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Settembre
Musica
Torino Milano
Festival Internazionale
della Musica
04_ 21 settembre 2014
Ottava edizione
Torino
Piccolo Regio
Giacomo Puccini
La Grande Guerra
Domenica 07.IX.2014
ore 17
Ta-pum, suoni e parole della Grande Guerra
Fanfara della Brigata Alpina Taurinense
Maresciallo Capo Marco Calandri direttore
Luca Occelli voce recitante
Un progetto di
Realizzato da
Con il sostegno di
I Partner del Festival
Sponsor
Media partner
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Partner Istituzionale
Sponsor tecnici
Giovanni Gaeta
La leggenda del Piave (arrangiamento di Marco Calandri)
Generale Armando Diaz
Bollettino della Vittoria (lettura)
Rievocazione della Battaglia del 1915 (lettura)
con estratti da Am Isonzo di Alice Schalek
Anonimo
Montenero (arrangiamento di Marco Calandri)
Lettere dal fronte (lettura)
Anonimo
Addio mia bella, addio (arrangiamento di Fulvio Creux)
Marco Calandri
Estratti da I lumi di un mondo nuovo
Lettere dal fronte (lettura)
Nino Rota
La Grande Guerra (arrangiamento di Marco Calandri)
Lettere dal fronte (lettura)
Columbro Arona
Le campane di San Giusto (arrangiamento di Fulvio Creux)
Ernest Hemingway
Estratti da Addio alle armi (lettura)
Mario Nascimbene
Addio alle armi (arrangiamento di Paolo Mazza)
Paolo Monelli
Estratti da Le scarpe al sole (lettura)
Lettere dal fronte (lettura)
Davide Boario
Oltre l’Apocalisse
Carlo Salsa
Estratti da Trincee (lettura)
Fulvio Creux
Echi di trincea
Carlo Emilio Gadda
Estratti da Giornale di Guerra e di Prigionia (lettura)
Giuseppe Ungaretti
Fratelli, San Martino del Carso, Soldati (lettura)
Goffredo Mameli/Michele Novaro
Canto degli italiani (arrangiamento di Fulvio Creux)
Fanfara della Brigata Alpina Taurinense
Maresciallo Capo Marco Calandri, direttore
Luca Occelli, voce recitante
In collaborazione con Brigata Alpina Taurinense dell’Esercito
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“Addio, mia bella, addio / l’armata se ne va”. È il febbraio del 1859
quando sul Lago Maggiore, dal ponte del vapore che ha imbarcato
i soldati del re Vittorio Emanuele II ormai prossimi a muovere
guerra all’Austria, si alza quel coro. Al canto dei piemontesi, dei
lombardi, dei liguri, dei toscani e degli emiliani, dei veneti e dei
siciliani, fa eco il rullare dei tamburi della Guardia Nazionale di
Pallanza. Antonio Fogazzaro lo racconta mirabilmente nelle ultime
pagine di Piccolo mondo antico, uno dei romanzi più struggenti
della letteratura italiana, consacrando il testo dell’avvocato fiorentino Carlo Alberto Bosi a colonna sonora del Risorgimento. Scritta
in pochi minuti, al tavolino di un caffè, per onorare i volontari
toscani del 1848, Addio, mia bella, addio, che in verità s’intitolava
Il volontario parte per la guerra dell’indipendenza, ebbe una larga
diffusione.
