XV domenica TO A 2014

XV domenica TO A
Is 55,10-11; Sal 64; Rom 8,18-23; Mt 13,1-23
Prima Lettura Is 55, 10-11
La pioggia fa germogliare la terra.
Dal libro del profeta Isaia
Così dice il Signore: «Come la pioggia e la neve scendono
dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra,
senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il
seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della
mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero
e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata».
Seconda Lettura Rm 8, 18-23
L’ardente aspettativa della creazione è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio.
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà
rivelata in noi. L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio.
La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha
sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per
entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e
soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito,
gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo.
Vangelo Mt 13,1-23 (Forma breve Mt 13,1-9)
Il seminatore uscì a seminare.
Dal vangelo secondo Matteo
[ Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su
una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia. Egli parlò loro di molte cose con
parabole. E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada;
vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra;
germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo
radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul
terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti». ]
Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: «Perché a loro parli con parabole?». Egli rispose loro:
«Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Infatti a colui che ha, verrà
dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. Per questo a loro parlo
con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono.
Così si compie per loro la profezia di Isaìa che dice: “Udrete, sì, ma non comprenderete, guarderete, sì, ma
non vedrete. Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi
e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non
comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca!”. Beati invece i vostri occhi perché vedono e
i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere
ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono!
Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore. Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la
comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo
la strada. Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con
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gioia, ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a
causa della Parola, egli subito viene meno. Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la
preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto. Quello
seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento,
il sessanta, il trenta per uno».
La prima lettura (Is 55,10-11) ci propone la più lunga similitudine e la più ricca teologia della
Parola di tutto l'Antico Testamento, opera del Secondo Isaia o Isaia babilonese (Yeshayà, «salvezza di Yah», fine
VI sec. a.C. cc. 40-55). La vita divina racchiusa nella Parola non è relegata nei cieli né in un santuario della
terra. Essa penetra la terra, cioè la storia, l’esistenza e la società. Solo così ritorna a Dio, fatta carne e sangue,
cioè preghiera e amore dell’uomo. La parola divina, creatrice e dinamica, vitale ed efficace è l’asse su cui
ruota la predicazione di questo profeta anonimo, che vede la fine dell’esilio babilonese e l'inizio del ritorno
(aliyà) in patria con l’editto di Ciro (538 a.C.). Questa Parola sostiene il cosmo ma anche la storia. La frase
solenne di Is 55,10-11, «piccola perla» letteraria e teologica, col suo movimento cosmico e circolare coglie la
radice stessa della vita che è racchiusa nella Parola di Dio. «È questo il testo profetico più ampio che abbiamo
sulla Parola di Adonay e sulla sua efficacia» (von Rad, 1901-1971).
Is 55,10: Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere
irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi
semina e il pane a chi mangia, (ki ka'asher yered haggéshem wehasshéleg min-hasshamáyim
weshámmah lo' yashuv ki 'im-hirwah 'et-ha'áretz weholidah wehitzmichah wenátan zéra lazzorea'
weléchem la'okel, lett. «Poiché come scende la pioggia e la neve dai cieli e verso-là non tornano se non irriga la terra e fa
partorire essa e fa germogliare essa affinché dia seme per il seminante e pane per il mangiante»)
- Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo (ki ka'asher yered haggéshem wehasshéleg minhasshamáyim). Il ciclo verticale della Parola che scende e ritorna esprime l’intervento «soprannaturale» e
salvifico che tocca ogni uomo e l’intera storia, ma che è percepibile soprattutto dall’uomo credente e dalla
storia della salvezza. Possiamo in sintesi dire che attraverso il movimento circolare dell’acqua e della neve,
Dio mette in marcia e fa riuscire il ciclo della produzione agricola, riassunto qui nel pane (55,10). Ma
nell’interno di questo primo ciclo Dio prende l’iniziativa per un secondo movimento circolare che è quello
della Parola che conduce il suo disegno a perfezione. Il Secondo Isaia, da vero poeta, canta il mistero della
vita, mentre riconosce il miracolo della natura. Infatti vede nelle due stagioni dell’anno agricolo palestinese,
quella delle piogge e quella solare, quasi un compendio simbolico della redenzione. Esiste un miracolo
della vita cosmica che, attraverso la pioggia, è messo in movimento: le energie del seme e della terra si
sviluppano in albero, frutto e alimento. Il v. 10 usa infatti il verbo ebraico veholidah (jalad), il vocabolo del
mirabile mistero della generazione, per esaltare questa grandiosa vitalità cosmica. Bella è l’intuizione del
poeta mistico inglese W. Blake (1757-1827): «Vedere un paradiso in un granello di sabbia e un paradiso in un
fiore selvaggio, tutto l’infinito nel palmo della vostra mano e l’eternità in un’ora».
55,11: così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto,
senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata (ken
yihyeh devari 'asher yetze' mippi lo'-yashuv 'elay reqam ki' 'im-asah 'et-'asher chafátzti wehitzliach 'asher
shelachtiw, lett. «così sarà (della) parola mia che uscirà da bocca mia, non tornerà a me invano, se non farà ciò che
desiderai e compirà ciò per cui inviai essa»).
- così sarà della mia parola (ken yihyeh devari). La parola di Dio viene paragonata alla pioggia e a tutto il
processo naturale innescato dalla pioggia: seme - germoglio - spiga - pane da mangiare. L'accento è posto
sull'irrevocabilità del processo innescato dalla Parola, una volta che è uscita dalla bocca di Dio (cioè il profeta).
In Is 45,23 il profeta affermava che la Parola che esce dalla bocca di Dio è irreversibile, irrevocabile: una
parola senza ritorno, che non può tornare indietro. Adesso si corregge: la parola di Dio effettivamente torna
indietro, torna a colui che l'ha inviata, ma non torna «vuota», senza aver operato ciò per cui è stata
mandata. Il profeta ha appena intravisto il «germoglio»: «Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia,
non ve ne accorgete?» (Is 43,19), ma questo gli basta per sapere che la Parola agirà fino in fondo, e che la sua
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profezia non cesserà di produrre tutti i suoi effetti: Secca l’erba, appassisce il fiore, ma la parola del nostro Dio
dura per sempre (Is 40,8, inclusione con 55,11). Nel v. 11 troviamo i verbi chaphets «volere» e tsalach (hifìl:
causativo attivo) «riuscire, compiere». Riuniti insieme, li ritroviamo soltanto in Is 53,10d: «si compirà per
mezzo suo (del servo) la volontà del Signore». Per mezzo della sua Parola o per mezzo del suo servo, riuscirà,
nella storia, il progetto, il pensiero, il desiderio del Signore. La Parola agisce come un servo, inviato in
missione; e il servo è come una Parola fatta carne.
Questo loghion si innesta nel carme che conclude le profezie del Secondo Isaia, in cui
ritroviamo l’intreccio di due vie e di due vite, quello del pensiero divino e del pensiero umano, quello della
parola divina e della parola umana (vv. 8-9). Questo schema verticale e circolare al tempo stesso, segno di
perfezione, attraversa l’intero capitolo.
Per il Secondo Isaia la creazione è teofanica: il credente contemplandola non vive una semplice
esperienza estetica né si trova immerso in un idillio ma la «capisce» come metafora dell’azione divina.
L’immagine che il profeta usa in questa strofa è ciclico-verticale: unisce spazio (cielo e terra), tempo (andata e
ritorno) ed essere (Dio e uomo) pervasi tutti dalla forza fecondatrice di Dio. Secondo una simbologia
proposta da A. J. Heschel (Varsavia 1907 - New York 1972) come la foglia nasconde al suo interno una
nervatura che la sostiene, così la parola di Dio sostiene la terra e la storia. La parola di Dio, pertanto, non è
un’esperienza estatica, ma si fa terra, corpo, gusto, sangue. Trascendenza e vicinanza di Dio, «superiorità» e
«condiscendenza» di Dio si armonizzano in modo perfetto. Scriveva P. Bonnard: «Una prova evidente della
superiorità assoluta dell’Altissimo in relazione ai figli di Adamo è l’efficacia infallibile della sua Parola che
è qui suggerita dall’efficacia infallibile della pioggia (cf 44,14). L’acqua che discende dal cielo e che si
pensa vi risalga perché ne ridiscende continuamente, produce a colpo sicuro il suo effetto o meglio ancora
una cascata di effetti: satura la terra, fa fecondare e germogliare, dando all’uomo di che seminare e mangiare
(cf 2Cor 9,10)».
