A che punto è la crisi? Recessione, depressione e deflazione

Nota
(26 maggio 2014)
A che punto è la crisi?
Recessione, depressione e deflazione
Creare lavoro deve essere la priorità
Nelle ultime settimane sono stati comunicati diversi aggiornamenti statistici sull’andamento della
disoccupazione, della crescita e dell’inflazione, in Italia e in Europa. Lo scenario che emerge dai diversi
indicatori è preoccupante, perché tutto porta a prefigurare il rischio di una diffusa e prolungata deflazione che,
non solo allontana la possibile ripresa, ma imprime un’altra accelerazione alla spirale recessiva e depressiva
in cui si trova la maggior parte delle economie europee e, con esse, l’economia italiana. La ripresa del ritmo di
crescita potenziale e, soprattutto, dell’occupazione perduta nella crisi rischia di non essere solo lontana, bensì
impossibile. Per invertire la tendenza e risolvere strutturalmente la crisi, occorre ripartire proprio dal lavoro.
Creando occupazione si risponderebbe alla crisi di domanda che non fa crescere l’Italia e l’Europa, si
sospingerebbero i prezzi attraverso i consumi e gli investimenti, si sosterrebbero i redditi, soprattutto da
lavoro, si rilancerebbero aspettative di medio e lungo periodo, si ritroverebbe la via dello sviluppo e della
sostenibilità, anche delle finanze pubbliche.
Deflazione. I dati sull’inflazione diffusi dall’Eurostat il 15 maggio scorso 1 confermano il marcato rallentamento
del ritmo di variazione dei prezzi nei 18 paesi dell’Area Euro come dell’intera Unione Europea: a livello
congiunturale, cioè rispetto al mese precedente, la variazione dell’indice dei prezzi al consumo armonizzato
(IPCA) dell’Eurozona è dello 0,2% e dell’UE a 28 paesi è dello 0,1%; mentre a livello tendenziale, cioè rispetto
ad aprile 2013, l’inflazione dell’Euro Area è pari allo 0,7% e dell’UE-28 dello 0,8%. Sempre rispetto a un anno
prima, la più bassa variazione dei prezzi dell’Unione europea, addirittura negativa, la registra la Grecia con un
-1,6%, ufficialmente in deflazione, assieme a Bulgaria (-1,3%), Cipro (-0,4%), Ungheria e Slovacchia (-0,2%),
Croazia e Portogallo (-0,1%). La maggiore inflazione ad aprile 2014 nell’Area della moneta unica è in
Germania (+1,3%). La statistica appare paradossale per almeno due motivi: (i) l’obiettivo europeo di
contenimento dell’inflazione è pari al 2% (secondo il Trattato di Maastricht) e le variazioni dei prezzi di tutti i
paesi oscillano tra il -1,6% e l’1,6%; (ii) proprio la Germania, che ha imposto l’obiettivo di contenimento dei
prezzi, detiene l’inflazione più alta tra i paesi dell’Euro.
L’Italia conta un’inflazione dello 0,5%, sia in termini congiunturali che tendenziali. Come sottolinea la Banca
1
http://epp.eurostat.ec.europa.eu/cache/ITY_PUBLIC/2-15052014-BP/EN/2-15052014-BP-EN.PDF
d’Italia nell’ultimo Bollettino economico (n. 2, aprile 2014) 2, l’inflazione al consumo ha continuato a scendere in
misura significativa e superiore alle attese. Alla frenata dei prezzi ha contribuito la discesa delle componenti
più volatili (soprattutto prodotti energetici e alimentari che, invece, assieme alla dispersione logistica e
commerciale, hanno determinato storicamente un’inflazione più alta nel nostro Paese), a fronte della
persistente debolezza di quelle di fondo. Nel prossimo biennio, secondo le principali previsioni istituzionali, in
Italia, l’inflazione continuerebbe a rimanere contenuta, attestandosi poco sopra l’1% almeno fino alla fine del
2015. E questo ricordando che l'inflazione italiana è sempre stata più alta di quella europea (per motivi di
inefficienza di sistema che non sono stati superati) e che, da ultimo, l'aliquota massima dell'IVA è stat elevata
al 22%.
