Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón Milano, 26 febbraio 2014 Testo di riferimento: L. Giussani, «La concezione che Gesù ha della vita», in All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, Milano 2001, pp. 99-125. • Parsifal (Canzone dell’ideale) • Witness Gloria Ci eravamo dati una domanda per il nostro lavoro: «Chi è Gesù?». Che cosa abbiamo conosciuto di più di Gesù lavorando sul capitolo ottavo? Questa non è una domanda retorica, che si pone all’inizio e poi la si dimentica, perché tutto il capitolo parla di questa domanda, non c’è neanche una riga che non parli di questa domanda. Allo stesso tempo, non soltanto rilancio la domanda, ma rincaro la dose: come il fare questo capitolo, e quello che abbiamo conosciuto di Gesù, ci consente di affrontare e di giudicare le sfide che si aprono davanti a noi, che la società, la cultura, la legislazione stanno aprendo davanti ai nostri occhi? È possibile stare dentro le circostanze, dentro queste sfide, con tutta la drammaticità che tali questioni introducono nella vita, con la luce che irradia dalla Scuola di comunità? O la Scuola di comunità in fondo è una cosa intimistica, che non serve per affrontare le grandi sfide antropologiche ed etiche che la società oggi dibatte? Sono le questioni a cui dobbiamo rispondere a partire dalla seconda parte del capitolo, come abbiamo fatto con la prima parte. Inizio con una domanda che mi è stata fatta: «Mi ha molto colpito la domanda che alla Scuola di comunità hai posto più volte: come rispondiamo alla domanda “Chi è Gesù?”; come ciascuno di noi, lungo questo mese, ha risposto alla domanda: “Chi è Gesù?” [non in astratto, prendendo spunto da questo o quel fatto, ma proprio facendo la Scuola di comunità]. Ogni volta che la ponevi sentivo il cuore sobbalzare e desideravo con tutta me stessa di cercare di dare una risposta. Molto spesso parlo di Gesù, parlo con Gesù, ma a questa domanda non sono riuscita a rispondere, e questo non mi fa stare tranquilla. Durante questo anno molte volte L’ho visto all’opera, L’ho riconosciuto e ho sperimentato… prima infatti ero molto cinica e titubante, ma dicendogli “Sì” si è più felici. Intuisco che la mia felicità consiste nell’abbandonarmi a Lui, ma nel momento in cui non so rispondere alla domanda “Chi è Gesù?” come può avere un fondamento, un senso tutto il resto?». La stessa cosa dice un’altra persona: «Sono uscita dalla Scuola di comunità stupita dalla domanda sintetica che ci hai posto verso la fine: “Questo capitolo deve farci sorgere la domanda ‘chi è Gesù?’ e se lo stiamo conoscendo di più”. Sembra quasi elementare come domanda, ma non mi stava neanche sfiorando la mente [eppure è la prima domanda che fa Giussani! Vedete che possiamo fare la Scuola di comunità trascurando la chiave di volta del capitolo. Per questo, se noi non prendiamo sul serio questa chiave, possiamo dire cose perfino bellissime del capitolo, ma esso non è capito così come l’ha concepito don Giussani]. Ero totalmente frammentata nel cercare di capire ogni singolo passaggio del capitolo e mi sembrava perfino di paragonarmi, ma la tua domanda è la domanda che mi ripone in un dialogo amoroso. Mi chiedevo tornando a casa: “Chi sei tu, Gesù, per me?”. L’ho lasciata lì nella speranza di vederla nella realtà. Il nostro gruppetto della scuola ci invitava a prepararci tenendo presente queste tue parole: “Non è il ragionamento astratto che fa crescere, che allarga la mente, ma il trovare nell’umanità un momento di verità raggiunta e detta”. Ci risiamo. In questo io sono maestra! Sinceramente io faccio la Scuola di comunità, ma quante volte mi perdo in perfetti ragionamenti che mi allontanano. Ma io dove sono? È tremendo non avere uno sguardo serio e amoroso verso me stessa, ma spesso è così. Leggevo la Scuola di comunità, leggevo di uno sguardo con cui Gesù mi guarda e mi ama e io stavo lì a cercare di tirarmi via la nostalgia. Mi trovavo triste e “amputata”. Poi un giorno è successa una cosa che mai avrei pensato. Come tutti i giorni, è tornata a casa da scuola mia figlia Letizia di tredici anni. Ci sediamo 2 e mangiamo insieme agli altri fratelli. Lei stranamente tiene banco (è abbastanza silenziosa normalmente) e racconta che la prof di italiano le ha fatto conoscere il poeta Leopardi. Va