"Now I can see" di Giorgio Placidi

IL MONDO FUORI E DENTRO
Testimonianza di un ortottista in missione medico-umanitaria nello Zimbabwe
“Now I can see…”.
E
’ trascorso poco meno di un mese dal mio ritorno
in Italia, ma la sera, quando chiudo gli occhi per
addormentarmi, mi capita ancora di ascoltare quella
frase che suona così: “Now I can see”. Significa: “Adesso
posso vedere”. L’avrò sentita almeno due, trecento volte
come una musica che scandisce il ritmo rapido dei miei
passi sul suolo dalla sedia all’ottotipo, dall’ottotipo alla
sedia e dà sollievo alla pesantezza che carica e scarica le
gambe: “Now I can see” mi rende paziente.
E’ la voce del vecchio che per ottant’anni non ci ha
visto, ma ora sì; quella del giovane, che ha camminato
per trenta, quaranta chilometri per venire a sussurrarmelo
sorridendo; della cinquantenne presbite, che non riesce più
a leggere e tutto ciò che desidera è il suo occhialino per le
brevi distanze.
Due vetri davanti agli occhi e per lui, o lei, s’è fatto
giorno… l’ha fatto Giorgio? No, anche oggi, ancora una
volta, l’ha fatto Dio.
L’Africa è un’esperienza tanto unica quanto
sconvolgente. Qualcuno m’ha chiesto: “Qual è stato il
primo impatto che hai avuto appena sceso dall’aereo?”. Io
ho guardato il tramonto, mentre aspettavamo le valigie: il
sole cala con una fretta quasi occidentale, ma qui è l’unico
a correre. Ed è rosso come una susina: si fonde col cielo in
sfumature indaco e violetto.
Il nostro viaggio da Roma ad Harare, con scalo prima a
Dubai poi a Lusaka, è un’odissea che dura circa venti ore,
ma non puoi permetterti ancora il lusso della stanchezza:
c’è da caricare i bagagli sulla camionetta venuta a prenderci
e fare altre due ore e mezza di viaggio in pulmino, al buio,
solo con la luce dei fari perché qui, lungo la strada, non
esistono lampioni.
Centosettantacinque chilometri per arrivare alla remota
e rurale Mutoko, dove dormiremo per tre notti, nell’ostello
degli infermieri del Guidotti Hospital che Massimo
Migani, l’attuale direttore sanitario della struttura, ci ha
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messo a disposizione. Massimo ha un cuore grande: lo sai
già dal sorriso accogliente e ci aspetta fuori dall’aeroporto
con Lucia, che gestisce la parte amministrativa.
Il Guidotti è una realtà italiana, che affonda le proprie
radici nell’opera della missionaria da cui prende il nome.
E’ qui che l’Eye-Team dell’associazione Maniverso
comincerà a visitare domani.
Sono le 23:45 quando mi infilo nel sacco a pelo: prima
mi sono spruzzato l’antirepellente contro le zanzare, ho
circondato il letto dove dormo con una retina che scende
dal soffitto, mi sono infilato nel sacco a pelo. Prego, prima
di addormentarmi.
Siamo venuti dall’Italia con valigie piene di occhiali:
abbiamo oltre 5000 montature usate, ma perfettamente
rimesse a nuovo dai tecnici di Luxottica. La sveglia è
alle sei e un quarto. La prima cosa è l’impatto con i bagni
che sono all’aperto, fuori dalle stanze, la doccia è fredda
perché qui non esiste l’acqua calda e ci vuole coraggio ad
andar sotto quel debole getto... pensi a una strategia: prima
mi bagno a pezzi, poi mi insapono, poi mi risciacquo.
Non sono uno che va per il sottile, lo faccio e basta, in un
secondo sono sotto e si fa presto, anzi, finisci quasi per
abituarti... ma quanto è bello tornare in Italia per fare una
doccia calda. Quando ti lavi alla solita maniera capisci
quanto sei fortunato e quanto, per 29 lunghi anni, non te
ne sei mai accorto.
Allestiamo il percorso: è un circuito che si struttura in
postazioni perché mediamente ogni giorno sono previste
circa 450 visite. In diciotto, tra uomini e donne, ci
dividiamo i compiti: Lorenzo è fuori che fa il primo visus
naturale; Angelo fa l’elettricista e ci dà garanzia di corrente
continua; Orietta misura la pressione intraoculare; Luisa
instilla colliri; Flo ed Anna fanno l’autorefrattometria;
Gianna, Mara e Rossella sono le oculiste del gruppo,
guardano al microscopio il segmento anteriore del bulbo,
e con le loro lenti ispezionano la retina… c’è di tutto:
cataratte, colobomi, cheratoconi, glaucomi, distacchi.
