PANORAMA PER I GIOVANI 1 2014 COLLEGIO UNIVERSITARIO “LAMARO POZZANI” - FEDERAZIONE NAZIONALE DEI CAVALIERI DEL LAVORO Collegio Universitario “Lamaro Pozzani” - Via Saredo 74 - Roma - Quadrimestrale - POSTA TARGET CREATIVE Aut. n. S/SA0188/2008 valida dal 01/07/2008 - anno XLVII - n. 1 - gennaio-aprile 2014 LA GRANDE GUERRA Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro Eccellenza in formazione. Collegio Universitario “Lamaro Pozzani” Un Collegio universitario che è più di una residenza: è un’idea di futuro. Dal 1971 supporta i giovani più meritevoli preparandoli a posizioni di alta responsailità nel mondo delle aziende, delle istituzioni, della ricerca e dell’insegnamento. Formazione, impegno, amore per il sapere, sono i valori che da sempre guidano il Collegio. I borsisti ospitati in totale gratuità, circa 70, hanno libero accesso a tutti i servizi (sale informatica, palestra, campi sportivi). Il calendario delle attività prevede corsi interni a fre- quenza obbligatoria (economia, diritto, lingue straniere, informatica, tematiche attinenti i singoli corsi di laurea e la loro connessione con il mondo del lavoro) e un fitto programma di iniziative collaterali: stage linguistici e professionali, viaggi di studio all’estero, esperienze dirette in campo editoriale e redazionale, e ancora seminari e gruppi di studio, incontri con personalità del mondo politico, imprenditoriale e della cultura. Scopri di più su www.collegiocavalieri.it. Eccellenza per passione. EDITORIALE Q uando ero bambino, il 4 novembre era un giorno in una storia di pace e che vediamo allo stesso tempo indi festa e chiudeva il lunghissimo ponte che si calzata e forse perfino erosa da interessi e programmi che apriva celebrando i santi e, subito dopo, ricor- vorrebbero al contrario dividere ciò che allora venne unito. dando i nostri defunti. Veniva chiamata, sem- Non è facile parlare della Prima Guerra Mondiale, sopratplicemente, la Festa della Vittoria e questa espressione è tutto se lo si fa con il lessico delle nazioni e concentrandorimasta a lungo collegata nella mia memoria a un testo e si sullo stravolgimento della carta geopolitica dell’Europa a una medaglia. Il testo, ascoltato tante volte, è quello del che essa determinò. Chiudiamo questo numero a poche setBollettino con il quale, la mattina appunto del 4 novembre timane dalle elezioni per il nuovo parlamento di Strasbur1918, il Comando Supremo dell’esercito italiano annunciò go e Bruxelles. E proprio Strasburgo, la città a lungo conla disfatta del nemico, annientato dalla “fede incrollabile” tesa fra Germania e Francia, è il simbolo più efficace della e dal “tenace valore” dei nostri uomini: “i resti di quello consapevolezza che quella storia di conflitti e di morte in che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in nome di sacri confini è fortunatamente chiusa per sempre. disordine e senza speranza le valli, che avevano disceso con Sul sito dell’Esercito, il Giorno dell’Unità nazionale e Giororgogliosa sicurezza”. Non so a quanti fra i nostri giovani nata delle Forze Armate (è questa, adesso, la denominaziocapiti ancora di leggere queste parole. La medaglia è quel- ne ufficiale della ricorrenza) veniva celebrato nel 2013 con la che per tanti anni ho visto in una cornice appesa nella un ovvio riferimento alla data che segnò la fine vittoriosa camera dell’ultimo fratello di mio padre: era il ringrazia- della Grande Guerra. In questa breve nota venivano promento dello Stato al bisnonno Antonio, che era partito per poste due linee di riflessione. Da una parte, il dovere del rile trincee lasciando una moglie e tre figli piccoli e che, come spetto e del ricordo di “tutti coloro che, anche giovanissimi, tanti altri giovani, non tornò più. Arrivò poi il 1977: una hanno sacrificato il bene supremo della vita per un ideale legge abolì (o, per meglio dire, spostò alla prima domenica di Patria e di attaccamento al dovere: valori immutati nel del mese) la festa dell’Unità nazionale, ritempo, per i militari di allora e quelli di oggi”. Dall’altra, la necessità di approfonservando lo stesso destino a quella della Repubblica, che venne però ripristinata Ritrovare il valore dire le cause e ancor più le conseguenze nel 2001, quasi a sottolineare la differendi “un evento che ha segnato in modo dell’unità del profondo e indelebile l’inizio del ‘900 e za fra quel che della nostra storia si ritiene meriti ancora di essere ricordato con paese nella cornice che ha determinato radicali mutamenti politici e sociali”. In questo fascicolo abtutti gli onori e quel che si decide invece dell’integrazione di affidare ormai all’attenzione degli stobiamo deciso di privilegiare la seconda pista, cercando di capire quanto dei fatti rici più che alla responsabilità della pedaeuropea e delle novità anche tecnologiche sollegogia pubblica centrata sulla narrazione e le emozioni dei grandi eventi fondatori. citate e amplificate dalla Prima GuerHo avvertito nuovamente questa distanza qualche giorno ra Mondiale si sia consolidato come tessuto connettivo di fa, guardando un programma televisivo, più vecchio di me, quello che è stato definito da Hobsbawm il secolo breve. che rievocava le tappe e le battaglie principali della Gran- In qualche caso, purtroppo, preparando le nuove e ancode Guerra. Ho visto le immagini dell’esecuzione di Cesare ra più luttuose rovine del conflitto che sarebbe tornato ad Battisti, al quale era intitolata la via della mia scuola ele- insanguinare non solo l’Europa dopo vent’anni. È passato mentare. Ho sentito i nomi di altri martiri delle terre irre- un secolo. E qualche anno in più da un articolo nel quale dente: Fabio Filzi, Nazario Sauro. Il racconto, per quanto Enrico Corradini – non il solo e nemmeno il più celebre dei sobrio, storicamente rigoroso e attento a non nascondere tanti intellettuali che in tanti paesi si lasciavano ancora nulla delle sofferenze causate a tutti i popoli d’Europa da sedurre dalla mitologia eroica della guerra – contemplaquella che il papa Benedetto XV denunciò nel 1917 come va il cozzo delle forze primordiali ed eterne che conducouna “inutile strage”, era però caratterizzato da uno stile no le nazioni ad incrociare le armi anziché i commerci e espositivo e punteggiato da accentuazioni retoriche che sa- le idee. Egli concludeva che «dinanzi ad esse l’uomo civirebbero ben difficilmente utilizzati nel 2014. Non ho potuto le è abolito e ritorna l’uomo sincero allo stato di natura». evitare di pensare, in particolare, alla sincerità dell’orgo- Approfondire l’eredità della Grande Guerra è anche un glio per la ritrovata unità del paese, che siamo oggi sfidati modo per confermarci nella certezza che di questa sinceriad attualizzare nella cornice di quella integrazione euro- tà, da tempo e per fortuna, non sentiamo alcuna nostalgia. Stefano Semplici pea che ha finalmente trasformato la storia del continente PANORAMA PER I GIOVANI 4 17 PANORAMA PER I GIOVANI N. 1 | GENNAIO - APRILE 2014 Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro Direttore responsabile Mario Sarcinelli Direttore editoriale Stefano Semplici LA GRANDE GUERRA 4. L’EUROPA NEL 1914: LA QUIETE PRIMA DELLA TEMPESTA Gli anni che precedettero il conflitto di Vito Cormaci e Elisabetta Zuddas Impaginazione David D’Hallewin Coordinamento redazionale Gianvito Masi, Matteo Zanini Astaldi Redazione: S. Berenato, D. Brambilla, F. Cassarà, C. Ciullo, F. Core, V. M. Cormaci, S. Gabrielli, L. Ghilardi, E. Giardina, G. Lugli, B. Muccioli, G. Padua, F. Parlati, G.Rosana, N. Sabatelli, F. Saldi, D. A. Sambugaro, V. Spotorno, G.Tanzarella, C. Tonin, E. Zuddas. Direzione: presso il Collegio Universitario “Lamaro Pozzani” - Via Saredo 74 - 00173 Roma, tel. 06 72.971.322 - fax 06 72.971.326 Internet: www.collegiocavalieri.it E-mail: [email protected] Autorizzazione: Tribunale di Roma n. 12031 del 9/3/1968. Stampa: Arti Grafiche Boccia Spa Via Tiberio Claudio Felice, 7 84131 Salerno Finito di stampare: giugno 2014. 2 8. VIVERE IN TRINCEA La dura vita dei soldati al fronte di Davide di Gioia 10. CHIMICA LETALE: LO SVILUPPO DI UN’ARMA DI DISTRUZIONE DI MASSA Come la scienza venne applicata per uccidere l’uomo di Sara Gabrielli 12. L’AERONAUTICA La prima guerra combattuta nei cieli di Saverio Cambioni 14. LO SVILUPPO DELLA CHIRURGIA DURANTE LA GUERRA Nuovi metodi per guarire nuovi tipi di ferite di Claudia Fede Spicchiale 17. LA GUERRA UMANITARIA: IL RUOLO DELLA CROCE ROSSA Nata durante le guerre d’indipendenza, la Croce Rossa si distinse anche nel ‘14-18 di Noemi Sabatelli 20. SOLDATI AL FRONTE DOMESTICO: LA GUERRA DELLE DONNE Come il conflitto contribuì all’emancipazione femminile di Francesca Parlati 22. GLI AUTORI RACCONTANO LA STORIA: LA GUERRA NELLA LETTERATURA Il conflitto sconvolse il pianeta, ma ispirò alcuni dei più grandi testi del Secolo di Chiara Ciullo 26. LA RIVOLUZIONE RUSSA: L’IMPATTO CULTURALE DI UN EVENTO EPOCALE Il crollo di una dinastia durata secoli ebbe effetti in tutta Europa di Valentina Pudano 28 20 NEL CENTENARIO DEL CONFLITTO 28. LA STORIA PASSA PER LA CADUTA DEGLI IMPERI Il tramonto di chi dominò l’Europa di Erik Hörmann 30. LA “PRIMA” MONDIALE? Il perché di un infausto primato di Ruggero Pileri 32. FASCISMO E NAZISMO: CONSEGUENZE DELLA GUERRA? Il filo rosso fra i grandi drammi del Secolo di Livio Ghilardi e Edoardo Giardina 35. IL DIFFICILE CAMMINO VERSO LA PACE: LA SOCIETÀ DELLE NAZIONI L’organizzazione che precedette l’Onu di Matteo Picarelli 36. LA FINE DI UN’EPOCA, L’INIZIO DI UN’ALTRA Lo scoppio della guerra coincise con la fine della Belle Époque di Federica Cassarà PRIMO PIANO Potete leggere tutti gli articoli della rivista sul sito: www.collegiocavalieri.it 38. LA GRANDE BELLEZZA: RAGIONI DI UN SUCCESSO MERITATO di Francesco Pipoli 40. IN MEMORIAM DI CLAUDIO ABBADO di Gregorio Maria Paone 42. A PROPOSITO DI BRAIN DRAIN L’ESPERIENZA DI DUE STUDIOSI TORNATI IN ITALIA a cura di Manuel Trambaiolli Per commenti o per contattare gli autori degli articoli, potete inviare una e-mail all’indirizzo: [email protected] Agli autori spetta la responsabilità degli articoli, alla direzione l’orientamento scientifico e culturale della Rivista. Né gli uni, né l’altra impegnano la Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro. In copertina: Sacrario militare di Redipuglia dedicato alla memoria dei soldati italiani caduti durante la prima guerra mondiale (1938, Friuli Venezia Giulia) Roberta Patat / shutterstock.com 3 GRAN BRETAGNA IMPERO RUSSO PAESI BASSI BELGIO IMPERO TEDESCO IMPERO AUSTRO-UNGARICO SVIZZERA ROMANIA SERBIA FRANCIA IMPERO OTTOAMANO BULGARIA ALBANIA ITALIA GRECIA SPAGNA L’EUROPA NEL 1914 LA QUIETE PRIMA DELLA TEMPESTA A hundred years from the World War I, now more than ever, it is important to remind what this conflict represented for Europe. According to several authors, as Eric J. Hobsbawm, the war has been the beginning of the twentieth century, because it revolutionized the way of fighting and it upset the political European situation of the time. Already in 1914, the world looked ready to begin a war on a global scale that caused millions of victims and whose reasons are not only related to territorial claims but also to the spread of nationalism and imperialist spirit. di Elisabetta Zuddas e Vito Cormaci The old world in its sunset: così Winston Churchill descrisse l’Europa degli anni precedenti la grande guerra. In apparenza, la monarchia era al massimo del suo potere: nei primi anni del ‘900 vi era un numero considerevole di monarchi regnanti e il loro prestigio, se non il loro potere, sembrava intatto. Ciononostante, la prima guerra mondiale portò con sé la caduta delle tre grandi monarchie dell’Europa centrale – in Germania, Russia e Austria-Ungheria – e contribuì a indebolirne molte altre, creando un nuovo assetto geopolitico. A questo proposito, è anche interessante notare che le case regnanti dei paesi coinvolti nel conflitto erano, in un modo o nell’altro, quasi tutti imparentate tra loro: in molti casi, i sovrani erano discendenti diretti della regina Vittoria d’Inghilterra, soprannominata Grandmamma of Europe, o eredi del ramo materno della sua famiglia, i Coburg. Ella era realmente la “nonna” di tre nazioni, o almeno dei loro re, ossia Nicola II (zar della Russia), Giorgio V (re della Gran Bretagna) e Guglielmo (Kaiser della Germania), il quale disse che la nonna, se fosse stata ancora viva, non avrebbe mai permesso loro di farsi la guerra a vicenda. Dato che i tre erano cugini primi, è necessario capire perché questi legami familiari si siano rivelati così inconsistenti e come si sia potuti arrivare a una guerra di tali dimensioni. Bisogna probabilmente considerare che il potere dei monarchi si era notevolmente indebolito nel corso del tempo e che probabilmente essi non avrebbero potuto, anche volendo, opporsi ai “poteri forti”: i generali, i politici e i fabbricanti di armi. I sovrani, inoltre, sottovalutarono la portata del conflitto che stava per scoppiare, come dimostra la 4 PANORAMA PER I GIOVANI fitta corrispondenza tra “reali cugini”. Infine, erano ormai maturate condizioni tali da far precipitare inesorabilmente la situazione verso il conflitto. LA POLVERIERA BALCANICA Nonostante le apparenze, le fondamenta della pace non erano affatto solide, come si evince da una serie di piccoli conflitti che inasprirono le relazioni diplomatiche tra gli stati europei e che contribuirono alla nascita di una complessa rete di alleanze. Solitamente, quando affrontano l’argomento delle cause della grande guerra, i libri di storia esordiscono con frasi di questo tipo: “Il 28 giugno 1914, uno studente bosniaco di nome Gavrilo Princip uccise con due colpi di pistola l’erede al trono d’Austria – l’arciduca Francesco Ferdinando – e sua moglie, mentre attraversavano in un’auto scoperta le vie di Sarajevo”. Questo avvenimento Illustrazione: Mark D’Hallewin 1 - 2014 A lato: cartina dell’Europa nel 1914. Sotto: il Ponte latino a Sarajevo, dove venne ucciso il 28 giugno 1914 l’Arciduca Francesco Ferdinando. causò una crisi diplomatica che portò allo scoppio della guerra, ma si trattò solo del cosiddetto casus belli o causa immediata del conflitto. In seguito, la Germania fece pressioni sull’Austria affinché aggredisse la Serbia, mentre la Russia assicurò il proprio sostegno a quest’ultima, sua principale alleata nell’area balcanica. Il 23 luglio l’Austria lanciò un ultimatum alla Serbia, imponendo condizioni inaccettabili: esse, tuttavia, furono accolte quasi tutte, a eccezione di quella che prevedeva la partecipazione di funzionari austriaci alle indagini sui mandanti dell’attentato di Sarajevo. L’area balcanica era un territorio strategico e politicamente instabile, al punto da essere definito una “polveriera” nella quale affondava le sue radici un groviglio di interessi e di rivalità nazionaliste. Fattori chiave di tale astio geopolitico erano l’ambizione russa, il nazionalismo slavo e il militarismo austriaco, che avevano determinato lo schierarsi delle potenze europee nella lotta per l’egemonia sui Balcani. Perciò, dopo che l’ultimatum venne respinto, l’Austria dichiarò guerra alla Serbia, dando inizio al primo conflitto mondiale. LA GRANDE GUERRA 1870 e il 1914 e vide i governi europei i britannici. La politica imperialista impegnati nel tentativo di monopoliz- portata avanti da molti paesi europei zare i territori asiatici, sudamericani – tra cui l’Italia – e il malcontento die africani per ottenere materie prime lagante avevano suscitato un forte dia basso costo e investire su prodotti namismo in seno al contesto europeo. che garantissero un maggiore pro- L’incidente di Fascioda può essere fitto, imponendosi sui nuovi mercati considerato un sintomo dell’instabiliinternazionali e trovando una valvola tà della situazione, anche se l’episodi sfogo per le tensioni interne. Tale dio di per sé non fu sufficiente a farla fenomeno aveva contribuito, soprat- precipitare. Tuttavia, ciò dimostra tutto in Africa, a creare un clima di quanto i rapporti tra le potenze eurogrande tensione tra due delle maggio- pee fossero condizionati dalla loro pori potenze coloniali europee: la Secondo Eric Hobsbawm Francia e l’Inghilterra. Un i due spari a Sarajevo episodio emblesanciscono l’inizio del secolo breve matico di questa tensione fu l’incidente di Fascioda, che vide un litica coloniale, che in seguito avrebbe contingente francese guidato dal ca- condizionato il gioco delle alleanze. pitano Marchand tentare di occupare la piccola cittadina sudanese vicina ai IL SECOLO BREVE territori soggetti a influenza britan- “Senza la guerra non ci si potrebbe nica. Lord Kitchener, celebre coman- spiegare il cosiddetto secolo breve, dante inglese, giunse sul posto alla quei cent’anni segnati da pressotesta di una flottiglia, dando luogo ché continue vicende belliche, anche ad uno stallo che si protrasse fino al quando i cannoni tacevano e le bombe raggiungimento di un accordo diplo- non esplodevano. [...] La sua storia, e matico, che risultò vantaggioso per più in particolare o specificatamente Mesut Dogan / shutterstock.com UN NUOVO TIPO DI COLONIALISMO Per comprendere la gravità della situazione occorre riflettere sulle cause che l’hanno generata. Un aspetto che merita particolare attenzione è l’opinione di alcuni storici contemporanei, che vedono nel 1914 l’anno d’inizio del declino dell’Europa, a seguito di un altro processo precedente al primo conflitto mondiale: l’Imperialismo. Il “nuovo colonialismo” – come è stato definito dagli uomini del tempo – si sviluppò tra il PANORAMA PER I GIOVANI 5 1 - 2014 LA GRANDE GUERRA la storia della sua età iniziale di crollo e di catastrofe, deve cominciare con i trentun anni di guerra mondiale”. Eric Hobsbawm introduce così la sua monumentale opera storica Il secolo breve, spiegando in che modo il primo conflitto mondiale abbia rivoluzionato il modo di pensare e di concepire la guerra. L’autore, prendendo spunto dal pensiero del suo amico Ivan Berend, studioso presso l’Accademia ungherese, colloca l’inizio del secolo breve, ovverosia del Novecento, proprio nel giugno del1914, nel momen- punti di vista, anche perché la storia conobbe per la prima volta una Materialschlacht, ovverosia una “guerra di materiali”, così definita a causa delle grandi quantità di materiale bellico prodotte (fatto che, peraltro, renderà molto complicata la riconversione industriale nel dopoguerra). 6 PANORAMA PER I GIOVANI IL 1914 COME SPARTIACQUE: UNO SGUARDO SUL DOPOGUERRA terminazione dei popoli e offrirono la base per la fondazione della Società delle Nazioni, deputata al mantenimento della pace. Purtroppo, neppure tale organizzazione sarebbe riuscita a conciliare gli interessi contrastanti delle potenze europee e a impedire che l’Europa e il mondo precipitassero per la seconda volta in un conflitto mondiale dalle tinte ancora più fosche. Da qualunque prospettiva lo si guardi, I DUE BLOCCHI il 1914 fu decisivo per la storia euro- Uno dei fattori principali che deterpea. Fu l’anno in cui entrarono in crisi minò lo scoppio della guerra fu la fori governi dell’e- mazione di due blocchi contrapposti: poca e l’equili- la triplice intesa e la triplice alleanLa democratizzazione della guerra brio geopolitico za, successivamente nota anche come precostituito e si blocco degli imperi centrali. La seconcomportò la partecipazione aprì un periodo da, nata nel 1882 con un patto segreto dei civili al conflitto in cui l’Europa tra Germania, Austria e Italia, consperimentò i teneva un articolo che stabiliva l’obto in cui quei due spari risuonarono a propri limiti in campo bellico e diplo- bligo di aiuto reciproco solo in caso di Sarajevo. Secondo l’autore, gli eventi matico, aprendo la strada ai regimi aggressione da parte di due potenze, succedutisi in Europa, che hanno poi totalitari che sarebbero sorti di lì a in forza del quale, anni dopo, l’Italia travolto il mondo intero e innescato breve. Quella “guerra civile europea”, sarebbe inizialmente rimasta neuun’altra serie di processi culmina- come l’ha definita lo storico Ernst Nol- trale per poi addirittura allearsi con ti in un nuovo conflitto, affondano le te, è stata uno spartiacque imprescin- lo schieramento opposto. L’accordo fu proprie radici in quel fatidico anno. dibile. Oswald Spengler parla di “tra- rinnovato nel 1887, aggiungendo un Quella proposta dall’autore è una vi- monto dell’Occidente” in riferimento patto italo-austriaco che prevedeva sione geopolitica e socio-storica che alla Prima Guerra Mondiale, per compensi nel caso di mutamenti nello porterebbe a ritenere le due guerre sottolineare come e quanto, dal 1914 status quo balcanico e un patto italomondiali parte di unico periodo, la in poi, il modo di concepire l’Europa tedesco che garantiva all’Italia la difecui fine coinciderebbe con il 1991 e a livello politico e persino geografico sa dei suoi interessi nell’Africa settencioè con il dissolvimento dell’URSS. sia cambiato. Si considerino il Trat- trionale. Successivamente, nel 1896, A detta di Hobsbawm il secolo breve tato di Saint Germain in riferimento la Germania rifiutò di accompagnare “è finito in un disordine mondiale di alla nascita dei cosiddetti “territori di nuovo il trattato con la dichiarazionatura poco chiara e senza che ci sia irredenti”, il Trattato di Versailles – ne del 1882 riguardo alla Gran Breun meccanismo ovvio per porvi fine in riferimento alla pesante sconfitta tagna (che prevedeva che l’Alleanza o per tenerlo sotto controllo”: il 1914 della Germania farebbe così parte di un quadro ben e all’alimentarLa comune preoccupazione per più ampio e complesso, che incorni- si dello spirito cia eventi posteriori come la guerra di revanche – la politica imperialista tedesca del Golfo e che ha ancora forti riper- e i trattati di suggellò la triplice intesa cussioni sull’epoca contemporanea. Sévres, di NeuD’altronde, già negli anni precedenti illy e di Triastavano maturando le condizioni per non, che portarono al disgregarsi non potesse essere rivolta contro la quella che gli storici hanno denomi- dell’impero ottomano e dell’impero Gran Bretagna). Nel 1902 l’Italia otnato “guerra totale”, che rappresenta austro-ungarico, i due grandi Imperi tenne che l’Austria s’impegnasse a un’innovazione in campo bellico. Si centrali. La Prima Guerra Mondiale, consentire un eventuale intervento tratta di una sorta di tragica “demo- inoltre, fu uno spartiacque anche per in Tripolitania e Cirenaica; l’alleancratizzazione della guerra”, ossia del- i rapporti tra l’Europa e gli Stati Uni- za fu rinnovata ancora nel 1908 e per la partecipazione non solo fisica, ma ti. I famosi Quattordici punti di Wo- l’ultima volta nel 1912, aggiungendo anche psicologica, delle popolazioni odrow Wilson costituiscono la prova nelle convenzioni l’inclusione della civili dei paesi coinvolti nel conflitto: più emblematica del ruolo di primo Libia italiana nell’assetto mediterradonne, bambini e anziani, rimasti a piano acquisito dal “nuovo mondo” neo da mantenere. La triplice intesa popolare le città mentre gli uomini si nella politica mondiale: oltre a rilan- invece fu stipulata da Gran Bretatrovavano al fronte. Il 1914, pertanto, ciare il liberalismo su nuove basi, essi gna, Francia e Russia, le ultime due fu un anno cruciale sotto molteplici sancirono anche il diritto all’autode- già strette nella duplice alleanza, tra 1 - 2014 Molto spesso, quando si studia la storia, si è tentatati di chiedersi chi siano i “buoni” e chi siano i “cattivi”. Non a caso, uno dei temi ad oggi più dibattuti in ambito storiografico resta quello della responsabilità della grande guerra. Lo scozzese Niall Ferguson, per esempio, professore di storia ad Harvard, nel suo saggio The Pity of War afferma che la guerra assunse proporzioni mondiali a causa dell’entrata in campo della Gran Bretagna: se essa fosse rimasta neutrale, la Germania avrebbe quasi sicuramente vinto la guerra, nel 1916. Sotto l’egemonia tedesca si sarebbe verificata la creazione di un mercato comune europeo con 80 anni di anticipo e il mondo non avrebbe dovuto subire le calamità dei totalitarismi, di una seconda guerra mondiale e della guerra fredda. Un’altra conseguenza importantissima, almeno secondo il punto di vista inglese, sarebbe stata una nuova situazione geopolitica in cui la Gran Bretagna sarebbe rimasta una grande potenza, conservando buona parte dell’influenza che ancora esercitava prima della guerra. Ovviamente questo saggio ha provocato molte polemiche. Cionondimeno, la Bbc progetta di dedicargli uno spazio nella programmazione dedicata al centenario. Lo stesso vale per una tesi contrapposta, più tradizionale, espressa da Sir Max Hastings (giornalista e storico) nel saggio Catastrophe 1914: Europe goes to war, in cui si imputa la responsabilità principale alla Germania, colpevole di non aver impedito che la situazione creata dall’attentato di Sarajevo degenerasse. Inoltre, il saggio approva la scelta inglese di entrare in guerra, sebbene Hastings non risparmi critiche nei confronti dei politici di allora, i quali si erano assunti impegni militari che la Gran Bretagna, priva di un esercito di leva, non era preparata ad affrontare. Infine, vale la pena di menzionare un terzo punto di vista, ossia quello di Cristopher Clark. Nel suo volume The Sleepwalkers. How Europe Went to War in 1914, egli sostiene, come molti altri, che le responsabilità della guerra siano collettive e che si sia trattato, nello specifico, di irresponsabilità (da cui il titolo I Sonnambuli): a suo dire la Grande Guerra è stata una tragedia, più che un crimine, determinata dal sommarsi di molti fattori. PANORAMA PER I GIOVANI 7 Susan Law Cain / shutterstock.com Illustrazione raffigurante il comandante francese Jean-Baptiste Marchand alla testa delle sue truppe durante la spedizione in Africa. il 1904 e il 1907. Il contrasto anglofrancese fu definitivamente risolto con l’entente cordiale del 1904, mentre nel 1907 Gran Bretagna e Russia giunsero a un accordo per la sistemazione dei rispettivi interessi in Asia centrale. A spingere le tre nazioni a comporre definitivamente le loro rivalità, con il Patto di Londra del 1914, LA GRANDE GUERRA fu la comune preoccupazione per la politica imperialistica della Germania; la triplice intesa si costituì perciò contro questa minaccia, fronteggiandola compattamente durante la prima guerra mondiale, insieme con l’Italia, che si aggiunse nell’aprile del 1915 con il Patto segreto di Londra. IN GUERRA SI PUÒ PARLARE DI BUONI O CATTIVI? 