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UNIVERSITÀ CA’ FOSCARI DI VENEZIA
Facoltà di Lettere e Filosofia
Corso di Laurea Magistrale in Storia delle Arti e Conservazione dei Beni
Artistici
TESI DI LAUREA
IL BIZANTINISMO ARTISTICO DEL DUECENTO VENEZIANO
Relatore: Ch. ma Prof. ssa Giordana Trovabene
Correlatore: Ch. mo Prof. Giorgio Ravegnani
Laureanda Linda Santin
Matricola: 824295
Anno accademico 2011-2012
INDICE
PREMESSA
CAPITOLO I
VICENDE STORICHE E CULTURALI CHE COINVOLSERO VENEZIA E
BISANZIO NEL PERIODO ANTECEDENTE LA IV CROCIATA
1a – I rapporti politico-militari fra l’XI e il XII secolo
1b – L’integrazione della comunità veneziana nel quartiere di
Costantinopoli
1c – L’influsso bizantino sulle istituzioni veneziane e il legame
con la corte
1d – La IV crociata e il bottino veneziano
CATALOGO ICONOGRAFICO
CAPITOLO II
ESPRESSIONI ARTISTICO-CULTURALI DUECENTESCHE NELLA PLATEA
MARCIANA
2a – Il progetto di riqualificazione della piazza sotto il dogado
di Sebastiano Ziani
2b – La chiesa di San Marco: architettura simbolo
2c – Gli interventi duecenteschi nella platea marciana
2d – Il bizantinismo artistico nel programma iconografico
dei mosaici della basilica marciana e la fase duecentesca
2d 1 – L’Orazione nell’Orto
2d 2 – L’Apparitio Sancti Marci
2d 3 – Il mosaico del portale di Sant’Alipio
2d 4 – I Pinakes
2d 5 – I mosaici dell’atrio
2e -
Ipotesi interpretative sui mosaici dell’atrio
CATALOGO ICONOGRAFICO
2
CAPITOLO III
BISANZIO E LA SCULTURA DEL DUECENTO A VENEZIA
3a –
La scultura duecentesca in San Marco
3b -
Sculture della facies marciana di probabile derivazione costantinopolitana giunte a Venezia all’indomani della IV crociata
3b 1 – La Quadriga
3b 2 – I Tetrarchi
3b 3 – Il Carmagnola
3b 4 – Ercole col cinghiale di Erimanto
3b 5 – San Demetrio
3b 6 – L’arcangelo Gabriele
3b 7 – La Vergine Orante
3b 8 – I rilievi duecenteschi della facciata nord: San Giovanni,
San Marco, San Luca, San Matteo, Cristo in trono e i
due cervi sotto gli alberi
3b 9 – I cosiddetti “Pilastri Acritani”
3b 10 -Tondo con imperatore bizantino
3c -
Ipotesi interpretative sulla plastica marciana del Duecento
CATALOGO ICONOGRAFICO
CAPITOLO IV
LE PORTE AGEMINATE E CLATRATE IN SAN MARCO
CATALOGO ICONOGRAFICO
CAPITOLO V
LA STORIA DEL TESORO DI SAN MARCO TRA BISANZIO E VENEZIA
5a – Gli smalti superiori della Pala D’Oro
5b – Venezia e l’Icona da devozione
CATALOGO ICONOGRAFICO
3
CAPITOLO VI
LO SVILUPPO DELL’ARCO RIALZATO NELL’ARCHITETTURA DEL DUECENTO
VENEZIANO
6a – Breve introduzione sulle origini dell’arco rialzato e sua
evoluzione nell’edilizia veneziana del Duecento
6b – La formazione della Piazza e lo sviluppo dell’edilizia di alto livello
6c – Origini delle Domus Magnae
6d – Lo sviluppo dell’arco rialzato in alcune delle più significative
Domus Magnae a Venezia
6e – Interpretazioni conclusive sull’arco rialzato
CATALOGO ICONOGRAFICO
CAPITOLO VII
LA PITTURA NEL DUECENTO VENEZIANO
7a - Il contesto marciano
7b -
La pittura a fresco e su tavola a Venezia nel XIII secolo
7c - Gli affreschi della chiesa di San Giovanni Decollato
7c 1 -Descrizione e analisi degli affreschi di San Giovanni Decollato
7c 2 - Il San Michele Arcangelo ritrovato
7c 3 - Lettura e analisi degli affreschi di San Giovanni Decollato
7d -
Interpretazioni conclusive sugli affreschi di San
Giovanni Decollato
CATALOGO ICONOGRAFICO
4
CONCLUSIONI
BIBLIOGRAFIA
Fonti
Studi
ELENCO DELLE ILLUSTRAZIONI
REFERENZE FOTOGRAFICHE
5
PREMESSA
Il processo che condusse Venezia all’autonomia da Bisanzio non comportò il
venir meno dei legami fra le due città, le cui relazioni furono intense ancora
per secoli.
Dopo la caduta del partito filofranco e gli accordi di Aquisgrana dell’812, la
sovranità bizantina non fu più messa in discussione a Venezia; tuttavia, la
dipendenza del ducato lagunare dalla capitale nel corso del tempo registrò di
fatto
una
progressiva
attenuazione,
in
concomitanza
col
processo
di
acquisizione, da parte di questo, di sempre maggiori spazi di autonomia.
Non è possibile indicare con precisione quando Venezia divenne indipendente;
innanzitutto, perché l’acquisizione di questo nuovo status avvenne senza
scosse violente tali da segnare una svolta epocale; in secondo luogo, perché
Venezia continuò ad orbitare ancora per secoli intorno ad un sistema di valori
tipicamente
bizantino,
tanto
che
si
può
parlare
di
un
“bizantinismo
veneziano”1, fenomeno articolato che investe non soltanto la dimensione
politica, ma soprattutto quella culturale. L’impero di Bisanzio continuò a
mantenere un rapporto politico e commerciale privilegiato con la città lagunare
e a rappresentare per essa un modello di vita. Infatti, Costantinopoli non smise
di essere considerata, vuoi per convinzione vuoi per convenienza, un
importante referente politico.
Gli aspetti del fenomeno indicato poco sopra come “bizantinismo veneziano”
furono avvertiti con una relativa continuità fino al XII secolo. A partire da
questo periodo, il legame politico con Bisanzio cominciò ad allentarsi fino a
giungere all’aperta ostilità che culminò con la capitolazione dell’impero
bizantino di fronte all’espansionismo occidentale. Da questo momento in poi,
se Bisanzio smetterà di costituire il punto di riferimento politico per Venezia,
non si esaurirà invece il suo forte e inconfondibile influsso culturale sulla città,
che si farà sentire per tutto il corso del Duecento, manifestandosi in un
vivacissimo movimento di idee, persone, opere d’arte.
1
G. Ravegnani, Il bizantinismo veneziano in Storia dell’Italia bizantina, II modulo, Venezia, 2007-2008, p. 22.
6
Ho iniziato il mio lavoro di ricerca con una breve introduzione storica che
prende in considerazione i rapporti politico-militari fra Venezia e Bisanzio nel
periodo antecedente la IV crociata e il processo di integrazione della comunità
veneziana nel tessuto urbano di Costantinopoli, attestato fin dal 992, ma che si
rafforzerà soprattutto grazie alle concessioni accordate con la crisobolla di
Alessio I Comneno del 1082.
Tale legame è ravvisabile nell’influsso che la capitale bizantina e in particolare
la sua corte hanno esercitato sulle istituzioni veneziane delle origini. Il sistema
della coreggenza, così come le cerimonie di investitura dei dogi veneziani e il
conferimento agli stessi di dignità imperiali bizantine costituiscono una
significativa testimonianza del fascino esercitato dalla capitale orientale sui
governanti della città.
In particolare, il bizantinismo artistico del Duecento veneziano è un fenomeno
complesso e articolato che investe la città di Venezia in molteplici ambiti. Fra le
diverse manifestazioni artistiche che hanno caratterizzato questo periodo, mi
sono soffermata in particolare sul nuovo cantiere pubblico costituito dalla
riapertura della fabbrica marciana. A tale proposito, significativo è il progetto di
riqualificazione e gli interventi che si sono svolti in essa a partire dal dogado di
Sebastiano Ziani. San Marco diventa l’architettura simbolo di tale processo di
rinnovamento; il ricorso stesso, al prototipo dell’Apostoleion, esempio di
grande architettura reliquiario e luogo delle sepolture imperiali, inserisce la
cappella ducis in quell’articolato simbolismo delle forme, i cui spazi solenni e
chiaramente
delineati
evocano
i
concetti
fondamentali
dell’architettura
imperiale protobizantina interpretata in forme dispiegatamente auliche.
Nel frattempo, oltre agli interventi che interessano l’apparato edificatorio,
continua la realizzazione della decorazione musiva.
Ho, quindi, preso in esame i mosaici duecenteschi, tra cui il grandioso pannello
dell’Orazione nell’Orto, composizione ritenuta innovativa e “veneziana”, i due
pannelli con l’Inventio e l’Apparitio, che lasciano intravvedere alcuni stilemi
ravvisabili pure nei pannelli dell’Orazione dell’Orto. In particolare, l’aulicità
dell’ambiente, la resa della scenografia e dei costumi dei personaggi, così come
una certa monumentalità e il gusto per il colore, sono tutti aspetti che
7
contraddistinguono la decorazione musiva in San Marco nel XIII secolo e che
vedranno la loro massima espressione nella pittura di Mileševa e di Sopočani.
Anche i pannelli raffiguranti i Pinakes rappresentano una delle più significative
testimonianze del rinnovamento artistico avvenuto a Venezia nel corso del
Duecento. Allo stesso modo, il mosaico del portale di Sant’Alipio che descrive il
trasporto del corpo di San Marco dentro la basilica diviene, per il suo
importante
valore
storico
e
politico,
uno
straordinario
medium
di
comunicazione di precise idee e ideologie.
Contribuiscono al completamento della decorazione musiva della basilica i
mosaici dell’atrio, che illustrano le storie dell’Antico Testamento. Realizzati nel
corso del XIII secolo, essi presentano chiari riferimenti a un manoscritto
costantinopolitano del V-VI secolo, la cosiddetta Bibbia Cotton, così come ad
altri manoscritti illustrati di età paleologa. Se inequivocabile appare, dunque,
l’influsso bizantino nella decorazione musiva duecentesca, tale matrice viene,
tuttavia, assimilata e rielaborata da maestranze locali in grado di creare uno
stile originale e innovativo, autentica espressione della volontà artistica
veneziana del XIII secolo.
Assai significativa, inoltre, è la serie di interventi plastici e di decorazione
parietale lapidea che interessano la fabbrica marciana a partire dal primo
Duecento. A tale proposito, ho analizzato l’intero apparato
scultoreo che ha
contribuito al completamento della facies della chiesa, grazie soprattutto alle
spolia giunte a Venezia all’indomani della IV crociata che, reintegrate in San
Marco, si sono caricate di nuovi valori simbolici e politico-culturali. Tra i trofei
più importanti per il loro carattere trionfale vanno ricordati: la famosa
Quadriga proveniente dall’ippodromo di Costantinopoli, il gruppo in porfido dei
Tetrarchi, le porte di bronzo clatrate e altre spolia che, ricollocate nel cantiere
marciano e soprattutto nella sua facciata principale, il frontespizio deputato alla
rappresentazione della magnificenza,
trasmettono inequivocabili messaggi di
potere.
Venezia, dunque, assurge al ruolo di porto di devozione che accoglie
testimonianze e memorie sacre, atte spesso a rafforzare il prestigio e
8
l’immagine internazionale della città ducale, già sito apostolico per la presenza
delle spoglie dell’evangelista Marco.
Tra gli oggetti giunti a Venezia con il bottino costantinopolitano, i più preziosi
sono andati a costituire parte del Tesoro di San Marco come la Pala d’Oro,
opera di origine composita e di straordinario valore che, nel 1209, sotto il
dogado di Pietro Ziani (1205-1229), fu ingrandita e arricchita con pietre
preziose e smalti giunti a Venezia anch’essi da Costantinopoli. Di particolare
interesse ai fini della nostra ricerca sono gli smalti, le sei grandi formelle che
rappresentano le scene del Dodekaorton e uno smalto quadrilobo con
l’Arcangelo Michele, sicuramente provenienti dal monastero del Pantokrator.
Infine, fra le varie icone giunte a Venezia, l’immagine della Nicopeia, custodita
e venerata in San Marco, rappresenta il principale riferimento pubblico di
questa componente devozionale, interpretata come simbolo del trasferimento
da Costantinopoli a Venezia della protezione e del sostegno della Gran Madre di
Dio.
Il bizantinismo artistico del Duecento veneziano fin qui analizzato non si limita
al contesto marciano, ma si estende al di fuori di esso, dando luogo a ulteriori
espressioni architettoniche e artistiche che presenteranno, comunque, alcune
interessanti
peculiarità.
Fra
queste,
dal
punto
di
vista
architettonico,
ricordiamo lo sviluppo dell’arco rialzato, che rappresenta una delle tante
penetrazioni di gusto coscientemente accettate a Venezia; presente dapprima
all’interno della basilica contariniana e nelle Procuratie Vecchie, esso diverrà
elemento distintivo dell’edilizia veneziana duecentesca di alto livello e in
particolare di alcune fra le più celebri Domus Magnae. Connotato essenziale
dell’arco rialzato di I ordine è la presenza del piedritto, il rialzo della ghiera,
che gli conferisce slancio, favorendo così l’elevazione dell’edificio.
Il tratto estetico caratteristico di questo impianto è il ripetersi di arcate ad alto
piedritto con prevalenza del vuoto sul pieno, che danno vita così ad una
architettura “a giorno” con ampi e ariosi portici e logge.
Esempi significativi di tale architettura comparvero a Venezia nel corso del
Duecento in svariate case veneziane che presentano il piano nobile più o meno
loggiato, come ca’ Farsetti, ca’ Loredan, o come il Fondaco dei Turchi – che
9
costituisce un caso particolarmente interessante – e altre costruzioni palaziali
sul Canal Grande.
Il processo di evoluzione dell’arco rialzato porterà alla nascita del II ordine
(presenza della cuspide nell’estradosso) e del III ordine (presenza della
cuspide sia nell’estradosso che nell’intradosso).
Uno dei più significativi e rari esempi di casa-fondaco del XIII secolo dove è
possibile notare tale evoluzione è ca’ da Mosto. È proprio nella facciata di
questo
palazzo
sul
Canal
Grande
che
sta
la
novità
nel
trattamento
dell’estradosso: per la prima volta, infatti, compare una cuspide nell’arco tondo
(ordine II). Altri esempi di arco rialzato con estradosso cuspidato (II ordine) si
intravvedono nella pentafora di primo piano e nella quadrifora di ca’ Falier o
ancora, nella quadrifora di ca’ Soranzo.
Esempi, invece, di arco rialzato più elaborato che presentano la cuspide sia
nell’estradosso che nell’intradosso (III ordine) sono ravvisabili nella trifora
della Domus Maior Querini, nel campo delle Beccarie, o nella quadrifora del
secondo piano della proprietà Vitturi. Questi e altri esempi minori sparsi nella
città evolveranno gradualmente verso gli archi inflessi, correttamente definiti
dall’Arslam proto-gotici.
Infine, per quanto concerne la produzione pittorica del XIII secolo, non
emergono molte testimonianze relative all’attività di botteghe veneziane. Ciò
nonostante, possediamo un esempio di pittura monumentale duecentesca di
altissimo valore artistico: il ciclo di affreschi di San Giovanni Decollato. Fin
dalla sua scoperta, esso ha suscitato l’interesse degli studiosi, che lo hanno
interpretato in modi diversi.
È interessante notare, in base all’analisi condotta finora, come tale ciclo di
affreschi, seppur iconograficamente legato alla tradizione bizantina, introduca
elementi innovativi che ricorrono nella pittura veneta del XII e XIII secolo.
Tale ciclo è espressione del talento di un artista capace di attingere a un
repertorio di fonti straordinariamente ricco e non solo legato alla cultura
figurativa locale, bensì sensibile alle diverse tendenze elaborate in altri contesti
culturali e figurativi. Venezia, infatti, all’indomani della IV crociata, è diventata
un centro di grande ricettività sotto tutti i punti di vista, un soffondo di
10
commistioni stilistiche diverse, della cui originalità gli affreschi di San Giovanni
Decollato rappresentano senza dubbio una delle più preziose testimonianze.
11
CAPITOLO I – VICENDE STORICHE E CULTURALI CHE COINVOLSERO
VENEZIA E BISANZIO NEL PERIODO ANTECEDENTE LA IV CROCIATA
1a – I RAPPORTI POLITICO-MILITARI FRA L’XI E IL XIII SECOLO
La collaborazione politico-militare tra Venezia e Bisanzio fu da sempre
essenzialmente dettata dalla coincidenza di obbiettivi fra il dominio territoriale
di Costantinopoli e l’interesse veneziano a impedire il controllo della rotta
adriatica da parte di una potenza ostile. Nel corso dei secoli tale collaborazione
fu rivolta a contenere soprattutto l’espansionismo arabo, la pirateria slava che
aveva le proprie basi nella costa dalmata e, da ultimo, l’aggressione normanna
nei confronti dell’impero, condotta in seguito alla caduta dell’Italia meridionale
bizantina.
Quest’ultimo
evento
rappresenta
uno
degli
avvenimenti
più
importanti per la storia di Venezia nella seconda metà dell’XI secolo e per la
sua affermazione politica, poiché la porterà ad assumere un ruolo preminente
nel commercio con l’Oriente. L’occasione arrivò in seguito ai fatti del 10812.
Quando l’imperatore Alessio I Comneno (1081-1118) salì al trono bizantino la
situazione dell’impero era disperata; il pericolo più immediato per il nuovo
sovrano era rappresentato dalle mire del normanno Roberto il Guiscardo che,
dopo la conquista dell’Italia meridionale, attaccò Bisanzio nel 1081 occupando
Corfù e mettendo sotto assedio Durazzo. La minaccia normanna costituiva un
pericolo mortale per la sopravvivenza stessa dell’impero e l’imperatore Alessio
ricorse a misure straordinarie per cercare di risolvere il problema, facendo tra
l’altro
confiscare
le
proprietà
della
chiesa
per
procurarsi
denaro
e
intraprendendo una serie di iniziative politiche e diplomatiche.
Di fronte all’aggravarsi del pericolo egli non potè fare altro che ricorrere
all’aiuto degli alleati (e quindi di Venezia) che, dopo alterne vicende, riuscirono
a risolvere il conflitto, che si concluse nel 1085 con la morte del normanno
Guiscardo e con la conseguente ritirata delle sue truppe.
2
, Tra i due imperi. L’affermazione politica nel XII secolo, estratto da Storia di Venezia dalle origini alla caduta della
Serenissima, II, L’età del Comune, Istituto della enciclopedia italiana fondata da G. Treccani, 1995, p. 33. G.
Ravegnani, Tra i due imperi. L’affermazione politica nel XII secolo, cit., www.treccani.it/.../l-età-del-comune-l-avviotra-i-due-imperi-l-affermazione-politica-nel-XII-secolo (Storia di Venezia, dalle origini alla caduta della Serenissima,
II, L’età del Comune, 1995).
12
La vittoria bizantina fu resa possibile soprattutto grazie all’aiuto militare di
Venezia, che fu pronta ad intervenire in difesa del tradizionale alleato, ma lo
fece a caro prezzo.
Nel maggio3 del 1082 Alessio Comneno emise infatti una crisobolla4 a favore
della città alleata, con la quale concedeva ampi privilegi in cambio dell’aiuto
prestato e dell’impegno a fornirlo in futuro5. Il Comneno accordò pertanto titoli
nobiliari, elargizioni in denaro, proprietà fondiarie e privilegi di natura
commerciale. Questi ultimi furono senza dubbio i più importanti perché le
esenzioni concesse permisero ai veneziani di raggiungere una posizione di
preminenza nel commercio orientale, con vantaggi di gran lunga superiori
rispetto a quelli acquisiti nel 992 con il sovrano bizantino Basilio II e che
interessavano soltanto una riduzione di dazi. Ora, infatti, i privilegi economici
riguardavano la facoltà, per i veneziani, di commerciare in gran parte
dell’impero senza pagare tasse né essere soggetti al controllo dei funzionari
marittimi;
un
vero
e
proprio
salto
di
qualità,
tale
da
determinare
inevitabilmente il predominio di Venezia nel Levante.
Altre concessioni riguardavano i titoli nobiliari conferiti al doge e al patriarca di
Grado6. I dogi ottennero a titolo perpetuo la dignità aulica di “protosevasto”
con il relativo stipendio, mentre ai patriarchi di Grado veniva concesso alle
stesse condizioni il titolo di “ypertimos”. Il conferimento di titoli nobiliari non
era una novità per i reggenti dello Stato veneziano, che già da qualche secolo
erano soliti riceverli. L’usanza rientrava nella tradizione diplomatica bizantina
e mirava a creare legami tra la corte imperiale e i sudditi o gli alleati. Nelle
concessioni del 1082 vi erano tuttavia forti elementi di novità rispetto al
passato: il titolo era superiore a quelli ottenuti dai veneziani fino a quel
momento perché aveva carattere ereditario e poneva il doge sullo stesso piano
3
Secondo il Prof. Giorgio Ravegnani le considerazioni di S. Borsari (Venezia e Bisanzio nel XII secolo. I rapporti
economici, Venezia 1988, pp.135-138) non lasciano dubbi sulla data di emanazione della crisobolla. G. Ravegnani, Tra
i due imperi. L’affermazione politica nel XII secolo, cit., p. 34, www.treccani.it/.../l-età -del-comune-l-avvio-tra-i dueimperi-l-affermazione-politica-nel-XII-secolo.
4
Ivi, pp. 38-39.
5
G. Ravegnani, Dall’alleanza allo scontro in Bisanzio e Venezia, 2006 Bologna, p. 65.
6
G. Ravegnani, Tra i due imperi. L’affermazione politica nel XII secolo in Storia di Venezia dalle origini alla caduta
della Serenissima, cit., p. 35, www.treccani.it/.../l-età -del-comune-l-avvio-tra-i due-imperi-l-affermazione-politica-nelXII-secolo.
13
della famiglia imperiale, dato che la dignità di protosevasto era stata conferita
anche al cognato e al fratello di Alessio I Comneno.
Le elargizioni in denaro comprendevano, invece, un versamento annuale di
venti libbre d’oro che i veneziani potevano distribuire a piacimento nelle loro
chiese. Ad ogni amalfitano, proprietario di una bottega a Costantinopoli o in
altri territori dell’impero, era stato inoltre imposto di versare annualmente tre
monete d’oro alla chiesa di San Marco a Venezia. Questo atto di sovrana
munificenza rientra nel ben noto quadro di Eusebia Imperiale7 e ci fa capire
come della chiesa ducale veneziana si fosse parlato presso la corte di
Costantinopoli e come la stessa camera Sancti Marci8 fruisse di finanziamenti
bizantini proprio al tempo del completamento dei lavori.
Per quanto riguarda le concessioni immobiliari, a Durazzo i veneziani ottennero
la chiesa di Sant’ Andrea e a Costantinopoli un intero quartiere lungo il Corno
d’Oro (il porto naturale della capitale) comprensivo di tre scali marittimi e un
forno adiacente alla chiesa di Sant’Achindino. Il quartiere veneziano si
estendeva tra due porte della cinta marittima e comprendeva una serie di
magazzini con locali sovrastanti.
Le concessioni esorbitanti di Alessio I trovano una spiegazione nella situazione
disperata in cui versava l’impero bizantino di fronte all’invasione normanna e
nella modesta dimensione dei traffici veneziani che, al momento, non
rappresentavano un pericolo per Bisanzio. L’importanza dell’avvenimento non
sfuggì tuttavia a una osservatrice attenta come Anna Comnena, figlia e
biografa
dell’imperatore
Alessio
I
Comneno,
la
quale
nell’Alessiade,
raccontando la vita del padre Alessio I, così si esprime:
“La maggior concessione fu l’aver reso il loro commercio esente da imposte in
tutte le regioni soggette all’impero dei Romani, così che essi poterono
liberamente esercitarlo a loro piacimento senza dare neppure un soldo per la
7
E. Concina, San Marco a Venezia: l’architettura, in Arte e architettura. Le cornici della Storia, Milano 2007, p. 28.
8
Il termine compare nel doc. del settembre 1074, in L. Lanfranchi (a c. di), Fonti per la storia di Venezia. Sez II.
Archivi Ecclesiastici. Diocesi Castellana. S. Giorgio Maggiore, II, Venezia 1969, pp. 92-95.
14
dogana o per qualsiasi altra tassa imposta dal tesoro, in modo da essere al di
fuori da ogni autorità romana” 9.
Questi privilegi a favore dei veneziani furono messi in discussione dal figlio e
successore di Alessio I, Giovanni II Comneno (1118-1143), che nel 1119 rifiutò
agli ambasciatori di Venezia la conferma del trattato concluso con il padre.
I motivi del rifiuto non sono del tutto chiari; secondo Giovanni Cinnamo,
storico bizantino di una generazione posteriore, l’antipatia per i veneziani
dipendeva dalla loro arroganza. Come conseguenza del mancato rinnovo vi fu
un’incursione veneziana che portò al saccheggio di alcune isole imperiali, fra le
quali Chio, da cui furono asportate le reliquie di Sant’Isidoro10 così che, nel
1126, il trattato alla fine venne rinnovato a favore dei veneziani. Anche il
sovrano bizantino Manuele Comneno (1143-1180) ricorse di nuovo alla
cooperazione militare di Venezia per contrastare i Normanni, che nel 1147 si
erano impadroniti di Corfù, e rinnovò ancora una volta il trattato del 1082
concedendo nel 1148 un ampliamento del quartiere di Costantinopoli. Sotto
questo sovrano, tuttavia, i rapporti veneto-bizantini iniziarono a guastarsi fino
a quando, nel 1171, il Comneno fece arrestare tutti i veneziani presenti
nell’impero e confiscare i loro beni. Questo avvenimento è ben noto e viene
presentato in maniera opposta dalle fonti storiche bizantine e da quelle
veneziane11. Si avviò così un lungo contenzioso con l’impero, che verteva
essenzialmente sulla restituzione dei beni sottratti e il pagamento dei danni
subiti. Manuele Comneno nel 1179 liberò parte dei prigionieri veneziani, ma ad
un accordo si giunse soltanto con Andronico Comneno (1182-1185) che, nel
1183, rimise in libertà gli ultimi prigionieri ed emise a favore della città
9
Anne Comnène, Alexiade, I-II, a cura di Bernard Leib, Paris 1937-1943: II, p. 55.
A distanza di trecento anni dalla translatio marciana, quella del corpo di Sant’Isidoro ripete nella sostanza della sua
narrazione e nell’iconografia proposta dagli artisti attivi nella basilica le tappe dell’illustre modello fondativo dello stato
veneziano, che più avanti ci occuperemo di approfondire.
10
11
Secondo Niceta Coniata, autore di una Storia che narra in ventuno libri i fatti avvenuti fra il 1180 e il 1206, Manuele I
Comneno arrivò alla decisione dopo aver subito una serie di offese da parte dei veneziani e, in particolare, il rifiuto di
risarcire i danni causati dall’assalto al quartiere genovese di Costantinopoli nel 1170. Secondo l’Historia Ducum
Venetorum, opera anonima redatta in ambiente lagunare nel XIII secolo, l’imperatore agì con l’inganno e la
premeditazione per impossessarsi delle ricchezze dei veneziani. G. Ravegnani, Il bizantinismo veneziano in Storia
dell’Italia bizantina, II modulo, Venezia, 2007-2008, p. 22. G. Ravegnani, Tra i due imperi. L’affermazione politica nel
XII secolo in Storia di Venezia dalle origini alla caduta della Serenissima, cit., p. 52. (www.treccani.it/.../l- , Storia di
Venezia, 1995).
15
lagunare una lunga crisobolla, andata poi perduta, con cui ripristinava i vecchi
privilegi e si impegnava a versare un risarcimento (cosa che fece soltanto in
minima parte prima di perdere il trono).
Le trattative continuarono quindi con Isacco II Angelo (1185-1195)12 con
l’emanazione di altre tre crisobolle del 1187, destinate rispettivamente a
riconfermare i privilegi di Alessio I, a garantire il possesso del quartiere e a
stabilire un’alleanza politico-militare. A queste seguì poi una quarta crisobolla
del 1189, relativa alla restituzione delle proprietà confiscate nel 1171, in
cambio delle quali i Veneziani ottennero un ampliamento del quartiere e un
risarcimento dei danni che ancora non era stato completato. Un altro trattato
fu infine concluso con il nuovo imperatore Alessio III Angelo13 nel 1198, ma
anche questo si limitò alla riconferma dei precedenti e all’aggiunta di altre
clausole minori senza risolvere la questione pendente del risarcimento. La
precarietà del rapporto con Venezia e il cambiamento della situazione politica
in Occidente14 indussero papa Innocenzo III a riprendere con decisione il
progetto di crociata e le sue aspirazioni spirituali vennero a coincidere con
quelle puramente politiche del doge Enrico Dandolo, intenzionato a riaffermare
la supremazia veneziana su Bisanzio. Fu probabilmente anche questa una delle
motivazioni che spinsero i Veneziani a dirottare a Costantinopoli la IV crociata
(1202-1204), che culminò con la conquista e il saccheggio occidentale della
città15.
12
G. Ravegnani, Tra i due imperi. L’affermazione politica nel XII secolo in estratto da Storia di Venezia dalle Origini
alla caduta della Serenissima, cit., p. 66. (www.treccani.it/.../l- , Storia di Venezia, 1995).
13
Ivi, p. 67.
14
Dopo la morte di Enrico VI, l’impero occidentale si era di fatto disgregato nella lotta civile che contrapponeva
Filippo di Svevia e Ottone di Brunswick, senza più condurre una propria politica in Italia. Di questa situazione
approfittò la forte personalità di papa Innocenzo III. G. Ravegnani, L’aristocrazia militare al potere (1081-1204) in
Introduzione alla storia bizantina, Venezia, 2004-2005, p. 107.
15
G. Ravegnani, Il bizantinismo veneziano in Storia dell’Italia bizantina, II modulo, Venezia, 2007-2008, p. 13.
16
1b - L’INTEGRAZIONE DELLA COMUNITÀ VENEZIANA NEL QUARTIERE
DI COSTANTINOPOLI
L’attestazione di una presenza venetica nella capitale d’Oriente è antica. Già la
crisobolla degli imperatori Basilio II e Costantino VIII del 992 accenna
all’inserimento nello spazio urbano di Costantinopoli della comunità veneziana,
anche se è soltanto dal 1082, data delle concessioni accordate con la crisobolla
di Alessio I Comneno, che si hanno notizie più certe.
Come è noto, infatti, fra gli ampi privilegi accordati ai veneziani in
quell’occasione vi era anche la concessione di un quartiere a Costantinopoli, sul
tratto della riva sud-occidentale del Corno d’Oro, in un sito portuale di grande
importanza, in prossimità del Neorion.16 Il quartiere era collegato direttamente
con la zona centrale della città (Eski Bedesten, primo nucleo del Gran Bazar)
attraverso un’ antica via commerciale, il Makros Embolos17. Si trattava dunque
di un quartiere densamente abitato e ben articolato nella sua struttura
economica, una vera e propria zona di tramite funzionale fra approdo e rete di
commercializzazione.
Se il primo nucleo di formazione di età comnena non si estendeva fino alle
acque del Corno d’Oro, sullo scorcio del XII secolo, a seguito di nuove
concessioni da parte di Isacco II Angelo (1189), tale nucleo venne attrezzato in
rapporto alle funzioni marittime mediante un sistema di ben tre scali (necessari
per la partecipazione venetica) a difesa del potere militare marittimo bizantino.
La crisobolla del 1189 prevedeva, inoltre, che la costruzione e l’armamento
della flotta avvenissero a Venezia, in base a precise garanzie circa la qualità
degli scafi, la cui costruzione sarebbe dovuta avvenire sotto la sorveglianza di
un sopraintendente, a cui venivano affidati i lavori da eseguire su cinque galere
messe in cantiere. Dall’insieme delle fonti risulta che si trattava di un quartiere
abitato da greci, oltre che da veneziani, seppure sottoposto al controllo di
questi ultimi.
16
Neorion o Portus Neorii: Constantinople Byzantine. Développement urbain et répertoire topographique, Paris 1964,
pp. 245-236; W. Mullerwiener, Bildlexikon zur topographie Istambuls, Tübingen, 1977, pp. 57-59.
17
E. Concina, Il quartiere veneziano di Costantinopoli, in AUTORI VARI, L’eredità greca e l’ellenismo veneziano,
Firenze 2002, p. 158.
17
Nella fase più antica dell’insediamento veneziano a Costantinopoli appare
stretta la connessione tra l’organizzazione civile della comunità e del quartiere
e gli edifici religiosi che vi sorgono, in particolare per quanto riguarda la chiesa
di Sant’Achindino: “Posita in regali urbe Costantinopoli”, definita nel 1107 dal
doge Ordelaffo Falier, di diritto e di pertinenza del proprio palazzo come già
anticamente, per quanto di concessione imperiale; nella stessa data viene
concessa in beneficio al patriarca di Grado, insieme con il tesoro, i palii e i libri
sacri che le appartengono, e assomma in sé diverse funzioni oltre a quelle di
culto18.
Sant’ Achindino era una chiesa molto importante perché proprietaria del forno
di contrada, il nodo primario dell’autonomo sistema alimentare della zona. Era
chiesa parrocchiale, accoglieva le misure di peso della mercatura e in questo
va osservata un’affinità con la chiesa di San Giacomo del mercato di Rialto a
Venezia, dove l’importante iscrizione cruciforme, invocando il nome del
Signore, raccomanda l’onestà ai mercanti, la precisione dei pesi, la lealtà delle
contrattazioni19. Il suo prete, inoltre, era un notaio pubblico, una figura
culturale di spicco. I preti-notai sono presenti a Costantinopoli già dal 1022 e
molti appartengono a famiglie aristocratiche. Solo più tardi, come emerge da
documenti del 1136, il punto di riferimento collettivo della comunità veneziana
nell’Oriente bizantino diverrà la chiesa di San Marco de Costantinopoli o nostri
Emboli de Costantinopoli o de Embolo Veneticorum, dipendente dal monastero
benedettino di San Giorgio Maggiore.
Prima della metà dello stesso secolo, nel quartiere saranno attestati ancora
due edifici religiosi, la chiesa di San Nicolò de Venetorum e la chiesa di Santa
Maria de Embolo20.
Tutto ciò prova non soltanto il progressivo radicamento della comunità
veneziana nel tessuto urbano costantinopolitano prima della IV crociata, ma
testimonia anche la forte organizzazione del quartiere e la tendenza di questo
ad assimilarsi al confinium, alla contrada della città lagunare. E, mediante
18
G.L.F. Tafel-G. M. Thomas; Urkunden zur alteren Handels- und Staatgeschichte der Republik Venedig, Wien 185657, I, pp.67-74; ASV, Codice Diplomatico Lanfranchi, 1100-1115, n. 441, p. 98.
19
R. Cessi-A. Alberti, Rialto. L’isola, il ponte, il mercato, Bologna 1934, pp. 20-21.
20
S. Borsari, Venezia e Bisanzio nel XII secolo. I rapporti economici, Venezia 1988, pp. 38-39.
18
l’intitolazione, poco diffusa in area bizantina, e i toponimi che si richiamano a
San Marco, documenta l’emergere di una netta volontà di affermazione della
propria autonoma identità21. Del resto, nonostante gli avvenimenti relativi agli
scontri e alle violenze del 1171 (quando Manuele I ordina l’arresto di tutti i
veneziani presenti nell’impero e confisca i loro beni) e del 1182 (l’episodio del
massacro dei Latini, soprattutto Genovesi e Pisani, da parte della folla aizzata
dagli agenti imperiali sotto il governo di Andronico I Comneno), nell’ultimo
quindicennio del XII secolo l’insediamento venetico sul Corno d’Oro non solo
riprende pienamente la sua funzionalità, ma anche si espande verso la riva,
aggregandosi quelli che erano stati gli spazi dei francesi e degli alemanni.
In questo modo, tramite una presenza molto attiva e via via sempre più
strutturata, forme e modelli della civiltà bizantina poterono essere conosciuti,
comparati ed eventualmente assunti dalla comunità mercantile veneziana in
Costantinopoli.
Lo scambio veneziano e l’integrazione dei venetici insediati più o meno a lungo
in Costantinopoli risulta siano stati intensi e tutt’altro che superficiali. Niceta
Coniata (1155 ca-1217) delineerà un quadro eloquente della situazione: “a
sciami e tribù cambiarono la loro città con Costantinopoli; da qui sono
disseminati ovunque nei domini dei romani e anzi appaiono integrati e Romani
in tutto e per tutto, prosperando confusi in mezzo a loro”22.
Non si tratta soltanto dei mercanti e dei loro comportamenti, bensì di un
aspetto non sempre preso in considerazione e che riguarda le tracce di vita
intellettuale nel quartiere venetico del Perama: la presenza di personalità in
grado di dialogare e interloquire con il mondo degli eruditi e dei teologi di
Bisanzio23.
Fra l’XI e il XII secolo nel quartiere veneziano vivono Jacopo Veneticus, filosofo
e primo traduttore in latino di Aristotele, e Moisè da Brolo, possessore di una
grande
biblioteca
di
manoscritti
greci
e
autore
di
scritti
teologici
e
grammaticali. Di lui si hanno interessanti notizie grazie ad una lettera scritta al
21
E. Concina, Il quartiere veneziano di Costantinopoli, in AUTORI VARI, L’eredità greca e l’ellenismo veneziano,
cit., p. 162.
22
N. Coniata, Grandezza e catastrofe di Bisanzio, I, trad. di A. Pontani, Verona 1994, p. 391.
23
E. Concina, San Marco a Venezia: l’architettura, in Arte e architettura- Le cornici della storia, cit., p. 32.
19
fratello, con il quale si lamenta per la perdita di alcuni importanti manoscritti
greci, raccolti con fatica, in seguito ai danni causati alla sua casa dall’incendio
di Costantinopoli del 1130.
Entrambi, Jacopo e Moisè, da quanto risulta, furono coinvolti nelle dispute
teologiche costantinopolitane e vengono ricordati come uomini colti e dotati di
una profonda cultura letteraria24.
Figure erudite come quella di Jacopo Veneziano e Moisè da Brolo sono dunque
significative di una forte vitalità culturale e ci mettono a disposizione indizi
interessanti sul fermento e sulla compenetrazione artistica e letteraria che era
in atto nel quartiere veneziano di Costantinopoli tra l’ XI e il XII secolo.
24
Anselmo di Avelberg, 1136, in P. Schreiber, L’importance culturelle des colonies occidentales en territoire byzantin,
pp. 288-293, in M. Balard, A. Ducellier (a c. di), Coloniser au Moyen Age, Paris 1995.
20
1c - L’INFLUSSO BIZANTINO SULLE ISTITUZIONI VENEZIANE E IL
LEGAME CON LA CORTE
Nei primi secoli della Repubblica di Venezia, quando il potere del doge
somigliava sempre più a quello di un monarca assoluto, le grandi famiglie
patrizie, nel tentativo di rendere ereditaria la successione al trono ducale,
fecero ricorso a un meccanismo già adottato dagli imperatori bizantini: il
sistema della coreggenza, che consentiva al doge in carica di associare al suo
potere un collega di pari grado che potesse succedergli sul trono ducale.
A introdurre a Venezia la coreggenza fu Maurizio Galbaio25 (764-787), che si
associò al potere il figlio, ma essa fu abolita nel 1032, quando venne emanata
la prima legge costituzionale dello Stato veneziano, che proibiva al doge tale
tipo di associazione, in quanto essa tendeva a conferire all’istituto ducale un
carattere dinastico.
L’influsso esercitato da Bisanzio sulle istituzioni veneziane delle origini attenne
alla forma, oltre che alla sostanza, poiché per la cerimonia dell’investitura i
dogi presero a modello il rituale della corte bizantina, nel quale l’imperatore
rivestiva l’associato delle insegne primarie della regalità, il manto di porpora e
la corona. Pur non disponendo di notizie certe sul rito dell’investitura a
Venezia, dove pare comunque che esso fosse molto semplificato rispetto a
quello bizantino, nelle notizie che Giovanni Diacono ci fornisce riguardo al
passaggio di poteri fra Giovanni II Partecipazio e Pietro I Candiano26, avvenuto
nell’887, troviamo un preciso riferimento alle insegne di origine bizantina:
spada, bastone e seggio27.
Tali cerimonie di investitura si andarono via via modificando nel corso del
tempo, di pari passo con l’evoluzione politica del ducato veneziano e il suo
25
G. Ravegnani, Venezia bizantina, in www.porphyra.it/.../Porphira11.pdf, giugno 2008, rivista online a cura
dell’Associazione culturale Bisanzio, p. 13, G. Ravegnani, Investitura e insegne ducali in Insegne del potere e titoli
ducali, estratto dal vol. I, Storia di Venezia, (1992), http://www.treccani.it/enciclopedia/eta-ducale-le-testimonianzeinsegne-de l-potere-e-titoli-ducali_.
26
G. Ravegnani, Venezia bizantina, in www.porphyra.it/.../ cit., p. 14.
27
Giovanni Diacono racconta: “Quindi, poiché sua signoria il duca Giovanni era ancora affetto da infermità e suo
fratello Orso aveva rinunciato al ducato, il diciassettesimo giorno del mese di aprile (887), i venetici elessero duca
Pietro, di cognome Candiano, di fronte a casa sua. Sua signoria il duca Giovanni lo convocò con clemenza a Palazzo,
gli consegnò la spada, lo scettro e il seggio, lo nominò suo successore e si ritirò nella sua casa”. G. Diacono, III, 32,
http://www.treccani.it/enciclopedia/eta-ducale-le-testimonianze-insegne-del-potere-e-titoli-ducali_.
21
processo autonomistico. Il rito di proclamazione di Domenico Selvo, nel 1071,
appare infatti molto più solenne. La cerimonia inizia a San Nicolò del Lido e
termina in San Marco, dove il doge si prostra sul pavimento eseguendo una
tipica proskynesis28 di derivazione costantinopolitana, così come di derivazione
orientale è la formula con cui viene acclamato. Il rituale della Proskinesis era
una
rappresentazione
dell’adorazione
che
ogni
suddito
era
tenuto
a
manifestare nei confronti del proprio sovrano e che lo stesso imperatore
riservava al suo sovrano celeste, per ribadire il rapporto tra il divino e
l’autocrator, tra la divinità e l’imperatore isapostolos, in un luogo architettonico
altamente qualificato, spazio cerimoniale e simbolico, teofanico ed epifanico,
quale appunto la chiesa di Santa Sofia29.
Una
volta
eseguita
la
proskynesis,
il
Selvo
riceveva
simbolicamente
l’investitura del Santo assumendo il baculus dall’altare. Il baculus era la più
importante delle insegne ducali, emblema di potenza e di autorità, e ad esso si
attribuiva un valore quasi carismatico, come prova chiaramente il fatto che la
parte
più
solenne
della
proclamazione
di
Domenico
Selvo
consistesse
nell’assunzione di questo sull’altare di S. Marco30. Tale insegna, tuttavia, va
soggetta ad una significativa evoluzione che è stata correlata all’evolversi del
potere ducale; nel corso del XII secolo, con il processo di esautorazione dei
poteri regalistici del doge, nella nuova procedura di investitura il baculus era
infatti scomparso per essere sostituito con il vessillo del ducato31.
Comparvero nel corso del tempo altre insegne, in misura inversamente
proporzionale alla diminuzione dei poteri del duca32. Il baculus, tuttavia, non
28
G. Ravegnani, Il bizantinismo veneziano in Storia dell’Italia Bizantina, parte II, cit., p.14.
G.Ravegnani, Investitura e insegne ducali, cit, http://www.treccani.it/enciclopedia/eta-ducale-le-testimonianze-insegnede l-potere-e-titoli-ducali_.
29
E. Concina, Le arti di Bisanzio, Milano 2002.
30
G.Ravegnani, Investitura e insegne ducali, cit., http://www.treccani.it/enciclopedia/eta-ducale-le-testimonianzeinsegne-de l-potere-e-titoli-ducali_.
31
Il vessillo ducale si lega simbolicamente alla comunità e non più, come il baculus, all’autorità personale del doge.
Non sappiamo con certezza quando il cambiamento sia avvenuto, ma vi è ragione di credere che abbia avuto luogo con
l’elezione di Pietro Polani nel 1130, in occasione dei nuovi assetti interni assunti dal ducato. G. Ravegnani, Insegne del
potere e titoli ducali, Capitolo I, in Estratto dal Vol. I, Storia di Venezia,1992, p. 836, G. Ravegnani, Investitura e
insegne ducali, cit., http://www.treccani.it/enciclopedia/eta-ducale-le-testimonianze-insegne-de l-potere-e-titoli-ducali_.
32
“Quanto più diminuiranno gli originari poteri regalistici del doge - scrive ancora il Pertusi - , a beneficio della
comunità e dello stato, tanto più aumenteranno le insegne dello stesso doge,cioè di colui che impersonava il simbolo
dello
stato
veneziano”.
Ivi,
p.
837.
G.
Ravegnani,
Investitura
e
insegne
ducali,
cit.,
http://www.treccani.it/enciclopedia/eta-ducale-le-testimonianze-insegne-de l-potere-e-titoli-ducali_.
22
scomparve del tutto,33 ma venne associato al giudice supremo del ducato come
insegna della sua facoltà di giudicare34.
La cerimonia proseguiva, infine, con la ricezione dello scettro e si concludeva,
come a Bisanzio, con altri atti rituali che portavano il doge a Palazzo per il
giuramento e la distribuzione del denaro al popolo.
Nello
stesso
periodo,
inoltre,
fu
introdotta
un’importante
novità
nel
conferimento di titoli nobiliari bizantini ai dogi di Venezia. Nel 1082, Domenico
Selvo ricevette da Alessio I il titolo di protosevastos, conferitogli nel quadro di
un nuovo trattato con l’impero. Da occasionale, come era stata fino a quel
momento, la dignità divenne ereditaria, trasmissibile cioè da un doge all’altro,
e ad essa si aggiunse uno stipendio, o roga, che sostituì le donazioni, esse
pure occasionali fino ad allora. Anche quando nel 1084 Domenico Selvo venne
deposto e il titolo passò al suo successore Vitale Falier, egli continuò comunque
a fregiarsi della dignità imperiale, seguendo l’usanza bizantina, in virtù della
quale i titoli non erano revocabili se non dall’imperatore e si estinguevano solo
con la morte del titolare.
L’attribuzione di titoli imperiali, in Italia, fu un privilegio condiviso dai duchi di
Venezia, Napoli, Amalfi e Gaeta. La dignità palatina veniva concessa dagli
imperatori di Bisanzio ai governanti stranieri per gratificarli e garantire un
Vediamo così comparire dapprima il circulus aureus intorno al berretto, poi “la corona preziosa attorno al corno ducale
di broccato d’oro, poi il camauro, poi l’ombrello in tessuto d’oro, poi il vestito anch’esso tutto d’oro, le calze rosse, le
scarpe nere punteggiate d’oro e di porpora, le trombe d’argento, gli stendardi, il bucintoro e via dicendo”. A. Pertusi,
Quedam regalia insignia. Ricerche sulle insegne del potere ducale a Venezia durante il Medioevo, “Studi Veneziani”,
7, 1965, p. 121.
33
Lo ritroviamo in mano al duca veneziano nel 1204, allorché Enrico Dandolo e il neo-eletto imperatore latino di
Oriente, Baldovino di Fiandra, entrarono nel palazzo imperiale. “Tutti do [si legge in una tarda cronaca] portava la
bacheta in man con le sue spade avanti chadauno de loro”. Ivi, p. 82.
34
Seggio e spada, al contrario, vennero conservati, ma non ebbero più lo stesso valore simbolico. L’iconografia non ci è
di grande aiuto per le più antiche insegne ducali. Alcuni dei mosaici marciani duecenteschi costituiscono invece, come
vedremo in seguito, una testimonianza significativa per l’analisi delle insegne del potere e dei titoli ducali - basti
pensare ai mosaici dell’Inventio (fig. 1) e dell’Apparitio (fig. 2), così come al mosaico (fig. 3) della lunetta di
Sant’Alipio - le insegne che, comunque, in essi compaiono sono probabilmente identiche a quelle precedentemente in
uso. Nell’arco superiore della cappella di S. Clemente, in S. Marco, si vede il doge Giovanni Particiaco che con clero e
popolo riceve a Venezia il corpo del Santo (fig. 4). A fianco del doge si nota un personaggio riccamente vestito, con in
mano una spada ricoperta da fodero, secondo la consuetudine che poco più sopra si è visto esser propria del secolo XIII.
Ma non solo, anche nei mosaici trecenteschi della cappella di S. Isidoro emergono particolari interessanti relativi
all’utilizzo della spada e dello scettro (Figg. 5-6). Un caso a parte, in rapporto alle insegne, è rappresentato infine da
uno smalto della Pala d’Oro, che ritrarrebbe, secondo l’iscrizione, Ordelaffo Falier (1102-1118); se così fosse, si
tratterebbe della più antica raffigurazione di un doge veneziano (fig. 7), Insegne del potere e titoli ducali, Capitolo I, in
Estratto dal Vol. I della Storia di Venezia, cit., p. 838, http://www.treccani.it/enciclopedia/eta-ducale-le-testimonianzeinsegne-de l-potere-e-titoli-ducali_.
23
vincolo di alleanza o di subordinazione. I beneficiati, da parte loro, potevano
così rafforzare il loro peso politico e il prestigio personale inserendosi nei più
alti gradi della gerarchia nobiliare dell’impero35. I dogi veneziani, allo stesso
modo, ricevendo tali titoli vedevano consolidarsi la loro popolarità e il peso
della loro famiglia.
