“SI STA COME …”

UTE di ERBA
Anno accademico XXI – 2014-15
LEZIONE INTRODUTTIVA
3 ottobre 2014
“SI STA COME …”
INCIPIT
Il famoso “incipit” della ancora più famosa e breve poesia di Ungaretti, scritta nel 1918,
fa da “incipit” al nostro anno accademico. Come d’abitudine vogliamo introdurci con una
riflessione che cerchi il significato, il valore e il senso del nostro stare qui, del nostro
camminare insieme, che ha come suo obiettivo principale la ricerca – diversamente non
sarebbe “Università” – di un modo di essere e di vivere in questo momento e in questo
luogo, capace di diventare significativo sempre per chi ci segue e ha da raccogliere un
patrimonio di valore.
Quest’anno vogliamo anche noi “starci” secondo l’indicazione “spirituale” del poeta e
starci secondo quella modalità che gli indica in un preciso momento e contesto del suo
vivere, riconoscendo che il “come” dà un certo spessore e gusto al vivere stesso
LA GRANDE GUERRA
La riflessione introduttiva di quest’anno non può prescindere dal richiamo alla memoria
dell’evento che sta al centro del nostro cammino accademico: quella che viene chiamata
la “Grande Guerra” non fu soltanto uno dei tanti conflitti di cui è costellata la storia
umana, ma è stata vissuta come il punto di arrivo del percorso di Paesi, che nella storia
di questo continente avrebbero dovuto cercare - come cercano faticosamente di fare oggi di perseguire un denominatore comune di un comune sentire.
Il conflitto non risolse nulla e si aggravò con lo scontro successivo, che portò questo
continente sull’orlo del baratro distruttore.
E tuttavia, anche dentro questo evento, è maturata una riflessione che non dobbiamo
trascurare.
Anche perché è il frutto di un tremendo olocausto, che ha visto la distruzione di una
generazione. E in qualcuno ha fatto emergere uno spirito nuovo, che si sarebbe dovuto
coltivare per evitare guai peggiori, per evitare ancora oggi un imbarbarimento del vivere,
che fa pensare alla soluzione di forza come la sola che può dipanare i problemi.
Sono dell’avviso che si debbano leggere con maggior attenzione i testi, scritti in occasione
di quell’evento, perché lì molti hanno dato il meglio di sé, e ancora oggi essi consentono
di “leggere” quel fatto in una chiave diversa rispetto ai soliti resoconti dei bollettini di
guerra o degli episodi che vogliono far pensare all’eroismo umano come ad una azione di
forza, in cui si riscontra la bravura o la bravata.
E vorrei, a questo proposito, iniziare l’anno con questa riflessione che prende spunto
dalla poesia di Ungaretti, SOLDATI, che non voglio qui commentare per parlare della
guerra, quanto piuttosto parlarne per indicare una modalità concreta con cui le varie
letture sull’argomento e queste lezioni, che spero suggeriscano un più ampio lavoro di
ricerca, possono ancora oggi suscitare il nostro impegno nel percorso che abbiamo
davanti, non solo qui, ma anche in quel nostro “metterci e rimetterci” in società, perché
questa proceda, si incammini su una strada che tutti assumiamo con la giusta passione.
Da tanto sostengo che questo nostro impegno scolastico deve servire alla nostra continua
“missione” di persone che, lasciando una eredità, frutto di lavoro, fatica e sacrifici,
consegnano “beni” ben più grandi e duraturi di quelli materiali.
1
LETTURA DELLA POESIA
Mi è già capitato di fare una analisi più attenta di questo breve testo, che, ad ogni
lettura, appare sempre più ricco di contenuti nei messaggi che comunica, e di forme nelle
sue modalità espressive, perché, pur nella sua povertà e brevità di termini, crea
suggestioni molteplici, come succede per ogni vero capolavoro.
E di un autentico gioiello di poesia si tratta, pur nella sua essenzialità lessicale e nella
sua semplicità di immagini. Qui, insieme con la comunicazione di un forte disagio
esistenziale, come lo possono provare dei soldati al fronte - in quel preciso fronte di
guerra e in quei lunghi e snervanti periodi di contrapposizione armata, di drammatici
quanto inutili attacchi e di logoranti quanto improduttive resistenze - c’è la denuncia di
quel “male di vivere”, che è stata per tutti la guerra, quella particolare guerra.