Così come un grande successo riscosse La bella Gigogin, in particolare tra i Mille di Garibaldi. C’è in proposito una testimonianza
precisa di Giuseppe Cesare Abba, volontario e memorialista garibaldino. Nel suo libro Da Quarto al Volturno ricorda che durante
la marcia delle camicie rosse verso Palermo, a un certo punto,
Garibaldi «all’improvviso comparve sulla strada e gridò con voce
sonora: Avanti, ragazzi, non c’è tempo da perdere. A quelle parole, tutti i Mille saltarono su come un uomo solo e ricomposero le
file, e ripigliarono la faticosa marcia, e il lieto ritornello Daghela
avanti un passo / delizia del mio cuore, al quale una quarantina di
voci toscane intrecciava allegramente il ritornello livornese: Bravo,
bimbo bravo, / trallalera, lallera, lera, mentre Bixio, bestemmiando in tutti i dialetti d’Italia tornava di galoppo in testa alla sua
compagnia». Era stata suonata al Teatro Carcano di Milano dalla
Banda Civica, nella sera di Capodanno del 1859. Composta su un
testo di anonimo da Paolo Giorza, morto in miseria negli Stati
Uniti dove sarebbe emigrato, quella notte venne replicata più volte
per volontà del pubblico entusiasta e poi cantata da una folla enorme, alle quattro del mattino successivo, sotto le finestre del palazzo
del viceré austriaco.
Insieme al Canto degli Italiani di Goffredo Mameli, il futuro
inno nazionale che Michele Novaro musicò a Torino, e all’Inno a
Giuseppe Garibaldi di Luigi Mercantini e Alessio Olivieri, forse il
più amato fino agli inizi del Novecento, Addio, mia bella, addio
e La bella Gigogin inaugurano la canzone patriottica italiana. Pur
avendo visto irrompere sulla scena i ceti popolari, almeno sul
fronte dei garibaldini e dei mazziniani, il Risorgimento fu tuttavia
essenzialmente un’opera di minoranze; e dopo la proclamazione
dell’Unità venne subito lacerato, e tradito nei suoi valori, dalla
frattura fra il Nord e il Sud dell’Italia, culminata nella lunga guerra al brigantaggio. L’Italia era stata fatta, per dirla con le parole
di Massimo d’Azeglio, ma non gli Italiani. Pertanto non potevano
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nascere quelli che lo storico Mario Isnenghi definisce, a proposito dell’inno A Tripoli, i canti che “devono riuscire a mobilitare i
popoli”. Non si era arrivati, insomma, se non parzialmente con
il melodramma verdiano e con certe arie di carattere regionale,
alla “canzone che sanno tutti”, ossia la canzone, per citare Emilio
Franzina, un altro storico, che veicola un “sentimento nazionale
diffuso”. Tutto ciò potrà avvenire, in parte, con l’affermarsi dei
canti politici e di protesta, da quelli anarchici a quelli socialisti,
quindi con le guerre nazionali: la campagna di Libia, intanto, e
soprattutto la Grande Guerra, che sancirà la mobilitazione (e la
carneficina) di massa. Sarà però una canzone d’amore, ’O surdato
’nnamurato di Cannio e Califano, proprio nel 1915, a ottenere per
prima uno straordinario successo in tutto il Paese, unificando i
cuori e le nostalgie. Nel 1859, del resto, a dare il tono alla guerra
risorgimentale era stata La bella Gigogin: un motivo non espressamente di guerra, anzi d’amore, ma interpretato dalla gente per via
di quel ritornello, quel “Daghela avanti un passo”, come un esplicito invito a Vittorio Emanuele II a dichiarare guerra all’Austria.
In ogni caso è sul Carso, sull’Adamello, sull’Ortigara, rammenta
Franzina, che la nazione reale «sarà forzata ad autoriconoscersi,
man mano, nei motivi più marziali, patriottici e plebiscitari de Le
campane di San Giusto di Drovetti e Arona (1915), de La leggenda
del Piave di E.A. Mario [pseudonimo di Giovanni Gaeta] e de La
Canzone del Grappa di Meneghetti e De Bono», risalenti al 1918
e scritti dopo la disfatta di Caporetto, perciò collegati chiaramente
“all’estrema difesa” della patria. I canti di guerra, a quel punto, «si
daranno naturalmente numerosi e godranno di qui in avanti, specie nelle note versioni alpine e di bivacco», da Bandiera Nera, a Sul
cappello, a Sul ponte di Bassano, «d’una immensa popolarità», che
si manterrà tale nell’altro grande massacro della Seconda Guerra
mondiale.