L’“indice di vulnerabilità alla deflazione” elaborato dal Centro Europa Ricerche (CER) 3 nel primo trimestre 2014
esprime un rischio più alto rispetto agli altri trimestri del 2013: la bassa crescita dell’indice dei prezzi al
consumo rappresenta, per la prima volta dal terzo trimestre del 2009, una delle determinanti del rischio di
deflazione, anche se i fattori di debolezza principale continuano a essere legati alla crisi di domanda,
rappresentati dalla stretta creditizia, dalla bassa crescita del Pil, soprattutto del PIL potenziale ovvero della
forza lavoro potenzialmente occupabile e moltiplicatrice di reddito e crescita.
Va considerato, inoltre, che dal 2009 stiamo assistendo a fenomeni di deflazione salariale che in alcuni paesi
periferici dell’Unione europea hanno già raggiunto dimensioni importanti: in cinque anni i salari reali medi lordi
sono diminuiti del 2,2% in Italia, del 3,8% in Portogallo, del 3,9% in Irlanda, del 5,4% in Spagna e sono crollati
del 22% in Grecia. Certo, grazie alla forza dei Contratti nazionali l’Italia ha registrato la minore perdita
d’acquisto, offrendo un minimo sostegno della domanda interna. La quota dei salari sul PIL, infatti, è diminuita
di appena 0,3 punti percentuali nel nostro Paese, nonostante il blocco dei contratti pubblici, mentre è caduta di
4,2 punti in Spagna, di 4,4 punti in Portogallo, di 5,7 punti in Irlanda ed è precipitata di 7,7 punti in Grecia 4.
Anche la BCE ha paventato il rischio di un’ondata deflazionistica, anche se considerata non immanente (come
riconosciuto, invece, da parte del FMI e delle altre principali istituzioni internazionali). Sia nell’ultimo Rapporto
annuale della BCE (aprile 2014) che nelle recenti dichiarazioni del Presidente Mario Draghi l’attenzione sul
rischio di una deflazione cumulativa nell’Area dell’euro riguarda più il maggior onere in termini reali dei debiti
sovrani che essa comporta, piuttosto che la crisi di domanda effettiva. Ciò significa che la BCE resta convinta
di dover necessariamente predisporre piani credibili di rientro del deficit e del debito pubblico (come previsto di
Trattati) per mettere in sicuro i tassi d’interesse sui debiti sovrani, anche a copertura del maggior rischio di
default a cui andrebbe incontro chi possiede titoli di paesi a elevato debito pubblico. Eppure, è chiaro ormai
che l’effetto restrittivo delle misure fiscali di riduzione del debito non potrebbe che essere devastante per la
domanda complessiva e l’occupazione europea (basti pensare agli avanzi primari non inferiori al 4,5% del PIL
nominale che l’Italia dovrebbe generare per almeno i prossimi venti anni con inevitabili e ormai
scientificamente dimostrati effetti negativi sul tasso di crescita del reddito nazionale), senza necessariamente
ridurre il tasso dell’interesse, né di conseguenza portare un aumento della spesa privata.
L’allarme deflazione sarà, allora, una delle circostanze che spingeranno il Consiglio della BCE, alla riunione
prevista per il 5 giugno prossimo, a intraprendere nuove decisioni di politica monetaria (es. taglio dei tassi di
interesse), magari non convenzionali (es. il cosiddetto quantitative easing, cioè l’acquisto di titoli o l’emissione
di nuova moneta, oppure l'adozione di prestiti all'economia reale).
