Love Poems

TRADUZIONE LIBERA
DA
ANNE SEXTON
La “Confessional Poetry”, che dagli anni cinquanta agli anni settanta traccia il percorso della nuova
poesia americana e ha in Robert Lowell il suo capostipite, trova le proprie lontane origini nel pensiero
teosofico e metafisico, e in tempi più recenti nei mistici, nei romantici e nei trascendentalisti americani, ma
più direttamente e intimamente è da connettersi al simbolismo francese, al surrealismo e alla cosiddetta
“Poetry of Madness”.
Come tutte le esperienze poetiche del ventesimo secolo molto, poi, deve a Eliot, che ridisegna la mappa
del linguaggio e delle tecniche del verso, e col quale nonostante la dichiarata poetica dell’Objective
correlative” la distanza tra la voce del poeta e quella della “dramatis persona” si accorcia gradualmente se si
tiene conto che la sua più significativa produzione poetica, The Wasteland,coincide con il ricovero in una
clinica per malattie nervose.
Il panorama poetico da cui prende le mosse Robert Lowell nel secondo dopoguerra non è dissimile da
quello da cui si muove Eliot nel primo novecento: una poesia elegante ma elusiva, indifferente agli orrori di
Belsen e Hiroshima, una nuova arcadia georgiana, urbana e accademica popolata da sbiaditi “Prufrock”.
Lowell e i suoi seguaci eliminano tutte le maschere della “dramatis persona” e puntano sulla verità
poetica, che non coincide necessariamente con la realtà obiettiva delle cose, come l’uso di dati
autobiografici potrebbe far intendere.
La loro sensibilità avverte l’angoscia di una umanità in attesa di un possibile, imminente olocausto
universale.
Ripiegati su se stessi e incapaci di trovare un centro di gravità, si abbandonano a una furia
autodistruttiva, a un disprezzo di sé che non ha niente dell’eroismo romantico, ma che conduce solo
all’abbruttimento: l’alcoolismo, la malattia, la lacerazione degli affetti; né gli ambiti riconoscimenti letterari
possono renderli meno grevi.
All’inizio tali affermazioni incoraggiano indubbiamente questi poeti a continuare a confessarsi sulla carta
e rivelare intimità fino allora considerati argomenti tabù: straziante senso di alienazione, sentimenti d’odio
verso la famiglia e se stessi, desideri incestuosi, tormentosi rimorsi.
Questa poesia diventa allora l’atto compensatorio, la possibile salvezza, l’elezione che con un salto
qualitativo eleva i migliori componimenti al di là dell’autobiografia e punta alla redefinizione di una nuova e
autentica identità umana.
Il patologico, il personale si tramuta attraverso la poesia in qualcosa di universale e d’esistenziale.
Se per molti poeti confessionali la poesia alla fine è un mezzo per controllare la propria follia, per taluni
di essi – la frangia estremista di cui fanno parte la Plath, Berryman e la Sexton – , la poesia non regge
poiché questi autori aspirano dopo la totale confessione, all’assoluzione e alla conquista della perfetta
integrità mentale. I poeti estremisti credono, che mettendo tutto allo scoperto, i mostri interni si
volatilizzino; sperano che la fusione tra la vita e l’arte possa trasformare il sacrificio, l’immolazione di sé in
una risurrezione, fantasticano che sfidare la morte significhi sconfiggerla e guadagnarsi così il diritto a una
nuova vita. Come asserisce Alvarez, questo tipo di poesia non può essere altro che una “murderous Art”, il
cui scopo è affrontare estreme situazioni per ricavarne estreme sensazioni con estreme conseguenze (si
pensi a Berryman, che si augura anche una malattia letale pur di poterne usufruire come esperienza poetica).
Come gli altri poeti della “Confessional School” anche la Plath, Berryman e la Sexton cercano all’inizio
della carriera di ingabbiare la loro “pazzia” attraverso una minuziosa e sorvegliata forma poetica, ma via via
le regole si sfaldano, la poesia si trasforma quasi in prosa libera, come disgregata da quel desiderio di
autodistruzione che porta questi poeti all’atto estremo e liberatorio: il suicidio all’apice del successo.
Anne Sexton nasce nel 1928 a Newton, nel Massachusetts, e trascorre l’infanzia poco lontano, a
Wellesley.
Il perbenismo puritano di una famiglia borghese e benestante con il quale viene educata provoca nella
giovane Anne insofferenza, che esprime comportandosi da studentessa mediocre e non conseguendo,
nonostante alcuni corsi universitari, la laurea.
L’adolescente, magra e complessata, diventa una ragazza dallo sguardo intenso e dal corpo appariscente.
Per un breve periodo svolge la professione di modella e intanto inizia le prime esperienze di scrittura, che
presto interrompe scoraggiata dal severo giudizio della madre.
Dopo diverse avventure sentimentali si lega a Alfred M. Sexton III, “Kayo”, uno studente universitario.
Dopo una fuga d’amore lo sposa all’insaputa dei genitori.
La vita coniugale per la giovane coppia sposi è densa di difficoltà, non ultime quelle economiche, e Anne
accusa i primi segni di squilibrio mentale, destinati a peggiorare con la nascita della primogenita. Da qual
momento in poi le crisi, i ricoveri in cliniche psichiatriche e i falliti tentativi di suicidio si susseguono.
A questo punto nella vita di Anne Sexton fa la comparsa la poesia usata come terapia, dietro consiglio
del suo psicoanalista, al quale si lega morbosamente, come a tutti coloro che le staranno vicino.
Insieme a Sylvia Plath e George Starbuck frequenta un corso di scrittura creativa condotto da Robert
Lowell e nel frattempo riceve i primi riconoscimenti per le poesie che pubblica su varie riviste letterarie.
Nel 1960 giunge alla prima raccolta, TO BEDLAM AND PART WAY BACK; ne seguiranno altre otto, di
cui due postume.
La vita privata della Sexton continua a essere segnata da problemi familiari, da tentativi di suicidio e
altrettanti ricoveri; mentre la poetessa viene insignita di premi letterari, tra cui il Pulitzer (per la raccolta
LIVE OR DIE), ottiene la Cattedra di Poesia alla Boston University e diventa “fellow” della “Royal Society of
Literature” di Londra.
I successi letterari, l’amore per le due figlie, le diverse relazioni che intreccia durante il matrimonio e
dopo il suo fallimento e le amicizie non riescono a legarla alla vita. Fallimentare anche la ricerca religiosa:
“Need is not quite belief”. (“With Mercy for the Greedy” ALL MY PRETTY ONES).
Negli ultimi mesi della sua vita la Sexton ordina coscienziosamente le sue carte, scrive lettere ai familiari,
quindi indica per iscritto le sue ultime volontà.
In una giornata d’ottobre del 1974, si chiude dentro al garage di casa a Weston, un sobborgo di Boston,
sale in macchina e dopo aver chiuso i finestrini, mette in moto. Il suo cadavere viene scoperto il 4 ottobre,
quando il motore della macchina è ancora acceso.
Il palindromo “RATS LIVE ON NO EVIL STAR”, letto sulla parete di un granaio dal poeta americano
CONRAD AIKEN e che Anne Sexton desiderava fosse posto come epigrafe sulla sua tomba, getta un’ultima
luce sull’intima sofferenza che l’ha condotta al suicidio: il ratto, figlio di un pianeta in sé buono, è il solo
responsabile della sua natura repellente.
La poesia di Anne Sexton segna l’apice della linearità dello stile e del personalismo nel panorama della
“Confessional Poetry”, ma oggi essa come quella di Sylvia Plath e John Berryman, è soprattutto simbolica
del dramma esistenziale di un’intera generazione che ha perso le certezze tradizionali senza trovarne di
nuove e, con la psicoanalisi, tutte le difese e le maschere della razionalità.
La poesia viene indicata alla Dexton come terapia dal suo analista durante il primo ricovero in una clinica
psichiatrica. Diventano così temi ricorrenti la vita e la morte, la pazzia, la maternità fallita, le incomprensioni
famigliari, l’amore evanescente e infedele, l’assenza di ideali e di fede. Il valore terapeutico risiede negli
aspetti tecnici della scrittura, che all’inizio della sua carriera riescono a esorcizzare i fantasmi di un
sottosuolo sondato senza infingimenti.
La Sexton sembra essere ossessionata dall’uso di una rima e di una metrica complessa, dall’elaborazione
di un tema conduttore lungo l’intera raccolta, dai minuziosi richiami letterari, a cui spesso si aggiungono
inserti di filastrocche o infantili nonsense. Per lei l’essenziale è controllare il disordine e ricavare un
significato dalla confusione mentale di una donna che pensa e parla come “la casalinga folle” attraverso quel
rituale della forma, quelle “figure the poem makes” che Robert Frost vedeva compiersi nella distanza tra
autore e lettore.
La forma poetica più usata è il monologo, caratterizzato da un tono anedottico, o meglio narrativo. Le
metafore, che la Sexton riteneva il cuore dei suoi versi, nascono dalla profondità della mente, intimo
intreccio tra immaginazione e inconscio; l’uso del linguaggio parlato, del vernacolo, e a volte dello slang
della gente di colore, delle vittime, completa quel disegno che doveva tramutare lo strazio in canzone, la
malattia in salute, la schiavitù in libertà.
Ma via via la ricerca formale diventa più debole e la pagina si va liberando di ogni protezione, mentre la
psiche-naufrago sente svanita la speranza di guadagnare la riva. La sintassi si fa elementare, la forma e lo
stile casuali, il verso si assimila alla prosa e le affilate metafore sono libere di assalire una Sexton incapace di
dominare, con parole e tecniche poetiche, i suoi demoni: sono ormai loro a manovrare i fili intrecciati
dell’arte e della vita.
Tra gli scrittori della “Confessional School” la Sexton si distingue per il forte interesse verso la forma, la
rima, il ritmo e soprattutto verso un linguaggio colloquiale e metaforico. Lo testimoniano le numerose
interviste sull’argomento, delle quali seguono i passi più significativi in traduzione tratte da NO EVIL STAR
(Selected Essays, Interviews, and Prose) University of Michigan Press, 1985.
“Mi ha aiutato (Lowell) a non fidarmi della facile frase musicale e a ricercare la franchezza del linguaggio
comune. Non mi ha insegnato quello che dovevo mettere nella poesia, ma quello che dovevo omettere.
Quello che mi ha insegnato è il senso dello stile. Forse è l’unica cosa che può imparare un poeta”.
