Fisco e Società Sintesi Osservatorio fiscale a cura di Massimo Gabelli (*) IMPOSTE DI REGISTRO, IPOTECARIE E CATASTALI MISURE URGENTI IN MATERIA DI ISTRUZIONE, UNIVERSITÀ E RICERCA @ D.L. 12 settembre 2013, n. 104, conv. in L., con modif., 8 novembre 2013 n. 128 - G.U. 11 novembre 2013, n. 264 La legge di conversione non ha modificato le disposizioni di cui all’art. 26 del Decreto, che ha previsto alcune importanti novità, con effetto dal 1° gennaio 2014, alla misura delle imposte di registro, ipotecarie e catastali, con riguardo sia a disposizioni di carattere generale che disposizioni applicabili, in via esclusiva, alle compravendite immobiliari. Per un commento approfondito sulle novità introdotte dall’art. 26 del Decreto si rinvia a quanto chiarito nell’Osservatorio pubblicato in questa Rivista, 12/2013, 1396. IMPOSTE INDIRETTE IVA NON MENZIONATA NEI CONTRATTI DI VENDITA. LA CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA SPIEGA COME CALCOLARE L’IMPOSTA NEL RISPETTO DEL PRINCIPIO DI NEUTRALITÀ @ Corte Giustizia Ue, sez. III, 7 novembre 2013, cause riunite C-249/12 e C-250/12 - Pres. M. llesic - Rel. C.G. Fernlund La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con la sentenza del 7 novembre 2013 nelle cause riunite C-249/12 e C250/12, ha chiarito che laddove le parti di una compravendita di beni immobili abbiano stabilito il prezzo di un bene senza fare menzione dell’IVA ed il fornitore di tale bene sia il soggetto passivo tenuto al versamento dell’imposta sull’operazione imponibile, il prezzo pattuito, nel caso in cui il fornitore non abbia la possibilità di recuperare dall’acquirente l’IVA riscossa dall’Amministrazione finanziaria, deve essere considerato già comprensivo dell’IVA. Il caso trattato origina da un procedimento incidentale promosso dai giudici rumeni in relazione ad una controversia sorta in conseguenza di un accertamento notificato dall’Amministrazione finanziaria ad un contribuente che, in veste di privato, aveva ceduto alcuni beni immobili mediante un contratto di compravendita. L’Amministrazione finanziaria, ritenendo che la compravendita degli immobili fosse stata perfezionata nell’ambito di un’attività di impresa, ha attribuito d’ufficio il numero di partita IVA alla parte cedente, chiedendole, conseguentemente, il pagamento dell’IVA, aggiungendo il suo importo al prezzo pattuito tra le parti contraenti, maggiorata di penalità di mora. Parte ricorrente ha eccepito la correttezza di tale modalità di calcolo, evidenziando che essa avrebbe come conseguenza quella di far gravare il peso dell’imposta sul venditore e non già sulla parte acquirente, ciò in violazione dei principi generali dell’IVA che pone l’imposta a carico del consumatore finale. La parte ricorrente ha sostenuto che laddove il contratto di compravendita dell’immobile non contiene alcuna menzione dell’IVA, questa deve essere applicata con riferimento al prezzo pattuito tra le parti contraenti, diminuito del valore totale dell’IVA di modo che l’importo versato dall’acquirente copra tanto il prezzo dovuto al fornitore/cedente quanto l’imposta. I giudici rumeni hanno deciso di sottoporre la questione alla Corte di Giustizia dell’Unione europea con riguardo alla direttiva 2006/112/CE del Consiglio Europeo del 28 novembre 2006 (la “Direttiva IVA”) e in particolare dei suoi articoli 73 e 78. Nel dettaglio, è stato chiesto alla Corte di Giustizia di chiarire, con riferimento agli articoli 73 e 78 della Direttiva IVA, se, qualora le parti abbiano stabilito il prezzo di un bene senza menzionare nulla riguardo all’IVA, e il fornitore di tale bene sia la persona tenuta a versare l’IVA sull’operazione imponibile, il prezzo pattuito debba essere considerato come un prezzo già comprensivo dell’IVA oppure come un prezzo IVA esclusa che deve essere maggiorato di quest’ultima. In merito alla questione pregiudiziale, la Corte di Giustizia ha sottolineato come, secondo le disposizioni in materia IVA, il principio del sistema comune consiste nell’applicare ai beni e servizi un’imposta generale sui consumi esattamente proporzionale al prezzo degli stessi e che la base imponibile comprende tutto ciò che costituisce il corrispettivo versato o da versare al fornitore dei beni (o al prestatore dei servizi) da parte dell’acquirente, del destinatario o di un terzo. La base imponibile non deve, però, comprendere l’IVA. Conformemente alla regola generale sancita all’art. 73 della Direttiva IVA, nelle operazioni a titolo oneroso la base imponibile è costituita dal corrispettivo effettivamente ricevuto dal soggetto passivo a fronte del bene o servizio fornito; tale corrispettivo rappresenta il valore soggettivo ovvero il valore realmente percepito e non un valore stimato secondo criteri oggettivi. Inoltre, tale regola deve essere applicata in conformità al principio secondo il quale il sistema dell’IVA mira a gravare in via esclusiva sul consumatore finale. Da ciò consegue che la Direttiva IVA, ed in particolare i suoi articoli 73 e 78, deve essere interpretata nel senso che, qualora le parti abbiano stipulato un contratto di compravendita, stabilendo il prezzo senza alcuna menzione dell’IVA e il fornitore di tale bene sia la persona tenuta a versare l’imposta dovuta sull’operazione imponibile, il prezzo pattuito, nel caso in cui il fornitore non abbia la possibilità di recuperare dall’acquirente l’IVA riscossa dall’Ammini- (*) Il testo integrale delle sentenze e` disponibile su www.ipsoa.it/lesocieta` Le Società 1/2014 111 Fisco e Società Sintesi strazione finanziaria, deve essere considerato come comprensivo dell’imposta. Pertanto, nel caso di cessione di un bene immobile mediante un contratto di compravendita che nulla abbia previsto in merito all’imposta, è necessario verificare se l’IVA possa essere recuperata o meno nei confronti dell’acquirente. In questa seconda ipotesi, considerare il prezzo complessivo quale base imponibile per l’applicazione dell’imposta significherebbe far ricadere definitivamente l’imposizione in capo al fornitore. Infatti, nel caso in cui il fornitore, secondo il diritto nazionale, non possa recuperare presso l’acquirente l’IVA poi riscossa dall’Amministrazione finanziaria, la presa in considerazione del prezzo complessivo, senza detrazione dell’IVA, come base sulla quale applicare l’IVA, avrebbe come conseguenza che l’IVA graverebbe su tale fornitore e, pertanto, contrasterebbe con il principio secondo cui l’IVA è un’imposta sul consumo che deve essere sopportata dal consumatore finale. Se invece, secondo le regole nazionali, il cedente fosse legittimato ad aggiungere l’imposta accertata al prezzo convenuto e a rivalersene sulla controparte, l’IVA andrebbe conteggiata sull’intero corrispettivo, sommandosi allo stesso. CONTRIBUTI EROGATI DALLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI - TRATTAMENTO AI FINI IVA @ Circolare Agenzia delle Entrate 21 novembre 2013, n. 34/E Nella Circolare n. 34 del 21 novembre 2013 (la “Circolare”) l’Agenzia delle Entrate ha fornito precisazioni sul corretto trattamento tributario, sia ai fini IVA sia ai fini delle