Settembre Musica Torino Milano Festival Internazionale della Musica 04_ 21 settembre 2014 Ottava edizione Torino Piccolo Regio Giacomo Puccini La Grande Guerra Domenica 07.IX.2014 ore 17 Ta-pum, suoni e parole della Grande Guerra Fanfara della Brigata Alpina Taurinense Maresciallo Capo Marco Calandri direttore Luca Occelli voce recitante Un progetto di Realizzato da Con il sostegno di I Partner del Festival Sponsor Media partner Partner Istituzionale Partner Istituzionale Sponsor tecnici Giovanni Gaeta La leggenda del Piave (arrangiamento di Marco Calandri) Generale Armando Diaz Bollettino della Vittoria (lettura) Rievocazione della Battaglia del 1915 (lettura) con estratti da Am Isonzo di Alice Schalek Anonimo Montenero (arrangiamento di Marco Calandri) Lettere dal fronte (lettura) Anonimo Addio mia bella, addio (arrangiamento di Fulvio Creux) Marco Calandri Estratti da I lumi di un mondo nuovo Lettere dal fronte (lettura) Nino Rota La Grande Guerra (arrangiamento di Marco Calandri) Lettere dal fronte (lettura) Columbro Arona Le campane di San Giusto (arrangiamento di Fulvio Creux) Ernest Hemingway Estratti da Addio alle armi (lettura) Mario Nascimbene Addio alle armi (arrangiamento di Paolo Mazza) Paolo Monelli Estratti da Le scarpe al sole (lettura) Lettere dal fronte (lettura) Davide Boario Oltre l’Apocalisse Carlo Salsa Estratti da Trincee (lettura) Fulvio Creux Echi di trincea Carlo Emilio Gadda Estratti da Giornale di Guerra e di Prigionia (lettura) Giuseppe Ungaretti Fratelli, San Martino del Carso, Soldati (lettura) Goffredo Mameli/Michele Novaro Canto degli italiani (arrangiamento di Fulvio Creux) Fanfara della Brigata Alpina Taurinense Maresciallo Capo Marco Calandri, direttore Luca Occelli, voce recitante In collaborazione con Brigata Alpina Taurinense dell’Esercito 3 “Addio, mia bella, addio / l’armata se ne va”. È il febbraio del 1859 quando sul Lago Maggiore, dal ponte del vapore che ha imbarcato i soldati del re Vittorio Emanuele II ormai prossimi a muovere guerra all’Austria, si alza quel coro. Al canto dei piemontesi, dei lombardi, dei liguri, dei toscani e degli emiliani, dei veneti e dei siciliani, fa eco il rullare dei tamburi della Guardia Nazionale di Pallanza. Antonio Fogazzaro lo racconta mirabilmente nelle ultime pagine di Piccolo mondo antico, uno dei romanzi più struggenti della letteratura italiana, consacrando il testo dell’avvocato fiorentino Carlo Alberto Bosi a colonna sonora del Risorgimento. Scritta in pochi minuti, al tavolino di un caffè, per onorare i volontari toscani del 1848, Addio, mia bella, addio, che in verità s’intitolava Il volontario parte per la guerra dell’indipendenza, ebbe una larga diffusione. Così come un grande successo riscosse La bella Gigogin, in particolare tra i Mille di Garibaldi. C’è in proposito una testimonianza precisa di Giuseppe Cesare Abba, volontario e memorialista garibaldino. Nel suo libro Da Quarto al Volturno ricorda che durante la marcia delle camicie rosse verso Palermo, a un certo punto, Garibaldi «all’improvviso comparve sulla strada e gridò con voce sonora: Avanti, ragazzi, non c’è tempo da perdere. A quelle parole, tutti i Mille saltarono su come un uomo solo e ricomposero le file, e ripigliarono la faticosa marcia, e il lieto ritornello Daghela avanti un passo / delizia del mio cuore, al quale una quarantina di voci toscane intrecciava allegramente il ritornello livornese: Bravo, bimbo bravo, / trallalera, lallera, lera, mentre Bixio, bestemmiando in tutti i dialetti d’Italia tornava di galoppo in testa alla sua compagnia». Era stata suonata al Teatro Carcano di Milano dalla Banda Civica, nella sera di Capodanno del 1859. Composta su un testo di anonimo da Paolo Giorza, morto in miseria negli Stati Uniti dove sarebbe emigrato, quella notte venne replicata più volte per volontà del pubblico entusiasta e poi cantata da una folla enorme, alle quattro del mattino successivo, sotto le finestre del palazzo del viceré austriaco. Insieme al Canto degli Italiani di Goffredo Mameli, il futuro inno nazionale