numero 1/2014 - Collegio Universitario Lamaro Pozzani

PANORAMA
PER I GIOVANI 1
2014
COLLEGIO UNIVERSITARIO “LAMARO POZZANI” - FEDERAZIONE NAZIONALE DEI CAVALIERI DEL LAVORO
Collegio Universitario “Lamaro Pozzani” - Via Saredo 74 - Roma - Quadrimestrale - POSTA TARGET CREATIVE Aut. n. S/SA0188/2008 valida dal 01/07/2008 - anno XLVII - n. 1 - gennaio-aprile 2014
LA GRANDE GUERRA
Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro
Eccellenza in formazione.
Collegio Universitario “Lamaro Pozzani”
Un Collegio universitario che è più di una residenza:
è un’idea di futuro. Dal 1971 supporta i giovani più
meritevoli preparandoli a posizioni di alta responsailità nel mondo delle aziende, delle istituzioni,
della ricerca e dell’insegnamento. Formazione, impegno, amore per il sapere, sono i valori che da sempre guidano il Collegio. I borsisti ospitati in totale
gratuità, circa 70, hanno libero accesso a tutti i servizi (sale informatica, palestra, campi sportivi). Il calendario delle attività prevede corsi interni a fre-
quenza obbligatoria (economia, diritto, lingue straniere, informatica, tematiche attinenti i singoli corsi
di laurea e la loro connessione con il mondo del lavoro) e un fitto programma di iniziative collaterali:
stage linguistici e professionali, viaggi di studio
all’estero, esperienze dirette in campo editoriale e
redazionale, e ancora seminari e gruppi di studio, incontri con personalità del mondo politico, imprenditoriale e della cultura.
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Eccellenza per passione.
EDITORIALE
Q
uando ero bambino, il 4 novembre era un giorno in una storia di pace e che vediamo allo stesso tempo indi festa e chiudeva il lunghissimo ponte che si calzata e forse perfino erosa da interessi e programmi che
apriva celebrando i santi e, subito dopo, ricor- vorrebbero al contrario dividere ciò che allora venne unito.
dando i nostri defunti. Veniva chiamata, sem- Non è facile parlare della Prima Guerra Mondiale, sopratplicemente, la Festa della Vittoria e questa espressione è tutto se lo si fa con il lessico delle nazioni e concentrandorimasta a lungo collegata nella mia memoria a un testo e si sullo stravolgimento della carta geopolitica dell’Europa
a una medaglia. Il testo, ascoltato tante volte, è quello del che essa determinò. Chiudiamo questo numero a poche setBollettino con il quale, la mattina appunto del 4 novembre timane dalle elezioni per il nuovo parlamento di Strasbur1918, il Comando Supremo dell’esercito italiano annunciò go e Bruxelles. E proprio Strasburgo, la città a lungo conla disfatta del nemico, annientato dalla “fede incrollabile” tesa fra Germania e Francia, è il simbolo più efficace della
e dal “tenace valore” dei nostri uomini: “i resti di quello consapevolezza che quella storia di conflitti e di morte in
che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in nome di sacri confini è fortunatamente chiusa per sempre.
disordine e senza speranza le valli, che avevano disceso con Sul sito dell’Esercito, il Giorno dell’Unità nazionale e Giororgogliosa sicurezza”. Non so a quanti fra i nostri giovani nata delle Forze Armate (è questa, adesso, la denominaziocapiti ancora di leggere queste parole. La medaglia è quel- ne ufficiale della ricorrenza) veniva celebrato nel 2013 con
la che per tanti anni ho visto in una cornice appesa nella un ovvio riferimento alla data che segnò la fine vittoriosa
camera dell’ultimo fratello di mio padre: era il ringrazia- della Grande Guerra. In questa breve nota venivano promento dello Stato al bisnonno Antonio, che era partito per poste due linee di riflessione. Da una parte, il dovere del rile trincee lasciando una moglie e tre figli piccoli e che, come spetto e del ricordo di “tutti coloro che, anche giovanissimi,
tanti altri giovani, non tornò più. Arrivò poi il 1977: una hanno sacrificato il bene supremo della vita per un ideale
legge abolì (o, per meglio dire, spostò alla prima domenica di Patria e di attaccamento al dovere: valori immutati nel
del mese) la festa dell’Unità nazionale, ritempo, per i militari di allora e quelli di
oggi”. Dall’altra, la necessità di approfonservando lo stesso destino a quella della
Repubblica, che venne però ripristinata
Ritrovare il valore dire le cause e ancor più le conseguenze
nel 2001, quasi a sottolineare la differendi “un evento che ha segnato in modo
dell’unità del
profondo e indelebile l’inizio del ‘900 e
za fra quel che della nostra storia si ritiene meriti ancora di essere ricordato con
paese nella cornice che ha determinato radicali mutamenti
politici e sociali”. In questo fascicolo abtutti gli onori e quel che si decide invece
dell’integrazione
di affidare ormai all’attenzione degli stobiamo deciso di privilegiare la seconda
pista, cercando di capire quanto dei fatti
rici più che alla responsabilità della pedaeuropea
e delle novità anche tecnologiche sollegogia pubblica centrata sulla narrazione
e le emozioni dei grandi eventi fondatori.
citate e amplificate dalla Prima GuerHo avvertito nuovamente questa distanza qualche giorno ra Mondiale si sia consolidato come tessuto connettivo di
fa, guardando un programma televisivo, più vecchio di me, quello che è stato definito da Hobsbawm il secolo breve.
che rievocava le tappe e le battaglie principali della Gran- In qualche caso, purtroppo, preparando le nuove e ancode Guerra. Ho visto le immagini dell’esecuzione di Cesare ra più luttuose rovine del conflitto che sarebbe tornato ad
Battisti, al quale era intitolata la via della mia scuola ele- insanguinare non solo l’Europa dopo vent’anni. È passato
mentare. Ho sentito i nomi di altri martiri delle terre irre- un secolo. E qualche anno in più da un articolo nel quale
dente: Fabio Filzi, Nazario Sauro. Il racconto, per quanto Enrico Corradini – non il solo e nemmeno il più celebre dei
sobrio, storicamente rigoroso e attento a non nascondere tanti intellettuali che in tanti paesi si lasciavano ancora
nulla delle sofferenze causate a tutti i popoli d’Europa da sedurre dalla mitologia eroica della guerra – contemplaquella che il papa Benedetto XV denunciò nel 1917 come va il cozzo delle forze primordiali ed eterne che conducouna “inutile strage”, era però caratterizzato da uno stile no le nazioni ad incrociare le armi anziché i commerci e
espositivo e punteggiato da accentuazioni retoriche che sa- le idee. Egli concludeva che «dinanzi ad esse l’uomo civirebbero ben difficilmente utilizzati nel 2014. Non ho potuto le è abolito e ritorna l’uomo sincero allo stato di natura».
evitare di pensare, in particolare, alla sincerità dell’orgo- Approfondire l’eredità della Grande Guerra è anche un
glio per la ritrovata unità del paese, che siamo oggi sfidati modo per confermarci nella certezza che di questa sinceriad attualizzare nella cornice di quella integrazione euro- tà, da tempo e per fortuna, non sentiamo alcuna nostalgia.
Stefano Semplici
pea che ha finalmente trasformato la storia del continente
PANORAMA PER I GIOVANI
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PANORAMA PER I GIOVANI
N. 1 | GENNAIO - APRILE 2014
Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro
Direttore responsabile
Mario Sarcinelli
Direttore editoriale
Stefano Semplici
LA GRANDE GUERRA
4. L’EUROPA NEL 1914:
LA QUIETE PRIMA DELLA TEMPESTA
Gli anni che precedettero il conflitto
di Vito Cormaci e Elisabetta Zuddas
Impaginazione
David D’Hallewin
Coordinamento redazionale
Gianvito Masi, Matteo Zanini Astaldi
Redazione: S. Berenato, D. Brambilla,
F. Cassarà, C. Ciullo, F. Core, V. M. Cormaci,
S. Gabrielli, L. Ghilardi, E. Giardina, G. Lugli,
B. Muccioli, G. Padua, F. Parlati, G.Rosana,
N. Sabatelli, F. Saldi, D. A. Sambugaro,
V. Spotorno, G.Tanzarella, C. Tonin, E. Zuddas.
Direzione: presso il Collegio Universitario
“Lamaro Pozzani” - Via Saredo 74 - 00173
Roma, tel. 06 72.971.322 - fax 06 72.971.326
Internet: www.collegiocavalieri.it
E-mail: [email protected]
Autorizzazione:
Tribunale di Roma n. 12031 del 9/3/1968.
Stampa:
Arti Grafiche Boccia Spa
Via Tiberio Claudio Felice, 7
84131 Salerno
Finito di stampare: giugno 2014.
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8. VIVERE IN TRINCEA
La dura vita dei soldati al fronte
di Davide di Gioia
10. CHIMICA LETALE:
LO SVILUPPO DI UN’ARMA DI
DISTRUZIONE DI MASSA
Come la scienza venne applicata per
uccidere l’uomo
di Sara Gabrielli
12. L’AERONAUTICA
La prima guerra combattuta nei cieli
di Saverio Cambioni
14. LO SVILUPPO DELLA CHIRURGIA
DURANTE LA GUERRA
Nuovi metodi per guarire nuovi tipi di
ferite
di Claudia Fede Spicchiale
17. LA GUERRA UMANITARIA:
IL RUOLO DELLA CROCE ROSSA
Nata durante le guerre d’indipendenza, la
Croce Rossa si distinse anche nel ‘14-18
di Noemi Sabatelli
20. SOLDATI AL FRONTE DOMESTICO:
LA GUERRA DELLE DONNE
Come il conflitto contribuì
all’emancipazione femminile
di Francesca Parlati
22. GLI AUTORI RACCONTANO
LA STORIA: LA GUERRA NELLA
LETTERATURA
Il conflitto sconvolse il pianeta, ma ispirò
alcuni dei più grandi testi del Secolo
di Chiara Ciullo
26. LA RIVOLUZIONE RUSSA:
L’IMPATTO CULTURALE DI UN
EVENTO EPOCALE
Il crollo di una dinastia durata secoli
ebbe effetti in tutta Europa
di Valentina Pudano
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NEL CENTENARIO DEL CONFLITTO
28. LA STORIA PASSA PER
LA CADUTA DEGLI IMPERI
Il tramonto di chi dominò l’Europa
di Erik Hörmann
30. LA “PRIMA” MONDIALE?
Il perché di un infausto primato
di Ruggero Pileri
32. FASCISMO E NAZISMO:
CONSEGUENZE DELLA GUERRA?
Il filo rosso fra i grandi drammi del Secolo
di Livio Ghilardi e Edoardo Giardina
35. IL DIFFICILE CAMMINO VERSO
LA PACE: LA SOCIETÀ DELLE
NAZIONI
L’organizzazione che precedette l’Onu
di Matteo Picarelli
36. LA FINE DI UN’EPOCA,
L’INIZIO DI UN’ALTRA
Lo scoppio della guerra coincise con la
fine della Belle Époque
di Federica Cassarà
PRIMO PIANO
Potete leggere tutti gli articoli della rivista sul
sito: www.collegiocavalieri.it
38. LA GRANDE BELLEZZA:
RAGIONI DI UN SUCCESSO MERITATO
di Francesco Pipoli
40. IN MEMORIAM DI
CLAUDIO ABBADO
di Gregorio Maria Paone
42. A PROPOSITO DI BRAIN DRAIN
L’ESPERIENZA DI DUE STUDIOSI
TORNATI IN ITALIA
a cura di Manuel Trambaiolli
Per commenti o per contattare gli autori degli
articoli, potete inviare una e-mail all’indirizzo:
[email protected]
Agli autori spetta la responsabilità degli
articoli, alla direzione l’orientamento scientifico e culturale della Rivista. Né gli uni, né
l’altra impegnano la Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro.
In copertina: Sacrario militare di Redipuglia dedicato alla memoria dei soldati italiani caduti durante la prima guerra mondiale
(1938, Friuli Venezia Giulia)
Roberta Patat / shutterstock.com
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GRAN
BRETAGNA
IMPERO RUSSO
PAESI
BASSI
BELGIO
IMPERO
TEDESCO
IMPERO
AUSTRO-UNGARICO
SVIZZERA
ROMANIA
SERBIA
FRANCIA
IMPERO
OTTOAMANO
BULGARIA
ALBANIA
ITALIA
GRECIA
SPAGNA
L’EUROPA NEL 1914
LA QUIETE PRIMA DELLA TEMPESTA
A hundred years from the World War I, now more than ever, it is important to remind what this conflict
represented for Europe. According to several authors, as Eric J. Hobsbawm, the war has been the beginning
of the twentieth century, because it revolutionized the way of fighting and it upset the political European
situation of the time.
Already in 1914, the world looked ready to begin a war on a global scale that caused millions of victims and whose
reasons are not only related to territorial claims but also to the spread of nationalism and imperialist spirit.
di Elisabetta Zuddas e Vito Cormaci
The old world in its sunset: così Winston Churchill descrisse l’Europa degli anni precedenti la grande guerra.
In apparenza, la monarchia era al
massimo del suo potere: nei primi
anni del ‘900 vi era un numero considerevole di monarchi regnanti e il
loro prestigio, se non il loro potere,
sembrava intatto. Ciononostante, la
prima guerra mondiale portò con sé
la caduta delle tre grandi monarchie
dell’Europa centrale – in Germania,
Russia e Austria-Ungheria – e contribuì a indebolirne molte altre, creando
un nuovo assetto geopolitico. A questo
proposito, è anche interessante notare che le case regnanti dei paesi coinvolti nel conflitto erano, in un modo
o nell’altro, quasi tutti imparentate
tra loro: in molti casi, i sovrani erano
discendenti diretti della regina Vittoria d’Inghilterra, soprannominata
Grandmamma of Europe, o eredi del
ramo materno della sua famiglia, i Coburg. Ella era realmente la “nonna” di
tre nazioni, o almeno dei loro re, ossia
Nicola II (zar della Russia), Giorgio V
(re della Gran Bretagna) e Guglielmo
(Kaiser della Germania), il quale disse che la nonna, se fosse stata ancora
viva, non avrebbe mai permesso loro
di farsi la guerra a vicenda. Dato che
i tre erano cugini primi, è necessario
capire perché questi legami familiari
si siano rivelati così inconsistenti
e come si sia potuti arrivare a una
guerra di tali dimensioni. Bisogna
probabilmente considerare che il potere dei monarchi si era notevolmente
indebolito nel corso del tempo e che
probabilmente essi non avrebbero potuto, anche volendo, opporsi ai “poteri
forti”: i generali, i politici e i fabbricanti di armi. I sovrani, inoltre, sottovalutarono la portata del conflitto che
stava per scoppiare, come dimostra la
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PANORAMA PER I GIOVANI
fitta corrispondenza tra “reali cugini”.
Infine, erano ormai maturate condizioni tali da far precipitare inesorabilmente la situazione verso il conflitto.
LA POLVERIERA BALCANICA
Nonostante le apparenze, le fondamenta della pace non erano affatto
solide, come si evince da una serie di
piccoli conflitti che inasprirono le relazioni diplomatiche tra gli stati europei
e che contribuirono alla nascita di una
complessa rete di alleanze. Solitamente, quando affrontano l’argomento delle cause della grande guerra, i libri di
storia esordiscono con frasi di questo
tipo: “Il 28 giugno 1914, uno studente
bosniaco di nome Gavrilo Princip uccise con due colpi di pistola l’erede al
trono d’Austria – l’arciduca Francesco
Ferdinando – e sua moglie, mentre
attraversavano in un’auto scoperta le
vie di Sarajevo”. Questo avvenimento
Illustrazione: Mark D’Hallewin
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A lato: cartina dell’Europa nel 1914.
Sotto: il Ponte latino a Sarajevo, dove
venne ucciso il 28 giugno 1914 l’Arciduca
Francesco Ferdinando.
causò una crisi diplomatica che portò
allo scoppio della guerra, ma si trattò
solo del cosiddetto casus belli o causa
immediata del conflitto. In seguito, la
Germania fece pressioni sull’Austria
affinché aggredisse la Serbia, mentre
la Russia assicurò il proprio sostegno
a quest’ultima, sua principale alleata
nell’area balcanica. Il 23 luglio l’Austria lanciò un ultimatum alla Serbia,
imponendo condizioni inaccettabili:
esse, tuttavia, furono accolte quasi
tutte, a eccezione di quella che prevedeva la partecipazione di funzionari
austriaci alle indagini sui mandanti
dell’attentato di Sarajevo. L’area balcanica era un territorio strategico e
politicamente instabile, al punto da
essere definito una “polveriera” nella
quale affondava le sue radici un groviglio di interessi e di rivalità nazionaliste. Fattori chiave di tale astio
geopolitico erano l’ambizione russa,
il nazionalismo slavo e il militarismo
austriaco, che avevano determinato
lo schierarsi delle potenze europee nella lotta per
l’egemonia sui Balcani.
Perciò, dopo che l’ultimatum venne respinto, l’Austria dichiarò guerra alla
Serbia, dando inizio al
primo conflitto mondiale.
LA GRANDE GUERRA
1870 e il 1914 e vide i governi europei i britannici. La politica imperialista
impegnati nel tentativo di monopoliz- portata avanti da molti paesi europei
zare i territori asiatici, sudamericani – tra cui l’Italia – e il malcontento die africani per ottenere materie prime lagante avevano suscitato un forte dia basso costo e investire su prodotti namismo in seno al contesto europeo.
che garantissero un maggiore pro- L’incidente di Fascioda può essere
fitto, imponendosi sui nuovi mercati considerato un sintomo dell’instabiliinternazionali e trovando una valvola tà della situazione, anche se l’episodi sfogo per le tensioni interne. Tale dio di per sé non fu sufficiente a farla
fenomeno aveva contribuito, soprat- precipitare. Tuttavia, ciò dimostra
tutto in Africa, a creare un clima di quanto i rapporti tra le potenze eurogrande tensione tra due delle maggio- pee fossero condizionati dalla loro pori potenze coloniali europee: la
Secondo Eric Hobsbawm
Francia e l’Inghilterra.
Un
i due spari a Sarajevo
episodio emblesanciscono l’inizio del secolo breve
matico di questa tensione fu
l’incidente di Fascioda, che vide un litica coloniale, che in seguito avrebbe
contingente francese guidato dal ca- condizionato il gioco delle alleanze.
pitano Marchand tentare di occupare
la piccola cittadina sudanese vicina ai IL SECOLO BREVE
territori soggetti a influenza britan- “Senza la guerra non ci si potrebbe
nica. Lord Kitchener, celebre coman- spiegare il cosiddetto secolo breve,
dante inglese, giunse sul posto alla quei cent’anni segnati da pressotesta di una flottiglia, dando luogo ché continue vicende belliche, anche
ad uno stallo che si protrasse fino al quando i cannoni tacevano e le bombe
raggiungimento di un accordo diplo- non esplodevano. [...] La sua storia, e
matico, che risultò vantaggioso per più in particolare o specificatamente
Mesut Dogan / shutterstock.com
UN NUOVO TIPO
DI COLONIALISMO
Per comprendere la gravità della situazione occorre riflettere sulle cause
che l’hanno generata. Un
aspetto che merita particolare attenzione è l’opinione di alcuni storici
contemporanei, che vedono nel 1914 l’anno d’inizio
del declino dell’Europa,
a seguito di un altro processo precedente al primo
conflitto mondiale: l’Imperialismo. Il “nuovo colonialismo” – come è stato
definito dagli uomini del
tempo – si sviluppò tra il
PANORAMA PER I GIOVANI
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LA GRANDE GUERRA
la storia della sua età iniziale di crollo e di catastrofe, deve cominciare con
i trentun anni di guerra mondiale”.
Eric Hobsbawm introduce così la sua
monumentale opera storica Il secolo
breve, spiegando in che modo il primo
conflitto mondiale abbia rivoluzionato il modo di pensare e di concepire
la guerra. L’autore, prendendo spunto dal pensiero del suo amico Ivan
Berend, studioso presso l’Accademia
ungherese, colloca l’inizio del secolo
breve, ovverosia del Novecento, proprio nel giugno del1914, nel momen-
punti di vista, anche perché la storia
conobbe per la prima volta una Materialschlacht, ovverosia una “guerra di
materiali”, così definita a causa delle
grandi quantità di materiale bellico
prodotte (fatto che, peraltro, renderà
molto complicata la riconversione industriale nel dopoguerra).
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PANORAMA PER I GIOVANI
IL 1914 COME SPARTIACQUE:
UNO SGUARDO SUL DOPOGUERRA
terminazione dei popoli e offrirono la
base per la fondazione della Società
delle Nazioni, deputata al mantenimento della pace. Purtroppo, neppure
tale organizzazione sarebbe riuscita
a conciliare gli interessi contrastanti
delle potenze europee e a impedire che
l’Europa e il mondo precipitassero per
la seconda volta in un conflitto mondiale dalle tinte ancora più fosche.
Da qualunque prospettiva lo si guardi, I DUE BLOCCHI
il 1914 fu decisivo per la storia euro- Uno dei fattori principali che deterpea. Fu l’anno in cui entrarono in crisi minò lo scoppio della guerra fu la fori governi dell’e- mazione di due blocchi contrapposti:
poca e l’equili- la triplice intesa e la triplice alleanLa democratizzazione della guerra
brio geopolitico za, successivamente nota anche come
precostituito e si blocco degli imperi centrali. La seconcomportò la partecipazione
aprì un periodo da, nata nel 1882 con un patto segreto
dei civili al conflitto
in cui l’Europa tra Germania, Austria e Italia, consperimentò
i teneva un articolo che stabiliva l’obto in cui quei due spari risuonarono a propri limiti in campo bellico e diplo- bligo di aiuto reciproco solo in caso di
Sarajevo. Secondo l’autore, gli eventi matico, aprendo la strada ai regimi aggressione da parte di due potenze,
succedutisi in Europa, che hanno poi totalitari che sarebbero sorti di lì a in forza del quale, anni dopo, l’Italia
travolto il mondo intero e innescato breve. Quella “guerra civile europea”, sarebbe inizialmente rimasta neuun’altra serie di processi culmina- come l’ha definita lo storico Ernst Nol- trale per poi addirittura allearsi con
ti in un nuovo conflitto, affondano le te, è stata uno spartiacque imprescin- lo schieramento opposto. L’accordo fu
proprie radici in quel fatidico anno. dibile. Oswald Spengler parla di “tra- rinnovato nel 1887, aggiungendo un
Quella proposta dall’autore è una vi- monto dell’Occidente” in riferimento patto italo-austriaco che prevedeva
sione geopolitica e socio-storica che alla Prima Guerra Mondiale, per compensi nel caso di mutamenti nello
porterebbe a ritenere le due guerre sottolineare come e quanto, dal 1914 status quo balcanico e un patto italomondiali parte di unico periodo, la in poi, il modo di concepire l’Europa tedesco che garantiva all’Italia la difecui fine coinciderebbe con il 1991 e a livello politico e persino geografico sa dei suoi interessi nell’Africa settencioè con il dissolvimento dell’URSS. sia cambiato. Si considerino il Trat- trionale. Successivamente, nel 1896,
A detta di Hobsbawm il secolo breve tato di Saint Germain in riferimento la Germania rifiutò di accompagnare
“è finito in un disordine mondiale di alla nascita dei cosiddetti “territori di nuovo il trattato con la dichiarazionatura poco chiara e senza che ci sia irredenti”, il Trattato di Versailles – ne del 1882 riguardo alla Gran Breun meccanismo ovvio per porvi fine in riferimento alla pesante sconfitta tagna (che prevedeva che l’Alleanza
o per tenerlo sotto controllo”: il 1914 della Germania
farebbe così parte di un quadro ben e all’alimentarLa comune preoccupazione per
più ampio e complesso, che incorni- si dello spirito
cia eventi posteriori come la guerra di revanche –
la politica imperialista tedesca
del Golfo e che ha ancora forti riper- e i trattati di
suggellò la triplice intesa
cussioni sull’epoca contemporanea. Sévres, di NeuD’altronde, già negli anni precedenti illy e di Triastavano maturando le condizioni per non, che portarono al disgregarsi non potesse essere rivolta contro la
quella che gli storici hanno denomi- dell’impero ottomano e dell’impero Gran Bretagna). Nel 1902 l’Italia otnato “guerra totale”, che rappresenta austro-ungarico, i due grandi Imperi tenne che l’Austria s’impegnasse a
un’innovazione in campo bellico. Si centrali. La Prima Guerra Mondiale, consentire un eventuale intervento
tratta di una sorta di tragica “demo- inoltre, fu uno spartiacque anche per in Tripolitania e Cirenaica; l’alleancratizzazione della guerra”, ossia del- i rapporti tra l’Europa e gli Stati Uni- za fu rinnovata ancora nel 1908 e per
la partecipazione non solo fisica, ma ti. I famosi Quattordici punti di Wo- l’ultima volta nel 1912, aggiungendo
anche psicologica, delle popolazioni odrow Wilson costituiscono la prova nelle convenzioni l’inclusione della
civili dei paesi coinvolti nel conflitto: più emblematica del ruolo di primo Libia italiana nell’assetto mediterradonne, bambini e anziani, rimasti a piano acquisito dal “nuovo mondo” neo da mantenere. La triplice intesa
popolare le città mentre gli uomini si nella politica mondiale: oltre a rilan- invece fu stipulata da Gran Bretatrovavano al fronte. Il 1914, pertanto, ciare il liberalismo su nuove basi, essi gna, Francia e Russia, le ultime due
fu un anno cruciale sotto molteplici sancirono anche il diritto all’autode- già strette nella duplice alleanza, tra
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Molto spesso, quando si studia la
storia, si è tentatati di chiedersi chi
siano i “buoni” e chi siano i “cattivi”.
Non a caso, uno dei temi ad oggi
più dibattuti in ambito storiografico
resta quello della responsabilità della
grande guerra. Lo scozzese Niall
Ferguson, per esempio, professore
di storia ad Harvard, nel suo saggio
The Pity of War afferma che la
guerra assunse proporzioni mondiali
a causa dell’entrata in campo della
Gran Bretagna: se essa fosse rimasta
neutrale, la Germania avrebbe
quasi sicuramente vinto la guerra,
nel 1916. Sotto l’egemonia tedesca
si sarebbe verificata la creazione
di un mercato comune europeo con
80 anni di anticipo e il mondo non
avrebbe dovuto subire le calamità dei
totalitarismi, di una seconda guerra
mondiale e della guerra fredda.
Un’altra conseguenza importantissima, almeno secondo il punto di vista inglese, sarebbe stata una nuova situazione geopolitica in cui la Gran Bretagna
sarebbe rimasta una grande potenza,
conservando buona parte dell’influenza che ancora esercitava prima della
guerra. Ovviamente questo saggio ha
provocato molte polemiche. Cionondimeno, la Bbc progetta di dedicargli uno
spazio nella programmazione dedicata
al centenario. Lo stesso vale per una
tesi contrapposta, più tradizionale,
espressa da Sir Max Hastings (giornalista e storico) nel saggio Catastrophe
1914: Europe goes to war, in cui si imputa la responsabilità principale alla
Germania, colpevole di non aver impedito che la situazione creata dall’attentato di Sarajevo degenerasse. Inoltre, il
saggio approva la scelta inglese di entrare in guerra, sebbene Hastings non
risparmi critiche nei confronti dei politici di allora, i quali si erano assunti
impegni militari che la Gran Bretagna,
priva di un esercito di leva, non era
preparata ad affrontare. Infine, vale la
pena di menzionare un terzo punto di
vista, ossia quello di Cristopher Clark.
Nel suo volume The Sleepwalkers. How
Europe Went to War in 1914, egli sostiene, come molti altri, che le responsabilità della guerra siano collettive
e che si sia trattato, nello specifico, di
irresponsabilità (da cui il titolo I Sonnambuli): a suo dire la Grande Guerra
è stata una tragedia, più che un crimine, determinata dal sommarsi di molti
fattori.