in camera, prende le poesie e ne legge dei pezzi. I fratelli più piccoli presto si stufano e se ne vanno. Così lei ha più spazio per esprimersi. Io ho una grande passione per lei, ha un temperamento solare ma anche “triste”; lei è per me tante volte strada, tante cose le ho capite con lei. Insomma è una gran risorsa averla con noi. E così legge, racconta a braccio delle cose dette in classe. Cita a memoria questa frase: “Chi ama molto, ma non è amato è destinato a vivere della mancanza”. A questo punto capisco che il Leopardi spiegato non era appena quello de Il sabato del villaggio ma che la prof aveva fatto un affondo sul cuore di Leopardi. E così le chiedo: “Dimmi perché ti piace così tanto e dimmi perché lo stai raccontando”. Io non lo posso più dimenticare e permea le mie giornate, ha risposto così: “Perché lui è triste e questo me lo fa sentire vicino; ma lui è troppo triste. Non si può vivere così tutta la vita. Lo racconto a te perché tu, mamma, sei una gran ‘burlona’ ma io quando ti guardo penso che tu sei nostalgia; e questo a me piace molto”. Io sono rimasta senza parole. Un pezzo di realtà spiegava la realtà stessa e di che cosa sono fatta io. Avevo trovato nella mia umanità “un momento di verità raggiunta e detta” che nessun mio pensiero perfetto avrebbe saputo riprodurre». Una madre si rende veramente conto di chi è, di chi è come persona, perché si trova davanti una figlia che le fa capire le cose meglio di tutti i suoi ragionamenti, e questo è possibile perché alla figlia è successo qualcosa per cui può guardare la madre così; e la madre può sentirsi di nuovo cosciente di sé. Perché? Soltanto il divino salva le dimensioni dell’umano. Possiamo riconoscere che stiamo conoscendo Cristo, non perché facciamo un discorso su Cristo, ma perché ci fa diventare noi stessi. Un’altra amica mi dice: come la familiarità con Cristo non è intimismo? «Ti chiedo questo perché il desiderio continuo che ho di questa familiarità [intuiamo che c’è qualcosa in questa familiarità che è cruciale per la vita, ma tante volte ci viene la preoccupazione, il sospetto che questo parlare di Cristo sia intimistico, che non sia veramente reale] lo spiega bene il don Gius in un intervento del 1982 che si intitola, appunto, La familiarità con Cristo. Lui dice che la familiarità con Cristo, “è come se dovesse passare un vento a strapparci via tutto quello che siamo; allora il cuore ridiventa libero, o meglio, diventa libero: continua a vivere nella carne, cioè sbaglia come prima, ma è come se un’altra cosa fosse entrata nel mondo”. Questa è esattamente l’esperienza di libertà più grande che io faccio. Io ho veramente bisogno che Lui mi liberi da quello che sono per rinnovarmi come coscienza. Ogni giorno chiedo che questo possa riaccadere e non è sempre così facile e immediato, ma non posso smettere di desiderarlo. Detto questo io, però, non so cosa chiedere alla compagnia [vedete in quale problematica ci ingolfiamo?]. Pur avendo questo desiderio mi sento così estranea a volte, anche con le persone a cui voglio più bene, che mi domando se non me la stia un po’ cantando e suonando da me, perché io una estraneità così non l’ho mai sentita in tanti anni di movimento. La cosa grave è che questa ferita non si rimargina ma si approfondisce e spesso ho paura di aver già lasciato il movimento. Facciamo gesti belli in cui il nostro cuore è evidentemente felice, ma poi a mio parere questo non diventa giudizio tale da farci camminare di più verso ciò che il nostro cuore desidera. Allora mi domando: ma a te come la compagnia aiuta a questo livello di familiarità con Cristo? Come la compagnia è per te cammino?». Cioè, perché la familiarità con Cristo non significa intimismo? Per me la compagnia aiuta a vivere una familiarità con Cristo perché sempre mi provoca, anche quando manca di viverla nella sua verità, anche quando obietta; anche quando mi trovo davanti a questioni che mi provocano, la compagnia sempre mi mette in cammino a ricercare. Di recente mi sono reso conto di due cose ascoltando la liturgia (che è una “scuola”). Il vangelo racconta di quando Gesù va a Nazareth e dice che tutti restano stupiti. Sembrerebbe che la presenza di Gesù faciliti le persone a entrare in questa familiarità con Lui e, quindi, nel mistero