1 - 2014 LA GRANDE GUERRA VIVERE IN TRINCEA For many people, World War I means one thing: trenches. These narrow tunnels in the soil were home to millions of soldiers throughout the conflict. Despite the appalling living conditions, many soldiers managed to survive the war. Living or dying in the trenches was only a matter of fate. di Davide di Gioia Nell’immaginario collettivo, la grande guerra è associata per lo più a un elemento: la guerra di trincea, combattuta in stretti cunicoli profondi pochi metri nel terreno, scavati per proteggersi dalle armi del nemico. Perché si è ricorsi a questo espediente, per quale motivo mutare le tradizionali strategie che avevano dominato l’Ottocento? Una delle ragioni principali è che le nuove armi, quali mitragliatrici e cannoni pesanti, erano difficili da trasportare, il che favoriva un approccio difensivo, scoraggiando ogni tentavo di attacco, ancora di stampo ottocentesco, consistente in ondate di fanteria e cavalleria. Inoltre la rivoluzione industriale aveva comportato un incredibile aumento della capacità produttiva dei paesi in lotta, permettendo loro uno stabile flusso di rifornimenti e favorendo il mantenimento delle posizioni occupate. Solo verso la fine del conflitto sarebbero stati utiliz- zati, anche se in maniera sporadica, carri armati e aerei, due elementi che avrebbero caratterizzato la seconda guerra mondiale, rendendo le trincee, di fatto, inutili. 8 PANORAMA PER I GIOVANI LA STRUTTURA Soldati statunitensi sul fronte francese. Susan Law Cain / shutterstock.com Di norma, le linee trincerate erano tre: la prima linea poteva distare anche poche decine di metri da quella nemica; qualche centinaio di metri più indietro c’erano quelle di rinforzo, mentre ancora più arretrate si trovavano le trincee di riserva. Esse vanno divise in tre ulteriori classi in base alla funzione: di combattimento, dove i soldati si appostavano durante gli scontri; di comunicazione, che correvano perpendicolarmente alle linee principali permettendo il passaggio dall’una all’altra; infine le cosiddette saps, trincee sotterranee che si spingevano all’interno della “terra di nessuno”, ovverosia la zona tra i due eserciti, e consentivano l’acces- so agli avamposti di osservazione, ai posti d’ascolto, alle aree per il lancio delle granate e alla disposizione delle mitragliatrici. Le trincee da combattimento erano solitamente profonde un paio di metri e larghe poco meno. Il lato che guardava verso il nemico era munito di un parapetto formato da sacchi di sabbia e lamiere di ferro che sporgevano di un altro metro. Nelle pareti erano scavate delle buche per uno o due uomini, mentre più in profondità vi erano altri ricoveri sotterranei utilizzati come sedi del comando e come alloggio degli ufficiali. Perché fossero ben costruite, le linee non dovevano essere rettilinee, in maniera tale da contenere i danni in caso di attacco nemico: così, le schegge e i proiettili provenienti da una sezione non potevano raggiungere le altre. Reticoli di filo spinato erano posti davanti alla prima linea per frenare un’eventuale avanzata dei nemici, ma dovevano essere abbastanza lontani affinché questi non potessero appostarvisi col fine di lanciare granate. Per districarsi in questo intreccio di cunicoli erano presenti veri e propri segnali stradali, che indirizzavano il traffico verso settori identificati informalmente con nomi di zone di città (Piccadilly, Hyde Park Corner): forse un modo per far sentire i soldati più vicini a casa. 1 - 2014 Vi erano inoltre enormi differenze fra le trincee dei diversi eserciti. Quelle inglesi erano umide, fredde e squallide, costruite in questo modo a causa di vari fattori: gli anglosassoni vedevano le trincee come ripari temporanei, poiché vi era la convinzione, almeno inizialmente, che la guerra sarebbe finita in breve tempo e che quindi quei ripari di fortuna sarebbero stati abbandonati presto. Inoltre era inutile fortificare eccessivamente una posizione, poiché le nuove armi l’avrebbero demolita molto facilmente. Simili erano le strutture francesi, sporche e pensate come temporanee. Per contro, le trincee tedesche erano molto precise, profonde, pulite, quasi confortevoli. Vi erano complessi scavati anche a dieci metri di profondità, con pareti ricoperte di assi, corridoi e soffitti, scale di legno, mobili, e in alcuni casi anche luce elettrica, acqua corrente e vere e proprie cucine. Da ciò si può intuire come i tedeschi intendessero mantenere tali posizioni. UNA TIPICA GIORNATA SUL FRONTE La giornata di un soldato iniziava circa un’ora prima dell’alba, spesso verso le 4:30. Poiché questo era il momento preferito dal nemico per sferrare un attacco, all’ordine “stand to” ogni uomo saliva sulla banchina di tiro con le armi spianate scrutando la terra di nessuno. Quando ormai si era fatto giorno ed era evidente che non ci sarebbe stato un attacco, ognuno “smontava” e tutti, a piccoli gruppi, cominciavano a prepararsi la colazione, utilizzando le razioni portate durante la notte, cucinate su piccoli fuochi, possibilmente senza fumo. Per i più fortunati c’era la possibilità di avere un po’ del forte rum governativo, mescolato nel tè o consumato liscio. Questa bevanda era inoltre distribuita in maggiore quantità prima di un assalto, per eccitare le truppe e sventare il cosiddetto shock da bombardamento. Durante il giorno, i soldati pulivano le armi e riparavano le parti della trincea che erano state danneggiate durante la notte, scrivevano lettere, dormivano o badavano alle proprie faccende personali. Gli ufficiali ispezionavano e indagavano sullo stato LA GRANDE GUERRA GUERRA SULLE ALPI Scenario peculiare ed estremo è quello in cui si sono trovati ad operare i soldati impegnati sul fronte italiano, in particolare sulle Alpi. Mai si erano combattute battaglie ad altitudini così elevate, a volte con il fronte a più di tremila metri di altezza, come nel caso del Massiccio dell’Adamello, tra Lombardia e Alto Adige, o nei pressi della Marmolada, fra Trentino e Veneto. La maggior parte dei combattenti faceva parte del corpo degli Alpini, composto da giovani reclutati nelle zone di montagna, abituati a spostarsi su quel tipo di terreni e a sopportare temperature particolarmente rigide. Per oltre due anni rimasero in quota lottando, trasportando materiali, armi, attrezzature, viveri e costruendo baraccamenti, appostamenti e sistemi trincerati visibili ancora oggi. Vi erano casi in cui queste strutture furono costruite direttamente all’interno dei ghiacciai. La situazione era resa ancora più critica dall’assoluta inadeguatezza, almeno dalla parte italiana, dell’equipaggiamento distribuito. Spesso nei baraccamenti le uniche fonti di calore erano costituite dai piccoli fornelletti per le vivande, i vestiti di lana erano pochi e molti dovettero costruirsi occhiali da sole fatti di alluminio per prevenire i danni provocati dai raggi solari riflessi dalla neve. Inoltre, nella fase iniziale del conflitto, le uniformi erano di colore grigio-verde, rendendo l’individuazione sul manto nevoso estremamente semplice. Altra figura importante è stata quella dei cosiddetti portatori: volontari, soprattutto di sesso femminile, che si erano arruolati per trasportare dalle retrovie armi, munizioni, attrezzature e vivande ai soldati in cima alle montagne. d’animo delle truppe, compilavano moduli per i rifornimenti, si accertavano dei danni e delle vittime della notte. Dopo l’adunata serale cominciava il vero lavoro. La maggior parte delle attività si svolgeva al di fuori delle trincee. I genieri riparavano i reticolati di fronte alla posizione, le squadre di zappatori prolungavano le gallerie sotterranee in direzione del nemico, le squadre addette al trasporto provvedevano a rifornire le truppe dei materiali necessari per le riparazioni, quali assi di legno, sacchetti di sabbia, lamiere di ferro, munizioni e granate; non di rado i lavori erano interrotti da bombardamenti o colpi di mitragliatore. Vi erano inoltre squadre di guastatori, che avevano il compito di danneggiare le postazioni nemiche, e pattuglie che operavano nella terra di nessuno. Gli uomini, tuttavia, non erano gli unici inquilini: c’era un gran numero di ratti che si cibavano della carne dei soldati e dei cavalli morti, mentre i pidocchi infestavano ogni luogo, costringendo addetti specializzati a combatterne la proliferazione, seppur con scarsi risultati. I soldati dovevano anche convivere con l’odore nauseabondo della carne in putrefazione; non era raro, infatti, che commilitoni deceduti, cavalli o altri animali non venissero sepolti per mesi, scene cui, nella tragedia della guerra, si faceva l’abitudine. Con l’avvicinarsi dell’alba, ognuno cercava di terminare il proprio lavoro, poi si scrutavano le linee nemiche cercando di individuare le modifiche apportate dall’altro esercito. E tutto ricominciava come il giorno precedente. Nonostante queste condizioni agghiaccianti, molti soldati sono sopravvissuti, anche se spesso feriti, talora anche gravemente. E molti poterono tornare a casa a guerra finita. In effetti, gli scontri erano rari, anche se sanguinosissimi, con decine se non centinaia di migliaia di uomini che perdevano la vita. La maggior parte dei giorni trascorreva senza spargimenti di sangue e la sorte giocava così un ruolo decisivo: si poteva passare la propria permanenza al fronte senza trovarsi coinvolti in un conflitto a fuoco, oppure arrivare poco prima di un assalto al nemico, che avrebbe significato morte quasi certa. PANORAMA PER I GIOVANI 9 CHIMICA LETALE LO SVILUPPO DI UN’ARMA DI DISTRUZIONE DI MASSA A chemical weapon is a device containing toxic chemicals within a delivery system. Responsible for slow and agonizing death, chemical warfare has always aroused a strong emotional reaction in the general public. The use of such substances as weapons of mass destruction began with World War I. Chlorine, phosgene and mustard gas, the main gases used, had devastating effects. di Sara Gabrielli Trincee, maschere anti-gas, soldati che si divincolano lottando contro sostanze sconosciute: queste sono le immagini associate al primo conflitto mondiale che più sono rimaste impresse nella memoria collettiva. In ogni scontro bellico l’obiettivo di sopraffare il nemico ha portato a una corsa per il potenziamento di armi e mezzi tecnici. La ricerca scientifica è stata di conseguenza sfruttata spesso sina e zolfo. Un episodio simile avvenne in Siria nel 256 d.C., quando i Sasanidi attaccarono la città siriana di Dura Europos, allora controllata dai Romani, sfruttando zolfo e bitume infiammato. Nel XV secolo Leonardo da Vinci propose a Ludovico il Moro l’utilizzo di solfuro di arsenico e acetato di rame. Alcune sostanze tossiche vennero impiegate in battaglia anche nel 1672 durante l’assedio alla città di Groninga, episodio che portò La prima volta in cui vennero a includere nel utilizzate armi chimiche su vasta trattato di Strasburgo del 1675 scala fu il 22 aprile 1915 ad Ypres un articolo che per soddisfare esigenze militari. Ciò vietasse l’uso di pallottole avvelenate. che durante la prima guerra mondia- Ulteriori riferimenti all’impiego di le sconvolse l’opinione pubblica non armi chimiche vennero inseriti in fu tanto l’introduzione di armi la cui alcuni accordi internazionali nei deforza risedesse in una maggiore preci- cenni anteriori alla guerra del 1915sione o in una più potente detonazio- 1918. Sia nelle Conferenze di Bruxelne, quanto l’utilizzo massiccio di armi chimiche, letali a causa delle proprietà tossiche dei composti sfruttati. Per la prima volta i soldati furono sorpresi da enormi nubi gialle e verdi o addirittura costretti a combattere contro un nemico pressoché invisibile, ma in grado di suscitare più orrore di una granata. Questa tipologia di armi era già stata impiegata in numerose occasioni: la testimonianza archeologica più antica dell’uso di gas velenosi risale alla guerra del Peloponneso (V secolo a.C.), durante la quale gli spartani tentarono di indebolire gli ateniesi tramite la combustione di legno, reSoldati statunitensi intenti a scrutare la terra di nessuno. 10 PANORAMA PER I GIOVANI les del 1864 e del 1874, che nelle Convenzioni dell’Aja del 1899 e del 1907, venne proibita la diffusione di gas tossici e l’uso di veleni o di armi velenose. Nonostante i numerosi tentativi di restrizione nell’uso di agenti chimici in guerra, durante il primo conflitto mondiale furono rilasciate circa 124.000 tonnellate di gas letali e le armi chimiche assunsero la connotazione di armi di distruzione di massa. La prima volta in cui vennero utilizzate armi chimiche su vasta scala fu il 22 aprile 1915, presso la cittadina belga di Ypres: in quell’occasione, le truppe tedesche impiegarono l’iprite (solfuro di 2,2’-diclorodietile) contro i francesi al fine di destabilizzare la linea nemica e di porre fine alla staticità che aveva caratterizzato fino ad allora il conflitto. Il gas mostarda, com’è altrimenti chiamata l’iprite, a causa del suo caratteristico odore di senape, rientra nella categoria degli agenti vescicanti: gli effetti causati dall’esposizione a questa sostanza si riscontrano dapprima sull’apparato visivo, per poi manifestarsi sull’apparato respiratorio e sulla pelle, tramite la comparsa di irritazioni cutanee e vesciche. Oltre all’iprite vennero utilizzati diversi agenti asfissianti, come cloro, fosgene (cloruro di carbonile) e cloropicrina (nitrocloroformio), che, se inalati, causavano edema polmonare acuto. Essendo più pesanti dell’aria, queste sostanze si depositavano den- Susan Law Cain / shutterstock.com LA GRANDE GUERRA Foto: Adriano Zanini Astaldi 1 - 2014 1 - 2014 LA GRANDE GUERRA Susan Law Cain / shutterstock.com Soldati inglesi armano batterie Livens per colpire i tedeschi con il gas. tro le trincee, costringendo i soldati alla fuga: al fosgene si deve l’80% dei decessi causati da agenti chimici nel conflitto, mentre la cloropicrina, pur essendo meno pericolosa, venne largamente utilizzata poiché riusciva ad attraversare le maschere antigas. Per il corretto utilizzo di armi chimiche non era sufficiente una conoscenza approfondita delle caratteristiche dei composti sfruttati: imprescindibile era lo studio delle caratteristiche dell’ambiente – condizioni meteorologiche e temperatura – in cui sarebbe avvenuto l’attacco. Spesso, infatti, a causa di errori nella valutazione della direzione del vento o nella predizione delle precipitazioni, gas indirizzati verso gli avversari seguivano poi la direzione opposta. Peraltro, temperature eccessivamente rigide o elevate condizionavano termodinamicamente reazioni tra i gas usati e l’aria esterna, mentre eventuali piogge portavano il gas in soluzione, diminuendone l’efficacia. Gli effetti dei gas spinsero le potenze coinvolte nel conflitto a organizzare un programma di armamento chimico che comprendesse anche sistemi di protezione per le truppe: le nazioni alleate commissionarono questi programmi in misura maggiore dal momento che non avevano inizialmente previsto un adeguato piano di difesa contro gli attacchi al gas. L’industria chimica vide un periodo di enorme sviluppo dal momento che tutti gli Stati si dedicarono più o meno intensamente all’uso militare di composti aggres- In conclusione, le proibizioni del Protocollo furono percepite con minore priorità rispetto alla necessità di armamento delle grandi potenze alle porte del secondo conflitto mondiale. Negli anni Trenta si assistette all’affermazione di nuove armi di distruzione di massa, come le armi biologiche, e anche la chimica continuò ad essere sfruttata per fini bellici. Dalla seconda guerra mondiale ad oggi sono stati numerosi gli episodi che hanno visto un ulteriore sfruttamento di armi chimiche: dall’uso di defolianti e diserbanti nel corso della guerra in Vietnam, all’impiego di agente mostarda e gas nervini da parte dell’Iraq contro le truppe iraniane durante il conflitto del 19801988. Nel 1935 fu l’Italia a sfruttare questi mezzi durante la guerra d’Abissinia, facendo cadere 272 tonnellate di iprite sulla resistenza e sparando proiettili caricati con sostanze sivi. Tuttavia, concluso il conflitto, l’impatto fisico e psicologico causato da questi mezzi di combattimento fu tale che tra i temi discussi durante le trattative di pace non poté mancare quello riguardante le armi chimiche. Nel 1919 il Trattato di Versailles mise al bando la produzione e la fabbricazione di armi chiTutti gli stati si impegnarono miche, ma ben a non usare agenti chimici più importante in materia fu quale strumento di guerra il Protocollo di Ginevra (Protocol for the prohibition velenose sulla popolazione civile. of the use in war of asphyxiating, poi- Oltre il Protocollo di Ginevra, occorsonous or other gases, and of bacterio- re menzionare altri due accordi sul logical methods of warfare), firmato il bando delle armi chimiche: l’appro17 giugno 1925. Nonostante il tentati- vazione, durante la Conferenza delle vo di porre il Protocollo come norma di Nazioni Unite del 1966-1978, di alcudiritto internazionale accettata uni- ne risoluzioni riguardanti tale divieto versalmente, esso si rivelò inefficace e la Convenzione sulle armi chimiche poiché lasciò alcuni punti in sospeso. del 1993 (Convenzione sulla proibizioInnanzitutto, benché fosse stato vieta- ne dello sviluppo, la produzione, l’acto l’uso di armi chimiche, non fu risol- cumulo e l’uso delle armi chimiche e ta la questione riguardo la loro produ- sulla loro distruzione). zione e il loro trasferimento. Il secondo Nonostante l’impegno delle istituzioni limite del Protocollo fu l’assenza delle nella gestione di queste armi, il periratifiche di molti stati: come conse- colo di nuovi attacchi tramite agenti guenza, alcune nazioni continuarono chimici rimane costante, come dimoa usare armi chimiche nel periodo tra stra quanto avvenuto in Siria l’estate le due guerre, mentre altri stati, come scorsa: di fronte alla corsa inarrestabila Germania, continuarono a svilup- le della scienza, allo snellimento della pare la propria capacità chimica mi- produzione industriale e alle nuove litare. La ricerca tedesca raggiunse scoperte nel mondo della chimica, oggi un livello talmente alto da portare è richiesta alle potenze internazionali addirittura alla scoperta dei gas ner- una cautela ancora maggiore, rispetto vini, come lo RS-2-fluoro-metil-fosfo- al passato, nella risoluzione di future ril-ossopropano,più noto come sarin. instabilità geopolitiche. PANORAMA PER I GIOVANI 11 1 - 2014 LA GRANDE GUERRA L’AREONAUTICA DURANTE LA PRIMA GUERRA MONDIALE During World War I, airplanes were used in combat for the first time. Aeronautical technology showed such a rapid development that, by the end of the conflict, Air Forces had become a fundamental part of modern armies and pilots were hailed as heroes by their nations. Italian aeronautic research played a pivotal role in the conquest of the skies. di Saverio Cambioni di tensione che rimangono nel piano dell’ala. Tuttavia, alcune condizioni, come la velocità o la presenza di turbolenze e raffiche, spesso rappresentavano una minaccia alla stabilità della struttura a membrana, il che impediva, di fatto, di compiere quelle manovre necessarie per primeggiare in un duello aereo o per sfuggire a eventuali attacchi da terra. Un secondo motivo di perplessità era rappresentato dalla motoristica. I primi aerei erano dotati di pesanti motori a pistoni che, pur fornendo una potenza adeguata al decollo e al volo di crociera, non permettevano di raggiungere velocità elevate. Volando lentamente, gli aeroplani godevano di 12 PANORAMA PER I GIOVANI Sotto: Dirigibile Italiano in fase di atterraggio a Ciampino nel 1918. m.bonotto / shutterstock.com Allo scoppio della prima guerra mondiale, l’aeronautica militare era una branca dell’ingegneria ancora in fase embrionale: i fratelli Wright avevano compiuto la propria impresa appena dieci anni prima e i vertici delle forze armate erano ancora molto scettici circa le reali potenzialità degli aerei da guerra. Fu l’impegno bellico a dare un contributo decisivo alla ricerca e allo sviluppo di nuove tecnologie aeronautiche: gli aerei furono potenziati, tanto nella struttura quanto nella componente motoristica e, alla varietà delle missioni, corrispose l’impiego di differenti tipi di velivoli. Come mai vi fu una così forte, seppur solo iniziale, diffidenza nel concepire gli aerei come strumento di offesa? Numerosi fattori contribuirono allo scetticismo iniziale, il primo dei quali fu la struttura degli aerei. Il materiale adoperato per il telaio era il legno e soltanto alcuni rinforzi erano realizzati in metallo. Per quanto leggera e resistente potesse essere, una siffatta struttura era vulnerabile davanti a ogni rudimentale forma di contraerea. Inoltre, l’estrema sensibilità del legno all’umidità rendeva rischiose le missioni in condizioni atmosferiche avverse, soprattutto se il velivolo era già stato esposto a intemperie. Quanto alla realizzazione delle ali, semplici tessuti avvolgevano il telaio, assicurando il raggiungimento dello stato membranale di tensione sull’ala, termine tecnico che sta a indicare il bilanciamento tra la portanza (la forza che consente all’aereo di volare) e la resistenza aerodinamica (somma di tutte le forze che si oppongono al moto del velivolo), con le sollecitazioni un’ottima stabilità, ma ciò, ancora una volta, rendeva impossibile eseguire manovre complesse e compiere attacchi a sorpresa. Infine, il livello rudimentale degli strumenti di aeronavigazione montati a bordo destò non poche perplessità nei generali dell’epoca. Di norma, la navigazione era basata su mappe che venivano consultate durante il volo; tuttavia, in loro assenza, i piloti erano costretti a orientarsi tramite l’osservazione dei territori sottostanti. Esperienza e intuito erano, il più delle volte, gli unici strumenti per valutare la propria posizione e, in non poche occasioni, interpretazioni fallaci costarono la vita ai piloti meno abili. In un primo momento, a causa di tali fattori, i biplani venivano impiegati solo per ricognizioni in territorio nemico. Ai piloti era ordinato di scattare fotografie aeree dei campi di battaglia ed essi erano raramente armati, il che rendeva fatale un eventuale incontro con forze ostili. Cionondimeno, le potenzialità dell’aviazione divennero evidenti in breve tempo non solo ai militari: agli occhi Foto: C. J. von Dühren IL BARONE ROSSO E IL CAVALLINO RAMPANTE Manfred von Richthofen, noto con il soprannome di Rote Baron, fu un aviatore tedesco, riconosciuto universalmente come l’asso dei cieli durante la prima guerra mondiale. Egli conseguì 80 vittorie sinché non venne abbattuto ed ucciso dalla contraerea australiana nell’aprile del 1918. Osannato come eroe della nazione dai tedeschi, temuto e rispettato dai soldati della Triplice Intesa, che, nel rosso del suo triplano, impararono a riconoscere una seria minaccia, il Barone Rosso, o il Diavolo Rosso come lo chiamavano i francesi, compì molte missioni a capo di una squadriglia nota come il “circo volante”. Fra i membri del gruppo spiccava un uomo poi divenuto tristemente famoso: Hermann Göring, futuro capo della Luftwaffe nazista. Anche l’Italia ebbe il suo asso nel maggiore Francesco Baracca, il quale, nel corso della sua illustre carriera, abbatté 34 aerei nemici finché non venne a sua volta ucciso. Il pilota dipinse sulla fiancata sinistra del proprio velivolo un cavallino rampante nero; anni dopo, in suo onore, Enzo Ferrari adottò tale simbolo per la propria casa automobilistica. degli intellettuali, infatti, gli aeromobili apparivano come nuovi mezzi di manifestazione. A tal proposito, fu emblematica l’impresa di Gabriele D’Annunzio, che il 9 agosto 1918 volò su Vienna assieme ad altri piloti dell’aeronautica italiana, con l’obiettivo di lanciare 50.000 volantini che magnificassero la potenza nazionale. Nel corso del conflitto, la tecnologia aeronautica andò incontro ad una rapida evoluzione. Basti pensare che gli aerei sostituirono i dirigibili come strumento di offesa e di ricognizione, anche se – è doveroso sottolinearlo – i veri progressi strategici si registrarono solo verso la fine della Grande Guerra, quando le sorti del conflitto erano ormai decise. Le forze armate coinvolsero le industrie e le università per sviluppare le potenzialità degli aerei e la ricerca condusse allo sviluppo di due differenti tipologie di aircraft: gli aerei da combattimento e gli aerei da bombardamento. I primi furono resi molto snelli e veloci, adatti al duello nei cieli e alla ricognizione a bassa quota, mentre gli altri, più robusti, vennero utilizzati per il bombardamento delle linee nemiche, nonché per il trasporto di merci e di soldati. Dopo le prime missioni vittoriose, la propaganda dei singoli paesi cominciò a dipingere i piloti come eroi moderni, il che contribuì ad alimentare l’immaginario collettivo, al punto che molti tra loro divennero popolari sia fra i civili che fra i soldati. L’aviazione divenne un’arma psicologica utile per incutere timore nel nemico e per mantene- però, non ottenne i risultati auspicare acceso l’impeto bellico nei cittadini. È degno di nota il caso dell’Inghil- ti, soprattutto se messi a confronto terra, la quale contrappose all’aero- con le prestazioni delle aeronavi nenautica degli Imperi centrali i Royal miche. Vero promotore dell’aviazione flying corps, il cui motto era “Per ar- italiana fu il generale Giulio Douhet: dua ad astra”, ovverosia “attraverso per primo egli intuì l’importanza le asperità alle stelle”. Benché i te- strategica del bombardamento aereo, deschi potessero contare su un con- che descrisse nel suo libro Il dominio tingente aereo più cospicuo rispetto dell’aria. Douhet autorizzò la creazioa quello inglese, gli Rfc riuscirono a ne di una ragguardevole flotta di bomdistinguersi per valore, come testi- bardieri trimotori che si rivelarono monia l’elevato numero di caduti tra i decisivi nei raid in territorio austrialoro ranghi. L’organizzazione del volo co. Tuttavia, il generale aveva agidegli aerei degli Rfc rispecchiava del to senza il permesso dei vertici delle tutto l’arretratezza dell’equiDopo le prime missioni vittoriose, paggiamento di le propagande cominiciarono a allora: il pilota, abbandonato dipingere i piloti come eroi moderni interamente a se stesso, doveva manovrare l’aereo, forze armate e per questo fu sollevato spiare il territorio nemico e comunica- dall’incarico. Alle sue aspre critiche, scagliate contro l’ottuso scetticismo re le informazioni a terra. Un importante contributo alla ri- dei propri superiori, questi reagirono soluzione del conflitto fu garantito imprigionandolo. Eppure, l’impulso dall’aeronautica italiana. L’Italia fu dato da Douhet all’aviazione italiana la prima nazione a impiegare gli aerei fu tale che l’apparato produttivo si come strumento di offesa, in partico- trasformò radicalmente, rendendo l’Ilare durante la guerra italo-turca nel talia una potenza di tutto rispetto in 1911. Ciononostante, al proprio in- ambito aeronautico. gresso nel conflitto il 23 maggio 1915, A guerra conclusa, l’importanza stral’Italia non disponeva di un apparato tegica dell’aviazione era ormai lamindustriale in grado di produrre un pante ed il possesso di una flotta aeconsistente numero di aeromobili. Dal rea efficiente divenne un simbolo capunto di vista strategico, l’aviazione ratteristico