! ! ! ! ! ! Facoltà di Giurisprudenza ! ! ! ! ! ! Cattedra di Diritto dei Mercati Finanziari! Separazione fra banca e industria! ! ! ! ! ! L’evoluzione della disciplina sui conflitti di interesse Relatore:! Prof.ssa Concetta Brescia Morra! ! ! Correlatore:! Chiar.mo Prof.! Marcello Foschini! ! ! Secondo Correlatore:! Chiar.mo Prof.! Gian Domenico Mosco! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! Candidato:! Costantino Lamberti! Matr. 111403! INDICE ! ! CAPITOLO I Considerazioni introduttive e evoluzione della disciplina in materia di rapporti fra banca e industria ! pag. ! ! 1.1. Il finanziamento delle imprese italiane: il sistema banco centrico 2 1.2. La regolamentazione del mercato finanziario e bancario 4 1.3. La Banca mista: caratteri strutturali 6 1.4. Segue: Il ruolo nello sviluppo economico dell’Italia 8 1.5. Gli intrecci partecipativi tra banca e industria 14 1.6. Il declino del modello di banca mista. La crisi del ‘29 17 1.7. Segue: Gli anni ‘30 20 1.8. Segue: L’Istituto per la Ricostruzione Industriale 22 1.9. La legge bancaria del 1936 24 1.10. L’evoluzione della disciplina comunitaria in materia bancaria 27 1.11. La privatizzazione del sistema bancario italiano. La legge Amato-Carli 31 1.12. Segue: Le leggi 474/94 e 461/98 33 1.13. L’evoluzione della disciplina degli assetti proprietari bancari 36 1.14. Il Testo Unico Bancario 40 1.15. L’attività bancaria nel Testo Unico Bancario 42 1.16. La banca universale 45 1.17. Il Mercato unico e la prestazione cross-border di servizi finanziari 47 1.18. La crisi finanziaria e il sistema bancario 50 ! ! ! CAPITOLO II La disciplina dei rapporti fra banca e industria ! 2.1. Il Testo Unico Bancario del 1993. Il regime autorizzatorio 53 2.2. Segue: La separatezza a monte 55 2.3. Segue: Il sistema sanzionatorio 60 2.4. Segue: La separatezza a valle 62 2.5. Segue: La concessione del credito e le misure per la prevenzione dei conflitti di interesse (rinvio) 71 2.6. Il rapporti fra banca e industria nella disciplina comunitaria precedente al 2007. Il recepimento negli Stati membri: Analisi comparata 73 2.7. La riforma del diritto societario del 2003 e il coordinamento con la disciplina bancaria 77 2.8. La Direttiva 2007/44/CE. Considerazioni introduttive 81 2.9. Segue: L’ambito di applicazione, le soglie autorizzative, le modalità di calcolo 87 2.10. Segue: I criteri di valutazione 91 2.11. Segue: Profili procedurali 95 2.12. Il recepimento della Direttiva in Italia 97 2.13. La disciplina vigente degli assetti proprietari della banche. Ambito di applicazione 101 2.14. Segue: Le soglie autorizzative e la nozione di controllo 106 2.15. Segue: I criteri di valutazione 110 2.16. Segue: Il procedimento 112 2.17. Segue: La trasparenza nei confronti del mercato 115 2.18. Segue: Il sistema sanzionatorio 120 2.19. Le partecipazioni detenibili dalla banche 123 ! ! ! CAPITOLO III I soggetti collegati alla banca ! 3.1. La regolamentazione secondaria 130 3.2. Analogie e tratti distintivi tra la disciplina dei rapporti con soggetti collegati e la disciplina dei large exposures 133 3.3. Le operazioni con parti correlate nella disciplina Consob. Inquadramento sistematico 134 3.4. Segue: La nozione di “parte correlata”. Il riferimento allo IAS 24 138 3.4.1. Le nozioni di controllo e di influenza notevole 3.4.2. Il controllo congiunto: la questione dei patti parasociali 3.4.3. Altri casi ! ! 142 140 144 3.5. Segue: La nozione di “operazione”: i prestiti erogati da pool di banche 145 3.6. Segue: L’indipendenza degli amministratori 148 3.7. Segue: Il principio di proporzionalità: la distinzione tra operazioni di maggiore e minore rilevanza 150 3.8. Segue: Gli obblighi informativi 152 3.9. Segue: La disciplina procedurale 153 3.10. Segue: Casi di esclusione e norme di coordinamento 159 3.11. La disciplina della Banca d’Italia in materia di assunzione di attività di rischio nei confronti di soggetti collegati. La delibera CICR n. 227 del 29 luglio 2008 161 3.12. Segue: Il perimetro dei soggetti collegati 164 3.13. Segue: Le procedure 167 3.14. Segue: I limiti prudenziale all’assunzione di attività di rischio 169 3.15. Segue: Le sanzioni 171 3.16. Alcune considerazioni critiche. Meccanismi di controllo endosocietario e conflitti di interesse 172 ! ! ! CAPITOLO IV Breve analisi economica ! 4.1. Considerazioni introduttive 180 4.2. La crisi finanziaria e la stretta creditizia 182 4.3. Le asimmetrie informative nel mercato del credito 189 4.4. Relationship lending 199 4.5. Alcune evidenza empiriche. L’incidenza del fenomeno: il ruolo dell’intermediazione finanziaria e l’integrazione proprietaria tra banche e imprese 204 4.6. La disponibilità e il costo del credito per le imprese partecipate da banche: il certification effect 208 4.7. Le finalità perseguite attraverso l’acquisizione di partecipazioni e la performance delle imprese partecipate da banche 211 ! ! Conclusioni !! L’integrazione proprietaria a monte L’integrazione proprietaria a valle I conflitti di interesse e gli amministratori indipendenti Bibliografia ! !! 216 217 219 224 INTRODUZIONE ! Il perdurare della crisi finanziaria, l’amara constatazione della instabilità che tuttora mina le fondamenta del sistema bancario, il progressivo acutizzarsi del credit crunch, questi elementi hanno riacceso il dibattito circa la separatezza fra banca e industria. Il lavoro si propone di analizzare le due facce della questione: da un lato, gli assetti proprietari delle banche; dall’altro, le partecipazioni da queste detenibili. Ciò, da diversi punti di vista. Nel primo capitolo esporrò le linee evolutive della disciplina in tema, che, nel corso del ventesimo secolo, ha conosciuto profondi e molteplici mutamenti. Sarà, questa, l’occasione per analizzare le caratteristiche essenziali del modello di banca mista, che ha contraddistinto il sistema bancario italiano fino all’emanazione della Legge Bancaria del 1936. Ci si focalizzerà, poi, sulle dinamiche del finanziamento delle imprese italiane: sulle ragioni, storiche ma anche strutturali, che hanno fatto di quello del debito il canale di finanziamento cui le pmi maggiormente ricorrono. Si passerà, in un’ultima parte, all’analisi degli interventi comunitari e nazionali - per molti versi rivoluzionari - succedutisi tra gli anni ottanta e novanta. Si descriverà, dunque: il processo di privatizzazione delle banche italiane e il ruolo che in questo hanno ricoperto le fondazioni bancarie; il processo di despecializzazione e la successiva diffusione del modello di banca universale; il progressivo venir meno della separatezza tra banca e industria, cui, ovviamente, sarà dedicata particolare attenzione. Il secondo capitolo sarà dedicato ad un’attenta analisi della disciplina in materia di rapporti tra banca e industria - “a monte” e “a valle” - contenuta nel Testo Unico Bancario. Le imprescindibili Direttive comunitarie saranno altresì esaminate con accuratezza. Il principale degli strumenti posti a presidio della correttezza gestionale delle banche in assenza di un regime di separatezza è oggetto del terzo capitolo; ci si riferisce alla disciplina recentemente emanata della Banca d’Italia in tema di rapporti con i soggetti collegati, sostanzialmente mutuata dal Regolamento Consob sulle operazioni con parti correlate. A questo si aggiunge un breve accenno alla disciplina dei large exposures. L’ultima parte del lavoro è dedicata alla disamina della principale letteratura economica in tema. Dopo aver esposto le peculiarità del mercato del credito (in particolare: asimmetrie informative e razionamento del credito), verrà analizzata l’incidenza del fenomeno della partecipazione delle banche in imprese non finanziarie: la reattività delle banche alle riforme legislative. Si indagherà, dunque, il costo sopportato dalle imprese partecipate nell’ottenimento del credito (certification effect) nonché la performance ex-post di queste. Si cercherà, infine, di trarre qualche conclusione sul ruolo che la relationship lending può avere nel finanziamento del sistema imprenditoriale italiano. ! ! ! ! ! ! ! ! CAPITOLO I ! Considerazioni introduttive e evoluzione della disciplina ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! 1.1. Il finanziamento delle imprese italiane: il sistema banco-centrico. ! Nei sistemi banco-centrici, quale è l’Italia - insieme, tra tutti, alla Germania e al Giappone - l’allocazione delle risorse finanziarie si svolge prevalentemente nel sistema bancario. Gli intermediari creditizi, dunque, nello svolgimento dell’attività bancaria - la quale, come si vedrà più avanti, costituisce oggigiorno solo una parte dell’universo delle attività delle banche - ricoprono un ruolo centrale nel sostenere i processi di crescita, investimento e innovazione del sistema economico generalmente inteso: trasferiscono risorse - finanziarie, s’intende - dai settori in cui vengono prodotti ai settori in cui vengono utilizzati, generalmente imprese, Stato, enti pubblici. A questi si è recentemente aggiunta un’ulteriore categoria, i consumatori, materia da ultimo regolata dalla direttiva 2008/48/CE. Al 2012, i prestiti alle imprese non finanziarie rappresentano il 20 per cento dell’attivo delle banche italiano (quando la media europea si attesta 13 per cento) e il 70 per cento dei debiti finanziari delle imprese (con una media europea che supera di poco il 50 per cento). Diverse e varie sono le ragioni per le quali l’intermediazione bancaria, nel nostro paese, ha assunto questo ruolo centrale di finanza esterna per il sistema imprenditoriale e che hanno specularmente frenato lo sviluppo dei mercati mobiliari, i quali, peraltro, stentano tuttora ad attecchire, nonostante la pluralità di interventi che si sono susseguiti negli ultimi decenni1. In primo luogo, la spiccata propensione al risparmio delle famiglie italiane, accompagnata da una generalizzata e storica avversione al rischio che ben si concilia con le caratteristiche delle operazioni bancarie. Si ricorda in questa sede che nella intermediazione bancaria, a differenza di quanto accade nei mercati mobiliari, il rischio finanziario delle operazioni grava sulle banche e soltanto in seconda istanza sui risparmiatori che affidano, in varie forme, il proprio risparmio alle banche. Gli stessi depositanti, peraltro, sono tutelati, per le ragioni che si esporranno, in maniera più incisiva rispetto ai soggetti che operano nei mercati mobiliari. ! 1 Gli ultimi dati sono sintomatici di questo trend: nel periodo 2000-2010 le società quotate domestiche sono diminuite da 297 a 286. Parallelamente, la capitalizzazione è passata da 818 a 423 miliardi di euro. (Fonte: Istat) 2 Ragioni di carattere strutturale, inoltre, hanno non poco contribuito alla caratterizzazione del nostro sistema finanziario in senso banco-centrico: da un lato, la frammentarietà dell’attività economica in una pletora di piccole e medie imprese2, le quali non presentano le dimensioni minime che consentirebbero loro di quotare le proprie azioni, dati gli ingenti costi a questa associati. Dall’altro, il ruolo centrale che la famiglia ha da sempre ricoperto nell’imprenditoria italiana3: rinunciare ad una ristretta base azionaria (che ancora contraddistingue anche le più grandi imprese italiane), aprendosi al risparmio diffuso, significa quantomeno esporsi al pericolo di perdere il controllo dell’impresa stessa. Last but not least, ragioni di carattere storico: l’Italia è il paese che per primo ha visto la nascita delle banche, seppure con finalità sostanzialmente diverse da quello che perseguono al giorno d’oggi. Si pensi al Monte dei Paschi di Siena, nato nel 1472 come monte di pietà a carattere caritatevole. Ancora, bisogna considerare il ritardo che ha contraddistinto la formazione di una base industriale in Italia rispetto agli altri paesi industrializzati. Il sistema economico dell’Italia postunitaria, infatti, ancora presentava una connotazione prevalentemente agricola, enfatizzata dall’assenza tanto di un processo di industrializzazione, quanto dalla volontà di intraprendere la strada verso questo4; ciò rendeva superfluo lo sviluppo di un sistema finanziario al passo con i tempi, già presente, invece, in altri paesi. Tale ultima considerazione ci aiuta a capire perché, fino agli anni immediatamente successivi alla crisi del 1929, le banche erano, da un lato, viste prevalentemente ! 2 La dimensione delle imprese italiane dell’industria e dei servizi è mediamente pari a circa il 60% di quella degli altri paesi dell’Unione Europea. In particolare, il 95% delle imprese ha meno di 10 addetti. (Fonte: Istat) ! 3 A fine 2010, quasi due società quotate su tre risultavano controllate di diritto o di fatto da un unico azionista; circa il 20% delle stesse, poi, era controllato da patti di sindacato (Fonte: Istat) ! 4 Come nota A.M. Banti, “L’Italia è (era) un paese agricolo. [...]. Tutto ciò aveva un vantaggio che - per l’Italia appena costituita - si riteneva assolutamente sacro. La società rurale - si diceva - è il territorio della pace sociale, della tradizionale deferenza contadina, della mancanza del conflitto, laddove la città, la fabbrica, gli operai sono fonti di pericoloso scontro sociale”, in Storia della Borghesia Italiana, Donzelli Editore, 1996, p. 144. Per una analisi più ampia della situazione economica italiana di inizio secolo, v., fra tutti, R. Romeo, Breve storia della grande industria in Italia 1861-1961, Il Saggiatore, 1980; A. Caracciolo (a cura di), La formazione dell’Italia industriale, Laterza, Bari 1973. !3 come strumento di gestione della politica monetaria e, dall’altro, omologate alle imprese comuni, soggette dunque, in massima parte5, alla disciplina del codice di commercio del 1882; una normativa speciale, funzionale alla tutela di interessi altri che andassero al di là della mera attività privata, non era ritenuta necessaria, e, dunque, le stesse erano completamente libere di agire, senza vincoli di alcun tipo6. ! ! 1.2. La regolamentazione del mercato finanziario e bancario. ! A lungo la letteratura giuseconomica ha dibattuto circa il tipo di regolamentazione opportuna per il mercato in generale, nonché per quella species di quest’ultimo costituita dal mercato finanziario7. La continua evoluzione della disciplina bancaria, tanto a livello internazionale quanto comunitario e nazionale, è evidentemente sintomo di una rinnovata consapevolezza della necessità di una tale disciplina. La banca, nell’esercizio del credito, sopporta un credit risk - il rischio che il creditore si venga a trovare in una situazione di insolvenza - di portata assai ampia. La particolare natura del sistema bancario - che sarà investigata successivamente in questo capitolo -, fa sì che le conseguenze legate a tale rischio non siano limitate al privato esercente il credito, ben potendosi le stesse ripercuotere, anche gravemente, sul pubblico. Come nota Dalhuisen: “[…] banks not only play a commercial but also a public role. The public ! 5 Importanti eccezioni erano previste per alcune attività bancarie specializzate, quali quelle di emissione, per le Casse di risparmio e per i Monti di Credito. Il codice di commercio, inoltre, con una norma speciale non prevista per le imprese comuni, obbligava tutti gli istituti di credito a depositare, secondo uno schema predisposto dall’esecutivo, la propria situazione mensile. Ciò è sintomatico del riconoscimento - quanto meno implicito - del fenomeno delle asimmetrie informative, particolarmente minaccioso per il sistema finanziario. ! 6 V. F. Capriglione, Un Secolo di Regolazione, in L’Ordinamento Finanziario Italiano, Cedam, 2010; P. Ciocca, Note sulla Politica Monetaria Italiana, in Lo Sviluppo Economico Italiano, Bari, 1973, pp. 241 ss. ! 7 Circa la configurabilità del mercato finanziario come species del mercato in generale, v A. Benocci, Riflessioni intorno alle ragioni fondamentali della regolamentazione finanziaria: il sistema dei tradizionali obiettivi di policy e la trasversalità della finalità etica, in Studi e note di economia, 2006. !4 interest […] may give raise to forms of regulation and sometimes administrative investigation”8. In questa ottica, una disciplina esterna di tipo pubblico si rende necessaria, anche in considerazione della funzione monetaria espletata dalla banche. Non sempre è stato così. Partendo dalla premessa di una efficienza strutturale del mercato di smithiana memoria, mercato che - è questa il postulato portante l’intera dottrina - naturalmente tende verso risultati ottimali, gli economisti della scuola classica (si ricordano, tra i più importanti, Adam Smith, David Ricardo, Antoine Augustin Cournot, John Stuart Mill), hanno asserito l’inutilità di una regolamentazione esterna del mercato. Anzi, spesso volte si è andati al di là di tale assunto, sostenendo che la maggior parte delle crisi economiche e finanziarie sono dovute alla volontà di costringere un meccanismo perfetto, qual è il mercato, entro limiti che ne mortificano le potenzialità e lo de-perfezionano. In tale ottica, per far fronte ai fallimenti del mercato è sufficiente la mano invisibile, la Provvidenza, che trasforma i vizi privati in virtù pubbliche; dunque, della ricerca egoistica del proprio interesse, finalità cui anela ogni operatore del mercato, beneficia l’intera società. Sulla scia di questa dottrina, che conoscerà nel tempo nuove e più vigorose interpretazione, si afferma, in ambito bancario, la teoria del free-banking, il quale, in massima sintesi, applica gli assiomi liberisti al campo finanziario, con importanti conseguenze che vanno anche al di là di considerazione sugli assetti e le attività delle banche, coinvolgendo la politica monetaria. Conseguenza necessaria di tale orientamento è, infatti, la riserva a favore delle singole banche private in tema di emissione di moneta: istituti quali le banche centrali e la moneta a corso legale sono bocciati tout court, ritenuti non necessari, anzi deleteri per l’efficienza del sistema9. ! ! ! ! 8 J.H. Dalhuisen, Home and host country regulatory control of trans-border banking services in the EU, in G. Alpa, F. Capriglione (a cura di), Diritto bancario comunitario, UTET, 2002, p. 412. 9 ! V. H. Meulen, Free Banking: an outline of a policy on individualism, 1934; R. Salsman, Breaking the Banks: central banking problems and free banking Solutions, 1990 !5 1.3. La banca mista. Caratteri strutturali. ! Questo humus culturale, combinato con l’arretratezza economica della neo unificata Italia, la quale, come già accennato, rendeva secondaria la questione della regolamentazione speciale delle attività finanziarie, fece sì che il modello gestionale al quale si ispirarono le poche grandi banche italiane dell’epoca fosse quella della banca mista di stampo tedesco, che Gerschenkron definisce “una invenzione poderosa, simile negli aspetti economici, a quella del motore a a vapore”10. Alla fine del diciannovesimo secolo si possono, dunque, già intravedere i prodromi di quello che sarà a lungo l’elemento caratterizzate il sistema bancario italiano, vale a dire la fortissima partecipazione degli istituti di credito nazionali nell’impresa industriale. In quanto completamente autonoma nel suo agere, la banca mista è autorizzata sia ad esercitare il credito nel breve periodo, sia ad effettuare operazione finanziarie e di investimento nel medio-lungo periodo. I fondi destinati a quest’ultimo tipo di operazioni, peraltro, possono anche provenire dalla raccolta del risparmio ottenuto mediante depositi rimborsabili a vista, operazione a breve termine per antonomasia. Non esiste, dunque, alcuna “correlazione temporale tra le forme della raccolta e quella degli impieghi”11: è questo il fenomeno della trasformazione delle scadenze, che costituisce uno degli elementi essenziali nell’espletazione della funzione macroeconomica dell’attività bancaria. A tale centralità nell’incentivazione del sistema economico fanno da contraltare, a onor del vero, forti rischi di natura finanziaria e economica, che possono sorgere nel momento in cui la divaricazione tra i tempi della raccolta e dell’impiego risulta essere troppo accentuata; rischi che la legge bancaria del 1936, come si dirà, ha cercato di arginare introducendo il principio della specializzazione temporale. In tale prospettiva la banca mista di stampo tedesco si differenzia nettamente dalla banca di deposito tipica dei sistemi anglosassoni. Come sintetizzato da Hilferding, la ! 10 A. Gerschenkorn, La Continuità Storica: Teoria e Storia dell’Economia, Einaudi, Torino 1976 11 ! F. Capriglione, Un secolo di regolazione, op.cit., p. 56. !6 banca tedesca “non si caratterizza né per l'entità del capitale [...], nemmeno per la forma tecnica con cui il denaro viene trasferito ai capitalisti [...], ma per la destinazione del capitale prestato”12. Il denaro prestato da una banca di deposito alle imprese, infatti, si trasforma necessariamente in capitale circolante, utilizzato nel breve termine per far fronte ai crediti liquidi ed esigibili vantati dai creditori del beneficiario. I prestiti effettuati dalle banche di stampo tedesco, invece, possono essere utilizzati per finanziare tanto il capitale circolante quanto il capitale fisso, quest’ultimo necessario per effettuare investimenti di medio-lungo periodo. Questa diversa prospettiva temporale rende centrale la questione attinente ai diversi profili di rischio che credito per la circolazione e credito di capitale pongono e in relazione ai quali vanno valutati. Evidentemente, i mestieri della banca mista e della banca di deposito sono sostanzialmente diversi. Poste queste premesse, è chiara la ragione del secondo elemento caratterizzante la banca mista: la possibilità - la indispensabilità, si potrebbe dire - di acquisire, a fronte del credito concesso (o anche a garanzia di quest’ultimo) partecipazioni strategiche nelle stesse imprese finanziate, grazie alle quali poter intervenire nella gestione. L’immobilizzazione del proprio attivo, la disponibilità del quale la banca riacquisirà solo in maniera dilazionata nel tempo, impone alla stessa di sorvegliare sulla gestione dell’impresa finanziata, con effetti benefici di cui senza dubbio potranno beneficiare anche i piccoli azionisti. Questi ultimi, infatti, spesse volte sono, per vari motivi, disinteressati alla gestione della società, ovvero disincentivati dagli eccessivi costi che questa comporta: si tratta del fenomeno della “apatia razionale dei piccoli azionisti”. Sulla scia degli enunciati della game theory, gli studiosi hanno peraltro evidenziato come questa mancata partecipazione, al di là degli effetti negativi che produce sulla vita della società (in primis, il pericolo di moral hazard: il mancato controllo sugli amministratori permette agli stessi di sottrarsi facilmente agli obblighi 12 ! R. Hilferding, Il Capitale Finanziario, Feltrinelli, Milano, 1961. !7 assunti nei confronti dei soci e di perseguire l’unico obiettivo della massimizzazione delle propria funzione di utilità), sia la scelta razionale.13 Ma c’è di più: come evidenziato dalla recente letteratura, anche la partecipazione attiva delle banche nella governance delle imprese può risultare positiva. In questo modo infatti la banca può ottenere informazioni rilevanti - altrimenti non disponibili - circa l’andamento e le prospettive della partecipata, riducendo dunque la vulnerabilità della partecipante in tema di free riding; informazioni, peraltro, utili per valutare attentamente il merito creditizio nell’eventualità di ulteriori prestiti, in un’operazione che risulta essere per sua stessa natura più rischiosa della concessione di credito a breve termine14. E’ grazie a questi dati, all’influenza che la banca si trova a esercitare sulle imprese, in ultimo, che la banca ha la possibilità di minimizzare il rischio stesso nonché di assicurare - e massimizzare - il rendimento dell’investimento.15 ! ! 1.4. Segue: Il ruolo nello sviluppo economico dell’Italia. ! Già nelle ultime due decadi del diciannovesimo secolo, il modello cui si ispiravano il Credito Mobiliare e la Banca Generale - le uniche due società ordinarie di credito ancora in attività dopo la contrazione degli anni successivi al 1874, fondate rispettivamente nel 1863 e nel 1871 - era quello della francese Crédit Mobilier dei fratelli Pereire. Come quest’ultima, il loro oggetto sociale era espressamente quello di operare investimenti nell’industria a medio-lungo termine, attingendo fondi ! 13 V. più ampiamente, R. Weiggmann., Società per azioni, in Dig. Disc. Priv., sez. comm., vol. XIV, Torino, 1997, p. 421 ss. ! 14 E’ proprio questo quello che è accaduto durante la recente crisi finanziaria. In un contesto di razionamento del credito industriale, le banche hanno privilegiato le imprese con le quali intrattenevano relazioni più strette, data la maggiore facilità con la quale potevano reperire informazioni utili alla valutazioni del merito creditizio. ! 15 M. Bianchi, M. Bianco, Relazioni proprietarie tra banca e imprese: alcune evidenze empiriche, relazione tenuta al seminario “Nuove prospettive per l’intermediazione finanziaria nell’evoluzione del contesto economico”, tenutosi a Milano il 22, 23 e 24 marzo 2007. !8 dall’emissione di obbligazioni ovvero attraverso prestiti interbancari effettuati con altre banche europee. Agivano, dunque, prevalentemente in ambito mobiliare, il che le rendeva molto simili, più che a una banca, a quella che oggi definiremmo una finanziaria. Il ruolo che ricopriva la raccolta del risparmio attraverso depositi e la correlata apertura di sportelli sul territorio era marginale16. Indubbiamente, le banche mobiliari contribuirono fortemente alla crescita economica che l’Italia conobbe fino alla crisi bancaria del 1894 e quella industriale del 1897. Sussisteva in ogni caso un certo equilibrio nei rapporti banca-industria; come nota Romeo: “ciò non significa [...] che queste banche controllassero veramente gran parte dell’economia italiana, come accadrà più tardi con le grandi banche miste [...]. Storicamente, questa è ancora una fase di larga indipendenza dell’industria italiana dalla banca. [...]. L’intervento della banche di credito mobiliare ha avuto certo una parte non secondaria nello sviluppo di alcuni settori; ma esse sono ben lontane, ancora dall’averne il controllo”17.18 I primi sintomi della depressione economica che portò ad una profonda innovazione del nostro sistema bancario si possono già scorgere nella crisi commerciale del 1887. Ma fu nei primi anni novanta del diciannovesimo secolo che le buone congiunture economiche che resero possibile il descritto fiorire dell’economia si offuscarono definitivamente. Ne soffrì in particolare il settore edilizio, sui cui tanto avevano investito le banche mobiliari: fu ciò alla base della crisi bancaria del 1894, anno nel ! 16 L’unica esperienza diversa da quella della banca mobiliare riscontrabile nel diciannovesimo secolo fu quella del Crédit Lyonnais, banca fondata da Henry Germain il 6 luglio 1863. Precursore dei tempi, il banchiere di Lione si propose di focalizzare l’attività dell’istituto sulla raccolta del piccolo risparmio e non sugli investimenti diretti nelle imprese, impegnando molte risorse per assicurare un’alta liquidità alla banca, così riducendo al minimo il rischio di insolvenza. Per approfondimenti cfr. Jacques-Marie Vaslin, Henri Germain: prudent banquier du Crédit lyonnais, articolo apparso su Le Monde del 16 agosto 2013. ! 17 R. Romeo, op. cit., p. 45. 18 ! Cfr. V. Zamagni, Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica dell’Italia (1861-1990), Il Mulino, 2003 !9 quale fallirono sia il Credito Mobiliare sia la Banca Generale.19 Rispondendo alle nuove esigenze dell’economia italiana, il governo Crispi, dopo un serrato dibattito negli ambienti politici e economici anche internazionali (in particolare quello tedesco20), fece sì che Credito Mobiliare e Banca Generale fossero sostituiti da istituti che, appunto, si ispiravano alle hausbank tedesche. Per prima nacque la Banca Commerciale Italiana, che ebbe in eredità gran parte delle partecipazioni del Credito Mobiliare e della Banca Generale; fondata a Milano nel 1894, presentava un capitale iniziale di 20 milioni di lire, sottoscritto per il 78 per cento da banche tedesche che tanto si erano interessate alla sua nascita, per il 13 per cento da banche austriache e per il restante 9 per cento da banche svizzere. Secondo fu il Credito Italiano, costituiti a Genova nel 1895. In entrambi i casi, peraltro, la presenza di investitori stranieri andò diminuendo, progressivamente sostituita da azionisti italiani. Ultimo fu il Banco di Roma, alla cui costituzione parteciparono prevalentemente ambienti cattolici e vaticani.21 Il sistema finanziario stavo vivendo una fase di grande cambiamento che l’avrebbe a lungo segnata, nel bene e nel male; una evoluzione, questa, che si poneva in rapporto sinergico con la parallela espansione e industrializzazione del paese, l’una al tempo stesso causa ed effetto dell’altra. E’ questa incentivazione e rafforzamento vicendevole che è messa lucidamente in luce da Toniolo, che ne trae una regola generale; scrive: “In generale, si osserva che nel corso dello “sviluppo economico moderno” la sovrastruttura finanziaria cresce più rapidamente della struttura costituita dal reddito e dalla ricchezza reali [...] Al crescere del reddito si accompagna, di solito, anche una crescente specializzazione e ! 19 Questi due istituti, a dire il vero, navigavano si in cattive acque, ma non tanto drastiche da poter giustificare quello che effettivamente è poi accaduto. Il fallimento fu quantomeno accelerato dalle condizioni politico-istituzionali di allora: in particolare, dal vuoto di potere dovuto all’unificazione delle quattro preesistenti banche di emissione con la successiva istituzione della Banca d’Italia. Cfr. V. Zamagni, op. cit., pp. 187 ss. ! 20 Esemplare è la querelle epistolare in tema di intervento della banca nell’industria sorta tra Noetzlin, allora presidente del comitato centrale della B.C.I. e Joel, fondatore e presidente della stessa, ben descritta da A. Confalonieri, Banca e industria in Italia, Vol. III: l’esperienza della banca commerciale italiana, Banca Commerciale Italiana, 1976 21 ! V. A.M. Banti, Storia della Borghesia Italiana, op.cit., p. 284; A. Confalonieri, Banca e Industria in Italia, 1894-1906, II, Il Sistema Bancario tra due Crisi, Milano, 1975 !10 separazione dei processi di risparmio da un lato e di formazione del capitale dall’altro”22 E’ opportuno sottolineare il carattere innovativo di questo nuovo modello gestionale, che differenzia sostanzialmente l’assetto bancario di inizio secolo da quello dominato dalle società ordinarie di credito. Seppur interessate alle operazioni mobiliari e all’intervento nella industria, questi istituti erano in tutto e per tutto banche, in quanto tali particolarmente dedite, in primis, alla raccolta del risparmio presso il pubblico e, in secondo luogo, attente a sviluppare e implementare una opportuna politica di espansione territoriale. Questo ambito operativo - si potrebbe dire onnicomprensivo - metteva le banche miste nelle condizioni idonee perché “compissero la loro missione”: erano, cioè, in grado di allocare le (ora maggiori) risorse finanziarie raccolte presso i piccoli risparmiatori in maniera sicuramente più efficace di quanto fosse prima possibile. Questo aspetto fu determinante; significativa a tal proposito è la riflessione di De Cecco, che nota che “o l’industria italiana si creava sfruttando l’accumulazione che aveva luogo in altri settori, con la mediazione dello Stato e del sistema bancario, o non sarebbe mai cresciuta”23. Come insegna Spaventa24 , tanto la teoria post-classica quanto quella keynesiana (a differenza della scuola classica) hanno messo in luce come - pur nella non riconducibilità dei diversi scenari che possono nella realtà presentarsi ad uno schema unitario - vi sia autonomia tra le decisioni di risparmio degli operatori economici e gli effettivi investimenti: la prima è condizione necessaria perché si verifichi la seconda ma il risparmio può anche essere disperso in attività poco o per niente produttive. Ed è questo il motivo per cui De Cecco sottolinea il ruolo di mediazione dello Stato e del sistema bancario, il cui operato ha reso possibile quel quid pluris che ha trasformato la necessarietà in sufficienza, “in parte dinamizzando energie che ! 22 P. Ciocca, G. Toniolo, Storia economica d’Italia, Laterza, Bari 2004, p. 40 ! 23 M. De Cecco, Banca d’Italia e conquista politica del sistema del credito, in G. Mazzocchi (a cura di), Il governo Democratico dell’Economia: saggi e interventi, De Donato, Bari 1976. 24 ! L. Spaventa, Teoria economica dello sviluppo e storia economica, in A. Caracciolo (a cura di), La formazione dell’Italia industriale, op. cit. !11 già esistevano, in parte mobilitandone di nuove”25. Sono queste le premesse storico economiche alla luce delle quali poter intendere l’imminente boom economico che prenderà il nome di “rivoluzione industriale dell’età giolittiana”, fase di radicale cambiamento di cui beneficiò tutta l’industria; industria che andava via via sostituendo, nella formazione del reddito nazionale, l’agricoltura.26 A trarne profitto fu in particolare il settore siderurgico, già avviato a partire dal 1884, anno di fondazione della “Società anonima degli alti forni, fonderie e acciaierie di Terni”. Nessun dubbio può allora sorgere circa il ruolo cruciale giocato dalle banche miste nella formazione di una base industriale italiana. Sugli aspetti qualitativi di questo ruolo bisogna peraltro fare una precisazione. Come messo in evidenza da Confalonieri27 le banche miste - in primis la B.C.I. - non hanno mai ricoperto il ruolo di “autonome promotrici di attività economiche”: mai hanno avuto una “strategia settoriale” in virtù della quale hanno investito in determinati comparti, alla luce di considerazioni di carattere prettamente industriale. Tranne pochi sporadici casi, come quello dell’allora promettente settore elettrico, gli stimoli agli investimenti e al supporto di attività economiche furono sempre “esterni”, poi valutati secondo criteri ed esigenze tipicamente bancarie, alle quali esigenze gli investimenti stessi erano funzionalmente subordinati. Ed è questo che si intende quando si afferma che le banche miste erano banche e non holding28: “semmai, degli affari industriali, ! 25 L. Cafagna, La formazione di una base industriale fra il 1896 e il 1914, in A. Caracciolo (a cura di), La formazione dell’Italia industriale, op. cit., p. 157. ! Ovviamente 26 a questo generale generale trend positivo contribuirono, oltre alla florida attività delle banche, numerosi altri fattori: tra tutti, una risanata bilancia dei pagamenti e una ampia offerta di manodopera; il ruolo dello Stato, che adottò politiche fortemente protezionistiche e più volte sovvenzionò direttamente l’industria, fu altrettanto notevole. Alti furono anche i costi trasferiti ai consumatori, che videro, a fronte dell’espansione dell’economia, un costante aumento dei prezzi interni. Alcuni dati tratti da R. Romeo, La rivoluzione industriale dell’età giolittiana, in A. Caracciolo (a cura di), op. cit., pp. 116-117: “Il reddito nazionale, che era nel 1895 di 61 miliardi e 423 milioni di lire del 1938, cresce costantemente negli anni successivi, fino a raggiungere nel quinquennio 1911-1915 i 92 miliardi e 340 milioni; la partecipazione dell’industria alla formazione del prodotto lordo privato sale dal 19,6 nel 1895 al 25% nel 1914, mentre quella dell’agricoltura decresce dal 49,4 al 43,0; la formazione annua del risparmio appare quintuplicata, e i suoi effetti si scorgono specialmente nel crescere degli investimenti in impianti e attrezzature produttive”. ! A. 27 28 ! Confalonieri, Banca e industria in Italia, op. cit., pagg. 459 ss. P. Ciocca, G. Toniolo, Storia economica d’Italia, op. cit. pp.192 ss. !12 l’aspetto più rilevante consiste nell’attività di collocamento dei valori mobiliari, veramente essenziale nello schema concettuale della nuova attività bancaria. [...] Il ruolo delle partecipazioni nella politica d’impiego [...] risulta chiaramente ridimensionato”29 . In ogni caso grazie alla loro presenza e al loro operato comunque, come si dirà, non esente da critiche - l’Italia fu capace di superare l’ancestrale carenza di capitali per l’investimento industriale: neanche il contributo di quello che era stato il più florido comparto - l’agricoltura - era mai stato sufficiente perché il sistema nel suo insieme decollasse; i profitti dell’industria stessa sarebbero forse stati sufficienti per uno sviluppo graduale di un’industria già avviata, per quanto modestamente; non era questo il caso italiano, paese che necessitava della formazione di una base da zero, peraltro confrontandosi con realtà europee già da tempo consolidatesi. Questi deficit rendevano la situazione italiana sostanzialmente diversa da quella di altri paesi europei: per citarne uno, la Gran Bretagna; culla dello spirito imprenditoriale, da sempre ricca di capitali privati, di soggetti disposti a rischiare e pronti, desiderosi, ad innovare, la Gran Bretagna ebbe la possibilità di non adottare il modello della banca mista, distinguendo da subito, in maniera netta, tra commercial e investment bank, secondo principi di specializzazione e separazione che l’Italia avrebbe successivamente mutuato sull’onda degli eventi drammatici degli anni trenta. La Gran Bretagna, in estrema sintesi, non aveva bisogno della banca mista. L’Italia, per le ragioni suindicate, sì. D’altronde, fu grazie all’attività delle banche miste che settori quali quello chimico, elettrico, metallurgico e meccanico (la Fiat, ad esempio, nasce proprio in questo periodo, nel 1899) hanno potuto crescere sino a diventare, per lungo tempo, i maggiori punti di forza della economia domestica. Settori caratterizzati da una spiccata dinamicità ma che evidentemente abbisognavano - e abbisognano tutt’oggi - di ingenti investimenti in capitale fisso. Investimenti che, appunto, furono resi possibili solo dall’attività degli intermediari creditizi, tipicamente attraverso scoperti di conto corrente. Scrive Bachi: “Carattere di questa epoca, quasi nuovo per l’Italia, è stata la grande importanza assunta dalla banca di fronte all’industria: la banca ha assunto sempre più la funzione di base per 29 ! A. Confalonieri, Banca e industria in Italia, op. cit., p. 461 !13 l’azienda industriale; il capitale bancario [...] in questa fase si erge a propulsore e ad un tempo a dominatore dell’industria e acquista una potenza nuova, palese o celata di fronte alla vita nazionale, anche nell’esplicazione politica”30. ! ! 1.5 Gli intrecci partecipativi tra banca e industria. ! Tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento, l’Italia, dunque, conosce la stagione della fratellanza tra banca e industria, fino ad arrivare al punto in cui “il finanziamento dell’industria era considerato dalle banche italiane come una delle loro funzioni principali”31 ,32 . Parallelamente alla partecipazione delle banche nell’industria, spesse volte anche queste ultime partecipavano al capitale dei propri finanziatori, con l’intuibile obiettivo di rendere meno difficoltoso il ricorso all’indebitamento. Il rapporto banca-industria assumeva, dunque, nella realtà fattuale, una valenza bidirezionale; è opportuno d’altronde anticipare che la letteratura dell’epoca, e con questa il legislatore, minimizzò, snobbò - come farà il legislatore nella ventura legge bancaria del 1936 - quest’ultimo fenomeno. Ciò in quanto le dimensioni dell’industria dell’epoca non consentivano di immaginare la possibilità di una scalata ad una banca da parte del mondo industriale. Si dovranno ancora aspettare parecchi decenni perché questo tema divenga attuale e venga considerato in tutta le sua portata. ! 30 R. Bachi, I lineamenti della recente evoluzione dell’economia italiana, in L’Italia economica nel 1913. Annuario della vita commerciale, industriale, agraria, bancaria, finanziaria e della politica economica, Lapi, Città di Castello 1914, pp. 300-1. ! 31 P. Sraffa, La Crisi Bancaria in Italia, in F. Cesarini, M. Onado (a cura di), Struttura e stabilità del sistema finanziario, Il Mulino, Bologna 1979 ! 32 Su queste tematiche, cfr. M. Marconi e B. Fradeani, La questione bancaria in Hilferding e negli economisti italiani, in Storia del pensiero economico, 39/2000; V. Zamagni, The Rich in a Late Industrialiser: the case of Italy, in W.D. Rubinstein (a cura di) Wealth and the Wealthy in the Modern World, Londra, 1980, la quale testimonia che: “le società che avevano nel loro consiglio di amministrazione almeno un membro che apparteneva al consiglio di amministrazione di una banca erano il 60 per cento del numero totale delle società considerate (con un capitale che certamente superava il 60 per cento del totale, perché tra esse vi erano le anonime più grandi)”, p. 146 !14 Si crearono in questo modo degli intrecci partecipativi tra banche e industria che, almeno in Italia, diedero luogo a pesanti conflitti e che, senza che questi fossero quantomeno presi in considerazione, avrebbero portato, nel giro di pochi anni, il paese sull’orlo della catastrofe. La proficua fratellanza tra banca e industria, che aveva supportato la industrializzazione dell’Italia di inizio secolo, sarebbe in questo modo diventata - a parer di molti - una “mostruosa fratellanza siamese”33. In effetti, a fronte dei tanti effetti benefici derivanti dalla partecipazione delle banche nelle industrie, sussistono - almeno in via potenziale - pericoli tanto numerosi quanto gravi. In primis, gli intermediari creditizi titolari di partecipazioni di maggioranza nelle imprese finanziate possono fraintendere la loro funzione di allocazione delle risorse finanziarie; possono, cioè, trasformare questa da quello che effettivamente è trasferimento efficiente di risorse finanziarie dai luoghi di creazione agli ambienti che invece presentano deficit - ad un supporto cieco e indiscriminato alle imprese partecipate, spesso passando in secondo piano l’esigenza di frazionare opportunamente il rischio di credito. In questo campo, efficienza significa valutare attentamente il merito creditizio dei beneficiari dei prestiti e dunque operare scelte coerenti; in un siffatto scenario, dominato da importanti conflitti di interesse, ciò risulterà estremamente improbabile. Si viene così a creare una sorta di rapporto di sudditanza della banca nei confronti dell’impresa, che porterà la partecipante ad essere quantomeno tentata a supportare la partecipata anche in situazioni di pericolo. Le partecipazioni incrociate possono, in secondo luogo, provocare quel fenomeno che è comunemente definito come “annacquamento del capitale”, vale a dire una sopravvalutazione del capitale azionario rispetto al suo valore effettivo. Sulla scorta di queste informazioni patrimoniali distorte, il mercato sarà indotto ad accordare all’impresa più fiducia di quanto effettivamente meriti. Le conseguenze negative che i risparmiatori saranno, in una tale situazione, chiamati a sopportare possono rivelarsi 33 ! R. Mattioli, Il ruolo del capitale finanziario, in L.Villari (a cura di), Il capitalismo italiano del novecento, Laterza, Bari, 1993, pag. 669 !15 importanti, dato che, come noto, nelle società a responsabilità limitata, l’unica garanzia dei creditori è data dalla effettiva situazione patrimoniale. In ultimo, c’è da considerare che intreccio partecipativo così profondo - quale quello che si rilevava ad inizio novecento - rende inevitabilmente i comparti bancario e industriale molto più connessi di quanto non lo siano normalmente, e ciò nella buona e nella cattiva sorte. Così, di un’espansione dell’uno beneficerà in maniera rilevante l’altro. Ma quando uno di questi vive una fase di depressione o, peggio, una generalizzata crisi di solvibilità, questa inevitabilmente si propagherà velocemente all’altro, trasformando una anche lieve contrazione in una crisi sistemica e mettendo così a rischio la stabilità dell’intero sistema economico generale. Pericolo, questo, ancora più consistente nel momento in cui le banche - come di solito accade34 intervengono direttamente nel salvataggio di un’impresa partecipata che versi in una situazione di illiquidità. Interrogativo arduo cui dare risposta è se tale instabilità sia intrinseca o no allo stesso sistema della banca mista. Tra la copiosa letteratura, basti per il momento ricordare, da un lato, l’opinione di Cohen, che si schiera per la tesi affermativa, sostenendo in un articolo del 1967 che la mortificazione delle esigenze imprenditoriali dovuta alla concentrazione finanziaria del sistema delle banche miste ha fatto sì che: “Italian industry never achieved that freedom which German industrialists gained; the control of the banks was never challenged”35. Diametralmente opposta l’opinione di Toniolo, che in un passo del 1990 afferma: “qualunque sia il motivo di tale instabilità, non si potrà sostenere che essa fosse intrinseca al sistema banca mista, che in Germania ha, al contrario, dato prova di notevole stabilità [...] Il sistema della banca mista è un ! 34 A tal proposito, si registrano anche dei casi in cui - quando la gravità della situazione lo ha richiesto - si è arrivati a costituire dei consorzi cui partecipavano più banche, al solo fine di scongiurare il fallimento della partecipata. V. P. Ciocca, G. Toniolo, Storia economica dell’Italia, op. cit., pagg. 192-193 35 ! J. Cohen, Financing Industrialization in Italy, 1894-1914: the partial transformation of a late comer, in Journal of economic history, 1967, cit. p. 382 !16 sistema in cui banca e industria non sono legate da fratellanza siamese se non nelle sue degenerazioni”36. ! ! 1.6. Il declino del modello di banca mista. La crisi del ’29. ! La Grande Crisi ebbe origine negli Stati Uniti degli anni venti del secolo scorso. Nessun dubbio sussiste circa le cause reali, e non finanziarie, della fortissima svalutazione azionaria del 24 ottobre 1929; poco o nessun rilievo hanno avuto contingenze interne al mercato finanziario. Sicuramente peggiorata nei suoi effetti dalla lentezza e inefficacia delle reazioni politiche, ebbe conseguenze disastrose sull’economia mondiale, provocando una contrazione della domanda che sarà faticosamente superata nel corso di diversi e molto difficili anni. In Italia la crisi finanziaria del 1929 ebbe ripercussioni ancora più drammatiche di quanto lo fossero stati negli Stati Uniti; ciò è da molti ricondotto proprio alla struttura del sistema bancario di allora e all’intreccio partecipativo tra banca e industria che lo caratterizzava, intreccio che lo rese molto più esposto alle contrazioni della domanda; si è già parlato dei pacchetti azionari di maggioranza detenuti dalla banche nelle principale imprese industriali, della sopravvalutazione del patrimonio dovuto alla titolarità di azioni proprie, oltre che delle ingenti immobilizzazioni in investimenti a medio o lungo termine, dunque illiquide. In questo contesto, le grandi banche miste si trovarono in enorme difficoltà, sull’orlo della bancarotta. La prima a richiedere il credito di ultima istanza fu il Credito Italiano, nel 1930; poco dopo, nell’estate del 1931, la Banca Commerciale Italiana fu costretta a seguirla. Cruciale fu l’intervento della Società Finanziaria Industriale Italiana S.p.A. (SOFINDIT), società controllata dal Ministero delle Finanze e dal Governatore della Banca d’Italia; questa, nell’ambito della Convenzione di Roma del 31 ottobre (che prevedeva, tra le altre cose, la costituzione dell’Istituto Mobiliare 36 ! G. Toniolo, Evoluzione e ruolo del sistema bancario, in V. Zamagni, Dalla periferia al centro, Il Mulino, 1990, cit. p. 201 !17 Italiana), acquistò, imponendo peraltro molto rigide condizioni, l’intero portafogli titoli della BCI per un importo totale di 3.85 miliardi di lire, utilizzando a tal fine un prestito appositamente erogato dall’Istituto di Liquidazione.37 Già durante gli anni venti, in verità, il sistema bancario italiano aveva dato segnali di cedimento, in massima parte sottovalutati nella loro reale portata e ai quali, appunto per la mancata totale comprensione del fenomeno bancario, si tentò di dare soluzioni - che spesso non sortirono gli effetti desiderati - non tanto per la potenziale endemicità della crisi, quanto per il timore di ripercussioni sociali in un periodo di già grande tensione. Si pensi alla corsa agli sportelli dell’agosto 1914, frenata solo da una eccezionale “moratoria bancaria” con la quale il governo limitò il rimborso dei depositi al 5 per cento; alla crisi che coinvolse il gruppo formato dalla Banca Italiano di Sconto e dalla Ansaldo, quest’ultima una delle più grandi imprese metalmeccaniche italiane, che, dopo la firma dell’armistizio di Villa Giusti (3 novembre 1918) stava vivendo una pesante contrazione della domanda; agli sconvolgimenti che interessarono il Banco di Roma nella prima parte degli anni venti38. A tali eventi si reagì emanando, nel 1926, una legge in materia bancaria39 (R.D.L. 7 settembre 1926, n. 1522 cui segue il Regolamento contenuto nel R.D.L. 6 novembre 1925, n. 1830). ! 37 Per approfondimenti sulla breve esperienza della SOFINDIT, società che già nel 1935 non esisteva più, v. G. Bruno, Banca e Industria, l’archivio Sofindit, in Studi Storici, Anno 32, No. 2, Fondazione Istituto Gramsci, 1991, pp. 465-470. ! 38 Per approfondimenti, v. G. Toniolo, La banca d’Italia e l’economia di guerra: 1914-1919; G. Toniolo, La banca d’Italia e il sistema bancario: 1919-1936 in M. De Cecco, G. Toniolo, F. Cotula (a cura di), La banca d’Italia: sintesi della ricerca storica 1893-1960, Laterza, Bari 2003, dove si legge: “In questa fase, dunque, la concessione di credito di ultima istanza a un’azienda industriale non venne motivata dal timore dell’effetto domino sul sistema bancario di un’eventuale crisi della Banca Italiana di Sconto, quanto dalla considerazione delle conseguenze sociali di ulteriore riduzioni dell’occupazione operaia. [...] In un estremo tentativo di salvare sia il gruppo industriale genovese sia la Banca Italiana di Sconto, sollecitando anche il contributo finanziario delle grandi banche. Queste ultime, tuttavia, erano riluttanti ad intervenire per salvare un concorrente, non ravvisando nella situazione un pericolo immediato per l’intero sistema.” cit. pp. 314-315. 39 ! R.D.L. 7 settembre 1926, n. 1522, cui segue il Regolamento contenuto nel R.D.L. 6 novembre 1925, n. 1830 !18 Sospesa a metà strada tra gli obiettivi di stabilizzazione monetaria, risanamento del sistema bancario e tutela del risparmio40, a posteriori i limiti più evidenti della legge in parola vanno senza dubbio rintracciati, da un lato, nel ruolo cruciale demandato all’autorità di governo - in particolare, al Ministro per le Finanze -, dotata di estrema discrezionalità nell’operare scelte di carattere squisitamente tecniche; dall’altro, nella qualificazione del neonato sistema di controllo sull’attività bancaria in senso esclusivamente successivo, nessuna attenzione posta ad un’azione preventiva ex ante. Pur costituendo il primo passo verso una disciplina speciale di settore, la legge bancaria del 1926 non diede vita ad un rinnovamento radicale del sistema bancario, potendosi comunque ritrovare un certa continuità con il precedente assetto. Particolare attenzione fu dedicata alle banche di deposito: le principali disposizioni loro riguardanti furono41: ! a. la previsione di poteri autorizzatori in capo al Ministro per le Finanze in caso di inizio attività, apertura filiali, operazioni di fusione; b. la costituzione di un apposito albo per gli istituti di credito; c. il potere di revocare l’autorizzazione, sempre in capo al Ministro per le Finanze, in caso di violazione della disciplina, cui si aggiungeva uno stringente sistema sanzionatorio; d. un sistema di vigilanza affidato alla Banca d’Italia, con annessi poteri informativi (situazione periodica e bilancio) e ispettivi; la banca centrale ricopriva altresì un ruolo ausiliario e consultivo nei confronti del Ministro per le Finanze; e. un capitale sociale minimo, superiore a quello comunemente previsto per le imprese; ! 40 “Una improrogabile necessità, nell’interesse non solo dei risparmiatori, ma anche in quello generale del credito e dell’economia nazionale”, la definisce A. Scajola nella relazione al progetto di legge modificante il codice di commercio, Milano, Hoepli, 1922, p. 292 41 ! Cfr. più ampiamente, R. Costi, L’ordinamento bancario, Il Mulino, 2007; Galanti, Diritto delle banche e degli intermediari finanziari, Cedam, 2008 !19 f. una riserva obbligatoria, vale a dire l’obbligo di detenere, in varie modalità (investimenti in titoli di Stato o deposito presso la Banca d’Italia), una parte delle loro passività; g. limiti di fido: il divieto di concedere prestiti ad un solo soggetto oltre il 20 per cento del patrimonio della banca ! Come si è detto, gli interventi normativi degli anni venti conservano in sostanza immutate le dinamiche di inizio secolo; di conseguenza il modello di banca mista seppure soggetto a regole più rigide atte prevalentemente a garantire la liquidità dell’istituto e ad impedire un’eccessiva concentrazione del rischio - continua ad essere notevolmente apprezzato. ! ! 1.7 Segue: Gli anni ’30. ! La vera soluzione di continuità si ebbe, come già accennato, sull’onda degli avvenimenti di inizio anni trenta. La Grande Crisi, al di là degli effetti più prettamente economici, segnò anche un’importante tappa nel percorso di evoluzione del pensiero e della cultura economica. Non più efficiente ex definitione, il mercato diventa imperfetto, incapace di far fronte ai propri fallimenti, che sono ormai considerati strutturali e non eventuali; il mercato può generare risultati sub-ottimali. Cambia dunque il ruolo dello Stato nell’economia, cui si domanderà una presenza più pregnante: tanto attiva, con l’esercizio diretto di attività di impresa, quanto in funzione regolatrice e di controllo. Si percepirà come essenziale - quantomeno per le attività considerate le più pericolose - una regolamentazione speciale di tipo pubblico, che tuteli interessi che sono divenuti collettivi: la stabilità, la competitività, l’efficienza del sistema.42 42 ! V. più ampiamente F. Capriglione, Intervento pubblico e ordinamento del credito, Giuffrè, Milano 1978. !20 Si affaccia nel pensiero economico la consapevolezza della particolare fragilità del mercato finanziario e di quello bancario in particolare. Lo svolgimento congiunto dell’attività di raccolta del risparmio e di erogazione del credito non potrebbe essere posta in essere se le banche non avessero la possibilità di utilizzare parte dei depositi ricevuti in altre operazioni, in particolare, appunto, l’esercizio del credito. La liquidità che la banca presenta in un dato momento, di conseguenza, non è uguale alle sue passività ed è valutata in base ad un calcolo statistico circa la quantità di denaro che di norma viene quotidianamente richiesta dai depositanti. Ora, bisogna considerare che il mercato bancario è caratterizzato dalla rilevanza dell’elemento fiducia e dalla centralità del ruolo delle aspettative dei soggetti economici coinvolti. Quest’ultimo, per inciso, coinvolge temi che vanno al di là di quello propriamente bancario: in primis, l’analisi della razionalità degli agenti economici e il correlato ruolo che l’incertezza gioca nelle loro determinazioni. Come nota il premio Nobel Herbert Simon, tuttavia, “trattare l’incertezza formando delle aspettative crea qualche problema”43. In caso di crisi di fiducia da parte dei clienti della banca, dunque, si verifica quello che è comunemente chiamato nei paese anglofoni deposit bank run, una corsa agli sportelli da parte dei depositanti intimoriti dal pericolo di perdere i propri risparmi a causa di una anche solo eventuale situazione di insolvibilità. Verificandosi tale ipotesi, la banca si troverà illiquida.44 Sono questi gli “indesiderati effetti destabilizzanti” derivanti da “una partita dove ! 43 H.A. Simon, La razionalità in economia, in M. Talamona (a cura di), Tendenze e prospettive dell’economia politica, Milano, Cisalpino, 1989, pp. 247. ! 44 In tema di depositi bank run è utile un accenno ai più recenti interventi legislativi con i quali si è cercato di arginare il fenomeno: sovviene, in primo luogo, l’assicurazione sui depositi - che spetta al Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, al quale tutte le banche italiane aventi forma di S.p.A. sono obbligate ad aderire - che garantisce in maniera totale i depositi fino a centomila euro (D.L. n. 49 del 24 marzo 2011). Dunque, l’istituto della riserva frazionaria previsto dall’art. 4 del regolamento 1745/2003, che impone agli intermediari creditizi di detenere una percentuale minima dei depositi ricevuti, in modo da avere in ogni momento una certa liquidità. Anche tali strumenti, purtroppo, si sono rivelati inefficaci, non avendo retto alla prova dei fatti: si pensi ai casi Northern Rock del 2007 e IndyMac Bank del 2008. !21 tutti i giocatori assumono di poter uscire dal gioco proprio nel momento che precede il crollo”45. La gravità di una simile situazione la si intuisce considerando l’ulteriore elemento che differenzia i mercati bancari dagli altri comparti: la pregnante interconnessione dei vari operatori e la conseguente loro dipendenza reciproca (si pensi al meccanismo dei pagamenti e ai ricorrenti prestiti interbancari). Data questa caratterizzazione, una crisi di fiducia, seppure irrazionale, seppure basata su informazioni non rispondenti al vero, può dunque portare al panico bancario (fenomeno che si verifica quando la corsa agli sportelli coinvolge diverse banche) e, generando una crisi sistemica, mettere in pericolo la stabilità delle intere economie nazionali e internazionali. La consapevolezza di questa potenziale caratterizzazione sistemica della crisi finanziaria, prima sconosciuta, costituisce il novus più dirompente del pensiero economico post 1929. Testimoniata dalla Relazione IRI del 1936 dove si legge che “la bufera poteva travolgere l’intero sistema”, costituisce il sostrato culturale che porterà, nel 1933, alla costituzione dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale e alla emanazione della legge bancaria del 1936. ! ! 1.8. Segue: L’Istituto per la ricostruzione industriale. ! Il governo Mussolini intendeva con le creazione dell’I.R.I. rispondere sistematicamente alle continue richieste di aiuto delle grandi banche miste italiane, evitando il loro fallimento e con esso quello dell’intera economia. Preceduto dalle esperienze dell’Istituto delle Liquidazioni e dell’Istituto Mobiliare Italiano, delle quali rappresenta in sostanza una sintesi, l’I.R.I. era in origine strutturato in due sezioni: una dedicata ai finanziamenti, necessaria per sopperire alla sopravvenuta incapacità del sistema bancario di alimentare l’economia e autorizzata ad erogare crediti di durata anche ventennale (si noti che il limite temporale massimo consentito all’I.M.I. era di dieci anni) ed una seconda, la “sezione smobilizzi”. Nelle intenzione 45 ! H. A. Simon, op. cit., p. 248. !22 dei fautori dell’Istituto, l’I.R.I avrebbe infatti dovuto smobilizzare - attraverso un’azione di intermediazione -quelle vere e proprie holding che si erano venute a creare nella precedente stagione, vale a dire acquisire - temporaneamente, appunto le partecipazioni detenute dagli intermediari creditizi nelle grandi industrie per poi dismetterle, cedendole a privati. Agendo in questa ottica, l’IRI nei suoi primi anni di vita acquisì le partecipazione che più mettevano in pericolo la stabilità del sistema economico, in modo tale da creare liquidità nelle banche. Ciò nonostante queste ultime continuavano ad essere oberate dai debiti contratti negli anni precedenti: l’incubo del fallimento era più che verosimile. In tale contesto si optò per un più ampio e pregnante intervento pubblico; si procedette dunque all’acquisizione di pacchetti azionari di controllo nelle banche stesse, con ovviamente annessa la totalità dei suddetti debiti. Le banche entravano nell’orbita pubblica e vedevano in pratica costretto il loro ambito operativo alle operazioni di breve termine, mentre all’IRI era consentito finanziarsi esclusivamente attraverso l’emissione di obbligazioni garantite dallo Stato (non di rado convertibili in azioni) e non mediante la raccolta del risparmio tra il pubblico: si ponevano le basi fattuali della ventura legge bancaria e della scomparsa del modello della banca mista. Nato dunque come ente temporaneo, destinato ad essere smantellato non appena la situazione si sarebbe stabilizzata, gli ottimi risultati che lo contraddistinsero, nonché la mancanza di soggetti imprenditoriali disposti (e finanziariamente in grado) di acquisire le costose partecipazioni, convinsero l’Italia a continuare nell’esperienza dirigistica. Nel 1937 l’IRI fu trasformato in un ente pubblico permanente, che rimarrà in vita per oltre settanta anni46. Contestualmente venne eliminata la sezione smobilizzi, creando così una netta separazione di ruolo tra l’IRI e l’IMI. Con tale imponente operazione lo Stato si ritagliava - forse senza averlo davvero voluto - un nuovo ruolo nell’economia, con l’originario obiettivo di intermediazione sostituito dalla gestione imprenditoriale e permanente delle imprese controllate. 46 ! L’Istituto verrà liquidato solo nel 2002, dietro la spinta delle nuove esigenze dettate dalla partecipazione all’Unione Europea. !23 Sempre nel 1933, il Congresso degli Stati Uniti approvava il Banking Act, con il quale vennero accolte due istanze di riforma in ambito bancario a lungo dibattute. In primo luogo, si introdusse una assicurazione dei depositi, con l’istituzione della Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC); inoltre, con un insieme di disposizioni interne allo stesso atto, passato alla storia come Glass-Steagall Act (dai nomi dei suoi due maggiori promotori), si distinse in maniera netta l’attività bancaria tradizionale, riservata alle commercial banks, da quella di investimento, che poteva invece essere esercitata dalle investment banks, rendendo in questo modo concreto il principio di specializzazione funzionale. ! ! 1.9. La legge bancaria del 1936. ! Il lungo e tormentato percorso verso una stabile - ma sempre controversa regolamentazione esterna di tipo pubblico sull’attività delle banche e la sottrazione delle stesse alla ordinaria disciplina del Codice Civile si concluderà con il regio decreto legge del 12 marzo 1936 n. 375, poi convertito dalla legge del 7 marzo 1938 n. 141 e modificato dalle legge del 7 aprile del 1938 (di seguito, Legge Bancaria), rimasto in vigore fino all’emanazione del Testo Unico Bancario del 1993. Fortemente voluta dall’allora ministro Alberto Beneduce e da Donato Menichella, la l.b. 1936 si fondava essenzialmente su tre elementi dal carattere fortemente vincolante per l’operatività degli enti creditizi: l’introduzione del principio di specializzazione, variamente declinato, dell’attività delle banche; la previsione della necessaria separatezza tra banca a industria; infine, il delineamento di uno stringente sistema di controlli pubblici. Viene così introdotto nel nostro ordinamento il modello di banca pura. I vincoli di specializzazione si innestavano su un nuovo assetto del panorama bancario italiano contraddistinto da un accentuato pluralismo istituzionale: i diversi enti creditizi erano categorizzati in base alla diversità della natura giuridica e delle finalità perseguite (e di conseguenza della disciplina cui erano sottoposte) a seconda !24 della natura della attività posta in essere. All’interno di queste due macro-categorie si rinveniva poi una numerosa ed eterogenea tipologia di enti47, molti dei quali erano caratterizzato dalla natura giuridica di ente pubblico creditizio48. In questo contesto, la specializzazione era intesa in primo luogo come temporale, non potendo la medesima banca esercitare congiuntamente attività di breve e mediolungo termine. Si introduceva, dunque, la distinzione tra aziende di credito (autorizzate ad operare esclusivamente su scadenze inferiori ai diciotto mese) e istituti di credito speciale (le quali, invece, operano solo su scadenze superiori al detto termine). Accanto a questo vincolo, finalizzato a minimizzare il rischio insito nel fenomeno della trasformazione delle scadenze, si prevedeva la specializzazione c.d. settoriale, ossia per destinazione del credito: credito fondiario, credito industriale, credito agrario, credito edilizio, credito per le imprese di pubblica utilità. Ultima, la specializzazione di tipo territoriale, che portò alla nascita di banche operative anche solo a livello comunale o provinciale, implementata attraverso il conferimento alle autorità creditizie di ampi poteri discrezionali nel rilascio delle autorizzazioni per l’apertura di nuovi sportelli. Secondo cardine della legge bancaria è la previsione della separatezza tra banca e industria, delle cui ragioni si è già accennato. Bisogna però aggiungere che il profilo maggiormente interessato dalla riforma fu quello delle partecipazioni bancarie nel capitale industriale e non quello inverso concernente gli assetti proprietari della ! 47 Cfr. V. Troiano, Gli intermediari finanziari, in F. Capriglione (a cura di), L’ordinamento finanziario italiano, op. cit., pp, 505-509 ! 48 La categoria dell’ente pubblico imprenditore è stata ampiamente dibattuta. L’analisi condotta in dottrina ha evidenziato l’inesistenza di elementi unificatori grazie ai quali poter condurre ad unità i soggetti tradizionalmente ricondotti ai tale categoria se non, come evidenzia Troiano, quello della “conservazione alla mano pubblica del potere di controllo sull’attività bancaria, [...], nel presupposto che l’esistenza di banche non private favorisse il pluralismo e la stabilità del sistema”. Cfr. inoltre V. Mezzacapo, Enti pubblici dell’ordinamento creditizio, Centro Italiano di Ricerche e d'Informazione sull'Economia delle Imprese Pubbliche e di Pubblico Interesse, Milano 1966. !25 banche49 . Furono dunque previsti stringenti limiti all’acquisizione di pacchetti azionari industriali aventi carattere stabile, acquisizioni peraltro sottoposte alla vigilanza della Banca d’Italia. E’ da sottolineare, infine, come il carattere stabile delle partecipazioni sottoposte a vigilanza sottraesse da questo ambito quelle detenute (per un lasso di tempo comunque non superiore a cinque anni ) a fini speculativi dalle merchant banks. In ultimo, il legislatore del 1936 perfezionò il sistema di vigilanza di tipo strutturale già inaugurato - con scarsi risultati - dalla legge bancaria del 1926. Venne istituito un unico organismo pubblico deputato alla “difesa del risparmio e alla disciplina della funzione creditizia”, precursore dell’odierno Comitato Interministeriale del Credito e del Risparmio (CICR). Tale era il Comitato dei Ministri, composto dal Presidente del Consiglio dei Ministri - che lo presiedeva -, dal Ministro della Finanza, dal Ministro dell’Agricoltura e dal Ministro dell’Economia Nazionale. La composizione prettamente politica di quest’organismo, con compiti sostanzialmente di indirizzo generale, sanciva in via definitiva il carattere pubblico della funzione assolta degli enti creditizi. Dipendente dal Comitato dei Ministri era l’Ispettorato per la Difesa del Risparmio e l’Esercizio del Credito, presieduto invece dal Governatore della Banca d’Italia; quest’organo si poneva come una sorta di diaframma tra potere politico e mercato, essendo competente, da un lato, all’implementazione delle linee guida dettate dal Comitato e, dall’altro, alla vigilanza sul rispetto delle stesse. Dal punto di vista sostanziale, il mercato creditizio diventava chiuso, per effetto della previsione di vincoli tanto all’entrata quanto all’uscita dallo stesso. In particolare, all’Ispettorato era demandata la concessione delle autorizzazioni necessarie, in primo luogo, per operare nel mercato creditizio, nonché sui principali atti di gestione posti in essere dagli operatori economici; autorizzazioni elargite sulla base di valutazioni discrezionali, orientate a saggiare l’idoneità del fatto autorizzando a soddisfare ! 