Rajchman, Chil - Treblinka 1942-1943

TASCABILI BOMPIANI 497
Traduzione dal francese della Prefazione di Ileana Zagaglia
Traduzione dal francese della Postfazione di Anna Maria Lorusso
Titolo originale
JE SUIS LE DERNIER JUIF
© 2009 by Les Arènes, Paris
© 2010/2014 Bompiani/RCS Libri S.p.A.
Via A. Rizzoli 8 - 20132 Milano
Published in agreement with
Marco Vigevani & Associati Agenzia Letteraria
ISBN 978-88-452-7546-2
I edizione Tascabili Bompiani gennaio 2014
A tutti coloro che non hanno potuto raccontarlo.
Andrés, Daniel, José Rajchman.
“Il fatto è che lo scrittore deve dire la verità, quand’anche sia
terribile, e il lettore deve conoscerla. Voltarsi dall’altra parte, chiudere gli occhi, passare oltre significa insultare la memoria di
quelli che sono morti.”
Vasilij Grossman, L’inferno di Treblinka
“Conchiuso il tempo in cui i giorni si inseguivano vivaci, preziosi
e irreparabili, il futuro ci stava davanti grigio e inarticolato, come
una barriera invincibile. Per noi, la storia si era fermata.”
Primo Levi, Se questo è un uomo
Prefazione
“I lugubri vagoni mi trasportano laggiù, in quel luogo.
Trasportano da ogni dove: dall’est e dall’ovest, dal nord
e dal sud. Giorno e notte. In ogni stagione dell’anno: primavera ed estate, autunno e inverno. I convogli arrivano
senza impedimenti e senza limiti e Treblinka diventa di
giorno in giorno più ricca di sangue. Più gente arriva, più
Treblinka diviene capace di accoglierne.”
Sin dall’inizio di questo resoconto, scritto in yiddish,
lingua madre del narratore, la parola “io” scompare
nell’incessante viavai allucinato dei treni che procedono
verso il luogo di un destino collettivo: Treblinka. I treni
conducono alla fabbrica della morte di innumerevoli carichi di uomini immediatamente inghiottiti.
Chil Rajchman fu uno dei rari sopravvissuti. Dopo la
rivolta del campo, il 2 agosto 1943 – la sua seconda nascita, come la d efinì in uno dei processi al quale partecipò
come testimone* –, visse da clandestino fino al suo ultimo
nascondiglio a Varsavia. La guerra non è ancora terminata
*
USC Shoah Foundation Institute, Los Angeles, 24 ottobre 1994.
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quando affida a un taccuino il racconto dei mesi passati a
Treblinka. Questo testo appartiene dunque a una categoria di scritti ristretta e molto particolare: quelli elaborati
nell’ombra della morte, quando la guerra è ancora in corso,
per conservare memoria di avvenimenti che vanno oltre
l’immaginabile.
Altri due testi di questo tipo sono giunti fino a noi. Calel
Perechodnik, poliziotto ebreo nel ghetto di Otwock, luogo
di villeggiatura a pochi chilometri da Varsavia, sfuggì alla
“liquidazione” del ghetto, dopo diverse peregrinazioni si
nascose nella Varsavia “ariana”, e, nel suo rifugio, scrisse
in polacco la sua testimonianza pubblicata col titolo Sono
un assassino? Autodifesa di un poliziotto ebreo.* Simha
Guterman, anche lui scappato insieme al figlio alla “liquidazione” del ghetto di Plock, scrisse i suoi ricordi nascondendoli poi lungo le strade che lo condussero a Varsavia.**
Simha Guterman e Calel Perechodnik morirono durante
l’insurrezione della città.
In questi tre resoconti, gli autori si annullano davanti a
ciò che vogliono descrivere. La violenza, la crudezza del
racconto, l’assenza d’indulgenza o di infingimenti su ciò
che fecero non si spiegano se non con l’incertezza sulla
loro sopravvivenza. Ciò che essi testimoniano prevale sul
desiderio di costruire un’immagine di sé, o di suscitare
simpatia o pietà.
Chil Rajchman conservò il suo scritto, in Polonia dapprima, poi sulle strade dell’emigrazione che lo condussero
a Montevideo, in Uruguay, dove mise su famiglia e trovò
*
Calel Perechodnik, Sono un assassino? Autodifesa di un poliziotto ebreo,
Feltrinelli, Milano, 1996.
**
Simha Guterman, Il libro ritrovato, Einaudi, Torino, 1994.
