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agricoltura alimentazione economia ecologia
Rivista trimestrale della Federazione lavoratori
agroindustria della CGIL e della Fondazione Metes
Ricerca e formazione nel settore agroalimentare
per il lavoro e la sostenibilità
DIRETTORE
Franco Farina
REDAZIONE
Claudia Cesarini
Massimiliano D’Alessio
Elisabetta Olivieri
Laura Svaluto Moreolo
Alessandra Valentini
EDIZIONI
LARISER
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agricoltura alimentazione economia ecologia
■ RIVISTA TRIMESTRALE N. 17-18 ■ GENNAIO-GIUGNO 2014
Direzione, redazione e segreteria
Via Leopoldo Serra, 19 - 00153 Roma
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Direttore responsabile
Franco Chiriaco
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Progetto grafico
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Stampa
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Proprietà
Flai Cgil
Questo numero è stato chiuso in tipografia il 30 luglio 2014
Questa rivista è
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■ Sommario
■ Presentazione
La redazione
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■ L’argomento
Gli obiettivi della categoria
Stefania Crogi
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■ Economia della produzione
Filiera lattiero-casearia: caratteri strutturali e andamenti congiunturali
Massimiliano D’Alessio
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La competitività del vino italiano nel mercato mondiale
Denis Pantini
25
■ Temi
Crisi occupazionale, ammortizzatori sociali e riforma pensionistica
Elisabetta Pedrazzoli
43
Inoccupazione, produttività e orari di lavoro
Franco Farina
53
La Programmazione 2014-2020: l’Accordo di Partenariato
Eleonora Valenti
61
■ Segnalazioni e recensioni
81
■ Documentazione
La persona nella formazione
Franco Farina
117
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■ Presentazione
La redazione
S. Crogi, Gli obiettivi della categoria, apre il fascicolo soffermandosi, dopo la
lunga e intensa stagione congressuale, sull’azione contrattuale della categoria. I
rinnovi dei contratti collettivi degli operai agricoli privati, della pesca e dei lavoratori ortofrutticoli e la stagione di negoziazione di secondo livello rappresentano
degli appuntamenti decisivi della categoria. Difatti il legame tra contrattazione e
rappresentanza nell’attuale crisi economica è il punto centrale dell’azione per i
prossimi mesi in cui, oltre a stabilire un rinnovato consolidamento del sindacato
tra i lavoratori, raffigura la possibilità di disegnare un nuovo modello di sindacato confederale alla luce del patto unitario della categoria per l’applicazione del Testo Unico.
M. D’Alessio, Filiera lattiero-casearia: caratteri strutturali e andamenti congiunturali, si sofferma, attraverso approfondimenti specifici e statistici, sulle criticità e sulle potenzialità della filiera. Rileva la necessità di un impegno specifico delle Oo.Ss.
concernente il sostegno alle condizioni di lavoro e individua le future iniziative sindacali. In particolare si sofferma sulla necessità di promuovere innovazioni nei modelli contrattuali in grado di stabilire un maggior protagonismo delle aziende di
maggiori dimensioni e delle organizzazioni dei produttori così come di proseguire
nel percorso intrapreso nella contrattazione di secondo livello per sostenere l’attuazione di piani industriali che puntino a migliori performance di competitività in termini di innovazione e produttività aziendale.
D. Pantini, La competitività del vino italiano nel mercato mondiale, in un’analisi
di dettaglio dello scenario concorrenziale indica le direttrici di sviluppo che dovrebbero guidare le strategie di mercato delle imprese vinicole italiane. Infatti l’alta
competizione richiede di sostenere gli elevati standard qualitativi di prodotto, l’imponente varietà di vini italiani e di utilizzare tutte le potenzialità inespresse dalle imprese per godere di maggiori vantaggi competitivi. Segnala, inoltre, la necessità di
superare i limiti organizzativi e commerciali che oggi minano alla base la competitività nell’arena mondiale delle aziende italiane.
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Presentazione
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E. Pedrazzoli, Crisi occupazionale, ammortizzatori sociali e riforma pensionistica,
evidenzia i problemi che le riforme del mercato del lavoro e delle pensioni arrecano
alla protezione economica del lavoratore nelle fasi delle ristrutturazioni aziendali. La
riduzione del periodo di copertura degli ammortizzatori sociali e l’allungamento
dell’età pensionabile procurano una condizione di grande difficoltà per i lavoratori
e per il sindacato. Indica, altresì, l’opportunità di un congelamento della riforma
Fornero sulle pensioni, di ripristinare la flessibilità dell’età pensionabile e di rivedere, ampliandoli, i periodi di copertura degli ammortizzatori sociali.
F. Farina, Inoccupazione, produttività e orari di lavoro, ritiene che una politica di
sostegno all’occupazione ha come priorità, più che il mercato del lavoro, la domanda effettiva di lavoro e uno stretto legame tra modelli organizzativi e orari di lavoro. Considera l’applicazione degli orari contrattuali e il relativo calcolo degli organici come la condizione per incrementare l’occupazione e come il presupposto per
ottimizzare gli obiettivi di produttività e di qualità del prodotto.
E. Valenti, La programmazione 2014-2020: l’accordo di partenariato, si sofferma
sull’importanza del documento con cui ogni Stato definisce le proprie strategie e
priorità d’intervento e le modalità di impegno dei fondi strutturali per il periodo
2014-2020. Si trattiene sul percorso partenariale intrapreso dal Governo italiano in
tutte le sue fasi e sugli obiettivi che l’Italia si pone nella programmazione dei fondi
strutturali 2014-2020. Affronta e analizza temi quali l’approccio integrato, le strategie per le aree interne, approfondisce gli obiettivi occupazionali e il tema dello sviluppo rurale per il prossimo ciclo di programmazione.
Il fascicolo offre nelle rubriche Segnalazioni e Recensioni alcuni libri riguardanti
l’esperienza sindacale e di lavoro. In Documentazione si presentano le conclusioni
di F. Farina, La persona nella formazione al volume, Fondazione Metes - Flai Cgil,
Analisi dei fabbisogni formativi dei delegati, quadri e dirigenti Flai Cgil 2014 - Primi
risultati.
L’argomento
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■ L’argomento
Gli obiettivi della categoria
Stefania Crogi*
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urante tutta la lunga e intensa stagione congressuale abbiamo attivato un percorso fatto di ascolto, di bilanci sul lavoro svolto, di programmazione per quello da svolgere.
Ora dalla fase dell’ascolto la Flai si accinge a dare gambe alle proposte politiche che si sono delineate, riprendendo come linee guida quelle priorità scaturite
dai dibatti congressuali e che hanno trovato un posto di primo piano nel congresso della Cgil e quindi nell’attività della Cgil tutta.
Ci riferiamo alle questioni relative a politiche industriali, pensioni, fisco: le basi per ridisegnare lo sviluppo e la ripresa del Paese, mettendo al centro il lavoro.
Su questi temi siamo stati protagonisti del dibattito sindacale ad ogni livello e così saremo protagonisti delle mobilitazioni volte a cambiare quello che non va.
Come categoria ci aspettano appuntamenti importanti, molti dei quali saranno – anzi già lo sono in questi giorni ed ore – all’insegna della continuità con lo
straordinario lavoro e le campagne svolte in questi anni.
Un versante è sicuramente quello lavoro/legalità: dobbiamo proseguire su
questa strada nella quale abbiamo già raccolto dei frutti; dobbiamo proseguire
portando avanti anche una battaglia culturale per la legalità, che in un settore come l’agroalimentare è una questione dirimente che riguarda il lavoratore, il consumatore, l’ambiente e il territorio.
Il lavoro che abbiamo svolto in questi anni ha portato a provvedimenti come
l’articolo 603bis del Codice penale (il caporalato reato penale punito con l’arresto e non con una semplice ammenda), da cui sono scaturiti processi, inchieste,
denunce da parte di lavoratori, rafforzando il sindacato nel contrasto ai fenomeni del lavoro nero e del sottosalario.
Lo step successivo è la proposta di un disegno di legge sul mercato del lavoro
agricolo, affinché si preveda una «rete», anche attraverso la banca dati dell’Inps,
che faccia incrociare in modo legale e trasparente, ma anche veloce ed efficace,
domanda e offerta di lavoro, colpendo alla radice la funzione dei caporali.
* Segretario generale della Flai Cgil nazionale
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Le cose descritte non sono solo quello che abbiamo fatto ma contengono in
sé anche quello che faremo. Dopo aver ottenuto che il caporalato sia reato penale, crediamo necessario fare un passo ulteriore nel prevedere sanzioni per quegli imprenditori che ricorrono ai caporali. Ed ancora, per le nostre proposte sul
mercato del lavoro stiamo operando affinché trovino spazio nel decreto legge
#campolibero, nel quale sono contenute importanti misure per favorire il lavoro
giovanile, garantendo un numero di giornate, a questo si potrebbero collegare le
nostre proposte. Sappiamo che non sarà un percorso facile ma con tenacia andiamo avanti.
Sempre sul versante legalità, abbiamo dato continuità al lavoro svolto anche
con la realizzazione del Secondo Rapporto Agromafie e Caporalato dell’Osservatorio Placido Rizzotto.
L’importanza e la sistematicità dei dati raccolti, il monitoraggio dei territori,
le storie raccontate, unite all’azione continua di denuncia, hanno fatto sì che il
fenomeno del caporalato sia stato colto nella sua importanza dalla stampa e
quindi dall’opinione pubblica, divenendo così un fenomeno che almeno è noto,
conosciuto, e non qualcosa che si relega nel passato.
Il Secondo Rapporto sarà strumento per tutti noi, ma anche per le istituzioni
e la politica per lavorare affinché caporalato e sfruttamento possano essere sconfitti.
Sulla legalità abbiamo fatto riferimento anche ad una battaglia culturale, anche qui un nostro contributo: sono ripartiti, per proseguire fino ad ottobre, i
Campi Antimafia, progetto di cui la Flai – insieme a Cgil, Spi, in collaborazione con Arci e Libera – è tra i promotori. Circa 2000 giovani saranno impegnati
in azioni di volontariato, in cooperative e associazioni impegnate nel riuso sociale dei beni confiscati alla mafia. La Flai sarà coinvolta in momenti di formazione sui temi dell’antimafia e dell’impegno sindacale su tale fronte.
La questione/vertenza forestali sarà un altro campo di intervento con quel cambio di passo secondo le direttrici che abbiamo indicato anche durante il nostro
congresso: un progetto ampio che tenga insieme la difesa del lavoro dei forestali
ed una loro maggiore valorizzazione a favore della tutela e conservazione dell’ambiente e dei tanti tesori che abbiamo. Un ruolo non marginale, poiché è sotto gli
occhi di tutti, da un lato la fragilità e l’incuria in cui versano molte aree del Paese, dall’altro le possibilità che potrebbero venire anche utilizzando il lavoro forestale sul versante della protezione dei tanti beni archeologici che abbiamo.
Un grande impegno della categoria, che ci vede coinvolti immediatamente
dopo il congresso, è quello rivolto all’azione contrattuale su diversi fronti. Abbiamo i tavoli aperti per il contratto degli operai agricoli privati, il contratto della pesca e il contratto per i lavoratori delle aziende ortofrutticole. A questi Ccnl
L’argomento
si aggiunga tutto l’enorme e importante lavoro per il rinnovo dei contratti di secondo livello con 13 piattaforme presentate. È superfluo dire che si tratta di appuntamenti importanti per la categoria, impegnata a 360° sul versante della contrattazione, pur in presenza di una crisi che ancora è lungi dal finire. Ma contrattare è anche un modo per governare la crisi.
Contrattazione e rappresentanza sono al centro della nostra azione presente e
futura, e proprio sulla rappresentanza abbiamo sottoscritto un nuovo patto unitario alla luce e per l’applicazione del Testo Unico del 10 gennaio 2014. Fai, Flai
e Uila con questo testo intendono integrare ed adeguare le disposizioni previste
dal T.U., del quale ribadiamo l’importanza nel delineare un preciso modello di
sindacato, che vede la certificazione della rappresentanza e la figura delle Rsu
centrale ai fini dell’azione contrattuale.
Infine, guardando all’azione della Flai nei prossimi mesi non possiamo non
tornare a sottolineare il modello e il valore della confederalità, che sono stati la
nostra stella polare nella lunga fase congressuale e continueranno ad essere la nostra cifra nell’azione futura.
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Economia della produzione
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■ Economia della produzione
Filiera lattiero-casearia: caratteri strutturali
e andamenti congiunturali
Massimiliano D’Alessio*
Premessa
La filiera lattiero-casearia fornisce un contributo rilevante alle performance del sistema agroalimentare italiano. Il valore della produzione realizzato dalla componente agricola della filiera nel 2013 ha inciso, infatti, per il 9,4% sul totale di quella realizzata dall’intero settore primario nazionale. Anche per la componente industriale della filiera lattiero-casearia si rilevano performance di rilevo. Il comparto dell’industria lattiero-casearia nel 2012 contribuiva, infatti, per il 16,5% al valore totale del fatturato realizzato dall’industria alimentare italiana e per il 2% a quello dell’intero manifatturiero nazionale. La filiera lattiero-casearia è inoltre protagonista
degli eccellenti risultati conseguiti in questi ultimi anni dall’export agroalimentare
italiano. Nel 2013, infatti, il settore lattiero-caseario nazionale ha contribuito per il
9,5% al totale del valore delle esportazioni agroalimentari nazionali.
Nonostante le eccellenti performance ricordate in precedenza il settore lattierocaseario nazionale, in questi ultimi anni, non è risultato immune degli effetti negativi della crisi economica. Gli effetti congiunturali negativi della crisi sono stati per
altro amplificati da alcune criticità strutturali che caratterizzano il settore. Secondo
il Mipaaf 1, infatti, «il comparto lattiero-caseario italiano presenta una natura dualistica legata alla compresenza di due diverse tipologie di prodotti che si esprimono
su due diversi mercati. Il primo e più strettamene legato all’andamento del contesto internazionale e vi appartengono prodotti indifferenziati (tipo il burro, il latte
spot scambiato tra operatori, il siero liquido, i mezzi tecnici come gli alimenti per il
bestiame). L’altro invece riguarda i prodotti di qualità tipo i formaggi Dop e Igp o
che rientrano nella tradizione italiana, che assorbono il 70% della produzione nazionale di latte e che, rispetto ai primi, sono più al riparo dagli andamenti congiunturali internazionali. La forte presenza di produzioni di qualità sembra essere
un importante fattore di stabilità del settore».
* Fondazione Metes
Mipaaf, La nuova Pac: le scelte nazionali e l’applicazione dell’art. 52, http://www.agricolae.eu/wpcontent/uploads/2014/06/RELAZIONE-Pac-SU-AIUTI-ACCOPPIATI-DOCUMENTO-DEFINITIVO.pdf.
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La recente approvazione della Riforma della Pac arricchisce il contesto di ulteriori
criticità. Sempre secondo il Mipaaf «in base alle proiezioni il processo di convergenza riduce il sostegno alle aziende lattiero-casearie, tuttavia nel comparto più della riforma impensierisce l’impatto della rimozione delle quote latte che potrebbe
esporre a rischio il settore, soprattutto nelle aree montane e marginali dove il settore è meno competitivo, ma rilevante per gli aspetti ambientali e socio-economici».
Il presente lavoro si pone l’obiettivo di realizzare una analisi dei caratteri strutturali che contraddistinguono la filiera lattiero-casearia nazionale (paragrafo 1)
anche nell’ottica di identificare la criticità e i punti di forza che caratterizzano la
filiera (paragrafo 2). In questa analisi si provvederà, inoltre, a fornire una analisi
degli andamenti congiuturali di comparto nel periodo 2008-2013 nell’ottica di
identificare l’impatto che la crisi economica ha avuto sul settore in Italia (paragrafo 3). La parte finale del lavoro ha infine lo scopo di svolgere alcune considerazioni che potranno rappresentare spunti di riflessione utili per future iniziative
di lavoro sindacale.
1. Filiera zootecnica lattiero-casearia: un quadro di sintesi
Sul piano strutturale le fase agricola della filiera zootecnica lattiero-casearia nel
2012 constava di 36 mila aziende che nel complesso erano dotate di un patrimonio
di 1.871 vacche da latte in produzione. Il patrimonio zootecnico lattiero-caseario
nazionale è completato dalla presenza di 200 mila bufale, 6.300 mila pecore e 735
mila capre. Nel 2012 il valore delle consegne di latte vaccino è stato pari a circa 10
milioni e 900 mila tonnellate. Secondo l’Eurostat nel 2010 nelle aziende bovine
specializzate - orientamento da latte erano occupate 68.300 lavoratori in termini di
Ula (Unità Lavorative Annue).
Tabella 1 – filiera zootecnica lattiero-casearia – Fase agricola (2012)
Aziende (1)
Occupati (ULA) (2)
Patrimonio (2)
- Vacche da latte
- Bufale
- Pecore
- Capre
Consegne di latte vaccino
Unità di misura
(n.)
(n.)
Valore
36.909
68.300
(000 capi)
(000 capi)
(000 capi)
(000 capi)
(000 t)
1.871
212
6.297
735
10.876
(1) numero di aziende con vacche da latte in produzione nella campagna; (2) secondo Eurostat nel 2010; (3)
consistenze al 1° dicembre.
Tabella 2 – filiera zootecnica lattiero-casearia – Fase Industriale (2012)
Unità locali
- Caseifici e centrali del latte
- Stabilimenti di aziende agricole
- Stabilimenti di enti cooperativi agricoli
- Centri di raccolta
Occupati (4)
Produzione Industriale
- Latte alimentare
- Formaggi
- Burro
- Yogurt
Fatturato Industria lattiero-casearia
- Peso sul fatturato industria agroalimentare
Unità di misura
(n.)
(n.)
(n.)
(n.)
(n.)
(n.)
(000 t)
(000 t)
(000 t)
(000 t)
(mln €)
(% v.)
Valore
2.076
1.393
81
521
78
44.116
2.620
1.204
101
329
14.900
11,50%
(4) Secondo Eurostat.
Secondo l’Istat nel 2012 il valore monetario delle importazioni italiane di prodotti lattiero-caseari ammonta a poco meno di 3,5 miliardi di euro. Le esportazioni, invece, sono pari i 2,2 miliardi. Il saldo commerciale con l’estero è pertanto negativo per un valore di 1,2 miliardi. Le categorie di prodotti che contribuiscono a
determinare il costo complessivo delle importazioni sono formaggi, latticini e latte
liquido che pesano, rispettivamente, per il 46,4% e il 24,5% sul totale. Dal lato delle esportazioni il solo comparto dei formaggi e dei latticini rappresenta l’88,3% del
valore del prodotto destinato all’estero2.
2
Renato Pieri (a cura di), Il mercato del latte. Rapporto 2013, Franco Angeli, 2014.
Economia della produzione
L’industria lattiero-casearia in Italia consta di 2.073 unità locali. La quota
principale è costituita da «caseifici privati e centrali del latte», che costituiscono
il 67,9% del totale di unità attive. Gli stabilimenti delle società cooperative sono invece 521 e rappresentano il 25,4% del totale di unità di trasformazione in
Italia. La fase industriale della filiera zootecnica lattiero-casearia nel 2012 ha realizzato un fatturato complessivo di 15 miliardi di euro che rappresenta l’11,5%
del totale del valore economico dell’industria alimentare nazionale. Secondo l’Eurostat l’industria lattiero-casearia nazionale fornisce occupazione a circa 44 mila
lavoratori.
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Tabella 3 – filiera zootecnica lattiero-casearia – Scambi con l’estero (2012)
Import
Peso sul tot. agroalimentare
Export
Peso sul tot. agroalimentare
Saldo
Peso sul tot. agroalimentare
Unità di misura
(mln €)
(% v.)
(mln €)
(% v.)
(mln €)
(% v.)
Valore
3.507
8,90%
2.244
7,00%
-1.263
16,40%
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2. Filiera lattiero-casearia:
analisi delle potenzialità e degli elementi di criticità
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Un’attenta analisi delle caratteristiche del settore permette di identificare in maniera puntuale potenzialità ed elementi di criticità che caratterizzano le diverse fasi
della filiera lattiero-casearia.
Tra i punti di forza che riguardano la fase agricola c’è innanzitutto da ricordare
l’elevata rilevanza economica che riveste il comparto nell’ambito della economia
agricola nazionale. Le imprese della nostra zootecnia da latte appaiono inoltre caratterizzate dalla presenza di allevamenti dotati di know how di alto livello per la
presenza di un management di elevata qualità e professionalità, per la diffusione di
innovazioni tecnologiche e per la qualità del patrimonio zootecnico disponibile
frutto di un lungo ed intenso lavoro di selezione e miglioramento genetico. L’elevata diffusione di allevamenti estensivi nelle aree marginali può rappresentare, inoltre,
l’occasione per la realizzazione di percorsi di sviluppo territoriale basati sulla valorizzazione in chiave multifuzionale delle attività zootecniche tradizionali.
Le difficoltà che riguardano la gestione del sistema delle quote compaiono tra le
principali criticità che caratterizzano la fase agricola. La presenza di ulteriori vincoli normativi (benessere degli animali, gestione degli spandimenti e questione nitrati, pacchetto igiene, pacchetto sicurezza, ecc.) determina un impatto negativo in termini sia di appesantimento degli adempimenti burocratici a carico dell’azienda sia
per l’innalzamento dei relativi costi. La zootecnia da latte in Italia appare inoltre caratterizzata da criticità strutturali molto rilevanti connesse alla localizzazione degli
allevamenti che molto spesso sono posizionati in aree montane svantaggiate e alla
elevata frammentazione aziendale che non permettendo l’attivazione di economie
di scale determina un innalzamento dell’incidenza dei costi di produzione. Ulteriori criticità riguardano l’elevata conflittualità che caratterizza i rapporti tra i soggetti
della filiera. Queste situazioni appaiono spesso accompagnate da condizioni di elevato squilibrio nella ripartizione del potere di mercato a sfavore degli attori agricoli
della filiera. L’elevata frammentazione del sistema produttivo e le situazioni di forte
FASE AGRICOLA
PUNTI DI FORZA
PUNTI DI DEBOLEZZA
• forte rilevanza economica della produzione
• difficoltà di gestione a livello nazionale del sistema delle quote
• elevato livello di know how (management, • presenza di vincoli legislativi restrittivi (betecnologia, genetica) degli allevamenti
nessere degli animali, gestione degli spandimenti e questione nitrati, pacchetto igiene,
pacchetto sicurezza, ecc.) con impatto negativo sui costi
• ruolo strategico dell’allevamento per l’attiva- • presenza di vincoli strutturali (natura del terrizione di indotto a monte (industria mangimitorio, frammentazione della proprietà, ecc.)
stica) e a valle (industria lattiero-casearia)
che incidono sui costi di produzione
INDUSTRIA
• presenza di allevamenti estensivi con attitudi- • rapporti interprofessionali conflittuali e sbine alla valorizzazione delle aree marginali
lanciati a sfavore della parte agricola
• elevata diversificazione della produzione ca- • elevata frammentazione del sistema produttisearia legata ad una forte tipicità e alla contivo e forte disparità regionale e territoriale tra
nua innovazione di prodotto
le tipologie aziendali
PRODOTTO/FILIERA
• elevata incidenza di riconoscimenti Dop e Igp • frammentazione del sistema di trasformazione, caratterizzato dalla presenza di numerose
imprese dotate di impianti di modesta dimensione tecnica ed economica
• buon livello di integrazione verticale che si • problemi logistici connessi alla difficoltà di
realizza in alcune realtà produttive soprattutconcentrazione dell’offerta in alcune aree
to di tipo cooperativo
svantaggiate
• rispondenza di buona parte dei prodotti lattiero- • elevato potere contrattuale della Grande Dicaseari ai nuovi stili di consumo alimentare orienstribuzione
tati agli aspetti nutrizionali e salutistici, di freschezza e leggerezza, qualità e tipicità
• deficit di commercializzazione in termini di
strategie di mercato, posizionamento del prodotto, marca
Fonte: Ismea, Settore lattiero-caseario. Scheda di settore (http://www.ismeaservizi.it/lattiero-caseari/lattederivati-bovini).
Economia della produzione
disparità regionale e territoriale tra le diverse tipologie aziendali costituiscono ulteriori punti di debolezza per la nostra zootecnia da latte.
Il principale punto di forza della fase industriale appare connesso alle elevate potenzialità in termini di competitività e di mercato che possono derivare dalla possibilità di diversificare l’offerta di prodotti lattiero-caseari facendo ricorso a produzioni tipiche ed elevato contenuto di innovazione. D’altro canto l’elevata frammentazione che caratterizza il sistema nazionale della trasformazione e la consistente presenza di imprese dotate di impianti di dimensione tecnica ed economica troppo
modesta rappresentano i punti di debolezza che limitano le potenzialità di sviluppo
della nostra industria lattiero-casearia.
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Per completare questa analisi è necessario ricordare che costituiscono punti di
forza del settore lattiero-caseario:
– l’elevata diffusione di prodotti dotati di riconoscimenti Dop e Igp;
– la presenza di filiere territoriali soprattutto di tipo cooperativo caratterizzate da
un buon livello di integrazione verticale;
– la presenza di un’offerta composta di prodotti lattiero-caseari innovativi pienamente in grado di rispondere alla domanda moderna frutto dei nuovi stili di consumo alimentare orientati agli aspetti nutrizionali e salutistici.
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Tra i punti di debolezza del settore lattiero-caseario non vanno, infine, dimenticati:
– i problemi connessi alla gestione della logistica dei prodotti generati dalle difficoltà di concentrazione dell’offerta dovute alla localizzazione delle aziende in zone svantaggiate di montagna;
– la crescente concentrazione del potere di mercato nelle mani degli operatori della Gdo;
– le criticità connesse alle difficoltà di commercializzazione di prodotti dovute al
deficit di investimenti in strategie di mercato, in azioni di posizionamento del
prodotto e di promozione dei marchi.
3. Andamento congiunturale della filiera zootecnica lattiero-casearia
Nel 2013 il valore della produzione del comparto agricolo «latte» è stato pari 4,6
milioni di euro. La figura 1 che riporta i valori dei numeri indici del valore della
produzione agricola permette di analizzare il trend di settore nel periodo 20082013. In particolare per il comparto del «latte» si registra una caduta del -1,1% rispetto al 2008. Questa riduzione è sostanzialmente identica a quella che caratterizza il comparto «Prodotti zootecnici alimentari» (-1% rispetto al 2008) mentre
appare più accentuata di quella che riguarda il comparto «Latte di vacca e di bufala» (-0,4% rispetto al 2008). Il comparto «Latte» manifesta invece un andamento più positivo di quello che ha caratterizzato l’intero settore agricolo che nel
periodo 2008-2013 evidenzia una caduta del -5,6%.
Fonte: Ns. elaborazioni su dati Istat
Nel 2012 il valore della produzione industriale del settore lattiero-caseario è stato pari 16 milioni e 300 mila euro. La figura 2 che riporta i valori dei numeri indici del valore della produzione industriale permette di evidenziare il trend di settore
nel periodo 2008-2012. In particolare il comparto industriale lattiero-caseario che
registra un andamento sostanzialmente stabile (-0,2% rispetto al 2008) manifesta
un trend peggiore di quello che si rileva per l’industria alimentare nel complesso
(+5,9% rispetto al 2008). Il comparto industriale lattiero-caseario manifesta invece
un andamento migliore di quello che ha caratterizzato l’intero settore manifatturiero che nel periodo 2008-2012 evidenzia una caduta del -8,1%.
Figura 2 – Valore della produzione industriale – Numeri Indice – base 2010=100
Fonte: Ns. elaborazioni su dati Eurostat-Sbs
Economia della produzione
Figura 1 – Valore della produzione agricola – Numeri Indice – base 2008=100
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La figura 3 che riguarda il trend dell’import e dell’export nel periodo 2008-2013
evidenzia l’andamento positivo del commercio estero dei prodotti lattiero-caseari in
Italia. In particolare è interessante evidenziare come il valore delle esportazioni di
settore sia cresciuto (+50% rispetto al 2008) in maniera più marcata di quello delle importazioni (+16% rispetto al 2008). Le performance del nostro export sono in
particolare trainate dai formaggi Dop (Grana Padano e Parmiggiano Reggiano) che
nel 2013 rappresentavano il 37% del totale del valore delle vendite all’estero di prodotti lattiero-caseari italiani.
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Figura 3 – Commercio con l’estero – Numeri indice – base 2008=100 – filiera
zootecnica lattiero-casearia
a
e
22
Fonte: Ns. elaborazioni su dati Coeweb-Istat
Per completare l’analisi congiuturale di settore è possibile, infine, considerare gli
andamenti dei consumi di prodotti lattiero-caseari. La figura 4 permette, infatti, di
evidenziare il crollo che ha riguardato i consumi di latte che registrano una flessione del -8,7% rispetto al 2008. Per i consumi di formaggio si rileva invece una flessione meno accentuata (-1,9% rispetto al 2008) che appare comunque in linea con
quella registrata per i consumi di alimentari e bevande nel complesso (-1,4% rispetto al 2008) e per quelli totali (-2,6% rispetto al 2008).
Fonte: Ns. elaborazioni su dati Istat
Conclusioni per future iniziative sindacali
I dati esposti in precedenza hanno permesso di evidenziare l’importanza economica ed occupazionale del settore lattiero-caseario. Le situazioni di criticità strutturale e congiuturale giustificano però la necessità di un impegno specifico delle
Oo.Ss. di categoria a sostegno delle condizioni di lavoro degli addetti impegnati nel
settore. Al riguardo è possibile segnalare i seguenti ambiti di attività che potranno
rappresentare spunti di lavoro per future iniziative:
– negli anni per le aziende della fase agricola specializzate nell’allevamento zootecnico si registra una fase di profonda ristrutturazione. Mediante l’analisi dei dati
relativi agli ultimi censimenti Istat si rileva in particolare un consistente processo
di uscita dal settore delle imprese più piccole e meno efficienti parallelamente ad
una crescita della dimensione aziendale in termini di numero dei capi allevati 3.
Gli operatori del settore lattiero-caseario ricercano migliore condizione di competitività di mercato anche mediante l’adozione di nuovi modelli organizzativi.
A riguardo è sufficiente ricordare che circa un quarto delle Op (Organizzazioni
dei produttori) non ortofrutticole riconosciute dalle regioni ai sensi del D.lgs.
n. 228/01 o del D.lgs. n. 102/05 appartiene al settore lattiero-caseario. Alla luce
di questo mutato scenario nell’organizzazione strutturale ed economica del settore emerge per le Oo.Ss. la necessità di promuovere innovazioni nei modelli
3
Boccaletti S., Moro D., L’evoluzione della zootecnia bovina tra gli ultimi due censimenti dell’agricoltura, Rivista Agriregionieuropa, n. 31, dicembre 2012.
Economia della produzione
Figura 4 – Spesa media mensile – Numeri Indice – base 2008=100
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contrattuali che, nell’ottica del migliorarne l’inclusività e l’esigibilità, prevedano
un maggiore protagonismo delle aziende di maggiori dimensioni e delle Op;
– le imprese impegnate nella fase industriale della filiera sono tra le principali del
panorama manifatturiero nazionale. Secondo l’Ufficio Studi di Mediobanca sono 15 le imprese lattiero-casearie che compaiono nella graduatoria delle prime
mille società italiane (tabella 4). Si tratta di soggetti industriali con cui in questi
ultimi anni le Oo.Ss. di categoria hanno sviluppato positive relazioni industriali
che in molti casi hanno condotto alla sottoscrizione di appositi accordi integrativi aziendali o di gruppo. La nuova fase di rinnovo dei contratti di II livello, recentemente entrata nel vivo, può rappresentare l’occasione per proseguire nel
percorso intrapreso sostenendo l’attuazione di piani industriali organici che puntino a migliori performance di competitività in termini di innovazione e produttività aziendale.
a
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24
Tabella 4 – Le principali imprese lattiero-casearie in Italia
Ragione Sociale
Posizione
in graduatoria
PARMALAT
23°
GRUPPO LACTALIS ITALIA
112°
GRANLATTE SOCIETA’ COOPERATIVA AGRICOLA
187°
CONSORZIO LATTERIE VIRGILIO
300°
DANONE
516°
LATTERIA SORESINA
529°
STERILGARDA ALIMENTI
530°
AMBROSI INDUSTRIA CASEARIA
533°
CONSORZIO GRANTERRE
569°
COOPERLAT
650°
FERRARI GIOVANNI INDUSTRIA CASEARIA
706°
ALIVAL ALIMENTARIA VALDINIEVOLE S.P.A.
765°
AGRIFORM
858°
BAYERNLAND
949°
ASSEGNATARI SOCIETA’ ARBOREA
985°
Fatturato 2012
(mila euro)
5.227.000
1.411.844
935.083
550.077
308.867
294.370
293.346
292.620
268.211
220.709
199.398
176.275
150.160
131.547
126.614
Fonte: Ns. elaborazioni su dati Ufficio Studi di Mediobanca (ottobre 2013)
Dipendenti
201 2
15.645
3.079
2.042
446
333
529
278
271
289
826
182
175
64
50
182
■ Economia della produzione
La competitività del vino italiano
nel mercato mondiale
Denis Pantini*
1. Premessa
Il vino rappresenta, nel panorama degli scambi agroalimentari mondiali, uno dei
prodotti più globalizzati. Venduto e consumato ormai ai quattro angoli del mondo,
il commercio di vino è passato da meno di 7 miliardi sul finire degli anni ’80 ad oltre 34 miliardi di dollari nel 2013.
