XX domenica TO A 2014

XX domenica TO A
Is 56,1.6-7; Sal 67; Rom 11,13-15.29-32; Mt 15,21-28
La prima lettura (Is 56,1.6-7) ci fa leggere l'inizio della Terza
parte del libro di Isaia (cc. 56-66), attribuita a un autore detto Terzo
Isaia, ritenuto discepolo spirituale del Secondo Isaia (cc. 40-55) e
operante nel primo periodo successivo al ritorno dall'esilio (520 a.C.).
Il messaggio del Terzo Isaia è quello della consolazione e delle
meraviglie del Signore operate per la nuova Sion, ricostruita e ripopolata. Alla salvezza divina deve corrispondere la collaborazione dei
rimpatriati, affinché regni la giustizia nella città santa. Il testo che
leggiamo riporta un invito, rivolto ai rimpatriati, a praticare il diritto
e la giustizia, superando la tentazione dell'esclusivismo, di
formare, cioè, una comunità etnicamente pura. Il profeta annuncia
che ad essa, per volontà del Signore, potranno aderire anche coloro
che prima ne erano esclusi, come lo straniero e l'eunuco, purché
vivano le esigenze dell'alleanza.
A. Allori, 1535-1607, Gesù e la cananea
Is 56,1: Così dice il Signore: «Osservate il diritto e praticate la giustizia, perché la mia
salvezza sta per venire, la mia giustizia sta per rivelarsi» (Köh ´ämar yhwh(´ädönäy) šimrû
mišPä† wa`áSû cüdäqâ Kî|-qürôbâ yüšû|`ätî läbô´ wücidqätî lühiGGälôt, lett. «Così disse il Signore: «Osservate
diritto e fate giustizia, perché vicina salvezza mia a venire, e giustizia mia per essere scoperta»).
- Osservate il diritto e praticate la giustizia (šimrû mišPä† wa`áSû cüdäqâ). L'ultima sezione deuteroisaiana si
apre (56,1) e si chiude (66,18-23) con un oracolo sull'accoglienza dei gentili nell'assemblea liturgica di
Israele. Alla parola iniziale: «La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutti i popoli» (56,7), fa eco l'altra:
«Verrà ogni carne a prostrarsi davanti a me» (66,23). Praticando la cüdäqâ «giustizia», l'uomo, chiunque sia, si
prepara a godere della giustizia di Dio. Il verbo shamar «osservare/custodire» dà unità al versetto, definisce
il compito dell'uomo. L’apertura universale, una salvezza senza confini è la novità di questa rivelazione che
coinvolge ogni uomo. Qui troviamo l'unico caso dell'AT in cui si legga l'espressione qürôbâ yüšû|`ätî läbô´
«la mia salvezza sta per venire», idea ripresa da s. Paolo in Rom 1,16-17: «16Io infatti non mi vergogno del
Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco. 17In esso infatti
si rivela la giustizia di Dio, da fede a fede, come sta scritto: Il giusto per fede vivrà». L'oracolo del profeta si
introduce con questo versetto in cui si parla due volte di tsedaqà «giustizia», ma in due accezioni differenti.
Nel primo caso è la giustizia che dev'essere praticata dall'uomo, ma poi è anche la giustizia di Dio che sta
per rivelarsi, la quale è sinonimo di «salvezza» (yeshuah). Nella seconda parte di Isaia (cf Is 46,13 ; 51,6.8; Is
58,8; 59,9.14.16.17; 60,17; 61,3.10.11; 62,1-2; 63,1), è questa l'accezione del termine predominante. «Giustizia»
è molto più un attributo divino che non una prerogativa o un'operazione umana. Questa giustizia gratuita,
che si manifesta dall'alto, mette certamente in secondo piano tutti gli sforzi umani di giustizia, tutte le
capacità umane di osservanza della Legge (cf Is 57,12; 58,2; 59,4; 64,4-5: in quest'ultimo passo si arriva a dire
che «tutte le nostre giustizie [sono] come i panni di una mestruata»). Non significa che la giustizia umana
non sia più richiesta, infatti anche qui si chiede di «praticare la giustizia». Ma la giustizia dell'uomo non lo
giustifica: lo apre solamente alla rivelazione della giustizia di Dio. La «teologia della giustificazione» non
è, dunque, un'assoluta novità paolina: è già una premessa essenziale per capire l'universalismo del
messaggio dell'ultima sezione dell'opera isaiana.
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56,6: Gli stranieri, che hanno aderito al Signore per servirlo e per amare il nome del
Signore, e per essere suoi servi, quanti si guardano dal profanare il sabato e restano
fermi nella mia alleanza, (ûbünê hannëkär hannilwîm `al-yhwh(´ädönäy) lüšäºrtô û|lü´ahábâ ´et-šëm
yhwh(´ädönäy) lihyôt lô la`ábädîm Kol-šömër šaBBät më|Hallülô ûmaHázîqîm Bibrîtî, lett. «E figli di lo
straniero gli unentesi ad Adonay per servire lui e per amare nome di Adonay per essere per lui per servi, ogni osservante
sabato da profanare esso e fermi in alleanza mia»).
