Osservatorio fiscale

Fisco e Società
Sintesi
Osservatorio fiscale
a cura di Massimo Gabelli (*)
IMPOSTE DI REGISTRO, IPOTECARIE E CATASTALI
MISURE URGENTI IN MATERIA DI ISTRUZIONE, UNIVERSITÀ
E RICERCA
@ D.L. 12 settembre 2013, n. 104, conv. in L., con modif., 8 novembre 2013 n. 128 - G.U. 11 novembre 2013,
n. 264
La legge di conversione non ha modificato le disposizioni
di cui all’art. 26 del Decreto, che ha previsto alcune importanti novità, con effetto dal 1° gennaio 2014, alla misura
delle imposte di registro, ipotecarie e catastali, con riguardo sia a disposizioni di carattere generale che disposizioni
applicabili, in via esclusiva, alle compravendite immobiliari.
Per un commento approfondito sulle novità introdotte dall’art. 26 del Decreto si rinvia a quanto chiarito nell’Osservatorio pubblicato in questa Rivista, 12/2013, 1396.
IMPOSTE INDIRETTE
IVA NON MENZIONATA NEI CONTRATTI DI VENDITA. LA
CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA SPIEGA COME CALCOLARE
L’IMPOSTA NEL RISPETTO DEL PRINCIPIO DI NEUTRALITÀ
@ Corte Giustizia Ue, sez. III, 7 novembre 2013, cause
riunite C-249/12 e C-250/12 - Pres. M. llesic - Rel. C.G.
Fernlund
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con la sentenza
del 7 novembre 2013 nelle cause riunite C-249/12 e C250/12, ha chiarito che laddove le parti di una compravendita di beni immobili abbiano stabilito il prezzo di un bene
senza fare menzione dell’IVA ed il fornitore di tale bene sia
il soggetto passivo tenuto al versamento dell’imposta sull’operazione imponibile, il prezzo pattuito, nel caso in cui il
fornitore non abbia la possibilità di recuperare dall’acquirente l’IVA riscossa dall’Amministrazione finanziaria, deve
essere considerato già comprensivo dell’IVA.
Il caso trattato origina da un procedimento incidentale promosso dai giudici rumeni in relazione ad una controversia
sorta in conseguenza di un accertamento notificato dall’Amministrazione finanziaria ad un contribuente che, in veste di privato, aveva ceduto alcuni beni immobili mediante
un contratto di compravendita.
L’Amministrazione finanziaria, ritenendo che la compravendita degli immobili fosse stata perfezionata nell’ambito di
un’attività di impresa, ha attribuito d’ufficio il numero di
partita IVA alla parte cedente, chiedendole, conseguentemente, il pagamento dell’IVA, aggiungendo il suo importo
al prezzo pattuito tra le parti contraenti, maggiorata di penalità di mora.
Parte ricorrente ha eccepito la correttezza di tale modalità
di calcolo, evidenziando che essa avrebbe come conseguenza quella di far gravare il peso dell’imposta sul venditore e non già sulla parte acquirente, ciò in violazione dei
principi generali dell’IVA che pone l’imposta a carico del
consumatore finale. La parte ricorrente ha sostenuto che
laddove il contratto di compravendita dell’immobile non
contiene alcuna menzione dell’IVA, questa deve essere applicata con riferimento al prezzo pattuito tra le parti contraenti, diminuito del valore totale dell’IVA di modo che
l’importo versato dall’acquirente copra tanto il prezzo dovuto al fornitore/cedente quanto l’imposta.
I giudici rumeni hanno deciso di sottoporre la questione alla Corte di Giustizia dell’Unione europea con riguardo alla
direttiva 2006/112/CE del Consiglio Europeo del 28 novembre 2006 (la “Direttiva IVA”) e in particolare dei suoi articoli 73 e 78.
Nel dettaglio, è stato chiesto alla Corte di Giustizia di chiarire, con riferimento agli articoli 73 e 78 della Direttiva IVA,
se, qualora le parti abbiano stabilito il prezzo di un bene
senza menzionare nulla riguardo all’IVA, e il fornitore di tale
bene sia la persona tenuta a versare l’IVA sull’operazione
imponibile, il prezzo pattuito debba essere considerato come un prezzo già comprensivo dell’IVA oppure come un
prezzo IVA esclusa che deve essere maggiorato di quest’ultima.
In merito alla questione pregiudiziale, la Corte di Giustizia
ha sottolineato come, secondo le disposizioni in materia
IVA, il principio del sistema comune consiste nell’applicare
ai beni e servizi un’imposta generale sui consumi esattamente proporzionale al prezzo degli stessi e che la base imponibile comprende tutto ciò che costituisce il corrispettivo
versato o da versare al fornitore dei beni (o al prestatore
dei servizi) da parte dell’acquirente, del destinatario o di un
terzo. La base imponibile non deve, però, comprendere l’IVA.
Conformemente alla regola generale sancita all’art. 73 della Direttiva IVA, nelle operazioni a titolo oneroso la base
imponibile è costituita dal corrispettivo effettivamente ricevuto dal soggetto passivo a fronte del bene o servizio fornito; tale corrispettivo rappresenta il valore soggettivo ovvero
il valore realmente percepito e non un valore stimato secondo criteri oggettivi. Inoltre, tale regola deve essere applicata in conformità al principio secondo il quale il sistema
dell’IVA mira a gravare in via esclusiva sul consumatore finale.
Da ciò consegue che la Direttiva IVA, ed in particolare i
suoi articoli 73 e 78, deve essere interpretata nel senso
che, qualora le parti abbiano stipulato un contratto di compravendita, stabilendo il prezzo senza alcuna menzione dell’IVA e il fornitore di tale bene sia la persona tenuta a versare l’imposta dovuta sull’operazione imponibile, il prezzo
pattuito, nel caso in cui il fornitore non abbia la possibilità
di recuperare dall’acquirente l’IVA riscossa dall’Ammini-
(*) Il testo integrale delle sentenze e` disponibile su
www.ipsoa.it/lesocieta`
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strazione finanziaria, deve essere considerato come comprensivo dell’imposta.
Pertanto, nel caso di cessione di un bene immobile mediante un contratto di compravendita che nulla abbia previsto in merito all’imposta, è necessario verificare se l’IVA
possa essere recuperata o meno nei confronti dell’acquirente. In questa seconda ipotesi, considerare il prezzo complessivo quale base imponibile per l’applicazione dell’imposta significherebbe far ricadere definitivamente l’imposizione in capo al fornitore.
Infatti, nel caso in cui il fornitore, secondo il diritto nazionale, non possa recuperare presso l’acquirente l’IVA poi riscossa dall’Amministrazione finanziaria, la presa in considerazione del prezzo complessivo, senza detrazione dell’IVA, come base sulla quale applicare l’IVA, avrebbe come
conseguenza che l’IVA graverebbe su tale fornitore e, pertanto, contrasterebbe con il principio secondo cui l’IVA è
un’imposta sul consumo che deve essere sopportata dal
consumatore finale. Se invece, secondo le regole nazionali,
il cedente fosse legittimato ad aggiungere l’imposta accertata al prezzo convenuto e a rivalersene sulla controparte,
l’IVA andrebbe conteggiata sull’intero corrispettivo, sommandosi allo stesso.
