TRADUZIONE LIBERA DA ANNE SEXTON La “Confessional Poetry”, che dagli anni cinquanta agli anni settanta traccia il percorso della nuova poesia americana e ha in Robert Lowell il suo capostipite, trova le proprie lontane origini nel pensiero teosofico e metafisico, e in tempi più recenti nei mistici, nei romantici e nei trascendentalisti americani, ma più direttamente e intimamente è da connettersi al simbolismo francese, al surrealismo e alla cosiddetta “Poetry of Madness”. Come tutte le esperienze poetiche del ventesimo secolo molto, poi, deve a Eliot, che ridisegna la mappa del linguaggio e delle tecniche del verso, e col quale nonostante la dichiarata poetica dell’Objective correlative” la distanza tra la voce del poeta e quella della “dramatis persona” si accorcia gradualmente se si tiene conto che la sua più significativa produzione poetica, The Wasteland,coincide con il ricovero in una clinica per malattie nervose. Il panorama poetico da cui prende le mosse Robert Lowell nel secondo dopoguerra non è dissimile da quello da cui si muove Eliot nel primo novecento: una poesia elegante ma elusiva, indifferente agli orrori di Belsen e Hiroshima, una nuova arcadia georgiana, urbana e accademica popolata da sbiaditi “Prufrock”. Lowell e i suoi seguaci eliminano tutte le maschere della “dramatis persona” e puntano sulla verità poetica, che non coincide necessariamente con la realtà obiettiva delle cose, come l’uso di dati autobiografici potrebbe far intendere. La loro sensibilità avverte l’angoscia di una umanità in attesa di un possibile, imminente olocausto universale. Ripiegati su se stessi e incapaci di trovare un centro di gravità, si abbandonano a una furia autodistruttiva, a un disprezzo di sé che non ha niente dell’eroismo romantico, ma che conduce solo all’abbruttimento: l’alcoolismo, la malattia, la lacerazione degli affetti; né gli ambiti riconoscimenti letterari possono renderli meno grevi. All’inizio tali affermazioni incoraggiano indubbiamente questi poeti a continuare a confessarsi sulla carta e rivelare intimità fino allora considerati argomenti tabù: straziante senso di alienazione, sentimenti d’odio verso la famiglia e se stessi, desideri incestuosi, tormentosi rimorsi. Questa poesia diventa allora l’atto compensatorio, la possibile salvezza, l’elezione che con un salto qualitativo eleva i migliori componimenti al di là dell’autobiografia e punta alla redefinizione di una nuova e autentica identità umana. Il patologico, il personale si tramuta attraverso la poesia in qualcosa di universale e d’esistenziale. Se per molti poeti confessionali la poesia alla fine è un mezzo per controllare la propria follia, per taluni di essi – la frangia estremista di cui fanno parte la Plath, Berryman e la Sexton – , la poesia non regge poiché questi autori aspirano dopo la totale confessione, all’assoluzione e alla conquista della perfetta integrità mentale. I poeti estremisti credono, che mettendo tutto allo scoperto, i mostri interni si volatilizzino; sperano che la fusione tra la vita e l’arte possa trasformare il sacrificio, l’immolazione di sé in una risurrezione, fantasticano che sfidare la morte significhi sconfiggerla e guadagnarsi così il diritto a una nuova vita. Come asserisce Alvarez, questo tipo di poesia non può essere altro che una “murderous Art”, il cui scopo è affrontare estreme situazioni per ricavarne estreme sensazioni con estreme conseguenze (si pensi a Berryman, che si augura anche una malattia letale pur di poterne usufruire come esperienza poetica). Come gli altri poeti della “Confessional School” anche la Plath, Berryman e la Sexton cercano all’inizio della carriera di ingabbiare la loro “pazzia” attraverso una minuziosa e sorvegliata forma poetica, ma via via le regole si sfaldano, la poesia si trasforma quasi in prosa libera, come disgregata da quel desiderio di autodistruzione che porta questi poeti all’atto estremo e liberatorio: il suicidio all’apice del successo. Anne Sexton nasce nel 1928 a Newton, nel Massachusetts, e trascorre l’infanzia poco lontano, a Wellesley. Il perbenismo puritano di una famiglia borghese e benestante con il quale viene educata provoca nella giovane Anne insofferenza, che esprime comportandosi da studentessa mediocre e non conseguendo, nonostante alcuni corsi universitari, la laurea. L’adolescente, magra e complessata, diventa una ragazza dallo sguardo intenso e dal corpo appariscente. Per un breve periodo svolge la professione di modella e intanto inizia le prime esperienze di scrittura, che presto interrompe scoraggiata dal severo giudizio della madre. Dopo diverse avventure sentimentali si lega a Alfred M. Sexton III, “Kayo”, uno studente universitario. Dopo una fuga d’amore lo sposa all’insaputa dei genitori. La vita coniugale per la giovane coppia sposi è densa di difficoltà, non ultime quelle economiche, e Anne accusa i primi segni di squilibrio mentale, destinati a peggiorare con la nascita della primogenita. Da qual momento in poi le crisi, i ricoveri in cliniche psichiatriche e i falliti tentativi di suicidio si susseguono. A questo punto nella vita di Anne Sexton fa la comparsa la poesia usata come terapia, dietro consiglio del suo psicoanalista, al quale si lega morbosamente, come a tutti coloro che le staranno vicino. Insieme a Sylvia Plath e George Starbuck frequenta un corso di scrittura creativa condotto da Robert Lowell e nel frattempo riceve i primi riconoscimenti per le poesie che pubblica su varie riviste letterarie. Nel 1960 giunge alla prima raccolta, TO BEDLAM AND PART WAY BACK; ne seguiranno altre otto, di cui due postume. La vita privata della Sexton continua a essere segnata da problemi familiari, da tentativi di suicidio e altrettanti ricoveri; mentre la poetessa viene insignita di premi letterari, tra cui il Pulitzer (per la raccolta LIVE OR DIE), ottiene la Cattedra di Poesia alla Boston University e diventa “fellow” della “Royal Society of Literature” di Londra. I successi letterari, l’amore per le due figlie, le diverse relazioni che intreccia durante il matrimonio e dopo il suo fallimento e le amicizie non riescono a legarla alla vita. Fallimentare anche la ricerca religiosa: “Need is not quite belief”. (“With Mercy for the Greedy” ALL MY PRETTY ONES). Negli ultimi mesi della sua vita la Sexton ordina coscienziosamente le sue carte, scrive lettere ai familiari, quindi indica per iscritto le sue ultime volontà. In una giornata d’ottobre del 1974, si chiude dentro al garage di casa a Weston, un sobborgo di Boston, sale in macchina e dopo aver chiuso i finestrini, mette in moto. Il suo cadavere viene scoperto il 4 ottobre, quando il motore della macchina è ancora acceso. Il palindromo “RATS LIVE ON NO EVIL STAR”, letto sulla parete di un granaio dal poeta americano CONRAD AIKEN e che Anne Sexton desiderava fosse posto come epigrafe sulla sua tomba, getta un’ultima luce sull’intima sofferenza che l’ha condotta al suicidio: il ratto, figlio di un pianeta in sé buono, è il solo responsabile della sua natura repellente. La poesia di Anne Sexton segna l’apice della linearità dello stile e del personalismo nel panorama della “Confessional Poetry”, ma oggi essa come quella di Sylvia Plath e John Berryman, è soprattutto simbolica del dramma esistenziale di un’intera generazione che ha perso le certezze tradizionali senza trovarne di nuove e, con la psicoanalisi, tutte le difese e le maschere della razionalità. La poesia viene indicata alla Dexton come terapia dal suo analista durante il primo ricovero in una clinica psichiatrica. Diventano così temi ricorrenti la vita e la morte, la pazzia, la maternità fallita, le incomprensioni famigliari, l’amore evanescente e infedele, l’assenza di ideali e di fede. Il valore terapeutico risiede negli aspetti tecnici della scrittura, che all’inizio della sua carriera riescono a esorcizzare i fantasmi di un sottosuolo sondato senza infingimenti. La Sexton sembra essere ossessionata dall’uso di una rima e di una metrica complessa, dall’elaborazione di un tema conduttore lungo l’intera raccolta, dai minuziosi richiami letterari, a cui spesso si aggiungono inserti di filastrocche o infantili nonsense. Per lei l’essenziale è controllare il disordine e ricavare un significato dalla confusione mentale di una donna che pensa e parla come “la casalinga folle” attraverso quel rituale della forma, quelle “figure the poem makes” che Robert Frost vedeva compiersi nella distanza tra autore e lettore. La forma poetica più usata è il monologo, caratterizzato da un tono anedottico, o meglio narrativo. Le metafore, che la Sexton riteneva il cuore dei suoi versi, nascono dalla profondità della mente, intimo intreccio tra immaginazione e inconscio; l’uso del linguaggio parlato, del vernacolo, e a volte dello slang della gente di colore, delle vittime, completa quel disegno che doveva tramutare lo strazio in canzone, la malattia in salute, la schiavitù in libertà. Ma via via la ricerca formale diventa più debole e la pagina si va liberando di ogni protezione, mentre la psiche-naufrago sente svanita la speranza di guadagnare