- Gli stranieri (hannëkär). Il problema che si pone qui è quello delle condizioni richieste per l'ammissione alla
comunità liturgica, cioè, in pratica, per partecipare al culto del tempio. Esisteva già una direttiva della
Legge, in base alla quale stranieri ed eunuchi, essendo considerati impuri, venivano esclusi (Dt 23,2-9). In
verità, secondo la Legge esistono gradi diversi di «estraneità», di cui bisogna tenere conto per apprezzare la
novità di questo oracolo isaiano. Gli «stranieri», nella Bibbia, si dividono in tre categorie fondamentali: 1)
il gēr, ossia il «forestiero» è colui che dimora entro i confini di Israele. Attraverso la circoncisione, i gērim
sono assimilati agli schiavi ebrei e possono celebrare la Pasqua (Es 12,43-44). Il decalogo prescrive il riposo
sabbatico anche per il forestiero che «dimora presso di te» (Es 20,10). Circa quaranta volte, nella Torà, si
ribadisce che «vi sarà una sola legge per il nativo e per il forestiero domiciliato in mezzo a voi», e la Torà si
preoccupa pure di tutelarne i diritti, come quelli delle vedove e degli orfani, le categorie sociali più
sprovvedute. In questo senso, non si può dire che i forestieri fossero esclusi da Israele; anzi, nel giudaismo
più recente, gēr diventerà sinonimo di «proselito» (come nella LXX) o convertito all'ebraismo. 2) Il ben nēkar,
o nōkrì, è invece il non ebreo (la LXX usa ξένος, xénos, «straniero», «estraneo») che abita vicino o è di
passaggio in Israele: è questo il termine usato anche in questo oracolo isaiano. Costui non appartiene al
popolo dell'alleanza, anche se gli è permesso di venire a pregare nel tempio di Gerusalemme. 3) lo zar,
infine, è lo straniero che sta lontano o presso cui Israele si viene a trovare (la LXX oscilla tra ἀλλογενής,
allogenēs e ἀλλότριος, allótrios, che indicano una differenza culturale o religiosa: infatti, generalmente sono
anche idolatri, il che comporta una certa ostilità, cf Is 29,5). «Amare gli stranieri (zarìm)» (Ger 2,25) è quindi
sconsigliato, ma il nostro autore profetizza che un giorno perfino loro serviranno Israele (cf 61,5).
- Suoi servi (la`ábädîm). Questo plurale segna un cambiamento stilistico e tematico nel libro di Isaia. Finora
«servo di YHWH» è sempre stato un personaggio individuale, sia pure dotato di una forza corporativa, tale
che il titolo poteva essere applicato sia al profeta che a tutto Israele. Adesso, invece, può riferirsi a ogni
Israelita, in una prospettiva che suppone un discernimento all'interno di Israele tra giusti (i «servi» di
Dio) ed empi, ma che allarga questa possibilità di servizio divino anche al di fuori dei confini nazionali di
Israele. Già affacciata in 54,17, la nozione sarà sviluppata alla fine del libro (cf 63,17; 66,14; 65,8-14).
56,7: li condurrò sul mio monte santo e li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera. I
loro olocausti e i loro sacrifici saranno graditi sul mio altare, perché la mia casa si
chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli» (wahábî´ôtîm ´el-har qodšî wüSimmaHTîm Bübêt
Tüpillätî `ôlötêhem wüzibHêhem lüräcôn `a|l-mizBüHî Kî bêtî Bêt-Tüpillâ yiqqärë´ lükol-hä`ammîm, lett. «e
farò venire loro verso monte (della) santità mia e farò gioire loro in casa di preghiera mia. Olocausti di loro e sacrifici di loro
(saranno) per gradimento su altare mio, poiché casa mia casa di preghiera sarà chiamata per tutti i popoli»).
- li condurrò sul mio monte santo (wahábî´ôtîm ´el-har qodšî). Agli stranieri che osservano lo shabbat, il
«sabato» come segno dell'alleanza, esprimendo così il proprio dono al Signore per lüšäºrtô û|lü´ahábâ «servirlo
e amarlo» (v. 6), il Signore assicura una partecipazione piena alla vita liturgica: accesso al tempio, dove li
condurrà lui stesso, la gioia delle feste e i sacrifici. Nel nuovo ordine il tempio sarà soprattutto bêt Tüpillätî
«casa di preghiera», e come tale sarà aperto a tutti i popoli. La formula della beatitudine ´ašrê ´énôš
ya`áSè-zzö´t «beato l'uomo che così agisce» (Is 56,2), rara nei profeti, qualifica la nuova identità di ogni
énôš «uomo» che attua la giustizia come dono e compito e ritrova l’autentica relazione con l’altro: Dio, il
prossimo e la creazione. L'osservanza del sabato, ´ôt hiw´ Bênî ûbê|nêkem, lett. «segno esso tra me e voi» (Es
31,13), qualifica eunuchi e stranieri che hanno aderito al Signore (Is 56,4.6). Essi potranno ritrovarsi
insieme nel popolo di Dio, che fa passare dalla separazione all’inclusione e dall’esclusione
all’incorporazione (56,3.6).
- per tutti i popoli (lükol-hä`ammîm). L'espressione kol-ha'ammim, «tutti i popoli», conferma l'universalismo
che caratterizza il messaggio del Terzo Isaia. La condizione posta per appartenere alla comunità del Signore è
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la pratica della giustizia, la fedeltà all'alleanza e non il legame di sangue o la purità, come sostenuto da Esdra
e Neemia.