Una crescita che trova poche analogie tra i prodotti agroalimentari. Nel periodo
considerato, il commercio di vino è infatti cresciuto (+390%) più di quanto abbiano fatto registrare sia le derrate agricole che sono alla base dell’alimentazione umana come i cereali (+260%), la carne (+370%), il latte (+285%), sia altri prodotti voluttuari e «globalizzati» da più tempo come le banane (+356%) o il caffè (+240%)1.
Si tratta di uno sviluppo fondamentalmente trainato da una nuova geografia dei
consumi e della produzione che vede diminuire il peso dei mercati più tradizionali
– come quelli del Sud Europa, Italia compresa – a favore di paesi «emergenti» (in
particolare dell’Emisfero Sud e dell’Asia). Uno sviluppo sostenuto da una crescita
del benessere che sta interessando la popolazione dei Bric e delle altre Economie
Emergenti del Sud-Est asiatico dove la ricchezza pro-capite, e conseguentemente la
capacità di spesa, sono cresciute sensibilmente e continueranno a farlo anche in futuro, a ritmi per noi ormai sconosciuti. Si stima che nella sola Cina, entro il 2020
più di 60 milioni di abitanti andranno ad ingrossare le file dei «nuovi ricchi» (quelli cioè con redditi annui superiori ai 30.000 dollari), mentre altri 24 milioni lo faranno in Cina, 8 in Brasile e 6 in Russia.
Lo scenario con cui si confronta il vino italiano è dualistico: ad un mercato nazionale che evidenzia un calo nei consumi ormai strutturale si contrappone un mercato estero che invece mostra rilevanti tassi di crescita e prospettive future di ulteriore incremento.
Alla luce di tale quadro, il presente contributo fornisce un’analisi sui cambiamenti avvenuti nel mercato mondiale del vino e il posizionamento competitivo detenuto in tale ambito dai prodotti italiani, al fine di identificare le prospettive che si
* Nomisma
1
S.p.A.
Fonte: Oecd-Fao.
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delineano sulla tenuta e sostenibilità economica dell’intera filiera vitivinicola nazionale. Una filiera che, come viene evidenziato nella parte finale del lavoro, presenta
risvolti sociali, territoriali ed economici di assoluto rilievo.
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2. Produzione e consumo mondiale di vino
Nel 2013 la produzione mondiale di vino è stata pari a quasi 277 milioni di ettolitri, un quantitativo superiore del 4% rispetto ai livelli ottenuti un decennio prima. Sebbene la produzione risulti variabile di anno in anno a seconda dei fattori
climatici, la tendenza di fondo evidenzia una sostanziale crescita, sostenuta principalmente dai paesi del cosiddetto «Emisfero Sud». Dalla tabella 1, che riporta i primi 10 produttori mondiali, si evince infatti come lo sviluppo produttivo più rilevante abbia interessato paesi come Cile, Australia, Sud Africa e Cina, mentre per
quanto riguarda il continente europeo Francia, Italia e Germania denotano una
sensibile riduzione.
Tabella 1 – I principali paesi produttori di vino (milioni di ettolitri)
a
e
26
Fonte: Wine Monitor
Fa eccezione solamente la Spagna che, a seguito di rinnovi negli impianti viticoli, ha incrementato la resa produttiva. Tuttavia, pur a fronte di questo aumento, la
quota congiunta detenuta dai 4 principali paesi europei sulla produzione mondiale
è scesa in poco più di un decennio dal 54% al 50%.
La crescita nella produzione risulta trainata da un aumento dei consumi di vino
a livello mondiale che, come evidenziato nella figura 1, sono passati da 226 a 240
milioni di ettolitri tra il 2000 e il 2013.
Fonte: Wine Monitor
È interessante notare come a fronte di questa crescita nei consumi avvenuta nell’ultimo decennio (circa +6%) non è corrisposto solamente un aumento di produzione ma uno sviluppo più che proporzionale del commercio internazionale. Come
ricordato anche in premessa, il vino ha conosciuto un vero e proprio boom in termini di scambi mondiali, tanto che sul fronte dei quantitativi, l’export è cresciuto
del 43% tra il 2003 e il 2013, passando da 69 a circa 100 milioni di ettolitri.
Questa diversa velocità negli andamenti tra consumi e scambi internazionali sottende sostanzialmente ad una nuova allocazione degli acquisti di vino tra le diverse
aree del pianeta, frutto di una vera e propria «migrazione» dei consumi dai paesi
«tradizionali» produttori di vino ad altri contesti dove la coltivazione della vite in
termini industriali rappresenta un investimento «relativamente» nuovo o dove il vino è entrato recentemente – o sta entrando – a far parte delle abitudini alimentari
della popolazione locale.
Considerando i dieci principali mercati di consumo del vino a livello mondiale
(che assieme incidono per il 70% dei consumi complessivi di tale prodotto), la tabella 2 suddivide tra quelli in cui la tendenza è generalmente verso un calo strutturale e quelli che all’opposto evidenziano una crescita. La suddivisione è chiara: le
principali diminuzioni riguardano infatti i paesi «tradizionali» produttori di vino, in
particolare europei come Francia, Italia, Spagna le cui riduzioni nei consumi risultano comprese tra un minimo del 25% ad un massimo del 41% tra la media del
periodo 1991-1995 e il 2013.
Economia della produzione
Figura 1 – I consumi di vino a livello mondiale (milioni di ettolitri)
a
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Tabella 2 – Top 10 mercati di consumo del vino a livello mondiale
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Fonte: Wine Monitor
Al contrario, le principali dinamiche di crescita, nel periodo considerato, attengono al mercato cinese, britannico e russo. In termini assoluti è però quello statunitense a svettare in termini di volumi di consumo a livello mondiale, seguito dalla
Germania che, sebbene possa anch’esso essere inserito tra i paesi produttori tradizionali europei, sembra fare eccezione rispetto a tale categoria sul fronte delle tendenze in atto nei consumi di vino.
3. I player internazionali
La migrazione dei consumi di vino appena descritta ha portato, nel giro di appena un ventennio, a quell’esplosione nel valore del commercio internazionale che
per oltre il 90% risulta oggi nelle mani di appena nove paesi esportatori. Sebbene
Francia, Italia e Spagna rappresentino ancora i primi tre player mondiali per valore
dell’export, tra il 1991 e il 2013 sono stati i produttori dell’Emisfero Sud ad incrementare sensibilmente le proprie quote, a scapito soprattutto del leader di mercato,
la Francia (figura 2).
Economia della produzione
Figura 2 – Evoluzione nelle quote all’export mondiale di vino dei principali player
(% sui valori)
a
e
29
Fonte: Wine Monitor
La quota all’export dei vini francesi è passata da oltre il 51% del totale mondiale a circa il 34%. Italia e Spagna sono riuscite ad incrementare le posizioni, mentre
i vini dell’Emisfero Sud (e degli USA) hanno aumentato sensibilmente le loro incidenze sul commercio internazionale passando congiuntamente dal 5% ad oltre il
23% del valore dell’export mondiale di vino. In tale ambito, la crescita più rilevante ha interessato il Cile – passato dall’1,1% al 6,1% – e l’Australia (dall’1,8% al
5,8%).
Questo prorompente sviluppo sottende una chiara volontà di conquista dei mercati esteri in maniera autonoma e spesso scollegata dal contesto dei consumi interni. A differenza dei paesi europei, contraddistinti da una tradizione vinicola di lungo corso, i mercati dell’Emisfero Sud hanno conosciuto uno sviluppo del settore in
tempi relativamente brevi. Salvo il caso dell’Argentina e degli Stati Uniti, gli altri
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grandi player hanno incrementato la produzione vinicola – organizzata secondo logiche industriali ed espressione di un’agricoltura specializzata piuttosto che frammentata come nel caso del sistema italiano – nel corso degli ultimi venti anni.
Basti pensare che, rispetto agli attuali 1,3 milioni di tonnellate di vino prodotto
dall’Australia, nei primi anni ’80 la produzione del paese faticava a mantenersi sulle 400.000 tonnellate. Così come la Nuova Zelanda, passata nello stesso periodo di
tempo da meno di 50.000 ad oltre 230.000 tonnellate di vino.
Da tale crescita discende quindi l’elevata propensione all’export dei produttori
dell’Emisfero Sud, organizzati e vocati alla conquista dei mercati internazionali; al
contrario delle imprese vinicole europee (ma soprattutto italiane), tradizionalmente orientate a soddisfare in primis la domanda interna e, solo successivamente, a cercare di smaltire le eccedenze sui mercati esteri.
Aziende viticole di dimensioni medie superiori ai 50 ettari (come in Australia e
Nuova Zelanda), con dotazioni tecnologiche avanzate e operatori commerciali a carattere multinazionale rappresentano i tratti caratteristici di una volontà della filiera di essere presente con i propri prodotti in tutto il mondo e di cogliere opportunità di crescita che il proprio mercato interno non è ancora in grado di offrire.
A riprova di tali considerazioni è sufficiente evidenziare il grado di propensione
all’export di vino dei paesi dell’Emisfero Sud che, per Nuova Zelanda, Cile e Australia supera abbondantemente il 50% (figura 3).
30
Figura 3 – La propensione all’export di vino dei player internazionali
(volumi esportati su produzione)
Fonte: Wine Monitor
È altresì interessante notare come la propensione all’export negli ultimi anni sia
sensibilmente cresciuta anche per Italia, Portogallo e Spagna, sintomo di una riduzione strutturale nei consumi interni che ha costretto le imprese vinicole dei rispettivi paesi ad individuare nuovi mercati di sbocco.
In effetti, scendendo nel dettaglio del nostro paese, il 2013 ha visto contrarsi ulteriormente il consumo di vino fino a 21,8 milioni di ettolitri contro i 30,2 milioni del 2001. Se si mette a confronto tale andamento con quello delle esportazioni, si evince come la forbice esistente ad inizio 2000 tra questi due indici si sia
andata via via restringendo fino ad annullarsi a partire dal 2011 (figura 4). In altre
parole, mentre nel 2001 la proporzione era quasi 1 a 2 (a fronte di 17 milioni di
ettolitri di vino esportato, 30 milioni venivano consumati in Italia), dal 2011 il
rapporto relativo è diventato pari all’unità (considerata la produzione vinicola italiana complessiva, praticamente metà viene consumata sul mercato interno e metà viene esportata).
Figura 4 – Un confronto tra consumi interni ed export di vino italiano
(milioni di ettolitri)
Economia della produzione
4. Italia: consumi interni di vino ed export
a
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31
Fonte: Wine Monitor
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Quali sono le ragioni di tale calo? Oggi i consumi di vino in Italia, dal punto
di vista quantitativo, sono soprattutto sostenuti dalle persone con oltre 60 anni
di età che generalmente accompagnano i pasti quotidiani con il vino. Tale modalità di consumo non fa invece parte delle abitudini alimentari delle fasce più
giovani della popolazione che invece consumano vino soprattutto in occasioni
diverse e con minor frequenza (sebbene per tipologie di prodotto con prezzi medi più elevati).
La riduzione dei consumi discende quindi dal fatto che nell’ultimo ventennio,
il numero dei consumatori che bevono vino tutti i giorni è diminuito del 63%,
passando da circa 4 a 1,5 milioni di individui. Nello stesso tempo, tale fascia di
consumatori non è stata rimpinguata dalle generazioni più giovani che, come specificato poc’anzi, esprimono frequenze e modalità di consumo nettamente differenti. Senza contare che, negli ultimi cinque anni, si è inoltre verificato un processo di sostituzione tra i consumi di vino e quelli di birra, questi ultimi in ripresa nel nostro paese (anche per via del fenomeno delle birre «artigianali» che stanno conoscendo un vero e proprio boom produttivo).
La riduzione dei consumi interni ha quindi spinto le imprese vinicole a ricercare nuovi sbocchi di mercato sul versante internazionale. Nell’ultimo decennio,
l’export di vino dall’Italia a valori correnti è cresciuto dell’87%, passando dai
2.679 milioni di euro del 2003 ai 5.040 del 2013. In questo sviluppo delle vendite oltre frontiera, la tipologia che ha conosciuto la maggior crescita è stata quella degli spumanti, aumentata del 218% ed arrivando così a pesare sul totale per
circa il 15% (contro il 9% di dieci anni prima). Il rimanente 85% si divide invece tra vini fermi imbottigliati (75%) e sfusi (10%).
La suddivisione dei mercati di esportazione (tabella 3) evidenzia il ruolo di primo piano detenuto da Stati Uniti, Germania e Regno Unito per i vini italiani che,
congiuntamente, arrivano ad assorbire il 54% dell’export complessivo. Da notare infine come il mercato comunitario pesi per poco più della metà sulle vendite
oltre frontiera del nostro vino, mentre risultano ancora marginali gli acquisti da
parte dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa).
Economia della produzione
Tabella 3 – I principali mercati di esportazione del vino italiano (valori)
Fonte: Wine Monitor
5. I principali mercati di importazione e il posizionamento dei vini italiani
I fautori della crescita dell’export italiano di vino sono quegli stessi mercati che
hanno visto esplodere i consumi di questo prodotto nell’ultimo ventennio e che, sia
per ragioni di ridotta – se non inesistente – disponibilità di prodotto nazionale che
di apprezzamento verso il made in Italy e gli altri vini esteri, hanno incrementato in
maniera rilevante le importazioni (tabella 4).
Tabella 4 – Importazioni di vino nei principali mercati mondiali (valori)
Fonte: Wine Monitor
a
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Nell’ultimo decennio, il valore dell’import di vino nei mercati «consolidati» e in
quelli «emergenti» è cresciuto a percentuali a doppia e tripla cifra. Considerando la
prima categoria di mercati, Stati Uniti e Regno Unito hanno singolarmente importato nel 2013 quantità di vino per un valore prossimo ai 4 miliardi di euro, facendo registrare aumenti dell’ordine del 38% (nel caso degli Stati Uniti) e del 20% (Regno Unito). Ma il primato per la dinamica di crescita più significativa spetta al Canada che tra il 2003 e il 2013 ha incrementato le importazioni di vino (in valore)
del 110%.
Nel caso dei Bric, dove tali dinamiche sono quasi la norma (essendo mercati dove la fase espansiva è appena iniziata), spicca il caso della Cina che nel giro di un decennio ha praticamente aumentato di 40 volte l’import di vino, facendo di tale paese il quinto mercato al mondo per valore delle importazioni di questo prodotto.
Nell’ambito di tale sviluppo, i vini italiani sono riusciti a mantenere le proprie posizioni, strappando in molti casi quote di mercato a quegli stessi competitor che, dal
punto di vista delle dotazioni concorrenziali, partono sicuramente avvantaggiati
(come Francia, Australia o Cile). In dieci anni, l’Italia ha conquistato la prima posizione – in termini di principale esportatore di vino – negli Stati Uniti, in Germania e in Russia, mentre negli altri mercati occupa comunque le posizioni di testa dopo la Francia (tabella 5).
Tabella 5 – Quote di mercato del vino italiano sulle importazioni totali di vino
del paese (% sui valori, principali mercati)
Fonte: Wine Monitor
I diversi posizionamenti discendono da strategie di mercato poste in essere dalle
imprese alla luce delle proprie potenzialità, oltre che da vincoli di natura soprattut-
Figura 5 – Dazi medi all’import dei vini italiani nei principali mercati
(% sul valore, 2012)
Economia della produzione
to tariffaria vigenti nei mercati di importazione. Nel primo caso vale la pena richiamare le strategie messe in atto dalle imprese francesi sul mercato cinese, un contesto dove il vino non fa parte delle tradizioni alimentari del paese e dove i distributori commerciali sono rappresentati da operatori di grandi dimensioni.
In un mercato del genere, dove la diffusione del vino può avvenire solamente dopo aver condotto un idoneo processo di educazione/informazione al consumatore
locale e quindi attraverso un presidio diretto e costante del mercato da parte delle
imprese esportatrici, la Francia, già a partire dagli anni ’80 ha intrapreso percorsi di
accordi commerciali con società locali.
Per quanto riguarda invece la questione dei vincoli tariffari, si tratta di una barriera all’ingresso che, per molti mercati «emergenti», discrimina in maniera rilevante l’accesso ai produttori (figura 5). È il caso ad esempio del Brasile, dove l’appeal dei vini made in Italy è sicuramente significativo – anche in considerazione
della comunità di emigranti italiani presenti – ma dove nello stesso tempo i vini
italiani soffrono di una competizione impari con quelli cileni e argentini a causa di
accordi bilaterali che permettono a questi ultimi di entrare nel mercato brasiliano
a dazio zero.
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35
Fonte: Wine Monitor
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6. La rilevanza socioeconomica della filiera vitivinicola italiana
e l’evoluzione intervenuta
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e
36
Come evidenziato precedentemente, la vitivinicoltura italiana assume un peso di
primo piano nel panorama europeo e mondiale, sia sul fronte produttivo che degli
scambi internazionali. Allo stesso tempo, i valori economici espressi dalla filiera vitivinicola giocano un ruolo chiave anche all’interno della complessiva filiera agroalimentare nazionale sia con rispetto alla parte più propriamente agricola che con riferimento alla fase di trasformazione: a livello agricolo, la viticoltura rappresenta infatti il 5% dell’intero valore dell’agricoltura italiana, mentre i produttori industriali
di vino garantiscono il 5% del Prodotto interno Lordo e il 4% degli occupati dell’intera industria alimentare.
Questi risultati sono resi possibili da un tessuto produttivo molto ampio e fortemente integrato lungo le varie fasi della filiera. A livello primario sono 376.000 le
aziende agricole focalizzate sulla produzione di uva da vino che in alcuni casi estendono la propria attività anche a processi di trasformazione per l’ottenimento del vino in house. Tali aziende, generalmente di piccolissima dimensione (1,7 ettari la dimensione media), impiegavano nel 2010 una superficie di circa 626 mila ettari investiti a vigneto2.
Le aziende agricole specializzate nella vitivinicoltura di rado lavorano le proprie
uve. Nella gran parte dei casi, la loro produzione viene venduta come materia prima a imprese industriali che non gestiscono direttamente vigneti e che invece si rivolgono alle imprese del settore primario per il reperimento della materia prima necessaria (uva da vino). Tale aggregato di trasformatori conta circa 1.800 imprese, capaci di produrre e mettere sul mercato, nazionale ed estero, più di 40 milioni di ettolitri di vino, di cui circa 29 milioni di ettolitri relativi a vini a denominazione di
origine (Dop e Igp). Grazie anche all’attività parallelamente svolta da quasi 4 mila
imbottigliatori, questa importante produzione di vino assicura un valore complessivo di circa 9 miliardi di euro3.
Come avvenuto per molti altri comparti dell’agricoltura italiana, anche il sistema viticolo ha conosciuto una profonda ristrutturazione nel decennio 2000-2010,
caratterizzato da una forte riduzione delle imprese e contemporaneamente, stante
una riduzione molto più contenuta della superficie agricola utilizzata, da una crescita importante della dimensione media di impresa in termini di superficie investita. Tali dinamiche trovano anche spiegazione negli effetti delle politiche comu-
2
3
Fonte: VI Censimento generale dell’Agricoltura, Istat.
Fonte: Mediobanca.
Tabella 6 – La viticoltura a livello regionale* e variazione decennale nelle aziende
e nella superficie investita
Economia della produzione
nitarie di «accompagnamento» all’uscita dal mercato da parte delle imprese meno
efficienti e produttive. Ci si riferisce soprattutto alle misure d’incentivazione dell’estirpazione volontaria dei vigneti volute dalla Commissione Europea per gli anni 2008/2009/2010 con l’intento di riequilibrare domanda e offerta del settore
(che partiva da un surplus strutturale dell’offerta) nell’ottica di favorire la qualità
media dei prodotti e il posizionamento di prezzo.
Questa politica spiega quindi in buona parte la riduzione delle superfici a vigneto tra il 2000 e il 2010, anche se il suo effetto è stato molto diverso all’interno del
territorio italiano coerentemente con i diversi gradi di sviluppo e valorizzazione delle vitivinicolture regionali. A mostrare le riduzioni più sensibili in termini di imprese
attive ed estensione dei vigneti sono state soprattutto le regioni del Centro-Sud (tabella 6), mentre in molte aree del Nord la superficie destinata a vigneto è addirittura aumentata (ad esempio, Veneto, Trentino Alto Adige); ciò deriva dal più alto valore aggiunto medio che contraddistingue le produzioni di queste ultime regioni e
che ha garantito il proseguimento e il rafforzamento dell’attività di produzione delle imprese del settore.
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* Comprensiva dell’uva da tavola
Fonte: elaborazioni su dati Istat
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7. Conclusioni: quali opportunità di crescita per i vini italiani?
a
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38
Alla luce della descrizione dello scenario attuale ed evolutivo che riguarda il mercato di consumo del vino sia a livello mondiale che nazionale, non sembrerebbero
esserci dubbi sulle direttrici di sviluppo che dovrebbero guidare le strategie di mercato delle imprese vinicole italiane per il prossimo futuro.
Ovviamente, il condizionale è sempre d’obbligo. Il mercato italiano rappresenta
un bacino di consumo del vino economicamente importante, tra l’altro poco propenso – ancora per il momento – all’acquisto di prodotti esteri. Purtroppo, è in prospettiva che l’attrattività di tale mercato sembra destinata a diminuire sensibilmente. Le imprese italiane, per mantenere inalterati i propri livelli produttivi e di redditività dovranno sempre più confrontarsi con consumatori appartenenti a paesi e culture alimentari lontane dalla nostra. La posta in gioco è alta: si corre infatti il rischio
di dover dire addio ad una larga fetta della coltivazione della vite, con tutti gli effetti
che ne deriverebbero a cascata sia nelle fasi produttive a valle della filiera, sia nei territori rurali e nelle economie locali dove la produzione vitivinicola rappresenta un
asset strategico di sviluppo.
Gli ostacoli presenti lungo questo percorso di internazionalizzazione non sono
pochi, ma i risultati raggiunti dal vino italiano nel mondo, anche durante questo
periodo di recessione, testimoniano la bravura e le capacità commerciali delle nostre imprese. Tanto che, mettendo in relazione tali successi con le dotazioni strutturali, organizzative e di supporto istituzionale/commerciale delle imprese italiane
rispetto a quelle francesi o dei player dell’Emisfero Sud, viene naturale chiedersi come questo sia stato possibile. D’altronde, guardando alle strategie di penetrazione
messe in atto dagli altri competitor, questi gap saltano agli occhi immediatamente: joint venture con operatori o istituzione di agenzie commerciali nel mercato target, sinergie con catene distributive multinazionali ma della stessa origine territoriale, supporto del «sistema Paese» nella conclusione di accordi bilaterali per la riduzione tariffaria o nella promozione e diffusione della propria cultura vinicola
nelle catene alberghiere o nella ristorazione. Tutte strategie che, ad esempio, hanno permesso ai produttori francesi di arrivare «per primi» e conquistare posizioni
di leadership in mercati con alti tassi di crescita nei consumi di vino (si pensi ai
paesi del Sud-Est asiatico).
Dal canto loro, le imprese italiane possono contare su standard qualitativi di prodotto elevati, su un’imponente varietà di vini in grado di adattarsi alle diete locali e
che possono far leva su riferimenti territoriali di alto valore emozionale ma, soprattutto, sulla diffusione della cucina italiana. Un particolare di estrema importanza
dato che, per i nostri vini, ha rappresentato in molti casi l’arma più efficace per la
penetrazione nei nuovi mercati.
Bibliografia
Mediobanca, Indagine sul settore vitivinicolo, Roma, 2014.
Pantini D., Piccoli F., Il vino oltre la crisi. Come è cambiato il mercato mondiale del
vino con la crisi economica: criticità ed opportunità per i produttori italiani, Agra
Editrice, Roma, 2011.
Pantini D., Il posizionamento competitivo del vino italiano nel mercato mondiale tra
cambiamenti nei consumi e nuovi scenari evolutivi, Rapporto Ice 2011-2012 «L’Italia nell’economia internazionale», Roma, 2012.
Istat, banca dati Coeweb.
Oecd-Fao, Agricultural Outlook 2013-2022.
Wine Monitor, Statistical database (www.winemonitor.it).
Economia della produzione
In altre parole, più che stupirsi dell’affermazione raggiunta dai nostri prodotti nel
mondo, occorrerebbe prendere atto delle potenzialità ancora inespresse o non pienamente utilizzate dalle nostre imprese per godere di maggiori vantaggi competitivi nell’arena mondiale.
Una cosa è certa: non essendoci più spazio per l’improvvisazione, per le imprese
diventa necessario superare quei limiti organizzativi e commerciali che oggi ne minano alla base la competitività. Solo in questo modo i vini italiani saranno in grado
di farsi valere ed apprezzare in un mercato mondiale che, al di là delle brevi e isolate battute d’arresto, presenta ancora molte potenzialità di sviluppo.
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Temi
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■ Temi
Crisi occupazionale, ammortizzatori sociali
e riforma pensionistica
Elisabetta Pedrazzoli*
Premessa
L’attuale situazione economica è caratterizzata dal perdurare di una forte crisi con
tutte le conseguenze che ciò comporta sui livelli occupazionali. Sono pertanto frequenti i casi in cui ci si trovi a dover affrontare una richiesta/proposta di riduzione
di personale da parte delle imprese.
Fino all’entrata in vigore della riforma pensionistica e alla riforma degli ammortizzatori sociali introdotti rispettivamente dal 1° gennaio 2012 e dal 18 giugno
2013, è stato possibile, in assenza di alternative percorribili al licenziamento dei lavoratori, gestire gli esuberi aziendali, accompagnando nella maggior parte dei casi i
lavoratori alla maturazione dei requisiti pensionistici e ciò con appositi accordi tra
parti sociali e datori di lavoro.
La riforma degli ammortizzatori sociali introdotta dalla Legge n. 92/2012, combinata alla riforma pensionistica in vigore dal 1° gennaio 2012, ha comportato delle difficoltà aggiuntive nella gestione degli esuberi di lavoratori, situazione che si è
presentata sempre più spesso nel mondo imprenditoriale e che, probabilmente, è
destinata a presentarsi ancora nell’immediato futuro.
Per meglio capire la portata delle due riforme in questione è utile ripercorrere le
novità introdotte dalla legge sulla riforma delle pensioni e da quella di riforma sugli ammortizzatori sociali.
La riforma previdenziale – Legge n. 214 del 22 dicembre 2011
La riforma previdenziale prevede le seguenti novità:
– Estensione del sistema di calcolo contributivo.
– Pensione di vecchiaia.
– Pensione anticipata.
– Aggancio dei requisiti anagrafici e contributivi alla speranza di vita.
– Abolizione delle finestre mobili.
* Flai Cgil Nazionale
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17-18/2014
In particolare per ciò che riguarda la pensione di vecchiaia sono previsti dalla riforma
i requisiti di seguito riportati a partire dal 1° gennaio 2012:
– Cessazione dell’attività lavorativa.
– Età minima, come da tabella sotto riportata, espressamente indicata dalla norma1.
– 20 anni di contribuzione e, per coloro che hanno iniziato a versare i contributi
successivamente al 1° gennaio 1996, il raggiungimento di un importo di pensione pari ad almeno 1,5 volte l’assegno sociale.
– È da rilevare che a tutte le età pensionabili indicate si applicano gli aumenti relativi alla speranza di vita che avranno una cadenza triennale fino al 2019 e che
dal 2019 in poi diventeranno biennali.
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Requisiti di età per l’accesso alla nuova pensione di vecchiaia in tutti i settori
tenendo conto anche dell’adeguamento alla speranza di vita
Anno
Lavoratori
dipendenti ed
autonomi. Età
Lavoratrici
pubblico
impiego. Età
Lavoratrici
settore
privato. Età
Lavoratrici
autonome.
Età
2012
66
66
62
63 e 6 mesi
2013
66 e 3 mesi
66 e 3 mesi
62 e 3 mesi
63 e 9 mesi
2014
66 e 3 mesi
66 e 3 mesi
63 e 9 mesi
64 e 9 mesi
2015
66 e 3 mesi
66 e 3 mesi
63 e 9 mesi
64 e 9 mesi
2016
66 e 7 mesi
66 e 7 mesi
65 e 7 mesi
66 e 1 mese
2017
66 e 7 mesi
66 e 7 mesi
65 e 7 mesi
66 e 1 mese
2018
66 e 7 mesi
66 e 7 mesi
66 e 7 mesi
66 e 7 mesi
2019
66 e 11 mesi
66 e 11 mesi
66 e 11 mesi
66 e 11 mesi
2020
66 e 11 mesi
66 e 11 mesi
66 e 11 mesi
66 e 11 mesi
Per quanto riguarda la pensione anticipata va rilevato quanto segue:
– Il meccanismo delle quote della previgente normativa viene cancellato (età anagrafica + contributi).
– Dal 1° gennaio 2012 il requisito dei 40 anni di contribuzione indipendentemente dall’età anagrafica è portato per le donne a 41 anni e 1 mese e per gli uomini a 42 anni e 1 mese.
– Questi requisiti sono aumentati di un ulteriore mese nel 2013 e ancora di un mese nel 2014.
– Dal 2013 viene esteso anche al pensionamento anticipato il meccanismo di incremento all’aspettativa di vita, coma da tabella sotto riportata.
1
Circ. Inps n. 35/2012.
Decorrenza
Uomini
Donne
dal 1° gennaio 2012 al 31 dicembre 2012
42 anni e 1 mese
(pari a 2188 settimane)
42 anni e 5 mesi
(pari a 2205 settimane
42 anni e 6 mesi
(pari a 2210 settimane)
42 anni e 6 mesi
(pari a 2210 settimane)
41 anni e 1 mese
(pari a 2136 settimane)
41 anni e 5 mesi
(pari a 2153 settimane)
41 anni e 6 mesi
(pari a 2158 settimane)
41 anni e 6 mesi
(pari a 2158 settimane)
dal 1° gennaio 2013 al 31 dicembre 2013
dal 1° gennaio 2014 al 31 dicembre 2015
dal 1° gennaio 2016
– Nel caso in cui una parte della pensione sia calcolata con il metodo retributivo sono previste penalizzazioni per chi accede al pensionamento prima dei 62
anni.
– In particolare, sulla quota di pensione relativa alle anzianità contributive maturate prima del 1° gennaio 2012, è applicata una riduzione percentuale pari a
1 punto percentuale per ogni anno di anticipo nell’accesso al pensionamento
rispetto all’età di 62 anni; questa percentuale annua è elevata a 2 punti per ogni
anno ulteriore di anticipo rispetto ai 60 anni (la riduzione percentuale è applicata in misura proporzionale al numero di mesi mancanti al requisito dei 62
anni).
– Es.: anzianità contributiva 42 anni - età 58 anni (età pensionabile 62 anni)
- 6% di penalizzazione per i quattro anni di età mancanti
- 2% per i due anni di anticipo rispetto ai 62
- 4% (2% all’anno) per i due anni ulteriori mancanti ai 60.
Lavoratori ai quali non si applicano le nuove norme sui requisiti per la pensione
– Chi ha maturato i requisiti entro il 31 dicembre 2011.
– Le donne, con anzianità contributiva pari o superiore a 35 anni e un’età di almeno 57 anni (dipendenti) o 58 anni (autonome) che optano per la liquidazione della pensione con il sistema contributivo (possibilità ammessa fino al 2015 a
condizione che entro il 31 dicembre 1995 si possiedano meno di 18 anni di contributi).
– I lavoratori addetti a lavorazioni usuranti. Questi lavoratori potranno accedere al
pensionamento sulla base delle precedenti regole, con modalità stabilite dal decreto Lavoro-Economia firmato il 1° giugno 2012 che prevede anche il numero
massimo dei beneficiari.
Temi
Pensione anticipata
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Riforma del Mercato del Lavoro, Legge 28 giugno 2012 n. 92
e Legge n. 99 del 2013
17-18/2014
L’Assicurazione Sociale per l’Impiego
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La riforma del mercato del lavoro interviene tra le altre cose anche sugli ammortizzatori sociali.
Viene introdotta l’Assicurazione Sociale per l’Impiego che sostituisce i seguenti
istituti: indennità di mobilità, indennità di disoccupazione non agricola ordinaria,
indennità di disoccupazione con requisiti ridotti, indennità di disoccupazione speciale edile.
Tutte le forme di tutela per la disoccupazione confluiscono nell’Aspi (Indennità
di mobilità, Ds non agricola ordinaria, indennità speciale edile), con il graduale superamento dell’indennità di mobilità, attraverso un periodo transitorio che è iniziato il 1° gennaio 2013 e che si completerà il 31 dicembre 2016.
