Prolusione Prof. Distaso - Università degli Studi di Messina

Crisi finanziarie globali: cause, modelli, rimedi
Walter Distaso
Universita’ di Messina
17 Novembre 2014
1
Contents
1 Introduzione
2
2 Situazione di incertezza
6
3 Cause
11
4 Contagio
14
4.1
I contributi iniziali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15
4.2
Spiegazioni alternantive . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19
5 Rimedi e prospettive future
23
6 Problemi aperti
27
7 Bibliografia
30
8 Appendice
32
1
Introduzione
La crisi finanziaria scoppiata nel Settembre 2008 ha prodotto effetti devastanti per l’economia mondiale.
Le stime recenti parlano di una contrazione di lungo termine del PIL
mondiale pari al 5%. In termini monetari le stime risentono di una maggiore
2
incertezza, ma gli ultimi dati parlano di un costo economico complessivo per
gli Stati Uniti di 12.8 miliardi di dollari. Di cui 7.6 sono attribuibili alla
differenza fra il PIL potenziale ed il PIL realizzato. Ed i restanti 5.2 miliardi
all’impatto di misure statali straordinarie di tipo monetario e fiscale.
Accanto a queste enormi cifre economiche, la crisi ha avuto anche un
notevole costo sociale:
• 23.1 milioni di Americani sono senza lavoro e non sono in grado di
trovare occupazione a tempo pieno.
• 9.3 milioni di Americani hanno perso la loro assicurazione sanitaria.
• 11 milioni di proprietari di abitazioni si trovano in una situazione di
negative equity, cioe’ il valore del loro mutuo e’ superiore al valore della
abitazione.
E’ facile immaginare che, anche in assenza di dati precisi, l’impatto della
crisi in Europa e soprattutto in Italia sia stato ancora piu’ devastante e
abbia avuto conseguenze strutturali di lungo termine.
Cio’ per due ragioni:
1. Le crisi storicamente colpiscono in maniera piu’ accentuata le economie
piu’ deboli.
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2. La capacita’ che avevano le economie Europee di attutire gli effetti del
ciclo economico e’ scomparsa negli ultimi decenni.
Tale capacita’ era dovuta sostanzialmente ad una presenza pubblica
piu’ massiccia nell’economia rispetto ai paesi anglosassoni. Ed alla
presenza di una serie di tutele (o di rigidita’) sociali che non trovavano
riscontro nei paesi di impostazione piu’ liberista. Il risultato complessivo era che nella fasi di espansione economica, i Paesi europei crescevano di meno rispetto agli Stati Uniti. Ma nelle fasi di contrazione del
ciclo tali Paesi riuscivano ad attenuare la portata delle recessioni.
Con la progressiva erosione delle tutele sociali e la mancata o insufficiente introduzione di analoghe forme di flessibilita’ in entrata le
economie Europee hanno raggiunto un risultato paradossale: nelle fasi
di contrazione del ciclo risentono delle recessioni in maniera piu’ pesante. E nelle fasi di espansione economica non riescono a crescere allo
stesso ritmo dei Paesi piu’ dinamici.
In Italia sono stati soprattutto i giovani e i lavoratori meno qualificati a
perdere il lavoro. Il tasso di disoccupazione di lungo periodo, un indicatore
particolarmente adatto a descrivere le difficolta’ del mercato del lavoro, e’
aumentato in modo violento tra i giovani. I dati OCSE mostrano che la
proporzione di giovani in eta’ tra i 15 e 24 anni che non lavorano e’ aumentata
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di 4.3 punti percentuali nell’area OCSE tra il 2007 ed il 2012. In Italia
l’aumento e’ stato di 6.1 punti percentuali. Ma cio’ che piu’ preoccupa e’ che
tale aumento e’ dovuto sostanzialmente ad analogo incremento del numero
di giovani non occupati e non impegnati in attivita’ di formazione. In questa
categoria la proporzione di giovani e’ aumentata di 5.1 punti percentuali e
si atteata al 21.4%, il dato piu’ alto nell’area OCSE dopo Grecia e Turchia.
Cio’ marca un netto contrasto rispetto alla media dell’area OCSE, dove la
gran parte dei giovani ha risposto alle dimunuite prospettive di occupazione
con la decisione di ritardare l’ingresso nel mondo del lavoro e di dedicarsi ad
attivita’ formative e di alta specializzazione.
Per i giovani italiani vi e’ un rischio crescente di subire effetti di lungo
termine, vale a dire di assistere ad una riduzione permanente della capacita’
di trovare occupazione e delle prospettive di guadagno.
Inoltre, e’ plausibile che i giovani italiani si trovino svantaggiati rispetto
ai pari eta’ dell’area OCSE, i quali hanno maggiori probabilita’ di emergere
dalla crisi per aver investito in formazione e specializzazione.
Diversi fattori sono alla base del prezzo elevato della crisi pagato dalle
generazioni piu’ giovani. Nei quindici anni precedenti la crisi la crescita
dell’incidenza di lavoro precario o a tempo indeterminato e’ stata tra le piu’
rapide all’interno dell’area Euro. Questo grazie a riforme strutturali e ad
incentivi fiscali introdotti alla fine degli anni 90 ed all’inizio dello scorso de5
cennio. Visto che i giovani sono sovrarappresentati in queste categorie contrattuali, con l’arrivo della crisi questo tipo di occupazione e’ stato il primo
ad essere tagliato per effetto del deteriorarsi delle prospettive economiche.
