XXVII domenica TO A Is 5,1-7; Sal 79; Fil 4,6-9; Mt 21,33-43 Prima Lettura Is 5,1-7 La vigna del Signore degli eserciti è la casa d'Israele. Voglio cantare per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna. Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato viti pregiate; in mezzo vi aveva costruito una torre e scavato anche un tino. Egli aspettò che producesse uva; essa produsse, invece, acini acerbi. E ora, abitanti di Gerusalemme e uomini di Giuda, siate voi giudici fra me e la mia vigna. Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto? Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi? Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata. La renderò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni; alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia. Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi. Seconda Lettura Fil 4,6-9 Mettete in pratica queste cose e il Dio della pace sarà con voi. Fratelli, non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti. E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù. In conclusione, fratelli, quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri. Le cose che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, mettetele in pratica. E il Dio della pace sarà con voi! Vangelo Mt 21,33-43 Darà in affitto la vigna ad altri contadini. In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano. Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo. Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”. Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero. Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo». E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture: “La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi”? Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti». 1 La prima lettura (Is 5,1-7) ci propone il celebre poema-parabola (mashal) del canto della vigna (kérem, lecharm) riportato da Isaia per descrivere il rapporto nuziale tra Dio e il suo popolo. Figlio di Amoz, Isaia (Yeshayà, «Dio è la mia salvezza», cc. 1-39) nacque intorno al 765 a.C. Nel 740, anno della morte del re Ozia, ebbe nel Tempio di Gerusalemme una visione in cui il Signore lo inviava ad annunciare la rovina di Israele. Di Isaia si perdono le tracce nel 700; secondo una tradizione ebraica fu arrestato e condannato a morte sotto Menasheh «Manasse» (701-642, re di Giuda, figlio e successore di Chizqiyah «Ezechia»), che «fece ciò che è male agli occhi del Signore» (2Re 21,2). Secondo i vangeli apocrifi venne segato in due. Nella liturgia viene ricordato il 9 maggio. Is 5,1: Voglio cantare per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna. Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle (´äšîºrâ nnä´ lî|dîdî šîrat Dôdî lükarmô Keºrem häyâ lî|dîdî Büqeºren Ben-šäºmen, lett. «Canterò orsù per amico mio un canto del diletto mio per la vigna sua. Una vigna fu al diletto mio in collina figlia di grasso»). - Voglio cantare per il mio diletto il mio cantico d’amore (´äšîºrâ nnä´ lî|dîdî šîrat Dôdî). Did in ebraico significa «amico», senza connotazione sessuale. Beniamino è «prediletto del Signore» (Dt 33,12), Israele è «mio diletto» (Ger 11,15). Is 5 usa il termine con lo stesso significato, salvo che è l'unico testo biblico in cui did si riferisce a Dio: Dio è l'amico del profeta, e quindi il profeta è un amico di Dio. Invece dodi ha una connotazione sessuale molto forte, come attesta il Cantico dei Cantici, nel quale ricorre quasi quaranta volte: dodi è l'amante o l'amato, all'interno di una coppia. Si badi che dodi vuol dire «diletto»: il possessivo dodi fa parte del nome; se non ci fosse, dod significa «zio». Se non si fa questa distinzione, si lascia intendere che il cantico d'amore è del profeta, mentre è di Dio-dodì. La versione CEI cade in questa ambiguità. L'amore per la vigna è quello di Dio, non quello del profeta. La ripresa dei termini «cantico» e «diletto/amico» danno il nome al poema e sono frequenti nel Cantico dei Cantici. Si può tradurre anche «una canzone del mio amico alla sua vigna» (A. Mello). - cantico (šîra). Questo cantico è un capolavoro letterario, uno dei brani più poetici e più belli della Bibbia. Poesia e profezia si armonizzano perfettamente. L’idea di fondo del canto è presentare Dio nel ruolo dell’innamorato non corrisposto, dell’innamorato deluso. Alle squisite attenzioni di predilezione da parte di Dio, alle sue infinite premure e tenerezze, Israele ha risposto con freddezza, ingratitudine e tradimento. Lo shirà «canto» prende l’avvio con un ritmo sereno e solenne e mira a catturare l’ascolto dell’uditorio. Il profeta si improvvisa rapsodo e si presenta come l’amico del proprietario della vigna. Nella letteratura biblica, i shirim «canti» sono composti di norma per esaltare eventi lieti del popolo di Dio, eventi di vittoria e di liberazione. Così, nell’Esodo si ha il canto per la vittoria di Dio sugli egiziani e la conseguente liberazione d’Israele (Es 15,1-21); nel libro dei Giudici viene riferito il canto di vittoria di Debora per la sconfitta dei cananei del Nord (Gdc 5); il profeta Isaia compone il canto nuovo di consolazione per il ritorno in patria degli esiliati in Babilonia (Is 40); nei Salmi delle ascensioni viene riportato il canto festoso dei pellegrini che salgono al tempio di Gerusalemme per le solenni liturgie (Sal 121-134); infine si ha il carme per eccellenza: il Cantico dei Cantici (Shir ha-shirim) che celebra il fascino dell’amore. - Vigna (Keºrem). Anche se Keºrem è maschile in ebraico, la vigna è una metafora del corpo femminile. Un testo ugaritico recita: «Farò del suo campo una vigna, del suo corpo un giardino» (Ras Shamra, 24,23). Isaia, perciò, opera una doppia metafora: la vigna è una metafora della sposa, e la sposa è una metafora di Gerusalemme, che rappresenta tutto Israele (il Targum allegorizza tutta la parabola e nella «torre» riconosce il Tempio, ecc.). L'immagine della vigna era già stata utilizzata da Osea: Vite rigogliosa era Israele (10,1). Dopo Isaia verrà ripresa da Geremia: Io ti avevo piantato come vigna pregiata, tutta di vitigni genuini; come mai ti sei mutata in tralci degeneri di vigna bastarda? (2,21; cf 12,10), Ezechiele: Tua madre era come una vite piantata vicino alle acque. Era rigogliosa e frondosa per l’abbondanza dell’acqua (19,10) e dal Sal 80: Hai sradicato una vite dall’Egitto, hai scacciato le genti e l’hai trapiantata (v. 9). La utilizzerà anche Gesù (Gv 15,1-8). Il profeta, come amico dello sposo o amante, intona il canto