di supremazia. L’aeropladoveva superare l’arco alpino per com- no avrebbe trovato un impiego ancora piere incursioni nel territorio nemico. più massiccio nella seconda guerra Pertanto, onde consentire il bombar- mondiale, allorché l’aviazione divenne damento a lungo raggio, fu costituita una delle armi più significative per il una formazione di dirigibili, la quale, conseguimento della vittoria. PANORAMA PER I GIOVANI 13 1 - 2014 LA GRANDE GUERRA LO SVILUPPO DELLA CHIRURGIA DURANTE LA GUERRA World War I saw a horrific number of wounded and maimed soldiers. As a consequence, surgeons were provided with a laboratory where they had the opportunity to invent and refine new techniques for facial and body reconstruction. This was of major importance for the birth of modern plastic surgery, which would continue to develop to our days. di Claudia Fede Spicchiale mo, o meglio, da quando esiste l’uomo come soggetto integrato in comunità con propri usi e costumi, esistono pratiche di medicina estetica e chirurgia plastica, elaborate con il preciso scopo di evitare, per quanto possibile, l’emarginazione del singolo. In India, ad esempio, da ben prima dell’anno 0 e fino ai tempi della colonizzazione britannica, vigeva la mutilazione giudiziaria con il taglio del naso per coloro la cui condotta era giudicata moralmente riprovevole: a questi individui la colpa era segnata sul viso. La messa a punto dei primi rimedi a tale menomazione risale al 600 a.C., quando il chirurgo Sushruta rimodellava la forma del naso e delle narici a partire da un lembo di cute frontale ruotato sul proprio asse vascolare: si trattava del cosiddetto “metodo indiano” che sarebbe passato per le mani di arabi e greci e, ancora oggi, viene utilizzato. Nel Corpus Hippocraticum, 14 PANORAMA PER I GIOVANI Protesi in ferro di Götz von Berlichingen del 1530 circa. Autore anonimo, 1918 Mastoplastiche additive, lifting, liposuzioni: sono solo alcuni degli interventi più richiesti ai chirurghi plastici da pazienti giovani e meno giovani. La domanda crescente giustifica la ricerca costante e mirata di nuove tecniche a rischio minimo, aspetto che rende il campo della chirurgia plastica e ricostruttiva uno dei settori più all’avanguardia della medicina moderna, nonché uno dei più redditizi. Ovviamente non mancano i detrattori: sono loro a puntare il dito contro la società basata sull’apparenza, che impone il rispetto di canoni estetici ben definiti per non venirne tagliati fuori, e porta alla crisi dell’individuo. Cionondimeno, pensare che la chirurgia plastica sia nata apposta per soddisfare ogni irrealistico desiderio di vanità e bellezza, ovviamente a un prezzo congruo, è una visione riduttiva e fallace. La chirurgia plastica ha, infatti, radici molto antiche: da quando esiste l’uo- invece, sono descritte piccole operazioni per la cura del labbro leporino e altre malformazioni del volto; ancora, la praticità e ingegnosità dei romani non poteva rinunciare a competenze specifiche nel trattamento dei traumi facciali di soldati e gladiatori. Nel Medioevo la situazione cambiò: tutta la chirurgia fu relegata ai gradini più bassi nella scala dei mestieri, considerata mera occupazione di macellai o barbieri. Le classi dirigenti, infatti, non potevano che diffidare di una branca della medicina volta a rimodellare e migliorare quello che per sua stessa natura era un involucro effimero e di poca importanza: il corpo. Nonostante la demonizzazione delle malformazioni e la mortificazione della carne, nel 1597 Gaspare Trigambe da Tagliacozzo pubblicò il De curtorum chirurgia per insitionem, primo trattato di chirurgia ricostruttiva moderna, ottenendo a Bologna la prima cattedra di chirurgia plastica della storia. A chi gli muoveva accuse di carattere etico – sottolineando che il compito della chirurgia fosse quello di curare, e non di migliorare il corpo – egli era solito rispondere che il suo operato ridava dignità e funzionalità ad organi che la natura stessa ha fornito. Tuttavia, affinché l’utilità della pratica chirurgica fosse riconosciuta, si 1 - 2014 LA GRANDE GUERRA ad esempio, avesse bisogno di più dei diversi e spesso non volevano farsi ve15 odontoiatri allora a disposizione. dere da nessuno, neppure dai familiaPresto divenne chiaro che l’elmetto ri. Il suo impegno costante portò allo di metallo, pur proteggendo la testa, sviluppo della tubularizzazione dei lasciava scoperto il volto e lo rendeva lembi peduncolati, tecnica grazie alla un facile e inerme bersaglio, esposto quale è possibile trasferire porzioni di a proiettili, schegge e frammenti du- cute da una parte all’altra del corpo rante l’impazzare dei combattimenti. continuando a mantenere l’irrorazioAnzi, l’elmetto contribuiva esso stesso ne sanguigna, il che si traduce in un a procurare lesioni facciali deturpan- aumento significativo della possibilità di attecchimento e di successo. Gillies ti. D’altro canto, c’era anche da fare i si occupò delle tecniche di ricostruzioconti con i grandi ustionati, sopravvis- ne facciale durante e dopo il conflitto, suti ai gas vescicanti o agli incidenti raggiungendo risultati ragguardevoli aerei. Serviva personale preparato e non solo per funzione, ma anche per avvezzo a trattare con le condizioni estetica delle parti ricostruite. Il lato più disparate – e disperate. Spesso, estetico non poteva essere trascurato: le schegge erano in grado di portare “Grazie a una considerevole esperienvia ampi lembi za personale” – scriveva un chirurgo di tessuto, la- di quegli anni – “sappiamo che il paDa quando esiste l’uomo esistono sciando margini ziente vuole riavere un aspetto il più strappati, con- normale possibile. Si sottoporrà a sofpratiche di medicina estetica e tusi e sporchi di ferenze inenarrabili per recuperare chirurgia plastica terra; aumen- sembianze accettabili. Non ci sono tava, quindi, il eccezioni a questa regola … Che senbattaglie e rivoluzioni, che venivano rischio di infezione, che era letale in so ha rimanere in vita se non si può combattuti solo in un primo momento un mondo senza antibiotici. Renden- tentare di guadagnarsi da vivere? con le armi da fuoco, per passare poi dosi conto dell’importanza del proble- Questa è l’opinione che il paziente che alla baionetta o alla spada. Chi so- ma sociale che si stava delineando, Sir desidera sostentarsi fa propria”. Oltre pravviveva riportava quindi solamen- Arbuthnot Lane riuscì a convincere la a Gillies, è d’obbligo ricordare anche te ferite da arma bianca, mentre per Corona ad istituire un’unità di chirur- l’unità medica di soccorso voluta e gli altri non c’era speranza. gia facciale attrezzata per l’esercito inviata in Europa dalle università di Le tecnologie utilizzate in trincea inglese. Così, nel 1916 a Sidcup, nel Harvard, Columbia e John Hopkins: mutarono completamente la priorità Kent, aprì la prima unità specificata- tra i 35 chirurghi, i 3 dentisti e i 75 della chirurgia militare, con problemi mente disegnata a questo proposito: il infermieri giunti ad aiutare i colleghi nuovi da risolvere in fretta. La vio- Queen’s Hospital, dove vennero trat- alleati in Francia, dove operarono fino lenza e la forza distruttiva dei nuovi tati più di 2.000 pazienti rimasti or- al primo dopoguerra, vi era Varaztad strumenti si concretizzavano nei nu- rendamente sfigurati nella battaglia Kazanjian, conosciuto come “l’uomo meri: milioni di morti, feriti, mutilati. della Somme. Per Lane Eppure, molti tra i più orrendamente dirigerlo, Con la prima guerra mondiale feriti riuscivano comunque a soprav- scelse un giovane vivere: l’introduzione di antisettici e otorinolaringoiacambia il modo di combattere e anestetici permetteva, infatti, di sta- tra neozelandese anche il tipo di ferite alla bilizzare pazienti che trent’anni pri- formatosi ma non avrebbero superato le prime scuola parigina, ore. Peraltro, non si poteva ignorare Harold Delf Gillies, che si trovò a dei miracoli del fronte occidentale”. il fatto che la maggior parte di questi coordinare un’equipe di chirurghi e La sua specialità era la ricostruzione giovani e valorosi combattenti erano anestesisti provenienti da Inghilter- delle mascelle smembrate per mezstati irrimediabilmente sfigurati. ra, Francia e Stati Uniti. Considera- zo di fili metallici e ferule interne di All’inizio del conflitto il trattamento to il padre della moderna chirurgia gomma vulcanizzata, intervento pondelle ferite maxillo-facciali non era plastica e ricostruttiva, Gillies aveva te per il successivo e più complesso inconsiderato affatto tra le principali studiato attentamente le varie tec- nesto osseo. Grazie alla sua direzione, preoccupazioni dei chirurghi: si cono- niche di innesto e scultura dei lembi l’Unità di Harvard divenne il centro scevano le lesioni da rissa o da tumo- vascolarizzati dai testi antichi, e non principale di cure maxillo-facciali per re, ma si trattava pur sempre di un esitava a sperimentare nuovi tipi di l’esercito inglese in Francia. Nel pegnumero esiguo di casi, appannaggio di intervento sugli sventurati cui non gior scenario possibile si muovevano un settore altrettanto piccolo. Nulla rimanevano molte speranze di vita le mani dei chirurghi che prendevano faceva pensare che l’esercito inglese, normale: gli stessi feriti si sentivano confidenza con teste rotte, cicatrici desarebbe dovuto aspettare il Novecento e gli orrori della grande guerra. Questo drammatico evento, che vide l’Europa e il mondo schierarsi per difendere gli interessi delle grandi monarchie con un dispiegamento di forze e tecnologie mai utilizzate prima, creò una cesura importante e inaspettata con il passato: cambiarono il modo di combattere, i mezzi e le strategie. E cambiò anche il tipo di traumi e ferite con cui i medici dovevano fare i conti: nessuno era pronto ad affrontare ciò che ne sarebbe derivato. Fino ad allora i chirurghi erano formati per tagliare, cucire, amputare, demolire: per tutto l’Ottocento, infatti, si erano susseguiti, quasi senza interruzioni, conflitti, PANORAMA PER I GIOVANI 15 LA GRANDE GUERRA turpanti e volti sfigurati, intervenendo su ciò che, secoli prima, sarebbe stato impossibile trattare. In realtà, la trincea pose di fronte allo specialista nascente problemi che avevano il sapore amaro del limite e dell’assenza di soluzione: ovviamente, Illustazione tratta dal De curtorum chirurgia per insitionem (Gaspare Tagliacozzi, 1597) della ricostruzione del naso per mezzo di un lembo di pelle preso dal braccio. Oggi è il simbolo della Società Italiana Chirurgia Plastica Ricostruttiva ed Estetica. 16 ci furono casi in cui gli sforzi della medicina non furono sufficienti. In quei casi, non molti in rapporto al numero totale dei feriti, un’arte cedette il passo a un’altra e per preservare la dignità del paziente furono proposte maschere personalizzate e su misura. Tra i primi “artisti del volto” spiccano il capitano Derwent Wood e la scultrice Anna Coleman Ladd, che lavorarono fianco a fianco con i chirurghi nei padiglioni medici: col tempo le due prestazioni – quella squisitamente chirurgica e quella scultorea – si PANORAMA PER I GIOVANI sarebbero completate l’un l’altra, fino ad ottenere il massimo risultato, sempre nell’interesse del paziente. Alla fine del conflitto, anche i chirurghi tornarono a casa: nessuno di loro era per formazione chirurgo plastico e provenendo dalle più disparate specialità si erano reinventati come tali al momento del bisogno. In tempo di pace, rifiutarono di lasciar morire la nuova arte nascente e s’impegnarono per darle una forma definita e indipendente. Insomma, fino allo scoppio della prima guerra mondiale le pratiche volte a migliorare gli inestetismi o i difetti del corpo erano state fortemente osteggiate, ritenute inutili, perfino disprezzate. Nel dopoguerra, però, il lavoro di ricostruzione funzionale ed estetico non sarebbe stato liquidato come velleitario: i chirurghi, infatti, erano stati protagonisti della guerra e non potevano permettere che le tecniche acquisite a costo di tanta fatica e sofferenza andassero perdute, come già avvenuto in passato. Sfruttando l’interesse e la curiosità di una sempre meno diffidente opinione pubblica, alla fine dell’estate del 1921, i dottori Henry Sage Dunhead, Truman W. Brophy e Frederick B. Moonrehead si incontrarono a Chicago per dar vita alla prima associazione di chirurgia plastica al mondo. Oggi, quasi cent’anni dopo, la chirurgia plastica trova ampie applicazioni nei più disparati campi: dalla ricostruzione post-resezione oncologica alla microchirurgia vascolare e nervosa, dal trattamento delle ulcere complesse alla medicina estetica e si tratta solo di alcuni dei settori più in espansione. Che sia vittima di tragici incidenti o presenti malformazioni congenite, chi si rivolge al chirurgo plastico cerca un modo per accettarsi ed essere accettato. Spetta allo specialista il compito di comprendere quali sono le reali problematiche, reali o psicologiche, del paziente nonché le sue aspettative, valutando quando operare e quando rifiutarsi di farlo. Nella ricerca di un’armonia delle forme, sempre rispettosa dell’integrità e dell’identità del corpo, l’intervento riuscito è l’intervento in cui la mano del chirurgo rimane invisibile. Illustrazione di Gaspare Tagliacozzi, 1597 1 - 2014 LA GUERRA UMANITARIA IL RUOLO DELLA CROCE ROSSA In a new scenario, ravaged by the brutality and the violence of World War I, the Red Cross Movement faced the challenge of becoming a truly international organization in terms of size and field of action. In order to accomplish its humanitarian tasks, the ICRC experimented new procedures on a larger scale and proclaimed the universality of its mission. National Geographic Magazine, Volume 31, 1917 di Noemi Sabatelli Agosto 1914: mentre le maggiori potenze europee e le rispettive colonie entravano in guerra, la Croce Rossa si apprestava a combattere la sua battaglia su un altro campo, quello umanitario. Circa mezzo secolo era passato dagli orrori della battaglia di Solferino, che avevano turbato Jean Henri Dunant e lo avevano spinto a fondare il Cicr (Comitato internazionale della Croce Rossa), organizzazione che, negli anni successivi alla formazione, avrebbe incoraggiato la creazione di Società nazionali ed ottenuto gradualmente la fiducia dei governi. Particolarmente rilevante fu il contributo del suddetto comitato alla stesura della Convenzione per il miglioramento delle condizioni dei feriti e dei malati delle forze armate in campagna, nota anche come Prima convenzione di Ginevra, adottata nel 1864 da dodici pa- PANORAMA PER I GIOVANI Una crocerossina sale su un treno carico di feriti diretto a Parigi dopo aver distribuito loro del caffè. esi e rivista e rettificata nel 1906, al fine di tutelare il personale militare, ferito o ammalato, e quello sanitario e religioso. La volontà di salvaguardare la vita e la dignità di chi agiva in scenari di guerra, ideale posto alla base della Convenzione, rappresentò, dal 1914 al 1918, il faro che guidò l’intervento del Comitato nel primo conflitto mondiale. Mentre si consumavano le fasi inziali della guerra, il movimento cominciò a mobilitarsi concretamente e attivamente, sotto la protezione della neutralità politica della Svizzera, ove aveva e ha tuttora sede il Cicr: risale, infatti, al 15 agosto 1914 un documento che invitava formalmente le Società nazionali a intervenire nel conflitto attraverso opere di assistenza nei confronti di chi era coinvolto negli scontri. L’attività della Croce rossa non si 17 1 - 2014 LA GRANDE GUERRA limitò unicamente al soccorso dei soldati feriti negli scontri, ma ebbe respiro più ampio e incluse, tra le sue attività, il sostegno a categorie come quelle dei civili e dei prigionieri di guerra, escluse dalle convenzioni internazionali.Tra le azioni di supporto nei confronti dei prigionieri di guerra, è opportuno ricordare la creazione della International prisoners-of-war agency, che dalla sua istituzione, il 27 agosto 1914, aveva accolto centinaia di volontari desiderosi di raccogliere e far circolare informazioni riguardo ai soldati catturati, al fine di ristabilire Il campo d’intervento preponderante è stato a prigionieri di guerra il contatto tra il mondo civile e quello dei militari impegnati al fronte. A partire dal mese di dicembre del 1914, numerosi delegati dell’Agenzia furono autorizzati dagli stati belligeranti a visitare i campi di prigionia, al fine di verificare le condizioni di detenzione e, dunque, gli aspetti concernenti il cibo, l’igiene e lo stato dei prigionieri che, durante il conflitto, avevano raggiunto il numero di sette milioni, senza contare le deportazioni di massa di civili in territorio nemico. Alle visite seguiva, poi, la pubblicazione di rapporti contenenti commenti ed osservazioni, i quali miravano a sensibilizzare gli stati nei confronti della situazione dei prigionieri e ad incoraggiare il miglioramento delle condizioni di reclusione. Le famiglie degli uomini al fronte, inoltre, in attesa di aggiornamenti dai campi di battaglia, confidavano nella Croce Rossa, che, ogni giorno, riceveva più di trecentomila lettere in cui parole piene di angoscia ed apprensione testimoniavano efficacemente lo stato d’animo dei familiari dei soldati. Dal 1914 fino al 1923, anno in cui terminò il rilascio dei prigionieri, un totale di 41 delegati aveva visitato 524 campi situati sul suolo europeo e non, come ad esempio quello indiano di Sumerpur, visitato nel 1917 nell’ambito della prima missione umanitaria in Asia e nel nome degli favore dei ideali di neutralità e di universalità dell’azione umanitaria perseguiti dal Cicr. Le visite ai campi dei prigionieri sono state alcune delle azioni fondamentali atte a garantire un respiro internazionale all’organizzazione, assieme ai negoziati con ognuno dei quarantaquattro stati belligeranti. Un’altra iniziativa dell’Agenzia è stata l’elaborazione di un archivio contenente schede che riportavano dati riguardanti i prigionieri di guerra, oggi conservato a Ginevra, presso il Museo internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa. Il punto di partenza per la formazione dell’archivio sono state le liste dei prigionieri inviate dai singoli stati: a partire da esse sono state elaborate milioni di schede, grazie alle quali cir- CROCE O MEZZALUNA? Alle origini del movimento, l’unico emblema era quello della croce rossa, richiamo alla neutralità della Svizzera. Tuttavia, nel 1876, la Società nazionale turca – la cui nascita era stata registrata nel 1868 – dichiarò al governo svizzero la volontà di servirsi del simbolo della mezzaluna rossa, riconosciuto giuridicamente nel 1929, dopo una serie di conferenze, e adottato successivamente da altri paesi. In Turchia era presente, dunque, la Società pioniera della Mezzaluna Rossa che ha operato attivamente su numerosi scenari di guerra, a partire dalla guerra russo-turca del 1877-78 e dal primo conflitto mondiale, durante il quale si distinse per l’attività di trasporto dei feriti su navi. 18 PANORAMA PER I GIOVANI L’attuale sede del Comitato Internazionale della Croce Rossa a Ginevra. ca due milioni di prigionieri sono stati rintracciati, nonostante l’incompletezza delle informazioni relative, in particolare, all’esercito italiano e a quello austro-ungarico. Questo archivio, contenente una gran mole di dati, sarà il modello al quale il Comitato si ispirerà in seguito per l’elaborazione di banche dati relative alla seconda guerra mondiale, alla guerra d’Algeria e, più recentemente, al genocidio in Rwanda. Un ulteriore sforzo dell’organizzazione fu quello condotto nei confronti dei civili, non tutelati né dalle Convenzioni di Ginevra né dalla Convenzione dell’Aia e ai quali si voleva attribuire uno status equivalente a quello di prigioniero di guerra. Per tale ragione, fu aperta una sezione dell’International prisoners-of-war agency con diverse finalità: tra le principali, l’acquisizione di documenti ufficiali nonché la richiesta di evacuazione dei civili feriti e malati da territori nemici o occupati. È importante menzionare, in aggiunta a quanto già detto, l’impegno contro l’uso delle armi chimiche introdotte nel 1915 sul fronte occidentale: il 1 - 2014 LA GRANDE GUERRA Martin Good / shutterstock.com Durante il conflitto, la Croce Rossa si trasformerà da piccola associazione a movimento mondiale testo di un appello datato 6 febbraio 1918 fu inviato ai paesi belligeranti e non, incontrando l’approvazione della Danimarca, della Norvegia, della Svezia e del Vaticano, ma non pienamente quella delle maggiori potenze, tra le quali Germania e Francia. Questo impiego di forze ha contribuito all’adozione del Protocol for the prohibition of the use in war of asphyxiating, poisonous or other gases and of bacteriological methods of warfare, il primo di una serie di studi – ancora al centro dell’attività della Croce Rossa – riguardanti le armi che colpivano indistintamente sia civili che militari. La presenza dell’organizzazione nel conflitto è, stata, dunque, consistente e ha lasciato numerose tracce, sovente impresse nell’immaginario collettivo: basti pensare all’esperienza di Hemingway che partecipò al conflitto come guidatore di ambulanze per la Croce Rossa americana e che renderà immortale la sua esperienza in Addio alle armi. Tuttavia, personaggi illustri come Hemingway, Walt Disney e altri rappresentano solo una parte del corpo dell’organizzazione. Un ruolo cruciale fu giocato dalle donne: sia come professioniste, sia come vo- lontarie sul campo di battaglia e non, Parallelamente, in periodo di guerra, le donne fornirono un contributo inso- nacquero la “Croce Rossa italiana giostituibile. Spesso addestrate dalle So- vanile” e la “Commissione per le opere cietà nazionali, le donne svolgevano antitubercolari della Croce Rossa itasvariati compiti, tra i quali l’assisten- liana”, al fine di sensibilizzare la poza negli ospedali militari, il trasporto polazione e attuare iniziative concrete di malati e feriti ove necessario (basti per combattere la tubercolosi, che, in citare il Red cross motor corps), il sup- un anno, causava un numero di morti porto alle donne i cui mariti erano in pari a tre volte le vittime della guerguerra. In Italia era presente il Cor- ra. Alla conclusione del conflitto, altre po delle infermiere volontarie della sfide attendevano il Cicr: il rimpatrio C.R.I, che raggiunse in quegli anni più dei prigionieri di guerra, soprattutto di ottomila unità, sotto la guida delNegli anni del conflitto, la Croce la Duchessa d’Aosta. Il personale Rossa si evolve da associazione a era attivo sopratmovimento mondiale tutto nei treniospedale che collegavano il fronte e le retrovie e nelle quelli degli ex Imperi Centrali, e il 204 strutture ospedaliere distribuite supporto alle vittime delle rivoluzioni in maniera capillare sul territorio, che scoppiarono in Russia e Ungheria. spesso improvvisate in conventi o edi- Nei cinquantadue mesi del conflitto, fici pubblici, tra cui il Quirinale, per si può ben dire che la Croce Rossa sopperire alle necessità che la guer- pose le fondamenta per l’assunzione ra implicava. Un duplice impegno, di un ruolo internazionale prominennelle zone di guerra e sul territorio te, nel segno di un impegno concreto nazionale ha caratterizzato la mobi- che, non a caso, è stato ricompensato litazione della Croce Rossa italiana, dal Premio Nobel per la pace del 1917, i cui iscritti, a partire dal 1915, veni- l’unico assegnato durante gli anni del vano equiparati al personale militare. conflitto. PANORAMA PER I GIOVANI 19 1 - 2014 LA GRANDE GUERRA SOLDATI AL FRONTE DOMESTICO: LA GUERRA DELLE DONNE World War I was a turning point in history, not only because of the number of countries involved, but also for the changes it brought to women’s lives. Substituting men in factories and other jobs, women discovered a new kind of freedom: released from their iconic roles, they made important steps towards emancipation. di Francesca Parlati suffragette inglesi. La chiamata alle armi portò ancora di più al centro della scena la figura maschile, l’archetipo del cittadino patriottico che imbraccia le armi. Attorno alla figura del soldato si costituirono una serie di figure di contorno femminili, ancora molto legate al loro ruolo classico. Nei manifesti di propaganda, infatti, troviamo immagini di donne che, con i bambini aggrappati alle gonne, invitano gli uomini a partire per il fronte. Famoso anche il movimento delle “piume bianche”, in cui, secondo un retaggio ottocentesco, le donne consegnavano piume bianche a chi riusciva a evitare il servizio di leva, tacciandolo Le donne cominciarono a lavorare così di codardia. L’iniziale acnelle fabbriche di munizioni, centramento di mettendo a rischio la loro salute attenzione sugli uomini, però, fu dificato da secoli: angeli del focolare, causato in parte dalle stesse donne: fu badavano alla casa e ai bambini, non celebre il caso della suffragetta Emily partecipavano alla vita politica. La Pankhurst che, allo scoppiare della situazione era ovviamente diversa a guerra, chiese alle donne di smettere seconda del ceto sociale, della prove- con l’attivismo politico per supportare nienza geografica e della mentalità il governo britannico contro “la minacpiù o meno aperta di padri e mariti. cia tedesca”. Era opinione comune che Nelle zone urbane, tra il proleta- sarebbe stata una guerra molto breve, riato per esempio, le donne non solo rapida nelle azioni e nelle battaglie. dovevano badare alla casa e ai figli, Nessuno si aspettava che sarebbe dema spesso lavoravano anche fuori generata in una lunga guerra di attridell’ambiente domestico, con turni to. massacranti e paghe irrisorie. La Col progredire del conflitto, la semguerra, con la massiccia mobilitazione pre più massiccia mobilitazione madi uomini e ragazzi, avrebbe portato a schile e la necessità di manodopera un cambiamento. nelle industrie belliche provocarono Cambiamento che, tuttavia, non ar- l’ingresso delle donne in ambiti lavorivò immediatamente: in un primo rativi fino allora di prerogativa mamomento la guerra rappresentò una schile: esse cominciarono a lavorare battuta d’arresto per i movimenti nelle fabbriche di munizioni o, più in femministi, in particolar modo per le generale, metallurgiche, arrivando a La prima guerra mondiale, definita anche “la più gigantesca imbecillità che il genere umano abbia compiuto dal tempo delle crociate” dallo storico Hermann Sudermann, ha rappresentato un momento spartiacque nella storia mondiale. Gli anni che vanno dal 1914 al 1918 segnano un momento di frattura sia nella grande storia che nella piccola storia, la storia quotidiana. Sono anni che vedono delle coprotagoniste inedite: le donne. All’inizio del ventesimo secolo, escludendo il movimento delle suffragette in Inghilterra, le donne continuavano a mantenere un ruolo co- 20 PANORAMA PER I GIOVANI mettere a rischio la loro salute. Esemplare è il caso delle operaie delle fabbriche di