Massimo Novelli
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Telegramma del generale Diaz a Giovanni Gaeta
«Stimatissimo Maestro Gaeta, Lei ha giovato alla riscossa nazionale
più di quanto avessi potuto fare io stesso. La vostra leggenda del
Piave al fronte è più di un generale!»
Bollettino della Vittoria
Comando Supremo, 4 novembre 1918, ore 12
La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto l’alta guida di S.M.
il Re, duce supremo, l’Esercito Italiano, inferiore per numero e per
mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace
valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta.
La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso ottobre ed
alla quale prendevano parte cinquantuno divisioni italiane, tre
britanniche, due francesi, una ceco-slovacca ed un reggimento
americano, contro settantatré divisioni austroungariche, è finita.
La fulminea e arditissima avanzata del XXIX Corpo d’Armata su
Trento, sbarrando le vie della ritirata alle armate nemiche del
Trentino, travolte a occidente dalle truppe della VII armata e a
oriente da quelle della I, VI e IV, ha determinato ieri lo sfacelo totale
del fronte avversario. Dal Brenta al Torre l’irresistibile slancio della
XII, della VIII, della X armata e delle divisioni di cavalleria, ricaccia
sempre più indietro il nemico fuggente.
Nella pianura, S.A.R. il Duca d’Aosta avanza rapidamente alla testa
della sua invitta III armata, anelante di ritornare sulle posizioni da
essa già vittoriosamente conquistate, che mai aveva perdute.
L’Esercito Austro-Ungarico è annientato: esso ha subito perdite
gravissime nell’accanita resistenza dei primi giorni e nell’inseguimento ha perduto quantità ingentissime di materiale di ogni sorta
e pressoché per intero i suoi magazzini e i depositi. Ha lasciato
finora nelle nostre mani circa trecentomila prigionieri con interi
stati maggiori e non meno di cinquemila cannoni.
I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo
risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese
con orgogliosa sicurezza.
Il capo di stato maggiore dell’esercito, il generale Diaz
Rievocazione della Battaglia del 1915
con estratti da Am Isonzo di Alice Schalek
Novantanove anni fa gli Alpini del Terzo Reggimento conquistano
con un brillante colpo di mano il Monte Nero, in uno degli episodi
più famosi della Grande Guerra.
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Nella notte senza luna tra il 15 e il 16 Giugno del 1915, sei
compagnie dei battaglioni alpini Susa ed Exilles ne assaltano la
vetta. La conquista del Monte Nero rientra nei primi piani del
Regio Esercito per il raggiungimento della linea dell’Isonzo ed è
un’operazione che viene affidata agli Alpini del IV corpo d’armata.
Gli ordini son chiari: arrampicarsi, stare sotto, non perdere un solo
passo per non perdere contatto, silenzio assoluto, non tossire, non
chiamarsi neppure sottovoce e attenzione a non smuovere sassi.
La manovra avviene su due fianchi: mentre gli Alpini del Susa
iniziano la salita della cresta nord, tre compagnie dell’Exilles
attaccano il versante meridionale, approfittando del buio e della
nebbia, dopo tre ore di marcia e scalate giungono in prossimità
dei primi trinceramenti austriaci e partono all’assalto della cima.
Gli Alpini alle 3:30 si avvicinano silenziosamente alle posizioni
austriache. Alle 4:45 dopo aspri combattimenti alla baionetta,
travolgono ogni resistenza e piantano il tricolore sulla vetta.
Nel 1916 la giornalista viennese Alice Schalek – una delle prime
donne corrispondenti dal fronte – è inviata di guerra sull’Isonzo e
lì raccoglie, tra i soldati austro-ungarici, testimonianze sull’impresa
del Monte Nero, tutte concordi nel rendere onore alle penne nere
italiane.
