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Rivista trimestrale della FLAI CGIL
EDIZIONI
LARISER
€ 10,00
ISSN 2036-9948
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ae 15/2013
| agricoltura | alimentazione | economia | ecologia |
agricoltura | alimentazione
economia | ecologia
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ae 15/2013
POSTE ITALIANE SPA SPEDIZIONE IN A.P. D.L. 353/03 (CONV. IN L. 27/02/2004 N. 46) ART. 1 COMMA 1 ROMA AUT. N. C/RM/47/2012 - AE AGRICOLTURA ALIMENTAZIONE ECONOMIA ECOLOGIA - N. 15/2013
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■ MONOGRAFIA
Materiale
per un dibattito
congressuale
agricoltura | alimentazione
economia | ecologia
EDIZIONI
LARISER
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ae 15/2013
agricoltura alimentazione economia ecologia
Rivista trimestrale della Federazione lavoratori
agroindustria della CGIL e della Fondazione Metes
Ricerca e formazione nel settore agroalimentare
per il lavoro e la sostenibilità
DIRETTORE
Franco Farina
REDAZIONE
Claudia Cesarini
Massimiliano D’Alessio
Elisabetta Olivieri
Laura Svaluto Moreolo
Alessandra Valentini
EDIZIONI
LARISER
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agricoltura alimentazione economia ecologia
■ RIVISTA TRIMESTRALE N. 15 ■ LUGLIO-SETTEMBRE 2013
Direzione, redazione e segreteria
Via dell’Arco dei Ginnasi, 6 - 00186 Roma
Tel. 39.06.6976131 (centralino)
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Direttore responsabile
Franco Chiriaco
Segreteria e abbonamenti
Sandra Belli
Tariffe di abbonamento 2014
Italia annuo: 36,15 euro - Estero annuo: 72,30 euro
Abbonamento sostenitore: 108,45 euro
Editori
Lariser - Via Leopoldo Serra, 31 - 00153 Roma
Tel. 06.58561345
Ediesse s.r.l. - Viale di Porta Tiburtina, 36 - 00185 Roma
Tel. 06.44870283 - E-mail: [email protected]
Progetto grafico
Antonella Lupi
Stampa
Tipografia O.Gra.Ro. - Vicolo dei Tabacchi, 1 - 00153 Roma
Distribuzione in libreria
PDE S.p.A.
Registrazione al Tribunale Civile di Roma
n. 491/2001 del Registro della stampa
Poste Italiane spa spedizione in a.p. D.L. 353/03 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46)
art. 1 comma 1 Roma Aut. n. C/RM/47/2012
Proprietà
Flai Cgil
Questo numero è stato chiuso in tipografia il 30 gennaio 2014
Questa rivista è
Associata all’Uspi
Egregio Abbonato, ai sensi dell’art. 10 della legge n. 675/1996 La informiamo che i Suoi dati sono conservati nel
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■ Sommario
■ Presentazione
La redazione
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■ Monografia | Materiale per un dibattito congressuale
L’argomento
L’autonomia e la competenza
Stefania Crogi
9
L’analisi
Le costellazioni contrattuali
Franco Farina
11
Intervista a Stefania Crogi
31
Contrattazione rappresentanza proselitismo
Stefania Crogi
39
Tesseramento e politiche organizzative
Ivana Galli
41
Tesseramento e politiche rivendicative
Franco Farina
47
Sindacalizzazione e tesseramento
Adolfo Pepe
63
Orario di lavoro e produttività
Franco Farina
79
Per un nuovo mercato del lavoro in agricoltura
Stefania Crogi
97
Evoluzione del collocamento e mercato del lavoro in agricoltura
Massimiliano D’Alessio
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■ Rubrica
Discriminazione sindacale: note a margine della sentenza
della Corte d’Appello di Roma del 19/10/2012
Claudia Cesarini
139
■ Ricerche
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Per un progetto di rilancio dell’agroalimentare italiano
Massimiliano D’Alessio
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Catena del valore e modelli organizzativi
Franco Farina
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■ Presentazione
La redazione
I
l presente fascicolo propone alcuni contributi di diversi autori che AE ha ospitato fra il 2010 e il 2012. La scelta si è indirizzata su quegli articoli che, meglio e più
direttamente, si prestano a essere utilizzati nell’ambito della riflessione e del dibattito che precedono e accompagnano il congresso cui la categoria e la Confederazione si apprestano.
Rispetto a tale obiettivo la scelta redazionale ha, inevitabilmente, privilegiato degli autori rispetto ad altri che restano, comunque, decisivi nella logica delle singole
monografie che li hanno ospitati.
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Monografia
Materiale per un dibattito
congressuale
■ L’argomento
■ L’analisi
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■ L’argomento
L’autonomia e la competenza
Stefania Crogi*
I
l Congresso della Cgil si svolge in una fase di grave crisi politica e sociale. La crisi
economica e la mancanza di capacità e di volontà politica di rappresentare il lavoro, così come ci indica la Costituzione italiana, colpiscono i lavoratori nei loro
diritti e nei loro interessi. Questi interessi e questi diritti, oggi come ieri, sono rappresentati e difesi dalla Cgil sia nella dimensione confederale sia in quella di categoria.
Ma come s’interpretano i bisogni dei lavoratori e come si affrontano i problemi
per tentare di risolverli? Con quali capacità, mezzi e analisi?
Nessuno nasce con capacità innate né di elaborazione né di analisi; per contro la
ricerca, lo studio, la formazione, il sapere e quindi la conoscenza, sono essenziali per
svolgere al meglio il compito che i lavoratori ci hanno affidato.
La conoscenza è il primo embrione dell’autonomia sindacale e ci rende liberi da
qualsiasi condizionamento.
In tutti questi anni abbiamo tentato con la nostra rivista AE agricoltura alimentazione economia ecologia di approfondire temi di carattere diverso del settore agroalimentare. In vista del prossimo Congresso della categoria e della Cgil ci è sembrato
opportuno riprendere in un unico volume alcune interviste, approfondimenti, analisi e ricerche. Lo riteniamo un avvenimento utile alla discussione e alla riflessione,
unico nel suo genere, nella linea dell’esperienza della Flai Cgil e delle capacità di tutti coloro che in questi anni hanno creato con i loro contributi AE.
* Segretario generale della Flai Cgil nazionale.
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■ L’analisi
Le costellazioni contrattuali*
Franco Farina**
Premessa
La terza e attuale «grande trasformazione», dopo le precedenti che hanno segnato i due secoli passati, comporta la definizione nella società globale di un nuovo paradigma competitivo. Sul piano generale l’analisi è nota; ed è quella per cui le logiche
competitive si svolgono sempre di più nell’ambito dello scenario e del commercio internazionale. Infatti la globalizzazione si mostra con la maggiore liberalizzazione delle barriere commerciali, con la deregolamentazione dei mercati regionali e una propensione generale verso la liberalizzazione del commercio. In questo quadro ciò che
rende specifico il commercio internazionale è la riduzione dello scarto tecnologico tra
i paesi competitori, dato il facile accesso delle tecnologie innovative nei paesi industriali e lo scambio nel mercato mondiale di prodotti analoghi1. Tale competizione
globale imprime una serie di variabili sul piano della concorrenza dei prodotti tanto
da modificare, nella sostanza, i modelli competitivi del secolo passato.
Un’economia «che consuma la società»2 basata su una abbondante riserva di lavoro, di spazi e ambiente a basso costo e di tecnologie importate dai paesi avanzati
risulta inadeguata – e non solo per la ragione che quei fattori di competizione sono
divenuti scarsi – perché sia le nuove tecnologie a disposizione di tutti e sia la stessa
competizione globale di prodotti analoghi richiederebbero uno sviluppo sulla qualità. Questo teorema per un nuovo paradigma competitivo e complementare alla terza «grande trasformazione» è stato più volte ribadito, più volte teoricamente illustrato
da più parti e chiarito da diverse discipline.
In sintesi potremmo affermare che il modello si basa su due riferimenti essenziali e originari di una serie di fattive implicazioni che sono l’innovazione e la qualità del
prodotto e del lavoro e considerati, nello stesso tempo, come le nuove frontiere del-
* Tratto da AE n. 2/2010. ** Fondazione Metes.
1 Cfr. S. Rossi, La politica economica italiana 1968-2007, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 2007; F. Farina, Mutamento, rappresentanza e rappresentatività sindacale, in Dinamiche del lavoro in Italia, Lariser, Roma, 2008, pp. 9,10.
2 V. Borghi, Il lavoro tra economia e società, Franco Angeli, Milano, 1998, p. 184.
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lo sviluppo e della competizione. Da questo punto di vista l’analisi della struttura contrattuale e soprattutto le risoluzioni normative e salariali nell’attuale ciclo contrattuale
possono risultare utili per una concreta, seppur relativa, comprensione delle tendenze attinenti alle relazioni industriali.
L’anello di Clarisse
Il rinnovo del Ccnl per l’industria metalmeccanica (15 ottobre 2009) senza la firma della Fiom Cgil prevede in tre anni un aumento salariale pari a 100,38 al 4° livello su una scala parametrale di 7 livelli. In nota alla tabella salariale si legge che tali aumenti sono comprensivi «del recupero del differenziale inflativo pregresso» ed
eventuali scostamenti «tra l’inflazione prevista e quella reale, secondo la verifica circa la significatività degli stessi effettuata dal Comitato paritetico costituito a livello interconfederale, sarà definito…».
L’impianto contrattuale dei metalmeccanici sul salario esegue pedissequamente i
rimandi dell’accordo separato. Infatti gli aumenti sono calcolati sulla base dell’indice previsionale Ipca (l’indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo
per l’Italia), depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici», elaborato dall’Istat che a sua volta verificherà gli eventuali scostamenti tra l’inflazione prevista e quella reale. Mentre il valore, la «significatività» degli eventuali scostamenti saranno effettuati dal Comitato paritetico costituito a livello interconfederale (la Cgil è fuori da
tale Comitato). Sotto questo profilo l’aumento di 100,38 euro al 4° livello e i riconoscimenti degli scostamenti non dipendono dall’autonomia delle parti nel rinnovo
contrattuale.
La stessa definizione degli incrementi salariali avviene nel Ccnl del settore chimico-farmaceutico firmato unitariamente dalle tre federazioni di categoria (18 dicembre 2009). L’aumento di 135 euro infatti è comprensivo dell’operazione dell’abolizione degli scatti, i quali se scorporati, danno un incremento salariale
corrispondente al valore dell’indice previsionale dell’Ipca. Vale anche per questo settore la metodologia circa il riconoscimento degli scostamenti tra l’inflazione prevista e quella reale. Infatti si prevede un incontro tra le parti «per prendere atto degli
eventuali scostamenti significativi […] registrati dagli Organismi competenti» (corsivo mio).
Totalmente diverso è l’approdo del contratto nel settore dell’industria alimentare sottoscritto dalle tre Federazioni di categoria (22 settembre 2009). L’aumento salariale dei 142 euro supera abbondantemente le percentuali dell’indice Ipca nei tre
anni della durata contrattuale. Non è previsto, altresì, nessun rimando agli Organismi competenti così come recita l’Accordo separato per la «verifica» e la «significatività» del valore degli scostamenti. Inoltre sulla base degli aumenti il contratto ali-
3
Secondo la Fiom, a seguito delle dichiarazioni della Federmeccanica, il contratto riduce il valore salariale per il calcolo sugli indicatori previsionali di inflazione, portandolo ad una retribuzione di 17,2
invece delle 18,82 e con la rivalutazione dagli incrementi del rinnovo contrattuale. Il salario di riferimento è imposto dalla applicazione dell’accordo separato in cui si definisce il «valore retributivo medio assunto quale base di computo composto dai minimi tabellari, dal valore degli aumenti periodici
di anzianità considerata l’anzianità media di settore e dalle altre eventuali indennità in cifra fissa».
Mentre nel chimico-farmaceutico la rivalutazione del valore punto non sussiste nella scrittura dell’ipotesi di accordo firmato.
4 Questa situazione viene assunta da C. Magris, L’anello di Clarisse, Einaudi, Torino, 1984, p. 3, che utilizza un passaggio di R. Musil, L’uomo senza qualità, quando la protagonista, Clarisse, sfila dal dito un
anello privo di centro, di conclusione per mostrare lo sgretolamento dell’impero asburgico.
5 Nel contratto metalmeccanico (15/10/2009) si legge che la disciplina integrativa per la contrattazione aziendale dovrà formulare «una proposta circa le materie che il Ccnl potrà delegare, in via esclusiva
o concorrente». (corsivo mio).
L’analisi
mentare ha rivalutato il valore punto differentemente invece dal chimico e dal metalmeccanico3.
Sulla contrattazione di secondo livello nel contratto metalmeccanico non c’è nessuna estensione e sperimentazione della contrattazione (territoriale, filiera…) e si evince nel dispositivo che il rimando salariale dovrà essere variabile affinché possa essere
detassabile e decontribuibile sulla base dei provvedimenti legislativi definiti dal governo. Mentre nel chimico-farmaceutico è inserita per la prima volta «la natura totalmente variabile» del premio in cui «l’effettiva variabilità è la condizione per beneficiare dei vantaggi fiscali e contributivi previsti dalla legislazione». Viceversa il
contratto alimentare pur richiamandosi all’applicazione «dei particolari trattamenti
contributivi e fiscali previsti» elimina la caratteristica della «totale» variabilità del premio prevista dal precedente contratto e rimanda nell’ambito dell’osservatorio nazionale di settore modelli di incentivazione a livello «di macroarea o di filiera».
Rimanendo soltanto sugli aumenti contrattuali le implicazioni che si possono ricavare è che l’univocità delle parti, con la esclusione del settore alimentare, si disperde in diversi luoghi da quella, storicamente definita, del contratto collettivo. Luoghi
esterni che a sua volta predefiniscono in concreto gli esiti dei rinnovi e stabiliscono
anche i futuri esiti. Lontanamente dall’ipotesi di centralizzazione della contrattazione in realtà la caratteristica che si ricava è quella di una frantumazione del centro e della modalità negoziale. Apparentemente il centro contrattuale si configura come una
Babele in cui tutti esigano di avere una propria voce4. Ma in questa soppressione, la
centralità contrattuale si disperde in infiniti e prescrittivi richiami esterni alterando
così il significato formale e sostanziale della rappresentanza sindacale. Venuta meno
l’univocità delle parti e la caratteristica dei comuni interessi delle parti in gioco al rinnovo, l’aspetto relativo alla contrattazione di secondo livello subisce la possibilità del
venir meno della stessa certezza relativa alle norme contrattuali attraverso le deroghe
previste dai contratti chimico/farmaceutico e metalmeccanico5 e sopporta un salario
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aziendale «totalmente» variabile come condizione «per beneficiare dei vantaggi fiscali
e contributivi». Tutti questi aspetti (e sono solo quelli che abbiamo osservato) prefigurano sicuramente un modello competitivo e di relazioni industriali del tutto particolare e insolito.
Il paradigma si avvale della rottura della rappresentanza sindacale attraverso la dispersione della centralità del contratto collettivo e conseguentemente dall’assunzione
dei principi aziendali, secondo il valore centrico dell’impresa, per la regolazione dei
rapporti di lavoro a livello aziendale. Sui rinnovi valgono le forme dei veti e dell’ingerenza alla autonomia negoziale, mentre, sul secondo livello, le materie già concordate nei rinnovi prefigurano l’unilateralità di condizioni il cui dato non è determinato «dagli interessi comuni» ma dai principi d’impresa in cui il lavoro è
sostanzialmente subordinato ad essi. Viene meno cioè l’interesse comune a favore invece delle ragioni dell’impresa che stabilisce secondo i suoi principi le condizioni del
rinnovo del premio a livello aziendale.
La contrattazione negli anni ’90
Quest’ultima stagione contrattuale è a ridosso dell’accordo separato del 22 gennaio e della sua attuazione siglata il 15 aprile; sarebbe opportuno verificare di quanto l’accordo separato e la sua applicazione risultano distanti dai contenuti e dalle esperienze contrattuali contenute nel periodo che va dall’accordo del 23 luglio a quello
del 15 aprile del 2009 6.
Sul piano formale il contratto collettivo nazionale, così come previsto dall’accordo separato – pur nella sua durata triennale e per la sua riunificazione per la parte economica e normativa – non prevede nessun riferimento alla produttività di settore diversamente invece da quanto era dichiarato dall’accordo del 23 luglio (la produttività
«eccedente quella eventualmente già utilizzata per riconoscere gli aumenti retributivi a livello di Ccnl»). Infatti il metalmeccanico applica il meccanismo di calcolo sull’indice Ipca mentre il chimico-farmaceutico per innalzare l’aumento salariale derivante dall’indice sopraindicato abolisce gli scatti di anzianità, stabilendo così un
precedente e uno scambio ineguale tra gli aumenti e la cancellazione di un elemento fisso della retribuzione contrattuale. La produttività di settore più volte è stata utilizzata nei rinnovi contrattuali (in particolare nei rinnovi dell’ultimo decennio) e l’as6
L’analisi non considera volutamente le condizioni di contesto generale in cui sono dati gli accordi sopra richiamati. Infatti di solito questi richiami puntano a giustificare sempre l’operato degli accordi stipulati. Va comunque rammentato che l’accordo del 23 di luglio ’93 sottostava ad una condizione di
crisi che era relativa alla svalutazione della lira, ad una crisi finanziaria ed economica molto rilevante,
un tasso di inflazione molto elevato e l’approssimarsi dell’unificazione monetaria a livello europeo
mentre l’accordo del 22 gennaio ’09 vive in una condizione di una crisi sostenuta e generalizzata.
7 Questo è avvenuto nel contratto metalmeccanico in cui il valore punto di 18,82 previsto dall’ultimo
rinnovo del contratto è passato ad un valore di 17,72. Nel chimico-farmaceutico non si fa cenno, così come abbiamo evidenziato nell’ipotesi sottoscritta, di una rivalutazione del valore dati gli aumenti
contrattuali. Solo il contratto del settore alimentare codifica l’aumento del punto secondo gli incrementi del rinnovo. Infatti il nuovo valore, così come si legge nel rinnovo, è di 19,12. Questo valore si
raggiunge sommando l’aumento contrattuale di 1,42 con il vecchio valore di 17,70. Infatti:
17,70+1,42=19,12.
L’analisi
senza di questa opportunità (non è stata mai considerata però un automatismo) di
fatto riduce i margini sull’innovazione relativa agli aspetti normativi e salariali così come è avvenuto negli ultimi rinnovi presi in esame. Un’inversione sostanziale è quella relativa al recupero degli scostamenti tra inflazione prevista e inflazione reale. La
certezza negoziale tra le parti è sostituita da un’imposizione esterna (Isae, comitato interconfederale) che a sua volta nega il confronto e l’applicazione, così come è avvenuto in questi quindici anni in tutti i contratti collettivi, del recupero degli scostamenti. In questa esperienza diffusa è sempre avvenuto un negoziato di merito che ha
escluso la «verifica», la «significatività» e la «eventualità» degli scostamenti registratisi così come invece oggi è previsto dagli accordi separati tanto da rendere incerto lo
stesso recupero. Se a questi aspetti si aggiunge il ricalcolo del valore retributivo medio come base di calcolo all’indice di inflazione cosiddetto previsionale per gli aumenti
– secondo il quale dagli accordi separati viene efficacemente abbassato riducendo gli
effetti quantitativi degli aumenti nazionali 7 – si ha la qualità della dinamica salariale prevista dagli accordi separati.
Sul ruolo del secondo livello di contrattazione il salario variabile viene sempre di
più inteso come un mero incentivo di un risultato produttivo dato e non invece –
nonostante le significative esperienze di questi anni, in molte aziende, nei diversi
gruppi e settori – come un riconoscimento salariale per gli obiettivi condivisi di una
programmazione produttiva e di una determinata organizzazione del lavoro per il
suo consolidamento e per la sua trasformazione. Resta esclusa e non prevista qualsiasi forma di consolidamento nel tempo così come il suo riconoscimento per gli elementi della retribuzione contrattuale del salario variabile mentre s’introduce la deroga agli istituti disciplinati dal contratto collettivo per la modifica «in tutto o in
parte, anche in via sperimentale e temporanea» dei singoli istituti economici e normativi. Resta immutata la funzione della contrattazione di secondo livello senza cioè,
rispetto al passato, un ulteriore riconoscimento sul piano quantitativo e qualitativo
della sua dinamica (con l’esclusione del settore alimentare che introduce la possibilità del livello territoriale e di filiera). Inoltre non trova nessun aggiuntivo riscontro,
negli accordi separati, la produttività aziendale, come condizione per la migliore redistribuzione salariale, né rispetto agli incentivi, né alla valorizzazione del ruolo della R.S.U. Contrariamente alla richiamata efficacia del lavoro viene ridotta l’autono-
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mia del negoziato e favorita la discrezionalità aziendale dei premi sulle forme e sulla
grandezza dell’incentivo variabile.
Un modello contrattuale, quello degli accordi separati, dunque che nella sostanza riduce i margini salariali e in cui la centralità dell’impresa assume il criterio della
regolazione degli istituti contrattuali sia nazionali sia aziendali tanto da procedere significativamente ad una contrazione della dinamica salariale (sarebbe più opportuno affermare di essere in presenza, rispetto anche alle dinamiche salariali affermatesi
dopo l’accordo del 23 luglio ’93, ad un vero taglio dei salari).
L’esilio dalla città del lavoro
Il punto che si può intravedere è quello di una disgregazione della rappresentanza sindacale nella contrattazione collettiva. Nonostante ciò nell’esperienza di questo
ciclo contrattuale preesistono alcune condizioni, pur nella loro diversità, in cui l’autorevolezza negoziale del contratto è sostanzialmente mantenuta (l’industria alimentare, dei cartai, delle telecomunicazioni, dell’elettricità…). Intorno a queste esperienze
sicuramente si pone un’esigenza di rintuzzare il disfacimento secondo una chiara strategia delle politiche contrattuali. Va esclusa però qualsiasi scorciatoia o ipotesi di rinnovamenti astratti. Qualsiasi congettura di un possibile rinnovamento si scontrerebbe in un quadro di forte restaurazione e di rottura della contrattazione collettiva
esercitata negli ultimi cinquanta anni. Vanno escluse suggestioni come il contratto
Unico che nella sostanza chiuderebbero l’ultimo presidio sulle tutele e sui minimi salariali rappresentato dal contratto collettivo così come il contratto dell’industria. Quest’ultima ipotesi fu formulata dai chimici della Filcea Cgil (sostanzialmente bocciata
dalla stessa confederazione) nel lontano 1988 (VI Congresso di Taormina e dal convegno La riforma della contrattazione tenuto a Perugina nel settembre dello stesso anno. Il convegno fu concluso da B. Trentin che criticò l’impianto contrattuale). Quella proposta aveva il fine di rafforzare la contrattazione aziendale e di istituire il
contratto unico dell’industria, gestito a livello confederale in stretto rapporto con le
categorie e prospettava una fase transitoria in cui il Ccnl sarebbe stato sostituito con
una contrattazione nazionale di settore. Al di là della struttura contrattuale, quella indicazione scaturiva dalla consapevolezza di una trasformazione del sistema contrattuale, della revisione della struttura salariale, delle nuove regole di rappresentanza (sono gli anni dell’eclissi della scala mobile e della crisi dei consigli di fabbrica). Dunque
era una proposta che tentava, in una fase di transizione, di rilanciare il potere negoziale, le dinamiche salariali e nuovi modelli di relazioni industriali; una fase relativamente aperta e disponibile alle innovazioni nell’ambito delle relazioni industriali (i chimici nel ’90 introdussero consistenti novità sulla predeterminazione del salario
contrattuale e successivamente nonostante la crisi di allora si stabilirono le regole, da
tutti condivise, con l’accordo del 23 luglio ’93 per la distribuzione del reddito tra impresa e lavoro). Quelle condizioni oggi sono irripetibili tanto che una qualsiasi riforma della struttura contrattuale, come il contratto dell’industria, si trascinerebbe i meccanismi di calcolo e la stessa funzione della rappresentanza sindacale proposte
dall’accordo separato e applicate in parte nei contratti in questa fase con l’effetto ineluttabile di un successivo abbassamento dei salari e dei diritti.
Indubbiamente gli esiti contrattuali dimostrano un quadro incerto per gli ancoraggi negoziali. In questa incertezza va mantenuta la centralità del contratto (il contratto dell’industriale alimentare), è necessario riaprire una discussione sul merito e
sui contenuti che la «terza trasformazione» ha determinato sulle condizioni e sulle prestazioni lavorative ed è necessario organizzare, sugli obiettivi di contenuto e di posizionamento, la contrattazione di secondo livello. In primo luogo «il valore sociale del
lavoro» va ancorato nella comprensione dei mutamenti delle tecnologie e dei modelli
organizzativi e va colto in tutte le fonti in cui si esplicita per conoscerle e per garantire una corretta rappresentanza dei bisogni e dei problemi delle persone. In questo
ambito la qualità del lavoro è il nodo cruciale per delineare l’indirizzo sindacale e per
imbastire lo schema rivendicativo di riferimento. La qualità del lavoro raccoglie e unifica in positivo le tendenze disgregatrici che l’attuale trasformazione ha prodotto sul
piano del lavoro, nella scomposizione, frantumazione delle figure e dei rapporti di lavoro. Riassume in senso strategico i diversi fattori dell’innovazione, delle tecnologie,
del rilancio delle amministrazioni pubbliche e dei modelli organizzativi, contrasta la
bassa competitività giocata sulla precarietà, sul contenimento del costo del lavoro e
sulla riduzione delle tutele e dei diritti, e avvia un processo di crescita generale in grado di reggere le sfide della competizione.
La stessa produttività, la qualità del prodotto e dei servizi più che mai oggi dipendono dalla competenza delle persone e dal saper fare nei modelli organizzativi e
più specificatamente nella organizzazione del lavoro e dipendono dalle opportunità
di impegno nelle difficoltà del contesto lavorativo, nella autonomia, nel controllo delle condizioni immediate e nei presupposti generali del lavoro, della produzione e dei
servizi.
La contrattazione decentrata dovrà attendersi un rinnovato sistema negoziale per
il settore pubblico, privato e per la stessa iniziativa confederale. Difatti la territorializzazione dell’intervento sindacale dovrà prevedere, in un compito integralmente originale, un rinnovamento e una qualificazione delle politiche confederali e categoriali. La combinazione della contrattazione confederale e categoriale, seppur con finalità
e prerogative differenziate, dovrà, in particolare, indirizzarsi secondo logiche riven-
L’analisi
La contrattazione e il territorio
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dicative relative alla qualificazione e alla unificazione dei propri interventi. Il mutamento in corso richiede nel territorio le condizioni di un consolidamento e avanzamento sul tema della crescita della dimensione aziendale, pretende fenomeni cooperativi per l’attività di ricerca e sviluppo, la formazione di consorzi tra imprese, la
relazione tra imprese ed enti pubblici efficienti e piani formativi più adeguati al cambiamento organizzativo e competitivo nonché il continuo sviluppo della qualità del
capitale umano alle continue innovazioni tecnologiche.
La centralità del territorio comporta, dunque, la scelta e l’indirizzo delle risorse materiali e immateriali da indirizzare verso le aziende più dinamiche che dimostrano un’azione innovativa e competitiva; aziende, cioè, capaci di incidere sullo sviluppo economico, sulla qualificazione occupazionale, di crescere di dimensione e che siano in
grado di costituire, consolidare e allargare una costellazione d’imprese omogenee e
compatte sulla base dell’esclusiva qualità del lavoro. In questa rinnovata concertazione,
tra il livello confederale e categoriale, della contrattazione, il territorio assume uno snodo innovativo da parte delle categorie del settore pubblico e privato nella loro azione negoziale. Si tratta di spostare le frontiere (ferme a quelle degli anni ’50) della contrattazione nella finalità di costruire nuove strategie che lo stesso cambiamento
impone. Senza alterare la struttura contrattuale tra contratto collettivo e secondo livello va sperimentato il negoziato territoriale nel settore industriale in cui a fronte di
situazioni omogenee e monoproduttive l’impresa trova sempre di più la sua integrazione tra imprese e processi integrati a filiere (dalla materia prima alla trasformazione, alla distribuzione ed alla commercializzazione). La territorializzazione della contrattazione è una necessità imprescindibile per riconquistare il governo del territorio
in cui la frantumazione avvenuta in questi anni ha determinato un individualismo delle condizioni sindacali nell’esercizio della contrattazione e della rappresentanza delle
persone.
La contrattazione aziendale dimezzata
L’accordo interconfederale (15 aprile 2009) per l’attuazione dell’accordo-quadro
sulla riforma degli assetti contrattuali del 22 gennaio 2009 8 prevede, per la contrattazione aziendale (punto 3), un «premio variabile» legato ai risultati conseguiti alla
realizzazione di programmi aventi come obiettivi «incrementi di produttività, di qualità, di redditività, di efficacia, di innovazione, di efficienza organizzativa» secondo il
criterio in cui non si avvertono le sovrapposizioni di materie già contrattate nel contratto collettivo nazionale. È atteso, inoltre, dai punti dell’accordo, l’impegno di pre-
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Gli accordi citati non hanno avuto il riconoscimento e la firma della Cgil.
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Il 29 Settembre 2010 è stato siglato l’accordo di deroga, senza la firma della Fiom Cgil, al contratto
nazionale e «degli accordi dallo stesso richiamati» valevole per il settore metalmeccanico.
10 Nel contratto collettivo del settore alimentare manca qualsiasi riferimento agli aspetti sopraindicati; mentre del settore chimico mantiene la deroga al contratto collettivo (art.18) e riduce l’obbligo di
presentare la piattaforma rivendicativa contestualmente all’azienda e alle associazioni industriali territoriali con «l’eventuale assistenza delle relative strutture territoriali imprenditoriali e sindacali firmatarie del ccnl».
L’analisi
sentare le proposte rivendicative, sottoscritte unitariamente dalle Rsu e dalle strutture territoriali delle organizzazioni sindacali firmatarie del contratto collettivo, all’azienda e contestualmente all’Associazione industriale territoriale al «fine di consentire
l’apertura della trattativa due mesi prima della scadenza dell’accordo». Si confermano, altresì, le deroghe al contratto collettivo per la modifica «in tutto o in parte, anche in via sperimentale e temporanea, singoli istituti economici o normativi disciplinati
dal contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria» per «il governo delle situazioni di crisi e per lo sviluppo ed economico ed occupazionale del territorio» (corsivo mio)9.
Nella recente contrattazione collettiva questi aspetti sono stati assorbiti e specificati soprattutto nel contratto metalmeccanico (senza la firma della Fiom Cgil) che ha
dimostrato l’applicazione pratica dello spirito dell’accordo separato sulla struttura contrattuale10. Infatti in questo contratto è avvertita la disciplina dei «contenuti, tempi
e procedure della contrattazione di secondo livello in coerenza con quanto previsto
al punto 3 dell’Accordo Interconfederale 15 aprile 2009» (corsivo mio) così come abbiamo sopra riportato. La deroga, inoltre, è definita secondo la formulazione della via
«esclusiva e concorrente» alle materie del contratto mentre è ripreso il principio generale del ne bis in idem e cioè la «non ripetitività della negoziazione in azienda delle materie e istituti già negoziati a livello nazionale». L’accordo interconfederale del
23 luglio 1993 sulla contrattazione aziendale affermava unicamente che l’erogazione salariale era strettamente correlata ai risultati di produttività, di qualità e agli esiti legati all’andamento economico dell’impresa. Dichiarava anche che la contrattazione
aziendale riguardava «materie e istituti diversi e non ripetitivi rispetto a quelli retributivi propri del ccnl» ma assicurava, nello stesso tempo, che «margini di produttività […] eccedente a quella eventualmente già utilizzata» nella contrattazione aziendale (poteva) essere impiegata per riconoscere gli aumenti retributivi a livello di ccnl».
Un confronto tra i due accordi, quello del ’93 e quelli separati del ’99 sulla struttura contrattuale, evidenzia una sostanziale differenza proprio sul piano della sostanza
della tenuta salariale e contrattuale. I livelli salariali previsti dall’accordo del ’93 del
contratto nazionale e del salario aziendale si configuravano comunque nel principio
della contrattazione delle parti in cui gli elementi del mantenimento del potere d’acquisto dei salari – seppur ordinati dalla predeterminazione dei salari sull’indice dell’inflazione programmata – e della produttività del settore industriale di riferimento
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comunicavano ugualmente, e per quanto era possibile, sulla costruzione dei livelli salariali. In particolare per la produttività il modello prevedeva l’incremento salariale a
livello aziendale secondo il raggiungimento degli obiettivi concordati ma non escludeva l’utilizzo di una quota della produttività di settore per incrementare i minimi salariali oltre a quanto previsto per il potere d’acquisto. In altri termini, di riflesso, l’accordo del ’93 manteneva intatta la qualità tra un salario indicizzato nella
predeterminazione sull’inflazione programmata e i minimi contrattuali.
Siffatta formazione del salario è sempre stata una costante nella contrattazione nazionale, certamente con fasi alterne rispetto alle quantità erogate ma pur sempre nel
rispetto del principio di una liceità della prerogativa e distinzione, nella contrattazione
collettiva, tra gli aumenti per i minimi salariali e per il mantenimento del potere d’acquisto. Tutto ciò è avvenuto nel lungo periodo in cui il regime della scala mobile era
parte integrante della struttura contrattuale e anche quando nell’accordo del 23 luglio si stabilirono i riconoscimenti salariali unicamente sui due livelli contrattuali tra
il contratto e l’azienda. Su questa distinzione tra gli aumenti sui minimi e quelli indicizzati ci fu l’accordo esemplare dei chimici nel rinnovo del contratto collettivo del
’90. In permanenza ancora, seppur limitata, dell’indicizzazione dei salari, i chimici
adottarono il criterio dell’aumento salariale complessivo che conteneva in due vasi comunicanti il salario indicizzato e l’altro contrattato. La particolarità di questo riconoscimento tra la produttività media del settore e il contratto collettivo è che insisteva
nella determinazione dei margini negoziali che oltre alle compensazioni sul potere d’acquisto dei salari offriva un’autonomia rivendicativa sugli ulteriori incrementi dei minimi ma anche la possibilità di affrontare aspetti di costo sulle parti normative come
le maggiorazioni per lavoro notturno, festivo ed a turni, la riduzione degli orari, la
modifica degli inquadramenti.
L’accordo del 23 luglio del ’93 stabiliva dunque uno scambio tra l’austerità della
politica dei redditi e una struttura contrattuale rigorosa per la riduzione dell’inflazione,
aperta sui fattori competitivi tra capitale e lavoro e concertativa sul risanamento economico. Lo scambio era proprio nella redistribuzione della produttività soprattutto
a livello aziendale senza escludere, però, quote di produttività nel contratto collettivo. Gli accordi separati (gennaio-aprile 2009) utilizzano il modello del 23 luglio ma
sterilizzano gli aspetti più propriamente sindacali e negoziali e le stesse applicazioni
contrattuali di periodo (1993-2009) del modello da parte delle stesse categorie industriali; confermano, nella durata triennale dei contratti collettivi, il criterio della predeterminazione dei salari (la vera novità del 23 luglio), mutando però l’indice di riferimento dell’inflazione programmata senza il criterio della concertazione con l’Ipca
depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici e importati; rendono incerti i
recuperi degli scostamenti tra il nuovo indice previsionale dei prezzi al consumo e inflazione reale nel triennio contrattuale; abbassano il salario di riferimento con il qua-
Il contratto allargato o/e leggero
È indubbio che per difendere la contrattazione e per essa i due livelli negoziali è
necessaria una proposta di riforma della struttura contrattuale. Un modello diverso
da quello definito e superato abbondantemente dall’ultimo ciclo dei rinnovi, in grado di riproporre la centralità del contratto e la rappresentatività del sindacato. Il punto dirimente per la costruzione di un nuovo disegno contrattuale riguarda un’esplicita definizione e collocazione nel modello contrattuale della produttività.
Storicamente le politiche rivendicative e contrattuali si sono avvalse della redistribuzione a livello aziendale e contrattuale delle quote della produttività. Gli accordi separati per la prima volta hanno cancellato dal contratto collettivo il margine eccedente
di produttività per quello eventualmente già utilizzato nella contrattazione aziendale arrecando problemi agli ultimi rinnovi. Difatti gli aumenti dei rinnovi, con l’esclusione del contratto metalmeccanico, hanno superato significativamente le quantità salariali prevedibili dall’accordo separato ma con diverse modalità di calcolo. In
alcuni, come quello degli alimentaristi, ciò è avvenuto secondo la regola dell’accordo tacito (il superamento del limite massimo dei salari, così come era previsto dall’accordo separato è stato giustificato con le quote di produttività eccedenti alla con-
L’analisi
le, differentemente nei diversi contratti, sono stati calcolati gli aumenti contrattuali
nei bienni e annullano il riferimento alla produttività come indice prevalente del salario variabile e come opportunità per i minimi contrattuali. Se a tali aspetti tecnici
si aggiunge la perdita di autonomia con lo spostamento negoziale su tavoli diversi da
quello categoriale su soggetti terzi come l’Isae e il Comitato paritetico a livello interconfederale, risulta abbastanza chiaro il disegno della struttura contrattuale. Un modello, cioè, senza un fine ultimo, così come quello del 23 luglio legato alla politica
dei redditi, ma un processo di esclusiva essiccazione della dinamica salariale e della
rappresentatività sindacale.
La stessa contrattazione di secondo livello subisce una razionalizzazione e un restringimento in assenza di norme esplicite e vincolanti per la sua stessa estensione a
livello aziendale (sia le decontribuzioni del salario variabile sia l’elemento di garanzia
retributiva per le aziende prive di contrattazione, al di là dell’enfasi dei firmatari degli accordi separati, sono da decenni già previsti sia per via legislativa sia dai contratti collettivi nazionali). In questo contesto il salario variabile è sempre più inteso come un mero incentivo di un risultato produttivo dato e non invece – nonostante le
significative esperienze di questi anni, in molte aziende, nei diversi gruppi e settori –
come un riconoscimento salariale per gli obiettivi condivisi di una programmazione
produttiva e di una determinata organizzazione del lavoro per il suo consolidamento e per la sua trasformazione.
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trattazione aziendale) mentre altri per superare il tetto dell’Ipca hanno dovuto subire lo scambio con alcune rigide normative come l’estinzione degli scatti di anzianità
e la messa a maturazione delle riduzioni degli orari con l’effettiva attività lavorativa
prestata. Ora queste esperienze ci dicono che là dove è possibile il riconoscimento tacito o esplicito di utilizzare la produttività si hanno margini sul salario e sulle normative, mentre là dove questo riconoscimento è negato una buona uscita salariale è
confusa con la riduzione e lo scambio delle normative contrattuali. Questo rimanda
anche ad una altra variabile, su cui non ci soffermeremo, che è quella relativa alle lotte sindacali per i rinnovi. È un elemento questo non indifferente nella pratica negoziale per gli ottenimenti degli esiti e dei risultati così come è sempre avvenuto nella
storia sindacale e di cui c’è una forte rimozione nella valutazione e nella pratica dei
rinnovi.
Ora un modello contrattuale come ad esempio il contratto allargato può essere sicuramente una proposta innovativa. Ma come? È allargato perché comporterebbe un
ampliamento di aree contrattuali a seguito degli accorpamenti della riduzione del numero dei contratti ma dovrà essere anche leggero in funzione di una credibile proposta innovativa. Ma come si può intendere un contratto leggero? La leggerezza del contratto dipende da due movimenti. Il primo è relativo ad una cornice contrattuale che
demanda a livello aziendale e territoriale le materie tradizionalmente contrattuali, il
secondo assegna invece le condizioni definite nel contratto per una esplicitazione e
applicazione decentrata delle materie concordate a livello nazionale. Nel primo caso
il costo contrattuale si sposta a livello aziendale e territoriale in virtù del fatto che il
contratto collettivo mantiene, secondo una ipotesi credibile, gli aumenti salariali per
il mantenimento del potere d’acquisto ma sposta la spesa sul salario variabile e sulle
diverse normative come gli aggiustamenti professionali, l’applicazione degli orari, i
programmi formativi e gli incrementi relativi alle maggiorazioni e così via a livello decentrato, mentre nel secondo caso mantiene il costo a livello centrale ma si alleggerirebbe delle modalità applicative delle diverse normative contrattuali in quanto spostate dal centro. In entrambi i casi resta il problema dei costi e come questi possono
essere affrontati.
Un contratto leggero secondo una cornice di principi generali e una contrattazione di secondo livello che si sostituisce pesantemente al contratto è del tutto improbabile. È difficile perché la composizione delle aziende così variegata e fatta prevalentemente di piccole e piccolissime imprese, renderebbe inapplicabile la stessa
generalizzazione degli effetti di un rinnovo. In questi casi un alleggerimento del contratto collettivo produrrebbe altresì delle disparità di costo tra le aziende e una disparità di trattamento tra gli stessi lavoratori. Non vale in questi casi richiamarsi al territorio, tanto per fare un esempio, per un governo degli inquadramenti o degli orari
nella fase di un ciclo contrattuale. L’impossibilità in questi casi è pari alla stessa inat-
L’analisi
tualità dell’ipotesi. Resta, perché più credibile e utile, la seconda ipotesi e cioè quella per cui lo sgravio del contratto passa attraverso il decentramento attivo delle normative definite nei rinnovi contrattuali. In questo caso si confermerebbe una centralità più leggera del contratto collettivo. La centralità che ne conseguirebbe non va
dunque compresa unicamente nella sua permanenza e nel mantenimento di funzioni e competenze più o meno rilevanti del contratto nazionale, ma va intesa come la
consistenza prima nella promozione delle innovazioni delle normative, del consolidamento dei diritti collettivi e individuali (della persona nel lavoro) e del riconoscimento delle dinamiche retributive (gli elementi della retribuzione). Nel contempo,
tenendo conto delle diverse specificità aziendali e territoriali, il contratto leggero dovrà essere generativo sia dell’applicazione delle norme contrattuali (gestione degli orari, dell’organizzazione del lavoro e della professionalità, dell’attività formativa, dell’esercizio e del riconoscimento dei diritti individuali…) sia della negoziazione del
salario con la produttività-qualità aziendale secondo le aspettative salariali legate al raggiungimento degli obiettivi e secondo il confronto sugli aspetti che organicamente
definiscono la qualità del lavoro. Naturalmente la leggerezza consisterebbe anche nella riduzione dei costi contrattuali ma con un compito che qualificherebbe e impegnerebbe il valore prescrittivo delle normative contrattuali. Ad esempio una rivisitazione degli inquadramenti potrebbe avvenire secondo una regola centralizzata in cui
il modello e gli apprezzamenti professionali sarebbero definiti al centro ma può anche avvenire secondo la definizione di un’intelaiatura possibile dei riconoscimenti professionali per poi applicarsi nelle realtà produttive locali. Varrebbe anche per gli orari di lavoro sia nel valore della flessibilità sia per quanto riguarda il maggiore utilizzo
degli impianti.
Per questo ultimo esempio ci potrebbero essere diverse possibilità. Si potrebbe prevedere e legittimare il criterio del maggiore utilizzo degli impianti concordando a livello centrale gli aspetti che accordano i costi e rimandare l’applicazione degli schemi alle imprese oppure, dato l’utilizzo maggiore, rinviare, a livello aziendale, le
modalità applicative relative alle giornate di lavoro, agli eventuali riconoscimenti salariali, agli schemi e agli impatti occupazionali. Va sottolineato, comunque, che tale
leggerezza può avvenire, però, secondo il criterio dei vasi comunicanti in cui il decentramento delle applicazioni normative ritorna al contratto collettivo nella forma
consolidata di applicazione generale.
L’utilità degli accorpamenti dei diversi contratti per ridurre e razionalizzare un numero spropositato di contratti nazionali oggi vigenti risulta utile e necessaria ma non
va dimenticato che tale operazione ha implicazioni di rilievo. Indubbiamente le unificazioni pretendono di avere dei principi di riferimento che guidano tale processo come, ad esempio, quello dell’unificazione per filiere produttive e devono sempre tener presente le contiguità delle aree contrattuali in cui si dà un contratto principale
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che accoglie il travaso degli altri contratti. Diversamente potrebbe accadere che la semplificazione si trasformi in una confusione poco gestibile o resti ferma nelle buone intenzioni. Si dice che tale compito debba seguire delle direzioni di legame tra le diverse
aree contrattuali come ad esempio il criterio delle filiere. In questi casi il criterio è un’indicazione di lavoro ma non può essere il valore centrale. Questo perché un’area contrattuale di filiera comporta un’impostazione e un accorpamento del tutto nuovo ed
è in contrapposizione al criterio di un secolo che ha ordinato le aree contrattuali per
settore. Per procedere agli accorpamenti sarebbe necessario innanzitutto un accordo
applicativo interconfederale ed escludere unificazioni per vie interne al sindacato. Là
dove questo è avvenuto non solo non si sono realizzati gli accorpamenti attesi ma hanno procurato svolgimenti involutivi degli stessi gruppi dirigenti coinvolti a tali processi. Gli accorpamenti vanno eseguiti seguendo il raggruppamento di un’area principale e predisposti per settore (è naturalmente utile che questa preparazione insegua
il criterio di filiera), definendo un’area contrattuale normativa possibilmente unificata
tra i diversi contratti con le dissimili specificità settoriali. L’unificazione riguarda le normative relative alle condizioni di massima dei diritti e dei trattamenti dei lavoratori
ma anche dei sistemi di inquadramento, dei regimi di orario e del salario. Proprio per
questo ultimo aspetto l’unificazione dovrebbe comportare lo stesso indice di riferimento dell’inflazione realmente prevedibile per gli adeguamenti salariali ma dovrà diversificarsi attraverso il salario di riferimento o valore punto nelle differenze di settore che l’unificazione manifesta.
Il complesso di questa impostazione impone, così come del resto è avvenuto negli ultimi rinnovi contrattuali, la cancellazione delle condizioni che miravano alla destabilizzazione della centralità del contratto con l’Ipca depurata, l’Isae e con lo stesso
funzionamento del Comitato interconfederale ma è anche ancor più evidente che una
nuova proposta della struttura contrattuale richiederebbe il recupero della possibile
redistribuzione della produttività nel Contratto collettivo.
…A proposito di Pomigliano
Senza soffermarci sulla sproloquiante valutazione di un modello esemplare che l’accordo separato alla Fiat di Pomigliano implica sul piano delle relazioni sindacali, è utile invece spendere alcune riflessioni di merito. L’accordo qualifica certamente la centralità dell’impresa nella sua esclusiva regolazione dei rapporti di lavoro e l’attribuzione
passiva dei sindacati firmatari. Le conseguenze di questa deviazione hanno delimitato un accordo in cui un porcellum dovrebbe risolvere il problema dell’assenteismo mentre un’assoluta discrezionalità dell’impresa valuterebbe il comportamento coerente delle organizzazioni sindacali, la «clausola di responsabilità», sui punti dell’accordo
(intensità del lavoro, effettuazioni degli straordinari) con la conseguente ritorsione di
L’analisi
liberare l’azienda, in caso contrario, dagli obblighi contrattuali del versamento dei contributi sindacali, dai permessi, dall’applicazione del monte ore sindacale. Specularmente a questo punto le «clausole integrative» intervengono sull’ipotetica violazione
dell’accordo del singolo lavoratore con il conseguente provvedimento disciplinare sino ad arrivare allo stesso licenziamento.
Sul piano della produzione l’accordo prevede un recupero forsennato e unilaterale della produttività del lavoro. Questo recupero si avvale dello spostamento della mensa a fine turno, con la riduzione della pausa sulle linee meccanizzate di 10 minuti e con l’introduzione di un maggiore utilizzo degli impianti su 18 turni. La
riduzione delle pause e la ridefinizione dei carichi e dei tempi, rilevati questi ultimi
con il calcolo invasivo e asettico dell’informatica secondo il modello Ergo-Uas, si propongono di incrementare massicciamente la produttività del lavoro con una ulteriore
riduzione degli organici. Lo schema dei 18 turni è su 40 ore settimanali, dal lunedì al sabato, con riposi a scorrimento. Mentre sono aumentate le ore straordinarie
di 80 ore che sommate alle già previste 40 ore del Contratto collettivo portano il totale di ore straordinario di 120 ore pari a 15 giornate di 8 ore annue. L’utilizzo degli straordinari, differentemente dai normali ricorsi che tutti i contratti prevedono
prevalentemente per cause di eccezionalità, sono qui invece organicamente pianificati per l’attuazione dell’organizzazione produttiva. Possono considerarsi degli orari fisiologici e non rimandano a nessuna giustificazione sulle classiche necessità imprescindibili, indifferibili e di durata temporanea. È una programmazione di 15
giornate che compensa la mancanza strutturale degli organici e opera per la riduzione
dei costi attraverso l’incremento delle ore straordinarie a discapito delle ore ordinarie il cui costo è più elevato.
Difatti l’applicazione dei 18 turni, prevista dall’accordo, è una realizzazione del
tutto insolita. Si danno, infatti, i 18 turni ma ne sono effettivi 17 (l’ultimo è quello
del sabato che va dalle 14,00 alle 22,00) mentre il diciottesimo turno (dalle 22,00 della domenica alle 6,00 del lunedì) non è lavorato ed è coperto dall’utilizzo dei permessi,
delle ex festività e della ½ ora accantonata per turno; il caso, invece, dell’utilizzo effettivo del diciottesimo turno è coperto dagli straordinari. Il punto che crea l’attrito
tra ore di straordinario e occupazione è la modalità con cui si applica l’utilizzo degli
impianti su 18 turni. Infatti è un orario settimanale di 40 ore e non è un orario plurisettimanale su base annua. L’utilizzo dei 18 turni su base annua prevede il computo schematizzato delle ex festività, delle ferie, della riduzione degli orari, delle festività cadenti tra il lunedì e il venerdì e naturalmente dei sabati e delle domeniche.
Questo calcolo largamente usato nel manifatturiero, porta ad una riduzione della media oraria al di sotto delle 40 ore settimanali tanto che il calcolo sugli organici, definito dal rapporto tra le ore di utilizzo degli impianti con le giornate effettive di lavoro,
rimanda ad un incremento dell’occupazione con l’inserimento della 4° squadra or-
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ganica e con una turnazione con riposi compatibili al disagio degli avvicendamenti
dei lavoratori sui tre turni. È difficile, viceversa, che, con un orario di lavoro settimanale
di 40 ore, ci possa essere una occupazione compatibile con l’utilizzo degli impianti
su 18 turni senza il ricorso strutturale agli straordinari e senza una programmazione
dei riposi che risulti dannosa e nociva per i lavoratori. Tutti gli aspetti della razionalizzazione produttiva hanno il fulcro nella funzionalità reciproca degli straordinari come supporto alla carenza programmata degli organici e alla riduzione dei costi. Una
carenza e una riduzione che sono ulteriormente compensate con l’innalzamento dei
carichi e dei ritmi per i lavoratori sulle linee di produzione.
Ora considerare questo processo di riorganizzazione come un modello di riferimento per affrontare i temi della globalizzazione è a dir poco azzardato. La competizione globale si manifesta sempre di più con il superamento del commercio interregionale e con un mercato in cui la concorrenza è in prevalenza su beni
analoghi. In questo contesto la qualità del prodotto e del lavoro è il modo con il
quale distanziare, per l’occidente capitalistico, la pressione dei paesi emergenti sul
mercato mondiale. Un modo cioè di stabilire una differenza sui prodotti la cui qualità fissa una distanza fra paesi che giocano unicamente la loro capacità competitiva sul contenimento del costo del lavoro, per cui è, per l’occidente, inattuabile attribuirsi lo stesso criterio concorrenziale. Una qualità che mobilita l’innovazione dei
prodotti, esperienze, conoscenze e professionalità di chi lavora e un contesto produttivo in cui la responsabilità e la partecipazione sono i valori portanti per le sfide globali. Naturalmente le imprese possono scegliere il terreno della sfida competitiva ma da qui a scambiare le vecchie e le tradizionali politiche competitive degli
anni ’70-80 per dei modelli esemplari, così come una certa pubblicistica accredita
l’accordo di Pomigliano, ce ne corre.
La contrattazione di secondo livello
La contrattazione aziendale e territoriale ha una premessa senza la quale può sussistere, nella fase dei rinnovi e delle eventuali sperimentazioni territoriali, una condizione di conflitto permanente. L’introduzione alla contrattazione aziendale implica l’esclusione in qualsiasi forma delle deroghe contrattuali. L’estromissione di queste
stabiliscono così l’equilibrio necessario tra le realtà aziendali e le politiche rivendicative secondo la corretta applicazione del contratto nazionale, in cui la ricerca di incrementi di produttività aziendale/territoriale e le piattaforme aziendali risultano l’unico ambito per un appropriato compromesso. Tale stabilità, come base della
discussione, può lasciare fuori anche qualsiasi deroga in positivo in cui verrebbe meno l’esclusione delle sovrapposizioni tra le materie contrattuali e le rivendicazioni alla luce di margini negoziali giustificati dalle buone redditività aziendali.
11 Il salario variabile legato agli indici di produttività, qualità, efficienza, ha sempre riscontrato diffidenze soprattutto da parte delle imprese. Questa cautela si è dimostrata, spesso, in sospetto tanto da
infarcire gli indici con proposte del tutto improbabili e lontane dal considerare il salario come leva efficace al rendimento dell’impresa.
12 Il riferimento al maggiore utilizzo degli impianti va assegnato alla condizione di fatto dell’impresa.
L’utilizzo, definito dagli orari di lavoro, è sempre inferiore al 100% teorico. Un indice utile è quello di
incentivare la progressione della media reale dell’utilizzo con il teorico del 100%.
13 Da un punto di vista aziendale produrre a flusso significa fare in modo che (al limite) il tempo di transito (tempo di produzione, dalla materia prima al prodotto finito) sia uguale alla somma dei soli tempi di
lavorazione. L’indice di flusso è il rapporto tra il tempo medio e le ore nette di produzione effettiva.
L’analisi
Stabilito l’equilibrio del confronto, il punto di questa fase a cui richiamarsi per la
contrattazione è il rapporto tra la qualità del lavoro e la produttività. Tale rapporto a
livello di sito e a livello di gruppo industriale è stato più volte sperimentato nella contrattazione di secondo livello. In questo esercizio spesso si sono rilevate timidezze e
conservatorismi da parte delle direzioni aziendali 11. Oggi proprio per le condizioni
della competizione globale e per la durevole stagnazione economica, il salario variabile va compreso come investimento e spinta della stessa produttività. Uno strumento,
cioè, in grado di facilitare e pressare, attraverso gli obiettivi di produttività, una competitività in cui l’ottimizzazione delle risorse e la qualità del prodotto sono gli ingredienti per concorrere sui mercati locali e internazionali. L’ottimizzazione delle risorse richiede un rendimento di qualità della forza-lavoro. In questo rapporto tra
rendimento e qualità del lavoro si misura la produttività e la qualità del prodotto.
Quanto basta per escludere tutti quegli indici che confondono, anche con qualche
presunzione, il rendimento con l’assenteismo, la presenza, il ricorso agli straordinari, la redditività, il fatturato, l’utile e formule di calcolo in cui prevalgono i parametri di andamento economico aziendale a discapito di quelli legati al rendimento al lavoro. La produttività in una impresa dipende da due fattori: il grado di utilizzazione
degli impianti nella giornata, nella settimana e nel mese12 e la funzionalità del flusso produttivo. Questo aspetto supera il vecchio indice di produttività tra produzione e ore lavorate. Infatti tale indice era subordinato alle quantità prodotte e le ore, al
denominatore della frazione, erano vincolate alla mansione e alla sua rigidità prescrittiva. A questo criterio della quantità va sostituita la regola della qualità.
La qualità del prodotto insegue sempre il principio di una produzione lineare, senza disturbi, strozzature e continuamente affrancata dal massimo utilizzo degli impianti
in un flusso produttivo regolare e incessante13. Alle prospettive della ottimizzazione
tecnica e degli indici di calcolo è necessario riferirsi per gli aspetti della modalità di
lavoro, dell’occupazione e della professionalità delle persone. La qualità del prodotto, almeno sul piano della lavorazione, richiede una incessante qualità e flessibilità della prestazione. La polivalenza e la polifunzionalità oltre ad essere strumenti flessibili
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della prestazione richiedono un riconoscimento della professionalità ma altresì una
occupazione stabile secondo le necessità organizzative e le variabilità delle assenze programmate. Questi due aspetti, insieme alla formazione permanente, sono i presupposti per dare applicazione al rapporto tra l’utilizzo degli impianti e la qualità del prodotto e sono altresì le condizioni di una competizione in cui la qualità è l’elemento
concorrenziale per il mercato globale14.
La contrattazione territoriale si è sviluppata prevalentemente in relazione a realtà mono produttive e in maggioranza di piccole aziende (ceramiche, piastrelle, tessile, concia, vetrerie) in cui il criterio della produzione omogenea e la frammentazione dell’occupazione hanno dato luogo ad una contrattazione unificata a livello
territoriale. Tale esperienza compensava una forte e generale contrattazione che si sviluppava nei gruppi industriali e nelle medie e grande imprese. Dopo il naufragio dell’industria15 avvenuta significativamente negli anni ’80-90 la mappa delle aziende è
stata ulteriormente modificata a favore di una prevalenza generalizzata di piccole e piccolissime aziende. Questo dato ha modificato di molto la presa della contrattazione
di secondo livello tra gli occupati nell’industria e ha cambiato i tradizionali vincoli
che definivano i criteri della contrattazione territoriale. Anche se persiste il perimetro delle mono produzioni, il territorio perde la caratteristica di un’aggregazione di
aziende di settore e assume invece la proprietà di macroarea in cui ciò che la qualifica sono le dimensioni aziendali su cui insistono gli attuali e aggiornati distretti e filiere produttive. È da questa considerazione che la contrattazione territoriale può avere luogo.