Analizzandola nel dettaglio, scomponendo ogni termine, sia sotto il profilo lessicale, sia
sotto quello sintattico, sia sotto quello metrico, si possono cogliere i tanti messaggi che
Ungaretti vuol lasciare circa quanto egli stesso ha provato, facendosi così interprete in
modo singolare di uno stato d’animo e di uno spirito che tutti hanno sperimentato senza
riuscire a far emergere questa acuta denuncia fatta di poche parole dette senza retorica.
SOLDATI
(Bosco di Courton, luglio 1918)
SI STA COME
D’AUTUNNO
SUGLI ALBERI
LE FOGLIE
ANALISI DELLA POESIA
I versi sciolti della poesia moderna fanno pensare che il poeta non si preoccupi affatto
dell’andamento “espressivo” del suo testo, che deve risultare poetico proprio dal
susseguirsi preciso di sillabe toniche e atone. Eppure c’è anche qui un susseguirsi di toni
musicali, di accenti, di quantità sillabiche che fanno emergere un modo espressivo a
servizio del messaggio che si vuol dare, per cui la forma è sostanziale al contenuto è il
messaggio è ancora più rafforzato di temi e di spunti di riflessione, anche per la maniera
con cui il poeta propone il testo. In questo caso una diversa disposizione degli elementi,
parole e versi, non può produrre lo stesso messaggio che il poeta ha intenzione di offrire.
Ungaretti ci offre una semplice frase, composta di due proposizioni, in cui la principale
dà in modo assolutamente essenziale la situazione dei soldati (di cui si parla solo nel
titolo), con l’annotazione di una stabilità, poi precisata come instabile, e nel contempo di
una condizione talmente spersonalizzata, per cui il soggetto non compare: di chi si parli
neppur si dice, lasciando intendere che i soldati, appunto perché numeri e carne da
macello, non contano affatto e neppure devono comparire in quella trincea che li
seppellisce.
La subordinata, che in realtà vuole istituire un paragone in perfetto parallelismo, perché
le due situazioni delineate (quella dei soldati e quella delle foglie) sono simili, in parallelo
fra loro, dipinge, senza indulgere a troppo decorativismo, le foglie sugli alberi nella
stagione autunnale, facendo evocare così, a chi legge, una situazione che da un momento
all’altro può … precipitare.
Le coordinate spazio-temporali sono date nella loro essenzialità e, fuori da queste
coordinate, vengono poste le foglie, che ancora vengono immaginate sugli alberi, ma già
pronte a staccarsi. Di fatto il poeta elide il verbo, che deve essere supposto simile a quello
della principale, in cui il soggetto manca, mentre a questo soggetto (le foglie) manca la
concreta esplicitazione del verbo, il quale viene taciuto, appunto perché la condizione
delle foglie è di estrema precarietà e instabilità.
2
La stessa lettura che deve rispettare la metrica e dunque gli accenti ha un andamento
ondeggiante, quasi a voler riprodurre la condizione della foglia, che finirà per cadere
volteggiando: si alternano versi, dove, ad ogni ultimo accento tonico, dobbiamo poi avere
una e una sillaba sola, come vuole la regola della poesia italiana; e qui al primo e al terzo
verso, dopo l’accento tonico, si trovano due sillabe che vanno lette come sillabe atone.
Così, da qualunque parte la si voglia leggere, la poesia rende davvero questo senso
frustrante di una condizione esistenziale che vede l’uomo-soldato alla mercé di un
destino, il quale, strappandolo alla vita, lo fa cadere, volteggiando, come la foglia che
muore.
Non c’è acrimonia in questa lettura; non c’è rivendicazione di qualcosa; non c’è condanna
di niente e di nessuno; non c’è alcun senso di disfattismo o di antipatriottismo; non c’è
angoscia o disperazione; non c’è retorica e neppure descrizione neutra e anodina di ciò
che succede al fronte: c’è solo – ed è tutto – lo sgomento di chi vive la sua condizione di
uomo in una realtà amara, dove morte e vita si intrecciano in un permanere continuo
che avvolge tutti, senza distinzione alcuna di ceto o di razza, di età o di grado, senza che
si possa dire di un fronte per negarlo di un altro, perché tutti, pur su fronti avversi,
vivono questa condizione.