CONTRIBUTI EROGATI DALLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI
- TRATTAMENTO AI FINI IVA
@ Circolare Agenzia delle Entrate 21 novembre 2013,
n. 34/E
Nella Circolare n. 34 del 21 novembre 2013 (la “Circolare”)
l’Agenzia delle Entrate ha fornito precisazioni sul corretto
trattamento tributario, sia ai fini IVA sia ai fini delle norme
di contabilità pubblica, delle somme erogate a vario titolo
dalla Pubblica amministrazione a soggetti pubblici o privati.
In particolare, la Circolare ha chiarito che le erogazioni sono rilevanti ai fini IVA in presenza di un rapporto contrattuale laddove costituiscono il compenso per un servizio effettuato o per un bene ceduto. Al contrario, non si applica
l’IVA quando chi riceve il contributo non è obbligato a rendere alcuna controprestazione.
Sono, pertanto, gli interessi delle parti a stabilire se l’erogazione costituisce un corrispettivo per il servizio effettuato o
per il bene ceduto, rilevante ai fini IVA, o se si configura
come una mera assegnazione di denaro, esclusa da IVA.
L’Agenzia delle Entrate ricorda che la qualificazione di
un’erogazione quale corrispettivo (o quale contributo privo
di sinallagmaticità) deve essere individuata in primo luogo
in base a norme di legge, siano esse specifiche o generali,
nonché a norme di rango comunitario. Solo qualora la norma di legge non qualifica le caratteristiche dell’erogazione
specifica, si dovrà fare ricorso i criteri suppletivi.
In particolare, costituiscono contributi pubblici, non rilevanti ai fini IVA, le erogazioni effettuate: (i) in esecuzione di
norme che prevedono l’elargizione di benefici al verificarsi
di presupposti predefiniti (ad es. aiuti di Stato automatici);
(ii) in favore di particolari categorie di soggetti (ad es. in favore delle confessioni religiose o di associazioni destinatarie del 5 o dell’8 per mille dell’IRPEF); (iii) nei casi in cui le
Pubbliche amministrazioni agiscono in applicazione dell’art. 12 della L. 7 agosto 1990, n. 241 (provvedimenti attributivi di vantaggi economici); (iv) dai soci - incluso il socio
avente soggettività di diritto pubblico - in base alle norme
del codice civile, quali apporti di capitale, esposti in bilancio nel patrimonio netto.
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Costituiscono, invece, corrispettivi: (i) le erogazioni conseguenti alla stipula di contratti in base al codice dei contratti
pubblici, adottato in recepimento di apposite direttive comunitarie; (ii) le erogazioni conseguenti alla stipula di contratti a prestazioni corrispettive che regolano rapporti per
settori esclusi dallo stesso codice (ad es. contratti riguardanti la sicurezza nazionale), ovvero quando i rapporti sono
costituiti con soggetti dai particolari requisiti per i quali gli
affidamenti sono effettuati al di fuori delle regole del medesimo codice (ad es. società operanti secondo il modello organizzativo dell’in house providing).
Rappresentano criteri sussidiari per qualificare la natura
delle erogazioni: a) l’acquisizione da parte dell’ente erogante dei risultati dell’attività finanziata (o corrispettività tra
elargizione di denaro ed attività finanziata). Un esempio,
frequente in tema di contributi per la ricerca, è se la proprietà dei risultati della ricerca stessa sovvenzionata resti in
capo al soggetto privato (indice di assenza di corrispettività) o meno; e b) previsione di clausola risolutiva espressa o
di risarcimento del danno da inadempimento.
AUMENTO DELL’ALIQUOTA IVA ORDINARIA
@ Circolare Agenzia delle Entrate 5 novembre 2013, n.
32/E
Con la circolare n. 32/E del 5 novembre 2013 (la “Circolare”) l’Agenzia delle Entrate ha fornito talune precisazioni in
relazione all’aumento dell’aliquota IVA ordinaria dal 21% al
22% che decorrere dal 1° ottobre 2013.
Ai fini della corretta applicazione della nuova aliquota ordinaria, la Circolare ha rinviato, in linea generale, ai chiarimenti già resi nella circolare della Agenzia delle Entrate n.
45 del 12 ottobre 2011, con riferimento al precedente aumento dal 20% al 21% dell’aliquota IVA ordinaria.
In particolare, nella Circolare viene chiarito che, per individuare l’aliquota IVA ordinaria applicabile (i.e., 21% o 22%),
rileva il momento di effettuazione delle operazioni ai sensi
dell’art. 6 del Decreto del Presidente della Repubblica 26
ottobre 1972, n. 633 (“D.P.R. n. 633/1972”). Per cui, fatto
salvo il caso di emissione della fattura anticipata o del pagamento di acconti, si applica l’aliquota IVA del 22% alle
consegne o spedizioni effettuate dal 1° ottobre 2013, per le
cessioni di beni mobili; alle operazioni il cui corrispettivo è
pagato a partire dal 1° ottobre 2013, per le prestazioni di
servizi.
Nel caso di operazioni con l’estero, invece, agli acquisti intracomunitari di beni si applica l’aliquota IVA vigente alla
data di partenza dei beni dallo Stato di origine (e non più al
momento di consegna o arrivo nello Stato di destinazione);
alle importazioni si applica l’aliquota IVA vigente alla data
di accettazione della dichiarazione doganale; alle prestazioni di servizi “generici”, rese da un soggetto IVA non residente a un committente italiano, si applica l’aliquota IVA
vigente al momento di ultimazione della prestazione.
La Circolare ha chiarito che, per le operazioni in regime di
IVA per cassa, l’aliquota IVA applicabile è comunque determinata sulla base del momento di effettuazione dell’operazione secondo i criteri ordinari sopra descritti. Il regime di
IVA per cassa, infatti, differisce solo il momento di esigibilità dell’imposta (al momento del pagamento dei corrispettivi), ma non modifica i criteri di effettuazione delle operazioni.
Inoltre, come già anticipato con il comunicato stampa n.
137 del 30 settembre 2013 - che ha impartito le prime
istruzioni riguardanti l’entrata in vigore dell’aliquota al 22%
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- l’Agenzia delle Entrate ha confermato che, qualora nella
fase di prima applicazione della nuova aliquota IVA ordinaria ragioni di ordine tecnico impediscano di adeguare i software per la fatturazione e i misuratori fiscali, gli operatori
potranno regolarizzare le fatture eventualmente emesse erroneamente con l’aliquota del 21% effettuando la variazione in aumento ex art. 26 del D.P.R. n. 633/1972.
Inoltre l’Amministrazione centrale ha dato istruzione agli
uffici accertatoti di non applicare alcuna sanzione se la
maggiore IVA collegata all’aumento dell’aliquota verrà versata entro i seguenti termini: (i) per i contribuenti mensili
entro il 27 dicembre 2013 (termine per il versamento dell’acconto IVA 2013), per le fatture emesse nei mesi di ottobre e novembre 2013, ed entro il 17 marzo 2014 (termine
per il versamento del saldo IVA 2013), per le fatture emesse nel mese di dicembre 2013; (ii) per i contribuenti trimestrali entro il 17 marzo 2014 (termine per il versamento del
saldo IVA 2013), per le fatture emesse nel quarto trimestre
2013 (ottobre-dicembre 2013).
Infine, con riferimento ai servizi di somministrazione di acqua, luce, gas, ecc., la Circolare ha chiarito che nelle note
di credito emesse dai fornitori di servizi di pubblica utilità
(acqua, luce e gas), al fine di conguagliare i consumi effettivi, è applicabile l’aliquota IVA ordinaria dell’ultima fattura
emessa per il periodo di riferimento del conguaglio (nei limiti dell’imposta addebitata con tale aliquota nella fattura
stessa). Per l’eventuale eccedenza di credito da restituire,
si farà riferimento alle fatture immediatamente antecedenti
fino al completo recupero degli importi.