In quest’ambito la contrattazione di macroarea comporta un accordo quadro con
l’Unione industriali di riferimento. Un accordo cioè in cui è esplicita la negoziazione di secondo livello e in cui si definisce un quadro normativo certo per i lavoratori
e per le aziende. L’accordo quadro può avere un duplice significato nella determinazione sindacale del rapporto tra qualità del lavoro e produttività in un territorio. Il
primo può rimandare alla relazione tra occupabilità e mercato del lavoro in cui gli sviluppi occupazionali sono governati dalla possibilità di avanzare proposte alle forze politiche e alle amministrazioni locali (Regione, Comune, Provincia), il secondo è relativo alla funzione della formazione continua con l’incarico di annullare la distanza
tra domanda e offerta di impiego. In quest’ambito si possono individuare, nel rispetto
del Contratto collettivo, dei meccanismi contrattuali sugli impegni degli orari di lavoro, sulla loro distribuzione e sulla organizzazione del lavoro nonché sullo stesso salario aziendale. I meccanismi contrattuali possono essere intesi, cioè, come norme da
14 Si veda su questi temi: F. Farina, Della produttività, Discorso sulla qualità del lavoro, Ediesse, Roma,
2008 (seconda edizione).
15 L. Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Einaudi, Torino, 2003.
L’analisi
applicare nelle singole aziende secondo le loro diverse specificità e possono essere monitorati attraverso un codice di comportamento condiviso tra le parti.
Gli aspetti della contrattazione individuati, da quella di sito, di gruppo e territoriale, implicano una specifica connotazione del salario. La quantità dipende prevalentemente dai margini che si liberano dagli incrementi di produttività e dalla tassazione agevolata, la qualità discende dal ruolo che si vuole rendere al salario aziendale.
Il salario variabile è sempre stato considerato come una opportunità per una maggiore
produttività, in cui agli incrementi dei rendimenti aziendali corrispondeva un salario. In questo rapporto la corresponsione può avere diversi significati: può assumere
il criterio di una forfetizzazione come cioè una semplice forma di ammissione al raggiungimento agli obiettivi di produttività ma può anche incaricarsi di un diverso rilievo. In questa situazione economica e competitiva il salario aziendale va valutato come un investimento, come una leva per la competitività. Gli va data autorevolezza,
gli va restituito il riconoscimento di un istituto salariale a pieno titolo secondo cioè
un progressivo consolidamento quantitativo e ammesso per i trascinamenti agli altri
istituti contrattuali. Infatti il futuro dell’azienda e dei lavoratori consiste sempre nel
consolidamento dei volumi di produzione e nella stabilizzazione dell’occupazione e della retribuzione.
L’attuale situazione richiede una maturità delle relazioni sindacali e industriali e
l’esclusione di atteggiamenti ideologici e di breve calcolo da parte delle aziende e dei
sindacati. La partita è talmente grossa che va affrontata con serietà. In gioco è ciò che
è rimasto di quanto è già scomparso dell’Italia industriale e di ciò che è ancora contenuto nella rappresentanza unitaria del sindacato.
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■ L’analisi
Intervista a Stefania Crogi*
Franco Farina**
S
iamo agli inizi del 2012. L’anno passato sia per la Cgil sia per la Flai è stato un
tempo complesso. La categoria è stata impegnata su molti problemi. In particolare è stato un anno di crisi economica che ha chiamato la Flai a confrontarsi con
gli aspetti delle crisi aziendali e con i problemi occupazionali. È stato un anno denso di
iniziative, vertenze e rivendicazioni sindacali. La lotta al caporalato, la contrattazione
di secondo livello nel settore dell’industria alimentare e l’avvio della contrattazione provinciale di primo livello in agricoltura sono solo alcune iniziate che hanno caratterizzato l’impegno della categoria. L’anno in corso si presenta difficile. Permane il dato della
crisi economica e annuncia appuntamenti sindacali di rilievo.
Potresti indicarci gli indirizzi e gli obiettivi della categoria per il 2012?
S. Crogi: Hai ragione quando ribadisci che il 2011 è stato un anno complesso e difficile. Nonostante le difficoltà posso dire che è stato anche un anno di notevoli soddisfazioni sia per la categoria sia per la nostra Confederazione. Andiamo per ordine
e soffermiamoci sul ruolo della Cgil.
Senza smentita, e purtroppo direi, le dichiarazioni, le previsioni della Cgil, fin dal
2009, sullo stato di crisi si sono avverate. Quest’aspetto segnala una particolarità
della nostra organizzazione. Non si è trattato soltanto di una particolare sensibilità
ai dati economici e produttivi; men che meno, come da più parti si è cercato di accreditare, ha interessato un atteggiamento volutamente pessimistico e catastrofico;
ma riguarda una cultura profonda della Cgil. Il rapporto che abbiamo con la nostra
gente, con le condizioni di lavoro e di vita dei pensionati, dei lavoratori, delle lavoratrici, dei giovani e degli studenti ci segnalava le difficoltà che incrociavamo ogni
giorno. Erano difficoltà reali, materiali che contrastavano i mestieranti e gli imbonitori dell’ottimismo a tutti i costi. Era chiaro per noi che quegli atteggiamenti non
dipendevano da una predisposizione psicologica ma da una volontà di nascondere
la verità della situazione, per scansare le responsabilità che la situazione richiedeva
e, quel che è peggio, di continuare a perseguire gli interessi di pochi rispetto agli interessi di tutti. È stata la continua azione della Cgil, grazie a tantissime iniziative ter* Tratto da AE n. 8/2011. Segretario generale della Flai Cgil nazionale. ** Fondazione Metes.
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ritoriali, manifestazioni, scioperi, a dimostrare le difficoltà delle persone, a far capire alla società e alle forze politiche che bisognava girare pagina. È stata un’attività intensa, sempre legata ai bisogni delle persone, che ha consentito di chiudere con chi
è stato responsabile di averci buttato non fino all’orlo ma dentro il baratro di una
crisi che poteva essere affrontata sicuramente in modo diverso.
Non ho nessuna difficoltà a dire che il dinamismo della Cgil ha riaperto il processo unitario. Ha costretto a prendere atto, da parte della Cisl e della Uil, del fallimento dei rapporti con il governo Berlusconi e delle difficoltà crescenti nelle stesse
due Confederazioni. L’accordo unitario del 28 Giugno 2011, poi ampliato e rivisitato a settembre, sulle regole minime sulla rappresentanza e la contrattazione ha un
valore politico che va oltre i contenuti positivi dell’accordo. Per me ha una valenza
politica, come ti dicevo, eccezionale. L’accordo unitario incrina, rompe il tentativo
di isolare la nostra organizzazione e si contrappone all’ennesima prova del ministro
del Welfare a perseguire la rottura nel mondo del lavoro con l’inserimento in finanziaria dell’art. 8 sulla possibilità di derogare alle leggi dello Stato e allo Statuto dei
lavoratori. Questa fase ha registrato una forte coerenza da parte della nostra organizzazione e in particolare del nostro segretario generale che ha saputo mantenere le
posizioni della Cgil e ritessere un sistema di rapporti unitari.
Sulla fase che stiamo attraversando, posso dirti che è nostro interesse che la crisi
sia affrontata. La crisi è ormai nel sistema Paese. Sicuramente il governo Monti è
diverso dal governo Berlusconi. Ha un modo di porsi, di presentarsi indubbiamente differente dal precedente. Ma questo non basta. Anzi. Penso che proprio
per la stessa formazione tecnica della compagine governativa, mi verrebbe da dire per il loro connaturato imprinting, che non esclude derive autoritarie, va affermata la centralità del confronto e del negoziato con i sindacati. Parlo di confronto e di negoziato e non di informazione così come più volte il governo ha ritenuto di intendere il rapporto con il sindacato. Sostituendo così il confronto con la
semplice informazione. No, così non va bene. Questo è avvenuto con la riforma
delle pensioni e non può assolutamente avvenire nel confronto sulla piattaforma
unitaria Cgil-Cisl-Uil, sui temi e sul rilancio del lavoro. L’appuntamento è importante. Sono temi che richiedono un confronto di merito soprattutto per la loro importanza. Io credo che il superamento della crisi e l’affermazione di una prospettiva di sviluppo e di progresso del paese passi attraverso la centralità e il valore del lavoro. Senza questa centralità, che è il vero motore della società, non c’è
miglioramento per nessuno. Proprio per questi motivi trovo stucchevoli e ideologici i richiami alla cancellazione dell’art. 18 della legge 300. Bisogna mettere, invece, in opera un piano per il lavoro che razionalizzi le forme insopportabili di
precariato, che riformi, nel senso di una maggiore tutela, gli ammortizzatori sociali e che fondi un sistema di rilancio delle imprese in grado di mettere al centro
Il 2012 sarà l’anno dei rinnovi contrattuali. A leggere i giornali vengono i brividi. E per
diversi motivi. Il primo è quello che i rinnovi si collocano in una forte crisi economica.
Il secondo è che la stagione dei rinnovi si situa ancora in un quadro generale in cui permane l’accordo separato sulla struttura contrattuale. Aggiungo, inoltre, che l’applicazione dell’accordo del 28 giugno sulla rappresentanza sindacale richiederà una corretta applicazione. Quali sono le impostazioni e le rivendicazioni su questi punti della Flai?
L’analisi
un sistema di fiscalità per le imprese ma soprattutto a vantaggio dei lavoratori dipendenti.
Sullo stato della categoria mi sento di dire di essere più che soddisfatta. In questi tre anni, dal 2009 al 2011, abbiamo ottenuto successi importanti. L’ultimo contratto dell’industria, ma direi anche per l’ultimo ciclo dei rinnovi contrattuali, la
categoria ha dimostrato una forte autonomia e una sostenuta capacità rivendicativa. I risultati hanno comprovato la distanza dall’inutile accordo separato del 2009
e hanno avviato una stagione, nelle aziende alimentari, di contrattazione di secondo livello i cui esiti sono di altissimo livello. Non mi riferisco solo alla parte salariale, i cui incrementi legati agli obiettivi vanno dai 1.500 ai 2.000 euro, ma soprattutto agli aspetti di intervento sulla organizzazione del lavoro. Negli accordi si
mostrano risultati innovativi proprio in riferimento ai mutamenti organizzativi e
del lavoro. Infatti, prevedono riconoscimenti professionali per i lavoratori polivalenti e polifunzionali e una diffusa pratica formativa per queste figure. Alcune normative sono state migliorate, ampliando le tutele, arricchendo il ruolo e la funzione delle Rls, la gestione degli appalti e direi molto altro. Non va dimenticato il
grande lavoro e i risultati ottenuti sui temi dei diritti e della lotta al lavoro sommerso. Segnalo, con il sostegno della Confederazione, il successo storico della campagna stop caporalato e il risultato ottenuto della legge che configura il caporalato
come reato penale. Sul mercato del lavoro del settore agricolo vorremmo andare
avanti. Alcune settimane fa abbiamo firmato un nuovo avviso comune con le Associazioni professionali agricole e con la Cooperazione. L’accordo prevede delle
semplificazioni e l’individuazione in luoghi pubblici in cui la grande questione in
agricoltura dell’incontro tra domanda e offerta sia effettivamente realizzata. Le
strumentazioni per la realizzazione di questi obiettivi riguardano le Commissioni
tripartite, tavoli nelle sottocommissioni agricole, presso i Comuni e le Prefetture.
L’obiettivo per l’impiego prevede l’inserimento dei lavoratori nelle liste di prenotazione e un sistema di incentivazione per le imprese che da queste liste possono attingere. Non va escluso naturalmente il ruolo delle Organizzazioni sindacali che,
anche attraverso l’Ente bilaterale, potranno esercitare il controllo e la verifica sul
diritto di precedenza.
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S. Crogi: Può sembrare una sorta di sfrontatezza ma ti dico che, in uno scenario di
crisi, il rinnovo del contratto dell’industria alimentare, per me deve rappresentare
un’opportunità. Ripiegare nella crisi significa rannicchiarsi in una sorta di attesa
aspettando, quasi fosse una palingenesi, tempi migliori. Non è così. E non lo è per
il sindacato e neanche per le imprese. Il contratto nazionale è uno strumento per i
lavoratori e per le imprese. Bisogna consolidare il presente ma avere anche un programma. Quando il ciclo economico esce dalle secche della crisi, le aziende che hanno innovato sono nelle condizioni di competere, quelle rimaste al palo subiranno i
ritardi proprio sul piano della concorrenza. Per questo le imprese del settore dovranno investire sull’ottimizzazione degli impianti, sull’innovazione del prodotto e
sul processo, su sistemi flessibili efficienti e sulla qualità. Ma soprattutto bisogna investire sul sistema delle relazioni sindacali e del capitale umano. La qualità del lavoro, della professionalità, del legame con il territorio, delle filiere sono gli elementi
che danno il vantaggio competitivo sul mercato nazionale e globale. Come ti dicevo questi dati richiedono la centralità delle relazioni industriali. Le relazioni sindacali e industriali sono sempre state un dispositivo di coesione e di forte innovazione. Naturalmente questo significa che noi, così come è sempre stato, non dobbiamo sottrarci al confronto anche quando si presenta difficile. Parte della sfida risiede
qui. Trovo difficile individuare un sistema altrettanto valido che possa sostituire la
centralità delle relazioni. Per dirla francamente penso che la condivisione di tutti ad
una sfida competitiva rafforzi la possibilità di uscire dalle difficoltà; non penso invece che scorciatoie come le deroghe, su cui ribadisco la forte contrarietà, abbiano
prospettive positive per le aziende. Quindi penso che inevitabilmente il nuovo rinnovo del contratto dell’industria alimentare debba rappresentare un’opportunità per
i lavoratori, sul salario, sull’occupazione, sulla professionalità e su un sistema rafforzato di tutele e diritti così come per il rafforzamento competitivo dell’imprese.
Non c’è ombra di dubbio che Cgil-Cisl-Uil dovranno riprendere la riforma del
sistema contrattuale unitariamente per una soluzione condivisa che valga per il pubblico e il privato. Credo che dopo l’accordo unitario di giugno si possa andare avanti e che si possano compiere dei passaggi successivi. Tra questi, indubbiamente, è
prioritaria la messa a punto di una nuova struttura contrattuale. Una riforma che
consolida i due livelli di contrattazione, uno nazionale e uno aziendale. Su questa
l’accordo di giugno ci può far fare un passo in avanti. Infatti l’accordo indica chiaramente la centralità del contratto nazionale il quale può stabilire le materie di pertinenza della contrattazione di secondo livello, affidandogli compiti, ruoli e funzioni. I due livelli, e questo non interessa nessuno, non dovranno essere alternativi e
con materie sovrapponibili ma complementari, in un quadro in cui il contratto conferma le sue prerogative negoziali su determinati istituti stabilendo però la cornice
e le regole su cui esercitare il negoziato a livello aziendale.
Il rinnovo del contratto nazionale dell’industria alimentare è tra i primi che si rinnovano nell’industria. Per questo può rappresentare il riferimento per tutti gli altri settori.
Quello che voglio rilevare è che le politiche rivendicative e gli accordi di primo e secondo livello, in questi anni della Flai, si configurano come un sistema rivendicativo. Un
sistema specifico, autonomo del settore alimentare. La conferma di questo modello, oltre
ad assolvere le giuste attese dei lavoratori del settore, può indicare e può raffigurare un
riferimento utile, in assenza di altri modelli, alla stessa Cgil. Concordi?
S. Crogi: Concordo assolutamente. La stagione dei rinnovi di secondo livello, in
particolare degli accordi di gruppo, così come il modello di contrattazione dell’industria alimentare si possono configurare come un modello rivendicativo, di relazioni sindacali e industriali. Se posso dire è un modello che ci ha permesso di affrontare, trovando buone soluzioni per i lavoratori, situazioni difficili e a volte di crisi aziendali. Penso alla Parmalat, alla Nestlè, alla Unilever e molte altre. Queste situazioni sono state sempre gestite con le organizzazioni sindacali. Governate sulla
base di relazioni sindacali e industriali generalizzate, che hanno coinvolto tutte le
nostre strutture e che hanno avuto effetti concreti di tutela per i lavoratori coinvol-
L’analisi
Naturalmente tutto questo implica il governo dell’accordo di giugno sulla rappresentanza. L’accordo di giugno prevede alcune regole su chi ha la titolarità a firmare i contratti sulla base della rappresentanza e rappresentatività. Questo vuol dire che quella titolarità si stabilisce sul numero degli iscritti con voti espressi attraverso le elezioni della Rsu. Siffatto sistema richiederà, dunque, la certificazione delle adesioni da parte del Cnel ma richiama la corretta definizione del numero degli
iscritti da parte delle categorie e che il ruolo centrale tra i lavoratori e l’organizzazione sindacale sia esercitato dalle Rsu. Noi abbiamo già rivisitato, in concomitanza della preparazione della piattaforma per il rinnovo del contratto dell’industria alimentare, l’accordo pattizio del ’94 tra Fai-Flai-Uila sul sistema della rappresentanza. Abbiamo, in questo nostro riesame, introdotto delle modifiche sostanziali sui
criteri di proporzionalità del seggio di nomina, di solidarietà tra le organizzazioni di
categoria e sulla relazione tra la rappresentanza e la certificazione degli iscritti. Pensiamo appena rinnovato il contratto, di aprire una campagna di rinnovo delle Rsu.
Una grande campagna di proselitismo con le assemblee nei posti di lavoro il cui intento è quello, senza fare inutili competizioni tra di noi, di raggiungere quei lavoratori non iscritti al Sindacato e che magari mantengono ancora delle diffidenze verso di noi. Sarà una campagna di tesseramento diffusa, estesa, capillare. L’obiettivo è
di porre delle solide basi della nostra rappresentatività. Una rappresentatività certa
e fondata sui posti di lavoro.
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ti. Siffatte esperienze sono sempre state all’insegna di un realismo sindacale lontano
da una scelta di campo ideologica sui temi e problemi dell’industria alimentare. Un
realismo che ha considerato gli aspetti oggettivi delle diverse congiunture economiche e delle stesse aziende con il fine però di tenere saldo il nostro potere contrattuale
e di assicurare una sicura rappresentanza sindacale da parte dei livelli della nostra categoria. Il sistema ha funzionato in questi anni e ha operato nei rinnovi contrattuali, nella contrattazione di secondo livello e nelle diverse congiunture e situazioni
produttive.
Il rinnovo del contratto nazionale dovrà mantenersi sulla linea di rafforzamento
delle relazioni sindacali e industriali. Credo che convenga a tutti. Devo dirti anche
che non nascondo le difficoltà di questo rinnovo. Temo pressioni di qualche nostalgico che cerca ancora di isolare la nostra organizzazione, sospetto dei cambiamenti in atto delle cariche e della presidenza nel sistema confindustriale e delle scelte che vorrà fare la nuova dirigenza Federalimentare. Certamente la crisi morde ancora su molti settori di Federalimentare del dolciario, del conserviero, dell’avicolo
delle carni e delle macellerie ma delle due l’una o le buone relazioni valgono sempre oppure non valgono mai. Ti dico comunque che nonostante queste mie preoccupazioni sono sicura che riusciremo a concludere un buon accordo. Tuttavia ti posso garantire che la Flai manterrà su questi temi un rigore assoluto, coerenza e determinazione. Le assemblee sulla piattaforma si sono svolte dappertutto, c’è stata
una attenta e diffusissima partecipazione dei lavoratori. Quando si aprirà e durante
il negoziato terremo un forte rapporto con i lavoratori e con la delegazione trattante. Questo, sia a riguardo dello svolgimento di una effettiva democrazia sindacale sia
per la valutazione degli avanzamenti, della conclusione dell’ipotesi di accordo e per
eventuali azioni da intraprendere per far progredire nel verso giusto il negoziato
contrattuale.
Quali sono le scelte rivendicative per il rinnovo contrattuale?
S. Crogi: Sono molte e importanti. Riguardano il consolidamento delle relazioni industriali, il mercato e rapporti di lavoro sui temi della stabilizzazione occupazionale, gli orari di lavoro sui criteri di qualifica di lavoratore notturno e sui riposi compensativi in «banca-ore», i diritti e tutele sui congedi, sui lavoratori studenti ecc. Sul
salario c’è una richiesta di aumento di 174 euro. La quantificazione della cifra è scaturita dall’andamento degli ultimi sei mesi. Infatti il 2011 si è chiuso con l’inflazione del 2,9% ma osservando l’andamento degli ultimi mesi la media inflattiva è del
3% mese. Il calcolo per i tre anni di durata del contratto è del 9,2%. Le stesse previsioni dell’Istat non si discostano dalle nostre. I 174 euro di aumento scaturiscono
L’analisi
dall’obiettivo del mantenimento del potere d’acquisto dei salari e sulla modalità di
calcolo con il rapporto del valore punto e l’inflazione prevista nel triennio.
Per la categoria il rinnovo del contratto dell’industria alimentare ha una funzione primaria. L’esperienza di questi anni, nonostante le molte turbolenze che hanno
coinvolto i rapporti sindacali, ci conferma un sindacato di categoria unitario. Questo è un bene per la riuscita di un buon contratto nazionale. Voglio aggiungere infine che sono sicura che non mancherà il contributo, l’attenzione delle donne e degli uomini della Flai a questo importante appuntamento. La solidità e la passione
della nostra gente, così com’è sempre avvenuto, sarà il contributo più prezioso per
chi ha la responsabilità del compito contrattuale e per una convincente soluzione
normativa e salariale per tutti i lavoratori del settore. La nostra forza è questa e sono sicura che ancora una volta non mancherà l’impegno e la responsabilità di tutti
noi nei confronti dei lavoratori e nei confronti della nostra Cgil.
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■ L’analisi
Contrattazione rappresentanza proselitismo*
Stefania Crogi**
C
i troviamo di fronte, ormai da mesi, a uno scenario politico inedito: un
governo nato come tecnico, per traghettare l’Italia fuori dalla crisi, sta assumendo scelte politiche forti, con una impostazione fatta di tagli e sacrifici. Contemporaneamente non c’è nulla, nei provvedimenti assunti fino ad ora, che
porti il segno della tanto annunciata equità e tantomeno dello sviluppo. Alcune scelte sono state fatte e sono quelle dei sacrifici per le fasce più deboli ed esposte, o quella di non fare una patrimoniale vera, come più e più volte chiesto in primis dalla
Cgil. A queste scelte, tutte politiche, va data una risposta politica e sindacale, cioè
contrattuale.
In tale contesto il ruolo del sindacato è fondamentale e, tuttavia, il governo in
questi mesi sta tentando, non riuscendoci, di renderlo marginale.
Non è un caso che la riforma delle pensioni sia stata fatta dal governo senza nemmeno consultare o ascoltare le organizzazioni sindacali, e che sul d.d.l. di riforma
del mercato del lavoro (anche questo firmato Fornero) il governo abbia scelto di registrare esclusivamente una distanza delle parti. In questo modo il ruolo negoziale
del sindacato viene in qualche modo messo da parte. Si tratta della fine della concertazione, sostituita dalla verbalizzazione di Monti.
Se guardiamo alla nostra categoria ci troviamo di fronte ad una situazione di stallo per quanto riguarda i rinnovi dei contratti nazionali: dal contratto dell’Industria
alimentare ai Cpl in agricoltura, passando per i Consorzi di bonifica. Finita la fase,
che giudichiamo positivamente, dei rinnovi dei contratti integrativi, quando si arriva al rinnovo dei Ccnl assistiamo ad una ingessatura, ad uno stop, e questo ci
preoccupa.
Viene chiamata in causa la crisi, la difficile congiuntura economica, ma questa
non può essere la scusa buona da presentare in ogni momento. Anzi, è proprio attraverso la contrattazione che si può superare la crisi. I rinnovi contrattuali devono
essere una opportunità di sviluppo e di crescita, proprio rinnovando, valorizzando
il lavoro e rilanciando sul tema dei diritti e delle tutele, poiché deve essere chiaro a
* Tratto da AE n. 9-10/2012. ** Segretario generale della Flai Cgil nazionale.
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tutti – e a tutte le parti datoriali – che uscire dalla crisi non può voler dire tagliare
sui diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, risparmiare sulla sicurezza di chi lavora o
liberalizzare selvaggiamente, come abbiamo visto, ad esempio, con il capitolo dei
voucher contenuto nel d.d.l. lavoro.
Il contratto è uno strumento per i lavoratori e per le imprese, anche in un’ottica
di programmazione e d’investimento sul capitale umano, guardando al futuro. Dalla qualità del lavoro, dalla professionalità e dalla qualità dei prodotti possono venire gli elementi per uscire dalla crisi ed essere attraverso essi competitivi anche sui
mercati internazionali. Tutto questo deve essere al centro delle relazioni industriali
e sindacali, con il sindacato caparbio nel ricercare il confronto anche là dove esso è
più difficile. Infatti, solo se contrattiamo e negoziamo siamo realmente sindacato, e
andiamo a svolgere fino in fondo quel ruolo a cui siamo chiamati e per il quale dobbiamo essere giudicati.
Il sindacato deve portare avanti il ruolo negoziale e assumere in pieno la sfida di
rilanciare il proselitismo: sotto questo aspetto dobbiamo e possiamo fare di più. Siamo in una fase in cui con l’adesione ci si misura sul ruolo e le azioni che andiamo
a svolgere, e dobbiamo far comprendere che è tramite il sindacato e l’adesione a esso che si possono raggiungere obiettivi concreti e soluzioni praticabili.
Per questo affermiamo l’importanza del proselitismo, da promuovere a ogni livello, senza il quale ci mancherebbe la forza, il necessario slancio. Il nostro ruolo lo
esercitiamo se abbiamo adesioni e, quindi, rappresentanza. Contrattazione, rappresentanza e proselitismo sono i tre lati di un triangolo: tre lati uguali, sui quali lavorare con la stessa intensità.
Sulla rappresentanza voglio ricordare che l’accordo del 28 giugno 2011 indica la
centralità del contratto nazionale, il quale può stabilire quelle materie che saranno
di pertinenza della contrattazione di secondo livello. Con l’accordo di giugno, si
prevedono regole precise su chi detiene la titolarità a firmare i contratti e chi no,
proprio sulla base della rappresentanza e rappresentatività.
Come Flai, insieme a Fai e Uila, abbiamo lavorato unitariamente su questo punto delicatissimo. Pensando al valore della rappresentanza e volendo rilanciare il ruolo delle Rsu dei lavoratori, abbiamo siglato un nuovo Patto, dopo diciotto anni dal
precedente, per contrattare al meglio le condizioni di lavoro e difendere i diritti dei
lavoratori e delle lavoratrici. Da questo patto scaturirà, per i lavoratori della Flai, una
grande stagione di elezioni per il rinnovo delle Rsu, quindi un input in più per quell’azione di proselitismo di cui parlavamo.
■ L’analisi
Tesseramento e politiche organizzative*
Ivana Galli**
Premessa
I concetti fondamentali su cui ruota una parte importante del nostro lavoro organizzativo sono: missione, proselitismo, tesseramento, rappresentatività, importanza dei territori e dei luoghi di lavoro. Infatti, più sarà forte il nostro radicamento sui
territori e significativo il numero degli iscritti, tanto più sarà incisiva e determinante la risposta contrattuale che possiamo ottenere.
Organizzazione e rappresentatività del sindacato
Al primo posto ci sono la tutela e l’estensione dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici che rappresentiamo. Se questa è la nostra primaria missione, per concretizzarla è necessaria un’azione su due fronti: quello organizzativo e quello della rappresentatività. Dal punto di vista organizzativo è necessario sviluppare tutta la nostra
capacità di presidiare ed essere presenti sul territorio e nei luoghi di lavoro. La rappresentatività si sviluppa attraverso la sottoscrizione dei Ccnl e degli accordi aziendali, che migliorino l’organizzazione del lavoro (dalla tutela del reddito alla sicurezza sul
posto di lavoro, al welfare e, quindi, a un miglioramento della qualità del lavoro ma
anche della vita delle persone).
La Cgil tutela complessivamente il lavoratore, in un senso più ampio: possiamo
dire che attraverso il sindacato confederale vi è la tutela del cittadino/lavoratore e che
la confederalità è anche tutela dei diritti costituzionali. Come diceva Giuseppe Di Vittorio nel 1946: «Il sindacato, perciò, è lo strumento più valido per i lavoratori, per
l’affermazione del diritto alla vita e del diritto al lavoro, che dovranno essere sanciti
dalla nostra Costituzione»1.
La nostra missione non è rappresentata solo dall’affrontare i temi del lavoro, dei
diritti, del welfare, ma è anche senso di appartenenza, identità: trasmettendo ai la* Tratto da AE n. 9-10/2012. ** Segretario della Flai-Cgil nazionale.
1 G. Di Vittorio, Diritto di associazione e sull’ordinamento sindacale, relazione commissione per la Costituzione, III sottocommissione, Roma, 1946. Si veda, inoltre, A. Tatò (a cura di), Di Vittorio. L’uomo, il dirigente, vol. II, 1944-1951, Editrice sindacale italiana, Roma 1969.
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voratori ed alle lavoratrici che rappresentiamo e che scelgono di essere rappresentati
da noi, una base di valori comuni. Per fare questo è necessario un sistema di valori
condiviso, che assuma il ruolo di direttrice del nostro agire. I nostri valori sono: i dettati della Costituzione (art. 2), lo Statuto Cgil, le pari opportunità, la qualità del lavoro e la sicurezza sul lavoro, la centralità del sapere, il pluralismo, l’autonomia del
sindacato e la democrazia sindacale, l’uguaglianza, la solidarietà, la pace, l’unità dei
lavoratori, la solidarietà attiva tra i lavoratori e la solidarietà intergenerazionale, lo sviluppo equilibrato tra le diverse aree del mondo, la sostenibilità e tutela ambientale,
la legalità, il contrasto al lavoro nero, irregolare e ad ogni forma di sfruttamento, la
democrazia di mandato e la confederalità.
Queste sono le nostre direttrici e il nostro collante. Questo è il nostro essere Cgil.
La missione sta nell’identità, ma tale percorso è vincente nella misura in cui, attraverso l’organizzazione, riusciamo a stare nel territorio, nei posti di lavoro, nelle dinamiche territoriali (e sociali). Infatti, per riuscire a rappresentare al meglio i lavoratori, dobbiamo presidiare il territorio e ciò si presenta sempre più come una necessità,
in particolare in questo periodo storico, in quanto assistiamo ad una grande frammentazione del mondo del lavoro: frammentazione del ciclo produttivo, frammentazione dei luoghi di lavoro e frammentazione delle tipologie contrattuali. La grande fabbrica di trasformazione, il grande stabilimento sono venuti meno, lasciando
sempre più spesso il posto a tante piccole realtà produttive. Contratti e normative sono anch’essi frammentati ed il risultato di ciò non è solo una diversificazione del lavoro, ma anche delle forme attraverso cui è possibile tutelare un lavoratore. Abbiamo, come sindacato di categoria, il compito di tenere insieme – e farne capire
l’importanza – la difesa dei principi e delle tutele collettivi con la salvaguardia delle
tutele dei singoli e questo anche per contrastare la solitudine che le persone provano
davanti alla precarietà del lavoro e all’incertezza del futuro lavorativo. Il presidio territoriale funziona se la Camera del lavoro territoriale è baricentrica e riesce a vivere
come luogo di confronto, di proposte, di accoglienza. Quest’ultimo termine può suonare un po’ strano, ma è un concetto fondamentale: oggi il lavoratore deve essere preso in carico e questo è possibile solo partendo dal territorio ed avendo un forte spirito di confederalità.
Tesseramento
A cominciare dai posti di lavoro, è necessario dare valore e nuova spinta ai Comitati degli iscritti, che possono svolgere un ruolo importante, sia a supporto delle Rsu,
sia come luogo di riflessione ed elaborazione 2. Infatti, il Comitato degli iscritti ha il
2
Documento Conferenza di Organizzazione Nazionale della Cgil, 2008.
L’analisi
ruolo, fondamentale, di favorire la partecipazione degli iscritti alla vita dell’organizzazione, informando sulle attività svolte e da svolgere nei luoghi di lavoro e sui temi
affrontati più in generale dall’organizzazione. Nelle assemblee è necessario sviluppare discussioni sui contenuti della contrattazione e su temi generali, come elemento
formativo. Il Comitato degli iscritti deve riprendere in tutti i luoghi di lavoro la sua
attività, perché rappresenta il nucleo, la prima cellula, dove sviluppare e fare opera di
promozione dell’attività del sindacato, che la Rsu non sempre riesce a fare e, comunque, non può fare perché dedita all’impegno sui temi specifici della contrattazione e
dell’organizzazione del lavoro.
Informazione, discussione, promozione sono attività necessarie per fare proselitismo. Per questo andrebbe individuata la figura del tesseratore. Nel corso degli ultimi anni il tesseramento è stato quasi un elemento residuale delle campagne dell’organizzazione, come se fosse qualcosa di scontato e che rientrasse in una sorta di
automatismo. Così non è o, se lo è stato in passato, oggi non lo è più. Tesseramento e fidelizzazione sono capitoli strategici. Infatti, verifichiamo sul campo che non
sempre un buon accordo, un buon contratto sottoscritto, porta automaticamente
nuovi iscritti.
Si possono dare diverse spiegazioni a tale fenomeno. Una volta gli iscritti si facevano in base ad una forte e radicata appartenenza ideologica, era quasi un’adesione
«naturale» e aprioristica, determinata da una appartenenza ideologica forte. Oggi, nella società in generale, questo collante ideologico non c’è più ed è per questo motivo
che è necessario trovare nuovi canali e nuovi modi di coinvolgimento e affezione alla nostra attività, mostrandone l’importanza pratica e l’incidenza nella vita dei lavoratori e delle lavoratrici. Spesso manca l’informazione necessaria, magari anche noi
diamo per scontato che i lavoratori conoscano il nostro percorso e la nostra attività.
Riveste grande importanza, per fare nuovi iscritti, anche il sistema dei servizi (Inca,
Caaf): quanto più questo funziona, tanto più abbiamo risposte positive anche in termini di adesione. Inoltre, esiste anche quella che potrebbe essere definita come la fase di «manutenzione» degli iscritti. Oggi registriamo la presenza di vecchie e nuove
organizzazioni sindacali molto aggressive, cioè che vogliono contare e cercare consenso,
noi ci dobbiamo confrontare con questa realtà e affrontare il tema della fidelizzazione alla Cgil.
Nel settore del lavoro agricolo stagionale attraverso le disoccupazioni si rinnovano le
iscrizioni alla Cgil, tra questi lavoratori stagionali si registra una forte presenza d’immigrati. Il cambiamento in questa tipologia di lavoratori è anche fisiologico poiché sono interessati sia dalla stagionalità del lavoro sia dal migrare e cambiare periodicamente regione, se non addirittura nazione. Eliminato il ricambio fisiologico, dobbiamo fare
di più in termini di coinvolgimento e manutenzione, affinché chi si sia rivolto a noi una
volta lo faccia ancora e diventi un nuovo e poi consolidato iscritto della Flai.
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La politica organizzativa deve puntare molto sulla formazione, che è elemento strategico per il nostro gruppo dirigente. Formazione significa trovare gli strumenti per
stare al passo con i tempi, per far circolare le notizie tra i lavoratori e le Rsu. Assemblee, attivi, riunioni, comitati degli iscritti sono momenti fondamentali cui vanno affiancati anche altri modi di informare, dalle campagne per il tesseramento con spot,
materiali, video, fino alla rete. Se così non fosse, pagheremmo il prezzo di una disinformazione che tende a massificare, accomunando la Cgil a tutti gli altri. E non
possiamo dire «la Cgil è diversa, siamo i migliori...», non funziona! Siamo realmente diversi nella misura in cui sappiamo ascoltare e abbiamo la capacità di coinvolgere i delegati (vedi i Comitati degli Iscritti), e facciamo in modo che le nostre Rsu siano all’altezza dei compiti da svolgere e si faccia «rete».
Le campagne della Flai Cgil partono proprio dall’analisi di quello che accade nei
territori creando sinergie con una visione ed un intervento ad ampio raggio e di livello nazionale. Il Sindacato di strada, il Camper dei diritti, la campagna Stop caporalato iniziata nel 2010 e il progetto gli Invisibili delle campagne di raccolta (2012)
sono solo alcuni esempi per far capire come l’azione del sindacato parta dai territori, trovi sintesi a livello nazionale, torni sui territori con azioni e risultati concreti.
Un altro capitolo importante della nostra attività, cui la Flai Cgil ha dedicato le
campagne tesseramento del 2011 e 2012, è quello della legalità. Siamo sempre più
convinti che legalità, intesa in un senso vasto e onnicomprensivo, e cioè lotta alle economie sommerse, contrasto al caporalato, lotta alle infiltrazioni mafiose, significa lavoro, diritti, qualità del lavoro e dei prodotti. Per capire l’importanza del tema bastano alcuni numeri: 400 mila sono i lavoratori che lavorano sotto caporale; il lavoro
nero nel settore agricolo tocca anche il 90% nelle regioni del Mezzogiorno; le infiltrazioni mafiose nel settore agroindustriale rappresentano il 10% del giro di affari
mafioso.
Perché iscriversi al nostro sindacato?
La domanda semplice, quanto fondamentale, che ognuno di noi deve porsi con
il compito anche di dare una risposta, è: perché iscriversi alla Flai Cgil, o più in generale alla Cgil? Un motivo può essere il nostro carattere di sindacato confederale di
rappresentare interessi generali, dando un segno di universalità al nostro lavoro. Altro motivo è che facciamo contrattazione e negoziazione e per farlo dobbiamo conoscere i problemi e le esigenze dei lavoratori, al fine di rappresentarli al meglio ai tavoli di confronto. Crediamo nel percorso democratico, in base al quale il lavoratore
deve decidere consapevolmente sul proprio destino e partecipare attivamente ai percorsi per i rinnovi contrattuali. Ma iscriversi al nostro sindacato significa anche stare al passo con le sfide e i cambiamenti che ci troviamo davanti; significa far cono-
L’analisi
scere e praticare i nostri principi, stando sempre dalla parte di chi vive situazioni di
difficoltà, nuovi poveri senza diritti, spesso senza la consapevolezza di poterli rivendicare. Per questo oggi, come sindacalisti, abbiamo il dovere di rappresentare chi non
ha voce, chi per condizioni di sfruttamento e di sottosalario si trova in una situazione che ricorda l’inizio del Novecento. Oggi i lavoratori immigrati hanno preso il posto dei «cafoni» a cui Giuseppe Di Vittorio ha dato voce, coraggio e diritti. Con i nuovi sfruttati delle campagne di raccolta stiamo, già da qualche tempo, denunciando una
realtà estesissima e che in molti credevano o volevano credere scomparsa: donne e uomini fatti lavorare anche 12 ore nei campi, nelle stalle, per una paga di 30 euro. Sono privati dei documenti, costretti a vivere in luoghi di fortuna, soggetti al ricatto anche per una bottiglia d’acqua e in una condizione di vera e propria schiavitù. Sono
oltre 80.000 i lavoratori e le lavoratrici che vivono questa situazione di assoluto degrado. Si tratta di dati preoccupanti, che coinvolgono coloro che saranno gli iscritti
di domani alla Flai Cgil.
Da qui una grande sfida e un grande impegno. Una sfida per gli iscritti di oggi e
per quelli di domani: abbiamo il dovere di far incontrare in un continuo scambio generazioni, lavoratori e lavoratrici provenienti da luoghi differenti, con esperienze diverse ed abbiamo il dovere di essere sempre determinati a conquistare un diritto in
più per tutti.
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■ L’analisi
Tesseramento e politiche rivendicative*
Franco Farina**
Premessa
Il tema del tesseramento e dell’adesione al sindacato è un tema ampio; richiama,
infatti, aspetti fondanti di ogni singola organizzazione. È la spia di due funzioni costituenti: le politiche organizzative e le politiche sindacali, funzioni legate e separate nello stesso tempo. Difatti, un’organizzazione che dimostra la sua efficacia sul numero degli iscritti, tra le diverse attività previste, richiede anche una politica organizzativa adeguata e prioritaria. L’obiettivo è di consolidare e aumentare gli iscritti,
sia per accrescere il peso dell’organizzazione sia per determinarne una maggiore rappresentatività. I due aspetti conferiscono all’organizzazione il suo potere contrattuale. La rappresentatività è l’esito quantitativo e qualitativo degli iscritti e deve misurare l’efficacia dell’azione sindacale. La corrispondenza tra le politiche organizzative
e quelle sindacali si considera come il presupposto di un buon proselitismo. Tale
correlazione va assunta, secondo il nostro approfondimento sul tema, come un modello interpretativo per capire le dinamiche intorno al tesseramento.
Il lavoro che segue si preoccuperà di esaminare la relazione tra le politiche sindacali e l’iscrizione al sindacato; non affronterà, invece, gli aspetti inerenti alle politiche organizzative. Questi ultimi sono affrontati in un contributo specifico all’interno del fascicolo. In questo modo l’analisi che ci predisponiamo a fare può trattenersi
su alcune considerazioni di maggiore dettaglio riguardanti l’incidenza dell’attività
sindacale e del tesseramento.
La Cgil ultimamente ha ripreso, dopo una lunga assenza, l’interesse sul tema (Direttivo della Cgil, maggio 2011) e già nell’anno in corso si registrano iniziative mirate al tesseramento. Per procedere sul piano dell’elaborazione, partiremo dalla constatazione di una persistente situazione di stallo per le iscrizioni e un evidente scarto, sul piano formale, tra iscritti e non iscritti al sindacato, che vede i lavoratori non
iscritti in maggioranza rispetto agli iscritti e che pertanto prefigura una vasta zona
di possibile sindacalizzazione.
* Tratto da AE n. 9-10/2012. ** Fondazione Metes.
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La riflessione, che proverà a comprendere i motivi dello stallo e dello scarto, farà riferimento alle realtà industriali di media dimensione e si soffermerà sui caratteri ipotetici dell’andamento delle iscrizioni, indicando le variabili che si possono presumere come indicative per una maggiore affiliazione dei lavoratori alla
Cgil. Alcune considerazioni avranno un tono assertivo e generalizzato. Questo atteggiamento analitico è volutamente usato per caratterizzare meglio la chiarezza e
l’efficacia dei giudizi. Non vanno dimenticate, naturalmente, le differenti esperienze negoziali e le valutazioni politiche presenti nella Cgil che, seppur mostrando una variegata articolazione, non alterano le valutazioni che l’autore ha voluto
dare nel testo.
L’organizzazione della Cgil
La cultura organizzativa della Cgil si può rigorosamente ricavare dalla relazione
di G. Di Vittorio alla commissione per la Costituzione italiana3. Questo rapporto
determinò la stesura di alcuni articoli importanti, quali il riconoscimento e il ruolo
dell’organizzazione sindacale (art. 39) e il diritto allo sciopero (art. 40). Quando Di
Vittorio stese la relazione per la commissione, il sindacato italiano viveva il periodo
della stagione sindacale unitaria, secondo quanto stabilito dal Patto di Roma firmato il 3 giugno 1944 da G. Di Vittorio per i comunisti, A. Grandi per i cattolici ed
E. Canevari per i socialisti. Il Patto di Roma fu l’accordo che costituì la Cgil unitaria tra le componenti fondamentali dell’antifascismo (comunista, cattolica e socialista) e che consentì di suscitare una forte influenza sugli assetti costituzionali. Durante la fase della compilazione della relazione sussisteva, dunque, una cultura sindacale unitaria, tanto da poter supporre che il suo elaborato esprimesse un convincimento comune, e non in contrasto, con la stessa Cgil 4.
Già nella premessa, il testo scritto contiene l’accortezza di non «esprimere opinioni strettamente personali, sui vari aspetti del tema», con il fine di far «convergere le opposte posizioni di principio delle più larghe correnti d’idee esistenti nel paese e nell’Assemblea Costituente». La stessa avvedutezza, è lecito pensare, fu sicura3
G. Di Vittorio, Diritto di associazione e sull’ordinamento sindacale, relazione commissione per la Costituzione, III sottocommissione, 1946.
4 La commissione per la Costituzione fu istituita il 15 luglio 1946, i lavori si protrassero fino al 1° febbraio 1947. L’Assemblea Costituente presieduta da Umberto Terracini diede inizio alla discussione generale sul progetto di Costituzione, il 4 marzo 1947, per concluderla con la definitiva approvazione il
22 dicembre dello stesso anno. L’esperienza della Cgil unitaria durò fino al 1948, quando ci fu la rottura con la nascita della Cisl (1950) e della Uil (1950). La relazione di Di Vittorio fu discussa in commissione dall’11 al 24 ottobre 1946 in un clima di tenuta unitaria tra le tre componenti della Cgil unitaria. I primi contrasti tra la componente socialcomunista e quella cattolica si registrarono nel congresso di Firenze 1947 sul tema dell’autonomia (art. 9 dello statuto della Cgil unitaria).
5 Scrive Di Vittorio: «il cittadino capitalista, basandosi sulla propria potenza economica, può lottare e
prevalere anche da solo, in determinate competizioni di carattere economico. Il cittadino lavoratore,
invece, da solo, non può ragionevolmente nemmeno pensare a partecipare a tali competizioni». Diritto di associazione e sull’ordinamento sindacale, cit., p. 124.
6 Ivi, p. 124.
7 Ivi, p. 125.
L’analisi
mente usata nella stesura dell’elaborato, per non urtare ma riconoscere e valorizzare le diverse sensibilità sindacali (socialista e cattolica).
La relazione può essere presa in esame per comprendere la cultura del sindacalismo italiano nel periodo successivo al fascismo. Nel documento si analizza il punto
chiave del rapporto tra il tesseramento e l’organizzazione sindacale, sul quale poi la
Cgil imposterà, fino ad oggi, la politica organizzativa.
La prima parte della relazione è un approfondimento sul valore dell’associazione sindacale. La spiegazione si basa su aspetti concreti, relativi alla disuguaglianza
tra «il cittadino lavoratore ed il cittadino capitalista». Si ritiene, infatti, che la ricchezza nazionale nella società italiana sia mal ripartita a favore di pochi cittadini
(«immensi capitali nelle mani di pochi cittadini») rispetto alla maggioranza delle
persone le quali, invece, sono abbondantemente sprovviste di ricchezza. Tale disuguaglianza non riguarda soltanto una differenza materiale tra le persone ma
comporta anche l’esclusione di scelta sulla stessa competizione economica per il lavoratore5. L’unica possibilità per il «cittadino lavoratore» è quella di «associarsi con
altri lavoratori, aventi interessi e scopi comuni, per controbilanciare col numero,
con l’associazione, e con l’unità d’intenti e d’azione degli associati, la potenza economica del singolo capitalista, o d’una associazione di capitalisti. Il sindacato, perciò, è lo strumento più valido, per i lavoratori, per l’affermazione del diritto alla vita e del diritto al lavoro...»6.
L’opportunità da parte dei lavoratori di associarsi non riguarda soltanto l’affermazione dei diritti di una classe più debole, ma il sindacato, proprio in virtù di questa affermazione, rappresenta l’interesse di carattere collettivo e «non particolaristico od egoistico» della Nazione. I lavoratori rappresentano la forza produttrice fondamentale della società per la loro condizione sociale, «sono i maggiori interessati al
consolidamento ed allo sviluppo ordinato della libertà e delle istituzioni democratiche, come lo comprova il fatto ch’essi hanno costituito il nerbo decisivo delle forze
nazionali che hanno abbattuto il fascismo ed hanno portato un contributo efficiente alla liberazione della Patria dall’invasore tedesco»7.
Queste considerazioni mirano a sostenere il diritto di associazione dei lavoratori,
ma gli argomenti che Di Vittorio usa, oltre a costituire alcuni riferimenti essenziali
per la scrittura della Costituzione, tra cui lo stesso art. 1 («L’Italia è una repubblica
democratica, fondata sul lavoro...»), mostrano due aspetti del sindacalismo italiano.
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Il primo riguarda la natura libera dell’organizzazione sindacale (art. 39), il secondo
interessa il ruolo nazionale della classe operaia. Sulla natura libera dell’organizzazione sindacale, la stessa Costituzione prevede il riconoscimento della personalità giuridica dell’associazione sulla base della registrazione degli statuti dei sindacati, la cui
condizione richiede un ordinamento interno a base democratica. Questi aspetti sanciscono in parte la natura dell’organizzazione. Infatti, accanto al vincolo di un ordinamento democratico per il riconoscimento della personalità giuridica del sindacato, è necessario comprendere lo specifico rapporto tra l’organizzazione e le regole
d’iscrizione dei lavoratori per intendere la natura e le caratteristiche sindacali. Ed è
questo uno dei punti centrali sul tema del tesseramento.
Di Vittorio nella sua relazione è consapevole delle implicazioni che il rapporto
tra organizzazione e lavoratori comporta sul piano della stessa natura sindacale. Difatti, afferma che su tale questione si sono manifestate due tendenze estreme: «L’una propone il sindacato quale ente di diritto pubblico, giuridicamente riconosciuto dallo Stato e sottoposto al controllo delle autorità tutorie. L’altra propone il sindacato libero, non avente alcun rapporto giuridico con lo Stato, rimanendo presso a poco nella
stessa posizione che avevano i sindacati italiani nel periodo prefascista»8. Di Vittorio è propenso a un riconoscimento giuridico del sindacato (come poi sarà riconosciuto dall’art. 9 della Costituzione) ma con le sue esigenze incomprimibili di libertà e di autonomia 9. Distinto, cioè, sia da quello statale e fascista sia da quello prefascista «relegato ai margini dello stato ed in una posizione di ostilità preconcetta contro di esso». Una volta chiarito il riconoscimento giuridico del sindacato, la questione centrale si sposta così sul significato della libertà e dell’autonomia sindacale.
Questo aspetto stabilisce la relazione indifferibile tra organizzazione, lavoratori e tesseramento.
Escludendo «il sindacato di Stato» che significa «automaticamente sindacato unico, obbligatorio, con tributi obbligatori, e con un controllo più o meno stretto dello
Stato» il cui effetto, oltre ad essere verosimilmente apparentato a quello fascista, è
quello di essere «un organismo burocratico, privo d’una propria vitalità, pesante, costoso, inefficiente, detestato dalle grandi masse lavoratrici», è necessario, invece, affermare un sindacato conforme ai principi della democrazia in uno Stato effettivamente democratico. Su questo punto Di Vittorio mostra la natura del sindacalismo
8
Diritto di associazione e sull’ordinamento sindacale, cit.
Giuseppe Di Vittorio, per indicare la natura del riconoscimento giuridico, fa riferimento al sistema
sindacale francese, qual è definito dalle leggi 21 marzo 1884, 12 marzo 1920, 4 giugno 1936 e 2 maggio 1938. C’è da dire che la norma dell’art. 39, relativa al procedimento della registrazione, non è stata applicata. Ciò è dovuto alla mancanza di leggi attuative e alla diffidenza dei sindacati che hanno
considerato i controlli necessari, per ottenere la registrazione da parte dello Stato, come potenziali limitazioni della loro autonomia sindacale.
9
Politiche contrattuali e proselitismo
La relazione tra politiche contrattuali e tesseramento è avvalorata storicamente
dagli accadimenti avvenuti, in particolare alla Cgil, negli anni successivi alla caduta
del fascismo. Agli inizi degli anni cinquanta il sindacalismo italiano perde quella forte influenza sul piano della ricostruzione istituzionale, materiale e del presidio democratico del paese che il Patto di Roma aveva determinato sia politicamente sia socialmente. Dopo la rottura della Cgil unitaria e l’avvio di un forte rimescolamento
del meccanismo di sviluppo economico e produttivo, inizia una nuova legittimazione sindacale. È in questo frangente storico che si compone il moderno rapporto
tra sindacato e lavoratori. Il sindacalismo italiano e la stessa Cgil si trovano in una
linea di demarcazione tra un passato politico e sociale caratterizzato dalla ricostruzione del paese e il nuovo industrialismo che capovolgerà le condizioni materiali di
milioni di lavoratori e la base economica dell’economia. La Cgil mantiene l’impostazione rivendicativa successiva alla caduta del fascismo (Il Piano del lavoro) e affronta prevalentemente le novità dei processi produttivi sul piano strettamente organizzativo10. In particolare conserva la centralizzazione contrattuale e ripetutamen10
Su questi temi si veda AE n. 8/2011; in particolare: F. Farina, La contrattazione collettiva in azienda,
pp. 19-45; A. Pepe, Caratteri e trasformazione del modello organizzativo della Cgil, pp. 47-55.
L’analisi
italiano che sarà poi la sua caratteristica storica fino ai nostri giorni, cioè la natura
di un sindacato «libero, volontario, autonomo, indipendente», in grado di difendere con validità gli interessi economici, professionali e morali dei lavoratori.
La prerogativa fondamentale, dunque, è quella che «i lavoratori debbono essere assolutamente liberi di aderire o meno ad una qualsiasi organizzazione, e di pagarne o
meno i relativi contributi». Tale caratteristica, oltre a configurare l’essere del sindacato, costituisce la stessa natura contrattuale tra organizzazione e lavoratori. Esclusa l’adesione automatica in ragione della libertà di affiliarsi al sindacato, quest’ultimo è
chiamato all’esercizio della sua funzione di rappresentatività dei lavoratori sul piano
concreto. Tale funzione, e solo essa, stabilisce il motivo dell’adesione da parte dei lavoratori. Indubbiamente l’iscrizione al sindacato dipende anche da altri fattori riguardanti l’appartenenza politica, la sensibilità civile e culturale, la consapevolezza
delle proprie condizioni di classe e lo stesso legame sociale dei lavoratori. Non va,
inoltre, dimenticato che oltre alle funzioni su cui si esercita la rappresentanza, le stesse organizzazioni sindacali mobilitano risorse di senso o energie simboliche, annunciano valori metastorici e indicano orizzonti possibili di emancipazione che rappresentano, sicuramente, robusti motivi di aggregazione e affiliazione. Resta indubbio,
però, soprattutto il legame primario tra le politiche contrattuali e il proselitismo.
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te pone la necessità di adeguare l’organizzazione per superare le carenze organizzative attraverso un migliore funzionamento degli organismi con una attenta formazione dei quadri e la presenza capillare nelle fabbriche (Congresso di Genova, 1949;
Conferenza di organizzazione, 1954).
Questa separazione, tra la conservazione rivendicativa al centro e il tentativo di
innovare la presenza in fabbrica – Commissioni interne (1943), Comitati di attivisti (1949), Comitati sindacali (1952), Sezioni sindacali d’azienda (1954) – perdurerà per tutti gli anni cinquanta. All’inizio del decennio, nel 1952, la Cgil mantiene intatta la sua forza con quasi cinque milioni d’iscritti e con il 78,5% di consensi alle elezioni delle Commissioni interne, nonostante la «spietata offensiva antioperaia di quegli anni attuata con gli eccidi di lavoratori, con ventunomila operai e contadini arrestati in occasione di lotte del lavoro, con cinquantatremila sottoposti a processo e con più di ventiquattromila condannati (Novella, 1952)»11.
Ma da allora in poi il sindacalismo italiano, e in particolare la Cgil, registrerà un
calo consistente d’iscritti, con esiti drammatici alla Fiat nel rinnovo delle Commissioni interne (1955)12. Sono dati che, anche se lentamente, cominciano a rendere evidente la scarsa tenuta della struttura contrattuale centralizzata di fronte a
una rappresentatività dei lavoratori nel settore dell’industria in crescita e prevalente rispetto ai dati occupazionali.
Il superamento del consistente calo delle adesioni al sindacato, che sfiorò la sottrazione stessa della funzione sindacale, avvenne agli inizi degli anni sessanta con l’avvio della «riscossa operaia» e con l’affermazione del potere sindacale in tutto il paese.
Il direttivo del ’55 con l’autocritica di Di Vittorio, il IV congresso del ’56 di Roma e
il V congresso di Milano del ’60 apportarono profonde modifiche alle politiche sindacali e organizzative della Cgil, tanto da rilanciare l’azione di massa dei lavoratori su
principi rivendicativi e contrattuali più aderenti alle esigenze dei lavoratori.
Nello stesso periodo, si affermò quel paradigma sindacale che contrasterà l’emarginazione del valore lavoro sulla base di una sindacalizzazione di massa strettamente collegata alle politiche rivendicative e a una struttura contrattuale adeguata alle
condizioni reali dei lavoratori13.
In particolare, superando definitivamente la centralizzazione contrattuale, si affermò un sistema contrattuale tripolare14, basato sul ruolo delle categorie nel con11
La contrattazione collettiva in azienda, cit., p. 37.
Alla Fiat ci fu un vero collasso alle elezioni per le Commissioni interne nel marzo del ’55 quando la
Fiom-Cgil dimezzò i voti e perse la maggioranza assoluta, passando da 32.885 a 18.937 per scendere
a 15.864 nel 1956. Per capire la tendenza di quegli anni, è sufficiente il dato sul tesseramento della
Camera del lavoro di Torino, dove si passò da 137.932 iscritti nel 1955 a 66.735 nel 1956.
13 La contrattazione collettiva in azienda, cit., p. 43.
14 A. Pepe, Alle origini del potere sindacale (1958-1963), in La Cgil e la costruzione della democrazia,
Ediesse, Roma 2001, p. 122.
