“IL MARCHIO (PARTE TERZA) ”

“IL MARCHIO (PARTE TERZA)”
PROF. GUIDO BEVILACQUA
Università Telematica Pegaso
Il marchio (parte terza)
Indice
1
I SOGGETTI LEGITTIMATI A REGISTRARE UN MARCHIO -------------------------------------------------- 3
2
I NOMI ALTRUI --------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 5
3
LA TUTELA DEL NOME DI CUI ALL’ART. 7 COD. CIV ---------------------------------------------------------- 7
4
LA RATIO DELL’ART. 8/2 C.P.I. ----------------------------------------------------------------------------------------- 8
5
LA FACOLTÀ DEL TITOLARE DEL NOME DI FARNE COMUNQUE USO NELLA PROPRIA DITTA
9
6
I RITRATTI ALTRUI -------------------------------------------------------------------------------------------------------- 10
7
I SEGNI <<NOTORI>> ------------------------------------------------------------------------------------------------------ 11
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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Il marchio (parte terza)
1 I soggetti legittimati a registrare un marchio
Secondo l’art. 19/1 c.p.i. <<può ottenere una registrazione per marchio d’impresa chi lo
utilizzi, o si proponga di utilizzarlo, nella fabbricazione o commercio di prodotti o nella prestazione
di servizi della propria impresa o di imprese di cui abbia il controllo o che ne facciano uso con il
suo consenso>>.
A prima lettura si potrebbe ritenere che così dicendo il legislatore abbia inteso limitare il
novero di coloro che sono legittimati a registrare validamente un marchio, a chi sia attualmente
imprenditore o si proponga di diventarlo. A ben vedere, invece, nel consentire una valida
registrazione anche a chi preveda una utilizzazione del segno da parte di terzi da lui autorizzati (che
ne facciano uso con il suo consenso), il legislatore ha disposto che chiunque, anche chi, appunto,
non sia imprenditore né si proponga di diventarlo, possa validamente registrare un marchio; con il
solo limite della volontà di destinarlo ad essere usato (anche da terzi) appunto come marchio, e non
invece di riservarselo per qualche diversa finalità. Questo limite, tuttavia, non sembra molto
rilevante, sia perché non è facile ipotizzare quale altro scopo la registrazione potrebbe servire se non
quello di un uso esclusivo come marchio, sia perché una volontà diversa da quella di destinare il
segno ad un uso appunto come marchio sarebbe praticamente impossibile da accertare. D’altra parte
in altri luoghi, la legge sembra riservare a determinati soggetti la registrazione di certi segni come
marchi [in particolare all’art. 8 e nella fattispecie di cui all’art. 14/1 c)] a prescindere da qualsiasi
loro intento di farne o di farne fare uso come marchi, e ciò rafforza il convincimento che il limite di
cui si è detto in realtà sia privo di contenuto.
Chiunque, dunque, può in linea di principio validamente registrare un marchio. E nel caso in
cui lo abbia registrato senza il proposito di utilizzarlo e successivamente di fatto non lo utilizzi, la
sola sanzione in cui incorrerà non sarà già quella di una nullità della registrazione in quanto ottenuta
da un soggetto non legittimato, bensì quella della decadenza del marchio per non uso, prevista
all’art. 24 c.p.i.
Anche le amministrazioni dello Stato – aggiunge l’art. 19/3 c.p.i. -, delle Regioni, delle
Provincie e dei Comuni possono ottenere registrazioni di marchio. Mentre, quanto agli stranieri,
l’art. 3 c.p.i. precisa che se costoro abbiano nel territorio dello Stato le imprese da cui provengano i
prodotti o i servizi contraddistinti dal marchio stesso, essi potranno ottenere una valida
registrazione, ed in caso contrario potranno ottenerla se gli Stati ai quali appartengono accordano ai
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cittadini italiani reciprocità di trattamento. Questa ultima norma, peraltro, è sostanzialmente
superata dal fatto che in materia vigono convenzioni internazionali come quella di Unione, che ai
fini anche della registrazione dei marchi equiparano ai cittadini di ciascuno Stato aderente i cd.
ressortissants unionisti, e dal fatto che a questa Convenzione aderiscono tutti gli Stati più
importanti. E ad una cerchia ancora più vasta di Stati, ai fini dell’equiparazione dei loro cittadini
agli italiani, fa riferimento l’art. 3 c.p.i. parlando degli Stati <<facenti parte … dell’Organizzazione
mondiale del commercio>>.
