Un-barbaro-che-non-era-privo-idi

Paolo Zoboli
«UN BARBARO CHE NON ERA PRIVO D’INGEGNO»:
SHAKESPEARE IN ITALIA TRA ALFIERI E MANZONI
L’ironica e geniale sintesi manzoniana posta a titolo di questa conversazione riassume esemplarmente i termini del discorso: da una parte, le critiche mosse a Shakespeare dal classicismo francese, che lo accusava di
essere rozzo ed estraneo alla tradizione greco-latina (‘barbaro’ appunto);
e, dall’altra, l’esaltazione preromantica e romantica del suo genio straordinario. Il sottotitolo, poi, dichiara francamente il punto di vista prevalentemente italianistico della ricognizione e l’ambito cronologico di essa:
circa mezzo secolo, dagli inizi dell’opera tragica di Alfieri (1775) al comparire del passo manzoniano nel Fermo e Lucia (1821-23). Inevitabilmente,
però, lo sguardo dell’italianista deve spingersi – in prospettiva comparatistica – a varcare le Alpi e la Svizzera (così importante in questa vicenda)
in direzione della Francia e della Germania; e, naturalmente, deve spingersi a varcare la Manica per giungere nella patria stessa di Shakespeare.
Senza contare, a proposito dei limiti cronologici, una altrettanto inevitabile fuga à rebours, dalla quale prendiamo le mosse.
1. Il classicismo rinascimentale italiano era tornato alla tragedia, esemplata sui modelli classici, e alla Poetica di Aristotele, dalla quale si erano tratte
le famose ‘unità’ di azione, di luogo e di tempo. Poi, mentre nel Seicento
infuriava in Europa la rivoluzione barocca, la Francia di Luigi XIV si era
proposta come roccaforte del classicismo soprattutto con il teatro tragico
di Pierre Corneille e poi di Jean Racine. Shakespeare era morto, frattanto,
nel 1616: ma in Italia e in Francia si sarebbe saputo qualcosa di lui soltanto dopo più di un secolo.
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Il primo accenno a Shakespeare da parte di un italiano si trova infatti
nella lettera prefatoria di Antonio Conti alla sua tragedia Il Cesare (1726):
«Sasper [sic] è il Cornelio [Corneille] degli Inglesi ma molto più irregolare
del Cornelio, sebbene al pari di lui ripieno di grandi idee e di nobili sentimenti». Ed è di tre anni dopo (1729) un più ampio discorso di Paolo
Rolli, che si trovava a Londra da circa un quindicennio e che – discorrendo della vita di Milton preliminarmente alla sua traduzione del Paradise
Lost – dichiara la sua ammirazione per Shakespeare, «prodigioso» e «sublime ingegno», attribuendo quanto «nelle sue stampate opere leggesi o
non sublime o inelegante o disdicevole, insomma tutto quello ove non si
scorge Shakespear» a corruzioni dovute alla pratica teatrale; e che infine,
paragonandolo a Dante, afferma: «eglino due soli mi fanno altamente
meravigliare d’aver i primi tanto sublimemente poetato nella loro lingua,
onde gli altri facilmente poi calcassero il sentiero già fatto».
In quegli stessi anni, tra il 1727 e il 1729, vive a Londra Voltaire, che
nelle sue Lettres écrites de Londres sur les Anglois (1734, nel 1758 con il titolo
Lettres philosophiques) presenterà la cultura inglese ai suoi connazionali. Fra
esse – dopo alcune dedicate a Bacone, a Locke, a Newton, che porranno
le basi filosofiche dell’Illuminismo – trova posto una lettera (la XVIII) Sur
la tragédie, nella quale abbiamo (seguito da una traduzione – in realtà un
maldestro rifacimento – del celeberrimo monologo di Amleto) il suo primo giudizio ‘ufficiale’ su Shakespeare: «Shakespear, che passava per il
Corneille inglese, [...] aveva un genio pieno di forza e di fecondità, di naturalezza e di sublime, senza la minima scintilla di buon gusto e senza la
minima conoscenza delle regole. Sto per dirvi una cosa azzardata, ma vera: cioè che i meriti di questo autore hanno rovinato il teatro inglese; ha
delle scene così belle, dei brani così grandi e così terribili sparsi nelle sue
mostruose farse che vengono chiamate tragedie, che questi lavori sono
sempre stati rappresentati con grande successo. Il tempo, che solo fa la
reputazione degli uomini, rende alla fine rispettabili i loro difetti. La
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maggior parte delle idee bizzarre e gigantesche di questo autore hanno
acquisito, in capo a centocinquant’anni, il diritto di passare per sublimi».