12
Struttura contrattuale e proselitismo
Gli anni sessanta hanno rappresentato, indubbiamente, una svolta per il tesseramento sindacale e per la funzione nazionale del sindacato. Gran parte di questa novità è costituita dall’affermazione della struttura contrattuale (Ccnl e contrattazione
L’analisi
tratto nazionale, sulla contrattazione aziendale (prima di allora inesistente) e sul
ruolo della Confederazione nel confronto con i governi nazionali sui temi della politica economica, fiscale e sociale. Accanto a questa ridefinizione legata alle politiche
rivendicative, ci fu anche una profonda riorganizzazione della Cgil. Si affermò l’autonomia sindacale e politica delle Federazioni industriali, rompendo così l’accentramento dei poteri decisionali, l’egemonia della Confederazione e delle strutture orizzontali nei confronti delle categorie secondo l’articolazione di direzione delle strutture verticali e delle stesse richieste sindacali di fabbrica, sui temi delle politiche rivendicative. L’affermazione di quel paradigma sindacale portò miglioramenti importanti alla condizione sociale, ai riconoscimenti di diritti (Statuto dei lavoratori,
1970), alla diffusione e alla crescita del tesseramento sindacale dei lavoratori.
Questa esperienza, più che un indizio storico, rappresenta la caratteristica del
sindacato italiano. Come si vede, i fattori che aprirono la «nuova conflittualità sociale e industriale», compresi nel paradigma sindacale sono molteplici. Riguardano alcune scelte organizzative (i ruoli delle diverse istanze sindacali), l’interpretazione del ruolo del sindacato (classista e conflittuale rispetto ad un ruolo istituzionale) e la struttura contrattuale. Quest’ultima, indubbiamente, nel modello
sindacale raffigura un punto di forza consistente. Il contratto collettivo di categoria, oltre a superare il centralismo contrattuale confederale, disegna «il parametro
identitario fondamentale delle relazioni industriali» e diventa il punto di riferimento per la stessa contrattazione articolata. La particolarità di questa struttura
contrattuale, diversamente dalla centralizzazione, è che, pur nelle diverse titolarità tra i due livelli, corrisponde direttamente alla contrattazione delle condizioni
(Ccnl) e della prestazione (contrattazione articolata) di lavoro. Tale correlazione,
tra struttura contrattuale e lavoratori, stabilisce una sorta di esclusiva appartenenza tra lavoratori e sindacato. È il segno di un contratto sottoscritto, tra il singolo
lavoratore e l’organizzazione. Tanto è più forte la correlazione, tanto più si stabilisce l’adesione al sindacato.
Definito ciò, resta da capire quanto di quel contratto individuale, siglato in nome
della funzione contrattuale del sindacato, resta intatto e valido. In altri termini, si
tratta di verificare quanto il modello da noi preso in esame sia ancora adeguato o
quanto invece sia del tutto inadatto. Una riflessione di questo genere ci può aiutare
a comprendere i motivi eventuali della scarsa adesione al sindacato.
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di secondo livello) di quegli anni, formando così la particolarità del sindacalismo
italiano. Oggi quel modello persiste ma non ha gli effetti sul tesseramento che ebbe quando si affermò.
Indubbiamente, dagli anni sessanta a oggi, le vicende sindacali e il governo sindacale della crisi e della grande trasformazione (1975-1992) mutarono spesso il
quadro applicativo delle stesse politiche rivendicative, condizionando molte volte
la loro efficacia15. Iniziò, inoltre, in quegli anni la condotta delle «classi dominanti» per recuperare il terreno perduto, «attraverso molteplici iniziative specifiche e
convergenti». L’obiettivo fu, anzitutto, rivolto a «contenere i salari reali, ovvero i
redditi da lavoro dipendente; a reintrodurre condizioni di lavoro più rigide nelle
fabbriche e negli uffici; a far salire nuovamente la quota dei profitti sul Pil che era
stata erosa dagli aumenti salariali...»16. Ma il punto di scollamento e l’affievolimento dell’identità tra lavoratore e sindacato si possono ipotizzare agli inizi degli
anni novanta.
Negli anni ottanta il sindacato fu protagonista, nel bene e nel male, nella rottura dell’unità e nelle diverse proposte tra le tre organizzazioni, con una presenza di
massa, nel cambiamento. Il lavoratore – nonostante le grandi ristrutturazioni aziendali, il dibattito sulla scala mobile e la continua ossessione confindustriale sulla riduzione del costo del lavoro e della produttività aziendale – otteneva un riferimento ancora essenziale sui temi del reddito, sull’occupazione e sulla stessa contrattazione aziendale. Fu una difesa e una presenza estrema del sindacato, anche nelle diverse posizioni, contrapposizioni e azioni. Le organizzazioni conservavano una presa diretta con la massa dei lavoratori e questi avevano con il sindacato un protagonismo attivo.
L’accordo interconfederale del ’92 sancirà la conclusione di una fase in cui l’abolizione definitiva della scala mobile e il blocco per un periodo della contrattazione
aziendale chiuderanno «i lunghi anni ottanta». La riforma della contrattazione, che
sarà attuata il 23 luglio del ’93, confermerà, con alcune novità, i due livelli negoziali
– il Ccnl e la contrattazione di secondo livello – e si manterrà nel paradigma contrattuale degli anni sessanta. La vera innovazione della riforma riguarderà la predeterminazione dei salari contrattuali sull’inflazione programmata mentre sarà conservato l’utilizzo per i minimi contrattuali della produttività non utilizzata a livello di
15
Segnaliamo solo alcuni aspetti che ebbero conseguenze sull’applicazione delle politiche rivendicative. Tutta la circostanza della scala mobile e del costo del lavoro, la rottura dell’unità sindacale e il ridimensionamento degli assetti industriali con l’inizio dei cambiamenti dell’organizzazione produttiva
degli anni settanta-ottanta, sono solo alcuni temi che cambiarono profondamente lo scenario in cui si
dislocava il sindacato. Su questa fase si veda: L. Bertucelli, La gestione della crisi e la grande trasformazione (1973-1985) e A. Pepe, I lunghi anni ottanta (1980-1993), in Il sindacato nella società industriale, Ediesse, Roma 2008, pp. 181-319.
16 L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 11.
17
Su questi temi si veda F. Farina, Della produttività. Discorso sulla qualità del lavoro, Ediesse, Roma
2008 (seconda edizione).
18 La svolta fu segnata da Bruno Trentin, segretario generale della Cgil, dopo la frattura nel gruppo dirigente con le dimissioni di Antono Pizzinato da segretario generale (1986-1989).
L’analisi
fabbrica e verrà introdotto il salario variabile legato agli obiettivi produttivi nella
contrattazione di secondo livello (Accordo interconfederale, 23 luglio 1993).
Una riforma della contrattazione che – differentemente dagli anni sessanta quando le necessità erano il recupero del potere sindacale, il tesseramento e il governo
dell’incipiente industrialismo, in una versione conflittuale, irruente e di classe – si
adatterà alla drammatica situazione economica e sociale di quel periodo (la svalutazione della lira, una crisi finanziaria ed economica molto rilevante, un tasso d’inflazione molto elevato e l’approssimarsi della scadenza dell’unificazione europea e monetaria). Pur nelle complesse difficoltà, comunque, la riforma prometteva sicuri
margini di redistribuzione del reddito, sia a livello nazionale con i contratti sia a livello locale con il secondo livello. L’applicazione della riforma, nelle sue novità, non
creò sorprese rilevanti sulle applicazioni dei rinnovi contrattuali nei settori industriali. Ciò che produsse una sorta di corto circuito tra la pratica contrattuale e un
riconoscimento attivo dei lavoratori fu una sorta di genericità rivendicativa con cui
il sindacato interpretò l’applicazione della riforma contrattuale.
Negli anni novanta termina la fase lunga del mutamento d’impresa. Un mutamento impostato negli anni settanta con l’inizio del superamento dell’impresa integrata verticalmente e della produzione standardizzata, proseguito negli anni ottanta
con l’innovazione tecnologica dell’automazione flessibile e concluso con il superamento delle organizzazioni del lavoro e della produzione taylor-fordista negli anni
novanta17. Soprattutto in questi anni si manifesta un lavoro mutato, legato alla flessibilità professionale, alle capacità cognitive delle persone in conseguenza dei cambiamenti organizzativi, sempre meno gerarchici e sempre di più snelli e piatti.
Questo approdo dell’impresa – a seguito dei cambiamenti degli assetti industriali nella sostenuta riduzione delle grandi imprese e nella quasi scomparsa dei grandi
gruppi industriali – aprì una profonda riflessione sui contenuti e sulla modalità della prestazione lavorativa e una inedita comprensione degli interessi materiali e ideali dei lavoratori sempre più differenziati, per le nuove tecnologie e nuovi modelli di
organizzazione snelli dell’impresa.
Alla fine degli anni ottanta, la Cgil, sia nella Conferenza di programma (aprile
1989) sia nella Conferenza di organizzazione (autunno 1989), tentò un riposizionamento strategico dopo le turbolenze del decennio, e alla luce del convincimento
dell’oramai avanzato disfacimento del modello di produzione fordista18. L’impostazione dell’«autoriforma» della Cgil s’incentrò prevalentemente sui temi della libertà
della persona, della umanizzazione del lavoro, della formazione permanente dei la-
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voratori e della solidarietà dei diritti («libertà uguali e uguali opportunità»). Inoltre,
di fronte ai cambiamenti della prestazione del lavoro, alle innovazioni tecnologiche
e ai mutamenti professionali, la Cgil riprese alcuni temi essenziali che avevano caratterizzato le proposte dello stesso Di Vittorio alla ripresa dell’attività del sindacato dopo la caduta del fascismo19. Temi che in questa fase la Cgil aggiornò dato il
nuovo contesto storico, su un programma di ridefinizione della società post fordista e di contrasto al sostenuto rilancio delle politiche liberiste delle classi dirigenti
del paese. Il programma, Per una nuova solidarietà riscoprire i diritti ripensare il sindacato (Chianciano, 1989), è assolutamente impegnativo e pertinente alla nuova fase sindacale ma ancora una volta, così come avvenne nella fase post fascista con il
Piano del lavoro e la centralizzazione contrattuale, non è fortemente ancorato, al di
là di alcuni cenni di rilievo, alla struttura contrattuale e ai contenuti rivendicativi. Il
programma avrà una forte caratterizzazione di politica sindacale ma resterà estraneo
a un’organica politica contrattuale.
Il progetto si soffermò, infatti, su aspetti relativi alla contrattazione come la «politica dei redditi», alcuni «elementi di concertazione», la «democrazia economica» e
«la partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa», ma, più che temi rivendicativi, risultarono influenze propositive al dibattito sindacale. Avvenne ancora una
volta, sulle politiche sindacali e rivendicative, la separazione tra la Confederazione e
le Federazioni di categoria. Del resto, alla fine degli anni ottanta, occorreva un ripensamento della struttura contrattuale e delle prerogative dei singoli livelli negoziali. Un approfondimento specifico dovuto alla stessa incongruità della struttura contrattuale, orfana dell’indicizzazione dei salari, e alla questione degli inquadramenti
professionali, alla flessibilità degli orari e alla stessa politica contrattuale europea. Furono solo alcuni dei temi che il cambiamento d’impresa e l’avvio della globalizzazione dei mercati imponevano al sindacato per far fronte alla stessa rappresentatività sindacale.
L’accordo del 23 luglio, pur mantenendo i due livelli negoziali, ebbe come esito
un contesto economico e sociale che il sindacato subì responsabilmente. La ridefinizione della struttura contrattuale escluse però un’autonoma elaborazione da parte della Cgil, se non in una limitata ricezione del sistema della predeterminazione
dei salari sull’inflazione contenuta nel contratto nazionale dei chimici (1990). Questo limite renderà difficile la correlazione tra la strategia complessiva sui temi del riposizionamento strategico postfordista della Cgil e le politiche contrattuali e delimiterà l’applicazione dell’accordo del 23 luglio da parte delle categorie. A queste
barriere si aggiungerà una cultura rivendicativa contratta e ancora influenzata dalla
conflittualità e dalle divergenze degli anni ottanta.
19
F. Farina, La contrattazione collettiva in azienda, in AE, n. 8/2011, p. 38.
20
Della produttività. Discorso sulla qualità del lavoro, cit., pp. 111-119.
Dopo il direttivo del ’55 della Cgil, l’impostazione rivendicativa per la contrattazione aziendale fu
quella di prevedere gli aumenti salariali legati al rendimento del lavoro. Si veda S. Garavini, Per una
partecipazione dei lavoratori alla soluzione dei problemi di organizzazione del lavoro e della produzione,
in Critica economica, n. 4, 1956; B. Trentin, Produttività, Human Relations e politica salariale, in Critica economica, n. 4, 1956.
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L’analisi
I chimici a livello nazionale e gli alimentaristi a livello aziendale provarono a innovare le norme contrattuali sul rifacimento degli inquadramenti, sulla flessibilità
degli orari e sulle relazioni industriali (innovazioni spesso confinate all’esclusiva
esperienza di categoria); le altre categorie, invece, si concentrarono prevalentemente, nei rinnovi dei contratti collettivi, sull’unicità del potere d’acquisto dei salari.
Questa singolarità portò con sé l’oblio sia delle rivendicazioni sui salari professionali e sulla prestazione lavorativa (maggiorazioni), sia delle strategie sui temi dell’organizzazione del lavoro con i relativi collegamenti tra produttività, professionalità e
orari di lavoro. Un silenzio che toglierà l’innovazione rivendicativa dagli inediti
cambiamenti organizzativi e del lavoro dopo l’avvento, negli anni cinquanta, del
taylor-fordismo. In questa situazione, tra lo scollamento dei programmi complessivi dalle politiche contrattuali e il ridimensionamento rivendicativo dei contratti, s’infilerà silenziosamente, nelle realtà produttive, la centralità dell’impresa, intesa come
cultura ed economia del lavoro, che punterà direttamente a definire e regolare i rapporti individuali di lavoro20. L’affermazione, seppur relativa, della centralità dell’impresa – in assenza di uno specifico intervento rivendicativo e di una cultura sindacale diffusa, coerente e innovativa – contribuirà a smobilitare una cultura identitaria e a moltiplicare, il più delle volte, opportunità spurie della rappresentanza.
La stessa applicazione della contrattazione di secondo livello non ebbe l’effetto
desiderato. Il salario variabile non fu propriamente una novità negoziale dell’accordo interconfederale del 23 luglio ’93. Alcune categorie già negli anni ottanta, su
proposta sindacale, avevano introdotto il salario legato prevalentemente agli incrementi di produttività. Il premio di produzione, infatti, nella stessa cultura della Cgil
non fu mai considerato un indice importante del negoziato aziendale. Lo stesso Di
Vittorio, nel convegno sul supersfruttamento tenutosi a Torino nell’aprile del ’51,
pretese di mettere un freno alla pratica del premio di produzione e di partecipare invece alla determinazione del cottimo. Il motivo di questa posizione fu che, mentre
il riconoscimento del salario variabile in azienda era strettamente legato ai problemi
e al governo dell’organizzazione del lavoro, il premio di produzione era invece considerato un’elargizione paternalistica da parte del padrone21.
Il rilancio della contrattazione di secondo livello negli anni novanta si scontrò
con la contrarietà diffusa del padronato ad accettare il criterio variabile del premio
aziendale con la netta separazione tra Ccnl e secondo livello. Storicamente la con-
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trattazione aziendale, oltre a prevedere gli incrementi salariali legati agli andamenti
aziendali22, ha sempre rappresentato un motivo di articolazione e di applicazione
delle normative contrattuali (applicazione degli orari, degli inquadramenti...). L’assenza di innovazioni da parte dei contratti su questi temi, invece, ha ulteriormente
reso scontata la contrattazione di secondo livello. Il ripiegamento quasi esclusivo della struttura contrattuale sul potere d’acquisto dei salari, scaturito dall’accordo del 23
luglio ’93, ridimensionò così la portata della contrattazione collettiva sui mutamenti
in corso e rese formale e amministrativa la contrattazione di secondo livello. Questa flessione oltre ad oscurare il governo del mutamento organizzativo escluse, salvo
che in alcuni contratti, la redistribuzione della produttività sia a livello nazionale sia
a livello di fabbrica. La conseguenza di questi atteggiamenti portò, per un verso, a
una corretta dinamica salariale sul potere d’acquisto da parte dei contratti, ma, dall’altro, determinò l’assenza della crescita salariale sui minimi e produsse inoltre una
forfetizzazione del salario variabile aziendale, senza nessun consolidamento e senza
trascinamenti sugli istituti contrattuali. L’accordo separato del 2009, senza la firma
della Cgil, ha ridimensionato, ulteriormente, l’efficacia della struttura contrattuale
del 23 luglio ’93 sul tema del potere d’acquisto, delle modalità di calcolo, della certezza dei recuperi salariali, delle deroghe contrattuali e del criterio del salario variabile aziendale23.
Il modello da cui siamo partiti e che ha rappresentato il motivo della crescita sindacale dagli anni sessanta, oltre a configurarsi in una costruzione di due livelli contrattuali, ha riguardato anche l’autonomia del contratto collettivo. Questo aspetto
ha avuto due implicazioni. La prima ha riguardato il ruolo delle categorie industriali
rispetto alla Confederazione; infatti, diversamente dal modello organizzativo degli
anni cinquanta, con il superamento della centralizzazione contrattuale e l’introduzione dei due livelli negoziali (nazionale e aziendale), le categorie assunsero una forte autonomia di direzione rivendicativa rispetto alla Confederazione. La seconda ha
interessato il contratto nazionale, e per certi versi quello aziendale, che venivano a
risolversi in autonomia tra le parti sociali coinvolte nei rinnovi, senza nessuna prescrittiva interferenza esterna.
Quest’autonomia nella funzione dell’autogoverno salariale si è ridotta, per la
prima volta, con il criterio della predeterminazione e con l’indice dell’inflazione
programmata (accordo del ’93). L’accordo separato del 2009 ha poi ridotto ulte22
Lo stesso premio di produzione dipendeva dagli andamenti aziendali. La questione di fondo del riconoscimento salariale in azienda fu sempre il come del riconoscimento. Le aziende hanno prevalentemente manifestato interesse a un premio separato dall’organizzazione del lavoro mentre le organizzazioni sindacali, soprattutto la Cgil, hanno mostrato il legame tra salario e organizzazione del lavoro.
23 Su alcuni di questi aspetti si veda F. Farina, Le costellazioni contrattuali, in AE, n. 2/2010, pp.
21-29.
Lo status del lavoratore
L’indebolimento della struttura contrattuale può ridurre significativamente il
rapporto con il sindacato. Questo avvenne, già, negli anni cinquanta in concomitanza di più fattori: il ritardo del sindacato nell’interpretare il mutamento in corso,
la lentezza nell’adeguare le politiche rivendicative, la repressione padronale in azienda e la disoccupazione di massa. Una situazione, indubbiamente, complessa e difficile. Oggi, la situazione non è molto diversa. È da anni che assistiamo – dopo gli
anni sessanta-settanta in cui la classe operaia ha ottenuto con le sue lotte «miglioramenti importanti della propria condizione sociale» – ad una «lotta di classe dall’alto (delle classi dominanti) per recuperare il terreno perduto»25. Anni in cui si è puntato anzitutto a «contenere i salari reali, ovvero i redditi da lavoro dipendente; a reintrodurre condizioni di lavoro più rigide nelle fabbriche e negli uffici; a far salire nuovamente la quota dei profitti sul Pil che era stata erosa dagli aumenti salariali, dagli
investimenti, dalle imposte del periodo tra la fine della seconda guerra mondiale e
gli anni Ottanta»26. Questo movimento non ha solo determinato il recupero del terreno perduto ma ha stabilito un arretramento della classe operaia sul piano del reddito e del potere sociale.
Tale retrocessione ha fissato quei requisiti di appartenenza che la sociologia borghese avrebbe classificato come classe. Difatti l’analisi sulle posizioni occupazionali
24
Fu la proposta della Federmeccanica di escludere il computo dell’inflazione importata sul calcolo
dell’inflazione reale, in applicazione dell’accordo del 23 luglio ’93. Proposta che non ebbe, allora, alcuna accoglienza.
25 La lotta di classe dopo la lotta di classe, cit., p. 11.
26 Ivi, pp. 11-12.
L’analisi
riormente e drasticamente tale autonomia sia per quanto riguarda le parti sociali
sia per lo stesso compito del contratto collettivo. Infatti, l’accordo conferma la predeterminazione dei salari non più sull’inflazione programmata ma sull’Ipca depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati24 e prevede che soggetti esterni alle parti sociali responsabili dei rinnovi intervengano direttamente sulle
materie negoziali.
L’impianto contrattuale che risollevò le sorti del proselitismo sindacale negli anni sessanta e che manteneva formalmente i due livelli negoziali, oggi risulta fortemente indebolito nelle sue prerogative, negli effetti pratici e nella sua autonomia. La
nostra analisi ci porta a dire che il legame tra lavoratori e sindacato, proprio per la
funzione ridotta di un caposaldo della rappresentatività sindacale quale è la contrattazione su cui abbiamo stabilito la correlazione con il proselitismo, è molto più
labile rispetto al passato.
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e sulle condizioni complessive di vita assegnano ai lavoratori l’adesione ad una «comunità di destino». È una comunità uniforme rispetto alle proprie esigenze, bloccata nella mobilità e nella crescita sociale, con scarse possibilità di usufruire di risorse
materiali e immateriali e con poche probabilità di decidere la propria esistenza.
Quest’oggettività sociologica, statistica solo in parte, si traduce in una consapevolezza sindacale in grado di incominciare un’azione unitaria e conflittuale. La maggioranza resta silente, e a volte ostile. È proprio così? E se è così: perché?
Una risposta utile richiederebbe un’opinione su un’altra domanda. La domanda
è: chi stabilisce oggi lo status del lavoratore come produttore? 27 Va detto, innanzitutto, che la polarizzazione tra lavoratori e sindacato, che ha contraddistinto gran
parte del Novecento, si è fortemente ridimensionata. L’unicità di attrarre, tra organizzazione e lavoratori, si è frantumata e l’atto di rappresentare è svolto da più soggetti. Questo dato è la conseguenza dell’indebolimento della struttura contrattuale,
del mancato aggiornamento delle politiche rivendicative e della riduzione del potere sindacale nella singola impresa, riducendo, così, l’attrazione e l’avversione che risiedevano prevalentemente nell’atto esclusivo del sindacato con i lavoratori. La
frammentazione della rappresentanza ha aperto una sorta di competitività ibrida tra
sindacato e impresa e ha costituito una cultura trasversale circa il modo di intendere l’appartenenza del lavoratore. Una cultura spenta tra gli stessi lavoratori, generata
da una rappresentanza sindacale debole che in assenza di un’esclusiva e forte polarizzazione si destreggia in un criterio interclassista tra impresa e sindacato.
Una cultura che riconosce la funzione sindacale ma che non ritiene il sindacato
come soggetto unico della rappresentanza. È una cultura che deriva dalla riduzione
dell’attività contrattuale (aziendale e nazionale) e dal potere interno all’impresa e
che inaugura una comprensione relativa dell’attività sindacale. La frantumazione
della polarizzazione in fabbrica, infatti, non solo ha rotto l’univocità della Rsu ma
ha introdotto il criterio di definizione dello status del lavoratore spesso a vantaggio
dell’impresa. È una riduzione di potere che transita attraverso un ruolo formale dell’organizzazione sindacale. La direzione d’impresa, con la condivisione dei lavoratori, interviene unilateralmente a regolare la prestazione lavorativa (superminimo, riconoscimento professionale, maggiorazioni), assumendo così, anche indirettamente, il primato del destino professionale del lavoratore (carriera professionale, ruolo
lavorativo) ed emarginando il sindacato nella sua effettiva attività rivendicativa su
questi fondamentali obiettivi. Il lavoratore, che fa parte di una maggioranza silente,
si colloca deliberatamente in un interregno della rappresentanza in cui il Contratto
27 La scelta del «cittadino lavoratore» sarebbe stata più completa ma avrebbe richiesto un’analisi più
complessa. Mentre la delimitazione dello status del lavoratore coincide con l’assunzione della relazione tra politiche contrattuali e tesseramento.
Conclusioni
La relazione tra le politiche contrattuali e il tesseramento richiederebbe un rilancio delle politiche rivendicative che siano al tempo stesso innovative sui contenuti e
accompagnate da una forte coerenza conflittuale. Più volte, nelle nostre considerazioni, abbiamo indicato un forte mutamento delle condizioni e dei contenuti nel lavoro. Una ripresa delle politiche rivendicative e contrattuali indubbiamente dovrà
disporre di una strategia generalizzata sulla qualità del lavoro. Una strategia che dovrà stabilire una discontinuità con il passato che riguarda prevalentemente il governo del mutamento produttivo su cui i lavoratori, ogni giorno, sono direttamente
coinvolti e chiamati ad assecondare gli incrementi della produttività e della qualità
del prodotto (l’assegnazione di compiti complessi, la ricerca dell’apporto cognitivo
e cooperativo, i molteplici orari di lavoro, l’autonomia operativa, il lavoro in gruppo, la responsabilità professionale...). Sono argomenti questi che per le loro implicazioni sono necessari e fondamentali per ricostituire una relazione diffusa tra l’azione sindacale e il proselitismo.
Accanto a questi temi è indispensabile avviare una riforma intellettuale dell’organizzazione, una riforma che riporti al centro della strategia sindacale le questioni
delle politiche contrattuali. Di fianco a questo riordino c’è una questione urgente
che è quella relativa alle competenze sindacali. Un recupero delle conoscenze che, oltre a socializzare la lunga tradizione dei saperi sindacali, ha diverse implicazioni sugli aspetti del proselitismo. Il primo riguarda la catena del valore sindacale che in
questi anni si è, a volte, interrotta e che spesso non dimostra, lungo la filiera conoscitiva, quelle conoscenze indispensabili per stabilire un consenso attivo. L’altro
aspetto, strettamente collegato al primo, riguarda la comunicazione legata alla co-
L’analisi
nazionale stipulato dal sindacato è valutato come una polizza assicurativa sul proprio potere d’acquisto e la contrattazione di secondo livello come una forma di riconoscimento dovuto del proprio contributo lavorativo. Sono riconoscimenti considerati scontati e naturalmente sempre insufficienti. Sono aspetti che sono valutati come parte di uno status il cui completamento non è riservato necessariamente alla rappresentanza sindacale ma a volte nel gioco bilaterale tra impresa e singolo lavoratore.
A tale riguardo, potremmo dire che siamo di fronte ad un modello della rappresentanza in cui l’iscrizione all’organizzazione si mantiene tra i lavoratori come un’adesione di «comunità», ma accanto a questo consenso resta significativa una zona
franca, espressione di una sorta di incompiutezza del ruolo del sindacato, all’interno della quale il lavoratore e l’impresa volta per volta decidono la rappresentanza in
relazione ai propri interessi e in particolare allo status del lavoratore.
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noscenza. Oggi, spesso, la comunicazione è svincolata dai saperi. È una comunicazione che ha come oggetto la comunicazione stessa senza nessun rigore conoscitivo.
L’effetto di questa divulgazione è solo una forma burocratica delle conoscenze e dipende dai rapporti di forza stabiliti da chi comunica che, a sua volta, fissa la validità dei contenuti e la stessa verità comunicativa. Di solito questa comunicazione, così come è staccata dalle competenze, conferma lo statu quo e non riesce a sollevare
più di tanto una attività positiva per il tesseramento sindacale.
Una riflessione sul tesseramento e sindacato porta, così come si è dimostrato, a
questioni essenziali dell’attività sindacale. La nostra analisi si è soffermata solo su alcuni temi, mentre gli argomenti trattati richiederebbero ulteriori approfondimenti
di merito. Le nostre considerazioni possono valere per una prima riflessione su un
tema che, nonostante l’importanza, resta sempre sullo sfondo della riflessione e a
volte dell’iniziativa. Si tratta invece di un’arteria essenziale per l’insieme della organizzazione.
■ L’analisi
Sindacalizzazione e tesseramento*
Adolfo Pepe**
Premessa
A partire dall’efficace definizione della Cgil quale «democrazia organizzata di
massa», è possibile cogliere alcuni spunti ed introdurre degli elementi chiave per una
riflessione più ampia sulla cultura organizzativa del sindacato e, in particolare, della Cgil. Se alla base della costruzione dei moderni movimenti di massa vi è stata la
necessità di tessere una trama organizzativa, oggi è necessario sempre di più stabilizzarla e, inoltre, è opportuno trasferire il modello dal centro alla periferia in modo
da creare una rete di contatti organici dall’alto verso il basso e viceversa; nel sindacato, in particolare, questo bisogno si è da sempre coniugato con l’esigenza di una
sua democrazia interna e con la necessità di stabilire delle regole per rafforzarla. Inoltre, nella costruzione del «sindacato moderno», centrale è stato il nesso tra il rafforzamento della democrazia sindacale e una maggiore partecipazione della base, contemporaneamente alla salvaguardia dell’autonomia dell’organizzazione che è garantita dal consolidamento dei legami del sindacato con le masse dei lavoratori. Come
sostenuto nell’ambito delle discussioni sul tema già a partire dagli anni sessanta –
tra gli altri da Rinaldo Scheda, storico segretario dell’organizzazione, – «[...] insieme all’iniziativa sindacale, per guidare le masse alla lotta, occorre una iniziativa organizzativa e di costruzione dell’organizzazione». E laddove le politiche organizzative rappresentano lo strumento attraverso il quale declinare gli obiettivi politici, democrazia e agibilità dei diritti all’interno dell’organizzazione, nei luoghi di insediamento; le modalità della contrattazione e la verifica dei risultati sono obiettivi e questioni cardine che una buona politica dell’organizzazione, del proselitismo e del tesseramento può sostenere e aiutare a raggiungere. Più in generale oggi, di fronte alla secolarizzazione e individualizzazione della società italiana – sia dal punto di vista culturale che degli stili di vita – e, più in generale, in una fase di profonde rotture con la situazione politica ed economica preesistente, il tema del proselitismo
rappresenta un’importante sfida per l’azione di rappresentanza delle organizzazioni collettive.
* Tratto da AE n. 9-10/2012. ** Università degli Studi di Teramo.
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A fronte di una sostanziale omogeneità degli attuali modelli organizzativi rispetto a quelli degli anni sessanta, le organizzazioni funzionali restano molto forti nella capacità di aggregare i principali interessi in campo (come attestano anche i dati associativi disponibili), ma nello stesso tempo stentano a dare voce adeguata ad una parte delle nuove domande ed aspettative. Le organizzazioni sindacali incontrano difficoltà nell’includere nel perimetro delle tutele e della rappresentanza i lavoratori più giovani, quelli discontinui e precari, insieme ai portatori di alte professionalità. In questo senso è necessario che la Cgil – che basa
la sua identità sul concetto di rappresentanza generale dei lavoratori – favorisca
l’allargamento della membership attraverso non solo un attento e mirato utilizzo
dei moderni strumenti di informazione e comunicazione, ma ribadendo l’adesione ai propri valori identitari e ideali, anche attraverso un lavoro di formazione dei nuovi militanti e dei quadri. Se da un punto di vista storico e culturale da
sempre per la Cgil l’adesione è stato un mezzo per l’azione sindacale, oggi tale
asserzione rimane valida anche a fronte del processo in atto di ampliamento della rappresentanza sociale della Cgil, passaggio fondamentale nell’aggiornamento
della sua identità. Un aggiornamento che richiede all’organizzazione di allargarsi al nuovo modo di essere del lavoro e di affrontare i mutamenti esterni che inevitabilmente pesano su un sindacato che – come è stato sottolineato – è «in bilico» tra vecchie modalità d’azione e di rappresentanza, ancora valide, e nuove
forme d’azione.
Da questo punto di vista il problema della sindacalizzazione e del tesseramento è un problema che va affrontato sotto diversi profili: quello organizzativo, ossia l’analisi delle condizioni dei lavoratori sul posto di lavoro; quello della comunicazione; ed infine su quello più propriamente storico-politico che rinvia ad alcuni nodi concettuali. È a partire da questi elementi che va avviata un’analisi aggiornata e una definizione degli obiettivi su cui si può fondare un’adeguata politica di proselitismo e di adesione dei lavoratori al sindacato. In altri termini, oltre all’ideologia della società nuova, elemento cardine a partire dagli anni cinquanta, è necessario stabilire quali elementi debbono essere aggiornati e posti alla base di una proposta di adesione senza però cadere nel bilateralismo passivo e
acquiescente, coniugando le scelte in un mix di interessi, diritti, dignità e potere. Va ribadito, inoltre, in quale misura la realtà economica e sociale del lavoro e
del sistema produttivo renda possibile questa maturazione nella quale confluiscono ragioni di tutela e di dignità soggettive con le trasformazioni delle strutture produttive e organizzative, nonché dei valori emersi dall’esaurirsi del ciclo ultraliberista e dall’insorgere dell’attuale crisi sistemica del modello manageriale
delle imprese.
Nell’Italia liberale il tema dell’adesione e dell’iscrizione al sindacato occupa un
ruolo centrale all’interno della stessa CGdL, come appare evidente nel corso della
relazione di Rinaldo Rigola al II Congresso confederale del 1908, svoltosi a Modena. Infatti, egli mette in evidenza che: «così come è fatta la nostra organizzazione non potrà mai essere che l’organizzazione dei convinti, dei precursori, dei devoti; i quali pagheranno sempre le spese della restante grande massa che non può
essere condotta all’organizzazione da convinzioni astratte e che non trova nessun
altro incentivo ad organizzarsi. Principal compito, adunque, se si vuol correggere
l’organizzazione dal difetto della instabilità, dalla enorme fluttuazione dei soci, dal
parassitismo dei disorganizzati o dei semiorganizzati, si è di corporizzarla con dei
servizi mutualistici e di previdenza facendovi corrispondere delle contribuzioni
adeguate».
La CGdL dopo i primi anni di consolidamento raggiungerà progressivamente un
ampio numero di iscritti, soprattutto negli anni del primo dopoguerra, passando dai
600.000 del 1919 ai 2.150.000 del 1920, nella fase in cui si va già esaurendo la spinta alle lotte del biennio rosso cui seguirà il biennio nero e l’ascesa del fascismo, con
il conseguente scioglimento dei sindacati liberi. Infatti, durante gli anni del fascismo, dopo la svolta dittatoriale sancita sul piano contrattuale con la legge n. 563
dell’aprile 1926, si ha il riconoscimento giuridico del sindacato fascista cui segue la
validità erga omnes dei contratti collettivi di lavoro, che possono però essere firmati
solo dai dirigenti del Regime. La contrattazione diventa dunque materia di diritto
pubblico, ma a prezzo della rinuncia alle libertà sindacali e al diritto di sciopero. In
questo quadro, anche se l’affiliazione ai sindacati fascisti non era obbligatoria, gli
imprenditori dovevano preferire l’assunzione dei lavoratori iscritti e ciò favorì l’alta
adesione che in questi anni si registrò in Italia ai sindacati fascisti e che raggiunse nel
1932 la percentuale del 32%. In particolare dopo il 1934, quando la contrattazione collettiva diventa materia federale, si giunge ad una importante svolta che sottolinea la crescente forza delle Federazioni in termini di rappresentanza e tutela delle
proprie categorie. Alla Confederazione spetta il livello interconfederale (accordo
Cianetti-Pirelli sulle 40 ore e sugli assegni familiari; oppure l’accordo di disciplina
del cottimo del dicembre 1937) che fissa le linee generali della contrattazione. Inoltre all’interno della nuova organizzazione corporativa si pongono le basi di uno Stato sociale, soprattutto dopo gli anni trenta quando l’adesione al sindacato diviene
un canale di accesso agli istituti assicurativi e previdenziali.
Tale quadro muta completamente negli anni dell’Italia repubblicana in cui la Costituzione del 1948 riconosce la contrattazione collettiva, affidandone la regolazione alla legge. L’articolo 20 della Legge fondamentale costituzionalizza un tema così
L’analisi
L’evoluzione storica
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delicato quale la contrattazione collettiva, riconosciuta per legge dal fascismo ma in
un quadro giuridico antidemocratico, rappresentando una grande vittoria per il
mondo sindacale e del lavoro. Tuttavia, dopo la seconda guerra mondiale, le difficoltà legate all’immane lavoro di ricostruzione spingono tanto la Cgil unitaria che
la Confindustria ad un forte accentramento confederale. Tra gli anni quaranta e cinquanta la centralizzazione degli accordi sindacali produce novità significative su temi quali la scala mobile, le Commissioni interne, i licenziamenti e la cassa integrazione; si arriva a fissare anche i minimi contrattuali di tutte le categorie, sottraendone la decisione al livello federale. Inoltre, dopo la prima stagione contrattuale del
secondo dopoguerra, le difficoltà per il movimento sindacale si fanno sempre più
pressanti, in particolare dopo le scissioni sindacali. I primi anni cinquanta vedono
la presentazione di piattaforme contrattuali diverse e una forte discriminazione,
operata soprattutto nei confronti della Cgil, sui luoghi di lavoro. Ciò ha dei riflessi
anche sul tema del tesseramento e del proselitismo poiché l’espulsione della Cgil
fuori dalle fabbriche aveva ripercussioni anche sulla stessa struttura organizzativa del
sindacato poiché non gli consentiva di usare appieno la rete dei collettori che iniziava ad avere nelle aziende. Queste figure di militanti, incaricate di raccogliere le
adesioni, le quote sindacali e di distribuire le tessere e i bollini mensili, avevano come ruolo politico quello di essere un canale di mobilitazione oltre che di proselitismo. La situazione muta a partire dalla seconda metà degli anni cinquanta e i primi anni sessanta parallelamente al decentramento messo in atto dalla Cgil, che riflette anche i cambiamenti intervenuti sia sul versante produttivo, grazie alla diffusione dei metodi tayloristi nell’azienda che aprono nuove esigenze di tutela dei lavoratori, sia rispetto al profondo mutamento sociale in atto nel ceto operaio.
L’affermarsi dell’«operaio massa» rispetto al lavoratore specializzato equivale per
il sindacato al confronto con un lavoratore generico e con scarse qualifiche, in maggioranza proveniente dalla realtà meridionale del paese e che ha problemi di integrazione sociale sia in azienda che nel contesto urbano di accoglienza delle grandi
aree industriali del Nord. Questo lavoratore ha una grande diffidenza anche verso
lo stesso sindacato, che viene percepito come un’organizzazione tesa alla tutela dei
lavoratori integrati e dotati di maggiori capacità professionali. Il nuovo quadro che
va delineandosi, inoltre, fa progressivamente emergere alcune profonde ingiustizie
nel rapporto di lavoro: le sperequazioni fra uomini e donne, fra impiegati e operai,
o il permanere di gerarchie e di discriminazioni sempre meno accettabili.
Questa discrasia viene colta con estrema lucidità da Rinaldo Scheda. Egli, infatti, da un lato sostiene che accanto a un problema di rinnovamento vi sia anche un
problema di «presenza, in nuove forme, del sindacato in fabbriche dove la nostra
presenza è insufficiente e sono fabbriche di nuova formazione ma anche fabbriche
che hanno un lungo periodo di esistenza, dove si è determinato però, negli ultimi
28
La variazione del numero degli iscritti analizzata per regione mostra come molto più pronunciato
sia il calo nelle regioni industriali del Nord, mentre presenta una maggiore tenuta nel Centro-Sud (Calabria, Sardegna, Sicilia). L’analisi dei dati rispetto ai settori, invece, mostra una diminuzione degli
iscritti nei settori agricoli e industriali, mentre un aumento si ha nel settore terziario. G.P. Cella, Stabilità e crisi del centralismo nell’organizzazione sindacale, cit., p. 645.
29 Cfr. Operiamo per l’unità e la collaborazione tra tutti i sindacati, in Lavoro, n. 3, a. XIII, 17 gennaio
1960, p. 5. I dati vengono forniti nel corso di una conferenza stampa indetta dalla Segreteria della Cgil
nel gennaio del 1960.
L’analisi
dieci anni, un rinnovamento nella composizione delle maestranze»; mentre, dall’altro, propone come risposta alle nuove esigenze maturate nell’organizzazione l’avvio
di una politica dei quadri che non sia lasciata alla spontaneità, ma «tenda ad organizzare un lavoro di formazione». In linea con la filosofia di rinnovamento delle
strutture impostata da Novella, inoltre, Scheda sostiene con uguale convinzione la
svolta della Cgil nei confronti delle Sezioni sindacali di azienda (Ssa). Esse vengono
intese non come mero decentramento di una linea politica che cala dall’alto, ma come organi dotati di funzioni proprie di orientamento e di elaborazione, veri e propri strumenti effettivi di democrazia sindacale, la quale matura attraverso l’assemblea degli iscritti e l’assemblea generale. I compiti di queste strutture, che ricevono
nuovo impulso nel Convegno di Livorno del 1961, vengono individuati da Novella nel tesseramento, nella diffusione della politica confederale e nello sviluppo dell’unità d’azione. Ma, così come per le Commissioni interne, alle Ssa non viene riconosciuto da parte dello stesso sindacato il potere contrattuale, che continua ad essere esercitato dal sindacato provinciale e, quindi, fuori dai luoghi di lavoro. Ed è
questo il limite più evidente che contribuisce al loro superamento nel 1968.
A proposito uno degli aspetti tra i più analizzati è il tema del tesseramento, poiché la crisi sindacale si riverbera anche nel numero degli iscritti28. Se nel 1957 la
Cgil ha 4.078.000 iscritti, alla fine del 1958 scende a 3.678.000 organizzati, mentre nel 1959 guadagna un 3% raggiungendo i 3.790.000 aderenti29. Le cause della
flessione degli iscritti, nonostante la ripresa sindacale in atto nel paese, vengono lucidamente individuate da Scheda, il quale, partendo da una analisi dei dati e della
situazione, pur non escludendo la necessità di un ulteriore impegno da parte del sindacato sulla questione, fa notare che «l’adesione dei lavoratori di volta in volta a lotte sindacali è un processo più elementare di quello dell’adesione al sindacato», pertanto nell’analisi non si può prescindere dall’evidente «clima di illibertà esistente nei
luoghi di lavoro»; infatti, «sui [lavoratori] grava il metodo della discriminazione antisindacale adottato dai datori di lavoro, particolarmente nel campo delle assunzioni e nei licenziamenti, che spesso assumono il carattere di una spietata rappresaglia
contro il lavoratore militante sindacale».
Uno degli elementi su cui punta Scheda da un punto di vista organizzativo è, infatti, quello del proselitismo e il superamento di ciò che definisce «il fenomeno del-
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l’agnosticismo e dell’assenteismo sindacale», solo parzialmente sconfitto dalle battaglie del ’58-59 che hanno messo «in movimento milioni di lavoratori parte dei quali da anni non si muovevano, non partecipavano più attivamente alle lotte, non credevano più nella loro forza». Per Scheda non è sufficiente affidarsi all’adesione che
viene nei momenti di dura tensione sociale, ma c’è bisogno di un «agente consapevole» che permetta al movimento rivendicativo di acquisire «consistenza, continuità, organicità». Il problema del reclutamento è sì, quindi, il frutto di una buona politica di propaganda, ma è «soprattutto un lavoro di formazione di nuovi militanti
sindacali che si svolge nel vivo dell’iniziativa sindacale». Infine, tra le questioni più
stringenti dell’organizzazione egli individua la necessità di portare il sindacato nei
luoghi di lavoro e rifuggire dalla scelta organizzativa secondo cui «gli iscritti si fanno soltanto dove abitano e non nelle aziende», infatti, «occorre forse sotto questo
profilo cercare di arrivare ad una svolta». Un lavoro organizzativo importante, pertanto, va fatto con le leghe perché «è chiaro che in centri industriali dove ci sono diverse fabbriche della stessa categoria, o anche soltanto una grande fabbrica, non
puoi, non devi rinunciare ad avere una sede sindacale fuori dall’azienda, comunque
un punto di ritrovo che richiami i lavoratori, perché purtroppo la vita sindacale all’interno di una azienda anche quando si ha una certa consistenza è difficile; ci vuole un punto di incontro e la lega è una espressione organizzativa che realizza una certa possibilità di collegamento con le masse dei lavoratori».
Sindacalizzazione e proselitismo
Ed è a questo proposito, e alla luce di questo breve excursus, che va sottolineato
come l’identità, la memoria e la storia della Cgil costituiscano un insieme concettuale e valoriale la cui valenza originale va individuata nel suo carattere non archeologico. Non stiamo, infatti, discutendo e studiando, e non abbiamo parlato e scritto, in questi anni, di un’istituzione sociale che si è esaurita o che ha esaurito le sue
funzioni originali. Al contrario, abbiamo ricostruito l’identità e il complesso percorso della memoria che ha contribuito a sedimentarla e trasmetterla, sia a livello
individuale sia di più ampie collettività sociali e culturali, traendola proprio dalla sua
storia ancora aperta e non conclusa. In tal modo è apparso evidente come l’identità e la memoria della Cgil s’identificassero con la sua stessa storia, a partire dal ruolo politico-sociale che essa svolge attualmente.
Discutendo dell’identità attraverso la storia abbiamo fornito la prospettiva politica per una riflessione sul futuro dell’azione della Cgil e del sindacato nella rappresentanza sociale del lavoro e delle sue inscindibili connessioni con l’intera struttura
della società. In altri termini, identità, memoria e storia della rappresentanza sociale del lavoro, lette attraverso la lunga durata della Cgil, si sono rivelate elementi es-
L’analisi
senziali e originali per incontrare la vicenda nazionale, la sua identità, la sua solidità. Ma soprattutto sono state coordinate fondamentali quando ci si è interrogati sul
ciclo unitario della storia italiana, di cui il lavoro è stato fattore preminente, e sulle
nuove dimensioni che lo Stato e la società italiana vengono ad assumere nella profonda trasformazione geopolitica ed economica in atto nel sistema degli Stati, soprattutto dell’area liberal-democratica, e dei loro fondamenti etico-politici.
Questo non vuol dire che la storia della Cgil e la sua identità siano una storia di
trionfi certificati dalla durata ultracentenaria e che tutto si sia svolto con regolare
continuità. Sarebbe quanto di meno storico si possa immaginare. Noi abbiamo soltanto voluto dire che la storia di questo paese è stata la storia della Cgil, o meglio,
che la storia della Cgil ha modellato la storia di questo paese più di qualsiasi altra
forza sociale, politica e culturale; che tutti i nodi principali sono passati attraverso
l’impatto delle strutture di potere economiche, politiche e istituzionali con il mondo del lavoro organizzato; che l’esistenza di questa forza nel tempo ha modificato e
ha costretto tutti, dallo Stato alle classi dirigenti, i ceti economici, la cultura, le istituzioni civili e amministrative di questo paese, ad avere sullo sfondo delle scelte e
delle decisioni il problema del lavoro. Questa operazione, naturalmente, come tutte le operazioni che hanno un significato politico e culturale, oltre che storiografico, subisce a propria volta una trasformazione, un’evoluzione; pertanto, per entrare
nel merito del tema che è oggetto di questo saggio, è necessario porsi prioritariamente un quesito: se l’identità della Cgil è riaffermata – e il suo valore non è in discussione – oggi essa come deve interagire con il nuovo contesto socio-economico,
politico e internazionale che si è venuto affermando a conclusione di quel lungo ciclo storico a livello mondiale avviato nel corso degli anni ottanta dalla Thatcher e
da Reagan? Cosa deve fare, come si deve muovere una grande organizzazione sociale in un quadro che è così radicalmente mutato? Come aggiornare all’interno di
questo contesto l’identità della Cgil? Cosa si deve fare per definire nuove modalità
di proselitismo e di organizzazione e con quali finalità rafforzare l’organizzazione e
la rappresentanza?
Innanzitutto è necessario avviare una discussione con gli attori principali, ossia
con coloro che hanno vissuto le origini e oggi subiscono gli effetti di questa lunga
chiusura del ciclo, che rappresentano al contempo l’oggetto e il soggetto attivo dello studio, il referente principale del confronto avviato dalla Cgil per capire in che
modo aggiornare la propria identità. Tuttavia, nel passaggio dall’identità al suo aggiornamento e quindi nello sforzo di ritessere nuove modalità organizzative, è chiaro che andrebbero comunque evitate due scorciatoie: da un lato, quella della facile
diluizione, che comporta una scomposizione identitaria e la riaffermazione di singoli frammenti; dall’altro, è necessario evitare un irrigidimento che porterebbe a una
sterile ripetizione «neogaribaldina» di ciò che è stato fatto.
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Cinque ragioni per un nuovo proselitismo
In questo ragionamento vorremmo fornire, seppur schematicamente, alcuni elementi che si ritengono utili per imboccare questa via, sicuramente critica e autocritica, ma feconda, al fine di evitare che la Cgil si schiacci sull’identità, intesa come
memoria del passato, e al tempo stesso la proietti verso un orizzonte indistinto; così come è necessario coniugare l’identità con l’aggiornamento del modello organizzativo e più adeguati criteri di affiliazione. Infatti, la nostra identità non può annullarsi o cancellarsi per trasformarsi in altro se non abbiamo ben chiaro quale altra
identità si dovrebbe configurare e da questo discende anche la ratio che dovrebbe
presiedere al rinnovamento dei processi di adesione al sindacato. A proposito un
ruolo chiave ha la figura del sindacalista, soprattutto quello di base, che rappresenta l’anello di congiunzione tra sindacato e società, oltre ad essere il raccordo fondamentale sia nella struttura produttiva sia a livello territoriale. Ma se è necessario lavorare sull’identità della Cgil per trasformarla e adeguarla senza diluizioni e senza rigidità, così come sulla sua dimensione organizzativa e i processi di affiliazione, è
ugualmente indispensabile discutere su due blocchi di ragionamento.
In primo luogo, è necessario avviare una riflessione più approfondita sulle radici
politico-culturali dell’attuale fase storica e dei nodi concettuali fondamentali dai
quali ripartire a conclusione del lungo ciclo liberista della globalizzazione, al di là di
rozzi schematismi. A tal fine vanno analizzati i cinque concetti, la cui crisi ha portato alla fine di un mondo, e che ci aiutano a comprendere il significato della conclusione del ciclo della globalizzazione liberista, la crisi finanziaria ed europea, oltre
all’attuale situazione in termini di disoccupazione di massa e precarietà.
Il primo concetto, trasformatosi in una sorta di totem e che deriva dalle scienze
economiche, può essere sintetizzato nella formula «il mercato si autoregola». Questa espressione descrive non la sacralità del mercato di romitiana memoria degli anni ottanta, ma una realtà ben più complessa in cui l’economia capitalistica globalizzata crea una serie di attori che si comportano tutti secondo le stesse regole dalle
quali nasce l’economia globalizzata. La pluralità degli attori, comportandosi secondo gli stessi principi del libero mercato, della libera espansione delle proprie economie, produce un effetto di equilibrio in cui le contraddizioni che si aprono da una
parte vengono compensate dalle opportunità che si creano nelle altre.
L’effetto sistemico è di equilibrio; è la trasformazione della teoria dell’equilibrio
dell’economia capitalistica nella teoria globale che i mercati internazionali si autoregolano. Tuttavia, né la centralità del mercato né il principio dell’autoregolazione
hanno funzionato; e se c’è un punto oggi, in questo clima di confusione, su cui i
principali attori che stanno tentando di uscire dalla crisi internazionale finanziaria
concordano è che né il mercato né la sua autoregolazione hanno funzionato; in par-
L’analisi
ticolare, gli studiosi e il governo tedesco sostengono che il modello anglosassone di
funzionamento del mercato autoregolato è fallito e, dunque, è lo stesso principio
cardine che dà legittimità alla globalizzazione liberista che è in crisi. Attualmente
tutti, più o meno surrettiziamente, seppure sia ancora assente un pensiero teorico
forte, stanno operando per trovare mezzi, formule, teorie, aggiustamenti che lecitamente consentano di rimanere dentro il principio del mercato e dentro il principio
dell’autoregolazione. Il mercato è oggi intaccato dall’interventismo statale su tutti i
piani e il principio dell’autoregolazione è messo duramente in discussione proprio
laddove sembra più raggiungere il suo risultato. Ad esempio l’imposizione ai cinesi
delle regole del capitalismo americano appare semplicemente una patina che non
nasconde il fatto che Cina, Russia, India e altri due-tre paesi in realtà intendono la
regolazione del mercato in una logica che è confliggente e non convergente con
quella degli Stati Uniti e degli altri paesi occidentali; dunque nessuna autoregolazione del mercato. Quindi cosa si sostituisce a questa formula? È questa la domanda che deve porsi il sindacalista.
Un sindacalista deve confrontarsi con questi quesiti e non può non sapere che
oggi non si parla di centralità e autoregolazione del mercato, ma di politiche che
hanno al centro le modalità per il suo superamento. Un nodo ancor più delicato attiene strettamente al secondo blocco del ragionamento, ossia al fatto che durante gli
ultimi due decenni si è affermato un capovolgimento teorico e pratico nel rapporto tra diritto ed economia. Questo rapporto è una delle «perversioni» del capitalismo che si è creata e in virtù della quale si è affermato un assunto teorico secondo
cui il diritto limita e frena la libera espansione dell’economia: l’economia è la libertà, il diritto in quanto regola è il vincolo alla libertà. In Italia avevamo già avuto una
tradizione, come al solito un po’ raccogliticcia, i famosi «lacci e laccioli» di cui parlava Guido Carli già negli anni sessanta, che si traduceva in un’ansia del capitalismo
liberale di identificare la libertà con l’economia, l’economia con l’azienda, l’azienda
con lo sviluppo, in una logica tutta tautologica volta a mettere tra parentesi il diritto come regola e come regolamentazione o, peggio ancora, il diritto quando diventa Costituzione, come punto invalicabile.
Oggi vi è ormai un consenso diffuso, sia in letteratura sia nella stampa, che è proprio nel travolgimento del diritto, nella libertà dell’economia senza alcun controllo
e norma; in ciò va rintracciata l’origine vera dell’implosione della globalizzazione liberista. Come appare del tutto evidente, non è vero che la libertà senza diritto produce lo sviluppo lineare o lo sviluppo geometrico, quello che si moltiplica; essa produce semplicemente un ammasso d’ingegnerie tra il finanziario e lo speculativo al
termine delle quali non c’è la somma zero, ma vi è la perdita secca di ricchezza nazionale e internazionale; dunque, senza diritto non si ha sviluppo, senza regole né
nazionali né internazionali in realtà non si favorisce lo sviluppo dei commerci mon-
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diali, la crescita, l’interdipendenza e quant’altro, al contrario si sanziona una generale tendenza alla depressione mondiale. Seppure siamo partiti dall’idea che con la
globalizzazione avremmo raggiunto vette importanti, il dato storico complessivo è
che, come dicono ormai gli analisti americani, siamo in una fase di depressione peggiore di quella del 1929. La depressione del 1929 è il must di tutta la storia economica e politica mondiale e, più del nazismo, costituisce il vero discrimine, quello da
cui è nato Keynes e da cui trae origine tutto. Il 1929 costituiva sinora una parte della storia rimossa, nessuno mai avrebbe ipotizzato che l’economia occidentale e mondiale potesse lontanamente ritrovare i meccanismi di depressione borsistica, monetaria e finanziaria che alla fine degli anni venti procurano lo sconquasso della seconda guerra mondiale. Oggi, invece, con il sovvertimento del rapporto diritto/economia, l’economia – soprattutto quella del modello anglosassone – finanziario-bancaria ha prodotto le condizioni strutturali di lungo periodo per una depressione più
grave di quella di allora.
Terzo passaggio critico. Durante questi anni, questo tipo di globalizzazione liberista e questa ideologia hanno incorporato e sono state alimentate dall’ideologia
della scomparsa del lavoro; il lavoro è finito, non c’è bisogno del lavoro inteso come realtà materiale, cioè il lavoro come produzione di beni, merci manifatturiere,
di scambi tra poste, come si dice nel commercio; non ci sono poste, ci sono virtualità, e il lavoro deve in qualche modo scomparire, non ha senso; il capitale ha
incorporato talmente valore in sé che l’applicazione del lavoro è diventata una funzione irrisoria.
Questo assunto si è rivelato, come e più degli altri, una predizione ideologica;
era l’auspicio di una vera e propria rivoluzione sociale. L’Inghilterra in questo quadro ha rappresentato una parziale eccezione; infatti si è tentato negli ultimi venti
anni, giocando sui privilegi neoimperiali degli inglesi, di trasformare il lavoro in
una virtualità, trasformarlo cioè in finanza, quindi in qualcosa di immateriale.
Non è un caso che la Gran Bretagna sostenga che la crisi inglese è diversa da tutte le altre, perché non ha margini. Il modello inglese, ossia un mix di thatcherismo e blairismo (Terza via), ha giocato tutto sulla distruzione del lavoro e sulla
sua sostituzione, seguendo un modello opposto a quello tedesco; a oggi gli inglesi sono la nazione, lo Stato, l’economia, che nella crisi della globalizzazione rischiano di portare a casa, con l’avvio della distruzione della Terza via, il risultato
più tragico in termini di stabilità sociale, peso economico, anche internazionale,
e coesione sistemica. Il lavoro in realtà – a parte questo caso clamoroso, che a propria volta si differenzia da quello statunitense proprio perché applicato con radicalismo – in tutto il resto del mondo non soltanto è rimasto, ma si è straordinariamente moltiplicato e trasformato, uscendo dalla grande fabbrica. A livello planetario la globalizzazione non ha comportato una riduzione della forza lavoro, ma
L’analisi
al contrario una sua moltiplicazione ed estensione anche ad altre categorie sociali che precedentemente erano in una sorta di limbo sociale. Il lavoro, dunque, non
è scomparso: esso permane come il punto fermo dei sistemi produttivi della globalizzazione liberista di questi decenni e ne risulta anche il fattore più coinvolto
nella sua crisi strutturale.