della Sua persona. E uno direbbe: «Vedi? Questo mi fa compagnia». Ma quello che stupisce è che quella persona, che provoca in me questo stupore, io posso non seguirla per darmi ragione adeguata di questo stupore; e allora, invece di seguire questo stupore per capirlo sempre di più, comincia la ritirata dall’impegno con lo stupore che mi ha provocato quella presenza, e uno dice, come riferisce 3 il vangelo: «Ma non è questo il figlio del falegname?»; è una domanda che ha già dentro tutto lo scetticismo; non è la domanda di quelli che sempre di più si avvicinavano a Gesù e che dicevano: «Ma chi è questo qui? Chi è costui?», che era una domanda vera, perché più Lui si rendeva presente, più erano sollecitati a cercarLo. Invece l’altra domanda, «Ma non è questo il figlio del falegname?», non è vera. E il testo finisce: «E si scandalizzavano di Lui». Quella compagnia era data per una familiarità e per alcuni è diventata un ostacolo, uno scandalo. Ed ecco la seconda cosa che ho scoperto attraverso la liturgia. La modalità con cui la compagnia ci provoca può avere una faccia totalmente diversa: invece di uno stupore, una maledizione. Ritorna Davide dalla guerra, esce uno della tribù di Saul e comincia a maledire Davide (la faccia della compagnia è totalmente un’altra, qui è una maledizione, non lo stupore), e tutti i compagni di Davide cominciano a dire: «Non continuiamo a permettere a questo cane di abbaiare, finiamola con lui». Questa è la reazione. Ma Davide dice: «Ma se il Signore gli ha detto di abbaiare, di maledirmi, se gli consente di maledirmi, chi siamo noi per impedirglielo?». La compagnia, la modalità con cui la compagnia può venirmi incontro, che mi introduce alla familiarità con Cristo, può avere una faccia o un’altra, il problema è se io, davanti alla modalità con cui la compagnia mi viene incontro, anche con una faccia pur bella (lo stupore), mi ritiro, o se vado al fondo anche se la faccia può essere quella di una maledizione, perché tutto è una provocazione a entrare in rapporto con Lui. Allora guardiamo se ogni volta la compagnia che ci viene incontro con una faccia o con un’altra, qualsiasi sia la faccia con cui appare davanti ai nostri occhi, è una provocazione: dipende se mi ritiro o se vado al fondo, se io mi impegno fino a riconoscere a che cosa mi introduce. La compagnia c’è sempre: a volte può avere una faccia, a volte può averne un’altra, ma sempre mi provoca. In tante occasioni la compagnia me Lo rende talmente presente che mi commuove fino alle lacrime, come la compagnia di Gesù si mostrava tante volte davanti a coloro che vedevano la pesca miracolosa o la tempesta placata. Era talmente presente che era tutto tranne che un intimismo. Non c’è alcun intimismo, tutto passa dal rapporto con la realtà attraverso cui il Mistero, Cristo, ci viene incontro e allora tutto diventa occasione di rapporto con Lui. E questo non dipende dalla faccia con cui mi viene incontro, perché il Mistero mi viene incontro, mi chiama, mi richiama, attraverso qualunque circostanza, come dice Davide, anche attraverso uno che abbaia come un cane. Il soggetto che è dietro il segno, la faccia che è dietro il segno, sempre è il Signore, ma noi tante volte ci siamo ritirati prima di averlo potuto scoprire. Per questo se noi non capiamo fino in fondo che è attraverso qualsiasi modalità che Lui si rende presente – perché la realtà è Cristo, e tutto quello che mi viene incontro è segno di Lui –, tutto diventa un’obiezione, invece di essere un’occasione per entrare nella familiarità con il Mistero. Più uno va avanti e più si rende conto di come non sia umano dare la vita a un tutto anonimo, perché il tutto a cui diamo la vita, a cui rispondiamo, appaia come appaia, è una persona, è Dio. Per questo una persona mi domanda: «Stavolta devo scriverti. Credo che il lavoro di Scuola di comunità sia una cosa strepitosa per l’intensità dei contenuti e per la novità che rappresenta per la mia vita. Adesso per non riesco ad andare avanti e mi sembra un fatto cruciale per me se non capisco quanto leggo a pagina 120: “Ma non è umano dare se stessi se non a una persona, non è umano amare se non una persona [Dio] […]. Qualsiasi dovere, dunque, è coscienza della volontà di Dio”. Non l’ho capito! Non ho capito niente! Che vuol dire che