PANORAMA PER I GIOVANI
7
Susan Law Cain / shutterstock.com
Illustrazione raffigurante il comandante
francese Jean-Baptiste Marchand alla testa
delle sue truppe durante la spedizione in
Africa.
il 1904 e il 1907. Il contrasto anglofrancese fu definitivamente risolto
con l’entente cordiale del 1904, mentre nel 1907 Gran Bretagna e Russia
giunsero a un accordo per la sistemazione dei rispettivi interessi in Asia
centrale. A spingere le tre nazioni a
comporre definitivamente le loro rivalità, con il Patto di Londra del 1914,
LA GRANDE GUERRA
fu la comune preoccupazione per la
politica imperialistica della Germania; la triplice intesa si costituì perciò contro questa minaccia, fronteggiandola compattamente durante la
prima guerra mondiale, insieme con
l’Italia, che si aggiunse nell’aprile del
1915 con il Patto segreto di Londra.
IN GUERRA SI PUÒ PARLARE DI
BUONI O CATTIVI?
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LA GRANDE GUERRA
VIVERE IN TRINCEA
For many people, World War I means one thing: trenches. These
narrow tunnels in the soil were home to millions of soldiers
throughout the conflict. Despite the appalling living conditions, many
soldiers managed to survive the war. Living or dying in the trenches
was only a matter of fate.
di Davide di Gioia
Nell’immaginario collettivo, la grande
guerra è associata per lo più a un elemento: la guerra di trincea, combattuta in stretti cunicoli profondi pochi
metri nel terreno, scavati per proteggersi dalle armi del nemico. Perché
si è ricorsi a questo espediente, per
quale motivo mutare le tradizionali
strategie che avevano dominato l’Ottocento?
Una delle ragioni principali è che
le nuove armi, quali mitragliatrici
e cannoni pesanti, erano difficili da
trasportare, il che favoriva un approccio difensivo, scoraggiando ogni
tentavo di attacco, ancora di stampo
ottocentesco, consistente in ondate di
fanteria e cavalleria. Inoltre la rivoluzione industriale aveva comportato
un incredibile aumento della capacità
produttiva dei paesi in lotta, permettendo loro uno stabile flusso di rifornimenti e favorendo il mantenimento
delle posizioni occupate. Solo verso la
fine del conflitto sarebbero stati utiliz-
zati, anche se in maniera sporadica,
carri armati e aerei, due elementi che
avrebbero caratterizzato la seconda
guerra mondiale, rendendo le trincee,
di fatto, inutili.
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PANORAMA PER I GIOVANI
LA STRUTTURA
Soldati statunitensi sul fronte francese.
Susan Law Cain / shutterstock.com
Di norma, le linee trincerate erano
tre: la prima linea poteva distare anche poche decine di metri da quella
nemica; qualche centinaio di metri
più indietro c’erano quelle di rinforzo, mentre ancora più arretrate si
trovavano le trincee di riserva. Esse
vanno divise in tre ulteriori classi in
base alla funzione: di combattimento,
dove i soldati si appostavano durante gli scontri; di comunicazione, che
correvano perpendicolarmente alle
linee principali permettendo il passaggio dall’una all’altra; infine le cosiddette saps, trincee sotterranee che
si spingevano all’interno della “terra
di nessuno”, ovverosia la zona tra i
due eserciti, e consentivano l’acces-
so agli avamposti di osservazione, ai
posti d’ascolto, alle aree per il lancio
delle granate e alla disposizione delle
mitragliatrici. Le trincee da combattimento erano solitamente profonde
un paio di metri e larghe poco meno.
Il lato che guardava verso il nemico
era munito di un parapetto formato
da sacchi di sabbia e lamiere di ferro
che sporgevano di un altro metro. Nelle pareti erano scavate delle buche per
uno o due uomini, mentre più in profondità vi erano altri ricoveri sotterranei utilizzati come sedi del comando
e come alloggio degli ufficiali. Perché
fossero ben costruite, le linee non dovevano essere rettilinee, in maniera
tale da contenere i danni in caso di attacco nemico: così, le schegge e i proiettili provenienti da una sezione non
potevano raggiungere le altre. Reticoli
di filo spinato erano posti davanti alla
prima linea per frenare un’eventuale avanzata dei nemici, ma dovevano
essere abbastanza lontani affinché
questi non potessero appostarvisi col
fine di lanciare granate. Per districarsi in questo intreccio di cunicoli erano
presenti veri e propri segnali stradali, che indirizzavano il traffico verso
settori identificati informalmente con
nomi di zone di città (Piccadilly, Hyde
Park Corner): forse un modo per far
sentire i soldati più vicini a casa.
1 - 2014
Vi erano inoltre enormi differenze fra le trincee dei diversi eserciti.
Quelle inglesi erano umide, fredde e
squallide, costruite in questo modo a
causa di vari fattori: gli anglosassoni
vedevano le trincee come ripari temporanei, poiché vi era la convinzione,
almeno inizialmente, che la guerra
sarebbe finita in breve tempo e che
quindi quei ripari di fortuna sarebbero stati abbandonati presto. Inoltre
era inutile fortificare eccessivamente
una posizione, poiché le nuove armi
l’avrebbero demolita molto facilmente. Simili erano le strutture francesi,
sporche e pensate come temporanee.
Per contro, le trincee tedesche erano
molto precise, profonde, pulite, quasi
confortevoli. Vi erano complessi scavati anche a dieci metri di profondità,
con pareti ricoperte di assi, corridoi e
soffitti, scale di legno, mobili, e in alcuni casi anche luce elettrica, acqua
corrente e vere e proprie cucine. Da
ciò si può intuire come i tedeschi intendessero mantenere tali posizioni.
UNA TIPICA GIORNATA
SUL FRONTE
La giornata di un soldato iniziava circa un’ora prima dell’alba, spesso verso
le 4:30. Poiché questo era il momento preferito dal nemico per sferrare
un attacco, all’ordine “stand to” ogni
uomo saliva sulla banchina di tiro con
le armi spianate scrutando la terra di
nessuno. Quando ormai si era fatto
giorno ed era evidente che non ci sarebbe stato un attacco, ognuno “smontava” e tutti, a piccoli gruppi, cominciavano a prepararsi la colazione,
utilizzando le razioni portate durante
la notte, cucinate su piccoli fuochi,
possibilmente senza fumo. Per i più
fortunati c’era la possibilità di avere
un po’ del forte rum governativo, mescolato nel tè o consumato liscio. Questa bevanda era inoltre distribuita in
maggiore quantità prima di un assalto, per eccitare le truppe e sventare il
cosiddetto shock da bombardamento.
Durante il giorno, i soldati pulivano
le armi e riparavano le parti della
trincea che erano state danneggiate
durante la notte, scrivevano lettere,
dormivano o badavano alle proprie
faccende personali. Gli ufficiali ispezionavano e indagavano sullo stato
LA GRANDE GUERRA
GUERRA SULLE ALPI
Scenario peculiare ed estremo è quello in cui si sono trovati ad operare i
soldati impegnati sul fronte italiano, in particolare sulle Alpi. Mai si erano
combattute battaglie ad altitudini così elevate, a volte con il fronte a più di
tremila metri di altezza, come nel caso del Massiccio dell’Adamello, tra Lombardia e Alto Adige, o nei pressi della Marmolada, fra Trentino e Veneto. La
maggior parte dei combattenti faceva parte del corpo degli Alpini, composto
da giovani reclutati nelle zone di montagna, abituati a spostarsi su quel tipo
di terreni e a sopportare temperature particolarmente rigide. Per oltre due
anni rimasero in quota lottando, trasportando materiali, armi, attrezzature,
viveri e costruendo baraccamenti, appostamenti e sistemi trincerati visibili
ancora oggi. Vi erano casi in cui queste strutture furono costruite direttamente all’interno dei ghiacciai.
La situazione era resa ancora più critica dall’assoluta inadeguatezza, almeno dalla parte italiana, dell’equipaggiamento distribuito. Spesso nei baraccamenti le uniche fonti di calore erano costituite dai piccoli fornelletti per le
vivande, i vestiti di lana erano pochi e molti dovettero costruirsi occhiali da
sole fatti di alluminio per prevenire i danni provocati dai raggi solari riflessi
dalla neve. Inoltre, nella fase iniziale del conflitto, le uniformi erano di colore grigio-verde, rendendo l’individuazione sul manto nevoso estremamente
semplice.
Altra figura importante è stata quella dei cosiddetti portatori: volontari,
soprattutto di sesso femminile, che si erano arruolati per trasportare dalle
retrovie armi, munizioni, attrezzature e vivande ai soldati in cima alle montagne.
d’animo delle truppe, compilavano
moduli per i rifornimenti, si accertavano dei danni e delle vittime della
notte. Dopo l’adunata serale cominciava il vero lavoro.
La maggior parte delle attività si
svolgeva al di fuori delle trincee. I genieri riparavano i reticolati di fronte
alla posizione, le squadre di zappatori
prolungavano le gallerie sotterranee
in direzione del nemico, le squadre
addette al trasporto provvedevano
a rifornire le truppe dei materiali
necessari per le riparazioni, quali
assi di legno, sacchetti di sabbia, lamiere di ferro, munizioni e granate;
non di rado i lavori erano interrotti
da bombardamenti o colpi di mitragliatore. Vi erano inoltre squadre di
guastatori, che avevano il compito di
danneggiare le postazioni nemiche,
e pattuglie che operavano nella terra di nessuno. Gli uomini, tuttavia,
non erano gli unici inquilini: c’era un
gran numero di ratti che si cibavano
della carne dei soldati e dei cavalli
morti, mentre i pidocchi infestavano
ogni luogo, costringendo addetti specializzati a combatterne la proliferazione, seppur con scarsi risultati.
I soldati dovevano anche convivere
con l’odore nauseabondo della carne
in putrefazione; non era raro, infatti,
che commilitoni deceduti, cavalli o altri animali non venissero sepolti per
mesi, scene cui, nella tragedia della
guerra, si faceva l’abitudine. Con l’avvicinarsi dell’alba, ognuno cercava
di terminare il proprio lavoro, poi si
scrutavano le linee nemiche cercando
di individuare le modifiche apportate
dall’altro esercito. E tutto ricominciava come il giorno precedente.
Nonostante queste condizioni agghiaccianti, molti soldati sono sopravvissuti, anche se spesso feriti, talora
anche gravemente. E molti poterono
tornare a casa a guerra finita. In effetti, gli scontri erano rari, anche se
sanguinosissimi, con decine se non
centinaia di migliaia di uomini che
perdevano la vita. La maggior parte
dei giorni trascorreva senza spargimenti di sangue e la sorte giocava così
un ruolo decisivo: si poteva passare la
propria permanenza al fronte senza
trovarsi coinvolti in un conflitto a fuoco, oppure arrivare poco prima di un
assalto al nemico, che avrebbe significato morte quasi certa.
PANORAMA PER I GIOVANI
9
CHIMICA LETALE
LO SVILUPPO DI UN’ARMA DI DISTRUZIONE DI MASSA
A chemical weapon is a device containing toxic chemicals within a
delivery system. Responsible for slow and agonizing death, chemical
warfare has always aroused a strong emotional reaction in the general
public. The use of such substances as weapons of mass destruction
began with World War I. Chlorine, phosgene and mustard gas, the
main gases used, had devastating effects.
di Sara Gabrielli
Trincee, maschere anti-gas, soldati che si divincolano lottando contro
sostanze sconosciute: queste sono
le immagini associate al primo conflitto mondiale che più sono rimaste
impresse nella memoria collettiva.
In ogni scontro bellico l’obiettivo di
sopraffare il nemico ha portato a una
corsa per il potenziamento di armi e
mezzi tecnici. La ricerca scientifica è
stata di conseguenza sfruttata spesso
sina e zolfo. Un episodio simile avvenne in Siria nel 256 d.C., quando i
Sasanidi attaccarono la città siriana
di Dura Europos, allora controllata
dai Romani, sfruttando zolfo e bitume
infiammato. Nel XV secolo Leonardo
da Vinci propose a Ludovico il Moro
l’utilizzo di solfuro di arsenico e acetato di rame. Alcune sostanze tossiche
vennero impiegate in battaglia anche
nel 1672 durante l’assedio alla città di
Groninga, episodio
che portò
La prima volta in cui vennero
a includere nel
utilizzate armi chimiche su vasta
trattato di Strasburgo del 1675
scala fu il 22 aprile 1915 ad Ypres
un articolo che
per soddisfare esigenze militari. Ciò vietasse l’uso di pallottole avvelenate.
che durante la prima guerra mondia- Ulteriori riferimenti all’impiego di
le sconvolse l’opinione pubblica non armi chimiche vennero inseriti in
fu tanto l’introduzione di armi la cui alcuni accordi internazionali nei deforza risedesse in una maggiore preci- cenni anteriori alla guerra del 1915sione o in una più potente detonazio- 1918. Sia nelle Conferenze di Bruxelne, quanto l’utilizzo massiccio di armi
chimiche, letali a causa delle proprietà tossiche dei composti sfruttati. Per
la prima volta i soldati furono sorpresi
da enormi nubi gialle e verdi o addirittura costretti a combattere contro
un nemico pressoché invisibile, ma in
grado di suscitare più orrore di una
granata.
Questa tipologia di armi era già
stata impiegata in numerose occasioni: la testimonianza archeologica più
antica dell’uso di gas velenosi risale
alla guerra del Peloponneso (V secolo a.C.), durante la quale gli spartani tentarono di indebolire gli ateniesi
tramite la combustione di legno, reSoldati statunitensi intenti a scrutare la
terra di nessuno.
10
PANORAMA PER I GIOVANI
les del 1864 e del 1874, che nelle Convenzioni dell’Aja del 1899 e del 1907,
venne proibita la diffusione di gas
tossici e l’uso di veleni o di armi velenose. Nonostante i numerosi tentativi
di restrizione nell’uso di agenti chimici in guerra, durante il primo conflitto mondiale furono rilasciate circa
124.000 tonnellate di gas letali e le
armi chimiche assunsero la connotazione di armi di distruzione di massa.
La prima volta in cui vennero utilizzate armi chimiche su vasta scala fu
il 22 aprile 1915, presso la cittadina
belga di Ypres: in quell’occasione,
le truppe tedesche impiegarono l’iprite (solfuro di 2,2’-diclorodietile)
contro i francesi al fine di destabilizzare la linea nemica e di porre
fine alla staticità che aveva caratterizzato fino ad allora il conflitto.
Il gas mostarda, com’è altrimenti
chiamata l’iprite, a causa del suo caratteristico odore di senape, rientra
nella categoria degli agenti vescicanti: gli effetti causati dall’esposizione a questa sostanza si riscontrano
dapprima sull’apparato visivo, per
poi manifestarsi sull’apparato respiratorio e sulla pelle, tramite la comparsa di irritazioni cutanee e vesciche. Oltre all’iprite vennero utilizzati
diversi agenti asfissianti, come cloro,
fosgene (cloruro di carbonile) e cloropicrina (nitrocloroformio), che, se
inalati, causavano edema polmonare
acuto. Essendo più pesanti dell’aria,
queste sostanze si depositavano den-
Susan Law Cain / shutterstock.com
LA GRANDE GUERRA
Foto: Adriano Zanini Astaldi
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LA GRANDE GUERRA
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Soldati inglesi armano batterie Livens per
colpire i tedeschi con il gas.
tro le trincee, costringendo i soldati alla fuga: al fosgene si deve l’80%
dei decessi causati da agenti chimici
nel conflitto, mentre la cloropicrina,
pur essendo meno pericolosa, venne
largamente utilizzata poiché riusciva
ad attraversare le maschere antigas.
Per il corretto utilizzo di armi chimiche non era sufficiente una conoscenza
approfondita delle caratteristiche dei
composti sfruttati: imprescindibile era
lo studio delle caratteristiche dell’ambiente – condizioni meteorologiche e
temperatura – in cui sarebbe avvenuto l’attacco. Spesso, infatti, a causa di
errori nella valutazione della direzione del vento o nella predizione delle
precipitazioni, gas indirizzati verso gli
avversari seguivano poi la direzione
opposta. Peraltro, temperature eccessivamente rigide o elevate condizionavano termodinamicamente reazioni
tra i gas usati e l’aria esterna, mentre
eventuali piogge portavano il gas in
soluzione, diminuendone l’efficacia.
Gli effetti dei gas spinsero le potenze
coinvolte nel conflitto a organizzare
un programma di armamento chimico che comprendesse anche sistemi
di protezione per le truppe: le nazioni
alleate commissionarono questi programmi in misura maggiore dal momento che non avevano inizialmente
previsto un adeguato piano di difesa
contro gli attacchi al gas. L’industria
chimica vide un periodo di enorme sviluppo dal momento che tutti gli Stati
si dedicarono più o meno intensamente all’uso militare di composti aggres-
In conclusione, le proibizioni del Protocollo furono percepite con minore
priorità rispetto alla necessità di armamento delle grandi potenze alle
porte del secondo conflitto mondiale.
Negli anni Trenta si assistette all’affermazione di nuove armi di distruzione di massa, come le armi biologiche, e anche la chimica continuò
ad essere sfruttata per fini bellici.
Dalla seconda guerra mondiale ad
oggi sono stati numerosi gli episodi
che hanno visto un ulteriore sfruttamento di armi chimiche: dall’uso
di defolianti e diserbanti nel corso
della guerra in Vietnam, all’impiego
di agente mostarda e gas nervini da
parte dell’Iraq contro le truppe iraniane durante il conflitto del 19801988. Nel 1935 fu l’Italia a sfruttare
questi mezzi durante la guerra d’Abissinia, facendo cadere 272 tonnellate di iprite sulla resistenza e sparando proiettili caricati con sostanze
sivi. Tuttavia, concluso il conflitto,
l’impatto fisico e psicologico causato
da questi mezzi di combattimento fu
tale che tra i temi discussi durante le
trattative di pace non poté mancare
quello riguardante le armi chimiche.
Nel 1919 il Trattato di Versailles mise al bando la produzione e
la fabbricazione di armi chiTutti gli stati si impegnarono
miche, ma ben
a non usare agenti chimici
più importante
in materia fu
quale strumento di guerra
il Protocollo di
Ginevra (Protocol for the prohibition velenose sulla popolazione civile.
of the use in war of asphyxiating, poi- Oltre il Protocollo di Ginevra, occorsonous or other gases, and of bacterio- re menzionare altri due accordi sul
logical methods of warfare), firmato il bando delle armi chimiche: l’appro17 giugno 1925. Nonostante il tentati- vazione, durante la Conferenza delle
vo di porre il Protocollo come norma di Nazioni Unite del 1966-1978, di alcudiritto internazionale accettata uni- ne risoluzioni riguardanti tale divieto
versalmente, esso si rivelò inefficace e la Convenzione sulle armi chimiche
poiché lasciò alcuni punti in sospeso. del 1993 (Convenzione sulla proibizioInnanzitutto, benché fosse stato vieta- ne dello sviluppo, la produzione, l’acto l’uso di armi chimiche, non fu risol- cumulo e l’uso delle armi chimiche e
ta la questione riguardo la loro produ- sulla loro distruzione).
zione e il loro trasferimento. Il secondo Nonostante l’impegno delle istituzioni
limite del Protocollo fu l’assenza delle nella gestione di queste armi, il periratifiche di molti stati: come conse- colo di nuovi attacchi tramite agenti
guenza, alcune nazioni continuarono chimici rimane costante, come dimoa usare armi chimiche nel periodo tra stra quanto avvenuto in Siria l’estate
le due guerre, mentre altri stati, come scorsa: di fronte alla corsa inarrestabila Germania, continuarono a svilup- le della scienza, allo snellimento della
pare la propria capacità chimica mi- produzione industriale e alle nuove
litare. La ricerca tedesca raggiunse scoperte nel mondo della chimica, oggi
un livello talmente alto da portare è richiesta alle potenze internazionali
addirittura alla scoperta dei gas ner- una cautela ancora maggiore, rispetto
vini, come lo RS-2-fluoro-metil-fosfo- al passato, nella risoluzione di future
ril-ossopropano,più noto come sarin. instabilità geopolitiche.
PANORAMA PER I GIOVANI
11
1 - 2014
LA GRANDE GUERRA
L’AREONAUTICA
DURANTE LA PRIMA GUERRA MONDIALE
During World War I, airplanes were used in combat for the first time.
Aeronautical technology showed such a rapid development that, by
the end of the conflict, Air Forces had become a fundamental part of
modern armies and pilots were hailed as heroes by their nations.
Italian aeronautic research played a pivotal role in the conquest of the
skies.
di Saverio Cambioni
di tensione che rimangono nel piano
dell’ala. Tuttavia, alcune condizioni, come la velocità o la presenza di
turbolenze e raffiche, spesso rappresentavano una minaccia alla stabilità
della struttura a membrana, il che
impediva, di fatto, di compiere quelle
manovre necessarie per primeggiare
in un duello aereo o per sfuggire a
eventuali attacchi da terra.
Un secondo motivo di perplessità
era rappresentato dalla motoristica.
I primi aerei erano dotati di pesanti motori a pistoni che, pur fornendo
una potenza adeguata al decollo e al
volo di crociera, non permettevano di
raggiungere velocità elevate. Volando
lentamente, gli aeroplani godevano di
12
PANORAMA PER I GIOVANI
Sotto: Dirigibile Italiano in fase di
atterraggio a Ciampino nel 1918.
m.bonotto / shutterstock.com
Allo scoppio della prima guerra mondiale, l’aeronautica militare era una
branca dell’ingegneria ancora in fase
embrionale: i fratelli Wright avevano
compiuto la propria impresa appena
dieci anni prima e i vertici delle forze armate erano ancora molto scettici
circa le reali potenzialità degli aerei
da guerra.
Fu l’impegno bellico a dare un contributo decisivo alla ricerca e allo sviluppo di nuove tecnologie aeronautiche:
gli aerei furono potenziati, tanto nella
struttura quanto nella componente
motoristica e, alla varietà delle missioni, corrispose l’impiego di differenti
tipi di velivoli.
Come mai vi fu una così forte, seppur
solo iniziale, diffidenza nel concepire
gli aerei come strumento di offesa?
Numerosi fattori contribuirono allo
scetticismo iniziale, il primo dei quali
fu la struttura degli aerei. Il materiale
adoperato per il telaio era il legno e
soltanto alcuni rinforzi erano realizzati in metallo. Per quanto leggera e
resistente potesse essere, una siffatta
struttura era vulnerabile davanti a
ogni rudimentale forma di contraerea. Inoltre, l’estrema sensibilità del
legno all’umidità rendeva rischiose le
missioni in condizioni atmosferiche
avverse, soprattutto se il velivolo era
già stato esposto a intemperie.
Quanto alla realizzazione delle ali,
semplici tessuti avvolgevano il telaio,
assicurando il raggiungimento dello
stato membranale di tensione sull’ala, termine tecnico che sta a indicare
il bilanciamento tra la portanza (la
forza che consente all’aereo di volare)
e la resistenza aerodinamica (somma
di tutte le forze che si oppongono al
moto del velivolo), con le sollecitazioni
un’ottima stabilità, ma ciò, ancora una
volta, rendeva impossibile eseguire
manovre complesse e compiere attacchi a sorpresa.
Infine, il livello rudimentale degli
strumenti di aeronavigazione montati
a bordo destò non poche perplessità
nei generali dell’epoca. Di norma, la
navigazione era basata su mappe che
venivano consultate durante il volo;
tuttavia, in loro assenza, i piloti erano
costretti a orientarsi tramite l’osservazione dei territori sottostanti. Esperienza e intuito erano, il più delle volte,
gli unici strumenti per valutare la propria posizione e, in non poche occasioni, interpretazioni fallaci costarono la
vita ai piloti meno abili.
In un primo momento, a causa di tali
fattori, i biplani venivano impiegati
solo per ricognizioni in territorio nemico. Ai piloti era ordinato di scattare
fotografie aeree dei campi di battaglia
ed essi erano raramente armati, il che
rendeva fatale un eventuale incontro
con forze ostili.
Cionondimeno, le potenzialità dell’aviazione divennero evidenti in breve
tempo non solo ai militari: agli occhi
Foto: C. J. von Dühren
IL BARONE ROSSO E IL CAVALLINO RAMPANTE
Manfred von Richthofen, noto con il soprannome di Rote Baron, fu un aviatore
tedesco, riconosciuto universalmente come l’asso dei cieli durante la prima guerra mondiale. Egli conseguì 80 vittorie sinché non venne abbattuto ed ucciso dalla
contraerea australiana nell’aprile del 1918. Osannato come eroe della nazione dai
tedeschi, temuto e rispettato dai soldati della Triplice Intesa, che, nel rosso del suo
triplano, impararono a riconoscere una seria minaccia, il Barone Rosso, o il Diavolo
Rosso come lo chiamavano i francesi, compì molte missioni a capo di una squadriglia nota come il “circo volante”. Fra i membri del gruppo spiccava un uomo poi divenuto tristemente famoso: Hermann Göring, futuro capo della Luftwaffe nazista.
Anche l’Italia ebbe il suo asso nel maggiore Francesco Baracca, il quale, nel corso
della sua illustre carriera, abbatté 34 aerei nemici finché non venne a sua volta
ucciso. Il pilota dipinse sulla fiancata sinistra del proprio velivolo un cavallino rampante nero; anni dopo, in suo onore, Enzo Ferrari adottò tale simbolo per la propria
casa automobilistica.
degli intellettuali, infatti, gli aeromobili apparivano come nuovi mezzi
di manifestazione. A tal proposito, fu
emblematica l’impresa di Gabriele
D’Annunzio, che il 9 agosto 1918 volò
su Vienna assieme ad altri piloti dell’aeronautica italiana, con l’obiettivo di
lanciare 50.000 volantini che magnificassero la potenza nazionale.
Nel corso del conflitto, la tecnologia aeronautica andò incontro ad una
rapida evoluzione. Basti pensare che
gli aerei sostituirono i dirigibili come
strumento di offesa e di ricognizione,
anche se – è doveroso sottolinearlo – i
veri progressi strategici si registrarono
solo verso la fine della Grande Guerra,
quando le sorti del conflitto erano ormai decise.
Le forze armate coinvolsero le industrie
e le università per sviluppare le potenzialità degli aerei e la ricerca condusse
allo sviluppo di due differenti tipologie
di aircraft: gli aerei da combattimento
e gli aerei da bombardamento. I primi
furono resi molto snelli e veloci, adatti
al duello nei cieli e alla ricognizione a
bassa quota, mentre gli altri, più robusti, vennero utilizzati per il bombardamento delle linee nemiche, nonché per
il trasporto di merci e di soldati.
Dopo le prime missioni vittoriose, la
propaganda dei singoli paesi cominciò
a dipingere i piloti come eroi moderni,
il che contribuì ad alimentare l’immaginario collettivo, al punto che molti
tra loro divennero popolari sia fra i civili che fra i soldati. L’aviazione divenne un’arma psicologica utile per incutere timore nel nemico e per mantene-
però, non ottenne i risultati auspicare acceso l’impeto bellico nei cittadini.
È degno di nota il caso dell’Inghil- ti, soprattutto se messi a confronto
terra, la quale contrappose all’aero- con le prestazioni delle aeronavi nenautica degli Imperi centrali i Royal miche. Vero promotore dell’aviazione
flying corps, il cui motto era “Per ar- italiana fu il generale Giulio Douhet:
dua ad astra”, ovverosia “attraverso per primo egli intuì l’importanza
le asperità alle stelle”. Benché i te- strategica del bombardamento aereo,
deschi potessero contare su un con- che descrisse nel suo libro Il dominio
tingente aereo più cospicuo rispetto dell’aria. Douhet autorizzò la creazioa quello inglese, gli Rfc riuscirono a ne di una ragguardevole flotta di bomdistinguersi per valore, come testi- bardieri trimotori che si rivelarono
monia l’elevato numero di caduti tra i decisivi nei raid in territorio austrialoro ranghi. L’organizzazione del volo co. Tuttavia, il generale aveva agidegli aerei degli Rfc rispecchiava del to senza il permesso dei vertici delle
tutto l’arretratezza dell’equiDopo le prime missioni vittoriose,
paggiamento di
le propagande cominiciarono a
allora: il pilota,
abbandonato
dipingere i piloti come eroi moderni
interamente a
se stesso, doveva manovrare l’aereo, forze armate e per questo fu sollevato
spiare il territorio nemico e comunica- dall’incarico. Alle sue aspre critiche,
scagliate contro l’ottuso scetticismo
re le informazioni a terra.