che Michele Novaro musicò a Torino, e all’Inno a Giuseppe Garibaldi di Luigi Mercantini e Alessio Olivieri, forse il più amato fino agli inizi del Novecento, Addio, mia bella, addio e La bella Gigogin inaugurano la canzone patriottica italiana. Pur avendo visto irrompere sulla scena i ceti popolari, almeno sul fronte dei garibaldini e dei mazziniani, il Risorgimento fu tuttavia essenzialmente un’opera di minoranze; e dopo la proclamazione dell’Unità venne subito lacerato, e tradito nei suoi valori, dalla frattura fra il Nord e il Sud dell’Italia, culminata nella lunga guerra al brigantaggio. L’Italia era stata fatta, per dirla con le parole di Massimo d’Azeglio, ma non gli Italiani. Pertanto non potevano 4 nascere quelli che lo storico Mario Isnenghi definisce, a proposito dell’inno A Tripoli, i canti che “devono riuscire a mobilitare i popoli”. Non si era arrivati, insomma, se non parzialmente con il melodramma verdiano e con certe arie di carattere regionale, alla “canzone che sanno tutti”, ossia la canzone, per citare Emilio Franzina, un altro storico, che veicola un “sentimento nazionale diffuso”. Tutto ciò potrà avvenire, in parte, con l’affermarsi dei canti politici e di protesta, da quelli anarchici a quelli socialisti, quindi con le guerre nazionali: la campagna di Libia, intanto, e soprattutto la Grande Guerra, che sancirà la mobilitazione (e la carneficina) di massa. Sarà però una canzone d’amore, ’O surdato ’nnamurato di Cannio e Califano, proprio nel 1915, a ottenere per prima uno straordinario successo in tutto il Paese, unificando i cuori e le nostalgie. Nel 1859, del resto, a dare il tono alla guerra risorgimentale era stata La bella Gigogin: un motivo non espressamente di guerra, anzi d’amore, ma interpretato dalla gente per via di quel ritornello, quel “Daghela avanti un passo”, come un esplicito invito a Vittorio Emanuele II a dichiarare guerra all’Austria. In ogni caso è sul Carso, sull’Adamello, sull’Ortigara, rammenta Franzina, che la nazione reale «sarà forzata ad autoriconoscersi, man mano, nei motivi più marziali, patriottici e plebiscitari de Le campane di San Giusto di Drovetti e Arona (1915), de La leggenda del Piave di E.A. Mario [pseudonimo di Giovanni Gaeta] e de La Canzone del Grappa di Meneghetti e De Bono», risalenti al 1918 e scritti dopo la disfatta di Caporetto, perciò collegati chiaramente “all’estrema difesa” della patria. I canti di guerra, a quel punto, «si daranno naturalmente numerosi e godranno di qui in avanti, specie nelle note versioni alpine e di bivacco», da Bandiera Nera, a Sul cappello, a Sul ponte di Bassano, «d’una immensa popolarità», che si manterrà tale nell’altro grande massacro della Seconda Guerra mondiale. Massimo Novelli 5 Telegramma del generale Diaz a Giovanni Gaeta «Stimatissimo Maestro Gaeta, Lei ha giovato alla riscossa nazionale più di quanto avessi potuto fare io stesso. La vostra leggenda del Piave al fronte è più di un generale!» Bollettino della Vittoria Comando Supremo, 4 novembre 1918, ore 12 La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto l’alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l’Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta. La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso ottobre ed alla quale prendevano parte cinquantuno divisioni italiane, tre britanniche, due francesi, una ceco-slovacca ed un reggimento americano, contro settantatré divisioni austroungariche, è finita. La fulminea e arditissima avanzata del XXIX Corpo d’Armata su Trento, sbarrando le vie della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte a occidente dalle truppe della VII armata e a oriente da quelle della I, VI e IV, ha determinato ieri lo sfacelo totale del fronte avversario. Dal Brenta al Torre l’irresistibile slancio della XII, della VIII, della X armata e delle divisioni di cavalleria, ricaccia sempre più indietro il nemico fuggente. Nella pianura, S.A.R. il Duca d’Aosta avanza rapidamente alla testa della sua invitta III armata, anelante di ritornare sulle posizioni da essa