Esdra ebr. 'Ezrà, gr. ῎Εσδρας, lat. Esdras, sacerdote e scriba guidò il ritorno del secondo contingente di
Ebrei dall'esilio babilonese nel 459 a.C. Fu protagonista, insieme con Neemia, della restaurazione della
comunità giudaica in Gerusalemme (Nechemya «conforto di (o confortato da) Dio», era figlio di Hachaliah
probabilmente della Tribù di Giuda. La famiglia viveva a Gerusalemme. Visse nel V secolo a.C.). Esdra
ottenne da Artaserse un decreto che lo autorizzava a riformare la comunità di Gerusalemme secondo la
legislazione del Pentateuco (Esd 7,12-26); così egli riuscì a formare una coscienza giudaica chiusa a
influenze straniere e capace di resistere alla pressione dell'ellenismo. L'attività di Esdra è narrata,
insieme a quella di Neemia, nei due libri Esdra e Neemia (quest'ultimo chiamato anche II Esdra) che
secondo molti studiosi costituivano un'opera unica con le Cronache di cui sono la continuazione: vi si
narra la ricostruzione del Tempio, la restaurazione religiosa, la ricostruzione delle mura di Gerusalemme,
l'organizzazione giuridica della comunità ebraica. Per alcuni studiosi, a partire dalla fine del sec. XIX, la
figura di E. sarebbe una creazione teologico-letteraria del III-II sec. a.C. Il vero autore dei due libri
biblici è probabilmente un cronista del III sec. a.C. che ha utilizzato fonti più antiche risalenti all'epoca
di E. e Neemia. A lui vengono attribuiti i vari Libri di Esdra (ritenuti diversamente canonici o apocrifi) e i
libri delle Cronache. Figlio o nipote di Seraiah, era discendente diretto di Pincas, figlio di Aronne. Ciò che
si conosce della sua storia è contenuto negli ultimi quattro capitoli del Libro a lui attribuito, e in Neemia 8
e 12,26. Fu considerato come un secondo Mosè e degno anch’egli di ricevere la Torah. Egli introdusse
la scrittura quadrata ebraica per usarla nella redazione della Torah. Fra le pratiche che egli introdusse
insieme all'Assemblea dei Saggi che dirigeva, vi fu la lettura trisettimanale della Torah: il lunedì, il
giovedì, e il sabato pomeriggio. Nella religione cattolica il 13 luglio è dedicato a sant'Esdra.
L'oracolo di Is 56 va dunque inteso in questo contesto storico: riguarda i non ebrei che non godono
di uno statuto religioso in Israele. Probabilmente si riferisce a quegli stranieri che si erano installati in
Israele durante l'esilio babilonese. La riforma intransigente di Esdra, rimettendo in vigore la Torà, provocò
una «separazione» dell'elemento straniero da Israele (cf Ne 13,1-3). Il lamento degli stranieri, come anche
quello degli eunuchi, si riferisce evidentemente a questo impedimento della Torà. La novità della risposta
profetica a questo lamento consiste soprattutto in una parola: «aderire a YHWH». Certo, anche il profeta non
trascura alcune necessarie esigenze etiche o religiose, in particolare l'osservanza del sabato. Ma egli parla di
una «adesione» a Dio che non è una conversione all'ebraismo: gli stranieri che «aderiscono a YHWH»
rimangono stranieri, non diventano ebrei. Ad essi assicura il diritto di offrire olocausti e sacrifici (cf Is
60,7) e non solo di pregare nel tempio (cf 1Re 8,41). Anzi, afferma che è proprio tale raduno di tutte le
genti che vogliono servire YHWH la vocazione propria del tempio di Gerusalemme: «La mia casa sarà
chiamata casa di preghiera per tutti i popoli» (Is 56,7; cf Mt 21,13; Mc 11,17; Lc 19,46). La novità e l'audacia di
questo oracolo si può misurare ancora meglio se lo si confronta con le affermazioni di Ezechiele, che sono
poi le stesse di Is 52,1 : «Così dice il Signore YHWH: Nessuno straniero (ben nekàr) incirconciso di cuore e di
carne entrerà nel mio santuario» (Ez 44,9). Quanto poi agli eunuchi, la novità non è meno grande: a loro, nel
tempio, è promesso un ricordo eterno, un «nome» preferibile a figli e figlie. È importante notare come la
crescita della coscienza biblica sul mistero della resurrezione e della vita eterna si sviluppi proprio a
partire da questa considerazione della mancanza di discendenza da parte di uomini e donne «giusti» (cf Sap
3,13-14; 4,1).
Con l'avvento del profeta anonimo del post esilio babilonese, chiamato convenzionalmente Tritoisaia (V sec. a.C.) inizia una nuova tappa della rivelazione del Dio di Israele. Si parla di yeshù'a
«salvezza» e zedaqà «giustizia»: la salvezza che Dio realizza, consiste nell'inaugurare un nuovo modo di
intendere la giustizia. Se la giustizia è stata già predicata e annunciata tante volte, dov'è la novità? È nella
sua apertura universale. Questo spirito di apertura contrasta con le misure di Esdra e Neemia, intese ad
annullare i matrimoni misti: «la razza santa si è mescolata con i popoli pagani» (Esd 9,2).
La «salvezza» che sta per venire e la «giustizia» che sta per rivelarsi (56,1) sono qualificate dal
suffisso possessivo «mia»; si tratta cioè della salvezza che Dio sta per operare attraverso la sua giustizia. La
giustizia è determinante per essere fuori o dentro la discendenza del Servo.
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Se la rilettura delle figure del Servo e della Partoriente nella «discendenza» dei «servi», degli «eletti»
è la chiave di lettura degli oracoli raccolti in Is 56-66, allora il problema che sta a cuore a questa tradizione
profetica è la ricerca di identità in un tempo di crisi. Tale identità sa custodire la propria differenza
nell’accoglienza dello straniero e del diverso e non nell’intransigenza esclusivista che sostituisce alla
giustizia/salvezza l’ingiustizia di un'appartenenza escludente e di un’apertura selettiva, tentazione ancora
dei nostri giorni.
Il miglior commento all’universalità della profezia postesilica si ritrova nel Sal 67: Dio abbia pietà di
noi e ci benedica, su di noi faccia splendere il suo volto; perché si conosca sulla terra la tua via, la tua salvezza fra tutte
le genti (vv. 2-3). Finché si continuerà a pregare con questo salmo e cresceranno gli alberi piantati nel viale
dei «giusti tra le nazioni» a Yad waShem in Gerusalemme, non potrà venir meno la speranza che un giorno
«il Signore sarà Uno e il suo nome sarà uno» (Zc 14,9) e tutti i giusti, discendenza del Servo e figli della
Partoriente, «servendo il Signore spalla a spalla» (Sof 3,9) entreranno insieme nella «casa di preghiera per tutti i
popoli» e riceveranno un posto e un nome eterno che non sarà mai cancellato (Is 56,5.7). Allora la missione
del Servo, «luce della nazioni, perché la mia salvezza giunga alle estremità della terra» (Is 49,6), sarà compiuta.