Durata per eventi di disoccupazione involontaria verificatisi a decorrere dal 1°
gennaio 2016:
– L’Aspi avrà una durata di 12 mesi fino ai 54 anni di età del lavoratore e di 18 mesi dai 55 anni in poi.
– I periodi di percezione dell’Aspi sono coperti da contribuzione figurativa sulla
base delle retribuzioni imponibili ai fini previdenziali dell’ultimo biennio (le stesse prese in considerazione per stabilire l’importo dell’indennità).
– La contribuzione è valida per il diritto e la misura dei trattamenti pensionistici.
– La fruizione dell’Aspi è condizionata alla permanenza nello stato di disoccupazione.
Periodo di transizione dell’indennità di disoccupazione verso l’Aspi
Per anno di licenziamento
2013
– 8 mesi fino a 49 anni di età
– 12 mesi dai 50 anni di età
2014
– 8 mesi fino a 49 anni di età
– 12 mesi dai 50 anni ai 54 anni di età
– 14 mesi dai 55 anni di età (entro le settimane di contributi nel biennio)
2015
– 10 mesi fino a 49 anni di età
– 12 mesi dai 50 anni ai 54 anni di età
– 16 mesi dai 55 anni di età (entro le settimane di contributi nel biennio)
2016
– 12 mesi fino a 54 anni di età
– 18 mesi dai 55 anni di età (entro le settimane di contributi nel biennio)
Periodo di transizione dell’indennità di mobilità verso l’Aspi
Considerando i nuovi requisiti richiesti per il trattamento pensionistico e le modifiche introdotte sulla mobilità (graduale riduzione in termini di durata, fino ad arrivare al 31 dicembre 2016 al suo assorbimento e sostituzione con l’Aspi) è subito
palese la difficoltà nel gestire situazioni di esubero dei lavoratori. Ci si trova di fronte in molti casi a lavoratori che anche con accordi aziendali che prevedono l’utilizzo della Cigs e quindi l’entrata nelle liste di mobilità con relativo trattamento economico (fino alla sua sostituzione definitiva con il 2016), non sono in condizioni
di raggiungere i requisiti pensionistici, se non dopo un periodo durante il quale verrà a mancare un sostegno economico.
Andando oltre, in alcuni casi, visto che l’età pensionabile potrà essere aumentata attraverso l’applicazione del meccanismo di incremento dell’aspettativa di vita, si
pone un problema di identificare una data certa di pensionamento con tutti i problemi che può comportare nella programmazione della propria vita tale incertezza
sul futuro.
Va quindi evidenziata la sfasatura tra le riforme realizzate e l’attuale situazione
economica di grave e perdurante crisi economica e sociale. Inoltre l’eliminazione a
regime delle indennità e delle liste di mobilità avrebbe dovuto implicare un sostituto equivalente in termini monetari e di durata2.
Per quanto riguarda la durata del trattamento previsto dall’Aspi è subito evidente come la stessa sia penalizzante rispetto al trattamento di mobilità.
2
Aa.Vv., Rapporto di lavoro e ammortizzatori sociali dopo la legge n. 92/2012, Ediesse, Roma, 2012.
Temi
Per anno di licenziamento
2013
– 12 mesi fino a 39 anni di età (24 mesi se al Sud)
– 24 mesi dai 40 ai 49 anni di età (36 se al Sud)
– 36 mesi dai 50 anni età (48 se al Sud)
2014
– 12 mesi fino a 39 anni di età (24 mesi se al Sud)
– 24 mesi dai 40 ai 49 anni di età (36 se al Sud)
– 36 mesi dai 50 anni di età (48 se al Sud)
2015
– 12 mesi fino a 39 anni di età
– 18 mesi dai 40 anni ai 49 anni di età (24 mesi al Sud)
– 24 mesi dai 50 anni di età (36 mesi se al Sud)
2016
– 12 mesi fino a 39 anni di età
– 12 mesi dai 40 anni ai 49 anni di età (18 mesi se al Sud)
– 18 mesi dai 50 anni di età (24 mesi se al Sud)
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Anche la misura del trattamento Aspi è inferiore rispetto all’indennità di mobilità (75% della retribuzione media degli ultimi due anni con un abbattimento del
15% dell’indennità dopo i primi 6 mesi e di un ulteriore 15% dopo altri 6 mesi
contro l’indennità di mobilità che prevede invece l’80% della retribuzione teorica
lorda spettante per i primi 12 mesi, pari quindi all’100% della Cigs, che dal 13° mese passa all’80% dell’importo corrisposto nel primo anno).
17-18/2014
Misure introdotte dalla riforma a favore dei lavoratori «anziani»
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La legge n. 92 prevede la possibilità, nei casi di eccedenza di personale, di stipulare accordi tra i datori di lavoro che impieghino mediamente più di 15 dipendenti e le organizzazioni sindacali dei lavoratori maggiormente rappresentative a livello
aziendale, al fine di incentivare l’esodo dei lavoratori più prossimi al trattamento di
pensione.
Questa soluzione costituisce una sorta di pensionamento anticipato autofinanziato, infatti il datore di lavoro si impegna a corrispondere all’Inps la provvista finanziaria necessaria per l’erogazione ai lavoratori di una prestazione di importo pari al trattamento di pensione che spetterebbe al momento della risoluzione del rapporto di lavoro in base alle regole vigenti e per l’accredito della contribuzione fino
al raggiungimento dei requisiti minimi per il pensionamento3.
La stessa prestazione può essere oggetto di accordi sindacali nell’ambito di procedure ex articoli 4 e 24 della legge n. 223 del 23 luglio 1991. In questa procedura
possono essere ricompresi anche i dirigenti risultati in esubero nell’ambito di un
processo di riduzione di personale avente qualifica dirigenziale, conclusosi con un
accordo firmato da un’associazione sindacale stipulante il contratto collettivo di lavoro della categoria.
I lavoratori che possono usufruire di queste misure devono raggiungere i requisiti minimi per il pensionamento, di vecchiaia o anticipato, nei 4 anni successivi alla data di cessazione del rapporto di lavoro. Secondo quanto prevede la procedura in materia il datore di lavoro dovrà presentare domanda all’Inps accompagnata da una fideiussione bancaria a garanzia della solvibilità in relazione agli
obblighi; l’accordo sarà efficace solo a seguito di validazione da parte dell’Inps,
che effettuerà l’istruttoria in ordine alla presenza dei requisiti in capo al datore di
lavoro e al lavoratore. A seguito dell’accettazione dell’accordo, il datore di lavoro
sarà obbligato a versare mensilmente all’Inps la provvista per la prestazione e per
la contribuzione figurativa correlata. Questa nuova disciplina suscita delle per3
Circ. Inps 119/2012.
plessità dovute alla sua incoerenza con i nuovi requisiti introdotti dalla riforma
pensionistica che, come descritto, limita fortemente il momento di uscita anticipata dal lavoro. Inoltre va considerato il forte impegno economico richiesto al datore di lavoro che, nell’attuale momento di crisi economica, difficilmente vorrà
affrontare.
Tra le misure che vanno ricomprese nel sistema di ammortizzatori sociali previsto dalla riforma c’è la costituzione presso l’Inps di un sistema di Fondi bilaterali di
solidarietà, per effetto di accordi tra le organizzazioni comparativamente più rappresentative dei datori di lavoro e dei lavoratori.
Principalmente la finalità dei Fondi è di garantire, per le stesse causali previste per
la Cig ordinaria e straordinaria, un sostegno al reddito per i settori non coperti dalla normativa in materia di integrazione salariale.
I fondi però possono avere ulteriori finalità quali:
– assicurare ai lavoratori una tutela in caso di cessazione del rapporto di lavoro;
– una funzione integrativa rispetto all’Aspi;
– prevedere assegni straordinari per il sostegno al reddito riconosciuti nel quadro
dei processi di agevolazione all’esodo a lavoratori che raggiungano i requisiti previsti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato nei successivi cinque anni;
– contribuire al finanziamento di programmi formativi di riconversione o riqualificazione professionale, anche in concorso con gli appositi fondi nazionali o dell’Unione Europea.
Nel caso in cui le parti attribuiscano ai Fondi queste diverse finalità al di fuori
della tutela in costanza di rapporto di lavoro, gli stessi potranno essere istituiti in settori e aziende già coperte dalla Cig.
Nelle aziende a cui si applica la mobilità, se previsto dagli accordi, dal 1° gennaio
2017 il Fondo potrà essere finanziato da un contributo dello 0,30 calcolato sulle retribuzioni imponibili previdenziali.
Da sottolineare gli aspetti critici quali la contribuzione al Fondo a carico del
datore di lavoro e del lavoratore (rispettivamente 2/3 e 1/3), l’obbligo di bilancio
in pareggio, nonché la necessità di predisporre bilanci di previsione ad otto anni.
Inoltre, in caso di erogazione di assegni straordinari per il sostegno al reddito,
riconosciuti nel quadro dei processi di agevolazione all’esodo a lavoratori che raggiungano i requisiti previsti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato nei
successivi cinque anni, è dovuto dal datore di lavoro un contributo straordinario
utile alla costituzione della riserva economica per erogare la prestazione.
Temi
Fondi di solidarietà bilaterali
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Tutele in costanza del rapporto di lavoro: Contratti di solidarietà difensivi
Per completare il quadro di riferimento relativo alle misure che la legge prevede
per fronteggiare periodi di crisi aziendale e scongiurare il licenziamento dei lavoratori, è utile ricordare tra le tutele in costanza del rapporto di lavoro i contratti di solidarietà difensivi.
Si tratta di accordi, stipulati tra azienda e rappresentanze sindacali, aventi per oggetto la diminuzione dell’orario di lavoro al fine di mantenere l’occupazione in caso di crisi aziendale ed evitare riduzioni di personale.
17-18/2014
Contratto di solidarietà difensiva di imprese rientranti nel regime Cigs (L. 863/84)
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Spetta a tutto il personale ad esclusione dei dirigenti, degli apprendisti, dei lavoratori a domicilio, dei lavoratori con anzianità aziendale inferiore a 90 giorni e dei
lavoratori assunti a tempo determinato per attività stagionali.
Per le ore di riduzione di orario spetta una integrazione pari all’80% della retribuzione persa. I contratti di solidarietà possono essere stipulati per un massimo di
24 mesi, prorogabili per altri 24 mesi (36 mesi per i lav. occupati nelle aree del Mezzogiorno).
Qualora il contratto raggiunga la durata massima, può essere stipulato un altro
contratto trascorsi 12 mesi dal termine del precedente.
Contratto di solidarietà difensiva di imprese non rientranti nel regime Cigs (L. 236/93)
Spetta ai lavoratori dipendenti da imprese con più di 15 dipendenti, escluse dalla Cigs e che abbiano avviato la procedura di mobilità di cui all’art. 24 della L.
223/1991, ai lavoratori di imprese con meno di 15 dipendenti che stipulano contratti di solidarietà al fine di evitare licenziamenti, ai lavoratori di imprese alberghiere/termali operanti in località territoriali con gravi crisi occupazionali e ai lavoratori di imprese artigiane indipendentemente dal numero di dipendenti.
Conclusioni
Sintetizzando si può dire che la riforma del mercato del lavoro in tema di ammortizzatori sociali e delle tutele del lavoro è purtroppo arrivata nel pieno della crisi occupazionale e le novità da essa introdotte rendono particolarmente difficile garantire una copertura economica al lavoratore considerato in esubero, che rischia di
trovarsi alla fine del periodo coperto dagli ammortizzatori sociali ancora lontano
Temi
dall’aver maturato i requisiti pensionistici che la riforma delle pensioni, in vigore dal
2012, ha aumentato considerevolmente.
Come alternativa al licenziamento, come sostenuto da sempre dalla Cgil, lo strumento cruciale è rappresentato dai contratti di solidarietà che dovrebbero quindi essere rifinanziati adeguatamente dalla legge.
Le misure introdotte dalla riforma a favore dei lavoratori «anziani» prima descritte, sono sicuramente una prospettiva interessante, che comporta comunque
due ordini di difficoltà: il primo è rappresentato dalla sua incoerenza con i nuovi
requisiti introdotti dalla riforma pensionistica che condizionerà, limitandolo fortemente, il numero dei lavoratori che nei quattro anni successivi siano in grado di
raggiungere la pensione; il secondo è rappresentato dall’impegno economico che il
datore di lavoro dovrebbe sostenere, anch’esso incoerente con l’attuale stato di crisi economica.
Per quanto riguarda il ricorso alla costituzione di Fondi bilaterali di solidarietà
che prevede assegni straordinari per il sostegno al reddito riconosciuti nel quadro
dei processi di agevolazione all’esodo a lavoratori che raggiungano i requisiti previsti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato nei successivi cinque anni, va sottolineato l’aspetto critico legato alla contribuzione al fondo che è a carico del datore di lavoro e del lavoratore (rispettivamente 2/3 e 1/3), all’obbligo di bilancio in
pareggio nonché di predisporre bilanci di previsione ad otto anni.
Considerando il contesto normativo che è stato descritto e il contesto economico ancora molto depresso, la direzione che andrebbe presa è quella indicata dalla
Cgil, che prevede un periodo di congelamento della riforma Fornero sulle pensioni
che permetta di gestire i processi di ristrutturazione e di crisi delle imprese e, in secondo luogo, rivedere l’intero impianto del sistema pensionistico affinché lo stesso
sia finanziariamente e socialmente sostenibile.
Dovrebbe essere ripristinata la flessibilità dell’età pensionabile in modo che si
possa andare in pensione dopo i 62 anni senza le penalizzazioni e dovrebbe essere
rivisto l’automatismo dell’aumento dell’età pensionabile legato alla speranza di vita.
A maggior ragione le penalizzazioni dovrebbero poi essere eliminate anche nei confronti dei lavoratori precoci che chiedono la pensione anticipata prima dei 62 anni
di età e che spesso hanno svolto lavorazioni assai faticose e remunerate con salari più
bassi.
Anche per quanto riguarda gli ammortizzatori sociali è necessario un ripensamento. La Cgil già da tempo propone una vera e propria «riforma degli ammortizzatori sociali».
Andrebbe rivisto il periodo di copertura introdotto con l’Aspi, che tra il 2015 e
il 2016 passa da una copertura di 36/48 mesi ad una copertura di 12/18 mesi. Il periodo transitorio di passaggio dalla mobilità all’Aspi dovrebbe essere ampliato e poi,
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anche a regime, i periodi di copertura dell’Aspi dovrebbero essere portati ad almeno 18/24 mesi.
È auspicabile quindi che quanto prima il Governo metta mano, oltre che agli altri importanti temi del mercato del lavoro, ad una revisione degli strumenti di politiche passive e del sistema pensionistico, che tenga conto del perdurare della crisi
occupazionale.
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■ Temi
Inoccupazione, produttività e orari di lavoro
Franco Farina *
Premessa
L’attuale discussione sull’occupazione ha come riferimento centrale il mercato del
lavoro e separa l’attività e l’impiego dal loro luogo d’origine, la produzione. In questo disinvolto e irrilevante approccio le crisi aziendali sono considerate dal governo
politico come un incidente di percorso tanto più perché giustificate dalla recessione economica; mentre l’attuale fase competitiva è considerata un proposito futuro
e il mercato del lavoro assume il significato di panacea di tutti i problemi occupazionali. Volontariamente manca un approccio unitario del problema in cui la produzione e il rilancio pubblico degli investimenti e dell’economia assumono come
valore centrale la difesa e il consolidamento dell’occupazione e del lavoro industriale. Diversamente l’occupazione cede a una dipendenza verso le ideologie di mercato, alla conservazione degli attuali assetti produttivi e competitivi e alla riduzione
dei diritti dei lavoratori. Eppure l’attuale fase, nonostante la lunga crisi economica,
ha, in un’area produttiva vasta e intersettoriale, i prodromi di un rilancio produttivo in grado di procedere a un’innovazione che può segnare i nuovi e solidi caratteri dell’industrialismo del nostro paese.
Tecnologie e occupazione
Il problema occupazionale, una volta indicato dalle continue statistiche, pone in
sé il quesito della domanda di lavoro. Tale domanda, paradossalmente, non è assolutamente scontata come ragionevolmente si può pensare. Sono anni, infatti, che la
riforma del mercato del lavoro ha presieduto politicamente il tema della disoccupazione. Una nevrosi politica, data la sua coazione a ripetersi negli anni, che ha perseguito la disintegrazione del concetto di offerta attraverso forme di flessibilità e di
precarietà dei rapporti di lavoro (bassi salari, pochi diritti e rapporti di lavoro determinato). Una riforma più volte aggiornata e sempre segnata dai commenti degli
autori legislativi che esaltavano le condizioni leggere e profittevoli per l’entrata pro* Fondazione Metes
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gressiva al mondo del lavoro da parte dei disoccupati e dei giovani. Non fa eccezione il ministro G. Poletti che con le sue ulteriori esemplificazioni (una maggiore precarietà del lavoro) si appella al suo ottimismo emiliano per sanzionare l’utilità della
sua riforma. Sta di fatto che tutte queste riforme, che hanno moltiplicato forme e
normative dei rapporti di lavoro flessibili e precari, non hanno determinato mutamenti positivi sul dramma occupazionale.
Il tema del lavoro si può rappresentare in due aspetti concomitanti: il primo è l’aspetto generale mentre il secondo è quello più particolare. L’aspetto generale è lo sviluppo delle politiche attive pubbliche e private mentre il secondo riguarda la stessa
fenomenologia del lavoro così come si manifesta nelle sue implicazioni e forme concernenti l’organizzazione del lavoro, le sue modalità, la sua durata nelle molteplici
forme, la produttività, la competizione e la concorrenza dei mercati nazionali, europei e internazionali. In questo ambito specifico dell’attività produttiva gran parte
dei problemi aziendali ha una sua centralità sui temi della concorrenza, degli incrementi di produttività, della qualità del prodotto. L’occupazione e la sua caratteristica professionale, in questo quadro, non sono assolutamente indifferenti alla capacità competitiva dell’azienda. Occupazione e concorrenza dei prodotti sui mercati ricoprono la funzione prioritaria di un’azienda competitiva; dunque l’occupazione è
una qualità indispensabile per creare profitto, per realizzare consolidamento sui
mercati e per favorire ulteriormente la crescita occupazionale. In altri termini l’occupazione non è mai un dato quantitativo e asettico legato prevalentemente a una
ripartizione di posti di lavoro ma assume il carattere di capitale umano investito nella forma aziendale. Indubbiamente la composizione occupazionale in termini sia
quantitativi sia qualitativi dipende dai cicli economici, dalle innovazioni organizzative e dalle tecnologie in uso. Quest’ultimo aspetto e cioè la relazione tra tecnologie
e occupazione è stato un dato caratteristico e progressivo nel precedente secolo industriale per poi trovare una ulteriore e innovativa manifestazione negli ultimi vent’anni1. Tale rapporto si presenta sempre in forma contraddittoria e trae origine nella corrispondenza tra produzione di manufatti, occupazione e tecnologia. Almeno
nell’esperienza storica dell’industrialismo, la crescita occupazionale non è automaticamente favorita dagli aumenti dei volumi di produzione qualora si sia in presenza
d’innovazione tecnologica; dall’altra parte lo stesso mutamento tecnologico di ultima generazione procura un’occupazione più qualificata e fonte di compiti sempre
più responsabili per l’andamento del processo produttivo. La sfida tecnologica e occupazionale risiede in questa contraddizione. C’è da dire che tale confronto, di là
dal nostro schematismo, assume anche un carattere dinamico tra tecnologia e oc1
Su questo punto si veda P. Carniti, Disoccupazione, ridistribuire il lavoro, in «Mondoperaio», n. 5,
2014, p. 23.
2 Sul rapporto tra tecnologia e occupazione c’è una ricca e consistente bibliografia che attraversa studi
storici, economici, sociologici e filosofici. Tanto per citarne alcuni, il pensiero di A. Smith, D. Ricardo, K. Mark rappresentano il nucleo originario di tale problematica su cui è sempre utile soffermarsi.
3 A tale proposito si veda F. Farina, Persona e lavoro, Ediesse, Roma, 2005.
4 Per comprendere le fondamenta sull’argomento è utile leggere l’autore di tale modello, F.W. Taylor,
Organizzazione scientifica del lavoro, Etas Kompass, Milano, 1967.
Temi
cupazione qualora tale confronto si saldi con significativi aumenti di produttività
nel processo produttivo. Difatti gli incrementi di produttività possono presupporre
la condizione di una maggiore competitività dell’azienda sul mercato e i relativi incrementi dei volumi produttivi tanto da poter ristabilire un più avanzato e corrispondente rapporto tra occupazione e introduzione di nuova tecnologia2. In questi
casi gran parte dell’occupazione aziendale e della produttività si situa nella relazione tra tecnologia e modelli organizzativi. Tale rapporto nei decenni passati ha avuto cambiamenti sostanziali su cui vale la pena soffermarci.
Le macchine speciali monouso sostituirono negli anni ’50 il lavoro basato sul mestiere e sulle capacità personali del lavoratore. Fu un cambiamento che intaccò la
professionalità operaia, dequalificandola, ma non determinò effetti occupazionali.
Difatti in quegli anni iniziò la grande crescita industriale italiana che, attraverso il
gigantismo aziendale e la produzione di massa, determinò incrementi occupazionali stabilendo così il primato economico sull’agricoltura e sul terziario. L’introduzione di queste macchine fu concomitante con la diffusione della divisione scientifica
del lavoro3. Strutture gerarchiche e parcellizzazione delle mansioni ordinarono il lavoro nel gigantismo industriale degli anni ’50. L’innovazione dei macchinari non
provocò la disoccupazione tecnologica, nonostante una forte disoccupazione di
massa che si registrò in quegli anni sostenuta prevalentemente dallo spopolamento
delle campagne ma s’istaurò, invece, un modello in cui tecnologia, occupazione e
volumi di produzione standardizzata e di massa trovarono la loro efficacia nell’organizzazione scientifica del lavoro4. Nei successivi anni, soprattutto nella metà del ’60
e agli inizi del ’70, ci furono grandi perdite occupazionali dovute soprattutto ai processi di ristrutturazione e ai mutamenti delle forme aziendali. Le prime perdite occupazionali furono la conseguenza della crisi economica e dei processi di ristrutturazione che si manifestarono conseguentemente nelle fabbriche. Il segno di tali processi fu l’espulsione di manodopera compensata con l’innalzamento dell’intensità
del lavoro nelle operazioni e nei compiti nell’unità di tempo per gli occupati. Mentre le seconde ci furono quando all’inizio degli anni ’70 iniziò un processo di riorganizzazione delle imprese che ridefinirono le forme d’impresa e il rapporto con il
mercato (cominciò la fine del gigantismo industriale, delle produzioni standardizzate, si avviarono, da parte delle aziende, processi di decentramento produttivo degli appalti su singole lavorazioni e così via). Questi processi espulsero lavoro dalle
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fabbriche ma il motivo non fu la conseguenza delle innovazioni tecnologiche ma
delle razionalizzazioni organizzative e delle crisi che in quegli anni si manifestarono
nel paese. Diversamente negli anni ’80 l’innovazione tecnologica e le grandi ristrutturazioni aziendali crearono una forte espulsione di manodopera nelle fabbriche. Infatti nelle produzioni manifatturiere ci fu il superamento del modello tecnologico
degli anni ’50 con l’applicazione della microelettronica, dell’informatica e l’introduzione dell’automazione flessibile. Le crisi aziendali e la tecnologia comportarono
le cancellazioni dei posti di lavoro e una nuova razionalizzazione delle organizzazioni produttive5. La tecnologia informatica e l’automazione flessibile portarono alla
perdita consistente di posti di lavoro ma, per scelte aziendali, non furono mutate le
organizzazioni del lavoro e la prestazione lavorativa. Si aprì così una contraddizione
organizzativa e produttiva che si risolse soltanto negli anni ’90. Difatti la contraddizione che si manifestò fu l’incompatibilità tra un sistema d’impresa flessibile che
si avvaleva di macchine e sistemi integrati con una prestazione, invece, in cui prevaleva il rapporto meccanico e prefissato nei movimenti e nei tempi tra lavoratore e
macchine così come si era configurato nel periodo precedente. L’innovazione tecnologica, infatti, consentì, in virtù di un hardware e di un software progrediti, la progettazione e la produzione di una definita varietà di prodotti per via automatica, di
controllare la qualità, di avvalersi di accorgimenti automatici di manutenzione, di
contabilità e d’inventario nel processo di lavorazione del prodotto. Sul piano del lavoro quest’assetto flessibile della produzione richiedeva il superamento del lavoro
parcellare e ripetitivo a favore, invece, di lavori di supervisione, di controllo, di manutenzione e di riparazione del macchinario che accordava al lavoratore una maggiore responsabilità e specializzazione tecnica e il riconoscimento delle sue abilità,
autonomia ed esperienza in netto contrasto, cioè, alla dequalificazione operaia rappresentata dalla funzionalità meccanica della relazione macchina-uomo (taylor-fordista).
Soltanto agli inizi degli anni ’90 fu intrapresa l’innovazione organizzativa-gestionale del modo di produzione che consistette nell’integrare l’information technology
non più con una logica di produzione standardizzata ma con un’organizzazione della produzione snella.
Produttività e occupazione
Dagli anni ’90 in poi i modelli organizzativi del lavoro hanno come riferimento
tecniche di produzioni snelle che modificano gli obiettivi aziendali e gli stessi carat5
F. Farina, Della produttività. Discorso sulla qualità del lavoro, Ediesse, Roma, p. 44 (seconda edizione
2008).
Temi
teri del lavoro produttivo. Il nesso tra qualità del prodotto e produttività, in questi
casi, è misurato sull’ottimizzazione del flusso produttivo. Un elemento fondamentale di tale legame riguarda proprio l’occupazione e il valore professionale degli occupati. Infatti diversamente da un’organizzazione per funzioni dove il lavoro è la
somma delle singole operazioni o mansioni, la finalità di un’organizzazione per processi è l’ottimizzazione e la stabilità produttiva, che, per essere tali, richiedono la certezza occupazionale. La sicurezza si riferisce a un’occupazione, una volta stabiliti i
ruoli professionali di polivalenza e polifunzionalità, in grado di assicurare un processo lavorativo sfilato attraverso la copertura continuativa ed effettiva dei ruoli professionali, sia alla luce delle assenze per ferie, malattia, riposi, permessi, sia in funzione delle punte di assenze collettive in ragione dell’anno (ferie e riposi collettivi).
La suddetta regola è la condizione fondamentale per ottenere gli obiettivi di produttività e qualità. In realtà – salvo rilevanti aziende collocate in diversi settori produttivi in cui il processo di ottimizzazione tra gli incrementi di produttività, qualità e occupazione rappresenta l’obiettivo prioritario dell’organizzazione del lavoro –
gran parte delle aziende adopera uno schema lavorativo in cui l’innovazione organizzativa (le produzioni snelle) è supportata da tecniche occupazionali sostanzialmente riconducibili alla produzione standardizzata. In questi ultimi casi avviene
uno scarto tra gli obiettivi organizzativi di produttività e di qualità e gli strumenti
necessari per perseguire gli stessi. Le tecniche si riferiscono a un lavoro con organici ridotti e per compensare la carenza del personale si applicano straordinari e orari
flessibili. Difatti lo straordinario è sempre di più una condizione normale e strutturale della prestazione, perdendo così il suo carattere di eccezionalità così com’è previsto in tutti i contratti di lavoro. La stessa flessibilità che dovrebbe sostanzialmente regolare i picchi e i flessi della produzione trova spesso degli accorgimenti legati
alla carenza degli organici più che agli andamenti produttivi aziendali. È per gran
parte di questi motivi che gli orari medi e annuali in Italia sono superiori a quelli
europei e che la disoccupazione in Italia è proporzionalmente superiore a quella europea. Infatti in Italia «l’orario annuo è del 23% superiore a quello medio di Francia, Germania ed Olanda, che significa 4 milioni di posti di lavoro in meno» (N.
Cacace, 2014). Lo schema di solito adottato nelle aziende è di definire i nastri orari con l’orario di legge delle 40 ore settimanali. Si esclude, cioè, l’applicazione degli
orari contrattuali al netto delle riduzioni, delle ferie, delle ex festività in una programmazione annuale e collettiva delle assenze in fabbrica. In questi casi gli organici sono in misura delle 40 ore, mentre gli orari reali, così come previsti dai contratti, registrano mediamente circa le 36 ore medie a secondo delle tipologie di lavoro
(giornalieri, turni). Questa differenza applicativa stabilisce la diversità numerica degli organici. Infatti l’applicazione degli orari a 40 ore, rispetto alle 36 ore contrattuali per ogni lavoratore, conserva gran parte dei riposi a livello individuale (ferie,
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riduzioni, permessi, malattia) i quali, una volta goduti individualmente nell’arco del
periodo lavorativo, mostrano una carenza degli organici la quale è regolarmente
compensata dagli straordinari e dalle flessibilità fasulle. Del resto l’ora di straordinario in Italia costa meno dell’ora ordinaria a differenza di tutti i paesi europei. È
un sistema questo abbastanza diffuso e punta ad una competitività bassa e ad una
riduzione dei costi in cui il sottorganico e i contratti a termine sono parte di un modello organizzativo che vede nell’applicazione degli orari a 40 ore e nell’utilizzo dell’offerta di lavoro precaria la condizione applicativa e strategica.
La crisi occupazionale ha naturalmente molti motivi concernenti la fase economica, gli andamenti produttivi, la contrazione della domanda interna e così via ma
indubbiamente una quota d’inoccupazione dipende dai motivi che sopra abbiamo
descritto. Il problema occupazionale, oggi, dipende dagli effetti recessivi e dalla
mancata crescita dell’economia di questi ultimi anni ma resta sempre la scelta diffusa di innalzare gli orari a discapito dell’occupazione necessaria da parte delle aziende. Oltre agli effetti occupazionali, l’innalzamento degli orari (straordinari strutturali, flessibilità spurie) comporta una bassa produttività, una possibile scarsa qualità
del prodotto, il blocco dell’innovazione del processo e del prodotto. Infatti il rapporto e il rendimento produttività-qualità dipendono dalla somma equilibrata e intelligente dei diversi fattori produttivi. L’attuale tecnologia a disposizione delle
aziende richiede una capacità interattiva lungo il ciclo produttivo e pretende una responsabilità e specializzazione tecnica da parte degli operatori. Proprio per questi
motivi l’occupazione e il suo valore professionale sono in primo luogo le condizioni indispensabili della buona realizzazione del rapporto produttività-qualità. Un sistema organizzativo del lavoro e degli attuali modelli produttivi che supporta gli
obiettivi di qualità e di produttività in conformità a carenze strutturali degli organici e al ricorso a forme di orario (straordinario, flessibilità) per compensare tali
mancanze, è sicuramente fuori dalle attuali logiche concorrenziali (prezzo-qualità) e
si colloca in uno spazio concorrenziale in cui i paesi emergenti (Cina, India, ecc.)
lasciano pochi margini per una competizione giocata unicamente sui prezzi dei prodotti a discapito, cioè, della qualità e del rapporto tra prezzo e qualità.
Conclusioni
La questione occupazionale, dunque, oltre ai temi generali degli investimenti
pubblici e privati come condizioni dello sviluppo e dell’occupazione, ha uno stretto legame tra modelli organizzativi, produttività e orari di lavoro. Questo legame si
situa nelle diverse attività sindacali e si differenzia a secondo delle condizioni aziendali. Temi come l’assenteismo, la saturazione degli impianti, basso indice del flusso
produttivo, ricorso agli straordinari, bassa qualità del prodotto sono spesso l’indizio
6
Per un esame di dettaglio su questo punto si veda F.F., Orario di lavoro e produttività, in «AE-Agricoltura-Alimentazione, Economia-Ecologia» n. 11/2012, p. 41. (Rivista trimestrale della Flai Cgil).
Temi
della carenza degli organici. Questo può dipendere sia dall’organico complessivo (il
numero delle squadre in turno) sia dalla copertura continuativa ed effettiva dei posti di lavoro (il numero dei lavoratori per posizione di lavoro). Le cause principali
di queste disfunzioni organizzative dipendono dal modo con il quale sono applicati gli orari di lavoro6. Lo stesso discorso vale nel caso di una situazione di crisi e di
ristrutturazione aziendale. In questi casi, spesso, le aziende, nel dichiarare gli esuberi, sono guidate dalle valutazioni della riduzione dei costi più che dall’incremento
dello standard di qualità e produttività. In tali ipotesi è necessario che il calcolo degli organici sia riferito all’applicazione corretta degli orari di lavoro (orari contrattuali e godimento collettivo dei riposi, applicazione del carattere di eccezionalità degli straordinari e della flessibilità produttiva, ecc.). Tale valutazione sul calcolo degli
organici è ancora più indispensabile date le attuali condizioni dell’abbreviazione della durata degli ammortizzatori sociali e dall’allungamento dell’età pensionabile che
possono ridurre le tecniche sindacali del prepensionamento e della fuoriuscita dall’azienda programmata e consensuale dei lavoratori. Lo stesso discorso vale nel caso
di utilizzo dei contratti di solidarietà. L’applicazione dell’orario ridotto deve sempre
tener conto di una corretta attuazione degli orari che sia in grado di escludere il ricorso alla cassa integrazione straordinaria e di prevedere un progetto di rilancio
aziendale con risorse in funzione degli investimenti e dello sviluppo.