norme di contabilità pubblica, delle somme erogate a vario titolo dalla Pubblica amministrazione a soggetti pubblici o privati. In particolare, la Circolare ha chiarito che le erogazioni sono rilevanti ai fini IVA in presenza di un rapporto contrattuale laddove costituiscono il compenso per un servizio effettuato o per un bene ceduto. Al contrario, non si applica l’IVA quando chi riceve il contributo non è obbligato a rendere alcuna controprestazione. Sono, pertanto, gli interessi delle parti a stabilire se l’erogazione costituisce un corrispettivo per il servizio effettuato o per il bene ceduto, rilevante ai fini IVA, o se si configura come una mera assegnazione di denaro, esclusa da IVA. L’Agenzia delle Entrate ricorda che la qualificazione di un’erogazione quale corrispettivo (o quale contributo privo di sinallagmaticità) deve essere individuata in primo luogo in base a norme di legge, siano esse specifiche o generali, nonché a norme di rango comunitario. Solo qualora la norma di legge non qualifica le caratteristiche dell’erogazione specifica, si dovrà fare ricorso i criteri suppletivi. In particolare, costituiscono contributi pubblici, non rilevanti ai fini IVA, le erogazioni effettuate: (i) in esecuzione di norme che prevedono l’elargizione di benefici al verificarsi di presupposti predefiniti (ad es. aiuti di Stato automatici); (ii) in favore di particolari categorie di soggetti (ad es. in favore delle confessioni religiose o di associazioni destinatarie del 5 o dell’8 per mille dell’IRPEF); (iii) nei casi in cui le Pubbliche amministrazioni agiscono in applicazione dell’art. 12 della L. 7 agosto 1990, n. 241 (provvedimenti attributivi di vantaggi economici); (iv) dai soci - incluso il socio avente soggettività di diritto pubblico - in base alle norme del codice civile, quali apporti di capitale, esposti in bilancio nel patrimonio netto. 112 Costituiscono, invece, corrispettivi: (i) le erogazioni conseguenti alla stipula di contratti in base al codice dei contratti pubblici, adottato in recepimento di apposite direttive comunitarie; (ii) le erogazioni conseguenti alla stipula di contratti a prestazioni corrispettive che regolano rapporti per settori esclusi dallo stesso codice (ad es. contratti riguardanti la sicurezza nazionale), ovvero quando i rapporti sono costituiti con soggetti dai particolari requisiti per i quali gli affidamenti sono effettuati al di fuori delle regole del medesimo codice (ad es. società operanti secondo il modello organizzativo dell’in house providing). Rappresentano criteri sussidiari per qualificare la natura delle erogazioni: a) l’acquisizione da parte dell’ente erogante dei risultati dell’attività finanziata (o corrispettività tra elargizione di denaro ed attività finanziata). Un esempio, frequente in tema di contributi per la ricerca, è se la proprietà dei risultati della ricerca stessa sovvenzionata resti in capo al soggetto privato (indice di assenza di corrispettività) o meno; e b) previsione di clausola risolutiva espressa o di risarcimento del danno da inadempimento. AUMENTO DELL’ALIQUOTA IVA ORDINARIA @ Circolare Agenzia delle Entrate 5 novembre 2013, n. 32/E Con la circolare n. 32/E del 5 novembre 2013 (la “Circolare”) l’Agenzia delle Entrate ha fornito talune precisazioni in relazione all’aumento dell’aliquota IVA ordinaria dal 21% al 22% che decorrere dal 1° ottobre 2013. Ai fini della corretta applicazione della nuova aliquota ordinaria, la Circolare ha rinviato, in linea generale, ai chiarimenti già resi nella circolare della Agenzia delle Entrate n. 45 del 12 ottobre 2011, con riferimento al precedente aumento dal 20% al 21% dell’aliquota IVA ordinaria. In particolare, nella Circolare viene chiarito che, per individuare l’aliquota IVA ordinaria applicabile (i.e., 21% o 22%), rileva il momento di effettuazione delle operazioni ai sensi dell’art. 6 del Decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633 (“D.P.R. n. 633/1972”). Per cui, fatto salvo il caso di emissione della fattura anticipata o del pagamento di acconti, si applica l’aliquota IVA del 22% alle consegne o spedizioni effettuate dal 1° ottobre 2013, per le cessioni di beni mobili; alle operazioni il cui corrispettivo è pagato a partire dal 1° ottobre 2013, per le prestazioni di servizi. Nel caso di operazioni con l’estero, invece, agli acquisti intracomunitari di beni si applica l’aliquota IVA vigente alla data di partenza dei beni dallo Stato di origine (e non più al momento di consegna o arrivo nello Stato di destinazione); alle importazioni si applica l’aliquota IVA vigente alla data di accettazione della dichiarazione doganale; alle prestazioni di servizi “generici”, rese da un soggetto IVA non residente a un committente italiano, si applica l’aliquota IVA vigente al momento di ultimazione della prestazione. La Circolare ha chiarito che, per le operazioni in regime di IVA per cassa, l’aliquota IVA applicabile è comunque determinata sulla base del momento di effettuazione dell’operazione secondo i criteri ordinari sopra descritti. Il regime di IVA per cassa, infatti, differisce solo il momento di esigibilità dell’imposta (al momento del pagamento dei corrispettivi), ma non modifica i criteri di effettuazione delle operazioni. Inoltre, come già anticipato con il comunicato stampa n. 137 del 30 settembre 2013 - che ha impartito le prime istruzioni riguardanti l’entrata in vigore dell’aliquota al 22% Le Società 1/2014 Fisco e Società Sintesi - l’Agenzia delle Entrate ha confermato che, qualora nella fase di prima applicazione della nuova aliquota IVA ordinaria ragioni di ordine tecnico impediscano di adeguare i software per la fatturazione e i misuratori fiscali, gli operatori potranno regolarizzare le fatture eventualmente emesse erroneamente con l’aliquota del 21% effettuando la variazione in aumento ex art. 26 del D.P.R. n. 633/1972. Inoltre l’Amministrazione centrale ha dato istruzione agli uffici accertatoti di non applicare alcuna sanzione se la maggiore IVA collegata all’aumento dell’aliquota verrà versata entro i seguenti termini: (i) per i contribuenti mensili entro il 27 dicembre 2013 (termine per il versamento dell’acconto IVA 2013), per le fatture emesse nei mesi di ottobre e novembre 2013, ed entro il 17 marzo 2014 (termine per il versamento del saldo IVA 2013), per le fatture emesse nel mese di dicembre 2013; (ii) per i contribuenti trimestrali entro il 17 marzo 2014 (termine per il versamento del saldo IVA 2013), per le fatture emesse nel quarto trimestre 2013 (ottobre-dicembre 2013). Infine, con riferimento ai servizi di somministrazione di acqua, luce, gas, ecc., la Circolare ha chiarito che nelle note di credito emesse dai fornitori di servizi di pubblica utilità (acqua, luce e gas), al fine di conguagliare i consumi effettivi, è applicabile l’aliquota IVA ordinaria dell’ultima fattura emessa per il periodo di riferimento del conguaglio (nei limiti dell’imposta addebitata con tale aliquota nella fattura stessa). Per l’eventuale eccedenza di credito da restituire, si farà riferimento alle fatture immediatamente antecedenti