Resta fermo che l’aliquota IVA delle note di accredito deve
essere quella originariamente applicata, laddove la nota di
variazione sia emessa per documentare conguagli tariffari,
dovuti alla rideterminazione dei prezzi. Nel caso in cui il saldo risulti a debito del cliente, l’aliquota IVA applicabile al
saldo imponibile è quella vigente al momento di emissione
della fattura di conguaglio.
convenuto e la rifusione delle spese della lite che ha interessato anche i litisconsorti.
Sul punto, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che l’art. 57
del D.P.R. n. 131/1986 individua, tra i soggetti solidalmente
obbligati al pagamento del tributo, “le parti in causa”. Tuttavia, come chiarito in più occasioni dalla giurisprudenza di
legittimità (tra le tante, si vedano Corte di Cassazione, sentenze n. 4805 del 28 febbraio 2011 e n. 16745 del 17 luglio
2010) l’imposta di registro non deve gravare indiscriminatamente su tutti i soggetti che hanno preso parte al procedimento giudiziario in quanto l’indice di capacità contributiva dell’imposta di registro non è la sentenza in quanto tale,
ma «il rapporto sostanziale in essa racchiuso, con conseguente esclusione del vincolo di solidarietà nei confronti
dei soggetti ad esso estranei».
Pertanto la solidarietà non si estende a tutti coloro che abbiano “preso parte” al giudizio, ma deve essere limitata ai
soggetti coinvolti dal rapporto sostanziale che è alla base
del giudicato, con esclusione, perciò, dei soggetti che a
detto rapporto risultino estranei.
Conseguentemente, secondo la Risoluzione, non sono obbligati al pagamento dell’imposta di registro i soggetti intervenuti volontariamente nel processo a norma dell’art.
105, comma 2, del codice procedura penale, esperendo il
c.d. intervento adesivo dipendente. Detto articolo, infatti,
consente l’intervento nel giudizio a chi, pur non vantando
un diritto nei confronti delle parti del processo, abbia un interesse giuridicamente rilevante ad un determinato esito
della controversia.
Tali soggetti non risultano coinvolti dal rapporto sostanziale
e, quindi, non sono solidalmente obbligati al pagamento
dell’imposta di registro dovuta dall’attore e dal convenuto
sulla sentenza, anche ove (come nel caso di specie) siano
condannati al pagamento delle spese di giudizio.
IMPOSTE SUI REDDITI
IMPOSTA DI REGISTRO
SOLIDARIETÀ PASSIVA DELLE “PARTI IN CAUSA” PER
L’IMPOSTA DI REGISTRO SUGLI ATTI GIUDIZIARI
@ Risoluzione Agenzia delle Entrate 21 novembre
2013, n. 82/E
Nella risoluzione n. 82/E del 21 novembre 2013 (la “Risoluzione”) l’Agenzia delle Entrate ha fornito chiarimenti in merito alla solidarietà passiva nel pagamento dell’imposta di
registro regolata dall’art. 57 del Decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131 (“D.P.R. n. 131/86”),
in relazione agli atti giudiziari.
In particolare, nella Risoluzione è stato chiarito che la responsabilità solidale per il pagamento dell’imposta di registro dovuta su un provvedimento giudiziario grava esclusivamente su attore e convenuto e non, invece, sui altri soggetti eventualmente coinvolti ma estranei al giudicato.
La Risoluzione origina da una controversia giudiziaria che
si conclude con la condanna di un consulente finanziario
alla restituzione di somme indebitamente trattenute rispetto ad un incarico di investimento ricevuto da un cliente. In
giudizio erano intervenuti volontariamente altri soggetti terzi, a loro volta creditori del convenuto, dunque, interessati
all’accertamento dell’esatto ammontare del credito vantato. La sentenza ha sancito la soccombenza del consulente
Le Società 1/2014
RIMANENZE VALUTATE A COSTI SPECIFICI: LA
SVALUTAZIONE DELLE RIMANENZE RESTA FISCALMENTE
IRRILEVANTE
@ Risoluzione Agenzia delle Entrate 12 novembre
2013, n. 78/E
Nella risoluzione n. 78/E del 12 novembre 2013 (la “Risoluzione”) l’Agenzia delle Entrate ha fornito chiarimenti in relazione alla disciplina dei beni a rimanenza e valutati a costi
specifici, precisando che la loro svalutazione è fiscalmente
irrilevante.
Conseguentemente, le imprese sono obbligate ad effettuare in sede di dichiarazione una variazione in aumento che
va a neutralizzare sotto il profilo fiscale la svalutazione
iscritta a conto economico.
Il caso oggetto dell’interpello ordinario confluito nella Risoluzione concerne una società che, dopo essersi aggiudicata ad un’asta giudiziaria un immobile ad uso abitativo, aveva proceduto ad iscriverlo in bilancio al costo di acquisto
come rimanenza, valutandolo al costo specifico, comprensivo del prezzo di acquisto e degli oneri accessori, per venderlo successivamente.
In seguito, la società aveva proceduto alla svalutazione dell’immobile, stante la mancata conformità dello stesso alla
licenza edilizia a suo tempo rilasciata dall’ente comunale.
La perizia effettuata da un consulente incaricato dalla so-
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cietà, nel confermare l’impossibilità di procedere alla sanatoria dell’opera, aveva, infatti, stimato una significativa riduzione del valore di mercato del bene.
Tanto premesso, la questione posta dalla società in sede di
interpello si incentra sulla possibilità di attribuire rilevanza
fiscale, ai sensi dell’art. 92, comma 5, del Decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917
(“TUIR”), alla svalutazione del cespite iscritto in bilancio
dalla società. L’Agenzia delle Entrate si è espressa nel senso di escludere tale possibilità ritenendo, conseguentemente, necessario riprendere a tassazione la suddetta svalutazione contabile.
La conclusione a cui è giunta l’Agenzia delle Entrare deriva
dalla formulazione dell’art. 92, comma 1, del TUIR, secondo il quale i criteri di valutazione ivi indicati riguardano «le
rimanenze finali la cui valutazione non sia effettuata a costi
specifici o a norma dell’articolo 93».
L’Agenzia delle Entrate, nell’argomentare il proprio ragionamento, prende le mosse dalla considerazione che, già in ambito civilistico, si desume un diverso trattamento dei beni in
relazione alla loro natura. In particolare, i beni fungibili sono
ammessi alla valutazione secondo le metodologie del LIFO,
del FIFO o del costo medio ponderato, per i quali le svalutazioni sono deducibili ex art. 92, comma 5 del TUIR, mentre
le svalutazioni dei beni infungibili valutati secondo il criterio
del costo specifico in funzione delle loro caratteristiche non
possono assumere rilevanza sotto il profilo fiscale.
L’art. 92 del TUIR si pone in rapporto di dipendenza dalla
norma civilistica nella misura in cui riconosce, ai fini della
valutazione delle rimanenze, i criteri di valutazione adottati
in sede di redazione del bilancio, nel rispetto, tuttavia, di
un “valore minimo” imposto dalla norma fiscale.
Eccezionalmente si tollerano svalutazioni, limitatamente alle ipotesi di beni valutati secondo criteri di valorizzazione
forfetaria del magazzino (i.e., FIFO, LIFO, costo medio ponderato) cui il comma 5 della norma in esame si riferisce testualmente.