Il contenuto domina, ma lo stile è supremo… La forma è sempre importante… Il verso deve soddisfare
l’occhio… Gioco con la rima, e poi a volte faccio un tipo di impossibile calcolo sillabico se riesco a
indovinare il primo verso e mi sembra quello giusto, allora è probabile che continui per altri quattro versi,
poi è probabile che cambi poiché sento che è necessario trovare un nuovo ritmo… Usare la forma è come
liberare una mandria di animali selvatici in un’arena… la gabbia adatta e quella gabbia non è altro che la
forma.
“Scrivo storielle di vita per come la vedo. Come disse una volta un critico letterario, mi si può
considerare matta per le metafore. Io riesco facilmente con forme severe che si differenziano da poesia a
poesia o nelle poesie che io chiamo sciolte. Ogni qualvolta cerco la voce del componimento ne trovo una
diversa”.
“Vorrei essere un fotografo se la macchina fotografica funzionasse come le dita. Mi piace catturare
l’istante. Una foto è una questione di attimi. È un momento fragile nel tempo. Io cerco di catturarlo con le
parole”.
“Sento una grande emozione di fronte alla metafora. Ne sono convinta: per me è il cuore del
componimento…”
“La cosa più importante è comunicare… Io comincio con un sentimento… poi si deve allargare
l’orizzonte… La prossima tappa è mettere ordine… Ecco la ragione delle numerose stesure”.
“Posso comporre usando qualsiasi forma. Spesso cambia in ogni sezione della poesia. La poesia è
colloquiale – La poesia deve essere colloquiale”.
“Devo farmi aiutare dai miei editori per la punteggiatura e a volte anche per il ritmo… Le immagini sono
probabilmente la parte più importante della poesia”.
Benché la Sexton non rifiutasse l’appellativo di “Confesional poet” in numerose occasioni, nel corso di
diverse interviste, tenne a precisare come lei intendesse il termine e quali fossero gli obiettivi che si
prefiggeva nella sua poesia. Quelle che seguono sono alcune risposte sull’argomento in traduzione tratte da
NO EVIL STAR (Selected Essays, Interviews, and Prose) University of Michigan Press, 1985.
“Dicono che io faccia parte della così chiamata “Confessional School”. Preferisco considerarmi una
imagista che si occupa della dura e cruda realtà”.
“Già dalla nascita sperimentavo il peccato e allo stesso tempo mi confessavo”.
“Descrivo emozioni umane. Descrivo avvenimenti interiori, non eventi storici”.
“Ebbene, penso che la mia poesia sia molto personale. Non penso di scrivere componimenti di ordinaria
amministrazione. Scrivo poesie molto personali, ma spero che diventino il tema centrale della vita privata di
altre persone”.
“Ricerco la verità. Potrebbe essere un certo tipo di verità poetica, che non si limita solo ai fatti reali,
poiché al di là di quello che succede, al di là di ogni cosa, c’è un’altra verità, una vita segreta”.
“Trasformiamo i dissidi con gli altri in retorica; quelli con noi stessi in poesia”.
(Citando Kafka) “Un libro dovrebbe servire come una scure contro il nostro mare interno di ghiaccio”.
(Per il suo tipo di poesia) “… Indubbiamente i Puritani m’avrebbero messa al rogo”.
“Cambierei qualsiasi parola, sentimento, immagine o dramatis persona per la riuscita della poesia…
Quando facevo la parte di Cristo mi sentivo come Cristo… Quel povero Cristo, quella vittima compì il più
grande atto di pubblica confessione, col corpo. Io sento di fare altrettanto con le parole”.
“Thomas Wolfe era o non era confessionale? Ogni poesia vuol dire terapia (ma) non si risolvono i
problemi con la scrittura. Gli psichiatri mi dicevano “vedi tu hai perdonato tuo padre. L’hai scritto nei tuoi
versi, bianco su nero”. Ma io non ho perdonato mio padre. Erano solo parole”
“C’è intimità tra poesia e terapia”.
“Se riesco a scrivere una poesia, ritrovo l’ordine e il mondo è di nuovo un po’ più tangibile, più reale. Mi
sento più vicino alle cose”.
“Si avverte un enorme cambiamento dopo che si scrive una poesia. È un sentimento meraviglioso, e si
verifica un grande cambiamento nella psiche, ma prima di scrivere e durante il componimento ci si trova in
totale confusione e poi tirarsi fuori incolume è in un certo qual modo un miracolo, che dura un paio di
giorni; dopodiché tutto ricomincia”.
“Ci sono avvertimenti durante tutto il percorso (della poesia confessionale). “I bambini attraversino ma
con cautela”. Il pericolo è l’agghiacciante orrore che ci aspetta nella risposta”.
“Parlavamo di morte (la Sexton e Sylvia Plath) con intensità infernale, entrambi calamitate dalla fine come
libellule da lampadine accese… Ho letto che mi ha attribuito un merito in un programma della BBC, il
merito di aver influenzato la sua poesia… Ha attribuito a me e a Lowell il merito di aver aperto un varco nel
campo della poesia autobiografica. Suppongo che le abbiamo mostrato come osare – osare di dire tutta la
verità”.
Anne Sexton scrisse nove raccolte di poesie, due delle quali furono pubblicate postume. Segue in grandi
linee una traccia degli argomenti e delle tecniche che le caratterizzano.
TO BEDLAM and PART WAY BACK:
Primo esempio di poesia come terapia. La Sexton affronta argomenti come il suicidio, la malattia mentale, i
sentimenti di odio e d’amore verso i familiari. La raccolta segue un filo conduttore: le vicissitudini della
protagonista, che dalla follia si avvia verso la normalità. L’efficace linguaggio è metaforico e colloquiale.
L’autrice esercita un pieno controllo formale.
ALL MY PRETTY ONES:
Continua i temi della prima raccolta con particolare attenzione al difficile rapporto con i familiari e alle cause
della follia. La forma è attentamente sorvegliata, la lingua colloquiale. In qualche poesia viene sperimentata
IX
la forma libera.
LIVE OR DIE:
È un diario intimo in versi che documenta la volontà della protagonista di farla finita e la decisione in
extremis, nell’ultima poesia, di continuare a vivere. Poesia sofferta, rigorosa, ferocemente franca e
metaforica. Per questa raccolta la Sexton ricevette il Pulitzer.
LOVE POEMS:
Esprime la maturità poetica della Sexton. Poesia che celebra il corpo non più cella, ma casa aperta, che
afferma il potere dell’amore, il suo carico di gioia piuttosto che la tristezza della disillusione; amore
sensuale, ma che va al di là del sesso: “la carezza è il mio modo di avvertire Dio dappertutto”. (With
Gregory Fitz Gerald, Massachusetts Review 19 (1978)). La raccolta è caratterizzata dalla forma libera nella
prima parte e da una tecnica rigorosa, nella seconda parte, in un’unica poesia in diciotto sezioni. Il
linguaggio, anche se mai banale, è quello della lingua parlata.
TRANSFORMATIONS:
Le poesie-racconto di questa raccolta sono un’interpretazione delle favole dei fratelli Grimm che trova la sua
forma in un linguaggio lirico ricco di slang intessuto di metafore e sottilmente ironico. La voce è quella di
una Sexton divertita, inquieta e inquietante, che gioca col terrore per esorcizzarlo, sebbene sia cosciente
dell’impossibilità di poterlo fare fino in fondo.
THE BOOK of FOLLY:
Poesia prepotentemente musicale. Segna un ritorno alle sofferenze di una follia galoppante. La sezione “The
Jesus Papers” è un misto di devota e blasfema religiosità, una lotta tra il dubbio e la necessità di credere in
qualcosa.
THE DEATH NOTEBOOKS:
La morte è il sofferto tema della raccolta. L’epigrafe introduttiva “Look, you con man, make a living out of
your death” – autore ne è Ernest Hemingway – (Epigrafe per la raccolta The Death Notebooks) è indicativa
della convinzione della Sexton che anche un argomento come la morte possa essere trasformato dalla poesia
in uno strumento di vita. Una parte del libro è dedicata alla ricerca di un Dio temuto, che sembra aver
abbandonato l’uomo. La musicalità del linguaggio filtra attraverso un attento controllo degli strumenti
tecnici.
THE AWFUL ROWING TOWARD GOD: (pubblicato postumo)
Ricerca personale di un Dio umanizzato da parte di una protagonista che possiede una fede poco ortodossa
e che non nega I dubbi e le difficoltà di approdare al Regno dei Cieli.
Il linguaggio volutamente semplice rivela senza trucchi letterari un disperato e inappagato desiderio d’amore
e la primordiale paura della morte e del male.
45 MERCY STREET: (pubblicato postumo)
È un ritorno all’introspezione delle prime raccolte. La Sexton confessa le dolorose esperienze degli ultimi
anni di vita: divorzio, disperazione, necessità di ritrovare l’amore, rabbia. In alcune liriche, per la prima
volta, l’autrice sembra più direttamente interessata ai problemi sociali, come la distruttiva influenza del
denaro nella vita americana. La maggior parte della raccolta è in versi liberi.
BIBLIOGRAFIA
OPERE POETICHE DI ANNE SEXTON
TO BEDLAM AND PART WAY BACK (1960), Houghton Mifflin, Co., Boston.
ALL MY PRETTY ONES (1961), Houghton Mifflin, Co., Boston.
LIVE OR DIE (1966), Houghton Mifflin, Co., Boston.
LOVE POEMS (1967), Houghton Mifflin, Co., Boston.
TRANSFORMATIONS (1971), Houghton Mifflin, Co., Boston.
THE BOOK OF FOLLY (1972), Houghton Mifflin, Co., Boston.
THE DEATH NOTEBOOKS (1974), Houghton Mifflin, Co., Boston.
THE AWFUL ROWING TOWARD GOD (1975), Houghton Mifflin, Co., Boston.
45 MERCY STREET (1976), Houghton Mifflin, Co., Boston.
ALCUNI SAGGI, RACCONTI E LETTERE
CLASSROOM AT BOSTON UNIVERSITY
THE BAR FLY OUGHT TO SING
COMMENT ON “SOME FOREIGN LETTERS”
THE LAST BELIEVER
ALL GOD’S CHILDREN NEED RADIOS
THE FREAK SHOW Tutti raccolti nella pubblicazione NO EVIL STAR (1985), The University of Michigan
Press, Ann Arbor.