In quel poco c’è davvero tutto il dramma esistenziale che si consuma sul fronte, e che poi
continua su altri fronti, anche se le armi tacciono.
Proprio per questo è ancora di viva attualità e come tale è veramente un testo che sa
tanto di “profezia”.
RIFLESSIONE
Analisi del momento attuale
Non è il caso qui di insistere sull’analisi di questa poesia celeberrima.
È semmai opportuno trarre spunto da ciò che vuol dire il poeta e soprattutto dal modo
con cui lo dice, per fare una riflessione che tocchi il nostro operare qui, in questo nostro
lavoro “scolastico”, ma soprattutto culturale, in un momento particolarmente difficile per
tutti.
Oggi è necessario non solo una soluzione tecnica ai problemi economici e politici, ma è
doveroso che ciascuno si renda conto della propria responsabilità, perché dalla sua
stessa coscienza è chiamato ai rispondere ai problemi con quel senso critico che non è
mai velenosa acrimonia, ma è analisi più razionale e meno emotiva e giudizioso impegno
a fare ciascuno la propria parte con autentico senso di sacrificio.
E il sacrificio non è solo soffrire, rinunciare, passare attraverso dolori, fatiche e
contrapposizioni, ma è avvertire che la stessa sacralità della vita, che ci è affidata,
richiede sempre donazione di noi stessi, far la propria parte, cercando il coinvolgimento e
la collaborazione con altri, perché cresca un vero senso sociale.
Il nostro attuale status di persone, che hanno lasciato l’occupazione di un posto
lavorativo, non deve affatto voler dire disimpegno, svagatezza, isolamento, fuga dalla
realtà per riposare. Ciò che abbiamo costruito con fatica, con passione, con vero spirito
di sacrificio, deve essere proseguito anche con il nostro continuo contributo. E in questo
particolare momento c’è bisogno di tante persone che, continuando a sperare, siano in
grado di incoraggiare le nuove generazioni, perché chi ne raccoglie il testimone conduca
la sua battaglia con le proprie vedute, con la propria originalità, ma pur sempre con lo
stesso spirito combattivo che comporta la passione da sé, senza che questa comporti il
far soffrire.
Più leggo e medito il testo di Ungaretti - esso fa riferimento ad un preciso momento
storico sul fronte franco-tedesco nel 1918, quando la guerra sembrava ancora ben lungi
dal risolversi - più mi accorgo che essa non solo denuncia la condizione umana di quel
grave evento, ma coinvolge tutti coloro che si sentono sul fronte di una guerra non
militare, come è la tensione attuale vissuta giorno per giorno in mezzo a tanti motivi di
conflitto e nella prospettiva non rosea di avere davanti un futuro incerto e spesso oscuro.
3
Ancora oggi la sua essenziale ed esistenziale riflessione, vissuta sulla pelle, appare
emblematica per comprendere la fragilità umana, che si sperimenta in ogni condizione e
su nuovi fronti, come possono essere quelli attuali “di una terza guerra … a pezzi”,
secondo la definizione di questa grave ora della storia data dall’attuale Papa, molto
preoccupato circa la continua apertura di conflitti in varie parti del mondo.
Noi dunque vogliamo andare oltre la lettura autobiografica del poeta, che legge il suo
“status” di soldato sul fronte bellico e che lo fa diventare condizione esistenziale di una
intera generazione: proprio perché ci troviamo in presenza di un “vate”, possiamo
pensare che quanto il poeta dice va ben oltre quella contingenza e può divenire la lettura
dell’esistenza che noi pure oggi conduciamo, avendo davanti un futuro molto incerto, e
per questo motivo possiamo esprimere un vivere che spesso sentiamo appesantito.