la riva. La sintassi si fa elementare, la forma e lo stile casuali, il verso si assimila alla prosa e le affilate metafore sono libere di assalire una Sexton incapace di dominare, con parole e tecniche poetiche, i suoi demoni: sono ormai loro a manovrare i fili intrecciati dell’arte e della vita. Tra gli scrittori della “Confessional School” la Sexton si distingue per il forte interesse verso la forma, la rima, il ritmo e soprattutto verso un linguaggio colloquiale e metaforico. Lo testimoniano le numerose interviste sull’argomento, delle quali seguono i passi più significativi in traduzione tratte da NO EVIL STAR (Selected Essays, Interviews, and Prose) University of Michigan Press, 1985. “Mi ha aiutato (Lowell) a non fidarmi della facile frase musicale e a ricercare la franchezza del linguaggio comune. Non mi ha insegnato quello che dovevo mettere nella poesia, ma quello che dovevo omettere. Quello che mi ha insegnato è il senso dello stile. Forse è l’unica cosa che può imparare un poeta”. Il contenuto domina, ma lo stile è supremo… La forma è sempre importante… Il verso deve soddisfare l’occhio… Gioco con la rima, e poi a volte faccio un tipo di impossibile calcolo sillabico se riesco a indovinare il primo verso e mi sembra quello giusto, allora è probabile che continui per altri quattro versi, poi è probabile che cambi poiché sento che è necessario trovare un nuovo ritmo… Usare la forma è come liberare una mandria di animali selvatici in un’arena… la gabbia adatta e quella gabbia non è altro che la forma. “Scrivo storielle di vita per come la vedo. Come disse una volta un critico letterario, mi si può considerare matta per le metafore. Io riesco facilmente con forme severe che si differenziano da poesia a poesia o nelle poesie che io chiamo sciolte. Ogni qualvolta cerco la voce del componimento ne trovo una diversa”. “Vorrei essere un fotografo se la macchina fotografica funzionasse come le dita. Mi piace catturare l’istante. Una foto è una questione di attimi. È un momento fragile nel tempo. Io cerco di catturarlo con le parole”. “Sento una grande emozione di fronte alla metafora. Ne sono convinta: per me è il cuore del componimento…” “La cosa più importante è comunicare… Io comincio con un sentimento… poi si deve allargare l’orizzonte… La prossima tappa è mettere ordine… Ecco la ragione delle numerose stesure”. “Posso comporre usando qualsiasi forma. Spesso cambia in ogni sezione della poesia. La poesia è colloquiale – La poesia deve essere colloquiale”. “Devo farmi aiutare dai miei editori per la punteggiatura e a volte anche per il ritmo… Le immagini sono probabilmente la parte più importante della poesia”. Benché la Sexton non rifiutasse l’appellativo di “Confesional poet” in numerose occasioni, nel corso di diverse interviste, tenne a precisare come lei intendesse il termine e quali fossero gli obiettivi che si prefiggeva nella sua poesia. Quelle che seguono sono alcune risposte sull’argomento in traduzione tratte da NO EVIL STAR (Selected Essays, Interviews, and Prose) University of Michigan Press, 1985. “Dicono che io faccia parte della così chiamata “Confessional School”. Preferisco considerarmi una imagista che si occupa della dura e cruda realtà”. “Già dalla nascita sperimentavo il peccato e allo stesso tempo mi confessavo”. “Descrivo emozioni umane. Descrivo avvenimenti interiori, non eventi storici”. “Ebbene, penso che la mia poesia sia molto personale. Non penso di scrivere componimenti di ordinaria amministrazione. Scrivo poesie molto personali, ma spero che diventino il tema centrale della vita privata di altre persone”. “Ricerco la verità. Potrebbe essere un certo tipo di verità poetica, che non si limita solo ai fatti reali, poiché al di là di quello che succede, al di là di ogni cosa, c’è un’altra verità, una vita segreta”. “Trasformiamo i dissidi con gli altri in retorica; quelli con noi stessi in poesia”. (Citando Kafka) “Un libro dovrebbe servire come una scure contro il nostro mare interno di ghiaccio”. (Per il suo tipo di poesia) “… Indubbiamente i Puritani m’avrebbero messa al rogo”. “Cambierei qualsiasi parola, sentimento, immagine o dramatis persona per la riuscita della poesia… Quando facevo la parte di Cristo mi sentivo come Cristo… Quel povero Cristo, quella vittima compì il più grande atto di pubblica confessione, col corpo. Io sento di fare altrettanto con le parole”. “Thomas Wolfe era o non era confessionale? Ogni poesia vuol dire terapia (ma) non si risolvono i problemi con la scrittura. Gli psichiatri mi dicevano “vedi tu hai perdonato tuo padre. L’hai scritto nei tuoi versi, bianco su nero”. Ma io non ho perdonato mio padre. Erano solo parole” “C’è intimità tra poesia e terapia”. “Se riesco a scrivere una poesia, ritrovo l’ordine e il mondo è di nuovo un po’ più tangibile, più reale. Mi sento più vicino alle cose”. “Si avverte un enorme cambiamento dopo che si scrive una poesia. È un sentimento meraviglioso, e si verifica un grande cambiamento nella psiche, ma prima di scrivere e durante il componimento ci si trova in totale confusione e poi tirarsi fuori incolume è in un certo qual modo un miracolo, che dura un paio di giorni; dopodiché tutto ricomincia”. “Ci sono avvertimenti durante tutto il percorso (della poesia confessionale). “I bambini attraversino ma con cautela”. Il pericolo è l’agghiacciante orrore che ci aspetta nella risposta”. “Parlavamo di morte (la Sexton e Sylvia Plath) con intensità infernale, entrambi calamitate dalla fine come libellule da lampadine accese… Ho letto che mi ha attribuito un merito in un programma della BBC, il merito di aver influenzato la sua poesia… Ha attribuito a me e a Lowell il merito di aver aperto un varco nel campo della poesia autobiografica. Suppongo che le abbiamo mostrato come osare – osare di dire tutta la verità”. Anne Sexton scrisse nove raccolte di poesie, due delle quali furono pubblicate postume. Segue in grandi linee una traccia degli argomenti e delle tecniche che le caratterizzano. TO BEDLAM and PART WAY BACK: Primo esempio di poesia come terapia. La Sexton affronta argomenti come il suicidio, la malattia mentale, i sentimenti di odio e d’amore verso i familiari. La raccolta segue un filo conduttore: le vicissitudini della protagonista, che dalla follia si avvia verso la normalità. L’efficace linguaggio è metaforico e colloquiale. L’autrice esercita un pieno controllo formale. ALL MY PRETTY ONES: Continua i temi della prima raccolta con particolare attenzione al difficile rapporto con i familiari e alle cause della follia. La forma è attentamente sorvegliata, la lingua colloquiale. In qualche poesia viene sperimentata IX la forma libera. LIVE OR DIE: È un diario intimo in versi che documenta la volontà della protagonista di farla finita e la decisione in extremis, nell’ultima poesia, di continuare a vivere. Poesia sofferta, rigorosa, ferocemente franca e metaforica. Per questa raccolta la Sexton ricevette il Pulitzer. LOVE POEMS: Esprime la maturità poetica della Sexton. Poesia che celebra il corpo non più cella, ma casa aperta, che afferma il potere dell’amore, il suo carico di gioia piuttosto che la tristezza della disillusione; amore sensuale, ma che va al di là del sesso: “la carezza è il mio modo di avvertire Dio dappertutto”. (With Gregory Fitz Gerald, Massachusetts Review 19 (1978)). La raccolta è caratterizzata dalla forma libera nella prima parte e da una tecnica rigorosa, nella seconda parte, in un’unica poesia in diciotto sezioni. Il linguaggio, anche se mai banale, è quello della lingua parlata. TRANSFORMATIONS: Le poesie-racconto di questa raccolta sono un’interpretazione delle favole dei fratelli Grimm che trova la sua forma in un linguaggio lirico ricco di slang intessuto di metafore e sottilmente ironico. La voce è quella di una Sexton divertita, inquieta e inquietante, che gioca col terrore per esorcizzarlo, sebbene sia cosciente dell’impossibilità di poterlo fare fino in fondo. THE BOOK of FOLLY: Poesia prepotentemente musicale. Segna un ritorno alle sofferenze di una follia galoppante. La sezione “The Jesus Papers” è un misto di devota e blasfema religiosità, una lotta tra il dubbio e la necessità di credere in qualcosa. THE DEATH NOTEBOOKS: La morte è il sofferto tema della raccolta. L’epigrafe introduttiva “Look, you con man, make a living out of your death” – autore ne è Ernest Hemingway – (Epigrafe per la raccolta The Death Notebooks) è indicativa della convinzione della Sexton che anche un argomento come la morte possa essere trasformato dalla poesia in uno strumento di vita. Una parte del libro è dedicata alla ricerca di un Dio temuto, che sembra aver abbandonato l’uomo. La musicalità del linguaggio filtra attraverso un attento controllo degli strumenti tecnici. THE AWFUL ROWING TOWARD GOD: (pubblicato postumo) Ricerca personale di un Dio umanizzato da parte di una protagonista che possiede una fede poco ortodossa e che non nega I dubbi e le difficoltà di approdare al Regno dei Cieli. Il linguaggio volutamente semplice rivela senza trucchi letterari un disperato e inappagato desiderio d’amore e la primordiale paura della morte e del male. 45 MERCY STREET: (pubblicato postumo) È un ritorno all’introspezione delle prime raccolte. La Sexton confessa le dolorose esperienze degli ultimi anni di vita: divorzio, disperazione, necessità di ritrovare l’amore, rabbia. In alcune liriche, per la prima volta, l’autrice sembra più direttamente interessata ai problemi sociali, come la distruttiva influenza del denaro nella vita americana. La maggior parte della raccolta è in versi liberi. BIBLIOGRAFIA OPERE POETICHE DI ANNE SEXTON TO BEDLAM AND PART WAY BACK (1960), Houghton Mifflin, Co., Boston. ALL MY PRETTY ONES (1961), Houghton Mifflin, Co., Boston. LIVE OR DIE (1966), Houghton Mifflin, Co., Boston. LOVE POEMS (1967), Houghton Mifflin, Co., Boston. TRANSFORMATIONS (1971), Houghton Mifflin, Co., Boston. THE BOOK OF FOLLY (1972), Houghton Mifflin, Co., Boston. THE DEATH NOTEBOOKS (1974), Houghton Mifflin, Co., Boston. THE AWFUL ROWING TOWARD GOD (1975), Houghton Mifflin, Co., Boston. 