fino al completo recupero degli importi. Resta fermo che l’aliquota IVA delle note di accredito deve essere quella originariamente applicata, laddove la nota di variazione sia emessa per documentare conguagli tariffari, dovuti alla rideterminazione dei prezzi. Nel caso in cui il saldo risulti a debito del cliente, l’aliquota IVA applicabile al saldo imponibile è quella vigente al momento di emissione della fattura di conguaglio. convenuto e la rifusione delle spese della lite che ha interessato anche i litisconsorti. Sul punto, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che l’art. 57 del D.P.R. n. 131/1986 individua, tra i soggetti solidalmente obbligati al pagamento del tributo, “le parti in causa”. Tuttavia, come chiarito in più occasioni dalla giurisprudenza di legittimità (tra le tante, si vedano Corte di Cassazione, sentenze n. 4805 del 28 febbraio 2011 e n. 16745 del 17 luglio 2010) l’imposta di registro non deve gravare indiscriminatamente su tutti i soggetti che hanno preso parte al procedimento giudiziario in quanto l’indice di capacità contributiva dell’imposta di registro non è la sentenza in quanto tale, ma «il rapporto sostanziale in essa racchiuso, con conseguente esclusione del vincolo di solidarietà nei confronti dei soggetti ad esso estranei». Pertanto la solidarietà non si estende a tutti coloro che abbiano “preso parte” al giudizio, ma deve essere limitata ai soggetti coinvolti dal rapporto sostanziale che è alla base del giudicato, con esclusione, perciò, dei soggetti che a detto rapporto risultino estranei. Conseguentemente, secondo la Risoluzione, non sono obbligati al pagamento dell’imposta di registro i soggetti intervenuti volontariamente nel processo a norma dell’art. 105, comma 2, del codice procedura penale, esperendo il c.d. intervento adesivo dipendente. Detto articolo, infatti, consente l’intervento nel giudizio a chi, pur non vantando un diritto nei confronti delle parti del processo, abbia un interesse giuridicamente rilevante ad un determinato esito della controversia. Tali soggetti non risultano coinvolti dal rapporto sostanziale e, quindi, non sono solidalmente obbligati al pagamento dell’imposta di registro dovuta dall’attore e dal convenuto sulla sentenza, anche ove (come nel caso di specie) siano condannati al pagamento delle spese di giudizio. IMPOSTE SUI REDDITI IMPOSTA DI REGISTRO SOLIDARIETÀ PASSIVA DELLE “PARTI IN CAUSA” PER L’IMPOSTA DI REGISTRO SUGLI ATTI GIUDIZIARI @ Risoluzione Agenzia delle Entrate 21 novembre 2013, n. 82/E Nella risoluzione n. 82/E del 21 novembre 2013 (la “Risoluzione”) l’Agenzia delle Entrate ha fornito chiarimenti in merito alla solidarietà passiva nel pagamento dell’imposta di registro regolata dall’art. 57 del Decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131 (“D.P.R. n. 131/86”), in relazione agli atti giudiziari. In particolare, nella Risoluzione è stato chiarito che la responsabilità solidale per il pagamento dell’imposta di registro dovuta su un provvedimento giudiziario grava esclusivamente su attore e convenuto e non, invece, sui altri soggetti eventualmente coinvolti ma estranei al giudicato. La Risoluzione origina da una controversia giudiziaria che si conclude con la condanna di un consulente finanziario alla restituzione di somme indebitamente trattenute rispetto ad un incarico di investimento ricevuto da un cliente. In giudizio erano intervenuti volontariamente altri soggetti terzi, a loro volta creditori del convenuto, dunque, interessati all’accertamento dell’esatto ammontare del credito vantato. La sentenza ha sancito la soccombenza del consulente Le Società 1/2014 RIMANENZE VALUTATE A COSTI SPECIFICI: LA SVALUTAZIONE DELLE RIMANENZE RESTA FISCALMENTE IRRILEVANTE @ Risoluzione Agenzia delle Entrate 12 novembre 2013, n. 78/E Nella risoluzione n. 78/E del 12 novembre 2013 (la “Risoluzione”) l’Agenzia delle Entrate ha fornito chiarimenti in relazione alla disciplina dei beni a rimanenza e valutati a costi specifici, precisando che la loro svalutazione è fiscalmente irrilevante. Conseguentemente, le imprese sono obbligate ad effettuare in sede di dichiarazione una variazione in aumento che va a neutralizzare sotto il profilo fiscale la svalutazione iscritta a conto economico. Il caso oggetto dell’interpello ordinario confluito nella Risoluzione concerne una società che, dopo essersi aggiudicata ad un’asta giudiziaria un immobile ad uso abitativo, aveva proceduto ad iscriverlo in bilancio al costo di acquisto come rimanenza, valutandolo al costo specifico, comprensivo del prezzo di acquisto e degli oneri accessori, per venderlo successivamente. In seguito, la società aveva proceduto alla svalutazione dell’immobile, stante la mancata conformità dello stesso alla licenza edilizia a suo tempo rilasciata dall’ente comunale. La perizia effettuata da un consulente incaricato dalla so- 113 Fisco e Società Sintesi cietà, nel confermare l’impossibilità di procedere alla sanatoria dell’opera, aveva, infatti, stimato una significativa riduzione del valore di mercato del bene. Tanto premesso, la questione posta dalla società in sede di interpello si incentra sulla possibilità di attribuire rilevanza fiscale, ai sensi dell’art. 92, comma 5, del Decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (“TUIR”), alla svalutazione del cespite iscritto in bilancio dalla società. L’Agenzia delle Entrate si è espressa nel senso di escludere tale possibilità ritenendo, conseguentemente, necessario riprendere a tassazione la suddetta svalutazione contabile. La conclusione a cui è giunta l’Agenzia delle Entrare deriva dalla formulazione dell’art. 92, comma 1, del TUIR, secondo il quale i criteri di valutazione ivi indicati riguardano «le rimanenze finali la cui valutazione non sia effettuata a costi specifici o a norma dell’articolo 93». L’Agenzia delle Entrate, nell’argomentare il proprio ragionamento, prende le mosse dalla considerazione che, già in ambito civilistico, si desume un diverso trattamento dei beni in relazione alla loro natura. In particolare, i beni fungibili sono ammessi alla valutazione secondo le metodologie del LIFO, del FIFO o del costo medio ponderato, per i quali le svalutazioni sono deducibili ex art. 92, comma 5 del TUIR, mentre le svalutazioni dei beni infungibili valutati secondo il criterio del costo specifico in funzione delle loro caratteristiche non possono assumere rilevanza sotto il profilo fiscale. L’art. 92 del TUIR si pone in rapporto di dipendenza dalla norma civilistica nella misura in cui riconosce, ai fini della valutazione delle rimanenze, i criteri di valutazione adottati in sede di redazione del bilancio, nel rispetto, tuttavia, di un “valore minimo” imposto dalla norma fiscale. Eccezionalmente si tollerano svalutazioni, limitatamente alle ipotesi di beni valutati secondo criteri di valorizzazione forfetaria del magazzino (i.e., FIFO, LIFO, costo medio ponderato) cui il comma 5 della norma in esame si riferisce testualmente. Tale mancato richiamo impedisce la possibilità di procedere a rettifiche di valore fiscalmente rilevanti dei