Tale mancato richiamo impedisce la possibilità di procedere a rettifiche di valore fiscalmente rilevanti dei beni valutati
al costo specifico.
Da ultimo, come osservato dall’Agenzia delle Entrate la soluzione sarebbe coerente, anche, con quanto previsto per i
soggetti che adottano i principi contabili internazionali (IAS
adopter) che non considerano rilevanti fiscalmente gli effetti valutativi degli immobili classificati ai sensi dello IAS 2
(art. 3, comma 2, D.M. 8 giugno 2011), che assumono rilievo solo in sede di realizzo.
Si segnala che a diverse conclusioni è giunta l’Associazione Italiana Dottori Commercialisti (“ADC”) nella norma di
comportamento n. 168, pubblicata nel mese di giugno
2007, dal titolo “Rimanenze valutate a costi specifici: confronto con il valore normale” secondo la quale, invero, l’art.
92 del TUIR, proprio perché nulla dispone in tema di valutazione delle rimanenze di magazzino trattate a costi specifici, rende, di conseguenza, applicabile anche alle rimanenze valutate con il criterio del costo specifico, ai sensi dell’art. 83, comma 1, del TUIR, il principio di cui all’art. 2426,
n. 9, del codice civile che prevede il confronto con il valore
normale, così come definito dall’art. 9 del TUIR.
In particolare, secondo l’ADC si giunge a tale conclusione
considerando che l’art. 92, comma 5, primo periodo, del
TUIR disciplina solo le ipotesi di valutazione relative ai metodi convenzionali (validi, quindi, per i beni fungibili la cui
valutazione non sia effettuata a costi specifici), di cui ai
precedenti commi 2, 3 e 4 dello stesso articolo. Inoltre, un
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ulteriore elemento che depone a favore della deducibilità
della svalutazione, sempre in base a quanto sostenuto dall’ADC nella citata norma di comportamento, è rappresentato dal fatto che l’art. 92 TUIR, nel disciplinare la valutazione
coi metodi convenzionali, dispone il confronto per categorie omogenee di beni, fra di loro considerate, ai fini valutativi, come “unità”, con un procedimento applicativo per
certi aspetti simile a quello concernente beni “singoli”.
L’ADC conclude sostenendo che, alla luce delle considerazioni anzidette, si ricava che anche per i beni immobilemerce parrebbe coerente e plausibile l’applicazione della
regola del confronto con il valore normale, così come avviene per le rimanenze di beni valutate in base ai metodi
convenzionali, di tipo forfetario.
IMPOSTA DI BOLLO
DEDUCIBILITÀ DELL’IMPOSTA DI BOLLO NEL REGIME DEL
RISPARMIO GESTITO
@ Risoluzione Agenzia delle Entrate 6 novembre 2013,
n. 76
Nella risoluzione n. 76 del 6 novembre 2013 (la “Risoluzione”) l’Agenzia delle Entrate ha fornito chiarimenti in relazione al trattamento fiscale da applicare all’imposta di bollo
sugli estratti conto ovvero sui rendiconti di gestione relativi
al patrimonio gestito ai sensi dell’art. 13, commi da 2 a 2
ter, della Tariffa, Parte Prima, allegata al D.P.R. 26 ottobre
1972, n. 642 (“D.P.R. n. 642/1972”).
In particolare, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che l’imposta di bollo dovuta sui rendiconti relativi alle gestioni di
portafogli per le quali sia stata esercitata l’opzione per l’applicazione del regime del risparmio gestito ai sensi dell’art.
7 del DLgs. 21 novembre 1997, n. 461 (“D.Lgs. n. 461/
1997”) è deducibile dal risultato maturato della gestione, in
quanto costituisce un onere strettamente inerente alla gestione del risparmio.
Dopo aver ricapitolato il sistema di tassazione dei redditi diversi di natura finanziaria introdotto dal DLgs. 461/1997 e
passato in rassegna le differenze tra il regime del risparmio
amministrato e quello del risparmio gestito, l’Agenzia delle
Entrate ha risposto alla richiesta di consulenza giuridica del
contribuente che chiedeva se l’imposta di bollo dovuta sui
rendiconti relativi alle gestioni di portafoglio per le quali
venga esercitata l’opzione per il regime del risparmio gestito sia deducibile dal risultato maturato della gestione.
Secondo l’Agenzia delle Entrate, l’imposta di bollo dovuta
ai sensi dell’art. 13, comma 2 bis (conti correnti) e 2 ter
(prodotti finanziari) della Tariffa, parte I, allegata al D.P.R.
n. 642/1972, da corrispondere sugli estratti di conto corrente e sui rendiconti relativi alla gestione di portafogli, è
deducibile dal risultato della gestione, in quanto costituisce
un onere strettamente inerente alla gestione del patrimonio.
Infatti, rammenta l’Agenzia delle Entrate, come chiarito
nella Circolare Ministeriale 24 giugno 1998 n. 165/E, sono
deducibili dal risultato della gestione le commissioni e gli
oneri relativi al patrimonio gestito.
Diversamente, non sono deducibili dal risultato maturato
della gestione né l’imposta di bollo speciale sulle attività
scudate di cui all’art. 19, comma 6, del D.L. 6 dicembre
2011, n. 201, in quanto trattasi di un onere non inerente al
patrimonio gestito, ma connesso al regime di riservatezza
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previsto dall’art. 14, comma 2, del D.L. n. 350/2001, di cui
possono beneficiare le attività finanziarie che siano state
oggetto di emersione attraverso la procedura del rimpatrio;
né l’imposta sulle transazioni finanziarie di cui all’art. 1,
commi 491 - 499, della L. 24 dicembre 2012 n. 228, in
quanto il comma 499 del citato art. 1 stabilisce l’indeducibilità dell’imposta sulle transazioni finanziarie ai fini delle
imposte dirette e l’art. 18 del D.M. 21 febbraio 2013 dispone espressamente che l’indeducibilità riguarda, oltre alle
imposte sui redditi, anche le imposte sostitutive.
REATI
POSSIBILE RILEVANZA PENALE DELLO SCOSTAMENTO DEL
PREZZO DI COMPRAVENDITA DELL’IMMOBILE DAI DATI OMI
@ Cassazione penale, sez. III, 18 novembre 2013, n.
46165 - Pres. C. Squassoni - Rel. A. M. Andronio
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 46165 del 18
novembre 2013, ha chiarito che, nella valutazione del reato
di infedele dichiarazione nelle compravendite di immobili,
la condanna penale si può fondare sugli stessi documenti
ed elementi che sono posti alla base dell’accertamento fiscale, anche se presuntivi, laddove ritenuti idonei dal giudice penale a provare l’evasione.
Sulla base di questi presupposti, anche la differenza con i
valori di mercato degli immobili venduti (Listini dell’Osservatorio del mercato immobiliare -”OMI”) può concorrere a
fondare la responsabilità penale del contribuente.
Il caso oggetto della pronuncia in parola origina dalla sentenza del Tribunale di primo grado con la quale un contribuente era stato condannato per il reato di infedele dichiarazione dei redditi e dell’IVA di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 74
del 2000 per aver indicato elementi attivi inferiori a quelli
reali nella locazione e nella vendita di immobili.