Analisi della condizione esistenziale
Volendo far comprendere la condizione esistenziale dei soldati nelle trincee, il poeta
sceglie un’immagine che dovrebbe istituire una sorta di paragone alla pari, tra le foglie in
procinto di cadere, ma comunque ancora sugli alberi nella stagione autunnale, e i soldati
che in trincea sono ancora vivi ma con alta probabilità di cadere da un momento all’altro;
e, per loro, questa caduta non è affatto, come quella delle foglie, un dato naturale. Se è
“naturale” morire, e lo è per le foglie in quella stagione, non lo è per i giovani che lasciano
questa terra senza aver portato a termine il loro ciclo di vita.
Il loro cadere poi è “anonimo”: ancora oggi i testi di storia fanno il computo delle vittime e
stilano resoconti fatti di numeri impressionanti, dietro tanti dei quali neppure sappiamo
oggi dare un volto, un nome, il riconoscimento del loro stesso sacrificio. L’uso che il poeta
fa del verbo impersonale lascia intendere che ormai chi combatte nella trincea ha perso
la sua stessa personalità, è ridotto ad un numero che la piastrina può ricordare; e
l’evento stesso della guerra può avere consistenza solo perché è consistente il numero dei
caduti in questa orrenda carneficina.
Se noi oggi ricordiamo quell’evento, lo facciamo pensando alle diverse battaglie, alle
strategie, ai grandi che hanno voluto sotto il profilo politico e militare questi scontri,
lasciando all’ammasso anonimo tutti coloro che in realtà meritano una particolare
menzione, perché hanno davvero sopportato il peso di una simile sciagura. E tutti
costoro sono rimasti spesso come numeri, neppure come nomi! A ciò che essi hanno
vissuto in quelle ore e giorni terrificanti spesso neppure si pensa, anche perché noi
neppure riusciamo ad immaginare ciò che film e filmati possono solo lasciar intuire. Il
poeta, che ne fa parte, può solo trasmettere questo senso di “impersonalità” e soprattutto
quella condizione di precarietà continua e drammatica che ogni soldato avverte restando
nell’inferno della trincea.
Descrivendo tale stato di cose, si potrebbe dire che il poeta coglie, sì, quel momento, ma
la sua missione di “vate” non si esaurisce lì. Per quanto la sua immaginazione parta da
quel preciso contesto storico, egli descrive una condizione umana e non soltanto
contingente: chi sta sulla trincea non è solo il milite ignoto della Prima Guerra Mondiale,
ma è ogni uomo, che pure oggi, in questa “guerra a pezzi” sembra vivere una condizione
davvero precaria ed instabile, uno stato di inquietudine, una amarezza profonda che gli
deriva dal non avvertire il senso del futuro e con esso il senso vero del vivere.
Se proviamo a pensare alla nostra stessa situazione, prendendo spunto da ciò che dice il
poeta, senza troppe forzature, dovremmo dire che è ancora valida l’analisi di quella
condizione di vita, che pure è ben indirizzata: la precarietà ci tocca, ci attanaglia, ci
inquieta, in questo volgere di anni all’insegna non solo di una difficoltà di ordine
economico-finanziario, ma anche di una crisi che si può definire esistenziale, quando
l’incertezza sul futuro mortifica il vivere come tale, toglie la speranza, spegne ogni
residua volontà di continuare. Questo senso di angoscia va colto per poi rispondervi con
la ferma volontà di reagire, in nome anche di coloro che hanno combattuto – e non solo
militarmente – per costruire un futuro, affidato poi a noi e un futuro che noi vogliamo
affidare a chi ci segue.
4
Sullo sfondo del nostro lavoro culturale
Il nostro percorso attuale è in effetti incerto, a tentoni, brancolante, come se ci
mancassero l’obiettivo, i mezzi per procedere, la volontà stessa di non lasciarci abbattere
dal malessere diffuso. Eppure, se i soldati di allora in trincea sono vissuti combattendo,
anche tra la disperazione e la volontà di sopravvivere, non di meno oggi occorre
combattere, non certo per uccidere e prevalere con la forza su altri, ma per recuperare la
fiducia, che va soprattutto rivolta alle persone e a quelli che ci sottentrano nel lavoro, per
ridestare una speranza che non si lascia mortificare dal corto respiro di certe visuali oggi
ridotte a volar basso, a star bene sul presente, e per riaccendere un amore non
riconducibile al solo sentimento momentaneo e istintivo.