Tutto ciò dimostra, ancora una volta, come i governanti veneziani non fossero
insensibili al fascino esercitato da Bisanzio e al prestigio che significavano per
loro i titoli imperiali, tanto più elevati quanto più cresceva il peso politico di
Venezia agli occhi degli imperatori.
Ad ogni modo, i legami tra Venezia e Bisanzio non venivano rafforzati soltanto
attraverso il conferimento di dignità imperiali ai reggitori del governo
veneziano, ma anche, seppure non di frequente, da vincoli matrimoniali.
Conosciamo, infatti, alcuni casi di dogaresse bizantine: Orso I Partecipatio,
doge dall’864 all’881, sembra aver preso in moglie una nipote di Basilio I (867886) e, più di un secolo dopo, Giovanni, figlio di Pietro II Orseolo, sposò a
Costantinopoli una nobile bizantina di nome Maria, nipote di Basilo II36.
Nell’XI secolo si celebrò un altro matrimonio tra il doge Domenico Selvo (10701084) e la bizantina Teodora Ducas, figlia probabilmente dell’imperatore
Costantino X (1059-1067). Questa donna, conosciuta come Teodora secondo
alcune fonti, o forse come Maria, secondo altre, diede scandalo a Venezia per il
suo amore per il lusso. A tale proposito è significativa la descrizione che ne fa
San Pier Damiani37. Lo storico, infatti, nel mettere in luce la personalità
35
G. Ravegnani, Venezia bizantina, in www.porphyra.it/.../Porphira 11. pdf, , p. 15.
Di questo episodio abbiamo notizie grazie a Paolo Diacono, che così descrive l’evento: “In questo tempo il famoso
duca Pietro (II Orseolo), convinto dalle insistenti preghiere degli imperatori Basilio e Costantino, inviò il suo diletto
figlio e duca Giovanni nella città regia per prendere moglie. Gli imperatori lo accolsero benevolmente e decisero di
dargli in sposa la figlia di un nobilissimo patrizio di nome Argiro, nata da stirpe imperiale. Per anticipare il giorno del
matrimonio di una tale donna, cioè la nipote degli imperatori, fu permesso per decreto imperiale al suddetto duca e alla
ragazza di riunirsi in una cappella, dove ricevettero dallo stesso pastore della città il dono della sacra benedizione e
dagli imperatori corone d’oro sulle loro teste”, G. Diacono, Istoria Veneticorum, IV, 71.
37
“Un duca di Venezia aveva in moglie una donna di Costantinopoli. Costei amava vivere una vita molle e delicata e si
compiaceva a tal punto di cose morbide e piacevoli, in modo non solo superstizioso, ma direi, artificioso, che
disdegnava pure di lavarsi con l’acqua comune. I suoi servi avevano un gran da fare a raccogliere dappertutto la rugiada
dal cielo, con cui le preparavano a grandissima fatica un bagno. Faceva poi attenzione a non toccare mai il cibo con le
mani. Gli eunuchi, addetti al suo servizio, avevano il compito di ridurre i suoi cibi in tante parti minutissime, che poi lei
con certe forchettine d’oro a due e a tre denti portava alla bocca ed assaggiava. La sua stanza da letto inoltre profumava
a tal punto di ogni genere di incensi e di profumi che anche solo a raccontarlo mi pare di sentire il puzzo e forse chi mi
ascolta è capace di non crederci. Ma quanto la vanagloria di questa donna sia stata presa in uggia da Dio onnipotente, lo
manifesta chiaramente il castigo con cui fu punita…Tutto il suo corpo cominciò a corrompersi, così che le sue membra
si disfacevano in ogni parte riempendo la sua stanza di un fetore intollerabile. Nessuno riusciva a sopportarlo, né chi era
36
24
effimera di questa dogaressa bizantina finisce per darci una descrizione delle
usanze e dei costumi ancora rustici che contraddistinguevano la Venezia di
quel tempo, così lontani dalla raffinatezza della civiltà bizantina38.
addetto al suo abbigliamento, né il suo valletto personale; soltanto un’ancella, aiutandosi con un profumo speciale, poté
rimanere al suo servizio assiduamente, ma anch’essa entrava nella camera della sua signora solo per pochi istanti, e poi
fuggiva via di corsa. Disfatta ormai dalla lunga malattia e dopo aver sofferto duramente, finì i suoi giorni con grande
sollievo degli stessi suoi amici”. S. Pier Damiani, Institutio monialis, in Patrologia Latina, c. 744.
38
G. Ravegnani, Il bizantinismo veneziano in Storia dell’Italia Bizantina, parte II, cit., p.14. G. Ravegnani, Venezia
bizantina, in www.porphyra.it/.../Porphira 11. pdf, , p. 14.
25
1d - LA IV CROCIATA E IL BOTTINO VENEZIANO
La grande occasione per risolvere la precarietà dei rapporti tra Venezia e
Bisanzio, da tempo sempre più fragili, si presentò con la IV crociata.
Le
crociate,
guerre
cristiane
contro
gli
infedeli
per
la
riconquista
di
Gerusalemme e dei luoghi santi della cristianità, sono per definizione imprese
ispirate e organizzate dal papato39. Nel 1198 veniva eletto papa Innocenzo III,
convinto assertore della teoria delle due spade, ossia della distinzione fra
potere spirituale e potere temporale; egli riprese con decisione il progetto di
crociata, abbandonato dopo la fine ingloriosa della terza spedizione, e le sue
aspirazioni spirituali vennero a coincidere con quelle, puramente politiche, di
un’altra
forte
personalità,
quella
del
doge
veneziano
Enrico
Dandolo,
intenzionato a riaffermare il predominio di Venezia sull’ impero di Bisanzio.
Nel 1198 papa Innocenzo III decise di bandire la IV crociata, o “crociata dei
Veneziani” ma, se all’inizio essa sembrò essere mossa da un intento
prettamente mistico-religioso, in realtà le cose andarono diversamente.
Esistevano altri motivi, meno spirituali e ideali, primi fra tutti gli interessi
economici e commerciali che fin dall’XI secolo si muovevano sempre più
fortemente verso la parte orientale d’Europa40.
Come afferma Roberto di Clari, “con il suo ambiguo procedere e con la sua
conclusione a Costantinopoli, sembra quasi chiarire quale scopo e dove
esattamente volessero andare i cavalieri europei sin dalla prima epica
spedizione in Terra Santa. Con ogni probabilità la meta ambita era davvero
sempre stata Bisanzio, la cui conquista avrebbe significato per l’Occidente la
riconquista di tutto il mondo orientale, e non soltanto sotto l’aspetto
religioso”.41
La conquista di Costantinopoli si rivelò un grande affare per i veneziani. Essa,
infatti, non soltanto aveva fatto di Venezia la dominatrice di vasti territori del
39
E. Callegari, Il sacco di Costantinopoli nel 1204 e il bottino veneziano, Tesi di laurea, Venezia, Anno Accademico,
1999-2000, Relatore Prof. Giorgio Ravegnani, pubblicata in PORPHIRA 2005.
http://it.scribd.com/doc/104875858/%CE%A0%CE%9F%CE%A1%CE%A6%CE%A5%CE%A1%CE%91
Supplemento-n-III-2005.
40
Ibidem.
41
R. di Clari, La conquista di Costantinopoli (1198-1216), a cura di A. M. Nada Patrone, Genova 1972.
26
distrutto impero bizantino42, ma aveva anche assicurato alla Repubblica un
influsso predominante, politico ed ecclesiastico, sulla capitale stessa. Il bottino
veneziano fu enorme e i veneziani si assicurarono una quantità considerevole
di preziosi, opere d’arte e reliquie che in buona parte costituiscono il tesoro di
San Marco; dalle case ai palazzi, nessun luogo sacro o profano venne
risparmiato. I Latini profanarono e devastarono un gran numero di edifici
religiosi: dalla chiesa di Santa Sofia, la più importante a Bisanzio, a quelle dei
SS. Apostoli, di S. Maria presso la Blacherne, di San Michele e molte altre.
Come affermava il cronista e testimone oculare Roberto di Clari “dacché il
mondo fu creato, non erano mai stati visti né conquistati tesori così grandi, né
così magnifici né così ricchi né ai tempi di Alessandro, né ai tempi di Carlo
Magno, né prima, né dopo. Neppure io credo, per quanto è a mia conoscenza,
che nelle quaranta città più ricche del mondo vi siano tante ricchezze quante
se ne trovano a Costantinopoli”.43 Lo stesso storico Niceta Coniata, prezioso
testimone oculare degli eventi di quei giorni a Costantinopoli, autore di una
grande opera, il De signis Costantinopolitanis44, parla della spoliazione
compiuta dai crociati e, in particolare, delle ricchezze contenute in quelle
chiese. A tale proposito, egli si sofferma sulla descrizione dell’altare maggiore
di Santa Sofia, che “era interamente ricoperto di metalli preziosi di una
bellezza e di una policromia straordinaria e di un tesoro altamente ricco ed
infinitamente prezioso che fu fatto a pezzi e spartito tra i crociati”.
Non fu difficile per i prelati cattolici, partiti al seguito dei crociati, sottrarre a
tanti luoghi sacri di Costantinopoli le testimonianze più significative e famose di
una
così
imponente
eredità
cristiana,
giustificando
l’operazione
come
necessaria opera di protezione dalle mani profanatrici del clero scismatico
ortodosso45.
L’opera di spoliazione rientrava nella concezione medievale del “bottino di
guerra”, e quindi era ritenuta legittima; inoltre, il trafugamento di reliquie e di
42
E. Callegari, La quarta crociata in Il sacco di Costantinopoli nel 1204 e il bottino veneziano, cit.,
http://it.scribd.com/doc/104875858/%CE%A0%CE%9F%CE%A1%CE%A6%CE%A5%CE%A1%CE%91
Supplemento-n-III-2005.
43
R. di Clari, La conquista di Costantinopoli (1198-1216), cit., p. 215.
44
N. Choniate, De signis Constantinopolitanis, a cura di O. Morisani, F. Gagliuolo, A. Francesis, Napoli 1960.
45
V. Galliazzo, I cavalli di San Marco, Milano 1981, p. 63.
27
oggetti di carattere religioso presentava anche un aspetto devozionale che non
può essere sottovalutato46. I crociati distrussero, per lo più senza alcun
criterio, per impossessarsi delle ricchezze, mentre da parte veneziana si ebbe
maggior cura e le principali opere d’arte furono salvate per essere trasferite a
Venezia, dove in gran parte sono ancor oggi visibili.
Come scrive il Pertusi, i veneziani spoliarono, ma non distrussero: “asportando
con cura, metodicamente salvando un’ingente quantità di cose preziose, sia
pure per impadronirsene”47.
Questa appropriazione di materiali e il loro reimpiego simbolico, compiuto in un
intento di emulazione all’indomani della presa di Costantinopoli, hanno notevoli
ripercussioni
sul
principale
cantiere
pubblico
veneziano
costituito
dalla
riapertura della fabbrica della basilica di San Marco e dall’ulteriore definizione
dell’assetto della stessa. L’utilizzo di tali spolia va inteso come la deliberata e
programmatica “vestizione” di regalia insignia da parte della città-stato
adriatica, “dominatrice della quarta parte e mezzo dell’impero di Romania”,
come un processo costruttivo volto a dar prova visiva e testimonianza
simbolica di identità e, al contempo, di superamento nei confronti di quella
Costantinopoli della cui magnificenza Venezia indossa trionfalmente i segni.48
È proprio dall’analisi di queste regalia insignia e dal valore simbolico che le
spolia constantinopolitane hanno acquisito per la città di Venezia che dobbiamo
partire per capire il significato e la nutrita serie di interventi di riqualificazione
che, all’indomani della IV crociata, caratterizzano la platea marciana.
46
E. Callegari, Il sacco di Costantinopoli nel 1204 e il bottino veneziano, cit.,
http://it.scribd.com/doc/104875858/%CE%A0%CE%9F%CE%A1%CE%A6%CE%A5%CE%A1%CE%91
Supplemento-n-III-2005.
47
A. Pertusi, Exuviae sacrae constantinopolitanae. A proposito degli oggetti bizantini esistenti oggi nel tesoro di San
Marco, in “Studi Veneziani”, II, 1978, p. 251.
48
E. Concina, Bisanzio e l’Italia in Le arti di Bisanzio, cit., p. 299.
28
CAPITOLO II – ESPRESSIONI ARTISTICO-CULTURALI DUECENTESCHE
NELLA PLATEA MARCIANA
2a - IL PROGETTO DI RIQUALIFICAZIONE DELLA PIAZZA SOTTO IL
DOGADO DI SEBASTIANO ZIANI
A partire dalla metà del XII secolo, Venezia inizia una fase di trasformazione e
di rinnovamento che determina una riorganizzazione radicale della sua
configurazione urbana. Tra i vari interventi architettonici e urbanistici di
riqualificazione dell’area marciana vanno ricordati quelli intrapresi a partire dal
dogato di Sebastiano Ziani49(1172-1178).
Al di là, comunque, delle incertezze poste da alcuni studiosi riguardo la
veridicità o meno delle fonti cronachistiche veneziane che attribuiscono al solo
Ziani la definizione della Piazza, durante la seconda metà del XII secolo il brolo
antistante la chiesa di San Marco veniva ampliato e allungato inglobando del
terreno posto al di là di un Rio (Batario) il quale a sua volta veniva interrato.
Su questo terreno sorgeva la chiesa di S. Geminiano che con la sua presenza
ostacolava l’operazione e per questo motivo venne spostata all’estremità del
nuovo spazio ottenuto.
Dunque, l’allargamento del brolo antistante la basilica di San Marco mediante
la colmata del rivus Batarius che vi scorreva fu il punto di partenza di una serie
di interventi che resero possibile l’utilizzazione di spazi sempre più ampi.
Inoltre, la stessa chiesa, dedicata ai Santi del mondo ortodosso Mena e
Geminiano venne fatta spostare dallo stesso doge Ziani in un momento
collocabile tra il 1172 e il 1178 e fatta poi ricostruire nelle dimensioni
originarie: una tipologia centralizzata, monocupolata, a croce inscritta con
absidi laterali sempre inscritte50.
49
La studiosa Michela Agazzi pone l’interrogativo circa l’effettiva portata e qualità dell’intervento del doge Sebastiano
Ziani sulla piazza, intervento sempre citato dalla letteratura senza che venissero sollevati dubbi sulla sua datazione,
sulla qualità e sul tipo degli edifici e sulla loro durata nel tempo. A tale scopo sono state rivedute le notizie
cronachistiche per valutarne l’effettiva attendibilità e collocare le scarse informazioni relative all’impresa urbanistica
attribuita al doge Ziani nel quadro della situazione urbana veneziana del tempo, soprattutto delle zone adiacenti alla
piazza, che non poterono non essere condizionate a loro volta dalla piazza stessa. M. Agazzi, “Premessa” in Platea
Sancti Marci, I luoghi marciani dall’XI al XIII secolo e la formazione della piazza, Venezia 1991.
50
M. Agazzi, op. cit., p. 133.
29
Anche la lunga fabbrica delle Procuratie fu iniziata lungo il lato settentrionale
del brolo, con ogni probabilità contestualmente alla ricostruzione della chiesa
verso la fine del dogado di Sebastiano Ziani. Riedificate poi nel ‘500, sono ben
note nel loro aspetto medioevale d’insieme grazie alla celebre Processione in
Piazza San Marco di Gentile Bellini (1496). Tale iconografia rappresenta una
fonte unica e straordinaria per la descrizione della piazza San Marco e di buona
parte dei suoi lati, che ci vengono mostrati con una ricchezza di particolari e
con una fedeltà ineguagliabili (fig. 1).
Altra iniziativa documentata con ampiezza dalle cronache sempre sotto il
dogado dello Ziani è il rifacimento del Palazzo Ducale. Il castrum, che fino ad
allora aveva mantenuto un carattere difensivo per la presenza di fossati, mura,
torri, subì la prima radicale trasformazione aprendosi verso l’esterno;
l’adeguamento del sito dell’antico castrum avvenne secondo le nuove esigenze
istituzionali del Communis Veneciarum che prevedevano l’edificazione, da un
lato, di un Palazzo di Giustizia rivolto verso quella che sarebbe stata la
Piazzetta e, dall’altro, di un Palatium Communis rivolto verso le acque del
bacino, entrambi aperti verso l’esterno grazie alla presenza di porticati e
logge51.
Agli anni del dogado di Sebastiano Ziani è legato un altro evento significativo:
la
realizzazione
di
un
molo,
un
litus
marmoreum,
in
approssimativa
corrispondenza della fronte d’acqua dell’attuale Piazzetta, e l’innalzamento
delle
due
colonne
monolitiche
di
granito,
di
sicura
provenienza
costantinopolitana, con evidente allusione alle colonne onorarie della metropoli
d’Oriente52.
Risulta chiarissimo, quindi, che all’età dello Ziani, alla prima Venezia comunale,
risalgono tanto la prima configurazione in “piazza” di quelli che erano stati il
brolium e l’area marciana, quanto la prima attenta, esplicita cura della
definizione della fronte marittima della città. È indubbio, come afferma lo
studioso Ennio Concina, che nelle due colonne, sulle quali saranno collocati il
leone marciano e la statua di San Teodoro, va identificato un forte segno di
natura architettonica e urbanistica nel quale coesistono complesse simbologie.
51
52
M. Agazzi, op. cit., p. 84.
E. Concina, Le arti di Bisanzio, cit., p. 298.
30
La loro presenza, infatti, evocava non solo le colonne onorarie imperiali
costantinopolitane, ben visibili a tutt’oggi dalle acque portuali circostanti, ma
anche le due colonne che annunciano e marcano l’arrivo della via Appia a
Brindisi; simbolo, questo, che ha valore di varco sacrale, di porta marittima
della città e di estremo trionfale dell’iter maritimum veneticorum.53 La
posizione di tali colonne andava così a rafforzare la magnificenza dell’apparato
d’accesso a Venezia, del portale cerimoniale da dove partivano e dove si
concludevano le più importanti celebrazioni e i rituali della città: la piazza,
dunque, come teatro di ritualità, di andata imperiale che collegava il palatium
con la basilica, uno spazio altamente simbolico che rievocava lo stesso spazio
dell’Ippodromo costantinopolitano, un luogo altrettanto qualificato dove si
svolgevano le epifanie imperiali.
Ed è così che a Venezia la famosa Festa della Sensa assume, a partire dal
dogato di Sebastiano Ziani, un significato del tutto particolare.
È l’anno 1177 quando le due massime autorità europee, papa Alessandro III e
Federico Barbarossa, firmano a Venezia la pace che pone fine alla secolare
lotta tra Papato ed Impero. Un risultato a cui concorre in misura determinante
la mediazione del doge Sebastiano Ziani, al quale il Papa, in segno di
riconoscenza, porrà il suo anello (Fig. 2). Con questo gesto veniva sancito
l’indissolubile connubio tra la città stato e il mare, quello sposalizio che
conferiva al doge tutti quei privilegi simbolici del cero benedetto, della spada,
del seggio, dell’ombrello, delle trombe, degli otto gonfaloni che egli (fig. 3), per
secoli e secoli, porterà seco nelle cerimonie solenni54, come segno della sua
riconosciuta auctoritas. Il rito politico della desponsatio maris, che prevedeva
l’annuale andata ducale alla bocca del porto di San Nicolò del Lido per il
simbolico cerimoniale delle nozze tra Venezia e le acque del golfo Adriatico,
può aver suggerito allo stesso Ziani l’idea dell’edificazione del molo colonnato.
53
E. Concina, Venezia bizantina, ducale e comunale in Storia dell’Architettura di Venezia dal VII al XX secolo, Milano
2003, p. 56.
54
G. Lorenzetti, Venezia e il suo estuario, Milano 1926, p. 33.
31
2b - LA CHIESA DI SAN MARCO: ARCHITETTURA SIMBOLO
Pochi anni dopo il trasferimento della sede dei duchi venetici da Malamocco, la
traslazione del corpo dell’evangelista Marco da Alessandria d’Egitto alla Civitas
Rivoaltina (828) dava origine al culto primario del ducato venetico e alla
fondazione della chiesa di San Marco, disposta dal doge Giustiniano Particiaco,
nel suo testamento dell’828-829. Per la costruzione della nuova chiesa, che
avrebbe dovuto essere edificata fra la sua residenza fortificata e una
architettura religiosa preesistente intitolata a San Teodoro,55 il Doge dispose
che venisse utilizzato del “materiale proveniente dai suoi terreni in Equilo e
Torcello”56. Materiali quasi sicuramente di reimpiego, il cui recupero non
doveva essere motivato da ragioni esclusivamente economiche, ma piuttosto di
natura simbolica: nella elegantissimae formae basilica l’uso di spolia avrebbe
testimoniato visivamente il legame ideale del nuovo centro della devozione
venetica con la pia memoria delle proprie origini. È significativo, a questo
punto, soffermarci brevemente sul sito nel quale sorse la nuova chiesa di San
Marco attraverso un’analisi degli edifici che la attorniavano.
A poca distanza da essa sorgevano, infatti, la chiesa consacrata al Santo
Teodoro e, di fronte a questa, quella dedicata ai Santi Mena e Geminiano. I
titoli di queste chiese, che appartengono alla devotio militare orientale,57
evidenziano la specificità arcaica dell’area “premarciana”, le cui architetture
appaiono, quindi, strettamente legate alla memoria dell’aurea Bisanzio.
Riguardo ai caratteri architettonici e artistici delle due chiese non disponiamo di
molte informazioni; in particolare, incerta rimane la ricostruzione della
struttura architettonica di San Teodoro (fig. 4). Diverse sono state le ipotesi
interpretative sulla sua ricostruzione, a partire da quella del Dorigo, che la
descrive come un edificio a pianta greca a croce inscritta, monocupolata, con
navata centrale separata da quelle laterali e con arcate sostenute da pilastri58.
55
E. Concina, San Marco a Venezia: l’architettura, in Arte e architettura. Le cornici della storia, Milano 2007, p. 13.
“De petra que habemus in Equilo compleatur hedifficia monasteri Sancti Illari. Quicquid exinde rermanserit de
lapidus et quicquid circa hanc (…lacuna…) iacet et de casa Theophilacto de Torcello hedifficetur baxilicha Beati
Marci Evangeliste”, in L. Lanfranchi, B. Strina (a c. di ), Fonti per la storia di Venezia. Sez. II. Archivi Ecclesiastici.
Diocesi Castellana. SS. Ilario e Benedetto e S. Gregorio, Venezia 1965, p.23.
57
E. Concina, San Marco a Venezia: l’architettura, in Arte e architettura. Le cornici della storia, cit., p. 14.
58
W. Dorigo, Venezia romanica, La formazione della città medievale fino all’età gotica, Venezia 2003.
56
32
Le recenti ricerche condotte da M. Schuller e K. Uetz, invece, pur confermando
l’identificazione del sito di San Teodoro, hanno portato a una diversa ipotesi
ricostruttiva, che vede la chiesa come un edificio con pianta a croce libera dai
bracci molto contratti e di dimensioni minori rispetto a quelle descritte dal
Dorigo59. Dunque, nonostante lo stato attuale degli studi non ci permetta di
trarre delle considerazioni definitive riguardo al tipo architettonico di San
Teodoro (malgrado la proposta del Dorigo, che propende per una datazione
prossima ai primi decenni del IX secolo), l’unica fonte sicura citata è
significativa per il nostro contesto perché ci permette di definirla come una
struttura altamente qualificata, caratterizzata da un apparato decorativo
prezioso, come attestano la presenza di materiali lapidei, di pittura o
mosaico60.
Ma pur essendo sorta accanto a quella di San Teodoro, cupolata e arricchita di
decorazioni e collegata alla memoria dell’autorità imperiale d’Oriente cui la
provincia venetica era sottoposta, la fabbrica di San Marco non ne riprende il
modello. In effetti, la prima San Marco61 non riprendeva neppure la struttura
basilicale delle maggiori chiese episcopali venetiche o della sede patriarcale di
Grado, la Nova Aquileia, essa pure collegata alla memoria di San Marco; come
notano implicitamente le fonti, essa assumeva forma propria, forma allusiva,
adeguata alla presenza delle spoglie del santo62 (fig. 5).
59
V. Ruggieri, L’architettura religiosa nell’impero bizantino (fine VI-IX secolo), Messina 1995; M. Schuller, K. Uetz,
San Marco alla luce dell’archeologia dell’architettura. Primi risultati di “Bauforschung” alla facciata settentrionale,
in Quaderni della Procuratoria. Arte storia, restauri della basilica di San Marco a Venezia, I, facciata nord, Venezia
2006, pp. 54-60.
60
Quello che sarà lo spazio di Piazza San Marco è così segnato, già secondo fonti risalenti almeno al Mille, da
architetture collegate alla memoria dell’aurea Bisanzio. In San Teodoro, infatti, risiede Narsete, si afferma. Accanto,
aggiungono le fonti, sorge il palazzo del duca venetico e si svolgono gli splendidi cerimoniali apprestati per l’arrivo di
Longino, patrizio e prefetto di Ravenna. San Teodoro è descritta e celebrata per le sontuose colonne e i marmi
ornamentali, per la cupola, la cuba depicta, preziosissimamente conformata e adorna di un’iscrizione commemoriale
che la sovrasta. E. Concina, Le Nettunie mura: i miti delle origini in Storia dell’Architettura di Venezia dal VII al XX
secolo, Milano 2003, p.15.
61
In definitiva, i più attendibili studi ricostruttivi sulla San Marco particiaca restano attualmente quelli dello studioso
W. Dorigo. Egli è giunto alla conclusione che la chiesa altomedievale di San Marco sia sopravvissuta parzialmente
nell’odierna cripta della chiesa e che fosse stata impostata su pianta a croce greca libera, con una cupola all’incrocio dei
due bracci. E. Concina, San Marco a Venezia: l’architettura in Arte e architettura. Le cornici della storia, Milano 2007,
p 20. In questo modo, mediante l’ipotesi di fabbrica monocupolata, secondo il Dorigo si darebbe pure adeguata
interpretazione anche a un breve, allusivo passo delle cronache dell’Origo Venetiarum che afferma la dipendenza della
forma di questa dall’exemplum quod ad Domini tumulum Hierosolimis […] (esempio che si vede al sepolcro del
Signore di Gerusalemme), di particolare aulica sacralità. R. Cessi, Origo Civitatum Italie seu Venetiarum, Roma 1933,
pp. 72-73.
62
E. Concina, San Marco a Venezia: l’architettura, in Arte e architettura. Le cornici della storia, cit., p. 20.
33
Nell’estate del 976 i tumulti che portarono all’uccisione di Pietro Candiano IV
causarono l’incendio del palazzo, della chiesa di San Marco, della vicina San
Teodoro e di una vasta area urbana. Il successore Pietro Orseolo I si impegnò
nel restauro (“ecclesiam et palatium recreare”)63, honorifice e a proprie spese.
Anche se la portata di tale rinnovamento ci resta quasi del tutto oscura, è assai
significativo a tale proposito che il diacono Giovanni, cappellano del Doge
Pietro Orseolo II (991-1009), parlando del dedalicum instrumentum, ossia dei
mezzi artistici con i quali la cappella ducis viene allora riqualificata, segnali una
svolta, una novità data dal ricorso a un’inusitata magnificenza: i tempi
dell’Orseolo, secondo il cronachista, sono anche quelli dello straordinario
ornamento dell’oro. Ed è, infatti, a Pietro Orseolo I che il diacono Giovanni
attribuisce esplicitamente la richiesta di far eseguire a Costantinopoli un’opera
d’arte, una pala d’argento e d’oro di mirabile fattura per l’arredo liturgico di
San Marco da lui recreata: “in Sancti Marci altare tabulam oro opere ex
argento et auro Costantinopolim peragere iussit”64.
Tutto ciò non ci stupisce se pensiamo all’intensità dei rapporti politicocommerciali che, tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo, legavano Venezia alla
città di Costantinopoli; allo stesso modo forti erano i legami con la corte di
Bisanzio dovuti ai vincoli matrimoniali. Giovanni, figlio di Pietro II Orseolo
sposò infatti, a Costantinopoli, una nobile bizantina. Di tale episodio siamo ben
informati non solo da Giovanni Diacono, che si dilunga sulla cerimonia nuziale
ufficiata dal patriarca di Costantinopoli alla presenza dei due sovrani,65 ma
anche dalla Synopsiss Historiarum di Giovanni Skylitzes, alto funzionario di
corte
all’epoca
di
Alessio
I
Comneno
(1081-1118),
che
conferma
l’identificazione della sposa di Giovanni in Maria Argyropoulina, sorella del
patrizio Romano Argiro, che in seguito fu imperatore dal 1028 al 103466.
In altri termini, con gli esponenti della grande dinastia orseoliana si andava
preparando il contesto in cui maturerà la decisione che poco oltre la metà
63
G. Monticaolo (a c. di ) Giovanni Diacono, Cronaca veneziana, in Cronache veneziane antichissime, Roma 1890, pp.
57-171 (la nostra citazione da p. 140).
64
Ivi, p.143.
65
G. Diacono, IV, 71.
66
J. Skylitzès, Empereurs de Costantinople, traduzione di B. Flusin, commento di J.-C. Cheynet, Paris 2003, p. 287.
34
dell’XI secolo, e precisamente nel 1063, avrebbe portato all’avvio del cantiere
della ricostruzione della chiesa ducale veneziana, la San Marco “contariniana”.
Essa venne condotta a termine nell’arco di tempo che corre tra i dogadi di
Domenico Contarini (1042-1071), protosebastos, sepolto a san Nicolò del Lido
nell’altro edificio religioso che aveva egli stesso promosso, dove ancora nel XVI
secolo era visibile il suo “sepolcro di marmi di porfidi et serpentini67”,
Domenico Selvo (1071-1084), che promosse la realizzazione delle principali
opere strutturali, e Vitale Falier (1086-1096), a cui si deve la conclusione dei
lavori, anche se i tempi
della decorazione, com’è ben noto, si protrarranno
ancora a lungo.
Sul piano delle scelte formali relative alla nuova chiesa contariniana, svolse
certamente
un
ruolo
rilevante
il
prestigio
internazionale
della
cultura
architettonico-artistica bizantina. Tale influsso si era già fatto sentire a Kiev,
circa vent’anni prima dell’apertura del cantiere veneziano, con l’edificazione da
parte di Jaroslav il Saggio della cattedrale di Santa Sofia, progettata da
architetti greci su pianta a croce greca inscritta a cinque navate, vale a dire su
di un nucleo a “quinconce”, e dotata di un apparato decorativo che mostra una
stretta aderenza con il sistema iconografico medio-bizantino, pur con delle
varianti (figg. 6-7). Questa chiesa, consacrata nel 1046, è un esempio
significativo della forte diffusione geografica e della penetrazione di modelli
bizantini nel periodo in questione.
La più importante fonte cronachistica circa la fondazione della chiesa
contariniana risale al XII secolo e riguarda la cronaca di un Abate del
monastero di San Nicolò del Lido,68 il quale afferma che San Marco risulta
perfettamente simile all’Apostoleion della capitale imperiale d’Oriente. La
nuova San Marco dell’XI secolo è impostata su pianta a croce greca
leggermente allungata, ed è sormontata da cinque cupole (una per ciascun
braccio più una centrale). In questo tipo di soluzione permane il ricordo della
67
F. Sansovino, Venetia città nobilissima […], Venezia 1581. p. 84 a.
La fonte (oltre che nella Translatio Sancti Nicolai, già edita nel 1749 da F. Corner, Ecclesiae Venetae, Venezia 1749),
è ripresa negli Annales Mundi di Stefano Magno, erudito cronachista e collezionista del Cinquecento veneziano: “ In
tempo de questo doxe [Domenico Contarini] fo fondado la giesa nuova de san Marcho, Capela duchal…Questo scrive
Bortolomio Veronese Abbate de san Nicolò esser stà in tempo de questo doxe al tempo che quello etiam edificò el
monestier de San Nicolò”. R. Cessi, Venezia ducale. II, 1. Commune Venetiarum, Venezia 1965, pp. 51-53.
68
35
precedente cappella ducale a croce libera del IX secolo, che in parte condiziona
la ricostruzione; tale modello, tuttavia, viene reinterpretato e ridefinito in
forme dispiegatamente auliche, tanto che la cronachistica veneta definisce
senza esitazioni ˝a simele constructione artificiosa come quella che in onor dei
XII apostoli ìn Costantinopoli è constructa“, precisando inoltre che essa fu
affidata a “primarii” architetti della capitale imperiale69 (fig. 8).
La chiesa marciana riprende pertanto il prototipo dell’Apostoleion (fig. 9)
dell’età di Giustiniano, chiesa-reliquario apostolica e luogo delle sepolture
imperiali, strettamente affine ad un’altra chiesa fondata da Giustiniano, quella
di San Giovanni d’Efeso70 (fig. 10). Da un lato, dunque, la sede delle spoglie
dell’evangelista Marco viene ricondotta alla stessa forma architettonica di
quelle
dell’evangelista
Luca,
venerate
appunto
nell’
Apostoleion,
e
dell’evangelista Giovanni, sepolto in Efeso. Tutto questo avveniva in quel vasto
contesto di assimilazione ed emulazione di forme artistiche imperiali bizantine
che si è andato fin qui descrivendo71.
Il ricorso all’esempio della grande architettura-reliquiario costantinopolitana
appare tanto più consapevole in quanto quattro dogi - fra il 1071 e il 1117 furono deposti entro l’atrio di San Marco, che all’interno si stava coprendo di
cicli musivi72.
Insomma, nel simbolismo delle forme in cui viene ricostruita la cappella ducis
della Venezia in ascesa va vista una deliberata appropriazione di “regalia
insignia”, di un segno architettonico imperiale. Non va neppure dimenticato
inoltre che, nell’accogliere i sepolcri ducali, la chiesa di San Marco assolveva
uno dei compiti propri della chiesa degli Apostoli, che accoglieva le sepolture
imperiali. Per concludere, va sottolineato ancora una volta come l’ Inventio del
corpo di San Marco, che segue alla ricostruzione della basilica, appaia un
parallelo letterale dell’inventio dei corpi dei Santi Andrea, Luca e Timoteo che,
prima sconosciuti, inaspettatamente si mostrano a tutti, come scrive Procopio
di Cesarea, allo scopo preciso di dimostrare quanto fosse loro gradito il
69
E. Concina, Le arti di Bisanzio, cit., p. 269.
E. Concina, San Marco di Venezia e San Giovanni di Efeso. Le cupole degli Evangelisti in Scienza e tecnica del
restauro della Basilica di San Marco, Vol. I, Venezia 1999, pp. 173-188.
71
E. Concina, Le Arti di Bisanzio, cit., p. 270.
72
Ibidem.
70
36
santuario loro dedicato, cioè l’ Apostoleion giustinianeo73. Allo stesso modo, a
Venezia, con l’edificazione della cappella ducis, la memoria di Luca, Giovanni e
Marco veniva ricondotta al medesimo segno e al medesimo linguaggio
architettonico, nell’ambito, appunto, della grande cultura imperiale74.
Se gli spazi solenni, delineati con nitida chiarezza, evocano i concetti
architettonici fondamentali del VI secolo e si richiamano a un modello
architettonico protobizantino, prototipo di un’architettura imperiale e di
dispiegata magnificenza aulica, nello stesso tempo nella fabbrica di San Marco
sono identificabili tratti di reinterpretazione e di mediazione; in essa non
mancano, infatti, certi compromessi con la tradizione romanica e le tecniche di
cantiere risultano senz’altro di ambito occidentale.
73
Procopius, De aedificiis libri VI, a cura di J. Hamy, Lipsiae 1964, pp. 23-26. Viene fatto inoltre ricorso alla
traduzione italiana di Benedetto Egio da Spoleto edita a Venezia nel 1547 (Apostoleion, p. 7 r.; S. Giovanni di Efeso p.
42).
74
E. Concina, San Marco di Venezia e San Giovanni di Efeso. Le cupole degli Evangelisti in scienza e tecnica del
restauro della Basilica di San Marco, cit., pp. 186-187.
37
2c - GLI INTERVENTI DUECENTESCHI NELLA PLATEA MARCIANA
Dopo la fase “contariniana” assai significativa è la serie di interventi
architettonici, plastici e di decorazione parietale lapidea e musiva attuati
nell’ambito della fabbrica marciana a partire dal primo Duecento, nell’età
dell’impero latino d’Oriente (1204-1261), quando Venezia è riconosciuta
dominatrice della quarta parte e mezzo di quella che era stata la Románia
bizantina.
Alcune trasformazioni portano al radicale rifacimento dell’aspetto esterno della
chiesa ducale. Sul piano edificatorio gli interventi riguardano, da un lato,
l’allungamento della volta del braccio ovest fino alla facciata, che rese così
possibile la costruzione del grande arco del piano superiore del prospetto,
davanti al quale sarebbe stata collocata la Quadriga bronzea trasferita da
Costantinopoli; dall’altro, un’ articolazione del prospetto mediante i profondi
nicchioni del portale, atti così a sostenere l’inconsueta terrazza. I lavori
interessarono, inoltre, l’allargamento di due campate, a nord e a sud della
“facciata contariniana” (che originariamente presentava solo tre assi), e
l’estensione del nartece, che avvolge i due lati del braccio occidentale
dell’edificio cruciforme (in altre parole, l’edificazione del braccio settentrionale
del nartece). A questi interventi seguirà poi, nel Trecento, un prolungamento in
direzione est-ovest che coinciderà con l’ampliamento del prospetto verso sud
mediante la costruzione del battistero75.
Osserviamo dunque che la facciata originale della basilica si differenziava
notevolmente dall’attuale, ancora esistente, ma nascosta dal rivestimento
marmoreo: essa aveva una larghezza di solo tre assi e mancavano i profondi
nicchioni dei portali76 (figg. 11-12). È interessante, a tale proposito, chiarire
meglio la questione su quando e perché l’originaria facciata contariniana sia
stata così profondamente modificata. I profondi pilastri in muratura che lo
studioso ungherese Gombosi erroneamente considerava come dei contrafforti,
pensando che la loro costruzione si fosse resa necessaria per ragioni di statica,
75
E. Concina, San Marco a Venezia: l’architettura, in Arte e architettura. Le cornici della storia, cit., pp. 36-37.
Volker Herzner, Le modifiche della facciata di San Marco dopo la Conquista di Costantinopoli, in Storia dell’arte
marciana: l’architettura a cura di Renato Polacco, Venezia 1997, p. 71.
76
38
in realtà avevano l’unica funzione di sostenere la terrazza sopra il piano dei
portali. Solo questi pilastri danno origine ai profondi nicchioni dei portali e solo
questi ultimi hanno reso possibile la costruzione dell’inconsueta terrazza77.
Stando al mosaico di Sant’ Alipio, i quattro cavalli di bronzo provenienti da
Costantinopoli furono collocati sulla terrazza al più tardi nel 1265, un fatto
molto interessante che suggerisce come essa sia stata costruita appositamente
per sostenere i quattro cavalli.
Sul significato e sul valore simbolico che la famosa Quadriga doveva assumere
per la città di Venezia ritorneremo in maniera più approfondita in un secondo
momento. Per quanto riguarda gli interventi duecenteschi sopra citati, va
sottolineato come essi abbiano mutato profondamente il rapporto tra la chiesa,
la piazza e il paesaggio urbano. E a questo si rispondeva con la rielaborazione
del profilo delle cinque cupole rialzate - probabilmente dopo il 1260 - con
calotte lignee sopraelevate, rivestite all’esterno di lastre di piombo e coronate
da pseudo-lanterne e croci dorate sommitali78. In questo modo si conferiva
nuova enfasi alle cinque strutture di copertura, così da far emergere nel profilo
urbano, con accentuata forza visiva, il sito sacrale della città-stato79 (fig. 13).
Entro il 1265, poi, le murature esterne ed interne vengono rivestite di lastre di
marmi preziosi, di mosaici, di bassorilievi e di formelle. Il portale centrale
esterno e la porta da mar, che si apriva verso meridione in direzione delle
acque del Canal di San Marco, vengono decorati con battenti bronzei di età
giustinianea e sopra il portale viene issata la famosa quadriga proveniente
dall’Ippodromo di Costantinopoli.
Non va dimenticata la sistemazione del gruppo scultoreo in porfido dei
Tetrarchi, proveniente dalla piazza del Philadelphion e posto in opera all’angolo
tra il Palazzo Ducale e la chiesa, e il ricollocamento dei Pilastri Acritani,
“secondo la tradizione trasferiti da San Giovanni d’Acri o da Alessandria
d’Egitto,
ma
appartenuti
probabilmente
al
ciborio
della
chiesa
costantinopolitana di San Polieuktos”80. Tali interventi avevano lo scopo di
77
Ivi, pp. 67-75.
E. Concina, San Marco a Venezia: l’architettura in Arte e architettura. Le cornici della storia, cit., p. 37.
79
Ibidem.
80
E. Concina, Le arti di Bisanzio, cit. pp. 298-299.
78
39
rafforzare la magnificenza di apparato dell’accesso sud della basilica, che aveva
funzione di entrata principale, di portale cerimoniale per i visitatori e gli ospiti
ufficiali della Repubblica che sbarcavano al molo in corrispondenza visiva con le
due colonne del litus marmoreum, già collocate dal doge Sebastiano Ziani con
evidente allusione alle colonne onorarie della metropoli d’Oriente81.
Gli stessi marmi rari e policromi, secondo la tradizione raccolta da Stefano
Magno, provengono da Aquileia e da Ravenna, oltre che da Costantinopoli,
ossia dalle tre metropoli nelle quali si compendiavano la storia e la grandezza
dell’idea imperiale, ma anche quella delle origini veneziane82. Scrive, inoltre,
Flaminio Corner nel 1748 (ma, pur con delle varianti83, la tradizione è assai più
antica) che in un gruppo di colonne del nartece - “le otto colonne di marmo
antico nero e bianco orientale… disposte a solo ornamento della porta
maggiore interna dell’atrio” - verranno identificate le reliquie antiche del
tempio di Salomone, trasferite da Gerusalemme a Costantinopoli e da a qui a
Venezia, come Nova Hierusalem.
Nel
frattempo
continua
l’impegno
nella
monumentale
impresa
della
decorazione musiva. Alcuni dei maestri dell’arcone della Passione sono
impegnati, tra il 1215 e il 1220, nella realizzazione del grande pannello dell’
Orazione nell’Orto.
“Nella strada di una completa affermazione di autonomia di linguaggio, che
peraltro attinge alla tradizione bizantino-marciana e insieme ad elementi
paleocristiani e gotici, dal gruppo di artisti costituitosi attorno alla Preghiera
nell’Orto84 dipenderanno, fra il terzo e il quarto decennio del Duecento, i due
cicli dei profeti con la Vergine e L’Emmanuele, insieme con gran parte delle
icone parietali musive isolate dai sottarchi della basilica e infine, più avanti nel
tempo, le grandi scene dell’Apparitio marciana”85 nonché le lunette esterne
della facciata, delle quali rimane quella di Sant’Alipio, che descrive il trasporto
del corpo di San Marco entro la basilica. Nel frattempo, nel nartece si lavora
81
Durante questo periodo, intorno al 1264, viene terminata pure la pavimentazione a mattoni, disposti a spina di pesce,
di Piazza San Marco. S. Bettini, Venezia. Nascita di una città, Vicenza 2006.
82
Biblioteca Nazionale Marciana, Venezia, mss. It. cl. VII, codd. 516-517 (7812-3).
83
F. Corner, Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia e di Torcello, Padova 1758, p. 191.
84
E. Concina, Le arti di Bisanzio, cit., p. 302.
85
Ivi, pp. 301-302.
40
alla decorazione musiva relativa alle scene veterotestamentarie della Genesi e
dell’Esodo, che presentano chiari riferimenti alle illustrazioni di un manoscritto
costantinopolitano del V-VI secolo, del tipo della Genesi Cotton, e forse anche
di un codice miniato protopaleologo86.
È quanto mai significativo, inoltre, che dopo gli interventi duecenteschi,
sebbene San Marco mantenga istituzionalmente il suo ruolo di Cappella Ducis,
essa venga percepita anche come cantiere collettivo della civitas e del comune,
metafora artistica della sua concordia. Tutto ciò ci viene suggerito dai
bassorilievi dell’arcone dei Mestieri del portale centrale, che ben evidenziano la
partecipazione della comunità alla formazione della fabbrica; i grandi, si
afferma, vi contribuiscono con marmi preziosi e con denari, il popolo con il
proprio lavoro (Stefano Magno). Per vari aspetti sarà questa la linea destinata
a prevalere. La basilica marciana, dunque, non avrebbe più dovuto in alcun
modo accogliere la memoria del potere politico dei singoli, ma divenire luogo
emblematico di una pubblica pietà da identificarsi come virtù collegiale della
Repubblica87.
86
87
Ibidem.
E. Concina, L’arte marciana in La Basilica di San Marco a Venezia, a cura di Ettore Vio, Firenze 1999, p. 40.
41
2d - IL BIZANTINISMO ARTISTICO NEL PROGRAMMA ICONOGRAFICO
DEI MOSAICI DELLA BASILICA MARCIANA E LA FASE DUECENTESCA
Si ritiene che, fino allo schiudersi del XIII, il rivestimento musivo in San Marco
fosse limitato alle parti “celesti”, cioè a quelle al di sopra della seconda cornice,
anche perché la presenza delle tribune, che non consentiva dal pianterreno la
visione dei mosaici collocati al di sotto di tale fregio, ne rendeva superflua la
presenza. Nella sua più recente opera su San Marco88, Otto Demus afferma che
la demolizione delle tribune nel XIII secolo ha creato nuovi spazi da mosaicare
nelle pareti più basse, tra la prima e la seconda cornice, anche con materiale
musivo importato dalla IV Crociata, il tutto con esclusivo scopo trionfalistico,
proprio per evidenziare ancora una volta, grazie all’abbellimento del martyrium
dell’Evangelista, il nuovo ruolo assunto da Venezia a seguito di quella
clamorosa impresa89.
Tali mosaici si configurano come vere e proprie “aggiunte decorative”, poiché o
ripetono fatti già narrati in mosaici precedenti o introducono digressioni non
proprio coerenti con l’iconografia generale musiva, che fino al XII secolo
sembrava osservare un programma prestabilito, che teneva conto sia della
tradizione bizantina che delle istanze politiche proposte dall’entità semantica di
San Marco, in quanto chiesa di Stato, oltre che martyrium.90
A tale proposito è opportuno, prima di soffermarci in maniera più approfondita
sulle caratteristiche dei mosaici marciani del Duecento, fare alcune riflessioni
sul tema complesso e discusso delle relazioni fra apparato decorativo della
basilica marciana e iconografia bizantina. Abbiamo già confermato, nonostante
qualche posizione recente contraria,91 la riconfigurazione architettonica di San
Marco nell’XI secolo, come pure la dipendenza della fabbrica dalla chiesa dei
Dodici Apostoli di Costantinopoli, sottolineando in particolare il ricorso a un
modello arcaico protobizantino, apostolico e imperiale, riletto facendo uso
88
O. Demus, The Mosaics of San Marco in Venice, II, Chicago-London 1984, p. 5.
R. Polacco, Mosaici del Duecento all’interno della Basilica in San Marco, la Basilica d’Oro, Milano 1991, p. 237.
90
Ibidem.
91
R. Cecchi, La costruzione bizantina del IX secolo. Permanenze e trasformazioni, Venezia 2003.
89
42
dell’iterazione di un modello a “quinconce” di matrice medio bizantina92. Tra le
motivazioni principali che spinsero i dogi veneziani ad una siffatta scelta si
ritiene vi sia il grande ruolo assunto dall’ Apostoleion come sede della memoria
imperiale, di heroon di Costantino e dei suoi successori (fig. 14). Ciò appare
evidente
non
solo
dalla
lettura
della
cronaca
venetica
dell’Origo,
ma
soprattutto osservando che sia la chiesa costantinopolitana, sia quella efesina
erano luoghi di memoria evangelica, in quanto custodi, rispettivamente, delle
reliquie di Luca, e di Giovanni. In questo modo, con la scelta di rendere la
chiesa ducale consimilis a quello specifico modello cruciforme cupolato
bizantino, la memoria di Marco avrebbe assunto la stessa forma delle altre due
chiese testimoni del messaggio di Cristo93.
Detto questo, va sottolineato come la forma architettonica di San Marco non
consentisse l’applicazione di un apparato decorativo di modello mediobizantino. La San Marco contariniana è, infatti, una struttura molto grande
ottenuta iterando cinque volte, sullo stesso disegno cruciforme, uno schema a
quinconce. Il programma medio bizantino è funzionale solo a piccole strutture
come quelle monastiche, di cui abbiamo già parlato. Di qui l’adattamento in
San Marco, di un preciso e rigoroso programma iconografico adeguato a uno
schema protobizantino.
Nonostante il lungo dibattito e le diverse posizioni sulla secolare impresa dei
cicli
musivi
marciani,
possiamo
affermare
che
l’insieme
sia
stato
fondamentalmente impostato secondo un preciso schema programmatico, in
buona parte riconoscibile nonostante le variazioni introdotte nel corso della
serie di interventi. Tale schema è impostato su una duplice articolazione: da un
lato il percorso cristologico coerente con la gloriosa forma crucis della grande
chiesa ducale, dall’altro il percorso narrativo imperniato sulle storie del
protettore Marco, connotato da una forte valenza politica, in quanto evocatore
92
E. Concina, Iconografia marciana e iconografia bizantina: note e considerazioni in “Quaderni della Procuratoria”,
2007, pp. 24-41.
93
Per ulteriori approfondimenti relativi a questa tematica si rimanda ai saggi: E. Concina, San Marco a Venezia:
l’architettura in Arte e architettura. Le cornici della storia, cit., pp. 13-40 , E. Concina, San Marco di Venezia e San
Giovanni di Efeso. Le cupole degli Evangelisti in Scienza e tecnica del restauro della Basilica di San Marco, cit., pp.
174-188.