beni valutati al costo specifico. Da ultimo, come osservato dall’Agenzia delle Entrate la soluzione sarebbe coerente, anche, con quanto previsto per i soggetti che adottano i principi contabili internazionali (IAS adopter) che non considerano rilevanti fiscalmente gli effetti valutativi degli immobili classificati ai sensi dello IAS 2 (art. 3, comma 2, D.M. 8 giugno 2011), che assumono rilievo solo in sede di realizzo. Si segnala che a diverse conclusioni è giunta l’Associazione Italiana Dottori Commercialisti (“ADC”) nella norma di comportamento n. 168, pubblicata nel mese di giugno 2007, dal titolo “Rimanenze valutate a costi specifici: confronto con il valore normale” secondo la quale, invero, l’art. 92 del TUIR, proprio perché nulla dispone in tema di valutazione delle rimanenze di magazzino trattate a costi specifici, rende, di conseguenza, applicabile anche alle rimanenze valutate con il criterio del costo specifico, ai sensi dell’art. 83, comma 1, del TUIR, il principio di cui all’art. 2426, n. 9, del codice civile che prevede il confronto con il valore normale, così come definito dall’art. 9 del TUIR. In particolare, secondo l’ADC si giunge a tale conclusione considerando che l’art. 92, comma 5, primo periodo, del TUIR disciplina solo le ipotesi di valutazione relative ai metodi convenzionali (validi, quindi, per i beni fungibili la cui valutazione non sia effettuata a costi specifici), di cui ai precedenti commi 2, 3 e 4 dello stesso articolo. Inoltre, un 114 ulteriore elemento che depone a favore della deducibilità della svalutazione, sempre in base a quanto sostenuto dall’ADC nella citata norma di comportamento, è rappresentato dal fatto che l’art. 92 TUIR, nel disciplinare la valutazione coi metodi convenzionali, dispone il confronto per categorie omogenee di beni, fra di loro considerate, ai fini valutativi, come “unità”, con un procedimento applicativo per certi aspetti simile a quello concernente beni “singoli”. L’ADC conclude sostenendo che, alla luce delle considerazioni anzidette, si ricava che anche per i beni immobilemerce parrebbe coerente e plausibile l’applicazione della regola del confronto con il valore normale, così come avviene per le rimanenze di beni valutate in base ai metodi convenzionali, di tipo forfetario. IMPOSTA DI BOLLO DEDUCIBILITÀ DELL’IMPOSTA DI BOLLO NEL REGIME DEL RISPARMIO GESTITO @ Risoluzione Agenzia delle Entrate 6 novembre 2013, n. 76 Nella risoluzione n. 76 del 6 novembre 2013 (la “Risoluzione”) l’Agenzia delle Entrate ha fornito chiarimenti in relazione al trattamento fiscale da applicare all’imposta di bollo sugli estratti conto ovvero sui rendiconti di gestione relativi al patrimonio gestito ai sensi dell’art. 13, commi da 2 a 2 ter, della Tariffa, Parte Prima, allegata al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 642 (“D.P.R. n. 642/1972”). In particolare, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che l’imposta di bollo dovuta sui rendiconti relativi alle gestioni di portafogli per le quali sia stata esercitata l’opzione per l’applicazione del regime del risparmio gestito ai sensi dell’art. 7 del DLgs. 21 novembre 1997, n. 461 (“D.Lgs. n. 461/ 1997”) è deducibile dal risultato maturato della gestione, in quanto costituisce un onere strettamente inerente alla gestione del risparmio. Dopo aver ricapitolato il sistema di tassazione dei redditi diversi di natura finanziaria introdotto dal DLgs. 461/1997 e passato in rassegna le differenze tra il regime del risparmio amministrato e quello del risparmio gestito, l’Agenzia delle Entrate ha risposto alla richiesta di consulenza giuridica del contribuente che chiedeva se l’imposta di bollo dovuta sui rendiconti relativi alle gestioni di portafoglio per le quali venga esercitata l’opzione per il regime del risparmio gestito sia deducibile dal risultato maturato della gestione. Secondo l’Agenzia delle Entrate, l’imposta di bollo dovuta ai sensi dell’art. 13, comma 2 bis (conti correnti) e 2 ter (prodotti finanziari) della Tariffa, parte I, allegata al D.P.R. n. 642/1972, da corrispondere sugli estratti di conto corrente e sui rendiconti relativi alla gestione di portafogli, è deducibile dal risultato della gestione, in quanto costituisce un onere strettamente inerente alla gestione del patrimonio. Infatti, rammenta l’Agenzia delle Entrate, come chiarito nella Circolare Ministeriale 24 giugno 1998 n. 165/E, sono deducibili dal risultato della gestione le commissioni e gli oneri relativi al patrimonio gestito. Diversamente, non sono deducibili dal risultato maturato della gestione né l’imposta di bollo speciale sulle attività scudate di cui all’art. 19, comma 6, del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, in quanto trattasi di un onere non inerente al patrimonio gestito, ma connesso al regime di riservatezza Le Società 1/2014 Fisco e Società Sintesi previsto dall’art. 14, comma 2, del D.L. n. 350/2001, di cui possono beneficiare le attività finanziarie che siano state oggetto di emersione attraverso la procedura del rimpatrio; né l’imposta sulle transazioni finanziarie di cui all’art. 1, commi 491 - 499, della L. 24 dicembre 2012 n. 228, in quanto il comma 499 del citato art. 1 stabilisce l’indeducibilità dell’imposta sulle transazioni finanziarie ai fini delle imposte dirette e l’art. 18 del D.M. 21 febbraio 2013 dispone espressamente che l’indeducibilità riguarda, oltre alle imposte sui redditi, anche le imposte sostitutive. REATI POSSIBILE RILEVANZA PENALE DELLO SCOSTAMENTO DEL PREZZO DI COMPRAVENDITA DELL’IMMOBILE DAI DATI OMI @ Cassazione penale, sez. III, 18 novembre 2013, n. 46165 - Pres. C. Squassoni - Rel. A. M. Andronio La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 46165 del 18 novembre 2013, ha chiarito che, nella valutazione del reato di infedele dichiarazione nelle compravendite di immobili, la condanna penale si può fondare sugli stessi documenti ed elementi che sono posti alla base dell’accertamento fiscale, anche se presuntivi, laddove ritenuti idonei dal giudice penale a provare l’evasione. Sulla base di questi presupposti, anche la differenza con i valori di mercato degli immobili venduti (Listini dell’Osservatorio del mercato immobiliare -”OMI”) può concorrere a fondare la responsabilità penale del contribuente. Il caso oggetto della pronuncia in parola origina dalla sentenza del Tribunale di primo grado con la quale un contribuente era stato condannato per il reato di infedele dichiarazione dei redditi e dell’IVA di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000 per aver indicato elementi attivi inferiori a quelli reali nella locazione e nella vendita di immobili. Tale elementi erano desumibili da una serie di circostanze vale a dire le movimentazioni del conto del figlio dell’imputato non giustificate, nella compravendita immobiliare, dai differenti importi dichiarati in rogito inferiori ai valori OMI, nonché mutui stipulati su alcuni immobili dagli acquirenti di valore assai superiore rispetto a quello dichiarato. I giudici di secondo grado hanno confermato la sentenza di condanna del contribuente