Il meraviglioso metabolismo della natura è, però, una metafora del miracolo della parola divina che
permea l’esistenza di Israele. C’è tuttavia una novità sostanziale perché il terreno in cui essa è seminata è ora
costituito dall’uomo libero che può opporre alla Parola un rifiuto. Il profeta non può, perciò, proporre una
visione magica della Parola, ma deve descrivere l’incontro tra due libertà, deve supporre l’uomo fedele che
aderisce con gioia alla Parola. Il commento ideale a questa parabola isaiana è allora quella parallela di Gesù
nella versione lucana: «Quello sul terreno buono sono coloro che, dopo aver ascoltato la Parola con cuore integro e
buono, la custodiscono e producono frutto con perseveranza» (Lc 8,15).
In questa luce si spiega anche il «ritorno» della Parola a Dio: è la risposta credente, è la lode
sincera che sale dal cuore umano a Dio. La Parola ritorna ad Adonay per una via completamente umana.
Israele redento che marcia lungo la via del nuovo esodo è manifestazione della gloria di Adonay, è il suo
imperituro nome e segno (55,13), è in pratica la Parola nel suo ritorno ad Adonay.
L’acqua è la realtà più amata dall’orientale che vive in un paesaggio assolato e assetato. Dov’essa
scorre c’è verde e vita. La parola umana è come l’acqua, è fonte di energia, ma la parola divina ha
un’efficacia superiore: è irrevocabile e sazia una fame che il pane non può soddisfare (Dt 8,3). Geremia
rappresenterà questa energia dirompente della Parola con un’immagine antitetica ma parallela, quella del
fuoco: «La mia Parola non è forse come il fuoco - oracolo di Signore - e come un martello che spacca la roccia?» (Ger
23,29; cf. 5,14).
Come nelle personificazioni della Sapienza (Pr 8,22 e Sap 7,22) e dello Spirito (Is 11,2), così anche nel
nostro testo la Parola è quasi come una persona che vuole e agisce. Si prepara così la grande riflessione
neotestamentaria sul Verbo di Gv 1,1-3.
Il «germogliare» rappresenta il miracolo della novità come è proprio di ogni nascita. La vita è novità
e futuro, solo la morte è passato e staticità. Non per nulla il paragrafo finale di Is 55,12-13 mette in scena il
nuovo mondo libero in pace. I simboli vegetali del cipresso e del mirto in quell’ultima strofa del nostro
carme non rappresentano solo l’esodo perfetto che il poeta sta annunciando ma, come in Zc 1,8-11, sono
anche la vegetazione dell’Eden rinnovato ed escatologico.
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La seconda lettura (Rom 8,18-23) è una delle pagine più toccanti della Lettera ai Romani: il cosmo è
una testimonianza della tensione di ogni essere verso il centro di tutto che è Dio. La natura attende avidamente, quasi a capo eretto (v. 19), l’apparizione della nuova umanità composta dai figli di Dio. Non sarà
più un Adamo cieco e malvagio, un tiranno che «sottomette alla caducità» anche le realtà terrestri usandole
come strumenti di morte o di egoismo. Ma sulla terra vivrà un uomo libero e figlio di Dio (v. 21), il nuovo
Adamo, inaugurato da Cristo. Questa tensione verso rapporti e realtà nuove è espressa da Paolo con
l'immagine di un parto che coinvolge la natura e l’umanità (vv. 22-23), in attesa del Regno in cui «Dio sarà
tutto in tutti» (1Cor 15,28). «Passa certamente l’aspetto di questo mondo deformato dal peccato. Dio prepara
una nuova abitazione e una terra nuova in cui abita la giustizia e la cui felicità sazierà sovrabbondantemente
tutti i desideri di pace che salgono dal cuore degli uomini... E sarà liberata dalla schiavitù della vanità tutta
quella realtà che Dio ha creato appunto per l’uomo» (Gaudium et Spes, 39).
Rom 8,18: Ritengo infatti che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla
gloria futura che sarà rivelata in noi (Λογίζομαι γὰρ ὅτι οὐκ ἄξια τὰ παθήματα τοῦ νῦν καιροῦ
πρὸς τὴν μέλλουσαν δόξαν ἀποκαλυφθῆναι εἰς ἡμᾶς, lett. «Ritengo infatti che non degne le sofferenze del
presente tempo in rapporto alla che sta gloria per essere rivelata in noi»).
- le sofferenze del tempo presente (τὰ παθήματα τοῦ νῦν καιροῦ). Benché i credenti siano stati liberati dalla
legge dello Spirito, continuano a sperimentare le sofferenze e la morte; come queste si possono conciliare con
la libertà cristiana dal peccato e dalla morte? Come le sofferenze si possono conciliare con la gloria futura
(Rm 5,2)? Paolo risponde riconoscendo il valore positivo dei παθήματα (πάθημα, ατος, τό), delle
«sofferenze» che consentono la partecipazione alla morte e risurrezione di Cristo. Le sofferenze ci
incamminano verso la partecipazione alla gloria che Dio rivelerà in e per noi. In questa paradossale
relazione tra le sofferenze e la gloria, l'espressione οὐκ ἄξια … πρὸς non ha tanto valore comparativo: «non
sono paragonabili», quanto di contrasto: «non si oppongono a». Le sofferenze di cui si parla non si
riferiscono soltanto a quelle dei credenti ma anche a quelle della creazione e ai gemiti dello Spirito. La
δόξα «gloria» è la presenza piena e permanente di Dio nella storia della salvezza.
8,19: L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di
Dio (ἡ γὰρ ἀποκαραδοκία τῆς κτίσεως τὴν ἀποκάλυψιν τῶν υἱῶν τοῦ θεοῦ ἀπεκδέχεται, lett. «La infatti
attesa impaziente della creazione la rivelazione dei figli di Dio aspetta ansiosamente»).
- L’ardente aspettativa della creazione (ἡ γὰρ ἀποκαραδοκία τῆς κτίσεως). Che cosa intende Paolo con κτίσις
«creazione»? Agostino (354-430) osservava che «tutto il capitolo otto è oscuro perché non è sufficientemente
chiaro cosa intenda l'Apostolo con creatura». L'interpretazione più accreditata è quella cosmologica, che
meglio si contestualizza nel genere apocalittico che caratterizza questi versi. Il creato condivide il destino
dell'umanità, nel bene e nel male, provocando una specie di personificazione della creazione: essa è come
una persona ridotta in condizioni di schiavitù, con la ferma speranza di essere liberata. Questo processo
viene qualificato con un termine utilizzato soltanto da Paolo: ἀποκαραδοκία, apokaradokía, «ardente attesa,
attesa impaziente», che in greco esprime la condizione di una persona che protende il capo in avanti per
attendere con ansia gli esiti degli eventi. Come una persona umana, la creazione attende la rivelazione dei
figli di Dio che si compirà soltanto con la piena realizzazione della gloria. L'unico parallelo neotestamentario
di apokaradokía (Fil 1,20) evidenzia come l'attesa della creazione è carica di speranza, analoga a quella di
Paolo stesso, in situazione di prigionia.
