre
Scritture). L’eremo si chiama” Stella Maris”, come
il grande Monastero Carmelitano situato sulla
punta estrema del Monte Carmelo, in Palestina,
venerato sin dall’antichità.
A. è stata una carmelitana.
Ok, entriamo. E ci fermiamo subito. C’è come
un muro di flaconi pieni di colori, pennelli, tele
nuove o dipinte. Si prosegue in fila indiana.
Un materasso con cuscino poggiato in terra. Zerbino.
Lo spazio dell’ angolo cottura è delimitato da
un muretto divisorio. Qui occorre togliersi le scarpe e procedere scalzi per evitare di sporcare. Lo spazio è ristretto: più di sei/sette persone non possono sedersi al tavolo. Sui muri, sul frigo, sui mobili, versi della Bibbia.
Dico la verità: mi ricorda una di quelle
stanze di certi film o telefilm americani
dove vive un maniaco-killer che ha tappezzato la stanza con ritagli di libri e giornali. La tavola è apparecchiata per l’aperitivo: olive, noccioline, salatini.
Il curry cuoce sul fuoco. Varcata la soglia,
alla destra c’è un bagno con una lavatrice rotta e l’abito monacale appeso; dopo,
la stanza.
A destra il letto, una panca, un grande
dipinto appoggiato alla parete.
Una porta finestra conduce su un terrazzino
stracolmo di piante. Ma è bene tenere
chiuso: ci sono i topi. Si vedono altri palazzi,
la campagna, l’orizzonte, il mondo.
Ricordarsi di chiudere.
Fa caldo. C’è un deumidificatore.
D’estate, con la canicola, qui dentro deve far
molto caldo. Scendiamo di sotto, al fresco, dove
S
ci offre l’aperitivo. Ci mettiamo seduti in terra.
Sembriamo dei cinquantenni che si ritrovano una
domenica a rivangare gli anni dell’università.
Perché non dipingi più le icone ?
Perché era un lavoro tosto e con poche soddisfazioni. Quello non era dipingere, era riprodurre. Non inventavo nulla, copiavo. E per tosto
intendo proprio tosto: lavorare ad un’icona richiede un sacco di tempo e di pazienza, occorre
lavorare molto sui dettagli.
Era sfibrante. Non ce la facevo proprio più.
Però vendevi bene.
Sì, le icone erano e sono tutt’oggi un buon mercato, ma dopo nove anni…! Ero proprio arrivata.
Adesso sono più libera di dipingere quello che
sento. (Il Cantico dei Cantici, n.d.a.)
Certo, le tele sono grandi, il mercato si è ristret-
to, c’è la crisi e poi non a tutti piace.
E’ più difficile vendere. Ma devo dipingere quello che sento. Vedi quei pesci? (indica un acquario, cambiando argomento con una facilità disarmante) Avvertono subito la mia presenza e
si infastidiscono quando entrano nuove perso-
La casa l’ha comprata mia madre. Non ho il dono
della direzione spirituale, nè mi sento di dare
consigli. Non ascolto nessuno.
La mia vocazione è di essere qui. Non c’è da
cercare né da capire niente. Sono rimasta quella che ero prima. Ho solo (?!) cambiato vita.
La mattina è l’unico momento in cui incontro persone: in chiesa o al mercato.
Mangio molti legumi e frutta. Ma non sono certo un’asceta. Ho pure il cellulare.
Beh, solo quello. Dimmi delle tue figlie. E tua
moglie? Adesso beviamo, eh?
Torniamo di sopra. Sono le due. Dopo una breve benedizione, mangiamo questo riso al
curry, molto saporito, molto piccante.
Lei beve vino. Mangia e beve con grande piacere. Condisce il riso con una salsa fruttuosa.
Poi le paste. Infine il caffè alla turca. Molto forte.
Lo scarico del bagno non funziona.
Lo rimettiamo a posto. La conversazione
procede lungo canoni consueti,
come una riunione di amici. C’è da
dividere gli avanzi del pranzo. Mi addormento, completamente rilassato.
Dunque: se non ci fossero tutte quelle scritte… e se lei non fosse… e se
i miei amici non mi avessero detto…
e se i quadri… e il Vescovo che approva… e quell’aria di libertà che lei possiede… e tutta la sua storia… e il declinare l’invito di una cena a casa nostra…
e il chiudersi del cancello prima e la
porta dopo… e il silenzio nell’auto mentre torniamo…e il ricordo che torna…
e perfino questo desiderio di scrivere di lei… e il rileggere i padri del deserto… questa monaca, che è passata da un progetto di
vita all’altro, diametralmente opposto, ma senza intaccare nulla della sua essenza, del suo
carattere, della sua personalità.
continua nella pag. accanto
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2014
21
Suore apostoline dell’Acero
L
a rivelazione di Dio nella storia raggiunge
il suo compimento nella persona di Gesù Cristo,
il Figlio di Dio inviato per la salvezza del mondo. La salvezza è opera di Dio ma richiede necessariamente anche la risposta e l’azione dell’uomo.
La fede è condizione fondamentale che ci permette di accogliere concretamente il Vangelo che è Gesù
Cristo morto e risorto per noi. Questo diventa l’annuncio del cristiano nel mondo.
La venuta di Dio nella storia si è realizzata nell’incarnazione. Il desiderio di Dio di incontrare e salvare ogni uomo si realizza pienamente nella vita di
Cristo attraverso la sua morte e risurrezione.
Tutta la vita di Cristo è una ricerca e una risposta
alla volontà del Padre e una preparazione a dare
tutto se stesso, come scrive san Paolo nella lettera ai Galati: “Sono stato crocifisso con Cristo e non
vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che
io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio,
che mi ha amato e ha consegnato se stesso per
me” (Galati 2,20).
Ogni vocazione cresce nella sequela di Cristo Gesù
che chiama l’uomo alla salvezza e lo invita a seguire i suoi passi: “Se qualcuno vuol venire dietro a
me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni
giorno e mi segua” (Luca 9,23).
Egli ci dice che per giungere con Lui alla luce e alla
gioia della risurrezione, alla vittoria della vita, dell’amore, del bene, anche noi dobbiamo prendere
la croce ogni giorno. Nella sequela di Cristo ritroviamo il vero senso della nostra vita.
L’opzione fondamentale per Cristo implica un
coinvolgimento globale di tutto noi stessi. L’uomo
è chiamato ad incarnare nella storia la vita di Cristo,
a prendere su di sé la croce, rendendola segno credibile dell’amore di Dio nel mondo. Questo passaggio
è possibile solo dopo aver riconosciuto e accolto
l’amore di Dio per me, che si rivela dall’alto della
croce. La croce è la via scelta da Dio, accolta da
Cristo, che conduce alla salvezza ed è perciò anche la via che il discepolo di Cristo è chiamato a seguire.
L’impegno di Dio per il mondo si può dire con un’unica parola: amore. In altre parole possiamo dire che «la croce rivela che Dio è amore. (…) La croce è storia dell’amore di Dio per il mondo: un amore che
non subisce la sofferenza, ma la sceglie, dà senso alla sofferenza del
mondo, perché l’ha assunta a tal punto da farne la propria sofferenza d’amore. (…) La croce è storia nostra perché è storia trinitaria di
Dio, è la buona novella della morte in Dio, perché l’uomo viva della
vita del Dio immortale, possibile grazie a quella morte» (cf. Bruno Forte,
L’essenza del cristianesimo).
La croce non è solo un fatto, ma manifesta l’amore di Dio e chiama
segue da pag. 20
Avevo tante domande da fare. Ma ho preferito tacere. Non ho altro da aggiungere.
A. è nata a Roma nel 1959. Dai 14 anni comincia a viaggiare; a 15 anni entra nell’ Ecòle
Superieure d’Art Graphique Met De Penninghen
a Parigi. Esce dall’Accademia un anno pri-
l’uomo a vivere la stessa esperienza di dono, di morte e di risurrezione,
di amore, come Gesù. In questa missione l’uomo non è solo, ma la
Chiesa è il luogo dove egli nasce alla vita nuova, dove diventa cristiano,
cioè di Cristo e dove annuncia e vive la fede.
Non possiamo pensare l’impegno del cristiano nel mondo separato dalla Chiesa, da un contesto ecclesiale e famigliare. È una comunità che
rinasce e vive nell’amore di Cristo. Una comunità chiamata a far conoscere a tutti e con tutti i mezzi l’amore di Dio: speranza della nostra
salvezza.
ma del diploma.
Dal 1978 al 1990 si occupa di moda e design:
realizza e produce collezioni di vestiti, borse, gioielli, tessuti di arredamento e lampade. Viaggia sempre e vive in diversi paesi del
mondo.
Nel 1990 si converte, abbandona il design
e comincia nel 1992 a dipingere icone con
diversi Maestri: Giovanni Mezzalira, Fabio Nones
Nell’immagine: Gesù cammina sulle acque,
opera di Ivan Konstantinovic Ajvazovshij.
e gli ultimi tre anni con il più grande iconografo vivente: il Padre Russo Ortodosso Andrej
Davidov.
Dipinge icone per 9 anni; nel Febbraio 2001
inizia a dipingere libera e con colori acrilici. Dal 1993 è consacrata totalmente a Dio;
è monaca eremita in un eremo, dove prega
e lavora nel più assoluto silenzio e solitudine.
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Pietro Ramellini
I
l Documento preparatorio del Sinodo dei Vescovi
chiede alle Chiese particolari di “partecipare
attivamente alla preparazione del Sinodo
Straordinario” sulla famiglia. Evidentemente, sia
per il tema scelto sia perché le famiglie sono piccole Chiese domestiche, è opportuno che chi come
me vive in prima persona l’esperienza della famiglia dia il suo contributo. D’altro canto, le responsabilità che una famiglia comporta sono tali per
cui non restano molte energie dopo aver risposto alle sue necessità.
Di conseguenza, mi sono limitato a riflettere sul
titolo del Documento: “Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione”. Mi
sono dunque chiesto cosa significasse per me
questa espressione, e come potessi interpretarla
alla luce della mia esperienza di vita. Ne sono
scaturite le pagine che seguono, non a mo’ di
tesi da proclamare o difendere, ma come riflessioni suscitate dal titolo: LE SFIDE PASTORALI SULLA FAMIGLIA NEL CONTESTO DELL’EVANGELIZZAZIONE.
Il primo concetto che il titolo ci propone è quello di sfida. Sinceramente, non lo trovo molto attraente, forse per un’inconscia repulsione verso l’etimologia della parola: sfida deriva pur sempre
dal verbo disfidare, cioè, letteralmente, togliere
la fede…Ora, non è certo il caso di fermarsi a
un livello semantico così superficiale; piuttosto,
è bene scendere in profondità, cercando di cogliere l’intentio profunda che cela. Questo, tra l’altro, sarà il metodo che mi guiderà costantemente
in questa riflessione. Quello che si vuole intendere è innanzitutto che la realtà ci chiama e interpella, ci in-voca e pro-voca; come segnala l’uso del plurale sfide, l’umanità ci interroga e smuove in molti modi, a volte stupendoci ed esaltandoci,
a volte irritandoci e stanandoci dalle nostre comodità. Spesso non occorre nemmeno che le situazioni di sfida alzino la voce: basti pensare al grido silenzioso, o al silenzio assordante, che sale
dagli esclusi della Terra, che implorano senza
aver più la forza di farsi sentire.
Occorre dunque un orecchio capace di cogliere tanto le voci più forti e insistenti quanto la muta
invocazione dei senza voce, sia le realtà di gaudium et spes sia quelle di luctus et angor. Potremmo
dunque interpretare le sfide come una voce che
sale dalla realtà e dall’umanità, e vedere in ciascuno di noi colui che invoca e allo stesso tempo colui che ascolta. Tuttavia, forse la parola grido rende meglio il senso più nudo ed elementare del gemito della creazione, che rimane comunque - anche nelle sue manifestazioni di massi-
ma sofferenza - l’espressione di un parto
fecondo e salvifico. La parola sfida ci indirizza
dunque verso l’idea del grido della realtà.
Il secondo elemento del titolo riguarda la pastorale. La figura del bel pastore è davvero una di
quelle che possono conferire universalità e cattolicità al messaggio cristiano, radicata come è
in quella rivoluzione neolitica che ha contrassegnato,
in tempi e luoghi diversi, quasi tutti i popoli umani. E tuttavia, non va dimenticato che anche questa immagine, con il passare del tempo e i cambiamenti nelle pratiche di allevamento, è destinata ad annebbiarsi e a dissolversi in un passato arcaico che difficilmente scalda i cuori.
