XVI domencia TO A 2014

XVI domencia TO A
Sap 12,13.16-19; Sal 85; Rom 8,26-27; Mt 13,24-43
Prima Lettura Sap 12, 13. 16-19
Dal libro della Sapienza
Non c’è Dio fuori di te, che abbia cura di tutte le cose,
perché tu debba difenderti dall’accusa di giudice ingiusto.
La tua forza infatti è il principio della giustizia,
e il fatto che sei padrone di tutti, ti rende indulgente con tutti.
Mostri la tua forza quando non si crede nella pienezza del tuo potere, e
rigetti l’insolenza di coloro che pur la conoscono.
Padrone della forza, tu giudichi con mitezza e ci governi con molta
indulgenza, perché, quando vuoi, tu eserciti il potere. Con tale modo di
agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini, e
hai dato ai tuoi figli la buona speranza che, dopo i peccati, tu concedi il
pentimento.
Seconda Lettura Rm 8, 26-27
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo
conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa che cosa
desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio.
Vangelo Mt 13, 24-43 (Forma breve Mt 13,24-30)
Dal vangelo secondo Matteo
[ In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che
ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della
zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania.
Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo
campo? Da dove viene la zizzania?”. Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero:
“Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa
sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della
mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece ri!
ponètelo nel mio granaio”». ]
Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo
prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle
altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami».
Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre
misure di farina, finché non fu tutta lievitata». Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non
parlava ad esse se non con parabole, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta:
«Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo».
Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della
zizzania nel campo». Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il
mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno e il nemico che l’ha
seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie
la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi
angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li
getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il
sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!».
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Il Libro della Sapienza (LXX: Σοφία Σαλωμῶνος, Sofía Salōmỗnos, «Sapienza di Salomone»; Vulgata:
Liber Sapientiae) è un testo contenuto nella Bibbia cristiana (Settanta e Vulgata) ma non accolto nella Bibbia
ebraica (Tanakh). Come gli altri libri deuterocanonici è considerato ispirato nella tradizione cattolica e
ortodossa, mentre la tradizione protestante lo considera apocrifo. Anche se attribuito a Salomone, l'Autore è
anonimo. Il testo è scritto in greco, probabilmente ad Alessandria, forse sotto il regno dell'imperatore
Augusto, ossia negli ultimi decenni del I secolo a. C. Questo libro non presenta nessuna chiara analogia con i
generi letterari classici dell'Antico Testamento, mentre si mostra in dialogo con il mondo ellenistico. Il genere
letterario del Libro è quello dell'enkómion, o elogio. L'opera si compone di tre grandi parti: 1,1-6,21; 6,22-9,18;
10,1-19,22. Nell'ultima parte si rievoca l'Esodo in continuità con la creazione. L'autore si nasconde dietro la
figura di Salomone, il quale, giunto all'apice della propria gloria, ricorda le tappe della propria vita, per
riconoscervi come gli è stata data la Sapienza e ciò che essa gli ha apportato. Pur potendo distruggere la sua
creazione con una specie di anticreazione o con un suo solo soffio (pneuma) (11,15-20), Dio temporeggia,
chiude gli occhi sulle colpe e invia soltanto castighi leggeri, per risvegliare la coscienza del peccatore,
sperando solo che egli si penta e creda. Questa è stata la sua pedagogia moderata in occasione delle piaghe
d'Egitto. Il motivo di tale moderazione è che egli non cessa di amare la sua creazione, perché rimane
presente in essa per mezzo del suo Spirito incorruttibile. Questo atteggiamento di Dio dev'essere imitato dal
fedele, che è invitato a giudicare i peccatori con «moderazione» e benevolenza e, d'altra parte, quando egli
stesso pecca, è invitato a sperare nella misericordia di Dio, che dà tempo per pentirsi.
Sap 12,13: Non c’è Dio fuori di te, che abbia cura di tutte le cose, perché tu debba
difenderti dall’accusa di giudice ingiusto (οὔτε γὰρ θεός ἐστιν πλὴν σοῦ, ᾧ μέλει περὶ πάντων,
ἵνα δείξῃς ὅτι οὐκ ἀδίκως ἔκρινας, lett. «Nemmeno infatti Dio c'è eccetto te, il quale curi tutte (le cose), affinché mostri
che non ingiustamente giudichi»).
- Non c’è Dio fuori di te, che abbia cura di tutte le cose (οὔτε γὰρ θεός ἐστιν πλὴν σοῦ, ᾧ μέλει περὶ πάντων).
Nella pericope 12,11-27, la riflessione dell'A. si trasforma in stupita contemplazione dell'operato divino, che
traduce la sua onnipotenza non in forza distruttrice, ma in paziente pedagogia nei confronti della fragilità
umana (vv. 12-18). In questo modo, come un buon padre di famiglia, Dio insegna ai suoi figli che bisogna
perdonare ai propri simili in vista del loro ravvedimento (vv. 19-22). Soltanto davanti all'ostinazione nel
male, egli non trattiene la sua giustizia distruttiva (vv. 23-27). Nei vv. 13-14 si offre una risposta all'interrogativo del v. 12: Chi ti citerà in giudizio per aver fatto perire popoli che tu avevi creato? Essendo giusto Dio regge
ogni cosa con giustizia e ritiene cosa indegna della sua potenza far perire il giusto insieme con l'empio e
trattare il giusto alla pari dell'empio (cf Gn 18,25).
12,16: La tua forza infatti è il principio della giustizia, e il fatto che sei padrone di tutti, ti
rende indulgente con tutti (ἡ γὰρ ἰσχύς σου δικαιοσύνης ἀρχή, καὶ τὸ πάντων σε δεσπόζειν πάντων
φείδεσθαί σε ποιεῖ, lett. «La infatti forza di te (è) di giustizia principio e il di tutte le cose te dominare, con tutti indulgere
te fa»).
- La tua forza (ἡ γὰρ ἰσχύς σου). La giustizia e la clemenza di Dio trovano il loro fondamento nella sua forza e
nel suo dominio universale. Al contrario gli empi, spinti dalla loro debolezza e insicurezza, fanno della forza
(= prepotenza) la norma della loro condotta.
12,17: Mostri la tua forza quando non si crede nella pienezza del tuo potere, e rigetti
l’insolenza di coloro che pur la conoscono (ἰσχὺν γὰρ ἐνδείκνυσαι ἀπιστούμενος ἐπὶ δυνάμεως
τελειό τητι καὶ ἐν τοῖς εἰδόσι τὸ θράσος ἐξελέγχεις, lett. «Forza infatti mostri non credenti nella potenza pienezza, e
in coloro i quali conoscenti la temerarietà condanni»).
- Mostri la tua forza (ἰσχὺν γὰρ ἐνδείκνυσαι). La giustizia punitiva di Dio, provocata o dall'incredulità o dalla
temerarietà (cf Es 5,2; 7,4.23; 2Re 18, 31-35; Gv 16,8-11; Rm 1,21), raggiunge sia chi non crede (il Faraone, gli
empi), sia coloro che la conoscono (gli Israeliti). La distinzione tra ignoranza e ostinazione si trova alla base
di Sap 12,23-25. L'ostinazione del Faraone, la sua caparbietà provocheranno ulteriori piaghe sempre più
pesanti.