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2 I nomi altrui
Se la regola generale è quella che chiunque possa validamente registrare un marchio, essa
subisce dei limiti in relazione a certe categorie di segni la cui registrazione è, in maggiore o minore
misura, riservata a determinati soggetti o a chi ne riceva l’autorizzazione. Il primo caso che
considereremo è quello dei marchi costituiti da nomi di persona diverso da quello di chi chiede la
registrazione. In questo caso tuttavia una vera e piena limitazione della facoltà di ottenere la
registrazione non esiste, ed è prevista solo una limitazione eventuale.
Al riguardo l’art. 8/2 c.p.i. dice :<<I nomi di persona diversi da quello di chi chiede la
registrazione possono essere registrati come marchi, purché il loro uso non sia tale da ledere la
fama, il credito o il decoro di chi ha diritto di portare tali nomi. L’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi
ha tuttavia la facoltà di subordinare la registrazione al consenso stabilito dal comma 1. In ogni caso,
la registrazione non impedirà, a chi abbia diritto al nome, di farne uso nella ditta da lui prescelta>>.
La norma appena trascritta sembra dunque consentire, in linea di principio, di registrare
come marchio il nome altrui. Il solo limite posto a questa facoltà è espresso dalla frase <<purché il
loro uso non sia tale da ledere la fama, il credito ed il decoro di chi ha diritto di portare tali nomi>>.
Ed è chiaro che quanto più si dilaterà la nozione di lesione della fama, del credito e del decoro,
tanto più ristretta diverrà l’applicazione del principio della libera appropriabilità dei nomi altrui.
In questa prospettiva è stata a volte espressa dalla dottrina e dalla giurisprudenza una
posizione estrema, secondo la quale dovrebbe ritenersi lesiva del decoro di una persona la stessa
<<degradazione>> del suo nome dalla dignità di attributo della personalità alla modesta funzione di
strumento di individuazione di prodotti. In tal guisa, tuttavia, si giunge sostanzialmente a vanificare
il principio posto dalla norma in esame, dato che è chiaro che applicando questa tesi l’adozione del
nome altrui come marchio risulterà sempre lesiva del credito e del decoro di chi ha il diritto di
portare il nome, e pertanto sempre vietata.
Se non si vuol considerare dunque l’art. 8/2 c.p.i. come norma inesistente, bisognerà
escludere che il solo fatto di usare l’altrui nome come segno distintivo di prodotti o servizi integri
automaticamente una lesione del credito e del decoro del titolare del nome stesso; bisognerà invece
ritenere che una simile lesione venga integrata solo ove quell’uso sia caratterizzato da elementi
particolari. Ad esempio si potrà ritenere che l’altrui nome non possa essere registrato come marchio
quando, come tale, serva a designare un prodotto di natura vile, volgare, poco decorosa, indecente.
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O quando, essendo il nome inserito nel contesto di un marchio complesso, questo contesto sia
costituito da figurazioni frivole o antiestetiche, o da motti o frasi non confacenti alla personale
dignità del titolare del nome.
Ancora in questa prospettiva potrà assumere rilievo la personalità del titolare del nome,
quando appaia in peculiare contraddizione con i prodotti che il marchio è destinato a
contraddistinguere anche se in sé non ignobili: come nel caso in cui il nome di un poeta o di un
filosofo sia assunto per contrassegnare un purgante o una specialità di salumi.
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3 La tutela del nome di cui all’art. 7 cod. civ
Al di là di ipotesi di questo genere, comunque, l’adozione del nome altrui come marchio
resta nel nostro ordinamento lecita. Né sembra che questa conclusione possa dirsi in contrasto con
la tutela del nome di cui all’art. 7 cod. civ. secondo il quale <<la persona alla quale si contesti il
diritto all’uso del proprio nome o che possa risentire del pregiudizio dall’uso che altri indebitamente
ne faccia, può chiedere giudizialmente la cessazione del fatto lesivo, salvo il risarcimento dei
danni>>. L’ambito dell’azione di usurpazione del nome altrui di cui alla norma da ultimo citata
riguarda infatti soltanto gli usi del nome altrui che abbiano come conseguenza lo scambio o la
confusione di persone, e ciò non si verifica, quando quel nome sia adoperato come marchio. Ed al
riguardo val la pena di trascrivere una massima giurisprudenziale molto puntuale: <<l’art. 7 cod.