Tale elementi erano desumibili da una serie di circostanze
vale a dire le movimentazioni del conto del figlio dell’imputato non giustificate, nella compravendita immobiliare, dai
differenti importi dichiarati in rogito inferiori ai valori OMI,
nonché mutui stipulati su alcuni immobili dagli acquirenti
di valore assai superiore rispetto a quello dichiarato.
I giudici di secondo grado hanno confermato la sentenza
di condanna del contribuente il quale è ricorso per cassazione avverso la sentenza, chiedendone l’annullamento.
Secondo la difesa del contribuente, il giudice di secondo
grado ha erroneamente applicato la disposizione incriminatrice, in relazione agli artt. 39, comma 2, lett. d) del D.P.R.
n. 600/73 e 55, comma 3, D.P.R. n. 633/1972 dal momento
che, fra le altre cose, ha ritenuto provato il fatto evasivo
sulla base dei dati OMI dai quali ha desunto lo scostamento dal reale valore di mercato dei prezzi di compravendita
degli immobili.
La Suprema Corte ha ritenuto infondata tale doglianza difensiva dal momento che la verifica del giudice penale può
sovrapporsi, o anche entrare in contraddizione, con quella
eventualmente compiuta davanti al giudice tributario, perché nella sede penale deve darsi prevalenza al “dato fattuale reale”, rispetto ai criteri di natura formale che caratterizzano l’ordinamento tributario, non essendo configurabile
alcuna pregiudiziale tributaria.
L’accertamento dell’Ufficio non era induttivo, ma analitico/
induttivo e basato su presunzioni gravi, precise e concordanti. Infatti nella specie, gli accertamenti erano stati svolti
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in base all’art. 39, comma 1, lettera d), del D.P.R. n. 600/
73, in forza del quale il reddito viene rettificato nel caso in
cui l’incompletezza, falsità o inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati risulti dall’ispezione delle scritture contabili, ovvero dal controllo della
completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni contabili sulla scorta delle fatture e degli altri atti documenti relativi all’impresa, nonché dei dati e delle notizie raccolte
dall’ufficio nei modi previsti dall’art. 32 del D.P.R. n. 600/
73.
Ebbene, gli stessi elementi - correttamente ritenuti decisivi,
univoci e concordanti - sono stati posti dalla Corte di merito a sostegno della responsabilità penale dell’imputato.
Sulla base di tale quadro probatorio, i giudici penali di legittimità hanno confermato, in via definitiva, la sentenza della
Corte d’appello.
IMPOSTE SUI REDDITI
COMPENSI DELL’AMMINISTRATORE UNICO DI S.R.L.
INDEDUCIBILI E SINDACABILI
@ Cassazione civile, sez. VI, 14 novembre 2013, n.
25572, ord. - Pres. M. Cicala - Rel. S. Bognanni
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 25572 del 14 novembre 2013, interviene nuovamente in materia di deducibilità dei compensi corrisposti all’amministratore unico di
S.r.l., affermando che tale compenso non è deducibile dal
reddito di impresa ove sussista una equiparazione, sotto il
profilo giuridico, tra la posizione dell’amministratore unico
e quella dell’imprenditore.
In particolare, la Corte di Cassazione osserva che - in tema
di imposte sui redditi e con riferimento alla determinazione
di quello d’impresa - l’art. 62 TUIR afferma che è esclusa
l’ammissibilità di deduzioni a titolo di compenso per il lavoro
prestato o l’opera svolta dall’imprenditore, limitando la deducibilità delle spese per prestazioni di lavoro a quelle sostenute per quello dipendente e per compensi spettanti agli
amministratori di società di persone; non è consentito, quindi, dedurre dall’imponibile il compenso per il lavoro prestato
e l’opera svolta dall’amministratore unico di società di capitali. Nel caso in esame, per la Corte di Cassazione, la posizione di quest’ultimo è equiparabile, sotto il profilo giuridico,
a quella dell’imprenditore, non essendo individuabile, in relazione alla sua attività gestoria, la formazione di una volontà
imprenditoriale distinta da quella della società, e non ricorrendo quindi, l’assoggettamento all’altrui potere direttivo, di
controllo e disciplinare, che costituisce il requisito tipico della subordinazione, come nella specie.
Più nel dettaglio, l’ordinanza de qua origina dal ricorso per
cassazione proposto da una S.r.l. avverso la sentenza della
Commissione tributaria centrale che aveva contestato, in
accoglimento alle posizioni dell’Ufficio delle imposte, la deduzione di alcuni costi ad opera della stessa S.r.l., tra cui
quelli riferentisi al compenso corrisposto all’amministratore
delegato ed al direttore, che erano, peraltro, gli unici soci.
In particolare, la società aveva proceduto alla deduzione di
una somma piuttosto consistente, proveniente dai ricavi e
annotata nel conto economico, a titolo di compenso all’amministratore, con un risultato finale di bilancio pari a
zero. Questa circostanza aveva fatto pensare ad un espediente elusivo per sottrarsi al pagamento delle imposte, tenuto anche conto dell’entità della pretesa retribuzione.
115
Fisco e Società
Sintesi
In primo luogo, gli Ermellini hanno affermato che il “vecchio” art. 62 del TUIR (in vigore fino al 31 dicembre 2003) il quale escludeva l’ammissibilità di deduzioni a titolo di
compenso per il lavoro prestato o l’opera svolta dall’imprenditore, limitando la deducibilità delle spese per prestazioni di lavoro a quelle sostenute per quello dipendente e
per compensi spettanti agli amministratori di società di
persone - non consente di dedurre dall’imponibile il compenso per il lavoro prestato e l’opera svolta dall’amministratore unico di società di capitali perché la posizione di
quest’ultimo è equiparabile, sotto il profilo giuridico, a
quella dell’imprenditore. In tal senso, di vedano anche: Corte di Cassazione, sentenza n. 24188 del 13 novembre 2006
e sentenza n. 21155 del 31 ottobre 2005.
Inoltre, nell’ordinanza la Suprema Corte ha affrontato il tema
del sindacato di congruità sull’attribuzione del compenso all’amministratore, affermando che rientra nei poteri dell’Amministrazione Finanziaria la valutazione di congruità dei costi
e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, anche
se non emerge alcuna irregolarità nella tenuta delle scritture
contabili o vizi negli atti giuridici d’impresa. Di conseguenza,
la deducibilità, ai sensi dell’art. 62 del TUIR, dei compensi
degli amministratori delle società non implica che gli uffici finanziari siano vincolati alla misura indicata in deliberazioni
sociali o contratti, competendo ai medesimi la verifica dell’attendibilità economica dei predetti dati (in tal senso, si veda Corte di Cassazione, ordinanza n. 9036 del 15 aprile
2013). In senso contrario, la sentenza della Corte di Cassazione, sezione tributaria, n. 24957 del 10 dicembre 2010 ha
affermato che l’attuale disciplina dettata dal TUIR non consente all’Amministrazione finanziaria alcun sindacato di congruità sul compenso erogato all’amministratore di società di
capitali, né è possibile invocare l’applicazione dell’art. 37 bis,
D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 il quale contempla ipotesi
specifiche nelle quali non è ricompresa la determinazione
degli oneri deducibili a tale titolo.