Voltaire, padre fondatore e poi, soprattutto negli anni svizzeri del castello di Ferney (dal 1759 fino alla morte nel 1778), maestro dell’Illuminismo, non dava un giudizio disinteressato: aveva infatti iniziato con l’Œdipe del 1718 una attività di tragediografo che, protratta fino all’Agathocle
di sessant’anni dopo, lo avrebbe portato a essere il terzo grande tragico
francese dopo i due grandi del secolo di Luigi XIV. La fama di Shakespeare, noto dunque sia in Italia che in Francia come il ‘Corneille inglese’,
non poteva non infastidirlo. Assertore di una forma classica della tragedia, basata sulle unità aristoteliche, nel 1736, con la sua Mort de César, aveva imitato il Julius Cesar, del quale nel 1764 avrebbe tradotto i primi tre
atti; ma nel 1748, nella Dissertation sur la tragédie ancienne et moderne premessa alla sua Sémiramis, sferra un brutale attacco contro Hamlet e contro il
suo autore: «è un lavoro grossolano e barbaro, che non sarebbe tollerato
dal più vile popolaccio della Francia e dell’Italia [...]; si direbbe che quest’opera sia il frutto dell’immaginazione di un selvaggio ubriaco».
Intanto, però, alcune opere di Shakespeare erano state tradotte in
Francia da Pierre Antoine de La Place che, nei primi quattro tomi (1746)
del suo Le Théâtre Anglois, aveva proposto (non integralmente, se si esclude Riccardo III, ma riassumendo molti tratti di essi) Otello, Enrico VI
(parte III), appunto Riccardo III, Amleto, Macbeth, Cimbelino, Giulio Cesare,
Antonio e Cleopatra, Timone, Le allegre comari di Windsor. E non si può affatto
escludere che il travaso di bile documentato dalla Dissertation volterriana
– la storia, come vedremo, si ripeterà – sia dovuto proprio a quei volumi
(nel secondo si trova appunto Amleto).
Dieci anni esatti dopo le traduzioni di La Place compare il Giulio Cesare
stampato a Siena, nel 1756, da Domenico Valentini, che fino agli ultimi
anni del secolo resterà l’unica traduzione in lingua italiana data alle stampe di un testo di Shakespeare. Tuttavia non sarà inutile ricordare che A-
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lessandro Verri, dopo aver passato qualche tempo in Inghilterra, traduce
Amleto, dando notizia di ciò al fratello Pietro in una famosa lettera del
1769, nella quale trascrive anche, a mo’ di esempio, la sua «traduzione
letterale, una parola dopo l’altra», del «famoso monologo, che ha tradotto
anche Voltaire»: Alessandro non mostra di conoscere il Giulio Cesare del
Valentini e lamenta la scarsissima qualità del Théâtre Anglois di La Place.
«Quell’autore», scrive poi, «è tanto difficile, che neppure la metà degl’inglesi lo intendono bene, come pochi italiani intendono Dante». E infine,
forte della sua esperienza diretta di traduttore, afferma: «Ho veduto che
Voltaire o non sa bene questa lingua, o ha voluto, a tutt’i conti, mettere
in ridicolo Shakespeare». In seguito Alessandro avrebbe tradotto anche
Otello: ma le due versioni rimasero inedite.
Risale a pochi anni dopo, al 1775, la ‘conversione’ letteraria del conte
Vittorio Alfieri e il suo proposito – riuscito, come certificheranno il vecchio Parini e il giovane Manzoni, e poi il Leopardi della canzone Ad Angelo Mai – di diventare il primo tragico italiano. Per l’anno 1776, ma riferendosi al fatidico anno precedente, Alfieri scrive nella sua Vita (IV, II):
«Chi molto legge prima di comporre, ruba senza avvedersene, e perde
l’originalità, se l’avea. E per questa ragione anche avea abbandonato fin
dall’anno innanzi la lettura di Shakespeare (oltre che mi toccava di leggerlo tradotto in francese). Ma quanto più mi andava a sangue quell’autore
(di cui però benissimo distingueva tutti i difetti), tanto più me ne volli astenere». Che all’astigiano dal «forte sentire» (all’Alfieri ‘preromantico’)
Shakespeare andasse «a sangue», non sorprende; né che trovasse in lui dei
«difetti» l’autore che avrebbe forgiato le sue tragedie con una rigorosa osservanza delle unità aristoteliche (l’Alfieri ‘classicista’). A Vittorio, che evidentemente non conosceva adeguatamente l’inglese nonostante i suoi
due soggiorni londinesi del 1768 e poi del 1771, Shakespeare «toccava di
leggerlo tradotto in francese», e il riferimento, relativo al 1775, non può
che essere alla traduzione di La Place: all’astigiano, che in quei mesi sten-
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deva le sue prime tragedie in prosa francese, la lingua di Corneille e di
Voltaire era del resto allora più familiare che l’italiano.