45 MERCY STREET (1976), Houghton Mifflin, Co., Boston. ALCUNI SAGGI, RACCONTI E LETTERE CLASSROOM AT BOSTON UNIVERSITY THE BAR FLY OUGHT TO SING COMMENT ON “SOME FOREIGN LETTERS” THE LAST BELIEVER ALL GOD’S CHILDREN NEED RADIOS THE FREAK SHOW Tutti raccolti nella pubblicazione NO EVIL STAR (1985), The University of Michigan Press, Ann Arbor. ALCUNI STUDI SU ANNE SEXTON STEVEN E. COLBURN, NO EVIL STAR (1985), The University of Michigan Press, Ann Arbor. A. R. JONES, NECESSITY AND FREEDOM, Critical Quarterly, Spring 1965. PAUL A. LACEY, THE SACRAMENT OF CONFESSION, Fortreas Press, Philadelphia, 1972 JAMES DICKEY, FIVE FIRST BOOKS, Poetry, Chicago, Feb. MAY SWENSON, Feb. 23, 1963 THE POETRY OF THREE WOMEN, Nation, New York, PHILIP LEGLER, O YELLOW EYE, Poetry, Chicago, May 1967. RICHARD HOWARD, SOME TRIBAL FEMALE WHO IS KNOWN BUT FORBIDDEN. Atheneum, New York, 1969 ROSALIE MURPHY, SEXTON, St. Jas Press, Chicago, 1970 NEW YORK QUARTERLY, CRAFT INTERVIEW WITH ANNE SEXTON, N.Y.Q., New York, Summer 1970 WILLIAM P. 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La voltai e il palmo era raggrinzito, le linee della vita come un delicato mezzopunto imbastito fino alle dita. Era carnosa e soffice e illeggibile a tratti. Del tutto vulnerabile. E tutto questo è metafora. Una mano normale – solo bisognosa di una carezza che reciprochi carezza. Non lo farà la cagna. La coda le scodinzola nella palude puntando il rospo. Io non valgo più di una confezione di mangime per cani. Non lo faranno le mie sorelle. Vivono a scuola salvo per i bottoni e per le lacrime che scorrono come limonata a casa. Mio padre non lo farà. È in dotazione alla casa e anche di notte vive nel meccanismo inventato dalla mamma e ben lubrificato dal carico di lavoro. L’inconveniente è che io avevo acconsentito che si congelassero i gesti. Il guasto non era in cucina o tra i tulipani ma soltanto in testa, in testa. Poi tutto passò alla storia. La tua mano trovò la mia. La vita mi fluì alle dita come un embolo. Oh, mio falegname, le dita si rigenerano. Ballano assieme alle tue. Ballano nell’attico e a Vienna. La mia mano è vitale in tutta l’America. Neanche la morte la fermerà, la morte che sparge il proprio sangue. Niente la fermerà, poiché questo è il regno e il regno che verrà. La bocca mi sboccia come un taglio. M’hanno fatto torto tutto l’anno, notti fastidiose, piene di nient’altro che gomiti ruvidi e morbidi pacchi di kleenex a ingiuriarmi piagnucolona piagnucolona, o sciocca! Prima d’oggi il mio corpo non serviva a niente. Adesso si strappa proprio agli angoli. Strappa le vesti di vecchia Maria, nodo dopo nodo e ammira – Adesso è scosso da queste saette elettriche. Zing! Che risurrezione! Un tempo era una barca molto pesante e fuori uso, senz’acqua salata sottoventre e bisognosa di colore. Non era altro che un insieme di assi. Ma tu la issasti, la armasti. È stata eletta. Ho i nervi tesi. Li sento come strumenti musicali. Là dove c’era il silenzio i timpani, le corde vibrano irrimediabilmente. L’hai fatto tu questo. vero genio all’opera. Tesoro, il compositore s’è inoltrato nel fuoco. Questa è la chiave. Questa è la chiave di ogni cosa. Così preziosa. Sono più puntigliosa dei figli del guardiacaccia, che beccano briciole e polvere. Da te racimolo profumo. Lasciami scivolare sul scendiletto, sul pagliericcio – ovunque poiché il bambino in me muore, muore. Non è che io sia bestiame da consumare. Non è che io sia una specie di via. Ma le tue mani m’hanno tracciata come un architetto. Caraffa stracolma di latte! Ti appartenne anni fa quando vivevo nella valle delle ossa, ossa esanime nella palude. Miei piccoli ninnoli. Un silofono forse coperto maldestramente di pelle. Solo in seguito divenne qualcosa di reale. Poi mi confrontavo con le misure delle dive. Perdevo. Qualcosa tra le spalle c’era. Ma mai abbastanza. Sicuro, c’era un prato, ma mai senza giovani che cantassero la verità. Niente con cui misurare la verità. Inesperta di uomini giacevo accanto alle sorelle e risorgendo dalle ceneri gridavo il mio sesso sarà trafitto! Adesso ti sono madre, figlia, nuovissima cosa – lumaca, nido. Sono viva quando lo sono le tue dita. Indosso seta – il velo per svelare – perché seta è quello che desidero che tu pensi. Ma detesto il tessuto. È troppo austero. Quindi dimmi ciò che vuoi ma percorrimi come fossi scalatore poiché qui è l’occhio, qui è la gemma, qui è l’eccitamento che il capezzolo coglie. Sono sbilanciata – ma non sono folle di neve. Sono folle come le adolescenti sono folli, bramante vittima sacrificale… Ardo come ardono le banconote. Chi è colei, colei che abbracci? È colei che m’accolse le ossa e edificò casa che era solo branda e edificò la vita di oltre un’ora e edificò il castello dove nessuno dimora e edificò, infine, la canzone adatta alla cerimonia. Perché l’hai portata qui? Perché bussi alla porta Con motivetti e storielle? Mi ero unito a lei come l’uomo si unisce alla donna e tuttavia erano fuori luogo festeggiamenti e cerimonie e queste cose contano per la donna e, vedi, viviamo in clima gelido ed era vietato baciarsi per strada così inventai la canzone che non era vera. Inventai la canzone Matrimonio. Tu arrivi da me adultero e inciampi sul gradino della veranda e mi chiedi di giudicare tali cose? Mai e poi mai. Non mi è consorte scelta. Mi è strega in carne, l’inforcatura, giumenta, la madre delle lacrime, stracolma sottana d’inferno, il marchio delle pene, il marchio dei lividi e anche i figli che potrebbe concepire e anche il posto appartato, il corpo di ossa che sinceramente comprerei, potessi comprarlo, che sposerei, potessi sposarlo. E io dovrei tormentarti per questo? A ogni uomo è assegnato un minuscolo destino e il tuo è passionale. Ma io mi tormento. Non abbiamo dimora. La branda che spartiamo è quasi una cella e non riesco a dire ranuncolo, doliconice, tesoruccio, popona, segnalibro, bijou, valentino, mia estate, buffoncella e tutte quelle sciocchezze si dicono a letto. Dire che ho dormito con lei non basta. Non l’ho solo portata a letto. L’ho legata col nodo. Allora perché infili le mani in tasca? Perché strascichi i piedi come uno scolaretto? Per anni ho stretto questo nodo nei sogni. Ho oltrepassato una porta in sogno e lei m’aspettava nel grembiule di mia madre. Una volta s’arrampicò sulla finestra a toppa e portava i pantaloni di velluto rosa di mia figlia e ogni volta legavo queste donne col nodo. Una volta venne la regina. Legai anche lei. Ma l’odierna l’ho davvero legata e l’ho appena fatta digiunare. La stordivo cantando. La coglievo spossata. La stendevo con la canzone. Non v’era suite per il numero. Non v’era camera nuziale che bastasse. Il chiodo fisso il nodo. Il nodo a letto. Così imposi le mani su di lei e mi appropriai degli occhi e della bocca, e anche della lingua. Perché mi chiedi di fare delle scelte? Non sono giudice o psicologo. Ti appartiene il nodo a letto. E tuttavia io trascorro giorni e notti vere tra bambini e balconi e una buona moglie. Così ho legato questi altri nodi, ma preferirei non pensarci quando di lei ti parlo. Non adesso. Se fosse stanza d’affittare pagherei. Se fosse vita da salvare la salverei. Forse sono Mister Millecuori. Mister Millecuori? Perché allora tremi sulla soglia della mia porta? Mister Millecuori di me non ha bisogno. Sono tutto preso nella tinta ch’emana. Mi sono lasciato sorprendere con le mani nel sacco, sorprendere durante i bollori selvatici della danza sfrenata per la giumenta, la colomba, per il corpo che curo. Potrebbero asserire che io tenga serpenti negli stivali ma credimi una sola volta sono stato nelle staffe, solo una volta, questa volta, nella coppa. L’amore della donna è nella canzone. La chiamai la donna in rosso. La chiamai la donna in rosa ma era dieci colori e dieci donne. A malapena riuscivo a nominarla. So chi è. L’hai nominata abbastanza. Forse non avrei dovuto adoperare parole. Francamente, penso di pagare le conseguenze di questo amoreggiare, ubriaco come un pifferaio, scalciando ogni segno di ripensamento e deciso a legarla per sempre. Vedi la canzone è la vita, la