2
Situazione di incertezza
Al di la’ dei costi direttamente o indirettamente prodotti dalla crisi economica, l’effetto forse piu’ profondo in termini di impatto strutturale sulle
prospettiva di crescite globale e’ stato senza dubbio l’aver generato un clima
di incertezza ed una sensazione di fragilita’ dell’intero sistema finanziario ed
economico globale.
Dopo la crisi, gli investimenti finanziari sono crollati (figura 1) e soltanto
oggi si sta tornando ai livelli pre-crisi. Con la differenza che rispetto al periodo pre-crisi, oggi i mercati cinesi ed asiatici in generale sono piu’ aperti ed
integrati, per cui sicuramente abbiamo assistito a fenomeni di displacement.
A conferma di cio’ American Express ha rilevato come alla fine del 2012 i
cittadini americani con un reddito superiore a 100.000 dollari abbiano mantenuto i loro risparmi in denaro contante per circa 6.000 miliardi di dollari.
La cifra potrebbe raddoppiare alla fine del 2014. L’avversione a rischio del
risparmiatore (collegata ad una percezione incerta del rischio) e’ la principale spiegazione di questo fenomeno. L’avversione al rischio e’ piu’ bassa
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per l’investitore medio statunitense (34%) rispetto a quello Francese (64%)
e Italiano (59%). ma non sono soltanto i piu’ ricchi a detenere contante.
BlackRock ha rilevato che coloro con un reddito medio inferiore a 45.000
dollari destinano il 60% dei loro risparmi in denaro contante, probabilmente
per fare fronte a necessita’ di spesa corrente.
Accanto alla flessione di investimenti finanziari, si e’ registrato analogo
calo degli investimenti economici con conseguenze piu’ dirette sul gap di
crescita economica. I dati recenti, disponibili per le grandi imprese che fanno
parte dell’indice S&P500, parlano di circa 1.000 miliardi di dollari disponibili in cassa. Il settore che riserva la maggior parte dell’attivo patrimoniale a
consistenze di cassa e’ quello tecnologico, tradizionalmente invece molto attivo in investimenti infrastrutturali ed in attivita’ di fusione ed acquisizione
(finanziate almeno in parte con la cassa).
Una situazione simile si registra tra le imprese quotate a Londra che
fanno parte dell’indice FTSE100. Le riserve di casse di queste imprese sono
aumentate da 12 miliardi di sterline nel 2008 a 80 miliardi alla fine del 2013.
Secondo i principali analisti di mercato, livelli cosi’ alti di giacenze di cassa
riflettono la scarsa fiducia da parte dei manager di potersi assicurare un flusso
finanziario e continuo da parte delle banche.
Questa sensazione diffusa di incertezza sulle prospettive di crescita globale
ha anche prodotto una fragilita’ del sistema finanziario che ormai perdura da
7
oltre 5 anni.
A Napoli il 2 Ottobre scorso nell’annunciare la decisione di lasciare il tasso
di sconto invariato allo 0.05% e stabilire le principali modalita’ operative del
programma di acquisto di attivita’ cartolarizzate (asset backed securities,
ABS) e del nuovo Programma per l’acquisto di obbligazioni garantite, il
Presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi ha affermato che:
“Dopo quattro trimestri di moderata espansione, il PIL in termini
reali dell’area dell’euro e’ rimasto invariato tra il primo e il secondo trimestre di quest’anno. I dati delle indagini congiunturali
disponibili fino a settembre confermano l’indebolimento della dinamica di crescita nell’area dell’euro, pur rimanendo coerenti con
una modesta espansione economica nella seconda meta’ dell’anno.
Guardando al 2015, continuano a sussistere le prospettive per una
moderata ripresa nell’area dell’euro; occorre tuttavia seguire con
attenzione i fattori e le ipotesi principali che delineano questa valutazione. La domanda interna dovrebbe essere sostenuta dalle
nostre misure di politica monetaria, dai miglioramenti in atto
nelle condizioni finanziarie, dai progressi compiuti sul fronte del
risanamento dei conti pubblici e delle riforme strutturali, nonche’
dal calo dei prezzi dell’energia che sostiene il reddito disponibile
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reale. La domanda di esportazioni dovrebbe inoltre beneficiare
della ripresa mondiale. Al tempo stesso e’ probabile che la disoccupazione elevata, la cospicua capacita’ produttiva inutilizzata, il
perdurare di un tasso di variazione negativo dei prestiti bancari al
settore privato e gli aggiustamenti di bilancio necessari nei settori
pubblico e privato continuino a frenare la ripresa.”
Ed ancora il 6 Novembre a Francoforte ha sottolineato che il consiglio Bce
“unanime” nel prendere in considerazione ulteriori misure non convenzionali
se si verificasse un prolungato periodo di bassa inflazione.
Dopo la crisi si sono succeduti diversi episodi che hanno generato alta
volatilita’ sui mercati finanziari proviocando ulteriori notevoli perdite finanziarie. Si veda la figura 2 dell’indice di volatilita’ implicata (VIX). L’indice
di volatilita’ implicata si ottiene invertendo la celebre formula di Black e
Scholes che determina il prezzo delle opzioni. Partendo dal prezzo delle
opzioni sull’indice S&P500 scambiate sul mercato, si ottiene un valore implicato della volatilita’. Tale valore riflette l’aspettativa da parte del mercato
del livello di volatilita’ per il mese successivo ed e’ da molti indicato come
il barometro dello stato generale dell’economia. Alcuni di questi episodi di
alta volatilita’ oggettivamente non sono compatibili con il livello dei “fondamentali” finanziari ed economici e sono dunque spiegabili con una persistente
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incertezza circa le prospettive future.