L’anno dopo, nel 1776, compare poi il primo volume di una traduzione integrale di Shakespeare, opera di Pierre Le Tourneur, che uscirà a Parigi, in venti volumi, fra quell’anno e il 1783. E qui occorre aprire una
breve parentesi su questo traduttore, che in quegli anni offre la possibilità
di leggere in francese testi inglesi capitali per la nuova cultura: le Notti di
Edward Young, le Tombe di James Hervey, e poi, mentre traduce Shakespeare, le poesie di Ossian di James Macpherson e la Clarissa di Samuel
Richardson. Ebbene, in quel 1776 Voltaire scrive due famose lettere, una
all’Académie française e l’altra al conte d’Argental, nelle quali attacca violentemente Le Tourneur e con lui il sommo poeta inglese: «E per colmo
di calamità e d’orrore», scrive il patriarca di Ferney nella seconda, «sono
io che un tempo parlai per primo di questo Shakespeare; sono io che per
primo mostrai ai Francesi alcune perle che avevo trovate nel suo enorme
letamaio. Non mi aspettavo che sarei servito un giorno a calpestare le corone di Racine e di Corneille, per ornarne la fronte di un istrione barbaro».
Al nuovo, virulento attacco del filosofo e tragico francese al tragico
inglese risponde un italiano, Giuseppe Baretti, che l’anno successivo
pubblica, contemporaneamente a Parigi e a Londra, il suo Discours sur
Shakespeare et sur monsieur de Voltaire. Baretti, allora cinquantottenne, era
stato in Inghilterra per un decennio, dal 1751 al 1760, entrando in contatto con alcuni tra i maggiori esponenti del mondo culturale (Richardson, Fielding, l’attore shakespeariano Garrick, soprattutto Samuel Johnson) e pubblicando numerosi scritti in inglese oltre a un dizionario
delle due lingue (A Dictionary of the English and Italian Languages, 1760:
quello, per inciso, utilizzato da Alessandro Verri); e poi vi era ritornato
nel 1766, dopo l’esperienza come Aristarco Scannabue nella «Frusta letteraria»: a Londra, nel 1769, era stato nominato segretario per la corri-
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spondenza straniera della Reale Accademia di Belle arti, e nella capitale
inglese sarebbe morto nel 1789. Dopo aver asserito che Voltaire conosceva poco o nulla l’inglese, e dopo aver ridicolizzato la sua nota traduzione del monologo di Amleto, Baretti individua la ragione di tanto astio
nel fatto che il vecchio Voltaire temeva che le traduzioni di Le Tourneur
smascherassero la sua millantata conoscenza dell’inglese e degli Inglesi.
Voltaire, scrive, «non ha affatto tradotto il Giulio Cesare di Shakespeare:
l’ha assassinato. Il Giulio Cesare di Shakespeare piace a tutti coloro che intendono l’inglese. La traduzione del signor di Voltaire fa vomitare le budella a chiunque intenda il francese»; e poi: «quasi tutto quello che [Voltaire] ha detto di Shakespeare non è che insolenza, malignità, brutalità e
stupidità». Tuttavia, come ha scritto Ettore Bonora, «il Baretti non restò
impigliato nella lunga dimostrazione degli errori del suo grande avversario», ma «poté arrivare a un’interpretazione di Shakespeare che, insieme
con quella data da Lessing nella Drammaturgia amburghese, resta la più notevole tra le non molte tentate fuori dall’Inghilterra prima del romanticismo, ed è, se non vera e propria anticipazione di tesi romantiche, uno dei
più arditi punti d’arrivo della critica settecentesca». Leggiamo, allora, un
passo del Discours che merita di essere riportato per intero: «Io stesso
credo che la versione del segretario [Le Tourneur] non varrà nulla, perché conosco abbastanza le due lingue per essere sicuro in anticipo che
Shakespeare non è traducibile in francese. So che in generale la poesia è
come il buon vino: non lo si travasa senza che perda la sua bontà. A questo aggiungete che la poesia di Shakespeare non potrebbe essere tradotta
anche solo passabilmente in alcuna delle lingue derivate dal latino, perché
le sue bellezze non assomigliano alle bellezze poetiche di quelle lingue,
modellate in origine su bellezze per la maggior parte latine. / Shakespeare non sapeva né latino, né greco, né alcun’altra lingua. Non aveva in
proprio possesso che una profonda conoscenza della natura umana, uno
di quei genii, così rari ovunque, che si chiamano ‘genii d’invenzione’, e
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oltre a ciò una immaginazione tutta di fuoco. Con queste tre qualità,
Shakespeare seppe plasmare, all’età di trentadue anni, una lingua talvolta
volgare e piena di affettazione, ma più spesso compatta, energica, violenta, dalla quale scaturisce una poesia che innalza l’anima quando vuole. /
È questa poesia che non si potrebbe rendere in alcuna delle lingue derivate dalla latina».