vita che non posso vivere. Dio, anche mentre cammina, tramanda monogamia come gergo. Volevo scolpirla nella legge. Ma, sai bene che tale legge non è contemplata. Mister Millecuori, sei uno sciocco! Il trifoglio ha fruttato spine quest’anno e ha sottratto al bestiame i frutti e i sassi del fiume hanno succhiato a secco gli occhi degli uomini, una stagione dopo l’altra, e ogni letto è stato messo al bando, non dalla moralità o dalla legge, ma dal tempo. Questa è la scrivania dove siedo e questa è la scrivania da dove ti straamo in eccesso e questa è la macchina da scrivere che m’assedia mentre ieri solo il tuo corpo m’assediava con le spalle raccolte a coro greco, con la lingua di re che inventa regole mentre procede, con la lingua che spudoratamente gatto lappa latte, con la lingua – noi due coinvolti in linfa sdrucciolevole. Quel giorno era ieri. Quello fu il giorno della lingua, lingua che usciva dalle labbra, due spartilabbra, metà belva, metà volatile intrappolati nell’androne del tuo cuore. Quello fu il giorno che ubbidivo alle procedure del re, percorrendo le vene rosse e le vene blu, le mie mani lungo la schiena, a piombo come il palo, mani tra le gambe dove sfoggi l’intima sapienza, dove miniere di diamanti sono sepolte e emergono per seppellire, emergono più improvvisamente della cittadina ricostruita. È completo in attimi, il monumento. Il sangue scorre sottoterra eppure genera la torre. La folla si dovrebbe radunare per tale costruzione. Per il miracolo si fa la fila e si tirano coriandoli. Non v’è dubbio che la stampa sia qui a caccia di notizie. Non v’è dubbio che qualcuno debba portare lo striscione sul marciapiede. Se si costruisce il ponte il sindaco non taglia il nastro? Se si manifesta il fenomeno non dovrebbero i Magi portare doni? Ieri fu il giorno che portai doni per doti e giunsi dalla valle per affrontarti sul pavimento. Quel giorno era ieri. Quello fu il giorno del viso, viso dopo l’amore, ridosso al cuscino, una ninna nanna. Mentre insonnolito accanto mi lasciavi fermare la vecchia sedia a dondolo i respiri si unirono, si unirono nel respiro di neonato, mentre le mie dita tracciavano piccole o sugli occhi chiusi, mentre tracciavo TI AMO sul petto e sul tamburo e sussurravo, “Sveglia!” e tu mormoravi nel sonno, “Silenzio. Procediamo verso Cape Cod. Siamo diretti a Bourne Bridge. Stiamo circumnavigando il Bourne Circle.” Meta! Poi ti riconoscevo nel sogno e imploravo allora che io fossi trafitta e che tu in me potessi mettere radici e che io potessi portare alla luce la tua creatura, potessi partorire te o il respiro nella piccola dimora. Ieri non volevo essere presa a prestito ma questa è la macchina da scrivere che m’assedia e l’amore è dov’è quel ieri. Chi risiede in quest’essere è volatile. Vibro ogni penna d’ala. Volevano estirparti ma non lo permetterò. Dicevano che eri incommensurabilmente vuoto ma non è vero. Dicevano che eri sul punto di morte ma sbagliavano. Tu canti da scolaretta. Tu non sei lacerato. Dolce peso, nella celebrazione della donna che sono e dell’anima di donna che sono e della creatura nucleare in letizia io canto per te. Io oso esistere. Salva, anima. Salve, coppa. Serrati, riparo. Riparo che si racchiude. Salve al suolo dei campi. Benvenute, radici. Ogni cellula gode di vita. Tanta da compiacerne una nazione. È tanto che la popolazione possieda tali beni. Qualsiasi cittadino, qualsiasi comunità ne direbbe, “È una benedizione poter ripiantare quest’anno e pensare al prossimo raccolto. La carestia che era stata predetta è stata scongiurata”. Molte donne ne cantano in coro: una è nella fabbrica di scarpe e maledice le macchine, una è nell’acquario a prendersi cura di una foca, una è impassibile al volante della sua Ford, una fa la cassiera al casello dell’autostrada, una lega il cordone ombelicale di un vitello in Arizona, una tiene tra le gambe un violoncello in Russia, una sposta pignatte sul fuoco in Egitto, una dipinge i muri della sua camera color di luna, una muore col ricordo della prima colazione, una si stira sulla stuoia in Tailandia, una pulisce il culetto del suo bambino, una guarda fisso fuori dal finestrino del treno nel cuore del Wyoming e una è in un posto qualsiasi e alcune sono dappertutto e tutte sembrano cantare, anche se alcuni non ne sanno una nota. Dolce peso, nella celebrazione della donna che sono fammi sventolare un foulard di tre metri, fammi radunare i diciannovenni a rullo di tamburo, fammi agitare le coppe per l’obolo (se questa è la parte che mi tocca). Fammi studiare il tessuto cardiovascolare, fammi esaminare la distanza angolare delle meteoriti, fammi succhiare lo stelo dei fiori (se questa è la parte che mi tocca). Fammi mimare certe mosse tribali (se questa è la parte che mi tocca). Per questa cosa che al corpo abbisogna fammi cantare per la cena, per i baci per il sacrosanto si. Sulla sponda sud occidentale di Capri trovammo una piccola grotta sconosciuta deserta e la penetrammo fino in fondo permettendo al corpo di disperdere ogni solitudine. Tutti i pesci che albergavamo in noi avevano preso il largo per un istante. Ai pesci resistenti non rincrebbe. Non disturbavamo la loro intimità. Cautamente li seguivamo sopra e sotto, effondendo bollicine d’aria, palloncini bianchi che risalivano al sole accanto alla barca dove il barcaiolo italiano dormiva con il cappello sul viso. Acqua così cristallina che si poteva leggere un libro. Acqua così salina che si poteva galleggiare sul gomito. Mi stendevo sopra come sul divano. Mi stendevo sopra proprio come la Rossa Odalisque di Matisse. L’acqua faceva da fiore esotico. S’immagini la donna senza toga o scialle su una ottomana sepolcro profonda le pareti di quella grotta sapevano di infinite sfumature di blu e tu dicevi “Guarda! Hai gli occhi color mare. Guarda! Hai gli occhi color cielo.” E gli occhi mi si serravano come se improvvisamente provassero vergogna. No. non proprio rossa, ma il colore di una rosa quando sanguina. È il fenicottero smarrito, chiamato chissà dove Rosa Schiapparelli ma non intendo rosa, piuttosto sangue e quei cuoricini di cannella delle confetterie. S’agita come mulete negli immacolati villaggi di Spagna. Intendo strato di fuoco e sotto petalo, un’elitra rosa, liscia ciottolo. Quindi intendo la camicia da notte a due colori e a due strati che fluttuano dalle spalle lungo tutti gli anfratti. Per anni la libellula li ha bramati ma questi colori sono assediati dal silenzio e da belve, seminascoste ma brucanti. Si potrebbe pensare a delle piume e senza per niente rendersene conto. Si potrebbe pensare alle prostitute e non immaginare il portamento del cigno. Si potrebbe immaginare la lanugine dell’ape accarezzare la peluria così vicino al dunque. Il letto è devastato da tali estasianti immagini. Lo è pure la fanciulla e la fanciulla emerge dalla camicia da notte e dal colore le ali fisse alle spalle come cerotti. La farfalla la possiede adesso. La copre incluse le ferite semischiuse. Non è atterrita da begonie o da telegrammi ma sicuramente questa fanciulla in camicia da notte, questo straordinario aviatore, non s’è accorta come la luna le fluttui in mezzo e attraverso. Oggi è il giorno che ci imbarcarono l’estate in due casse e stasera è la notte delle streghe e oggi mi dici che le foglie di quercia davanti la finestra del tuo ufficio sopravviveranno all’inverno del New England. Allora l’amore è fermo alla scorsa estate. Sebbene non avessi mai maneggiato il fucile, l’amore giaceva sotto la tenda, immerso nella foresta della Tanzania. Sebbene portassi solo la kodak l’amore veniva dopo la doppietta, dopo la cacciagione, dopo i martini e dopo i piatti di cacciagione. Mentre Saedi, ex cannibale, serviva da sinistra in toga bianca e fez rosso, io rigurgitavo dietro la tenda da pranzo. L’amore fisso dove la iena rideva nel bel mezzo di chissà dove salvo l’equatore. L’amore! Ma oggi il fido cane è gonfio dello spettro di cane morto e zoppica su tre gambe, tenendo la zampa in rigor mortis per aria. Sebbene la casa sia stracola di tavolette di cioccolato lo spettro deperito dei miei genitori fruga il buco della serratura, struscia la colonna del letto. Così lo spettro di tuo padre, che rimase ucciso sul colpo. Stasera litigheremo e urleremo, “La mia perdita supera la tua! Il mio strazio è incommensurabile!” Oggi ci hanno imbarcato l’estate in due casse imballate in carta cerata marrone e cucite in tela di iuta. La prima cassa contiene gli effetti personali, giubbe intrise di sudore, stivali pesanti dalla fortezza del SANTISSIMO MORMACRIO via Mombassa, Dar es Salaam, Tanga, Lourence Marques e Zanzibar, attraverso dogane assieme all’altra merce: sisal biondo-cenere a coda di cavallo, e lacci sfilati, balle di lana grezza dalle aste di Cape Town e qualcos’altro. Ossa! Ossa ammucchiate come carbone, ossa di animali a forma di palline da golf, matite dita e nasi. Oh nazista caro, con l’occhio turchino da S. S. – Non sono diversa da Emily Goering. Emily Goering ha recentemente detto che credeva che i campi di concentramento fossero per la rieducazione di giudei e comunisti. Credulona! Finora