Narra infatti la Schalek: «Gli alpini avevano superato in arrampicata
notturna la parete del Monte Nero di duemila metri di dislivello,
[...] completamente equipaggiati e in piena vista vennero su senza
sentiero [...]. Quando si parla di questo brillante attacco, che nella
nostra storia della guerra viene registrato apertamente come
un successo del nemico, ognuno aggiunge in fretta: è stato un
capolavoro, giù il cappello davanti gli Alpini».
Lettera dal fronte del Tenente Carlo Mazzucchi
del 210º Reggimento di Fanteria
Caduto sul Carso il 16 giugno 1917
Carmela,
gli esami sono finiti e naturalmente superati. Non ho chiesto e non
chiedo la licenza perché sembra prossima l’azione e non vorrei
che si credesse ch’io rifugga dal primo combattimento. Anzi io lo
desidero, questo primo battesimo di sangue, e rinuncio alla licenza.
Pur avendo finito il corso, continuiamo ancora l’istruzione anzi ora
è peggio di prima, perché s’inizia l’istruzione alle cinque e mezza ed
io, non volendo disturbare il mio attendente, e dall’altra parte non
volendo mancare alla puntualità, non vado a letto la notte. Vado
a casa tardi, poi leggo, fumo, scrivo, oppure sto alla finestra ad
osservare gli scoppi delle granate sul Carso o i fasci luminosissimi
di proiettori austriaci, o, come è avvenuto in queste due ultime
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sere, ammirare l’incursione degli aereoplani austriaci che hanno
lasciato cadere una trentina di bombe mentre numerose batterie
antiaeree facevano un fuoco d’inferno per impedirne l’avanzata in
territorio italiano. Nelle ore calde, poi, schiaccio un pisolino.
Questa è l’ultima mia lettera che ti mando da Campolongo; forse
sarà proprio anche l’ultima. Appena al Reggimento ti scriverò
ancora, ed in quella ti darò l’ultimo addio, o mia Carmela,
cercherò di darti la parte migliore del mio cuore, espressa nelle più
dolci, nelle più care parole.
Io sto bene, e la sera mi diverto con tutti gli altri ufficiali, cantando
e ridendo per le strade. Sono gli ultimi canti, le ultime risa. Addio
Carmela, stai sempre bene, voglimi tanto bene, ricordami.
Ti mando un bacio lungo, caldo, affettuosissimo.
Tuo Carlo
Lettera dal fronte del Sottotenente di Fanteria Aldo Ravasini
Caduto su San Michele il 25 ottobre 1915
Dal vano della mia fossa s’apre vasto e sconsolato, tutto vallette
e valloni circolari che appaiono quali anfiteatri in rovina, un
paesaggio triste che sembra fatto per un cimitero.
Gli eventi umani hanno pensato a renderlo effettivamente tale, e
qua e là, composta da una tarda e rustica pietà, sorge una misera
croce. Qualche alberello isolato si profila sulla solitudine levando al
cielo in un atto di sconforto le povere fronde inaridite e stroncate
dal soffio caldo di qualche granata. La guerra ha lasciato qui tutti i
suoi segni. In questo luogo, tutte le distruzioni sono passate. Il suolo
è sconvolto, bruciacchiato dalle tempeste di acciaio e di piombo
che i duelli delle artiglierie vi hanno scaglionato: ogni passo è
una buca e un frammento di granata, e un seminato di pietre e
di schegge. Qualche cadavere che la putrefazione ha impedito di
seppellire, rimane irrigidito negli atteggiamenti più strani della
morte, mentre un vespaio immondo di mosche lubriche difforma
l’ultima veste.
Qualche volo basso di rondini solca come una gramaglia questo
disperso paesaggio dove nulla più resta se non l’opera dell’insidia
umana.
Un trinceramento lontano e abbandonato chiude l’orizzonte come
un bastione antico in rovina, e accresce con la sua tinta cupa
questo aspetto sconsolato che stringe l’animo come uno sgomento.