8,20-21: La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per
volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza 21che anche la stessa creazione sarà
liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di
Dio (τῇ γὰρ ματαιότητι ἡ κτίσις ὑπετάγη, οὐχ ἐκοῦσα ἀλλὰ διὰ τὸν ὑποτάξαντα, ἐφ’ ἐλπίδι 21ὅτι καὶ
αὐτὴ ἡ κτίσις ἐλευθερωθήσεται ἀπὸ τῆς δουλείας τῆς φθορᾶς εἰς τὴν ἐλευθερίαν τῆς δόξης τῶν τέκνων
τοῦ θεοῦ, lett. «Alla infatti vanità la creazione fu sottomessa, non volendo, ma a causa dell'avente sottomesso con speranza
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che anche stessa la creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per la libertà della gloria dei figli di Dio»).
- La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità (τῇ γὰρ ματαιότητι ἡ κτίσις ὑπετάγη, lett. «Alla infatti vanità la
creazione fu sottomessa»). L'apocalittica giudaica si sofferma volentieri sulle prime pagine della Genesi, che
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parlano di Adamo e del suo peccato (cf 4Esdra; 2Baruc). Paolo sembra condividere questa tradizione per
sottolineare la situazione negativa nella quale si trova la creazione e la futura liberazione che condividerà
con la libertà della gloria dei figli di Dio. Innanzitutto, Dio ha sottomesso la creazione alla ματαιότης,
«vanità», come dimostra il passivo divino ὑπετάγη, hypetágē, ind. aor. pass. di ὑποτάσσω, «assoggetto,
sottometto». A questa prima sottomissione si riferisce anche la narrazione di Gen 3,17: «Maledetto sia il suolo
per causa tua...». In tal modo, la creazione condivide la situazione negativa nella quale si trovano tutti gli
esseri umani; poiché «si sono perduti nei loro vani ragionamenti» (ἐματαιώθησαν, emataióthēsan, Rm 1,21),
anche la creazione è stata sottomessa alla vanità, alla caducità (ματαιότητι, mataiótēti).
- per volontà di colui che l’ha sottoposta (διὰ τὸν ὑποτάξαντα). Oltre alla sottomissione da parte di Dio, vi è
un'altra causa che sottopone la creazione alla caducità, alla vanità: l'uomo. Il verbo usato è lo stesso:
ὑποτάσσω «sottometto, sottopongo». Nonostante la sottomissione sofferta della creazione, Paolo
sottolinea comunque che Dio l'ha sottomessa nella speranza di liberarla da questa condizione di
schiavitù che condivide con gli esseri umani.
- nella speranza (ἐφ’ ἐλπίδι). Proseguendo nella rilettura delle prime pagine della creazione, si può notare che
Paolo inserisce l'elemento nuovo della speranza (ἐλπίς, ίδος, ἡ) di cui non si parla in Gen 2-3. In questo
sguardo sul futuro disegno divino, prosegue la personificazione della creazione: essa è come uno schiavo che
sarà «liberato... per la libertà» (ἐλευθερωθήσεται … εἰς τὴν ἐλευθερίαν). Da una parte, la schiavitù della
creazione si identifica con l'ineluttabile corruzione, dall'altra, la libertà si identifica con la gloria dei figli di
Dio alla quale parteciperà la stessa creazione.
8,22: Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino
ad oggi (οἴδαμεν γὰρ ὅτι πᾶσα ἡ κτίσις συστενάζει καὶ συνωδίνει ἄχρι τοῦ νῦν, lett. «Sappiamo infatti che
tutta la creazione geme insieme e soffre insieme fino a ora»).
- la creazione geme e soffre le doglie del parto (ἡ κτίσις συστενάζει καὶ συνωδίνει). I verbi, all'ind. pres.,
συστενάζω «gemo, sospiro assieme» e συνωδίνω «soffro insieme le doglie, sono insieme in travaglio» sono
verbi tipici di Paolo che insiste sul senso della partecipazione, della condivisione mediante il prefisso συν-.
Perciò tutta la creazione con-geme e con-soffre con l'umanità, esclusi i credenti di cui parlerà nei versi
successivi. Anche il motivo del parto (ὠδίν), come simbolo della sofferenza umana e del creato, è tipico
dell'apocalittica giudaica. La creazione non geme e non soffre soltanto per conto proprio ma geme e soffre
con i credenti e lo Spirito. Di certo Paolo non sta elaborando una teologia dell'ecologia, ma vuole solo
rassicurare i credenti che le loro sofferenze sono simili a quelle di tutta la creazione e non compromettono la
partecipazione alla gloria finale.
8,23: Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo
interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo (οὐ μόνον δὲ ἀλλὰ
καὶ αὐτοὶ τὴν ἀπαρχὴν τοῦ πνεύματος ἔχοντες, [ἡμεῖς] καὶ αὐτοὶ ἐν ἑαυτοῖς στενάζομεν υἱοθεσίαν
ἀπεκδεχόμενοι, τὴν ἀπολύτρωσιν τοῦ σώματος ἡμῶν, lett. «non solo però, ma anche quelli la primizia dello Spirito
aventi, noi anche stessi in noi stessi gemiamo insieme figliolanza aspettando ansiosamente, la redenzione del corpo di noi»).
- aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo (υἱοθεσίαν ἀπεκδεχόμενοι, τὴν ἀπολύτρωσιν τοῦ
σώματος ἡμῶν, lett. «figliolanza aspettando ansiosamente, la redenzione del corpo di noi»). Qui Paolo passa a parlare
del gemito di coloro che posseggono τὴν ἀπαρχὴν τοῦ πνεύματος «la primizia dello Spirito», in attesa della
υἱοθεσία, huiothesía, «figliolanza». Paolo sembra contraddirsi rispetto a quanto ha appena sostenuto in Rm
8,14-17, ove la υἱοθεσία sembra un dato scontato. Dunque, la figliolanza divina è un dono che abbiamo
ricevuto (v. 15), oppure è qualcosa che dobbiamo ancora attendere? Per chiarire il senso di questa riflessione
è necessario prendere in considerazione la tensione tra l'apocalittica e l'escatologia paolina. Notiamo che
anche nei confronti della giustizia si verifica la stessa tensione tra la nostra giustificazione passata, per mezzo
della fede in Cristo (cf Rm 5,1), e la speranza della giustizia (cf Gal 5,5). Per Paolo rimane vero che siamo stati
giustificati e posti nella nuova condizione di figli di Dio; ma la giustificazione e la figliolanza non sono
ancora piene, perché continuiamo a vivere, come tutti gli altri, nella carne mortale (cf Rm 7,24). Il verbo
ἀπεκδεχόμενοι, part. pres. pass. di ἀπεκδέχομαι, «aspetto pazientemente, con ansia» esprime bene l'attesa
della redenzione del nostro corpo, di fronte al mistero della sofferenza, anche se abbiamo la primizia dello
Spirito. In questa tensione tra la figliolanza nello Spirito e l'attesa della futura figliolanza, che si
identifica con la partecipazione alla gloria, trova spazio quella parte del tragico umano che ha ancora
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qualcosa da dire anche ai credenti e che rimane in parte irrisolto anche per quanti sono stati liberati dallo
Spirito. La tensione tra l'apocalittica e l'escatologia è causata dallo stesso Spirito, definito come ἀπαρχή
«primizia». Anche questo termine è tipico di Paolo, che lo usa 7 volte su 9 nel NT. A prima vista, il sostantivo
aparché sembra richiamare il contesto cultuale delle primizie offerte al Signore (cf Dt 26,1-15). A ben vedere,
in questi versi manca del tutto l'orizzonte cultuale; mentre le primizie sono offerte al Signore, lo Spirito è
la primizia donata da Dio a noi. Altrove, Paolo preferirà definire lo Spirito come ἀρραβών, ῶνος, ὁ
«caparra», in vista del dono finale nell'incontro con Cristo (cf 2Cor 1,22; 5,5; Ef 1,14). Nel trattare della
risurrezione dei corpi Paolo ha applicato la stessa metafora a Cristo, la primizia (cf 1Cor 15,20.23); e la
pienezza del raccolto sarà la risurrezione del nostro corpo spirituale (cf 1Cor 15,44).