La sentenza aumenta, quindi, la complessità e rischiosità
del trattamento degli emolumenti amministratori. Invero, la
stessa non appare convincente sotto un duplice profilo. Innanzitutto in merito alla assimilazione tour court della figura
dell’amministratore unico di una società di capitali - organo
gestorio in rapporto organico con essa e nominato, così
come revocabile, dall’assemblea - a quella dell’imprenditore individuale. E neppure nella misura in cui, pure toccando
il tema della economicità dell’agire imprenditoriale e dell’esigenza di dare all’Amministrazione adeguati strumenti repressivi di comportamenti strumentali a vantaggi fiscali
“indebiti”, rigetta una valutazione complessiva della fattispecie, quindi anche considerando la posizione dell’amministratore che ben può essere chiamato a versare imposte
in misura tale da assicurare un gettito netto. Quest’ultima
prospettiva è stata accolta dalla stessa Corte di Cassazione
nella sentenza n. 24957 del 10 dicembre 2010.
IVA
INVERSIONE CONTABILE: SANZIONI CON PARAMETRI UE
@ Cassazione civile, sez. trib., 7 novembre 2013, n.
25035, ord. - Pres. E. Cirillo - Rel. R.G. Conti
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 25035 del 7 novembre 2013, ha chiesto alla Corte di Giustizia UE di pronunciarsi sulla misura delle sanzioni da applicarsi nell’even-
116
tualità in cui, nell’ambito di acquisti intracomunitari, il committente italiano ometta di provvedere agli obblighi di autofatturazione delle prestazioni, vale a dire l’integrazione delle
fatture estere di acquisto con l’IVA italiana, mediante il
meccanismo della cd. inversione contabile.
Più nel dettaglio, l’ordinanza in parola origina da processo
verbale di constatazione a cui ha fatto seguito un avviso di
accertamento notificato ad una società italiana - operante
nel settore della distribuzione dei beni in campo veterinario
- con cui l’Agenzia delle Entrate ha recuperato per l’anno
1998 l’IVA e le sanzioni ex art. 6 del D.lgs. n. 471/1997 in
forza della mancata osservanza degli adempimenti previsti
dagli artt. 46 (Fatturazione delle operazioni intracomunitarie) e 47 (Registrazione delle operazioni intracomunitarie)
del D.L. n. 331/1993 e dell’obbligo di presentazione degli
elenchi riepilogativi degli acquisti intracomunitari (art. 50,
comma 6, L. n. 427/1993).
In particolare, l’Agenzia delle Entrate ha contestato alla società italiana, beneficiaria di servizi resi da due soggetti stabiliti all’interno dell’Unione Europea, di avere, in un caso,
totalmente omesso di provvedere all’autofatturazione delle
prestazioni rese da una società francese ed alla iscrizione
delle fatture nel registro degli acquisti e delle vendite e, in
altro caso, essersi limitata ad annotare le fatture emesse
da una società olandese nei registri degli acquisti con l’indicazione “fuori campo IVA”. Contestualmente, l’Agenzia
delle Entrate ha rigettato la richiesta di definizione della lite
presentata dalla società ex art. 15 della L. n. 289/2002,
chiedendo il pagamento dell’IVA e la sanzione ex art. 6,
comma 1, del D.lgs. n. 471/1997 per omessa registrazione
delle fatture di acquisto.
La società ha proposto separati ricorsi contro l’atto impositivo e il diniego di definizione della lite, uscendo sconfitta
da entrambi i giudizi di merito. In particolare, la Commissione tributaria regionale ha negato il diritto alla detrazione
in ragione della natura “sostanziale” (e non meramente formale) degli obblighi previsti dagli artt. 46 e 47 del D.L. 331/
93, alla luce dell’indirizzo più rigoroso della giurisprudenza
della Corte di Giustizia. Di qui il ricorso per Cassazione della società la quale ha sottoposto all’esame dei giudici di legittimità alcune doglianze inerenti il meccanismo dell’inversione contabile in tema di IVA, con specifico riferimento
agli acquisti intracomunitari per beni o servizi resi da parte
di soggetti residenti in altri Paesi membri.
Si ricorda che, come sottolineato dalla Suprema Corte, l’inversione contabile descrive un peculiare sistema di liquidazione dell’IVA che opera in deroga al meccanismo ordinario di detrazione. Detto meccanismo, infatti, realizza uno
snellimento del processo di riscossione dell’imposta, individuando un unico soggetto - cessionario o committente cui imporre gli obblighi di dichiarazione, liquidazione ed
eventuale versamento del tributo.
Negli acquisti intracomunitari ex art. 46 e ss. D.L. 331/93
soggetti al regime del “reverse charge” si realizza una mera
manifestazione economica, ma senza versamento diretto
al venditore e, invece, con immediata compensazione del
tributo dovuto con il credito derivante dal rispettivo diritto
di detrazione maturato. Il cuore del meccanismo è rappresentato proprio dal fatto che il committente deve emettere
apposita autofattura, con l’indicazione dell’IVA da registrare contestualmente sia nel registro delle fatture emesse
che in quello degli acquisti. Il suddetto meccanismo rende
evidente che durante gli scambi intermedi del ciclo produttivo non si realizza una effettiva riscossione del tributo,
che, al contrario, viene traslato fino al momento della ces-
Le Società 1/2014
Fisco e Società
Sintesi
sione al consumatore finale. Ne consegue che gli oneri gestionali correlati al meccanismo della cd. inversione contabile ricadono sul committente cessionario.
Il tema sollevato dagli Ermellini non è nuovo; invero, la Corte di Giustizia UE, chiamata a pronunciarsi sulle conseguenze della omessa inversione contabile nel caso “Ecotrade” (Corte di Giustizia, 8 maggio 2008, Cause riunite C-95/
07 e C-96/07), ha dichiarato illegittima la prassi della Amministrazione finanziaria italiana che, all’epoca, ritenne indetraibile l’imposta per la parte passiva della doppia registrazione, come effetto della violazione commessa. Al riguardo, si rileva che la Corte di Cassazione è stata chiamata più volte ad esaminare gli effetti della sentenza “Ecotrade” sull’ordinamento interno, recependo le indicazioni della
Corte di Giustizia, ammettendo la detrazione a posteriori
ovvero anche in sede di accertamento dell’infrazione.
Per quanto riguarda, invece, l’aspetto delle sanzioni applicabili, questo non è stato del tutto chiarito.
Dunque, la Corte di Cassazione si è rivolta ai giudici del
Lussemburgo affinché questi si pronuncino in merito alla
natura formale, o sostanziale, degli errori di registrazione in
tema di reverse charge.
In particolare, la Corte di Cassazione, ha chiesto alla Corte
di Giustizia di esprimersi su due questioni: 1) se, in caso di
totale inosservanza degli obblighi di doppia registrazione,
sia legittimo applicare sia le sanzioni per l’inadempimento
delle formalità, sia il diniego del diritto alla detrazione dell’IVA; 2) cosa si debba intendere con l’espressione “obblighi
sostanziali” in materia di reverse charge, espressione usata
in numerose pronunce della Corte di giustizia, ovvero se ci
si debba riferire all’obbligo del pagamento del tributo IVA
oppure all’assunzione del debito d’imposta (attraverso la
registrazione nelle fatture di vendita) o, ancora, all’esistenza delle condizioni di inerenza e detraibilità che disciplinano
il diritto alla detrazione (quindi anche in assenza della doppia registrazione).
DISPOSIZIONI ANTIELUSIVE
NULLITÀ DELL’ACCERTAMENTO ANTIELUSIVO EMESSO
SENZA PREVENTIVO CONTRADDITORIO: SI PRONUNCERÀ LA
CONSULTA
@ Cassazione civile, sez. trib., 5 novembre 2013, n.