Per l’Italia in particolare si e’ verificato un nuovo periodo di fermento
finanziario in quanto alcune grandi banche non sono riuscite a sopravvivere
agli stress tests voluti dalla Banca Centrale Europea.
Un’altra caratteristica tipica delle crisi finanziarie che determinano effetti
sulla economia reale e’ che la spirale negativa dei prezzi coinvolge tutti gli
asset, da quelli finanziari a quelli reali. Cessano dunque tutti i benefici provenienti da investimenti in asset diversi, che determinano una diversificazione
del rischio idiosincratico (cioe’ rischio specifico di un singolo asset finanziario
o reale). Se gli investimenti in azioni sono fortemente correlati indipendentemente dalla localizzazione delle imprese su cui si investe, la stessa cosa non
avviene quando si considerano investimenti in asset diversi.
Ad esempio, tradizionalmente gli investimenti azionari sono correlati negativamente con quelli in obbligazioni, cosi’ da suggerire un portafoglio costituito da entrambi gli asset. E’ tipico da parte dei consulenti finanziari suggerire un portafoglio composto per il 60% di azioni ed il 40% da obbligazioni.
Ebbene questo effetto benefico di diversificazione cessa nei periodi di tumulto
finanziario, come si puo’ evincere dalla figura 3. Lo stesso fenomeno risulta
evidente per altre due classi di asset finanziari, le materie prime ed i tassi di
cambio e per gli investimenti immobiliari (figure 4 e 5).
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3
Cause
Come e’ nata questa crisi dagli effetti cosi’ pesanti per tutti noi. Tutto ha
avuto inizio con lo scoppio della bolla del mercato immobiliare americano
nel 2004, dopo un lungo periodo in cui i prezzi delle case erano cresciuti
costantemente. A un numero crescente di famiglie veniva data l’opportunita’
di accendere un mutuo, in maniera quasi indiscriminata. I creditori, infatti,
si erano dati ad una pratica chiamata dei “prestiti subprime” concedendo
prestiti a persone poco solubili, gente a cui normalmente non sarebbe mai
stato accordato un mutuo per comprar casa. Il trading dei subprime crebbe
dal valore di 145 miliardi nel 2001 ai 635 miliardi del 2005. I mutui subprime
prevedevano un tasso d’interesse molto basso per i primi anni e un brusco
aumento nei successivi. Di solito i rischi non venivano spiegati in dettaglio,
mentre i debitori erano imboniti dalla prospettiva di poter rifinanziare il
mutuo negli anni a venire per mantenere il tasso di interesse ai livelli iniziali.
Sembrava che tutti ci stessero guadagnando.
Nel giro di due anni, tuttavia, i tassi di riferimento furono portati tra
il 2005 e il 2007 dall’1.5% al 5.25% per intervento della FED, nel tentativo
di frenare la speculazione e drenare liquidita’ dal sistema economico. I tassi
d’interesse sui mutui subprime schizzarono alle stelle. Molti debitori non
erano semplicemente in grado di ripagare o rifinanziare. La crisi sarebbe
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potuta rimanere confinata agli Stati Uniti, ma le banche e i creditori di questi
prestiti avevano venduto i debiti ad altri investitori. Nel 2007, 1,3 milioni
di proprieta’ immobiliari sono state messe all’asta per insolvenza, il 79% in
piu’ rispetto al 2006. La bolla immobiliare a quel punto esplose facendo
precipitare il prezzo delle case e innescando un’ondata di vendite che mando’
in rovina numerosissimi soggetti tra risparmiatori e istituti di credito. Fu il
panico: improvvisamente le banche non erano piu’ disposte a farsi prestiti a
vicenda, diffidenza che risulto’ in un cosiddetto “credit crunch”. Le perdite
cominciarono ad accumularsi. A luglio 2008, grandi banche e istituzioni
finanziarie a livello mondiale denunciarono perdite per circa 435 miliari di
dollari.
L’esplosione della bolla dei mutui fu amplificata dal fatto che le banche
statunitensi, al fine di ridurre l’esposizione rispetto a questi prodotti finanziari altamente rischiosi, vendevano a terzi i mutui stessi attraverso diversi strumenti finanziari, parcellizzandoli e riassemblandoli con altri prodotti
(CDO, CMO, CLO, ABS). In questo modo le banche scaricavano su altri soggetti (inizialmente investitori istituzionali, ma poi anche banche e
risparmiatori) i rischi corsi concedendo tali finanziamenti. La cartolarizzazione dei mutui subprime (ovvero la creazione di titoli garantiti dai mutui
ipotecari), sempre piu’ diffusa, moltiplicava spesso i rendimenti in quanto
chiedeva un ulteriore rendimento ai soggetti a cui si rivendevano i derivati
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dei mutui secondari. Tali processi hanno reso infetto l’intero sistema finanziario mondiale di questi titoli, a un certo punto della crisi conosciuti, con
un’espressione peggiorativa ma efficace, come “tossici”. La cartolarizzazione
e il successivo “impacchettamento” dei titoli in sempre nuovi prodotti nei
quali doveva essere assemblato, assieme a una parte di titoli garantiti, un
certo quantitativo di titoli tossici, aveva lo scopo di fare alzare il giudizio di
affidabilita’ delle agenzie, cosicche’ a un rapporto maggiore di titoli sani
rispetto a quelli tossici nello stesso “pacchetto” sarebbe corrisposta una
qualita’ del rating superiore (A, AA, AAA ecc.).