Un importante contributo alla ri- dei propri superiori, questi reagirono
soluzione del conflitto fu garantito imprigionandolo. Eppure, l’impulso
dall’aeronautica italiana. L’Italia fu dato da Douhet all’aviazione italiana
la prima nazione a impiegare gli aerei fu tale che l’apparato produttivo si
come strumento di offesa, in partico- trasformò radicalmente, rendendo l’Ilare durante la guerra italo-turca nel talia una potenza di tutto rispetto in
1911. Ciononostante, al proprio in- ambito aeronautico.
gresso nel conflitto il 23 maggio 1915, A guerra conclusa, l’importanza stral’Italia non disponeva di un apparato tegica dell’aviazione era ormai lamindustriale in grado di produrre un pante ed il possesso di una flotta aeconsistente numero di aeromobili. Dal rea efficiente divenne un simbolo capunto di vista strategico, l’aviazione ratteristico di supremazia. L’aeropladoveva superare l’arco alpino per com- no avrebbe trovato un impiego ancora
piere incursioni nel territorio nemico. più massiccio nella seconda guerra
Pertanto, onde consentire il bombar- mondiale, allorché l’aviazione divenne
damento a lungo raggio, fu costituita una delle armi più significative per il
una formazione di dirigibili, la quale, conseguimento della vittoria.
PANORAMA PER I GIOVANI
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1 - 2014
LA GRANDE GUERRA
LO SVILUPPO DELLA CHIRURGIA
DURANTE LA GUERRA
World War I saw a horrific number of wounded and maimed soldiers.
As a consequence, surgeons were provided with a laboratory where
they had the opportunity to invent and refine new techniques for
facial and body reconstruction. This was of major importance for the
birth of modern plastic surgery, which would continue to develop to
our days.
di Claudia Fede Spicchiale
mo, o meglio, da quando esiste l’uomo
come soggetto integrato in comunità
con propri usi e costumi, esistono pratiche di medicina estetica e chirurgia
plastica, elaborate con il preciso scopo di evitare, per quanto possibile,
l’emarginazione del singolo. In India,
ad esempio, da ben prima dell’anno
0 e fino ai tempi della colonizzazione britannica, vigeva la mutilazione
giudiziaria con il taglio del naso per
coloro la cui condotta era giudicata
moralmente riprovevole: a questi individui la colpa era segnata sul viso.
La messa a punto dei primi rimedi a
tale menomazione risale al 600 a.C.,
quando il chirurgo Sushruta rimodellava la forma del naso e delle narici a
partire da un lembo di cute frontale
ruotato sul proprio asse vascolare: si
trattava del cosiddetto “metodo indiano” che sarebbe passato per le mani
di arabi e greci e, ancora oggi, viene
utilizzato. Nel Corpus Hippocraticum,
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PANORAMA PER I GIOVANI
Protesi in ferro di Götz von Berlichingen
del 1530 circa.
Autore anonimo, 1918
Mastoplastiche additive, lifting, liposuzioni: sono solo alcuni degli interventi più richiesti ai chirurghi plastici
da pazienti giovani e meno giovani. La
domanda crescente giustifica la ricerca costante e mirata di nuove tecniche
a rischio minimo, aspetto che rende il
campo della chirurgia plastica e ricostruttiva uno dei settori più all’avanguardia della medicina moderna, nonché uno dei più redditizi. Ovviamente
non mancano i detrattori: sono loro a
puntare il dito contro la società basata
sull’apparenza, che impone il rispetto
di canoni estetici ben definiti per non
venirne tagliati fuori, e porta alla
crisi dell’individuo. Cionondimeno,
pensare che la chirurgia plastica sia
nata apposta per soddisfare ogni irrealistico desiderio di vanità e bellezza, ovviamente a un prezzo congruo,
è una visione riduttiva e fallace. La
chirurgia plastica ha, infatti, radici
molto antiche: da quando esiste l’uo-
invece, sono descritte piccole operazioni per la cura del labbro leporino e
altre malformazioni del volto; ancora,
la praticità e ingegnosità dei romani
non poteva rinunciare a competenze
specifiche nel trattamento dei traumi
facciali di soldati e gladiatori.
Nel Medioevo la situazione cambiò:
tutta la chirurgia fu relegata ai gradini più bassi nella scala dei mestieri, considerata mera occupazione di
macellai o barbieri. Le classi dirigenti, infatti, non potevano che diffidare
di una branca della medicina volta a
rimodellare e migliorare quello che
per sua stessa natura era un involucro effimero e di poca importanza: il
corpo. Nonostante la demonizzazione
delle malformazioni e la mortificazione della carne, nel 1597 Gaspare Trigambe da Tagliacozzo pubblicò il De
curtorum chirurgia per insitionem,
primo trattato di chirurgia ricostruttiva moderna, ottenendo a Bologna la
prima cattedra di chirurgia plastica
della storia. A chi gli muoveva accuse
di carattere etico – sottolineando che
il compito della chirurgia fosse quello
di curare, e non di migliorare il corpo
– egli era solito rispondere che il suo
operato ridava dignità e funzionalità
ad organi che la natura stessa ha fornito.
Tuttavia, affinché l’utilità della pratica chirurgica fosse riconosciuta, si
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LA GRANDE GUERRA
ad esempio, avesse bisogno di più dei diversi e spesso non volevano farsi ve15 odontoiatri allora a disposizione. dere da nessuno, neppure dai familiaPresto divenne chiaro che l’elmetto ri. Il suo impegno costante portò allo
di metallo, pur proteggendo la testa, sviluppo della tubularizzazione dei
lasciava scoperto il volto e lo rendeva lembi peduncolati, tecnica grazie alla
un facile e inerme bersaglio, esposto quale è possibile trasferire porzioni di
a proiettili, schegge e frammenti du- cute da una parte all’altra del corpo
rante l’impazzare dei combattimenti. continuando a mantenere l’irrorazioAnzi, l’elmetto contribuiva esso stesso ne sanguigna, il che si traduce in un
a procurare lesioni facciali deturpan- aumento significativo della possibilità
di attecchimento e di successo. Gillies
ti.
D’altro canto, c’era anche da fare i si occupò delle tecniche di ricostruzioconti con i grandi ustionati, sopravvis- ne facciale durante e dopo il conflitto,
suti ai gas vescicanti o agli incidenti raggiungendo risultati ragguardevoli
aerei. Serviva personale preparato e non solo per funzione, ma anche per
avvezzo a trattare con le condizioni estetica delle parti ricostruite. Il lato
più disparate – e disperate. Spesso, estetico non poteva essere trascurato:
le schegge erano in grado di portare “Grazie a una considerevole esperienvia ampi lembi za personale” – scriveva un chirurgo
di tessuto, la- di quegli anni – “sappiamo che il paDa quando esiste l’uomo esistono
sciando margini ziente vuole riavere un aspetto il più
strappati, con- normale possibile. Si sottoporrà a sofpratiche di medicina estetica e
tusi e sporchi di ferenze inenarrabili per recuperare
chirurgia plastica
terra; aumen- sembianze accettabili. Non ci sono
tava, quindi, il eccezioni a questa regola … Che senbattaglie e rivoluzioni, che venivano rischio di infezione, che era letale in so ha rimanere in vita se non si può
combattuti solo in un primo momento un mondo senza antibiotici. Renden- tentare di guadagnarsi da vivere?
con le armi da fuoco, per passare poi dosi conto dell’importanza del proble- Questa è l’opinione che il paziente che
alla baionetta o alla spada. Chi so- ma sociale che si stava delineando, Sir desidera sostentarsi fa propria”. Oltre
pravviveva riportava quindi solamen- Arbuthnot Lane riuscì a convincere la a Gillies, è d’obbligo ricordare anche
te ferite da arma bianca, mentre per Corona ad istituire un’unità di chirur- l’unità medica di soccorso voluta e
gli altri non c’era speranza.
gia facciale attrezzata per l’esercito inviata in Europa dalle università di
Le tecnologie utilizzate in trincea inglese. Così, nel 1916 a Sidcup, nel Harvard, Columbia e John Hopkins:
mutarono completamente la priorità Kent, aprì la prima unità specificata- tra i 35 chirurghi, i 3 dentisti e i 75
della chirurgia militare, con problemi mente disegnata a questo proposito: il infermieri giunti ad aiutare i colleghi
nuovi da risolvere in fretta. La vio- Queen’s Hospital, dove vennero trat- alleati in Francia, dove operarono fino
lenza e la forza distruttiva dei nuovi tati più di 2.000 pazienti rimasti or- al primo dopoguerra, vi era Varaztad
strumenti si concretizzavano nei nu- rendamente sfigurati nella battaglia Kazanjian, conosciuto come “l’uomo
meri: milioni di morti, feriti, mutilati. della Somme. Per
Lane
Eppure, molti tra i più orrendamente dirigerlo,
Con la prima guerra mondiale
feriti riuscivano comunque a soprav- scelse un giovane
vivere: l’introduzione di antisettici e otorinolaringoiacambia il modo di combattere e
anestetici permetteva, infatti, di sta- tra neozelandese
anche il tipo di ferite
alla
bilizzare pazienti che trent’anni pri- formatosi
ma non avrebbero superato le prime scuola parigina,
ore. Peraltro, non si poteva ignorare Harold Delf Gillies, che si trovò a dei miracoli del fronte occidentale”.
il fatto che la maggior parte di questi coordinare un’equipe di chirurghi e La sua specialità era la ricostruzione
giovani e valorosi combattenti erano anestesisti provenienti da Inghilter- delle mascelle smembrate per mezstati irrimediabilmente sfigurati.
ra, Francia e Stati Uniti. Considera- zo di fili metallici e ferule interne di
All’inizio del conflitto il trattamento to il padre della moderna chirurgia gomma vulcanizzata, intervento pondelle ferite maxillo-facciali non era plastica e ricostruttiva, Gillies aveva te per il successivo e più complesso inconsiderato affatto tra le principali studiato attentamente le varie tec- nesto osseo. Grazie alla sua direzione,
preoccupazioni dei chirurghi: si cono- niche di innesto e scultura dei lembi l’Unità di Harvard divenne il centro
scevano le lesioni da rissa o da tumo- vascolarizzati dai testi antichi, e non principale di cure maxillo-facciali per
re, ma si trattava pur sempre di un esitava a sperimentare nuovi tipi di l’esercito inglese in Francia. Nel pegnumero esiguo di casi, appannaggio di intervento sugli sventurati cui non gior scenario possibile si muovevano
un settore altrettanto piccolo. Nulla rimanevano molte speranze di vita le mani dei chirurghi che prendevano
faceva pensare che l’esercito inglese, normale: gli stessi feriti si sentivano confidenza con teste rotte, cicatrici desarebbe dovuto aspettare il Novecento
e gli orrori della grande guerra. Questo drammatico evento, che vide l’Europa e il mondo schierarsi per difendere gli interessi delle grandi monarchie
con un dispiegamento di forze e tecnologie mai utilizzate prima, creò una
cesura importante e inaspettata con il
passato: cambiarono il modo di combattere, i mezzi e le strategie. E cambiò anche il tipo di traumi e ferite con
cui i medici dovevano fare i conti: nessuno era pronto ad affrontare ciò che
ne sarebbe derivato. Fino ad allora i
chirurghi erano formati per tagliare,
cucire, amputare, demolire: per tutto
l’Ottocento, infatti, si erano susseguiti, quasi senza interruzioni, conflitti,
PANORAMA PER I GIOVANI
15
LA GRANDE GUERRA
turpanti e volti sfigurati, intervenendo su ciò che, secoli prima, sarebbe
stato impossibile trattare.
In realtà, la trincea pose di fronte
allo specialista nascente problemi che
avevano il sapore amaro del limite e
dell’assenza di soluzione: ovviamente,
Illustazione tratta dal De curtorum chirurgia
per insitionem (Gaspare Tagliacozzi, 1597)
della ricostruzione del naso per mezzo di
un lembo di pelle preso dal braccio. Oggi
è il simbolo della Società Italiana Chirurgia
Plastica Ricostruttiva ed Estetica.
16
ci furono casi in cui gli sforzi della medicina non furono sufficienti. In quei
casi, non molti in rapporto al numero totale dei feriti, un’arte cedette il
passo a un’altra e per preservare la
dignità del paziente furono proposte
maschere personalizzate e su misura.
Tra i primi “artisti del volto” spiccano il capitano Derwent Wood e la
scultrice Anna Coleman Ladd, che lavorarono fianco a fianco con i chirurghi nei padiglioni medici: col tempo le
due prestazioni – quella squisitamente chirurgica e quella scultorea – si
PANORAMA PER I GIOVANI
sarebbero completate l’un l’altra, fino
ad ottenere il massimo risultato, sempre nell’interesse del paziente.
Alla fine del conflitto, anche i chirurghi tornarono a casa: nessuno di loro
era per formazione chirurgo plastico
e provenendo dalle più disparate specialità si erano reinventati come tali
al momento del bisogno. In tempo di
pace, rifiutarono di lasciar morire la
nuova arte nascente e s’impegnarono
per darle una forma definita e indipendente.
Insomma, fino allo scoppio della
prima guerra mondiale le pratiche
volte a migliorare gli inestetismi o i
difetti del corpo erano state fortemente osteggiate, ritenute inutili, perfino
disprezzate. Nel dopoguerra, però, il
lavoro di ricostruzione funzionale ed
estetico non sarebbe stato liquidato
come velleitario: i chirurghi, infatti,
erano stati protagonisti della guerra
e non potevano permettere che le tecniche acquisite a costo di tanta fatica
e sofferenza andassero perdute, come
già avvenuto in passato. Sfruttando
l’interesse e la curiosità di una sempre meno diffidente opinione pubblica, alla fine dell’estate del 1921, i
dottori Henry Sage Dunhead, Truman W. Brophy e Frederick B. Moonrehead si incontrarono a Chicago
per dar vita alla prima associazione
di chirurgia plastica al mondo. Oggi,
quasi cent’anni dopo, la chirurgia plastica trova ampie applicazioni nei più
disparati campi: dalla ricostruzione
post-resezione oncologica alla microchirurgia vascolare e nervosa, dal
trattamento delle ulcere complesse
alla medicina estetica e si tratta solo
di alcuni dei settori più in espansione.
Che sia vittima di tragici incidenti o
presenti malformazioni congenite, chi
si rivolge al chirurgo plastico cerca un
modo per accettarsi ed essere accettato. Spetta allo specialista il compito di comprendere quali sono le reali
problematiche, reali o psicologiche,
del paziente nonché le sue aspettative, valutando quando operare e quando rifiutarsi di farlo. Nella ricerca di
un’armonia delle forme, sempre rispettosa dell’integrità e dell’identità
del corpo, l’intervento riuscito è l’intervento in cui la mano del chirurgo
rimane invisibile.
Illustrazione di Gaspare Tagliacozzi, 1597
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LA GUERRA UMANITARIA
IL RUOLO DELLA CROCE ROSSA
In a new scenario, ravaged by the brutality and the violence of World
War I, the Red Cross Movement faced the challenge of becoming a
truly international organization in terms of size and field of action. In
order to accomplish its humanitarian tasks, the ICRC experimented
new procedures on a larger scale and proclaimed the universality of
its mission.
National Geographic Magazine, Volume 31, 1917
di Noemi Sabatelli
Agosto 1914: mentre le maggiori potenze europee e le rispettive colonie
entravano in guerra, la Croce Rossa si
apprestava a combattere la sua battaglia su un altro campo, quello umanitario. Circa mezzo secolo era passato
dagli orrori della battaglia di Solferino, che avevano turbato Jean Henri
Dunant e lo avevano spinto a fondare
il Cicr (Comitato internazionale della Croce Rossa), organizzazione che,
negli anni successivi alla formazione,
avrebbe incoraggiato la creazione di
Società nazionali ed ottenuto gradualmente la fiducia dei governi. Particolarmente rilevante fu il contributo del
suddetto comitato alla stesura della
Convenzione per il miglioramento
delle condizioni dei feriti e dei malati
delle forze armate in campagna, nota
anche come Prima convenzione di Ginevra, adottata nel 1864 da dodici pa-
PANORAMA PER I GIOVANI
Una crocerossina sale su un treno carico di
feriti diretto a Parigi dopo aver distribuito
loro del caffè.
esi e rivista e rettificata nel 1906, al
fine di tutelare il personale militare,
ferito o ammalato, e quello sanitario
e religioso.
La volontà di salvaguardare la vita
e la dignità di chi agiva in scenari di
guerra, ideale posto alla base della
Convenzione, rappresentò, dal 1914 al
1918, il faro che guidò l’intervento del
Comitato nel primo conflitto mondiale.
Mentre si consumavano le fasi inziali della guerra, il movimento cominciò a mobilitarsi concretamente e
attivamente, sotto la protezione della
neutralità politica della Svizzera, ove
aveva e ha tuttora sede il Cicr: risale,
infatti, al 15 agosto 1914 un documento che invitava formalmente le Società nazionali a intervenire nel conflitto
attraverso opere di assistenza nei confronti di chi era coinvolto negli scontri.
L’attività della Croce rossa non si
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1 - 2014
LA GRANDE GUERRA
limitò unicamente al soccorso dei soldati feriti negli scontri, ma ebbe respiro più ampio e incluse, tra le sue
attività, il sostegno a categorie come
quelle dei civili e dei prigionieri di
guerra, escluse dalle convenzioni internazionali.Tra le azioni di supporto
nei confronti dei prigionieri di guerra,
è opportuno ricordare la creazione
della International prisoners-of-war
agency, che dalla sua istituzione, il 27
agosto 1914, aveva accolto centinaia
di volontari desiderosi di raccogliere e
far circolare informazioni riguardo ai
soldati catturati, al fine di ristabilire
Il campo d’intervento
preponderante è stato a
prigionieri di guerra
il contatto tra il mondo civile e quello dei militari impegnati al fronte.
A partire dal mese di dicembre del
1914, numerosi delegati dell’Agenzia
furono autorizzati dagli stati belligeranti a visitare i campi di prigionia,
al fine di verificare le condizioni di
detenzione e, dunque, gli aspetti concernenti il cibo, l’igiene e lo stato dei
prigionieri che, durante il conflitto,
avevano raggiunto il numero di sette
milioni, senza contare le deportazioni
di massa di civili in territorio nemico.
Alle visite seguiva, poi, la pubblicazione di rapporti contenenti commenti
ed osservazioni, i quali miravano a
sensibilizzare gli stati nei confronti
della situazione dei prigionieri e ad
incoraggiare il miglioramento delle
condizioni di reclusione. Le famiglie
degli uomini al fronte, inoltre, in attesa di aggiornamenti dai campi di
battaglia, confidavano nella Croce
Rossa, che, ogni giorno, riceveva più
di trecentomila lettere in cui parole
piene di angoscia ed apprensione testimoniavano efficacemente lo stato d’animo dei familiari dei soldati.
Dal 1914 fino al 1923, anno in cui
terminò il rilascio dei prigionieri, un
totale di 41 delegati aveva visitato 524
campi situati sul suolo europeo e non,
come ad esempio quello indiano di
Sumerpur, visitato nel 1917 nell’ambito della prima
missione umanitaria in Asia
e nel nome degli
favore dei
ideali di neutralità e di universalità dell’azione umanitaria perseguiti dal Cicr.
Le visite ai campi dei prigionieri
sono state alcune delle azioni fondamentali atte a garantire un respiro
internazionale
all’organizzazione,
assieme ai negoziati con ognuno dei
quarantaquattro stati belligeranti.
Un’altra iniziativa dell’Agenzia è
stata l’elaborazione di un archivio
contenente schede che riportavano
dati riguardanti i prigionieri di guerra, oggi conservato a Ginevra, presso
il Museo internazionale della Croce
Rossa e della Mezzaluna Rossa. Il
punto di partenza per la formazione
dell’archivio sono state le liste dei
prigionieri inviate dai singoli stati: a
partire da esse sono state elaborate
milioni di schede, grazie alle quali cir-
CROCE O MEZZALUNA?
Alle origini del movimento, l’unico emblema era quello della croce rossa,
richiamo alla neutralità della Svizzera. Tuttavia, nel 1876, la Società nazionale turca – la cui nascita era stata registrata nel 1868 – dichiarò al
governo svizzero la volontà di servirsi del simbolo della mezzaluna rossa,
riconosciuto giuridicamente nel 1929, dopo una serie di conferenze, e adottato successivamente da altri paesi. In Turchia era presente, dunque, la
Società pioniera della Mezzaluna Rossa che ha operato attivamente su
numerosi scenari di guerra, a partire dalla guerra russo-turca del 1877-78
e dal primo conflitto mondiale, durante il quale si distinse per l’attività di
trasporto dei feriti su navi.
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PANORAMA PER I GIOVANI
L’attuale sede del Comitato Internazionale
della Croce Rossa a Ginevra.
ca due milioni di prigionieri sono stati
rintracciati, nonostante l’incompletezza delle informazioni relative, in particolare, all’esercito italiano e a quello
austro-ungarico. Questo archivio, contenente una gran mole di dati, sarà il
modello al quale il Comitato si ispirerà
in seguito per l’elaborazione di banche
dati relative alla seconda guerra mondiale, alla guerra d’Algeria e, più recentemente, al genocidio in Rwanda.
Un ulteriore sforzo dell’organizzazione fu quello condotto nei confronti
dei civili, non tutelati né dalle Convenzioni di Ginevra né dalla Convenzione
dell’Aia e ai quali si voleva attribuire
uno status equivalente a quello di prigioniero di guerra. Per tale ragione, fu
aperta una sezione dell’International
prisoners-of-war agency con diverse
finalità: tra le principali, l’acquisizione di documenti ufficiali nonché la richiesta di evacuazione dei civili feriti
e malati da territori nemici o occupati.
È importante menzionare, in aggiunta a quanto già detto, l’impegno contro l’uso delle armi chimiche introdotte nel 1915 sul fronte occidentale: il
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LA GRANDE GUERRA
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Durante il conflitto, la Croce Rossa si
trasformerà da piccola associazione
a movimento mondiale
testo di un appello datato 6 febbraio
1918 fu inviato ai paesi belligeranti e
non, incontrando l’approvazione della
Danimarca, della Norvegia, della Svezia e del Vaticano, ma non pienamente quella delle maggiori potenze, tra
le quali Germania e Francia. Questo
impiego di forze ha contribuito all’adozione del Protocol for the prohibition of the use in war of asphyxiating, poisonous or other gases and of
bacteriological methods of warfare, il
primo di una serie di studi – ancora
al centro dell’attività della Croce Rossa – riguardanti le armi che colpivano
indistintamente sia civili che militari.
La presenza dell’organizzazione nel
conflitto è, stata, dunque, consistente
e ha lasciato numerose tracce, sovente impresse nell’immaginario collettivo: basti pensare all’esperienza di
Hemingway che partecipò al conflitto
come guidatore di ambulanze per la
Croce Rossa americana e che renderà
immortale la sua esperienza in Addio
alle armi. Tuttavia, personaggi illustri come Hemingway, Walt Disney
e altri rappresentano solo una parte del corpo dell’organizzazione. Un
ruolo cruciale fu giocato dalle donne:
sia come professioniste, sia come vo-
lontarie sul campo di battaglia e non,
Parallelamente, in periodo di guerra,
le donne fornirono un contributo inso- nacquero la “Croce Rossa italiana giostituibile. Spesso addestrate dalle So- vanile” e la “Commissione per le opere
cietà nazionali, le donne svolgevano antitubercolari della Croce Rossa itasvariati compiti, tra i quali l’assisten- liana”, al fine di sensibilizzare la poza negli ospedali militari, il trasporto polazione e attuare iniziative concrete
di malati e feriti ove necessario (basti per combattere la tubercolosi, che, in
citare il Red cross motor corps), il sup- un anno, causava un numero di morti
porto alle donne i cui mariti erano in pari a tre volte le vittime della guerguerra. In Italia era presente il Cor- ra. Alla conclusione del conflitto, altre
po delle infermiere volontarie della sfide attendevano il Cicr: il rimpatrio
C.R.I, che raggiunse in quegli anni più dei prigionieri di guerra, soprattutto
di ottomila unità,
sotto la guida delNegli anni del conflitto, la Croce
la Duchessa d’Aosta. Il personale
Rossa si evolve da associazione a
era attivo sopratmovimento mondiale
tutto nei treniospedale che collegavano il fronte e le retrovie e nelle quelli degli ex Imperi Centrali, e il
204 strutture ospedaliere distribuite supporto alle vittime delle rivoluzioni
in maniera capillare sul territorio, che scoppiarono in Russia e Ungheria.
spesso improvvisate in conventi o edi- Nei cinquantadue mesi del conflitto,
fici pubblici, tra cui il Quirinale, per si può ben dire che la Croce Rossa
sopperire alle necessità che la guer- pose le fondamenta per l’assunzione
ra implicava. Un duplice impegno, di un ruolo internazionale prominennelle zone di guerra e sul territorio te, nel segno di un impegno concreto
nazionale ha caratterizzato la mobi- che, non a caso, è stato ricompensato
litazione della Croce Rossa italiana, dal Premio Nobel per la pace del 1917,
i cui iscritti, a partire dal 1915, veni- l’unico assegnato durante gli anni del
vano equiparati al personale militare. conflitto.
PANORAMA PER I GIOVANI
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LA GRANDE GUERRA
SOLDATI AL FRONTE DOMESTICO:
LA GUERRA DELLE DONNE
World War I was a turning point in history, not only because of the
number of countries involved, but also for the changes it brought to
women’s lives. Substituting men in factories and other jobs, women
discovered a new kind of freedom: released from their iconic roles, they
made important steps towards emancipation.
di Francesca Parlati
suffragette inglesi. La chiamata alle
armi portò ancora di più al centro della scena la figura maschile, l’archetipo
del cittadino patriottico che imbraccia
le armi. Attorno alla figura del soldato si costituirono una serie di figure
di contorno femminili, ancora molto
legate al loro ruolo classico. Nei manifesti di propaganda, infatti, troviamo
immagini di donne che, con i bambini aggrappati alle gonne, invitano gli
uomini a partire per il fronte. Famoso anche il movimento delle “piume
bianche”, in cui, secondo un retaggio
ottocentesco, le donne consegnavano
piume bianche a chi riusciva a evitare il servizio di
leva, tacciandolo
Le donne cominciarono a lavorare
così di codardia.
L’iniziale
acnelle fabbriche di munizioni,
centramento di
mettendo a rischio la loro salute
attenzione sugli
uomini, però, fu
dificato da secoli: angeli del focolare, causato in parte dalle stesse donne: fu
badavano alla casa e ai bambini, non celebre il caso della suffragetta Emily
partecipavano alla vita politica. La Pankhurst che, allo scoppiare della
situazione era ovviamente diversa a guerra, chiese alle donne di smettere
seconda del ceto sociale, della prove- con l’attivismo politico per supportare
nienza geografica e della mentalità il governo britannico contro “la minacpiù o meno aperta di padri e mariti. cia tedesca”. Era opinione comune che
Nelle zone urbane, tra il proleta- sarebbe stata una guerra molto breve,
riato per esempio, le donne non solo rapida nelle azioni e nelle battaglie.
dovevano badare alla casa e ai figli, Nessuno si aspettava che sarebbe dema spesso lavoravano anche fuori generata in una lunga guerra di attridell’ambiente domestico, con turni to.
massacranti e paghe irrisorie. La
Col progredire del conflitto, la semguerra, con la massiccia mobilitazione pre più massiccia mobilitazione madi uomini e ragazzi, avrebbe portato a schile e la necessità di manodopera
un cambiamento.
nelle industrie belliche provocarono
Cambiamento che, tuttavia, non ar- l’ingresso delle donne in ambiti lavorivò immediatamente: in un primo rativi fino allora di prerogativa mamomento la guerra rappresentò una schile: esse cominciarono a lavorare
battuta d’arresto per i movimenti nelle fabbriche di munizioni o, più in
femministi, in particolar modo per le generale, metallurgiche, arrivando a
La prima guerra mondiale, definita
anche “la più gigantesca imbecillità
che il genere umano abbia compiuto
dal tempo delle crociate” dallo storico
Hermann Sudermann, ha rappresentato un momento spartiacque nella
storia mondiale. Gli anni che vanno
dal 1914 al 1918 segnano un momento
di frattura sia nella grande storia che
nella piccola storia, la storia quotidiana. Sono anni che vedono delle coprotagoniste inedite: le donne.