43
delle sante origini della civitas rivoaltina, della pietas ducale e del popolo
venetico94.
A San Marco, dunque, la “sezione narrativa” del programma iconografico
“standard” bizantino appare flessibile, adattabile, modificabile in relazione alle
funzioni dell’edificio religioso stesso, alla devozione personale e alle intenzioni
dei
committenti.
L’eccessiva
complessità
e
ricchezza
di
contenuti
che
caratterizza il programma iconografico marciano potrebbe derivare dalla
dimensione della fabbrica stessa, che permette alla narrazione figurata di
dilungarsi e di appropriarsi di numerosi spazi disponibili, non trovandosi
vincolata a quelli assai più ridotti, distintivi di una chiesa monastica a croce
inscritta (basti pensare ai casi di Chios, Osios Lukas e di Daphnì)95.
La serie di episodi si può così estendere facendo ricorso ai corrispondenti
modelli iconografici bizantini, pur talora riadattati e rielaborati. Ed è proprio
sulle caratteristiche stilistiche e iconografiche inerenti alle fasi decorative
duecentesche
che
concentreremo
la
nostra
attenzione,
evidenziando
il
processo evolutivo che, all’indomani della IV crociata, aveva caratterizzato la
pittura musiva nel più importante cantiere pubblico costituito dalla riapertura
della fabbrica della basilica marciana.
94
95
E. Concina, Iconografia marciana e iconografia bizantina: note e considerazioni, cit., pp. 25-26.
Ivi, p. 33.
44
2d, 1 - L’Orazione nell’Orto
Il grandioso pannello (figg. 15-16) che rappresenta la preghiera del Cristo sul
Monte degli Olivi, oltre a completare il ciclo cristologico, consentì di decorare i
nuovi spazi parietali, divenuti visibili a seguito della rimozione delle tribune.
Il fatto che la rappresentazione non sia stata suddivisa in singole immagini,
bensì trattata come un campo pittorico unitario, è senza dubbio dovuto
all’imporsi di un nuovo modo di narrare diffusosi proprio nell’ambiente
bizantino del tardo XII secolo. Esempi precedenti di tale nuovo formato si
trovano nelle pitture a fresco, come per esempio quella di Nerezi (1164, fig.
17), oppure nella scena di soggetto analogo trattata in tre episodi a San
Clemente (Vergine Peribleptos) di Ohrid da Michail Astrapas nel 1294-129596.
Tanto unitaria appare la composizione d’insieme del Monte degli Olivi, quanto
poco omogeneo si presenta, invece, il carattere stilistico nei particolari.
Tale capolavoro si può suddividere in tre sequenze tratte dal vangelo di Matteo
(26, 36-40) che rappresentano, in un continuum narrativo che si svolge in uno
scenario di montagna aspra e fiorita, i tre momenti di preghiera del Cristo e i
tre intervalli del suo desolato colloquio con Pietro e gli altri Apostoli, incapaci di
partecipazione e di veglia. Nell’angolo più lontano si scorge il gruppo degli
Apostoli addormentati (fig. 18), composto in atteggiamenti di inedita e audace
iconografia.
La
loro
caratterizzazione
segna
un
punto
di
svolta
nella
decorazione musiva di San Marco che, come analizzeremo successivamente,
tiene conto delle più recenti ricerche artistiche in ambito bizantino.
In particolare il Demus, presuppone, per l’esecuzione del grandioso quadro
musivo, l’intervento di tre Maestri. Al primo spetterebbe il gruppo di Apostoli
addormentati
di
sinistra:
le
figure
mostrano
uno
stile
completamente
caratterizzato, dettagliato, mosso, con una interessante differenziazione
tipologica; i drappeggi delle vesti degli Apostoli, con le innumerevoli pieghe che
96
O. Demus, Bisanzio e la pittura a mosaico del Duecento a Venezia, in Venezia e l’Oriente tra Tardomedioevo e
Rinascimento, a cura di A. Pertusi, Firenze 1966, pp. 125-139. Anche per il Prof. Ennio Concina nel pannello della
Preghiera del Cristo nell’Orto degli Ulivi è evidente la stretta parentela iconografica con la scena di soggetto analogo
trattata nella Theotokos Peribletos di Ohrid da Michail Astrapas e, dal momento che appare piuttosto improbabile la
conoscenza del mosaico marciano da parte del pittore bizantino, va quantomeno riconsiderata la dipendenza
iconografica di entrambe le opere da un modello affine. E. Concina, Iconografia marciana e iconografia bizantina: note
e considerazioni, cit., p. 34.
45
disegnano le forme alternate da parti lisce, sembrano corrispondere allo stile
tardo comneno di cui l’Ascensione marciana (fig. 19) rappresenta forse
l’esempio più alto97. Questa nuova monumentalità, l’equilibrio classico e gli
effetti tonali del colore ci inducono a definire costantinopolitana la formazione
del Maestro esecutore di questo gruppo.
In modo apparentemente inspiegabile la partecipazione di questo maestro si
spezza improvvisamente nel mezzo della composizione e proprio nel mezzo del
gruppo dei dormienti. In ogni caso, con le tre figure di destra del gruppo degli
Apostoli (Pietro, Andrea e un giovane apostolo giacente identificato come
Giovanni), inizia l’intervento di un secondo Maestro. Per Demus98, dalla stessa
mano derivano anche la figura di Cristo in piedi e quella in ginocchio e una
parte dello sfondo panoramico con il motivo “moderno” delle mura (escluso il
picco e il muro merlato, attribuiti al primo Maestro).
Rispetto alla rappresentazione degli altri Apostoli qui le forme sono diverse: il
trattamento dei panneggi è più rigido, i colori più freddi, le linee curve sono
meno naturali, ma piuttosto indurite e spezzettate. Questa sorta di “cubismo”
che si pone immediatamente accanto alla fluida, mossa differenziazione delle
figure del primo Maestro è il risultato di uno stile sorto a Bisanzio, dove lo
incontriamo in due fasi distinte, all’inizio e alla fine del XIII secolo. È chiaro il
riferimento al cubismo costantinopolitano esemplificato nei tardi affreschi della
chiesa di Peribletos di Ohrid del 129599 (fig. 20) e in quelli di Santa Trinità di
Sopočani
(1265),
che
costituiscono
l’esempio
più
evoluto
di
pittura
monumentale del XIII secolo100 (fig. 21), riscontrabile anche nella chiesa di
Mileševa in Serbia. Per Demus, il secondo Maestro dell’Orto degli Olivi di San
Marco si è certamente formato a Bisanzio; in ogni caso, gli è nota la corrente
stilistica bizantina più moderna del primo XIII secolo.
Anche il suo lavoro si interrompe improvvisamente; infatti, immediatamente
vicino al Cristo in piedi, rispettivamente nella seconda e nella terza parte del
grande quadro, si coglie un nuovo stile del tutto diverso, quello del terzo
97
Ancor più accentuato appare questo movimento negli affreschi macedoni del tardo XII secolo, come a Kurbinovo
(1191), dove il linearismo manierista è accentuato fino all’assurdo. Ivi, p. 128.
98
Ivi, p.129.
99
Ivi, p. 130.
100
V. Lazarev, Storia della pittura bizantina, Torino 1967, p. 245.
46
Maestro il quale, pur rifacendosi maggiormente al primo, presenta interessanti
tratti innovativi.
Viene mantenuta la monumentalità, quello stile classico, il movimento delle
pieghe e delle figure che ricorda il primo Maestro, anche se le forme
complessive sono però più grandi e i dettagli dei visi, delle mani, delle rocce
fino agli orli frastagliati mostrano le caratteristiche del primo stile gotico
veneziano che iniziava ad affermarsi in quel periodo ed è ravvisabile in
particolare nelle splendide immagini di fiori e di alberi. Benché in questa parte
si possano intravvedere due o tre mani, lo stile è molto unitario, si tratta di
una composizione nuova e libera con peculiarità veneziane.
Alla realizzazione di questo grandioso pannello avrebbero lavorato dunque
almeno tre grandi maestri dal 1215 al 1230. Per la datazione precisa si fa
riferimento, in particolare, ad una lettera scritta nel 1218 da papa Onorio III al
doge di Venezia Pietro Ziani - e conservata in copia negli Archivi Vaticani - con
la quale il Pontefice ringrazia il Doge per avergli inviato un mosaicista per la
decorazione dell’ abside di San Paolo Fuori le Mura a Roma (fig. 22) e gliene
chiede altri due, vista la vastità del lavoro101. Secondo il Demus, i pochi resti
raffiguranti le teste che si sono conservati nell’originale di quest’opera
presentano notevoli affinità con lo stile del mosaico del Monte degli Olivi, tanto
che egli avanza l’ipotesi che il primo e il secondo Maestro siano stati tra i
mosaicisti chiamati a Roma102.
Il Polacco,103 invece, colloca l’esecuzione del grandioso pannello intorno al
1220 o agli anni immediatamente successivi. La cesura stilistica avvenuta in
San Marco tra lo scorcio del secolo XII e la fine del secondo decennio del
Duecento sarebbe conseguenza del soggiorno romano dei maestri grecoveneziani, chiamati alla composizione dei mosaici dell’abside di San Pietro
prima, e di quella di San Paolo poi, intorno al 1216. È proprio da questo
soggiorno che, secondo lo studioso, gli artisti veneziani avrebbero attinto non
101
P. Saccardo, Les mosaïques de Saint-Marc, Venezia 1896, p. 30.
O. Demus, Bisanzio e il mosaico del Duecento a Venezia, in Venezia e l’Oriente tra Tardomedioevo e Rinascimento,
cit., p. 130.
103
R. Polacco, San Marco, la Basilica d’Oro, cit., pp. 238-239.
102
47
poche suggestioni per la creazione di quel linguaggio neo-paleocristiano che
connota il ciclo della Genesi dell’atrio marciano.
Tale composizione, assolutamente innovativa e “veneziana”, per la sua
raffinatezza, l’equilibrio compositivo, gli effetti cromatici e i dettagli decorativi
rilevabili soprattutto nei particolari della vegetazione, è considerata uno degli
esiti più alti dell’arte italiana del Duecento.
48
2d, 2 - L’Inventio e l’ Apparitio Sancti Marci
Il registro inferiore della parete occidentale del transetto sud è occupato da
due grandi quadri (figg. 23-24) il cui soggetto è assai complesso e ha lo scopo
di rappresentare il mito dell’autorivelazione104 delle reliquie di San Marco.
La collocazione di queste ultime era stata dimenticata negli anni intercorsi tra
la fondazione della basilica contariniana, nel 1063, e la sua consacrazione nel
1094 e, secondo la leggenda raccontata dai veneziani, dopo giorni di digiuni e
di preghiere un pilastro della chiesa di San Marco si sarebbe aperto mostrando
le reliquie dell’Evangelista Marco.
Nel primo pannello lo sfondo è costituito dalla raffigurazione della basilica di
San Marco in sezione longitudinale. Essa viene rappresentata con interessanti
dettagli architettonici: il pulpito e il ciborio che appaiono sovrapposti,
d’importazione costantinopolitana, e il presbiterio che presenta una recinzione
a plutei intervallati da pilastrini della stessa altezza. L’evento che viene
descritto è il momento della messa a cui presero parte il Doge e il Clero
davanti al popolo di Venezia supplicante. Si tratta delle preghiere e dei digiuni
rivolti al Signore nel 1094 per volontà del doge Vitale Falier, al fine di
conoscere il luogo dove giaceva il corpo del Santo, ignoto oramai a tutti, dopo
la costruzione dell’attuale basilica, allora appena terminata105.
Nel secondo pannello, invece, verso nord, l’Apparitio ha già avuto luogo e il
Doge e il suo seguito ringraziano per il miracolo avvenuto. Il Doge
rappresentato nei due pannelli è sì Vitale Falier (1084-1096), che assistette
all’Apparitio, ma nel contempo anche Ranieri Zen (1253-1268), che dedicò il
mosaico all’evangelista Marco come dono per aver protetto la città e i
veneziani stessi nelle lotte contro i genovesi106. Incerta è l’identificazione
104
O. Demus, The Mosaics of San Marco in Venice, cit., p. 47.
La leggenda narra che San Marco si degnò di manifestarlo sporgendo il suo braccio dal pilastro, quello attualmente a
sinistra, presso la cappella di San Clemente. Durante le feste di nobili e di popolo, il vescovo locale e il doge
collocavano definitivamente il corpo del santo sotto l’altare maggiore, dove tuttora si conserva.
A. Niero, I
cicli
iconografici
marciani in
I mosaici
di San
Marco,
Milano
1986.
(http://www.basilicasanmarco.it/ita/basilica_mos/patrimonio_marco2.bsm).
106
Il fatto è citato negli Annales Venetici Breves e nella Cronique des Venitiens di Martino da Canal. Ranieri Zen
(1253-1268) rinnovò la festa dell’Apparitio (25 giugno). Essa, infatti, esisteva nel 1258, quando i Genovesi furono
sconfitti ad Acri e di nuovo se ne parlò nel 1266, al tempo della battaglia navale di Trapani, sempre contro i Genovesi,
R. Polacco, la Basilica d’Oro, cit., p. 241.
105
49
dell’ultimo gruppo di personaggi, prevalentemente femminile. Degna di rilievo,
a tale proposito, è invece l’attenzione che viene posta alla scenografia,
importante per capire il rapporto fra i costumi dei personaggi marciani e i
costumi della corte di Bisanzio107. Non è questa la sede più adatta per
dilungarci su questo tema, anche se è interessante comunque notare come
l’immagine, il fascino e lo splendore della corte di Bisanzio rappresentassero il
punto più alto nell’immaginario collettivo e quindi anche nelle menti degli
artisti di quel tempo. Non solo l’Apparitio, ma anche molti altri mosaici
marciani offrono un ricco campionario di immagini, ufficiali e non, di sovrani,
dignitari civili ed ecclesiastici, colti nei loro abiti cerimoniali che variano di
foggia e di colore a seconda delle circostanze e spesso mostrano le insegne del
grado, che senza dubbio risentono nelle loro modalità espressive dell’influsso
bizantino.
Infine, non è possibile non cogliere talune affinità tra le rappresentazioni
musive
della
basilica
marciana
del
pannello
dell’Inventio
e
quelle
architettoniche del manoscritto madrileno della Synopsis historiarum di
Giovanni
Skylitzes
(soprattutto
la
miniatura
del
foglio
33
con
la
rappresentazione della chiesa della Blacherne) riferibile al 1150-1180.
Da notare anche che nell’Inventio e nell’Apparitio emergono alcuni stilemi
ravvisabili pure nei pannelli dell’Orazione nell’Orto: l’aulicità dell’ambiente e dei
personaggi in esso inseriti, la monumentalità e un certo gusto per il colore
fanno parte di quel “classicismo bizantino” che, a partire dal XII secolo,
registriamo in San Marco e che vedrà la sua massima espressione nella pittura
serba di Mileševa e Sopočani.
107
G. Ravegnani, Rapporto tra i costumi dei personaggi veneziani, in Storia dell’arte marciana: i mosaici, a cura di R.
Polacco, Venezia 1997, pp.176-184.
50
2d, 3 - IL mosaico del portale di Sant’Alipio
Il mosaico posto nel primo arcone di sinistra (Sant’Alipio) della facciata esterna
della basilica di San Marco, in stile ormai protopaleologo108, raffigura il
trasporto delle reliquie dell’evangelista nella chiesa a lui intitolata (fig. 25). Si
tratta dell’unico mosaico duecentesco che si è conservato in facciata. La grande
capacità di riprodurre un’architettura così complessa in modo tanto fedele
denota la notevole abilità ritrattistica del mosaicista.
La rappresentazione frontale della chiesa veneziana sormontata dalle sue
cinque cupole è interessante, da un punto di vista iconografico, perché mostra
analogie non soltanto con illustrazioni librarie bizantine del tipo di frontespizi
delle Omelie di Giacomo di Kokkinobaphos (fig.14), ma anche con le
raffigurazioni di architetture quali quelle presenti nel ms. 707, rotolo liturgico
del monastero di San Giovanni a Patmos, o nel ms. 2759 della Biblioteca
Nazionale di Atene109.
La cerimonia di Stato della collocazione delle reliquie ha luogo in presenza del
Doge, del Patriarca di Grado, che indossa il palium orientale come nei pannelli
dell’Apparitio, e del Vescovo di Olivolo, seguiti da un corteo di dignitari ed
ecclesiastici sontuosamente vestiti. Il testo dell’iscrizione, nella redazione
originale “COLLOCANT HVNC DIGNIS ET COLIT HYMNIS VT VENETOS SERVET
TERRAQVE MARIQVE GVBERNET”110, ben chiarisce la funzione politica che
ancora nel Duecento aveva la collocazione e la custodia delle reliquie
dell’Evangelista Marco. È interessante, a tale proposito, sottolineare il
messaggio politico, volto alla glorificazione encomiastica della Repubblica, del
Doge, della basilica stessa, che da queste immagini di potere si rileva. Sulla
scia
del
cerimoniale
di
corte
e
dei
repertori
iconografici
pagani,
ideologicamente interpretati nel segno della cristianizzazione, le insegne del
potere quali corone, scettri, fibule, abiti sontuosi, architetture palaziali
concorrono a creare il mito della figura imperiale concepita come emanazione
108
R. Polacco, la Basilica d’Oro, cit., p. 242.
E. Concina, Iconografia marciana e iconografia bizantina: note e considerazioni in “Quaderni della Procuratoria”,
cit., p.34.
110
F. Sansovino e G. Stringa, Venetia città nobilissima […], Venezia 1604, c. 10b.
109
51
divina, espressione della perfetta unità fra Stato e Chiesa. Così a San Marco,
nel mosaico di Sant’Alipio, Doge e Patriarca insieme, circondati da alti dignitari
ed ecclesiastici, sfilano in un solenne corteo, nelle grandiose scene dell’attesa e
dell’accoglimento delle reliquie di San Marco.
Questo mosaico, inoltre, è importante dal punto di vista storico in quanto
documenta l’esistenza del rivestimento esterno delle cupole marciane. Il fatto
che sia stato eseguito sotto il ducato di Lorenzo Tiepolo (1268-1275) ci porta a
concludere che la sopraelevazione delle cupole esterne sia avvenuta nel
decennio compreso tra il 1265 e il 1275.
Così, ancora una volta, l’esempio del mosaico di Sant’ Alipio è significativo in
quanto, attraverso una lettura interdisciplinare, diviene uno straordinario
medium di comunicazione di precise idee e ideologie111.
Il mosaico è stato definito dallo studioso Michelangelo Muraro un esempio di
rinnovamento e nobiltà artistica della metà del Duecento. Il vertice dell’arte
musiva di questo momento viene raggiunto dal Maestro dei Pinakes.
111
Attraverso le decorazioni musive degli edifici di culto di alcuni centri significativi, quali Ravenna, Costantinopoli e
Venezia, inseribili in un arco cronologico compreso fra V e XIII secolo, si può felicemente delineare un percorso
politico-religioso. C. Rizzardi, Fra Ravenna e Venezia: Immagini di potere nei mosaici parietali (V-XIII secolo), Atti
del XII Colloquio internazionale per lo studio del mosaico antico, Venezia 11-15 settembre 2012.
52
2d, 4 - I Pinakes
Alcuni Pinakes, quelli raffiguranti la Vergine Orante (fig. 26), il Cristo Emanuele
(Fig. 27) e i profeti Isaia (fig. 28), Geremia (fig. 29), Davide (fig. 30) e
Salomone (fig. 31), costituiscono una delle più alte testimonianze del
rinnovamento artistico avvenuto a Venezia nel corso del Duecento.
In questo periodo, infatti, gli eventi che seguirono la IV crociata consentirono
ai Veneziani di importare a Venezia anche artisti della capitale conquistata, i
quali contribuirono in misura determinante alla diffusione della cultura
tardocomnena di Bisanzio, influenzando così lo stile dei mosaici veneziani, che
da greco divenne costantinopolitano112.
Il Cristo Emanuele è ritratto in piedi su un magnifico sfondo blu punteggiato di
stelle d’oro. Egli è eretto su suppedion con bordo gemmato e cuscino dorato
entro una preziosa cornice a palmette. Il volto giovane e l’incarnato perlaceo
del viso sono ben resi dalla magnifica disposizione delle tessere che creano un
effetto cromatico di alta qualità. Il corpo è avvolto da una tunica preziosa che
presenta riflessi color argento e che valorizza il plasticismo e le forme fluide ed
eleganti della sinuosa figura.
La Vergine orante si erge su un fondo d’oro che ricorda l’opus clatratum dei
battenti bronzei del portale centrale della basilica, importati da Bisanzio proprio
nel Duecento; forse l’intento è appunto quello di richiamare il simbolo di “porta
del paradiso” attribuito alla Vergine113. Ella indossa Kampaghià purpurei, una
tunica azzurra lumeggiata d’argento e un manto verde decorato con frange
d’oro e rosso nella parte interna. La complessa composizione delle tessere
appositamente disposte, che creano su tutto il pannello un particolare effetto
cromatico, conferisce plasticità al suo volto. La monumentalità, l’equilibrio, la
compostezza e l’eleganza dei morbidi panneggi della Vergine evidenziano l’uso
di un linguaggio rinnovato dal punto di vista plastico-tonale, legato al
classicismo tardocomneno trapiantato nei cicli pittorici serbi di Mileševa e
Sopočani e introdotto poi a Venezia da artisti della metropoli, importati durante
il periodo della dominazione latina.
112
113
R. Polacco, San Marco, la Basilica d’Oro, cit., p. 243.
Ivi, pp. 244-245.
53
Nella rappresentazione degli altri profeti (Salomone, Isaia) troviamo gli stessi
stilemi. È interessante comunque notare che il classicismo tardocomneno, se
negli affreschi serbi assume desinenze plastiche e naturalistiche soprattutto
grazie allo studio psicologico dei personaggi, qui nei pinakes marciani
acquisisce un valore nuovo: quella luce particolare che si irradia negli incarnati,
creando un effetto cromatico prezioso, mai raggiunto negli altri cicli della
basilica114.
Altri mosaici, come “La coppia d’Angeli con reliquiario della Croce” sopra la
Porta del Tesoro, o “Il Cristo in trono tra la Vergine e San Marco” sopra la porta
occidentale, sono attribuiti per le caratteristiche che presentano alla stessa
mano del maestro dei Pinakes.
114
Ivi, pp. 245-246.
54
2d, 5 - I MOSAICI DELL’ATRIO
Realizzati nel corso del XIII secolo, in seguito al successo riportato nel 1204
con la IV crociata, essi costituiscono uno straordinario completamento della
basilica, già abbellita al suo interno dalla decorazione musiva115 (fig. 32). Con
un’ampiezza unica al mondo nelle cupole dell’atrio vengono illustrate le storie
dell’Antico Testamento: dalla creazione del cielo e della terra e dal progetto di
Dio sugli uomini al dramma del peccato, dalla promessa ad Abramo alle
appassionanti vicende di Giuseppe e degli altri figli di Giacobbe, alla vita di
Mosè chiamato a liberare il popolo ebreo dalla servitù dell’Egitto. E proprio
l’ingresso nel deserto e l’inizio del cammino verso la terra promessa
concludevano la decorazione dell’atrio marciano, che diveniva così la strada
simbolica per entrare nel compimento della storia realizzatasi in Cristo116.
I fatti narrati nel Pentateuco racchiudono un importante messaggio spirituale:
“segnano” il tempo della venuta di Gesù la cui vita e i cui misteri sono celebrati
nei mosaici dell’interno della Basilica, ispirati al Nuovo Testamento.
La scelta degli episodi narrati nell’atrio non è, dunque, casuale, ma risponde a
un’intenzione didattica e glorificante: non a caso le storie di Adamo, di Noè
(fig. 33) e della Torre di Babele (fig. 34) seguono la narrazione fatta da Santo
Stefano Protomartire117 e riportata negli Atti degli Apostoli118. Questo riassunto
della preistoria cristiana attuato in fedele rispetto dei testi biblici aveva il
vantaggio di essere un’ abbreviazione canonica e quindi lecita; nei mosaici
vengono mantenute od omesse le stesse vicende del testo degli Atti e la scelta
delle raffigurazioni è conformata dunque ad un modello già accreditato.
R. Polacco ritiene che ogni manifestazione artistica apparsa a Venezia nel XIII
secolo sia ispirata da un’esigenza di rinnovamento cristiano. I presunti modelli,
e tra questi anche il racconto di Santo Stefano, sono tutti legati alla Roma
cristiana e l’idea stessa di un nartece è, secondo lo studioso, indiscutibilmente
paleocristiana. Il portico in San Marco non aveva, dunque, la funzione di un
115
G. Trovabene, Corso monografico sui mosaici della basilica di San Marco,Venezia, Anno Accademico 2004-2005.
B. Bertoli, L’Antico Testamento nei mosaici di San Marco in I mosaici di San Marco, Milano 1991, p. 55.
117
Nel tesoro si conserva un reliquiario cinquecentesco che contiene una delle pietre con cui Santo Stefano è stato
lapidato. R. Polacco, I mosaici dell’atrio in San Marco, la Basilica d’Oro, cit., p. 251.
118
Atti degli Apostoli, cap. VII.
116
55
tribunale (sebbene i canonici di San Marco fossero spesso notai), ma piuttosto
quella di un confessionale, in analogia con quanto accadeva in epoca
paleocristiana119. Per questo i mosaici marciani dell’atrio accolgono sin
dall’inizio e senza incertezze la novità paleocristiana, il che vuol dire, in altri
termini, che in essi domina il naturalismo120.
Non dimentichiamo, tuttavia, che il favoloso bottino della IV crociata aveva
assicurato alla chiesa di San Marco una gran quantità di materiale prezioso; lo
stesso Enrico Dandolo mandò da Costantinopoli molte “taole de marmo et
colone de porfido et marmoro con molto musaico per adornar la Chiexia de San
Marco”121. È molto probabile che l’espressione “molto musaico” sia da
intendere come materiale musivo, cioè smalti, oro dorato e tasselli di pietra, ed
è ancora più probabile che proprio questo prezioso bottino abbia dato impulso
all’arricchimento e al completamento della decorazione musiva della chiesa di
San Marco, che presentava diverse lacune tanto dal punto di vista formale
quanto da quello iconografico.
A tale proposito, è bene ricordare che in San Marco mancava del tutto un ciclo
di rappresentazioni del Vecchio Testamento, un tema che nel XII secolo era
divenuto moderno nell’area d’influenza bizantina e non solo in Sicilia122.
A partire dalla cupola della Genesi (fig. 35) si snodano i fatti narrati nel
Pentateuco. In particolare, in questo meraviglioso manto musivo è raffigurata
la Creazione del mondo. Il racconto è suddiviso in ventisei scene distribuite
all’interno di tre zone concentriche. In successione seguono le giornate della
Creazione: nel cerchio più interno della cupola sono raffigurate le prime tre
119
“L’aver fatto dell’atrio di San Marco un ambiente con una funzione legata ancora a quella che aveva nei primi secoli
del cristianesimo è una scelta legata alla volontà di sottolineare l’apostolicità storica della sede che nel Duecento era
ormai nominalmente gradense”. R. Polacco, la Basilica d’Oro, cit., p. 251.
120
Ivi, p. 256.
121
O. Demus, Bisanzio e la pittura a mosaico del Duecento a Venezia, in Venezia e l’Oriente tra tardo Medioevo e
Rinascimento, cit., p. 125.
122
Ci si riferisce alla rappresentazione della Genesi nei mosaici della Cappella Palatina di Palermo e di Monreale e alla
loro relazione con i mosaici marciani. Per O. Demus, i mosaici siciliani segnano l’affermarsi di uno stile fluido, agitato,
il cui ritmo conosce un progressivo crescendo. Nella Cappella Palatina, per lo studioso, le figure presentano già nella
prima metà del XII secolo un panneggio complicato, che si può paragonare a quello dell’Apostolo barbuto, disteso sul
monte degli Olivi di San Marco. Una generazione più tardi, il fascio delle linee nel drappeggio a Monreale è così pieno
di slancio che l’impressione d’insieme è molto più mossa e manieristica che non in San Marco. Tali forme in
movimento e tali gesti agitati saranno ancora più evidenti negli affreschi macedoni del tardo XII secolo, come a
Kurbinovo, dove il linearismo manieristico è accentuato fino all’assurdo. Ivi, p. 128.
56
opere create da Dio: la luce e le tenebre; lo spazio delle acque e lo spazio
dell’aria e l’emersione della terra (fig. 36).
A queste corrispondono simmetricamente, nel cerchio successivo, le tre opere
di “ornato”: il sole, la lune e le stelle; i pesci e gli uccelli; gli animali e l’uomo.
Singolare
è,
innanzitutto,
la
figura
del
Creatore,
che
si
scosta
dalle
rappresentazioni tradizionali che lo ritraevano anziano e con barba, mentre qui,
al contrario, è il Cristo secondo l’iconografia orientale, che porta il segno della
croce nel nimbo e che tiene una croce astile con la sinistra123. Secondo il
Demus, lo schema compositivo che raggruppa nella cupola della Genesi
ventisei scene in tre zone concentriche si rifà a rappresentazioni cosmologiche
tardoantiche e alle loro raffigurazioni medievali in cupole, pavimenti, miniature.
In particolare, il modello al quale gli artisti marciani si rifanno per la
realizzazione dei mosaici della cupola della Genesi risale al primo periodo del
Cristianesimo: si tratta della Bibbia Cotton, un codice miniato del V-VI secolo,
giunto a Venezia in originale o in copia, probabilmente in seguito alla IV
crociata, e andato quasi interamente distrutto in un incendio nel 1731 (fig. 37).
L’esser venuti in possesso di tale manoscritto potrebbe aver indotto i veneziani
ad ampliare, con l’aggiunta di un’ala settentrionale, l’atrio destinato ad ospitare
il ciclo del Vecchio Testamento in modo di poter accogliere tutte le scene del
modello124.
La
l’attenzione
posta
scelta
alle
delle scene,
proporzioni,
la
composizione
alle
figure
e
dei
al
singoli
quadri,
contorno,
alcune
rappresentazioni animali ancora piene della illusionistica vivacità della tarda
antichità e certe espressioni del colore, specialmente nelle storie della
Creazione, sono tutti elementi che provengono non dall’arte contemporanea
bizantina, ma dalla pittura illusionistica protobizantina del VI secolo e per
essere più precisi, in parte dal prototipo molto più antico di questa
concezione125.
123
Secondo la tradizione iconografica orientale (cfr. Origene, Omelie sulla Genesi 1, 13, PG 12, 156-157) che si rifà in
primo luogo al IV Vangelo, nessuno può vedere Dio se non nel Cristo che ne costituisce l’unica, perfetta immagine
(Giovanni 1,18; 14,8-11; cfr. Colossesi 1, 15) e per mezzo del quale Dio “creò i mondi” (Lettera agli Ebrei 1,2) come
confermerà solennemente il concilio di Nicea nel 325. B. Bertoli, I mosaici di san Marco, cit.,1991, p. 56.
124
O. Demus, Bisanzio e la pittura a mosaico del Duecento a Venezia, in Venezia e l’Oriente tra tardo Medioevo e
Rinascimento, cit., p. 126.
125
Ivi., p.134.
57
Ad ogni modo, nonostante la stretta dipendenza dalla Genesi Cotton, gli
studiosi considerano i mosaici della Genesi come prodotti esclusivamente
dell’arte veneziana, in stretta relazione con le opere della più tarda bottega del
Monte degli Olivi e con le rappresentazioni dei Profeti126.
Il carattere prettamente innovativo e “veneziano” di questi mosaici ben emerge
in molteplici aspetti: nel trattamento dei corpi e nel realismo delle figure
ignude,
nell’inedito
naturalismo,
nella
resa
degli
elementi
paesistici
e
architettonici opportunatamente collocati, nell’organizzazione delle scene e
dello spazio che ben definiscono la sequenza narrativa, nella resa dei dettagli
del disegno dei volti e dei drappeggi, così come nello straordinario colorismo
pittorico che pervade le raffigurazioni delle diverse specie di animali, in
particolare, degli uccelli e dei pesci.
La seconda cupola del nartece rappresenta le vicende di Abramo (fig. 38),
capostipite del popolo ebraico e iniziatore di una nuova storia dell’umanità. A
differenza di Adamo e degli uomini di Babele egli non presume di diventare
simile a Dio, ma ne ascolta docilmente la parola. Egli è rappresentato come
prefigurazione di Gesù Cristo e tale interpretazione cristologica è ben espressa
nel sottostante arcone in una scritta di intonazione polemica contro il popolo
eletto: “Signat Abram Christum qui gentis spretor hebree transit ad gentes et
sibi junxit eas”, Abramo prefigura Cristo che, ripudiando il popolo ebraico,
passò alle genti e le unì a sé127.
La decorazione musiva della cupola e della lunetta risale alle fine degli anni
Venti del XIII secolo e, seppure di poco posteriore rispetto alla cupola
126
O. Demus osserva come nel terzo stile del maestro del Monte degli Olivi e nelle raffigurazioni dei Profeti la
combinazione di stimoli bizantini e occidentali si attui in uno spirito veneziano, altamente innovativo. O. Demus,
Bisanzio e la pittura a mosaico del Duecento a Venezia, in Venezia e l’Oriente tra tardo Medioevo e Rinascimento, cit.,
p. 131. Per lo studioso R. Polacco, notevoli sono le differenze tra i mosaici duecenteschi dell’interno della basilica (che
egli definisce esemplari purissimi del gusto aulico costantinopolitano) e quelli dell’atrio. Lo studioso ribadisce, infatti,
che lo stile di questi ultimi è il risultato dell’influsso che i mosaicisti marciani hanno subito durante il loro soggiorno a
Roma per lavorare alla decorazione monumentale di una chiesa come quella di San Paolo Fuori le Mura. In questo
senso il più tardo contatto nel 1277 con i mosaici di Parenzo, ancora in seguito ad una commissione, non fa altro che
ravvivare le fonti paleocristiane. Sempre secondo lo studioso R. Polacco è interessante notare, a tale proposito, come i
veneziani portino con sé il recupero della romanità, chiaramente naturalista, molto lontana dal gusto locale improntato a
quella maniera greca “cubista” che rappresenta l’estrema evoluzione del linguaggio macedone. R. Polacco, I mosaici
dell’atrio in San Marco in La Basilica d’Oro, cit., p. 258.
127
La frase sembra sintetizzare, filtrati dalla letteratura patristica, i temi evangelici e paolini della rottura tra Cristo e i
responsabili di Israele, considerati figli, non più di Abramo, ma di Satana (cfr . Giovanni, 8,31-59) e del passaggio della
promessa ai popoli pagani (cfr. Matteo 21,43-44). B. Bertoli, I mosaici di San Marco, cit., p. 98.
58
precedente, introduce nuovi elementi: il racconto non si sviluppa più nella
tripartizione in zone, bensì in un unico fregio nel quale le varie scene si
succedono in una continuità narrativa che a volte permette lo sconfinamento
dell’una sull’altra. Nel modellato delle teste e dei drappeggi lo stile rivela la
stessa mano degli artisti che lavorarono nell’arcone di Noè e di Babele, anche
se la tavolozza risulta leggermente più sbiadita e presenta meno effetti
cromatici
rispetto
alla
precedente,
ad
eccezione
della
lunetta
con
la
raffigurazione dell’ospitalità di Abramo che, secondo il Demus, appare molto
più curata, forse per l’importanza del tema e anche per la sua posizione di
maggior visibilità dinanzi alla porta d’ingresso nell’atrio.
Dopo il lungo indugio su Abramo e l’essenziale accenno ad Isacco, il racconto
marciano della Genesi omette gli episodi della vita del terzo patriarca,
Giacobbe128, per passare alle storie del prediletto Giuseppe. Tale ciclo occupa
le tre successive cupole dell’atrio nel lato settentrionale. Giuseppe, figlio del
terzo patriarca, Giacobbe, è l’ebreo buono, l’interprete dei sogni, il giusto
sofferente. Dalle sue storie emerge il tema della giustizia che riconosce, salva e
premia l’innocente: dopo essere stato venduto dai fratelli e ingiustamente
condannato dagli egiziani entra nelle grazie del faraone e diviene il Salvatore
del popolo d’Egitto e dei suoi stessi fratelli che lo hanno tradito. D’immediata
percezione è l’insegnamento morale e religioso che tali vicende sottendono: il
giusto perseguitato non deve disperare, ma perseverare nell’onestà, perché
sarà
salvato
e
misteriosamente
trasformato
guida
gli
a
sua
eventi
volta
umani.
in
Per
salvatore
spiegare
da
Dio,
che
ulteriormente
l’eccezionale svolgimento dato a questo racconto, sviluppato addirittura in tre
cupole, gli studiosi sottolineano il posto centrale che nella narrazione occupa
l’Egitto, la terra del ministero e del martirio di San Marco. Anche Giuseppe
viene visto come una sorta di prefiguratore di Cristo: umiliato e glorificato,
venduto dai fratelli agli stranieri e salvatore degli uni e degli altri129. La prima
128
Non è del tutto chiaro il motivo di tale omissione; forse le storie di Giacobbe erano ritenute prive di esemplarità
morale e non si conciliavano con la finalità religiosa e la razionalità politica che presiedevano al progetto figurativo
della cappella ducale, anche se, nell’ala nord del nartece, la figura di Giacobbe appare quattro volte all’interno delle
vicende che riguardano i suoi figli e sono incentrate sul prediletto Giuseppe. B. Bertoli, I mosaici di San Marco, cit., p.
112.
129
Ivi, pp. 112-113.
59
cupola (fig. 39), che gli studiosi datano all’inizio del terzo decennio del XIII
secolo, riflette le caratteristiche generali della cupola di Abramo, ma con un
ulteriore affinamento, evidente dalla netta distinzione delle scene, così come
da una maggiore consapevolezza nell’uso del disegno e da certe espressioni
liriche nei volti delle figure, che lo studioso Demus intravvede e ritiene parte di
quella evoluzione stilistica che andrà a caratterizzare le cupole successive.
La seconda cupola di Giuseppe (fig. 40) e la lunetta, composte tra il 1125 e il
1260, infatti, presentano marcate differenze stilistiche rispetto alle precedenti,
tanto da far pensare di essere opera di mani diverse: i colori sono più accesi e
le figure più solide e movimentate. Alcune novità, che denotano l’influsso
dell’arte paleologa, riguardano lo sviluppo di certe strutture architettoniche da
cui sono inquadrate quasi tutte le scene e la creazione di spazi tridimensionali,
come si può ben vedere dalla rappresentazione del tavolo del Faraone nel
pennacchio a sud-est.
Le iscrizioni, inoltre, presentano nuovi caratteri paleografici che si dispongono
su due righe in modo molto più arioso e più chiaramente riferito alle singole
scene. Alcune raffigurazioni, come quelle della lunetta, rappresentano il
massimo del colorismo e della finezza tecnica130 e ben anticipano il capolavoro
dell’ultimo cupolino (fig. 41). Secondo lo studioso Demus, il rivestimento
musivo di questa cupola fu compiuto negli anni Settanta del Duecento e segna
il punto più alto dello stile classico del secolo, così come esso si manifestò a
Venezia. I corpi delle figure assumono quel plasticismo, quella robustezza,
quell’armonia nella forma e nelle proporzioni che mai si era vista nelle altre
cupole; anche i movimenti e l’atteggiarsi dei volti accentuano l’espressività dei
personaggi. Non manca il gusto per la tridimensionalità, che si rileva anche
nelle composizioni architettoniche; le stesse tende e le pareti determinano
spesso la scansione degli spazi e pure le piramidi, che sostituiscono i granai
nella Bibbia Cotton, sono disposte in due file in modo da indicare la profondità.
Anche il motivo dei cerchi nel rosone centrale è ripreso da quello della prima
cupola di Giuseppe, benché lo schema sia più complesso e impreziosito da un
lussureggiante intrecciarsi di foglie e viticci.
130
Ivi, p. 124.
60
La decorazione dell’atrio trova la sua splendida conclusione nella cupola di
Mosè (fig. 42), che completa il racconto veterotestamentario, ora ispirato al
secondo libro della Bibbia, l’Esodo. Prevale anche qui l’interesse narrativo
incentrato soprattutto sugli episodi biografici dell’infanzia e della giovinezza del
protagonista Mosè che, salvato dalle acque del Nilo, diviene il Salvatore, colui
che guiderà il suo popolo dall’Egitto verso la terra promessa. E non è casuale
che nella scena finale della rivelazione di Dio e della missione di Mosè appaia
uno dei temi più importanti, spesso recuperato dall’iconografia cristiana: quello
del roveto ardente, che ben si associa alla figura della Vergine. La scena del
roveto ardente che non si consuma è paragonata, infatti, alla verginità di
Maria131. Alla fine dell’atrio è dunque nel nome della Vergine che si stabilisce il
nesso tra Antico e Nuovo Testamento e il passaggio è ulteriormente
confermato dalla Deesis (fig. 43), l’intercessione della Vergine rappresentata
nella lunetta al di sopra della porta d’ingresso della basilica.
La datazione più probabile per questa decorazione musiva è compresa fra i
tardi anni Settanta e i primi anni Ottanta del XIII secolo. Di poco precedente a
tale periodo sarebbe il manoscritto miniato bizantino che fu scelto come
modello, la cosiddetta Bibbia di Carlo V conservata nella biblioteca di Gerona132
(fig. 44).
Nella rappresentazione della storia di Mosè il Demus rileva lo scontrarsi di due
stili diversi, dovuto all’irrompere dell’arte paleologa a Venezia. All’influsso della
nuova
corrente
egli
attribuisce
l’integrazione
delle
figure
nell’ambiente
paesaggistico o architettonico (basti vedere le prime due scene, quella
dell’abbeveramento del gregge e, nella lunetta, i miracoli nel deserto), le
montagne scoscese, quasi cubiste, e le architetture complicate del palazzo del
Faraone, nonché certi atteggiamenti delle figure ritratte di spalle con effetti
espressionistici.
131
La storia di Mosè è in qualche modo associata alla Vergine nella letteratura patristica e nella liturgia mariana
conservata dall’antichità fino ad oggi. “Rubum quem viderat Moises incombustum, conservatam agnovimus tuam
laudabilem virginitatem”, [Nel roveto che Mosè aveva visto non consumarsi riconosciamo l’intatta tua ammirabile
verginità], G. Nisseno, La vita di Mosè, in PG 44, 332; 46, 1136. La diatriba relativa al concepimento di Gesù e alla
verginità di Maria sarà chiarita con il Concilio di Efeso. B. Bertoli, op. cit., p. 144.
132
Ibidem. Anche lo studioso W. Dorigo non esclude che l’innovazione possa essersi giovata delle miniature di un
nuovo gusto protopaleologo di un libro dell’Esodo proveniente da Costantinopoli, anche se lo studioso ritiene che le
storie di Mosè siano opera delle stesse mani che hanno eseguito la quinta cupola. W. Dorigo, La Basilica di San Marco
in Venezia Romanica. La formazione della città medioevale fino all’età gotica, cit., p. 200.
61
In contrapposizione, gli elementi paesaggistici non sono tra loro isolati, come
nelle storie di Giuseppe, ma si susseguono, sono continui (proprio come lo stile
storico narrativo continuo romano del II secolo) e costituiscono un unico
ambiente. Le figure sono riprese in primo piano sullo sfondo di colline
arrotondate come nella scena del roveto, i volti rasserenati delle figure mal si
compongono con la violenza dei gesti, alberi e piante impreziosiscono il
paesaggio come nel pannello dell’Orazione nell’Orto all’interno della Basilica.
Infine, il cromatismo riprende le tonalità calde della cupola precedente.
62
2e - IPOTESI INTERPRETATIVE SUI MOSAICI DELL’ATRIO
Dopo la breve lettura iconografica dei mosaici dell’atrio della basilica di San
Marco, nasce il dibattito su quali siano stati i modelli a cui i mosaicisti marciani
si sono ispirati per la creazione di questa imponente opera.
Nella decorazione musiva duecentesca è ben nota l’analogia, rilevata da lungo
tempo e convincentemente, tra alcune delle scene della cupola del nartece e il
manoscritto bizantino della Bibbia Cotton; così come per altri episodi del
nartece è stata supposta la dipendenza da altri manoscritti illustrati di età
paleologa. I mosaici della Creazione e della protostoria umana rivelano,
tuttavia, la capacità di innovazione, il prestigio e la piena consapevolezza dei
mezzi espressivi da parte di una bottega locale in San Marco che, sebbene
abbia attinto da modelli protobizantini e tardoantichi, è riuscita a dar prova
della
propria
modernità
realizzando
un
autentico
capolavoro,
massima
espressione dell’evoluzione artistica del Duecento veneziano.
Anche il successivo sviluppo musivo negli anni Trenta, Quaranta, Cinquanta
del XIII secolo si evolve nel senso dell’affermazione di un linguaggio
autonomo.
La
forte
presenza
di
maestranze
veneziane
nella
fase
di
ampliamento e di decorazione dell’atrio è confermata a mio avviso anche dal
noto editto dei procuratori di San Marco del 1258, in base al quale nessun
mosaicista poteva accettare incarichi all’infuori del cantiere marciano senza
una particolare autorizzazione e, per di più, ogni maestro doveva tenere due
apprendisti perché imparassero il mestiere133.
Infatti, secondo O. Demus, le immagini che costituiscono la fine del ciclo di
Giuseppe costituiscono la più elevata espressione del protorinascimento
veneziano e sono il frutto di uno sviluppo locale. Tuttavia, nel ciclo di Mosè egli
ravvisa un possibile sviluppo della pittura per miniature134 degli anni Ottanta a
133
O. Demus, Bisanzio e la pittura a Mosaico del Duecento a Venezia in Venezia e l’Oriente fra tardo Medioevo e
Rinascimento, cit., p. 134.
134
Per alcuni episodi del nartece è stata supposta la dipendenza da altri manoscritti illustrati di età paleologa, E.
Concina, Iconografia marciana e iconografia bizantina: note e considerazioni in “Quaderni della Procuratoria”, cit., p.
34.
63
Bisanzio, arte nella quale avevano trovato la loro piena espressione le
premesse dello stile della dinastia dei Paleologi135.
Demus stesso giunge ad affermare che si assiste ad una svolta stilistica
inattesa tra l’ultima immagine del ciclo di Giuseppe e quello di Mosè e ciò lo
porta a concludere che l’evoluzione organica del protorinascimento veneziano è
stata brevemente interrotta dalla penetrazione dello stile paleologo136.
La presenza di rocce turrite costituite da acuti cubi e prismi e da mura - mura
che sono una costante degli sfondi paesaggistici -, le architetture palaziali
articolate e composite con terrazze aggettanti, ringhiere e scanalature, la
ripresa di motivi ornamentali nei particolari dei costumi, come le corazze dei
soldati e l’addobbo imperiale bizantino del faraone, sono tutti elementi che
trovano riscontro in opere del primo periodo dei Paleologi. Anche la
composizione complessiva della cupola è nuova e specificamente paleologa.
Essa non è più caratterizzata, come nelle cupole precedenti, da un fregio di
figure isocefale che si susseguono in un continuum narrativo senza inizio né
fine, bensì da una serie di singoli complessi rappresentativi, separati gli uni
dagli altri da una netta cesura verticale e da una riga di inscrizione radiale137.
Inequivocabile,
dunque,
appare
l’influsso
del
mondo
bizantino
sulla
decorazione musiva duecentesca, influsso che investe il cantiere marciano in
due momenti distinti: all’inizio del secolo - come testimoniano soprattutto i
mosaici duecenteschi dell’interno, definiti dal Polacco “esemplari purissimi del
gusto aulico constantinopolitano”138 - e dal 1258 fino alla fine del secolo,
quando, in seguito alla ripresa dei rapporti politico-commerciali tra Venezia e
Bisanzio al tempo degli imperatori Paleologi, assistiamo ad un rifiorire delle
relazioni culturali e artistiche fra le due città. Ed è proprio nell’intervallo fra
questi due periodi, nella parte centrale del secolo, che gli stimoli iniziali
vengono assimilati e rielaborati in uno stile originale, di grande potenza
espressiva, che rappresenta la prima, autentica manifestazione della volontà
135
V. Djurić, I mosaici della chiesa di San Marco e la pittura serba del XIII secolo in Storia dell’arte marciana: i
mosaici, a cura di Renato Polacco, Venezia 1994, p. 191.
136
Ibidem.
137
O. Demus, Bisanzio e la pittura a Mosaico del Duecento a Venezia in Venezia e l’Oriente fra tardo Medioevo e
Rinascimento, cit., p. 136.
138
R. Polacco, San Marco, la Basilica d’Oro, cit., p. 258.
64
artistica veneziana nella pittura a mosaico. E di tale temperie culturale i
mosaici dell’atrio costituiscono sicuramente una preziosissima testimonianza.
65
CAPITOLO III - BISANZIO E LA SCULTURA DEL DUECENTO A VENEZIA
3a – LA SCULTURA DUECENTESCA IN SAN MARCO
Fra l’XI e il XIII secolo un sontuoso apparato scultoreo ha contribuito al
completamento della facies della basilica marciana139. Tale decorazione plastica
venne realizzata in tre distinti periodi: durante il dogado di Vitale Falier, nei
rifacimenti immediatamente successivi imposti da eventi catastrofici e conclusi
sotto il ducato di Sebastiano Ziani e, infine, nella fase di arricchimento delle
strutture già esistenti, in accordo con la temperie trionfalistica inauguratasi a
Venezia all’indomani della IV crociata.
Ed è proprio quest’ultimo periodo, il Duecento, che rappresenta per la storia di
Venezia un momento importante e di intenso sviluppo per le arti plastiche, così
come testimonia la ricca e interessante produzione che ci è rimasta. Come si
sia giunti a questo processo, quale ruolo abbiano avuto gli stimoli e i modelli
bizantini e come i veneziani abbiano reagito a questi stimoli è il tema del
nostro approfondimento.
Per O. Demus è importante notare come lo sviluppo dell’arte plastica
duecentesca veneziana si differenzi sostanzialmente da quella a mosaico.