ALCUNI STUDI SU ANNE SEXTON
STEVEN E. COLBURN, NO EVIL STAR (1985), The University of Michigan Press, Ann Arbor.
A. R. JONES, NECESSITY AND FREEDOM, Critical Quarterly, Spring 1965.
PAUL A. LACEY, THE SACRAMENT OF CONFESSION, Fortreas Press, Philadelphia, 1972
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THREE
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PHILIP LEGLER, O YELLOW EYE, Poetry, Chicago, May 1967.
RICHARD HOWARD, SOME TRIBAL FEMALE WHO IS KNOWN BUT FORBIDDEN. Atheneum, New
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ROSALIE MURPHY, SEXTON, St. Jas Press, Chicago, 1970
NEW YORK QUARTERLY, CRAFT INTERVIEW WITH ANNE SEXTON, N.Y.Q., New York, Summer 1970
WILLIAM P. ROOT, ANYTHING BUT OVER, Poetry, Chicago, Oct. 1973
ERICA JONG, GIVING BIRTH TO DEATH, MS., March 1974
NEW REPUBLIC, POETS AS LOOSERS, N.R., Kinezz, 1974
SANDRA M. GILBERT, JUBILATE ANNE, The Nation, Sept. 14, 1974
MARGARET FERRARI, ANNE SEXTON: BETWEEN DEATH AND GOD, America, Nov. 9, 1974
THOMAS
P.
Nov. 9, 1974
MC
DONNEL,
LIGHT
IN
A
BEN HOWARD, SHATTERED GLASS, Poetry, Chicago, Feb. 1976
MONA VAN DUYN, SEVEN WOMEN, Poetry, Chicago, March 1977
DARK
JOURNEY,
America,
Per mesi la mano era stata segregata
nella scatola di latta. Niente c’era se non ringhiere di metrò.
Forse è contusa, pensai,
ed è per questo che l’hanno rinchiusa.
Ma quando sbirciai là giaceva immobile.
Potrebbe segnare l’ora, pensai,
come un orologio, con le cinque nocche
e le sottili vene sotterranee.
Là giaceva come una donna priva di sensi
Nutrita da tubi che ignorava.
La mano era crollata,
un piccolo piccione di legno
che s’era ritirato in isolamento.
La voltai e il palmo era raggrinzito,
le linee della vita come un delicato mezzopunto
imbastito fino alle dita.
Era carnosa e soffice e illeggibile a tratti.
Del tutto vulnerabile.
E tutto questo è metafora.
Una mano normale – solo bisognosa
di una carezza
che reciprochi carezza.
Non lo farà la cagna.
La coda le scodinzola nella palude puntando il rospo.
Io non valgo più di una confezione di mangime per cani.
Non lo faranno le mie sorelle.
Vivono a scuola salvo per i bottoni
e per le lacrime che scorrono come limonata a casa.
Mio padre non lo farà.
È in dotazione alla casa e anche di notte
vive nel meccanismo inventato dalla mamma
e ben lubrificato dal carico di lavoro.
L’inconveniente è
che io avevo acconsentito che si congelassero i gesti.
Il guasto non era
in cucina o tra i tulipani
ma soltanto in testa, in testa.
Poi tutto passò alla storia.
La tua mano trovò la mia.
La vita mi fluì alle dita come un embolo.
Oh, mio falegname,
le dita si rigenerano.
Ballano assieme alle tue.
Ballano nell’attico e a Vienna.
La mia mano è vitale in tutta l’America.
Neanche la morte la fermerà,
la morte che sparge il proprio sangue.
Niente la fermerà, poiché questo è il regno
e il regno che verrà.
La bocca mi sboccia come un taglio.
M’hanno fatto torto tutto l’anno, notti
fastidiose, piene di nient’altro che gomiti ruvidi
e morbidi pacchi di kleenex a ingiuriarmi piagnucolona
piagnucolona, o sciocca!
Prima d’oggi il mio corpo non serviva a niente.
Adesso si strappa proprio agli angoli.
Strappa le vesti di vecchia Maria, nodo dopo nodo
e ammira – Adesso è scosso da queste saette elettriche.
Zing! Che risurrezione!
Un tempo era una barca molto pesante
e fuori uso, senz’acqua salata sottoventre
e bisognosa di colore. Non era altro
che un insieme di assi. Ma tu la issasti, la armasti.
È stata eletta.
Ho i nervi tesi. Li sento come
strumenti musicali. Là dove c’era il silenzio
i timpani, le corde vibrano irrimediabilmente. L’hai fatto tu questo.
vero genio all’opera. Tesoro, il compositore s’è inoltrato
nel fuoco.
Questa è la chiave.
Questa è la chiave di ogni cosa.
Così preziosa.
Sono più puntigliosa dei figli del guardiacaccia,
che beccano briciole e polvere.
Da te racimolo profumo.
Lasciami scivolare sul scendiletto,
sul pagliericcio – ovunque
poiché il bambino in me muore, muore.
Non è che io sia bestiame da consumare.
Non è che io sia una specie di via.
Ma le tue mani m’hanno tracciata come un architetto.
Caraffa stracolma di latte! Ti appartenne anni fa
quando vivevo nella valle delle ossa,
ossa esanime nella palude. Miei piccoli ninnoli.
Un silofono forse coperto
maldestramente di pelle.
Solo in seguito divenne qualcosa di reale.
Poi mi confrontavo con le misure delle dive.
Perdevo. Qualcosa tra
le spalle c’era. Ma mai abbastanza.
Sicuro, c’era un prato,
ma mai senza giovani che cantassero la verità.
Niente con cui misurare la verità.
Inesperta di uomini giacevo accanto alle sorelle
e risorgendo dalle ceneri gridavo
il mio sesso sarà trafitto!
Adesso ti sono madre, figlia,
nuovissima cosa – lumaca, nido.
Sono viva quando lo sono le tue dita.
Indosso seta – il velo per svelare –
perché seta è quello che desidero che tu pensi.
Ma detesto il tessuto. È troppo austero.
Quindi dimmi ciò che vuoi ma percorrimi come fossi scalatore
poiché qui è l’occhio, qui è la gemma,
qui è l’eccitamento che il capezzolo coglie.
Sono sbilanciata – ma non sono folle di neve.
Sono folle come le adolescenti sono folli,
bramante vittima sacrificale…
Ardo come ardono le banconote.
Chi è colei,
colei che abbracci?
È colei che m’accolse le ossa
e edificò casa che era solo branda
e edificò la vita di oltre un’ora
e edificò il castello dove nessuno dimora
e edificò, infine, la canzone
adatta alla cerimonia.
Perché l’hai portata qui?
Perché bussi alla porta
Con motivetti e storielle?
Mi ero unito a lei come l’uomo si unisce
alla donna e tuttavia erano fuori luogo
festeggiamenti e cerimonie
e queste cose contano per la donna
e, vedi, viviamo in clima gelido
ed era vietato baciarsi per strada
così inventai la canzone che non era vera.
Inventai la canzone Matrimonio.
Tu arrivi da me adultero
e inciampi sul gradino della veranda
e mi chiedi di giudicare tali cose?
Mai e poi mai. Non mi è consorte scelta.
Mi è strega in carne, l’inforcatura, giumenta,
la madre delle lacrime, stracolma sottana d’inferno,
il marchio delle pene, il marchio dei lividi
e anche i figli che potrebbe concepire
e anche il posto appartato, il corpo di ossa
che sinceramente comprerei, potessi comprarlo,
che sposerei, potessi sposarlo.
E io dovrei tormentarti per questo?
A ogni uomo è assegnato un minuscolo destino
e il tuo è passionale.
Ma io mi tormento. Non abbiamo dimora.
La branda che spartiamo è quasi una cella
e non riesco a dire ranuncolo, doliconice,
tesoruccio, popona, segnalibro, bijou,
valentino, mia estate, buffoncella e tutte
quelle sciocchezze si dicono a letto.
Dire che ho dormito con lei non basta.
Non l’ho solo portata a letto.
L’ho legata col nodo.
Allora perché infili le mani
in tasca? Perché strascichi
i piedi come uno scolaretto?
Per anni ho stretto questo nodo nei sogni.
Ho oltrepassato una porta in sogno
e lei m’aspettava nel grembiule di mia madre.
Una volta s’arrampicò sulla finestra
a toppa e portava i pantaloni di velluto rosa
di mia figlia e ogni volta legavo queste donne
col nodo. Una volta venne la regina. Legai anche lei.
Ma l’odierna l’ho davvero legata
e l’ho appena fatta digiunare.
La stordivo cantando. La coglievo spossata.
La stendevo con la canzone.
Non v’era suite per il numero.
Non v’era camera nuziale che bastasse.
Il chiodo fisso il nodo. Il nodo a letto.
Così imposi le mani su di lei
e mi appropriai degli occhi e
della bocca, e anche della lingua.
Perché mi chiedi di fare delle scelte?
Non sono giudice o psicologo.
Ti appartiene il nodo a letto.
E tuttavia io trascorro giorni e notti vere
tra bambini e balconi e una buona moglie.
Così ho legato questi altri nodi,
ma preferirei non pensarci
quando di lei ti parlo. Non adesso.
Se fosse stanza d’affittare pagherei.
Se fosse vita da salvare la salverei.
Forse sono Mister Millecuori.
Mister Millecuori?
Perché allora tremi sulla soglia della mia porta?
Mister Millecuori di me non ha bisogno.
Sono tutto preso nella tinta ch’emana.
Mi sono lasciato sorprendere con le mani nel sacco,
sorprendere durante i bollori selvatici della danza sfrenata
per la giumenta, la colomba, per il corpo che curo.
Potrebbero asserire che io tenga serpenti negli stivali
ma credimi una sola volta sono stato nelle staffe,
solo una volta, questa volta, nella coppa.
L’amore della donna è nella canzone.
La chiamai la donna in rosso.
La chiamai la donna in rosa
ma era dieci colori
e dieci donne.
A malapena riuscivo a nominarla.
So chi è.
L’hai nominata abbastanza.
Forse non avrei dovuto adoperare parole.
Francamente, penso di pagare le conseguenze di questo amoreggiare,
ubriaco come un pifferaio, scalciando ogni segno di ripensamento
e deciso a legarla per sempre.
Vedi la canzone è la vita,
la vita che non posso vivere.
Dio, anche mentre cammina,
tramanda monogamia come gergo.
Volevo scolpirla nella legge.
Ma, sai bene che tale legge non è contemplata.