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12,18: Padrone della forza, tu giudichi con mitezza e ci governi con molta indulgenza,
perché, quando vuoi, tu eserciti il potere (σὺ δὲ δεσπόζων ἰσχύος ἐν ἐπιεικείᾳ κρίνεις καὶ μετὰ
πολλῆς φειδοῦς διοικεῖς ἡμᾶς· πάρεστιν γάρ σοι, ὅταν θέλῃς, τὸ δύνασθαι, lett. «Tu poi, padroneggiare forza,
con mitezza giudichi, e con molta indulgenza governi noi, è presente infatti a te quando vuoi il potere»).
- tu giudichi con mitezza e ci governi con molta indulgenza (ἐν ἐπιεικείᾳ κρίνεις καὶ μετὰ πολλῆς φειδοῦς
διοικεῖς ἡμᾶς, lett. «con mitezza giudichi, e con molta indulgenza governi noi»). Il giudizio di Dio è improntato a
ἐπιείκεια «bontà, mitezza, mansuetudine, benevolenza» (cf 2Cor 10,1). Nel greco profano epieíkeia designa la
giusta misura, ciò che è conveniente e proporzionato. È il contrario di ὕβρις, εως, ἡ, «insulto, oltraggio,
pericolo, danno» (cf At 27,10; 2Cor 12,10). Nella LXX il termine indica il perdono con una sfumatura di
bontà, di moderazione che un superiore usa nell'esercizio del suo potere. La moderazione e la grande
clemenza con cui Dio giudica e governa non riguarda solo gli Israeliti, ma quanti si convertono dalla loro
condotta malvagia (cf Gio 3,10-4,11; Ger 31,30.34; Ez 18,21.30-32; 33,11.16). Questo versetto condivide quanto
detto in 11,21-23: 21Prevalere con la forza ti è sempre possibile … 23Hai compassione di tutti, perché tutto puoi, chiudi
gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento.
12,19: Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli
uomini, e hai dato ai tuoi figli la buona speranza che, dopo i peccati, tu concedi il
pentimento (Ἐδίδαξας δέ σου τὸν λαὸν διὰ τῶν τοιούτων ἔργων ὅτι δεῖ τὸν δίκαιον εἶναι
φιλάνθρωπον, καὶ εὐέλπιδας ἐποίησας τοὺς υἱούς σου ὅτι διδοῖς ἐπὶ ἁμαρτήμασιν μετάνοιαν, lett.
«Insegnasti poi di te il popolo con le tali opere che deve il giusto essere filantropo, e buona speranza facesti i tuoi figli, poiché
dai dopo i peccati conversione»).
- hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini (Ἐδίδαξας δέ σου τὸν λαὸν … ὅτι δεῖ τὸν δίκαιον
εἶναι φιλάνθρωπον, «Insegnasti poi di te il popolo … che deve il giusto essere filantropo»). Dal comportamento di
Dio l'A. trae due insegnamenti: bisogna usare misericordia nel giudicare i nemici (Egiziani e Cananei), per
poter ricevere misericordia a nostra volta (Israele). Oltre questo coraggioso superamento della rigida
giustizia vendicativa procederà solo la voce di Cristo (Mt 5,43-48; Lc 6,27-35). La pedagogia di Dio verso
Israele è stata di paziente e tenera purificazione attraverso prove che avevano la solo funzione di riportare
il popolo infedele all'intimità amorosa dell'alleanza abbandonata, come aveva spiegato Os 1-3. La stessa
mitezza, pronta ad offrire tempo e modo per il ravvedimento, è stata alla base della politica misericordiosa
di Dio verso i cananei.
Il termine φιλάνθρωπος «filantropo, amante, amico dell'uomo», nel Libro della Sapienza,
non dev'essere interpretato secondo il significato moderno, ma secondo il significato che esso aveva
nell'antichità ellenistica. Due grandi retori greci del IV secolo a. C., Isocrate (436-338 a.C.) e Demostene (384 322 a.C.) insistono sulla filantropia delle autorità. La filantropia, secondo Demostene, supera e mitiga la
giustizia con un tocco di clemenza e di misericordia. Aristotele (384 - 322 a.C.) estende il campo della
filantropia a tutte le classi sociali, e gli stoici; dopo Teofrasto (371 - 287 a.C., filosofo e botanico), lo
estenderanno ulteriormente, sino ad abbracciare tutti gli uomini, che formano una sola famiglia. Nel
giudaismo ellenistico, in particolare nella Lettera di Aristea (II sec. a.C.), nel 2° Libro dei Maccabei e in Filone
(20 a.C. ca - 45 d.C. ca) la filantropia appare soprattutto come una virtù del principe. Per il giudaismo è
Dio stesso che pratica la filantropia.
Il comportamento moderato di Dio nei confronti degli egiziani e dei cananei ha fatto capire a Israele
la necessità di essere philánthrōpos «umano, amico degli uomini», a imitazione di Dio, il quale ha risparmiato
i cananei, «perché sono uomini» (12,8). Inoltre, questo comportamento di Dio ha lasciato ben sperare a
Israele peccatore di ricevere anche lui da Dio la μετάνοια, metánoia, «il pentimento» (12,19). Il testo mostra
che la moderazione divina si giustifica non soltanto con la creazione e con la presenza del «soffio di vita» in
tutte le cose, ma anche con il fatto che Dio vuole la riconciliazione con i peccatori e che essi abbiano fede in
lui. Pertanto, i castighi per i colpevoli saranno moderati e avranno lo scopo di avvertirli della loro situazione,
di suscitare il loro pentimento, la loro conversione e, infine, la loro fede in Dio. Da questo comportamento di
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Dio deriva un insegnamento per il credente. Questa filantropia consisterà nella moderazione, clemenza e
misericordia verso i colpevoli. Il testo di Sap 12,19 è dunque originale nell'Antico Testamento per la sua
chiarezza su un tema che il Nuovo Testamento riprenderà e svilupperà. Ora, di questo tema il Libro della
Sapienza è debitore non tanto alla Bibbia quanto alla cultura ellenistica.
La seconda lettura (Rom 8,26-27) ci propone ancora il celebre c. 8 della lettera ai Romani. Paolo ha già
riconosciuto due segni della tensione che attraversa il mondo: l’attesa della creazione cosmica (vv. 19-22) e
l’attesa dei credenti (vv. 23-25). Ora ci parla del terzo segno: i gemiti inesprimibili dello Spirito (vv. 26-27). Al
gemito del parto della nuova creazione e del nuovo uomo si unisce il desiderio appassionato dello Spirito
che conduce al Padre tutti i credenti. Dinanzi all'invocazione che lo Spirito pronuncia nei nostri cuori, Dio
non può rimanere indifferente: questa è la supplica perfetta in favore di un'umanità che «nemmeno sa che cosa
sia conveniente domandare». Con questa speranza il cristiano deve guardare al suo destino con fiducia. Il
credente, pur camminando nell’oscurità del presente, sa che «è giunto il regno di Dio» (Mt 12,28). Bene e male
costituiscono l’impasto della storia. Bisogna condividere la pazienza di Dio che non conosce
l’intransigenza, il radicalismo, l’integralismo ma concede tempo per il bene di tutti.
Rom 8,26: Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non
sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con
gemiti inesprimibili; (Ὡσαύτως δὲ καὶ τὸ πνεῦμα συναντιλαμβάνεται τῇ ἀσθενείᾳ ἡμῶν• τὸ γὰρ τί
προσευξώμεθα καθὸ δεῖ ουκ οἴδαμεν ἀλλὰ αὐτὸ τὸ πνεῦμα ὑπερεντυγχάνει στεναγμοῖς ἀλαλήτοις, lett.