La forte svalutazione di questi strumenti innesco’ difficolta’ gravissime in
alcuni fra i piu’ grandi istituti di credito americani. Bear Sterns, Lehman
Brothers e AIG vennero ridotti al collasso e poi messi in sicurezza dall’intervento
del Tesoro statunitense di concerto con la FED. Anche banche europee, come
la britannica Northern Rock (quinto istituto di credito inglese), e grossi istituti finanziari (la svizzera UBS, la belga Fortis, la franco-belga Dexia questi ultimi due parzialmente nazionalizzati dai governi francese, belga e
lussemburghese-, la tedesca Hypo Real Estate e l’italiana Unicredit), furono
investiti dalla svalutazione dei titoli immobiliari, venendo successivamente o
nazionalizzati o costretti a ricapitalizzarsi. Dopo diversi mesi di debolezza
e perdita di impieghi, il fenomeno e’ collassato tra il 2007 e il 2008 causando la bancarotta di banche ed entita’ finanziarie e determinando una
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forte riduzione dei valori borsistici e della capacita’ di consumo e risparmio
della popolazione (con effetti immediatamente recessivi sull’economia).
Molte banche e istituti finanziari hanno dovuto dichiarare fallimento o
sono state salvate dai vari Governi. Nell’aprile 2009, il Fondo Monetario
Internazionale ha stimato in 4.100 miliardi di dollari Usa il totale delle perdite
delle banche ed altre istituzioni finanziarie a livello mondiale.
4
Contagio
Se la letteratura accademica e’ sostanzialmente d’accordo nell’individuare
le scintille che hanno determinato l’innescarsi della crisi, meno consenso si
registra sulla identificazione dei meccanismi che hanno amplificato la crisi,
estendendola prima al settore finanziario gobale e poi alla economia reale.
La domanda alla quale la teoria economica non e’ ancora riuscita a dare
una risposta condivisa e’:
Come e’ stato possibile passare da una situazione di squilibrio
che colpisce una o poche istituzioni finanziarie ad una crisi di
sistema?
La teoria economica si e’ piu’ che altro concentrata sul ruolo giocato da shock
negativi sul passivo patrimoniale delle banche. In generale, la banca e’ un
soggetto economico che prende a prestito denaro dai correntisti e lo impiega
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in prestiti o investimenti di lungo termine. Quindi la banca si trova a dover
affrontare una situazione di perenne squilibrio: esposta a breve termine con
i correntisti, ed invece creditrice (o investitore) di lungo termine.
4.1
I contributi iniziali
Diamond e Dybvig (1983) sostengono che se, per una qualsiasi ragione, alcuni
correntisti (definiti impazienti) decidono di ritirare il proprio denaro dalla
banca prima che l’investimento di lungo termine abbia dato i suoi frutti, si
verifica per la banca una situazione di squilibrio finanziario. Squilibrio che
viene accentuato in quanto diventa ottimale anche per gli altri correntisti
(definiti pazienti) ritirare il proprio denaro per evitare il rischio di rimanare
a bocca aperta. Pertanto si genera una fuga dalla banca (bank run) e la banca
fallisce. Il risultato e’ inefficiente in quanto la banca non fallisce perche’ i suoi
investimenti di lungo termine non hanno dato i frutti sperati, ma soltanto a
causa di uno squilibrio di tipo finanziario.
Il modello di Diamond e Dybvig ha avuto un impatto di lungo termine
sulla letteratura economica riguardante le crisi bancarie. Contributi successivi hanno cercato di individuare le cause che possono determinare la decisione di ritirare il proprio denaro da parte dei correntisti. Diamond e Dybvig
(1983) introducono uno shock esterno (esogeno) e parlano di panico, mentre
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lavori successivi (Gorton, 1988, Jacklin e Bhattacharya, 1988, Allen e Gale,
1988) collegano la decisione dei correntisti ad informazioni non rassicuranti
sulla situazione generale dell’economia. Quindi forniscono una spiegazione
delle decisioni dei correntisti legata al ciclo economico.
In tutti i casi, la letteratura citata riesce a dare una spiegazione della crisi
di una singola banca, ma non spiega come sia possibile arrivare ad una crisi
sistemica, a meno di non ipotizzare che le fughe degli investitori impazienti
avvengano simultaneamente per tutte le banche.
Pertanto lavori successivi hanno esteso l’analisi dalla singola banca al
sistema bancario. Bhattacharya e Gale (1987, e successivamente Allen e
Gale, 2000) introducono un sistema interbancario dove la singola banca puo’
approvigionarsi della necessaria liquidita’. Questo mercato per la liquidita’
determina una riduzione del rischio di fuga dalla singola banca. Ma al tempo
stesso introduce la possibilita’ (almeno teorica) che uno shock locale possa
avere conseguenze di sistema. Il punto cruciale di questi lavori e’ la presenza
di azzardo morale: le banche hanno un incentivo a mantenere la liquidita’
al livello piu’ basso possibile, in quanto preferiscono impiegare il denaro in
investimenti piu’ lucrativi. E si rivolgono al mercato per la liquidita’ soltanto
quando e’ necessario.