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lavoro. Cercò di farlo conoscere? Niente di meno sicuro.
Rajchman, come i suoi compagni, testimoniò, ma tardivamente, negli Stati Uniti – all’epoca del processo di denaturalizzazione di Ivan Demjanjuk,* nel quale aveva creduto
di riconoscere il terribile Ivan che azionava gli impianti
delle camere a gas a Treblinka – poi a Gerusalemme,
sempre al processo di Demjanjuk. Divenne allora, per
l’Uruguay, la grande figura di sopravvissuto. Solo oggi è
possibile leggerlo.
La terribile bellezza e potenza di questo breve racconto
risiedono nel flusso allucinato che narra quello che fu la vita
a Treblinka, senza che altre voci o eruditi riferimenti interferiscano. Degli uomini corrono senza sosta sotto i colpi di
frusta, tagliano i capelli alle donne, cavano i denti ai cadaveri, corrono ancora trasportando corpi in decomposizione.
Pochi i nomi nello scritto di Chil Rajchman – Kurt Franz,
naturalmente, e il suo cane Bari; Mathias, probabilmente
l’SS Arthur Matthes; qualche soprannome come predilige
lo yiddish. Le SS diventano gli “assassini”. L’uomo venuto
per mettere a punto il forno crematorio per centinaia di
migliaia di corpi in putrefazione e che inventa un ingegnoso
sistema di graticole costruite con binari ferroviari, del quale
i deportati ignorano il nome (probabilmente Herbert Floss),
è soprannominato ironicamente l’“Artista”.
Allo stesso modo poche le date in queste pagine, oltre
quella della rivolta del 2 agosto 1943 che causò molte
vittime ma consentì a qualche centinaio di internati di
*
Il primo processo a Demjanjuk ebbe luogo a Cleveland. Demjanjuk fu
privato della nazionalità americana, con sentenza del 23 luglio 1981, preludio
al suo trasferimento in Israele e al processo a Gerusalemme nel 1987. Condannato, fu prosciolto in appello col “beneficio del dubbio” sulla sua identità
e liberato dalla giustizia israeliana.
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evadere. Di questi ultimi, molti furono uccisi, la maggior
parte fu catturata dopo una gigantesca battuta; qualche
decina era ancora in vita dopo la guerra.
Per saperne di più su Rajchman, è necessario ricorrere
ad altre fonti che non siano il suo scritto.* Chil Rajchman
nacque il 14 giugno 1914 a Lodz, in Polonia, dove visse con
il padre, tre sorelle e due fratelli fino allo scoppio della guerra – la madre era morta nel 1931. Lodz era nel Warherland,
quella parte orientale della Polonia annessa alla Germania
diventata Litzmannstadt. Uno dei fratelli riuscì a raggiungere la zona della Polonia annessa all’Unione Sovietica, dove
sopravvisse alla guerra. Nell’ottobre del 1939, Chil e la sorella
minore – la maggiore si era sposata – raggiungono la cittadina di Pruszkow, a una ventina di chilometri da Varsavia,
nel Governatorato generale. Gli altri membri della famiglia
rimangono a Lodz, ben presto rinchiusi nel ghetto. Chil viene
poi destinato ai lavori forzati, mentre la sorella è inviata al
ghetto di Varsavia dove la troverà dopo la chiusura del campo
di Pruszkow e l’istradamento di tutti gli ebrei nella città.
Non sappiamo assolutamente come né quando, ma
Chil riuscì a procurarsi dei documenti e a raggiungere
la città di Ostrow Lubelski, una trentina di chilometri a
nordest di Lublino. Del tempo che vi trascorse, sempre
insieme alla sorella, conserva il ricordo di una vita senza
sofferenza durante la quale non conobbe la fame. Fino al
giorno in cui i tedeschi decidono che la regione deve essere Judenfrei, libera da ebrei. Con la sorella e tutti gli ebrei
dei campi vicini è condotto a Lubartów.
E da qui ha inizio il racconto: “I lugubri vagoni mi
*
In particolare quello raccolto dall’United Holocaust Memorial Museum
di Washington il 7 dicembre 1988.
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trasportano laggiù, in quel luogo.” Il luogo è Treblinka,
di cui Rajchman nulla sa.