civ. e l’art. 21 l.m. (ora art. 8 c.p.i.) hanno diverso contenuto precettivo e diverso ambito di
applicazione. Mentre infatti il primo vieta, da un lato, non già qualsiasi uso del nome altrui, ma
unicamente l’uso posto in essere a scopo di identificazione personale, ma dall’altro lato lo vieta in
relazione a qualsiasi tipo di pregiudizio, anche meramente eventuale, possa da quest’uso derivare
dall’avente diritto, il secondo dispone che l’imprenditore può scegliere liberamente un nome di
persona diverso dal proprio come marchio del suo prodotto e prevede come rigorosa eccezione a
questa regola il caso in cui l’uso di detto marchio sia tale da ledere la fama, il credito ed il decoro
della persona che ha il diritto di portare tale nome>> .
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4 La ratio dell’art. 8/2 c.p.i.
Ci si potrebbe chiedere, sul piano della giustizia sostanziale, se il principio della libera
appropriabilità del nome altrui come marchio non sia privo di giustificazioni. Sennonché l’ambito
di applicazione di questo principio è in realtà assai ristretto dato che ne sono esclusi i casi in cui il
nome altrui del quale ci si voglia appropriare sia un nome <<notorio>>.
L’art. 8/3 c.p.i. dispone esplicitamente che il nome notorio non possa essere adottato come
marchio se non dal titolare di esso o con il suo consenso. E’ dunque escluso che il principio di cui
stiamo parlando possa consentire a chiunque di approfittare dell’altrui notorietà senza corrispettivo;
e la ratio nonché la sfera di applicazione di esso saranno sostanzialmente limitate all’esigenza di
salvaguardare chi abbia in perfetta buona fede ritenuto di usare nomi di fantasia, che poi invece in
pratica corrispondono a nomi altrui, per non esporlo ad eventuali ricatti da parte di coloro cui tali
nomi appartengono.
Un ulteriore temperamento del principio di cui si tratta è poi dato dalla facoltà riconosciuta
all’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi dalla seconda parte del numero 2 dell’art. 8 c.p.i. <<di
subordinare la registrazione al consenso stabilito dal comma 1 del presente articolo>>, vale a dire al
consenso delle persone indicate dalla norma dettata a proposito dei ritratti.
Con questa ulteriore garanzia, con questo ulteriore filtro, sembra potersi escludere che
l’applicazione del principio della libera appropriabilità dei nomi altrui come marchi possa dar luogo
ad abusi o approfittamenti.
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5 La facoltà del titolare del nome di farne
comunque uso nella propria ditta
L’ultima parte dell’art. 8/2 c.p.i. afferma che la registrazione del nome da parte del terzo non
impedirà a chi abbia diritto al nome stesso di farne uso nella ditta da lui prescelta. Poiché l’art. 12/1
c) c.p.i. dichiara privo di novità il marchio interiorizzato da una ditta, deve ritenersi che la norma
ora in esame riguardi prevalentemente il caso in cui l’avente diritto al nome inizi ad usarlo nella
propria ditta dopo la registrazione di esso come marchio da parte del terzo (anche perché se l’uso
nella ditta fosse anteriore, la possibilità di continuarlo non potrebbe essere messa in discussione).
Ma così interpretata la norma sembra porsi in conflitto con l’art. 22/1 c.p.i., che vieta
l’adozione come ditta appunto del marchio altrui. In realtà la disposizione che stiamo considerando
è collegata al secondo comma dell’art. 2563 cod. civ., che detta il cd. contenuto obbligatorio della
ditta, dicendo che essa deve comunque <<contenere almeno il cognome o la sigla
dell’imprenditore>>. Vista in questa prospettiva la norma in esame, dunque, andrà interpretata nel
senso di consentire bensì all’avente diritto al nome di usare il nome stesso nella ditta da lui
prescelta, ma anche di escludere che la ditta medesima possa consistere esclusivamente di quel
nome, e che l’inserimento di esso nella ditta possa dar luogo a risultati confusori.
La facoltà in questione, dunque, sarà limitata ad un uso del nome nella ditta nel contesto di
elementi idonei a differenziarla dal marchio anteriore, e quindi, appunto, ad escludere quel
<<rischio di confusione per il pubblico che può consistere anche in un rischio di associazione fra i
due segni>> cui anche il menzionato art. 22/1 riferisce.
Ed in questa prospettiva la norma trova puntuale riscontro nell’art. 21/1 a) del Codice p.i.