49 Ciò probabilmente perché, come nota D. Lucarini in La separatezza tra banca e industria, il punto di vista di un giurista, in Analisi Giuridica dell’economia, I, 2004, pp. 63-64, “[…] la situazione economica e finanziaria dell’epoca rendeva improponibili eventuali tentativi di scalata della banche, pericolo scongiurato anche da un sistema bancario fortemente amministrato e caratterizzato dalla natura pubblica di gran parte degli enti creditizi e dalla proprietà pubblica delle più grandi banche private” !26 interessi nazionali, con poca o nessuna rilevanza attribuita alle ragioni di mercato. Erano infine previste particolari procedure di gestione della crisi bancaria, anch’esse derogatorie rispetto alla disciplina codicistica. La estrema limitazione dell’operatività delle banche non consentiva lo sviluppo dei presupposti stessi di forme di mercato competitive: il sistema dunque risentiva di profondi deficit - in primis attinenti alle ridotte possibilità di incrementare il livello di patrimonializzazione - rispetto agli altri mercati creditizi europei e mondiali. A dispetto di questa situazione, la legge bancaria del 1936 è rimasta in vigore - con modifiche soltanto marginali, seppure indicative di un lento percorso di cambiamento50 - fino al 1993, anno in cui entra in vigore il Testo Unico Bancario. La questione mercato non era percepita come tale, attenuata com’era dalla circostanza che la quasi totalità delle più grandi banche era di proprietà pubblica. ! ! 1.10. Evoluzione della disciplina comunitaria in materia bancaria. ! Il primo intervento europeo in ambito bancario risale al 1973, anno in cui viene emanata le direttiva n. 73/183/CEE del 28 giugno 1973, avente ad oggetto la “soppressione delle restrizioni alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi nel campo delle attività non salariate delle banche e di altri istituti finanziari”. La direttiva del 1973, introducendo nell’ordinamento comunitario l’istituto della “libertà di stabilimento”, eliminava dal panorama normativo degli stati membri quelle pratiche miranti ad impedire l’offerta di servizi da parte di un ente creditizio straniero (comunitario), ovvero a imporre allo stesso condizioni diverse e più onerose. ! 50 Sono da menzionare: il d.l.C.p.S. del 17 luglio 1947, n. 691, con il quale si modifica l’assetto istituzionale del settore bancario (viene istituito Il C.I.C.R. a sostituzione del Comitato dei Ministri mentre le competenze dell’Ispettorato vengono devolute alla Banca d’Italia); il d.P.R. 30 marzo 1968, n. 62, che va ad incidere sui rapporti tra CICR e CIPE (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica); la miniriforma societaria del 1974; la l. 10 febbraio 1981, n. 23, che tendenzialmente elimina le residue aree di disciplina speciale nel settore. Per approfondimenti sulla evoluzione della disciplina successiva al secondo dopoguerra, cfr. F. Capriglione, Evoluzione della disciplina di settore, in F Capriglione (a cura di), L’ordinamento finanziario italiano, op. cit., pp. 81-88. !27 La direttiva n. 73/183/CEE è unanimemente riconosciuta quale premessa della successiva direttiva 77/780/CEE del 12 dicembre 197751, denominata Prima direttiva bancaria, concernente il “coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative nel campo bancario”. Per la prima volta a livello comunitario si precisava cosa dovesse intendersi per banca (cioè, l’ente che raccoglie depositi presso il pubblico e eroga credito); inoltre, con delle disposizioni che avrebbero rivoluzionato la filosofia e la disciplina bancaria italiana, si ponevano alcuni principi fondamentali in tema di costituzione degli enti creditizi (per la quale era necessaria una semplice autorizzazione da parte dell’organo di vigilanza, che peraltro non tenesse conto delle esigenze economiche del mercato ma si fondasse esclusivamente su criteri oggettivi relativi al possesso dei requisiti patrimoniali, organizzativi ed operativi52) e di autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria (la quale era espressamente riconosciuta quale attività di impresa). A distanza di pochi anni venivano poi adottate la dir. 83/350/CEE (in materia di vigilanza su base consolidata degli enti creditizi legati da rapporti di partecipazione53), la dir. 86/635/CEE (in materia di conti annuali e conti consolidati delle banche e degli altri intermediari finanziari) e la dir. 87/102/CEE (in materia di credito al consumo). Si noti che questi ulteriori interventi legislativi non andavano a modificare la disciplina contenuta nella prima direttiva ma in essa si inserivano, così creando un primo, embrionale, corpus normativo europeo in materia bancaria. Parallelamente, la Commissione, adottando la racc. 87/62/CEE e la racc. 87/763/ CEE, invitava i paesi membri a conformarsi ad alcune regole comuni - ovviamente ! 51 In Italia la direttiva in parola è stata attuata dal D.P.R. 27 giugno 1985, n. 350 ! 52 Si noti che la dir. 780/77 conservava in capo all’Autorità di vigilanza il potere autorizzatorio di tipo discrezionale in relazione all’apertura di nuove filiali; si dovrà aspetta la seconda direttiva bancaria perché anche quest’ultimo retaggio della precedente disciplina sia abrogato. Per approfondimenti si veda L. Desiderio, Le norme di recepimento della direttiva comunitaria n. 780/77 in materia creditizia, in Quaderni di ricerca giuridica della Consulenza Legale della Banca d’Italia, n. 6, Roma, 1986; F. Patroni Griffi, Accesso all’attività bancaria, in Banca borse e titoli di credito, 1990, I, p. 457 ss. ! 53 Con la dir. 83/350/CEE si introdusse il principio dell’home country control, in base al quale il controllo di una banca operante in paesi membri spetta esclusivamente all’autorità di vigilanza del paese in cui ha sede legale e amministrazione centrale. !28 non vincolanti - rispettivamente in tema di vigilanza e controllo dei grandi fidi degli enti creditizi e di sistemi di garanzia dei depositi. A partire dagli anni ottanta, dunque, si inizia a percepire l’esigenza di un radicale aggiornamento del sistema bancario italiano. In primo luogo perché si fa largo la consapevolezza che il modello di banca fino ad allora adottato fosse inefficace nel preservare la stabilità del sistema; come notano Montanaro e Bertelli: “si riconosce che i costi della specializzazione funzionale siano [...] largamente superiori ai pretesi vantaggi in termini di stabilità e di efficienza del sistema finanziario”. Inoltre, la sempre maggiore pregnanza degli obiettivi perseguiti nell’ambito della integrazione europea evidenzia ulteriori limiti intrinseci della l.b. 1936, che rende impossibile il percorso verso l’unità economica europea. Particolare considerazione merita il principio della libera circolazione dei capitali, introdotto dagli articoli 67 e 73 del trattato istitutivo della Comunità Economica Europea (che consentiva i trasferimenti di capitali tra gli stati membri “nella misura necessaria al buon funzionamento del mercato comune”) e successivamente reso principio assoluto dal Trattato di Maastricht del 1992. Divenne a questo punto prioritario aprire il mercato dei capitali ai partner europei, intraprendendo processi di liberalizzazione, privatizzazione e internazionalizzazione atti a stimolare la concorrenza interna all’area europea e con essa la competitività negli scenari internazionali, preparando in questo modo la strada per l’adozione di modelli organizzati nuovi, adatti alla nuova realtà fattuale, capaci di massimizzare l’efficienza degli intermediari. Nel 1985 il Consiglio Europeo adottava il Libro Bianco per il completamento del mercato interno, peraltro abbandonando - ma solo in via temporanea - la strada dell’armonizzazione massima. Sulla scia degli obiettivi posti in questa sede54, si ! 54 La rilevanza riconosciuta al settore finanziario dal Consiglio Europeo nella stesura del Libro Bianco è evidenziata nel par. 125 dello stesso, nel quale si legge che la creazione di un mercato unico europeo “comportava, inevitabilmente una dimensione finanziaria. La libera circolazione delle merci, dei servizi e delle persone deve significare anche che le imprese e i privati cittadini devono avere accesso a servizi finanziari efficienti nell’intera Comunità. L’efficacia dell’armonizzazione delle disposizioni nazionali che disciplinano le attività degli intermediari e dei mercati finanziari si troverebbe gravemente ridotta se movimenti di capitali corrispondenti dovessero restare soggetti a restrizioni” !29 procedeva all’adozione della direttiva 89/646/CEE del 15 dicembre 198955 , concernente “il coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative riguardanti l’accesso all’attività degli enti creditizi e il suo esercizio”, che andava così a modificare la previgente dir. 77/780/CEE. Denominata comunemente Seconda direttiva bancaria, è considerata della dottrina maggioritaria il riferimento principale di cui il legislatore si dotò nello stilare il venturo TUB. La “filosofia” fondante quest’intervento normativo va ricercata nella previsione di alcune regole di armonizzazione minima; la direttiva, cioè, stabiliva dei livelli minimi di regolamentazione, per poi lasciare la possibilità ai singoli stati di provvedere in maniera più stringente.56 La 89/646/CEE ha costituito per lungo tempo il quadro di riferimento per la successiva adozione di numerosi altri interventi (tra i quali vanno ricordati la dir. 89/299/CEE, concernente il patrimonio di vigilanza delle banche; la dir. 89/647/CEE, in materia di coefficiente di solvibilità; la dir. 92/30/ CEE, che sostituisce la dir. 83/350/CEE in materia di controllo dei gruppi creditizi e la dir. 92/121/CEE in materia di grandi fidi). Si dovette aspettare più di un decennio per un ulteriore intervento europeo in ambito bancario. Con la direttiva 2000/12/CEE sull’accesso all’attività degli enti creditizi e suo esercizio, entrata di vigore 15 giugno 2000, il legislatore andò ad abrogare la ! Attuata 55 in Italia dal D.lgs. 14 dicembre 1992, n. 481 ! 56 Per approfondimenti v. F. Patroni Griffi, Riflessioni sulla seconda direttiva comunitaria, in Banca impresa società, 1991, p. 419, nel quale l’autore definisce la direttiva “la pietra angolare di tutto l’edificio comunitario”. !30 maggior parte della succitata disciplina previgente57, inaugurando una stagione di disciplina organica ed unitaria dell’intero settore ispirata a criteri di “razionalità e chiarezza”. Non a caso, infatti, tale direttiva è stata da sempre definita come il primo banking code europeo: “il contenuto di tale importante direttiva, per la sua ampiezza, potrebbe meritare l’appellativo di prima, ancorché incompleta, legge bancaria europea”58. Come confermato dai successivi interventi, l’intenzione è, quindi, quella di dare vita ad un diritto bancario europeo, quest’ultimo inteso come strumento (flessibile) funzionale alla creazione mercato unico e alla tutela dei consumatori. ! ! 1.11. La privatizzazione del sistema bancario italiano. La legge Amato-Carli. ! La legge del 30 luglio 1990 n. 218 (c.d. legge Amato-Carli) contenente le “disposizioni in materia di ristrutturazione e integrazione patrimoniale degli istituti di credito di diritto pubblico” e il relativo decreto legislativo di attuazione del 20 novembre 1990 n. 356 segnano senza dubbio un punto di svolta nell’evoluzione del mercato bancario nazionale, avviando - pur con molte incertezze - il processo di trasformazione delle banche pubbliche in società per azioni e di dismissione delle partecipazioni statali. E’ da sottolineare in via preliminare che la soluzione legislativa ! 57 Si veda il primo considerando della direttiva, nel quale è stabilito che “La direttiva 73/183/ CEE del Consiglio, del 28 giugno 1973, relativa alla soppressione delle restrizioni alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi nel campo delle attività non salariate delle banche e di altri istituti finanziari, la prima direttiva (77/780/CEE) del Consiglio, del 12 dicembre 1977, relativa al coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative riguardanti l'accesso all'attività degli enti creditizi e il suo esercizio, la direttiva 89/299/CEE del Consiglio, del 17 aprile 1989, concernente i fondi propri degli enti creditizi, la seconda direttiva (89/646/CEE) del Consiglio, del 15 dicembre 1989, relativa al coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative riguardanti l'accesso all'attività degli enti creditizi e il suo esercizio, la direttiva 89/647/CEE del Consiglio, del 18 dicembre 1989, relativa al coefficiente di solvibilità degli enti creditizi, la direttiva 92/30/CEE del Consiglio, del 6 aprile 1992, relativa alla vigilanza su base consolidata degli enti creditizi, la direttiva 92/121/CEE del Consiglio, del 21 dicembre 1992, sulla vigilanza ed il controllo dei grandi fidi degli enti creditizi, hanno subito diverse e sostanziali modifiche. Ai fini di razionalità e chiarezza, occorre pertanto procedere alla codificazione di dette direttive raggruppandole in un testo unico. 58 ! F. Giorgianni, C.M. Tardivo, Manuale di diritto bancario, Giuffrè, 2005, p. 31. !31 in parola - a differenza di quanto previsto, quasi in via riparatoria, successivamente non interviene in via diretta sulla tipologia soggettiva degli enti creditizi, imponendo coattivamente la trasformazione degli stessi in società per azioni; ciò che è previsto dalla legge Amato-Carli è invece un sistema di incentivi di tipo fiscale, inquadrato in un più ampio progetto di moral suasion, preordinato a spronare il mutamento soggettivo degli istituti di diritto pubblico e delle casse di risparmio. In questo modo resta ferma la discrezionalità dei destinatari della legge nell’operare la scelta circa la trasformazione in società per azioni e le sue modalità, subordinata però alla previa autorizzazione della Banca d’Italia e del Ministero del Tesoro (che doveva tenere in conto, tra l’altro, delle “esigenze di razionalizzazione del sistema creditizio”). Strumento essenziale per la omogeneizzazione soggettiva cui si mirava furono le fondazioni di origine bancaria, allora concepite come enti pubblici operanti con piena capacità di diritto privato e pubblico e aventi funzione di enti conferenti che, successivamente alla scorporo dell’ente creditizio pubblico, sarebbero rimaste proprietarie del pacchetto azionario di controllo della banca stessa, così affiancandosi - ma non confondendosi - al soggetto creditizio attributario di funzioni bancarie. Coerente con questo disegno era la previsione secondo la quale lo scopo esclusivo delle fondazioni in parola era il perseguimento di fini di interesse pubblico e di utilità sociale individuati dallo statuto e non la gestione degli enti creditizi di cui era pure proprietaria. In questo modo il legislatore tentava di separare le due finalità prima perseguite da un unico soggetto. La legge Amato-Carli riscosse notevole successo, senza però essere in grado di portare a termine l’ampio disegno di ristrutturazione del settore bancario che si prefiggeva59. Anzi, in molti asseriscono che in verità la normativa in parola non si ponesse affatto quest’obiettivo, denunziando invece una certa riluttanza del pubblico 59 ! Nel 1992 lo Stato deteneva ancora, in via diretta o indiretta, il 75% del valore complessivo del sistema bancario italiano. !32 a dismettere le proprie partecipazioni nel settore immettendole nel mercato.60 A tal riguardo basti ricordare l’art. 19 del decreto legislativo 356/90, il quale prevede al comma 1 che “nelle società bancarie risultanti dalle operazioni di cui all'art. 1, la maggioranza delle azioni con diritto di voto nell'assemblea ordinaria deve appartenere a enti pubblici o a società finanziarie o bancarie nelle quali la maggioranza delle azioni con diritto di voto nell'assemblea ordinaria appartenga ad uno o più enti pubblici” e al comma 4 che “non può essere esercitato il diritto di voto relativo alle azioni acquisite in violazione di quanto previsto dal presente articolo”. Si trattava evidentemente di un compromesso con effetti soltanto formali, tuttavia necessario per evitare drastiche soluzioni di continuità che avrebbero messo in pericolo la stabilità del sistema creditizio tutto. ! ! 1.12 Segue. Le leggi 474/92 e 461/98. ! L’incertezza sugli intenti sostanziali della riforma del 1990, cui si aggiungeva il sempre maggiore pericolo di ingerenze del potere politico nella gestione delle banche61, furono le ragioni della l. 30 luglio 1994 n. 474 recante “norme per l’accelerazione delle procedura di dismissioni dello Stato e degli enti pubblici in società per azioni” e della connessa direttiva del 18 novembre dell’allora Ministro del Tesoro Dini. Gli elementi più rilevanti di questa normativa furono senz’altro ! 60 Si veda tra tutti F. Trivieri, Proprietà e controllo delle banche italiane, Rubbettino Editore, 2005, il quale scrive, a p. 55: “Le disposizioni della legge Amato-Carli [...] non mettevano in discussione né l’esistenza né la natura giuridica dell’ente conferente, giacché lo stesso si sarebbe trasformato da ente pubblico economico a ente pubblico tout court. [...] Era fatto salvo il principio della permanenza del controllo pubblico nel settore bancario. In sintesi, le disposizioni della 218/90 proponevano un mero processo di cambiamento giuridico-formale degli enti pubblici creditizi. Per questa ragione [...] sarebbe più appropriato parlare di liberalizzazione della proprietà e del controllo delle banche, piuttosto che di privatizzazione ovvero - come più volte è stato scritto - di privatizzazione fredda”. ! 61 Il rapporto tra potere politico e fondazioni bancarie è stato in passato oggetto di numerosi dibattiti, soprattutto dopo l’entrata in vigore della l. 28 dicembre 2001 n. 448 (c.d. legge Tremonti) che, rendendo più stretto il rapporto tra le fondazioni e il territorio di appartenenza, fa sì che il potere di intervento dei poteri statali e non nella vita della banca si più invasivo. Da ultimo, la questione è stata al centro dell’attenzione in seguito alla crisi di Monte dei Paschi di Siena del 2013. !33 l’abrogazione del citato articolo 19 della 356/90, cui si affiancava un “invito” a ridurre progressivamente le partecipazione nelle banche conferitarie; la contestuale previsione dell’obbligo delle fondazioni di diversificare, entro cinque anni, il rischio di investimento del proprio patrimonio. Il legislatore del ’94 si proponeva evidentemente di incentivare le cessione delle partecipazioni di maggioranza detenute dalle fondazioni nella banche conferitarie, senza peraltro essere capace di completare il percorso prevedendo l’obbligatorietà della stessa. Seppure integrata e, sotto diversi profili, migliorata, la disciplina non riuscì comunque a sortire gli effetti che si proponeva, probabilmente per l’ambiguità della figura stessa di fondazione bancaria. In questo contesto, viene approvata la legge di delega 23 dicembre 1998, n. 461 (comunemente detta legge Ciampi) e il successivo decreto legislativo 17 maggio 1999 n. 153. Si procede ad una nuova configurazione delle fondazioni bancarie, che divengono persone giuridiche di diritto privato senza fine di lucro, dotate di piena autonomia statutaria e gestionale; permane la previsione del perseguimento esclusivo di scopi di utilità sociale, cui si affianca la promozione dello sviluppo economico (art. 2); gli scopi statutari sono perseguiti utilizzando il patrimonio della fondazione, che risulta essere interamente vincolato a tali attività e deve essere amministrato osservando criteri prudenziali di rischio in modo da conservarne il valore ed ottenerne una redditività adeguata (art. 5); viene definito l’assetto della vigilanza, che ha come scopo il controllo sul rispetto della legge e dello statuto, la sana e prudente gestione, la redditività dei patrimoni e l’effettiva tutela degli interessi contemplati negli statuti (art. 10); inoltre le fondazioni: non possono esercitare direttamente attività imprenditoriali, con la sola eccezione di quelle strumentali ai fini statutari ed esclusivamente nei settori rilevanti (analiticamente elencati nello stesso decreto) (art. 3, I); non possono svolgere funzioni creditizie o erogare finanziamenti diretti o indiretti, eccezion fatta, anche in questo caso, per le imprese strumentali (art. 3, II); non possono detenere partecipazioni di controllo nella società bancaria conferitaria o in enti o società diverse dalle imprese strumentali, eccezion fatta per le !34 partecipazioni mantenute o acquisite al solo fine (imposto dalla legge) di diversificare o ottimizzare il patrimonio (artt. 6 e 7). Ne risultava, sotto il profilo degli assetti proprietari, uno scenario radicalmente mutato rispetto a quello previgente: all’obbligo di detenere un pacchetto azionario di controllo nella banca conferitaria, stabilito dall’art. 19 del d.lgs. 356/90, si sostituiva un obbligo dal contenuto uguale e contrario, quello di dismettere il controllo; in questo modo il legislatore smentiva la passata caratterizzazione facoltativa della trasformazione delle banche pubbliche in società per azioni, che così diveniva coatta62 e il processo di privatizzazione di queste poteva ora essere ragionevolmente definito sostanziale e non solo formale63. Nel 2013, però, le fondazione di origine bancaria sono ancora le principali azioniste del sistema bancario nazionale64 , nonostante la normativa in vigore, che, come visto, dispone in senso contrario. Seppure il peso delle partecipazioni pubbliche sia andato progressivamente diminuendo - fino a diventare quasi nullo65 - non è, a questo punto, scorretto asserire che le fondazioni si sono sostituite allo Stato nella partecipazione alla compagine azionaria delle maggiore banchi nazionali. Una interessante chiave di lettura di questa evoluzione della disciplina è da ritrovare nel principio di sussidiarietà orizzontale contenuto nell’art. 118 della Carta Costituzionale. In merito ai rapporti tra pubblico e privato nell’ambito della dinamica di mercato, è infatti prescritto che gli interessi collettivi siano soddisfatti in prima battuta dal privato (che può provvedervi tanto come singolo quanto in forma ! 62 A tal fine l’art. 13 prevedeva un regime di agevolazione fiscale - temporalmente limitato per le plusvalenze effettuate nella dismissione, secondo il quale le stesse non sarebbero concorse nella formazione né del reddito né della base imponibile. ! 63 Nel 1999 la maggiore parte delle partecipazioni statali nel sistema bancario domestico erano già state dismesse. ! 64 Nel 2012, la partecipazione della fondazioni nelle banche conferitarie rasenta il 40 %; dato ancora più preoccupante è che il trend denota un aumento dell’incidenza nella compagine azionario rispetto al periodo pre-crisi. Sul punto v. www.lavoce.info/le-fondazioni-e-i-rischidi-un-legame-mai-spezzato. ! 65 Nel 1992 il peso delle partecipazioni pubbliche era pari al 75 per cento del totale delle attività del sistema bancario nazionale; nel 2000, questo risultava essere dello 0,2 per cento. Cfr. U. Inzerillo, M. Messori, Le privatizzazioni bancarie in Italia, S. de Nardis (a cura di), Le privatizzazioni italiane, Il Mulino, Bologna 2000 !35 associata); soltanto in seconda battuta e in via, appunto, sussidiaria - quando il privato è incapace di soddisfare i suddetti interessi in via autonoma - il pubblico può (e deve) intervenire. Ma nel momento in cui lo Stato, le regioni, le provincie, i comuni, partecipano alla dialettica di mercato, questi saranno tenuti a rispettare - fatti salvi ulteriori e preminenti obblighi di rango costituzionale - le medesime regole che disciplinano l’azione dei privati, senza poter vantare privilegio alcuno.66 ! ! 1.13. Evoluzione della disciplina degli assetti proprietari bancari. ! Sul versante degli assetti proprietari della banche, un impulso importante ad una innovazione della disciplina fu dato dalla deliberazione del CICR del 20 marzo 1987, nella quale lo stesso “considerato che la separatezza fra banche e imprese non bancarie costituisce uno dei criteri ispiratori dell’ordinamento bancario”, impartisce alla Banca d’Italia la direttiva di “tenere conto, nell’esercizio dei criteri di autorizzazione alla costituzione di nuove società, dell’esigenza di prevenire posizioni dominanti nel capitale degli enti creditizi in forma di società per azioni o a responsabilità limitata quando le iniziative di costituzione provengano da soggetti che direttamente o indirettamente abbiano interessi imprenditoriali in settori non finanziari”. La Banca d’Italia, in attuazione di queste direttive, stabilisce nelle istruzioni del 5 febbraio 1988 che si ha una posizione dominante quando l’industria detiene una partecipazione nella banca superiore al 15 per cento; di conseguenza, alle imprese non finanziarie è consentito detenere una partecipazione in una banca che sia inferiore a tale soglia, ritenendosi entro tale limite non sussistere la posizione dominante cui faceva riferimento la deliberazione del CICR. I limiti di una tale disciplina sono evidenti. In primo luogo, essa si riferisce esclusivamente alla fase costitutiva-autorizzativa della banca, tralasciando l’eventualità di una scalata eventualità concreta ed anzi più probabile, a differenza di quanto accadeva negli anni ’30 - ad una banca da parte di un soggetto industriale, autonomamente o in concerto 66 ! Sul punto v. G. Oppo, Trattato di diritto commerciale. Princìpi, Giappichelli, 2001, p. 49 !36 con altri. In secondo luogo, si tratta di normazione secondaria, e dunque avente l’efficacia tipica della disciplina amministrativa67; per giunta, in molti, alla luce del dettato dell’articolo 41 Cost., che contiene una riserva di legge per la previsione di limiti alla libertà di iniziativa economica, dubitavano della legittimità costituzionale di un simile provvedimento. In verità, delle disposizioni di rango primario in materia esistevano. Gli articoli 9 e 10 della legge 4 giugno 1985, n. 281 già prevedevano un obbligo di comunicazione alla Banca d’Italia e alla società partecipata di partecipazioni superiori al 2 per cento68. Inoltre, era previsto che tali soggetti - in virtù delle disposizioni contenute nel d.P.R. 350/1985, attuativo della prima direttiva in materia bancaria - dovevano essere in possesso dei requisiti di onorabilità dalla stessa previsti. Ancora prima, l’articolo 5 della legge 216 del 1974 istituiva della Commissione nazionale per le società e la borsa, prevedeva in capo al socio di una società bancaria quotata specifici obblighi di comunicazione alla Banca d’Italia e alla Consob. Ciononostante, la normativa risultava insufficiente a regolare il fenomeno dei rapporti banca-industria, essendo tesa ad assicurare al settore finanziario un alto grado di trasparenza elemento sì fondamentale, ma non sufficiente - e non a disciplinare la questione in maniera “sostanziale”. Come nota Albano, infatti: “Il complessivo assetto normativo […] prescindeva dalla natura degli azionisti e non poneva alcun limite al possesso di partecipazioni bancarie a soggetti industriali: rimaneva dunque irrisolto il problema della sempre più accentuata apertura del capitale delle banche ai privati che si andava ! 67 Si veda sul punto F. Belli, Note a margine della nuova normativa di vigilanza sula rapporto banca-industria, in Diritto Bancario, 1988, il quale scrive a p. 483: “il testo della delibera sul punto è profondamente involuto e sul filo dell’eufemismo […] riuscendo a non menzionare il diniego dell’autorizzazione”. ! 68 La stessa l. 281/85 prevedeva, accanto all’obbligo di comunicazione, anche delle sanzioni conseguenti al mancato rispetto dello stesso (la sospensione del diritto di voto associato alla partecipazione oggetto di comunicazione e la successiva impugnabilità della delibera adottata con il voto determinante della stessa). Inoltre, erano conferiti all’organo di vigilanza ampi poteri informativi (si prevedeva all’art. 10 che “la Banca d'Italia può richiedere alle società esercenti attività bancaria e alle società ed enti di qualsiasi natura, che vi partecipano direttamente o attraverso società controllate o fiduciarie ovvero attraverso soggetti comunque interposti, l'indicazione nominativa dei soci secondo le risultanze del libro dei soci, delle comunicazioni ricevute, di altri dati a loro disposizione. Può altresì richiedere agli amministratori una dichiarazione sulle società ed enti controllanti ai sensi dell'articolo 2359 del codice civile”) !37 via vai delineando, anche per effetto della progressiva trasformazione delle banche pubbliche in società per azioni”69. Le istanze di innovazione della legislazione in materia finanziaria saranno accolte a partire dalla prima metà degli anni ’90, attraverso l’emanazione di alcuni interventi legislativi di notevole portata. Si tratta, in primo luogo, della 10 ottobre 1990 n. 287 recante “norme a tutela della concorrenza e del mercato” (c.d. legge antitrust); dunque, la l. 2 gennaio 1991, n. 1 contenente la “disciplina dell’attività di intermediazione mobiliare e disposizioni sull’organizzazione dei mercati mobiliari” e, infine, il D.lgs 481/1992, attuativo della dir. 646/89/CEE. Il tema delle partecipazioni “a monte” è oggetto del Titolo V della legge antitrust, rubricato “norme in materia di partecipazione al capitale di enti creditizi”, che - in una sede non singolare, quella della disciplina della concorrenza - disegnava uno stringente sistema di autorizzazioni al compimento di tali operazioni. L’articolo 27, comma 1, prevedeva infatti che l’acquisizione di partecipazioni in un ente creditizio, effettuata tanto direttamente quanto per il tramite di società fiduciarie, società controllate o per interposta persona, dovesse essere autorizzata dalla Banca d’Italia quando comportasse il superamento della soglia del 5 per cento del capitale ovvero quando, indipendentemente da tale limite, comportasse il controllo dell’ente creditizio. Inoltre, erano soggette ad autorizzazione anche le successive variazioni che comportassero un aumento o una diminuzione della partecipazione superiore al 2 per cento del capitale dell’ente creditizio (art. 27, co. 4). Il comma 3 dello stesso articolo, poi, prevedeva un obbligo di comunicazione preventiva per le operazioni che comportavano “tenuto conto anche delle azioni o quote già possedute, una partecipazione non superiore al cinque per cento ma superiore all'uno per cento del capitale nonché le operazioni di cessione di azioni o quote già possedute che comportano una diminuzione della partecipazione superiore all'uno per cento”. Sulla scia delle direttive del CICR del 1985 e delle Istruzioni della Banca d’Italia, infine, il comma 4 prescriveva che “I soggetti diversi dagli enti creditizi e dagli enti o società ! 69 M. Albano, Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, in F. Maimeri, Il coordinamento della riforma del diritto societario con i testi unici della banca e della finanza, Giuffrè, 2006, p. 74. !38 finanziari, nonché le società o enti finanziari che controllano tali soggetti o ne sono controllati, non possono essere autorizzati ad acquisire o sottoscrivere, direttamente o per il tramite di società controllate o fiduciarie o per interposta persona, azioni o quote di un ente creditizio che comportino, unitamente a quelle già possedute, una partecipazione superiore al quindici per cento del capitale dello stesso o l'assunzione del controllo su di esso”. Il legislatore del ’90, costringendo in angusti limiti la possibilità di acquisizione di partecipazioni, formalizzava una regola - quella della tendenziale70 separatezza “a monte” tra banca e industria - che la legge bancaria del ’36 aveva tralasciato di codificare. A distanza di soli due anni, il sistema normativo così delineato sarà modificato nell’ambito del recepimento della direttiva 646/89/CEE. L’art. 11 della seconda direttiva in materia bancaria prevedeva, infatti, un duplice obbligo di comunicazione preventiva per le persone fisiche e giuridiche che intendano detenere, direttamente o indirettamente, una partecipazione qualificata in un ente creditizio ovvero modificare l’ammontare della stessa in modo che la quota dei diritti di voto o del capitale raggiunga o superi i limiti del 20, 33 o 50 per cento o ne determini il controllo. Una volta comunicata l’intenzione di procedere a tali operazioni, alle Autorità era data la facoltà di opporsi, entro tre mesi al progetto se “per tener conto della necessità di garantire una gestione sana e prudente dell'ente creditizio, non sono soddisfatte della qualità delle persone di cui al primo comma”. A differenza di quella nazionale, dunque, la disciplina comunitaria non faceva riferimento alcuno alla specifica questione del rapporto banca-industria, essendo la valutazione della qualità (c.d. ! 70 Tendenziale perché, come si legge in F. Belli, V. Santoro, Il titolo quinto della legge antitrust: “Norme in materia di partecipazione al capitale di entri creditizi”, in Dir. Banc., 1992, vol. I, p. 288 (a sua volta citato da Albano, op. cit., p. 77): “la separatezza fra industria e banca […] non rappresenta un princpio assoluto volto a prevenire una situazione in sé comunque non accettabile, quanto piuttosto indica una linea di condotta prudenziale ed entro certi margini elastica e manovrabile, tesa ad evitare pericolose commistioni […]. Tant’è vero che è ben possibile immaginare la la costituzione di un ente creditizio ad iniziativa esclusivamente industriale, a patto che le singole partecipazioni restino al di sotto della soglia autorizzabile ed i soggetti partecipanti non si raggruppino in sindacati”. !39 suitability) dei soggetti coinvolti nell’operazione svincolata dalla circostanza che questi compiessero o no attività industriale71. In conformità a quanto previsto dalla legge 19 febbraio 1992, n. 142, il d.lgs. 481/92 attua nel nostro ordinamento la seconda direttiva in materia bancaria. In tema di partecipazioni al capitale degli enti creditizi, rilevano in particolare gli articoli 16-18, che modificano gli articoli 27-28 della legge 287/90. Tali interventi sono da considerarsi come propedeutici all’emanazione del Testo Unico Bancario del 1993, nel quale gli stessi saranno trasfusi. ! ! 1.14. Il Testo Unico Bancario. ! Rinviando al capitolo successivo per un’analisi dettagliata delle disciplina degli assetti proprietari della banche contenuta nel TUB (d.lgs. 1 settembre 1993, n, 385), è utile in questa sede accennare alle principali problematiche in esso affrontate. Si tratta di un provvedimento legislativo organico contenente la disciplina della materia bancaria e creditizia; entrato in vigore a partire dal primo gennaio 2004, va a sostituire in maniera completa la disciplina previgente, innovandola ed eliminando incertezze e contraddizioni. Principio ispiratore del TUB è la definitiva consacrazione del concetto di banca quale soggetto operante nel mercato, che in questo modo smette di essere orientata al perseguimento di interessi pubblici. Il modello della società per azioni diviene vincolante per tutte le imprese bancarie, ponendo fine all’eccessivo pluralismo soggettivo che, come si è detto, aveva caratterizzato il sistema nei precedenti ! 71 Si noti che un ulteriore elemento di divergenza tra la disciplina comunitaria e quella nazionale era la diversità delle soglie al raggiungimento delle quelli scattava, in capo ai soggetto coinvolti, l’obbligo di comunicazione e autorizzazione. Il paragrafo 10 dell’art. 1 della direttiva definiva, infatti, partecipazione qualificata quella “partecipazione in un'impresa, diretta o indiretta, non inferiore al 10 % del capitale sociale o dei diritti di voto oppure che comporta la possibilità di esercitare un'influenza notevole sulla gestione dell'impresa in cui è detenuta una partecipazione”. !40 sessant’anni72 . Nell’ottica della competitività sui mercati internazionali, viene incentivata la formazione di grandi gruppi finanziari di tipo conglomerale. Parallelamente73 , si avvia un processo di despecializzazione dell’attività delle banche, contrario alla precedente divisione del lavoro, che porta al tramonto della distinzione tra aziende e istituti di credito, preparando in questo modo la strada per l’emersione del modello di banca universale. Venivano così abrogati il T.U. del 1929 sulle Casse di risparmio e le Banca di Monte e il D.Lgs del 1948 sulle Banche popolari. Ovviamente, all’astratta operatività delle banche non corrispondeva un divieto di specializzazione di fatto delle stesse, dovendo i campi di attività essere determinati mediante apposita previsione statutaria. Ancora, veniva profondamente innovata la disciplina delle operazioni di credito e delle relative garanzie. Con riguardo all’Autorità di vigilanza, viene sancito che queste debbano esercitare i propri poteri “avendo riguardo alla sana e prudente gestione dei soggetti vigilati, alla stabilità complessiva, all’efficienza e alla competitività del sistema finanziario” (art. 5, comma 1) nonché in “armonia con le disposizioni comunitarie” (art. 6). Infine, viene fortemente attenuata la differenziazione soggettiva dei controlli di vigilanza, che diviene omogenea per tipologia di rischi. ! ! ! ! ! ! ! ! ! 72 L’unica eccezione all’adozione del modello di società per azioni è la previsione di banche organizzate in forma cooperativa con finalità mutualistica, cioè a dire banche popolari e banche di credito cooperativo. ! 73 Come nota V. Troiano in Gli intermediari finanziari, op. cit., “l’elevata componente bancaria di derivazione pubblica che connotava il sistema creditizio nazionale rende evidente il nesso che storicamente è intercorso tra il processo di semplificazione soggettiva del settore e l’affermazione del modello della società per azioni bancaria, da un lato, e la ristrutturazione e privatizzazione delle banche pubbliche, dall’altro” !41 1.15. L’attività bancaria nel Testo Unico Bancario. ! L’attività bancaria, avente carattere di impresa74, consiste, a norma dell’art. 10 co. 1 del TUB, nella “raccolta del risparmio tra il pubblico e (nel)l’esercizio del credito”. L’esercizio congiunto e collegato funzionalmente75 di queste due attività è riservato alle banche76 (art. 10, comma 2). Tale disposizione va però letta alla luce dell’art. 11, comma 2, che prevede, in forma negativa, un’ulteriore riserva di attività a favore delle banche concernente la sola raccolta del risparmio presso il pubblico. Conseguenza necessaria di tale previsione è che anche soggetti diversi dalla banche autorizzate possono esercitare il credito. La raccolta del risparmio è definita dal comma 1 dell’art. 11 TUB come “l’acquisizione di fondi con l’obbligo di rimborso sia sotto forma di depositi, sia sotto qualsiasi altra forma”. Il contratto di deposito (bancario) è dunque lo strumento con il quale tipicamente, ma non esclusivamente77, la banca pone in essere la sua attività di raccolta del risparmio, inteso quest’ultimo come reddito non speso. Come ! 74 La disposizione contenuta nell’art. 10 co. 1 TUB sembra qualificare l’attività bancaria quale attività ex lege imprenditoriale, a prescindere dunque dalla sussistenza dei requisiti di cui all’art. 2082 cod.civ. Data questa caratterizzazione, la Banca d’Italia, nel rilasciare l’autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria, dovrà verificare il carattere imprenditoriale dell’organizzazione del soggetto richiedente. Come nota L. Desiderio in L’attività bancaria in F. Capriglione (a cura di), L’ordinamento finanziario italiano, op. cit., p. 375: “La sussistenza di un’impresa in senso codicistico attiene al giudizio di idoneità all’esercizio autorizzato dell’attività bancaria. Restano dunque distinte la qualificazione dell’attività bancaria [...] e le condizioni per il suo legittimo esercizio”. ! 75 Il collegamento funzionale si verifica ogni qual volta l’attività di raccolta è finalizzata all’esercizio del credito. Il Testo Unico, però, non prevede esplicitamente tale collegamento: secondo parte della dottrina, il legislatore ha considerato questo carattere normale nell’esercizio dell’attività bancaria. Questa circostanza induce a ritenere che il collegamento funzionale non sia essenziale ai fini della riserva di cui all’art. 10, comma 2. ! 76 E’ da notare che nel TUB manca una definizione espressa di banca; questa può però essere desunta dal sistema normativo e in particolare dalla disposizione di cui all’art. 14 concernente la necessaria autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria. Si devo dunque ritenere banca ogni soggetto autorizzato dalla Banca d’Italia all’esercizio dell’attività bancaria. ! 77 Altro comune strumento di raccolta di fondi sono l’emissione di obbligazioni o di altri titoli di credito (art. 12 TUB). Si vedano peraltro le disposizioni di cui ai commi 2-bis e 2-ter dell’art. 11, che escludono da tale attività rispettivamente “la ricezione di fondi connessa all’emissione di moneta elettronica” e “la ricezione di fondi da inserire in conti di pagamento utilizzati esclusivamente per la prestazione di servizi di pagamento”. !42 si deduce dall’art. 1834 cod. civ., attraverso il contratto di deposito un soggetto cede denaro alla banca, la quale si impegna a restituirlo a scadenza o a vista78. Si deve peraltro ritenere che il valore del rimborso deve quanto meno essere uguale al valore nominale del deposito originario. Differentemente dal deposito comune, la banca acquista la proprietà del denaro79, soddisfacendo in questo modo la sua esigenza di disponibilità attuale di fondi. La causa del contratto di deposito appena enunciata rende evidente il motivo per il quale, nel contratto in parola, differentemente da quanto avviene nel caso di deposito regolare, è la banca a dover corrispondere un interesse al depositante, che effettua un investimento il cui rischio è molto basso. L’attività di raccolta deve infine rivolgersi al pubblico. L’esatta individuazione della categoria di pubblico è stata oggetto di accesi dibattiti in dottrina. Premesso che i commi 3, 4-bis, 4-ter e 4-quater dell’art. 11 TUB demandano al CICR ampi poteri in tal senso80, e che il co. 4 dello stesso articolo prevede numerose e rilevanti eccezione al divieto di raccolta del risparmio presso il pubblico, la conclusione cui si è giunti è che la nozione di pubblico non è riconducibile ad unità. Si dovrà dunque analizzare caso per caso la rivoluzione dell’attività al pubblico, assumendo come indici “i luoghi, gli strumenti, e tutto quanto concerne la predisposizione delle condizioni di proiezione esterna dell’attività di chi raccoglie e l’idoneità a protarsi nel tempo di tale situazione (indipendentemente dalla durata effettiva o dagli effetti concreti che sortisce)”81. A differenza di quanto avviene per la raccolta del risparmio, il TUB non contiene una espressa definizione dell’attività di esercizio del credito. A dispetto della pluralità di ! 78 Data la possibilità che il contratto preveda il rimborso a vista, nel deposito bancario il termine non è da considerarsi essenziale (a differenza di quanto accade nel contratto di mutuo). ! 79 Si tratta dunque di un deposito irregolare: nel contratto di deposito di cui all’art. 1766 cod. civ., infatti, il depositario non acquista né il diritto di proprietà né tanto meno il possesso della cosa oggetto del contratto; questi la detiene soltanto, dovendola custodire nell’interesse del depositante. ! 80 Particolare rilevanza assume l’art. 11, co. 3, disponendo che: “Il CICR stabilisce limiti e criteri, anche con riguardo all’attività e alla forma giuridica del soggetto che acquisisce i fondi, in base ai quali non costituisce raccolta del risparmio presso il pubblico quella effettuata presso specifiche categorie individuate in ragione di rapporti societari o di lavoro”. 81 ! L. Desiderio, L’attività bancaria: fattispecie ed evoluzione, Giuffrè, 2004, p. 384. !43 locuzioni utilizzate dal legislatore, si tratta di un’attività tendenzialmente riconducibile ad unità, almeno sotto il profilo sostanziale. Il tratto caratteristico dell’esercizio del credito è il trasferimento della disponibilità attuale di denaro dall’intermediario (come già detto, in questa ambito non sussiste riserva di attività a favore della banca) al prenditore, che così gode di un accrescimento (temporaneo) del suo patrimonio; in questo modo il prenditore si trova ad essere creditore dell’intermediario, essendo tenuto alla restituzione di quanto ricevuto nonché al pagamento di un corrispettivo variamente determinato in base all’entità del rischio di credito assunto dalla banca. L’attività in parola può essere effettuata nelle forme più varie, che seguono l’incessante evoluzione dei prodotti finanziari. Principalmente, rientrano in questa categoria: i contratti di prestito, il credito al consumo, il credito con garanzia ipotecaria, il factoring, il credito commerciale e le cessioni di credito pro solvendo, il forfaiting. L’attività strictu sensu bancaria non esaurisce il panorama delle attività che la banca può legittimamente effettuare, dovendosi in tal senso distinguere la prima dalla più ampia nozione di “attività della banca” (settori c.d. parabancari). Il comma 3 dell’art. 10 dispone infatti che “le banche esercitano, oltre all’attività bancaria, ogni altra attività finanziaria [...] nonché attività connesse o strumentali”, aggiungendo che “sono salve le riserve di attività previste dalla legge”. Con riferimento alle attività connesse82 o strumentali83, è importante sottolineare che il collegamento funzionale ! 82 Un’attività è connessa ad un’altra nel momento in cui sussiste tra le due un rilevante collegamento funzionale, che però non sfocia nell’impossibilità di esercitare autonomamente l’attività principale. A titolo esemplificativo, sono connesse le attività di informazione commerciale e di locazione di cassette di sicurezza. ! 83 Un’attività è strumentale quando ha carattere ausiliario rispetto a quella principale. Posto il carattere servente dell’attività strumentale, in dottrina si discute vivacemente sulla esercitabilità di quest’ultima nei confronti di terzi. L’opinione prevalente, sostenuta tra tutti da Capriglione, è quella affermativa; rimane fermo, ovviamente, che l’attività deve essere prevalentemente rivolta alla banca o al gruppo di appartenenza e soltanto in via residuale a terzi. In ogni caso sono attività strumentali, per esempio, quello di studio, di ricerca e analisi in materia economica e finanziaria, di gestione di immobili ad uso funzionale, di gestione di servizi informatici o di elaborazione dati, di formazione o addestramento del personale. La differenza tra l’attività connessa e quella strumentale sta dunque nella circostanza che le prime non fanno parte dell’ambito di operatività proprio della banca, la quale ha però i mezzi necessari per porla in essere; le seconde, invece, sono attività che la banca è “naturalmente” portata a effettuare, in quanto funzionali al migliore svolgimento delle attività principali. !44 richiesto perché la banca possa legittimamente esercitare tali attività può aversi tanto con l’attività bancaria in senso stretto tanto con le attività finanziarie effettivamente esercitate. Per designare le ulteriori attività che la banca può normalmente svolgere, il legislatore ha utilizzato un’espressione - quella di ogni altra attività finanziarie - dal contenuto molto ampio; questo indirizzo legislativo - di cui si può avere prova anche all’art. 1 del Testo Unico della Finanza - ha reso la previsione del TUB capace di adattarsi ai costanti mutamenti e innovazioni riscontrabili nella pratica, spesso sfuggenti alla normativa e per i quali si rendono necessarie complicate applicazioni in via interpretativa. Se da questo profilo la scelta del legislatore risulta dunque apprezzabile, è però inevitabile che tale elasticità comporti, di converso, difficoltà nell’esatta individuazione del contenuto della categoria di cui si discute. Nessun dubbio sussiste circa la esercitabilità da parte della banche delle attività ammesse al mutuo riconoscimento, elencate dall’art. 1, co. 2 lett. f) TUB; inoltre, l’art. 19, co. 1 TUF dispone che la banche possano prestare, insieme alle imprese di investimento, i servizi di investimento. Infine, l’art 17 TUB, fungendo da norma di chiusura della disciplina dell’attività delle banche, offre la possibilità di esercitare attività che, nonostante non siano ammesse al mutuo riconoscimento, si configurano ugualmente come finanziarie in quanto disciplinate dalla Banca d’Italia (in conformità alle deliberazioni del CICR). ! ! 1.16. La banca universale. ! Questo complesso normativo disciplinante l’attività che le banche possono legittimamente effettuare ha in primo luogo innescato il processo che avrebbe, a distanza di pochi anni, ridimensionato in maniera rilevante il peso dei gruppi finanziari polifunzionali nell’economia domestica, per dare di conseguenza spazio al modello di banca universale. !45 Il primo ampliamento dell’operatività delle banche - quello, già descritto, avvenuto negli anni ottanta in seguito ai processi di deregolamentazione e internazionalizzazione - avvenne infatti attraverso l’acquisto, da parte della banche, di partecipazioni di controllo in società, comunque operanti nel settore finanziario. Alle banche era infatti fatto divieto di operare in maniera diretta in tali settori, dovendo esse limitarsi all’attività strettamente bancaria. Il modello prevalente era dunque quello del grande conglomerato bancario, di cui facevano parte una pluralità di società, ognuna operante in un diverso settore finanziari. La peculiarità del modello così strutturato consisteva nella creazione di una sorta di economia interna al gruppo finanziario; nonostante la formale autonomia giuridica delle controllate, queste, nella pratica, utilizzavano i fondi raccolti tra il pubblico dalla banca - capogruppo della holding - nell’esercizio dell’attività bancaria. Seppure capace di competere efficacemente sui mercati internazionali, il modello conglomerale presentava un problema di non poco conto: la difficoltà da parte delle autorità creditizie di valutare in maniera oggettiva e aderente alla realtà lo stato di salute della banca, dipendendo questo non solo dalle condizioni dell’istituto di credito in sé, ma anche, e soprattutto, dalla gestione e dalla stabilità del gruppo finanziario controllato. Le innovazioni del TUB hanno introdotto nel nostro ordinamento il modello di banca universale, cui è consentito operare in maniera diretta - vale a dire senza la mediazioni di società controllate - nei vai settori finanziari. In questo modo, il conglomerato polifunzionale smette di essere il modello imposto ex lege, per divenire una delle opzioni organizzative che la banca adottare84, in ogni caso nel rispetto delle regole di vigilanza. In questo contesto, i confini tra banche e ! 84 Sulla ratio di questa innovazione è interessante riportare l’opinione di E. Montanaro, R. Bertelli, i quali in Verso la banca universale: crisi e declino della banca commerciale, in E. Montanaro (a cura di), Dalla banca commerciale alla banca universale? Realtà e prospettive del sistema bancario italiano, Banca Toscana, Firenze 1996, p. 44 scrivono: “Sembra riduttivo interpretare tale opzione come [...] l’implicita dichiarazione che spetti al mercato e non alle Autorità di vigilanza indicare alle banche il modello organizzativo più efficiente. I vasti poteri di intervento e di sanzione che il Testo Unico riconosce alla vigilanza prudenziale a presidio della sana e prudente gestione delle banche dimostrano infatti che la libertà di scelta fra [...] gruppo polifunzionale e banca universale non può essere intesa come una nuova versione della mano invisibile di Adam Smith”. !46 intermediari finanziari diventano estremamente labili, in alcuni casi le due confondendosi e rendendo maggiormente rischiosa l’azione delle banche85. Nella misura in cui tali pericoli vengono evitati, la banca universale - in cui, dunque, la distribuzioni delle varie attività diviene problema squisitamente interno alla banca può avvantaggiarsi della produzione di scope economies associate alla produzione congiunta di prodotti diversi con gli stessi fattori produttivi. ! ! 1.17. Il mercato unico e la prestazione cross-border di servizi finanziari. ! Come già accennato, il legislatore comunitario ha impegnato nel tempo molte energie nella creazione di un sistema normativo del mercato finanziario - da intendersi nella sua accezione più ampia, comprendente il sistema bancario, le assicurazione e i valori mobiliari - idoneo alla creazione e al buon funzionamento del mercato unico dei servizi finanziari.86 Il mercato unico dei servizi finanziari si inserisce nel più ampio progetto finalizzato a rendere reale un mercato unico europeo nel quale persone, merci, servizi e capitali possano circolare con la stessa libertà con la quale si muovono nei singoli paesi membri (le c.d. quattro libertà fondamentali). In un siffatto sistema, gli operatori interessati ad effettuare operazioni nel territorio comunitario non incontreranno i problemi derivanti dalla vigenza di diversi e divergenti sistemi normativi; come ha ! 85 Si pensi al fenomeno delle cartolarizzazioni, complesse operazioni di smobilizzo di crediti ipotecari, spesse volte in sofferenza, consistente nella cessione in blocco di tali crediti ad uno Special Purpose Vehicle (SPV); questo, per finanziare l’operazione, emetterà titoli - piazzati tanto presso investitori privati quanto istituzionali - il cui rimborso dipende in varia maniera (di norma incide sul quantum ma, in alcuni casi, può riguardare anche l’an) dal destino del credito sottostante. Non si possono negare gli effetti positivi conseguenti alla creazione di liquidità da crediti prima immobilizzati. D’altronde come evidenzia C. Brescia Morra in Le linee evolutive della disciplina dei controlli pubblici sulla finanza dopo la crisi recente, in Capriglione, L’ordinamento finanziario italiano, op. cit., p. 361: “Queste operazioni possono comportare effetti distorsivi per il corretto svolgimento dell’attività di concessione dei prestiti. [...]. In particolare, consentendo alle banche di non conservare i rischi in bilancio, le cartolarizzazioni indeboliscono gli incentivi a effettuare una corretta valutazione del merito creditizio, abbassando la qualità dei prestiti.” 86 ! In tema di mercato unico dei servizi finanziari, cfr., A. Baglioni, Verso il mercato finanziario unico in Europa, in Quaderni dell’Associazione di Banca e Borsa, Milano, 2002. !47 affermato la Commissione, “chi offre i propri servizi deve essere messo in condizione di operare in tutta l’Unione europea, senza doversi piegare a requisiti normativi eterogenei”87. Ciò incentiva fortemente lo sviluppo del sistema economico europeo, consentendo una maggiore concorrenza nei servizi offerti, una forte diminuzione del costo dei capitali ed una maggiore liquidità. Inoltre, in un sistema normativo armonizzato, che lascia poca libertà ai singoli paesi nella previsione di deroghe unilaterali, si minimizza la possibilità che si verifichi il fenomeno della c.d. competion in laxity. Con tale espressione si intende la tendenza, ben nota nei paesi con ordinamento federale, ad “ammorbidire” la disciplina del settore interessato, e con essa i relativi standard di vigilanza, in modo tale da attirare una maggiore quantità di capitali rispetto agli altri paesi-competitor.88 Al di là di queste considerazioni di carattere strettamente economico, poi, è importante sottolineare come il mercato unico abbia costituito lo strumento essenziale perché si potesse compiutamente realizzare il progetto di integrazione europea, in conformità all’orientamento - già chiaro all’art. 2 del trattato CECA del 1951 - di evoluzione progressiva e non ex abrupto della stessa.89 Pur nella consapevolezza dei benefici che da un tale sistema possono derivare, la legislazione comunitaria ha da sempre risentito della difficoltà di coniugare, da un ! 87 Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento sul commercio elettronico e i servizi finanziari del 7 febbraio 2001. COM (2001) 66 def. ! 88 In tema di competition in laxity, si veda T. Apolte, Jurisdictional competion for quality standards: Competion of laxity?, in Atlantic Economic Journal, 2002, vol. 30, pp. 389-402; D. Charny, Competion among jurisdiction in formulative corporate law rules: an American perspective on the “race to bottom” in the European communities, in Harward International Law Journal, 1991, n. 32, pp. 423 ss.; S.M. Carbone, Regole del mercato finanziario e competizione tra ordinamenti statali, in M. de Tilla (a cura di), Euro 2002. Previdenze e professioni, Milano, 2001, pp. 267 ss. ! 89 Per quanto riguarda la rilevanza del mercato unico nel progetto di integrazione europea, è interessante riportare quanto afferma I. Sabatelli in La supervisione sulle banche. Profili evolutivi, Cedam, 2009, p. 97: “Il mercato unico o comune rappresenta […] qualcosa di molto più importante di un semplice spazio in cui si può liberamente comprare e vendere. […]. Sarebbero tali regole a il rapporto tra Stato e mercato alla base del disegno comunitario”. !48 lato, la tutela dei consumatori (consumer welfare)90 e, dall’altro, l’efficienza economica (o allocativa); interessi, questi, che spesse volte si pongono in rapporto di trade-off. Nonostante la priorità assegnata al mercato unico dei servizi finanziari, infatti, non sono state rare le battute di arresto. In particolare, permane ancora oggi una notevole, seppure minore rispetto al passato, segmentazione delle legislazioni nazionali, dovuta in larga parte ai differenti orientamenti politico-sociali dei 27 paesi nonché alla riluttanza degli stessi a cedere la propria autorità. Il problema principale che si è nel tempo posto è quello del paese competente ad elargire l’autorizzazione necessaria all’esercizio dell’attività bancaria. Se, infatti, la regolamentazione bancaria rimane affare interno ai singoli paesi, seppure vincolata dalla cospicua legislazione comunitaria, la questione della prestazione di servizi finanziari cross-border pone il problema del competent regulator e della relativa disciplina applicabile nell’esercizio del potere autorizzatorio. Come osserva Dalhuisen: “A bank that offers loan services in another country may be considered to be in business there and attract the regulatory interest of the host country or host regulator. That country might in its most extreme form require bank to first seek an authorization in that country. It would result in double regulation as long as financial supervision remains in principle a purely domestic matter. […] Obviously this makes international banking, which already involves extra risk, even more unattractive.”91. In questo contesto, assume rilevanza primaria il principio dell’home country control,, pilastro dell’intero disegno del mercato unico dei servizi finanziari e assicurativi e della libertà di stabilimento. Tale regola vuole che qualunque soggetto operante nel mercato suindicato - e dunque dotato dell’apposita autorizzazione del paese di origine - possa prestare i propri servizi in ogni paese membro senza che sia per ciò necessaria una ulteriore autorizzazione dell’host country. Coerentemente, e in linea con il principio del mutuo riconoscimento, l’impresa continuerà ad essere soggetta ! 90 La Commissione ha affermato nella Comunicazione al Consiglio e al Parlamento sul commercio elettronico e i servizi finanziari del 7 febbraio 2001 che “i consumatori devono poter confidare nel fatto che per loro esistono livelli di tutela sufficientemente armonizzati in tutta l’Unione” 91 ! Dulhuisen, Home and host country regulatory control of trans-border banking services in the EU, op. cit., p. 414 !49 alla vigilanza dell’autorità del paese in cui ha la sede legale. Tale principio introdotto dalla seconda direttiva comunitaria in materia bancaria, poi riconosciuto come core principle da Basilea (principi 24 e 25) e infine confermato dall’art. 40 della dir. 2006/48/CEE - ha evidentemente ridisegnato i confini e l’estensione della sovranità dei paesi membri, risolvendo la questione della doppia supervisione che, come detto, pone la prestazione di servizi finanziari cross-border92. ! ! 1.18. La crisi finanziaria e il sistema bancario. ! Nel periodo 2000-2007 il rapporto di indebitamento93 medio delle imprese italiane è aumentato di circa 8 punti percentuali, raggiungendo così il valore record del 40 per cento. Le imprese italiane hanno dunque goduto di condizioni di accesso al credito particolarmente favorevoli, le quali hanno consentito all’economia domestica una discreta crescita. La crisi finanziaria scoppiata nel 2007 ha interrotto questo trend creditizio, avendo costretto le banche ad utilizzare criteri di concessione assai più restrittivi: nel 2011 il 12 per cento delle imprese italiane non ha ottenuto l’intero credito richiesto, quando la media del decennio precedente si attesta a meno della metà.94 Inoltre, i tassi di interesse praticati sono notevolmente cresciuti. Le banche, nella valutazione del merito creditizio presupposto della concessione del prestito, hanno privilegiato le imprese più stabili, cioè a dire con una bassa leva finanziaria; si è innescato così un circolo vizioso, in cui alle imprese la cui fonte di finanziamento era principalmente quella creditizia veniva negato il finanziamento stesso. Nonostante ciò, la qualità degli attivi delle banche è peggiorata. La discussione si è ! 92 In tema di prestazione cross-border di servizi finanziari, cfr. R.M. Lastra, Cross border trade in banking services, in Alpa, Capriglione, Diritto bancario comunitario, op. cit., pp. 433-455. ! 93 In economia aziendale il rapporto di indebitamento (o, leverage) misura il ricorso al debito di un’impresa nell’ambito delle fonti di finanziamento complessivo; tale misura è data dal rapporto tra la somma del capitale proprio e del capitale di terzi (cioè a dire, il totale delle fonti di finanziamento) e il capitale proprio. 94 ! Si veda l’intervento di L.F. Signorini, Banche e imprese nella crisi, alla XLIV Giornata del Credito, p. 2. !50 dunque spostata sulla ridefinizione delle regole di vigilanza prudenziale, con particolare riguardo ai criteri di ponderazione dei rischio di credito, al ruolo delle agenzie di rating, ad una maggiore efficacia della determinazione dei requisiti patrimoniali minimo. Le riflessioni sono sfociate nell’approvazione dello “schema internazionale di regolamentazione delle banche”, meglio noto come Basilea 3, il quale perfeziona le regole già contenute nel precedente accordo, senza però stravolgerne la struttura. !51 ! ! ! ! ! CAPITOLO II ! La disciplina dei rapporti fra banca e industria ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! 2.1. Il Testo Unico Bancario del 1993. Il regime autorizzatorio. ! Nelle formulazione originaria, le norme del Testo Unico Bancario in materia di partecipazione non innovavano in maniera sostanziale la disciplina previgente, assolvendo più che altro la funzione di risistemazione formale delle disposizioni già contenute nel d.lgs 287/90, così come modificato dal d.lgs 481/92. Il principio di separatezza tra banca e industria si andava ad innestare nel complesso sistema di autorizzazione preventiva delineato nel Titolo II, capo 3 del TUB rubricato “Partecipazioni al capitale delle banche”- ed integrato dalle norme regolamentari emanate dalla Banca d’Italia. L’art. 19 esordiva prevedendo che l’acquisizione1 a qualsiasi titolo effettuata di una partecipazione superiore al 5 per cento, o comunque comportante il controllo della banca, dovesse essere autorizzata dall’Autorità di vigilanza. Ai fini della determinazione della soglia superata la quale si rende necessaria l’autorizzazione, bisognava tener conto, insieme alle azioni o quote già possedute, delle partecipazioni detenute indirettamente, cioè a dire per il tramite di società controllate, di società fiduciarie o per interposta persona (art. 22). Si noti che perché le azioni fossero rilevanti, esse dovevano essere dotate di diritto di voto (non andavano dunque computate, ad esempio, le azioni di risparmio). Non rilevava, infine, che le azioni fossero in proprietà ovvero in pegno o usufrutto2, queste ultime dovendo comunque ! 1 Un’importante considerazione: la norma non distingue tra acquisizione in fase costitutiva e acquisizione in un momento successivo; di conseguenza, l’autorizzazione si rende necessaria in entrambi i casi. ! 2 In quest’ultimo caso, come noto, l’art. 2352, co. 1, c.c., prevede che, salvo convenzione contraria, il diritto di voto sia esercitato rispettivamente dal creditore pignoratizio e dall’usufruttuario. !53 essere computate nel calcolo3. Per quanto riguarda la nozione di controllo - rilevante anche ai sensi del comma 3, il quale rende necessaria l’autorizzazione anche per l’acquisizione del controllo di una società che detiene una partecipazione superiore al 5 per cento del capitale di una banca o che comunque comporta il controllo della banca stessa - questa risulta essere notevolmente più ampia rispetto a quella contenuta nell’articolo 2359 c.c.4 Il comma 2 dell’articolo 19 prevedeva, poi, che fossero sottoposte ad autorizzazione anche le variazioni delle partecipazioni quando queste comportassero partecipazioni al capitale della banca superiori alle soglie stabilita dalla Banca d’Italia ovvero che comportassero il controllo della banca stessa. In forza di tale disposizione, l’Autorità ha fissato, nelle Istruzioni di vigilanza, tali soglie rispettivamente al 10, 15, 20, 33 e 50 per cento5 (essendo in ogni caso rilevante per il socio industriale solo la prima, atteso il divieto - presto affrontato - di superare la soglia del 15 per cento). Viene così soppressa la previsione - contenuta nell’art. 27, co. 4, della legge antitrust - circa la ! 3 Per un’analisi dettagliata della computabilità nel calcolo delle soglie di azioni acquisite non a titolo di proprietà, v. A. Patroni Griffi, Commento all’art. 19, in F. Belli, G. Contento, A, Patroni Griffi, M. Porzio, V. Santoro (a cura di), Commento al d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, Zanichelli, Bologna, 2003, pp. 292-294. In particolare, l’Autore, in questa sede, sostiene la tesi affermativa, argomentando, in primo luogo, dall’inciso “a qualsiasi titolo” contenuto nel comma 1; in secondo luogo, dalla lettera del comma 4, nel quale è previsto che “la Banca d'Italia individua i soggetti tenuti a richiedere l'autorizzazione quando il diritto di voto spetta o è attribuito a un soggetto diverso dal socio”. Se ne deduce che sono da considerarsi rilevanti non solo i contratti di compravendita ma anche i negozi che producono il trasferimento della semplice disponibilità delle azioni (tipicamente il pegno, l’usufrutto e il riporto). ! 4 L’art. 23 TUB, e prima ancora la legge antitrust, infatti, prevedeva - e in larga parte, come si vedrà, prevede ancora - una serie di situazioni, che si aggiungevano a quelle codicistiche, al verificarsi delle quali si presumeva sussistere il controllo nella forma di influenza dominante. Si noti che era in ogni caso fatta salva la possibilità di provare il contrario (si tratta, dunque, di una presunzione iuris tantum e in ciò tale previsione si distingueva da quella di cui all’art. 2359 c.c., che, invece, poneva una presunzione iuris et de iure). Cfr. Spolidoro, Il concetto di controllo nel codice civile e nella legge antitrust, in Riv. Soc., 1995, pp. 487 ss.; Lamandini, Il “controllo”. Nozione e “tipo” nella legislazione economica, Giuffrè, Milano, 1995, pp. 159 ss.; Schiuma, Controllo, governo e partecipazione al capitale, CEDAM, Padova, 1997, pp. 337 ss.; Ferro-Luzzi e Marchetti, Riflessioni sul gruppo creditizio, in Giur. Comm., 1994, I, pp. 467 ss.; Campobasso, Controllo societario e poteri della capogruppo nei gruppi e nei gruppi bancari, in AA.VV., I gruppi di società. Atti del Convegno internazionale di Venezia 16-17-18 novembre 1995, Milano, 1996, II, pp. 1139 ss.; Brescia Morra, Commento all’articolo 19, in (a cura di) Capriglione, Commentario al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, CEDAM, 2012, p. 251. 