Una politica di sostegno all’occupazione, dunque, ha sicuramente come priorità,
più che il mercato del lavoro, la domanda effettiva di lavoro. Quest’aspetto indubbiamente richiede una forte coerenza delle forze sindacali e un confronto generale
con le controparti aziendali. Si tratta di stabilire delle regole in grado di affrontare
un problema drammatico che investe il nostro paese e coinvolge soprattutto le nuove generazioni. Indubbiamente tale priorità è corrispondente alla realizzazione di un
Piano del lavoro (la proposta della Cgil) in grado di promuovere interventi pubblici, un’incisiva politica industriale e una politica fiscale a sostegno del reddito da lavoro e degli investimenti produttivi. È una scommessa epocale e necessaria come lo
fu per la Cgil subito dopo la fine del fascismo e della guerra il cui fine fu la ricostruzione del paese e la crescita occupazionale.
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■ Temi
La Programmazione 2014-2020:
l’Accordo di Partenariato
Eleonora Valenti*
Premessa
Terminata la fase comunitaria della riforma Pac 2014-2020, tanti sono rimasti i
nodi da sciogliere e le questioni aperte nelle mani degli Stati membri riguardanti sia
il primo che il secondo pilastro.
Con riferimento allo Sviluppo Rurale stretta è la correlazione tra la Politica Agricola Comunitaria e la Politica di Coesione Territoriale finanziata attraverso i fondi
strutturali europei.
La Politica di Sviluppo Rurale, così come le altre politiche finanziate dai fondi
strutturali europei, viene dunque organizzata su più livelli operativi, innanzitutto attraverso la definizione di:
– un Quadro Strategico Comune a tutti i fondi strutturali europei (accompagnato
da «Position Papers» per i vari Stati membri);
– un Accordo di Partenariato;
– Programmi operativi regionali e nazionali per ogni fondo;
– Strategie di sviluppo locale su scala ridotta1.
Il Quadro Strategico Comune è stato presentato dalla Commissione il 14 marzo
2012, esso è dunque utilizzato dagli Stati membri come base per stilare gli Accordi
di Partenariato con la Commissione al fine di raggiungere gli obiettivi di crescita
della Strategia Europa 2020.
Così come le altre politiche facenti riferimento ai Fondi Strutturali anche lo Sviluppo Rurale è una politica condivisa tra Ue, Stati membri e livelli territoriali ed
amministrativi sia regionali che sub-regionali, dunque tra livelli con ruoli e responsabilità ben definiti ma con un’articolazione che, in tal senso, crea un sistema assai
complesso.
Sulla base del Quadro Strategico Comune gli Stati stanno oggi elaborando e presentando alla Commissione un Accordo di Partenariato, come da previsione del Regolamento Ue 1303/2013; esso è un documento con cui ogni Stato definisce le pro* Laureata in Politiche e Relazioni Internazionali
1 La nuova Pac 2014-2020: una guida pratica per una visione di insieme; Inea.
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prie strategie e priorità d’intervento e le modalità di impegno dei fondi strutturali
per il periodo 2014-2020. I Contratti di Partenariato tra Stati e Commissione sono
dunque utili strumenti di definizione degli impegni sia a livello nazionale che regionale.
Scopo di questo lavoro è quindi fornire un quadro chiaro dell’Accordo di Partenariato elaborato dall’Italia e al vaglio della Commissione europea attraverso un’analisi che partendo dalla definizione di Partenariato, della governance che sottostà
agli accordi e dei criteri europei che ne guidano l’elaborazione, possa poi affrontare
i punti chiave della strategia italiana. A tal fine viene dunque prima descritto il percorso partenariale intrapreso dal Governo italiano in tutte le sue fasi per poi passare ad una analisi degli obiettivi che l’Italia si pone nella programmazione dei fondi
strutturali 2014-2020; un occhio di riguardo viene inoltre riservato ad un approfondimento degli obiettivi occupazionali e di miglioramento della qualità del lavoro oltre che di Sviluppo rurale che l’Accordo per l’Italia si pone per il prossimo ciclo di programmazione. Infine, per fornire un quadro completo degli elementi di
tale accordo vengono affrontate ed analizzate tematiche quali: l’approccio integrato
da utilizzare per un’ottimizzazione dei risultati e dell’uso delle risorse con i suoi relativi strumenti (Iti, Clld) e la Strategia per le Aree Interne ovvero una delle opzioni strategiche previste per il territorio italiano.
La Governance dell’Accordo di Partenariato
Secondo l’articolo 11 del Regolamento (Ue) n. 1303/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, recante disposizioni comuni sul Fondo europeo di sviluppo regionale, sul Fondo sociale europeo, sul Fondo di coesione, sul Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale e sul Fondo europeo per gli affari marittimi e
la pesca: «Ogni Stato membro dovrebbe organizzare, rispettivamente per l’accordo di
partenariato e per ciascun programma, un partenariato con le autorità regionali, locali, cittadine e le altre autorità pubbliche competenti, le parti economiche e sociali e
altri organismi pertinenti che rappresentano la società civile, compresi i partner ambientali, le organizzazioni non governative e gli organismi di promozione dell’inclusione sociale, della parità di genere e della non discriminazione, nonché, se del caso, le
‘organizzazioni ombrello’ di tali autorità e organismi. L’obiettivo di tale partenariato
è garantire il rispetto dei principi della governance a più livelli, come pure della sussidiarietà e della proporzionalità, e le specificità dei diversi quadri istituzionali e giuridici degli Stati membri, nonché garantire la titolarità degli interventi programmati in capo alle parti interessate e sfruttare l’esperienza e le competenze dei soggetti coinvolti. È opportuno che gli Stati membri individuino i partner pertinenti maggiormente rappresentativi. Tali partner dovrebbero comprendere istituzioni, organizza-
zioni e gruppi che possono influire sulla preparazione dei programmi o potrebbero essere interessati dalla loro preparazione e attuazione […]».
L’Accordo di Partenariato è dunque un documento di indirizzo strategico che
segue una logica di governance multilivello. Il coinvolgimento dei partner è ampio
e comprensivo portando avanti una strategia di tipo partecipativo, difatti la partecipazione attiva di tali partner in ogni fase del ciclo di programmazione ha il fine
di ridurre il deficit di coordinamento, migliorando la qualità dell’elaborazione ed
attuazione degli interventi; ma anche con un coinvolgimento costante dei partner
nelle fasi successive all’elaborazione dell’accordo e dei programmi.
Temi
Figura 1 – La multilevel governance dell’Accordo di Partenariato
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Fonte: Ns. elaborazioni
La Commissione europea interviene a riguardo stilando un «Codice di condotta europeo per il partenariato» (Eccp), anche questa istituzione auspica infatti
una stretta collaborazione tra Stati membri, autorità pubbliche ai vari livelli, parti economiche e sociali, organizzazioni locali, società civile, partner ambientali, associazioni di volontariato e chiunque possa influenzare le scelte relative all’Accordo ed ai programmi, coinvolgendoli nell’elaborazione ed attuazione, ma anche
nell’analisi delle sfide, nella selezione degli obiettivi e priorità e nelle strutture di
coordinamento.
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Nell’Eccp innanzitutto sono delineati:
– Principi per l’identificazione dei partner interessati;
– Principi di coinvolgimento e buone prassi nella preparazione dell’Accordo di Partenariato e dei Programmi operativi (consultazione, preparazione, comitati di
sorveglianza…);
– Principi e buone prassi nel coinvolgimento delle parti nelle fasi di attuazione e
nella valutazione.
Seguendo questo codice di condotta ed i principi del partenariato gli Stati membri sono chiamati a seguire modalità di azione tipiche della multilevel governance,
ma seppur comuni siano i principi di azione, l’esperienza mostra che i risultati si differenziano notevolmente da paese a paese, e tra regioni di uno stesso Stato, a seconda delle culture politiche e degli assetti istituzionali. Tale differenziazione dipende sia dall’esistenza di apparati amministrativi costituiti già prima dell’ingresso
in Europa, ma anche da come i testi europei unici, approvati da tutti gli Stati, vengono poi filtrati dalle procedure di attuazione che generano poi le norme nazionali; altro fattore di differenziazione riguarda la gestione vera e propria dei programmi da parte delle varie burocrazie nazionali e sub-nazionali2.
Anche l’Italia si è preparata a tale approccio strategico con il documento «Metodi ed obiettivi per un uso efficace dei Fondi comunitari 2014-2020» del Ministero per
la coesione territoriale, introduce sette innovazioni di metodo riguardanti:
1. Risultati attesi
2. Azioni
3. Attuazione: tempi previsti e sorvegliati
4. Apertura
5. Partenariato mobilitato
6. Valutazione
7. Forte presidio nazionale.
Tra le innovazioni più importanti, sicuramente, si colloca il «Partenariato mobilitato»; l’Italia cerca il coinvolgimento delle parti anche nella fase discendente, intendendo come «parti» i soggetti ritenuti rilevanti, ovvero coloro i quali hanno interessi in gioco o possono influire nell’attuazione della programmazione in maniera pregnante, cioè in modo tale da poter mettere in campo le loro competenze specifiche. In particolar modo indispensabili per una migliore costruzione dei programmi sono: i beneficiari, i cui interessi sono toccati dalla programmazione a favore dei quali le azioni sono realizzate (rappresentati dalle loro organizzazioni di ca2
Saraceno E. (2014), La governance delle politiche rurali europee: come migliorarla?, in «Agriregionieuropa», Anno 10, n. 36, marzo 2014.
tegoria), ed i «centri di competenza», che si occupano stabilmente delle materie di
cui la programmazione prevede azioni.
Nel periodo 2014-2020 l’Italia potrà contare su oltre 41,6 miliardi di euro di
fondi europei3, le cui modalità di impiego sono state trasmesse dal Governo italiano alla Commissione europea il 22 aprile scorso proprio attraverso l’Accordo di Partenariato. L’istituzione europea sta procedendo alle osservazioni in modo da poter
concludere l’accordo in tempi brevi.
Il percorso che sta per giungere a termine è però frutto di un lungo e partecipato lavoro di preparazione; il confronto strategico fra Italia ed Ue è stato avviato dalla Commissione europea con l’elaborazione di un Position Paper del novembre 2012 coerente con le raccomandazioni del Consiglio europeo rivolte agli
Stati membri e contenente indicazioni sulle priorità di investimento, i contenuti
e la governance. La Commissione infatti propone una propria visione della strategia nazionale per il raggiungimento dei target di Europa 2020.
Il 17 dicembre 2012 sulla base di ciò il Ministero della Coesione Territoriale si
è preparato al dialogo strategico, elaborando e presentando al Consiglio dei Ministri il documento «Metodi ed Obiettivi per un uso efficace dei fondi europei 20142020», in esso sono contenuti importanti indicazioni sui programmi operativi attraverso l’orientamento dei fondi su tre opzioni strategiche ovvero Aree interne,
Città e Mezzogiorno, tenendo ovviamente conto del Position Paper che la Commissione aveva elaborato per il nostro paese. Tale documento è stato da subito sottoposto ad un confronto pubblico con cui si recepivano le indicazioni, e proprio a
questo fine furono istituiti quattro tavoli tecnici (riunitisi tra febbraio ed aprile
2013, che hanno visto la partecipazione attiva di Amministrazioni centrali, regionali e locali oltre che attori del mondo economico e sociale resi partecipi attraverso audizioni dedicate), tre comitati per le opzioni strategiche e un gruppo con
compiti di analisi propriamente tecnica della gestione operativa dei fondi4.
Una versione preliminare frutto di tali incontri è stata quindi inviata alla
Commissione il 9 aprile 2013, la quale, nel corso degli incontri tenutisi tra il 22
e il 24 aprile 2013, ha sollevato numerose criticità presenti in tale bozza e chiedendo modifiche al riguardo; solo nel dicembre 2013 l’Italia ha inviato alla
Commissione una nuova bozza dell’accordo cui sono seguiti ulteriori rilievi. A
3
Fondi suddivisi tra Fesr (Fondo europeo di Sviluppo regionale), Fse (Fondo sociale europeo), Feasr
(Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale), Feamp (Fondo europeo affari marittimi e pesca).
4 Una Pa per la crescita – Speciale programmazione 2014-2020, n. 2/2013.
Temi
Il percorso italiano
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seguito dell’approvazione del Regolamento generale sull’utilizzo dei fondi europei5 prende avvio il negoziato ufficiale tra Commissione europea e Stati membri. L’Italia dunque sulla base del lavoro preparatorio e delle osservazioni della
Commissione, entro i quattro mesi previsti dall’entrata in vigore dei regolamenti (22 aprile 2014), ha trasmesso il suo Accordo di Partenariato a seguito dell’approvazione del Cipe ed avviando formalmente i negoziati. Entro il 22 agosto
2014 si attende la decisione comunitaria di approvazione; nel frattempo l’Italia
sta preparando i circa cinquanta programmi operativi che dovrà gestire e che dovrà trasmettere entro il 22 luglio 2014, entro sei mesi da tale data seguirà anche
in questo caso l’approvazione da parte della Commissione.
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Figura 2 – Le tappe dell’Accordo di Partenariato
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Fonte: Ns. rielaborazione da Busillo F., Stato dell’arte dell’Accordo di partenariato 2014-2020,
FORMEZ-CapacitySUD, 17 dicembre 2013.
L’Accordo di Partenariato in Italia
Come in precedenza descritto l’Accordo di Partenariato è un documento nazionale che funge da indirizzo strategico e metodologico riguardo l’utilizzo dei vari fondi europei; ma il nuovo accordo ha una valenza maggiore rispetto alle programmazioni precedenti. L’approccio utilizzato è un sistema a cascata che, partendo dal li5
Regolamento (Ue) n. 1303/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 17 dicembre 2013.
6
Mantino F. (2013), La Programmazione dello sviluppo rurale 2014-2020: il position paper e l’accordo
di partenariato, in «Agriregionieuropa», anno 9 n. 32, Marzo 2013.
Temi
vello comunitario, scende verso il livello locale con una maggiore funzione di indirizzo per i paesi con una struttura regionalizzata, tenendo conto del fatto che in questi paesi la strategia nazionale è necessaria all’orientamento dei programmi operativi regionali6.
L’Accordo che ogni Stato stila con la Commissione parte dagli 11 Obiettivi Tematici che declinano le più vaste priorità della Strategia Europa 2020, ovvero sviluppo intelligente, sostenibile ed inclusivo, e dalla fissazione dei risultati da raggiungere a livello nazionale, a tal scopo l’istituzione europea ha elaborato Position
Paper per ogni Stato membro, quello per l’Italia contiene raccomandazioni per ciascuno degli 11 Obiettivi Tematici, valide indicazioni per il nostro paese, indirizzate
a risolvere alcuni dei grandi nodi del sistema economico italiano, che sollecitano misure di intervento attraverso l’uso dei fondi strutturali.
Le raccomandazioni rilevanti riguardano principalmente:
– Mercato del lavoro, con un’attenzione in questo ambito agli interventi sui salari
e alle categorie maggiormente svantaggiate (giovani e donne), ai percorsi di istruzione e formazione per rafforzare il transito scuola-lavoro;
– Potenziamento delle dotazioni infrastrutturali, con un forte richiamo all’esigenza di superare il gap Nord-Sud del paese;
– Buon funzionamento della Pubblica amministrazione, ambito in cui viene sollecitata una maggiore efficienza amministrativa ed un miglior coordinamento tra
livelli.
Proprio partendo da queste raccomandazioni, l’Accordo di partenariato redatto
dal governo italiano parte da un’analisi delle problematiche e delle azioni di riforma
da intraprendere nel nostro Paese, con una maggiore attenzione agli ambiti riguardanti l’impiego dei fondi europei. Da tale analisi del quadro macroeconomico viene evidenziato che, pur avendo avviato un percorso di sviluppo, la ripresa è ancora
fragile e la crescita condizionata dalla debolezza della domanda interna. La programmazione 2014-2020 avviene infatti in un contesto assai particolare, a seguito
della più grande recessione dal secondo dopoguerra, che ha condotto ad un aumento delle disuguaglianze sociali ma anche territoriali. L’Accordo avvia dunque
un’analisi delle disparità in riferimento agli 11 Obiettivi Tematici, individuando le
relative esigenze di sviluppo e di crescita, l’utilizzo dei fondi deve infatti contribuire al superamento della presente crisi. Gli obiettivi previsti dalla strategia italiana a
tal fine sono:
– Obiettivo Tematico 1 – Rafforzare la ricerca, lo sviluppo tecnologico e l’innovazione;
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– Obiettivo Tematico 2 – Migliorare l’accesso alle tecnologie dell’informazione e
della comunicazione, nonché l’impiego e la qualità delle medesime;
– Obiettivo Tematico 3 – Promuovere la competitività delle piccole e medie imprese, il settore agricolo e il settore della pesca e dell’acquacoltura;
– Obiettivo Tematico 4 – Sostenere la transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio in tutti i settori;
– Obiettivo Tematico 5 – Promuovere l’adattamento al cambiamento climatico, la
prevenzione e la gestione dei rischi;
– Obiettivo Tematico 6 – Tutelare l’ambiente e promuovere l’uso efficiente delle risorse;
– Obiettivo Tematico 7 – Promuovere sistemi di trasporto sostenibili ed eliminare
le strozzature nelle principali infrastrutture di rete;
– Obiettivo Tematico 8 – Promuovere l’occupazione sostenibile e di qualità e sostenere la mobilità dei lavoratori;
– Obiettivo Tematico 9 – Promuovere l’inclusione sociale, combattere la povertà e
ogni forma di discriminazione;
– Obiettivo Tematico 10 – Investire nell’istruzione, formazione e formazione professionale, per le competenze e l’apprendimento permanente;
– Obiettivo Tematico 11 – Rafforzare la capacità istituzionale delle Autorità pubbliche e delle parti interessate e un’amministrazione pubblica efficiente.
Per ogni Obiettivo sono quindi state previste allocazioni finanziarie, frutto della
diagnosi e delle varie osservazioni poste in essere da parte della Commissione europea durante i negoziati informali; la ripartizione è avvenuta proprio attraverso un
serrato confronto partenariale, che non si è limitato a considerare separatamente i
vari obiettivi, ma ha visto un inquadramento delle scelte in maniera più generale,
considerando le sinergie e le varie politiche nazionali in cui essi si inseriscono.
Tabella 1 – Allocazione Risorse comunitarie per O.T. e per Fondo
OBIETTIVO TEMATICO
O.T. 1
O.T. 2
O.T. 3
O.T. 4
O.T. 5
O.T. 6
O.T. 7
O.T. 8
O.T. 9
O.T. 10
FESR
3.281
1.789
4.018
3.005
932,1
2.650,3
1.941
1.040,3
854,4
FSE
3.939
2.159
3.237
FEASR
434,2
136,5
4.650,4
1.056,9
1351,3
1.640,2
0,0
190,2
614,9
83,2
FEAMP*
Totale
3.715
1.925,9
8.668,1
4.111,5
2.283,4
4.290,5
1940,6
4.128,9
3.814,0
4.174,7
Segue tabella 1
OBIETTIVO TEMATICO
O.T. 11
Totale O.T.
Assistenza tecnica
Totale generale
FESR
433,4
19.993
747,7
20.741
FSE
645
9.980
398
10.378
FEASR
0,0
10.157,9
271,8
10.429,7
FEAMP*
Totale
1.078,6
40.131,3
1.417,1
41.548,4
Fonte: Accordo di Partenariato 2014-2020 – Italia
* Le allocazioni del Feamp saranno fornite in seguito all’approvazione del relativo regolamento
Tra i problemi maggiormente rilevanti affrontati dall’Accordo di Partenariato italiano un ruolo non indifferente è ricoperto dal tema della contrazione occupazionale, il problema è visto ed affrontato come una delle maggiori emergenze sia a livello europeo sia nazionale, tanto che è stato individuato quale priorità della Strategia Europa 2020.
Il mercato del lavoro nazionale soffre infatti della lunga fase recessiva e della debolezza di alcune aree e categorie; nonostante gli ammortizzatori in deroga, la crisi
occupazionale colpisce in modo pesante vaste categorie di popolazione, con un accrescimento della disoccupazione di quasi cinque punti percentuali in pochi anni e
crescenti difficoltà nell’accesso al lavoro ed un conseguente allungamento dei tempi
di ricerca. L’obiettivo europeo a tal fine consiste dunque in un innalzamento del tasso occupazionale, che porti a raggiungere almeno il 75% entro il 2020. A tal riguardo l’Accordo stilato dal governo italiano individua alcuni punti su cui indirizzare i
propri sforzi, soprattutto nei primi anni di programmazione, ovvero incentivare l’occupazione attraverso strumenti che possano: incidere direttamente sul costo del lavoro, promuovere l’autoimpiego e l’imprenditorialità attraverso il microcredito, investire su istruzione e formazione di alta qualità che porti ad un’alternanza istruzione-formazione-lavoro, tramite la promozione di tirocini utili a stimolare l’ingresso
nel mondo del lavoro dei giovani. A completamento di tali interventi il Governo italiano deve inoltre portare a compimento le riforme varate sulla Garanzia giovani7, ri7 Programma che prende forma dalla Raccomandazione del Consiglio dell’Unione europea del 22
aprile 2013 (Youth Guarantee), tale piano europeo è rivolto agli under 25 (esteso dal governo italiano
agli under 30) che non studiano, non lavorano e non sono inseriti in nessun percorso formativo, il fine è la lotta alla disoccupazione giovanile tramite l’avviamento dei giovani al mercato del lavoro. La
Youth Guarantee concorre al raggiungimento degli obiettivi della strategia Europa 2020, tutti i paesi
dell’Ue, per il periodo 2014-2020 ricevono finanziamenti per l’attuazione di tale piano, ma spetta poi
alle singole regioni la definizione delle modalità organizzative e di attuazione degli interventi sul proprio territorio.
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Obiettivi occupazionali
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disegnando le prestazioni dei servizi per l’impiego, attuando interazioni più approfondite con i servizi privati per il lavoro.
In questo quadro appare dunque ovvio come il tema occupazionale (O.T. 8) sia
strettamente correlato con quello dell’istruzione-formazione (O.T. 10); il livello di
istruzione e formazione incide infatti in maniera consistente sulla possibilità di essere occupati. La formazione professionale deve perciò essere per i giovani una leva
per la transizione verso l’occupabilità e per gli adulti mezzo per adeguare le proprie
competenze. Il sistema nazionale di istruzione e formazione deve essere caratterizzato da elevati livelli qualitativi, oltre che essere coerente con i fabbisogni espressi dal
sistema produttivo. Il tutto al fine di agevolare l’inserimento/reinserimento lavorativo ed accrescere le competenze della forza lavoro, anche grazie all’intensificarsi dei
rapporti scuola-formazione-impresa, attraverso la promozione di tirocini e forme di
apprendistato.
Non di secondo piano, riguardo i temi occupazionali, sono gli interventi di contrasto al lavoro sommerso da parte degli organismi competenti con veri e propri piani di lavoro operativi ed il tema dell’invecchiamento attivo. Su questo piano il quadro giuridico vigente in materia pensionistica e le riforme in atto in materia di ammortizzatori sociali e del mercato del lavoro richiedono interventi e soluzioni operative in grado di coniugare e collegare le esigenze lavorative dei giovani e dei lavoratori anziani. Inoltre, dovranno essere messe in campo adeguate azioni di consulenza per
agevolare la creazione di nuove imprese e la formazione degli operatori (O.T. 9).
Appare ovvio però che quasi tutti gli Obiettivi Tematici e le relative azioni mirano in maniera complementare ad un generale miglioramento del sistema produttivo, della qualità del lavoro, e dunque, in maniera non secondaria, incidono sul tema dell’occupazione nel nostro paese.
Lo Sviluppo Rurale nell’Accordo di Partenariato
Tra le novità apportate dal nuovo ciclo di programmazione 2014-2020 vi è l’inclusione delle politiche di Sviluppo Rurale e della Pesca nel quadro comune di programmazione unico per tutti i fondi, quindi anche il II pilastro della Pac nella sua
programmazione sarà organizzato sulla base di un Quadro Strategico Comune, di
un Accordo di Partenariato, di programmi operativi nazionali e regionali e strategie
di sviluppo locali. Il Fondo agricolo per lo sviluppo rurale esce dunque dall’isolamento delle precedenti programmazioni, collocandosi all’interno dell’Ap e funzionando in maniera coordinata e complementare con gli altri fondi (Fesr, Fse,
Feamp), seppur mantenendo alcune specificità. La strategia di Sviluppo rurale consta di sei priorità fondamentali, collegate agli 11 Obiettivi Tematici e 18 Focus Area,
a cui finalizzare le misure e le azioni previste dal regolamento. Ogni priorità quindi
è declinata in Focus Area che dovrebbero guidare nelle scelte delle misure attivabili
e dei relativi budget.
Temi
Figura 3 – Priorità e Focus Area Feasr
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Fonte: Ottaviani L. (2014); Nuovi Psr, più flessibilità e target mirati, Pianeta Psr n. 31, aprile 2014.
Il tema dell’agricoltura, forestazione ed agro-ambientale è presente in maniera
trasversale in quasi tutti gli Obiettivi Tematici dell’Accordo di Partenariato8. In termini finanziari le risorse destinate alla competitività del settore agro-ambientale rappresentano circa il 45% delle risorse complessive, le allocazioni del Feasr privilegiano essenzialmente l’Obiettivo 3 anche se, vista la debolezza strutturale dell’agricoltura italiana, la competitività del settore andrà poi ricercata in stretto raccordo con
le misure del I pilastro Pac9. Un ruolo non indifferente viene inoltre assegnato all’O.T. 1 assegnando circa il 4,2% delle risorse, ma non tralasciando altri obiettivi
(O.T. 2, 8, 9) che assorbono quasi il 10% delle risorse Feasr. Ma sicuramente accanto all’O.T. 3 l’attenzione delle risorse Feasr viene rivolta agli Obiettivi 4, 5, 6 che
assorbono il 39% delle risorse.
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Tabella 2 – Allocazione del Feasr per O.T.
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Fonte: Accordo di Partenariato 2014-2020 – Italia
L’Accordo di Partenariato non tralascia nella sua analisi complessiva di sottolineare le debolezze strutturali dell’agricoltura italiana, soprattutto a seguito della crisi economico-finanziaria che colpisce il paese dal 2007, provocando un gap non indifferente dell’industria agroalimentare tra Nord e Sud ed un deterioramento della
redditività dell’agricoltura italiana, che trova conferme nella contrazione del reddito operativo agricolo. L’Obiettivo Tematico 3 affronta proprio queste criticità, mirando ad un miglioramento della competitività del sistema imprenditoriale ed in
particolare del comparto agricolo, agro-industriale ed ittico, il tutto mettendo l’im-
8
9
Ad esclusione degli Obiettivi tematici 7 ed 11.
Frascarelli A. (2014), Dal Partenariato ai PSR, in «Terra e vita», n. 21/2014.
10 Tra le quali quelle per la produzione di energie rinnovabili (reflui zootecnici e sotto-prodotti delle
lavorazioni agricole e agro-industriali), la filiera foresta-legno, la floricoltura e altre (bio-plastica, biomateriali, mangimi animali, ecc.).
Temi
presa al centro delle politiche economiche. Le azioni da mettere in campo a tal fine
sono sia ad ampio spettro che misure più discrezionali e mirate a determinate categorie di soggetti.
Nel settore agro-alimentare e forestale la strategia andrà dunque in due direzioni ovvero un sostegno all’evoluzione strutturale ed una riorganizzazione delle
imprese, tenendo presente criteri quali sostenibilità ambientale, benessere animale, qualità e salubrità della produzione. Altra direzione è invece quella del potenziamento degli investimenti delle filiere agricole, forestali ed agro-alimentari, con
interventi indirizzati alle categorie delle filiere corte, a quelle con forte radicamento territoriale e a quelle non-food10. Nel primo caso gli interventi saranno per
lo più mirati al rafforzamento delle imprese tramite innovazione ed accesso al credito, ricambio generazionale ed internazionalizzazione del settore, puntando su
attività di formazione, consulenza alle imprese, consorzi, cooperative e organizzazioni interprofessionali per favorire la competitività; il tutto cercando anche nuove metodologie e forme innovative attraverso azioni di supporto alle start-up di
nuove imprese.
Come in precedenza accennato, l’Obiettivo 3 va letto in relazione ad altri Obiettivi Tematici, quali il quarto (Sostenere la transizione verso un’economia a basse
emissioni di carbonio in tutti i settori), il quinto (Promuovere l’adattamento al cambiamento climatico, la prevenzione e la gestione dei rischi) e il sesto (Tutelare l’ambiente e promuovere l’uso efficiente delle risorse). Nell’ambito dello Sviluppo rurale, infatti, le energie rinnovabili potrebbero costituire forme reddituali diversificate
attraverso lo sfruttamento delle bioenergie. Misure dunque dirette verso comportamenti e pratiche eco-sostenibili e quindi la gestione delle risorse dell’efficienza ambientale ed una riduzione delle emissioni di gas serra.
Oltre a ciò le misure di Sviluppo rurale dovranno essere mirate al recupero di una
corretta gestione del territorio, innanzitutto contrastando i processi di diversificazione, tramite interventi di adeguamento della rete irrigua, la creazione di nuovi bacini e tecniche agricole volte al risparmio idrico, ma anche tramite l’ammodernamento delle reti di distribuzione ed un uso razionale delle risorse. Riguardo il rischio
incendi, la prevenzione dovrà passare per una corretta gestione delle superfici pascolive adiacenti i boschi, ma anche sensibilizzando e formando le comunità locali
in un’ottica preventiva.
Gli altri Obiettivi Tematici affrontano il tema dello sviluppo rurale in maniera
non superficiale e vedono dunque porre in essere interventi che riguarderanno in-
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terventi sull’occupazione rurale (O.T. 8), con una particolare attenzione alla diversificazione delle attività economiche nelle aree rurali e con incentivi alla creazione
di piccole e medie imprese per attività extra-agricole. Altro genere di interventi riguardano invece il miglioramento delle infrastrutture e dei servizi digitali nelle aree
prettamente rurali (O.T. 2), ma anche azioni mirate alla riduzione della povertà e
allo sviluppo locale nelle aree rurali (O.T. 9) e alla formazione/istruzione degli operatori agricoli con un accrescimento delle loro competenze per agevolare l’inserimento lavorativo (O.T. 10)11.
Un ruolo di primaria attenzione è inoltre ricoperto dalla ricerca e dalla innovazione nei settori agricolo, forestale ed agro-ambientale con azioni che tengano in
conto: il miglioramento della sostenibilità ambientale, l’adattamento dei processi
produttivi ai cambiamenti climatici, la produzione e l’adattamento delle varietà, il
miglioramento del rendimento energetico delle produzioni (O.T. 1). Queste strategie di trasferimento delle innovazioni avverranno attraverso i Gruppi Operativi del
Pei (Partenariato europeo per l’innovazione)12, che sono destinati a favorire la connessione tra ricerca e pratiche agricole attraverso cui vengono sviluppate nuove idee
con proposte progettuali anche su scala internazionale.
L’Approccio integrato
Al fine di ottimizzare il raggiungimento dei risultati e l’uso delle risorse gli 11
Obiettivi Tematici dovranno essere realizzati mediante un approccio integrato13.
Anche i regolamenti della progettazione 2014-2020 spingono verso un utilizzo integrato dei fondi; il tutto per ridurre le inefficienze attraverso azioni integrate, ma
soprattutto condivise, che possano sostenere lo sviluppo congiunto delle diverse dimensioni territoriali anche attraverso il coinvolgimento di soggetti privati.
Ovviamente l’integrazione degli interventi va ricercata in maniera differenziata, a
seconda delle caratteristiche proprie del territorio, con interventi mirati alle necessità delle specifiche realtà. Tale approccio integrato, auspicato dalla Commissione europea, ha quindi l’obiettivo di massimizzare le sinergie sviluppabili tra i vari Fondi.
11
Romito G. (2014), Competitività ed ambiente, la doppia sfida dei PSR, in «Pianeta Psr», n. 31, aprile 2014.
12 La strategia Europa 2020 investe sull’innovazione e a tal fine la Commissione ha lanciato i Pei (Partenariato europeo per l’innovazione) la cui applicazione avverrà per mezzo di gruppi operativi, ovvero
gruppi costituiti da soggetti come agricoltori, ricercatori, consulenti e imprenditori operanti nel settore agroalimentare, sono dunque gruppi in cui la domanda di innovazione portata avanti dalle imprese e l’offerta di innovazione del mondo scientifico e della conoscenza si incontrano al fine di progettare e realizzare programmi di innovazione per il settore.
13 L’adozione di un tale tipo di approccio è inoltre necessaria per fornire risposte efficaci alle sfide che
in Europa si debbano affrontare nei vari ambiti di azione.
14
Artt. 32-35, Regolamento Ue 1303/2013.