i continenti resistono sul mappamondo ma c’è sempre quel nuovo dispositivo. L’altra cassa che ci appartiene è funebre. Ossa e pelli della stiva N. 1 diretta a New York per conciatura e montaggio. Non tocchiamo questi teschi da quel venerdì ad Arusha dove i teschi giacevano penosamente accanto la Land Rover, le mosche che suggevano ancora le orbite, tutte in fila, cranio dopo cranio, accanto all’avorio che vale più della vita. Il teschio dello gnu, il teschio dell’antilope alcina, il teschio della gazzella Grant, il teschio della gazzella Thompson, il teschio dell’impala e il teschio dell’antilope sudafricana, senza sosta verso New York con le pelli di zebre e leopardi. E stasera la pelle, le ossa, che sono sopravvissute ai nostri padri, si congiungeranno, teneramente nella stretta, avvinghiate in morsa intricata. Allora uno di noi urlerà, “Ne ho disperatamente più bisogno io!” e io ti divorerò lentamente di baci sebbene l’assassini in te sia ormai evaso. È là tutta intera. Ti fu colata accuratamente ti fu fusa dall’infanzia, fusa dalle cento biglie preferite. È sempre stata là, tesoro mio. È, difatti, perfetta. Fuochi d’artificio nella metà noiosa di febbraio e tangibile pentola di ghisa. Bisogna riconoscerlo, sono stata passeggera. Lusso. Corvetta rosso vivo in porto. I capelli sciolti come fumo fuori dal finestrino d’auto. Vongole novizie fuori stagione. Lei è di più. Ti è indispensabile, ha accresciuto la strumentale la tropicale crescita. Nessun esperimento. È armonia pura. Ha curato i remi e gli scalmi della lancia, ha riposto fiori selvatici alla finestra a colazione, si è seduta accanto al tornio del vasaio a mezzogiorno, ha partorito tre bimbi sotto l’occhio della luna, tre putti disegnati da Michelangelo, l’ha fatto a gambe divaricate in quei mesi raccapriccianti nella cappella. Se alzi gli occhi, i bimbi sono là come delicati palloncini che riposano sul soffitto. Li ha anche portati in braccio uno per uno giù per il corridoio dopo cena, le teste piegate in basso, due gambette che fanno resistenza, recalcitranti il viso avvampato dalla canzone e dal sonno che tarda. Ti restituisco il cuore. Hai il lasciapassare – per la miccia interna, fremente rabbiosamente nel fango, per la cagna che cova e la sepoltura della ferita – per la sepoltura della piccola ferita pulsante – per la fioca fiamma tremolante sotto le costole, per il marinaio ubriaco appostato sul polso sinistro, per il grembo di madre, per le calze di nylon, per il reggicalze, per il richiamo – il malizioso richiamo quando t’inforrerai in braccia e mammelle e tirerai il fiocco arancione dai capelli e ubbidirai al richiamo, il malizioso richiamo. È così nuda e sublime. È la somma di te stesso e del sogno. Scalala come fosse monumento, gradino dopo gradino. È solida. Quanto a me, sono l’acquarello e sono lavabile. Fu anche il turbolento cuore a fratturarsi, cadendo dalle scale dell’androne. Fu anche il messaggio che mai pronunciai a urlare, risveglio dopo risveglio, di te chi se ne infischia, chi se ne infischia, l’averti frantumato l’anca di semplice cristallo, il gambo e anche il calice. Esplodevo nel corridoio come canna di pistola. Così crollavo. Così per intero mi disfacevo. Si. Ero la confezione di ossi per cani. Ma adesso m’hanno avvolta monaca. Fatto saltare come petardi! Sorretta come sassi! Quale prodezza fluttuare follemente come Icaro finché la tempesta non mi disfaceva e mi frantumavo. I barellieri si davano un gran daffare. Ma quando imploravo, “Un istante mi manca il coraggio!” fumavano e poi mi riponevano, mi legavano sulla lettiga, e mi spingevano dentro il sarcofago, il nido. A rilento la sirena, a rilento il carro funebre, passo pacato di vecchietta. Al P. S. mi tagliavano la veste. Imploravo, “Oh Gesù, aiutami! Oh Gesù Cristo” e l’infermiera replicava, “Nome errato. Mi chiamo Barbara”, e mi appendeva allo strano congegno, all’amaca a corna di daino e al telaio balcanico aereo. L’ortopedico dichiarava, “Un anno a letto.” Che scoop. Che novità. Incideva la cute. Raschiava. Raffilava e trapanava l’osso per viti di quattro pollici. Occorre forza brutale come quella per spingere mucche in salita. Vi assicuro, occorre destrezza e charme da capezzale e tutto quel saper fare. Il corpo è una cosa dannatamente difficile da uccidere. Ma vi prego non toccatemi e non scuotetemi il letto. Sono la consorte di Ethan From. Mi sposterò quando sarò in grado. Il televisore incombe dal muro come il trofeo d’alce. Tengo nascosta la pinta di bourbon nel comodino. Volatile tutt’ossa, ora mi sostiene il peso di sabbia. La frattura era duplice. La frattura era doppia. I giorni sono orizzontali. I giorni sono noia. L’intera ossatura annaspa. Oltre il corridoio è il deposito delle padelle. L’orina e gli escrementi mi passano continuamente sotto il naso in vassoi d’argento. Si sterilizzano all’unisono nell’autoclave. Le mie dodici rose sono morte. Hanno cessato di mestruare. Penzolano là come piccoli emboli secchi. È pure il cuore, quello sciancato, come cantava una volta. Come credeva di contare! Cerca di capire quello che successe il giorno della caduta. Il cuore aveva balbettato e bramato il banchetto nuziale finché l’angelo dell’inferno non mi mutò in castigatore, in acrobata. Le ossa sono allentate come vecchie mollette, abbandonate come bambole in negozi di balocchi e il cuore, vecchio motore bramoso, con i peccati su di giri come l’autopompa che non voleva fermarsi. E adesso passo il tempo a prendermi cura del corpo, quel pargoletto. Il carico è segnato. Consacro la padella. Mi spazzolo i capelli, in attesa che le ossa si solidifichino, nella macchina del dolore quelle delicatissime ossa che erano state spaiate e poi riavvitate. Si salderanno. E l’altra carcassa, quel cuore infranto, lo imbocco, il piccolo calice, lo coccolo. Tuttavia l’allarme antincendio pazienta per essere riconosciuto. È inserito. È il deposito di colori. Durante la prigionia del corpo, solo le cellule del cuore si sono riprodotte. Le ossa sono semplicemente annoiate da tutto questo attendere. Ma il cuore, questo figlio di me stessa che risiede nella carne, questo autentico marchio dell’essere, l’origine della cecità e del sonno, prepara il presepe di morte. Le statuine sono poste intorno la fossa delle ossa. Tutte le statuine convinte che è la morte altrui lo scopo della venuta. Ogni statuina appartata. E il cuore scoppiava d’amore e annaspava. Questo paesino, questa piccola nazione è reale e così lo sono il gambo e il calice e così anche il turbolento cuore. Lo zelo della dimora mi stradivora. Qui tutto è oro e smeraldo. Ascoltane la strozza, la lamina terrestre, l’osseo gracchiare asciutto dei ranocchi mentre pulsano come insegne luminose. I piccoli animali del bosco si trascinano le maschere funerarie nell’angusta tana invernale. Lo spaventapasseri si è cavato gli occhi come diamanti ed è entrato in paese. Il generale e il postino si sono tolti gli zaini. Tutto questo si ripete da sempre ma qui niente è trapassato. Qui tutto è possibile. Per questo forse la fanciulla ha deposto i panni invernali e spensieratamente si è posata sul ramo che sporge sullo stagno nel fiume. Si è riversata sul ramo a sfiorare le dimore dei pesci mentre le scivolano dentro e fuori l’immagine riflessa e su e giù le gambe gradinate. Il corpo le conduce a casa le nuvole lungo l’intero tragitto. Lei si contempla il volto fluente nel fiume dove i ciechi vengono a bagnarsi a mezzogiorno. Per questo la terra, quell’incubo invernale, si è curata le piaghe e ha germogliato volatili verdi e vitalità. Per questo gli alberi mutano negli alvei e sostengono piccoli calici tropicali con esili dita. Per questo la donna è attaccata ai fornelli a cantare e cucinare fiori. Qui tutto è oro e smeraldo. Sicuramente la primavera concederà alla fanciulla senza veli di mutare soavemente nello splendore e senza timore dell’amore. Ha già contato sette fioriture sullo specchio verdeggiante. Due fiumi le si incrociano sotto. Il viso infantile si raggrinza nell’acqua e scompare. Solo la donna risplende nella grazia felina. L’adorata cute tenace giace ai piedi dell’albero inondato. Tutto è del tutto possibile e pure ai ciechi è concesso vedere. Una volta sola seppi a cosa serviva la vita. A Boston, tutto all’improvviso, capii; camminavo lungo il Charles River, guardavo le luci che si duplicavano, tutte al neon e cuorintermittenti, che spalancavano la bocca come cantanti d’opera, contavo le stelle, mie piccole sostenitrici, mie margherite cicatrizzate, e sapevo d’accompagnare il diletto verso il lato verde della notte e riversavo il cuore alle vetture dirette a oriente e riversavo il cuore alle vetture dirette a occidente e portavo la verità attraverso il piccolo ponte arcato e affrettavo la verità, l’incanto, verso casa e facevo tesoro di queste costanti fino al mattino e solo per trovarle svanite. Dicesti che la collera sarebbe ricomparsa proprio come l’amore. Ho la cera nera che non mi piace. È maschera in prova. Me l’avvicino e il rospo mi si siede sulle labbra e defeca. È vecchio. È anche povero. Ho cercato di mantenerlo