5 ! Cfr. Istruzioni, Tit. II, Cap. I, Sez. II, par. 1. !54 necessaria autorizzazione per le operazioni comportanti una diminuzione della partecipazione superiore al 2 per cento.6 Dato il carattere preventivo dell’autorizzazione, le Istruzioni di vigilanza della Banca d’Italia prevedevano l’onere in capo al soggetto richiedente di comunicare l’intenzione di effettuare tale operazione “prima del perfezionamento” della stessa (Titolo II, cap. 1, sez. II, par. 4), insieme - ovviamente - alle informazioni necessarie per la valutazione della stessa7. Inoltre, nel caso in cui l’operazione fosse diretta ad acquisire il controllo di una banca o della capogruppo, l’autorizzazione doveva essere richiesta almeno trenta giorni prima della presentazione dell’informativa preventiva. Effettuata la comunicazione, la Banca d’Italia disponeva di sessanta giorni per decidere circa la legittimità e “opportunità” dell’operazione; tale termine, peraltro, veniva sospeso nel caso di richiesta di informazioni integrativo e interrotto nel caso di informazioni incomplete. Coerentemente con l’impostazione di tale procedimento, il TUB non prevedeva il meccanismo del silenzio-assenso precedentemente attivo in vigenza della l. 287/908. ! ! 2.2. Segue: La separatezza a monte. ! Il fulcro della disciplina dei rapporti tra banca e industria era costituito dalla comma 6 dell’articolo 19, che sostanzialmente confermava il tradizionale principio di separatezza “a monte”; il socio industriale poteva, dunque, detenere nel proprio portafoglio partecipazioni solo di minoranza in una banca. Ciononostante, ad ! 6 A fronte della soppressione della necessaria autorizzazione per le variazioni in negativo, inalterata era la disposizione, contenuta nelle Istruzioni - in forza del dettato di cui all’art. 20 TUB -, che imponeva ai soci di comunicare alla Banca d’Italia l’ammontare della propria partecipazione nel caso, tra gli altri, di “riduzione dell’ammontare della partecipazione al di sotto di ciascuna delle soglie fissate per gli obblighi di autorizzazione o di comunicazione”. ! 7 In tema cfr. Brescia Morra, Commento all’articolo 19, cit., p. 163. ! 8 Tale scelta suscitò aspre critiche in dottrina. In particolare cfr. A. Patroni Griffi, Commento all’art. 19, cit., p. 297, il quale parla di “un incomprensibile ritorno all’antico che inspiegabilmente annulla i traguardi raggiunti con l’originaria disciplina prevista dalla legge 287/90 […]; una marcia a ritroso che non trova alcuna giustificazione […] nel fatto che si sia passato da un regime di autorizzazione successiva ad uno di autorizzazione preventiva”. !55 un’attenta analisi, non può sfuggire che la disciplina risultava essere sotto diversi profili edulcorata rispetto a quella contenuta nella legge 287/90. In primo luogo, veniva notevolmente limitato l’ambito soggettivo dei destinatari del divieto di autorizzazione. Mentre l’art. 27, co. 6 della legge antitrust - facendo riferimento a categorie soggettive “fisse” e prescindendo dall’attività effettivamente svolta dagli stessi - includeva tra questi tutti “i soggetti diversi dagli enti creditizi e dagli enti o società finanziari”, la nuova versione faceva coincidere la categoria con i soggetti che “anche attraverso società controllate, svolgono in misura rilevante attività d’impresa in settori non bancari né finanziari”. Nel TUB, peraltro, non era presente una precisa definizione di attività industriale; per questo motivo, tale nozione doveva essere ricavata in via interpretativa dall’art. 1, comma 2, lett. f, TUB, che chiariva cosa dovesse intendersi per attività finanziaria9. L’attività industriale era dunque quell’attività non compresa in questa disposizione. Per quanto riguarda il concetto di “misura rilevante”, questo fu chiarito - in forza della disposizione dell’art. 19, co. 9, che delegava la Banca d’Italia ad emanare disposizioni attuative dello stesso articolo - nelle Istruzioni di vigilanza. Nella delibera si afferma, infatti, che “il divieto non si applica qualora il soggetto richiedente provi che le attività svolte direttamente, diverse da quelle creditizie o finanziarie, non eccedano il 15 per cento del totale delle attività svolte direttamente”. Si noti, inoltre, che nella norma venivano menzionate, ai fini dell’individuazione delle attività svolte, solo le società controllate10; non i soggetti controllanti, le cui attività erano dunque irrilevanti nella ponderazione tra attività industriali e finanziarie. Ai sensi del medesimo comma, i soggetti così individuati non potevano essere autorizzati ad effettuare acquisizioni di azioni o quote di una banca quando queste ! 9 E’ bene ricordare che tra le attività finanziarie il TUB includeva: il credito al consumo, il factoring, il leasing finanziario, la partecipazione all’emissione di titoli, la gestione o consulenza nella gestione di patrimoni. L’attività assicurativa, inoltre, era equiparata a quella finanziarie e, di conseguenza, sottoposta alla medesima disciplina. ! 10 Le Istruzioni, Tit. II, Sez. II, cap. 1, par. 12, recitavano testualmente: “Se il soggetto richiedente abbia partecipazioni, anche indirette, di controllo in altre società, deve essere, inoltre, rispettata la condizione che la somma degli attivi delle società, né bancarie né finanziarie, controllate non ecceda il 15% della sommatoria dell’attivo dell’impresa del soggetto richiedente e di tutte le società da esso controllate”. !56 comportavano una partecipazione superiore al 15 per cento del capitale rappresentato da azioni o quote con diritto di voto o, comunque, il controllo della banca stessa. Superata questa soglia, in pratica, sussisteva una presunzione - iuris et de iure - circa il carattere deleterio del coinvolgimento del socio industriale nella corporate governance dell’ente creditizio. Ad ulteriore presidio della regola della separatezza, poi, si prevedeva che la autorizzazione venisse revocata - o negata ab origine - nel momento in cui la sana e prudente gestione della banca fosse pregiudicata dalla presenza di accordi tra soggetti industriali che comportassero, in capo agli stessi, una “una rilevante concentrazione di potere per la nomina o la revoca della maggioranza degli amministratori della banca” (comma 7); accordi che, in forza della disposizione contenuta nell’art. 20, co. 2, i soci sindacati dovevano comunicare alla Banca d’Italia. In realtà, tale disposizione si accompagnava - e in un certo senso ne limita gli effetti - alla soppressione della disposizione circa il controllo congiunto derivante da un patto di sindacato contenuta nella legge antitrust. Come evidenziato da Campobasso11, infatti, la scelta di sopprimere tale meccanismo antielusivo, comportò un “ammorbidimento” del principio di separatezza, il socio industriale potendo partecipare ad un patto di sindacato - anche eccedente la soglia del 15 per cento - senza essere per ciò solo considerato socio di controllo. In questo caso, infatti, la Banca d’Italia poteva, ricorrendo le condizioni di cui al comma 7 (e provandone la sussistenza, dovendo ritenersi l’onere della prova a carico dell’Autorità), revocare l’autorizzazione12. Ne discende che, in questo contesto normativo, la costituzione di una banca poteva ! 11 G.F. Campobasso, Le partecipazioni al capitale delle banche, in Banca, borsa e titoli di credito, 1994, p. 303. L’Autore nota che nel caso “in cui ci sia un sindacato di voto tra 10 soci industriali, ciascuno dei quali possiede il 2% del capitale della banca, caduto il controllo congiunto, la partecipazione dei soci sindacati non ricade nel divieto di cui all’art. 19 dato che nessun socio da solo può nominare la maggioranza degli amministratori”. ! 12 Per approfondire la questione del controllo congiunto da patto di sindacato, cfr. Patroni Griffi, Commento all’articolo 19, cit., pp.304-307, il quale osserva che il potere di revoca dell’autorizzazione possa essere esercitato “principalmente in due ipotesi: qualora un soggetto disponga della rilevante concentrazione di potere in questione, pur essendovi la prova che egli non è in posizione di controllo ex art. 23, comma 2; qualora tale rilevante concentrazione di potere sia riferibile non al singolo, ma ad un gruppo di soggetti fra quelli indicati nell’art. 19, comma 6 T.U”. !57 avvenire dietro iniziativa esclusivamente industriale; ciò, però, a condizione che fossero rispettate le soglie di detenibilità e che i soggetti industriali non si raggruppassero in un accordo di sindacato alla presenza del quale la Banca d’Italia poteva esercitare il potere di cui al comma 7 dell’art. 19. Nella pratica, la poca chiarezza della disposizione, unitamente alla ancestrale aleatorietà del concetto di sana e prudente gestione, consentì alla Banca d’Italia di effettuare, nell’applicazione della norma, valutazioni che spesse volte si riveleranno eccessivamente discrezionali. L’esclusione dell’eventualità di un controllo congiunto in ambito bancario rimane tuttora ferma. Per inciso, a seguito della riforma del diritto societario del 2003 e il riconoscimento, in ambito civilistico, della legittimità dei patti parasociali (art. 2341bis cod. civ.), in dottrina è stata avanzata la tesi secondo la quale il TUB contempli, seppure implicitamente, tale possibilità. In tema di salvaguardia della sana e prudente gestione, poi, è bene analizzare in dettaglio il già accennato disposto del comma 2 dell’art. 20, concernente gli obblighi di comunicazione incombenti sui soci sindacati13. Ai sensi di tale comma, è (la disposizione è ancora in vigore) fatto obbligo ai partecipanti ad un accordo avente ! 13 In verità, gran parte della dottrina converge sull’opinione secondo la quale, perché sorga l’obbligo di comunicazione, sia sufficiente la mera disponibilità del diritto di voto; a prescindere, dunque, dalla qualità di socio. In tal senso, cfr. C. Motti, Obblighi di comunicazione - Richiesta di informazioni, in Commento al d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, cit.; A. Antonucci, Diritto delle banche, Milano, Giuffrè, 2000, p. 204. A riprova di ciò, si può qui anticipare che la parola “soci”, contenuta nel secondo periodo del comma in parola, sarà soppressa ad opera dell’art. 9.6, comma 1, lett. b), D.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, inserito dall’art. 2, comma 1, D.lgs. 6 febbraio 2004, n. 37. !58 per oggetto (o per effetto)14 l’esercizio del voto in una banca (anche cooperativa) o nella società controllante una banca, di comunicarlo, entro cinque giorni dalla stipulazione (ovvero, se non concluso in forma scritta, dal momento di accertamento delle circostanze che ne rivelano l’esistenza), alla Banca d’Italia. Ebbene, prosegue la disposizione in parola - ampliando ulteriormente i poteri di intervento prudenziale dell’Autorità -, alla Banca d’Italia è data la facoltà di sospendere il diritto di voto degli aderenti ad un accordo di questo tipo, quando la concentrazione sia tale da pregiudicare la sana e prudente gestione della banca (alla cui tutela il potere stesso è funzionalmente preordinato, non collocandosi, quindi, in una prospettiva sanzionatoria). In particolare, l’Autorità di vigilanza, nel valutare l’opportunità di un tale provvedimento, teneva conto dei “riflessi dell’accordo sulle politiche gestionali”, nonché del suo carattere stabile e duraturo.15 E’ opportuno, infine, menzionare il comma 1 dello stesso articolo 20, sostituito per effetto dell'art. 39, D.Lgs. 28 dicembre 2004, n. 310. Ai sensi di tale comma, chiunque partecipasse - in maniera diretta o indiretta - al capitale di una banca in misura superiore alla percentuale stabilita dalla Banca d’Italia, doveva darne comunicazione alla Banca d’Italia nonché alla stessa banca partecipata. Le soglie rilevanti per la comunicazione in parola furono fissate al 5% del capitale della banca e ai successivi multipli di cinque. Ovviamente, nel momento in cui l’operazione ! 14 Cfr. Motti, Obblighi di comunicazione - Richiesta di informazioni, cit., pp. 317-323, la quale, scrive, con riguardo all’oggetto dell’accordo da comunicare che: “il fenomeno regolato non è il vincolo del diritto di voto, bensì il metodo che conduce alla formazione della decisione di voto, caratterizzato dalla esteriorizzazione di un processo altrimenti destinato a consumarsi nel c.d. foro deliberativo interno”. Nello stesso senso, A. Benocci, Commento agli articoli 20 e 21, in (a cura di) M. Porzio, F. Belli, G. Losappio, M. Rispoli Farina, V. Santoro, Giuffrè, Testo unico bancario. Commentario, Giuffrè, Milano, 2012, p. 215, dove si legge che il riferimento alle banche cooperative è “evidentemente superfluo dal punto di visto formale” ma quantomeno chiarisce che “assume rilevanza anche l’ipotesi, tipica appunto delle banche cooperative, delle associazioni sindacali, che, riunendo anche i dipendenti bancari che sono contemporaneamente soci della banca, possono indurre un voto concertato tale da rendere influenzabili le delibere assembleari”; si nota, inoltre, che “la comunicazione è dovuta non solo in capo a chi partecipi ad accordi di voto in una società finanziaria capogruppo, ma anche in capo a chi partecipi ad accordi di voto in una società non bancaria che controlla una banca”. ! 15 Per approfondimenti sul tema dei patti parasociali nelle imprese bancaria, cfr. Tucci, Il ruolo dei soci e i patti parasociali, in Analisi giuridica dell’economia, 2007, II, pp. 445 ss.; Venturini, I patti parasociali e la Consob: il caso Unipol-BNL, in Le società, 2010, V, pp. 595 ss. !59 potesse essere effettuata solo previa autorizzazione della Banca d’Italia, i soggetti coinvolti erano esonerati da tale obbligo, considerandosi lo stesso adempiuto con la trasmissione della richiesta dell’autorizzazione. Medesimo obbligo di comunicazione, poi, sussisteva quando si verificava una variazione della partecipazione superiore alla misura sempre stabilita dalla Banca d’Italia (in questo caso del 25, 40, 55% e successivi multipli di 5). Nell’eventualità si verificasse, invece, una riduzione, era fatto obbligo di comunicarla quando la stessa comportasse una diminuzione della partecipazione al di sotto di ciascuna delle soglie fissate per gli obblighi di comunicazione e autorizzazione. Come per la comunicazione dei sindacati di voto di cui al comma 2, ciò che rilevava ai fini del sorgere dell’obbligo era la titolarità del diritto di voto e non la qualità di socio. Dal punto di vista procedurale, infine, le Istruzioni stabilivano che la comunicazione dovesse intervenire entro 10 giorni dalla conclusione dell’operazione ovvero, nel caso di banche di nuova costituzione, entro 10 giorni dall’iscrizione all’albo delle banche. ! ! 2.3. Segue: Il sistema sanzionatorio. ! Il capo dedicato alle partecipazioni al capitale delle banche si concludeva con l’art. 24, che disegnava uno strutturato sistema sanzionatorio per la violazione delle disposizioni appena menzionate. Come nota Antonucci16, l’elemento qualificante detto impianto era la dicotomia tra le partecipazioni che potevano essere detenute previa autorizzazione e partecipazioni che, invece, non potevano essere detenute: evidentemente, ci si riferisce a quelle di cui all’art. 19, co. 6. Con riguardo alle prime, l’art. 24, co. 1, prevedeva, nell’eventualità in cui l’autorizzazione mancasse ovvero fosse stata revocata o sospesa, la sospensione del ! 16 A. Antonucci, Sospensione del diritto di voto, Obbligo di alienazione, in Commento al d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, cit., p. 339 !60 diritto di voto per la parte eccedente la soglia (il c.d. congelamento).17 Medesima disciplina era prevista in relazione alle azioni o quote per le quali fossero state omesse le comunicazioni dell’art. 20. Alla violazione di tale divieto di voto conseguiva l’impugnabilità, a norma dell’art. 2377 cod. civ., della deliberazione assunta con il voto determinante delle predette azioni o quote; impugnazione che peraltro poteva essere anche proposta dalla Banca d’Italia. Per quanto riguarda le partecipazioni del socio industriale eccedenti la soglia del 15 per cento, o che comunque ne comportassero il controllo, incombeva sul possessore delle azioni o quote (con diritto di voto) l’obbligo di alienarle entro il termine stabilito dalla Banca d’Italia18. Decorso inutilmente tale termine, la vendita poteva essere ordinata dal Tribunale, dietro richiesta della Banca d’Italia stessa.19 Un siffatto sistema, evidentemente, presupponeva la proprietà delle azioni o quote eccedenti e con essa la titolarità del diritto di voto; ciò, però, sembrava - e a ragione - incoerente con il carattere preventivo dell’autorizzazione, da cui dovrebbe derivare “l’incidenza ! 17 Sulla ratio e sulle finalità del divieto in esame, nella sua configurazione precedente alla riforma del 2003, di cui si parlerà più avanti, si è discusso molto. In particolare, Manzone, Partecipazione al capitale delle banche, in (a cura di) Ferro-Luzzi e Castaldi, La nuova legge bancaria, Milano, Giuffrè, 1996, vol. I, p. 337, sosteneva la tesi secondo la quale la norma in esame fosse rivolta esclusivamente ad assicurare il rispetto degli obblighi informativi nei confronti della Banca d’Italia, in ciò deviando dalla disciplina codicistica, rivolta invece a tutelare interessi endosocietari. E’ proprio la natura degli interessi tutelati che è oggetto, poi, dell’analisi di Oppo, La sospensione legale del diritto di voto nelle società per azioni, in Rivista di diritto societario, 2000, I, p. 3, che rintracciava la finalità della norma speciale nella tutela di interesse extrasocietari quali la trasparenza e la tutela del mercato e, sul presupposto che queste finalità non legittimassero un tale effetto distorsivo nella gestione societaria, arrivava a mettere in dubbio la stessa legittimità costituzionale della previsione. Cfr. ancora, tra gli altri, G. Santoni, Commento all’articolo 24, in Commentario al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, cit., pp. 296-299; D’Alessandro, La trasparenza della proprietà azionaria e la legge di riforma della Consob, in Giurisprudenza commerciale, 1986, pp. 331 ss.; Castellano, I controlli esterni, in (a cura di) Colombo e Portale, Trattato delle società per azioni, UTET, Torino, vol. V, 1998, pp. 357 ss. ! 18 Si deve ritenere che l’obbligo di alienazione sussistesse soltanto per le partecipazioni in eccedenza. Cfr. Capriglione, op. cit., p. 108. ! 19 Molto si è discusso circa l’applicabilità del meccanismo di congelamento del diritto di voto alle partecipazioni in parola. In estrema sistesi, la lettera dell’art. 24, co. 3, sembrava escluderlo - sembrava, dunque, che si fossero istituiti due apparati sanzionatori nettamente distinti e impermeabili - ma, in considerazione della ratio della sospensione, in molti sostenevano la tesi opposta. !61 dell’autorizzazione sulla validità ed efficacia del negozio acquisitivo delle partecipazioni bancarie”20. ! ! 2.4. Segue: La separatezza a valle. ! Per quanto riguarda l’argomento delle partecipazioni delle banche in imprese non finanziarie (e, dunque, la correlata questione della banca mista), il TUB non forniva una disciplina specifica; l’unica disposizione in tema era l’art. 53, co. 1, lett. c), che demandava alla Banca d’Italia il compito di emanare, in conformità alle disposizioni del CICR, disposizioni aventi oggetto le partecipazioni detenibili dalle banche, senza peraltro distinguere tra imprese finanziarie e non. Diversamente dalla disciplina delle partecipazioni nel capitale bancario di imprese non finanziarie, dunque, le norme riguardanti la separatezza “a valle” erano di rango secondario. Dietro questa policy legislativa c’è la maturata consapevolezza circa i maggiori profili di rischio posti dal primo fenomeno, la verificazione del quale era peraltro resa più probabile dall’affermazione di grandi holding industriali capaci di effettuare una “scalata” ad una banca. Non è tutto; nella vasta letteratura si rinvengono - tra le ragioni che portarono il legislatore ad optare per tale diversa collocazione - ulteriori esigenze, sospese a metà strada tra gli obiettivi di stabilità, efficienza e correttezza istituzionale. In primis, data la maggiore malleabilità della disciplina regolamentare rispetto a quella legislativa, si consentiva alle banche una più ampia diversificabilità dei propri investimenti e con essa l’apertura a nuove fonti di finanziamento. ! 20 Antonucci, Sospensione del diritto di voto, obbligo di alienazione, cit., p. 340, la quale continua scrivendo che “le Istruzioni di vigilanza non solo fanno discendere dal carattere preventivo dell’autorizzazione la necessità che i contratti da cui derivi l’acquisizione di partecipazione rilevante a fini autorizzativi siano subordinati alla condizione del rilascio dell’autorizzazione, ma soprattutto introducono un sistema di informazione preventiva di operazioni di acquisizione di partecipazioni rilevanti tali da rendere sostanzialmente non configurabili spazi di applicazione per la disciplina qui considerata”. !62 Rilevava, inoltre, la volontà di limitare l’intervento dell’Autorità di vigilanza in settori estranei al proprio ambito di azione.21 La Banca d’Italia cercò, fin dal 199322 e entro i pur stringenti comunque derivanti dalla tradizione normativa nazionale, di ammorbidire il principio di separatezza a valle, così da rendere gli investimenti delle banche italiane nei settori industriali una realtà concreta. Cionnonostante, tali interventi non condussero immediatamente ad un cambiamento sostanziale degli assetti proprietari del sistema bancario nazionale. Basti pensare che a metà degli anni novanta il valore delle partecipazioni in imprese industriali complessivamente detenute nei portafogli delle banche italiane era di appena un decimo della soglia massima consentita23. ! Fonte: Bianco, Chiri24 !2121 ! V. tra tutti, Lucarini, La separatezza fra industria e banca: il punto di vista di un giurista, cit., pp. 65-66. ! 22 Prima dell’emanazione del TUB, infatti, le banche potevano acquisire azioni solo al fine di recuperare crediti; a partire dal giugno 1993, invece, fu data la possibilità alle banche di fornire capitale di rischio alle imprese, ma solo nell’ambito di piani di ristrutturazione finanziaria. ! 23 Cfr. P. Ciocca, Note su impresa, banca, diritto societario, in Proprietà, controllo e governo delle banche, Quaderno di Moneta e Credito, Bnl Edizioni, Roma 1997; M. Messori, La separatezza tra industria e banca: il punto di vista di un giurista, in Analisi Giuridica dell’Economia, 1, 2004. ! 24 M. Bianco, S. Chiri, Le partecipazioni bancarie nelle imprese in Italia: investimenti e ristrutturazioni finanziarie, in Banca, impresa, società, 1997, 16, p. 407. !63 Più analiticamente, il valore delle partecipazioni totali, dirette e indiretta, era, nel 1996, poco inferiore ai 70000 miliardi di lire italiane. Di queste, il 56,9 per cento era, sempre nel 1996, costituito da partecipazioni in altre banche mentre le partecipazioni in imprese non finanziarie erano solo il 9,5 per cento del totale (ossia poco più di 6500 miliardi di lire). Queste ultime, peraltro, hanno vissuto, nel periodo 1992-1996, un considerevole - superiore al 92 per cento - incremento. Si concluderebbe da questi dati che gli interventi della Banca d’Italia iniziassero a sortire i primi effetti. In realtà, per analizzare al meglio il fenomeno, si deve tener conto del fatto che la categoria in analisi delle partecipazioni non finanziarie conteneva al proprio interno un insieme di partecipazioni estremamente vario: altre a quelle propriamente industriali, quelle in società strumentali all’attività bancaria, in società di project finance, in società collegate ad iniziative culturali e sociali etc.) ! Fonte: Bianco, Chiri25 ! Come si nota dalla tabella, il valore delle partecipazioni non finanziarie in imprese che effettivamente non svolgevano attività industriale costituiva, nel 1996, quasi la metà del totale (il 46,53 per cento, per l’esattezza). Le partecipazioni propriamente non finanziarie pesavano, dunque, per il restante 53,47 per cento. Escludendo da quest’ultima categoria le partecipazioni in imprese in crisi (27,8 per cento) e quelle 25 ! M. Bianco, S. Chiri, ibidem, p. 409. !64 effettuate per recupero crediti (5,53 per cento), l’incidenza degli investimenti “da banca universale” si attestava ad un esiguo 20,14 per cento delle partecipazioni definite non finanziarie (per un valore contabile poco inferiore ai 950 miliardi di lire). Ne consegue - come notano Bianco e Chiri - che il valore delle partecipazioni in imprese non finanziarie che effettivamente svolgevano attività industriale si attestava ad un quasi irrilevante 0,5 per cento del patrimonio totale delle banche italiane; ne consegue, inoltre, che lo stesso valore fosse uguale a solo un quarantesimo di quello loro effettivamente consentito. A riprova della scarsissima rilevanza del fenomeno, si consideri, poi, il dato secondo il quale le banche effettivamente attive nell’attività di investimento industriale erano solo 53; di queste, infine, solo 23 avevano partecipazioni in più di una impresa industriale26. La disciplina delle partecipazioni detenibili contenuta nelle Istruzioni di vigilanza sarà rinnovata in modo organico nell’aprile del 1999. Coerentemente con gli interventi precedenti, la ratio di questa nuova disciplina fu quella di incentivare ulteriormente le banche a ricoprire un ruolo attivo nella corporate governance delle imprese non finanziarie. Ciò in considerazione, da un lato, del processo di despecializzazione inaugurato nel TUB nonché, dall’altro, del principio della neutralità della norma di vigilanza27; elementi, questi, espressamente menzionati nella premessa al capitolo 9 del titolo IV delle Istruzioni, dedicato appunto alle partecipazioni delle banche e dei gruppi bancari. In effetti, il rapporto - di tipo prettamente creditizio - tra le banche e le imprese nostrane era da sempre stato caratterizzato dall’antagonismo tra le due, le prime temendo deficit (o, peggio, inganni) informativi, le seconde cercando sempre - anche quando le circostanze volevano il contrario - di spuntare condizioni di credito migliori. La Banca d’Italia colse, dunque, l’occasione per intervenire su questa situazione, limitandone le conseguenze degenerative. ! 26 M. Messori, op. cit., p. 48. ! 27 Cioè a dire la non influenza della norma di vigilanza prudenziale - e dell’Autorità cui è demandato il compito di applicarla - nelle scelte squisitamente imprenditoriali dell’ente creditizio “in ordine al modello organizzativo multidivisionale o di gruppo”. !65 Le Istruzioni di vigilanza distinguevano tra partecipazioni temporanee e partecipazioni stabili. Le prime - disciplinate nel Titolo IV, capitolo 9, sezione V erano definite come quelle “acquisite nell’ambito dell’adesione a consorzi di garanzia e collocamento, per recupero crediti, in imprese in temporanea difficoltà finanziaria”; per queste tipologie di partecipazioni, veniva predisposta una disciplina ampiamente derogatoria28 rispetto a quella - particolarmente stringente - prevista per le partecipazioni stabili. Per quel che riguarda le partecipazioni stabili, si poneva in primo luogo un limite quantitativo generale, valevole tanto a livello individuale quanto a livello consolidato. Si prevedeva, infatti, che gli investimenti in partecipazioni e in immobili delle banche (e dei gruppi bancari) non potessero complessivamente superare il patrimonio di vigilanza. Contemporaneamente, si definiva come margine disponibile - le risorse finanziarie che, in un dato momento, l’ente creditizio poteva ancora investire in questo canale - la differenza tra il patrimonio di vigilanza e la somma delle partecipazioni e degli immobili, comunque detenuti. Veniva poi operata - sempre nell’ambito delle partecipazioni stabili - una ulteriore distinzione tra partecipazioni in banche, società finanziarie e strumentali, imprese di assicurazione (sez. III) e partecipazioni in imprese non finanziarie (sez. IV). Nel primo caso, si predisponeva un sistema di autorizzazioni, finalizzato a “verificare la capacità dell’impresa bancaria di investire in nuovi comparti e di valutare ! 28 Nel dettaglio, per quanto riguarda le partecipazioni acquisite nell’ambito dell’adesione a consorzi di garanzia e collocamento, era previsto che non si applicasse - fino a 7 giorni dalla chiusura del collocamento stesso - alcun limite di detenibilità. Nell’ambito di recupero crediti, poi, era previsto che la banca creditrice potesse acquisire partecipazioni dirette nella società debitrice ovvero interessenze detenute dal debitore, anche oltre i limiti previsti per le partecipazioni in società non finanziarie. Nel primo caso, peraltro, le partecipazioni dovevano essere esclusivamente “finalizzate a facilitare il recupero del credito attraverso lo smobilizzo dell’attivo della società al fine di liquidare il patrimonio dell’impresa”; in caso di acquisizione di interessenze, invece, la banca aveva il dovere di smobilizzare le partecipazioni alla “prima favorevole occasione”. Infine, per quanto riguarda le partecipazioni in imprese in temporanea difficoltà finanziaria (e, dunque, non riconducibile a cause di mercato), si dava la possibilità alle banche, nell’ambito di operazioni dirette a ristabilire l’equilibrio finanziario dell’impresa in crisi, di convertire in azioni i crediti che vantassero verso le stesse. Le banche dovevano però porre “estrema cautela” nella realizzazione di tali operazioni, i.e. l’operazione doveva essere economicamente vantaggiosa; ciò per “la complessità e l’elevato grado di incertezza che li caratterizzano”. Tali operazioni, peraltro, non potevano mai comportare il superamento dei limiti previsti per le partecipazioni in società non finanziarie. !66 l’impatto dell’operazione sulla situazione tecnica e organizzativa nonché la compatibilità dell’articolazione in gruppo con l’esigenza della vigilanza su base consolidata”. La (preventiva) autorizzazione della Banca d’Italia si rendeva necessaria quando l’operazione di acquisizione di partecipazioni in banche e società finanziarie comportava il superamento di alcune soglie qualificate, rapportate tanto al patrimonio della banca partecipante quanto a quello del soggetto partecipato. In dettaglio, l’onere di richiedere l’autorizzazione sorgeva (solo) nel momento in cui veniva alternativamente superata la soglia del “10, 20 % del capitale della società partecipata, e in ogni caso [quando si conseguiva] il controllo” ovvero del “10 % del patrimonio di vigilanza del partecipante”. Coerentemente con il limite quantitativo generale, vigeva un divieto di effettuare tale operazione nel momento in cui, sottratte le partecipazioni al patrimonio di vigilanza, venisse meno il requisito di adeguatezza patrimoniale complessivo. Data la sostanziale omogeneità della attività assicurativa e dell’attività bancaria, le soglie autorizzative previste per l’acquisizione in imprese finanziarie valevano anche nel caso di acquisizione di partecipazioni in imprese di assicurazione; erano, però, previsti due ulteriori limiti: uno individuale, del 40 % del patrimonio di vigilanza della banca, e uno complessivo, del 60 % dello stesso. Per l’acquisizione di partecipazioni in Società di investimento a capitale variabile (SICAV), infine, non era previsto alcun meccanismo autorizzativo, ma solo, al verificarsi di determinate condizioni, obblighi di comunicazione. Nel secondo caso, venivano invece posti diversi limiti di detenibilità - commisurati tanto al patrimonio di vigilanza della banca quanto al capitale della partecipata - oltre i quali alle banche (ordinarie29) era vietato acquisire partecipazioni. In primo luogo, con una disposizione finalizzata ad evitare un’eccessiva immobilizzazione dell’attivo della banca, si stabiliva che le partecipazioni non finanziarie presenti nel portafoglio della banca (o del gruppo bancario) non potessero - complessivamente - superare il 15 per cento del patrimonio di vigilanza della stessa ! 29 Una diversa disciplina (cfr. Tit. VII, Cap. I, Sez. III, par. 4, delle Istruzioni) era prevista per le partecipazioni assunte dalle banche di credito cooperativo. !67 (limite complessivo). Data la maggior difficoltà di circolazione delle partecipazioni in società non quotate in mercati regolamentati, poi, era previsto per queste uno più stringente limite del 7,5 per cento. Per limitare la concentrazioni del rischio era, dunque, previsto un secondo limite, questa volta individuale: era, infatti, fatto divieto di assumere una partecipazione in una singola impresa (o gruppo di imprese) che superasse - da sola, appunto - il 3 per cento del patrimonio di vigilanza. Ultimo, il limite di separatezza: “gli investimenti in società non finanziarie non devono superare il 15 % del capitale della società partecipata”30. Oltre questa soglia, dunque, era fatto divieto agli enti creditizi di investire nel settore industriale e, di conseguenza, era tendenzialmente precluso ai primi di conseguire il controllo di un soggetto industriale. Era prevista poi - nell’ambito del progetto di ammorbidimento della disciplina di cui sopra - una deroga al limite in parola. Tale soglia, infatti, poteva essere superata nel momento in cui il valore complessivo della partecipazione - comprensivo dunque dell’eccedenza - fosse inferiore all’uno per cento del patrimonio di vigilanza; in ogni caso il valore complessivo delle eccedenze variamente detenute dalla banca doveva essere contenuto entro l’uno per cento dello stesso patrimonio di vigilanza. Evidentemente, la deroga in parola aveva una portata abbastanza limitata. ! 30 Le Istruzioni descrivevano in maniera analitica il procedimento di calcolo del limite in parola. Testualmente: “Nel calcolo di tale limite alle partecipazioni vanno sommate le azioni possedute a qualunque titolo che comportino l’attribuzione del diritto di voto. Vanno quindi comprese le azioni detenute a garanzia dei prestiti (azioni detenute in pegno) e quelle detenute a titolo di investimento dei fondi di previdenza. Le azioni detenute in pegno per le quali la banca mantenga il diritto di voto non entrano nel calcolo del limite di separatezza purché sia verificata una delle seguenti condizioni: a) le imprese affidate, cui le azioni detenute in pegno si riferiscono, si vengano successivamente a trovare in stato di difficoltà; b) la banca non intervenga nella gestione ordinaria della società affidata, esprimendo il voto esclusivamente nei momenti rilevanti nella vita della società partecipata. In tale contesto, il voto può essere esercitato nelle assemblee straordinarie ovvero nelle assemblee ordinarie, limitatamente all’approvazione del bilancio e all'esercizio dell'azione di responsabilità nei confronti degli amministratori”. !68 Erano, infine, previste due ulteriori ipotesi in cui, questa volta dietro autorizzazione della Banca d’Italia31, ad alcune tipologie di banche e di gruppi bancari era consentita una “maggiore operatività” nell’ambito delle partecipazioni non finanziarie. Si trattava delle banche c.d. abilitate - in pratica le banche italiane di maggiori dimensioni - che presentavano un patrimonio di vigilanza superiore a duemila miliardi di lire e rispettavano il requisito di adeguatezza patrimoniale complessivo; e delle “banche specializzate”, anch’esse con un patrimonio di vigilanza superiore a duemila miliardi di lire, in linea con le regole dei requisiti patrimoniali e che presentavano “una struttura del passivo caratterizzata da una raccolta prevalentemente a medio e lungo termine”: in pratica, IMI, Mediobanca e Crediop. Le banche abilitate potevano detenere partecipazioni non finanziarie per un massimo del 50% del patrimonio di vigilanza, fermo il limite di partecipazione individuale, che però veniva aumentato al 6% dello stesso. Il limite di separatezza restava fermo al 15% del capitale della società partecipata. Veniva però innalzato il margine entro il quale tale limite poteva essere superato: il valore della partecipazione doveva essere inferiore, invece che all’1%, al 2% del patrimonio di vigilanza e entro lo stesso maggior limite doveva essere contenuta la somma delle eccedenze. Per le banche specializzate, invece, il limite complessivo veniva aumentato al 60% del patrimonio di vigilanza e il limite di concentrazione al 15% dello stesso. Per ! 31 In entrambi i casi, la Banca d’Italia, nel valutare la autorizzabilità, doveva tener conto dell’esperienza e dei risultati del soggetto richiedente nel comparto dell’assistenza finanziaria alle imprese industriali; della sua situazione tecnica (i.e. concentrazione dei fidi, equilibrio della situazione finanziaria, esposizione ai rischi di mercato); dell’adeguatezza della struttura organizzativa di cui si è dotata. Inoltre, data la peculiarità dell’attività autorizzata, la Banca d’Italia poteva, in qualsiasi momento, richiedere informazioni sulle partecipazioni così acquisite. !69 quanto riguarda il limite di separatezza vigeva la medesima disciplina prevista per le banche abilitate.32 Fonte: M. Messori33 ! ! La disciplina così introdotta dalla Banca d’Italia ha portato le banche italiane ad aumentare la loro partecipazione nella imprese non finanziarie. Come si evince dalla figura, mentre nel 1999 il valore delle partecipazioni bancarie in imprese industriali si attestava a 3,2 miliardi di euro, questo nel 2003 raggiunge quota 8,26 miliardi. Tale incremento risulta, peraltro, superiore a quello delle partecipazioni bancarie complessive, che pure risulta essere importante (dai 40 miliardi di euro del 1998 ai quasi 85 del 2003); nel 1998, infatti, le partecipazioni non finanziarie incidevano per il 7,48 per cento sul totale mentre nel 2003 tale valore si attesta al 9,75 per cento. ! 32 Le Istruzioni, dopo aver fissato detti limiti quantitativi, proseguivano fissando alcune linee guida atte ad orientare l’attività delle banche nell’ambito degli investimenti industriali; tra queste: preferire le imprese più meritevoli e con buone prospettive economiche; attenersi ad una logica imprenditoriali finalizzate al ritorno economico dell’investimento; limitare l’immobilizzazione dell’attivo; predisporre adeguate strutture e procedure di internal control. 33 ! M. Messori, op. cit., p. 51. !70 2.5. Segue: La concessione del credito e le misure per la prevenzione dei conflitti di interesse (rinvio). ! L’art. 53, co. 4, TUB, operava un rinvio alla disciplina regolamentare emanata dalla Banca d’Italia e dal CICR in tema di limiti alla concessione del credito e di prevenzione di conflitti di interessi. Ciò al fine di assicurare la c.d. neutralità allocativa, elemento essenziale perché il sistema finanziario possa addivenire ad una situazione di stabilità. Come già ampiamente discusso nel precedente capitolo, infatti, il processo di valutazione del merito creditizio può, soffrire di rilevanti effetti distorsivi nel momento in cui la banca si trova ad avere rapporti con alcuni soggetti “privilegiati”; è proprio in questa ottica che la norma in parola cercava di intervenire, con misure purtroppo rivelatesi nel tempo poco efficaci e bisognevoli di una profonda rivisitazione34. La norma in parola, riferendosi ai soggetti che abbiamo ora definito privilegiati, menzionava, da un lato, gli azionisti rilevanti e, dall’altro, i soggetti collegati. I primi era definiti nelle Istruzione come quei soggetti che partecipavano in misura superiore al 15 per cento al capitale della banca o comunque ne detenevano il controllo35; tra i soggetti collegati erano, poi, incluse le “società partecipate in misura rilevante” dalla banca36 nonché quei soggetti legati agli azionisti rilevanti e alle società partecipate da ! 34 L’art. 53, co. 4, sarà prima sostituito dall’art. 8, co. 1, lett. a), legge 28 dicembre 2005, n. 262 e, successivamente, dall’art. 1, co. 4, lett. b), D.lgs 29 dicembre 2006, n. 303. ! 35 Seppure in presenza di una delle condizioni perché si potesse parlare di azionista rilevante, l’Amministrazione centrale dello Stato non assumeva mai tale connotazione. ! 36 Individuate nelle società nelle quali la banca detiene una partecipazioni non inferiore al 20 per cento o, comunque, di controllo. Non rientravano tra le società partecipate quelle appartenenti al gruppo bancario e quelle comunque consolidate secondo il metodo dell’integrazione globale o proporzionale. !71 stretti legami giuridici (c.d. gruppo di clienti connessi)37. Le norme regolamentari da essere emanate dalla Banca d’Italia in conformità alle deliberazioni del CICR dovevano stabilire limiti più stringenti per l’attività di concessione del credito ad entrambe le categorie di soggetti; dovevano, peraltro, fare esclusivo riferimento al “patrimonio della banca e alla partecipazione in essa detenuta dal soggetto richiedente il credito”. L’ultimo periodo del comma in parola si concludeva con una disposizione riguardante la prevenzione dei conflitti di interesse nell’esercizio delle “altre attività” della banca, demandata al CICR. Non essendo specificato dovesse intendersi per “altre attività”, si deve ritenere che tra queste rientrassero tutte quelle attività diverse da quella di concessione del credito cui faceva riferimento il primo periodo. Peraltro, non tutte le “altre attività” della banca dovevano essere sottoposte a limitazioni, facendo la norma riferimento esclusivo a quelle intrattenute con gli azionisti rilevanti; dunque, non a quelle coinvolgenti i “soggetti collegati”. Questa scelta è da ricondurre alla diversa consistenza degli eventuali effetti distorsivi che, nell’impostazione adottata dal legislatore, l’intromissione dei soggetti collegati produceva nella valutazione del merito creditizio (e, conseguentemente, al minore profilo di rischio che presentava). Cionnostante, la disposizione in parola risultava lacunosa sotto un profilo essenziale; infatti, riferendosi esclusivamente agli azionisti rilevanti (i.e. i partecipanti in misura superiore al 15 per cento) nulla diceva circa i potenziali conflitti di interesse tra socio industriale debitore e banca partecipata. Anzi, come nota Lucarini: “questa disciplina non può proprio essere applicata al ! 37 Cfr. A. Guaccero, La partecipazione del socio industriale nelle società per azioni bancarie, Giuffrè, Milano, 1997, p. 314; Clemente, Vigilanza regolamentare sull’art. 53, in Capriglione (a cura di), Commentario al T.U. delle leggi in materia bancaria e creditizia, cit., p. 416; M.E. Salerno, Concessione di credito a favore di soggetti collegati, in AA.VV. Commento al d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, cit., pp. 792-793. In partecipare quest’ultima sostiene che, nell’individuazione del gruppo di clienti connessi si debba tener conto della sussistenza non solo di rapporti giuridici ma anche di rapporti economici o finanziari “tali da determinare, nell’ipotesi di difficoltà finanziarie di un soggetto, difficoltà di rimborso anche per gli altri soggetti a quest’ultimo collegati”. Secondo l’Autore, è la banca che ha l’onere di individuare tali soggetti; “tuttavia, tale discrezionalità è tenuta sotto controllo non solo dall’insieme di prescrizioni volte alla predisposizione di struttura organizzative interne idonee al monitoraggio dell’esposizione alle varie tipologie di rischio, ma soprattutto dal complesso di regole poste precipuamente a presidio dell’identificazione delle interconnessioni tra i clienti”. !72 socio industriale, se non nell’ipotesi, invero poco frequente in cui questo detenga esattamente il 15%”38. Per una trattazione analitica della disciplina dei conflitti di interessi, in seguito adottata sia dalla Consob sia dalla Banca d’Italia, si rinvia al capitolo 3. ! ! 2.6. I rapporti tra banca e industria nella disciplina comunitaria precedente al 2007 e il recepimento negli Stati membri. Analisi comparata. ! Il legislatore italiano, nel disciplinare i rapporti tra banche e industria appena analizzati, aveva fatto ampiamente uso della facoltà attribuita agli Stati membri di adottare norme in tema di partecipazioni più stringenti rispetto a quelle comunitarie39 (si veda al riguardo il IX considerando della Seconda direttiva). Per quanto riguarda il rapporti “a monte”, la direttiva non pone divieto alcuno a che un soggetto industriale acquisisca partecipazioni qualificate nell’ente creditizio; come già accennato nel precedente capitolo, si limita, infatti, a prevedere che l’Autorità competente valuti attentamente, nell’esercizio dei suoi poteri autorizzatori, la qualità degli azionisti (disposizione, peraltro, che sarà nuovamente riprodotta nei successivi interventi legislativi e che continuerà a porre non pochi problemi interpretativi, v. in seguito). Sul versante dei rapporti “a valle”, poi, il parametro adottato dal legislatore fu solamente quello dei fondi propri della banca. L’art. 12 della direttiva (poi riprodotto dall’art. 51 della dir. 2000/12/CE) prevedeva, infatti, che le banche potessero ! 38 D. Lucarini, La separatezza fra banca e industria, cit., p. 74. ! 39 Nel 2006 - in vigenza di una disciplina nazionale ancora immutata - l’allora Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi scriveva: "Le regole che impongono una rigida separazione tra banca e industria, in particolare quelle che stabiliscono stretti vincoli quantitativi all'intervento di soggetti non finanziari nel capitale delle banche, costituiscono nel panorama europeo un caso isolato. […] Anche pe quanto riguarda i vincoli “a valle” […] l’esperienza maturata e lo sviluppo delle tecniche di gestione e controllo dei rischi consentono oggi di attenuare i vincoli esistenti”. Relazione della Giornata Mondiale del Risparmio del 2006, pp. 12-13. !73 detenere partecipazioni qualificate40 in imprese industriali purché queste non eccedessero, individualmente, il 15 per cento dei fondi propri della banca e, complessivamente, il 60 per cento degli stessi. E’ chiaro, di conseguenza, che la principale preoccupazione del legislatore comunitario fu quella di limitare i rischi derivanti dall’immobilizzazione dei capitali, da un lato, e da un’eccessiva concentrazione, dall’altro. Data l’assenza di riferimenti al capitale dell’impresa partecipata, dunque, la Seconda direttiva non escludeva neanche l’eventualità di investimenti, anche rilevanti, nel capitale di rischio di un’industria e, conseguentemente, neanche l’instaurazione di rapporti di controllo tra banca e industria. Data la politica dell’armonizzazione minima e la mancanza di una specifica disciplina comunitaria in tema di rapporti banca-industria, negli anni ’90 si rinvengono ancora forti elementi di diversità tra le legislazioni dei diversi Stati membri. Inerti, la maggior parte degli Stati membri continuava nel solco della tradizione. Tra i vari ordinamenti nazionali, infatti, alcuni - quello tedesco in primis, insieme a quello francese, portoghese e greco - si uniformarono alle soglie partecipative stabilite dalla direttiva comunitaria mentre altri - ad esempio, quello italiano, olandese, irlandese - stabilirono regole più stringenti, mantenendo saldo il principio della separatezza e ponendo, altresì, limiti parametrati anche al capitale della società partecipata. Il legislatore tedesco, ad esempio, seppure apportando delle modifiche alla normativa nazionale previgente, si limitò a conformare quest’ultima alle regole di armonizzazione minima. In questa ottica, i limiti del 15 e del 60 per cento furono, in linea di massima, rispettati; nel caso in cui gli stessi venissero superati, poi, l’Autorità di vigilanza aveva il compito di rilasciare un’apposita autorizzazione, previo accertamento della sussistenza delle condizioni stabilite dalla direttiva: la copertura totale delle eccedenze con il liable capital - cioè a dire i fondi propri. Va ! 40 La nozione di partecipazione qualificata è chiarita dall’art. 1, n. 10: “una partecipazione in un’impresa, diretta o indiretta, non inferiore al 10% del capitale sociale o dei diritti di voto oppure che comporta la possibilità di esercitare un’influenza notevole sulla gestione dell’impresa in cui è detenuta una partecipazione”. !74 detto, peraltro, che la Repubblica Federale Tedesca, in fase di elaborazione della direttiva, si era battuta per una disciplina libera da vincoli e controlli sull’acquisizione di partecipazioni da parte delle banche. La previgente normativa, è quasi superfluo ricordarlo, non prevedeva limiti o condizioni particolari in tal senso, né c’era bisogno di autorizzazione preventiva, essendo sufficiente l’immediata comunicazione dell’avvenuta acquisizione all’Ufficio Federale Tedesco di Supervisione Bancaria. Anche la legge bancaria portoghese (D.lgs. 298/1992), uniformandosi alla Seconda direttiva, prevedeva che i limiti del quindici e sessanta per cento; prevedeva, altresì, un’attività di monitoraggio da parte dell’organo societario di vigilanza e una limitazione temporale (era, infatti, fatto divieto agli enti creditizi di detenere, direttamente o indirettamente, per più di tre anni, interrotti o ininterrotti, azioni che conferiscono più del venticinque per cento dei diritti di voto della partecipata). La legge bancaria francese, quella greca e quella spagnola, infine, si uniformarono alle soglie stabilite dalla direttiva, senza l’aggiunta di particolari limitazioni o vincoli. La normativa belga, invece, poneva limiti più restrittivi, rientrando le partecipazioni in imprese industriali nella categoria di investimenti partecipativi soggetti a limiti quantitativi. L’art. 32 della legge bancaria nazionale, infatti, distingueva tre tipologie di tali investimenti. La prima, soggetta a limiti soltanto temporali, riguardava titoli acquisiti o sottoscritti allo scopo di rivendita; la seconda, per la quale non si prevedeva limite alcuno, riguardava le partecipazioni in enti creditizi, società di borsa e società finanziarie; la terza riguardava, appunto, le partecipazioni industriali: esse, singolarmente, erano soggette al limite del dieci per cento mentre, complessivamente, non potevano superare il 35 per cento dei fondi propri dell’ente creditizio. Tali soglie potevano, sì, essere superate (ma sempre entro il 15 e il 60 per cento, come previsto dalla direttiva), ma solo in casi speciali41; ciò, però, previa autorizzazione della “Commissione Bancaire, Financièr et de l’Assurance”. ! 41 Principalmente, l’aumento di valore dei titoli già in portafoglio, la variazione dei tassi di cambio oppure nel caso di operazioni di fusione e di incorporazione. !75 Anche l’Olanda, nel recepimento della direttiva, si avvalse della facoltà di cui al nono considerando. L’ordinamento olandese, ancora prima del 1989, prevedeva che l’Autorità di vigilanza (il Ministerie van Financiën e la Nederlandsche Bank) autorizzasse preventivamente l’acquisizione da parte delle banche di partecipazioni dirette o indirette - in imprese industriali per una quota eccedente il cinque per cento del capitale della partecipata nonché qualsiasi incremento successivo. In ottemperanza al principio di separetezza, la legge del 1992 (l’Act on the Supervision of the Credit System) sanciva il divieto per gli enti creditizi di detenere, acquisire o incrementare una partecipazione qualificata in altre imprese o istituzioni, qualora tale partecipazione risultasse pari i superiore al dieci per cento del capitale della partecipata. Previa dichiarazione di non obiezione da parte delle Autorità di controllo, poi, la soglia del dieci per cento poteva essere incrementata fino a raggiungere i limiti inderogabili del 20, 33, 50 e 100 per cento. Anche l’ordinamento irlandese si basava sul principio di seperatezza. L’acquisizione di partecipazioni in imprese non finanziarie da parte delle banche non era soggetta - a livello legislativo - ad alcun limite; la Banca d’Irlanda, però, specificava, il principio generale secondo il quale un ente creditizio poteva acquisire, tanto in maniera diretta quanto indiretta, quote azionarie in altre società superiori al dieci per cento solo previa autorizzazione dall’organo di vigilanza societario. Al fine di scongiurare deleteri conflitti di interesse, poi, le Istruzioni della Central Bank of Ireland facevano divieto di investire un importo superiore al dieci per cento dei fondi propri in attività di rischio a favore di un cliente o di un gruppo di clienti connessi.42 In ambito extracomunitario, gli Stati Uniti procedevano, sotto la presidenza Clinton, a modificare il Glass-Steagall Act del 1933. Il Gramm-Leach-Bliley Act del 1999, infatti, eliminava le barriere che precludevano ad una banca di esercitare attività ! 42 Cfr. Motti, Approccio ai problemi della vigilanza bancaria in Italia e in Irlanda: alcune riflessioni, in ABI, 1991, p. 57. Per una panoramica più dettagliata delle legislazioni nazionali successive alla Seconda direttiva, v. C. Brescia Morra, Troppe regole in Italia sui rapporti tra industria e banca? Un’analisi comparata, in Analisi giuridica dell’economia, 2006, n. 1, pp. 91 ss.; M.E. Salerno, Il principio di separatezza banca-industria e la concorrenza tra ordinamenti giuridici, in Diritto della Banca e del Mercato Finanziario, n. 4/2006, p. 627 ss; M.E. Salerno, Concorrenza tra ordinamenti, in Rapporti e concorrenza tra ordinamenti. Atti del Seminario di studio (Siena, 10 marzo 2006), Giuffrè, 2007, pp. 231 ss. !76 assicurative o finanziarie: si avviava il processo di despecializzazione43. Sotto altro profilo, rimaneva vigente il Bank Holding Company del 1956, che vietava alle istituzioni finanziarie di acquisire società non finanziarie. ! ! 2.7. La riforma del diritto societario del 2003 e il coordinamento con la disciplina bancaria. ! Nonostante il perdurare della regola della separatezza, i soggetti esercitanti attività industriale hanno, nella vigenza del vecchio TUB, approfittato delle seppur limitate possibilità loro concesse in tema di partecipazioni nel capitale delle banche. Tutti gli enti creditizi di maggiori dimensioni presentavano una più o meno importante componente azionaria di origine industriale. La riforma del diritto societario intervenuta nel 200344 ha, nell’ottica di una maggiore flessibilità e modulabilità della disciplina societaria - rimessa ora in gran parte allo statuto societario - rivoluzionato aspetti essenziali della stessa. Ciò ha reso necessaria una non irrilevante rivisitazione di alcune disposizioni - non generali, essendo la regola della separatezza inalterata, bensì applicative della stessa - contenute nella legislazione speciale bancaria, non più coerenti con il rinnovato assetto della disciplina. In particolare, si noti che le modalità di calcolo delle soglie rilevanti a fini autorizzativi, contenute nelle Istruzioni, nonché la nozione di controllo di cui all’art. 23 TUB, si riferivano a categorie di azioni della società per azioni estremamente ! 43 L’approvazione del Gramm-Leach-Bliley Act fu conseguenza delle pressioni delle lobby finanziarie, che da tempo auspicavano l’inaugurazione del processo di despecializzazione. Si pensi che nel 1998 - un anno prima dell’approvazione della legge - la commercial bank CitiCorp procedeva alla fusione con la compagnia assicurativa Travelers Group, così creando CitiGroup. L’operazione, evidentemente, violava il Glass-Steagall Act (BHCA); l’applicazione delle sanzioni fu, però, procrastinata di due anni sulla considerazione che il colosso finanziario potesse far approvare una legge di modifica delle disposizioni violate. Così fu. ! 44 D.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, recante “riforma organica della disciplina delle società di capitali e società cooperative”. !77 semplice; queste potevano essere dotate o no del diritto di voto - solo le prime erano rilevanti - e, inoltre, presentavano in ogni caso un valore nominale. Uno dei principali obiettivi che il legislatore della riforma si prefiggeva era quello di ampliare i canali di finanziamento delle società; in tale ottica, la nuova disciplina demanda allo statuto sociale la possibilità di emettere azioni prive di valore nominale (art. 2328, comma 2, art. 2346, commi 2 e 3 cod. civ.); la facoltà di determinare liberamente il contenuto (patrimoniale e amministrativo) delle azioni, potendosi, tra l’altro, emettere azioni con diritto di voto anche limitato a certi argomenti ovvero subordinato al verificarsi di condizioni non meramente potestative (art. 2348, comma 2, cod. civ.)45 nonché strumenti finanziari dotati di diritti patrimoniali e amministrativi (art. 2346, comma 6)46; la facoltà di derogare al principio della stretta corrispondenza tra capitale conferito e azioni attribuite al socio, fermo restando che il valore dei conferimenti non può complessivamente essere inferiore al capitale sociale (art. 2346, comma 5, cod. civ.). Per di più, la riforma societaria rende rilevante in ambito societario il controllo congiunto derivante da patti parasociali che, come si è già visto, era stato eliminato dal TUB. Il D.lgs. 6 febbraio 2004, n. 37, recante “modifiche ed integrazioni ai decreti legislativi numeri 5 e 6 del 17 gennaio 2003, recanti la riforma del diritto societario, nonché al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo n. 385 del 1° settembre 1993, e al testo unico dell’intermediazione finanziaria di cui al decreto legislativo n. 58 del 24 febbraio 1998” interviene per ! 45 La dottrina ha, in considerazione di tale disposizione, messo addirittura in discussione l’esistenza di azioni ordinarie, queste caratterizzandosi per la loro intrinseca atipicità. In ogni caso, l’art. 2351, comma 2, cod. civ., prevede che il valore complessivo delle azioni senza diritto di voto, con diritto di voto limitato a certi argomenti ovvero subordinato al verificarsi di condizioni non meramente potestative non possa superare il 50 per cento del capitale sociale. ! 46 In ogni caso, gli strumenti finanziari in parola non possono essere dotati del diritto di voto nell’assemblea generale (art. 2346, comma 6). Possono, però, essere dotati del diritto di voto su specifici argomenti (art. 2351, comma 5). In questo modo lo strumento finanziario diviene “partecipativo, in quanto attribuisce diritti amministrativi che esulano dagli interessi di classe e che riguardano l’intera gestione sociale e proprio per questo trova posto nella (ri)definizione di partecipazione inserita nel testo unico bancario”, M. Albano, commento all’articolo 1, in (a cura di) F. Maimeri, Il coordinamento della riforma del diritto societario con i testi unici della banca e della finanza, Giuffrè, Milano, 2006, p. 11. !78 coordinare le due discipline47. Viene, in primo luogo, ampliato il concetto di partecipazione, ora definito come “le azioni, le quote e gli altri strumenti finanziari che attribuiscono diritti amministrativi o comunque i diritti previsti dall'articolo 2351, ultimo comma, del codice civile” (art. 1, comma 3, lett. h-quater) TUB, così come novellato dal D.lgs, 37/2004)48. Si ridefinisce, poi, la nozione di partecipazione rilevante come quelle che comportano il controllo della società nonché quelle “individuate dalla Banca d'Italia in conformità alle deliberazioni del CICR, con riguardo alle diverse fattispecie disciplinate, tenendo conto dei diritti di voto e degli altri diritti che consentono di influire sulla società” (art. 1, comma 2, lett. hquinquies) novellato). Alle soglie quantitative del 5 e del 10 per cento - oltre le quali la partecipazione diveniva rilevante e conseguentemente scattava l’obbligo di autorizzazione - il legislatore delegato aggiungeva, dunque, la soglia di carattere ! 47 Come si legge nella relazione illustrativa, p. 1, a seguito della riforma societaria si è posta la necessità di “modulare le novità introdotte dalla riforma codicistica con gli strumenti di garanzia e di controllo previsti nei citati testi unici. Ciò sotto un duplice angolo visuale: da un lato, ci si è posti il problema della compatibilità della riforma societaria con la specialità della disciplina riservata alle società esercenti attività bancaria e di quelle quotate nei mercati regolamentati, nell’ottica di verificare se tutti i nuovi istituti possano trovare applicazione anche nei settori speciali; dall’altro, sono stati disciplinate le norme di dettaglio con l’obiettivo di renderle compatibili con le innovazioni introdotte dalla riforma. La linea ispiratrice dell’attività posta in essere è stata quella di cercare di garantire il massimo grado di applicabilità della riforma del codice alle società bancarie ed a quelle quotate; ciò con il dichiarato obiettivo di offrire anche a queste imprese la possibilità di sfruttare a pieno le potenzialità di sviluppo e di incremento della competitività che la riforma ha inteso mettere a disposizione del mercato, attraverso la riduzione delle complessità e la maggiore duttilità delle forme societarie. […] La principale preoccupazione è stata quella di verificare se ed in quale misura le nuove forme di partecipazione societaria, svincolate dal tradizionale rapporto con il capitale sociale e dai conseguenti diritti partecipativi, tradizionalmente imperniati sul diritto di voto in assemblea, potessero impattare le previsioni limitative contenute nella normativa speciale, specie in tema di obblighi di comunicazione e di divieto di controllo. A tal proposito, si è dovuto tenere conto dell’insufficienza dei parametri identificativi attualmente esistenti, poiché espressi in termini meramente quantitativi, in rapporto percentuale al diritto di voto od al totale delle azioni emesse; concetti che, alla luce della vasta modulabilità degli strumenti partecipativi c.d. “ibridi”, introdotti dalla riforma finiscono per non essere più in grado di rilevare univocamente l’effettivo controllo e la rilevante influenza sulla gestione della società”. ! 48 L’art. 2351, u.c. prevede, come già accennato, che gli strumenti finanziari possano essere dotati del “diritto di voto su argomenti specificamente indicati e in particolare può essere ad essi riservata, secondo modalità stabilite dallo statuto, la nomina di un componente indipendente del consiglio di amministrazione o del consiglio di sorveglianza o di un sindaco”. !79 qualitativo della partecipazione rilevante49 (art. 19, comma 1, TUB, novellato); anzi, la soglia quantitativa, come rileva Sciumbata, era “declassata a norma residuale, ribaltando, così, l’ordine seguito dalla precedente redazione della norma”50, in quanto soccorreva solamente nel caso, che sarà nella pratica poco frequente, in cui la banca non avesse usufruito della possibilità di creare categorie di azioni atipiche ovvero di distribuirle in maniera non proporzionale ai conferimenti51. Seguendo i criteri dettati dal decreto - peraltro abbastanza flessibili, facendo riferimento, come detto, alla generica idoneità dei poteri attribuiti ad influire sulla società - la delibera CICR del 19 luglio 2005, n. 1057 chiariva all’art. 3, comma 2, che per partecipazione rilevante si doveva intendere: ! a) Il possesso a qualsiasi titolo di azioni, anche prive del diritto di voto, per un ammontare non inferiore al dieci per cento del capitale sociale b) Il possesso di una partecipazione superiore al 5 per cento di azioni che danno diritto di voto, anche condizionato, su uno o più argomenti attinenti a: modifiche dello statuto; approvazione dei bilanci; nomina, revoca o responsabilità degli organi amministrativi, di controllo, del revisore o della società di revisione; eventuali autorizzazioni richieste dallo statuto per atti degli amministratori; distribuzione degli utili. ! Nel caso di possesso di strumenti finanziari emessi da una banca, invece, l’art. 5 della delibera considerava sussistere una partecipazione rilevante nel caso in cui dalla partecipazione derivasse il potere di nominare componenti degli organi aziendali ovvero di condizionare scelte organizzative o gestionali di carattere strategico; si ! 49 L’intervento di coordinamento soppresse il riferimento, contenuto nell’articolo 19, co. 1, alla soglia di controllo (presente, invece, nella formulazione originaria). Tale rimozione era, però, solamente apparente, essendo stata ricompresa nella nozione di partecipazione rilevante di cui all’articolo 1, co. 2, lett. h-quinquies. ! 50 G. Sciumbata, Società, banche ed intermediazione finanziaria: norme di coordinamenti (D.lgs. 6 febbraio 2004, n. 37), Giuffrè, Milano, 2004, p. 38. ! 51 V. Albano, Commento all’art. 19, in Il coordinamento della riforma societaria con i testi unici della banca e della finanza, op. cit., pp. 86-91 !80 demandava, poi, alla Banca d’Italia il compito di individuare i criteri utili per l’individuazione della stessa. Ciò che risulta da questo complesso articolato è un ulteriore ampliamento delle possibilità di partecipazioni industriali nel capitale della banca, a condizione, però, che tale circostanza non infici la sana e prudente gestione dell’ente creditizio (come già detto, la regola della separatezza permane inalterata). Come scrive Lucarini, infatti: “tali nuove definizioni, con l’introduzione di nuovi strumenti partecipativi diversi dalle azioni, consentono […] alle imprese industriali di essere presenti nelle banche, esercitando diritti patrimoniali ed anche amministrativi, diversi dal diritto di voto in assemble, nonché quegli ulteriori diritti, la cui individuazione è rimessa alla fonte secondaria, attraverso i quali possono influire sulla società bancaria”52. Ulteriori modifiche al Testo Unico sono state apportate in seguito all’emanazione delle legge 28 dicembre 2005, n. 262, recante “disposizione sulla tutela del risparmio e la disciplina del mercato finanziario”. Per quanto qui maggiormente interessa, l’articolo 8 della legge sul risparmio va a modificare il già citato comma 4 dell’articolo 53; data la sua attuale vigenza, si rinvia alla successiva trattazione. ! ! 2.8. La direttiva 2007/44/CE. Considerazione introduttive. ! La direttiva 2007/44/CEE del 5 settembre 2007, inserendosi nel più ampio progetto di creazione di un diritto bancario europeo, intraprende definitivamente la strada dell’armonizzazione massima. Recante le “regole procedurali e criteri per la valutazione prudenziale di acquisizioni e incrementi di partecipazioni nel settore ! 52 Lucarini, La separatezza fra industria e banca: il punto di vista di un giurista, cit., p. 72. ! 53 Direttiva 92/49/CEE del 18 giugno 1992, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative riguardanti l’assicurazione diretta diversa dall’assicurazione sulla vita. 54 ! Direttiva 2002/83/CE del 5 novembre 2002 relativa all’assicurazione sulla vita. !81 finanziario”, essa va a modificare la direttiva 92/49/CEE53, 2002/83/CE54, 2004/39/ CE (la già citata dir. MiFID), 2005/68/CE55 e 2006/48/CE56. La filosofia di fondo adottata dal legislatore comunitario è stata, dunque, quella di incentivare la standardizzazione e la omogeneizzazione della disciplina del comparto finanziario, assicurando così il level playing field e la parità delle condizioni operative dei soggetti operanti nel settore. Determinanti in tale scelta sono stati senza dubbio i risultati insoddisfacenti della precedente politica di armonizzazione ! 55 Direttiva 2005/68/CE del 16 novembre 2005 relativa alla riassicurazione. ! 56 Direttiva 2006/48/CE del 14 giugno 2006, relativa all’accesso all’attività degli enti creditizi ed al suo esercizio. !82 minima57 e delle relative disomogeneità riscontrate, come già detto, nelle disciplina nazionali. Di conseguenza, gli Stati membri, nel recepire della direttiva, hanno dovuto attenersi esclusivamente alla disciplina comunitaria, senza poter in questo contesto optare per livelli di regolamentazione più o meno stringenti (lo sbarramento vale tanto in positivo quanto in negativo, salvo, ovviamente, i casi in cui la direttiva stessa preveda una deroga in tal senso). In ambito comunitario, si parla in questo senso di divieto di gold plating, cioè a dire il divieto di trasporre in maniera poco ! 