Innanzitutto, la conquista di Costantinopoli non provocò alcuna immigrazione
di scultori bizantini a Venezia. Nella capitale bizantina, infatti, non c’erano
artisti plastici monumentali particolarmente prestigiosi e, secondo lo studioso,
l’influsso bizantino fu avvertito a Venezia solo attraverso la presenza di
modelli. Fu così che cammei, monete, icone di pietra con figure a grandezza
naturale, modelli pittorici e, soprattutto, illustrazioni di manoscritti ebbero
probabilmente
un’influenza
determinante
sulla
produzione
plastica
veneziana140.
Gran parte di questo materiale giunse a Venezia in seguito al bottino
costantinopolitano della IV crociata e comprendeva in primo luogo materiale
139
Storia dell’arte marciana: sculture, tesoro, arazzi, atti del convegno internazionale di studi, Venezia 11-14 ottobre
1994, a cura di Renato Polacco, Venezia 1997.
140
O. Demus, Bisanzio e la scultura del Duecento a Venezia in Venezia e l’Oriente fra tardo Medioevo e Rinascimento,
cit., pp. 141-155.
66
amorfo e decorativo, lastre di marmo, colonne, capitelli, piastre per cancellate.
Pur non trattandosi di un repertorio particolarmente rilevante sotto il profilo
artistico,
esso
esercitava,
comunque,
un
profondo
influsso
sulle
arti
plastiche141; inoltre, la preziosità e il colore della materia prima divennero
elementi determinanti. Tale processo è particolarmente avvertibile nelle
trasformazioni che hanno caratterizzato il più importante cantiere pubblico
della città: la platea marciana. L’architettura in mattoni originariamente spoglia
di San Marco fu, infatti, rivestita con parte del materiale importato e molti di
questi elementi propriamente plastici, tra cui diversi rilievi decorativi e
figurativi, furono utilizzati per accentuare e arricchire tale rivestimento.
L’aspetto che le facciate della basilica marciana presentano ancor oggi, a
prescindere da aggiunte posteriori, risale infatti al XIII secolo.
La chiesa di fine XI secolo si presentava, in sostanza, un’architettura in mattoni
a vista ben articolata, ma priva di ornamentazioni figurative e solo nel corso
del
Duecento
vennero
sovrapposte
delle
facciate
ornamentali
scandite
plasticamente da colonne, decorazioni scultoree, mosaici, integrati in una
simbiosi decorativa molto affascinante che determina ancor oggi l’effetto
generale dell’edificio142.
Interessante è, inoltre, sottolineare le differenze che contraddistinguono le tre
facciate di San Marco - quella a Nord, quella a Ovest e quella a Sud – che
furono concepite in modo assai diverso dal punto di vista delle loro funzioni e
pertanto anche da quello della decorazione.
La facciata settentrionale (fig. 1) che dà sulla piazzetta dei Leoncini è
principalmente caratterizzata da una serie di icone e di elementi ornamentali,
per lo più trofei di varia provenienza, che trovarono una collocazione diversa
da quella per la quale erano stati ideati. Essa presenta un carattere intimo e
privato, in contrapposizione con il ruolo ufficiale e di rappresentanza svolto
dalla
facciata
principale
rivolta
verso
la
piazza
e
il
mare.
Anche
l’ornamentazione scultorea della facciata Sud (fig. 2) costituisce un insieme
141
Ivi, p. 143.
O. Demus, La decorazione scultorea duecentesca delle facciate in Le sculture esterne di San Marco, Milano 1995, p.
12.
142
67
formalmente ordinato e di effetto decorativo, ma poco significativo dal punto di
vista iconografico143.
In maniera completamente diversa è invece stata concepita la facciata
occidentale (fig. 3), un frontespizio dove dominano i più svariati contenuti
politico-sociali ed etico-religiosi, che celebrano il trionfo, il potere, la ricchezza
della città.
L’apparato scultoreo di questa facciata è straordinariamente ricco. Esso
comprende una gran parte di pezzi di reimpiego, opere riutilizzate in una sede
diversa da quella originariamente loro destinata, che sono state reinserite, per
quanto fu possibile, nel sistema logico della facciata e, quando non lo fu,
vennero collocate rispettando il contesto ottico decorativo.
A tale proposito, per citare un esempio, significativo è il nuovo valore
iconografico assunto dal gruppo scultoreo del Sogno di San Marco, che in
principio raffigurava il Sogno di San Giuseppe (fig. 4). Non conosciamo con
precisione la data della sua collocazione nella nicchia del timpano del portale
maggiore della basilica marciana, ma è certa la nuova valenza simbolica che
esso
venne
ad
assumere
quale,
appunto,
rappresentazione
della
praedestinatio, cioè del sogno nel quale San Marco avrebbe appreso dall’angelo
l’annuncio che un giorno il suo corpo avrebbe trovato pace e riposo nelle acque
della laguna. Tale scultura è un esempio interessante della potente creatività
che il mito fondatore dello Stato veneziano era in grado di mobilitare144.
Oltre a questa tipologia di elementi scultorei ereditati dalla facciata precedente,
aggiunti o trasformati, vi era altro materiale di spoglio, molto del quale
proveniente dal bottino costantinopolitano della IV crociata145. Tra i trofei più
imponenti e più importanti dato il loro carattere trionfale, per non dire
imperiale,
va
sicuramente
citata
la
famosa
Quadriga
proveniente
dall’ippodromo di Costantinopoli, così come il gruppo in porfido dei Tetrarchi, la
143
Ivi, p.14.
Ivi, p.15.
145
Non è questa la sede per poter dare uno sguardo d’insieme al complesso della produzione, il nostro obbiettivo è
piuttosto quello di analizzare l’influsso bizantino sulla decorazione scultorea della basilica marciana duecentesca, in
particolare soffermandoci sul carattere e il valore che tali pezzi di spoglio hanno assunto in San Marco all’indomani
della IV crociata.
144
68
testa in porfido di un imperatore bizantino, forse Giustiniano, ribattezzata, in
seguito “del Carmagnola”, e altre sculture usate a puro scopo ornamentale146.
Al di là di queste “prede” dal forte carattere trionfale, vale la pena sottolineare
come, fra i vari materiali di spoglio, vi fossero anche pezzi di importazione
paleocristiani e paleobizantini che vennero ad assumere un ruolo nuovo e
fondamentale nella fisionomia artistica e culturale della Venezia del XIII secolo.
Lo studio, poi, su come adattarli e collocarli in un dato posto con una precisa
funzione, la ricerca volta a migliorare e rielaborare i pezzi danneggiati, così
come la riesecuzione di quelli mancanti, portarono – secondo lo studioso O.
Demus – allo sviluppo di una sorta di protorinascimento147, che culminerà con
la produzione di imitazioni plastiche protocristiane e con la ricreazione di rilievi
in stile protobizantino. A tale proposito, la più interessante rielaborazione di un
modello protobizantino è sicuramente il rilievo di Ercole con la cerva e l’idra,
che si trova ubicato nella facciata occidentale; in questo caso, l’artista
veneziano che reinterpretò l’originale protobizantino del V secolo148 sembra
essere stato uno degli scultori più importanti del secondo quarto del XIII
secolo.
Con il bottino di Costantinopoli era giunto a Venezia anche un gran numero di
rilievi mediobizantini, databili fra il X e il XIII secolo, che furono fondamentali
per la creazione, nel rilievo, di uno stile veneziano innovativo, soprattutto
quando l’oggetto della rappresentazione era particolarmente interessante da
suscitarne l’imitazione.
Non è tanto il caso di rilievi come il Volo di Alessandro149 (fig. 5), che fu incluso
nel programma iconografico della facciata marciana quale immagine della
146
I. Favaretto, Presenze e rimembranze di arte classica in Storia dell’arte marciana: sculture, tesoro, arazzi,cit., pp.
74-88.
147
Ibidem.
148
O. Demus considera l’originale protobizantino un’opera del V secolo, i cui più vicini esemplari sono costituiti da
avori e dal rilievo marmoreo di Ercole con la cerva del Museo di Ravenna. O. Demus, Le sculture esterne di San
Marco, cit., p. 86.
149
Si ritiene che tale opera sia parte del bottino costantinopolitano giunto a Venezia con la IV crociata. C. Frugoni, La
lastra marmorea dell’ascensione di Alessandro Magno, in La basilica di San Marco, arte e simbologia, a cura di Bruno
Bertoli, Venezia 1993, p. 169. La studiosa individua, inoltre, nel rilievo di Alessandro l’episodio tratto dal romanzo
greco del V-VI secolo dello Pseudo Callistene dove si racconta “come il grande Macedone, giunto ai limiti della terra di
cui aveva esaurito le conquiste, avesse pensato di dare la scalata al cielo su un carro trascinato da grifoni, animali
ferocissimi, metà aquila e metà leone, ponendo loro davanti due leoni con della carne infilzata a mo’ di esca. Le bestie,
nel tentativo di afferrarli, cominciarono allora a salire; per ritornare a terra Alessandro abbassò i suoi piedi facendo
mutare la rotta ai temibili destrieri, costretto, in alcune varianti della leggenda, dall’ira divina insofferente di tanta
69
superbia, o il tondo del Campiello Angaran presso San Pantalon, che
rappresenta
un
imperatore
bizantino
nella
sua
uniforme
d’ordinanza.
Certamente più significativo fu il Trimorphon150(fig. 6) murato nella navata
meridionale, presso l’entrata al Battistero, il cui stile, ben espresso nella
realizzazione dei drappeggi e dei volti dei personaggi, pur non avendo trovato
un’imitazione diretta, sembra aver contaminato il Maestro di Ercole e i suoi
collaboratori.
Molto più importanti sono tre gruppi di opere che rappresentano il vero e
proprio programma decorativo della facciata occidentale: le sei “icone” inserite
nei pennacchi fra i nicchioni dei portali. Tre di queste - Ercole col cinghiale di
Erimanto, l’Arcangelo Gabriele e San Demetrio - sono pezzi d’importazione
bizantina provenienti dal bottino costantinopolitano, mentre gli altri rilievi –
Ercole con la cerva e l’idra, San Giorgio e Maria Orans – sono opere veneziane
del XIII secolo, significativa testimonianza dell’adattabilità e della tendenza
all’imitazione dell’arte veneziana in generale e, in particolare, di uno dei
principali maestri in San Marco: il Maestro di Ercole, di cui ci occuperemo in
maniera più approfondita in seguito.
A fungere da modelli ispiratori per la produzione plastica veneziana del XIII
secolo non furono unicamente i rilievi di importazione bizantina, ma anche le
miniature bizantine e i mosaici, sia quelli antichi, che quelli contemporanei
dell’atrio. Ad esempio, i rilievi dei “Mestieri” che decorano la parte interna del
terzo
arco,
quello
esterno
del
portale
principale
costituiscono
una
testimonianza interessante della suggestione esercitata dai mosaici della
Genesi, che riproducono a loro volta un protototipo bizantino. In particolare, il
rilievo raffigurante il gruppo dei “segatori” (fig. 7) deriverebbe, secondo il
audacia”. La leggenda è significativa per il suo messaggio politico nel mondo bizantino e assume sempre una valenza
positiva in quanto compare spesso su oggetti di uso principesco come anelli, cofanetti d’avorio, smalti. Al contrario, in
occidente, tale immagine assume un valore diverso, comparendo per lo più in edifici sacri quale exemplum negativo di
superbia. C. Frugoni, Historia Alexandri elevati per griphos ad aerem. Origine iconografica e fortuna di un tema,
Roma, 1966, pp. 166-167. Secondo lo studioso G. Tigler, la collocazione in San Marco di tale rilievo accanto a quella di
Ercole e di altri guerrieri si rifà ad una tradizione bizantina che sceglieva “tra i soggetti di decorazione delle chiese,
quelli che potevano essere usati in funzione apotropaica”. G. Tigler, Catalogo in Le sculture esterne di San Marco, cit.
p. 69.
150
Deesis che rappresenta la figura di Cristo fiancheggiata dalla Vergine e San Giovanni. Secondo O. Demus si tratta di
un’opera bizantina che sicuramente è giunta a Venezia col bottino della IV crociata. L’influsso bizantino emerge da
numerosi elementi tecnici, come le raffinate pieghe delle vesti, dai caratteri delle figure, ma soprattutto dai motivi
ornamentali che mostrano l’influenza del tardo stile greco di X-XI secolo. Il rilievo potrebbe aver adornato una delle
chiese che furono saccheggiate dai crociati. O. Demus, La chiesa di San Marco a Venezia, Washington 1960, p. 101.
70
Demus, dalla scena del mosaico dell’atrio che rappresenta la costruzione
dell’arca di Noè (fig. 8), e il rilievo del gruppo dei “muratori” (fig. 9)
riprenderebbe la scena a mosaico raffigurante la Torre di Babele151 (fig. 10).
Da quanto detto emerge, dunque, come il modello bizantino abbia offerto lo
spunto per la creazione di numerose opere indipendenti. Tale influsso agì in
modo decisivo e persistente non solo sul contenuto della funzione plastica, ma
anche dal punto di vista formale con l’importazione del rilievo appiattito o
bassorilievo che venne assimilato a Venezia, nonostante le varie tendenze
emiliane e lombarde che trattavano in primo luogo il rilievo pesante e
plastico152. Attraverso la delicata tecnica del rilievo e il suo impreziosimento,
ottenuto molto spesso attraverso l’uso del colore e della doratura, veniva
accentuata la magnificenza dell’apparato scultoreo dell’intera facciata della
basilica marciana. Mirabili esempi di tale grazia e finezza decorativa sono la
Porta di Sant’Alipio e la Porta dei Fiori.
I veneziani poterono ammirare certamente queste opere negli edifici di
Bisanzio153 e ne trassero senza dubbio ispirazione per progettare quello che
doveva divenire il centro focale dell’urbanistica della Piazza. Qui vennero
pertanto a concentrarsi “le prede” più prestigiose riportate dai veneziani nella
nuova capitale dell’impero. Tra queste, le porte di bronzo clatrate154, la famosa
quadriga proveniente dall’ippodromo155 di Costantinopoli, il gruppo in porfido
dei Tetrarchi, costituiscono senza dubbio, all’indomani della IV crociata, alcuni
tra gli esempi più significativi di recupero di spolia, di “trofei” che,
adeguatamente collocati all’interno del cantiere marciano, si caricano di
pregnanti contenuti simbolici atti a trasmettere inequivocabili messaggi di
potere.
151
O. Demus, Bisanzio e la scultura del Duecento a Venezia in Venezia e l’Oriente fra tardo Medioevo e Rinascimento,
cit., p. 150.
152
Ivi, p. 154.
153
W. Dorigo, Una nuova lettura delle sculture del portale centrale di San Marco , in “Venezia Arti”, 1988, p.6
154
R. Polacco, Porte ageminate e clatrate in San Marco a Venezia, in Le porte di bronzo dall’antichità al secolo XIII,
Roma 1990, pp. 279-292.
155
R. Polacco, San Marco e le sue sculture nel Duecento, in “Interpretazioni veneziane”, Venezia 1984, p. 59.
71
3b
-
SCULTURE
DERIVAZIONE
DELLA
FACIES
MARCIANA
COSTANTINOPOLITANA
GIUNTE
DI
PROBABILE
A
VENEZIA
ALL’INDOMANI DELLA IV CROCIATA
3b, 1 - La Quadriga
Ammirati e celebrati per secoli, i quattro cavalli in bronzo dorato (fig. 11)
rappresentano sul piano storico e artistico un monumento di eccezionale
importanza e bellezza, un’opera affascinante e complessa di cui ancora oggi
non sono stati svelati tutti i segreti, malgrado il succedersi di approfondite
ricerche scientifiche, condotte anche con l’ausilio di sofisticate indagini
metallografiche e analisi archeometriche.
Tutta la tradizione veneziana è concorde nell’affermare che i Cavalli di San
Marco siano stati portati a Venezia da Costantinopoli nell’anno 1204156 o,
secondo altri, nel 1205, o ancora nel 1206, cioè subito dopo la conquista della
città da parte delle forze venete e franco-lombarde157, insieme ad altre opere
di valore inestimabile, molte delle quali sono conservate ancor oggi nel Tesoro
della basilica. La presenza della Quadriga veneziana è documentata per la
prima volta nel mosaico che decora la lunetta del portale di Sant’Alipio sulla
facciata della basilica, databile intorno al 1265-1270.
È interessante capire perché tra tanti famosi manufatti antichi di bronzo si sia
salvata soltanto la Quadriga: significa comprendere l’importanza che essa
doveva senz’altro avere nel contesto culturale di Costantinopoli e non solo per i
suoi pregi artistici, ma soprattutto per la sua carica ideologica e il suo valore
simbolico158.
Non è pertanto casuale che essa sia giunta a Venezia con il ricco bottino di
guerra raccolto dai veneziani, guidati dal doge Enrico Dandolo, autore di
imprese che avevano rovesciato l’impero più potente d’Oriente e avevano
156
L. V. Borrelli, Ipotesi di datazione per i cavalli di San Marco, in Storia dell’arte marciana: sculture, tesoro, arazzi,
cit., p.34.
157
E. Callegari, I cavalli di san Marco in Il sacco di Costantinopoli nel 1204 e il bottino veneziano, tesi di laurea, cit.,
http://www.porphyra.it/Supplemento3.pdf
158
V. Galliazzo, I cavalli di San Marco, Milano 1981, p. 67.
72
portato la potenza veneziana a impadronirsi di un simbolo che doveva essere
in intimo rapporto con il potere e l’autorità bizantina159.
Per quanto riguarda il problema della datazione e della provenienza dell’opera,
gli studiosi per lungo tempo hanno oscillato tra il IV secolo a. C. e il IV secolo
d.C.160, tra la Grecia e Roma, con una indeterminatezza piuttosto rara
nell’ambito della scultura antica, motivata non solo dall’assenza di argomenti
incontrovertibili, ma anche dalla stessa unicità dell’opera, per cui non è dato
istituire confronti significativi con esemplari analoghi. Si tratta infatti dell’unico
esempio di quadriga a tutto tondo che ci sia pervenuto dal mondo antico161.
Nonostante siano alquanto incerte le proposte per una identificazione specifica
del gruppo in questione e sia difficile una ricostruzione delle sue precedenti
vicende, la maggior parte degli studiosi di fonti bizantine ritiene generalmente
di poter individuare il contesto monumentale di provenienza nell’edificio
dell’ippodromo di Costantinopoli: essi dovevano trovarsi precisamente sulla
torre posta sopra i carceres o postazioni di partenza delle corse. Ed era stato
proprio il significato che la presenza della Quadriga all’interno dell’ippodromo
assumeva per questa città e per il suo imperatore a suscitare l’interesse del
doge Enrico Dandolo per questi cavalli ricoperti d’oro esposti sopra la torre dei
carceres.
L’ippodromo aveva infatti a Costantinopoli la stessa fondamentale importanza
che aveva l’agorà nella città greca e il foro in quella romana162, era cioè il
fulcro, il vero cuore civile e politico della città e dell’impero163.
Il
valore
simbolico
dell’ippodromo
era
evidente
sia
a
Roma
che
a
Costantinopoli, come attestano gli autori classici e quelli bizantini: “si
presentava come una riduzione in scala dell’universo, in cui l’arena era la
Terra, i canaletti d’acqua o Euripi che correvano attorno alle scalinate
159
E. Callegari, I cavalli di San Marco in Il sacco di Costantinopoli nel 1204 e il bottino veneziano, tesi di laurea, cit.,
http://www.porphyra.it/Supplemento3.pdf
160
L. V. Borrelli, Ipotesi di datazione per i cavalli di San Marco, in Storia dell’arte marciana: sculture, tesoro, arazzi,
cit., 35.
161
G. Bodon, I cavalli di San Marco in Il Museo di San Marco a cura di I. Favaretto e Maria Da Villa Urbani, Venezia
2003, cfr. scheda n. 19, p. 188.
162
V. Galliazzo, I cavalli di San Marco, cit., p. 74.
73
raffiguravano il mare, l’oceano e l’immancabile obelisco”164. In questo contesto
simbolico i quattro cavalli collocati al centro della facciata, in posizione ben
visibile da tutti, assumevano il significato di cavalli del sole e perciò dorati,
divenendo l’immagine più chiara e immediata dell’astro stesso, e quindi di
quella auctoritas imperiale tanto ambita dal doge Enrico Dandolo da avergli
suggerito di trasferirli a Venezia come ambito trofeo, rappresentativo di
quell’emblema passato ormai sotto il dominio delle forze crociate venetofranche per diritto e premio di conquista.
È interessante notare come questo trasferimento di poteri e di territori da
Costantinopoli a Venezia non sia stato privo di conseguenze sotto il profilo
architettonico-urbanistico per la città lagunare, tanto che la basilica di San
Marco e la piazzetta antistante finirono per essere coinvolte nel nuovo assetto
politico-istituzionale165.
Nella serie dei molteplici interventi architettonici di riqualificazione della platea
marciana attuati nel primo Duecento va ricordata, infatti, l’articolazione del
prospetto grazie alla creazione dei nicchioni del portale, il cui scopo era quello
di sorreggere la terrazza, progettata per la rimessa in opera dei quattro cavalli
bronzei.
Diversi sono i valori simbolici che si possono attribuire all’ostentazione della
preda bellica sulla facciata della basilica. Una prima chiave di lettura ne pone in
luce il carattere “trionfale”, nel senso di celebrazione di vittoria e potenza;
alcuni studiosi hanno inoltre ravvisato nella collocazione della Quadriga una più
sottile valenza ideologica e politica che, tramite l’assimilazione di Venezia a
Bisanzio, per analogia con i luoghi e le cerimonie del potere imperiale,
proclamava l’esistenza di un rapporto diretto con il mondo antico, nel quale la
sovranità della Signoria veneta trovava la sua legittimazione. Secondo un’altra
ipotesi interpretatativa, connessa alla ricostruzione del sistema decorativo
dell’arcone sovrastante i cavalli con le raffigurazioni di Cristo e dei quattro
evangelisti, la gamma semantica assunta dal gruppo bronzeo si estenderebbe
alla sfera religiosa, che vede nei cavalli marciani la metafora della quadriga
164
E. Callegari, I cavalli di San Marco in Il sacco di Costantinopoli nel 1204 e il bottino veneziano, tesi di laurea, cit.,
http://www.porphyra.it/Supplemento3.pdf.
165
Ibidem.
74
domini, immagine della diffusione della parola divina e del trionfo della
cristianità, desunta dagli scritti dei Padri della Chiesa166. È assai probabile che
in origine questi significati fossero compresenti, l’uno non escludendo l’altro,
anche se, a partire dal periodo rinascimentale, prevarrà la componente del
simbolismo politico. Numerosi intellettuali ed eruditi, tra i quali Marin Sanudo e
Francesco Sansovino, associarono il tema dell’origine greca della Quadriga
all’idea di un suo ”reimpiego” in Roma, prima della traslazione a Bisanzio,
codificando così la percezione del monumento come emblema di un potere di
cui la Serenissima Repubblica si proponeva allora quale ultima erede.
A tale proposito, vorrei concludere citando la particolare versione, data da
Stefano Magno, della traslazione dei quattro cavalli bronzei della basilica: le
statue sono antiche opere d’arte prodotte in Asia, trasferite come preda a
Roma e lì innalzate, esattamente come sul prospetto di San Marco, sopra
quattro colonne “per gran trionfo”. Ed è sempre Costantino imperatore a
condurle da Roma a Costantinopoli e a innalzarle su quattro colonne. Su
questo punto, il testo raccolto nel primo Cinquecento differisce alquanto dalla
versione riferita più tardi da Francesco Sansovino: pone in particolare risalto il
carattere trionfale delle translationes dei cavalli marciani, ma ancora di più il
legame con il mito di Costantino il Grande. I quattro cavalli bronzei, infatti non
proverrebbero direttamente dall’ippodromo, ma da “un luogo dito Santa Croce,
dal qual luogo lo doxe i tolse”, circostanza, questa, di notevole rilievo, “et fo
mesi sul pinaculo de la giesa de San Marco, sula porta granda come si vede”.
Tale
luogo
di
Santa
Croce
risulta
riconoscibile
nella
topografia
costantinopolitana e coincide con la piazza dello Stravion, un sito collegato alle
funzioni dell’ippodromo e racchiuso da portici come la duecentesca piazza San
Marco.
La piazza dello Stravion, così come il Foro costantiniano e la piazza del
Philadelphion (dalla quale proviene il gruppo dei Tetrarchi) sono i luoghi che
166
G. Bodon, I cavalli di San Marco in Il Museo di San Marco, cit., p. 189.
75
accolgono i segni di altrettante visioni di Costantino il Grande nello spazio
urbano della capitale167.
La platea marciana, dunque, per mano ducale aveva assunto gli antichi
emblemi trionfali, innalzati sulla sua chiesa cupolata cruciforme; nello stesso
tempo, la Quadriga marciana era stata associata alla Santa Croce dello
Stravion: perché, delle tre grandi croci di Costantinopoli, quest’ultima era
quella cui era stato imposto il nome di Nika e che componeva così, insieme con
le altre due, la Iesous del Foro e la Christos del Philadelphion, la frase
celebrativa del trionfo di Cristo “inscritta” dal primo imperatore cristiano nel
corpo stesso della sua capitale168.
167
Per la piazza di Stravrion, cfr. G. Dragon, Constantinople imaginaire. Études sur le recueil des “Patria”, Parigi
1984, pp. 81, 165, 183, E. Concina, S. Marco, Costantinopoli e il primo rinascimento veneziano: “Traditio
magnificentiae” in Storia dell’arte marciana: l’architettura, cit., p. 29.
168
Ivi, pp. 29-30.
76
3b, 2 - I Tetrarchi
Il gruppo consiste in quattro figure in altorilievo collocate nell’angolo sud-ovest
della facciata sud della basilica marciana (fig. 12). Il rilievo in porfido rosso
egiziano169 si compone di due parti distinte e precisamente di due coppie di
figure maschili: l’una barbata e l’altra imberbe, unite fra loro in un gesto
formale di abbraccio ben espresso dall’atteggiamento della mano destra di un
personaggio posata sulla spalla sinistra dell’altro. Il gruppo è caratterizzato da
un equipaggiamento militare con lorica con superficie liscia, balteo gemmato e
ampio paludamentum, calzari e copricapo piatto, predisposto per l’applicazione
di diademi; le mani sinistre impugnano spade riccamente decorate, dall’elsa
configurata a testa d’aquila. Infine, sulla mensola di base sono visibili i resti
delle parti sommitali di due colonne.
A lungo l’ingegno degli studiosi e la fantasia popolare si sono dibattuti sulle
origini dei Tetrarchi in porfido. Ora che è stata accertata la loro provenienza
dal Philadelphion di Costantinopoli e stabilita la loro datazione all’incirca tra il
330 e il 337, cadono molte ipotesi suggestive, tra le quali quella della
provenienza da Acri.
Fu proprio il rinvenimento del piede mancante, scoperto nel 1965 nel corso di
una campagna di scavi archeologici a Istambul, presso la chiesa di Myrealion ove anticamente sorgeva il complesso monumentale del Philadelphion, una
piazza dove sappiamo si trovavano statue in porfido di personaggi che si
abbracciavano - a determinare con certezza la provenienza del rilievo da
Costantinopoli170.
I Tetrarchi dovevano quindi far parte del bottino e di quelle spolia frutto della
presa di Costantinopoli del 1204, che in parte vennero destinate alla
decorazione e all’arricchimento della facciata di quella che era la cappella
dogale. Lo stesso impiego del pregiato porfido rosso per loro realizzazione,
169
I. Favaretto, Presenze e rimembranze di arte classica in Storia dell’arte marciana: sculture, tesoro, arazzi, cit., p.
76.
170
G. Bodon, I cavalli di San Marco in Il Museo di San Marco, cit., p. 193.
77
oltre a suggerire un’attribuzione a maestranze orientali, richiama palesemente
il colore della porpora che attesta la dignità imperiale delle figure171.
Diversi sono i significati e i valori che sono stati attribuiti a quest’opera nel
corso dei secoli. Al di là del complesso intreccio di leggende e di racconti
tramandatici da numerosi autori a partire dall’età rinascimentale in relazione
all’origine del Tesoro di San Marco, ci sembra chiaro il forte significato
celebrativo, ideologico e politico che la raffigurazione del gruppo in porfido
doveva aver assunto dopo la sua collocazione sulla facciata della basilica
all’indomani della IV crociata: la palese affinità fisionomica e il gesto del
duplice
abbraccio
dei
due
Augusti
e
dei
due
Cesari
esprimerebbero
efficacemente i concetti di fraternitas e di concordia dominorum, motivi centrali
del programma tetrarchico, metafora di un intenso legame tra Venezia e
l’Oriente, memoria dello splendore di una civiltà antica nella quale la
Serenissima riconosceva le sue più profonde radici172.
171
Il nome “Porfirogenito”, con cui è ricordato l’Imperatore bizantino Costantino VII , significa “nato nella porpora” o,
più precisamente, nella Porphyra, un edificio del complesso palatino dalle pareti rivestite di porfido (in greco
porphyra), in cui erano tradizionalmente messi al mondo i figli degli imperatori, che assumevano quindi questo nome
come appartenenti di diritto alla dinastia regnante. G. Ravegnani, Introduzione alla storia bizantina, Venezia
2004/2005, p. 71.
172
G. Bodon, I Tetrarchi in Il Museo di San Marco, cit., p. 193.
78
3 b, 3 - Il Carmagnola
Anche la testa del “Carmagnola” è stata eseguita, come il gruppo scultoreo dei
Tetrarchi, con il porfido rosso egiziano ed è posta sopra il pilastrino angolare di
sud-ovest del loggiato sud della basilica (fig. 13).
Piuttosto ben conservata, la testa presenta un alto diadema gemmato che la
cinge, ad indicare, come tra l’altro suggerisce anche lo stesso materiale
impiegato, la dignità imperiale del personaggio raffigurato.
Problematica appare però l’identificazione dell’imperatore ritratto, dalla quale
dipende del resto la questione della cronologia. In linea generale, quasi tutti gli
studiosi ritengono possa trattarsi di Giustiniano I, l’ultimo imperatore romano
d’Oriente, che regnò dal 527 al 565, identificato mediante il confronto con
esemplari numismatici e con il celebre mosaico di San Vitale a Ravenna173.
Quindi, l’identificazione del ritratto antico, che doveva trovarsi sul loggiato fin
dal Duecento, con il capitano di ventura Francesco Bussone detto il
“Carmagnola”, decapitato in Piazza San Marco nella primavera del 1432,
dipende probabilmente dal ruolo determinante che dovette avere nella fantasia
popolare il colore del marmo che ricordava quello del sangue174. Secondo
un’ipotesi recente, tale testa proveniva da Costantinopoli, dalla piazza del
Philadelphion, e apparteneva a una di quelle statue in porfido sedute che
rappresentavano i cosiddetti giudici giusti, mutilati poi nel 1204175. La testa
mozza posizionata sull’alto del loggiato della facciata della basilica marciana,
bene in vista, non avrebbe avuto soltanto il valore di un trofeo,
ma molto
probabilmente avrebbe assunto anche un significato apotropaico176, poiché,
come ricordo tangibile della cruenta usanza di esporre le teste dei decapitati,
essa fungeva da monito e nel contempo da esortazione a servire fedelmente la
causa della Repubblica177.
173
G. Bodon, Testa detta “del Carmagnola” in Il Museo di San Marco, cit., p. 194.
I. Favretto, Presenze e rimembranze di arte classica nell’area della basilica marciana in Storia dell’arte marciana
sculture, tesoro, arazzi, a cura di R. Polacco, Venezia 1997, p. 76.
175
Ivi, pp. 76-77.
176
G. Tigler, Catalogo in O. Demus, Le sculure esterne di San Marco, Milano 1995, p. 226.
177
G. Bodon, Testa detta “del Carmagnola” in Il museo di San Marco, cit., p. 194.
174
79
3b, 4 - Ercole col cinghiale di Erimanto
Tale rilievo in marmo greco a granuli molto grossi fa parte delle sei lastre poste
fra le arcate dei portali nella parte bassa della facciata ovest della basilica
marciana (fig. 14).
Non è questa la sede per citare le interpretazioni che sono state date da diversi
studiosi e storici dell’arte sull’origine, sulle caratteristiche e sulla datazione di
tale rilievo.
Lo stesso Demus, rilevando l’insoddisfacente livello degli studi critici sull’opera,
a suo avviso ignorata da archeologi e da storici dell’arte medioevale, la
considera la più interessante rielaborazione di un modello protobizantino. Egli,
infatti, individua le analogie esistenti fra questa e l’Ercole di Ravenna, datato
comunemente al principio del VI secolo, ma ne rileva anche le differenze, che
escluderebbero la possibilità di considerare i due rilievi parti di una stessa serie
delle dodici fatiche, ma indurrebbero anche a datare il pezzo di Venezia al
principio del V secolo o addirittura al X secolo178. Per Demus, che lascia aperte
le due possibilità, la cornice è da considerarsi a parte, ossia un manufatto
veneziano risalente al Duecento, mentre la superficie della lastra fu certamente
rielaborata e soprattutto appiattita nel XIII secolo, così che la sporgenza del
rilievo venne diminuita.
Concordo col Demus, che ritiene probabile si tratti di un rilievo che, insieme ad
altri posti sempre sulla facciata ovest e rappresentanti San Demetrio e
l’Arcangelo, farebbe parte del materiale di spoglio di origine costantinopolitana,
proveniente dal bottino della IV crociata179. In questo contesto l’Ercole, eroe
della mitologia classica, si carica di un forte valore simbolico: cristianamente
equiparato a Sansone, è visto come una sorta di semidio, espressione della
forza e delle virtù necessarie allo Stato. La messa in opera a San Marco di
marmi e sculture predati a Costantinopoli, peraltro, non si riduce soltanto a
un’operazione ornamentale e ideologicamente allusiva. Come dimostra bene il
caso dei sei celebri rilievi della facciata principale, il confronto con le spolia
costantinopolitane e la necessità, manifestata dalla committenza pubblica, di
178
179
O. Demus, Le sculture esterne di San Marco, Milano 1995, p. 86.
Ivi, p. 84.
80
reinterpretarne il significato in coerenza con un programma d’insieme
comportano la realizzazione in loco di rilievi complementari, stimolando perciò
l’attività delle botteghe dei maestri lapicidi veneziani. Così, alla formella
protobizantina dell’ Ercole con il cinghiale di Erimanto, all’Arcangelo Gabriele,
all’icona marmorea di San Demetrio, provenienti da Bisanzio, sono accostati
altrettanti nuovi rilievi di altissimo livello - un Ercole con la cerva e l’idra (fig.
15), una Vergine Orante e un San Giorgio - che caratterizzano la prima fase
duecentesca della scultura marciana in un dialogo aperto fra arte bizantina e
arte veneziana, in particolare nel caso dell’attività del “Maestro di Ercole”180.
L’Ercole col cinghiale di Erimanto andava, dunque, ad unirsi all’altro gruppo di
rilievi assemblato nel XIII secolo sulla facciata principale antistante la piazza,
sul frontespizio ufficiale, sommario di forti valori autocelebrativi e simbolici.
180
E. Concina, Le arti di Bisanzio, cit., p. 300.
81
3b, 5 - San Demetrio
Tale bassorilievo in marmo greco è collocato sul prospetto principale della
chiesa di San Marco. Esso presenta un’iscrizione su due tavolette: “s
(an)/c(tu)/s DI/MI/TRI/VS” (fig. 16).
Un vigoroso senso dello spazio, una studiata “impronta antica”, palese anche
nella resa in forte rilievo, alquanto eccezionale, caratterizza questa splendida
rappresentazione del San Demetrio in vesti militari, assiso su di una sella
plicatilis e raffigurato nell’atto di riporre la spada181.
Per il Demus l’opera è quasi certamente arrivata a Venezia come parte del
bottino della IV crociata. Lo studioso infatti, pur lasciando aperto il dubbio
sull’originalità o meno dell’iscrizione, esclude che l’opera sia stata realizzata a
Venezia da uno scultore bizantino182, perché altrimenti questi avrebbe potuto
scolpire anche il pendant, che invece è di epoca e di mano diversa.
Anche il Toesca nel descrivere il rilievo, quasi classico nella forma e nella
composizione, mette in luce la sua appartenenza alla cultura aulica bizantina
datandolo così al XIII secolo183. La funzione di “difesa” attribuita alla coppia
San Demetrio e San Giorgio (fig. 17), posizionati ai lati dell’arcone della porta
centrale della facciata, viene condivisa anche dal Polacco184. Lo studioso,
tuttavia, considera il San Demetrio più legato a modelli bizantini per l’equilibrio
perfetto rilievo-fondo, mentre ritiene il San Giorgio un’interpretazione più
libera, eseguita sul modello del primo, pur nella fedeltà generica ad un
ipotetico prototipo della stessa provenienza185.
Anche il San Demetrio fa parte, dunque, del gruppo di bassorilievii riassemblati
all’esterno della principale facciata della basilica di San Marco, il cui significato,
dalla forte valenza simbolica e politica, inciderà notevolmente sulla scultura
bizantina del Duecento veneziano.
181
Ivi, p. 227.
O. Demus, Die Riliefikonen der Westfassade von San Marco, in Jahrbuch der Össterreichischen Byzantinischen
Gesellschaft III, 1954, pp. 95, 100.
183
P. Toesca, Storia dell’arte italiana, il Medioevo, Torino 1927, vol II, p. 790.
184
R. Polacco, La scultura nel XIII secolo in San Marco in La basilica d’Oro, cit., p.113.
185
Ivi, p. 112.
182
82
3b, 6 - L’Arcangelo Gabriele
Anche il rilievo dell’Arcangelo Gabriele in marmo greco è ubicato sul prospetto
principale della chiesa ducale di San Marco (fig. 18).
Il processo di degrado (il volto è del tutto perduto) ha reso difficile agli studiosi
l’analisi di tale opera.
Il Demus, confermando le affinità con il San Demetrio, da lui definito di matrice
bizantina, attribuisce anche l’Arcangelo Gabriele ad un artista bizantino,
sostenendo che l’iscrizione collocata sul margine superiore venne aggiunta a
Venezia186. Si tratterebbe di una manifestazione tardissima dello stile
“comneno”, collocabile tra XII e XIII secolo, antecedente comunque alla IV
crociata.
Nel 1960, tuttavia, lo studioso muta parere e, soffermandosi sulla presenza di
alcuni elementi gotici che egli ravvisa nelle scarpe a punta e nelle ondulazioni
del panneggio, assegna l’opera ad uno scultore veneziano del Duecento.
L’arcangelo sarebbe espressione del consueto linguaggio plastico veneziano
d’estrazione bizantina con suggestioni gotiche, individuabili nella resa della
figura, in alcuni dettagli esecutivi e in certi effetti prospettici.
Il Dorigo invece, pur riconoscendo che la lastra “riadattata e sprovvista di
cornice propria, potrebbe essere stata resecata”187, non accoglie l’ipotesi che
essa sia opera di uno scultore bizantino stabilitosi a Venezia, ma sembra
invece ritenere che la lastra sia stata importata da Bisanzio188.
Secondo il Polacco, infine, l’angelo è sicuramente di matrice bizantina, tardo
comnena, come dimostra il complesso e fluido linearismo del mantello in cui
s’inserisce l’elegante silhouette delle ali e il suppedion in prospettiva. Alla
stessa opera risalirebbe pure l’Arcangelo Gabriele della porta ageminata
centrale dell’atrio, datata al terzo decennio del secolo XII189.
186
O. Demus, Die Riliefikonen der Westfassade von San Marco, in Jahrbuch der Össterreichischen Byzantinischen
Gesellschaft III, 1954, p. 100.
187
W. Dorigo, Sul problema di copie veneziane da originali bizantini in Venezia e l’archeologia, Un importante
capitolo nel gusto della storia dell’antico nella cultura artistica veneziana, Atti del convegno (Venezia 1988),
Supplementi alla rivista di archeologia, 7, Roma 1990, p.139.
188
G. Tigler, Catalogo in O. Demus, Le sculture esterne di San Marco, Milano 1995, p. 91.
189
R. Polacco, La scultura nel XIII secolo in San Marco, la Basilica d’Oro, cit., p.114.
83
3b, 7 - La Vergine Orante
Un vigoroso senso dello spazio, una studiata impronta “antica” che ben emerge
nella resa del rilievo, alquanto eccezionale, caratterizza la splendida lastra
marmorea raffigurante la Vergine Orante ricollocata sul prospetto della facciata
principale della chiesa ducale in San Marco (fig. 19).
Il Demus, che per primo studia in maniera approfondita il rilievo nel 1954, lo
ritiene veneziano, ma derivante da un prototipo bizantino del XII secolo, come
la Madonna della Mangana190, forse giunto col bottino del 1204, prototipo che
tuttavia non sarebbe identificabile con nessuna delle oranti bizantine presenti
in Italia. Quest’opera apparterrebbe alla maturità del “Maestro di Ercole”, che
avrebbe iniziato la sua attività verso la metà del secolo eseguendo il pannello
con l’Ercole e la cerva, e che, dopo aver compiuto il San Giorgio e l’Orante,
sarebbe passato alla decorazione dei portali occidentali191.
Secondo la Cocchetti Pratesi il rilievo fu realizzato sulla base di un’ altra opera:
la Vergine della Deesis, che si trova nella navata meridionale del braccio
occidentale della basilica marciana. Da tale rilievo, secondo la studiosa,
sarebbe stato tratto il modulo complessivo dell’immagine, il disegno della
veste, la tipologia del volto e delle piccole mani. L’opera sarebbe quindi
espressione di uno dei migliori sforzi di assimilazione del linguaggio bizantino
che sia dato di trovare nell’ambito di tutta la scultura duecentesca veneziana.
190
La grande lastra con la Vergine orante ritrovata negli scavi di San Giorgio dei Mangani a Costantinopoli, nelle
proporzioni e nel panneggio delle vesti, che non celano del tutto le forme del corpo, mostra una relazione evidente con
le tendenze classicheggianti che percorrono la cultura artistica costantinopolitana di XI e XII secolo. E. Concina, Le arti
di Bisanzio, cit., p. 226.
191
L. Cocchetti Pratesi, Contributi alla scultura veneziana del Duecento III, La corrente bizantineggiante, in
“Commentari”, XII, 1961, p.16.
84
3b, 8 - I rilievi duecenteschi della facciata nord: San Giovanni, San
Marco, San Luca, San Matteo, Cristo in trono e i due cervi sotto gli
alberi.
Le lastre raffiguranti i quattro evangelisti, Cristo in trono e i due cervi sotto gli
alberi (figg. 20-21), che oggi si trovano ubicate sulla facciata settentrionale
della basilica di San Marco, sono state oggetto di studio per molto tempo. Un
problema aperto rimane l’identificazione della loro ubicazione originaria, in
quanto la collocazione nella facciata nord è evidentemente successiva, sia per
gli adattamenti subiti dai pannelli, sia per la loro disposizione, che non rispetta
l’andamento delle figure192. La critica li considera un gruppo unitario
nonostante le differenze, ed è concorde nel ritenerli dei capolavori della
scultura veneziana del XIII secolo.
Per Demus, i rilievi degli evangelisti, che inizialmente ornavano i cancelli del
coro del XIII secolo, sono delle trasposizioni dirette di miniature bizantine dello
stesso secolo. “La posizione in avanti, la posizione dei piedi, i gesti, anche la
disposizione del drappeggio, la forma del seggio con archetti, tutti questi
particolari trovano un modello nelle immagini di Evangelisti dei manoscritti
bizantini del tardo XII e del primo XIII secolo”193. Secondo la studiosa
Cocchetti Pratesi, i rilievi di Cristo e degli evangelisti costituiscono “la più
solenne realizzazione della corrente bizantineggiante”; posizionati dal 1400
sulla facciata nord assieme agli altri rilievi, rappresentano la decorazione della
seconda iconostasi di San Marco, che nel XIII secolo prese il posto del primo
Templon194 semplicemente decorativo. È dunque significativo il fatto che, per
decorare le iconostasi erette nel secondo quarto del XIII secolo, si siano scelte
delle icone a rilievo. In conclusione, la studiosa considera queste lastre
l’espressione di una vera e propria corrente veneziana con caratteri ben
definiti, che sono però il risultato di una consapevole assimilazione del
192
S. Minguzzi, Marmi e Capitelli in Il Museo di San Marco, Venezia 2003, p. 197.
O. Demus, Bisanzio e la scultura del Duecento a Venezia in Venezia e l’Oriente fra Tardomedioevo e Rinascimento,
cit., pp. 141-155.
194
Nell’architettura religiosa, divisione tra il bema (la zona presbiteriale, rialzata della chiesa bizantina, che accoglie
l’altare) e la navata formata da un colonnato trabeato, che evolverà poi nell’iconostasi. E.Concina, Le arti di Bisanzio,
cit., p. 401.
193
85
linguaggio bizantino195. Anche Demus individua, dall’analisi di queste e altre
sculture, l’esistenza a Venezia di una corrente bizantineggiante caratterizzata
da elementi stilistici originali e personali. In particolare, ritiene che esse siano
opera della medesima bottega del “Maestro di Ercole”, così definito per aver
inaugurato la sua attività di scultore con l’esecuzione del bassorilievo di Ercole
con la cerva e l’idra, murato all’estremità inferiore sud della facciata della
basilica di San Marco. Dopo l’esecuzione delle altre icone che raffigurano San
Giorgio e la Vergine, anch’esse ubicate sulla facciata, si sarebbe dedicato alla
realizzazione delle lastre del Cristo e dei quattro Evangelisti196. Secondo il
Polacco, i pannelli degli Evangelisti e quello del Cristo in trono sono in sintonia
con il clima culturale che caratterizza questo periodo e nel quale si inseriscono
anche i già citati bassorilievi di Ercole col Cinghiale di Erimanto, di San Giorgio,
di San Demetrio, dell’Arcangelo Gabriele e dell’Ercole con la Cerva e l’idra.
195
L. Cocchetti Pratesi, Contributi alla scultura veneziana del Duecento I, La corrente bizantineggiante in
“Commentari”, XI, 1960, pp. 13-30.
196
R. Polacco, La scultura nel XIII secolo in San Marco, la Basilica d’Oro, cit., p. 115.
86
3b, 9 - I cosiddetti “pilastri acritani”
Andando da piazza San Marco verso il portale di Palazzo Ducale si possono
ammirare due pilastri quadrangolari riccamente adornati (fig. 22) che la
tradizione comune ha per molti anni ritenuto provenienti da San Giovanni
d’Acri, dopo la conquista della stessa città nel 1258.
La leggenda acritana è sicuramente una elaborazione veneziana di poco
posteriore all’arrivo delle opere stesse, una specie di rivincita ideale sul nemico
genovese che aveva consegnato Bisanzio e la fiorente colonia veneziana nelle
mani di Michele VIII197.
Nel 1964 gli scavi intrapresi a Istambul dagli studiosi N. Firatli e M. Harrison
hanno risolto il mistero della provenienza dei pilastri in modo definitivo. Tali
studi, infatti, portarono alla luce un grande capitello di pilastro, la cui forma, le
dimensioni e gran parte della decorazione corrispondevano a quella dei pilastri
“acritani”
di
Venezia.
Un’ulteriore
conferma
della
provenienza
costantinopolitana la fornirono i monogrammi incisi su di essi che si trovavano
con le stesse variazioni su sculture architettoniche rinvenute nel quartiere di
Sarachane a Istambul198.
Le dimensioni dei pilastri ci indicano che probabilmente dovevano servire come
sostegni
indispensabili
per
un’architettura
monumentale,
sicuramente
ecclesiastica. Secondo la maggior parte degli studiosi i pilastri arrivarono a
Venezia con molta probabilità dalla chiesa di San Polieucto di Costantinopoli.
Tale chiesa fu costruita con i finanziamenti di una straordinaria committente:
Anicia Giuliana (461/463-527/529), figlia di Anicio Olibrio, imperatore per
pochi mesi nel 472, e di Placidia, figlia a sua volta di Valentiniano III (425455), dunque erede di una delle più influenti famiglie dell’aristocrazia senatoria
romana e al tempo stesso discendente della dinastia teodosiana. Si tratta di un
edificio religioso, sorto nel quartiere di konstantiana, nei pressi dell’acquedotto
di Valente e della via che dal Philadelphion conduceva ai Santi Apostoli: un
197
R. Polacco, San Marco, la Basilica d’Oro, op. cit., p. 60.
E. Callegari, I cosidetti “Pilastri Acritani” in Il sacco di Costantinopoli nel 1204 e il bottino veneziano, cit.,
http://www.porphyra.it/Supplemento3.pdf
198
87
edificio la cui origine è documentata da un’iscrizione celebrativa e spogliato in
seguito alla conquista di Costantinopoli.
Le caratteristiche delle fondazioni hanno indotto a formulare l’ipotesi che
l’edificio fosse coperto da volte a cupola, mentre le ricognizioni di scavo hanno
portato al rinvenimento di una notevole quantità di frammenti e materiali di
eccezionale interesse: un apparato decorativo di esuberante ricchezza, opera di
un cantiere teso all’innovazione che faceva largo uso di materiali prestigiosi:
marmi policromi, fusti di colonne lavorati con un prezioso disegno a intarsio di
ametiste e vetri colorati, decorazioni lapidee in gran parte “a giorno” con
motivi geometrici fitomorfi e figurati199.
Un’ingente quantità di tale repertorio decorativo - pilastri, capitelli e forse
plutei - giunse a Venezia tra la fine del XII secolo e lo schiudersi del XIII e fu
probabilmente destinata a decorare la parte meridionale e la facciata
occidentale della basilica marciana. Si presume che i cosiddetti “pilastri
acritani” ora a Venezia provenissero forse dal ciborio di questa chiesa200.