già vittoriosamente conquistate, che mai aveva perdute. L’Esercito Austro-Ungarico è annientato: esso ha subito perdite gravissime nell’accanita resistenza dei primi giorni e nell’inseguimento ha perduto quantità ingentissime di materiale di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i depositi. Ha lasciato finora nelle nostre mani circa trecentomila prigionieri con interi stati maggiori e non meno di cinquemila cannoni. I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza. Il capo di stato maggiore dell’esercito, il generale Diaz Rievocazione della Battaglia del 1915 con estratti da Am Isonzo di Alice Schalek Novantanove anni fa gli Alpini del Terzo Reggimento conquistano con un brillante colpo di mano il Monte Nero, in uno degli episodi più famosi della Grande Guerra. 6 Nella notte senza luna tra il 15 e il 16 Giugno del 1915, sei compagnie dei battaglioni alpini Susa ed Exilles ne assaltano la vetta. La conquista del Monte Nero rientra nei primi piani del Regio Esercito per il raggiungimento della linea dell’Isonzo ed è un’operazione che viene affidata agli Alpini del IV corpo d’armata. Gli ordini son chiari: arrampicarsi, stare sotto, non perdere un solo passo per non perdere contatto, silenzio assoluto, non tossire, non chiamarsi neppure sottovoce e attenzione a non smuovere sassi. La manovra avviene su due fianchi: mentre gli Alpini del Susa iniziano la salita della cresta nord, tre compagnie dell’Exilles attaccano il versante meridionale, approfittando del buio e della nebbia, dopo tre ore di marcia e scalate giungono in prossimità dei primi trinceramenti austriaci e partono all’assalto della cima. Gli Alpini alle 3:30 si avvicinano silenziosamente alle posizioni austriache. Alle 4:45 dopo aspri combattimenti alla baionetta, travolgono ogni resistenza e piantano il tricolore sulla vetta. Nel 1916 la giornalista viennese Alice Schalek – una delle prime donne corrispondenti dal fronte – è inviata di guerra sull’Isonzo e lì raccoglie, tra i soldati austro-ungarici, testimonianze sull’impresa del Monte Nero, tutte concordi nel rendere onore alle penne nere italiane. Narra infatti la Schalek: «Gli alpini avevano superato in arrampicata notturna la parete del Monte Nero di duemila metri di dislivello, [...] completamente equipaggiati e in piena vista vennero su senza sentiero [...]. Quando si parla di questo brillante attacco, che nella nostra storia della guerra viene registrato apertamente come un successo del nemico, ognuno aggiunge in fretta: è stato un capolavoro, giù il cappello davanti gli Alpini». Lettera dal fronte del Tenente Carlo Mazzucchi del 210º Reggimento di Fanteria Caduto sul Carso il 16 giugno 1917 Carmela, gli esami sono finiti e naturalmente superati. Non ho chiesto e non chiedo la licenza perché sembra prossima l’azione e non vorrei che si credesse ch’io rifugga dal primo combattimento. Anzi io lo desidero, questo primo battesimo di sangue, e rinuncio alla licenza. Pur avendo finito il corso, continuiamo ancora l’istruzione anzi ora è peggio di prima, perché s’inizia l’istruzione alle cinque e mezza ed io, non volendo disturbare il mio attendente, e dall’altra parte non volendo mancare alla puntualità, non vado a letto la notte. Vado a casa tardi, poi leggo, fumo, scrivo, oppure sto alla finestra ad osservare gli scoppi delle granate sul Carso o i fasci luminosissimi di proiettori austriaci, o, come è avvenuto in queste due ultime 7 sere, ammirare l’incursione degli aereoplani austriaci che hanno lasciato cadere una trentina di bombe mentre numerose batterie antiaeree facevano un fuoco d’inferno per impedirne l’avanzata in territorio italiano. Nelle ore calde, poi, schiaccio un pisolino. Questa è l’ultima mia lettera che ti mando da Campolongo; forse sarà proprio anche l’ultima. Appena al Reggimento ti scriverò ancora, ed in quella ti darò l’ultimo addio, o mia Carmela, cercherò di darti la parte migliore del mio cuore, espressa nelle più dolci, nelle più care parole. Io sto bene, e la sera mi diverto con tutti gli altri ufficiali, cantando e