Sono evidenti ormai gli insuccessi delle politiche di austerità, delle cosiddette “riforme strutturali” che puntano
sulla svalutazione competitiva e delle misure di deflazione salariale (che generano, appunto, deflazione
2
http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/bollec/2014/bolleco2
3
http://www.centroeuroparicerche.it/cernews.asp?idn=451
4
Cfr. l’analisi di Emiliano Brancaccio e Nadia Garbellini in Economia e Politica, “Uscire o no dall’euro: gli effetti sui salari”, 19 maggio
2014.
dell’intera economia e un peggioramento della crisi di domanda). L’attenzione della BCE – anche solo per
statuto – dovrebbe essere riposta sulle ricadute della bassa inflazione sui conti pubblici degli stati membri;
sugli squilibri macroeconomici di cui soffre l’Area Euro (a partire dal surplus della bilancia commerciale
tedesca, nemmeno citato nel Rapporto annuale BCE), aggravati dalla deflazione, sull’inefficienza del sistema
di credito bancario e finanziario, “protetto” dal controllo dell’inflazione, ma incapace di riattivare le economie
europee e di arginare la speculazione e sull’apprezzamento dell’Euro la conseguente perdita di opportunità e
competitività dei sistemi economici europei.
Recessione e stagnazione. L’Europa è l’area economica che – secondo tutti gli ultimi dati e tutte le più
recenti previsioni – cresce di meno al mondo. I dati Eurostat sulla variazione congiunturale del PIL nel primo
trimestre 2014 (diffusi il 15 maggio scorso) 5 descrivono una ripresa che non c’è: la crescita dell’Europa è pari
allo 0,2% e dell’Area Euro dello 0,1%; la crescita più alta – comunque irrisoria – viene rilevata dalla Polonia e
dall’Ungheria (entrambe a +1,1%), la flessione maggiore dall’Olanda (-1,4%), a dimostrazione della debolezza
delle economie trainate dalle esportazioni (per giunta, in avanzo nella bilancia commerciale) di fronte a una
crisi di domanda globale, una crisi di modello di sviluppo.
Per l’Italia il dato sulla crescita del PIL nel primo trimestre 2014 rispetto al quarto trimestre 2013 registra una
variazione negativa (-0,1%). La stima Istat è preliminare ma già conferma l’andamento precedente in cui alla
profonda recessione (9 trimestri negativi consecutivi) ha seguito la stagnazione (zero crescita nel terzo
trimestre 2013 e +0,1% nel successivo). Insomma, nessuna ripresa. Nessuna risposta alla disoccupazione.
Nelle previsioni del FMI per l’anno in corso (aprile 2014) 6 si stimano segnali di ripresa per l’economia globale
per quest’anno (+3,6%), ma a ritmi fortemente disomogenei tra aree del pianeta, che ne rivelano l’incertezza:
le economie emergenti e i paesi in via di sviluppo hanno rallentato la loro crescita (+4,9%), comunque
superiore a quella delle economie avanzate (+2,2%), nelle quali però si distinguono quelli che hanno
impegnato spesa pubblica e utilizzato gli strumenti monetari (es. USA, Giappone, Cina, Brasile); a fronte dei
paesi dell’Euro che – nella migliore delle ipotesi – conteranno su una crescita complessiva piuttosto modesta
(+1,2%), tutta dovuta alla spinta della Germania (comunque limitata al +1,7%), evidentemente prodotta a
scapito degli altri paesi dell’Area. Le previsioni del PIL 2014 per l’Italia oscillano tra l’ipotesi dello 0,4%
(Consensus forecasts di marzo 2014) e dello 0,8% (Governo italiano nel Documento di Economia e Finanza
2014). Un ventaglio di previsioni che descrive una crescita molto bassa, tutta basata sul fatto che l’ipotetica
ripresa nazionale possa essere affidata ancora una volta ai mercati e, soprattutto, alla domanda estera.
Attualmente, l’unica vera spinta alla domanda interna arriverà dalla restituzione fiscale prevista dal Governo
col Decreto 66/2014 (i famosi 80 euro per i redditi da lavoro dipendente da 8mila a 24mila euro). Ma non può
bastare. Sempre nella migliore delle ipotesi, secondo le previsioni FMI, nel biennio 2014-2015 la crescita del
PIL reale del nostro Paese (1,7% in due anni) sarà inferiore a quella di tutte le principali economie del pianeta.