Mister Millecuori, sei uno sciocco!
Il trifoglio ha fruttato spine quest’anno
e ha sottratto al bestiame i frutti
e i sassi del fiume
hanno succhiato a secco gli occhi degli uomini,
una stagione dopo l’altra,
e ogni letto è stato messo al bando,
non dalla moralità o dalla legge,
ma dal tempo.
Questa è la scrivania dove siedo
e questa è la scrivania da dove ti straamo in eccesso
e questa è la macchina da scrivere che m’assedia
mentre ieri solo il tuo corpo m’assediava
con le spalle raccolte a coro greco,
con la lingua di re che inventa regole mentre procede,
con la lingua che spudoratamente gatto lappa latte,
con la lingua – noi due coinvolti in linfa sdrucciolevole.
Quel giorno era ieri.
Quello fu il giorno della lingua,
lingua che usciva dalle labbra,
due spartilabbra, metà belva, metà volatile
intrappolati nell’androne del tuo cuore.
Quello fu il giorno che ubbidivo alle procedure del re,
percorrendo le vene rosse e le vene blu,
le mie mani lungo la schiena, a piombo come il palo,
mani tra le gambe dove sfoggi l’intima sapienza,
dove miniere di diamanti sono sepolte e emergono per seppellire,
emergono più improvvisamente della cittadina ricostruita.
È completo in attimi, il monumento.
Il sangue scorre sottoterra eppure genera la torre.
La folla si dovrebbe radunare per tale costruzione.
Per il miracolo si fa la fila e si tirano coriandoli.
Non v’è dubbio che la stampa sia qui a caccia di notizie.
Non v’è dubbio che qualcuno debba portare lo striscione sul marciapiede.
Se si costruisce il ponte il sindaco non taglia il nastro?
Se si manifesta il fenomeno non dovrebbero i Magi portare
doni?
Ieri fu il giorno che portai doni per doti
e giunsi dalla valle per affrontarti sul pavimento.
Quel giorno era ieri.
Quello fu il giorno del viso,
viso dopo l’amore, ridosso al cuscino, una ninna nanna.
Mentre insonnolito accanto mi lasciavi fermare la vecchia sedia a dondolo
i respiri si unirono, si unirono nel respiro di neonato,
mentre le mie dita tracciavano piccole o sugli occhi chiusi,
mentre tracciavo TI AMO sul petto e sul tamburo
e sussurravo, “Sveglia!” e tu mormoravi nel sonno,
“Silenzio. Procediamo verso Cape Cod. Siamo diretti a Bourne
Bridge. Stiamo circumnavigando il Bourne Circle.” Meta!
Poi ti riconoscevo nel sogno e imploravo allora
che io fossi trafitta e che tu in me potessi mettere radici
e che io potessi portare alla luce la tua creatura, potessi partorire
te o il respiro nella piccola dimora.
Ieri non volevo essere presa a prestito
ma questa è la macchina da scrivere che m’assedia
e l’amore è dov’è quel ieri.
Chi risiede in quest’essere è volatile.
Vibro ogni penna d’ala.
Volevano estirparti
ma non lo permetterò.
Dicevano che eri incommensurabilmente vuoto
ma non è vero.
Dicevano che eri sul punto di morte
ma sbagliavano.
Tu canti da scolaretta.
Tu non sei lacerato.
Dolce peso,
nella celebrazione della donna che sono
e dell’anima di donna che sono
e della creatura nucleare in letizia
io canto per te. Io oso esistere.
Salva, anima. Salve, coppa.
Serrati, riparo. Riparo che si racchiude.
Salve al suolo dei campi.
Benvenute, radici.
Ogni cellula gode di vita.
Tanta da compiacerne una nazione.
È tanto che la popolazione possieda tali beni.
Qualsiasi cittadino, qualsiasi comunità ne direbbe,
“È una benedizione poter ripiantare quest’anno
e pensare al prossimo raccolto.
La carestia che era stata predetta è stata scongiurata”.
Molte donne ne cantano in coro:
una è nella fabbrica di scarpe e maledice le macchine,
una è nell’acquario a prendersi cura di una foca,
una è impassibile al volante della sua Ford,
una fa la cassiera al casello dell’autostrada,
una lega il cordone ombelicale di un vitello in Arizona,
una tiene tra le gambe un violoncello in Russia,
una sposta pignatte sul fuoco in Egitto,
una dipinge i muri della sua camera color di luna,
una muore col ricordo della prima colazione,
una si stira sulla stuoia in Tailandia,
una pulisce il culetto del suo bambino,
una guarda fisso fuori dal finestrino del treno
nel cuore del Wyoming e una è
in un posto qualsiasi e alcune sono dappertutto e tutte
sembrano cantare, anche se alcuni non ne sanno
una nota.
Dolce peso,
nella celebrazione della donna che sono
fammi sventolare un foulard di tre metri,
fammi radunare i diciannovenni a rullo di tamburo,
fammi agitare le coppe per l’obolo
(se questa è la parte che mi tocca).
Fammi studiare il tessuto cardiovascolare,
fammi esaminare la distanza angolare delle meteoriti,
fammi succhiare lo stelo dei fiori
(se questa è la parte che mi tocca).
Fammi mimare certe mosse tribali
(se questa è la parte che mi tocca).
Per questa cosa che al corpo abbisogna
fammi cantare
per la cena,
per i baci
per il sacrosanto
si.
Sulla sponda sud occidentale di Capri
trovammo una piccola grotta sconosciuta
deserta e
la penetrammo fino in fondo
permettendo al corpo di disperdere
ogni solitudine.
Tutti i pesci che albergavamo in noi
avevano preso il largo per un istante.
Ai pesci resistenti non rincrebbe.
Non disturbavamo la loro intimità.
Cautamente li seguivamo sopra
e sotto, effondendo
bollicine d’aria, palloncini
bianchi che risalivano
al sole accanto alla barca
dove il barcaiolo italiano dormiva
con il cappello sul viso.
Acqua così cristallina che si poteva
leggere un libro.
Acqua così salina che si poteva
galleggiare sul gomito.
Mi stendevo sopra come sul divano.
Mi stendevo sopra proprio come
la Rossa Odalisque di Matisse.
L’acqua faceva da fiore esotico.
S’immagini la donna
senza toga o scialle
su una ottomana sepolcro profonda
le pareti di quella grotta
sapevano di infinite sfumature di blu e
tu dicevi “Guarda! Hai gli occhi
color mare. Guarda! Hai gli occhi
color cielo.” E gli occhi
mi si serravano come se
improvvisamente provassero vergogna.
No. non proprio rossa,
ma il colore di una rosa quando sanguina.
È il fenicottero smarrito,
chiamato chissà dove Rosa Schiapparelli
ma non intendo rosa, piuttosto sangue e
quei cuoricini di cannella delle confetterie.
S’agita come mulete negli immacolati
villaggi di Spagna. Intendo strato
di fuoco e sotto petalo,
un’elitra rosa, liscia ciottolo.
Quindi intendo la camicia da notte a due colori
e a due strati che fluttuano dalle
spalle lungo tutti gli anfratti.
Per anni la libellula li ha bramati
ma questi colori sono assediati dal silenzio
e da belve, seminascoste ma brucanti.
Si potrebbe pensare a delle piume e
senza per niente rendersene conto. Si potrebbe
pensare alle prostitute e non immaginare
il portamento del cigno. Si potrebbe
immaginare la lanugine dell’ape
accarezzare la peluria così vicino al dunque.
Il letto è devastato da tali
estasianti immagini. Lo è pure la fanciulla e
la fanciulla emerge dalla
camicia da notte e dal colore
le ali fisse alle
spalle come cerotti.
La farfalla la possiede adesso.
La copre incluse le ferite semischiuse.
Non è atterrita da begonie o da telegrammi ma
sicuramente questa fanciulla in camicia da notte,
questo straordinario aviatore, non s’è accorta
come la luna le fluttui in mezzo
e attraverso.
Oggi è il giorno che ci imbarcarono
l’estate in due casse
e stasera è la notte delle streghe
e oggi mi dici che le foglie di quercia
davanti la finestra del tuo ufficio
sopravviveranno all’inverno del New England.
Allora l’amore è fermo alla scorsa
estate.
Sebbene non avessi mai maneggiato il fucile,
l’amore giaceva sotto la tenda,
immerso nella foresta della Tanzania.
Sebbene portassi solo la kodak
l’amore veniva dopo la doppietta,
dopo la cacciagione,
dopo i martini e
dopo i piatti di cacciagione.
Mentre Saedi, ex cannibale,
serviva da sinistra
in toga bianca e fez rosso,
io rigurgitavo dietro la tenda da pranzo.
L’amore fisso dove la iena rideva
nel bel mezzo di chissà dove
salvo l’equatore. L’amore!
Ma oggi il fido cane è gonfio
dello spettro di cane morto
e zoppica su tre gambe,
tenendo la zampa in rigor mortis per aria.
Sebbene la casa sia stracola di
tavolette di cioccolato lo spettro deperito
dei miei genitori fruga
il buco della serratura, struscia la colonna del letto.
Così lo spettro di tuo padre,
che rimase ucciso sul colpo.
Stasera litigheremo e urleremo,
“La mia perdita supera la tua!
Il mio strazio è incommensurabile!”
Oggi ci hanno imbarcato l’estate
in due casse imballate in carta
cerata marrone e cucite in tela di iuta.
La prima cassa contiene gli effetti
personali, giubbe intrise di sudore, stivali pesanti
dalla fortezza del SANTISSIMO MORMACRIO
via Mombassa, Dar es Salaam,
Tanga, Lourence Marques e Zanzibar,
attraverso dogane assieme all’altra
merce: sisal biondo-cenere a
coda di cavallo, e lacci sfilati,
balle di lana grezza dalle aste
di Cape Town e qualcos’altro. Ossa!
Ossa ammucchiate come carbone, ossa di animali
a forma di palline da golf, matite
dita e nasi. Oh nazista caro,
con l’occhio turchino da S. S. –
Non sono diversa da Emily Goering.
Emily Goering ha recentemente detto
che credeva che i campi di concentramento
fossero per la rieducazione di giudei
e comunisti. Credulona!
Finora i continenti resistono sul mappamondo
ma c’è sempre quel nuovo dispositivo.
L’altra cassa che ci appartiene è funebre.
