I confini della scienza 8 Michele Cavo1, Beatrice Anna Zannetti2 Professore Associato di Ematologia, Università degli Studi di Bologna 2 Specializzanda in Ematologia, Università di Bologna 1 1,2 Istituto di Ematologia ed Oncologia Medica “Seràgnoli”, Università degli Studi di Bologna, Azienda Ospedaliero-Universitaria S. Orsola-Malpighi, Bologna La chemioterapia ad alte dosi con successivo trapianto autologo è stata impiegata a partire dalla prima metà degli anni ’80 ed ha aumentato la probabilità di ottenere una remissione completa sino a valori del 20-30% 15 anni di progressi nella terapia del Mieloma multiplo P er circa 30 anni i risultati della chemioterapia convenzionale con melfalan e prednisone o schemi similari sono stati modesti e la sopravvivenza mediana dei pazienti non è mai stata superiore a circa 3 anni Il primo chemioterapico di documentata efficacia introdotto nella terapia del mieloma multiplo (MM), all’inizio degli anni ’60, è stato il Melfalan (Alkeran®), somministrato per via orale, in combinazione con il cortisone (MP). Per oltre 25 anni dopo il raggiungimento di questo importante traguardo, tutti i tentativi di migliorare i risultati della terapia del MM aggiungendo altri farmaci a MP sono stati fallimentari. Pertanto, e sino all’inizio degli anni ’90, la probabilità di ottenere la scomparsa del picco monoclonale e delle plasmacellule nel midollo osseo (remissione completa, o CR) non è mai stata superiore al 5% e la sopravvivenza (OS) mediana dei pazienti affetti da questa malattia, ritenuta incurabile in tutti i pazienti, è stata pari a circa 3 anni. La chemioterapia ad alte dosi con successivo trapianto autologo è stata impie- gata a partire dalla prima metà degli anni ’80 ed ha aumentato la probabilità di ottenere una remissione completa sino a valori del 20-30% L’utilizzo del melfalan ad alte dosi con la successiva reinfusione (o trapianto) di cellule staminali (i progenitori midollari dai quali originano le cellule mature circolanti nel sangue periferico) dello stesso paziente (trapianto autologo di cellule staminali, o ASCT), è stato il secondo significativo avanzamento terapeutico del MM registrato nella prima metà degli anni ’80. Grazie alla dimostrata capacità dell’ASCT di aumentare la probabilità di ottenimento della CR e di superare la resistenza alla chemioterapia convenzionale, da circa 15-20 anni questa procedura terapeutica rappresenta lo standard del paziente definito “giovane”, vale a dire di età inferiore a 65-70 anni, e con malattia di nuova diagnosi. Ma la vera rivoluzione nella terapia del MM è avvenuta tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio con l’introduzione nella pratica clinica quotidiana di alcuni “nuovi” farmaci, non chemioterapici, I confini della scienza 9 anche se altamente efficaci, diretti contro le plasmacellule e l’ambiente (microambiente) midollare nel quale esse si trovano e con il quale instaurano reciproche interazioni che ne favoriscono la crescita e la progressione. Questi farmaci, usati singolarmente o più spesso in combinazione tra di loro o con altri chemioterapici, sono stati utilizzati nella terapia del paziente di nuova diagnosi, candidato e non a ricevere un trapianto autologo, come pure del paziente con malattia ricaduta/refrattaria, ed hanno consentito di aumentare significativamente la probabilità di raggiungimento della CR e di prolungare la OS. Nel nuovo millennio l’introduzione dei “nuovi” farmaci nella sequenza terapeutica comprensiva del trapianto autologo ha consentito di incrementare la percentuale di ottenimento della remissione completa sino ad oltre il 50% e di prolungare la sopravvivenza dei pazienti sino ad un valore mediano di 8-10 anni Nel 2005, il nostro gruppo ha dimostrato per la prima volta che la somministrazione di talidomide (un farmaco ritirato dal commercio nel 1961 perché responsabile, se assunto nel primo trimestre di gravidanza, di gravi malformazioni a carico del feto) in combinazione con il cortisone (TD) prima del trapianto autologo (terapia di induzione) aumentava significativamente la percentuale di risposta rispetto alla chemioterapia convenzionale. Questo studio ha sancito l’abbandono definitivo della classica chemioterapia di induzione e ha aperto le porte a numerosi studi finalizzati a valutare l’efficacia e tossicità dei “nuovi” farmaci in preparazione al successivo trapianto autologo. In uno di questi studi, coordinato dal nostro gruppo, è stato dimostrato che il bortezomib (un farmaco che blocca l’attività del proteasoma – il principale “inceneritore” di tutte le proteine umane – favorendone l’accumulo nelle plasmacellule che, di conseguenza, vanno incontro a morte programmata) combinato con TD (VTD) come terapia di induzione prima dell’ASCT e di consolidamento dopo il trapianto autologo è una terapia estremamente efficace, essendo in grado di indurre rapidamente una CR in circa il 50% dei pazienti e di prolungarne di alcuni anni la sopravvivenza rispetto a quella di un gruppo di controllo. Nel 2013, il regime VTD è stato approvato dall’ente regolatorio Europeo (EMA, o EuropeanMedicines Agency) per la terapia di induzione in preparazione al trapianto autologo in pazienti con MM ad esso candidati. In aggiunta, anche se non approvati, altri