Io sto alla rifrazione con Sandro e Francesca: anima e
cuore della missione, perché se siamo qui per dare occhiali,
noi siamo quelli che devono trovare la lente migliore
e poi prescriverla. Quando si va a ritirare l’occhiale
Luciano, Stefania e Lio cercano dal terminale quelli che
più s’avvicinano alla prescrizione, li pescano dal mare
delle nostre montature e passano la palla a Fabio e Carlo
che li provano, li rimodellano scaldandoli con la ventolina,
sperando che questo o l’altro paio si conformi al viso. Poi
fanno leggere ancora i pazienti, lontano e vicino… dovrebbe
essere ancora: “Now I can see”. In un’altra stanza, Franco
il cuoco, di giorno prepara panini, di sera cucina per noi.
Così è stato quasi ogni giorno prima a Mutoko, poi a
Musami, dove per sei giorni abbiamo visitato al St. Paul’s
Hospital: code interminabili di persone, ferme e silenziose
ad ogni postazione. Mi ricordo volti di uomini stanchi ma
reattivi, gente speranzosa di tornare a vedere, tanti sguardi
spenti da una piaga che infesta lo Zimbabwe e che si chiama
Hiv, non Ebola. Che dispiacere vedere quante cataratte
siano causa di grave ipovisione, se non di cecità! Quello
che in Italia si fa in mezz’ora, è un miraggio che dura tutti
gli anni di vecchiaia in quasi ogni angolo dell’Africa.
Io, come ortottista, ho avuto un canale preferenziale
sui bambini; queste creature piccole e vivaci sono il sale
del mio lavoro: ho visto i casi più gravi e, insieme alla
squadra, abbiamo cercato di risolverli. Non so come avrei
fatto senza i consigli di Sandro e Francesca, la disponibilità
di Luciano, le indicazioni delle oculiste, l’assistenza di
Orietta, la gestione delle cicloplegie da parte di Luisa…
Nei bambini si palesa la purezza, la spontaneità, la grazia
che in molti perdiamo crescendo, come vittime di questo
sistema sempre più condizionato dall’apparire piuttosto
che dall’essere.
Penso al modello competitivo occidentale e sorrido:
in Italia mi sono formato professionalmente, ho avuto
e continuo ad avere i migliori maestri che si possano
desiderare, ma in Africa ho trovato uno spirito di gruppo,
animato dall’amore verso il prossimo e non dalla
competizione di essere meglio di questo o di
quell’altro. Perché in Africa non c’è tempo
di mettersi a competere: hai troppi pazienti di cui prenderti
carico, con troppi problemi da affrontare, e ti servono gli
altri. Così, se agisci da solo le pile si scaricano in fretta,
ma se migliori la qualità della vita anche di uno soltanto, è
merito di tutti.
Per le strade, la gente ti saluta, ti sorride, ti batte le mani
in segno di ringraziamento, perché adesso ti può vedere
in faccia, proprio mentre tu puoi vedere nei loro vestiti
logori la grande povertà, che è la stessa mostrata ogni
giorno dalle televisioni, ma che dal vivo ha un altro sapore
e ti sconvolge, ti fa capire quant’è ingiusto il mondo e ti
chiedi il perché…uno dei più sensati della tua vita, padre
generatore di altri mille perché.
Eppure, accanto alla grande miseria sussiste una dignità
ancor più grande che puoi riscoprire nei gesti semplici
delle persone: un vecchietto che è appena tornato a vedere
si “impettisce” e si sistema camicia e giacchetta quando
gli chiedi: “Sir, can we make a photo?”. Tu puoi essere il
dottore, ma i protagonisti saranno sempre loro e alla fine
della fiera ti accorgi che quanto hai dato lo hai ricevuto due,
dieci, cento volte tanto sottoforma di sorrisi, benedizioni, e
attimi di felicità segnati dalla
condivisione reciproca di un
momento importante della
vita: quello in cui si torna a
vedere. Loro il mondo fuori,
tu quello dentro te stesso.
Giorgio Placidi
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