Nella crisi, in Italia, il PIL ha perduto 9 punti percentuali dal 2008 al 2013. La domanda interna (consumi e
investimenti) è caduta del 12%. La produzione industriale e gli investimenti fissi lordi si sono ridotti di quasi
1/4. Il nostro Paese, però, vive “una crisi nella crisi”. In Italia, alla crisi di domanda si somma una crisi
dell’offerta, che viene da più lontano e che si traduce nell’insufficiente accumulazione di capitale e nella sua
scarsa capacità di incorporare progresso tecnico: una crisi della struttura produttiva che genera bassa
produttività del capitale (tasso medio annuo 1992-2012: -0,7%) e “di sistema” (misurata con la “produttività
totale dei fattori”, tasso medio annuo 1992-2012: +0,4%), prima ancora che del lavoro (tasso medio annuo
1992-2012: +0,8%). Qui risiede la tanto discussa, quanto irrisolta, “questione salariale”. E sempre da qui
nasce l’incapacità di utilizzare tutta la forza lavoro esistente, oltre che i saperi e le competenze disponibili,
soprattutto nelle nuove generazioni. L’assenza di politiche industriali e, in generale, di una vera politica
5
http://epp.eurostat.ec.europa.eu/cache/ITY_PUBLIC/2-15052014-AP/EN/2-15052014-AP-EN.PDF
6
http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2014/01/weodata/index.aspx
economica negli ultimi vent’anni ha fatto perdere occasioni importanti per agganciare una via alta della
competitività e dello sviluppo. Oggi, l’Italia paga più di altri la specializzazione produttiva mediamente a basso
valore aggiunto, la costellazione di piccole e piccolissime imprese, l’insufficiente innovazione di processo e di
prodotto, gli scarsi investimenti (pubblici e privati) in R&S, la scarsa dotazione infrastrutturale materiale e
immateriale, ecc. A parità di investimenti il sistema economico e produttivo italiano genera il 20% in meno di
valore aggiunto rispetto agli altri paesi dell’Area Euro. Inutile competere sul costo del lavoro. Per queste
ragioni bisogna espandere i volumi dell’economia, creare nuovi mercati, nuove produzioni e nuovi servizi,
nuova occupazione. E ciò può avvenire solo attraverso un nuovo intervento pubblico in economia.
Disoccupazione e depressione. Il 19 maggio Eurostat ha diffuso anche il dettaglio dei dati sull’occupazione e
sul mercato della forza lavoro dei paesi europei nel 2013 7. La situazione è drammatica. La disoccupazione
nell’UE è aumentata di circa un milione in più rispetto al 2012 e investe 26,2 milioni di persone (su circa 200
milioni in tutto il mondo). In sintesi, secondo i dati Eurostat, la disoccupazione coinvolge 1/8 della forza lavoro
dell’intera Unione europea e 1/4 solo di quella giovanile. Anche per questo in Europa circa 1/4 della
popolazione si trova in condizioni di povertà.
Nel dettaglio, il tasso di disoccupazione nell’UE ha raggiunto il 10,8% nel 2013 e varia dal 4,9% in Austria e
5,3% in Germania al 26,4% in Spagna e 27,3% in Grecia. Le donne rappresentano circa il 45,8% dei
disoccupati, ma il numero è in continuo aumento. La quota di disoccupazione di lunga durata è costantemente
aumentata nel corso degli ultimi due anni: il 47,5% dei disoccupati nell'Unione europea è stato senza lavoro
per 12 mesi o più nel 2013 (la percentuale era del 33,2% nel 2009); i disoccupati a lungo termine
rappresentano oltre la metà della disoccupazione totale in sette Stati membri (nell’ordine Slovacchia, Grecia,
Croazia, Irlanda, Bulgaria, l’Italia e Portogallo). Il tasso di disoccupazione giovanile per la fascia di età 15-24
nell'UE è stata del 23,3% nel 2013. Anche qui, gli Stati membri hanno tassi di disoccupazione giovanile molto
diversi, sopra il 50% in Grecia e in Spagna, mentre l'Austria e Germania al di sotto del 10%.