regimi comprensivi di nuovi farmaci, inclusa la lenalidomide, si sono dimostrati estremamente efficaci nell’indurre un’elevata probabilità di CR prima del trapianto autologo. Il raggiungimento di questo obiettivo è un precoce parametro predittivo di un favorevole decorso della malattia dopo l’ASCT. Nel tentativo di incrementare quanto più possibile la percentuale e durata della CR, l’algoritmo terapeutico del paziente candidato ad ASCT si è recentemente arricchito anche di fasi terapeutiche tra loro sequenziali e successive al trapianto, quali la terapia di consolidamento e di mantenimento. Quest’ultima è finalizzata a prolungare nel tempo la durata della risposta e ridurre il rischio di ricaduta/progressione della malattia, senza influenzare negativamente la qualità di vita dei pazienti. Per tale motivo, è preferito, anche se non strettamente necessario, l’utilizzo di farmaci con formulazione orale e con un favorevole profilo di tossicità. In considerazione della sua virtuale assenza di tossicità neurologica, la lenalidomide (un immunomodulatore orale derivato da talidomide) è attualmente ritenuto essere il farmaco ideale per la terapia di mantenimento dopo ASCT nel MM, anche se per questo uso non ha ancora ricevuto approvazione da EMA. Al contrario, in Italia può essere utilizzata talidomide per disposizione dell’Agenzia italiana del farmaco (AIFA). L’impiego dei “nuovi” farmaci in combinazione con i vecchi chemioterapici ha aumentato la percentuale di remissione completa sino al 30% e prolungato la sopravvivenza anche nei pazienti non candidati al trapianto autologo Attualmente, la terapia di prima linea del paziente anziano, o comunque non eleggibile a ricevere alte dosi di chemioterapia, prevede l’associazione con MP sia di talidomide (MPT) che di bortezomib (MPV), somministrati per 9-12 cicli. MPV è il regime terapeutico più frequentemente utilizzato nella pratica clinica sulla base dei risultati di un grande studio internazionale che ha dimostrato l’ottenimento di una CR nel 30% dei pazienti ed il prolungamento della OS mediana sino a circa 6 anni. Più recentemente, si è andato delineando anche per il paziente anziano il paradigma della terapia continuativa, cioè somministrata sino a progressione di malattia, e lenalidomide è stato il farmaco maggiormente utilizzato negli studi clinici. Sulla base dei risultati di uno di I confini della scienza 10 questi, è prevedibile che la combinazione lenalidomide-desametasone possa diventare nel prossimo futuro il terzo standard terapeutico per la terapia del paziente di nuova diagnosi non candidato al trapianto autologo e ricevere per questa indicazione approvazione da parte di EMA. Efficaci opzioni terapeutiche con farmaci di ultima generazione sono attualmente disponibili anche per i pazienti con malattia ricaduta e refrattaria dopo pregressa esposizione ai “nuovi” farmaci I nuovi farmaci talidomide, bortezomib e lenalidomide, attualmente disponibili per la terapia del paziente con MM di nuova diagnosi, sono stati inizialmente utilizzati nelle fasi avanzate di malattia. Per questo impiego, sia bortezomib che lenalidomide hanno ricevuto approvazione da EMA. Da pochi mesi, AIFA ha approvato l’utilizzo in Italia del chemioterapico bendamustina come agente singolo od in combinazione con bortezomib-desametasone nel trattamento del MM ricaduto/refrattario. I pazienti con malattia ricaduta/refrattaria dopo pregressa esposizione a ASCT, talidomide, lenalidomide e bortezomib rappresentano un’emergenza assistenziale, in considerazione del sostanziale esaurimento di ogni valida alternativa terapeutica e della cattiva prognosi correlata all’incapacità di controllo della malattia. Per questi pazienti, alcuni farmaci di ultima generazione rappresentano un’eccellente opportunità terapeutica. Tra questi, è doveroso citare carfilzomib, un inibitore del proteasoma di seconda generazione, e pomalidomide, un immunomodulante orale derivato da lenalidomide, il cui impiego in combinazione con desametasone è stato recentemente approvato da EMA. Lo scenario delle opzioni terapeutiche disponibili per il paziente con MM ricaduto/refrattario dovrebbe a breve arricchirsi della nuova combinazione panobinostat (un inibitore dell’istone deacetilasi), bortezomib e desametasone. In aggiunta, nuovi e promettenti farmaci, già oggetto di valutazione in avanzati studi di fase 3 per i pazienti con MM ricaduto/refrattario e di nuova diagnosi, sono ixazomib (un inibitore orale del proteasoma di seconda generazione), daratumumab (un anticorpo monoclonale anti CD38) ed elotuzumab (un anticorpo monoclonale anti CS1). Gli avanzamenti registrati nella terapia del MM nell’arco degli ultimi 15-20 anni sono stati molto consistenti e sono stati raggiunti grazie all’introduzione del trapianto autologo e dei “nuovi” farmaci. Queste opzioni terapeutiche hanno consentito di ottenere una probabilità di lungo sopravvivenza, e potenziale guarigione della malattia, in circa il 30% dei pazienti, e nei restanti pazienti una sostanziale cronicizzazione della malattia per un relativamente lungo periodo di tempo. Agli attuali pazienti deve, quindi, essere consegnato un messaggio di ottimismo e di speranza per il prossimo futuro.
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