a nome dell'amico, che si vergogna di una pubblica querela. Parlare di «diletto e vigna» è un espediente narrativo che fa crescere nell’uditorio l'attesa di una bella notizia. Infatti, diletto e vigna nella cultura ebraica si trovano sovente associati a momenti di progresso, di benessere e di felicità. Il profeta Amos si riferisce all’immagine della vigna per annunciare il futuro tempo felice del regno davidico: Muterò le sorti del mio popolo Israele, ricostruiranno le città devastate e vi abiteranno, pianteranno vigne e ne berranno il vino, coltiveranno giardini e ne mangeranno il frutto (Am 9,14). L’uditorio 2 dunque è nelle disposizioni ideali per ascoltare il cantico e alimentare così le più belle speranze di un roseo avvenire per tutti. Il contesto celebrativo che sta vivendo il popolo è l’allegra festa annuale della vendemmia, Sukkot (Lv 23,34-43; Dt 16,13-15). Si ringrazia il Signore dei frutti abbondanti della vite e si impetrano le necessarie piogge autunnali per un raccolto altrettanto abbondante. Non a caso il poeta usa il vocabolario legato alla vigna. 5,2: Egli l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato viti pregiate; in mezzo vi aveva costruito una torre e scavato anche un tino. Egli aspettò che producesse uva; essa produsse, invece, acini acerbi (wa|yü`azzüqëºhû wa|yüsaqqülëºhû wayyi††ä`ëºhû Sörëq wayyìºben migDäl Bütôkô wügam-yeºqeb Häcëb Bô wayüqaw la`áSôt `ánäbîm wayyaº`aS Bü´ùšîm, lett. «E vangò essa e liberò dai sassi essa e piantò essa vigna scelta e costruì torre in mezzo a essa e anche torchio scavò in essa, e aspettò il fare uve, ma fece uve selvatiche»). - viti pregiate (Sörëq). Il termine Sörëq indica un vitigno pregiato. Inoltre, il premuroso viticoltore ha costruito un muro di cinta a secco per delimitare la sua proprietà e, soprattutto, per difendere le viti dalle greggi di passaggio e dagli altri erbivori. Ha elevato una migDäl «torre di pietra» per sorvegliare la vigna in modo particolare quando comincia a maturare l’uva. Da lassù può tenere sotto controllo tutta la sua proprietà; nella parte inferiore della torre ripone gli attrezzi agricoli. Come ultima opera, infine, ha scavato un yeºqeb «frantoio». Le abbondanti testimonianze archeologiche ci informano che la pigiatura si faceva sul posto. Ed era un lavoro così apprezzato e ritenuto così importante anche dalle autorità del paese, che il vignaiolo veniva dispensato dal servizio militare e dalla guerra (Dt 20,6-7). Il profeta sottolinea la generosa dedizione dell’amico agricoltore non solo col descrivere le singole iniziative approntate per la vigna, ma anche col ricorso frequente al verbo asah «fare» (7x volte nei versetti 2. 4. 5a). Questo verbo è un asse del poema (in ebraico «dare frutto» si dice «fare frutto»). Ciò sta a confermare «che non si tratta esclusivamente di un amore di sentimento ma di amore-opera, la cui risposta deve consistere nelle opere» (L.A. Schokel). Amore con amor si paga. Ma cosa si aspetta l'amante? Che in compenso delle sue fatiche l'amato praticasse la giustizia. L'amante non desidera di essere ri-amato, ma che venga amato il prossimo. Questo è il paradosso che contraddistingue l'amore divino. Il Sal 80 termina con una preghiera: «Signore, Dio degli eserciti, fa' che ritorniamo, fa' splendere il tuo volto e noi saremo salvi» (v. 20). Le parole di Gesù: «Io sono la vera vite» (Gv 15,1) rappresentano una risposta alla preghiera del salmista e fanno da conclusione alla storia raccontata da Isaia. Il progetto di Dio non prevede l'abbandono di Israele, ma una salvezza che vada oltre ogni speranza: nell'Antico Testamento Dio aveva una vigna, nel Nuovo Testamento Dio stesso è la vite. - acini acerbi (Bü´ùšîm). La radice ebraica Bü´ùš, da cui deriva il participio Bü´ùšîm, significa in generale, «puzzare», e quindi favorisce l'idea di acini marci (cf Es 16,20.24: lo si dice della manna che, conservata per l'indomani, «imputridiva»). Ma Rashì (1040 - 1105), che oltre a sapere l'ebraico era anche un viticultore, usa il termine tecnico di «lambrusca», un vitigno selvatico che produce acini amari (lambruches, in francese). La migliore spiegazione ci viene da Ger 2,21: «vite straniera» o «imbastardita». Il ritmo della frase cambia, la sonorità diventa aspra per descrivere i travagli per la vigna: il torchio permetterà di utilizzare il vino (l'amore) e la torre servirà a difendere la vigna (cf Sal 80). Fatto ciò, l'agricoltore innamorato si mette ad attendere: attesa e speranza, perché ora spetta alla vigna ripagare le cure con frutti saporiti. Ma la vite dà frutti acidi: travagli d'amore perduti. L'antitesi è sottolineata con musicalità: la`áSôt `ánäbîm wayyaº`aS Bü´ùšîm, lett. «il fare uve, ma fece uve selvatiche». La delusione del diligente e generoso contadino è amarissima. Per lui è come un brusco risveglio: apre gli occhi su un’amara verità, su un cocente fallimento. Tutto il lavoro profuso nella vigna anziché produrre frutti di qualità, ha prodotto grappoli striminziti e, quindi, inutilizzabili. L’avvilimento, lo sconforto e la frustrazione s’impadroniscono di lui. In questo canto, il clima d’attesa frustrata viene proposto col ricorso del verbo qavah «aspettare» (vv. 2.4.7). Questa è la storia d’amore di Dio per il suo popolo! Israele non ha risposto alle sue legittime attese e ha reso vana tutta la sua opera. È la storia di un amore respinto. Israele lo ha abbandonato e ha corso dietro ad altri amanti: ha aderito all’idolatria, alla prostituzione, all'adulterio. 5,3: E ora, abitanti di Gerusalemme e uomini di Giuda, siate voi giudici fra me e la mia vigna (wü`aTTâ yôšëb yürûšälaºim wü´îš yühûdâ šip†û-nä´ Bênî ûbên Karmî, lett. «E adesso, abitante di Gerusalemme e uomo di Giuda, giudicate orsù tra me e vigna mia»). 3 - abitanti di Gerusalemme e uomini di Giuda (yôšëb yürûšälaºim wü´îš yühûdâ). Il poeta ha incominciato il canto con tono positivo, ora lo interrompe per rivolgersi al pubblico ed esortarlo a fungere da giudice nel processo (riv). Quando il pubblico ha emesso mentalmente il suo verdetto, il poeta trasforma il poema in un'accusa: ha ormai giudicato e si è condannato. Per comprendere la profezia, è indispensabile capirne i moduli espressivi. Fra questi, hanno grande rilevanza i generi letterari che si rifanno alle procedure giuridiche. È molto importante capire che i profeti, nelle loro denunce contro Israele, hanno adottato il genere letterario del riv, e questo non corrisponde al mishpàt «giudizio» che si tiene in sede forense, ma è invece la riproduzione retorica della «lite» che ha luogo in ambito familiare. Mentre il processo tende alla condanna del colpevole, il riv mira alla riconciliazione fra le parti, anche se assume un tono minaccioso. 