Nelle statistiche europee spicca, poi, il dato italiano sull’occupazione, mai visto nell’ultimo decennio : il tasso di
occupazione è sceso sotto il 60% nel 2013, riportando il Paese al 2002. Peggio del nostro Paese stanno solo
la Spagna (58,2%), la Croazia (53,9%) e la Grecia (53,2%). Nel 2013, i tassi più elevati di occupazione per
coloro di età compresa tra i 20 ei 64 sono stati osservati in Svezia (79,8%), Germania (77,1%), Paesi Bassi
(76,5%), Danimarca (75,6%), Austria (75,5%), il Regno Unito (74,9%), Estonia e Finlandia (entrambi 73,3 ).
Solo la Germania e Malta, però, hanno già raggiunto i loro obiettivi previsti dall’Agenda Europa 2020. Il nostro
paese è lontano dall’obiettivo programmatico del 2020 di oltre 7 punti.
Dall’inizio della crisi, in Italia, si contano oltre 1 milione di posti di lavoro in meno, che hanno contribuito a
portare la platea dei disoccupati, secondo le ultime rilevazioni Istat di marzo 2014, a quota 3 milioni e 248 mila
(di cui circa la metà sotto i 35 anni), di poco sotto al 13% della forza lavoro. A questi si aggiungono nuovi
inattivi, inoccupati, scoraggiati e sottoccupati, per un totale di oltre 7 milioni di persone. Il tasso di
disoccupazione giovanile (15-24 anni) ha raggiunto livelli inaccettabili, è più che raddoppiato dal minimo
storico del 19% raggiunto nel febbraio del 2007 e risulta in tendenziale aumento (42,7% a marzo 2014, con
punte del 60% in alcune regioni del Mezzogiorno). Non a caso, gli ultimi dati Istat sulla condizione economica
e sociale delle famiglie italiane nel 2013 consegnano un sistema-paese in cui 1 milione 130 mila nuclei
familiari devono fare sempre di più i conti con la disoccupazione ed è senza reddito da lavoro: ben il 18,3% in
più rispetto al 2012 e addirittura il 56,5% rispetto al 2011.
La creazione di occupazione deve diventare l’obiettivo prioritario. Ormai, cinque anni di rilevazioni (e di
previsioni sbagliate da parte di governi nazionali e istituzioni sovranazionali) confermano che la deregolazione
e la ricerca di fiducia nei mercati non bastano a ritrovare la ripresa. Ormai è evidente che le politiche restrittive,
il controllo esagerato dell’inflazione e il rigore dei conti pubblici deprimono gli investimenti e l’occupazione più
7
http://epp.eurostat.ec.europa.eu/cache/ITY_PUBLIC/3-19052014-BP/EN/3-19052014-BP-EN.PDF
di quanto riescano a incoraggiarli. I vincoli monetari, finanziari ed economici che derivano dall’attuale
architettura europea e dall’odierna governance economica impediscono l’uscita dalla crisi e impongono dei
limiti inaccettabili agli attori istituzionali (a partire dai governi nazionali) e alle parti sociali (basti pensare alla
disoccupazione e alla deflazione salariale).