«Similmente poi anche lo Spirito sollecita (Dio) per la debolezza di noi; infatti cosa preghiamo secondo ciò che è necessario
non sappiamo, ma lo stesso Spirito intercede con gemiti inesprimibili»)
- anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza (καὶ τὸ πνεῦμα συναντιλαμβάνεται τῇ ἀσθενείᾳ ἡμῶν).
Al grido e all'attesa della creazione e dei credenti si aggiunge quello dello Spirito che ci aiuta di fronte alla
debolezza della nostra perseveranza. Il verbo composto συναντιλαμβάνεται, ind. pres. med. di
συναντιλαμβάνομαι «vengo in aiuto, soccorro», utilizzato soltanto qui e in Lc 10,40 nel NT (LXX cf Es 18,22;
Nm 11,17; Sal 88,22), esprime bene il necessario aiuto dello Spirito per perseverare nella speranza, a causa
del nostro stato di ἀσθένεια «debolezza». In quest'azione dello Spirito è riconoscibile la sua forza
vivificante (cf Rm 8,11; Is 32,15-18; 44,3-5; Ez 36,26-27; Gl 3,1-2) e la sua permanente azione in favore dei
credenti. La quotidiana presenza dello Spirito è bene attestata anche nella letteratura qumranica (cf 1QH 7,6;
12,11-12; 13,18-19; 16,12).
- ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili (ἀλλὰ αὐτὸ τὸ πνεῦμα ὑπερεντυγχάνει στεναγμοῖς
ἀλαλήτοις). Concretamente, la nostra ἀσθένεια «debolezza» si esprime non tanto nel tipo inadeguato di
preghiera bensì nel contenuto stesso della nostra orazione; per questo motivo è necessario il soccorso dello
Spirito che intercede στεναγμοῖς ἀλαλήτοις «con gemiti inesprimibili». L'AT attesta molte preghiere di
intercessione, rivolte a Dio da personaggi come Abramo e Mosè (cf Gen 18.23-33; Es 8,8.12.28-30; Lv 16,21-22;
Nm 6,23-27; 2Sam 12,16; 1Re 18,22-40; Tb 12,12; Test. Levi 3,5,6; As. Mosè 11,14-16), ma la novità principale di
quest'affermazione paolina si trova nel fatto che, di fronte all'incapacità umana di sapere che cosa chiedere,
interviene lo Spirito che intercede in noi e per noi. L'affermazione sull'intercessione dello Spirito in noi è
unica nel NT, anche se non mancano le connessioni tra la preghiera e lo Spirito (cf Rm 15,30; Ef 6,18; Lc 11,912; Gd 20). Forse questa originale espressione è dovuta alla profonda relazione tra Gesù Cristo e lo Spirito,
tipica di Rm 8: l'intercessione dello Spirito si collega a quella di Cristo: Chi condannerà? Cristo Gesù è morto,
anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi! (8,34). Alcuni intravedono, nei gemiti inesprimibili (οι
αλάλητοι στεναγμοί) dello Spirito, l'esperienza estatica della glossolalia descritta in 1Cor 14, caratterizzata
dall'espressione di voci inarticolate e incomprensibili. Di fatto, Paolo non asserisce che quella dello Spirito è
una incomprensibile intercessione ascoltata nella comunità, bensì che si tratta di una muta intercessione,
non verbale, che è la condizione contraria della glossolalia. L'aggettivo ἀλάλητος, alálētos «indicibile,
ineffabile, inespresso» compare soltanto qui nel NT; lo stesso vale per il verbo composto ὑπερεντυγχάνω,
hyperentynchánō, «intercedo per, vengo in aiuto». D'altro canto, se la glossolalia è un carisma riservato ad
alcuni nella comunità, qui l'intercessione inespressa dello Spirito si riferisce al noi di tutti i credenti.
Pertanto, in qualsiasi preghiera di domanda, lo Spirito intercede per noi davanti a Dio; egli è come
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l'avvocato, il Paraclito che prende le nostre difese, di fronte a un tribunale giudicante, in situazioni di
cattività e di sofferenze.
8,27: e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i
santi secondo i disegni di Dio (ὁ δὲ ἐραυνῶν τὰς καρδίας οἶδεν τί τὸ φρόνημα τοῦ πνεύματος ὅτι
κατὰ θεὸν ἐντυγχάνει ὑπὲρ ἁγίων, lett. «Lo scrutante i cuori sa cos'è il desiderio dello Spirito, poiché secondo Dio
intercede per i santi»).
- egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio (ὅτι κατὰ θεὸν ἐντυγχάνει ὑπὲρ ἁγίων). Ritorna il motivo
dell'intercessione mediante il verbo ἐντυγχάνω «mi appello, presento suppliche, intercedo, supplico». Paolo
sottolinea che Dio conosce il desiderio dello Spirito, che in Rm 8,6 ha identificato con la vita e la pace; ora
egli aggiunge che tale desiderio dello Spirito consiste nell'intercessione per i credenti, riconosciuti come
ἅγιοι «santi». Tale qualifica riguarda tutti i credenti e non solo alcuni (cf Rm 1,7; 12,13; 15,25: 16,15; 1Cor
1,2; 6,2; 16,1.15; 2Cor 1,1; 13,12; Fil 1,1; 4,22; Fm 5). A causa della sua universalizzazione, in questi casi il
termine ἅγιος «santo» non esprime tanto la condizione etica quanto quella elettiva: tutti i credenti sono
santi in quanto eletti da Dio, in continuità con la relazione tra santità ed elezione riferita a Israele nell'AT
(cf Lev 19,2). A chi si riferisce l'espressione: ὁ ἐραυνῶν τὰς καρδίας «colui che scruta i cuori»? Il verbo usato
è il part. pres. di ἐραυνάω «scruto, esamino, ricerco con cura, indago». Di per sé potrebbe essere lo stesso
Spirito, che altrove è definito τὸ πάντα ἐραυνᾷ καὶ τὰ βάθη τοῦ θεοῦ «colui che scruta tutte le cose, anche
le profondità di Dio» (cf 1Cor 2,10). In tal caso lo Spirito di Dio entrerebbe in relazione con il nostro spirito,
come in Rm 8,16. Tuttavia, qui non si dice che lo Spirito attesta al nostro spirito ma che lo Spirito conosce il
nostro spirito perché intercede per i santi, espressione non riscontrabile altrove nel NT. Per questo, è
preferibile pensare a Dio come soggetto di colui che scruta o discerne i cuori (cf 1Ts 2,4).
Il vangelo (Mt 13,24-43) ci propone la seconda parte del «giorno delle parabole» che prevede sette
nuovi racconti: la parabola del grano e della zizzania (13,24-30), la parabola del seme di senape (13,31-32), la
parabola del lievito (13,33), la parabola del tesoro nascosto (13,44) e della perla (13,45-46), la parabola della
rete da pesca (13,47-50), e la parabola del padrone di casa (13,51-52).
Mt 13,24-25: Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo
che ha seminato del buon seme nel suo campo. 25Ma, mentre tutti dormivano, venne il
suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò (ἄλλην παραβολὴν
παρέθηκεν αὐτοῖς λέγων• ὡμοιώθη ἡ βασιλεία τῶν οὐρανῶν ἀνθρώπῳ σπείραντι καλὸν σπέρμα ἐν τῷ
ἀγρῷ αὐτοῦ. 25ἐν δὲ τῷ καθεύδειν τοὺς ἀνθρώπους ἦλθεν αὐτοῦ ὁ ἐχθρὸς καὶ ἐπέσπειρεν ζιζάνια ἀνὰ
μέσον τοῦ σίτου καὶ ἀπῆλθεν).