Dio è una persona? Che vuol dire che il “dovere” è la coscienza della volontà di Dio? Che vuol dire che l’agire dell’uomo si identifica con la preghiera?». Rispondo con una testimonianza, invece che dare delle spiegazioni. «A partire da quello che mi sta succedendo e dalla Scuola di comunità, leggendo il punto “Il dono di sé” mi ha molto colpito quando Giussani scrive: “L’esistenza umana si snoda in un servizio al mondo, l’uomo completa se stesso dandosi via, sacrificandosi”. E poco oltre [la felicità arriva secondo questo paradosso]: “Ci viene sottolineata la paradossalità di questa legge: la felicità attraverso il sacrificio. Ma quanto più uno lo accetta, tanto più sperimenta già in questo mondo una maggiore completezza. Gesù la chiamava ‘pace’”. Se sulla prima parte non avevo nulla da obiettare, sulla seconda non mi tornava qualcosa [e racconta che si è innamorato, che l’amore non è corrisposto e allora dopo tanti tentativi 4 si arrabbia, evita il luogo dove potrebbe incontrarla perché “occhio non vede, cuore non duole”; e non sa come uscire da questo: come può dire che la felicità può arrivare attraverso questo sacrificio che di fatto mi viene chiesto? A questo punto, invece di continuare a girare la testa da un’altra parte o di continuare a fare tutti i tentativi che aveva fatto…]. Tornando a casa dopo la Scuola di comunità ho pensato a quando era stata l’ultima volta che avevo fatto esperienza di pace e pienezza [invece di seguire le nostre fantasie, partire, come siamo stati sempre educati, dall’esperienza: quando fu l’ultima volta che ho fatto esperienza di pace e pienezza?]. Mi è venuto in mente quando sono tornato dalla Terra Santa a gennaio. La circostanza non era diversa da quella che vivo adesso: sempre la stessa non corrispondenza affettiva e la stessa fatica, ma io mi percepivo sempre in rapporto con Lui. Mi ricordo che sull’aereo guardando giù, era notte mentre stavo per atterrare in una città, guardavo le lucine delle case della gente e pensavo: “Signore, tu hai a cuore tutti loro, tutti noi, ci hai fatti minuscoli, ma ci hai a cuore tutti e noi possiamo vivere solo dentro al rapporto con Te”. E dentro tutta la sproporzione che percepivo tra Lui e me c’era comunque un rapporto presente e vitale. Tornato dentro la fatica quotidiana dello studio e del rapporto con questa ragazza, ritrovavo come fosse questo rapporto [questo rapporto con la persona di Dio], a permettere tutto, a liberarmi dalla schiavitù del “come” e della “forma”, di come riuscivo a guardarla con una tenerezza che mi spaventava talmente grande fosse e talmente poco fossi io a generarla, come quando una mamma sente il bimbo nella pancia che si muove. È suo, è dentro di lei, ma non è suo, non è lei che lo fa muovere, ha vita propria, è un altro. Così quella tenerezza per lei, tenerezza che mi permetteva di non vederla né sentirla, e non per fuggirla, ma perché pieno di una sovrabbondanza, e così quella curiosità nello studiare tutto da solo, la pazienza nel mettermi sui libri e preparare l’esame… Quello che mi manca è questo [per vivere tutto così, perché attraverso questo sacrificio possa raggiungere la felicità, è questo]. Facendo memoria di quando ho vissuto questa pace dentro al sacrificio, ho capito cosa fosse il punto che mi mancava [E allora si capisce perché e che cosa vuol dire che Dio è una persona]. Mi manca il rapporto con Lui [con questa Presenza], mi manca vivere riposando nella certezza della Sua presenza carnale. Solo in rapporto con Lui posso amare lei gratuitamente [Questo – come sa chiunque ne abbia avuto esperienza – non lo potrebbe dire se non perché ha avuto esperienza di questo perché altrimenti, come prima, dominerebbe solo la mancanza e l’arrabbiatura per non poterla raggiungere], sia da mille chilometri di distanza che da cinque centimetri, senza illusione né dolore. Affaticato sì, ma non distrutto. Solo così posso affermare il suo destino, amare il fatto che non sono io il compagno scelto per lei. Che magari questo compagno è la persona che meno sopporto e meno immagino per lei. E quindi il sacrificio non è una sconfitta, non è una castrazione del desiderio, ma è permettere a Lui di prendermi secondo il Suo disegno che è il mio vero bene. E non lo dico perché è la cosa giusta da dire, ma perché