Questo tuttavia non è un problema insuperabile: per meditare sulle sfide pastorali non occorre né forzare immagini e metafore, né vincolarsi ai dettagli della concreta e dura vita pastorale. Piuttosto, lasciandoci ispirare dallo Spirito possiamo cogliere, nel nostro hic et nunc et sic, quanto ci aiuta a rispondere creativamente al grido
della realtà; l’importante è che la fiamma viva e
ardente della pastoralità illumini e scaldi la nostra
convivenza.Qual è allora il retaggio perenne del
crioforo, il messaggio incancellabile di tutti i pastori e le pastore della storia, che possiamo proporre al di là di ogni tempo, luogo o regime di
vita particolari?
Direi che si tratta in primo luogo dell’obbedienza reciproca tra il pastore e le pecore.
Tradizionalmente, si è posto maggiormente l’accento sull’obbedienza della pecora al pastore,
sulla docilità che la pecora mostra alla voce del
suo pastore. Ciò sembra tanto più vero quanto
più si pensa al pastore per eccellenza, a quel
Gesù che le pecore ascoltano e seguono. E tuttavia, anche il pastore obbedisce alle pecore, conducendole dove esse intendono essere condotte;
le pecore hanno bisogni e desideri propri e specifici: acqua corrente, ricchi pascoli, ovili sicuri,
un gregge in cui convivere con i propri simili; è
nella loro natura avere queste esigenze, e il vero
pastore obbedisce docilmente ad esse. Obbedendo
alla natura delle pecore, il buon pastore le provvede sollecitamente e amorosamente di ciò che
le fa vivere bene e a lungo. Non per nulla questa obbedienza si ricollega al grido di cui abbiamo parlato sopra, in quanto si tratta di ob-audire, di un ascolto attento e addirittura preveniente
verso il gregge da custodire e moltiplicare.
Ma per obbedirsi reciprocamente,
occorre conoscersi e riconoscersi.
Il pastore conosce le pecore, anzi,
le sue pecore, con le loro individuali
esigenze e diversità, tanto che può
chiamarle ad una ad una per
nome; egli inoltre conosce i luoghi
in cui condurre il gregge, sa dove
sono i pascoli erbosi e le acque tranquille, e dove invece si nascondono i pericoli da evitare. D’altro canto, anche le pecore conoscono il loro
pastore, ne riconoscono la voce, sanno dove è l’ovile e per quale porta entrarvi. Dunque, la relazione pastorale si nutre in secondo luogo di conocontinua a pag. 23
Aprile
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scenza reciproca, amorosa e fiduciosa, e si basa
sul riconoscimento e sulla riconoscenza reciproci.
In terzo luogo, la pastoralità genuina è contrassegnata da una reciproca donazione di vita. Dico
espressamente di vita per evitare di pensare subito e immediatamente a quella suprema donazione
della vita che si attua nel martirio o nella morte
incontrata per salvare dal pericolo una sorella o
un fratello. Al di là di queste forme eroiche ma
tutto sommato rare di donazione, il rapporto più
consueto, quotidiano e feriale tra pastore e gregge è quello di una reciproca donazione, goccia
a goccia, giorno dopo giorno, di risorse di vita:
è la “piccola via” lungo la quale il pastore spende tempo e forze, attenzione e cure per le sue
pecore, mentre le pecore donano lana e latte,
carne e calore, nonché - non dimentichiamolo simboli e immagini all’uomo.
Non per nulla Gesù, e ogni credente con lui e
come lui, è sia pastore sia agnello. È una costante, continua e reciproca donazione di vita, una
simbiosi che coinvolge e benefica entrambi i partner; dunque, l’ob-audire reciproco si traduce in
un ex-audire reciproco, nell’esaudire ciascuno i
bisogni e - per dirla con Agostino (Conf., V, 8.15)
- il cardine dei desideri dell’altro.
La parola pastorale ci indirizza quindi verso l’idea di una reciproca obbedienza, conoscenza
e donazione di vita. Siamo dunque arrivati al tema
portante del Sinodo, e cioè la famiglia. Ora, per
quanto grande e santa possa apparirci, la famiglia è – come il matrimonio – una realtà terrena
e provvisoria, contingente e storicamente condizionata, finita e creata.
Nell’eschaton non ci si sposa e non si fanno figli,
ma Dio è tutto in tutti; nell’eschaton contano allora non solo e non tanto i coniugi e le famiglie,
quanto la coniugalità e la familiarità. Si potrebbe obiettare che non si può fare pastorale come
se già fossimo nell’escathon; e tuttavia, il tempo del compimento definitivo delle realtà terrene ha già fatto irruzione nella storia, grazie alla
vita, morte e risurrezione di Gesù.
Pertanto, uno sguardo lungimirante, macroscopico e presbiteriale, nel senso etimologico di questi termini, uno sguardo da mahatma potrà aiutarci a capire meglio la situazione storica della
famiglia. Come dunque abbiamo proceduto prima, astraendo dalla concretezza del gregge e
dalla quotidianità del pastore il nucleo vivo della pastoralità, possiamo ora astrarre dall’esperienza feriale e particolare delle diverse famiglie
il fondamento vitale della familiarità.
Pensare in termini di familiarità ci permetterà di
non confonderla con le sue varie incarnazioni storiche, culturali e tribali, e di non appiattirla su una
sola di queste. Una volta enucleata la radice comune della familiarità, ovviamente non se ne farà
uno schema arido ed inflessibile che pretenda
di normare la pastorale o risolvere ogni problema di dettaglio, una sorta di letto di Procuste che
imponga pesi insopportabili sulle spalle altrui; al
contrario, lo si potrà mettere in relazione e quasi in contrappunto con le più varie situazioni concrete e particolari, lasciandosene ispirare ed eventualmente anche correggendone e modificandone
i tratti. Cos’è dunque la familiarità? Se vogliamo
23
porci in ascolto della realtà possiamo intanto chiedere aiuto alle scienze umane.
Ovviamente, in questo approccio dobbiamo salvaguardare la distinzione tra l’aspetto descrittivo e normativo di queste discipline, senza cadere nella fallacia di desumere norme dai fatti.
Tre scienze sembrano particolarmente coinvolte nella nostra riflessione. Tra esse, la sociologia appare come la più contingente e temporanea, in quanto valuta lo status di un’ampia varietà di società e rapporti sociali proprio in quanto
diversificati nello spazio, nel tempo e - sempre
più spesso in questa età dell’informazione e della network society - persino oltre le tradizionali
contiguità spaziotemporali.
Invece, l’antropologia culturale ha tra le sue finalità proprio quella di scoprire gli universali culturali che, al di là delle specifiche civiltà, contribuiscono a costituire l’unità dell’uomo. A tale progetto scientifico contribuisce, infine, la psicologia, delle tre la disciplina più vicina alle radici biologiche della specie umana, e quindi più che altro
adatta a scoprire gli invarianti biologici sottesi ai
nostri comportamenti.
Ai nostri fini, credo che la prospettiva antropologica culturale sia la più interessante. Basandosi
su studi il più possibile ampi e approfonditi, nel
1979 l’antropologo Françoise Héritier scriveva,
alla voce ‘Famiglia’ dell’Enciclopedia Einaudi, che
“la famiglia è certamente un dato universale, ma
solo nel senso che non esiste nessuna società
sprovvista d’una istituzione che svolge dappertutto le stesse funzioni: unità economica di produzione e di consumo, luogo privilegiato dell’esercizio della sessualità tra partner autorizzati,
luogo della riproduzione biologica, dell’allevamento
e della socializzazione dei figli. In questo ambito essa obbedisce ovunque alle stesse leggi: esistenza di uno statuto matrimoniale legale che autorizza l’esercizio della sessualità tra almeno due
dei membri della famiglia (oppure che prevede
i mezzi per supplirvi), proibizione dell’incesto (rap-
porto sessuale o matrimonio) e divisione del lavoro secondo i sessi”. In un’espressione condensata, “La famiglia è quel che permette alla società d’esistere, di funzionare, di riprodursi”. La tradizionale idea che la famiglia costituisca la cellula della società trova dunque conferme e riscontri a livello mondiale da parte della ricerca antropologica.
A questo si può aggiungere una prospettiva ancora più profonda: se lo stato di vita matrimoniale
è un simbolo dell’unione tra Cristo e la sua Chiesa,
allora potremo pensare che matrimonio e famiglia sono, nel mondo, come segni e strumenti di
una realtà eterna, cioè l’intima unione tra Dio e
gli uomini; anzi, nella misura in cui coniugalità
e familiarità sono segno e strumento di salvezza, nella misura in cui operano come segni efficaci che rammemorano, dimostrano e prognosticano la salvezza totale e definitiva dei singoli uomini e donne e dell’umanità intera, esse stesse comportano un aspetto sacramentale, che si
estende al di là delle specifiche forme che assumono nella storia umana.
La parola famiglia ci indirizza quindi verso l’espressione
sacramento della familiarità. Abbiamo poi la parola contesto. Che cos’è un contesto? Tra le varie
accezioni del termine, quella che mi sembra più
significativa ai nostri fini lo intende come un intreccio o tessitura di elementi tra di loro connessi.
In questo senso, anziché fronteggiarsi come due
monoliti solo accidentalmente giustapposti, famiglia ed evangelizzazione divengono trama e ordito di un solo tessuto, che si sfilaccerebbe qualora uno dei due cedesse o venisse a mancare.
La famiglia è intrecciata all’evangelizzazione, che
è a sua volta intrecciata alla famiglia; entrando
in risonanza tra di loro, famiglia ed evangelizzazione
sono conteste, contessute in un’unica esperienza
vitale che trae la sua origine e trova il suo orizzonte nella buona notizia di un Dio che si incarna in una famiglia e sogna che l’umanità divencontinua a pag. 24
Aprile
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p. Vincenzo Molinaro
’ passato poco più di un ano da quando Papa Francesco è alla
guida della Chiesa di Dio. Si può dire che il concetto di “custodia” che nella solennità di San Giuseppe aveva meditato, è stato applicato da lui nei confronti di tutta la chiesa con atteggiamento umile ma deciso. Il suo gesto semplice e toccante è entrato nell’immaginario collettivo a incarnare l’atteggiamento paterno di Dio, del quale egli
ricorda tanto spesso la misericordia.
L’incontro con i fidanzati, festa di giovani che in meno di un mese sono
stati coinvolti da tutto il mondo, è la cifra di un’apertura di cuore nei suoi
confronti. Ci si può attendere una inversione di tendenza a livello mon-
E
diale? Una gioventù che riscopra il sentiero del vangelo e su di esso si avventuri nella coscienza di una
presenza che non è solo quella del Signore o quella del Papa ma anche quella della chiesa locale? Una
risposta immediata nella nostra Diocesi, è stato l’annuncio già diffuso nel numero di marzo di Ecclesia
e che oggi viene confermato con maggiori dettagli.
Il nostro Vescovo desidera incontrare i fidanzati e dedica loro un pomeriggio. Per ascoltarli, per dialogare,
per pregare insieme con loro. Per mostrare che nella chiesa particolare c’è un Vescovo che rappresenta
personalmente la presenza di Cristo. Da quando la
prima volta egli inviò gli apostoli, questa presenza
continua in mezzo a noi.
Per questo motivo i fidanzati sono invitati a preparare delle domande, esponendo i loro desideri, le loro
speranze, le loro incertezze. Le risposte saranno il
segno di un dialogo che inizia e che dovrà continuare.
Quando i fidanzati vengono a sapere che in ogni Diocesi
c’è un vescovo?
Quando portano i documenti della pratica matrimoniale e si affannano a trovare Corso della Repubblica
343? Certamente no. Ma oggi attraverso questo incontro si stabilisce un nuovo rapporto con il nostro Vescovo,
Mons. Vincenzo Apicella.
Una fascia importante del popolo di Dio si apre all’annuncio diretto del vangelo. Il Vescovo non incontro
solo i Cresimandi o gli adolescenti. Incontra coloro
che stanno per formare la loro famiglia e vogliono
fondarla sul fondamento solido che la parola del Signore.
Ci prepariamo con entusiasmo e guardiamo al futuro delle nuove giovani famiglie che potranno raccontare l’evento e che si sentiranno per
sempre coinvolte dalla Chiesa.
Luogo dell’incontro: S. Maria dell’Acero
Domenica 27 aprile 2014
Arrivo e accoglienza ore 16.00
Dialogo con Vescovo ore 16.15
Interruzione e preparazione della liturgia ore 17.00
Celebrazione dell’Eucaristia ore 17.30
La festa continua ... (pizza o altro da concordare).
segue da pag. 23
ga una famiglia unita e solidale.
