IL MONDO FUORI E DENTRO Testimonianza di un ortottista in missione medico-umanitaria nello Zimbabwe “Now I can see…”. E ’ trascorso poco meno di un mese dal mio ritorno in Italia, ma la sera, quando chiudo gli occhi per addormentarmi, mi capita ancora di ascoltare quella frase che suona così: “Now I can see”. Significa: “Adesso posso vedere”. L’avrò sentita almeno due, trecento volte come una musica che scandisce il ritmo rapido dei miei passi sul suolo dalla sedia all’ottotipo, dall’ottotipo alla sedia e dà sollievo alla pesantezza che carica e scarica le gambe: “Now I can see” mi rende paziente. E’ la voce del vecchio che per ottant’anni non ci ha visto, ma ora sì; quella del giovane, che ha camminato per trenta, quaranta chilometri per venire a sussurrarmelo sorridendo; della cinquantenne presbite, che non riesce più a leggere e tutto ciò che desidera è il suo occhialino per le brevi distanze. Due vetri davanti agli occhi e per lui, o lei, s’è fatto giorno… l’ha fatto Giorgio? No, anche oggi, ancora una volta, l’ha fatto Dio. L’Africa è un’esperienza tanto unica quanto sconvolgente. Qualcuno m’ha chiesto: “Qual è stato il primo impatto che hai avuto appena sceso dall’aereo?”. Io ho guardato il tramonto, mentre aspettavamo le valigie: il sole cala con una fretta quasi occidentale, ma qui è l’unico a correre. Ed è rosso come una susina: si fonde col cielo in sfumature indaco e violetto. Il nostro viaggio da Roma ad Harare, con scalo prima a Dubai poi a Lusaka, è un’odissea che dura circa venti ore, ma non puoi permetterti ancora il lusso della stanchezza: c’è da caricare i bagagli sulla camionetta venuta a prenderci e fare altre due ore e mezza di viaggio in pulmino, al buio, solo con la luce dei fari perché qui, lungo la strada, non esistono lampioni. Centosettantacinque chilometri per arrivare alla remota e rurale Mutoko, dove dormiremo per tre notti, nell’ostello degli infermieri del Guidotti Hospital che Massimo Migani, l’attuale direttore sanitario della struttura, ci ha 12 - ottobre 2014 messo a disposizione. Massimo ha un cuore grande: lo sai già dal sorriso accogliente e ci aspetta fuori dall’aeroporto con Lucia, che gestisce la parte amministrativa. Il Guidotti è una realtà italiana, che affonda le proprie radici nell’opera della missionaria da cui prende il nome. E’ qui che l’Eye-Team dell’associazione Maniverso comincerà a visitare domani. Sono le 23:45 quando mi infilo nel sacco a pelo: prima mi sono spruzzato l’antirepellente contro le zanzare, ho circondato il letto dove dormo con una retina che scende dal soffitto, mi sono infilato nel sacco a pelo. Prego, prima di addormentarmi. Siamo venuti dall’Italia con valigie piene di occhiali: abbiamo oltre 5000 montature usate, ma perfettamente rimesse a nuovo dai tecnici di Luxottica. La sveglia è alle sei e un quarto. La prima cosa è l’impatto con i bagni che sono all’aperto, fuori dalle stanze, la doccia è fredda perché qui non esiste l’acqua calda e ci vuole coraggio ad andar sotto quel debole getto... pensi a una strategia: prima mi bagno a pezzi, poi mi insapono, poi mi risciacquo. Non sono uno che va per il sottile, lo faccio e basta, in un secondo sono sotto e si fa presto, anzi, finisci quasi per abituarti... ma quanto è bello tornare in Italia per fare una doccia calda. Quando ti lavi alla solita maniera capisci quanto sei fortunato e quanto, per 29 lunghi anni, non te ne sei mai accorto. Allestiamo il percorso: è un circuito che si struttura in postazioni perché mediamente ogni giorno sono previste circa 450 visite. In diciotto, tra uomini e donne, ci dividiamo i compiti: Lorenzo è fuori che fa il primo visus naturale; Angelo fa l’elettricista e ci dà garanzia di corrente continua; Orietta misura la pressione intraoculare; Luisa instilla colliri; Flo ed Anna fanno l’autorefrattometria; Gianna, Mara e Rossella sono le oculiste