fino a un mese fa questo era esperienza. Io desidero restare in rapporto con Lui [vedete fino a che punto è questo che definisce la persona? Quando ci troviamo dentro un rapporto cominciamo a capire che cosa è Dio come persona]. E ora che non vivo pienamente questo rapporto mi sento proprio orfano». È così reale che quando noi tagliamo questo rapporto siamo come un bimbo che ne sente tutta la mancanza, si sente orfano. Ma come questo rapporto può essere alimentato? La risposta è nell’esperienza che ha raccontato, solo tornando a riconscerLo come Lo aveva riconosciuto precedentemente, perché lui sa che Lui esiste e quindi si può costantemente aprire a questa Sua presenza. Potremmo continuare a leggere altri contributi, ma, come vedete, senza che tante volte queste cose rispondano alla domanda. Tutte sono risposte vere, offrono spunti che possono essere significativi, ma che non rispondono alla domanda del capitolo: perché questo capitolo risponde alla domanda «Chi è Gesù?», in che cosa si vede nella completezza del capitolo, nell’insieme del capitolo? Per questo voglio leggere un brano che può aiutare a capire il nesso di tutto il capitolo anche con le vicende che ci troviamo ad affrontare. Don Giussani dice nella conclusione del capitolo ottavo: «Gesù Cristo non è venuto nel mondo per sostituirsi al lavoro umano, all’umana libertà o per eliminare l’umana prova […]. Egli è venuto nel mondo per richiamare l’uomo al fondo di tutte le questioni, alla sua struttura fondamentale e alla sua situazione reale. Tutti i problemi, infatti, che l’uomo è chiamato dalla prova della vita a risolvere si complicano, invece di sciogliersi, se non sono 5 salvati determinati valori fondamentali. Gesù Cristo è venuto a richiamare l’uomo alla religiosità vera, senza della quale è menzogna ogni pretesa di soluzione» dei problemi umani. Qui don Giussani ci offre un criterio per verificare se stiamo affrontando nel modo giusto i problemi che abbiamo, le sfide che abbiamo davanti e che non possiamo evitare. «Gesù Cristo è venuto a richiamare l’uomo alla religiosità vera, senza della quale è menzogna [non è che usi mezzi termini: “È menzogna”] ogni pretesa di soluzione» dei problemi umani. Don Giussani indica nella religiosità vera e nella dipendenza vissuta il criterio di giudizio e di soluzione dei problemi umani. Che responsabilità e che compito derivano per ciascuno di noi nell’attuale situazione storica e culturale italiana, in cui assistiamo al tentativo da parte del potere, della politica e dei media di stravolgere l’idea cristiana di uomo e di famiglia, imponendo fin dai primi anni di vita un’educazione (Vedi l’educazione nelle scuole secondo l’ideologia di genere)? Evidentemente è totalmente in contrasto con la vera religiosità e con la concezione della libertà che da essa deriva. È un tema che brucia, c’è qualcuno qui che non abbia sentito parlare di queste sfide? I giornali e le televisioni ne sono pieni. Allora ciascuno può vedere in che modo questo capitolo gli è stato utile per rispondere a questa sfida, perché altrimenti – primo – non capiremmo in che modo questo capitolo risponde alla domanda: «Chi è Gesù?», e, in secondo luogo, questo capitolo sarebbe ridotto a “spiritualità ciellina”, ma poi per rispondere alle sfide che abbiamo davanti dovremmo utilizzare altri mezzi, altri strumenti. Per questo voglio rispondere con calma, per darci un aiuto per affrontare tali questioni. LETTURA DEL TESTO DI PAGINAUNO DI TRACCE, marzo 2014 Appunti dall’intervento di Julián Carrón alla Diaconia regionale di CL – Milano, 25 febbraio 2014 Sito di CL Sito di Tracce La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 26 marzo alle ore 21.30. Continueremo il lavoro mettendo a tema il capitolo nono, «Di fronte alla pretesa». Il tempo della Quaresima e il tempo di Pasqua sono sempre stati per la Chiesa un’occasione privilegiata per mettersi di fronte a chi è Gesù, a che cosa ha fatto, perché la nostra vita sia più umana, più vera e più felice. Gli Esercizi spirituali, così come le giornate della Settimana Santa per il CLU e GS, don Giussani li ha voluti per accompagnarci in questo lavoro. L’invito a parteciparvi è un’offerta alla libertà di ciascuno. Veni Sancte Spiritus
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