Famiglia ed evangelizzazione sono ordinate l’una all’altra, nell’annuncio e soprattutto nella testimonianza; esse agiscono sinergicamente, in quanto la famiglia trova il suo fondamento nella paternità, maternità, figliolanza e spirazione trinitarie,
mentre l’evangelizzazione prende spunto dalle
relazioni familiari per simboleggiare la nuova realtà del Regno di Dio; infine, la loro sinergia si radica in una organicità di base, in quanto familiarità ed evangelicità costituiscono - nel loro sussistere ed operare congiuntamente - come due
organi (syn-ergon) di un più vasto organismo, che
vive dell’amore e nell’amore di Dio.
La parola contesto ci indirizza quindi all’espressione intreccio organico. Siamo così giunti
all’altro perno del Documento, e cioè l’evangelizzazione. Evangelizzare significa annunciare,
come ha fatto Gesù, che Dio è amore, e soprattutto vivere, come ha fatto Gesù, amando e lasciandosi amare da Dio; consapevoli certamente dell’infinita distanza tra il nostro amore povero e precario e il roveto ardente del suo, ma arrenden-
dosi allo Spirito di Cristo, che scalda ciò che è
gelido e brucia ogni nostra scoria. In altri termini, evangelizzare significa vivere come Gesù Cristo,
vivere da cristo, cristicamente.
Seguire Gesù-Cristo significa essere Roberta-cristo, Pietro-cristo e così via. Gesù di Nazareth è
vissuto e vive da Cristo, in modo cristico, e quindi suoi discepoli e discepole sono coloro che vivono da cristi, in modo cristico. L’annuncio non si
fa solo con la bocca, ma con tutta la vita, che
per noi viventi è tutto il nostro essere; la vita cristica diventa così, sia che mangiamo sia che dormiamo, buona notizia e liturgia cristica.
Vivere in modo cristico significa attuare l’amore-agape di Dio nella realtà, e quindi anche in
sé stessi e a partire da sé stessi; all’interno di
questa agapizzazione della realtà, trova il suo
giusto posto o - per ritornare ad un concetto già
esaminato - il suo contesto appropriato, l’annuncio
che Θε ς γάπη στίν, Deus caritas est (1 Gv
4, 16). Anzi, poiché l’amore di Dio è non solo agape, ma anche eros, philia e molto altro, è forse
preferibile la parola della tradizione latina, amo-
re, anziché quella greca, agape, proprio perché
nella sua complessità e polisemia coglie meglio
la ricchezza dei significati e dei sensi dell’amore. Così pure, dicendo “amore di Dio” si preserva la feconda ambiguità del genitivo soggettivo
e oggettivo, esprimendo un concetto profondo
e sfaccettato con economia espressiva.
La parola evangelizzazione ci indirizza quindi verso l’espressione amore cristico di Dio. Eccoci dunque giunti al termine della nostra riflessione. Come
racchiudere il senso delle sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione in una breve formula? Sulla base di quanto abbiamo insieme meditato, formulerò un augurio che costituisca allo stesso tempo un compito: viviamo in modo
tale che, nell’intreccio organico tra il sacramento della familiarità e l’amore cristico di Dio, il grido della realtà susciti in noi una reciproca obbedienza, conoscenza e donazione di vita.
Si tratta ora di tradurre questa impostazione teorica in prassi. Pertanto, spengo il computer, accompagno i figli a scuola e vado a lavorare.
Aprile
2014
MESSAGGIO DEL SANTO
PADRE FRANCESCO PER LA
51ª GIORNATA MONDIALE DI
PREGHIERA PER LE VOCAZIONI
11 MAGGIO 2014 - IV DOMENICA DI PASQUA
Cari fratelli e sorelle!
1. Il Vangelo racconta che «Gesù percorreva tutte le città e i villaggi … Vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore. Allora
disse ai suoi discepoli: “La messe è abbondante,
ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il Signore
della messe, perché mandi operai nella sua messe”» (Mt 9,35-38). Queste parole ci sorprendono,
perché tutti sappiamo che occorre prima arare, seminare e coltivare per poter poi, a tempo
debito, mietere una messe abbondante. Gesù
afferma invece che «la messe è abbondante».
Ma chi ha lavorato perché il risultato fosse tale?
La risposta è una sola: Dio. Evidentemente il
campo di cui parla Gesù è l’umanità, siamo noi.
E l’azione efficace che è causa del «molto frutto» è la grazia di Dio, la comunione con Lui (cfr
Gv 15,5). La preghiera che Gesù chiede alla Chiesa,
dunque, riguarda la richiesta di accrescere il numero di coloro che sono al servizio del suo Regno.
San Paolo, che è stato uno di questi “collaboratori di Dio”, instancabilmente si è prodigato per
la causa del Vangelo e della Chiesa. Con la consapevolezza di chi ha sperimentato personalmente quanto la volontà salvifica di Dio sia imperscrutabile e l’iniziativa della grazia sia l’origine
di ogni vocazione, l’Apostolo ricorda ai cristiani di Corinto: «Voi siete campo di Dio» (1 Cor
3,9). Pertanto sorge dentro il nostro cuore prima lo stupore per una messe abbondante che
Dio solo può elargire; poi la gratitudine per un
amore che sempre ci previene; infine l’adorazione per l’opera da Lui compiuta, che richiede la nostra libera adesione ad agire con Lui e
per Lui.
2. Tante volte abbiamo pregato con le parole del
Salmista: «Egli ci ha fatti e noi siamo suoi, suo
popolo e gregge del suo pascolo» (Sal 100,3);
o anche: «Il Signore si è scelto Giacobbe, Israele
come sua proprietà» (Sal 135,4).
Ebbene, noi siamo “proprietà” di Dio non
nel senso del possesso che rende schiavi, ma di un legame forte che ci unisce
a Dio e tra noi, secondo un patto di alleanza che rimane in eterno «perché il suo
amore è per sempre» (Sal 136). Nel racconto della vocazione del profeta
Geremia, ad esempio, Dio ricorda che
Egli veglia continuamente su ciascuno
affinché si realizzi la sua Parola in noi.
L’immagine adottata è quella del ramo
di mandorlo che primo fra tutti fiorisce,
annunziando la rinascita della vita in primavera (cfr Ger 1,11-12). Tutto proviene
25
da Lui ed è suo dono: il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro, ma – rassicura
l’Apostolo – «voi siete di Cristo e Cristo è di Dio»
(1 Cor 3,23). Ecco spiegata la modalità di appartenenza a Dio: attraverso il rapporto unico e personale con Gesù, che il Battesimo ci ha conferito sin dall’inizio della nostra rinascita a vita
nuova. È Cristo, dunque, che continuamente ci
interpella con la sua Parola affinché poniamo
fiducia in Lui, amandolo «con tutto il cuore, con
tutta l’intelligenza e con tutta la forza» (Mc 12,33).
Perciò ogni vocazione, pur nella pluralità delle
strade, richiede sempre un esodo da se stessi
per centrare la propria esistenza su Cristo e sul
suo Vangelo. Sia nella vita coniugale, sia nelle forme di consacrazione religiosa, sia nella vita
sacerdotale, occorre superare i modi di pensare
e di agire non conformi alla volontà di Dio. E’
un «esodo che ci porta a un cammino di adorazione del Signore di servizio a Lui nei fratelli e nelle sorelle» (Discorso all’Unione
Internazionale delle Superiore Generali, 8
maggio 2013). Perciò siamo tutti chiamati ad adorare Cristo nei nostri cuori (cfr 1 Pt 3,15) per lasciarci raggiungere dall’impulso della grazia contenuto nel seme della Parola, che deve crescere in noi e trasformarsi in servizio concreto al
prossimo. Non dobbiamo avere paura: Dio segue
con passione e perizia l’opera uscita dalle sue
mani, in ogni stagione della vita. Non ci abbandona mai! Ha a cuore la realizzazione del suo
progetto su di noi e, tuttavia, intende conseguirlo
con il nostro assenso e la nostra collaborazione.
3. Anche oggi Gesù vive e cammina nelle nostre
realtà della vita ordinaria per accostarsi a tutti,
a cominciare dagli ultimi, e guarirci dalle nostre
infermità e malattie. Mi rivolgo ora a coloro che
sono ben disposti a mettersi in ascolto della voce
di Cristo che risuona nella Chiesa, per comprendere
quale sia la propria vocazione. Vi invito ad ascoltare e seguire Gesù, a lasciarvi trasformare interiormente dalle sue parole che «sono spirito e
sono vita» (Gv 6,62). Maria, Madre di Gesù e
nostra, ripete anche a noi: «Qualsiasi cosa vi
dica, fatela!» (Gv 2,5). Vi farà bene partecipare con fiducia ad un cammino comunitario che
sappia sprigionare in voi e attorno a voi le energie migliori. La vocazione è un frutto che matura nel campo ben coltivato dell’amore reciproco che si fa servizio vicendevole, nel contesto
di un’autentica vita ecclesiale. Nessuna vocazione nasce da sé o vive per se stessa. La vocazione scaturisce dal cuore di Dio e germoglia
nella terra buona del popolo fedele, nell’esperienza dell’amore fraterno. Non ha forse detto
Gesù: «Da questo tutti sapranno che siete miei
discepoli: se avete amore gli uni per gli altri»
(Gv 13,35)?
4. Cari fratelli e sorelle, vivere questa «misura
alta della vita cristiana ordinaria» (cfr Giovanni
Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte, 31),
significa talvolta andare controcorrente e comporta incontrare anche ostacoli, fuori di noi e dentro di noi. Gesù stesso ci avverte: il buon seme
della Parola di Dio spesso viene rubato dal Maligno,
bloccato dalle tribolazioni, soffocato da preoccupazioni e seduzioni mondane (cfr Mt 13,1922). Tutte queste difficoltà potrebbero scoraggiarci, facendoci ripiegare su vie apparentemente
più comode. Ma la vera gioia dei chiamati consiste nel credere e sperimentare che Lui, il Signore,
è fedele, e con Lui possiamo camminare, essere discepoli e testimoni dell’amore di Dio, aprire il cuore a grandi ideali, a cose grandi. «Noi
cristiani non siamo scelti dal Signore per cosine piccole, andate sempre al di là, verso le cose
grandi. Giocate la vita per grandi ideali!»
(Omelia nella Messa per i cresimandi, 28 aprile 2013). A voi Vescovi, sacerdoti, religiosi, comunità e famiglie cristiane chiedo di orientare la pastorale vocazionale in questa direzione, accompagnando
i giovani su percorsi di santità che, essendo personali, «esigono una vera e propria pedagogia
della santità, che sia capace di adattarsi ai ritmi delle singole persone. Essa dovrà integrare le ricchezze della proposta rivolta a tutti con
le forme tradizionali di aiuto personale e di gruppo e con forme più recenti offerte nelle associazioni e nei movimenti riconosciuti dalla
Chiesa» (Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte, 31). Disponiamo dunque il nostro
cuore ad essere “terreno buono” per ascoltare,
accogliere e vivere la Parola e portare così frutto. Quanto più sapremo unirci a Gesù
con la preghiera, la Sacra Scrittura,
l’Eucaristia, i Sacramenti celebrati e vissuti nella Chiesa, con la fraternità vissuta, tanto più crescerà in noi la gioia
di collaborare con Dio al servizio del Regno
di misericordia e di verità, di giustizia e
di pace. E il raccolto sarà abbondante,
proporzionato alla grazia che con docilità avremo saputo accogliere in noi. Con
questo auspicio, e chiedendovi di pregare per me, imparto di cuore a tutti la
mia Apostolica Benedizione.
Dal Vaticano, 15 gennaio 2014
FRANCESCO
Aprile
2014
26
Stanislao Fioramonti
A
Siviglia, in una chiesa vicino al mare,
si venerava agli inizi del VI secolo una
statua in legno d’olivo rappresentante
la Vergine col Bambino, la Madonna dei
Bisognosi (Mater Indigentium). Tra i suoi devoti più assidui la famiglia del nobile Fausto, con
la moglie Elfustia e il figlio Procopio. Nel 606
l’imperatore di Costantinopoli Foca mosse
contro la Spagna a capo di un esercito di saraceni e sconfisse la flotta spagnola venuta a contrastarli; tra i prigionieri cristiani c’era Fausto, che
fu miracolosamente liberato dalla sua Vergine
dei Bisognosi ma, tornato a Siviglia, perse in poco
tempo prima la moglie poi tutti i suoi averi. Chiese
allora un prestito a un ricco mercante ebreo, suo
foto 1
altri devoti tra cui l’ebreo posero la
statua su una nave e risalendo il mare
Adriatico approdarono a Francavilla;
qui caricarono il simulacro (fig. 1)
su una mula e iniziarono il viaggio
per terra verso il monte Carsoli, a
loro ignoto; li guidò anche stavolta
Maria e dopo tre giorni iniziarono a
risalirlo dal versante di Rocca di Botte.