57 Come osservato nel precedente capitolo, in vigenza del principio di armonizzazione minima il pericolo di concorrenza al ribasso tra ordinamenti risulta essere consistente e con esso concreta è la possibilità di produrre regolamentazioni sub ottimali. Come nota il Presidente della Consob Giuseppe Vegas: “Un eccesso di protezione che aumenta i costi della regolazione può portare a uno spostamento delle attività di intermediazione finanziaria verso giurisdizioni più permissive e l’utilizzo del passaporto europeo consentire poi a intermediari ed emittenti di raccogliere risorse nel nostro paese rimanendo sottoposti agli standard di vigilanza del paese di provenienza. Vi è dunque il rischio che la competizione tra ordinamenti porti alla cosiddetta race-to-the-bottom nel disegno delle regole - e soprattutto nelle modalità interpretative e nelle prassi di vigilanza - in relazione agli spazi di autonomia che le direttive di settore hanno lasciato agli Stati membri. Si può cioè creare un gap competitivo fra i paesi tradizionalmente più rigorosi […] e altri paesi più inclini al recepimento e all’enforcement minimale delle norme europee”. Cfr. Indagine conoscitiva sul mercato degli strumenti finanziari - Audizione del presidente della Consob Giuseppe Vegas, 23 marzo 2011, Camera dei Deputati, VI Commissione (finanze). La politica dell’armonizzazione massima era stata sostanzialmente auspicata, già nel 2001, dalla relazione finale del Comitato Lamfalussy. Incaricato dalla Consiglio dell’Unione Europea di indagare su nuove tecniche legislative in campo finanziario - finalizzate a rafforzare l’integrazione dei mercati mobiliari, bancario e assicurativo - il Comitato propose il c.d. Lamfalussy process, tecnica legislativa composta da quattro livelli, corrispondenti a diversi livelli di implementazione. La relazione finale è consultabile all’indirizzo web: http:// ec.europa.eu/internal_market/securities/lamfalussy/index_en.htm. Per approfondimenti sul tema, si veda C. Brescia Morra, Le fonti del diritto finanziario in Europa e il ruolo dell’autoregolamentazione, Ente per gli studi monetari, bancari e finanziari Luigi Einaudi, in Quaderni di Ricerca, 44, 2003 e A. De Aldisio, Nuove regole sulle acquisizioni di banche: verso il tramonto della separatezza banca-industria?, in Banca impresa società, 2008, n. 1, pp. 3 ss. Il Lamfalussy process è stato negli ultimi tempi messo in discussione, avendo evidenziato alcuni limiti (essenzialmente strutturali) della politica di armonizzazione massima. In particolare, ciò che ostacola l’armonizzazione massima non è tanto il recepimento della produzione normativa di rango primario da parte dei singoli Stati membri, bensì le disomogenee interpretazioni e applicazioni che le diverse Autorità nazionali fanno della stessa. A questo scopo, è stato creato un complesso sistema di autorità di vigilanza comunitarie (ESRB, EBA, ESMA, EIOPA), cui è stato demandato il compito di stabilire regole tecniche - impossibili da includere nelle direttive - giuridicamente vincolanti per le Autorità nazionali. !83 fedele le direttive che adottano gli standard di armonizzazione massima, eccedendo i limiti della stessa.58 Coerentemente con quanto previsto dalla direttiva 2005/56/CEE del 26 ottobre 2005 relativa alle fusioni transfrontaliere delle società di capitali59, la direttiva in parola ha come obiettivo pratico quello di incentivare le concentrazioni cross-border in ambito finanziario nell’ottica di aumentare la competitività europea nei mercati internazionali. A tal fine, il legislatore europeo interviene sulla disciplina della valutazione prudenziale delle acquisizioni, da parte di persone fisiche o giuridiche, di una partecipazione qualificata in un ente creditizio, un’impresa di assicurazione, un’impresa di riassicurazione o un’impresa di investimento, predisponendo un quadro giuridico certo, chiaro e trasparente delle procedure e dei criteri che le Autorità di vigilanza devono adottare nell’approvazione di tali operazioni. Peraltro, in virtù dell’armonizzazione massima di cui sopra, a seguito di questo intervento legislativo la disciplina in materia diviene tendenzialmente uniforme per tutti i paesi membri. La direttiva si muove in due direzioni. In primo luogo, accogliendo una proposta dell’ECOFIN risalente al 2004, vengono fissati nuovi criteri per la valutazione prudenziale di azionisti ed esponenti aziendali; i suddetti criteri divengono quindi più chiari rispetto al passato ma non per questo analiticamente precisati, in alcuni casi non eliminando l’aleatorietà del principio della “sana e prudente gestione”60. In tale contesto, particolare attenzione è stata dedicata agli interventi rivolti a limitare la discrezionalità delle Autorità di vigilanza; la formulazione originaria dell’articolo 19 della dir. 2006/48/CE - conformemente all’indirizzo già adottato nelle precedenti direttive in materia bancaria - disponeva, infatti, che le Autorità competenti potevano ! 58 Si noti, peraltro, che il legislatore comunitario, in una altrettanto importante direttiva in campo finanziario - la dir. MiFID (Markets in Financial Instruments Directive) 2004/39/CEE - ha adottato la strada di un’armonizzazione “forte”, ma non massima. Da questa circostanza si intuisce la peculiarità e la delicatezza dei temi affrontati nella dir. 2007/44/CEE ! 59 Cfr. Costi, L’incidenza del diritto dell’unione europea sul diritto commerciale, in (a cura di) L.S. Rossi, G. di Federico, L’incidenza del diritto dell’unione europea sullo studio delle discipline giuridiche, Editoriale Scientifica, Napoli, 2008. ! 60 V. Vella, Le autorità di vigilanza: non è solo questione di architetture, in Imprese, investitori, crescita, tutele, interessi, Giuffrè, 2008, pp. 169-186. !84 non autorizzare l’operazione se la “qualità” dei soggetti coinvolti non fosse idonea ad assicurare la “sana e prudente gestione” (c.d. suitability). In questo modo era concesso ampio margine ai paesi membri nell’adottare criteri di valutazione non oggettivi, volti ad assicurare l’interesse particolare del paese (e non solo) e non quello “collettivo” dell’Unione61. A parere di molti, tale eccessiva discrezionalità ha rappresentato per lungo tempo il principale fattore deflattivo delle concentrazioni transfrontaliere nel settore finanziario62. Posta in questi termini, la questione si direbbe risolta con la non problematica precisazione dei criteri di autorizzazione; nell’impostazione della direttiva, però, emerge una ulteriore e contraria necessità: quella di preservare un certo grado di discrezionalità in capo all’Autorità sufficiente a che la stessa possa efficacemente vigilare sul sistema bancario. Non si dimentichi, infatti, che l’intero sistema di vigilanza prudenziale è essenzialmente diretto ad assicurare la sana e prudente gestione degli intermediari e la stabilità del mercato. ! 61 Si pensi a quanto accaduto nel nostro paese nel 2005, nell’ambito di quello che è stato successivamente definito dalla stampa caso bancopoli, che misero in luce la pericolosità del riferimento al principio, non altrimenti specificato, di sana e prudente gestione. In particolare, l’allora Governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio arrivò a declinare tale principio in termini di necessaria italianità dei candidati acquirenti, così respingendo le richieste di autorizzazione ex art. 19 inoltrate dall’olandese Abn Armo e dalla spagnola Banco Bilbao Vizcaya Argentaria (BBVA), interessate rispettivamente alle italiane Antonveneta e Banca Nazionale del Lavoro. Furono così favorite, nelle due scalate, le italiane Banca Popolare di Lodi (che poi cambierà in Banca Popolare Italiana) e Unipol, le cui qualità erano indubbie ma che certamente non erano in grado di competere con i due colossi stranieri. A seguito di tali fatti, il Governatore - che si sospettava avesse agito con finalità diverse da quelle della vigilanza e che nel frattempo aveva rassegnato le dimissioni fu sottoposto a due diversi procedimenti penali e successivamente condannato per aggiotaggio, insider trading e ostacolo alle funzioni di vigilanza. ! 62 Si veda in particolare De Aldisio, op. cit. p. 4, la quale cita il rapporto CEBS del 31 maggio 2005 Technical advice to the european commission on a review of article 16 fo directive 200/12/EC. In questo documento vengono rintracciati alcuni tra i maggiori ostacoli alla crescita delle concentrazione transfrontaliere in Europa, tra cui: il procedimento di autorizzazione delle operazioni; le differenze nei sistemi giuridici, fiscali e giuslavoristici; le abitudini dei consumatori; la struttura dei mercati locali; i diversi assetti di governo societario; il sistema di garanzia dei depositi. !85 Privare in toto le Autorità nazionali di tali prerogative significherebbe compromettere irrimediabilmente la loro capacità di assolvere la funzione loro demandata63. Un ulteriore elemento di complessità della disciplina derivava, poi, dall’esigenza di rendere la stessa coerente con le norme, contenute nella direttiva 2006/48/CE (c.d. dir. Licensing), relative all’autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria. Si voleva, cioè, evitare che l’attività bancaria potesse essere esercitata in maniera sostanzialmente illegittima, usufruendo dell’autorizzazione rilasciata - in circostanze probabilmente mutate - alla banca acquistata e così eludendo l’apposita disciplina attinente all’esercizio dell’attività bancaria. In tal senso, il considerando n. 3 della dir. 44/2007/CE sancisce testualmente che “La presente direttiva impedisce qualsiasi elusione delle condizioni iniziali di autorizzazione attraverso l’acquisizione di una partecipazione qualificata nel soggetto interessato, cui si riferisce il progetto di acquisizione”. Accanto alla definizione dei criteri di autorizzazione, la direttiva si occupa, infine, del profilo procedurale, disegnando un chiaro percorso per fasi che l’Autorità è tenuta a seguire quando chiamata ad effettuare tale tipo di valutazioni prudenziali. Elemento caratterizzante è, in particolare, la previsione di un termine massimo ! 63 Cfr. F. Vella, op. cit., il quale scrive a pag. 178: “è significativa la lettera scritta dai tre diversi comitati europei dei supervisori con la quale si mostra certo grande apprezzamento per la proposta di modifica che potrà favorire il consolidamento cross-border ma, con molta eleganza, si sottolinea l’esigenza che le Autorità abbiano il tempo necessario per valutare le acquisizioni, soprattutto quando queste riguardano intermediari di grandi dimensioni”. Sulla stessa scia, cfr. Banca Centrale Europea, Parere del 18 dicembre 2006, dove si invita il legislatore di provvedere affinché si garantisca “anche nel contesto di acquisizioni o di incrementi di partecipazioni qualificate, che la sana e prudente gestione dell’ente oggetto del progetto di acquisizione venga preservata”. Anche la giurisprudenza italiana ha affrontato la questione, affermando la “opportunità” della permanenza del principio di sana e prudente gestione; cfr. TAR Lazio, 9 agosto 2005, n. 6157, dove si specifica che “non sembra […] revocabile in dubbio […] che l’apprezzamento rimesso dalla legge alla Banca d’Italia in merito alla “sana e prudente gestione” (recte: alla compatibilità dell’operazione da autorizzare con la sana e prudente gestione del soggetto vigilato) sia riconducibile alla categoria delle valutazioni tecniche complesse, ossia a quel particolare tipo di giudizi implicanti “l’apprezzamento di una serie di elementi di fatto – definiti nella loro consistenza storica o naturalistica - in relazione fra di loro ed alla stregua di regole che […] non hanno il carattere di regole scientifiche, esatte e non opinabili, ma sono il frutto di scienze inesatte ed opinabili, di carattere prevalentemente economico”; il TAR, dunque, fa conseguire da queste considerazioni “il riconoscimento di un “potere di valutazione tendenzialmente riservato all’amministrazione” e l’esclusione di un sindacato giurisdizionale caratterizzato dalla possibilità di sostituzione della valutazione del giudice a quella effettuata dall’amministrazione”. !86 decorso il quale, se non intervenuta la decisione dell’autorità, il progetto di acquisizione deve ritenersi approvato. Come si legge nella Relazione della commissione del 11 febbraio 201364, gli obiettivi che la direttiva si prefiggeva sono stati in larga misura conseguiti; si è riscontrata, in particolare, una forte riduzione degli ostacoli alle acquisizioni nel settore finanziario e non sono state evidenziate rilevanti disparità di trattamento tra i vari Stati membri. Il numero di progetti di acquisizione notificati nel periodo 2008-2011 è aumentato a 10700, la maggior parte dei quali sono stati successivamente approvati65; si noti, però, che la stragrande maggioranza (l’84 per cento) di tali richieste è avvenuta in soli tre paesi (Gran Bretagna, Olanda, Germania). Ulteriore dato interessante è l’importante numero di acquisizioni effettuata ad opera del settore pubblico nel 2013; acquisizioni necessarie per preservare la stabilità dei mercati. ! ! 2.9. Segue: L’ambito di applicazione, le soglie autorizzative, le modalità di calcolo. ! L’art. 19 della direttiva 2006/48/CE, così come modificato dall’art. 5 della direttiva 2007/44/CE, prevede, dunque, che siano tenuti a richiedere l’autorizzazione quei soggetti (c.d. candidati acquirenti) che intendano, da soli o di concerto66, acquisire, ! 64 Relazione della commissione al parlamento europeo, al consiglio, al comitato economico e sociale europeo e al comitato delle regioni del 11 febbraio 2013, n. 64 sull’applicazione della direttiva 2007/44/CE. ! 65 Soltanto 50 acquisizioni (equivalente a meno dello 0,5 per cento del totale) sono state vietate mentre in 450 casi (4,5 per cento ca. del totale) le richieste di autorizzazione sono state ritirate. ! 66 La direttiva non contiene una definizione di “soggetti che agiscono di concerto”. Come ricorda De Aldisio, op. cit., l’art. 2, comma 1, lett d) della dir. 2004/25/CE (OPA) stabilisce che sono tali quelle “persone fisiche o giuridiche che cooperano con l'offerente o la società emittente sulla base di un accordo, sia esso espresso o tacito, verbale o scritto, e volto ad ottenere il controllo della società emittente o a contrastare il conseguimento degli obiettivi dell’offerta”. Tale definizione non è però molto utile ai nostri fini; essendo la definizione stata precisata dal D.lgs. 21/2010, si rinvia alla successiva trattazione. !87 direttamente o indirettamente, partecipazioni qualificate in “un’entità vigilata”, quando queste diano luogo: ! - Ad una partecipazione pari o superiore al 10 per cento del capitale o dei diritti di voto ovvero il superamento delle soglie del 20, 30 e 50 per cento. - Al controllo della banca, indipendentemente, in questo caso, dalla consistenza della partecipazione. - Ad una partecipazione inferiore al 10 per cento ma che dia la possibilità di esercitare un’influenza notevole sulla gestione. ! Con riguardo a quest’ultimo punto, il considerando numero 6 - dopo aver previsto la possibilità che gli Stati membri stabiliscano, a fini esclusivamente informativi, soglie inferiore - precisa che è demandato (testualmente, “non impedito”) alle Autorità di fornire criteri in basi ai quali valutare l’idoneità di una partecipazione inferiore al 10 per cento ad esercitare un’influenza notevole sulla gestione. Data la policy dell’armonizzazione massima, la previsione in parola impedisce comunque agli Stati membri di fissare soglie autorizzative di tipo generale inferiori a quelle stabilite dalla direttiva; ciò significa che le Autorità nazionali dovranno, una volta conosciuta l’intenzione di effettuare l’operazione, valutarla caso per caso, sulla base di alcuni indici non meglio precisati67, con ciò però mettendo a rischio la celerità della stessa. Ciò che è importante sottolineare in questa sede è che, senza smentire gli orientamenti precedenti, la direttiva non fa riferimento alcuno alla natura alternativamente industriale o finanziari - del soggetto tenuto a richiedere l’autorizzazione; l’elemento di diversità è però la già ampiamente discussa volontà di omogeneizzare in maniera totale le diverse legislazioni nazionali. Il legislatore comunitario sanciva, dunque, la definitiva disconnessione della disciplina delle ! 67 La successiva comunicazione della Banca d’Italia del 12 maggio 2009 - diffusa, come si dirà, per porre rimedio alla lacunosa opera di recepimento delle direttiva - elencherà, a titolo esemplificativo la possibilità di: designare uno o più esponenti negli organi di supervisione strategica o di gestione; condizionare scelte strategiche della società; esercitare poteri analoghi a quelli di una partecipazione che comporterebbe l’obbligo di preventiva autorizzazione. !88 partecipazioni da qualsiasi considerazione sulla qualificazione soggettiva del candidato acquirente. Continuando nell’analisi del complesso normativo, l’art. 12 delle direttiva 2006/48/ CE, modificato dalla direttiva 2007/44/CE, rimanda agli articoli 9 e 10 della direttiva 2004/109/CE68 per quanto riguarda le modalità di calcolo delle stesse nonché, per quanto riguarda le condizioni di aggregazione, all’articolo 12, paragrafi 4 e 5. Sostanzialmente, i diritti di voto sono calcolati in base a tutte le azioni che conferiscono diritti di voto, anche se il loro esercizio è sospeso: al numeratore devono essere incluse tutte le azioni che si intende acquisire mentre al denominatore tutte le azioni emesse. La dir. 2004/109/CE prosegue con diversi casi di esenzione: non sono presi in considerazione i diritti di voto detenuti da imprese di investimento o banche nell’ambito del servizio di sottoscrizione e/o collocamento con assunzione a fermo; non sono altresì presi in considerazione i diritti di voto inerenti alle azioni acquisite da parte di una impresa di investimento o di una banca quando agiscono in qualità di market maker (purché, in quest’ultimo caso, non si intervenga nella gestione della banca interessata né si eserciti alcuna influenza su quest’ultima al fine dell’acquisizione delle azioni o del sostegno del prezzo di esse). Ancora, non sono presi in considerazione i diritti di voto acquisiti esclusivamente ai fini di operazioni di compensazione e regolamento nel consueto ciclo di regolamento a breve mentre quelli detenuti nell’ambito del servizio di custodia non sono computati solo nel caso in cui gli esercenti detto servizio possano esercitare i diritti di voto esclusivamente secondo istruzioni fornite per iscritto o per mezzi elettronici. Infine, i diritti di voto detenuti da una società di gestione o da un’impresa di investimento nell’ambito della prestazione dei servizio di gestione collettiva del risparmio o si gestione di portafogli sono, a determinate condizioni69, computati separatamente. ! 68 Direttiva 2004/109/CE del 15 dicembre 2004, sull’armonizzazione degli obblighi di trasparenza riguardanti le informazioni sugli emittenti i cui valori mobiliari sono ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato. ! 69 Quando: a. Il soggetto che detiene i diritti di voto esercita gli stessi in maniera indipendente rispetto al soggetto controllante e ai soggetti appartenenti al suo gruppo; b. Nell’ambito del servizio di gestioni di portafogli, i diritti di voto sono esercitati secondo le istruzioni impartite per iscritto o mediante mezzi elettronici dai clienti. !89 Le guidelines precisano che il sistema autorizzativo trova applicazione anche nel caso, già menzionato, di acquisito di concerto, nel caso di superamento involontario di una delle soglie nonché nel caso di una diminuzione della partecipazione; di conseguenza, i soggetti coinvolti in tali operazioni sono tenuti a inoltrare immediatamente la richiesta di autorizzazione. In particolare, l’appendice I delle guidelines precisa che una soglia può essere oltrepassata involontariamente alternativamente quando l’istituzione finanziaria riacquisti azioni prima detenute da soggetti terzi ovvero nel caso di aumento di capitale non sottoscritto da una parte dei soci; in tali eventualità, i soggetti interessati devono in ogni caso informare immediatamente l’Autorità, anche se intenzionati a ridurre la partecipazione70. In ambito internazionale, poi, si discute molto dei contingent convertible capital (CoCo), strumenti obbligazionari, recentemente molto utilizzati dalle banche (la prima banca ad emetterli è stata Lloyds’ Banking Group, nel novembre 2009). I CoCos sono caratterizzati dal fatto che, perché possano (o debbano) essere convertiti in capitale azionario, il valore del sottostante debba raggiungere (pre)determinati parametri; la natura di tali parametri è, però, da valutare attentamente, potendo gli stessi, in taluni casi, essere facilmente manipolati dai manager. In ogni caso, tali strumenti possono costituire un efficace mezzo di ricapitalizzazione; per questo motivo è stato proposto, nell’ambito del Comitato di Basilea, che tali strumenti vengano, al verificarsi di determinate situazioni di difficoltà finanziarie della banche, obbligatoriamente convertiti. In questo contesto, il CICR ha prospettato l’ipotesi che l’emissione di CoCos venga previamente autorizzata dalla Banca d’Italia, al fine di “consentire all’Autorità una valutazione preventiva e ponderata della qualità dei possibili soci, in un momento diverso da quello in cui la banca si trova in difficoltà e, quindi, scatta la conversione. La scelta dell’Autorità di vigilanza in questo caso, ! 70 Il d.m. n. 675/2011 prevede, all’articolo 6, che, con riguardo al caso di acquisto involontario, la Banca d’Italia individui il momento in cui l’autorizzazione deve essere richiesta. Come si legge nella relazione illustrativa, l’attribuzione è “volutamente generica perché mira a ricomprendere sia i casi in cui l’evento involontario comporta, per la sua natura, che l’autorizzazione sia richiesta solo successivamente al momento in cui l’evento si è verificato, sia i casi in cui è possibile e opportuno che il vaglio sulla qualità del potenziale acquirente sia effettuato in un momento precedente”. !90 infatti, sarebbe condizionata dall’esigenza contingente della banca di rafforzarsi sul piano patrimoniale”71 ! ! 2.10. Segue: I criteri di valutazione. ! Come già accennato, il nucleo dell’intervento legislativo in parola è la previsione di un elenco tassativo di criteri in base ai quali le Autorità dovranno valutare - con onere della prova a carico del soggetto richiedente l’autorizzazione - la qualità del candidato acquirente e la solidità finanziaria dell’acquisizione; ciò nell’ottica di “garantire la gestione sana e prudente dell’ente creditizio cui si riferisce il progetto di acquisizione e tenendo conto della probabile influenza del candidato acquirente sull’ente creditizio” (art. 19-bis direttiva 2006/48 introdotta dalla direttiva 2007/44). E’ bene riportarli integralmente: a. La reputazione del candidato acquirente; b. La reputazione e l’esperienza di tutte le persone che, in esito alla prevista acquisizione, determineranno l’orientamento dell’attività dell’ente creditizio; c. La solidità finanziaria del candidato acquirente, in particolare in considerazione del tipo di attività esercitata e prevista dall’ente creditizio cui si riferisce il progetto di acquisizione; d. La capacità dell’ente creditizio di rispettare e continuare a rispettare i requisiti prudenziali. In particolare il fatto che il gruppo di cui diventerà parte disponga di una struttura che permetta di esercitare una vigilanza efficace, di scambiare effettivamente informazioni tra le autorità competenti e di determinare la ripartizione delle responsabilità tra le autorità competenti72; ! 71 C. Brescia Morra, Commento all’art. 19, op. cit., p. 251. Cfr. inoltre Calomiris, Herring, Why and how to design a contingent convertible debt requirement, aprile 2011, in ssrn.com. ! 72 Come nota De Aldisio, op. cit., tale requisito diventa di primaria importanza nel momento in cui del gruppo fanno parte società con sede in paesi extra comunitari, circostanza che non permette un’attenta vigilanza su base consolidata. !91 e. L’esistenza di ragionevoli motivi per sospettare che sia in corso o abbia avuto luogo un’operazione o un tentativo di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo. ! Il paragrafo 3 dell’articolo 19-bis, precisa, infine, che non possono essere previste condizioni attinenti al livello della partecipazione da acquisire e che le Autorità non possono tenere conto, nell’esaminare il progetto di acquisizione, delle esigenza economiche del mercato. Le guidelines73 elaborate congiuntamente dal CEBS, dal CEIOPS e dal CESR, precisano - attraverso l’indicazione di orientamenti ovviamente non vincolanti - le modalità di applicazione dei principi summenzionati che dovrebbero ispirare le diverse Autorità nazionali nell’esercizio delle funzioni di vigilanza prudenziale loro demandate. Per quanto riguarda il primo dei cinque criteri, questo - come d’altronde si desume dall’ottavo considerando della direttiva74 - presuppone la verifica da parte dell’Autorità dell’integrità e della competenza professionale del candidato acquirente; meglio, almeno in tema di integrità, presuppone la verifica dall’assenza di determinate circostanze (“negative records”) la cui sussistenza lascia presumere, ! 73 The Committee of European Banking Supervisors (CEBS), the Committee of European Insurance and Occupational Pensions Supervisors (CEIOPS) and the Committee of European Securities Regulators (CESR) joint guidelines for the prudential assessment of acquisitions and increases in holdings in the financial sector as required by Directive 2007/44/EC. ! 74 Il considerando n. 8 recita infatti: “Per quanto riguarda la valutazione prudenziale, il criterio della reputazione del candidato acquirente presuppone la verifica dell’esistenza di eventuali dubbi sull’integrità e sulla competenza professionale del candidato acquirente, e della loro fondatezza; i dubbi possono essere dovuti, ad esempio, alla sua condotta professionale passata. La valutazione della reputazione è di particolare importanza se il candidato acquirente è un soggetto non regolamentato, ma dovrebbe essere agevolata qualora l’acquirente sia autorizzato e sottoposto a vigilanza all’interno dell’Unione europea”. Questo passaggio della direttiva è di fondamentale importanza, segnando la definitiva scomparsa di qualsiasi riferimenti alla natura industriale del candidato acquirente; come scrive Antonucci, Diritto delle banche, cit., p. 209, infatti, “con la direttiva muta il punto di osservazione di potenziali criticità derivanti dall’industrialità del candidato acquirente, che si inserisce nel diverso discrimine fra soggetti vigilati o non vigilati da autorità del mercato finanziario europee, privilegiandosi la posizione di soggetti già conformati secondo regole e parametri omogenei finalizzati ad una gestione sana e prudente. E’ l’estraneità a questo circuito che segna la differenza, accomunando imprese industriali e imprese finanziarie non assoggettate a disciplina armonizzata”. !92 dopo un accertamento da condurre caso per caso e fino a prova contraria, la untrustworthiness del candidato. Ora, le normative nazionali differiscono sulla individuazione di tali circostanze. Al fine di assicurare un trattamento uniforme ai soggetti operanti in diversi paesi, la relazione, dunque, ne indica - in maniera, si ripete, non vincolante - alcuni: la presenza di una condanna o di un procedimento penale75; l’aver mancato di trasparenza, correttezza e collaborazione nelle operazioni compiute precedentemente; eventuali precedenti dinieghi di autorizzazioni, licenze, registrazioni; licenziamento da un posizione apicali di responsabilità. Le guidelines precisano, poi, che il principio di integrità deve essere applicato a prescindere dalla consistenza della partecipazione per la quale la richiesta di autorizzazione è stata inoltrata. Le competenze professionali, invece, devono essere intese come quelle manageriali e quelle tecniche; la rilevanza delle stesse nella valutazione prudenziale dovrà essere ponderata tenendo conto dell’influenza che il soggetto candidato presumibilmente eserciterà sulla società target. Il criterio di valutazione cui alla lett. b. si applicherà solo quando il soggetto candidato si ritrovi, a seguito dell’acquisizione, in una posizione tale da poter nominare nuovi soggetti al vertice dell’istituzione finanziaria ovvero li abbia già individuati; il criterio in parola, di conseguenza, non verrà in rilevo quando l’acquisizione non comporta la nomina di tali nuovi soggetti. L’Autorità, dunque, dovrà, nel primo caso, procedere alla valutazione della loro reputazione e esperienza, opponendosi all’operazione nel caso di riscontro negativo. Con riguardo al terzo criterio, le guidelines si preoccupano, in primo luogo, di chiarire che esso debba essere valutato in relazione alla natura dell’acquirente e dell’acquisizione; in particolare, bisogna distinguere - al fine di determinare il peso del criterio nella valutazione complessiva - tra il caso in cui l’operazione comporti un trasferimento del controllo dal caso in cui questo non si verifichi. Poi, onde evitare interpretazioni discordanti, si precisa che per “stabilità finanziaria del candidato ! 75 In particolare, i reati cui bisogna dare maggiore rilevanza sono quelli commessi in ambito bancario, finanziario, assicurativo; quelli concernenti strumenti di pagamento e mercati regolamentati; quelli di manipolazione del mercato, insider trading, riciclaggio, usura, bancarotta fraudolenta; quelli commessi a danno dei consumatori. !93 acquirente” si deve intendere la sua capacità di portare utilmente a termine l’operazione e di mantenere, una volta effettuatala e in una prospettiva di medio termine, un’adeguata struttura finanzidaria; con una disposizione di particolare importanza, infine, viene sancito che l’Autorità debba tenere specialmente in conto “wheter […] existing financial relationships between the acquirer and the target financial institution could give rise to conflicts of interest that could destabilise the financial structure of the target financial institution” (punto n. 61). Ciò nell’ottica, plasmante l’intera direttiva, di assicurare la sana e prudente gestione dell’istituzione finanziaria e di evitare che si verifichino - nel mentre dell’operazione o successivamente - difficoltà finanziarie. Come si legge nella già citata relazione della commissione n. 64, però, l’applicazione del criterio in parola nei diversi stati membri si è rivelata essere disomogenea. In particolare risulta poco chiara la valutabilità della solvibilità del candidato acquirente secondo questo criterio; inoltre, vi sono interpretazioni discordanti con riguardo all’uso di fondi propri o di fondi di credito. Il criterio di cui alla lettera d. ha, poi, come obiettivo quello di assicurare la perdurante compliance delle regole di vigilanza prudenziale. L’autorità deve, cioè, valutare76, l’impatto che l’acquisizione ha sulla capacità dell’istituzione target di rispettare i requisiti comunitari; principalmente: una vigilanza efficace, un effettivo flusso informativo e una chiara ripartizione delle competenze. Ciò, in particolare, quando l’operazione ha come conseguenza un mutamento del controllo. Con riguardo al quinto criterio - preordinato ad evitare che l’acquisizione faccia parte di un più ampia operazione di riciclaggio o finanziamento del terrorismo - le linee guida rimandano alla disciplina di settore sviluppata dal Financial Action Task Force (FATF) - Groupe d’Action Financière (GAFI). Per concludere, c’è da dire che, in verità, la direttiva licensing contiene - nell’ambito della disciplina sull’autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria - due ulteriori criteri, non menzionati nella 2007/44: da un lato, la sostenibilità del piano industriale ! 76 La valutazione andrà effettuata tenendo conto non solo di dati oggettivi (partecipazione da acquisire, struttura del gruppo, liquidità, esposizione al rischio), ma anche delle “acquirer’s declared intentions towards the target institutions expressed in its strategy (business plan)” (punto n. 70). !94 e, dall’altro, l’adeguatezza dell’assetto di governo societario di cui la banca frutto dell’acquisizione sarà dotata. L’omissione non è, però, da ricondurre ad una svista del legislatore: è, infatti, da ritenersi che, come evidenziato da molta dottrina, tali indici siano sottintesi a quelli di autorizzazione all’acquisizione.77 Un ulteriore interessante profilo, ad oggi oggetto di vivace discussione nell’ambito del dibattito sulle misure anti crisi, è l’opportunità di introdurre nella direttiva una criterio esplicito che consenta alle Autorità di valutare l’impatto dell’acquisizione sulla stabilità dei mercati finanziari. Una previsione del genere è, peraltro, già contenuta nel Dodd-Frank Act; come si legge nella relazione della Commissione n. 64, però, “la stabilità finanziaria è implicitamente presa in considerazione nei criteri di valutazione della direttiva. In particolare, i criteri della solidità finanziaria del candidato acquirente e della conformità ai requisiti prudenziale comprendono implicitamente la valutazione dei rischio per la stabilità finanziaria, in quanto entrambi i criteri contengono un elementi orientato al futuro”. ! ! 2.11. Segue: Profili procedurali. ! La direttiva si occupa poi, all’art. 19, della assessment procedure. Il punto n. 18 delle guidelines assoggetta tanto le procedure di valutazione quanto la composizione delle informazioni necessarie al principio di proporzionalità. Con riguardo a quest’ultimo punto, in particolare, il numero e il tipo di documenti da allagare alla richiesta (e dunque, la sua onerosità) può significativamente variare a seconda della particolare natura dell’acquirente o della transazione, dei coinvolgimenti dell’acquirente nella ! 77 Come scrive De Aldisio, op. cit., p. 13, “si può ritenere che la presentazione di un piano industriale ragionevole e coerente […] sia implicitamente necessaria poiché la valutazione del rispetto dei requisiti prudenziali […] non può che partire dal piano industriale predisposto per la banca risultante dall’acquisizione e dalle previsioni economico-finanziarie e patrimoniali ivi contenute. […] In merito all’introduzione di un criterio relativo all’adeguatezza dell’assetto di governo societario, si può osservare che il richiamo al rispetto di tutti i requisiti prudenziali […] comprende anche l’art. 22 della direttiva 2006/48/CE, relativo alla necessità di un governo societario efficiente […]. Del resto, il governo societario rappresenta un elemento essenziale per la gestione sana e prudente di una banca” !95 gestione dell’istituzione finanziaria o, ancora, della consistenza della partecipazione da acquisire. C’è da dire che l’applicazione del principio - che spesse volte si rivela discordante nei diversi paesi membri - risente della mancanza di una definizione dello stesso a livello primario. Sinteticamente, il candidato acquirente ha l’onere di notificare prontamente all’Autorità l’intenzione di effettuare l’operazione78, allegando alla stessa tutti i documenti utili affinché la valutazione possa essere efficacemente e celermente svolta. Entro due giorni dalla data di ricevimento dell’istanza, l’Autorità di vigilanza invia al candidato la comunicazione di inizio del procedimento; entro lo stesso termine deve rendere noto al candidato eventuali irregolarità o mancanze nella documentazione trasmessa, invitandolo a produrre i documenti necessari79. Il termine per la decisione sull’istanza - come già detto di tipo perentorio, essendo previsto che il mancato rispetto dello stesso equivale ad approvazione (silenzio-assenso) - è di 60 giorni; termine, peraltro, sospeso - una sola volta, per un massimo di venti giorni lavorativi - nel caso in cui l’Autorità debba richiedere integrazioni o ulteriori informazioni al candidato. Diversamente, il termine non è sospeso quando l’Autorità effettua accertamenti ispettivi ovvero quando acquisisce pareri, anche non obbligatori; la mancata tempestiva ricezione può, però, costituire elemento perché l’Autorità si opponga all’operazione. L’art. 19-ter, poi, prevede meccanismi di ! 78 La disciplina delle comunicazioni contenuta nella direttiva è, a dire la verità, abbastanza scarna. L’articolo 19, par. 1, come sostituito dall’articolo 5 della direttiva 2007/44/CE, si limita a stabilire che (gli Stati membri prevedano che) qualsiasi persona fisica o giuridica che abbia “deciso” di acquisire, anche di concerto, direttamente o indirettamente, una partecipazione qualificata in un ente creditizio, ne dia comunicazione per iscritto all’Autorità competente; tale obbligo sussiste anche nel caso in cui il candidato acquirente abbia intenzione di “aumentare ulteriormente” la partecipazione, in modo tale che la quota dei diritti di voto o del capitale raggiunga o superi le soglie del 20, 30 e 50 per cento ovvero abbia deciso che l’ente creditizio diventi una sua “impresa figlia”. Ai sensi dell’articolo 20, poi, la comunicazione è dovuta anche in caso di variazione in diminuzione. Sono, queste, disposizioni per le quali non vale la regola dell’armonizzazione massima: il quindicesimo considerando, infatti, concede agli Stati membri di prevedere regole più restrittive; possibilità, questa, di cui l’Italia, come si vedrà, ha usufruito, prevedendo, all’articolo 20 TUB soglie inferiore di quelle appezza menzionate. ! 79 Ancora, la relazione n. 64 evidenzia la diversa funzione che l’avviso di ricezione della notifica riveste nella prassi delle diverse Autorità; infatti, “in alcuni Stati membri è considerati una conferma ufficiale che non implica alcuna valutazione della documentazione ricevuta, in altri Stati membri l’avviso è emesso dopo che le autorità nazionali di vigilanza hanno esaminato che le informazioni fornite nei documenti pervenuti siano completi”. !96 consultazione tra Autorità di diversi Stati membri, che entrano appunto in funzione quando l’operazione coinvolge simultaneamente soggetti appartenenti a diversi Stati membri; ferma restando la competenza dell’Autorità di vigilanza della banca target, si stabilisce che le Autorità interessate si scambino “senza indebiti ritardi, tutte le informazioni essenziali o pertinenti per la valutazione” e che la decisione finale tenga conto delle opinioni e delle riserve espresse dalle altre Autorità.80 Esaurito il procedimento istruttorio e valutativo, l’Autorità di vigilanza potrà opporsi al progetto di acquisizione se, esclusivamente sulla base dei suddetti criteri, vi siano ragionevoli motivi per farlo ovvero nel caso in cui le informazioni fornite dal candidato siano, nonostante il dovuto invito trasmesso dall’Autorità perché ne produca di nuovi, insufficienti. Da notare, dunque, che viene meno la regola della suitability: l’Autorità non può più negare l’autorizzazione a seguito di un semplicistico giudizio sulla qualità del candidato acquirente e sulla sua idoneità a garantire una sana e prudente gestione dell’ente creditizio. ! ! 2.12. Il recepimento della Direttiva in Italia. ! Il termine ultimo per il recepimento della direttiva era fissato al 21 marzo 2009. Il 21 gennaio 2009 il Parlamento procedeva, con la legge 28 gennaio 2009, n. 2, a convertire il D.lgs. 185/2008; provvedimento, questo, che si inseriva in un più ampio progetto anti-crisi. In una sedes materiae non propria - il provvedimento recava ! 80 Sul punto, si veda più ampiamente De Aldisio, op. cit., pp. 14-16. L’autrice, in particolare, ricorda l’opinione espressa dal CEBS nel 2005, secondo il quale non sarebbe stato possibile applicare la regola del mutuo riconoscimento ai casi in esame: “la valutazione della qualità dell’acquirente è infatti effettuata in due stadi: nel primo stadio, la qualità dell’acquirente è apprezzata in sé, in termini di fit and proper test; nel secondo stadio la qualità dell’acquirente è esaminata non in assoluto, ma in relazione alla banca nella quale il soggetto intende acquisire una partecipazione e riguarda soprattutto la capacità finanziaria di sostenere lo sviluppo della banca acquisita. Nel secondo stadio, la valutazione della qualità dell’acquirente dovrà quindi tener conto delle dimensioni e della complessità operativa della banca acquisita e non potrà che essere effettuata dall’autorità di vigilanza della banca target. […] Per giungere al mutuo riconoscimento sarebbe necessaria la piena armonizzazione della normativa in tema di requisiti di onorabilità esistente nei vai paesi, che appare invece molto diversa” !97 “misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e imprese e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale -, dunque, si inseriva l’articolo 14, preordinato, come si evince anche dalla rubrica dello stesso, ad attuare nell’ordinamento nazionale la direttiva 2007/44. La disposizione interveniva sull’articolo 19 del TUB, abrogandone i commi 6 e 7 e sopprimendo all’art. 8-bis introdotto dalla legge 310/2004 - il riferimento al comma 6. In questo modo, era finalmente data la possibilità ai soggetti che, anche attraverso società controllate, svolgessero attività industriale di superare la soglia del 15 per cento del capitale della banca; meglio, era loro concesso di richiedere l’autorizzazione per l’assunzione di tali partecipazioni. Il risultato di questo intervento fu immediatamente criticato, essendo giudicato fortemente incoerente con il tessuto normativo complessivo e lacunoso nell’opera di recepimento. In primo luogo, il comma 1 dell’articolo 14, dopo aver eliminato il principio di separatezza, continuava disponendo che “ai soggetti che, anche attraverso società controllate, svolgono in misura rilevante attività d'impresa in settori non bancari né finanziari l'autorizzazione prevista dall'articolo 19 del medesimo decreto legislativo è rilasciata dalla Banca d'Italia ove ricorrano le condizioni previste dallo stesso articolo e, in quanto compatibili, dalle relative disposizioni di attuazione”; disposizione, questa, di cui - a ragione - si dubita dell’utilità, dato il suo forte profilo tautologico: l’eliminazione dei limiti partecipativi posti ai soggetti industriali non potrebbe in nessun modo significare che a questi non si continui ad applicare la disciplina prevista in via generale per tutti i partecipanti. Inoltre, “con riferimento a tali soggetti deve essere accertata la competenza professionale generale nella gestione di partecipazioni ovvero, considerata l'influenza sulla gestione che la partecipazione da acquisire consente di esercitare, la competenza professionale specifica nel settore finanziario”. A tal fine, era, poi, concesso alla Banca d’Italia il potere di chiedere ai soggetti suindicati qualsiasi informazione utile per la conduzione della valutazione. Non fu necessario molto tempo perché in dottrina si evidenziassero gli effetti deleteri di una tale previsione. Infatti, il richiedere una pregressa esperienza nel settore finanziario a soggetti ai quali !98 era, fino ad allora, precluso operare in questo campo rischiava di rendere vana la soppressione dei commi 6 e 7 e con essa il tentativo di ricapitalizzazione gli enti creditizi. Ad una più attenta analisi, quella a cui si poteva paradossalmente arrivare era una situazione in cui soggetti industriali stranieri, cui era già da tempo data la possibilità di accumulare esperienza in campo finanziario, fossero favoriti rispetti ai soggetti italiani. Per questi motivi, la previsione sarà abrogata ad opera delle disposizioni transitorie del D.lgs. 27 gennaio 2010, n. 21, di cui si tratterà più avanti. La scadente fattura redazionale della disposizione, insieme ad una certa confusione del legislatore, poneva diversi problemi interpretativi. In primo luogo, non si rinveniva alcuna precisazione dell’ambito oggettivo di applicazione della norma: la valutazione dell’Autorità si rendeva necessaria in ogni caso in cui un soggetto industriale intendesse acquisire partecipazioni in una banca oppure solamente quando fossero superate le soglie di cui ai commi precedenti? Il dato letterale non poteva che portare l’interprete a scegliere la prima soluzione, in questo modo rendendo incoerentemente con la stessa ratio dell’intervento - estremamente gravosa la partecipazione dell’industria nelle banche. Ancora, cosa bisognava intendere per “competenza professionale generale” e per “competenza specifica nel settore finanziario”? Mancava nella legge tanto una specificazione di tali concetti quanto un rinvio ad altre norme (ad esempio ai requisiti di professionalità, onorabilità e indipendenza di cui all’articolo 26 TUB). Si riproponeva, dunque, il pericolo che l’Autorità, nell’effettuare tali valutazioni, potesse ancora una volta operare scelte eccessivamente discrezionali, così ponendo un’ulteriore ostacolo all’afflusso di capitali nel settore creditizio. Si aggiunga, infine, che l’opera di recepimento della norma comunitaria si presentava lacunosa sotto almeno due profili, soggettivo e oggettivo. In primo luogo, non si estendeva la novella alle partecipazioni in imprese assicurative e finanziarie, come invece previsto dalla direttiva. In secondo luogo, vi erano numerose previsioni di cui ancora mancava una trasposizione nell’ordinamento nazionale (ad esempio, l’innalzamento della soglia del 5 per cento al 10 per cento). !99 In considerazione di questo frammentato e incoerente quadro normativo, il 12 maggio 2009 l’allora Governatore della Banca d’Italia emanava un provvedimento avente ad oggetto la “direttiva 2007/44/CE in materia di acquisto di partecipazioni qualificate in banche, assicurazioni e imprese di investimento”. Il provvedimento esordiva affermando, a dispetto della rubrica dell’articolo 14 della legge 2/2009, il mancato recepimento della direttiva nell’ordinamento nazionale: “il recepimento della direttiva nell’ordinamento italiano - che avrebbe (corsivo dell’autore) dovuto essere realizzato entro 21 marzo scorso - richiede la modifica di alcune disposizioni dei Testi unici bancario e della finanza”. La Banca d’Italia, dunque, “illustrava” la nuova disciplina di derivazione comunitaria, da ritenersi applicabile, a partire dalla scadenza del termine di recepimento della direttiva, anche se in contrasto o non prevista dalla disciplina nazionale; ciò in considerazione del fatto che “la direttiva reca disposizioni di dettaglio, chiare e precise, nella determinazione dei diritti e degli obblighi in capo ai soggetti che ne sono destinatari”. Il Provvedimento dichiara, in primo luogo, inapplicabile l’articolo 19, comma 1, TUB, nella parte in cui sancisce la necessità della preventiva autorizzazione per l’assunzione (da chiunque effettuata) di partecipazioni superiori al 5 per cento del capitale di una banca. In forza di quanto previsto dalla direttiva, poi, si precisa che la soglia del 5 per cento rimane ferma ai fini informativi, dovendo il superamento della stessa essere comunicato all’Autorità ex art. 20, comma 1, TUB. Si sofferma, poi, sulle già accennate modalità di calcolo delle partecipazioni, sulla procedura di autorizzazione nonché sui criteri per la valutazione dell’istanza; con riguardo a quest’ultimo argomento, in particolare, specifica che in ambito nazionale la “reputazione del candidato acquirente” include il possesso dei requisiti di onorabilità di cui all’articolo 25, comma 1 TUB, la correttezza nei comportamenti e nelle relazioni di affari e la competenza professionale mentre per “reputazione e esperienza degli esponenti aziendali” si intendono i requisiti onorabilità, professionalità e di indipendenza di cui all’articolo 26 del TUB. Seppure resosi necessario in considerazione del fallimentare recepimento della direttiva, il provvedimento del Governatore pose non pochi problemi di !100 legittimazione e collocazione. Infatti, non si rinveniva nell’ordinamento alcuna norma che demandasse alla Banca d’Italia il potere di abrogare e/o modificare disposizioni di legge; l’intervento, dunque, si poneva in aperto contrasto con il tradizionale rapporto gerarchico tra fonti di rango primario e fonti di rango secondario. Scartata la possibilità che il provvedimento avesse natura normativa, restava, comunque, dubbia la sua qualificazione giuridica: interpretativa delle disposizioni contenute nella legge 2/2009 (ma, appunto, si dubitava dell’esistenza di un tale potere) oppure di indirizzo generale (e, in quanto tale, vincolante solamente per la Banca d’Italia)?81 ! ! 2.13. La disciplina vigente degli assetti proprietari delle banche. Ambito di applicazione. ! L’organico e definitivo recepimento della direttiva si è avuto solo nel 2010, con l’emanazione del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 21, che va a modificare per quanto qui interessa - il Capo III del Titolo II del TUB, fornendone, tra l’altro, la configurazione attualmente vigente82. Il complesso normativo va, peraltro, letto congiuntamente al decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze del 27 luglio ! 81 Come nota G. Rotondo, La nuova disciplina delle partecipazioni non finanziarie delle banche: ovvero prove di recepimento della direttiva 2007/44/CE, in Innovazione e diritto, Napoli, 2009: “sulla base delle categorie generali, sembrerebbe trattarsi di un atto di indirizzo generale, privo di potere normativo […] ma al contempo vincolante per la stessa Banca d’Italia in quanto pur sempre diretto alle articolazioni organizzative di un’amministrazione statale. […] Si potrebbe azzardare che non potendo più farvi ricorso (in seguito alla modifiche delle competenze e delle attribuzioni del Governatore apportate dalle legge sul risparmio, nda), il Governatore abbia optato per l’inedita via di una moral suasion formalizzata, per gestire una situazione di emergenza normativa” ! 82 L’assetto attuale della disciplina delle partecipazioni è, a dire il vero, caratterizzato da una forse eccessiva stratificazione normativa. Alla normativa comunitaria, che costituisce il quadro di riferimento, e alla disciplina nazionale di rango primario contenuta principalmente (ma non solo) nel TUB, si aggiunge una fitta disciplina amministrativa emanata delle Autorità di settore. Quest’ultima se, alle volte, ha funzioni semplicemente applicative e chiarificatrici, altre volte prevede discipline speciali (a seconda di particolari caratteristiche dei soggetti coinvolti e/o dell’operazione stessa), che vanno a complicare ulteriormente il quadro normativo di riferimento. !101 2011, n. 675, contenente le (temporanee, in quanto emanate in sostituzione del CICR) norme di attuazione della disciplina. Nel determinare l’ambito soggettivo della disposizione, la regola generale vuole che l’autorizzazione sia richiesta da tutti i soggetti che intendano effettuare un’operazione comportante il superamento delle soglie rilevanti. Sussistono, però, alcune eccezioni, tanto nel senso del mancato sorgere dell’obbligo in capo a soggetti, in linea teorica, tenuti alla richiesta, quanto nel senso del sorgere dell’obbligo in capo a soggetti che, invece, stando alla lettera dell’art. 19, non dovrebbero. Infatti, le Istruzioni, al Tit. II, Cap. 1, Sez. II, par. 2, esonerano da tale obbligo il MEF e - al chiaro fine di evitare una inutile duplicazione delle autorizzazioni - i soggetti che controllano banche o capogruppo, quando queste ultime intendano superare le soglie rilevanti in un’altra banca. Un’eccezione nel secondo senso è, invece, prevista dal Tit. II, Cap. 1, sez. IV, par. 2, delle Istruzioni e riguarda il caso, di cui si parlava poc’anzi, di dissociazione tra proprietà e diritto di voto. Il comma 4 dell’articolo 19 demanda, infatti, alla Banca d’Italia il compito di individuare i soggetti tenuti a richiedere l’autorizzazione quando, appunto, l’acquisizione comporti una dissociazione tra proprietà delle azioni e esercizio del diritto di voto. E’, dunque, previsto che, in tale eventualità, l’autorizzazione debba essere richiesta tanto dal proprietario delle azioni quanto dal titolare dei diritti di voto. Un duplice onere di richiesta è similmente previsto dal successivo par. 3 delle Istruzioni: nel caso di acquisizione per via indiretta, l’autorizzazione deve essere richiesta tanto dal soggetto che intende effettuare direttamente l’operazione quanto dal soggetto posto al vertice della catena partecipativa. In linea di principio, la disciplina delle autorizzazioni contenuta nell’articolo 19, TUB, è, poi, applicabile alle acquisizioni effettuate in qualsiasi banca. In pratica, invece, le partecipazioni in banche cooperative - caratterizzate da una disciplina con un alto grado di specialità - ne sono esenti; una veloce disamina delle principali caratteristiche delle banche cooperative chiarirà il motivo di questa esclusione. Dato il loro scopo mutualistico, ciascun socio di una banca cooperativa ha diritto ad un solo voto, indipendentemente dalla consistenza della partecipazione posseduta (è, !102 questa, la c.d. regola del voto capitario). La partecipazione è, peraltro, sottoposta a stringenti limiti quantitativi: per le banche popolari, non può eccedere lo 0,5 per cento del capitale sociale; per le banche di credito cooperativo non può superare mai il valore nominale di 50000 euro. Considerando che una banca cooperativa deve avere almeno 200 soci ed un capitale sociale non inferiore a 2 milioni di euro, è evidente che la partecipazione del singolo socio in una banca di credito cooperativo non potrà mai eccedere il 2,5 per cento del capitale sociale. Tanto nel caso delle banche popolari (per le quali il limite è addirittura esplicito) quanto nel caso delle banche di credito cooperativo, dunque, le soglie di cui all’art. 19 TUB non possono essere superate. L’unica, nel contesto italiano marginale, eccezione è prevista per le partecipazioni in banche popolari degli organismi di investimento collettivo in valori mobiliari, che possono essere - conformemente ai limiti previsti dalla disciplina di ciascuno di essi - superiori allo 0,5 per cento.83 Resta fermo il sistema di autorizzazioni preventive per acquisizioni “a qualsiasi titolo” di partecipazioni nella banca così individuata, quando queste comportino il superamento delle soglie rilevanti. Come già precedentemente notato, l’inciso “a qualsiasi titolo” comporta la rilevanza dei negozi traslativi della proprietà tanto a titolo oneroso (il contratto di compravendita), quanto a titolo gratuito (la donazione). Inoltre, rientrano in tale ambito anche i negozi che, non producendo il trasferimento della proprietà, comportano il passaggio della semplice detenzione (tipicamente: il pegno, l’usufrutto e il riporto); per quanto riguarda quest’ultimo punto, peraltro, dovranno essere fatte, nel corso della trattazione, alcune importanti specificazioni, rese necessarie dalla peculiarità del caso di dissociazione. In linea con quanto stabilito dalla direttiva 2007/44/CE e poi precisato nell’appendice I delle Joint Guidelines, l’articolo 22, comma 1-bis - inserito appunto dal D.lgs. 21/2010 - introduce nel nostro ordinamento il concetto di acquisto di concerto, ! 83 Tuttavia, come nota Benocci, Commento all’articolo 19, (a cura di) AA.VV., Testo unico bancario. Commentario, Giuffrè, Milano, 2012, pp. 197-198, “l’azionariato diffuso caratterizzante le banche cooperative potrebbe consentire anche a percentuali molto basse di assumere una rilevanza tale da rendere comunque presente una fattispecie rilevante di controllo o di influenza notevole: in questo caso, la richiesta di autorizzazione tornerebbe ad essere obbligatoria”. !103 anch’esso rilevante ai fini autorizzativi (nonché ai fini dell’applicazione delle restanti norme dei capi III e IV). Ricadono in tale ambito quelle operazione coinvolgenti soggetti i quali, sulla base di accordi in qualsiasi forma conclusi, si impegnano - fin dall’inizio o entro un anno dall’operazione, come precisato nel decreto n. 675 - ad esercitare i relativi diritti84 in modo concertato. Ciò sempre che - continua il comma 1-bis - il complesso di tali partecipazioni presenti i caratteri di cui all’art. 19, presto analizzati; caratteri che renderebbero necessaria l’autorizzazione nel caso di operazione effettuata da un singolo soggetto. A differenza di quanto previsto nel Testo Unico della Finanza, dunque, ciò che rileva non sono tanto caratteristiche oggettive dell’operazione bensì l’intenzione dei soggetti coinvolti: il momento soggettivo. Il riferimento alla intenzione - formalizzata in un accordo, seppure concluso in qualsiasi forma - comporta, poi, l’irrilevanza di un comportamento frutto di scelte e azioni poste in essere in maniera indipendente. La nozione di acquisto di concerto, insomma, ha tuttora contorni estremamente sfuggenti: è necessario individuare indici precisi della sua sussistenza.85 Un’ultima notazione. Quello dell’acquisto di concerto è l’unico caso - insieme al controllo derivante da contratto in cui il legislatore italiano, non usufruendo della possibilità concessa dalla direttiva di prevedere un sistema di autorizzazioni preventive alla stipula di patti parasociali, ha dato rilevanza ai detti patti; questi ultimi restano, in ogni caso, sottoposti alla disciplina di cui all’articolo 20 TUB, recante obblighi informativi.86 ! 84 La norma parla in modo generico di diritti relativi alla partecipazione. Ai fini dell’applicazione dell’articolo 19 si deve, però, ritenere che l’accordo intercorso tra i candidati acquirenti debba interessare esclusivamente i diritti amministrativi, relativi alla governance della banca; ciò in considerazione della finalità del sistema di autorizzazione, orientatati ad evitare la compromissione della gestione sana e prudente. Cfr. in tema Chiappetta, Commento all’articolo 22, in (a cura di) Capriglione, Commentario al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, op. cit. ! 85 Cfr. in tema ivi p. 283, che propone indici quali la “reitazione nel tempo dell’esercizio del diritto di voto nelle assemblee sociali” e “il parallelismo di comportamento”, quando fondato su “meccanismi facilitanti, quali lo scambio di informazioni”. Cfr. inoltre, Giudici, L’acquisto di concerto, in Riv. Soc., 2001, p. 490. ! 86 Per quanto riguarda gli acquisti involontari, anch’essi rilevanti ai fini del sorgere dell’obbligo di autorizzazione, si rinvia a quanto scritto a pag. 36. !104 Non viene, invece, modificata la disposizione di cui all’articolo 22, comma 1, concernente le partecipazioni in una banca acquisite o comunque possedute in via indiretta. La norma fa, dunque, riferimento al tramite di società controllate, società fiduciarie o persone interposte; risulta dunque necessario delineare con chiarezza i confini di queste nozioni. Posta l’esistenza, nelle varie discipline generali e speciali, di una pluralità di definizioni di società controllata, non sembra dubbio il fatto che con riguardo all’art. 22 TUB - ci si debba riferire esclusivamente alla nozione di controllo di cui al successivo articolo 23. Per quanto riguarda le società fiduciarie, queste sono quei soggetti, autorizzati con decreto ministeriale, che gestiscono e amministrano valori (immobili, valori mobiliari, conti correnti, partecipazioni societarie etc.) loro affidati dal fiduciante. Si realizza, attraverso un mandato fiduciario costituente il rapporto, una dissociazione tra proprietà dei valori, che spetta al fiduciante, e titolarità degli stessi, che è, invece, in capo alla fiduciaria; in ogni caso, il dominus sostanziale è il fiduciante, agendo la fiduciaria per conto di quest’ultimo. Una delle peculiarità del mandato fiduciario è l’impegno, assunto dalla fiduciaria, a mantenere il segreto sull’identità del fiduciante; si noti che, comunque, il segreto fiduciario non è (più) assoluto, avendo il legislatore, con vari interventi successivi, limitato l’opponibilità dello stesso. L’ultimo caso di partecipazione indiretta - quello realizzato per il tramite di interposta persona - ha valenza in un certo senso residuale; i suoi confini, cioè, vanno individuati in termini estremamente generali, dovendosi ritenere sussistere ogni qual volta un soggetto appare o è titolare di una situazione giuridica mentre, in realtà, questa spetta (o è destinata) ad altri. Come scrive Chiappetta, insomma, “il concetto di interposizione deve comprendere non solo la interposizione reale, ma anche i casi di interposizione fittizia e fiduciaria. […] Ciò che rileva, in definitiva, è che ricorra un fenomeno interpositorio, qualunque sia il titolo costitutivo delle stesso - accordo simulatorio, mandato senza rappresentanza,, negozio fiduciario”87. Ancora, il d.m. del 27 luglio 2011 precisa, all’articolo 6, che l’autorizzazione deve essere richiesta anche “a seguito di eventi che modificano l’incidenza ovvero la distribuzione dei diritti di voto”. 87 ! Chiappetta, cit., p. 280. !105 2.14. Segue: Le soglie autorizzative e la nozione di controllo. ! Uno dei fulcri dell’intervento del 2010 è l’innalzamento della soglia quantitativa minima oltrepassata la quale sorge, in capo al candidato acquirente, l’obbligo di richiedere la preventiva autorizzazione; questa - in adesione a quanto previsto dalla direttiva - è ora fissata al dieci per cento dei diritti di voto o del capitale della banca, dovendosi comunque tener conto delle azioni o quote già possedute (art. 19, comma 1). Ai sensi delle medesimo comma, poi, l’autorizzazione è necessaria quando la partecipazione da acquisire comporta il controllo della banca ovvero, anche quando non è superata la soglia del dieci per cento, la possibilità di esercitare sulla stessa un’influenza notevole88. In tema di controllo, il comma 3 - una disposizione con finalità evidentemente antielusive - prescrive che venga autorizzata l’acquisizione, appunto, del controllo di una società che già si trovi in una delle situazioni prospettate dal comma 1. Il comma 2 dell’articolo 19 prevede, infine, vengano autorizzate le successive variazioni delle partecipazioni comportanti il raggiungimento (o superamento) delle soglie del 20 per cento, 30 per cento (prima del 33 per cento) o 50 per cento nonché il controllo sulla banca stessa. ! 88 Prima del 2007, la nozione di influenza notevole era sta individuata nel superamento della soglia del 5 per cento. Già nel provvedimento del Governatore della Banca d’Italia del 12 maggio 2009 si notava che “questa soluzione non è più percorribile, data l’armonizzazione massima delle soglie rilevanti prevista dalla direttiva 2007/44/CE”; di conseguenza “le ipotesi di influenza notevole dovranno quindi essere individuate caso per caso in relazione all’assetto proprietario e di governo della banca nella quale è assunta la partecipazione da autorizzare”. Come ricorda Brescia Morra, Il CICR fornisce due indicazioni in tema, definendola, alla pagina 7 della memoria presentata alla Banca d’Italia, come la capacità “di fatto di condizionare le politiche operative e finanziare dell’impresa vigilata” e, nella proposta di delibera, come “il potere di incidere sulla determinazione delle politiche finanziarie e operative dell’impresa partecipata, senza averne il controllo”. Quest’ultima definizione è accolta dal d.m. del luglio 2011, con la sola differenza - mutuata dai principi contabili internazionali - che al “potere di incidere sulla…” è stato sostituito il più facilmente verificabile “potere di partecipare alla…”; di conseguenza, come nota Brescia Morra, Commento all’art. 19, cit., p. 253: “la scelta del decreto ministeriale […] implica che la Banca d’Italia debba considerare necessariamente fra i presupposti autorizzativi la possibilità di nomina anche di un solo membro dell’organo gestionale (o nell’organo con funzione di supervisione strategica, nda)”. Ciò, continua l’autrice, può essere spiegato “in un’ottica cautelativa, al fine di evitare complesse e incerte questioni interpretative sulle circostanze che danno luogo all’obbligo di richiesta dell’autorizzazione”. Ulteriore indice della sussistenza di un’influenza dominante è, poi, ai sensi dello stesso d.m., la “disponibilità di diritti di voto determinanti nelle decisioni assembleari di natura strategica dell’impresa vigilata”. !106 L’inserimento - per via legislativa - delle dette soglie rilevanti ha reso superflua la previsione di cui all’articolo 1, comma 2, lettera h-quinquies), che, come detto, forniva la definizione di “partecipazione rilevante”; questa è intervenuta ad opera della lettera a) del comma 1 del D.lgs. 21/201089. Rimane, invece, ferma, la già analizzata definizione di partecipazione di cui alla precedente lettera h-quater); nel d.m. del 27 luglio 2011 viene in aggiunta precisato che l’acquisto di strumenti finanziari partecipativi - l’inserimento dei quali aveva forse costituito la più grande innovazione dell’intervento di coordinamento con la riforma societaria - emessi da banche è rilevante ai fini autorizzati solo per l’individuazione di una situazione di influenza notevole. Come scrive Brescia Morra, tale precisazione è stata resa necessaria “in considerazione della circostanza che questi strumenti finanziari possono attribuire diritti di voto che, in principio, consentono un’influenza limitata sulla gestione (non possono avere il diritto di voto nell’assemblea generale degli azionisti)”90. Per quanto riguarda il tema del controllo societario, la cui acquisizione, come detto, è anch’essa subordinata alla previa autorizzazione della Banca d’Italia, ciò che generalmente si intende con questa formula è la capacità di un soggetto di indirizzare le decisioni e la gestione di un altro soggetto, coordinando e unificando l’azione di più soggetti giuridicamente distinti.91 Come già precedentemente accennato, la nozione di controllo contenuta nel testo originario dell’articolo 23 TUB, sulla scia di quanto previsto dalla legge antitrust, risultava essere più ampia di quella di cui ! 89 Come nota A. Benocci, Commento all’articolo 19, cit., p. 191, l’assenza di una definizione di partecipazione rilevante determina così “una trasformazione del concetto giuridico di partecipazione rilevante da nozione normativa a nozione dottrinaria equivalente a quella di partecipazione qualificata” ! 90 C. Brescia Morra, commento all’articolo 19, cit., p. 248. ! 91 E’ bene sottolineare che la nozione di controllo e il fenomeno del gruppo bancario oggetto di autonoma disciplina contenuta negli articoli 60-64 TUB-, seppur strettamente collegati, presentano diversi profili che li differenziano nettamente. Sostanzialmente, posta la comune caratteristica della “unicità del centro decisionale" il controllo societario costituisce spesso, ma non sempre - un presupposto per la creazione di un gruppo bancario; quest’ultimo però, è un soggetto giuridico unico. In questo ambito, è molto discussa la rilevanza del fenomeno di “direzione e coordinamento”, già contenuta nella disciplina dei gruppi bancaria e, poi, introdotta nell’articolo 23 ad opera del D.lgs. 310/2004. In tema, tra tutti, cfr. G. Ferri, Concetto di controllo e gruppo, in Scritti giurdici, Napoli, 1990, III, pp. 1935 ss. !107 all’articolo 2359 c.c., che pure l’articolo 23 richiamava. Se, però, nei casi di cui al codice civile, l’applicazione della disciplina era automatica - applicata, cioè, al semplice verificarsi dei fatti descritti nella norma -, ciò che sorgeva dai casi previsti dalla legge speciale era solo una presunzione passibile di prova contraria. Tale impostazione dicotomica è fatta propria dall’attuale articolo 23, così come modificato nell’ambito dell’intervento di coordinamento del TUB con la riforma societaria. Il comma 1 tuttora prevede, dunque, che il controllo sussista nei casi di cui all’articolo 2359 c.c.92, commi primo e secondo; se ne deduce che, anche per quanto riguarda la disciplina degli enti creditizi, vale la distinzione elaborata in dottrina tra controllo interno e esterno93. A questa previsione, l’articolo 40, D.lgs. 310/2004, ha aggiunto il caso in cui il controllo derivi da contratti o clausole statutarie che “abbiano per oggetto o per effetto il potere di esercitare l’attività di direzione e coordinamento”.94 Come detto, la maggiore ampiezza della nozione di controllo ! 