- Il regno dei cieli (ἡ βασιλεία τῶν οὐρανῶν). Le tre parabole che seguono (13,24-33: zizzania, senape, lievito)
sono accomunate dallo stesso incipit, la similitudine con il «Regno dei cieli», e da un lessico e contenuti
simili. Nel capitolo 13, il sintagma ἡ βασιλεία τῶν οὐρανῶν «Regno dei cieli» ricorre sette volte (32 in Mt).
Tipicamente matteano, corrisponde all'uso sinagogale antico, già attestato con Yōḥānān ben Zakkay [dottore
della Legge I sec. d.C., discepolo di Hillēl, capo dell'accademia farisaica di Gerusalemme e membro del sinedrio.
Oppositore dell'indirizzo nazionalista, desiderava la conciliazione coi Romani. Durante l'assedio di Gerusalemme
ottenne da Tito (70 d.C.) di poter aprire a Iavnè un'accademia di dottori, salvando in tal modo la tradizione
religiosa ebraica]. Conferma l'origine giudeo-cristiana della comunità di Matteo. È difficile dare una
definizione di questa espressione, perché legata solo al genere parabolico con la formula ὡμοιώθη «è simile
a». Un ulteriore problema nasce dalla traduzione del primo membro del sintagma: la parola βασιλεία,
basileía, oltre a «regno», può esprimere diversi concetti: «regalità», «dominio», «governo regio», «potestà
regia», «reame», «signoria». Nella sua antica traduzione in gotico, il vescovo Wulfila, nel IV secolo, rendeva il
termine in due modi diversi, con thiudinassus, «signoria», in senso astratto, e thiudangardi, «regno», in senso
spaziale. Entrambe le connotazioni (astrattezza o spazialità) non bastano a dar ragione del termine. Il Regno
dei cieli significa che Dio governa «come» un re. Nel vangelo di Matteo è importante anche la seconda parte
della frase: τῶν οὐρανῶν «dei cieli» (82 volte in Mt; 18 in Mc; 35 in Lc). L'espressione «Regno dei cieli» non è
più considerata una circonlocuzione alternativa a «regno di Dio», come si ipotizzava agli inizi del
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Novecento. Essa segnala piuttosto la grande differenza tra il Regno dove è presente Dio, e quelli terreni
governati dagli uomini (soprattutto l'impero romano), che sarebbero stati presto rimpiazzati, secondo le
parole di Gesù, da un'altra signoria. Per far questo, l'evangelista avrebbe preso come sfondo principale i
capitoli 2-7 di Daniele e l'escatologia giudaica in genere. Resta da aggiungere che il raffronto tra Regno (del
cielo) e quello (della terra) è reso possibile proprio attraverso la parabola di cui si fa largo uso in questo
capitolo. Solo così, il Regno dei cieli diventa un mondo riconoscibile nella realtà quotidiana.
- zizzania (ζιζάνια). La parabola della zizzania è senza paralleli nei sinottici. Il cattivo seme viene gettato dal
ἐχθρὸς «nemico» nello stesso campo in cui è già stato seminato il καλὸν σπέρμα «buon seme», e questo
avviene ἐν δὲ τῷ καθεύδειν τοὺς ἀνθρώπους «mentre gli uomini dormivano», indipendentemente dalla
loro volontà. Il greco τὰ ζιζάνια, tà zizánia (pl. tantum) è una specie di gramigna (lolium temulentum) che
cresce alta quanto il grano e non è strappata via fino al raccolto. Somiglia al grano buono, ma i suoi grani
sono neri. Il termine greco deriva dall'ebraico rabbinico zun-zunim, e la domanda: πόθεν οὖν ἔχει ζιζάνια;
«Da dove quindi [il campo] ha la zizzania?» (v. 27) riflette l'idea talmudica che la zizzania sia grano
degenerato, imbastardito: zunim deriva dalla radice zanah, «prostituirsi».
13,26-28: Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. 27Allora i servi
andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel
tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. 28Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto
questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?” (ὅτε δὲ ἐβλάστησεν ὁ χόρτος
καὶ καρπὸν ἐποίησεν, τότε ἐφάνη καὶ τὰ ζιζάνια. 27προσελθόντες δὲ οἱ δοῦλοι τοῦ οἰκοδεσπότου εἶπον
αὐτῷ• κύριε οὐχὶ καλὸν σπέρμα ἔσπειρας ἐν τῷ σῷ ἀγρῷ; πόθεν οὖν ἔχει ζιζάνια; 28ὁ δὲ ἔφη αὐτοῖς•
ἐχθρὸς ἄνθρωπος τοῦτο ἐποίησεν. οἱ δὲ δοῦλοι λέγουσιν αὐτῷ, θέλεις οὖν ἀπελθόντες συλλέξωμεν
αὐτά;).
13,29-30: “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa
sradichiate anche il grano. 30Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla
mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e
legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponételo nel mio granaio”» (ὁ δέ φησιν• οὔ,
μήποτε συλλέγοντες τὰ ζιζάνια ἐκριζώσητε ἅμα αὐτοῖς τὸν σῖτον. 30ἄφετε συναυξάνεσθαι ἀμφότερα
ἕως τοῦ θερισμοῦ, καὶ ἐν καιρῷ τοῦ θερισμοῦ ἐρῶ τοῖς θερισταῖς• συλλέξατε πρῶτον τὰ ζιζάνια καὶ
δήσατε αὐτὰ εἰς δέσμας πρὸς τὸ κατακαῦσαι αὐτά, τὸν δὲ σῖτον συνάγετε / συναγάγετε εἰς τὴν
ἀποθήκην μου).
- Lasciate che l'una e l'altro crescano insieme (30ἄφετε συναυξάνεσθαι ἀμφότερα). La risposta del padrone del
campo è improntata alla tolleranza. Il compito di discernere tra i buoni e i cattivi è demandato al padrone
di casa e ai suoi mietitori al momento del raccolto.
- fino alla mietitura (ἕως τοῦ θερισμοῦ). L'immagine del θερισμός, οῦ, ὁ «mietitura» è usata nell'AT come
metafora per il giudizio finale. Anche nella spiegazione allegorica è detto che «la mietitura è la fine del
mondo» (13,39).
- legatela in fasci per bruciarla (δήσατε αὐτὰ εἰς δέσμας πρὸς τὸ κατακαῦσαι αὐτά, lett. «legate esse in fasci per
il bruciare esse»). I fasci di erbacce venivano usati come combustibile, perciò andavano distrutti.