Temi
Questo approccio inoltre potrebbe essere utile nel superamento dei tradizionali limiti amministrativi, in quanto presuppone la collaborazione e il coordinamento delle
azioni da parte dei diversi livelli di governo per raggiungere i comuni obiettivi.
Gli strumenti principali previsti dal Regolamento comune sui fondi strutturali
europei per attivare tale approccio integrato sono due, ovvero il Community-led local development (Clld) e gli investimenti territoriali integrati (Iti).
Lo sviluppo locale di tipo partecipativo (Clld)14 è uno strumento utile a perseguire finalità di sviluppo locale integrato a livello sub-regionale, attraverso ed unitamente a forze locali e quindi coinvolgendo organizzazioni e comunità locali, attraverso una progettazione e gestione degli interventi con una partnership di natura
pubblico-privata.
Lo scopo di tale approccio è quello di sviluppare le capacità comunitarie e l’innovazione attraverso la valorizzazione e l’individuazione delle potenzialità non
sfruttate nei vari territori, oltre che il promuovere la partecipazione nelle comunità, sviluppando il senso di appartenenza comunitaria e supportando la multilevel
governance.
Il ruolo operativo sarà svolto dai Gal, che avranno il compito di elaborare Piani
di Azione Locale per tradurre gli obiettivi in azioni concrete; il tutto arruolando e
coinvolgendo competenze del settore privato in partenariato con enti locali. Saranno quindi i Gal a scegliere gli ambiti di intervento dei Piani d’Azione. L’Italia nel
suo Accordo di Partenariato ha specificato il modo in cui intende sostenere lo sviluppo rurale, attraverso una lista degli ambiti tematici di intervento integrabili dei
programmi operativi regionali.
La lista degli ambiti tematici di intervento, integrabile dai programmi operativi
regionali all’atto del suo recepimento, comprende i seguenti:
– Sviluppo e innovazione delle filiere e dei sistemi produttivi locali (agro-alimentari, artigianali e manifatturieri, produzioni ittiche);
– Sviluppo della filiera dell’energia rinnovabile (produzione e risparmio energia);
– Turismo sostenibile;
– Cura e tutela del paesaggio, dell’uso del suolo e della biodiversità (animale e vegetale);
– Valorizzazione e gestione delle risorse ambientali e naturali;
– Valorizzazione di beni culturali e patrimonio artistico legato al territorio;
– Accesso ai servizi pubblici essenziali;
– Inclusione sociale di specifici gruppi svantaggiati e/o marginali;
– Legalità e promozione sociale nelle aree ad alta esclusione sociale;
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– Riqualificazione urbana con la creazione di servizi e spazi inclusivi per la comunità;
– Reti e comunità intelligenti.
I progetti Clld di ciascuna regione saranno inoltre finanziati attraverso il coinvolgimento di più fondi, in funzione degli ambiti di intervento prescelti e dei territori nei quali saranno applicati. Appare dunque ovvio che, ad esempio, nelle aree
rurali il fondo capofila dei Piani d’azione sarà il Feasr, soprattutto laddove le aree tematiche di intervento riguardano in maniera principale il fondo stesso. Ovviamente un efficace impiego dei fondi richiede meccanismi di coordinamento a livello nazionale e regionale, a tale scopo l’Italia prevede la creazione di un Comitato tecnico
regionale per l’attuazione dell’intervento Community-led, che si occuperà di definire risultati attesi ed obiettivi, oltre che le priorità territoriali e tematiche. Il tutto
attraverso il coinvolgimento delle autorità di gestione dei programmi ed esperti di
sviluppo locale. La scadenza per la selezione ed approvazione delle strategie locali è
fissata nel 2017, ma la fase di selezione delle strategie dovrà avvenire entro 2 anni
dall’approvazione dell’Ap15.
Altro strumento chiave per l’attuazione di tale strategia è l’Iti (Investimenti territoriali integrati) utile agli Stati per implementare i programmi operativi. Le amministrazioni titolari di programmi vi potranno ricorrere per affrontare le esigenze di
uno specifico territorio, facendo leva su fondi differenti si può avviare un’integrazione tra priorità appartenenti ad Obiettivi Tematici di diversa natura. Quindi questo strumento è concepito per favorire uno sviluppo basato sul territorio16.
La differenza tra i due strumenti sta nel fatto che mentre per il Clld è obbligatorio un approccio bottom-up, ovvero il gruppo di azione locale stabilisce le strategie
e le operazioni soggette a finanziamento, l’Iti non implica una specifica modalità decisionale. I due strumenti inoltre potranno agire in maniera complementare e combinata17.
La Strategia per le Aree interne
Nel nuovo ciclo di programmazione 2014-2020 una delle opzioni strategiche di
intervento riguarda le così dette «Aree interne»; tali aree vengono così definite in relazione alla propria organizzazione spaziale. Il territorio italiano è infatti caratterizzato dalle numerose presenze di «centri minori» distinti dai maggiori centri di offerta di servizi essenziali, ma al contempo ricche di risorse ambientali, culturali e ca15
ec.europa.eu/regional_policy/sources/docgener/informat/2014/community_it.pdf.
ec.europa.eu/regional_policy/sources/docgener/informat/2014/iti_it.pdf.
17 Tedde A. (2013), Le strategie integrate di sviluppo locale, Unioncamere, 31 ottobre 2013.
16
Figura 4 – Strategia Aree interne: obiettivi ed azioni
Temi
ratterizzate da un territorio assai diversificato e con peculiarità proprie in ciascuna
di tali aree, specificità su cui saranno focalizzati quattro tipi di interventi.
Obiettivo di tale strategia è quello di contrastare i fenomeni di spopolamento di
tali aree, attraverso progetti di sviluppo locale che dovranno generare occupazione
attraverso lo sfruttamento delle peculiarità dell’area stessa. Sul finanziamento della
«Strategia per le Aree interne» è intervenuta anche la legge di Stabilità 201418, con
l’obiettivo di contribuire al rilancio economico e sociale di ampie porzioni di territorio.
Al fine di meglio specificare la strategia per le Aree interne è stato prodotto,
in collegamento all’Accordo di Partenariato, un documento tecnico di approfondimento che meglio definisce obiettivi, strumenti e governance della strategia in questione19. La strategia si muove attraverso una serie di azioni che portano al perseguimento di obiettivi intermedi volti al raggiungimento di un obiettivo finale.
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Fonte: Ns. elaborazioni
18
Art. 1 commi 13-17 secondo cui il riparto del finanziamento sarà deciso dal Cipe con delibera all’attuazione dell’Ap.
19 Documento tecnico collegato alla bozza di Accordo di Partenariato trasmesso alla Ce il 9 dicembre
2013.
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La prima classe di azioni riguarda i progetti di sviluppo locale che puntano alla
valorizzazione delle risorse esistenti nell’area e su:
– tutela del territorio e comunità locali;
– valorizzazione delle risorse naturali, culturali e del turismo sostenibile;
– sistemi agro-alimentari e sviluppo locale;
– risparmio energetico e filiere locali di energia rinnovabile;
– saper fare e artigianato.
La seconda classe di azioni riguarda invece l’adeguamento dei servizi essenziali
quali scuola, sanità e mobilità; in tali aree la popolazione vive infatti con difficoltà l’accesso a servizi di qualità e quindi l’attenzione va posta su tutte quelle precondizioni dello sviluppo locale, ovvero quei servizi che si caratterizzano come diritti di «cittadinanza», ma soprattutto individuati sulla base di una ricognizione
dei fabbisogni e delle criticità. Oltre a ciò andrà garantito un monitoraggio della
rete dei servizi, delle diverse soluzioni per l’offerta, delle modalità di accesso e della qualità ottenuta in termini di esiti che queste diverse soluzioni garantiscono ai
cittadini.
Per meglio perseguire gli obiettivi propri della Strategia per le Aree interne gli interventi dovranno riguardare in una fase iniziale un numero limitato di aree-progetto, la cui selezione (una per ogni regione) avverrà da parte della regione stessa, secondo criteri condivisi ma con un approccio integrato fra Comuni, regioni e Stato
ed il cui finanziamento avverrà per mezzo di tutti i fondi comunitari disponibili.
Questo approccio, in una prima fase di tipo ristretto e selettivo, vedrà un’eventuale
estensione della strategia in caso di esiti positivi.
Ruolo di primo piano nella Strategia Aree interne è quindi riservato a tutti i livelli territoriali di governo, che dovranno far convergere le loro azioni in maniera
coordinata ed organica. A tal proposito dunque le regioni gestiranno i programmi
operativi regionali (Por) ed i programmi di Sviluppo rurale (Psr), toccherà a loro la
selezione e l’inserimento delle aree progetto nei programmi, indicando gli obiettivi
strategici da perseguire anche attraverso l’utilizzo di Iti e Clld, definendo l’ammontare di risorse dei fondi per ciascun Por e Psr e divenendo inoltre i primi finanziatori delle iniziative. Vista inoltre la caratteristica peculiare della maggioranza delle
Aree interne del nostro paese, ovvero il prevalere di Comuni di piccole dimensioni,
in tali aree anche i Comuni parteciperanno alla strategia, attraverso una loro gestione in forma associata dei servizi, il tutto tramite aggregazioni di Comuni contigui.
Infine il «Centro» concorderà con le regioni la scelta delle aree-progetto prototipo,
definendo e realizzando d’intesa con le regioni, gli interventi, assicurando la verifica in itinere e promuovendo l’apprendimento delle esperienze attraverso la Federazione delle Aree-Progetto, il cui scopo è la condivisione del metodo e i meriti della
strategia.
Temi
La programmazione 2014-2020 e la Strategia Aree interne costituiscono pertanto una importante occasione per il nostro paese, che dovrà però dimostrare una
grande capacità di coordinamento e di coinvolgimento del maggior numero di attori interessati al perseguimento degli obiettivi prefissati. Mentre l’Accordo di Partenariato è ormai giunto alle battute conclusive essendo al vaglio della Commissione europea per la sua approvazione, margini di manovra, nonostante la scadenza ormai imminente (fine luglio) della loro presentazione, sono ancora presenti per ciò
che concerne i Por ed i Psr. Compito delle organizzazioni di categoria è quello di
contribuire in maniera attiva alla realizzazione dei programmi 2014-2020 con proprie osservazioni e proposte, ma non di secondo piano in questo senso è l’apporto
che esse dovranno fornire nella fase di monitoraggio di tali programmi. Il monitoraggio appare infatti un aspetto essenziale al fine della valutazione in itinere dei programmi, i contributi tempestivi ed affidabili offerti dai partner appaiono in questo
senso essenziali per adeguare tempestivamente l’attuazione dei programmi ma anche per favorire un più efficace ed efficiente uso dei fondi.
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Segnalazioni e recensioni
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■ Segnalazioni
P. Di Nicola, FdR. Rinaldi, L. Ioppolo, S. Rosati, Storie
precarie. Parole, vissuti e diritti negati della generazione
senza. Prefazione di S. Camusso. Introduzione di A. Accornero, Ediesse, Roma, 2014, pp. 160.
A trent’anni non è facile accorgersi che questa precarietà ti è talmente entrata nelle vene al punto che non avere straordinari
pagati, ferie e malattie non sia una cosa strana. Che avere un
contratto di lavoro autonomo e poi stare alle direttive del capo
come fossi un dipendente ma senza averne i diritti e le garanzie non sia una cosa illegale. A trent’anni capita che ti senti addirittura grato al tuo capo per darti così tanto lavoro, così tanta fiducia, perché questo forse è un segno che gli piaci, e che se stai zitto e
buono e lavori anche fino a mezzanotte, allora magari quando scade il contratto te lo
rinnova. E ringrazi. Non è facile accorgersi di questo e sentirsi un idiota, a trent’anni.
A trent’anni non è facile rendersi conto che se neppure i diritti guadagnati in anni di lotte possono essere mantenuti, con quale forza tu, che non hai nemmeno un sindacato, potrai rivendicare i tuoi?
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Da un’intervista ad un anonimo precario.
L’incipit introduttivo non è altro che un estratto delle tante interviste contenute in Storie Precarie. Parole, vissuti e diritti negati della generazione senza, testo frutto
di un’indagine condotta dagli autori per conto della Cgil e della rivista Internazionale non meno di un anno fa. Storie precarie – per stessa ammissione degli autori –
non vuole essere un libro sul tema della precarietà in quanto tale, ma sulle conseguenze che tale fenomeno ha determinato nella nostra società, sul piano sociale e
perfino antropologico (nelle relazioni interpersonali, negli stili di vita e nella psicologia dei soggetti coinvolti). Ad essere protagonisti e a prendere parola sono direttamente i 470 precari/ie che hanno deciso volontariamente di compilare il folto
questionario alla base dell’indagine, raccontando le loro condizioni di lavoro (o di
non lavoro) fatte di sfruttamento e negazione dei diritti, di vita ed esistenza precaria, attraverso un’intensa narrazione dei loro bisogni, delle loro istanze, e infine dei
loro desideri.
Il testo però ha il pregio di andare oltre una banale foto di gruppo delle diverse
generazioni che si stanno confrontando con la precarietà lavorativa, perché offre
spunti molto interessanti sulle azioni da intraprendere – in ambito politico quanto
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in termini di azione sindacale – per provare a invertire la tendenza che vuole il mercato del lavoro sempre più frantumato e le esistenze sempre più precarie. È quanto
emerge dalle interviste, cioè una sovrapposizione netta tra le condizioni di lavoro e
di vita, ove alle condizioni di flessibilità, insicurezza sociale e negazione dei diritti si
associa automaticamente vulnerabilità e marginalità sociale. Una condizione di atipicità che sta colpendo diverse generazioni, alcune delle quali vivono ormai la flessibilità lavorativa come un vero e proprio tradimento. Inizialmente questa condizione è stata considerata una sorta di dazio da pagare per entrare nel mercato del lavoro, una condizione temporanea, invece nel tempo è diventata strutturale e permanente, come ricordato da Susanna Camusso nell’introduzione al testo: «la flessibilità non è più stata un adattamento alle fasi di un ciclo ma un principio ideologico in
sé, il lavoro precario non è più stato un passaggio transitorio per l’ingresso al lavoro ma
una condizione permanente».
Le ragioni di questo tradimento hanno radici profonde, e vanno ricercate nelle
mutazioni del nostro sistema produttivo. Se da un lato negli ultimi trent’anni il mondo dell’impresa si è dovuto confrontare con l’esigenza di un’organizzazione del lavoro sempre più flessibile e modulabile per dare una risposta ai nuovi modelli e ritmi
di produzione, gli interventi legislativi che si sono susseguiti hanno inaugurato invece una stagione dove la flessibilità ha rappresentato un’opportunità per ridurre il costo del lavoro e aumentare i margini di plusvalore prodotto. Di conseguenza un pezzo dell’organizzazione del lavoro – o meglio dei nuovi lavori atipici – ha supplito alle falle di un sistema produttivo incapace di investire in ricerca e innovazione – sia di
processo che di prodotto – scaricando tutto sui lavoratori e le lavoratrici, che a causa dell’uso deregolamentato dei contratti atipici sono diventati un perno della ribassabilità dei costi di produzione, aumentando i margini di guadagno, assumendo un
valore pari alle merci prodotte1. Allo stesso tempo nel mondo del terziario avanzato
– ma se volessimo fare una forzatura anche nella Pa – la condizione di atipicità ha favorito la definitiva supremazia del liberismo mercantilista, ridisegnando mansioni e
professionalità che a causa della giungla contrattuale venutasi a creare sono diventate sempre meno riconosciute e sempre più dequalificate; dal punto di vista salariale,
di accesso ai diritti e alle tutele e sul riconoscimento di una piena cittadinanza, limitando il precetto costituzionale che vorrebbe una Repubblica fondata sul lavoro e capace di favorire «il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese».
Non avere accesso a diritti che consideriamo scontati quali il diritto di sciopero,
di libera organizzazione sindacale, l’accesso alle prestazioni previdenziali, agli ammortizzatori sociali, alla malattia, alle ferie piuttosto che alla maternità e ai congedi
1
Cfr. Gallino, L. (2007). Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, Roma-Bari, Laterza.
Il fallimento delle politiche di liberalizzazione del mercato del lavoro
Per anni i teorici del liberismo economico hanno minimizzato i rischi di questo
nuovo sistema contrattuale, proponendo dottrine apologetiche volte al laissez faire,
cioè l’idea che il mercato si sarebbe autoregolamentato portando – attraverso la flessibilità – più prosperità e benessere per il sistema d’impresa, per i lavoratori e per
l’intera società. I fatti hanno dimostrato l’esatto contrario. La flessibilità senza nessun livello di tutela nonchè il contesto di crisi economica che l’intero occidente sta
attraversando, hanno portato ad un impoverimento di intere fasce della popolazione, ad una diminuzione del potere contrattuale dei lavoratori e delle lavoratrici,
nonché ad un livellamento verso il basso della qualità del lavoro e della vita.
A differenza di quello che vogliono farci credere, non c’è nessun nesso tra i processi di liberalizzazione e flessibilizzazione del mercato del lavoro e la creazione di
nuovi posti di lavoro, anzi un’analisi più approfondita dei dati dimostra il contrario. È quanto afferma l’Ocse, che ha recentemente messo in relazione il grado di
protezione sociale dei lavoratori – a fronte dell’introduzione della flessibilità in ambito lavorativo – e i dati sulla disoccupazione, affermando che nei paesi dove il grado di protezione sociale è più basso, più alte sono le percentuali relative alla disoccupazione. Ciò è stato causato anche da un atteggiamento conservativo del sistema
d’impresa, che ha puntato più alla riduzione dei costi del lavoro piuttosto che a fare investimenti produttivi che potessero innovare e sviluppare nuove filiere produt-
Segnalazioni
parentali, crea un’oggettiva disparità tra cittadini (e lavoratori) di serie A e B. Ciò è
stato ulteriormente aggravato da forme indegne di sfruttamento intensivo che poco
hanno a che vedere con le esigenze di maggiore flessibilità dei cicli produttivi ma
funzionali alla frantumazione di forme collettive (e di conseguenza anche contratti)
e alla creazione d’identità di lavoro polverizzate, isolate e ricattabili.
In questo processo, sulla base anche delle riflessioni proposte in Storie Precarie,
è necessario individuare un concorso di colpe. Come noto l’Italia ha introdotto con
ritardo, rispetto ad altri paesi industrializzati, forme di contratti atipiche, ed anche
per questo motivo il nostro paese rappresenta un’anomalia nel contesto europeo.
Mentre infatti in altri paesi le forme di flessibilità sono state introdotte contestualmente a forme di welfare universale capaci di assicurare quantomeno continuità di
reddito, nel nostro ordinamento questo non è successo. Alla flexisecurity, cioè al bilanciamento tra forme discontinue di impiego e continuità di reddito, noi abbiamo
contrapposto un modello con decine di forme contrattuali – molte delle quali assolutamente inutili al fine di assicurare flessibilità ai cicli produttivi e dunque inutilizzate – senza istituire un regime di diritti e tutele universali capaci di assicurare
quella sicurezza sociale che il regime contrattuale «tipico» ha garantito per decenni.
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tive capaci di confrontarsi con il mercato globale. Un approccio conservativo di cui
oggi paghiamo le conseguenze. Per dimostrare ciò l’Ocse ha elaborato uno specifico indicatore, ovvero l’Epl (Employment Protection Legislation Index), che misura
il grado di protezione dell’occupazione, più basso è l’indice e più alto è il livello di
flessibilità. L’Italia nel 1990 aveva un Epl pari a 3,82 (tra i più alti d’Europa, il massimo è 4,5) mentre nel 2013, dopo tutte le riforme volte a liberalizzare il mercato
del lavoro, l’Epl si è abbassato a 2,26 2.
Lo studio di questo indicatore dimostra che licenziare nell’Italia di oggi, rispetto al 1990, è più semplice nell’ordine del 40% dei casi, l’Epl però può essere
un indicatore molto utile se messo in relazione alle percentuali sulla disoccupazione. Nel 1990 l’Italia vantava un tasso di disoccupazione pari all’8,9%, nel 2013
siamo schizzati al 12,2 3. Variazioni così significative si registrano solo in economie simili alle nostre (Grecia, Spagna e Portogallo) che negli ultimi decenni hanno avuto variazioni dell’Epl molto simili all’Italia, cioè hanno introdotto un sistema flessibile senza le dovute protezioni sociali. Al contrario in alcuni paesi come Francia, Germania, Olanda e Austria la variazione dell’Epl è minima, come minimo è l’aumento dei tassi di disoccupazione. Ciò non significa che in questi paesi non ci sia flessibilità, anzi, ma quest’ultima è stata introdotta con un adeguato
sistema di protezione che ha attenuato gli effetti negativi e depressivi.
Flessibilità lavorativa e precarietà esistenziale: il ventennio che abbiamo alle spalle
Sarebbe un errore però, come scritto da Susanna Camusso nella prefazione a Storie Precarie, individuare solo nel sistema d’impresa e dei policy makers gli unici responsabili di questa situazione. Forse – sicuramente per i precari intervistati in Storie Precarie – alcune responsabilità storiche sono da individuare anche nella valutazione politica che il sindacato ha fatto dei processi di liberalizzazione del mercato
del lavoro. Da un lato – scrive Camusso – «non avendo condiviso (fin dall’inizio) l’orientamento del legislatore sulla precarizzazione del mercato del lavoro, abbiamo allontanato da noi il fenomeno, considerandolo un episodio accidentale da condannare piuttosto che non una distorsione da correggere con l’azione sindacale». Dall’altro – continua il segretario generale Cgil – «è stata trascurata l’attività di rappresentanza sindacale e contrattuale del lavoro precario, immaginando al suo posto un intervento legislativo di correzione delle norme più lesive dei diritti e delle condizioni di lavoro, con la
conseguenza che l’intervento legislativo c’è stato ma in direzione di un progressivo peg2
Cfr. Realfonso e Tortorella Esposito, Gli insuccessi della liberalizzazione del lavoro a termine, 2014,
www.economiaepolitica.it.
3 Dati Eurostat (2014).
I numeri del precariato in Italia
Il campione preso in considerazione non può – per stessa ammissione degli autori – essere definito rappresentativo di tutto il precariato italiano. È un campione
selezionato su base volontaria, composto da 470 precari/ie che hanno deciso di rispondere alle domande del questionario. Rappresenta uno spaccato del mondo precario composto da alti livelli di istruzione (il 70% di chi ha compilato il questiona-
Segnalazioni
gioramento…». Nell’indagine e nelle interviste, infatti, sono riportate diverse critiche e più in generale un senso di lontananza percepito dai precari in merito al lavoro delle organizzazioni sindacali.
Il testo però espone (e riporta) soprattutto critiche costruttive. In primis nel
ruolo che il sindacato può avere nella lotta alle distorsioni e agli abusi contrattuali; il testo è pieno di riferimenti all’utilizzo distorto delle collaborazioni a progetto, delle finte partite Iva che nascondono lavoro subordinato che un’efficace
azione sindacale potrebbe agevolmente limitare e contrastare. Centrale poi è la critica fatta al sindacato in merito alla mancata inclusione nei contratti nazionali delle
professionalità spesso considerate lavoro autonomo e che in realtà mascherano forme
di sottoinquadramento e discriminazione tra lavoratori tipici e atipici che svolgono
equivalente mansione. Più in generale Storie Precarie – come descritto con efficacia
da Aris Accornero nell’introduzione al testo – ha il merito di dare voce ai precari attraverso la pratica dell’inchiesta e narrazione sociale, ma anche di far emergere alcuni dati spesso sottovalutati nel dibattito mainstream: la velocità esponenziale della diffusione dei contratti atipici nel nostro mercato del lavoro (che non ha eguali in Europa), il mancato sistema di protezione sociale (anch’essa un’anomalia rispetto ad altri sistemi economici simili al nostro) e la concentrazione di contratti a termine tra i
giovani più istruiti e con alte professionalità, mentre per le basse professionalità è più
facile ottenere un contratto a tempo indeterminato.
In definitiva il testo, oltre alle storie e alle proposte che di seguito analizzeremo,
tende a sottolineare quanto già noto, cioè che flessibilità e precarietà non sono sinonimi, ma in Italia elementi complementari e conseguenziali. Si pensi a quei soggetti che grazie ai contratti a termine hanno l’opportunità di essere introdotti nel
mercato del lavoro, conciliando tempi di lavoro e di vita, oppure alla possibilità di
dare risposte a cicli produttivi scomposti e modulabili. La precarietà, invece, come
rilevato dall’Istat, attiene più ad una condizione di insicurezza sociale derivante da
una condizione di lavoro nella quale la temporaneità contrattuale è associata sia ad
una discontinuità nella partecipazione al mercato del lavoro sia alla mancanza di
un reddito continuativo, fondamentale per lo sviluppo di una progettualità di vita di medio-lungo termine.
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rio è laureato), con un’età media di 36 anni e forse più attento al lavoro del sindacato sui temi del precariato, quindi volenteroso di dare il proprio contributo. Il campione è equamente distribuito su tutto il territorio nazionale, con una forte presenza di precari che vivono in città con più di 500.000 abitanti (più del 30%) e di donne (circa il 70%), forse anche a causa delle maggiori condizioni di vulnerabilità di
quest’ultime. In sostanza seppur limitato quantitativamente il campione può essere
considerato valido per quanto attiene all’aspetto qualitativo, aspetto prioritario per
gli obiettivi prefissati dagli autori. Non mancano però aspetti di valutazione numerica sull’incidenza del precariato nel nostro mercato del lavoro. Se vogliamo fare fede alla distinzione proposta dall’Istat tra lavoro tipico e atipico – il primo legato alla
dimensione di subordinazione, indeterminatezza della durata del contratto e di un
impiego a tempo pieno, il secondo che coinvolge lavoratori a tempo determinato e
collaboratori4 – i lavoratori precari in Italia sono circa 2 milioni e 808 mila5, con un
aumento del 16,7% rispetto al 20046. Questo dato però non deve rassicurare. Va
ricordato che l’utilizzo dei contratti di assunzione a tempo determinato è aumentato del 24,4% e il part-time ha visto un aumento del 53% rispetto allo stesso periodo di riferimento. Al contrario di quanto si potesse pensare sono soprattutto le collaborazioni a progetto ad essere diminuite, con una decrescita pari al 13% in meno,
un effetto dei mancati rinnovi contrattuali legati alla crisi economica più che una
compressione dell’utilizzo di tale strumento.
Di per sé questi dati non sono esaustivi per determinare un allarme sociale, ma
se a questo si aggiunge un dato fornito dal Cnel 7 il contesto rapidamente si aggrava: il 95% dei nuovi assunti a tempo determinato dichiara di aver accettato un
contratto a termine solo perché nell’impossibilità di averne uno indeterminato. Età
e sesso sono poi criteri fondamentali per leggere bene queste cifre: in primis le donne, che hanno un’incidenza maggiore nel lavoro atipico (14%) sul totale delle occupate, mentre per i maschi la quota si ferma al 9%. Il dato preoccupante però è
costituito dalla distribuzione anagrafica del lavoro atipico: gli over 30 rappresentano circa il 60% dei lavoratori a termine (il 70% delle collaborazioni). Si tratta di
precariato cronico, di chi è entrato nel mercato del lavoro subito dopo l’introduzione nel nostro ordinamento del pacchetto Treu8 e della Legge 30/2003. Questo
segmento è quello più esposto alla flessibilità lavorativa ma soprattutto alla preca-
4
In questa classificazione proposta dall’Istat il lavoro autonomo è considerato (forse erroneamente) lavoro tipico, piuttosto gli stage e i tirocini perché considerati percorsi formativi.
5 Dati Istat 2013.
6 Il periodo di riferimento è quello relativo all’introduzione della Legge 30/2003.
7 Rapporto sul mercato del lavoro, Cnel, 2013.
8 Legge 24 giugno 1997, n. 196.
Storie di lavoro e di vita precaria
Il volume riporta poi una lunga narrazione di uno spaccato del nostro mercato del lavoro troppo spesso considerato marginale. Sono storie di vita, di lavoro, di
impieghi temporanei, di mancanza di accesso al welfare, di impossibilità di progettare un futuro, di aspirazioni frustrate, di diritti negati, sono storie precarie.
Fanno impressione lette tutte d’un fiato, perché rappresentano uno sguardo d’insieme di storie diverse tra loro, ma con molti tratti in comune, un mosaico che ricompone ciò che le politiche liberiste hanno frammentato, è il mosaico del precariato in Italia, di un mondo del lavoro che cambia anche nella sua dimensione narrativa rispetto alla civiltà del lavoro raccontata nel secolo scorso. Sono storie di
esclusione, rassegnazione, di vulnerabilità e minorità in cui versano migliaia di lavoratori e lavoratrici italiane. C’è chi racconta di essersi recato a lavoro con la febbre, o di aver dovuto negoziare il permesso di un’ora per andare dal medico perché
Segnalazioni
rietà esistenziale perché rappresenta un’intera generazione che non riesce più a trovare prospettive di stabilizzazione a causa della crisi economica, nonostante ormai
abbia sviluppato una professionalità tale da garantirsi la possibilità (nonostante la
discontinuità) di passare da un posto di lavoro all’altro. Se è possibile per i più giovani (15/29 anni) il quadro è perfino peggiore, perché seppur vero che rappresentano «solo» il 40% dei contratti a termine è altresì vero che è la generazione che
paga la disoccupazione di massa come mai prima nella storia dell’Italia repubblicana, dunque si barcamena tra la precarietà e la disoccupazione. Allo stesso tempo
i dati ci confermano – a differenza di quanto spesso si propone in termini di dibattito pubblico – che non c’è nessun automatismo tra un impiego temporaneo e
una prospettiva di stabilizzazione. Infatti solo nel 15% dei casi, ad un’esperienza
lavorativa temporanea corrisponde una futura stabilizzazione (a differenza di un
20% del periodo 2006/07). Va infine rilevato che le crisi industriali e i cospicui licenziamenti di lavoratori tipici hanno fatto aumentare la quota parte del lavoro atipico nel nostro mercato del lavoro, ormai attestato al 17% della forza lavoro impiegata. Da rilevare però è la forte diminuzione dell’utilizzo di alcune tipologie
contrattuali atipiche, quali il lavoro interinale e le collaborazioni, la prima diminuita del 56% rispetto al periodo precrisi, la seconda del 18,6% di cui più del 40%
nella pubblica amministrazione a causa dei mancati rinnovi. L’unica tipologia contrattuale che registra un aumento è l’utilizzo delle Partite Iva, aumentate del 26%,
un dato da tenere in considerazione perché proprio in questo segmento si stanno
concentrando la maggior parte degli abusi e un utilizzo distorto dello strumento
contrattuale, dove la mono committenza spesso e volentieri maschera forme di lavoro subordinato.
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non può usufruire della malattia (molto frequente tra i collaboratori e le P. Iva), di
chi svolge straordinari non retribuiti (seppur queste tipologie di contratto dovrebbero assicurare totale libertà di tempi e organizzazione del lavoro), oppure chi ha
dovuto prendere un giorno di ferie per partecipare ad uno sciopero.
Non mancano storie drammatiche, come nel caso di una collaboratrice che è stata indotta dal proprio datore di lavoro ad abortire per non perdere il proprio posto
di lavoro: «Alcuni anni fa ho dovuto rinunciare ad una gravidanza, certo avrei potuto
congelare il mio contratto per il periodo della maternità, ma nel posto in cui lavoro (è
già successo) poi non si viene reintegrate. Ti spiegano che un figlio è inconciliabile con i
nostri ritmi di lavoro e ti offrono un po’ di denaro. […] mi sono data un anno, se il figlio arriverà questa volta io andrò avanti, alla faccia di chi mi ha sfruttato tutta la vita, e che in caso di problemi si beccherà una bella causa…». Allo stesso tempo la precarietà lavorativa è vissuta anche come una restrizione degli spazi di libertà, come
affermato da un altro precario intervistato: «Intanto i mesi passano e loro giocano sulla tua paura di perdere il lavoro e ti sfruttano, e tu sei stanco, lavori solo, perdi il contatto con la tua vita, mangi male, sei agitato… questa non è vita, non siamo liberi. Non
si possono fare progetti, non puoi porti un obiettivo, devi vivere alla giornata e soprattutto senza aspettative…».
In sostanza viene confermato quanto sottolineato da molti studiosi del tema,
tra cui Piero Amerio9: «La non stabilità dell’occupazione può incidere fortemente
sulla costruzione della vita […] e questo aspetto del problema non è personale come
spesso si dice, bensì collettivo, nella misura in cui l’incertezza dei singoli e le modalità di vita cui essa dà luogo si proiettano nell’incertezza della comunità e sulla fragilità del tessuto sociale». Ciò è dimostrato da uno dei temi più ricorrenti nelle interviste raccolte, cioè la dimensione abitativa; molti devono ancora ricorrere ai
propri genitori o nonni per pagare un affitto, dividere un appartamento con altri lavoratori che vivono la medesima condizione, quasi nessuno riesce ad accedere a un mutuo per comprare una casa di proprietà e questa impossibilità di sviluppare pienamente il proprio percorso di maturità sociale determina anche condizioni psicologiche negative, lo dimostrano altre frasi enunciate direttamente
dagli intervistati: «È difficile addormentarsi la notte» piuttosto che «ho continui stati d’ansia» oppure «mi sento incompiuto, insoddisfatto, inadeguato, inutile, non realizzato» e così via.