Il vangelo (Mt 13,1-23) ci propone la parabola del seminatore e del seme, madre di ogni parabola
che richiama il mistero dell'elezione (bekhirà) e del suo opposto: accoglienza o rifiuto della Parola. Il capitolo
13 contiene il terzo lungo discorso di Gesù dedicato alle parabole (ascoltare, comprendere, fare) e
rappresenta il discorso centrale del vangelo. Incorniciato da un solenne incipit (cf 13,1-3a) e da una
conclusione che per molti esperti rivelerebbe l'autoritratto di Matteo (cf 13,51-52), riporta sette parabole (il
seminatore, 13,3b-9; la zizzania, 13,24-30; il grano di senape, 13,31-32; il lievito, 13,33; il tesoro, 13,44; la perla
preziosa, 13,45-46; la rete, 13,47-50), che diventano otto, se si considera anche il detto sull'uomo-padrone di
casa del v. 52; inoltre offre un'introduzione al genere parabolico (13,10-17.34-35) e i commenti a due delle parabole
raccontate, quelle del seminatore (13,18-23) e della zizzania (13,36-43). La sezione si conclude nel modo
consueto con cui vengono chiusi i discorsi di Gesù in Matteo, con la formula: «Quando Gesù terminò (queste
parabole)...» (v. 53). Sono proprie di Matteo le parabole della zizzania, del tesoro, della perla e della rete,
mentre le altre appartengono alla triplice tradizione, e sono una probabile rielaborazione di Mc 4.
Generalmente si dice che queste parabole trattano del Regno dei cieli, ma questa definizione è incompleta,
perché alcune non trattano del Regno, ma sono piuttosto «parabole della comprensione». Sul piano del
vocabolario, oltre al lessema «parabola» (12x), e «Regno dei cieli» (7x), quelli che ricorrono più
frequentemente nel capitolo sono i verbi «ascoltare» (16x, la più alta occorrenza in un capitolo del NT) e
«comprendere» (6x). Da questo semplice elenco si capisce che non è sufficiente «ascoltare», si deve
«comprendere» per poter fare, agire per portare frutto: è forse questo uno dei significati della parabola del
seminatore.
Mt 13,1-2: Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. 2Si radunò attorno a lui
tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla
spiaggia (ἐν τῇ ἡμέρᾳ ἐκείνῃ ἐξελθὼν ὁ Ἰησοῦς τῆς οἰκίας ἐκάθητο παρὰ τὴν θάλασσαν• 2καὶ
συνήχθησαν πρὸς αὐτὸν ὄχλοι πολλοί, ὥστε αὐτὸν εἰς πλοῖον ἐμβάντα καθῆσθαι καὶ πᾶς ὁ ὄχλος ἐπὶ
τὸν αἰγιαλὸν εἱστήκει)
- Quel giorno Gesù uscì di casa (ἐν τῇ ἡμέρᾳ ἐκείνῃ ἐξελθὼν ὁ Ἰησοῦς τῆς οἰκίας). L'espressione «Quel
giorno» fa della parabola del seminatore «il giorno delle parabole».
- e sedette in riva al mare (ἐκάθητο παρὰ τὴν θάλασσαν). Questa introduzione solenne (cf 5,1-2) ambienta le
parabole sulla riva del mare di Galilea, luogo che rievoca la chiamata dei primi discepoli (cf 4,18-22),
vicino alla casa di Gesù a Cafarnao. Sul piano simbolico il mare sembra riflettere l'orizzontalità delle parole di
Gesù e quindi l'universalità dell'uditorio. Il mare, poi, è quell'elemento della creazione che è già stato
educato all'ascolto delle parole di Gesù (cf 8,23-27) e ha assistito alla vittoria del Regno sui demoni (8,32).
Ora, invece, sono i discepoli e le folle che devono ascoltare. Sul piano narrativo si tratta di una vera e
propria pausa di riflessione nel racconto: se gli eventi non evolvono, il discorso di Gesù permette però al
discepolo di fare il punto su quanto già accaduto e ascoltato, e prepararsi così a un ulteriore passo nella
sequela. Il verbo ἐκάθητο è ind. impf. di κάθημαι «mi siedo, sto seduto, abito, mi trovo». La traduzione
corretta è «sedeva», perché l'imperfetto in greco implica la continuità dell'azione nel passato; la versione CEI
preferisce «sedette». Come già per il discorso dal monte (5,1), anche qui Matteo sottolinea per due volte che
Gesù «si siede», prima sulla spiaggia (13,1), poi sulla barca (13,2): è l'atteggiamento del Maestro che racconta
delle parabole sul Regno dei cieli, partendo dall'esperienza di uomini e di donne che l'hanno incontrato; più
che insegnare, annuncia. Vi è però molto di più, perché la prossemica e altre scienze antropologiche hanno
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messo in evidenza da tempo l'importanza, per l'atto comunicativo, non solo delle distanze tra le persone, ma
anche delle rispettive posizioni: Gesù, mentre racconta, sta seduto, è cioè in una posizione dialogante, in
qualche modo indifesa, ma pur sempre fissa. Le folle, invece, sono in piedi, in una situazione più aperta a
esiti diversi: possono perciò, per esempio, rimanere all'ascolto, mettendosi sedute o avvicinandosi a Gesù;
oppure andarsene; o, ancora, attendere e tergiversare... Ogni ascoltatore è come un terreno che può
raccogliere il seme in modo diverso.
La prossèmica è una disciplina semiologica che studia i gesti, il comportamento, lo spazio e le distanze
all'interno di una comunicazione, sia verbale che non verbale. Il termine è stato introdotto
dall'antropologo statunitense Edward T. Hall (1914-2009) nel 1963 per indicare lo studio delle relazioni
di vicinanza nella comunicazione. Hall ha osservato che la distanza tra le persone è correlata con la
distanza fisica. Egli ha definito quattro "zone" interpersonali: 1) la distanza intima (0-45 cm); 2) la
distanza personale (45-120 cm) per l'interazione tra amici; 3) la distanza sociale (1,2-3,5 metri) per la
comunicazione tra conoscenti o il rapporto insegnante-allievo; 4) la distanza pubblica (oltre i 3,5 metri)
per le pubbliche relazioni. Nel libro La dimensione nascosta, Bompiani 1968, Hall osservò che la distanza
alla quale ci si sente a proprio agio con le altre persone vicine dipende dalla propria cultura: i sauditi, i
norvegesi, gli italiani e i giapponesi hanno infatti diverse concezioni di vicinanza. Gli arabi preferiscono
stare molto vicini tra loro, quasi gomito a gomito, gli europei e gli asiatici si tengono invece fuori dal
raggio di azione del braccio. In alcune regioni meridionali dell’India, dove la distanza che gli appartenenti
alle diverse caste devono mantenere fra di loro è rigidamente stabilita, quando gli individui della casta più
bassa (paria) incontrano i bramini, la casta più elevata, debbono tenersi a una distanza di 39 metri. Altra
differenza è quella tra i sessi, i maschi si trovano più a loro agio a lato di una persona, invece le femmine di
fronte. Particolare rilevanza ha acquistato anche la prossemica dell'ascensore: ad esempio gli europei in
ascensore si pongono a cerchio con la schiena appoggiata alle pareti, mentre gli americani si pongono in
fila con la faccia rivolta alla porta. Interessante è pure la prossemica degli ecclesiastici, che chiamando
"figli" le persone che incontrano, accorciano la distanza relazionale e, di conseguenza, quella spaziale.
- egli salì su una barca (αὐτὸν εἰς πλοῖον ἐμβάντα). Dobbiamo immaginarci una folla tanto grande che l'unico
modo per Gesù di poter essere visto e ascoltato da tutti era di salire su una barca e parlare alla folla da una
certa distanza dalla riva. Il pubblico del «giorno delle parabole» è la «folla».
13,3: Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse: «Ecco, il seminatore uscì a
seminare (καὶ ἐλάλησεν αὐτοῖς πολλὰ ἐν παραβολαῖς λέγων• ἰδοὺ ἐξῆλθεν ὁ σπείρων τοῦ σπείρειν).