La loro reintegrazione nel contesto marciano nell’ambito degli interventi di
riqualificazione duecenteschi va ad esaltare la magnificenza dell’apparato
dell’uscita meridionale della basilica verso il molo, il litus marmoreum, portale
cerimoniale della piazzetta, da poco ornato dalle due colonne anch’esse
trasportate dall’Oriente e ivi collocate dal doge Sebastiano Ziani.
Circa la provenienza dei cosiddetti “pilastri acritani” vi è infine un’altra fonte
raccolta da Stefano Magno e ancora in corso di studio, secondo la quale
anziché essere connessi a San Giovanni d’Acri e al ruolo veneziano nel regno
crociato di Gerusalemme, essi sarebbero originari di Alessandria d’Egitto: “ le
colone quadre è apreso la porta del palazo”, infatti, “fo de una porta de
Alexandria201”, la città ricostruita da Adriano, la prima sede patriarcale
marciana.
199
E. Concina, Le arti di Bisanzio, cit., p. 53.
E. Concina, Il secolo di Giustiniano in Le arti di Bisanzio, cit., pp. 52-53.
201
Tutt’ora in corso di studio da parte del Prof. Ennio Concina. Biblioteca Nazionale Marciana, Venezia, mss. It. Cl.
VII, cod. 518 (=7884), c. 36v.
200
88
3b, 10 - Tondo con Imperatore bizantino
Di particolare interesse per il contesto culturale duecentesco è il bassorilievo in
marmo greco murato sopra due porte nel campiello di Ca’ Angaran presso la
chiesa di San Pantalon a Venezia (fig. 23).
Esso è strettamente affine a un altro tondo con figura di imperatore che si
trova
nella
Recentemente
collezione
entrambi
bizantina
i
rilievi
di
sono
Dumbarton
stati
Oaks
riconsiderati
a
Washington.
dagli
studiosi,
soprattutto sulla base di alcuni dettagli iconografici, e ritenuti originali prodotti
di bottega costantinopolitana, quasi certamente portati a Venezia dopo la
conquista di Costantinopoli nel 1204202.
Entrambi databili al tardo XII secolo, ritraggono una figura colonnare di un
imperatore vestito di dibetesion, loros e clamide203(anche se nel rilievo
veneziano il panneggio appare più ricco e morbido) che si erge nella sua
maestà sovrana su un suppedaneum ovale, levando nella destra e nella sinistra
i simboli del potere autocratico, labaro e globo crucigero: figure ieraticamente
statiche, sullo sfondo di una minuta decorazione a rosette radianti che, in
perfetta coerenza con le formule celebrative più immediate e diffuse, traduce
in termini scultorei l’emanazione di fulgore che appartiene al trono d’Oriente,
alla “ stirpe del sole che tutto illumina” (Niceforo Blemmida, 1197-1271)204.
202
S. Bettini, La scultura bizantina, Firenze 1944, Vol. II, p.7. p. 35.
Il Dibetesion è la veste bianca o violetta ad ampie maniche, indossata sotto la clamide, il lungo mantello di porpora
(Chlamys). Il loros è una larga banda di stoffa preziosa, riccamente ornata, distintiva della dignità imperiale. E.
Concina, Glossario in Le arti di Bisanzio, cit., pp. 393-401.
204
Ivi, p. 228.
203
89
3c - IPOTESI INTERPRETATIVE SULLA PLASTICA MARCIANA DEL
DUECENTO
Il XIII secolo rappresenta un periodo d’intenso sviluppo per la produzione
plastica veneziana, che caratterizzerà in maniera determinante l’aspetto
esterno del più importante cantiere pubblico della città costituito dalla
riapertura della fabbrica di San Marco. L’aspetto che la facies della basilica
marciana presenta ancor oggi, a prescindere da aggiunte posteriori, risale
infatti al XIII secolo.
Un terminus post quem è costituito dalla conquista di Costantinopoli, durante
la IV crociata del 1204, poiché la maggior parte delle colonne, dei capitelli, del
materiale marmoreo usato per il rivestimento e anche numerosi rilievi
provengono dal bottino costantinopolitano205. Molte di tali spolia hanno assunto
il valore di trofei che, sapientemente collocati sul prospetto del frontespizio
ufficiale della chiesa di San Marco, hanno contribuito alla magnificenza e
all’autocelebrazione della città di Venezia206.
Dopo
aver
considerato,
quindi,
le
più
significative
testimonianze
della
decorazione scultorea che ha contraddistinto la fase duecentesca della platea
marciana, abbiamo tentato di trarre alcune conclusioni su quanto l’arte plastica
veneziana sia stata condizionata dall’influsso bizantino.
Innanzitutto, possiamo affermare che il fattore determinante di tale processo è
costituito dalla funzione che la produzione scultorea ha assunto nel contesto
veneziano del XIII secolo. Infatti, se da un lato l’inserimento degli elementi
plastici
nel
rivestimento
viene
puramente
considerato
un
mezzo
di
arricchimento coloristico e strutturale della superficie, dall’altro tali rilievi
assumono un valore talmente elevato da assurgere al ruolo di icone da
devozione207.
205
O. Demus, La decorazione scultorea duecentesca delle facciate in Le sculture esterne di San Marco, cit., p.12.
S. Minguzzi, Plutei mediobizantini conservati in San Marco in Storia dell’arte marciana: sculture, tesoro, arazzi,
cit. p. 120.
207
La produzione delle icone trovò a Venezia il suo più ricco sviluppo. Lo testimoniano non solo quelle della facies
marciana, ma anche quelle icone a rilievo che nelle chiese veneziane del XIII secolo ebbero un’altra funzione e cioè
quella di immagini da altare; funzione che non era stata ispirata da Bisanzio, dove non esisteva nessun rapporto tra
l’altare e un’immagine determinata, bensì da una concezione occidentale, nella quale spesso affreschi e mosaici simili a
tavole venivano usati per altari soprattutto laterali. In particolare, a Venezia vennero utilizzate nel primo Duecento delle
icone a rilievo portate da Costantinopoli o create in città secondo prototipi bizantini, che vennero inserite nella parete
206
90
È importante, a tale proposito, ribadire come a Venezia l’importazione e
l’imitazione di manufatti scultorei non risponda solo a una questione di gusto,
ma sia frutto di una precisa volontà celebrativa e politica che è il risultato di
componenti diverse. Gli scultori non si limitano ad accogliere ed elaborare
messaggi di chiara estrazione bizantina, ma li interpretano per riproporli carichi
di nuovi messaggi provenienti da culture diverse che a Venezia hanno facile
confluenza, considerata la sua posizione politica e geografica, che favorisce la
circolazione di ogni tipo di prodotti, non ultimi quelli artistici.
Proprio dall’elaborazione e dalla sempre inedita interpretazione di messaggi di
diversa
estrazione
nasce
quel
linguaggio
artistico,
improntato
sì
alla
raffinatezza bizantina, ma continuamente rinnovato da ulteriori apporti e quasi
sempre fecondo di esiti inattesi. Ci troviamo di fronte ad artisti tipicamente
veneziani che arricchiscono la loro tendenza tardo-romanica o post-antelamica
con lasciti paleocristiani o bizantini, i quali hanno il compito di filtrarla da ogni
eccesso espressionistico padano, per elevarla con l’apporto dell’equilibrio
classico alla dignità marciana.
La produzione plastica veneziana del Duecento è dunque un’arte complessa
che è il risultato dell’influsso di diverse componenti: non solo di quella
bizantina, ma anche di quella antelamica e protorinascimentale.
È interessante notare, ancora una volta, come partendo da un substrato
bizantino, consapevolmente assimilato e rielaborato, Venezia sia giunta, anche
nell’ambito della decorazione scultorea, alla costruzione di un linguaggio
artistico autonomo.
sopra gli altari. Paolo Veneziano ci ha lasciato, in una delle pitture del retro della pala feriale (oggi al Museo marciano),
la rappresentazione di una di queste icone d’altare: il rilievo di San Leonardo, originariamente posto sopra l’altare di
San Leonardo e ora murato nella facciata nord di San Marco. Si tratta di una preziosa testimonianza di immagine di
altare (il cui linguaggio risente sicuramente dello stile del Maestro di Ercole) che appartiene all’epoca delle figure
dell’iconostasi. Tale esempio è significativo per comprendere, ancora una volta, come con mezzi bizantini sia stato
creato nel XIII secolo qualcosa di completamente nuovo, anche nel caso del rilievo di altare veneziano. O. Demus,
Bisanzio e la scultura del Duecento a Venezia, in Venezia e l’Oriente fra Tardomedioevo e Rinascimento, cit., pp.152153.
91
CAPITOLO IV – LE PORTE AGEMINATE E CLATRATE IN SAN MARCO
La basilica di San Marco è forse la chiesa che possiede il maggior numero di
porte di bronzo.
A tale proposito, significativa è la testimonianza del Chronicon di Leone
Ostiense (1046 ca-1115) che illustra con vivacità il contesto dell’importazione
in Italia di un gruppo artisticamente notevole di porte bronzee con decorazione
figurata ad agemina, concentrate soprattutto nel sud della penisola, ma giunte
anche a Venezia. Secondo la narrazione dello stesso cronachista, nella chiesa
di San Marco sarebbero giunte due di queste porte: la prima, quella di San
Clemente, negli anni Ottanta dell’XI secolo e la seconda, quella centrale interna
dell’atrio, verso il 1112.
Esse fanno parte di un gruppo omogeneo, proveniente da Costantinopoli, che
costituisce un esempio significativo di porte di grande valore artistico. In Italia,
secondo un ordine cronologico, sono così distribuite: Amalfi, cattedrale (ante
1065); Montecassino, chiesa abbaziale (1066); Roma, basilica di San Paolo
(1070); Monte Sant’Angelo, santuario di San Michele (1076); Atrani, duomo
(1087); Venezia, basilica di San Marco (porta di San Clemente, anni Ottanta
dell’XI secolo, fig. 1); Salerno, cattedrale (circa 1099); Venezia, San Marco
(porta centrale, 1112, fig. 2). Tali porte presentano dei caratteri innovativi che
le contraddistinguono rispetto alle porte monumentali più antiche, che
dipendevano in gran parte da prototipi greco-romani.208
Dal punto di vista della loro struttura, esse presentano una superficie bronzea
suddivisa da una serie di formelle di dimensioni uguali, disposte in file con
andamento verticale. Tali formelle sono delimitate da cornici piatte, che non
hanno nulla in comune con la struttura funzionale effettiva. In esse, si
manifesta, quindi, una costante dell’architettura bizantina: la tendenza ad
attenuare, se non annullare, i valori formali della struttura, per mezzo dei
rivestimenti della superficie.
Il principale elemento uniformante è la loro decorazione artistica, che consiste
in una serie di immagini sacre realizzate ad agemina: una particolare tecnica di
208
S. Angelucci, Il rapporto tra materia, tecnica, forma nelle porte bizantine d’Italia in Storia dell’arte marciana:
Sculture, tesoro, arazzi, a cura di Renato Polacco, Venezia 1994, pp. 247-248.
92
lavorazione dei metalli che consiste nell’inserire a freddo sottili lamine di
metallo, solitamente prezioso, come rame, argento, niello e leghe di altri
colori, in un supporto di metallo, secondo un ornato scolpito a cesello e a
scalpello. Le figure realizzate con questa tecnica risaltavano, luminose e
astratte, sul fondo in lega dal colore dell’oro delle porte lucide et clare209.
Queste porte ribadiscono il ruolo significativo della cultura figurativa bizantina
a Venezia e nello stesso tempo assumono un significato simbolico–religioso che
si pone come elemento di diversità rispetto alla religiosità occidentale. La porta
ha una forte valenza simbolica in tutte le culture, ma ancor di più in quella
cristiana, in cui rappresenta il diaframma fra il fedele e la salvezza210: lo stesso
Cristo, infatti, nel vangelo di Giovanni si definisce Porta.
Nel Cristianesimo orientale il rapporto con la divinità è più astratto e mediato.
Dinanzi a queste porte bizantine il fedele pregherà chiedendo l’intercessione
della Madonna, degli angeli, degli apostoli, dei santi, nell’ordine indicato dalla
chiesa e nel quale gli appaiono decorati sulla porta, nell’attesa che si manifesti
la volontà divina, di cui egli non può cogliere alcun indizio, in quanto le porte
sono chiuse. Esse infatti costituiscono, per la loro struttura, una barriera
compatta e uniforme, una superficie caratterizzata da una serie di coprigiunti
tutti uguali che nascondono il punto di apertura delle due ante. Il risultato è
che alla fine la porta non appare più come tale, ma come un’ulteriore
iconostasi che separa una volta di più lo spazio sacrale, nel quale il fedele non
sa come penetrare211.
Le decorazioni ad agemina, poi, determinano un disegno che agli occhi del
fedele si presentava come un’apparizione. Tale effetto era favorito dal colore
ottenuto grazie all’uso sapiente dei metalli, di una vera e propria lega che
conteneva, oltre al rame, allo stagno, al piombo, anche lo zinco, che rendeva il
colore meno rossiccio e più simile a quello dell’oro. Così, nelle porte di San
Clemente e in quella centrale, in San Marco, l’effetto cromatico che si viene a
creare è quello di una pittura su fondo oro realizzata a campiture e linee, il cui
209
E. Concina, Le Arti di Bisanzio, cit., p. 262.
S. Angelucci, Il rapporto tra materia, tecnica, forma nelle porte bizantine d’Italia in Storia dell’arte marciana:
Sculture, tesoro, arazzi, cit., p. 249.
211
Ivi, p. 250.
210
93
risultato è di grande suggestione e non è lontano da quello prodotto dagli
smalti sull’oro, come nella Pala d’Oro della basilica marciana.
Di particolare rilievo per l’apparato decorativo della fabbrica marciana e in
sintonia con il programma culturale di interventi di riqualificazione che si
sviluppano nel corso del Duecento sono pure le famose porte di bronzo clatrate
- quella del portale centrale esterno (fig. 3) e quella che a sud del nartece
immette nella cappella Zen (fig. 4) – che sono tra le prede più prestigiose
portate a Venezia in seguito alla conquista di Costantinopoli nel 1204212.
Il portale maggiore esterno presenta una struttura a valve che sono costituite
da una transenna di bronzo, databile al VI secolo, formata a sua volta da 34
file sovrapposte di 4 archetti ciascuna e fissata su una tavola lignea rivestita da
pelte in alto e da robuste lamine bronzee in basso, di lega più scadente rispetto
alle griglie inchiodate dalle borchie con testa a rosetta che stanno al centro di
ogni archetto213. È noto che fino al Duecento l’atrio ebbe la forma di un
porticato e che la sua ristrutturazione con l’inserimento di sculture che
rimpicciolirono le arcate occidentali, trasformandole in porte, previde la
presenza di cancelli esterni. È dunque ovvio che le intelaiature delle valve
bronzee in questione si trovarono inevitabilmente coinvolte e subordinate alle
esigenze dettate dalle strutture architettoniche rinnovate allo schiudersi del
XIII secolo. La griglia di questa porta è realizzata con un tipo di decorazione,
chiamata con termine vitruviano ad opus clatratum, che compare non solo in
valve bronzee dell’antichità classica e della romanità augustea, ma anche in
quelle di età paleocristiana214. Questo tema decorativo lo possiamo trovare
anche nei mosaici paleobizantini, se si considera la posizione a ventaglio o a
coda di pavone delle tessere bianche che fanno da sfondo alle scene di caccia
del pavimento del mega palation di Costantinopoli e che ricompare nella
decorazione dei suppedia del Cristo e dell’Etimasia a Torcello nell’ XI secolo e
212
A. Niero, Simbologia dotta e popolare nelle sculture esterne in La basilica di San Marco, a cura di B. Bertoli,
Venezia 1993, p.127.
213
R. Polacco, Porte e cancelli di bronzo, in San Marco, La Basilica d’Oro, cit., p. 144.
214
E. Callegari, Porte clatrate in Il sacco di Costantinopoli nel 1204 e il bottino veneziano a cura di E. Callegari, tesi di
Laurea pubblicata in PORPHIRA 2005, http://www.porphyra.it/Supplemento3.pdf.
94
nello sfondo del mosaico sopra la porta del Tesoro di San Marco, nel XIII
secolo215.
La porta che immette nella Cappella Zen dall’atrio occidentale si presenta
identica nelle dimensioni e nel disegno; la griglia è a giorno e, non essendo
fissata su tavola rivestita di lamine, manca di tutte le borchie a rosetta. La sua
sistemazione può essere ascritta alla metà del XIII secolo, quando cioè l’atrio
venne rinnovato e si rese necessaria la chiusura delle arcate con opere
scultoree e la presenza di porte e di cancelli bronzei. Non è da escludere
dunque che la griglia della Cappella Zen e quella fissata sulle valve del portale
centrale facciano parte del bottino della IV Crociata. Date le loro grandiose
dimensioni questi battenti clatrati potrebbero provenire anch’essi, come i
cavalli, dall’ippodromo di Costantinopoli. L’orafo venetus Magister Bertucius
riprodusse la griglia clatrata e, con la stessa eleganza e perfetta coerenza,
riprese il tema delle archeggiature anche nei battenti delle altre porte esterne
di San Marco, come testimonia la sua firma lasciata nel 1300 nel cancello a
sinistra rispetto a quello centrale della facciata della basilica216.
215
R. Polacco, Porte e cancelli di bronzo, in San Marco, la Basilica d’Oro, cit., p.146.
E. Callegari, Porte clatrate in Il sacco di Costantinopoli nel 1204 e il bottino veneziano a cura di E. Callegari, tesi di
Laurea pubblicata in PORPHIRA 2005, http://www.porphyra.it/Supplemento3.pdf.
216
95
CAPITOLO V – LA STORIA DEL TESORO DI SAN MARCO TRA BISANZIO
E VENEZIA
Il tesoro di San Marco è una favolosa collezione di oggetti sacri e profani, di
diversa origine e provenienza, che si è venuta a formare nell’arco di molti
secoli, a partire dal XIII, e che costituisce non soltanto uno straordinario
insieme di materiali preziosi e di prodotti artistici di raffinatissima fattura, ma
anche una testimonianza storica e devozionale di potente forza evocativa e
indubbia valenza simbolica. Non a caso, la visita al tesoro rappresentava,
all’epoca del ducato veneziano, il momento culminante di un percorso rituale217
pregno di quei messaggi spirituali e morali, ideologici e politici estremamente
incisivi su cui si fondava l’auctoritas della Repubblica.
Si pensi inoltre agli accessori - che figuravano già nel primo inventario degli
oggetti del tesoro compilato nel 1283 – utilizzati dal doge come segni del
comando, a cominciare dalla “zogia”, la gioia per eccellenza, cioè il corno
dogale indossato nel giorno dell’investitura, o ai pettorali e alle corone delle
“Marie”, che alludevano a tradizioni arcaiche, rievocate di anno in anno in una
delle feste più famose della storia veneziana primitiva218.
La raccolta comprendeva ori, argenterie, gemme, cristalli di rocca, marmi
romani, vetri lavorati e dipinti, smalti, arredi liturgici, reliquiari e reliquie, in
una mescolanza di forme e materiali, funzioni e significati che fanno di essa e
delle vicende che le ruotano intorno uno dei capitoli più interessanti della storia
e della cultura di Venezia.
La sua storia plurisecolare, com’è noto, ebbe inizio nel 1204 quando, con
l’abbattimento dell’Impero Romano d’Oriente e la presa e il saccheggio della
sua capitale, giunse a Venezia il primo nucleo della collezione che includeva,
oltre a una grande quantità di oggetti preziosi e di arte sacra, alcune reliquie di
immenso valore: fra le altre, quella della Vera Croce, quella del Preziosissimo
Sangue di Cristo e quella della testa di Giovanni Battista.
217
G. Romanelli, La storia del Tesoro tra Bisanzio e Venezia in La basilica di San Marco, arte e simbologia, a cura di
Bruno Bertoli, Venezia 1999, pp.171- 184.
218
Ivi, p. 174.
96
Ciò che accadde poi a questa prima raccolta di reperti costantinopolitani fu un
evento disastroso in sé, ma che ispirò allo stato veneziano un’operazione
politica di grandissima efficacia, volta a rafforzare il mito fondativo della città e
quindi, qualora ce ne fosse bisogno, a legittimarne ulteriormente l’autorità. Nel
1231, narrano le cronache, un incendio scoppiò improvvisamente nella stanza
in cui erano custoditi gli oggetti e quando fu scoperto era troppo tardi per
intervenire.
L’indomani
mattina,
benché
l’ambiente
fosse
andato
quasi
completamente distrutto, si constatò che era rimasto indenne un piccolo
numero di reliquie, ma si trattava delle più significative, tanto che, una
trentina d’anni più tardi, il Doge formulò al Papa, attraverso l’ambasciatore
veneziano
a
Roma,
la
richiesta
di
riconoscimento
della
miracolosità
dell’evento219: l’apostolo Marco aveva prodigiosamente assistito la città che in
lui identificava la sua origine e il suo ruolo.
Il fatto miracoloso venne ricordato, scolpito nella forma di ex voto, in un
bassorilievo marmoreo, risalente probabilmente alla metà del Duecento e
murato nell’andito Foscari, sulla parete retrostante l’altare del Santuario220. Il
pannello, ritenuto di grande valore artistico, permette di identificare con una
certa sicurezza le reliquie che formarono il nucleo del tesoro ricostituito dopo
l’incendio del 1231221.
L’evento indusse, ovviamente, i veneziani a restaurare l’ambiente del tesoro,
superando la grave perdita e incrementando nel tempo la raccolta con nuovi
preziosi.
E
infatti
qualche
anno
dopo,
nel
1261,
nel
momento
della
capitolazione dell’Impero Latino d’Oriente, che aveva comportato la fuga dei
veneziani da Costantinopoli riconquistata dai bizantini, venne effettuata una
seconda grande raccolta di reliquie e oggetti sacri.
La maggior parte di queste opere proveniva dal tesoro del convento e del
complesso delle chiese del PantoKrator oltre che da Santa Sofia, cioè da quei
219
Ivi, p. 179.
E. Merkel, Bagliori d’icone, di reliquie e di altri oggetti artistici venuti da Bisanzio a Venezia per il Tesoro di San
Marco, Venezia, Conferenza Ateneo Veneto, 26 Novembre 2012.
221
Le fonti riferiscono che quattro oggetti rimasero indenni: il Reliquiario ad ampolla del Preziosissimo Sangue di
Cristo, la Stauroteca della Vera Croce, donata da Enrico re di Fiandra, la Stauroteca della Vera Croce, donata
dall’Imperatrice Irene Dukas e il Reliquiario della Testa del Battista. (Basilica di San Marco, Tesoro, inv. N. 62; Idem,
Santuario, inv. nn. 55, 57, 105). Oreficeria sacra a Venezia e nel Veneto. Un dialogo tra le arti decorative, a cura di
Letizia Caselli ed Ettore Merkel, Treviso 2007.
220
97
luoghi che erano diventati di pertinenza veneziana dopo la caduta di
Costantinopoli. La colonia veneziana, dopo il trionfo, aveva infatti eletto il
primo podestà che prese sede nel monastero del Pantokrator, uno dei più
celebri della città, mentre la basilica di Santa Sofia divenne la residenza del
primo dei patriarchi dell’Impero Latino d’Oriente: il veneziano Tommaso
Morosini. Nel 1261 il patriarca di Costantinopoli era ancora un veneziano,
Pantaleone Giustinian, che fuggì insieme all’ultimo Imperatore Latino d’Oriente
e al podestà veneziano Marco Gradenigo222.
La fuga fu dunque l’occasione per mettere insieme una nuova ingente quantità
di preziosi e trasportarli a Venezia. In un momento politicamente poco felice
per la città di Venezia, la necessità di una nuova imponente operazione di
raccolta e classificazione di tali reperti venne ad assumere così un forte valore
ideologico223, legittimato, come si è detto, dal riconoscimento da parte del
Papa del miracolo della salvezza delle reliquie.
L’ambiente che ospitava tale raccolta venne ampliato, attraverso la creazione
di due stanze collegate fra loro da un piccolo atrio, e reso quindi più consono
all’accoglienza del tesoro marciano, il tesoro dello Stato di Venezia, di quella
che era la città dell’Apostolo Marco224.
Significativa è la decorazione musiva che possiamo notare nella lunetta della
porta che dà al museo del Tesoro, testimonianza dello stile aulico e raffinato
che contraddistingue i mosaici marciani del XIII secolo. Essa raffigura due
Arcangeli che sostengono la Stauroteca della reliquia della Vera Croce.
Si pensa che il particolare musivo rappresenti la Stauroteca della Vera Croce
donata dalla regina Irene Dukas. L’identificazione dell’oggetto prezioso di
matrice bizantina che spicca dal fondo dorato tempestato di perle è avvalorata
dal fatto che la sua forma è unica e si contraddistingue dagli altri oggetti
analoghi del Santuario, come pure dalla Stauroteca della Vera Croce donata dal
re Enrico di Fiandra, scampata anch’essa all’incendio e raffigurata nel
222
G. Romanelli, La storia del Tesoro tra Bisanzio e Venezia in La basilica di San Marco, arte e simbologia, cit., p.
179.
223
Operazione di legittimazione che sappiamo essersi ripetuta in diverse circostanze e in varie fasi della storia della
Repubblica di Venezia.
224
G. Romanelli, La storia del Tesoro tra Bisanzio e Venezia in La basilica di San Marco, arte e simbologia, cit., p.
180.
98
bassorilievo duecentesco225. Così, nel corso dei secoli, il tesoro di San Marco si
arricchiva costantemente di nuovi oggetti sacri e reliquie, non soltanto
attraverso il flusso di cose giunte da Costantinopoli tra il 1204 e il 1261, ma
anche grazie ad acquisti, lasciti, doni di autorità religiose e civili di tutta
Europa, oggetti dati in pegno o in garanzia nel corso di grosse operazioni
finanziarie, oltre a continue riscoperte e ritrovamenti di cose dimenticate. Né
mancavano, d’altro canto, tentativi di furto e manomissioni. L’incessante
variare della consistenza del tesoro rese dunque necessaria la compilazione di
inventari, il primo dei quali, stilato da Giovanni Corner, risale al 1283226.
Se il nucleo più prezioso e ricco del tesoro è quello di origine bizantina, non
mancano oggetti di altra matrice culturale e di diversa provenienza, tanto che
gli studiosi propongono una suddivisione della raccolta in quattro aree: opere
appartenenti all’antichità e all’alto medioevo, opere bizantine, islamiche e
occidentali.
Interessante è notare come molti di questi oggetti siano stati rielaborati e
reinterpretati, nelle diverse epoche, in base alla sensibilità, al gusto e alle
esigenze del momento. Il contatto con tale patrimonio artistico e culturale
certamente contribuì al rinnovamento dell’arte veneziana in tutte le sue
espressioni, in una sorta di “Rinascimento” prima del Rinascimento, che
investirà non soltanto il contesto veneziano duecentesco, ma si perpetuerà
anche dopo la capitolazione dell’Impero Latino d’Oriente e il ritorno della
dinastia dei Paleologi nell’ultima fase della storia di Bisanzio227.
225
E. Merkel, Bagliori d’icone, di reliquie e di altri oggetti artistici venuti da Bisanzio a Venezia per il Tesoro di San
Marco, Venezia, Conferenza Ateneo Veneto, 26 Novembre 2012.
226
Altro inventario importantissimo è quello del 1325, che fornisce la prima rassegna dettagliata dei singoli pezzi. Dopo
le vicende poco felici che seguono la Caduta della Repubblica nel 1797 e lo smantellamento di parte del tesoro, il
presidente dell’Accademia delle Belle Arti, Leopoldo Cicognara, viene incaricato nel 1820 di compilare il primo grande
lavoro di capitolazione scientifica delle parti superstiti che costituiscono il tesoro. Essa costituisce la base di partenza
per i successivi studi sul tesoro, da quello effettuato dal Pasini a fine Ottocento a quello più recente del Gallo, per poi
giungere all’opera monumentale coordinata dall’Hahnloser. G. Romanelli, La storia del Tesoro tra Bisanzio e Venezia
in La basilica di San Marco, arte e simbologia, cit., pp. 181-182.
227
E. Callegari, Venezia e il Tesoro di San Marco in Il sacco di Costantinopoli nel 1204 e il bottino veneziano, tesi di
laurea pubblicata in PORPHIRA 2005, http://www.porphyra.it/Supplemento3.pdf.
99
5a – GLI SMALTI SUPERIORI DELLA PALA D’ORO
Tra gli oggetti sacri che costituiscono il Tesoro, la Pala d’Oro è considerata uno
dei più preziosi e raffinati, alta espressione del genio metafisico di Bisanzio e
del culto della luce intesa come elemento di elevazione dell’uomo verso Dio.
Lo stesso studioso R. Polacco afferma che: “il fascino esercitato dalla Pala
d’Oro nasce dalla singolarità dei suoi bagliori di luce e dei suoi effetti di colore
tali da sottrarla dalla temporale dimensione terrena, per proiettarla nella sfera
dell’eternità della Celeste Gerusalemme”228 (fig. 1).
Si tratta di un capolavoro eccezionale per le sue dimensioni, di un’opera
ricchissima, di origine composita, che nella sua ultima versione, acquisita nel
1345 per commissione del doge Andrea Dandolo a Giovanni Paolo Bonesegna,
accoglie un numero assai elevato di lavori a smalto, per la maggior parte
bizantini. Non vi è dubbio che, all’origine, dovesse essere stata una “fronte”
d’altare, di dimensioni assai minori delle presenti. Dai documenti in nostro
possesso emerge che un primo antependium d’argento fu ordinato a
Costantinopoli, a proprie spese, dal doge Pietro Orseolo (976-978). Da esso
proverrebbero, secondo la maggior parte degli studiosi, molti piccoli smalti
della Pala attuale229. Una seconda pala fu commissionata dal doge Ordelaffo
Falier (1102-1108) e fu terminata nel 1105, come precisa l’iscrizione “nova
facta fuit” su due lamine d’oro della parte inferiore ai lati del trittico. A questo
primo nucleo eseguito da artisti costantinopolitani nel 1105 per il doge
Ordelaffo Falier (fig. 2) vanno ascritti, assai probabilmente, gli smalti della
sezione inferiore della Pala, dove il Cristo con evangelisti e apostoli,
l’Hetoimasia e le schiere angeliche sono accompagnati dalla Vergine, da ritratti
di regnanti e profeti, da soggetti marciani e cristologici230.
Nel 1209, sotto il dogado di Pietro Ziani231 (1205-1229), la pala fu ingrandita e
arricchita con pietre preziose e smalti provenienti probabilmente dal bottino
228
R. Polacco, San Marco, la Basilica d’Oro, cit., p. 151.
Il Polacco non condivide tale proposta, in quanto si attiene all’antica descrizione fornita dalla cronaca di Giovanni
Diacono, dalla quale emerge che il manufatto di età orseoliana era composto da lamina d’argento dorato sbalzato del
tipo delle più tarde pale di Torcello e di Caorle. Ivi, p. 154.
230
E. Concina, Le arti di Bisanzio, cit., p. 249.
231
W. F. Volbach, Gli smalti della pala d’oro, in Il tesoro di San Marco, a cura di H. R. Hanloser, Firenze 1965.
229
100
della conquista di Costantinopoli. L’iscrizione, infatti, precisa che la Pala
“renovata fuit” nel 1209 ad opera del doge Pietro Ziani e la cronaca del
Dandolo aggiunge che il procuratore Angelo Falier “tabulam altaris Sancti
Marci, additis gemi set perlis, Duci iussu, reparavit”232. In particolare, si è
supposto che questi smalti con sei scene del Dodekaorton e uno smalto
quadrilobo con l’arcangelo Michele (figg. 3-4-5), montato ora sul fregio
superiore, provenissero dal monastero del Pantokrator di Costantinopoli.
Circa la provenienza delle sei grandi formelle e del San Michele aggiunti in
questa seconda edizione della Pala, la testimonianza ci giunge dalle parole del
patriarca di Costantinopoli in visita a Venezia nel 1438, che al tempo
dell’imperatore Giovanni Paleologo, vedendo quegli smalti sulla Pala, notò con
rincrescimento che un tempo essi si trovavano nella chiesa del Pantokrator
nella capitale, occupata dai veneziani nel 1204.
Questa ipotesi è accolta con riserva dal Polacco, che ritiene improbabile che il
patriarca potesse ricordare con tanta precisione la provenienza di quegli smalti
234 anni dopo la loro asportazione dal luogo originario. La loro ipotetica
appartenenza a un luogo sacro legato in qualche modo ai Comneni, e forse
proprio al santuario del PantoKrator, si giustifica eventualmente con la
presenza nella Pala di uno stile aulico e comneno che caratterizza gli smalti in
esame e soprattutto col fatto che la residenza del podestà della colonia
veneziana si trovava accanto alla chiesa del Pantokrator.
Gli smalti trasferiti sulla Pala d’Oro nel 1209 potrebbero essere stai asportati
dopo la presa di Costantinopoli, dalla chiesa dedicata all’arcangelo Michele, che
aveva funzione di mausoleo degli imperatori Comneni ed era situata tra la
chiesa del Pantokrator commissionata dall’imperatrice Irene, morta nel 1124, e
quella della Vergine Eleussa, fatta costruire dal marito, l’imperatore Giovanni II
Comneno. Come sottolinea il Polacco “ la singolarità della forma quadrilobata e
la tecnica à fond repoussé del grande smalto centrale raffigurante l’arcangelo,
assai più raffinata e diversificata della tecnica cloisonné che connota le altre sei
feste, ci inducono a credere che esso costituisse un’importante icona, forse la
più prestigiosa del templon, perché raffigurante il titolare di questo mausoleo
232
R. Polacco, la Basilica d’Oro, cit., p. 154.
101
dedicato appunto a San Michele e destinato ad essere il monumento sepolcrale
dei componenti della dinastia regnante a Bisanzio”233.
Grande è la preziosità tecnica, stilistica e compositiva del fregio superiore con
le sei placche delle Grandi Feste e l’Arcangelo Michele, che appartengono
all’ingrandimento primo-duecentesco della pala e sono espressione di un
linguaggio altamente raffinato. Nonostante lievi diversità tecniche riscontrabili
nella formella con l’Ingresso in Gerusalemme (figg. 6-7-8) e qualche divario
nelle dimensioni, il gruppo appare stilisticamente unitario e dominato da un
evidentissimo equilibrio tra fondo d’oro e area figurata. Esso costituisce il
culmine dell’arte comnena nella sua fase più matura, della quale troviamo
testimonianza non solo in miniature, ma anche nel ciclo musivo di Dafnì, negli
affreschi di Nerezi ed infine nei mosaici della cupola dell’Ascensione in San
Marco234. Il virtuosismo tecnico si fa ornamento, scrivendo innaturali geometrie
rabescate sul corpo dell’asina bianca del Cristo. Tensioni ed emozioni
contraddittorie agitano la folla dei discepoli ai due lati della Vergine orante
nella placchetta dell’Ascensione, il dramma del silenzio della morte e della
sofferta pietà ricorrono nel volto del Cristo morto e nelle figure astanti della
crocifissione. Molteplici tecniche esecutive si associano invece, per concorrere a
comporre effetti diversi (testa e mani a cloisonné, le altre parti à fond
repoussé; linee di contorno incavate profondamente; impiego di smalto
translucido oppure opaco) nella placchetta quadriloba con l’arcangelo Michele
tra due serafini, che porta le stesse vesti solenni di Giovanni II Comneno e del
figlio Alessio nei ritratti della miniatura del tetraevangelo di Città del
Vaticano235 (fig. 9).
Infine, a riprova del fatto che il fregio superiore con il San Michele e le sei feste
liturgiche proviene dal bottino di Costantinopoli, tutte le iscrizioni di queste
formelle sono in greco. Le iscrizioni latine con caratteri irregolari devono
233
R. Polacco, La Pala d’Oro di San Marco dalla sua edizione bizantina a quella gotica in Storia dell’arte marciana:
sculture, tesoro, arazzi, a cura di R. Polacco, Venezia 1997, p. 371.
234
Renato Polacco, La Pala d’Oro in San Marco, la Basilica D’Oro, Milano 1991, p. 159.
235
Nel gran numero di codici illustrati di età comnena che ci sono rimasti di grande interesse è il tetraevangelo (Città
del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vat. Ub. Gr. 2), che ritrae l’imperatore Giovanni II Comneno (1128
circa) e il figlio Alessio incoronati dal Cristo accompagnato dalle allegorie della carità e della giustizia; un’opera di
grande ricchezza d’oro e di colore, a cui la placchetta quadriloba con l’Arcangelo Michele tra due serafini della Pala
d’Oro di San Marco sembra rifarsi soprattutto per il trattamento delle veste solenni dei due sovrani. E. Concina, Le arti
di Bisanzio, cit., p. 249.
102
considerarsi esecuzione bizantina su ordine della committenza e quelle greche
vanno interpretate come “necessità” imposte dal rigido cerimoniale di corte
anche in ambito linguistico.
103
5b – VENEZIA E L’ICONA DA DEVOZIONE
Il ruolo e il significato che Venezia attribuisce al culto dell’icona bizantina e
post-bizantina è legato alla pietà pubblica e ai grandi miti politici veneziani.
Come sottolinea Flaminio Corner a metà del ’700, una componente devozionale
alla maniera di Levante è appartenuta al suo spazio culturale, inevitabilmente
definito e conformato anche in rapporto al suo spazio mercantile e marittimo:
“daché i veneziani per dilatare il loro commercio intrapresero d’approdar con
frequenza a’ porti della Grecia - scrive il senatore della Serenissima - e
massimamente di Costantinopoli, contrassero pure una venerazione particolare
verso que’ santi, che erano più celebri nella chiesa orientale”236.
Venezia medievale e rinascimentale è porto di devozione, porto di reliquie, di
testimonianze, di memorie sacre, atte spesso a rafforzare il prestigio e
l’immagine internazionale della città ducale, già sito apostolico per la presenza
delle
spoglie
dell’evangelista
Marco.
Nell’immaginario
narrativo
e
nelle
tradizioni della devozione venetica, corpi santi e reliquie raggiungono le acque
della laguna di San Marco come doni di imperatori romani d’Oriente (da Leone
V a Michele II e a Basilio il Macedone) o, ancora, come bottino di furti devoti
od oggetto di pie compravendite, oppure infine quali prede della conquista
latina di Costantinopoli condotte trionfalmente nella nuova sede. In questo
modo la città marciana accoglie in sé e ripara nelle sue chiese i sacri cimeli di
devozione, mostrando ancora una volta di volersi appropriare, con deliberata
consapevolezza, del ruolo della grande Costantinopoli, centro universale di
raccolta sistematica di pie memorie237.
Esiste uno specifico gruppo di reliquie che avvicinano in modo particolare la
pietà veneziana a quella orientale. La chiesa di San Marco custodisce infatti, si
scrive, la croce portata da Costantino in battaglia, il suo elmo, il reliquiario
cruciforme che racchiude il suo dito pollice. E ancora, una croce fatta del Legno
236
F. Corner, Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia e di Torcello, Padova 1758, p. 424. Sul tema v.,
inoltre, S. Tramontin- A. Niero - G. Musolino - C. Candiani, Culto dei santi a Venezia, Venezia 1969; S. Tramontin,
Influsso orientale nel culto dei santi a Venezia fino al secolo XV, in Venezia e il Levante fino al XV secolo, Firenze
1973, pp. 801-820.
237
E. Concina, Venezia e l’Icona in Venezia e Creta, Atti del Convegno internazionale di Studi a cura di Gherardo
Ortalli, Venezia 1998, p. 527.
104
della vera Croce, appartenuta all’imperatrice Elena, madre di Costantino e
santa; il suo stendardo, i suoi pettorali d’oro e le corone delle giovinette del
suo seguito. Anche in questo, dunque, nella figura di custode di tali spoglie,
sacre ai cristiani, la natura imperiale di Venezia veniva confermata, e non certo
dalla sorte, dalla pura casualità degli eventi, ma piuttosto dal benevolo disegno
della volontà divina238.
L’immagine della Nicopeia (fig. 10) rappresenta il principale riferimento
pubblico di tale componente di devozione, interpretato come simbolo del
trasferimento da Costantinopoli a Venezia della protezione e del sostegno della
Gran Madre di Dio239. Definita “Madonna de Gratia” per eccellenza, esauditrice
di suppliche o preghiere, custodita e venerata in San Marco e precisamente
nella soprasagrestia della basilica, sarebbe giunta a Venezia dopo la IV
crociata.
Questa tradizione venne accolta nei vari trattati che sull’icona marciana
pubblicarono Giovanni Tiepolo, Carlo Querini, Flaminio Corner. Quest’ultimo,
nel 1761, utilizzando un vocabolo greco la chiamò Nicopeia, vincitrice, e la
definì “aiutatrice invittissima, compagna insuperabile nelle battaglie”240.
Il suo culto si sviluppò con grande intensità verso la metà del XVI secolo e con
il tempo riuscì a guadagnarsi la partecipazione collettiva della popolazione.
Assai significativamente, il Tiepolo aveva affermato, appunto, come attraverso
il possesso pubblico di tale icona “havesse Vinegia a promettersi con
l’intercessione di Maria Vergine tutto ciò che può venire dalla divina
misericordia et onnipotenza, sendo stata ella, non meno che la città di
Bisanzio… in honore della Vergine non pure edificata, ma consecrata in honore
di essa Madre di Dio”. Dunque l’icona bizantina custodita e venerata nella
chiesa ducale, considerata esplicitamente come una delle testimonianze
provvidenziali della translatio imperii, “secondo l’uso de gl’imperatori antichi
238
M. Sanudo, De origine, situ et magistratibus urbis Venetae ovvero La città di Venetia, a cura di A. Caracciolo Aricò,
Milano 1980, pp. 160-162; G. Tiepolo, Trattato delle santissime reliquie ultimamente ritrovate nel Santuario della
Chiesa di San Marco, Venezia 1617; Sansovino-Martinioni, Venetia cit., pp.102-103.
239
G. Tiepolo, Trattato dell’immagine della Gloriosa Vergine dipinta da San Luca conservata già da molti secoli nella
ducal chiesa di San Marco, Venezia 1618.
240
E. Callegari, Venezia e il Tesoro di San Marco in Il sacco di Costantinopoli nel 1204 e il bottino veneziano, tesi di
laurea pubblicata in PORPHIRA 2005, http://www.porphyra.it/Supplemento3.pdf.
105
porta (ta) inanzi, sperandone favore, aiuto241”, costituisce l’immagine visibile di
quella divina protezione che assicura la rinascita della città-repubblica242.
Nell’inventario del 1606 si trova per la prima volta “fornida d’argento e d’oro
con zoglie, et alcune panizuole vode. In capela fata de novo
243
“; le zoglie,
ossia i gioielli, erano con tutta probabilità i primi di una lunga serie di preziosi
doni votivi ricevuti in seguito alla venerazione dei fedeli nei suoi confronti e che
arrivò al punto di occultare quasi per intero la superficie pittorica, già in parte
nascosta dalla camicia di argento dorato244.
Per la sua divina bellezza era creduta “achiropita”, cioè non creata da mano
umana, bensì da San Luca che, per divina ispirazione, avrebbe tracciato la
prima immagine della Madre di Dio245.
241
G. Tiepolo, Trattato dell’immagine della Gloriosa Vergine dipinta da San Luca conservata già da molti secoli nella
ducal chiesa di San Marco, cit., p. 20.
242
E. Concina, Venezia e l’Icona in Venezia e Creta, cit., pp. 524-525.
243
R. Gallo, Reliquie e reliquiari veneziani, in “Rivista di Venezia”, XIII, Venezia 1934, p. 307.
244
E. Callegari, op. cit., tesi di laurea pubblicata in PORPHIRA 2005, http://www.porphyra.it/Supplemento3.pdf.
245
L’Evangelista Luca oltre ad essere l’autore, come sappiamo, del terzo Vangelo e degli Atti degli Apostoli, è
considerato il primo ritrattista della Theotokos (Madre di Dio), secondo una tradizione nata nel V secolo sulla base di
antiche icone a lui attribuite, provenienti da Antiochia o da Tebe e trasferite poi a Costantinopoli e in Russia, che
diventeranno il prototipo per la realizzazione di molte icone mariane. A. Tradigo, Icone e Santi d’Oriente, Milano 2004,
p. 104.
106
CAPITOLO
VI
-
LO
SVILUPPO
DELL’ARCO
RIALZATO
NELL’ARCHITETTURA DEL DUECENTO VENEZIANO
6a - Breve introduzione sulle origini dell’arco rialzato e sua evoluzione
nell’edilizia veneziana del Duecento246
Lo studioso che maggiormente ha trattato la tematica relativa alle origini
dell’arco rialzato è Wladimiro Dorigo247.
Egli, prendendo spunto dalle teorie di Ruskin248 sugli ordini degli archi
veneziani, svolge un’analisi sullo sviluppo degli archi a Venezia tra l’XI e il XIV
secolo. Li suddivide in tre ordini (fig. 1): al primo appartiene l’arco a tutto
sesto rialzato su piedritti; al secondo, l’arco rialzato su piedritti, cuspidato
nell’estradosso; al terzo, infine, l’arco rialzato su piedritti, cuspidato sia
nell’estradosso che nell’intradosso.
Lo studioso italiano, tuttavia, inizia la sua analisi descrivendo il tipo dell’arco a
tutto sesto (seconda metà del sec. XII e inizio del sec. XIII) che Ruskin non
cita, ma che per il Dorigo riveste un’importanza del tutto particolare.
Tale arco, entro muro o su colonne, con le sue certezze statiche e figurative
costituì un solido punto di partenza per la storia muraria dell’architettura
domestica veneziana, tanto da essere usato in situazioni statiche relativamente
impegnative, come i portici terreni, e mantenne la costanza geometrica e la
continuità costruttiva della ghiera semicircolare in mattoni e dell’unificazione
delle ghiere contigue in esatta corrispondenza alla loro imposta sul capitello
della colonna. Esso è presente a Venezia fin dall’XI secolo; i primi esempi sono
rintracciabili nelle fabbriche ecclesiastiche di San Nicolò di Lido e di San Marco.
Questo tipo d’arco è attestato soprattutto in portici esterni (sull’acqua) o
interni (su corte), presenta una struttura sia in mattoni che in pietra ed è
associato quasi sempre a capitelli a cubo scantonato249. Gli esempi di portici
246
Il presente approfondimento sullo sviluppo dell’arco rialzato nell’architettura civile veneziana è stato tratto da un
mio precedente lavoro di ricerca. L. Santin, L’arco rialzato nell’architettura medievale veneziana, tesi di laurea in
Conservazione dei Beni Culturali, Relatore Prof. Ennio Concina, Università Ca’ Foscari di Venezia, Anno Accademico
2006-2007, pp. 4-81.
247
W. Dorigo, Venezia Romanica. La formazione della città medioevale fino all’età gotica,Verona 2003, pp. 266-283.
248
J. Ruskin, The stones of Venice, London 1874.
249
W. Dorigo, Venezia Romanica. La formazione della città medioevale fino all’età gotica, cit., p. 277.
107
curtensi “romanici” interni meglio conservati con arcate a tutto sesto,
appartenenti certamente alla fase edilizia più antica dell’architettura civile
veneziana, sono quelli delle corti del Fontego vicino al campo S. Margherita e
del Teatro Vecchio presso S. Polo; di corte Bottera e di quella presso calle del
Rimedio a Castello 4418. Esempi di portici esterni sul canale sono quelli di ca’
Barzizza, ca’ Falier, ca’ da Mosto (fase originaria), casa S. Giovanni decollato,
ca’ Molin-Balbi-Valier250. I portici dei palazzi sono in genere più tardivi o
rimaneggiati, come rivelano i particolari decorativi.
Passando poi all’analisi del I ordine, a cui viene ascritto l’arco a tutto sesto
rialzato su piedritti, lo studioso italiano formula alcuni seri rilievi critici sulla
ricostruzione fatta da Ruskin, che sostiene l’origine bizantina di tale arco.
All’interpretazione
di
Ruskin,
del
resto,
si
era
allineata
la
letteratura
successiva, che ha sempre sostenuto la tesi di una importazione di tale
tipologia dall’Oriente, intorno all’ XI - XII secolo. Secondo il Dorigo, invece,
archi del genere sono visibili non soltanto nel territorio bizantino da S. Irene di
Costantinopoli in poi, ma anche in Occidente: a Roma e precisamente nei
mercati traianei, a Ostia (casa degli Aurighi), a Parenzo (quadriportico della
Basilica). Altri archi di questo tipo, anche se più tardivi, ossia altomedievali, li
troviamo poi a Cividale (nel tempietto sono presenti come estradossi di volte a
botte laterizie), a Milano (S. Satiro e torre dei monaci di S. Ambrogio), a
Ravenna, nelle bifore del palazzo S. Salvatore detto degli Esarchi, così come in
bifore e trifore di campanili preromanici quali quelli di S. Apollinare nuovo, di S.
Apollinare in Classe e altri. L’origine di tale arco risalirebbe dunque, secondo il
Dorigo,
all’età
imperiale
e
la
riproposizione
del
tipo
sarebbe
dovuta
probabilmente a costruzioni di età carolingia dell’entroterra italico251.
A Venezia, sempre secondo il Dorigo, l’arco rialzato compare per la prima volta
nell’esterno dell’abside della basilica di San Marco, ma è bene ricordare che
l’Arslam252 cita la sua presenza addirittura all’interno della basilica contariniana
(fig. 2). Esso appare, comunque, in maniera più decisiva solo verso la metà del
250
L. Santin, L’arco rialzato nell’architettura medievale veneziana, cit., tesi di laurea, Anno Accademico 2006-2007, p.
6.
251
252
Ivi, p. 7.
E. Arslam, Venezia gotica. L’architettura civile gotica veneziana, Venezia 1970.
108
XIII secolo alle due estremità nord e sud della facciata occidentale, dove ben si
distinguono i due portichetti con archi a sesto rialzato253 (fig. 3), impostati su
colonne sovrapposte in due ordini. Infine, dopo la sua comparsa in San Marco
e nelle Procuratie Vecchie, diventa distintivo di logge e/o portici di alcune delle
più celebrate domus magnae che più avanti analizzeremo254.