La prima parabola del Regno è quella del grano e della zizzania (13,24-30), inserita nello scenario della semina
già presente nella parabola del seminatore (13,3-9). Esclusiva di Matteo, è un'allegoria della storia del
mondo e del Regno dei cieli. A un primo livello di lettura, la parabola (mashal) racconta che tutto accade
mentre si dorme, senza coscienza dell'uomo, ovvero, senza che questi si possa pienamente rendere conto
dell'intervento del nemico che semina altro. Con questo si vuol dire che agli uomini, che pure si sforzano di
controllare ogni cosa (la semina e il raccolto) non spetta la piena comprensione della realtà. Infatti, non si
conosce il tempo nel quale il Figlio dell'uomo ha seminato il grano buono, e la semina della zizzania è
compiuta di notte, mentre tutti dormono. La zizzania viene seminata da un nemico avvolto dall'oscurità, di
cui si ignora la provenienza: esiste ma non è voluto da Dio, perché fa il contrario di ciò che fa Dio e perciò è
definito αὐτοῦ ὁ ἐχθρὸς «il suo nemico» (13,25). Il discepolo che ascolta/legge la parabola capisce così che
deve affrontare non solo gli ostacoli naturali, quelli della propria vita coi suoi limiti, ma anche gli ostacoli
posti da chi non vuole il suo bene: la vita cristiana è una vera e propria lotta contro il male, ὁ πονηρός «il
Maligno» (cf v. 19). L'immagine dell'avversario-seminatore corrisponde all'avversario-uccello rapace che si
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impadronisce del seme gettato (cf v. 4). Probabilmente la comunità di Matteo sperimenta qualche pressione
dall'esterno, ovvero da parte del «Maligno» (v. 19) o «nemico» (v. 25), figure che diventeranno la stessa
persona: «il nemico che l'ha seminata è il diavolo» (13,39). Già nel discorso missionario Gesù aveva detto che i
nemici del discepolo sarebbero stati «quelli della sua casa» (10,36), e ora aggiunge che chiunque rubi o getti
zizzania è avversario del Regno e di Dio stesso.
13,31: Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di
senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo (ἄλλην παραβολὴν παρέθηκεν αὐτοῖς
λέγων• ὁμοία ἐστὶν ἡ βασιλεία τῶν οὐρανῶν κόκκῳ σινάπεως, ὃν λαβὼν ἄνθρωπος ἔσπειρεν ἐν τῷ
ἀγρῷ αὐτοῦ).
- un granello di senape (κόκκῳ σινάπεως). L'idea della parabola è la piccolezza del seme rispetto alla pianta
adulta. La pianta/albero della senape può raggiungere l'altezza di 3-4 metri. In Mc 4,32 gli uccelli fanno il
nido all'ombra della pianta della senape. In Mt 17,20 il seme di senape è usato per descrivere il potere della
fede che smuove le montagne. Il contrasto più piccolo/più grande è presente anche in Mc 4,31-32.
13,32: Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre
piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra
i suoi rami» (ὃ μικρότερον μέν ἐστιν πάντων τῶν σπερμάτων ὅταν δὲ αὐξηθῇ μεῖζον τῶν λαχάνων
ἐστὶν καὶ γίνεται δένδρον, ὥστε ἐλθεῖν τὰ πετεινὰ τοῦ οὐρανοῦ καὶ κατασκηνοῦν ἐν τοῖς κλάδοις
αὐτοῦ).
- vengono a fare il nido. I testi dell'AT che meglio rispondono alle immagini presentate in Mt 13,32 sono Ez
17,22-24.31; Sal 104,12; Dn 4,10-12.20-27. Ci potrebbe essere un'allusione al raduno dei popoli (cf Giuseppe e
Aseneth 15,7), anche se a questo motivo qui non viene dato alcun risalto. Ciò che è importante è il consueto
contrasto tra gli umili inizi del regno e la grandezza del risultato.
La seconda parabola del Regno è quella del granello di senape (13,31-32). La chiave per entrare nella seconda
immagine che Gesù usa per illustrare il Regno, con una parabola che Matteo condivide con Marco e Luca,
non è tanto la dimensione dell'albero di senape, quanto piuttosto il rapporto tra la piccolezza del seme e il
frutto o l'albero che ne diviene. Questa parabola viene comunemente definita una parabola della "crescita".
L'accento non è sulla piccolezza del seme, ma sull'effetto miracoloso che esso produce, una volta
seminato. Quest'accento si ritrova anche nell'apocrifo Vangelo di Tommaso (20): «È simile a un granello di
senape, che è il più piccolo di tutti i semi. Ma quando cade sulla terra arata, produce un grosso arbusto e
diventa un rifugio per gli uccelli del cielo». Secondo l'idea che se ne facevano gli antichi, un seme deposto
sotto terra muore: "Se il chicco di grano, caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto
frutto" (Gv 12,24). Matteo pensa esattamente nello stesso modo, prova ne sia che Giovanni fa seguire a questo
mashal (proverbio o parabola) quella che è forse la più autentica e la più attestata di tutte le parole di Gesù:
Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà nella vita eterna (Gv 12,25;
cf Mt 10,39; 16,25). «Perdere la vita» (ψυχή, psyché) vuol dire dare la propria «anima», vuol dire adempiere
all'esigenza più radicale dello Shemà: amare il Signore nostro Dio con tutta la nostra anima, «perfino se egli ti
chiedesse il dono della vita». Ecco in che cosa consiste il più grande mistero del regno: il regno è una
potenza divina prodigiosa, dagli esiti imprevedibilmente grandi, che è messo in atto da un piccolo gesto
sovente nascosto, il più delle volte ignorato da tutti: il dono della propria vita.
13,33: Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna
prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata» (ἄλλην παραβολὴν
ἐλάλησεν αὐτοῖς• ὁμοία ἐστὶν ἡ βασιλεία τῶν οὐρανῶν ζύμῃ, ἣν λαβοῦσα γυνὴ ἐνέκρυψεν εἰς ἀλεύρου
σάτα τρία ἕως οὗ ἐζυμώθη ὅλον).
- simile al lievito (ὁμοία … ζύμῃ). La ζύμη, ης, ἡ «lievito» è un agente di fermentazione che, aggiunto a un
impasto di farina, lo fa sollevare e aumentare di volume. Qui si dà per scontato che esso è una forza vitale
positiva (non come in Mt 16,6 e in 1 Cor 5,6-8).
- mescolò (ἐνέκρυψεν). Il verbo ἐνέκρυψεν, ind. aor. di ἐγκρύπτω «nascondo, ripongo, mescolo, impasto
con» sarebbe preferibile tradurlo con «nascose» per cogliere meglio il collegamento con 13,35: κεκρυμμένα
«cose nascoste», part. perf. pass. di κρύπτω «occulto, nascondo, celo», e con tutto il senso della parabola.
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- in tre misure di farina (εἰς ἀλεύρου σάτα τρία). Il greco σάτον (pl. σάτα) è un'unità di misura per grano e
farina, corrispondente a circa 13 litri di capacità. Traduce l'ebraico sĕ'ãh (pl.sĕ'im). Si tratta pertanto di una
grande quantità di farina, sufficiente per molte persone. La parola compare solo sei volte nell'AT, ma la
quantità qui espressa è identica a quella usata da Sara in Gen 18,6. Secondo J. Jeremias (1900-1979, teologo,
orientalista ed esegeta tedesco) tre sáta corrisponderebbero a circa 40 chili di farina e il pane ottenuto poteva
sfamare più di 100 persone. Come nella parabola del seme di senape, ciò che conta è il contrasto tra la piccola
quantità di lievito e il vistoso risultato.
La terza parabola del Regno è quella del lievito (13,33), ripresa da Lc 13,20-21. Protagonista, unico caso in
tutte le parabole di questo capitolo, è una donna, elemento simbolico che prepara la scena domestica
successiva, in cui Gesù entra in casa (v. 36). Nella cultura del tempo l'immagine del lievito non doveva
essere del tutto positiva (cf Mt 16,5-12: lievito dei farisei; 1Cor 5,7-8: Togliete via il lievito vecchio). Nella prassi
liturgica di Israele a Pesach è prevista il Bi’ur chametz «annullamento del lievito» (cf Es 12,18-20.34.39; Nm
28,16-17; Dt 16,3-4), che rappresenta qualcosa di impuro. Probabilmente Gesù sceglie volutamente un
simbolo ambiguo, per rovesciare il senso. Il lievito è nascosto come lo è il Regno che opera, ma non si fa
vedere, non è appariscente. Le due parabole del seme e quella del lievito sono legate da un filo nascosto. A.