Ossa e pelli della stiva N. 1
diretta a New York per conciatura e
montaggio. Non tocchiamo questi
teschi da quel venerdì ad Arusha dove
i teschi giacevano penosamente accanto la Land Rover,
le mosche che suggevano ancora le orbite,
tutte in fila, cranio dopo cranio,
accanto all’avorio che vale più
della vita. Il teschio dello
gnu, il teschio dell’antilope alcina, il teschio
della gazzella Grant, il teschio della gazzella Thompson, il teschio
dell’impala e il teschio dell’antilope sudafricana,
senza sosta verso New York con
le pelli di zebre e leopardi.
E stasera la pelle, le ossa,
che sono sopravvissute ai nostri padri,
si congiungeranno, teneramente nella stretta,
avvinghiate in morsa
intricata. Allora uno di noi urlerà,
“Ne ho disperatamente più bisogno io!” e
io ti divorerò lentamente di baci
sebbene l’assassini in te
sia ormai evaso.
È là tutta intera.
Ti fu colata accuratamente
ti fu fusa dall’infanzia,
fusa dalle cento biglie preferite.
È sempre stata là, tesoro mio.
È, difatti, perfetta.
Fuochi d’artificio nella metà noiosa di febbraio
e tangibile pentola di ghisa.
Bisogna riconoscerlo, sono stata passeggera.
Lusso. Corvetta rosso vivo in porto.
I capelli sciolti come fumo fuori dal finestrino d’auto.
Vongole novizie fuori stagione.
Lei è di più. Ti è indispensabile,
ha accresciuto la strumentale la tropicale crescita.
Nessun esperimento. È armonia pura.
Ha curato i remi e gli scalmi della lancia,
ha riposto fiori selvatici alla finestra a colazione,
si è seduta accanto al tornio del vasaio a mezzogiorno,
ha partorito tre bimbi sotto l’occhio della luna,
tre putti disegnati da Michelangelo,
l’ha fatto a gambe divaricate
in quei mesi raccapriccianti nella cappella.
Se alzi gli occhi, i bimbi sono là
come delicati palloncini che riposano sul soffitto.
Li ha anche portati in braccio uno per uno giù per il corridoio
dopo cena, le teste piegate in basso,
due gambette che fanno resistenza, recalcitranti
il viso avvampato dalla canzone e dal sonno che tarda.
Ti restituisco il cuore.
Hai il lasciapassare –
per la miccia interna, fremente
rabbiosamente nel fango, per la cagna che cova
e la sepoltura della ferita –
per la sepoltura della piccola ferita pulsante –
per la fioca fiamma tremolante sotto le costole,
per il marinaio ubriaco appostato sul polso sinistro,
per il grembo di madre, per le calze di nylon,
per il reggicalze, per il richiamo –
il malizioso richiamo
quando t’inforrerai in braccia e mammelle
e tirerai il fiocco arancione dai capelli
e ubbidirai al richiamo, il malizioso richiamo.
È così nuda e sublime.
È la somma di te stesso e del sogno.
Scalala come fosse monumento, gradino dopo gradino.
È solida.
Quanto a me, sono l’acquarello
e sono lavabile.
Fu anche il turbolento cuore a fratturarsi,
cadendo dalle scale dell’androne.
Fu anche il messaggio che mai pronunciai
a urlare, risveglio dopo risveglio, di te
chi se ne infischia, chi se ne infischia, l’averti frantumato
l’anca di semplice cristallo,
il gambo e anche il calice.
Esplodevo nel corridoio come canna di pistola.
Così crollavo. Così per intero mi disfacevo.
Si. Ero la confezione di ossi per cani.
Ma adesso m’hanno avvolta monaca.
Fatto saltare come petardi! Sorretta come sassi!
Quale prodezza fluttuare follemente come Icaro
finché la tempesta non mi disfaceva e mi frantumavo.
I barellieri si davano un gran daffare.
Ma quando imploravo, “Un istante mi manca il coraggio!” fumavano
e poi mi riponevano, mi legavano sulla lettiga,
e mi spingevano dentro il sarcofago, il nido.
A rilento la sirena, a rilento il carro funebre, passo pacato
di vecchietta. Al P. S. mi tagliavano la veste.
Imploravo, “Oh Gesù, aiutami! Oh Gesù Cristo”
e l’infermiera replicava, “Nome errato. Mi chiamo
Barbara”, e mi appendeva allo strano congegno,
all’amaca a corna di daino e al telaio balcanico aereo.
L’ortopedico dichiarava,
“Un anno a letto.” Che scoop. Che novità.
Incideva la cute. Raschiava. Raffilava
e trapanava l’osso per viti di quattro pollici.
Occorre forza brutale come quella per spingere mucche
in salita. Vi assicuro, occorre destrezza
e charme da capezzale e tutto quel saper fare.
Il corpo è una cosa dannatamente difficile da uccidere.
Ma vi prego non toccatemi e non scuotetemi il letto.
Sono la consorte di Ethan From. Mi sposterò quando sarò in grado.
Il televisore incombe dal muro come il trofeo d’alce.
Tengo nascosta la pinta di bourbon nel comodino.
Volatile tutt’ossa, ora mi sostiene il peso di sabbia.
La frattura era duplice. La frattura era doppia.
I giorni sono orizzontali. I giorni sono noia.
L’intera ossatura annaspa.
Oltre il corridoio è il deposito delle padelle.
L’orina e gli escrementi mi passano continuamente sotto il naso
in vassoi d’argento. Si sterilizzano all’unisono
nell’autoclave. Le mie dodici rose sono morte.
Hanno cessato di mestruare. Penzolano
là come piccoli emboli secchi.
È pure il cuore, quello sciancato, come cantava
una volta. Come credeva di contare!
Cerca di capire quello che successe il giorno della caduta.
Il cuore aveva balbettato e bramato
il banchetto nuziale finché l’angelo dell’inferno
non mi mutò in castigatore, in acrobata.
Le ossa sono allentate come vecchie mollette,
abbandonate come bambole in negozi di balocchi
e il cuore, vecchio motore bramoso, con i peccati
su di giri come l’autopompa che non voleva fermarsi.
E adesso passo il tempo a prendermi cura
del corpo, quel pargoletto. Il carico è segnato.
Consacro la padella. Mi spazzolo i capelli,
in attesa che le ossa si solidifichino, nella macchina del dolore
quelle delicatissime ossa che erano state spaiate
e poi riavvitate. Si salderanno.
E l’altra carcassa, quel cuore infranto,
lo imbocco, il piccolo calice, lo coccolo.
Tuttavia l’allarme antincendio pazienta per essere riconosciuto.
È inserito. È il deposito di colori.
Durante la prigionia del corpo, solo le cellule del cuore
si sono riprodotte. Le ossa sono semplicemente
annoiate da tutto questo attendere. Ma il cuore,
questo figlio di me stessa che risiede nella carne,
questo autentico marchio dell’essere, l’origine
della cecità e del sonno, prepara il presepe di morte.
Le statuine sono poste intorno la fossa delle ossa.
Tutte le statuine convinte che è la morte altrui
lo scopo della venuta. Ogni statuina appartata.
E il cuore scoppiava d’amore e annaspava.
Questo paesino, questa piccola nazione è reale
e così lo sono il gambo e il calice
e così anche il turbolento cuore. Lo zelo
della dimora mi stradivora.
Qui tutto è oro e smeraldo.
Ascoltane la strozza, la lamina terrestre,
l’osseo gracchiare asciutto dei ranocchi
mentre pulsano come insegne luminose.
I piccoli animali del bosco
si trascinano le maschere funerarie
nell’angusta tana invernale.
Lo spaventapasseri si è cavato
gli occhi come diamanti
ed è entrato in paese.
Il generale e il postino
si sono tolti gli zaini.
Tutto questo si ripete da sempre
ma qui niente è trapassato.
Qui tutto è possibile.
Per questo
forse la fanciulla ha deposto
i panni invernali e spensieratamente
si è posata sul ramo
che sporge sullo stagno nel fiume.
Si è riversata sul ramo
a sfiorare le dimore dei pesci
mentre le scivolano dentro e fuori l’immagine riflessa
e su e giù le gambe gradinate.
Il corpo le conduce a casa le nuvole lungo l’intero tragitto.
Lei si contempla il volto fluente
nel fiume dove i ciechi
vengono a bagnarsi a mezzogiorno.
Per questo
la terra, quell’incubo invernale,
si è curata le piaghe e ha germogliato
volatili verdi e vitalità.
Per questo
gli alberi mutano negli alvei
e sostengono piccoli calici tropicali
con esili dita.
Per questo
la donna è attaccata ai fornelli
a cantare e cucinare fiori.
Qui tutto è oro e smeraldo.
Sicuramente la primavera concederà
alla fanciulla senza veli
di mutare soavemente nello splendore
e senza timore dell’amore.
Ha già contato sette
fioriture sullo specchio verdeggiante.
Due fiumi le si incrociano sotto.
Il viso infantile si raggrinza
nell’acqua e scompare.
Solo la donna risplende
nella grazia felina.
L’adorata cute tenace
giace ai piedi dell’albero inondato.
Tutto è del tutto possibile
e pure ai ciechi è concesso vedere.
Una volta sola seppi a cosa serviva la vita.
A Boston, tutto all’improvviso, capii;
camminavo lungo il Charles River,
guardavo le luci che si duplicavano,
tutte al neon e cuorintermittenti, che spalancavano
la bocca come cantanti d’opera,
contavo le stelle, mie piccole sostenitrici,
mie margherite cicatrizzate, e sapevo d’accompagnare il diletto
verso il lato verde della notte e riversavo
il cuore alle vetture dirette a oriente e riversavo
il cuore alle vetture dirette a occidente e portavo
la verità attraverso il piccolo ponte arcato
e affrettavo la verità, l’incanto, verso casa
e facevo tesoro di queste costanti fino al mattino e
solo per trovarle svanite.
Dicesti che la collera sarebbe ricomparsa
proprio come l’amore.
Ho la cera nera che non
mi piace. È maschera in prova.
Me l’avvicino e il rospo
mi si siede sulle labbra e defeca.
È vecchio. È anche povero.
Ho cercato di mantenerlo a dieta.
Non gli concedo l’unzione.
Oggi mi spicca la buona cera
come grumo di sangue. L’ho
appuntata sopra la mammella sinistra.
Ne ho fatto la mia vocazione.
La lussuria vi ha messo radici e
io ti ho posto assieme alla tua
creatura alla punta del latte.