Beato chi crede ogni giorno a questa speranza!
La seconda lettura (Rom 11,13-15.29-32) invita a leggere alcune considerazioni finali di Paolo sul
mistero di Israele, per poter superare ambiguità e pregiudizi che ancora oggi abbondano.
Rm 11,13-14: A voi, genti, ecco che cosa dico: come apostolo delle genti, io faccio onore al
mio ministero, 14nella speranza di suscitare la gelosia di quelli del mio sangue e di
salvarne alcuni (ὑμῖν δὲ λέγω τοῖς ἔθνεσιν• ἐφ’ ὄσον μὲν οὖν εἰμι ἐγὼ ἐθνῶν ἀπόστολος τὴν
διακονίαν μου δοξάζω, 14εἴ πως παραζηλώσω μου τὴν σάρκα καὶ σώσω τινὰς ἐξ αὐτῶν, lett. «A voi poi
dico ai gentili: in quanto dunque sono io dei gentili inviato, il ministero di me onoro, 14se spingerò a gelosia di me la carne e
salverò alcuni tra loro»).
- come apostolo delle genti (ἐφ’ ὄσον μὲν οὖν εἰμι ἐγὼ ἐθνῶν ἀπόστολος, lett. «in quanto dunque sono io dei gentili
inviato»). Paolo, per sostenere la sua reale speranza per la salvezza d'Israele, si rivolge direttamente ai
destinatari della lettera, definendosi ἐθνῶν ἀπόστολος «apostolo dei gentili». Secondo molti, questo
riferimento dimostra che le comunità cristiane di Roma erano composte prevalentemente di cristiani di
origine pagana. Già in Rm 1,5, Paolo dichiara: ἐλάβομεν χάριν καὶ ἀποστολὴν εἰς ὑπακοὴν πίστεως ἐν
πᾶσιν τοῖς ἔθνεσιν «abbiamo ricevuto la grazia di essere apostoli, per suscitare l'obbedienza della fede in
tutte le genti».
- io faccio onore al mio ministero (τὴν διακονίαν μου δοξάζω). In questa prospettiva si spiega la funzione del
suo ministero al quale rende gloria; il verbo δοξάζω, doxázō significa «lodo, esalto, onoro, glorifico».
- 14nella speranza di suscitare la gelosia di quelli del mio sangue (14εἴ πως παραζηλώσω μου τὴν σάρκα, lett. «14se
spingerò a gelosia di me la carne»). Il verbo παραζηλώσω è ind. fut. di παραζηλόω «rendo geloso, provoco a
gelosia, ingelosisco» (4x nel NT, di cui 3x in Rom e 1x in 1Cor 10,22). Paolo si augura di ingelosire la sua
σάρξ «carne» per contribuire alla salvezza di alcuni di essi. In questa originale assimilazione tra la «carne» e
la maggior parte d'Israele è raccolto in sintesi il conflitto di Rm 9,1 - 11,36. In quanto israelita, egli vive la
relazione con il suo popolo come con la sua stessa carne. Il resto di Israele rappresentato dai giudeocristiani o i gentili che entrano a far parte di questo resto non attenuano il conflitto con la maggioranza di
Israele che non ha riconosciuto Gesù; ciò nonostante Dio non ha ripudiato il suo popolo (cf Rm 11,1). Per
questo l'ingelosimento che Paolo intende provocare si pone in continuità con quello di Dio per il suo popolo
(v. 11); e non ha più i connotati dell'irritazione ma quelli dell'emulazione o dello stupore di fronte
all'accoglienza che molti gentili hanno riservato al vangelo. Poiché per Paolo la salvezza si realizza soltanto
per mezzo di Cristo, egli spera che l'emulazione o la meraviglia per l'ingresso dei gentili apra le porte alla
salvezza anche per la maggior parte d'Israele che non ha creduto al vangelo.
11,15: Se infatti il loro essere rifiutati è stata una riconciliazione del mondo, che cosa sarà
la loro riammissione se non una vita dai morti? (εἰ γὰρ ἡ ἀποβολὴ αὐτῶν καταλλαγὴ κόσμου,
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τίς ἡ πρόσλημψις εἰ μὴ ζωὴ ἐκ νεκρῶν; lett. «Se infatti la perdita di loro (è stata) riconciliazione del mondo, cosa
l'assunzione se non vita da morti?»).
- Se infatti il loro essere rifiutati è stata una riconciliazione del mondo (εἰ γὰρ ἡ ἀποβολὴ αὐτῶν καταλλαγὴ
κόσμου). Forse Paolo era cosciente di aver dettato al suo segretario Terzo alcune proposizioni profonde ma
concise e complesse, come quelle dei vv. 12-14; per questo riformula un nuovo argomento a fortiori che
procede dal minore al maggiore. L'esclusione della maggior parte d'Israele ha significato la riconciliazione
con il mondo che Dio ha realizzato per mezzo di Cristo (cf Rm 5,11; 2Cor 5,19). Cosa accadrà mai quando
Israele accoglierà il vangelo? In questo versetto Paolo utilizza alcuni termini rari: ἀποβολή, apobolé «perdita,
esclusione» si trova soltanto qui e in At 27,22; πρόσλημψις, próslēmpsis «accoglienza» è hapax legomenon in
tutto il greco biblico.