Il
“passaggio”
dall’arco
rialzato
del
primo
ordine
agli
archi
cuspidati
rappresenta, insieme con la successiva transizione agli archi gotici, uno dei
problemi più complessi di tutta l’architettura medievale veneziana255.
Per
lo
studioso
O.
Demus,
l’origine
dell’arco
cuspidato
è
certamente
islamica256, e gli esempi presenti in San Marco - porta del Tesoro, porta dei
Fiori, porta di San Giovanni e la stessa porta Nord della facciata, detta di
Sant’Alipio (figg. 4-5) - accertano nella loro singolarità l’accettazione culturale
e politica, nel più significativo monumento religioso e civile della città, di quelle
forme mistilinee di cui era sicuramente nota la provenienza. Tuttavia, mentre
in San Marco gli archi citati sembrano configurare soprattutto ricercate
sperimentazioni, quasi sempre diverse tra loro, che si svolgono nell’ambito di
qualche decennio, gli archi cuspidati che appaiono in città probabilmente prima
della metà del secolo risultano rigorosamente formalizzati, quasi definiti da un
canone di proporzioni e di ductus tale da consentire poche limitate variazioni
esecutive257.
La durata di committenza di tali archi cuspidati sia nell’intradosso che
nell’estradosso fu notevole: si protrasse infatti per circa due terzi del
Duecento, fino ai decenni iniziali del Trecento. Essi furono trattati di norma con
253
R. Polacco, L’architettura nei secoli IX –XIII in San Marco, la Basilica d’Oro, cit., p. 35.
L. Santin, L’arco rialzato nell’architettura medievale veneziana, cit., tesi di laurea, Anno Accademico 2006-2007,
p.7.
255
Secondo il Dorigo, l’apparizione dell’arco a tutto sesto rialzato su piedritti e cuspidato all’esterno non implica, di per
sé, una fase di transizione verso gli ordini gotici, come proposto dallo studioso britannico Ruskin: fra i due gruppi di
ordini non esiste rapporto necessario di successione, né formale, né strutturale. L’arco su piedritti cuspidato non può
confondersi con l’arco gotico inflesso. Quest’ultimo è un arco a quattro centri, mentre il primo è un arco a un solo
centro, cui può essere aggiunta una cuspide di varia forma, triangolare o arcuata,
che nel secondo caso tenderebbe a farlo divenire a tre centri.W. Dorigo, Venezia Romanica. La formazione della città
medioevale fino all’età gotica, cit., p. 278.
256
Ossia, come ha opportunatamente precisato Demus, fatimida e specialmente ayyubbide. The church of San Marco in
Venice, cit., pp. 104-105.
257
O. Demus, The church of San Marco in Venice, cit., p. 104. “In Sicily, the Islamic element was a strong allpervading current, fostered by royal patronage and disseminated, in part by Muhammedan craftsmen, both native of
Sicily and immigrants from Fatimid Egypt. In Venice, on the other hand, Venetian Artists employed a few isolated
forms of Islamic origin and amalgamated them in decorative ensembles of a thoroughly Venetian cast”.
254
109
l’originario toro esterno e investirono bifore, trifore, quadrifore, integrandole
anche con frequenti aggiunte di monofore laterali su pilastri. L’arco cuspidato
nell’estradosso si trova in associazione tipica, assolutamente prevalente, con il
capitello a cubo scantonato profilato, pur ammettendo qualche presenza di
capitelli a foglie angolari rovesciate o a foglie angolari ascendenti, che si
ritrovano anche, talvolta, nell’arco rialzato del III ordine con il quale invece si
accompagna di solito il capitello a foglie grasse.
“La presenza di tali archi cuspidati sia nell’estradosso che nell’intradosso
annuncia peraltro un’altra epoca dell’architettura di facciata veneziana che
durerà molti secoli. Le strutture architettoniche dell’ordine I (arco a tutto sesto
rialzato su piedritti) che, insieme con le precedenti di arco a tutto sesto
avevano caratterizzato mediante l’organismo unitario a portico e loggia la
prima grande edilizia di pietra, cedono il passo abbastanza rapidamente a una
dissoluzione del blocco portante dei due piani sovrapposti, con la scomparsa
del portico, sostituito da portale, e con la scomparsa della loggia, sostitituita da
monofore e polifore. Al primo piano non si costituisce più, dunque, il secondo
ordine colonnare distintivo dell’architettura romana a più ordini, ma finisce per
incastonarsi all’interno una contratta transenna258. È questo il punto d’arrivo
dell’evoluzione romanico-bizantina dell’arco veneziano che, con l’avvento della
cuspide nella continuità semicircolare dell’intradosso, va ad interrompere quella
continuità, così che il concio centrale superiore perde il valore unificante che
aveva nel tipo precedente, acquisendone uno diverso, non più plastico, ma
linearistico, il quale trasforma l’assetto spaziale-strutturale dell’edificio e
contribuisce alla lenta evoluzione tipologica della casa veneziana”259.
258
Il venir meno della funzione portante dei precedenti nessi trilitici potrà esentare la polifora del primo solaio dallo
svolgere funzioni di sostegno nei confronti della polifora del secondo solaio – che nel frattempo comincia ad apparire in
questa età - , autorizzando così un indebolimento strutturale peraltro implicito nella forma cuspidata dei nuovi archi,
rilassamento che potrà accentuarsi con l’avvento dell’arco a sesto acuto inflesso. W. Dorigo, Venezia Romanica. La
formazione della città medioevale fino all’età gotica, cit., p. 279.
259
L. Santin, L’arco rialzato nell’architettura medievale veneziana, cit., tesi di laurea, Anno Accademico 2006-2007,
pp. 11-12.
110
6b - La formazione della Piazza e lo sviluppo dell’edilizia di alto livello
Come abbiamo già accennato in precedenza, a partire dalla seconda metà del
XII secolo, Venezia intraprende una fase di trasformazione e rinnovamento che
determina una riorganizzazione radicale della sua configurazione urbana.
Tra i vari interventi di riqualificazione che interessano l’area marciana,
particolarmente significativa è la costruzione della lunga fabbrica delle
Procuratie (figg. 6-7).
Le prime informazioni su di esse risalgono al XIII secolo e provengono da
alcuni documenti relativi alle case dei Procuratori che, come sappiamo, si
trovavano sul lato meridionale della Piazza. In occasione, infatti, della nomina
di nuovi procuratori venne deliberato dal Maggior Consiglio, nel 1231, 1239 e
1261, ”quod fieri debeatuna domus pro sua habitatione”260. Dunque è possibile
che tutta l’ala meridionale della Piazza fosse già costruita nel 1231, ma è certo
che nel suo sviluppo planimetrico doveva occupare in profondità solo una parte
dell’area ora occupata dalle Procuratie Nuove. La parte restante venne
gradatamente occupata tra il XIII e il XIV secolo fino ad essere completamente
satura nel 1319261.
La Piazza, quindi, sorta in collegamento con quell’espansione urbanistica che
abbiamo già osservato, si pose rispetto a questa non solo come un ulteriore
elemento di stimolo per la zona strettamente circostante, ma anche come un
modello architettonico per l’edilizia di alto livello.
Nel XIII secolo, dunque, questo genere di edilizia residenziale dovette
probabilmente ispirarsi alle Procuratie. Ciò non significa che con le Procuratie si
sia introdotto qualcosa di completamente nuovo a Venezia, in quanto una
tradizione costruttiva esisteva già e le forme del portico a tutto sesto trovano
numerose attestazioni anteriori a questo momento (abbiamo già citato la corte
del Fondaco e la corte del Teatro Vecchio a San Cassiano), ma che piuttosto
con esse si è raggiunto un livello formale più alto e, in particolare, una
260
F. Corner, Ecclesiae Venetae, X, cit., pp. 384-385. La citazione è relativa alla nomina del 1239.
M. Agazzi, La formazione della Piazza in Platea Sancti Marci, I luoghi marciani dall’XI al XIII secolo e la
formazione della Piazza, cit., p.134.
261
111
definizione delle strutture di facciata più aulica ed imponente rispetto agli
esempi allora disponibili262.
262
Ivi, p.137.
112
6c - Origini delle Domus Magnae
Prima di passare all’analisi delle Domus Magnae meglio conservate e, quindi,
maggiormente esemplificative delle caratteristiche che abbiamo descritto,
volevo soffermarmi brevemente sulle origini di tali manufatti.
La domus magna, che rappresenta la matrice urbanistica della Venezia
bizantina, è la casa padronale con quell’insieme di abitazioni minori, di edifici e
attrezzature di servizio che vivevano alle sue dipendenze e con essa
costituivano un unico complesso edilizio, espressivo di una compagine sociale
unitaria e qualificata per fondamentali interrelazioni e gerarchie dei suoi
componenti.
La domus magna non era solo abitazione, ma anche azienda commerciale: la
cosiddetta casa-fondaco veneziana (o meglio, “casa da statio con magazeni”).
Al pian terreno, generalmente, si trovava un grande androne con il portico
verso il canale per lo scarico delle merci, ai lati i magazzini; verso terra una
piccola corte cinta da mura, spesso con scala esterna. Al piano ammezzato vi
era l’amministrazione (“mezà”); il piano nobile (spesso ve ne arano due)
presentava salone centrale (“portego”) e stanze ai lati; sopra, vi era un altro
piano di altezza più bassa per l’alloggio dei servitori e dei dipendenti. Anche le
facciate, come le piante, sono divise in tre parti: al centro il finestrato, ai lati
zone più piene (le “torreselle”). Talvolta pianta e facciata sono asimmetriche,
in ogni caso si può notare una costante corrispondenza funzionale tra la
distribuzione interna degli ambienti e le aperture in facciata.
Ciò ci permette di comprendere come la validità delle architetture civili
veneziane non si basi solo su un fatto di gusto decorativo, come troppo spesso
si afferma, ma anche su una chiara coerenza costruttiva.
L’indagine dell’arco rialzato nella domus magna veneziana del Duecento e del
Trecento263 può essere condotta ed esemplificata attraverso lo studio di alcune
eminenti individualità architettoniche.
Gli esemplari pervenutici non sono molti e solo pochi fra essi suggeriscono
un’immagine integrale. Siamo, inoltre, consapevoli del fatto che gli interventi
263
P. Maretto, La casa veneziana nella storia della città lagunare dalle origini all’Ottocento, Venezia 1986.
113
distributivi e funzionali anche gravi che si sono succeduti in molte delle domus
magnae già nel Duecento e nel Trecento possono aver indotto modificazioni
non indifferenti anche in facciata.
È interessante notare come il delinearsi di nuove penetrazioni di gusto, quali
l’impiego
dell’arco
rialzato,
abbia
influito
sullo
sviluppo
architettonico
dell’edilizia civile veneziana, tanto che è accertata l’esistenza, già nel Duecento
e nel primo Trecento, di specificazioni funzionali e tipologiche di vario livello. La
strutturazione della casa già nel Duecento si costituisce in termini che, con
varianti determinate, rimarranno validi per secoli.
Nello studio di tali costruzioni noteremo un dato significativo: mentre in epoca
romanico-bizantina l’edificio fruisce di aree rettangolari molto profonde e di
moderata altezza, a partire dalla seconda metà del Duecento le strutture
divengono più duttili e articolate in altezza.
L’analisi dell’arco rialzato, che parte dallo studio del primitivo arco a tutto sesto
“romanico” (seconda metà sec. XII - inizi sec. XIII) e della sua progressiva
evoluzione, che porterà alla presenza degli archi rialzati su piedritti e cuspidati
prima nell’estradosso e poi anche nell’intradosso, deve dunque tener conto
dell’impostazione edilizio-architettonica complessiva di tali strutture, che
condiziona ovviamente il loro processo evolutivo.
114
6d - Lo sviluppo dell’arco rialzato in alcune delle più significative
Domus Magnae a Venezia
La Proprietas maior Palmieri da Pesaro, poi Fondaco dei Turchi, è sicuramente
uno dei più antichi e rappresentativi manufatti architettonici duecenteschi
esistenti nella città di Venezia.
Tale esemplare fu costruito secondo le cronache intorno al 1230 da Giacomo
Palmieri, originario di Pesaro ed era in origine una tipica casa fondaco venetobizantina (fig. 8). Da fonti successive è emerso che il complesso fabbricativo
verso la corte e la sua qualificazione monumentale sono il risultato di
trasformazioni
progressive
rispetto
alla
fondazione
del
Duecento,
poi
assoggettate a trasformazioni utilitarie e ad altri impieghi che investirono
diversi locali nei due bracci laterali e nel blocco compreso fra le due sale, oltre
alla facciata, come dimostrano le degradanti immagini ottocentesche. Nella
parte antica si distingue, comunque, molto bene l’originaria presenza dell’arco
rialzato.
La facciata è infatti tutta giocata sul rincorrersi incalzante delle archeggiature
ad arco rialzato di ordine I, e di pilastri, colonne e capitelli romanici delle torri
laterali.
Le arcate sono associate a colonne marmoree antiche di spoglio e a capitelli di
tipo contariniano spesso rifatti e che variano nella foggia.
Secondo il Dorigo264, tali caratteristiche sono proprie di un assetto culturale e
stilistico quasi certamente databile al secondo quarto del Duecento.
Un tratto tipico che contraddistingue la facciata di tale edificio “romanicobizantino” è la presenza di porticati e amplissimi finestrati che traforano tutta
la parete. In Palazzo Pesaro, così come nei palazzi veneziani Loredan e
Farsetti, queste aperture così numerose necessitano l’imposizione di un ritmo.
Ciò ha portato l’architetto a modificare il sottostante portico di accesso
estendendolo
a
tal
punto
da
farlo
diventare
il
più
ampio
esistente
nell’architettura medievale veneziana dopo quello, più tardo, di Palazzo Ducale.
264
W. Dorigo, Venezia romanica, la formazione della città medioevale fino all’età gotica, Venezia 2003; cit., p. 368.
115
Molto si è discusso sull’origine di tale finestrato che prende, da un capo
all’altro, tutta la facciata del Fondaco dei Turchi.
Un contributo significativo sulla provenienza delle forme architettoniche
relative agli schemi di facciata palaziale veneziana ci viene dallo studioso
Sergio Bettini. In particolare, lo studioso fa risalire il modello della facciata di
alcuni palazzi veneziani, tra i quali anche il Palazzo Pesaro, alla struttura della
villa romana265 anzichè ad una ispirazione di matrice bizantina.
Il Bettini, che tiene conto nella sua analisi dell’interpretazione data dallo
Swoboda266, afferma che il tipo della casa veneziana più diffuso e persistente
probabilmente deriva per lo schema della sua facciata - dominata da grandi
polifore al centro, cui ai lati fanno da cornice larghe cortine più piene, quasi
torriccelle appiattite (di qui il nome di casa con torreselle) - da un certo tipo di
villa romana, in particolare da quello a portico centrale e torrette a risalti
laterali (definita Portikusvilla mit Ekrisaliten, secondo la precisa affermazione
dello Swoboda).
A tale proposito, viene preso in considerazione come esempio di riferimento il
palazzo di Diocleziano a Spalato (fig. 9). Tale edificio, composto da un portico
con corpi laterali aggettanti (Ekrisaliten), costituisce un precedente prezioso
dei palazzi veneti, in quanto la basis villae, (il basamento massiccio già
sporgente in altri esempi) appare sullo stesso piano della facciata.
In conclusione, secondo il Bettini, quelle strutture a portici, loggiati ritmici,
grandi polifore che furono proprie della tarda romanità e che si caratterizzano
per la presenza di porticati e amplissimi finestrati che traforano tutta la parete
(fig. 10), visibili tra l’altro anche in altri edifici che più tardi tratteremo (ca’ da
Mosto, Loredan, Farsetti), creano un nuovo ritmo strutturale che a partire dal
II secolo condizionerà l’architettura palaziale di facciata veneziana.
Quello che oggi rimane del Fondaco dei Turchi è frutto del radicale restauro
compiuto da Federico Berchet nel XIX secolo, che ne ha raggelato l’originaria,
austera bellezza (fig. 11).
265
266
S. Bettini, Venezia, nascita di una città, Milano 1918.
K. M. Swoboda, Römische und romanische Paläste, Vienna 1919.
116
Altra celebre domus magna è costituita dal Palazzo Dandolo, ca’ Farsetti267
(figg. 12-13). La costruzione di ca’ Farsetti, cioè del palacium San Luca, fu
avviata
da
Raynero
Dandolo,
figlio
del
doge
Enrico,
trionfatore
di
Costantinopoli, nel primo decennio del Duecento268. Proprio da qui, da un atto
di committenza ducale, la cronachistica veneziana fa derivare il prototipo, il
caso esemplare delle architetture palaziali del Duecento: ca’ Dandolo sul Canal
Grande269.
I connotati stilistici, a cominciare dagli archi a tutto sesto rialzato, e più
fondamentalmente l’impianto planimetrico e compositivo della facciata sul
Canal Grande, fanno di ca’ Farsetti e del vicino palazzo ca’ Loredan due tra i
più antichi esempi di casa-fondaco oggi esistenti a Venezia, la cui tipologia di
impianto distributivo-strutturale perdurerà per diversi secoli270. Si tratta di uno
schema a sala centrale “passante” acqua-terra e smistante i vani laterali sia al
piano terra che al piano nobile, costituito da quattro murature parallele in
profondità e tre solai. Il disegno della facciata di tali edifici è caratterizzato
dalla sovrapposizione di lunghi porticati e corrispondenti finestrati superiori che
ne percorrono ritmicamente l’intera estensione.
Di solito, la sezione mediana è composta da un numero maggiore di archi
rispetto alle due esterne e il ritmo dello stesso portico terreno è talora
interrotto e, allargandosi, modificato celebrativamente dalla maggior ampiezza
del fornice centrale (come al Fontego dei Foscolo sul rio di ca’ Foscari o a ca’
da Mosto).
In particolare, la facciata di ca’ Farsetti presenta una loggia continua composta
da un unico finestrato ad archi rialzati che poggiano su colonnine binate e
capitelli a cubo scantonato profilato ai lati e a foglie grasse nella zona centrale.
Il gioco illusionistico si ripete al pian terreno, con la sequenza di archi rialzati
del porticus in apparenza assai più larga dell’anditus, con un sistema di fornici
(2+1+2) ai lati dei quali stanno due bifore. I capitelli del portico sono di tipo
267
W. Dorigo, Venezia romanica, la formazione della città medioevale fino all’età gotica, cit., pp. 370-371.
Ancora una volta, la fonte sul caso emblematico del palazzo sul Canal Grande del doge Enrico Dandolo proviene da
Stefano Magno. Essa afferma che il doge da Costantinopoli “scrise a suo fiolo et fese edificar un palazo et mandoli de
degne piere e così fo edificado molto degno”. E. Concina, Le arti di Bisanzio, cit., p. 302.
269
E. Concina, Storia dell’architettura di Venezia dal VII al XX secolo, cit., p. 71.
270
W. Dorigo, Venezia romanica, la formazione della città medioevale fino all’età gotica, cit., p. 371.
268
117
contariniano e le colonne stesse posavano, prima del restauro del 1874, su
altri capitelli corinzi rovesciati “tolti da edifizi romani de’ bassi tempi”271.
Anche il palazzo ca’ Loredan, come il precedente ca’ Farsetti, rappresenta un
significativo esempio di casa-fondaco databile, secondo il Dorigo, alla seconda
metà del Duecento272 (figg. 14-15).
Qui la loggia riprende esattamete il portico (accentrato come in ca’ Farsetti) e
si presenta dilatata su tutto il prospetto canalizio. Anche se resta evidente per
tanti aspetti di facciata la somiglianza di questo palazzo con l’adiacente ca’
Farsetti, ca’ Loredan se ne distingue per la diversa plasticità architettonica
dovuta all’utilizzo di materiali più pregevoli, e per il gusto classico più
arcaicizzante presente nella loggia.
Dalla loggia, preziosi fusti di marmo orientale si alzano a sostenere gli archi
rialzati di ordine I rifiniti a dentello, che poggiano su capitelli corinzieschi di
fattura tardoantica o bizantini a cesto traforato. Anche il portico sottostante è
caratterizzato da archi rialzati del medesimo ordine associati a capitelli di tipo
contariniano con alto abaco profilato. Infine, ai lati del portico emerge la
presenza di colonnine binate e capitellini romanici a cubo scantonato.
Della domus magna dei Barozzi o Palazzo Treves De Bonfili273 (figg. 16-17)
nulla è apparentemente rimasto a causa della ricostruzione attuata nel XVI
secolo, che ha dato origine al Palazzo Treves de’ Bonfili.
Possiamo tuttavia leggere in un documento del 1279, riguardante la divisione
dei beni di Giovanni Barozzi, la descrizione di questo straordinario edificio
compreso fra il Canale e la curia retrostante. La distribuzione interna
dell’edificio presentava un assetto a I, con uso di porticus in ambedue i livelli,
ai lati del quale erano gli hospicia (fig. 18). Sopra il primo piano si estendeva
una sopita con oculi aperti sul canale e altri fori. La facciata vista dal De’
Barbari (fig. 19) si componeva di un porticato terreno, di una loggia continua,
di una parete superiore forata dagli oculi citati e di una serie di grandi
merlature simili a quelle della ca’ Palmieri. Per quanto concerne la balconata il
De’ Barbari mostra che la casella nel 1500 era invece divenuta un casone
271
Ivi, p. 358.
Ivi, p. 372.
273
Ivi, p. 374.
272
118
gotico e di balconi liberi ne erano rimasti solo 10: essi erano dunque in origine
15 o 16, forse 3+9+3. È probabile che gli archi appartenessero all’ordine I, e si
potrebbe così far risalire l’intera costruzione agli anni intorno alla metà del
Duecento274.
L’esistenza della domus maior Querini (ca’ Mazor) è attestata, secondo alcune
deliberazioni duecentesche del Maggior Consiglio, a partire dal 1265, quando la
“ca’ Mazor“ di Giacomo Querini era divenuta proprietà del comune, che l’aveva
acquistata per quattromila lire e per altrettante la cedette nuovamente alla
famiglia nel 1288. Della domus (fig. 20) sussiste in parte la fronte privata sul
campo delle becarie (l’antica curia). Essa conserva ancora una trifora e una
monofora originali che presentano la tipologia dell’arco rialzato a toro,
cuspidato sia nell’estradosso che nell’intradosso (ordine III, fig. 21) e
poggiante su capitelli a foglie grasse con nervature rovesciate e caulicoli.
Sulla struttura architettonica della domus maior, e sulla facies complessiva
della sua fronte sul Canale, nulla è possibile dire se non che i pochi elementi
residui sul campo possono datarsi al periodo compreso fra il 1288 e il 1310,
quando forse si eseguirono lavori di allungamento di un edificio. La costruzione
della ca’ Mazor deve essere invece fatta risalire alla prima metà del Duecento.
A quel tempo rappresentò un edificio di grande rilevanza architettonica per la
sua classe, paragonabile alla struttura dei palazzi ca’ Farsetti e Loredan275.
Altro celebre manufatto architettonico è costituito dalla proprietas da Mosto
(figg. 22-23). Costruita sulla parte che dava sul Canale di una vasta proprietà
di Ca’ Falier (1209 e 1235) situata lungo il rivo dei SS. Apostoli, viene attestata
nel 1242 come proprietà di Marino e Giovanni Barozzi.
Si tratta di uno dei più notevoli e rari esempi di costruzione del XIII secolo,
conservata nel suo originale pianterreno, col tipico portico sull’acqua della
casa-fondaco di cui rimangono tre arcate e, al primo piano, col suo loggiato
illuminato da un susseguirsi di archi rialzati con l’estradosso appuntito. È
proprio la novità nel trattamento dell’estradosso l’elemento che più fa spicco su
questa facciata; per la prima volta, infatti, nell’arco tondo compare una
274
275
Ivi, p. 374.
Ivi, p. 376.
119
cuspide, elemento, questo, che segnerà un passo verso quell’arco particolare
che impererà nell’arte gotica276.
Dall’esame dell’ordinamento di facciata, in particolare, si osserva un pesante
rimaneggiamento del portico (che doveva essere continuo su cinque arcate: 2,
1, 2), caratterizzato da una riutilizzazione di elementi decorativi. In esso
emerge la presenza di archi rialzati su piedritti di blocchi lisci di pietra d’Istria
poggianti su capitelli di diversa forma: uno trecentesco (di tipo 6°) e gli altri a
cubo scantonato277.
Anche il piano di loggia risente dei lavori di restauro di fine XIV secolo, come
testimoniano i tardi capitelli a foglie rovesciate con caulicoli che non sono certo
contemporanee agli archi rialzati (1, 7, 1) cuspidati nell’estradosso (ordine II).
Infine, è interessante notare le sei formelle con centina che presentano la
cuspide sia nell’estradosso che nell’intradosso (ordine III) e che, con le cornici
esterne, suggeriscono una dimensione più tarda (fig. 24).
Questo edificio è stato purtroppo sopraelevato di due piani nel XVII secolo. Una
lapide ricorda che questa fu la dimora di celebri navigatori e qui nacque il più
famoso tra essi: Alvise da Mosto (1432-1488).
Il palazzo fu poi trasformato nell’ Albergo del Leon Bianco, il più lussuoso e
rinomato della città fra il Cinquecento e il Settecento.
L’edificio noto con la denominazione moderna di ca’ Barzizza (figg. 25-26)
appartenne agli eredi di Marco Contarini nel 1324 e si può identificare con il
fonticus sclavorum del 1366278.
I gravi interventi subiti nel corso del tempo rendono assai problematico ogni
esercizio di restituzione della facciata originale, mentre la prima esistenza di
una loggia continua con archi a tutto sesto a toro autorizza l’ipotesi di una sala,
perpendicolare alla facciata, collegata con schema a T a una porticus che è del
tutto scomparsa. Sembra, comunque, proponibile una porticus a crozole a tre
fornici separate introdotta da un anditus al pianterreno e formata da archi a
tutto sesto rialzato di ordine I non molto accentuato a toro in rosso veronese.
276
E. Arslam, Venezia gotica. L’architettura civile gotica veneziana, Venezia 1970.
W. Dorigo, Venezia romanica, la formazione della città medioevale fino all’età gotica, cit., pp. 378-379.
278
Ivi, pp. 382-383.
277
120
La foratura estesa ai locali laterali potrebbe essere stata imposta da due bifore
a tutto sesto o di ordine I, delle quali costituirebbe un avanzo quella
incorporata al primo piano, con archi decorati a toro su colonnine e capitelli a
cubo scantonato profilato, come in ca’ Farsetti e ca’ Loredan. Secondo il Dorigo
la decorazione architettonica documenta comunque la compresenza, come nei
due palazzi citati, di elementi di gusto classico (i capitelli del portico
estremamente consunti sono forse del VI secolo o contariniani; quelli della
loggia sono lavorati a paniere di acanto spinoso di imitazione marciana) di
modelli di terraferma (la bifora citata) e di un frammento di pregevole scultura
risalente alla renovatio della prima metà del Duecento (intradosso ed
estradosso del portico).
Al secondo piano la polifora (che originariamente, secondo la veduta del De’
Barbari, era una esafora) incorniciata e decorata a dentelli presenta archi a
tutto sesto rialzato di ordine I associati a capitelli bizantini o di imitazione.
Notevoli sono anche le patere a traforo con motivi di leoni addossati e di grifoni
con l’albero della vita che adornano la facciata e richiamano quelli precedenti
dell’atrio di Santa Maria di Pomposa.
Prossimo a ca’ Barzizza, il palazzo detto ca’ Businello (figg. 27-28) apparteneva
nel 1313 alla famiglia Morosini. La colonna angolare con capitello a cubo
scantonato fra il Canale e il rio dei Meloni è confermata dalla veduta del De’
Barbari come sostegno di un portico di riva, che risulta attestato fin dal 1313: i
resti murati del portico sono ancora evidenti lungo il rivo, sui pilastri e capitelli
mutilati, con archi in laterizio a tutto sesto.
Dalla planimetria si distingue ancora una porticus leggermente allargata a T
con locali separati ai lati, che ricomprende i tre archi a tutto sesto rialzato di
ordine I. Al primo piano la suddivisione distributiva osserva il medesimo
impianto a porticus e sala con hospicia laterali; corrispondentemente, le
esafore del primo e secondo piano risultano di poco più larghe del portico
terreno: esse presentano archi rialzati dentellati dell’ordine I con il medesimo
breve rialzo osservabile negli archi del portico e associati a capitelli corinzieschi
di tipo contariniano e di altra ispirazione279.
279
Ivi, pp. 384-385.
121
Complessivamente, ca’ Businello, con le sue sale a loggia contratta in polifora,
gli spessori murari modesti, il basso livello d’impianto del terreno, la scelta di
archi a tutto sesto di breve rialzo associati a capitelli di diversa natura
presenta, secondo il Dorigo, una datazione riconducibile alla seconda metà del
Duecento.
La domus maior ca’ Donà appare descritta nel testamento di Michele Zancani.
Le realtà distributive (fig. 29) fornite configurano per l’edificio sul canale una
tipologia a T (anditus con voltae laterali e porticus in fronte a nove arcate, 4,
1, 4) al piano terreno, all’ammezzato soprastante una porticus priva di sala
(dove il De’ Barbari registra un’esafora con due monofore ai lati, del tutto
scomparsa sotto un rifacimento moderno), e al “piano nobile” un portico
passante caratterizzato da una pentafora che presenta archi rialzati di ordine I
e che appare sostanzialmente conservata, mentre le due monofore laterali
sono state ridisegnate dopo il XVI secolo (figg. 30-31).
La conformazione degli archi, con doppia dentellatura, è pressoché identica a
quella di ca’ Businello, mentre i capitelli associano ad imitazioni bizantine a
cesto traforato esemplari corinzieschi di fattura quattrocentesca, simili a quelli
della vicina ca’ Donà della Madoneta. Ritoccate sono anche le cimase dei due
pilastri laterali e attestazione ulteriore di un rimaneggiamento quattrocentesco
è l’inserzione forzata delle quattro formelle, due ad arco ribassato e due
caratterizzate dalla presenza di archi rialzati, cuspidati sia nell’estradosso che
nell’intradossso (ordine III), che si alternavano con patere (una sola
conservata) sopra la polifora, con forme che ricordano la risistemazione della
ca’ da Mosto.
Della proprietà Signolo o ca’ Donà della Madoneta (figg. 32-33) abbiamo scarse
notizie documentali. Tale casa-fondaco risulta essere stata di proprietà degli
eredi di Angelo Signolo dal 1290 fino al 1327, quando ne viene attestata
l’appartenenza alla vedova di Jacobello Bonino, Elena, erede del marito.
Nella sua conformazione interna, fortemente modificata nei secoli, essa
comprendeva probabilmente una sala e una balconata su tutta la fronte, ove
sussiste una loggia continua ad otto archi rialzati di ordine I dentellati sopra
colonne
antiche
e
nuovi
capitelli
corinzieschi
inseriti
durante
un
122
rimaneggiamento; in quell’occasione fu creata anche una loggetta architravata
su colonnine binate. La modesta larghezza di facciata accentua l’effetto di
verticalità dell’immobile e la sua adattazione non si allontana molto dalla metà
del Duecento.
Caso del tutto particolare è quello che si trova sull’antichissimo rivo Businiaco
(rio de ca’ Foscari) dove sussiste la facciata di un edificio (figg. 34-35) detto
ca’ Foscolo (proprietas Flabanico). Di esso sappiamo che fu di proprietà della
famiglia Magno, poi di Giovanni Magno, vescovo di Equino dal 1306 al 1321,
mentre in precedenza era appartenuto a Pancrazio Flabanico. La facciata,
recentemente
restaurata
(fig.
36),
consente
qualche
deduzione
sulla
corrispondente distribuzione interna.
L’articolazione architettonica si esprime in un pianterreno e un probabile
ammezzato, con un grande arcone centrale, entro le cui dimensioni di alzato si
collocavano su ogni lato due quadrifore con archi rialzati di ordine I montate su
colonnine binate. L’arcone introduceva a un anditus di cui restano gli spessi
muri laterali; i fori laterali erano allungatissime finestre centinate la cui parte
superiore illuminava gli ammezzati, imitanti con accentuata dimensione gli
archi su piedritti delle aperture laterali di ca’ Farsetti e ca’ Loredan.
Tutti gli elementi considerati fanno pensare a una datazione vicina alla metà
del Duecento280.
Altro interessante manufatto architettonico è la proprietas Falier281 (figg. 3738); un edificio situato nelle vicinanze del campo dei SS. Apostoli che era parte
di un vasto complesso della famiglia Falier fin dall’inizio del Duecento, come è
attestato da fonti notarili. Nonostante l’irregolarità geometrica del fondo, ca’
Falier mostra una completa corrispondenza fra l’organizzazione di facciata e la
distribuzione interna. La tipologia è mista, e associa uno schema a T al
pianterreno (la porticus comune congiunta all’anditus passante, con orditura
delle trabaturae di solaio perpendicolari alla facciata) a uno schema a portico
passante (senza sala) al primo e secondo piano.
La composizione architettonica della facciata è sostanzialmente conservata; gli
archi del portico, rifatti in età moderna, nascondono la presenza di archi rialzati
280
281
Ivi, pp. 390-391.
Ivi, p. 380.
123
di ordine I che poggiano su capitelli a cubo scantonato (tipo 1C); le polifore
cinte a toro presentano, invece, archi rialzati cuspidati nell’estradosso (ordine
II) e sono costituite da colonne in pregevole marmo orientale con capitelli a
foglie angolari. Sono decorate, infine, da patere e formelle.
Tali caratteristiche ci permettono di ricondurre la datazione dell’edificio alla
seconda metà del Duecento.
Anche la proprietas Vitturi (figg. 39-40-41) in campo S. Maria Formosa si è
sostanzialmente conservata, pur ammettendo in facciata notevoli interventi.
La distribuzione interna, che è riconoscibile al pianterreno e sui due solai
soprastanti, si articola su uno schema basilicale con una porticus passante
assai stretta; un solaio ulteriore ad ammezzati, presente nella veduta del De’
Barbari, fu aggiunto nel XIV o XV secolo.
La trifora del primo piano, che sembra coordinata con la porticus, presenta
archi rialzati a toro, cuspidati nell’estradosso (ordine II), attualmente su
pilastri; la quadrifora del secondo piano, invece, presenta archi rialzati
dentellati,
cuspidati
sia
nell’estradosso
che
nell’intradosso
(ordine
III),
poggianti su capitelli a paniere traforato bizantino (anche se quello centrale è
di restauro tardivo). Particolare cura è stata dedicata al corredo decorativo
plastico, con patere sopra le cuspidi degli archi, croci e formelle (queste ultime
scomparse).
Nel complesso la parte di facciata ancora studiabile permette di stabilire una
datazione compresa nella seconda metà del Duecento282.
Per quanto concerne ca’ Soranzo (detta pure dell’Angelo), non esistono fonti
dirette dei secoli XIII e XIV su questo importante edificio, se non una citazione
del 1389 che lo riconosce come proprietà dei Soranzo.
L’edificio osserva complessivamente uno schema a L sull’angolo fra due rivi,
con l’ampia corte cintata e merlata lungo la calle del Rimedio (figg. 42-43). Se
le facciate sui rivi (fig. 44) sono state profondamente modificate in età gotica e
nel Cinquecento, è proprio la lunga fronte meridionale sulla corte il lascito
conservativo di maggiore interesse. Al pianterreno si conserva un lungo
porticato ad architrave ligneo su colonne e capitelli a cubo scantonato in rosso
282
Ivi, p. 377.
124
veronese.
Il
primo
solaio
presenta,
invece,
una
quadrifora
(fig.
45)
caratterizzata da archi rialzati a toro cuspidati nell’estradosso (ordine II), con
eguali capitelli e cinque patere; un’altra quadrifora simile con balconi laterali è
situata in secondo solaio con una bifora anch’essa a toro che presenta archi a
tutto sesto rialzato di ordine I. I caratteri plastico-architettonici di questi e di
altri elementi presenti, insieme alla simmetria generale, fanno propendere per
una datazione vicina alla fine del XIII secolo283.
Particolare attenzione merita infine ca’ del Papa, il grande palazzo veneziano
del patriarcato di Grado, operativo per secoli a San Silvestro, che rappresenta
la più antica costruzione civile nota a Venezia, poiché la sua fondazione risale
all’inizio della seconda metà del XII secolo. Costruito a partire dal 1156
accanto alla chiesa di San Silvestro dal patriarca Enrico Dandolo, è ricordato
soprattutto come teatro dello straordinario incontro avvenuto nel
1177 fra
l’imperatore Federico I e il pontefice Alessandro III, grazie al quale fu sancita
“la pace veneta”284.
Un notevole contributo alla conoscenza della facies del palazzo (fig. 46) verso il
Canale ci è offerta da un noto telero del Carpaccio (relativo a un miracolo della
reliquia della Croce), pur fortemente idealizzato nel monumentale scalone
antistante (fig. 47).
Questo e altri documenti posteriori ci consentono deduzioni abbastanza
puntuali sulla conformazione del palazzo e mettono in luce il carattere
innovativo che dovette avere prima del Duecento tale architettura, che aveva
accolto materiali e forme proprie del romanico veronese.
La facies complessiva dell’edificio, tramandata dal De’ Barbari (fig. 48),
comporta due torri laterali, delimitanti una merlatura simile a quelle di ca’
Palmieri, ca’ Barozzi e ca’ Querini a S. Polo e, davanti al portico e alle
stationes, uno scalone monumentale speciale che è divenuto in parte una
bottega moderna. Se lo scalone dipinto da Carpaccio è certamente idealizzato,
la finestratura dell’aula e dell’intero piano del solaio è ben rappresentata nel
283
Ivi, pp.392-393.
L’evento che ebbe luogo nel 1177 grazie alla mediazione del doge Sebastiano Ziani nel 1177, e che ebbe come
protagonisti il Papa Alessandro III e Federico Barbarossa, va inserito nel già più volte citato contesto di interventi di
riqualificazione duecenteschi che avevano caratterizzato la platea marciana ed in particolare l’apparato decorativo
interno ed esterno della cappella ducis, probabilmente anche in vista di tale storico evento.
284
125
telero con archi in pietra bianca in apparenza a tutto sesto su colonne rosse e
capitelli rossi a cubo scantonato.
Tali elementi, uniti a quelli riscontrabili nel portico (figg. 49-50), definiscono
un’arte compiuta della facciata palaziale romanica, precocemente datata alla
metà del XII secolo, e forse precedente l’ingresso in città (esclusa San Marco)
dell’ordine I285.
285
W. Dorigo, Venezia romanica, la formazione della città medioevale fino all’età gotica, cit., pp. 394-395.
126
6e - INTERPRETAZIONI CONCLUSIVE SULL’ARCO RIALZATO
Lo studio dell’arco rialzato che ho condotto in questo lavoro di ricerca mi ha
portato alle considerazioni che formulerò qui di seguito.
Innanzitutto, è importante sottolineare come l’analisi dell’arco rialzato su
piedritti, nei tre ordini in cui è stato classificato, rivesta per noi un interesse
non soltanto di carattere estetico, ma anche storico-architettonico, in quanto ci
aiuta a definire la lenta e complessa evoluzione della casa nell’edilizia
veneziana.
Siamo partiti dall’analisi dell’arco primitivo a tutto sesto che, come si è visto,
rappresenta il punto di partenza per la formazione della tipologia muraria
propria
dell’edilizia
veneziana,
adatta
soprattutto
a
situazioni
statiche
abbastanza impegnative. In questa prima fase, infatti, tale arco sembra negare
alle strutture murarie la possibilità di elevarsi, constatato che la sua presenza a
Venezia compare piuttosto in edifici poco sviluppati in altezza o in portici lungo
percorsi acquei. Si procede quindi all’impiego dell’arco rialzato, che si avvale
pur sempre della stessa certezza costruttiva della ghiera continua a curvatura
costante, ma che al posto dei mattoni utilizza i conci di pietra. Compare,
inoltre, il piedritto, il rialzo della ghiera, connotato essenziale di tutti gli archi
del I ordine, che conferisce a questi uno slancio favorendo così l’elevazione
dell’edificio. Il tratto estetico caratteristico di tale impianto è il ripetersi di
arcate ad alto piedritto con prevalenza del vuoto sul pieno. Si tratta dunque di
un’architettura a giorno, con ampie e ariose logge e portici.
Esempi significativi di tale architettura li abbiamo visti comparire a Venezia
dapprima nelle Procuratie Vecchie di Sebastiano Ziani del XII secolo e poi in
altre case veneziane che presentano piano nobile più o meno integralmente
loggiato, come ca’ Farsetti e ca’ Loredan, o nel caso speciale del Fondaco dei
Turchi e in altre costruzioni palaziali sul Canal Grande, come ca’ Businello, ca’
Barzizza, ca’ Donà, ca’ Donà della Madoneta, o nei resti del portico canalizio di
ca’ del Papa, tutti casi in cui l’arco rialzato compare con una certa frequenza
per la prima volta sul finire del XII secolo e per tutto il Duecento.
127
È chiaro che tale processo di evoluzione dell’arco a tutto sesto rialzato era
ormai avviato e inarrestabile, e infatti più tardi, con un intervento decisivo per
la futura tipologia morfologica veneziana, si cominciò ad intaccarlo laddove la
forma era meno costruttiva, cioè cuspidandone l’estradosso fino alla rottura
della continuità semicircolare dell’intradosso; il che comportò la nascita del III
ordine: l’arco rialzato cuspidato sia nell’intradosso che nell’estradosso. In
questo modo l’arco a tutto sesto perse il valore plastico unificante che aveva
avuto precedentemente e acquisì un valore nuovo di tipo linearistico.
Esempi di arco rialzato con estradosso cuspidato li troviamo nel loggiato
esteso, ma già contenuto, della celebre ca’ da Mosto e in diversi esemplari
sparsi in tutta la città, come nella pentafora del primo piano e nella quadrifora
soprastante dell’oramai evoluta ca’ Falier o, ancora, nella quadrifora in primo
solaio della fronte meridionale di ca’ Soranzo. Analoga diffusione hanno, poi, gli
archi cuspidati sia nell’estradosso che nell’intradosso, come attesta la trifora
della domus maior Querini nel campo delle Beccarie o la quadrifora del secondo
piano di Proprietà Vitturi.
Questi e altri esempi minori sparsi nella città evolveranno gradualmente verso
gli archi inflessi correttamente definiti protogotici.
Sono passata poi a considerare le interpretazioni dei diversi storici dell’arte
che, in base all’analisi di questi archi e delle loro trasformazioni, ne hanno
definito la provenienza e la matrice.
Lo studioso Sergio Bettini286 aveva ribadito la loro matrice tardoantica, facendo
risalire il modello di alcuni palazzi veneziani, tra i quali il Fondaco dei Turchi,
allo schema della villa romana antica.
Il Dorigo, che rappresenta la nostra fonte più esaustiva, ha ampiamente
illustrato una “Venezia romanica” che ha certamente attinto da una cultura del
retroterra padano; anche se non dobbiamo dimenticare che il gusto romanico
di provenienza veronese non è esente da componenti veneto-bizantine e viene
comunque rielaborato da maestranze veneziane locali.
Fra i contributi forniti dagli studiosi all’analisi dei palazzi veneziani medievali,
quello di Juergen Schulz è senz’altro di primaria importanza. In particolare, nel
286
S. Bettini, L’architettura di San Marco, Padova 1946; Venezia, Nascita di una città, Vicenza 2006.
128
suo libro “The new palaces of medieval Venice”287, egli prende in esame
essenzialmente i palazzi pregotici presenti a Venezia. Schulz vede nel modello
del palazzo veneziano pregotico un prototipo “a sé stante”, derivante piuttosto
da modelli continentali.
In particolare, l’impiego dell’arco rialzato che appare in primis nella nuova
Chiesa di San Marco, così come poi in altri edifici civili, secondo lo studioso non
è da ricondursi ad un’ispirazione di gusto orientale, quanto piuttosto ad
esigenze dettate da ragioni di altro tipo, cioè di carattere pratico ed estetico.
Anche la decorazione scultorea degli archivolti si sviluppa verso qualcosa di
originale ed esclusivamente veneziano. Schulz ritiene, dunque, che anche la
scultura
architettonica
associata
al
palazzo
pregotico
veneziano
si
sia
sviluppata al di fuori di motivi e spolia prettamente mediterranei. Secondo il
suo punto di vista, l’influenza bizantina, così come quella islamica e romanica,
hanno certamente lasciato la loro impronta, ma con il tempo queste diverse
tendenze sono state omologate e rielaborate da maestranze veneziane che
hanno saputo plasmare soluzioni espressive innovative e tipicamente locali
adattandole poi ulteriormente in risposta ad imperativi locali sia ambientali che
sociali.
La posizione di Schulz si scosta anche dall’interpretazione della storica d’arte
americana Deborah Howard288, che fa risalire la forma dei palazzi venetobizantini a modelli arabi, e precisamente di origine fatimida, ripresi dai
veneziani che avevano visitato le città di Fustat (il primo insediamento arabo
vicino al Cairo) e, più tardi, Damietta e Rosetta, situate lungo il delta del Nilo.
Tali
influssi,
secondo
la
Howard,
vennero
assorbiti
ed
esibiti
poi
nell’architettura civile veneziana289 del XII e XIII secolo.
A tale proposito, se consideriamo lo sviluppo dell’architettura bizantina in area
orientale, osserviamo una presenza rilevante dell’arco rialzato. Lo troviamo
infatti, a partire dall’ VIII secolo, nella chiesa di S. Irene di Costantinopoli (fig.
51), negli esterni della chiesa settentrionale e all’interno dell’abside del
Monastero di Costantino Lips del X secolo (fig. 52) sempre a Costantinopoli,
287
J. Schulz, The New Palaces of Medieval Venice, University Park, Pennsylvania 2004.
D. Howard, Venice and the East, Singapore 2000.
289
D. Howard, Venice and the East, Singapore 2000, cit., p.138-140.
288
129
nella facciata esterna della chiesa degli Apostoli dell’Agorà di Atene dell’XI
secolo (fig. 53), nei resti dell’esonartece di Fatih Cami di Enez (Ainos) in
Turchia del XII secolo (fig. 54), nella facciata esterna nord-occidentale della
chiesa della Parigoritissa di Arta di fine XII secolo in Epiro (fig. 55), così come
nell’esonartece della chiesa di Santa Sofia a Ochrida del XIV secolo (fig. 56) e
in molte altre testimonianze (vedi repertorio immagini di archi rialzati
nell’architettura bizantina in Grecia, figg. 57-68).
Non così, invece, in Occidente, dove la presenza dell’arco rialzato risulta
associata alla fabbrica marciana a partire dall’edificio contariniano, e si rivela
nelle celle di campanili cilindrici romanici, come quello di Caorle, sempre dell’XI
secolo, o ancora di quello di San Nicolò dei Mendicoli, dove archetti rialzati
compaiono anche nella minuscola bifora sulla parte più alta della fronte verso il
canale.
Esso ricompare, tuttavia, a Venezia sul finire del XII secolo e vi rimane per
tutto il XIII con una sistematicità che non è fortuita.
Determinanti, a mio avviso, sono gli stretti rapporti di carattere politico e
commerciale che legano la laguna veneta a Bisanzio in questo periodo; rapporti
che vanno ben al di là del semplice dato economico e che investono l’intera
sfera sociale e culturale. Venezia intraprende infatti, a partire dalla metà del
secolo XII, una fase di trasformazione e rinnovamento che determina una
riorganizzazione radicale della sua configurazione urbana. L’attenzione si
concentra in particolare sull’area marciana con la costruzione della lunga
fabbrica delle Procuratie, riedificate poi nel ′500 e ben note nel loro aspetto
medievale d’insieme grazie alla celebre Processione in Piazza di Gentile Bellini
(1496). In particolare, la Piazza, diventa un ulteriore elemento di stimolo per la
zona circostante influenzando l’architettura residenziale veneziana di alto
livello. La sistematicità e lo sviluppo dell’arco rialzato ne ha dato, infatti, piena
dimostrazione e lo vede, dopo la sua comparsa in primis in San Marco e nelle
Procuratie Vecchie, divenire elemento architettonico distintivo di alcune fra le
più celebri Domus Magnae duecentesche.
130
CAPITOLO VII - LA PITTURA NEL DUECENTO VENEZIANO
7a - IL CONTESTO MARCIANO
La realizzazione dei mosaici marciani coinvolge certamente le personalità più
qualificate della Venezia duecentesca ed esaurisce in sostanza il discorso sulla
pittura veneziana di questo secolo. Infatti, ben poco resta di una produzione
che doveva essere molto vivace ed attiva (e non solo nel campo del mosaico)
che possa documentare l’attività delle botteghe veneziane290.
Lo studio condotto da Ettore Merkel su alcuni episodi di decorazione ad affresco
“poco noti” della basilica marciana è stato a mio avviso particolarmente
significativo poiché ha evidenziato l’assenza nella pittura del Duecento
veneziano di un repertorio codificato e magnificente per la cappella ducis come
invece lo era stato per la decorazione musiva. Lo studioso ha, infatti, portato
alla luce il carattere di provvisorietà e la funzione temporanea di tali affreschi,
che sarebbero sorti con il solo scopo di utilità devozionale o liturgica.
Gli affreschi marciani costituiscono, dunque, un tipo di decorazione alternativa,
nettamente separata e subordinata rispetto a quella in mosaico291.