24739, ord. - Pres. A. Merone - Rel. E. Bruschetta
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 24739 depositata in data 5 novembre 2013, ha sollevato la questione di
costituzionalità dell’art. 37 bis, comma 4, del D.P.R. n. 600/
73, nella parte in cui questo sanziona la nullità dell’avviso
di accertamento “antielusivo” non preceduto dal preventivo contraddittorio con il contribuente, ovvero emesso prima del decorso del termine di sessanta giorni concessi al
contribuente per esperire la sua richiesta di chiarimenti. I
giudici hanno ritenuto, invero, la sanzione della nullità eccessiva ed in contrasto con i principi fondamentali di capacità contributiva previsti dall’art. 53 della Costituzione.
La questione oggetto dell’ordinanza de qua sorge da un avviso di accertamento innescato da un processo verbale di
constatazione della Guardia di finanza nei confronti della
Cassa di Risparmio di Rieti con cui (i) vengono ripresi a tassazione interessi moratori non contabilizzati per un ammontare pari all’equivalente di 25 mila Euro; e (ii) viene
considerata come “indebita la deduzione dell’ammontare
Le Società 1/2014
di - circa - l’equivalente di 750 mila Euro conseguente alla
cessione di crediti svalutati.
L’avviso di accertamento è stato, tuttavia, notificato poco
prima del decorso del termine dilatorio di sessanta giorni
(nella specie, cinquantaquattro giorni) dal ricevimento della
lettera di chiarimenti richiesta alla banca, tanto per cui la
Commissione tributaria regionale, constatata la violazione
delle disposizioni di cui all’art. 37 bis, comma 4, del D.P.R.
n. 600/73, nel luglio del 2007 ha annullato l’avviso di accertamento tout court. Da qui l’impugnazione dell’Agenzia delle Entrate
Il ragionamento della sezione tributaria nell’ordinanza in
esame prende le mosse dalla constatazione che l’art. 37
bis, comma 4, del D.P.R. n. 600/73 contrasta con gli articoli
3 e 53 della Costituzione poiché distonico e creatore di irragionevoli disparità di trattamento.
Invero, nell’ordinamento italiano esiste un principio generale, rinvenibile nell’articolo 53 della Costituzione che vieta di
conseguire indebiti vantaggi fiscali abusando del diritto. La
fattispecie antielusiva di cui all’art. 37 bis, comma 4, del
D.P.R. n. 600/73, si presenta in questa prospettiva come
speciale rispetto a quella più generale del cosiddetto abuso
del diritto.
Tuttavia, osserva la Corte di Cassazione, seppure in entrambe le fattispecie il fondamento della ripresa sia costituto da
un vantaggio fiscale che, per mancanza di causa economica, diventa indebito, “irrazionalmente” soltanto per la ripresa
antielusiva ai sensi dell’art. 37 bis, comma 4, del D.P.R. n.
600/73 esiste una norma secondo cui le forme del preventivo contraddittorio debbano essere seguite a pena di nullità
(sub poena nullitatis) dell’atto impositivo. Invero, sul punto, è
però da segnalarsi come eminente dottrina (ex pluribus Prof.
F. Tesauro, La motivazione degli atti d’accertamento antielusivi ed i suoi riflessi tributari, nel Corr. trib., 2009, 3634) ha anzi
da tempo evidenziato, specularmente, l’esigenza di estendere le garanzie procedurali date al contribuente dall’art. 37 bis
del D.P.R. n. 600/73 a tutti i casi suscettibili di giudizio in base al principio dell’abuso del diritto.
Ma v’è di più. Nell’interpretazione della giurisprudenza, osservano i giudici di legittimità, il giudice deve, anche d’ufficio, quando ravvisa l’esistenza di elementi integranti la fattispecie abusiva, fare applicazione della ripresa antielusiva.
Tale circostanza determina l’impossibilità di ogni preventivo contraddittorio. «Cosicché, a questo punto - osservano
conclusivamente gli Ermellini - la nullità per irregolarità delle forme di che trattasi risulta irragionevolmente stabilita
solo nella residuale ipotesi antielusiva di cui all’art. 37 bis
D.P.R. n. 600 del 1973».
La Suprema Corte evidenzia nelle sue motivazioni che non è
in discussione l’utilità, in qualche modo anche la necessità,
di un contraddittorio preventivo tra Amministrazione Finanziaria e contribuente, bensì il fatto che il mero difetto di forma del contraddittorio (nel caso di specie particolarmente
lieve) debba comportare l’invalidità dell’atto fiscale, fatto che
appare “davvero irragionevole” con riferimento alle altre vicine fattispecie antielusive. Né la norma ai giudici della Suprema Corte «sembra poter essere, in alcuna maniera, suscettibile di interpretazioni adeguatrici che siano costituzionalmente orientate. In effetti la sanzione è diretta proprio a protezione delle forma del preventivo contraddittorio».
La Suprema Corte ha, quindi, disposto la trasmissione degli atti alla Consulta, ritenendo la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 37 bis, comma 4, del D.P.R. n. 600/
73 in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, rilevante e non manifestamente infondata.
117
Fisco e Società
Sintesi
IMPOSTE DIRETTE
RADDOPPIO TERMINI DECADENZIALI. ALLEGAZIONE DELLA
DENUNZIA DI REATO
@ Comm. Trib. reg. Milano 14 novembre 2013, n. 6321
- Pres. U. Dello Russo - Rel. G. Chiametti
La Commissione tributaria regionale di Milano, nella sentenza n. 6321 del 30 ottobre 2013, ha fornito chiarimenti in
relazione all’istituto del raddoppio dei termini di decadenza
dell’accertamento di cui all’art. 43, comma 3, del D.P.R. n.
600/1973 in ipotesi di violazione che comporta obbligo di
denuncia ai sensi
dell’articolo 331 del codice di procedura penale per uno dei
reati previsti dal d.lgs. n. 74/2000.
In particolare, i giudici di secondo grado si sono soffermati
sulle condizioni affinché possa operare la normativa del
raddoppio dei termini decadenziali per l’accertamento, con
specifico riguardo alla allegazione della denunzia di reato
presentata alla Procura della Repubblica.
La vicenda da cui prende le mosse la sentenza de qua origina da un avviso di accertamento emesso ai fini IRES,
IRAP e IVA per il periodo d’imposta 2004 a carico di una
società operante nel settore del commercio di rottami ferrosi e non ferrosi (società accertata) con applicazione dell’istituto del raddoppio dei termini decadenziali di accertamento di cui all’art. 43, comma 3, del D.P.R. n. 600/1973.
L’avviso di accertamento trae origine da un processo verbale di accertamento (PVC) innescato dalle risultanze di un
procedimento penale aperto presso la Procura della Repubblica nei confronti dei vari soggetti partecipanti ad un
presunto sistema di frode.
In particolare, in base alle risultanze del nucleo di Polizia
Tributaria, è stato rilevato che una persona fisica, a cui era
riconducibile la società accertata, nei periodi di imposta dal
2004 al 2007, aveva interposto società cd. “cartiere” per
consentire l’acquisto “in nero” di materiale ferroso a varie
società del settore, tra cui la società accertata. Pertanto, le
fatture emesse dalla società interposta sono state considerate operazioni soggettivamente inesistenti.
L’accusa ha messo, peraltro, in evidenza la responsabilità
oggettiva della società appellata tanto più considerato che
il legale rappresentante della stessa era a conoscenza di tale meccanismo criminoso. Ai fini tributari, l’istruttoria ha
contestato così l’indeducibilità ai fini IRES ed IRAP dei costi
relativi a fattispecie penalmente rilevanti, nonché l’indetraibilità IVA relativa a operazioni inesistenti contabilizzate.