- una vita dai morti? (ζωὴ ἐκ νεκρῶν;). L'accoglienza di Cristo da parte di Israele è relazionata alla ζωὴ ἐκ
νεκρῶν «vita dai morti», espressione originale in tutto il NT. Qual è il suo significato? Si riferisce alla
risurrezione finale? Riguarda tutto Israele o soltanto il resto? Oppure è una metafora per esprimere lo
stupore per la futura accoglienza della pienezza degli israeliti? È da notare che, in questi versi, non si parla
della risurrezione finale dei gentili, in relazione a quella degli israeliti. La salvezza dei gentili che hanno
creduto in Cristo è già in atto! D'altro canto, per parlare dell'ἀνάστασις νεκρῶν, anástasis nekrỗn,
«risurrezione dai morti» Paolo utilizza l'espressione senza ἐκ, ek «da» (Rm 1,4; 1Cor 15.12.13.21.42) o al
massimo ζωή αἰώνιος, zōē aiónios, «vita eterna» (cf Rm 2,7; 5,21 ; 6,22; Gal 6,8) e non ζωὴ ἐκ νεκρῶν, zōē ek
nekrỗn, «vita dai morti». Pertanto, è preferibile l'interpretazione iperbolica: l'accoglienza da parte di Israele
è analoga alla vita dai morti che, secondo la bella parabola delle ossa inaridite, raccontata in Ez 37,3-6, è
conferita all'Israele della diaspora (cf Lc 15,24.32).
11,29: infatti i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! (ἀμεταμέλητα γὰρ τὰ χαρίσματα καὶ
ἡ κλῆσις τοῦ θεοῦ, lett. «Senza pentimento infatti (sono) i doni e la chiamata di Dio»).
- i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili (ἀμεταμέλητα γὰρ τὰ χαρίσματα καὶ ἡ κλῆσις τοῦ θεοῦ).
L'aggettivo ἀμεταμέλητος, ametamélētos significa «di cui non ci si pente, senza rimpianti, stabile
irrevocabile». Esso compare soltanto qui e in 2Cor 7,10 nel greco biblico; i paralleli del greco profano, come
Platone, Timeo 59d e Polibio, Historia, 21,11,11, lasciano percepire che «irrevocabile» equivale a «senza
pentimento» o «senza rimpianto». Dio non si è mai pentito dei doni e della chiamata d'Israele. Paolo non
esita a confermare la fedeltà di Dio al suo popolo. Nella Chiesa non è stato conferito il giusto peso a questa
lapidaria sentenza del mistero paolino. Grazie all'irrevocabilità dei χαρίσματα «doni» e della κλῆσις
«chiamata» diventa possibile il superamento della tensione tra l'inimicizia e l'elezione d'Israele. I doni
irrevocabili di Dio si riferiscono ai privilegi elencati in Rm 9,4-5, in particolare all'alleanza (v. 27), ai padri
(v. 28) e alla stessa identità del popolo eletto (v. 28). Dopo aver dimostrato l'origine gratuita dei doni (cf Rm
9,7-29), Paolo aggiunge ciò che esplicitamente mancava ai privilegi d'Israele: la chiamata, intesa come
concretizzazione dell'elezione o della preconoscenza divina (cf Rm 11,2). Soltanto ora, in contesto
apocalittico, Paolo riconosce ἡ κλῆσις τοῦ θεοῦ «la chiamata di Dio» per l'Israele incredulo, fondata sulla
sua grazia (cf Rm 11,5-6).
11,30-31: Come voi un
misericordia a motivo
disobbedienti a motivo
misericordia (ὥσπερ γὰρ
tempo siete stati disobbedienti a Dio e ora avete ottenuto
della loro disobbedienza, 31così anch’essi ora sono diventati
della misericordia da voi ricevuta, perché anch’essi ottengano
ὑμεῖς ποτὲ ἠπειθήσατε τῷ θεῷ, νῦν δε ἠλεήθητε τῇ τούτων ἀπειθείᾳ,
οὕτως καὶ οὗτοι νῦν ἠπείθησαν τῷ ὑμετέρῳ ἐλέει, ἵνα καὶ αὐτοὶ νῦν ἐλεηθῶσιν, lett. «Come infatti voi una
volta foste disobbedienti a Dio, ora invece avete ottenuto misericordia per la di loro disobbedienza, 31così anche questi ora sono
diventati disobbedienti a vostra misericordia, affinché anch'essi ora ottengano misericordia»).
- avete ottenuto misericordia a motivo della loro disobbedienza (ἠλεήθητε τῇ τούτων ἀπειθείᾳ). Più che un
chiasmo, la lunga proposizione dei vv. 30-31 rappresenta un parallelismo ascendente, in cui al vertice si trova la
promessa della misericordia divina: disobbedienza - misericordia - disobbedienza (v. 30); disobbedienza misericordia - misericordia (v. 31). Il punto di partenza che accomuna i destinatari e gli ebrei è la ἀπείθεια
«disobbedienza» verso Dio. Tuttavia si può notare come, mentre nella prima parte Paolo sottolinea che Dio
ha avuto ἔλεος «misericordia» dei destinatari, nella seconda evidenzia che la stessa misericordia per loro
rappresenta la ragione della disobbedienza degli israeliti. L'attuale disobbedienza degli israeliti, come
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l'indurimento e la caduta, non è permanente ma cederà il posto alla misericordia di Dio per tutto Israele.
Dunque con il linguaggio della disobbedienza e della misericordia, Paolo sta chiarendo il contenuto del
mistero della salvezza, la cui prospettiva finale sarà la misericordia divina.
11,32: Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per essere misericordioso verso
tutti! (συνέκλεισεν γὰρ ὁ θεὸς τοὺς πάντας εἰς ἀπείθειαν, ἵνα τοὺς πάντας ἐλεήσῆ, lett. «Rinchiuso infatti
Dio tutti in disobbedienza, affinché a tutti usasse misericordia»).
- tutti nella disobbedienza, per essere misericordioso verso tutti (πάντας εἰς ἀπείθειαν, ἵνα τοὺς πάντας ἐλεήσῆ).
Se in Rm 1,18 - 4,25 Paolo ha seguito un percorso progressivo, dalla disobbedienza alla giustificazione
universale, ora disobbedienza e misericordia sono descritte per la loro sincronia o compresenza e valgono,
senza distinzioni, per tutti. La disobbedienza che accomuna il passato di tutti lascia il posto alla
misericordia per tutti, senza distinzioni etniche o religiose. Il verbo συγκλείω «prendo, catturo insieme,
rinchiudo» è stato utilizzato nell'espressione parallela di Gal 3,22: «La Scrittura ha rinchiuso ogni cosa sotto il
peccato, perché la promessa venisse data ai credenti mediante la fede in Gesù Cristo» (Gal 3,22). Adesso la proposizione paolina è più audace.