proiettili, che, a contatto con la pirite ed altre sostanze chimiche, ne venivano intossicate nel giro di pochi giorni. L’avvenuto avvelenamento era ulteriormente testimoniato dal colore della pelle che, dopo solo pochi turni di lavoro, cominciava a virare sul giallo: a causa di ciò, in Inghilterra, le operaie venivano chiamate canaries, canarini. Il pesante e rischioso lavoro in fabbrica non fu l’unico svolto dalle donne. A seconda del grado di istruzione, alcune arrivarono a coprire ruoli di impiegate di pubbliche amministrazioni o banche, altre diventarono portalettere, fino ad arrivare al compito considerato più scandaloso di tutti: conducenti dei mezzi pubblici. In ogni paese dove questo avvenne, ci furono proteste dei perbenisti: si credeva che con donne alla guida ci sarebbe stato un aumento degli incidenti, con delle vere e proprie tragedie stradali. Quando, però, le statistiche degli incidenti non risultarono alterate (in nessun paese europeo dove le donne avessero conquistato anche questa posizione), il motivo di disappunto diventarono le sigarette fumate dalle autiste ai capolinea. Eppure il ruolo indispensabile delle donne non poteva essere ignorato. Nel 1917, il corrispondente del “Corriere della Sera” Ugo Ojetti scriveva: “La fiumana di donne penetra, gorgogliando e frusciando, nei luoghi degli uomini: campi, fabbriche... Talune, è vero, assomigliano ai bambini, specie quando ancora non ne hanno di propri: si stancano, si distraggono, sospirano, litigano, s’impuntano, scioperano, minacciano, strillano. Ma le più, insomma, lavorano e sono preziose, e s’ha bisogno di loro... La donna è prima di tutto un essere pratico il cui lavoro sociale è utilissimo. La frase ben definisce l’atteggiamento ambivalente che la società teneva con le donne: un certo riconoscimento della necessità del loro lavoro, della resistenza sul fronte domestico, ma anche una vena di paternalismo, che voleva farle apparire non in grado di essere totalmente indipendenti senza una guida. Per questo motivo le donne, pur lavo- Susan Law Cain / shutterstock.com 1 - 2014 rando quanto gli uomini in tempo di pace, venivano pagate molto meno. Nei paesi non coinvolti territorialmente nel conflitto, gli anni della prima guerra mondiale furono anni di scioperi, proteste e lotte per migliorare i salari e i diritti delle donne: in Italia scesero in piazza le operaie di varie fabbriche di Como, Vigevano, Torino e di Milano, riuscendo ad ottenere prima della fine della guerra un adeguamento degli stipendi. In Inghilterra, invece, una delle più grandi conquiste del movimento femminista durante gli anni della guerra fu l’estensione del suffragio universale anche alle donne, nel 1918, a condizione che avessero compiuto i 30 anni di età. Nelle campagne, le donne si trovarono ad affrontare una situazione diversa: il dover lavorare al posto degli uomini o dei figli maschi rappresentava la differenza tra la vita e la morte. Nonostante le donne fossero spesso sottoposte all’autorità dei suoceri, troppo anziani per arruolarsi, il lavoro, seppur duro, rappresentava comunque un elemento di mobilità in quella che prima era una situazione stagnante: si trattava per il genere femminile di un germe di emancipazione da coltivare e da far crescere. Per la prima volta le contadine si trovavano a dover sbrigare commissioni negli uffici, pianificare e gestire il lavoro di tutta la famiglia. Non bisogna però pensare che tutte le donne si riversassero nelle fabbriche, nei campi o in lavori umili: quelle delle media e alta borghesia, nonché della nobiltà, si impegnarono su fronti più convenzionali e che più si confacevano all’immagine di donna materna e angelica. Numerosi furono anche i casi, specialmente in Inghilterra, di dimore private trasformate in ospedali per aiutare la convalescenza dei soldati feriti. Tra le iniziative più frequenti, vi erano quelle delle dame di carità che organizzavano raccolte di fondi o di materiale per il fronte. Proprio in questo campo, le dame di carità riuscirono a portare anche delle innovazioni, per esempio con l’invenzione di un tessuto “antiparassitario” contro i pidocchi, o la raccolta dei noccioli di pesche e albicocche per la fabbricazione di un sapone a basso costo LA GRANDE GUERRA da inviare nelle trincee. Negli ospedali, invece, prendeva corpo un’altra immagine molto cara agli uomini del periodo (e forse di tutti i periodi successivi): l’infermiera che cura il soldato ferito. La prima guerra mondiale non fu il primo conflitto bellico in cui le giovani donne lavoravano nei treni ospedale o nelle retrovie: ad aprire la strada era stata Florence Nigthingale durante la guerra di Crimea. L’avrebbero seguita molte altre donne: in Italia, per esempio, nel 1908 la Croce Rossa aveva permesso ghe gonne a tubo, niente più maniche con sbuffi, sparite le acconciature elaborate. La donna che lavora e lotta durante la grande guerra veste in maniera pratica, linee dritte e morbide, gonne più corte, capelli a caschetto. A volte ha anche l’ardire di indossare i pantaloni. Grandi cambiamenti, destinati però a regredire alla fine del conflitto. Una volta che gli uomini furono tornati, infatti, ci si aspettò che le donne facessero quello che veniva chiesto loro, ovvero fare un passo indietro e lascia- a Rita Camperio Meyer di aprire la prima scuola per infermiere; scuola dalla quale fu altissimo il numero di volontarie che partirono per operare negli ospedali da campo allo scoppiare del conflitto. Solo nel 1917 le infermiere della Croce Rossa furono circa diecimila e altrettante erano quelle appartenenti ad altre organizzazioni. La figura dell’infermiera è quella che ha avuto certamente più fama rispetto alle altre donne del periodo, in quanto uniche donne a contatto con gli uomini in un mondo a prevalenza maschile. Le stesse divise ci danno la misura di come la liberazione e il prendere il posto degli uomini sia passato anche dal vestiario: spariti i corsetti e le lun- Donne della Salvation Army cucinano sul fronte francese. PANORAMA PER I GIOVANI re il lavoro ai reduci. Quella strana e speciale libertà gustata nonostante tutte le preoccupazioni e i pericoli fu abbandonata, almeno in parte. Non fu infatti possibile annichilire del tutto i cambiamenti che erano avvenuti durante la guerra, non si poté tornare completamente a zero: le donne sapevano benissimo di poter lavorare bene quanto gli uomini. In alcuni paesi erano stati raggiunti traguardi importanti per l’emancipazione e la donna aveva cominciato a uscire dal guscio domestico per avventurarsi nel mondo. 21 GLI AUTORI RACCONTANO LA STORIA LA GUERRA NELLA LETTERATURA Is there a way to see World War I not only from a historical point of view? A literary perspective is a perfect example. Examination of the most significant European literary works about World War I can give us a glimpse of the variety of reactions, feelings and impressions which were aroused in those terrible years: an original and stimulating way to recall history. di Chiara Ciullo 1914, 28 luglio. Un “colpo di tuono” risuona nei cieli d’Europa e del mondo: è la guerra, la grande guerra. Invocato o temuto, osteggiato o esaltato, il conflitto avrebbe inciso con tale profondità nelle coscienze delle generazioni che l’hanno vissuto da stimolare una produzione letteraria rigogliosissima in tutti i principali paesi belligeranti. A definire lo scoppio della guerra come un “colpo di tuono” è lo scrittore tedesco Thomas Mann, nel suo romanzo La montagna incantata. Si tratta di un’opera che – pur non trattando esplicitamente del conflitto – si afferma quale lucidissimo documento dello stato morale e civile dell’Europa alla vigilia delle ostilità. Il protagonista si rinchiude ogni giorno di più nel suo isolamento fino a che non “rimbombò dunque quel tuono che noi tutti sappiamo”. Egli potrebbe sottrarsi alla guerra, ma si rifiuta di farlo in quanto “il suo destino spariva davanti al destino generale”; decide dunque di arruolarsi e va incontro ad una sorte ineluttabile: la morte sul campo di battaglia. Va sottolineato il fatto che Mann non intende elogiare o denigrare il conflitto, quanto piuttosto sottolinearne la fatalità e l’impatto violento sulle coscienze confuse e irrequiete dei più giovani. In Europa, oltre a quello tedesco, si presenta particolarmente fecondo il panorama letterario inglese. È inevitabi- 22 PANORAMA PER I GIOVANI le, a tal proposito, porre l’accento sulla rilevanza che hanno le figure di Wilfred Owen e Siegfried Sassoon, universalmente noti come war poets. Come tanti giovani, anche loro si arruolarono tra le fila dell’esercito inglese, folgorati dalla retorica bellicista che dipingeva la guerra come il teatro delle più onorevoli prove di coraggio e virilità. Nel loro immaginario, la morte sotto il fuoco nemico rappresentava una fine gloriosa, un sacrificio che la patria avrebbe riconosciuto e onorato. Facile immaginare lo shock che provocò in questi individui la realtà della trincea, dove i veri nemici, le bombe e i gas, non si combattevano eroicamente a viso aperto e dove la morte era morte di massa. Non a caso la produzione letteraria figlia di questo sconvolgimento ideologico è passata alla storia come “letteratura del disincanto”. Nella celebre poesia Anthem for doomed youth, Owen lamenta che ad accompagnare i soldati che muoiono in battaglia non è il dolce suono delle campane, ma soltanto quello rabbioso delle armi: “What passing-bells for these who die as cattle? / Only the monstrous anger of the guns.”. Comun denominatore della poetica dei war poets è naturalmente l’aspra critica nei confronti di quella propaganda che tanto 1 - 2014 LA GRANDE GUERRA “mostri” come allegoria dei tedeschi più intima natura umana. Se poi tale combattuti al fronte; piuttosto, sottoli- natura è quella dell’uomo forte, dall’innea che nel mondo reale demoni ed eroi dole autoritaria e nazionalista, la libersono presenti nelle fila di ambedue gli tà si concretizza nell’inno all’assalto e schieramenti in lotta. A questo propo- al sacrificio del singolo per la patria: aveva incensato la guerra: per i giovani sito, una brillante allegoria cui Tolkien “Militari sconosciuti correvano lungo disincantati la retorica pomposa e mi- dà vita è quella relativa all’industria la trincea lanciando urli di gioia. […] litarista non è nulla più che “un’antica pesante: i “buoni” che cadono prigionie- Tutti erano soggiogati dalla violenza bugia”. Imprescindibile il riferimento ri dei demoni sono costretti a lavora- di quell’uragano di fuoco e ardevano al capolavoro poetico di Owen Dulce re come schiavi nelle loro miniere per dal desiderio di buttarsi all’assalto preet decorum est nel quale il poeta, dopo produrre infernali macchine da guerra. visto. […] Credo che ognuno, in quel aver descritto l’agonia di un soldato Anche in questo soffocato dai gas, condanna perentoria- caso, s’impone La letteratura italiana prepara, mente il motto “dulce et decorum est / una lettura delPro patria mori” definendolo, appunto, la figura retodescrive, rimedita il conflitto sotto “The old lie”. rica che critica ottiche diverse e spesso soggettive Vi è un ulteriore aspetto tipico della aspramente tutti letteratura del disincanto inglese: la gli avidi magnati concezione della figura del soldato. Se industriali, tanto i tedeschi quanto gli momento, sentisse sparire dentro di sé per questi autori la guerra altro non è inglesi. qualunque sentimento personale, comche inutile carneficina di giovani vite, Il panorama letterario tedesco sulla presa la paura.” anche colui che la combatte perde l’au- grande guerra, come accennato sopra, Forse proprio a causa dell’innegabile rea di eroe impavido, fermo nei suoi è altrettanto ricco e vario. È da citare valore letterario di questi giganti inideali di gloria e onore, e si trasforma innanzitutto l’universalmente noto ca- glesi e tedeschi, pochi ricordano la voce in vittima di una disumanità che lo polavoro di Erich Maria Rermarque, francese di Henri Barbusse. Arruolasovrasta. Ci si riferisce, qui, a Suicide Niente di nuovo sul fronte occidentale. tosi volontario sebbene convinto paciin the trenches di Sassoon: nelle prime A buona ragione, l’autore può essere fista, raggiunse la notorietà letteraria due strofe il poeta racconta la storia di annoverato fra gli scrittori del disin- proprio grazie al romanzo “Il fuoco”, un ragazzo semplice, gioioso e sorriden- canto: da una parte compare infatti uno sguardo in presa diretta sull’espete – “I knew a simple soldier boy / Who il realismo crudo e aspro delle descri- rienza bellica. Il linguaggio colloquiale grinned at life in empty joy” – che non zioni: “Non si può comprendere come e i brevi dialoghi, talora addirittura riesce a sopportare l’atrocità della vita sopra corpi così orrendamente lacerati monosillabici, conferiscono al testo di trincea e finisce per suicidarsi nella siano ancora volti umani”; dall’altra, un’incisività capace di far sentire il letsolitudine e nell’oblio della memoria: l’insensatezza del conflitto. Durissima tore “uno della truppa”: “Brevi parole “He put a bullet through his brain / No è l’accusa al mondo degli adulti, inco- precipitose che ci scambiamo in questa one spoke of him again”. scienti del trauma che avrebbe pesato radura d’inferno: Radicalmente diversa è l’esperienza su una generazione intera: “Come ap- Sei tu! - Oh, la là! che musica! - Dov’è di un altro rappresentante della let- pare assurdo tutto quanto è stato in Cocon? - Non so. - Hai visto il capitano? teratura inglese: John Ronald Reuel ogni tempo scritto, fatto, pensato, se - No… - Tutto bene? - Sì…” Tolkien. Testimonianza del suo vissu- una cosa simile è ancora possibile! Che Quanto alla letteratura di guerra in faranno i nostri Italia, la produzione è di proporzioni padri, quando vastissime. Quella italiana è una lettePer i war poets la retorica pomposa un giorno sorge- ratura che prepara, descrive, rimedita remo e andremo il conflitto sotto ottiche diverse e spesso e militarista non è nulla più che davanti a loro a fortemente soggettive. In apertura, non “un’antica bugia” si può prescindere dal filone intervenchieder conto?”. Figura senz’altro tista che vide partecipe la stragrande to è il romanzo La caduta di Gondolin. interessante della letteratura tedesca è maggioranza dei giovani intellettuali. Rispetto alla letteratura del disincan- anche quella di Ernst Jünger, che offre “Noi vogliamo glorificare la guerra – to, caratterizzata dal realismo descrit- un’angolatura molto personale sull’e- sola igiene del mondo”, proclama il mativo, Tolkien sfrutta il mondo del fan- sperienza bellica. Jünger raccoglie le nifesto del futurismo con il suo più autasy, dando vita ad una realtà in cui la sue memorie nel libro Le tempeste d’ac- torevole rappresentante, Filippo Tompace è minacciata da demoni mostruo- ciaio, in cui descrive il conflitto come maso Marinetti; un altro futurista, si e malvagi che aspirano a ridurre il un’esperienza straordinaria. L’ecce- Corrado Govoni, cede al fascino dello mondo libero in loro potere. Profondo zionalità della guerra sta nel fatto che scontro imminente affermando “Bella conoscitore e ammiratore della cultura essa rappresenta un’interruzione di è la guerra! / È bello seminare coi fucili delle antiche popolazioni germaniche, validità delle regole ferree della morale /questa vecchia carcassa della terra”. lo scrittore non utilizza il sostantivo borghese e, quindi, un’esaltazione della Oltre alle infuocate parole dei futuri- Foto: Adriano Zanini Astaldi Veglia, dalla raccolta L’allegria, composta da Giuseppe Ungaretti durante la guerra. Sulla pagina una medaglia dell’epoca. PANORAMA PER I GIOVANI 23 1 - 2014 LA GRANDE GUERRA di vedetta morta si avvicina molto al descrittivismo di Owen e Sassoon, soffermandosi sulla cruda rappresentazione del corpo della vedetta, martoriato dalle ferite di guerra. In Rebora, però, si riscontra anche un’eccezionale incisività nel comunicare la rabbia per tutte le vite e le speranze che la guerra ha spazzato via e che non torneranno. Persino quel briciolo di passione amorosa – cui viene lasciato spazio – è investito dal vento rabbioso: “Ma 24 PANORAMA PER I GIOVANI afferra la donna / Una notte, dopo un gorgo di baci, / Se tornare potrai; / Sòffiale che nulla del mondo / Redimerà ciò ch’è perso / Di noi, i putrefatti di qui; / Stringile il cuore a strozzarla;”. Una curiosità riguardo la grande guerra è che moltissimi furono i letterati già affermati che vi presero parte e che rimeditarono la loro posizione di fronte all’esperienza ostile. Due nomi esemplari a riguardo: il celeberrimo Giuseppe Ungaretti e il meno noto La Domenica del Corriere del 23-30 maggio del 1915 - Illustrazione di Achille Beltrami sti, organo cruciale della propaganda bellicista fu la rivista “Lacerba”, fondata da Ardengo Soffici e Giovanni Papini, due intellettuali dall’indole irrequieta e aggressiva. Le pagine di “Lacerba” dipingono la guerra come un rabbioso sfogo contro la morale tradizionale del quietismo borghese: “Sarà questo un foglio stonato, urtante, spiacevole e personale. Sarà uno sfogo per nostro beneficio e per quelli che non sono del tutto rimbecilliti dagli odierni idealismi, riformismi, umanitarismi, cristianismi e moralismi”. Punto di riferimento per tutti i giovani bellicisti fu indubbiamente Gabriele d’Annunzio. Nelle orazioni di guerra, il lato interventista e nazionalista dell’autore si esprime in tutta la sua forza. Emblematica è l’orazione del 15 maggio 1915, detta “Sagra di Quarto”, nella quale egli afferma la necessità dell’intervento in nome di quella nazione così gloriosamente creata col sangue dei mille garibaldini: “Oggi sta su la patria un giorno di porpora; e questo è un ritorno per una nova dipartita, o gente d’Italia”. Ai toni entusiastici e inneggianti al conflitto subentrarono ben presto, anche fra i giovani italiani, delusione e disincanto; innumerevoli sarebbero gli autori da menzionare a tal proposito, uno per tutti Emilio Lussu. Testi meno conosciuti riescono ad esprimere in maniera ancor più incisiva il disprezzo del conflitto: basti pensare al triestino Giani Stuparich, irredentista e quindi interventista, che dopo la guerra avrebbe dato alla luce Colloqui con mio fratello. Il testo è dedicato alla memoria del fratello, partito volontario e poi scomparso durante gli scontri. Attraverso le ferite provocate dalla perdita, Stuparich descrive l’impossibile conciliazione – nella sua coscienza – degli ideali che l’avevano spinto a partecipare alla guerra con la desolazione del ritorno a casa senza l’amato fratello: “Ma l’incontro con la mamma, più sconsolato fu di quello che mi aspettassi. Me l’hai affidato, ma guardartelo non ho saputo, ti ritorno senza di lui: queste parole avevo preparate, ma non ebbi voce per dirle”. Ancora, altro autore dalla grande forza espressiva è il poeta Clemente Rebora. La sua poesia Voce 1 - 2014 Renato Serra. Leggere la straordinaria raccolta ungarettiana Allegria di naufragi esclusivamente sotto questa luce può forse risultare semplicistico; cionondimeno, permette di sottolineare il ruolo specifico della guerra nella poesia di Ungaretti. Essa è, per il poeta, la scintilla che porta a percepire l’esistenza di un assoluto, qualcosa di più grande della contingenza storica, che permette – anche di fronte al “compagno massacrato con la bocca digrignata” – di scrivere “lettere piene d’amore”. Non è un caso che in molte delle poesie di guerra ungarettiane, per quanto non vi sia mai l’abdicazione al realismo descrittivo, il poeta risulti isolato, quasi congelato nella sua contemplazione: “Nell’aria spasimante / involontaria rivolta / dell’uomo presente alla sua / fragilità”. Parimenti, nell’Esame di coscienza di un letterato di Renato Serra, la guerra è una scintilla, ma si presenta sotto forma di fattore esterno che spinge l’uomo all’analisi della sua interiorità. Nell’opera, Serra descrive il conflitto vivo nella sua coscienza (che si pone come paradigmatico per un’intera generazione) fra il fascino che le gesta belliche esercitano su di lui – quali strumenti per vincere la mediocrità del quotidiano – e la scoperta della loro sostanziale inutilità, poiché “la guerra non cambia niente. Non migliora, non cancella”. Il risultato cui giunge Serra dopo la sua indagine è l’esaltazione della letteratura, unica grande devozione, solo vero strumento per dare un senso al quotidiano. Di fronte a tali orrori i combattenti persero la loro umanità diventando, per citare il diario di guerra Trincee di Carlo Salsa, “un gregge sfiduciato e passivo”. Rispetto a tale trasformazione, memorabile è il romanzo Vent’Anni di Corrado Alvaro, che narra la progressiva spersonalizzazione di due amici ventenni, sottoposti alla rigida disciplina della trincea. Tale opera può essere letta come un romanzo di formazione al contrario, poiché tutte le esperienze che i giovani vivevano, dall’incontro-scontro con la realtà della città al doloroso distacco rappresentato dalla partenza per il fronte, anziché concretizzarsi in una maggior consapevolezza del proprio ruolo nel mondo, li conducevano progressivamente in un baratro di dubbio: “Chi poteva dire che età avesse Fabio? E se li sentiva lui vent’anni? […] Tutti avevano vent’anni […]. E tuttavia senza illusioni.” La tragica conclusione è l’inadeguatezza dei giovani alla vita all’indomani della guerra: “Che ci resterà da fare domani, se torniamo nel mondo? Temo che tutto ci parrà un gioco inutile”. Come qualsiasi scontro bellico, la grande guerra fu combattuta da eserciti nei quali esistevano complesse dinamiche fra comandanti e sottoposti, non sempre sottolineate a dovere dai libri di storia. A tale istanza rispondono – fornendo due prospettive opposte – i testi Con me e con gli alpini di Piero Jahier e La rivolta dei santi maledetti di Curzio Malaparte. Il primo è un diario di vita in cui Jahier, ufficiale in capo della truppa alpina, abbandonandosi ad una celebrazione del sacrificio dei suoi uomini umili e puri (“Questa è una guerra che continua la nostra vita di popolo povero e buono”), testimonia come la sua truppa – per quanto ignorante – lo abbia spinto alla crescita personale e morale: “Mi sforzo di mettermi al loro livello […]. Ma ecco scopro che salgo di livello io, che proprio io divento più vero”. A tale esperienza si contrappone la rivolta della fanteria, il “proletariato di trincea”, come la definisce Malaparte, contro gli ordini irrazionali degli ufficiali borghesi. Nella Rivolta dei santi maledetti la prima guerra mondiale è vista come guerra di massa e la rivolta dei fanti, dopo la disfatta di Caporetto – quando la truppa “si volse terribile contro la nazione, contro la legge, contro tutto ciò che era borghese” –, rappresenta qualcosa di più significativo rispetto a un isolato esempio d’insubordinazione. Malaparte, infatti, vi scorge l’embrione di una nuova coscienza collettiva, protagonista di una futura lotta di classe. Terribile o straordinaria, inutile o ispiratrice che sia stata definita, la grande guerra vide tanti uomini impegnarsi nella scrittura: alcuni l’han fatto per necessità interiore, altri per esigenza di far conoscere, ma tutti hanno fornito una testimonianza capace di riattualizzare il conflitto attraverso la sensibilità umana che è, per definizione, senza tempo. PANORAMA PER I GIOVANI LA GRANDE GUERRA Ernst Jünger Wilfred Owen Siegfried Sassoon 25 Oleg Golovnev / shutterstock.com LA RIVOLUZIONE RUSSA L’IMPATTO CULTURALE DI UN EVENTO EPOCALE One of the most important consequences of the Russian revolution was the dismantling of the Tsarist autocracy. Nevertheless, it is interesting to notice that this event did not affect the mere Russian system: it had a global cultural impact and it involved international politics as its consequences would reverberate through to our days. di Valentina Pudano Tutti sappiamo che la rivoluzione russa, come ogni rivoluzione che si rispetti, ha avviato un vero e proprio processo di sovvertimento del sistema nella Russia degli inizi del Novecento: la prima rivoluzione del 1905 e poi quella più significativa del 1917 hanno determinato un radicale mutamento dell’assetto politico e hanno portato al definitivo abbattimento del regime zarista. È inoltre interessante riflettere sul fatto che la rivoluzione russa è un evento considerato centrale non solo per la storia del paese in sé, ma anche per la storia mondiale: tant’è vero che le conseguenze di questo avvenimento sono state sia interne che esterne alla Russia. Uno degli aspetti più affascinanti da considerare è di conseguenza l’impatto culturale dell’evento: un impatto enorme, connesso al forte significato di cui la rivoluzione fu caricata. All’interno della Russia, l’influenza della rivoluzione sulla cultura fu eccezionale e segnò l’inizio di una stagione di grande vitalità e creatività per tutte le arti. Tra il 1910 e il 1917 si assistette a un interessante connubio tra esperienze d’avanguardia e rivoluzione: tutto ciò che era stato prodotto negli anni precedenti fu rifiutato. Il realismo figurativo in pittura e le forme metriche tradizionali facevano ormai parte di un passato lontano, tutto doveva essere ricostruito da capo. Molti furono gli artisti entusiasmati dai fervori della rivoluzione e desiderosi di respirare un’aria nuova e depurata dall’assolutismo. In poesia, il clima avanguardistico portò all’affermazione delle tendenze più diverse. Si sviluppò il futurismo russo, capeggiato da uno dei personaggi più rilevanti del panorama letterario dell’epoca, Vladimir Majakovskij; si af- Sopra: celebrazione dei 300 anni dall’ascesa dei Romanov, San Pietroburgo, 1913. A destra: l’imperatore Nicola II davanti al monastero Ipatiev presso Kostroma. fermarono il simbolismo e l’acmeismo: se il primo preferiva indagare la realtà e rappresentarla attraverso l’utilizzo di un linguaggio oscuro dominato da allegorie e simboli, il secondo si prefiggeva lo scopo di raggiungere il punto estremo della lucidità espressiva, adottando chiarezza e coerenza nella lingua. La ricerca di nuove vie e la sperimentazione artistica furono tipiche degli anni immediatamente successivi alla rivoluzione, ma in breve tempo queste innovazioni furono ritenute sempre più difficili da comprendere da parte delle masse. Il linguaggio e gli strumenti espressivi dell’avanguardia iniziavano a essere considerati pericolosi. Così, al loro posto trionfò di nuovo la tradizione realista, ritenuta più idonea a trasmettere la propaganda del Partito. L’idea predominante, infatti, era quella secondo cui nella nascente Russia sovietica si dovesse sviluppare un’arte dipendente dall’ideologia, poiché essa sarebbe potuta in tal modo diventare un utilissimo strumento di diffusione degli ideali rivoluzionari e di educazione al consenso. La conseguenza più immediata di questa unione fra gli artisti 1905 FEBBRAIO 1917 A San Pietroburgo si svolge una manifestazione per presentare una petizione allo zar e la polizia uccide un migliaio di persone. Nascono soviet (consigli) spontanei, con la partecipazione dei partiti socialisti. Concessa dallo zar Nicola II l’istituzione di una Duma (Parlamento), essa è gradualmente privata della sua autorità. La rivoluzione si risolve in un fallimento. La partecipazione alla prima guerra mondiale fa precipitare gli eventi e gli operai di Pietrogrado (l’attuale San Pietroburgo) insorgono: ovunque si ricostituiscono i soviet e la rivoluzione dilaga nelle campagne. Lo zar abdica e costituisce un governo provvisorio, liberale, con a capo A.F. Kerenskij. 