92 Ex articolo 2359 c.c., sono considerate società controllate: 1) le società in cui un'altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell'assemblea ordinaria; 2) le società in cui un'altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un'influenza dominante nell'assemblea ordinaria; 3) le società che sono sotto influenza dominante di un'altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa. Viene, poi, precisato che i voti spettanti per conto di terzi non vanno computati nel calcolo dei voti necessari perché sussista il controllo di diritto (n. 1) e di fatto (n. 2); vanno, invece, computati anche i voti spettanti a società controllate, a società fiduciarie e a persona interposta (art. 2359, comma 2). Per un’attenta disamina dei profili problematici posti dalla nozione codicistica di controllo e i suoi rapporti con la disciplina bancaria, cfr. Lamandini, Commento all’articolo 23, in (a cura di) M. Porzio, F. Belli, G. Losappio, M. Rispoli Farina, V. Santoro,Testo unico bancario. Commentario, cit., 221-235. ! 93 Serra, Commento all’articolo 23, in (a cura di) Commentario al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, cit.. In particolare, per controllo interno devono intendersi i casi - tutti riferiti al possesso di diritti di voto nell’assemblea ordinaria - di controllo di diritto, controllo di fatto, controllo derivante dal possesso di partecipazioni in altre società che sono, a loro volta, in posizione di influenza dominante nei confronti della controllata, e controllo mediato. Per controllo esterno, invece, ci si riferisce all’influenza dominante derivante da particolari vincoli contrattuali, i quali provocano una situazione di dipendenza economica della controllata nei confronti della controllante. ! 94 Come ricorda Serra, ivi, p. 287, è stata da molti sostenuta la portata poco innovativa dell’integrazione operata dall’articolo 40, d.lgs. 310/2004. Ciò sia sotto il “profilo delle fonti” alla base del controllo, data la sostanziale omogeneità con l’articolo 2359, comma 1, n. 3, sia sotto il “profilo dei poteri” scaturenti da un tale controllo, già definiti, come detto, nell’ambito della disciplina dei gruppi bancari. cfr., inoltre, Cappiello e Oliverio, Diritto delle banche e degli intermediari finanziari, (a cura) di E. Galanti, CEDAM, Padova, 2008, p. 707. !108 rilevante ai fini della disciplina bancaria la si deduce dal disposto di cui al comma 2, che prevede una serie (tassativa) di situazioni rilevanti in quanto indici presuntivi della sussistenza del controllo stesso95. Come nota Brescia Morra, si tratta di una disposizione che “mira a cogliere soprattutto le situazioni in cui un soggetto è in grado di influenzare in maniera stabile la gestione di una banca, anche se ciò non consegua al dominio degli organi societari, in particolare dell’assemblea”96. Ciò che è, in questa sede, importante sottolineare è che, anche in questo caso, la sussistenza del controllo presuppone l’esercizio, da parte del soggetto controllante, di una influenza dominante effettiva. Nel caso in cui si verifichi una delle eventualità contemplate dal comma 2, senza, però, che venga esercitata influenza dominante, la sussistenza del controllo è assolutamente da escludere.97 Per finire, sempre nell’ambito dell’intervento di coordinamento con la riforma del diritto societario, si deve ricordare che la nozione di controllo è integrata, ma ai soli fini dell’applicazione dell’articolo 19, dal c.d. controllo da contratto di dominio; quel controllo, cioè, che deriva da “un contratto con la banca o da una clausola del suo statuto” (art. 19, comma 8-bis). ! 95 Le situazioni elencate dal comma 2 attualmente vigente sono sostanzialmente analoghe a quelle previste dal testo originario del TUB e, ancora prima, nella legge antitrust, con le sole modifiche resesi necessarie a seguito delle innovazioni introdotte dalla riforma del diritto societario. Ai sensi del comma 2, dunque, il controllo si presume, in primo luogo, in presenza di un soggetto che, sulla base di accordi, ha il diritto di nominare o revocare la maggioranza degli amministratori o del consiglio di sorveglianza ovvero dispone da solo della maggioranza dei voti ai fini delle deliberazioni relative alle materie di cui agli articolo 2364 e 2364-bis c.c.; ancora, ai sensi del n. 2, sussiste presunzione di controllo quando un soggetto possiede partecipazioni idonee a consentire la nomina o la revoca della maggioranza dei membri del consiglio di amministrazione o del consiglio di sorveglianza; ai sensi del n. 3, poi, il controllo si presume quando sussistono rapporti, anche tra soci, di carattere finanziario ed organizzativo idonei a conseguire: a. la trasmissione degli utili o delle perdite; b. il coordinamento della gestione dell’impresa con quella di altre imprese ai fini del perseguimento di uno scopo comune; c. l’attribuzione di poteri maggiori rispetto a quello derivanti dalla partecipazioni possedute; d. l’attribuzione, a soggetti diversi da quelli legittimati in base alla titolarità delle partecipazioni, di poteri nella scelta degli amministratori o dei componenti del consiglio di sorveglianza o dei dirigenti delle imprese; ultimo, il n. 4 prevede la presunzione di controllo quando, in base alla composizione degli organi amministrativi o per altri concordanti elementi, le controllate sono assoggettate a direzione comune. ! 96 Brescia Morra, Commento all’articolo 19, cit., p. 251. ! 97 In questo senso Lamandini, op. cit., Serra, op. cit., Jaeger, Controllo e direzione nei gruppi bancari, in Banca impresa e società, 1992, p. 383. !109 2.15. Segue: I criteri di valutazione. ! I criteri di valutazione della richiesta di autorizzazione sono sostanzialmente mutuati dalla normativa comunitaria, trattata in precedenza; a questi, nonché alle linee guida a agli standard emanati a livello europeo, fa anche riferimento il d.m. del 27 luglio 2011 (art. 11); quest’ultimo, peraltro, nel trattare della reputazione del candidato acquirente, menziona i requisiti di onorabilità di cui all’articolo 25 TUB. Questi criteri erano, peraltro, già in larga misura contenuti e applicati - evidentemente con scarsi effetti - nella delibera CICR del 19 aprile 1993. Quello che interessa qui sottolineare è, però, la permanenza, nel comma 5 dell’articolo 19, del principio di sana e prudente gestione, la cui rilevanza in ambito comunitario era stata notevolmente ridotta. Nella prima stesura della direttiva 2007/44, infatti, il principio di sana e prudente gestione era stato completamente omesso; tale scelta, che si accompagnava alla specificazione dei criteri di valutazione di cui sopra, era stata suggerita dall’uso distorto che del principio era stato fatto nell’ambito degli scandali Antonveneta e Bnl. Nella versione finale della direttiva, il principio era, sì, menzionato, ma solo in quanto generico obiettivo orientante l’attività di vigilanza dell’Autorità; non come criterio di valutazione. Il comma 5, invece, esordisce stabilendo - con un’espressione già utilizzata nelle precedenti versioni - che che la Banca d’Italia concede l’autorizzazione quando “ricorrono le condizioni atte a garantire una sana e prudente gestione”, nelle sue due accezione di “qualità del potenziale acquirente” e di “solidità finanziaria del progetto di acquisizione”. Tale scelta è stata oggetto di una vivace discussione; posto il divieto di prevedere criteri di valutazione diversi (tanto più flessibili quanto più rigidi) da quelli comunitari, la sua legittimità è stata posta in dubbio. In ogni caso, si dovrebbe preferire la tesi che afferma la legittimità della permanenza del principio; come già esposto, la discrezionalità che da questa discende in capo alla Banca d’Italia è essenziale perché questa possa efficacemente portare a termine le proprie funzioni di vigilanza. Ciò, s’intende, a condizione che soggetti in mala fede non siano messi nelle condizioni abusarne, manipolandone la portata e il significato. !110 Parallelamente, si prevede, nell’ultimo periodo del comma 5, che l’autorizzazione possa essere sospesa o revocata nel momento in cui i presupposti e le condizioni per il suo rilascio vengono meno o si modificano98; ciò a riprova del fatto che la vigilanza prudenziale della Banca d’Italia in tema di assetti proprietari delle banche non consta soltanto di un profilo statico - quello disciplinato nelle altre disposizione dell’articolo 19 - ma si svolge, in maniera costante, durante l’intera vita della società bancaria. In questo contesto, assumono particolare importanza le disposizioni di cui agli articoli 20 e 21, presto analizzate, che predispongono un fitto flusso informativo tra la banca e i partecipanti, da un lato, e l’Autorità, dall’altro. Le Istruzioni, prima, e il decreto n. 675, dopo, hanno chiarito, peraltro in conformità all’articolo 6 della delibera CICR del 1993, i casi in cui l’autorizzazione vada alternativamente sospesa o revocata; il primo provvedimento va assunto quando, pur essendo stata accertata l’insussistenza dei requisiti o delle condizioni autorizzative, queste possano essere ripristinate “in tempi brevi”; la revoca dell’autorizzazione, invece, si rende necessaria a seguito di comportamenti scorretti dei partecipanti, quali, a titolo esemplificativo, la reiterata assunzione di comportamenti elusivi della disciplina, la trasmissione di dati o informazioni non veritieri, la violazione degli impegni eventualmente assunti nei confronti della Banca d’Italia ai fini del rilascio dell’autorizzazione.99 Per quanto riguarda le regole di calcolo delle partecipazioni rilevanti, si rinvia a quanto scritto sopra analizzando la disciplina comunitaria. Si noti, in aggiunta, che il d.m. del 27 luglio 2011 ha, all’articolo 2, specificate le stesse modalità, al fine di ! 98 La disposizione di cui all’articolo 19, comma 5, trova la sua fonte nell’articolo 21, par. 2 della direttiva 2006/48. E’, infatti, previsto, che qualora l’influenza dei titolari di partecipazioni rilevanti “possa essere di ostacolo ad una gestione prudente e sana dell’ente”, le Autorità competenti debbano adottare misure idonee a porre fine a tale situazione. 99 ! Cfr. Istruzioni, Tit. II, Cap. I, Sez. II, par. 7. e art. 12 d.m. 675/2011. !111 coordinare la disciplina comunitaria con le molte possibilità concesse alle azione di tema di struttura del capitale.100 ! ! 2.16. Segue: Il procedimento. ! Anche il procedimento di autorizzazione - disciplinato nelle Istruzioni, Tit. II, Cap. I, Sez. II, par. 3 - è strutturato in adesione al dettato comunitario (vedi. pp. 34-35); rileva, in particolare, il meccanismo del silenzio-assenso. Il primo onere a carico del soggetto che intende effettuare l’acquisizione è quello di trasmettere una comunicazione preventiva alla Banca d’Italia, almeno 7 giorni prima della convocazione dell’organo deputato ad approvare il progetto di acquisizione. Se si procede all’assunzione di un impegno irrevocabile (come accade, ad esempio, nel caso di partecipazione ad asta, promozione di OPA o di OPS, il superamento della soglia che comporta l’obbligo di OPA), la comunicazione deve essere inviata 7 giorni prima non della convocazione bensì della promozione dell’offerta. In quest’ultimo caso, peraltro, il candidato non può assumersi l’impegno irrevocabile se non dopo il rilascio dell’autorizzazione.101 La natura preventiva dell’autorizzazione comporta che questa debba essere richiesta prima del perfezionamento dell’operazione; di conseguenza, nel caso in cui si intenda concludere definitivamente un contratto di acquisizione, l’efficacia di questo deve essere subordinata al rilascio dell’autorizzazione. Sono, infine, previste alcune discipline speciali. Innanzitutto, nel caso in cui le operazioni di acquisizione del controllo di una banca costituisca una ! 100 Il d.m. specifica, in primo luogo, che “sono considerate con diritto di voto tutte le azioni che attribuiscono il diritto di voto anche se limitato a particolari argomenti o subordinato al verificarsi di particolari condizioni” e che “non rileva che il diritto di voto sia limitato a una misura massima o ne siano previsti scaglionamenti”. Vengono, poi, presi in considerazione, specificando quando deve essere richiesta l’autorizzazione e le speciali modalità di calcolo della partecipazione, i casi in cui l’impresa vigilata abbia emesso azioni con diritto di voto appartenenti a diversi categorie, azioni con diritto di voto limitato a particolari argomenti ovvero azioni con diritto di voto subordinato al verificarsi di una condizione. ! 101 A fronte del divieto di assunzione dell’impegno irrevocabile è, però, previsto che in questi casi la decisione della Banca d’Italia debba intervenire non entro l’ordinario termine di sessanta giorni ma in quello ridotto di trenta. !112 concentrazione rilevante ai fini antitrust. Dato il riassetto della ripartizione delle competenza tra Banca d’Italia e Autorità garante per la concorrenza e per il il mercato, inaugurato dall’articolo 19 della legge 262/2005102, è stato, infatti, previsto che, in questi casi, all’autorizzazione della prima si aggiunga quella dell’Autorità antitrust (art. 20, comma 5, legge antitrust); in particolare, la prima avrà ad oggetto le valutazioni di sana e prudente gestione, mentre la seconda concernerà le valutazioni relative all’assetto concorrenziale del mercato. Le due autorizzazioni, indipendenti tra di loro, sono soggette alla procedura e ai criteri di valutazione previsti per ciascuna di esse (per il procedimento dell’AGCM si veda l’articolo 6 della legge antitrust). In ogni caso, il termine per l’assunzione della decisione è uniformato a sessanta giorni lavorativi e, inoltre, le due Autorità hanno l’obbligo di collaborare, in particolare attraverso lo scambio di informazioni. E’, poi, lo stesso art. 20 l. antitrust a prevedere una deroga al suddetto regime, operante essenzialmente in situazioni di crisi. Al comma 5-bis è, infatti, previsto che, dietro richiesta della Banca d’Italia, l’AGCM possa autorizzare - per un periodo di tempo limitato e nella misura in cui ciò sia strettamente necessario - un’intesa restrittiva della concorrenza, quando ciò risulti necessario per esigenza di funzionalità dei sistemi di pagamento; e, soprattutto, un’operazione di concentrazione tra banche o gruppi bancari, che determini o rafforzi una posizione dominante, quando ciò risulti necessario alla luce delle esigenze di tutela della stabilità di uno o più soggetti coinvolti. L’art. 19, comma 8 TUB, disciplina, poi, il caso in cui nell’operazione siano coinvolti “soggetti appartenenti a Stati extraeuropei che non assicurano condizioni di reciprocità”; in tale eventualità, è previsto l’intervento del Governo, nella persona del Presidente del Consiglio dei Ministri, che può, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze, vietare l’operazione. La natura politica di questo ! 102 In verità, il comma 12 della legge sul risparmio prevedeva un sistema di doppie autorizzazioni per qualsiasi operazione avente ad oggetto (o effetto) la proprietà delle banche; erano, infatti, necessarie tanto l’autorizzazione della Banca d’Italia tanto quella dell’AGCM. Questo macchinoso sistema, inidoneo ad assicurare la necessaria celerità dei procedimenti di autorizzazione, è stato corretto ad opera del successivo D.lgs. 303/2006, nel quale si prevede la competenza generale della sola Banca d’Italia per l’autorizzazione di questo tipo di operazioni. Permane, comunque, la competenza dell’AGCM nel caso in cui l’operazione comporti una concentrazione rilevante ai fini della disciplina della concorrenza. !113 provvedimento è innegabile; al Presidente spetta una valutazione discrezionale, che verosimilmente concernerà i rapporti tra i due paesi. Altrettanto indubbia è la natura tecnica della valutazione demandata alla Banca d’Italia, concernente l’insussistenza delle condizioni di reciprocità cui fa riferimenti l’articolo 19.103 Il meccanismo previsto per le operazioni coinvolgenti tali soggetti presenta, però, un serio profilo problematico, attinente al contenuto del provvedimento del Presidente del Consiglio dei Ministri; meglio, alle conseguenze che da questo discendono. Nel caso in cui l’autorizzazione venga - in base alle suddette valutazioni politiche - negata, non c’è dubbio che il provvedimento assorba ogni altro atto; nel caso contrario - cioè quando non si ritengono sussistere le condizioni per un diniego politico dell’autorizzazione viene da alcuni sostenuto che l’autorizzazione possa essere concessa direttamente dal capo del governo, in base a valutazioni non necessariamente parametrate ai criteri di cui al TUB, che verrebbero, in questo modo, derogati. Tale tesi non è sostenibile. Ciò, in primo luogo, perché la lettera della legge parla esclusivamente di un potere di diniego del Presidente, non di autorizzazione; in secondo luogo, in considerazione dell’ingiustificata disparità di trattamento che in questo modo verrebbe a crearsi tra soggetti appartenenti a Stati comunitari e soggetti appartenenti a Stati extracomunitari. Si deve, dunque, ritenere che, nel caso di insussistenza di ragioni per le quali negare l’autorizzazione, il Presidente debba ritrasmettere la richiesta alla Banca d’Italia, che sarà tenuta a svolgere le sue tipiche valutazioni.104 ! ! ! ! ! ! 103 C. Brescia Morra, Commento all’articolo 19, cit., p. 259, “l’intervento del Capo del governo, al quale compete la valutazione dei riflessi di un’eventuale diniego nei rapporti tra paesi, mostra chiaramente la natura politica della decisione che viene assunta in tali casi”; continuando: “diversamente, la valutazione preliminare sulla reciprocità affidata alla Banca d’Italia, alla quale la legge riconosce il potere di attivare il particolare procedimento […] appare qualificabile con di tipo tecnico, basata cioè sull’analisi del trattamento che viene riservato agli operatori nazionali nel singolo paese extracomunitario”. 104 ! V. in tema Antonucci, Diritto delle banche, cit., pp. 210-212. !114 2.17. Segue: La trasparenza nei confronti del mercato. ! Gli articoli 20 e 21 contengono norme volte a rafforzare la trasparenza degli intermediari creditizi. Nell’ultimo decennio, tanto in ambito internazionale quanto comunitario, l’obiettivo di una maggiore disclosure105 degli intermediari creditizi ha assunto un sempre maggiore carattere prioritario; ciò sul presupposto - in verità ancora oggetto di discussione - della sussistenza di un legame tra apertura verso l’esterno e performance della banca e del sistema bancario. La letteratura in tema è vastissima: è utile una rapida rassegna. Già nel 1986, Mathewson106 sosteneva l’esistenza di una relazione positiva tra trasparenza delle banche e grado di fiducia degli investitori nel sistema bancario. A distanza di quindici anni, Nier e Baumann107 evidenzieranno come una maggiore disclosure diminuisca la propensione degli amministratori della banca ad adottare comportamenti imprudenti, in questo modo adeguando i requisiti patrimoniali al grado di rischio delle attività. Sulla stessa scia, Nier108 sosterrà che da una maggiore trasparenza discenda un minor rischio di fallimento della banca. Tadesse, indagherà i rapporti tra trasparenza e rischio sistemico109 e tra trasparenza e livello di crescita dell’economia reale110, evidenziando, nel primo caso, una relazione negativa, nel ! 105 Seppure spesso considerati sinonimi, i concetti di disclosure e di trasparenza hanno in realtà portata diversa, conseguendo la seconda dalla prima solo a determinate condizioni. In particolare A. Greenspan, Remarks, Conference on bank strucure and competion, Chicago, 2003, individua tali condizioni nell’accessibilità e comprensibilità delle informazioni messe a disposizione del mercato. ! 106 A.D. Mathewson, From confidential supervision to market discipline: the role of disclosure in the regulation of commercial banks, in The journal of corporate law, 1986, volume 11, number 2, pp. 139-178. 107 ! E. Nier, U. Baumann, Market discipline, disclosure and moral hazard in banking, in EFA 2003 annual conference, Paper n. 664. ! 108 E. Nier, Bank stability and transparency, in Journal of financial stability, 2005, volume 1, pp. 342-354. ! 109 S. Tadesse, Banking fragility and disclosure: international evidence, in William Davidson Institute working papers series, University of Michigan Stephen M. Ross business school, 2005. ! 110 S. Tadesse, The economic value of regulated disclosure: Evidence from the banking sector, in Journal of accounting and public policy, 2006, volume 25, pp. 32-70. !115 secondo una positiva. Di contro, vi è chi sostiene che una maggiore disclosure, facilitando la conoscibilità di informazioni anche negative, aumenti il rischio di (giustificati o no) deposit bank run, minando così alla stabilità del sistema bancario111 . Secondo Cordella e Yeyati112 , invece, una maggiore trasparenza comporta maggiori rischi di fallimento solo quando la banca non è in grado di controllare la volatilità del proprio attivo; nel caso contrario, il rischio diminuisce. Ritornando alla disciplina contenuta del TUB, l’articolo 20, comma 1, diversamente da quanto deciso in tema di soglie rilevanti, demanda alla normativa amministrativa della Banca d’Italia il compito di individuare, a fini informativi, soglie oltre le quali sorgono, a carico di tutti i soggetti che effettuano operazioni tanto di acquisto o quanto di cessione di partecipazioni in banche, obblighi di comunicazione. A questa regola soggettiva generale si affiancano, come al solito, alcune eccezioni: la prima parte del comma 3 dello stesso articolo demanda, infatti, alla Banca d’Italia il compito di determinare presupposti, modalità e termini di tali comunicazioni (anche) nell’eventualità in cui “il diritto di voto spetta o è attribuito a soggetto diverso dal titolare della partecipazione”. Analogamente, questa volta, a quanto stabilito dalle Istruzioni in tema di autorizzazioni, in questo caso la comunicazione è dovuta tanto dal proprietario delle partecipazioni quanto dal soggetto cui spetta (o è attribuito) il diritto di voto (previsione, questa, confermata dall’articolo 9 del decreto d’urgenza n. 675). Le Istruzioni disciplinano - analogamente, ancora, a quanto stabilito in tema di autorizzazioni: si tratta delle “disposizione di comune applicazione” - il caso di acquisizione indiretta di partecipazioni e il caso in cui il candidato acquirente sia il Ministero dell’Economia e delle Finanze. La relazione illustrativa al decreto n. 675 chiarisce che le soglie dovranno essere fissate “in modo analogo a quello attuale, in relazione al possesso o alla cessione di percentuali di diritti di voto rilevanti ai fini della governance dell’impresa (es. ! 111 Y. Chen, I. Hasan, The transparency of the banking system and the efficiency of information-based bank runs, in Journal of financial intermediation, 2006, volume 14, pp. 307-331. ! 112 T. Cordella, E.L. Yeyati, Public disclosure and bank failures, in IMF working paper, 1997. !116 possibilità di promuovere azioni di responsabilità, di bloccare delibere dell’assemblea straordinaria)”. Ci si riferisce, evidentemente, al Titolo II, Capitolo 1, Sezione III, paragrafo 1.1 delle Istruzioni, dove si individuavano tre casi in cui sorgeva l’obbligo di comunicazione: il superamento delle soglie rilevanti a fini autorizzativi; il superamento delle già menzionate soglie 25, 40, 45 e 55 per cento (e dei successivi multipli di 5) del capitale sociale; la riduzione della partecipazione al di sotto delle suddette soglie. A questa struttura, dunque, dovrà adeguarsi anche la nuova disciplina. Conformemente a quanto previsto dalla disciplina comunitaria, poi, l’articolo 7 del d.m. “concede” alla Banca d’Italia la possibilità di stabilire, tanto in via generale quanto per “tipologie di intermediari”, una soglia informativa inferiore a quella rilevante ex articolo 19; nello stabilirla, peraltro, la Banca d’Italia deve tener conto anche del “grado di dispersione del possesso azionario”.113 Resta sostanzialmente invariato il comma 2 dell’articolo 20, già analizzato in dettaglio (v. pag. 6), concernente l’obbligo di comunicare alla Banca d’Italia ogni accordo - in qualsiasi forma concluso, in ciò comprendendosi anche quelli aventi forma di associazione - avente ad oggetto o per effetto l’esercizio concertato del diritto di voto nella banca partecipata ovvero nella società controllante; l’obbligo sorge in capo ai partecipanti all’accordo nonché ai legali rappresentanti della banca o della società che controlla la banca. Resta parimenti invariato il potere dell’Autorità di vigilanza di sospendere il diritto di voto degli aderenti al patto nel momento in cui l’accordo possa pregiudicare la sana e prudente gestione. L’unica modifica apportata dal D.lgs. 21/2010 è, quindi, la soppressione dei termini entro i quali la comunicazione doveva essere inoltrata; soppressione che, peraltro, si accompagna ! 113 Come ricorda D. Siclari, Commento all’articolo 20, in (a cura di) Capriglione, Commentario al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, cit., nella relazione illustrativa della delibera si legge che “la ratio della norma è quella di consentire all’Autorità di analizzare i casi in cui potrebbe sussistere un’influenza notevole e di sollecitare, ove del caso, la richiesta di autorizzazione”; con riguardo alla possibilità di individuare le soglie in relazione alle diverse tipologie di intermediari, poi, si legge che “ciò permetterà di individuare soglie differenti, ad esempio. per società quotate e non quotate, che tengano conto del diverso grado di dispersione della proprietà”. Quest’ultima possibilità, peraltro, non è nuova al nostro ordinamento, era già contenuta nelle Istruzioni, Tit. II, Cap. I, Sez. III, par. 1. !117 alla previsione di cui al successivo comma 3, che demanda alla Banca d’Italia - che, in forza di tale disposizione, può individuare con precisione i reali assetti di potere che caratterizzano la società bancaria - il compito di determinare le modalità e dei termini114 della suddetta comunicazione. Ai sensi del comma 4, infine, la Banca d’Italia, nell’ambito della vigilanza sul rispetto degli obblighi di comunicazione di cui sopra, ha la facoltà di chiedere informazioni ai soggetti comunque interessati. Come nota Siclari, tale previsione “pure necessaria al fine di strutturare adeguatamente la strumentazione a disposizione della funzione di vigilanza, appare tuttavia presentare profili di criticità, in quanto attribuisce un potere amministrativo da confini indeterminati, i cui destinatari dovrebbero essere di volta in volta individuati per relationem con l’oggetto dell’azione amministrativa dell’autorità di vigilanza”115. L’articolo 21 - sostituito nell’ambito dell’intervento di coordinamento successivo alla riforma societaria del 2003 - si pone come norma di chiusura della disciplina della trasparenza delle società bancarie. La disposizione conferisce alla Banca d’Italia il ! 114 Il d.m. n. 675 nulla aggiunge in tema di modalità e termini di comunicazione; come si evince dalla relazione illustrativa, però, sono essenzialmente fatte salve le previsioni nell’articolo 13 della delibera CICR del 2005, definite “aperte e flessibili”. Ancora, si legge nella relazione illustrativa, che “il momento della comunicazione assume particolare rilievo con riferimento ai patti parasociali, per i quali i termini dovranno essere fissati in modo da assicurare che la valutazione dell’Autorità di vigilanza possa essere effettuato tempestivamente rispetto alla conclusione del patto e in tempo utile per la prima assemblea successiva al patto stesso”. 115 ! Siclari, op. cit., pag. 262. !118 potere di richiedere116, appunto, informazioni circa i titolari di partecipazioni nella banca; tenuti a rendere tali informazioni sono - a differenza di quanto previsto in tema di obblighi di informazione - le banche stesse ovvero gli enti partecipanti alle stesse, che dovranno, nell’adempiere a tale obbligo, riferirsi non solo al libro dei soci, ma anche alle comunicazione ricevute e, in definitiva, ai dati comunque a loro disposizione. La Banca d’Italia può, inoltre, richiedere informazioni agli amministratori delle società e degli enti titolari di partecipazioni117 nonché alle società fiduciarie intestatarie di partecipazioni, rispettivamente in tema di società controllanti e fiducianti. Si prevede, poi, con una disposizione della quale l’applicazione in ambito extraeuropeo, almeno di assenza di specifici accordi internazionali, ha evidenziato notevoli limiti, la non rilevanza della nazionalità estera del soggetto tenuto a rendere le informazioni. Nell’ambito della collaborazione tra Autorità di vigilanza, infine, è previsto che la Banca d’Italia comunichi alla Consob le informazioni ricevute quando queste riguardino società od enti con titoli negoziati in mercati regolamentati.118 ! 116 Con una considerazione di teoria generale, Benocci, Commento agli articoli 20 e 21, cit., p. 217, evidenzia come l’articolo 21, a differenza di quanto previsto dall’articolo 20, attribuisca alla Banca d’Italia “una facoltà, all’esercizio della quale nascono obblighi di comunicazione a carico dei soggetti vigilati […]. L’obbligo di fornire informazioni alla Banca d’Italia trova la sua fonte non tanto in una norma di legge, quanto nell’esercizio di una facoltà attribuita alla Banca d’Italia da una norma di legge”; continua: “I soggetti vigilati non devono necessariamente fornire alla Banca d’Italia le informazioni indicate all’articolo 21, ma devono farlo solo se la Banca d’Italia lo richiede espressamente”, concludendo scrivendo che “la sostanziale doverosità espressa dall’articolo 21 pare quindi di minore intensità rispetto a quella espressa dall’articolo 20”. Si aggiunga, inoltre, che un ulteriore elemento di diversità tra gli articoli 20 e 21 lo si riscontra nell’analizzare l’oggetto delle informazioni che i soggetti obbligati sono tenuti a rendere alla Banca d’Italia: se nel primo caso, infatti, le informazioni riguardano le sole partecipazioni qualificate, nel secondo caso la Banca d’Italia può richiedere informazioni su qualsiasi titolare di partecipazioni, e dunque “a prescindere dalla loro entità e dal fatto che le stesse, in forza del diritto di voto, siano in grado di influenzare la volontà sociale”, Costi, L’ordinamento bancario, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 534. ! 117 Si discute se l’obbligo di rendere le informazioni richieste incomba solo sull’organo gestionale nella sua configurazione collettiva ovvero anche sul soggolo amministratore; nel primo senso cfr., tra gli altri, Leboroni Pierozzi, Commento all’articolo 17, in (a cura di) Alpa e Capriglione Commentario al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, CEDAM, Padova, 1998 p 188; nel secondo senso, invece, cfr. Tidu, Commento all’articolo 21, in op. ult. cit.2, p. 177. ! 118 Per approfondimenti sulle problematiche derivanti dal coordinamento tra la disciplina del TUB e quella del TUF, si veda Antonucci, Diritto delle banche, cit., pp. 201-203. !119 Tali previsioni sono, evidentemente, finalizzate ad ampliare lo spettro di poteri atti a consentire alla Banca d’Italia di ottenere una fotografia verosimile degli interessi che influenzano la gestione della banca; fotografia, questa, che è resa ulteriormente sfocata dalle innumerevoli possibilità di finanziamento concesse alle società in seguito alla riforma del 2003. L’Autorità è, in questo modo, nelle condizioni di “indagare sulla compagine sociale delle banche a più livelli: a livello orizzontale, su tutti gli strumenti finanziari (azioni, obbligazione e nuovi strumenti finanziari di partecipazione) che consentono una partecipazione alla governance della società; a livello verticale, non solo sulle partecipazioni direttamente detenute nell’ente vigilato, bensì sulla intere catena di controllo”119. ! ! 2.18. Segue: Il sistema sanzionatorio. ! Al mancato ottenimento dell’autorizzazione (non rileva se a seguito di diniego o di mancanza tout court della richiesta), alla sua sospensione o revoca ovvero all’omissione delle comunicazione di cui prima, l’articolo 24, comma 1, collega la sospensione del diritto di voto e degli altri diritti che consentono di influire sulla società. Analogamente, non possono essere esercitati i diritti derivanti dai contratti o dalle clausole statutarie, quando la necessaria (ex art. 19) autorizzazione non sia stata ottenuta, ovvero sia stata sospesa o revocata. Nel caso in cui l’autorizzazione non sia stata concessa ovvero sia stata successivamente revocata, è, peraltro, fatto obbligo al ! 119 F. Monaco, Commento all’articolo 21, in (a cura di) Capriglione, Commentario al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, CEDAM, Padova, 2012, p. 268; l’Autrice nota, inoltre, come, nell’attuale sistema normativo, la trasparenza “non sia posta a presidio principalmente delle ingerenze specificamente industriali”, le quali vanno ormai valutate sulla base dello stesso criterio “adottato per ogni soggetto che sia titolare di interessenze nei soggetti vigilati”; in questo modo, continua, la trasparenza viene a configurarsi “non come un fine, ma come uno strumento per vigilare sulla corretta gestione dell’intermediario e tutelare il risparmio di massa, obiettivi ritenuti così centrali da far sì che nell’orbita dei controlli di trasparenza approntati per gli intermediari vengano attratti soggetti esterni per il solo fatto che con gli intermediari intrattengono rapporti di partecipazione latu sensu intesa”, ivi, p. 269. !120 partecipante di alienare la parte eccedente;120 obbligo, questo, che, invece, non sorge nel caso di violazione degli obblighi di comunicazione. La sanzione della sospensione, come d’altronde previsto anche dalla disciplina codicistica, si applica esclusivamente alla parte eccedente la partecipazione invece legittimamente detenuta; il partecipante, dunque, nell’eventualità di un congelamento dei suoi diritti, si troverà semplicemente nella situazione quo ante il verificarsi del fatto da cui deriva la sospensione. Inoltre, come giustamente evidenzia Santoni121, nel caso si verifichi il fenomeno di cui al comma 3 dell’articolo 19 - acquisizione del controllo di una società che detiene una partecipazione superiore al 10 per cento di una banca - si deve ritenere che la sospensione riguardi la detta partecipazione di controllo e non la partecipazione della controllata nella banca, i cui diritti possono, di conseguenza, essere legittimamente esercitati. Si noti, poi, che il richiamo effettuato dal comma 1 ai soli diritti di voto e agli altri “diritti che consentono di influire sulla società” - ci si riferisce, qui, ai diritti amministrativi relativi a strumenti finanziari partecipativi -, porta ad escludere che la sospensione riguardi anche i diritti patrimoniali relativi alle stesse partecipazioni in eccedenza. Quando, contravvenendo al divieto, il partecipante abbia comunque esercitato il diritto oggetto di sospensione, la delibera (o il diverso atto) è impugnabile secondo le previsioni codicistiche (cioè secondo la disciplina contenuta nell’articolo 2377 c.c.); posto che le partecipazioni eccedenti devono essere comunque computate ai fini del calcolo del quorum costitutivo, a prescindere, dunque, dalla circostanza che i relativi diritti siano stati o meno esercitati (art. 24, comma 2, u.p.), si fa strada alla ! 120 Il D.lgs. 21/2010 ha, in conseguenza della soppressione della separatezza tra banca e industria, eliminato la previsione di cui alla seconda parte del comma 3 dell’articolo 24, secondo la quale il tribunale poteva, dietro richiesta della Banca d’Italia, ordinare coattivamente l’alienazione delle partecipazioni in eccesso illegittimamente detenute dal socio industriale. Nel sistema attuale, dunque, nel caso di mancato rispetto dell’obbligo di alienazione da parte del soggetto sanzionato, la Banca d’Italia non ha a disposizione adeguati poteri per assicurare l’applicazione effettiva della norma; ciò che, al massimo, può residuare, è un semplice potere di moral suasion. Rimane in ogni caso fermo il divieto di esercitare il diritto di voto o il diverso contributo e la conseguente impugnabilità della delibera o del diverso atto. ! 121 Santoni, Commento all’articolo 24, in (a cura di) Capriglione, Commentario al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, CEDAM, Padova, 2012 p. 300. !121 impugnazione dell’atto quando il voto (o il contributo) illegittimamente esercitato sia stato determinante nell’assunzione dello stesso. (art. 24, comma 2, c.d. prova della resistenza). A conferma della funzione extra sociale perseguita dalla disciplina di cui al Capo III del TUB, di cui già si è fatto cenno trattando del sistema sanzionatorio nella previgente disciplina, è, inoltre, previsto che anche la Banca d’Italia possa impugnare l’atto. Sono, peraltro, previsti termini abbastanza ampi122, funzionali a consentire all’Autorità di esercitare effettivamente questa facoltà: in via generale, 180 giorni dalla data di deliberazione; se, poi, la delibera è soggetta a iscrizione nel registro delle imprese ovvero al semplice deposito presso l’ufficio del registro delle imprese, il termine decorre rispettivamente dalla data di iscrizione o di deposito. Attraverso la previsione dell’impugnabilità dell’atto (anche) da parte della Banca d’Italia, si pone rimedio a quello che è uno dei più importanti limiti del regime sospensivo, cioè a dire il fatto che il rispetto del divieto di esercitare il diritto di voto (o il diverso contributo) sia demandato esclusivamente alla “buona volontà” del partecipante.123 Ragionamenti in parte analoghi a quelli già esposti nell’analizzare la ratio del congelamento del diritto di voto (v. nota. n. 17) devono essere fatti in tema di impugnazione dell’atto da parte dell’Autorità. E’ da escludere, infatti, che la facoltà della Banca d’Italia sia posta a presidio dell’interesse sociale della banca, in quanto l’impugnabilità dell’atto - in questo caso - prescinde totalmente dall’effettiva ! 122 Per gli altri soggetti legittimati ad impugnare, secondo le disposizioni del codice civile, il termine è di 90 giorni, decorrente dalla deliberazione ovvero dall’iscrizione o dal deposito. I termini di impugnazione delle Banca d’Italia, dunque, sono esattamente raddoppiati rispetto a quelli previsti dal codice civile. ! 123 Sotto questo profilo, non è esente da critiche la scelta del legislatore di intitolare la rubrica dell’articolo 24 “sospensione del diritto di voto”; come nota Benocci, commento all’articolo 24, in (a cura di) M. Porzio, F. Belli, G. Losappio, M. Rispoli Farina, V. Santoro, Giuffrè, Testo unico bancario. Commentario, Giuffrè, Milano, 2012, p. 240, “la lettura rubrica e il riferimento alla sospensione dei diritti lascia infatti presagire che, all’accertamento di una determinata violazione, possa seguire l’irrogazione di una sanzione (la sospensione) che produce i suoi effetti a prescindere dalla collaborazione del soggetto sanzionato […]. La realtà derivante dalla lettura della norma è invece diversa ed evidenzia che una collaborazione del soggetto sanzionato è assolutamente necessaria, in quanto, all’accertamento di una determinata violazione, l’esercizio del diritto di voto non è né impedito né reso inutile, ma è semplicemente vietato e l’osservanza del divieto non può che dipendere da una condotta adesiva del soggetto sanzionato, tanto che, in caso di inosservanza, sussiste un secondo livello di intervento, rappresentato dall’impugnabilità della delibera”. !122 produzione di un danno; anzi, l’impugnabilità non è esclusa neanche nel caso invero non poco frequente - in cui la delibera sia utile alla società. Parimenti, è da escludere che la facoltà sia posta a presidio del rispetto della legge; ciò perché la Banca d’Italia, nel valutare l’opportunità dell’esercizio di tale facoltà, appunto, opera una valutazione dal carattere discrezionale: non sussiste alcun obbligo per l’Autorità di proporre l’azione. Si deve, quindi, preferire la tesi di Antonucci, secondo la quale “ancora una volta […] abbiamo un potere riconosciuto alla Banca d’Italia che non sposa né l’interesse alla legalità né l’interesse sociale, ma un interesse proprio dell’organo di vigilanza in quanto tale, discrezionalmente valutato nel quadro di criteri-guida della sua azione”124. Per inciso, la disciplina del sistema sanzionatorio non si esaurisce negli articoli 19 e 24. Gli articoli 139 e 140, infatti, predispongono, a fronte di violazioni degli obblighi autorizzativi o comunicativi (cui si aggiunge, in questo caso, l’ipotesi di trasmissione di informazioni o indicazioni false), ulteriori sanzioni rispettivamente amministrative e penali. ! ! 2.19. Le partecipazioni detenibili dalla banche. ! “L’acquisizione di significative partecipazioni nel capitale delle imprese è parte della strategia dei maggiori gruppi. Essa comporta per le banche l’assunzione di rischi di tipo nuovo rispetto al passato; può dar luogo a conflitti di interesse. Al fine di tutelare la stabilità degli intermediari, l’ordinamento ha a lungo ristretto queste partecipazioni. L’evoluzione delle tecniche di gestione del rischio e delle migliori pratiche di vigilanza rende ormai inefficace una rigida delimitazione”125. Così l’allora Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi descriveva, nelle ! 124 Antonucci, Diritto delle banche, cit., p. 216. ! 125 M. Draghi, Considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia, 31 maggio 2007, p. 18. !123 considerazioni finali del 2007, la situazione istituzionale italiana in tema di separatezza “a valle”. I molti interventi legislativi che, nel corso del tempo, hanno modificato il TUB hanno lasciato inalterata la disposizione di cui all’articolo 53, comma 1, lett. c). Di conseguenza, spetta ancora alla Banca d’Italia la regolamentazione delle partecipazioni detenebili dalle banche; Banca d’Italia che, nell’adempiere questo compito, deve attenersi alle deliberazioni del CICR.126 Il 29 luglio 2008 il CICR procedeva ad emanare la deliberazione numero 276, avente, appunto, ad oggetto le “partecipazioni detenibili dalle banche e dai gruppi bancari”; ciò che veniva auspicato è una modifica - si noti, sostanziale - della disciplina previgente, in modo tale da portare a termine quel processo di graduale e prudente apertura avviato dal decreto del Ministro del Tesoro del 22 giugno 1993, n. 242632. In particolare, attraverso il rinvio alla disciplina comunitaria effettuato dall’articolo 2 delle delibera, si ponevano le basi perché anche nell’ordinamento nazionale venisse meno il divieto di assumere partecipazioni in imprese non finanziarie superiori al 15 per cento del capitale sociale della partecipata. L’articolo 120 della direttiva 2006/48, come modificato dalla direttiva 2007/44, prevede, infatti, che tali partecipazioni qualificate127 non possano eccedere i limiti, riferiti rispettivamente alla singola partecipazione (c.d. limite di concentrazione) e al complesso delle stesse (c.d. limite complessivo), del 15 e del 60 per cento dei fondi propri della banca. Com’è evidente, il legislatore comunitario non fa riferimento ! 126 Per un’analisi della disciplina delle partecipazioni detenibili e della sottostante ratio, vedi supra, par. 1.4. ! 127 Quelle “in un’impresa che non sia né un ente creditizio, né un ente finanziario, né un’impresa la cui attività costituisca il prolungamento diretto dell’attività bancaria o consista in servizi ausiliari della suddetta, quali il leasing, il factoring, la gestione di fondi comuni di investimento, la gestione di servizi informatici o attività analoghe” (art. 120, par. 1); di conseguenza, le suddette partecipazioni esulano dall’ambito di applicazione della normativa. È utile ricordare che, ai sensi dei paragrafi 1 e 5 dell’articolo 4 della direttiva, sono enti creditizi le banche e gli istituti di moneta elettronica mentre per enti finanziari si devono intendere le imprese, diverse dagli enti creditizi, la cui attività principale sia l’acquisizione di partecipazioni o l’esercizio di una o più attività ammesse al mutuo riconoscimento. L’articolo 122, paragrafo 1, prevede, poi, la possibilità che gli Stati membri non applichino i limiti di cui all’articolo 120 alle partecipazioni in imprese di assicurazione o in imprese di riassicurazione. !124 alcuno alla qualificazione operativa e alla conseguente possibilità che una banca controlli un’impresa non finanziaria e al correlato tema della separatezza. La disciplina, inquadrata nel sistema di vigilanza prudenziale, mira ad evitare l’assunzione di rischi eccessivi da parte delle banche nell’esercizio della sua funzione di erogazione del credito; vengono, dunque, eliminati, gli ultimi retaggi della vigilanza di tipo strutturale. In quest’ottica, assume particolare rilevanza la regolamentazione dei grandi fidi e delle operazioni con parti correlate, di cui si parlerà nel prossimo capitolo. I suddetti limiti, ai sensi del paragrafo 3 del medesimo articolo 120, possono essere superati in presenza di circostanze eccezionali. A fronte dell’assunzione di questo ulteriore rischio, le Autorità dovranno, però, richiedere un corrispettivo aumento dei fondi propri ovvero l’adozione di altre misure equivalenti all’aumento. Infine, l’articolo 122, paragrafo 2, concede agli Stati membri la possibilità di prevedere, in via generale ma al verificarsi di determinate condizioni, la non applicazione di tali limiti; ciò, appunto, a condizione che venga parallelamente previsto che le eccedenze di partecipazione qualificata siano completamente coperte da fondi propri, questi ultimi non rientranti nel calcolo dell’adeguatezza patrimoniale di cui all’articolo 75. Nel caso in cui siano superati entrambi i limiti, inoltre, l’eccedenza da coprire con fondi propri è quella di importo più elevato. Sono, peraltro, previsti diversi e importanti casi in cui tanto il limite di concentrazione quanto quello complessivo, teoricamente rilevanti, non vanno applicati. L’articolo 122 esclude, infatti, le partecipazioni qualificate detenute in via temporanea, a causa di un’operazione di sostegno finanziario in vista del risanamento o del salvataggio di un’impresa; a queste si aggiungono le partecipazioni detenute, sempre in via temporanea, a causa della sottoscrizione di un’emissione di titolo durante la normale durata di tale sottoscrizione ovvero detenute in nome proprio ma per conto di terzi. L’ultimo periodo dell’articolo 121 prevede, infine, che non siano !125 incluse nel calcolo le azioni o quote non aventi il carattere di immobilizzi finanziari128. Dopo una lunga fase di consultazione con gli operatori del mercato, la Banca d’Italia ha, il 12 dicembre 2011, recepito gli orientamenti del CICR, emanando il nono aggiornamento della circolare del 27 dicembre 2006, n. 263, quest’ultima recente le “nuove disposizione per la vigilanza prudenziale delle banche”. Viene, in primo luogo, posto un limite complessivo agli investimenti in partecipazioni (e in immobili), a prescindere dalla natura dell’attività svolta dall’impresa partecipata. Si prevede, infatti, che tali investimenti non possano eccedere il patrimonio di vigilanza a livello consolidato; ciò significa che, in un dato momento, la banca non può acquisire partecipazioni oltre il margine disponibile, dato dalla differenza tra il patrimonio di vigilanza e il valore delle partecipazioni e degli immobili nello stesso momento - e in qualsiasi modo - detenute. Nel caso in cui si verifichino eventi in conseguenza del quali il patrimonio diminuisca, in questo modo violando il suddetto limite, è compito della banca effettuare tutte le operazioni necessarie perché il valore complessivo delle partecipazioni torni, nel più breve tempo possibile, entro il valore del patrimonio di vigilanza (Titolo V, Cap. 4, sez. 2). Coerentemente con la già analizzata disciplina comunitaria, il Tit. V, cap. 4, sez. 3 della circolare, avente ad oggetto le partecipazioni in imprese non finanziarie, pone, poi, in capo alle banche (e, in generale, ai destinatari della disciplina così come individuati al paragrafo 4 delle sezione I) l’obbligo di assicurare il rispetto sia del limite di concentrazione del 15 per cento dei fondi propri della banca sia di quello complessivo del 60 per cento degli stessi129. Il rispetto di tali limiti - si legge al ! 128 Ai sensi dell’articolo 35, paragrafo 2, della direttiva 86/635/CEE, recante la disciplina dei conti annuali e dei conti consolidati delle banche e degli altri istituti finanziari, costituiscono immobilizzi finanziari, nel caso di enti creditizi, “le partecipazioni, le partecipazioni in imprese collegate ed i titoli destinati a servire in maniera durevole all’attività di impresa”. ! 129 Tale disciplina è da applicare, con le necessarie modifiche in tema di procedimento e di criteri, anche ai c.d. investimenti indiretti in equity. Con questa locuzione si intendono quegli investimenti che, seppure effettuati per il tramite di società o di organismi che si frappongono tra la banca e l’impresa partecipata, consentono alla banca di esercitare il controllo ovvero un’influenza notevole e, di conseguenza, comportano - sostanzialmente l’assunzione di rischi di equity (Tit. V, Cap. 4, Sez. VI). !126 paragrafo 2 - deve essere costante. Nondimeno, è possibile che nella vita di una banca si verifichino eventi, quali ad esempio la riduzione del patrimonio per perdite o la fusione tra soggetti partecipati, che comportino, indipendentemente dalla volontà del soggetto vigilato, il superamento di uno o di entrambi detti limiti. In questi casi analogamente a quanto previsto con riguardo al limite generale di detenibilità - è fatto obbligo alla banca di attivarsi per ricondurre nel più breve tempo possibile il valore delle partecipazioni entro i limiti.130 Una disciplina più stringente - e, questa volta, ricalcante quella previgente - è, poi, prevista per l’assunzione di partecipazioni in imprese in temporanea difficoltà finanziaria nonché per le acquisizioni per finalità di recupero crediti; ciò “in considerazione della elevata rischiosità di tali investimenti e a presidio dell’obiettività delle relative decisioni” (Tit. V, cap. 4, sez. I, par. 1). Le prime, infatti, devono essere valutate con estrema cautela, analizzando la convenienza economica dell’operazione e le prospettive a medio termine dell’impresa in crisi; crisi che, perché l’operazione possa essere vantaggiosa, deve evidentemente essere temporanea e riconducibile ad aspetti finanziari e non di mercato. È, poi, previsto che, per un periodo di norma non superiore a cinque anni ovvero per quello più breve stabilito dal piano di risanamento, tali partecipazioni non vengano computate nel calcolo dei limiti di detenibilità; è, questo, un altro caso in cui è concesso alla banca di operare superando detti limiti. Le acquisizioni di partecipazioni per recupero crediti - che, invece, non possono mai comportare il superamento né del limite generale, né di quello complessivo né di quello di concentrazione - devono necessariamente essere “finalizzate a facilitare il recupero del credito attraverso lo smobilizzo dell’attivo della società al fine di liquidare il patrimonio dell’impresa”; tali operazioni devono, peraltro, essere approvate dall’organo gestionale che, a tal fine, dovrà emanare una delibera che illustri dettagliatamente la convenienza dell’operazione. Nel caso di acquisizione di interessenze - cioè a dire di partecipazioni agli utili di un’impresa o ! 130 È peraltro previsto che, nel lasso di tempo necessario per ricondurre le partecipazioni entro i limiti legali, un ammontare uguale all’eccedenza - nel caso in cui vengano superati entrambi i limiti, quella di ammontare più elevato - venga dedotto per il 50 per cento dal patrimonio di base e per il restante 50 per cento dal patrimonio supplementare. !127 di un singolo affare - detenute dal debitore, poi, è previsto che le partecipazioni debbano essere smobilizzate alla prima occasione utile (Tit. V, cap. 4, sez. IV, par. 3). Data la sostanziale analogia dei rischi assunti attraverso l’assunzione di partecipazioni in imprese bancarie e finanziarie e la conseguente rara rilevanza ai fini della tutela della sana e prudente gestione delle banche, la direttiva 2006/48 non contiene disposizioni importanti in tema. Si incoraggia, in questo modo, la concentrazione tra enti creditizi, in modo tale da accrescere, attraverso lo sfruttamento di economie di scala e una maggiore diversificabilità del rischio, la competitività degli operatori europei nei mercati internazionali. Ciò, è importante sottolineare, senza che venga compromessa la concorrenza interna all’Unione stessa. Per questi motivi, si legge nella circolare 263/2006, così come modificata nel 2011, le acquisizione di tali partecipazioni sono soggette ad autorizzazione preventiva soltanto quando “per la loro rilevanza, siano suscettibili di determinare impatti sulla struttura finanziaria e patrimoniale dell’acquirente” ovvero quando da queste “possano derivare ostacoli all’esercizio della vigilanza consolidata” (Tit. V, cap. 4, sez. I, par. 1). I casi in cui possono sorgere tali pericoli sono ricondotti, nella successiva sezione V, a due ipotesi: quando la partecipazione superi il 10 per cento del patrimonio di vigilanza consolidato del gruppo bancario ovvero quando, essendo l’impresa target insediata in un paese non appartenente all’Unione Europea, l’acquisizione comporti il controllo o l’influenza notevole. Coerentemente, i criteri di cui l’Autorità dovrà dotarsi nel valutare l’opportunità dell’operazione saranno, da un lato, la solidità della situazione tecnica e organizzativa in rapporto alla nuova configurazione di gruppo e, dall’altro, la compatibilità dell’articolazione organizzativa con le esigenze di vigilanza su base consolidata (Tit. V, cap. 4, sez. V, par. 2)131. ! 131 È, inoltre, previsto che l’autorizzazione debba essere negata nel caso in cui “per effetto della deduzione della partecipazione dal patrimonio di vigilanza o del consolidamento dell’impresa partecipata venga meno il rispetto del requisito patrimoniale complessivo”. !128 ! ! ! ! ! CAPITOLO III ! I soggetti collegati alla banca ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! 3.1. La regolamentazione secondaria. ! Il venir meno di quello che è stato per quasi un secolo uno dei pilastri fondanti del sistema bancario italiano e la conseguente liberalizzazione del rapporto bancaindustria ha reso necessario un forte intervento legislativo finalizzato a meglio disciplinare il delicato problema degli obblighi di comportamento della banca nei confronti dei soggetti ad essa collegati. Data la vicinanza ai centri decisionali delle banca di soggetti portatori di interessi che spesse volte possono rivelarsi antitetici a quelli della banca, il rischio che il processo decisionale di concessione del credito e la intrinseca valutazione del merito creditizio - valutazione che costituisce il mestiere delle banche (cfr. Cap. I) - siano distorti a come non mai concreto.1 La ratio della normativa in tema è, dunque, quella di tutelare “l’oggettività e l’imparzialità” del processo decisionale; vale a dire, di impedire, alla banca di operare decisioni - potenzialmente dannose per il sistema bancario nella sua interezza - non attentamente ponderate, non finalizzate alla creazione di valore per i soci e alla tutela dell’integrità patrimoniale nell’ottica di salvaguardia dei diritti dei creditori.2 La centralità di tale questione è condivisa a tutti i livelli normativi3; si vedano, per riportare l’esempio forse più noto, gli indirizzi del Comitato di Basilea, dove la prevenzione dei conflitti di interesse con le related parties viene elevato a core ! 1 Cfr. S. Scotti Camuzzi, Attività di rischio delle banche nelle relazioni con soggetti collegati e disciplina dei conflitti di interessi, in Contratto e impresa. Dialoghi con la giurisprudenza civile e commerciale, Cedam, Padova 2011, n.3, p. 750; F. Chiappetta, Le operazioni con parti correlate: profili sistematici e problematici, in www.dircomm.it, novembre 2009, dove l’A. evidenza l’erroneità della tesi secondo la quale l’effettuazione di operazioni con soggetti collegati è da configuare - a priori - come un’eventualità pregiudizievole, ben potendo, al contrario, costituire una fonte di vantaggio per la società e i suoi stakeholders. Cfr. in senso conforme M. Miola, Le operazioni con parti correlate, in AA.VV., Amministrazione e controllo nel diritto delle società, Liber amicorum Antonio Piras, Giappichelli, Torino, 2010. ! 2 Ovviamente, gli interventi legislativi e regolamentari che ci si accinge ad esporre si inseriscono nel più ampio sistema di vigilanza prudenziale; in quest’ottica, le finalità della disciplina sono da ricondurre al conseguimento della stabilità del sistema finanziario latu sensu inteso nonché di un’adeguata disclosure degli intermediari; cfr. C. Brescia Morra, Le forme di vigilanza, in F. Capriglione (a cura di), L’ordinamento finanziario italiano, Cedam Padova 2010, Tomo I, pp. 301 ss. ! 3 Cfr. F. Merusi, Il conflitto di interessi fra tutela del risparmio e normativa comunitaria, in Banca, impresa e società, fasc. 2, 2008. !130 principle del l’intero sistema di supervisione prudenziale4 . Ancora prima, la Commissione Europea aveva affrontato il tema affermando - nella raccomandazione 2005/162/CE - la centralità della funzione preventiva degli amministratori senza incarichi esecutivi nelle società quotate.5 Questo capitolo verterà, appunto, sull’analisi del principale strumento che l’ordinamento nazionale ha predisposto al fine di contenere il conflitto di interessi di cui sopra, vale a dire la disciplina delle operazioni con parti correlate. La stretta correlazione che lega il tema al venire meno della separatezza banca-industria la si può intuire dalla circostanza che la circolare CICR in tema - la numero 277 del 29 luglio 2008, recante, appunto, la “disciplina delle attività di rischio e di altri conflitti di interesse delle banche e dei gruppi bancari nei confronti di soggetti collegati” viene emanata parallelamente - si noti, lo stesso giorno - alla già analizzata (cfr. Cap. II) circolare numero 276 sulle partecipazioni detenibili.6 La circolare CICR numero 277 costituisce l’atto di indirizzo cui la Banca d’Italia deve necessariamente fare riferimento nell’emanare la propria disciplina. In forza del disposto dell’articolo 53 TUB, infatti, spetta alla Banca d’Italia, in conformità alle ! 4 Testualmente, il core principle 20, contenuto nel documento di consultazione del dicembre 2011, sancisce che: “in order to prevent abuses arising in transactions with related parties and to address the risk of conflict of interest, the supervisor requires banks to enter into any transactions with related parties on an arm’s length basis; to monitor these transactions; to take appropriate steps to control or mitigate the risks; and to write off exposures to related parties in accordance with standard policies and processes […] The term transaction should be interpreted broadly to incorporate not only transactions that are entered into with related parties but also situations in which an unrelated party (with whom a bank has an existing exposure) subsequently becomes a related party”. È bene ricordare che l’Arm’s length principle (ALP) è quel principio, diffuso nelle legislazioni di matrice anglosassone, che vuole che due parti coinvolte in una transazione debbano essere in condizioni di parità ed agire in maniera indipendente, così da addivenire ad una arm’s length transaction. ! 5 In questo contesto, sintomatico della delicatezza del tema è ciò che si evince dall’articolo 13 della raccomandazione, nonché dal II Allegato alla stessa: l’impossibilità di definire a priori un sistema completo di requisiti di indipendenza atto a individuare - nella sostanza tutte quelle situazioni in cui la stessa viene meno. Cfr. anche il successivo Report on the application by the Member States of the EU of the Commission Recommendation on the role of non-executive or supervisory directors of listed companies and on the committees of the (supervisory) board della Commissione Europea del 13 luglio 2007. ! 6 Cfr., per un’esposizione della genesi della Delibera CICR n. 277, C. Clemente, Commento all’articolo 53, in F. Capriglione (a cura di), Commentario al Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, Cedam, 2012, pp. 665-666; R. Basso, I rapporti con parti correlate, in E. Galanti (a cura di), Diritto delle banche e dei mercati finanziari, Cedam, Milano, 2008. !131 deliberazioni del CICR, disciplinare, da un lato, le condizioni7 e limiti per l’assunzione, da parte della banche, di attività di rischio nei confronti di coloro che possono esercitare, direttamente o indirettamente, una influenza sulla gestione della banca o del gruppo bancario nonché dei soggetti a essi collegati (co. 4, primo periodo)8; dall’altro, disciplinare i conflitti di interessi tra le banche e i suddetti soggetti, in relazione ad altre tipologie di rapporti di natura economica (co. 4quater)9. La Banca d’Italia ha, poi, proceduto ad attuare il disposto di cui all’articolo 53 TUB aggiornando a più riprese le Nuove disposizioni di vigilanza prudenziale per le banche10. ! ! ! 7 ! Come nota A. Troisi, Le operazioni con parti correlate in ambito bancario e finanziario, in Banca borsa e titoli di credito, 2011, p. 654, “Il tenero letterale […] è indicativo di un mutamento della regolazione, che sembra segnare una sostanziale restrizione delle possibilità operative degli intermediari. Si passa, infatti, dalla previsione di limiti a quella di condizioni, cui gli enti bancari devono attenersi nell’assunzione di attività di rischio, le quali vanno ora ben oltre la mera configurabilità della concessione del credito”; cfr., inoltre, V. Troiano, La nuova disciplina dei conflitti di interessi. Assunzione di attività di rischio nei confronti di soggetti collegati e di obbligazioni nei confronti di esponenti aziendali, in F. Capriglione (a cura di), La nuova legge sul risparmio. Profili societari, assetti istituzionali e tutela degli investitori, Padova, 2006, pp. 108 ss. ! 8 Il compito di stabilire, nei casi concreti in cui si rinvengano situazioni di conflitto di interessi, condizioni e limiti specifici per l’assunzione di attività di rischio, spetta, invece, solo alla Banca d’Italia (co. 4, secondo periodo); alla Banca d’Italia, sempre senza l’intervento del CICR, spetta altresì l’individuazione dei casi in cui al mancato rispetto delle condizioni di cui al comma 4 consegue la sospensione dei diritti amministrativi connessi con la partecipazione (co. 4-ter). ! 9 Cfr. R. Basso, I rapporti con parti correlate, op. cit., il quale evidenzia come la ratio della norma in parola sia quella di concedere alla Banca d’Italia un adeguato margine di discrezionalità nell’individuazione - resa difficoltosa dall’adozione del modelli di banca universale - delle situazioni di conflitto di interessi. ! 10 Per una panoramica generale circa gli interventi della Banca d’Italia, cfr. S. Scotti Camuzzi, Attività di rischio delle banche nelle relazioni con soggetti correlati e disciplina dei conflitti di interessi (un primo commento al Documento di consultazione della Banca d’Italia del maggio 2010), in Contratto e impresa. Dialoghi con la giurisprudenza civile e commerciale, Padova, 2011; A. Troisi, Le operazioni con parti correlate in ambito bancario e finanziario, op. cit., vol. 5, pp. 649 ss.; N. Cecchetto, Operazioni con parti correlate e tecniche di regolamentazione: note critiche, in Rivista di diritto bancario, settembre 2012; A. Agnese, Spunti sistematici in materia di operazioni con parti correlate, in Rivista di diritto bancario, febbraio 2012. !132 3.2. Analogie e tratti distintivi tra la disciplina dei rapporti con soggetti collegati e la disciplina dei large exposures. ! In via preliminare, ritengo opportuno evidenziare sinteticamente i principali tratti distintivi che intercorrono tra la disciplina dei rapporti con soggetti collegati e quella attinente ai limiti alla concentrazione dei rischi (large exposures: posizione di rischio di importo pari o superiore al dieci per cento dei fondi propri della banca). La finalità ultima del sistema normativo in tema di grandi rischi è quella di limitare - appunto il rischio c.d. di concentrazione, per tale intendendosi quel rischio derivante da un’esposizione eccessiva della banca verso un solo prenditore; precisamente, verso singoli clienti ovvero verso gruppi di clienti - giuridicamente o economicamente connessi, sì da costituire un “insieme unitario sotto il profilo del rischio”. Tecnicamente, ciò che ci si propone con questa disciplina è la riduzione del rischio c.d. idiosincratico, con tale espressione intendendosi “il rischio specifico di un cliente o di un gruppo di clienti connessi indipendente da fattori esterni quali l’appartenenza alla stessa area geografica o al medesimo comparto produttivo”11. A tal fine, l’ordinamento predispone due presìdi: da un lato, limiti quantitativi, dall’altro, standard organizzativi. A seguito del sesto aggiornamento delle disposizioni di vigilanza del 27 dicembre 2010, viene, in primo luogo, soppresso il previgente limite globale all’erogazione di grandi fidi (questa l’espressione prima utilizzata), che prevedeva che l’ammontare complessivo di questi non potesse eccedere il limite di otto volte il patrimonio di vigilanza del gruppo bancario o della banca non appartenente a gruppi bancari. Per quanto riguarda il limite quantitativo, poi, si prevede che ciascuna banca non appartenenti a gruppi bancari debba contenere ciascuna posizione di rischio entro il limite del 25 per cento del proprio patrimonio di vigilanza; ancora, per quanto riguarda i presìdi organizzativi, è richiesto alla banche di attenersi a regole di comportamento che garantiscano la possibilità di conoscere i grandi rischi, valutarne la qualità, seguirne l’andamento nel tempo. 11 ! Nuove disposizioni di vigilanza prudenziale per le banche, Tit. V., Cap. 1, Sez. I, par. 1. !133 Si capisce, da queste considerazioni, che nel sistema delineato dal Tit. V, Cap. 1 delle Disposizioni di vigilanza, diversamente da quanto accade in tema di soggetti collegati, l’esistenza di rapporti proprietari - tanto a monte quanto a valle - tra cliente e intermediario è una eventualità non rilevante ai fini dell’applicazione della disciplina; anzi, nel momento in cui questi dovessero sussistere, dovrebbe ritenersi applicabile la disciplina dei rapporti con i soggetti collegati. D’altro canto l’inadempimento di un affidatario di tale rilevanza comporterebbe seri problemi per la banca e, almeno potenzialmente, per il sistema bancario tutto12. In conclusione, si può dire che le due discipline si pongono finalità che - seppure complementari, inserendosi entrambe nel più ampio sistema di vigilanza prudenziale - risultano essere distinte, come pure è distinti il rispettivo ambito di applicazione, solo in parte coincidente. ! ! 3.3. Le operazioni con parti correlate nella disciplina Consob. Inquadramento sistematico. ! La sussistenza di un più o meno marcato conflitto di interessi è insito nello stessa ipotesi secondo la quale i soggetti agiscono perseguendo l’esclusivo fine di massimizzazione della propria funzione di utilità. In quest’ottica, le operazioni che l’intermediario compie con parti correlate costituiscono una pericolosa opportunità di appropriazione indebita - la giurisprudenza anglosassone la definirebbe unfair - di risorse aziendali da parte di queste ultime, a scapito dell’impresa e/o della totalità degli stakeholder: è, questo, il fenomeno comunemente definito tunneling. Il tema è stato ampiamente dibattuto nella letteratura economica-aziendale, che arriva a definire la correttezza sostanziale e procedurale - principio che, insieme alla ! 