Un altro punto critico ed importante, poiché in sé riassume i precedenti, riguarda il discorso che segue dal 1989, con varie enfatizzazioni, e che consiste nel concetto di «fine della storia». Un concetto, questo, il cui impatto etico e ideologico è
devastante poiché è equivalso a sostenere l’impossibilità per il singolo e per le collettività di agire. È importante sottolineare con chiarezza che la storia non è affatto
finita perché non esiste quello che la fine della storia presupponeva, ossia non esiste
un solo sistema economico capitalistico, autosufficiente, e non esiste neppure il solo sistema liberal-democratico autosufficiente.
Negli Stati Uniti il pensiero filosofico-politico sta lavorando e ha lavorato per
molti anni sul rapporto tra libertà e democrazia. La discussione in atto si interroga sulla possibilità di ripristinare un circuito virtuoso che dalla libertà dei singoli
porti alla democrazia delle collettività. Questo è un punto interrogativo, non un
dato acquisito; quindi, non si può parlare di fine della storia e non si è ancora affermato alcun sistema compiuto. Il sistema liberal-democratico è sottoposto a tensioni e logoramenti come mai nella sua storia; questo è valido per gli Stati Uniti,
ma anche per la Francia o in esempi ancor più drammatici per le modalità con cui
vengono coniugati questi fattori come in Russia e Cina. Si parva licet, l’Italia in
questo contesto è un caso di scuola in negativo, dove il passaggio tra libertà e democrazia è stato praticamente, quasi in modo paradigmatico, interposto dalla ricchezza e dal personalismo, uno di quei modelli che i politologi studiano con maggiore attenzione per la sua rilevanza, come possibile esempio di sviluppo della crisi delle liberaldemocrazie, in cui l’elemento caratterizzante non è stato tanto la televisione quanto l’oligarchia, la ricchezza, l’individualismo, lo svuotamento degli
organismi collettivi democratici. Come abbiamo già sottolineato, non necessariamente la libertà fonda la democrazia né la democrazia integra la libertà; questo rimane un problema completamente aperto, che non ha niente a che vedere con la
caduta del modello sovietico o del comunismo, ma è tutto interno alla globalizzazione unificatrice e ai caratteri della sua crisi attuale. Oggi è chiaro che questo modello, proposto come vincente, non ha vinto e appare pieno di contraddizioni, di
evoluzioni interne che possono contraddirne il principio costitutivo; pertanto si
può andare verso sistemi in cui la democrazia diventa pura forma, la libertà diventa privilegio.
Infine, è da sottolineare come la crisi finanziaria sistemica che attraversa e divide
l’Occidente getti le premesse per una profonda depressione economica al cui centro
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vi è il passaggio dal ciclo flessibilità/precarietà del lavoro a quello della disoccupazione di massa e della conseguente contrazione dei diritti e interessi e dell’arma delle protezioni sindacali e contrattuali del lavoro. Dunque, rischia di conseguirne una
secca ridislocazione della forza e del potere del sindacato. In questo quadro il lavoro torna ad essere una merce contesa sul mercato e nel ciclo della sua utilizzazione
degli attori economici e aziendali e, per altri versi, dello stesso Stato amministrativo. Le regole, le ragioni, i vantaggi della singola organizzazione rischiano attraverso
il singolo proselitismo sindacale di trasformarsi in una competizione con le strategie di fidelizzazione aziendale e le tutele amministrative sussunte dallo Stato e dalle
sue articolazioni territoriali.
Questi sono i cinque blocchi teorici sui quali occorre in questo momento riflettere se si vuol attuare una trasformazione positiva dell’identità e conseguentemente
della ridefinizione organizzativa, anche in termini di adesione e fidelizzazione sindacale, nell’attuale riorganizzazione sociale: la crisi dell’autoregolazione del mercato, la crisi del rapporto diritto/economia, il «ritorno» del lavoro e non la sua scomparsa, il «ritorno» della storia.
La Costituzione, tutele e proselitismo
Di non minore importanza per il sindacalista è quanto riguarda più direttamente la ripercussione che tutto ciò ha sulla specificità della nostra storia nazionale e che
correttamente è stata assunta nel binomio Costituzione/lavoro che ricomprende la
tutela dei lavoratori nell’ambito della più ampia cornice costituzionale. Tuttavia, assumendo la Costituzione e il lavoro come asse di questa ridefinizione dell’identità,
occorre partire dalla constatazione che nella nostra storia Costituzione e lavoro hanno avuto una relazione speciale.
È del tutto evidente che se noi andassimo a discutere di aggiornamento dell’analisi dopo la crisi della globalizzazione in Inghilterra o in Francia, per non parlare degli Stati Uniti, nessuno parlerebbe di Costituzione, non sorgerebbe in nessuno l’idea di affrontare il problema del lavoro con riferimento alla Costituzione. In questi
casi l’orizzonte è il governo, non è la Costituzione. In Francia le mobilitazioni politico-sociali non avvengono in nome della Costituzione. La Francia ha avuto cinque
Costituzioni dopo la grande rivoluzione; esse riguardano l’ordinamento dei poteri
dello Stato (il governo, il Parlamento, il Presidente della Repubblica, le modalità
delle elezioni, e quella che noi chiamiamo la seconda parte), non il fondamento della Repubblica (quello è stato deciso una volta per sempre nel periodo 1789-1793).
Invece in Italia il nodo fondamentale sta nel rapporto tra Costituzione e lavoro. In
Italia esiste questo tipo di rapporto così particolare giacché il lavoro ha dovuto legittimare costituzionalmente i propri diritti.
L’analisi
Questa non è una banalità, ma la sostanza della storia sociale e politica italiana.
Infatti, se è stato necessario legittimare nella Costituzione il diritto del lavoro e i diritti sociali, cioè renderli immodificabili e indisponibili, vuol dire che questi diritti
erano disponibilissimi e per lunghi anni di questi diritti si faceva «mercato politico»,
potevano esserci e non esserci. Il diritto del lavoro poteva tutelare, ma poteva non
tutelare, la libertà di associazione poteva esserci e non esserci, si poteva scioperare e
non scioperare, avere il contratto collettivo o non averlo, potevi avere il salario corrispondente al lavoro che facevi, uguale per uomo e donna, e potevi non averlo.
Questa è la storia sociale di questo paese, dove il lavoro è stato sempre considerato
un terreno di scontro sul quale era possibile agire per eroderne la stabilità, i diritti,
il potere, le funzioni. La Costituzione è nella storia italiana, sostanzialmente, una
sorta di sostituto dei grandi compromessi politici e sociali che sono alla base delle
democrazie occidentali. Quello che altrove si è ottenuto per via di compromesso politico, in Italia lo abbiamo dovuto fissare in maniera irrevocabile nella Costituzione,
perché se il diritto è transeunte, e ovviamente si adegua alla realtà, anche la Costituzione si adegua alla realtà, ma nell’adeguarvisi mantiene una rigidità nei suoi principi costitutivi che le derivano da un dato che il diritto non ha. Il diritto non è un
patto, il diritto è un atto unilaterale che in genere è espresso da chi è più forte; le
Costituzioni, invece, sono dei patti e, dunque, prevedono dei contraenti; la Costituzione italiana è un patto e uno dei contraenti del patto è il lavoro.
Il lavoro è il contraente principale della Costituzione perché il lavoro nella Costituzione fissa in maniera irrevocabile i propri diritti; naturalmente l’altro contraente sono le classi dirigenti, sono coloro, cioè, che storicamente hanno tentato di
non riconoscere questi diritti, di camuffarli, di alterarli, di non applicarli quando la
Costituzione è entrata in vigore. Il lavoro è il contraente ed è per questo che l’articolo uno recita: «La Repubblica è fondata sul lavoro». Nessuna Repubblica è fondata sul lavoro: la Repubblica americana prevede la felicità, la Repubblica tedesca è
una Repubblica federale, quella francese è una e indivisibile; la nostra, invece, è fondata sul lavoro, e ci sono decine di articoli che riguardano in maniera esplicita la regolamentazione nella Costituzione dei diritti del lavoro, il che fa del rapporto tra
Costituzione e lavoro quello che i nostri padri costituenti definivano il carattere prescrittivo della Costituzione italiana.
Un altro aspetto da sottolineare è che la Costituzione italiana non è neutra, ossia non garantisce a tutti le stesse cose, ma garantisce al lavoro una superiorità rispetto al capitale, assegnandogli quella che Di Vittorio nella sua relazione alla Terza sottocommissione definiva «primazia morale» e che determina l’assetto degli articoli principali della parte economica della Costituzione. La nostra è una Costituzione nella quale non c’è equilibrio tra capitale e lavoro; il lavoro in essa è costrittivo rispetto al capitale; dell’impresa si parla in alcuni articoli, dei partiti si ac-
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cenna nella parte politica, e questo sta a dimostrare che i valori della Costituzione,
le regole fondamentali, traggono tutte origine dall’articolo uno, dal patto costituente fondamentale e, dunque, la Costituzione è un vincolo. Questo non può essere ignorato quando si discute del se e come modificarla; infatti, se le Costituzioni si modificano tra i contraenti e il lavoro è uno di essi, occorre venire al punto e
dire: «questo contraente c’è ancora o lo vogliamo togliere?». Questo è il nodo della riforma della Costituzione. Il punto difficile da risolvere è capire se quell’articolo uno e il suo ordinamento sono ancora alla base del patto costituente o se, invece, vi deve essere un altro valore coesivo che lo va a sostituire, ma con chiarezza, affinché da essa scaturisca il sistema dei valori che regge la società. Infatti, se la società non è tenuta insieme dal lavoro bisogna capire da cosa è tenuta insieme, soprattutto in un paese come l’Italia, al fine di evitare la dissoluzione della comunità nazionale e una sua decostituzionalizzazione.
Il secondo punto che occorre sottoporre con molta forza è che la Costituzione,
proprio per questo suo carattere, è stata accettata in modo diseguale dalle diverse
forze sociali; infatti, mentre le forze sociali che si richiamano sostanzialmente al capitale hanno mantenuto verso la Costituzione un atteggiamento di riserva, se non
di lotta aperta, e hanno preferito crearsi una Costituzione materiale, il lavoro, invece, ha fatto della Costituzione il proprio programma. Pertanto, se dovesse prevalere
la Costituzione materiale rispetto a quella formale, cui la Cgil si attiene, si creerebbe un problema d’identità programmatica di carattere valoriale.
Va introdotta, infine, la riflessione sulla rimessa in discussione del rapporto tra
Costituzione e lavoro. La Costituzione e il lavoro così come sono declinati consentono di ampliare la rappresentanza del lavoro da parte del sindacato? Questo quesito che viene proposto ripetutamente da molti studiosi e forze politiche, che è volto
a sostenere che solo accettando il cambiamento della Costituzione il sindacato può
avere maggiore capacità di rappresentanza sui cosiddetti «nuovi lavori», contiene al
suo interno un salto logico e un grossolano errore storico. In realtà non c’è nessuna
ragione concettuale o fattuale per cui la Cgil debba divorziare dalla Costituzione per
rappresentare le ragazze dei call center o i giovani immigrati. Non si riesce a leggere
nella Costituzione nessun passaggio che in qualche modo renda impossibile alla
Cgil allargare il proprio fronte sociale e nessun logico collegamento tra questi due
elementi. Al contrario, c’è soltanto un dato storico: la Cgil ha sempre rappresentato il lavoro frammentato e soltanto per 10-15 anni è riuscita a rappresentare il lavoro nelle grandi fabbriche. La Confederazione generale del lavoro è nata sulla frammentazione, sul lavoro individuale, sul lavoro precario, sul lavoro delle poche unità
e non su quello delle migliaia; essa è vissuta per gran parte dei cento anni a questo
livello e, dunque, non c’è nel codice genetico della Cgil un’impossibilità strutturale
in base ai suoi valori identitari di allargarsi al nuovo modo di essere del lavoro. Per-
tanto l’allargamento della rappresentanza sociale, che costituisce il punto fondamentale nell’aggiornamento della sua identità, è sì una questione reale, ma che tuttavia non attiene al collegamento perverso tra la Costituzione, la sua modifica e la
capacità della Cgil, in quanto accetti di modificare la Costituzione, di diventare improvvisamente un sindacato aperto al «nuovismo» del mondo del lavoro.
Innanzitutto queste forme di «nuovismo» non esistono né storicamente né concettualmente; esiste, invece, un problema di adeguamento, aggiornamento e trasformazione dell’identità del sindacalista e della sindacalizzazione e che si traduce
oggi nelle modalità organizzative con cui ritessere le fila degli organizzati. E ciò è
possibile attraverso un rafforzamento del potere contrattuale, andando anche oltre
i servizi e il bilateralismo. Al centro va posta, infatti, la questione dei diritti e dei
contratti e della riacquisizione del potere sindacale. Ciò permetterebbe di sottrarre il lavoratore alle offerte che provengono dall’azienda e dagli imprenditori, offrendo una scelta tra le opportunità dirette che provengono dall’azienda e il potere del sindacato nel gestire la forza lavoro. Dunque, la scelta di sindacalizzarsi deve avere un effetto e una ricaduta effettiva sulla vita lavorativa, oltre che essere una
scelta ideale. Poiché come sostenuto da Di Vittorio nel corso del Convegno nazionale d’organizzazione del 1954: «la questione decisiva, quando si hanno un programma chiaro e prospettive giuste, come noi indubbiamente abbiamo, è quella
dell’organizzazione del nostro lavoro, che sia la più adeguata possibile ai compiti
cui dobbiamo assolvere».
L’analisi
Conclusioni
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■ L’analisi
Orario di lavoro e produttività*
Franco Farina**
Premessa
Il lavoro affronta il legame tra occupazione, gestione degli orari e incrementi di
produttività nelle mutate organizzazioni del lavoro e della produzione. Nella storia
rivendicativa italiana questi aspetti hanno fatto parte di una cultura aziendale e sindacale che caratterizzava, spesso in maniera dominante, i negoziati tra le parti sociali. Difatti per il sindacato, storicamente, gli orari e la loro riduzione si giustificavano per due ragioni: la prima riguardava la diminuzione della presenza lavorativa
in un’organizzazione del lavoro (taylor/fordista) fonte d’infortuni, d’incidenti mortali e causa di uno sfruttamento «scientifico» della mano d’opera; la seconda la relazione degli orari con l’occupazione. Siffatti rimandi si scontravano sugli aspetti dei
costi e sul tema della produttività aziendale. In altri termini, con le riduzioni di lavoro settimanali e annuali, si riduceva la durata della prestazione definita dalla «densità» delle operazioni o dei compiti nell’unità di tempo così com’era individuata nelle singole postazioni lavorative. Questi aspetti aprirono un conflitto permanente tra
orari e produttività. Difatti la riduzione degli orari, oltre a limitare il tempo d’impiego dell’indice di produttività nell’ambito dell’utilizzo degli impianti di un sito
produttivo, comportava, a sua volta, soprattutto nei sistemi di produzione a turni,
l’incremento occupazionale.
Tutti questi aspetti sono ancora oggi presenti nel dibattito sindacale e tra le forze politiche ma spesso con accentuazioni di carattere ideologico e senza supporti
scientifici. Innanzitutto si confonde la quantità prodotta con l’indice di produttività. Questa confusione porta a dire che è sufficiente prevedere l’aumento delle giornate lavorative (questa è una strada molto battuta dalla Confindustria) e una maggiore liberalizzazione degli straordinari in quantità e in possibilità per incrementare
la produttività aziendale. Si confonde sempre la quantità di prodotto con l’indice di
produttività che è, invece, segnato da un indicatore che mostra i costi di produzione e la loro diminuzione e che determina in ragione di essi una maggiore competi-
* Tratto da AE n. 11/2012. ** Fondazione Metes.
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tività aziendale. Le giornate o le ore in più sia in ragione della cancellazione della festività del santo patrono (ad esempio) sia per il ricorso allo straordinario possono incrementare le quantità prodotte ma non modificano l’indice di produttività. Spesso, anzi, l’indice di produttività, come studi aziendali universalmente dimostrano, è
inferiore qualora si ricorra, come prova, agli straordinari.
L’indice di produttività è sempre il rapporto tra produzione e ore lavorate. Ciò
che è cambiato nel tempo sono i contenuti della prestazione nelle ore di lavoro. Nei
decenni passati, prevalentemente, le ore lavorate s’identificavano nel compito lavorativo della mansione in cui erano definiti e prescritti i modi di esecuzione (la densità delle operazioni). Oggi il calcolo della produttività non è più sulla funzione operativa o sulla mansione ma è sull’attività di lavoro e sull’insieme del processo produttivo. Quest’aspetto introduce e qualifica il rapporto tra occupazione, orari di lavoro e produttività.
Sulla produttività e organizzazione del lavoro
Nel secolo passato la produttività dipendeva dall’intensità del lavoro e scaturiva
dalla «densità» delle operazioni o dei compiti nell’unità di tempo. In particolare, stabilita la professionalità del lavoratore e la concomitanza con la tecnologia, la produttività si realizzava attraverso la saturazione dei tempi di lavoro. La persona nel lavoro doveva semplicemente adattarsi alle regole della «via migliore» (one best way)
per compiere una qualsiasi operazione. Questa era individuata, attraverso la sperimentazione, dalla direzione aziendale e regolata, nella sua durata, dall’orario contrattuale. Oggi, per le innovazioni organizzative e tecnologiche, i fattori che determinano la produttività hanno una combinazione, un’ottimizzazione e una natura significativamente diverse dal passato.
Agli inizi degli anni ’80, in particolare nelle produzioni manifatturiere con l’applicazione della microelettronica e dell’informatica, l’introduzione dell’automazione flessibile comportò il superamento del modello tecnologico, quello, cioè, delle
macchine specializzate, che governò per decenni il Novecento industriale. L’innovazione tecnologica con l’automazione flessibile fu motivata dalla «necessità di ampliare la gamma produttiva, per soddisfare la crescente esigenza di varietà proveniente dal mercato»1. Sotto questo profilo la flessibilità tecnologica garantì il cambiamento duttile dei mix produttivi e la possibilità di rispondere rapidamente alle
1
Questo passaggio fu l’inizio di una vera e complessa trasformazione dell’impresa, dell’organizzazione
della produzione e del lavoro. Difatti in quegli anni prendeva avvio significativamente il processo della globalizzazione dei mercati: s’intensificava la concorrenza tra le imprese a livello internazionale, veniva meno il vantaggio della domanda indifferenziata che aveva caratterizzato i processi produttivi
standardizzati e s’imponeva una competizione sulla coppia prezzo-qualità del prodotto.
2
La specializzazione flessibile consiste in macchine e sistemi integrati che, grazie a un hardware e software avanzati, consentono la progettazione e/o la produzione di una definita varietà di prodotti per via
automatica.
L’analisi
variazioni della domanda, mentre si evidenziò, a differenza dell’uniformità della
produzione di massa, la complementarità tra l’efficienza e la flessibilità della produzione. In questo quadro il modello d’impresa assunse sempre di più il carattere
della «specializzazione flessibile» su una specifica gamma produttiva e non più sulla varietà dei prodotti nello stesso stabilimento. La specializzazione flessibile2 da
una parte determinò vantaggi organizzativi (il miglioramento della qualità, una
sollecita risposta alle variazioni della domanda, una diversa e positiva economia
nelle lavorazioni) e dall’altra modificò gli assetti tradizionali dell’impresa. In particolare per questi ultimi, con la perdita di riferimento delle economie di scala, si affievolì la concezione d’impresa per funzioni a favore di un calcolo organizzativo per
processi.
In concomitanza alla specializzazione flessibile si avrà da una parte un maggiore
utilizzo degli impianti secondo schemi rigidi e dall’altra l’introduzione degli orari di
lavoro flessibili. È in questa fase (inizi anni ’80) che avvenne per alcune imprese il
passaggio dai 15 turni (5 giorni per 3 turni, dal lunedì al venerdì) ai 18 turni (6 giorni per 3 turni, dal lunedì al sabato) con orari plurisettimanali su base annua e l’introduzione contrattuale di orari flessibili (settimane di 48 ore con settimane a 32
ore, orari pluriperiodali) per dare al processo produttivo una maggiore elasticità data la variabilità del mercato e per ridurre il ricorso alla cassa integrazione e al ripetersi degli straordinari.
Queste innovazioni, però, troveranno delle difficoltà applicative inaspettate. Infatti la sincronizzazione tra la produzione, la variabilità e la variazione del mercato,
nonostante l’allungamento del tempo di utilizzo degli impianti, segnalò dei limiti
che paradossalmente furono imputabili alla stessa automazione flessibile. La scelta
di fronteggiare la globalizzazione, la domanda e la variabilità del mercato per via tecnologica, senza innovare l’organizzazione e la gestione del processo produttivo e lavorativo, si rivelò, difatti, in quegli anni tanto insufficiente che nei primi anni ’90
iniziò l’innovazione organizzativa-gestionale del modo di produzione che consistette nell’integrare l’information technology non più con una logica di produzione standardizzata ma con un’organizzazione della produzione snella.
A tale proposito i fattori per la produttività variarono secondo la struttura organizzativa della tecnologia e soprattutto mutarono secondo le loro combinazioni in
uno specifico contesto lavorativo. In un’organizzazione piramidale e prescrittiva la
produttività e il rendimento, infatti, dipendevano soltanto da alcuni fattori che costituirono o crearono il rendimento del lavoro, mentre in un’organizzazione snella,
a
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82
con la finalizzazione lavorativa sul binomio produttività-qualità, il rendimento dipese e dipende dalla somma equilibrata e intelligente dei diversi fattori.
Nel caso dell’organizzazione snella, un giusto rilievo della produttività esige dunque il riferimento a una logica di processo secondo il criterio della produzione a flusso. Le condizioni per realizzare il flusso sono in particolare l’elevata qualità del prodotto, del processo e la riduzione del tempo di transito con la riduzione dei tempi
di attesa.
Un elemento fondamentale del rapporto produttività/qualità riguarda l’occupazione impiegata in un singolo stabilimento sia per l’aspetto numerico sia per il valore professionale. Infatti diversamente da un’organizzazione per funzioni dove il lavoro è la sommatoria delle singole operazioni o mansioni, la finalità di un’organizzazione per processi è l’ottimizzazione e la stabilità produttiva che per essere tali richiedono la certezza occupazionale e una forte qualificazione professionale delle
persone nel lavoro come sono previste dalle nuove modalità di lavoro (lavoro in
gruppo, autonomia, flessibilità professionale).
Accanto a questi aspetti il rendimento del lavoro si origina anche da condizioni
immateriali come il linguaggio. Difatti il linguaggio è ritenuto indispensabile sia
per gli svolgimenti attinenti all’informazione aziendale sia per le forme di relazioni
e di comunicazione tra i team di processo (direzionale, gestionale, operativo…) interni all’azienda. Solitamente il piano comunicativo riguarda l’apprendimento e le
motivazioni delle novità e delle ragioni che comportano lo svolgimento organizzativo e la rete relazionale delle persone coinvolte nel processo lavorativo. In particolare quest’ultimo significato della comunicazione (rete relazionale) va valutato in
analogia ai diversi ruoli professionali come un processo di scambio tra le conoscenze e come opportunità per la soluzione dei problemi organizzativi. Infatti tutti i motivi che regolano le attuali organizzazioni (specializzazione e flessibilità produttiva, innovazione tecnologica, automazione flessibile, tecnologia dell’informazione e della comunicazione, Ict, qualità del prodotto e del processo…) richiamano l’esperienza, il sapere e la conoscenza da parte di chi lavora, direttamente o indirettamente, nei processi produttivi e trovano naturalmente nel linguaggio e nella
interazione comunicativa la sede della loro manifestazione positiva per la produttività aziendale.
Catena del valore e produttività
Sussiste, dunque, la stretta relazione tra le innovazioni dei modelli organizzativi,
la produttività e la qualità. Tale rapporto è da qualche tempo oramai al centro della discussione per i temi della competitività aziendale e per l’innovazione dei modelli organizzativi. Parecchi studi e ricerche stabiliscono il rapporto stretto tra l’in-
3
L. Gallino, Informatica e qualità del lavoro, Einaudi, Torino, 1983; Aa.Vv., Economia dell’innovazione. Disegni organizzativi, pratiche di lavoro e performance d’impresa, Franco Angeli, Milano, 2008;
Aa.Vv., Innovazione, relazioni industriali e risultati d’impresa, Franco Angeli, Milano, 2004.
4 G.C. Cerruti, M. Pedaci, Innovazione nell’organizzazione della produzione e nelle relazioni di lavoro
nel postfordismo, in Quaderni di Rassegna Sindacale, n. 2, 2012, p. 82.
L’analisi
novazione dei modelli organizzativi, la qualità del lavoro e la produttività3; infatti
tale rapporto comporta una feconda «complementarità» tra i fattori innovativi (tecnologie, modalità di lavoro, relazioni sindacali). Viceversa, su questi temi, spesso si
esclude sul piano dell’analisi la funzione reciproca tra le componenti del rinnovamento per addivenire a considerazioni tra di loro separate e fuorvianti. In particolare sulla produttività, troppo spesso, si utilizzano «spiegazioni standard» che, pur
nell’elencazione di cause reali (pochi investimenti in attività di ricerca e sviluppo,
poca internazionalizzazione delle imprese, poca formazione, poca innovazione nella produzione materiale e così via), mal si conciliano con una spiegazione plausibile ed esaustiva del blocco della produttività in Italia. Tali condizioni standard sono
presenti in Italia da molto tempo anche nelle fasi di forte crescita della produttività
industriale. Stesso discorso vale sull’enfasi dei mutamenti organizzativi quando ci si
sofferma sulla descrizione formale dell’innovazione senza interpretare l’interazione e
gli adattamenti «a grappolo» che queste innovazioni comportano sul piano organizzativo. In questi casi si perde la validità dei mutamenti organizzativi che, di là
dalle sigle con le quali tali mutamenti si annoverano e di là dalle caratteristiche con
le quali questi si mostrano, dipende dalla «complementarità» tra «misure tecnologiche, organizzative e di governo delle relazioni di lavoro» su cui poggia la possibilità
di una maggiore produttività e l’affermazione della qualità del lavoro come criterio
strategico aziendale4. Questi errori non dipendono da metodologie interpretative errate ma da un giudizio inesatto di partenza del cambiamento. Infatti il mutamento
organizzativo non ha valore di paradigma ma, a differenza del modello
taylorista/fordista, i mutamenti organizzativi si avvalgono di adattamenti che spesso corrispondono alle esigenze della singola impresa rispetto alle tecnologie, alle risorse e al mercato, tanto da richiedere una mirata indagine sul campo.
Il carattere particolare di questi mutamenti, come abbiamo visto, è quello della
riduzione della struttura gerarchica, delle rigidità lavorative e della riconsiderazione
delle persone nel proprio lavoro. Questo schema organizzativo è riconducibile, secondo un’approssimazione descrittiva, a varie classificazioni del cambiamento. Difatti le diverse classi delle organizzazioni che possono considerarsi innovative (Learning organizations, Lean production, World-class manufacturing, Total productive
maintenance) nella loro descrizione mantengono spesso gli stessi caratteri riformatori del sistema taylor-fordista. Questi caratteri sono riassumibili in compiti di fles-
a
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sibilità professionale, autonomia lavorativa, lavoro in gruppo, coinvolgimento del
personale, just in time, qualità totale e così via. Siffatti segni organizzativi con i quali si organizzano il lavoro e la produzione indubbiamente stabiliscono il mutamento del modello taylor-fordista ma la loro caratteristica nell’impiego concreto delle attività organizzative non sempre coincide con la descrizione della classe di appartenenza al modello preso in esame. C’è di solito uno scarto tra le caratteristiche del
modello in questione e la sua applicazione nelle realtà produttive. Questo scarto dipende, appunto, dalle strategie di una singola impresa che stabilisce la specificità di
adattamento al modello e alla contrattazione sindacale sugli stessi mutamenti organizzativi. Dunque il valore del cambiamento è rilevabile secondo un’indagine mirata all’attività lavorativa della singola realtà aziendale; indagine le cui particolarità dipendono dalle coincidenze o dalle differenze tra la realtà di lavoro e la mappa organizzativa che ricorre comunque ad alcune caratteristiche fondamentali comuni che
vale ancora ripetere. La prima riguarda il criterio di base su cui le innovazioni fondano l’applicazione organizzativa. La regola prima «consiste in un profondo ribaltamento del modo di concepire l’organizzazione delle attività che si svolgono all’interno dell’impresa: dalla funzione si passa al processo»5. Questo passaggio, ed è la
seconda caratteristica, comporta e trascina diversi mutamenti della prestazione lavorativa. Viene meno, infatti, l’aspettativa dell’efficienza sulle singole operazioni per
introdurre, invece, una produttività di flusso produttivo, in concomitanza cioè della regolarità del flusso, del miglioramento della qualità intesa come riduzione degli
errori di lavorazione e della risposta alle variazioni della domanda. Tale rovesciamento porta a identificare il lavoro non più come mansione ma come attività seguendo alcuni criteri innovativi che annunciano la stessa operosità e che si mostrano con la crescita e la flessibilità professionale (polivalenza, polifunzionale), con il
lavoro in gruppo e, più in generale, con la ri-personalizzazione del lavoro6.
Questi cambiamenti, oltre a giustificare la necessità di una maggiore competitività, produttività e qualità dei prodotti nel mercato globale, hanno una stretta colleganza con la catena del valore. Oramai il processo di valorizzazione dei prodotti,
in un’azienda leader, si misura sul dispositivo seriale delle attività concomitanti al
processo di valorizzazione dalla progettazione alla distribuzione e assistenza dei prodotti aziendali e sul flusso produttivo. Infatti la catena del valore è un insieme di attività interdipendenti collegate tra loro, come il flusso produttivo è «il gendarme
dell’attività lavorativa quotidiana»7 e risultano come i termini di paragone sul pia-
5
R. Leoni, Nuovi paradigmi produttivi, performance d’impresa e gestione delle relazioni di lavoro: promesse e occasioni mancate, in, Quaderni di Rassegna Sindacale, n. 2, 2012, p. 103.
6 F. Farina, Persona e lavoro, Ediesse, Roma, 2005.
7 L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Editori Laterza, Roma-Bari, 2012, p. 184.
Sugli orari
Assumiamo la produttività in una situazione lavorativa in cui il rendimento non
dipende dalle singole funzioni ma deriva dalla somma equilibrata e intelligente dei diversi fattori innovativi (tecnologie e modalità di lavoro). A tale riguardo prendiamo
in esame il criterio aggregativo d’impianto (lo stesso metodo vale nel caso del processo, del flusso, dell’area e del reparto). Un impianto si definisce come unione tra la
tecnologia e l’insieme di lavoratori che operano su di esso. È suddiviso in posti di lavoro ai quali è addetto un gruppo di lavoratori, con i relativi compiti assegnati (ruolo professionale) che costituiscono l’organico. Da questo breve ragionamento si rica-
8
M.E. Porter, Il vantaggio competitivo, Einaudi, Torino, 2004, p. 56.
L’analisi
no aziendale della produttività e della qualità del prodotto. Per questi motivi il sistema della catena del valore dell’impresa s’inquadra prevalentemente nella valutazione del flusso produttivo o/e del prodotto. Per definire le attività «generatrici di
valore più rilevanti [è necessario] isolare le attività che hanno tecnologie e logiche
economiche diverse» e suddividere coerentemente in attività le funzioni a largo raggio, come la produzione o il marketing; a tale riguardo «si possono utilizzare il flusso del prodotto, il flusso degli ordini o il flusso della carta»8. Queste considerazioni
riassumono due aspetti del rapporto della catena del valore e dei modelli organizzativi. Il primo, già in precedenza asserito, è che i nuovi modelli organizzativi si avvalgono come criterio fondante della produzione in flusso, il secondo, strettamente
collegato al primo, è che un’analisi del valore e delle modalità generatrici del valore
in una impresa comporta lo studio del modo con il quale il flusso produttivo o/e
del prodotto è organizzato. Sul piano del merito ciò implica la comprensione delle
dinamiche aziendali sui temi dell’occupazione, degli orari, della professionalità, delle relazioni sindacali e come il flusso nella sua organizzazione d’interdipendenze è
ottimizzato e coordinato.
Sotto questo profilo il discorso sulla produttività non può prescindere dalle logiche interne della catena del valore e del flusso produttivo. A tale proposito abbiamo
già indicato i temi della produttività/qualità (occupazione, competenze, flessibilità
professionale, comunicazione intersoggettiva…) senza i quali è impensabile stabilire gli incrementi di produttività alla luce dei fattori competitivi del mercato internazionale. Un aspetto fondante riguarda proprio gli aspetti occupazionali di un sito produttivo che vuole competere sui mercati in funzione della qualità del prodotto e dei mutamenti organizzativi ottenuti rispetto ai modelli novecenteschi. Tutto
ciò chiama in causa lo stretto rapporto tra organici aziendali e orari di lavoro.
a
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a
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vano i seguenti fattori: impianto, posto di lavoro e organico. Questi tre fattori sono dati numerici per il posto di lavoro e per l’organico mentre sono dati tecnici per l’impianto. Siffatti dati hanno nel tempo il loro esclusivo riferimento. L’apparato è valutato secondo le ore di utilizzo mentre l’orario di lavoro stabilisce la prestazione per i
lavoratori in organico. Questa equazione ci porta a dire che le ore prestate da parte
dei lavoratori in organico corrispondono al funzionamento dei posti di lavoro e al
funzionamento dell’impianto stesso. Dunque i fattori di calcolo concernenti l’occupazione sono: le ore di utilizzo dell’impianto, l’orario contrattuale, l’organico in apparato e i posti di lavoro. Queste cause comportano la seguente proporzione: le ore
di utilizzo dell’impianto stanno all’orario contrattuale come l’organico sta ai posti di
lavoro. Se A sono le ore di utilizzo dell’apparato, B l’orario contrattuale, C l’organico in impianto, D i posti di lavoro, la proporzione corrispondente è la seguente, A:B
= C:D. Tale proporzione come è stata formulata (con alcune integrazioni che vedremo di seguito) assume la regola di calcolo da cui partire per impostare i problemi relativi agli orari, agli organici e alla utilizzazione degli impianti.
Pervenuti alla regola di calcolo, è possibile attraverso essa stabilire e definire il numero dei lavoratori per posto di lavoro. Indistintamente sia il rapporto C/D (cioè
l’organico in apparato fratto i posti di lavoro) sia A/B (e cioè le ore di utilizzo dell’impianto fratto l’orario contrattuale) rivelano i numeri dei lavoratori per posto di
lavoro.
Turnazione e addetti per posto di lavoro
Ora ci soffermiamo sulla relazione tra le diverse turnazioni (6 x 3, 7 x 3, ciclo continuo) e i posti di lavoro necessari9. Tale rapporto è evidenziato in conformità dei
calcoli annunciati nel paragrafo precedente. Iniziamo a cogliere tale relazione nelle
turnazioni a ciclo continuo10. Innanzitutto la sua organizzazione del lavoro si basa
su impianti che funzionano 24 ore per tutti i giorni dell’anno (365 gg.) in turni avvicendati rigidamente vincolati (ciclo continuo). La copertura continuativa ed effettiva dei posti di lavoro nel ciclo continuo è definita dal rapporto tra le ore di utilizzo dell’impianto e l’orario contrattuale. L’orario di lavoro contrattuale va inteso al
netto delle ferie e delle assenze che a diverso titolo (malattia, infortunio, permessi)
9 Per facilitare la comprensione dei calcoli, useremo l’orario contrattuale in giornate di lavoro su base
annua.
10 Spesso si confondono i 21 turni con il ciclo continuo. Per ciclo continuo qui s’intende l’utilizzo degli impianti per 365 gg. l’anno. È una turnazione vincolata dalla tecnologia di processo che non prevede fermate per evitare danni e deterioramento agli impianti (siderurgici, petrolchimici). Mentre i 21
turni si differenziano dal ciclo continuo in quanto prevedono alcune fermate collettive durante l’anno, escludendo così la turnazione su 365 gg.
si possono determinare nel corso dell’anno. La finalità di quest’operazione è l’individuazione precisa e numericamente corretta dei turnisti necessari alla copertura dei
posti di lavoro. Sotto questo profilo si può schematizzare nel modo seguente il meccanismo di calcolo standard per l’individuazione del numero degli addetti per posto
di lavoro considerando che per K si intende il numero di addetti necessari per ogni
posto di lavoro:
Utilizzo impianti x 24 ore
Orario contrattuale11 - (godimento ferie + fruizione permessi +
malattia/infortunio) x 8 ore
Lo stesso meccanismo di calcolo si applica sui 18 e sui 21 turni, ciò che muta sono i giorni di utilizzo degli impianti nell’anno. Facciamo un esempio di calcolo sui
18 turni. L’utilizzo degli impianti sui 18 turni dipende dai 6 gg. x 24 ore di impiego in ragione delle 52 settimane dell’anno solare. A questo calcolo vanno sottratte
le fermate collettive. In questo caso la proporzione ha le seguenti caratteristiche:
K=
24 ore x 6 gg. x (52,1412 settimane - 4 settimane di chiusura collettiva)
Orario contrattuale - (godimento ferie + fruizione permessi +
malattia/infortunio) x 8 ore
Nell’esempio abbiamo utilizzato i 18 turni di utilizzo (24 x 6 gg.) x le 4 settimane di chiusura del sito produttivo (per convenzione le chiusure collettive possiamo
indicarle con tre settimane ad agosto per ferie e una settimana a Natale). Lo stesso
calcolo vale per i 21 turni. Si tratta di concordare le fermate collettive e di calcolare
le giornate di utilizzo degli impianti. Costruiamo anche qui un esempio con l’ipotesi delle stesse fermate collettive (4 settimane di chiusura) utilizzate sui 18 turni:
K=
11
24 ore x 7 gg. x (52,14 settimane - 4 settimane di chiusura collettiva)
Orario contrattuale - (godimento ferie + fruizione permessi +
malattia/infortunio) x 8 ore
L’orario contrattuale è inteso al netto della riduzione dell’orario di lavoro, delle festività e delle ex
festività e a lordo delle ferie. Questi aspetti sono diversamente trattati (in particolare la quantità della
riduzione degli orari) dai contratti nazionali.
12 La media delle settimane annue è di 52,14. Infatti 52,14 x 7 gg. dà 364,98 gg. annui.
L’analisi
K=
a
e
87
15/2013 Materiale per un dibattito congressuale
Ora facciamo degli esempi concreti. Iniziamo con il calcolo ipotetico sui 18
turni. Manteniamo il calcolo su base e in giornate annue. Il calcolo si basa su 365
gg. annui -104 gg. di riposo del sabato e della domenica - 4 ex festività - 22 gg.
di ferie - 11 gg. di rol - 7gg di festività infrasettimanali13 = 217 gg. di lavoro annuo. Simuliamo 4 settimane di chiusura (3 settimane di ferie in agosto e una settimana nel periodo di Natale) più 4 giorni di chiusura in coincidenza delle festività infrasettimanali (delle 7 che abbiamo calcolato ne abbiamo previste solo 4 dal
momento che le chiusure collettive prevedono sia la festività di ferragosto sia alcune festività natalizie).
K=
24 ore x 6 gg. x (52,14 settimane - 4 settimane di chiusura collettiva - 4 gg.)
217 gg. - (6 gg. di assenza media per malattia e permessi) x 8
K=
a
e
144 x 47,56 settimane utilizzo impianti
211 gg. effettive di lavoro x 8 ore di lavoro
K=
88
6848,64
1688
K = 4,05 numero di addetti necessari per ogni posto di lavoro
Questo calcolo indica la necessità di coprire ogni posizione di lavoro con perlomeno 4 persone in uno schema di 18 turni. Il calcolo che abbiamo fatto si può ripetere anche per i 21 turni. Il risultato dipende sempre dalle settimane di utilizzo
degli impianti al numeratore e dalle giornate effettive di lavoro al denominatore. Le
prime derivano dalle fermate collettive, le seconde scaturiscono dalle festività infrasettimanali cadenti tra il lunedì e il venerdì, dalle giornate di riduzione di lavoro
(queste variano secondo le turnazioni tra i 18, i 21 turni e il ciclo continuo e i contratti collettivi di lavoro) e dall’assenza media per malattia e permessi. Ora tenendo
conto che in un impianto ci sono 12 posizioni di lavoro e per ogni posto di lavoro
gli addetti necessari sono 4,05 (è il risultato dell’esempio sui 18 turni), l’organico
13
Le 11 festività annue cadono in giorni lavorativi mediamente 5 volte su 7. Perciò: 11 festività x 5
gg. : 7 gg. = 7,85.
Tab. 1 - Schema di 6 gg. di lavoro per la 1a settimana e 3 gg. di lavoro
per la successiva
L
M
Squadra A
3
3
Squadra B
2
2
Squadra C
1
1
Squadra D
R
R
M
G
V
S
D
L
M
M
G
V
S
D
3
R
R
R
R
1
1
1
1
1
1
R
2
2
2
2
R
3
3
3
R
R
R
R
1
1
1
1
R
R
R
R
3
3
3
R
R
3
3
3
R
2
2
2
2
2
2
R
L’analisi
necessario complessivo è di 4,05 x 12 = 48,6 addetti. Differentemente dal conteggio sull’organico la definizione del numero delle squadre necessarie prevede un’operazione in cui al numeratore si mantengono le ore di marcia dell’impianto mentre
al denominatore le giornate di lavoro annuali per addetto sono calcolate al lordo
delle ferie. Questo rapporto stabilisce le squadre necessarie in un sistema di 18, 21
turni e del ciclo continuo e fissa i riferimenti per gli schemi dei turni. A tale riguardo sul numero di 4 squadre per i 18 turni e con una media oraria di 36 ore (di solito il computo sopra indicato comporta una media oraria settimanale di 36 ore e
l’introduzione della 4a squadra in organico) gli schemi di turnazione sono di solito
due. Questi modelli dimostrano gli effetti occupazionali (la 4a squadra organica) così come gli esiti degli avvicendamenti e dei riposi in turno. Vediamo ora nella loro
applicazione le turnazioni possibili.
a
e
89
Tab. 1 bis
Squadre
l m m g v s d
l m m g v s d
l m m g v s d
l m m g v s d
A
R R R 3 3 3
1 1 1 1 1 1
3 3 3 R R R
2 2 2 2 2 2
B
2 2 2 2 2 2
R R R 3 3 3
1 1 1 1 1 1
3 3 3 R R R
C
1
1 1 1 1 1
3 3 3 R R R
2 2 2 2 2 2
R R R 3 3 3
D
3 3 3 R R R
2 2 2 2 2 2
R R R 3 3 3
1 1 1 1 1 1
Questo schema prevede un’alternanza di sei giorni lavorativi nella prima settimana e tre nella successiva (9 x 8). Sono nove giorni di lavoro per 8 ore in due settimane. Tale schema esige quattro squadre, negli avvicendamenti in turno una riposa (questo è possibile secondo i calcoli che abbiamo fatto sui 18 turni) con una
media di 36 ore settimanali. Siffatto modello prevede quattro giorni di riposo di
seguito ogni due settimane mentre la presenza di sabato avviene tre settimane su
quattro.
15/2013 Materiale per un dibattito congressuale
a
e
90
Tab. 2 - Schema di 5 gg. di lavoro per la 1a settimana e 4 gg. di lavoro
per la successiva
L
M
Squadra A
1
1
Squadra B
R
R
Squadra C
3
3
Squadra D
2
2
M
G
V
S
D
L
M
M
G
V
S
D
1
R
2
2
R
2
2
3
3
R
R
R
2
2
3
3
R
1
1
R
2
2
R
R
R
1
1
1
R
R
R
2
2
3
3
R
R
R
R
3
3
R
1
1
1
R
3
3
Tab. 2 bis
Squadre
A
B
C
D
l
1
R
3
2
m
1
R
3
2
m
1
2
R
3
g
R
2
1
3
v
2
3
1
R
s
2
3
1
R
d
R
R
R
R
l
2
1
R
3
m
2
1
R
3
m
3
1
2
R
g
3
R
2
1
v
R
2
3
1
s
R
2
3
1
d
R
R
R
R
l
3
2
1
R
m
3
2
1
R
m
R
3
1
2
g
1
3
R
2
v
1
R
2
3
s
1
R
2
3
d
R
R
R
R
l
R
3
2
1
m
R
3
2
1
m
2
R
3
1
g
2
1
3
R
v
3
1
R
2
s
3
1
R
2
d
R
R
R
R
Questo schema ha lo stesso orario plurisettimanale medio di 36 ore del modello precedente. La differenza riguarda la distribuzione sui turni. Difatti il modello
precedente si articola con 6 giorni continuativi in turno nella prima settimana e 3
giorni di lavoro nella seconda. Lo schema sopra esposto, invece, prevede 5 giorni
la prima settimana con i 4 giorni di lavoro la seconda. Entrambi confermano le 9
giornate per 8 ore di lavoro nell’arco delle due settimane (9 x 8) ma con criteri di
distribuzione fra loro diversi. Il primo schema conferma per ogni squadra la stessa
turnazione settimanale (o di mattina 6.00-14,00 o di pomeriggio 14.00-22.00 o
di notte 22.00-6.00) mentre il secondo prevede delle variazioni nell’arco della settimana. Questa differenza sulla preferenza di scelta dello schema è stata di solito
uno degli argomenti più discussi tra i turnisti per l’applicazione dei 18 turni14. Va
detto infine che entrambi i modelli, nel rispetto delle giornate annue e della media dell’orario settimanale di 36 ore, prevedono un periodo lungo di settimane a
36 ore (45 settimane circa) con settimane di alto orario di 48 ore in coincidenza
con il godimento delle ferie15.
14
La discussione riguarda l’impegno e l’interesse sui 6 giorni continuativi in turno del primo schema
di fronte ai 5 giorni di lavoro con i diversi cambi del secondo schema nell’arco di una settimana.
15 Abitualmente questi schemi a 18 turni prevedono 45 settimane a 36 ore, 3 settimane a 48 ore, 3
settimane di ferie collettive da godere normalmente nel mese di agosto e 1 settimana di ferie a scorrimento programmata con le settimane lavorative a 48 ore delle altre 3 squadre. Questo esempio può
intendersi come un riferimento esemplare dell’applicazione dei 18 turni.
I calcoli sugli orari che abbiamo fatto, in conformità con il computo annuale in
giornate (ciò vale anche per un conteggio sulle ore settimanali e annuali), prevedono la schematizzazione collettiva di tutti i riposi contrattuali (ferie, ex festività, riduzione degli orari di lavoro, permessi e così via). Questo metodo implica un abbassamento degli orari di lavoro per via contrattuale e comporta di conseguenza una
crescita occupazionale. Contiene, altresì, un avvicendamento in turni meno intensivi e invasivi a seguito degli orari plurisettimanali (sui 18 turni la presenza in fabbrica prevede normalmente in due settimane 9 gg. lavorativi invece di 10 gg.) e uno
schema di turno che è di solito concordato agli inizi dell’anno in cui sono previste
e programmate le giornate di lavoro e di riposo16.
L’applicazione degli orari in turno da noi indicata comporta, inoltre, almeno due
successivi chiarimenti che corrispondono al tema della flessibilità degli orari, degli
impianti e della produttività. La flessibilità sulla variabilità del mercato si attua attraverso lo scorrimento dello schema di turno in ragione dei picchi e dei flessi della
produzione in cui si conferma la media oraria della turnazione di riferimento e in
cui il maggiore utilizzo degli impianti e l’incremento degli orari di lavoro assecondano la pratica degli accantonamenti da utilizzare poi nei periodi dei flessi attraverso il godimento collettivo dei risparmi e conseguentemente con il regime di basso
orario17. La produttività si conferma in virtù di un sistema di lavoro in turni le cui
prerogative applicative implicano un’occupazione professionalizzata e quantitativamente stabile. Infatti sia la flessibilità sia l’indice di produttività sono sorvegliati da
un insieme operativo che si può identificare in un impianto, in un processo o nel
flusso produttivo in cui la corretta applicazione dipende da un criterio occupazionale definito dal grado di copertura continuativa dei posti di lavoro.
Difatti tale copertura si avvale del principio della prestazione effettiva in cui gli addetti necessari per ogni posizione di lavoro sono in grado di sostituire le assenze dei
lavoratori. La certezza numerica degli occupati in una posizione di lavoro esclude
16
F. Farina, La contrattazione aziendale nell’industria alimentare, in AE Agricoltura Alimentazione Economia Ecologia, Edizioni Lariser, Roma, n. 7/2011, pp. 24-25.
17 Tale flessibilità, con le relative turnazioni, è significativamente presente nel settore dell’industria alimentare. Alla Ferrero la flessibilità sui 15 turni è con il sabato lavorativo di 6 ore per turno. Tale prestazione ha il godimento collettivo degli accantonamenti dei riposi compensativi nei periodi di bassa
produzione; alla Parmalat l’effettivo orario delle 36 ore sui 18 turni, a seguito della schematizzazione
collettiva dei rol e delle ferie, è alla base della stessa flessibilità dove si regolano i picchi e i flessi e dove gli accantonamenti sono utilizzati nei periodi di bassa produzione; alla Plasmon l’orario effettivo
delle 38 ore medie settimanali sui 15 turni con la schematizzazione delle rol stabilisce la flessibilità sui
picchi e sui flessi secondo la regola della media oraria delle 38 ore. Su questo punto si veda la ricerca
su La catena del valore nel settore agroalimentare, in Quaderni AE, Edizione Lariser, Ediesse, n. 1, 2012,
in particolare, F. Farina, Catena del valore e modelli organizzativi, p. 21.
L’analisi
La flessibilità degli orari
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15/2013 Materiale per un dibattito congressuale
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92
così una copertura improvvisata e rabberciata a causa delle assenze in cui si rimette
il carico di lavoro degli assenti sui lavoratori presenti o si procrastinano in un secondo tempo le funzioni del lavoratore assente o si ricorre allo straordinario dei lavoratori presenti. Sono tutte forme che pregiudicano la flessibilità e il mantenimento degli indici di produttività di un impianto o di un flusso produttivo. Infatti
la flessibilità, la produttività e la qualità del prodotto inseguono logiche organizzative in cui la produttività e la qualità si calcolano sull’impianto o sul flusso. Ed è un
computo che mira a un’attività produttiva fluida, snella e senza interruzioni, tempi
morti o di attesa. Tutto questo comporta sempre un adeguato organico e una flessibilità professionale giocata sull’impianto, sul flusso e a seguito di conoscenze, competenze e autonomia dei lavoratori interessati nei processi produttivi. Difficilmente
una sostituzione per la copertura delle assenze disorganica ed estemporanea ha gli effetti desiderati sulla produttività e qualità del prodotto. Anzi l’improvvisazione professionale in questi casi produce effetti dannosi rispetto agli obiettivi di qualità e di
produttività ambiti nei processi produttivi.
Sugli straordinari
In sostanza i mutamenti organizzativi e le stesse logiche di mercato hanno modificato i criteri di flessibilità dell’organizzazione del lavoro e della produzione. A
differenza del sistema taylor/fordista in cui la flessibilità degli impianti era stabilita
dalla cassa integrazione e dallo straordinario secondo le diverse manifestazioni cicliche dei mercati, in un’organizzazione snella e alla presenza di mercati organicamente variabili e molto competitivi su scala globale, la flessibilità è parte integrante delle organizzazioni del lavoro sia per le tecnologie flessibili, sia per le continue mutate condizioni di mercato, sia per gli adattamenti delle linee di produzione sui prodotti. Tali cambiamenti radicali comportano una flessibilità costitutiva delle organizzazioni. Una flessibilità del sistema produttivo e non un’elasticità dettata, attraverso lo straordinario o la cassa integrazione ordinaria, dagli andamenti esterni alla
singola fabbrica a cui un’organizzazione rigida, come quella taylor/fordista, volta per
volta doveva per necessità adattarsi.
I nuovi sistemi d’impresa richiedono, dunque, un’adattabilità fisiologica agli
stessi criteri della produzione e della competitività. È una flessibilità di struttura
in grado di interpretare e anticipare le fluttuazioni del mercato e di incorporare,
nella sua fatticità produttiva, gli incrementi di produttività e di qualità del prodotto. In questo quadro lo straordinario, più che un criterio di flessibilità, si mostra come una disfunzione organizzativa. Ha una sua ragione unicamente per necessità imprescindibile, indifferibile e di durata temporanea ed è comprensibile secondo un’eccezione della stessa normale attività produttiva. Pertanto la regola del-
L’analisi
la flessibilità è comprensibile nelle diverse variazioni degli andamenti dei mercati
e in ragione della flessibilità degli orari il cui saldo finale è, però, l’applicazione
dell’orario contrattuale. In questi casi lo straordinario interviene come una necessità improvvisa, non programmabile e come supporto temporaneo ed eccezionale di un bisogno produttivo. Diversamente riproduce un’anomalia della stessa efficienza organizzativa.
In una realtà produttiva rinnovata nella sua organizzazione (lavoro in team, autonomia operativa, flessibilità professionale) e con parte del lavoro organizzato in
turni avvicendati (5 x 3 - 6 x 3 - 7 x 3), le cause dello straordinario possono ricondursi ad una mancata schematizzazione collettiva degli orari di lavoro (ferie,
ex festività, riduzione degli orari di lavoro, permessi e così via) o ad una schematizzazione contraddittoria rispetto alla organizzazione del lavoro (il numero dei
posti di lavoro). In entrambi i casi il deficit di schematizzazione trascina una strutturale mancanza di personale. Nel primo caso l’assenza della schematizzazione
collettiva degli orari di lavoro comporta la scissione tra l’orario collettivo delle 40
ore e il godimento individuale dei lavoratori della riduzione dell’orario, dell’ex festività e di parte delle ferie. In questi casi il calcolo sul numero delle squadre è sulle 40 ore mentre l’orario effettivo del singolo lavoratore è abbondantemente al di
sotto di quella media. Tale scarto, in questi casi, produce – qualora il lavoratore
si assenti in funzione del godimento individuale della riduzione di orario e/o delle ferie – una insufficienza di personale che è solitamente corretta con il ricorso
agli straordinari. Di solito in questi casi si apre un circolo vizioso tra riposi individuali come godimento delle assenze previste dai contratti, ricorso agli straordinari come copertura delle assenze e forme di assenteismo soprattutto per quelle
turnazioni maggiormente disagiate come i 18 e i 21 turni con orari settimanali di
40 ore. Un giro iniquo che trascina lontano ogni criterio di efficienza e di produttività.
Nel secondo caso il ricorso allo straordinario è la conseguenza della mancata
schematizzazione sia per l’individuazione del numero di addetti necessari per ogni
posto di lavoro sia per la riduzione numerica degli stessi senza, però, la cancellazione delle competenze assegnate ad essi. In altri termini lo straordinario, nel primo caso, è per rimediare alla mancanza strutturale dei rimpiazzi mentre, nel secondo caso, è per provvedere ai carichi di lavoro formalmente eliminati ma sostanzialmente attivi e accorpati nelle diverse posizioni di lavoro. In entrambi i casi il ricorso allo straordinario non si configura come uno strumento di flessibilità
produttiva. Infatti in queste eventualità lo straordinario è fisiologico ed è organicamente pianificato per l’attuazione dell’organizzazione produttiva. È finalizzato
per la mancanza strutturale degli organici e opera per la riduzione dei costi attraverso l’incremento delle ore straordinarie a discapito delle ore ordinarie il cui co-
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sto è più elevato. È una forma di razionalizzazione occupazionale più che un criterio di flessibilità18.
Conclusioni
L’orario di lavoro, dunque, stando alla nostra elaborazione, comporta vari aspetti dell’organizzazione della produzione. Oltre a stabilire la durata di lavoro ha una
rilevante conseguenza sui mutamenti organizzativi, sul piano occupazionale, sulla
qualità del prodotto e sulla produttività; questi quattro elementi sono strettamente
legati tra di loro. Una trasandata applicazione degli orari porta inevitabilmente alla
riduzione degli standard competitivi dell’unità produttiva. Abbiamo visto e ripetuto che la produttività del lavoro oggi è calcolata non più sulla singola funzione o
mansione ma è misurata sulla logica della produzione a flusso o di processo o di prodotto. Tale calcolo richiede il doppio obiettivo dell’elevata qualità del prodotto e del
processo. In questi casi la produttività è solitamente calcolata con la riduzione dei
tempi di transito del prodotto e con la riduzione dei tempi di attesa del processo.
Questa condizione è possibile se si determina una flessibilità professionale (polivalenza e polifunzionalità), una corretta definizione del numero dei posti di lavoro e
il numero di lavoratori necessari. Queste condizioni sono stabilite sostanzialmente
dalla corretta applicazione degli orari contrattuali e dal valore professionale dei dipendenti. Gli orari effettivi, sia come calcolo sia nei criteri applicativi, sono quantificati sulla base delle ore o delle giornate di lavoro previste in ogni contratto. Il criterio applicativo dipende dalla schematizzazione collettiva dei riposi a diverso titolo
previsti dai contratti di lavoro. Se a questa dipendenza si procede con delle deroghe
in cui le ore collettive di lavoro sono di 40 ore e i riposi (ex festività, rol, parte delle ferie…) sono individuali, il ricorso allo straordinario, a cui necessariamente bisogna rivolgersi, stabilisce nella operatività del lavoro una condizione d’improvvisazione e di precarietà le cui conseguenze comportano la perdita di produttività e di
qualità del prodotto. Oltretutto il lavoro si prefigura come un’attività in cui la com18 Esemplare da questo punto di vista è l’accordo della Fiat di Pomigliano. Qui la strutturale carenza
di organico è compensata dalle ore di straordinario che dalle 40 ore previste dal contratto sono passate a 120 ore pari a 15 giornate di 8 ore annue a livello aziendale! Questo straordinario interviene soprattutto a compensare la mancanza strutturale del personale sui 18 turni a 40 ore settimanali e non
ha nessuna funzione di elasticità per la produzione. Tale contraddizione si predispone, prima dei contratti di solidarietà, a una diversa applicazione oraria sui 18 turni per favorire, attraverso la verifica sulla 4a squadra organica, il reintegro del personale discriminato dalla Fiat stabilito dall’ordinanza del tribunale. Stesso discorso vale per quelle forme di lavoro diffusissime (polivalenza, polifunzionale) in cui
si scambia un criterio di flessibilità professionale con accorpamenti di posti di lavoro che riducono le
posizioni, innalzano l’intensità della prestazione e ricorrono frequentemente agli straordinari per compensare l’insufficienza del personale.