26 PANORAMA PER I GIOVANI 1 - 2014 e la ragion di stato fu che l’arte diventò estremamente politicizzata, mentre era sempre più difficile per gli artisti mantenere la propria autonomia. Alcuni tra loro non riuscirono ad accettare la subordinazione dell’arte alla necessità politica: da una parte, si assiste in questo periodo all’ascesa della corrente del realismo socialista, ovverosia una rappresentazione del reale che portava avanti gli obiettivi della rivoluzione; dall’altra, si osservano fenomeni di netto rifiuto a tale subordinazione, come nel caso di Vassilij Kandinskij, con la sua arte astratta e geometrica, o di Marc Chagall, che respinse ogni realismo puntando a rappresentare sulla tela animali fiabeschi e figure leggere. L’impatto culturale della rivoluzione russa ha interessato non soltanto, come anticipato, il contesto interno. Le conseguenze più importanti sono forse state quelle che hanno coinvolto il resto del mondo. Innanzitutto, questo fu un momento storico essenziale per l’affermazione dei movimenti socialisti e comunisti nei paesi occidentali. Proprio dopo la rivoluzione, Lenin, interessato a favorire la formazione di partiti comunisti in tutto il mondo, fondò nel 1919 una nuova Internazionale (la terza), conosciuta come Comintern. Essa giocò un ruolo fondamentale nell’affermazione degli ideali della rivoluzione: basti considerare che, quando nel 1920 si organizzò un secondo congresso del Comintern, le nazioni partecipanti furono addirittura trentasette. Un ruolo egemonico era chiaramente ricoperto dal Partito Comunista dell’Unione Sovietica e la direzione dell’Internazionale aveva sede a Mosca. Fu proprio durante il congresso del 1920 che si sollevò un’importante questione, quella concernente il problema coloniale. Lenin espresse la tesi secondo cui la lotta anticoloniale rappresentava una vera e propria manifestazione della lotta di classe internazionale. LA GRANDE GUERRA Così come negli stati industrializzati il proletariato reclamava a gran voce l’emancipazione sociale, allo stesso modo i popoli coloniali dovevano rivendicare la propria autonomia politica. Lenin vedeva come necessaria l’unione delle due singole cause in un unico sforzo. Ciò ebbe un’influenza notevole nella lotta anticoloniale di molti paesi africani e asiatici. Per citare un caso particolare, la risonanza di questa teoria fu essenziale nella liberazione del Vietnam dalla potenza francese e successivamente dagli Stati Uniti. L’idea della lotta di massa per l’indipendenza nazionale diventò centrale in questo caso come in altri. granti erano uniti in un solo grande sindacato (quello degli Industrial workers of the world), ma che l’atteggiamento interno verso di esso mutò notevolmente in seguito alla Rivoluzione russa. Venne condotta una vera e propria repressione, che ebbe “un grande ruolo nell’impedire l’emergere, se si vuole, di una struttura di partito più socialista, più operaia, negli Stati Uniti”. Come si è visto, la rivoluzione russa ha rappresentato moltissimo non solo per la Russia, ma anche per il resto del mondo. Pensare che un paese in cui vigeva l’assolutismo più puro sia stato teatro di una rivoluzione totale come questa, avvalora la tesi secondo cui Oltre ad aver esercitato influenze ideologiche sull’Occidente e sui paesi colonizzati, la rivoluzione russa ha avuto un profondo influsso anche in ambito statunitense. Il libro Un’altra storia di Tariq Ali e Oliver Stone, pubblicato nel 2012, propone un’interessante tesi secondo la quale fu proprio lo scoppio della rivoluzione russa, in particolare nella sua fase del febbraio 1917, ad aver spinto gli Usa a prendere parte alla prima guerra mondiale, abbandonando l’isolazionismo sino ad allora in atto. Tariq Ali precisa che il movimento operaio negli Usa era allora abbastanza radicato, poiché tutti i lavoratori mi- la contraddizione e l’estremismo sono spesso i veri protagonisti delle vicende storiche russe. Purtroppo, anche in questo caso, il ciclo infinito di contraddizioni ed estremismi non era destinato a concludersi: già nel 1924, alla morte di Lenin, l’ombra della futura dittatura stalinista iniziò ad allungarsi sulla nazione. Paradossalmente, l’influsso della rivoluzione sulla cultura si sarebbe fatto sentire maggiormente oltre i confini della Russia, mentre all’interno del paese gli ideali avrebbero iniziato a scontrarsi fin troppo spesso con la realtà, fino ad essere inghiottiti nelle tenebre del terrore. OTTOBRE 1917 1918 1920 1924 1927 Kerenskij è rovesciato dai bolscevichi. Lenin accetta il trattato di pace di Brest Litovsk. Il potere rivoluzionario bolscevico acquista anche formalmente il carattere della dittatura del partito unico. Lo zar viene giustiziato insieme con la famiglia nella città di Ekaterin’burg. La guerra civile in corso nel paese tra l’Armata rossa e l’Armata bianca (sostenuta dalle potenze dell’Intesa) si conclude con una vittoria del fronte bolscevico. Morte di Lenin e lotta per la successione fra Trockij e Stalin. Vittoria di Stalin e progressiva costruzione di una dittatura personale. PANORAMA PER I GIOVANI 27 1 - 2014 LA GRANDE GUERRA LA STORIA PASSA PER LA CADUTA DEGLI IMPERI What caused the fall of the Austro-Hungarian and the Ottoman empires? Internal strife and tensions within the population wrought more damage than the military might of the Triple Entente. Their demise, however, allowed many modern states to join the geopolitical fray, thus giving birth to a global scenario that would gradually develop into the one we know. di Erik Hörmann Sebbene il casus belli della Prima guerra Mondiale sia da imputare all’azione sconsiderata di un nazionalista, erano numerosi i motivi di tensione dovuti alla questione balcanica, cioè alla cupidigia territoriale di tre imperi: quello austro-ungarico, quello ottomano e quello russo. Essi miravano a colmare il vuoto di potere formatosi con l’instaurarsi di stati nazionali nell’est Europa. Come sia stato possibile questo clamoroso sbaglio che costò milioni di vittime e il trono a tre casate reali tra le più antiche d’Europa (l’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe, ad esempio, era il discendente degli Asburgo, famiglia che risaliva ai tempi del Sacro Romano Impero) è stato a lungo discusso dagli storici. La risposta più plausibile è che i fattori di debolezza non fossero solo di tipo economico-militare, bensì molto più difficili da cogliere perché intriseci alla struttura stessa degli imperi, ormai incompatibile con l’avanzare dei tempi. L’impero russo, sebbene potesse contare sul più numeroso esercito di terra che la storia avesse fino ad allora conosciuto, venne dilaniato e costretto alla resa dalle rivendicazioni proletarie che fermentavano al suo interno contro l’assolutismo zarista; similmente l’Austria-Ungheria aveva in sé il seme della discordia, viste le numerosissime nazionalità, etnie, lingue e culture che convivevano – o meglio cozzavano – al suo interno; infine l’impero turco, già in decadenza, conobbe nella prima guerra mondiale il suo tragico epilogo. L’impero austro-ungarico era uno degli stati più potenti, sia politicamente che militarmente, in Europa: 28 una dimostrazione tristemente nota agli italiani è la Strafexpedition, la spedizione punitiva intrapresa contro gli ex compagni per aver rotto la triplice alleanza ed essersi schierati con gli stati dell’intesa. Pur infrangendosi contro le linee difensive italiane, l’offensiva creò un nuovo fronte lungo centinaia di chilometri, che logorò le armate con mesi di combattimenti, sino alla disfatta di Caporetto. Per cogliere appieno la potenza della macchina bellica austriaca in questo trionfo, occorre considerare che l’esercito imperiale, pur essendo contemporaneamente impegnato su tre fronti (quello italiano, quello serbo e quello russo), riuscì comunque a imporre il Hein Nouwens ; prostok / shutterstock.com 1 - 2014 suo predominio in tutte le direttrici di espansione. Ciononostante, i problemi interni pesavano notevolmente già nella normale gestione del regno e vennero acuiti dalle privazioni e dalle difficoltà cui fu sottoposta la popolazione in tempo di guerra. La società era fortemente spezzata in termini di diritti politici: gli austriaci erano i soli detentori di piena cittadinanza; gli ungheresi avevano ottenuto alcune vittorie politiche ed avevano un proprio rappresentante elettivo presso A lato: Mustafa Kemal Atatürk. Sotto: soldati austriaci provenienti dalle varie regioni dell’impero. la corte imperiale; tutti gli atri popoli non avevano alcuna voce nella gestione dell’impero e subivano le decisioni imperiali in modo completamente passivo. Il malcontento andò a colpire la potenza militare, ostacolata dalla necessità di sedare rivolte interne: non furono isolati i casi in cui soldati appartenenti a minoranze dei territori imperiali si rifiutarono di combattere contro i manifestanti della stessa cultura, religione o nazionalità. Spesso il problema fu aggirato mobilitando gli eserciti da un capo all’altro dell’impero, facendo combattere i soldati di minoranza italiana sul fronte orientale e viceversa, ma è chiaro che ciò comportò un notevole dispendio economico e organizzativo di risorse preziose in tempo di guerra. D’altro canto, gli ottomani non furono mai veramente in grado di far pendere l’ago della bilancia dalla parte degli imperi centrali: basti ricordare come, pochi anni prima, essi fossero stati facilmente sopraffatti dell’Italia di Giolitti durante la guerra italo-turca: considerando quanto l’Italia fosse allora indietro al confronto dei suoi alleati, è chiaro che la Sublime porta non aveva nessuna possibilità di offrire un supporto bellico significativo. Tuttavia, la sua entrata in guerra aveva una valenza sia simbolica, perché andava a completare il blocco degli imperi centrali che avrebbero dunque combattuto compatti, che strategica, giacché aprì il fronte turco-russo, alleggerendo la pressione dell’assedio cui gli stati dell’Intesa sottoponevano il blocco di quelli imperiali. La fine degli imperi fu segnata, più che dalla sconfitta sul campo, dall’umiliazione subita con i trattati di pace. La conferenza di Parigi del 1919 smembrò i territori dell’impero austro-ungarico in numerosi stati, già esistenti in passato o creati ex novo: all’Italia, in particolare, vennero ceduti il Trentino-Alto Adige, Trieste e l’Istria. All’Austria rimase circa un settimo dei territori originali e lo stato si organizzò sotto forma di repubblica federale: l’assemblea costituente (1919) votò una costituzione federale con un presidente, un consiglio nazionale e un consiglio federale e garantì larghe autonomie ai 9 Länder in cui LA GRANDE GUERRA fu ulteriormente diviso il territorio. Questa è sostanzialmente la stessa organizzazione che rimane ancora oggi e che non è stata cambiata se non nel periodo 1938-1955, durante il quale l’Austria fu prima annessa (in seguito all’Anschluss) al Terzo Reich tedesco e successivamente, nel dopoguerra, amministrata dagli alleati. La capitale fu mantenuta a Vienna, mentre la “seconda capitale” dell’impero, Budapest, divenne la capitale dell’Ungheria. L’impero turco subì una sorte, se possibile, ancora peggiore: la sconfitta produsse come conseguenza diretta la perdita di tutti i territori europei, con la sola eccezione della città di Costantinopoli e alcune aree limitrofe. Ancor più grave, tuttavia, fu il contraccolpo subito a livello di immagine internazionale e di legittimità del potere del sultano: già prima del trattato di Sèvres molti stati arabi, quali la Siria, la Palestina, la Mesopotamia e l’Arabia, avevano dichiarato la loro indipendenza. Due anni dopo che la conferenza di pace ebbe di fatto ratificato lo smembramento avvenuto, fu deposto l’ultimo sovrano, Maometto VI, e fu proclamata la Repubblica turca (1923). Non essendoci stati, a differenza dell’Austria, significativi cambiamenti politici da allora, questo evento si considera normalmente come la nascita della moderna Turchia. La struttura politica e sociale degli imperi risultò insomma inadeguata a un mondo in rapido mutamento – in cui le minoranze rivendicavano sempre più diritti e una maggiore autonomia – e la loro estinzione fu il presupposto necessario per spianare la strada alla nascita dei nuovi stati nazionali. PANORAMA PER I GIOVANI 29 LA GRANDE GUERRA LA “PRIMA” MONDIALE? World War I radically changed the perception of the nature of human beings. However, there has been much debate among scholars on what elements actually makes it differ from previous armed conflicts. Many argue that it should not be considered the “first” world war, while others highlight its peculiarities and distinguishing traits. di Ruggero Pileri Ci sono eventi nella Storia dell’uomo che segnano un’accelerazione improvvisa nel lento percorso del tempo. La prima guerra mondiale è senza alcun dubbio uno di questi. Il nome stesso con cui viene designata dà un’idea del carattere di straordinarietà e di unicità che da subito le venne assegnato. Sono infatti già i titoli dei giornali dell’epoca, nell’agosto del 1914, a riferirsi alle ostilità tra le potenze europee con il termine “grande guerra”, tuttora rimasto in uso. Con il tempo, in particolare dopo l’inizio del secondo grande conflitto intercontinentale del Novecento, si fanno strada le definizioni di prima e seconda guerra mondiale, che sottolineano il coinvolgimento di tutte le nazioni rilevanti su un piano politico ed economico nelle diverse parti del pianeta. In effetti, sin dall’inizio, i due schieramenti videro fra le proprie file gli stati di maggior peso militare del vecchio continente; inoltre, anche le colonie a cui gli stessi stati facevano capo vennero interessati direttamente dal confronto militare. Infine, com’è noto, la successiva par- 30 tecipazione di Stati Uniti, Giappone e Impero Ottomano ampliò la prospettiva geografica del conflitto, che può a pieno titolo definirsi “mondiale”. Ma fu veramente la prima guerra a meritarsi questo appellativo? La storiografia tradizionale non nutre dubbi al riguardo. Tuttavia, alcuni commentatori hanno posto in discussione questo giudizio. In primo luogo, è possibile obiettare che questa impostazione risente di una certa parzialità a favore di Europa e Stati Uniti e a scapito di Asia e Africa. Inoltre, focalizzando l’attenzione sui grandi conflitti dei secoli precedenti e operando dei confronti con questi ultimi, si può osservare come alcuni comprendano effettivamente un numero elevato di battaglie sanguinose in cui complessivamente persero la vita milioni di persone. È il caso, in verità di difficile comparazione, delle guerre di conquista di cui fu protagonista l’Impero Mongolo tra il tredicesimo e il quattordicesimo secolo. Dalle sconfinate distese d’origine i Mongoli estesero il loro controllo su un territorio incredibilmente ampio, che spaziava dalle coste cinesi lambite dall’Oceano Pacifico fino alla Polonia, alla Lituania, all’Ungheria passando per l’Asia centrale e il Medio Oriente. Per quanto si tratti di stime decisamente approssimative, data la scarsità di dati a disposizione e la vastità sia spaziale che temporale del fenomeno, si calcola che le vittime complessive possano essere state decine di milioni. Un altro conflitto impressionante dal punto di vista del numero di caduti, seppur poco noto nella storiografia occidentale, è la cosiddetta Rivolta dei Taiping (1850-1864), una rivolta a carattere religioso guidata da Hong Xiuquan contro la dinastia Qing. Dopo la conquista della città di Nanchino e la fondazione di uno stato indipendente, gli “Adoratori di Dio”, come essi si definivano, fallirono la presa di Pechino e vennero sconfitti dalle truppe cinesi al comando di un avventuriero americano e più tardi di un ufficiale britannico. Negli scontri morirono circa venti milioni di persone. Il conteggio relativo alle vittime della prima guerra mondiale, invece, varia dalle stime più prudenti pari a circa sedici milioni di persone a quelle che considerano anche i decessi dovuti alle ferite, ai patimenti delle guerra e al diffondersi della Spagnola, che toccano i quaranta milioni di individui. Nondimeno, non bastano i numeri a definire il carattere mondiale di una guerra. EnSotto: soldati in addestramento nell’Ohio. A destra: francobollo del 1969 ritraente Winston Churchill. Susan Law Cain | chrisdorney / shutterstock.com 1 - 2014 1 - 2014 LA GRANDE GUERRA trambi i fenomeni bellici appena con- da protagonista. Altre novità nel cam- Germania era sfruttare la rapidità ed siderati hanno una rilevanza storica po degli armamenti furono l’utilizzo efficienza del suo apparato militare, limitata ai territori interessati e nes- dei gas, l’aeroplano e il sottomarino. altrimenti nel lungo periodo avrebbe suna eco al di fuori dell’Asia, se non Ancora, il dispiegamento di imponenti ceduto alla schiacciante superiorità di per la fama di spietati invasori guada- forze militari su un così ampio fronte risorse del fronte alleato misurata in gnata dai Mongoli anche in Europa. determinò un importante impulso allo termini di capitale umano, di capacità Se andiamo poi ad analizzare guerre sviluppo delle te- lecomunicazioni: di finanziarsi con capitale di debito e che abbiano coinvolto più Stati in di- la radiotelegrafia vide il di Pil pro capite. A determinare le sorti impiego in della guerra furono l’aumento del Pil versi continenti possiamo prendere in suo primo e molte negli Stati Uniti e in Gran Bretagna e considerazione quelle a noi più note: m a s s a , la Guerra dei trent’anni (1618-1648), r i s o r s e la capacità dei governi di far confluire le risorse fiscali e la forza lavoro dispola Guerra di successione spagnola (1701-1714), la Guerra di successione nibili nella produzione bellica, attività austriaca (1740-1748), la Guerra dei nella quale gli USA si dimostrarono sette anni (1756-1763), cara a Winmaestri. Nel loro caso particolare, la guerra rappresentò un eccezionale ston Churchill, e le Guerre nastimolo alla crescita economica: poleoniche (1803-1815). Tali tra il 1914 e il 1918 il Pil crebconflitti hanno in comune la partecipazione di tutte be del 14 per cento, mentre o quasi tutte le potenze euronello stesso periodo quello della Germania crollò di venti pee e l’estensione delle ostilità punti percentuali. Se, come visto, anche ai territori coloniali oltreoi numeri sul campo di battaglia furoceano. Non c’è dubbio che la Guerra dei trent’anni sia stata tra i conflitno decisamente considerevoli seppur non superiori a quelli di altri conflitti ti più sanguinosi e distruttivi della anteriori, la partecipazione della colstoria, o che le Guerre napoleoniche abbiano causato numerosissime vit- umane furono lettività nel suo complesso fu senza al man- precedenti. Per la prima volta nella time, quasi cinque milioni. Ognuna destinate di esse, inoltre, rappresenta un pas- t e n i m e n t o dei contatti storia ogni ganglio sociale fu pervaso e le retrovie. dalla percezione di un conflitto totale saggio fondamentale e determinante fra il fronte nell’evoluzione degli equilibri politici La peculiarità del conflitto in esame, e dalla necessità di uno sforzo unitario ed economici in Europa. Per tutto ciò forse quella che da sola giustifica il per il raggiungimento di un obiettivo si candidano a essere definite “mon- carattere unico della prima guerra comune. Molti storici hanno rimarcadiali”; eppure non presentano ancora mondiale, è però l’influenza che eser- to il fatto che le potenze belligeranti quei tratti di novità assoluta tipici citò sulla popolazione civile e sull’eco- furono interessate da una mobilitadel grande conflitto del Novecento. nomia dei singoli stati. Alla fine del zione totale delle strutture produttive Ma quali furono, in sostanza, le ca- 1917, i governi in guerra sul fronte e industriali da un lato e delle opiratteristiche inedite della nioni pubbliche nazionali, Il carattere unico della Prima stimolate da operazioni di prima guerra mondiale? Dal punto di vista della Guerra Mondiale è la sua ricaduta propaganda su vasta scala, strategia militare, essa dall’altro. Si pensi ai movisulla popolazione civile rappresenta una svolta menti per l’emancipazione innanzitutto per la diffudelle donne, che compirono sione delle armi automatiche, letali degli Alleati rappresentavano il 70 una svolta decisiva grazie al crescente strumenti nel confronto bellico che de- per cento della popolazione globale e ruolo sociale acquisito durante il conterminarono il passaggio dalla guerra il 64 per cento del prodotto mondiale. flitto, o alla rinnovata vitalità delle di movimento alla guerra di posizione Mentre le aspettative da entrambe le ideologie nazionaliste; all’impatto, più o di logoramento. Le ostilità avevano parti erano di una guerra breve, vinta in generale, che ebbe sulle masse la come teatro le lunghe linee dei diversi con la forza militare e non con quella consapevolezza che il mondo intero fronti: non linee immaginarie, ma se- economica, la realtà fu ben diversa. In era in guerra, una guerra non comgnate nel terreno dallo snodarsi delle un pioneristico lavoro del 2005 (The battuta soltanto dagli eserciti che si anguste trincee divise (o unite) dalla economics of World War I: a compa- fronteggiavano in battaglie campali o terra di nessuno. Nel conflitto fece la rative quantitative analysis), Stephen tra fango e filo spinato, ma una guersua comparsa anche un’altra innova- Broadberry e Mark Harrison forni- ra fra popoli, che sconvolse la vita di zione della tecnologia bellica: il carro scono dati a supporto della loro larga- centinaia di milioni di persone nei cinarmato, utilizzato dall’esercito inglese mente condivisibile rilettura economi- que continenti. Una guerra mondiale, nel 1916, ma che dovette attendere la ca del conflitto. Gli autori affermano in definitiva, che era solo il primo atto seconda guerra mondiale per un ruolo che l’unica possibilità di vittoria per la di una più lunga tragedia. PANORAMA PER I GIOVANI 31 UOMO DI STATO E DI STORIA Lo statista britannico Winston Churchill fu uno scrittore prolifico e in molte delle sue opere si interessò di storia. Ricordiamo: My African Journey (1908), The World Crisis, 1911-1918 (La crisi mondiale 6 voll., 1923-31), il suo diario politico (Step by Step 19361939, 1939), War speeches (6 voll., 1941-46), A History of the Englishspeaking Peoples (Storia dei popoli di lingua inglese 4 voll., 1956-58) e La Seconda guerra mondiale (1948-54). Quest’ultima, oltre a figurare tra le più lunghe opere di storia mai pubblicate, gli valse addirittura il premio Nobel per la letteratura nel 1953. Nella visione di Churchill è centrale l’idea secondo cui il popolo britannico possiede una grandezza e un destino unico fra le nazioni. L’approccio di Churchill verso vicende che spesso ha vissuto in prima persona è dunque quello di un osservatore, ma anche di un protagonista. Questo non vuol dire però che lo statista riesca sempre a comunicare uno sguardo oggettivo sui fatti: inevitabilmente, Churchill tende a mettere la Gran Bretagna e se stesso al centro della narrazione. Il politico britannico Arthur Balfour, il quale descrisse l’opera The World Crisis come “una brillante autobiografia di Churchill, mascherata come storia universale”. Una dei contributi più interessanti formulati dallo statista inglese è contenuta nella sua Storia dei popoli di lingua inglese. In quest’opera Winston Churchill compie un’interessante riflessione a proposito della Guerra dei sette anni, definendola la prima vera “guerra mondiale”. Il politico anglosassone nota che la Guerra dei sette anni fu il primo conflitto ad aver avuto una dimensione globale poiché coinvolse le principali potenze europee dell’epoca (Prussia, Austria, Gran Bretagna, Francia e Impero russo); inoltre, fu combattuto per la prima volta in altre parti del mondo, in particolare nelle aree in cui le potenze europee avevano dei possedimenti coloniali. 