5,4: Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto? Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi? (mà-lla`áSôt `ôd lükarmî wülö´ `äSîºtî Bô maDDûª` qiwwêºtî la`áSôt `ánäbîm wayyaº`aS Bü´ùšîm, lett. «Cosa da farsi ancora alla vigna mia e non feci in essa? Perché aspettai il fare uve, ma fece uve selvatiche?»). - cosa dovevo fare (mà-lla`áSôt). L'amico dello sposo adotta ora un tono personale: trasforma la canzone in denuncia e reclama giustizia con un imperativo e due appassionate domande. L'implicazione è che egli aveva diritto ad attendersi la ricompensa dei suoi sforzi; se esso non lo fa, il suo amore non è autentico. Gli uditori devono essere coinvolti; non si può mantenere un atteggiamento distaccato (cf Ez 33,30ss). 5,5: Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata (wü`aTTâ ´ôdî|`ânnä´ ´etkem ´ët ´ášer-´ánî `öSè lükarmî häsër müSûKKätô wühäyâ lübä`ër Päröc Güdërô wühäyâ lümirmäs, lett. «E adesso farò conoscere orsù a voi ciò che io facente a vigna mia: togliere siepe di essa e sarà per essere consumata, sbreccerò mura di essa e sarà per calpestio»). - Ora voglio farvi conoscere (wü`aTTâ ´ôdî|`â-nnä´ ´etkem). Senza aspettare risposta, il cantore passa alla minaccia: lascerà la vigna senza protezione, diventerà terra da pascolo per le bestie che la calpesteranno. Si nota nel testo che le dure sanzioni vengono indicate con il verbo al futuro in prima persona: häsër, Päröc, ´ášîtëºhû, ´ácawwè «toglierò, demolirò, renderò, comanderò» (vv. 5-6). Si tratta di quattro terribili interventi che mirano a ridurre la vigna all’abbandono totale, al saccheggio, alla distruzione. Il padrone toglierà la siepe e demolirà il muro di cinta, così la vigna sarà alla mercé di tutti i passanti: dell’uomo e delle bestie, e la devasteranno. Non le dedicherà più alcuna cura: interromperà la potatura e la sarchiatura, così le viti diventeranno improduttive e là vi cresceranno erbacce che la soffocheranno. 5,6: La renderò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni; alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia (wa´ášîtëºhû bätâ lö´ yizzämër wülö´ yë`ädër wü`älâ šämîr wäšäºyit wü`al he`äbîm ´ácawwè mëham†îr `äläyw mä†är, lett. «E renderò essa desolazione, non sarà potata e non sarà zappata e salirà rovo e cespuglio e alle nubi ordinerò di (non) far piovere su essa pioggia»). - non sarà potata né vangata (lö´ yizzämër wülö´ yë`ädër). Interromperà le sue fatiche per la vigna. In questo passaggio si pone in primo piano l'amante che parla per bocca dell'amico, il Signore che parla per mezzo del profeta. - alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia (wü`al he`äbîm ´ácawwè mëham†îr `äläyw mä†är). Segue poi un ultimo castigo che sfugge completamente alle possibilità umane, perché è rimesso unicamente a Dio. Le nubi dovranno chiudersi per non irrorare la vigna, affinché questa diventi un arido deserto, privo di ogni segno di vita. Qui si comprende che il querelante è Dio stesso; e questo apparirà ancora più chiaramente nel v. 7, che funge da conclusione a tutto il canto. 5,7: Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi (Kî keºrem yhwh(´ädönäy) cübä´ôt Bêt yiSrä´ël wü´îš yühûdâ nü†a` ša`ášû`äyw wayüqaw lümišPä† wühinnË miSPäH licdäqâ wühinnË cü`äqâ, lett. «Poiché vigna di Adonay (delle) schiere (è) casa di Israele, e uomo di Giuda piantagione di delizia sua. E aspettava giustizia ed ecco spargimento (di sangue), giustizia ed ecco grido»). 4 - la vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele (keºrem yhwh(´ädönäy) cübä´ôt Bêt yiSrä´ël). Questo versetto finale rappresenta la chiave di interpretazione del canto. Gli uditori rimangono sorpresi. I giudici stessi sono condannati. Il giudizio che è formulato sulla vigna si svolge in pubblico, come esigeva la legge in caso di adulterio. Anche la condanna della vigna alla sterilità è la maledizione inflitta alla sposa infedele (Ez 16,33-43; Os 2,4-15). Le premure del vignaiolo sono espresse col verbo al passato per indicare quel che egli ha fatto per la vigna; le sanzioni invece sono espresse al futuro tramite l'interiezione hoy «guai» (5,830). Qui viene tolto il velo sull’identità dei due protagonisti e si scopre che il diletto è JHWH e la vigna è la casa d’Israele. Il profeta è riuscito a coinvolgere il suo uditorio e a costringerlo a condannare se stesso, dato che ha scoperto se stesso nell’immagine della vigna infedele e infruttuosa. Così, da semplice spettatore si è ritrovato nei panni dell’imputato. È un espediente efficace, analogo a quello del profeta Natan che conduce il re David a riconoscere il proprio peccato (2Sm 12,1-7). - Egli si aspettava (wayüqaw). Il testo ebraico riesce a rendere l’amara sorpresa di Dio con un’allitterazione di difficile traduzione: Egli si aspettava mishpàt «giustizia» ed ecco mispach «spargimento (di sangue)» attendeva tsedaqàh «rettitudine» ed ecco tse’aqàh «grida (di oppressi)» (CEI). Alcune traduzioni moderne hanno cercato di conservare la sonorità dell’originale: «Egli aspettava il diritto ed ecco il delitto. Aspettava la giustizia ed ecco la nequizia» (S. Garofalo ed., Isaia, Marietti 1961). «Egli si aspettava equità ed ecco iniquità; si aspettava giustizia ed ecco un grido» (A. Mello, Isaia, s. Paolo 2012, p. 71). I primi sette versetti di Is 5 sono universalmente considerati come un'unità a sé stante, con un genere letterario specifico. L'identificazione di tale genere letterario ha provocato però nel corso degli anni una varietà sconcertante di opinioni. Oggi si riconosce a questo cantico un certo valore giuridico: esso è una parabola all'interno di un atto giuridico di accusa. Gli esegeti rilevano che ci sono altri casi simili: 2Sam 12,1-7; 14,1-17; 1Re 20,35-43; Ger 3,1; Ez 23. Perché introdurre nella procedura (bilaterale) della lite la finzione di un giudizio? Per abbattere le difese dell'uditore; la parabola diventa perciò una trappola che serve a far confessare il colpevole. In Is 5,1-7 abbiamo un vero caso giuridico: il rapporto tra l'agricoltore e la vigna rappresenta un simbolo della relazione coniugale. In verità vi è una doppia dissimulazione: la vigna è simbolo della donna; la donna rappresenta il popolo di Giuda. Nel riv profetico il travestimento metaforico animale o vegetale può avere anche un'altra funzione: quella di suggerire che non si tratta di un crimine isolato, ma piuttosto di una natura o istinto criminale. Nella Bibbia il rapporto tra la lite giuridica e il mondo sapienziale è stretto. 