Mello (1951, monaco di Bose) elabora una bella interpretazione, secondo la quale l'uomo che ha seminato il
seme di senape è Abraam, il padre dei credenti, colui che per primo, con la sua fede, ha «fatto regnare» Dio
in questo mondo (cf la fede/seme in Mt 17,20). Inoltre, nella Bibbia vi è una sola donna che abbia
impastato tre staia di farina (Gen 18,6): Sara che prepara il banchetto ai tre ospiti che le annunziavano la
nascita di Isacco. Pertanto, le due parabole leggono la storia del Regno come un unico straordinario
processo di crescita che dagli inizi più modesti, con Abramo e Sara, giunge al compimento con la venuta di
Gesù Messia. In termini profetici: Così dice il Signore Dio: Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro, dalle
punte dei suoi rami lo coglierò e lo pianterò sopra un monte alto, imponente; lo pianterò sul monte alto d’Israele.
Metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico. Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno, ogni volatile
all’ombra dei suoi rami riposerà (Ez 17,22-23; cf. 31,6; Dn 4,9.18). Tutto il mondo, dunque, ossia il regno di Dio
in questo mondo, si fonda sulla fede di Abramo, ma ciò è esprimibile solamente in parabole che non a
tutti è dato di capire.
13,34-35: Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non
con parabole, 35perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: Aprirò la
mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo (Ταῦτα
πάντα ἐλάλησεν ὁ Ἰησοῦς ἐν παραβολαῖς τοῖς ὄχλοις καὶ χωρὶς παραβολῆς οὐδὲν ἐλάλει αὐτοῖς, 35ὅπως
πληρωθῇ τὸ ῥηθὲν διὰ τοῦ προφήτου λέγοντος• ἀνοίξω ἐν παραβολαῖς τὸ στόμα μου ἐρεύξομαι
κεκρυμμένα ἀπὸ καταβολῆς [κόσμου]).
- per mezzo del profeta (διὰ τοῦ προφήτου). Alcuni testimoni riportano il nome del profeta «Isaia», ma la
citazione non è tratta da Isaia, ma dal Sal 78,2. Questo Salmo, nella tradizione giudaica, è considerato
equivalente alla Torà: «Nessuno venga a dirti che i salmi non sono Torà, perché essi sono Torà, come anche i
Profeti. Perciò sta scritto: "Ascolta, popolo mio, la mia Torà..." (Sal 78,1). Per questo si dice: "Aprirò la mia
bocca in parabole...". Domandarono ad Asaf: E tu come lo sai? Hai forse visto? Rispose: Io lo so per averlo
udito...» (Midrash Tehillìm Sal 78,2).
- dalla fondazione (ἀπὸ καταβολῆς). È un'espressione semitica che può implicare due concetti. Da una parte
quello della creazione e quindi il sintagma ἀπὸ καταβολῆς κόσμου «dalla fondazione del mondo» si
riferisce all'atto creativo divino (Giuseppe Flavio usa il termine καταβολή proprio nel senso di «inizio»). A
partire da questa interpretazione, si può notare che nel contesto di questo capitolo il sintagma ha qualche
collegamento con le parabole della semina, perché alla lettera καταβολή implica l'idea di «piantare»,
«mettere giù» un seme (anche quello dell'uomo); ecco perché qualcuno ha tradotto il sintagma con «piantare
il seme della razza umana». Oppure l'espressione si può intendere come «porre le fondamenta» della
creazione (e della vita che è in essa), al modo in cui un architetto ha cura di «tutta la costruzione» di una casa
nuova (cf 2Mac 2,29: τῆς ὅλης καταβολῆς). D'altra parte, secondo A. Mello la «fondazione» (qui e in Mt
25,34) non alluderebbe alla creazione, quanto piuttosto all'inizio del regno di Dio nella storia, ovvero alla
storia della salvezza inaugurata da Abramo, Sara e Isacco. In ogni caso, qualunque sia l'inizio a cui si
allude, ora queste cose sono rivelate attraverso le parabole di Gesù.
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- del mondo ([κόσμου]). Il genitivo «del mondo» è presente in molti testimoni, ma assente nel codice Vaticano
(B) e in manoscritti di altri tipi testuali. La lectio brevis è normalmente da preferire, ma l'edizione critica ha
scelto di conservare la variante, anche se tra parentesi quadre, per segnarne l'incertezza. La frase intera
«fondazione del mondo» ritornerà in 25,34.
Nei vv. 34-35 abbiamo di nuovo, quasi per inciso, una breve digressione sul perché del linguaggio
parabolico di Gesù: Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole (13,34) fa inclusione con il v. 3: parlò loro di
molte cose con parabole. Il perché delle parabole questa volta è illustrato dalla citazione di compimento del
Sal 78,2, salmo storico che narra «gli enigmi del passato». Queste «problematiche antiche» in Matteo
diventano κεκρυμμένα ἀπὸ καταβολῆς [κόσμου] «cose nascoste fin dalla fondazione del mondo» (13,35),
espressione matteana che ritorna in 25,34, dove si parla del τὴν ἡτοιμασμένην ὑμῖν βασιλείαν ἀπὸ
καταβολῆς κόσμου «regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo». A partire da Abramo i misteri
del regno sono κεκρυμμένα «cose nascoste» che solo adesso, con l'evangelo di Gesù, cominciano a essere
rivelate con parabole. Pertanto una certa «disciplina dell'arcano» permane ancora nell'economia evangelica
della pienezza dei tempi. La parabola è lo strumento più adatto per esprimere l'inesprimibile, per alludere
all'indicibile; uno strumento che non vuole essere criptico, ma annuncia la Parola καθὼς ἠδύναντο ἀκούειν
«come potevano intendere» (Mc 4,33).
13,36: Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli:
«Spiegaci la parabola della zizzania nel campo» (Τότε ἀφεὶς τοὺς ὄχλους ἦλθεν εἰς τὴν οἰκίαν. καὶ
προσῆλθον αὐτῷ οἱ μαθηταὶ αὐτοῦ λέγοντες• διασάφησον ἡμῖν τὴν παραβολὴν τῶν ζιζανίων τοῦ
ἀγροῦ).
- Spiegaci (διασάφησον ἡμῖν). Il verbo διασάφησον, impt. aor. di διασαφέω, il cui significato è «esporre nel
dettaglio», ritornerà in 18,31. Alcuni testimoni antichi però leggono Φράσον ἡμῖν «interpreta per noi,
spiegaci», dal verbo φράζω che si trova sulla bocca di Pietro in 15,15.
13,37: Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo (ὁ δὲ ἀποκριθεὶς
εἶπεν• ὁ σπείρων τὸ καλὸν σπέρμα ἐστὶν ὁ υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου,).