2. In quegli stessi anni Shakespeare è al centro del nuovo fermento di idee che in Germania va sotto il nome di Sturm und Drang. I tedeschi potevano contare allora su un’ampia traduzione (26 drammi) compiuta fra il
1762 e il 1766 da Wieland; mentre immediatamente successiva (17671768) è la già citata Drammaturgia amburghese di Lessing. Inizia così, da
parte della cultura tedesca, un vero e proprio processo di ‘appropriazione’ di Shakespeare. Emblematico è lo scritto di un Goethe ventiduenne,
Per l’onomastico di Shakespeare (1771): «La prima pagina che lessi di lui mi
conquistò per la vita, e quando ebbi terminato il primo dramma, rimasi
come un cieco nato a cui una mano miracolosa avesse d’un tratto donato
la vista. [...] / Il teatro di Shakespeare è una bella vetrina di rarità, in cui la
storia del del mondo trascorre dinanzi ai nostri occhi sul filo invisibile del
tempo [...]: le sue opere ruotano tutte intorno al punto nascosto (che ancora nessun filosofo ha visto e determinato), in cui la particolarità del nostro io, la presunta libertà del nostro volere si scontra con il corso necessario del Tutto. [...] Voltaire, che oltraggiava per mestiere ogni autorità
riconosciuta, si è dimostrato anche qui un vero Tersite. Se io fossi Ulisse,
egli dovrebbe torcere la schiena sotto il mio scettro. / La maggior parte
di questi signori si scandalizzano soprattutto dei tipi di Shakespeare. / E
io grido: Natura! Natura! Nulla è natura quanto i suoi personaggi. / [...] E
come ardirà il nostro secolo giudicare la natura?» Due anni dopo, con il
Götz von Berlichingen, Goethe offre un esempio di dramma shakespeariano
tedesco; e nel 1781 il giovane Schiller, con i suoi Masnadieri, fa scrivere a
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un entusiasta recensore: «Se mai avevamo da attenderci uno Shakespeare
tedesco, eccolo».
Non sembri inappropriato, a questo punto, trasferirci a Venezia, dove
la produzione libraria, alla fine del Settecento, è assai fervida. Troviamo
innanzitutto, nel 1788, una delle prime traduzioni italiane del Werther di
Goethe, capolavoro del periodo stürmeriano del poeta; e, nel 1792, la
prima del Viaggio sentimentale di Sterne. È la Venezia nella quale si compie
la formazione (1793-1797) di un ragazzo di genio: Niccolò (poi Ugo) Foscolo; e nella quale vengono stampate, negli anni immediatamente successivi (1798-1800), le prime traduzioni da Shakespeare in lingua italiana
dai tempi di Valentini (dunque dopo oltre quarant’anni): quelle di Otello,
Macbeth e Coriolano opera della nobildonna Giustina Renier Michiel.
Ma torniamo alla formazione di Foscolo. Documento centrale di essa
è il cosiddetto Piano di studi, steso dal poeta diciottenne nel 1796. In esso
un ideale canone classicista e un ideale canone preromantico appaiono
compresenti nella rubrica Poesia, tanto alla sottorubrica Epici: «Omero /
Ossian / Virgilio / Dante / Tasso / Milton»; quanto alla sottorubrica
Tragici: «Soffocle / Shakespeare / Voltaire / Alfieri». Fra i tragici, i grandi
assenti sono naturalmente Corneille e Racine; mentre la grande acquisizione è Alfieri, ineludibile dopo la stampa parigina delle Tragedie dovuta a
Didot (1787-1789). Di Shakespeare, negli scritti di questo periodo, non si
trova alcuna altra menzione. Di seguito alle rubriche Critica e Arti, e a
conclusione di esse, si legge: «Di altri studj non ho cognizione di sorte.