Riconosciuto che i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili (v. 29), la Chiesa oggi si
interroga come ha rispettato le scelte di Dio lungo la sua storia. Pregiudizi e rivalità purtroppo continuano a
essere presenti nel contesto del popolo di Dio. «Si lascerà alle spalle l’antigiudaismo cristiano solo quando
si sarà in grado di apprezzare sul piano teologico quanto vi è di positivo nel rifiuto ebraico di Gesù
Cristo» (F.W. Marquardt). «Questo elemento positivo sta nella missione alle genti che segue la nascita di
Gesù» (J. Moltmann).
La Chiesa si pensa che sia formata, di fatto e di diritto, solo da gentili. Le cose non stanno così né dal
punto di vista storico, né all’interno del ragionamento paolino volto a presentare la positività del «no»
pronunciato dai figli d’Israele a Cristo. A fondamento della Chiesa resta infatti innanzitutto il «sì»
ebraico a Cristo (cf Rm 15,25-27). Infatti è solo all’interno di questo orizzonte che si può comprendere la
positività della testimonianza affidata a Israele non credente in Cristo (cf Rm 11,11-12).
La partecipazione alla «storia della salvezza» da parte dei figli d’Israele comporta che pure il loro
rifiuto del vangelo svolga un compito di riconciliazione (Rm 11,15). L’affermazione sottolinea l’esistenza di
un doppio debito di riconoscenza da parte dei gentili credenti nei confronti degli ebrei. Essi debbono
essere grati sia verso l’obbedienza ebraica al vangelo (quella degli apostoli e della «Chiesa madre» di
Gerusalemme Rm 15,26-27) sia verso la «massa» che, non aderendovi, ha consentito che il vangelo
giungesse alle genti. La convinzione paolina attesta altresì il ruolo escatologico affidato alla riammissione
d’Israele (Rm 11,15).
Nella visione paolina Israele e le genti non si salvano gli uni indipendentemente dagli altri e
neppure a prescindere da Cristo, il quale, attraverso la sua morte e la sua risurrezione, si presenta come la
via perché la salvezza giunga a tutti annullando ogni contrapposizione e conservando le diversità. Tutta la
prospettiva di Paolo presuppone in modo fermissimo il permanere dell’elezione di Israele; ciò comporta
che il perdurare della distinzione ebrei-gentili resti fondamentale perché in Cristo avvenga la riconciliazione
tra il giudeo e il greco. Paolo tiene lo sguardo fisso su un’Ecclesia ex circumcisione et ex gentibus e non già solo
su un’Ecclesia gentium, una Chiesa dei gentili che si spaccia come «nuovo Israele», sostituendosi al popolo
eletto. L'aberrante teologia della sostituzione non ha alcun fondamento biblico.
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Il vangelo (Mt 15,21-28) ci presenta Gesù in viaggio, durante il quale incontra una donna pagana che
lo aiuta a spiegare la vocazione universalistica di Israele.
Mt 15,21-22: Partito di là, Gesù si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidone. 22Ed ecco, una
donna cananea, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore,
figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio» (Καὶ ἐξελθὼν ἐκεῖθεν ὁ Ἰησοῦς
ἀνεχώρησεν εἰς τὰ μέρη Τύρου καὶ Σιδῶνος. 22καὶ ἰδοὺ γυνὴ Χαναναία ἀπὸ τῶν ὁρίων ἐκείνων
ἐξελθοῦσα ἔκραζεν λέγουσα• ἐλέησόν με, κύριε υἱὸς Δαυίδ• ἡ θυγάτηρ μου κακῶς δαιμονίζεται).
- Partito di là, Gesù si ritirò (Καὶ ἐξελθὼν ἐκεῖθεν ὁ Ἰησοῦς ἀνεχώρησεν). Gesù si ritira ancora come era già
avvenuto altre volte in momenti cruciali e difficili della sua missione. L'allontanarsi di Gesù, dopo la
controversia con i farisei sulla questione del puro e dell'impuro, non gli impedisce però di fare degli incontri
significativi. La scena di 15,21-28 richiama per diversi punti un'altra «ritirata»: quella di Elia il Tishbita (cf
1Re 17). Il profeta si reca nella fascia costiera tra Tiro e Sidone, a Zarepat, per sfuggire al re Acab dopo che
aveva predetto l'arrivo di una carestia. Il Signore gli aveva detto che in quella terra avrebbe trovato una
vedova che l'avrebbe sostenuto, e così avviene. Secondo la tradizione giudaica, la vedova però non era
pagana, ma della tribù di Asher, mentre il defunto marito era di quella di Zàbulon.
- verso la zona di Tiro e di Sidone (εἰς τὰ μέρη Τύρου καὶ Σιδῶνος). Non è necessario ritenere che Gesù sia
effettivamente entrato in territorio straniero: la preposizione εἰς «verso» potrebbe significare che si è diretto
verso quelle parti, e infatti la donna straniera, a essere precisi, «esce da» (verbo ἐξέρχομαι «esco, vado,
vengo, provengo» con preposizione ἀπὸ «da») quel ὅριον «confine, territorio, zona, regione». Il motivo della
partenza di Gesù non è spiegato. Tiro e Sidone si trovavano sulla costa mediterranea; tradizionalmente
indicavano la regione pagana a nord-ovest del territorio ebraico, largamente occupata da popolazione
ebraica.
- una donna Cananèa, che veniva da quella regione (γυνὴ Χαναναία ἀπὸ τῶν ὁρίων ἐκείνων ἐξελθοῦσα).