il quale è ricorso per cassazione avverso la sentenza, chiedendone l’annullamento. Secondo la difesa del contribuente, il giudice di secondo grado ha erroneamente applicato la disposizione incriminatrice, in relazione agli artt. 39, comma 2, lett. d) del D.P.R. n. 600/73 e 55, comma 3, D.P.R. n. 633/1972 dal momento che, fra le altre cose, ha ritenuto provato il fatto evasivo sulla base dei dati OMI dai quali ha desunto lo scostamento dal reale valore di mercato dei prezzi di compravendita degli immobili. La Suprema Corte ha ritenuto infondata tale doglianza difensiva dal momento che la verifica del giudice penale può sovrapporsi, o anche entrare in contraddizione, con quella eventualmente compiuta davanti al giudice tributario, perché nella sede penale deve darsi prevalenza al “dato fattuale reale”, rispetto ai criteri di natura formale che caratterizzano l’ordinamento tributario, non essendo configurabile alcuna pregiudiziale tributaria. L’accertamento dell’Ufficio non era induttivo, ma analitico/ induttivo e basato su presunzioni gravi, precise e concordanti. Infatti nella specie, gli accertamenti erano stati svolti Le Società 1/2014 in base all’art. 39, comma 1, lettera d), del D.P.R. n. 600/ 73, in forza del quale il reddito viene rettificato nel caso in cui l’incompletezza, falsità o inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati risulti dall’ispezione delle scritture contabili, ovvero dal controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni contabili sulla scorta delle fatture e degli altri atti documenti relativi all’impresa, nonché dei dati e delle notizie raccolte dall’ufficio nei modi previsti dall’art. 32 del D.P.R. n. 600/ 73. Ebbene, gli stessi elementi - correttamente ritenuti decisivi, univoci e concordanti - sono stati posti dalla Corte di merito a sostegno della responsabilità penale dell’imputato. Sulla base di tale quadro probatorio, i giudici penali di legittimità hanno confermato, in via definitiva, la sentenza della Corte d’appello. IMPOSTE SUI REDDITI COMPENSI DELL’AMMINISTRATORE UNICO DI S.R.L. INDEDUCIBILI E SINDACABILI @ Cassazione civile, sez. VI, 14 novembre 2013, n. 25572, ord. - Pres. M. Cicala - Rel. S. Bognanni La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 25572 del 14 novembre 2013, interviene nuovamente in materia di deducibilità dei compensi corrisposti all’amministratore unico di S.r.l., affermando che tale compenso non è deducibile dal reddito di impresa ove sussista una equiparazione, sotto il profilo giuridico, tra la posizione dell’amministratore unico e quella dell’imprenditore. In particolare, la Corte di Cassazione osserva che - in tema di imposte sui redditi e con riferimento alla determinazione di quello d’impresa - l’art. 62 TUIR afferma che è esclusa l’ammissibilità di deduzioni a titolo di compenso per il lavoro prestato o l’opera svolta dall’imprenditore, limitando la deducibilità delle spese per prestazioni di lavoro a quelle sostenute per quello dipendente e per compensi spettanti agli amministratori di società di persone; non è consentito, quindi, dedurre dall’imponibile il compenso per il lavoro prestato e l’opera svolta dall’amministratore unico di società di capitali. Nel caso in esame, per la Corte di Cassazione, la posizione di quest’ultimo è equiparabile, sotto il profilo giuridico, a quella dell’imprenditore, non essendo individuabile, in relazione alla sua attività gestoria, la formazione di una volontà imprenditoriale distinta da quella della società, e non ricorrendo quindi, l’assoggettamento all’altrui potere direttivo, di controllo e disciplinare, che costituisce il requisito tipico della subordinazione, come nella specie. Più nel dettaglio, l’ordinanza de qua origina dal ricorso per cassazione proposto da una S.r.l. avverso la sentenza della Commissione tributaria centrale che aveva contestato, in accoglimento alle posizioni dell’Ufficio delle imposte, la deduzione di alcuni costi ad opera della stessa S.r.l., tra cui quelli riferentisi al compenso corrisposto all’amministratore delegato ed al direttore, che erano, peraltro, gli unici soci. In particolare, la società aveva proceduto alla deduzione di una somma piuttosto consistente, proveniente dai ricavi e annotata nel conto economico, a titolo di compenso all’amministratore, con un risultato finale di bilancio pari a zero. Questa circostanza aveva fatto pensare ad un espediente elusivo per sottrarsi al pagamento delle imposte, tenuto anche conto dell’entità della pretesa retribuzione. 115 Fisco e Società Sintesi In primo luogo, gli Ermellini hanno affermato che il “vecchio” art. 62 del TUIR (in vigore fino al 31 dicembre 2003) il quale escludeva l’ammissibilità di deduzioni a titolo di compenso per il lavoro prestato o l’opera svolta dall’imprenditore, limitando la deducibilità delle spese per prestazioni di lavoro a quelle sostenute per quello dipendente e per compensi spettanti agli amministratori di società di persone - non consente di dedurre dall’imponibile il compenso per il lavoro prestato e l’opera svolta dall’amministratore unico di società di capitali perché la posizione di quest’ultimo è equiparabile, sotto il profilo giuridico, a quella dell’imprenditore. In tal senso, di vedano anche: Corte di Cassazione, sentenza n. 24188 del 13 novembre 2006 e sentenza n. 21155 del 31 ottobre 2005. Inoltre, nell’ordinanza la Suprema Corte ha affrontato il tema del sindacato di congruità sull’attribuzione del compenso all’amministratore, affermando che rientra nei poteri dell’Amministrazione Finanziaria la valutazione di congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, anche se non emerge alcuna irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi negli atti giuridici d’impresa. Di conseguenza, la deducibilità, ai sensi dell’art. 62 del TUIR, dei compensi degli amministratori delle società non implica che gli uffici finanziari siano vincolati alla misura indicata in deliberazioni sociali o contratti, competendo ai medesimi la verifica dell’attendibilità economica dei predetti dati (in tal senso, si veda Corte di Cassazione, ordinanza n. 9036 del 15 aprile 2013). In senso contrario, la sentenza della Corte di Cassazione, sezione tributaria, n. 24957 del 10 dicembre 2010 ha affermato che l’attuale disciplina dettata dal TUIR non consente all’Amministrazione finanziaria alcun sindacato di congruità sul compenso erogato all’amministratore di società di capitali, né è possibile invocare l’applicazione dell’art. 37 bis, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 il quale contempla ipotesi specifiche nelle quali non è ricompresa la determinazione degli oneri deducibili a tale titolo. La sentenza aumenta, quindi, la complessità e rischiosità del trattamento degli emolumenti amministratori. Invero, la stessa non appare convincente sotto un duplice profilo. Innanzitutto in merito alla assimilazione tour court della figura dell’amministratore unico di una società di capitali - organo gestorio in rapporto organico con essa e nominato, così come revocabile, dall’assemblea - a quella dell’imprenditore