In questi pure ci vuole quel Genio divino che costituisce la miglior parte
dell’uomo, che innoltra la ragione alla cognizion delle cause, che innalza
al sublime, che lumeggia gli aspetti della Natura e del Bello – il Genio in
somma. –» Il fatto è che a questa altezza – e (diciamolo pure) assai riduttivamente – per il giovane Foscolo l’emblema del genio è Melchiorre Cesarotti. Professore all’università di Padova, Cesarotti era importante soprattutto per la sua attività di traduttore dal greco, dal francese (e specifi-
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camente dal Voltaire tragico: La morte di Cesare) e dall’inglese: la Elegy di
Gray (1772) e, soprattutto, le celeberrime Poesie di Ossian (1763 e 1772).
Dopo Campoformio, nel novembre del 1797, Foscolo lascia Venezia
per recarsi prima a Milano e di qui, nell’agosto successivo, a Bologna,
dove prende forma la prima redazione delle Ultime lettere di Jacopo Ortis,
che il libraio Marsigli comincia a stampare verso la fine dell’anno e che,
notoriamente, resterà interrotta al primo tomo. Nella lettera
XXXVII,
da-
tata «14, Maggio [1798]», Jacopo-Ugo fissa il canone supremo dei suoi
autori: «Ma..., se anche fossi pittore? ho veduto ne’ pittori e ne’ poeti la
bella, e talvolta anche la schietta natura, ma la natura somma, immensa,
inimitabile non l’ho veduta dipinta mai. Omero, Ossian e Dante, i tre
maestri di tutti gli ingegni sovrumani, hanno investito la mia fantasia ed
infiammato il mio cuore: ho bagnato di caldissime lagrime i loro versi; e
ho adorato le loro ombre divine come se le vedessi, assise su le volte eccelse che sovrastano l’universo, a dominare l’eternità. Pure... gli originali
che mi vedo dinanzi mi riempiono tutte le potenze dell’anima, e non oserei, Lorenzo.... non oserei, se anche si trasfondesse in me il genio del Michelangelo, tirarne le prime linee».
Dopo quella nel Piano di studi, le prime citazioni di Shakespeare da parte di Foscolo risalgono allo stesso 1798. Peraltro una di esse, nell’Esame
su le accuse contro Vincenzo Monti, è solo un cenno «al Cesare del Shakespeare, del Voltaire e del Conti»; mentre ben più interessante si rivela la seconda, da un articolo sul «Monitore italiano» del marzo, nel quale Ugo
definisce Alfieri «uomo divino, rimpetto a cui non più ostenta il suo
Cornelio la Francia nè l’Anglia l’originale suo Shakespeare». Insomma, se
pure riconosce l’originalità del tragico inglese, Foscolo resta alfieriano:
dunque né corneliano né shakespeariano. Tanto più sorprende allora che,
quando il poeta pubblica a Milano, alla fine del 1801, il primo tomo
dell’edizione Mainardi dell’Ortis, il passo sopra citato venga così corretto:
«Omero, Dante, e Shakespeare, i tre maestri di tutti gl’ingegni sovruma-
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ni». E tale esso resterà – rimasta ferma al primo tomo anche la Mainardi
– nella successiva stampa milanese del Genio Tipografico (1802), in quella zurighese del 1816 e in quella londinese del 1817.
Non soccorrono documenti puntuali sull’apertura culturale che porta
Foscolo, dal 1798 al 1801, a sostituire Ossian con Shakespeare. Due dati
ineludibili sono però l’allontanamento dal magistero di Cesarotti e l’acquisizione negli anni milanesi (1801-1804), tramite gli esuli napoletani
Cuoco e Lomonaco, della lezione di Giambattista Vico e della sua Scienza
nuova. La prima citazione esplicita del filosofo napoletano da parte di Foscolo si trova nella Chioma di Berenice, a stampa, ancora presso il Genio
Tipografico, nel novembre del 1803. Sempre nella Chioma si legge il passo seguente: «Ma i poeti primitivi teologi e storici delle loro nazioni vissero siccome Omero e i profeti d’Israele in età ferocemente magnanime; e
Shakespeare che insegna anche oggi al volgo inglese gli annali patrii, viveva fra le discordie civili indòtto d’ogni scienza, e l’Alighieri cantò i tumulti d’Italia sul tramonto della barbarie, valoroso guerriero, ardente cittadino ed esule venerando». La fonte sembra proprio essere la vichiana
Scienza nuova, tanto per i ‘poeti teologi’ («della qual poesia furon autori i
primi popoli, che si truovano essere stati tutti di poeti teologi, i quali,
senza dubbio, ci si narrano aver fondato le nazioni gentili con le favole
degli dèi»: Idea dell’opera) quanto per i ‘poeti storici’, fra i quali appunto
Foscolo annovera Shakespeare (« i poeti dovetter esser i primi storici delle nazioni»: libro III, 5, X).