32 FASCISMO E NAZISMO CONSEGUENZE DELLA GUERRA? Can Fascism and National Socialism be seen as consequences of World War I? In Italy the “mutilated victory” narrative fortified Mussolini’s political party. Meanwhile in Germany, Hitler’s Mein Kampf championed the Lebensraum theory not only for the recapture of lands lost after the war, but also for the seizure of Eastern Europe. di Livio Ghilardi e Edoardo Giardina Il legame tra la prima e la seconda guerra mondiale è stato spesso evidenziato, tanto da portare gli storici a definirle complessivamente come una sorta di seconda guerra dei trent’anni, dall’inizio del primo conflitto su scala globale (luglio 1914) alla fine del secondo (settembre 1945). Evidentemente, gli anni che separano i due eventi bellici non sono precisamente trenta; tuttavia, ciò non ha impedito di individuare tra di essi una certa continuità: la conclusione della grande guerra e la temporanea pace accordata dopo di essa avrebbero gettato le basi per il conflitto successivo. Nell’Italia postbellica, soprattutto all’interno degli ambienti nazionalisti, cominciò a circolare l’idea che la vittoria fosse stata, in un certo qual modo, mutilata. L’espressione, coniata dallo scrittore Gabriele D’Annunzio, si riferiva al fatto che, con la Conferenza di pace di Parigi del 1919, all’Italia non fossero stati assegnati tutti i territori promessi con il Patto di Londra del 1915 in cambio della sua entrata in guerra a fianco della Triplice Intesa. Effettivamente il Regno d’Italia vide parecchio ridimensionate le sue rivendicazioni, specialmente sulla Dalmazia e sui territori bagnati dal mare Adriatico, in favore del neonato Regno dei serbi, croati e sloveni – proclamato a Belgrado il 1° dicembre 1918, tre settimane dopo la fine delle ostilità, e talvolta abbreviato in Regno SHS – e in nome del principio dell’autodeterminazione dei popoli. Nel contempo, mentre Francia ed Inghilterra si spartivano le colonie tedesche e il Medio Oriente, si ridussero notevolmente anche le speranze italiane a proposito di un ampliamento delle colonie in Africa. Malgrado la proclamazione del suddetto principio da parte del presidente americano Woodrow Wilson nei suoi celebri Quattordici punti, la città di Fiume, prevalentemente abitata da popolazione di origine italiana, venne assegnata al Regno dei serbi, croati e sloveni. Nonostante l’espansione dei confini nazionali che il Trattato di SaintGermain-en-Laye aveva comunque portato ai danni dell’Austria, la mancata annessione delle restanti terre irredente alimentò i sentimenti di delusione nelle file dei nazionalisti. In tal senso rimase emblematica l’Impresa di Fiume del 12 settembre 1919, in occasione della quale D’Annunzio guidò circa 2.600 militari ribelli del regio esercito (i “disertori in avanti” di marinettiana memoria) da Ronchi alla città contesa tra i due regni, dichiarandone l’annessione al Regno d’Italia. Benché osteggiato persino dal suo governo che ne disconobbe immediatamente l’azione, lo scrittore abruzzese riuscì a mantenere il controllo della città e, l’anno successivo, proclamò uno stato indipendente: la Reggenza Italiana del Carnaro. Ciò nondimeno, la stipulazione del Trattato di Rapallo, da parte di Italia e Regno SHS il 12 novembre 1920, impegnava i paesi in questione a garantire l’indipendenza dello stato libero di Fiume. Accolto con convinzione da tutti gli esponenti politici italiani (tra i quali Benito Mussolini), l’accordo isolò ulteriormente il Vate il quale, a seguito del “Natale di sangue” in cui la città fu attaccata, dichiarò la definitiva resa. Fiume sarebbe poi stata annessa all’Italia nel 1924 da Mussolini, ma l’impresa ad opera di D’Annunzio e dei suoi legionari ebbe un valore simbolico rilevante: nel primo dopoguerra il Regno italiano subiva il peso della crisi economica, segnata da disoccu- PANORAMA PER I GIOVANI Eugene Sergeev / shutterstock.com WINSTON CHURCHILL 1 - 2014 pazione ed inflazione crescenti, mentre l’esercito veniva smobilitato. In un contesto simile, l’Impresa di Fiume contribuì a far emergere il processo di decadimento dello Stato liberale. Nel 1921 Antonio Gramsci, sulle pagine de “L’ordine nuovo”, rilevò come l’impresa fu “clamorosa prova delle condizioni di debolezza, di prostrazione, di incapacità funzionale dello Stato borghese italiano”. Benito Mussolini cavalcò con destrezza l’onda della “vittoria mutilata” – definita da Gaetano Salvemini un “mito politico” – e rafforzò l’influenza dei suoi Fasci di combattimento in seno agli ambienti nazionalisti, interventisti e reducistici, denigrando costantemente i deboli governi postbellici e mutuando dall’esperienza fiumana le tecniche di comunicazione di massa che di lì a poco ne avrebbero accentuato il carisma, anche presso quei ceti possidenti e Croci di ferro del periodo nazista. LA GRANDE GUERRA borghesi che ne agevolarono l’ascesa. tedesco uscì dalla guerra sconfitto, Tutti questi fattori, tra cui il vittimi- umiliato e accusato di aver dato orismo e il malcontento dilaganti, per- gine alla guerra. Con il Trattato di misero ai movimenti nazionalisti e al Versailles del 28 giugno 1919, esso fu fascismo di servirsi del leitmotiv della condannato al pagamento dei danni di vittoria mutilata con lo scopo di accat- guerra (fissati all’enorme cifra di 132 tivarsi maggiormente l’opinione pub- miliardi di marchi oro) e a cedere tutblica e di giustificare future conquiste te le sue colonie alle potenze vincitrici, territoriali. Senza contare che nella nonché porzioni del suo territorio nafattispecie una di queste, quella Nell’Italia postbellica cominciò dell’Etiopia, fu condannata dalla a circolare l’idea che la vittoria Società delle Nafosse stata mutilata zioni con sanzioni economiche che ebbero, se non altro, l’effetto di isolare zionale quali l’Alsazia e la Lorena, a Mussolini e di farlo avvicinare ulte- lungo contese con la Francia, la Saar – quest’ultima venne occupata per riormente a Hitler. In occasione della Conferenza di pace quindici anni e poi restituita – e gran di Parigi, l’Italia – rappresentata parte dei suoi territori più ad est, tra dall’allora Presidente del Consiglio i quali il corridoio di Danzica, passato dei Ministri Vittorio Emanuele Or- alla Polonia. La stipulazione del Tratlando – era comunque seduta al ta- tato di Saint-Germain-en-Laye, che volo dei vincitori, mentre, l’Impero risale al 10 settembre 1919, determi- 33 LA GRANDE GUERRA dei lavoratori, intriso di nazionalismo, anticomunismo e antisemitismo, forte centralità era data al concetto geopolitico del Lebensraum, lo spazio vitale. Nel Mein Kampf, che funge da manifesto delle sue nefaste ideologie, il futuro Cancelliere del Reich i totalitarismi, inizialmente tollerati avrebbe esposto l’obiettivo di dalle potenze mondiali, manifestarono espandere i terpoi tutta la loro tragica violenza ritori tedeschi ad est, riconquimania e, come precedentemente sta- stando quanto sottratto dai trattati bilito dal Trattato di Versailles e già e considerato indispensabile per la accennato, alcuni territori furono sopravvivenza del popolo: “Senza conassegnati all’Italia: la città di Trie- siderazione per le tradizioni e i preste, l’Istria, l’ex Contea di Gorizia e le giudizi, il nostro popolo deve trovare il odierne province autonome di Trento coraggio di unire il proprio popolo e la sua forza per avanzare lungo la strae Bolzano. Sul versante dei vincitori il revan- da che porterà il nostro popolo dall’atscismo francese, causato dalla sconfit- tuale ristretto spazio vitale verso il ta nella guerra franco-prussiana del possesso di nuove terre e orizzonti, e 1871, tardava a scemare e il desiderio di vendetta prevalse su qualsiasi tentativo di creare una pace duratura: nel corso della Conferenza di pace di Parigi fu il primo ministro britannico, David Lloyd George, che tentò di persuadere i delegati transalpini con quello che è passato alla storia come Il memorandum di Fontainebleu, in cui dichiarò la volontà di creare una pace perpetua: “Il mantenimento della pace dipenderà dal fatto che non sorgano costantemente motivi che spingano il patriottismo, il senso di giustizia o di lealtà a chiedere di raddrizzare i torti”. Al contrario, il primo ministro francese Georges Clemenceau era convinto che i trattati fossero l’occasione migliore per proteggersi dai tedeschi e dissuaderli dal covare desideri di vendetta. Come Lloyd George a ragione predisse, l’umiliazione subita dalla Germania, unitamente alla terribile crisi economica che colpì la neonata Repubblica di Weimar, non sortì altro effetto se non quello di indebolire la democrazia tedesca, facilitando successivamente l’ascesa del Führer e giustificando in un certo qual modo le sue rivendicazioni su tutti i territori persi che contavano ancora una maggioranza tedesca al loro interno. Nel programma politico di Adolf Hitler e del suo Partito nazionalsocialista tedesco nò la dissoluzione dell’Impero austroungarico, a cui subentrò la Repubblica dell’Austria in contemporanea con la nascita della Repubblica di Weimar. Peraltro, fu ribadita la proibizione dell’Anschluss dell’Austria alla Ger- 34 così lo porterà a liberarsi dal pericolo di scomparire dal mondo o di servire gli altri come una nazione schiava”. Le aspirazioni nazionali, una certa miopia politica e la forte crisi economica in corso sedimentarono quel sentimento di insoddisfazione e quel desiderio di rivalsa che favorirono la nascita e l’ascesa del nazionalsocialismo in Germania e del fascismo in Italia, entrambi considerati come l’opportunità migliore per recuperare i territori perduti e ottenerne di nuovi, nonché per recuperare centralità in ambito internazionale. Entrambe le ideologie, inizialmente tollerate dalle potenze mondiali dell’epoca, si manifestarono, quindi, in tutta la loro tragica violenza, prendendo interi popoli e culture come capri espiatori e riuscendo a circondarsi di un’aura di ambiguo titanismo agli occhi dei cittadini. Elzbieta Sekowska / shutterstock.com 1 - 2014 1 - 2014 IL DIFFICILE CAMMINO VERSO LA PACE LA SOCIETÀ DELLE NAZIONI The League of Nations was an international organization, headquartered in Geneva, Switzerland. It was created after World War I to provide a forum for resolving international disputes and lasted for 27 years. The United Nations replaced it after World War II and inherited a number of agencies and organisations founded by the League itself. di Matteo Picarelli Il bilancio della prima guerra mondiale fu pesantissimo tanto sul piano umano quanto su quello economico e politico. I libri di storia documentano come, con lo snodarsi dei principali eventi bellici, si assistette, per la prima volta, alla preminenza del ruolo geopolitico degli Stati Uniti su quello europeo. La perdita di fiducia nello stato liberale classico si tradusse nella delegittimazione delle classi politiche dirigenti e nell’affermazione, sempre più massiccia, dei partiti politici di massa e dei sindacati. Con il conflitto scomparvero quattro grandi imperi - tedesco, austro-ungarico, russo ed ottomano- e ne comparvero di nuovi o con nuovi confini: gli Stati Uniti e l’Europa si trovarono impreparati di fronte alla gestione di una società regolata da nuovi rapporti e logiche. Evidente, infatti, era l’urgenza di smantellare idee imperialistiche, in vista del riconoscimento del diritto di tutti i popoli all’autodeterminazione e alla sovranità. Proprio il concetto di stato-nazione, le cui caratteristiche di indipendenza e nazionalità avevano dato adito a tanti scontri per favorire l’assimilazione o l’esclusione forzata di quanti non ne facevano parte, fu il punto di partenza per risolvere il contrasto fra progresso – economico e tecnologico – e regresso nei valori politici ed intellettuali. La sfiducia nella possibilità di una reale collaborazione tra i popoli rendeva la pace solo una tregua passeggera, ragion per cui la Conferenza di pace di Parigi si pose, solo apparentemente, come una nuova risposta rispetto a ciò che nel passato non aveva ottenuto riscontri positivi. Com’è facile immaginare, la strada verso la democratizzazione non fu semplice: nonostante l’obiettivo della Conferenza del 1919 LA GRANDE GUERRA competenza societaria era rappresentato dal rispetto della domestic jurisdiction (competenza interna o dominio riservato) degli stati, secondo la quale non s’imponeva nessuna raccomandazione circa la soluzione delle controversie interne dei vari membri. Nell’elaborazione del trattato sulla natura della costituenda SdN si confrontarono due diverse teorie: quella internazionalista, degli USA e della Gran Bretagna, tesa ad istituire una mera unione di stati finalizzata al mantenimento della pace internazionale, ed una teoria costituzionalista, sostenuta da Francia ed Italia, volta a dar vita ad un’organizzazione con più competenze ed addirittura dotata di un esercito internazionale. Si impose la prima tesi, con la conseguenza che gli assetti rimasero sostanzial- fosse quello di stabilire un nuovo ordine giuridico internazionale, volto ad assicurare una pace durevole e l’istituzionalizzazione dei rapporti di forza tra gli Stati, i quattordici punti discussi dal presidente statunitense W. Wilson vennero disattesi. La Conferenza non fu una vera assemblea plenaria quanto, piuttosto, un congresso a cui parteciparono solo Il programma di Winston Churchill le nazioni vincitrici del conflitto: salvaguardava il principio di in essa, dunque, nazionalità furono riproposte logiche egemoniche contrarie al princimente quelli precedenti alla guerra. La SdN rappresentò un progresso pio d’uguaglianza di ogni stato. dal punto di vista tecnico perché per la Il programma di Wilson (nazionaprima volta una società internazionale lismo democratico) non metteva in cercava di darsi un ordine per risolvediscussione il sistema capitalistico e salvaguardava il principio di nare i contrasti senza l’uso della forza. In ambito politico non riuscì a mantenere zionalità, affrancandolo da forme di la pace: le cause di ciò vengono prinespansionismo e di offensiva, tipiche dei modelli politici tradizionali. Altercipalmente attribuite dagli storici alla mancata ratifica degli Stati Uniti e di nativo il modello di Lenin (internamolti grandi paesi, alla discrezionalità zionalismo socialista) che aveva come delle misure militari tributabili all’agobiettivo, dopo la rivoluzione russa del 1917, il superamento del capitalismo gressore, alla guerra mai seriamente e l’abolizione delle frontiere nazionali esclusa né resa illegale in maniera A tutela del nuovo assetto mondiale definitiva, al vincolo del voto unanime venne istituita la Società delle Nazioche rendeva improbabile ogni decisioni (o SdN), organizzazione internazione importante, e, infine, all’assenza di un esercito proprio e all’esclusione delnale il cui atto costitutivo (Covenant o Patto della SdN) fu inserito nei testi la Germania e della Russia Bolscevica. dei trattati di pace della prima guerMarginali i successi nella soluzione delle controversie: nel 1920 quella ra mondiale nel 1919. Fu il primo delle isole Aaland contese tra Svezia e ente internazionale con fini politici Finlandia e nel 1925 tra Grecia e Bulgenerali e con i suoi 26 articoli il Patto regolamentava lo status dei paesi garia. Il successo in entrambi i casi demembri, gli organi e le competenrivò dal non coinvolgimento di nessuna grande potenza. Il prestigio della SdN ze in merito al mantenimento della fu definitivamente azzerato dall’invapace, la riduzione degli armamenti, la gestione ed il controllo dei mandasione dell’Etiopia da parte dell’Italia. Nel 1946 l’assemblea dichiarò il proti internazionali nonché la materia socio-economica. L’unico limite alla prio autoscioglimento. PANORAMA PER I GIOVANI 35 LA GRANDE GUERRA LA FINE DI UN’EPOCA, L’INIZIO DI UN’ALTRA World War I represented the end of a period for Western culture. The optimistic view of Positivism during the XIX century – with its faith in humanity, society and progress – faded away after the atrocities of the conflict. Philosophers, writers and poets began to reflect the post-war situation, trying to find a new hope for all humankind, whose values had been lost. di Federica Cassarà L’impianto della società ottocentesca crollò definitivamente dopo il 28 luglio 1914, giorno in cui l’Austria dichiarò guerra alla Serbia e sancì l’avvio del primo tragico conflitto mondiale, che avrebbe segnato profondamente l’Occidente e la sua memoria. Il progresso e la fiducia nell’umanità che avevano guidato gli spiriti della Belle Époque appartenevano ormai a un altro mondo ed erano da considerarsi caratteristiche ascrivibili alla visione positivista, la quale, dopo l’esperienza della guerra, non poteva in alcun modo essere ripristinata. Ecco che, di fronte alle atrocità belliche, l’uomo doveva tentare in ogni modo di recuperare la sensatezza del proprio “essere qui” e riappropriarsene: le nuove, drammatiche e inaspettate dimensioni dell’esistenza, portate alla luce dall’espe- consenso. Parimenti, anche alcuni tra gli intellettuali dell’epoca diedero la loro approvazione alla causa bellica: molti di loro, inizialmente spinti da sentimentalismi patriottici e illusorie promesse di riscatto, si accorsero, pagando un alto prezzo, che la guerra aveva segnato la fine di un periodo. Uno dei principali fattori ideologici che alimentò lo spirito bellico fu il radicale mutamento del concetto di nazione: questa si trasformò da entità meramente culturale – ovverosia l’insieme di cittadini accomunati dalla stessa lingua, cultura e religione – in uno strumento di dominio e di prevaricazione. Bismarck può essere considerato l’incarnazione di questa nuova concezione aggressiva e antidemocratica, la quale diede legittimazione al selvaggio imperialismo incalzante nella seconda metà dell’Ottocento e Dopo la prima guerra mondiale in cui la grande guerra affondò scompare definitivamente lo spirito le sue radici. della Belle Époque La portata epocale della prima rienza di guerra, non potevano essere guerra mondiale fu analizzata dallo riconosciute a posteriori come sensate. storico inglese Eric Hobsbawn, per Nel saggio Per la pace perpetua, il quale lo scoppio del conflitto belliKant sostiene che, qualora spettas- co coincide con l’“inizio ritardato” del se al popolo decidere se entrare in XX secolo, il cosiddetto “secolo breve”. guerra o meno, allora non vi sarebbe Per lo storico britannico, infatti, tutpiù alcun conflitto. Questo pensiero, to ciò che intercorre tra i primi anni tipicamente illuminista e avverso a del Novecento e il 1914 appartiene ogni dogma contrario alla ragione, si al secolo precedente. Nondimeno, tediscosta dalla mentalità propria del nendo conto dell’ottica hobsbawniana, XX secolo. Infatti, anche se non tutta sarebbe ingiusto non ammettere che, la popolazione aderì alla causa mili- in verità, le radici del conflitto siano tarista, certo è che le volubili masse, da ravvisarsi nei processi storici, fiallettate dalle promesse delle destre losofici e politici dell’Ottocento, manazionaliste, mostrarono un diffuso turati sotto la pacifica scorza dell’ap- 36 PANORAMA PER I GIOVANI Illustazione tratta dall’Anna Karenina di Lev Tolstoj, raffigurante un ballo aristocratico, tipico della Belle Époque. parentemente innocua Belle Époque. Pur senza approfondirne i complessi e numerosi sviluppi storico-politici, vale la pena riflettere in che misura la prima guerra mondiale abbia segnato l’Occidente e la sua coscienza storica, decretando in modo netto la fine di un’epoca: imprescindibile è il riferimento allo sguardo e alla percezione di alcuni pensatori del Novecento di fronte al crollo del precedente assetto assiologico. Per cominciare, si prenda in esame Edmund Husserl, uno dei massimi filosofi mondiali, cinquantenne all’epoca del conflitto, che dà un chiaro esempio dell’irrazionalità dilagante in quegli anni. Il filosofo tedesco era solito esortare i suoi studenti a vedere nella guerra “il destino grande e severo, aldilà di ogni immaginazione, della nostra nazione tedesca”; tuttavia, a soli tre anni dalla fine del conflitto lacerante, scriveva: “la guerra ha svelato l’indicibile miseria, non solo morale e religiosa, ma anche filosofica dell’umanità”, la grande guerra è stata “la colpa più universale e profonda dell’umanità nell’intera storia”, “la dimostrazione dell’impotenza di tutte le idee, della non-verità e insensatezza della cultura”. È chiaramente percepibile il netto e insanabile cambio di mentalità avvenuto nel filosofo, rappresentante di quella metamorfosi intellettuale collettivamente condivisa dal popolo di pensatori e non. Secondo il fenomenologo tedesco dunque, la guerra non aveva fatto altro che devastare la cultura europea, mostrando la perdita del “proprio significato etico”: il futuro prospettato a questo punto della storia può essere solo, a detta di Husserl, quello del rinnovamento di una nuova cittadinanza europea, che richiede una necessaria assunzione di responsabilità. Simile, ma più diretta, è l’esperienza della guerra sperimentata dal noto filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein: questi vede nella partecipazione alla guerra un “dovere sacro”, una prova interiore, un’occasione di rigenerazione che finirà, invece, per trasformarsi Oleg Golovnev / shutterstock.com 1 - 2014 in una profonda delusione. Allo scoramento iniziale seguirà la ricerca di un’autenticità esistenziale e un ostinato silenzio filosofico, dovuti anche al rapporto con il cristianesimo e alla lettura meditata di Tolstoj e Dostoevskij. Diverso è il percorso esistenziale e intellettuale del logico e filosofo Bertrand Russell, il quale assunse immediatamente posizioni pacifiste e perse la propria cattedra a Cambridge, venendo in seguito addirittura imprigionato. In Portraits from Memory afferma che fu proprio la scelleratezza della prima guerra mondiale a contribuire alla nascita del comunismo russo, del fascismo italiano e del nazismo tedesco, dando vita ad un mondo instabile e civilmente riprovevole. Altra riflessione centrale è quella del filosofo e scrittore Ernst Bloch: nel suo saggio Il possibile e il marginale, Bloch, influenzato dalle letture bibliche e dall’espressionismo, afferma che l’evento traumatico della prima guerra mondiale rappresenta un confine oltre il quale l’esperienza è obbligata a confrontarsi con il “vuoto”, generato dal crollo dell’ordine precedentemente stabilito. Di fronte alla Sinnlosigkeit (l’insensatezza) dell’uomo moderno, il rischio è quello di perdersi nell’inautenticità artistica ed esistenziale e nella vuota denuncia dell’Occidente. La filosofia blochiana ha come concetto chiave quello dell’esperienza de guerra, venne pubblicata l’opera Il del possibile e fa della speranza il suo tramonto dell’Occidente dello storico, punto cardine. Quest’ultima non è filosofo e scrittore Oswald Spengler. qualcosa di puramente soggettivo, ma Con i suoi rimandi a Geschichte des un aspetto reale dello sviluppo dell’es- Untergangs der antiken Welt di Otto sere; in una prospettiva filosofica nella Seeck, lo scritto rappresenta un’ambiquale il messianismo biblico è collega- ziosa e profetica visione che rintraccia to al marxismo, il “vero vitale essere” nel periodo del primo conflitto bellico è il non-essere ancora come verità più mondiale l’inizio della decadenza della profonda, la docta spes oggettivamen- civiltà europea in un clima di intenso te basata sul dinamismo della realtà. pessimismo culturale. Nell’ottica del Proprio un anno dopo la fine della tra- filosofo tedesco, ogni civiltà attraversa, gedia bellica, il poeta e scrittore Paul infatti, un ciclo di nascita, sviluppo e Valery, a fronte della crisi di coLa guerra è un fallimento morale, scienza attraversata dall’Europa, religioso e filosofico: l’uomo deve scrisse: “Noi, la ritrovare la propria sensatezza civiltà, ora sappiamo di essere mortali”, incarnando in tutto e per tut- decadenza, condizione quest’ultima di to l’uomo post-bellico che, dopo aver cui l’Europa sarebbe stata vittima. Le tentato di trovare il suo rifugio nella nuove forme politiche nascenti come certezze dell’immortalità, vede crolla- il socialismo e la democrazia alterare ogni suo punto di riferimento e per- no le tradizionali gerarchie di potere cepisce la fine morale di una civiltà da e sono fortemente temute dall’autore, ricostruire. Secondo il poeta, essendo considerato da alcuni ispiratore del l’uomo quell’animale che si è opposto fascismo e del nazismo. Sul tramona tutti grazie ai suoi sogni, è proprio il to della cultura occidentale Spengler songe – non solo sogno come rêve, ma afferma: ”Noi non abbiamo la possibianche come pensiero – il punto di par- lità di realizzare questo o quello, ma tenza per la costruzione di una nuova la libertà di fare ciò che è necessario civiltà, basata su quelle antiche e pre- o nulla; e un compito che la necessità supposto di un’Europa pacifica e unita. della storia ha posto verrà realizzato In Germania, al termine della gran- con il singolo o contro di esso. PANORAMA PER I GIOVANI 37 1 - 2014 PRIMO PIANO CLASSICISMO E MODERNITÀ NEL FILM LA GRANDE BELLEZZA: RAGIONI DI UN SUCCESSO MERITATO What makes Paolo Sorrentino’s The Great Beauty worthy of the string of successes that culminated with its triumph at the Academy Awards? An analysis of image and sound editing can reveal its beautiful complexity. The quality of the film lies in its capability to show how classical and modern forms can blend in order to create a brand new language. di Francesco Pipoli vicini al pensiero, più usati da Dante nel suo Paradiso, più adatti a percepire la bellezza. La grande bellezza. Paolo Sorrentino, prima ancora di vincere l’Oscar, si stupisce dell’apprezzamento che questo suo linguaggio cinematografico, nuovo, originale e personale, ha suscitato nel pubblico americano. L’Italia della crisi, la decadenza di Roma, lo stile e il favellare del protagonista possono attirare l’attenzione del pubblico. Ma prima di tutto vengono lo sguardo e l’ascolto. Il merito de La grande bellezza sta nell’aver saputo rimodulare il linguaggio del cinema in una forma di ricca complessità. Il tema formale principale del film sta proprio nella diacronia che si instaura tra il montaggio del sonoro e quello delle immagini. È un fatto generale di tutto il film che il sonoro di una scena scavalchi la e introIl tema formale principale del film stessa duca la successta nella diacronia che si instaura siva; oppure, al che tra il montaggio del sonoro e quello contrario, la anticipi nel delle immagini finale della precedente. Il proprecedente. Intanto, indipendente- cedimento appare da subito, e in modo mente, la seconda serie di rintocchi di violento: nella sequenza di apertura campana scandisce un ritmo costan- un turista è colpito da infarto mentre te. Due ordini, leggermente diversi, contempla la città dal belvedere della che si impongono a due sfere sen- mostra dell’Acqua Paola; poi un urlo, soriali differenti creano confusione. ma appartiene già alla sequenza delVista e udito sono i due sensi più la festa di compleanno di Jep Gamsuscettibili della percezione di una bardella, il protagonista. E ancora, il scansione ritmica del tempo. Vista e fluire di una scena nell’altra diventa udito sono i due sensi che, per la prima raffinatamente complesso quando volta, il cinema mette in una relazione Forever di Venditti chiude l’episodio complessa che coinvolge il tempo, gra- del santone/chirurgo plastico come zie all’invenzione del montaggio. Vista canzone extradiegetica e apre quello e udito sono i due sensi più nobili, più di Sabrina Ferilli in piscina. Qui però Tre rintocchi di campana: un uomo, ben vestito, si rinfresca il viso con l’acqua di un nasone romano. Tre volti umani: uno duro, di pietra; uno tenero, di bambina; uno severo, di suora. Altri tre rintocchi, altre tre figure umane: un santo, di pietra; l’uomo di prima, che fuma; una donna, al telefono, che parla freneticamente in una lingua straniera. Tre rintocchi creano già un ritmo. Due serie di tre rintocchi creano una sequenza ritmata sufficientemente articolata. L’immagine, però, non segue il suono: il numero dei fotogrammi per inquadratura cresce, e con esso la complessità dei movimenti di macchina. Poi le inquadrature tornano brevissime e i movimenti della cinepresa elementari; e ancora la conta dei fotogrammi tra uno stacco e l’altro cresce, segue lo stesso pattern 38 PANORAMA PER I GIOVANI si trasforma, senza soluzione di continuità, in un suono diegetico, quando il dialogo tra lei e Servillo ha inizio. Il tema della diacronia si legge ancora meglio nelle singole scene. Proprio in quella, già accennata, del compleanno di Jep, in cui la musica è ossessivamente monotona, mentre la durata delle inquadrature, con disinvoltura, passa da qualche secondo a qualche decina di fotogrammi, poi si dimezza, poi torna a superare i cinque secondi, senza uno schema. Qui a contrastarsi sono non più due schemi di ordine differente, ma l’ordine e il disordine. E il disordine è il presupposto per l’esibizione del virtuosismo della macchina da presa, ma anche per la vera presentazione del protagonista: Sorrentino, raccogliendo la lezione di Goodfellas di Martin Scorsese, porta una massa di persone (lì un’udienza in tribunale, qui un ballo di gruppo) in slow motion e fa uscire dai ranghi il suo attore, che si rivolge al pubblico; egli è già fuori dalla diegesi, ma la sua voce è affidata ad un monologo, introducendo un