ridendo per le strade. Sono gli ultimi canti, le ultime risa. Addio Carmela, stai sempre bene, voglimi tanto bene, ricordami. Ti mando un bacio lungo, caldo, affettuosissimo. Tuo Carlo Lettera dal fronte del Sottotenente di Fanteria Aldo Ravasini Caduto su San Michele il 25 ottobre 1915 Dal vano della mia fossa s’apre vasto e sconsolato, tutto vallette e valloni circolari che appaiono quali anfiteatri in rovina, un paesaggio triste che sembra fatto per un cimitero. Gli eventi umani hanno pensato a renderlo effettivamente tale, e qua e là, composta da una tarda e rustica pietà, sorge una misera croce. Qualche alberello isolato si profila sulla solitudine levando al cielo in un atto di sconforto le povere fronde inaridite e stroncate dal soffio caldo di qualche granata. La guerra ha lasciato qui tutti i suoi segni. In questo luogo, tutte le distruzioni sono passate. Il suolo è sconvolto, bruciacchiato dalle tempeste di acciaio e di piombo che i duelli delle artiglierie vi hanno scaglionato: ogni passo è una buca e un frammento di granata, e un seminato di pietre e di schegge. Qualche cadavere che la putrefazione ha impedito di seppellire, rimane irrigidito negli atteggiamenti più strani della morte, mentre un vespaio immondo di mosche lubriche difforma l’ultima veste. Qualche volo basso di rondini solca come una gramaglia questo disperso paesaggio dove nulla più resta se non l’opera dell’insidia umana. Un trinceramento lontano e abbandonato chiude l’orizzonte come un bastione antico in rovina, e accresce con la sua tinta cupa questo aspetto sconsolato che stringe l’animo come uno sgomento. Anche il cielo è triste, se pure è sereno. Il sole avvolge le cose di una luce grigia, incerta, falsa. Ho vent’anni oggi (oh, mamma, mamma mia!) e non avresti certo pensato, mamma, vent’anni or sono, che come oggi mi sarei 8 dovuto trovare in questo altopiano che chiamerei della morte e che resterà sacro alle memorie del nostro popolo. Passo il giorno che segna il fiore della vita mentre nell’aria è tutta una sinfonia di sibili, e dalla terra s’innalzano con uno scoppio formidabile immense trombe di terra e di pietre!... Vicino a me un soldatino della mia città esclama: «Chil t... ed chi todesch, i nem lasson miga portar el magner, i continued a strombasser ed col pass chi...» Infatti, la corvée del rancio non può funzionare perché non si fida, dicono i napoletani, a salire. (Pam! Pam! Pum! Tra! Pra! Pah!) «Fermala con la man, veh! Fag vent col bonet!» sono le solite esclamazioni, vedendo che gli uomini del rancio arrivano, fra una selva di granate, di piena corsa. Nel pericolo v’è sempre il lato comico! «Ien senza creanza chi todesch!» gridano correndo i portatori del rancio. Quando tuona il nostro cannone è come se tu sentissi battere un’immensa grancassa di colpi di un ciclopico ariete spinto da un motore elettrico. Quando invece romba l’artiglieria nemica, è come se nell’aria passassero delle ruote gigantesche, invisibili, vertiginose, è come se passasse una locomotiva in corsa. I nostri soldati l’accompagnano con questa esclamazione: «Senta v’è che rodei! Senta là che anguria!» Quando poi passa qualche frammento tu odi come il ronzio spaventoso di qualche insetto gigantesco e i miei ragazzi dicono «Senta là che galavròn!» Lettera dal fronte del Sottotenente dei Bersaglieri Renato Charlet, irredento «...ho appena vent’anni e ne ho già provate più di uno di 80. Una famiglia dispersa come la nostra ne garantisco non si trova in tutto il mondo. Il 24 febbraio 1915 dovetti abbandonare la mia città natale (Trieste) perché chiamato sotto le armi austriache. Io, puro sangue latino, dopo aver combattuto da quando son nato per la libertà, mi decisi a prendere il volo, come fu. Siamo italiani e non conosciamo il sacrificio. Nulla è più bello della libertà, ciò che a me e a tutti i miei fratelli e amici manca». da Addio alle armi di Ernest Hemingway Aveva i capelli meravigliosamente belli e a volte stavo sdraiato a guardarla mentre si faceva le trecce nella luce che entrava dalla finestra aperta e splendevano perfino nella notte come a volte splende l’acqua poco prima che sia giorno [...] 