Il sentimento prevalente però, che attiene alla sfera lavorativa ma anche personale, è il senso di ricatto cui i lavoratori precari si sentono sottoposti, sentimento che
è al primo posto tra gli aspetti più critici della precarietà (per il 34% degli intervistati). Al secondo posto di questa speciale classifica c’è la discontinuità della retri9
Cfr. Amerio P., Giovani al lavoro. Significati, prospettive, aspirazioni, Bologna, il Mulino, 2009.
Le proposte dei precari alla politica e al sindacato
Il volume si conclude con un intero capitolo sulla valutazione delle risposte
aperte fornite dagli intervistati in merito alle possibili soluzioni al problema della
precarietà che istituzioni (legislative) e sindacati dovrebbero intraprendere. Se vengono fornite diverse risposte sulle indicazioni da dare ai policy makers in merito a
tre assi precisi (politiche economiche per l’occupazione, estensione di diritti e tutele e un nuovo welfare universale) ben più sintetiche sono state le risposte in merito al ruolo del sindacato. Gli autori provano a motivare così: da un lato lo scarso
livello di alfabetizzazione sindacale dei precari, dall’altro un’oggettiva distanza tra
questa tipologia di lavoratori e l’azione di tutela sindacale. In generale – secondo
gli autori ma anche per chi scrive – non bisogna sottovalutare il portato delle proposte che questo gruppo (seppur ristretto) di precari sottopone all’attenzione della politica e del sindacato, perchè dimostrano così di essere portatori di istanze e
bisogni a cui bisogna dare risposta, non sono solo vittime di sfruttamento e di negazione di diritti. Sono proposte che qualificano questa soggettività come portatrice di un bisogno di trasformazione sociale, vera e propria linfa sia per l’azione legislativa che per l’azione sindacale. I precari intervistati propongono un cambio di
politica economica e una maggiore presenza delle Istituzioni nel governo dei processi economici e di mercato. Chiedono maggiori investimenti in ricerca e innovazione, in politiche industriali capaci di invertire le tendenze regressive e depressive della nostra economia, di chiudere quanto prima la stagione dell’austerity e
programmare investimenti capaci di generare davvero nuovi posti di lavoro e valorizzare le alte professionalità. Un forte richiamo viene fatto anche alla necessità di
valorizzazione il nostro sistema di istruzione e formazione, definito inutile per ac-
Segnalazioni
buzione (29%), poi dover sempre ricominciare daccapo (27%) e la mancanza di ferie e malattie pagate (24%).
La cosa che più di tutte impressiona è il senso di privazione, ovvero di un esercizio negato della cittadinanza, che emerge con forza anche dallo studio del lessico utilizzato dai precari che gli autori hanno effettuato. Secondo lo schema proposto attraverso la metodologia Tag Cloud, cioè di un grafico che ne riassume le
parole chiave, balza all’occhio il fatto che la parola più utilizzata è «non», sovente
adoperata per descrivere i diritti e le opportunità negate, ovvero: «non ho un contratto», «non ho le ferie», «non ho la malattia», «non ho la maternità». Oppure per
descrivere una condizione di perdita di dignità: «non è giusto», «non ce la faccio»,
«non riesco a programmare la mia vita», «non mi posso sposare», «non posso avere figli», «non riesco a pagare l’affitto», «non riesco a fare una vacanza o a comprare un’automobile».
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cedere al mercato del lavoro: «Cosa ho studiato a fare tanti anni se poi lavoro gratis
e faccio fotocopie?» denunciano alcuni degli intervistati.
Il secondo intervento chiesto alle Istituzioni e alla politica è porre fine alla giungla contrattuale. Alcuni contratti a termine (lavoro a chiamata e associazione in
partecipazione solo a titolo esemplificativo) sono considerati assolutamente lesivi
dei diritti fondamentali, mentre sarebbe molto utile razionalizzare il numero dei
contratti e contestualmente estendere i diritti e le tutele previsti per il lavoro tipico a tutte le tipologie di lavoro atipico, non trascurando quanto già ricordato in
merito all’utilizzo distorto delle partite Iva. A questo poi va aggiunta una forte necessità di ridefinire l’accesso al welfare e agli ammortizzatori sociali. Dalle interviste emerge con forza l’ingiustizia percepita per l’impossibilità di accedere agli istituti di tutela e di continuità di reddito; dalla Cig o Cgis all’Aspi, quest’ultima ritenuta necessaria per garantire continuità di reddito nei passaggi tra un lavoro e l’altro. A tal proposito è più volte proposta una misura già presente in quasi tutti gli
ordinamenti europei, cioè l’introduzione di un reddito minimo garantito che possa
liberare i precari dal ricatto di dover accettare qualsiasi lavoro a qualsiasi condizione. Solo in pochissime interviste, e solo nel caso delle partite Iva, viene proposto un
salario minimo per legge, a dimostrazione che la condizione di precarietà non è solo legata alla retribuzione, piuttosto alla continuità della stessa e al regime di accesso ai diritti e alle tutele.
Di particolare importanza sono le indicazioni fornite alle organizzazioni sindacali. Dalle risposte emerge un diffuso senso di sfiducia nei confronti dell’azione sindacale e di quanto essa sia in grado di migliorare effettivamente le cose. Non mancano riferimenti all’inadeguatezza delle strutture sindacali in merito al rapporto
con il mondo del precariato, dal sindacalista che dice «non possiamo farci niente, con
questi contratti atipici funziona così» piuttosto che «prima di fare vertenza aspettiamo di capire se ti rinnovano il contratto, se poi non te lo rinnovano possiamo agire per
vie legali». Nonostante ciò le critiche riportate – come rilevato correttamente dagli
autori – rappresentano comunque implicitamente un forte riconoscimento del
ruolo del sindacato, nonostante questo riconoscimento sia affiancato da una richiesta di maggiore impegno nei confronti dei precari. Non manca poi chi denuncia uno sbilanciamento della tutela sindacale a vantaggio di lavoratori tipici a
svantaggio di quelli atipici, come ad esempio affermato da un precario intervistato: «Per conquistarsi la fiducia del precario, il sindacalista di riferimento deve essere un
precario o una persona che ha avuto esperienze simili. Spesso i colleghi che sono già occupati stabilmente non perorano le nostre cause…». Allo stesso tempo sono direttamente i precari a chiedere di essere maggiormente informati dei propri diritti, quasi come se palesassero un limite di conoscenza dei diritti sindacali tra le nuove generazioni: «Il sindacato deve ripensare le sue forme di azione e intervento per tenere in-
sieme un lavoro sempre più frammentato e trovare nuovi luoghi, anche virtuali, per l’azione sindacale, ma soprattutto informare, essere presente sul territorio e utilizzare il
web in modo più strategico»; poi continua: «Informare, informare già nell’età scolare,
informare dei diritti e dei doveri di chi lavora e di chi dà lavoro».
Storie precarie. Parole, vissuti e diritti negati della generazione senza è un testo
che ogni giuslavorista, datore di lavoro, policy maker e sindacalista dovrebbe leggere. Ha il pregio di fare una valutazione analitica del fenomeno del precariato attraverso una narrazione della carne viva dei soggetti coinvolti. Si parla tanto e
spesso dei precari, ma si fanno parlare troppo poco i precari (e forse quando parlano si ascoltano altrettanto poco…). Non manca nel testo un censimento delle
buone pratiche, a partire dall’elenco di alcune esperienze di autorganizzazione o
di organizzazione sindacale legati a segmenti precisi del mondo del precariato10,
oppure a campagne di scopo che hanno animato negli ultimi anni mobilitazioni
e iniziative contro la precarietà, come la campagna Giovani non + disposti a tutto
o Voglio restare, le risposte di una generazione che non si arrende. Allo stesso tempo
sono elencate le tante realtà giovanili e sindacali che hanno animato il cartello Il
nostro tempo è adesso, la vita non aspetta, che ha promosso il 9 aprile del 2011 una
delle prime manifestazioni nazionali promossa direttamente da precari e precarie
e richiami alle specifiche azioni intraprese dalle singole categorie e dalle confederazioni; dall’inclusività nei contratti nazionali (e di secondo livello) delle mansioni e delle professionalità svolte dai lavoratori atipici, alla necessità di promuovere
forme di rappresentanza diretta dei precari nei luoghi di lavoro (intento più volte ribadito nei documenti programmatici del sindacato ma che ha visto sporadiche e isolate applicazioni). Non è un caso che nel testo vengano citati due recenti testi prodotti dalla Cgil che proprio su questi temi provano a proporre un’innovazione della pratica sindacale, cioè la guida Inflessibili. Guida pratica della Cgil
per la contrattazione collettiva inclusiva e per la tutela individuale del lavoro e Organizzare i non organizzati. Idee e esperienze per il sindacato che verrà. Due testi che
hanno sicuramente proposto un rinnovamento di pratiche e obiettivi nell’azione
sindacale contro la precarietà, ma forse troppo poco capaci di incidere sul corpo
vivo dell’organizzazione; ad esempio sull’impegno dei delegati nei luoghi di lavoro, dei rappresentanti del sindacato sui territori, dei quadri dirigenti in sede di
confronto con le Istituzioni e le controparti datoriali. Insomma, quanto prodot10
Si vedano ad esempio i riferimenti alle esperienze di Strade e di Rerepre, rispettivamente sindacato
dei traduttori editoriali e rete dei redattori precari.
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Conclusioni
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to finora in termini d’inclusività contrattuale, di strategie di reinsediamento e di
organizing del mondo del precariato, viene considerato per quello che è realmente, cioè un lavoro ancora allo stato embrionale. Sicuramente alcune esperienze,
come ad esempio il Nidil, hanno ottenuto dei risultati positivi sul piano della
contrattazione (vd. alcuni risultati relativi ai contratti di somministrazione) e dell’adesione dei precari al sindacato, ma ormai a distanza di anni dall’esplosione nel
mercato del lavoro dell’utilizzo spropositato dei contratti atipici serve rafforzare
questo impegno e non creare ghetti di lavoratori precari, ma lavorare per una piena inclusività nel lavoro delle singole categorie. Ormai il lavoro atipico rappresenta il 17% dell’intera popolazione occupata, una percentuale in costante aumento, e non sarebbe possibile immaginare il futuro della confederazione generale del lavoro senza una strategia di inclusione di questa fetta di lavoratori e lavoratrici nell’azione sindacale. Nei luoghi di lavoro, nelle Camere del Lavoro territoriali, nella capacità di rilanciare un’idea dei servizi basati su mutualismo e solidarietà, nella sperimentazione di forme di organizzazione e reinsediamento che
possano ricostruire una dimensione unitaria di un mondo del lavoro frammentato e che solo soggetti di rappresentanza generale del lavoro possono ricomporre.
La crisi economica ha ulteriormente aggravato questo contesto, già di per sé
allarmante. Il lavoro, anche quello altamente professionalizzato, sta diventando
sempre più povero, avanzano con prepotenza nuove forme di sfruttamento e sottoinquadramento salariale, che hanno messo in discussione le grandi conquiste
sindacali del secolo scorso. Restare a guardare, o sottovalutare questo stato delle
cose, equivarrebbe ad una tacita complicità. Per questo serve rilanciare con forza
l’impegno sindacale, che non si limiti a inserire il tema del precariato nelle piattaforme (quando va bene) o limitarsi a rivendicare un intervento legislativo correttivo (anche perché come dimostrato dal recente decreto Poletti ogni intervento rischia di proporsi come peggiorativo). Serve un impegno su più livelli; il primo è relativo al necessario lavoro da fare all’interno delle organizzazioni sindacali, che siano essere di categoria o confederali, locali o nazionali, per rafforzare l’impegno mirato a contrastare ogni forma di abuso e per estendere per via contrattuale diritti e tutele. Il secondo livello però deve necessariamente travalicare il perimetro delle organizzazioni sindacali, attraverso un confronto con tutte quelle
realtà (politiche e sociali) che in questi anni hanno promosso iniziative e mobilitazioni contro la precarietà spesso registrando una certa freddezza da parte dei sindacati. Allo stesso tempo però la battaglia contro la precarietà non può prescindere dalla battaglia per un nuovo welfare. Come noto il nostro attuale sistema di
welfare è stato concepito su un modello di società (il fordismo novecentesco) che
ormai non esiste più, o che quantomeno ha subito evidenti metamorfosi. Nonostante ciò è rimasto tale, non è stato adattato alle nuove domande e bisogni
emersi nella nostra società. Mettere in discussione l’attuale sistema di welfare – a
partire dall’introduzione di forme universali di sostegno al reddito nei momenti
di discontinuità lavorativa – non significa produrre un passo indietro rispetto alle conquiste storiche ottenute in anni di lotte, ma abbandonare un atteggiamento difensivo e inaugurare una nuova stagione di rivendicazioni espansiva di diritti per chi oggi diritti non ha. In fondo è proprio quello che chiedono i precari al
sindacato, non dare risposte concrete a questi bisogni – questa volta sì – varrebbe
quanto una resa rispetto al ruolo storico svolto dal sindacato nella nostra società,
cioè di rappresentanza generale dei lavoratori e delle lavoratrici per costruire un
mondo in cui ci sia più giustizia sociale e libertà.
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Roberto Iovino
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■ Recensioni
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Gabriele Mammarella, Bruno Buozzi
(1881-1944). Una storia operaia di
lotte, conquiste e sacrifici. Prefazione
di Susanna Camusso, Roma, Ediesse,
2014, pp. 350.
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Il volume di Gabriele Mammarella,
Bruno Buozzi (1881-1944). Una storia
operaia di lotte, conquiste e sacrifici, ricostruisce in maniera puntuale la biografia di Bruno Buozzi, figura di spicco del
riformismo politico e sindacale italiano
della prima metà del Novecento. Lo
studio si colloca all’interno di un più
ampio filone, che ha conosciuto una
rinnovata attenzione negli ultimi anni,
dedicato alla ricostruzione delle biografie dei principali militanti e dirigenti
della storia del movimento sindacale.
La ricerca, attingendo a una pluralità di
fonti archivistiche e a stampa e confrontandosi con la ricca letteratura sul
tema, ci restituisce un quadro organico
del pensiero e dell’azione politico-sindacale di Bruno Buozzi, colmando una
significativa lacuna storiografica e fornendo un importante contributo all’analisi della cultura riformista e del ruolo che ha rivestito nella storia del movimento operaio e sindacale italiano.
La scelta dell’autrice è quella di analizzare attraverso una chiara scansione
cronologica e una densa narrazione le
fasi più salienti della biografia del sindacalista: la formazione giovanile nella
lega dei metallurgici milanesi, l’espe-
rienza di direzione della Fiom negli anni dell’età liberale, la direzione della
CGdL dopo le dimissioni di D’Aragona nella seconda metà degli anni Venti
e poi durante l’esilio in Francia, il suo
protagonismo nella fitta tessitura politica nella fase della clandestinità che
porterà alla firma del Patto di Roma (3
giugno 1944), da cui prese avvio la ricostruzione della Cgil unitaria, guidata
nel secondo dopoguerra da Giuseppe
Di Vittorio. Nella parte finale del volume, invece, sono ricostruite, attraverso
l’utilizzo di una ricca documentazione,
i passaggi e le vicende che portarono alla sua uccisione nei tragici fatti de La
Storta (4 giugno 1944), dopo che il 13
aprile 1944 era stato arrestato dalle SS
e condotto a via Tasso a Roma.
Come ben sottolineato nell’introduzione di Susanna Camusso, «Bruno Buozzi fu senza ombra di dubbio un uomo
coraggioso che pagò il prezzo più alto
alla violenza e alla barbarie fascista»;
tuttavia la cifra caratterizzante del volume è la capacità di porre l’attenzione su
una pagina importante della storia del
movimento operaio e sindacale strettamente legata all’esperienza di uno dei
maggiori esponenti del socialismo riformista che ha contribuito a delineare
la struttura e l’impostazione del sindacato italiano nell’età liberale e la cui
cultura, insieme a quella di Di Vittorio,
costituirà l’ossatura della Cgil unitaria.
La scelta dell’autrice è di privilegiare la
biografia di Bruno Buozzi da cui emergono le peculiarità della sua figura all’interno del più ampio filone politico e
L’opzione riformista incarnata da Buozzi diviene, infatti, il perno attorno a cui
si ridefinisce la Fiom in risposta al profondo processo di ristrutturazione del
capitale produttivo e finanziario e alla riorganizzazione monopolistica ed oligopolistica dell’industria, seguita alla crisi
del 1907-1908, ma rappresenta anche la
risposta alle prime contraddizioni dell’impostazione neutralista di Giolitti rispetto alla questione sociale.
In particolare, come emerge dalla dettagliata ricostruzione di Mammarella, è
nella lunga vertenza del settore automobilistico di Torino del 1913, in cui si assiste ad una ferma contrapposizione tra
il fronte industriale e quello sindacale,
che si attua il passo decisivo per il riconoscimento ufficiale della Fiom quale
«rappresentante dei metallurgici», mentre a conclusione del lungo braccio di
ferro il leader socialista viene «proiettato
nel pantheon dei più influenti esponenti sindacali del paese» (p. 47). Da questo
punto di vista è decisivo anche il confronto che si apre all’interno della categoria tra l’impostazione riformista incarnata da Buozzi, che risulterà prevalente,
e quella sindacalista rivoluzionaria, che
aveva guidato lo sciopero generale di
Milano, relativamente all’impostazione
delle lotte e alla direzione del proletariato. Un confronto di cui Buozzi fu tra i
principali protagonisti, ma che in quegli
stessi anni coinvolse lo stesso gruppo dirigente della CGdL e che porterà nel
1912 alla scissione dell’Usi.
All’interno di questo quadro, sicuramente l’esperienza della guerra rappre-
Recensioni
sindacale del riformismo italiano in età
giolittiana ed i cui tratti caratterizzanti
emergono sin dalle pagine dedicate alla
sua formazione.
Operaio qualificato di Pontelagoscuro,
in provincia di Ferrara, e autodidatta,
come sottolinea l’autrice, Buozzi si distingue sin dall’avvio del suo percorso
nel sindacato per la sua «non comune
capacità dialettica, che non poggiava
sulla retorica rivoluzionaria, bensì su
una ricercata preparazione tecnica e una
meditata consapevolezza degli squilibri
sociali» (p. 15). Da qui deriva la sua costante attenzione per le riforme e lo sviluppo di un’azione sindacale che privilegia l’arbitrato e l’accordo come strumenti di direzione e controllo dell’azione rivendicativa, in contrapposizione
con la cultura del sindacalismo rivoluzionario, da cui si distanziava anche per
la concezione dei rapporti con lo Stato,
individuato come organismo da conquistare e modificare gradualmente.
Esponente della corrente riformista del
Psi, trasferitosi a Milano nel 1909 entra
dapprima nel Comitato direttivo della
Fiom con la carica di segretario federale
e nel 1911 ne diviene segretario generale guidando alcune delle grandi vertenze del lavoro del 1911-13 che si sviluppano dopo la «tregua sindacale» seguita
alla crisi del 1908. Si pongono in questa fase le basi per la ristrutturazione
della Federazione metallurgica, di cui
Buozzi è tra i principali autori, e che diverrà a partire dal primo dopoguerra il
modello di riferimento del sindacato industriale italiano.
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sentò uno spartiacque, non solo per il
sindacato, ma per la stessa formazione
di Buozzi. Infatti, in questa fase egli
maturò attraverso l’esperienza della
mobilitazione industriale quegli elementi che saranno alla base della futura piattaforma rivendicativa della
Fiom e che la portarono alla conquista
del primo Concordato nazionale nel
1919 che prevedeva la durata della
giornata lavorativa di 8 ore, la costituzione di una commissione di studio
paritetica relativa all’applicazione dei
minimi e dell’indennità di carovita ed
il riconoscimento delle Commissioni
interne.
L’approdo verso un riformismo corporatista, in cui chiaro era il riferimento
alla tutela dell’operaio qualificato e al
closed shop, d’altronde diverrà il tratto
caratterizzante nel primo dopoguerra
della corrente riformista della CGdL i
cui punti qualificanti erano individuati
nell’affermazione di una prassi di concertazione triangolare obbligatoria, sul
modello della mobilitazione industriale
liberata dai suoi eccessi autoritari; nello
sviluppo della contrattazione collettiva
nazionale e nell’emancipazione del lavoro come motore della nazionalizzazione delle masse.
Tuttavia, lo scambio contratto-conflitto non prevedeva, nella stessa impostazione di Buozzi, l’intervento sindacale
in materia di organizzazione del lavoro.
Di grande interesse a riguardo sono le
pagine del volume dedicate al ciclo di
lotte che si sviluppano nel Biennio rosso, dove chiaramente emergono le
maggiori linee del dibattito tra Gramsci
e Buozzi sul ruolo dei Consigli di fabbrica; così come importante è l’attenzione rivolta ad alcuni dei nodi problematici che nelle lotte del 1919-20
emergono con virulenza: il rapporto tra
sindacato e partiti; il ruolo del sindacato nella società, nelle istituzioni e nei
luoghi di lavoro.
Sono gli stessi scritti e interventi di
Buozzi che chiariscono come, pur sostenendo con forza il ruolo e l’autonomia del sindacato, centrale nella sua visione sia la divisione dei compiti tra
partito e sindacato sancita dalla Mozione di Stoccarda del 1907. All’interno dell’analisi della relazione dualistica
e conflittuale che caratterizza in questi
anni il rapporto sindacato-partito,
questo elemento d’altronde diviene
centrale laddove è proprio di fronte alla proposta della creazione di un Partito del lavoro di stampo tradunionista, sostenuta da Rinaldo Rigola, che
emergono le profonde contraddizioni
interne alla galassia del riformismo italiano di inizio Novecento. Lo stesso
Buozzi prende le distanze dalla proposta della costituzione del Partito del lavoro e da una visione tecnico-corporativa del sindacato che porterà, dopo la
crisi del sindacalismo libero di fronte
alle violenze squadriste e all’affermazione del sindacato fascista, molti dei
dirigenti del sindacalismo riformista a
confluire nell’Associazione per i problemi del lavoro, diretta dal 1927 da
Rinaldo Rigola.
Infatti, se in questi anni, come bene
stremamente significativo del profilo
biografico di Bruno Buozzi, nella cui
ricostruzione l’autrice attinge a una
pluralità di fonti, ossia la sua direzione
– in sostituzione di Ludovico D’Aragona – della «nave confederale» dal
1925, all’indomani dell’accordo di
Palazzo Vidoni fra sindacati fascisti e
Confindustria e della legge sindacale
del 1926 che privava de facto i sindacati liberi della funzione contrattuale,
e poi negli anni dell’esilio in Francia
dopo la scelta maturata in seguito alla promulgazione delle leggi fascistissime, di una parte del gruppo dirigente di dichiarare disciolta la Confederazione.
La scelta di Buozzi è, come dichiarerà
assumendo la carica di segretario generale, di dare alla Confederazione
«un assetto che le consenta di resistere
ai tremendi marosi che la investono da
ogni parte» rivendicando come punti
salienti della sua direzione «passato e
programma che – sostiene –, per me,
sono i soli sicuri auspici di un domani
migliore» (p. 215). Come sottolinea
l’autrice, è a questo testamento sindacal-politico del riformismo che Buozzi affidava il compito di raccogliere le
redini del movimento operaio e che
diventerà parte integrante del dibattito che porterà al Patto di Roma del
1944, che poneva le basi per la nascita del sindacato unitario in cui confluiranno le tre anime del sindacalismo italiano: quella cattolica, socialista e comunista.
Maria Paola Del Rossi
Recensioni
evidenzia l’autrice, forte è il confronto
tra l’impostazione massimalista del
partito e quella gramsciana rispetto al
ruolo del sindacato e nella direzione
delle lotte, un elemento, che appare
più sfumato nell’analisi, è il confronto
tra le due maggiori concezioni che si
contrappongono all’interno della corrente riformista del sindacato, ossia
quelle di Rigola e Buozzi, così come
differente sarà l’approdo, laddove l’uno nella istituzionalizzazione del ruolo
del sindacato nel 1926 con le leggi fascistissime legge la realizzazione del
sindacato riformista, mentre l’altro
legge il sindacalismo fascismo come
burocratico e non rappresentativo, come emerge in maniera chiara dal volume Sindacalismo e Fascismo, che scriverà in Francia negli anni dell’esilio, in
cui tornerà a riflettere sulle cause che
hanno portato all’affermazione del fascismo.
Ed è all’interno di questa peculiare
concezione del ruolo del sindacato da
parte di Buozzi che va letta l’evoluzione della vertenza nazionale dei metallurgici del 1920 (maggio-settembre
1920), aperta con la presentazione del
cd. «Memoriale Buozzi» e conclusa dal
«Lodo Giolitti», e la scelta del segretario della Fiom, di fronte al venir meno
del carattere squisitamente sindacale
della vertenza e al prevalere del significato politico della questione del potere nei luoghi di lavoro, di affidarne la
soluzione al Psi e alla CGdL.
Nella seconda parte del volume viene
analizzato, invece, un altro aspetto e-
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G. Amari (a cura di), I Consigli di gestione e la democrazia industriale e sociale in Italia, Ediesse, Roma, 2014,
pp. 352.
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Il libro I Consigli di gestione e la democrazia industriale e sociale in Italia curato da Giuseppe Amari e edito da Ediesse per la colonna «gli Erasmiani» è un
tentativo riuscito di riflettere su un’esperienza storica molto importante della storia d’Italia: i Consigli di gestione.
Il volume presenta un’architettura ambiziosa. Il cuore è rappresentato dalla
pubblicazione degli Atti del Convegno
sui Consigli di gestione tenutosi presso
l’Università Bocconi di Milano nel febbraio 1946. Questi atti, già pubblicati
dal Centro Economico per la Ricostruzione (Cer) nel 1946, sono preceduti
da una prefazione del segretario generale della Cgil Susanna Camusso e da un
saggio di Stefano Musso che fornisce
una ricca panoramica sulle esperienze
di partecipazione operaia alla gestione
di impresa in chiave storica e comparata. Segue un’appendice di documenti,
anche questi presenti nella pubblicazione del Cer, che aiuta il lettore a muoversi attraverso i tanti progetti che le diverse forze politiche italiane elaborarono sui Consigli di gestione nell’immediato secondo dopoguerra.
A questo punto la ricostruzione storica
dell’esperienza dei Consigli di gestione
come si delineò in Italia alla fine della
seconda guerra mondiale e soprattutto
nei primi anni del dopoguerra lascia il
posto a un’analisi sull’attualità delle for-
me di partecipazione e sullo stato, invero non incoraggiante, della democrazia
industriale, economica e sociale in Italia. Questa parte del libro è affidata a
un saggio di Francesco Vella sui nuovi e
vecchi paradigmi della partecipazione,
che partendo da una ricostruzione del
quadro normativo e del dibattito scientifico sui Consigli di gestione cerca di
trarre suggerimenti per un nuovo percorso di partecipazione, e a una postfazione del curatore.
Chiude il volume una selezione di documenti (tra i quali spiccano il disegno
di legge sui Consigli di gestione di Rodolfo Morandi, la posizione di Confindustria e il precedente progetto di legge
elaborato da Giovanni Giolitti nel
1920) e una biografia ragionata curata
dalla dottoressa Maria Paola Del Rossi.
Il libro, quindi, tiene insieme la rivisitazione storica di uno degli strumenti
più avanzati di partecipazione operaia
alla gestione d’impresa che l’Italia ha
conosciuto con la costatazione derivante dall’analisi del presente che la storia
della partecipazione nel nostro paese è
una storia difficile, fatta di pochi ma
fondamentali momenti di luce e molti
momenti di arretramento e, soprattutto in chiave comparata con tante altre
esperienze europee, una storia abbastanza fallimentare. Il tema che attraversa tutte le pagine del volume è quello della democrazia industriale ed economica intesa come parte essenziale di
una moderna democrazia occidentale
che non può più ancorarsi soltanto alla
dimensione politica e giuridica senza
vegno non è soltanto storico anche se,
da questo punto di vista, fornisce sicuramente ai ricercatori uno strumento di
analisi utilissimo. Ma ci restituisce anche uno spaccato molto particolare dell’Italia di quei giorni drammatici con
una classe operaia capace non soltanto
di grandi ondate conflittuali (pensiamo
alla grande stagione degli scioperi del
1944) ma anche di progettualità e responsabilità nella salvaguardia e garanzia dell’apparato industriale settentrionale. Progettualità, responsabilità e capacità di sperimentare attraverso strumenti di gestione aziendale che prefiguravano un diverso modello di sviluppo dell’economia e dell’organizzazione
aziendale e del lavoro. Un’esperienza,
quindi, di indubbio interesse e di notevole importanza che arricchirà il dibattito costituzionale sul tema della partecipazione e della democrazia industriale anche se i risultati cui giungerà la
Carta saranno piuttosto vaghi tanto da
consentire, nel corso degli anni successivi, il completo accantonamento del
tema dall’agenda politica.
Tutto il volume è attraversato da quello che sembra, a prima vista, uno strano paradosso. Se, infatti, l’Italia sembra scontare un notevole ritardo in termini di democrazia industriale e democrazia economica, e quindi un ritardo nel processo di sviluppo e consolidamento della democrazia in generale, dall’altra parte è lo stesso paese che
ha espresso storicamente, sia in termini teorici che in termini pratici, delle
novità di assoluto rilievo in relazione al
Recensioni
comprendere anche quella sociale ed
economica. Lo stesso curatore Giuseppe Amari ci suggerisce le finalità del lavoro: «Il volume vuole essere anche
l’occasione per una riflessione più generale sul periodo in cui nacque e si
concluse quell’esperienza esaltante di
democrazia industriale ed economica,
prima valorizzata poi abbandonata e
mortificata, non difesa a sufficienza
dalle sinistre e dallo stesso sindacato.
Una vicenda da cui trarre utili insegnamenti per la difficile, complessa, ma
inevitabile problematica della democrazia industriale. Rimasta in Italia ad
uno stadio iniziale, e che investe temi
non solo di relazioni sindacali, di economia aziendale e di organizzazione del
lavoro, ma anche di economia generale, di psicologia e sociologia del lavoro,
di diritto dell’economia e in particolare
di diritto societario».
L’attenzione alla vicenda dei Consigli
di gestione è puntuale e di grande interesse. Non solo per l’ottimo saggio storico scritto da Stefano Musso ma anche
perché i contributi che furono presentati al Convegno del 1946 sono di
grandissimo spessore. A partire dalla
prefazione di Antonio Pesenti, attraverso le posizioni di uomini di indubbio
valore e rilevanza come Angelo Costa e
Gian Carlo Pajetta, fino alle conclusioni di Giovanni De Maria ci si immerge
in un approfondimento di questi strumenti di organizzazione aziendale molto puntuale, ricco di suggestioni ma
anche di accenti critici e difficoltà di
realizzazione. Il valore di questo Con-
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suddetto tema e agli strumenti per la
sua realizzazione, fossero essi i Consigli di fabbrica o di gestione.
Nel primo dopoguerra il movimento
ordinovista di Antonio Gramsci teorizzò i Consigli come strumenti di ridefinizione della democrazia non solo in
termini economici ma tout court. Torino fu la capitale di questo movimento
che fece dell’Italia un vero e proprio laboratorio di sperimentazione della democrazia economica insieme alle riflessioni coeve tedesche, approdate al riconoscimento dei Consigli di fabbrica
nella Costituzione di Weimar, e all’esperienza dei Soviet russi sui quali poggiò la rivoluzione del 1917 e ritenuti lo
strumento attraverso cui superare la democrazia borghese per approdare a
quella socialista.
Il movimento ordinovista brillò per
una stagione intensa ma breve. Anche il
compromesso con le forze borghesi
proposto da Giovanni Giolitti non trovò modo di essere applicato perché le
classi dirigenti preferirono appoggiare
il fascismo che sancì la fine di qualsiasi
apertura alla democrazia economica restituendo agli imprenditori in fabbrica
un potere assoluto e indiscusso.
I Consigli di gestione (nati verso la fine
della seconda guerra mondiale), per
usare le parole di Rodolfo Morandi,
«hanno una storia piena di insegnamenti e costituiscono senza dubbio l’esperienza più originale e più avanzata
che sia stata messa in atto dalle energie
spontanee della ricostruzione. Sorti per
impulso di quelle forze che avevano
animato nelle fabbriche la resistenza al
nazifascismo, essi assicurarono la vita
della nostra industria nella fase più delicata di trapasso, quando le colpe o la
pavidità di tanti dirigenti e la somma
della prudenza del capitale la lasciarono
abbandonata a sé priva quasi completamente di risorse. Nella carenza di autorità furono i Consigli di gestione, costituiti dagli operai e dai tecnici, a salvaguardare gli impianti e a custodire i
magazzini. Furono nel Nord i Consigli
di gestione a garantire l’occupazione e
il salario delle maestranze per settimane
e settimane, per mesi interi dalla liberazione: meriti questi che si sono troppo
facilmente dimenticati dai molti che
rientrano dopo prolungata assenza nel
possesso e alla direzione aziendale».