Erano prossimi alla sommità del monte quando la mula cadde rovinosamente, lasciando l’impronta del suo
ginocchio sulla pietra; poi, giunta in
cima e liberata del suo carico, si accasciò e morì. Lassù ricomparve
Procopio, il figlio di Fausto, che eresse una cappella alla Madonna proprio nel punto dove era morta la mula,
mentre intorno furono costruite
alcune cellette per gli eremiti che l’accudivano. E il monte che li accolse,
fino allora arido e senza alberi tanto da essere chiamato Terra secca
(oggi Serrasecca), miracolosamente si riempì di boschi e prati verdi.
E i due paesi che erano alle sue falde, Pereto e Rocca di Botte, fino ad
allora ostili e in contesa continua, dopo
l’arrivo della Madonna fecero la pace e posero
i loro confini territoriali proprio nel punto dove
sorse la cappella mariana.
La fama della Vergine del monte Carsoli si diffuse rapidamente anche a Roma; il papa stesso, Bonifacio IV nato nella Marsica, fu guarito
da una grave malattia invocando la Vergine.
Per gratitudine volle recarsi con tutto il suo seguito a visitare l’immagine miracolosa, le chiese protezione per l’Italia devastata dagli invasori e l’11
giugno 610 consacrò la chiesetta a lei dedicata sul monte; ad essa concesse tutta una serie
di indulgenze e donò pure un crocifisso ligneo
amico, e partì per mare verso l’Oriente, ma il
vento contrario lo costrinse a fermarsi in
Puglia. Qui esercitò la mercatura con successo, tanto da poter tornare a Siviglia per saldare il debito con l’amico, ma una nuova tempesta nel viaggio di ritorno, oltre alla morte di alcuni viaggiatori, provocò la scomparsa del figlio
Procopio.
La Madonna, da lui invocata, gli promise che
lo avrebbe ritrovato e preannunciandogli l’invasione
della Spagna da parte dei Saraceni, lo esortò
a trasferire la sua immagine di legno dalla chiesa sivigliana alla sommità del monte Carsoli, nella privincia italiana degli Abruzzi.
I naufraghi sopravvissuti approdarono in
un’isola greca e Fausto, non sapendo come
restituire il suo debito all’ebreo, decise
di chiudere in una cassetta
la somma, con gli interessi
e una lettera alla Madonna
dei Bisognosi, e di affidarla
al mare. Maria la fece giungere a Siviglia, tra le mani
del destinatario.
Rientrato anche Fausto in
patria, e negando l’amico
ebreo di aver recuperato
il suo prestito, decisero di
interrogare la statua della Madonna, che confermò la versione di Fausto;
allora l’ebreo, impressionato dall’intervento della
Vergine, chiese perdono della sua menzogna e decise di convertirsi al cristianesimo. Ricordando poi il
foto 2
desiderio della Vergine di
essere trasferita, Fausto e
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2014
27
foto 3
tuttora conservato accanto all’altare (fig. 2).
La chiesetta antica, corrispondente all’attuale cappella dietro l’altare maggiore, fu ampliata nel XIV
secolo; sulle sue pareti restano alcuni affreschi
di quell’epoca (una Madonna con Bambino in
mezzo a quattro Angeli e una Presentazione al
tempio), molti altri risalgono a un restauro del
1488, operato da Fra Domenico de Marino (due
scene della traslazione della statua, episodi dell’Antico
Testamento e della vita di Gesù e di Maria, l’Inferno
e il Paradiso- fig. 3- ecc.).
Il 5 novembre 1724 la statua di Maria fu incoronata dal Capitolo Vaticano. Meta di pellegrinaggi dai paesi del Lazio e della Marsica (fig.
4) e di visite specie nella giornata festiva di Pasquetta,
il santuario sul monte Serrasecca fu custodito
fino al 1754 da un prete secolare scelto dai Colonna,
feudatari della zona; poi fu affidato ai Frati Minori
Francescani della Provincia Romana, residenti nel convento annesso alla chiesa, anch’essa
rinnovata e consacrata il 16 settembre 1781.
Nel 1832 subentrarono i Frati Minori Riformati
d’Abruzzo, che l’hanno lasciato pochi anni fa;
attualmente i locali del santuario sono occupati dalla Comunità del p. Giancarlo Marinucci,
Cappuccino abruzzese e nuovo Rettore.
Per raggiungere il santuario si deve prendere l’autostrada RomaL’Aquila, uscire al casello di Carsoli e arrivare
a Rocca di Botte o
Pereto, da dove inizia
una strada asfaltata di
4-5 km. Per salire a piedi da Pereto (m 825) alla
Madonna dei Bisognosi
(m 1043) (dislivello m.
350; tempo di salita 1,10
h; discesa 0,35 h;) c’è
foto 4
un sentiero all’ombra del-
le querce che si snoda per buona parte sulla
fiancata del monte Serrasecca.
L’antica e grossa mulattiera dei pellegrini parte dalla curva della Mola, in località Mola di San
Silvestro, come Via della Madonna. Dopo
poche decine di metri, fuori dell’abitato, scavalca
su un ponticello il fosso della Fonte Vecchia e,
proseguendo pressoché in piano, giunge alla cappella della Trinità vecchia. Scende poi al ponte della Madonna (m 720) e attraversa il fosso
di S. Mauro. Da qui inizia la ripida salita lungo
il costone nord della montagna, con una serie
di tornanti chiamati dai locali svòte.
Continuando a salire il versante della montagna, si trova una pietra squadrata sulla quale
c’è l’usanza di posare un piccolo sasso. La gente di Pereto pensa che qui sia inciampata la mula
che, secondo la leggenda, avrebbe trasportato sul monte la statua lignea della Madonna.
A dimostrazione del fatto indica una parte incisa della pietra, in cui si vedrebbe il segno lasciato dal ginocchio della mula. Poco più avanti, a
destra di chi sale, c’è un altarino della Madonna
di Pompei, sul quale si usa deporre ancora delle piccole pietre. La località si chiama in dialetto
Inzinocchiaturu (m 995) e la cappelletta ricorda il luogo dove cadde la mula che portava la
Madonna dei Bisognosi, anche
se la tradizione indica la caduta dell’animale sul versante di
Rocca di Botte e non in quello di Pereto. Da questo punto
il sentiero si inerpica fino alle
spalle del santuario, da dove
si gode un ottimo panorama sulla sottostante Piana del Cavaliere,
sulla valle del Turano e sui due
paesi di Pereto e Rocca di Botte.
Nelle giornate limpide e terse
raccontano che si possono vedere persino Roma e il Terminillo!
La discesa a piedi con il sentiero di Rocca di Botte (m 730)
parte proprio davanti alla scalinata della chiesa; dopo pochi
metri, sotto il piazzale del santuario si incontra una croce di
legno fissata su un muretto di
cemento: è il punto di attesa dei
ritardatari delle compagnie di pellegrini che salivano dalla pianura che poi, ricostituito il gruppo, raggiungevano in processione la chiesa. Il
percorso, molto sassoso, scende all’inizio ripidamente, poi a larghe svolte sull’assolato del
monte Serrasecca.
A circa 400 metri dal santuario si incontra la cappella della mula, costruita sul (vero) luogo ove
sarebbe caduta la mula che nel 610 trasportò
sul monte la statua della Madonna venuta da
Siviglia, lasciando impresso sulla pietra il
segno del ginocchio. Secondo la tradizione la
cappella fu fatta dipingere dal cardinale Prospero
Veronese, che nel XV secolo abitò presso il santuario, dove era venuto a ringraziare la Vergine
per una grazia ricevuta.
Oggi le pitture originali sono scomparse e sia
il pavimento interno che i gradini in pietra davanti alla cappella sono rovinati. In realtà lungo i
percorsi da Pereto e Rocca di Botte si notano
i resti di scalini realizzati in pietra, che consentivano
un più facile cammino ai pellegrini e agli animali,
ma con il passare degli anni i due sentieri stanno diventando sempre più impraticabili; pochi
fedeli vi transitano a piedi e le piogge stanno
rovinando il tracciato.
Il sentiero di discesa termina al terzo tornante della strada asfaltata per il santuario.
Fonti:
Storia di Maria SS.ma dei
Bisognosi, Pereto 1976;
Enrico Balla, Pereto, storia,
tradizioni, ambiente, statuti,
Roma 1986, p. 280;
Pellegrini e pellegrinaggi a
Santa Maria dei Bisognosi,
a cura di Massimo Basilici,
Pereto, 2011.
Foto di Agapito Proscio.
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28
p. Salvatore Donadio
I
l trittico posto nell’abside della chiesa di Santa Maria delle Letizie
in Artena è stato realizzato dal pittore di Valmontone Piero
Casentini. Le tre pale da altare raccontano la devozione della gente della Valle del Sacco alla statua della Madonna delle Grazie, posta
come un faro di luce a protezione da quattro secoli degli abitanti. La statua resta chiusa in una nicchia durante l’anno e viene esposta il mese di
maggio come pegno di una sempre nuova pentecoste di GRAZIE. Il trittico rappresenta nella
prima pala il ritrovamento tra i ruderi dell’antico conventino francescano di San Michele del
1300 della statua sepolta per impedirne la profanazione. È rappresento lo stupore dei contadini che, dopo il ritrovamento, solo mossi dalla
fede e toltisi i calzari, riescono a portare alla luce
la statua della Vergine.
La seconda pala rappresenta la Madonna rivestita di gloria e di splendore nella sua festa come
in paradiso. La terza pala illustra la devozione popolare vissuta dalle confraternite e dai portatori degli stendardi e dei Cristi infiorati. È la Madre
della Chiesa che raccoglie i suoi figli scendendo fra le loro case.
Piero Casentini è nato a Roma nel 1963, qui si è formato
artisticamente presso l’Accademia di Belle Arti. Poco più che
ventenne, realizza mostre personali a Colleferro, a Palermo
e a Valmontone e partecipa a collettive a Roma, Cannes e
Nizza. Vince il premio Sibelius dell’Accademia.
Tra il 1990 e il 1991 partecipa alle rassegne europee di Nantes
e Stoccolma. Già dal 1983 gli viene commissionata la prima “Ultima Cena” a Velletri. Qui comincia il suo ricco itinerario incentrato sulle tematiche agiografiche e bibliche con
particolare interesse per i temi del Vangelo. Realizza così
interessanti interventi in chiese ed edifici per le diocesi di
Albano, Frosinone, Viterbo e Rieti.
Nel 1991 affresca un intero ciclo di “Storie Francescane”
per il convento di Valmontone dove realizza anche una “Ultima
Cena” (1997), la famosa “Via Crucis francescana” (1996),
un ciclo antoniano, le “Nozze di Cana”, “Gesù nel Tempio
fra i Dottori” e la “Teoria di angeli” sul presbiterio (2005), nel
1999 realizza la tavola della Regina Pacis per l’omonima
parrocchia in Velletri. Pregevoli le “Ultime Cene ” dall’estetica zeffirelliana, segnate da una inesauribile ricerca di soluzioni teologiche innovative e coinvolgenti, come quella nel refettorio di Greccio
(1993) e nel Seminario di Albano.
Notevoli, inoltre, sono i cicli ad affresco e a tecnica mista su tavola dedicati a San Francesco. Da ricordare in proposito il “S. Francesco e la mensa dei poveri” di Greccio (1993), il “San Francesco penitente” di Poggio Bustone
(1998), le opere a S. Antonio al Monte vicino Rieti (1994), le vetrate per la
chiesa delle Clarisse ad Albano Laziale (1999),
il trittico col “Natale di Greccio” a Limiti di Greccio
(2004), l’imponente “Capitolo delle Stuoie” a S.
Maria degli Angeli - Assisi (2000) e la Personale
sul “Cantico delle Creature” di Assisi (2002) che
ha riscosso ampio consenso di pubblico e di critica decretandone la fama.
Piero Casentini nel 2005, accompagnato da p. Fabio
Berti e da p. Giulio Nardecchia della Provincia Romana
dei Frati Minori, è stato ospite della Custodia di
Terra Santa per studiare la possibilità di realizzare
opere a Gerusalemme e a Cafarnao, ed è stato
incaricato dalla Custodia di Terra Santa di realizzare
un’Ultima Cena per il refettorio conventuale di San
Salvatore in Gerusalemme. Recentemente (2007) la Conferenza Episcopale
Italiana gli ha commissionato alcune tavole ad illustrazione di passi evangelici per il nuovo Lezionario. Vive e lavora a Valmontone (Roma).
Aprile
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Sara
Calì
nche quest’anno i confratelli e il
Circolo P. Ginepro
Cocchi, per volontà dei suoi componenti e del
Presidente, l’arch.
Augusto Dolce,
vogliono ricordare
l’anniversario della
morte di P. Nicola
Cerasa (Rieti 15 aprile 1920 - Artena 1°
aprile 2012).