L’anno che verrà. Nel DEF 2014 del Governo Renzi viene prevista una ripresa dell’attività economica che
riporti progressivamente i ritmi di crescita del PIL italiano ai livelli pre-crisi al 2020. Se anche nei prossimi anni
la crescita dovesse attestarsi ai tassi di variazione previsti dal Governo, il livello dell’occupazione pre-crisi
(2007) non si recupererebbe comunque prima del 2025 (a 18 anni dall’inizio della crisi). Basti ricordare che il
tasso di disoccupazione previsto nel DEF (come obiettivo) per il 2018 è l’11%, mentre nel 2007 era il 6,1%. La
stessa Banca d’Italia, in un box nell’ultimo Bollettino economico, illustra i risultati di una loro elaborazione
econometrica che contribuisce a spiegare come la contrazione dell’occupazione nella crisi sia correlata alla
citata flessione del PIL in volume del 9% in 6 anni: «con riferimento alla fase recessiva iniziata nel 2008,
queste stime implicano che alla fine del 2013 nel settore privato non agricolo e non energetico il numero di
unità di lavoro si era già pressoché integralmente adeguato al più basso livello della produzione […] Tuttavia
la ripresa del numero di occupati sarebbe comunque più lenta e meno sostenuta poiché le aziende tendono
ad agire in primo luogo sul margine intensivo, attraverso l’aumento delle ore pro capite».
Non solo, dunque, appare palese la rinuncia all’obiettivo di piena occupazione, ma addirittura il livello di
disoccupazione (strutturale) rappresenta una precisa scelta macroeconomica. In altre parole, all’insegna del
rigore dei conti, del controllo dei prezzi, della libertà dei mercati e della finanza, si sceglie di sacrificare il
lavoro, le condizioni materiali delle persone, la tutela sociale dei cittadini europei, soprattutto di alcuni paesi
europei. La conferma di tale approccio per l’Italia si può verificare anche in un capitolo del DEF 2014 (Sezione
I, Programma di Stabilità dell’Italia, pag. 71 e ss.), in cui il Governo, nel tracciare la sostenibilità delle finanze
pubbliche nel lungo periodo, ipotizza la proiezione di alcune variabili economiche, tra cui il tasso di
disoccupazione al 6,8% nel 2060: dopo 53 anni dall’inizio della crisi non viene ipotizzato il recupero
dell’occupazione perduta8.
Tutto ciò conferma che lo studio svolto dalla CGIL dal titolo “La ripresa dell’anno dopo” (giugno 2013)9 sulle
previsioni di crescita e sui tempi di uscita dalla crisi resta valido. Nell’analisi si dimostrava la scorrettezza delle
previsioni istituzionali, l’incertezza della ripresa e, anche nella migliore delle ipotesi, tempi lunghi e molta
sofferenza sociale prima di uscire dalla crisi: in uno scenario ottimistico, si recupererebbero i livelli pre-crisi di
PIL e occupazione nel 2020; in uno scenario pessimistico il PIL si recupererebbe nel 2024, mentre i livelli
occupazionali pre-crisi si recupererebbero 63 anni dopo lo scoppio della crisi. Oggi, dunque, anche quello
scenario pessimistico potrebbe addirittura rivelarsi ottimistico se non si assumono il recupero dei livelli
occupazionali e del PIL potenziale pre-crisi come obiettivi della politica economica, nazionale come europea. Il
rischio maggiore delle politiche votate alla cosiddetta “austerità espansiva”, alla svalutazione competitiva sul
lavoro, al disindebitamento e alla disinflazione è rappresentato dalla resa incondizionata a livelli fisiologici di
disoccupazione attorno al 10% in tutte le economie avanzate, per sempre.
La crisi ha reso evidente l’insostenibilità di un modello di sviluppo fondato su una competitività diseguale, tra
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A onor del vero, nelle proiezioni di sostenibilità del debito pubblico nel lungo periodo svolte dal Governo vengono anche simulati sia una
maggiore, seppur graduale, diminuzione della disoccupazione, sia un aumento della partecipazione al mercato del lavoro, soprattutto
femminile, con esiti positivi sulla tenuta dei conti pubblici e sulla stessa riduzione del rapporto debito/PIL.