a dieta. Non gli concedo l’unzione. Oggi mi spicca la buona cera come grumo di sangue. L’ho appuntata sopra la mammella sinistra. Ne ho fatto la mia vocazione. La lussuria vi ha messo radici e io ti ho posto assieme alla tua creatura alla punta del latte. Oh la negritudine è letale e la punta del latte trabocca e ogni meccanismo è operante e io ti bacerò quando avrò sminuzzato una dozzina di maschi novelli e tu morirai più o meno, ripetutamente. È il piccolo Walden. Non geme nel letto dei sospiri quando il corpo di lui decolla e vola, vola dritto come freccia. Ma è pessima metafora. La luce del giorno è spietata. Dio entra da padrone e abbaglia con la lampada d’ottone. Ora lei si rianima. Lui riindossa le ossa riportando le lancette indietro di un’ora. Lei conosce la carne, quel pallone di pelle, le sconfinate membra, le assi, la cupola, la cupola mobile. Lui l’ha selezionata a tempo determinato. Anche voi conoscerete la storiella! Per intenderci, quando è tutto fatto la riattacca, come la cornetta del telefono, al gancio. Sono viva di notte. Sono morta al mattino, il vecchio vascello che ha consumato l’olio, smunto e scheletrico. Nessun miracolo. Nessun abbaglio. Sono irriparabile ma tu sei maestoso nell’armatura e io devo darmi una sistemata per la traversata. Sono sempre stata la zitella, vecchia e butterata. Prima che ci fosse il mondo, io sono stata. Maturo arancione e pingue, color carota, che lascia a bocca aperta, concedendo ai rauchi oh di cadere sul mare vicino Venezia e Mombasa. Sul Maine ho riposato. Sono il jet precipitato nel Pacifico. Ho commesso spergiuro sul Giappone. Ti ho dondolato il pendolo, il pingue sacco, la mia aurea, aurea luce ammiccante dappertutto. Quindi se devi chiedere fallo pure. Dopotutto non sono finta. Ti ho guardato a lungo, ventre gonfio e vuoto, scuotendo la sconfinata vetrina per te, te mio freddo, frigido freddo maschio in salopette. Devi solo richiedere e io concederò. È praticamente garantito che tu mi camminerai dentro come in una caserma. Quando vieni a velocità di crociera, riattraversami, tu dell’esplosione, tu del bastione, tu della strategia. E suggellerò la pingue pupilla, quartier generale territoriale e dimora del sogno. La fine del rapporto è sempre la morte. Ecco l’officina dove riparo. Con la pupilla sdrucciolevole fuori del cerchio tribale dell’essere ti trovo disperso in affanno. Turbo chi mi sta vicino. Sono sazia. Di notte, da sola, mi sposo il materasso. Da un dito all’altro, ora è mia. Non è troppo lontana. È scontro. La batto campana. M’inclino nel pergolato dove solevi montarla quando mi prendevi in prestito sulla coperta fiorita. Di notte, da sola, mi sposo il materasso. Prendi per esempio questa notte, amore mio, che ogni singola coppia confeziona con il mutuo capovolgimento, sotto, sopra il copioso duo su spugna e piume, inginocchiati e prementi, testa a testa. Di notte, da sola, mi sposo il materasso. Così prorompo dal corpo, irritante miracolo. Potrei mettere l’emporio dei sogni in mostra? Sono distesa. Crocifiggo. La piccola prugna la chiamavi. Di notte, da sola, mi sposo il materasso. Poi venne la rivale dagli occhi neri. La signora dell’acqua, che emerse sulla spiaggia, pianoforte sulla punta delle dita, scandalo sulle labbra e favella di flauto. E io ero invece la scopa a ginocchio valgo. Di notte, da sola, mi sposo il materasso. Ti prese come la donna prende il vestito in offerta speciale dell’appendiabito e mi frantumavo come si frantuma un sasso. Ti restituisco i libri e gli arnesi da pesca. Il giornale di oggi dice che ti sei sposato. Di notte, da sola, mi sposo il materasso. Maschi e femmine si fondono stanotte. Sbottonano camicie. Aprono chiusure lampo. Si tolgono le scarpe. Spengono le luci. Le creature traslucenti sono gonfie di menzogne. Si divorano a vicenda. Sono strasazi. Di notte, da sola, mi sposo il materasso. Amarmi senza scarpe vuol dire amare le lunghe gambe cioccolato, care delizie, piene come cucchiai, e i piedi, quei due bimbi lasciati liberi a giocare nudi. Contorte sporgenze, le dita. Non più confinate. E per di più, vedere le unghie e le giunture prensili di giunture e tutte le dieci misure, di radice in radice. Tutto animato e agitato, questo piccolo maialetto andò al mercato e questo piccolo maialetto rimase. Lunghe gambe cioccolata e lunghe dita cioccolata. Più in su, amore mio, questa donna svela segreti, piccole dimore, piccole lingue che si confessano. Non c’è nessun altro all’infuori di noi in questa casa su questa lingua di terra. il mare porta una campana nell’ombelico. E io sono la scalza servetta l’intera settimana. Ti va del salame? No. Non preferiresti uno scotch? No. Veramente tu non bevi. Di me si che t’ubriachi. I gabbiani uccidono i pesci, squittendo come piccoli dannati. Il frangente è un narcotico, che ulula sono, sono, sono tutta la lunga notte. Scalza, ti tamburino su e giù per la schiena. Al mattino corro da una porta all’altra del capanno giocando ad acchiappino. Ora m’afferri per le caviglie. Ora ti apri un varco tra le gambe e riesci a trafiggermi nel bersaglio della fame. Prendendoti in considerazione tutta la bellezza perché non dai fuoco alle suole degli scarponi e alla cartolina di precetto? Come puoi sedere impassibile dicendo sì alla guerra? Sarai un povero diavolo quando morirai, irascibile ragazzo. Cadavere, mentre io continuo a vivere allo stesso indirizzo. Oh fratello mio, perché continui a fare progetti Quando io sono alle convulsioni di cuore e mani. Su vieni a ballare il ballo, il ballo di Papà e Mamma; porta i costumi della valigia tappezzata Ile de France, S. S. Gripsholm. La custodia dell’imbracatura londinese che Papà portò all’estero e teneva in soffitta allacciata con vecchie corregge da imballaggio e la toga universitaria, nero liquirizia – quella metamorfosi col cappuccio cremisi. Ricordi che giocavamo al ballo in costume – la sposa nera nera, nero, nero lo sposo. Prendendoti in considerazione tutta la bellezza, le ore folli quando una volta ballammo sul divano strillando Papà, Papà, Papà, io in abito in tonaca da monaca e tu nero martello, un prete borghese che balzava, balzava, balzava. Oh fratello mio, Mister Pistolero, perché piangevi, inventando bestemmie per il roseo orecchio roseo di tua sorella? Prendendo la mira e poi, come al solito, essendo sincero, dicendo qualcosa di pericoloso, qualcosa macchiato d’uovo come ti amo, non tenendo conto della stanza dove ballavamo non tenendo conto del gin che ci poteva veramente invasare, e gridando Mamma, Mamma, Mamma, quella vecchia romantica storia d’amore credimi i balli che facemmo davvero bastarono, le mani sul seno e tutto quel genere di cose. Ricordi le foglie gialle quella giornata d’ottobre quando ci sposammo la capanna sull’albero e io rimasi? Ora me ne sto qui seduta a seppellirti soffitta e bellezza. Se salto sul divano te ne stai semplicemente seduto nell’ angolo e poi sbatti solo la porta. NON VUOI RICORDARE? Si, Mister Pistolero, proprio così! Non ti è la soffitta familiare? Quella stagione non ti travolge il cervello? Guerra, dici. Guerra, ti convinci. Ti prego Mister Pistolero, un ballo ancora, commentando i costumi, tenendoli al petto, dolendoti di quell’amore nero mentre t’infilavi il vestito di Papà. Così facevano Papà e Mamma. Possiamo accontentarci di meno? Visto. La lampada è riparata. Il portacenere è stato sbadatamente rotto dalla domestica. Tuttora, i palloncini che dicono amami, amami Ci fluttuano sopra sul soffitto. Le preghiere del mattino sono state recitate mentre sedevamo ginocchio contro ginocchio. Ciò merita quattro baci! E perché diamine dovrebbe infastidirci l’orologio? Rigirami dalla dodici alle sei. Così assapori un po’ d’oceano. Un giorno ti raggomitolasti nella palla di dolore, scagliato nell’angolo come scolaretto. Oh vieni col martello, il cuoio e il timone. Vieni con la punta d’ago. Prendi lo specchio delle brame e le ferite e disfale. Spegni la luce e diventeremo in tutto e per tutto carta carbone. Adesso è l’ora di richiamare l’attenzione al letto, una foresta di pelle dove semi esplodono come pallottole. Siamo in camera. siamo nella scatola di scarpe. Siamo nella scatola di sangue. Siamo teneramente contusi, tuttavia non siamo né vecchi né aborti. Siamo qui su una zattera, esiliati dalla polvere. L’odore della terra è svanito. Persistono il sentore del sangue, la lama e la pallottola. Il tempo impera e tu ne prenderai la piega. Il fiato al mercato della morte è sospeso. Il viso che m’accosti emanerà indifferenza Tesoro, mi concederai il ventre e ti sarà cavato il torsolo come a una mela. Il lebbroso verrà e annoterà i nomi e cambierà il calendario. Il ciabattino verrà e ricostruirà questa stanza. Giacerà sul letto e urinerà e niente più esisterà. Vieni adesso. Ora! Ero avvolta in pellicce nere e in pellicce bianche e tu mi disfacevi e poi mi riponevi in aurea luce e poi m’incoronavi, mentre la neve cadeva fuori la porta a dardi diagonali. E quando lo spesso manto veniva giù come stelle in sminuzzati frammenti di calcio, ognuno di noi si rintanò sottopelle (la stanza che ci