9 «Sai bene che non amo che te. Non dovrebbe importarti se qualcuno mi ha amata». «Invece m’importa». «Non dovresti essere geloso di qualcuno che è morto, mentre tu hai tutto». [...] Se la gente porta tanto coraggio in questo mondo, il mondo deve ucciderla per spezzarla, così naturalmente la uccide. Il mondo spezza tutti quanti e poi molti sono forti nei punti spezzati. Ma quelli che non spezza li uccide. Uccide imparzialmente i molto buoni e i molto gentili e i molto coraggiosi. Se non siete fra questi potete essere certi che ucciderà anche voi, ma non avrà una particolare premura [...] «Le piacerebbe vivere dopo la morte?» «Dipenderebbe dalla vita. Questa vita è molto divertente. Mi piacerebbe vivere per sempre». «Lei è saggio». «No. È il grande inganno: la saggezza dei vecchi. Non diventano saggi. Diventano attenti». da Le scarpe al sole di Paolo Monelli Allarme notturno. Parto con il plotone speciale per rinforzo alla compagnia di fanteria che sta sopra Roncegno. Il plotone speciale raccoglie quei pochi soldati che non sono in licenza: al resto della compagnia hanno dato il rompete le righe tutto in una volta. Ed è formato da cuochi calzolai attendenti scribi portaferiti conducenti, vecchiotti al di là dei trentacinque, brontoloni ed esigenti come tutte le cariche speciali quando gli si fa mettere da parte la specialità. «Andemo, putei», per canzonarli. «Andemo volontari» risponde Forlin, che ha la più bella pancia fra gli zappatori. E ci avviamo sotto la pioggia dirotta, nelle tenebre fonde, verso gli avamposti. Lettera dal fronte di combattente ignoto Mamma carissima, pochi minuti prima di andare all’assalto ti invio il mio pensiero affettuosissimo. Un fuoco infernale di artiglieria e di bombarde sconvolge nel momento che ti scrivo tutto il terreno intorno a noi... Non avevo mai visto tanta rovina. È terribile, sembra che tutto debba essere inghiottito da un’immensa fornace. Eppure, col tuo aiuto, coll’aiuto di Dio, da te fervidamente pregato, il mio animo è sereno. Farò il mio dovere fino all’ultimo. 10 da Trincee di Carlo Salsa «Ecco com’è la linea». Si accinge a spiegarmi tracciando con un mozzicone di matita, ripescato nel fondo di una tasca, dei ghirigori vacillanti su un ritaglio di cartuccia umidiccia. Ecco qua. Primo plotone, in questa trincea sopraffina che, invece di essere parallela, è normale alla linea austriaca: non è che un vecchio camminamento nemico conquistato in qualche modo. «Tutto quanto il primo plotone insalsicciato in questo budello profondo un metro; guai a chi, durante il giorno si permette di allungare uno stinco. Qua, spazio netto, battuto da fucili puntati durante tutta la notte. Poi, buca del comando di compagnia. A destra, altra zona scoperta trattata come l’altra. Di là fino a noi, tale d’appostamento e qualche breve tratto di scavo, protetto da pochi sacchetti a terra e da molti morti che ci fanno da riparo. Bisogna farci lo stomaco, ai morti: vedrai, domani, alla luce del sole. Senti che tanfo? (Oh, alla sera – io non so il perché comincia a salire, alla sera – questo lezzo ci ammorba e ci sgomenta. Orribile! Oh! Orribile!) Ebbene, anche qui, sotto questi sacchetti, c’è una carcassa di ungherese, conficcata nel fango. Che devo fare? Toglierla? Impossibile. Ci dormo su». da Giornale di Guerra e di Prigionia di Carlo Emilio Gadda Mi par d’essere a Milano, mi par d’essere tra i miei cari, o nello stesso loro animo, nell’intimo del loro sentire; mi pare di esser loro, in altre parole. E di leggere la prima notizia della disfatta di Tolmino: e di leggere le seconde notizie, non più temperate da speranza. «Avanzano, li hanno lasciati passare. I nostri figli, i nostri fratelli li hanno lasciati passare. Ed erano pur ieri pieni di fede e di vita. Ma, dunque, anche il loro vantato coraggio non è nulla, di fronte ai tedeschi; si piegano come bambini, si terrorizzano al solo apparire dell’elmetto nemico. Che sarà di noi, delle nostre case, delle nostre persone, della