3. Il fatto è che dello Sturm und Drang, a parte il Werther, ben poco filtra in
Europa e soprattutto in Italia; e lo stesso discorso, fino a tutto il primo
decennio dell’Ottocento, vale più o meno per il fulgido periodo del cosiddetto ‘classicismo di Weimar’ (Weimarer Klassik: 1794-1805), che ruota
attorno alle figure di Goethe e Schiller, e del primo Romanticismo tedesco (Frühromantik) che ruota intorno al cosiddetto ‘gruppo di Jena’ e alla
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rivista dei fratelli Schlegel, «Athenaeum» (1798-1800). Shakespeare resta
centrale nell’opera del Goethe weimariano con il nuovo romanzo Gli anni
dell’apprendistato di Wilhelm Meister (1795-1796): e dal romanzo goethiano
prendono spunto i giovani romantici per una celebrazione del genio shakespeariano assolutamente centrale nella loro visione. Basti qui citare,
riassuntivamente, il frammento 247 di Friedrich Schlegel sul secondo fascicolo della rivista, del luglio 1798: «Il poema profetico di Dante è
l’unico sistema della poesia trascendentale, ancora il sommo nel suo genere. L’universo di Shakespeare è come il punto medio dell’arte romantica. La pura poesia poetica di Goethe è la più compiuta poesia della poesia. Questa è la grande triade della poesia moderna, il circolo più intimo e
più sacro tra tutte le sfere più strette e più lontane della scelta critica dei
classici della poesia moderna».
Tuttavia, terminata la breve vita della rivista e del ‘gruppo di Jena’, non
saranno le pagine di «Athenaeum», o i concentratissimi (e spesso oscuri)
scritti di Friedrich e del suo amico Novalis, a diffondere le idee romantiche in Europa. Questo compito, di incalcolabile importanza storica e culturale, sarà assolto da August Wilhelm Schlegel con la fondamentale collaborazione di una nobildonna svizzera: Anne-Louise-Germaine Necker
de Stäel-Holstein, figlia del banchiere ginevrino Jacques Necker. Nel dicembre del 1803 Mme de Staël intraprende un viaggio in Germania nel
corso del quale incontra Wieland, Goethe, Schiller e, appunto, August
Wilhelm Schlegel. Quest’ultimo, nella primavera successiva, la seguirà
come precettore dei figli nel dorato esilio di Coppet, sul lago di Ginevra,
dove la nobildonna si è dovuta ritirare per l’ostilità di Napoleone. È a
Coppet che il Romanticismo acquista respiro europeo. Nel 1813 Mme de
Staël stampa a Parigi e a Londra il suo ampio trattato sulla Germania, inteso a divulgare la cultura tedesca in Europa: e nonostante gli uomini di
cultura, in Italia, leggessero il francese, già l’anno dopo compare una traduzione italiana dell’opera. Intanto a Vienna, nel 1808, August Wilhelm
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aveva tenuto un ciclo di Lezioni sull’arte e sulla letteratura drammatica, stampate in Germania tra il 1809 e il 1811. Nel 1814 compare di esse una traduzione francese, anonima ma dovuta a Adrienne-Albertine Necker de
Saussure, cugina della Staël: l’edizione, che reca il titolo Cours de littérature
dramatique e viene stampata tra Ginevra e Parigi, è chiaramente promossa
dalla stessa Staël, e sorvegliata da Schlegel in persona. Seguirono presto
una traduzione in inglese (1815) e una in italiano (1817). Se a De l’Allemagne e al Cours aggiungiamo De la littérature du Midi de l’Europe (1813) di
Sismondi, che completa idealmente l’opera della Staël, ci accorgiamo che
dal gruppo di Coppet, nel breve giro di due anni, giungono all’Europa i
tre ‘vangeli’ della nuova letteratura.