1) L'appello ad ascoltare è caratteristico della tradizione sapienziale (cf Pr 1,8; 4,1.10.20; 5,1). 2) L'accusa sotto forma interrogativa crea dibattito: la questione del male è un tema sapienziale. 3) La moderazione della sanzione e la necessità della correzione appartengono al mondo della sapienza. 4) La parabola, con il suo intrinseco aspetto enigmatico, appartiene all'apparato espressivo dei sapienti. 5) La relazione padre-figli (Is 1,2ss) e la relazione coniugale (Is 5,1-7) sono gli ambiti in cui la sapienza si trasmette e si manifesta. 6) Nel riv profetico l'azione sapiente di Dio si oppone alla stoltezza d'Israele; i profeti definiscono spesso il peccato come mancanza di intelligenza (cf Is 1,2; 5,21-23). 7) La preoccupazione per il «giusto giudizio», specie a favore dei deboli e degli sprovveduti, caratterizza il profeta e il sapiente (cf Is 1,17; 5,7.20-23). 8) Il legame tra il riv (profetico) e il mondo sapienziale è confermato dal vocabolario comune; la radice di yadà «conoscere» è molto presente nei testi sapienziali e nel riv (Es 10,10; 1Sam 12,17; 25,17; Ger 2,23; 3,2.13). Il genere della «lite» diventa materia letteraria in Giobbe e nella storia di Giuseppe. Il profeta gioca il ruolo di pubblico accusatore nel hoy «guai» che oppone Dio a Israele. a) Egli denuncia il crimine perché il male è occultato dall'apparenza del bene. Il profeta parla con sapienza, perché sa leggere negli avvenimenti ciò che gli altri non comprendono e perché interpreta correttamente la Torah (cf Is 5,24). Il crimine non può essere denunciato in tribunale, perché tutti sono colpevoli, in primo luogo proprio coloro che detengono l'autorità. La finalità della denuncia del crimine occultato non è la condanna, ma la conversione del peccatore: da qui l'importanza dell'imperativo «ascoltate» (Is 1,16-17). 5 b) Il profeta si rende conto che la sua parola non serve a nulla; il suo discorso si trasforma allora in predizione di una sventura ineluttabile. Anzi, egli percepisce che la sua parola non fa altro che indurire progressivamente il cuore dei suoi concittadini (Is 6,10). La profezia non è certo un male in se stessa, eppure essa peggiora la situazione, nella misura in cui mette in evidenza la recidività e l'ostinazione nel crimine: il peccato di Israele riceve così l'aggravante di essere abituale e incorreggibile. Ciò nonostante, la profezia deve essere pronunciata, affinché il peccatore possa riconoscere la gravità della sua sordità. c) Quando la sventura si realizza, allora il profeta comincia a parlare di salvezza. Il motivo della speranza, il discorso di consolazione si giustappone a quello di sventura. Lo spazio tra i due annunci è riempito dal grido e dalla preghiera penitenziale del popolo che, nel deserto della sofferenza, riconosce che questa miseria è «giustificata», perché segno del peccato. A questi poveri, che attendono e chiedono la salvezza, il profeta rivela il desiderio di Dio di perdonare e di fare una nuova alleanza, un'alleanza di grazia eterna. L'invasione assira. Il cantico della vigna sembra inaugurare una raccolta profetica incentrata sul tema dell'invasione assira, considerata lo strumento del castigo divino (Is 5,26-30). Il canto della vigna (5,1-7) è il primo testo isaiano che introduce l'idea di un castigo di Gerusalemme, sotto forma parabolica. Il tema della vigna come metafora poetica e sponsale di Israele, non è soltanto isaiano. Lo ritroviamo già in Osea: «Come uva nel deserto ho trovato Israele» (Os 9,10); «Israele era una vigna lussureggiante, che produceva molto frutto» (Os 10,1). Le inevitabili risonanze sponsali della metafora sono ben evidenziate dal Cantico dei Cantici (1,6; 8,11), com'è dimostrato anche dal termine «diletto» usato da Isaia, che richiama lo sposo o l'amato del Cantico. Il primo problema è quello di sapere se i due termini «amico» (did) e «diletto» (dodì), semanticamente affini in ebraico, abbiano lo stesso significato. La differenza in verità c'è: Dio è l'«amico» del profeta, ma anche l'«amante» di Gerusalemme (la vigna). Il cantico della vigna intreccia tre componenti retoriche: 1) un canto d'amore (la vigna ha una connotazione erotica); 2) una parabola sapienziale; 3) lo svelamento dell'identità del vignaiolo. La parabola mette in scena un procedimento giudiziario che coinvolge gli stessi ascoltatori e li costringe a emettere un giudizio (cf Natan e David in 2Sam 12). Il fulcro della parabola è la sproporzione tra l'attesa dei frutti e la misera resa: «acini acerbi» (vv. 2.4; cf parabola dei vignaioli omicidi, Mt 21,33-44). Ad ogni modo questa parabola, sia pure in maniera enigmatica, introduce per la prima volta nel libro di Isaia l'annuncio di un giudizio irreparabile e radicale espresso al v. 6: «La lascerò un terreno gerbido, non falciato né sarchiato» (trad. Mello); «Il mio popolo sarà deportato» (5,13). Ma tutto questo viene detto all'interno di una metafora sponsale e di un discorso amoroso. La parabola isaiana della vigna è anticipata in 3,14 e ripresa in 27,2-5. In quest'ultimo passo, c'è come un superamento del pessimismo e della minaccia con cui si chiudeva il primo testo: «La renderò un deserto, [...] vi cresceranno rovi e pruni» (5,6). Ora invece è detto: «Io non sono in collera. Vi fossero rovi e pruni, [...] li brucerei tutti insieme» (27,4). L'importante è che gli uomini capiscano, cerchino rifugio in Dio e la «vigna» «faccia pace con me, con me faccia la pace!» (27,5). In tal modo si compiono le Scritture. Sul Sinai Dio si è rivelato come misericordioso (´ël raHûm) e pietoso (wüHannûn), lento all’ira e ricco di grazia (würab-Heºsed) e fedeltà (we´émet), 7che conserva il suo amore (Heºsed) per mille (generazioni), che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato (nöSë´ `äwön wäpeºša) (Es 34,6-7). Osea conferma che Dio ci avvolge con legami d’amore e ci solleva come un bimbo fino alla guancia (Os 11,4). «Il rachum già nella sua radice denota l’amore della madre. Riferito a Dio designa le sue viscere di misericordia (Sal 25,6; 51,3; 69,17; 79,8; 103,4), il suo amore totale, tenero, coinvolgente, appassionato. Il termine chésed invece si riferisce essenzialmente alla fedeltà di Dio verso il suo popolo in nome dell’alleanza; qualifica altresì l’atteggiamento di Dio come leale, benevolo, affabile, grazioso, perseverante nell’amore. In breve, Dio resta legato al patto con Israele, anche se questo lo rifiuta e lo calpesta con tradimenti» (Dives in misericordia, n. 52). Nel NT Giovanni afferma: ὁ θεὸς ἀγάπη ἐστίν «Dio è amore» (1Gv 4,8.16). L’amore di Dio ci previene: non siamo stati noi ad amare Dio ma è lui che ha amato noi... e ci ha amati per primo (1Gv 4,10.19). È sua l’iniziativa; egli è mosso unicamente dal suo amore per noi; perciò si dispone ad attendere con invincibile speranza il ritorno del “figlio prodigo” per corrergli incontro, abbracciarlo e fare festa con tutti (Lc 15,20-23). 