terzo livello di narrazione, dove Scorsese si fermava a due (con Ray Liotta che parlava in macchina). Nell’orchestrazione delle scene, però, questo gioco formale trova un’evoluzione: la disarticolazione si scioglie progressivamente verso scene più composte e chiare, dove la musica amalgama, unisce e sostiene la componente visiva, sino al culmine del finale, il vero finale: il piano sequenza lungo il Tevere che fa da sfondo ai titoli di coda. L’assenza del montaggio crea un fluire continuo, aiutato dalla musica; l’unica componente di ritmo è fornita dalla regolare comparsa dei testi dei crediti che, rispettosamente, quando necessario, saltano in corrispondenza del passaggio sotto i ponti, i quali creano un ritmo secondario, molto diluito, impreciso e impercettibile. Anche questa ultima scansione temporale si dissolve nel testo scorrevole finale. Tutto finalmente è fluido, liscio, legato, però c’è una pesante contraddizione: il fiume è percorso controcorrente. Impercettibile disarmonia. Disordine e ordine; modernità e classicismo: “Adesso voglio farti vedere una cosa”, ma in verità quello che Sorrentino ci fa vedere sono sempre due 1 - 2014 PRIMO PIANO euclem / shutterstock.com La fontana dell’Acqua Paola, presso la cima del Gianicolo a Roma. Qui è ambientata una delle prime scene del film. cose. Il movimento di macchina complesso, quasi mai sviluppato su una curva piana; il montaggio acronico, come quello della bambina-pittrice informale che cammina verso la macchina da presa, per poi apparire in un flash già ricoperta del colore della tela; i movimenti dei punti di luce nella scena, che animano i volti delle statue nei Musei Capitolini (quasi a riprendere la maestria della fotografia di Mimmo Jodice): questi sono tutti espedienti che non appartengono a una tradizione puramente classicista; raccolgono, piuttosto, stimoli multipli di respiro internazionale. Allo stesso modo, dove anche un postmodernista come De Palma non rinuncerebbe a orchestrare in forma di balletto una scena, sfruttando il ritmo dato dai materiali sonori della location, Sorrentino, come già visto, fa un uso spregiudicato del ritmo delle campane. Eppure, non si può dire che la componente classica sia assente, appare anzi sublimata in talune composizioni pittoriche, come quando una suora e un bambino, seduti, dandosi le spalle, completano la composizione piramidale dell’affresco di due fauni, istituendo nel complesso una simmetria chiastica. In fondo la Roma che si impone nel film con le sue architetture, estromette i capolavori barocchi, per darci, invece, splendide immagini del Bramante e di Michelangelo o, ancora, di ciò che romanticamente rimane del periodo imperiale. Solo Bernini si affaccia, e lo fa timidamente, perché della sua Scala Regia, barocca non negli elementi, ma nell’effetto scenico, il trucco teatrale è subito disvelato. La rappresentazione è manichea? La bellezza sta da una sola parte? L’unica conclusione che si può trarre è che essa non è nell’ordine, né nel disordine; non è nella durata, traspare forse nell’attimo. La bellezza si rappresenta come ricerca, non come fatto compiuto; è il termine di una continua ascesa che non si può compiere nemmeno nell’assoluta, libera, disimpegnata disponibilità del tempo della propria vita (condizione favolo- sa di cui gode il protagonista). La bel- Colosseo. Finisce per non sembrare lezza è in quello storico, inesorabile casuale che di questo monumento la progresso della forma che, allo stesso parte sempre in vista sia un restautempo, ciclicamente oscilla tra ordine ro. Non si può non sospettare, infine, e disordine, tra classico e romantico. che dei due grandi restauri subiti Alla fine solo sullo sfondo del film si dal monumento ne sia stato scelto può dire qualcosa di certo e stabile: scientemente uno: quello di Raffaele Roma è l’unico posto al mondo in cui Stern, che con uno sperone in muraclassico e moderno si possono uni- tura fissa i conci degli archi così come re intimamente, profondamente, al si trovano, squassati dal terremoto di là dei capricci del postmoderniRoma è l’unico posto al mondo in cui smo. Negli ulticlassico e moderno si possono unire mi cento anni lo hanno fatto, tra intimamente, profondamente, al di gli altri, Lapalà dei capricci del postmodernismo dula, Guerrini e Romano nel Palazzo della Civiltà del Lavoro. Lo ha del 1806 e da secoli di incuria e defatto Sironi nell’aula magna de La predazioni di materiale. Fissare per Sapienza. Lo fa Sorrentino ne La ricordare, per preservare l’integrità, grande bellezza. È la storia (dell’ar- non senza creare, interpretare, andate) che continua nella tradizione. re avanti, ammonendo i contemporaIl centro del film può essere visto nei di ciò che si sta perdendo e che non, come molti hanno fatto, nella invece ci fornisce di tanta ricchezza. raffigurazione decadentista della ca- Se si decide che questo messaggio è pitale, ma in ben altro intento, più introiettabile nel profondo dell’animo nobile: salvare Roma nel ruolo che umano, allora ha inizio tutta un’alricopre nella storia dell’arte e, per tra storia, che ognuno può vivere, al metonimia, della bellezza. Non è un di fuori dell’arte e dentro se stesso. caso che dall’invidiabile apparta- “Dunque, che questo romanzo abbia mento di Jep Gambardella si veda il inizio”. PANORAMA PER I GIOVANI 39 1 - 2014 PRIMO PIANO IN MEMORIAM DI CLAUDIO ABBADO OMAGGIO AL DIRETTORE DALLA BACCHETTA MAGICA Claudio Abbado, thanks to his charm and to the clarity? of his gestures, conducted many of the world’s greatest orchestras. Besides being a very important artist in his own right, he will also be remembered for his involvement in social issues. For these reasons, in 2013 Abbado was appointed Senator for life by the Italian President Giorgio Napolitano. di Gregorio Maria Paone Symphony Orchestra e, in seguito, diventa direttore della Staatsoper di Vienna. Nel 1989 ha l’onore di raccogliere l’eredità di colui che è considerato da alcuni critici come il più grande direttore d’orchestra della storia, il salisburghese Herbert von Karajan: Abbado diventa così direttore dei Berliner Philarmoniker e porta a questa storica compagine orchestrale un’ondata di rinnovamento. Memorabili le esecuzioni delle nove sinfonie di Beethoven tenutesi nel 2001 a Roma, nell’auditorium di via della Conciliazione. L’emozione suscitata da quei concerti è dovuta anche al fatto che il Maestro Senatore a vita dopo una lunga e era appena brillante carriera, ma anche a seguito uscito vincitore dalla sua del notevole impegno nel sociale battaglia contro il cancro e, sebbene fosse visibilmente dediale e recentemente nominato Senatore a vita della Repubblica Italiabilitato, le incisioni di queste esena. Può essere opportuna un’analisi cuzioni risultano ancora, al giorno della figura del Maestro secondo tre d’oggi, tra le migliori in circolazione. linee direttrici: la sua immensa ed ilLascia il prestigiosissimo incalustre carriera, la divulgazione della rico a causa della salute cagionevomusica classica verso gli strati della le, ma continua a dedicarsi all’inpopolazione tradizionalmente meno cisione di musiche già registrate legati al genere colto e la valorizzaprecedentemente, manifestando una maturità sempre superiore di zione dei giovani talenti, aspetto fonvolta in volta. Le orchestre con le damentale che solo pochi grandi dequali collabora in quest’ultima fase cidono di prendere in considerazione. della sua carriera sono la Mahler Si usa fissare l’inizio della carrieChamber Orchestra e, saltuariara di Abbado nel 1960, quando dirige alcuni concerti al Teatro alla Scala di mente, i Berliner Philarmoniker. Milano, diventandone direttore muLa sua nomina a Senatore a vita giunge a coronamento non solo di sicale nel 1968 e mantenendo questo una brillante e lunga carriera, ma incarico fino al 1986. Rimane conanche di un notevole impegno nel sotemporaneamente direttore dei Wieciale. Fu rivoluzionario, per esempio, ner Philarmoniker e della London “Sembrava davvero che avesse il tocco di Mida. Ogni cosa che portava in vita brillava di una luce vigorosa. Che fosse in un teatro d’opera, sul podio di un concerto, in uno studio di registrazione o che fosse circondato dalla créme de la créme dei giovani musicisti per cui ha creato orchestre, lui è da ogni punto di vista un gigante”. Così il direttore dell’Orchestra stabile dell’Accademia nazionale di Santa Cecila, Sir Antonio Pappano, ricorda Claudio Abbado. Si è molto parlato, negli ultimi tempi, della scomparsa, avvenuta il 20 gennaio del 2014, del direttore d’orchestra di fama mon- 40 PANORAMA PER I GIOVANI il suo gesto di tenere un concerto a Pavia, il 20 novembre 1974, non a teatro, bensì presso la mensa della fabbrica Vittorio Necchi: un importante tentativo volto a diffondere la musica colta presso gli operai, certamente, ma anche una velata provocazione con cui il Maestro rendeva accessibile al proletariato un genere musicale considerato da tutti borghese. Questo atteggiamento testimonia come Abbado fosse un esponente della tendenza dell’artista, ormai consolidata in epoca post-moderna, a vivere legando indissolubilmente la propria vocazione artistica a quella sociale. Egli è stato avvicinato varie volte a posizioni politiche di sinistra e a tal riguardo è opportuno riportare un frammento di un’intervista concessa dallo stesso Abbado al “Corriere della Sera”: “Io ho diretto molta musica di Luigi Nono, che considero un grandissimo compositore, eppure la reazione era sempre la stessa: Nono è comunista. Pensi che una volta a Vienna mi sono trovato un musicista dei Wiener il quale, alla fine della Settima di Bruckner, mi disse: Meraviglioso, non mi sarei mai aspettato che un italiano di sinistra come lei potesse dirigere Bruckner in modo così profondo, poi scoprii che ai tempi era stato un fervente nazista (...)”. Nonostante questo, Abbado ha evitato di legare la sua attività in maniera acritica a qualsivoglia corrente politica, come dimostra la sua condanna sia verso la guerra in Vietnam che verso la repressione sovietica della Primavera di Praga. La cancellazione delle due repliche del Barbiere di Siviglia in segno di lutto per l’attentato di Piazza Fontana è emblematica dello spessore umano del Maestro. Claudio Abbado è stato anche un grande appassionato di botanica: aveva, infatti, una villa ad Alghero nella quale coltivava oltre diecimila piante. Egli paragonava il percorso dell’impianto di un albero a quello della crescita di un talento musicale: la metafora era che, come un albero può aumentare a dismisura il diametro del proprio tronco se attecchisce su un terreno fertile, allo stesso modo un talento, se seguito con metodo e passione, può estrinsecarsi nel migliore Georgios Kollidas / shutterstock.com 1 - 2014 dei modi. È questo il principio da cui parte quando decide di dedicarsi alla formazione di orchestre giovanili. La prima orchestra giovanile alla quale si dedica è la European Union Youth Orchestra, formazione nata nel 1976 e composta da circa 140 elementi, che rappresentano tutti gli stati facenti parte dell’Unione Europea. Vi è, poi, la Mahler Chamber Orchestra, orchestra da camera nata nel 1997, con la quale dà vita ad una produzione discografica abbastanza vasta. A seguire, l’Orquesta Sinfónica Simón Bolívar, con la quale Abbado inizia a far musica nel 2005. La creatura a lui più cara è stata, però, l’Orchestra Mozart, fondata a Bologna nel 2004 e plasmatasi poi attorno al suo pensiero musicale. Con essa collaborano musicisti di fama internazionale: l’idea è quella di far crescere i giovani talenti che formano lo zoccolo duro dell’orchestra, mettendoli a contatto con professionisti affermati. La compagine, in effetti, possiede un livello artistico elevato, nonostante esista da poco e i suoi membri siano molto giovani; grazie a questa grande qualità ha suonato in sale da concerto rinomate in tutto il mondo, tra le quali il Musikverein di Vienna, il Teatro alla Scala di Milano, il Teatro “La Fenice” di Venezia, il Teatro san Carlo di Napoli e tanti altri. L’orchestra si è esibita anche in festival internazionali di grande importanza, quali il Festival di Lucerna, il Festival di Ravenna, il Festival di Salisburgo. Dal momento che il sogno di Abbado era quello di continuare il suo progetto con questa orchestra, è davvero ammirevole l’iniziativa che prevede un concerto per il prossimo 30 giugno in occasione del Ravenna Festival, con la direzione di Riccardo Muti. “L’omaggio più importante che possiamo rendere alla memoria del grande direttore – ha detto Cristina Mazzavillani, direttrice del festival – è far rinascere e proseguire l’attività della sua Orchestra Mozart. Claudio Abbado, che è stato un amico di Ravenna Festival, dove ha diretto la stessa Mozart e prima ancora i Berliner Philharmoniker, ne sarebbe molto felice.” PRIMO PIANO L’INTEGRALE DELLE NOVE SINFONIE DI BEETHOVEN “Io credo che per questo genere di capolavoro, le Sinfonie di Beethoven, non ci sia mai nessun limite nel trovare sempre qualcosa di nuovo, per aumentare la conoscenza di queste partiture. Per questo motivo, in tutti questi anni, è logico per me il fatto di cercare sempre qualcosa di nuovo (...) Le esecuzioni, in genere, sono appesantite da secoli di esecuzioni di orchestre molto grandi o di esecutori che hanno fatto delle cose viste in maniera diversa da quella che pensava il compositore”. Sono queste le parole di Abbado circa l’insieme di cambiamenti, di usanze, di pratiche spesso scorrette che vanno sotto il nome di tradizione. Tra gli autori, uno di quelli che ha sofferto più di tutti di questa usanza è stato sicuramente Beethoven: per esasperare il cliché del Beethoven accigliato, titanico, diversi direttori d’orchestra, anche di indiscussa fama, hanno eseguito le Sinfonie in una maniera filologicamente poco adeguata, adoperando tempi più lenti di quelli che l’Autore aveva in mente, o utilizzando un’orchestra quasi doppia rispetto a quella prescritta dalla partitura. Un’altra pratica comune nel secolo scorso era quella di tagliare i ritornelli per “alleggerire” la struttura del pezzo, senza badare al fatto che questo non alleggeriva la forma, bensì la mutilava. Un grandissimo merito di Claudio Abbado è stato quello di rieseguire le Nove Sinfonie cercando di non farsi condizionare dagli ultimi due secoli di tradizioni, restituendo al risultato sonoro quella che poteva essere l’idea di Beethoven. Lo stesso Abbado incise più volte questi capolavori e la differenza più grande che troviamo in questo capitolo della sua discografia è quella tra l’incisione effettuata nel 1994 con i Wiener e l’incisione del 2000 con i Berliner. Nel 1994 Abbado si era lasciato in un certo senso influenzare dalla tradizione tedesca e, quindi, adoperò un organico in linea con la prassi del tempo, nonostante le sue innovazioni in ambito di dinamica e fraseggio; nel 2000 rese quasi irriconoscibili i Berliner, dal momento che l’organico venne sfoltito fino ad assomigliare quasi ad un’orchestra da camera. PANORAMA PER I GIOVANI 41 1 - 2014 PRIMO PIANO A PROPOSITO DI BRAIN DRAIN L’ESPERIENZA DI DUE STUDIOSI TORNATI IN ITALIA È uscito da qualche mese il volume Italia no, Italia forse, realizzato presso il Collegio “Lamaro Pozzani”, che raccoglie una serie di colloqui con studiosi “tornati” in Italia e in Europa dagli Stati Uniti. Proseguiamo questa riflessione con un’intervista “doppia” a due docenti dell’Università di Bologna. a cura di Manuel Trambaiolli L’appuntamento con i Professori Pinna e Ventura è per le 15.00 presso il Policlinico Sant’Orsola di Bologna. Un taxi mi accompagna fino all’entrata dell’ospedale, a pochi chilometri dalla stazione. Aspettando il momento di incontrare i docenti, mi siedo su una panchina, tra il via vai di ambulanze, infermieri e medici che entrano all’interno della struttura. Mi ricordo in quel momento le e-mail dei due intervistati che erano riusciti, nonostante i numerosi impegni in ambito accademico e clinico, a ritagliare del tempo per fare due chiacchiere sulle loro esperienze professionali all’estero. All’ora stabilita mi dirigo verso l’ingresso del Padiglione di Chirurgia Generale: davanti a me si apre un’accogliente sala d’attesa con bassorilievi di celebri chirurghi che hanno fatto la storia del Policlinico Sant’Orsola. Poco dopo avere annunciato il mio arrivo alla segretaria, salgo un’imponente scalinata con raffigurazioni dei primi interventi condotti nell’Ateneo bolognese e trovo subito i due docenti impegnati a discutere dei loro progetti. Mi accolgono con cordialità e mi mettono subito a mio agio davanti a un buon caffè, chiedendomi informazioni sul Collegio “Lamaro-Pozzani”. Ha così inizio la nostra intervista. Prof. Pinna: Sono nato a Roma nel 1956 e già da bambino sognavo di iscrivermi a Medicina. Ho frequentato l’Università “La Sapienza” di Roma, dove mi sono laureato con una tesi sulla papillostomia chirurgica. Nella stessa città ho conseguito la specializzazione in Chirurgia Generale nel luglio del 1985. Prof. Ventura: La mia città natale è Trani, ma mi sono trasferito successivamente con la famiglia a Bologna. Essendoci trovati molto bene in questa città, abbiamo deciso di restare. Sono sempre stato appassionato alle materie scientifiche e così ho deciso di iscrivermi alla facoltà di Medicina di questo Ateneo, frequentando al termine degli studi la Scuola di Specializzazione in Cardiologia. L’organizzazione del Corso di Laurea in Medicina, con il progredire delle conoscenze, ha subito profonde modifiche nel corso del tempo. Quali sono stati i cambiamenti più significativi che voi avete riscontrato da quando eravate studenti e queste modifiche hanno avuto risvolti positivi sulla formazione delle nuove generazioni? Professori Pinna e Ventura, un buon modo per iniziare la nostra chiacchierata è di parlare della vostra storia personale. Qual è la vostra città nativa e dove avete svolto gli studi universitari? Avete da sempre desiderato di fare il medico o, al contrario, quando è nata la passione per questa professione? Prof. Pinna: L’assegnazione dei moduli didattici ad esperti di ogni settore rappresenta senza dubbio un valido tentativo di offrire una visione specialistica e moderna di ogni disciplina. Questo però comporta una frammentazione dell’insegnamento della Medicina e una maggiore difficoltà di apprendimento da parte degli studenti. Con le materie a carattere annuale del vecchio piano di studi, quali la clinica e la patologia medi- 42 PANORAMA PER I GIOVANI ca o chirurgica, i docenti avevano la possibilità di sviluppare un discorso più organico e di avere un rapporto diretto con gli studenti. Con l’attuale strutturazione del Corso di Laurea, i professori hanno invece a disposizione un numero esiguo di ore di lezione e devono concentrare numerose nozioni in un tempo ridotto, con scarse possibilità di dialogo. Le modalità di insegnamento sono divenute più anonime, spesso affidate a strumenti informatici, e si è persa in parte la figura del docente che trasferiva agli studenti la sua esperienza clinica. Prof. Ventura: Con il termine di “corsi integrati” presenti nel Corso di Laurea in Medicina, vedo il rischio di una disseminazione frammentaria del sapere. Lo studente, sempre più spesso rispetto al passato, tende a perdere di vista il quadro d’insieme di fronte alla vastità delle informazioni fornite durante gli insegnamenti e può essere spinto a un atteggiamento di passiva memorizzazione. Uno dei motivi principali di questo pericolo risiede nel fatto che le scienze mediche sono poco saldate tra di loro e allo studente non si fanno adeguatamente apprezzare i collegamenti tra la ricerca di base e la pratica clinica. Dagli insegnamenti non viene valorizzata pertanto l’importanza della cosiddetta “medicina traslazionale”, ovvero l’anello di congiunzione tra le sperimentazioni in vitro e le discipline mediche e chirurgiche. Molto spesso si sente dire che, malgrado le difficoltà in cui versa il nostro sistema universitario, la preparazione degli studenti italiani è di buon livello e consente loro di eccellere in ambito lavorativo rispetto ai coetanei europei. Alla luce della vostra permanenza all’estero, che ha portato a confrontarvi con realtà accademiche differenti, come giudicate il livello di formazione teorica e clinica dei laureati in Medicina nel nostro Paese? Prof. Pinna: I laureati in Medicina possiedono senza dubbio ottime conoscenze teoriche, sebbene la loro 1 - 2014 Prof. Antonio Daniele Pinna formazione risulti talvolta carente sotto il profilo delle competenze pratiche. I tirocini professionalizzanti, per quanto utili per avere un rapporto diretto con il paziente, dovrebbero essere ulteriormente potenziati, in modo da far entrare gli studenti già nel contesto clinico, facendo acquisire precocemente competenze pratiche utili nella loro formazione. Prof. Ventura: Il rapporto diretto con gli studenti derivante dal mio impegno accademico mi ha portato a constatare che la preparazione di base è di buon livello. Sto inoltre vedendo nelle nuove generazioni il desiderio di comprendere i concetti tradizionali entro nuovi paradigmi del sapere, attraverso un approfondimento dei fondamenti molecolari delle patologie. Addentrarsi nei meccanismi responsabili della comparsa di una determinata alterazione fisiopatologica significa possedere chiavi di lettura nuove, con cui reinterpretare patologie un tempo ritenute limitate a un solo organo, ma che hanno dimostrato di avere basi comuni con altre malattie. La grande lezione della terapia cellulare e biologica è la possibilità di modificare il decorso di fenomeni che si ritenevano un tempo irreversibili. In questa ottica, il paziente non PRIMO PIANO Prof. Carlo Ventura è più un semplice malato di cuore o di fegato, ma una persona nella quale i meccanismi patologici in atto possono essere oggetti di modulazione. le di portare a buon fine un atto prezioso quale la donazione degli organi. Prof. Pinna: Il Policlinico Sant’Orsola rappresenta una struttura di primo piano nel panorama sanitario italiano e in ambito trapiantologico è un punto di riferimento a livello nazionale. Il Padiglione in cui lavoro è una macchina che non si ferma mai, perché un organo può essere disponibile in qualsiasi momento: bisogna quindi essere pronti a partire per il prelievo 24 ore su 24, indipendentemente dal momento della giornata o dai propri impegni. Chi decide di svolgere questa professione non compie solo una scelta professionale, ma una scelta di vita che lascia poco spazio al tempo libero o alla famiglia. Gli interventi chirurgici sono spesso lunghi, complessi e comportano la responsabilità mora- Prof. Ventura: L’Università di Bologna è un Ateneo con un’illustre storia ed è il luogo dove ho condotto i miei studi. La preparazione teorica è stata di ottimo livello e i docenti che ho avuto durante il percorso universitario hanno avuto la capacità di suscitare la mia curiosità. Pensa che nelle classifiche delle Università italiane elaborate dal Censis, l’Università di Bologna è risultata al primo posto tra gli Atenei con più di 40000 iscritti per il periodo 2010-2012. Dal punto di vista clinico, il Policlinico Sant’Orsola è una punta di eccellenza in tutta Italia sia per le attività di ricovero e per le procedure mediche, sia per le ricerche condotte dai diversi gruppi. Ha più di 400 anni di storia, essendo stato fondato nel 1592 al di fuori delle mura della città. Inizialmente era destinato all’accoglienza degli emarginati, mentre in seguito vi trovarono ricovero i malati incurabili. Nel 1929, a seguito della crescita continua delle dimensioni e delle specialità presenti, venne avviata la programmazione di un nuovo assetto edilizio. Al giorno d’oggi è costituito da 27 padiglioni e si snoda per circa 600 metri. PANORAMA PER I GIOVANI 43 Bologna è una città all’avanguardia sia per la sua Università, la più antica di tutto il mondo occidentale, sia per il suo Policlinico, uno dei più importanti d’Italia per il bacino d’utenza e l’eccellenza dei suoi reparti. Condividete questa opinione? 