Chil Rajchman ha vissuto l’inferno di Treblinka, per
riprendere il titolo del volume che Vasilij Grossman – all’epoca corrispondente di guerra per la stampa sovietica e
curatore insieme a Ilya Ehrenburg del Libro nero. Il genocidio nazista nei territori sovietici 1941-1945, raccolta di testimonianze sullo sterminio degli ebrei nell’Unione Sovietica
– consacrò a Treblinka dal 1944, a partire dai racconti che
lui stesso aveva registrato, ma anche da dichiarazioni scritte
raccolte dalla Commissione Centrale di Documentazione
sui Crimini Nazisti in Polonia.* Lo scrittore fornisce una
descrizione impressionante dei luoghi dove arriva nel settembre del 1944. “A est di Varsavia, sulla riva occidentale
del Bug, si estendono sabbie e paludi, fitte foreste di pini e
latifoglie. Su questa terra povera, i villaggi sono rari; l’uomo evita gli stretti sentieri dove il piede affonda nel fango
e la ruota sprofonda nella sabbia fino al mozzo.” Là sulla
linea ferroviaria di Siedlce, si trova la piccola stazione di
campagna di Treblinka, a una sessantina di chilometri da
Varsavia, non lontano dal nodo di Malkinia dove si incrociano le ferrovie provenienti da Varsavia, Byalistok, Siedlce,
Lomza. Un paesaggio monotono, “di pini e di sabbia, di
sabbia e di pini, con qua e là ciuffi di erica, un cespuglio
secco, una stazione malinconica, uno snodo ferroviario (...)
* Nella testimonianza già citata raccolta a Los Angeles nel 1994, Rajchman rievoca il suo ritorno davanti alla Commissione, che egli data al 1945. Tra
i tredici testimoni ebrei interrogati dalla Commissione compare in effetti un
certo Henryk Reichman. Chil si nascose e abitò in Polonia sotto il nome di Henryk Romanowski. Dopo la Liberazione, conservò il nome di Henryk insieme a
quello di Yekhiel (di cui Chil è il diminutivo).
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una diramazione a binario unico che parte dalla stazione
per addentrarsi nel bosco fra i pini che lo delimitano sui
due lati. Questa diramazione conduceva a una cava di
sabbia bianca che veniva utilizzata per l’edilizia industriale
e urbana”. Essa è situata in uno spazio “nudo, così arido
che i contadini l’hanno abbandonato come un deserto in
piena foresta. La terra è chiazzata di muschio; qua e là un
pino gracile; ogni tanto una taccola o un’upupa solcano il
cielo. Questi luoghi desolati erano stati scelti, con l’approvazione del Reichsführer delle SS Heinrich Himmler, per
farne un enorme carnaio, quale l’umanità non aveva ancora
mai conosciuto prima dei nostri giorni crudeli, neanche al
tempo della barbarie primitiva.”
Il campo di Treblinka fu edificato nel giugno 1942 a
due chilometri da un campo di lavori forzati costruito
nel 1941. È una zona isolata a meno di cento chilometri a
nordest di Varsavia. Diventa operativo nel luglio 1942 ed
è dapprima la destinazione degli ebrei del ghetto di Varsavia, “liquidati”, prima di ricevere convogli provenienti
dal Governatorato generale, poi dalle zone di occupazione
bulgara.
Vi furono deportati tra i 700.000 e i 900.000 ebrei,* che
portarono con sé tutto ciò che ancora possedevano: abiti,
strumenti di lavoro, gioielli, denaro, vettovaglie.
Un piccolo numero di giovani uomini (e anche qualche
donna) fu scelto dai convogli per costituire i “Kommandos di
*
Non esistono per Treblinka liste degli ebrei che vi furono sterminati. Dal
momento che venivano assassinati al loro arrivo, non sono stati neanche registrati in dettaglio. Gli archivi sono stati quasi del tutto distrutti e le cifre sono
dunque controverse. Raul Hilberg parla di 700.000 morti, Gitta Sereny di
1.200.000. Anche se ci si attiene alle stime più basse, Treblinka è il luogo principale dello sterminio degli ebrei polacchi, mentre ad Auschwitz-Birkenau
furono uccisi ebrei di tutta Europa.
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lavoro”, chiamati pure “ Kommandos ebrei”, e occuparsi di
questa massa considerevole di beni e di corpi. Tra essi, Chil
Rajchman, che tagliò i capelli alle donne, come Abraham
Bomba, strappò i denti ai cadaveri, smistò i vestiti, trasportò
i corpi.