del gruppo, guardano al microscopio il segmento anteriore del bulbo, e con le loro lenti ispezionano la retina… c’è di tutto: cataratte, colobomi, cheratoconi, glaucomi, distacchi. Io sto alla rifrazione con Sandro e Francesca: anima e cuore della missione, perché se siamo qui per dare occhiali, noi siamo quelli che devono trovare la lente migliore e poi prescriverla. Quando si va a ritirare l’occhiale Luciano, Stefania e Lio cercano dal terminale quelli che più s’avvicinano alla prescrizione, li pescano dal mare delle nostre montature e passano la palla a Fabio e Carlo che li provano, li rimodellano scaldandoli con la ventolina, sperando che questo o l’altro paio si conformi al viso. Poi fanno leggere ancora i pazienti, lontano e vicino… dovrebbe essere ancora: “Now I can see”. In un’altra stanza, Franco il cuoco, di giorno prepara panini, di sera cucina per noi. Così è stato quasi ogni giorno prima a Mutoko, poi a Musami, dove per sei giorni abbiamo visitato al St. Paul’s Hospital: code interminabili di persone, ferme e silenziose ad ogni postazione. Mi ricordo volti di uomini stanchi ma reattivi, gente speranzosa di tornare a vedere, tanti sguardi spenti da una piaga che infesta lo Zimbabwe e che si chiama Hiv, non Ebola. Che dispiacere vedere quante cataratte siano causa di grave ipovisione, se non di cecità! Quello che in Italia si fa in mezz’ora, è un miraggio che dura tutti gli anni di vecchiaia in quasi ogni angolo dell’Africa. Io, come ortottista, ho avuto un canale preferenziale sui bambini; queste creature piccole e vivaci sono il sale del mio lavoro: ho visto i casi più gravi e, insieme alla squadra, abbiamo cercato di risolverli. Non so come avrei fatto senza i consigli di Sandro e Francesca, la disponibilità di Luciano, le indicazioni delle oculiste, l’assistenza di Orietta, la gestione delle cicloplegie da parte di Luisa… Nei bambini si palesa la purezza, la spontaneità, la grazia che in molti perdiamo crescendo, come vittime di questo sistema sempre più condizionato dall’apparire piuttosto che dall’essere. Penso al modello competitivo occidentale e sorrido: in Italia mi sono formato professionalmente, ho avuto e continuo ad avere i migliori maestri che si possano desiderare, ma in Africa ho trovato uno spirito di gruppo, animato dall’amore verso il prossimo e non dalla competizione di essere meglio di questo o di quell’altro. Perché in Africa non c’è tempo di mettersi a competere: hai troppi pazienti di cui prenderti carico, con troppi problemi da affrontare, e ti servono gli altri. Così, se agisci da solo le pile si scaricano in fretta, ma se migliori la qualità della vita anche di uno soltanto, è merito di tutti. Per le strade, la gente ti saluta, ti sorride, ti batte le mani in segno di ringraziamento, perché adesso ti può vedere in faccia, proprio mentre tu puoi vedere nei loro vestiti logori la grande povertà, che è la stessa mostrata ogni giorno dalle televisioni, ma che dal vivo ha un altro sapore e ti sconvolge, ti fa capire quant’è ingiusto il mondo e ti chiedi il perché…uno dei più sensati della tua vita, padre generatore di altri mille perché. Eppure, accanto alla grande miseria sussiste una dignità ancor più grande che puoi riscoprire nei gesti semplici delle persone: un vecchietto che è appena tornato a vedere si “impettisce” e si sistema camicia e giacchetta quando gli chiedi: “Sir, can we make a photo?”. Tu puoi essere il dottore, ma i protagonisti saranno sempre loro e alla fine della fiera ti accorgi che quanto hai dato lo hai ricevuto due, dieci, cento volte tanto sottoforma di sorrisi, benedizioni, e attimi di felicità segnati dalla condivisione reciproca di un momento importante della vita: quello in cui si torna a vedere. Loro il mondo fuori, tu quello dentro te stesso. Giorgio Placidi - ottobre 2014 13
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