Il religioso, che parlava ben sette lingue e vantava, poco prima di morire,
76 anni di professione e 68 di sacerdozio, ha lasciato in chi lo conosceva
dei ricordi indelebili, legati alla sua forte personalità e alle tante azioni intraprese, tra le quali la fondazione del Circolo e l’istituzione di un Museo dedicati a Padre Ginepro Cocchi che l’aveva preceduto nella missione in Cina.
La biografia di P. Cerasa è molto complessa e se prende le mosse dagli
studi liceali svolti a Palestrina, si sposta subito a migliaia di chilometri di
distanza, fino ad arrivare a Shiachwangtse (Taiyuan), dove emette la professione solenne e compie gli studi di Teologia (Taiyuan-Shansi).
Ordinato sacerdote l’8 dicembre 1944, completa gli studi superiori presso
l’Università Cattolica di Pechino, dove frequenta anche la Facoltà di biologia e si laurea in Diritto Canonico presso la Pontificia Università “San Tommaso”
nel 1964. Il suo ruolo in Cina lo vede Procuratore della Diocesi di Taiyuan,
impegno che lo porta prima ad essere imprigionato per due anni dai Comunisti
cinesi e poi ad essere espulso dalla nazione. Tornato a Roma, esercita il
servizio presso il Segretario provinciale, poi diventa parroco e Difensore
del vincolo presso il Tribunale del Vicariato di Roma, e ancora insegnante di religione, Ministro provinciale della provincia di Roma, professore di
“Prassi pastorale” presso il Pontificio Ateneo Antonianum, poi Vicario e Procuratore
Generale dell’Ordine dei Frati Minori nel Capitolo generale di Madrid, Vice
Assistente Regionale dell’OFS e addetto nella Pontificia Commissione per
le Migrazioni e il Turismo, di nuovo Ministro provinciale.
Nel 1987, il suo arrivo ad Artena con l’incarico di guardiano e di Responsabile
del Centro profughi. In quello stesso anno ha la gioia di tornare nuovamente in Cina dove trova, purtroppo, rase al suole le vecchie chiese e una comunità cattolica in grandissima difficoltà.
Lo vogliamo ricordare anche quest’anno per la forza operosa della
sua fede che lo ha portato negli angoli più remoti del mondo a dare
aiuto a chi era in difficoltà e a diffondere la parola del Signore. Saranno
celebrate due Messe (ore 17:00) a lui dedicate, una il 1 aprile, giorno nel quale si svolgerà una visita alla sua tomba a Fontecolombo
e sarà possibile visitare il Museo e il Chiostro del Convento di Artena
e una venerdì 5 marzo animata dai ragazzi del coro di Genzano.
A
p. Salvatore Donadio
Ginepro beato, ce ne fossero tanti,
diceva SANTO FRANCESCO AI SUOI FRATI.
E noi, nei castelli romani, ne abbiamo uno,
donato alla Cina ma figlio di Artena.
Di lui parlano le nostre pietre,
una sull’altra a forma di croce.
La piazzetta pollarola, l’osteria,
le sassaiole, a monte a valle,
tra i borghigiani ed i capocotti,
in mezzo, un ragazzo di pace, un frate.
Che lascia pestilenze e ricordi di briganti,
e fa di Artena la patria di un SANTO.
Fosti trapiantato in una terra più arsa,
in una Cina abitata tra fame e violenze e malattie.
Donasti il tuo sangue e la rendesti feconda,
ora lì non hai più un monumento di pietra,
ma migliaia per te son diventati Cristiani.
Qui noi non abbiamo la tua tomba,
ma di te parlano i racconti paesani.
E’ la storia di chi diventa martire per amore.
Salva ancora dalla bestia umana, ogni fanciulla!
Le tue lettere al padre sono un desiderio eterno,
di far confessione e comunione nel mondo;
perché continua oggi la passatella da osteria.
Aprile
2014
30
Giovanni
Zicarelli
V
enerdì 7 marzo 2014, in
Colleferro (RM), si è celebrata la Solenne Benedizione
dei quindici pannelli raffiguranti le
Stazioni della Via Crucis, collocati
nella Parrocchia di San Bruno per la
quale sono stati espressamente realizzati. La cerimonia è stata presieduta da S.E. Mons. Vincenzo Apicella,
Vescovo della Diocesi Suburbicaria di VelletriSegni, coadiuvato dal parroco Don Augusto
Fagnani e dei diaconi Vito Cataldi e
Gabriele Ardente.
I pannelli sono in mosaico (cm 60 x 80),
realizzati dall’artista georgiano Pakuraze Amiran
nuovi arredi sacri e la tinteggiatura decorativa della Cappella feriale, la realizzazione
della grande statua lignea della Madonna
di Fatima, opera dell’artista valdostano Stefano
Arnodo, l’applicazione delle vetrate artistiche
agli infissi della navata e del Battistero ad
opera, come per gli arredi della Cappella,
IVa stazione Gesù incontra sua Madre.
XVa stazione Gesù risorge.
Ia stazione Gesù è condannato a morte.
della Domus Dei di Albano Laziale su bozzetti di Alessia Catallo; direttore artistico
Suor Agar Loche.
La Via Crucis conclude un ciclo di lavori
di decorazione ed ammodernamento della
chiesa fortemente voluti dal parroco e che
hanno visto, negli anni, la realizzazione dei
del Maestro Andrea Poli, la tinteggiatura dell’intera navata, la realizzazione della grande fonte battesimale nel Battistero, la
recente realizzazione del grande mosaico
parietale del Presbiterio nonché una serie
di innovazioni tecnologiche sugli impianti d’illuminazione e microfonico.
XIIa stazione Gesù muore in croce.
Aprile
2014
Francesca Proietti e Marta D’Emilio
V
ogliamo aprire l’articolo che segna la conclusione dei lavori della prima parte del progetto Impariamo i mestieri agricoli con un
pensiero molto particolare, una similitudine che dovrebbe far riflettere tutti quanti. È il contributo portato
da un corsista al termine del primo laboratorio dei
mestieri agricoli, il Corso base di Apicoltura:
«Nell’alveare c’è sempre lavoro e cibo per tutti. Ognuno
possiede una casa senza pagarci l’IMU. Le rare
dispute “politiche” vengono presto risolte; e se entro
dieci giorni la nuova regina non inizia a fare il suo
dovere, le operaie organizzano un bel “cappottone” e la fanno secca…semplicemente. …E fin qui…”le
api sì che hanno capito tutto!”...Peccato che l’alveare è anche una comunità in cui si vive in circa 100 mila, senza mai venire alle mani. Una società in cui non si uccide se non in casi “giustificati”;
e in cui la violenza sul “gentil sesso” non esiste.
L’informazione poi…completa ed efficace.Là, “fatta la regola”…resta la regola. “Inganno”, “incompetenza” e “negligenza” sono termini sconosciuti. Là, esistono nemici analoghi agli “Alien” dei film,
eppure si sopravvive. Ogni individuo, in casi di necessità, è spinto a dare la vita per chiunque altro. Ognuno
accaparra e consuma solo ciò che è strettamente necessario; e collabora con ogni mezzo per il
benessere proprio e collettivo, svolgendo le sue
varie mansioni in modo così solerte da arrivare perfino a morire di sfinimento. Ognuno fa la sua parte. Tutto qui. …Alla fine, forse, “faranno pure tutto per istinto“… Ma quand’anche fosse, questo ci
farebbe ancor meno onore; poiché ci fregiamo del
titolo di “Primati”, ma, nonostante la cosciente intelligenza, non siamo ancora riusciti a fare di
meglio».
Luca Taddei
Il primo Corso base di Apicoltura si è concluso con
grande soddisfazione da perte dell’organizzazione, dalle risposte date ai questionari di valutazione i corsisti si sono mostrati complessivamente mol-
31
to soddisfatti, dimostrando interesse e passione al mondo
delle api. Il corso, dal nostro
punto di vista, è stato un grande successo per un motivo
principale: il coinvolgimento. Abbiamo visto quanto sia
importante continuare a progettare interventi di questo
tipo, ma soprattutto abbiamo
avuto la dimostrazione che
il Signore è pronto a soddisfare ogni nostra richiesta mettendo sul nostro cammino tutto quello di cui abbiamo bisogno, la Provvidenza arriva dove
noi non possiamo arrivare.
Infatti tutto questo è stato possibile grazie alla collaborazione innazitutto della Caritas diocesana, dell’Azione
Cattolica diocesana e del Progetto Policoro diocesano, nonché della presenza e del sostegno della cooperativa Il Melograno (di Valmontone) e
dell’Associazione il Gelso Onlus.
Lungo questo cammino abbiamo poi incontrato la
preziosa partecipazione della professoressa
Giovanna Abbate (Università di Roma Sapienza),
del dottor Cesare Filiberti (Camera di Commercio
di Roma), del dottor Aldo Volpe (ASL RMG), della dottoressa Maria Eleonora Reitano (ASL RMH),
del dottor Raffaele Cirone (FAI) e del Movimento
lavoratori di Azione Cattolica Nazionale, ogni singolo contributo (a vario titolo e nelle diverse modalità, a seconda della propria competenza) è stato
d’importanza fondamentale.
In ultimo abbiamo lasciato il ringraziamento più grande, al dottor Mario Cecchetto va tutta la nostra stima, oltre ad essere un bravo apicoltore e buon insegnante è stato un maestro di vita. Tutti i corsisti
all’unanimità hanno riconosciuto la sua indiscussa passione con la quale ci ha trasmesso l’amore per il bene del creato e la cura della natura nella quale viviamo, che ci è stata data e che dovremmo imparare tutti quanti a tutelare di più. La perFrancesca Proietti
I
n questo primo articolo pubblichiamo la presentazione di un progetto molto particolare che riguarda la comunità di Velletri. Questi sono
gli ingredienti fondamentali: dei locali parrocchiali ristrutturati e adibiti all’attività per l’infanzia,
tre ragazze con tanti sogni, passione e determinazione, la caparbietà di due sacerdoti, l’impegno di alcuni preziosissimi collaboratori, l’accompagnamento di mani esperte (la Cooperativa
Sociale Il Melograno Onlus e l’Associazione Il Gelso
Onlus) e il desiderio di dare risposte concrete a
una realtà che chiede di essere ascoltata e guidata (l’equipe del Progetto Policoro).
Dall’incontro di tutte queste realtà nasce un idea
ambiziosa quanto promettente: l’Asilo Nido
Piccole Orme. Questo rappresenta il primo
gesto concreto (attività imprenditoriale) della Diocesi
di Velletri-Segni che punta ad investire nel futuro dei suoi giovani.
Questo il cammino percorso finora: la Parrocchia
di Santa Maria del Carmine (in Pratolungo, Velletri)
aveva nel suo progetto iniziale la volontà di realizzare come servizio al territorio, uno spazio dedicato ai più piccoli. Tale percorso iniziato con Don
sonalità di Mario e la sua totale devozione a quest’attività ci hanno insegnato due cose che desideriamo condividere con tutti voi. Mario ci ha mostrato la sua grande forza d’animo che è frutto di una
più grande umiltà: da Mario abbiamo capito prima
di tutto che per essere felici e per sentirsi realizzati, nella vita bisogna impegnarsi, bisogna mettere tutta la nostra passione in quello in cui crediamo. Il secondo grande insegnamento è la condivisione del sapere e del saper fare: condividere moltiplica il bene! (slogan della progettazione
sociale 2014 Mlac)
Aiutarsi scambievolmente e reciprocamente stimola lo sviluppo di competenze sia in chi dona che
in chi, apparentemente, riceve e l’unione di questa condivisione genera sapere nuovo che diventa patrimonio dell’intera comunità.
Per questo motivo siamo consapevoli che il cammino non è concluso, abbiamo altre attività da realizzare, (ricordiamo a tutti di manifestare il proprio
interesse per replicare il Corso base di Apicoltura
chiamando ai numeri 3285844442; 3406845924
o scrivendo all’indirizzo [email protected]).
Infine, ricordiamo che c’è tempo fino al 13 aprile
per presentare i disegni per il concorso “Un logo
per il miele”.
Cesare Chialastri ha trovato continuità con l’arrivo del nuovo parroco Don
Franco Diamante, che ha dato mandato all’associazione il Gelso Onlus (che
fa riferimento alla Caritas Diocesana) di realizzare un asilo nido. In particolare l’associazione il Gelso ha affidato alla cooperativa sociale il Melograno
lo start up di tale attività partendo dalla formazione delle persone coinvolte attraverso tirocini nelle proprie strutture.