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Nello studio CGIL si affermava: «Nonostante ogni anno, dall’inizio della crisi, venga previsto da tutti i principali istituti internazionali un segno
positivo nella variazione del PIL dell’anno successivo, i dati definitivi poi smentiscono sempre tali previsioni e la ripresa non arriva mai. […]In
realtà, poi, la ripresa resta incerta anche a livello globale, perché il rischio di nuovi “crolli” del PIL e dell’occupazione esiste ancora, è diffuso,
ed è determinato dal fatto che i valori nominali delle borse sono generalmente tornati al livello 2007 mentre nessun paese ha ancora
recuperato il livello di crescita e il numero di occupati pre-crisi. […] Qualsiasi ipotesi di ripresa, perciò, anche la più ottimistica, che insista
sull’aumento della competitività e della crescita per recuperare così anche l’occupazione perduta, richiederebbe comunque tempi molto lunghi
e ancora diversi anni di sofferenza sociale. […]Per uscire dalla crisi e recuperare la crescita potenziale occorre un cambio di paradigma. In
altre parole, per non attendere che sia un’altra generazione ad assistere all’eventuale uscita da questa crisi e ritrovare nel breve periodo la via
della ripresa e della crescita occupazionale occorre proprio partire dalla creazione di lavoro.» http://www.cgil.it/news/Default.aspx?ID=21077
aree del pianeta, tra stati europei e all’interno degli stessi stati. Non è tutto. L’aspetto peggiore riguarda
l’inefficacia di tali politiche, nel breve come nel lungo periodo, sulla stessa tenuta dei conti pubblici, cioè
sull’obiettivo economico che dovrebbe sorreggere tutto l’impianto macroeconomico. Senza l’obiettivo di piena
e buona occupazione non si può crescere di più e meglio, non aumenta la produttività – del lavoro, del capitale
e di “sistema” – e non si genera sviluppo, non si riduce il debito pubblico e non si garantisce stabilità alle
istituzioni e alla stessa democrazia europea.
Dopo i due convegni del Forum CGIL dell’economia dal titolo “A che punto è la crisi globale?”10 sentimmo
l’esigenza di mandare «un avviso ai naviganti» e, già nel marzo del 2012, nella “Lettera aperta sulla crisi
dell’Europa”, promossa dagli oltre settanta economisti del Forum sollecitavamo le maggiori istituzioni nazionali
ed europee al cambiamento delle politiche economiche. Già allora la crisi globale ci portava a pensare che
«una drammatica prospettiva di recessione incombesse sull’Europa mettendone a rischio non solo l’euro ma
anche il modello sociale e l’ideale della “piena e buona occupazione”, pur sancito in tutte le strategie
europee». Avevamo intuito come si fosse «deliberatamente optato per la non-correzione delle distorsioni
strutturali di un modello di sviluppo economico basato sui consumi individuali, sull’ipertrofia della finanza, sul
sovrautilizzo delle risorse naturali e sull’indebitamento, in contraddizione con il modello sociale europeo […]
con l’aggravante delle politiche deflattive imposte indiscriminatamente a tutti i paesi dell’unione monetaria ». E
concludevamo riconoscendo che «il nodo che oggi si pone in Europa sta nel decidere se il riequilibrio
inevitabile avverrà attraverso la “depressione” (con una ricaduta regressiva e democraticamente pericolosa)
oppure con lungimiranti scelte di cooperazione, rilanciando l’originaria “spinta” europeista, evitando che i paesi
in disavanzo non intervengano sui propri squilibri e, allo stesso tempo, che i paesi che hanno approfittato
dell’euro (come la Germania) accumulino surplus invece di svolgere la funzione di locomotiva a cui sono tenuti
in un contesto di moneta unica».
Ancora oggi, si può e si deve cambiare corso all’Europa. L’Unione europea potrebbe condurre l’intera
economia globale fuori dalla crisi, rappresentando la maggiore area commerciale e industriale del pianeta. Per
ogni punto percentuale di crescita in più nelle economie avanzate europee la disoccupazione globale si
ridurrebbe di mezzo punto percentuale, ovvero farebbe tornare al lavoro 4 milioni di persone. Ma per fare
questo bisogna cambiare la politica economica dell’Area Euro, riconoscere definitivamente il fallimento
dell’austerità e creare le condizioni per risolvere davvero gli squilibri e le differenze tra i paesi membri. Solo un
governo economico dell’Eurozona più equo e democratico, orientato a una vera “repressione” della
speculazione finanziaria e ad un rilancio delle economie reali nazionali fondato sul lavoro, può garantire una
ripresa solida, basata su una crescita diffusa e sostenibile dal punto di vista sociale e ambientale, tanto quanto
economico e finanziario.