Anche il cielo è triste, se pure è sereno. Il sole avvolge le cose di
una luce grigia, incerta, falsa.
Ho vent’anni oggi (oh, mamma, mamma mia!) e non avresti certo
pensato, mamma, vent’anni or sono, che come oggi mi sarei
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dovuto trovare in questo altopiano che chiamerei della morte e
che resterà sacro alle memorie del nostro popolo. Passo il giorno
che segna il fiore della vita mentre nell’aria è tutta una sinfonia
di sibili, e dalla terra s’innalzano con uno scoppio formidabile
immense trombe di terra e di pietre!...
Vicino a me un soldatino della mia città esclama: «Chil t... ed
chi todesch, i nem lasson miga portar el magner, i continued a
strombasser ed col pass chi...»
Infatti, la corvée del rancio non può funzionare perché non si fida,
dicono i napoletani, a salire.
(Pam! Pam! Pum! Tra! Pra! Pah!)
«Fermala con la man, veh! Fag vent col bonet!» sono le solite
esclamazioni, vedendo che gli uomini del rancio arrivano, fra una
selva di granate, di piena corsa.
Nel pericolo v’è sempre il lato comico! «Ien senza creanza chi
todesch!» gridano correndo i portatori del rancio.
Quando tuona il nostro cannone è come se tu sentissi battere
un’immensa grancassa di colpi di un ciclopico ariete spinto da
un motore elettrico. Quando invece romba l’artiglieria nemica,
è come se nell’aria passassero delle ruote gigantesche, invisibili,
vertiginose, è come se passasse una locomotiva in corsa. I nostri
soldati l’accompagnano con questa esclamazione: «Senta v’è che
rodei! Senta là che anguria!» Quando poi passa qualche frammento
tu odi come il ronzio spaventoso di qualche insetto gigantesco e i
miei ragazzi dicono «Senta là che galavròn!»
Lettera dal fronte del Sottotenente dei Bersaglieri Renato Charlet,
irredento
«...ho appena vent’anni e ne ho già provate più di uno di 80. Una
famiglia dispersa come la nostra ne garantisco non si trova in tutto
il mondo. Il 24 febbraio 1915 dovetti abbandonare la mia città
natale (Trieste) perché chiamato sotto le armi austriache. Io, puro
sangue latino, dopo aver combattuto da quando son nato per la
libertà, mi decisi a prendere il volo, come fu. Siamo italiani e non
conosciamo il sacrificio. Nulla è più bello della libertà, ciò che a
me e a tutti i miei fratelli e amici manca».
da Addio alle armi di Ernest Hemingway
Aveva i capelli meravigliosamente belli e a volte stavo sdraiato a
guardarla mentre si faceva le trecce nella luce che entrava dalla
finestra aperta e splendevano perfino nella notte come a volte
splende l’acqua poco prima che sia giorno [...]
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«Sai bene che non amo che te. Non dovrebbe importarti se
qualcuno mi ha amata». «Invece m’importa».
«Non dovresti essere geloso di qualcuno che è morto, mentre tu
hai tutto». [...]
Se la gente porta tanto coraggio in questo mondo, il mondo deve
ucciderla per spezzarla, così naturalmente la uccide. Il mondo
spezza tutti quanti e poi molti sono forti nei punti spezzati. Ma
quelli che non spezza li uccide. Uccide imparzialmente i molto
buoni e i molto gentili e i molto coraggiosi. Se non siete fra questi
potete essere certi che ucciderà anche voi, ma non avrà una
particolare premura [...]
«Le piacerebbe vivere dopo la morte?»
«Dipenderebbe dalla vita. Questa vita è molto divertente. Mi
piacerebbe vivere per sempre». «Lei è saggio».