Oh la negritudine è letale
e la punta del latte trabocca
e ogni meccanismo è operante
e io ti bacerò quando avrò sminuzzato una dozzina di maschi novelli
e tu morirai più o meno,
ripetutamente.
È il piccolo Walden.
Non geme nel letto dei sospiri
quando il corpo di lui decolla e vola,
vola dritto come freccia.
Ma è pessima metafora.
La luce del giorno è spietata.
Dio entra da padrone
e abbaglia con la lampada d’ottone.
Ora lei si rianima.
Lui riindossa le ossa
riportando le lancette indietro di un’ora.
Lei conosce la carne, quel pallone di pelle,
le sconfinate membra, le assi,
la cupola, la cupola mobile.
Lui l’ha selezionata a tempo determinato.
Anche voi conoscerete la storiella! Per intenderci,
quando è tutto fatto la riattacca,
come la cornetta del telefono, al gancio.
Sono viva di notte.
Sono morta al mattino,
il vecchio vascello che ha consumato l’olio,
smunto e scheletrico.
Nessun miracolo. Nessun abbaglio.
Sono irriparabile
ma tu sei maestoso nell’armatura
e io devo darmi una sistemata per la traversata.
Sono sempre stata la zitella,
vecchia e butterata.
Prima che ci fosse il mondo, io sono stata.
Maturo arancione e pingue,
color carota, che lascia a bocca aperta,
concedendo ai rauchi oh di cadere sul mare
vicino Venezia e Mombasa.
Sul Maine ho riposato.
Sono il jet precipitato nel Pacifico.
Ho commesso spergiuro sul Giappone. Ti
ho dondolato il pendolo,
il pingue sacco, la mia aurea, aurea
luce ammiccante
dappertutto.
Quindi se devi chiedere fallo pure.
Dopotutto non sono finta.
Ti ho guardato a lungo,
ventre gonfio e vuoto,
scuotendo la sconfinata vetrina
per te, te mio freddo, frigido freddo
maschio in salopette.
Devi solo richiedere
e io concederò.
È praticamente garantito
che tu mi camminerai dentro come in una caserma.
Quando vieni a velocità di crociera, riattraversami,
tu dell’esplosione,
tu del bastione,
tu della strategia.
E suggellerò la pingue pupilla,
quartier generale territoriale e
dimora del sogno.
La fine del rapporto è sempre la morte.
Ecco l’officina dove riparo. Con la pupilla
sdrucciolevole fuori del cerchio tribale dell’essere ti
trovo disperso in affanno. Turbo chi mi sta vicino. Sono sazia.
Di notte, da sola, mi sposo il materasso.
Da un dito all’altro, ora è mia.
Non è troppo lontana. È scontro.
La batto campana. M’inclino
nel pergolato dove solevi montarla quando
mi prendevi in prestito sulla coperta fiorita.
Di notte, da sola, mi sposo il materasso.
Prendi per esempio questa notte, amore mio,
che ogni singola coppia confeziona
con il mutuo capovolgimento, sotto, sopra
il copioso duo su spugna e piume,
inginocchiati e prementi, testa a testa.
Di notte, da sola, mi sposo il materasso.
Così prorompo dal corpo,
irritante miracolo. Potrei
mettere l’emporio dei sogni in mostra?
Sono distesa. Crocifiggo.
La piccola prugna la chiamavi.
Di notte, da sola, mi sposo il materasso.
Poi venne la rivale dagli occhi neri.
La signora dell’acqua, che emerse sulla spiaggia,
pianoforte sulla punta delle dita, scandalo
sulle labbra e favella di flauto.
E io ero invece la scopa a ginocchio valgo.
Di notte, da sola, mi sposo il materasso.
Ti prese come la donna prende
il vestito in offerta speciale dell’appendiabito
e mi frantumavo come si frantuma un sasso.
Ti restituisco i libri e gli arnesi da pesca.
Il giornale di oggi dice che ti sei sposato.
Di notte, da sola, mi sposo il materasso.
Maschi e femmine si fondono stanotte.
Sbottonano camicie. Aprono chiusure lampo.
Si tolgono le scarpe. Spengono le luci.
Le creature traslucenti sono gonfie di menzogne.
Si divorano a vicenda. Sono strasazi.
Di notte, da sola, mi sposo il materasso.
Amarmi senza scarpe
vuol dire amare le lunghe gambe cioccolato,
care delizie, piene come cucchiai,
e i piedi, quei due bimbi
lasciati liberi a giocare nudi. Contorte sporgenze,
le dita. Non più confinate.
E per di più, vedere le unghie e
le giunture prensili di giunture e
tutte le dieci misure, di radice in radice.
Tutto animato e agitato, questo piccolo
maialetto andò al mercato e questo piccolo maialetto
rimase. Lunghe gambe cioccolata e lunghe dita cioccolata.
Più in su, amore mio, questa donna
svela segreti, piccole dimore,
piccole lingue che si confessano.
Non c’è nessun altro all’infuori di noi
in questa casa su questa lingua di terra.
il mare porta una campana nell’ombelico.
E io sono la scalza servetta
l’intera settimana. Ti va del salame?
No. Non preferiresti uno scotch?
No. Veramente tu non bevi. Di me si che
t’ubriachi. I gabbiani uccidono i pesci,
squittendo come piccoli dannati.
Il frangente è un narcotico, che ulula
sono, sono, sono
tutta la lunga notte. Scalza,
ti tamburino su e giù per la schiena.
Al mattino corro da una porta all’altra
del capanno giocando ad acchiappino.
Ora m’afferri per le caviglie.
Ora ti apri un varco tra le gambe
e riesci a trafiggermi nel bersaglio della fame.
Prendendoti in considerazione tutta la bellezza
perché non dai fuoco alle suole degli scarponi e alla
cartolina di precetto? Come puoi sedere impassibile dicendo sì
alla guerra? Sarai un povero diavolo quando morirai, irascibile
ragazzo. Cadavere, mentre io continuo a vivere allo stesso indirizzo.
Oh fratello mio, perché continui a fare progetti
Quando io sono alle convulsioni di cuore e mani.
Su vieni a ballare il ballo, il ballo di Papà e Mamma;
porta i costumi della valigia tappezzata Ile de France,
S. S. Gripsholm. La custodia dell’imbracatura londinese
che Papà portò all’estero e teneva in soffitta allacciata
con vecchie corregge da imballaggio e la
toga universitaria, nero liquirizia – quella metamorfosi
col cappuccio cremisi. Ricordi che giocavamo al ballo in costume –
la sposa nera nera, nero, nero lo sposo.
Prendendoti in considerazione tutta la bellezza,
le ore folli quando una volta ballammo sul divano
strillando Papà, Papà, Papà, io in abito
in tonaca da monaca e tu nero martello, un prete
borghese che balzava, balzava, balzava.
Oh fratello mio, Mister Pistolero, perché piangevi,
inventando bestemmie per il roseo orecchio roseo di tua sorella?
Prendendo la mira e poi, come al solito, essendo sincero,
dicendo qualcosa di pericoloso, qualcosa macchiato d’uovo
come ti amo, non tenendo conto della stanza dove ballavamo
non tenendo conto del gin che ci poteva veramente invasare,
e gridando Mamma, Mamma, Mamma, quella vecchia romantica storia d’amore
credimi i balli che facemmo davvero bastarono,
le mani sul seno e tutto quel genere di cose.
Ricordi le foglie gialle quella giornata d’ottobre
quando ci sposammo la capanna sull’albero e io rimasi?
Ora me ne sto qui seduta a seppellirti soffitta e
bellezza. Se salto sul divano te ne stai semplicemente seduto
nell’ angolo e poi sbatti solo la porta.
NON VUOI RICORDARE? Si, Mister Pistolero, proprio così!
Non ti è la soffitta familiare? Quella stagione non
ti travolge il cervello? Guerra, dici. Guerra, ti convinci.
Ti prego Mister Pistolero, un ballo ancora, commentando
i costumi, tenendoli al petto, dolendoti di
quell’amore nero mentre t’infilavi il vestito di Papà.
Così facevano Papà e Mamma. Possiamo accontentarci di meno?
Visto. La lampada è riparata. Il portacenere
è stato sbadatamente rotto dalla domestica.
Tuttora, i palloncini che dicono amami, amami
Ci fluttuano sopra sul soffitto.
Le preghiere del mattino sono state recitate mentre sedevamo
ginocchio contro ginocchio. Ciò merita quattro baci!
E perché diamine dovrebbe infastidirci
l’orologio? Rigirami dalla dodici
alle sei. Così assapori un po’ d’oceano.
Un giorno ti raggomitolasti nella palla di dolore,
scagliato nell’angolo come scolaretto.
Oh vieni col martello, il cuoio
e il timone. Vieni con la punta d’ago.
Prendi lo specchio delle brame e le ferite
e disfale. Spegni la luce e diventeremo
in tutto e per tutto carta carbone.
Adesso è l’ora di richiamare l’attenzione
al letto, una foresta di pelle
dove semi esplodono come pallottole.
Siamo in camera. siamo nella
scatola di scarpe. Siamo nella scatola di sangue.
Siamo teneramente contusi, tuttavia
non siamo né vecchi né aborti.
Siamo qui su una zattera, esiliati dalla polvere.
L’odore della terra è svanito. Persistono il sentore
del sangue, la lama e la pallottola.
Il tempo impera e tu ne prenderai la piega.
Il fiato al mercato della morte è sospeso.
Il viso che m’accosti emanerà indifferenza
Tesoro, mi concederai il ventre e ti sarà
cavato il torsolo come a una mela. Il lebbroso verrà
e annoterà i nomi e cambierà il calendario.
Il ciabattino verrà e ricostruirà
questa stanza. Giacerà sul letto
e urinerà e niente più esisterà.
Vieni adesso. Ora!
Ero avvolta in pellicce
nere e in pellicce bianche e
tu mi disfacevi e poi
mi riponevi in aurea luce
e poi m’incoronavi,
mentre la neve cadeva fuori
la porta a dardi diagonali.
E quando lo spesso manto
veniva giù come stelle in
sminuzzati frammenti di calcio,
ognuno di noi si rintanò sottopelle
(la stanza che ci seppellirà)
e poi tu varcasti la soglia
(la stanza che a noi sopravviverà)
e per prima cosa ti asciugavo
i piedi con un telo
poiché io ti facevo da schiava
e in cambio tu mi chiamavi principessa.
Principessa!