All’inizio del ventesimo secolo,
escludendo il movimento delle suffragette in Inghilterra, le donne continuavano a mantenere un ruolo co-
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PANORAMA PER I GIOVANI
mettere a rischio la loro salute. Esemplare è il caso delle operaie delle fabbriche di proiettili, che, a contatto con
la pirite ed altre sostanze chimiche, ne
venivano intossicate nel giro di pochi
giorni. L’avvenuto avvelenamento era
ulteriormente testimoniato dal colore
della pelle che, dopo solo pochi turni di lavoro, cominciava a virare sul
giallo: a causa di ciò, in Inghilterra, le
operaie venivano chiamate canaries,
canarini.
Il pesante e rischioso lavoro in fabbrica non fu l’unico svolto dalle donne. A seconda del grado di istruzione,
alcune arrivarono a coprire ruoli di
impiegate di pubbliche amministrazioni o banche, altre diventarono portalettere, fino ad arrivare al compito
considerato più scandaloso di tutti:
conducenti dei mezzi pubblici. In ogni
paese dove questo avvenne, ci furono proteste dei perbenisti: si credeva
che con donne alla guida ci sarebbe
stato un aumento degli incidenti, con
delle vere e proprie tragedie stradali. Quando, però, le statistiche degli
incidenti non risultarono alterate (in
nessun paese europeo dove le donne
avessero conquistato anche questa
posizione), il motivo di disappunto
diventarono le sigarette fumate dalle
autiste ai capolinea.
Eppure il ruolo indispensabile delle donne non poteva essere ignorato.
Nel 1917, il corrispondente del “Corriere della Sera” Ugo Ojetti scriveva:
“La fiumana di donne penetra, gorgogliando e frusciando, nei luoghi degli
uomini: campi, fabbriche... Talune, è
vero, assomigliano ai bambini, specie
quando ancora non ne hanno di propri: si stancano, si distraggono, sospirano, litigano, s’impuntano, scioperano, minacciano, strillano. Ma le più,
insomma, lavorano e sono preziose, e
s’ha bisogno di loro... La donna è prima di tutto un essere pratico il cui lavoro sociale è utilissimo. La frase ben
definisce l’atteggiamento ambivalente
che la società teneva con le donne:
un certo riconoscimento della necessità del loro lavoro, della resistenza
sul fronte domestico, ma anche una
vena di paternalismo, che voleva farle
apparire non in grado di essere totalmente indipendenti senza una guida.
Per questo motivo le donne, pur lavo-
Susan Law Cain / shutterstock.com
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rando quanto gli uomini in tempo di
pace, venivano pagate molto meno.
Nei paesi non coinvolti territorialmente nel conflitto, gli anni della
prima guerra mondiale furono anni
di scioperi, proteste e lotte per migliorare i salari e i diritti delle donne: in
Italia scesero in piazza le operaie di
varie fabbriche di Como, Vigevano,
Torino e di Milano, riuscendo ad ottenere prima della fine della guerra
un adeguamento degli stipendi. In Inghilterra, invece, una delle più grandi
conquiste del movimento femminista
durante gli anni della guerra fu l’estensione del suffragio universale anche alle donne, nel 1918, a condizione
che avessero compiuto i 30 anni di età.
Nelle campagne, le donne si trovarono ad affrontare una situazione
diversa: il dover lavorare al posto degli uomini o dei figli maschi rappresentava la differenza tra la vita e la
morte. Nonostante le donne fossero
spesso sottoposte all’autorità dei suoceri, troppo anziani per arruolarsi, il
lavoro, seppur duro, rappresentava
comunque un elemento di mobilità in
quella che prima era una situazione
stagnante: si trattava per il genere
femminile di un germe di emancipazione da coltivare e da far crescere.
Per la prima volta le contadine si trovavano a dover sbrigare commissioni
negli uffici, pianificare e gestire il lavoro di tutta la famiglia.
Non bisogna però pensare che tutte
le donne si riversassero nelle fabbriche, nei campi o in lavori umili: quelle
delle media e alta borghesia, nonché
della nobiltà, si impegnarono su fronti
più convenzionali e che più si confacevano all’immagine di donna materna
e angelica. Numerosi furono anche i
casi, specialmente in Inghilterra, di
dimore private trasformate in ospedali per aiutare la convalescenza dei
soldati feriti. Tra le iniziative più
frequenti, vi erano quelle delle dame
di carità che organizzavano raccolte
di fondi o di materiale per il fronte.
Proprio in questo campo, le dame di
carità riuscirono a portare anche delle
innovazioni, per esempio con l’invenzione di un tessuto “antiparassitario”
contro i pidocchi, o la raccolta dei noccioli di pesche e albicocche per la fabbricazione di un sapone a basso costo
LA GRANDE GUERRA
da inviare nelle trincee.
Negli ospedali, invece, prendeva
corpo un’altra immagine molto cara
agli uomini del periodo (e forse di tutti
i periodi successivi): l’infermiera che
cura il soldato ferito. La prima guerra mondiale non fu il primo conflitto
bellico in cui le giovani donne lavoravano nei treni ospedale o nelle retrovie: ad aprire la strada era stata Florence Nigthingale durante la guerra
di Crimea. L’avrebbero seguita molte
altre donne: in Italia, per esempio, nel
1908 la Croce Rossa aveva permesso
ghe gonne a tubo, niente più maniche
con sbuffi, sparite le acconciature elaborate. La donna che lavora e lotta
durante la grande guerra veste in maniera pratica, linee dritte e morbide,
gonne più corte, capelli a caschetto. A
volte ha anche l’ardire di indossare i
pantaloni.
Grandi cambiamenti, destinati
però a regredire alla fine del conflitto.
Una volta che gli uomini furono tornati, infatti, ci si aspettò che le donne facessero quello che veniva chiesto loro,
ovvero fare un passo indietro e lascia-
a Rita Camperio Meyer di aprire la
prima scuola per infermiere; scuola
dalla quale fu altissimo il numero di
volontarie che partirono per operare
negli ospedali da campo allo scoppiare del conflitto. Solo nel 1917 le infermiere della Croce Rossa furono circa
diecimila e altrettante erano quelle
appartenenti ad altre organizzazioni.
La figura dell’infermiera è quella che
ha avuto certamente più fama rispetto
alle altre donne del periodo, in quanto
uniche donne a contatto con gli uomini in un mondo a prevalenza maschile. Le stesse divise ci danno la misura
di come la liberazione e il prendere il
posto degli uomini sia passato anche
dal vestiario: spariti i corsetti e le lun-
Donne della Salvation Army cucinano sul
fronte francese.
PANORAMA PER I GIOVANI
re il lavoro ai reduci. Quella strana e
speciale libertà gustata nonostante
tutte le preoccupazioni e i pericoli fu
abbandonata, almeno in parte. Non
fu infatti possibile annichilire del tutto i cambiamenti che erano avvenuti
durante la guerra, non si poté tornare completamente a zero: le donne
sapevano benissimo di poter lavorare bene quanto gli uomini. In alcuni
paesi erano stati raggiunti traguardi
importanti per l’emancipazione e la
donna aveva cominciato a uscire dal
guscio domestico per avventurarsi nel
mondo.
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GLI AUTORI RACCONTANO LA STORIA
LA GUERRA NELLA LETTERATURA
Is there a way to see World War I not only from a historical point
of view? A literary perspective is a perfect example. Examination of
the most significant European literary works about World War I can
give us a glimpse of the variety of reactions, feelings and impressions
which were aroused in those terrible years: an original and stimulating
way to recall history.
di Chiara Ciullo
1914, 28 luglio. Un “colpo di tuono” risuona nei cieli d’Europa e del mondo:
è la guerra, la grande guerra. Invocato
o temuto, osteggiato o esaltato, il conflitto avrebbe inciso con tale profondità nelle coscienze delle generazioni
che l’hanno vissuto da stimolare una
produzione letteraria rigogliosissima
in tutti i principali paesi belligeranti.
A definire lo scoppio della guerra come
un “colpo di tuono” è lo scrittore tedesco Thomas Mann, nel suo romanzo La montagna incantata. Si tratta
di un’opera che – pur non trattando
esplicitamente del conflitto – si afferma quale lucidissimo documento dello
stato morale e civile dell’Europa alla
vigilia delle ostilità. Il protagonista si
rinchiude ogni giorno di più nel suo
isolamento fino a che non “rimbombò
dunque quel tuono che noi tutti sappiamo”. Egli potrebbe sottrarsi alla
guerra, ma si rifiuta di farlo in quanto “il suo destino spariva davanti al
destino generale”; decide dunque di
arruolarsi e va incontro ad una sorte ineluttabile: la morte sul campo di
battaglia. Va sottolineato il fatto che
Mann non intende elogiare o denigrare il conflitto, quanto piuttosto sottolinearne la fatalità e l’impatto violento
sulle coscienze confuse e irrequiete dei
più giovani.
In Europa, oltre a quello tedesco, si
presenta particolarmente fecondo il panorama letterario inglese. È inevitabi-
22
PANORAMA PER I GIOVANI
le, a tal proposito, porre l’accento sulla
rilevanza che hanno le figure di Wilfred
Owen e Siegfried Sassoon, universalmente noti come war poets. Come tanti
giovani, anche loro si arruolarono tra
le fila dell’esercito inglese, folgorati
dalla retorica bellicista che dipingeva
la guerra come il teatro delle più onorevoli prove di coraggio e virilità. Nel loro
immaginario, la morte sotto il fuoco nemico rappresentava una fine gloriosa,
un sacrificio che la patria avrebbe riconosciuto e onorato. Facile immaginare
lo shock che provocò in questi individui
la realtà della trincea, dove i veri nemici, le bombe e i gas, non si combattevano eroicamente a viso aperto e dove la
morte era morte di massa. Non a caso
la produzione letteraria figlia di questo
sconvolgimento ideologico è passata
alla storia come “letteratura del disincanto”. Nella celebre poesia Anthem for
doomed youth, Owen lamenta che ad
accompagnare i soldati che muoiono
in battaglia non è il dolce suono delle
campane, ma soltanto quello rabbioso
delle armi: “What passing-bells for these who die as cattle? / Only the monstrous anger of the guns.”. Comun denominatore della poetica dei war poets
è naturalmente l’aspra critica nei confronti di quella propaganda che tanto
1 - 2014
LA GRANDE GUERRA
“mostri” come allegoria dei tedeschi più intima natura umana. Se poi tale
combattuti al fronte; piuttosto, sottoli- natura è quella dell’uomo forte, dall’innea che nel mondo reale demoni ed eroi dole autoritaria e nazionalista, la libersono presenti nelle fila di ambedue gli tà si concretizza nell’inno all’assalto e
schieramenti in lotta. A questo propo- al sacrificio del singolo per la patria:
aveva incensato la guerra: per i giovani sito, una brillante allegoria cui Tolkien “Militari sconosciuti correvano lungo
disincantati la retorica pomposa e mi- dà vita è quella relativa all’industria la trincea lanciando urli di gioia. […]
litarista non è nulla più che “un’antica pesante: i “buoni” che cadono prigionie- Tutti erano soggiogati dalla violenza
bugia”. Imprescindibile il riferimento ri dei demoni sono costretti a lavora- di quell’uragano di fuoco e ardevano
al capolavoro poetico di Owen Dulce re come schiavi nelle loro miniere per dal desiderio di buttarsi all’assalto preet decorum est nel quale il poeta, dopo produrre infernali macchine da guerra. visto. […] Credo che ognuno, in quel
aver descritto l’agonia di un soldato Anche in questo
soffocato dai gas, condanna perentoria- caso, s’impone
La letteratura italiana prepara,
mente il motto “dulce et decorum est / una lettura delPro patria mori” definendolo, appunto, la figura retodescrive, rimedita il conflitto sotto
“The old lie”.
rica che critica
ottiche diverse e spesso soggettive
Vi è un ulteriore aspetto tipico della aspramente tutti
letteratura del disincanto inglese: la gli avidi magnati
concezione della figura del soldato. Se industriali, tanto i tedeschi quanto gli momento, sentisse sparire dentro di sé
per questi autori la guerra altro non è inglesi.
qualunque sentimento personale, comche inutile carneficina di giovani vite, Il panorama letterario tedesco sulla presa la paura.”
anche colui che la combatte perde l’au- grande guerra, come accennato sopra, Forse proprio a causa dell’innegabile
rea di eroe impavido, fermo nei suoi è altrettanto ricco e vario. È da citare valore letterario di questi giganti inideali di gloria e onore, e si trasforma innanzitutto l’universalmente noto ca- glesi e tedeschi, pochi ricordano la voce
in vittima di una disumanità che lo polavoro di Erich Maria Rermarque, francese di Henri Barbusse. Arruolasovrasta. Ci si riferisce, qui, a Suicide Niente di nuovo sul fronte occidentale. tosi volontario sebbene convinto paciin the trenches di Sassoon: nelle prime A buona ragione, l’autore può essere fista, raggiunse la notorietà letteraria
due strofe il poeta racconta la storia di annoverato fra gli scrittori del disin- proprio grazie al romanzo “Il fuoco”,
un ragazzo semplice, gioioso e sorriden- canto: da una parte compare infatti uno sguardo in presa diretta sull’espete – “I knew a simple soldier boy / Who il realismo crudo e aspro delle descri- rienza bellica. Il linguaggio colloquiale
grinned at life in empty joy” – che non zioni: “Non si può comprendere come e i brevi dialoghi, talora addirittura
riesce a sopportare l’atrocità della vita sopra corpi così orrendamente lacerati monosillabici, conferiscono al testo
di trincea e finisce per suicidarsi nella siano ancora volti umani”; dall’altra, un’incisività capace di far sentire il letsolitudine e nell’oblio della memoria: l’insensatezza del conflitto. Durissima tore “uno della truppa”: “Brevi parole
“He put a bullet through his brain / No è l’accusa al mondo degli adulti, inco- precipitose che ci scambiamo in questa
one spoke of him again”.
scienti del trauma che avrebbe pesato radura d’inferno:
Radicalmente diversa è l’esperienza su una generazione intera: “Come ap- Sei tu! - Oh, la là! che musica! - Dov’è
di un altro rappresentante della let- pare assurdo tutto quanto è stato in Cocon? - Non so. - Hai visto il capitano?
teratura inglese: John Ronald Reuel ogni tempo scritto, fatto, pensato, se - No… - Tutto bene? - Sì…”
Tolkien. Testimonianza del suo vissu- una cosa simile è ancora possibile! Che Quanto alla letteratura di guerra in
faranno i nostri Italia, la produzione è di proporzioni
padri,
quando vastissime. Quella italiana è una lettePer i war poets la retorica pomposa
un giorno sorge- ratura che prepara, descrive, rimedita
remo e andremo il conflitto sotto ottiche diverse e spesso
e militarista non è nulla più che
davanti a loro a fortemente soggettive. In apertura, non
“un’antica bugia”
si può prescindere dal filone intervenchieder conto?”.
Figura senz’altro tista che vide partecipe la stragrande
to è il romanzo La caduta di Gondolin. interessante della letteratura tedesca è maggioranza dei giovani intellettuali.
Rispetto alla letteratura del disincan- anche quella di Ernst Jünger, che offre “Noi vogliamo glorificare la guerra –
to, caratterizzata dal realismo descrit- un’angolatura molto personale sull’e- sola igiene del mondo”, proclama il mativo, Tolkien sfrutta il mondo del fan- sperienza bellica. Jünger raccoglie le nifesto del futurismo con il suo più autasy, dando vita ad una realtà in cui la sue memorie nel libro Le tempeste d’ac- torevole rappresentante, Filippo Tompace è minacciata da demoni mostruo- ciaio, in cui descrive il conflitto come maso Marinetti; un altro futurista,
si e malvagi che aspirano a ridurre il un’esperienza straordinaria. L’ecce- Corrado Govoni, cede al fascino dello
mondo libero in loro potere. Profondo zionalità della guerra sta nel fatto che scontro imminente affermando “Bella
conoscitore e ammiratore della cultura essa rappresenta un’interruzione di è la guerra! / È bello seminare coi fucili
delle antiche popolazioni germaniche, validità delle regole ferree della morale /questa vecchia carcassa della terra”.
lo scrittore non utilizza il sostantivo borghese e, quindi, un’esaltazione della Oltre alle infuocate parole dei futuri-
Foto: Adriano Zanini Astaldi
Veglia, dalla raccolta L’allegria, composta
da Giuseppe Ungaretti durante la guerra.
Sulla pagina una medaglia dell’epoca.
PANORAMA PER I GIOVANI
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1 - 2014
LA GRANDE GUERRA
di vedetta morta si avvicina molto al
descrittivismo di Owen e Sassoon,
soffermandosi sulla cruda rappresentazione del corpo della vedetta, martoriato dalle ferite di guerra. In Rebora,
però, si riscontra anche un’eccezionale
incisività nel comunicare la rabbia per
tutte le vite e le speranze che la guerra ha spazzato via e che non torneranno. Persino quel briciolo di passione
amorosa – cui viene lasciato spazio
– è investito dal vento rabbioso: “Ma
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PANORAMA PER I GIOVANI
afferra la donna / Una notte, dopo un
gorgo di baci, / Se tornare potrai; / Sòffiale che nulla del mondo / Redimerà
ciò ch’è perso / Di noi, i putrefatti di
qui; / Stringile il cuore a strozzarla;”.
Una curiosità riguardo la grande
guerra è che moltissimi furono i letterati già affermati che vi presero parte
e che rimeditarono la loro posizione di
fronte all’esperienza ostile. Due nomi
esemplari a riguardo: il celeberrimo
Giuseppe Ungaretti e il meno noto
La Domenica del Corriere del 23-30 maggio del 1915 - Illustrazione di Achille Beltrami
sti, organo cruciale della propaganda
bellicista fu la rivista “Lacerba”, fondata da Ardengo Soffici e Giovanni
Papini, due intellettuali dall’indole
irrequieta e aggressiva. Le pagine di
“Lacerba” dipingono la guerra come
un rabbioso sfogo contro la morale
tradizionale del quietismo borghese:
“Sarà questo un foglio stonato, urtante, spiacevole e personale. Sarà uno
sfogo per nostro beneficio e per quelli che non sono del tutto rimbecilliti
dagli odierni idealismi, riformismi,
umanitarismi, cristianismi e moralismi”. Punto di riferimento per tutti
i giovani bellicisti fu indubbiamente
Gabriele d’Annunzio. Nelle orazioni
di guerra, il lato interventista e nazionalista dell’autore si esprime in tutta
la sua forza. Emblematica è l’orazione del 15 maggio 1915, detta “Sagra
di Quarto”, nella quale egli afferma
la necessità dell’intervento in nome
di quella nazione così gloriosamente
creata col sangue dei mille garibaldini: “Oggi sta su la patria un giorno di
porpora; e questo è un ritorno per una
nova dipartita, o gente d’Italia”.
Ai toni entusiastici e inneggianti
al conflitto subentrarono ben presto,
anche fra i giovani italiani, delusione
e disincanto; innumerevoli sarebbero
gli autori da menzionare a tal proposito, uno per tutti Emilio Lussu. Testi meno conosciuti riescono ad esprimere in maniera ancor più incisiva il
disprezzo del conflitto: basti pensare
al triestino Giani Stuparich, irredentista e quindi interventista, che dopo
la guerra avrebbe dato alla luce Colloqui con mio fratello. Il testo è dedicato alla memoria del fratello, partito
volontario e poi scomparso durante
gli scontri. Attraverso le ferite provocate dalla perdita, Stuparich descrive
l’impossibile conciliazione – nella sua
coscienza – degli ideali che l’avevano spinto a partecipare alla guerra
con la desolazione del ritorno a casa
senza l’amato fratello: “Ma l’incontro
con la mamma, più sconsolato fu di
quello che mi aspettassi. Me l’hai affidato, ma guardartelo non ho saputo,
ti ritorno senza di lui: queste parole
avevo preparate, ma non ebbi voce
per dirle”. Ancora, altro autore dalla grande forza espressiva è il poeta
Clemente Rebora. La sua poesia Voce
1 - 2014
Renato Serra. Leggere la straordinaria raccolta ungarettiana Allegria di
naufragi esclusivamente sotto questa
luce può forse risultare semplicistico;
cionondimeno, permette di sottolineare il ruolo specifico della guerra nella
poesia di Ungaretti. Essa è, per il poeta, la scintilla che porta a percepire
l’esistenza di un assoluto, qualcosa di
più grande della contingenza storica, che permette – anche di fronte al
“compagno massacrato con la bocca
digrignata” – di scrivere “lettere piene
d’amore”. Non è un caso che in molte
delle poesie di guerra ungarettiane,
per quanto non vi sia mai l’abdicazione al realismo descrittivo, il poeta
risulti isolato, quasi congelato nella
sua contemplazione: “Nell’aria spasimante / involontaria rivolta / dell’uomo presente alla sua / fragilità”. Parimenti, nell’Esame di coscienza di un
letterato di Renato Serra, la guerra
è una scintilla, ma si presenta sotto
forma di fattore esterno che spinge
l’uomo all’analisi della sua interiorità.
Nell’opera, Serra descrive il conflitto
vivo nella sua coscienza (che si pone
come paradigmatico per un’intera generazione) fra il fascino che le gesta
belliche esercitano su di lui – quali
strumenti per vincere la mediocrità
del quotidiano – e la scoperta della
loro sostanziale inutilità, poiché “la
guerra non cambia niente. Non migliora, non cancella”. Il risultato cui
giunge Serra dopo la sua indagine è
l’esaltazione della letteratura, unica
grande devozione, solo vero strumento per dare un senso al quotidiano.
Di fronte a tali orrori i combattenti
persero la loro umanità diventando,
per citare il diario di guerra Trincee
di Carlo Salsa, “un gregge sfiduciato e
passivo”. Rispetto a tale trasformazione, memorabile è il romanzo Vent’Anni di Corrado Alvaro, che narra la
progressiva spersonalizzazione di due
amici ventenni, sottoposti alla rigida
disciplina della trincea. Tale opera
può essere letta come un romanzo di
formazione al contrario, poiché tutte
le esperienze che i giovani vivevano,
dall’incontro-scontro con la realtà della
città al doloroso distacco rappresentato dalla partenza per il fronte, anziché
concretizzarsi in una maggior consapevolezza del proprio ruolo nel mondo,
li conducevano progressivamente in
un baratro di dubbio: “Chi poteva dire
che età avesse Fabio? E se li sentiva lui
vent’anni? […] Tutti avevano vent’anni […]. E tuttavia senza illusioni.” La
tragica conclusione è l’inadeguatezza
dei giovani alla vita all’indomani della guerra: “Che ci resterà da fare domani, se torniamo nel mondo? Temo
che tutto ci parrà un gioco inutile”.
Come qualsiasi scontro bellico, la
grande guerra fu combattuta da eserciti nei quali esistevano complesse dinamiche fra comandanti e sottoposti,
non sempre sottolineate a dovere dai
libri di storia. A tale istanza rispondono – fornendo due prospettive opposte
– i testi Con me e con gli alpini di Piero
Jahier e La rivolta dei santi maledetti di Curzio Malaparte. Il primo è un
diario di vita in cui Jahier, ufficiale in
capo della truppa alpina, abbandonandosi ad una celebrazione del sacrificio
dei suoi uomini umili e puri (“Questa è
una guerra che continua la nostra vita
di popolo povero e buono”), testimonia
come la sua truppa – per quanto ignorante – lo abbia spinto alla crescita
personale e morale: “Mi sforzo di mettermi al loro livello […]. Ma ecco scopro che salgo di livello io, che proprio
io divento più vero”. A tale esperienza
si contrappone la rivolta della fanteria, il “proletariato di trincea”, come la
definisce Malaparte, contro gli ordini
irrazionali degli ufficiali borghesi. Nella Rivolta dei santi maledetti la prima
guerra mondiale è vista come guerra
di massa e la rivolta dei fanti, dopo la
disfatta di Caporetto – quando la truppa “si volse terribile contro la nazione,
contro la legge, contro tutto ciò che era
borghese” –, rappresenta qualcosa di
più significativo rispetto a un isolato
esempio d’insubordinazione. Malaparte, infatti, vi scorge l’embrione di
una nuova coscienza collettiva, protagonista di una futura lotta di classe.
Terribile o straordinaria, inutile o
ispiratrice che sia stata definita, la
grande guerra vide tanti uomini impegnarsi nella scrittura: alcuni l’han
fatto per necessità interiore, altri per
esigenza di far conoscere, ma tutti
hanno fornito una testimonianza capace di riattualizzare il conflitto attraverso la sensibilità umana che è,
per definizione, senza tempo.
PANORAMA PER I GIOVANI
LA GRANDE GUERRA
Ernst Jünger
Wilfred Owen
Siegfried Sassoon
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LA RIVOLUZIONE RUSSA
L’IMPATTO CULTURALE DI UN EVENTO EPOCALE
One of the most important consequences of the Russian revolution was
the dismantling of the Tsarist autocracy. Nevertheless, it is interesting
to notice that this event did not affect the mere Russian system: it
had a global cultural impact and it involved international politics as its
consequences would reverberate through to our days.
di Valentina Pudano
Tutti sappiamo che la rivoluzione
russa, come ogni rivoluzione che si rispetti, ha avviato un vero e proprio
processo di sovvertimento del sistema
nella Russia degli inizi del Novecento: la prima rivoluzione del 1905 e poi
quella più significativa del 1917 hanno
determinato un radicale mutamento
dell’assetto politico e hanno portato al
definitivo abbattimento del regime zarista. È inoltre interessante riflettere
sul fatto che la rivoluzione russa è un
evento considerato centrale non solo
per la storia del paese in sé, ma anche
per la storia mondiale: tant’è vero che
le conseguenze di questo avvenimento
sono state sia interne che esterne alla
Russia. Uno degli aspetti più affascinanti da considerare è di conseguenza
l’impatto culturale dell’evento: un impatto enorme, connesso al forte significato di cui la rivoluzione fu caricata.
All’interno della Russia, l’influenza
della rivoluzione sulla cultura fu eccezionale e segnò l’inizio di una stagione
di grande vitalità e creatività per tutte
le arti. Tra il 1910 e il 1917 si assistette
a un interessante connubio tra esperienze d’avanguardia e rivoluzione:
tutto ciò che era stato prodotto negli
anni precedenti fu rifiutato. Il realismo
figurativo in pittura e le forme metriche tradizionali facevano ormai parte
di un passato lontano, tutto doveva essere ricostruito da capo. Molti furono
gli artisti entusiasmati dai fervori della rivoluzione e desiderosi di respirare
un’aria nuova e depurata dall’assolutismo. In poesia, il clima avanguardistico portò all’affermazione delle tendenze più diverse. Si sviluppò il futurismo
russo, capeggiato da uno dei personaggi più rilevanti del panorama letterario
dell’epoca, Vladimir Majakovskij; si af-
Sopra: celebrazione dei 300 anni dall’ascesa
dei Romanov, San Pietroburgo, 1913.