individuale. E neppure nella misura in cui, pure toccando il tema della economicità dell’agire imprenditoriale e dell’esigenza di dare all’Amministrazione adeguati strumenti repressivi di comportamenti strumentali a vantaggi fiscali “indebiti”, rigetta una valutazione complessiva della fattispecie, quindi anche considerando la posizione dell’amministratore che ben può essere chiamato a versare imposte in misura tale da assicurare un gettito netto. Quest’ultima prospettiva è stata accolta dalla stessa Corte di Cassazione nella sentenza n. 24957 del 10 dicembre 2010. IVA INVERSIONE CONTABILE: SANZIONI CON PARAMETRI UE @ Cassazione civile, sez. trib., 7 novembre 2013, n. 25035, ord. - Pres. E. Cirillo - Rel. R.G. Conti La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 25035 del 7 novembre 2013, ha chiesto alla Corte di Giustizia UE di pronunciarsi sulla misura delle sanzioni da applicarsi nell’even- 116 tualità in cui, nell’ambito di acquisti intracomunitari, il committente italiano ometta di provvedere agli obblighi di autofatturazione delle prestazioni, vale a dire l’integrazione delle fatture estere di acquisto con l’IVA italiana, mediante il meccanismo della cd. inversione contabile. Più nel dettaglio, l’ordinanza in parola origina da processo verbale di constatazione a cui ha fatto seguito un avviso di accertamento notificato ad una società italiana - operante nel settore della distribuzione dei beni in campo veterinario - con cui l’Agenzia delle Entrate ha recuperato per l’anno 1998 l’IVA e le sanzioni ex art. 6 del D.lgs. n. 471/1997 in forza della mancata osservanza degli adempimenti previsti dagli artt. 46 (Fatturazione delle operazioni intracomunitarie) e 47 (Registrazione delle operazioni intracomunitarie) del D.L. n. 331/1993 e dell’obbligo di presentazione degli elenchi riepilogativi degli acquisti intracomunitari (art. 50, comma 6, L. n. 427/1993). In particolare, l’Agenzia delle Entrate ha contestato alla società italiana, beneficiaria di servizi resi da due soggetti stabiliti all’interno dell’Unione Europea, di avere, in un caso, totalmente omesso di provvedere all’autofatturazione delle prestazioni rese da una società francese ed alla iscrizione delle fatture nel registro degli acquisti e delle vendite e, in altro caso, essersi limitata ad annotare le fatture emesse da una società olandese nei registri degli acquisti con l’indicazione “fuori campo IVA”. Contestualmente, l’Agenzia delle Entrate ha rigettato la richiesta di definizione della lite presentata dalla società ex art. 15 della L. n. 289/2002, chiedendo il pagamento dell’IVA e la sanzione ex art. 6, comma 1, del D.lgs. n. 471/1997 per omessa registrazione delle fatture di acquisto. La società ha proposto separati ricorsi contro l’atto impositivo e il diniego di definizione della lite, uscendo sconfitta da entrambi i giudizi di merito. In particolare, la Commissione tributaria regionale ha negato il diritto alla detrazione in ragione della natura “sostanziale” (e non meramente formale) degli obblighi previsti dagli artt. 46 e 47 del D.L. 331/ 93, alla luce dell’indirizzo più rigoroso della giurisprudenza della Corte di Giustizia. Di qui il ricorso per Cassazione della società la quale ha sottoposto all’esame dei giudici di legittimità alcune doglianze inerenti il meccanismo dell’inversione contabile in tema di IVA, con specifico riferimento agli acquisti intracomunitari per beni o servizi resi da parte di soggetti residenti in altri Paesi membri. Si ricorda che, come sottolineato dalla Suprema Corte, l’inversione contabile descrive un peculiare sistema di liquidazione dell’IVA che opera in deroga al meccanismo ordinario di detrazione. Detto meccanismo, infatti, realizza uno snellimento del processo di riscossione dell’imposta, individuando un unico soggetto - cessionario o committente cui imporre gli obblighi di dichiarazione, liquidazione ed eventuale versamento del tributo. Negli acquisti intracomunitari ex art. 46 e ss. D.L. 331/93 soggetti al regime del “reverse charge” si realizza una mera manifestazione economica, ma senza versamento diretto al venditore e, invece, con immediata compensazione del tributo dovuto con il credito derivante dal rispettivo diritto di detrazione maturato. Il cuore del meccanismo è rappresentato proprio dal fatto che il committente deve emettere apposita autofattura, con l’indicazione dell’IVA da registrare contestualmente sia nel registro delle fatture emesse che in quello degli acquisti. Il suddetto meccanismo rende evidente che durante gli scambi intermedi del ciclo produttivo non si realizza una effettiva riscossione del tributo, che, al contrario, viene traslato fino al momento della ces- Le Società 1/2014 Fisco e Società Sintesi sione al consumatore finale. Ne consegue che gli oneri gestionali correlati al meccanismo della cd. inversione contabile ricadono sul committente cessionario. Il tema sollevato dagli Ermellini non è nuovo; invero, la Corte di Giustizia UE, chiamata a pronunciarsi sulle conseguenze della omessa inversione contabile nel caso “Ecotrade” (Corte di Giustizia, 8 maggio 2008, Cause riunite C-95/ 07 e C-96/07), ha dichiarato illegittima la prassi della Amministrazione finanziaria italiana che, all’epoca, ritenne indetraibile l’imposta per la parte passiva della doppia registrazione, come effetto della violazione commessa. Al riguardo, si rileva che la Corte di Cassazione è stata chiamata più volte ad esaminare gli effetti della sentenza “Ecotrade” sull’ordinamento interno, recependo le indicazioni della Corte di Giustizia, ammettendo la detrazione a posteriori ovvero anche in sede di accertamento dell’infrazione. Per quanto riguarda, invece, l’aspetto delle sanzioni applicabili, questo non è stato del tutto chiarito. Dunque, la Corte di Cassazione si è rivolta ai giudici del Lussemburgo affinché questi si pronuncino in merito alla natura formale, o sostanziale, degli errori di registrazione in tema di reverse charge. In particolare, la Corte di Cassazione, ha chiesto alla Corte di Giustizia di esprimersi su due questioni: 1) se, in caso di totale inosservanza degli obblighi di doppia registrazione, sia legittimo applicare sia le sanzioni per l’inadempimento delle formalità, sia il diniego del diritto alla detrazione dell’IVA; 2) cosa si debba intendere con l’espressione “obblighi sostanziali” in materia di reverse charge, espressione usata in numerose pronunce della Corte di giustizia, ovvero se ci si debba riferire all’obbligo del pagamento del tributo IVA oppure all’assunzione del debito d’imposta (attraverso la registrazione nelle fatture di vendita) o, ancora, all’esistenza delle condizioni di inerenza e detraibilità che disciplinano il diritto alla detrazione (quindi anche in assenza della doppia registrazione). DISPOSIZIONI ANTIELUSIVE NULLITÀ DELL’ACCERTAMENTO ANTIELUSIVO EMESSO SENZA PREVENTIVO CONTRADDITORIO: SI PRONUNCERÀ LA CONSULTA @ Cassazione civile, sez. trib., 5 novembre 2013, n. 24739, ord. - Pres. A. Merone - Rel. E. Bruschetta La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 24739 depositata