Oh allora
io emergevo nella mia pelle d’oro
e scagliavo salmi
e scagliavo vesti
e tu disfavi briglia
e tu disfavi redini
e io strappavo bottoni,
le ossa, la confusione,
le cartoline del New England,
la tarda notte di gennaio,
e noi spuntavamo come grano,
acro dopo acro d’oro,
e poi mietevamo,
mietevamo.
Notate come ha numerato le vene blu
del seno. Ci sono anche dieci lentiggini.
Ora vira a sinistra. Ora vira a destra.
Edifica una città, una città di carne.
Fa l’imprenditore. Ha sofferto la fame in scantinati
e, signore e signori, è stato piegato dal ferro,
dal sangue, dal metallo, dal ferro
trionfante della morte della madre. Ma si riprende.
Ora mi costruisce. È strutto dalla città.
Dalla gloria dei tavolacci m’ha modellata.
M’ha fornita di seicento segnali stradali.
Quella volta che ballavo edificò il museo.
Edificò dieci isolati quando mi spostai sul letto.
Costruì il cavalcavia quando andai via.
Gli regalai dei fiori e edificò l’aeroporto.
Per semafori distribuì lecca lecca
rossi e verdi. Ma in cuor mio di infante attraverso
con cautela.
Il giorno dei seni e dei fianchi sottili
la finestra butterata da pioggia malefica,
pioggia prorompente come il pastore protestante,
ci accoppiavamo, così sensatamente e pazzamente.
Giacevamo come cucchiai mentre la pioggia
minacciosa piombava come mosche sulle labbra,
e sugli occhi lieti e sui fianchi sottili.
“La stanza è così intrisa di pioggia”, dicevi
e tu, provocante tu, col fiore
recitavi novene alle caviglie e ai gomiti.
Tu sei produzione e energia nazionale.
Oh cigno, oh sgobbone, diletta rosa lanuta,
anche un notaio legalizzerebbe il letto
mentre tu m’impasti e io lievito come pane.
Il bacio nell’incavo
del ginocchio si trasforma in libellula
sulla zanzariera e
si tesoro il puntino
sull’ecometro è
Trilli che tossisce
e due volte perderò
l’onore e le stelle si pianteranno
come puntine nella notte
si oh si si si due
lumachine nell’incavo
del ginocchio a fare falò qualcosa come ciglia qualcosa che strofina
due pietrine si si si caviglia
e io artefici.
I Dicembre
Al bacio di commiato
tu aggrottavi un po’ le ciglia.
Ora le luci di Gesù Bambino
Luccicano per tutto il paese.
Gli steli del granturco sono spezzati
nel campo, spezzati e secchi.
Lo stagno a fine anno
abbassa la palpebra grigia.
Le luci di Gesù Bambino
luccicano per tutto il paese.
Il ghiaccio verde-gatto si stende
sul prato rasato.
Gli abeti sono la sola
giovane vita che perdura. Tu sei scomparso.
Poltrivo sotto le coperte
la notte scorsa, sveglia finché l’alba
sorgeva come il tramonto e le foglie di quercia
sussurravano come banconote, dure a morire.
Gli abeti sono la sola
giovane vita che perdura. Tu sei scomparso.
2 Dicembre
La notte scorsa dormivo
sotto l’ombra di un volatile
e sognavo picchiotti al beccatoio,
inchiodata allo schienale inchiodata fino
in fondo ai piedi, aspettando la lenta
morte nell’odiosa neve dicembrina.
La morte di Mamma veniva alla luce
e Mamma che mi chiudeva la porta nel bisogno
e tu alla porta ieri,
tu nella perdita, sbiancato,
a dire quello che dicono gli innamorati.
Ma in sogno
tu eri il macabro uomo di pietra
che entrava sonnambulo, impassibile,
la bocca impuntita cucitura,
manichino da sartoria nato
senza gambe e col ventre incavato, o caro vecchio puritano.
Eri tutto mussola, di color crema sbiadito
e io ti ponevo in sei stanze per risistemarti
le porte e i punti saltavano e parlavano,
prorompendo nel grido straziante
col quale mi svegliavo.
Poi prendevo il sonnifero per riaddormentarmi
e mi ritrovavo criminale in isolamento,
insieme zoppo e ladro
che avevano strappato occhi rubino ad altri.
Perdevo la gamba e poi
mi trascinavi via con l’uncino nazista.
Ero il pezzo di carne avariata che ti forzavano in spalla.
Ero martoriata. Non potevo passarti inosservata.
Sognare porta tale mala sorte
Ma ero stata io a decretare quella morte.
3 Dicembre
Questa è la bocca
grigio-talpa dell’anno.
Ieri sgattaiolavo
al capanno-studio,
cogliendo di sorpresa due marmotte e un cervo
davanti al bungalow di fortuna.
In cammino verso Groton
scorgevo lo scoiattolo morto
in mezzo alla strada, in decomposizione
e i corvi a beccargli le verdi budella.
È la natura, avresti detto per abitudine
e passavi ai cocktail.
I cani del sole erano
lassù nel cielo.
Tu navigatore caro,
inseguivi il vecchio globo che volgeva a ponente
e io ero al beccatoio dove i junchi si nutrivano.
Da sola nel casotto nostro mi sentivo ospite.
4 Dicembre
E dove ci siamo conosciuti?
Fu a Londra a Carnaby Street?
Fu a Parigi sulla Rive Gauche
quel luogo a cui essere grata?
No. Fu a Harvard Square
al chiosco, entrambi in lacrime.
Posso essere grata a quel luogo –
il giorno che Jack Kennedy agonizzava.
E un’ora dopo era cadavere.
Le cervella gli fuoriuscivano dal capo abbagliato.
E noi piangemmo e bevemmo il nostro whisky liscio
e il mondo ricorda ancora quella data.
E entrambi scrivemmo poesie che non sapevamo scrivere
e piangemmo assieme tutta la lunga notte
e ci innamorammo con tenero affanno
la sera in cui i grandi implorano la morte.
5 Dicembre
Quello era il novembre di Oswald
quattro remoti anni fa.
Ricordo
che ci incontravamo una volta la settimana o più spesso,
sapendo di sbagliare, ma con i soliti pretesti.
Così vado e vengo dallo studio,
mio fabbro fonditore, mio ammorbidente.
Cogliamo l’amore in tutte le stagioni.
Questa è l’ultima pagina illustrata
del calendario.
Adesso mi pesano gli anni,
mentre guardo fuori gli uccelli convulsi
che caricano di semi il becco.
Il vento è grottesco.
Il vento mi fa bu, bu, bu al fianco
e il rubinetto della cucina gocciola.
Questo è l’ultimo foglio
nell’almanacco.
Adesso vado in malora
mentre il petto della terra diventa rigido e avaro
e il fieno è imballato nella rastrelliera.
Giù lungo il ruscello
le rane congelando sembrano scacchi spettrali
e tu sei svanito, sconosciuto caro.
6 Dicembre
Una pioggerella, placida come una mela, oggi…
delicata e docile e lenta e dolcissima
come il 2 febbraio scorso il Giorno della Marmotta.
Non voleva sbucare e noi scommettemmo
che il suo naso alla Mickey Mouse ci avrebbe
accolto, che il coma non aveva a che fare con gli dei.
Pensammo che si facesse vedere per la Candelora,
che facesse vedere la sua ombra-Chippewa alle undici.
Pensammo che quella cosa a sangue freddo sfilasse
come lo sciamano con la bocca piena di barbabietole
per il mistico sorgente e lo stratagemma
con cui la destissima ombra si sarebbe imbattuta.
7 Dicembre
Il Pearl Harbor Day.
Il cruciforme.
Niente pioggia la notte scorsa, solo tempesta di ghiaccio.
Gioielli! Oggi ogni ramoscello è importante,
ogni anello, ogni infezione, ogni forma
è tutto quello che gli dei avranno decretato.
Il Pearl Harbor Day
lascia cicatrici.
L’argento vola nel vento, piccole stelle,
monetine oculiformi butterano e butterano
e gli specchi infranti si spargono lontano
e tutti gli ingranaggi dell’orologio mi colmano il calice.
Ogni pietra è notizia.
Una per una sono arrivate.
Gli uccelli, quei mendicanti, sono vivi per miracolo,
le piume di sasso e il mangime tumulato.
Le civette stanano i topi. I gufi prosperano.
Il ghiaccio farà fuori gli uccelli, o si disferà.
8 Dicembre
In quest’inverno senza te mi
mando una cartolina della Florida
per rammentarmi in qualche modo della settimana
dopo la prima metà di luglio e verso la fine
quando i giorni abietti della Canicola erano passati
e noi avevamo una settimana tutta nostra da gustare.
I serpenti sprizzavano veleno
e mozziconi di stelle filanti s’accendevano
e i cani romani annusavano la genziana
dalla quale era venuto un fertile profumo.
Piccole capinere venivano a rilento
e venivamo anche noi, non potendo farne a meno.
Il sommaco esibiva chiome rosse
e buon sangue scorreva in ogni agnello,
con pomodori e cornetti sotto l’influsso di Sirio,
il granturco di campo e i topi campagnoli vennero per rimanere.
Al mattino lavavo i piatti sporchi d’uovo e marmellata.
L’ultimo nostro filo di luce ce lo annunciava il succiacapre.
9 Dicembre
Due anni fa, Riservista,
avresti dato fuoco
alla cartolina di precetto oppure
avresti disertato.
Ma sei rimasto a servire
in Aviazione. La testa ti ribolliva
di cattive soluzioni, portando
il cuore alla meta come il pallone
ovale, il buon cuore
che non cessa quasi mai
di riconoscere i propri errori. Da
Frisco facevi una telefonata.
Poi ti trasformavano
in paramedico dell’Aeronautica
che ricomponeva troncati brandelli
umani. Alcuni venivano spediti
troppo morti per essere malati.
Ma non scrivevo nessun diario
su quel periodo allora
e tu dici che quello che
fai oggi è peggiore.
Oggi scarichi carcasse
Nella remota Base Aerea di
Travis – quella maledizione –
niente alberi, quel cratere
circondato da colline.
Lo Starlifter dal
Vietnam, il carro funebre multiplo
sfreccia rientrando. Cento
ne arrivano giorno dopo giorno
appena quarantotto ore
dopo la morte, pieni
a volte con di un carico
di sessanta feretri allineati.
Il Registro delle Perdite
Numero Sedici
preferisce classificarli
resti umani.
Questa è la posizione
che il mondo prendeva
con i figli del nemico.