La coop. Sociale il Melograno Onlus infatti, opera già dal 1999 nel territorio diocesano nel campo dei servizi ludico ricreativi, socio assistenziali ed educativi per minori, gestendo tra l’altro, scuole materne ed asili nido. Il Melograno,
inoltre è stato già coinvolto in altre iniziative promosse dal Progetto Policoro che ha seguito tutto il percorso svolto dai diversi soggetti, e ora
continuerà, sempre con la collaborazione degli
enti nominati, ad accompagnare le ragazze nelle ulteriori fasi di organizzazione dell’asilo nido.
Piccoli passi ... piccole orme
sogni che si realizzano
progetti che prendono forma
realtà che danno risposte
sogni che si avverano
persone che costruiscono il futuro...
non solo il loro!
Aprile
2014
32
Alessandro Ippoliti
N
el territorio di Montelanico, lungo il percorso dalla Valle del Rio
al Castrum Metellanici1, è sempre l’attività rurale caratterizzata da una economia del grano, dell’olio e del vino che si manifesta con importanti e significative testimonianze. Esse sono rappresentate
dai resti di impianti produttivi per l’olio e il vino, dal periodo romano al
medievale per concludersi nel XX secolo, differenziate solo dal periodo
storico a cui sono appartenute.
La produzione complessiva di questa economia superava di poco il fabbisogno interno e le eccedenze erano scambiate con prodotti artigianali
di uso quotidiano. Il vino prodotto, in modo particolare il bianco, lo abbiamo chiamato vino da dialogo perché favoriva una spontanea disponibilità al parlare e ascoltare, almeno fino al secondo litro, oltre, la stanchezza di un duro lavoro nei campi richiamava il sonno.
Il vino bianco da dialogo non ubriacava, assopiva, non istigava alla rissa ma metteva buon umore; a conferirgli questa straordinaria caratteristica, oltre alla indiscussa genuinità, era la gradazione alcolica di circa
10÷11 gradi. Il periodo d’oro di questa produzione vinicola ha inizio con
l’affermarsi della Rivoluzione Agricola del XVIII secolo e termina con il
“Miracolo economico italiano” dei primi anni sessanta del XX secolo.
La serata per i contadini di Montelanico era molto importante e veniva
trascorsa nei vicoli e nelle apposite piazzette, nate all’interno del borgo medievale, proprio per favorire la socializzazione e quindi i rapporti
di buon vicinato. Queste umili persone, dopo essersi scambiate opinioni, esperienze e tutto ciò che suggerisce il valore inestimabile della solidarietà, per effetto del vino ognuno rientrava nella propria casa con evidente soddisfazione; dopo pochi minuti calava il silenzio e successivamente iniziava un russare incontrollato del quale erano testimoni solo
le pazienti ed equilibrate mogli, per le quali il fenomeno dava loro tran-
quillità e certezza, la certezza che il loro compagno
di vita dedicava alle, purtroppo, predazioni notturne, la sola causa che turbava la pacifica convivenza della comunità.
Questo aspetto di vita rurale ci proviene da una testimonianza orale, vecchia di almeno due secoli. Con
la memoria di chi scrive, e i ricordi di anziani contadini è stato possibile stilare due elenchi, uno relativo alle uve più in uso per il vino bianco da dialogo e il nero da cerimonia, e l’altro per le olive da
olio. I due elenchi non tengono conto delle varietà
di vitigni e ulivi introdotti dopo gli anni cinquanta.
Uve: (bianche)- pampanara, cinciara (forse l’unciara romana), zinnavacca, cacchione, panse precoce, moscato di terracina; (rosse)- restone (forse olivella nera), aleatico, moscatello, magliocco, lacrima
christi.
Veniva raccolta, inoltre, un’uva bianca ritenuta selvatica dai grappoli così grandi, circa 60 cm, da valere la pena di arrampicarsi all’albero che la sosteneva2. Olive: cicerone, morella, livella (forse la olivetta catalogata da Giovanni Presta), rosciola
(resciola o sergia).
L’uvaggio del vino da dialogo si componeva di, pampanara, cinciara, zinnavacca, cacchione, panse precoce. Per il nero da
cerimonia si utilizzavano tutte le uve rosse con l’aggiunta di una minima parte di moscato di terracina, che gli conferiva un particolare profumo. Il nero da cerimonia veniva prodotto per essere bevuto solo in particolari circostanze: cresime, comunioni, matrimoni.
I vitigni del rosso rispetto al bianco erano in ragione di uno a dieci, pertanto occorrevano più annate per fare una scorta di cinquanta cento litri.
L’olio, questo prezioso condimento, era verde e profumato, la quantità
pro capite era modesta, ma orgogliosamente si faceva notare che era
stato estratto principalmente da olive ciceroni.
Questa varietà di oliva, come mostra la foto, si avvicina moltissimo alla
pasola tonda e che, cicerone, il nome che si è perpetuato fino ai nostri
giorni, altro non è che l’antroponimo del giurista romano Marco Tullio
Cicerone, come la licinia di puglia prende il nome da Sesto Licinio Prisco
(a Venafro sostiene Giovanni Presta viene chiamata aurina).
Il bilanciere della laboriosa vita degli uomini, naturalmente, erano le donne dalle quali dipendeva l’economia domestica della casa, e prima della diffusione dei mulini alimentati ad energia elettrica, alle donne spettava anche la molitura dei cereali per ricavarne farina. Ma anche loro
avevano il loro momento di svago, questo avveniva nel pomeriggio, quando di solito si lavorava a maglia. Si faceva ogni genere di indumento,
ma non era considerato lavoro, bensì un passatempo che dava l’occasione per un garbato e sano chiacchiericcio.
Questo spaccato di vita vissuta non è altro che un fotogramma che appartiene ad un percorso più ampio e articolato, le immagini inserite in questo contesto sono una panoramica dei mezzi d’opera che scandiscono
il periodo a cui facciamo riferimento. Essi sono stati rinvenuti nei territori che nel medioevo furono del castello di Montelongo e del castello di Montelanico. L’economia del castello di Collemezzo fu prevalentemente silvo-pastorale.
1
Vedi:
wwwippolitialessandro.it
2
L’uva descritta è stata raccolta in località Colle Moschitto
fino agli anni 60 del secolo scorso, potrebbe trattarsi di una
sopravvivenza della famosa
“tripedania”.
Nelle vicinanze è stato rinvenuto
un pozzetto intonacato, sicuramente un palmento, selvaggiamente spicconato.
Aprile
2014
33
Edoardo Baietti
L
’amore per le meraviglie dell’arte, connaturato all’uomo, può e deve essere
alimentato fin dalla tenera età, ed è proprio dai bambini, con la purezza e la spensieratezza che li contraddistingue, che si ritrova
in tutto il suo splendore la vera e propria esegesi dello spirito artistico.
Sono molto giovani i veri protagonisti di questo articolo: circa cento bambini del territorio
hanno avuto l’opportunità di vivere in prima persona il Museo Diocesano di Velletri, grazie ad
un’iniziativa nata di concerto tra la struttura museale e la scuola “G. Marcelli”, con la grande disponibilità del dirigente scolastico dott.ssa
Antonella Isopi e delle insegnanti che hanno accompagnato gli alunni durante le visite: Gisella Menta,
Rita Arcovio, Maria Grazia Catese, Cinzia Di Silvio,
Laura Alessi e Giovanna Pettinelli. Sei incontri della durata di un’ora, con classi di IV e V
elementare.
Il progetto didattico è stato organizzato dai volontari in servizio del museo, che si sono districati
in un percorso naturalmente preceduto da relazioni nella scuola, propedeutiche alla visita in
loco, con lo scopo di destare curiosità e interesse. Dal 6 febbraio all’11 marzo il periodo delle operazioni, con visita guidata e lezione gratuite - unica necessità il biglietto d’ingresso, ridotto per i bambini. Una full immersion nell’universo
museale, con una particolare attenzione per:
la Stauroteca detta Crux Veliterna,ambito
palermitano, prima metà del XII secolo; per il
Busto Reliquiario di San Clemente I (1632-39)
di Giuliano Finelli e per la tavola del Trasporto
della Santa Casa di Loreto, di G. B. Rositi del
1500.
Una nota di encomio per gli alunni, che hanno
soddisfatto le aspettative delle insegnanti partecipando attivamente con riflessioni e domande. Il percorso, partendo naturalmente dalle opere esposte, ha spaziato tra i vari ambiti del sapere, toccando anche elementi di simbologia cristiana e di storia dell’arte. Non è mancata una
parentesi sulla struttura del museo, atta a preservare la sicurezza, e sul ruolo della guida.
I volontari, durante le visite, hanno rigorosamente evitato l’utilizzo di tecnicismi o terminologie
complesse, preferendo ad una
consueta sfilza di nozioni una
modalità di espressione lineare e fluida. La speranza nutrita dagli organizzatori è chiaramente quella di riprendere questo progetto e portarlo avanti.
Quando osservi qualcosa di speciale, un’opera particolare che
colpisce dritto al cuore, la tua
vita cambia. Non stiamo parlando, nella maggior parte dei casi, di una mutazione radicale, ma il cambiamento avviene, eccome. E quando nel futuro, anche uno solo di questi piccoli avventurieri dell’Arte, ormai ventenne, si rifiuterà di
aggregarsi agli amici che magari una
sera, per noia o disagio esistenziale,
avranno voglia di
divertirsi nel rovinare
opere storico-artistiche in giro per
l’Italia, e magari
proverà a illuminare questi coetanei con il raggio della cultura, la Diocesi
potrà affermare di
aver vinto, avendo contribuito a collegare il fil
rouge tra le generazioni. Questi, dunque, tutti gli elementi della “Dimora” Museale Diocesana.
Proprio il vocabolo sinonimo di abitazione dovrebbe essere ben chiaro nelle menti dei giovani:
l’Arte immortale che sopravvive all’artista, e contamina i popoli come un’epidemia dalle ineffabili sfaccettature, in questa nostra realtà così
tecnologica da cui consegue un sentimento ambivalente, di tensione verso i prodigi della
modernità da un lato e di repulsione nei con-
fronti degli stessi dall’altro, dovrebbe darci la
possibilità di fermarci per un attimo e riflettere, avendo come faro proprio i Musei, abitazioni
sacre dell’Arte e, quindi, di tutti noi.
Aprile
2014
34
Francesco Giulio Farachi
L
a Cattedrale di Velletri è insieme monumento e centro vitale di cristianità, è quindi un ambito complesso di stratificazioni storiche, culturali e artistiche in dialogo costante con il presente dell’uomo, con la sua dimensione naturale e con quella mistica e religiosa.
Le vetrate istoriate che all’interno della basilica veliterna rifrangono la luce in toni e lame di
colore non sono un semplice elemento di decorazione, né la loro funzione è ovviamente solo
quella di creare una suggestione percettiva.
Poste in due distinte serie, una ad aprire il fondo absidale del tempio, l’altra a correre lungo
la sommità dei lati lunghi della navata centrale
(il cosiddetto cleristorio), e realizzate nel decennio fra il 1956 e il 1966, sono opera insigne di
uno dei maggiori artisti della vetrata della contemporaneità, János (Giovanni) Hajnal.
L’artista ungherese ha svolto qui in Italia una lunghissima carriera e le sue realizzazioni ingemmano la solennità di edifici religiosi in tutto il mondo. A questo artista, alla sua eclettica personalità
creativa, e alla Cattedrale di Velletri è dedicato il libro che Claudia Zaccagnini ha pubblicato per i tipi di Pacini Editore.
Al lavoro della studiosa bisogna dunque già riconoscere questo primo merito, quello di mettere sotto i riflettori, sia dell’analisi storico-artistica e critica, ma anche del sapere e dell’attenzione generali, la figura umana e artistica di questo maestro e la sua opera. Inoltre solo la capacità della ricercatrice di cucire gli avvenimenti,
a volte incongrui o vagamente coincidenti, con
i dati di fatto e gli atti, la tenacia nel rintracciare i documenti custoditi negli archivi ecclesiastici e dei fornitori d’opera, o gli eventi nella memoria dei protagonisti, sono stati gli elementi fondanti di uno studio volto a ricostruire il panorama complessivo in cui la vicenda del maestro
vetratista si è svolta e ha prodotto i suoi esiti.
Il secondo merito di questo libro è dunque proprio quello di fornire una visione d’insieme che
per la prima volta ha collegato il percorso arti-
stico di Hajnal con scorci di realtà, con circostanze storiche e private, con gli incontri e le
presenze, financo le idealità e gli intenti che l’hanno accompagnato e segnato.