- con parabole (ἐν παραβολαῖς). Il modo caratteristico di Gesù di insegnare alla folla è quello delle
«parabole», termine che nelle lingue semitiche (mashal/meshalim) ha diversi significati, dalla «storiella» alla
«similitudine», all'«indovinello». I motivi per cui Gesù adotta questa tecnica di insegnamento sono spiegati
in Mt 13,10-17 e 13,34-35. Aggiungendo alcune citazioni bibliche (Is 6,9-10; Sal 78,2), Matteo suggerisce che si
trattava della volontà di Dio espressa nelle Scritture. Nonostante il titolo tradizionale di questa parabola: «il
seminatore» (cf 13,18), il vero punto d'interesse della parabola è il seme. Più importante che il risultato delle
quattro diverse semine è il contrasto tra le tre semine infruttuose e la quarta semina eccezionalmente
fruttuosa.
Il termine italiano «parabola» traduce l’ebraico mashal. La radice verbale mshl ricorre nell'AT con due
significati diversi: 1) essere simile, assomigliare, raccontare una parabola, cantare un canto beffardo.
2) dominare, regnare (cf K.-M. Beyse-H. Gross, in GLAT V, Paideia 2005, coll. 424-433). Il sostantivo
mashal può significare: detto, proverbio, massima sapienziale, metafora, parabola, allegoria. Termini
correlati sono: moshel: signore, capo; mimshal: signoria, il governare; memshalà: regno, governo. Il
mashal resta una delle forme più importanti del midrash per la lettura del testo biblico. Si tratta di
un’esposizione nella quale vengono presentati situazioni e protagonisti di immediata comprensione per il
lettore. Un ottimo esempio è rappresentato dai protagonisti del Cantico dei Cantici, intesi come allegoria
del rapporto tra Dio e il credente. I rapporti fra di loro devono però essere analoghi a quelli a cui si vuole
alludere, secondo una logica, per così dire, di allegorizzante (mashal) e allegorizzato (nimshal: forma
passiva di mashal). Il plurale Meshalim è diventato il titolo del libro biblico dei «Proverbi», che appartiene
alla letteratura sapienziale (A. Luzzatto).
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- Ecco, il seminatore (ἰδοὺ … ὁ σπείρων). La prima parabola del capitolo è praticamente una «meta-parabola»,
perché con essa Gesù racconta quanto egli stesso sta facendo; è quella che, in un certo senso, governa tutte le
altre, ed è forse anche la più importante non solo delle parabole di Matteo, ma di tutte quelle evangeliche.
La particella ἰδοὺ «ecco, vedi!, vedete!» (200x nel NT) propriamente è un verbo deittico, impt. aor. med.
2sing. di ὁράω «vedo» (448x nel NT). Richiama l'avverbio ebraico hinnèni e nel NT lo ritroviamo sulla bocca
di Cristo: Ecco, io vengo (Eb 10,7) e di Maria: Ecco la serva del Signore (Lc 1,38). Spesso esprime la risposta
dell'uomo a Dio. Anche il seminatore è reso con un verbo: σπείρων, «colui che semina», part. pres. di
σπείρω «semino, spargo, diffondo». Questo verbo ritorna nel cap. 13 ben 15 volte.
Le domande fondamentali che questa parabola provoca nel lettore sono: chi è il seminatore? Qual è il senso
del suo comportamento? Cosa rappresentano i semi? Secondo quanto leggiamo nell'interpretazione che ci
viene fornita nei vv. 18-23, il seminatore che esce per andare a gettare il seme sarebbe Gesù stesso mentre
annuncia il Regno: la parabola tratta infatti dell'«ascoltare» la «parola del Regno» (13,19; cf Mc 4,14: «la
parola»; Lc 8,11: «la parola di Dio»), e dei diversi tipi di terreno dove viene gettato questo seme/parola. Se il
seme è lo stesso, cambia però il terreno dove questo cade, ovvero il modo di ascoltare la Parola. Secondo
B. Gerhardsson la parabola può essere compresa meglio se confrontata con la preghiera quotidiana ebraica
dello Shemà «Ascolta, Israele...» (Dt 6,4-9).
13,4: Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la
mangiarono (καὶ ἐν τῷ σπείρειν αὐτὸν ἃ μὲν ἔπεσεν παρὰ τὴν ὁδόν, καὶ ἐλθόντα τὰ πετεινὰ
κατέφαγεν αὐτά)
- la mangiarono (κατέφαγεν αὐτά). Il verbo κατέφαγεν, ind. aor. di κατεσθίω, significa «divoro, consumo,
sfrutto, depredo». Il verbo non dice semplicemente «mangiare» (cf versione CEI), per rendere il quale Matteo
usa il verbo εσθίω. Il seminatore sparge il seme su terreni alquanto improbabili: il sentiero dove passa la
gente (13,4), il terreno sassoso con pochissima terra (13,5) e tra i cespugli di spine (13,7). Il contadino è
sciocco a seminare in tali posti? O si vuole evidenziare la prodigalità e la generosità del contadino?
13,5-6: Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò
subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole, fu bruciata e, non
avendo radici, seccò (ἄλλα δὲ ἔπεσεν ἐπὶ τὰ πετρώδη ὅπου οὐκ εἶχεν γῆν πολλήν, καὶ εὐθέως
ἐξανέτειλεν διὰ τὸ μὴ ἔχειν βάθος γῆς• 6ἡλίου δὲ ἀνατείλαντος ἐκαυματίσθη καὶ διὰ τὸ μὴ ἔχειν ῥίζαν
ἐξηράνθη).
- sul terreno sassoso (ἐπὶ τὰ πετρώδη). Molte zone della Palestina hanno terreni con un leggero strato di terra
su roccia calcarea. La descrizione di ciò che accade al grano seminato su questo tipo di terreno mostra una
buona conoscenza della terra e dell'agricoltura. Ma come nel caso precedente e in quello che segue, non c'è
nessuna indicazione che il seminatore intenda poi tornare sul campo ad arare o a fare qualsiasi altra cosa.
Una volta seminato, il seme è lasciato a se stesso.
13,7-9: Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. 8Un’altra parte
cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. 9Chi ha
orecchi, ascolti» (ἄλλα δὲ ἔπεσεν ἐπὶ τὰς ἀκάνθας καὶ ἀνέβησαν αἱ ἄκανθαι καὶ ἔπνιξαν αὐτά. 8ἄλλα
δὲ ἔπεσεν ἐπὶ τὴν γῆν τὴν καλὴν καὶ ἐδίδου καρπόν, ὃ μὲν ἑκατόν, ὃ δὲ ἑξήκοντα, ὃ δὲ τριάκοντα. 9ὁ
ἔχων ὦτα ἀκουέτω)
- sui rovi (ἐπὶ τὰς ἀκάνθας). Il termine probabilmente è generico, riferito a vari generi di spine, rovi, ortiche,
cardi, ecc. Tali cespugli potevano essere usati per segnare il confine con il campo di qualcun altro e per tener
fuori gli animali. Gli ascoltatori della Parola di fatto si dividono in due gruppi: a) quelli che non soddisfano
le esigenze richieste; b) quelli che, invece, le soddisfano. Il primo gruppo di persone comprende tre tipi: 1) gli
uomini della strada; 2) gli uomini dei terreni pietrosi e 3) gli uomini delle spine. Alcuni falliscono perché non
amano Dio con tutto il cuore (1), altri perché non lo amano con tutta la loro anima (2) e altri perché non lo
amano con tutta la loro forza (3).