Ecco: a noi è chiesto oggi di esprimere in questa nostra provvisorietà una forza
combattiva continua, anche a sapere che il tempo per noi può essere breve: non conta la
brevità quanto piuttosto l’intensità con la quale viviamo per ridare speranza non con
retoriche frasi di circostanza, ma con un “sapere”, che dà il nostro sapore, in cui è
contenuta la nostra esperienza di vita, mai necessariamente normativa per i giovani, e
insieme la nostra riflessione su di essa, per cui successi ed errori, capacità e fragilità
diventano una consegna che è già un valore aggiunto.
Se dobbiamo stare all’immagine del poeta, le foglie - l’unico soggetto concreto di quel
momento di vita, mentre ai soldati è tolta la loro stessa personalità - sono ancora sugli
alberi nella stagione autunnale, anche se a breve dovranno cadere: il loro destino,
espresso nell’ingiallimento del morire, sta proprio nello staccarsi per arrivare a terra dove
pure diventeranno strame che fornisce nuovo nutrimento al futuro rifiorire. La loro
attuale collocazione – il tempo e lo spazio sono le sole coordinate del vivere estremamente
fragile, da cui le foglie sembrano già escluse, proprio per la posizione che esse occupano
nel testo poetico: sono in effetti al termine della poesia e dopo le annotazioni di seguito
del tempo e del luogo – dice che esse sono ancora nel circuito della vita, così come
possiamo essere anche noi – e non solo i soldati sulle trincee – pur “messi a riposo” dopo
tante attività svolte.
C’è ora molto da dare, anche se, forse, non abbiamo molto da fare, perché, pur destinati
a “cadere”, non deve cadere nel vuoto ciò che abbiamo appreso dalla vita e che è
l’espressione di un prolungato nutrimento da far diventare nutrimento da lasciare, anche
se oggi può sembrare sprecato, perché nessuno sembra accorgersi di questo apporto; ben
pochi sembrano apprezzarlo, come è disprezzata la foglia morta sul terreno: è da lì che la
vita continua e proprio grazie a questa trasmissione, a questa testimonianza.
Allora anche questo nostro apporto culturale non è solo un appagamento per sé, non è
solo la soddisfazione che ci prendiamo per recuperare quello che non abbiamo potuto
coltivare prima, ma è continua linfa da prendere all’albero della vita, perché poi diventi
materiale con cui lo stesso ciclo della vita si perpetua.
Se il poeta voleva rappresentare la condizione di vita di quei soldati al fronte e
soprattutto la loro collazione sul fronte estremo, che non è solo quello materiale della
guerra di contrapposizione, oggi noi potremmo leggere la medesima immagine e la
medesima descrizione esistenziale in riferimento a coloro che continuano a “combattere”
sul fronte della vita. Combattendo, non ricorriamo certo alle armi o a modi rudi e violenti
per far valere le nostre idee; cerchiamo piuttosto di far valere, senza imporre, idee che per
noi sono oggi il nostro stesso vissuto. Pur sentendoci come progressivamente collocati in
una condizione che, se non ci fa pensare a breve cadenti o soccombenti, ci fa essere
sempre in comunicazione di vita per chi sottentra al nostro lavoro e soprattutto al nostro
vivere, noi dobbiamo considerare questa nostra posizione come un vero “lancio” simile a
quello della foglia autunnale, per divenire coloro che hanno la responsabilità di
perpetuare il ciclo della vita, anche a dover lasciare tutto.
Vorrei, insomma, che si leggesse questa poesia nel contesto del nostro lavoro culturale di
quest’anno, ben al di là della contingenza centenaria dell’evento sotteso, per cogliere che
una simile lezione di vita, possiamo assumerla noi pure in questo scorcio d’epoca che
vede ben altri conflitti.
5
Ma anche senza dover constatare sull’orizzonte una simile prospettiva reale, noi
dovremmo sentirci investiti dello stesso compito storico di lasciare ancora speranza di
vita, perché il nostro “venir meno” da retrovia, ma non per questo da “soggetti in
rottamazione”, ci deve far avvertiti che, pur nella stagione autunnale della vita, pur nella
prospettiva di un ritiro dal campo, abbiamo ancora quella linfa di vita che va immesso
oggi come lascito di speranza, come patrimonio che si fa investimento produttivo.