A destra: l’imperatore Nicola II davanti al
monastero Ipatiev presso Kostroma.
fermarono il simbolismo e l’acmeismo:
se il primo preferiva indagare la realtà
e rappresentarla attraverso l’utilizzo di
un linguaggio oscuro dominato da allegorie e simboli, il secondo si prefiggeva
lo scopo di raggiungere il punto estremo della lucidità espressiva, adottando
chiarezza e coerenza nella lingua.
La ricerca di nuove vie e la sperimentazione artistica furono tipiche degli
anni immediatamente successivi alla
rivoluzione, ma in breve tempo queste
innovazioni furono ritenute sempre più
difficili da comprendere da parte delle masse. Il linguaggio e gli strumenti
espressivi dell’avanguardia iniziavano
a essere considerati pericolosi. Così,
al loro posto trionfò di nuovo la tradizione realista, ritenuta più idonea a
trasmettere la propaganda del Partito.
L’idea predominante, infatti, era quella secondo cui nella nascente Russia
sovietica si dovesse sviluppare un’arte
dipendente dall’ideologia, poiché essa
sarebbe potuta in tal modo diventare
un utilissimo strumento di diffusione
degli ideali rivoluzionari e di educazione al consenso. La conseguenza più immediata di questa unione fra gli artisti
1905
FEBBRAIO 1917
A San Pietroburgo si svolge una manifestazione per presentare una petizione allo zar e la polizia uccide un migliaio di
persone. Nascono soviet (consigli) spontanei, con la partecipazione dei partiti socialisti. Concessa dallo zar Nicola II l’istituzione di una Duma (Parlamento), essa è gradualmente privata
della sua autorità. La rivoluzione si risolve in un fallimento.
La partecipazione alla prima guerra mondiale fa
precipitare gli eventi e gli operai di Pietrogrado
(l’attuale San Pietroburgo) insorgono: ovunque si
ricostituiscono i soviet e la rivoluzione dilaga nelle
campagne. Lo zar abdica e costituisce un governo
provvisorio, liberale, con a capo A.F. Kerenskij.
26
PANORAMA PER I GIOVANI
1 - 2014
e la ragion di stato fu che l’arte diventò estremamente politicizzata, mentre
era sempre più difficile per gli artisti
mantenere la propria autonomia. Alcuni tra loro non riuscirono ad accettare
la subordinazione dell’arte alla necessità politica: da una parte, si assiste in
questo periodo all’ascesa della corrente
del realismo socialista, ovverosia una
rappresentazione del reale che portava avanti gli obiettivi della rivoluzione; dall’altra, si osservano fenomeni
di netto rifiuto a tale subordinazione,
come nel caso di Vassilij Kandinskij,
con la sua arte astratta e geometrica, o
di Marc Chagall, che respinse ogni realismo puntando a rappresentare sulla
tela animali fiabeschi e figure leggere.
L’impatto culturale della rivoluzione russa ha interessato non soltanto,
come anticipato, il contesto interno. Le
conseguenze più importanti sono forse state quelle che hanno coinvolto il
resto del mondo. Innanzitutto, questo
fu un momento storico essenziale per
l’affermazione dei movimenti socialisti
e comunisti nei paesi occidentali. Proprio dopo la rivoluzione, Lenin, interessato a favorire la formazione di partiti
comunisti in tutto il mondo, fondò nel
1919 una nuova Internazionale (la terza), conosciuta come Comintern. Essa
giocò un ruolo fondamentale nell’affermazione degli ideali della rivoluzione:
basti considerare che, quando nel 1920
si organizzò un secondo congresso del
Comintern, le nazioni partecipanti furono addirittura trentasette. Un ruolo
egemonico era chiaramente ricoperto
dal Partito Comunista dell’Unione Sovietica e la direzione dell’Internazionale aveva sede a Mosca.
Fu proprio durante il congresso del
1920 che si sollevò un’importante questione, quella concernente il problema
coloniale. Lenin espresse la tesi secondo cui la lotta anticoloniale rappresentava una vera e propria manifestazione della lotta di classe internazionale.
LA GRANDE GUERRA
Così come negli stati industrializzati
il proletariato reclamava a gran voce
l’emancipazione sociale, allo stesso
modo i popoli coloniali dovevano rivendicare la propria autonomia politica.
Lenin vedeva come necessaria l’unione delle due singole cause in un unico
sforzo. Ciò ebbe un’influenza notevole
nella lotta anticoloniale di molti paesi
africani e asiatici. Per citare un caso
particolare, la risonanza di questa teoria fu essenziale nella liberazione del
Vietnam dalla potenza francese e successivamente dagli Stati Uniti. L’idea
della lotta di massa per l’indipendenza
nazionale diventò centrale in questo
caso come in altri.
granti erano uniti in un solo grande sindacato (quello degli Industrial workers
of the world), ma che l’atteggiamento
interno verso di esso mutò notevolmente in seguito alla Rivoluzione russa. Venne condotta una vera e propria
repressione, che ebbe “un grande ruolo
nell’impedire l’emergere, se si vuole, di
una struttura di partito più socialista,
più operaia, negli Stati Uniti”.
Come si è visto, la rivoluzione russa
ha rappresentato moltissimo non solo
per la Russia, ma anche per il resto del
mondo. Pensare che un paese in cui
vigeva l’assolutismo più puro sia stato
teatro di una rivoluzione totale come
questa, avvalora la tesi secondo cui
Oltre ad aver esercitato influenze
ideologiche sull’Occidente e sui paesi
colonizzati, la rivoluzione russa ha avuto un profondo influsso anche in ambito statunitense. Il libro Un’altra storia
di Tariq Ali e Oliver Stone, pubblicato
nel 2012, propone un’interessante tesi
secondo la quale fu proprio lo scoppio
della rivoluzione russa, in particolare nella sua fase del febbraio 1917, ad
aver spinto gli Usa a prendere parte
alla prima guerra mondiale, abbandonando l’isolazionismo sino ad allora in
atto. Tariq Ali precisa che il movimento
operaio negli Usa era allora abbastanza radicato, poiché tutti i lavoratori mi-
la contraddizione e l’estremismo sono
spesso i veri protagonisti delle vicende storiche russe. Purtroppo, anche in
questo caso, il ciclo infinito di contraddizioni ed estremismi non era destinato
a concludersi: già nel 1924, alla morte
di Lenin, l’ombra della futura dittatura
stalinista iniziò ad allungarsi sulla nazione. Paradossalmente, l’influsso della
rivoluzione sulla cultura si sarebbe fatto sentire maggiormente oltre i confini
della Russia, mentre all’interno del paese gli ideali avrebbero iniziato a scontrarsi fin troppo spesso con la realtà,
fino ad essere inghiottiti nelle tenebre
del terrore.
OTTOBRE 1917
1918
1920
1924
1927
Kerenskij è rovesciato dai bolscevichi. Lenin accetta il trattato di
pace di Brest Litovsk. Il potere rivoluzionario bolscevico acquista
anche formalmente il carattere
della dittatura del partito unico.
Lo zar viene
giustiziato
insieme
con
la
famiglia
nella città di
Ekaterin’burg.
La guerra civile in corso nel
paese tra l’Armata rossa e
l’Armata bianca (sostenuta
dalle potenze dell’Intesa) si
conclude con una vittoria
del fronte bolscevico.
Morte
di
Lenin e lotta per la
successione
fra Trockij
e Stalin.
Vittoria
di
Stalin e progressiva costruzione di
una dittatura
personale.
PANORAMA PER I GIOVANI
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1 - 2014
LA GRANDE GUERRA
LA STORIA PASSA PER
LA CADUTA DEGLI IMPERI
What caused the fall of the Austro-Hungarian and the Ottoman
empires? Internal strife and tensions within the population wrought
more damage than the military might of the Triple Entente. Their
demise, however, allowed many modern states to join the geopolitical
fray, thus giving birth to a global scenario that would gradually
develop into the one we know.
di Erik Hörmann
Sebbene il casus belli della Prima
guerra Mondiale sia da imputare
all’azione sconsiderata di un nazionalista, erano numerosi i motivi di
tensione dovuti alla questione balcanica, cioè alla cupidigia territoriale
di tre imperi: quello austro-ungarico,
quello ottomano e quello russo. Essi
miravano a colmare il vuoto di potere
formatosi con l’instaurarsi di stati nazionali nell’est Europa. Come sia stato
possibile questo clamoroso sbaglio che
costò milioni di vittime e il trono a tre
casate reali tra le più antiche d’Europa (l’imperatore d’Austria Francesco
Giuseppe, ad esempio, era il discendente degli Asburgo, famiglia che
risaliva ai tempi del Sacro Romano
Impero) è stato a lungo discusso dagli storici. La risposta più plausibile è
che i fattori di debolezza non fossero
solo di tipo economico-militare, bensì
molto più difficili da cogliere perché
intriseci alla struttura stessa degli
imperi, ormai incompatibile con l’avanzare dei tempi.
L’impero russo, sebbene potesse
contare sul più numeroso esercito di
terra che la storia avesse fino ad allora conosciuto, venne dilaniato e costretto alla resa dalle rivendicazioni
proletarie che fermentavano al suo
interno contro l’assolutismo zarista;
similmente l’Austria-Ungheria aveva in sé il seme della discordia, viste
le numerosissime nazionalità, etnie,
lingue e culture che convivevano – o
meglio cozzavano – al suo interno; infine l’impero turco, già in decadenza,
conobbe nella prima guerra mondiale
il suo tragico epilogo.
L’impero austro-ungarico era uno
degli stati più potenti, sia politicamente che militarmente, in Europa:
28
una dimostrazione tristemente nota
agli italiani è la Strafexpedition, la
spedizione punitiva intrapresa contro gli ex compagni per aver rotto la
triplice alleanza ed essersi schierati
con gli stati dell’intesa. Pur infrangendosi contro le linee difensive italiane, l’offensiva creò un nuovo fronte
lungo centinaia di chilometri, che logorò le armate con mesi di combattimenti, sino alla disfatta di Caporetto.
Per cogliere appieno la potenza della
macchina bellica austriaca in questo
trionfo, occorre considerare che l’esercito imperiale, pur essendo contemporaneamente impegnato su tre fronti
(quello italiano, quello serbo e quello
russo), riuscì comunque a imporre il
Hein Nouwens ; prostok / shutterstock.com
1 - 2014
suo predominio in tutte le direttrici
di espansione. Ciononostante, i problemi interni pesavano notevolmente
già nella normale gestione del regno e
vennero acuiti dalle privazioni e dalle
difficoltà cui fu sottoposta la popolazione in tempo di guerra. La società
era fortemente spezzata in termini
di diritti politici: gli austriaci erano i
soli detentori di piena cittadinanza;
gli ungheresi avevano ottenuto alcune
vittorie politiche ed avevano un proprio rappresentante elettivo presso
A lato: Mustafa Kemal Atatürk.
Sotto: soldati austriaci provenienti dalle
varie regioni dell’impero.
la corte imperiale; tutti gli atri popoli
non avevano alcuna voce nella gestione dell’impero e subivano le decisioni imperiali in modo completamente
passivo. Il malcontento andò a colpire
la potenza militare, ostacolata dalla
necessità di sedare rivolte interne:
non furono isolati i casi in cui soldati
appartenenti a minoranze dei territori
imperiali si rifiutarono di combattere
contro i manifestanti della stessa cultura, religione o nazionalità. Spesso il
problema fu aggirato mobilitando gli
eserciti da un capo all’altro dell’impero, facendo combattere i soldati di minoranza italiana sul fronte orientale e
viceversa, ma è chiaro che ciò comportò un notevole dispendio economico
e organizzativo di risorse preziose in
tempo di guerra.
D’altro canto, gli ottomani non furono mai veramente in grado di far
pendere l’ago della bilancia dalla parte degli imperi centrali: basti ricordare come, pochi anni prima, essi fossero
stati facilmente sopraffatti dell’Italia
di Giolitti durante la guerra italo-turca: considerando quanto l’Italia fosse
allora indietro al confronto dei suoi
alleati, è chiaro che la Sublime porta non aveva nessuna possibilità di
offrire un supporto bellico significativo. Tuttavia, la sua entrata in guerra
aveva una valenza sia simbolica, perché andava a completare il blocco degli imperi centrali che avrebbero dunque combattuto compatti, che strategica, giacché aprì il fronte turco-russo,
alleggerendo la pressione dell’assedio
cui gli stati dell’Intesa sottoponevano
il blocco di quelli imperiali.
La fine degli imperi fu segnata,
più che dalla sconfitta sul campo,
dall’umiliazione subita con i trattati
di pace. La conferenza di Parigi del
1919 smembrò i territori dell’impero
austro-ungarico in numerosi stati, già
esistenti in passato o creati ex novo:
all’Italia, in particolare, vennero ceduti il Trentino-Alto Adige, Trieste
e l’Istria. All’Austria rimase circa un
settimo dei territori originali e lo stato
si organizzò sotto forma di repubblica federale: l’assemblea costituente
(1919) votò una costituzione federale
con un presidente, un consiglio nazionale e un consiglio federale e garantì
larghe autonomie ai 9 Länder in cui
LA GRANDE GUERRA
fu ulteriormente diviso il territorio.
Questa è sostanzialmente la stessa organizzazione che rimane ancora oggi
e che non è stata cambiata se non nel
periodo 1938-1955, durante il quale
l’Austria fu prima annessa (in seguito
all’Anschluss) al Terzo Reich tedesco e
successivamente, nel dopoguerra, amministrata dagli alleati. La capitale fu
mantenuta a Vienna, mentre la “seconda capitale” dell’impero, Budapest,
divenne la capitale dell’Ungheria.
L’impero turco subì una sorte, se
possibile, ancora peggiore: la sconfitta
produsse come conseguenza diretta la
perdita di tutti i territori europei, con
la sola eccezione della città di Costantinopoli e alcune aree limitrofe. Ancor
più grave, tuttavia, fu il contraccolpo subito a livello di immagine internazionale e di legittimità del potere
del sultano: già prima del trattato di
Sèvres molti stati arabi, quali la Siria,
la Palestina, la Mesopotamia e l’Arabia, avevano dichiarato la loro indipendenza. Due anni dopo che la conferenza di pace ebbe di fatto ratificato
lo smembramento avvenuto, fu deposto l’ultimo sovrano, Maometto VI,
e fu proclamata la Repubblica turca
(1923). Non essendoci stati, a differenza dell’Austria, significativi cambiamenti politici da allora, questo evento
si considera normalmente come la nascita della moderna Turchia.
La struttura politica e sociale degli
imperi risultò insomma inadeguata a un mondo in rapido mutamento
– in cui le minoranze rivendicavano
sempre più diritti e una maggiore
autonomia – e la loro estinzione fu il
presupposto necessario per spianare
la strada alla nascita dei nuovi stati
nazionali.
PANORAMA PER I GIOVANI
29
LA GRANDE GUERRA
LA “PRIMA” MONDIALE?
World War I radically changed the perception of the nature of human
beings. However, there has been much debate among scholars on
what elements actually makes it differ from previous armed conflicts.
Many argue that it should not be considered the “first” world war,
while others highlight its peculiarities and distinguishing traits.
di Ruggero Pileri
Ci sono eventi nella Storia dell’uomo
che segnano un’accelerazione improvvisa nel lento percorso del tempo. La
prima guerra mondiale è senza alcun
dubbio uno di questi. Il nome stesso
con cui viene designata dà un’idea del
carattere di straordinarietà e di unicità che da subito le venne assegnato. Sono infatti già i titoli dei giornali
dell’epoca, nell’agosto del 1914, a riferirsi alle ostilità tra le potenze europee con il termine “grande guerra”,
tuttora rimasto in uso. Con il tempo,
in particolare dopo l’inizio del secondo
grande conflitto intercontinentale del
Novecento, si fanno strada le definizioni di prima e seconda guerra mondiale, che sottolineano il coinvolgimento di tutte le nazioni rilevanti su
un piano politico ed economico nelle
diverse parti del pianeta. In effetti, sin
dall’inizio, i due schieramenti videro
fra le proprie file gli stati di maggior
peso militare del vecchio continente;
inoltre, anche le colonie a cui gli stessi
stati facevano capo vennero interessati direttamente dal confronto militare.
Infine, com’è noto, la successiva par-
30
tecipazione di Stati Uniti, Giappone e
Impero Ottomano ampliò la prospettiva geografica del conflitto, che può
a pieno titolo definirsi “mondiale”.
Ma fu veramente la prima guerra a
meritarsi questo appellativo? La storiografia tradizionale non nutre dubbi
al riguardo. Tuttavia, alcuni commentatori hanno posto in discussione questo giudizio. In primo luogo, è possibile obiettare che questa impostazione
risente di una certa parzialità a favore di Europa e Stati Uniti e a scapito
di Asia e Africa. Inoltre, focalizzando
l’attenzione sui grandi conflitti dei secoli precedenti e operando dei confronti con questi ultimi, si può osservare
come alcuni comprendano effettivamente un numero elevato di battaglie
sanguinose in cui complessivamente
persero la vita milioni di persone. È
il caso, in verità di difficile comparazione, delle guerre di conquista di cui
fu protagonista l’Impero Mongolo tra
il tredicesimo e il quattordicesimo secolo. Dalle sconfinate distese d’origine
i Mongoli estesero il loro controllo su
un territorio incredibilmente ampio,
che spaziava dalle coste cinesi lambite
dall’Oceano Pacifico fino alla Polonia,
alla Lituania, all’Ungheria passando
per l’Asia centrale e il Medio Oriente.
Per quanto si tratti di stime decisamente approssimative, data la scarsità di dati a disposizione e la vastità sia
spaziale che temporale del fenomeno,
si calcola che le vittime complessive
possano essere state decine di milioni.
Un altro conflitto impressionante dal
punto di vista del numero di caduti,
seppur poco noto nella storiografia occidentale, è la cosiddetta Rivolta dei
Taiping (1850-1864), una rivolta a carattere religioso guidata da Hong Xiuquan contro la dinastia Qing. Dopo la
conquista della città di Nanchino e la
fondazione di uno stato indipendente,
gli “Adoratori di Dio”, come essi si definivano, fallirono la presa di Pechino
e vennero sconfitti dalle truppe cinesi
al comando di un avventuriero americano e più tardi di un ufficiale britannico. Negli scontri morirono circa
venti milioni di persone. Il conteggio
relativo alle vittime della prima guerra mondiale, invece, varia dalle stime
più prudenti pari a circa sedici milioni
di persone a quelle che considerano
anche i decessi dovuti alle ferite, ai
patimenti delle guerra e al diffondersi
della Spagnola, che toccano i quaranta milioni di individui. Nondimeno,
non bastano i numeri a definire il carattere mondiale di una guerra. EnSotto: soldati in addestramento nell’Ohio.
A destra: francobollo del 1969 ritraente
Winston Churchill.
Susan Law Cain | chrisdorney / shutterstock.com
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LA GRANDE GUERRA
trambi i fenomeni bellici appena con- da protagonista. Altre novità nel cam- Germania era sfruttare la rapidità ed
siderati hanno una rilevanza storica po degli armamenti furono l’utilizzo efficienza del suo apparato militare,
limitata ai territori interessati e nes- dei gas, l’aeroplano e il sottomarino. altrimenti nel lungo periodo avrebbe
suna eco al di fuori dell’Asia, se non Ancora, il dispiegamento di imponenti ceduto alla schiacciante superiorità di
per la fama di spietati invasori guada- forze militari su un così ampio fronte risorse del fronte alleato misurata in
gnata dai Mongoli anche in Europa. determinò un importante impulso allo termini di capitale umano, di capacità
Se andiamo poi ad analizzare guerre sviluppo delle te- lecomunicazioni: di finanziarsi con capitale di debito e
che abbiano coinvolto più Stati in di- la radiotelegrafia vide il di Pil pro capite. A determinare le sorti
impiego in della guerra furono l’aumento del Pil
versi continenti possiamo prendere in suo primo
e
molte negli Stati Uniti e in Gran Bretagna e
considerazione quelle a noi più note: m a s s a ,
la Guerra dei trent’anni (1618-1648), r i s o r s e la capacità dei governi di far confluire
le risorse fiscali e la forza lavoro dispola Guerra di successione spagnola
(1701-1714), la Guerra di successione
nibili nella produzione bellica, attività
austriaca (1740-1748), la Guerra dei
nella quale gli USA si dimostrarono
sette anni (1756-1763), cara a Winmaestri. Nel loro caso particolare, la
guerra rappresentò un eccezionale
ston Churchill, e le Guerre nastimolo alla crescita economica:
poleoniche (1803-1815). Tali
tra il 1914 e il 1918 il Pil crebconflitti hanno in comune
la partecipazione di tutte
be del 14 per cento, mentre
o quasi tutte le potenze euronello stesso periodo quello
della Germania crollò di venti
pee e l’estensione delle ostilità
punti percentuali. Se, come visto,
anche ai territori coloniali oltreoi numeri sul campo di battaglia furoceano. Non c’è dubbio che la Guerra
dei trent’anni sia stata tra i conflitno decisamente considerevoli seppur
non superiori a quelli di altri conflitti
ti più sanguinosi e distruttivi della
anteriori, la partecipazione della colstoria, o che le Guerre napoleoniche
abbiano causato numerosissime vit- umane
furono lettività nel suo complesso fu senza
al man- precedenti. Per la prima volta nella
time, quasi cinque milioni. Ognuna destinate
di esse, inoltre, rappresenta un pas- t e n i m e n t o
dei contatti storia ogni ganglio sociale fu pervaso
e le retrovie. dalla percezione di un conflitto totale
saggio fondamentale e determinante fra il fronte
nell’evoluzione degli equilibri politici La peculiarità del conflitto in esame, e dalla necessità di uno sforzo unitario
ed economici in Europa. Per tutto ciò forse quella che da sola giustifica il per il raggiungimento di un obiettivo
si candidano a essere definite “mon- carattere unico della prima guerra comune. Molti storici hanno rimarcadiali”; eppure non presentano ancora mondiale, è però l’influenza che eser- to il fatto che le potenze belligeranti
quei tratti di novità assoluta tipici citò sulla popolazione civile e sull’eco- furono interessate da una mobilitadel grande conflitto del Novecento. nomia dei singoli stati. Alla fine del zione totale delle strutture produttive
Ma quali furono, in sostanza, le ca- 1917, i governi in guerra sul fronte e industriali da un lato e delle opiratteristiche inedite della
nioni pubbliche nazionali,
Il carattere unico della Prima stimolate da operazioni di
prima guerra mondiale?
Dal punto di vista della
Guerra Mondiale è la sua ricaduta propaganda su vasta scala,
strategia militare, essa
dall’altro. Si pensi ai movisulla popolazione civile
rappresenta una svolta
menti per l’emancipazione
innanzitutto per la diffudelle donne, che compirono
sione delle armi automatiche, letali degli Alleati rappresentavano il 70 una svolta decisiva grazie al crescente
strumenti nel confronto bellico che de- per cento della popolazione globale e ruolo sociale acquisito durante il conterminarono il passaggio dalla guerra il 64 per cento del prodotto mondiale. flitto, o alla rinnovata vitalità delle
di movimento alla guerra di posizione Mentre le aspettative da entrambe le ideologie nazionaliste; all’impatto, più
o di logoramento. Le ostilità avevano parti erano di una guerra breve, vinta in generale, che ebbe sulle masse la
come teatro le lunghe linee dei diversi con la forza militare e non con quella consapevolezza che il mondo intero
fronti: non linee immaginarie, ma se- economica, la realtà fu ben diversa. In era in guerra, una guerra non comgnate nel terreno dallo snodarsi delle un pioneristico lavoro del 2005 (The battuta soltanto dagli eserciti che si
anguste trincee divise (o unite) dalla economics of World War I: a compa- fronteggiavano in battaglie campali o
terra di nessuno. Nel conflitto fece la rative quantitative analysis), Stephen tra fango e filo spinato, ma una guersua comparsa anche un’altra innova- Broadberry e Mark Harrison forni- ra fra popoli, che sconvolse la vita di
zione della tecnologia bellica: il carro scono dati a supporto della loro larga- centinaia di milioni di persone nei cinarmato, utilizzato dall’esercito inglese mente condivisibile rilettura economi- que continenti. Una guerra mondiale,
nel 1916, ma che dovette attendere la ca del conflitto. Gli autori affermano in definitiva, che era solo il primo atto
seconda guerra mondiale per un ruolo che l’unica possibilità di vittoria per la di una più lunga tragedia.
PANORAMA PER I GIOVANI
31
UOMO DI STATO E DI STORIA
Lo statista britannico Winston Churchill fu uno scrittore prolifico e in molte delle sue opere si interessò di storia. Ricordiamo: My African Journey
(1908), The World Crisis, 1911-1918
(La crisi mondiale 6 voll., 1923-31), il
suo diario politico (Step by Step 19361939, 1939), War speeches (6 voll.,
1941-46), A History of the Englishspeaking Peoples (Storia dei popoli di
lingua inglese 4 voll., 1956-58) e La
Seconda guerra mondiale (1948-54).
Quest’ultima, oltre a figurare tra le
più lunghe opere di storia mai pubblicate, gli valse addirittura il premio
Nobel per la letteratura nel 1953.
Nella visione di Churchill è centrale
l’idea secondo cui il popolo britannico
possiede una grandezza e un destino
unico fra le nazioni. L’approccio di
Churchill verso vicende che spesso
ha vissuto in prima persona è dunque quello di un osservatore, ma anche di un protagonista. Questo non
vuol dire però che lo statista riesca
sempre a comunicare uno sguardo
oggettivo sui fatti: inevitabilmente,
Churchill tende a mettere la Gran
Bretagna e se stesso al centro della narrazione. Il politico britannico
Arthur Balfour, il quale descrisse
l’opera The World Crisis come “una
brillante autobiografia di Churchill,
mascherata come storia universale”.
Una dei contributi più interessanti
formulati dallo statista inglese è contenuta nella sua Storia dei popoli di
lingua inglese. In quest’opera Winston
Churchill compie un’interessante riflessione a proposito della Guerra dei
sette anni, definendola la prima vera
“guerra mondiale”. Il politico anglosassone nota che la Guerra dei sette anni
fu il primo conflitto ad aver avuto una
dimensione globale poiché coinvolse
le principali potenze europee dell’epoca (Prussia, Austria, Gran Bretagna,
Francia e Impero russo); inoltre, fu
combattuto per la prima volta in altre parti del mondo, in particolare
nelle aree in cui le potenze europee
avevano dei possedimenti coloniali.
32
FASCISMO E NAZISMO
CONSEGUENZE DELLA GUERRA?
Can Fascism and National Socialism be seen as consequences
of World War I? In Italy the “mutilated victory” narrative fortified
Mussolini’s political party. Meanwhile in Germany, Hitler’s Mein Kampf
championed the Lebensraum theory not only for the recapture of
lands lost after the war, but also for the seizure of Eastern Europe.
di Livio Ghilardi e Edoardo Giardina
Il legame tra la prima e la seconda
guerra mondiale è stato spesso evidenziato, tanto da portare gli storici a
definirle complessivamente come una
sorta di seconda guerra dei trent’anni, dall’inizio del primo conflitto su
scala globale (luglio 1914) alla fine
del secondo (settembre 1945). Evidentemente, gli anni che separano i due
eventi bellici non sono precisamente
trenta; tuttavia, ciò non ha impedito
di individuare tra di essi una certa
continuità: la conclusione della grande guerra e la temporanea pace accordata dopo di essa avrebbero gettato le
basi per il conflitto successivo.
Nell’Italia postbellica, soprattutto
all’interno degli ambienti nazionalisti,
cominciò a circolare l’idea che la vittoria fosse stata, in un certo qual modo,
mutilata. L’espressione, coniata dallo
scrittore Gabriele D’Annunzio, si riferiva al fatto che, con la Conferenza di
pace di Parigi del 1919, all’Italia non
fossero stati assegnati tutti i territori promessi con il Patto di Londra del
1915 in cambio della sua entrata in
guerra a fianco della Triplice Intesa.