in data 5 novembre 2013, ha sollevato la questione di costituzionalità dell’art. 37 bis, comma 4, del D.P.R. n. 600/ 73, nella parte in cui questo sanziona la nullità dell’avviso di accertamento “antielusivo” non preceduto dal preventivo contraddittorio con il contribuente, ovvero emesso prima del decorso del termine di sessanta giorni concessi al contribuente per esperire la sua richiesta di chiarimenti. I giudici hanno ritenuto, invero, la sanzione della nullità eccessiva ed in contrasto con i principi fondamentali di capacità contributiva previsti dall’art. 53 della Costituzione. La questione oggetto dell’ordinanza de qua sorge da un avviso di accertamento innescato da un processo verbale di constatazione della Guardia di finanza nei confronti della Cassa di Risparmio di Rieti con cui (i) vengono ripresi a tassazione interessi moratori non contabilizzati per un ammontare pari all’equivalente di 25 mila Euro; e (ii) viene considerata come “indebita la deduzione dell’ammontare Le Società 1/2014 di - circa - l’equivalente di 750 mila Euro conseguente alla cessione di crediti svalutati. L’avviso di accertamento è stato, tuttavia, notificato poco prima del decorso del termine dilatorio di sessanta giorni (nella specie, cinquantaquattro giorni) dal ricevimento della lettera di chiarimenti richiesta alla banca, tanto per cui la Commissione tributaria regionale, constatata la violazione delle disposizioni di cui all’art. 37 bis, comma 4, del D.P.R. n. 600/73, nel luglio del 2007 ha annullato l’avviso di accertamento tout court. Da qui l’impugnazione dell’Agenzia delle Entrate Il ragionamento della sezione tributaria nell’ordinanza in esame prende le mosse dalla constatazione che l’art. 37 bis, comma 4, del D.P.R. n. 600/73 contrasta con gli articoli 3 e 53 della Costituzione poiché distonico e creatore di irragionevoli disparità di trattamento. Invero, nell’ordinamento italiano esiste un principio generale, rinvenibile nell’articolo 53 della Costituzione che vieta di conseguire indebiti vantaggi fiscali abusando del diritto. La fattispecie antielusiva di cui all’art. 37 bis, comma 4, del D.P.R. n. 600/73, si presenta in questa prospettiva come speciale rispetto a quella più generale del cosiddetto abuso del diritto. Tuttavia, osserva la Corte di Cassazione, seppure in entrambe le fattispecie il fondamento della ripresa sia costituto da un vantaggio fiscale che, per mancanza di causa economica, diventa indebito, “irrazionalmente” soltanto per la ripresa antielusiva ai sensi dell’art. 37 bis, comma 4, del D.P.R. n. 600/73 esiste una norma secondo cui le forme del preventivo contraddittorio debbano essere seguite a pena di nullità (sub poena nullitatis) dell’atto impositivo. Invero, sul punto, è però da segnalarsi come eminente dottrina (ex pluribus Prof. F. Tesauro, La motivazione degli atti d’accertamento antielusivi ed i suoi riflessi tributari, nel Corr. trib., 2009, 3634) ha anzi da tempo evidenziato, specularmente, l’esigenza di estendere le garanzie procedurali date al contribuente dall’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/73 a tutti i casi suscettibili di giudizio in base al principio dell’abuso del diritto. Ma v’è di più. Nell’interpretazione della giurisprudenza, osservano i giudici di legittimità, il giudice deve, anche d’ufficio, quando ravvisa l’esistenza di elementi integranti la fattispecie abusiva, fare applicazione della ripresa antielusiva. Tale circostanza determina l’impossibilità di ogni preventivo contraddittorio. «Cosicché, a questo punto - osservano conclusivamente gli Ermellini - la nullità per irregolarità delle forme di che trattasi risulta irragionevolmente stabilita solo nella residuale ipotesi antielusiva di cui all’art. 37 bis D.P.R. n. 600 del 1973». La Suprema Corte evidenzia nelle sue motivazioni che non è in discussione l’utilità, in qualche modo anche la necessità, di un contraddittorio preventivo tra Amministrazione Finanziaria e contribuente, bensì il fatto che il mero difetto di forma del contraddittorio (nel caso di specie particolarmente lieve) debba comportare l’invalidità dell’atto fiscale, fatto che appare “davvero irragionevole” con riferimento alle altre vicine fattispecie antielusive. Né la norma ai giudici della Suprema Corte «sembra poter essere, in alcuna maniera, suscettibile di interpretazioni adeguatrici che siano costituzionalmente orientate. In effetti la sanzione è diretta proprio a protezione delle forma del preventivo contraddittorio». La Suprema Corte ha, quindi, disposto la trasmissione degli atti alla Consulta, ritenendo la questione di legittimità costituzionale dell’art. 37 bis, comma 4, del D.P.R. n. 600/ 73 in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, rilevante e non manifestamente infondata. 117 Fisco e Società Sintesi IMPOSTE DIRETTE RADDOPPIO TERMINI DECADENZIALI. ALLEGAZIONE DELLA DENUNZIA DI REATO @ Comm. Trib. reg. Milano 14 novembre 2013, n. 6321 - Pres. U. Dello Russo - Rel. G. Chiametti La Commissione tributaria regionale di Milano, nella sentenza n. 6321 del 30 ottobre 2013, ha fornito chiarimenti in relazione all’istituto del raddoppio dei termini di decadenza dell’accertamento di cui all’art. 43, comma 3, del D.P.R. n. 600/1973 in ipotesi di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal d.lgs. n. 74/2000. In particolare, i giudici di secondo grado si sono soffermati sulle condizioni affinché possa operare la normativa del raddoppio dei termini decadenziali per l’accertamento, con specifico riguardo alla allegazione della denunzia di reato presentata alla Procura della Repubblica. La vicenda da cui prende le mosse la sentenza de qua origina da un avviso di accertamento emesso ai fini IRES, IRAP e IVA per il periodo d’imposta 2004 a carico di una società operante nel settore del commercio di rottami ferrosi e non ferrosi (società accertata) con applicazione dell’istituto del raddoppio dei termini decadenziali di accertamento di cui all’art. 43, comma 3, del D.P.R. n. 600/1973. L’avviso di accertamento trae origine da un processo verbale di accertamento (PVC) innescato dalle risultanze di un procedimento penale aperto presso la Procura della Repubblica nei confronti dei vari soggetti partecipanti ad un presunto sistema di frode. In particolare, in base alle risultanze del nucleo di Polizia Tributaria, è stato rilevato che una persona fisica, a cui era riconducibile la società accertata, nei periodi di imposta dal 2004 al 2007, aveva interposto società cd. “cartiere” per consentire l’acquisto “in nero” di materiale ferroso a varie società del settore, tra cui la società accertata. Pertanto, le fatture emesse dalla società interposta sono state considerate operazioni soggettivamente inesistenti. L’accusa ha messo, peraltro, in evidenza la responsabilità oggettiva della società appellata tanto più considerato che il legale rappresentante della stessa era a conoscenza di tale meccanismo criminoso. Ai fini tributari, l’istruttoria ha contestato così l’indeducibilità ai fini IRES ed IRAP dei costi relativi a fattispecie penalmente rilevanti, nonché l’indetraibilità