L'episodio matteano della donna con la figlia indemoniata è molto diverso da quello narrato in Mc 7,24-30
(Luca non lo conosce): in Matteo è una «Cananea», ovvero appartenente a un popolo tradizionalmente
nemico di Israele, mentre in Marco è una donna «greca» e «sirofenicia» (cioè straniera); in Matteo la donna si
rivolge a Gesù chiamandolo «figlio di David» (15,22), appellativo assente in Marco; in Matteo i discepoli
vogliono allontanarla, mentre in Marco questo non è detto; in Matteo Gesù parla della fede della donna, ma
questo dettaglio è assente in Marco. Per certi versi, la donna che si avvicina a Gesù non sembra straniera;
anzi, essa si comporta in parte come un'ebrea. Chiama infatti Gesù «figlio di David», che è il titolo
cristologico con cui Matteo apre il suo vangelo (1,1), è l'appellativo che gli viene dato dalle folle, è il modo in
cui viene chiamato dai ciechi ed è usato sempre in relazione a miracoli o esorcismi. La Cananea è dunque
l'unica non ebrea in Matteo a usare questo titolo per Gesù; si potrebbe vedere in questa donna una
prefigurazione dei pagani che arriveranno alla fede in Gesù, al modo in cui nella genealogia già altre
donne, tra le quali le Cananee Tamar e Racab, li anticipavano. È probabile che l'episodio abbia avuto luogo
in territorio giudaico e che la donna pagana sia venuta dal suo paese a incontrare Gesù che era in viaggio
εἰς «verso» Tiro e Sidone. Questa ricostruzione è più coerente con la direttiva di Gesù di limitare la missione
«alle pecore perdute della casa d'Israele» (Mt 10,5-6).
15,23: Ma egli non le rivolse neppure una parola. Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono
e lo implorarono: «Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!» (ὁ δὲ οὐκ ἀπεκρίθη αὐτῇ
λόγον. καὶ προσελθόντες οἱ μαθηταὶ αὐτοῦ ἠρώτουν αὐτὸν λέγοντες• ἀπόλυσον αὐτήν, ὅτι κράζει
ὄπισθεν ἡμῶν).
- Esaudiscila (ἀπόλυσον αὐτήν, lett. «mandala via»). Il verbo ἀπόλυσον, impt. aor. di ἀπολύω, viene
normalmente inteso in due modi: «esaudiscila» (versione CEI) oppure «mandala via» (Girolamo: dimitte eam
e la Peshittà). La traduzione «esaudiscila» è una forzatura, perché in Matteo il verbo ἀπολύω usato diciotto
volte, ha sempre il significalo di «mandar via» (come nel caso di «licenziare» la moglie nel divorzio) e mai
quello di «esaudire». Il Vangelo ebraico di Matteo presenta una possibile soluzione, perché ha una diversa
sintassi: c'è una domanda («perché») col verbo nuach, «abbandonare»: «perché abbandoni (= mandi via)
questa donna che ci grida dietro?». La risposta di Gesù: «Non sono stato inviato...» (v. 24), rientra così meglio
nella logica del racconto. Pur ritenendo questa ipotesi interessante, è bene attenersi al testo greco: mandala
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via. La richiesta dei discepoli è ambigua. Può voler dire che Gesù dovrebbe esaudire il desiderio della donna
e in tal modo sbarazzarsi di lei; oppure che Gesù dovrebbe semplicemente mandarla via per evitare il
fastidio che sta causando.
15,24: Egli rispose: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa
d’Israele» (ὁ δὲ ἀποκριθεὶς εἶπεν• οὐκ ἀπεστάλην εἰ μὴ εἰς τὰ πρόβατα τὰ ἀπολωλότα οἴκου Ἰσραήλ).
- alle pecore perdute della casa d'Israele (εἰς τὰ πρόβατα τὰ ἀπολωλότα οἴκου Ἰσραήλ). Questo detto è
esclusivo di Matteo, che lo usa anche in altri passi (9,36; 10,6; 18,12). La prima parte («sono stato mandato»)
mostra legami con la cristologia giovannea dell'«inviare». Non è chiaro se le «pecore perdute» siano quelle
all'interno di Israele o se Israele globalmente sia una pecora perduta.
15,25: Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui, dicendo: «Signore, aiutami!» (ἡ δὲ
ἐλθοῦσα προσεκύνει αὐτῷ λέγουσα• κύριε, βοήθει μοι).
- si prostrò dinanzi a lui (προσεκύνει αὐτῷ). Si tratta di un imperfetto, ma non va tradotto con «stava
prostrata», perché questo tempo è caratteristico del verbo προσκυνέω, «mi prostro» (60x nel NT, di cui 13x
in Mt, 24x in Ap). Il senso dell'adorazione rappresenta il giusto atteggiamento da tenere dinanzi a Gesù (cf
Mt 2,2.8.11; 4,9-10; 8,2; 14,33; 28,17).
15,26-27: Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». 27«È
vero, Signore – disse la donna –, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla
tavola dei loro padroni» (ὁ δὲ ἀποκριθεὶς εἶπεν• οὐκ ἔστιν καλὸν λαβεῖν τὸν ἄρτον τῶν τέκνων καὶ
βαλεῖν τοῖς κυναρίοις. 27ἡ δὲ εἶπεν• ναί κύριε, καὶ γὰρ τὰ κυνάρια ἐσθίει ἀπὸ τῶν ψιχίων τῶν πιπτόντων
ἀπὸ τῆς τραπέζης τῶν κυρίων αὐτῶν).
- e gettarlo ai cagnolini (καὶ βαλεῖν τοῖς κυναρίοις). Girolamo preferisce tradurre con canibus sia qui, sia in 7,6
(dove si trova κύων, «cane»). Il termine in questo versetto indica cani di piccola taglia, ma pur sempre
ritenuti animali impuri (nel Talmud nutrire un cane equivale a nutrire un maiale), ai quali erano
paragonati i pagani per i loro atteggiamenti immorali. Si veda il detto del Vangelo di Tommaso, 93, dove i
cani vengono antropomorfizzati: «Non date le cose sante ai cani, perché potrebbero gettarle nel letamaio».