Effettivamente il Regno d’Italia
vide parecchio ridimensionate le sue
rivendicazioni, specialmente sulla
Dalmazia e sui territori bagnati dal
mare Adriatico, in favore del neonato Regno dei serbi, croati e sloveni –
proclamato a Belgrado il 1° dicembre
1918, tre settimane dopo la fine delle
ostilità, e talvolta abbreviato in Regno
SHS – e in nome del principio dell’autodeterminazione dei popoli. Nel contempo, mentre Francia ed Inghilterra
si spartivano le colonie tedesche e il
Medio Oriente, si ridussero notevolmente anche le speranze italiane a
proposito di un ampliamento delle colonie in Africa. Malgrado la proclamazione del suddetto principio da parte
del presidente americano Woodrow
Wilson nei suoi celebri Quattordici
punti, la città di Fiume, prevalentemente abitata da popolazione di origine italiana, venne assegnata al Regno
dei serbi, croati e sloveni.
Nonostante l’espansione dei confini nazionali che il Trattato di SaintGermain-en-Laye aveva comunque
portato ai danni dell’Austria, la mancata annessione delle restanti terre irredente alimentò i sentimenti di delusione nelle file dei nazionalisti. In tal
senso rimase emblematica l’Impresa
di Fiume del 12 settembre 1919, in
occasione della quale D’Annunzio guidò circa 2.600 militari ribelli del regio
esercito (i “disertori in avanti” di marinettiana memoria) da Ronchi alla
città contesa tra i due regni, dichiarandone l’annessione al Regno d’Italia. Benché osteggiato persino dal suo
governo che ne disconobbe immediatamente l’azione, lo scrittore abruzzese riuscì a mantenere il controllo della
città e, l’anno successivo, proclamò
uno stato indipendente: la Reggenza
Italiana del Carnaro. Ciò nondimeno,
la stipulazione del Trattato di Rapallo, da parte di Italia e Regno SHS il 12
novembre 1920, impegnava i paesi in
questione a garantire l’indipendenza
dello stato libero di Fiume. Accolto con
convinzione da tutti gli esponenti politici italiani (tra i quali Benito Mussolini), l’accordo isolò ulteriormente il
Vate il quale, a seguito del “Natale di
sangue” in cui la città fu attaccata, dichiarò la definitiva resa.
Fiume sarebbe poi stata annessa all’Italia nel 1924 da Mussolini, ma l’impresa ad opera di D’Annunzio e dei
suoi legionari ebbe un valore simbolico rilevante: nel primo dopoguerra
il Regno italiano subiva il peso della
crisi economica, segnata da disoccu-
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WINSTON CHURCHILL
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pazione ed inflazione crescenti, mentre l’esercito veniva smobilitato. In un
contesto simile, l’Impresa di Fiume
contribuì a far emergere il processo di
decadimento dello Stato liberale. Nel
1921 Antonio Gramsci, sulle pagine
de “L’ordine nuovo”, rilevò come l’impresa fu “clamorosa prova delle condizioni di debolezza, di prostrazione,
di incapacità funzionale dello Stato
borghese italiano”. Benito Mussolini cavalcò con destrezza l’onda della
“vittoria mutilata” – definita da Gaetano Salvemini un “mito politico” – e
rafforzò l’influenza dei suoi Fasci di
combattimento in seno agli ambienti
nazionalisti, interventisti e reducistici, denigrando costantemente i deboli
governi postbellici e mutuando dall’esperienza fiumana le tecniche di comunicazione di massa che di lì a poco
ne avrebbero accentuato il carisma,
anche presso quei ceti possidenti e
Croci di ferro del periodo nazista.
LA GRANDE GUERRA
borghesi che ne agevolarono l’ascesa.
tedesco uscì dalla guerra sconfitto,
Tutti questi fattori, tra cui il vittimi- umiliato e accusato di aver dato orismo e il malcontento dilaganti, per- gine alla guerra. Con il Trattato di
misero ai movimenti nazionalisti e al Versailles del 28 giugno 1919, esso fu
fascismo di servirsi del leitmotiv della condannato al pagamento dei danni di
vittoria mutilata con lo scopo di accat- guerra (fissati all’enorme cifra di 132
tivarsi maggiormente l’opinione pub- miliardi di marchi oro) e a cedere tutblica e di giustificare future conquiste te le sue colonie alle potenze vincitrici,
territoriali. Senza contare che nella nonché porzioni del suo territorio nafattispecie
una
di queste, quella
Nell’Italia postbellica cominciò
dell’Etiopia,
fu
condannata dalla
a circolare l’idea che la vittoria
Società delle Nafosse stata mutilata
zioni con sanzioni
economiche che
ebbero, se non altro, l’effetto di isolare zionale quali l’Alsazia e la Lorena, a
Mussolini e di farlo avvicinare ulte- lungo contese con la Francia, la Saar
– quest’ultima venne occupata per
riormente a Hitler.
In occasione della Conferenza di pace quindici anni e poi restituita – e gran
di Parigi, l’Italia – rappresentata parte dei suoi territori più ad est, tra
dall’allora Presidente del Consiglio i quali il corridoio di Danzica, passato
dei Ministri Vittorio Emanuele Or- alla Polonia. La stipulazione del Tratlando – era comunque seduta al ta- tato di Saint-Germain-en-Laye, che
volo dei vincitori, mentre, l’Impero risale al 10 settembre 1919, determi-
33
LA GRANDE GUERRA
dei lavoratori, intriso di nazionalismo, anticomunismo e antisemitismo,
forte centralità era data al concetto
geopolitico del Lebensraum, lo spazio
vitale. Nel Mein Kampf, che funge da
manifesto delle sue nefaste ideologie,
il futuro Cancelliere del Reich
i totalitarismi, inizialmente tollerati
avrebbe
esposto l’obiettivo di
dalle potenze mondiali, manifestarono
espandere i terpoi tutta la loro tragica violenza
ritori tedeschi
ad est, riconquimania e, come precedentemente sta- stando quanto sottratto dai trattati
bilito dal Trattato di Versailles e già e considerato indispensabile per la
accennato, alcuni territori furono sopravvivenza del popolo: “Senza conassegnati all’Italia: la città di Trie- siderazione per le tradizioni e i preste, l’Istria, l’ex Contea di Gorizia e le giudizi, il nostro popolo deve trovare il
odierne province autonome di Trento coraggio di unire il proprio popolo e la
sua forza per avanzare lungo la strae Bolzano.
Sul versante dei vincitori il revan- da che porterà il nostro popolo dall’atscismo francese, causato dalla sconfit- tuale ristretto spazio vitale verso il
ta nella guerra franco-prussiana del possesso di nuove terre e orizzonti, e
1871, tardava a scemare e il desiderio di vendetta prevalse su qualsiasi
tentativo di creare una pace duratura:
nel corso della Conferenza di pace di
Parigi fu il primo ministro britannico, David Lloyd George, che tentò di
persuadere i delegati transalpini con
quello che è passato alla storia come
Il memorandum di Fontainebleu, in
cui dichiarò la volontà di creare una
pace perpetua: “Il mantenimento della pace dipenderà dal fatto che non
sorgano costantemente motivi che
spingano il patriottismo, il senso di
giustizia o di lealtà a chiedere di raddrizzare i torti”. Al contrario, il primo
ministro francese Georges Clemenceau era convinto che i trattati fossero
l’occasione migliore per proteggersi
dai tedeschi e dissuaderli dal covare
desideri di vendetta.
Come Lloyd George a ragione predisse, l’umiliazione subita dalla Germania, unitamente alla terribile crisi
economica che colpì la neonata Repubblica di Weimar, non sortì altro effetto
se non quello di indebolire la democrazia tedesca, facilitando successivamente l’ascesa del Führer e giustificando in un certo qual modo le sue
rivendicazioni su tutti i territori persi
che contavano ancora una maggioranza tedesca al loro interno. Nel programma politico di Adolf Hitler e del
suo Partito nazionalsocialista tedesco
nò la dissoluzione dell’Impero austroungarico, a cui subentrò la Repubblica
dell’Austria in contemporanea con la
nascita della Repubblica di Weimar.
Peraltro, fu ribadita la proibizione
dell’Anschluss dell’Austria alla Ger-
34
così lo porterà a liberarsi dal pericolo
di scomparire dal mondo o di servire
gli altri come una nazione schiava”.
Le aspirazioni nazionali, una certa miopia politica e la forte crisi economica in corso sedimentarono quel
sentimento di insoddisfazione e quel
desiderio di rivalsa che favorirono
la nascita e l’ascesa del nazionalsocialismo in Germania e del fascismo
in Italia, entrambi considerati come
l’opportunità migliore per recuperare
i territori perduti e ottenerne di nuovi, nonché per recuperare centralità
in ambito internazionale. Entrambe
le ideologie, inizialmente tollerate
dalle potenze mondiali dell’epoca, si
manifestarono, quindi, in tutta la loro
tragica violenza, prendendo interi popoli e culture come capri espiatori e
riuscendo a circondarsi di un’aura di
ambiguo titanismo agli occhi dei cittadini.
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IL DIFFICILE CAMMINO VERSO LA PACE
LA SOCIETÀ DELLE NAZIONI
The League of Nations was an international organization, headquartered
in Geneva, Switzerland. It was created after World War I to provide
a forum for resolving international disputes and lasted for 27 years.
The United Nations replaced it after World War II and inherited a
number of agencies and organisations founded by the League itself.
di Matteo Picarelli
Il bilancio della prima guerra mondiale fu pesantissimo tanto sul piano
umano quanto su quello economico
e politico. I libri di storia documentano come, con lo snodarsi dei principali eventi bellici, si assistette, per
la prima volta, alla preminenza del
ruolo geopolitico degli Stati Uniti su
quello europeo. La perdita di fiducia
nello stato liberale classico si tradusse nella delegittimazione delle classi
politiche dirigenti e nell’affermazione, sempre più massiccia, dei partiti
politici di massa e dei sindacati. Con
il conflitto scomparvero quattro grandi imperi - tedesco, austro-ungarico,
russo ed ottomano- e ne comparvero di nuovi o con nuovi confini: gli
Stati Uniti e l’Europa si trovarono
impreparati di fronte alla gestione
di una società regolata da nuovi rapporti e logiche. Evidente, infatti, era
l’urgenza di smantellare idee imperialistiche, in vista del riconoscimento del diritto di tutti i popoli all’autodeterminazione e alla sovranità.
Proprio il concetto di stato-nazione,
le cui caratteristiche di indipendenza
e nazionalità avevano dato adito a tanti scontri per favorire l’assimilazione
o l’esclusione forzata di quanti non ne
facevano parte, fu il punto di partenza
per risolvere il contrasto fra progresso
– economico e tecnologico – e regresso
nei valori politici ed intellettuali. La
sfiducia nella possibilità di una reale
collaborazione tra i popoli rendeva la
pace solo una tregua passeggera, ragion per cui la Conferenza di pace di
Parigi si pose, solo apparentemente,
come una nuova risposta rispetto a ciò
che nel passato non aveva ottenuto
riscontri positivi. Com’è facile immaginare, la strada verso la democratizzazione non fu semplice: nonostante
l’obiettivo della Conferenza del 1919
LA GRANDE GUERRA
competenza societaria era rappresentato dal rispetto della domestic
jurisdiction (competenza interna o
dominio riservato) degli stati, secondo
la quale non s’imponeva nessuna raccomandazione circa la soluzione delle
controversie interne dei vari membri.
Nell’elaborazione del trattato sulla
natura della costituenda SdN si confrontarono due diverse teorie: quella
internazionalista, degli USA e della
Gran Bretagna, tesa ad istituire una
mera unione di stati finalizzata al
mantenimento della pace internazionale, ed una teoria costituzionalista,
sostenuta da Francia ed Italia, volta
a dar vita ad un’organizzazione con
più competenze ed addirittura dotata
di un esercito internazionale. Si impose la prima tesi, con la conseguenza
che gli assetti rimasero sostanzial-
fosse quello di stabilire un nuovo ordine giuridico internazionale, volto
ad assicurare una pace durevole e
l’istituzionalizzazione dei rapporti di
forza tra gli Stati, i quattordici punti
discussi dal presidente statunitense
W. Wilson vennero disattesi. La Conferenza non fu una vera assemblea
plenaria quanto, piuttosto, un congresso a cui parteciparono
solo
Il programma di Winston Churchill
le nazioni vincitrici del conflitto:
salvaguardava il principio di
in essa, dunque,
nazionalità
furono riproposte logiche egemoniche
contrarie
al
princimente quelli precedenti alla guerra.
La SdN rappresentò un progresso
pio d’uguaglianza di ogni stato.
dal punto di vista tecnico perché per la
Il programma di Wilson (nazionaprima volta una società internazionale
lismo democratico) non metteva in
cercava di darsi un ordine per risolvediscussione il sistema capitalistico
e salvaguardava il principio di nare i contrasti senza l’uso della forza. In
ambito politico non riuscì a mantenere
zionalità, affrancandolo da forme di
la pace: le cause di ciò vengono prinespansionismo e di offensiva, tipiche
dei modelli politici tradizionali. Altercipalmente attribuite dagli storici alla
mancata ratifica degli Stati Uniti e di
nativo il modello di Lenin (internamolti grandi paesi, alla discrezionalità
zionalismo socialista) che aveva come
delle misure militari tributabili all’agobiettivo, dopo la rivoluzione russa del
1917, il superamento del capitalismo
gressore, alla guerra mai seriamente
e l’abolizione delle frontiere nazionali
esclusa né resa illegale in maniera
A tutela del nuovo assetto mondiale
definitiva, al vincolo del voto unanime
venne istituita la Società delle Nazioche rendeva improbabile ogni decisioni (o SdN), organizzazione internazione importante, e, infine, all’assenza di
un esercito proprio e all’esclusione delnale il cui atto costitutivo (Covenant o
Patto della SdN) fu inserito nei testi
la Germania e della Russia Bolscevica.
dei trattati di pace della prima guerMarginali i successi nella soluzione
delle controversie: nel 1920 quella
ra mondiale nel 1919. Fu il primo
delle isole Aaland contese tra Svezia e
ente internazionale con fini politici
Finlandia e nel 1925 tra Grecia e Bulgenerali e con i suoi 26 articoli il Patto regolamentava lo status dei paesi
garia. Il successo in entrambi i casi demembri, gli organi e le competenrivò dal non coinvolgimento di nessuna
grande potenza. Il prestigio della SdN
ze in merito al mantenimento della
fu definitivamente azzerato dall’invapace, la riduzione degli armamenti,
la gestione ed il controllo dei mandasione dell’Etiopia da parte dell’Italia.
Nel 1946 l’assemblea dichiarò il proti internazionali nonché la materia
socio-economica. L’unico limite alla
prio autoscioglimento.
PANORAMA PER I GIOVANI
35
LA GRANDE GUERRA
LA FINE DI UN’EPOCA,
L’INIZIO DI UN’ALTRA
World War I represented the end of a period for Western culture. The
optimistic view of Positivism during the XIX century – with its faith in
humanity, society and progress – faded away after the atrocities of the
conflict. Philosophers, writers and poets began to reflect the post-war
situation, trying to find a new hope for all humankind, whose values
had been lost.
di Federica Cassarà
L’impianto della società ottocentesca
crollò definitivamente dopo il 28 luglio
1914, giorno in cui l’Austria dichiarò
guerra alla Serbia e sancì l’avvio del
primo tragico conflitto mondiale, che
avrebbe segnato profondamente l’Occidente e la sua memoria. Il progresso
e la fiducia nell’umanità che avevano
guidato gli spiriti della Belle Époque
appartenevano ormai a un altro mondo ed erano da considerarsi caratteristiche ascrivibili alla visione positivista, la quale, dopo l’esperienza della
guerra, non poteva in alcun modo
essere ripristinata. Ecco che, di fronte
alle atrocità belliche, l’uomo doveva
tentare in ogni modo di recuperare la
sensatezza del proprio “essere qui” e
riappropriarsene: le nuove, drammatiche e inaspettate dimensioni dell’esistenza, portate alla luce dall’espe-
consenso. Parimenti, anche alcuni tra
gli intellettuali dell’epoca diedero la
loro approvazione alla causa bellica:
molti di loro, inizialmente spinti da
sentimentalismi patriottici e illusorie promesse di riscatto, si accorsero,
pagando un alto prezzo, che la guerra
aveva segnato la fine di un periodo.
Uno dei principali fattori ideologici che alimentò lo spirito bellico fu il
radicale mutamento del concetto di
nazione: questa si trasformò da entità
meramente culturale – ovverosia l’insieme di cittadini accomunati dalla
stessa lingua, cultura e religione – in
uno strumento di dominio e di prevaricazione. Bismarck può essere considerato l’incarnazione di questa nuova
concezione aggressiva e antidemocratica, la quale diede legittimazione al
selvaggio imperialismo incalzante nella seconda metà
dell’Ottocento e
Dopo la prima guerra mondiale
in cui la grande
guerra affondò
scompare definitivamente lo spirito
le sue radici.
della Belle Époque
La portata epocale della prima
rienza di guerra, non potevano essere guerra mondiale fu analizzata dallo
riconosciute a posteriori come sensate. storico inglese Eric Hobsbawn, per
Nel saggio Per la pace perpetua, il quale lo scoppio del conflitto belliKant sostiene che, qualora spettas- co coincide con l’“inizio ritardato” del
se al popolo decidere se entrare in XX secolo, il cosiddetto “secolo breve”.
guerra o meno, allora non vi sarebbe Per lo storico britannico, infatti, tutpiù alcun conflitto. Questo pensiero, to ciò che intercorre tra i primi anni
tipicamente illuminista e avverso a del Novecento e il 1914 appartiene
ogni dogma contrario alla ragione, si al secolo precedente. Nondimeno, tediscosta dalla mentalità propria del nendo conto dell’ottica hobsbawniana,
XX secolo. Infatti, anche se non tutta sarebbe ingiusto non ammettere che,
la popolazione aderì alla causa mili- in verità, le radici del conflitto siano
tarista, certo è che le volubili masse, da ravvisarsi nei processi storici, fiallettate dalle promesse delle destre losofici e politici dell’Ottocento, manazionaliste, mostrarono un diffuso turati sotto la pacifica scorza dell’ap-
36
PANORAMA PER I GIOVANI
Illustazione tratta dall’Anna Karenina di Lev
Tolstoj, raffigurante un ballo aristocratico,
tipico della Belle Époque.
parentemente innocua Belle Époque.
Pur senza approfondirne i complessi
e numerosi sviluppi storico-politici,
vale la pena riflettere in che misura la prima guerra mondiale abbia
segnato l’Occidente e la sua coscienza storica, decretando in modo netto la fine di un’epoca: imprescindibile è il riferimento allo sguardo e
alla percezione di alcuni pensatori del Novecento di fronte al crollo
del precedente assetto assiologico.
Per cominciare, si prenda in esame
Edmund Husserl, uno dei massimi
filosofi mondiali, cinquantenne all’epoca del conflitto, che dà un chiaro
esempio dell’irrazionalità dilagante
in quegli anni. Il filosofo tedesco era
solito esortare i suoi studenti a vedere
nella guerra “il destino grande e severo, aldilà di ogni immaginazione, della nostra nazione tedesca”; tuttavia,
a soli tre anni dalla fine del conflitto lacerante, scriveva: “la guerra ha
svelato l’indicibile miseria, non solo
morale e religiosa, ma anche filosofica dell’umanità”, la grande guerra è
stata “la colpa più universale e profonda dell’umanità nell’intera storia”,
“la dimostrazione dell’impotenza di
tutte le idee, della non-verità e insensatezza della cultura”. È chiaramente percepibile il netto e insanabile
cambio di mentalità avvenuto nel filosofo, rappresentante di quella metamorfosi intellettuale collettivamente
condivisa dal popolo di pensatori e
non. Secondo il fenomenologo tedesco
dunque, la guerra non aveva fatto altro che devastare la cultura europea,
mostrando la perdita del “proprio significato etico”: il futuro prospettato
a questo punto della storia può essere solo, a detta di Husserl, quello del
rinnovamento di una nuova cittadinanza europea, che richiede una necessaria assunzione di responsabilità.
Simile, ma più diretta, è l’esperienza
della guerra sperimentata dal noto filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein:
questi vede nella partecipazione alla
guerra un “dovere sacro”, una prova
interiore, un’occasione di rigenerazione che finirà, invece, per trasformarsi
Oleg Golovnev / shutterstock.com
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in una profonda delusione. Allo scoramento iniziale seguirà la ricerca di
un’autenticità esistenziale e un ostinato silenzio filosofico, dovuti anche al
rapporto con il cristianesimo e alla lettura meditata di Tolstoj e Dostoevskij.
Diverso è il percorso esistenziale e
intellettuale del logico e filosofo Bertrand Russell, il quale assunse immediatamente posizioni pacifiste e perse
la propria cattedra a Cambridge, venendo in seguito addirittura imprigionato. In Portraits from Memory
afferma che fu proprio la scelleratezza della prima guerra mondiale a contribuire alla nascita del comunismo
russo, del fascismo italiano e del nazismo tedesco, dando vita ad un mondo instabile e civilmente riprovevole.
Altra riflessione centrale è quella del
filosofo e scrittore Ernst Bloch: nel
suo saggio Il possibile e il marginale,
Bloch, influenzato dalle letture bibliche e dall’espressionismo, afferma
che l’evento traumatico della prima
guerra mondiale rappresenta un confine oltre il quale l’esperienza è obbligata a confrontarsi con il “vuoto”, generato dal crollo dell’ordine precedentemente stabilito. Di fronte alla Sinnlosigkeit (l’insensatezza) dell’uomo
moderno, il rischio è quello di perdersi
nell’inautenticità artistica ed esistenziale e nella vuota denuncia dell’Occidente. La filosofia blochiana ha come
concetto chiave quello dell’esperienza de guerra, venne pubblicata l’opera Il
del possibile e fa della speranza il suo tramonto dell’Occidente dello storico,
punto cardine. Quest’ultima non è filosofo e scrittore Oswald Spengler.
qualcosa di puramente soggettivo, ma Con i suoi rimandi a Geschichte des
un aspetto reale dello sviluppo dell’es- Untergangs der antiken Welt di Otto
sere; in una prospettiva filosofica nella Seeck, lo scritto rappresenta un’ambiquale il messianismo biblico è collega- ziosa e profetica visione che rintraccia
to al marxismo, il “vero vitale essere” nel periodo del primo conflitto bellico
è il non-essere ancora come verità più mondiale l’inizio della decadenza della
profonda, la docta spes oggettivamen- civiltà europea in un clima di intenso
te basata sul dinamismo della realtà. pessimismo culturale. Nell’ottica del
Proprio un anno dopo la fine della tra- filosofo tedesco, ogni civiltà attraversa,
gedia bellica, il poeta e scrittore Paul infatti, un ciclo di nascita, sviluppo e
Valery, a fronte
della crisi di coLa guerra è un fallimento morale,
scienza attraversata dall’Europa,
religioso e filosofico: l’uomo deve
scrisse: “Noi, la
ritrovare la propria sensatezza
civiltà, ora sappiamo di essere
mortali”, incarnando in tutto e per tut- decadenza, condizione quest’ultima di
to l’uomo post-bellico che, dopo aver cui l’Europa sarebbe stata vittima. Le
tentato di trovare il suo rifugio nella nuove forme politiche nascenti come
certezze dell’immortalità, vede crolla- il socialismo e la democrazia alterare ogni suo punto di riferimento e per- no le tradizionali gerarchie di potere
cepisce la fine morale di una civiltà da e sono fortemente temute dall’autore,
ricostruire. Secondo il poeta, essendo considerato da alcuni ispiratore del
l’uomo quell’animale che si è opposto fascismo e del nazismo. Sul tramona tutti grazie ai suoi sogni, è proprio il to della cultura occidentale Spengler
songe – non solo sogno come rêve, ma afferma: ”Noi non abbiamo la possibianche come pensiero – il punto di par- lità di realizzare questo o quello, ma
tenza per la costruzione di una nuova la libertà di fare ciò che è necessario
civiltà, basata su quelle antiche e pre- o nulla; e un compito che la necessità
supposto di un’Europa pacifica e unita. della storia ha posto verrà realizzato
In Germania, al termine della gran- con il singolo o contro di esso. PANORAMA PER I GIOVANI
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1 - 2014
PRIMO PIANO
CLASSICISMO E MODERNITÀ NEL FILM
LA GRANDE BELLEZZA:
RAGIONI DI UN SUCCESSO MERITATO
What makes Paolo Sorrentino’s The Great Beauty worthy of the
string of successes that culminated with its triumph at the Academy
Awards? An analysis of image and sound editing can reveal its
beautiful complexity. The quality of the film lies in its capability to
show how classical and modern forms can blend in order to create a
brand new language.
di Francesco Pipoli
vicini al pensiero, più usati da Dante
nel suo Paradiso, più adatti a percepire la bellezza. La grande bellezza.
Paolo Sorrentino, prima ancora di vincere l’Oscar, si stupisce dell’apprezzamento che questo suo linguaggio cinematografico, nuovo, originale e personale, ha suscitato nel pubblico americano. L’Italia della crisi, la decadenza
di Roma, lo stile e il favellare del protagonista possono attirare l’attenzione
del pubblico. Ma prima di tutto vengono lo sguardo e l’ascolto. Il merito de
La grande bellezza sta nell’aver saputo rimodulare il linguaggio del cinema in una forma di ricca complessità.
Il tema formale principale del film sta
proprio nella diacronia che si instaura tra il montaggio del sonoro e quello
delle immagini. È un fatto generale di
tutto il film che il sonoro di una scena scavalchi la
e introIl tema formale principale del film stessa
duca la successta nella diacronia che si instaura siva; oppure, al
che
tra il montaggio del sonoro e quello contrario,
la anticipi nel
delle immagini
finale della precedente. Il proprecedente. Intanto, indipendente- cedimento appare da subito, e in modo
mente, la seconda serie di rintocchi di violento: nella sequenza di apertura
campana scandisce un ritmo costan- un turista è colpito da infarto mentre
te. Due ordini, leggermente diversi, contempla la città dal belvedere della
che si impongono a due sfere sen- mostra dell’Acqua Paola; poi un urlo,
soriali differenti creano confusione. ma appartiene già alla sequenza delVista e udito sono i due sensi più la festa di compleanno di Jep Gamsuscettibili della percezione di una bardella, il protagonista. E ancora, il
scansione ritmica del tempo. Vista e fluire di una scena nell’altra diventa
udito sono i due sensi che, per la prima raffinatamente complesso quando
volta, il cinema mette in una relazione Forever di Venditti chiude l’episodio
complessa che coinvolge il tempo, gra- del santone/chirurgo plastico come
zie all’invenzione del montaggio. Vista canzone extradiegetica e apre quello
e udito sono i due sensi più nobili, più di Sabrina Ferilli in piscina. Qui però
Tre rintocchi di campana: un uomo,
ben vestito, si rinfresca il viso con l’acqua di un nasone romano. Tre volti
umani: uno duro, di pietra; uno tenero, di bambina; uno severo, di suora.
Altri tre rintocchi, altre tre figure
umane: un santo, di pietra; l’uomo di
prima, che fuma; una donna, al telefono, che parla freneticamente in una
lingua straniera. Tre rintocchi creano
già un ritmo. Due serie di tre rintocchi creano una sequenza ritmata sufficientemente articolata. L’immagine,
però, non segue il suono: il numero dei
fotogrammi per inquadratura cresce,
e con esso la complessità dei movimenti di macchina. Poi le inquadrature tornano brevissime e i movimenti
della cinepresa elementari; e ancora
la conta dei fotogrammi tra uno stacco
e l’altro cresce, segue lo stesso pattern
38
PANORAMA PER I GIOVANI
si trasforma, senza soluzione di continuità, in un suono diegetico, quando
il dialogo tra lei e Servillo ha inizio.