IVA relativa a operazioni inesistenti contabilizzate. La società accertata ha proposto ricorso avverso l’avviso di accertamento che è stato accolto dai giudici di Prime Cure che hanno rilevato, in via preliminare ed assorbente, che: «qualora il reato è prescritto, l’Amministrazione finanziaria non può usufruire del raddoppio dei termini per procedere all’accertamento» e sottolineato, inoltre, come non sia stata fornita da parte dell’ufficio accertatore alcuna prova in ordine alla denuncia di reato presentata alla Procura della Repubblica di modo da consentire al giudice di verificare la sussistenza dei presupposti cui all’art. 43, comma 3, del D.P.R. n. 600/1973 e, quindi, il legittimo ricorso al raddoppio dei termini decadenziali per l’accertamento. L’ufficio ha proposto ricorso in appello avverso la sentenza di primo grado. La Commissione tributaria regionale ha confermato la sentenza di primo grado, sottolineando come i ragionamenti 118 dei giudici di prime cure si sono basati su ponderate riflessioni circa il problema del raddoppio dei termini di accertamento, che prendono le mosse da quanto statuito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 247 del 25 luglio 2011. In particolare, i giudici di secondo grado hanno evidenziato, in conformità a quanto stabilito nella sentenza della Consulta, che in presenza di una contestazione sollevata dal contribuente, l’onus probandi della sussistenza di detti presupposti è posto a carico dell’Amministrazione finanziaria. Nel caso di specie, al contrario, nessun elemento di prova è stato allegato da parte dell’Amministrazione finanziaria in ordine al deposito della denuncia penale (denuntia criminis) al ricorso in prima istanza. Conseguentemente, la Commissione tributaria provinciale, sulla base della documentazione prodotta, non ha potuto riscontrare l’effettiva instaurazione del procedimento penale presso la competente Procura della Repubblica, rilevando, invero, come agli atti di primo grado non fosse stata prodotta la supposta denuncia che non avrebbe potuto far scattare il raddoppio dei termini dell’accertamento. Pertanto, l’operato dell’Amministrazione finanziaria è stato considerato nullo in quanto compiuto oltre i prescritti termini di decadenza, restando irrilevante l’allegazione tardiva da parte dell’Ufficio della denuncia di reato solo in sede d’appello. SOCIETÀ DI COMODO SOCIETÀ DI COMODO: LA CRISI DEL MERCATO IMMOBILIARE E LA DIMOSTRATA IRREPERIBILITÀ DI UN LOCATARIO IMPONGONO LA DISAPPLICAZIONE DELLA DISCIPLINA @ Comm. Trib. prov. Milano 14 novembre 2013, n. 413 - Pres. C. De Sapia - Rel. G. Chiametti La Commissione tributaria provinciale di Milano, nella sentenza n. 413 del 25 ottobre 2013, ha fornito chiarimenti in materia della disciplina delle cd. società di comodo contenuta nell’art. 30 della L. n. 724/1994, soffermandosi su taluni aspetti concernenti l’istanza di interpello presentata per la disapplicazione della predetta disciplina ai sensi dell’art. 37 bis, comma 8, del D.P.R. n. 600/1973. La vicenda da cui prende le mosse la pronuncia in parola origina dal ricorso presentato da una società avverso il provvedimento amministrativo di diniego di disapplicazione della normativa sulle cd. società di comodo emesso dall’Agenzia delle Entrate - Direzione Regionale della Lombardia. Nel dettaglio, la società ha presentato istanza di interpello ai sensi dell’art. 37 bis, comma 8, del D.P.R. n. 600/1973, per la disapplicazione, per l’anno 2010, della disciplina delle cd. società di comodo sostenendo di essere proprietaria di un’unica unità immobiliare (capannone a uso magazzino/ufficio) sfitta già dal giugno del 2009, nonostante la società stessa si fosse prodigata nella ricerca di un soggetto interessato alla locazione, riducendo, peraltro, anche notevolmente il prezzo di locazione. Stante questa condizione, la società ha subito notevoli perdite dovute alle spese correnti dell’immobile (utenze, ICI, diritti CCIAA, spese amministrative, ecc.) A fronte del diniego dell’istanza di disapplicazione, la società ha proposto ricorso dinanzi la Commissione tributaria provinciale, evidenziando la totale mancanza di qualsivoglia elemento di elusività nella perdita fiscale dovuta, chia- Le Società 1/2014 Fisco e Società Sintesi ramente, ad una situazione di fatto connessa ad obiettive condizioni di mercato tali da renderle impossibile ottenere ricavi o proventi nelle misure minime stabilite dalla normativa sulle società di comodo. A ciò si aggiunga anche l’impossibilità di trovare un locatario. La società ha chiesto, in via preliminare, la dichiarazione di autonoma impugnabilità del provvedimento emesso dalla Direzione Regionale della Lombardia e, in via principale, il suo annullamento. La Direzione Regionale della Lombardia, costituitasi in giudizio, ha eccepito l’inammissibilità del ricorso, in quanto riguardante un atto non autonomamente impugnabile ex art. 19 del d.lgs. n. 546/1992, e l’illegittimità del provvedimento, tenuto conto che la società non aveva puntualmente documentato le iniziative intraprese per concludere un nuovo rapporto di locazione. Il Giudice di prime cure ha ritenuto legittimo il ricorso avverso il provvedimento amministrativo di diniego dell’istanza di interpello di disapplicazione della normativa sulle cd. società di comodo dal momento che esso è un atto impugnabile in quanto si incunea fra la lettera i) dell’art. 19 del d.lgs. n. 546/1992 che recita «ogni altro atto per il quale la legge ne preveda l’autonoma impugnabilità davanti alle Commissioni tributarie». L’atto con cui viene negata la disapplicazione di norme antielusive invero, seppur non Le Società 1/2014 espressamente richiamato dalla norma, deve ritenersi impugnabile data la sua corrispondenza sostanziale, per funzione ed effetti, con quanto normativamente previsto. Per quanto riguarda, poi, le doglianze sul merito, i giudici milanesi hanno evidenziato che l’unico immobile di proprietà della società era rimasto sfitto a causa della crisi economica. Al riguardo, la società ha prodotto copia del bilancio al 31 dicembre 2010 dal quale risultava che la stessa aveva chiuso in perdita proprio perché priva di ricavi. Peraltro, i giudici di primo grado hanno evidenziato che la società ha prodotto copie di documenti di incarichi e mandati ad affittare rilasciati a primarie agenzie immobiliari allo scopo di reperire potenziali conduttori del capannone. Così dando prova del reale intendimento della società di locare l’immobile. Inoltre, proprio al fine di individuare un conduttore nel breve, il canone di affitto inizialmente proposto veniva, successivamente, decurtato. Da quanto sopra discende una reale situazione di non operatività della società di natura oggettiva e non dipesa, dunque, dalla volontà dell’imprenditore né tanto meno da finalità elusive, tale per cui la Commissione tributaria provinciale, con decisione pienamente condivisibile, ha accolto il ricorso annullando il provvedimento di diniego di disapplicazione della normativa sulle cd. società di comodo. 119
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