Per questo, in Italia occorre aprire una vera e propria “vertenza” con l'Europa per cambiare le politiche di
austerità e sollecitare una vera riforma del sistema finanziario e bancario (Tassa sulle transazioni finanziarie;
separazione tra banche di risparmio e banche d'affari; ecc.). Bisogna pretendere la modifica dei Trattati, a
partire dal Fiscal Compact.
Questa indispensabile svolta è resa ancor più urgente dal risultato delle Elezioni europee, ed in
particolare italiano, da cui emerge fortissima la domanda di un cambiamento delle politiche europee,
per il quale non è sufficiente l'annunciato allargamento della base monetaria da parte della BCE.
Non è possibile recuperare l’occupazione perduta, aumentare i salari ed estendere il welfare – le uniche
condizioni per ritrovare la crescita – senza un rinnovato intervento pubblico in economia. Arginare la crisi e
trovare la via di un nuovo sviluppo rappresentano due aspetti della stessa sfida. Su questa base, la CGIL e
altri 84 sindacati hanno condiviso la proposta messa a punto dalla CES di un piano straordinario di
investimenti per la crescita, la ripresa economica, la creazione di nuova e stabile occupazione in tutto il
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Gli atti dei due convegni promossi dal Forum Politiche Economiche della CGIL, a cura di Riccardo Sanna: “Riforme contro stagnazione - A
che punto è la crisi globale? I”, 2012, Ediesse, Roma; “Crisi europea: cambiare strada per sconfiggere la recessione - A che punto è la crisi
globale? II”, 2013, Ediesse, Roma.
continente (“Un nuovo corso per l'Europa”) 11.
Creare lavoro! Il ruolo e, forse, la responsabilità, che l’Italia può avere nei confronti dell’Europa appare
fondamentale. Per sostenere la domanda e trovare una ripresa che porti con sé nuova occupazione occorre
proprio creare occupazione. Serve un piano straordinario di creazione diretta di occupazione giovanile e
femminile. Bisogna aumentare e guidare gli investimenti pubblici in funzione dei beni comuni e
dell’innovazione. Occorre aumentare la domanda pubblica e regolare la domanda privata. Questi sono i nuovi
lineamenti di politica economica di cui è portatore il Piano del Lavoro della CGIL 12.
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Dieci anni di rilancio degli investimenti, in cui si chiede agli Stati membri di destinare il 2% del PIL al finanziamento del piano: duecentocinquanta
miliardi di euro l'anno, per un grande processo di reindustrializzazione dell'Europa (anche utilizzando i fondi e i progetti europei come l’ Industrial
Compact, citato nel DEF), di specializzazione del suo apparato produttivo, di riconversione in senso sostenibile dell'industria pesante, di interventi
sulle reti infrastrutturali, di rilancio dell'informatica e delle tecnologie per le comunicazioni, di trasformazione del modello energetico e delle fonti di
produzione, di riqualificazione professionale dei lavoratori europei. Un piano sostenuto anche da interventi mirati sulla tassazione (dalla Tassa sulle
transazioni finanziarie a livello internazionale all’introduzione di una nuova imposizione patrimoniale a livello nazionale), per reperire le risorse
necessarie a sostenere il peso degli interessi di obbligazioni e titoli emessi nell'ambito della gestione finanziaria del piano.
http://www.etuc.org/new-path-europe
12
http://www.cgil.it/News/PrimoPiano.aspx?ID=21931
Fonte: Eurostat, http://epp.eurostat.ec.europa.eu/portal/page/portal/eurostat/home.
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