La società accertata ha proposto ricorso avverso l’avviso di
accertamento che è stato accolto dai giudici di Prime Cure
che hanno rilevato, in via preliminare ed assorbente, che:
«qualora il reato è prescritto, l’Amministrazione finanziaria
non può usufruire del raddoppio dei termini per procedere
all’accertamento» e sottolineato, inoltre, come non sia stata fornita da parte dell’ufficio accertatore alcuna prova in
ordine alla denuncia di reato presentata alla Procura della
Repubblica di modo da consentire al giudice di verificare la
sussistenza dei presupposti cui all’art. 43, comma 3, del
D.P.R. n. 600/1973 e, quindi, il legittimo ricorso al raddoppio dei termini decadenziali per l’accertamento. L’ufficio ha
proposto ricorso in appello avverso la sentenza di primo
grado.
La Commissione tributaria regionale ha confermato la sentenza di primo grado, sottolineando come i ragionamenti
118
dei giudici di prime cure si sono basati su ponderate riflessioni circa il problema del raddoppio dei termini di accertamento, che prendono le mosse da quanto statuito dalla
Corte Costituzionale nella sentenza n. 247 del 25 luglio
2011. In particolare, i giudici di secondo grado hanno evidenziato, in conformità a quanto stabilito nella sentenza
della Consulta, che in presenza di una contestazione sollevata dal contribuente, l’onus probandi della sussistenza di
detti presupposti è posto a carico dell’Amministrazione finanziaria. Nel caso di specie, al contrario, nessun elemento
di prova è stato allegato da parte dell’Amministrazione finanziaria in ordine al deposito della denuncia penale (denuntia criminis) al ricorso in prima istanza.
Conseguentemente, la Commissione tributaria provinciale,
sulla base della documentazione prodotta, non ha potuto
riscontrare l’effettiva instaurazione del procedimento penale presso la competente Procura della Repubblica, rilevando, invero, come agli atti di primo grado non fosse stata
prodotta la supposta denuncia che non avrebbe potuto far
scattare il raddoppio dei termini dell’accertamento. Pertanto, l’operato dell’Amministrazione finanziaria è stato considerato nullo in quanto compiuto oltre i prescritti termini di
decadenza, restando irrilevante l’allegazione tardiva da parte dell’Ufficio della denuncia di reato solo in sede d’appello.
SOCIETÀ DI COMODO
SOCIETÀ DI COMODO: LA CRISI DEL MERCATO
IMMOBILIARE E LA DIMOSTRATA IRREPERIBILITÀ DI UN
LOCATARIO IMPONGONO LA DISAPPLICAZIONE DELLA
DISCIPLINA
@ Comm. Trib. prov. Milano 14 novembre 2013, n. 413
- Pres. C. De Sapia - Rel. G. Chiametti
La Commissione tributaria provinciale di Milano, nella sentenza n. 413 del 25 ottobre 2013, ha fornito chiarimenti in
materia della disciplina delle cd. società di comodo contenuta nell’art. 30 della L. n. 724/1994, soffermandosi su taluni aspetti concernenti l’istanza di interpello presentata
per la disapplicazione della predetta disciplina ai sensi dell’art. 37 bis, comma 8, del D.P.R. n. 600/1973.
La vicenda da cui prende le mosse la pronuncia in parola
origina dal ricorso presentato da una società avverso il
provvedimento amministrativo di diniego di disapplicazione
della normativa sulle cd. società di comodo emesso dall’Agenzia delle Entrate - Direzione Regionale della Lombardia.
Nel dettaglio, la società ha presentato istanza di interpello
ai sensi dell’art. 37 bis, comma 8, del D.P.R. n. 600/1973,
per la disapplicazione, per l’anno 2010, della disciplina delle cd. società di comodo sostenendo di essere proprietaria
di un’unica unità immobiliare (capannone a uso magazzino/ufficio) sfitta già dal giugno del 2009, nonostante la società stessa si fosse prodigata nella ricerca di un soggetto
interessato alla locazione, riducendo, peraltro, anche notevolmente il prezzo di locazione. Stante questa condizione,
la società ha subito notevoli perdite dovute alle spese correnti dell’immobile (utenze, ICI, diritti CCIAA, spese amministrative, ecc.)
A fronte del diniego dell’istanza di disapplicazione, la società ha proposto ricorso dinanzi la Commissione tributaria
provinciale, evidenziando la totale mancanza di qualsivoglia elemento di elusività nella perdita fiscale dovuta, chia-
Le Società 1/2014
Fisco e Società
Sintesi
ramente, ad una situazione di fatto connessa ad obiettive
condizioni di mercato tali da renderle impossibile ottenere
ricavi o proventi nelle misure minime stabilite dalla normativa sulle società di comodo. A ciò si aggiunga anche l’impossibilità di trovare un locatario.
La società ha chiesto, in via preliminare, la dichiarazione di
autonoma impugnabilità del provvedimento emesso dalla
Direzione Regionale della Lombardia e, in via principale, il
suo annullamento.
La Direzione Regionale della Lombardia, costituitasi in giudizio, ha eccepito l’inammissibilità del ricorso, in quanto riguardante un atto non autonomamente impugnabile ex
art. 19 del d.lgs. n. 546/1992, e l’illegittimità del provvedimento, tenuto conto che la società non aveva puntualmente documentato le iniziative intraprese per concludere un
nuovo rapporto di locazione.
Il Giudice di prime cure ha ritenuto legittimo il ricorso avverso il provvedimento amministrativo di diniego dell’istanza di interpello di disapplicazione della normativa sulle cd.
società di comodo dal momento che esso è un atto impugnabile in quanto si incunea fra la lettera i) dell’art. 19 del
d.lgs. n. 546/1992 che recita «ogni altro atto per il quale la
legge ne preveda l’autonoma impugnabilità davanti alle
Commissioni tributarie». L’atto con cui viene negata la disapplicazione di norme antielusive invero, seppur non
Le Società 1/2014
espressamente richiamato dalla norma, deve ritenersi impugnabile data la sua corrispondenza sostanziale, per funzione ed effetti, con quanto normativamente previsto.
Per quanto riguarda, poi, le doglianze sul merito, i giudici
milanesi hanno evidenziato che l’unico immobile di proprietà della società era rimasto sfitto a causa della crisi economica. Al riguardo, la società ha prodotto copia del bilancio
al 31 dicembre 2010 dal quale risultava che la stessa aveva
chiuso in perdita proprio perché priva di ricavi.
Peraltro, i giudici di primo grado hanno evidenziato che la
società ha prodotto copie di documenti di incarichi e mandati ad affittare rilasciati a primarie agenzie immobiliari allo
scopo di reperire potenziali conduttori del capannone. Così
dando prova del reale intendimento della società di locare
l’immobile. Inoltre, proprio al fine di individuare un conduttore nel breve, il canone di affitto inizialmente proposto veniva, successivamente, decurtato.
Da quanto sopra discende una reale situazione di non operatività della società di natura oggettiva e non dipesa, dunque, dalla volontà dell’imprenditore né tanto meno da finalità elusive, tale per cui la Commissione tributaria provinciale, con decisione pienamente condivisibile, ha accolto il
ricorso annullando il provvedimento di diniego di disapplicazione della normativa sulle cd. società di comodo.
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