Eppure anche i Consigli di gestione lasciano poche tracce di sé dopo una stagione breve seppur intensa. Combattuti senza mezzi termini dagli imprenditori vengono presto abbandonati anche
dai sindacati che preferiscono tornare a
forme di rappresentanza più classiche, e
più specificatamente sindacali, come le
Commissioni interne. I diversi progetti
che le varie forze politiche esprimono
finiscono per essere accantonati e l’articolo 46 della Costituzione italiana riserverà al tema della partecipazione una
presenza debole e ambigua.
Negli anni Settanta i Consigli di fabbrica diedero nuovamente linfa al tema
della democrazia industriale e della democrazia sindacale aprendo una stagione dalla grande potenzialità riformista.
Ma al suo posto l’Italia entrò negli an-
di rappresentanza verso la democrazia
industriale e quindi sempre disposta a
ricorrere ai mezzi di pressione più duri
pur di far naufragare i progetti riformisti in materia. Con le debite eccezioni,
naturalmente, ma in generale il quadro
che emerge della classe dirigente industriale italiana non è confortante: familista, padronale, autoritaria, progressivamente legata più alle rendite che al
profitto, politicamente miope e managerialmente arretrata.
Una seconda debolezza sarebbe quella
del riformismo sindacale ma aggiungerei anche politico. In questa chiave
alla ribalta salirebbero soprattutto i
partiti e i sindacati di sinistra colpevoli di non aver appoggiato nei momenti della loro massima forza le proposte
più significative per ristrutturare il capitalismo italiano in termini di compromesso tra lavoro e capitale da sancire attraverso nuove forme di partecipazione e di gestione delle aziende. Il
limite sarebbe stato, in questo caso,
duplice: da un lato un’ideologizzazione eccessiva che portava a sacrificare il
riformismo sull’altare di concezioni
maggiormente radicali e conflittuali;
dall’altro il ritardo con cui il sindacato si è aperto a forme di partecipazione che rischiavano di uscire dall’alveo
della sua tradizione.
La terza debolezza sarebbe quella dello Stato e delle istituzioni incapaci di
fornire una cornice adeguata di relazioni industriali che non fosse lasciata
solamente al libero gioco delle parti
sociali.
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ni di piombo, negli anni della strategia
della tensione e del terrorismo oltre che
in una crisi economica epocale. Ancora
una volta il tema della partecipazione e
della democrazia industriale rimase lettera morta e il sistema di relazioni industriali italiano finì con il rimanere legato più ai rapporti di forza tra le organizzazioni sociali che a una regolamentazione ben definita.
Sorte migliore non spettò al Piano di
impresa presentato dalla Cgil nei primi
anni Ottanta.
Oggi i tanti scontri e dibattiti sulla legge sulla rappresentanza ci riportano a
un bivio: riuscire finalmente a costruire un sistema di relazioni industriali regolato nel quale inserire meccanismi
della rappresentanza tali da aprire a fenomeni di partecipazione, e quindi di
consolidamento della democrazia industriale ed economica, oppure perdere ancora una volta l’occasione per dar
corpo a una stagione di riformismo vero lasciando che i già ampi margini di
ritardo con il resto dell’Europa continuino ad allargarsi.
La tesi del libro, che cerca di dar conto
e di spiegare questo strano paradosso
che accompagna la storia d’Italia, è suggestiva e per molti versi condivisibile.
Gli scarsi risultati ottenuti sul tema della democrazia industriale ed economica
sarebbero causati dal combinato disposto di tre debolezze e ritardi. La ferma e
ostinata chiusura della classe imprenditoriale, troppo orientata a un capitalismo di tipo padronale per comprendere i vantaggi di un’evoluzione dell’idea
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La tesi centra alcuni aspetti decisivi se
si vuole comprendere la storia, non solo economica e sociale, dell’Italia contemporanea anche se, almeno a giudizio di chi scrive, non coglie un nesso
importante di causa-effetto tra l’autoritarismo della classe imprenditoriale
italiana e la vocazione al conflitto dei
sindacati.
Ma nel complesso centra il punto decisivo: il tema della partecipazione e
quello della democrazia industriale ed
economica ci restituiscono la fotografia di un paese, come capita anche in
altri ambiti, dalle grandissime potenzialità, capace di esprimere idee e progetti di grandissimo valore. Ma pur
sempre frenato, bloccato, ritardato dall’incapacità di costruire un percorso
comune che superi steccati di divisione
ideologici o corporativi, incapace di
intraprendere con convinzione e forza
scelte solidamente riformiste. In conclusione della sua postfazione Giuseppe Amari afferma: «In Italia con una situazione che ricorda per molti aspetti
quella del dopoguerra, con i gravi problemi occupazionali, di riconversione e
di ristrutturazione produttiva e con la
defezione di tanti proprietari e imprenditori […] si avverte seriamente la
mancanza di più adeguati strumenti di
democrazia industriale. E la necessità
di una riconquistata capacità progettuale solidale e inclusiva, con un più
organico inserimento dialettico nelle
correnti culturali e politiche europee e
internazionali».
Un’ultima annotazione concerne una
convinzione che mi sembra emerga tra
le righe degli interventi del curatore.
Ovvero che la difficoltà con la quale sia
le sinistre sia la classe imprenditoriale si
pongono sul terreno del riformismo
avrebbe in un certo qual modo creato
una sorta di Sonderweg italiano, una via
italiana alle relazioni industriali inadeguata e asimmetrica se comparata con
le esperienze dei grandi paesi europei.
Da questo punto di vista, pur condividendo buona parte delle analisi sui limiti delle classi dirigenti italiane siano
esse politiche che economiche e sociali,
non credo che l’Italia rappresenti una
significativa eccezione nel contesto europeo più di quanto non lo faccia ogni
paese che attraverso le proprie specificità e originalità appare un unicum all’interno di un percorso di sviluppo tutt’altro che lineare ed omogeneo.
Edmondo Montali
A. Mastrandrea, Il paese del sole,
Ediesse, Roma, 2014, pp. 200.
Il libro di Angelo Mastrandrea, Il paese
del sole, ci accompagna in un viaggio
intenso nei territori del Sud Italia, vissuto nei suoi aspetti più profondi e inaspettati. Un cammino caratterizzato da
un’osservazione attenta per comprendere e raccontare storie e vissuti incontrati nelle vie che dalla capitale portano
verso il Sud del nostro bel paese. Angelo Mastrandrea nel suo lavoro Il paese
del sole, ci narra di un’Italia costellata di
L’autore, come in uno studio antropologico, viaggia, osserva attentamente,
interloquisce con persone, ci racconta
di vite umane e cerca di spiegare la nascita di quelle che potremmo definire
nuove subculture, le cui origini sono da
ricercare tra gli effetti della grande crisi
della nostra Italia. Crisi economica, crisi politica, ma assolutamente non crisi
di idee: emerge chiaramente dalle storie
raccontate da Angelo Mastrandrea che,
nonostante il critico momento storico,
non viene meno la voglia di rimboccarsi le maniche e di inventarsi nuovi modi di vivere, anche nuovi mondi in cui
vivere e lavorare.
L’autore ci racconta, a tal proposito, dei
sociolavoratori della cooperativa Mancoop nel basso Lazio, che hanno recuperato la loro fabbrica, la Manuli, ormai chiusa dopo dieci anni in balia delle multinazionali, fondando una cooperativa che produce nastri per imballaggio. Questa storia è esemplare e «dimostra, inoltre, che è possibile mettere
in discussione il rapporto tra padroni e
operai e che questi ultimi non hanno
necessariamente bisogno dei primi –
delle loro capacità manageriali e dei loro capitali per lavorare e produrre» (p.
42) e ciò anche perché «l’anzianità di
servizio è alla base della resurrezione
[…]: i nuovi arrivati assorbivano il sapere dei più anziani, ed è per questo
che si è potuto conservare il know how
che consente di riprendere la produzione anche senza un padrone» (p. 43).
Anche gli ex lavoratori della Rsi (Rail
Service Italia) della stazione Roma Ti-
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tante piccole realtà nascoste o dimenticate che coinvolgono vite umane che
hanno dovuto fare e, quotidianamente,
fanno i conti con situazioni del tutto
particolari. Situazioni particolari e
paradossali, che vengono svelate attraverso le storie degli abitanti dei territori laziali, campani, abruzzesi, lucani, calabresi e siciliani.
Angelo Mastrandrea, attraverso il suo
reportage narrativo, punta i riflettori
sulle vite di alcuni nostri connazionali
che si trovano a vivere condizioni critiche causate sia dall’attuale crisi economica, che ha messo in ginocchio tante
realtà lavorative e siti produttivi sia dagli effetti della mala gestione politica e
amministrativa delle nostre terre o dai
paradossi generati da una mentalità
permeata da logiche illegali difficili da
superare. Basti pensare all’Alitalia con
sede operativa a Roma Fiumicino, oppure ad alcune aziende di Cisterna di
Latina, come la Findus, la Hydro Slim,
la Good Years, la Sigma Tau, sorte un
tempo in quella terra che veniva definita «la Brianza del Centro-Sud […] e
che ora si presenta come un cimitero
post-industriale» (p. 26). Continuando
la discesa del nostro paese, ci imbattiamo nei lavoratori sikh che pedalano
sulla Pontina ed arriviamo nella «terra
dei fuochi» a Nord di Napoli, dove
quotidianamente bruciano roghi per
via di uno smaltimento dei rifiuti primordiale e illegale. Ancora qualche chilometro in più e di nuovo l’illegalità la
fa da padrona nella «piazza degli schiavi» di Villa Literno, nel casertano.
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burtina, non sono stati risparmiati dalla
crisi e si sono reinventati, approfittando
delle loro competenze, unendosi nella
costruzione di un laboratorio sulla riconversione, le Officine Zero, «lavorando al riuso e al riciclo di elettrodomestici, personal computer, mobili e oggetti
d’arredo – tutto ciò di cui la modernità
consumista richiede la sostituzione, con
alto costo ecologico» (p. 59).
Il reinventarsi grazie alla non crisi delle idee dei cittadini del Paese del sole, è
raccontato anche attraverso le esperienze degli abitanti e dei volontari di
Scampia che rifiutano l’individualismo
e l’illegalità attraverso la cura di spazi
comuni come gli orti urbani, i centri
sportivi, i parchi, tutto ciò che possa
servire a creare una rete sociale che impedisca all’illegalità di muoversi subdolamente.
Anche in Abruzzo, ai piedi del Gran
Sasso, dopo lo sconvolgimento urbanistico e sociale causato dal sisma del 6
aprile 2009, si lotta per il recupero della sfera comunitaria: «L’unico spazio di
socialità è quello che viene definito un
‘orto insorto’: un quadrato di terra con
piccole coltivazioni, un tavolone per
pranzi e cene, un capanno di legno e
un parco giochi per bambini» (p. 151),
nato come un segno di ribellione e di
contrasto alle new town costruite per gli
sfollati del terremoto, senza nessuna attenzione alla sfera sociale e che possono
essere paragonate a tane, veri e propri
dormitori asettici.
Queste e tante altre storie sono raccontate con attenzione e dovizia di parti-
colari attraverso il reportage che Mastrandrea narra nel suo libro Il paese del
sole, dedicato all’attuale Centro-Sud
d’Italia, in cui possiamo leggere esempi
di ciò che oggi potremmo definire resilienza, usando un termine preso in prestito dal gergo della fisica che indica la
capacità che hanno alcuni elementi di
recupero al mutare delle condizioni
esterne e, quindi, di far fronte alle avversità in maniera positiva, ricostruendosi e reinventandosi. Un libro, dunque, che ha la capacità di svelare il
sommerso e la condizione umana nei
paradossi del nostro paese, nella sua
complessa fase attuale.
Elisabetta Olivieri
F. Carrera e E. Galossi (a cura di), Immigrazione e sindacato. Lavoro, cittadinanza e rappresentanza. VII Rapporto, Ediesse, Roma, 2014, pp. 430.
Una sfida strutturale complessa, quella
del lavoro degli immigrati, che si confronta faticosamente con la difficile fase di crisi economica che attraversa il
paese. Attorno a questo binomio si
snoda il VII Rapporto Immigrazione e
Sindacato dedicato al trittico lavoro, cittadinanza e rappresentanza, a cura di
Emanuele Galossi e Francesca Carrera.
In un momento in cui il tessuto produttivo italiano subisce una battuta di
arresto che sfocia in una «emofiliaca»
emorragia occupazionale, il Rapporto
indaga il mondo dell’immigrazione nei
zione strategica di prospettiva, la formazione dei quadri dal background
migrante per favorirne il protagonismo, il ruolo strategico del sistema dei
servizi, la tutela individuale e collettiva
sono alcuni assi da coltivare.
Al livello socio-civile, i curatori fanno
un focus bi-direzionale su temi di cui
la coscienza critica pubblica sembra
essersi appieno impossessata: da una
parte il tema delle donne migranti nel
loro rapporto con il lavoro, la violenza
sulle donne e il suo corollario femminicida e la necessità di un’alleanza tra
italiane e immigrate; dall’altra parte, il
focus si cimenta sulla questione della
cittadinanza agli immigrati, con singolare riguardo ai bimbi nati/cresciuti
in Italia e che continuano ad essere
computati quali stranieri. La dialettica
tra [vigente] ius sanguinis ed [invocato] ius solis partecipa della volontà di
misurarsi con i mutamenti in atto nella società e di cui il sindacato non può
che essere catalizzatore.
La stessa prospettiva comunitaria, l’impellenza di un’armonizzazione compiuta e non solo epistolare (come avviene
con le direttive e regolamenti europei),
il ruolo della Confederazione Europea
dei Sindacati sono altrettanti prismi dai
quali si dovrà necessariamente guardare
la sfida dell’immigrazione, per non lasciarla in balia degli umori politici nazionali, con i gravi rischi di cui si ha cognizione e va arginato attraverso vigorosi interventi di cui il sindacato è catalizzatore.
Jean-Renè Bilongo
Recensioni
suoi meandri e proietta un fotogramma
dettagliato della realtà occupazionale
attuale dei lavoratori immigrati. Sprovvisti di reti familiari di sostegno quando vengono macinati dal collasso dell’assetto artigianale ed industriale che li
ha assorbiti a lungo, gl’immigrati devono riposizionarsi e riqualificarsi velocemente in un mercato del lavoro sempre
più avaro di opportunità. Da qui il riversamento massiccio in un settore come l’agricoltura che per molti è stato la
porta d’ingresso nel mondo del lavoro e
che, purtroppo, è sempre più permeato
dalla piaga dello sfruttamento, il caporalato, il sotto salario. Il Rapporto fotografa la capacità di reazione della Flai,
così come quella di altre categorie ad alta incidenza migrante come la Fillea,
per porre un argine alle derive che si osservano.
Altro tema sul quale il Rapporto si propone di fare una verifica minuziosa è
quello dell’integrazione degli stranieri.
Un terreno non già particolarmente
florido in tempi di agiatezza socio-economica complessiva e che risente degli
effetti deleteri della crisi economica. Ne
risulta un quadro compromesso che interpella anzitutto la politica e l’impellenza di rivedere alcune delle disposizioni normative che disciplinano la vita degl’immigrati in Italia.
Il Rapporto vaglia alcune esperienze rivelatrici dello straordinario ruolo di
strumento-risposta che deve svolgere la
contrattazione sociale territoriale. La
stessa introspezione che fa la Cgil attraverso un’analisi della propria elabora-
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S. Cruciani, M. Claudiani, M.P. Del
Rossi (a cura di), Portella della Ginestra
e il processo di Viterbo. Politica, memoria e uso pubblico della storia (19472012), Ediesse, Roma, 2014, pp. 320.
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Dal 14 al 22 aprile 2012 Viterbo è stata sede della settimana della cultura.
Durante questo appuntamento, grande spazio è stato concesso all’evento
«Appuntamenti con la memoria» (1722 aprile) e in occasione del suo sessantacinquesimo anniversario, una
giornata di questo convegno è stata dedicata alla strage di Portella. L’iniziativa, che ha visto coinvolti l’Archivio di
Stato di Viterbo, la Fondazione Giuseppe Di Vittorio e l’Università La Tuscia, ha dato vita ad una mostra multimediale. Grazie al lavoro dei tre curatori S. Cruciani, ricercatore dell’Università della Tuscia e collaboratore della Fondazione Di Vittorio, M.P. Del
Rossi, docente presso l’Università di
Teramo e ricercatrice presso la Fondazione Di Vittorio e M. Claudiani, direttore vicario dell’Archivio di Stato di
Viterbo, i documenti oggetto di studio
e gli interventi del convegno sono stati organizzati e sistemati sino a confluire nel libro Portella della Ginestra e il
processo di Viterbo. Politica, memoria e
uso pubblico della storia (1947-2012).
Raffica di colpi di mitragliatrice, lotta
operaia, rivendicazioni sindacali, 1°
maggio. Sono solo alcune parole che
ricorrono spesso nel volume. Parole
che, come un marchio a fuoco, restano impresse nella mente con i loro
suoni, con le immagini a cui richiamano, con la loro forza dirompente.
Ed è alla forza dirompente della memoria che si appella questa libro, unico mezzo mediante cui, del 1° maggio
1947, non resti solo uno spiacevole ricordo della neonata Repubblica italiana, ma rappresenti un episodio da cui
ripartire. Episodio, purtroppo, non
isolato. La strage di Portella della Ginestra, è stata solo la prima «strage di
Stato» che, insieme alla strage di piazza Fontana nel 1969, piazza della Loggia nel 1974, all’omicidio di Falcone e
Borsellino e tante altre, ha scandito gli
anni repubblicani.
Quel giorno, quel 1° maggio 1947 a
Portella della Ginestra, un paesino in
provincia di Palermo, la festa si è trasformata in un bagno di sangue. Tornata in auge, dopo la dittatura fascista,
per celebrare la festa dei lavoratori, per
festeggiare la vittoria del Blocco del Popolo alle elezioni regionali della Sicilia,
l’atmosfera di speranza e di gioia è stata spazzata via dai colpi d’arma da fuoco di Salvatore Giuliano e della sua
banda provocando 11 morti e 27 feriti.
Il «cantiere di ricerca» organizzato dai
curatori del testo, ha il compito di rendere fruibile e porre all’attenzione
pubblica una serie di documenti attinenti alla strage. La pluralità della documentazione usata per la pubblicazione, dagli atti del processo di Viterbo sino agli articoli di giornale, dalle
carte della Commissione Antimafia a
recensioni cinematografiche, traccia
un quadro abbastanza completo sul
densa l’immagine, che rivela e sublima
l’istante (così direbbe Kant) e su documenti a carattere cinematografico,
molti dei quali sul film Salvatore Giuliano (Francesco Rosi, 1962). Una pellicola che, a distanza di quindici anni
dall’eccidio, indaga sulle dinamiche
politiche e sociali che hanno permesso
l’ascesa del bandito e sugli ancora oscuri sviluppi della sua morte. Grazie alla
regia di Rosi, che coniuga sapientemente documentario e fiction, ci troviamo dinanzi ad un ottimo esempio
di uso pubblico della storia: il film diventa presto un caso politico incassando il rifiuto della Mostra d’arte cinematografica di Venezia che fa da contraltare al plauso ricevuto in sede parlamentare da Parri, Gatto e Li Causi e
alla conquista dell’Orso d’Argento al
XII Festival di Berlino, grazie a cui riesce ad riaffermare la cultura della memoria della strage di Portella della Ginestra a livello internazionale.
L’arte come veicolo di significato, oltre
che di bellezza, diviene un essenziale
aiuto per la memoria storica. Se le immagini costruiscono l’astrazione mentale e l’aspetto immaginifico, l’elemento visivo degli eventi di Portella della
Ginestra, gli interventi di diversi
membri di spicco della politica italiana perpetuano la portata che ha avuto
la strage come simbolo di coercizione,
di intimidazione e di violenza del banditismo, della mafia agricola e della
politica. A tal proposito, in un intervento alla Camera dei Deputati del
1951, di cui troviamo un estratto nel
Recensioni
dibattito sviluppatosi attorno alla strage di Portella, mettendo a confronto
varie tesi e opinioni. Un quadro completo ma non chiaro come diversamente non potrebbe essere. Dal processo di Viterbo del 1955 ad oggi, infatti, non sono stati ancora trovati ufficialmente i mandanti dell’eccidio.
L’obiettivo del gruppo di ricerca non è
quello di dare delle risposte, «lo storico non ha il compito di fare luce su ciò
che la magistratura non riesce a scoprire, lo storico inquadra» (Francesco
Renda, storico e segretario della Camera del Lavoro di Agrigento, in
un’intervista del 1987 di Giovanni Rispoli, pp. 293-300). Il proposito di cui
si fanno carico è quello di riflettere attentamente sulla assoluta instabilità
della politica italiana nel secondo dopoguerra, con la Dc intenta ad eliminare i partiti di sinistra dal governo e,
soprattutto, sul ruolo e l’uso della memoria storica attraverso diversi codici.
La strage del 1947 viene trattata servendosi delle dichiarazioni di molti
politici ma anche del linguaggio culturale e artistico. Il quadro di Renato
Guttuso Studio per il massacro di Portella della Ginestra, diventa così un patrimonio di tutta l’Italia democratica.
Il senso estetico del dipinto viene accantonato sino a divenire simbolo delle lotte contadine e strumento di memoria. La cultura, il cinema e la pittura si ergono quindi ad ulteriore veicolo di trasmissione degli eventi.
La pubblicazione poggia parte della
sua trattazione sulla pittura che con-
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libro, Girolamo Li Causi attacca direttamente il viceministro Scelba, mandante, a suo dire, dell’eccidio.
Lungi dall’idea di consegnare al lettore
delle verità, gli autori mettono in luce
tutte le possibili cause, i diversi punti di
vista e le ipotesi di accordo dalle quali è
scaturita la strage: dalla semplice teoria
regionalistica dell’attacco come intimidazione verso la classe contadina, a possibili accordi con la mafia e vertici politici del governo italiano della Democrazia Cristiana per ristabilire le gerarchie di potere, sino all’implicazione degli Stati Uniti come leader del bipolarismo mondiale.
Purtroppo, come in moltissimi altri casi, la Repubblica Italiana non potrà mai
gioire della verità. Pubblica e chiarificatrice, la verità diventa un miraggio inarrivabile anche a distanza di 50 anni.
Ed è qui che la memoria diventa fondamentale, collocandosi come snodo
cruciale mediante cui è possibile ricostruire la propria storia e «patrimonio
comune dell’identità in cui tutti possano riconoscersi»: in questo modo il segretario generale della Cgil Susanna
Camusso, intervenendo al convegno di
Viterbo, assurge la strage di Portella a
simbolo di lotta e delle rivendicazioni
contadine che, alimentato da nuove e
continue testimonianze, arricchisce il
nostro patrimonio culturale e rafforza
l’identità di questo paese.
La storia si incarica di conservare gli
eventi, i sogni e gli ideali: la memoria è
il passaggio del testimone tra vecchie e
nuove generazioni. L’intervento del 24
maggio 2012 del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in ricordo della strage di Portella, rimarca proprio questo punto.
Progettare il futuro, volgendo uno sguardo al passato.
Niki Deleonardis
A. Akinyoade e F. Carchedi (a cura di),
Speranze violate. Cittadini nigeriani
gravemente sfruttati sul lavoro e in altre attività costrittive, Ediesse, Roma,
2013, pp. 760.
Dalle città e dagli agglomerati delle
zone rurali della Nigeria fino alle campagne e le città italiane per svolgere le
più variegate attività: dall’antico lavoro bracciantile fino alla coazione nell’esercizio del meretricio o il curioso
fenomeno di giovani dediti alla questua. La ricerca di Akinyoade e Carchedi propone uno scatto sociologico
ad alta risoluzione della comunità nigeriana e il suo rapporto, talvolta distorto, con il lavoro nella sua dualità sia
in patria che in Italia, in una prospettiva di raffronto tra ciò che è l’accezione quindi il sentimento diffuso del lavoro lì e quello che si verifica per tanti una volta arrivati qui. La dialettica
scientifica adottata si rivela poi di
straordinaria valenza nel cogliere ciò
che appare come grave sfruttamento a
una civiltà avanzata del lavoro mentre
le vittime possono viverla come semplice «condizione transitoria» di vita la-
che poco interagisce con la realtà circondante e che vede tuttavia un numero crescente di vittime in cerca di
vie di fuga dall’imbrigliamento.
La Full Immersion successiva nelle distorsioni del lavoro nel paese ovest africano, la consapevolezza che vanno contrastate e le azioni messe in campo per
raggiungere l’obbiettivo del lavoro dignitoso rappresentano il segno palpabile che si tratta di una sfida globale che richiede strategie efficaci nei singoli paesi.
La lotta alla tratta degli esseri umani,
l’imperativo della lotta allo sfruttamento lavorativo dei migranti rappresentano sfide imponenti che richiedono sinergie intra e inter-nazionali anche se, come sembra orientarsi la ricerca condotta da Akinyoade e Carchedi,
la via di fuga maestra dallo sfruttamento risiede nella consapevolezza, da
parte delle vittime, che possono affrancarsi accedendo a percorsi di tutela e protezione previsti dalle normative in materia.
Jean-René Bilongo
A. Valentini, Noi siamo quelli che…
Diario di viaggio attraverso i congressi
della Flai Cgil, Ediesse, Roma, 2014,
pp. 118.
Il viaggio e il diario sono due filoni
ampiamenti utilizzati in letteratura in
cui il soggetto dell’opera dipende dall’autore e dove la trama del racconto è
predeterminata dal reale. Salvo rare e
Recensioni
vorativa che va accettata stoicamente,
a prescindere dai distintivi fattivi che
la connotano.
Gli autori della ricerca vagliano pertanto la situazione lavorativa generale
nel paese più popoloso nonché prima
economia subsahariana, la cui robustezza dei dati macro-economici è infinitesimamente benefica alla maggioranza dei cittadini, determinando in
molti la necessità di scrutare nuovi
orizzonti. Un bisogno vitale di prospettive che spinge ineluttabilmente
molti nelle maglie di reti tese connazionali senza scrupoli, nella gara sfrenata al guadagno facile e veloce. Ne
derivano spesso condizioni di soggiogamento con effetti deleteri sulla libertà e la dignità delle vittime.
Lo svisceramento che propone la ricerca pone analiticamente sotto la lente
d’ingrandimento alcuni contesti territoriali italiani caratterizzati dalla forte
presenza di nigeriani con il corollario
di storie di grave forme di sfruttamento endogene alle comunità medesime
ossia dei cittadini nigeriani che sfruttano i propri connazionali più vulnerabili: ne sono paradigmatici gli esempi di
Castel Volturno, Lecce, Rimini, Rosarno, Torino. Latitudini e luoghi in cui
sono frequenti i fenomeni di donne
prostituite, giovani costrette all’elemosina, persone impiegate presso esercizi
commerciali o artigianali etnici con
orari di lavoro elastici e paghe anoressiche. Un micro-mondo chiuso su sé
stesso, con i suoi notabilati, le sue ritualità, i suoi codici comportamentali,
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straordinarie eccezioni dove il percorso
è un espediente narrativo (Ismaele in
Moby Dick…), il viaggio riassume
prevalentemente il fantastico, la meraviglia che il narratore con la sua intelligenza e sensibilità coglie nella realtà
in itinere (J.W. Von Goethe, Il grande
tour, Italiensche reise), mentre il diario
si caratterizza in un tempo cronologico
in cui l’autore annota accadimenti, fatti secondo la sua verità (Il diario di Anna Frank). La realtà in questi casi si basa su un rimedio intorno al quale l’autore soggettivamente investe la sua
prosa e i significati che il materiale narrativo provoca con la scrittura. La prosa e la realtà sono degli involucri in cui
le memorie e l’intenzionalità dell’autore trovano il proprio senso. La scrittura perde la sua autonomia a favore del
materiale cognitivo, sensitivo di chi
scrive e la scrittura si mostra come lo
strumento di una volontarietà prevalentemente sovrana dello scrittore.
Proprio per questi motivi questo filone
letterario è pieno d’insidie che di solito dipendono dall’autorevolezza letteraria dell’autore su cui scatta abitualmente a priori un’acritica legittimazione. Diversamente il viaggio e il diario
possono assumere una prosa autoreferenziale, intimista e perciò alquanto
noiosa.
A. Valentini nel suo Diario di viaggio
evita, invece, il desiderio di esprimere
se stessa nei confronti della realtà che
attraversa; del resto i congressi della
Flai Cgil sono indubbiamente una
frontiera dell’umano (immigrati, pe-
scatori, forestali, operai…) dove la
molteplicità degli esistenti sovrasta
una possibile prosa ideale e una configurazione gelosamente circoscritta
della realtà. L’autrice sceglie all’opposto e correttamente una scrittura situata negli eventi congressuali della Flai
Cgil territoriali e regionali (Palermo,
Siena, Potenza, Cosenza, Brescia, Parma, Napoli, Torino, Campania, Lombardia, Lazio, Emilia Romagna, Sardegna, Puglia, Sicilia). La trama del
diario, in cui l’inconsueto è nell’avvenimento congressuale e non nell’imprevedibilità del percorso, si avvale di
un trittico rappresentato dall’autrice
che interagisce sulle diverse implicazioni che le realtà rappresentano e su
cui darà significato al racconto diaristico, da Stefania Crogi (segretaria generale della Flai Cgil), protagonista
del racconto e dai luoghi in cui si svolgono i congressi. L’imprevedibilità e
l’autonomia intellettuale di Stefania rispetto ai discorsi ripetuti e retorici del
linguaggio sindacale e l’universo congressuale come uno spazio narrativo di
eccellenza fatto di storie, di attese e di
bisogni come un crogiolo di contraddizioni, sofferenze esistenziali e professionali danno all’autrice la possibilità
di fondere una scrittura diaristica in
cui gli eventi si mostrano come delle
stazioni di un percorso unitario verso
un divenire nel quale Valentini riesce a
custodire una trama d’insieme e il significato primo della rappresentanza
sindacale. L’autrice svolge questo doppio regime della narrazione con una
rienza temporale dei delegati e dei dirigenti sindacali nel complesso percorso dei congressi della Flai Cgil.
Franco Farina
Recensioni
scrittura lieve, come se camminasse in
acqua, con un’inedita prosa, evitando
così il resoconto giornalistico e la descrizione burocratica ma raffigurando
il diario come la condizione dell’espe-
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Documentazione
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■ Documentazione
La persona nella formazione1
Franco Farina
Premessa
La rilevazione sui fabbisogni formativi degli iscritti e dei delegati della Flai Cgil
ha comportato la somministrazione di 2.159 questionari anonimi. Dopo un’attenta preparazione sulla formulazione delle domande, le interviste hanno coinvolto gli operai generici (26%), qualificati (35%) e specializzati (21%), gli impiegati di concetto (6%), tecnici, specializzati ed esecutivi (2%), i quadri (1%) e
i dirigenti. La posizione degli intervistati all’interno del campione ha riguardato
gli iscritti per il 49% e i membri delle Rsu per il 46%. Il restante 5% esercita un
ruolo nelle segreterie ai vari livelli (territoriali o regionale).
Il campione, per la finalità della ricerca, è ritenuto rappresentativo sia per la
metodologia usata sia per il contesto di rilevazione dell’inchiesta. Il metodo è stato la campionatura casuale dell’universo di riferimento in cui ogni singola persona ha avuto uguale probabilità di essere scelta a comporre il campione stesso. La
casualità è stata determinata da un procedimento interno dello stesso universo. La
rappresentatività del campione, infatti, è stata ottenuta attraverso il passaggio dalle assemblee congressuali della Flai Cgil (2014), in cui i delegati al congresso sono stati votati dai lavoratori iscritti al sindacato di categoria per i congressi territoriali e regionali, alle assemblee dei luoghi di lavoro.
La somministrazione del questionario è avvenuta nelle sedi congressuali secondo una logica territoriale in funzione della rappresentatività Nord-Sud, delle diverse concentrazioni settoriali (agricoltura e industria) e delle differenti tipologie di
comparto produttivo (ortofrutta, forestazione, florovivaismo, produzione da forno
e farinacei, ecc.). Le domande del questionario sono state progettate secondo l’alternanza dell’accertamento mediante il grado di conoscenza dichiarato dal singolo
lavoratore e il grado di miglioramento che esigeva il contenuto della domanda. La
misurazione prevista ha riguardato un’oscillazione da 1 (poco conosciuto - poco
1 Il testo è la conclusione ai risultati dell’indagine condotta dalla Fondazione Metes in occasione dei
congressi regionali e territoriali tenuti nei primi mesi del 2014. La ricerca è pubblicata per intero in
Fondazione Metes - Flai Cgil, Analisi dei fabbisogni formativi dei delegati, quadri e dirigenti Flai Cgil
2014 - Primi risultati.