seppellirà) e poi tu varcasti la soglia (la stanza che a noi sopravviverà) e per prima cosa ti asciugavo i piedi con un telo poiché io ti facevo da schiava e in cambio tu mi chiamavi principessa. Principessa! Oh allora io emergevo nella mia pelle d’oro e scagliavo salmi e scagliavo vesti e tu disfavi briglia e tu disfavi redini e io strappavo bottoni, le ossa, la confusione, le cartoline del New England, la tarda notte di gennaio, e noi spuntavamo come grano, acro dopo acro d’oro, e poi mietevamo, mietevamo. Notate come ha numerato le vene blu del seno. Ci sono anche dieci lentiggini. Ora vira a sinistra. Ora vira a destra. Edifica una città, una città di carne. Fa l’imprenditore. Ha sofferto la fame in scantinati e, signore e signori, è stato piegato dal ferro, dal sangue, dal metallo, dal ferro trionfante della morte della madre. Ma si riprende. Ora mi costruisce. È strutto dalla città. Dalla gloria dei tavolacci m’ha modellata. M’ha fornita di seicento segnali stradali. Quella volta che ballavo edificò il museo. Edificò dieci isolati quando mi spostai sul letto. Costruì il cavalcavia quando andai via. Gli regalai dei fiori e edificò l’aeroporto. Per semafori distribuì lecca lecca rossi e verdi. Ma in cuor mio di infante attraverso con cautela. Il giorno dei seni e dei fianchi sottili la finestra butterata da pioggia malefica, pioggia prorompente come il pastore protestante, ci accoppiavamo, così sensatamente e pazzamente. Giacevamo come cucchiai mentre la pioggia minacciosa piombava come mosche sulle labbra, e sugli occhi lieti e sui fianchi sottili. “La stanza è così intrisa di pioggia”, dicevi e tu, provocante tu, col fiore recitavi novene alle caviglie e ai gomiti. Tu sei produzione e energia nazionale. Oh cigno, oh sgobbone, diletta rosa lanuta, anche un notaio legalizzerebbe il letto mentre tu m’impasti e io lievito come pane. Il bacio nell’incavo del ginocchio si trasforma in libellula sulla zanzariera e si tesoro il puntino sull’ecometro è Trilli che tossisce e due volte perderò l’onore e le stelle si pianteranno come puntine nella notte si oh si si si due lumachine nell’incavo del ginocchio a fare falò qualcosa come ciglia qualcosa che strofina due pietrine si si si caviglia e io artefici. I Dicembre Al bacio di commiato tu aggrottavi un po’ le ciglia. Ora le luci di Gesù Bambino Luccicano per tutto il paese. Gli steli del granturco sono spezzati nel campo, spezzati e secchi. Lo stagno a fine anno abbassa la palpebra grigia. Le luci di Gesù Bambino luccicano per tutto il paese. Il ghiaccio verde-gatto si stende sul prato rasato. Gli abeti sono la sola giovane vita che perdura. Tu sei scomparso. Poltrivo sotto le coperte la notte scorsa, sveglia finché l’alba sorgeva come il tramonto e le foglie di quercia sussurravano come banconote, dure a morire. Gli abeti sono la sola giovane vita che perdura. Tu sei scomparso. 2 Dicembre La notte scorsa dormivo sotto l’ombra di un volatile e sognavo picchiotti al beccatoio, inchiodata allo schienale inchiodata fino in fondo ai piedi, aspettando la lenta morte nell’odiosa neve dicembrina. La morte di Mamma veniva alla luce e Mamma che mi chiudeva la porta nel bisogno e tu alla porta ieri, tu nella perdita, sbiancato, a dire quello che dicono gli innamorati. Ma in sogno tu eri il macabro uomo di pietra che entrava sonnambulo, impassibile, la bocca impuntita cucitura, manichino da sartoria nato senza gambe e col ventre incavato, o caro vecchio puritano. Eri tutto mussola, di color crema sbiadito e io ti ponevo in sei stanze per risistemarti le porte e i punti saltavano e parlavano, prorompendo nel grido straziante col quale mi svegliavo. Poi prendevo il sonnifero per riaddormentarmi e mi ritrovavo criminale in isolamento, insieme zoppo e ladro che avevano strappato occhi rubino ad altri. Perdevo la gamba e poi mi trascinavi via con l’uncino nazista. Ero il pezzo di carne avariata che ti forzavano in spalla. Ero martoriata. Non potevo passarti inosservata. Sognare porta tale mala sorte Ma ero stata io a decretare quella morte. 3 Dicembre Questa è la bocca grigio-talpa dell’anno. Ieri sgattaiolavo al capanno-studio, cogliendo di sorpresa due marmotte e un cervo davanti al bungalow di fortuna. In cammino verso Groton scorgevo lo scoiattolo morto in mezzo alla strada, in decomposizione e i corvi a beccargli le verdi budella. È la natura, avresti detto per abitudine e passavi ai cocktail. I cani del sole erano lassù nel cielo. Tu navigatore caro, inseguivi il vecchio globo che volgeva a ponente e io ero al beccatoio dove i junchi si nutrivano. Da sola nel casotto nostro mi sentivo ospite. 4 Dicembre E dove ci siamo conosciuti? Fu a Londra a Carnaby Street? Fu a Parigi sulla Rive Gauche quel luogo a cui essere grata? No. Fu a Harvard Square al chiosco, entrambi in lacrime. Posso essere grata a quel luogo – il giorno che Jack Kennedy agonizzava. E un’ora dopo era cadavere. Le cervella gli fuoriuscivano dal capo abbagliato. E noi piangemmo e bevemmo il nostro whisky liscio e il mondo ricorda ancora quella data. E entrambi scrivemmo poesie che non sapevamo scrivere e piangemmo assieme tutta la lunga notte e ci innamorammo con tenero affanno la sera in cui i grandi implorano la morte. 5 Dicembre Quello era il novembre di Oswald quattro remoti anni fa. Ricordo che ci incontravamo una volta la settimana o più spesso, sapendo di sbagliare, ma con i soliti pretesti. Così vado e vengo dallo studio, mio fabbro fonditore, mio ammorbidente. Cogliamo l’amore in tutte le stagioni. Questa è l’ultima pagina illustrata del calendario. Adesso mi pesano gli anni, mentre guardo fuori gli uccelli convulsi che caricano di semi il becco. Il vento è grottesco. Il vento mi fa bu, bu, bu al fianco e il rubinetto della cucina gocciola. Questo è l’ultimo foglio nell’almanacco. Adesso vado in malora mentre il petto della terra diventa rigido e avaro e il fieno è imballato nella rastrelliera. Giù lungo il ruscello le rane congelando sembrano scacchi spettrali e tu sei svanito, sconosciuto caro. 6 Dicembre Una pioggerella, placida come una mela, oggi… delicata e docile e lenta e dolcissima come il 2 febbraio scorso il Giorno della Marmotta. Non voleva sbucare e noi scommettemmo che il suo naso alla Mickey Mouse ci avrebbe accolto, che il coma non aveva a che fare con gli dei. Pensammo che si facesse vedere per la Candelora, che facesse vedere la sua ombra-Chippewa alle undici. Pensammo che quella cosa a sangue freddo sfilasse come lo sciamano con la bocca piena di barbabietole per il mistico sorgente e lo stratagemma con cui la destissima ombra si sarebbe imbattuta. 7 Dicembre Il Pearl Harbor Day. Il cruciforme. Niente pioggia la notte scorsa, solo tempesta di ghiaccio. Gioielli! Oggi ogni ramoscello è importante, ogni anello, ogni infezione, ogni forma è tutto quello che gli dei avranno decretato. Il Pearl Harbor Day lascia cicatrici. L’argento vola nel vento, piccole stelle, monetine oculiformi butterano e butterano e gli specchi infranti si spargono lontano e tutti gli ingranaggi dell’orologio mi colmano il calice. Ogni pietra è notizia. Una per una sono arrivate. Gli uccelli, quei mendicanti, sono vivi per miracolo, le piume di sasso e il mangime tumulato. Le civette stanano i topi. I gufi prosperano. Il ghiaccio farà fuori gli uccelli, o si disferà. 8 Dicembre In quest’inverno senza te mi mando una cartolina della Florida per rammentarmi in qualche modo della settimana dopo la prima metà di luglio e verso la fine quando i giorni abietti della Canicola erano passati e noi avevamo una settimana tutta nostra da gustare. I serpenti sprizzavano veleno e mozziconi di stelle filanti s’accendevano e i cani romani annusavano la genziana dalla quale era venuto un fertile profumo. Piccole capinere venivano a rilento e venivamo anche noi, non potendo farne a meno. Il sommaco esibiva chiome rosse e buon sangue scorreva in ogni agnello, con pomodori e cornetti sotto l’influsso di Sirio, il granturco di campo e i topi campagnoli vennero per rimanere. Al mattino lavavo i piatti sporchi d’uovo e marmellata. L’ultimo nostro filo di luce ce lo annunciava il succiacapre. 9 Dicembre Due anni fa, Riservista, avresti dato fuoco alla cartolina di precetto oppure avresti disertato. Ma sei rimasto a servire in Aviazione. La testa ti ribolliva di cattive soluzioni, portando il cuore alla meta come il pallone ovale, il buon cuore che non cessa quasi mai di riconoscere i propri errori. Da Frisco facevi una telefonata. Poi ti trasformavano in paramedico dell’Aeronautica che ricomponeva troncati brandelli umani. Alcuni venivano spediti troppo morti per essere malati. Ma non scrivevo nessun diario su quel periodo allora e tu dici che quello che fai oggi è peggiore. Oggi scarichi carcasse Nella remota Base Aerea di Travis – quella maledizione – niente alberi, quel cratere circondato da colline. Lo Starlifter dal Vietnam, il carro funebre multiplo sfreccia rientrando. Cento ne arrivano giorno dopo giorno appena quarantotto ore dopo la morte, pieni a volte con di un carico di sessanta feretri allineati. Il Registro delle Perdite Numero Sedici preferisce classificarli resti umani. Questa è la posizione che il mondo prendeva con i figli del nemico. Tu li scarichi infilando i sacchi di lattice dentro bare di alluminio – quei resti umani, il capo in risalto rispetto alle dieci dita dei piedi. Sono priorità quando sono rispediti con i quattro mesi di paga e il lotto di cimitero in allegato. Ogni riguardo per questi resti umani! È d’obbligo la scorta! Sono top-secret! Mai sganciati nelle emergenze da nessun aereo. Da tenere a bordo! Più importanti adesso che sono morti. Tu dici, “Ti trattano come feccia finché non ti fanno fuori.” E poi portati dentro la Caverna quei resti umani bollati sullo Starlifter, sul Cargomaster, in bastimento, sull’Hercules mentre il napalm è nella padella, mentre il napalm è nella tana della morte. E quello che accadeva a casa era la Marcia per la Pace – questa Washington che espugniamo. 