Non c’è dubbio peraltro che, fra le tre opere, la più importante sia il
Cours de littérature dramatique: «il testo critico fondamentale di tutto il romanticismo europeo», come lo ha definito il germanista Ladislao Mittner.
Delle diciassette lezioni che compongono il corso, le prime dodici sono
dedicate ai Teatri classici: a quello greco e a quello latino, nonché a quello
italiano e a quello francese che ad essi si ispirano. Le ultime cinque lezioni, invece, sono dedicate ai Teatri romantici, ossia a quelli del mondo moderno, iniziato con il diffondersi del cristianesimo: al teatro inglese, al teatro spagnolo e al teatro tedesco. Naturalmente le prime due lezioni
(XIII-XIV) di quest’ultima parte sono consacrate interamente a Shakespeare, iniziatore del teatro romantico: del resto, tra il 1799 e il 1801 Schlegel
si era dedicato a una nuova traduzione in tedesco, dopo quella di Wieland, di diciassette drammi shakespeariani.
Nel gennaio del 1816 compare a Milano, sul primo numero della «Biblioteca Italiana», l’articolo famoso di Mme de Staël dal titolo emblematico Sulla maniera e la utilità delle Traduzioni, che farà esplodere la querelle fra
romantici e classicisti segnerà di fatto la nascita del Romanticismo italiano. In esso, che notoriamente esorta gli Italiani a non restare chiusi nelle
proprie passate glorie e ad aprirsi alle letterature europee per mezzo delle
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traduzioni, si trova un fugace accenno a Shakespeare e alla traduzione
schlegeliana; mentre in un successivo articolo del giugno, la Staël ha
buon gioco a scrivere: «Un letterato di Firenze [in nota: Il sig. Leoni] ha
fatto studj profondi sulla letteratura inglese, ed ha intrapresa una traduzione di tutto Shakespeare, poichè, cosa da non credere! non esiste ancora una traduzione italiana di questo grand’uomo». Non casualmente,
dunque, nei cosiddetti ‘manifesti romantici’ del 1816 (Breme, Borsieri,
Berchet) il nome di Shakespeare ritorna più volte.
Alle polemiche del 1816 non partecipa il più illustre esponente del
Romanticismo milanese: Alessandro Manzoni, che negli stessi mesi apre
la sua officina di autore tragico e insieme avvia la sua riflessione sulla tragedia. Il 25 marzo (dunque nei primissimi momenti della querelle classicoromantica) scrive infatti all’amico Claude Fauriel: «Dopo aver letto come
si deve Shakespeare e qualcosa di ciò che si è scritto in questi ultimi tempi sul teatro, e dopo avervi riflettuto, le mie idee si sono assai mutate su
certe reputazioni; non oso dirne di più, perché voglio sul serio fare una
tragedia». E il 13 luglio, allo stesso: «Ammasso delle idee e delle osservazioni per un lungo discorso che deve accompagnare la mia tragedia».
Manzoni si riferisce agli appunti raccolti nei cosiddetti Materiali estetici e
nell’abbozzo del discorso Della moralità delle opere tragiche, che saranno utilizzati per la stesura della Prefazione alla tragedia Il Conte di Carmagnola
(1820) e della Lettre à M. C.*** sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie
(anch’essa del 1820, a stampa tre anni dopo). In questo complesso di
scritti Manzoni delinea il suo sistema tragico, che nella Lettre definisce
«sistema storico» precisando che esso «rifiuta le due unità» di tempo e di
luogo e si contrappone dunque al «sistema delle due unità» codificato dal
classicismo francese del Seicento. In realtà la questione delle due unità è
solo il punto di partenza per formulare una nuova poetica che, senza ingiustificate e preconcette limitazioni, si fonda sulla storia per giungere a
scrutare gli abissi dell’animo umano: è in ciò consiste appunto la sua
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PAOLO ZOBOLI
«moralità», perché Manzoni sapeva, con il libro dei Proverbi, che «ubi
non est scientia animae, non est bonum» (19,2). Le opere tragiche non
devono, come porta a pensare la considerazione del solo «sistema delle
due unità», suscitare nello spettatore le medesime passioni dei personaggi: «bensì sollevandosi al di sopra di questa sfera limitata e agitata, nelle
pure regioni della disinteressata contemplazione, alla vista delle inutili
sofferenze e delle gioie vane degli uomini, si è più vivamente colpiti di
terrore e di pietà per sé stessi».