Dagli anni in Ungheria, terra natale e di formazione
artistica, agli intermezzi di studio nei principali centri d’arte d’Europa, alla difficile stagione della supremazia sovietica in Ungheria, fino al momento del volontario esilio nel 1948 in Italia, e da
qui, al fiorire di una vocazione artistica sempre
più consapevole e riconosciuta, il saggio della
Zaccagnini ripercorre le tappe salienti della vita
di János Hajnal e ne fa emergere le relazioni
con i fermenti artistici e culturali che hanno orientato e vivificato i decenni del secolo scorso; e,
come si diceva prima, sullo sfondo degli avvenimenti storici e dei mutamenti sociali (alcuni
terribili: dittature e due guerre mondiali, la frattura dell’occidente in blocchi d’influenza, etc.),
in cui via via prende corpo anche la definizione del ruolo della Chiesa in quei contesti, e l’attività da essa prodotta nella promozione delle
Arti quale strumento per la edificazione umana, morale e religiosa delle società.
Hajnal, pittore che si “inventa” vetratista, lega
il suo nome così all’opera della Chiesa cattolica, fa della sua arte un mezzo per la diffusione del messaggio divino, un tramite di comunione e di relazione con il mistero del sacro.
Per comprender appieno le vetrate di Velletri,
e tutte le altre del maestro magiaro, la
Zaccagnini dunque soprattutto sottolinea la valenza spirituale e ideale che Hajnal ha sempre cercato e infuso nel suo lavoro.
La trattazione riesce a tenere la dirittura di questo timone e nell’esaminare ogni singola realizzazione, nel riportarne le fonti agiografiche e
iconografiche, nel descriverne puntualmente i
procedimenti ideativi ed esecutivi, mette in risalto come questa complessità operativa nel lavoro di Hajnal fosse funzionale a rendere nel modo
più diretto e comprensibile un’interpretazione intima e ragionata dell’immagine o del racconto sacri.
L’analisi critica svolta nel libro segue distintamente l’evoluzione della visione artistica di Hajnal,
ne coglie i rimandi e le derivazioni, fa accuratamente intendere come l’eminenza della sua
opera stia nella fusione originale e personalissima di una tradizione sempre osservata e presente con la modernità nello sviluppo della forma e nell’utilizzo delle cromie, stia nell’intento
di rendere attuale e vivido, accessibile e partecipativo, il rapporto fra l’osservatore e l’immagine,
e le allegorie, e i significati.
Sembra quasi ovvio, nel parlare di vetrate, dire
che la principale materia di lavoro sia la luce;
ma per Hajnal, quella luce diventa il simbolo concreto della presenza divina che modula toni e
dà forma, diventa manifestazione e intermediaria
di comunicazione fra la divina essenza e la realtà del mondo.
János Hajnal ha vissuto lungamente, era nato
a Budapest nel 1913 ed è venuto a mancare a
Roma nel 2010, intensamente ha incarnato in
oltre cinquant’anni d’attività vetraria un’esperienza
concreta e al tempo stesso spirituale dell’Arte,
e attraverso i suoi colori altamente emotivi, il suo
disegno espressionista così teso a rendere stati d’animo ed energie interiori, attraverso le sue
composizioni risolte nell’impatto immediato sui
sensi e l’impressione visiva, ha reso percepibile
la vicinanza del soprannaturale alla dimensione umana.
Questo libro, uscito altresì per celebrare il centenario dalla nascita dell’artista, fornisce al lettore, grazie anche alla scrittura rigorosa ed essenziale, al tempo stesso agile e piacevole, dell’autrice,
un prezioso contributo di conoscenza e uno sguardo approfondito e appassionato sull’identità espressiva di Hajnal, di cui l’opera vetraria nella Cattedrale
di Velletri è un’attestazione fra le più complete
e coinvolgenti.
Claudia Zaccagnini,
Giovanni Hajnal, Vetratista nella cattedrale di Velletri,
Pisa, Pacini Editore 2013, pgg. 167.
Aprile
2014
Costantino Coros
F
orza, tenerezza, delicatezza, ideali di cambiamento, vicinanza alla
terra d’origine e alle proprie tradizioni.
Sono i sentimenti che vengono fuori leggendo le intense pagine di “Brussel.
Bruxelles. 1968”, la seconda prova d’autore di John Corago. E’ un romanzo storico e di formazione, ambientato nei turbolenti mesi del ’68; un anno, dopo il quale,
nulla sarà più come prima nella società occidentale.
Un’autentica rivoluzione che l’autore racconta attraverso la storia d’amore fra due
ragazzi: Nico, arrivato dal paesino di
Letojanni in Sicilia a Bruges in Belgio per
studiare giurisprudenza e Karin, colta
ragazza viennese. Sullo sfondo la figura
del padre di Nico, Carmelo, un uomo di sani
principi, tutto d’un pezzo, come si sarebbe detto un tempo, emigrato in Belgio per
lavorare nelle miniere.
Il suo riscatto sociale sarà l’esser riuscito,
dopo tanti sacrifici, a far arrivare suo figlio
a Bruges, per studiare e non per lavorare
in miniera.
Nico, vive con impeto e passione il susseguirsi
frenetico degli eventi in quel fatidico ’68.
Si fa trascinare dai suoi compagni nelle assemblee studentesche e nelle manifestazioni
di piazza, tutti uniti dall’ideale di voler cambiare il mondo in meglio.
In questo clima febbrile avviene l’incontro tra i due giovani, appartenenti a due mondi lontani, ma proprio questa apparente distanza
li mette a confronto, li sollecita a dialogare e ad accogliersi l’uno con l’altra. In uno dei tanti coinvolgenti dialoghi che scandiscono il ritmo del romanzo Karin,
mette in chiaro che cosa vuol dire per lei amare.
La ragazza dice a Nico che: “per me amare è una
cosa seria. Non voglio prendere le distanze dalle difficoltà. Se l’amore è un darsi totale è anche il completo rispetto di chi ci si dona” […]
“Voglio dire, anche se ti sembrerò all’antica, che voglio
che tra noi ci sia sempre una certa delicatezza, quel
senso di reciproca ammirazione che rende sempre
tutto sorprendente e bello. Il piacere da solo non lega
e, prima o poi, stanca” […]
“Per me l’amore, è un sentimento senza tempo e quindi incapace di rincorrere mode”. Nico risponde che
si sente frastornato perché non avrebbe mai immaginato di innamorarsi di lei: “il tuo modo di pensare
non è il mio, eppure mi piaci. Forse è proprio vero
che l’amore è cieco”.
In un altro passo del romanzo, il dialogo con un sacerdote apre a Nico una nuova visione rispetto ai tanti
interrogativi che si pone di fronte agli sconvolgimenti
che la società sta vivendo. Padre Van Gestel, si rivolge al giovane raccontandogli che una volta aveva incontrato una donna di grande spiritualità, la quale parlandogli del brano del Vangelo dei Re Magi, disse:
“I Magi chiesero ‘Dov’è il Re dei Giudei?’, ma lo chiesero dopo un lungo cammino e pronti a proseguirlo.
Il loro non era un interrogativo da seduti.
Era gente pronta a muoversi per trovare. Noi - mi pare
di ricordare le sue parole - abbiamo, spesso, una fede
35
piena d’interrogativi, ma da fermi, cioè senza aver lasciato per
trovare e senza camminare per
arrivare”, sai che vuol dire?
- Forse.
- “Che non siamo disposti a sacrificare niente per cercare”.
Due brevi brani, che indicano
il forte carattere formativo del
romanzo.
Infatti, l’autore, utilizzando i dialoghi va nel profondo degli animi e invita il lettore a riflettere
su temi importanti, come il rispetto reciproco nell’amore e la ricerca di una Fede autentica.
Un romanzo che attraverso il
racconto delle vite dei protagonisti
si pone come strumento educativo per il lettore che desidera
confrontarsi con l’attualità di una
storia ancora in divenire, che poi
è quella dell’umanità.
Autore: John Corago
Casa Editrice: Edizioni Cantagalli
Anno: 2013
Pagine: 408
John Corago è docente universitario.
Ha pubblicato oltre a libri di tematiche storiche e filosofico-politiche tradotti in inglese e spagnolo, anche
vari scritti letterari tra i quali racconti in diverse antologie e il romanzo
Dar vita a una vita.
Aprile
2014
36
Antonio Venditti
L
’educazione sentimentale s’impone come un’impellente necessità del nostro tempo, innanzitutto nella famiglia, per essere
continuata e potenziata nella scuola e negli altri ambiti educativi, come la parrocchia, divenendo poi una costante nella società: come
educazione permanente, che dura per tutta la vita, con l’esigenza, per
gli adulti, di trasmetterla alle nuove generazioni.
Nella famiglia, deve essere inculcato, fin dalla prima infanzia, il rispetto tra i due sessi, assolutamente paritari, non a parole, ma con l’esempio
che emana dal rapporto tra i genitori, madre e padre che irradiano ai
figli l’amore da essi limpidamente vissuto, come primo elemento della
loro educazione. A scuola, comunità più ampia (spesso caricata di un
onere di “supplenza”, laddove la famiglia di fatto non esiste o non ha
operato in tal senso), l’obiettivo che, già nel gioco, i primi docenti devono perseguire, è quello del rispetto e dell’accettazione reciproca tra i
piccoli alunni, facendo in modo che, maschi e femmine, intrattengano tra di loro relazioni virtuose, come bravi fratelli e sorelle.
La crescita, lungo l’arco evolutivo, continua sullo stesso binario, affrontando con limpidezza e serenità le varie fasi, nell’insorgere dei diversi
problemi; l’atteggiamento dei docenti è di facilitazione e di aiuto senza
limiti, diretto ad ognuno e ad ognuna, negli itinerari personalizzati, con
pazienza, fiducia e tolleranza di tutte le debolezze, nello stato di fragilità dei discenti, con una sola intransigenza nei confronti delle manifestazioni di violenza, sempre intollerabili, da prevenire e da reprimere,
finalizzando, però, le punizioni al superamento del cattivo comportamento,
offensivo nei confronti dell’altra persona, per il raggiungimento della necessaria condotta virtuosa.
L’educazione dei sentimenti è lunga e complessa e mai come ora deve
essere percepita e praticata, per depurare le condotte sociali dalle evidenti deviazioni. Si è parlato tanto della necessità della “educazione sessuale” nella scuola, con opposte concezioni e remore, da parte di chi
temeva l’influenza di ideologie contrarie alle concezioni familiari.
Prima ancora, anche per superare tali laceranti contrasti, si sarebbe dovuto parlare proprio della necessità della “educazione sentimentale”, che
assume una valenza più ampia e ne pone comunque le basi, partendo
da elementi portanti e costitutivi della persona nella sua integralità.
Si deve rendere chiara la distinzione tra le differenti tipologie dei sentimenti, per fare in modo che si acquisiscano le giuste diversità comportamentali, adeguate alle età e parallelamente alla maturazione progressiva della personalità.
Ad esempio, se la famiglia è cementata dall’affetto che, nella giusta gradazione dell’intensità, lega figli/e ai genitori ed a tutto il parentado, nella scuola il legame è propriamente di compartecipazione alla comunità educativa, che si determina strettamente nella classe e si allarga all’intera istituzione comune.
E’ sostanzialmente una forma particolare di amicizia, che deve legare
gli alunni tra loro, senza esclusione per le amicizie esterne. Si è giustamente imposta la forma di classe “mista”, cioè gruppo equilibrato di
maschi e femmine, proprio per favorire la conoscenza ed il rispetto reciproco, senza alcuna forma di prevaricazione e per evitare alcune “morbosità” che le classi “separate” provocavano.
L’amore, certamente, non è un tabù a scuola, ma anzi l’educazione sentimentale deve tendere a rendere i giovani capaci di viverlo e di esprimerlo nella giusta profondità, senza restringerlo al sesso, che, anzi, se
avulso dal sentimento, è poca cosa e fonte delle degenerazioni, che i
fatti di cronaca evidenziano. Sviluppando adeguati contenuti, nel dialogo educativo, si devono portare gli alunni - nei vari gradi d’istruzione
- a maturare la giusta concezione dell’amore, come donazione reciproca
che si manifesta sempre nella delicatezza dei gesti, delle parole, dei
comportamenti, pur nelle immancabili prove della vita.
La società deve fare la sua parte in questo processo educativo, che,
non ristretto soltanto alla scuola, deve coinvolgere - abbiamo già detto - tutte le persone e tutti gli ambienti.
Parlare tanto di emancipazione femminile, di parità dei sessi, di rispetto reciproco e di assoluto rifiuto di ogni forma di prevaricazione e di violenza, è poca cosa e di nessuna efficacia, se non si impongono applicazioni concrete di tali principi, ad esempio, non continuando a fare della donna un “oggetto” nella pubblicità, ed offrendo nei fatti - e non soltanto a parole - quelle garanzie di tutela effettiva, in ogni luogo, con volontà vera di sradicamento delle forme di prevaricazione e di violenza maschilistiche.