E come allora un’intera generazione lasciò il suo vivere sul campo, ma lasciò anche un
vivere da raccogliere – come possiamo cogliere in quelle lettere e testi che ancora oggi
costituiscono un’eredità preziosa troppo spesso oscurata dalla retorica successiva – così
anche oggi la generazione, che ha ereditato un Novecento fatto di guerre folli e inutili in
sé, ma pur sempre momenti decisivi per riscoprire il vero DNA di questa Europa, il suo
umanesimo, deve lasciare, pur sullo sfondo di altri conflitti ancora più disastrosi e
orribili, la sola eredità che ci arricchisce davvero anche ad esigere sacrificio ed anche
“sacrifici umani”.
E l’eredità è quella di un Umanesimo che è esperienza sofferta divenuta riflessione, e
riflessione approfondita sul vissuto di tante persone che ci hanno “messo e rimesso”.
In questa maniera il nostro lavoro qui è tutt’altro che accademia, è tutt’altro che
passatempo, è tutt’altro che arricchimento personale di chi non vuole vedersi dissipare
un acquisto raccolto nel corso della sua esistenza, ma è soprattutto consegna, viva e da
vivi, di qualcosa che può davvero far vivere e rivivere, proprio perché passa dal sacrificio.
È un po’ il mio chiodo fisso in questa riflessione di inizio d’anno per una iniziativa
culturale come questa. E nel contempo vorrei che ogni anno fosse un vero procedere in
quel cammino che non ci fa solo arricchiti di conoscenze ulteriori, ma soprattutto ci fa
diventare protagonisti di una presenza culturale che deve essere viva: le nuove
generazioni non devono avere solo le vestigia del passato nei resti, nelle costruzioni fatte
o nei monumenti della memoria, ma devono avvertire che la storia è immessa in loro
proprio dalla presenza viva di chi, avendo memoria, fa in modo che questa memoria sia
continua presenza e attualità.
Imparare per noi la lezione della storia diventa la maniera più concreta e più fruttuosa di
trasmettere quella memoria, che non può passare né con manuali, né soltanto con
documenti scritti, ma proprio dalla viva voce di chi non solo ha vissuto degli eventi, ma li
ha rivissuti nella propria riflessione e quindi in quella forma di “vaticinio” che è
l’espressione poetica. E lo si ravvisa bene in questo testo emblematico della guerra, che
non è solo evento di battaglie e di strategie di militari, ma è esperienza umana, anche
dolorosa, che viene a noi da chi l’ha vissuto e ne ha fatto una vera esperienza nel
riviverla sotto forma di una riflessione profonda che ne dà il vero senso.
È per noi essenziale diventare testimoni autorevoli, cioè capaci di far crescere la nuova
generazione, perché cresca in essa questo modo di fare memoria, che dà vera attualità,
vera e presente riproposizione di fatti diventati ora sapienza del vivere e alimentati poi da
ciò che ciascuno è in grado di elaborare con la propria sapienza e la propria virtù.
Mi auguro perciò che la stagione autunnale della vita, ancorché destinata a veder cadere
le forze fisiche, sia per tutti veramente fruttuosa, soprattutto nella consegna di quel bene
che è il nostro vissuto valorizzato con la nostra riflessione; al di là della constatazione o
meno che il frutto dato sia davvero raccolto, proprio perché è lasciato cadere
nell’intelligenza e nel cuore di chi ci segue, esso diventa una ricchezza per la pianta che
si spoglia delle sue foglie, senza per questo morire. E la pianta che rimane senza le sue
foglie avvizzite e non ancora carica dei suoi frutti è proprio l’immagine di quella umanità
che nei diversi cicli della storia continua un po’ a morire e comunque sempre a risorgere.
Noi ne siamo i protagonisti, noi ne siamo i testimoni, noi dobbiamo diventare coloro che
consegnano con fiducia e speranza un vivere sempre sofferto e sempre capace di
rinascere!
6