12 Così il legislatore europeo, al considerando 48 della direttiva 2006/48/CE, espone il problema: «l’eccessiva concentrazione di fidi a favore di un unico cliente o di un gruppo di clienti collegati può comportare il rischio di perdite di livello inaccettabile. Tale situazione può essere ritenuta pregiudizievole per la solvibilità dell’ente creditizio». !134 trasparenza informativa, dovrebbe permeare le operazioni di tal genere (art. 2391 bis cod. civ) - come il “cardine di un ordinamento strategico di fine lungimirante”13. Posto che l’impostazione che la Banca d’Italia ha dato alla disciplina delle operazioni con parti correlate mutua gran parte della sua struttura da quella adottata dalla Consob con il Regolamento n. 17221, è opportuno analizzare quest’ultima con estrema attenzione. D’altronde - è bene sottolinearlo - nel caso in cui una banca intenda porre in essere un’operazione rientrante nell’ambito applicativo di entrambe le discipline, dovrà agire in ottemperanza al complesso delle disposizioni in esse contenute. Il quadro normativo in tema di operazioni con parti correlate risulta essere, come purtroppo accade spesso, alquanto frammentato e disorganico. Nel ricostruirlo, la prima disposizione che è opportuno menzionare il già accennato articolo 2391-bis cod. civ., entrato in vigore, peraltro, solo nel 200514; la norma, infatti, istituisce l’obbligo, in capo agli organi di amministrazione delle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, di adottare regole che - in conformità ai principi generali dettati dalla Consob - assicurino la già accennata correttezza sostanziale e procedurale delle operazioni con parti correlate che, direttamente o indirettamente, la società intenda concludere. Posta la potenziale complessità di questo compito, lo stesso articolo prevede la possibilità che la società destinataria dell’obbligo usufruisca dell’assistenza di esperti indipendenti; questo intervento è, peraltro, “auspicato” nel momento in cui lo stesso venga suggerito dalla natura, dal valore e dalle caratteristiche dell’operazione da effettuare. In ogni caso, la relazione sulla gestione allegata al bilancio di esercizio deve contenere riferimenti analitici ai procedimenti in questo ambito adottati. Ulteriore obbligo verte, poi, in capo all’organo di controllo della società, cui è demandato il compito di vigilare sull’osservanza delle regole dalla società adottate, riferendone, di conseguenza, ! 13 V. Coda, Trasparenza informativa e correttezza gestionale: contenuti e condizioni di contesto, in Scritti di economia aziendale in onore di Raffaele D’Oriano, Cedam, Padova 1997. ! 14 L’articolo è stato introdotto dal d.lgs. n. 310 del 28 dicembre 2004, avente ad oggetto “integrazioni e correzioni alla disciplina del diritto societario ed al testo unico in materia bancaria e creditizia". !135 all’assemblea dei soci; evidentemente, il legislatore, nel prevedere quest’obbligo, ha inteso creare una sinergia tra tale organo di controllo e l’Autorità cui ugualmente, anche se in via “indiretta”, spetta il compito di vigilare sull’osservanza delle regole. Una prima considerazione utile per comprendere la portata dell’articolo in parola è che l’ambito soggettivo di applicazione risulta essere circoscritto alle società “aperte”, vale a dire quelle che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio. Di conseguenza, disciplina diversa e meno stringente sarà applicabile alle società “chiuse”: in particolare, le norme sull’amministratore portatore di un interesse extrasociale - non necessariamente configgente con quello della società - previste dall’articolo 2391 cod. civ. e le norme sugli acquisti pericolosi di cui all’articolo 2343 bis cod. civ.15 A differenza dell’articolo 2391 c.c., peraltro, l’articolo 2391 bis, risulta carente sotto il profilo sanzionatorio; non prevede, cioè, conseguenza alcuna al suo inadempimento da parte degli amministratori ovvero, più in generale, al compimento di operazioni in violazione dei principi dettati dalla Consob o delle regole adottate dall’organo di amministrazione stesso. Tuttavia, dottrina e giurisprudenza generalmente concordano sulla riconducibilità di tali situazioni alle regole societarie generali. I soci avranno, dunque, la facoltà di censurare all’organo di controllo, ex art. 2408 cod. civ., l’inerzia dell’organo di amministrazione; la delibera adottata dall’organo di amministrazione in violazione delle disposizioni di cui all’articolo 2391 bis sarà impugnabile ex art. 2388 cod. civ. e così via. È essenziale, poi, notare come la tecnica legislativa adottata si fondi sul demandare all’Autorità di vigilanza la definizione di principi generali in considerazione dei quali le società destinataria saranno tenute ad adottare le accennate procedure; “principi generali”, questi, che, in un certo senso, presentano carattere di dettaglio, in quanto chiamati a disciplinare le o.p.c. in termini molto profondi: competenza decisionale, motivazione e documentazione. A tal fine, la Consob ha avviato, a partire dal 2008, ! 15 Cfr., per un’analisi del rapporto esistente tra normativa civilistica e attività regolamentare dell’Autorità di vigilanza, M.E. Salerno, La vigilanza regolamentare sulle banche: problemi di coordinamento con il nuovo diritto societario, in Diritto della banca e del mercato finanziario, 2005, fasc. 413. !136 una approfondita procedura di consultazione su una bozza di articolato la cui linea di fondo era, coerentemente con quanto disposto dalla norma codicistica nonché con gli indirizzi OCSE16 e della Commissione Europea17 in tema, la ulteriore valorizzazione del ruolo degli amministratori indipendenti18; questi, “gli attori al massimo livello aziendale più facilmente in grado di rappresentare l’interesse della generalità dei soci garantendo al contempo l’efficacia e la rapidità decisionale necessarie ad una gestione efficiente dell’impresa”19. A ciò si aggiungevano, poi, disposizioni atte a rendere più pregnante la trasparenza delle operazioni di maggiore rilevanza, in modo tale da costituire - la trasparenza - uno strumento complementare alla correttezza di cui poc’anzi. Il risultato del confronto con il mercato ha, sostanzialmente, confermato la bontà di questa impostazione, ritenuta idonea a tutelare gli investitori e ad assicurare il corretto funzionamento del mercato; in particolare, date le numerose difficoltà interpretative dell’articolo 71-bis del Regolamento Emittenti (tanto in termini di individuazione delle operazioni da comunicare20 quanto in termini di ! 16 OECD, Principles of Corporate Governance, 2004. 17 ! Raccomandazione 2005/162/CE. ! 18 La giurisprudenza in materia di amministratori indipendenti è, purtroppo, ancora esigua. Cionnondimeno, una prima, importante sentenza (Tribunale di Milano, Sez. I pen., 18 dicembre 2008, caso Parmalat)., esprimeva l’idea secondo la quale l’indipendenza è una mera qualifica, non comportante poteri e doveri diversi da quelli normalmente a carico degli amministratori. Diversa - opposta, per certi versi - posizione è stata adottata nella sentenza della sez. V penale della Cassazione n. 28932/2011 del 20 luglio 2011 in cui si statuiva che “l’amministratore indipendente è soggetto pur sempre collocato dall’ordinamento in una posizione di garanzia, cioè di protezione di interessi diffusi propri di categorie (azionisti, creditori, dipendenti, ecc.) che non dispongono di adeguate capacità cognitive della realtà societaria”. In questo modo, la S.C. inaugurava la strada per la ulteriore valorizzazione del ruolo degli amministratori indipendenti anche in ambito giurisprudenziali. ! 19 Consob, Relazione illustrativa sull’attività di analisi d’impatto della regolamentazione e sugli esiti della procedura di consultazione; cfr. anche F. Ferrara, F. Corsi, Gli imprenditori e le società, Giuffrè, 2011, pp. 747-751. ! 20 L’articolo 71-bis R.E. definiva le operazioni da comunicare quali quelle che “per oggetti, corrispettivo, modalità o tempi di realizzazione possono avere effetti sulla salvaguardia del patrimonio aziendale o sulla completezza e correttezza delle informazioni, anche contabili, relative all’emittente”. Il circoscrivere la portata degli obblighi comunicativi attraverso parametri esclusivamente qualitativi (oltre che alquanto inusuali), ha dato la possibilità alle società interessate di adottare, nell’applicazione della norma, diverse e non coincidenti interpretazioni, così minando la certezza di cui la disciplina della disclosure necessita. È chiara l’inefficacia della disposizione: il numero di operazioni comunicate ai sensi dell’art. 71-bis nel periodo 2003-2007 è stato, d’altronde, basso. !137 tempistiche e contenuto), ha riscosso grande consenso il progetto di rinnovare la disciplina della trasparenza in esso contenuta. In sintesi, dunque, il progetto della Consob in tema di o.p.c. si poneva due obiettivi, fra loro complementari: correttezza sostanziale e procedurale, da un lato, e trasparenza nei confronti del mercato, dall’altro. Perno del sistema preposto al raggiungimento di questi obiettivi sono gli amministratori indipendenti, ai quali è affidato il compito di partecipare - in misura più o meno incisiva, a seconda degli interessi in gioco: principio di proporzionalità alla gestione dell’operazione. Completato positivamente il confronto con il mercato21, la Consob procede, con delibera n. 17221 del 12 marzo 2010, ad emanare il regolamento in materia di o.p.c., poi modificato la delibera n. 17389 del 23 giugno 2010; a questo seguirà, poi, la Comunicazione n. 10078683 del 24 settembre 2010, contenente “indicazioni e orientamenti per l’applicazione del Regolamento”. ! ! 3.4. Segue: Le nozioni di “parte correlata”. Il riferimento allo IAS 24. ! L’articolo 2391 bis cod. civ. non fornisce una definizione analitica di parte correlata. L’incertezza che ha da sempre caratterizzato l’individuazione del perimetro di correlazione ha, d’altronde, portato la dottrina a ritenere la nozione di parte correlata ! 21 Per una approfondita disamina delle problematiche oggetto di discussione nel corso della consultazione, cfr. P. Montalenti, Corporate governance e mercati finanziari, in AA.VV., I nuovi equilibri mondiali: imprese, banche, risparmiatori, Atti del Convegno CNPDSFondazione Courmayeur, 26-27 settembre 2008, Giuffrè, Milano, 2008, pp. 67 ss; P. Montalenti, Osservazioni al documento di consultazione Consob, dicembre 2009; M. Stella Richter, Brevi osservazioni sulla proposta di disciplina regolamentare in materia di operazioni con parti correlate, in Rivista di diritto societario, 2008, pp. 846 ss.; D. Santosuosso, Sulla disciplina regolamentare di attuazione dell’art. 2391-bis in materia di operazioni con parti correlate, in Rivista di diritto societario, 2008, pp. 849 ss; M. Maugeri, Le operazioni con parti correlate nei gruppi societari, in Riv. dir. comm., 2010, pp. 887 ss.; M. Miola, Le operazioni con parti correlate, op. cit., pp. 643 ss.; V. Salafia, Le operazioni con parti correlate, in Società, 2010, pp. 736 ss. !138 una nozione “a geometria variabile”22. Il regolamento, nel determinare tale nozione, riprende, dunque, quella contenuta nello IAS23 24, attinente, appunto, alla “informativa di bilancio sulle operazioni con parti correlate”. Non si tratta, però, di un vero e proprio rinvio; l’allegato 1 del regolamento, infatti, invece di fare diretto riferimento al principio contabile (ad esso “rinviando”, appunto), ne riproduce - quasi pedissequamente - il contenuto24. La tecnica utilizzata ha un suo preciso fine: di questo modo, infatti, viene esclusa la rilevanza di eventuali future modifiche dello IAS 24, le quali, perché possano essere valide in ambito nazionale, necessiteranno, dunque, di un apposito intervento normativo; tra la ricerca della certezza del diritto e il pericolo di una sua cristallizzazione, insomma, la Consob ha optato per la prima25. Sempre nell’allegato 1, poi, si può rinvenire un rinvio generale agli stessi IAS: dopo aver statuito la vigenza - nell’esame di ciascun rapporto con parti correlate - del 22 ! M. Ventoruzzo, Operazioni con parti correlate, in P. Marchetti, L.A. Bianchi, F. Ghezzi, M. Notari (a cura di), Commentario alla riforma delle società, 2005, p. 502. Per una interessante e accurata analisi della nozione - particolarmente discussa in dottrina - di parte correlata contenuta nel T.u.i.r., poi, cfr. R. Moro Visconti, Gruppi di imprese: informativa sulle parti correlate, in Impresa c.i., 6/2007, p. 832. ! 23 International Accounting Standards, emanati dalla International Accounting Standards Committee (IASC). ! 24 Questa impostazione fu duramente criticata da Ferro Luzzi, il quale sosteneva, nella fase di consultazione, come la diversa ratio sottostante le due discipline (quella contenuta nello IAS 24 e quella contenuta nell’emanando Regolamento n. 17221) non permettesse l’adozione di una definizione di parte correlata sostanzialmente coincidente. Cfr. P. Ferro Luzzi, Osservazioni sul documento di consultazione Consob 2009. È stato, inoltre, osservato come tale tecnica di regolamentazione non sia stata seguita in nessuno degli altri dei Paesi europei: Regno Unito, Francia e Germania hanno, infatti, elaborato nozioni di parte correlata che, seppure aventi come punto di riferimento il principio IAS, risultano rispetto a questo autonome. Cfr. in questo senso, F. Chiappetta, Le operazioni con parti correlate: profili sistematici e problematici in dircomm.it, Rivista diretta da G. Cabras e P. Ferro Luzzi, 2008. ! 25 Diversa impostazione fu, invece, adotta dal CICR. La già analizzata deliberazione n. 277, infatti, contiene due rinvii espressi allo IAS 24: all’articolo 1, co. 1, lett. e) (nozione di parte correlata) e all’articolo 1, co. 2, lett. c) (nozione di soggetto connesso a una parte correlata). !139 principio della prevalenza della sostanza sulla forma26, è previsto che le definizione lì contenute debbano essere interpretate “facendo riferimento al complesso dei principi contabili internazionali”. ! ! Le nozioni di controllo e di influenza notevole. ! Fatte queste necessarie considerazioni, passiamo alla disciplina. Il regolamento statuisce, in primo luogo, che deve considerarsi parte correlata di una società chi direttamente o indirettamente, anche attraverso società controllate27, fiduciari o interposte persone, controlla la società, ne è controllato, o è sottoposto a comune controllo. Nel determinare la nozione di controllo, la Consob, peraltro, ha optato per una definizione diversa ed autonoma da quella contenuta nell’articolo 2359 cod. civ. Si legge, infatti, nell’allegato 1 al regolamento che è tale il potere di “determinare le politiche finanziarie e gestionali di un’entità28, al fine di ottenere benefici dalle sue ! 26 La trasposizione del principio della substance over the form nell’ordinamento italiano ha suscitato non poche critiche; infatti, il principio - già applicato dalla Corte di Cassazione in ambito tributario, cfr. Cass. 26 febbraio 2010, n. 4737 - deriva dal diverso contesto dei princìpi contabili internazionali. Poste le diverse finalità delle due normative, da questa scelta possono derivare “potenziali incertezze”; come nota Montelenti “ha una potenzialità eversiva della struttura sistematica dell’ordinamento societario, in cui il superamento della forma deve essere effettuato in modo estremamente controllato, pena la distruzione di secoli di civiltà giuridica”. P. Montalenti, Le operazioni con parti correlate, in Studi in ricordo di Per Giusto Jaeger, Milano Giuffrè 2011. ! 27 Una società controllata è un’entità, anche senza personalità giuridica, come nel caso di una società di persone, controllata da un’altra entità. ! 28 L’utilizzo del termine “entità” dovrebbe portare a ritenere l’inclusione nell’ambito di applicazione della disciplina di enti non societari, i.e. i fondi comuni di investimento. !140 attività”29. Per meglio chiarire tale nozione - che purtroppo, data la sua vaghezza, presenta caratteri di incertezza - vengono individuati dei casi in cui la sussistenza del controllo va presunto. Ciò vale, in primo luogo, quando il soggetto presunto controllante possiede più della metà dei diritti di voto di un’entità. La presunzione in parola - valevole, ovviamente, anche nel caso in cui il possesso avvenga indirettamente, attraverso società controllate - è di tipo forte; seppure non definibile iuris et de iure, può essere infatti smentita solo in casi “eccezionali”: quando, cioè, è “chiaramente” dimostrato che dal possesso dei suddetti diritti di voto non deriva il controllo così come definito sopra. Nel caso, poi, in cui un soggetto possegga una quota inferiore alla metà dei diritti di voto, questo si considera controllante l’entità partecipata nell’eventualità in cui abbia - in forza di un accordo con gli altri investitori - la disponibilità della maggioranza dei diritti di voto; ancora, se, in forza di uno statuto o di un accordo, può comunque determinare le politiche finanziarie e gestionali dell’entità. Nel caso in cui il controllo così definito sia detenuto dal Consiglio di Amministrazione (ovvero dal corrispondente organo gestionale, nei sistemi dualistico e monistico), poi, il soggetto che detiene tale quota - ci si riferisce alla quota inferiore alla metà dei diritti di voto è da presumersi controllante se: ha il potere di nominare o di rimuovere la maggioranza del C.d.A.; ha il potere di esercitare, nelle sedute del C.d.A., la maggioranza dei diritti di voto. Continuando nell’esposizione della nozione di parte correlata, l’Allegato 1 al Regolamento prevede, in secondo luogo, che sia tale il soggetto che, in forza di ! 29 La definizione adottata dalla Consob e mutuata dallo IAS 24 presenta, data la sua vaghezza, non pochi profili problematici. In primo luogo, il riferimento alla finalità di ottenere benefici sembra - ma così non è - presupporre l’insufficienza del potere di ottenere benefici; con le parole di Ferro-Luzzi, cioè, “la norma non è formulata nel senso che il potere deve essere tale da rendere possibile l’ottenimento di benefici, ma piuttosto nel senso che l’ottenimento dei benefici deve essere il fine specifico e qualificante del potere”; inoltre, risulta quanto meno difficoltosa l’individuazione della natura del benefici che dalla controllata la controllante dovrebbe poter ottenere perché si configuri il controllo: “i benefici in questione non possono essere quelli tipici, comuni alla società come tale ed ai suoi soci (produrre e distribuire utili) […] Si dovrebbe piuttosto trattare delle estrazione di benefici particolari, specifici, e per i controllanti, non dunque per tutti”. Cfr. P. Ferro-Luzzi, Le operazioni con parti correlate infragruppo, in Studi in ricordo di Per Giusto Jaeger, Giuffrè, 2011, pp. 328-329. !141 clausole statutarie o accordi ovvero attraverso il possesso di azioni, abbia il potere di esercitare si di essa un’influenza notevole; quest’ultima definita come il potere di “partecipare” alla determinazione delle politiche finanziarie e gestionali della partecipata, pur non avendone il controllo. Tale potere va presunto, in primo luogo, quando il soggetto possiede - direttamente o indirettamente - una quota dei voti esercitabili in assemblea pari o superiore al venti per cento; analogamente a quanto stabilito in tema di controllo, peraltro, tale presunzione è di tipo forte, non potendo essere dimostrato il contrario se non in casi eccezionali.30 Al fianco di tale presunzione, sono, poi, individuate alcune circostanze considerate sintomatiche della sussistenza di influenza notevole (ad esempio, la rappresentanza nel consiglio di amministrazione). Si noti, infine, che la Consob, con una disposizione a dire il vero molto opportuna, ha stabilito che la presenza di un soggetto in possesso di una quota maggioritaria dei diritti di voto non esclude, per ciò solo, la possibilità che un diverso soggetto si trovi contemporaneamente nella posizione di esercitare un influenza notevole. ! ! Il controllo congiunto: la questione dei patti parasociali. ! Il terzo caso in cui un soggetto deve considerarsi parte correlata è quando questo esercita - direttamente o indirettamente - il controllo sulla società congiuntamente ad altri soggetti. La questione, delle cui vicende in ambito bancario si è trattato nel Capitolo II, è particolarmente delicata. Il controllo congiunto è, infatti, definito come la “condivisione, stabilita contrattualmente, del controllo su un’attività economica”. Questa definizione - mutuata anch’essa dallo IAS 24 - non chiarisce, però, le condizioni al verificarsi delle quali il partecipante ad un patto parasociale - idoneo, questo, a vincolare una quota di diritti di voto da cui derivi il controllo come sopra ! 30 Al contrario, il possesso di una quota inferiore al venti per cento dei voti esercitabili esclude - tendenzialmente - la sussistenza di influenza notevole; ciò, però, sempre che non possa essere chiaramente dimostrato il contrario. !142 definito - debba ritenersi parte correlata31. La questione, peraltro, era già stata posta nella fase consultiva da diverse associazioni di categoria (in particolare, dall’ABI); queste evidenziavano come l’inclusione nella categoria di parti correlate di soggetti che, pur detenendo una modesta quota dei diritti di voto, partecipassero ad un patto di sindacato ponesse il rischio di un’eccessiva estensione dell’ambito di applicazione della disciplina. La Consob, però, ha ritenuto che la soluzione proposta dai partecipanti alla consultazione - la determinazione di una soglia rigida, al di sotto della quale il partecipante al patto di sindacato non debba ritenersi parte correlata potesse comportare effetti deleteri per quanto riguarda l’ambito di applicazione del Regolamento, non includendo, in questo modo, soggetti che - in forza della loro influenza - possono comunque compromettere l’integrità di giudizio dei consiglieri nell’effettuazione dell’operazione. In ogni caso, è espressamente chiarito che non ogni partecipante ad un patto di sindacato debba, per ciò solo, essere considerato una parte correlata e, dunque, essere destinatario della disciplina contenuta nel Regolamento32. Nello stabilire, nel caso concreto, se un pattista sia parte correlata o meno, la società dovrà, dunque, tener conto di diversi e variabili fattori: le specifiche caratteristiche - sostanziali - del patto; le clausole in esso contenute; i rapporti che legano i partecipanti, le prassi applicative sviluppatesi nel tempo. Nell’eventualità in cui tali fattori denotino la sussistenza del controllo (individuale o congiunto) ovvero l’esercizio di influenza notevole, il pattista dovrà , di conseguenza, essere qualificato come parte correlata. Si capisce, dunque, come l’ambito di incertezza che la questione pone sia molto esteso. Posta, dunque, la difficoltà di individuare condizioni univoche al verificarsi delle quali l’associato al patto di sindacata acquista la qualità di parte correlata, è ! 31 Sulla questione già si interrogava, nel 2005, Ventoruzzo, il quale evidenziava l’ambiguità della disciplina nel non chiarire se, perché si potesse qualificare il pattista parte correlata, fosse necessario individuare o no un unico soggetto in grado di esercitare il controllo mediante il patto; cfr. M. Ventoruzzo, Sub art. 2391-bis, in F. Ghezzi (a cura di) Commentario alla riforma delle società. Vol. 4: Amministratori. Artt. 2380-2396, Egea, 2005, p. 507; cfr., inoltre, V. Cariello, Controllo congiunto e accordi parasociali, Giuffrè, Milano 1997. ! 32 Cfr. Comunicazione Consob n. DEM/10078683 (“Indicazioni e orientamenti per l’applicazione del Regolamento sulle operazioni con parti correlate), p. 2. !143 possibile, però, operare alcune esclusioni. In primo luogo, dovrebbero essere sottratti al novero dei patti di sindacato a questi fini rilevanti quelli comportanti un obbligo di mera consultazione preventiva: da questi, evidentemente, non deriva il controllo sostanziale - sull’attività economica di cui sopra; in secondo luogo, onde evitare il dover ritenere ogni socio in posizione di influenza notevole, l’inclusione, tra le circostanza sintomatiche della sussistenza di influenza notevole sopra accennate, della “partecipazioni alle decisioni in merito ai dividendi o ad altro tipo di distribuzione degli utili” deve doversi ritenere riferita esclusivamente alle deliberazioni del C.d.A.33 ! ! Altri casi. ! Sono, inoltre, parti correlate: le società collegate34; le joint venture35 in cui la società partecipa; i dirigenti con responsabilità strategica della società, vale a dire quei soggetti cui è demandata la pianificazione, la direzioni e il controllo delle attività della società; gli stretti familiari36 dei soggetti controllanti (anche congiuntamente) la società ovvero esercitanti su di essa un’influenza notevole nonché dei dirigenti con responsabilità strategica. Nell’eventualità in cui questi ultimi soggetti (nonché i dirigenti di cui sopra), esercitino il controllo, anche congiunto, ovvero un’influenza notevole37 in una entità terza - il riferimento alla “entità” porta ad includere, come detto, anche i fondi comuni di investimento - , anche questa va, peraltro, considerata ! 33 Cfr. P. Montalenti, op. cit., p. 382. 34 ! Una società collegata è un’entità, anche senza personalità giuridica, come nel caso di una società di persone, in cui un socio eserciti un’influenza notevole ma non il controllo o il controllo congiunto. ! 35 Una joint venture è un accordo contrattuale con il quale due o più parti intraprendono un’attività economica sottoposta a controllo congiunto ! 36 Si considerano stretti familiari di un soggetto quei familiari che ci si attende possano influenzare il, o essere influenzati dal, soggetto interessato nei loro rapporti con la società. ! 37 Tali entità vanno considerate parti correlate altresì quando i soggetti di cui sopra, pur non esercitando il controllo o l’influenza notevole, detengono, direttamente o indirettamente, una quota significativa non inferiore al venti per cento dei diritti di voto. !144 parti correlate. Infine, sono incluse nel perimetro di parte correlata i fondi pensionistici complementari - collettivi o individuali, italiani o esteri - costituiti a favori dei dipendenti della società; si deve ritenere, come precisato nelle Linee Guida emanate dalla Consob, che il riferimento ai fondi pensionistici non sia diretto a tutti i fondi di cui beneficino i dipendenti della società bensì solo a quelli “istituiti o promossi dalla società” nonché a quelli sui quali la società può esercitare un’influenza notevole38. La nozione appena riportata di parte correlata non esaurisce, peraltro, l’ambito di applicabilità della disciplina. Perseguendo l’obiettivo di una forte flessibilità della disciplina in tema di o.p.c., alle società interessate è, infatti, data la possibilità di individuare ulteriori categorie di soggetti cui applicare - in tutto o in parte - le procedure adottate ex artt. 7 e 8; tale valutazione, si legge nell’articolo 4, co. 2 del Regolamento, dovrà tener conto degli assetti proprietari, di eventuali vincoli contrattuali o statutari da cui deriva alternativamente l’esercizio dell’influenza dominante (art. 2359, co. 1, n. 3 cod. civ.) o l’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento (art. 2497-septies cod. civ.), nonché delle eventuali discipline di settore. ! ! 3.5. Segue: La nozione di “operazione”: i prestiti erogati da pool di banche ! Per quanto riguarda la nozione di “operazione” con una parte correlata, poi, viene precisato che è tale “qualunque trasferimento risorse, servizi o obbligazioni fra parti correlate”, e ciò a prescindere dal fatto che sia stato pattuito un corrispettivo. Anche in questo caso, le definizione è sostanzialmente mutuata da quella contenuta nello IAS 24. Quest’ultima viene, tuttavia, integrata attraverso il richiamo ad altre particolari tipologie di operazioni: in primo luogo, le operazioni di fusione, di scissione per incorporazione o di scissione in senso stretto non proporzionale, ove ! 38 Per approfondimenti sui fondi pensionistici, cfr. M. Foschini, Il diritto del mercato finanziario, Giuffrè, 2008. !145 realizzate con parti correlate39 ; in secondo luogo, ogni decisione relativa all’assegnazione di remunerazioni e benefici economici, sotto qualsiasi forma, ai componenti degli organi di amministrazione e controllo e ai dirigenti con responsabilità strategiche40. In questo modo vengono superati alcuni dubbi - sorti nel corso della prima consultazione - posti dal principio contabile circa l’inclusione delle dette transazioni societarie, anch’esse comportanti forti pericoli di espropriazione; anch’esse, cioè, idonee a configurarsi come tunneling transactions, se non altro in considerazione della loro natura irreversibile. Cionnondimeno, è inevitabile notare come il Regolamento non faccia riferimento ad altre e frequenti tipologie di operazioni; in primo luogo, agli aumenti di capitale. Soccorrono a tal fine le Linee Guida, dalle cui disposizioni si deduce che devono essere considerate operazioni con parti correlate solo gli aumenti di capitale (con esclusione del diritto di opzione) riservati a soggetti qualificati, appunto, come parti correlate; non vanno, invece, incluse nel novero delle operazioni con parti correlate gli aumenti di capitale con diritto di opzione offerti (a parità di condizioni) a tutti i possessori di strumenti finanziari, siano essi parti correlate o meno. ! 39 Si noti che, con riguardo alle operazioni di fusione, sono soggette alla disciplina tutte le operazioni coinvolgenti una società quotata e una parte correlata. Con riguardo, invece, alle operazioni di scissione, il Regolamento è applicabile solo alle scissioni per incorporazione con una parte correlata e alle scissioni in senso stretto non proporzionale; al contrario, non sono incluse nel novero delle operazioni con parti correlate le scissioni in senso stretto di tipo proporzionale: queste, infatti, sono rivolte (indifferentemente) a tutti i soci, a parità di condizioni. Cfr. Documento di consultazione Consob 2008, p. 24. ! 40 Con riguardo alle decisioni relative all’assegnazione di remunerazioni e di benefici economici, si deve tener presente che l’articolo 13 del Regolamento prevede una lunga serie di esenzioni, sia per quanto riguarda la disciplina procedurale, sia per quanto riguarda la disciplina della trasparenza. !146 Particolarmente rilevanti ai nostri fini è la possibile inclusione, nel novero delle operazioni con parti correlate, dei prestiti sindacati erogati da pool di banche41 a cui partecipi una parte correlata del soggetto beneficiario del prestito. Ai fini dell’applicazione delle disciplina delle o.p.c. bisognerà tener conto, però, di diversi fattori: l’influenza delle parte correlata nell’assunzione delle decisioni riguardanti le condizioni economiche e giuridiche del finanziamento; la quota del finanziamento erogata dalla parte correlata in relazione al totale di questo. Ne deriva che, nell’eventualità in cui la banca partecipante al pool rivesta un ruolo secondario (“minoritario”), l’operazione di finanziamento non sarà soggetta alla disciplina del Regolamento; al contrario, nel momento in cui la parte correlata svolge, anche insieme ad altre banche non correlate, il ruolo di arranger - per tale intendendosi, appunto, il soggetto cui è demandata la definizione delle condizioni del finanziamento - l’operazione sarà sicuramente configurabile quale operazione con parte correlata.42 In ogni caso, è bene ricordare che anche ai fini della configurazione di una operazione come o.p.c., vale il principio generale della substance over the form: nella valutazione, non bisogna aver esclusivo riguardo al nomen iuris; ciò che si deve indagare è, invece, la direzione del sostanziale beneficio economico derivante dall’effettuazione dell’operazione. ! ! ! 41 Con riguardo al fenomeno del finanziamento delle imprese industriali effettuato mediante la costituzione di pool di banche, cfr. M. Messori, La separatezza fra industria e banca: il punto di vista di un economista, op. cit., p. 50, il quale evidenzia come spesse volte questo si sia verificato nell’ambito di dissesti finanziari dei grandi gruppi industriali italiani; si legge: “di fronte alle crescenti difficoltà finanziarie di grandi e medi gruppi industriali e alla conseguente richiesta di ristrutturazione dei debiti (esempio emblematico: il gruppo Fiat) o di fronte agli ingenti fabbisogni finanziari manifestati dai maggiori gruppo speciosi di pubblica utilità (si pensi a Olivetti e Pirelli in Telecomitalia, al gruppo Fiat in Edison, al gruppo Benetton in Autostrade), le nostre banche di sono viste costrette a soddisfare gran parte di tali richieste costituendo pool di finanziamenti […] Questi comportamenti hanno riprodtto e incentivato la pratica del multiaffidamento e hanno derubricato […] le partecipazioni proprietarie delle nostre banche nelle imprese industriali a semplici strumenti di consolidamento di credit dubbi o di integrazione dei tradizioni contratti di debito”. ! 42 Cfr. L. Falcioni, Finanziamenti in pool, in I. Demuro (a cura di), Le operazioni di finanziamento alle imprese: strumenti giuridici e prassi, Torino, Giappichelli, 2010 !147 3.6. Segue: L’indipendenza degli amministratori. ! L’articolo 3, co. 1, lett. h) chiarisce la nozione di indipendenza; in linea generale, un amministratore (o consigliere di gestione, nel caso di adozione del sistema dualistico) è tale se in possesso dei requisiti previsti dall’articolo 148, co. 3 TUF in tema di incompatibilità dei sindaci. In questo senso, non devono considerarsi amministratori indipendenti, in primo luogo, coloro che si trovano nelle condizioni previste dall'articolo 2382 del codice civile; vale a dire: l’interdetto, l’inabilitato, il fallito o il condannato ad una pena che importa l’interdizione, anche temporanea, dai pubblici uffici o l’incapacità di esercitare uffici direttivi43. Ancora, ex art. 148, co, 3, lett. b), non sono in possesso dei requisiti di indipendenza: il coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado degli amministratori della società, gli amministratori, il coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado degli amministratori delle società da questa controllate, delle società che la controllano e di quelle sottoposte a comune controllo44. Per ultimo, non sono indipendenti coloro che sono legati alla società od alle società da questa controllate od alle società che la controllano od a quelle sottoposte a comune controllo ovvero agli amministratori della società e ai soggetti di cui alla lettera b) (v. supra) da rapporti di lavoro autonomo o subordinato ovvero da altri rapporti di natura patrimoniale o professionale che ne compromettano l’indipendenza. Per quanto riguarda quest’ultimo requisito, è interessante notare come il legislatore, nel dettare la disciplina speciale, si sia - a differenza di quanto fatto in relazione ai precedenti criteri - discostato dalle previsioni codicistiche di cui agli artt. 2399 e 2409-duodecies cod. civ45. ! 43 Cfr. ex multis, F. Galgano, Commentario al codice civile, La Tribuna, 2012, pp. 2553-2554. ! 44 Circa l’incompletezza delle cause di ineleggibilità dipendenti da rapporti di parentela ed affinità, cfr. M. Fratini, G. Gasparri (a cura di), Il testo unico della finanza, Utet, 2012, pp. 1987, dove si critica la mancata inclusione di rapporti che “pure sono suscettibili di minare l’indipendenza dell’organo di controllo: il pensiero corre, evidentemente, ai rapporti di coniugio, parentela e affinità coi soci di controllo, ovvero col direttore generale, o comunque con altri soggetti facenti parte del settore dirigenziale”. Cfr., inoltre, G. Cavalli, I sindaci, in Colombo, Portale (a cura di), Trattato delle società per azioni, 5/1988, p. 166; P. Montalenti, S. Balzola, La società per azioni quotata, Zanichelli, 2010, p. 130. 45 ! Cfr. M. Fratini, G. Gasparri, op. cit., p. 1987. !148 Come si può facilmente notare, le disposizioni appena esposte - come, d’altronde, le disposizioni codicistiche - sono caratterizzate per il fatto di presentare un ampio margine di discrezionalità. È questo il motivo per il quale il Regolamento Consob prevede che ai requisiti previsti dal TUF si sostituiscano, nel caso in cui la società dichiari ex art. 123 bis, co. 2 TUF ad un codice di autodisciplina (promosso dalla società di gestione dei mercati regolamentati o da una associazione di categoria), i diversi requisiti da questo previsti; ciò, però, a condizione - rispettata dal codice di disciplina delle società quotate italiane - che questi ultimi siano “almeno equivalenti” a quelli previsti dalla normativa speciale. Di conseguenza, nel caso di società quotate italiane, dovranno considerarsi indipendenti gli amministratori (o consiglieri) in possesso dei (diversi ma equivalenti) requisiti previsti dal suddetto codice46 . L’articolo 3 del codice di autodisciplina prescrive, in tal senso, la regola generale secondo la quale un numero “sufficiente” di amministratori debba essere indipendente, non intrattenendo, o avendo di recente intrattenuto - direttamente o indirettamente - relazioni con l’emittente o con soggetti a questa collegati che possano pregiudicarne l’autonomia di giudizio. In questo contesto, un ruolo centrale è affidato al consiglio di amministrazione, chiamato a valutare, al momento della nomina dell’amministratore e, successivamente, con cadenza almeno annuale, la sussistenza dei requisiti di indipendenza; i risultati di tale valutazione - effettuata sulla base delle informazioni fornite dall’interessato nonché delle informazioni comunque in possesso del consiglio - andranno, poi, comunicati al mercato e inclusi nella relazione sul governo societario. A vigilare sulla correttezza di tale valutazione è chiamato il collegio sindacale.47 Alla medesima ratio - restringere il margine di discrezionalità nella qualificazione di un amministratore come indipendente - rispondono altre due previsioni contenute nel ! 46 Cfr. D. Regoli, Gli amministratori indipendenti e i codici di autodisciplina, in P. Marchetti, D.U. Santosuosso, La governance nelle società di capitali. A dieci anni dalla riforma, Egea, Milano 2013, pp. 127 ss. ! 47 Per approfondimenti, cfr. N. Salanitro, Nozione e disciplina degli amministratori indipendenti, Giappichelli, Torino 2010; F. Di Donato, Gli amministratori indipendenti: corporate governance, earning management, Luiss University Press, Roma 2012; V. Di Nicolantonio, Gli amministratori indipendenti di società quotate: profili di disciplina, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2011. !149 Regolamento. In primo luogo, è data alla società la facoltà di individuare, nell’adottare le procedure oggetto del prossimo paragrafo, ulteriori requisiti; in secondo luogo - si tratta di una disposizione a dire il vero opportuna - è espressamente previsto che, nel caso di applicabilità di normative di settore, ai requisiti da previsti dal TUF si aggiungano quelli in questa contenuti. ! ! 3.7. Segue: Il principio di proporzionalità: la distinzione tra operazioni di maggiore e di minore rilevanza. ! In linea con quanto previsto dalle delega contenuta nell’articolo 2391 bis cod. civ., il regolamento pone l’obbligo, in capo al C.d.A. o al Consiglio di Gestione, di adottare procedure che - coerenti con i principi indicati dalla Consob - assicurino la trasparenza e la correttezza sostanziale e procedurale delle operazioni con parti correlate. Il procedimento di adozione, data la delicatezza del tema, è anch’esso analiticamente disciplinato (art. 4); la delibera di adozione (o di modifica), infatti, può essere adottata solo previo parere favorevole di un comitato, anche appositamente costituito, composto esclusivamente da amministratori indipendenti. Successiva all’adozione deve essere la pubblicazione - che, si legge, deve avvenire “senza indugio” - sul sito internet della società; rimane comunque fermo il generale obbligo di pubblicità nella relazione sulla gestione. Come si accennava, poi, l’organo di controllo della società interessata ha l’obbligo di vigilare sulla conformità (ai principi Consob) delle procedure così adottate nonché sulla loro successiva osservanza. Posta la vigenza, e la pregnanza, del principio di proporzionalità, il regolamento prevede le suddette procedure operino una distinzione tra operazioni di “maggiore” e “minore” rilevanza. Tale distinzione assume particolare centralità sistematica, da questa derivando l’applicabilità di discipline in parte diverse: di questo modo, l’Autorità prevede discipline più o meno “rigide” a seconda delle delicatezza e del valore dell’operazione da effettuare, all’aumentare dei quali aumenta !150 corrispettivamente la potenziale distrazione di valore che l’operazione può apportare a danno dei soci48. Per quanto riguarda i criteri distintivi, bisogna fare riferimento a tre parametri, indicati nell’allegato 3 del regolamento: il rapporto tra il controvalore dell’operazione e il patrimonio netto della società (c.d. indice di rilevanza del controvalore49); il rapporto tra il totale attivo dell’entità oggetto dell’operazione e il totale attivo delle società (c.d. indice di rilevanza dell’attivo50); il rapporto tra il totale delle passività dell’entità acquisita e il totale attivo della società (c.d. indice di rilevanza del passivo). Nel momento in cui anche uno solo di questi indici supera il valore del cinque per cento, l’operazione è da considerarsi di “maggiore rilevanza”; si noti, peraltro, che, in caso di operazioni con società controllante quotata, il detto valore limite diminuisce al 2,5 per cento. In questo contesto, la nozione di operazione di minore rilevanza assume valenza residuale: è tale ogni operazione con parte correlata diversa da quelle di maggiore rilevanza e da quelle di importo esiguo, di cui si parlerà appresso. In ogni caso, è opportuno ricordare che tali parametri devono essere considerati come indicazioni, per così dire, minime; infatti, in capo alle società è previsto l’obbligo di includere, nelle procedure adottate, “almeno” le categorie espressamente previste dal regolamento; ciò vale a dire che le stesse hanno sicuramente la facoltà di prevedere ulteriori e più stringenti parametri. ! ! ! ! ! ! ! 48 Cfr. G. Guizzi, Interessi degli amministratori e operazioni con parti correlate, in P. Marchetti, D.U. Santosuosso, op. cit., p. 191. ! 49 Per quanto riguardo il calcolo del controvalore, il regolamento precisa che nel caso di componenti in contanti, si debba far riferimento all’ammontare pagato; nel caso di strumenti finanziari, si debba far riferimento al fair value; nel caso di erogazioni di garanzie, si debba far riferimento all’ammontare massimo erogabile. ! 50 Nel calcolare il valore dell’attivo, si deve distinguere a seconda che si tratti di acquisizioni di acquisizioni e cessioni di partecipazioni che hanno o meno effetti sull’area di consolidamento. Ulteriore e analitiche precisazioni sono fornite, poi, dalle Linee Guida. !151 3.8. Segue: Gli obblighi informativi. ! Il regime di trasparenza delineato in materia di operazioni con parti correlate si inserisce, per quanto riguarda gli enti bancari, nel più ampio contesto di di vigilanza informativa51 previsto dagli articoli 51 e 66 TUB, volto ad assicurare la sana e prudente gestione delle banche e, con essa, un’adeguata tutela dei risparmiatori. Per quanto riguarda le operazioni con parti correlate di maggiore rilevanza, l’articolo 5 prevede due diversi obblighi. In primo luogo - si tratta della cosiddetta trasparenza “immediata” - la società ha l’obbligo di predisporre un apposito documento informativo, il cui contenuto minimo è chiarito nell’allegato 4 del regolamento52 e che - di regola - deve essere messo a disposizione del pubblico entro sette giorni dalla data di approvazione dell’operazione. Con una disposizione dal chiaro fine antielusivo, poi, è previsto che tale documento debba essere redatto anche nel caso in cui, nel corso dell’esercizio, vengano compiute diverse operazioni con la medesima parte correlata che - pur non essendo individualmente configurabili come operazioni di maggiore rilevanza - siano tra loro omogenee o facenti parte di un medesimo disegno presentante il carattere di unitarietà. Allegati al suddetto documento devono, inoltre, essere i parere espressi dagli amministratori indipendenti e dagli esperti ugualmente indipendenti - cui fa riferimento l’articolo 2391 bis. In questo modo, non limitandosi alla esposizione delle conclusioni cui l’organo di amministrazione ! 51 Come nota Troisi, gli obblighi informativi si ricollegano alla “generale disciplina della trasparenza bancaria, intesa in termini di conoscenza della struttura degli intermediari e delle ralazioni (economiche e patrimoniali) che i medesimi vantano nei confronti sia della propria clientela che delle altre istituzioni finanziarie presenti sul mercato […] Da qui, si perviene alla massima efficienza nelle attività di raccolta del risparmio ed esercizio del credito, nonché ad una maggiore concorrenzialità nell’intero mercato”; cfr. A Troisi, op. cit., pp. 661-662; R. Costi, L’ordinamento bancario, op. cit, pp. 611 ss. ! 52 Principalmente: descrizione delle caratteristiche, delle modalità, dei termini e delle condizioni dell’operazione; indicazione delle parti correlate con cui l’operazione è stata posta in essere e della natura della correlazione; indicazione delle motivazioni economiche e della convenienza per la società dell’operazione; modalità di determinazione del corrispettivo dell’operazione e valutazioni circa la sua congruità rispetto ai valori di mercato di operazioni similari; illustrazione degli effetti economici, patrimoniali e finanziari dell’operazione; indicazione degli organi o degli amministratori che hanno condotto o partecipato alle trattative e/o istruito e/o approvato l’operazione specificando i rispettivi ruoli, con particolare riguardo agli amministratori indipendenti, ove presenti. !152 perviene, si tenta di rendere le valutazioni e il dibattito effettuato in sede decisionale ancora più trasparente. D’altro canto, l’inclusione della fairness opinion formulata dagli esperti indipendenti mira a rendere nota quella che - almeno potenzialmente può essere una valutazione caratterizzata da una maggiore oggettività. Alla trasparenza immediata si aggiunge, poi, la trasparenza c.d. periodica, in linea, d’altronde, con quanto previsto in tema di disclosure contabile dalla Dir. Transparency53. A tal fine, è fatto obbligo alle società di includere, nella relazione intermedia sulla gestione e nella relazione sulla gestione annuale, informazione circa: le singole operazioni di maggiore rilevanza concluse nel periodo di riferimento; le altre eventuali o.p.c. che hanno influito in misura rilevante sulla situazione patrimoniale o reddituale della società; qualsiasi modifica o sviluppo delle operazioni con parti correlate descritte nell'ultima relazione annuale che abbiano avuto un effetto rilevante sulla situazione patrimoniale o sui risultati delle società nel periodo di riferimento (art. 5, co. 8). Molto più blando è il regime di trasparenza adottato per le operazioni di minore rilevanza. L’articolo 7, co. 1, lett. g) prevede, infatti, solo il regime di trasparenza periodica; ma non è tutto: tale regime - consistente in un documento con frequenza trimestrale recante le caratteristiche essenziali dell’operazione - entra in vigore solo nel caso in cui l’operazione abbia ricevuto il parere, di cui si parlerà nel prossimo paragrafo, contrario del Comitato. ! ! 3.9. Segue: La disciplina procedurale. ! Coerentemente con quanto disposto dall’articolo 2391 bis cod. civ., la Consob, nel disporre il quadro delle disciplina procedurale in tema di o.p.c., ho optato per il rafforzamento dei presìdi interni all’organo di amministrazione, finalizzato a rendere ! 53 Dir. 2004/109/CE sull’armonizzazione degli obblighi di trasparenza riguardanti le informazioni sugli emittenti i cui valori mobiliari sono ammessi alle negoziazioni in un mercato regolamentato. !153 il processo decisionale che in questo avviene maggiormente efficace.54 Tale scelta condivisa, d’altronde, dai principali operatori del mercato - si pone in controtendenza con quanto previsto in altri paesi europei; per fare un esempio, la disciplina britannica prevede - per le sole operazioni rilevanti; escluse, dunque, le small transactions nonché quelle che presentano inusual features - la delibera assembleare55; in Francia, invece, la decisione del C.d.A., per acquisire efficacia, deve essere successivamente oggetto di un parere dei revisori dei conti e, dunque, ratificata dall’assemblea56. In questo contesto, assume, evidentemente, particolare rilevanza la disciplina dei flussi informativi ex-ante, tanto all’interno dell’organo di amministrazione quanto tra quest’ultimo e gli altri organi societari (e, in particolare, con l’organo di controllo); questa, di conseguenza, costituisce uno dei “pilastri” della disciplina che ci si accinge ad esporre. Analogamente a quanto previsto in tema di trasparenza, la disciplina procedurale è anch’essa graduata in funzione della rilevanza dell’operazione che la società intende effettuare. In conformità a quanto previsto dalla Consob, si assumerà la procedura prevista per le operazioni di minore rilevanza come quella “generale”, specificando, poi, le differenze riscontrabili con la procedura “speciale” - per la quale valgono alcune disposizioni di quella “generale”, cui si aggiungono altre più stringenti prevista per le o.p.c. di maggiore rilevanza. Con riferimento alla disciplina “generale”, l’articolo 7 del regolamento prevede la necessarietà di un previo parere di un comitato composto esclusivamente da amministratori non esecutivi e non correlati, in maggioranza indipendenti57. Si noti, peraltro, che la proposta iniziale della Consob consisteva nel demandare agli 54 ! Cfr. L. Enriques, Breve commento sulla natura e il ruolo degli amministratori indipendenti, Egea, Milano 2010. ! 55 Cfr. la Listing Rules n. 11 (Related party transactions) della Financial Services Agency (FSA). ! 56 Cfr. l’articolo 225-38 Code de Commerce, che prevede, peraltro, che alla ratifica della delibera consiliare non partecipi la parte correlata interessata all’operazione. ! 57 È, peraltro, previsto che, nell’assenza di almeno due amministratori indipendenti non correlati, siano previsti presìdi ad hoc idonei a tutelare la correttezza sostanziale dell’operazione. !154 amministratori indipendenti la decisione dell’operazione, così rischiando di dar vita ad un “vero e proprio ossimoro”58. In ogni caso, tale parere - avente ad oggetto l’interesse della società al compimento dell’operazione nonché la convenienza59 e la correttezza sostanziale delle relative condizioni - deve essere adeguatamente motivato e, punto essenziale, non è vincolante per la decisione del C.d.A.: come si è visto, ad un riscontro negativo60 del Comitato consegue esclusivamente la vigenza del regime di trasparenza periodica. Sono, peraltro, posti due presìdi atti a mettere il Comitato nella condizioni di poter valutare “a ragion veduta”. In primo luogo, è previsto che questo possa usufruire dell’assistenza di uno o più esperti indipendenti; le spese associate a questo servizio si noti che l’individuazione dei soggetti è rimessa esclusivamente ai membri del ! 58 P. Montalenti, Le operazioni con parti correlate, op. cit., p. 385. ! 59 La circostanza che il parere debba avere ad oggetto anche la convenienza dell’operazione ha suscitato in dottrina un acceso dibattito circa la natura e il contenuto di questo. Secondo Montalenti, ibidem, p. 386, infatti, la convenienza, essendo elemento di valutazione di merito dell’operazione, sarebbe da ascriversi esclusivamente alla competenza del Consiglio, assistito in tal senso dalla Business judgement rule. In questo contesto, la valutazione del Consiglio - ad eccezione del caso di manifesta e palese irrazionalità - risulta essere insindacabile, non potendo, dunque, gli amministratori indipendenti essere chiamati a rispondere circa il merito e la convenienza dell’operazione. Questi ultimi aspetti, di conseguenza, non sarebbero oggetto del parere preventivo espresso dagli indipendenti, questo riducendosi ad una verifica del rispetto delle norme procedurali. Cfr., inoltre, M. Baglioni, G. Grasso, Parti correlate: l’attività di predisposizione delle nuove procedure interne, in Società, 2010, fasc. 6, p. 733. Di parere contrario Mazzoni, il quale, in considerazione della lapalissiana circostanza che del Consiglio fanno parte anche gli amministratori indipendenti, sostiene la tesi della “legittimità” di un’anticipazione, da parte degli amministratori indipendenti, delle valutazioni circa il merito e l’opportunità dell’operazione che gli stessi saranno chiamati ad esprimere in sede consiliare; cfr. A. Mazzoni, Operazioni con parti correlate e abusi, testo della relazione “A quindici anni dal TUF. Bilanci e prospettive”, svoltosi il 13 e 14 giugno 2013 presso l’Università Bocconi di Milano. Una soluzione intermedia è, poi, fatta propria da Guizzi, il quale invita a considerare il parere di cui si discute “non già un esame completo dell’operazione che anticipa tutti i profili, anche di merito, che si chiederà al plenum di esaminare, ma piuttosto un’indagine che concentra l’attenzione soprattutto sulle implicazioni di tipo finanziario, e dunque in una valutazione che deve guardare, principalmente, all’incidenza che l’operazione può avere sulla prospettiva dell’investimento dei soci non correlati”. Cfr. G. Guizzi, op. cit., pp. 193-197 e E. Pucci, Il ruolo degli amministratori, 2012. ! 60 È, peraltro, possibile che il parere, seppure complessivamente favorevole all’operazione, contenga “elementi di dissenso”; inoltre, è ammesso il parere favorevole sub condicione: favorevole, cioè, nell’eventualità in cui le condizioni poste vengano rispettate. !155 Comitato: la società non potrà interferire - saranno a carico della società61. In secondo luogo, con riferimento a quanto detto circa l’essenzialità dei flussi informativi, è previsto che al Comitato siano fornite informazioni complete e adeguate circa le caratteristiche dell’operazione; tali informazioni dovranno, peraltro, pervenire con un congruo anticipo, in modo tale che gli amministratori siano messi nella condizioni di analizzarle attentamente e maturare serenamente la propria valutazione. Solo successivamente al parere di cui sopra, il C.d.A. può deliberare circa il compimento dell’operazione; i relativi verbali, peraltro, devono - se possibile - recare “adeguata motivazione” circa i medesimi punti oggetto di valutazione da parte del Comitato: come detto, interesse della società al compimento dell’operazione, convenienza e correttezza sostanziale delle relative condizioni. Si noti, infine, che l’articolo 11, co. 1, prevede che, per il caso di una o.p.c. di minore rilevanza di competenza assembleare, siano adottate regole - conformi a quelle appena esposte - che assicurino la correttezza della fase istruttoria e di approvazione della proposta da sottoporre all’assemblea. Come si è visto, il quadro regolamentare dettato dalla Consob costituisce un insieme di condizioni minime vincolanti per le società; in questo senso, le società hanno come d’altronde avviene per il regime di trasparenza - la possibilità di adottare procedure più stringenti ovvero di prevedere l’applicazione della disciplina prevista per le operazioni di maggiore rilevanza anche alle operazioni il cui valore, invece, non supera nessuno degli indici di rilevanza prima menzionati. In primo luogo, le operazioni con parti correlate di maggiore rilevanza sono di competenza esclusiva del Consiglio di Amministrazione (art. 8, co. 1, lett. a)). Perché possa intervenire la deliberazione di approvazione del C.d.A., però, è - ed è questo uno degli elementi centrali della disciplina - necessario il previo parere di un Comitato composto esclusivamente da amministratori in possesso dei requisiti di ! 61 La società può, tuttavia, fissare preventivamente un tetto di spesa per ogni singola o.p.c., assoluto o riferito al valore dell’operazione. !156 indipendenza di cui sopra e non correlati62. Il coinvolgimento di tale Comitato, tuttavia, non si esaurisce nell’emanazione di questo parere: esso deve, infatti, partecipare attivamente alle fase delle trattative e alla fase istruttoria. A tal fine, è previsto, da un lato, che questo - durante l’intero iter decisionale - sia il destinatario di un flusso informativo “completo e tempestivo” e, dall’altro, che lo stesso possa, in qualsiasi momento, richiedere informazioni o formulare osservazioni. In ogni caso, deve sicuramente ritenersi che tale coinvolgimento, restando strumento propedeutico a che il Comitato possa formare un parere informato, non debba essere inteso come un mezzo grazie al quale si venga a creare una sorta di meccanismo di codecisione circa l’effettuazione dell’operazione.63 L’elemento discriminante il parere previsto ex art. 7 e quello in parola è, comunque, il suo carattere vincolante; perché l’organo di amministrazione possa validamente deliberare l’approvazione dell’operazione, cioè, il parere deve essere favorevole. In alternativa a tale procedimento, per così dire paradigmatico, è, poi, previsto che l’approvazione dell’operazione possa intervenire anche a seguito dell’applicazione di modalità altre e diverse, che tuttavia assicurino - analogamente al procedimento appena esposto - un ruolo determinante alla maggioranza degli amministratori indipendenti non correlati. Tale opzione, adottata d’altronde anche in ambiti diversi da quelli in parola, è utile perché gli spazi di autonomia regolamentare a favore della società - auspicati dal legislatore nell’art. 2391 bis - non vengano costretti dal carattere dettagliato dei “principi”, quest’ultimo in ogni caso necessario affinché la disciplina risulti essere efficace. Dicevamo che l’approvazione dell’operazione non può intervenire se non in presenza di un parere (motivato) favorevole del Comitato. Ciò, in verità, non è del tutto corretto. Al fine di non paralizzare l’attività del consiglio, precludendo ad esso il ! 62 Analogamente a quanto previsto in tema di o.p.c. di minore rilevanza, la società, nel caso in cui non disponga di un numero adeguato di amministratori indipendenti, può dotarsi di presìdi analoghi. ! 63 Cfr. L.A. Bianchi, Amministratori non esecutivi e amministratori indipendenti tra teoria e prassi, in Le regole del buon governo societario a tutela del risparmio: il sistema delle garanzie e delle tutele. Atti del convegno di Milano, 24 novembre 2006, Giuffrè, Milano 2007. !157 compimento di operazioni che, come messo in evidenza dalla letteratura, possono anche essere profittevoli per la società, il comma 2 dello stesso articolo 8 prevede, infatti, una eccezione a tale regola. Autorizzata l’operazione da parte dell’assemblea dei soci ex art. 2364, co. 1, n. 5, infatti, l’operazione può essere effettuata nonostante il parere contrario del comitato. Due considerazioni sono necessarie: in primo luogo, perché si possa fare ricorso a questo meccanismo, è necessario che le procedure contengano - conformemente alle previsioni statutarie richieste dalla legge - una previsione in tal senso. In secondo luogo, è importante ricordare che nel procedimento di approvazione assembleare vige il meccanismo c.d. di whitewash, finalizzato a “impedire il compimento dell’operazione qualora la maggioranza dei soci non correlati votanti esprima voto contrario all’operazione”. Inoltre, le procedure possono - ed è questa una previsione che funge quasi come contraltare al meccanismo di whitewash - stabilire l’impossibilità di impedire l’operazione qualora la quota del capitale sociale in possesso dei soci non correlati presenti in assemblea sia inferiore ad una soglia determinata nelle stesse procedure; tale soglia non può, comunque, essere superiore al dieci per cento del capitale sociale.64 In ogni caso, è necessario che il documento informativo predisposto dal Consiglio di Amministrazione - essenziale perché i soci possano votare a ragion veduta - contenga adeguati riferimenti alle ragioni che hanno portato il C.d.A. a non condividere il parere (negativo) del Comitato. Per concludere, è bene ricordare la previsione, analoga a quella già analizzata in tema di o.p.c. di minore rilevanza, secondo la quale, nel caso di operazioni di competenza assembleare, è necessaria la predisposizione di presìdi analoghi a quelli finora esposti, nella fase delle trattative, dell’istruttoria e dell’approvazione della proposta di deliberazione da sottoporre all’assemblea. ! ! ! ! 64 Per approfondimenti sul meccanismo di whitewash, cfr. M. Notari, La “sterilizzazione” del voto nelle società per azioni: appunti in tema di “whitewash” e dintorni, in Studi in ricordo di Piergiusto Jaeger, Giuffrè, Milano 2011, pp. 397 ss. !158 3.10. Segue: Casi di esclusione e norme di coordinamento. ! Una dei principi ispiratori il regolamento è quello di assicurare alla disciplina un adeguato livello di flessibilità. A tal fine, al fianco della facoltà di opt-in più volte prevista e di cui s’è già parlato, sono previsti alcuni casi in cui alle società è data facoltà di escludere - in tutto o in parte - l’applicabilità delle regole di trasparenza e procedurali (facoltà di opt-out). Diversi sono i parametri in base ai quali vengono individuati tali casi. In primo luogo, si rinviene un criterio “oggettivo”, che si riferisce, cioè, alla particolare “natura” dell’operazione; in questo ambito, si prevede una disciplina derogatoria per: le operazioni di importo esiguo65; le operazioni ordinarie concluse a condizioni di mercato66; le deliberazioni attinenti a piani di compensi equity-based o, più in generale, a politiche retributive; operazioni effettuate con società controllate o ! 65 Le operazioni di importo esiguo - si legge al par. 19 delle Linee Guida - non comportano “prima facie alcun apprezzabile rischio per la tutela degli investitori, pur essendo concluse con una parte correlata”. Si noti che le Linee Guida precisano altresì che la soglia al di sotto della quale un’operazione debba essere considerata di valore esiguo dovrebbe far riferimento a “valori assoluti anziché a grandezze di tipo percentuale”; questa previsione ha, d’altronde, suscitato diverse critiche in considerazione della necessarietà di un riferimento alle dimensioni delle imprese interessate, essenziale perché il danno potenziale che l’operazione può apportare agli investitori sia correttamente valutato. In ogni caso, il regime derogatorio applicabile a tale tipo di operazioni consiste essenzialmente nel carattere non vincolante del parere degli amministratori indipendenti. ! 66 Le operazioni ordinarie concluse a condizioni di mercato sono, comunque, soggette ad obblighi informativi. Le Linee Guida precisano che un’operazione, per essere considerata “ordinaria”, deve, in primo luogo, essere ascrivibile all’attività operativa ovvero all’attività finanziaria a questa connessa; in secondo luogo, deve rientrare nell’esercizio ordinario dell’attività operativa o della connessa attività finanziaria. Per quanto riguarda la determinazione delle condizioni di mercato - la cui corrispondenza alle condizioni dell’operazione rende quest’ultima, ancorché effettuata con una parte correlata, esente dalla disciplina del Regolamento - si deve far riferimento agli “scambi di beni e servizi eseguiti a fronte di un controvalore monetario corrispondente a quello desumibile dal mercato per le operazioni della stessa tipologia, ma eseguite tra controparti indipendenti”; cfr. A. Troisi, Le operazioni con parti correlate in ambito bancario e finanziario, op. cit., p. 658; l’A. evidenzia, peraltro, come in questo ambito, “nonostante sia configurabile una garanzia di correttezza procedurale (dell’intera operazione), riveniente dalla riferibilità al mercato della negoziazione, permangono perplessità in ordine al rispetto del principio di correttezza sostanziale […] un’operazione, ancorché effettuata a condizioni di mercato, può rivelarsi non necessari per la società ovvero denotare una frequenza ingiustificata sotto il profilo strategico-aziendale”. Cfr., in questo senso, S. Esposito, Le operazioni con parti correlate: regole sulla trasparenza e sul governo societario, in Rivista del diritto commerciale delle obbligazioni, 2010, n. 3, p. 869. !159 collegate. Altro parametro è, poi, quello che si potrebbe definire “soggettivo”, che, cioè, fa riferimento a specificità della società interessata: rilevano, in questo ambito, le società di minori dimensioni, le società neoquotate e le società non quotate con azioni diffuse tra il pubblico in misura rilevante. Ultimo, la procedura può essere disattesa, ferma la valutazione assembleare ex-post, nel caso in cui l’operazione, a prescindere dalla sua natura, presenti carattere d’urgenza67. Com’è evidente, il quadro che ne risulta è non poco disorganico e, in ogni caso, particolarmente complesso.68 Specifica disposizione è dedicata al coordinamento del regolamento Consob con quanto previsto dall’articolo 136 TUB in tema di obbligazioni degli esponenti bancari; l’articolo in parola, infatti, già prevede la necessità che la contrazione di obbligazioni di qualsiasi natura (ovvero il compimento di un atto di compravendita) da parte dell’esponente bancario nei confronti della banca debba essere preceduta da una deliberazione dell’organo di amministrazione presa all’unanimità.69 Per questo motivo, l’articolo 13, co. 5 del Regolamento prevede che, in questi casi, non si applichino le disposizioni sui pareri e sul voto degli amministratori indipendenti. Tanto per le operazioni di minore rilevanza quanto per quelle di maggiore rilevanza rimane ferma, poi, la disciplina circa i flussi informativi tra organi societari; diversamente, la disciplina sulla trasparenza e quella riguardante il coinvolgimento ! 67 Perché un’operazione urgente possa essere effettuata disattendendo le procedure di cui agli artt. 7 e 8 Reg., è, però, necessaria una espressa clausola statutaria. Cfr. A Busani, Parti correlate: modifiche statutarie e nuove procedure decisionali, in Società, 2010, p. 1106. Inoltre, la dottrina si interroga sulle conseguenze che un eventuale esito negativo della successiva valutazione assembleare; l’art. 13 Reg., infatti, prevede che, anche in quest’ultimo caso, l’operazione resti efficace. Secondo la condivisibile opinione di Montalenti, ciò configurerebbe una giusta causa di revoca degli amministratori; cfr. P. Montalenti, Le operazioni con parti correlate, op. cit. p. 390. ! 68 Come nota P. Montalenti, Le operazioni con parti correlate tra efficienza gestionale nei gruppi e rischi di conflitti di interessi: quale disciplina?, in La crisi finanziaria: banche, regolatori, sanzioni. Atti del convegno Courmayeur, 25-26 settembre 2009, Giuffrè, 2010, p. 163, “la disciplina pare davvero eccessivamente frastagliata, con una proliferazione di discipline differenziate di cui non è davvero perspicua la ratio”, continuando con la proposta “unificare tutte le ipotesi di esclusione […] imponendo, per tutte, esclusivamente l’obbligo di informativa nella relazione intermedia e nella relazione annuale”. ! 69 Cfr. V. Troiano, La nuova disciplina dei conflitti d’interesse. Assunzione di attività di rischio nei confronti di soggetti collegati e di obbligazioni nei confronti di esponenti aziendali, op. cit., pp. 103 ss.. !160 del Comitato nella fase precedente al compimento dell’operazione deve continuare ad applicarsi solo per le operazioni di maggiore rilevanza. Ulteriore disposizione con finalità coordinative è quella contenuta nell’articolo 13, co. 4, secondo la quale la disciplina non deve applicarsi nel caso di o.p.c. da realizzare sulla base di istruzioni impartite da Autorità di vigilanza con finalità di stabilità; anche in questo caso, tuttavia, rimane ferma la disciplina delle trasparenza. ! ! 