6 La seconda lettura (Fil 4,6-9) ci propone alcune raccomandazioni finali che Paolo scrive ai Filippesi. I temi principali che emergono sono: l'essere in Cristo (Fil 4,1.2.4.7), l'orizzonte escatologico (Fil 4,5), l'azione dello Spirito e l'agápē. Fil 4,6: Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti (μηδὲν μεριμνᾶτε, ἀλλ’ ἐν παντὶ τῇ προσευχῇ καὶ τῇ δεήσει μετὰ εὐχαριστίας τὰ αἰτήματα ὑμῶν γνωριζέσθω πρὸς τὸν θεόν, lett. «Di niente siate in ansia, ma in ogni cosa con la preghiera e la supplica, con rendimento di grazie, le richieste vostre siano rese note a Dio»). - Non angustiatevi per nulla (μηδὲν μεριμνᾶτε). Il verbo μεριμνᾶτε, impt. pres. di μεριμνάω «mi preoccupo, sto in ansia, mi occupo di», evoca il «detto» di Gesù rivolto ai discepoli: «Non preoccupatevi (μὴ μεριμνᾶτε) per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito?» (Mt 6,25; cf Lc 12,22). - fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti (τῇ προσευχῇ καὶ τῇ δεήσει μετὰ εὐχαριστίας τὰ αἰτήματα ὑμῶν γνωριζέσθω πρὸς τὸν θεόν). Paolo invita a superare la preoccupazione con la preghiera. Il sostantivo αἴτημα, ατος, τό «richiesta» è raro nel NT (Lc 23,24; 1Gv 5,15). Le richieste, anche se sono note a Dio, hanno bisogno di essere riversate nella preghiera, poiché soltanto con questa si alimenta la fiducia nel Signore. L'esortazione è analoga a quella del salmista: «Cerca la gioia nel Signore: esaudirà i desideri del tuo cuore» (Sal 37,4). Poiché i nomi dei credenti sono riportati ἐν βιβλῷ ζωῆς «nel libro della vita» (Fil 4,3), la preghiera si adatta ἐν παντὶ «in ogni circostanza», in maniera analoga a quanto detto in 1Ts 5,18: ἐν παντὶ εὐχαριστεῖτε «in tutto ringraziate». La preghiera è raccomandata con tre sostantivi femminili diversi: προσευχή, ῆς, ἡ, proseuché, «preghiera» indica qualunque preghiera: lode, ringraziamento, supplica e intercessione; δέησις, εως, ἡ, déēsis è la «preghiera di supplica» fatta in situazioni di difficoltà. Il contesto che deve caratterizzare ogni preghiera però è quello della εὐχαριστία, ας, ἡ, eucharistía, «rendimento di grazie», poiché qualsiasi risposta divina resta dono della sua χάρις, cháris, «grazia» 4,7: E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù (καὶ ἡ εἰρήνη τοῦ θεοῦ ἡ ὑπερέχουσα πάντα νοῦν φρουρήσει τὰς καρδίας ὑμῶν καὶ τὰ νοήματα ὑμῶν ἐν Χριστῷ Ἰησοῦ). - la pace di Dio (ἡ εἰρήνη τοῦ θεοῦ). Il frutto della preghiera è la pace che solo il Dio di Gesù Cristo può elargire. La pace personificata opera come un militare scelto per custodire i cuori e i pensieri dei filippesi in Cristo Gesù. - custodirà i vostri cuori e le vostre menti (φρουρήσει τὰς καρδίας ὑμῶν καὶ τὰ νοήματα ὑμῶν). Il verbo φρουρήσει, ind. fut. di φρουρέω, phrouréō «sorveglio, vigilo, tengo sotto custodia, custodisco, proteggo» è tipico del contesto carcerario o militare. Prima che giungesse la fede in Cristo, la Scrittura ha rinchiuso gli esseri umani sotto il potere del peccato (Gal 3,22); ora, invece, il cuore e i pensieri dei filippesi sono custoditi dal Signore. Soltanto qui nel suo epistolario Paolo relaziona il cuore e il pensiero umano. Il sostantivo νόημα, ατος, τό significa «pensiero, progetto, macchinazione, intelligenza». Il binomio cuore e pensieri rappresenta il centro dell'essere pensante, giacché nell'antropologia paolina il cuore è la sede del pensare e dello scegliere, mentre i sentimenti sono delegati alle viscere. Il centro della persona umana è oggetto di cura di Dio e della sua pace. 4,8: In conclusione, fratelli, quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri (Τὸ λοιπόν, ἀδελφοί, ὅσα ἐστιν ἀληθῆ, ὅσα σεμνά, ὅσα δίκαια, ὅσα ἁγνά, ὅσα προσφιλῆ, ὅσα εὔφημα, εἴ τις ἀρετὴ καὶ εἴ τις ἔπαινος, ταῦτα λογίζεσθε). - In conclusione, fratelli (Τὸ λοιπόν, ἀδελφοί). Paolo fornisce un elenco di virtù che non è controbilanciato da quello dei vizi (cf Gal 5,16-26), a dimostrazione del clima positivo che pervade la Lettera, nonostante le preoccupazioni suscitate dalla contesa tra Evòdia e Sìntiche (Fil 4,2-3). L'elenco inizia con l'aggettivo ἀληθής, alēthés che significa «vero, sincero» (cf la «verità dell'evangelo» in Gal 2,5). Originale è l'aggettivo σεμνός, semnós utilizzato soltanto qui nelle lettere autoriali: significa «degno, onorabile, nobile» ed è 7 raccomandato nelle pastorali al diacono (1Tm 3,8), alle donne (1Tm 3,11) e ai presbiteri (Tt 2,2). Nelle stesse lettere della seconda tradizione paolina si accenna alla σεμνότης, semnótēs «dignità, serietà, onorabilità» della vita dei credenti nel contesto civile in cui operano (1Tm 2,2). Questo valore corrisponde alla honestas latina, raccomandata da Cicerone: «La felicità è effetto dell'onestà» (Tusculanae 5,23,67). Il terzo valore riguarda ciò che è δίκαιος, díkaios «giusto». Naturalmente in questo caso si riferisce alla virtù della giustizia sociale che, per dirsi tale, deve essere declinata con la verità e con l'onestà. In tal senso è interessante quanto prescrive l'oracolo delfico in un'iscrizione proveniente da Melitopoli: πράσσε δίκαια «pratica cose giuste». Già nell'elenco delle virtù di 2Cor 6,4-10 Paolo aveva sostenuto la panoplia o l'armatura della giustizia a destra e a sinistra (Fil 4,7) e in quello di Ef 5,9 la giustizia sarà collocata accanto alla verità. Forse è opportuno ricordare che in contesto pagano la giustizia, la moderazione, la prudenza e il coraggio rappresentano le quattro virtù cardinali raccomandate per «l'uomo fidato». In quarta posizione è collocato ciò che è ἁγνός, hagnós «purezza» o l'integrità dell'offerta e dell'offerente. In questo caso risalta la dimensione sociale della sincerità o dell'integrità del carattere, analogo a quello di Fil 1,17 in cui si dice che gli avversari di Paolo diffondono il vangelo non in modo puro o sincero (ἁγνός). Al quinto posto è menzionato quanto è προσφιλής, prosphiles «amabile, piacevole, favorevole», un aggettivo che compare soltanto qui nel NT ed è raro anche nella LXX. L'attenzione è rivolta a ciò che crea buona reputazione e onore nel contesto domestico delle comunità paoline e in quello