Il tema della diacronia si legge ancora
meglio nelle singole scene. Proprio in
quella, già accennata, del compleanno
di Jep, in cui la musica è ossessivamente monotona, mentre la durata
delle inquadrature, con disinvoltura,
passa da qualche secondo a qualche
decina di fotogrammi, poi si dimezza,
poi torna a superare i cinque secondi,
senza uno schema. Qui a contrastarsi sono non più due schemi di ordine
differente, ma l’ordine e il disordine. E il disordine è il presupposto
per l’esibizione del virtuosismo della
macchina da presa, ma anche per la
vera presentazione del protagonista:
Sorrentino, raccogliendo la lezione di
Goodfellas di Martin Scorsese, porta
una massa di persone (lì un’udienza
in tribunale, qui un ballo di gruppo)
in slow motion e fa uscire dai ranghi
il suo attore, che si rivolge al pubblico;
egli è già fuori dalla diegesi, ma la sua
voce è affidata ad un monologo, introducendo un terzo livello di narrazione,
dove Scorsese si fermava a due (con
Ray Liotta che parlava in macchina).
Nell’orchestrazione delle scene, però,
questo gioco formale trova un’evoluzione: la disarticolazione si scioglie
progressivamente verso scene più
composte e chiare, dove la musica
amalgama, unisce e sostiene la componente visiva, sino al culmine del
finale, il vero finale: il piano sequenza lungo il Tevere che fa da sfondo ai
titoli di coda. L’assenza del montaggio
crea un fluire continuo, aiutato dalla
musica; l’unica componente di ritmo
è fornita dalla regolare comparsa dei
testi dei crediti che, rispettosamente,
quando necessario, saltano in corrispondenza del passaggio sotto i ponti, i quali creano un ritmo secondario,
molto diluito, impreciso e impercettibile. Anche questa ultima scansione
temporale si dissolve nel testo scorrevole finale. Tutto finalmente è fluido,
liscio, legato, però c’è una pesante contraddizione: il fiume è percorso controcorrente. Impercettibile disarmonia.
Disordine e ordine; modernità e classicismo: “Adesso voglio farti vedere
una cosa”, ma in verità quello che Sorrentino ci fa vedere sono sempre due
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PRIMO PIANO
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La fontana dell’Acqua Paola, presso la cima
del Gianicolo a Roma. Qui è ambientata
una delle prime scene del film.
cose. Il movimento di macchina complesso, quasi mai sviluppato su una
curva piana; il montaggio acronico,
come quello della bambina-pittrice
informale che cammina verso la macchina da presa, per poi apparire in
un flash già ricoperta del colore della tela; i movimenti dei punti di luce
nella scena, che animano i volti delle
statue nei Musei Capitolini (quasi a
riprendere la maestria della fotografia di Mimmo Jodice): questi sono tutti espedienti che non appartengono a
una tradizione puramente classicista;
raccolgono, piuttosto, stimoli multipli
di respiro internazionale. Allo stesso
modo, dove anche un postmodernista
come De Palma non rinuncerebbe a
orchestrare in forma di balletto una
scena, sfruttando il ritmo dato dai
materiali sonori della location, Sorrentino, come già visto, fa un uso spregiudicato del ritmo delle campane.
Eppure, non si può dire che la componente classica sia assente, appare
anzi sublimata in talune composizioni pittoriche, come quando una suora
e un bambino, seduti, dandosi le spalle, completano la composizione piramidale dell’affresco di due fauni, istituendo nel complesso una simmetria
chiastica. In fondo la Roma che si impone nel film con le sue architetture,
estromette i capolavori barocchi, per
darci, invece, splendide immagini del
Bramante e di Michelangelo o, ancora, di ciò che romanticamente rimane
del periodo imperiale. Solo Bernini si
affaccia, e lo fa timidamente, perché
della sua Scala Regia, barocca non negli elementi, ma nell’effetto scenico,
il trucco teatrale è subito disvelato.
La rappresentazione è manichea? La
bellezza sta da una sola parte? L’unica conclusione che si può trarre è
che essa non è nell’ordine, né nel disordine; non è nella durata, traspare forse nell’attimo. La bellezza si
rappresenta come ricerca, non come
fatto compiuto; è il termine di una
continua ascesa che non si può compiere nemmeno nell’assoluta, libera,
disimpegnata disponibilità del tempo
della propria vita (condizione favolo-
sa di cui gode il protagonista). La bel- Colosseo. Finisce per non sembrare
lezza è in quello storico, inesorabile casuale che di questo monumento la
progresso della forma che, allo stesso parte sempre in vista sia un restautempo, ciclicamente oscilla tra ordine ro. Non si può non sospettare, infine,
e disordine, tra classico e romantico. che dei due grandi restauri subiti
Alla fine solo sullo sfondo del film si dal monumento ne sia stato scelto
può dire qualcosa di certo e stabile: scientemente uno: quello di Raffaele
Roma è l’unico posto al mondo in cui Stern, che con uno sperone in muraclassico e moderno si possono uni- tura fissa i conci degli archi così come
re intimamente, profondamente, al si trovano, squassati dal terremoto
di là dei capricci
del postmoderniRoma è l’unico posto al mondo in cui
smo. Negli ulticlassico e moderno si possono unire
mi cento anni lo
hanno fatto, tra
intimamente, profondamente, al di
gli altri, Lapalà dei capricci del postmodernismo
dula, Guerrini e
Romano nel Palazzo della Civiltà del Lavoro. Lo ha del 1806 e da secoli di incuria e defatto Sironi nell’aula magna de La predazioni di materiale. Fissare per
Sapienza. Lo fa Sorrentino ne La ricordare, per preservare l’integrità,
grande bellezza. È la storia (dell’ar- non senza creare, interpretare, andate) che continua nella tradizione. re avanti, ammonendo i contemporaIl centro del film può essere visto nei di ciò che si sta perdendo e che
non, come molti hanno fatto, nella invece ci fornisce di tanta ricchezza.
raffigurazione decadentista della ca- Se si decide che questo messaggio è
pitale, ma in ben altro intento, più introiettabile nel profondo dell’animo
nobile: salvare Roma nel ruolo che umano, allora ha inizio tutta un’alricopre nella storia dell’arte e, per tra storia, che ognuno può vivere, al
metonimia, della bellezza. Non è un di fuori dell’arte e dentro se stesso.
caso che dall’invidiabile apparta- “Dunque, che questo romanzo abbia
mento di Jep Gambardella si veda il inizio”.
PANORAMA PER I GIOVANI
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PRIMO PIANO
IN MEMORIAM DI CLAUDIO ABBADO
OMAGGIO AL DIRETTORE DALLA
BACCHETTA MAGICA
Claudio Abbado, thanks to his charm and to the clarity? of his
gestures, conducted many of the world’s greatest orchestras.
Besides being a very important artist in his own right, he will also be
remembered for his involvement in social issues. For these reasons, in
2013 Abbado was appointed Senator for life by the Italian President
Giorgio Napolitano.
di Gregorio Maria Paone
Symphony Orchestra e, in seguito,
diventa direttore della Staatsoper di
Vienna. Nel 1989 ha l’onore di raccogliere l’eredità di colui che è considerato da alcuni critici come il più
grande direttore d’orchestra della
storia, il salisburghese Herbert von
Karajan: Abbado diventa così direttore dei Berliner Philarmoniker e
porta a questa storica compagine orchestrale un’ondata di rinnovamento. Memorabili le esecuzioni delle
nove sinfonie di Beethoven tenutesi
nel 2001 a Roma, nell’auditorium di
via della Conciliazione. L’emozione
suscitata da quei concerti è dovuta
anche al fatto
che il Maestro
Senatore a vita dopo una lunga e era appena
brillante carriera, ma anche a seguito uscito vincitore dalla sua
del notevole impegno nel sociale
battaglia contro il cancro
e, sebbene fosse visibilmente dediale e recentemente nominato Senatore a vita della Repubblica Italiabilitato, le incisioni di queste esena. Può essere opportuna un’analisi
cuzioni risultano ancora, al giorno
della figura del Maestro secondo tre
d’oggi, tra le migliori in circolazione.
linee direttrici: la sua immensa ed ilLascia il prestigiosissimo incalustre carriera, la divulgazione della
rico a causa della salute cagionevomusica classica verso gli strati della
le, ma continua a dedicarsi all’inpopolazione tradizionalmente meno
cisione di musiche già registrate
legati al genere colto e la valorizzaprecedentemente,
manifestando
una maturità sempre superiore di
zione dei giovani talenti, aspetto fonvolta in volta. Le orchestre con le
damentale che solo pochi grandi dequali collabora in quest’ultima fase
cidono di prendere in considerazione.
della sua carriera sono la Mahler
Si usa fissare l’inizio della carrieChamber Orchestra e, saltuariara di Abbado nel 1960, quando dirige
alcuni concerti al Teatro alla Scala di
mente, i Berliner Philarmoniker.
Milano, diventandone direttore muLa sua nomina a Senatore a vita
giunge a coronamento non solo di
sicale nel 1968 e mantenendo questo
una brillante e lunga carriera, ma
incarico fino al 1986. Rimane conanche di un notevole impegno nel sotemporaneamente direttore dei Wieciale. Fu rivoluzionario, per esempio,
ner Philarmoniker e della London
“Sembrava davvero che avesse il tocco di Mida. Ogni cosa che portava in
vita brillava di una luce vigorosa. Che
fosse in un teatro d’opera, sul podio
di un concerto, in uno studio di registrazione o che fosse circondato dalla
créme de la créme dei giovani musicisti per cui ha creato orchestre, lui
è da ogni punto di vista un gigante”.
Così il direttore dell’Orchestra stabile dell’Accademia nazionale di Santa
Cecila, Sir Antonio Pappano, ricorda
Claudio Abbado. Si è molto parlato,
negli ultimi tempi, della scomparsa,
avvenuta il 20 gennaio del 2014, del
direttore d’orchestra di fama mon-
40
PANORAMA PER I GIOVANI
il suo gesto di tenere un concerto a
Pavia, il 20 novembre 1974, non a teatro, bensì presso la mensa della fabbrica Vittorio Necchi: un importante
tentativo volto a diffondere la musica
colta presso gli operai, certamente,
ma anche una velata provocazione
con cui il Maestro rendeva accessibile al proletariato un genere musicale
considerato da tutti borghese. Questo atteggiamento testimonia come
Abbado fosse un esponente della
tendenza dell’artista, ormai consolidata in epoca post-moderna, a vivere
legando indissolubilmente la propria
vocazione artistica a quella sociale.
Egli è stato avvicinato varie volte a
posizioni politiche di sinistra e a tal
riguardo è opportuno riportare un
frammento di un’intervista concessa dallo stesso Abbado al “Corriere
della Sera”: “Io ho diretto molta musica di Luigi Nono, che considero un
grandissimo compositore, eppure la
reazione era sempre la stessa: Nono
è comunista. Pensi che una volta a
Vienna mi sono trovato un musicista
dei Wiener il quale, alla fine della
Settima di Bruckner, mi disse: Meraviglioso, non mi sarei mai aspettato
che un italiano di sinistra come lei
potesse dirigere Bruckner in modo
così profondo, poi scoprii che ai tempi era stato un fervente nazista (...)”.
Nonostante questo, Abbado ha evitato di legare la sua attività in maniera
acritica a qualsivoglia corrente politica, come dimostra la sua condanna
sia verso la guerra in Vietnam che
verso la repressione sovietica della
Primavera di Praga. La cancellazione delle due repliche del Barbiere di
Siviglia in segno di lutto per l’attentato di Piazza Fontana è emblematica dello spessore umano del Maestro.
Claudio Abbado è stato anche un
grande appassionato di botanica:
aveva, infatti, una villa ad Alghero
nella quale coltivava oltre diecimila
piante. Egli paragonava il percorso
dell’impianto di un albero a quello
della crescita di un talento musicale:
la metafora era che, come un albero
può aumentare a dismisura il diametro del proprio tronco se attecchisce su
un terreno fertile, allo stesso modo un
talento, se seguito con metodo e passione, può estrinsecarsi nel migliore
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dei modi. È questo il principio da cui
parte quando decide di dedicarsi alla
formazione di orchestre giovanili.
La prima orchestra giovanile alla
quale si dedica è la European Union
Youth Orchestra, formazione nata
nel 1976 e composta da circa 140
elementi, che rappresentano tutti gli
stati facenti parte dell’Unione Europea. Vi è, poi, la Mahler Chamber
Orchestra, orchestra da camera nata
nel 1997, con la quale dà vita ad una
produzione discografica abbastanza
vasta. A seguire, l’Orquesta Sinfónica Simón Bolívar, con la quale Abbado inizia a far musica nel 2005.
La creatura a lui più cara è stata, però, l’Orchestra Mozart, fondata a Bologna nel 2004 e plasmatasi
poi attorno al suo pensiero musicale.
Con essa collaborano musicisti di
fama internazionale: l’idea è quella
di far crescere i giovani talenti che
formano lo zoccolo duro dell’orchestra, mettendoli a contatto con professionisti affermati. La compagine,
in effetti, possiede un livello artistico
elevato, nonostante esista da poco e
i suoi membri siano molto giovani;
grazie a questa grande qualità ha
suonato in sale da concerto rinomate in tutto il mondo, tra le quali il
Musikverein di Vienna, il Teatro alla
Scala di Milano, il Teatro “La Fenice” di Venezia, il Teatro san Carlo
di Napoli e tanti altri. L’orchestra si
è esibita anche in festival internazionali di grande importanza, quali
il Festival di Lucerna, il Festival di
Ravenna, il Festival di Salisburgo.
Dal momento che il sogno di Abbado era quello di continuare il suo
progetto con questa orchestra, è
davvero ammirevole l’iniziativa che
prevede un concerto per il prossimo
30 giugno in occasione del Ravenna
Festival, con la direzione di Riccardo
Muti. “L’omaggio più importante che
possiamo rendere alla memoria del
grande direttore – ha detto Cristina
Mazzavillani, direttrice del festival –
è far rinascere e proseguire l’attività
della sua Orchestra Mozart. Claudio Abbado, che è stato un amico di
Ravenna Festival, dove ha diretto la
stessa Mozart e prima ancora i Berliner Philharmoniker, ne sarebbe molto felice.”
PRIMO PIANO
L’INTEGRALE DELLE NOVE SINFONIE DI
BEETHOVEN
“Io credo che per questo genere di capolavoro, le Sinfonie di Beethoven, non ci sia mai nessun limite nel trovare sempre qualcosa di nuovo,
per aumentare la conoscenza di queste partiture. Per questo motivo, in
tutti questi anni, è logico per me il fatto di cercare sempre qualcosa di
nuovo (...) Le esecuzioni, in genere, sono appesantite da secoli di esecuzioni di orchestre molto grandi o di esecutori che hanno fatto delle cose viste in maniera diversa da quella che pensava il compositore”.
Sono queste le parole di Abbado circa l’insieme di cambiamenti, di
usanze, di pratiche spesso scorrette che vanno sotto il nome di tradizione. Tra gli autori, uno di quelli che ha sofferto più di tutti di questa
usanza è stato sicuramente Beethoven: per esasperare il cliché del Beethoven accigliato, titanico, diversi direttori d’orchestra, anche di indiscussa fama, hanno eseguito le Sinfonie in una maniera filologicamente
poco adeguata, adoperando tempi più lenti di quelli che l’Autore aveva
in mente, o utilizzando un’orchestra quasi doppia rispetto a quella prescritta dalla partitura. Un’altra pratica comune nel secolo scorso era quella di tagliare i ritornelli per “alleggerire” la struttura del pezzo, senza
badare al fatto che questo non alleggeriva la forma, bensì la mutilava.
Un grandissimo merito di Claudio Abbado è stato quello di rieseguire le
Nove Sinfonie cercando di non farsi condizionare dagli ultimi due secoli di
tradizioni, restituendo al risultato sonoro quella che poteva essere l’idea
di Beethoven. Lo stesso Abbado incise più volte questi capolavori e la differenza più grande che troviamo in questo capitolo della sua discografia è
quella tra l’incisione effettuata nel 1994 con i Wiener e l’incisione del 2000
con i Berliner. Nel 1994 Abbado si era lasciato in un certo senso influenzare
dalla tradizione tedesca e, quindi, adoperò un organico in linea con la prassi del tempo, nonostante le sue innovazioni in ambito di dinamica e fraseggio; nel 2000 rese quasi irriconoscibili i Berliner, dal momento che l’organico venne sfoltito fino ad assomigliare quasi ad un’orchestra da camera.
PANORAMA PER I GIOVANI
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1 - 2014
PRIMO PIANO
A PROPOSITO DI BRAIN DRAIN
L’ESPERIENZA DI DUE STUDIOSI TORNATI IN ITALIA
È uscito da qualche mese il volume Italia no, Italia forse, realizzato
presso il Collegio “Lamaro Pozzani”, che raccoglie una serie di colloqui
con studiosi “tornati” in Italia e in Europa dagli Stati Uniti. Proseguiamo
questa riflessione con un’intervista “doppia” a due docenti dell’Università
di Bologna.
a cura di Manuel Trambaiolli
L’appuntamento con i Professori Pinna e Ventura è per le 15.00
presso il Policlinico Sant’Orsola
di Bologna. Un taxi mi accompagna fino all’entrata dell’ospedale,
a pochi chilometri dalla stazione.
Aspettando il momento di incontrare
i docenti, mi siedo su una panchina,
tra il via vai di ambulanze, infermieri e medici che entrano all’interno
della struttura. Mi ricordo in quel
momento le e-mail dei due intervistati che erano riusciti, nonostante i
numerosi impegni in ambito accademico e clinico, a ritagliare del tempo
per fare due chiacchiere sulle loro
esperienze professionali all’estero.
All’ora stabilita mi dirigo verso l’ingresso del Padiglione di Chirurgia
Generale: davanti a me si apre un’accogliente sala d’attesa con bassorilievi
di celebri chirurghi che hanno fatto
la storia del Policlinico Sant’Orsola.
Poco dopo avere annunciato il mio
arrivo alla segretaria, salgo un’imponente scalinata con raffigurazioni dei
primi interventi condotti nell’Ateneo
bolognese e trovo subito i due docenti impegnati a discutere dei loro progetti. Mi accolgono con cordialità e mi
mettono subito a mio agio davanti a
un buon caffè, chiedendomi informazioni sul Collegio “Lamaro-Pozzani”.
Ha così inizio la nostra intervista.
Prof. Pinna: Sono nato a Roma nel
1956 e già da bambino sognavo di
iscrivermi a Medicina. Ho frequentato l’Università “La Sapienza” di
Roma, dove mi sono laureato con
una tesi sulla papillostomia chirurgica. Nella stessa città ho conseguito la specializzazione in Chirurgia Generale nel luglio del 1985.
Prof. Ventura: La mia città natale è
Trani, ma mi sono trasferito successivamente con la famiglia a Bologna.
Essendoci trovati molto bene in questa città, abbiamo deciso di restare.
Sono sempre stato appassionato alle
materie scientifiche e così ho deciso
di iscrivermi alla facoltà di Medicina di questo Ateneo, frequentando al termine degli studi la Scuola
di Specializzazione in Cardiologia.
L’organizzazione del Corso di
Laurea in Medicina, con il progredire delle conoscenze, ha subito
profonde modifiche nel corso del
tempo. Quali sono stati i cambiamenti più significativi che voi avete riscontrato da quando eravate
studenti e queste modifiche hanno avuto risvolti positivi sulla formazione delle nuove generazioni?
Professori Pinna e Ventura, un
buon modo per iniziare la nostra chiacchierata è di parlare
della vostra storia personale.
Qual è la vostra città nativa e
dove avete svolto gli studi universitari? Avete da sempre desiderato di fare il medico o, al
contrario, quando è nata la passione per questa professione?
Prof. Pinna: L’assegnazione dei moduli didattici ad esperti di ogni settore rappresenta senza dubbio un
valido tentativo di offrire una visione
specialistica e moderna di ogni disciplina. Questo però comporta una
frammentazione dell’insegnamento
della Medicina e una maggiore difficoltà di apprendimento da parte degli
studenti. Con le materie a carattere
annuale del vecchio piano di studi,
quali la clinica e la patologia medi-
42
PANORAMA PER I GIOVANI
ca o chirurgica, i docenti avevano la
possibilità di sviluppare un discorso
più organico e di avere un rapporto
diretto con gli studenti. Con l’attuale
strutturazione del Corso di Laurea, i
professori hanno invece a disposizione un numero esiguo di ore di lezione
e devono concentrare numerose nozioni in un tempo ridotto, con scarse
possibilità di dialogo. Le modalità
di insegnamento sono divenute più
anonime, spesso affidate a strumenti informatici, e si è persa in parte la
figura del docente che trasferiva agli
studenti la sua esperienza clinica.
Prof. Ventura: Con il termine di “corsi
integrati” presenti nel Corso di Laurea in Medicina, vedo il rischio di una
disseminazione frammentaria del sapere. Lo studente, sempre più spesso
rispetto al passato, tende a perdere
di vista il quadro d’insieme di fronte
alla vastità delle informazioni fornite
durante gli insegnamenti e può essere
spinto a un atteggiamento di passiva
memorizzazione. Uno dei motivi principali di questo pericolo risiede nel
fatto che le scienze mediche sono poco
saldate tra di loro e allo studente non
si fanno adeguatamente apprezzare i
collegamenti tra la ricerca di base e
la pratica clinica. Dagli insegnamenti
non viene valorizzata pertanto l’importanza della cosiddetta “medicina traslazionale”, ovvero l’anello di congiunzione tra le sperimentazioni in vitro
e le discipline mediche e chirurgiche.
Molto spesso si sente dire che,
malgrado le difficoltà in cui versa il nostro sistema universitario,
la preparazione degli studenti
italiani è di buon livello e consente loro di eccellere in ambito
lavorativo rispetto ai coetanei
europei. Alla luce della vostra
permanenza all’estero, che ha
portato a confrontarvi con realtà accademiche differenti, come
giudicate il livello di formazione teorica e clinica dei laureati
in Medicina nel nostro Paese?
Prof. Pinna: I laureati in Medicina
possiedono senza dubbio ottime conoscenze teoriche, sebbene la loro
1 - 2014
Prof. Antonio Daniele Pinna
formazione risulti talvolta carente
sotto il profilo delle competenze pratiche. I tirocini professionalizzanti,
per quanto utili per avere un rapporto diretto con il paziente, dovrebbero essere ulteriormente potenziati,
in modo da far entrare gli studenti
già nel contesto clinico, facendo acquisire precocemente competenze
pratiche utili nella loro formazione.
Prof. Ventura: Il rapporto diretto con
gli studenti derivante dal mio impegno accademico mi ha portato a constatare che la preparazione di base
è di buon livello. Sto inoltre vedendo
nelle nuove generazioni il desiderio
di comprendere i concetti tradizionali entro nuovi paradigmi del sapere,
attraverso un approfondimento dei
fondamenti molecolari delle patologie. Addentrarsi nei meccanismi responsabili della comparsa di una determinata alterazione fisiopatologica
significa possedere chiavi di lettura
nuove, con cui reinterpretare patologie un tempo ritenute limitate a un
solo organo, ma che hanno dimostrato
di avere basi comuni con altre malattie. La grande lezione della terapia
cellulare e biologica è la possibilità
di modificare il decorso di fenomeni
che si ritenevano un tempo irreversibili. In questa ottica, il paziente non
PRIMO PIANO
Prof. Carlo Ventura
è più un semplice malato di cuore o
di fegato, ma una persona nella quale
i meccanismi patologici in atto possono essere oggetti di modulazione.
le di portare a buon fine un atto prezioso quale la donazione degli organi.
Prof. Pinna: Il Policlinico Sant’Orsola
rappresenta una struttura di primo
piano nel panorama sanitario italiano e in ambito trapiantologico è un
punto di riferimento a livello nazionale. Il Padiglione in cui lavoro è una
macchina che non si ferma mai, perché un organo può essere disponibile
in qualsiasi momento: bisogna quindi
essere pronti a partire per il prelievo
24 ore su 24, indipendentemente dal
momento della giornata o dai propri
impegni. Chi decide di svolgere questa professione non compie solo una
scelta professionale, ma una scelta di
vita che lascia poco spazio al tempo libero o alla famiglia. Gli interventi chirurgici sono spesso lunghi, complessi
e comportano la responsabilità mora-
Prof. Ventura: L’Università di Bologna è un Ateneo con un’illustre storia
ed è il luogo dove ho condotto i miei
studi. La preparazione teorica è stata di ottimo livello e i docenti che ho
avuto durante il percorso universitario hanno avuto la capacità di suscitare la mia curiosità. Pensa che
nelle classifiche delle Università italiane elaborate dal Censis, l’Università di Bologna è risultata al primo
posto tra gli Atenei con più di 40000
iscritti per il periodo 2010-2012.
Dal punto di vista clinico, il Policlinico Sant’Orsola è una punta di eccellenza in tutta Italia sia per le attività di ricovero e per le procedure
mediche, sia per le ricerche condotte dai diversi gruppi. Ha più di 400
anni di storia, essendo stato fondato
nel 1592 al di fuori delle mura della città. Inizialmente era destinato all’accoglienza degli emarginati,
mentre in seguito vi trovarono ricovero i malati incurabili. Nel 1929, a
seguito della crescita continua delle
dimensioni e delle specialità presenti, venne avviata la programmazione di un nuovo assetto edilizio. Al
giorno d’oggi è costituito da 27 padiglioni e si snoda per circa 600 metri.
PANORAMA PER I GIOVANI
43
Bologna è una città all’avanguardia sia per la sua Università,
la più antica di tutto il mondo
occidentale, sia per il suo Policlinico, uno dei più importanti
d’Italia per il bacino d’utenza
e l’eccellenza dei suoi reparti.
Condividete questa opinione?
1 - 2014
PRIMO PIANO
Come diceva lo scrittore Pino Cacucci, “Le radici sono importanti
nella vita di un uomo, ma noi uomini abbiamo le gambe, non le
radici e le gambe sono fatte per
andare altrove”. Com’è maturata
la decisione di lasciare le vostre
radici e trasferirvi all’estero?
Prof. Pinna: Condivido pienamente la citazione e anch’io sono stato
mosso dal desiderio di lasciare la
mia terra per fare nuove esperienze professionali all’estero, in quanto
nel nostro Paese non vi era la possibilità di sviluppare adeguatamente la problematica trapiantologica.
Mentre ricoprivo l’incarico di docente
presso la cattedra di Fisiopatologia
Chirurgica all’Università di Cagliari,
ricevetti tre proposte di collaborazione all’estero: una da Parigi, una da
Cambridge e una terza da Pittsburgh.
Scelsi quest’ultima, partendo nell’ambito del dottorato di ricerca, ed entrai
successivamente per un periodo di due
anni presso la Fellowship di Trapianti
d’Organo della stessa città. È un periodo durante il quale uno specializzando approfondisce le conoscenze in
un settore circoscritto dell’ambito medico o chirurgico. Al termine di questa
esperienza, nel 1993 sono stato assunto come Assistant Professor of Surgery presso il “Thomas E. Starzl” Transplantation Institute dell’Università
di Pittsburgh, svolgendo nel contempo piena attività clinica nel campo
dei trapianti di fegato e di intestino.
Nel 1997 decisi di affrontare nuove
esperienze professionali, spostandomi in Florida dopo essere stato
nominato Associate Professor presso il Department of Surgery Liver - Gastrointestinal Transplant
Division dell’Università di Miami.
Prof. Ventura: Presi la decisione di
recarmi negli Stati Uniti verso la
fine del 1987 sia nel contesto del dottorato di ricerca, sia per il desiderio
di approfondire una tematica che
in Italia non sarebbe stato possibile
sviluppare adeguatamente. Siccome
a quel tempo erano stati individuati
a livello cardiaco recettori per le endorfine, volevo dimostrare, contrariamente a quanto si riteneva allora,
44
che il cuore non fosse semplicemente
una pompa meccanica, ma un vero
e proprio organo endocrino. In base
a studi condotti su modelli animali, si era ipotizzato che le endorfine,
delle quali si conosceva già il ruolo
a livello del sistema nervoso centrale e periferico, svolgessero un’importante funzione anche durante
lo sviluppo embrionale del cuore.