Se in linea teorica questi modelli introducono la possibilita’ che un singolo
shock si propaghi per sfociare in una crisi di sistema, le verifiche empiriche
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in generale mostrano che il collegamento costituito dal sistema interbancario
e’ troppo debole per poter diffondere un contagio. Sheldon e Maurer (1998),
Upper e Worms (2004), e Furfine (2003) hanno stimato la matrice di esposizioni bilaterali tra banche in Svizzera, Germania e Stati Uniti. Ed i risultati
non sono compatibili con la crisi del subprime.
Un altro canale suggerito dalla letteratura e’ rappresentato dalla svalutazione dell’attivo dello stato patrimoniale delle banche. Allen e Gale (2004)
e Diamond e Rajan (2005) dimostrano che la interazione tra svalutazione
dell’attivo e vincoli di rischio amplifica lo shock iniziale. Se una banca e’
insolvente nei confronti dei creditori, la conseguenza iniziale e’ che la liquidazione degli investimenti a lungo termine determina una svalutazione del
loro valore, se il mercato non e’ perfettamente liquido. Le altre banche reagiscono a questa svalutazione dei prezzi immettendo sul mercato i propri assets
(fire sales), per soddisfare gli oneri nei confronti dei creditori e del regolatore.
Queste vendite di massa producono una ulteriore riduzione di prezzi, cosi’
si crea contagio. Adrian e Shin (2000) dimostrano come il leverage sia altamente prociclico. Gli investitori istituzionali tendono ad aggiustare il loro
portafoglio in maniera tale da agganciare il livello del leverage all’andamento
del mercato. Pertanto esse vendono quando i prezzi scendono e la spirale
deflazionistica si amplifica.
La crisi LTCM del 1998 e’ un perfetto esempio di come un possibile
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contagio possa generarsi dal bilancio di una singola istituzione. Quando
il valore degli asset detenuti da LTCM crollo’ da 7 miliardi di dollari a 600
milioni per effetto della decisione del governo russo di ristrutturare il suo
debito, la Federal reserve di New York organizzo’ una cordata di banche per
acquistare il fondo e liquidarlo senza fare ricorso a fire sales. Visto che LTCM
deteneva grosse posizioni in investimenti illiquidi, c’era il fondato timore che
una vendita di tipo fire sale avesse implicazioni per l’intero sistema bancario.
Le politiche messe in atto a seguito della letteratura prodotta negli ultimi
trenta anni hanno fatto si’ che le crisi bancarie siano state mantenute ai
minimi livelli. Purtroppo pero’, il fenomeno e’ riemerso nel 2007. Il caso
piu’ eclatante e’ quello di Northern Rock. Migliaia di persone in coda agli
sportelli per ritirare il denaro dal conto corrente. La crisi subprime ha posto
in discussione la capacita’ della scienza economica di interpretare le crisi
finanziarie. Infatti, la crisi di Northern Rock non e’ spiegabile ne’ dai modelli
che parlano di fuga dalle banche, ne’ da quelli che enfatizzano il ruolo delle
vendite fire sales.
Da una parte, gli investitori impazienti (early diers) non sembrano avere
svolto un ruolo di primo piano nella crisi Northern Rock. La banca navigava
in cattive acque ben prima della fuga dei correntisti. La Banca d’Inghilterra
fu informata della difficolta’ di Northern Rock il 14 Agosto 2007. Per il mese
intercorso tra quella data e l’annuncio dato il 14 Settembre che scateno’ la
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fuga dei correntisti, la Banca d’Inghilterra ed il regolatore hanno cercato di
salvare Northern Rock dietro le quinte, forse aiutando a formare una alleanza
tra altre banche al fine di rilevarla.
Dall’altra, le politiche poste in atto dalle banche Centrali hanno fatto
si’ che si troncasse il collegamento tra svalutazione degli asset della banca
ed il timore di perdere il denaro depositato sui conti correnti. Assicurazioni
pubbliche oramai mantengono un adeguato livello di sicurezza sui depositi
dei correntisti.
4.2
Spiegazioni alternantive
Pertanto e’ parsa evidente la necessita’ di individuare un canale alternativo
per spiegare la propagazione di shock singoli a fenomeni sistemici. Una parte
molto recente della letteratura (ancora in fieri e non compiutamente sviluppata) focalizza l’attenzione sulle conseguenze che le dinamiche di mercato e
i vincoli di rischio hanno sulla insolvenza della banche. L’idea di fondo e’
che la esplosione delle attivita’ di trading su derivati e prodotti strutturati
ha determinato l’arrivo sul mercato di prodotti sempre piu’ complessi, difficili da valutare. Una volta scoperto che questi prodotti avevano un’alta
esposizione al rischio di mercato, improvvisamente questi prodotti figuravano sopravvalutati sul bilancio delle banche, e le banche esposte non hanno
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avuto l’opportunita’ di reperire la necessaria liquidita’ sul mercato, quindi
generando una crisi di sistema.
Per soddisfare bisogni di liquidita’, le banche di solito ricorrono a operazioni di pronti contro termine (repo), contratti nei quali esse cedono un
certo numero di titoli a un acquirente e si impegnano, nello stesso momento,
a riacquistarli dallo stesso acquirente a un prezzo piu’ alto e ad una data
predeterminati. L’operazione consiste, quindi, in un prestito di denaro da
parte dell’acquirente e un prestito di titoli da parte del venditore.