L’analisi
petenza, l’esperienza di lavoro, le conoscenze e le capacità di comunicazione sono le
caratteristiche che consentono a una professionalità attiva, considerata indispensabile, gli obiettivi di efficienza e di regolarità del processo produttivo e che qualsiasi
ricorso di fortuna allo straordinario, per sua natura, non concede. In aggiunta, oggi, con i mutamenti organizzativi, un posto di lavoro è contrassegnato dai dati tecnici e tecnologici e contemporaneamente dall’attività del lavoratore in gruppo, in
reparto o in impianto, considerata, quest’ultima, come un’operosità autonoma con
le sue prerogative di esperienza e responsabilità, sugli obiettivi di produttività e di
qualità del flusso produttivo, tanto da richiedere una relazione attenta tra orari, posti di lavoro e occupazione.
Questi sono temi che hanno forti implicazioni sindacali. Oggi più di ieri, come
più volte abbiamo ribadito, gli orari di lavoro incidono, oltre che sul dato numerico dell’occupazione, sul funzionamento dell’attività produttiva e direttamente sulla
produttività e sulla qualità. È indispensabile che su questi obiettivi il sindacato riprenda una sua coerenza rivendicativa dove, attraverso una corretta applicazione degli orari, ci sia il tema della crescita occupazionale che sia in grado professionalmente
di affrontare gli obiettivi dei mutamenti organizzativi, di predisporsi sul tema della
qualità dei prodotti e delle sfide competitive globali. Tutto questo comporta una
scelta rivendicativa degli orari di lavoro in cui i calcoli sul numero degli addetti necessari per posto di lavoro e per la definizione delle squadre nelle diverse turnazioni
ritornino a considerare la schematizzazione collettiva degli orari. Un ritorno che stabilisca una maggiore sicurezza, una più alta qualità del lavoro e una migliore efficacia rivendicativa del sindacato e delle Rsu sugli aspetti dell’organizzazione del lavoro, temi sui quali la rappresentanza e la legittimità della funzione sindacale trovino
la loro autenticità di principio.
È un quadro che presuppone una scelta di campo e di contrasto per le aziende
che continuano a praticare scelte competitive sulla riduzione del costo del lavoro,
sulla limitazione dei diritti e delle tutele stabilendo spesso, proprio sul terreno degli
orari, un calcolo disperato tra occupazione e straordinari; superando, così, i criteri
della competizione sulla qualità, la stabilità occupazionale e la flessibilità professionale nell’illusione che sia ancora possibile nell’occidente capitalistico competere attraverso il peggioramento delle condizioni di lavoro. Infine è opportuno, proprio
sull’impegnativa strategia per il Piano del lavoro della Cgil, definire una logica stringente tra le politiche generali per lo sviluppo e la contrattazione nei luoghi di lavoro. Gli orari sono una delle condizioni di questo legame, un presupposto in grado
di aprire i cancelli delle fabbriche alle nuove generazioni e su cui vale la pena di impegnarsi sindacalmente.
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■ L’analisi
Per un nuovo mercato del lavoro in agricoltura*
Stefania Crogi**
L
a Flai Cgil, con elaborazioni e proposte che compongono anche il Piano del
Lavoro recentemente presentato dalla Cgil, intende condurre, anzi proseguire, un’azione forte sul tema del mercato del lavoro.
Il terreno, le modalità, i tempi con cui si incontrano offerta e domanda di lavoro nel
nostro Paese, sono fondamentali per ridisegnare un’Italia con più lavoro. Un lavoro
giusto, capace di far progettare il futuro ai giovani e di rappresentare una buona prospettiva di vita per chi è già da anni inserito nel mondo del lavoro ma è obbligato a
viverlo attraverso precarietà, discontinuità, trattamenti non equi. A coloro si aggiunga
la condizione di quanti, pur avendo un lavoro stabile, vivono con la spada di Damocle
della cassa integrazione e della perdita del lavoro.
Parlare e agire sul tema del mercato del lavoro, significa – secondo noi – intervenire su un’ipotesi di sviluppo e di crescita per il paese, condizione che tutti a parole
dicono di voler perseguire.
Per la nostra categoria non si può parlare di mercato del lavoro senza partire da
quanto accade nel settore dell’agricoltura, del duro lavoro nei campi e nelle serre.
In tale comparto, più che in altri, l’incontro tra domanda e offerta di lavoro non
è così facile e lineare, soprattutto non sempre è trasparente.
In esso trova spazio la possibilità di reclutare manodopera attraverso una intermediazione illecita, che avviene per mano di quei caporali che per conto di datori di
lavoro senza scrupoli, e di aziende più o meno grandi, provvedono a trovare lavoratori da portare nei campi.
Un fenomeno di sfruttamento che ricade sugli ultimi, su quei lavoratori che spesso vengono dall’estero e nei campi divengono invisibili alla società, alle istituzioni,
mentre sono ben visibili a chi quotidianamente li vessa, da Nord a Sud, tanto nella
raccolta degli ortaggi in Piemonte quanto nei campi di pomodori a Foggia.
La forte stagionalità, la chiamata al lavoro a giornata, l’impiego di lavoratori stranieri anche con problematiche connesse al permesso di soggiorno, sono certamente
elementi che rendono il settore più vulnerabile rispetto al fenomeno del caporalato
e del lavoro irregolare.
* Tratto da AE n. 12/2012. ** Segretario generale della Flai Cgil nazionale.
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In agricoltura il tasso di irregolarità nel 2011 è stato pari al 24,8%, e sono circa
400.000 i lavoratori sotto caporale, come riportato anche nelle stime del Primo Rapporto su agromafia e caporalato realizzato dall’Osservatorio «Placido Rizzotto». Ma
è necessario sottolineare che il lavoro irregolare si regge su una struttura di illegalità
che attraversa l’intera filiera dell’agroalimentare, rappresentando fonte di guadagno
fondamentale per la criminalità organizzata, che opera dai campi ai grandi mercati
ortofrutticoli.
Lo stesso sistema del caporalato, come sta emergendo anche da alcuni processi recentemente avviati, coinvolge intere organizzazioni criminali che controllano il territorio e quindi il mercato del lavoro, che diviene «mercato delle braccia» al costo
più basso.
Il caporalato, come lo conosciamo oggi, non è rappresentato dalla figura – nei paesi si diceva – del «sensale», che ti trovava marito e lavoro, ma è un vero e proprio business del quale fanno le spese i tanti lavoratori e lavoratrici, spesso extracomunitari,
sfruttati e costretti ad accettare qualsiasi condizione. Lo stesso reato di caporalato viene definito un «reato spia», nel senso che ad esso si associano spesso altri reati, quali
truffe per salari non pagati, sottrazione dei documenti, riduzione in schiavitù, ma anche sofisticazioni alimentari.
A conferma del fatto che stiamo parlando non di un marginale fenomeno, ma
di una pratica illegale di grande impatto, vi è anche il recente articolo 603 bis del
Codice penale (introdotto dal d.l. 13 agosto 2011, n. 138), che individua il caporalato quale reato penale punendolo con la reclusione da cinque a otto anni ed una
multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato. Una legge nuova ottenuta grazie alla grande mobilitazione della Cgil e della Flai, grazie a quella parte
del mondo politico che ha saputo ascoltare, e grazie soprattutto alle lotte dei lavoratori che da Nardò hanno fatto sentire la propria voce, alzando la testa e dicendo
no ai caporali.
L’articolo 603 bis è un tassello che va a comporre quello che deve essere l’insieme di norme e provvedimenti che ridisegnino un nuovo mercato del lavoro in agricoltura.
È necessario – questa la nostra proposta – che domanda e offerta di lavoro si «incontrino» in un luogo che sia pubblico, a partire proprio dal luogo fisico: un locale
dell’Inps, del Comune, della Regione. In queste sedi ed attraverso elenchi di prenotazione al lavoro sarà possibile un incontro trasparente e veloce tra domanda e offerta. Una modalità conveniente per le aziende, che, tramite quel canale ufficiale e legale, potrebbero avere accesso ad agevolazioni e premialità, e conveniente per il
lavoratore che si vedrà garantiti diritti, tutele ed un salario secondo contratto. In questo modo si agisce sugli strumenti che incentivano la buona occupazione, cioè qualità del lavoro e diritti dei lavoratori. In questo modo si va a colpire alla radice il mec-
L’analisi
canismo di controllo delle «braccia» e lo sfruttamento da parte della criminalità organizzata e delle aziende che usano simile canale.
Esempi anche normativi da cui partire già ne abbiamo: nella Regione Puglia sono state istituite le liste di prenotazione al lavoro, così come sono stati previsti incentivi
alle aziende che ad esse fanno ricorso.
Siamo convinti che un collocamento trasparente sia possibile e con esso un lavoro regolare e tutelato.
Per individuare gli strumenti di governo del mercato del lavoro stiamo portando
avanti un confronto con il mondo della politica e con le istituzioni, a partire dalle Regioni che hanno specifica competenza in materia e possono dare un contributo efficace e determinante.
Chiediamo che la politica faccia la sua parte, dando risposte ad una questione dalla quale non si può prescindere se veramente si vuole rilanciare il Paese nel segno dell’occupazione, dell’equità e dei diritti.
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■ L’analisi
Evoluzione del collocamento
e mercato del lavoro in agricoltura*
Massimiliano D’Alessio**
Premessa
Il lavoro dipendente in agricoltura costituisce una quota importante delle opportunità occupazionali fornite dal sistema economico del nostro Paese, sia in termini quantitativi che qualitativi. D’altronde il lavoro agricolo, diversamente da una
convinzione comune, non può essere semplicisticamente ridotto a lavoro saltuario
o tantomeno precario, ricordando la significativa diffusione di rapporti di lavoro a
tempo indeterminato e di altre forme che, sebbene inquadrate contrattualmente nell’ambito del tempo determinato, possono essere considerate, a pieno diritto, stabili e strutturali1.
Parallelamente i processi di trasformazione che riguardano il settore, chiaramente evidenziabili attraverso l’analisi dei risultati del 6° Censimento generale dell’agricoltura, determinano un radicale cambiamento anche in quelli che sono i meccanismi di funzionamento del mercato del lavoro agricolo con particolare riguardo
ai profili professionali richiesti dalle imprese del settore. Nell’agricoltura italiana, infatti, emerge la necessità di implementare nuovi modelli organizzativi per permettere alle imprese di affrontare le sfide del futuro: le occasioni offerte dalle nuove forme di attività agricole multifunzionali, il rafforzarsi del rapporto tra agricoltura e
territorio, il disaccoppiamento della politica agricola, l’evoluzione della filiera agroalimentare2.
Storicamente il settore agricolo in Italia è stato da sempre oggetto di specifici
accorgimenti normativi per il governo del mercato del lavoro. Il principale strumento messo in campo dal Legislatore ha riguardato l’implementazione del collocamento pubblico per l’avviamento al lavoro. Recentemente con il passaggio da
* Tratto da AE n. 12/2012. ** Fondazione Metes.
1 Confagricoltura, Il lavoro «vero» in agricoltura, Confagricoltura, Roma, 2009 (disponibile sul sito
(http://www.confagricoltura.it/ita/comunicazioni_produzione-editoriale/studi-e-ricerche/il-lavoro-vero-in-agricoltura.php).
2 Giovannini E., Il volto dell’agricoltura tra complessità e cambiamento, Rivista Agriregionieuropa, n. 31,
dicembre 2012, (disponibile sul sito http://agriregionieuropa.univpm.it/dettart.php?id_articolo=988).
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un assetto vincolistico e rigido verso la liberalizzazione si è registrato un crescente processo di affievolimento del ruolo dell’intervento statale per il governo del mercato del lavoro. Le norme sul collocamento ordinario sono state, infatti, oggetto
in questi ultimi anni di profonde innovazioni.
Con il d.lgs. n. 469 del 23.12.1997, le funzioni e i compiti relativi al collocamento e alle politiche attive del lavoro (collocamento ordinario, agricolo, spettacolo, obbligatorio, liste di mobilità) sono state conferite alle Regioni ed alle Province. Con lo stesso provvedimento normativo è stato, inoltre, previsto l’ingresso
dei privati (società, cooperative, associazioni e fondazioni…) nell’attività di mediazione tra domanda ed offerta di lavoro.
D’altronde il collocamento pubblico dell’avviamento al lavoro ha rappresentato
storicamente una delle grandi battaglie del movimento sindacale in agricoltura. La
richiesta di un ruolo attivo dello Stato nasceva, infatti, dalla richiesta delle organizzazioni sindacali di garantire il rispetto delle norme non discriminatorie nell’ottica
della difesa generale degli interessi collettivi. Queste lotte hanno caratterizzato tutto il secolo scorso permettendo la conquista di importanti provvedimenti normativi (legge 246 del 1949, legge n. 83 del 1970) che hanno fornito un fondamentale
contributo alla guerra al «mercato di piazza» che caratterizzava ampie aree agricole
del Paese.
In questo contesto il presente lavoro si pone un duplice obiettivo. Il primo riguarda
l’analisi delle specifiche criticità che riguardano il lavoro agricolo (paragrafo 1) approfondendo in particolare le evoluzioni che negli anni hanno riguardato la domanda
di lavoro formulata delle imprese in termini di specifici fabbisogni professionali (paragrafo 2). Il secondo obiettivo riguarda la ricostruzione delle evoluzioni normative che
in Italia hanno riguardato sia la normativa nazionale in materia sul collocamento agricolo (paragrafo 3) sia gli orientamenti adottati da alcune regioni che si segnalano per
la significativa presenza di lavoratori impegnati nel settore agricolo.
1. Le criticità e i caratteri del lavoro agricolo
1.1 La natura dei rapporti di lavoro e trend occupazionale
In Italia, secondo le stime di contabilità nazionale dell’Istat relative al 2011, il
settore dell’agricoltura conta 955,1 mila occupati, che costituiscono il 3,9% dell’occupazione totale (tab. 1). Gli occupati in agricoltura sono composti per il 54,3%
da dipendenti, mentre nel resto dell’economia questa quota sale al 76,8%. La quantità di lavoro utilizzata in agricoltura, espressa in unità di lavoro a tempo pieno (Ula),
è di un milione e 228,3 mila unità. Il rapporto fra unità di lavoro a tempo pieno
e occupati è pari a 1,28 mentre nel resto dell’economia è pari all’unità.
Questi dati evidenziano due importanti peculiarità del mercato del lavoro agricoche in particolare riguardano:
– la forte componente di lavoro indipendente, dovuta alla prevalenza della mano d’opera familiare e delle piccole aziende a conduzione diretta;
– la frammentarietà dei rapporti di lavoro, visto che un rapporto Ula/occupati superiore a 1 indica una consistente presenza di posizioni lavorative instabili.
lo3
Tabella 1 - Occupati dipendenti, indipendenti e totali in Agricoltura,
silvicoltura e pesca (in migliaia)
Anno
1970
1975
1980
1985
1990
1995
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
Dipendenti
1461,9
1282,8
1079,6
851,2
786,7
622,9
536,4
547
536,8
468,4
492,8
528,5
549,1
543,3
532,4
510,6
518,6
518,9
Agricoltura, silvicoltura e pesca
Indipendenti
2546,3
1993,5
1777
1317,6
903,2
693,3
566,5
563,2
542,7
540,9
529,7
490
489,6
470,6
459,3
450,4
455,9
436,2
Totale
4008,2
3276,3
2856,6
2168,8
1689,9
1316,2
1102,9
1110,2
1079,5
1009,3
1022,5
1018,5
1038,7
1013,9
991,7
961,0
974,5
955,1
Fonte: Istat, Conti economici nazionali 1970-2011.
3 Cnel, Rapporto sul Mercato del Lavoro 2003, Cnel, Roma, luglio 2004 (disponibile al sito
http://www.cnel.it/53?shadow_documenti=10618).
L’analisi
La quota dell’occupazione agricola sul totale dell’economia è caduta, nell’ultimo
decennio, a ritmi molto più blandi di quanto è accaduto nei precedenti anni. Ciò a
testimonianza dell’avanzato processo di riorganizzazione, che caratterizza questo settore dal secondo dopoguerra.
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1.2 Problemi di ricambio generazionale
L’indagine Forze Lavoro dell’Istat segnala che circa 5,9% degli occupati nel settore primario ha una età che supera i 65 anni di età (tab. 2). Per gli indipendenti impegnati in agricoltura questo dato si eleva al 10,6%. Secondo le statistiche, quindi,
per un’azienda su 10 si avvicina il momento del «passaggio generazionale». Si pone,
quindi, un problema di ricambio che in assenza di persone (familiari o meno) disposte
a subentrare nella gestione dell’azienda può voler significare la cessazione e l’abbandono dell’attività.
Tabella 2 - Occupati in agricoltura per classe d’età (2010)
Classi di età
15-24 anni
25-34
35-44
45-54
55-64
Totale 15-64
65 e oltre
TOTALE
Dipendenti
5,8%
21,8%
30,1%
28,4%
13,1%
99,3%
0,7%
100,0%
Agricoltura
Indipendenti
3,1%
12,4%
23,4%
29,4%
21,0%
89,4%
10,6%
100,0%
Totale
4,4%
16,9%
26,6%
29,0%
17,2%
94,1%
5,9%
100,0%
Fonte: Ns. elaborazione su Rilevazione sulle forze di lavoro, Istat.
I dati dell’indagine Forze Lavoro dell’Istat evidenziano inoltre la quota piuttosto limitata di occupati con età inferiore a 35 anni (21,3%). Ciò conferma i problemi di turnover generazionale nella forza lavoro che caratterizzano il settore agricolo italiano.
1.3 Ricorso a lavoratori migranti
Secondo le rilevazioni dell’Osservatorio sulle aziende e gli operai agricoli dell’Inps
nel 2011 erano circa 126 mila i lavoratori migranti impegnati nel settore agricolo italiano pari al 12,4% del totale della forza lavoro attiva in agricoltura4. La Figura 1 evidenzia la crescita registrata negli ultimi anni nella numerosità dei lavoratori migranti impegnati nel settore agricolo italiano.
4 Si tratta di lavoratori provenienti prevalentemente da Bangladesh, Marocco, India, Albania, Pakistan,
Malawi, Tunisia, Sri Lanka, ex-Jugoslavia. A questi bisogna aggiungere un numero altrettanto rilevante di lavoratori provenienti da Paesi neo-comunitari (in particolare Romania e Polonia) (Confagricoltura, 2009).
Fonte: Ns. elaborazioni su dati Inps, 2013.
La tabella 3 permette di fare delle considerazioni in merito ad alcune caratteristiche del lavoro migrante in agricoltura in Italia anche attraverso un confronto con le
peculiarità che in generale si rilevano nell’ambito del mercato del lavoro agricolo italiano. Le principali osservazioni che è possibile formulare riguardano:
– la netta prevalenza di soggetti di sesso maschile tra lavoratori migranti impegnati
nel settore agricolo italiano (80,0%). Questo dato si mostra con maggiore forza se
lo si paragona alla composizione di genere che caratterizza il totale dei lavoratori
impegnati in Italia nel settore primario (+18,2%);
– la predominanza di addetti sotto i 39 anni (62,2%) che caratterizza la popolazione dei lavoratori migranti impegnati nel settore agricolo italiano in controtendenza
rispetto ai valori che caratterizzano la forza lavoro complessivamente attiva in agricoltura in cui si registra una prevalenza degli over 40 (53,6%);
– un elevato grado precarietà nei rapporti di lavoro testimoniato da una netta prevalenza di lavoratori che svolgono un numero di giornate inferiore a 100 nel corso dell’anno. Si può, in particolare, osservare la maggiore incidenza tra i migranti dei lavoratori impegnati per meno di 50 giornate all’anno (+4,1%). D’altro canto
si registra tra i migranti una maggiore incidenza dei lavoratori con più di 150 giornate all’anno (+2,8%) a testimonianza dei processi di stabilizzazione che gradualmente coinvolgono in Italia anche i lavoratori migranti;
– questo processo di stabilizzazione dei rapporti di lavoro non è viceversa confermato
considerando i dati relativi alla numerosità dei lavoratori migranti titolari di un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Si rileva, infatti, una netta prevalenza degli operai a tempo determinato (88,2%) su quelli a tempo indeterminato (13,9%).
L’analisi
Figura 1 - Evoluzione della numerosità dei lavoratori migranti
in agricoltura nel periodo 2000-2011
a
e
105
15/2013 Materiale per un dibattito congressuale
a
e
106
Tabella 3 - I caratteri del lavoro migrante agricolo in Italia (2011)
Lavoratori migranti
in agricoltura
Totale lavoratori
in agricoltura
Diff. % tra
migranti e
tot. agricolt.
Sesso
Maschi
Femmine
101.100
25.307
80,0%
20,0%
630.946
390.074
61,8%
38,2%
18,2%
-18,2%
Classi di età
fino a 19
da 20 a 29
da 30 a 39
da 40 a 49
da 50 a 59
da 60 a 64
65 ed oltre
2.781
32.633
43.192
32.681
13.376
1.440
304
2,2%
25,8%
34,2%
25,9%
10,6%
1,1%
0,2%
26.351
203.826
243.195
277.977
204.483
41.014
24.174
2,6%
20,0%
23,8%
27,2%
20,0%
4,0%
2,4%
-0,4%
5,9%
10,4%
-1,4%
-9,4%
-2,9%
-2,1%
Giornate
lavorate
fino a 50 gg
da 51 a 100 gg
da 101 a 150 gg
oltre 150 gg
42.143
22.045
21.443
40.776
33,3%
17,4%
17,0%
32,3%
298.551
188.513
233.508
300.448
29,2%
18,5%
22,9%
29,4%
4,1%
-1,0%
-5,9%
2,8%
Categoria
OTD
OTI
111.443
17.622
88,2%
13,9%
894.613
126.407
87,6%
12,4%
0,5%
1,6%
Totale
126.407 100,00%
1.021.020 100,00%
Fonte: Ns. elaborazioni su dati Inps, 2012.
La tabella 4 permette di analizzare la distribuzione a livello territoriale dei lavoratori migranti impegnati nell’agricoltura italiana. La Regione con la maggiore numerosità di lavoratori migranti in agricoltura è l’Emila Romagna con circa
20,3 mila lavoratori. Seguono la Sicilia che occupa circa 13 mila lavoratori migranti
e la Lombardia con circa 11 mila occupati agricoli extracomunitari. In Toscana e
in Veneto i lavoratori migranti in agricoltura sono invece circa 10 mila. Le Regioni
con la minore numerosità di lavoratori migranti sono infine il Molise, la Sardegna e la Valle d’Aosta che occupano ciascuna meno di 600 lavoratori.
Le Regione con la maggiore incidenza di lavoratori migranti in agricoltura sono la Liguria (39,6% del totale), il Piemonte (27,2% del totale), l’Umbria e la
Lombardia (26,7% del totale). Quelle con la minore incidenza sono invece la
Sardegna (2,2% del totale), la Calabria (3,0% del totale), la Puglia (5,3% del
totale).
Tabella 4 - Distribuzione territoriale dei lavoratori migranti agricoli
nelle Regioni italiane (2011)
Piemonte
Valle d’Aosta
Lombardia
Trentino Alto Adige
Veneto
Friuli Venezia Giulia
Liguria
Emilia Romagna
Toscana
Umbria
Marche
Lazio
Abruzzo
Molise
Campania
Puglia
Basilicata
Calabria
Sicilia
Sardegna
Totale
8.843
386
13.062
3.019
10.437
1.799
2.229
20.352
10.858
3.478
3.474
9.516
3.960
536
6.534
9.308
2.145
4.103
11.871
497
126.407
7,0%
0,3%
10,3%
2,4%
8,3%
1,4%
1,8%
16,1%
8,6%
2,8%
2,7%
7,5%
3,1%
0,4%
5,2%
7,4%
1,7%
3,2%
9,4%
0,4%
100,0%
Totale lavoratori
in agricoltura
32.485
2.245
48.947
48.090
53.090
11.547
5.630
88.957
53.788
13.003
14.320
37.404
16.188
4.604
79.902
175.329
27.121
134.697
151.423
22.250
1.021.020
3,2%
0,2%
4,8%
4,7%
5,2%
1,1%
0,6%
8,7%
5,3%
1,3%
1,4%
3,7%
1,6%
0,5%
7,8%
17,2%
2,7%
13,2%
14,8%
2,2%
100,0%
Incidenza % dei
migranti sul tot.
lavoratori agric.
27,2%
17,2%
26,7%
6,3%
19,7%
15,6%
39,6%
22,9%
20,2%
26,7%
24,3%
25,4%
24,5%
11,6%
8,2%
5,3%
7,9%
3,0%
7,8%
2,2%
12,4%
Fonte: Ns. elaborazioni su dati Inps, 2012.
1.4 Emersione delle forme di lavoro nero e grigio
Secondo le stime fornite dall’Istat, in agricoltura si rileva un tasso di irregolari superiore a quello calcolato per i rimanenti comparti. Nel 2011, infatti, gli occupati non
regolari in agricoltura sono 354,2 mila, pari al 37,1% dell’occupazione totale del settore, mentre per le rimanenti attività economiche (Industria, Industria in senso
stretto, Costruzioni, Servizi) si stima un tasso d’irregolarità pari al 10,5%. In termini di unità di lavoro, cioè di input di lavoro calcolato secondo gli orari contrattuali
standard, la stima è di 305,2 mila unità, pari al 24,8% del totale, contro il 12,2% registrato nei rimanenti settori. Da queste prime evidenze si evince che il fenomeno del
sommerso in agricoltura è di proporzioni molto consistenti e ben al di sopra del tasso di irregolarità complessivo registrato per tutta l’economia (ed è tra i più alti a livello europeo).
L’analisi
Lavoratori migranti
in agricoltura
a
e
107
15/2013 Materiale per un dibattito congressuale
a
e
108
Tabella 5 - Tassi di irregolarità delle unità di lavoro in agricoltura, silvicoltura
e pesca, per ripartizione: 2001-2009
Nord-ovest
Nord-est
Centro
Mezzogiorno
Totale Italia
Fonte: Istat.
2001
15,4
17,1
20,0
25,0
20,9
2002
15,9
16,7
20,2
25,4
21,0
2003
14,4
14,2
17,0
22,0
18,3
2004
16,9
15,5
19,5
23,3
19,9
2005
19,0
18,1
21,8
25,3
22,2
2007
23,4
22,9
23,1
25,3
24,2
2008
24,8
24,7
21,8
25,0
24,5
2009
26,0
25,4
21,8
24,4
24,5
1.5 Bassi livelli di formazione agraria dei capi azienda
L’Italia è tra gli Stati membri con i più bassi livelli di formazione agraria dei capi
azienda. La tabella 6 riporta i dati relativi al grado di formazione professionale agraria dei capi azienda in Italia e in Europa. I dati forniti da Eurostat per l’anno 2005
mostrano che l’88,8% dei capi di azienda possiede una formazione esclusivamente
pratica ed il restante 11,2% una formazione agraria elementare (8,2%) o completa
(3,1%) (tab. 6). Questi dati evidenziano una disparità rispetto a quanto registrato per
UE27 dove il 20% dei capi azienda possiede una formazione agraria elementare o
completa.
Tabella 6 - Grado di formazione professionale agraria dei capi azienda in Italia
e in Europa (2005)
Italia
EU27
Esperienza agraria Formazione agraria Formazione agraria Formazione agraria
esclusivamente pratica
completa
elementare
elementare e completa
n.
%
n.
%
n.
%
n.
%
imprenditori
imprenditori
imprenditori
imprenditori
1.534.520 88,8%
53.110 3,1%
140.900 8,2%
194.010
11,2%
11.590.400 80,0%
1.236.070 8,5%
1.655.570 11,4%
2.891.640 20,0%
Fonte: Ns. elaborazione su dati Eurostat, 2005.
1.6 Salute e sicurezza sul lavoro
Il fenomeno infortunistico nel settore agro-forestale in Italia presenta una rilevanza significativa sia in termini assoluti, sia rispetto al settore dell’industria ed a
quello dei servizi, specialmente considerando il numero di infortuni occorsi per
numero di occupati. Secondo i dati ufficiali nel triennio 2007-2011 si è registrata una media di circa 52,2 mila incidenti annui nel settore agricolo-forestale, di
cui circa 115 mortali. Tra questi dati, poi, risulta essere rilevante ed in aumento
la percentuale di infortuni occorsi ai lavoratori stranieri impiegati nel settore agro-
forestale5 . Nel 2011 sono stati 5.824 gli infortuni occorsi a lavoratori stranieri impegnati in agricoltura con 14 casi mortali. La tabella 7 evidenzia, infine, un aumento delle malattie professionali. Questo fenomeno sarebbe, in particolare, dovuto all’aumento delle patologie dovute all’esposizione ad agenti chimici registrato
negli ultimi anni.
2011
46.963
55,3
107
0,135
7.971
2. La domanda di lavoro delle imprese agricole attraverso l’indagine Excelsior
L’elaborazione dei dati forniti dalle indagini Excelsior6 permette di indagare i caratteri e le evoluzione che nello specifico interessano la domanda di lavoro nel settore agricolo italiano. L’indagine in particolare fornisce informazioni utili ad analizzare sia sul piano quantitativo che su quello qualitativo i caratteri delle previsioni di
assunzioni di dipendenti stabili e di dipendenti stagionali dichiarate dalla imprese agricole italiane.
2.1 Assunzioni di dipendenti stabili
Il primo elemento da segnalare riguarda la ridotta incidenza delle imprese agricole che nel 2012 manifestavano l’intenzione di effettuare assunzioni di dipendenti stabili (3,8% del totale delle imprese con nuove assunzioni). Viceversa appare netta la
prevalenza delle aziende agricole che intendevano assumere personale saltuario e/o stagionale (89,2% del totale delle imprese con nuove assunzioni). La percentuale di imprese che nel 2012 intendevano assumere lavoratori stabili manifesta valori differenziati considerando le specializzazioni produttive. Ad esempio, le imprese della
5
Inail, Rapporto annuale 2011, Inail, luglio 2012.
Unioncamere - Ministero del Lavoro, Settore agricolo. Sistema informativo Excelsior. I fabbisogni professionali e formativi per il 2012, Unioncamere, Roma, 2012 (disponibile sul sito http://excelsior.unioncamere.net).
6
L’analisi
Tabella 7 - Infortuni avvenuti negli anni 2007-2011 nel settore agricolo
2007
2008
2009
2010
Infortuni in complesso
57.252
53.888
52.687
50.215
di cui indice di incidenza
62,0
61,6
62,1
57,9
Casi mortali
104
126
128
112
di cui indice di incidenza
0,113
0,145
0,151
0,129
Malattie professionali
1.650
1.832
3.926
6.389
Fonte: Inail, 2012.
a
e
109
15/2013 Materiale per un dibattito congressuale
a
e
110
silvicoltura si attestano su valori superiori al 7%, a fronte del 3% di chi svolge attività miste agricole e zootecniche. L’incidenza delle imprese che nel 2012 intendevano assumere lavoratori stabili appare diversificata anche livello territoriale. Nell’Italia centrale, infatti, la percentuale sale al 7,5%, mentre si riduce al 2% nel
Mezzogiorno, più orientato al lavoro stagionale anche in considerazione del diverso
mix produttivo. Un terzo delle imprese (33,8%) manifestano invece l’intenzione di
fare ricorso a contoterzisti (fenomeno più diffuso nel Centro-Nord che nel Mezzogiorno), mentre quattro quinti delle stesse (80,9%) intendono usufruire di consulenti
esterni.
Secondo l’indagine Excelsior 2012 la maggioranza delle imprese (60%) non valuta necessario, infatti, un ulteriore ricorso a dipendenti fissi in quanto ritiene che il
personale stagionale e/o saltuario sia in grado di sopperire completamente ai fabbisogni occupazionali. Parallelamente sono le imprese con fatturato in aumento, esportatrici e che hanno sviluppato nuovi prodotti/servizi nel corso del 2011 ad essere maggiormente interessate ad assumere personale stabile.
L’analisi del flusso di assunzioni di lavoratori stabili previsto per il 2012 fornisce
ulteriori informazioni. Innanzitutto secondo le previsioni di assunzione di dipendenti
fissi per il 2012 si evidenzia che saranno 9.200 le unità lavorative che saranno inserite nelle imprese agricole con contratti a tempo indeterminato. L’83% dei nuovi lavoratori stabili dovrebbe, in particolare, essere assunto da aziende con meno di 10 dipendenti. Sul piano delle specializzazioni produttive, la maggior parte dei nuovi assunti
stabili (7.000 unità, tre quarti del totale) dovrebbe trovare posto nelle aziende specializzate nelle coltivazioni agricole. Molto più contenute sono invece le nuove assunzioni di dipendenti stabili per aziende con specializzazione zootecnica (800 unità; 9%) e per quelle con servizi connessi all’agricoltura (700; 8%). Sul piano
territoriale, circa il 40% delle assunzioni di personale stabile programmato per il 2012
e previsto nel Mezzogiorno (3.600 unità). Un altro quarto (2.300 unità) dovrebbe avvenire nell’Italia centrale, mentre nel Nord Ovest e nel Nord Est sono previste
1.600-1.700 assunzioni.
L’indagine Excelsior 2012 permette, inoltre, una analisi dei saldi occupazionali considerando i dati relativi alle previsioni di uscita per il 2012. Per il 2012, in particolare, si registra un saldo occupazionale di lavoratori stabili (entrate meno uscite) negativo per un centinaio di unità. I saldi maggiormente negativi si riscontrano nella
silvicoltura (-2,1%), nelle attività miste agricole e zootecniche (-1,2%), nelle imprese con attività di noleggio di macchine agricole (-2%), in quelle con «altre» attività
secondarie (-1,4%) e senza attività secondarie (-1,3%). A livello territoriale i saldi occupazionali sono particolarmente negativi per le aziende del Nord Ovest (-1,1%). I
saldi occupazionali dei dipendenti stabili appaiono viceversa particolarmente positivi (+2,7%) per le imprese con attività di trasformazione/confezionamento dei pro-
Figura 2 - Saldi occupazionali di lavoratori stabili previsti nelle imprese agricole
con e senza attività secondarie - Anni 2006-2012 (valori percentuali)
L’analisi
dotti. Le restanti «categorie» presentano valori del saldo occupazionale moderatamente
positivi o prossimi allo zero.
Particolarmente significativo appare, inoltre, il divario tra l’andamento occupazione
delle imprese con attività secondarie e/o dedite ad attività innovative o emergenti e
quello delle imprese «tradizionali», che svolgono cioè esclusivamente l’attività agricola.
Infatti, il numero di entrate di dipendenti stabili previsto per le imprese «multifunzionali» è, nel 2012, pari a 5.800 unità (circa due terzi del totale), mentre per quelle senza attività secondarie non si superano le 3.400 unità.
Le maggiori prospettive occupazionali offerte dalle imprese «multifunzionali»
rappresentano ormai un carattere consolidato nel sistema agricolo nazionale. Negli
ultimi anni, infatti, pur con le eccezioni del 2008 e del 2011, le imprese con attività diversificate sono sempre riuscite a prevedere saldi occupazionali migliori delle imprese «strettamente agricole».
a
e
111
Fonte: Unioncamere, 2012.
2.2 Assunzioni di dipendenti di lavoratori stagionali e saltuari
I lavoratori stagionali e saltuari rappresentano la componente largamente maggioritaria del lavoro agricolo in Italia. L’indagine Excelsior prevede in particolare che
nel 2012 il ricorso a queste figure avrebbe raggiunto le 543mila unità, corrispondenti
a circa 361mila unità lavorative standard (Uls)7. Come si osserva dalla figura 3 il ricorso al lavoro stagionale ed avventizio manifesta negli anni un trend crescente evidenziando in particolare un aumento del 19% rispetto al 2005. Questo incremento
7 L’unità
lavorativa standard (Uls) è data dal rapporto tra il numero delle giornate complessive previste per i lavoratori stagionali e il numero delle giornate lavorative standard (posto convenzionalmente
uguale a 150 nell’arco dell’annata agraria).
15/2013 Materiale per un dibattito congressuale
è accompagnato da un progressivo aumento del numero di giornate per cui le imprese
prevedono che questi lavoratori vengano mediamente impiegati. Il numero medio di
giornate di lavoro previste pro capite è, infatti, passato da una media di 80 tra il 2001
e il 2003 a 94 nel 2012. Il maggior numero di giornate di lavoro pro capite è in particolare previsto nelle produzioni zootecniche, nella silvicoltura e nel florovivaismo e
coltivazioni di serra, attività caratterizzate da una maggiore continuità produttiva. Il
numero di giornate medie previste di impiego aumenta inoltre al crescere della dimensione di impresa. Sul piano territoriale si evidenzia che nel Nord Est il numero
di giornate previste di impiego per ciascun lavoratore stagionale (81 giornate) è inferiore al valore medio nazionale (94 giornate).
Figura 3 - Assunzioni stagionali previste dalle imprese (2005-2012)
a
e
112
Fonte: Unioncamere.
Per i lavoratori stagionali l’impiego di immigrati, a differenza di quanto avviene
per i lavoratori stabili, viene giustificato come una misura di adattamento alla mancanza di lavoratori locali. Questo risultato può essere evidenziato considerando l’ampio intervallo esistente tra l’ipotesi minima di assunzioni di immigrati (26% del totale) e quella massima (44%).
2.3 Analisi qualitativa del mercato del lavoro agricolo
L’indagine Excelsior 2012 permette di identificare in termini di professioni, di qualifiche richieste, di livello di formazione, di esperienza e di tipologie contrattuali le caratteristiche richieste per l’assunzione permettendo di svolgere una analisi dettagliata dell’evoluzione del mercato del lavoro anche sul piano qualitativo.
8
Sulla base della classificazione Istat 2011.
L’analisi
In merito alle professioni si ravvisa una significativa differenza tra assunzioni stabili e stagionali. Tra le prime, dal punto di vista dei gruppi professionali8, si evidenzia una maggiore richiesta di figure tecniche e commerciali (26,5% del totale
nel 2012), profili molto rari nella domanda che riguarda i lavoratori stagionali (2%
del totale) dove invece l’incidenza delle richiesta di personale non qualificato raggiunge il 39,5%, contro il solo 7,3% delle assunzioni stabili. Abbastanza simile nei
due insiemi si manifesta, invece, sia la domanda di «operai ed agricoltori specializzati» (52,3% tra gli «stabili», 45,6% tra gli stagionali) sia quella di conduttori
di impianti e macchinari agricoli (13,9% tra gli «stabili», 12,8% tra gli stagionali). Il flusso di assunzioni stabili previste per il 2012 si manifesta, quindi, con un
profilo molto orientato alla qualità professionale e ben differenziato rispetto a quello riguardante il lavoro stagionale che viceversa appare più orientato alle mansioni operative e «manuali».
Considerando nel dettaglio i dati relativi alle singole figure professionali si evidenzia che tra i lavoratori «stabili», la figura maggiormente richiesta risulta essere
quella dell’addetto alle coltivazioni agricole miste o non specificate (1.500 assunzioni di dipendenti stabili), seguita dal vivaista e dal cameriere nelle imprese agrituristiche (500 unità in entrambi i casi), dal conduttore di macchinari agricoli per
taglio e raccolta e dal viticoltore (400 ciascuna figura). Tra i lavoratori stagionali ed
avventizi emerge, invece, una marcata prevalenza della richiesta di operatori agricoli generici addetti alla raccolta (190mila unità; 35% delle previsioni complessive di assunzione di lavoratori stagionali). Nell’ambito di questo gruppo consistente appare, in particolare, la richiesta di coglitori di frutti e ortaggi (86mila unità),
di raccoglitori a mano di prodotti agricoli (50mila unità), di addetti alla raccolta
delle olive e di addetti alla raccolta dell’uva (28mila unità e 26,8 mila unità ciascuno). Nel gruppo degli operai specializzati addetti alle coltivazioni e agli allevamenti si segnala la richiesta di potatori (41mila unità), di addetti alle coltivazioni
agricole miste o non specificate (39mila unità), di viticoltori (29mila unità), di orticoltori (18mila unità), di vendemmiatori (15mila unità), di conduttori di macchine per la raccolta di prodotti agricoli, di vivaisti (13mila unità), di conducenti
di trattore agricolo (12mila unità), di olivicoltori (9mila unità) e di mungitori (8mila unità).
Come si può osservare dalla tabella 9 il livello di formazione prevalentemente richiesto per l’assunzione è quello del completamento della scuola dell’obbligo sia per
il personale stabile (61,7%) sia per quello stagionale ed avventizio (83%). Il possesso di una laurea o di un diploma è invece prevalentemente richiesto per le assunzioni di personale stabile. Al riguardo è interessante evidenziare la crescita nella domanda
a
e
113
15/2013 Materiale per un dibattito congressuale
a
e
114
di laureati e diplomati che riguarda il settore agricolo che, in particolare, tra le assunzioni stabili, è passata, infatti, dal 16% circa del 2004 al 28% del 2012. La quota di assunzioni stabili per cui viene richiesta una qualifica professionale è invece pari all’11%. Per le assunzioni di lavoratori stagionali ed avventizi la qualifica
professionale è invece richiesta nell’8,6% dei casi. La domanda di lavoratori in possesso di una qualifica professionale presenta comunque ampie oscillazioni di anno in
anno. La richiesta di questo requisito appare probabilmente connessa alla maggiore
o minore disponibilità di persone in uscita dai corsi attivati dalle Regioni dove l’impresa stessa si trova ad operare.
Tabella 8 - Assunzioni di dipendenti stabili e stagionali – Professioni (2012)
Professioni tecniche
Impiegati e professioni commerciali
Operai e agricoltori specializzati
Conduttori impianti e macchine
Personale non qualificato
Fonte: Unioncamere, 2012.
Assunzioni di dipendenti
stabili
6,8%
19,7%
52,3%
13,9%
7,3%
Assunzioni di dipendenti
stagionali
0,0%
2,1%
45,6%
12,8%
39,5%
Il requisito del possesso di una adeguata esperienza appare importante in circa metà delle assunzioni sia di lavoratori stabili (50,6%) sia di quelli stagionali e avventizi (51,7%) previste per il 2012. L’esperienza appare requisito fondamentale per l’assunzione del personale dedito a particolari tipologie di professioni (conduttore di
macchinari agricoli per taglio e raccolta, cantiniere, cameriere, ecc.), in cui l’esperienza dovrebbe garantire maggiore qualità nei processi di lavorazione o nei servizi
offerti.
Considerando, infine, le tipologie contrattuali tra le assunzioni stabili si segnala
un prevalente ricorso, secondo le previsioni occupazionali delle imprese agricole per
il 2012, ai contratti a tempo determinato (62% del totale delle assunzioni). Si segnala
che una parte delle assunzioni «a termine» (7%) sono previste nell’ottica di un periodo
di prova per nuovo personale da inserire poi stabilmente, assumendo quindi in realtà un certo carattere di ingresso «permanente». La quota delle assunzioni stabili che
prevedono la sottoscrizione di contratti a tempo indeterminato è pari invece al 37%
del totale.
Tabella 9 - Assunzioni di dipendenti stabili e stagionali – Livello di formazione,
qualifica professionale, esperienza (2012)
Assunzioni di dipendenti
stabili
Laurea o diploma di scuola media superiore
27,5%
Istruzione e qualifica professionale
10,7%
Scuola dell’obbligo
61,7%
Possesso di esperienza
50,6%
Fonte: Unioncamere, 2012.
Assunzioni di dipendenti
stagionali
8,4%
8,6%
83,0%
51,7%
Il «collocamento» consiste nell’attività di mediazione fra domanda ed offerta di lavoro. Questa attività è stata storicamente oggetto di differenti approcci regolativi. Nel
periodo liberale «pre-corporativo il collocamento era svolto da soggetti pubblici operanti a livello statale e locale, da agenzie private e da associazioni sindacali. Nel periodo fascista «corporativo» viene introdotto un monopolio pubblico del collocamento
con conseguente divieto di mediazione privata anche senza fini di lucro. Nell’epoca
repubblicana si susseguono diversi interventi legislativi finalizzati a introdurre sostanziali modifiche al sistema del collocamento.
Negli anni ’40 con l’adozione della legge 264/19499 (Legge Fanfani) viene adottato un modello «vincolistico-statuale». Si tratta, in particolare, di un sistema fortemente burocratico e accentrato a livello ministeriale. La Legge Fanfani prevedeva, infatti, che il collocamento fosse svolto in regime di monopolio da parte dello Stato
(natura pubblica dell’attività). Le funzioni erano svolte esclusivamente dagli uffici periferici del Ministero del lavoro senza coinvolgimento degli enti locali (natura accentrata). La Legge Fanfani prevedeva, infine, che – salvo poche eccezioni – ogni lavoratore fosse assunto obbligatoriamente (natura vincolistica) tramite l’ufficio di
collocamento. Il collocamento si configurava inoltre come una attività di mediazione di natura impersonale perché finalizzata esclusivamente alla soddisfazione delle cosiddette «richieste numeriche» formulate dalle imprese. La Legge Fanfani prevedeva
infine sanzioni penali per chiunque esercitasse la mediazione in violazione delle disposizioni di legge (art. 27, comma 1), vietava l’esercizio della mediazione privata e imponeva ai datori di lavoro di assumere solo i lavoratori iscritti nelle liste di collocamento (art.11, comma 2).
9 Legge 29 aprile 1949, n. 264 «Provvedimenti in materia di avviamento al lavoro e di assistenza dei
lavoratori involontariamente disoccupati» (Gu n.125 del 1-6-1949 - Suppl. Ordinario).
L’analisi
3. La disciplina del collocamento in Italia: una breve ricostruzione storica
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Con l’entrata in vigore dello legge 300/197010 (Statuto dei lavoratori) viene previsto un temporaneo rafforzamento del «controllo sindacale» sulle assunzioni. Gli artt.
33 e 34 rendono infatti obbligatorie le commissioni locali a partecipazione sindacale. Queste commissioni sostituiscono gli uffici del collocamento nelle funzioni di compilazione delle graduatorie e di concessione dei nulla-osta per le chiamate nominative. Con lo Statuto dei lavoratori viene, inoltre, introdotto l’obbligo del nulla-osta
anche per i passaggi diretti da un’azienda ad un’altra ed una norma di limitazione delle richieste nominative che divengono ammissibili solo per i componenti del nucleo
familiare del datore di lavoro, per i lavoratori di concetto e per gli appartenenti a categorie di prestatori di lavoro altamente specializzati.
Fra gli anni ’80 e i primi anni ’90 viene introdotto il modello «flessibile». La legge 56/198711 propone l’adozione di un approccio decentrato attraverso una maggiore
integrazione fra Stato e Regione, la riorganizzazione della Commissione regionale e
l’istituzione dell’Agenzia regionale per l’impiego. Successivamente con la legge
223/199112 viene introdotto – con carattere di quasi generalità – l’obbligo di chiamata nominativa salvo nulla osta dell’ufficio di collocamento, con il limite della cosiddetta riserva per le fasce deboli.
Gli ultimi anni si caratterizzano per l’adozione di un modello «aperto e decentrato». Con l’adozione della legge 608/199613 viene infatti decretata la generalizzazione della regola dell’assunzione diretta, con comunicazione successiva all’ufficio di collocamento. La chiamata numerica viene quindi relegata ad una funzione di assoluta
marginalità (art. 9- bis). La conseguenza di questo nuovo approccio è la destabilizzazione dell’intera struttura organizzativa del collocamento che tende ad assumere una
funzione meramente certificatoria. Successivamente la legge 196/199714 (pacchetto Treu) infligge un altro duro «colpo» al sistema vincolistico-statuale introducendo,
per la prima volta, la possibilità di istituire le «agenzie private di fornitura di lavoro
temporaneo» e le «agenzie di mediazione» finalizzate allo svolgimento dell’attività di
mediazione di manodopera.
10
Legge 20 maggio 1970, n. 300 «Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento» (Gu n. 131 del 275-1970).
11 Legge 28 febbraio 1987, n. 56 «Norme sull’organizzazione del mercato del lavoro» (Gu n. 51 del 33-1987 - Suppl. Ordinario).
12 Legge 23 luglio 1991, n. 223 «Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro» (Gu n. 175 del 27-7-1991 - Suppl. Ordinario n. 43).
13 Legge 28 novembre 1996, n. 608 «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 1° ottobre 1996, n. 510, recante disposizioni urgenti in materia di lavori socialmente utili, di interventi a sostegno del reddito e nel settore previdenziale» (Gu n. 281 del 30-11-1996 - Suppl. Ordinario n. 209).
14 Legge 24 giugno 1997, n. 196 «Norme in materia di promozione dell’occupazione» (Gu n. 154 del
4-7-1997 - Suppl. Ordinario n. 136).
15
Sentenza della Corte (Sesta Sezione) dell’11 dicembre 1997 - Job Centre coop. arl. - Domanda di
pronuncia pregiudiziale: Corte d’appello di Milano - Italia. - Libera prestazione dei servizi - Attività di
collocamento dei lavoratori - Esclusione delle imprese private - Esercizio dei pubblici poteri. - Causa
C-55/96.
16 Legge Costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 «Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione» (Gu n. 248 del 24-10-2001).
17 Decreto Legislativo 10 settembre 2003, n. 276 «Attuazione delle deleghe in materia di occupazione
e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30» (Gu n. 235 del 9-10-2003 - Suppl. Ordinario n. 159).
18 Legge 28 giugno 2012, n. 92 «Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita» (Gu n. 153 del 3-7-2012 - Suppl. Ordinario n. 136).
L’analisi
Nel contempo, la sentenza Job Centre II15 della Corte di Giustizia delle Comunità europee, introducendo l’incompatibilità del monopolio pubblico del collocamento con i principi comunitari in materia di libera concorrenza, promuove, di fatto, una ulteriore accelerazione al processo di riforma.
Con l’approvazione della riforma costituzionale16 le funzioni e i compiti in materia di collocamento, dei servizi per l’impiego e di politiche attive del lavoro che
attraverso il cosiddetto federalismo amministrativo erano semplicemente «delegate» alle Regioni vengono incluse – secondo la più diffusa interpretazione del nuovo testo dell’art. 117 della Costituzione – nella potestà legislativa concorrente delle Regioni. Ne consegue che, salvo il rispetto dei «principi fondamentali» contenuti
nelle leggi statali, le Regioni possono diversificare, con loro leggi, i regimi di collocamento, i servizi per l’impiego ed attuare politiche attive del lavoro tra di loro
«competitive».
In seguito è intervenuto il d.lgs. 276/200317 che ha attuato le deleghe in materia
di occupazione e mercato del lavoro di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30 (Legge
Biagi). La nuova disciplina ha modificato nuovamente il sistema del collocamento,
al quale partecipano adesso a pieno titolo anche i privati. In seguito alla riforma del
sistema del collocamento, qualsiasi datore di lavoro può procedere all’assunzione diretta di un lavoratore e ha unicamente l’obbligo di effettuare una comunicazione dell’avvenuta assunzione al servizio per l’impiego competente, comunicazione che deve contenere una serie di informazioni, quali i dati anagrafici del lavoratore, la data
di assunzione, la tipologia contrattuale, la qualifica professionale e il trattamento economico e normativo.
Recentemente l’approvazione della legge 92/201218 (Riforma Fornero) propone
diverse novità in materia di servizi per l’impiego (livelli essenziali delle prestazioni, procedure uniformi in materia di accertamento dello stato di disoccupazione, integrazione tra sistemi informativi in favore dell’occupazione e monitoraggio dei servizi erogati) e politiche attive del lavoro che secondo le intenzioni del legislatore sarebbero
finalizzate a rafforzare il ruolo dei servizi pubblici per l’impiego in un più ampio qua-
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dro di politiche attive per la prevenzione della disoccupazione di lunga durata. L’ampio insieme di argomenti che secondo la legge 92/2012 rimangono delegati al governo per la successiva emanazione di decreti di riordino permette di comprendere
come il percorso di riforma dei servizi per l’impiego sia destinato a subire nei prossimi anni ulteriori significative evoluzioni.
4. Evoluzioni normative nel collocamento agricolo
Il Decreto Legislativo del Capo Provvisorio dello Stato n. 929 del 16 settembre
1947 «Norme circa il massimo impiego di lavoratori agricoli» rappresenta il primo
provvedimento in materia di collocamento agricolo. Il decreto 929/1947 introduce
il cosiddetto «imponibile di manodopera» disponendo che i prefetti potessero «stabilire con proprio decreto, l’obbligo per i conduttori a qualsiasi titolo di aziende agrarie o boschive di assumere la mano d’opera da adibirsi nell’annata agricola o durante
le singole stagioni di essa alla coltivazione, alla manutenzione ordinaria o straordinaria
dei fondi, delle vie di accesso e delle piantagioni nonché all’allevamento di bestiame».
Con il decreto del prefetto veniva, inoltre, precisato «il massimo carico obbligatorio
di giornate lavorative per ettaro coltura» ed «i criteri per la determinazione del numero delle unità lavorative disoccupate da assegnarsi ad ogni azienda». Il decreto
929/1947 provvedeva inoltre ad istituire le Commissioni provinciali e comunali per
la massima occupazione in agricoltura. Alle Commissioni comunali era assegnato il
compito di compilare:
– l’elenco dei lavoratori disoccupati agricoli ripartendoli per gruppi di specializzazione
agricola e per categorie professionali secondo lo stato di famiglia;
– l’elenco delle aziende agricole esistenti nel territorio del Comune, della relativa superficie e qualità delle colture, delle forme di conduzione e del numero dei lavoratori stabilmente occupati nelle aziende.
Le Commissioni comunali avevano il potere di assegnare nominativamente alle varie aziende i lavoratori disoccupati.
La Commissione provinciale aveva, invece, il compito di esaminare ed approvare
in via definitiva gli elenchi trasmessi dalle Commissioni comunali, apportando le modifiche necessarie frutto di eventuali reclami. Alla Commissione provinciale spettava, inoltre, il compito di proporre al prefetto l’adozione di provvedimenti ad hoc. La
Commissione provinciale aveva inoltre il compito di contribuire alla definizione dei
criteri:
– per il carico massimo obbligatorio di giornate lavorative per ettaro coltura;
– per la determinazione del numero delle unità lavorative;
– per l’avviamento al lavoro dei lavoratori disoccupati, in relazione alla loro situazione
familiare e al loro stato di bisogno;
19
Legge n. 264 del 29 aprile 1949, «Provvedimenti in materia di avviamento al lavoro e di assistenza
dei lavoratori involontariamente disoccupati».
20 L’obbligo non riguardava:
1) il coniuge, i parenti e gli affini non oltre il 3° grado del datore di lavoro;
2) il personale avente funzioni direttive;
3) i lavoratori di concetto o specializzati assunti mediante concorso pubblico;
4) i lavoratori esclusivamente a compartecipazione, compresi i mezzadri ed i coloni parziari;
5) i domestici, i portieri, gli addetti a studi professionali e tutti coloro che sono addetti ai servizi familiari;
6) i lavoratori destinati ad aziende con non più di tre dipendenti oppure ad aziende rurali con non
più di sei dipendenti, limitatamente a zone mistilingui o montane.
21 La richiesta nominativa da parte delle aziende era ammessa:
L’analisi
– per il calcolo delle disponibilità di mano d’opera delle aziende condotte da coltivatori diretti e da mezzadri e coloni parziari.
Il decreto 929/1947 prevede infine sanzione per i lavoratori e le aziende inadempienti.
Successivamente la Corte costituzionale, con sentenza 16 - 30 dicembre 1958, n.
78 ha dichiarato «la illegittimità costituzionale delle norme contenute nel decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 16 settembre 1947, n. 929, ratificato con
legge 17 maggio 1952, n. 621, in riferimento agli articoli 38, 41, 42, 44 della Costituzione».
La prima normativa in materia di collocamento agricolo è completata dalla legge19
264/1949. La legge 264/1949 provvedeva ad introdurre una disciplina generale per
l’avviamento al lavoro prevedendo l’obbligo di iscrizione alle liste di collocamento presso gli Uffici provinciali del lavoro e della massima occupazione per «chiunque aspiri
ad essere avviato al lavoro alle dipendenze altrui». Secondo la legge 264/1949 potevano essere iscritti nelle liste di collocamento solo i soggetti in possesso «dell’età stabilita dalla legge per essere assunti al lavoro» e muniti «del libretto di lavoro o del certificato sostitutivo». Le iscrizioni nelle liste di collocamento dovevano essere eseguite
secondo l’ordine di presentazione della richiesta raggruppando i lavoratori per settori di appartenenza, per categorie professionali e per qualifica o specializzazione. La legge 264/1949 disponeva, inoltre, il divieto dell’esercizio della mediazione anche se gratuito essendo il collocamento esclusivamente demandato agli Uffici autorizzati.
Parallelamente esisteva l’obbligo per i datori di lavoro di assumere i lavoratori solo tra
quelli iscritti nelle liste di collocamento20. Era, invece, ammesso il passaggio del lavoratore direttamente e immediatamente dall’azienda nella quale era occupato ad
un’altra.