«No. È il grande inganno: la saggezza dei vecchi. Non diventano
saggi. Diventano attenti».
da Le scarpe al sole di Paolo Monelli
Allarme notturno. Parto con il plotone speciale per rinforzo alla
compagnia di fanteria che sta sopra Roncegno. Il plotone speciale
raccoglie quei pochi soldati che non sono in licenza: al resto della
compagnia hanno dato il rompete le righe tutto in una volta. Ed è
formato da cuochi calzolai attendenti scribi portaferiti conducenti,
vecchiotti al di là dei trentacinque, brontoloni ed esigenti come
tutte le cariche speciali quando gli si fa mettere da parte la
specialità. «Andemo, putei», per canzonarli. «Andemo volontari»
risponde Forlin, che ha la più bella pancia fra gli zappatori. E ci
avviamo sotto la pioggia dirotta, nelle tenebre fonde, verso gli
avamposti.
Lettera dal fronte di combattente ignoto
Mamma carissima, pochi minuti prima di andare all’assalto ti
invio il mio pensiero affettuosissimo.
Un fuoco infernale di artiglieria e di bombarde sconvolge nel
momento che ti scrivo tutto il terreno intorno a noi...
Non avevo mai visto tanta rovina.
È terribile, sembra che tutto debba essere inghiottito da un’immensa
fornace.
Eppure, col tuo aiuto, coll’aiuto di Dio, da te fervidamente pregato,
il mio animo è sereno. Farò il mio dovere fino all’ultimo.
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da Trincee di Carlo Salsa
«Ecco com’è la linea». Si accinge a spiegarmi tracciando con
un mozzicone di matita, ripescato nel fondo di una tasca, dei
ghirigori vacillanti su un ritaglio di cartuccia umidiccia. Ecco qua.
Primo plotone, in questa trincea sopraffina che, invece di essere
parallela, è normale alla linea austriaca: non è che un vecchio
camminamento nemico conquistato in qualche modo. «Tutto
quanto il primo plotone insalsicciato in questo budello profondo un
metro; guai a chi, durante il giorno si permette di allungare uno
stinco. Qua, spazio netto, battuto da fucili puntati durante tutta la
notte. Poi, buca del comando di compagnia. A destra, altra zona
scoperta trattata come l’altra. Di là fino a noi, tale d’appostamento
e qualche breve tratto di scavo, protetto da pochi sacchetti a terra e
da molti morti che ci fanno da riparo. Bisogna farci lo stomaco, ai
morti: vedrai, domani, alla luce del sole. Senti che tanfo? (Oh, alla
sera – io non so il perché comincia a salire, alla sera – questo lezzo
ci ammorba e ci sgomenta. Orribile! Oh! Orribile!) Ebbene, anche
qui, sotto questi sacchetti, c’è una carcassa di ungherese, conficcata
nel fango. Che devo fare? Toglierla? Impossibile. Ci dormo su».
da Giornale di Guerra e di Prigionia di Carlo Emilio Gadda
Mi par d’essere a Milano, mi par d’essere tra i miei cari, o nello
stesso loro animo, nell’intimo del loro sentire; mi pare di esser
loro, in altre parole.
E di leggere la prima notizia della disfatta di Tolmino: e di leggere
le seconde notizie, non più temperate da speranza.
«Avanzano, li hanno lasciati passare.
I nostri figli, i nostri fratelli li hanno lasciati passare.
Ed erano pur ieri pieni di fede e di vita.
Ma, dunque, anche il loro vantato coraggio non è nulla, di fronte ai
tedeschi; si piegano come bambini, si terrorizzano al solo apparire
dell’elmetto nemico.
Che sarà di noi, delle nostre case, delle nostre persone, della nostra
vita?»
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Giuseppe Ungaretti
Fratelli
Di che reggimento siete
fratelli?
Parola tremante
nella notte
Foglia appena nata
nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità
Fratelli
San Martino del Carso
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
Ma nel cuore
nessuna croce manca
È il mio cuore
il paese più straziato
Soldati
Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie
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Costituita nel 1965 a Torino, la Fanfara della Brigata Alpina
Taurinense è attualmente costituita da 34 musicisti di professione
diretti dal Maresciallo Capo Marco Calandri. Il suo repertorio
comprende – oltre a musiche di ordinanza militari – anche brani
sinfonici e leggeri.