13,38-42: Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli
del Maligno 39e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e
i mietitori sono gli angeli. 40Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco,
così avverrà alla fine del mondo. 41Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali
raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità 42e li
getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti (ὁ δὲ ἀγρός ἐστιν ὁ
κόσμος, τὸ δὲ καλὸν σπέρμα οὗτοί εἰσιν οἱ υἱοὶ τῆς βασιλείας• τὰ δὲ ζιζάνιά εἰσιν οἱ υἱοὶ τοῦ πονηροῦ, 39ὁ
δὲ ἐχθρὸς ὁ σπείρας αὐτά ἐστιν ὁ διάβολος, ὁ δὲ θερισμὸς συντέλεια αἰῶνός ἐστιν. οἱ δὲ θερισταὶ
ἄγγελοί εἰσιν. 40ὥσπερ οὖν συλλέγεται τὰ ζιζάνια καὶ πυρὶ κατακαίεται οὕτως ἔσται ἐν τῇ συντελείᾳ
τοῦ αἰῶνος• 41ἀποστελεῖ ὁ υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου τοὺς ἀγγέλους αὐτοῦ, καὶ συλλέξουσιν ἐκ τῆς βασιλείας
αὐτοῦ πάντα τὰ σκάνδαλα καὶ τοὺς ποιοῦντας τὴν ἀνομίαν 42καὶ βαλοῦσιν αὐτοὺς εἰς τὴν κάμινον τοῦ
πυρός• ἐκεῖ ἔσται ὁ κλαυθμὸς καὶ ὁ βρυγμὸς τῶν ὀδόντων).
La spiegazione allegorica è una specie di dizionario di sette termini: il seminatore, il campo, il seme, la
zizzania, il nemico, la mietitura e i mietitori.
- i figli del Maligno (οἱ υἱοὶ τοῦ πονηροῦ). Qui πονηρός implica probabilmente il male personificato, come si
deduce dal contesto, nel quale appare il «maligno» nella forma di uccelli rapaci (cf 13,4.19) e di un seminatore di zizzania (cf 13,25.28).
- La mietitura è la fine del mondo (ὁ δὲ θερισμὸς συντέλεια αἰῶνός ἐστιν). L'espressione συντέλεια αἰῶνος
significa «compimento del tempo» o «fine del mondo». L'espressione è tipicamente matteana (cf 13,40.49;
24,3; 28,20; non si trova altrove nel NT, mentre συντέλεια da solo appare anche in Eb 9,26) ed è caratteristica
della letteratura apocalittica giudaica, per la quale Matteo ha una evidente predilezione.
- 41Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli (41ἀποστελεῖ ὁ υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου τοὺς ἀγγέλους αὐτοῦ). Gli unici
altri due riferimenti agli angeli del Figlio dell'uomo che si trovano nel NT sono Mt 16,27 e 24,31. L'idea del
regno del Figlio dell'uomo è senza riscontri.
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- i quali raccoglieranno (συλλέξουσιν). Il verbo συλλέξουσιν è ind. fut. di συλλέγω «raccolgo, raduno».
Probabilmente c'è un'allusione a Sof 1,3: Distruggerò uomini e bestie … farò inciampare i malvagi, eliminerò
l'uomo dalla terra. La raccolta è eseguita a scopi di distruzione.
- tutti gli scandali (πάντα τὰ σκάνδαλα). Alla lettera lo σκάνδαλον è qualcosa che fa cadere, un ostacolo sul
cammino. In questo versetto è personificato da quelli che fanno cose contro la Torà. Il lessema ricorre anche
in 16,23 e 18,7.
- tutti quelli che commettono iniquità (τοὺς ποιοῦντας τὴν ἀνομίαν). Espressione tradotta anche: «quelli che
sono di inciampo», cioè quelli che fanno cose contro la Torà. Il termine ἀνομία significa «illegalità, iniquità,
colpa, peccato».
- e li getteranno nella fornace ardente (βαλοῦσιν αὐτοὺς εἰς τὴν κάμινον τοῦ πυρός). L'espressione è tratta da
Dn 3,6.11.15.20. E tuttavia il testo dell'AT non è così esplicitamente apocalittico come lo è quello di Matteo.
13,43: Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi,
ascolti! (τότε οἱ δίκαιοι ἐκλάμψουσιν ὡς ὁ ἥλιος ἐν τῇ βασιλείᾳ τοῦ πατρὸς αὐτῶν. ὁ ἔχων ὦτα
ἀκουέτω).
- i giusti splenderanno (οἱ δίκαιοι ἐκλάμψουσιν). Si tratta di un'immagine presa da Dn 12,3, che si trova anche
nella letteratura apocalittica apocrifa, e che richiama il cantico di Debora del libro dei Giudici: «Così periranno
tutti i tuoi nemici, Signore. Quelli che ti amano siano come il sole al levarsi in tutta la sua forza»: Gdc 5,31). Secondo
alcuni commentatori la descrizione del volto di Gesù nella trasfigurazione in Mt 17,2, che «splende come il
sole», elemento che non ha paralleli in Marco e Luca, richiama le parole di Gesù sui giusti pronunciate in
questo versetto. In questo caso, la trasfigurazione di Gesù mostra già ora quella che sarà la sorte di tutti
giusti. Il tema dei «giusti» e della «giustizia» è caratteristico di Matteo (cf 3,15; 5,6.10; 27,19). Della
ricompensa dei giusti se ne parla in Dn 12,3; «I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che
avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come stelle per sempre».
Passando a un livello successivo di lettura (nimshal), nei vv. 36-43 Matteo ci offre la
spiegazione della parabola della zizzania, mediante un cambio di uditorio, di scena e di accento. Infatti, i vv.
3-9 sono stati detti alle folle sulla barca; i vv. 10-23 suppongono già un intervallo di intimità con i discepoli; i
vv. 24-33 ancora in pubblico, senza che si precisi luogo e circostanza; i vv. 36-43 sono di nuovo in privato «in
casa». In questo contesto matura la domanda dei discepoli: Spiegaci la parabola della zizzania nel campo (13,36).
La risposta che segue (vv. 37-39) è anzitutto un piccolo lessico allegorico dei sette termini principali della
parabola: il seminatore, il campo, il seme, la zizzania, il nemico, la mietitura e i mietitori. Colui che semina
il buon seme è il Figlio dell'uomo (v. 37): dunque l'interpretazione della parabola è messianica ed escatologica
(essendo il Figlio dell'uomo colui che deve ancora venire) e non teologica. Il campo è il mondo, e non soltanto
la Chiesa, ma un mondo da evangelizzare o già in qualche misura evangelizzato. Il seme buono sono i figli del
Regno: ebrei e gentili "messianici". La zizzania sono i figli del Maligno: ὁ πονηρός, ho ponērós designa il nemico
che l'ha seminata, cioè il diavolo. La mietitura è la fine del mondo: il termine usato non è kósmos ma αἰών, aión,
che significa «tempo», e tutta l'espressione συντέλεια τοῦ αἰῶνος, syntéleia toũ aiỗnos significa «chiusura
del tempo», della storia. La «fine del mondo» o «chiusura del tempo» presente è un'espressione solo di
Matteo nel NT, ma diffusa nelle apocalissi a lui contemporanee, per es. quella di Baruk e nei targumin. Essa
presuppone la frase idiomatica: be-acharìt ha-jamim, «alla fine dei giorni». I mietitori sono gli angeli che
accompagneranno la venuta del Figlio dell'uomo (cf 16,27; 24,31; 25,31). Matteo è il solo autore evangelico
che abbia quest'idea. La mietitura come metafora del giudizio finale è derivata anch'essa dall'AT (Gl 3,13;
Ger 51,33; Os 6,11).
La seconda parte della spiegazione della parabola (vv. 40-43) corrisponde a una «piccola apocalisse»,
con la descrizione di ciò che avverrà alla venuta del Figlio dell'uomo con i suoi angeli. Fondamentalmente,
avverrà una separazione dei malvagi dai buoni, proprio quel tipo di operazione che era vivamente
sconsigliato nella parabola della zizzania.