Il testo teorico di riferimento, per Manzoni, è il Corso di letteratura
drammatica di Schlegel; e, come in esso, la presenza di Shakespeare nella
meditazione manzoniana è centrale e determinante: anzi, si può dire che
della poetica manzoniana Shakespeare è l’incarnazione stessa. Schlegel
aveva definito il tragico inglese «il primo de’ poeti istorici»; ma già Foscolo – nel 1803, ovvero in un periodo in cui assai probabilmente frequentava a Milano il giovane Manzoni – lo aveva esaltato tra i grandi perché
con le sue histories «insegna [...] al volgo inglese gli annali patrii». Manzoni,
nella Lettre, afferma che Shakespeare, con il suo «genio», non ha rispettato le due unità e ha piuttosto seguito il «sistema storico»: soprattutto con
i suoi drammi storici, dunque, è inarrivabile poeta della storia ed incomparabile esploratore dell’animo umano. E anche la Traccia del Discorso sulla
Moralità delle Opere Drammatiche culmina emblematicamente nel nome del
drammaturgo inglese: «Le obbjezioni contro il dramma si risolvono in
questa: / Che si eccitano le passioni – e che non si può esser poeta
drammatico altrimenti. / Questo giudizio è nato dal non esaminare che
drammatici francesi. / Essi sono tali; ma si può e si deve interessare altrimenti. / Essi fanno simpatizzare il lettore con le passioni dei personaggi, e lo fanno complice. / Si può farlo sentire separatamente dai personaggi e dei personaggi, e farlo giudice. / Esempio insigne Shakespeare».
«UN BARBARO CHE NON ERA PRIVO D’INGEGNO»
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E poeta della storia, dopo la doppia conversione al cristianesimo e al
Romanticismo, è anche Manzoni con il Carmagnola e con l’Adelchi e, successivamente, con il romanzo. Proprio in un passo del Fermo e Lucia (I,
VII),
che ritornerà pressoché identico nei Promessi sposi, una citazione sha-
kespeariana (Julius Caesar, II, I) si situa al crocevia di una serie emblematica di rinvii: «Fra il primo concetto di una impresa terribile e l’adempimento, ha detto un barbaro che non era privo d’ingegno, l’intervallo è
un sogno pieno di fantasmi, e di paure». La stoccata è ovviamente, innanzitutto, a Voltaire e al suo «istrione barbaro»: ed è certo una coincidenza, ma suggestiva, che, se Manzoni mette mano al Fermo nell’aprile
del 1821, l’anno prima fosse stata stampata a Milano una traduzione del
Discours di Baretti. Inoltre, se per il Manzoni classicista (e pariniano) del
giovanile sermone sulla poesia (1804?) quello di Alfieri era un dantesco
«alto ingegno», per il Manzoni romantico, con una sorniona litote, Shakespeare «non era privo d’ingegno». Ma, soprattutto, il passo del Giulio
Cesare era citato in un passaggio importante del Corso di letteratura drammatica, quello in cui Schlegel, nella lezione decima, confuta il tentativo di
Voltaire di far derivare necessariamente le unità di luogo e di tempo da
quella d’azione: passaggio ricordato con onore da Manzoni nelle prime
pagine della Lettre allo Chauvet. E non sarà neppure casuale che poche
righe dopo Schlegel si ribelli alla famosa presa di posizione del filosofo e
tragico francese: «Noi non possiam sicuramente consentire di dare a questi ultimi [ai poeti romantici] il titolo di barbari»; come del resto aveva
fatto anche Mme de Staël, più puntualmente, in un passo della Germania
che Manzoni ebbe certo ben presente: «Shakespear, che si vuole chiamare un barbaro, ha forse uno spirito troppo filosofico, una penetrazione
troppo sottile per il punto di vista della scena; giudica i caratteri con
l’imparzialità di un essere superiore; [...] ma egli possiede ancor più la conoscenza del cuore umano che quella del teatro».
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PAOLO ZOBOLI
Insomma: Shakespeare sarà stato anche un «barbaro» – come voleva il
signor di Voltaire – se stiamo alle regole (classicistiche) del teatro: ma se
guardiamo alla «conoscenza del cuore umano» – ribattono concordi la
Staël, Schlegel e Manzoni – dobbiamo proprio riconoscere che era un
«barbaro» tutt’altro che «privo d’ingegno».
Gallarate, 29 novembre 2014