Alla fine del 1942, le SS cercarono, come tutti gli assassini, di far sparire i corpi, che erano stati precedentemente
sotterrati, bruciandoli. Quelli dei “Kommandos ebrei” si
ritrovarono a dissotterrarli a mani nude prima che l’“Artista” mettesse a punto, su incitamento del comandante
del campo, Franz Stangl, il sistema di tipo industriale che
combinava scavatrice e “graticole”, così ben descritte da
Rajchman. Davanti all’evidenza che i nazisti non avrebbero
lasciato alcuna traccia, nessun testimone del genocidio, la
rivolta era l’unica speranza di sopravvivenza. I prigionieri
incendiarono degli edifici, ma alcune camere a gas rimasero
funzionanti e lo sterminio proseguì, a ritmo ridotto, fino a
ottobre 1943, quando tutte le installazioni furono smantellate: i mattoni delle camere a gas servirono alla costruzione
di una fattoria che venne affidata a un ucraino incaricato di
sorvegliare che nessuno s’interessasse a quel luogo. Piantarono pini e seminarono lupino.
*
“Entriamo nel campo, calchiamo il suolo di Treblinka,”
scrive Vasilij Grossman che vi giunse alla fine del settembre 1944. “La terra cede sotto i piedi, molle e grassa come
se fosse stata irrigata con olio di lino – la terra senza fondo
di Treblinka, mossa come un mare. Questa distesa deserta
che è circondata da filo spinato ha inghiottito più esisten*
Uno dei personaggi di Shoah, il film di Claude Lanzmann, che con Richard
Glazar e l’SS Suchomel racconta ciò che fu Treblinka.
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ze umane di tutti gli oceani e di tutti i mari del mondo da
che esiste il genere umano.
La terra rigetta frammenti d’osso, denti, oggetti diversi,
carte. Non vuole essere complice.
Le cose sfuggono dal suolo che si apre, dalle ferite
ancora spalancate: camicie mezze consumate, pantaloni,
scarpe, portasigari, ingranaggi di orologi, temperini,
pennelli da barba, candelieri, scarpine di bambini con
pompon rossi, tovaglioli ricamati d’Ucraina, merletti,
forbici, ditali, corsetti, bendaggi. Più lontano resti di
utensili: bicchieri di metallo, tazze, padelle, tegami, marmitte, pentole, bidoni, cassette, bicchieri per bambini
(…). Continuiamo ad avanzare su questa terra in cui il
passo affonda: tutt’a un tratto ci fermiamo. Dei capelli
folti, ondulati, color del rame, dei bei capelli di ragazze
calpestati, poi dei boccoli biondi, e pesanti trecce nere
sulla sabbia chiara e altri e altri ancora. Il contenuto
di un sacco, di un solo sacco di capelli, doveva essersi
rovesciato lì…”
Nel giro di quindici anni, il mondo sembrò dimenticare. I sopravvissuti della rivolta si dispersero per il mondo,
negli Stati Uniti e soprattutto nel giovane Stato d’Israele.
Si sposarono, ebbero figli, trovarono lavoro. Al di fuori
delle testimonianze di Yankel Wiernik – corredata della
piantina del campo, pubblicata a New York nel 1945 – e
di Samuel Rajzman durante la sessione del 27 febbraio 1946 del processo di Norimberga, nessuno provò a
raccontare fino al processo di Eichmann (1961), in cui
Treblinka fu evocato da Kalman Teigman, Eliahu Rosenberg e Abraham Lindwasser a proposito della mappa del
campo disegnata da Wiernik che si può sempre vedere
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nel kibbutz dei combattenti del ghetto, non lontano da
Acco (Saint-Jean-d’Acre). Il processo Eichmann inaugurò
nuovi procedimenti giudiziari. Nel 1964-1965, la corte
d’assise di Düsseldorf giudicò, in meno di un anno, dieci
“assassini”, tra i quali Kurt Franz, condannato, come
altri tre, ai lavori forzati a vita. Chil Rajchman non fece il
viaggio da Montevideo per testimoniare. Il secondo processo fu quello del suo comandante, Stangl, proveniente
come la maggior parte delle SS dai membri di Aktion T4,
vale a dire il progetto di eliminazione dei malati mentali,
che conducevano “vite indegne di essere vissute”. Stangl,
condannato all’ergastolo, fece appello. Mentre era in
attesa del suo secondo processo, accettò lunghe interviste
con Gitta Sereny. Morì per una crisi cardiaca qualche ora
dopo l’ultimo incontro con la giornalista. A partire dalle
loro conversazioni, dalle interviste con altri sopravvissuti
– Richard Glazar soprattutto – e con altri “assassini”
(Suchomel in particolare) Gitta Sereny scrisse In quelle
tenebre, il libro fondamentale, e fin qui insuperato, sui
meccanismi di trasformazione di un uomo in sterminatore. Il terzo processo, a Gerusalemme, fu quello di Ivan
Demjanjuk. Durante tutto il dibattimento, Chil Rajchman
fu molto attivo e soffrì intensamente per i dubbi sollevati
sull’identità di un accusato che lui riteneva di aver riconosciuto.