- il cento, il sessanta, il trenta per uno (ὃ μὲν ἑκατόν, ὃ δὲ ἑξήκοντα, ὃ δὲ τριάκοντα). Rispetto a Mc 4,8, Matteo
ha invertito l'ordine ascendente di Marco («ora il trenta... il sessanta... il cento per uno») per dar maggior risalto
all'insolita resa. Il secondo gruppo, gli uomini del τὴν γῆν τὴν καλὴν «buon terreno», «ascoltano», capiscono
e «fanno», cioè producono frutto, vivendo in accordo con ciò che hanno udito. Questa spiegazione è molto
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interessante; tra l'altro, ricordiamo che il tema dell'ascolto e della messa in pratica è caro a Matteo, ed è da
questi trattato alla fine del discorso del monte: «chiunque ascolta queste mie parole e le compie...» (7,24). La
parabola pertanto da una parte è fortemente responsabilizzante, e dice che sta a noi curare e custodire il
seme/segno della parola di Dio; dall'altra, però, ci ricorda che questo seme viene sempre, dovunque e
comunque gettato e che Dio non si stanca di seminare anche sui sassi, dove a noi sembra sprecata la
semina. Dio ha fiducia che anche un solo seme potrà dar frutto. In ogni caso, anche se il mondo non
dovesse accettare la parola/seme, questa non verrà comunque meno. Gesù assicura: Il cielo e la terra
passeranno, ma le mie parole non passeranno (Mt 24,35).
13,10: Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: «Perché a loro parli con parabole?»
(Καὶ προσελθόντες οἱ μαθηταὶ εἶπαν αὐτῷ διὰ τί ἐν παραβολαῖς λαλεῖς αὐτοῖς;).
- Perché a loro parli con parabole? (διὰ τί ἐν παραβολαῖς λαλεῖς αὐτοῖς;). Nel primo vangelo le parabole non
sono raccolte solo in questo capitolo 13: ne troviamo una che chiude il discorso del monte (7,24-27: la casa
sulla roccia o sulla sabbia) e altri due nuclei nelle raccolte di 21,28-22,14 (i due figli inviati nel campo; i vignaioli
omicidi; il banchetto per il figlio del re) e di 24,42-25,30 (il padrone e il ladro; il servo fedele; le dieci vergini; i talenti).
Tuttavia è nel cap. 13 che Matteo permette al lettore di riflettere sul genere parabolico. Infatti, la storia del
seminatore e la sua spiegazione sono collegate da una «parentesi», il dialogo con i discepoli sull'uso
particolare che Gesù fa della parabola. Il primo frutto del seme gettato è la capacità dei discepoli di porsi delle
domande (solo in Matteo in discorso diretto che conferisce maggiore importanza, rispetto agli altri sinottici).
Diversamente da quanto si poteva pensare fino a qualche tempo fa, quando si riteneva ingenuo il
linguaggio parabolico, perché destinato a folle di contadini non istruiti, gli studi recenti sulla parabola ne
hanno sottolineato l'elevato grado di elaborazione, la sua complessità e la sua specificità comunicativa. La
parabola oggi viene considerata un «racconto nel racconto» che permette il coinvolgimento dell'ascoltatore
e il passaggio dalla storia fittizia della narrazione alla sua vita e alla sua esperienza, che viene così rimessa in
gioco attraverso un meccanismo di immedesimazione. Presente nella Bibbia ebraica nella forma del mashàl
(parabola di Natan in 2Sam 12,1-4), nel giudaismo antico in quella del midrash, Gesù l'utilizza soprattutto
per gli «altri» (cf 13,13.34), cioè per i discepoli meno vicini: Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei
cieli, ma a loro non è dato (Mt 13,11). Rispetto a Mc 4,11, Matteo sottolinea il primato della rivelazione data
dal Figlio, e continua il discorso che aveva sospeso al capitolo 11, quando Gesù ringraziava il Padre che
aveva deciso di rivelare «queste cose» non ai sapienti, ma ai piccoli, ovvero ai discepoli stessi di Gesù.
13,11: Egli rispose loro: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a
loro non è dato (ὁ δὲ ἀποκριθεὶς εἶπεν [αὐτοῖς] ὅτι ὑμῖν δέδοται γνῶναι τὰ μυστήρια τῆς βασιλείας
τῶν οὐρανῶν, ἐκείνοις δὲ οὐ δέδοται).
- Perché a voi è dato conoscere (ὅτι ὑμῖν δέδοται γνῶναι). Ritroviamo qui un esempio di «passivo divino», in
cui il soggetto sottinteso è Dio: «Dio vi ha dato di conoscere...». Tipica dello stile ebraico, la costruzione serve
anche a mantenere un'aria di «mistero» nel trattare un argomento enigmatico.
- i misteri del regno dei cieli (τὰ μυστήρια τῆς βασιλείας τῶν οὐρανῶν). L'uso «dei cieli» al posto di «di Dio» è
tipico dello stile di Matteo. La stessa abitudine si nota in 1Maccabei ed è dovuta al rispetto che gli Ebrei
avevano per il nome divino, ma non solo. Il regno dei cieli segnala anche la distanza con i regni di questo
mondo. I «misteri», in senso apocalittico, sono i disegni di Dio per quanto concerne il suo regno (cf Dan 2).
13,12: Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha,
sarà tolto anche quello che ha (ὅστις γὰρ ἔχει, δοθήσεται αὐτῷ καὶ περισσευθήσεται• ὅστις δὲ οὐκ
ἔχει, καὶ ὃ ἔχει ἀρθήσεται ἀπ' αὐτοῦ).
- a colui che ha, verrà dato (ὅστις γὰρ ἔχει, δοθήσεται αὐτῷ, lett. «Chi infatti ha, sarà dato a lui»). Negli altri passi
dove viene usato (Mt 25,29; Mc 4,25; Lc 8,18) il detto è un avvertimento contro l'attaccamento ai propri
privilegi spirituali. Qui Matteo l'ha inserito per aumentare il valore del privilegio dei discepoli e la perdita
subita da tutti gli altri: quelli ai quali Dio ha concesso conoscenza riceveranno ancora di più, mentre gli
altri perderanno anche quel poco che hanno.
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13,13: Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non
ascoltano e non comprendono (διὰ τοῦτο ἐν παραβολαῖς αὐτοῖς λαλῶ, ὅτι βλέποντες οὐ βλέπουσιν
καὶ ἀκούοντες οὐκ ἀκούουσιν οὐδὲ συνίουσιν,).
- Per questo a loro parlo con parabole (διὰ τοῦτο ἐν παραβολαῖς αὐτοῖς λαλῶ). La frase si rifà a ciò che precede:
la distinzione tra quelli ai quali sono stati rivelati i misteri e quelli ai quali non sono stati rivelati. Il parlare di
Gesù per mezzo di parabole è messo in relazione a questa distinzione, fatta risalire al decreto stesso di Dio
mediante l'allusione prima, e poi la citazione diretta di Is 6,9-10.
- perché guardando non vedono (ὅτι βλέποντες οὐ βλέπουσιν). La congiunzione introduttiva ὅτι, hóti,
«perché», al posto di hína «affinché» usata da Marco, viene spesso interpretata nel senso di un'attribuzione di
colpa a quelli che non vedono. Ma qui Matteo non è tanto diverso da Marco; entrambi dividono il pubblico
di Gesù in due gruppi: quelli al di dentro e quelli al di fuori. Matteo tralascia l'ultima parte di Mc 4,12: «perché
non si convertano e venga loro perdonato».