Ove il nome altrui sia stato registrato come marchio nell’ipotesi in cui l’art. 8/2 c.p.i. lo
vieta, il marchio stesso sarà nullo. Si tratterà tuttavia di una nullità suscettibile di sanatoria, ai sensi
dell’art. 28/2 c.p.i., cioè suscettibile di convalida: nel senso che all’avente diritto al nome sarà
preclusa l’azione di nullità ove egli, essendone a conoscenza, abbia tollerato l’uso del marchio da
parte del registrante per cinque anni consecutivi, ed il registrante non abbia domandato il marchio in
malafede.
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6 I ritratti altrui
Assai più limitativo del regime dettato per i nomi altrui, è quello che la legge prevede per i
ritratti altrui. Al riguardo l’art. 8/1 c.p.i. dice che <<i ritratti di persone non possono essere registrati
come marchi senza il consenso delle medesime e, dopo la loro morte, senza il consenso del coniuge
e dei figli; in loro mancanza, o dopo la loro morte, dei genitori e degli altri ascendenti; e, in
mancanza o dopo la morte anche di questi ultimi, dei parenti fino al quarto grado incluso>>.
La maggiore severità qui adottata dal legislatore con la radicale esclusione della possibilità
di adottare come marchio l’altrui ritratto senza il consenso della persona ritratta o dei suoi
congiunti, pignolescamente elencati fino al quarto grado incluso, e dunque non soltanto il ritratto
delle persone viventi, ma anche di quelle defunte da parecchio tempo, è giustificata dal fatto che
mentre nell’ipotesi del nome altrui si pone l’esigenza di evitare che la scelta di un nome che si
reputa di fantasia e causalmente coincida con quello di una persona, possa provocare controversie,
nel caso del ritratto una situazione del genere ben difficilmente potrà prodursi, assai improbabile
essendo che un ritratto <<di fantasia>> coincida con le fattezze di una persona reale.
Libero è lasciato comunque soltanto l’uso dei ritratti di persone vissute in tempi ormai tanto
remoti da far ritenere che qualsiasi interesse familiare al riguardo sia venuto meno.
Vale la pena di rilevare che la norma in esame si sovrappone parzialmente all’art. 10 cod.
civ. e agli artt. 96 e 97 della legge sul diritto di autore. Questi, infatti, vietano l’uso pubblico non
autorizzato dell’immagine altrui quando non sia giustificato <<dalla notorietà o dall’ufficio
pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o
quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in
pubblico>>: finalità che sono escluse quando l’utilizzazione dell’altrui immagine abbia, come per
definizione nel caso di inserimento di essa in un marchio, finalità commerciale di lucro.
Anche per l’ipotesi di registrazione del ritratto altrui come marchio da parte di soggetti non
legittimati e non autorizzati è prevista la sanzione della nullità del marchio. Ed anche qui si tratta di
nullità suscettibile di convalida, alle medesime condizioni di cui si è detto per i nomi di persona.
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7 I segni <<notori>>
Un regime di preclusione altrettanto severo quanto quello che vige per i ritratti è imposto dal
legislatore all’art. 8/3 c.p.i. per i segni <<notori>>.
La norma in questione elenca esemplificativamente una serie di segni, ed in particolare <<i
nomi di persona, i segni usati in campo artistico, letterario, scientifico, politico o sportivo, le
denominazioni e sigle di manifestazioni e quelle di enti ed associazioni non aventi finalità
economiche, nonché gli emblemi caratteristici di questi>>, ed afferma che questi segni, se
<<notori>>, possono essere registrati come marchi solo <<dall’avente diritto o con il consenso di
questi, o dei soggetti di cui al comma 1>>.
E’ questa una delle norme con le quali il legislatore si è più radicalmente staccato dalla
funzione di indicazione di provenienza del marchio, da una sua stessa funzione distintiva, per
prendere in considerazione il valore che segni che abbiano acquistato una qualche notorietà presso il
pubblico per ragioni che con il mercato nulla hanno a che fare, presentano; nel senso che la loro
notorietà appunto ne fa elementi che, se apposti sui prodotti più diversi ne facilitano la vendita.
Questa norma, in altri termini, prende atto della crescente tendenza ad adottare come
marchio non solo l’altrui marchio celebre in altro settore (caso al quale la legge provvede con le
norme sul marchio che <<gode di rinomanza>>, che scavalcano il principio di specialità), ma anche
qualsiasi nome o segno diverso da un marchio che abbia comunque acquistato una qualche
notorietà, nel convincimento, appunto, che la sola presenza di esso su un prodotto ne aumenti
l’appetibilità.