10 Dicembre Penso ai suoni di creature selvatiche come la notte scorsa la volpe ribelle ululava come Lucifero. Quando la Luna del Castoro illuminava i campi i ramoscelli di quercia graffiavano come topolini in scatola. Come a marzo aspettavamo le raganelle, quelle occhisfere campanulate, quelle zampette di folletto che vengono alla luce con cuscinetti adesivi quando il ghiaccio scorre. Soprattutto sono afoni, il mondo sigillato, la vita sottosopra e giù per la chiusa. Così ricorderò, ricorderò le cicale in agosto, lo stridulo lamento ad alta fedeltà, acuto e sottile e quando tu mi chiedevi se avessi l’età per rammendare calze io piangevo e tu m’abbracciavi divinamente e naturalmente non siamo sposati, siamo un paio di forbici che si congiungono per tagliare, senza asciugamani personalizzati Lui. Lei. 11 Dicembre Poi ti penso a letto, lingua metà cioccolato, metà oceano, alle case nelle quali t’infili, alla capigliatura paglietta d’acciaio sul capo, alle mani perseveranti e poi come scarnifichiamo barriere poiché siamo disgiunti. A come vieni a bere la mia coppa di sangue e ti congiungi a me e ti bevi la salamoia. Ora siamo nudi. Siamo scortecciati fino all’osso e nuotiamo in tandem e risaliamo il fiume, lo stesso fiume chiamato Miniera inoltrandoci intrecciati. E nessuno è più solo. 12 Dicembre E che ne è di me? Lavoro ogni giorno in calzamaglia per la scuola pubblica dove i ritardati sono rinchiusi con manovre d’ospedale. Passo sempre davanti al portiere idrocefalico sullo sgabello, il bimbo di cinque anni che siede tutto il giorno e non parla mai, la testa come palloncino da un quarto di dollaro, tre volte le normali dimensioni. È la natura ma a volte la natura compie tali crimini. Vado nel grande soggiorno di cemento dove cinquanta bimbi sono rinchiusi per quello che stranamente chiamano gioco. Non ci sono giocattoli in giro, non vengono dati ai piccoli invalidi poiché quello che c’è potrebbe rompersi o essere d’impaccio. Non possiamo uscire. Non ci sono tute da neve, alcune volte niente scarpe quindi quello che faccio per loro è legato a quello che gli porto. La stanza olezza d’orina. Solo il bebè a due teste è antisettico nella culla. Ora prendo la cetra, il tamburo, il triangolo, il tamburello e le chiavi per le porte chiuse e i suoni chiusi, sordi e acuti. Battiamo le mani e pestiamo i piedi, vi prego. Eseguo accordi orecchiabili e ondeggianti per ogni infermità. Canto La Volpe uscì una gelida notte e Bobby il mongoloide prediletto me la ricanta. Tiro fuori gli scialli di seta per una tribù di folletti. Susan vuole lo scialle azzurro e tutti si agitano. Io faccio l’ubriaca con due scialli rossi. Sono in trance, mentre ululo amatemi, uh, uh e noi tutti balliamo appassionatamente. 13 Dicembre Ricordi quel giorno, lo scorso giugno nel mese dell’Interminabile Incanto chiamato il Wawe-Pesin dei Pellerossa? Davvero l’estate non arrivò un giorno prima e sicuramente il calendario fece il proprio dovere e noi trascorrevamo il weekend al Provincetown Inn. Ricordi quel temporale a luglio quando i lampi rotolavano giù per la collina – e io portavano le tennis per non perdere animo – ruzzolavano come un pallone da spiaggia per far brillare e appiccare dentro la griglia di granito in giardino, un fuocherello che non si domava? Ricordi quel rimbalzare da un bar all’altro a caccia di un buon whiskey e un rye liscio, l’Old Overholt con Washington piuttosto accigliato sull’etichetta o il Wild Turkey dagli occhi strabici – il bourbon che tracannavamo fino al torpore? 14 Dicembre Gli uccelli migratori hanno abbandonato il nido ma torneranno con bussola incorporata. Torneranno come fa il circo ogni anno – con i trapezisti, cari volatili ossuti nell’esecuzione della gran volta. Due anni fa compravi i biglietti per i bambini che siamo. Bambini grandi e piccini ecco la sessantanovesima stagione! La Signorina la Toria sospesa col polso alla fune aerea eseguiva oltre cento piroette. I leoni nelle atroci gabbie marciavano su e giù. E SIGNOR POMPIERE SALVI MIO FIGLIO che siano di buon auspicio i nanerottoli, che s’affrettavano sulla scena con autopompe giocattolo mentre il finto fuoco divampava. Fuori dal tendone, due giorni prima qualcuno assassinava il clown. Il soffitto era steso insieme al bucato. Il clown annodava il bavaglino al leone e lo imboccava come un bebè. I pony si travestivano da cammelli, i barboncini si travestivano da puttane e Doval il Grande con le preziose dita dei piedi ( io non volevo vedere ) s’innalzava sopra gli elefanti e i bambini nell’immortalità. E tu venivi borseggiato, ingenuo cospiratore caro. 15 Dicembre Il giorno della sbornia solitaria è arrivato. Niente previsioni del tempo, niente volpi, niente uccelli, niente docili tamie, niente giochi sul divano, niente stazioni balneari. Niente di nulla c’è stato tra noi, niente cielo, niente tempo – solo distillato. La mezzaluna è acida, livida, malinconica mentre canto i Blended Whiskey Blues. 16 Dicembre Tanto tempo fa tu crescevi in una camera da letto la misura di una monetina e te la spartivi con la sorella. Questo accadeva a West End Avenue a Manhattan. Bramando la campagna eri rinchiuso in città, a scrutare, oltre l’Hudson, il Palisades Park. Il bimbo che albergavi te giocava a stickball finché faceva buio. Tanto tempo fa tu dicevi “Adesso che il capanno è nostro, voglio portarci dentro la forza motrice”. E davamo la festa dell’energia. Io cucivo tendine di percalle. Attaccavamo al chiodo la laurea. Accendemmo la stufa due volte. Oh amore, oh piattola cara, noi produciamo elettricità mentre giochiamo a metter su casa. 17 Dicembre Oggi ho comprato il pino silvestre – Oh Tannenbaum – l’albero di Natale, verde tartaruga, una foresta di gomma e resina e trementina. Amore, piattola, assenteista caro da sola nel nostro casotto non mi sentivo ospite. Dallo scatolone d’emporio ho appeso campanelle e palline e fili d’argento e l’acceso cordone di rossi e verdi festoni. Per finire l’ultimo tocco l’ho dato alla punta dello sparuto pino con la stella sgargiante, la croce a cinque punte che luccica per il Nazareno. Il farlo mi rammentava i premi d’autunno che davamo ad alberi diversi il Primo Premio si attaccava sull’acero da zucchero al Lincoln Center, poi verso Weston decoravamo la Miglior Betulla dell’Aurora. Censivamo colori non persone. Le querce porpora, i pioppi tremoli, quei folti pioppi color moneta-antico; l’abbracciabosco – ognuno con il diploma sul tronco da noi appuntato con nastrini casalinghi per il Columbus Day. I premi quando l’acido si mescola al pigmento e la linfa veniva risucchiata. Oggi ho comprato il ramoscello di vischio, tutto verruche e foglie e bacche e gambo – l’angelo del bacio – e l’ho appeso nel bungalow. Amore caro, metteremo radici durante l’Armistizio Natalizio. 18 Dicembre Celere boomerang, vieni a cogliermi! Sono delicata. Troppo a lungo sei stato via. La mancanza m’ha piuttosto nuociuto, tuttavia per te mi devo piegare. Vedi come m’inarco. Sono eccitata. Ho i capelli neri, gli occhi color prato. Lei baci il pacco, Mister Legatore! Si? Vorrebbe scagliarsi addosso, virilmente ma in un certo qual modo teneramente? Sono stesa in capanno come carta sul ripiano da cucina. Quindi mi tracci una mammella. Mi piace essere sottolineata. Senti un po’, zoticone! Ubbidisci! Tracciami come farebbe un bambino. Avrò bisogno soltanto di due occhioni e un piccolo bacio. Una piccola o. Due orecchini sarebbero simpatici. Poi prosegui verso la spalla. Qui ti concedo una pausa. Prendimi. Ti sono malattia. Ti prego vai piano lungo il torso mentre tracci perle e bocche e alberi e gli o, dei graffiti e un minuto ciao poiché io afferro, io mordicchio, io sollevo, io soddisfo. Tracciami bene, tracciami appassionatamente. Portami l’ossuto polso, e il bizzarro, Signor Allacciatore, il bizzarro corno ostinato. Tesoro, provoca con lo strumento un’ora di ondulazioni, poiché questa è la musica per la quale sono nata. Dacci dentro di cozzo! All’erta, mio acrobata e io sarò legno dolce e tu chiodo e noi attizzeremo i forni per Jack Sprat e tu ti lancerai nella mia minuscola cella e noi consumeremo la cena insieme e tutto sarà compiuto.
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