Nel corso degli anni in cui Rajchman raccontò la sua
storia, il suo manoscritto non fu reso pubblico. Lo è oggi,
ora che il suo autore non è più tra noi. L’acume e la crudezza della descrizione, la violenza di un racconto privo di
quegli stereotipi che si trovano talvolta nei racconti tardivi
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dei sopravvissuti, dovrebbe far entrare quest’opera nel
canone dei grandi testi della letteratura del disastro.
Annette Wieviorka
Centre National de Recherche Scientifique
treblinka
1942/43
io sono l’ultimo ebreo
1
Nei vagoni piombati verso un luogo sconosciuto.
I lugubri vagoni mi trasportano laggiù, in quel luogo.
Trasportano da ogni dove: dall’est e dall’ovest, dal nord
e dal sud. Giorno e notte. In ogni stagione dell’anno: pri­
mavera ed estate, autunno e inverno. I convogli arrivano
senza impedimenti e senza limiti e Treblinka diventa di
giorno in giorno più ricca di sangue. Più gente arriva, più
Treblinka diviene capace di accoglierne.
Come tutti gli altri, non so ancora perché e dove stiamo
andando. Tuttavia cerchiamo, per quanto è possibile, di
ottenere qualche informazione sul viaggio. I banditi ucraini
che ci fanno la guardia non intendono concederci alcuna
risposta. Le uniche parole che udiamo da loro sono: Dateci
l’oro, l’argento e gli oggetti di valore.
Quelle canaglie non fanno che perquisirci. Ogni momen­
to ne arriva uno nuovo a seminare il terrore. Ci picchiano a
sangue con il calcio dei fucili e ciascuno di noi si sforza per
quanto è possibile di placare gli assassini con qualche zloty
per evitare le botte.
Così è il viaggio.
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Partiamo dalla stazione di Lubartów a circa venti chi­
lometri da Lublino. Con me ci sono Rivka, la mia sorella
minore — una bella ragazza di diciannove anni —, un mio
caro amico, Wolf Ber Royzman, sua moglie e i suoi due
figli. I nostri compagni di viaggio li conosco quasi tutti,
sono della stessa cittadina, Ostrów Lubelski. Nel vagone
siamo in centoquaranta. Si sta incredibilmente stretti,
l’aria è pesante e mefitica, siamo pigiati gli uni contro gli
altri. Per la mancanza di spazio siamo costretti a fare i
nostri bisogni sul posto così come stiamo, uomini e donne
insieme.
Da ogni angolo si sentono gemiti di angoscia e ciascuno
chiede all’altro: Dove ci stanno portando? Ma ognuno alza
le spalle e risponde con un profondo sospiro. Nessuno
conosce la nostra destinazione e allo stesso tempo nessu­
no vuole credere che stiamo andando là dove già da mesi
vengono condotti i nostri fratelli, le nostre sorelle, i nostri
parenti più stretti.
Accanto a me siede il mio amico Katz, di professione
ingegnere. Lui mi assicura che siamo diretti in Ucraina e
che là potremo stabilirci in un villaggio e dedicarci al lavoro
agricolo. Mi spiega che lo sa con precisione perché glielo
ha detto un ufficiale tedesco, amministratore di un fondo
rustico del governo, a sette chilometri da Jedlanka, la nostra
cittadina. Glielo ha riferito “da amico”, perché qualche
volta lui gli ha riparato un motore elettrico. Voglio crederci
anche se vedo che in realtà non è così.
Procediamo. Molto spesso il treno rimane fermo
perché, non essendo compreso nel piano della regola­
re circolazione, deve attendere che passino i convogli
normali. Attraversiamo diverse stazioni, tra cui Luków
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e Siedlce. Ogni volta che ci fermiamo prego le guardie
ucraine che scendono di portarci un po’ d’acqua. Ma loro
non rispondono, solo se qualcuno gli allunga un orologio
d’oro procurano qualcosa da bere. Molti dei miei amici
consegnano gli oggetti preziosi in anticipo e non ricevono
quel poco d’acqua promesso. A me capita un’eccezione.