nostra vita?» 11 Giuseppe Ungaretti Fratelli Di che reggimento siete fratelli? Parola tremante nella notte Foglia appena nata nell’aria spasimante involontaria rivolta dell’uomo presente alla sua fragilità Fratelli San Martino del Carso Di queste case non è rimasto che qualche brandello di muro Di tanti che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto Ma nel cuore nessuna croce manca È il mio cuore il paese più straziato Soldati Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie 12 Costituita nel 1965 a Torino, la Fanfara della Brigata Alpina Taurinense è attualmente costituita da 34 musicisti di professione diretti dal Maresciallo Capo Marco Calandri. Il suo repertorio comprende – oltre a musiche di ordinanza militari – anche brani sinfonici e leggeri. Si è esibita al Festival internazionale di musica militare di Modena e in numerose occasioni ha suonato al Teatro Regio e al Conservatorio di Torino, all’Auditorium Rai Arturo Toscanini e all’Auditorium Giovanni Agnelli del Lingotto. La Fanfara partecipa regolarmente alla sfilata del 2 giugno a Roma, nel giorno della Festa della Repubblica, e alle Adunate nazionali degli Alpini. Nel 2006 ha suonato all’inaugurazione e alla chiusura delle Olimpiadi Invernali di Torino. Per le celebrazioni del 150º dell’Unità d’Italia ha preparato un programma di musiche risorgimentali che è stato presentato in numerose città italiane e al festival MITO SettembreMusica. Ha all’attivo due registrazioni edite e prodotte dalla casa editrice Boario di Torino: Legend del 2006 e Voli d’Aquila che vede la collaborazione di Cecilia Gasdia e Ricky Tognazzi. Flauto/Ottavino Alessia Deana, Eleonora Burdese Oboe Elena Miglietta Fagotto Paola Sales Clarinetti Mercurio Tromba, Igor Cieri, Emanuele Mariani, Ivano Mezzoni, Matteo De Damiano, Giuseppe Termini, Erica Lentini, Cristian Romano Clarinetto basso Mariano Usai Sassofoni Daniele Colasanto, Alice Geninatti, Dino Gentile, Pietro Silistria, Francesco Nuzzo Corni Massimo Bianco, Vincenzo Scarfò, Mario Scafati, Paolino Ippolito Trombe Fabio Citro, Emanuele Di Raimondo, Gabriele Gunetti, Andrea Bracco Tromboni Savio Ghiani, Riccardo Savoia, Cristian Magaria Euphonium Francesco Sacco, Giuseppe d’Arienzo Tube Massimiliano Vienco, Gian Marco Martinoli Basso a corde Michele Tiseo Percussioni Riccardo De Giacomo, Pasquale Vigorito, Marcello Alipede, Filippo Ingoglia Timpani Emanuele Giovinazzo 13 Il Maresciallo Capo Marco Calandri dal 2009 dirige la Fanfara della Brigata Alpina Taurinense, in cui precedentemente ha ricoperto il ruolo di primo trombone svolgendo attività solistica e didattica. Ha fatto parte della Banda Nazionale dell’Esercito. Collabora con numerose bande musicali e orchestre di fiati, orchestre sinfoniche e formazioni cameristiche italiane di rilievo. Laureato a pieni voti in trombone ed euphonium presso il Conservatorio di Novara, si è perfezionato con i più noti trombonisti mondiali frequentando la School of Music presso l’Indiana University di Bloomington. Attualmente studia direzione e strumentazione per orchestra di fiati ed è laureando presso la Royal School of Music di Londra. Luca Occelli è nato a Cuneo nel 1971. Dopo aver studiato all’Accademia Teatrale “Giovanni Toselli” della sua città, diretta da Chiara Giordanengo e Michele Viale, ha frequentato la Scuola del Teatro Stabile di Torino, diretta da Luca Ronconi, diplomandosi nell’anno scolastico 1994/1995. Ha in seguito lavorato con: Gruppo della Rocca, Teatro Popolare di Roma, Compagnia Stabile del Teatro Alfieri, Academia Montis Regalis, Assemblea Teatro, Compagnia Santibriganti. Ha collaborato inoltre con il musicista Franco Olivero e con il musicista-drammaturgo Orlando Manfredi. In rete · facebook.com/mitosettembremusica.torino · twitter.com/mitotorino · pinterest.com/mitotorino · instagram/mitotorino · #MITO14 Rivedi gli scatti e le immagini del festival · youtube.com/mitosettembremusica · flickr.com/photos/mitosettembremusica 14 Milano Torino unite per il 2015 -1
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