13,14: Così si compie per loro la profezia di Isaia che dice: Udrete, sì, ma non
comprenderete, guarderete, sì, ma non vedrete (καὶ ἀναπληροῦται αὐτοῖς ἡ προφητεία Ἠσαΐου
ἡ λέγουσα• ἀκοῇ ἀκούσετε καὶ οὐ μὴ συνῆτε, καὶ βλέποντες βλέψετε καὶ οὐ μὴ ἴδητε)
- si compie per loro la profezia di Isaia (ἀναπληροῦται αὐτοῖς ἡ προφητεία Ἠσαΐου). L'introduzione alla
citazione biblica è diversa dalla formula solitamente usata per le citazioni, ma contiene la parola chiave
ἀναπληροῦται «si compie», ind. pres. pass. di ἀναπληρόω «completo la misura, adempio, eseguo». In
13,14-15 Matteo riporta la lunga citazione di Is 6,9-10, la sesta dall'inizio del vangelo. L'oracolo è destinato
originariamente a Israele; rispetto al testo ebraico, però, Matteo segue i cambiamenti che deve aver già
trovato nella versione greca della Settanta. Secondo il Testo Masoretico, infatti, Isaia deve parlare perché il
popolo non comprenda e si indurisca il loro cuore: «Ascoltate bene, ma senza comprendere» (Is 6,9). La
traduzione greca invece anziché i verbi all'imperativo, ha l'indicativo futuro, cosicché Dio dice al profeta che
anche se egli andrà dal suo popolo, questi non capiranno: «Ascolteranno, ma non comprenderanno» (Is 6,9 LXX).
Matteo sceglie dunque la versione della LXX (diversamente da Mc 4,12, che segue il TM), secondo la quale
il giudizio verso Israele sembra essere attenuato, per spiegare il rifiuto che Gesù ha ricevuto e riceverà. La
scelta di Matteo chiarirebbe così anche la ragione per cui Gesù parla con parabole. Il passo di Isaia è la
classica fonte del motivo dell'«indurimento» (cf Rm 11,25). Coloro che già lo ascoltano e non necessitano
della mediazione delle parabole sono già μακάριοι «beati» (cf vv. 16-17). Anche sui discepoli, però, incombe
la possibilità che non capiscano e non interpretino correttamente le parole del Maestro, come si vedrà ora.
13,15: Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di
orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli
orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca! (ἐπαχύνθη
γὰρ ἡ καρδία τοῦ λαοῦ τούτου, καὶ τοῖς ὠσὶν βαρέως ἤκουσαν καὶ τοὺς ὀφθαλμοὺς αὐτῶν
ἐκάμμυσαν, μήποτε ἴδωσιν τοῖς ὀφθαλμοῖς καὶ τοῖς ὠσὶν ἀκούσωσιν καὶ τῇ καρδίᾳ συνῶσιν καὶ
ἐπιστρέψωσιν καὶ ἰάσομαι αὐτούς).
- il cuore di questo popolo (ἡ καρδία τοῦ λαοῦ τούτου). Il sostantivo femminile greco καρδία «cuore» nel
mondo biblico è simbolo delle facoltà intellettive e volitive della persona: Israele non riesce a comprendere
perché è ormai insensibile e chiuso.
- è diventato insensibile (ἐπαχύνθη, lett. «si è ingrassato»). Il verbo ἐπαχύνθη è ind. aor. pass. di παχύνω
«ispessisco, impinguo, divento duro, insensibile, ottuso». La radice παχ- di questo verbo greco indica
l'inspessirsi dell'adipe, da cui «pachiderma». Iesurùn [nome poetico di Israele che significa «il retto, il
giusto»] si è ingrassato e ha recalcitrato, – sì, ti sei ingrassato, impinguato, rimpinzato – e ha respinto il Dio che lo
aveva fatto, ha disprezzato la Roccia, sua salvezza (Dt 32,15). Girolamo traduceva proprio incrassatum est.
13,16: Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano (ὑμῶν δὲ
μακάριοι οἱ ὀφθαλμοὶ ὅτι βλέπουσιν καὶ τὰ ὦτα ὑμῶν ὅτι ἀκούουσιν)
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13,17: In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi
guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono! (ἀμὴν
γὰρ λέγω ὑμῖν ὅτι πολλοὶ προφῆται καὶ δίκαιοι ἐπεθύμησαν ἰδεῖν ἃ βλέπετε καὶ οὐκ εἶδαν, καὶ ἀκοῦσαι
ἃ ἀκούετε καὶ οὐκ ἤκουσαν).
13,18-19: Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore. 19Ogni volta che uno ascolta la
parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel
suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada (ὑμεῖς οὖν ἀκούσατε τὴν παραβολὴν τοῦ
σπείραντος. 19παντὸς ἀκούοντος τὸν λόγον τῆς βασιλείας καὶ μὴ συνιέντος ἔρχεται ὁ πονηρὸς καὶ
ἁρπάζει τὸ ἐσπαρμένον ἐν τῇ καρδίᾳ αὐτοῦ, οὗτός ἐστιν ὁ παρὰ τὴν ὁδὸν σπαρείς).
- Voi dunque ascoltate (ὑμεῖς οὖν ἀκούσατε). La parabola è già stata ascoltata, e dunque ἀκούσατε, impt. aor.
di ἀκούω «ascolto, comprendo, apprendo, esaudisco», deve significare «intendete» e non semplicemente
«ascoltate».
- la parabola del seminatore (τὴν παραβολὴν τοῦ σπείραντος). L'espressione τοῦ σπείραντος, part. aor. att. di
σπείρω, significa «di colui che ha seminato», diverso dal participio presente σπείροντος «di colui che
semina», ovvero «il seminatore», che si trova invece in una correzione del codice Sinaitico, nei codici di
Efrem riscritto (C), di Beza (D), Regio (L) e altri testimoni. Questa espressione è la fonte del titolo
tradizionale della parabola. Tuttavia il centro dell'attenzione non è il seminatore ma il seme.
- la parola del Regno (τὸν λόγον τῆς βασιλείας). Questo modo di chiamare il messaggio di Gesù è insolito per
i Vangeli, e prepara il terreno per i successivi riferimenti alla «Parola» come termine tecnico usato per «il
vangelo».
- il Maligno (ὁ πονηρὸς). In Matteo usato solo qui e in 13,38, questo modo di chiamare il diavolo è più
comune nel corpus giovanneo. Nei testi paralleli, Mc 4,15 usa «satana» e Lc 8,12 «il diavolo».
- ciò che è stato seminato nel suo cuore (τὸ ἐσπαρμένον ἐν τῇ καρδίᾳ αὐτοῦ). Invece, nella Peshittà (versione
siriaca) e nella versione medio-egiziana, abbiamo «della parola che è stata seminata». Il «cuore» comprende
sia l'aspetto intellettuale sia quello emotivo. Questa potrebbe essere un'allusione all'insegnamento ebraico
sulla «cattiva inclinazione» (yetzer harà) in cui il male o «il maligno» partecipa alla lotta.
13,20-21: Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e
l’accoglie subito con gioia, 21ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena
giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno
(ὁ δὲ ἐπὶ τὰ πετρώδη σπαρείς, οὗτός ἐστιν ὁ τὸν λόγον ἀκούων καὶ εὐθὺς μετὰ χαρᾶς λαμβάνων αὐτόν,
21οὐκ ἔχει δὲ ῥίζαν ἐν ἑαυτῷ ἀλλὰ πρόσκαιρός ἐστιν, γενομένης δὲ θλίψεως ἢ διωγμοῦ διὰ τὸν λόγον
εὐθὺς σκανδαλίζεται).
- Quello che … colui che (ὁ δὲ … οὗτός). È reso così il casus pendens (praticamente un anacoluto). In questo
capitolo tale struttura ricorre altre due volte (vv. 22.38), ed è anzi una caratteristica di Matteo rispetto agli
altri sinottici (cf Mt 5,40; 6,4; 21,42; 26,23). Nel primo vangelo la troviamo infatti undici volte, contro le sei di
Luca e le quattro di Marco; solo Giovanni la usa di più (una trentina di volte). Poiché, pur essendo presente
anche nel greco classico, ricalca un periodare tipicamente semitico, il casus pendens per qualcuno rappresenterebbe il segno dell'originalità gesuana della parabola del seminatore e della sua spiegazione.
- radici (ῥίζαν). In greco, il termine è al singolare: ῥίζα «radice». Gran parte della terminologia usata in
questo passo - «seminare» nel senso di «predicare», «è incostante», «seduzione», «ricchezza», ecc. - è insolita
per i Vangeli ma tipica delle Epistole. Questo fenomeno suggerisce che l'interpretazione della parabola
rispecchia le esperienze della Chiesa primitiva e deve essere attribuita a essa.