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miglioramento desiderato) a 5 (molto conosciuto - molto miglioramento desiderato). La ricerca è stata condotta dalla Fondazione Metes e la somministrazione è
stata realizzata dallo staff della Fondazione durante i lavori congressuali mediante
l’illustrazione delle finalità della ricerca e del questionario. Tale procedura ha limitato qualsiasi interferenza circa la compilazione del questionario tanto da conferire una scelta del tutto indipendente sulle preferenze alle domande. L’attenzione rivolta alla stesura, da parte dei delegati, ha dimostrato un’ampia partecipazione e interesse e la consapevolezza di essere prevalentemente i destinatari finali delle attività formative.
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Iscritti e l’apprendimento dei documenti Flai
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Le prime domande del questionario per gli iscritti si sono soffermate a comprendere il grado di conoscenza e la necessità di approfondimento dei documenti e
dei deliberati della Flai Cgil. La prima coppia di domanda, secondo l’alternanza
della conoscenza e dell’approfondimento desiderato del singolo iscritto, ha riguardato l’apprendimento dei documenti congressuali della Flai Cgil nazionale.
L’intendimento è stato quello di conoscere il grado di padronanza delle scelte della Flai Cgil nazionale nella sua fase congressuale, inteso come riflessione sui singoli problemi della categoria e della Cgil ed espressa dai deliberati congressuali.
Tramite le risposte date gli iscritti hanno dimostrato di conoscere abbastanza il
senso dei documenti congressuali. Infatti la maggioranza degli intervistati ha
espresso per il 40% (risposta n. 3) e il 22% (risposta n. 4) di conoscere i documenti congressuali2. La domanda di approfondimento degli iscritti ha mostrato
nella scala valutativa da 1-5 uno slittamento armonico in percentuale verso l’alto
di ogni punteggio (da 1 a 5) di richiesta formativa sullo studio delle delibere congressuali3.
Questa tendenza assume un maggiore rilievo quando gli intervistati rispondono
sulla conoscenza e sull’approfondimento dei documenti approvati dagli organismi
provinciali, regionali e nazionali della Flai Cgil (seconda domanda). La differenza
sta nella richiesta formativa sugli approfondimenti. Infatti se le percentuali della
conoscenza risultano pressoché analoghe alla domanda sui documenti congressuali della Flai Cgil, l’approfondimento registra una richiesta degli iscritti in percen2
Ricordiamo che l’oscillazione prevista dalle domande va da 1 (poco conosciuto - poco miglioramento) fino a 5 (molto conosciuto - molto miglioramento). Questo richiamo varrà per tutta l’analisi
dei fabbisogni formativi che di seguito sarà svolta.
3 La richiesta di approfondimento ha la seguente successione: domanda n. 1 passa da una conoscenza
pari all’11% a un approfondimento per il + 4%, la n. 2 al 16% a un +2%; la n. 3 al 40% a un + 8%;
la n. 4 al 22% a un + 6%; la n. 5 a un + 8%.
tuale maggiore al precedente interrogativo. Infatti il 40% degli intervistati, contro
il 33% della prima domanda, richiede un maggiore esame formativo sulla comprensione dei documenti deliberati dagli organismi provinciali, regionali e nazionali. Naturalmente la richiesta di approfondimento è applicata secondo una gradualità della scala da 1 a 5 verso l’alto4.
La terza domanda per gli iscritti si sofferma sulle competenze e abilità in materia di comunicazione con gli altri lavoratori. I risultati registrano una buona
capacità comunicativa per l’80% degli intervistati5, mentre la richiesta di miglioramento registra un forte innalzamento verso l’alto (quarta domanda). A differenza degli spostamenti sostanzialmente proporzionali sulla scala di valutazione verificatesi nelle domande precedenti, l’avanzamento desiderato, in questo caso, censisce un adeguamento formativo nel punto più alto della scala. Infatti il
20% degli intervistati dichiara di possedere una perfetta capacità comunicativa
(n. 5), mentre il 44% degli intervistati desidera approfondire la propria capacità
(n. 5). Ciò significa che c’è stato uno spostamento in percentuale lungo la scala
valutativa del +24% che contrariamente ad una crescita proporzionata sta a indicare un impellente salto ottimale (n. 5) circa la propria crescita e propensione
comunicativa. Lo stesso risultato è ottenuto sull’abilità di relazione comunicativa che ravvisa un incremento di miglioramento al n. 5 della scala del +20% concentrando tutte le attese verso una formazione migliore e senza un perfezionamento graduale.
Le stesse tendenze tra le competenze e abilità e il miglioramento degli intervistati nel creare consenso tra i lavoratori e l’adesione al tesseramento alla Flai Cgil si ottengono nella quinta e sesta domanda. Infatti le risposte si concentrano tutte, sia
quelle riferite al miglioramento formativo per la creazione del consenso sia per l’adesione e al tesseramento, sul punto più alto della scala (n. 5), registrando un incremento del +24% per la creazione del consenso e del 25% per le attività di adesione e di tesseramento.
4
La richiesta di approfondimento sale dal grado n. 1 del + 8%, dal n. 2 del + 8%, dal n. 3 del + 7%
dal n. 4 del + 5% e dal n. 5 del + 12%.
5 Si registrano, infatti, le seguenti risposte sulle competenze comunicative: il 33% al n. 3, il 32% al n.
4 e il 20% al n. 5.
Documentazione
Iscritti, comunicazione e proselitismo
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Considerazioni I
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La prima considerazione riguarda il rapporto tra gli iscritti intervistati e l’organizzazione sindacale (Flai Cgil nel suo complesso). Tale relazione è stata sancita dalle prime due domande, dove si chiedevano la conoscenza e l’approfondimento richiesto sui deliberati, congressuali provinciali, regionali e nazionali della Flai Cgil.
Le risposte alle domande sanzionano un diverso interesse circa la deliberazione degli organismi sindacali della Flai Cgil. Difatti mentre il dato di partenza della conoscenza dimostra una similitudine tra una comprensione significativa dei dati sui
documenti congressuali (62%) e sui documenti approvati dagli organismi provinciali, regionali e nazionale (60%), l’approfondimento richiesto riguarda prevalentemente i documenti approvati dagli organismi della Flai a discapito invece della documentazione congressuale. I primi, infatti, richiedono un’attività formativa distribuita su tutti i livelli della scala (1-5) secondo una percorrenza regolare verso l’alto
dove l’ultimo livello della scala (n. 5) registra un incremento del +12% rispetto a
una crescita del +9% sui materiali congressuali (n. 5). Tale differenza qualifica la necessità di comprendere più l’azione della categoria nella quotidianità dei suoi atti e
delibere piuttosto che un intendimento delle posizioni programmatiche della Flai.
Tale differenza, però, non modera la forte adesione alla Flai che gli intervistati hanno mostrato con le loro risposte concernenti la comprensione e l’approfondimento
dei vari documenti, comprovando, così, un profondo legame di appartenenza al sindacato di categoria.
La seconda considerazione, stabilita e valorizzata dalle domande sulla comunicazione e sul proselitismo, riguarda la natura del rapporto tra iscritto e Flai. Tale relazione si configura tra il valore di appartenenza dell’iscritto, dimostratosi con la conoscenza e con la richiesta di approfondimento sui documenti della categoria e le domande di miglioramento chiarite sui temi della comunicazione e del proselitismo. Le
due proposte di avanzamento sulla conoscenza dei documenti e sul perfezionamento della comunicazione non hanno, però, la stessa forza. Infatti sulla comunicazione
e sul proselitismo la dinamica di miglioramento tra i vari punti della scala da 1 a 5
registra un maggiore sviluppo. Tale tendenza chiama in causa, perché più individuale e meno oggettiva, la persona come iscritta alla Flai. È un’attitudine della persona
che si riconosce nell’organizzazione ma che è disponibile a investire su di sé come di
una singolarità che ricerca una propria valorizzazione finalizzata alla crescita dell’organizzazione e al consenso dei lavoratori sulle politiche sindacali della Flai.
Rsu e fondi sanitari e previdenziali
Una volta rilevato il grado di conoscenza e la domanda di approfondimento degli iscritti sulle linee programmatiche della Flai Cgil, sulla comunicazione e sul pro-
Rsu e legislazione sul lavoro
La conoscenza dei delegati sulla legislazione del lavoro (ammortizzatori sociali,
aspetti previdenziali) è abbastanza sostenuta e qualificata. Il 62% degli intervistati,
infatti, colloca il dato conoscitivo tra il n. 3 (+42%) e il n. 4 (+21%) mentre la domanda formativa su tale tema mostra un significativo innalzamento in percentuale
per tutti i gradini della scala in cui si distingue che una parte degli intervistati richiede una progressione graduale, dall’altra si ravvisa che un numero cospicuo di delegati non segue la sequenza dei livelli e richiede uno studio formativo nel punto più
alto della scala (il n. 5 passa da una conoscenza del 6% a una richiesta di approfondimento del 21%). Indubbiamente la crisi economica e produttiva sollecita una conoscenza adatta alle vicissitudini occupazionali di questa fase.
Rsu e legislazione sulla salute e sicurezza
I dati emersi dai questionari concentrano una conoscenza sul tema della sicureznel terzo (33%) e nel quarto (31%) gradino, mentre il livello più alto ha registrato una intensità del 15%. Le variazioni di queste percentuali, che indicano la domanda di successivo approfondimento della singola competenza, registrano uno
spostamento del +7% al n. 3 e del +1% al n. 4, mentre il livello 5 registra un incremento del +11%. Un’ipotesi interpretativa di questi spostamenti è ritenere che
tale argomento si raccolga in alcuni delegati (Rls) che hanno lo specifico compito
di affrontare e conoscere gli aspetti legislativi sugli obblighi del datore di lavoro e sui
rischi specifici per rendere efficace la loro azione.
za 7
6 La domanda riguardava il meccanismo di funzionamento dei fondi sanitari e previdenziali (Alifond,
Fasa, ecc.).
7 Si chiedeva il grado di conoscenza sugli obblighi del datore di lavoro e sui rischi specifici in materia
di salute e sicurezza così com’è previsto dalla legislazione corrente.
Documentazione
selitismo, il questionario si è rivolto alle Rsu per capire l’apprendimento e lo studio
formativo sugli aspetti che caratterizzano l’attività e la funzione delle rappresentanze nei luoghi di lavoro della Flai Cgil. La sezione del formulario è stata suddivisa in
sette blocchi con l’intendimento di suddividere in maniera più circostanziata possibile i contenuti che reggono l’attività delle Rsu.
Sul tema dei fondi sanitari e previdenziali 6 le risposte date mostrano una buona
conoscenza e una richiesta di aggiornamento aggiuntivo tra i diversi livelli della scala. Infatti date le conoscenze iniziali l’approfondimento richiesto si sposta tra tutti i
livelli verso l’alto secondo, però, un percorso armonico e graduale tra gradino e gradino della scala (n. 1 +6%; n. 2 +7%; n. 3 +8%; n. 4 + 9%; n. 5 +12%).
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Rsu e organizzazione della produzione e del lavoro
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Il grado di conoscenza della realtà produttiva è espresso in maniera soddisfacente
dagli intervistati. Si manifestano nel n. 3 (37%) e nel n. 4 (28%) strato del campione un buon livello di comprensione delle dinamiche produttive aziendali, di
gruppo e dei processi concernenti gli appalti e gli approvvigionamenti. L’approfondimento della realtà produttiva mostra, invece, una volontà di miglioramento discreto e omogeneo, legato a un arricchimento delle proprie conoscenze di base. Infatti risulta per tutti i gradini della scala un approfondimento del +2% senza impennate sulla scala delle conoscenze.
Differentemente dalle conoscenze riguardanti l’organizzazione produttiva, le
competenze che si riferiscono all’organizzazione del lavoro (professionalità, orario,
ecc.) dimostrano nei gradini più alti della scala (il n. 4 e il n. 5) una maggiore consapevolezza da parte degli intervistati del 58% contro il 41%, mentre l’approfondimento è stabile tra i livelli che confermano sufficienti le competenze dichiarate, salvo un relativo spostamento al n. 4 del +4% dove gli intervistati esprimono l’esigenza di accrescere le proprie conoscenze sui temi dell’organizzazione del lavoro.
Considerazioni II
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In questo grappolo di domande dedicate alle Rsu, l’attenzione maggiore degli intervistati si concentra sugli approfondimenti riguardo ai temi della legislazione del
lavoro. L’interesse per gli altri argomenti resta aperto ma con un’attesa minore. I temi della condizione del lavoro, rilevati dagli interrogativi sull’organizzazione del lavoro, della sicurezza e della salute, mostrano sull’approfondimento formativo una
dinamica misurata così come sui fondi previdenziali e sanitari e sugli aspetti dell’organizzazione produttiva. Indubbiamente su questi argomenti l’interesse, nel
tempo, si è sempre di più limitato a una professione sindacale e valutata come un
servizio per gli stessi lavoratori. Ciò può valere per la funzione delle Rls e per le competenze specialistiche sui fondi complementari e può influire, anche, sui temi dell’organizzazione del lavoro in cui le competenze possono essere delegate alla cultura aziendale o/e alla cultura organizzativa sindacale più che alla rappresentanza
aziendale sulle condizioni di lavoro.
Tale ipotesi interpretativa può essere falsificata attraverso l’esame sul negoziato
che ha per sua natura rivendicativa i temi dell’ambiente, degli orari, della professionalità e del salario legato agli andamenti produttivi. Questo esame sarà affrontato di
seguito e rileverà l’aspetto critico per una programmazione formativa e mirata per i
delegati.
Rsu e struttura contrattuale
La conoscenza del contratto collettivo e della funzione della contrattazione di secondo livello è abbastanza indicativa da parte degli intervistati sul gradino n. 3 (37%)
e sul n. 4 (32%) della scala. L’approfondimento rispetto alla comprensione mostra
un discreto spostamento in percentuale verso l’alto. Infatti al n. 5 si addensano tutte le propensioni di miglioramento dei delegati (+ 9%).
Le domande sul negoziato aziendale comprendono tutte le fasi che sono richieste
dall’attività rivendicativa. L’interpretazione dei dati sull’argomento procede secondo
l’iter logico che caratterizza tale operosità sindacale.
La domanda che si riferisce alle competenze per la costruzione della piattaforma
aziendale riceve delle risposte in cui le conoscenze si addensano nella parte bassa
della scala valutativa. Il n. 3 prende il 38%, il n. 2 il 32%, mentre il n. 4 il 13% e
il n. 5 il 4% del campione. La richiesta di approfondimento è compatta e generalizzata e registra la più alta domanda di approfondimento del campione. Infatti lo
spostamento riguarda tutti i gradini della scala ed è sostenuto verso l’alto. In particolare il n. 5 della scala passa da un valore conoscitivo, sulle competenze per la
costruzione della piattaforma, dal 4% al 37% con un incremento del +33% 8. Indubbiamente l’interesse manifestato su questo tema rivendicativo da parte delle
Rsu è consistente.
La propensione a saper costruire la piattaforma rivendicativa aziendale implica
necessariamente la percezione del delegato di essere un buon negoziatore. Alla domanda circa le competenze per essere un valido negoziatore, i delegati, in prevalenza, hanno identificato nel n. 3 (43%) la propria abilità di contrattazione mentre
sugli altri gradini le risposte riscontrate non rappresentano significative tendenze se
non una distribuzione prevedibile del campione. Sono di grande interesse, invece,
gli spostamenti rilevati sugli approfondimenti per essere un buon negoziatore. Il
miglioramento richiesto riguarda tutti i gradini della scala e l’interessamento ad
adeguare le proprie abilità negoziali si fissa sul punto più alto della scala che passa
dal 7% al 44% con un incremento del +37% 9. L’analisi delle condizioni negoziali
8 Per vedere gli spostamenti sulla scala e gli spostamenti concernenti le richieste di approfondimenti
diamo di seguito i miglioramenti richiesti per ogni livello della scala: n. 1 +12%; n. 2 +26%; n. 3
+17%; n. 4 +22%; n. 5 +33%.
9 Ecco la dinamica degli spostamenti sulla scala degli approfondimenti per essere un buon negoziatore: n. 1 +6%; n. 2 +18%; n. 3 +25%; n. 4 + 12%; n. 5 +37%.
Documentazione
Rsu e il negoziato aziendale
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(affidabilità della controparte, cultura sindacale unitaria, ecc.) mostra una sufficiente competenza con l’addensamento degli intervistati al n. 2 del 28% e al n. 3
del 37%, mentre gli spostamenti sulla scala per la richiesta di approfondimento riguardano tutti i livelli e sono nelle percentuali consistenti 10. Una domanda specifica ha riguardato le abilità e le competenze nel governare il negoziato (svolgimento e chiusura della trattativa). Le competenze espresse si stabilizzano sulla parte medio-bassa della scala (al n. 1 il 12%; al n. 2 il 29 % e al n. 3 il 35%) e le richieste
di approfondimento confermano il grande interesse sul tema negoziale in fabbrica. Infatti in tutti i gradini della scala si convalida la richiesta di una maggiore competenza. Lo spostamento in alto è rilevante e armonico per tutti i livelli mentre il
gradino per un approfondimento di perfezione, il n. 5, registra l’incremento maggiore del +30%11. Anche la fase della comunicazione e dell’informazione riferita alle fasi negoziali raccoglie un sostenuto interesse tra i delegati. La domanda di miglioramento riguarda tutti i livelli della scala e l’incremento maggiore si colloca nel
punto più alto, il n. 5, con il + 26% delle richieste12.
Considerazioni III
Il tema della contrattazione collettiva in azienda ha visto positivamente lo scarto
maggiore tra la competenza dichiarata e la richiesta di approfondimento sui singoli temi del negoziato aziendale. Questo scarto, che ha registrato il forte interesse all’acquisizione di nuove competenze, dimostra però una problematicità formativa rilevata dall’interpretazione dei dati. Infatti le domande sul negoziato presuppongono un sapere da parte dei delegati sulle diverse forme che compongono la contrattazione in fabbrica. Infatti è un sapere per saper fare una piattaforma, per saper fare
un buon negoziato, per saper comunicare e così via. Si configura, cioè, un’attesa formativa da parte del delegato a saper essere un buon contrattualista e un buon comunicatore. Questo dato stride, però, con le percentuali di miglioramento che abbiamo analizzato sul tema dell’organizzazione del lavoro e della produzione. Queste ultime si sono manifestate contenute se rapportate alle percentuali di miglioramento
ottenute sull’argomento negoziale.
Questa distanza rappresenta il compito formativo per i delegati. Infatti verificate le aspettative di miglioramento formativo sul negoziato, considerato un compito
10
Infatti il n. 1 passa al +9%; il n. 2 al +21%; il n. 3 al +14%; il n. 4 al +16%; il n. 5 al +18%.
L’approfondimento richiesto per essere un buon negoziatore registra: +11% al n. 1; +22% al n. 7;
+13% al n. 3; +15% al n. 4; +30% al n. 5.
12 Le percentuali di incremento delle competenze sulla comunicazione delle fasi negoziali sono: +6%
al n. 1; +11 al n. 2; +16% al n. 3; +7% al n. 4; +26% al n. 5.
11
Rsu e proselitismo
Il tema del proselitismo mostra quanto il delegato sia interessato alle iscrizioni dei
lavoratori alla Flai. Infatti a fronte delle competenze dichiarate nel fare tesseramento
(al n. 2 il 26%; al n. 3 il 38%) la richiesta di maggiore abilità registra una impennata consistente in alto distribuita su tutti i gradini della scala e si assiste ad un incremento ai livelli più alti. Al numero 3 del gradino l’aumento è del 15%, al numero 4 dell’8% mentre al gradino più alto, il n. 5, si passa da una dichiarazione di
competenze pari al 7% ad un crescita del 38% con un salto del +31%. La stessa cosa accade riguardo alle risposte sulle competenze per essere un leader d’opinione. Qui
la domanda non si riferisce a una richiesta di ruolo ma stabilisce la relazione tra il
ruolo del leader d’opinione e le competenze sulla busta paga, sulle ferie, sugli infortuni e sui temi delle pensioni. Il legame tra il ruolo del leader e le competenze specifiche vede una richiesta robusta di approfondimento. Infatti al n. 3 l’incremento
è del 20% mentre al n. 5 la crescita è del 34%. Anche il tema della comunicazione
per fare proselitismo verifica uno spostamento efficace verso l’alto per le richieste di
approfondimento (al n. 5 si ha +30%). Le tre domande dedicate al proselitismo (fare tesseramento, leader d’opinione, la comunicazione) riportano le percentuali più
alte di approfondimento al n. 5 della scala classificatoria.
Considerazioni IV
Emerge dalle risposte sul proselitismo una dichiarata esigenza di approfondimento sulla comunicazione. Il linguaggio è considerato una necessità primaria per
le relazioni tra i lavoratori. È un argomento nuovo che emerge anche nelle prove
Documentazione
primario della rappresentanza nei luoghi di lavoro, questo trova una sua compiutezza se ad esso si favoriscono un approfondimento e una conoscenza sui temi della contrattazione aziendale. Va, in altri termini, ricomposta la conoscenza sull’organizzazione del lavoro (orari, professionalità, ambiente, salario ecc.) e l’apprendimento della struttura che regola il negoziato aziendale (il modello contrattuale e il
contratto collettivo di riferimento) con i suoi compiti. Del resto le stesse risposte date al tema prefigurano una metodologia formativa adeguata. L’interesse manifestato, infatti, chiama un approfondimento a dare significato e spessore alle richieste relative alla costruzione di una piattaforma, al governo del negoziato e alla comprensioni delle fasi contrattuali che contraddistinguono questa attività fondamentale per
la rappresentanza. I contenuti e le metodologie sopra richiamate rappresentano la
nuova consistenza per i compiti formativi.
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trattate sul negoziato aziendale e che gli interrogativi del questionario sul proselitismo hanno svelato in maniera diretta dandone un significato pieno. La richiesta, infatti, del saper dire contempla alcune regole linguistiche legate, però, alla conoscenza dei contenuti sindacali. Questi aspetti aprono un’inedita metodologia formativa.
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Conclusioni
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La relazione costituita per l’indagine sui fabbisogni formativi degli iscritti e delegati tra competenze e approfondimento sui temi indicati dal questionario richiama
un’interpretazione diretta sui dati emersi dalla ricerca. Lo studio, infatti, ha cercato
di precisare gli interessi degli iscritti e dei delegati della Flai. La metodologia usata
per comprendere le tendenze dell’iscritto e del delegato alla formazione ha fatto leva sulle intenzionalità della persona piuttosto che su una metodica finalizzata a definire gli argomenti previsti dall’indagine una gerarchia di preferenze. La classificazione non è, dunque, la preferenza sui fabbisogni formativi secondo, cioè, una stima di una graduatoria quantitativa ma è la persona nella formazione. È la singolarità dell’iscritto e del delegato che volta per volta, tra la sua comprensione e la sua richiesta di approfondimento sull’argomento dell’indagine, domanda volontariamente il contributo formativo. È una richiesta di saper essere non solo in grado di
conoscere i documenti deliberati dalla Flai, di negoziare in azienda e di iscrivere i lavoratori ma di essere, anche, un nome per l’organizzazione della Flai. Le percentuali emerse dall’indagine, tra la comparazione di una ritenuta conoscenza e l’approfondimento richiesto sull’oggetto mostrato dal questionario, indicano una volontà
diretta ad apprendere e a conoscere che se da una parte dimostrano la determinazione a sapere, dall’altra denotano che quel sapere è finalizzato a dare più significato alla sua iscrizione alla Flai e a svolgere con competenza il ruolo di dirigente in
fabbrica.
Oggi la rappresentanza sindacale non può più raffigurare esclusivamente il lavoro nelle fabbriche, negli uffici e nelle campagne. La crisi economica e i mutamenti
produttivi hanno modificato il valore stesso della rappresentanza. Entrano nello scenario sindacale le difficoltà del reddito, della casa, delle malattie, del vivere ed entrano nella scena produttiva le competenze individuali e la cognizione delle persone. Avanza, cioè, la persona come esistente e come lavoratore con tutte le complessità e contraddizioni dell’esistere e del lavorare. Tale dato, oramai, emerge direttamente dalle domande delle persone e tende sempre di più a qualificare il rapporto
tra persona e sindacato come motivo principale della rappresentanza e della legittimazione sindacale. È una domanda generale e investe, come abbiamo visto, la stessa formazione sindacale. È una richiesta di cittadinanza della persona nel lavoro, una
Documentazione
cittadinanza che incontra il sapere come consapevolezza di sé e come condizione di
appartenenza all’organizzazione sindacale, come presupposto dell’attività negoziale
e come requisito della rappresentanza nei luoghi di lavoro.
Tale esito modifica il rapporto educativo con i partecipanti ai corsi e l’impostazione d’aula formativa. L’esercizio didattico è chiamato sempre di più a qualificarsi
non solo sulla validità espositiva dell’argomento in oggetto al corso ma dovrà sapere che quel contenuto incontra nell’aula una singolarità con le sue attese, curiosità e
problematicità: incontra, cioè, la persona nella formazione.
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Sommari dei numeri precedenti
N. 1/2010
Presentazione, F. Farina.
Monografia, L’agricoltura e la nuova Pac verso il 2013.
M. D’Alessio, Introduzione; La riforma dell’Health Chech; La riforma dell’Ocm vitivinicolo; La riforma dell’Ocm ortofrutta; Partenariato e approccio integrato: il contributo delle Organizzazioni sindacali allo sviluppo rurale 2007-2012.
N. 2/2010
Presentazione, F. Chiriaco.
L’analisi, A. Pepe, I congressi di svolta della Cgil; F. Farina, Le costellazioni contrattuali.
Monografie, A. Di Stasi, Dalla cittadinanza del lavoro all’apartheid dei diritti; M.
D’Alessio, Il lavoro migrante per la competitività dell’agricoltura italiana; F.F., I
dannati della terra; E. Olivieri, Schiavismo nel XXI secolo; C. Cesarini, L’essenziale è invisibile agli occhi.
Temi, G. Girolami, I giovani e la pensione: istruzioni per l’uso; L. Svaluto Moreolo, I
giovani italiani e l’emancipazione dalla famiglia.
Documentazione, A. Stivali, Immigrazione e lavoro.
N. 3-4/2010
Presentazione, La redazione.
L’argomento, F. Farina, La contrattazione, la qualità del lavoro e la centralità del territorio; A. Pepe, Il sindacato e la contrattazione in una prospettiva storica.
L’analisi, P. Di Nicola, Management e organizzazione nell’impresa contemporanea; M.
D’Alessio, La contrattazione, l’azienda agricola e gli aiuti comunitari; D. Pantini,
La filiera agroalimentare in Italia.
Temi, F. Assennato, Contrattazione e qualità degli ambienti di lavoro.
Rubrica: Lavoro e salute, I. Figà Talamanca, La salute delle donne e il lavoro agricolo.
Documentazione, F. Farina, Il sapere, il saper fare e il saper essere.
Recensioni.
Abstract.
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N. 5-6/2011
Presentazione, La redazione.
Temi, F. Farina, Distretti agroalimentari e contrattazione territoriale; M. D’Alessio,
I distretti nell’industria alimentare italiana; D. Pantini, Nuovi scenari per l’agricoltura italiana; O. Cimino, Il lavoro salariato nell’agricoltura italiana: un’analisi sintetica.
L’argomento, A. Pepe, L’unità d’Italia tra Europa e trasformazione degli Stati nazionali.
Rubrica: Lavoro e salute, I. Figà Talamanca, I bambini e i rischi ambientali in agricoltura.
Recensioni.
Abstract.
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N. 7/2011
Presentazione, La redazione.
L’argomento, F. Farina, La contrattazione aziendale nell’industria alimentare; A. Pepe, L’accordo interconfederale del 28 giugno in una prospettiva storica.
Temi, M. D’Alessio, Il lavoro forestale e le normative regionali in Italia; G. Mattioli,
Energia ed agricoltura.
Rubrica: Lavoro e salute, I. Figà Talamanca, Il rischio infettivo tra i lavoratori dell’agroalimentare.
Memoria, M.L. Righi, Ricordo di Nella Marcellino.
Abstract.
N. 8/2011
Presentazione, La redazione.
L’argomento, F. Farina, Intervista a Stefania Crogi.
Temi, F. Farina, La contrattazione collettiva in azienda; A. Pepe, Caratteri e trasformazione del modello organizzativo della Cgil; D. Pantini, L’approvvigionamento
agricolo nell’era della scarsità e i possibili impatti per l’industria alimentare.
Rubrica: Lavoro e salute, I. Figà Talamanca, Integratori alimentari: possiamo fidarci
degli antiossidanti?
Recensioni.
Abstract.
N. 9-10/2012
Presentazione, Franco Chiriaco.
Monografia | Tesseramento e sindacato
L’argomento, S. Crogi, Contrattazione rappresentanza proselitismo.
Temi, I. Galli, Tesseramento e politiche organizzative, F. Farina, Tesseramento e po-
litiche rivendicative, A. Pepe, Sindacalizzazione e tesseramento, M.P. Del Rossi,
Il modello inglese; S. Cruciani, Il «caso francese» tra culture politiche e relazioni
industriali (1895-1995); P. Borioni, Il modello scandinavo; M.P. Del Rossi, Il
modello tedesco.
L’analisi, A. Borello, La riforma della Politica comune della pesca: gli effetti socioeconomici di breve periodo.
Rubrica: Lavoro e salute, I. Figà Talamanca, Salute e lavoro delle donne nel settore
agroalimentare: risultati di un’indagine sul campo.
Segnalazioni e recensioni.
N. 11/2012
Presentazione, La redazione.
Monografia | Piano del lavoro e contrattazione
L’argomento, S. Crogi, Piano del lavoro e politiche rivendicative.
L’analisi, M. D’Alessio, L’occupazione nella crisi economica: quali evoluzioni nell’agroalimentare?
Temi, F. Farina, Occupazione, orari di lavoro e produttività; F. Loreto, Le politiche della Cgil contro la disoccupazione.
Ricerche, A. Pepe, Il collocamento in Italia in una dimensione storica.
Documentazione, M.P. Del Rossi, La Cgil e l’occupazione (Appendice documentaria).
Rubrica: Lavoro e salute, I. Figà-Talamanca, Che cosa sappiamo sui possibili effetti sulla salute dell’uso dei telefoni cellulari?
Segnalazioni e recensioni.
N. 12/2012
Presentazione, La redazione.
L’argomento, S. Crogi, Per un nuovo mercato del lavoro in agricoltura.
L’analisi, M. D’Alessio, Evoluzione del collocamento e mercato del lavoro in agricoltura.
Conoscenze, F. Abbrescia, Il mercato del lavoro in Puglia, F. Tassinati, Il mercato del
lavoro in agricoltura.
Temi, E. Pedrazzoli, Ingresso nel mercato del lavoro e modifiche delle tutele dei lavoratori - Legge n. 92/2012.
Rubrica: Lavoro e diritti, C. Cesarini, Discriminazione sindacale: note a margine della sentenza della Corte d’Appello di Roma del 19/10/2012.
Segnalazioni e recensioni.
N. 13-14/2013
Presentazione, La redazione.
L’argomento, S. Crogi, Le politiche contrattuali, il lavoro e i lavoratori.
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L’analisi, A. Pepe, La crisi italiana nell’Europa tedesca: per una nuova diplomazia economica e sindacale.
Temi, F. Farina, Il negoziato e la struttura contrattuale; G. Rotella, La contrattazione collettiva del settore agricolo tra passato e futuro; M. D’Alessio, Le Organizzazioni dei produttori: una nuova prospettiva contrattuale?
Ricerche, F. Giordano, Condizioni di sicurezza e d’igiene nel vitivinicolo: due realtà toscane e pugliesi a confronto.
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N. 15/2013
Presentazione, La redazione.
L’argomento, S. Crogi, L’autonomia e la competenza
L’analisi, F. Farina, Le costellazioni contrattuali; S. Crogi, Intervista; S. Crogi, Contrattazione rappresentanza proselitismo; I. Galli, Tesseramento e politiche organizzative; F. Farina, Tesseramento e politiche rivendicative; A. Pepe, Sindacalizzazione e tesseramento; F. Farina, Orario di lavoro e produttività; S. Crogi, Per un nuovo mercato del lavoro in agricoltura; M. D’Alessio, Evoluzione del collocamento e mercato del
lavoro in agricoltura.
Rubrica, C. Cesarini, Discriminazione sindacale: note a margine della sentenza della
Corte d’Appello di Roma del 19/10/2012.
Ricerche, M. D’Alessio, Per un progetto di rilancio dell’agroalimentare italiano; F. Farina, Catena del valore e modelli organizzativi.
N. 16/2013
Presentazione, La redazione.
L’argomento, S. Crogi e A. Nannicini, Libertà delle donne nel lavoro: intervista.
Monografia | La rappresentanza sindacale sul luogo del lavoro, Ivana Galli, Rappresentanza, democrazia e contrattazione; M.P. Del Rossi e F. Loreto, L’evoluzione storica della rappresentanza sindacale aziendale; F. Farina, Le strutture della rappresentanza sul luogo del lavoro; M. Greco, Azione sindacale e modelli organizzativi.
Rubrica, I.F. Talamanca, Salute mentale e stress da lavoro.