Ci riferiamo a nomi o segni come <<Luna Rossa>> piuttosto che <<Mascalzone Latino>> e
a i rispettivi simboli, come Champions League ed il relativo simbolo, ai nomi di persona a loro
volta <<notori>>, come possono essere quelli di personaggi di spicco nel mondo dello spettacolo,
dello sport, ma anche di quello scientifico, letterario, giornalistico, ecc.; o ancora a denominazione
come <<Italia 90>>, o magari <<Biennale di Venezia>> o <<Galleria degli Uffizi>>, e così via.
Data la frenetica ricerca di nomi comunque noti da adottare come marchio, il legislatore ha
ritenuto che in tutti questi casi fosse necessario impedire operazioni sostanzialmente parassitarie, e
riservare a chi, persona od ente, avesse il merito della notorietà – e perciò del valore – del segno, la
possibilità di trarne l’utile che l’uso (soprattutto indiretto, per il tramite di concessione di licenze) di
esso come marchio poteva procurare.
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In altri termini ed ancora esemplificando, si è voluto evitare che qualche bell’ingegno
approfitti della notorietà della signorina Maria Ciccone per registrare a proprio nome il marchio
<<Madonna>> per le più svariate classi, o che altri facciano lo stesso con Brad Pitt, o magari con
Celentano o Enzo Biagi, o con Umberto Bossi: approfittando della breccia rappresentata dal numero
2 dell’articolo in esame, che consente in linea di principio la registrazione come marchio del nome
altrui, per lucrare della notorietà di questo nome dandolo in licenza a caro prezzo a terzi.
È chiaro che si tratta di una norma che si discosta in maniera radicale da un sistema che si
impernia sul marchio inteso come segno distintivo, che limita la tutela appunto e soltanto al valore
distintivo del segno escludendone quello suggestivo. Vi è qui, al contrario, l’inequivocabile
riconoscimento proprio del valore suggestivo di determinati segni, della loro <<capacità di
vendita>>, che nulla ha a che vedere con la qualità o con il prezzo dei prodotti contrassegnati.
Dall’altra parte il fenomeno esiste, ed in misura sicuramente macroscopica, cosicché il legislatore
non poteva che prenderne atto, e piuttosto che lasciar strada aperta ad operazioni parassitarie, fare in
modo che il valore suggestivo dei segni di cui si tratta sia riservato a chi di quel valore ha il merito.
In relazione a questo tipo di marchi ben può dirsi che si tratti di beni in sé considerati, in
particolare di beni immateriali. Per essi infatti è prevista una tutela, che nella norma in esame si
manifesta con l’attribuzione della possibilità di utilizzarli soltanto a determinati soggetti, la quale
prescinde totalmente da qualsiasi accreditamento dei segni sul mercato come distintivi di
determinati prodotti, e che inoltre, esorbita i limiti del principio di relatività, dato che la riserva
della loro utilizzazione attribuita a certi soggetti concerne tutti i generi di prodotti o servizi.
Nella stessa direzione opera anche l’ammissione della tutela ampliata del marchio che gode
di rinomanza, cosicchè può forse oggi dirsi che la legge conosce due categorie di marchi, e
precisamente una categoria costituita da segni distintivi tutelati esclusivamente come tali nei limiti
della possibilità di confusione e perciò nell’ambito del principio della relatività della tutela; ed una
seconda categoria quella dei segni <<notori>> di cui all’art. 8/3 c.p.i. e dei marchi che godono di
rinomanza di cui agli artt. 12/1 f) e 20/1 c) c.p.i., che da tale principio esorbitano e che sono protetti
per così dire <<in sé e per sé>>.
Per questa seconda categoria di segni, il legislatore riserva il valore diverso o comunque
ulteriore che essi presentano rispetto al valore distintivo, ai soggetti che della loro notorietà e quindi
della loro <<capacità di vendita>> sono autori, e che potranno sfruttare in esclusiva, per qualsiasi
settore merceologico, soprattutto attraverso lo strumento del merchandising, che è fenomeno oggi di
dimensioni assai vaste. Per i segni di cui all’art. 8/3 c.p.i., infine, non si può dire neppure, al di là
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
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Il marchio (parte terza)
dell’evocazione di generiche caratterizzazioni di prestigio, di sportività, di scientificità ecc., che
comunichino un preciso messaggio al pubblico, in ordine al quale possa porsi un problema di
veridicità o ingannevolezza.
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