Repo su crediti strutturati sono una maniera conveniente per bilanciare
la esposizione finanziaria delle banche (investimenti a lungo termine contro
esposizione a breve sui depositi).
Le banche di solito creavano societa’ veicolo (SPV), per portare fuori bilancio i crediti subprime. In tal modo le banche potevano mantenere alti
livelli di leverage senza violare i vincoli posti dalle autorita’ di regolamentazione. Le SPV avevano la possibilita’ di emettere ABS, obbligazioni emesse
a fronte di operazioni di cartolarizzazione, garantite dagli attivi sottostanti,
collocabili sul mercato dei fondi che investono sui mercati monetari al fine di
ottenere liquidita’. Gli SPV avevano la possibilita’ di vendere ABS oppure
di utilizzarli come collaterale per approvigionarsi di liquidita’ sul mercato
monetario attraverso operazioni di pronti contro termine.
Per effetto del trend positivo nel mercato immobiliare, il flusso di cassa
20
sugli ABS era considerato quasi privo di rischio. Per effetto della cartolarizzazione dei crediti, gli SPV fornivano liquidita’ costante alla banca di riferimento. Al tempo stesso, visto che gli SPV avevano un portafoglio costituito
esclusivamente da asset rischiosi, le banche dovevano assicurare di garantire
loro liquidita’ nel caso in cui il denaro realizzato dai pool di crediti non fosse
sufficiente a ripagare la controparte nelle operazioni di pronti contro termine.
In sintesi, le banche potevano disfarsi di crediti subprime e creare SPV,
che finanziavano l’acquisizione attraverso l’emissione di ABS, sulle quali riuscivano a pagare tassi di interesse relativamente bassi per effetto di due fattori:
la garanzia di liquidita’ da parte delle banche di riferimento ed il fatto che
spesso ricevevano supporto da agenzie di rating. I veicoli avevano spesso rapporti di stretta collaborazione con le agenzie di rating. Infatti, le ABS erano
spesso corredate soltanto da un rapporto sulla qualita’ del credito sottostante
piuttosto che da una dettagliata informazione dei singoli asset. Ecco che il
concetto di opacita’ di questi titoli finanziari acquista un ruolo preminente
nella comprensione della crisi.
Nel 2007 infatti, la percentuale di debitori insolventi si e’ rivelata piu’ alta
rispetto a quella implicata dal prezzo dei titoli derivati. La classe di credito
assegnata a diverse ABS si e’ rivelata gonfiata. Dal Financial Times del 18
Ottobre 2008:
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“Nella seconda meta’ del 2007, Moody’s ha rivisto al ribasso la
classe di credito di piu’ obbligazioni rispetto alla somma dei downgrades dei precedenti 19 anni messi insieme.”
Le banche di riferimento hanno dovuto attivare liquidita’ e, allo stesso tempo,
il valore di mercato delle ABS e’ crollato per l’effetto combinato della nuova
classe di credito e della riluttanza degli investitori di acquistare derivati
opachi in un mercato altamente volatile.
Non appena queste societa’ di scopo hanno iniziato ad attraversare il
periodo di difficolta’, e’ risultata del tutto evidente la separazione fittizia
tra queste ultime e le banche di riferimento. Il modello era non altro che
un espediente per aggirare le regole in vigore e permettere alle banche di
accedere ad un livello di leverage piu’ alto e generare piu’ ricavi, nella misura
in cui il rendimento di questi prestiti era superiore ai costi di mantenimento
delle SPV. Ma al primo shock negativo (crollo del valore degli ABS), alcune
banche che avevano un alto livello di leverage sono fallite. Al tempo stesso, i
fondi attivi sul mercato monetario (che ricevevano ABS come collaterale sui
loro prestiti) hanno dovuto liquidare gli ABS per recuperare almeno parte dei
prestiti erogati ed hanno visto i loro vincoli di rischio diventare sempre piu’
stringenti (per effetto del crollo del valore degli ABS). Pertanto anch’essi sono
usciti dal mercato. La spirale negativa dei prezzi ha fatto si’ che anche altre
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banche piu’ prudenti si sono trovate nella condizione di non poter ripagare i
propri debiti. Cio’ ha provocato una crisi di liquidita’ a livello globale. Questa
spirale ha finito per esacerbare lo shock e causare una crisi di sistema.
L’aspetto positivo di questo nuovo approccio e’ che c’e’ un incentivo da
parte delle banche prudenti di acquistare gli asset delle banche insolventi ad
un prezzo sufficientemente alto, che impedisca la spirale negativa dei prezzi
e quindi fermi il contagio. In altri termini, le banche preferiscono pagare
gli asset delle banche insolventi ad un prezzo piu’ alto di quello di mercato,
per impedire che la caduta verticale dei prezzi degli asset illiquidi finisca per
travolgere anche loro.
5
Rimedi e prospettive future
La reazione naturale del regolatore di fronte a banche che hanno buoni fondamentali ma che si trovano in una temporanea situazione di illiquidita’ e’
quella di sostenere la convertibilita’ dei loro titoli. Ad esempio le banche centrali possono aggiungere ai titoli che normalmente accettano per fare prestiti
alle banche commerciali gli ABS.