1 - 2014 PRIMO PIANO Come diceva lo scrittore Pino Cacucci, “Le radici sono importanti nella vita di un uomo, ma noi uomini abbiamo le gambe, non le radici e le gambe sono fatte per andare altrove”. Com’è maturata la decisione di lasciare le vostre radici e trasferirvi all’estero? Prof. Pinna: Condivido pienamente la citazione e anch’io sono stato mosso dal desiderio di lasciare la mia terra per fare nuove esperienze professionali all’estero, in quanto nel nostro Paese non vi era la possibilità di sviluppare adeguatamente la problematica trapiantologica. Mentre ricoprivo l’incarico di docente presso la cattedra di Fisiopatologia Chirurgica all’Università di Cagliari, ricevetti tre proposte di collaborazione all’estero: una da Parigi, una da Cambridge e una terza da Pittsburgh. Scelsi quest’ultima, partendo nell’ambito del dottorato di ricerca, ed entrai successivamente per un periodo di due anni presso la Fellowship di Trapianti d’Organo della stessa città. È un periodo durante il quale uno specializzando approfondisce le conoscenze in un settore circoscritto dell’ambito medico o chirurgico. Al termine di questa esperienza, nel 1993 sono stato assunto come Assistant Professor of Surgery presso il “Thomas E. Starzl” Transplantation Institute dell’Università di Pittsburgh, svolgendo nel contempo piena attività clinica nel campo dei trapianti di fegato e di intestino. Nel 1997 decisi di affrontare nuove esperienze professionali, spostandomi in Florida dopo essere stato nominato Associate Professor presso il Department of Surgery Liver - Gastrointestinal Transplant Division dell’Università di Miami. Prof. Ventura: Presi la decisione di recarmi negli Stati Uniti verso la fine del 1987 sia nel contesto del dottorato di ricerca, sia per il desiderio di approfondire una tematica che in Italia non sarebbe stato possibile sviluppare adeguatamente. Siccome a quel tempo erano stati individuati a livello cardiaco recettori per le endorfine, volevo dimostrare, contrariamente a quanto si riteneva allora, 44 che il cuore non fosse semplicemente una pompa meccanica, ma un vero e proprio organo endocrino. In base a studi condotti su modelli animali, si era ipotizzato che le endorfine, delle quali si conosceva già il ruolo a livello del sistema nervoso centrale e periferico, svolgessero un’importante funzione anche durante lo sviluppo embrionale del cuore. Dal 1988 al 1992 ho pertanto ricoperto il ruolo di ricercatore a Baltimora presso il Laboratory of Cardiovascular Sciences, branca cardiovascolare dei National Institutes of Health, che si occupa delle problematiche dell’invecchiamento, e ho continuato a svolgere ricerca in questo ambito fino al 1994. Quali aspetti della ricerca avete approfondito nel corso di questi anni dopo il vostro ritorno in Italia? Prof. Pinna: L’interesse del nostro gruppo si è concentrato sulle tematiche di ricerca correlate al trattamento chirurgico dei tumori epatici e al trapianto di fegato. Nel campo della chirurgia dell’epatocarcinoma insorto su una pregressa cirrosi, una prima linea di ricerca ha valutato la prognosi di pazienti sottoposti a resezioni di noduli neoplastici entro i cosiddetti criteri di trapiantabilità “di Milano” e l’efficacia della resezione epatica nella riduzione delle dimensioni del tumore o come trattamento “ponte” al trapianto d’organo. In secondo luogo, ci siamo occupati di individuare nei pazienti con malattia epatica cronica i parametri predittivi del rischio di insufficienza postoperatoria. Nel caso di metastasi epatiche per tumori del colon-retto, abbiamo invece confrontato i risultati del trattamento chirurgico tradizionale con quelli ottenuti con altre metodiche resettive. In campo trapiantologico, la produzione scientifica del nostro gruppo si è invece focalizzata sulla valutazione dell’efficacia e della sicurezza di nuovi immunosoppressori nel ridurre il rischio di rigetto. Certamente una problematica di notevole rilevanza riguarda la migliore PANORAMA PER I GIOVANI selezione dei pazienti da sottoporre a trapianto, data l’esiguità dei donatori rispetto ai candidati a ricevere un nuovo organo, con percentuali ancora elevate di pazienti che vanno incontro ad exitus mentre sono in attesa del trapianto. Nel tentativo di aumentare il pool di donatori e del numero di pazienti trapiantati, già da numerosi anni presso il nostro Policlinico viene eseguita la tecnica split liver, che prevede la divisione del fegato in due parti, destinati a un paziente pediatrico e a uno adulto. Nell’ambito dei trapianti di intestino e multiviscerali, l’attenzione del nostro gruppo si è concentrata sul miglioramento dei risultati conseguiti con la terapia chirurgica, con 1 - 2014 l’immunosoppressione e lo sviluppo di un programma clinico di riabilitazione intestinale, al fine di ottenere una più rapida ripresa della funzionalità dell’apparato gastroenterico. Prof. Ventura: La struttura dove lavoro è un laboratorio di biologia molecolare e bioingegneria delle cellule staminali, che fa parte dell’Istituto Nazionale di Biostrutture e Biosistemi con sede a Roma. Si tratta di un consorzio interuniversitario di 26 Atenei, presso cui lavorano 600 ricercatori. Questa sezione gestisce le unità di ricerca di Bologna, Firenze, Pisa e Siena. Le ricerche che il nostro gruppo ha condotto nel corso di questi anni hanno riguardato lo studio del ruo- lo dei peptidi oppioidi endogeni nella cardiogenesi e la realizzazione di tecniche innovative per l’isolamento di cellule staminali adulte. Ci siamo inoltre concentrati sulla sintesi di nuove molecole, quali gli esteri dell’acido butirrico e ialuronico, che indirizzassero la differenziazione delle staminali in senso cardiovascolare. Un’altra linea di studi ha interessato l’utilizzo dell’energia fisica dei campi magnetici, delle radiofrequenze e delle vibrazioni nanomeccaniche per riportare cellule adulte pluripotenti ad uno stadio differenziativo embrionale. Grande interesse ha inoltre destato anche lo studio del ruolo svolto dai segnali chimici della cellula staminale mesenchimale nei processi di rigenerazione: il nostro obiettivo era quello di dimostrare come la riparazione di un organo avvenga non tanto per differenziazione della cellula pluripotente, ma attraverso una proliferazione di cellule del tessuto danneggiato sotto lo stimolo delle “istruzioni” rilasciate dalla staminale. Un’idea innovativa che abbiamo sviluppato in collaborazione con il prof. Carlo Tremolada di Milano e con il prof. Camillo Ricordi di Miami è stato un metodo meccanico e non invasivo per isolare dal tessuto adiposo umano una rete vascolare contenente cellule staminali e connettivali. L’aspetto innovativo di questo approccio risiede nel fatto che l’elemento staminale si trova protetto all’interno di una trama di vasi, circondata da un’impalcatura di cellule adipose. Malgrado i numerosi sforzi profusi in questo campo, il tradizionale processo di attecchimento delle staminali non supera il 2-3%. Questo nuovo approccio ha permesso di incrementare la percentuale di successo, dal momento che questa sorta di “nicchia”, grazie al suo apporto vascolare, può sopravvivere più agevolmente alle condizioni avverse dell’organo danneggiato. Durante il suo processo di proliferazione, la cellula staminale rilascia nel tessuto circondante una serie di stimoli chimici ed è proprio questo dialogo continuo tra staminali e tessuto circostante che è alla base del processo di rigenerazione. Interno dell’Archiginnasio, antica sede dell’Università di Bologna. PRIMO PIANO Quali linee di ricerca svilupperete nel corso dei prossimi anni? Prof. Pinna: Il mio obiettivo per il futuro, oltre a proseguire le ricerche attualmente in corso, è di approfondire una tematica fortemente sostenuta dal mio maestro di trapianti a Pittsburgh, il professor Thomas Starzl: il trapianto combinato solido e cellulare. Uno dei progressi più importanti della medicina è stata la scoperta dei meccanismi di interrelazione tra i diversi sistemi dell’organismo, che comunicano tra di loro attraverso numerosi mediatori chimici. Nel campo in cui opero, la buona riuscita dell’intervento dipende infatti dal rapporto che si instaura tra gli organi e il sistema immunitario del ricevente con quelli del donatore. Qualora questo bilanciamento risulti troppo a favore del primo, ne consegue il rigetto dell’organo. Una delle prospettive più promettenti in questo ambito è la possibilità di associare il trapianto di organi solidi con quello di cellule staminali mesenchimali, da effettuare in contemporanea o consecutivamente al primo. Questo approccio innovativo permette vantaggi di duplice natura: da un lato le cellule staminali consentono di creare matrici biologiche tridimensionali come supporti per la crescita del tessuto trapiantato, dall’altro agiscono in senso soppressivo sul sistema immunitario del ricevente, riducendo così il rischio di rigetto. Prof. Ventura: Un campo su cui il mio gruppo di lavoro ha condotto e intende proseguire le ricerche è rappresentato dalle iPS o “induced Pluripotent Stem Cells”, prodotte per la prima volta nel 2006 dal Premio Nobel Shinya Yamanaka dell’Università di Kyoto. La metodica consiste nell’isolamento di fibroblasti della cute umana e nell’induzione dell’espressione di alcuni geni tipici delle staminali embrionali, che consentono di “riprogrammare” le cellule adulte e di riportarle ad uno stadio di pluripotenza. Proseguendo queste ricerche, il mio gruppo è però riuscito ad ottenere per la prima volta in letteratura la riprogrammazione di fibroblasti umani non con tecniche di ingegneria gene- PANORAMA PER I GIOVANI 45 1 - 2014 PRIMO PIANO tica o con vettori virali, ma attraverso l’impiego di un campo a bassissima intensità. Questa tecnologia, denominata REAC (Radio Electric Asymmetric Conveyer), indirizza all’interno della coltura cellulare una radiazione radioelettrica che consente di indirizzare i fibroblasti verso un determinato tipo cellulare: la differenza è che non vi è la necessità di riportare queste cellule ad uno stadio simile a quello embrionale ed indurle successivamente a differenziarsi nell’istotipo desiderato. È proprio dai fibroblasti che potrebbe partire, attraverso un processo di riprogrammazione appena scoperto, un meccanismo generale di rigenerazione di tessuti ed organi. Questi studi pongono le basi per una vera e propria rivoluzione nell’ambito della terapia cellulare, in particolare nel trattamento delle malattie genetiche. Le iPS possono infatti essere generate a partire da poche cellule prelevate dal paziente, sottoposte a terapia genica per l’inserimento di uno o più geni sani ed indotte a differenziarsi nell’istotipo compromesso dalla patologia. La vostra permanenza all’estero vi ha permesso di confrontare lo stato di avanzamento delle conoscenze nel vostro campo di ricerca. Il nostro Paese può essere ritenuto all’avanguardia? Prof. Pinna: Nel campo dei trapianti di fegato i risultati dell’Italia in termini clinici sono allo stesso livello o addirittura superiori a quelli degli altri Paesi europei. Lo afferma il Centro Nazionale Trapianti, che ha elaborato i dati raccolti da tutti i centri trapiantologici italiani per il periodo 2000-2009. Il tasso di sopravvivenza media a 1 anno dal trapianto nel nostro Paese è risultato dell’85,9%, mentre a 5 anni è stato del 73,7%. La media europea è stata invece a 1 anno dell’82,4% e a 5 anni del 73%. Un aspetto che è suscettibile di miglioramento riguarda la necessità di politiche di allocazione più trasparenti ed egualitarie. Il sistema di distribuzione degli organi deve essere ispirato a tre fondamentali principi di natura etica: l’equità, cioè la necessità di assegna- 46 re equamente le risorse terapeutiche disponibili, la giustizia, ovvero il conseguimento del miglior interesse per il paziente e l’utilità sociale, che mira ad ottenere un ottimale risultato per la popolazione sulla base delle risorse a disposizione. La necessità di bilanciare le esigenze della società con quelle del singolo individuo spesso non risulta di facile applicazione nella pratica clinica, poiché comporta difficoltà nella selezione dei pazienti da sottoporre al trapianto sulla base delle loro condizioni cliniche. L’aspetto più significativo che bisogna migliorare riguarda l’accesso agli organi da trapiantare: da un lato è necessario aumentare il numero di donatori attraverso una sensibilizzazione dell’opinione pubblica e dall’altro modificare la rete che coordina le attività di prelievo e trapianto. La consapevolezza dell’importanza della donazione d’organo non è ancora radicata in maniera significativa nelle persone, che spesso risultano ostili in caso di donazione. Il sistema organizzativo dei trapianti di fegato prevede la realizzazione in ogni Centro Trapianti di una lista d’attesa sulla base del gruppo sanguigno di appartenenza e della gravità della patologia epatica. L’organo da donare viene attribuito ad un determinato Centro che decide a quale paziente effettuare il trapianto. Due proposte di rinnovamento del sistema organizzativo consistono nell’istituzione di una lista unica nazionale, al fine di soddisfare le esigenze dei pazienti più bisognosi e nella comunicazione da parte dei Centri trapiantologici dei criteri e delle modalità di assegnazione degli organi. L’obiettivo finale è quindi di migliorare l’efficienza e l’efficacia di tutte le strutture sanitarie coinvolte nell’erogazione delle prestazioni assistenziali nel trapianto d’organo e tessuti. Prof. Ventura: L’Italia possiede moltissime punte di eccellenza non solo nella ricerca sulle cellule staminali in campo cardiologico, ma nell’intero ambito della medicina rigenerativa. Questa branca cerca di sviluppare cellule, tessuti o sostituti d’organi allo scopo di riparare o migliorare le funzioni biologiche che sono state per- PANORAMA PER I GIOVANI dute a causa di eventi patologici, di traumi o dell’invecchiamento. È un campo a rapida crescita, che coinvolge le scienze mediche, umane ed ingegneristiche e che sta concentrando la sua attenzione sullo studio della capacità di rigenerazione tessutale da parte delle cellule staminali mesenchimali. Il loro elevato potenziale proliferativo, il trofismo specifico per il tessuto danneggiato e la possibilità di indurne la differenziazione verso un particolare istotipo le rendono un candidato ideale per restituire in parte le funzionalità d’organo perdute. Nel nostro Paese sono numerosi i centri di eccellenza che conducono ricerche di grande interesse scientifico sulle staminali e già al giorno d’oggi sono disponibili protocolli terapeutici per il trattamento di neoplasie ematologiche, di gravi ustioni e della cecità corneale. La grande ricerca condotta in questo campo apre le porte allo sviluppo di terapie future per il trattamento di patologie che non possiedono ancora una cura risolutiva. In campo cardiologico si stanno conducendo importanti studi nelle cardiomiopatie e nell’infarto del miocardio, mentre nell’ambito ortopedico sono attualmente in corso trials clinici per la riparazione del tessuto osseo e cartilagineo irreversibilmente danneggiati da traumi o da interventi demolitivi. Avete riscontrato differenze in ambito normativo tra l’Italia e l’estero nel vostro campo di attività clinica? Prof. Pinna: Le regole in materia dei trapianti d’organo sono allineate in tutti gli Stati dell’Unione Europea. La Direttiva n. 45/2010 del Parlamento Europeo prevede infatti per tutti gli Stati membri criteri di idoneità per i donatori, la creazione di un sistema di qualità per le strutture che svolgono attività correlate al trapianto d’organo e regole per assicurare la tracciabilità dei tessuti da donatore a paziente. L’Italia è attenta alla problematica dei trapianti e alcune regioni, come l’Emilia Romagna, si dimostrano particolarmente sensibili. Vi è però la necessità che, anche dal punto di vista na- 1 - 2014 zionale, si comprendano meglio le dinamiche della donazione degli organi. Prof. Ventura: Nel campo della regolamentazione sull’uso delle cellule staminali, l’Italia è allineata a quanto avviene nel resto d’Europa. Le cellule staminali sono considerate prodotti terapeutici avanzati e devono pertanto essere processate e coltivate in apposite strutture, le cell factories, seguendo una normativa che va sotto l’acronimo “GMP”, cioè “Good Manufacturing Practice”. Soltanto quando le condizioni poste dalle GMP sono soddisfatte, l’Agenzia Italiana del Farmaco o la European Medicines Agency (EMA) possono validare la loro autorizzazione per l’uso clinico. I trapianti di tessuti autologhi, dove donatore e ricevente sono lo stesso individuo, si trovano al di fuori di questa normativa e possono avere una più rapida attuazione dal punto di vista clinico. In altri Paesi, quali Giappone, Canada, Australia, si fa generalmente riferimento all’FDA americana. Giuseppe Verdi musicò nel Nabucco “Va, pensiero, sull’ali dorate / va, ti posa sui clivi, sui colli / ove olezzano tepide e molli / l’aure dolci del suolo natal”. Ritenete che uno dei principali motivi che possa spingere a tornare in Italia dopo un’esperienza all’estero sia rappresentato dalla nostalgia per la nostra terra? Prof. Pinna: La motivazione che a mio avviso può spingere una persona a fare ritorno nel proprio Paese non è nostalgia o amore per la patria, ma il desiderio di intraprendere un nuovo percorso professionale. Come dico ai miei studenti di Chirurgia, è fondamentale scegliere una professione per cui si prova passione, senza farsi condizionare da concetti utilitaristici, come la possibilità di avere una carriera rapida o conseguire importanti guadagni. Quando ricoprivo l’incarico di Associate Professor all’Università di Miami, capii che desideravo percorrere una mia strada, e, dopo averne discusso con il Direttore del Centro Trapianti, decisi di accettare qualsiasi possibili- tà di lavorare in maniera autonoma, indipendentemente dal luogo. Nonostante si fossero presentate alcune occasioni, la prima che si concretizzò fu quella dell’Università di Modena, che aveva deciso di avviare un programma trapiantologico. Il mio ritorno in Italia quindi non fu dettato da un richiamo alle mie radici, ma dal desiderio di crescere professionalmente. Prof. Ventura: Le ragioni di un ritorno in Italia possono essere le più svariate, ma spesso non dipendono dal fatto che il nostro Paese abbia creato nuove possibilità di lavoro. Uno dei più importanti motivi che spingono un ricercatore a tornare nella propria terra è quella di ordine familiare. C’è una forma di nostalgia identificabile nel senso di grande fantasia, di libertà e di creatività, che spesso non è un elemento caratterizzante di altre culture e che ci accompagna anche nelle nostre esperienze all’estero, come dimostra la grande produttività dei ricercatori italiani sparsi in tutto il mondo. La mia prima fase di rientro in Italia è stata nel 2003 a Sassari, dove ho trovato collaboratori eccezionali, dotati di grandissima curiosità ed entusiasmo, con cui sono riuscito a pubblicare più lavori rispetto ai nostri competitors negli Stati Uniti. Da quest’esperienza è nato l’Istituto Nazionale di Biostrutture e Biosistemi, inizialmente limitato a poche Università, ma successivamente allargatosi fino a coinvolgere 26 Atenei e 600 ricercatori in tutto il Paese. Siamo quindi riusciti ad avere la piacevole illusione, malgrado le esiguità di mezzi e strutture, di poter condurre in Italia le stesse ricerche, se non addirittura migliori, di quello che è possibile svolgere negli Stati Uniti. Noto inoltre che numerose altre persone hanno deciso di fare ritorno nella propria terra, spinte unicamente dalla curiosità, dal desiderio di conoscenza e appagati dal piacere della scoperta. PRIMO PIANO Prof. Pinna: Non ritengo che sia necessario trattenere i giovani nel nostro Paese, dal momento che i sentimenti nazionalistici portano solamente a chiuderci in noi stessi. La domanda che invece ci dobbiamo porre è perché un numero esiguo di ragazzi provenienti da altri Paesi d’Europa decida di studiare in Italia. La risposta a questo quesito potrebbe portare alla modifica dei percorsi di studio, in modo da fornire una dimensione più aperta ed incrementare i rapporti tra i diversi Atenei europei. Si creerebbero in questo modo delle sinergie che favorirebbero il flusso di studenti e ricercatori verso l’Italia. Solo riuscendo ad attirare studenti stranieri in ambito universitario, riusciremo a trattenere i giovani laureati. Cosa potrebbe fare il sistema universitario italiano per evitare la fuga delle eccellenze all’estero, dove vengono garantiti disponibilità di strutture e mezzi, e convincerle a rimanere nel nostro Paese? Prof. Ventura: L’aspetto su cui dobbiamo riflettere non è il fatto che il nostro Paese non crei le condizioni ideali per consentire alle eccellenze di esprimere le loro potenzialità e condurre ricerche con le stesse possibilità che trovano all’estero. Il quesito a cui dobbiamo dare una risposta è invece perché l’Italia sia così scarsamente attrattiva verso i “cervelli” di altri Paesi. L’aspetto attorno a cui ruota il problema è la ridotta apertura internazionale dei nostri Atenei: all’interno delle Facoltà di Medicina il numero di docenti stranieri che vengono a svolgere la loro attività didattica è senza dubbio piuttosto esiguo. Questa rete di canali di scambio rappresenterebbe il terreno ideale per costruire relazioni e collaborazioni scientifiche durature tra le diverse Università. La rete di docenti verrebbe in questo modo stimolata a non rimanere confinata su vecchie posizioni, ma ad aprirsi a nuove idee e a un confronto continuo. Il nostro Paese possiede purtroppo scarsissima attrattiva sia verso laureati di altre nazionalità che nei confronti dei giovani italiani che desidererebbero rimanere nel nostro Paese. La prima problematica è di ordine strutturale e organizzativo: sono carenti le know how infrastractures, ovvero le strutture fisiche per consentire alle nuove generazioni di esprimere al meglio le loro potenzia- PANORAMA PER I GIOVANI 47 1 - 2014 PRIMO PIANO lità e condurre ricerche in maniera ottimale. È necessario inoltre abbandonare il concetto di “infrastruttura” come opera muraria e concepirla come un “terreno di facilitazione” per il processo di condivisione delle conoscenze. In Italia si ragiona ancora in termini di “dipartimenti”, entità che spesso non comunicano tra di loro, mentre in Europa si è già passati a un’organizzazione metadisciplinare, dove diversi ambiti del sapere si relazionano costantemente tra di loro ed elaborano un percorso comune. Un secondo aspetto è quello economico: un dottorando o un ricercatore in Italia percepisce uno stipendio notevolmente inferiore rispetto ai colleghi degli altri Paesi europei, con importanti ripercussioni sul proprio avvenire. La recente decisione di ristrutturare la carriera accademica ha ulteriormente aggravato la situazione in quanto i posti da ricercatore verrebbero sostituiti da posizioni a tempo determinato della durata di 3 anni o 3 anni + 2. Se nel corso di questo periodo un ricercatore non è riuscito a vincere il concorso di professore associato, si ritrova al di fuori della carriera universitaria, con difficoltà anche a inserirsi nel mondo del lavoro. Sebbene l’ispirazione a quanto avviene nel resto del mondo sia evidente, in questi Paesi il mondo universitario possiede le risorse per finanziare le ricerche dei più meritevoli e regolarmente bandisce delle interviews per selezionare i candidati più adatti. Il terzo punto su cui è necessario intervenire sono i collegamenti tra l’Università e l’ambito industriale: è indispensabile potenziare il trasferimento delle conoscenze dai laboratori di ricerca alle piccole-medie imprese, sviluppando strategie per la protezione della proprietà intellettuale, e modificare i curricula in modo da indirizzare la formazione degli studenti verso una cultura imprenditoriale. Al tempo stesso una strategia per allargare il bacino di raccolta dei fondi per la ricerca è di aprirsi ai finanziamenti da parte del settore privato: negli Stati Uniti le entrate degli Atenei derivanti da contratti con il settore degli affari ammontano al 23% mentre in Italia corrispondono solo al 9,8%. Per migliorare la ricerca in Italia sono necessari maggiori fondi statali, ma come giudicare quali Atenei sono più meritevoli degli altri? I criteri di ranking factor, che valutano le Università sulla base del livello delle pubblicazioni prodotte, sono applicabili al nostro sistema universitario? 48 PANORAMA PER I GIOVANI Prof. Pinna: Le Università italiane, come quelle di altri Paesi europei o del mondo, sono costituite da diverse facoltà: Giurisprudenza, Medicina, Scienze Matematiche o Lettere. Le risorse destinate al mondo accademico devono essere date in misura congrua tra le varie facoltà: un mero indice bibliometrico, quale il ranking factor, può essere di grande utilità per valutare la produttività delle discipline a carattere scientifico, ma risulta di scarsa efficacia qualora si desideri valutare la ricerca in ambito umanistico. È evidente che le risorse devono essere destinate anche ai settori scientifici all’avanguardia e di innovazione e in questo campo il ranking factor rappresenta un parametro molto utile, perché un lavoro che viene citato molte volte da altri ricercatori riveste senza dubbio una grande importanza. Uno dei metodi per identificare le Università più virtuose e quindi più meritevoli di finanziamenti pubblici sarebbe di guardare il tasso di occupazione a 5 anni dal conseguimento del titolo di studio. L’Università ha infatti l’obiettivo sia di darci una cultura, sia di fornirci gli strumenti per inserirci nel mondo del lavoro: gli Atenei che danno più velocemente la possibilità di trovare un impiego dovrebbero essere premiati attraverso sovvenzioni statali. Nel nostro Paese si osserva invece la tendenza a distribuire i finanziamenti in modo non differenziato, con conseguente penalizzazione del merito. Prof. Ventura: L’applicazione di criteri oggettivi per la valutazione delle performance a livello accademico è sicuramente un elemento fondamentale per stabilire come fornire i finanziamenti. Il ranking factor rappresenta senza dubbio un importante fattore per valutare il livello della ricerca perché, a differenza dell’im- pact factor che tiene conto di tutte le citazioni, sia positive che negative, valuta anche il tipo di rivista dove l’articolo viene pubblicato, identificando quindi quali ricerche costituiscono veramente una seminal discovery. Il tentativo di riforma del metodo di valutazione della ricerca nel nostro Paese va in parte in questa direzione, ma è ancora troppo autoreferenziale, in quanto è lasciato al docente o al ricercatore stesso il compito di compilare la lista degli articoli che ha pubblicato. Il nostro sistema universitario è altamente burocratizzato e la necessità di dover seguire le numerose regole comporta una riduzione del tempo da dedicare agli esperimenti e da utilizzare per riflettere il percorso da intraprendere nei propri studi. In molti altri Paesi la ricognizione della qualità dei lavori prodotti viene effettuata dalla componente amministrativa del sistema, rendendo più snello il processo di programmazione della ricerca. La necessità di dare più forza alla meritocrazia comporta quindi la necessità di incrementare i fondi destinati alla ricerca, ancora purtroppo limitati a percentuali molto ridotte del nostro Prodotto Interno Lordo. L’altro aspetto riguarda la realizzazione di strutture interdipartimentali che consentano il trasferimento del sapere da un settore all’altro e il confronto tra specialisti di campi diversi. Il Dipartimento di Scienze Cardiovascolari di Baltimora presentava all’ingresso i laboratori di fisica, poi quelli di biologia molecolare e successivamente quelli di cardiologia, fino ai trials clinici sull’uomo. Qualunque giovane laureato che decida di trascorrere un periodo all’estero si accorge di essere messo in poco tempo nelle condizioni ottimali per conseguire importanti risultati. Se vogliamo davvero migliorare il nostro sistema universitario, dobbiamo concepire su nuove basi il modo di fare ricerca, facendo sì che si svolga in strutture, sia fisiche che organizzative, che rendano più agevole il processo di scoperta e di condivisione del sapere. Ringrazio i miei interlocutori per il pomeriggio trascorso insieme e con una stretta di mano li saluto. È QUANDO TI SENTI PICCOLO CHE SAI DI ESSERE DIVENTATO GRANDE. A volte gli uomini riescono a creare qualcosa più grande di loro. Qualcosa che prima non c’era. È questo che noi intendiamo per innovazione ed è in questo che noi crediamo. Una visione che ci ha fatto investire nel cambiamento tecnologico sempre e solo con l’obiettivo di migliorare il valore di ogni nostra singola produzione. È questo pensiero che ci ha fatto acquistare per primi in Italia impianti come la rotativa Heidelberg M600 B24. O che oggi, per primi in Europa, ci ha fatto introdurre 2 rotative da 32 pagine Roto-Offset Komori, 64 pagine-versione duplex, così da poter soddisfare ancora più puntualmente ogni necessità di stampa di bassa, media e alta tiratura. Se crediamo nell’importanza dell’innovazione, infatti, è perché pensiamo che non ci siano piccole cose di poca importanza. L’etichetta di una lattina di pomodori pelati, quella di un cibo per gatti o quella di un’acqua minerale, un catalogo o un quotidiano, un magazine o un volantone con le offerte della settimana del supermercato, tutto va pensato in grande. È come conseguenza di questa visione che i nostri prodotti sono arrivati in 10 paesi nel mondo, che il livello di fidelizzazione dei nostri clienti è al 90% o che il nostro fatturato si è triplicato. Perché la grandezza è qualcosa che si crea guardando verso l’alto. Mai dall’alto in basso.
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