3.11. La disciplina della Banca d’Italia in materia di assunzione di attività di rischio verso soggetti collegati. La delibera CICR n. 277 del 29 luglio 2008. ! Esaminata in dettaglio la disciplina Consob, è ora possibile esporre la normativa della Banca d’Italia in tema di attività di rischio verso i soggetti collegati emanata dalla Banca d’Italia. Come si diceva, il primo “impulso” in materia proviene dalla Delibera CICR n. 277,70 che definisce attività di rischio sia le attività per cassa e sia le attività fuori bilancio.71 L’articolo 1 di tale provvedimento già definisce in maniera abbastanza dettagliata la nozione di soggetti collegati, rendendo, peraltro, possibile operare una distinzione tra soggetti collegati “a monte” e soggetti collegati “a valle”. I primi, infatti, sono da individuare negli esponenti di spicco della banca, nei titolari di partecipazioni rilevanti nonché in quei soggetti che, per i motivi più vari, individualmente o congiuntamente, sono nelle condizioni di esercitare il controllo o ! 70 Si deve ricordare che una prima disciplina delle attività di rischio nei confronti di soggetti collegati risale, in verità, alla già esposta (cfr. Capitolo I) delibera CICR 20 marzo 1987, dove veniva previsto che la Banca d’Italia potesse “sollecitare le banche ad inserire nei propri statuti disposizioni volte ad evitare la concessione di credito agli azionisti e ai soggetti collegati”; la Banca d’Italia emanò, quindi, un’articolata disciplina, anch’essa esposta, in tema di fidi a soggetti collegati, a società partecipate e a componenti degli organi societari. Cfr. S. Cicchinelli, Commento all’articolo 53, in C. Costa (a cura di), Commento al Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, Giappichelli, 2013, p. 570; G. Boccuzzi, Gli assetti proprietari delle banche. Regole e controlli, Giappichelli, Torino 2010, pp. 24-25. ! A titolo 71 esemplificativo, sono attività per cassa: i finanziamenti, le azioni, le obbligazioni, i prestiti subordinati; sono - sempre a titolo esemplificativo - attività fuori bilancio le garanzie rilasciate. !161 un’influenza notevole; i secondi, invece, sono essenzialmente le imprese partecipate in misura rilevante dalla banca, sulle quali quest’ultima è in grado di esercitare il controllo o un’influenza notevole, legate da importanti rapporti di finanziamento; in questo contesto, assumono particolare rilievo le imprese svolgenti prevalentemente attività industriale (parte correlata non finanziaria, come successivamente definite dal nono aggiornamento), per le quali, come si vedrà, la Banca d’Italia ha previsto soglie più stringenti. I successivi articoli 2 e 3 stabiliscono, per l’assunzione di attività di rischio e di ogni altro rapporto di natura economica con i soggetti collegati, limiti quantitativi, procedure deliberative e successivi controlli, atti, come detto, a limitare il rischio che la valutazione del merito creditizio sia distorta. In particolare, è demandata alla Banca d’Italia la determinazione di un limite, riferito al patrimonio di vigilanza, entro il quale devono essere contenute le attività di rischio assunte nei confronti di ciascun soggetti collegato, dove per soggetto collegato si intende la parte correlata e l’insieme dei soggetti ad essa connessi; tale limite, peraltro, non può essere superiore al 20 per cento (art. 2, co. 1). Queste soglie, ponderate per i fattori di rischio mutuati dalla disciplina sulla concentrazione dei rischi di cui sopra, possono peraltro essere differenziate a seconda del tipo di parte correlata. È, poi, da un lato, data la possibilità alla stessa Banca d’Italia di prevedere, per le singole banche appartenenti ad un gruppo e nel rispetto dei limiti consolidati, limiti diversi, comunque non superiori al venti per cento del patrimonio di vigilanza su base individuale; dall’altro, la possibilità di prevedere ulteriori limiti in relazione all’assunzione di rischi di mercato con parti correlate. La deliberazione del CICR aggiunge ai limiti quantitativi di cui sopra alcune indicazioni circa le procedure decisionali e i sistemi di controllo da adottare in caso di assunzione di rischi con soggetti collegati. Con una disposizione di carattere generale, l’articolo 3 prevede, infatti che tali operazioni siano assunte con deliberazioni che illustrino “adeguatamente” la rispondenza delle condizioni economiche praticate ai criteri di mercato, vengano adottate procedure idonee a garantire “l’oggettività delle valutazioni” (commi 1 e 2). !162 La Banca d’Italia, nell’emanare la disciplina di dettaglio, ha pienamente usufruito dei risultati del dibattito avvenuto nel processo di emanazione della disciplina Consob; questo ha costituito il punto di riferimento che l’Autorità di vigilanza bancaria si è data nell’aggiornare il Tit. V, Cap. 5 delle Nuove Disposizioni di Vigilanza (aggiornamento dell 12 dicembre 2011), recante, appunto, la disciplina delle attività di rischio e dei conflitti di interesse nei confronti dei soggetti collegati e atta ad assicurare, nei rapporti con questi, trasparenza, oggettività e correttezza.72 Questa impostazione, d’altronde, è stata pienamente condivisa - anzi, auspicata - dai principali operatori del mercato; giova in tal senso ricordare le osservazioni avanzate dalla Associazione Bancaria Italiana nel corso del confronto con il mercato avviato dalla stessa Banca d’Italia, che ha, appunto, più volte insistito per una maggiore adesione della disciplina a quella Consob; ciò, in particolare, al fine di evitare il sostenimento, da parte delle banche quotate o con azioni diffuse, di costi di compliance che, nel caso procedure disomogenee, entrambe da rispettare, avrebbero potuto rivelarsi eccessivamente onerosi. Inoltre, sempre a parere dell’ABI, l’adozione di procedure omogenee avrebbe diminuito il pericolo di arbitraggio regolamentare. Di conseguenza, la Banca d’Italia ha perseguito l’obiettivo di “allineare il più possibile la disciplina (procedurale, nda) a quella adottata dalla Consob per le società quotate e con titoli diffusi in misura rilevante, in modo da assicurare non solo la convergenza sostanziale ma anche l’omogeneità sul piano formale delle due regolamentazioni e agevolare così l’applicazione delle regole per le banche tenute a rispettare entrambe le discipline”73 . L’obiettivo perseguito dall’Autorità in tema di procedure deliberative è, coerentemente con gli indirizzi legislativi, quello di stabilire un “set di regole minimali” idoneo a correttamente ! 72 In questo senso - riferendosi all’art. 53, co. 4 TUB - M.E. Salerno, La vigilanza regolamentare, in Belli, Contento, A. Patroni Griffi, Porzio, Santoro (a cura di), Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia. Commento al d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, Bologna, 2003; la disciplina, secondo l’Autrice, persegue la “neutralità allocativa nell’erogazione del credito da parte degli intermediari creditizi”, in modo tale da garantire, da un lato, la parità di trattamento con gli altri clienti e, dall’altro, la stabilità dell’intermediario creditizio. ! 73 Relazioni di accompagnamento al secondo testo di consultazione su attività di rischio verso soggetti collegati, p. 2. Cfr. A. Agnese, op. cit., p. 13. !163 misurare e gestire il rischio derivante dall’assunzione di partecipazioni in imprese non finanziarie74; questo set dovrà essere successivamente integrato da parte delle banche, cui è rimesso il compito di stabilire ulteriori e più stringenti regole che tengano conto delle specificità degli assetti di governance e delle strategie industriali delle stesse. In quest’ottica, anche alle banche sono riconosciuti ampia spazi di autonomia, così assicurando un adeguato livello di flessibilità alla disciplina regolamentare. ! ! 3.12. Segue: Il perimetro dei soggetti collegati. ! Nonostante i numerosi punti in comune, permangono, tuttavia, alcune - rilevanti differenze tra la disciplina Consob e quella adottata dalla Banca d’Italia. In primo luogo, in tema di individuazione dell’ambito soggettivo di applicazione. La Banca d’Italia ha, infatti, optato per una - si legge della già citata relazione di accompagnamento - perimetrazione consolidata, dei soggetti collegati; vale a dire, ha disposto l’obbligo di individuare un’unica categoria di soggetti collegati per l’intero gruppo bancario. Come si legge nelle Istruzioni, infatti, le singole banche, nell’individuazione dei soggetti ad esse collegati, fanno riferimento al medesimo perimetro determinato dallo capogruppo; quest’ultima, dunque, dovrà tener conto non solo dei suoi propri rapporti bensì anche di quelli riconducibili agli intermediari facenti parte del gruppo. Soggetti collegati ai fini della disciplina della Banca d’Italia sono, in primo luogo, le parti correlate alla banca, a questa legati da relazioni che possono essere di varia natura. Si noti: nel novero delle parti correlate vanno incluse anche le società o le imprese, anche costituite in forma non societaria, su cui la banca (o una società del ! 74 Più dettagliatamente, il sistema di controlli delineato dalla Banca d’Italia mira a che: a. la funzione di compliance verifichi l’efficacia del sistema adottato dalla banca; b. la funzione di revisione interna verifichi l’osservanza delle politiche in materia di partecipazioni; c. gli amministratori indipendenti svolgano un ruolo di “valutazione, supporto e proposta in materia di organizzazione e svolgimento dei controlli interni sulla complessiva attività di assunzione e gestione di partecipazioni”, nonché verifichino la “coerenza di tale attività rispetto agli indirizzi strategici e gestionali”. Cfr. D. Regoli, op. cit., p. 151. !164 gruppo bancario) è in grado di esercitare il controllo o un’influenza notevole. Particolare rilevanza assume, poi, la già accennata distinzione tra parte correlata finanziaria e parte correlata non finanziaria, le seconde esercitanti in prevalenza, direttamente o per il tramite di società controllate, attività di impresa non finanziaria75 (così come definita nell’ampiamente analizzata disciplina delle partecipazioni detenibili: quei soggetti le cui attività diverse da quelle bancarie, finanziarie e assicurative eccedono il 50 per cento delle attività complessive - cfr. Cap. II). Alle parti correlate si aggiungono i soggetti a queste connessi: quei soggetti, cioè, che della parte correlata possono - in virtù di relazioni di affari o di controllo influenzarne le decisioni. L’insieme delle parti correlate e dei soggetti connessi ! 75 È interessante ai nostri fini notare come il documento di consultazione inizialmente predisposto dalla Banca d’Italia prevedesse - oltre alla distinzione tra parti correlate finanziarie e non - anche la distinzione, poi abbandonata, tra parte correlata “a monte” e parte correlata “a valle”; cfr. S. Cicchinelli, op. cit., p. 574. !165 definisce, dunque, il complessivo ambito soggettivo di applicazione, i.e. i soggetti collegati.76 È essenziale, poi, notare come la nozione di controllo adottata dalla Banca d’Italia si discosti in misura rilevante da quella - ampiamente esposta - applicabile ai sensi del Reg. n. 17221. Traendo la sua origine nell’articolo 53 TUB, infatti, la prima si riferisce alla - già analizzata, cfr. Cap. II, par. 14 - nozione di controllo di cui all’articolo 23 del medesimo Testo Unico. Diversamente, le nozioni di controllo congiunto e di influenza notevole - seppure entrambe maggiormente chiarite e, con riguardo alla seconda, con alcune divergenze - risultano essere sostanzialmente ! 76 Più analiticamente, il Tit. V, Cap. 5, sez. 1, par. 3 dispone che sono parti correlate finanziarie: 1. l’esponente aziendale; 2. il partecipante; 3. il soggetto, diverso dal partecipante, in grado di nominare, da solo, uno o più componenti dell’organo con funzione di gestione o dell’organo con funzione di supervisione strategica, anche sulla base di patti in qualsiasi forma stipulati o di clausole statutarie aventi per oggetto o per effetto l’esercizio di tali diritti o poteri; 4. una società o un’impresa anche costituita in forma non societaria su cui la banca o una società del gruppo bancario è in grado di esercitare il controllo o un’influenza notevole. !Per parte correlata non finanziaria si deve intendere, poi, “una parte correlata che eserciti in prevalenza, direttamente o tramite società controllate, attività d’impresa non finanziaria come definita nell’ambito della disciplina delle partecipazioni detenibili dalle banche e dai gruppi bancari”. !Sono, poi, soggetti connessi: 1. le società e le imprese anche costituite in forma non societaria controllate da una parte correlata; 2. i soggetti che controllano una parte correlata tra quelle indicate ai numeri 2 e 3 della relativa definizione, ovvero i soggetti sottoposti, direttamente o indirettamente, a comune controllo con la medesima parte correlata; 3. gli stretti familiari di una parte correlata e le società o le imprese controllate da questi ultimi. !È, infine, un soggetto collegato, “l’insieme costituito da una parte correlata e da tutti i soggetti a essa connessi”. !166 analoghe a quelle adottata dalla Consob e derivate dallo IAS 24, alla cui analisi, dunque, si rimanda.77 ! ! 3.13. Segue: Le procedure. ! Fulcro della disciplina sono le procedure che l’organo con funzione di supervisione strategica - con il “diffuso coinvolgimento” degli organi di amministrazione e controllo nonché degli amministratori indipendenti - è chiamata ad adottare; nel sistema così predisposto - e analogamente a quanto previsto nel Regolamento n. 17221 - assume rilevanza centrale il ruolo degli amministratori indipendenti nella fase delle trattative, dell’istruttoria e dell’approvazione dell’operazione (ci si riferisce alle operazioni di maggiore rilevanza). Questi - facenti parte di un comitato interno all’organo con funzione di supervisione strategica78 - devono essere destinatari di un ! 77 Per quanto riguarda la nozione di controllo congiunto, viene chiarito che sono da considerare controllanti (congiuntamente) da un lato, “i soggetti che hanno la possibilità di esercitare un’influenza determinante sulle decisioni finanziarie e operative di natura strategica dell’impresa”; dall’altro, “gli altri soggetti in grado di condizionare la gestione dell’impresa in base alle partecipazioni detenute, a patti in qualsiasi forma stipulati, a clausole statutarie, aventi per oggetto o per effetto la possibilità di esercitare il controllo”. Per quanto riguarda la nozione di influenza notevole, invece, la soglia superata la quale scatta la presunzione di sussistenza viene abbassata - ma solo per le banca quotate - al dieci per cento dei diritti di voto nell’assemblea ordinaria (o, altra divergenza, del capitale sociale). Inoltre, non è previsto che il possesso di quote inferiori alle dette soglie faccia presumere l’insussistenza - sempre che sia palese il contrario - dell’influenza notevole; al contrario - e questa circostanza è emblematica della maggiore delicatezza del tema in ambito bancario - si dispone che, al verificarsi di alcune circostanze ivi enunciate e tenendo conto di “ogni altra circostanza rilevante”, debbano essere condotti “specifici approfondimenti” finalizzati ad appurare la sussistenza del potere di partecipare alla determinazione delle politiche finanziarie e operative della partecipata. ! 78 La composizione del comitato varia, peraltro, in funzione della minore o maggiore rilevanza dell’operazione che la banca intende effettuare. Nel primo caso, infatti, il comitato deve essere costituito da amministratori non esecutivi, di cui almeno la metà in possesso dei requisiti di indipendenza; nel secondo caso, invece, tutti i membri del comitato devono essere indipendenti. È importante ricordare che - a differenza di quanto previsto nel Regolamento Consob - non è data la facoltà alle banche di ricorrere, nell’eventualità in cui manchi, nell’organo di gestione, un numero adeguato di amministratori indipendenti, a “misure analoghe”; la previsione, d’altronde, sarebbe stata superflua, in considerazione delle peculiarità del sistema di governo delle banche, per il quale si prevede che degli amministratori un numero “adeguato” deve essere indipendente. !167 costante e completo flusso informativo; devono altresì poter richiedere informazioni nonché formulare osservazioni, le quali osservazioni, a parere della già esposta dottrina, non possono, però, sfociare in proposte. Ciò, finalizzato alla elaborazione di un parere “motivato, formalizzato e supportato da idonea documentazione”, avente ad oggetto - come previsto nel Regolamento Consob - l’interesse della banca al compimento dell’operazione nonché la convenienza e la correttezza sostanziale delle relative condizioni (i.e., nel caso più frequente - la concessione di credito - il merito creditizio).79 Si discostano dal Regolamento Consob gli effetti collegati ad un parere negativo degli amministratori indipendenti: non è prevista, infatti, la facoltà di procedere alla deliberazione assembleare assunta mediante il meccanismo di whitewash. Ciò, d’altronde, sarebbe stato di difficile applicazione - nonché, almeno nella maggior parte dei casi, inefficace - nel panorama bancario italiano, contraddistinto dalla presenza di banche presentati caratteristiche dimensionali e organizzative fortemente eterogenee80. Comunque, al fine di non paralizzare l’attività dell’organo di gestione, si prevede che al suddetto parere negativo degli amministratori indipendenti consegua (sempre che, s’intende, il Consiglio lo ritenga opportuno, ben potendo interrompere l’iter e, nell’eventualità, riformulare le condizioni dell’operazione) un ulteriore parere preventivo dell’organo di controllo; in quest’ottica, l’organo di ! 79 Consapevole della controversia sorta in merita alla natura e al contenuta del parere che gli amministratori indipendenti sono chiamati ad esprimere (cfr. nota n. 56), la Banca d'Italia ha chiarito che l’attribuzione di poteri agli amministratori indipendenti non incide sulle attribuzioni che l’ordinamento assegna in via collegiale all’organo di gestione; la costituzione del comitato, si legge nelle Istruzioni “costituisce una modalità organizzativa volta a conferire efficacia ed efficienza all’attività di monitoraggio e controllo sulle operazioni in esame ma non esime tutti gli altri amministratori dall’esercizio di compiti e poteri che possono contribuire al perseguimento delle finalità sottese alla presente disciplina” (cfr. Istruzioni, Tit. V, Cap. V, sez. III, par. 1) ! 80 Si legge nella Relazione di accompagnamento al secondo testo di consultazione su attività di rischio verso soggetti collegati, p. 4: “a disciplina bancaria si applica a banche di diversa dimensione e complessità, anche non quotate e con ristretta compagine sociale, per le quali sarebbe stato difficile prevedere un meccanismo di whitewash (di converso, l’approvazione dell’assemblea senza sterilizzazione del voto del socio di controllo sarebbe in molti casi inefficace dato il sostanziale allineamento di interessi con il management). Laddove non esiste un mercato del controllo societario si ritiene appropriato prevedere come meccanismo di monitoraggio dei soci l’informativa che ad essi deve essere resa per le operazioni sulle quali gli indipendenti abbiano espresso parere negativo”. !168 controllo deve essere il destinatario di una - nei tempi e nel contenuto - congrua informazione. Il potenziamento dell’organo di controllo delle banche è, d’altronde, un’altra linea direttiva che ha plasmato l’intervento della Banca d’Italia. È, infine, previsto che delle operazioni compiute nonostante il suddetto parere negativo sia informata - con frequenza almeno annuale - l’assemblea dei soci; questi, ovviamente, potranno esperire le normali azioni previste dalla disciplina societaria (Tit. V, cap. 5, sez. III, par. 3.2).81 ! ! 3.14. Segue: I limiti prudenziali all’assunzione di attività di rischio. ! La Banca d’Italia, nel determinare i limiti prudenziali all’assunzione di attività di rischio nei confronti dei soggetti collegati, ha usufruito della facoltà prevista dalla Delibera CICR n. 277 di differenziare i suddetti limiti a seconda della natura del soggetto collegato stesso; ciò, come si legge nelle Istruzioni, “in considerazione dei maggiori rischi inerenti ai conflitti di interesse nelle relazioni banca-industria”. Infatti, il Tit. V, Cap. 5, Sez. II, par. 1.1 stabilisce che la banca non può impegnarsi con tali soggetti collegati oltre i limiti, riferiti al patrimonio di vigilanza consolidata ovvero, nel caso di banche non appartenenti ad un gruppo bancario, al patrimonio di vigilanza individuale, del: ! 1. Per l’assunzione di attività di rischio nei confronti di una parte correlata non finanziaria e relativi soggetti connessi: • 5 per cento nel caso di una parte correlata che sia un esponente aziendale ovvero un partecipante di controllo o in grado di esercitare un’influenza notevole; • 7,5 per cento nel caso di una parte correlata che sia un soggetto diverso da quelli appena indicati ovvero un soggetto, diverso dal partecipante, in grado, da solo, di nominare uno o più componenti degli organi aziendali; • 15 per cento negli altri casi. ! 81 Ulteriori differenze tra la disciplina Consob e quella della Banca d’Italia le si rinvengono: nella definizione di operazione ordinaria; nella definizione di operazione di importo esiguo; nella possibilità di limitare preventivamente le spese per i servizi resi dagli esperti indipendenti. !169 ! 2. Per l’assunzione di attività di rischio nei confronti di una parte correlata finanziaria e relativi soggetti connessi: • 5 per cento nel caso di una parte correlata che sia un esponente aziendale; • 7,5 per cento nel caso di una parte correlata che sia un partecipante di controllo o in grado di esercitare un’influenza notevole; • 10 per cento nel caso di una parte correlata che sia un partecipante diverso da quelli appena indicati ovvero un soggetto, diverso dal partecipante, in grado, da solo, di nominare uno o più componenti degli organi aziendali; • 20 per cento negli altri casi. ! Come si vede - e questo dimostra ancora una volta la ratio della disciplina in parola: contenere il conflitto di interessi derivante dal venir meno della separatezza bancaindustria - i limiti sono differenziati a seconda della natura finanziaria o non della parte correlata, per questi ultimi maggiormente stringenti. Tale differenziazione, peraltro, viene meno, per quanto riguarda il limite individuale valevole per le banche appartenenti ad un gruppo bancario; queste, infatti, possono - sempre nel rispetto dei suddetti limiti consolidati e, appunto, indipendentemente dalla natura dell’affidatario - assumere attività di rischio verso un “medesimo insieme di soggetti collegati” entro il limite del 20 per cento del patrimonio di vigilanza individuale. Si noti, infine, che il successivo successivo paragrafo 2 prevede, nell’eventualità in cui il gruppo bancario sia sottoposto a vigilanza consolidata ai sensi della normativa comunitaria, la non commutabilità del relazioni intragruppo nel calcolo dei limiti prudenziali appena esposti. ! ! ! ! ! ! ! ! ! !170 Limiti prudenziali alle attività di rischio verso soggetti collegati: schema riassuntivo ! ! Fonte: Banca d’Italia 3.15. Segue: Le sanzioni. ! La banca, nell’ambito delle prevenzione e della gestione dei conflitti di interessi, deve dotarsi di un adeguato sistema di controlli idoneo ad assicurare l’obiettivo primario di una gestione che sia sana e prudente. Coerentemente con quanto disposto dalla Delibera CICR n. 277, infatti, l’attività di monitoring delle relazioni con i soggetti collegati non deve limitarsi alla fase deliberativa (e predeliberativa, nel caso di operazioni di maggiore rilevanza), bensì estendersi in una prospettiva, per così dire, dinamica. Posto, dunque, che il rispetto della disciplina esposta deve essere assicurato in via continuativa, l’art. 53, co. 4-ter, TUB rimette alla Banca d’Italia l’individuazione dei casi in cui al mancato rispetto di questa consegue la sospensione dei diritti amministrativi connessi con la partecipazione. In ogni caso, nell’eventualità in cui i suddetti limiti prudenziali vengano superati sempre che ciò avvenga per cause indipendenti da volontà o colpa della banca - è fatto obbligo a questa di ricondurre, nel più breve tempo possibile, l’ammontare delle attività di rischio nei limiti consentiti; a tal fine l’organo gestionale deve predisporre, entro 45 giorni dall’infrazione, un “piano di rientro”, successivamente approvato !171 dall’organo con funzione di supervisione strategica. Sintomatica dell’attenzione che l’Autorità ha dedicato, nel dettare la disciplina in analisi, agli assetti proprietari delle banche e alla predisposizione di presìdi atti a limitare gli effetti negativi conseguenti al venir meno della separatezza tra banca e industria, è la disposizione, contenuta nel Tit. V, Cap. V, sez. II delle Istruzioni; secondo la quale la suddetta sospensione dei diritti amministrativi interviene esclusivamente quando il superamento dei limiti prudenziali riguarda una parte correlata in virtù, appunto, della partecipazione detenuta nella banca (o in una società del gruppo bancario)82. La portata di tale sanzione civilistica, peraltro, non è tuttora completamente chiarita in dottrina; ciò di cui si dubita è, in particolare, l’idoneità di una siffatta sanzione ad inficiare la validità di un’eventuale contratto tra banca e terzo che comporti la violazione della disciplina regolamentare, essendo il fenomeno sanzionatorio limitato al rapporto tra soggetto vigilato e Autorità.83 ! ! 3.16. Alcune considerazione critiche. Meccanismi di controllo endosocietario e conflitti di interesse. ! I sistemi di corporate governance che nel nostro Paese si sono succeduti negli ultimi due decenni si sono troppo spesso dimostrati inidonei a fronteggiare i pericoli che la sempre crescente complessità dei mercati pone. Un esempio: immediatamente dopo lo scandalo Parmalat (2003-2004), il punto che destò maggior preoccupazione era la circostanza che il crack fosse avvenuto in una società che - almeno formalmente non aveva commesso violazione alcuna delle norme di corporate governance; al contrario, Parmalat era un ottimo esempio di adozione delle best practices ! 82 Ciò, si noti, tanto nel caso in cui il partecipante sia una parte correlata finanziaria quanto nel caso in cui sia non finanziaria. ! 83 In questo senso, V. Troiano, La nuova disciplina dei conflitti di interesse - Assunzione di attività di rischio nei confronti di soggetti collegati e di obbligazioni nei confronti di esponenti aziendali, op. cit. !172 internazionali84. Eppure il TUF prima (1998), il Codice di Autodisciplina delle società quotate dopo (1999), incentivando un più attivo ruolo rispettivamente degli azionisti di minoranza e degli amministratori indipendenti, avevano investito molto sui meccanismi di controllo endosocietario delle società aperte. Tralasciando la questione della natura giuridica del Codice di Autodisciplina che, in quanto atto non normativo, non era dotato di un meccanismo di enforcement - per esso valeva un più debole sistema di comply or explain85 - la direzione intrapresa dal legislatore si era rivelata disastrosamente inefficace. A ciò, d’altronde, non aveva posto rimedio la legge sulla tutela del risparmio 262/2005 - emanata, appunto, sull’onda degli scandali finanziari di inizio secolo -, che si limitava ad un rafforzamento dei requisiti di indipendenza (insieme a quelli di onorabilità e professionalità): anche in questo caso, come dimostrano le note vicende successive, il legislatore non aveva colto il nocciolo della questione; impegnato ad adeguare il sistema di governance agli standard europei - e in particolare a quelli tipici anglosassoni -, aveva dedicato poca attenzione a plasmare gli stessi tenendo conto delle caratteristiche del sistema societario italiano. Prendendo a prestito le parole di Mosco e Lopreiato tale sistema, insomma, aveva dimostrato “l’incapacità […] di prevenire o contrastare gestioni societarie disinvolte, remunerazioni dei managers del tutto disancorate dai risultati gestionali, vere e proprie truffe a danno dei soci e dei creditori, insolvenze e fallimenti”86. È in questo contesto normativo caratterizzato, peraltro, dal minore spessore delle previsioni dettate per i modelli di governance “alternativi” dualistico e monistico87 - che interviene il Regolamento Consob n. 17221. 84 ! M. Messori, E. Barucci, Un male oscuro chiamato conflitto di interessi, apparso su Lavoce.info, 18 dicembre 2006. ! 85 L. Plattner, Indipendenti nel Cda? Sì, ma sul serio, apparso su Lavoce.info, 8 maggio 2008. ! 86 G.D. Mosco, S. Lopreiato, Lo scudo e la lancia nella guerra dei “subprimes”: ipertrofia e perforabilità del sistema dei controlli, in Analisi Giuridica dell’Economia, 2009, p. 89. ! Anche 87 tale scelta è piuttosto criticabile: si pensi al pericolo di arbitraggio normativo che da esso consegue. Cfr. G.D. Mosco, Controlli interni e indebolimento degli organi di sorveglianza, in Analisi Giuridica dell’Economia, 2006. !173 Il dubbio che tali circostanze pongono attiene, dunque, all’idoneità della normativa oggetto del presente capitolo ad assicurare che, date le caratteristiche delle maggiori società italiane, l’indipendenza non si riduca ad un dato prettamente formale; a far sì, cioè, che la figura sulla quale il legislatore ha tanto “puntato” sia dotata di una indipendenza che sia di tipo sostanziale. Le società quotate italiane presentano, infatti, caratteristiche profondamente diverse da quelle delle public company anglosassoni in cui il concetto di amministratore indipendente è stato sviluppato. La tuttora molto accentuata concentrazione della proprietà in capo a pochi soggetti nonché la rilevanza del fenomeno coazionale nelle dinamiche societarie costituiscono, evidentemente, un rilevante ostacolo a che tale obiettivo possa essere raggiunto: lo strapotere del socio di maggioranza o di riferimento impedisce che l’indipendenza sostanziale di cui sopra si traduca in realtà.88 In un sistema così caratterizzato, come notava Messori, “gli amministratori indipendenti tendono a non essere davvero tali, il collegio sindacale è raramente composto da membri espressione degli azionisti di minoranza, i comitati interni includono spesso amministratori esecutivi e hanno funzioni marginali, la struttura retributiva degli amministratori non sembra rispondere a esigenze di governance, vi sono evidenze di insider trading da parte del management, l’attivismo degli azionisti di minoranza e degli investitori istituzionali è assai limitato”89. Ulteriore profilo critico è la sostanziale corrispondenza - ampiamente descritta - della disciplina della Banca d’Italia in tema di assunzione di rischi con soggetti collegati a quella dettata dalla Consob per le operazioni con parti correlate. Il punto è che questa impostazione - almeno in parte dettata dall’urgente necessità di una disciplina in ! 88 Cfr., in questo senso, G. Rossi, Le c.d. regole di “corporate governance” sono in grado di incidere sul comportamento degli amministratori?, in Riv. Soc., 2001, pp. 16 ss.; A. Pisani Massamormile, Appunti sugli amministratori indipendenti, in Riv. Soc., 2/2008, pp. 237 ss.; P. Ferro-Luzzi, Indipendente… da chi; da cosa?, in Riv. Soc., 2008, pp. 204 ss.; J.N. Gordon, The rise of indipendent directors in Italy: a comparative perspective, in La società per azioni oggi, Milano, 2007, p. 161; R. Lener, Gli amministratori indipendenti, in G. Scognamiglio (a cura di), Profili e problemi dell’amministrazione nella riforma delle società, Milano, 2003, p. 126. 89 ! M. Messori, Il potere delle banche, Università Bocconi Editore, 2007, p. 202. !174 materia90, ma anche dai pure indubbi vantaggi che il dibattito effettuato dalla Consob con gli operatori del mercato forniva - non tiene conto di una importantissima circostanza. Infatti, il regolamento Consob, seppure caratterizzato da un alto livello di analiticità, è plasmato con riferimento ad un ambiente - quello delle società quotate - dove l’evenienza di una operazione con una parte correlata è intesa, quanto meno in virtù della scarsa diffusione del modello di public company, come eccezionale91. Ciò, al contrario, non è affatto vero quando si discute di banche, per le quali le operazioni con soggetti collegati costituiscono attività poste in essere con una certa frequenza. Si consideri, ad esempio, la importante diffusione, nel panorama italiano, delle banche popolari (intese in senso lato). Oltre alla struttura proprietaria diffusa e all’uniformità della distribuzione dei diritti di voto, infatti, tale tipologia di banche si è andata tradizionalmente caratterizzando per un’operatività territorialmente circoscritta. Inoltre, e questo è l’elemento più rilevante ai fini del nostro discorso, tale operatività locale ha fatto sì che l’azionariato fosse composto prevalentemente da imprenditori appartenenti alla medesima area territoriale; questi peraltro, almeno nella maggior parte dei casi, sono i principali debitori della banca stessa.92 Ancora, un ulteriore elemento che incrementa la possibilità di conflitti di interesse può essere individuato nel fenomeno - di grande diffusione - di acquisizione di partecipazioni industriali nell’ambito di situazioni prefallimentari o fallimentari. ! 90 Si veda, per fare un esempio, l’ammonizione indirizzata all’Italia - e datata 2009 - del Fondo Monetario Internazionale: “the limited regulation of lending to related parties raises uncertainty about the extent of connected lending in the banking sector”; per un commento, cfr. A. De Pra, Vigilanza regolamentare e rapporti con “soggetti collegati” nella recente normativa bancaria, in F. Galgano, F.A. Reversi Monaco (a cura di), Le nuove regole del mercato finanziario, Cedam, Padova 2009. ! 91 Considerazioni in parte diverse valgono per le società con azioni diffuse fra il pubblico in maniera rilevante, ugualmente prese in considerazione dal regolamento Consob; per questa categoria di società, la rilevanza del fenomeno delle operazioni con parti correlate è accresciuta, rispetto alle società quotate, da molteplici fattori: in primo luogo, la tuttora forte prevalenza del modello di controllo “proprietario”; ancora, la diffusione, nel contesto italiano, di assetti di controllo di tipo coazionale nonché la presenza di strumenti - gruppi piramidali, limiti al possesso azionario, azioni con diritto di voto limitato - amplificanti la separazione tra proprietà e controllo. In ogni caso, come si vedrà, si tratta di un fenomeno la cui rilevanza è sicuramente inferiore rispetto a quella riscontrabile nel sistema bancario. ! 92 Cfr. M. Messori, La separatezza fra industria e banca: il punto di vista di un economista, op.cit., pp. 44-45. !175 L’interesse della banca partecipante a massimizzare la possibilità che il debito venga pagato - ovvero, quanto meno, a rinviare il momento di emersione delle relative perdite - è, spesse volte, di ostacolo alla gestione ottimale della partecipata, in questo modo rendendo tali peculiari partecipazioni “altamente permeabili”93 a potenziali conflitti di interesse. Si deve ritenere, dunque, che la questione dei conflitti di interesse non è - almeno nel sistema bancario - ancora risolta. Fare tabula rasa di una evoluzione normativa ormai trentennale - ci si riferisce evidentemente al venire meno della separatezza tra banca e industria - significherebbe, d’altro canto, rendere nulli i vantaggi di efficienza che un tale sistema, come si cercherà di spiegare nel prossimo capitolo, oggettivamente genera. Nella prospettiva della prevenzione e della gestione dei conflitti di interesse, è sicuramente condivisibile l’orientamento del legislatore e delle Autorità - al momento, in verità, oggetto di numerose critiche, che vorrebbero una più pregnante presenza di norme di rango primario, di carattere, dunque, imperativo - verso un sempre maggiore rispetto dell’autonomia privata delle società; in questo senso depone la delega, tanto in capo alle singole società interessante quanto in capo alle associazioni di queste rappresentative, di ampi spazi di autonomia in merito alla disciplina di dettaglio nonché dell’affidamento del controllo sul rispetto della stessa ai sistemi organizzativi interni degli enti creditizi. Questo processo di autoregolamentazione (in senso lato), però, perché possa concludersi positivamente, abbisognerebbe della parallela costruzione di un sistema di efficaci incentivi microeconomici, grazie al quale i soggetti chiamati a definire la disciplina possano essere effettivamente stimolati (incentivati, appunto) a delineare meccanismi che - “su misura” della società - siano capaci di attutire gli effetti dei conflitti di interessi; solo un siffatto meccanismo può incentivare la percezione dei sistemi di governance, e in particolare di controllo endosocietario, come il “cardine 93 ! M. Messori, Il potere delle banche, op. cit., p. 22. !176 di un ordinamenti strategico di fine lungimirante”94 di cui si parlava sopra e non come un inutile (se non deleterio) colosso burocratico.95 Le società avrebbero, in questo modo, la possibilità di meglio valutare la convenienza e l’opportunità dell’operazione; questa, infatti, non è sempre assicurata dal semplice rispetto delle pur essenziali - regole procedurali. D’altro canto, il legislatore avrebbe modo di focalizzarsi sull’indicazione di regole sostanziali, effettivamente idonee a impedire che i conflitti di interesse si traducano in operazioni svantaggiose per gli stakeholders.96 Per ultimo, mi preme, poi, sottolineare un ulteriore aspetto che pare deficitario della disciplina in materia di rapporti con soggetti collegati; mi riferisco al regime di trasparenza, “gendarme” esterno dell’efficienza delle imprese97. La delibera CICR numero 277 lasciava, infatti, ampio margine di manovra alla Banca d’Italia, cui era di conseguenza data la possibilità di integrare eventuali manchevolezze; manchevolezze intrinseche alla natura stessa delle delibere del CICR che costituiscono atti sì normativi, ma di indirizzo. Cionnondimeno, è inevitabile rilevare come la delibera fosse pericolosamente carente sotto un profilo cruciale: quello, appunto, della trasparenza nei confronti del mercato, elemento essenziale perché il processo concorrenziale possa svolgersi in maniera corretta, così “punendo” comportamenti distorsivi. Non si rinviene, infatti, riferimento alcuno a questo tema. Come nota 94 ! Cfr. anche G.D. Mosco, S. Lopreiato, op. cit., p. 100, dove si legge che la superfetazione dei controlli sulla gestione “finisce inevitabilmente per limitare la performance imprenditoriale, trasformando paradossalmente l’accountability in una sorta di boomerang per azionisti e stakeholders che li priva di una parte del valore di impresa di cui potrebbero beneficiare […] e che, soprattutto consente ai tanti controllori di scaricare ognuno sugli altri le responsabilità connesse a ogni fallimento di impresa”. ! 95 Cfr. G.D. Mosco, Funzioni aziendali di controllo, principio di proporzionalità e ruolo degli organi sociali nella Mifid, in M. De Mari (a cura di), La nuova disciplina degli intermediari dopo le direttive MiFID, prime valutazioni e tendenza applicative - Un confronto tra giuristi ed economisti, Padova, 2009. ! 96 Queste considerazioni sono, d’altronde, suffragate dalla paradossale circostanza che “la crisi finanziaria, con gli ennesimi gravi scandali, si è paradossalmente manifestata in un momento in cui la regolamentazione volta a contenere le possibili deviazioni dalla correttezza gestori ha raggiunto […] livelli molto alti, imparagonabili a quelli di ogni altro periodo storico”, G.D. Mosco, S. Lopreiato, op. cit., p. 100 97 ! M. Grillo. F. Silva, op. cit., pp. 447 ss. !177 Antonucci: “il ricordato obiettivo di perseguire la stabilità della banca, mediante regole atte ad escludere che situazioni di conflitto di interessi inficino una corretta valutazione del merito di credito, avrebbe reso opportuno che le procedure decisionali relative ad i rapporti con i soggetti collegati fossero assoggettati a specifici obblighi di trasparenza […] Quanto meno sarebbe stato il caso che l’empito della legge risparmio e del d.lgs. n. 303 si estendesse ad un organico coordinamento con le regole che - con un perimetro applicativo in parte diverso ed a distinti fini sanzionatori - configurano le procedure da adottare perché gli esponenti di una banca o del suo gruppo possano contrarre obbligazioni di qualsiasi natura o compiere atti di compravendita”98. A ciò, purtroppo, non provvede l’intervento della Banca d’Italia. Certo, è previsto che le attività di rischio verso soggetti collegati vengano segnalate all’Autorità, e a tal fine viene richiamata la - pur efficace - disciplina generale di segnaletica prudenziale. Ciò che manca, però, sono obblighi specifici, più stringenti rispetto a alla disciplina generale; questi sono necessari in considerazione della particolare maggiore - delicatezza dell’operazioni con soggetti collegati. È, questo, un ulteriore profilo che necessita di un intervento pronto e efficace. ! 98 ! A. Antonucci, Diritto delle banche, op. cit., p. 220. !178 ! ! ! ! Capitolo IV ! Breve analisi economica ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! 4.1. Considerazioni introduttive. ! Già nelle Considerazioni finali del 1975, l’allora Governatore della Banca d’Italia Guido Carli proponeva, in un contesto tanto normativo quanto di fatto sostanzialmente diverso da quello attuale, di convertire parte dei crediti vantati dalle banche nei confronti delle imprese non finanziarie in quote di capitale di rischio. 1 Proposta, questa, che si poneva in posizione diametralmente opposta a quella all’epoca invero condivisa dai più - avanzata negli anni sessanta da Alexandre Lamfalussy; in un saggio del 1968, intitolato Les marchés financiers en Europe, l’esimio economista sosteneva l’opportunità di costituire società ad hoc, partecipate dalle banche ma da esse nettamente distinte, cui sarebbe spettato il compito di detenere le suddette partecipazioni, frutto della conversione dei crediti. Queste società, avrebbero - ed è questo, appunto, l’elemento di diversità con la proposta di Carli - dovuto costituire entità giuridiche nettamente separate dalle banche, caratterizzate da una forte autonomia gestionale; in questo modo, nell’ottica di Lamfalussy, si sarebbe posto un freno al sorgere di conflitti di interessi: le società di investimento partecipanti nelle imprese avrebbero, cioè, costituito uno schermo tra queste ultime e le banche. La proposta di Lamfalussy fu fatta propria dal successore di Carli, Paolo Baffi, che riaffermò con forza la necessità di tenere separata le gestione operativa di banche e industria: “non sta alle banche risolvere i problemi industriali […] ma sta alle banche essere di stimolo alla soluzione di quei problemi e contribuire alla definizione dei loro aspetti finanziari, come sta alla Banca centrale favorire siffatte azioni, lasciando ai singoli operatori la responsabilità delle scelte, e al tempo stesso evitare che il maggior impegno che ne deriva alle banche possa eccedere i necessari limiti di prudenza”. Seppure fortemente diverse nelle soluzioni, la questione centrale affrontata dai due economisti era, in verità, la medesima. Il sistema finanziario dell’europa ! 1 Cfr. G. Forestieri, Le banche azioniste delle imprese. Opportunità, limiti e problemi, in Note economiche, 1994, 24, pp. 463-473. !180 continentale, e in particolare quello italiano, era ed è tuttora caratterizzato da un strutturale deficienza del mercato azionario. Posta la insufficiente capacità di autofinanziamento delle imprese, l’unica opzione rimanente era (ed è) quella del credito bancario, che in effetti costituiva (e costituisce) la forma di finanziamento cui maggiormente il settore industriale ricorre. Il problema cui si cercava una soluzione era, dunque, quello della struttura finanziaria delle imprese. Gli interventi volti a riequilibrare l’utilizzo delle due diverse forme di finanziamento - credito e capitale di rischio - non potevano, d’altronde, non coinvolgere gli istituti di credito: le famiglie preferivano (e preferiscono) investimenti meno rischiosi - titoli di Stato in primis - e, dunque, nelle banche dovevano individuarsi gli unici soggetti capaci e disposti ad effettuare gli ingenti investimenti che una tale operazione rendeva necessari. Il problema del finanziamento e della capitalizzazione delle imprese è ancora oggi nel corso della più grave e protratta crisi finanziaria degli ultimi settanta anni - di estrema attualità. I governi europei, confrontandosi con i limiti posti dalla legislazione comunitaria, hanno a tal fine elaborato molte, più o meno invasive, soluzioni. L’intervento statale, stati da alcuni definiti salvatori2, ha rimesso in discussione le fondamenta tutte alla base delle riforme normative che hanno caratterizzato il contesto europeo degli ultimi trenta anni3. ! ! ! ! 2 Cfr. G. Napolitano, Il nuovo stato salvatore: strumenti di intervento e assetti istituzionali, in Giornale di diritto amministrativo, 2008, 11, pp. 1083 ss.; G. Amato, Se gli azionisti privati li difende meglio lo Stato, il Sole 24 ore, 22 marzo 2009. ! 3 Di questa opinione è Buonaura, socondo il quale la crisi finanziaria ha “inferto un colpo, forse mortale, alle teorie che identificano l’interesse sociale nell’esclusivo perseguimento del cosiddetto shareholder value. Se questo è probabilmente vero in assoluto, lo è comunque certamente per l’impresa bancaria per la peculiarità degli interessi che ne risultano coinvolti che rende particolarmente riduttivo e fuorviante il concepire la gestione come essenzialmente rivolta alla creazione di valore per gli azionisti […] non si può non sottolineare come attorno all’impresa bancaria ruoti una pluralità di stakeholders […] Quando una banca ha un ruolo importante nell’economia di un paese tra questi stakeholders c’è certamente anche lo Stato”. V. Calandra Buonaura, Assetti proprietari e capitale delle banche: la prospettiva del privatista. Intervento al seminario Banking in the rain: il sistema bancario in un mondo che cambia, Perugia, 13 marzo 2009. !181 4.2. La crisi finanziaria e la stretta creditizia. ! L’articolo 87, par. 3, lett. b) del trattato istitutivo della Comunità Europea stabilisce che possono considerarsi compatibili con il mercato comune gli aiuti destinati a porre rimedio “a un grave turbamento dell’economia di uno Stato membro”. Questa disposizione ha assunto negli ultimi anni una peculiare centralità; ha, infatti, costituito il fondamento normativo perché i paesi membri potessero intervenire - con aiuti variamente declinati in funzione della gravità dei “turbamenti” - nel sostenere gli istituti di credito nazionali, la cui stabilità era stata messa in serio pericolo dalla crisi finanziaria. La Commissione Europea ha, immediatamente dopo il verificarsi dei primi sintomi della crisi, specificato, in due sue comunicazioni4, le modalità e le condizioni dell’intervento così legittimato. Viene, dunque, stabilito che tali interventi, da adottare esclusivamente in circostanze eccezionali, capaci di minare alla stabilità dell’intero sistema finanziario, debbano essere subordinati al rispetto dei principio di necessità e proporzionalità. Devono, cioè, essere concepiti in modo tale da ridurre al minimo gli effetti di ricaduta negativa sui concorrenti dei soggetti beneficiari, sugli altri settori e sugli altri Stati membri nonché essere proporzionate agli obiettivi posti, non andando oltre quanto richiesto da quest’ultimo. Giulio Napolitano rintraccia 4 differenti direzioni (“moduli di pubblicizzazione”, così vengono definiti, data la comune caratterizzazione statale) nelle quali tali interventi sono stati realizzati5. Il primo, la pubblicizzazione finanziaria, mira ad aumentare la liquidità a disposizione delle banche, così garantendo la loro esposizione debitoria. Tale ! 4 Comunicazione 2008/C 270/02 del 13 ottobre 2008, riguardante “l’applicazione delle regole in materia di aiuti di Stato alle misure adottate per le istituzioni finanziarie nel contesto dell’attuale crisi finanziaria mondiale” e comunicazione 2009/C 10/03 del 15 gennaio 2009 riguardante la “ricapitalizzazione delle istituzioni finanziarie nel contesto dell’attuale crisi finanziaria: limitazione degli aiuti al minimo necessario e misure di salvaguardia contro indebite distorsioni della concorrenza”. ! 5 Cfr. G. Napolitano, Gli impatti della crisi sugli assetti proprietari e sul capitale delle banche, intervento al seminario Banking in the rain: il sistema bancario in un mondo che cambia, Perugia, 13 marzo 2009. !182 obiettivo è stato, in concreto, perseguito, in vari modi: dall’acquisto di titoli c.d. “tossici” da parte dello Stato fino alla prestazione di garanzie pubbliche. Il secondo, la pubblicizzazione proprietaria, consiste nell’acquisto, tanto sul mercato primario quanto su quello secondario, di quote azionarie di banche che presentano una situazione di grave inadeguatezza patrimoniale. Ciò, si noti bene, senza però dar luogo ad una rediviva pubblicizzazione dell’attività bancaria: non viene messa in discussione, né tantomeno ciò sarebbe possibile, alla luce della disciplina comunitaria, la natura imprenditoriale dell’attività bancaria. Il terzo modulo, definito pubblicizzazione funzionale, consiste nella sottoscrizione di obbligazioni e titoli speciali emessi da banche che, a differenza dei beneficiari del precedente modulo di intervento, risultano essere essenzialmente sane; in questo modo, viene accresciuto il capitale delle banche, inficiato dai sempre maggiori casi di inadempienza dovuti appunto, alla crisi finanziaria e alle sue ripercussioni sull’economia reale, così da garantire un flusso costante di credito ai terzi: l’obiettivo, afferma Napolitano - è, infatti, “quello di evitare che in un contesto macroeconomico fortemente incerto si avvii una spirale perversa tra emergere di sofferenze e restrizione del credito”. Il quarto modulo, l’unico che presenta il carattere della stabilità, non essendo, almeno nelle intenzioni, la sua operatività temporalmente limitata, è quello della pubblicizzazione regolamentare, focalizzata sulla ricerca di un nuovo complesso normativo di vigilanza prudenziale e di sistemi di controllo maggiormente efficaci, in grado di prevenire il sorgere di nuovi shock. Seguendo la sistemazione di Napolitano, ciò che in questa sede maggiormente interessa sono i moduli di pubblicizzazione proprietaria e funzionale. Queste due tipologie di intervento - o, meglio, le modalità di intervento effettivamente adottate dagli Stati salvatori - denotano più degli altri, infatti, la volontà delle autorità governative nazionali di sostenere, attraverso gli aiuti al settore bancario, un adeguato (quanto meno non decrescente rispetto al periodo pre-crisi) e costante afflusso di credito alle imprese e alle famiglie, in modo tale da attutire le, pur rilevanti, ripercussioni della crisi finanziaria sull’economia reale. L’intervento !183 statale, cioè, è finalizzato non solo ad evitare la catastrofe di un tracollo del sistema bancario ma anche ad assicurare un, in un certo senso più concreto, sostegno alle attività produttive6. Tanto nel caso di “pubblicizzazione funzionale” quanto nel caso di “pubblicizzazione proprietaria”, viene richiesta, a fronte dell’apporto di capitale pubblico, l’esplicita assunzione di impegni in ordine alle modalità di esercizio del credito7. A ciò si aggiungono impegni relativi alle modalità di governance della banca e l’adesione a codici etici di comportamento. A presidio dell’osservanza di tali impegni, poi, viene solitamente previsto l’obbligo di riferire periodicamente all’Autorità sull’andamento dell’impresa e delle sue attività. In particolare, sul fronte degli assetti proprietari, è opportuna una brevissima disamina degli interventi che si sono succeduti. I primi salvataggi pubblici di banche di grandi dimensioni sono stati effettuati in Gran Bretagna nel 2008; paese, questo, in cui il mercato finanziario è fortemente sviluppato e che - questa circostanza dovrebbe far riflettere sulla asserita capacità del mercato di autoregolarsi - già l’anno precedente aveva conosciuto il già analizzato bank run seguito alla crisi della ! 6 In Italia, ciò è d’altronde coerente con il disposto dell’articolo 47 Cost., secondo il quale “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito. Favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà della abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese”. Per un dettagliato commento dell’articolo costituzionale, v. Merusi, Art. 47, in Branca (a cura di) Commentario alla Costituzione, Il foro italiano, 1980, pp. 155 ss. ! 7 Si veda, in primis, l’art. 6 della Loi de finance rectificative pour le financement de l’économie n. 2008-1061, secondo il quale l’intervento statale alle banche è subordinato alla previa stipulazione di un accordo “qui fixe les contreparties de la garantie, notamment en ce qui concerne le financement des particuliers, des entreprises et des collectivités territoriales”. La convenzione poi stipulata obbligava i beneficiari ad incrementare il credito erogato complessivamente all’economia del 3,5 per cento nel corso del 2009 e finanziare per sette miliardi di euro l’esportazione, collaborando a tal fine con l’ufficio del mediateur du credit; ad impegnarsi nel rafforzamento dei fondi propri; ad adeguarsi a codici etici, con particolare riguardo alla remunerazione degli amministratori. Gli accordi intercorsi tra governo inglese e beneficiari degli aiuti (RBS e Lloyds, come si vedrà), prevedevano, similmente, che i beneficiari degli aiuti si impegnassero: a mantenere inalterato il flusso di credito e le condizioni nei confronti delle piccole imprese; a non agire esecutivamente nei confronti dei creditori inadempienti; a partecipare al finanziamento di iniziative industriali; a non elargire bonus agli amministratori, adottando sistemi di remunerazione che disincentivino l’assunzione di rischi eccessivi. In ambito extraeuropeo, poi, simili obblighi erano contenuti nel Financial Stability Plan. !184 Northern Rock. A metà 2008, nel momento in cui la crisi si manifestava nella sua forma più acuta, il governo britannico procedeva ad una massiccia sottoscrizione di azioni ordinarie e di azioni privilegiate non optate, così da diventare il primo azionista della Royal Bank of Scotland e della Lloyds TSB, con quote rispettivamente del settanta e quarantaquattro per cento. Effettuato per il tramite della UK Financial Investment Ltd, società partecipata completamente dallo Stato inglese, l’intervento in parola risultava non poco invasivo. Certo, il governo non acquisiva il diritto di nominare la maggioranza degli amministratori, ma comunque l’influenza esercitabile sulla gestione societaria era rilevante. Diversamente, gli interventi effettuati nello stesso anno dal governo francese, per il tramite della Société de prise de partecipation de l’État, precludeva qualsiasi ingerenza del pubblico nella gestione dei soggetti beneficiari. In ogni caso, e a prescindere dalle modalità di intervento - modulate anche in considerazione della gravità delle crisi cui gli stati erano chiamati a porre rimedio -, dalle conseguenze sugli assetti proprietari e sulle modalità di governance, ciò che accomuna questi è, come detto, la volontà di utilizzare tali salvataggi come strumenti per sostenere l’economia e, quindi, garantire flussi di credito alle imprese e alle famiglie. L’Italia ha adottato un modello simile a quello francese, comportante poca o nessunoa ingerenza dello Stato nella governance della banca beneficiaria degli aiuti. Nel coniugare i salvataggi con il sostegno del credito all’economia, rilevanza centrale hanno assunto i cosiddetti Tremonti bonds, speciali obbligazioni bancarie subordinate, ibride e perpetue; da sottoscrivere da parte del MEF, previa valutazione della Banca d’Italia circa l’adeguatezza patrimoniale attuale e prospettica dell’emittente, sono stati istituiti ad opera dell’articolo 12 del D.L. 185/2008, convertito in legge 2/2009. Il punto cruciale di tale operazione, per quanto qui interessa, è che la sottoscrizione da parte dello Stato era subordinata all’accettazione di clausole, la cui finalità era, appunto, quella di “assicurare un adeguato afflusso di finanziamenti all’economia” (art. 12, D.L. 185/2008) e di “evitare una severa e brusca riduzione del credito verso le imprese e le famiglie che potrebbe avere un !185 serio impatto sull’economia italiana” (art. 1 D.M. 25 febbraio 2009). In tale prospettiva, il protocollo d’intesa tra banche e MEF conteneva previsioni in ordine a: la piena disponibilità di credito, in particolare a favore delle piccole e medie imprese, attraverso il mantenimento per almeno il triennio successivo di risorse finanziarie non in decremento rispetto al biennio 2007-2008; il contributo per rafforzare la dotazione del fondo di garanzia per i finanziamenti erogati alle piccole e medie imprese; l'applicazione di condizioni di credito che - nel rispetto del principio della sana e prudente gestione bancaria - siano adeguate a favorire lo sviluppo e il mantenimento di iniziative imprenditoriali. Nonostante questi ed altri sforzi delle autorità governative8, nel mentre della crisi si è assistito ad una rilevante contrazione dell’offerta di credito. A ciò hanno contribuito, da un lato, i pesanti vincoli di bilancio imposte alla banche, dall’altro le incertezze circa il contesto macroeconomico, cui successivamente si sono aggiunte quelle relative ai debiti sovrani; la qualità degli attivi bancari è andata progressivamente diminuendo, a seguito dell’emergere di nuove sofferenze. Il report Istat sull’accesso al credito delle piccole e medie imprese del 2010 mostra come la crisi abbia avuto come effetto principale nei confronti delle PMI quello di incrementare la necessità di risorse finanziarie, principalmente destinate al finanziamento dell’attività corrente. Nel triennio 2007-2010 si è, infatti, registrato un aumento del numero di imprese che ricercano finanziamento, che passano dal 36,5 per cento del 2007 al 52,2 per cento del 2010. Il credito continua ad essere, peraltro, la modalità privilegiata di finanziamento. A fronte di tale maggiore domanda, si riscontra una diminuzione dei casi di successo delle richieste di apertura di linee di ! 8 Tra le altre principali misure di sostegno al credito delle imprese vanno ricordate: il rafforzamento del Fondo centrale di garanzia; la possibilità - prevista nell’accordo per il credito stipulato tra MEF e ABI nel 2012, poi rinnovato nell’anno successivo - concessa alle PMI di ottenere la sospensione del pagamento della quota capitale dei mutui e dei leasing finanziari; la possibilità - prevista nel medesimo accordo - di allungare la durata dei finanziamento ottenuti dalle PMI; la possibilità che la Cassa Depositi e Prestiti ha, a partire dal 2009, di utilizzare la provvista derivante dalla raccolta postale per sostenere, nel medio e lungo periodo, le piccole e medie imprese, attraverso l’erogazione alle banche di finanziamenti a ciò vincolati. Per approfondimenti cfr. L. Bartiloro, L. Carpinelli, P.F. Russo, S. Pastorelli, Questioni di economia e finanza. L’accesso al credito in tempi di crisi: le misure di sostegno a imprese e famiglie, Banca d’Italia, 2012. !186 credito e di mutui nei confronti delle banche: se nel 2007 questi si attestavano allo 86,6 per cento del totale, nel 2010 la parentale scende a 78,4. Nelle dichiarazioni delle imprese, il problema più frequente riscontrato nelle ricerca di credito - ed è questo l’elemento che definisce l’insuccesso della richiesta - è stata la quantità di risorse accordata, che per circa la metà delle stesse è stata nettamente inferiore a quella richiesta. È questo il motivo per il quale si registra, nel medesimo triennio, un aumento delle richieste di credito nei confronti di soggetti diversi - proprietà o soci lavoratori di cooperative in primis - dalle banche: dal 17,1 per cento del 2007 al 35,4 per cento del 2010. Un’interessante chiave di lettura di questo fenomeno - il verificarsi congiunto di un aumento della domanda di credito e di una contrazione dell’offerta - è data dalla teoria del razionamento del credito esposta da Stiglitz e Weiss nel 1981, che sarà presto analizzata. ! ! Prestiti bancari alle imprese non finanziarie (variazioni percentuali in 12 mesi) ! ! ! Fonte: Banca d’Italia !187 La situazione non migliora affatto nel successivo triennio 2010-2012. Dopo un relativo allentamento del credit crunch verificatosi nel 2010, il volume complessivo di credito concesso alle imprese torna a diminuire; le condizioni economiche di accesso al credito peggiorano drasticamente, essendo il tasso medio praticato progressivamente cresciuto; oltre un’impresa italiana su tre non ha ottenuto il credito richiesto; molte imprese hanno perfino rinunciato a rivolgersi alle banche, nella certezza di vedere la propria richiesta rigettata.9 In ogni caso, la sussistenza di un precedente rapporto tra l’impresa richiedente e la banca si è rivelato, anche nel perdurare della crisi, uno dei fattori tra i più importanti nel dirigere le decisioni delle due parti. Ciò in due direzioni. Da un lato, infatti, le imprese orientano la scelta della banca cui richiedere il finanziamento prevalentemente in base alla sussistenza di un già consolidato rapporto di clientela con questa; in questo contesto, come si evince dalla figura, perfino le condizioni contrattuali applicate - tanto quelle riguardanti il tasso d’interesse quanto quelle diverse da questo - passano in secondo piano. ! I criteri per selezionare la banca prevalente. Valori percentuali sul totale delle imprese che hanno ricercato finanziamenti presso le banche Fonte: Istat ! 9 Si veda in proposito la Relazione annuale della Banca d’Italia, 2012, pp. 177 ss. e lo SMEs’ Access to Finance survey, 2013. !188 Dall’altro lato, le maggiori e più approfondite informazioni circa le condizioni e le prospettive dell’impresa derivanti da uno stabile rapporto di clientela con questa; l’eventuale maggiore coinvolgimento nella gestione dell’affidatario derivante dalla detenzione di partecipazioni nella stessa. Questi elementi rilevano in maniera sostanziale nelle decisioni di affidamento della banca. La deliberazione CICR sulle partecipazioni detenibili, emanata all’indomani della prima manifestazione della crisi finanziaria, assume, dunque, una peculiare valenza nel più ampio progetto atto ad arginare le conseguenze restrittive di questa sui flussi di credito bancario verso le imprese, di cui si è cercato, pur sommariamente, di dar conto. ! ! 4.3. Le asimmetrie informative nel mercato del credito. ! I rapporti di credito tra finanziatori e prenditori sono generalmente caratterizzati da problemi di asimmetria informativa. Nel caso del rapporto tra banca e impresa, la banca si trova frequentemente in una posizione di svantaggio: le informazioni che ha a disposizione, essenziali per valutare l’opportunità e la convenienza dell’apertura della linea di credito, sono quantitativamente minori e qualitativamente peggiori rispetto a quelle, invece, a disposizione dell’impresa. A tal proposito, si usa distinguere tra informazioni soggettive e informazioni oggettive. Le prime riguardano l’attitudine e la effettiva capacità del debitore di pagare il suo debito; su tale valutazione incidono elementi i più vari: le condizioni economiche in cui versa l’eventuale prenditore, le sue qualità professionali e morali, il suo talento, la sua affidabilità. Le informazioni oggettive, invece, riguardano le caratteristiche del progetto di cui si richiede il finanziamento: sulla base delle incomplete informazioni fornite, la banca non è in grado di determinare con esattezza la potenzialità e la rischiosità del progetto. In massima sintesi, la banca non è in grado di valutare con esattezza il rischio di insolvibilità connesso al finanziamento. La teoria economica ha da lungo tempo distinto due tipologie di asimmetria informativa. La prima, definita adverse selection, è quella in cui una parte della !189 transazione dispone - prima della stipulazione del contratto - di minori informazioni. In questo caso, è evidente che il problema che si pone alla parte in posizione di svantaggio è quello di ottenere le suddette informazioni; ciò può essere ottenuto attivandosi direttamente nella ricerca o, alternativamente, incentivando la controparte a rivelarle. La seconda tipologia di asimmetria informativa - il moral hazard - è, invece, una forma di opportunismo post contrattuale che si verifica nell’ambito di una rapporto di agenzia tra un principale e un agente. Presupposto essenziale perché sia possibile (meglio, certa) l’adozione di un tale comportamento è la circostanza che, mentre degli eventuali vantaggi dell’azione opportunistica ne gode l’agente, gli altrettanto eventuali effetti negativi sono sopportati, in parte o addirittura totalmente, da terzi; è evidente come, in ambito societario, tale presupposto sia fornito - almeno nelle imprese in cui proprietà e controllo non risulta essere separata - dalla responsabilità limitata. Si usano distinguere due casi di azzardo morale. Il primo - definito hidden information - si verifica quanto la parte in posizione di svantaggio può osservare l’azione della controparte, senza però essere in grado di analizzare il contesto informativo in cui la stessa è stata assunta. Il secondo caso - la hidden action - è, in un certo senso, inverso: ad essere non osservabile è l’azione, mentre il contesto informativo è noto. Posta l’ipotesi di comportamento egoistico massimizzante la propria utilità, il problema diventa quello di trovare strumenti idonei ad incentivare la controparte ad adottare il comportamento che di più si avvicini a quello che risulta ottimale per la parte in posizione di svantaggio.10 Evidentemente, queste situazioni si verificano frequentemente nel mercato del credito. La condizione di equilibrio di questo peculiare mercato è che il prezzo al quale vengono scambiati i beni o i servizi sia uguale ad un valore capace di esprimere correttamente la relazione (inversamente proporzionale) tra rischiosità del ! 10 Cfr. M. Grillo, F. Silva, Impresa, concorrenza e organizzazione, Carocci, Roma 1998, pp. 69-70; P. Milgrom, J. Roberts, Economia, organizzazione e management, Il Mulino, 2005, pp. 257 ss. !190 progetto e suo rendimento. Come dimostrato da George Akerlof11, in presenza di asimmetria informativa tra le parti della transazione, tale prezzo non è determinabile: il mercato - il premio Nobel riporta il caso del mercato delle auto usate, nel quale, dato il fenomeno di adverse selection, le auto di cattiva qualità annullano la domanda di auto di buona qualità - non esiste, semplicemente. Il processo di allocazione delle risorse finanziarie risulta, in questo modo, inefficiente: il prezzo, nell’impossibilità di valutare la singola transazione e conseguentemente differenziarlo a secondo della qualità del potenziale prenditore (il c.d. screening), riflette una valutazione media circa la qualità dell’investimento. Il tasso di interesse medio così determinato, essendo il risultato della sintesi di una pluralità di dati, è intrinsecamente superiore ovvero inferiore al singolo dato. In questo modo, sempre riferendosi al mercato del credito, alcuni imprenditori meritevoli di credito sono esclusi dal mercato; al contrario, imprenditori non meritevoli, ottengono il finanziamento richiesto. Le decisioni di allocazione della banche sono intrinsecamente sub-ottimali.12 Ma non è tutto. Stiglitz e Weiss hanno approfondito le determinanti dell’equilibrio del mercato del credito. In un articolo del 198113, che valse loro il premio Nobel, i due hanno dimostrato, partendo in verità da alcune necessarie ma semplicistiche assunzioni, che anche un mercato del credito in equilibrio è caratterizzato dal fenomeno del razionamento del credito14; vale a dire dalla presenza di una parte di 11 ! G. Akerlof, The market for lemons: quality uncertainty and the market, Quarterly Journal of Economic, 1970. ! 12 In questo modo, la ragione stessa dell’esistenza di intermediari finanziari è ricondotta alla asimmetria delle informazioni a disposizione dei diversi operatori. È, peraltro, opportuno citare il lavoro di E.F. Fama, Efficient Capital Merkets: a review of theory and empirical work, in The Journal of Finance, 1970, in cui, in massima sintesi, l’Autore dimostra che in presenza di mercato efficienti dal punto di visto informativo, gli intermediari finanziari non avrebbero ragion d’esistere; ancora, H.E. Leland, D.H. Pyle, Informational Asymmetries, Financial Structure, and Financial Intermediation, in The Journal of Finance, 1977. ! 