Comunque, e’ una mossa molto rischiosa perche’ naturalmente induce
azzardo morale e rende tutti i salvataggi futuri delle banche commerciali
estremamente costosi per il contribuente. Gorton e Huang (2004) citano il
23
lavoro di Honohan e Klingebiel (2000) i quali stimano che, in media, ogni
Paese spende il 13% del proprio Prodotto Interno Lordo per fare operazioni
di “pulizia” del sistema bancario.
Prima della crisi c’era consenso sul fatto che le banche centrali dovessero
concentrarsi sul controllo dell’inflazione. La stabilita’ finanziaria era considerata obiettivo secondario - era necessaria per assicurare una trasmissione
efficiente della politica monetaria ma era possibile delegarla ad un’altra autorita’ quale ad esempio il regolatore. L’indipendenza della banca centrale
era considerata cruciale per l’obiettivo di mantenere l’inflazione sotto controllo. La politica fiscale era invece tradizionalmente sotto il controllo di una
autorita’ politica.
L’obiettivo del regolatore nel istema bancario era assicurare che nessuna
singola banca fosse in grado di assumere rischi eccessivi. L’assunzione di
fondo era che se le banche non avessero assunto rischi eccessivi, il sistema
finanziario sarebbe stato sicuro e solido e che l’economia reale non avrebbe
sofferto a causa di shock finanziari. Questa architettura istituzionale ha
fallito nel prevenire una crisi finanziaria perche’ ha ignorato il rischio di sistema. L’obiettivo di stabilita’ finanziaria impone che le banche centrali e
le politiche dei governi siano impegnate a controllare rischi di sistema. Pertanto la tradizionale separazione di ruoli e responsabilita’ tra banche centrali,
regolatore e autorita’ politica potrebbe risultare non piu’ appropriata.
24
La crisi del 2008 e’ stata generata da un livello troppo elevato di debito. All’inizio l’insostenibile debito costituito dai mutui negli Stati Uniti, poi
trasferitosi e propagatosi in altri Paesi dove il leverage era troppo alto (ad
esempio Irlanda e Spagna). Il dato preoccupante e’ che i livelli di debito
stanno aumentando nel periodo post-crisi (figura 6).
Gli Stati Uniti sono il Paese che e’ uscito meglio della crisi. La principale
ragione e’ che essi hanno potuto puntare su tre fattori: default, devaluation,
deflation of demand. Default, perche’ diversi proprietari di abitazioni non
sono riusciti a ripagare i mutui e questo ha portato alla cancellazione del
relativo debito. Devaluation, perche’ le politiche di Quantitative Easing poste
in atto dalla FED hanno portato ad una svalutazione del dollaro. Deflation
of demand, causato dal taglio del deficit pubblico dal 14% del PIL del periodo
post-crisi al 6% del PIL attuale.
In Europa, due delle 3 ‘D’ non sono praticabili: la svalutazione della
valuta non e’ possibile ed il default non e’ attuabile per l’opposizione di
alcuni Stati membri. Resta soltanto la deflazione, che purtroppo ha prodotto
deflazione dei prezzi. Con la conseguenza di avere un tasso di crescita molto
basso del PIL ed un elevato rapporto tra debito pubblico e Prodotto Interno
Lordo (figura 7). In Italia il debito privato e’ abbastanza basso, cosicche’
il rapporto tra debito totale e PIL si attesta intorno al 250%, in linea con
Stati Uniti, Inghilterra e Francia. Inoltre, l’Italia e’ caratterizzata da robusti
25
surplus nel settore privato e surplus marginali nei conti correnti. Pertanto
i bilanci pubblici registrano un deficit attuale e prospettico. L’unica leva
per far diminuire l’alto rapporto tra debito pubblico e PIL e’ la crescita di
quest’ultimo.
In questa prospettiva occorre registrare che in termini reali il PIL italiano
del secondo trimestre 2014 e’ in linea con quello del secondo trimestre 2000.
Quattordici anni in cui l’output per lavoratore e’ calato in media dello 0.4%
all’anno. E storicamente non c’e’ stata crescita economica sostenuta senza la
presenza di tassi di interesse medio-alti. Per cui l’Italia, al pari di altri Paesi
Europei e forse del Giappone, si trova in una sorta di trappola costituita dal
debito. Una delle poche vie percorribili per ridare slancio e’ una rinegoziazione del debito pubblico, corredata da impegni formali da parte dei singoli
Paesi di mantenere il deficit sotto controllo per evitare il rischio di azzardo
morale. E’ una soluzione che prevede la necessita’ di un accordo politico. Le
probabilita’ che un accordo di questo tipo vada in porto non sono alte, ma
ci sono importanti precedenti storici che non escludono il ricorso a strumenti
simili.
26
6
Problemi aperti
L’asprezza della crisi ha messo in luce diverse imperfezioni nel processo di gestione del rischio da parte delle imprese finanziarie. E’ emersa l’inadeguatezza
dei modelli di valutazione del prezzo di prodotti finanziari complessi. Troppo
spesso tali modelli si fondavano su assunzioni che si sono rivelate irrealistiche.
Mi soffermero’ su due aspetti importanti:
• la normalita’
• le correlazioni.