Mi voglio limitare brevemente all’analisi dell’affresco scoperto nel 1963 da
Ferdinando Forlati (figg. 1-2) nel settore dell’ambiente relativo alla campata
dell’altare della chiesa di San Marco, area che non è interessata dal fonte
battesimale, ma che al tempo del doge Andrea Dandolo era compresa fra
l’antico battistero e la torre angolare del Palazzo Ducale. Le pitture ritrovate
dal Forlati sulla parete nord, sotto le lastre del rivestimento marmoreo
raffigurano La Vergine Orante (che è stata interpretata da molti studiosi come
un’ascensione292) fra due angeli e otto santi. Per lo studioso Ettore Merkel, gli
290
F. Zuliani, Il Duecento a Venezia in La pittura in Italia, il Duecento e il Trecento, Milano 1986, p. 175.
Questi pochi affreschi marciani sono giunti fino a noi in stato frammentario e devono la loro salvezza a qualche caso
sporadico di fortunato ritrovamento avvenuto nel corso dei restauri edili della basilica condotti dalla Procuratoria di San
Marco. E. Merkel, Affreschi poco noti a San Marco in Storia dell’arte marciana: i mosaici, a cura di Renato Polacco,
Venezia 1997, p.136.
292
W. Dorigo, Venezia in La pittura nel Veneto, Le Origini, Milano 2004, p. 50. Anche il Forlati parla di “un’Assunta
fra due angeli di cui rimangono le sole teste”. F. Forlati, Ritrovamenti in San Marco. Un affresco del Duecento, in “Arte
Veneta”, XVII, Venezia 1963, pp. 223-224.
291
131
affreschi ritrovati dal Forlati non appartenevano certo agli anni del Dandolo né,
in origine, al suo battistero, ma erano più antichi di almeno duecento anni293.
Il Forlati, facendo riferimento agli affreschi della cripta di Aquileia ( figg. 3-4) e
a quelli di Santa Maria in Castello di Udine, data gli affreschi di San Marco
intorno alla metà del Duecento perché li ritiene opera di artisti che,
abbandonata la città di Costantinopoli in seguito agli episodi bellici, erano
giunti a Venezia attraverso i Balcani appunto verso la metà del XIII secolo294.
Secondo il Dorigo, gli elementi di contorno e i caratteri linguistici di quanto
resta delle figure si richiamano nettamente alla cultura occidentale e
stabiliscono vistosi rapporti con gli affreschi della cripta di Aquileia295, anche se
il Bettini ha potuto estendere il filo delle connessioni da qui fino alla pittura
macedone dell’avanzato XII secolo (intorno al 1170), e in particolare alla
“maniera di Nérezi” (fig. 5). Il Lorenzoni anticipa questa datazione alla prima
metà del XII secolo osservando i legami stilistici con i maestri della cripta di
Aquileia, mentre il Muraro anticipa ulteriormente la datazione al 1159, data che
coincide con l’iscrizione della cappella di San Clemente, e in cui il maestro
Pietro avrebbe incominciato il rivestimento marmoreo sotto il quale essi erano
stati rinvenuti.
Lo stesso studioso Ettore Merkel non esclude una datazione prossima al 1125,
tesi che egli avvalora basandosi su una successiva recente scoperta. Si tratta
di un altro affresco rinvenuto nel 1977 e riguardante gli avanzi di un’altra serie
di santi molto frammentari di cui restano visibili solo le tracce dei piedi di
alcune figure e le estremità delle vesti (figg. 6-7). Nonostante l’esiguità dei
lacerti abbia impedito una chiara lettura, la tecnica e lo stile sembrano indicare
la loro appartenenza alla prima metà del XII secolo, in base anche ad alcuni
generici riferimenti agli affreschi della cripta di Aquileia. Al di là delle difficoltà
di attribuzione di tali opere, dovute alle lacune che presentano e ai dubbi che
inevitabilmente sorgono qualora se ne voglia definire lo stile e la tecnica, è
opportuno a mio avviso considerare che il rinvenimento di tali affreschi in due
diverse riprese e la loro dislocazione ravvicinata è un dato interessante che
293
E. Merkel, Affreschi poco noti a San Marco in Storia dell’arte marciana: i mosaici, cit., p.136.
F. Forlati, Ritrovamenti in San Marco. Un affresco del Duecento, cit., pp. 223-224.
295
W. Dorigo, Venezia in La pittura nel Veneto, Le Origini, cit., p. 50.
294
132
mette in relazione nei due frammenti - nonostante le lacune - lo stile, la
tecnica esecutiva e l’affinità del repertorio coloristico dal quale emergono le
tonalità dell’ocra e del rosso mattone.
133
7b - LA PITTURA A FRESCO E SU TAVOLA A VENEZIA NEL XIII SECOLO
Se nel corso del Duecento significativa è la presenza della pittura a mosaico
soprattutto nel cantiere marciano, pochissime sono, invece, le testimonianze
sui pittori che esercitarono largamente e in molti ambiti produttivi la tecnica
pittorica dell’affresco in questo stesso periodo. Le poche opere duecentesche
sussistenti sono per lo più su legno e si iscrivono quasi tutte nella seconda
metà del secolo, a parte qualcuna risalente all’inizio del Trecento296.
La Madonna allattante (una Galaktotrofoúsa, cm. 168x127) che si trova nel
museo della basilica di San Marco è una delle rare e preziose testimonianze di
tempera veneziana su tavola che gli studiosi datano in un arco di tempo
compreso tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo (fig. 8).
Al centro della tavola emerge l’iconografia della bella Vergine allattante: Gesù
Bambino è seduto sulle sue ginocchia ed afferra il seno della madre con la
mano sinistra. Lungo il bordo inferiore della tavola sono dipinti otto dentelli
quadrangolari sagomati a sostegno di una mensola: gli studi condotti da L.V.
Geymonat sulla resa tridimensionale di alcuni elementi architettonici lo portano
a dedurre che anche qui l’intento è quello di suggerire che l’icona della Vergine
sia posta sopra un davanzale sporgente297.
Nella cornice intorno sono rappresentate, su fondo rosso, tre coppie di santi
poste di tre quarti su una base a modiglioni. Dall’alto si riconoscono Pietro, con
le chiavi in mano, e Paolo, con il libro e la spada; al centro Marco, identificabile
oltre che per la consueta iconografia del volto incorniciato da capelli scuri e
296
Tra le testimonianze sicure che ci sono rimaste, si può citare la Cassa della Beata Giuliana di Collalto che si trova al
museo Correr, le cui pitture sono opera di un pittore veneziano della fine del Duecento. In questi ultimi anni sono stati
dedicati alcuni studi importanti anche alla miniatura; tra le testimonianze che ci sono giunte, possiamo ricordare: la
Bibbia gigante di provenienza marciana (Bibl. Marciana, Lat. I, 1-4= 2108-11, circa 1220-1330), e l’Antifonario, pure
miniato, che appartiene agli stessi anni della Bibbia gigante. Particolarmente degno di valore per l’invenzione cromatica
e l’incisività di segno è, inoltre, il famoso Epistolario di Giovanni da Gaibana, scritto da lui stesso nel 1259 per la
cattedrale di Padova e il cui stile avrà in seguito un riscontro molto ampio sia nella miniatura che nella pittura
monumentale. Fulvio Zuliani, Il Duecento a Venezia in La pittura in Italia, Il Duecento e il Trecento, Tomo I-II,
Milano, 1986, pp. 172-188.
297
Secondo lo studioso L.V. Geymonat, numerose opere di ambito veneziano testimoniano un vivo interesse per la resa
tridimensionale di elementi architettonici; ad esempio lo stesso espediente dei dentelli che sostengono la mensola su cui
è poggiata l’icona della Madonna Allattante si osserva anche nella Madonna Stoclet di Duccio, cfr. Bellosi 1985, pp.
132, 178-179; F. Zuliani, Madonna Allattante, in Venezia e Bisanzio 1974, nr. 66 (che segnalano la corrispondenza del
cornicione con quello in San Zan Degolà). L. V. Geymonat, Stile e contesto: gli affreschi di San Zan Degolà a Venezia,
in Venezia e Bisanzio, aspetti della cultura artistica bizantina da Ravenna a Bisanzio a cura di Clementina Rizzardi,
Venezia 2005, cit., p. 535.
134
corta barba anche per la scritta del nome accanto alla testa [M] AR [CU] S, e
infine San Nicola, identificabile anch’egli grazie all’iscrizione [NICO] L [AU] S.
I lunghi capelli permettono di riconoscere la Maddalena e il nome posto vicino,
Santa Margherita. Sulla parte superiore, benché rovinata, si scorgono due
arcangeli che reggono il globo crociato adoranti il Cristo Pantocratore, sul cui
libro si leggono le parole del Vangelo di Giovanni:”Io sono la luce del mondo”
(8,12).
Il gruppo della Vergine col bambino richiama la tradizione delle Madonne
bizantine, soprattutto nella gestualità delle mani delle due figure che mostra in
modo esplicito e codificato la loro solenne missione divina: la destra
benedicente del Bambino e la sinistra della Madre che indica in lui, come nelle
Madonne Hodigitrie, la via per la redenzione dell’umanità298. Anche le sei figure
di santi ai lati, la cui presenza è canonica in molte icone orientali, è di scuola
veneto-bizantina. La critica ha ravvisato, comunque, nell’opera una certa
monumentalità di possibile derivazione toscana; pure l’immagine realistica
dell’allattamento
è
di
gusto
occidentale
e
presenta
caratteri
di
forte
autonomia299, anche se l’esecuzione della tavola resta complessivamente
legata all’ambito artistico di matrice veneto-bizantina.
298
M. Da Villa Urbani, Il museo di San Marco, Venezia 2003, p. 102.
“ La grande tavola marciana, assai compromessa, presenta caratteri di forte autonomia rispetto al tipo originario, fatta
eccezione per le figurette di santi del contorno, che si devono in parte ad altra mano, di usuale conservatività linguistica
veneto-bizantina: il disegno forte e sottile, che accompagna i modi romanici-pisani con sicure desinenze di gusto gotico
(la mano, il mafórion), e allinea alla base una serie di modiglioni prospettici che sostengono l’icona, definisce con
diversi dominanti timbri di rosso la gran parte delle superfici dell’opera, con singolare effetto di rimando all’antico”. W.
Dorigo, Venezia-La pittura a fresco e su tavola a Venezia nel XIII secolo in La pittura nel Veneto, Le Origini, cit., p. 58.
299
135
7c - GLI AFFRESCHI DELLA CHIESA DI SAN GIOVANNI DECOLLATO
Oltre ai mosaici marciani, l’esempio di pittura monumentale più importante del
Duecento veneziano è senza dubbio rappresentato dagli affreschi della chiesa
di San Giovanni Decollato300.
Tale ciclo pittorico costituisce una preziosa e rara testimonianza per la pittura
veneziana delle origini, collocabile dagli studiosi in un arco di tempo compreso
tra la seconda metà del Duecento e i primi decenni del Trecento.
Fin dalla loro scoperta all’interno della chiesa, nella cappella del Crocifisso,
durante la campagna di restauri iniziata nel 1939 e conclusasi nel 1945, gli
affreschi di San Giovanni Decollato hanno suscitato l’ interesse degli studiosi.
Nei due frammenti staccati posti su pannelli sono raffigurati l’ Annunciazione e
il busto di Sant’Elena con un fondale architettonico alle spalle e quattro teste di
santi sotto un lungo cornicione. Sul muro di fondo si osservano la parte
inferiore di due figure separate da una nicchia e, nella volta a crociera del
soffitto, il busto di Cristo e i simboli dei quattro evangelisti301.
L’accurato sistema compositivo, i volti attentamente caratterizzati, gli eleganti
panneggi, gli elaborati sfondi architettonici e la sofisticata incorniciatura
indicano che si tratta di un’opera di notevole impegno e di alto livello
qualitativo302.
Tali affreschi sono stati ritrovati allo stato di frammenti e le loro lacune hanno
reso arduo risalire alla loro condizione originaria, così come al programma
iconografico della decorazione murale della cappella. La loro datazione
presenta particolari difficoltà a causa anche della totale assenza di documenti,
che non ci aiuta a stabilire una precisa collocazione sia stilistica che
cronologica. Gli affreschi di San Giovanni Decollato sono stati dunque
interpretati in vario modo, sia attraverso la lente della tradizione bizantina
300
Fino ad oggi, diversi sono gli studi che sono stati condotti su questo ciclo di affreschi. Lo studioso che, a mio avviso,
li ha trattati ed analizzati in maniera più approfondita è L. V. Geymonat ed è prettamente sul suo significativo saggio Stile e contesto: gli affreschi di San Zan Degolà a Venezia, in Venezia e Bisanzio, aspetti della cultura artistica
bizantina da Ravenna a Bisanzio a cura di Clementina Rizzardi, Venezia 2005 – che si basano le mie considerazioni su
questo tema.
301
A. Colombo, Interno della cappella absidale sinistra di San Giovanni Decollato, disegno ricostruttivo, 2003.
302
L. V. Geymonat, Stile e contesto: gli affreschi di San Zan Degolà a Venezia, cit., p. 514.
136
(Giuseppe Fiocco303), in particolare della pittura serbo-macedone (Michelangelo
Muraro304) e della prima arte d’età paleologa, sia alla luce di un loro eventuale
rapporto con la terraferma che, via Padova, sarebbe stata a contatto con gli
sviluppi centro italiani e in specie giotteschi (L.V. Geymonat305).
303
G. Fiocco, Gli affreschi bizantini di San Zan Degolà, in “Arte Veneta”, 1951, p. 8.
M. Muraro, in Varie Fasi di influenza bizantina a Venezia nel Trecento, in “ Thesaurismata” 9, Venezia 1972, pp.
180-202.
305
L. V. Geymonat, Stile e contesto: gli affreschi di San Zan Degolà a Venezia, cit., pp. 513-579.
304
137
7c, 1 - DESCRIZIONE E ANALISI DEGLI AFFRESCHI DI SAN GIOVANNI
DECOLLATO
Sopra l’arcone che immette nella cappella absidale sinistra o del Crocifisso
all’interno della chiesa di San Giovanni Decollato (figg. 9-10) è possibile
ammirare l’affresco raffigurante l’ Annunciazione (fig. 11). Si tratta di una
pittura murale che presenta, secondo l’analisi condotta dal Muraro306, le
seguenti dimensioni: cm. 200 X 260.
Nonostante l’affresco evidenzi notevoli escoriazioni dovute a rimaneggiamenti
settecenteschi, la magia dell’evento religioso pervaso da una mistica dolcezza
non è andata perduta. L’arcangelo Gabriele è raffigurato col braccio destro teso
e il corpo proteso in avanti mentre si rivolge alla Vergine invitandola ad
accogliere il messaggio divino. Il panneggio della tunica e della veste
dell’angelo è reso attraverso ombre e lumeggiature chiare che definiscono i
solchi delle pieghe trasversali lungo il braccio, intorno al busto e sotto la vita.
Dall’angolo opposto dell’opera, la Vergine Maria sembra elevarsi quasi ad
esprimere l’evento di cui sarà investita e al quale pare dare il suo assenso:
“Ecco la Serva del Signore, avvenga di me secondo la Tua parola” (Lc. 1,38).
Nonostante le gravi lacune, è ancora leggibile il panneggio dell’ampio mantello
che avvolge la Vergine, in una fitta rete di pieghe e risvolti, da cui spuntano il
braccio e la mano che rispondono al saluto dell’angelo. Alle spalle della
Vergine, emerge un articolato edificio reso in varie tonalità di ocra di cui manca
la parte superiore. Una grande bifora si apre nella parete laterale e altre più
piccole dietro il balcone della facciata, sostenuta da una ricca mensola
modanata; poco più sotto si scorgono gli stipiti e il battente sinistro della porta.
Nello spigolo sopra la mensola che separa il primo dal secondo piano si
distingue la base di una colonna, che probabilmente sosteneva lo spiovente del
tetto completando con una loggia la parte superiore della facciata.
306
M. Muraro, in Venezia e Bisanzio, catalogo della mostra (Venezia 1974), a cura di Italo Furlan, G. Mariacher,
Milano 1974, scheda n. 61.
138
Per avere un’idea di questo edificio307 si può far riferimento alla scena della
Morte di Santa Chiara del pannello centrale del Trittico di Trieste308 (fig. 12).
Un altro elemento interessante, secondo lo studioso L. V. Geymonat, è la
disposizione dei laterizi che ci mostra come l’odierno arco a tutto sesto
corrisponda a un rimaneggiamento tardo. Sopra la ghiera, la disposizione dei
mattoni indica che l’arco originario era a sesto acuto; il vertice, infatti,
leggermente a sinistra rispetto a quello del tutto sesto è in asse con la volta a
crociera della cappella di cui sostiene la vela ovest309 (fig. 13). Geymonat
parla, inoltre, della presenza di una cornice a doppia fascia che si congiunge ad
un’altra e che delimita l’affresco310. Il rapporto del cornicione orizzontale con la
cornice dipinta è tale da suggerire che essa continuasse anche lungo le altre
pareti della cappella: se così fosse stato, è plausibile pensare che anche il
punto di vista mutasse a seconda della collocazione del cornicione rispetto
all’ingresso della cappella, le cui ridotte dimensioni implicano un punto di vista
obbligato per lo spettatore creando così un effetto ottico. Un esempio simile di
cornice a dentelli dipinta lungo l’intero perimetro di un vano è costituito dalla
cornice che corre lungo lo zoccolo della Cappella degli Scrovegni a Padova (fig.
14) e da quella lungo le pareti dell’andito Foscari in San Marco311.
Un altro capolavoro di pittura murale è stato rinvenuto nella lunetta sulla
parete destra312 della cappella absidale o del Crocifisso e rappresenta una
figura femminile identificata, poi, con Sant’Elena che si affaccia dal balcone del
suo “palatium” (fig. 15).
La facciata dell’affresco si presenta perfettamente simmetrica. In primo piano
emerge la figura a mezzo busto (la figura senza l’aureola misura cm. 60) di
307
L. V. Geymonat, Stile e contesto: gli affreschi di San Zan Degolà a Venezia, cit., p. 518.
Morte di Santa Chiara, pannello centrale del Trittico di Santa Chiara. Civico Museo Sartorio, Trieste. Ivi, p. 553.
309
Annunciazione sull’arco di ingresso della cappella absidale sinistra di San Zan Degolà (disegno ricostruttivo di Aida
Colombo, 2003). Fig. 7. Ibidem.
310
Secondo G. Fiocco (Gli affreschi bizantini di San Zan Degolà, 1951), l’incorniciatura “indica col suo andamento
saliente quello dell’antico tetto spiovente della navatella”. La doppia cornice è ora in gran parte di restauro, ma se ne
osservano tracce significative anche nelle fotografie che precedono il primo intervento.
311
Nell’Andito Foscari, la cornice che separa gli episodi dalla volta, costituita da una serie di fasce a chiaroscuro,
termina in alto con una fila ininterrotta di prismi a sfaccettature bianche e nere alternate, che prosegue anche sopra la
lunetta. Secondo lo studioso E. Merkel, si tratta evidentemente di un motivo geometrico-prospettico tipico del primo
Trecento di cui abbiamo i primissimi esempi nelle incorniciature degli affreschi di Giotto ad Assisi. La concomitanza di
questi elementi conferma la precoce penetrazione della lezione giottesca a Venezia, divulgata dagli affreschi degli
Scrovegni e del Palazzo della Ragione. E. Merkel, Gli affreschi “dell’andito Foscari” a San Marco, in “Quaderni della
Soprintendenza ai beni artistici e storici di Venezia”, 7, 1978, pp. 63-71.
312
M. Muraro, in Venezia e Bisanzio, cit., scheda n. 60.
308
139
una Santa che regge con la mano destra la croce del Golgota, affacciata alla
balconata di un palazzo di non facile interpretazione. La maggior profondità del
muro dell’arcata centrale sembra suggerire che la navata centrale sia più
profonda di quelle laterali, e il tutto è colto in una prospettiva semilaterale.
La Santa, rivolta verso l’altare, è concepita in modo da essere vista dal basso
ed è illuminata dalla luce che proviene dall’antistante finestra. La figura
femminile è identificabile con Sant’ Elena, come conferma un dipinto su
tavola313 esposto all’Ermitage (fig. 16) in cui la Santa presenta gli stessi
attributi iconografici. Secondo G. Fiocco314, che per primo ha riconosciuto nella
Santa l’imperatrice Elena, madre di Costantino il Grande, comproverebbero
tale identificazione la corona, la veste regale, la mano sinistra alzata in un
gesto di supplica e soprattutto la croce a doppia traversa, simbolo della croce
della passione ritrovata dalla Santa sul Golgota.
Lo studioso M. Muraro fa notare che nella Basilica Eufrasiana di Parenzo, in un
mosaico del Ciborio, Sant’Accolito appare con le mani nella stessa posizione di
quelle di Sant’Elena e tiene nella destra la doppia croce, e anche Sant’Agnese
(fig. 17), in un mosaico dell’atrio di San Marco, tiene nella mano sinistra una
croce di questo tipo. Nell’affresco di San Giovanni Decollato si distinguono con
chiarezza i lineamenti e l’incarnato del viso e delle mani, di cui le ombre
evidenziano i volumi. Intorno al collo e lungo il busto spicca una larga fascia
riccamente ricamata, tempestata di gemme e percorsa da filari di perle negli
orli. Il panneggio della veste è definito da ombre profonde e lumeggiature
chiare. La grande aureola circolare conserva tracce di colore ocra intorno ai
capelli.
Come dicevamo, di non facile interpretazione è l’edificio a tre arcate alle spalle
di Sant’Elena. La Santa è incorniciata da uno sfondo architettonico che, nella
struttura, nelle proporzioni, così come nelle mensole continue e negli archivolti
delle absidi, presenta dei caratteri architettonici di matrice tardoantica315.
313
Sant’Elena e San Filippo, San Pietroburgo, Ermitage. L.V. Geymonat, Stile e contesto: gli affreschi di San Zan
Degolà, cit., p. 557.
314
G. Fiocco, Gli affreschi bizantini di San Zan Degolà, cit., pp. 7-14.
315
Nel corso del Duecento l’uso di modelli paleocristiani è attestato a Venezia sia nella produzione plastica, che nella
pittura a mosaico. L. V. Geymonat, Stile e contesto: gli affreschi di San Zan Degolà a Venezia, cit., p. 524.
140
Tale struttura potrebbe rappresentare una facciata a loggia aperta da tre
arcate, come i pilastri esterni, le ghiere degli archi e i medaglioni marmorei
inducono a pensare, ma potrebbe anche trattarsi della sezione verticale del
presbiterio di una basilica a tre navate316. Si è, inoltre, voluto vedere in questa
architettura di sfondo un edificio che richiama i tribunalia o balconi delle
apparizioni dei complessi glorificanti dei palatia tardoromani317, realmente
esistito e legato storicamente a Sant’Elena o alla reliquia della croce da Lei
trovata sul Golgota. Lo studioso M. Muraro318 avanza l’ipotesi di una struttura a
loggia da cui l’imperatore si presentava nel corso delle cerimonie e, a suo
avviso, la scena raffigurante Sant’Elena che mostra la reliquia della Vera Croce
riprende questa proposta: Sant’Elena affacciandosi al “balcone glorificante del
triclinio” del grande secreton di Santa Sofia mostrerebbe al popolo la reliquia
da Lei scoperta nel gesto abituale che il patriarca compiva dall’ambone della
chiesa costantinopolitana durante la festa dell’Esaltazione della Vera Croce319.
Secondo L. V. Geymonat, i caratteri architettonici di gusto tardoantico che
presenta l’edificio farebbero pensare al riutilizzo di modelli anche paleocristiani.
L’effetto
illusionistico
di
cornici
e
quinte
scenografiche,
prodotto
dall’incorniciatura degli affreschi e dall’edificio alle spalle della Vergine
dell’Annunciazione nel cornicione orizzontale della lunetta, si ritrova con
altrettanto zelo nella rappresentazione tridimensionale di questo fondale
architettonico.
Quattro splendidi volti a mezzo profilo sono raffigurati nella parte inferiore
della lunetta. Le teste leggermente voltate l’una verso l’altra sono disposte in
modo simmetrico rispetto all’asse verticale della lunetta.
Lineamenti precisi caratterizzano la fisionomia di ciascun ritratto. La forte
espressività dei loro volti attesta l’altissimo valore artistico dell’affresco.
L’individuazione dei quattro santi è possibile grazie al nome inciso sull’intonaco
che appare visibile sopra la testa di ognuno di essi: Giovanni Battista, Pietro,
Tommaso e Marcio. I primi due volti, Giovanni Battista e Pietro, incorniciati da
316
W. Dorigo, Venezia romanica. La formazione della città altomedievale fino all’età gotiga, cit., p. 562.
C. Lenarda, Precisazioni cronologiche e stilistiche sull’affresco di San Giovanni Decollato in Venezia, in “Rivista
archeologica”, IV, Venezia 1980, pag. 49.
318
M.Muraro, in Venezia e Bisanzio, cit., schede nn. 60, 61, 62.
319
C. Lenarda, Precisazioni cronologiche e stilistiche sull’affresco di San Giovanni Decollato in Venezia, cit., p. 49.
317
141
lunghi capelli e folte barbe e caratterizzati da un’espressione tormentata, sono
iconograficamente
simili
alle
rappresentazioni
tradizionali;
anche
la
raffigurazione di Tommaso apostolo giovane e senza barba trova riscontri nella
tradizione
iconografica
di
questo
Santo.
Più
problematica
è
invece
l’identificazione del volto dall’aspetto giovane e privo di barba all’estremità
destra accompagnato dalla scritta “S. Marcius”. Tale nome, secondo una fonte
citata dal Geymonat, è attestato a Padova tra il 1254 e il 1275 accanto a
Marius e ai più frequenti Marcus e Martinus. Forse si tratta dell’iconografia
antica di Martino di Monte Cassino320, eremita campano morto intorno al 580,
conosciuto con il nome di Marcius, il cui culto è documentato a Venezia fin dal
XIII secolo.
La grafia con cui sono stati redatti i nomi dei santi è gotica. Quindi, a seconda
delle datazioni proposte, queste scritte vengono considerate dai vari studiosi o
coeve o posteriori agli affreschi. Secondo il Muraro321, esse presentano i
medesimi caratteri di un mosaico del 1277, sito nella Basilica Eufrasiana a
Parenzo322 (fig. 18); esse sarebbero dunque coeve ai dipinti e non vi è ragione
per cui siano state eseguite in epoca gotica, come asserisce il Fiocco323.
Sempre nella cappella absidale di sinistra, sulla volta a crociera (fig. 19)
emerge un’altra decorazione a fresco: un cielo di colore azzurro tempestato di
stelle è attraversato da una decorazione fitomorfa che si svolge lungo gli archi
trasversali. Al centro della volta è raffigurato il busto di Cristo e nelle vele
spiccano i simboli dei quattro evangelisti sul fondo azzurro entro tondi inscritti
in cornici a profilo mistilineo324. La modanatura delle cornici è resa con effetti
illusionistici di luce e ombra. Tra una cornice e l’altra il fondo è dipinto a finti
marmi policromi.
Per concludere l’analisi di questo ciclo, oltre agli affreschi staccati ora su
pannelli, la cappella absidale sinistra (parete di fondo) conserva alcuni
frammenti ancora a parete (fig. 20). Nel muro di fondo si apre una nicchia con
320
L.V. Geymonat, Stile e contesto: gli affreschi di San Zan Degolà a Venezia, cit., p. 523.
M. Muraro, Antichi affreschi veneziani, Milano 1974, pag. 665.
322
Le quattro teste di Santi sono state messe in relazione con un mosaico dell’Annunciazione, eseguito nel 1277 circa,
situato nel ciborio della Basilica Eufrasiana di Parenzo (fig. 18).
323
G. Fiocco, Gli affreschi bizantini di San Zan Degolà a Venezia, cit., p. 10.
324
L. V. Geymonat, Stile e contesto: gli affreschi di San Zan Degolà a Venezia, cit., p. 526.
321
142
stipiti fortemente strombati. Ne è stata murata la parte superiore, ma ai lati e
in una sezione dello stipite destro sono visibili due ampi frammenti di affresco.
Nel frammento a sinistra è dipinta parte di una veste femminile di colore
azzurro scuro con lumeggiature chiare che ne evidenziano il panneggio, e il
lembo di un drappo rosso. Nel frammento a destra della nicchia sono raffigurati
un calzare nero, probabilmente maschile, leggermente inclinato in avanti e una
rigida veste rossa. Lo studioso M. Muraro fa notare come la dimensione delle
parti rimaste dei corpi, la loro distanza dal soffitto e il confronto con la
posizione delle teste nella lunetta sulla parete sud forniscano un’indicazione di
massima sull’altezza originaria325 (cm. 160). La nicchia è delimitata a destra da
una cornice corrispondente a quella che corre lungo il margine sinistro.
All’interno dello stipite è dipinto su uno sfondo scuro un giglio bianco con petali
dorati.
325
M. Muraro, Antichi affreschi veneziani, cit., p. 664.
143
7c, 2 - IL SAN MICHELE ARCANGELO RITROVATO
Infine, sulla parete di fondo della cappella absidale a destra del presbiterio è
stata scoperta recentemente una stretta finestra a sesto acuto murata e
affrescata con l’immagine dell’arcangelo Michele, affresco datato su basi
stilistiche agli ultimi decenni del XIV secolo326. L’arcangelo (fig. 21) è campito
nel tamponamento della finestra absidale duecentesca e deborda con alcuni
particolari sugli stipi marmorei dell’apertura. Eseguito con la tecnica ad
affresco, si presentava in condizioni conservative discrete. I lavori di restauro,
grazie a una leggera pulitura della superficie affrescata e soprattutto a un
risarcimento delle lacune, hanno restituito piena leggibilità del San Michele
Arcangelo, il cui ritrovamento costituisce un’importante scoperta per la pittura
murale veneziana della seconda metà del Trecento.
La mancanza di fonti storiche e documentarie relative all’opera hanno reso
difficile una possibile attribuzione della stessa. Tuttavia, l’arcangelo Michele qui
ben appare nella sua qualità di “tutore e giudice”; egli, infatti, è rappresentato
con i consueti attributi della spada impugnata nella mano destra, con cui
colpisce il drago ai suoi piedi, e della bilancia per pesare le anime nella sinistra,
quasi a suggerire una possibile connessione dell’immagine del Santo con il
culto dei morti e con il giudizio finale.
Ciò ci porta a considerare l’ipotesi di una possibile destinazione funeraria della
cappella o di una sua precisa funzione di difesa e protezione di qualche
reliquia, come per il San Michele nel Pilastro del Miracolo della basilica
marciana327.
In ogni caso, il San Michele Arcangelo ritrovato nella finestra absidale
duecentesca328 della chiesa di San Giovanni Decollato resta uno tra gli esempi
più significativi per la conoscenza della pittura veneziana delle origini.
326
E. Zucchetta 1993, pp.156-157.
E. Zucchetta, La chiesa di San Zan Degolà a Venezia, in Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici di
Venezia, Ritrovare restaurando. Rinvenimenti e scoperte a Venezia e in laguna, Venezia, 2000, pp.168-173.
328
L’apertura, certamente duecentesca, potrebbe risalire alla ristrutturazione della chiesa operata dai Pesaro, come
documenta il Corner. Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia e di Torcello, tratte dalle chiese veneziane e
torcellane illustrate da F. Corner, Padova 1758, p. 388.
327
144
7c, 3 - LETTURA ED ANALISI DEGLI AFFRESCHI DI SAN GIOVANNI
DECOLLATO
Secondo Michelangelo Muraro, gli affreschi della cappella del Crocifisso di San
Zan Degolà appartengono alla stessa corrente monumentale di alcuni fra i più
classici cicli pittorici di Serbia329. Fra questi, il ciclo più ammirevole e grandioso
è quello del convento di Sopočani, dipinto intorno alla metà del XIII secolo, e
precisamente tra il 1264 e il 1268 .
Il convento era stato fondato nel 1260 dal re Uroš I330, figlio di Anna
Dandolo331. Questa circostanza rappresenta un significativo indizio degli stretti
rapporti che legavano Venezia al regno di Serbia. Nonostante i due paesi
avessero raggiunto la loro autonomia, essi conservavano ancora intensi
legami, non soltanto politici, ma anche culturali. Essi erano altresì accomunati
da una forte ambizione di dominio nei confronti di Bisanzio, oramai in fase di
decadenza. A livello artistico, tale sentimento si traduceva nell’aura solenne e
nell’afflatto glorioso che ben caratterizzava le arti monumentali della seconda
metà del Duecento.
In questo clima culturale e artistico sarebbero inquadrabili anche gli affreschi di
San Giovanni Decollato. Secondo M. Muraro, gli affreschi sono opera di un
maestro occidentale che si rifà ai modelli di quella prima rinascenza macedone
che aveva rimesso in valore l’arte e la cultura del mondo antico e che i
veneziani, in costante rapporto con l’Oriente, erano in grado di conoscere e di
apprezzare meglio di altri. Secondo lo studioso, però, la tradizione bizantina
non è sufficiente a giustificare la nobiltà, la solennità, il plasticismo di questi
329
M. Muraro, Varie fasi di influenza bizantina a Venezia nel Trecento, cit., pp.182-185.
Al re di Serbia, Stefano Uroš I si deve, attorno al 1256, la fondazione a Sopočani della monumentale chiesa della
Trinità. Tale edificio, decorato negli anni tra il 1263 e il 1268 assunse il ruolo di mausoleo e monumento celebrativo
della casa dei discendenti di Stefano Nemanja, evento, questo, che motiva assai probabilmente l’esecuzione della
decorazione alla presenza di maestri greci di eccezionale preparazione. E. Concina, Le arti di Bisanzio, cit., p. 347.
331
La morte di Anna Dandolo è rappresentata sul muro settentrionale del nartece della chiesa della Santa Trinità a
Sopočani. La celebrazione artistica si accompagna deliberatamente all’emulazione del fasto della committenza
imperiale bizantina. (Ivi, p.347). Nipote del doge Enrico Dandolo, Anna nel 1216 andò sposa, probabilmente per ragioni
di convenienza politica, a Stefano Nemanja, Gran Zupano (duca) della Rascia, l’attuale Serbia. La successiva
conversione al Cattolicesimo di Stefano, avvenuta secondo le cronache per esortazione della stessa Anna, e il
conseguente ristabilimento del culto cattolico e dell’autorità pontificia in Serbia, indussero papa Onorio III a
concedergli la corona reale nel 1217 e Anna divenne la prima Regina di Serbia. Quando morì pochi anni dopo, nel
1220, la sua figura subì una sorta di sacralizzazione e la sua morte venne rappresentata in un affresco sul muro
settentrionale del nartece della chiesa della Santa Trinità a Sopočani, secondo lo schema iconografico della Dormizione
della Vergine.
330
145
affreschi. Ecco dunque che, da un attento esame e da un confronto con i pittori
di origine greca e costantinopolitana operanti a Mileševa e a Sopočani, l’origine
occidentale dell’autore di San Zan Degolà emerge dall’espressività di alcuni
particolari, dal carattere plastico e illusionistico delle decorazioni, dal modo di
concepire la prospettiva che non è astratta e stilizzata come a Bisanzio, ma
solenne e organica come a Roma. I veneziani che avevano creato in Oriente
l’impero coloniale di San Marco, seppero ritrovare anche nell’arte forme
corrispondenti al prestigio politico raggiunto, ricorrendo alle sempre vivide
suggestioni dell’arte classica e, come propone il Demus, giungendo ad una
“Renovatio christiana” del mondo antico332.
Partendo da queste basi, M. Muraro333 colloca gli affreschi intorno al 1265,
momento in cui la chiesa di San Zan Degolà è affidata alle cure di un
venerabile parroco chiamato Giovanni, il “Beato Giovanni” che con la sua
santità e i suoi miracoli accrebbe l’importanza e il prestigio di quella chiesa.
Questo periodo, inoltre, coincide con la massima espressione artistica del
regno serbo.
Un altro contributo significativo sulla lettura e interpretazione di tali affreschi è
dato da L. V. Geymonat.
Da un esame dei vari frammenti che tiene conto delle alterazioni e delle
perdite, lo studioso ritiene che questi affreschi facessero parte di un unico ciclo
decorativo ad affresco che copriva l’intero spazio disponibile: dall’arco di
ingresso alla volta e alle pareti. Espediente figurativo comune è la doppia
cornice
che
corre
sia
lungo
i
bordi
della
lunetta,
sia
lungo
quelli
dell’Annunciazione, delimitando la superficie pittorica delle scene e definendone
il rapporto con lo spazio architettonico. Le affinità nella tecnica esecutiva e
nello stile sono tali da non giustificare una interpretazione che isoli ciascun
frammento dell’affresco dal contesto architettonico in cui era collocato o
presupponga il succedersi nello stesso luogo di campagne decorative diverse.
Le affinità si riscontrano nel trattamento del panneggio e nel tipo di
lumeggiature delle vesti di Sant’Elena e dell’arcangelo Gabriele, dello stesso
tenue colore rosato; simile è anche il trattamento delle capigliature dei Santi
332
333
O. Demus, Bisanzio e la scultura del Duecento a Venezia, cit., pp. 141-155.
M. Muraro, in Venezia e Bisanzio, cit., scheda n. 61.
146
nella lunetta, della criniera del leone e del piumaggio dell’aquila nella volta;
inoltre le ampie campiture di cielo nell’Annunciazione, intorno all’edificio alle
spalle di Sant’Elena e nelle vele della volta sembrano corrispondere allo stesso
disegno compositivo334. Ulteriori analogie e affinità si sono riscontrate tra il
fregio fitomorfo che corre lungo gli assi trasversali della volta della cappella
absidale sinistra di San Zan Degolà, costituito da una composizione simmetrica
a foglie bicrome intervallate da tralci a spirale e piccoli fiori, e la decorazione
fitomorfa che corre lungo i margini superiori dell’ancona con San Donato a
Murano, (fig. 22) datata 1310: sono simili il tipo, la forma, la disposizione delle
foglie, il gioco delle simmetrie e il sistema di contrasti cromatici. Le stesse
corrispondenze si riscontrano tra le fronde di San Zan Degolà e quelle
affrescate lungo i rami del Lignum Vitae in San Francesco a Udine (fig. 23),
databile anch’esso intorno al 1310335.
Secondo lo studioso L. V. Geymonat, inoltre, molte opere di ambito bizantino
sono state avvicinate agli affreschi di San Zan Degolà in base a corrispondenze
di resa fisionomica. Il busto di Sant’ Elena è stato confrontato con l’angelo (fig.
24) nella scena delle pie donne al Sepolcro di Mileševa: sono simili i grandi
occhi spalancati, il naso diritto e pronunziato, il disegno arrotondato delle
labbra
e delle
guance.
Anche
il
volto
di
San
Tommaso
nella
scena
dell’incredulità (fig. 25), quelli degli apostoli Pietro e Giovanni nel transetto
nord e gli astanti nella Dormizione della Vergine (fig. 26) sulla controfacciata
della Chiesa della Trinità a Sopočani sono state più volte confrontate con le
figure di San Zan Degolà.
Le corrispondenze sono notevoli, ma anche in questo caso limitate a singoli
particolari fisionomici e iconografici; numerosi altri aspetti, in primo luogo la
resa degli sfondi architettonici, che nella Dormizione della Vergine sono
vivacemente abitati, si differenziano profondamente nella concezione dello
spazio scenico rispetto a quelli di San Zan Degolà. Non è facile stabilire quale
valore attribuire a tali confronti oltre a una generica conferma di parentela
stilistica
con
opere
d’aria
bizantina.
Secondo
L.
V.
Geymonat,
la
razionalizzazione ottica nella resa tridimensionale dello spazio distingue
334
335
L. V. Geymonat, Stile e contesto: gli affreschi di San Zan Degolà a Venezia, cit., p. 527.
Ivi, pp. 531-532.
147
radicalmente questi affreschi dagli esempi di ambito bizantino. Partiamo dagli
affreschi di San Zan Degolà: la resa tridimensionale degli spazi architettonici
alle spalle di Sant’Elena, nelle mensole del cornicione, così come nella
complessa articolazione di rientranze ed aggetti nell’edificio dietro la Vergine
nell’Annunciazione, avvalorano l’ipotesi che l’autore degli affreschi fosse a
conoscenza del nuovo modo di concepire la raffigurazione degli sfondi
architettonici adottato nelle opere di Giotto (figg. 27-28).
Il confronto che si può stabilire con la cappella degli Scrovegni, secondo il
Geymonat, non riguarda soltanto la decorazione fitomorfa, il fondo azzurro
cosparso di stelle e le superfici a finto marmo, ma anche le cornici a rilievo che
caratterizzano la volta a crociera in San Zan Degolà. Infatti, nelle fascie
divisorie degli affreschi di Giotto (fig. 29) sono raffigurate cornici inserite le
une nelle altre in modo simile a quanto accade a Venezia. Tale dipendenza
dagli affreschi della cappella degli Scrovegni, relativamente alle cornici a
compasso mistilineo e alla concezione tridimensionale dello spazio non trova,
però, riscontro nello stile: le fisionomie dei volti, infatti, non presentano
analogie con i lineamenti marcati e con la resa plastica dei corpi così
caratteristici della pittura di Giotto, così come le stesse architetture non
mostrano riferimenti diretti, né sono assimilabili a quelle riscontrabili negli
affreschi di Padova.
Infine, per Geymonat, le stesse affinità con la cultura artistica sviluppatasi in
area bizantina non portano che ad esiti parziali e poco convincenti. A tale
proposito, egli si sofferma sulla produzione figurativa a Venezia fra il XIII e il
XIV secolo che, secondo il suo punto di vista, offre qualche interessante
conferma a questa ipotesi. In diverse opere di ambito veneziano si intuisce un
vivo interesse per la resa tridimensionale di elementi architettonici. Una loro
analisi permette di cogliere un’ampia gamma di sperimentazioni.
In questo senso, gli affreschi della parete sud della cappella Orlandini nella
chiesa dei Santi Apostoli a Venezia (fig. 30) ci offrono uno spunto interessante.
Secondo L. V. Geymonat, “gli edifici ai lati della Deposizione dalla Croce e il
suppedaneo, così come il catafalco nel Compianto di Cristo, non sono
rappresentati secondo un punto di vista unitario, ma la doppia cornice (che
148
richiama l’incorniciatura lungo i margini della lunetta e dell’Annunciazione in
San Zan Degolà) e soprattutto la sequenza di mensole sotto cui si vedono le
tracce di un velario sono ispirate a sottili principi di illusionismo prospettico.
L’articolata modanatura (prossima a quella della mensola che regge il balcone
dietro la Vergine in San Zan Degolà) e le rientranze ombreggiate tra una
mensola e l’altra, sono una dimostrazione della ricercatezza compositiva di
questa incorniciatura architettonica”336.
Tornando all’edificio alle spalle di Sant’Elena, sempre secondo il Geymonat,
esso presenta caratteri e un gusto che ricordano l’architettura tardoantica, il
che potrebbe esser dovuto al modello utilizzato per l’iconografia di Sant’Elena.
Nel corso del Duecento, l’uso a Venezia di “fonti” paleocristiane è attestato sia
nella produzione plastica che nella pittura a mosaico. Anche i mosaici dell’atrio
di San Marco, la cui iconografia riprende le miniature della Bibbia Cotton,
offrono numerosi esempi di utilizzo di quinte architettoniche in funzione
narrativa di ambientazione e separazione degli episodi, anche se tutto ciò è
concepito in maniera radicalmente diversa da quanto si osserva negli affreschi
in San Zan Degolà.
Concludendo possiamo, dunque, affermare che questa serie di casi, pur così
diversi tra loro, confermano che la resa tridimensionale delle cornici e degli
sfondi architettonici rappresentava un terreno di facili sperimentazioni. Gli
straordinari risultati ottenuti in questo ambito da Giotto a Padova erano
conosciuti e presi a modello come testimoniano le tavole di Pesaro337 (fig. 31)
e il Paliotto338 del beato Leone Bembo339 del 1321 (fig. 32)340.
336
Ivi, p.135.
R. Palucchini, La pittura veneziana del Trecento, Venezia-Roma 1964, pp. 20-21, M. Muraro 1969, p.132. Di
quest’opera non si conoscono la provenienza, la data e il contesto originale. Secondo L. V. Geymonat queste cinque
tavole con storie della Vergine attribuite a Paolo Veneziano riproducono nelle loro scene il prototipo giottesco, da cui
riprendono gli sfondi architettonici e buona parte dei personaggi.
338
Un’architettura vicina a quella del Palatium di Sant’Elena si riscontra in una delle scene del paliotto del Beato Leone
Bembo già in San Sebastiano e oggi a Dignano d’Istria. Mauro Lucco, Pittura del Trecento a Venezia in La pittura in
Italia, il Duecento e il Trecento, Milano 1986, p. 178.
339
R. Palucchini, La pittura veneziana del Trecento, cit., pp. 22-24.
340
L. V. Geymonat, Stile e contesto: gli affreschi di San Zan Degolà a Venezia, cit., p. 537. Il Beato rende visita a
Caterina di Roncanelli. La sua stanza presenta un’articolata architettura di sfondo: porte, mensole, bifore, soffitto a
cassettoni. Questa complessa quinta architettonica ha il proprio modello nella stanza della Vergine annunciata nella
cappella degli Scrovegni.
337
149
Questo non impediva che a Venezia altre esperienze in questo campo fossero
condotte parallelamente con esiti diversi
e non sempre assimilabili a quelli
giotteschi341.
341
Ivi, p. 539.
150
7d - INTERPRETAZIONI CONCLUSIVE SUGLI AFFRESCHI DI SAN
GIOVANNI DECOLLATO
Il primo tentativo di una collocazione cronologica, è stato compiuto nel 1951
da Giuseppe Fiocco342, poco dopo la scoperta degli affreschi. Lo studioso li
aveva datati all’XI secolo, poiché riteneva di “non dover inserire opere tanto
vigorose in quel periodo raffinato e puramente cromatico, che è quello
paleologo”, e per questo motivo li attribuiva al periodo macedone.
Tale datazione è stata proposta, tuttavia, quando la scoperta degli affreschi era
troppo recente e non era stato ancora effettuato alcuno studio di carattere
scientifico, ma era stata considerata soltanto la componente bizantina343.
Lo studioso Michelangelo Muraro è il primo a proporre una collocazione
cronologica degli affreschi intorno al 1265, ricorrendo a motivazioni sia di
carattere stilistico che storico, anche se non pare aver tenuto conto
dell’evidente tentativo di ricerca prospettica rilevabile nell’architettura di
sfondo, né del modo di usare il colore nei volti, che prelude alle sfumature
trecentesche.
Siamo quindi indotti a prendere in considerazione anche una terza ipotesi di
collocazione cronologica, che data gli affreschi di San Zan Degolà ai primi
decenni del Trecento (1305-1320). In particolare Viktor Lazarev344 li fa risalire
al 1310-1315, poiché li ritiene della stessa mano di una Madonna col Bambino
del museo di Puškin di Mosca (fig. 33). Stringenti sono le corrispondenze tra le
due tavole per quanto riguarda la morfologia dei volti, delle mani e il modo di
rendere i panneggi. Il volto della Madonna e del Bambino e quelli di S. Elena,
San Marcio e San Tommaso sono modellati allo stesso modo. Anche le
profonde arcate sostenute da pilastri nella parte inferiore del trono sono simili
nella struttura e nel disegno a quelle dell’edificio alle spalle di Sant’Elena.
Analogamente, la sottile decorazione lineare lungo i bordi corrisponde a quella
che decora l’edificio dietro la Vergine dell’Annunciazione e gli angeli che
342
G. Fiocco, Gli affreschi bizantini di San Zan Degolà, in Arte Veneta, 1951, p. 21.
C. Lenarda, Precisazioni cronologiche e stilistiche sull’affresco di San Giovanni Decollato in Venezia, in “Rivista
archeologica”, IV, Venezia 1980, p. 57.
344
V. N. Lazarev, Saggi sulla pittura veneziana dei secoli XIII –XIV, la maniera greca e il problema della scuola
cretese (I) , in Arte Veneta, XIX, 1965, pp. 17-31.
343
151
assistono dall’alto la Madonna sono simili nei colori, nelle proporzioni e nelle
pieghe delle vesti all’arcangelo Gabriele di San Giovanni Decollato.
Secondo lo studioso L. V. Geymonat oltre a presentare analogie con la
Madonna col Bambino del museo Puškin, si possono accostare anche alle sei
tavole con gli Apostoli del Museo del Duomo di Caorle. Si tratta di sei ritratti a
mezzo busto (figg. 34-35) riproposti con monumentalità classica. Interessanti
gli elementi caratterizzanti del volto: i grandi occhi, l’attaccatura del naso, la
bocca, la presenza di tratti somatici delineati con forza e precisati da rughe. La
posizione delle mani varia in ciascun apostolo e i diversi modi di tenere il rotolo
offrono l’occasione per una virtuosistica rappresentazione delle dita. Degni di
attenzione sono anche la foggia degli abiti e il panneggio delle pieghe, così
come le variazioni negli abbinamenti cromatici delle vesti e dei mantelli.
Notevoli sono le affinità compositive, stilistiche e tecnico-esecutive con gli
affreschi di San Zan Degolà, in particolare con il busto di Sant’ Elena e i volti di
Giovanni Battista, Pietro, Tommaso e Marcio. A tale proposito, L.V. Geymonat
ci fa notare che Giovanni Zane, membro di una potente famiglia del patriziato
veneziano, fu vescovo di Caorle dal 1308 al 1331. Negli anni del suo
episcopato risiedeva a Venezia, nel confinium tra Santa Maria Mater Domini345
e San Zan Degolà. Attivo promotore delle arti, lo Zane è un probabile
committente delle tavole con gli Apostoli destinate alla sede episcopale di
Caorle.
In base all’analisi condotta finora, possiamo affermare che gli affreschi di San
Giovanni Decollato, seppure iconograficamente legati alla tradizione bizantina,
riassumono in sé anche altri elementi che ricorrono nella pittura veneta del XII
e XIII secolo, mostrando una maturità di stile e un’apertura verso nuovi
orizzonti che non trova riscontro soltanto nella pittura del Duecento veneziano.