Per le aziende che intendevano assumere lavoratori era disposto l’obbligo di fare
richiesta all’Ufficio competente per la circoscrizione dove si dovevano svolgere i lavori. Nella richiesta le aziende dovevano precisare il numero dei lavoratori necessari
per categoria e per qualifica professionale21.
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Gli Uffici del collocamento erano tenuti a rispondere alle istanze delle aziende avviando i lavoratori nel numero, nella categoria e nella qualifica professionale richiesta. Gli Uffici avevano inoltre il compito di verificare che le condizioni offerte ai nuovi assunti fossero conformi alle tariffe e ai contratti collettivi. I lavoratori che
risiedevano nella località nella quale si sarebbero svolti i lavori erano preferiti nell’avviamento al lavoro.
La legge 264/1949 introduceva inoltre alcune comunicazioni obbligatorie. Le comunicazioni riguardavano:
– i lavoratori iscritti nelle liste di collocamento che avevano l’obbligo di dichiarare
all’Ufficio competente la permanenza nel loro stato di disoccupazione;
– gli Uffici competenti che dovevano inviare una comunicazione di avviamento al
lavoro al lavoratore ed al datore di lavoro a cui veniva contestualmente restituito
il libretto di lavoro o il certificato sostitutivo;
– il datore di lavoro che era tenuto a dare comunicazione nominativa per l’eventuale
convalida delle assunzioni effettuate, indicandone i motivi e le condizioni di lavoro
all’Ufficio competente.
La legge 264/1949 provvede infine ad istituire i seguenti organismi collegiali attivi nell’ambito del sistema del collocamento:
– la Commissione centrale per l’avviamento al lavoro e per l’assistenza dei disoccupati. La Commissione esprime pareri sull’organizzazione dei servizi del collocamento e sull’identificazione dei criteri per la priorità all’avviamento al lavoro. Alla Commissione spetta il compito di risolvere eventuali contenziosi derivanti
da potenziali ricorsi presentati contro decisioni assunte dalle Commissioni provinciali.
– la Commissione provinciale per il collocamento. La Commissione che è istituita presso l’Ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione esprime indirizzi in merito ai criteri di classificazione professionale dei lavoratori iscritti alle
liste e sulle procedure per la loro mobilità settoriale e categoriale. La Commissione esprime, inoltre, pareri in merito alla legittimità delle richieste nominative di
assunzione di lavoratori e sui ricorsi presentati contro le decisioni assunte dai servizi di collocamento in merito alla compilazione delle liste di collocamento e alle
procedure di avviamento adottate.
a) per tutti i lavoratori destinati ad aziende che non abbiano stabilmente più di cinque dipendenti e per i lavoratori destinati ad altre aziende, nei limiti di un decimo, sempre che la richiesta sia per
un numero di unità superiore alle nove;
b) per i lavoratori di concetto oppure aventi una particolare specializzazione o qualificazione;
c) per il personale destinato a posti di fiducia connessi con la vigilanza e la custodia della sede di opifici, di cantieri, o comunque di beni dell’azienda;
d) per il primo avviamento di lavoratori in possesso di titoli di studio rilasciati da scuole professionali.
22
Legge n. 83 dell’11 marzo 1970, «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 3 febbraio 1970, n. 7, recante norme in materia di collocamento e accertamento dei lavoratori agricoli».
23 G. Roma, A. Vino, «Collocamento e previdenza nel mercato del lavoro agricolo», in M.G. Garofalo, C. Lagala (a cura di), Collocamento e mercato del lavoro.
L’analisi
– gli Uffici provinciali del lavoro e della massima occupazione. Gli Uffici svolgono il servizio del collocamento. Nei centri industriali ed agricoli più importanti
della provincia è prevista l’istituzione di Sezioni di collocamento distaccate. Nei
Comuni dove se ne ravvisi la necessità possono essere attivi dei Collocatori. Mediante decreto prefettizio e su richiesta della Commissione provinciale può essere istituita presso ogni servizio di collocamento una Commissione di collocamento. La Commissione definisce la graduatoria delle precedenze per l’avviamento
al lavoro.
Tra i contenuti della legge 264/1949 più rilevanti in materia di collocamento agricolo si ricorda la possibilità che era offerta alle Commissioni comunali per l’attività agricola attive di predisporre dei turni di lavoro a rotazione finalizzati a promuovere una compensazione tra tutti gli iscritti al collocamento delle categorie dei
braccianti. Questo provvedimento era assunto nelle zone con problemi occupazionali per consentire un equo accesso al lavoro da parte di tutti i lavoratori agricoli presenti nell’area territoriale. L’altro provvedimento in materia di collocamento
agricolo riguardava l’adozione da parte dei Servizi di collocamento di una preferenza
per i lavoratori provenienti da località vicine a quelle in cui essi erano competenti. Questo provvedimento adottato dalle Commissioni di collocamento solo in specifici casi riconosceva la necessità di una mobilità territoriale dei braccianti agricoli
giustificata dalla spinta specializzazione produttiva territoriale che caratterizzava l’agricoltura nazionale.
La materia del Collocamento agricolo viene riformata per la prima volta negli anni Settanta con la legge 83/197022. La legge di riforma era finalizzata al «superamento
della normativa prevista dalla legge 264/1949. Questa risultava largamente inadeguata
per le caratteristiche e le peculiarità del mercato del lavoro agricolo e pertanto ampiamente elusa permettendo nei fatti la sopravvivenza del mercato di piazza23«. La legge 83/1970 era stata ottenuta come risultato di una forte ondata di mobilitazioni bracciantili che aveva avuto luogo alla fine degli anni ’60. Essa si inseriva, inoltre, in
quell’insieme di scelte legislative avanzate in materia di lavoro che trovavano la loro
espressione più compiuta nello Statuto dei lavoratori (legge n. 300 del 20 maggio
1970).
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Figura 4 - Organismi del Collocamento e del Collocamento agricolo nel decreto
929/1947 e nella legge 264/1949
Fonte: Ns. elaborazioni.
La legge n. 83/1970 viene considerata come una svolta storica in tema di indirizzi normativi in materia di collocamento in agricoltura. La nuova normativa si poneva, infatti, l’obiettivo del superamento dalla legislazione precedente (legge
164/1949) che, mal adattandosi alle caratteristiche del mercato del lavoro agricolo,
risultava largamente disattesa e permetteva il permanere della sopravvivenza del mercato di piazza.
Tra i capisaldi della nuova normativa ricordiamo:
1) l’introduzione delle commissioni territoriali ai vari livelli che rappresentano gli
strumenti della gestione democratica del collocamento. La legge n. 83/1970 superando le disposizioni della legge 164/1949 introduce un sistema di gestione decentrato nell’ottica di creare una migliore rispondenza tra le esigenze delle diverse realtà produttive agricole nazionali. In particolare la normativa di riforma del
collocamento agricolo prevedendo un trasferimento delle competenze alle commissioni a partecipazione sindacale propone una trasformazione del collocamento da «burocratico» a «democratico». Nella costruzione del nuovo sistema non ci
sono più gli uffici del lavoro e le loro sezioni locali, ma il nuovo strumento delle
commissioni miste a maggioranza sindacale. La legge n. 83/1970 permette, infatti,
l’introduzione di commissioni a livello regionale alle quali, in relazione alle particolari condizioni dell’agricoltura a livello territoriale, vengono affidati i compiti di
proporre annualmente una previsione del fabbisogno regionale di manodopera agricola nonché le conseguenti azioni in materia di formazione professionale. Alle commissioni regionali viene, inoltre, data la possibilità di impartire direttive in mate-
L’analisi
ria di compensazione territoriale e di mobilità e di determinare, sentite le commissioni provinciali, le particolari specializzazioni per le quali è consentita la richiesta
nominativa, fissando anche i criteri per la documentazione necessaria e per l’accertamento del possesso dei requisiti professionali richiesti. La normativa di riforma, rispetto alle disposizioni della legge 164/1949 promuove un maggiore protagonismo delle commissioni provinciali. Ad esse infatti vengono attributi due
importanti compiti. In primo luogo quello di fissare i criteri per la documentazione
e l’accertamento dell’effettivo possesso della qualifica professionale dichiarata dal
lavoratore al momento dell’iscrizione nelle liste. Il secondo compito riguarda l’identificazione delle aree territoriali in cui, tenuto conto dell’elevato livello di disoccupazione, è previsto che l’avviamento al lavoro possa avvenire non solo secondo
il criterio dell’anzianità di iscrizione nelle liste ma anche in base allo stato di bisogno. La legge 83/1970 prevede, infine, specifiche competenze per la commissioni locali. Ad esse vengono, infatti, assegnati diversi compiti per la gestione diretta
del collocamento. Le commissione locali si occupano della compilazione dell’aggiornamento periodico della graduatoria, del rilascio del nulla-osta di accoglimento
delle richieste nominative, della convalida degli avviamenti nominativi possibili nei
casi di motivate situazioni di urgenza, della formulazione delle previsioni annuali locali del fabbisogno di manodopera, della compilazione degli elenchi nominativi dei lavoratori dipendenti agricoli ammessi ai benefici previdenziali. La commissione locale è un elemento cruciale del sistema di collocamento agricolo
previsto dalla legge 83/1970 per la facoltà attribuitale di intervenire direttamente
ed efficacemente sul mercato del lavoro comunale.
2) gli strumenti per la programmazione e la gestione del mercato del lavoro. La legge 83/1970 introduce specifici strumenti di intervento attivo sul mercato del lavoro. Lo strumento principale proposto è il piano colturale aziendale. Esso consiste in una dichiarazione che i conduttori di aziende di dimensioni medie e grandi
devono presentare annualmente alle sezioni locali dell’ufficio del lavoro per rendere nota la loro previsione di utilizzo della manodopera nell’annata agraria specificando le qualifiche richieste e la quantità in termini di giornate di lavoro ritenute approssimativamente necessaria. La normativa prevede che i piani vengano
trasmessi alla commissione regionale competente per fornire ad essa le informazioni
necessarie alla definizione delle direttive di compensazione territoriale e per formulare le previsioni di fabbisogno della manodopera a livello regionale. Con i piani colturali il legislatore intende promuovere un superamento dalla funzione burocratica del collocamento di mero luogo di incontro tra domanda e offerta di
manodopera introducendo uno strumento per la programmazione della mobilità territoriale dei braccianti in cerca di occupazione e per la razionalizzazione dei
flussi e della disponibilità di manodopera. Secondo il legislatore il piano coltura-
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le doveva, inoltre, permettere una migliore correlazione tra disciplina dell’avviamento, gestione della mobilità territoriale e controllo sociale sulle singole imprese agricole i cui piani di sviluppo (con i relativi impegni occupazionali) dovevano
essere coordinati con le generali previsioni di fabbisogno di manodopera. I piani
colturali rappresentavano, infine, l’occasione per le organizzazioni sindacali per aprire un confronto con le aziende sulle scelte di sviluppo imprenditoriale. I piani colturali potevano infatti costituire lo strumento di informazioni e l’occasione di controllo sulle scelte aziendali promuovendo l’intervento attivo dei rappresentanti
sindacali sugli investimenti e sulle scelte produttive aziendali.
3) la disciplina degli avviamenti. La legge 83/1970 non prevede sostanziali modifiche in merito alla disciplina degli avviamenti. Gli avviamenti, infatti, continuano
a basarsi sul criterio numerico che nella nuova normativa viene ulteriormente rafforzato allo scopo di eliminare l’eccessiva facilità di eluderlo. L’imprenditore come
previsto già nell’ambito della legge 264/1949 ha, infatti, l’obbligo di assumere i lavoratori agricoli esclusivamente attraverso gli uffici di collocamento con richiesta
di manodopera numerica e per qualifica. Le commissioni locali per rispondere a
tale richiesta fanno riferimento alla lista avviando al lavoro in base all’anzianità di
iscrizione o allo stato di bisogno, nelle situazioni territoriali dove è previsto il riferimento a tale criterio. Con la legge 83/1970 viene sancito un ulteriore forte ridimensionamento della possibilità di assumere direttamente la manodopera. Con la
legge 83/1970 viene infatti eliminata anche la possibilità prevista dalla legge
264/1949 del passaggio diretto di manodopera da azienda ad azienda che permettendo l’elusione di azioni di controllo nel passato aveva permesso di mascherare assunzioni nominative. Viceversa la legge 83/1970 limita le fattispecie per le
assunzioni dirette alle seguenti situazioni specifiche:
a) assunzione da parte di imprese diretto coltivatrici di un solo bracciante per non
più di cinquantuno giornate;
b) assunzione da parte di imprese diretto coltivatrici di parenti entro il terzo grado e di affini entro il secondo;
c) casi in cui si manifesti l’urgente necessità di evitare danni alle persone, alle scorte vive, agli impianti e ai beni prodotti (art. 13). Il rapporto di lavoro si estingue allorché cessano i motivi di urgenza.
La legge 83/1970 ridimensiona la possibilità di assunzione con richiesta nominativa limitandola solo alle mansioni impiegatizie, a particolari categorie di lavoratori specializzati, individuate dalle commissioni regionali per la manodopera agricola.
4) le sanzioni. L’art. 20 della legge 83/1970 introduce, infine, specifiche modifiche
in merito alle sanzioni comminate in caso di inadempienze. Oltre alle normali sanzioni pecuniarie viene sancita, per la prima volta, la possibilità di escludere dai fi-
24
Pugliese E., Governo formale e governo informale del mercato del lavoro: uffici di collocamento e caporalato, in «I braccianti agricoli in Italia», Franco Angeli Editore, Milano, 1984.
25 Marucci L., Collocamento e tutela del contraente debole: riflessioni alla luce della legge 11 marzo 1970,
n. 83, «Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale», n. 1, 1974.
L’analisi
nanziamenti pubblici le imprese che violino ripetutamente la legge. In altre parole le pubbliche amministrazioni competenti possono escludere il datore di lavoro
trasgressore dalla concessione di contributi, agevolazioni fiscali e creditizie per un
periodo massimo di cinque anni.
La legge 83/1970 è stata considerata sotto diversi punti di vista uno strumento
normativo dai contenuti avanzati24. La riforma degli anni Settanta non ha però sostanzialmente raggiunto il suo obiettivo principale riguardante l’eliminazione del mercato di piazza. Le ragioni di questo fallimento appaiono connesse ad alcune specifiche criticità. La prima riguarda la scelta delle imprese di disattendere l’obbligo di
presentazione dei piani colturali. Anche nei rari casi in cui i piani venivano presentati indicavano fabbisogni di manodopera giudicati di gran lunga inferiori a quelli
effettivi. In questa situazione non è stato possibile operare con i piani colturali sui
livelli occupazionali attraverso le commissioni le quali non potevano, infatti, disporre
delle informazioni necessarie. Le imprese si sono trovate nelle condizioni di poter
agire in completa deroga dalla legge sia perché non erano previste specifiche sanzioni
sia per il fatto che le organizzazioni sindacali non sono state in grado di dimostrare
la forza sufficiente ad imporre attraverso azioni specifiche il rispetto di quanto previsto dalla normativa. La seconda criticità riguarda il ruolo che la normativa riconosceva alle organizzazioni sindacali. Le Commissioni comunali e territoriali prevedevano infatti una presenza maggioritaria del sindacato per garantire alle
organizzazioni di svolgere una funzione di indirizzo e di controllo sul funzionamento
del collocamento agricolo. Nei fatti questa funzione risultava disattesa e alle commissioni veniva riservato il compito di pura e semplice registrazione ex post di una
realtà del mercato del lavoro il cui funzionamento prescindeva dagli uffici del collocamento. Il Sindacato inoltre registrava difficoltà organizzative nel mettere in campo una presenza capillare sul piano territoriale per permettere l’effettivo funzionamento delle commissioni. Queste difficoltà appaiono evidenti se si pensa che solo
sul piano della presenza per il Sindacato era necessario garantire la designazione di
ben 30.000 rappresentanti.
Un ultimo problema riguardava la complessità dei compiti25 che la normativa assegnava sia alle commissioni territoriali (compilazione liste, avviamento, accertamento
qualifiche, aggiornamento graduatorie, nulla osta, richieste nominative, revisione liste per fini previdenziali) sia a quelle regionali (autorizzazione assunzione fuori dai Comuni di residenza). Si trattava infatti di funzioni e di procedure molto complesse ed
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articolate da gestire, peraltro, con una controparte poco disponibile alla sua attuazione26.
Le criticità esposte in precedenza inspirano negli anni Novanta la nuova riforma
del collocamento agricolo. Dopo un lungo ed articolato confronto tra le parti sociali nel novembre del 1996 viene approvata con la legge n. 608/1996 una nuova riforma
del collocamento agricolo. Le novità introdotte con la nuova riforma riguardano:
– le modalità di assunzione. Con l’approvazione della legge 608/1996 le imprese agricole possono assumere in via diretta il personale di cui abbisognano27. Decade, infatti, l’obbligatorietà del nulla osta da parte degli uffici di collocamento per le assunzioni dirette previsto nella normativa precedente. Si tratta di una notevole
semplificazione nel funzionamento del mercato del lavoro agricolo ma che di fatto determina la fine del collocamento come strumento di equa ripartizione delle
occasioni di lavoro. All’atto dell’assunzione gli unici oneri che permangono riguardano:
a) la consegna al lavoratore all’atto dell’assunzione di una dichiarazione sottoscritta
contenente i dati relativi all’assunzione effettuata;
b) la comunicazione, entro 5 giorni dall’assunzione, all’ufficio circoscrizionale per l’impiego e all’Inps del nominativo del lavoratore assunto, della data dell’assunzione,
della tipologia contrattuale della qualifica e del trattamento economico.
In merito alle procedure di assunzione viene introdotta una ulteriore semplificazione attraverso l’eliminazione dell’obbligo di comunicazione della cessazione del
rapporto di lavoro che in precedenza doveva essere obbligatoriamente effettuata entro 4 giorni sulla base di quanto previsto nell’art. 14 della legge 83/1970.
– abolizione del piano colturale. Secondo quanto contenuto nell’art. 9ter della legge 608/1996 viene disposta l’abolizione dell’obbligo da parte dei datori di lavoro
agricoli di presentazione annuale del piano colturale. In sostituzione del piano colturale viene introdotta la denuncia aziendale che viene presentata una tantum all’inizio dell’attività agricola e che va redatta sulla base di un apposito modello finalizzato a raccogliere le informazioni per l’accertamento dei contributi dovuti per
gli operai agricoli occupati in azienda nonché per la gestione della cosiddetta anagrafe delle aziende agricole.
– obbligo di assunzione. La legge 608/1996 introduce un nuovo onere per le imprese agricole: l’obbligo della riserva per la manodopera appartenente alle cosid26 Mariucci L., Romagnoli U., Impresa agricola e mercato del lavoro, in Galasso A. (a cura di), «L’impresa agricola tra mercato e contrattazione», De Donato, Bari, 1978.
27 Questi orientamenti erano stati già anticipati dagli indirizzi presenti nell’ambito di alcuni accordi (protocollo del 1993 e intesa sul mercato del lavoro raggiunta tra le parti sociali del settore agricolo il 25 luglio 1994) e contratti collettivi stipulati tra le organizzazioni datoriali e le organizzazioni sindacali di settore.
28
Legge 23 luglio 1991, n. 223 «Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro» (Gu n. 175 del 27-7-1991 - Suppl. Ordinario n. 43).
29 Lagala C., La disciplina legislativa per la gestione flessibile del mercato del lavoro agricolo: il nuovo collocamento, il part-time e gli incentivi per l’emersione del lavoro nero, in «Contrattazione, lavoro e previdenza nell’agricoltura degli anni ’90», Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2002.
30 Decreto Legislativo 11 agosto 1993, n. 375 «Attuazione dell’art. 3, comma 1, lettera aa), della legge
23 ottobre 1992, n. 421, concernente razionalizzazione dei sistemi di accertamento dei lavoratori dell’agricoltura e dei relativi contributi» (Gu n. 224 del 23-9-1993 - Suppl. Ordinario n. 90).
L’analisi
dette fasce deboli. Si tratta di un istituto nato con la legge 223/9128 come contropartita al superamento delle assunzioni numeriche29. Alle imprese, infatti, viene riconosciuta la possibilità di effettuare tutte le assunzioni di cui avevano bisogno tramite libera scelta del lavoratore da assumere. In cambio però queste stesse
aziende avrebbero dovuto riservare una aliquota delle loro assunzioni pari al 12%
a favore delle fasce deboli dei disoccupati (lavoratori in mobilità, disoccupati di lungo periodo o altre categorie specificamente identificate dalla commissioni provinciali per la manodopera agricola). La legge 608/1996 escludeva, infine, dall’obbligo
della riserva le imprese agricole che nell’anno precedente non avevano effettuato
assunzioni per un numero di giornate superiori 1350.
– l’introduzione del Registro d’impresa. Una delle principali novità introdotte con
la legge 608/1996 riguarda il Registro d’impresa. Il Registro che viene consegnato all’Inps ad ogni azienda che abbia presentato una denuncia aziendale rappresenta
lo strumento indispensabile per l’impresa agricola per far fronte a tutti gli adempimenti di legge conseguenti all’assunzione della manodopera dipendente. Dal Registro d’impresa debitamente compilato si ricavano sia la dichiarazione da consegnare al lavoratore all’atto dell’assunzione sia le comunicazioni da inviare entro 5
giorni dall’assunzione all’Inps e alla sezione circoscrizionale per l’impiego. Dal Registro d’impresa è inoltre possibile ricavare anche la documentazione connessa all’obbligo di corrispondere la retribuzione con il prospetto paga già introdotto con
l’art. 4 del d.lgs. 375/199330.
– accertamento delle giornate. Con l’approvazione della legge 608/1996 vengono introdotti importanti elementi di riforma anche in merito alla previdenza agricola. Una
delle principali novità riguarda le modalità di accertamento delle giornate a fini previdenziali e contributivi. In passato questa funzione era affidata alle commissioni locali per il collocamento che provvedevano a compilare, sulla base delle risultanze delle attività di collocamento, gli elenchi nominativi (i cosiddetti elenchi anagrafici)
dei lavoratori ammessi al godimento delle prestazioni previdenziali agricole. Con
la riforma promossa con l’approvazione della legge 608/1996 questa importante funzione viene attribuita direttamente all’Inps. In particolare sulla base degli atti in suo
possesso (ad es. le comunicazioni trimestrali sulla manodopera occupata) l’Inps prov-
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128
vede a compilare l’elenco trimestrale (contenente le giornate di lavoro prestate presso ciascun datore di lavoro) e quello annuale (contente le giornate complessivamente
attribuite nell’anno) della manodopera agricola che veniva pubblicato mediante l’affissione all’albo pretorio del Comune di residenza del lavoratore.
– sanzioni. La legge 608/1996 estende quanto già previsto per gli altri settori produttivi. Anche per i datori di lavoro agricoli il godimento delle agevolazioni contributive è condizionato all’applicazione di contratti collettivi nazionali di lavoro
o di quelli territoriali previsti dagli stessi contratti nazionali. La sanzione della interruzione del godimento delle agevolazioni contributive viene inoltre comminata anche a carico di quei datori di lavoro che producono dichiarazioni di occupazione fittizia finalizzate all’attribuzione indebita di giornate di lavoro per il
riconoscimento di diritti previdenziali.
Successivamente con il decreto legislativo 469 del 199731 viene aggiunto un altro
decisivo tassello alla riforma del collocamento agricolo in Italia. Le decisioni introdotte riguardano in particolare:
– il conferimento alle Regioni delle funzioni e dei compiti relativi a collocamento
agricolo (art. 2);
– la soppressione delle commissioni provinciali per la manodopera agricola e delle
commissioni circoscrizionali per la manodopera agricola le cui funzioni e competenze vengono trasferite alle province (comma 2 art. 6);
– il trasferimento nella misura del 70% del personale appartenente ai ruoli del Ministero del lavoro e della previdenza sociale impegnato in questi organi collegiali
(comma 1 art. 7);
– la soppressione degli uffici periferici delle sezioni circoscrizionali per l’impiego e per
il collocamento in agricoltura che vengono sostituiti dai centri per l’impiego (art. 8).
Con l’approvazione del decreto legislativo 469 del 1997, quindi, nell’ottica di perseguire l’obiettivo del «decentramento», vengono riunificate nelle mani della Regione le responsabilità delle leve cruciali per il governo del mercato del lavoro in Italia32.
5. Dal collocamento ai servizi pubblici per l’impiego:
le scelte di alcune regioni per il settore agricolo
Come abbiamo ricordato in precedenza con il decreto legislativo 469 del 1997 vengono delegate alle Regioni e alle Province le funzioni e i compiti per il governo del
31
Decreto legislativo 23 dicembre 1997, n. 469 «Conferimento alle regioni e agli enti locali di funzioni e compiti in materia di mercato del lavoro, a norma dell’articolo 1 della legge 15 marzo 1997,
n. 59» (Gu n. 5 del 8-1-1998).
32 Liso F., Il collocamento ordinario da funzione pubblica a servizio. Appunti. inedito, 2003 (disponibile
sul sito http://www.lex.unict.it/eurolabor/dottorato/atti/s230104/liso1.pdf).
Tabella 10 - Alcuni aspetti della normativa regionale in materia di collocamento
e servizi pubblici per l’impiego
Regione
Riferimento normativo
Composizione sindacale
della commissione
regionale
Presenza di
organizzazioni
professionali
agricole
Legge Regionale 5 maggio 1999, n. 19
«Norme in materia di politica regionale del lavoro e dei servizi all’impiego».
Cgil n. 2 rappresentanti effettivi e
n. 2 supplenti; Cisl n. 2 rappresentanti effettivi e n. 2 supplenti;
Uil n. 2 rappresentanti effettivi e
n. 2 supplenti; Ugl n. 1 rappresentante effettivo e un supplente.
Confagricoltura
(1 effettivo
e 1 supplente);
Coldiretti
(1 effettivo
e 1 supplente).
Campania Legge Regionale 13 agosto 1998, n. 14
Cgil n. 1 rappresentanti effettivi;
Cisl n. 1 rappresentanti effettivi;
Uil n. 1 rappresentanti effettivi;
Ugl n. 1 rappresentante effettivo
Confagricoltura
(1 effettivo
e 1 supplente)
Cgil n. 1 rappresentanti effettivi e
n. 1 rappresentante supplente;
Cisl n. 1 rappresentanti effettivi e
n. 1 rappresentante supplente; Uil
n. 1 rappresentanti effettivi e n. 1
rappresentante supplente; Ugl n.
1 rappresentante effettivo n. 1
rappresentante supplente.
Confagricoltura n.
1 rappresentante
effettivo.
Cia n. 1
rappresentante
supplente.
Puglia
«Politiche regionali per il lavoro e servizi per l’impiego».
Calabria
Legge Regionale 19 febbraio 2001, n. 5
«Norme in materia di politiche del lavoro e di servizi per l’impiego in attuazione del decreto legislativo 23 dicembre 1997, n. 469».
SEGUE
33 In questa sede la nostra attenzione si soffermerà sulle scelte assunte in Puglia, Sicilia, Calabria, Cam-
pania, Emilia Romagna, Toscana e Veneto che secondo i dati Inail nel 2011 occupavano complessivamente il 72,2% dei lavoratori agricoli italiani.
L’analisi
mercato del lavoro in Italia. La riforma costituzionale del 2001 ha confermato questo indirizzo introducendo le materie del collocamento, dei servizi per l’impiego e delle politiche attive del lavoro nella potestà legislativa concorrente delle Regioni. Da questo orientamento è discesa una ampia e diversificata produzione legislativa di merito
nella quale, anche in base alle differenti vocazioni e specializzazioni produttive territoriali, vengono assunti eventuali orientamenti caratteristici in materia di mercato del
lavoro agricolo.
In questa sede proveremo ad analizzare gli orientamenti assunti in materia di mercato del lavoro agricolo in alcune regioni italiane33. In particolare proveremo a soffermare la nostra attenzione sulla scelta assunta dalla normativa regionale in merito
ai compiti e alle funzioni in materia di collocamento agricolo, alla presenza e alla composizione di eventuali organismi di concertazione, alla attivazione di sottocommissioni con specifiche competenze in materia di mercato del lavoro agricolo ed ad altri provvedimenti che tengono conto delle peculiarità di settore.
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Tabella 10 - SEGUE
Regione
Riferimento normativo
Composizione sindacale
della commissione
regionale
Presenza di
organizzazioni
professionali
agricole
Emilia R.
Legge Regionale 01 agosto 2005, n. 17
«Norme per la promozione dell’occupazione, della qualità, sicurezza e regolarità del lavoro».
Sei componenti effettivi e sei supplenti, designati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori più
rappresentative a livello regionale.
Toscana
Legge Regionale 26 luglio 2002, n. 32
«Testo unico della normativa della Regione Toscana in materia di educazione, istruzione, orientamento, formazione professionale e lavoro».
Cgil n. 3 rappresentanti effettivi e Coldiretti
n. 3 rappresentante supplente; (1 effettivo
Cisl n. 2 rappresentanti effettivi e e 1 supplente).
n. 2 rappresentante supplente; Uil
n. 1 rappresentanti effettivi e n. 1
rappresentante supplente.
Veneto
Legge Regionale 13 marzo 2009, n. 3
«Disposizioni in materia di occupazione e mercato del lavoro».
Tredici rappresentanti delle orga- Due rappresentanti
nizzazioni sindacali dei lavoratori delle associazioni
dipendenti.
del settore
agricolo.
Sicilia
Legge Regionale Sicilia n. 36 del 2109-1990 «Norme modificative ed integrative della legge 28 febbraio 1987,
n. 56 e delle leggi regionali 23 gennaio
1957, n. 2, 27 dicembre 1969, n. 52 e 5
marzo 1979, n. 18, in materia di disciplina del collocamento e di organizzazione del mercato del lavoro. Norme
integrative dell’ articolo 23 della legge
11 marzo 1988, n. 67, concernente attività di utilità collettiva in favore dei
giovani».
Cgil n. 2 rappresentanti effettivi e
n. 2 rappresentante supplente;
Cisl n. 2 rappresentanti effettivi e
n. 2 rappresentante supplente; Uil
n. 2 rappresentanti effettivi e n. 2
rappresentante supplente; Ugl n.
2 rappresentanti effettivi e n. 2 rappresentante supplente; Cisal n. 2
rappresentanti effettivi e n. 2 rappresentante supplente.
130
Confagricoltura
1 rappresentante;
Coldiretti 1
rappresentante.
Coldiretti
(1 effettivo
e 1 supplente);
Confagricoltura
(1 effettivo
e 1 supplente).
Fonte: Ns. elaborazioni
Tutte le regioni considerate, in maniera conforme a quanto disposto dall’art. 2,
comma 1, del decreto legislativo 23 dicembre 1997, n. 469, assegnano alle province
la competenza in materia di collocamento agricolo. La normativa della Regione Puglia34 precisa, in particolare, che «al fine di garantire il rispetto della specificità del mercato del lavoro agricolo, alle Commissioni provinciali per il lavoro sono affidate le funzioni già di competenza delle Commissioni provinciali e circoscrizionali per la manodopera
agricola nonché quelle assegnate alle stesse da delibere della Commissione regionale per l’impiego (Cri) Puglia, per l’espletamento delle quali il regolamento dovrà prevedere opportune modalità organizzative».
34
Legge regionale 5 maggio 1999, n. 19 «Norme in materia di politica regionale del lavoro e dei servizi all’impiego».
L’analisi
Anche la normativa dell’Emilia Romagna precisa che «nell’ambito di tutte le funzioni assegnate al sistema regionale dei servizi per il lavoro in particolare di quelle relative alla preselezione ed incrocio fra domanda ed offerta di lavoro, il sistema regionale tiene conto delle peculiarità dei diversi settori economico-produttivi e delle specificità dei
fenomeni di stagionalità, con particolare riferimento alle attività agricole, agroindustriali e turistiche».
Le scelte in termini di composizioni degli organismi collegiali variano nelle diverse regioni considerate. Tutte le regioni prevedono una rappresentanza composta da
soggetti istituzionali, da rappresentanti delle organizzazioni datoriali e da quelli delle organizzazioni sindacali. La composizione della commissione regionale è, infine,
completata da un consigliere di parità. In tutte le regioni considerate la composizione della componente datoriale delle commissioni regionali è completata da rappresentati delle organizzazioni professionali di settore (Confagricoltura, Coldiretti e Cia)
per tener conto anche delle specificità e dei peculiari interessi del settore agricolo. La
composizione degli organismi collegiale è, inoltre, completata dall’istituzione di una
commissione provinciale le cui funzioni e compiti vengono precisate nell’ambito di
appositi regolamenti adottati delle istituzioni provinciali. I suddetti regolamenti
provvedono inoltre a definire nel dettaglio i meccanismi di funzionamento e la composizione delle commissioni provinciali.
Per ottimizzare il funzionamento delle commissioni vengono, infine, previste l’attivazione di sottocommissioni o gruppi di lavoro finalizzati ad approfondire specifiche tematiche. Per la Calabria «la Commissione regionale Tripartita può costituire, al proprio interno, sottocommissioni e gruppi di lavoro e ne nomina i rispettivi Presidenti. In
ogni sottocommissione dovranno essere rappresentate tutte le componenti presenti nella Commissione, ma in caso di diversa determinazione dovrà essere garantita la presenza di almeno un rappresentante dei datori di lavoro e uno dei lavoratori». Anche per l’Emilia
Romagna «il lavoro della Commissione regionale tripartita è organizzato in sottocommissioni». Per la Toscana invece «la Commissione ha facoltà di nominare gruppi di lavoro per l’esame di specifici argomenti e per la predisposizione di documenti che saranno
sottoposti all’approvazione della Commissione». Per il Veneto invece «è prevista l’articolazione della commissione regionale per la concertazione tra le parti sociali in sottocommissioni con eventuali poteri deliberanti, e con garanzia di pari rappresentanza delle parti sociali».
È opportuno, infine segnalare gli orientamenti della Puglia dove sia la Commissione regionale per le politiche del lavoro sia le Commissioni provinciali per le politiche del lavoro prevedono l’istituzione di apposite sottocommissioni. In particolare
per le Province è prevista la facoltà di istituire una apposita sottocommissione provinciale per il lavoro agricolo.
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Conclusioni
L’analisi condotta in precedenza è partita con l’obiettivo di identificare le peculiarità che attualmente caratterizzano il settore agricolo italiano con particolare riguardo alle problematiche connesse alla disponibilità e all’accesso alla manodopera. Il primo elemento emerso in precedenza riguarda il rallentamento registrato negli ultimi
anni nella caduta della quota dell’occupazione agricola sul totale dell’economia. La
probabilità di portare a termine positivamente i processi di riorganizzazione che caratterizzano l’agricoltura italiana dipende, infatti, anche dalla possibilità di poter disporre di un adeguato flusso di manodopera. La seconda criticità emersa nell’analisi
precedente riguarda il processo di graduale senilizzazione che caratterizza gli operatori impegnati nel settore agricolo italiano. L’immissione nel settore di manodopera
«giovane» che contribuisca anche ad attivare un processo di turnover con i lavoratori agricoli più anziani appare fondamentale per permettere la prosecuzione delle attività in molte aree agricole del Paese. Un terzo elemento riguarda l’elevata incidenza del sommerso che caratterizza l’agricoltura italiana. Come abbiamo visto in
precedenza si tratta di un fenomeno di proporzioni molto consistenti con tassi di irregolarità ben al di sopra di quelli registrati per l’intera economia nazionale. Nel settore agricolo è, infatti, fortemente estesa e crescente l’area del lavoro nero sia per i fenomeni di evasione del rispetto delle garanzie contrattuali e sia per il mancato
obbligo della registrazione dei rapporti di lavoro. Le misure recentemente assunte in
materia di regolarizzazione degli stranieri e di regolamentazione del lavoro atipico non
sono state in grado di contrastare efficacemente l’impiego di manodopera non regolare. Una quarta criticità riguarda i bassi tassi di formazione agraria che caratterizzano gli operatori del settore. Con questa circostanza si spiega la diffusa difficoltà incontrata da molte aziende nel reperimento di manodopera in possesso delle
competenze necessarie anche ad affrontare e gestire le trasformazioni che recentemente
riguardano il settore primario italiano.
In questo contesto il diffuso ricorso al lavoro migrante che negli ultimi anni caratterizza in maniera crescente l’agricoltura nazionale può rappresentare un’importante
occasione per alleviare alcune delle criticità descritte in precedenza35. La valorizzazione
del contributo dei lavoratori migranti alla competitività del settore agricolo passa però attraverso l’attuazione di un pacchetto di interventi finalizzati a migliorarne le condizioni di integrazione e di cittadinanza. In questo campo l’implementazione di specifici interventi di governo del mercato del lavoro e di adeguate misure di politica attiva
del lavoro appare cruciale anche per ridurre l’incidenza dei fenomeni di lavoro nero
35 D’Alessio M., Il lavoro migrante per la competitività dell’agricoltura italiana, Rivista AE Agricoltura,
Alimentazione, Economia, Ecologia, n. 2, 2010.
36 Iadevaia V. e Mainardi M., (a cura di), Dimensioni e caratteristiche del lavoro sommerso/irregolare in
agricoltura, Isfol, 2011.
37 Ivi, p. 8.
L’analisi
che riguardano la manodopera extracomunitaria. I lavoratori migranti in agricoltura si trovano, infatti, esposti a situazioni di lavoro nero in senso stretto, con condizioni di estremo sfruttamento, quando non di vero e proprio schiavismo (i noti fatti di Rosarno hanno drammaticamente riportato alla ribalta il fenomeno)36.
L’analisi delle caratteristiche del mercato del lavoro in agricoltura ha evidenziato
gli spinti fenomeni di segmentazione che caratterizza l’occupazione nel settore primario. Secondo i risultati dell’indagine Excelsior, le imprese agricole italiane tendono a manifestare una richiesta in termini di mansioni e di competenze focalizzata verso «tre grandi tipologie di figure professionali. Da un lato, si cercano figure specializzate
in grado di seguire lo sviluppo di specifiche coltivazioni, la conduzione di macchinari
o la gestione di attività zootecniche sotto tutti gli aspetti; dall’altro si ricercano figure con competenze trasversali, capaci di occuparsi di attività abbastanza diverse tra loro, come ad esempio le attività di produzione agricola e le mansioni in agriturismo,
oppure la cura degli allevamenti e la trasformazione dei prodotti agricoli. Infine, un
terzo profilo – scarsamente presente tra i lavoratori stabili – è quello del lavoratore con
compiti prettamente manuali, che si occupa semplicemente di raccogliere i prodotti o accudire agli allevamenti37». Le imprese evidenziano, quindi, una domanda diversificata che solo attraverso efficaci interventi di politica del lavoro può trovare una
adeguata risposta.
L’analisi delle evoluzioni normative ha permesso di evidenziare le quattro fasi fondamentali che hanno caratterizzato il percorso di trasformazione che ha riguardato il collocamento agricolo in Italia. La prima che può essere definita «burocratica» è caratterizzata da un forte ruolo degli uffici provinciali e delle sezioni staccate
che provvedono alle attività connesse ai servizi collocamento. In questa fase il collocamento che è finalizzato principalmente all’equa ripartizione delle opportunità
occupazionali fonda il suo funzionamento sulla base del criterio numerico per gli
avviamenti. In questo contesto è difficile per gli uffici diversificare in maniera efficiente le procedure per soddisfare adeguatamente le aspettative formulare dalle singole imprese del settore. L’utilizzazione del criterio numerico per gli avviamenti produce delle criticità anche per i lavoratori che non vedono adeguatamente valorizzati
i know-how e le competenze acquisite. La seconda fase che può essere invece definita «democratica» è basata sul protagonismo delle commissioni regionali, provinciali e locali a maggioranza sindacale. Viene introdotta una nuova prassi di implementazione del servizio di collocamento in agricoltura basata su un approccio
concertato e partecipato.
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Caposaldo del nuovo collocamento è l’introduzione dell’obbligo per le imprese di
fornire attraverso il piano colturale i fabbisogni quantitativi e in termini di qualifica
professionale stimati annualmente. In questo modo le commissioni a vari livelli dovrebbero possedere le informazioni necessarie a svolgere al meglio le funzioni connesse
ai servizi di collocamento. Questo nuovo approccio dovrebbe migliorare la funzionalità del collocamento compensando l’ulteriore irrigidimento delle procedure connesso all’introduzione del divieto di ogni deroga al principio numerico per l’avviamento. Questa fase si segnala inoltre per l’introduzione di sanzioni nei riguardi delle
imprese inadempienti attraverso la possibilità da parte delle autorità pubbliche di escluderle dai finanziamenti pubblici (contributi, agevolazioni fiscali e creditizie). Il periodo
successivo è caratterizzato da una «liberalizzazione» del collocamento attraverso l’introduzione della possibilità per imprese agricole di assumere in via diretta il personale
di cui abbisognano. Attraverso l’abolizione dell’obbligatorietà del nulla osta da parte degli uffici di collocamento per le assunzioni dirette viene introdotta una spinta deregolamentazione dei meccanismi di funzionamento e governo del collocamento in
agricoltura. Questa notevole semplificazione nel funzionamento del mercato del lavoro agricolo determina di fatto la fine del collocamento come strumento di equa ripartizione delle occasioni di lavoro. La principale conseguenza di questo nuovo approccio è lo svuotamento di funzioni a carico delle commissioni sindacali alle quali
rimane la sola funzione di concorrere a governare l’applicazione della disciplina delle riserva introdotta dal legislatore come forma di compensazione alla liberalizzazione del mercato del lavoro conseguente all’abolizione del criterio numerico per gli avviamenti. L’ultima fase è caratterizzata da una «regionalizzazione» della disciplina del
collocamento agricolo.
L’introduzione del collocamento, dei servizi per l’impiego e delle politiche attive
del lavoro nella potestà legislativa concorrente delle Regioni attraverso la riforma al
titolo V della Costituzione Italiana avvia una nuova fase caratterizzata da una ampia
produzione legislativa regionale che dovrebbe essere in grado di recepire in chiave territoriale le peculiari esigenze dell’agricoltura italiana. Sebbene i risultati dell’analisi condotta non possano essere generalizzabili perché frutto di uno studio condotto sui testi legislativi vigenti in un insieme limitato di Regioni si evidenzia una ridotta
attenzione alle problematiche specifiche del mercato del lavoro agricolo. Alle commissioni provinciali e regionali previste nelle diverse normative regionali viene riservata principalmente una funzione consultiva in materia di collocamento ordinario
mentre l’intera responsabilità dei servizi per l’impiego permane in capo alle strutture dei centri per l’impiego (Cpi).
In questo contesto normativo diminuiscono gli spazi per l’implementazione di azioni di politica attiva del lavoro specificamente rivolti al settore agricolo. Parallelamente
si riducono le occasioni per implementare iniziative che prevedendo il coinvolgimento
38
Adottato il 15 marzo 2012.
L’analisi
degli attori istituzionali e delle parti economiche e sociali di settore possano permettere una gestione concertata e partecipata delle problematiche che riguardano il
mercato del lavoro in agricoltura. Per altro i possibili correttivi a questa situazione
sono stati già evidenziati nell’ambito di un ordine del giorno adottato dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome su
iniziativa delle organizzazioni sindacali di settore. L’ordine del giorno38 «invita il governo a:
– promuovere i sottocomitati per il collocamento agricolo Regione per Regione ed
in ciascuna provincia, con il compito di attuare politiche attive del lavoro in agricoltura, da svolgersi in rapporto sinergico con i Centri per l’impiego, i Comuni e
gli enti bilaterali territoriali di settore al fine di promuovere ed indirizzare idonee
politiche formative e del lavoro, con riferimento anche alle problematiche dei lavoratori migranti.
– definire un nuovo e moderno sistema di direzione e di gestione del mercato del lavoro agricolo, poggiato su tre pilastri essenziali: un luogo di coordinamento istituzionale da istituire presso i Comuni, per la gestione del collocamento agricolo,
mediante un efficace programma di prenotazione (assunzione e riassunzione) e di
gestione della domanda e dell’offerta di lavoro; un efficiente servizio – integrato e
flessibile – di trasporto dei lavoratori da definirsi in sede regionale; un meccanismo premiale (finanziamenti, fiscalizzazioni aliquote contributive, ecc.) per le aziende che vi ricorrono».
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Rubrica
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■ Rubrica
Discriminazione sindacale: note a margine
della sentenza della Corte d’Appello di Roma
del 19/10/2012*
Claudia Cesarini**
I
n questi ultimi anni le decisioni relative alle relazioni industriali adottate dalla
Fiat sono state spesso al centro dell’opinione pubblica. Secondo alcuni rappresenterebbero una novità politica, una rottura con le vecchie prassi sindacali;
mentre per altri si tratterebbe soltanto di scelte imprenditoriali ingiuste poiché lesive dei diritti dei lavoratori così come riconosciuti e garantiti dall’ordinamento giuridico italiano. Sia i primi che i secondi riconoscono la necessità – soprattutto i primi – o l’opportunità – soprattutto i secondi – di rivedere le maglie del sistema di
relazioni industriali, con particolare riferimento all’organizzazione del lavoro, ma –
sottolineano soltanto i secondi – senza lasciare spazio ad uno scambio, impossibile,
tra diritti e lavoro.
Non è questa la sede per affrontare una discussione sullo stato di salute del sistema delle relazioni industriali nel nostro Paese. Non è nostra intenzione indagare qui
le ragioni per cui la Fiom Cgil, il Sindacato maggiormente rappresentativo della categoria, (rappresentando circa il 45% degli addetti del settore e circa il 17,6% dei lavoratori del manifatturiero), si sia ritrovato fuori dai cancelli degli stabilimenti.
Oggetto dell’analisi sono, altresì, le argomentazioni con cui i giudici della Corte
di Appello di Roma (sentenza del 19/10/2012) hanno qualificato discriminatoria la
mancata assunzione dei lavoratori iscritti a Fiom Cgil, affermando che «l’autonomia
privata non può essere semplicemente richiamata per giustificare scelte illecite che risultano in concreto discriminatorie e lesive del diritto al lavoro».
I giudici confermano, quindi, l’ordinanza del Tribunale (ord. del 21/6/12) che aveva dichiarato la natura di discriminazione delle esclusioni e delle assunzioni dei lavoratori dello stabilimento di Pomigliano iscritti alla Fiom Cgil ed ordinato alla Fabbrica Italiana Pomigliano (Fip) di cessare dal comportamento discriminatorio e di
rimuoverne gli effetti procedendo alla costituzione forzosa del rapporto di lavoro.
La scelta della Fiom Cgil di intraprendere il ricorso giudiziale ex art. 28 d.lgs.
150/11 si conferma ammissibile a seguito di una verifica di correttezza del percorso
argomentativo che lega la scelta del rito al bene oggetto della lesione (discriminazio-
* Tratto da AE n. 12/2012. ** Fondazione Metes.
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ne vietata dal d.lgs. 216/03, art. 4). In altre parole, i giudici affermano la riconducibilità dell’affiliazione sindacale alle «convinzioni personali» che, insieme al sesso, all’handicap, all’età e all’orientamento sessuale non possono costituire motivo di discriminazione.
La Fip avrebbe voluto la dichiarazione di inammissibilità dell’azione proposta dalla Fiom Cgil perché disciplinata dall’art. 28, comma, 1, l. 300/70 e non dall’art. 28,
d.lgs. 150/11. Perché?
Perché laddove il ricorso fosse stato convertito in quello previsto dall’art. 28, comma, 1, l. 300/70, avrebbe dovuto essere dichiarato il difetto di legittimazione della
Fiom Cgil nazionale ed il difetto di rappresentanza processuale dei lavoratori, con la
conseguente inammissibilità di tutte le domande proposte in loro nome e conto.
Questo perché, secondo la Fip, le discriminazioni causate dalla affiliazione sindacale non potrebbero ritenersi regolate dal d.lgs. 216/2003, essendo disciplinate specificamente dall’art. 15, l. 300/70, che ritiene discriminatorio «subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad un’associazione
sindacale ovvero cessi di farne parte». Con la conseguenza di poter unicamente ricorrere, in caso di asserita discriminazione, all’art. 28, l. 300/70 (in tal senso A. Vallebona, Le discriminazioni per «convinzioni personali» comprendono anche quelle per
affiliazione sindacale: un’altra inammissibile stortura a favore di Fiom-Cgil, in Massimario di giurisprudenza del lavoro, 2012, 8/9, p. 622).
Secondo i giudici, tuttavia, non esiste un nesso conseguenziale tra l’art. 15, l.
300/70, ed il ricorso all’art. 28, l. 300/70. Per integrare gli estremi della condotta antisindacale è, infatti, necessario che il comportamento datoriale comprometta oggettivamente l’efficace espletamento dell’attività dell’organizzazione sindacale. Questo in quanto l’art. 28 tutela un interesse collettivo proprio (originario) del sindacato,
distinto ed autonomo rispetto a quello attribuito ad i singoli lavoratori.
L’oggetto della tutela azionata nel giudizio in questione non è l’esercizio delle prerogative sindacali della Fiom Cgil, ma la discriminazione subita dai suoi iscritti in sede di assunzione a causa dell’affiliazione sindacale.
La Corte d’Appello, utilizzando l’interpretazione sistematica dell’art. 19 Tfue
(già art. 13 Tce), le Convenzioni Oil rilevanti nella specifica materia, la Carta dei
diritti fondamentali (resa vincolante dall’art. 6 Tue) conclude che «può senz’altro ritenersi che la direttiva 2000/78/Ce, tutelando le convinzioni personali avverso le discriminazioni, abbia dato ingresso nell’ordinamento comunitario al formale riconoscimento (seppure nel solo ambito della regolazione dei rapporti di
lavoro) della cd. libertà ideologica il cui ampio contenuto materiale può essere stabilito anche facendo riferimento all’art. 6 del Tue e, quindi, alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo». Inoltre, «se il legislatore comunitario avesse voluto
comprendere nelle convinzioni personali solo quelle assimilabili al carattere reli-
Rubrica
gioso, come ritenuto dall’appellante, non avrebbe avuto alcun bisogno di differenziare le ipotesi di discriminazione per motivi religiosi da quelle per motivi diversi. Può perciò ritenersi che l’ampia nozione di «convinzioni personali» racchiude
una serie di categorie di ciò che può essere definito il «dover essere» dell’individuo, che vanno dall’etica alla filosofia, dalla politica (in senso lato) alla sfera dei
rapporti sociali».
Questa stessa interpretazione consente, altresì, di chiarire la relazione tra interessi
individuali dei lavoratori, interesse collettivo dei lavoratori discriminati e interesse collettivo proprio dell’organizzazione sindacale.
Esiste l’art. 15 della l. n. 300/70, che è una norma di diritto sostanziale «e non prevede uno speciale ed esclusivo procedimento di tutela dei diritti lesi»; i due articoli
28 (quello dello Statuto e quello del d.lgs. 150/11) «costituiscono procedimenti approntati dal legislatore a tutela di situazioni diverse, attinenti l’una direttamente alla
lesione di un interesse dell’organizzazione sindacale (art. 28 Statuto dei lavoratori),
l’altra alla lesione del diritto proprio dei lavoratori a non essere oggetto di condotte
discriminatorie per effetto del loro orientamento sindacale (art. 28 d.lgs. 150/11)» (cit.
Trib. Roma, ord. del 21/6/12).
La sentenza di appello specifica che l’art. 28 dello Statuto «tutela un interesse collettivo del sindacato alla esplicazione della libertà sindacale distinto ed autonomo
rispetto a quello attribuito ai singoli lavoratori. [...] L’oggetto della tutela azionata
nel presente giudizio non è l’esercizio delle prerogative sindacali della Fiom, ma la
discriminazione subita dai suoi iscritti in sede di assunzione a causa dell’affiliazione sindacale».
Diverse regole, diverse procedure, diverse legittimazioni ad agire dimostrano l’esistenza di strumenti complementari posti a presidio dello stesso bene protetto: la libertà sindacale sancita dall’art. 39 della Costituzione (L. Calafà, La discriminazione
per orientamento sindacale: prima nota a Corte d’Appello Roma 19/10/2012).
Perché il Costituente ha voluto dedicare una specifica disposizione a fondamento
della costituzione dell’organizzazione sindacale? Perché non ricomprenderla nella più
generale libertà di associazione di cui all’art. 18?
Perché il Sindacato non è un’organizzazione come le altre. Per natura, innanzitutto,
in quanto titolare di un originario interesse privato collettivo, inteso come la sintesi
– e non la somma – degli interessi dei singoli lavoratori. E per funzione, in quanto
gli effetti del contratto collettivo (inderogabilità e applicazione di fatto erga omnes)
non sono riconducibili ad alcun altro negozio di diritto comune. Ciò è comprensibile solo in quanto il contratto collettivo è stipulato dal Sindacato nell’esercizio di un
potere giuridico che gli è originariamente proprio e in quanto esso costituisce l’unica fonte di attuazione concreta del principio costituzionale che vuole la retribuzione
proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato (art. 36 Cost.).
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Ricerche
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■ Ricerche
Per un progetto di rilancio
dell’agroalimentare italiano*
Massimiliano D’Alessio**
1. Lo scenario del sistema agricolo ed agroalimentare
Lo scenario competitivo di fronte al quale si colloca il sistema agricolo ed agroalimentare italiano risulta caratterizzato da un elevato grado di complessità. Le principali variabili che concorrono a definire il quadro riguardano:
• L’evoluzione dei mercati internazionali delle commodity agricole. Dal 2007 si registra
un andamento crescente nei prezzi dei prodotti agricoli (+47% del Fao index price). Fattori congiunturali (andamenti climatici avversi, attività speculative, domanda
a fini energetici sul mercato dei cereali, prassi di tassazione dell’offerta assunte da
alcuni paesi produttori) e strutturali (l’emersione dal sottosviluppo della Cina, dell’India, del Brasile, del Sud-Est asiatico e il raddoppio della domanda alimentare
soprattutto a carico dei prodotti alimentari proteici) fanno ritenere che non si tratti di un fenomeno temporaneo. L’impennata dei prezzi agricoli alla stessa stregua
di tutte le principali produzioni di materie prime assumerà in prospettiva un carattere permanente che caratterizzerà i futuri scenari agricoli ed agroalimentari mondiali. Lo scenario appare ulteriormente condizionato dalle incertezze sugli esiti finali del negoziato Doha Round del Wto che potrebbero contribuire alla governance
dei mercati agricoli mondiali definendo un sistema di regole nelle relazioni commerciali internazionali.
• L’andamento dei mercati dei fattori della produzione e i costi dell’approvvigionamento
energetico. Negli ultimi anni si registra un fenomeno di generalizzata lievitazione dei prezzi della maggior parte delle materie prime (+52,2% Indices of Primary
Commodity Prices del Fmi 2005-2010). Questa impennata ha riguardato, in particolare, i prodotti petroliferi (+47,1% Indices of Energy Prices del Fmi 20052010) ponendo al centro dell’attenzione collettiva la questione energetica. L’impennata dei prezzi dei prodotti energetici influenza l’agricoltura determinando
* Tratto da Tra crisi e «grande trasformazione», a cura di Laura Pennacchi, Ediesse, Roma, 2013.
** Fondazione Metes.
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145
15/2013
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146
da un lato la crescita dei costi di produzione e dall’altro investendo il settore del
ruolo di produttore di bio-energie in sostituzione di quelle fossili. In quest’ultimo campo le peculiarità che caratterizzano l’agricoltura europea ed italiana (orografia, idrografia, densità demografica, ecc.) rendono molto svantaggioso il confronto in termini di competitività con i settori bio-energetici di massa dei paesi
tropicali (Brasile e Sud-Est asiatico). Migliore è la sostenibilità del contributo energetico che può fornire l’agricoltura europea ed italiana considerando l’introduzione di prassi di autosufficienza energetica (impianti aziendali di piccola taglia)
e di valorizzazione di sottoprodotti, scarti e rifiuti. Non bisogna infine dimenticare il contributo che le scelte esposte in precedenza possono fornire nell’ottica
della mitigazione degli effetti del cambiamento climatico e della gestione sostenibile delle risorse idriche.
• Il fenomeno del landgrabbing. Negli ultimi anni si registrano ingenti investimenti realizzati da soggetti economici dei paesi più sviluppati finalizzati all’acquisizione di
superfici coltivabili nei paesi in via di sviluppo. Queste scelte sottendono una strategia finalizzata a garantire la sicurezza degli approvvigionamenti alimentari per quegli Stati in crescita economica e demografica ma privi di grandi risorse agricole e
idriche. Contemporaneamente l’acquisizione di terreni coltivabili è diventata oggetto delle operazioni economiche di molti operatori finanziari nella convinzione
che l’alimentazione possa essere «l’oro nero del futuro». Secondo molti, da qui al
2050, la produzione di alimenti dovrà raddoppiare per soddisfare le esigenze mondiali e ciò apre interessanti occasioni di business economico nel prossimo futuro.
L’acquisizione di terre coltivabili è anche finalizzata a cogliere l’occasione offerta dallo sviluppo delle agroenergie. George Soros, definito «il più grande investitore del
mondo», ad esempio scommette anche sui biocombustibili ed ha acquistato recentemente enormi superfici agricole in Argentina. Investimenti eccezionali sono
stati anche condotti dalle potenze petrolifere del Medio Oriente e dalle nuove economie orientali. La Corea del Sud, ad esempio, ha acquistato 2.306.000 ettari; la
Cina 2.090.000 ettari; l’Arabia Saudita 1.610.000 ettari; gli Emirati Arabi Uniti
1.280.000 ettari, il Giappone 324.000 ettari. Un’ampia fetta, quindi, di superficie
coltivabile è ora sotto il controllo di paesi stranieri. Si tratta di un processo che alcuni ritengono allarmante perché prefigura un fenomeno di «accaparramento di terre a livello mondiale».