13,22: Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del
mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto (ὁ δὲ εἰς τὰς
ἀκάνθας σπαρείς, οὗτός ἐστιν ὁ τὸν λόγον ἀκούων, καὶ ἡ μέριμνα τοῦ αἰῶνος καὶ ἡ ἀπάτη τοῦ πλούτου
συμπνίγει τὸν λόγον καὶ ἄκαρπος γίνεται).
- la preoccupazione del mondo (ἡ μέριμνα τοῦ αἰῶνος). La resa del sostantivo αἰών, ῶνος, ὁ è difficile: significa
anzitutto un lungo periodo di tempo, passato o che non ha fine, «eternità»; oppure si riferisce al luogo:
«questo mondo». Nel nostro caso può significare l'«oggi», il «tempo presente», il «mondo» o l'«universo». Il
termine αἰών andrebbe meglio tradotto con «fino alla fine del tempo», lasciando invece a κόσμος il senso di
11
«mondo». Alla base dell'espressione c'è la divisione escatologica giudaica tra «questo mondo/periodo
presente» (ha-’olam ha-ze) e il «mondo/periodo futuro» (ha-’olam hava).
13,23: Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende;
questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno» (ὁ δὲ ἐπὶ τὴν καλὴν γῆν
σπαρείς, οὗτός ἐστιν ὁ τὸν λόγον ἀκούων καὶ συνιείς, ὃς δὴ καρποφορεῖ καὶ ποιεῖ ὃ μὲν ἑκατόν, ὃ δὲ
ἑξήκοντα, ὃ δὲ τριάκοντα).
- Quello seminato sul terreno buono (ὁ δὲ ἐπὶ τὴν καλὴν γῆν σπαρείς). Solo apparentemente la parabola qui
raccontata è una spiegazione o una ripetizione di quanto si trova ai vv. 3-9: anche se fondata su quanto lì
narrato, Gesù dice qualcosa di nuovo. I personaggi cambiano e aumentano (non ci sono solo gli uccelli, ma
anche il maligno, raffigurato come un uccello, come già accadeva nei testi del giudaismo antico); anche
l'intreccio si complica: non basta dire della molteplicità del terreno, si aggiunge ora che questo terreno è il
mistero del cuore del discepolo (cf v. 19). È piuttosto una specie di commento omiletico, come lo erano le
parafrasi targumiche al testo biblico, utili ad attualizzare la parola per il presente di chi ascoltava.
Sembrerebbe che nella comunità di Matteo oramai non tutti i discepoli sappiano mettersi in ascolto delle
parole del Maestro, fino ad allora ricordate e tramandate, e che molti di coloro che, essendo giudeo-cristiani,
dovrebbero dare frutto invece non lo portino. Su come questo sia possibile indagherà anche la prossima
parabola, quella della zizzania. Se si guarda però a Marco, il primo vangelo propone un messaggio di
fiducia verso i suoi discepoli: in Mt 13,18 infatti l'evangelista non riporta il rimprovero che il Maestro
rivolge ai suoi in Mc 4,13, e il tono è piuttosto quello dell'invito a continuare a mettersi in ascolto. Nel
primo vangelo il Maestro è più paziente coi suoi discepoli, non li rimprovera come si legge in Marco, e li
accoglie anche nella loro poca fede o durezza di cuore.
Matteo 13,1-52 presenta sette (o otto) parabole. Prendendo parte del materiale da Mc 4,134, Matteo ha ampliato e completato la sua fonte per farne il terzo lungo discorso di Gesù, messo a metà del
Vangelo. Il «giorno delle parabole» assume così un'importanza centrale. Con questo discorso il pubblico
al quale è diretto l'insegnamento di Gesù passa dalle folle ai discepoli in genere.
Per quanto riguarda il ruolo del capitolo 13 nel racconto di Matteo, già nel 1966 Kingsbury aveva
notato che esso rappresenterebbe una svolta nel vangelo, che porta Gesù a terminare la sua predicazione al
popolo per concentrarsi invece sulla comunità dei suoi discepoli. Tutto questo potrebbe riflettere la
situazione della comunità dell'evangelista, che è entrata in contrasto col giudaismo ed è ormai costretta a
difendersi come Chiesa che custodisce il seme della Parola e il messaggio del Regno portato da Gesù.
Il tema principale delle parabole di Gesù è il mistero del rifiuto e dell'accoglienza della parola di
Gesù sul regno. Il problema di Matteo era identico a quello di Paolo: il mistero delle diverse reazioni al
vangelo. Matteo però dimostra di non essere a conoscenza della soluzione data da Paolo al mistero:
«l'ostinazione di una parte d'Israele è in atto fino a quando non saranno entrate tutte quante le genti. Allora tutto
Israele sarà salvato» (Rm 11,25-26). Matteo sfrutta anche lui il motivo dell'ostinazione, ma senza interessarsi
del futuro di Israele.
Una «meta-parabola» e il suo approfondimento: la cura per la parola (13,3b-23). Questo brano comprende
tre momenti: la parabola del seminatore (vv. 3b-9), un approfondimento sul perché Gesù parli in parabole
(vv. 10-17), e infine la spiegazione della parabola stessa, che risulta essere il commento matteano per la sua
comunità (vv. 18-23).
La spiegazione della parabola (vv. 18-23) è quasi un’omelia che sposta l’accento da Dio (com’era
nella parabola) all’uomo, dal seminatore e dal seme al terreno, dalla contemplazione di fede all’impegno
morale ed esistenziale. Il tema centrale di questa interpretazione è legato all’ascoltare-comprendere, cioè
all’adesione, all’amore operoso, all’accettazione «con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6,5)
della Parola di Dio e del Regno.
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Gli uccelli che divorano il seme svelano un cuore posseduto dal maligno che strappa ciò che è
stato seminato. I terreni pietrosi che lasciano solo attecchire un germoglio tisico rivelano gli incostanti, i
fragili, i deboli che la prova subito prostra. Le spine sono il simbolo dei superficiali e degli instabili legati ai
miti del benessere e dell’orgoglio. L'evangelista augura, infine, che i neoconvertiti della sua Chiesa siano
terreni fertili e fruttuosi grazie alle catechesi che essi ricevono.
La parabola del seminatore suggerisce un contrasto aspro tra azione di Dio (seme e seminatore) e
fallimento umano (i terreni improduttivi). La Parola ha come sorte più comune il rifiuto. E Gesù vuole che la
sua Chiesa sia consapevole anche di questo mistero dell’incomprensione, con serenità e pazienza. Non
deve lasciarsi coinvolgere dalla crisi della perseveranza nell’annuncio della Parola.
La parabola ci suggerisce anche una parola di certezza. L’efficacia di Dio non si infrange davanti al
rifiuto, la sua Parola trova infatti accoglienza nel cuore dei pochi, cioè del piccolo gregge, dei poveri, di
coloro che accettano con fiducia, entusiasmo e operosità la «buona notizia» del Cristo. La storia dei semi è,
quindi, un’allegoria della libertà umana e dell’efficacia del Regno.
La redenzione, che passa attraverso l’accoglienza della Parola, crea un mondo nuovo. Il piccolo
gruppo dei credenti diventa fermento che aiuta il cosmo e l’umanità tutta a liberarsi dagli squilibri e a
orientarsi secondo il piano che Dio ha tracciato.
La liturgia odierna è anche un grande canto della Parola di Dio, l’evento che raduna le nostre
comunità. Si potrebbe ribadire l’importanza dell’accoglienza «umana» della Parola. L’uomo non è solo
sentimento, è intelligenza, volontà, azione. Tutto l’uomo deve accogliere e lasciarsi invadere da questo
seme fecondo. La liturgia bizantina esclama: «Come sorgente per la vita eterna tu inondi il mondo con la tua
efficace parola, col tuo purissimo sangue, con l’acqua gloriosa del tuo Spirito».
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