civile. - ciò che è virtù e ciò che merita lode (εἴ τις ἀρετὴ καὶ εἴ τις ἔπαινος). Il secondo elenco di quanto è importante considerare si limita a due valori: la virtù e la lode. Non si tratta più di aggettivi, ma di sostantivi. In pratica i sei aggettivi precedenti sono accomunati e sintetizzati da quanto merita virtù e lode; e questi ultimi inseriscono i valori elencati nell'alveo della virtù. In questa relazione unitaria tra i valori elencati e la virtù sembra ascoltare quanto Diogene Laerzio afferma degli stoici: «Gli stoici sostengono che le virtù si connettono reciprocamente le une alle altre, e che chi ne ha una le ha tutte» (Vite e dottrine 7,125). Per quanto riguarda la relazione tra ἀρετή, areté «virtù» ed ἔπαινος, épainos «lode» è preferibile pensare a un'endiadi, nel senso che l'intera etica si identifica con quanto di virtuoso e lodevole bisogna considerare. In Is 42,8.12; 43,21; 63,7 αἱ ἀρεταί corrispondono non alle virtù umane, bensì alle azioni potenti di Dio (in ebr. hod). In stretta relazione con la virtù è collocata la «lode», nella sua accezione sociale. Pertanto i due sostantivi finali hanno l'importante funzione di segnalare il contesto sociale in cui le virtù elencate vanno considerate e alimentate: senza ignorare l'ambito dell'assemblea domestica della comunità cristiana, assume particolare rilevanza quello civile in cui l'affabilità dei filippesi deve essere nota a tutti. 4,9: Le cose che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, mettetele in pratica. E il Dio della pace sarà con voi! (ἃ καὶ ἐμάθετε καὶ παρελάβετε καὶ ἠκούσατε καὶ εἴδετε ἐν ἐμοί, ταῦτα πράσσετε• καὶ ὁ θεὸς τῆς εἰρήνης ἐσται μεθ’ ὑμῶν, lett. «Le cose anche imparaste e riceveste e udiste e vedeste in me, queste cose fate; e il Dio della pace sarà con voi»). - Le cose che avete imparato … mettetele in pratica (ἃ καὶ ἐμάθετε … ταῦτα πράσσετε). In questo versetto ritroviamo l'ultimo accenno alla mimèsi (imitazione) di Paolo, argomento molto caro all'Apostolo (cf Fil 1,30; 3,17). La sua esemplarità è espressa con diversi termini. I verbi elencati: «avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto» sottolineano la richiesta di mettere in pratica tutto ciò che hanno visto in Paolo. Soltanto in un contesto d'intimità e di reciproca fiducia è comprensibile un'insistenza così marcata sull'autoimitazione. Il linguaggio dell'imparare (μανθάνω, manthánō) è rivelativo di relazioni profonde e amicali, ma anche di esperienze della croce. Infatti spesso è a partire dal παθεῖν, patheĩn «soffrire» che si giunge al μαθεῖν, matheĩn «apprendere». La collocazione della mimesi nella sezione etica dimostra che gli esempi umani rappresentano i principali veicoli dei valori o delle virtù, altrimenti la stessa etica decade in moralismo che si regge più sui costumi o sul comune modo di pensare che sull'intimità. - il Dio della pace sarà con voi (ὁ θεὸς τῆς εἰρήνης ἐσται μεθ’ ὑμῶν). La promessa della pace chiude la sezione paracletica di Fil 4,2-9 come in altre lettere paoline (1Ts 5,23; 2Cor 13,11; Rm 16,20). L'imperatore Augusto fu definito da Filone εἰρηνοφύλαξ, eirēnophýlax «custode della pace» (Legatio ad Gaium 147) ed εἰρηνοποιός, eirēnopoiós «operatore di pace» (cf Mt 5,9). Se la cittadinanza dei credenti è di origine celeste (Fil 3,20), la pace che li custodirà è quella di Dio. 8 Il vangelo (Mt 21,33-43) ci propone la parabola dei «vignaioli omicidi», ma il testo usa il termine generico di γεωργοί, gheorgoí, «contadini». Essa rappresenta un'allegoria storica del popolo di Israele. L'attenzione di Matteo si concentra soprattutto su due livelli: a) i contadini non sono soltanto cattivi, ma anche incapaci di far fruttare la vigna; b) la scelta di altri vignaioli (vv. 41.43). Mt 21,33: [In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo:] Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano (ἄλλην παραβολὴν ἀκούσατε. ἄνθρωπος ἦν οἰκοδεσπότης ὅστις ἐφύτευσεν ἀμπελῶνα καὶ φραγμὸν αὐτῷ περιέθηκεν καὶ ὤρυξεν ἐν αὐτῷ ληνὸν καὶ ᾠκοδόμησεν πύργον καὶ ἐξέδετο αὐτὸν γεωργοῖς καὶ ἀπεδήμησεν). - Ascoltate un’altra parabola (ἄλλην παραβολὴν ἀκούσατε). La parabola inizia con una citazione del famoso cantico isaiano della vigna (Is 5). Il Targum su questo testo restringe la vigna a Gerusalemme e all'area del Tempio. Sulla base di questa certezza, si dovrà escludere qualunque interpretazione sostitutiva di Israele: il Signore della vigna cambierà i vignaioli, ma non la vigna! L'uomo definito οἰκοδεσπότης è un «proprietario» terriero (cf 13,27.52; 20,1.11). - una vigna (ἀμπελῶνα). Il simbolismo della vigna (ἀμπελών, ῶνος, ὁ) è ripreso da Matteo più volte. La siepe (φραγμός, οῦ, ὁ) aveva lo scopo di tener fuori gli animali; il torchio (ληνός, οῦ, ὁ, ἡ) era usato per spremere l'uva e produrre il vino; la torre (πύργος, ου, ὁ) serviva da posto di avvistamento e da riparo per quelli che lavoravano nella vigna. 21,34-36: Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. 35Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. 36Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo (ὅτε δὲ ἤγγισεν ὁ καιρὸς τῶν καρπῶν, ἀπέστειλεν τοὺς δούλους αὐτοῦ πρὸς τοὺς γεωργοὺς λαβεῖν τοὺς καρποὺς αὐτοῦ. 35καὶ λαβόντες οἱ γεωργοὶ τοὺς δούλους αὐτοῦ ὃν μὲν ἔδειραν, ὃν δὲ ἀπέκτειναν, ὃν δὲ ἐλιθοβόλησαν. 36πάλιν ἀπέστειλεν ἄλλους δούλους πλείονας τῶν πρώτων. καὶ ἐποίησαν αὐτοῖς ὡσαύτως). - mandò i suoi servi (ἀπέστειλεν τοὺς δούλους αὐτοῦ). Mc 12,2-5 parla di tre servi mandati l'uno dopo l'altro e poi «molti altri». È inutile cercare di identificarli con Mosè, Giosuè, Davide, e così via. Matteo semplifica la storia dicendo che il padrone ha inviato due gruppi di servi (21,34.36), e descrive una sola volta i maltrattamenti che hanno subìto tramite tre verbi all'ind. aor.: δέρω «scuoio, maltratto, bastono, percuoto», ἀποκτείνω «uccido, distruggo», λιθοβολέω «lapido, scaglio pietre, ferisco». Il duplice invio dei servi si riferisce ai profeti che hanno preceduto il Figlio. Matteo sembra distinguere i profeti "anteriori" (Neviìm Rishonim, o Libri storici) e quelli "posteriori" (Neviìm Acharonim, o Libri profetici), secondo la divisione della Bibbia ebraica. I contadini non lavorano né per amore del padrone né per amore della vigna: vogliono solo accaparrarsi quest'ultima a spese del proprietario. A differenza del cantico isaiano, nessuna colpa ricade sulla vigna, nulla viene detto circa l'abbondanza o la scarsità dei suoi frutti. L'intera colpa ricade sui contadini, e questa consiste unicamente nella pessima accoglienza riservata ai messi del padrone. 