Aprile
2014
37
Bollettino diocesano:
Prot. VSC A 06/ 2014
ATTESTAZIONE DI ACCOGLIENZA IN DIOCESI
E DECRETO DI NOMINA A RETTORE DELLA CHIESA DEL GESU’ IN SEGNI
Visto l’indulto di esclaustrazione per un triennio emesso dal P. Eugenio Pozzoli icms Ministro Generale dell’Istituto Servi del Cuore
Immacolato di Maria (prot. N. Mg/IN/13/135 in data 09.12.2013),
Ti accolgo in Diocesi fino al 10.12.2016 affinché tu possa proseguire il tuo discernimento vocazionale.
Per la facoltà datami dal can. n° 557 del Codice di Diritto Canonico, in sostituzione del rev.do Marchetti Don Fabrizio, con il presente decreto
che ha effetto immediato,
nomino te Rev.do BOER p. Giovanni icms
nato ad Aviano (Pd) il 28.08.1965 Ord. il 28.12.1991 a Subiaco
Rettore della Chiesa del Gesù della Parrocchia di S. Maria Assunta in Segni.
Nell’attuare quanto richiesto dal Codice di Diritto Canonico in sintonia con il Parroco, ti assista la mia personale fiducia.
Velletri, 27.02.2014.
+ Vincenzo Apicella, vescovo
—————————————————————————————
Prot. VSC/ 10/2014
Visto il Nostro decreto del 21-02-1987 con il quale è stato eretto in persona giuridica canonica pubblica l’Istituto per il Sostentamento del
Clero della Diocesi di Velletri/ Segni con sede in Velletri, ente ecclesiastico civilmente riconosciuto con decreto del Ministro dell’interno n. 285
in data 23-04-1987 pubblicato nel S.O. alla Gazzetta Ufficiale del 11-05-1987, iscritto nel registro delle persone giuridiche tenuto dalla
Prefettura-Ufficio Territoriale del Governo di Roma in data 22-09-1987 al n. 1187/8;
la 65a Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana, riunitasi a Roma dal 20 al 24 maggio 2013, ha approvato, con apposita delibera, due modifiche degli “statuti- tipo” degli Istituti Diocesani e Interdiocesani per il Sostentamento del Clero, riguardanti precisamente gli artt.
11, lettera b9, e 19 dei predetti statuti-tipo.
Considerato che l’Istituto per il Sostentamento del Clero della Diocesi di Velletri/Segni è retto dallo Statuto allegato al Nostro decreto del
07.03.2011 prot. N. VSC 08/2011;
Tenuto conto che l’Intesa tecnica interpretativa ed esecutiva all’Accordo modificativo del Concordato Lateranense del 18 febbraio 1984 e del
successivo Protocollo del 15 novembre 1984, entrata in vigore il 30 aprile 1997 (pubblicata sul S.O. n. 210 alla Gazzetta Ufficiale n. 241 del
15.10.1997), ha precisato che le modifiche statutarie non comportanti mutamenti sostanziali di cui all’art. 19 della Legge 20.5.1985, n. 222
non necessitano di approvazione ministeriale, ma solo dell’autorità competente nell’ordinamento canonico e hanno immediata efficacia civile,
una volta iscritte nel registro delle persone giuridiche,
decretiamo è così modificato
lo Statuto dell’Istituto per il Sostentamento del Clero della Diocesi di Velletri-Segni così
1 la lettera b) dell’articolo 11 è integrata nel modo seguente:
“b) Per quanto riguarda le alienazioni e gli atti pregiudizievoli del patrimonio previsti dal can. 1295 Cjc di valore superiore alla somma minima
stabilita dalla delibera CEI n° 20 occorre acquisire il parere previo dell’ICSC ”.
Lo statuto integrato con le predette modifiche è allegato al presente decreto.
Velletri lì, 07.03.2014
—————————————————————————————
Prot. VSCA 11/2014
+ Vincenzo Apicella, vescovo
DECRETO DI NOMINA DEL PRESIDENTE DIOCESANO DELL’AZIONE CATTOLICA ITALIANA
Accogliendo le indicazioni espresse dall’Assemblea diocesana dell’Azione Cattolica, ben conoscendo la sua esperienza nella vita
dell’associazione e, soprattutto, la sua disponibilità che scaturisce da una fede matura e responsabile, in conformità allo Statuto associativo,
con il presente decreto
Nomino Dr. Costantino Coros
Presidente Diocesano dell’Azione Cattolica Italiana per il Triennio 2014/2016.
Nell’infondere nuovo vigore alla prima delle associazioni laicali, che tanto a cuore sta alla nostra Chiesa Locale, la assista lo sguardo materno
di Maria SS.ma Immacolata e la benedizione del Signore Risorto.
Velletri, 17.03.2014
Il cancelliere vescovile
Mons. Angelo Mancini
+ Vincenzo Apicella, vescovo
Aprile
2014
38
Beato Angelico,
Le donne al sepolcro, 1440-1442,
Convento di San Marco, Firenze
don Marco Nemesi*
G
iovanni da Fiesole, al secolo
Guido di Pietro, detto il Beato Angelico
o Fra’ Angelico, fu protagonista di
quell’irripetibile stagione artistica che, sotto il
patronato dei Medici, ebbe il culmine nel 1439
con il Concilio di Firenze e che vide grandi opere pubbliche tra cui lo stesso convento di San
Marco.
L’intervento decorativo a San Marco fu deciso
con l’assistenza di Michelozzo, che lasciò ampie
pareti bianche da decorare, e fu un lavoro organico, che interessò tutti gli ambienti pubblici e
privati del cenobio: dalla chiesa (la pala di San
Marco sull’altare maggiore) al chiostro (quattro lunette e una Crocifissione), dal refettorio
(Crocifissione distrutta nel 1554) alla sala capitolare (Crocifissione con i santi), dai corridoi
(Annunciazione, Crocifissione con san Domenico
e Madonna delle Ombre) fino alle singole celle. Alla fine il risultato fu la più estesa decorazione pittorica mai immaginata fino ad allora per
un convento.
La decorazione prevedeva in ogni cella dei frati un affresco con un episodio tratto dal Nuovo
Testamento o una Crocifissione dove la presenza
di san Domenico indicava ai frati l’esempio da
seguire e le virtù da coltivare (prostrazione, compassione, preghiera, meditazione, ecc.).
Molto si è scritto circa l’autografia dell’Angelico
per un complesso di decorazioni di così ampia
portata, realizzato in tempi relativamente bre-
vi. Gli affreschi del piano terra vengono concordamente attribuiti all’Angelico, in toto o in
parte.
Più incerta e discussa è l’attribuzione dei quarantatre affreschi delle celle e dei tre dei corridoio del primo piano.
Gli affreschi di San Marco non furono solo una
pietra miliare dell’arte rinascimentale, ma sono
anche i più famosi ed amati del Beato Angelico.
La loro forza deriva, almeno in parte, dall’assoluta armonia e semplicità, che consente di
superare lo scopo immediato per il quale furono dipinti, e cioè quello della devota contemplazione fornendo spunti appropriati alla meditazione religiosa. Gli affreschi segnarono così
una nuova fase dell’arte dell’Angelico, caratterizzata
da una parsimonia nelle composizioni e da un
rigore formale mai usati prima, frutto della raggiunta maturità espressiva dell’artista.
Le figure sono poche e nitide, gli sfondi deserti oppure composti da architetture chiare inondate di luce e spazio, arrivando a toccare vertici di trascendenza. Le figure appaiono semplificate e alleggerite, la cromia più tenue e spenta. In tali contesti la forte plasticità di forma e
colore, derivata da Masaccio, crea per contrasto
un senso di viva astrazione.
Spesso nelle scene compaiono santi domenicani come testimoni, che attualizzavano l’epi-
sodio sacro inserendolo nella gamma dei principi dell’Ordine.
Insieme a San Domenico in adorazione, al bordo sinistro dell’affresco, ritratto in un momento di magica estasi della preghiera, come rivela il suo sguardo, siamo introdotti nel mistero
da contemplare: l’alba della domenica di
Resurrezione, raffigurato nella cella n. 8.
L’evangelista Marco ci elenca, come prime depositarie dell’annuncio della Resurrezione di
Gesù: “Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo
e Salome “ (Mc 16,1-7), che vengono al sepolcro dopo aver comprato “oli aromatici“ per terminare l’unzione del corpo di Gesù. L’evangelista
Luca, invece, al posto di Salome nomina Giovanna
(Lc 24,1-10).
Secondo alcuni studiosi, qui è presente anche
la Vergine Maria, riconoscibile dalla stella sulla sua testa, forse in memoria della stella del
profeta Balaam. In ogni caso, il conto torna, perché le donne presenti sono quattro, invece delle tre nominate da ciascuno degli evangelisti.
In un’unica rappresentazione si legge il momento dell’arrivo al sepolcro con gli olii profumati
in mano, quello della scoperta del sepolcro vuoto e quello dell’apparizione dell’Angelo e del suo
messaggio rincuorante:
«Entrando nel sepolcro, videro un giovane seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca, ed
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Aprile
2014
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ebbero paura. Ma egli disse loro:”Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il Crocifisso.
È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano deposto”»(Mc. 16, 5-7).
L’iconografia delle donne un po’ impaurite e raccolte tra loro in un unico gruppo ricalca quella
più antica, tradizionale, risalente alle antiche icone bizantine, mentre il particolare - splendido,
efficacissimo - di Maria Maddalena, rappresentata
nell’atto di guardare all’interno della tomba vuota, facendosi schermo con la mano destra, mentre la sinistra si appoggia all’orlo del sepolcro,
in uno scorcio bellissimo, di grande intensità,
è cosa propria dell’Angelico, una sua singolarissima ideazione, quasi a voler sottolineare che
“la novità di Dio è inimmaginabile“ poiché “vicino alla tomba vuota, che rappresenta tutto ciò
verso cui noi possiamo andare, c’è l’angelo del
Signore, che raddrizza la nostra corsa e c’indirizza verso i luoghi dove il Signore si manifesta“ (F. Rossi de Gasperis).
Alle spalle di Maria di Magdala e delle altre donne, che ne constatano l’assenza, risalta - nel
buio del sepolcro - una mandorla di Luce, la
“mandorla dell’infinito“, secondo un’antichissima iconografia, che incastona Gesù Risorto vestito di bianco, raffigurato nell’atto di reggere il velabro della vittoria, la bandiera cioè della sua vittoria sulla morte e la palma del martirio, nell’una e nell’altra mano. Dello stesso colore bianco venato di rosa - come i colori dell’Aurora l’esterno del sepolcro, su cui siede - serio e bellissimo - l’Angelo annunziante.
Affresco di rara intensità questo delle Marie al
sepolcro, soprattutto per il particolare di Maria
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di Magdala, che si china quasi incredula a guardare all’interno della tomba vuota, verificando l’assenza del corpo di
Gesù. Ed il suo volto serio e
d’intensità sgomenta esprime
il cordoglio di questa perdita.
Lei non s’accorge, infatti, che
là dove la notte le appare più
fonda, là dove le sembra di aver
smarrito il senso di un percorso
- anche quello più luminoso,
di fede - proprio là si staglia
lo splendore della vittoria di Gesù
sul male e sulla morte.
Come se quell’amore fosse capace d’imporsi e di dire: “Io sono”.
Come se quell’amore relativizzasse gli episodi nella loro
successione, per ripetere nella certezza del suo “oggi” e del
suo “ora” che Lui c’è.
Tutta la passione resta infatti sullo sfondo di una volontà
di amore ben più grande, ben
più reale, di un amore vittorioso proprio nel suo
essere vincente.
Questo antro che
accoglie il sepolcro
di Gesù è già un
luogo di grazia:
qui la regalità del
Signore si manifesta
in tutta la sua forza vincente, perché
Egli ha scelto di
amare ad ogni
costo, quasi come
se fosse stato quello stesso amore
incondizionato ad
averlo fatto salire
sulla croce.
La regalità di Gesù
vittorioso non ha
bisogno di altre
“prove”: del suo corpo, in cui si è giocata ed è scritta tutta la sua vita spesa unicamente nell’amore, non è
rimasto più nulla,
perché l’amore
non può morire, l’amore è ben più for-
te della morte: “le grandi
acque non possono spegnere l’amore né i fiumi travolgerlo“ (Ct. 8,7).
A noi resta l’avventura di crederci sul serio, d’inoltrarci
in questo mistero, finché non
lo verificheremo di persona. Ma anche da questo percorso velato, che è la
nostra esperienza sulla terra, ogni tanto si aprono squarci, che c’immettono nella
comunione di Luce con realtà tanto più alte, che ci superano e che, tuttavia, ci
comprendono e ci abbracciano.
*Direttore dell’Ufficio diocesano
Beni culturali, Chiese e
Arte sacra