Chiedo un po’ d’acqua a un ucraino, lui pretende cento
zloty per una bottiglia. Acconsento. Poco dopo arriva con
una bottiglia d’acqua da mezzo litro. Gli domando quan­
to ancora durerà il viaggio. La risposta è tre giorni, perché
siamo diretti in Ucraina. Comincio a chiedermi se non sia
la verità. Sono quasi quindici ore che siamo in viaggio, e
abbiamo percorso circa centoventi chilometri.
L’orologio segna già le quattro del mattino quando ci
approssimiamo alla stazione di Treblinka, a sette chilo­
metri da Malkinia. Ci fermiamo. I vagoni sono chiusi e
non abbiamo idea di ciò che sarà di noi. Aspettiamo che
il treno si rimetta in movimento. Mia sorella mi dice che
ha fame ma abbiamo con noi ben poco. Avendo lasciato
la nostra cittadina inaspettatamente non abbiamo potuto
comprare viveri. La stessa cosa è accaduta a Lubartów,
e così le nostre provviste sono scarse. Le spiego che ci
aspetta un lungo viaggio e dobbiamo razionare il cibo il
più possibile, altrimenti non basterà fino alla fine.
Mia sorella è d’accordo. Si rassegna a digiunare e mi
assicura che in fondo non è poi così affamata…
23
2
Entriamo in un bosco. Treblinka.
Davanti ai nostri occhi un’immagine di morte.
Uomini a destra, donne a sinistra!
Poco tempo dopo il treno riparte.
Fuori è già chiaro. Siamo inquieti perché vediamo che
il treno torna indietro. Il convoglio si muove lentamente,
stiamo entrando in un bosco. Ci guardiamo gli uni gli
altri. Che succede?... Non passa molto tempo e davanti
ai nostri occhi si rivela uno scenario triste e spaventoso.
Un’immagine di morte. Attraverso la stretta apertura del
vagone scorgo alti cumuli di vestiti. Adesso comprendo
che siamo perduti. È la fine. Qualche istante dopo la
porta del vagone viene spalancata di botto con grida
diaboliche: Raus! Raus! Ormai non ho più dubbi sulla
nostra disgrazia. Prendo mia sorella sottobraccio e cerco
di uscire fuori il più velocemente possibile. Lascio dentro
tutte le nostre cose. La mia povera sorella mi domanda
perché abbandono i fagotti. Le rispondo: Non ci ser­
vono… Non faccio in tempo ad aggiungere nulla che si
sente un grido crudele: Uomini a destra, donne a sinistra.
Riusciamo a malapena a scambiarci un bacio prima di
venire separati per sempre.
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Una pioggia di colpi si abbatte su di noi da ogni parte.
Gli assassini ci spingono in un piazzale, ci dispongono
in file e gridando ci ingiungono di consegnare immedia­
tamente al deposito oro, denaro e oggetti preziosi. Chi li
nasconde sarà fucilato. Quasi tutti consegnano ciò che
hanno. Poi ci viene ordinato di svestirci velocemente e
di legare insieme le scarpe. Ciascuno si spoglia il più in
fretta possibile perché le fruste sibilano sopra le teste.
Chi ci mette troppo tempo viene colpito con selvaggia
crudeltà.
Treblinka è costruito in modo professionale. Al primo
sguardo può sembrare una normale stazione ferroviaria.
La banchina è abbastanza lunga e ampia da accogliere un
treno normale, anche di una quarantina di vagoni. A qual­
che decina di metri da essa si trovano due baracche, l’una
di fronte all’altra. In quella di destra viene immagazzinato
il cibo che la gente si porta fin qui, quella di sinistra serve
da spogliatoio alle donne e ai bambini. Gli assassini sono
così cortesi da non pretendere che le donne si spoglino
insieme agli uomini all’aperto. Sulla via che conduce alla
morte, una strada senza ritorno, uomini e donne si rin­
contrano nudi.
A sinistra della banchina vi sono alcune costruzioni di
legno, tra cui la cucina e i laboratori. Di fronte ci sono le
baracche dove si dorme. Non lontano si trova anche la
baracca dove vivono gli uomini delle SS, che è arredata
nel modo più confortevole. A destra della banchina c’è
un grande spiazzo dove vengono accumulati i vestiti, le
scarpe, la biancheria, le coperte e varie altre cose. Qui
lavorano alcune centinaia di prigionieri che fanno la cernita
dei vestiti e poi li mettono da parte in un posto specifico.
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