13 J.E. Stiglitz, A.M. Weiss, Credit rationing in market with imperfect information, American Review, 1981. ! 14 In tema di razionamento del credito, si vedano anche i contributi di D.R. Hodgman, Credit risk and credit rationing, in The quarterly Journal of Economics, 1960; D.M. Jaffee, F. Modigliani, A theory and test of credit rationing, in The American Economic Review, 1969; D.M. Jaffee, T. Russell, Imperfect information, uncertainty, and crediti rationing, in The Quarterly Journal of Economics, 1976. !191 domanda di finanziamento non soddisfatta. In sintesi, in presenza di asimmetrie informative ex ante, il prezzo di equilibrio che il mercato fornisce non corrisponde a quello ottenuto dall’incontro di domanda e offerta. Infatti, posto il fenomeno dell’adverse selection e la conseguente impossibilità di determinare caso per caso la rischiosità dell’investimento, le banche, pur in presenza di domanda non soddisfatta, non troveranno conveniente aumentare il tasso di interesse praticato. Si ricordi che il prezzo del credito riflette il trade-off tra rischiosità e rendimento; da questa considerazione consegue che i soli prenditori che sarebbero disposti a pagare il maggior tasso di interesse che - in un’ottica walrasiana - dovrebbe, a causa dell’eccesso di domanda, determinarsi, sarebbero quelli con progetti altamente rischiosi. Si determinerebbe, in questo modo, un peggioramento, ovviamente per la banca non conveniente, della qualità complessiva dei debitori, con conseguente aumento del rischio di insolvibilità. Come già detto, la teoria del razionamento del credito di Stiglitz e Weiss è un ottimo strumento per comprendere uno dei tanti elementi che hanno determinato - nel mentre della crisi finanziaria - il credit crunch prima analizzato sulla base dei dati Istat. Oltre all’adverse selection, il mercato del credito presenta frequentemente situazioni di moral hazard. Un contratto incompleto di credito - che, in quanto incompleto, non include tutti i diversi stati di natura che possono verificarsi nello svolgimento della prestazione né tantomeno prevede il livello di sforzo richiesto - espone il creditore (il principale) al rischio che il debitore (l’agente) adotti comportamenti opportunistici post-contrattuali, non ottimizzanti la funzione di utilità del principale. In effetti, successivamente all’ottenimento del capitale, l’imprenditore, conscio del fatto che la banca non possa osservare e controllare il suo comportamento (c.d. attività di monitoring), è incentivato ad adottare un livello di sforzo e di impegno, inferiore a quello ipotizzato dalla banca nel concedere il credito, ma massimizzante la propria (dell’imprenditore) utilità. Altro tipico caso di moral hazard nei rapporti di credito è, poi, quello in cui l’imprenditore devìa il finanziamento concesso verso attività e progetti caratterizzato da una maggiore rischiosità rispetto a quella del progetto effettivamente finanziato !192 dalla banca. Nel caso in cui tale progetto vada a buon fine, potrà usufruire dei maggiori profitti ottenuti, sostenendo un costo inferiore a quello che la banca avrebbe richiesto se nella posizione di ipotizzare il comportamento opportunistico; nel caso in conseguenza della maggiore rischiosità meno probabile - in cui il progetto risulti fallimentare, dovrà, invece, sostenere costi nulli o quasi. In questo contesto, l’applicazione, da parte della banca, di un tasso di interesse che induca i prestatori ad adottare comportamenti moderatamente rischiosi, in modo tale da temperare il rendimento atteso con la probabilità che l’imprenditore fallisca, non ripagando il debito, è di fondamentale importanza. Ancora, l’imprenditore può dichiarare il fallimento c.d. strategico, dove con tale espressione si intende quel fallimento dichiarato al solo scopo di non ripagare il debito e a prescindere da un’effettivo fallimento. L’adozione di questo comportamento, anch’esso inquadrabile nell’ambito dei comportamenti opportunistici post-contrattuali, è, peraltro, maggiormente probabile in paesi che, come l’Italia, presentano una gestione della giustizia civile inefficiente, caratterizzata da costi e tempi di recupero crediti molto alti. Questo breve e elementare esame del mercato del credito dovrebbe far capire quanto importante siano, nel processo di allocazione delle risorse finanziarie, la natura, la qualità, la quantità e la distribuzione dell’informazione. Con riferimento alla situazione italiana, il nostro sistema banche-imprese (specialmente le PMI) è caratterizzato da una generalizzata “opacità informativa”15; assenti o quasi sono rapporti di collaborazione. I canali informativi di cui le banche si sono nel tempo dotati sono fortemente informali, basati sulla conoscenza personale dell’imprenditore e dell’impresa, non ancorati a valutazioni analitiche dei bilanci e dei piani strategici. Conoscenza, peraltro, malamente distribuita tra i diversi enti creditizi: si pensi al fenomeno, peculiare del sistema imprenditoriale italiano, del multiaffidamento, intendendosi con questo termine il contemporaneo mantenimento di diversi rapporti 15 ! E. Salza, Il sistema produttivo e il rapporto banca-impresa, in Impresa e Stato, 2004, p. 2. !193 di credito con altrettanto diversi istituti16. In questo contesto, le banche, “prive della possibilità di portare avanti una valutazione analitica delle proprie controparti, […] hanno dovuto spesso rinunciare ad alcuni fra i punti maggiormente qualificanti del rapporto banca impresa: a politiche di pricing differenziate per segmenti omogenei di clientela, ad obiettivi di massimizzazione della redditività e del mark up nel lungo periodo, alla gestione attiva dei portafogli”17. Ciò è da ricondurre prevalentemente alla struttura famigliare della maggior parte delle PMI italiane, intrinsecamente restie ad aprirsi verso l’esterno tanto sotto il profilo proprietario quanto su quello informativo. Si viene in questo modo a creare il rapporto di tipo antagonista tra banche e imprese di cui s’è parlato nel capitolo 1. Le prime, interessate prevalentemente alla gestione dell’attività corrente, finanziato attraverso l’apertura di linee di credito, spesso a breve termine; le seconde - che sono limitate in maniera sostanziale nelle proprie potenzialità, come prima evidenziato - non incentivate ad instaurare con le imprese un rapporto stabile e duraturo, che sia idoneo a far acquisire conoscenza circa le qualità e le caratteristiche dei clienti; l’abuso dello strumento della garanzia - il patrimonio dell’impresa - a scapito di indagini quantitative e puntuali è emblematico di questa situazione. L’economia domestica nel suo complesso risente, in questo sistema, dei deficit di produttività e di innovazione che da questo derivano. Si capisce che anche in una eventuale fase congiunturale positiva, il nostro paese avrebbe serie difficoltà nel sostenere le sfide provenienti dalla costantemente crescente competitività dei mercati europei e internazionali. Nel perdurare della crisi finanziaria, della quale ancora non si scorge la fine, la necessità di interventi atti ad innovare il mercato del credito italiano, avvicinandolo al modello anglosassone di relationship lending auspicato anche dal Comitato di Basilea, diventa ancora più urgente. L’incremento della trasparenza e l’appianamento delle asimmetrie informative costituisce, dunque, una sfida per il sistema bancario italiano. Il punto dolente è che ! 16 In tema di multiaffidamento, cfr. G. Pelliccioni, G. Torluccio, Il rapporto banca-impresa: le determinanti del multiaffidamento in Italia, in S. Monferrà (a cura di), Il rapporto bancaimpresa in Italia, Bancaria Editrice, Roma 2007, pp. 43 ss. 17 ! E. Salza, op. cit., p. 3. !194 questo processo comporta costi che, nella pratica, possono rivelarsi anche ingenti. Dal punto di vista della banca, questa è chiamata a potenziare, da un lato, gli strumenti di screening ex ante e, dall’altro, strumenti di monitoring ex post. Nell’ambito dell’attività di screening, rilevanza centrale assume il potenziamento della capacità di elaborare i segnali che gli imprenditori immettono, più o meno consapevolmente, nel mercato. La teoria del signalling ha evidenziato, infatti, come la struttura finanziaria dell’impresa (fondamentalmente, il valore del leverage) possa essere utilizzata per valutare la bontà del progetto imprenditoriale. L’imprenditore, cioè, investendo una quantità più o meno importante di capitale di rischio proprio, segnala al mercato la fiducia che ripone nel suo progetto.18 In questa direzione seppure in una diversa prospettiva - si muove l’adozione del metodo di rating interno. Le imprese - alcune imprese, almeno -. al fine di evitare che la banca effettui valutazioni della rischiosità per eccesso, si dotano di sistemi informativi aziendali, grazie ai quali poter puntualmente elaborare dati circa la propria situazione finanziaria, comunicandoli successivamente al mercato e alla banca, con cui intrattiene un rapporto esclusivo. Il fattore ostativo che rende tale sistema ancora poco diffuso è principalmente la sua onerosità; meglio, la necessità di effettuare investimenti idiosincratici, non recuperabili nel caso di mancata concessione del finanziamento. L’attività di monitoring, poi, consiste nella raccolta e elaborazioni di informazione circa l’effettiva azione dell’agente (attività c.d. di auditing) e nell’adozione di opportune misure nel caso di comportamento deviante di quest’ultimo (attività c.d. di punishing). Diamond19 , nell’indagare le ragioni alla base dell’esistenza degli intermediari finanziari, ha evidenziato come lo svolgimento di questa attività da parte degli intermediari creditizi produca economie di scala che riducono i costi che altrimenti ! 18 In questo senso, cfr. H.E. Leland, D.H. Pyle, op. cit.; L. Ross, The determination of financial structure: the incentive signalling approach, in Bell Journal of Economics, 1977. ! 19 D.W. Diamond, Financial Intermediation and Delegated Monitoring, in The review of Economic Studies, 1984; cfr. anche E. Scannella, La banca nella teoria dell’intermediazione finanziaria, Rivista Trimestrale dell’Associazione di fondazioni e di casse di risparmio, 2010. !195 sarebbero sopportati dai singoli datori di fondi. L’attività di monitoring si configurerebbe, dunque, come attività delegata dai datori di fondi all’intermediario. ! ! I rapporti di agenzia nel sistema bancario secondo Diamond ! ! Fonte: E. Scannella Il concetto di delega implica intrinsecamente la necessità di sostenere dei costi, appunti, di delega. Si crea, in questo modo, un problema di asimmetria informativa per così dire alla base, cronologicamente e logicamente precedente a quello tra banca e prenditori. La soluzione prospettata a tale situazione è la stipulazione di un contratto molto simile al nostro contratto di deposito: l’impegno a corrispondere periodicamente un interesse ai depositanti - non funzione della performance - nonché il trasferimento del rischio di insolvenza dei debitori costituisce un incentivo per la banca ad agire in maniera corretta. L’utilizzo esclusivo di questo strumento presenta importanti inconvenienti. In primo luogo, e naturalmente, è costoso. In secondo luogo, come già accennato, l’unico profilo controllabile dell’attività dell’agente è quello quantitativo; lo sforzo, cioè a dire il profilo qualitativo del comportamento, sfugge a classificazioni, se non altro per l’inesistenza di una un parametro oggettivo !196 da utilizzare come paradigma. Infine, l’attività di punishing può comportare costi per il principale: la completa fungibilità è una ipotesi presente solo nei modelli teorici. In un contesto intrinsecamente caratterizzato da asimmetria informativa e da incertezza circa i comportamenti futuri delle parti, cui solo in parte può porsi rimedio attraverso le attività di screening e di monitoring, la realizzazione delle condizioni necessarie perché si raggiunga una situazione di ottimo paretiano è impossibile. Il problema che ci si pone, dunque, smette di essere quello di ricercare la soluzione ottimale che in ambito economico si definirebbe first best, per diventare quello dell’individuazione delle soluzione second best; una soluzione, cioè, subottimale ma in ogni caso più efficiente delle altre opzioni disponibili.20 In questo ambito, un importante strumento è fornitoci dalla teoria dei contratti21, basata sull’assunto secondo il quale: “l’elemento decisivo nella definizione del tipo di contratto utilizzato dalle parti è la natura e la distribuzione dell’informazione”22. Il fine che questa teoria si propone è - posta la normalità dei comportamenti opportunistici - quello di delineare dei meccanismi contrattuali in virtù dei quali lo stesso interesse egoistico dell’agente a massimizzare la propria utilità diventa un incentivo perché il suo comportamento sia allineato agli obiettivi del principale, così da minimizzare i costi di agenzia connessi al caratterizzazione asimmetrica della distribuzione delle informazioni tra le parti della transazione stessa. Quello che maggiormente interessa in questa sede non è tanto il contenuto - che può essere alternativamente completo o incompleto - del contratto bensì la sua dimensione temporale; questo profilo è, infatti, essenziale per comprendere appieno l’opportunità dell’instaurazione di una relazione stabile e duratura tra banca e impresa. Sotto questo profilo, la teoria economica ha tradizionalmente distinto due macro-categorie di contratti, nei quali di volta in volta ha rintracciato la soluzione ottimale - meglio, la migliore soluzione subottimale - in relazione ad uno scambio finanziario. Il primo ! 20 R.G. Lipsey, K. Lancaster, The general theory of second best, in The Review of Economic Studies, 1956. ! 21 La teoria delle transazioni ha vissuto un forte sviluppo a seguito degli studi di Williamson; cfr. O. Williamson, The Economic Institutions of Capitalism, Free Press, New York 1985. 22 ! M. Grillo, F. Silva, op. cit., p. 69. !197 di questi paradigmi contrattuali è quello monoperiodale, uno scambio isolato, che si svolge in una dimensione temporale breve o perfino nulla (vale a dire istantaneo). La peculiarità di tale scambio è la non reiterazione e la irrilevanza del contratto stipulato e della sua esecuzione nei confronti degli eventuali contratti futuri; in questo modo, è preclusa alle parti qualsiasi accumulazione di patrimonio informativo. D’altronde, in un sistema sistema del genere, caratterizzato come detto dalla istantaneità della transazione, l’accumulazione di informazioni private è, a ben vedere, irrilevante; meglio, è inutilmente costosa. Più aderente alle effettive dinamiche del mercato del credito, il modello multiperiodale evidenzia la rilevanza delle relazioni di medio e lungo periodo, con successive e reciprocamente dipendenti transazioni; queste transazioni vengono, infatti, rinnovate allo scadere del periodo di riferimento, sulla base del comportamento e dei risultati precedentemente ottenuti. Come evidenziato da Salza: “I modelli multiperiodali riconoscono valore economico alla iterazione nel tempo degli scambi finanziari, alla componente relazionale degli scambi, alla conoscenza dei comportamenti assunti in passato, alla credibilità degli impegni contrattuali assunti in passato, alla reputazione e alla fiducia che si alimentano nel tempo in una continua interazione finanziaria tra datori e prenditori di fondi”23. In questo modo, le parti della transazione sono disincentivate a porre in essere comportamenti opportunistici, tanto prima della conclusione del contratto (vale a dire, nello svolgimento del contratto precedente), quanto in un momento successivo. In definitiva, il modello multiperiodale - che comporta ex definitione un rapporto di lungo periodo - costituisce un’ulteriore metodo utile per porre rimedio al problema delle asimmetrie informative negli scambi finanziari e così evitare comportamenti opportunistici. In questo sistema di disincentivazione nel lungo periodo, assume centralità il meccanismo di mutual commitment che viene a crearsi in un rapporto protratto lenders-borrowers; l’incremento del valore di fattori immateriali quali la fiducia 23 ! E. Salza, op. cit., p. 131. !198 reciproca e la reputazione delle parti rende i costi del comportamento opportunistico più elevati.24 Si tratta, in sintesi, di un’ipotesi di contratto c.d. implicito, non formalizzato dal punto di vista strettamente giuridico (in quanto tale estremamente flessibile), e reso possibile dal predente e protratto rapporto di collaborazione. Un tale tipo di contratto ha valore in quanto ci sia un’aspettativa positiva circa la reiterazione futura dello stesso; viene rispettato per il timore di conseguenze negative in una prospettiva, appunto, futura: in primis, la non ricuperabilità degli investimenti specifici effettuati perché il rapporto di lungo periodo potesse essere svolto.25 D’altro canto, dalla instaurazione di un mutual commitment eccessivamente importante, ne conseguirebbe un effetto di lock-in: il dover sopportare troppo alti switching costs renderebbe poco conveniente per le parti, intrappolate nelle scelte effettuate, la rescissione del contratto; ciò - ed è questo l’elemento di inefficienza - anche in presenza di opzioni potenzialmente più efficienti. ! ! 4.4. Relationship lending. ! Da quanto esposto, è chiaro che uno dei profili principali oggetto degli studi teorici sui rapporti banca-impresa è quello che intende questo come un meccanismo di superamento delle asimmetrie informative caratterizzanti il mercato del credito. In questo contesto, assume primaria importanza la già accennata distinzione tra transaction lending e relationship lending. Il primo, un rapporto di scambio finanziario di tipo monoperiodale, in quanto tale basato su rapporti isolati, occasionali e frammentati. La valutazione dei profili di rischio avviene sulla base di ! 24 Cfr. C. Mayer, New Issues in Corporate Finance, in European Economic Review, 1988, che rintraccia proprio nella creazione di l’elemento differenziante i sistemi banca-centrici da quelli mercato-centrici. ! 25 Cfr, S.A. Sharpe, Asymmetric information, bank lending, and implicit contracts: a stylized model of customer relationship, in The Journal of Finance, 1990, che individua nei contratti impliciti una sorta di via di mezzo tra contratti completi, nella realtà non stipulabili, e contratti incompleti. !199 informazione prevalentemente pubbliche e di natura quantitativa: i prestiti transaction-based sono assimilabili ai finanziamenti disponibili sui mercati finanziari aperti. Il secondo, un rapporto multiperiodale - dunque, stabile e duraturo caratterizzato da una importante e progressiva accumulazione di patrimonio informativo.26 Il relationship lending, si noti, costituisce una specificazione del più ampio rapporto di relationship banking, avente ad oggetto servizi che vanno al di là della concessione di credito.27 L’informazione è uno degli elementi essenziali del mercato. Tradizionalmente, la teoria economica ne distingue due tipologie: l’hard information e la soft information.28 La prima è informazione pubblica, di tipo prevalentemente quantitativo, facilmente accumulabile, verificabile e comparabile, trasmessa attraverso canali impersonali quali, principalmente, i documenti contabili dell’impresa. La seconda è informazione privata, di tipo qualitativo - in quanto tale spesse volte espressa in forma testuale - che per essere accumulata necessita di tempo e il possesso di competenze specifiche da parte dell’intermediario; al contrario della hard information, quindi, è difficilmente accumulabile, verificabile e comparabile. Sicuramente, la soft information può essere convertita in hard information; in questo processo, però, perderebbe gran parte il suo valore aggiunto (da intendere in termini lati). L’accumulazione di soft information consente di superare, in misura più o meno ampia, l’opacità informativa; di attenuare, cioè, i problemi di asimmetria informativa, tanto nell’accezione di adverse selection (attraverso una più efficace attività di screening), quanto in quella di moral hazard (attraverso una più efficace attività di monitoring). In questo modo, le condizioni di accesso al credito mutano in ! 26 “The provision of financial services by a financial intermediary that invests in obtaining customer-specific information, which is proprietary in nature; and that evaluates profitability of these investments through multiple interactions with the customer”, cfr. A.W.A. Boot, A. Thakor, Can relationship banking survive competition?, in Journal of Finance, 2000 ! 27 Cfr. A.W.A. Boot, Relationship banking: what do we know?, in Journal of Financial Intermediation, 9, 2000. ! 28 Cfr. tra tutti M.A. Petersen, Information: hard and soft, Kellogg School of Management, 2004. !200 maniera rilevante. Il più delle volte, l’adozione del modello di relationship lending si traduce in una posizione di vantaggio del prenditore, che, usufruendo di servizi personalizzati, gode di un minor costo del finanziamento: tassi di interesse più convenienti, minori garanzie accessorie richieste, nonché maggiori fondi a disposizione. A questa conclusione giungono Petersen e Rajan29, che dimostrano come l’adozione del modello di relationship lending - almeno per quanto riguarda le piccole imprese - conduca ad un più efficace disegno dei contratti di debito e ad una più efficiente allocazione delle risorse. Più in dettaglio, i risultati dello studio evidenziano vantaggi dal punto di vista della disponibilità di risorse finanziarie, tanto più cospicue quanto più stretto è il rapporto con il borrower; il costo del finanziamento che le imprese con una stretta relazione con la banca sopportano, invece, non risulta essere sostanzialmente divergente da quello sopportato dalle altre imprese. Ciò è da ricondurre al fatto - ormai condiviso dalla totalità delle letteratura economica - che il costo del finanziamento non coincide con il semplice tasso di interesse. Esso è, infatti, influenzato da una molteplicità di complesse variabili. In primis, la natura più o meno confidenziale della soft information accumulata dall’intermediario30; in secondo luogo, il grado di concorrenza riscontrabile nel ! 29 M.A. Petersen, R.G. Rajan, The benefits of lending relationship: evidence from small business data, in The Journal of Finance, 1994. ! 30 La non disponibilità delle informazioni riguardanti l’impresa affidataria può creare, in primo luogo, situazione di soft budget costraint; può, poi, verificarsi il, per certi versi opposto, hold up problem. Cfr. J. Kornai, Economics of shortage, North-Holland, Amsterdan, 1979; E.S. Maskin, Theories of the soft-budget costraint, Japan and the world economy, 1996; O.E. Williamson, Transactions-cost economics: the governance of contractual relations, in Journal of Law and Economics, 1979. !201 mercato del credito di riferimento31.32 Quest’ultimo profilo, è, peraltro, strettamente connesso con l’importanza delle relazione banca-impresa: la banca, infatti, può, in forza della “cattura informativa” del debitore, garantirsi posizioni di monopolio33. Un ulteriore profilo di inefficienza è, poi, quello evidenziato da Dewatripont e Maskin34: nel caso in cui il progetto finanziari si riveli non profittevole, la soluzione ottimale per il creditore potrebbe essere, in alcuni casi, quello di rifinanziare lo stesso progetto, nell’ottica di garantirsi un seppur minimo ritorno economico; in questo modo, il mutuatario inefficiente godrebbe di ingiustificate posizioni di rendita. L’acquisizione di partecipazioni da parte di banche in imprese non finanziarie può essere intesa come una forma rafforzata di relationship lending; almeno, le acquisizioni c.d. “da banca universale”: quelle, per intenderci, effettuate a titolo di investimento. Nel trattare tale fenomeno, infatti, è essenziale distinguere queste ultime da quelle effettuate, invece, nell’ambito di un progetto di risanamento finanziario. In ogni caso, le questioni che tale fenomeno pone sono molteplici. In primo luogo, ci si interroga circa la capacità delle banche - portatrici di interessi che possono 31 ! M.A. Petersen, G. Rajan, The effect of credit market competition on lending relationship, in The Quarterly Journal of Economics, 2, 1995; A.W.A. Boot, A.V. Thakor, Moral hazard and secured lending in an infinitely repeated credit market game, in International economic review, 35, 1994; S.I. Dinc, Bank reputation, bank commitment, and the effect of competion in credit markets, in Review of Financial studies, 13, 2000. ! 32 Sulle determinante del costo del credito si veda, tra tutti: P. Angelini, R. Di Salvo, G. Ferri, Availability and cost of credit for small business: customer relationship and credit cooperative, in Journal of Banking and Finance, 22, 1998; M. Bianco, G. Ferri, P. Finaldi Russo, Condizioni di accesso al credito bancario e nuove esigenze per il finanziamento delle piccole e medie imprese, in I. Angelini, (a cura di), Nuovi orizzonti per il sistema bancario italiano, Il Mulino, Bologna 1999; C. D’Auria, A. Foglia, P. Marullo Reedtz, Bank interest rate and credit relationship in Italy, in Journal of Banking and Finance, 23, 1999; G. Forestieri, V. Tirri, Rapporto banca-impresa: struttura del mercato e politiche di prezzo, in Quaderni di Ricerca, Ente per gli studi Monetari, Bancari e Finanziari Luigi Einaudi, 1999; ! 33 S.A. Sharpe, op. cit.: “Customer relationship arise between banks and firms because, in the process of lending, a bank learns more than others about its own customers. This information asymmetry allows lenders to capture some of the rents generated by they older customers; competition thus drives banks to lend to new firms at interest rates which initially generate expected losses. As a result, the allocation of capital is shifted toward lower quality and inexperienced firms. ! 34 M. Dewatripont, E. Maskin, Credit and efficiency in centralized and decentralized economies, in Review of Economic Studies, 1995. !202 rivelarsi conflittuali con quelli dell’impresa - di svolgere un ruolo di azionista attivo nella gestione della partecipata, così indirizzando la “vita” di questa nel medio e nel lungo periodo. Una tale funzione, evidentemente, è svolta solo se la banca, nell’acquisire la partecipazione, si pone come obiettivo quello di partecipare ai maggiori risultati derivanti da una gestione più efficiente, i.e. solo quando l’acquisizione è effettuata a titolo di investimento; diversamente, quando l’acquisizione è effettuata nel contesto di una crisi d’impresa - sia essa prefallimentare o fallimentare - generalmente la banca non avrà di mira obiettivi di medio e lungo termine. Nell’ambito delle partecipazioni a titolo di investimento, poi, oggetto di studio sono state le conseguenze che un siffatto fenomeno - attutendo il problema delle asimmetrie informative - può avere sulla capacità di raccolta delle imprese e sulle sue performance; nonché sulla importanza dei guadagni di efficienza che una tale struttura degli assetti proprietari delle imprese può apportare al peculiare processo di allocazione delle risorse finanziarie. Ancora, l’acquisizione di partecipazioni a titolo di investimento - in special modo quando la banca è rappresentata nell’organo gestionale dell’impresa partecipata: un soggetto deve servire allo stesso tempo interessi quanto meno diversi - pone questioni attinenti alla struttura del governo societario delle imprese partecipate; specialmente, sull’opportunità della presenza, nei consigli di amministrazione, di amministratori indipendenti. La cospicua letteratura economica in tema è affatto unanime nel dare una risposta a questi problemi. Prima di esporre queste conclusioni, tuttavia, è essenziale fornire una panoramica dell’effettiva incidenza di questo fenomeno sulle dinamiche dei sistemi bancari europei e, ovviamente, di quello italiano. ! ! ! ! ! !203 4.5. Alcune evidenze empiriche: integrazione proprietaria tra banche e imprese ! In termini generali, il ruolo dell’intermediazione finanziaria è - a cavallo tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del nuovo secolo - aumentato. Infatti, il rapporto di intermediazione di Goldsmith (Financial Intermediation Ratio) - indicatore del peso degli intermediari finanziari, frutto del rapporto tra le passività delle società finanziarie (banca centrale, banche, altri intermediari finanziari, assicurazioni e fondi pensioni) e il totale delle attività finanziarie - è passato dallo 0.34 del 1994 allo 0.38 del 2004 tra il 1994. Quest’incremento è - a parere di molti - da attribuirsi essenzialmente alla maggiore rilevanza che, a partire dal 1998, hanno assunto i fondi comuni di investimento. In ogni caso, il FIN italiano risulta ancora di molto inferiore a quelli riscontrati in Germania, Regno Unito, Giappone, Francia e Stati Uniti; l’unico paese che presenta un FIN inferiore a quello italiano è la Spagna. Ciò, evidentemente, costituisce un’ulteriore prova della scarsa rilevanza che l’intermediazione finanziaria strutturalmente riveste nel nostro paese. Financial Intermediation Ratio Fonte: Banca d’Italia35 ! 35 L. Bartiloro, R. De Bonis, A. Generale, I. Longhi, Le strutture finanziarie dei principali paesi industriali: un’analisi di medio periodo, Banca d’Italia, 2005. !204 A fronte del (relativamente modesto) aumento del FIN complessivo italiano e, soprattutto, dei numerosi e fortemente incidenti interventi legislativi, il ruolo delle banche non ha, però, subito variazioni di rilevo. Restringendo la valutazione ai soli asset delle banche, infatti, si nota che, dopo un trend negativo risalente al periodo 1995-2001, il valore torna, nel 2004, allo status quo ante (0.27). La Germania, caratterizzata dalla prevalenza del modello di banca universale e da storici rapporti partecipativi tra banche e impresa, presenta di gran lunga il valore più alto; di contro, gli Stati Uniti - dove il mercato finanziario è assolutamente prevalente rispetto al canale bancario - presenta il valore nettamente inferiore. In compenso, nel medesimo periodo si verifica un significativo aumento del valore assoluto delle partecipazioni bancarie in imprese non finanziarie: questo aumenta dai circa 3 miliardi di euro del 1998 agli oltre 8.3 miliardi di euro del 2006. ! ! Financial Intermediation Ratio Banche (inclusa Banca centrale) Fonte: Banca d’Italia ! !205 ! ! Assetti proprietari delle società non finanziarie quotate (2006, medie ponderate) Fonte: Bianchi, Bianco ! Le numerose riforme intervenute in ambito bancario non hanno prodotto, dunque, una omogeneizzazione del sistema bancario italiano agli standard europei; questo è, evidentemente, affetto da una non trascurabile inerzia. Tale caratteristica si proietta anche sulla tendenza delle banche ad acquisire partecipazioni non finanziarie. Come si nota dalla tabella, la media ponderata36 delle partecipazioni possedute da banche in imprese non finanziarie quotate, si attesta ad un valore esiguo, pari ad uno; valore, questo, inferiore a quello che si riscontra in Francia (2.9), in Germania (2.3) e, soprattutto, in Spagna (9.7). L’Italia, peraltro, si distingue per una ancora cospicua presenza statale nel capitale delle imprese non finanziarie quotate (18.2). La situazione non cambia adottando un diverso indicatore dell’integrazione proprietaria tra banche e imprese, i.e. il valore delle suddette partecipazioni rapportato alla capitalizzazione complessiva delle sole banche e imprese non finanziarie. In Italia, tale valore risulta ancora molto basso (0.7), ancora una volta di molto inferiore a quelli riscontrati negli altri paesi di riferimento: Francia (2.5), Germania (2.0), Spagna (6.4). Per inciso, i risultati sono diametralmente opposti ! 36 La media ponderata dà più valore alle partecipazioni in imprese non finanziarie di maggiore dimensione. !206 sotto il profilo della partecipazione di imprese non finanziarie nelle banche, ambito nel quale l’Italia presenta un valore (2.8) quadruplo rispetto alla media degli stessi paesi (0.7). ! Integrazione proprietaria tra banche e imprese quotate Fonte: Bianchi, Bianco In conclusione, al 2006, la separatezza banca-industria era ancora un dato di fatto. Si deve, però, aggiungere che, a fronte della suddetta modesta partecipazione bancaria diretta, si registra - nel periodo 1990-2005 - una importante e crescente nel tempo presenza delle banche nelle coalizioni che, con forme giuridiche varie, controllano imprese non finanziarie. Come si nota dalla tabella, infatti, se nel 1990 le banche erano presenti nel 31 per cento di tali coalizioni, tale presenza aumenta aumenta progressivamente, fina a raggiungere nel 2005 il 55 per cento. Il trend è ancora più evidente, poi, se si pondera tale valore con la capitalizzazione: si passa, così, dal 41 per cento del 1990 al 75 per cento 2005. Come notano Bianchi e Bianco, “è forse questa la modalità con cui ci si sta avvicinando al modello europeo”37. ! 37 M. Bianchi, M. Bianco, Relazioni proprietarie tra banca e impresa: alcune evidenze empiriche, p. 12. !207 ! ! Società quotate italiane: ruolo delle banche nelle coalizioni (% di casi in cui una banca partecipa a una coalizione non familiare in un società privata non finanziaria) Fonte: Bianchi, Bianco ! ! ! ! 4.6. La disponibilità e il costo del credito per le imprese partecipate da banche: il certification effect. ! Analizzata l’incidenza del fenomeno nel panorama italiano, è ora opportuno indagare gli effetti che lo sviluppo di questo può determinare. Sulla scia dei risultati di Petersen e Rajan38, la letteratura è sostanzialmente concorde nell’affermare la sussistenza di una relazione positiva tra il coinvolgimento di una banca nella gestione di un’impresa non finanziaria e la quantità di finanziamenti che questa complessivamente ottiene. Questo, sia quando il suddetto coinvolgimento avviene attraverso la partecipazione della banca alle decisioni assembleari sia quando - a maggior ragione, si potrebbe dire - la banca è rappresentata nell’organo di gestione dell’impresa. Come evidenziato da Bianco e Chiri39, la presenza di intermediari finanziari tra gli azionisti dell’impresa - il termine azionisti va inteso in senso non tecnico: possessori ! 38 Cfr. anche, per il Giappone, T. Hoshi, A. Kashyap, A. Scharfstein, Corporate structure, liquidity and investment: Evidence from a Japanese industrial groups, in Quarterly Journal of Economics, 1991. ! 39 M. Bianco, S. Chiri, Le partecipazioni nelle imprese in Italia: investimenti e ristrutturazioni finanziarie, in Banca, impresa e società, vol. 16, n. 3, 1997, p. 396. !208 di strumenti finanziari partecipativi - costituisce un credible signal che il mercato interpreterà in un duplice senso. Da un lato, posto che la valutazione costituisce il mestiere della banca, la sottoscrizione di capitale di rischio da parte di questa costituirà un segnale - indiretto ma non per questo di poco valore - di fiducia circa le condizioni attuali e prospettiche dell’impresa partecipata40. Dall’altro, il mercato riterrà il monitoring esercitato sull’attività imprenditoriale maggiormente efficace. La partecipazione della banca nell’impresa non finanziaria, insomma, costituisce una “sorta di investimento in reputazione”, idoneo a migliorare la valutazione (il rating) di quest’ultima; produrrà il c.d. certification effect41. Ciò consentirà alla partecipata un più facile accesso al mercato finanziario: ad esempio, se le sue azioni non sono negoziate in mercati regolamentati, una tale operazione comporterà costi inferiori. Ma non solo. Un’impresa industriale partecipata da una banca godrà di una maggiore quantità di credito generalmente accordata; vale a dire che anche le banche non partecipanti saranno propense ad aprire linee di credito quantitativamente più consistenti di quelle che, invece, sarebbero accordate ad imprese che, invece, non presentino una partecipazione bancaria. Non altrettanto unanime è la letteratura quando si tratta di appurare i profili di pricing connessi al suddetto certification effect. Sotto questo profilo notevole è il lavoro - riferito al mercato del credito italiano (2005) - di Stacchini e Cau42. Gli Autori dapprima dimostrano che l’impresa nel cui organo gestionale siede un rappresentante di una banca sopporta generalmente costi di approvvigionamento inferiori a quelli, invece, sopportati da imprese non partecipate. Considerando la totalità dei prestiti, un’impresa partecipata paga mediamente il 4.46 per cento di tasso di interesse, mentre ad un’impresa non partecipata è applicato il 5.19 per cento; l’effetto è, peraltro, enfatizzato quando la ! 40 Cfr. S.L. Lummer, J.J. McConnell, Further evidence on the bank lending process and the capital market response to bank loan agreements, in Journal of Financial Economics, 1989. ! 41 Cfr. D. Byrd, M. Mizruchi, Bankers on the board and the debt ratio of firms, in Journal of Corporate Finance, 2005. ! 42 M. Stacchini, G. Cau, Bank directors on corporate boards: conflict of interest or certification role?, MoFiR Working Papers, n. 46, 2010. !209 banca rappresentata nell’organo gestionale intrattiene rapporti di credito con l’impresa. Dalla tabella emerge, inoltre, che il più alto differenziale lo si riscontra proprio nei tassi applicati all’apertura di linee di credito: mentre per le imprese non partecipate questo si attesta a 8.09 per cento, per le imprese partecipate è del 5.93 per cento. ! Costo dei prestiti in punti percentuali Fonte: Stacchini, Cau Gli autori proseguono - ed è questo il passaggio ai nostri fini cruciale - evidenziando come non sussistano sostanziali divergenze tra tassi di interesse applicati dalla banca insider e tassi di interesse applicati - alla medesima impresa partecipata - dagli altri intermediari con i quali essa intrattiene rapporti di credito; considerando la totalità dei prestiti, la banca rappresentata applica un tasso medio del 4.16 per cento mentre il tasso applicata alla medesima impresa da banche non rappresentate è del 4.32 per cento. Da questi dati, secondo lo studio di Stacchini e Cau, deriva che l’impresa partecipata non gode, nei fatti, di trattamenti che potremmo definire “di favore”. In questo modo, alla maggiore disponibilità di credito conseguente allo produzione del certification effect si aggiungono costi sostanzialmente inferiori. Lo studio si pone, così, in netto contrasto con i risultati di Petersen e Rajan - i quali, come detto, !210 ! ! sostengono l’assenza di rilevanti divergenze sul costo del credito concesso alle imprese partecipate - evidenziando, ancora una volta, come le conclusioni al momento raggiunte dalla letteratura economica in tema di partecipazioni bancarie “a valle” siano tutt’altro che definitive. ! ! 4.7. Le finalità perseguite attraverso l’acquisizione di partecipazioni e la performance delle imprese partecipate da banche. ! Sintetizzando, nelle pagine precedenti si è cercato di esporre quella che è comunemente detta information view, teoria secondo la quale la presenza di un rappresentante di una banca nel board di un’impresa non finanziaria: a. rende l’impresa meno liquidity-constrained; b. fa sì che l’impresa sopporti costi di approvvigionamento finanziario inferiori. Ciò tanto nei rapporti con la banca insider, attraverso la riduzione dei costi di monitoring che questa sopporta; quanto nei rapporti con le banche non presenti nel board, data la maggior fiducia che queste riporranno nell’impresa partecipata da una banca (certification effect). ! Posti questi fenomeni, è ora necessario analizzare la performance dei progetti imprenditoriali in questo modo finanziati; vale a dire, appurare se tali condizioni, migliorative rispetto a quelle di mercato, siano o meno giustificate sul piano economico. Evidentemente, questo è un quesito di cruciale importanza: una risposta positiva deporrebbe per l’efficienza del modello di banca mista; una risposta negativa denoterebbe la prevalenza dei conflitti di interesse di cui sopra, così rendendo l’allocazione delle risorse finanziarie inefficiente. Sotto questo profilo è utile riprendere lo studio di Stacchini e Cau. Si noti che l’analisi della performance ex-post dei prestiti prende a riferimento il periodo temporale 2006-2010: sussiste, dunque, il rischio che i risultati siano - almeno in parte - “falsati” dagli shock della crisi finanziaria. !211 Incidenza del default per le imprese con o senza rappresentati di una banca nel proprio board Fonte: Stacchini, Cau ! ! ! Come si nota dalla tabella, nel periodo in considerazione l’incidenza dei default nell’ambito dei prestiti erogati a imprese nei cui organi gestionali siede un rappresentante di una banca è pari al 2 per cento; questo valore sale al 4.2 per cento quando, al contrario, nell’organo gestionale è assente un rappresentante bancario. Un ulteriore e più analitico esperimento statistico conferma quanto detto: “all regressions present a negative association between the likelihood of a firm’s default and the bank’s involvement in its governance”43. Tali risultati portano i due Autori ad affermare la validità di quella che sopra si è definita information view piuttosto che della conflict of interests view. Conseguentemente, viene affermata la (superiore) efficienza allocativa del modello partecipativo di stampo tedesco: i minori costi che l’impresa sopporta nell’ottenimento di credito - dovuti, da un lato alla riduzione dei costi associati alle asimmetrie informative tra banca insider e impresa e, dall’altro, al certification effect che la presenza della prima nell’organo gestionale della seconda produce - non vanno considerati “trattamenti di favore”; al contrario, tali minori costi riflettono un’effettivo minor rischio associato ai progetti finanziati, in relazione ai 43 ! M. Stacchini, G. Cau, op. cit., p. 15. !212 quali, come s’è visto, il fenomeno di default ha un incidenza di molto inferiore a quella rilevata nell’ambito di imprese non partecipate44.45 Le conclusioni circa l’accumulazione di informazioni private, utili per una maggiore efficienza del meccanismo di allocazione del credito, che fonderebbe il fenomeno dell’acquisizione di partecipazioni in imprese non finanziarie sono, però, smentite dallo studio di Barucci e Mattesini: “evidence that banks have acquired equity to improve governance of firms, mitigating the asset substitution or agency cost, or to gather an information advantage to allocate credit in an efficient way is very weak”46. ! 44 Ibidem, p. 16: “below-market rates at on-the-board banks suggest that informational asymmetries between lenders and borrowers are reduced when bank directors are seated on the boards of they borrowers. Lower rates at out-of-the board banks (to firms having bank representation) indicate that the presence of bankers certifies the soundness of the firms where they have the seats to outside (uninformed) banks. The analysis of the (ex-post) repayment problems shows that pricing behavior is in line with the actual risk of loans to firms having bankers and it confirms the lack of significance for the conflict of interests effects”. ! 45 Prescindendo, poi, dalla polarizzazione default-nodefault, e quindi concentrandosi sulla performance per così dire “dinamica” dell’impresa partecipata da una (o più) banche, è bene esporre alcuni dati elaborati da Bianchi e Bianco. L’anno di riferimento è il 2006: la poca disponibilità di dati rende i risultati, si legge nel lavoro, “preliminari”; cionnostante, le conclusioni sono considerevoli. Differenze significative tra imprese non finanziarie partecipate e non, a parità di settore, area geografica e classe dimensionale, si rinvengono: • Nel rapporto di indebitamento (leverage), che risulta essere mediamente inferiore a quello riscontrato nelle imprese non partecipate; • Nel rapporto tra debito bancario a breve termine e debito bancario totale; il segno della variabile dummy è negativo: la composizione del debito delle imprese partecipate risulta, dunque, essere maggiormente orientata al lungo termine; • Nel rapporto tra oneri finanziari totali e margine operativo lordo (rapporto anche detto “tasso di copertura degli oneri finanziari netti”). Il maggior peso degli oneri finanziari rilevato per le imprese partecipate denota una maggiore fragilità finanziaria; vale a dire, una minore capacità dell’impresa di far fronte agli oneri finanziari attraverso le risorse generate dalla gestione caratteristica. Generalmente, da questa circostanza discende la necessità dell’impresa di ricorrere ad ulteriore indebitamento per “coprire”, appunto, gli oneri finanziari; • Nella crescita media del fatturato, che risulta essere inferiore a quella delle imprese non partecipate da banche. Per quanto riguarda la redditività, invece, non emergono differenze significative: tanto il rapporto tra MOL e valore aggiunto quanto il rapporto tra utile e ricavi si attesta a valore simili a quelli rilevati nelle imprese non partecipate. Cfr. M. Bianchi, M. Bianco, op. cit. ! 46 E. Barucci, F. Mattesini, Bank shareholding and lending: Complementarity or substitution? Some evidence from a a panel of large italian firms, in Journal of Banking and Finance, 2008. !213 I due autori analizzano il panorama italiano nel periodo immediatamente successivo all’inaugurazione del “nuovo corso” (1994-2000), che avrebbe poi portato al venir meno della normativa amministrativa limitante la detenibilità di partecipazioni. Si evidenzia, in primo luogo, come l’acquisizione di partecipazioni da parte di banche avvenga prevalentemente in imprese che intrattengono con esse rapporti di credito; vale a dire che i due fenomeni, che nella maggior parte dei casi si verificano contestualmente, sono legati da un rapporto di “complementarietà”. Non è tutto: viene anche rilevata - e questo è un risultato coerente con le sopra esposte conclusioni di Petersen e Rajan riguardanti il mercato americano - una correlazione positiva tra la “misura” della partecipazione e la quantità di debito a lungo termine accordata all’impresa. Di questo modo, e a fronte di un tasso di copertura degli oneri finanziari netti importante, le imprese partecipate risultano essere mediamente più indebitate di quelle, al contrario, non partecipate; inoltre, tendono a crescere con ritmi inferiori e risultano essere mediamente meno profittevoli. Su queste basi, si cerca di indagare le motivazioni che spingono le banche italiane ad acquisire partecipazioni in imprese industriali che intrattengono con esse rapporti di credito. Come si diceva, i due autori non rinvengono, nella loro analisi, elementi in base ai quali poter ritenere che alla base dell’acquisizione vi sia la volontà della banca raccogliere informazioni private utili per una più efficiente allocazione del credito; né, tantomeno, di rendere la gestione della partecipata maggiormente efficiente - attutendo l’asset substitution effect47 ovvero diminuendo i costi di agenzia, così appropriandosi dei risultati della superiore performance. Risulta, invece, che le banche tendano a detenere partecipazioni in imprese non finanziarie al fine di “indirizzare” il management verso politiche gestionali dirette ! 47 Per Asset Substitution Effect si intende il fenomeno in base al quale gli amministratori di un’impresa sono incentivati ad investire in asset che presentano un profilo di rischio maggiore rispetto a quello che i debitori, invece, si aspettano; elemento, quest’ultimo, incorporato nella decisione iniziale di investimento. Il problema (Asset Substitution Problem, appunto) è che ad investimenti maggiormente rischiosi corrispondono, sì, maggiori potenziali guadagni per gli azionisti ma, correlativamente, anche un maggior rischio di fallimento e conseguente pericolo di inadempimento per i debitori. La banca, in questa prospettiva, potrebbe partecipare all’impresa al fine di scongiurare tale fenomeno; ciò, da un lato, monitorando l’azione degli amministratori; dall’altro, partecipando all’eventuale maggior guadagno. !214 soprattutto a far sì che il credito dalla banche vantato nei confronti dell’impresa venga ripagato. In altre parole, vi è, sì, la volontà di influenzare il management dell’impresa, in particolare partecipando in maniera attiva alla sua gestione, ma alla base di ciò non v’è alcuna intenzione “virtuosa” tesa all’efficienza. Da questo punto di vista, il comportamento delle banche, che non includono nelle proprie decisioni di investimento il “classico” parametro di profittabilità, differisce in maniera notevole da quello degli altri investitori istituzionali (compagnie di assicurazione in primis), che adottano, invece, un comportamento assimilabile a quello “di mercato”; evidentemente, una tale circostanza denota, ancora una volta, le peculiarità delle motivazioni che fondano le decisioni di investimento delle banche. In questo contesto, l’acquisizione di partecipazioni in imprese non finanziarie genera più dei costi che dei vantaggi; ci si riferisce, evidentemente, ai costi associati ai conflitti di interesse, i.e. quei costi associati a decisioni non ottimali per l’impresa partecipata, dettate dalla volontà della banca di massimizzare la probabilità di pagamento del debito. Risultano, di conseguenza, evidenti le divergenze con le conclusioni prima esposte che, invece, propendevano per la validità della information view e sull’opportunità di un maggiore coinvolgimento delle banche nella gestione delle imprese non finanziarie. ! ! !215 CONCLUSIONI ! ! L’integrazione proprietaria a monte. ! Il venir meno della separatezza fra banche e imprese industriali - tanto “a valle” quanto “a monte” - ha sicuramente rappresentato un importante fattore stimolante il sistema economico nel suo complesso. L’acquisizione di partecipazioni che prima del D. lgs. 21/2010 si definivano rilevanti è - come è stato ampiamente esposto - sottoposta alla previa autorizzazione della Banca d’Italia. L’Autorità, nel valutare la concessione dell’autorizzazione in parola, è tenuta a far riferimento ad un elenco tassativo di criteri1, di derivazione comunitaria, tesi ad assicurare una oggettiva valutazione della qualità del candidato acquirente e con essa la sana e prudente gestione della banca. Ciò, a prescindere dalla qualificazione operativa del soggetto che intende effettuare l’operazione: il “trattamento” delle imprese esercitanti prevalentemente attività industriale (i.e. non finanziaria) è equiparato a quello degli intermediari finanziari. Le innovazioni normative che nel corso di due decenni hanno portato alla disciplina degli assetti proprietari delle banche oggi vigente hanno permesso una maggiore contendibilità degli intermediari bancari. Questi ultimi, sottoposti alla disciplina del mercato, presentano, oggi, un grado di competitività maggiore di quello riscontrabile nel passato più o meno recente; tanto nel mercato europeo quanto - almeno per i grandi gruppi bancari frutto del processo di concentrazione favorito dal legislatore europeo - nei mercati internazionali, essi sono capaci di sostenerne la concorrenza. Certo, il dibattito sulla struttura proprietaria ottimale degli intermediari bancari - e con esso sul modello di governo societario di cui le banche dovrebbero dotarsi - è 1 ! Il tema dei criteri i valutazione è stato trattato nel Capitolo II, paragrafo 10. !216 tuttora aperto2, e si spera lo sia ancora a lungo, ben potendo apportare ulteriori e significati contributi. Ma le considerazioni testé fatte sono innegabili, e ciò a prescindere dalla posizione che si vuole assumere con riguardo al ruolo che l’intervento pubblico dovrebbe ricoprire nella regolamentazione dei mercati finanziari3: sono dati di fatto. ! ! L’integrazione proprietaria a valle. ! Coerentemente con quanto disposto dalla Direttiva 2006/48/CE, la Banca d’Italia nel dettare la disciplina delle partecipazioni detenibili dalla banche - ha previsto due limiti di tipo quantitativo, oltre i quali è precluso agli intermediari bancari di procedere all’acquisizione di partecipazioni in imprese industriali: uno complessivo, riferito alla totalità delle partecipazioni detenute, ed uno c.d. di concentrazione, riferito, invece, alla singola partecipazione. Ciò che è essenziale rilevare è che i suddetti limiti sono rapportati ai fondi propri della banca; non - come prevedeva la disciplina previgente - al capitale sociale dell’impresa partecipata (cfr. Cap. II, par. 19). Si capisce come la ratio della disciplina prudenziale sia quella di evitare un eccessivo immobilizzo dell’attivo delle banche - il pensiero corre al fenomeno della trasformazione della scadenze - allo stesso tempo promuovendo una consona gestione del rischio associato agli investimenti industriali. In questo contesto, non è più escluso che le banche acquisiscano, nel rispetto dei suddetti limiti, il controllo di imprese industriali. Come si è cercato di evidenziare nel Capitolo IV, d’altronde, la partecipazione delle banche alla gestione di imprese non finanziarie - partecipazione attiva, s’intende può costituire un fattore decisivo nel rendere la gestione di queste ultime ! 2 Cfr. in tal senso, M. Messori, La separatezza fra industria e banca: il punto di vista di un economista, op. cit.; M. Messori, R. Tamborini, Assetti bancari, efficienza operativa ed efficienza economica, in M. Messori, R. Tamborini, A. Zazzaro (a cura di) Il sistema bancario italiano. Le occasioni degli anni Novanta e le sfide dell’euro, Carocci, Roma 2003. 3 ! Il tema è stato ampiamente trattato nel Capitolo I, paragrafo 2. !217 maggiormente efficiente. La costituzione di un rapporto di relationship banking, consentendo alla banca la progressiva accumulazione di patrimonio informativo, gioca un ruolo determinante nel superamento (mai completo) delle asimmetrie informative fra lender e borrower. La migliore definizione dei contratti di debito che un tale rapporto consente, rende - nella maggior parte dei casi - minore il costo del credito che l’impresa sopporta e maggiore la quantità di cui essa può disporre; ciò, peraltro, non solo nei confronti dell’intermediario partecipante: la circostanza che una banca partecipi alla gestione di un’impresa industriale certifica l’affidabilità di quest’ultima. La disponibilità di soft information da parte della banca rende, inoltre, la valutazione del merito creditizio che questa è chiamata ad effettuare più efficace, contribuendo ad una migliore allocazione del credito. L’acquisizione di partecipazioni industriali da parte delle banche può, peraltro, ricopre un ruolo determinante nell’auspicabile processo di capitalizzazione delle imprese italiane di dimensioni medio-grandi, tuttora caratterizzate da una forte fragilità finanziaria e dalla generalizzata incapacità di autofinanziarsi (cfr. Cap. I, par. 1). Il riequilibrio dei canali di finanziamento4 delle imprese non finanziarie non può che passare per una maggiore integrazione proprietaria tra queste e le banche: solo (o quasi solo) queste ultime, infatti, hanno a disposizione i capitali necessari per simili operazioni. D’altronde - e questo dovrebbe evidenziare come il dibattito sugli strumenti per incentivare la mobilizzazione di capitali non sia affatto recente - già nel 1975 l’allora governatore della Banca d’Italia Guido Carli proponeva la trasformazione dei (ingenti) debiti contratti dalle imprese verso le banche in partecipazioni azionarie. La crisi finanziaria sembra aver spronato le banche ad acquisire partecipazioni industriali (cfr. Cap. IV, par. 5), fenomeno in precedenza poco diffuso nonostante le numerose innovazioni in senso liberalizzante, legislative e regolamentari, succedutesi ! 4 La priorità di di un tale obiettivo la si intuisce dalla numerosità dei provvedimenti succedutisi in tal senso. Il meccanismo di Aiuto alla Crescita Economica (ACE), ad esempio, introdotto dall’articolo 1 del decreto legge n. 201 del 6 dicembre 2011 e di volta in volta potenziato (da ultimo, dalla legge di stabilità 2014), consistente in un incentivo alla patrimonializzazione mediante una riduzione dell’imposizione sui redditi derivanti dal finanziamento con capitale di rischio. !218 negli ultimi decenni. Tuttavia, è da rilevare che gran parte delle suddette acquisizioni è stata effettuata nell’ambito di progetti di recupero credito o di ristrutturazione del debito; progetti la cui frequenza, a seguito della crisi, è considerevolmente aumentata e che, di certo, non presentano le potenzialità benefiche - in termini di guadagni di efficienza - di cui si è parlato poc’anzi. ! ! I conflitti di interesse e gli amministratori indipendenti. ! In ogni caso, l’integrazione proprietaria tra banche e imprese - tanto a monte quanto a valle e, nel secondo caso, tanto a titolo di investimento quanto per recupero crediti pone, come più volte sottolineato, il problema dei conflitti di interesse. In quest’ottica, la condicio sine qua non perché le (inter)relazioni proprietarie non si trasformino in una “mostruosa fratellanza siamese” è la predisposizione di una disciplina dei conflitti di interesse che sia efficace; efficace non in astratto, ma nel contesto imprenditoriale e societario italiano. Già sono stati analizzati due dei profili che della disciplina dei conflitti di interesse in ambito bancario ritengo deficitari. Da un lato, la circostanza che questa sia stata sostanzialmente mutuata dalla disciplina di cui al Regolamento Consob n. 17221, quest’ultima plasmata con riferimento ad un contesto - quello delle società quotate o con titoli diffusi in misura rilevante fra il pubblico - che risulta essere, sotto molti profili, diverso da quello degli intermediari bancari e che richiede, di conseguenza, disposizioni specifiche che a questo meglio si adattino; dall’altro, l’assenza - nella disciplina in tema di assunzione di attività di rischio nei confronti di soggetti collegati contenuta nelle Istruzioni - di norme che prevedano più stringenti obblighi di trasparenza, che vadano al di là della generale - efficace, per le sue finalità disciplina di segnaletica prudenziale. Mi preme qui approfondire ulteriormente la questione degli amministratori indipendenti. Figura di recente istituzione, di derivazione anglosassone, all’amministratore indipendente è demandato un ruolo che, ancora oggi, nonostante !219 le numerose disposizioni ad esso dedicate - tanto di rango primario quanto secondario e autoregolamentare - e nonostante l’acceso dibattito che su di esso si è sviluppato, risulta essere, almeno sotto certi profili, ambiguo. Emblematica di tale ambiguità è la tuttora dubbia natura del parere che essi sono chiamati ad emanare nell’ambito della procedura predisposta per l’effettuazione di operazioni con parti correlate (cfr. Cap. III, par. 9). In particolare, la questione che ai nostri fini credo essere maggiormente rilevante è quella sull’inclusione, nelle suddette valutazioni - che, è bene ricordare, non pregiudicano, anche nell’eventualità di esito negativo, l’effettuabilità dell’operazione - del profilo del merito creditizio di un eventuale concessione di credito da parte della banca ad un soggetto collegato. In quanto garanti della correttezza sostanziale dell’operazione, essi devono valutare l’interesse della società al compimento di questa; ciò, in una prospettiva di tutela degli stakeholders e, più ampiamente, delle dinamiche di mercato, l’integrità delle quali - nell’impostazione adottata dal legislatore - dovrebbe contribuire ad assolvere, appunto, il primo compito. Queste circostanza pongono diversi interrogativi. In primo luogo, come già accennato, nel sistema di governance delle società per azioni la valutazione della convenienza dell’operazione rientra tradizionalmente nelle attribuzioni dell’organo di gestione nel suo plenum. In quest’ambito, rilevanza centrale assume - accanto al generale dovere di agire con diligenza - la business judgement rule, intesa come insindacabilità delle scelte imprenditoriali degli amministratori; di conseguenza, l’ordinamento consente, in alcuni casi, che gli amministratori - comunque agendo secondo diligenza, vale a dire adottando, nel processo decisionale, le dovute cautele e sempre che non sussista mala fede - operino decisioni inopportune. Il coordinamento tra queste due, per alcuni versi coincidenti, attribuzioni risulta essere estremamente problematico, soprattutto sotto il profilo !220 della responsabilità degli amministratori5. Questo discorso, d’altronde, si inserisce in un più ampio dibattito - che, data la sua ampiezza, non è possibile approfondire in questa sede - circa l’esatta definizione dell’oggetto dei controlli interni della S.p.A.; in particolare, dei rapporti tra i tradizionali controlli di merito (affidati al Consiglio di Amministrazione) e di legalità (affidati al collegio sindacale) e il recentemente istituito controllo di compliance, in relazione al quale gli amministratori indipendenti dovrebbero ricoprire un ruolo centrale. In secondo luogo, si deve considerare che nel novero degli stakeholders di una banca è incluso un particolare soggetto, il cui interesse assume carattere di assoluta preminenza; ci si riferisce, evidentemente, allo Stato e al suo (pubblico) interesse a tutelare la sana e prudente gestione dell’intermediario, con essa assicurando la stabilità del sistema bancario nel suo complesso (cfr. Cap. I, par. 2). Fatte queste considerazioni, il punto cruciale diviene, dunque, quello di appurare l’idoneità della figura dell’amministratore indipendente - così come al momento disciplinata - ad assolvere tali, delicate, funzioni, servendo talvolta gli interessi diffusi dei soci, talaltra l’interesse pubblico delle Stato; od anche entrambi allo stesso momento. Dato di fatto è che la cultura dell’amministratore indipendente, in Italia, non è affatto diffusa; questo è, spesse volte, visto come una mera formalità da adempiere, ostacolo per una gestione dinamica dell’impresa. Ciò pone alcune importanti questioni, la cui soluzione può contribuire ad un’effettiva valorizzazione del ruolo di questa figura nell’ambito dei controlli interni agli intermediari bancari. ! 5 Ritengo opportuno ricordare che nell’ordinamento statunitense - in cui il concetto di business judgement rule è stato sviluppato - l’applicabilità della regola in parola trova un’eccezione nel caso in cui il board abbia operato la decisione in una situazione di conflitto di interesse. In tal caso, infatti, trova applicazione il criterio dell’entire fairness standard, spettando agli amministratori - non assistiti, appunto, dalla business judgement rule - di provare di aver agito at arm’s lenght; di aver agito, cioè, senza che l’interesse in conflitto inficiasse il processo decisionale. Sintomatico della rilevanza e della centralità del ruolo demandato agli amministratori indipendenti è la circostanza che questa eccezione non trovi applicazione nel momento in cui l’operazione - seppure adottata, come detto, in una situazione di conflitto di interesse - sia stata previamente approvata da un numero adeguato di indipendent directors. L’evoluzione di questa disciplina è da monitorare costantemente, essendo ormai frequente la sua importazione da parte della giurisprudenza italiana. !221 In primo luogo, è bene ulteriormente sottolineare l’essenzialità dell’elemento informazione nello svolgimento del compito di prevenzione dei conflitti di interesse (rectius, di prevenzione degli effetti distorsivi che un conflitto di interesse apporta al processo decisionale). Perché tale “completa” e “tempestiva” informazione possa tramutarsi in conoscenza - in quanto tale utile per un’effettiva valutazione della correttezza dell’operazione - è necessario, però, che i destinatari di questa siano in tale senso competenti. È necessario, cioè, che gli amministratori indipendenti posseggano competenze specifiche grazie alle quali poter sintetizzare - con l’ausilio di esperti altrettanto indipendenti, sì, ma comunque autonomamente - i dati loro trasmessi; dati - nel migliore dei casi incompleti, poste le asimmetrie informative che caratterizzazione il rapporto tra amministratori esecutivi e amministratori indipendenti; nel peggiore, non veritieri - caratterizzati da una sempre crescente complessità tecnica. Allo stato dell’arte questa condizione è troppo poco spesso verificata. La cultura formalistica cui si accennava poco sopra porta il più delle volte a ricoprire la funzione di amministratori indipendenti soggetti che, seppure in possesso dei requisiti di indipendenza di cui all’articolo 148 TUF, non presentano adeguati requisiti di professionalità (in senso lato). In questo contesto, tali soggetti, poco consapevoli della centralità e dell’essenzialità del compito loro affidato, dedicano a questo scarse energie, tanto in termini di impegno quanto in termini di tempo. Si capisce, di conseguenza, l’esigenza di una correzione dei requisiti di indipendenza degli amministratori; al di là della loro scarsa attinenza alla realtà societaria italiana caratterizzata da una proprietà altamente concentrata e dall’importanza delle coalizioni nel controllo (cfr. Cap. III, par. 16) - questi dovrebbero assicurare il possesso delle capacità di sintesi e decisionali necessarie perché le valutazioni circa la convenienza e la correttezza dell’operazione, oltre ad essere imparziali, siano oggettive. In quest’ottica, credo che il demandare all’intermediario bancario spazi di autonomia in merito alla determinazione dei così definiti requisiti di indipendenza sia una soluzione efficace. È, d’altronde, intuibile come una norma presentante la !222 caratteristica di generalità non sia idonea a definire un sistema di requisiti valido per la totalità dei soggetti destinatari della disciplina. I suddetti spazi di autonomia puntualmente definiti da imprescindibili norme imperative - consentirebbero, invece, la delineazione di amministratore indipendente-tipo “su misura” dell’intermediario, in possesso delle suddette capacità tecniche in relazione alle attività svolte della società. Il prevedere un più stringente (e più frequente) controllo dinamico della permanenza di detti requisiti costituirebbe, poi, un importante complemento del sistema così delineato. Ai suddetti spazi di autonomia, infine, dovrebbe accompagnarsi una più puntuale ripartizione delle responsabilità tra amministratori esecutivi e amministratori indipendenti. Non è necessaria un’approfondita conoscenza della game theory per intuire come, in assenza di una tale ripartizione, gli amministratori indipendenti non siano incentivati a svolgere un’attività di monitoraggio (meglio, di compliance) efficace, “denunciando” eventuali scorrettezze riscontrate nell’effettuazione di un’operazione con una parte correlata. A queste condizioni, la figura dell’amministratore indipendente può effettivamente ricoprire quel ruolo di garante di interessi diffusi richiamato dalla sentenza della S.C. sul caso Parmalat. Elemento centrale della disciplina sull’assunzione di attività di rischio nei confronti di soggetti collegati, questa figura può, cioè, divenire un efficace strumento per prevenire una gestione sconsiderata dell’intermediario bancario, così assicurando i guadagni di efficienza che dal venir meno della separatezza fra banca e industria sono conseguiti, allo stesso tempo attutendone i pur innegabili rischi. ! ! ! ! ! ! ! !223 ! ! ! ! !224 Bibliografia ! ! ! A. Agnese, Spunti sistematici in materia di operazioni con parti correlate, in Rivista di diritto bancario, 2012 ! G. Akerlof, The market for lemons: quality uncertainty and the market, Quarterly Journal of Economic, 1970 ! M. Albano, Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, in F. Maimeri, Il coordinamento della riforma del diritto societario con i testi unici della banca e della finanza, Giuffrè, 2006 ! G. Amato, Se gli azionisti privati li difende meglio lo Stato, il Sole 24 ore, 22 marzo 2009 ! P. Angelini, R. 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