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Tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità (πάντα τὰ σκάνδαλα καὶ τοὺς ποιοῦντας
τὴν ἀνομίαν, v. 41 ) sono altre due interpretazioni della "zizzania", probabilmente dovute all'influsso di un
testo di Sofonia (1,3) interpretato midrashicamente: Distruggerò uomini e bestie; distruggerò gli uccelli del cielo e i
pesci del mare, farò inciampare i malvagi, eliminerò l’uomo dalla terra. Molte espressioni apocalittiche sono tipicamente matteane: iniquità; fornace ardente per designare la geenna; pianto e stridore di denti.
Questa spiegazione, con il suo forte accento apocalittico sul giudizio finale, si discosta molto dalla
parabola che mira a trasmettere il senso della misericordia e della pazienza che precedono il giudizio. Ma
non vi è contraddizione: l'uno e l'altro è evangelo secondo Matteo! Matteo è uno scriba abbastanza
equipaggiato per saper armonizzare una sensibilità rabbinica con un linguaggio apocalittico; ma è
soprattutto un uomo abbastanza magnanimo, evangelico per non consentire che i toni minacciosi,
apocalittici, del giudizio che incombe su ogni carne, abbiano il sopravvento sulla misericordia, che è la legge
nel regno del Figlio dell'uomo (13,41).
Quale attività diabolica è implicata con l'immagine del rubare il seme buono o il gettare zizzania?
L'interpretazione della parola del Regno riconosce il terreno sul quale si è già misurato Gesù con Satana
(Mt 4,1-11): «Il discepolo ha già avuto dall'esperienza del suo Maestro la dimostrazione di un'attività del
diavolo atta a distorcere il senso della Parola. È avvertito quindi del fatto che la prima delle funzioni del
Maligno è proprio il deviare l'uomo dalla comprensione della Parola, privarlo del suo dono e portarlo
sotto un altro potere, che non consenta più il vivere da discepolo. Il messaggio del Regno corre sempre il
rischio di essere falsato, riletto in maniera distorta, esposto al rischio di una cattiva interpretazione. Non a
caso il confronto avviene nel cuore del discepolo, nella sede della sua coscienza» (A. Andreozzi, L'officina
delle parabole, 2013). Inoltre, chi potrebbero essere quelli che interpretano male le parole del Regno?
L'avversario potrebbe essere chiunque tenti di attenuare il senso delle parole di Gesù e la sua spiegazione
della Torà. La parabola però si apre alla speranza: insistendo nel dire che il campo è del seminatore («ha
seminato un seme buono nel suo campo»: 13,24), Matteo sottolinea che il mondo è nelle mani del Figlio
dell'uomo: è lui che se ne dovrà preoccupare e non si lascerà sfuggire di mano il raccolto buono. Inoltre, se
la realtà non può essere pienamente afferrata dall'uomo, allora questa non lascia nemmeno spazio a una
soluzione definitiva (un giudizio) per l'oggi: bisognerà aspettare domani. Di fronte all'incombere del male
(la zizzania), che cresce e che forse è molto più evidente del grano buono, quella che i servi propongono è
una soluzione da «servi», non da discepoli: «Vuoi che andiamo a raccoglierla?» (13,28b). Non deve accadere che
per eliminare il male anche il bene subisca danno, si deve piuttosto attendere la fine del mondo: «Il grano e
la zizzania, cioè il bene e il male, crescono insieme in un intreccio che non spetta all'uomo districare. Lo
farà il Signore a suo tempo» (B. Maggioni). Certo, ciò sconcerta, ma la parabola serve anche a questo, a
esortare i discepoli alla pazienza di fronte alle prove della vita. Inoltre, è importante ricordare che il non
dover estirpare la zizzania corrisponde anche all'invito di Gesù ad amare i propri «nemici» (ἀγαπᾶτε τοὺς
ἐχθροὺς ὑμῶν), ovvero quelli che possono essere anche il prossimo (cf 5,43; 19,19; 22,39) che cresce accanto
come la zizzania e addirittura anche quelli della propria famiglia (cf 10,36). Come antidoto al desiderio di
eliminarli, espresso dai servi, la parola di Gesù è di grande aiuto. Vi è però un altro aspetto importante che
deriva dalla parabola: il tempo, il «mondo» è destinato a finire (cf 13,39); non c'è un «per sempre» delle
realtà terrene, tutto ha una conclusione, tutto è sottoposto alla caducità. E nel mondo, oltre all'incombere
del male nella sua forma di seminatore di zizzania, vi è anche una misteriosa e buona presenza angelica (cf
13,39; tema caro a Matteo, che parla degli angeli venti volte, rispetto a Marco, solo sei), per dire che gli
uomini non sono abbandonati alla loro sorte. Dietro un semplice racconto che parla di campi e di semi, è
nascosto il segreto del nostro mondo e del Regno. Quella della zizzania e del grano è senz'altro la parabola
più escatologica di tutte, quella che apre il cuore alla prospettiva futura e che prepara il lettore al discorso
sulla fine del tempo, che troverà nei capitoli 24-25. Ma ha anche un forte senso legato alla vita della Chiesa:
«Matteo vuol spiegare come mai né il mondo né la stessa Chiesa siano fatti solo di giusti, e come si debba
imparare ad accettare pazientemente questo fatto, pena un peccato ancora più grave di orgoglio e di
presunzione» (A. Mello).
La parabola, spesso riferita ai peccatori e agli eretici all'interno della chiesa, insegna la pazienza e la
misericordia. "Lasciate che crescano insieme fino alla mietitura" vuol dire: che "si dà spazio alla penitenza",
secondo Gerolamo. Questa dilazione del giudizio non avviene perché sia arduo distinguere i giusti dai
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peccatori. La zizzania si riconosce subito, non appena gli steli sono cresciuti e hanno formato i semi. Ma
questo tempo della maturazione, prima della mietitura, è concesso a tutti per poter fare penitenza. Non si
deve cedere alla tentazione di anticipare il giudizio, perché sarebbe una presunzione che rischierebbe di
corrompere anche i giusti: raccogliere la zizzania vuol dire sradicare anche il buon grano. In questo modo
Matteo vuol spiegare come mai né il mondo né la stessa chiesa siano fatti solo di giusti, e come si debba
imparare ad accettare pazientemente questo fatto, pena un peccato ancora più grave di orgoglio e di
presunzione. Naturalmente, una parabola non spiega tutto, e può sollevare ancora più problemi di quelli che
risolve: chi è il "padrone di casa", il possidente terriero che ha seminato il buon seme? Lo stesso seminatore
della parabola precedente, ossia Gesù, oppure Dio Padre (come molti ritengono, facendo della parabola un
trattato di teodicea)? Chi è, soprattutto, "l'uomo nemico" che di notte ha seminato la zizzania? Matteo si è
accorto che queste domande erano gravi e non potevano essere eluse, perciò si è riservato di offrire una
spiegazione della parabola (vv. 36-43), che sposta l'accento sul giudizio finale. In questo caso, è il darshan
(dalla radice darash, cercare, è colui che fa midrash), l'interprete di se stesso.
Un'altra domanda che viene posta dalla parabola del seminatore, interpretata alla luce dello Shemà ,
è quella riguardante le persecuzioni e le tribolazioni "a causa della stessa parola" (v. 21), ossia come necessità
intrinseca del cammino di crescita della parola del regno nel cuore dell'uomo. Da cosa deriva tale necessità?
Questo è forse il più grande "segreto del regno".
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