Dal 1988 al 1992 ho pertanto ricoperto il ruolo di ricercatore a Baltimora
presso il Laboratory of Cardiovascular
Sciences, branca cardiovascolare dei
National Institutes of Health, che si
occupa delle problematiche dell’invecchiamento, e ho continuato a svolgere
ricerca in questo ambito fino al 1994.
Quali aspetti della ricerca avete
approfondito nel corso di questi
anni dopo il vostro ritorno in Italia?
Prof. Pinna: L’interesse del nostro gruppo si è concentrato sulle tematiche di ricerca correlate al
trattamento chirurgico dei tumori epatici e al trapianto di fegato.
Nel campo della chirurgia dell’epatocarcinoma insorto su una pregressa cirrosi, una prima linea di ricerca
ha valutato la prognosi di pazienti sottoposti a resezioni di noduli
neoplastici entro i cosiddetti criteri
di trapiantabilità “di Milano” e l’efficacia della resezione epatica nella
riduzione delle dimensioni del tumore o come trattamento “ponte” al
trapianto d’organo. In secondo luogo,
ci siamo occupati di individuare nei
pazienti con malattia epatica cronica i parametri predittivi del rischio
di insufficienza postoperatoria. Nel
caso di metastasi epatiche per tumori
del colon-retto, abbiamo invece confrontato i risultati del trattamento
chirurgico tradizionale con quelli ottenuti con altre metodiche resettive.
In campo trapiantologico, la produzione scientifica del nostro gruppo
si è invece focalizzata sulla valutazione dell’efficacia e della sicurezza di nuovi immunosoppressori nel ridurre il rischio di rigetto.
Certamente una problematica di notevole rilevanza riguarda la migliore
PANORAMA PER I GIOVANI
selezione dei pazienti da sottoporre
a trapianto, data l’esiguità dei donatori rispetto ai candidati a ricevere
un nuovo organo, con percentuali
ancora elevate di pazienti che vanno incontro ad exitus mentre sono in
attesa del trapianto. Nel tentativo di
aumentare il pool di donatori e del
numero di pazienti trapiantati, già
da numerosi anni presso il nostro
Policlinico viene eseguita la tecnica
split liver, che prevede la divisione
del fegato in due parti, destinati a un
paziente pediatrico e a uno adulto.
Nell’ambito dei trapianti di intestino e multiviscerali, l’attenzione del
nostro gruppo si è concentrata sul
miglioramento dei risultati conseguiti con la terapia chirurgica, con
1 - 2014
l’immunosoppressione e lo sviluppo
di un programma clinico di riabilitazione intestinale, al fine di ottenere
una più rapida ripresa della funzionalità dell’apparato gastroenterico.
Prof. Ventura: La struttura dove lavoro è un laboratorio di biologia molecolare e bioingegneria delle cellule staminali, che fa parte dell’Istituto Nazionale di Biostrutture e Biosistemi con
sede a Roma. Si tratta di un consorzio
interuniversitario di 26 Atenei, presso cui lavorano 600 ricercatori. Questa sezione gestisce le unità di ricerca di Bologna, Firenze, Pisa e Siena.
Le ricerche che il nostro gruppo ha
condotto nel corso di questi anni
hanno riguardato lo studio del ruo-
lo dei peptidi oppioidi endogeni nella cardiogenesi e la realizzazione di
tecniche innovative per l’isolamento
di cellule staminali adulte. Ci siamo
inoltre concentrati sulla sintesi di
nuove molecole, quali gli esteri dell’acido butirrico e ialuronico, che indirizzassero la differenziazione delle
staminali in senso cardiovascolare.
Un’altra linea di studi ha interessato
l’utilizzo dell’energia fisica dei campi
magnetici, delle radiofrequenze e delle vibrazioni nanomeccaniche per riportare cellule adulte pluripotenti ad
uno stadio differenziativo embrionale.
Grande interesse ha inoltre destato
anche lo studio del ruolo svolto dai
segnali chimici della cellula staminale mesenchimale nei processi di
rigenerazione: il nostro obiettivo era
quello di dimostrare come la riparazione di un organo avvenga non
tanto per differenziazione della cellula pluripotente, ma attraverso una
proliferazione di cellule del tessuto
danneggiato sotto lo stimolo delle
“istruzioni” rilasciate dalla staminale.
Un’idea innovativa che abbiamo sviluppato in collaborazione con il prof.
Carlo Tremolada di Milano e con il
prof. Camillo Ricordi di Miami è stato
un metodo meccanico e non invasivo
per isolare dal tessuto adiposo umano
una rete vascolare contenente cellule staminali e connettivali. L’aspetto
innovativo di questo approccio risiede
nel fatto che l’elemento staminale si
trova protetto all’interno di una trama
di vasi, circondata da un’impalcatura
di cellule adipose. Malgrado i numerosi sforzi profusi in questo campo, il
tradizionale processo di attecchimento delle staminali non supera il 2-3%.
Questo nuovo approccio ha permesso
di incrementare la percentuale di successo, dal momento che questa sorta di
“nicchia”, grazie al suo apporto vascolare, può sopravvivere più agevolmente alle condizioni avverse dell’organo
danneggiato. Durante il suo processo
di proliferazione, la cellula staminale
rilascia nel tessuto circondante una
serie di stimoli chimici ed è proprio
questo dialogo continuo tra staminali e tessuto circostante che è alla
base del processo di rigenerazione.
Interno dell’Archiginnasio, antica sede
dell’Università di Bologna.
PRIMO PIANO
Quali linee di ricerca svilupperete nel corso dei prossimi anni?
Prof. Pinna: Il mio obiettivo per il futuro, oltre a proseguire le ricerche attualmente in corso, è di approfondire
una tematica fortemente sostenuta dal
mio maestro di trapianti a Pittsburgh, il professor Thomas Starzl: il trapianto combinato solido e cellulare.
Uno dei progressi più importanti della
medicina è stata la scoperta dei meccanismi di interrelazione tra i diversi
sistemi dell’organismo, che comunicano tra di loro attraverso numerosi
mediatori chimici. Nel campo in cui
opero, la buona riuscita dell’intervento dipende infatti dal rapporto che si
instaura tra gli organi e il sistema
immunitario del ricevente con quelli
del donatore. Qualora questo bilanciamento risulti troppo a favore del primo, ne consegue il rigetto dell’organo.
Una delle prospettive più promettenti in questo ambito è la possibilità di
associare il trapianto di organi solidi
con quello di cellule staminali mesenchimali, da effettuare in contemporanea o consecutivamente al primo.
Questo approccio innovativo permette vantaggi di duplice natura: da un
lato le cellule staminali consentono
di creare matrici biologiche tridimensionali come supporti per la crescita del tessuto trapiantato, dall’altro
agiscono in senso soppressivo sul
sistema immunitario del ricevente,
riducendo così il rischio di rigetto.
Prof. Ventura: Un campo su cui il
mio gruppo di lavoro ha condotto e
intende proseguire le ricerche è rappresentato dalle iPS o “induced Pluripotent Stem Cells”, prodotte per la
prima volta nel 2006 dal Premio Nobel Shinya Yamanaka dell’Università
di Kyoto. La metodica consiste nell’isolamento di fibroblasti della cute
umana e nell’induzione dell’espressione di alcuni geni tipici delle staminali
embrionali, che consentono di “riprogrammare” le cellule adulte e di riportarle ad uno stadio di pluripotenza.
Proseguendo queste ricerche, il mio
gruppo è però riuscito ad ottenere per
la prima volta in letteratura la riprogrammazione di fibroblasti umani
non con tecniche di ingegneria gene-
PANORAMA PER I GIOVANI
45
1 - 2014
PRIMO PIANO
tica o con vettori virali, ma attraverso
l’impiego di un campo a bassissima intensità. Questa tecnologia, denominata REAC (Radio Electric Asymmetric
Conveyer), indirizza all’interno della
coltura cellulare una radiazione radioelettrica che consente di indirizzare i
fibroblasti verso un determinato tipo
cellulare: la differenza è che non vi è
la necessità di riportare queste cellule
ad uno stadio simile a quello embrionale ed indurle successivamente a
differenziarsi nell’istotipo desiderato.
È proprio dai fibroblasti che potrebbe
partire, attraverso un processo di riprogrammazione appena scoperto, un
meccanismo generale di rigenerazione di tessuti ed organi. Questi studi
pongono le basi per una vera e propria
rivoluzione nell’ambito della terapia
cellulare, in particolare nel trattamento delle malattie genetiche. Le
iPS possono infatti essere generate a
partire da poche cellule prelevate dal
paziente, sottoposte a terapia genica
per l’inserimento di uno o più geni
sani ed indotte a differenziarsi nell’istotipo compromesso dalla patologia.
La vostra permanenza all’estero
vi ha permesso di confrontare lo
stato di avanzamento delle conoscenze nel vostro campo di ricerca. Il nostro Paese può essere ritenuto all’avanguardia?
Prof. Pinna: Nel campo dei trapianti
di fegato i risultati dell’Italia in termini clinici sono allo stesso livello o
addirittura superiori a quelli degli
altri Paesi europei. Lo afferma il Centro Nazionale Trapianti, che ha elaborato i dati raccolti da tutti i centri
trapiantologici italiani per il periodo
2000-2009. Il tasso di sopravvivenza media a 1 anno dal trapianto nel
nostro Paese è risultato dell’85,9%,
mentre a 5 anni è stato del 73,7%.
La media europea è stata invece a 1
anno dell’82,4% e a 5 anni del 73%.
Un aspetto che è suscettibile di miglioramento riguarda la necessità di politiche di allocazione più trasparenti ed
egualitarie. Il sistema di distribuzione
degli organi deve essere ispirato a tre
fondamentali principi di natura etica:
l’equità, cioè la necessità di assegna-
46
re equamente le risorse terapeutiche disponibili, la giustizia, ovvero il
conseguimento del miglior interesse
per il paziente e l’utilità sociale, che
mira ad ottenere un ottimale risultato per la popolazione sulla base delle
risorse a disposizione. La necessità
di bilanciare le esigenze della società
con quelle del singolo individuo spesso non risulta di facile applicazione
nella pratica clinica, poiché comporta
difficoltà nella selezione dei pazienti da sottoporre al trapianto sulla
base delle loro condizioni cliniche.
L’aspetto più significativo che bisogna
migliorare riguarda l’accesso agli organi da trapiantare: da un lato è necessario aumentare il numero di donatori attraverso una sensibilizzazione dell’opinione pubblica e dall’altro
modificare la rete che coordina le attività di prelievo e trapianto. La consapevolezza dell’importanza della donazione d’organo non è ancora radicata
in maniera significativa nelle persone, che spesso risultano ostili in caso
di donazione. Il sistema organizzativo
dei trapianti di fegato prevede la realizzazione in ogni Centro Trapianti di
una lista d’attesa sulla base del gruppo sanguigno di appartenenza e della
gravità della patologia epatica. L’organo da donare viene attribuito ad
un determinato Centro che decide a
quale paziente effettuare il trapianto.
Due proposte di rinnovamento del
sistema organizzativo consistono
nell’istituzione di una lista unica nazionale, al fine di soddisfare le esigenze dei pazienti più bisognosi e nella
comunicazione da parte dei Centri
trapiantologici dei criteri e delle modalità di assegnazione degli organi.
L’obiettivo finale è quindi di migliorare l’efficienza e l’efficacia di tutte
le strutture sanitarie coinvolte nell’erogazione delle prestazioni assistenziali nel trapianto d’organo e tessuti.
Prof. Ventura: L’Italia possiede moltissime punte di eccellenza non solo
nella ricerca sulle cellule staminali
in campo cardiologico, ma nell’intero
ambito della medicina rigenerativa.
Questa branca cerca di sviluppare
cellule, tessuti o sostituti d’organi
allo scopo di riparare o migliorare le
funzioni biologiche che sono state per-
PANORAMA PER I GIOVANI
dute a causa di eventi patologici, di
traumi o dell’invecchiamento. È un
campo a rapida crescita, che coinvolge le scienze mediche, umane ed ingegneristiche e che sta concentrando
la sua attenzione sullo studio della
capacità di rigenerazione tessutale
da parte delle cellule staminali mesenchimali. Il loro elevato potenziale
proliferativo, il trofismo specifico per
il tessuto danneggiato e la possibilità
di indurne la differenziazione verso
un particolare istotipo le rendono un
candidato ideale per restituire in parte le funzionalità d’organo perdute.
Nel nostro Paese sono numerosi i
centri di eccellenza che conducono ricerche di grande interesse scientifico
sulle staminali e già al giorno d’oggi
sono disponibili protocolli terapeutici
per il trattamento di neoplasie ematologiche, di gravi ustioni e della cecità
corneale. La grande ricerca condotta
in questo campo apre le porte allo sviluppo di terapie future per il trattamento di patologie che non possiedono
ancora una cura risolutiva. In campo
cardiologico si stanno conducendo importanti studi nelle cardiomiopatie
e nell’infarto del miocardio, mentre
nell’ambito ortopedico sono attualmente in corso trials clinici per la riparazione del tessuto osseo e cartilagineo irreversibilmente danneggiati
da traumi o da interventi demolitivi.
Avete riscontrato differenze in
ambito normativo tra l’Italia e l’estero nel vostro campo di attività
clinica?
Prof. Pinna: Le regole in materia dei
trapianti d’organo sono allineate in
tutti gli Stati dell’Unione Europea. La
Direttiva n. 45/2010 del Parlamento
Europeo prevede infatti per tutti gli
Stati membri criteri di idoneità per i
donatori, la creazione di un sistema di
qualità per le strutture che svolgono
attività correlate al trapianto d’organo e regole per assicurare la tracciabilità dei tessuti da donatore a paziente.
L’Italia è attenta alla problematica dei
trapianti e alcune regioni, come l’Emilia Romagna, si dimostrano particolarmente sensibili. Vi è però la necessità che, anche dal punto di vista na-
1 - 2014
zionale, si comprendano meglio le dinamiche della donazione degli organi.
Prof. Ventura: Nel campo della regolamentazione sull’uso delle cellule
staminali, l’Italia è allineata a quanto
avviene nel resto d’Europa. Le cellule
staminali sono considerate prodotti
terapeutici avanzati e devono pertanto essere processate e coltivate in
apposite strutture, le cell factories,
seguendo una normativa che va sotto
l’acronimo “GMP”, cioè “Good Manufacturing Practice”. Soltanto quando
le condizioni poste dalle GMP sono
soddisfatte, l’Agenzia Italiana del
Farmaco o la European Medicines
Agency (EMA) possono validare la
loro autorizzazione per l’uso clinico. I
trapianti di tessuti autologhi, dove donatore e ricevente sono lo stesso individuo, si trovano al di fuori di questa
normativa e possono avere una più
rapida attuazione dal punto di vista
clinico. In altri Paesi, quali Giappone,
Canada, Australia, si fa generalmente riferimento all’FDA americana.
Giuseppe Verdi musicò nel Nabucco “Va, pensiero, sull’ali dorate / va, ti posa sui clivi, sui colli /
ove olezzano tepide e molli / l’aure dolci del suolo natal”. Ritenete
che uno dei principali motivi che
possa spingere a tornare in Italia
dopo un’esperienza all’estero sia
rappresentato dalla nostalgia per
la nostra terra?
Prof. Pinna: La motivazione che a mio
avviso può spingere una persona a fare
ritorno nel proprio Paese non è nostalgia o amore per la patria, ma il desiderio di intraprendere un nuovo percorso professionale. Come dico ai miei
studenti di Chirurgia, è fondamentale
scegliere una professione per cui si
prova passione, senza farsi condizionare da concetti utilitaristici, come la
possibilità di avere una carriera rapida o conseguire importanti guadagni.
Quando ricoprivo l’incarico di Associate Professor all’Università di Miami,
capii che desideravo percorrere una
mia strada, e, dopo averne discusso
con il Direttore del Centro Trapianti,
decisi di accettare qualsiasi possibili-
tà di lavorare in maniera autonoma,
indipendentemente dal luogo. Nonostante si fossero presentate alcune occasioni, la prima che si concretizzò fu
quella dell’Università di Modena, che
aveva deciso di avviare un programma trapiantologico. Il mio ritorno in
Italia quindi non fu dettato da un
richiamo alle mie radici, ma dal desiderio di crescere professionalmente.
Prof. Ventura: Le ragioni di un ritorno
in Italia possono essere le più svariate, ma spesso non dipendono dal fatto
che il nostro Paese abbia creato nuove
possibilità di lavoro. Uno dei più importanti motivi che spingono un ricercatore a tornare nella propria terra
è quella di ordine familiare. C’è una
forma di nostalgia identificabile nel
senso di grande fantasia, di libertà e
di creatività, che spesso non è un elemento caratterizzante di altre culture
e che ci accompagna anche nelle nostre esperienze all’estero, come dimostra la grande produttività dei ricercatori italiani sparsi in tutto il mondo.
La mia prima fase di rientro in Italia
è stata nel 2003 a Sassari, dove ho trovato collaboratori eccezionali, dotati di
grandissima curiosità ed entusiasmo,
con cui sono riuscito a pubblicare più
lavori rispetto ai nostri competitors
negli Stati Uniti. Da quest’esperienza
è nato l’Istituto Nazionale di Biostrutture e Biosistemi, inizialmente limitato a poche Università, ma successivamente allargatosi fino a coinvolgere
26 Atenei e 600 ricercatori in tutto il
Paese. Siamo quindi riusciti ad avere la piacevole illusione, malgrado le
esiguità di mezzi e strutture, di poter
condurre in Italia le stesse ricerche, se
non addirittura migliori, di quello che
è possibile svolgere negli Stati Uniti.
Noto inoltre che numerose altre persone hanno deciso di fare ritorno nella
propria terra, spinte unicamente dalla
curiosità, dal desiderio di conoscenza
e appagati dal piacere della scoperta.
PRIMO PIANO
Prof. Pinna: Non ritengo che sia necessario trattenere i giovani nel nostro Paese, dal momento che i sentimenti nazionalistici portano solamente a chiuderci in noi stessi. La domanda che invece ci dobbiamo porre
è perché un numero esiguo di ragazzi
provenienti da altri Paesi d’Europa
decida di studiare in Italia. La risposta a questo quesito potrebbe portare
alla modifica dei percorsi di studio,
in modo da fornire una dimensione
più aperta ed incrementare i rapporti
tra i diversi Atenei europei. Si creerebbero in questo modo delle sinergie
che favorirebbero il flusso di studenti
e ricercatori verso l’Italia. Solo riuscendo ad attirare studenti stranieri in ambito universitario, riusciremo a trattenere i giovani laureati.
Cosa potrebbe fare il sistema universitario italiano per evitare la
fuga delle eccellenze all’estero,
dove vengono garantiti disponibilità di strutture e mezzi, e convincerle a rimanere nel nostro Paese?
Prof. Ventura: L’aspetto su cui dobbiamo riflettere non è il fatto che il
nostro Paese non crei le condizioni
ideali per consentire alle eccellenze di esprimere le loro potenzialità e condurre ricerche con le stesse
possibilità che trovano all’estero. Il
quesito a cui dobbiamo dare una risposta è invece perché l’Italia sia
così scarsamente attrattiva verso
i “cervelli” di altri Paesi. L’aspetto
attorno a cui ruota il problema è la
ridotta apertura internazionale dei
nostri Atenei: all’interno delle Facoltà di Medicina il numero di docenti
stranieri che vengono a svolgere la
loro attività didattica è senza dubbio
piuttosto esiguo. Questa rete di canali di scambio rappresenterebbe il
terreno ideale per costruire relazioni
e collaborazioni scientifiche durature tra le diverse Università. La rete
di docenti verrebbe in questo modo
stimolata a non rimanere confinata
su vecchie posizioni, ma ad aprirsi a
nuove idee e a un confronto continuo.
Il nostro Paese possiede purtroppo
scarsissima attrattiva sia verso laureati di altre nazionalità che nei confronti dei giovani italiani che desidererebbero rimanere nel nostro Paese.
La prima problematica è di ordine
strutturale e organizzativo: sono
carenti le know how infrastractures, ovvero le strutture fisiche per
consentire alle nuove generazioni di
esprimere al meglio le loro potenzia-
PANORAMA PER I GIOVANI
47
1 - 2014
PRIMO PIANO
lità e condurre ricerche in maniera
ottimale. È necessario inoltre abbandonare il concetto di “infrastruttura” come opera muraria e concepirla
come un “terreno di facilitazione” per
il processo di condivisione delle conoscenze. In Italia si ragiona ancora in
termini di “dipartimenti”, entità che
spesso non comunicano tra di loro,
mentre in Europa si è già passati a
un’organizzazione metadisciplinare,
dove diversi ambiti del sapere si relazionano costantemente tra di loro
ed elaborano un percorso comune.
Un secondo aspetto è quello economico: un dottorando o un ricercatore in
Italia percepisce uno stipendio notevolmente inferiore rispetto ai colleghi
degli altri Paesi europei, con importanti ripercussioni sul proprio avvenire. La recente decisione di ristrutturare la carriera accademica ha ulteriormente aggravato la situazione
in quanto i posti da ricercatore verrebbero sostituiti da posizioni a tempo determinato della durata di 3 anni
o 3 anni + 2. Se nel corso di questo
periodo un ricercatore non è riuscito
a vincere il concorso di professore associato, si ritrova al di fuori della carriera universitaria, con difficoltà anche a inserirsi nel mondo del lavoro.
Sebbene l’ispirazione a quanto avviene nel resto del mondo sia evidente,
in questi Paesi il mondo universitario possiede le risorse per finanziare
le ricerche dei più meritevoli e regolarmente bandisce delle interviews
per selezionare i candidati più adatti.
Il terzo punto su cui è necessario
intervenire sono i collegamenti tra
l’Università e l’ambito industriale: è
indispensabile potenziare il trasferimento delle conoscenze dai laboratori
di ricerca alle piccole-medie imprese,
sviluppando strategie per la protezione della proprietà intellettuale, e
modificare i curricula in modo da indirizzare la formazione degli studenti
verso una cultura imprenditoriale. Al
tempo stesso una strategia per allargare il bacino di raccolta dei fondi per
la ricerca è di aprirsi ai finanziamenti
da parte del settore privato: negli
Stati Uniti le entrate degli Atenei derivanti da contratti con il settore degli affari ammontano al 23% mentre
in Italia corrispondono solo al 9,8%.
Per migliorare la ricerca in Italia sono necessari maggiori fondi
statali, ma come giudicare quali
Atenei sono più meritevoli degli
altri? I criteri di ranking factor,
che valutano le Università sulla
base del livello delle pubblicazioni prodotte, sono applicabili al
nostro sistema universitario?
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PANORAMA PER I GIOVANI
Prof. Pinna: Le Università italiane,
come quelle di altri Paesi europei o
del mondo, sono costituite da diverse
facoltà: Giurisprudenza, Medicina,
Scienze Matematiche o Lettere. Le
risorse destinate al mondo accademico devono essere date in misura
congrua tra le varie facoltà: un mero
indice bibliometrico, quale il ranking
factor, può essere di grande utilità per
valutare la produttività delle discipline a carattere scientifico, ma risulta
di scarsa efficacia qualora si desideri
valutare la ricerca in ambito umanistico. È evidente che le risorse devono
essere destinate anche ai settori scientifici all’avanguardia e di innovazione
e in questo campo il ranking factor
rappresenta un parametro molto utile, perché un lavoro che viene citato
molte volte da altri ricercatori riveste
senza dubbio una grande importanza.
Uno dei metodi per identificare le Università più virtuose e quindi più meritevoli di finanziamenti pubblici sarebbe di guardare il tasso di occupazione
a 5 anni dal conseguimento del titolo
di studio. L’Università ha infatti l’obiettivo sia di darci una cultura, sia di
fornirci gli strumenti per inserirci nel
mondo del lavoro: gli Atenei che danno
più velocemente la possibilità di trovare un impiego dovrebbero essere premiati attraverso sovvenzioni statali.
Nel nostro Paese si osserva invece la
tendenza a distribuire i finanziamenti
in modo non differenziato, con conseguente penalizzazione del merito.
Prof. Ventura: L’applicazione di criteri oggettivi per la valutazione delle performance a livello accademico
è sicuramente un elemento fondamentale per stabilire come fornire i
finanziamenti. Il ranking factor rappresenta senza dubbio un importante fattore per valutare il livello della
ricerca perché, a differenza dell’im-
pact factor che tiene conto di tutte le
citazioni, sia positive che negative,
valuta anche il tipo di rivista dove
l’articolo viene pubblicato, identificando quindi quali ricerche costituiscono
veramente una seminal discovery.
Il tentativo di riforma del metodo di
valutazione della ricerca nel nostro
Paese va in parte in questa direzione,
ma è ancora troppo autoreferenziale,
in quanto è lasciato al docente o al ricercatore stesso il compito di compilare la lista degli articoli che ha pubblicato. Il nostro sistema universitario è
altamente burocratizzato e la necessità di dover seguire le numerose regole
comporta una riduzione del tempo da
dedicare agli esperimenti e da utilizzare per riflettere il percorso da intraprendere nei propri studi. In molti
altri Paesi la ricognizione della qualità dei lavori prodotti viene effettuata
dalla componente amministrativa del
sistema, rendendo più snello il processo di programmazione della ricerca.
La necessità di dare più forza alla
meritocrazia comporta quindi la necessità di incrementare i fondi destinati alla ricerca, ancora purtroppo
limitati a percentuali molto ridotte
del nostro Prodotto Interno Lordo.
L’altro aspetto riguarda la realizzazione di strutture interdipartimentali che
consentano il trasferimento del sapere
da un settore all’altro e il confronto tra
specialisti di campi diversi. Il Dipartimento di Scienze Cardiovascolari di
Baltimora presentava all’ingresso i laboratori di fisica, poi quelli di biologia
molecolare e successivamente quelli di cardiologia, fino ai trials clinici
sull’uomo. Qualunque giovane laureato che decida di trascorrere un periodo
all’estero si accorge di essere messo in
poco tempo nelle condizioni ottimali
per conseguire importanti risultati. Se
vogliamo davvero migliorare il nostro
sistema universitario, dobbiamo concepire su nuove basi il modo di fare ricerca, facendo sì che si svolga in strutture, sia fisiche che organizzative,
che rendano più agevole il processo di
scoperta e di condivisione del sapere.
Ringrazio i miei interlocutori per il pomeriggio trascorso insieme e con una
stretta di mano li saluto.
È QUANDO TI SENTI PICCOLO CHE SAI DI ESSERE DIVENTATO GRANDE.
A volte gli uomini riescono a creare qualcosa più grande di loro. Qualcosa che prima non c’era. È questo che noi intendiamo per innovazione
ed è in questo che noi crediamo.
Una visione che ci ha fatto investire nel cambiamento tecnologico sempre e solo con l’obiettivo di migliorare il valore di ogni nostra singola
produzione.
È questo pensiero che ci ha fatto acquistare per primi in Italia impianti come la rotativa Heidelberg M600 B24. O che oggi, per primi in Europa,
ci ha fatto introdurre 2 rotative da 32 pagine Roto-Offset Komori, 64 pagine-versione duplex, così da poter soddisfare ancora più puntualmente
ogni necessità di stampa di bassa, media e alta tiratura.
Se crediamo nell’importanza dell’innovazione, infatti, è perché pensiamo che non ci siano piccole cose di poca importanza.
L’etichetta di una lattina di pomodori pelati, quella di un cibo per gatti o quella di un’acqua minerale, un catalogo o un quotidiano, un magazine
o un volantone con le offerte della settimana del supermercato, tutto va pensato in grande.
È come conseguenza di questa visione che i nostri prodotti sono arrivati in 10 paesi nel mondo, che il livello di fidelizzazione dei nostri clienti
è al 90% o che il nostro fatturato si è triplicato.
Perché la grandezza è qualcosa che si crea guardando verso l’alto. Mai dall’alto in basso.