21,37-39: Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. 38Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”. 39Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero (ὕστερον δὲ ἀπέστειλεν πρὸς αὐτοὺς τὸν υἱὸν αὐτοῦ λέγων• ἐντραπήσονται τὸν υἱόν μου. 38οἱ δὲ γεωργοὶ ἰδόντες τὸν υἱὸν εἶπον ἐν ἑαυτοῖς• οὗτός ἐστιν ὁ κληρονόμος• δεῦτε ἀποκτείνωμεν αὐτὸν καὶ σχῶμεν τὴν κληρονομίαν αὐτοῦ, 39καὶ λαβόντες αὐτὸν ἐξέβαλον ἔξω τοῦ ἀμπελῶνος καὶ ἀπέκτειναν). - Da ultimo (ὕστερον). Alla fine (hýsteron: vv. 37, 29 e 32 e una parola-gancio) il padrone si decide a rischiare il tutto per tutto e a inviare il proprio figlio: abbiamo quindi una sceneggiatura drammatica di tutta l'economia salvifica fino a Gesù. Egli non è solo un inviato, è l'erede a cui la vigna spetta in eredità. - mandò loro il proprio figlio (ἀπέστειλεν πρὸς αὐτοὺς τὸν υἱὸν αὐτοῦ). Matteo omette l'aggettivo ἀγαπητός «prediletto», presente in Mc 12,6 e in Lc 20,13. Le espressioni ὅτε δὲ ἤγγισεν ὁ καιρὸς τῶν καρπῶν «quando 9 arrivò il tempo di raccogliere i frutti» (21,34) e ὕστερον «da ultimo» (21,37) potrebbero conferire alla parabola una dimensione escatologica. - Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità (δεῦτε ἀποκτείνωμεν αὐτὸν καὶ σχῶμεν τὴν κληρονομίαν αὐτοῦ). Si suppone che il padre sia ancora vivo anche se il figlio è ucciso. Appropriarsi subito dell'eredità è evidentemente illegale e invalida. Probabilmente, rendendosi conto di questa difficoltà, Matteo ha cambiato il testo di Mc 12,7: «e l'eredità sarà nostra» in «avremo noi la sua eredità», in senso di appropriazione indebita. - lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero (αὐτὸν ἐξέβαλον ἔξω τοῦ ἀμπελῶνος καὶ ἀπέκτειναν). Una variante presente nel codice di Beza (D) e in alcuni manoscritti della Vetus Latina, segnalata anche da alcuni Padri tra cui Ireneo (130 - 202), registra che prima il figlio fu ucciso e poi gettato fuori della vigna. Si tratta però, con tutta probabilità, di un'armonizzazione fatta con Mc 12,8: Lo presero, lo uccisero e lo gettarono fuori della vigna. Matteo e Lc 20,15, invece, rispettano il dato storico che «Gesù ... subì la passione fuori della porta della città» (Eb 13,12). 21,40-41: Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». 41Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo» (ὅταν οὖν ἔλθῃ ὁ κύριος τοῦ ἀμπελῶνος, τί ποιήσει τοῖς γεωργοῖς ἐκείνοις; 41λέγουσιν αὐτῷ• κακοὺς κακῶς ἀπολέσει αὐτούς καὶ τὸν ἀμπελῶνα ἐκδώσεται ἄλλοις γεωργοῖς, οἵτινες ἀποδώσουσιν αὐτῷ τοὺς καρποὺς ἐν τοῖς καιροῖς αὐτῶν). - li farà morire miseramente (κακῶς ἀπολέσει αὐτούς). Matteo interpreta la sorte toccata ai contadini in relazione alla distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C. Costringe inoltre gli interlocutori di Gesù (i capi dei sacerdoti e i farisei, 21,45) a rispondere alla sua domanda e a predire così la sorte che toccherà a loro stessi. - darà... la vigna ad altri contadini (τὸν ἀμπελῶνα ἐκδώσεται ἄλλοις γεωργοῖς). Si arriva così alla sentenza contro i contadini, che Gesù, con un'abile domanda, fa pronunziare agli stessi sommi sacerdoti (v. 41), per poi confermarla (v. 43). Il verbo ἐκδώσεται è ind. fut. med. di ἐκδίδωμι «do, metto fuori, consegno, restituisco». I κακοὶ «malvagi» sono i capi della comunità giudaica. Non possono essere «tutto Israele» (che è la vigna). Qui non c'è motivo di pensare che gli «altri» siano i pagani, né che il passaggio della dirigenza ad altri soggetti comporti il rifiuto di Israele. 21,42: E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture: La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi? (λέγει αὐτοῖς ὁ Ἰησοῦς• οὐδέποτε ἀνέγνωτε ἐν ταῖς γραφαῖς• λίθον ὃν ἀπεδοκίμασαν οἱ οἰκοδομοῦντες, οὗτος ἐγενήθη εἰς κεφαλὴν γωνίας• παρὰ κυρίου ἐγένετο αὕτη καὶ ἔστιν θαυμαστὴ ἐν ὀφθαλμοῖς ἡμῶν;). - Non avete mai letto nelle Scritture (οὐδέποτε ἀνέγνωτε ἐν ταῖς γραφαῖς). Questo modo di porre la domanda è usato anche altrove da Matteo nelle polemiche di Gesù con i suoi avversari (12,3.5; 19,4; 21,16; 22,31). La formula vuole sottolineare che la corretta interpretazione delle Scritture è quella data dalla comunità giudeo-cristiana. - La pietra che i costruttori hanno scartata (λίθον ὃν ἀπεδοκίμασαν οἱ οἰκοδομοῦντες, lett. «pietra che respinsero i costruttori»). La citazione è tratta dal Sal 118,22-23 LXX. La pietra scartata (Gesù) è diventata la κεφαλή γωνίας «pietra d'angolo, lett. testa d'angolo» o chiave di volta (che completa e sostiene un arco o un portale). La citazione della «pietra scartata» è applicata a Gesù anche in At 4,11 e 1 Pt 2,7 (cf Rm 9,33; 1 Pt 2,6.8). Ci potrebbe essere un gioco di parole tra 'eben «pietra» e ben «figlio». 21,43: Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti (διὰ τοῦτο λέγω ὑμῖν ὅτι ἀρθήσεται ἀφ' ὑμῶν ἡ βασιλεία τοῦ θεοῦ καὶ δοθήσεται ἔθνει ποιοῦντι τοὺς καρποὺς αὐτῆς). - sarà dato a un popolo (δοθήσεται ἔθνει). Il singolare ἔθνος, ους, τό, non si intende «pagani», come in quasi tutti gli altri casi in cui ricorre ἔθνος al plurale, ma semplicemente «un gruppo di gente», in contrapposizione ai capi de popolo (cf 21,23.45). Tuttavia nella scelta lessicale di Matteo potrebbe esserci un'allusione al popolo degli «stranieri», la comunità dei credenti in Gesù Cristo, contrapposto a quello degli ebrei. Matteo non propone una chiesa quale 'nuovo' o 'vero' Israele". La prospettiva non è sostitutiva. Éthnos ha un senso teologico ed escatologico. Certamente rappresenta la vocazione alla quale sia 10 Israele che le genti sono chiamati, ma non si identifica con la chiesa: solo il giudizio finale (cf. Mt 25) farà conoscere chi ha praticato questa fedeltà. I vv. 41 e 43, intercalati dalla citazione del Sal 118,22s sulla pietra scartata, offrono la chiave di lettura di tutta la parabola. Più precisamente, tre chiavi: 1) I sommi sacerdoti condannano se stessi. Sono essi che, involontariamente (come David dopo la parabola di Natan), si identificano con i colpevoli. Matteo specifica che i sommi sacerdoti insieme ai farisei «capirono che parlava di loro» (περὶ αὐτῶν, perì autỗn, v. 45). 2) I contadini non producono frutti perché rifiutano i profeti, mentre rifiutano il Messia. 