• Sicurezza, qualità e commercializzazione dei prodotti agricoli. L’agricoltura italiana
è dotata di ampio patrimonio di produzioni agroalimentari tipiche e di qualità. Attualmente sono, infatti, 231 i prodotti agroalimentari italiani che possono fregiarsi di una denominazione di origine comunitaria (Dop, Igt, Stg). Questi prodotti
trovano però consistenti difficoltà a trovare adeguati sbocchi di mercato (Commissione Europea, Directorate General for Agriculture and Rural Development,
Ricerche
2007). Il miglioramento di queste performance passa necessariamente attraverso il
conseguimento dei necessari progressi in sede di negoziati internazionali del commercio internazionale Wto (accordi multilaterali sul riconoscimento delle denominazioni di origine e l’eliminazione di barriere tecniche) ma anche mediante politiche specifiche, mirate e sistematiche di informazione, divulgazione e garanzia che
permettano la penetrazione dei prodotti di qualità del made in Italy agroalimentare in nuovi mercati emergenti (Cina, India, ecc.). In questo contesto non bisogna
dimenticare che la questione della valorizzazione della qualità si connette strettamente a quella dei controlli e delle garanzie.
• L’innovazione nel settore agricolo e le aspettative dei consumatori moderni. I profondi
cambiamenti che hanno riguardato negli ultimi anni le scelte e le abitudini di consumo alimentare spingono sempre più gli operatori del settore verso l’adozione di
percorsi di innovazione. Negli ultimi anni il settore agroalimentare è continuamente
chiamato ad uno sforzo innovativo per cercare di andare incontro alle sollecitazioni dei consumatori sempre più esigenti, curiosi e critici. In questo quadro si assiste allo sviluppo di produzioni in grado di rispondere a specifiche esigenze di consumo (biologico, equosolidale, quarta gamma, functional food, ecc.). Questi prodotti
innovativi sono peraltro il risultato della collaborazione di settori produttivi diversi. Ne risultano, infatti, processi di integrazione tra settori (chimico, farmaceutico
e agro-alimentare) guidati dalla domanda e spinti dalla continua ricerca di innovazione che rappresentano uno degli elementi di scenario più rilevanti per il futuro dei sistemi agroalimentari.
• La valorizzazione del carattere multifunzionale dell’agricoltura nell’ottica delle
«nuove sfide». Le istituzioni e la collettività sono ormai concordi nel riconoscere il carattere multifunzionale dell’attività agricola. L’agricoltura unisce infatti
alla vocazione tradizionale legata alla produzione di merci (le classiche quattro
«F»: food, feed, fiber e fuel) quella connessa all’offerta di beni e servizi comuni
(salvaguardia e valorizzazione dell’ambiente e del paesaggio, conservazione della biodiversità, difesa idrogeologica, conservazione dei presidi storico-culturali)
il cui valore non può essere sempre completamente internalizzato dai normali
meccanismi di funzionamento del mercato. La multifunzionalità dell’agricoltura
viene addotta a principale giustificazione della spesa e delle agevolazioni pubbliche riservate all’agricoltura. Negli anni a venire, questa giustificazione dovrà
pesare ancora più di oggi se si vogliono trovare motivazioni credibili a difesa delle risorse della politica agraria. In questo contesto non bisogna dimenticare il
processo di riforma della Politica Agricola Comune tuttora in atto che dovrebbe condurre all’approvazione di un nuovo quadro regolamentare comunitario
per il post 2013.
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2. La congiuntura del settore agricolo
15/2013
Con l’economia italiana in piena recessione (secondo le stime dell’Istat, il Pil è sceso nel II trimestre 2012 dello 0,8% sul trimestre precedente e del 2,6% rispetto al II
trimestre 2011), il valore aggiunto agricolo è l’unico a mostrare nel secondo trimestre 2012 una crescita reale su base annua, seppure lieve (+1,1%), che prosegue la serie positiva partita nel primo trimestre. A valori correnti il settore agricolo registra un
debole incremento del +0,4%, ma nel contesto nazionale rappresenta l’unico settore che regista una crescita del valore aggiunto, mentre per i servizi, per l’industria in
senso stretto e per le costruzioni la contrazione su base annua raggiunge rispettivamente lo 0,6% e il 5,7% (tabella 1).
a
e
148
Tabella 1. Valore aggiunto ai prezzi base per branca (II trimestre 2012).
Dati destagionalizzati e corretti per gli effetti di calendario.
Valori concatenati (milioni di euro, anno riferimento 2005)
Branche
Valori
concatenati
Variazioni %
II trim. ’12 II trim. ’12
I trim. ’12 II trim. ’11
• Agricoltura, silvicoltura e pesca
7.060
-2,1
1,1
• Industria
75.838
-1,5
-5,8
in senso stretto
59.725
-1,4
-5,6
Costruzioni
16.240
-1,6
-6,5
• Servizi
233.106
-0,5
-1,1
commercio, alberghi, trasporti e comunicazioni
79.742
-1,1
-3,5
credito, attività immobiliari e servizi professionali
87.306
-0,3
0,2
altre attività dei servizi
65.886
-0,2
0,0
Valore aggiunto ai prezzi base
315.955
-0,8
-2,3
IVA, imp. ind. nette sui prodotti e importazioni
32.912
-1,2
-5,2
Pil ai prezzi di mercato
Fonte: Istat, 2012
348.748
-0,8
-2,6
A confronto con l’Ue, l’agricoltura italiana si presenta più dinamica, se si considera che nel secondo semestre del 2012 il valore aggiunto agricolo reale dell’Ue 27
è diminuito del -0,5% su base annua, quello dell’Ue 15 è cresciuto solo dello 0,1%
(tabella 2).
Tabella 2. Valore aggiunto agricolo (II trimestre 2012).
Dati destagionalizzati e corretti per gli effetti di calendario
Variazione %
II trim. ’12
I trim. ’12
II trim. ’12
II trim. ’11
Germania
-2,0
-4
Spagna
-0,1
+2,5
Francia
0,7
+3,6
Italia
-2,1
+1,1
Regno Unito
-2,6
-7,8
Unione Europea (15 paesi)
-0,7
+0,1
Unione Europea (27 paesi)
Fonte: Eurostat, 2012
-0,4
-0,5
Anche sul piano occupazionale il settore agricolo sembra mostrare una maggiore
reattività alla crisi economica rispetto agli altri settori dell’economia nazionale. La tabella 3 mostra infatti che il settore agricolo registra un incremento occupazionale su
base annua (+3,3%) molto più consistente di quello rilevato per l’intera economia nazionale (+0,1%).
Tabella 3. Numero occupati (II trimestre 2012). Dati destagionalizzati
Branche
Numero
occupati
Agricoltura, silvicoltura e pesca
867.068
-0,04
3,3
4.655.446
-0,30
-0,3
Industria escluse costruzioni
Costruzioni
Variazione %
II trim. ’12
II trim. ’12
I trim. ’12
II trim. ’11
1.811.008
0,20
-5,1
Servizi
15.668.505
0,30
0,7
Totale
Fonte: Istat, 2012
23.002.026
0,10
0,1
Anche nel confronto con l’Ue, l’agricoltura italiana presenta performance occupazionali migliori di quelle registrate negli altri paesi europei. Nel secondo semestre
del 2012 infatti gli occupati agricoli dell’Ue 27 sono diminuiti del -0,8% su base annua, mentre quelli dell’Ue 15 sono cresciuti solo dello 0,3% (tabella 4).
Ricerche
Paese
a
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149
Tabella 4. Numero occupati (II trimestre 2012). Dati destagionalizzati
Paese
Germania
Spagna
Francia
Italia
Regno Unito
Unione Europea (15 paesi)
Unione Europea (27 paesi)
Variazione %
II trim. ’12
I trim. ’12
1,2
-8,7
-9,0
0,3
-11,2
-7,0
-5,1
II trim. ’12
II trim. ’11
-0,4
-1,3
-2,3
3,4
3,3
0,3
-0,8
Fonte: Eurostat, 2012
15/2013
3. I caratteri strutturali dell’agricoltura italiana
a
e
150
3.1. Le aziende agricole
Sulla base dei dati definitivi del 6° Censimento Generale dell’Agricoltura dell’Istat, in Italia sono presenti circa 1 milione e 672 mila aziende agricole con una
dimensione media di 7,9 ettari di superficie totale. Il confronto intercensuario
(2000-2010) permette di evidenziare la consistente riduzione nella numerosità
aziendale (-47,8%). Questo fenomeno parallelamente all’incremento registrato nella SAU (Superficie Agricola Utilizzata) determina un consistente incremento nella SAU media aziendale (+30,6%). Questo dato testimonia il processo di ristrutturazione strutturale che continua a caratterizzare il tessuto aziendale dell’agricoltura
italiana anche sotto la spinta delle modifiche introdotte con le riforme della Politica Agricola Comune (Riforma Fischler del 2004 ed Health Check del 2009) che
si sono susseguite negli anni.
Ulteriori informazioni sulle caratteristiche strutturali dell’agricoltura italiana possono essere desunte dalla tabella 5 che riporta i dati della distribuzione della numerosità aziendale per classe di superficie agricola utilizzata. In particolare l’agricoltura italiana appare caratterizzata da uno spinto fenomeno di polverizzazione
aziendale considerando che ben il 73% del totale delle aziende ha una superficie
inferiore a 5 ettari. Le aziende agricole appaiono, quindi, ancora caratterizzate da
criticità strutturali dovute alla ridotta dimensione che non permettono l’attivazione di processi di razionalizzazione produttiva per la capitalizzazione di adeguate economie di scala.
Tabella 5. Aziende con superficie agricola utilizzata per classe di superficie agricola
utilizzata (superficie in ettari). Anno 2010
Classi di superficie
Meno di 1
1-2
2-5
5 - 10
10 - 20
20 - 50
50 ed oltre
Totale
Italia
N.
498.620
326.032
357.668
186.145
120.115
87.602
44.702
1.620.884
%
31
20
22
11
7
5
3
100
La prevalenza delle aziende agricole è condotta direttamente dal coltivatore
(93,9%). I dati riportati in tabella 6 evidenziano l’elevata incidenza delle aziende condotte con il ricorso esclusivo della manodopera familiare (78%). Ridotto è, invece,
il peso delle aziende familiari che manifestano la necessità di fare ricorso a manodopera extrafamiliare per la gestione delle attività di impresa (15,6%) e di quelle condotte con il ricorso esclusivo a manodopera salariata (5,8%).
Ricerche
Fonte: Nostra elaborazione su dati Istat
a
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151
Tabella 6. Aziende agricole per forma di conduzione. Anno 2007
Forma di conduzione
Solo manodopera familiare
Manodopera familiare prevalente
Manodopera extrafamiliare prevalente
Conduzione con salariati (in economia)
Conduzione a colonia parziaria appoderata
Altra forma
Totale generale
Italia
N.
1.314.922
183.208
78.562
98.078
537
4.132
1.679.439
%
78,3
10,9
4,7
5,8
0,03
0,2
100,0
Fonte: Nostra elaborazione su dati Istat
L’analisi delle specializzazioni produttive dell’agricoltura italiana può essere effettuata considerando la distribuzione delle aziende per orientamento produttivo
(tabella 7). Circa il 74% delle aziende agricole italiane svolgono la coltivazione di
colture arboree permanenti. Tra le aziende italiane con colture erbacee si evidenzia, inoltre, una elevata diffusione di aziende cerealicole (29,2%), con prati e pascoli permanenti (17%) e con coltivazioni foraggiere (15,7%). Minore diffusio-
ne manifestano, invece, le aziende che realizzano colture di ortive (6,9%), di patate (1,8%) e di piante industriali (3,5%). Marginale infine è la presenza di
aziende che negli ordinamenti produttivi comprendono colture di barbabietole
(0,5%) e di fiori e piante ornamentali (0,9%).
Tabella 7. Numerosità aziendale per tipo di utilizzazione dei terreni. 2010
Italia
15/2013
Aziende
di cui
a
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152
Cereali
Patate
Barbabietola da zucchero
Piante industriali
Ortive
Fiori e piante ornamentali
Foraggiere
Prati e pascoli permanenti
Colture permanenti
di cui Vite
Boschi
N.
473.257
29.220
8.379
57.285
111.682
14.093
253.794
274.486
1.192.081
388.881
328.358
% (a)
29,2
1,8
0,5
3,5
6,9
0,9
15,7
17,0
73,6
24,0
20,3
(a) La somma è superiore a 100% perché le aziende possono avere contemporaneamente più forme di utilizzazione del terreno.
Fonte: Nostra elaborazione su dati Istat
Per quanto riguarda la consistenza del patrimonio zootecnico del sistema agricolo italiano, ci si può riferire alla tabella 8. L’Italia manifesta una elevata diffusione di aziende con allevamenti bovini (60% del totale delle aziende con allevamenti). Significativa appare anche la presenza di aziende con allevamenti ovini
(24,7% del totale) e quelle con allevamenti equini (21,9% del totale). Presenta infine carattere più marginale la presenza delle aziende con allevamenti cunicoli
(4,5% del totale), bufalini (1,2% del totale) e di struzzi (0,1% del totale). Si noti che il totale delle aziende con allevamenti non corrisponde alla somma delle
aziende per singola tipologia, data la presenza di aziende che praticano il poliallevamento.
Anche il settore zootecnico italiano appare caratterizzato da un fenomeno di
spinta polverizzazione aziendale. Come si può rilevare dalla tabella 9 più del 67%
delle aziende con allevamenti presentano una consistenza del patrimonio zootecnico inferiore alla 20 Uba (Unità di Bestiame Adulto).
Tabella 8. Consistenza del patrimonio zootecnico italiano. 2010
Bovini
Bufalini
Equini
Ovini
Caprini
Suini
Avicolo
Conigli
Struzzi
Totale aziende con allevamenti
Aziende
124.210
2.435
45.363
51.096
22.759
26.197
23.953
9.346
244
206.781
Peso %
60,1
1,2
21,9
24,7
11,0
12,7
11,6
4,5
0,1
100,0
Capi
5.592.700
360.291
219.159
6.782.179
861.942
9.331.314
167.512.019
7.194.099
5.246
Tabella 9. Aziende con allevamenti per classe di Uba (Unità di Bestiame Adulto). Anno
2010
Classi di UBA
Meno di 5 UBA
Tra 5 e 19,99 UBA
Tra 20 e 99,99 UBA
Tra 100 e 499,99 UBA
Più di 500 UBA
Totale
Numero aziende
83.423
56.193
50.366
13.889
2.910
206.781
Peso %
40,3
27,2
24,4
6,7
1,4
100,0
Fonte: Nostre elaborazioni su dati Istat
3.2. Lavoro in agricoltura
Secondo i dati forniti dall’Inps nel 2010 sarebbero complessivamente 1.510.982
i lavoratori1 impegnati nel settore agricolo in Italia.
I lavoratori dipendenti in Italia sono complessivamente 1.032.666 e rappresentano circa il 68% del totale degli occupati in agricoltura. Le regioni con maggiore presenza di lavoratori agricoli dipendenti sono la Puglia (17,3% del totale nazionale), la
Calabria (13,2% del totale nazionale) e la Sicilia (13,0% del totale nazionale). Considerando i lavoratori dipendenti per categoria di contratto si osserva la netta prevalenza dei lavoratori a tempo determinato che costituiscono circa il 90% del totale dei
lavoratori dipendenti in agricoltura. I lavoratori indipendenti sono, invece, 478.316.
1
Questo dato riguarda la numerosità delle persone che hanno lavorato nel settore agricolo.
Ricerche
Fonte:Nostre elaborazioni su dati Istat
a
e
153
Si tratta in prevalenza di coltivatori diretti (94% del totale degli indipendenti) mentre molto contenuta appare la presenza di imprenditori agricoli professionali (5% del
totale degli indipendenti). Del tutto marginale è oramai la presenza dei coloni e dei
mezzadri (0,2%) che nel dopoguerra caratterizzavano la gestione di parti consistenti del patrimonio agricolo meridionale (tabella 10).
15/2013
Tabella 10. Gli occupati in agricoltura. 2010
a
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154
Numero lavoratori dipendenti
Peso %
Lavoratori a tempo determinato
Peso %
Lavoratori a tempo indeterminato
Peso %
Coltivatori diretti
Coloni e mezzadri
Imprenditori agricoli professionali
Numero lavoratori autonomi
Peso %
Totale
Nord
285.485
27,4
232.039
25,9
56.832
51,0
246.947
225
6.027
253.199
52,8
538.684
Centro
120.286
11,7
100.610
10,8
21.371
19,1
78.195
210
4.946
83.351
17,5
203.637
Mezzogiorno
626.895
60,7
596.587
64,2
33.323
29,9
128.001
359
13.406
141.766
29,6
768.661
Totale
1.032.666
100
929.236
100
111.526
100
453.143
794
24.379
478.316
100
1.510.982
Fonte: Nostre elaborazioni su dati Inps
In questa sede è infine opportuno svolgere un approfondimento su alcune caratteristiche dei capi azienda. Dalla tabella 11 si può osservare come le imprese agricole italiane siano caratterizzate da capi azienda con un basso grado di formazione. Solo 13,6 capi azienda su cento hanno, infatti, beneficiato di una qualche formazione
di tipo agricolo. L’agricoltura italiana si caratterizza inoltre per la marcata senilizzazione dei capi azienda. In Italia infatti l’indice di ricambio generazionale – misurato
dal rapporto tra imprenditori agricoli con meno di 35 anni sugli over 65 – è pari ad
appena il 6,6 per cento, a fronte del 18 per cento della media comunitaria, del 51 per
cento della Francia e del 104 per cento della Germania.
Tabella 11. Caratteristiche dei capi azienda in agricoltura
Ripartizione
territoriale
Nord
Centro
Mezzogiorno
Italia
% di capi azienda con formazione agricola
completa o di base (2005)
19,8
9,6
8,5
13,6
Fonte: Nostre elaborazioni su dati Istat
Indice di ricambio
generazionale (2007)
8,40
5,49
6,19
6,63
3.3. Commercializzazione e multifunzionalità
Le modalità di commercializzazione delle produzioni aziendali hanno importanti ripercussioni sulle performance di redditività di impresa. Come si può osservare nella tabella 12 la prevalenza delle imprese agricole italiane commercializza le proprie produzioni senza vincoli contrattuali instaurando rapporti informali con i soggetti
industriali o commerciali. Solo 8 imprese su cento stipulano contratti formali per la
commercializzazione delle proprie produzioni. L’agricoltura italiana presenta, inoltre,
una ridotta diffusione delle forme di commercializzazione mediante organismi associativi.
Ripartizione
territoriale
Vendita con
vincoli contrattuali ad imprese
industriali o commerciali
Valore
assoluto
%
Nord
52.583
11,7
Centro
18.589
6,9
Mezzogiorno
63.059
6,6
Italia
134.229
8,0
Vendita
ad organismi
associativi
Valore
assoluto
%
146.658
32,6
44.537
16,6
139.468
14,5
330.664
19,7
Vendita senza
vincoli
contrattuali
Valore
assoluto
%
226.798
50,4
85.645
31,9
433.605
45,1
746.050
44,4
Fonte: Nostre elaborazioni su dati Istat
Le occasioni di integrazione del reddito aziendale mediante l’attivazione di attività remunerative alternative costituiscono un importante fattore di competitività per
le imprese agricole. La figura 1 dimostra l’elevata diffusione in Italia di conduttori
aziendali agricoli con attività connesse.
Figura 1. Conduttori di aziende agricole con attività remunerative alternative. 2007
Fonte: Nostre elaborazioni su dati Eurostat
Ricerche
Tabella 12. Commercializzazione contrattuale e non contrattuale. 2010
a
e
155
Per analizzare il grado di diffusione di attività multifunzionali in Italia si può
fare riferimento alla tabella 13. L’Italia si caratterizza, in particolare, per l’elevata
diffusione di aziende con vendita diretta e di quelle che applicano il disciplinare
biologico per la produzione o trasformazione delle produzioni aziendali.
In Italia viceversa si rileva una minore diffusione di attività agrituristiche autorizzate e di imprese che realizzano produzioni a marchio comunitario Dop e/o
Igp.
Tabella 13. L’agricoltura multifuzionale in Italia e nel Mezzogiorno. 2010
15/2013
Vendita
diretta
(2007)
a
e
156
Produttori Superfici Dop
Aziende
Operatori Superfici
di Dop e Igp
e Igp (ha) agrituristiche
biologici biologico
(2008)
(2008) autorizzate (2010) (2010) (ha) (2010)
Nord
64.234
38.117
37.412,02
12.386
10.735
158.469
Centro
60.383
18.175
67.405,74
15.455
12.041
221.688
Mezzogiorno
246.162
19.671
27.432,30
4.118
27.289
691.469
Italia
370.782
75.963
132.250,06
19.973
47.663
1.113.742
Fonte: Nostre elaborazioni su dati Istat e SINAB
4. I caratteri strutturali dell’industria alimentare italiana
Il settore della trasformazione dei prodotti agroalimentari rappresenta un comparto particolarmente significativo all’interno del sistema produttivo nazionale sia
per la sua dimensione quantitativa sia per il ruolo che esso assume nell’assetto sociale, ambientale e culturale del paese.
Sotto il profilo quantitativo esso rappresenta il secondo comparto manifatturiero italiano, dopo la meccanica, e contribuisce in misura determinante all’affermazione del made in Italy nel mondo. Nel 2010, infatti, l’industria alimentare nazionale ha realizzato complessivamente un fatturato di 124 miliardi di euro
(Federalimentare, 2011) contribuendo per il 15% al totale del fatturato del settore manifatturiero italiano (figura 2).
Fonte: Nostre elaborazioni su dati Istat, 2011
Le imprese attive nell’industria alimentare, delle bevande e del tabacco sono
59.7992. Si tratta in particolare di 56.432 imprese del comparto dell’industria alimentare, di 3.298 del comparto dell’industria delle bevande e di 69 imprese del comparto dell’industria del tabacco. Le imprese dell’industria alimentare, delle bevande
e del tabacco rappresentano l’1,1% del totale delle imprese attive in Italia e il 10,9%
delle imprese del settore manifatturiero.
A livello regionale la maggiore numerosità delle imprese dell’industria alimentare, delle bevande e del tabacco si rileva in Campania (12% del totale), Sicilia (11,9%),
Lombardia (9,9%) ed Emilia-Romagna (8,2%). Una maggiore specializzazione nel
settore delle imprese alimentari si registra, invece, in Calabria (26,2% delle imprese
manifatturiere e 2,2% del totale), Molise (23,4% delle imprese manifatturiere 1,7%
del totale) e Sicilia (23,2% delle imprese manifatturiere 1,9% del totale).
Nel 2009 gli occupati nel settore dell’Industria alimentare delle bevande e del tabacco erano 434.5203. Gli occupati nell’industria alimentare, delle bevande e del tabacco rappresentano il 2,9% del totale degli addetti in Italia e l’11,6% degli occupati
nel settore manifatturiero. A livello regionale la maggiore numerosità degli addetti nell’industria alimentare, delle bevande e del tabacco si rileva in Lombardia (16,2% del
totale), Emilia-Romagna (12,1%), Campania (9,9%) e Veneto (9,8%).
2
3
Infocamere (2011).
Inps (2011).
Ricerche
Figura 2. L’industria alimentare nel contesto delle attività manifatturiere in Italia (2009)
a
e
157
Box 1. Investimenti e costo del lavoro
L’industria alimentare presentava nel 2008 un valore del rapporto tra il fatturato e le ore lavorate
dai dipendenti pari a 207 euro. Si tratta di un dato superiore a quello registrato per l’intero settore manifatturiero dove il rapporto si attesta sui 156 euro. Anche il rapporto tra il valore della produzione e le ore lavorate dai dipendenti dell’industria alimentare (197 euro) risulta superiore a quello relativo all’intero settore manifatturiero (151 euro).
Prospetto 1. Indicatori caratteristici dell’industria alimentare e del settore manifatturiero
(1a parte)
15/2013
Settore
a
e
158
Fatturato
– Migliaia
di euro
Fatturato/
ore
lavorate
Valore
della produzione
– Migliaia
euro
Valore della
produzione/
ore lavorate
Numero di
ore lavorate
dai dipendenti
– Migliaia euro
Industria
manifatturiera
978.130.059
156
948.297.472
151
6.289.118
Industria
alimentare
103.119.607
207
97.992.917
197
498.386
Fonte: Nostre elaborazioni su dati Istat, 2008
L’industria alimentare presentava nel 2008 un rapporto tra il valore dei salari e stipendi e
le ore lavorate dai dipendenti pari a 14 euro. Si tratta di un dato inferiore a quello registrato
per l’intero settore manifatturiero dove il rapporto si attesta sui 16 euro. Il rapporto tra il
valore degli investimenti lordi in beni materiali e le ore lavorate dai dipendenti dell’industria alimentare (9 euro) risulta, invece, superiore a quello relativo all’intero settore manifatturiero (6 euro).
Prospetto 2. Indicatori caratteristici dell’industria alimentare e del settore manifatturiero
(2a parte)
Settore
Salari e stipendi Salari e
– Migliaia
stipendi/
euro
ore lavorate
Investimenti
lordi in beni
materiali –
Migliaia euro
Investimenti/
ore lavorate
Numero di ore
lavorate dai
dipendenti –
Migliaia euro
Industria
manifatturiera
97.840.736
16
38.363.915
6
6.289.118
Industria
alimentare
7.072.330
14
4.272.918
9
498.386
Fonte: Nostre elaborazioni su dati Istat, 2008
Figura 3. Il fatturato nei comparti dell’industria alimentare (2009)
Ricerche
L’industria alimentare è composta da 9 comparti principali. Del settore fanno parte, infatti, comparti tipici del sistema industriale italiano come quello della lavorazione
delle carni e dei suoi derivati, della pasta, delle conserve alimentari vegetali, del riso.
Gli altri comparti del vino e dell’olio di oliva forniscono prodotti essenziali del made in Italy alimentare. Del settore fanno parte, infine, comparti in cui il nostro paese è importatore netto dall’estero come quello dell’olio di semi, dell’industria lattiero-casearia e dell’industria mangimistica.
La categoria «altri prodotti alimentari» costituisce il più grande sottosettore dell’industria alimentare e delle bevande italiana rappresentando il 41% del fatturato totale. Si tratta di un gruppo eterogeneo che comprende prodotti da forno, pasticceria, cioccolato e prodotti dolciari, pasta e alimenti per bambini. Il comparto delle carni,
quello delle bevande e quello lattiero-caseario sono invece i comparti chiave del settore e, insieme con la categoria «altri prodotti alimentari», contribuiscono per l’83%
alla formazione del fatturato (figura 3).
a
e
159
Fonte: Nostra elaborazione su dati Federalimentare, 2010
L’export dell’industria alimentare italiana, nel 2010, ha raggiunto i 22,2 miliardi
di euro registrando un significativo incremento rispetto all’anno precedente
(+10,7%). In particolare, i prodotti dell’industria alimentare contribuiscono per
il 6,6% al totale dell’export nazionale. Germania, Francia, Stati Uniti d’America,
Regno Unito e Svizzera sono i principali paesi di destinazione delle esportazioni
di prodotti alimentari italiani. Sul piano merceologico le esportazioni riguardano
in particolare la pasta, le conserve di pomodoro, i vini, i prodotti dolciari e l’olio
d’oliva (figura 4).
Anche le importazioni nazionali sono cresciute considerevolmente nell’ultimo anno (+11,5%) raggiungendo il valore di 25,2 miliardi di euro. Il risultato di questo trend
è stato un ulteriore peggioramento del valore del saldo commerciale dei prodotti alimentari che ha raggiunto un disavanzo di 3,1 miliardi di euro. Germania, Francia, Spagna, Paesi Bassi e Austria sono i paesi da cui provengono in prevalenza prodotti alimentari importati in Italia. Sul piano merceologico, infine, le importazioni riguardano
prevalentemente i seguenti prodotti: pesci lavorati; panelli, farine e mangimi; carni suine semilavorate; crostacei e molluschi congelati e olio di oliva vergine ed extravergine.
15/2013
Figura 4. Composizione dell’export alimentare italiano (2010)
a
e
160
Fonte: Nostra elaborazione su dati Federalimentare, 2011b
Box 2. Produttività del lavoro
Il valore della produttività del lavoro dell’industria alimentare italiana nel 2010 era pari a circa
70 mila euro per addetto. Si tratta di una performance superiore a quella registrata a livello europeo dove si registra un valore della produttività del lavoro di circa 38 euro per addetto.
Prospetto 3 – Evoluzione nella produttività del lavoro dell’industria alimentare italiana
Anno
2006
2007
2008
2009
2010
Valore aggiunto
(milioni di euro)
24.977,6
25.044,1
24.921,0
24.468,8
25.044,3
Fonte: Nostre elaborazioni su dati Istat, Inps
Occupati
(migliaia di persone)
328,2
338,6
346,1
348,4
354,8
Produttività
(mila euro/addetto)
76,1
74,0
72,0
70,2
70,6
Il prospetto 3 permette però di rilevare il trend decrescente che caratterizza la produttività del lavoro dell’industria alimentare in Italia che nel periodo 2006-2010 è diminuita del 7,3%.
Nel 2011 l’Italia ha registrato oltre 30 miliardi di euro di esportazioni agro-alimentari, a fronte di oltre 40 miliardi di euro di importazioni, con un disavanzo di
oltre 10 miliardi di euro. L’export italiano di prodotti agroalimentari è aumentato
dell’8,5% nel 2011 e del 12,8% nel 2010, trainato soprattutto dalle esportazioni extra Ue che negli ultimi anni, ad eccezione del 2009 quando hanno registrato una riduzione, sono aumentate ad un tasso maggiore di quelle comunitarie (tabella 14).
Il 68% delle esportazioni agroalimentari italiane sono dirette verso i paesi Ue e solo il 32% nei paesi terzi. Negli ultimi dieci anni le aree di destinazione sono rimaste
pressoché le stesse (tra il 2001 e il 2011 l’export comunitario è aumentato del 5% medio annuo, quello extra Ue del 5,4% medio annuo). I principali paesi clienti (Germania, Francia, Regno Unito, Stati Uniti, Svizzera, Spagna, Austria), hanno perso parte del loro peso, continuando tuttavia a ricevere il 59% del prodotto italiano (nel 2001
ricevevano complessivamente il 67%). Hanno invece aumentato il loro peso relativo altri paesi clienti quali la Cina, la Romania, la Russia, la Repubblica Ceca, la Polonia, l’Austria e i Paesi Bassi. Si tratta tuttavia di mercati ancora piuttosto marginali per l’Italia (ricevono una percentuale delle esportazioni italiane compresa tra il 3,6%
dei Paesi Bassi e lo 0,6% della Cina) (tabella 15).
Tabella 14. Interscambio commerciale con l’estero
mln €
Peso % (a)
Export
Totale, di cui:
375.850
Agroalimentare, di cui:
30.160
8,0
Agricoltura
5.770
19,1
Industria alimentare
24.390
80,9
Import
Totale, di cui:
400.480
Agroalimentare, di cui:
40.463
10,1
Agricoltura
12.980
32,1
Industria alimentare
27.483
67,9
Saldo
Totale, di cui:
-24.630
Agroalimentare, di cui:
-10.303
41,8
Agricoltura
-7.210
70,0
Industria alimentare
-3.093
42,9
(a) Il peso % si riferisce agli scambi totali per la voce «Agroalimentare» e agli scambi di prodotti agroalimentari per le voci «Agricoltura» e «Industria alimentare»
Fonte: Ismea, 2012
Ricerche
5. Bilancia commerciale
a
e
161
15/2013
Tabella 15. Interscambio commerciale con l’estero del settore agroalimentare italiano
a
e
162
Export
Agroalimentare, di cui:
Ue, di cui
Germania
Francia
Regno Unito
Extra Ue, di cui
Stati Uniti
Svizzera
Giappone
Import
Agroalimentare, di cui:
Ue, di cui
Francia
Germania
Spagna
Extra Ue, di cui
Argentina
Brasile
Stati Uniti
Saldo
Agroalimentare
Ue
Extra Ue
Fonte: Ismea, 2012
mln €
Peso % (a)
30.160
20.543
5.706
3.608
2.475
9.618
2.478
1.197
608
100,0
68,1
18,9
12,0
8,2
31,9
8,2
4,0
2,0
40.463
28.407
6.086
5.884
3.800
12.057
1.003
914
747
100,0
70,2
15,0
14,5
9,4
29,8
2,5
2,3
1,8
-10.303
-7.864
-2.439
100
76,3
23,7
Tra i gruppi di prodotti agroalimentari, quelli per cui l’Italia ha presentato nel 2011
un livello di export nettamente superiore all’import sono stati: «bevande alcoliche e
non alcoliche e aceto» (che comprende il vino), «pasta, pane e prodotti della pasticceria e biscotteria» e «preparazioni di ortaggi, legumi e frutta». Quelli per cui, invece, è stata particolarmente deficitaria sono stati: «animali vivi», «tabacchi», «pesci, molluschi e crostacei freschi, congelati, secchi, salati e affumicati», «zucchero e prodotti
a base di zucchero», «cereali», «panelli, farine e mangimi», «semi e frutti oleosi», «carni fresche, congelate, conservate, stagionate, secche e salate», «grassi e oli animali o
vegetali» e «latte e derivati, uova, miele».
Nel 2011, tra i principali prodotti esportati, è aumentato in misura più consistente
l’export di caffè, mele e pere fresche, formaggi e latticini, succhi di frutta, carni bovine fresche, acqueviti e vini e mosti (soprattutto spumanti e vini sfusi). Al contrario
hanno subito una contrazione delle esportazioni alcuni prodotti ortofrutticoli freschi
Tabella 16. Bilancia commerciale agroalimentare italiana per gruppi di prodotto
(milioni di euro)
Gruppi di prodotto
Bevande alcoliche e non alcoliche
Pasta, pane e prodotti della
pasticceria e biscotteria
Preparazioni di ortaggi, legumi e frutta
Frutta fresca e secca
Preparazioni alimentari diverse
Export
Import
Saldo
6.110
3.485
1.524
1.192
4.586
2.293
Exp.
20,3
11,6
2.883
2.864
1.408
1.066
2.207
861
1.617
658
547
8,9
9,5
4,7
Peso %
Imp.
3,9
3,1
2,8
5,7
2,2
Ricerche
quali: albicocche, ciliegie, prugne, pesche e nettarine, agrumi e kiwi tra la frutta, e pomodori, cavoli, cavolfiori, cavoli ricci, cavoli rapa e simili, lattughe e cicorie tra gli ortaggi. Stabili o in crescita più contenuta sono risultate le esportazioni degli altri prodotti dell’agroalimentare.
Relativamente alle importazioni sono aumentate moltissimo quelle di caffè
(+44,1%), di cerali (+40,9%), in particolare di mais (+65%), di zucchero e prodotti a base di zucchero (+36,9%), anche in relazione al forte aumento dei prezzi internazionali. Consistente è stato anche l’incremento delle importazioni di molluschi, cacao in grani, latte e crema di latte, formaggi e latticini, preparazioni e conserve di pesce.
L’import di alcuni tipi di ortaggi, di acqueviti e liquori, di fiori, di animali vivi e di
tabacchi è, invece, risultato in contrazione. Le importazioni degli altri principali prodotti sono, invece, aumentate in misura contenuta.
Tra i prodotti agroalimentari ve ne sono alcuni che rappresentano l’eccellenza dell’agroalimentare nazionale e costituiscono il cosiddetto made in Italy. Si tratta di prodotti che nel 2011 hanno rappresentato il 65,9% delle esportazioni agroalimentari
complessive. I prodotti maggiormente esportati sono i vini e gli spumanti, che costituiscono il 22% del made in Italy agroalimentare, seguiti dalla frutta fresca e secca, dalle preparazioni di ortaggi, legumi e frutta, dalla pasta e dai formaggi e latticini. Nel 2011 le esportazioni del made in Italy agroalimentare sono cresciute del 6,8%,
in misura inferiore rispetto al totale agroalimentare (+8,5%). Tassi di crescita a due
cifre sono stati registrati per: formaggi e latticini (+15,1%), in particolare formaggi
grana e parmigiano (+20,6%), vini e spumanti (+12,4%), soprattutto spumanti
(+23,2%), e succhi di frutta e agrumi (+12,7%). In aumento anche le esportazioni
di frutta fresca e secca, prodotti della panetteria, biscotteria e pasticceria, pasta, olio
d’oliva, prodotti dolciari a base di cacao, preparazioni e conserve suine, aceti e vermut. Tra i prodotti del made in Italy solo gli ortaggi freschi hanno registrato una consistente riduzione delle esportazioni (-10,1%), seguiti da una modesta contrazione delle esportazioni di riso semilavorato e lavorato (-3,4%). Sostanzialmente stabile
l’export delle conserve di pomodoro (tabella 16).
a
e
163
15/2013
Tabella 16 (segue)
a
e
164
Gruppi di prodotto
Export
Import
Saldo
Cacao e sue preparazioni
Fiori e piante ornamentali
Altri prodotti
Ortaggi e legumi freschi e secchi
Preparazioni di carni, pesci,
molluschi e crostacei
Caffè, tè e spezie
Semi e frutti oleosi
Zucchero e prodotti a base di zucchero
Panelli, farine e mangimi
Grassi e oli animali o vegetali
Animali vivi
Latte e derivati, uova, miele
Tabacchi
Cereali
Carni fresche, congelate, conservate,
stagionate, secche, salate
Pesci, molluschi e crostacei vivi, freschi,
congelati, secchi, salati e affumicati
Fonte: Ismea, 2012
1.121
678
514
1.214
725
946
901
558
648
1.362
1.243
1.542
220
120
-133
-148
-518
-596
Exp.
3,7
2,3
1,7
4,0
2,4
3,1
Peso %
Imp.
2,3
1,4
1,7
3,5
3,2
4,0
382
276
531
1.726
44
2.192
220
758
1.795
1.012
1.163
1.755
3.004
1.551
3.846
2.219
2.883
4.570
-629
-887
-1.244
-1.318
-1.508
-1.654
-1.999
-2.125
-2.775
1,3
0,9
1,8
5,7
0,1
7,3
0,7
2,5
6,0
2,6
3,0
4,5
7,9
4,0
10,0
5,7
7,5
11,8
394
3.503
-3.110
1,3
9,1
6. Distribuzione alimentare
Nel 2010 il valore delle vendite nel settore alimentare è stato pari a circa 126 miliardi di euro. Le vendite di prodotti alimentari costituiscono circa il 45% del totale
delle vendite realizzate dal settore della distribuzione nazionale (tabella 17).
Tabella 17. Vendite nel settore alimentare anno 2010 (milioni di euro)
Regioni
Altri esercizi
Grande distribuzione
Nord Ovest
8.985,00
26.550,50
Nord Est
4.960,30
21.727,40
Centro
9.526,00
17.276,80
Sud e Isole
21.591,00
15.341,80
Italia
45.062,40
80.896,50
Fonte: Nostra elaborazione su dati dell’Osservatorio sul commercio, 2011
Totale esercizi
35.535,50
26.687,70
26.802,80
36.932,90
125.958,90
La tabella 18 permette di evidenziare che sono complessivamente circa 122 mila
i punti vendita specializzati in prodotti alimentari.
Gli esercizi alimentari rappresentano in particolare circa il 16% del totale dei punti vendita specializzati.
Tabella 18. Distribuzione al dettaglio per classe merceologica e superficie di vendita
dichiarata
2010
Sede
Unità locale
Esercizi non specializzati
85.120
37.144
Alimentari specializzati
100.691
21.829
Carburante per autotrazione
19095
6.056
Apparecchiature informatiche
9.968
5.308
Prodotti per uso domestico
88.508
28.081
Articoli culturali e ricreativi
55.072
11.433
Altri esercizi specializzati
213.582
94.478
Totale
572.036
204.329
Fonte: Nostra elaborazione su dati dell’Osservatorio sul commercio, 2011
Totale
122.264
122.520
25.151
15.276
116.589
66.505
308.060
776.365
Tra gli esercizi non specializzati che commercializzano in prevalenza prodotti alimentari e bevande (tabella 19) si evidenzia la preponderanza delle strutture commerciali di ridotte dimensioni (minimercati e superette). Viceversa si registra una più
ridotta diffusione delle strutture di maggiore dimensioni (supermercati e ipermercati) che rappresentano circa il 15% del totale degli esercizi non specializzati che commercializzano in prevalenza prodotti alimentari e bevande.
Tabella 19. Esercizi non specializzati con prevalenza di prodotti alimentari e bevande
Esercizi non specializzati
2010
Sede
Unità locale
Non specificato
14.257
4.148
Ipermercati
49
612
Supermercati
3.773
9.703
Discount di alimentare
154
707
Minimercati e altri esercizi
46.948
13.919
Prodotti surgelati
937
468
Totale
66.118
29.557
Fonte: Nostra elaborazione su dati dell’Osservatorio sul commercio, 2011
Totale
18.405
661
13.476
861
60.867
1.405
95.675
La tabella 20 permette di svolgere un approfondimento sulle caratteristiche degli
esercizi alimentari specializzati. Come si può osservare circa il 28% dei punti vendita è specializzato nella commercializzazione di carni e di prodotti a base di carne. Seguono in termini di importanza gli esercizi specializzati nella commercializzazione di
Ricerche
Gruppo merceologico
a
e
165
frutta e verdura (17%) e quelli che si occupano esclusivamente della vendita di pane, torte, dolciumi e confetteria. Più ridotta appare, infine, la diffusione sia di esercizi specializzati nella vendita di pesci, crostacei e molluschi (7%) sia di quelli che commercializzano esclusivamente bevande (5%).
Tabella 20. Prodotti alimentari, bevande e tabacco in esercizi specializzati
15/2013
Prodotti alimentari, bevande e tabacco
in esercizi specializzati
a
e
166
2010
Sede
Unità locale
Non specificato
1.579
827
Frutta e verdura
16.484
4.041
Carni e di prodotti a base di carne
29.129
4.805
Pesci, crostacei e molluschi
6.233
2.258
Pane, torte, dolciumi e confetteria
7.597
4.516
Bevande
3.872
1.907
Prodotti del tabacco
29.699
946
Altri prodotti alimentari in esercizi specializzati 6.108
2.529
Totale
100.701
21.829
Fonte: Nostra elaborazione su dati dell’Osservatorio sul commercio, 2011
Totale
2.406
20.525
33.934
8.481
12.113
5.779
30.645
8.637
122.520
7. I consumi
La spesa delle famiglie italiane per alimentari, bevande e tabacco, calcolata a valori concatenati, è diminuita nel 2011 dell’1,1% (dopo il +0,5% del 2010); in particolare a risultare in flessione sono i consumi di generi «alimentari e bevande non alcoliche» (-1,3%), mentre è risultata piuttosto stabile la spesa per bevande alcoliche e
tabacchi. La tabella 21 riporta questi dati nell’elaborazione Ismea che mette a confronto tutte le voci di spesa per i consumi finali delle famiglie.
Tabella 21. Spesa per consumi finali delle famiglie
(valori concatenati, anno di riferimento 2005)
Alimentari, bevande e tabacco
alimentari e bevande non alcoliche
bevande alcoliche, tabacco/narcotici
Vestiario e calzature
Abitazione, acqua, elettricità, gas ed altri combustibili
Mobili, elettrodomestici e manutenzione casa
Sanità
Trasporti e comunicazione
Var. % annua
2010-2011
-1,1
-1,3
0,1
-0,4
1,1
1,8
2,1
-1,3
trasporti
comunicazione
Ricreazione, cultura e istruzione
ricreazione e cultura
istruzione
Alberghi e ristoranti
Beni e servizi vari
Totale sul territorio economico
Totale beni
beni durevoli
beni semidurevoli
beni non durevoli
Servizi
Fonte: Ismea, 2012.
Var. % annua
2010-2011
-1,7
0,6
2,7
3,2
-1,2
2,0
-0,7
0,4
-0,9
-1,8
-0,3
-0,8
1,8
Secondo i dati provenienti dal panel famiglie Ismea, la contrazione della spesa nazionale è ascrivibile a tutti i comparti alimentari, ad eccezione degli aggregati «olio di
oliva» e «carni suine e salumi». In particolare, come si evince dalla figura 5, nel 2010
la spesa delle famiglie italiane si è concentrata su latte e derivati, altri alimenti e bevande analcoliche e derivati dei cereali.
Figura 5. Composizione della spesa domestica agroalimentare in Italia per aggregato
di prodotto gennaio-dicembre 2010 (%)
Fonte: Ismea, 2012.
Ricerche
Tabella 21 (segue)
a
e
167
Con riferimento alle aree geografiche, tutte le regioni hanno visto un calo della spesa agroalimentare domestica nel corso del 2010 con una leggera ripresa negli ultimi
tre mesi dell’anno. Dalla figura 6 si evidenzia uno scarto importante nei consumi tra
Nord-est (19,4%) e Sud, dove, nonostante il calo dei consumi, si sono registrati acquisti in valore per oltre il 30% della spesa totale delle famiglie.
Rispetto ai canali di vendita, i preferiti dalle famiglie restano iper e supermercati
che pure hanno risentito del calo della spesa. Gli unici esercizi a non aver sofferto nel
2010 sono i liberi servizi e discount che hanno presentato risultati particolarmente
positivi nella prima metà dell’anno.
Figura 6. Composizione della spesa domestica agroalimentare per area geografica
e canale di vendita gennaio-dicembre 2010 (%)
Fonte: Ismea, 2012
Tabella 22. Dinamica tendenziale delle quantità acquistate e dei prezzi per i prodotti
con le migliori e peggiori performance
Ortaggi IV gamma
0,8
Quantità Var. %
gen.-dic. 2010
/ gen.-dic. 2009
8,0
Sostituti del pane
1,7
4,3
Olio di oliva
extravergine
Prodotti prima
colazione e dolciumi
Pollo
Grana padano
Latte fresco
Yogurt
Uova
1,1
4,1
3,6
3,1
Quota %
in valore
gen.-dic. 2010
/ gen.-dic. 2009
Tonno al naturale
1,4
e sott’olio
Vino (Doc-Docg,
2,8
comuni e IGT)
Conserve di
0,8
pomodoro
Ortaggi e legumi
5,8
1,9
1,0
2,3
2,8
0,9
2,7
2,2
2,2
1,8
1,0
Pasta di semola
Pane
Salumi Dop
Mele
Parmigiano reggiano
I migliori
Quota %
in valore
gen.-dic. 2010
I peggiori
1,7
4,2
0,8
0,9
1,0
Quantità Var. %
gen.-dic.
2010
-0,5
-1,3
-1,7
-1,8
-1,8
-2,7
-2,7
-3,1
-5,2
I migliori
Quota %
in valore
gen.-dic. 2010
Latte UHT
2,2
Quantità Var. %
gen.-dic. 2010
/ gen.-dic. 2009
0,9
Ortaggi e legumi
surgelati
Carne suina
Fonte: Ismea, 2012
1,1
0,4
Carne bovina
naturale
Pere
2,2
0,3
Tacchino
I peggiori
Quota %
in valore
gen.-dic. 2010
/ gen.-dic. 2009
6,0
Quantità Var. %
gen.-dic.
2010
-5,3
0,5
-6,3
0,5
-8,1
La tabella 22 evidenzia le categorie di prodotti che hanno subito una riduzione dei
consumi e quelle che invece ne hanno visto un aumento. Sulla base del confronto tra
questi dati, l’Ismea trae alcune considerazioni, di cui riportiamo qualche esempio: al
calo nel consumo di formaggi convenzionali e Dop (v. parmigiano nella colonna di
destra) fa corrispondere un aumento nel consumo di latte fresco e yogurt; si riduce
il consumo di carne bovina e tacchino, ma aumenta, seppure in misura inferiore alla riduzione, quello di carne suina e pollo; nell’ambito degli ortaggi cresce la richiesta dei prodotti di IV gamma (i freschi confezionati), mentre per i prodotti freschi il
2010 si è chiuso in flessione.
Ricerche
Tabella 22 (segue)
a
e
169
8. Catena del valore agroalimentare
Negli ultimi anni, i meccanismi di funzionamento delle filiere agroalimentari sono tornati al centro dell’interesse dell’opinione pubblica. In una comunicazione del
20094 la Commissione Europea aveva identificato innanzitutto negli squilibri a livello
di potere negoziale e nell’iniquità di ripartizione dei margini di profitto lungo la catena alimentare le cause di malfunzionamento delle filiere agroalimentari europee. Il
problema dell’efficienza e dell’equità rappresenta una criticità per la filiera agroalimentare del nostro paese. Una indagine condotta nel 2008 dall’Autorità Garante della concorrenza e del mercato5 aveva evidenziato l’eccessiva lunghezza che caratterizza la filiera agroalimentare contando in media più di 2,5 intermediazioni tra
produzione e consumo finale. Il risultato di questa organizzazione farraginosa finiva
per tradursi in prezzi finali in media superiori del 200% rispetto a quelli pagati alla
produzione (figura 7).
4
5
Com(2009)0591.
Indagine conoscitiva sulla distribuzione agroalimentare (Ic/28).
15/2013
Figura 7. La catena del valore dei prodotti dell’agricoltura
a
e
170
Fonte: Ismea, 2012
Uno studio condotto dall’Ismea6 pubblicato nel luglio 2012 evidenzia che, considerando i prodotti agricoli freschi o non soggetti a trasformazione industriale,
«in un decennio la remunerazione della fase agricola si è ridotta di quasi 6 euro
su ogni 100 spesi dal consumatore. In altre parole la quota di valore ‘trattenuta’
dall’agricoltura è passata dal 25,6% del 2000 al 20% del 2009, mentre è aumentato nello stesso periodo il margine di tutte le attività che intervengono tra
il ‘cancello’ dell’azienda agricola e il punto di vendita dove si registra l’acquisto
finale. In sostanza, il cosiddetto marketing share, che remunera logistica, distribuzione e vendita e che include il pagamento delle imposte sul consumo, ha raggiunto nel 2009 una quota pari al 73% del valore di filiera, mentre rappresentava il 68% nel 2000.
Nel caso dei prodotti trasformati, la quota agricola scende ulteriormente, passando dall’8,5% nel 2000 al 6% nel 2009. Cede valore anche la fase industriale
(dal 45,8% al 42,2%), mentre passano dal 39 al 42 per cento i margini degli attori distributivi» (figura 8).
6
Check up 2012: la competitività dell’agroalimentare italiano.
Ricerche
Figura 8. La catena del valore dei prodotti dell’industria alimentare
Fonte: Ismea, 2012
9. Alcune proposte
I risultati dell’analisi condotta in precedenza evidenziano lo scenario complesso
e articolato in cui attualmente si trovano ad operare i soggetti del sistema agroalimentare. Allo stato attuale molte sono le incognite su quello che sarà il reale impatto
che la crisi economica mondiale avrà sul settore agricolo mondiale. D’altronde i fenomeni di neocolonialismo agricolo denunciati in precedenza, la crescente globalizzazione dei mercati agroalimentari, il consolidamento di posizioni dominanti nel
controllo dei mezzi di produzione da parte di grandi multinazionali evidenziano la
necessità di adottare immediatamente misure di concreto governo del settore agroalimentare mondiale. In tal senso è necessario chiamare le autorità sovrannazionali
preposte (Fao, Wto) ad assumere, immediatamente, un maggiore ruolo adottando
decisioni che garantiscano un governo più sostenibile del settore agroalimentare a
livello mondiale.
Anche il sistema agroalimentare italiano necessita di una maggiore e più incisiva governance. Il consolidamento del settore agroalimentare nazionale può avvenire
solo attraverso l’implementazione di una strategia organica che facendo leva sulle
vocazioni produttive territoriali punti al conseguimento dei seguenti obiettivi
strategici:
a
e
171
15/2013
a
e
172
• valorizzazione del capitale umano impegnato nel settore attraverso l’implementazione di adeguate azioni di ricambio generazionale e di formazione degli addetti
di settore, e mediante la creazione di una offerta adeguata di servizi e di assistenza tecnica per la diffusione di innovazioni tecnologiche e metodiche produttive sostenibili;
• introdurre idonei strumenti di funzionamento del mercato del lavoro in agricoltura che prevedano un adeguato protagonismo dei soggetti pubblici per contenere la diffusione del lavoro nero, dei fenomeni di caporalato e per promuovere una
migliore integrazione dei lavoratori migranti del settore;
• promuovere maggiore diffusione delle prassi dell’associazionismo e della cooperazione può rappresentare al riguardo uno strumento importante per provare a combattere gli squilibri di mercato causati alle grandi concentrazioni che riguardano
sia l’anello dell’industria alimentare caratterizzato dalla presenza di grandi multinazionali sia quello della commercializzazione dove operano grandi player internazionali della grande distribuzione organizzata;
• valorizzare le produzioni agroalimentari di qualità cogliendo a pieno le occasioni
offerte dalla crescente sensibilità manifestata dai consumatori verso la salubrità e
la sicurezza alimentare, la tipicità e la differenziazione dei beni e dei servizi offerti dal settore agricolo. L’Italia conta, infatti, ben 198 prodotti a marchio comunitario (Dop, Igp) che testimoniano la propensione alla qualità e all’eccellenza che
caratterizza le produzioni agroalimentari nazionali. Si tratta di una importante leva competitiva per il nostro sistema agroalimentare che potrà dispiegare a pieno i
suoi effetti positivi solo garantendo condizioni certe di tutela e di valorizzazione
sui mercati internazionali che preservino le nostre produzioni nazionali di qualità dai fenomeni di agropirateria. Lo sviluppo dei prodotti di qualità potrà inoltre
avere un positivo effetto di traino anche per le altre produzioni agroalimentari italiane consolidando le posizione acquisite sui mercati internazionali;
• promuovere un’azione di ammodernamento delle aziende agricole mediante la realizzazione di investimenti finalizzati alla valorizzazione delle produzioni locali, al
miglioramento delle condizioni di commercializzazione. In questo campo è necessario porre particolare attenzione ai progetti aziendali che migliorano la sostenibilità economica, sociale e ambientale delle attività agricole. In questo senso è opportuno richiedere al governo la concreta riattivazione dei finanziamenti agevolati
erogati mediante i contratti di filiera e di distretto (art. 63 della legge 27/20127)
finalizzati alla realizzazione di nuovi investimenti nel settore. Alla sfida dell’am7 Legge 24 marzo 2012, n. 27 «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 24 gennaio
2012, n. 1, recante disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività» pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 71 del 24 marzo 2012 - Suppl. Ordinario n. 53.
Ricerche
modernamento e della riqualificazione strutturale del settore agroalimentare dovranno essere indirizzate anche una fetta delle risorse disponibili per il funzionamento degli strumenti operativi previsti nell’ambito delle politiche regionali della Ue (Por Fesr) che dovranno dispiegare la loro azione in maniera integrata e
sinergica con gli interventi previsti dalle politiche di sviluppo rurale;
• diffondere le innovazioni tecnologiche nel settore ponendo particolare attenzione
a quelle che sono in grado di promuovere una maggiore integrazione di filiera e
che permettono di recuperare quote di valore aggiunto all’anello agricolo della catena alimentare. Al riguardo particolare attenzione dovrà essere posta alla nuova
iniziativa promossa dall’Ue per la promozione e l’attivazione dei Pei (Partenariati
Europei per l’Innovazione). L’approccio Pei potrà dispiegare effetti positivi solo se
i «Gruppi operativi» saranno capaci effettivamente di trasformarsi in soggetti capaci di innescare processi di sviluppo con obiettivi misurabili, piuttosto che nuovi partenariati semplicemente indirizzati a chiedere finanziamenti pubblici;
• migliorare il funzionamento e l’organizzazione delle filiere agroalimentari. In tal
senso è opportuno rilanciare gli strumenti previsti nell’ambito del decreto legislativo n. 102 del 2005 (accordo di filiera, intesa di filiera, contratto quadro, contratto
tipo) che non hanno avuto finora adeguata diffusione ed utilizzo presso gli operatori agroalimentari e che possono contribuire a migliorare l’organizzazione e la
funzionalità degli aspetti connessi alla commercializzazione dei prodotti agroalimentari. In quest’ambito è inoltre opportuno sostenere l’iniziativa del governo di
introdurre contratti scritti obbligatori per la commercializzazione dei prodotti agricoli ed alimentari (art. 62 della legge 27/2012). La qualità delle relazioni tra gli operatori della catena agro-alimentare può anche migliorare riservando un’adeguata
attenzione alle aree territoriali dove negli anni si sono andati affermando modelli
organizzativi di tipo distrettuale. Peraltro le statistiche ufficiali evidenziano le performance economiche positive registrate negli ultimi anni dai distretti agroalimentari in controtendenza con la situazione di profonda crisi che caratterizza il settore manifatturiero italiano. In questo senso è opportuno rilanciare lo strumento
del Distretto Agroalimentare di Qualità istituito nell’ambito del d.lgs. n. 228 del
2001 (legge di orientamento) che assumendo un approccio partenariale al governo delle relazioni tra gli attori distrettuali può consentire un adeguato protagonismo alle organizzazioni sindacali;
• sostenere la vitalità economica delle aree rurali promuovendo una valorizzazione
in chiave integrata delle risorse enogastronomiche, ambientali, culturali ampiamente presenti nei nostri territori rurali. In questo senso non bisogna sottovalutare il contributo socioeconomico che può provenire dall’adozione di una strategia di gestione sostenibile del patrimonio forestale. La promozione e la
valorizzazione del carattere multifunzionale di nostri boschi (ambiente, paesaggio,
a
e
173
15/2013
assetto idrogeologico, energie rinnovabili) può fornire un concreto beneficio alle
collettività contribuendo al miglioramento delle condizioni socio-economiche
delle nostre aree rurali. In proposito bisogna rilanciare il ruolo e il contributo che
in questo senso può provenire dalle Comunità montane che dovranno consolidare il loro ruolo irrinunciabile di enti di governo del territorio.
a
e
174
Per sostenere questo progetto di sviluppo dell’agroalimentare italiano è necessario
ridare forza e protagonismo ai luoghi e ai momenti di confronto che possono garantire,
in chiave partenariale, un adeguato coinvolgimento dei più importanti attori istituzionali, economici e sociali protagonisti dell’agroalimentare italiano. In questo senso è opportuno promuovere una riflessione sulle finalità e sui meccanismi di funzionamento del Tavolo agroalimentare previsto sulla base all’art. 20 del d.lgs. n. 228 del
2001. Questo organismo che coinvolge le organizzazioni della produzione, della trasformazione e della distribuzione e quelle sindacali può rappresentare, infatti, il luogo per la definizione concertata di provvedimenti efficaci di rilancio del settore
agroalimentare nazionale: un disegno politico unitario per il settore che affronti con
efficacia e risolutezza i punti critici che lo caratterizzano valorizzando contemporaneamente le eccellenze e punti di forza dell’agricoltura italiana.