Tu li scarichi infilando
i sacchi di lattice
dentro bare di alluminio –
quei resti umani,
il capo in risalto
rispetto alle dieci dita dei piedi.
Sono priorità quando
sono rispediti
con i quattro mesi di paga
e il lotto di cimitero
in allegato.
Ogni riguardo
per questi resti umani!
È d’obbligo la scorta!
Sono top-secret!
Mai sganciati
nelle emergenze da nessun aereo.
Da tenere a bordo! Più importanti
adesso che sono morti.
Tu dici, “Ti trattano come
feccia finché non ti fanno fuori.”
E poi portati dentro la Caverna
quei resti umani bollati
sullo Starlifter, sul Cargomaster,
in bastimento, sull’Hercules
mentre il napalm è nella padella,
mentre il napalm è nella tana della morte.
E quello che accadeva a casa
era la Marcia per la Pace –
questa Washington che espugniamo.
10 Dicembre
Penso ai suoni di creature selvatiche
come la notte scorsa la volpe ribelle
ululava come Lucifero.
Quando la Luna del Castoro illuminava i campi
i ramoscelli di quercia graffiavano come topolini in scatola.
Come a marzo aspettavamo le raganelle,
quelle occhisfere campanulate, quelle zampette di folletto
che vengono alla luce con cuscinetti adesivi quando il ghiaccio scorre.
Soprattutto sono afoni, il mondo sigillato,
la vita sottosopra e giù per la chiusa.
Così ricorderò, ricorderò le cicale in agosto,
lo stridulo lamento ad alta fedeltà, acuto e sottile
e quando tu mi chiedevi se avessi l’età per rammendare calze
io piangevo e tu m’abbracciavi divinamente
e naturalmente non siamo sposati, siamo un paio di forbici
che si congiungono per tagliare, senza asciugamani personalizzati Lui. Lei.
11 Dicembre
Poi ti penso a letto,
lingua metà cioccolato, metà oceano,
alle case nelle quali t’infili,
alla capigliatura paglietta d’acciaio sul capo,
alle mani perseveranti e poi
come scarnifichiamo barriere poiché siamo disgiunti.
A come vieni a bere la mia coppa di sangue
e ti congiungi a me e ti bevi la salamoia. Ora
siamo nudi. Siamo scortecciati fino all’osso
e nuotiamo in tandem e risaliamo
il fiume, lo stesso fiume chiamato Miniera
inoltrandoci intrecciati. E nessuno è più solo.
12 Dicembre
E che ne è di me?
Lavoro ogni giorno in
calzamaglia per la scuola pubblica
dove i ritardati sono
rinchiusi con manovre d’ospedale.
Passo sempre davanti al portiere
idrocefalico sullo sgabello,
il bimbo di cinque anni che siede
tutto il giorno e non parla mai,
la testa come palloncino
da un quarto di dollaro, tre volte
le normali dimensioni. È la natura
ma a volte la natura compie tali crimini.
Vado nel grande soggiorno
di cemento dove cinquanta bimbi
sono rinchiusi per quello
che stranamente chiamano gioco.
Non ci sono giocattoli in giro,
non vengono dati ai piccoli invalidi
poiché quello che c’è potrebbe
rompersi o essere d’impaccio.
Non possiamo uscire. Non ci sono
tute da neve, alcune volte niente scarpe
quindi quello che faccio per loro è legato
a quello che gli porto.
La stanza olezza d’orina.
Solo il bebè a due teste
è antisettico nella culla.
Ora prendo la cetra,
il tamburo, il triangolo,
il tamburello e le chiavi
per le porte chiuse e i suoni
chiusi, sordi e acuti.
Battiamo le mani
e pestiamo i piedi, vi prego.
Eseguo accordi orecchiabili e
ondeggianti per ogni infermità.
Canto La Volpe uscì
una gelida notte
e Bobby il mongoloide
prediletto me la ricanta.
Tiro fuori gli scialli di seta
per una tribù di folletti.
Susan vuole lo scialle azzurro
e tutti si agitano.
Io faccio l’ubriaca con due scialli rossi.
Sono in trance,
mentre ululo amatemi, uh, uh
e noi tutti balliamo appassionatamente.
13 Dicembre
Ricordi quel giorno, lo scorso giugno
nel mese dell’Interminabile Incanto
chiamato il Wawe-Pesin dei Pellerossa?
Davvero l’estate non arrivò un giorno prima
e sicuramente il calendario fece il proprio dovere
e noi trascorrevamo il weekend al Provincetown Inn.
Ricordi quel temporale a luglio
quando i lampi rotolavano giù per la collina –
e io portavano le tennis per non perdere animo –
ruzzolavano come un pallone da spiaggia per far brillare
e appiccare dentro la griglia di granito in giardino,
un fuocherello che non si domava?
Ricordi quel rimbalzare da un bar all’altro a caccia
di un buon whiskey e un rye liscio,
l’Old Overholt con Washington
piuttosto accigliato sull’etichetta
o il Wild Turkey dagli occhi strabici –
il bourbon che tracannavamo fino al torpore?
14 Dicembre
Gli uccelli migratori
hanno abbandonato il nido
ma torneranno
con bussola incorporata.
Torneranno come
fa il circo ogni anno –
con i trapezisti, cari volatili
ossuti nell’esecuzione della gran volta.
Due anni fa compravi
i biglietti per i bambini che siamo.
Bambini grandi e piccini
ecco la sessantanovesima stagione!
La Signorina la Toria sospesa
col polso alla fune aerea
eseguiva oltre
cento piroette.
I leoni nelle atroci
gabbie marciavano su e giù.
E SIGNOR POMPIERE SALVI MIO FIGLIO
che siano di buon auspicio i nanerottoli,
che s’affrettavano sulla scena con autopompe
giocattolo mentre il finto fuoco divampava.
Fuori dal tendone, due giorni prima
qualcuno assassinava il clown.
Il soffitto era steso
insieme al bucato.
Il clown annodava il bavaglino al leone
e lo imboccava come un bebè.
I pony si travestivano da cammelli,
i barboncini si travestivano da puttane
e Doval il Grande con le
preziose dita dei piedi ( io non volevo vedere )
s’innalzava sopra gli elefanti
e i bambini nell’immortalità.
E tu venivi borseggiato,
ingenuo cospiratore caro.
15 Dicembre
Il giorno della sbornia solitaria
è arrivato. Niente previsioni del tempo,
niente volpi, niente uccelli, niente docili tamie,
niente giochi sul divano, niente stazioni balneari.
Niente di nulla c’è stato tra noi,
niente cielo, niente tempo – solo distillato.
La mezzaluna è acida, livida, malinconica
mentre canto i Blended Whiskey Blues.
16 Dicembre
Tanto tempo fa
tu crescevi in una camera da letto la misura di una monetina
e te la spartivi con la sorella. Questo accadeva a West End
Avenue a Manhattan. Bramando la campagna eri rinchiuso
in città, a scrutare, oltre l’Hudson, il Palisades Park.
Il bimbo che albergavi te giocava a stickball finché faceva buio.
Tanto tempo fa
tu dicevi “Adesso che il capanno è nostro, voglio
portarci dentro la forza motrice”. E davamo la festa dell’energia.
Io cucivo tendine di percalle. Attaccavamo al chiodo la laurea.
Accendemmo la stufa due volte. Oh amore, oh piattola cara,
noi produciamo elettricità mentre giochiamo a metter su casa.
17 Dicembre
Oggi ho comprato il pino silvestre –
Oh Tannenbaum – l’albero di Natale,
verde tartaruga, una foresta
di gomma e resina e trementina.
Amore, piattola, assenteista caro
da sola nel nostro casotto non mi sentivo ospite.
Dallo scatolone d’emporio
ho appeso campanelle e palline e fili d’argento
e l’acceso cordone di rossi e verdi festoni.
Per finire l’ultimo tocco l’ho dato alla punta dello sparuto pino
con la stella sgargiante, la croce a cinque punte
che luccica per il Nazareno.
Il farlo mi rammentava i premi d’autunno
che davamo ad alberi diversi il Primo Premio
si attaccava sull’acero da zucchero
al Lincoln Center, poi verso
Weston decoravamo la Miglior Betulla dell’Aurora.
Censivamo colori non persone.
Le querce porpora, i pioppi tremoli,
quei folti pioppi color moneta-antico;
l’abbracciabosco – ognuno con il diploma sul tronco
da noi appuntato con nastrini casalinghi
per il Columbus Day. I premi quando l’acido si mescola
al pigmento e la linfa veniva risucchiata.
Oggi ho comprato il ramoscello di vischio,
tutto verruche e foglie e bacche
e gambo – l’angelo del bacio –
e l’ho appeso nel bungalow.
Amore caro, metteremo radici
durante l’Armistizio Natalizio.
18 Dicembre
Celere boomerang, vieni a cogliermi!
Sono delicata. Troppo a lungo sei stato via.
La mancanza m’ha piuttosto nuociuto, tuttavia
per te mi devo piegare. Vedi come m’inarco. Sono eccitata.
Ho i capelli neri, gli occhi color prato.
Lei baci il pacco, Mister Legatore!
Si? Vorrebbe scagliarsi
addosso, virilmente ma in un certo qual modo teneramente?
Sono stesa in capanno come carta sul ripiano da cucina.
Quindi mi tracci una mammella. Mi piace essere sottolineata.
Senti un po’, zoticone! Ubbidisci!
Tracciami come farebbe un bambino. Avrò bisogno
soltanto di due occhioni e un piccolo bacio.
Una piccola o. Due orecchini sarebbero simpatici. Poi prosegui
verso la spalla. Qui ti concedo una pausa.
Prendimi. Ti sono malattia.
Ti prego vai piano lungo il torso
mentre tracci perle e bocche e alberi
e gli o, dei graffiti e un minuto ciao
poiché io afferro, io mordicchio, io sollevo, io soddisfo.
Tracciami bene, tracciami appassionatamente.
Portami l’ossuto polso, e il
bizzarro, Signor Allacciatore, il bizzarro corno ostinato.
Tesoro, provoca con lo strumento un’ora di ondulazioni, poiché
questa è la musica per la quale sono nata.
Dacci dentro di cozzo! All’erta, mio acrobata
e io sarò legno dolce e tu chiodo
e noi attizzeremo i forni per Jack Sprat
e tu ti lancerai nella mia minuscola cella
e noi consumeremo la cena insieme e tutto
sarà compiuto.