Abbiamo visto come, secondo il contributo significativo del Geymonat, gli
affreschi di San Giovanni Decollato insieme alla Madonna col Bambino del
345
In campo Santa Maria Mater Domini è attestata la presenza di casa Zane, che potrebbe essere quella di Giovanni
Zane. Si tratta di un edificio duecentesco sulla facciata del quale si apre una quadrifora di II ordine (con archi rialzati
cuspidati nell’estradosso). La presenza di tale elemento architettonico, associata a quella di capitelli a cubo scantonato
profilato e a rilievi quali patere e croci sulla facciata dell’edificio, è chiara espressione - come abbiamo già avuto modo
di osservare - di una vera e propria penetrazione di gusto che caratterizza l’edilizia di alto livello del Duecento
veneziano.
152
Museo Puškin e alle tavole con gli Apostoli di Caorle, compongano un corpus
stilisticamente
uniforme,
plausibilmente
attribuibile
a
un
unico
artista,
identificato nel c. d. “Maestro di San Zan Degolà”. Sono opere di grande qualità
che attestano come nei primi due decenni del Trecento venga affermandosi a
Venezia
una
produzione
figurativa
di
altissimo
livello.
Un
programma
decorativo di notevole impegno definiva lo spazio sacro della cappella di San
Zan Degolà in tutte le sue parti e con ogni probabilità comprendeva anche una
pala d’altare346. Non è inverosimile supporre che si trattasse di una cappella
familiare la cui decorazione fu commissionata a un artista di prestigio, secondo
un uso che si andava diffondendo proprio in quel periodo. Il confronto degli
affreschi di San Zan Degolà con altre opere di origine veneziana porta a
ritenere che ci troviamo in presenza di un artista che, pur legato alla cultura
figurativa locale, si mostrava nondimeno sensibile alle tendenze elaborate in
altri contesti culturali e figurativi. Ciò appare ben evidente da un raffronto con
molte sculture presenti nella chiesa di San Marco, nonché dalla scelta del
modello dei cartoni per i mosaici dell’atrio della stessa chiesa. Una lunga serie
di scene veterotestamentarie, della Genesi e dell’Esodo sono, infatti, esemplate
assai probabilmente sulle illustrazioni di un manoscritto del V-VI secolo di
provenienza costantinopolitana, del tipo della Genesi Cotton, ma anche forse
su un codice miniato protopaleologo347. “L’assimilazione di forme bizantine nei
volti e nelle figure, l’appropriazione di modi giotteschi nella concezione dello
spazio e nell’incorniciatura delle scene, l’utilizzo di modelli iconografici che
riflettono
moduli
classici“348
e
in
particolare
un
certo
plasticismo
nel
trattamento delle figure rivelano un linguaggio complesso che attinge a un
repertorio di fonti straordinariamente ricco. Secondo la tesi proposta dallo
studioso O. Demus, questo ciclo pittorico viene realizzato proprio nell’ambito di
quel movimento anticheggiante, c.d. proto-rinascimento, che caratterizzava la
cultura artistica di quel periodo ed è pertanto databile alla fine del Duecento.
346
L. V. Geymonat, Stile e contesto: gli affreschi di San Zan Degolà a Venezia, cit., pp. 544-545.
E. Concina, Le arti di Bisanzio, cit., p. 302.
348
Ibidem.
347
153
CONCLUSIONI
Il XIII secolo si può considerare, indiscutibilmente, come uno dei periodi più
fecondi
e
interessanti
dell’arte
medievale
veneziana.
In
particolare,
il
bizantinismo artistico del Duecento veneziano, che in questo mio lavoro di
ricerca ho preso in considerazione, si è dimostrato un fenomeno complesso,
articolato e dalle molteplici sfaccettature, che ha investito la città di Venezia in
svariati ambiti.
Con il trionfo della IV crociata il doge si proclama Dominator quartae et
dimidiae partis totius Romanie. Tale avvenimento ha senz’altro contribuito al
processo di trasformazione e di rinnovamento che, a partire da questo
momento, darà “lustro” al il più importante cantiere pubblico costituito dalla
riapertura della chiesa di San Marco, uno spazio altamente qualificato,
prototipo architettonico imperiale di dispiegata magnificenza aulica, deputato
sempre più all’autocelebrazione, a quel desiderio di Renovatio Imperii
Christiani che Venezia orgogliosamente a tutto il mondo vuole mostrare.
La platea marciana, dunque, diviene il fulcro di questo processo di innovazione.
Tra i più significativi interventi di riqualificazione vanno ricordati quelli
intrapresi durante il dogado di Sebastiano Ziani (1172-1178), che hanno
coinvolto l’intera area marciana e hanno contribuito all’impostazione e alla
definizione dell’assetto della Piazza stessa. Fra questi emergono l’edificazione
delle Procuratorie e del litus marmoreum con l’innalzamento delle due colonne
monolitiche di sicura provenienza costantinopolitana, che andavano a costituire
il portale cerimoniale, la porta d’accesso da dove partivano e dove si
concludevano le più importanti celebrazioni e i rituali della città, un luogo
simbolico che richiamava gli spazi costantinopolitani, altamente qualificati, in
cui si svolgevano le epifanie imperiali.
Proprio nell’ulteriore definizione della Piazza e nella riapertura della fabbrica
della basilica di San Marco all’indomani della IV crociata, la città lagunare vuole
ribadire ancora una volta il segno della sua potenza e del suo splendore; quello
che emergerà, a partire da questo momento è, infatti, un bizantinismo artistico
154
di matrice decisamente imperiale che investe l’intero apparato decorativo della
cappella ducis.
Alcune trasformazioni portano al radicale rifacimento dell’aspetto esterno della
chiesa ducale; le murature esterne e quelle interne vengono rivestite di lastre
di marmi preziosi, di mosaici, di bassorilievi e di formelle. Il portale centrale
esterno e la porta da mar vengono decorati con battenti bronzei ad opus
clatratum di età giustinianea e al di sopra del primo viene collocata la famosa
quadriga trasportata dall’ippodromo della capitale d’Oriente dopo la conquista.
Non va dimenticata la sistemazione del gruppo in porfido dei Tetrarchi
proveniente dalla piazza del Philadelphion e la ricollocazione nell’angolo tra il
Palazzo Ducale e la chiesa di San Marco dei cosidetti “Pilastri Acritani”,
appartenuti probabilmente alla chiesa di San Polieucto.
Queste ed altre spolia provenienti dal bottino costantinopolitano della IV
crociata
hanno contribuito alla decorazione e all’arricchimento della facies
marciana, di quello che doveva essere il frontespizio ufficiale della città, il
centro focale dell’urbanistica della piazza.
Nel frattempo continua l’impegno nel completamento della grandiosa impresa
musiva. Sia pure per fasi e attraverso un lungo arco di tempo che dalla fine
dell’XI secolo raggiunge il XIII, il rivestimento musivo della chiesa di San Marco
è stato realizzato in sostanziale coerenza con il modello culturale di riferimento
e, nelle sue parti duecentesche, esso costituisce certamente l’esperienza
centrale e più significativa della cultura figurativa veneziana.
È probabile che, con la conquista di Costantinopoli e il favoloso bottino della IV
crociata, siano stati importati a Venezia da Bisanzio non soltanto una grande
quantità di tesori, opere d’arte e preziosi materiali lapidei e musivi, ma anche
numerosi
artisti,
alcuni
dei
quali
hanno
sicuramente
contribuito
alla
realizzazione del favoloso manto della basilica marciana.
La stesso Stefano Magno, erudito cronachista e collezionista del Cinquecento
veneziano, nell’attribuire al doge Domenico Selvo la ricostruzione della chiesa
ducale “come la se vede, in la forma xe al presente, sì nobielissima” e la fa
“lavorar de musaicho a la grecha”, accenna alla presenza di maestri greci,
attorno ai quali si sarebbe formata poi una scuola veneziana di mosaico
155
parietale. La chiamata, dunque, di artefici bizantini e di altre maestranze, unita
all’influenza esercitata dalla circolazione di manoscritti e di taccuini, così come
la
presenza
di
eventuali
personalità
di
tramite,
ebbero
a
incidere
significativamente tanto sulle scelte formali quanto su quelle iconografiche
relative alla decorazione a mosaico della fabbrica marciana tra l’XI e il XIII
secolo. Scelte che, peraltro, sono state condizionate anche dalla stessa
struttura architettonica di San Marco che riprende, un modello protobizantino
di
età
giustinianea,
prototipo
di
architettura
imperiale,
reinterpretato
attraverso forme medio-bizantine quali appunto l’iterazione del quinconce, un
modello che si diffonde nell’ambito monastico del Monte Athos a partire dal
periodo post-iconoclastico.
L’alta simbolicità della forma architettonica di tale pianta a croce inscritta
richiede
un
programma
espositivo
fortemente
legittimato,
codificato
e
riconoscibile in tutto l’impero. Anche il programma iconografico in San Marco,
pur con delle varianti, è concepito in funzione dello spazio sacro e segue uno
schema di rappresentazione secondo una disposizione gerarchica dei soggetti
adeguata al tipo architettonico della chiesa ducale - la cui superficie è infatti
molto più estesa rispetto a quella delle piccole strutture monastiche -, un
sistema che deve essere di grande impatto e particolarmente suggestivo allo
sguardo del visitatore che ne deve restare abbagliato.
“Il pallore dell’oro è il colore appropriato a esprimere la virtù dei seguaci del
Cristo, e al contempo, il largo uso dell’oro […] dà alle immagini quella stessa
bellezza che si può vedere nelle vesti cerimoniali della corte imperiale” (Leone
VI). Così anche in San Marco, l’oro non è solo impreziosimento decorativo, ma
è il mezzo che dà uniformità al tutto. L’oro è allusione alla perpetuità, alla
solennità, alla luce, una luce metafisica. Viene studiato allora un sistema
finissimo di posa delle tessere parietali in funzione di quello che deve essere
uno spazio di visione; la loro posizione inclinata permette la rifrazione della
luce, una luce vibratile dal punto di vista della percezione, che crea l’effetto
visivo della dynamos, dell’energia, del movimento; e infatti Dio è il
Pantodynamos, colui che tutto muove.
156
Un sapere così sofisticato richiede i maestri greci più qualificati, da cui le
maestranze locali attingeranno, appropriandosi della tecnica e dello stile e
creando una vera e propria “arte” di mosaico parietale veneziana.
Tutto ciò ci dimostra ancora una volta come la coerenza del sistema
iconografico marciano sia legata profondamente al programma di tipo
bizantino, nonostante la presenza di alcune varianti e gli ulteriori sviluppi che
nuove esperienze porteranno nel cantiere marciano nel corso dei secoli e
soprattutto nella fase duecentesca.
E infatti, se nelle prime fasi della decorazione i maestri mosaicisti si attengono
a un programma e a dei canoni di matrice prettamente bizantina dove prevale
il fondo oro, nelle fasi successive sulla base di moderne suggestioni, essi
approdano a un linguaggio particolare e autonomo, in cui nuovi elementi, tra i
quali uno spiccato senso ritmico della composizione che pone in rilievo le figure
e il paesaggio, creano un’espressività del tutto inedita. A tale proposito, se
alcuni dei mosaici duecenteschi dell’interno della basilica evidenziano ancora la
dipendenza dagli stilemi di natura bizantina - basti pensare all’eleganza e allo
stile aulico dei raffinati Pinakes che raffigurano il Cristo Emanuele e la Vergine
Orante su magnifici sfondi dorati (che il Demus giustamente definisce di
precious style) -, altre composizioni musive del XIII secolo presentano nuovi
elementi sia a livello stilistico che iconografico.
Il grandioso pannello dell’Orazione nell’Orto segna un punto di svolta nella
decorazione musiva di San Marco. L’emergere di figure possenti e voluminose
che si stagliano sullo sfondo di un paesaggio delineato in modo dettagliato e
incisivo,
nel
quale
anche
la
vegetazione
assume
rilievo,
la
nuova
monumentalità, che peraltro attinge dagli esempi più evoluti della pittura serba
del XIII secolo (Mileševa e Sopočani), così come la raffinatezza e l’inedito
equilibrio compositivo delle forme, fanno di tale opera uno degli esiti più alti
dell’arte veneziana del Duecento.
Allo stesso modo i mosaici dell’atrio, nonostante sia stata supposta la stretta
dipendenza dalla Genesi Cotton e da modelli della pittura illusionistica
protobizantina,
così
come
da
altri
manoscritti
che
Demus
attribuisce
all’irrompere dello stile dell’età paleologa (vedi la cupola di Mosè), portano a
157
soluzioni autonome e innovative. Il trattamento delle figure ignude, uno
spiccato naturalismo, un interesse per la resa delle quinte architettoniche e
degli elementi paesistici, l’organizzazione dello spazio che scandisce la
sequenza narrativa sono tutti caratteri che emergono in particolar modo nella
cupola della Genesi e che ribadiscono un ulteriore aspetto della cultura artistica
veneziana duecentesca: il suo ecclettismo, la sua capacità di dialogare e di
accogliere culture e modelli diversi, reinterpretandoli e giungendo a soluzioni
stilistiche e iconografiche moderne e di altissimo livello.
Non vi è dubbio che, come ribadisce lo studioso V. Djuric, indipendentemente
da tutte le specificità veneziane, tutti gli artisti che si sono succeduti tra l’XI e il
XIV secolo nella realizzazione della decorazione musiva in San Marco hanno
seguito, in maniera più o meno rigorosa, le tendenze nate negli atelier di pittori
della capitale bizantina. Dunque, inequivocabile appare l’influsso del mondo
bizantino
sulla
decorazione
musiva
in
San
Marco,
anche
se
la
fase
duecentesca, realizzata tra la presa di Costantinopoli da parte dei Latini e la
sua liberazione nel 1261, presenta dei caratteri propri. In questo periodo,
infatti, la caduta della città orientale aveva portato alla dispersione dei suoi
migliori artisti, alcuni dei quali avevano raggiunto altri paesi, quali ad esempio
la Serbia che, come osserva Demus, ha senz’altro avuto un ruolo notevole nel
suggestionare
le
manifestazioni
artistiche
veneziane,
al
momento
dell’abbandono dello stile dei Paleologi. È in questo momento centrale infatti,
tra il 1120 e il 1260 che l’arte del mosaico a Venezia registra una discontinuità
in rapporto a quella che era stata fino ad allora una situazione abituale ed è
probabile che proprio in questo periodo intermedio, venendo meno gli influssi
bizantini venissero rielaborati gli stimoli iniziali che portarono alla creazione di
una nuova arte, specificamente veneziana.
Il bizantinismo artistico del Duecento veneziano è, dunque, un fenomeno
eterogeneo e non circoscritto alla cultura e al gusto del solo cantiere marciano,
ma diffuso anche in altri contesti della città lagunare.
Alcune novità interessanti riguardano, ad esempio, l’ambito architettonico, che
ho preso in esame; in particolare, il tipo dell’arco rialzato, di largo impiego nel
XIII secolo, rappresenta una delle tante penetrazioni di gusto coscientemente
158
accettate a Venezia. Esso costituisce una delle forme più significative di
elemento architettonico a lungo ritenuto di matrice bizantina che diverrà un
carattere distintivo di logge e portici di alcune fra le più celebri architetture
palaziali veneziane. Nello stesso tempo, vari altri elementi di stile e di
decorazione di impronta bizantina vengono accolti e si trasmettono ad alcune
fra le più importanti domus magnae della città: dal caso emblematico del
palazzo sul Canal Grande del doge Enrico Dandolo, tuttora esistente e noto
come palazzo Dandolo Farsetti, e a ca’ Palmieri da Pesaro (poi Fondaco dei
Turchi), ca’ Loredan, Palazzo Businello, ca’ da Mosto, edifici che, come abbiamo
osservato, ben documentano il diffondersi di elementi “bizantineggianti”
nell’architettura
civile.
L’adozione
diffusa
di
parametri
marmorei,
l’uso
frequente di cornici marcapiano decorate da foglie d’acanto, il largo impiego
decorativo di patere, formelle, croci, fregi stilisticamente dipendenti da
prototipi bizantini, come pure l’impiego dell’arco rialzato, semplice o cuspidato,
associato a capitelli bizantini di spoglio o a capitelli di tipo corinzio, sono tutti
elementi che esemplarmente testimoniano la tendenza verso uno sfarzoso
decorativismo autocelebrativo349 che investe e caratterizza la cultura artistica
veneziana del XIII secolo.
Interessante, a questo punto della mia ricerca, è stato analizzare il contesto
pittorico veneziano in relazione alle sue massime espressioni artistiche.
Se nel corso del Duecento ormai indiscutibile e significativa è la presenza della
pittura a mosaico, come abbiamo avuto modo di constatare soprattutto grazie
alla magnificenza e allo splendore dell’onerosa impresa musiva del cantiere
marciano, lo stesso non si può dire per la pittura ad affresco di quel periodo in
San Marco, della cui produzione resta ben poco.
Interessanti, a tale riguardo, sono a mio avviso, gli studi condotti da Ettore
Merkel su alcuni “affreschi poco noti in San Marco” che hanno messo in luce
l’assenza di un programma decorativo codificato, esteso ed eloquente per la
349
Accolgo ed associo la mia posizione a quella del Prof. E. Concina, Le arti di Bisanzio, Milano 2002.
159
pittura di quel periodo. Lo studioso sottolinea, invece, il carattere di
provvisorietà e di utilità devozionale e liturgica di tali frammenti: un tipo di
decorazione alternativa, nettamente separata e subordinata rispetto a quella a
mosaico che aveva coinvolto il grandioso cantiere marciano.
Ciò nonostante, uno straordinario esempio di pittura monumentale lo troviamo
nella chiesa di San Giovanni Decollato, in un ciclo di affreschi che costituisce
una preziosa testimonianza della cultura artistica veneziana delle origini.
Fin dalla loro scoperta, all’interno della chiesa di San Giovanni Decollato, tali
frammenti hanno suscitato l’interesse degli studiosi e diverse sono state le
ipotesi interpretative a cui si è giunti riguardo alla loro esecuzione.
A conclusione dell’analisi di tali affreschi, desidero manifestare la mia
propensione a seguire la lettura interpretativa data dal Prof. Michelangelo
Muraro, il quale ritiene che l’autore degli affreschi di San Zan Degolà vada
collocato nel quadro di quella corrente “classicheggiante” che ben emerge
dall’espressività di alcuni particolari, dal trattamento delle forme, da quella
accentuata
attenzione
rivolta
alla
struttura,
dal
carattere
plastico
e
illusionistico delle decorazioni e dal modo di concepire la prospettiva, che non è
astratta, ma solenne e organica. Come egli fa notare, questo ciclo di affreschi
trova un quadro di riferimento significativo nella corrente monumentale dei cicli
pittorici serbi di Mileševa e di Sopočani, sebbene esso vada considerato opera
di un maestro occidentale, che guarda direttamente ai modelli di quella prima
rinascenza macedone che aveva rimesso in valore l’arte e la cultura del mondo
antico. Questo fenomeno di “rinascenza paleocristiana” si spiega con l’esigenza
particolare di Venezia di dar vita ad una propria tradizione storica antica che
alla città ancora mancava.
A tale proposito, e a titolo esemplificativo, basti pensare a come venne creata
la “traditio” della leggenda di San Marco. L’arrivo del corpo dell’Evangelista fa
di Venezia sito apostolico agli occhi del mondo cristiano, la città da lui
miracolosamente assistita e che in lui si riconosceva e identificava.
Ecco allora che il mito fondatore dello stato veneziano deve essere rafforzato
da una serie di leggende. I momenti cruciali di tale mitogenesi sono ben
ribaditi anche in alcuni dei mosaici duecenteschi marciani, quali la Traslatio
160
delle reliquie di San Marco in basilica, a cui si legano gli episodi convergenti
dell’Inventio e il miracolo dell’Apparitio, che giustifica la leggenda della
Praedestinatio della cappella Zen.
La ricerca fin qui condotta sulle diverse espressioni artistiche cui ha dato luogo
la decorazione della cappella ducis, nonché su altri aspetti del bizantinismo
artistico esterni alla platea marciana, mette in luce la complessità di un secolo,
il Duecento veneziano, non sempre di facile e chiara lettura, come dimostrano i
dibattiti e le interpretazioni che sono state formulate dai vari studiosi.
Sicuramente
la
sintesi
stilistica
operata
dalle
maestranze
veneziane
duecentesche, sulla base delle esperienze tecniche e artistiche bizantine - sulle
quali, fra l’altro, le botteghe veneziane si erano formate sino a raggiungere
altissimi livelli di maestria -, ha contribuito alla nascita di tendenze autonome,
prettamente veneziane. Ad ogni modo, vorrei concludere confermando la
posizione sostenuta dal Prof. E. Concina che mi sento di condividere
pienamente e che si concentra sul nuovo ruolo assunto dalla città di Venezia
all’indomani
della
grandiosa
impresa
costantinopolitana.
Proprio
nella
riapertura del più importante cantiere pubblico di piazza San Marco, Venezia,
grazie agli emblemi trionfali e ad altre preziose spolia vuole dare una grandiosa
prova visiva di splendore e di nuova identità.
Dalla bizantina magnificenza di San Marco ha, dunque, inizio quel processo di
rinnovamento e quello sviluppo di manifestazioni artistiche di matrice
deliberatamente imperiale che, da quel momento, coinvolgeranno la storia e la
cultura dell’arte veneziana duecentesca. Ed è sempre in questa San Marco,
santuario e segno di renovatio e translatio imperii, che si concretizza il sogno e
il desiderio di Venezia, come afferma il Bessarione, di diventare “altra
Bisanzio”, il luogo simbolico deputato all’eredità, alla continuità e alla
trasmissione di tutti quei valori della cultura imperiale costantinopolitana, di
quel sapere antico, che ancor oggi la città lagunare, a distanza di secoli, nel
continuo ossequio alla cultura orientale ci vuole dimostrare.
161
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171
ELENCO DELLE ILLUSTRAZIONI
CAPITOLO I – VICENDE STORICHE E CULTURALI CHE COINVOLSERO VENEZIA
E BISANZIO NEL PERIODO ANTECEDENTE LA IV CROCIATA
FIG. 1. Clero, doge e popolo pregano per ritrovare il corpo di San Marco,
Pannello parietale del transetto destro. Basilica di San Marco. Venezia.
FIG. 2. Ritrovamento del corpo di San Marco, l’Apparitio. Pannello parietale del
transetto destro. Basilica di San Marco, Venezia.
FIG. 3. Trasferimento del corpo di San Marco in basilica, facciata occidentale di
San Marco, portale di Sant’Alipio. Venezia.
FIG. 4. Il patriarca di Grado, i vescovi lagunari e il doge Giustiniano Particiaco
accolgono le reliquie di San Marco, cappella di San Clemente. Basilica di San
Marco, Venezia.
FIG. 5. Il Doge Domenico Michiel sbarca a Chio, cappella di Sant’Isidoro.
Basilica di San Marco, Venezia.
FIG. 6. Il Doge Domenico Michiel rimprovera il chierico Cerbano dopo l’
“invenzione” del corpo di Sant’ Isidoro, cappella di Sant’Isidoro. Basilica di San
Marco, Venezia.
FIG. 7. Il Doge Ordelaffo Falier, smalto della Pala d’Oro. Basilica di San Marco,
Venezia.
CAPITOLO II – FASE ARTISTICO CULTURALE DUECENTESCA IN SAN MARCO
FIG. 1. Processione della reliquia della croce in piazza San Marco. Gentile
Bellini 1496, Gallerie dell’Accademia. Venezia.
FIG. 2. Doni di papa Alessandro III al Doge Sebastiano Ziani (1172-1178):
l’anello. Secolo XV. Venezia.
FIG. 3. Doni di papa Alessandro III al Doge Sebastiano Ziani (1172-1178): le
trombe e i vessilli. Secolo XV. Venezia.
FIG. 4. San Teodoro, ipotesi ricostruttiva della pianta di W. Dorigo, 2003.
FIG. 5. L’area marciana con il castellum, la prima San Marco e San Teodoro,
ricostruzione di W.Dorigo, 1983.
172
FIGG. 6-7. Chiesa di Santa Sofia di Kiev, ricostruzione del prospetto e pianta.
FIG. 8. Pianta della Basilica di San Marco, Venezia (Ennio Concina, 1995).
FIG. 9. La chiesa dei Dodici Apostoli a Costantinopoli, ipotesi ricostruttiva della
pianta di N. Ghioles, 1998.
FIG. 10. Chiesa di San Giovanni d’Efeso, planimetria della chiesa Giustinianea
(Ephesos 1951).
FIG. 11. Facciata della basilica contariniana. Ricostruzione di A. Pellanda
(APSM).
FIG. 12. Planimetria del nartece occidentale di San Marco con l’ipotesi
ricostruttiva di V. Herzner (1997).
FIG. 13. Pianta della basilica di San Marco (Ongania 1888-1893).
FIG. 14. La chiesa a cinque dell’ Apostoleion a cui fa da sfondo la scena dell’
Ascensione del Cristo. Illustrazione di Giacomo di Kokkinobaphos. (Biblioteca
Nazionale di Parigi).
FIG. 15. L’ Orazione nell’Orto, pannello navata sud. Basilica di San Marco,
Venezia.
FIG. 16. Sequenza dell’Orazione nell’Orto, pannello navata sud. Basilica di San
Marco, Venezia.
FIG. 17. Compianto sul corpo del Cristo. San Panteleimon, Nerezi.
FIG. 18. Particolare del gruppo degli Apostoli addormentati, pannello dell’
Orazione nell’Orto, navata sud. Basilica di San Marco, Venezia.
FIG. 19. Particolare della cupola dell’Ascensione, Basilica di San Marco.
Venezia.
FIG. 20. L’incredulità di Tommaso, icona della chiesa della Theotokos o Panagia
Peribleptos (San Kliment), Ohrid.
FIG. 21. Apostoli, particolare della Dormizione della Vergine. Chiesa della
Trinità. Sopočani.
FIG. 22. Mosaico dell’abside. Chiesa di San Paolo Fuori le Mura, Roma.
FIG. 23. Episodio dell’ Inventio. Clero, doge e popolo pregano per ritrovare il
corpo di San Marco. Basilica di San Marco, pannello parietale del transetto
destro. Venezia.
173
FIG. 24. Episodio dell’ Apparitio. Ritrovamento del corpo di San Marco,
pannello parietale del transetto destro. Venezia.
FIG. 25. Trasferimento del corpo di San Marco in basilica, Venezia, facciata
occidentale di San Marco, portale di Sant’Alipio. Venezia.
FIG. 26. I Pinakes: la Vergine, parete navata sud. Basilica di San Marco.
Venezia.
FIG. 27. I Pinakes: l’Emanuele, parete navata nord. Basilica di San Marco.
Venezia.
FIG. 28. I Pinakes: il profeta Isaia, parete navata sud. Basilica di San Marco,
Venezia.
FIG. 29. I Pinakes: il profeta Geremia, parete navata nord. Basilica di San
Marco. Venezia.
FIG. 30. I Pinakes: il profeta Davide, parete navata sud. Basilica di San Marco,
Venezia.
FIG. 31. I Pinakes: il profeta Salomone, parete navata sud. Basilica di San
Marco, Venezia.
FIG. 32. Il nartece, particolare della pianta della basilica di San Marco con i
mosaici duecenteschi. Venezia.
FIG. 33 Storie di Noè, mosaici dell’atrio, volta nord. Basilica di San Marco,
Venezia.
FIG. 34. La costruzione della torre di Babele, mosaici dell’ atrio, volta nord.
Basilica di San Marco, Venezia.
FIG. 35. Cupola della Genesi, mosaici dell’atrio. Basilica di San Marco, Venezia.
FIG. 36. Particolare della Creazione, cupola della Genesi. Basilica di San Marco,
Venezia.
FIG. 37. Abramo incontra gli angeli, particolare del frammento num. 26 della
Bibbia Cotton.
FIG. 38. Cupola di Abramo, mosaici dell’atrio. Basilica di San Marco, Venezia.
FIG. 39. Prima cupola di Giuseppe, mosaici dell’atrio. Basilica di San Marco,
Venezia.
FIG. 40. Seconda cupola di Giuseppe, mosaici dell’atrio. Basilica di San Marco,
Venezia.
174
FIG. 41. Terza cupola di Giuseppe, mosaici dell’atrio. Basilica di San Marco,
Venezia.
FIG. 42. Cupola di Mosè, mosaici dell’atrio. Basilica di San Marco, Venezia.
FIG. 43. Lunetta con la Deesis, mosaici dell’atrio. Basilica di San Marco,
Venezia.
FIG. 44. Particolare della Bibbia di Carlo V. Gerona.
CAPITOLO III – BISANZIO E LA SCULTURA DEL DUECENTO A VENEZIA
FIG. 1. Facciata settentrionale della basilica di San Marco, Venezia.
FIG. 2. Facciata meridionale della basilica di San Marco, Venezia.
FIG. 3. Facciata occidentale, della basilica di San Marco, Venezia.
FIG. 4. Sogno di San Marco, un tempo sogno di San Giuseppe, portale
maggiore, nicchia del timpano, basilica di San Marco, Venezia.
FIG. 5. Volo di Alessandro. Facciata settentrionale della Basilica di San Marco,
Venezia.
FIG. 6. Trimorphon, navata meridionale, basilica di San Marco, Venezia.
FIG. 7. Rilievo dei mestieri veneziani: i segatori, Venezia, facciata occidentale,
arco III, intradosso. Basilica di San Marco, Venezia.
FIG. 8. La costruzione dell’arca di Noè, mosaico dell’atrio, volta sud, basilica di
San Marco, Venezia.
FIG. 9. Rilievo dei mestieri veneziani: i muratori, facciata occidentale, arco III,
intradosso. Basilica di San Marco, Venezia.
FIG. 10. Costruzione della Torre di Babele, mosaici dell’atrio, volta nord.
Basilica di San Marco, Venezia.
FIG. 11. La Quadriga, museo marciano della basilica di San Marco, Venezia.
FIG. 12. I Tetrarchi in porfido, angolo sud-ovest. Basilica di San Marco,
Venezia.
FIG. 13. Il Carmagnola, pilastrino angolare sud-ovest del loggiato sud. Basilica
di San Marco, Venezia.
175
FIG. 14. Rilievo di Ercole col cinghiale di Erimanto, facciata occidentale. Basilica
di San Marco, Venezia.
FIG. 15. Rilievo di Ercole con la cerva e l’ idra, facciata occidentale. Basilica di
San Marco, Venezia.
FIG. 16 Rilievo con San Demetrio, facciata occidentale. Basilica di San Marco,
Venezia.
FIG. 17. Rilievo con San Giorgio, facciata occidentale. Basilica di San Marco,
Venezia.
FIG. 18. Rilievo con l’Arcangelo Gabriele, facciata occidentale. Basilica di San
Marco, Venezia.
FIG. 19. Rilievo con la Vergine Orante, facciata occidentale. Basilica di San
Marco, Venezia.
FIG. 20. Cristo in trono tra gli evangelisti Giovanni e Matteo e due cervi sotto
gli alberi, facciata settentrionale. Basilica di San Marco, Venezia.
FIG. 21. Rilievo con San Marco, facciata occidentale. Basilica di San Marco,
Venezia.
FIG. 22. I pilastri acritani, localizzati nei pressi dalla facciata meridionale della
basilica marciana, Venezia.
FIG. 23. Tondo con Imperatore bizantino, Campiello Angaran presso San
Pantalon, Venezia.
CAPITOLO IV – PORTE AGEMINATE E CLATRATE IN SAN MARCO
FIG. 1. Porta di San Clemente (anni ottanta dell’XI secolo). Basilica di San
Marco, Venezia.
FIG. 2. Porta centrale (1112 ca). Basilica di San Marco, Venezia.
FIG. 3. Portale maggiore (centrale esterno). Basilica di San Marco, Venezia.
FIG. 4. Porta clatrata della cappella Zen. Basilica di San Marco, Venezia.
176
CAPITOLO V – LA STORIA DEL TESORO DI SAN MARCO TRA BISANZIO E
VENEZIA
FIG. 1. La Pala d’Oro. Tesoro della basilica di San Marco, Venezia.
FIG. 2. Smalto che raffigura il doge Ordelaffo Falier, Pala d’Oro. Tesoro della
basilica di San Marco, Venezia.
FIG. 3. Smalto quadrilobo che raffigura l’arcangelo Michele, Venezia, Pala
d’Oro, Tesoro della basilica di San Marco, Venezia.
FIGG. 4-5. Sei formelle con scene del Dodekaorton (di probabile provenienza
dal monastero del Pantokrator di Costantinopoli), Pala d’Oro. Tesoro della
basilica di San Marco, Venezia.
FIG. 6. L’Entrata in Gerusalemme, formella del fregio superiore, Pala d’Oro.
Tesoro della basilica di San Marco, Venezia.
FIG. 7-8. L’Annunciazione e la Crocifissione, formelle del fregio superiore, Pala
d’Oro. Tesoro della basilica di San Marco, Venezia.
FIG. 9. Giovanni II Comneno e il figlio Alessio incoronati dal Cristo
accompagnato da Carità e Giustizia, miniatura del tetravangelo. Biblioteca
Apostolica Vaticana, Città del Vaticano.
FIG. 10. L’immagine della Nicopeia, Museo marciano della basilica di San
Marco, Venezia.
CAPITOLO VI – LO SVILUPPO DELL’ARCO RIALZATO NELL’ARCHITETTURA DEL
DUECENTO VENEZIANO
FIG. 1. Sviluppo dell’arco rialzato.
FIG. 2. Particolari dell’arco rialzato visibili dalle sezioni longitudinali della
navata di San Marco verso sud e vesso nord, Venezia.
FIG. 3. Particolari dell’arco rialzato nel nartece alle due estremità nord e sud
della facciata occidentale (metà XIII secolo). Basilica di San Marco, Venezia.
FIGG. 4-5. Lunette del portale di S. Alipio e di quello settentrionale (porta dei
Fiori). Basilica di San Marco, Venezia.
FIG. 6. Gentile Bellini, Processione della reliquia della croce in Piazza San
Marco, 1496, Venezia.
177
FIG. 7. Gentile Bellini, le Procuratie del XII secolo, particolare di archi rialzati,
Venezia.
FIG. 8. Palazzo Pesaro (Fondaco dei Turchi) prima dei restauri ottocenteschi,
Venezia.
FIG. 9. Palazzo di Diocleziano, facciata sul mare, Spalato.
FIG. 10. Planimetria facciata Fondaco dei Turchi, Venezia.
FIG. 11. Fondaco dei Turchi dopo il restauro ottocentesco, Venezia.
FIG. 12. Planimetria facciata ca’ Farsetti, Venezia.
FIG. 13. Ca’ Farsetti, Venezia.
FIG. 14. Planimetria facciata ca’ Loredan, Venezia.
FIG. 15. Ca’ Loredan. Venezia.
FIG. 16. Palazzo Treves De Bonfili, facciata esterna sul rio di San Luca,
Venezia.
FIG. 17. Palazzo Treves De Bonfili, facciata sulla corte Barozzi, Venezia.
FIG. 18. Planimetria facciata Palazzo Treves De Bonfili, Venezia.
FIG. 19. Veduta del De Barbari del Palazzo Treves De Bonfili, Venezia.
FIG. 20. Domus Querini, Venezia.
FIG. 21. Domus Querini: trifora e monofora, particolari dell’arco rialzato
cuspidato sia nell’estradosso che nell’intradosso, Venezia.
FIG. 22. Planimetria Ca’ da Mosto, Venezia.
FIG. 23. Ca’ da Mosto, facciata principale sul Canal Grande, Venezia.
FIG. 24. Ca’ da Mosto: formelle che presentano la cuspide sia nell’estradosso
che nell’intradosso, Venezia.
FIG. 25. Planimetria facciata ca’ Barzizza, Venezia.
FIG. 26. Ca’ Barzizza, Venezia.
FIG. 27. Planimetria facciata ca’ Businello, Venezia.
FIG. 28. Ca’ Businello, Venezia.
178
FIG. 29. Planimetria facciata ca’ Donà, Venezia.
FIG. 30. Veduta del De Barberi di ca’ Donà, Venezia.
FIG. 31. Proprietà Zancani (ca’ Donà), Venezia.
FIG. 32. Planimetria facciata ca’ Donà della Madoneta, Venezia.
FIG. 33. Ca’ Donà della Madoneta, Venezia.
FIG. 34. Planimetria facciata di ca’ Foscolo, Venezia.
FIG 35. Ca’ Foscolo, facciata prima dei restauri, Venezia.
FIG. 36. Ca’ Foscolo, facciata odierna, Venezia.
FIG. 37. Planimetria di Proprietà Falier, Venezia.
FIG. 38. Proprietà Falier, Venezia.
FIG. 39. Planimetria ca’ Vitturi, Venezia.
FIG. 40. Veduta del De’ Barbari di ca’ Vitturi, Venezia.
FIG. 41. Proprietà Vitturi, Venezia.
FIG. 42. Planimetria del portico di ca’ Soranzo, Venezia.
FIG. 43. Ca’ Soranzo, quadrifora con archi rialzati nell’estradosso, Venezia.
FIG. 44. Ca’ Soranzo, facciata su corte interna, Venezia.
FIG. 45. Ca’ Soranzo, facciata esterna sul rio della Canonica, Venezia.
FIG. 46. Planimetria del portico di ca’ del Papa, Venezia.
FIG. 47. Vittore Carpaccio, Liberazione dell’indemoniato a Rialto, 1494-1495.
Venezia.
FIG. 48. Veduta di Ca’ del Papa del De’ Barbari, Venezia.
FIGG. 49-50. Resti dell’originario portico della metà del XII secolo, Venezia.
FIG. 51. Chiesa di Sant’Irene di Costantinopoli. Interno verso est.
FIG. 52. Monastero di Costantino Lips, Costantinopoli, esterno della chiesa
settentrionale.
179
FIG. 53. Chiesa dei Santi Apostoli dell’ Agorà, XI secolo, Atene.
FIG. 54. Fatih Cami, Enez (Ainos), l’esonartece da sud-ovest.
FIG. 55. Parigoritissa di Arta, esterno da nord-ovest.
FIG. 56. Chiesa di Santa Sofia di Ochrida, l’esonartece da ovest.
FIG. 57. Particolare del fianco sud del Katholikon del XII secolo. Nauplia,
Areías.
FIG. 58. Santi Pietro e Paolo Leuktra, trifora dell’abside del XII secolo.
FIG. 59. Trifora dell’abside di San Demeytrio di Chánia, Avlonaríon, XII secolo.
FIG. 60. S. Nicola, Kanália di Magnisia, particolari di bifore.
FIG. 61. Katholicon di Osios Loukas, veduta da sud ovest (incisione del 1853).
FIG. 62. Katholicon del monastero della Vergine Zoodochos Pighis, Samari di
Messenia, particolare di due icone parietali ad affresco del XII secolo.
FIG. 63. Chiesa del Salvatore nel Peloponneso, particolare della facciata,
veduta da nord del XII secolo.
FIG. 64. Kapnikarea, Atene, particolare del protiro del XII secolo.
FIG. 65. Chiesa del Monastero di Nauplia, Areía, particolare del protiro, fianco
nord.
FIG. 66. Kapnikarea, Atene, veduta frontale e laterale del protiro del XII
secolo.
FIG. 67. Kapnikarea, Atene, portico occidentale del XII secolo.
FIG. 68. Monastero di Areía, Nauplia, trifora dell’abside del XII secolo.
CAPITOLO VII - LA PITTURA NEL DUECENTO VENEZIANO
FIG. 1. Fascia affrescata scoperta nel 1963 da Ferdinando Forlati che
rappresenta l’Immagine della Vergine fra due Angeli e otto santi. Parete nord,
ambiente relativo alla campata dell’altare. Basilica di San Marco, Venezia.
FIG. 2. Immagine della Vergine Orante, un’ Assunta fra due Angeli e otto santi.
Affresco visibile oggi nella parete nord del Battistero di San Marco, Venezia.
180
FIG. 3. Ermagora è accolto ad Aquileia. Cripta della basilica patriarcale,
Aquileia.
FIG. 4. Pietro invia Marco ad evangelizzare le Venezie. Cripta della basilica
patriarcale, Aquileia.
FIG. 5. Deposizione, Chiesa di St. Panteilemon, Gorno (Nerezi).
FIG. 6. Veduta dall’alto delle fondazioni, sacello di Sant’Isidoro, 1225 ca.,
battistero di San Marco, Venezia.
FIG. 7. Affresco frammentario dopo lo stacco che presenta tracce di santi,
rinvenuto nel 1977 dal proto Angelo Scattolin, battistero, sacello di
Sant’Isidoro. Basilica di San Marco, Venezia.
FIG. 8. Madonna allattante, museo marciano, Venezia.
FIG. 9. Facciata esterna della Chiesa di San Giovanni Decollato, Venezia.
FIG. 10. Interno della chiesa di San Giovanni Decollato, Venezia.
FIG. 11. Annunciazione, cappella absidale sinistra, San Giovanni Decollato,
Venezia.
FIG. 12. Morte di Santa Chiara, pannello centrale del Trittico di Santa Chiara,
Museo Civico Sartorio, Trieste.
FIG. 13. Interno della cappella absidale sinistra di San Giovanni Decollato,
Venezia. (Disegno ricostruttivo di Aida Colombo).
FIG. 14. Interno della Cappella degli Scrovegni, Giotto, Padova.
FIG. 15. Lunetta con Sant’Elena che si affaccia dal balcone del suo Palatium,
cappella absidale sinistra, San Giovanni Decollato, Venezia.
FIG. 16. Sant’Elena e San Filippo, Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo.
FIG. 17. Sant’Agnese, Mosaico dell’atrio, Basilica di San Marco, Venezia.
FIG. 18. Decorazione musiva dell’Abside e del Ciborio con particolare
dell’Annunciazione, Basilica Eufrasiana di Parenzo.
FIG. 19. Cristo e simboli degli evangelisti, cappella absidale sinistra, volta a
crociera, Chiesa di San Giovanni Decollato, Venezia.
FIG. 20. Frammenti degli abiti di due figure, cappella absidale sinistra. Chiesa
di San Giovanni Decollato, Venezia.
181
FIG. 21. San Michele, affresco ritrovato nella cappella absidale destra, San
Giovanni Decollato, Venezia.
FIG. 22. San Donato, particolare, Chiesa di Santa Maria e Donato, Murano,
Venezia.
FIG. 23. Lignum vitae, particolare della cappella absidale maggiore, parete
sud, Chiesa di San Francesco, Udine.
FIG. 24. Particolare dell’angelo nella scena delle pie donne al sepolcro,
Katholikon, Mileševa.
FIG. 25. Particolare della Dormizione della Vergine, Chiesa della Trinità,
Sopočani.
FIG. 26. La Dormizione della Vergine, Chiesa della Trinità, Sopočani.
FIG. 27. Gioachino cacciato dal Tempio, Cappella degli Scrovegni, Padova.
FIG. 28. Presentazione della Vergine al Tempio, Cappella degli Scrovegni,
Padova.
FIG. 29. Fascia ornamentale con busti di Santi, Cappella degli Scrovegni,
Padova.
FIG. 30. Compianto di Cristo, Cappella Orlandini, Chiesa dei Santi Apostoli,
Venezia.
FIG. 31. Cinque tavole con storie della Vergine. Paolo Veneziano (attrib.),
Pinacoteca civica, Pesaro.
FIG. 32. Paliotto del Beato Leone Bembo, Paolo Veneziano (attrib.), Dignano
d’Istria, San Biagio.
FIG. 33. Madonna col bambino, Museo Puškin (già Monastero Donskoj), Museo
di Storia della Religione, Mosca.
FIGG. 34-35. Tavole con Sant’Andrea e San Matteo, Museo del Duomo, Caorle.
182
REFERENZE FOTOGRAFICHE
CAPITOLO I: VICENDE STORICHE E CULTURALI CHE COINVOLSERO VENEZIA E
BISANZIO NEL PERIODO ANTECEDENTE LA IV CROCIATA
FIGG. 1-2.
3 M-Italia
FIG. 3.
Archivio Santin 2011
FIG. 4.
A. Niero in I mosaici di San Marco, Electa 1991
FIGG. 5-6-7.
Foto Böhm, Archivio Alinari, Fototeca 3M, Archivio
Olivetti,Toni Nicolini e Giovanni Vio
CAPITOLO II: ESPRESSIONI ARTISTICO-CULTURALI DUECENTESCHE NELLA
PLATEA MARCIANA
FIG. 1.
Archivio Santin
FIG. 2.
G. Ravegnani. Museo Correr, ms. Correr 363, cl. I, nr. 1497,
c. 28r
FIG. 3.
G. Ravegnani. Museo Correr, ms. Correr 363, cl. I, nr. 1497,
c. 30r
FIG. 4.
Pianta W. Dorigo 2003
FIG. 5.
Pianta W. Dorigo 1983
FIGG. 6-7.
Piante E. Concina 2002
FIG. 8.
Pianta E. Concina 1995
FIG. 9.
Pianta N. Ghioles 1998
FIG. 10.
Pianta Ephesos 1951
FIG. 11.
Pianta A. Pellanda (APSM)
FIG. 12.
Pianta V. Herzner 1997
FIG. 13.
Pianta Ongania 1888-1893
183
FIG. 14.
E. Concina 2002
FIGG. 15-16-18. Foto Böhm, Archivio Alinari, Fototeca 3M, Archivio
Olivetti,Toni Nicolini e Giovanni Vio
FIG. 17.
Archivio Santin
FIGG. 19-20-21. E. Concina 2002
FIG. 22.
Archivio Santin
FIGG. 23-24.
3 M-Italia
FIG. 25.
Archivio Santin
FIGG. 26-27-28 Foto Böhm, Archivio Alinari, Fototeca 3M, Archivio
29-30-31.
Olivetti,Toni Nicolini e Giovanni Vio
FIG. 32.
Pianta E. A. Dale, 1997
FIGG. 33-34-35- Archivio Santin
36-37-38- 3940-41-42-4344.
CAPITOLO III: BISANZIO E LA SCULTURA DEL DUECENTO A VENEZIA
FIGG. 1-2-3.
Archivio Santin
FIG. 4.
O. Demus e G. Tigler in Le sculture esterne di San Marco,
Electa 1995
FIGG. 5-6.
Archivio Santin
FIG. 7.
O. Demus e G. Tigler in Le sculture esterne di San Marco,
Electa 1995
FIG. 8.
B. Bertoli in I mosaici di San Marco, Electa 1991
FIG. 9.
O. Demus e G. Tigler in Le sculture esterne di San Marco,
Electa 1995
FIG. 10.
Archivio Santin
FIG. 11.
Foto Böhm, Archivio Alinari, Fototeca 3M, Archivio
Olivetti,Toni Nicolini e Giovanni Vio
184
FIGG. 12-13-14- Archivio Santin
15-16-17-18-1920-21-22-23.
CAPITOLO IV: PORTE AGEMINATE E CLATRATE IN SAN MARCO
FIGG. 1-2.
S. Angelucci 1997 in Storia dell’arte marciana
FIG. 3.
A. Iacobini 1997 in Storia dell’arte marciana
FIG. 4.
Foto Böhm, Archivio Alinari, Fototeca 3M, Archivio
Olivetti,Toni Nicolini e Giovanni Vio
CAPITOLO V: LA STORIA DEL TESORO DI SAN MARCO TRA BISANZIO E
VENEZIA
FIGG. 1-2-4-5
6-7-8
Foto Böhm, Archivio Alinari, Fototeca 3M, Archivio
Olivetti,Toni Nicolini e Giovanni Vio
FIG. 3.
A. Niero in La Pala d’oro e il tesoro di San Marco,
Foto Olivetti (Milano)
FIG. 9.
E. Concina 2002
FIG. 10.
Archivio Fotografico Scala
CAPITOLO VI: LO SVILUPPO DELL’ARCO RIALZATO NELL’ARCHITETTURA DEL
DUECENTO VENEZIANO
FIG. 1.
J. Ruskin 1874
FIG. 2.
Boito, Ongania 1888-1893
FIGG. 3-4-5-6.
Archivio Santin
FIG. 7.
E. Concina in Storia dell’architettura 2003
FIGG. 13-1526-28-31-3338-41-45.
Archivio Santin
185
FIGG. 8-9-10W. Dorigo in Venezia romanica 2003
11-12- 16-1718-19-20-21-22
23-24-25-27-29
30-32-34-35-36
37-39-40-42-43
44-46-47-48-49
50.
FIGG. 51-5253-54-55-56.
FIGG. 57-5859-60-61-6263-64-65-6667-68.
E. Concina 2002
CH. BOURAS – L. BOURA, ELLADIKÉ NAODOMĺA KATÁ
TǾN 12° AIǾMA, ATHINA 2002
CAPITOLO VII: LA PITTURA NEL DUECENTO VENEZIANO
FIG. 1.
F. Forlati in Arte Veneta (XVII) 1963
FIG. 2.
Archivio Santin
FIGG. 3-4.
G. Valenzano in Venezia e Bisanzio 2005
FIG. 5.
Archivio Santin
FIGG. 6-7.
E. Merkel in Storia dell’arte marciana 1997
FIG. 8.
L. V. Geymonat in Venezia e Bisanzio 2005
FIGG. 9-10.
Archivio Santin
FIG. 11.
L. V. Geymonat in Venezia e Bisanzio 2005
FIG. 12.
Archivio Santin
FIG. 13.
Aida Colombo in Venezia e Bisanzio 2005
FIG. 14.
Archivio Santin
FIGG. 15-16.
L. V. Geymonat in Venezia e Bisanzio 2005
FIGG. 17-18.
Archivio Santin
FIGG. 19-20.
L. V. Geymonat in Venezia e Bisanzio 2005
186
FIG. 21.
E. Zucchetta, Ritrovare restaurando 2010
FIGG. 22-23.
L. V. Geymonat in Venezia e Bisanzio 2005
FIGG. 24-25-26. E. Concina 2002
FIGG. 27-28.
Archivio Santin
FIGG. 29-30.
L. V. Geymonat in Venezia e Bisanzio 2005
FIGG. 31-32.
Archivio Santin
FIGG. 33-34-35. L. V. Geymonat in Venezia e Bisanzio 2005
187