■ Ricerche
Catena del valore e modelli organizzativi*
Franco Farina**
Premessa
Il lavoro che segue ha come impostazione il rapporto tra la catena del valore e i
modelli organizzativi di alcune aziende del settore agroalimentare. Questo rapporto si limita a osservare le regole organizzative per verificare quanto queste siano ascrivibili a un «sistema del valore» che si manifesta nel processo produttivo. Infatti si ritiene che il vantaggio competitivo di un’azienda dipenda dalle posizioni di costo delle
varie attività che un’impresa sviluppa (progettazione, produzione, vendita e distribuzione dei prodotti), mentre la catena del valore è l’elemento tramite il quale si esaminano «tutte le attività che svolge un’azienda, e come esse interagiscono» per analizzare le fonti del vantaggio competitivo. In altri termini, la funzione della catena
del valore è di disaggregare «un’azienda nelle sue attività strategicamente rilevanti allo scopo di comprendere l’andamento dei costi e le fonti esistenti e potenziali di differenziazione»1.
Quest’aspetto introduce una metodologia sistematica per analizzare il vantaggio
competitivo, ma rimane nell’ambito di una descrizione dei costi strettamente subordinata al fenomeno concorrenziale dell’azienda così come emerge dalla rappresentazione della sua attività. È un esame che nella descrizione della catena del valore di
un’azienda leader è in grado di esprimere criticamente l’universo aziendale nelle sue
moltiplicazioni di attività, di unità, di luoghi di cui la catena del valore si avvale (decentralizzazione, delocalizzazione, outsourcing) e in cui possono apparire le differenze per forme di organizzazione e qualità del lavoro nello stesso ciclo produttivo (sicurezza, trattamenti economici, prospettiva professionale, applicazione degli orari).
Su questa descrizione l’analisi si sofferma – pur tenendo presente la complessità
che suggerisce la metodologia sistematica della catena del valore – prevalentemente
a cogliere il «sistema del valore» dell’impresa nel processo produttivo, su cui formuleremo un’ipotesi interpretativa in grado di comprendere la relazione tra catena del
valore e sistemi organizzativi.
* Tratto da AE n. 12/2012. ** Fondazione Metes.
1 Su questo punto si veda M.E. Porter, Il vantaggio competitivo, Torino, Einaudi, 2004, p. 43.
a
e
175
15/2013
a
e
176
Le imprese coinvolte in questo studio possono considerarsi imprese leader con una
posizione diretta e indiretta di forza nella catena del valore. Sotto questo profilo l’elaborazione sui modelli organizzativi nel processo produttivo indica il valore in ogni
singola azienda e può denotare formalmente il «sistema di valore» di cui l’azienda si
avvale strategicamente per i suoi processi d’integrazione e della filiera produttiva.
L’analisi del «sistema del valore» nella catena del singolo processo produttivo aziendale si avvale del criterio della qualità del lavoro come regola paradigmatica per l’interpretazione dei modelli organizzativi2. Qualità e centralità del capitale umano, soprattutto sugli aspetti cognitivi e sulla prestazione della persona nel lavoro, sono gli
elementi che interpretano l’organizzazione del lavoro e della produzione nei rimandi concernenti gli organici, gli orari, la professionalità, la formazione, le modalità di
lavoro e così via. In questo quadro assume valore la natura delle relazioni sindacali all’interno di ogni singola azienda. Questa scelta interpretativa del fenomeno della catena e del sistema del valore utilizza la convinzione che lo svolgimento di valorizzazione nel processo produttivo dipenda soprattutto dal ruolo del capitale umano che,
insieme naturalmente agli altri fattori della produzione, come la tecnologia, stabilisce il vantaggio competitivo.
L’interpretazione ricorre ai dati emersi dai questionari somministrati in ogni
azienda. L’approccio utilizzato è stata l’intervista al delegato di ogni sito con un questionario strutturato3. Sia le aziende sia il rappresentante dell’organizzazione sindacale (Flai Cgil) sono stati scelti, per le prime, secondo il criterio di rappresentanza dell’universo dell’industria alimentare4, per il secondo, per l’esperienza e per le
competenze sui temi dell’organizzazione e della produzione dell’azienda.
2 Per una definizione della qualità del lavoro mi permetto di rinviare al mio F. Farina, Della produttività, discorso sulla qualità del lavoro, Roma, Ediesse, 2008 (seconda edizione). In particolare si veda tutto il capitolo secondo, «La mappa e la bussola» (p. 43), in cui sono indicati i parametri che possono
definire la qualità del lavoro.
3 Il questionario è strutturato in dieci sezioni. Oltre alla raccolta di notizie di carattere generale (Sezione
A), il questionario si sofferma su alcune aree aziendali ritenute indispensabili alla comprensione della catena del valore. Infatti l’indagine si trattiene, per ogni azienda, sulla comprensione della tipologia della
forza lavoro (Sezione B), della organizzazione del lavoro (Sezione C), dell’attività di investimento, innovazione tecnologica e ricerca/sviluppo (Sezione D). Accanto a questi argomenti interni all’organizzazione aziendale, la ricerca approfondisce gli argomenti dell’approvvigionamento delle materie prime agroalimentari (Sezione E), dell’esternalizzazione di processo o di prodotto (Sezione F), delle politiche di commercializzazione
(Sezione G), dell’internazionalizzazione (Sezione H), del mercato e concorrenza (Sezione I).
4 Le aziende prese in esame sono: Ferrero S.p.A. (Alba - Cn), Perugina/Neslè italiana S.p.A. (San Sisto
- Pg), Colussi S.p.A. (Petrignano di Assisi - Pg), Plasmon/ Plada S.r.l. (Latina-Lt), Barilla G. e R. F.lli
S.p.A. (Castiglione delle Stiviere - Mn), Conserve Italia soc. coop. agricola (Codigoro-Pomposa - Fe),
Parmalat S.p.A. (Collecchio - Pr), Sella e Mosca S.p.A. (Alghero - Ss), Cargill-Raggio di Sole Mangimi
S.p.A. (Fiorenzuola d’Arda - Pc); di seguito a questo lavoro si veda, a cura di M. D’Alessio, Schede conoscitive delle imprese caso studio. I risultati qui riportati fanno sempre riferimento alle singole aziende
della ricerca e non possono essere generalizzati per le altre aziende dell’impresa.
Prima di esaminare i contenuti e le risposte delle interviste con il questionario strutturato, si ritiene utile trattenersi sulle attuali implicazioni che le innovazioni dei modelli organizzativi comportano sul piano della produttività e della qualità. Tale binomio
è da qualche tempo oramai al centro della discussione sia sui temi della competitività aziendale sia sull’innovazione dei modelli organizzativi. Parecchi studi e ricerche stabiliscono il rapporto stretto tra l’innovazione dei modelli organizzativi, la qualità del
lavoro e la produttività5. Infatti tale rapporto comporta una feconda «complementarità» tra i fattori innovativi (tecnologie, modalità di lavoro, relazioni sindacali). Viceversa, su questi temi, spesso si esclude sul piano dell’analisi la funzione reciproca
tra le componenti del rinnovamento per addivenire a considerazioni tra di loro separate e fuorvianti. In particolare, sulla produttività troppo spesso si utilizzano «spiegazioni standard» che, pur nell’elencazione di cause reali (pochi investimenti in attività di ricerca e sviluppo, poca internazionalizzazione delle imprese, poca formazione,
poca innovazione nella produzione materiale e così via), mal si conciliano con una
spiegazione plausibile ed esaustiva del blocco della produttività in Italia. Tali condizioni standard sono presenti in Italia da molto tempo anche nelle fasi di forte crescita della produttività industriale. Stesso discorso vale sull’enfasi dei mutamenti organizzativi quando ci si sofferma nella descrizione formale dell’innovazione senza
interpretare l’interazione e gli adattamenti «a grappolo» che queste innovazioni comportano sul piano organizzativo. In questi casi si perde la validità dei mutamenti organizzativi che, al di là delle sigle con le quali tali mutamenti si annoverano e al di là
delle caratteristiche con le quali questi si mostrano, dipende dalla «complementarità» tra «misure tecnologiche, organizzative e di governo delle relazioni di lavoro» su
cui poggia la possibilità di una maggiore produttività e l’affermazione della qualità del
lavoro come criterio strategico aziendale6. Questi errori non dipendono da metodologie interpretative errate ma da un giudizio inesatto di partenza del cambiamento.
Infatti il mutamento organizzativo non ha valore di paradigma ma, a differenza del
modello taylorista/fordista, i mutamenti organizzativi si avvalgono di adattamenti che
spesso corrispondono alle esigenze della singola impresa rispetto alle tecnologie, alle
risorse e al mercato, tanto da richiedere una mirata indagine sul campo.
Il carattere particolare di questi mutamenti è quello della riduzione della struttura gerarchica, delle rigidità lavorative e della riconsiderazione delle persone nel pro5
L. Gallino, Informatica e qualità del lavoro, Torino, Einaudi, 1983; Aa.Vv., Economia dell’innovazione. Disegni organizzativi, pratiche di lavoro e performance d’impresa, Milano, Franco Angeli, 2008;
Aa.Vv., Innovazione, relazioni industriali e risultati d’impresa, Milano, Franco Angeli, 2004.
6 G.C. Cerruti, M. Pedaci, Innovazione nell’organizzazione della produzione e nelle relazioni di lavoro nel
postfordismo, in Quaderni rassegna sindacale. Lavori, n. 2, 2012, p. 82.
Ricerche
Produttività, qualità e modelli organizzativi
a
e
177
15/2013
a
e
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prio lavoro. Questo schema organizzativo è riconducibile, secondo un’approssimazione
descrittiva, a diverse classificazioni del cambiamento. Difatti le diverse classi delle organizzazioni che possono considerarsi innovative (Learning organizations, Lean production, World-class manufacturing, Total productive maintenance) nella loro descrizione
mantengono spesso gli stessi caratteri riformatori al sistema taylor-fordista. Questi caratteri sono riassumibili in compiti di flessibilità professionale, autonomia lavorativa, lavoro in gruppo, coinvolgimento del personale, just in time, qualità totale e così via. Siffatti segni con i quali si organizzano il lavoro e la produzione indubbiamente
stabiliscono il mutamento dal modello taylor-fordista, ma la loro caratteristica nell’impiego concreto delle attività organizzative non sempre coincide con la descrizione della classe di appartenenza al modello preso in esame. C’è di solito uno scarto tra
le caratteristiche del modello considerato e la sua applicazione nelle realtà produttive. Questo scarto dipende, così come si diceva, dalle strategie di una singola impresa che stabilisce la specificità di adattamento del modello e della contrattazione sindacale sugli stessi mutamenti organizzativi. Dunque il valore del cambiamento è
rilevabile secondo un’indagine mirata all’attività lavorativa della singola realtà aziendale; indagine le cui caratteristiche dipendono dalle coincidenze o dalle differenze tra
la realtà di lavoro e la mappa organizzativa, che ricorre comunque ad alcune caratteristiche fondamentali comuni che, a loro volta, possono così riassumersi. La prima
riguarda il criterio di base su cui le innovazioni fondano l’applicazione organizzativa. La regola prima «consiste in un profondo ribaltamento del modo di concepire l’organizzazione delle attività che si svolgono all’interno dell’impresa: dalla funzione si
passa al processo»7. Questo passaggio, ed è la seconda caratteristica, comporta e trascina diversi mutamenti della prestazione lavorativa. Viene meno, infatti, l’aspettativa dell’efficienza sulle singole operazioni per introdurre, invece, una produttività di
flusso produttivo, in concomitanza cioè della regolarità del flusso, del miglioramento della qualità intesa come riduzione degli errori di lavorazione e della risposta alle
variazioni della domanda. Tale rovesciamento porta a identificare il lavoro non più
come mansione ma come attività, seguendo alcuni criteri innovativi che annunciano la stessa operosità e che si mostrano sia con la crescita e flessibilità professionale
(polivalenza, polifunzionale), sia con il lavoro in gruppo e, più in generale, con la ripersonalizzazione del lavoro8.
Questi cambiamenti, oltre a giustificarsi con la necessità di una maggiore competitività, produttività e qualità dei prodotti nel mercato globale, hanno una stretta
colleganza con la catena del valore. Oramai il processo di valorizzazione dei prodot7
R. Leoni, Nuovi paradigmi produttivi, performance d’impresa e gestione delle relazioni di lavoro: promesse e occasioni mancate, in Quaderni rassegna sindacale. Lavori, n. 2, 2012, p. 103.
8 F. Farina, Persona e lavoro, Roma, Ediesse, 2005.
La mappa aziendale
Le aziende11 prese in esame, oltre ad essere rivelatrici delle dinamiche produttive
e competitive del settore alimentare e dei comportamenti riguardanti l’attuale congiuntura economica, hanno alcuni caratteri comuni. Tutte le aziende fanno parte di
gruppi industriali e sono di media dimensione. Il mercato di riferimento è prevalentemente italiano, anche se alcuni dei loro marchi sono commercializzati all’estero. La
presenza sui mercati esteri dipende dalle logiche di gruppo, dalle specializzazioni produttive degli stabilimenti del gruppo e dal marketing di alcuni prodotti concorrenziali. Rispetto a ciò è indicativa la presenza della Ferrero e della Perugina e in parte
delle Conserve Italia sul mercato internazionale rispetto alle altre aziende il cui in-
9
L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Roma-Bari, Laterza, 2012, p. 184.
Il vantaggio competitivo, cit., p. 56.
11 In questa sede con il termine «azienda» intendiamo il sito o unità produttiva appartenente al gruppo industriale oggetto della nostra ricerca.
10
Ricerche
ti, in un’azienda leader, si misura sia sul dispositivo seriale delle attività concomitanti al processo di valorizzazione, dalla progettazione alla distribuzione e assistenza dei
prodotti aziendali, sia sul flusso produttivo. Infatti, la catena del valore è un insieme
di attività interdipendenti collegate tra di loro, così come il flusso produttivo è «il gendarme dell’attività lavorativa quotidiana»9 e risultano i termini di paragone sul piano aziendale della produttività e della qualità del prodotto. Per questi motivi il sistema della catena del valore dell’impresa s’inquadra prevalentemente nella valutazione
del flusso produttivo e/o del prodotto. Per definire le attività «generatrici di valore più
rilevanti è necessario isolare le attività che hanno tecnologie e logiche economiche diverse» e suddividere coerentemente in attività le funzioni a largo raggio, come la produzione o il marketing; a tale riguardo «si possono utilizzare il flusso del prodotto, il
flusso degli ordini o il flusso della carta»10. Queste considerazioni riassumono due
aspetti del rapporto della catena del valore e dei modelli organizzativi. Il primo, già
in precedenza asserito, è quello che i nuovi modelli organizzativi si avvalgono come
criterio fondante della produzione in flusso, il secondo, strettamente collegato al primo, è che un’analisi del valore e delle modalità generatrici del valore in una impresa
comporta lo studio del modo con il quale il flusso produttivo e/o del prodotto è organizzato. Sul piano del merito ciò implica la comprensione delle dinamiche aziendali sui temi dell’occupazione, degli orari, della professionalità, delle relazioni sindacali e così via e come il flusso nella sua organizzazione d’interdipendenze è ottimizzato
e coordinato. Su questi aspetti si è svolta la ricerca di cui, di seguito, presentiamo il
rapporto finale.
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tervento sul mercato estero è relativo. Salvo per la Plasmon, che utilizza per la commercializzazione società specializzate esterne, le altre aziende si avvalgono di società
qualificate controllate dall’impresa o dello stesso gruppo (Ferrero, Colussi, Barilla, Perugina, Sella e Mosca, Parmalat, Raggio di Sole, Conserve Italia). L’approvvigionamento delle materie prime è, per tutte le aziende, concordato con la casa madre. Indicativa è la provenienza estera delle materie prime (Plasmon: Ue, 65%, Ue-27, 20%;
Ferrero: Ue, 70%; Barilla: Ue, 50%; Parmalat: Ue-27, 60%) mentre si registra una
dinamica fisiologica per il numero dei fornitori (le variazioni sono minime) e per gli
avvicendamenti degli stessi (è un turnover ordinario). In questo quadro va segnalata
la Ferrero, che manifesta una forte crescita dei fornitori (questo vale anche per la Barilla) e un costante aumento, negli ultimi cinque anni, di materie prime di provenienza
estera. Gran parte degli accordi per le derrate agricole sono stipulati con contratti pluriennali di fornitura.
Tutte le aziende in esame, nel triennio 2008-2010, hanno investito in macchinari,
in impianti e in tecnologie informatiche (Plasmon, 8,2 milioni di euro; Colussi, 12
milioni di euro; Barilla, circa 10 milioni di euro; Perugina, 8 milioni di euro; Parmalat,
15 milioni di euro; Conserve Italia, 12 milioni di euro e così via). Le finalità degli investimenti riguardano, prevalentemente, il miglioramento della qualità dei prodotti, la riduzione dei costi, la progettazione di nuovi prodotti, una maggiore riconoscibilità dei marchi, l’aumento della produzione esistente e il miglioramento della rete
distributiva. Tutte le aziende esaminate hanno realizzato, a seguito degli investimenti e nel triennio, l’innovazione di prodotto e di processo. Questi ultimi hanno avuto
delle ricadute positive sia sulla spesa per le attività di ricerca interna all’azienda, sia sulla formazione del personale, sia sull’aggiornamento delle tecniche di mercato. L’inchiesta ha rilevato che in tutte le aziende sussiste il personale specializzato per l’attività di ricerca e sviluppo.
Il lavoro affidato a terzi si limita alla fase del confezionamento (Ferrero), della manutenzione straordinaria (Colussi, Perugina, Sella e Mosca, Parmalat, Conserve Italia), dei semilavorati delle materie prime (Barilla, Perugina, Parmalat), della logistica (Perugina, Parmalat, Conserve Italia). La valutazione degli intervistati sulla
posizione competitiva delle singole aziende è considerata forte ed è valutata idonea
la scala produttiva rispetto alle grandi aziende concorrenti nazionali ed estere. Differentemente si considera per la Perugina una posizione competitiva debole rispetto ai principali concorrenti, anche se si valuta adeguata la scala produttiva dell’azienda,
mentre per la Parmalat si stabiliscono una posizione competitiva alla pari e una scala produttiva adeguata.
Gli intervistati concordano, quasi all’unanimità, sul considerare i fattori competitivi più importanti: a) il miglioramento della qualità del prodotto (Ferrero, Colussi, Perugina, Sella e Mosca, Conserve Italia); b) il miglioramento del contenuto in-
12
Il questionario prevedeva la seguente domanda: «Indichi quali, dei seguenti fattori, sono più importanti per determinare il successo dell’azienda». Si chiedeva di segnalare i due fattori più importanti, su sette proposti, in ordine decrescente. Le risposte date sono state almeno tre per ogni azienda, con
una stretta concordia sui fattori competitivi.
Ricerche
novativo del prodotto (Plasmon, Ferrero, Colussi, Barilla, Perugina, Conserve Italia);
c) una maggiore riconoscibilità del marchio (Plasmon, Ferrero, Colussi, Barilla, Perugina, Sella e Mosca, Conserve Italia). A questi fattori si aggiungono il rafforzamento
della rete distributiva e del sistema di assistenza post-vendita (Parmalat), la certezza
della liquidità dalle vendite (Raggio di Sole) e la riduzione del costo di produzione
(Barilla)12.
Le considerazioni sopra svolte sono il risultato delle interviste per ogni azienda –
così come è previsto dal questionario – sugli investimenti, sull’approvvigionamento,
sulle esternalizzazioni, sull’internazionalizzazione, sulla commercializzazione e sulla
concorrenza e dimostrano, sorprendentemente, un quadro unitario sui comportamenti
aziendali nel triennio 2008-2010. Emerge dall’indagine un modello d’innovazione uniforme agli aspetti organizzativi e gestionali sul rinnovamento del processo e del prodotto. C’è in primo luogo un’organicità dell’innovazione che affronta ordinatamente i diversi fattori del cambiamento aziendale. Questa regolarità si manifesta sugli
obiettivi degli investimenti riguardanti la qualità e l’innovazione del prodotto che sono poi le condizioni di una migliore riconoscibilità dei marchi, dell’aumento della produzione esistente e del miglioramento della rete distributiva. Va, inoltre, segnalato che
queste pratiche aziendali si svolgono in una fase in cui inizia una delle peggiori crisi
economiche (2008-2012) della storia mondiale e occidentale e che avrà (e ha ancora) forti ripercussioni sulle strutture produttive e sulla stessa competitività internazionale e nazionale. Attività aziendali che possono configurarsi, data l’omogeneità di
condotta, come un comportamento strategico attivo, progressivo e di sfida rispetto
alle difficoltà della crisi e della stessa recessione economica.
Questi aspetti, indubbiamente, possono qualificare un «sistema di valore» aziendale. In particolare lo sviluppo delle tecnologie è una fonte generatrice di valore. Difatti, come abbiamo visto, le tecnologie avviano molteplici attività organizzative e di
lavoro che possono qualificare l’impegno delle persone causando così la realizzazione, nel flusso del prodotto, di conoscenze e di esperienze che sono di solito escluse
in sistemi bloccati e tradizionali. Infatti l’innovazione del prodotto e del processo richiede un’operosità che coinvolge l’attività di formazione e di sviluppo del personale che sono tra le più importanti ragioni del vantaggio competitivo. Queste ultime
attività, difatti, sono in grado di mobilitare competenze e motivazioni positive da parte dei lavoratori sul processo produttivo e sugli obiettivi aziendali.
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Tale quadro, come sopra segnalavamo, non comporta necessariamente e inevitabilmente una crescita qualitativa del «sistema del valore» in un’azienda. In altre parole l’innovazione richiede, per generare valore, una forte e integrata complementarità tra i fattori produttivi. Il valore della produttività, così come ormai più ricerche
dimostrano, non dipende dalla semplice composizione del capitale di un’azienda e di
quanto sia provvista di tecnologia un’ora lavorata, ma quanto, invece, di fronte alle
pratiche di rinnovamento tecnologico e organizzativo, queste ultime s’integrino con
nuove prassi di lavoro, con aggiornati sistemi di cooperazione, con lo sviluppo delle
competenze, con ruoli polifunzionali, polivalenti, con una maggiore autonomia della prestazione, con il riconoscimento professionale dei lavoratori e con un modello
di relazioni sindacali avanzato.
Proprio su questi punti il questionario si è soffermato per verificare il valore nel
flusso produttivo delle singole realtà aziendali. Una volta, dunque, disegnata la mappa aziendale, ci soffermiamo, di seguito, secondo le risposte date dagli intervistati, sull’interpretazione delle caratteristiche dei flussi produttivi e dunque del valore della catena di ogni azienda.
Catena del valore e occupazione
La formazione della struttura occupazionale (qui abbiamo fatto riferimento prevalentemente agli operai qualificati che possono essere considerati la parte più indicativa della forza lavoro di un’azienda agroalimentare) corrisponde a un dato analogo per tutte le aziende esaminate. Le differenze dipendono dalla composizione della
struttura produttiva e dal prodotto, mentre l’utilizzo della forza lavoro scaturisce da
un modello omogeneo d’impiego sia per il valore professionale sia per la combinazione
tra operai e impiegati e tra il rapporto di lavoro a tempo indeterminato e determinato. Salvo qualche marginale presenza di operai comuni (70 comuni alla Barilla), la
gran parte di loro sono qualificati13: Perugina, 815; Colussi, 466; Ferrero, 1.600; Plasmon 210; Conserve Italia, 100; Parmalat, 200; Sella e Mosca, 60; Raggio di Sole,
25; Barilla, 280. È rilevante tra queste figure la media dell’utilizzo del rapporto di lavoro part-time a tempo indeterminato tra il numero complessivo e tra gli operai qualificati. Infatti, alla Perugina 275 lavoratori, così come alla Colussi 57, alla Ferrero 700,
13
Si è inteso per operai comuni gli operai inquadrati nel sistema classificatorio del Ccnl dell’industria
alimentare al 5° livello mentre i qualificati sono stati considerati dal 4° livello in su. Tale slittamento
dipende dalla classificazione che in questi anni è stata fatta del personale polivalente e polifunzionale.
Tale discorso vale anche per l’unica azienda (Sella e Mosca) che applica il contratto degli operai agricoli. Anche qui, pur in sistema classificatorio diverso dall’industria alimentare, tra i lavoratori fissi non
ci sono operai comuni, ma la classificazione del personale va dai qualificati ai super specializzati.
14 I dati indicati sono il risultato delle interviste e hanno un valore empirico. L’obiettivo del questionario su questa parte riguardava la definizione della struttura occupazionale; mentre per l’ufficialità dei
dati occupazionali si veda, di seguito, Schede conoscitive sulle imprese: casi studio, cit.
Ricerche
alla Plasmon 7, sono a tempo indeterminato part-time. In alcune aziende è considerevole il tradizionale ricorso al lavoro stagionale. Sono 300 gli stagionali alla Perugina, 1.000 alla Ferrero, 70 alla Sella e Mosca e 900 alla Conserve Italia. Per questa realtà produttiva esiste una convenzione tra le parti sociali per cui, ogni anno, si
stabiliscono, per gli stagionali, i numeri da occupare e le professionalità necessarie sulla base delle giornate di lavoro.
L’occupazione nel triennio esaminato (2008-2010), sui totali registra un andamento decrescente con picchi rilevanti di uscite per alcune aziende. In particolare per
la Perugina le uscite nel triennio sono state del 22,1%, alla Barilla dell’11,6%, alla Parmalat del 4,1%, alla Plasmon dell’1,8%. Si è mantenuta costante l’occupazione alla
Colussi, mentre c’è stata una diminuzione dell’occupazione operaia a Raggio di Sole, a Sella e Mosca e alla Conserve Italia. In controtendenza con questi numeri c’è la
Ferrero che registra una crescita occupazionale del 10% negli ultimi cinque anni14.
Questi dati confermano, pur nella diversità delle aziende, un avvenuto processo di riorganizzazione produttiva e organizzativa già segnalato dagli indicatori e dalle implicazioni degli investimenti tecnologici sostenuti nel triennio così come dalla recessione economica.
In tutte le aziende si è ricorso nel triennio a una diffusa ed estesa pratica di formazione professionale per i dipendenti a tempo indeterminato e determinato (sicurezza sul lavoro, alimentare, innovazione di processo e di prodotto ecc.). In alcune
aziende si è fatto ricorso alle agenzie di lavoro interinale (Colussi, 59 addetti; Plasmon,
20 addetti; Barilla, 20 addetti) mentre nessuna azienda ha utilizzato i contratti di collaborazione coordinata e continuativa e di prestazione occasionale. In alcuni casi sono stati, in parte, successivamente assunti i lavoratori provenienti dalle agenzie di lavoro interinale (Plasmon, 10 addetti; Parmalat, 2 addetti).
Una volta definita la composizione della forza-lavoro, il questionario ha indagato
sul ruolo nel ciclo produttivo e sui fattori per le assunzioni e per la valorizzazione del
capitale umano. Sul ruolo nel flusso produttivo è unanime e considerata prioritaria la
valutazione circa la facoltà del capitale umano di incidere sulla qualità del prodotto
e sul valore della produzione. Questi due aspetti, attraverso la motivazione che gli intervistati hanno dato, non sono solo indicativi, ma aderiscono a una cultura del lavoro praticata nelle singole aziende, mentre per le assunzioni degli operai i fattori ritenuti prioritari sono la flessibilità e l’autonomia. Questo dato riguarda tutte le aziende
con la sola distinzione della Conserve Italia e di Sella e Mosca dove, comprensibilmente, i fattori principali per essere assunti sono l’esperienza e la specializzazione; in-
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vece per gli impiegati le regole per l’impiego sono la flessibilità e la specializzazione subito dopo l’autonomia e l’esperienza.
La qualità e il valore della produzione, così come la flessibilità e l’autonomia come aspetti prioritari della prestazione lavorativa, segnalano sicuramente un teorema
del lavoro che può differenziare il «sistema del valore» delle aziende.
Indubbiamente ci troviamo di fronte ad un modello specifico di riorganizzazione produttiva di alcune importanti aziende alimentari15. Questo modello applicato
nel triennio 2008-2010, cioè in una fase di acuta crisi economica, si evidenzia con
investimenti sulla tecnologia in funzione prevalente dell’innovazione del prodotto e
del processo. Questo dato ha indubbiamente determinato un processo di fuoriuscita del personale e una diversa ottimizzazione dell’occupazione (tutti questi temi sono stati affrontati e definiti in accordo con il sindacato). Tra l’ottimizzazione degli organici e gli investimenti in innovazione si è inserita la condizione di una centralità del
capitale umano sia sugli aspetti della qualità del prodotto, sia sul valore della produzione come valore della prestazione e della professionalità del lavoratore. Difatti nelle interviste si dimostra una crescita professionale generalizzata. Sicuramente questo
dato dipende da un altro aspetto del modello che si è consolidato in questi anni. La
crescita professionale è dipesa dalle trasformazioni dell’organizzazione del lavoro che
hanno a loro volta modificato la prestazione lavorativa (stando ai dati sull’incidenza
del capitale umano che abbiamo visto, la prestazione si risolve in una maggiore flessibilità professionale e nell’autonomia della sua stessa attività), mobilitando una
maggiore professionalità dei lavoratori in funzione di una cultura e di un’operosità
riferite alla qualità del prodotto. Ora questo modello delineato dalle interviste si rivela come fattore di valore secondo la complementarità che si determina tra i fattori
innovativi (tecnologia, capitale umano, relazioni aziendali e sindacali...). Questa
complementarità, secondo la nostra ipotesi, stabilisce il più o il meno del «sistema del
valore» in una singola azienda.
Catena del valore e organizzazione del lavoro
Le risposte delle interviste sul questionario strutturato tra le aziende esaminate prefigurano significativamente dei «sistemi di valore» (con l’eccezione della Parmalat e
della Conserve Italia, dove si confermano pratiche organizzative tradizionali). Difatti possono considerarsi dei «sistemi di valore» per la distanza che, nella loro operatività, mostrano nei confronti delle organizzazioni tradizionali (taylor-fordiste). Il cri15
Le aziende prese in esame non rappresentano un campione della realtà produttiva alimentare. Le affinità, però, che manifestano sui singoli temi rivelano la possibilità, dato anche il peso di queste aziende nel settore, di accorte generalizzazioni.
Ricerche
terio organizzativo, pur tra le diversità delle aziende osservate, è la regola di una struttura meno rigida e autosufficiente a favore invece di organizzazioni più snelle e con
sistemi applicativi di processo e sempre meno composte gerarchicamente. La stessa prestazione lavorativa nel segno della flessibilità professionale (polivalenza, polifunzionale, rotazione e ampliamento dei compiti e del ruolo) si configura come un’attività
di lavoro della singola persona con delle riconosciute facoltà di autonomia per lo svolgimento del proprio lavoro e come attività cooperante e integrata nelle modalità di lavoro in gruppo. Tutti questi aspetti, rispetto al lavoro formale, prescrittivo e parcellizzato del secolo passato, richiedono un valore che si accerta nelle capacità cognitive,
nelle competenze, nella conoscenza e nell’esperienza di chi lavora e che aggiunge qualità al flusso produttivo e/o del prodotto. Questi dati si differenziano, però, secondo
le scelte organizzative da cui dipende l’intensità del «sistema di valore» della singola
azienda.
Un elemento spesso sottovalutato ma diffuso e ritenuto importante dalle aziende (è una fonte del valore) riguarda lo scambio d’informazioni, conoscenze e competenze tra le diverse professionalità di una linea, di un reparto o di un gruppo di lavoro. Alla Ferrero è prevista la riunione periodica sui problemi del flusso del prodotto,
della qualità in cui sono coinvolti gli operatori d’impianto, di macchina, i responsabili di turno (Rto), di linea (Rdl), dell’unione gestione di prodotto (Ugp) e la Rsu
(Rappresentanza sindacale unitaria). Si discute secondo le diverse competenze professionali sulle difficoltà produttive su cui poi i responsabili dovranno indicare le soluzioni concrete. Alla Barilla almeno due volte al mese si attua una riunione tra gli
operatori e i responsabili aziendali per lo scambio d’informazioni e di discussione sugli aspetti della produzione (cambi di ricette, sicurezza...). In questa realtà sui problemi
tecnici vale una cultura della comunicazione, tra le diverse professionalità, diffusa e
anche informale. Alla Perugina c’è una prassi settimanale a livello di reparto sugli eventuali problemi degli impianti, sull’aggravio del lavoro, sui fermi macchina (questo vale anche per la Colussi) che poi l’esecutivo sindacale e l’azienda dovranno affrontare
in appositi incontri. Alla Plasmon ogni due mesi è previsto un meeting con la durata di un’ora e con la fermata del reparto, dove si affrontano i problemi tecnici e la qualità del processo e del prodotto. Queste dinamiche comunicative sono parte integrante
del cambiamento e fanno parte del sistema e della catena del valore. I limiti riscontrati in queste prassi sono quelli che limitano la facoltà dei partecipanti alle riunioni
di decidere le soluzioni da adottare. Mentre alla Plasmon è previsto che la discussione possa prevedere le soluzioni di competenza del reparto (salvo naturalmente i temi che sono propri, come gli investimenti, della politica aziendale), nelle altre aziende manca questa formalizzazione. In assenza della responsabilità comune delle
decisioni, la separazione che si determina riduce la potenzialità del coinvolgimento
degli operatori, del loro valore nella stessa discussione e nell’applicazione concreta del-
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le soluzioni trovate sui problemi dibattuti. Questo è un limite consistente alla valorizzazione e alla crescita della qualità del «sistema di valore» di un’azienda.
La percezione della riduzione delle gerarchie, sia come sistema organizzativo
aziendale sia nella gestione operativa, è compresa nettamente dagli intervistati. È evidente alla Ferrero, alla Barilla, alla Perugina, alla Colussi, alla Plasmon; in alcune altre aziende (Raggio di Sole, Sella e Mosca), seppure è più sfumata la certezza di un’organizzazione meno gerarchica, si mostra, invece, nelle singole operatività in cui è
fortemente ridotta la prescrizione lavorativa. Caso a parte per la Conserve Italia e la
Parmalat, che mantengono un’organizzazione tradizionale con criteri di flessibilità della prestazione (rotazione e ampliamento delle mansioni). Per la Parmalat, infatti, sono previste prossimamente l’introduzione e l’implementazione delle tecniche di
Lean Manufacturing (produzione snella) e l’applicazione di un modello operativo organizzato per processi anziché per funzioni (accordo sindacale di gruppo, 21 marzo
2012). Va segnalata, anche, la prevista applicazione alla Perugina della Total productive maintenance (Tpm). A seguito di queste considerazioni, le principali tecniche di
lavoro alla Ferrero sono l’ampliamento delle competenze e del ruolo sulle macchine
dell’operatore. È un lavoro in autonomia e in collaborazione con il responsabile del
turno operativo (ex capolinea). Differentemente dalle altre aziende dove prevalgono
la polivalenza e la polifunzionalità, alla Ferrero la flessibilità professionale è un’accresciuta competenza sugli impianti delle molteplici linee di produzione ed è ottimizzata a secondo della programmazione aziendale. Nel lavoro operativo, in gran parte
delle aziende che applicano tecniche di gestione organizzativa meno gerarchica, alcune
figure di coordinamento per gli operatori e d’integrazione con la struttura della gestione
aziendale sono attuali, come il capo macchina in Perugina, il capoturno in Plasmon,
il capolinea in Sella e Mosca. Gli addetti alla struttura operativa (operatori d’impianto),
una volta data l’assegnazione dei compiti, svolgono il proprio lavoro in autonomia
secondo i diversi criteri di flessibilità prevista (rotazione delle mansioni, ampliamento dei compiti e delle competenze, polivalenza, polifunzionalità e così via). In tutte
le aziende è presente il confronto periodico con le Rsu sui temi dell’organizzazione
del lavoro (produttività, orari, professionalità e salario aziendale), sulla qualità del processo e del prodotto. Il lavoro di gruppo è attuale in quasi tutte le aziende. Alla Ferrero è presente il team del prodotto (unione gestione del prodotto) così come alla Barilla, alla Perugina (isole di produzione, gruppo della manutenzione), alla Colussi, alla
Plasmon e a Sella e Mosca. In questi siti produttivi prevalgono i ruoli di polivalenza
e di polifunzionalità degli operatori.
Tutti questi aspetti hanno a che fare con il «sistema del valore». L’autonomia e la
responsabilità richieste, sia nei diversi ruoli professionali sia nel lavoro di gruppo, mobilitano le competenze e l’esperienza delle singole persone e sono, nel flusso produttivo, un incremento concreto di valore aggiunto. S’instaura così, in queste organiz-
Ricerche
zazioni un’attività professionale come valore della produzione sugli obiettivi della qualità del prodotto e della stessa produttività del flusso. Tutto questo dipende, però, da
alcuni fattori, che al di là della descrizione dell’innovazione organizzativa, stabiliscono la quantità di valore in questi modelli organizzativi. Questi fattori sono gli organici necessari, gli orari, la formazione, le relazioni sindacali e industriali, che rappresentano le condizioni dell’ottimizzazione del cambiamento snello e di conseguenza
del «sistema del valore» in un sito produttivo.
L’applicazione degli orari è, nella sua attuazione, in funzione del tempo di lavoro e della flessibilità. L’orario dei giornalieri è per le aziende di 40 ore settimanali, salvo alla Ferrero, a Raggio di Sole e a Sella Mosca che hanno gli orari a 39 ore. Tra le
aziende esaminate è presente la turnazione (5×3) sui quindici turni (Ferrero, Perugina, Colussi, Plasmon, Conserve Italia, Raggio di Sole). Sono turnazioni dal lunedì
al venerdì di 40 ore, con l’eccezione della Plasmon che ha una media oraria di 38 ore
settimanali e la Parmalat di 36 ore. I 18 turni (6×3), con sei giorni di utilizzo degli
impianti dal lunedì al sabato, sono presenti alla Barilla con l’orario di 40 ore, mentre la stessa turnazione ha un orario di lavoro di 36 ore settimanali alla Perugina e alla Parmalat. I 21 turni (7×3) sono presenti alla Barilla e alla Colussi con l’orario di
40 ore mentre alla Parmalat l’orario medio è di 36 ore. Nelle stesse turnazioni si applicano le flessibilità regolate a livello aziendale con periodi di alto e basso orario. Alla Ferrero la flessibilità sui 15 turni è con il sabato lavorativo di 6 ore per turno (612; 12-18; 18-24). Tale prestazione ha il godimento collettivo degli accantonamenti
dei riposi compensativi nei periodi di bassa produzione. Alla Parmalat l’effettivo orario delle 36 ore, a seguito della schematizzazione collettiva dei Rol (riduzione orario
di lavoro) e delle ferie, è alla base della stessa flessibilità dove si regolano i picchi e i
flessi e dove gli accantonamenti sono utilizzati nei periodi di bassa produzione; alla
Plasmon l’orario effettivo delle 38 ore medie settimanali, con la schematizzazione delle Rol, stabilisce la flessibilità sui picchi e sui flessi secondo la regola della media oraria delle 38 ore medie; alla Conserve Italia c’è la flessibilità sui 15 turni di alto e basso orario nel rispetto della media delle 40 ore.
L’orario flessibile è adottato per esigenze produttive, stagionalità e fluttuazioni del
mercato, mentre lo straordinario è per richieste improvvise di mercato (Perugina, Colussi, Barilla, Raggio di Sole), per la copertura del personale e delle posizioni lavorative per motivi di assenza a diverso titolo (Colussi, Raggio di Sole) e per necessità imprescindibili, indifferibili e di durata temporanea (Sella e Mosca, Barilla, Conserve
Italia). Le aziende che hanno composto gli orari attraverso le schematizzazioni collettive della riduzione prevista dagli orari contrattuali (Rol, ex festività) e delle ferie
e con un sistema flessibile delle stesse turnazioni (Ferrero, Parmalat, Plasmon, Conserve Italia) hanno una scarsissima attitudine al ricorso allo straordinario se non per
motivi eccezionali e imprescindibili. Si può ritenere che l’applicazione dell’utilizzo col-
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lettivo del Rol, delle ex festività, delle ferie, con l’abbassamento degli orari sotto le 40
ore e i necessari e conseguenti organici, possa favorire una condizione di maggiore e
ordinata certezza nella flessibilità. Quest’aspetto può portare, nello stesso tempo, un
incremento del valore nel processo produttivo.
Alcune delle aziende programmano ogni anno con le Rsu gli orari di lavoro (Ferrero, Perugina, Parmalat, Plasmon) e applicano il conto ore (Ferrero, Colussi, Conserve Italia).
In tutti i siti produttivi ogni anno c’è una diffusa azione formativa sui temi delle
evoluzioni delle tecnologie, dei comportamenti organizzativi, della polivalenza, della polifunzionalità, dell’autonomia operativa e della sicurezza alimentare e sul lavoro. In tutte le realtà è prevista la formazione per i neoassunti ed è diffusa la certificazione dell’attività formativa.
Sono presenti nelle unità produttive la formazione di profili aziendali (Barilla, Perugina, Parmalat, Plasmon, Sella e Mosca) e l’innesto di livelli intermedi (Barilla, Plasmon, Sella e Mosca). Nel triennio esaminato c’è stata una costante crescita professionale e il riconoscimento è attestato con il passaggio di livello o con l’individuazione,
nello stesso livello professionale, di un importo salariale.
Gli accordi di secondo livello prevedono la prevalenza degli indici di produttività e di qualità rispetto a quello di redditività per la definizione del salario variabile
aziendale. Con l’esclusione della Perugina (qualità, 60%; produttività, 20%; prevenzione sulla sicurezza, 20%) che non ha nessun indice di redditività, le altre aziende mostrano una percentuale del 60% (Colussi), del 70% (Ferrero, Barilla, Raggio
di Sole), del 75% (Sella e Mosca, Plasmon) e dell’80% (Parmalat, Conserve Italia) degli indici legati alla organizzazione del lavoro.
In ogni azienda sussiste il coinvolgimento attraverso l’informazione e la consultazione, da parte aziendale, dei dipendenti e delle Rsu sui cambiamenti organizzativi. Tale dato, tra i siti, non è omogeneo, ma è un’attività presente e si configura come una scelta di relazioni aziendali.
Conclusioni
L’asse della riorganizzazione produttiva che si è verificata tra le aziende esaminate nel periodo 2008-2010 ha riguardato la concomitanza dell’innovazione tecnologica, del mutamento organizzativo e del ruolo, sempre più centrale, del capitale umano. È una strategia aziendale che si avvale della presenza simultanea e della
complementarità dei diversi fattori dell’innovazione organizzativa. Gli investimenti in
tecnologia sono stati indirizzati prevalentemente sulla qualità prodotta e sull’innovazione del processo e del prodotto. Il dato tecnologico ha richiamato una funzionalità
reciproca del mutamento organizzativo e del capitale umano. Infatti l’organizzazio-
16
F. Farina, Persona e lavoro, cit., p. 84.
Ricerche
ne ha ridotto il ruolo delle gerarchie, spostando così competenze, autonomie e funzioni nelle fasi operative e coinvolgendo nell’attività lavorativa il capitale umano inteso come esperienza, competenza e flessibilità professionale. Questo spostamento ha
modificato il peso e il baricentro delle funzioni per il raggiungimento degli obiettivi
competitivi dei siti produttivi. Difatti è ritenuto centrale il capitale umano su due
aspetti fondamentali delle ragioni concorrenziali di ogni singola unità produttiva: la
qualità del prodotto e il valore della produzione. Questa centralità è derivata dalla complementarità e dall’interazione tra l’innovazione tecnologica e i mutamenti organizzativi che hanno stabilito un diverso e più complesso ruolo dei lavoratori negli aspetti strategici aziendali della produttività e della qualità del prodotto.
Sotto questo profilo, con le eccezioni che abbiamo fatto notare, i sistemi organizzativi che abbiamo analizzato, pur nelle differenze tra di loro, sono sistemi del valore. Naturalmente la complementarità, di cui più volte abbiamo sottolineato l’importanza, dipende dagli strumenti in grado di integrare nel modo più adeguato
l’interazione tra i modelli organizzativi, le innovazioni tecnologiche e il capitale
umano. Questo discende a sua volta soprattutto dalle scelte che l’azienda compie sulla volontà d’incrementare il valore.
Il flusso produttivo e del prodotto, così come oggi sono intesi, dipende dalla cooperazione professionale delle persone e dagli atti linguistici che gli stessi mutamenti organizzativi impongono. Il silenzio delle vecchie organizzazioni taylor/fordiste è
sostituito dal saper dire e dalle parole di senso, dal sapere e dall’esperienza degli operatori in una fabbrica. È la materia prima che nelle diverse interazioni e dialoghi risolve i problemi allacciati alla produttività e qualità di un reparto, di un’area, di un
flusso. Le prestazioni linguistiche e la capacità comunicativa sono elementi costitutivi dell’attività lavorativa e sono in grado di modificare la sequenza classica del processo decisorio. Difatti la proposizione, l’informazione, la decisione, l’attivazione e il
controllo non riguardano più unicamente gli alti livelli professionali, ma, pur sempre nella differenziazione della responsabilità, sono diffusi per tutto l’ambiente di lavoro. In conseguenza di ciò cambiano sia la dislocazione della decisione sia il suo significato, che si avvale di competenze prevalentemente cognitive16. Abbiamo visto
quanto questo dato sia diffuso nelle aziende da noi esaminate. Una diffusione che nell’esperienza diretta dei siti produttivi registra un limite del valore. Prevalgono nelle azioni comunicative gli scambi d’informazione, le conoscenze e le competenze tra le diverse professionalità interessate a un problema di flusso, ma resta ancora in questi
contesti linguistici la distinzione tra la comprensione del problema che riguarda tutti e la decisione di pochi relativa alla soluzione. Questo comporta nell’azione comu-
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nicativa la diminuzione della partecipazione dei lavoratori e del loro valore sia nella
discussione sia nell’applicazione concreta delle soluzioni trovate sui problemi esaminati. Tale dato è la riduzione della qualità del «sistema di valore» di un’azienda e va
superato secondo una procedura istituzionalizzata di co-decisione tra i diversi soggetti che partecipano all’azione comunicativa. Una co-decisione che prevede la riunificazione della discussione con le scelte operative e della conoscenza con l’esecuzione
tra le diverse professionalità.
Il «sistema del valore» nei mutamenti organizzativi comporta una rilevante riduzione degli straordinari a favore invece di un sistema di flessibilità degli orari e degli
impianti. La flessibilità legata al valore richiede un razionale impiego delle competenze
e dell’occupazione per garantire il controllo sulle varianze e sulla variabilità della produzione nell’ottica di garantire l’uniformità agli standard di eccellenza e di qualità del
prodotto. Lo straordinario va mantenuto per l’utilizzazione delle necessità imprescindibili, indifferibili e di durata temporanea e va separato dalla flessibilità produttiva. L’utilizzo frequente dello straordinario in una realtà produttiva è sempre il sintomo di una flessibilità spuria, disordinata e di una disfunzione organizzativa, così
come l’indizio di una mancanza di organici. Occupazione, flessibilità e orari di lavoro sono tra gli elementi essenziali e prioritari del «sistema del valore» da cui dipendono la qualità e il valore della produzione. Per questo motivo è sempre più necessaria la determinazione degli orari attraverso la schematizzazione collettiva della
riduzione degli stessi, delle ex festività, delle ferie e così via (questo vale soprattutto
sui turni: 5×3; 6×3; 7×3), su cui poi stabilire gli orari medi settimanali sotto le 40 ore
e decidere gli andamenti della flessibilità dell’attività produttiva. In questo modo il
calcolo sugli organici è più certo e meno improvvisato. È una razionalità che comporta
uno sviluppo flessibile della produzione, un’occupazione organizzata rispetto alle competenze assegnate dall’azienda ai lavoratori e un’alta qualità del «sistema del valore».
Il valore, dunque, in un’azienda, superati i vecchi canoni produttivi del taylorismo/fordismo, dipende dalle politiche aziendali di approvvigionamento, dagli investimenti tecnologici, dall’innovazione del processo e del prodotto e dalla centralità del
capitale umano. Tale dipendenza stabilisce la complementarità e l’integrazione tra i fattori che costituiscono il «sistema del valore». Gli organici, la crescita professionale, gli
investimenti per gli incrementi di competenza del capitale umano, il ruolo del lavoro linguistico nella sua manifestazione organizzata del saper dire e le relazioni sindacali sono i fattori del valore. Sono tutti aspetti che abbiamo incontrato nell’indagine. Ognuno di questi fattori, così come abbiamo provato a ragionare su alcuni di essi
(l’azione comunicativa e gli orari di lavoro e occupazione), è sempre migliorabile. Questo dipende dalle volontà delle parti sociali e soprattutto dalla stessa azienda, ancora
spesso imbrigliata dal dualismo tra una competitività cieca sulla riduzione del costo
del lavoro e la centralità del valore.
Sommari dei numeri precedenti
N. 1/2010
Presentazione, F. Farina.
Monografia, L’agricoltura e la nuova Pac verso il 2013.
M. D’Alessio, Introduzione; La riforma dell’Health Chech; La riforma dell’Ocm vitivinicolo; La riforma dell’Ocm ortofrutta; Partenariato e approccio integrato: il contributo delle Organizzazioni sindacali allo sviluppo rurale 2007-2012.
N. 2/2010
Presentazione, F. Chiriaco.
L’analisi, A. Pepe, I congressi di svolta della Cgil; F. Farina, Le costellazioni contrattuali.
Monografie, A. Di Stasi, Dalla cittadinanza del lavoro all’apartheid dei diritti; M.
D’Alessio, Il lavoro migrante per la competitività dell’agricoltura italiana; F.F., I
dannati della terra; E. Olivieri, Schiavismo nel XXI secolo; C. Cesarini, L’essenziale è invisibile agli occhi.
Temi, G. Girolami, I giovani e la pensione: istruzioni per l’uso; L. Svaluto Moreolo, I
giovani italiani e l’emancipazione dalla famiglia.
Documentazione, A. Stivali, Immigrazione e lavoro.
N. 3-4/2010
Presentazione, La redazione.
L’argomento, F. Farina, La contrattazione, la qualità del lavoro e la centralità del territorio; A. Pepe, Il sindacato e la contrattazione in una prospettiva storica.
L’analisi, P. Di Nicola, Management e organizzazione nell’impresa contemporanea; M.
D’Alessio, La contrattazione, l’azienda agricola e gli aiuti comunitari; D. Pantini,
La filiera agroalimentare in Italia.
Temi, F. Assennato, Contrattazione e qualità degli ambienti di lavoro.
Rubrica: Lavoro e salute, I. Figà Talamanca, La salute delle donne e il lavoro agricolo.
Documentazione, F. Farina, Il sapere, il saper fare e il saper essere.
Recensioni.
Abstract.
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N. 5-6/2011
Presentazione, La redazione.
Temi, F. Farina, Distretti agroalimentari e contrattazione territoriale; M. D’Alessio,
I distretti nell’industria alimentare italiana; D. Pantini, Nuovi scenari per l’agricoltura italiana; O. Cimino, Il lavoro salariato nell’agricoltura italiana: un’analisi sintetica.
L’argomento, A. Pepe, L’unità d’Italia tra Europa e trasformazione degli Stati nazionali.
Rubrica: Lavoro e salute, I. Figà Talamanca, I bambini e i rischi ambientali in agricoltura.
Recensioni.
Abstract.
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N. 7/2011
Presentazione, La redazione.
L’argomento, F. Farina, La contrattazione aziendale nell’industria alimentare; A. Pepe, L’accordo interconfederale del 28 giugno in una prospettiva storica.
Temi, M. D’Alessio, Il lavoro forestale e le normative regionali in Italia; G. Mattioli,
Energia ed agricoltura.
Rubrica: Lavoro e salute, I. Figà Talamanca, Il rischio infettivo tra i lavoratori dell’agroalimentare.
Memoria, M.L. Righi, Ricordo di Nella Marcellino.
Abstract.
N. 8/2011
Presentazione, La redazione.
L’argomento, F. Farina, Intervista a Stefania Crogi.
Temi, F. Farina, La contrattazione collettiva in azienda; A. Pepe, Caratteri e trasformazione del modello organizzativo della Cgil; D. Pantini, L’approvvigionamento
agricolo nell’era della scarsità e i possibili impatti per l’industria alimentare.
Rubrica: Lavoro e salute, I. Figà Talamanca, Integratori alimentari: possiamo fidarci
degli antiossidanti?
Recensioni.
Abstract.
N. 9-10/2012
Presentazione, Franco Chiriaco.
Monografia | Tesseramento e sindacato
L’argomento, S. Crogi, Contrattazione rappresentanza proselitismo.
Temi, I. Galli, Tesseramento e politiche organizzative, F. Farina, Tesseramento e politiche rivendicative, A. Pepe, Sindacalizzazione e tesseramento, M.P. Del Rossi, Il modello inglese, S. Cruciani, Il «caso francese» tra culture politiche e relazioni industriali (1895-1995), P. Borioni, Il modello scandinavo, M.P. Del Rossi, Il modello
tedesco.
L’analisi, A. Borello, La riforma della Politica comune della pesca: gli effetti socioeconomici di breve periodo.
Rubrica: Lavoro e salute, I. Figà Talamanca, Salute e lavoro delle donne nel settore
agroalimentare: risultati di un’indagine sul campo.
Segnalazioni e recensioni.
N. 11/2012
Presentazione, La redazione.
Monografia | Piano del lavoro e contrattazione
L’argomento, S. Crogi, Piano del lavoro e politiche rivendicative.
L’analisi, M. D’Alessio, L’occupazione nella crisi economica: quali evoluzioni nell’agroalimentare?
Temi, F. Farina, Occupazione, orari di lavoro e produttività; F. Loreto, Le politiche della Cgil contro la disoccupazione.
Ricerche, A. Pepe, Il collocamento in Italia in una dimensione storica.
Documentazione, M.P. Del Rossi, La Cgil e l’occupazione (Appendice documentaria).
Rubrica: Lavoro e salute, I. Figà-Talamanca, Che cosa sappiamo sui possibili effetti sulla salute dell’uso dei telefoni cellulari?
Segnalazioni e recensioni.
N. 12/2012
Presentazione, La redazione.
L’argomento, S. Crogi, Per un nuovo mercato del lavoro in agricoltura.
L’analisi, M. D’Alessio, Evoluzione del collocamento e mercato del lavoro in agricoltura.
Conoscenze, F. Abbrescia, Il mercato del lavoro in Puglia, F. Tassinati, Il mercato del
lavoro in agricoltura.
Temi, E. Pedrazzoli, Ingresso nel mercato del lavoro e modifiche delle tutele dei lavoratori - Legge n. 92/2012.
Rubrica: Lavoro e diritti, C. Cesarini, Discriminazione sindacale: note a margine della sentenza della Corte d’Appello di Roma del 19/10/2012.
Segnalazioni e recensioni.
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N. 13-14/2013
Presentazione, La redazione
L’argomento, S. Crogi, Le politiche contrattuali, il lavoro e i lavoratori.
L’analisi, A. Pepe, La crisi italiana nell’Europa tedesca: per una nuova diplomazia economica e sindacale.
Temi, F. Farina, Il negoziato e la struttura contrattuale; G. Rotella, La contrattazione collettiva del settore agricolo tra passato e futuro; M. D’Alessio, Le Organizzazioni dei produttori: una nuova prospettiva contrattuale?
Ricerche, F. Giordano, Condizioni di sicurezza e d’igiene nel vitivinicolo: due realtà toscane e pugliesi a confronto.
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Rivista trimestrale della FLAI CGIL
EDIZIONI
LARISER
€ 10,00
ISSN 2036-9948
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ae 15/2013
| agricoltura | alimentazione | economia | ecologia |
agricoltura | alimentazione
economia | ecologia
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ae 15/2013
POSTE ITALIANE SPA SPEDIZIONE IN A.P. D.L. 353/03 (CONV. IN L. 27/02/2004 N. 46) ART. 1 COMMA 1 ROMA AUT. N. C/RM/47/2012 - AE AGRICOLTURA ALIMENTAZIONE ECONOMIA ECOLOGIA - N. 15/2013
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■ MONOGRAFIA
Materiale
per un dibattito
congressuale
agricoltura | alimentazione
economia | ecologia
EDIZIONI
LARISER