L'assunto di Matteo è che «i figli» sono Israele e «i cagnolini» sono i pagani. L'asprezza del detto è alquanto
attutita dall'uso del diminutivo κυνάριον, kynárion «cucciolo» e dal fatto che questi sono cani che stanno in
casa (15,27). Comunque sia, Gesù afferma chiaramente il principio ebraico tradizionale in materia di storia
della salvezza: prima i Giudei.
- eppure i cagnolini mangiano le briciole (καὶ γὰρ τὰ κυνάρια ἐσθίει ἀπὸ τῶν ψιχίων). La sostanza
dell'intelligente risposta della donna è che comunque anche i cani vengono nutriti e curati. Dietro la sua
affermazione sta l'idea che tanto i Giudei quanto i pagani sono nutriti da Dio. Questo episodio doveva avere
un'importanza particolare per la comunità matteana, vista la sua insistenza sulle radici ebraiche di Gesù e
sulla sua missione ai pagani.
15,28: Allora Gesù le replicò: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri».
E da quell’istante sua figlia fu guarita (τότε ἀποκριθεὶς ὁ Ἰησοῦς εἶπεν αὐτῇ• ὦ γύναι, μεγάλη σου
ἡ πίστις• γενηθήτω σοι ὡς θέλεις. καὶ ἰάθη ἡ θυγάτηρ αὐτῆς ἀπὸ τῆς ὥρας ἐκείνης).
- Donna, grande è la tua fede! (ὦ γύναι, μεγάλη σου ἡ πίστις). Gesù è colpito e convinto dalla fede della
donna, nonostante le obiezioni che avanza per ben due volte. Tali obiezioni non hanno come scopo il
«mettere alla prova» la Cananea: Gesù, «inviato» (passivo teologico) alle pecore perdute di Israele (15,24; cf
10,24), sta piuttosto impartendo un insegnamento ai suoi discepoli, per far capire a loro che la sua
missione non prevede l'attività tra i gentili; se questo avviene (l'altra eccezione è quella del figlio del
centurione di Cafarnao, cf 8,5-13) è solo quando i gentili si avvicinano a lui, e comunque la guarigione
avviene «a distanza». Resterà da capire perché Gesù sia uscito dalla sua terra per recarsi nella regione di
Sidone. O si decide che Gesù non sia mai uscito da Israele, oppure si deve supporre che l'ha fatto per cercare
gli ebrei dispersi nella diaspora, o per una ragione che i vangeli non ci dicono. In ogni caso, Gesù ha visto,
anche in quel territorio, che la fede di chi non vive nella sua terra può essere davvero grande, e che il regno
di Dio supera ogni confine: il contrasto con la scena precedente non poteva essere più forte, perché mentre i
farisei non hanno creduto in Gesù (15,12), una Cananea crede in lui. La missione ai gentili comincia a
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configurarsi, anche se partirà solo dai suoi discepoli (cf 28,19-20), ai quali prima Gesù in persona l'aveva
vietata (cf 10,5). La donna accetta di non avere diritto, ma con una finezza che rivela un grande intuito di
fede si dichiara disposta a mangiare anche solo le briciole. Quello che la donna cananea intuisce è che al
banchetto del regno il pane non è contato: ce n'è in abbondanza per tutti, e nessuno corre il rischio di
rimanerne senza. L'intuizione della donna aiuta Gesù a rendersi conto che i tempi del compimento delle
promesse si stanno avvicinando. Per questo egli elogia la sua fede, la fede di chi sa accontentarsi delle
briciole e a cui invece il Signore dà il pane.
Uscita da quei confini (v. 22). Gesù e la donna si incontrano, per così dire, a metà strada tra
la terra d'Israele e il territorio "cananeo", cioè pagano: entrambi sono accomunati da un movimento di
uscita. Eppure è la donna che varca il confine, non Gesù. Perché tutta questa precauzione, queste
precisazioni da parte di Matteo? Gesù si è ritirato, ma si trova tuttora in terra di Israele, e non ha nessuna
intenzione di varcarne la frontiera: al contrario, non si sente inviato che alla casa di Israele, alle sue pecore
perdute. È la donna, perciò, che prende l'iniziativa, che gli va incontro e lo riconosce subito come il
Messia, il "Figlio di David". Questo ci ricorda il programma davidico-messianico di assicurare a tutti i figli
di Israele una focaccia di pane per ciascuno (2Sam 6,19). Garantire il pane equivale a dare vita. La donna
chiede la guarigione per sua figlia. Gesù non risponde, mostrando un atteggiamento di strana severità. Sono
i discepoli, in questo racconto, a sembrare più umani, a pregare Gesù che almeno le dica una parola di
congedo. A questo punto viene la dichiarazione programmatica del v. 24: Gesù non vuole interessarsi dei
pagani, non si ritiene inviato a loro. Ma la donna insiste e Gesù questa volta le risponde, però sempre in
maniera negativa: non si può gettare ai cani il pane destinato ai figli. Ciò significa che i pagani, gli estranei sono esclusi dal banchetto messianico. A differenza di Mc 7,27: «Lascia prima che si sazino i figli, perché
non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini», in Matteo c'è una netta chiusura: Non è bene prendere il
pane dei figli e gettarlo ai cagnolini (15,26). Quindi τὰ κυνάρια «i cagnolini» non devono solo aspettare il loro
turno, sono semplicemente esclusi dal banchetto del regno. Il contrario è detto nell'incontro con il
centurione di Cafarnao: 11Ora io vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con
Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, 12mentre i figli del regno saranno cacciati fuori, nelle tenebre, dove sarà
pianto e stridore di denti (Mt 8,11-12).
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