Si è esibita al Festival internazionale di musica militare di
Modena e in numerose occasioni ha suonato al Teatro Regio e al
Conservatorio di Torino, all’Auditorium Rai Arturo Toscanini e
all’Auditorium Giovanni Agnelli del Lingotto.
La Fanfara partecipa regolarmente alla sfilata del 2 giugno a Roma,
nel giorno della Festa della Repubblica, e alle Adunate nazionali
degli Alpini. Nel 2006 ha suonato all’inaugurazione e alla chiusura
delle Olimpiadi Invernali di Torino.
Per le celebrazioni del 150º dell’Unità d’Italia ha preparato un
programma di musiche risorgimentali che è stato presentato in
numerose città italiane e al festival MITO SettembreMusica.
Ha all’attivo due registrazioni edite e prodotte dalla casa editrice
Boario di Torino: Legend del 2006 e Voli d’Aquila che vede la
collaborazione di Cecilia Gasdia e Ricky Tognazzi.
Flauto/Ottavino Alessia Deana, Eleonora Burdese
Oboe Elena Miglietta
Fagotto Paola Sales
Clarinetti Mercurio Tromba, Igor Cieri, Emanuele Mariani,
Ivano Mezzoni, Matteo De Damiano, Giuseppe Termini,
Erica Lentini, Cristian Romano
Clarinetto basso Mariano Usai
Sassofoni Daniele Colasanto, Alice Geninatti, Dino Gentile,
Pietro Silistria, Francesco Nuzzo
Corni Massimo Bianco, Vincenzo Scarfò, Mario Scafati,
Paolino Ippolito
Trombe Fabio Citro, Emanuele Di Raimondo, Gabriele Gunetti,
Andrea Bracco
Tromboni Savio Ghiani, Riccardo Savoia, Cristian Magaria
Euphonium Francesco Sacco, Giuseppe d’Arienzo
Tube Massimiliano Vienco, Gian Marco Martinoli
Basso a corde Michele Tiseo
Percussioni Riccardo De Giacomo, Pasquale Vigorito,
Marcello Alipede, Filippo Ingoglia
Timpani Emanuele Giovinazzo
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Il Maresciallo Capo Marco Calandri dal 2009 dirige la Fanfara
della Brigata Alpina Taurinense, in cui precedentemente ha ricoperto
il ruolo di primo trombone svolgendo attività solistica e didattica.
Ha fatto parte della Banda Nazionale dell’Esercito. Collabora con
numerose bande musicali e orchestre di fiati, orchestre sinfoniche
e formazioni cameristiche italiane di rilievo. Laureato a pieni voti
in trombone ed euphonium presso il Conservatorio di Novara, si
è perfezionato con i più noti trombonisti mondiali frequentando
la School of Music presso l’Indiana University di Bloomington.
Attualmente studia direzione e strumentazione per orchestra di
fiati ed è laureando presso la Royal School of Music di Londra.
Luca Occelli è nato a Cuneo nel 1971. Dopo aver studiato
all’Accademia Teatrale “Giovanni Toselli” della sua città, diretta da
Chiara Giordanengo e Michele Viale, ha frequentato la Scuola del
Teatro Stabile di Torino, diretta da Luca Ronconi, diplomandosi
nell’anno scolastico 1994/1995. Ha in seguito lavorato con:
Gruppo della Rocca, Teatro Popolare di Roma, Compagnia Stabile
del Teatro Alfieri, Academia Montis Regalis, Assemblea Teatro,
Compagnia Santibriganti. Ha collaborato inoltre con il musicista
Franco Olivero e con il musicista-drammaturgo Orlando Manfredi.
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Milano Torino unite per il 2015
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