3) Il trasferimento della vigna ad altri contadini avviene tramite il termine ἔθνος, éthnos al singolare e non al plurale τά ἔθνη, tà éthne, le «genti»; diverso è anche ὁ λαός, laós «popolo», usato per designare Israele in quanto popolo di Dio. La parabola della vigna e dei vignaioli omicidi (21,33-45). La comprensione della parabola detta «dei vignaioli omicidi» (la terza con tale ambientazione; la prima si trova in 19,30-20,16, e la seconda in 21,28-32) ha rappresentato un momento significativo nella storia dell'esegesi cristiana e dei rapporti della Chiesa con l'ebraismo. In un famoso lavoro del 1975, Il vero Israele, l'esegeta tedesco W. Trilling, sosteneva che il v. 41: Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo implichi una vera e propria punizione per Israele, il quale «perde la sua vocazione e la sua posizione storico-salvifica». L'evangelista Matteo, calcando ancor più i toni della parabola raccontata originariamente da Gesù, compirebbe con le sue parole «un attacco al giudaismo» e così la Chiesa diventerebbe «non un nuovo Israele, subentrato al vecchio, bensì l'Israele vero, quello genuino, così come Dio l'ha pensato sin dall'inizio». Contro tale lettura non va solo ribadito che Gesù non ha attaccato il giudaismo in quanto tale, ma si deve anche rilevare che né Gesù, che ha raccontato la parabola, né tanto meno Matteo, che la riporta, pensano che Israele in quanto popolo sia stato rifiutato da Dio. Quando nella parabola si dice di una punizione pesante, provocata dalla chiusura verso gli emissari del padrone (quei «profeti, sapienti e scribi» di cui l'evangelista scrive anche in 23,34) e soprattutto dall'uccisione del figlio, è chiaro che questo giudizio grava solo sui leader religiosi ai quali la parabola è destinata. La vigna, che è il popolo eletto, non è incendiata o devastata come la città di cui si parla nella parabola seguente (cf 22,7), ma anzi è pronta per dare ancora frutti buoni; solo, non saranno gli attuali vignaioli a coglierli: la vigna, il popolo dell'alleanza, verrà affidata ad altri contadini. Anche qui, allora, come per la parabola dei due figli, il problema è l'identificazione di questi «altri», ovvero la «nazione» a cui sarà affidato il Regno e che finalmente ποιοῦντι τοὺς καρποὺς «produca i frutti, lett. facente i frutti» (21,43), in continuità con il popolo di Israele. A. Mello sottolinea: «L'affermazione di 21,43 non significa la sostituzione del popolo d'Israele con una nazione pagana. La nuova "nazione" sarà, al contrario, in continuazione con il popolo eletto perché avrà come "testata d'angolo" la "pietra che i costruttori hanno scartato" (21,42), che è Gesù, un figlio d'Israele». In altri termini: «La funzione della forma matteana della parabola non è quella di esaltare il cristianesimo rispetto al giudaismo, ma di lasciare aperta la risposta alla rinnovata offerta di riconciliazione fatta dal Cristo innalzato. In un certo senso, la Chiesa si trova in una posizione analoga a quella d'Israele. In un altro senso, tuttavia, essa ha già fatto esperienza del miracoloso intervento di Dio. La pietra scartata costituisce ora la testata d'angolo. Sarà in grado questa generazione di cristiani di accogliere il regno di Dio e produrre frutti di giustizia, oppure esso le sarà tolto per essere affidato a un'altra?» (B.S. Childs). In effetti, già Ambrogio di Milano (Treviri 340 - Milano 397), allegorizzando la parabola, vedeva che il pericolo di incorrere nel castigo è per tutti, anche per i cristiani: «Il vignaiolo è senza alcun dubbio il Padre onnipotente, la vite è Cristo, e noi siamo i tralci: ma se non portiamo frutto in Cristo veniamo recisi dalla falce del coltivatore eterno» (Commento al vangelo di Luca, 9). Si deve perciò tenere ben presente che «ai seguaci di Cristo non viene garantita alcuna condizione di privilegio rispetto agli ebrei, ma tutti sono uguali di fronte al rendiconto finale in cui le azioni di ciascuno saranno misurate alla luce delle esigenze di giustizia della legge»; per questo motivo «la Chiesa in Matteo non è definita come il vero Israele. Essa riceve la propria identità non in base a contrassegni istituzionali, ma in rapporto al Signore innalzato che, in quanto compimento dell'Antico Testamento, è anche il creatore della nuova comunità» (B.S. Childs). 11 Cosa dire del padrone della vigna rappresentato con atteggiamento fin troppo paziente? Qualsiasi ascoltatore del racconto, ai tempi di Gesù, sarebbe rimasto colpito da quella che potrebbe sembrare debolezza di carattere. Come il Dio di Israele, invece, quell'uomo della parabola non si ferma davanti a un rifiuto, insiste nella sua proposta di salvezza e invia, per una seconda volta, altri servi, ancora più numerosi dei precedenti. Io non godo della morte del malvagio, ma che il malvagio si converta dalla sua malvagità e viva (Ez 33,11). Purtroppo questo non accade, e la sua pazienza arriva allora a mettere in gioco l'unica carta che gli rimane: la vita del figlio. La frase del v. 37: Avranno rispetto per mio figlio lascia aperta la speranza che Israele si converta, ma anche che il Figlio venga risparmiato. Questa affermazione può essere accostata a quello che possiamo definire come il «sogno di Dio», ovvero la salvezza del proprio figlio Gesù, espressa plasticamente da Matteo nell'intervento della moglie di Pilato (cf 27,19). Se Pilato avesse ascoltato quel sogno (come già fatto da Giuseppe e dai magi, Mt 1-2) al figlio sarebbe forse stata risparmiata la condanna? Non si potrebbe pensare che il «progetto» iniziale non fosse la morte di Gesù, visto che aveva accennato a una «palingenesi» (cf 19,28) che avrebbe restaurato l'Israele di Dio? Quando il «piano» però cominciò a precipitare, allora Gesù mostrò di amare tanto la sua vigna al punto da morire per essa: «Salve, vigna meritevole di un custode così grande: ti ha consacrato non il sangue del solo Nabot ma quello di innumerevoli profeti, e anzi quello, tanto più prezioso, versato dal Signore» (Ambrogio, Commento al vangelo di Luca, 9). La parabola, dunque, che insiste sulla misericordia del padrone, lascia emergere anche dallo sfondo l'offerta gratuita del figlio. Concluso il racconto, segue una domanda diretta di Gesù ai capi dei sacerdoti e agli anziani che lo ascoltano (cf v. 40). La risposta alla domanda, che contempla la condanna a morte dei vignaioli, in Mc 12,9 è pronunciata da Gesù, mentre in Mt 21,41 dal suo uditorio. Gesù in Matteo è ben attento a chiarire, con una «contro-risposta», che quei vignaioli non saranno messi a morte! Dopo aver sentito la «contro-risposta», i capi dei sacerdoti e i farisei capiscono che Gesù sta parlando di loro. Non ascoltano più e tentano un'azione violenta contro Gesù, che però non viene messa in atto per la protezione della folla. Gesù potrà così raccontare un'ultima parabola, quella delle nozze. 12
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