Molti modelli di valutazione dei prodotti finanziari erano incentrati sulla
assunzione che i rendimenti fossero distribuiti secondo la curva normale o
Gaussiana. Cio’ risulta molto conveniente a causa della trattabilita’ analitica
della curva Gaussiana. Ma purtroppo la crisi ed altri episodi successivi di
instabilita’ dei mercati hanno dimostrato i limiti di questo approccio.
Al tempo stesso, i medesimi modelli utilizzati per valutare prodotti derivati
complessi (basati su molteplici variabili) erano soliti assumere che le correlazioni tra queste variabili fossero costanti. Abbiamo gia’ discusso che anche
questa assunzione e’ evidentemente irrealistica. In periodi di turbolenza, le
correlazioni tra diversi strumenti finanziari crescono, attenuando o vanificando ogni tentativo di diversificazione del rischio di mercato.
27
Il combinato disposto di queste due assunzioni ha di fatto comportato
una errata valutazione del rischio finanziario insito nei derivati complessi,
e quindi alcune istituzioni finanziarie si sono trovate in evidente difficolta’
quando e’ iniziata la fase di turbolenza. Sull’altare della semplicita’ e della
speditezza del calcolo del rischio e’ stata sacrificata l’esigenza della corretta
valutazione del rischio.
La robustezza di modelli utilizzati in applicazioni economiche, finanziarie,
assicurative e di gestione del rischio e’ una nuova frontiera della ricerca in
economia. In particolare, le conseguenze che il venir meno di assunzioni che
erano alla base di questi modelli devono essere correttamente valutate. La
presenza di distribuzioni diverse dalla normale potrebbe rinforzare o ribaltare
le implicazioni di tali modelli. Si prenda il caso, ad esempio, di modelli di
gestione del rischio: una delle lezioni che abbiamo imparato durante anni
di studi e di pratica e’ che la strategia ottimale per minimizzare il rischio
finanziario e’ la diversificazione: cioe’ avere nel proprio portafoglio titoli e
prodotti diversi, perche’ la probabilita’ che tutti i titoli o prodotti vengano
colpiti contemporaneamente da uno shock negativo e’ bassa. Ebbene, in presenza di disstribuzioni con code piu’ pesanti della normale (che rappresentano
meglio l’andamento dei rendimenti finanziari), la suddetta strategia non e’
piu’ ottimale, ma e’ meglio concentrare i rischi piuttosto che diversificarli.
28
Questa nuova frontiera della ricerca nell’ambito della scienza economica
richiede uno sforzo concertato e multidisciplinare. Sono necessarie le competenze di economisti, econometrici, teorici della finanza, matematici ed informatici per poter valutare i limiti dei modelli tradizionali e analizzare le
proprieta’ e la stabilita’ di nuovi modelli altamenti nonlineari necessari per
descrivere la complessita’ dei mercati finanziari.
29
7
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31
8
Appendice
32
33
Figure 1: Assets gestiti da hedge funds
34
Figure 2: Grafico dell’indice VIX
35
Figure 3: Correlazioni tra indici azionari
36
Figure 4: Correlazioni tra indice azionario S&P500 e altre classi di asset
37
Figure 5: Correlazioni tra indice azionario S&P500 e settore immobiliare
38
1993
1997
Japan
Italy
Ireland
2001
2005
UK
Spain
2009
2013
Germany
Greece
‘Excessive debt’ means debt that
is too
relative
to the
cash flow
Figure
6: high
Debito
e Prodotto
Interno
Lordo.that is available
to pay interest and make such repayment of the debt as accords with normal practice.
So the criterion for excess is typically the ratio of debt to some flow of income. The
cash flow that is relevant varies between household debt, non-financial business debt,
financial company debt (not covered in this LSR View), and government debt. Debt
can become excessive, and increasingly so, for quite long periods before the market
takes any notice. Random events may cause attention to focus suddenly on such an
Source: BIS, OECD, LSR
100%
1989
150%
200%
250%
300%
350%
400%
USA
France
Portugal
household & NFC debt gross, government debt net
Total non-financial debt, % of GDP
Yet debt ratios to relevant income are generally higher now than in 2007-09.
Greek insolvency. We have elsewhere ascribed these serial debt crises at least in part
to a savings glut in Japan, China, the Asian Tigers, Germany and the countries around
it in north-central Europe. But the active ingredient provoking actual crisis (and
subsequent policy action) was excessive debt.
39
2003
2005
2007
Spain
Portugal
2001
Italy
Ireland
2009
2011
Euro area
Japan
2013
Why was there no crisis in Japan? The chief reason was deflation. Another important
For a dozen years or so, forecasters
have feared
that
Japan’s increasing
reliance on
Figure 7: Debito
pubblico
e Prodotto
Interno Lordo.
large budget deficits to prevent a collapse of demand could lead to a crisis, as the
national debt mounts. Gross public-sector debt on the OECD’s estimate was 225% of
GDP at end-2013 and net debt was 140%. Both are still rising, as the chart above
indicates. Japanese net debt is thus significantly higher relative to income than
Greece’s was in 2009-10, a level that precipitated the euro crisis.
Source: OECD, LSR
0%
1999
20%
40%
60%
80%
100%
120%
140%
160%
Germany
France
Greece
On the supply side, business cash flow is sheltered, impervious under the
keiretsu system to pressures from financial markets. This amounts to featherbedding of Japanese managements, which at least partly accounts for their
dismal export performance, leaving the economy and financial system
vulnerable.
General government net debt, % of GDP

dependence on huge government deficits to sustain the economy