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ANNO X N° 38
GIUGNO-SETTEMBRE 2014
QUADERNI
DELLA
RICONOSCIUTA CON D.M. DEL MURST
DEL 02/01/1996 - ISCRITTA PREFETTURA
DI MILANO N. 467 PAG. 722 VOL. 2°
PERIODICO DELLA SOCIETÀ ITALIANA DI FARMACOLOGIA - FONDATA NEL 1939
ISSN 2039-9561
21
22
EDITORIALE
EDITORIALE
Flavia Franconi
F. Franconi
POSITION PAPER DELLA SIF
Farmacologia Clinica
Proposta per l’utilizzo della
Farmacologia Clinica come
strumento di ottimizzazione
dell’offerta sanitaria e della
razionalizzazione dei costi
per il Sistema Sanitario
Tutto il comitato di redazione si augura che la nuova forma grafica di
Quaderni della SIF sia stata di vostro gradimento e che abbia reso
più leggibile il giornale. In questo numero troverete un importante
a cura della Sezione
di Farmacologia Clinica della SIF
POSITION PAPER elaborato dalla Sezione di Farmacologia Clinica della
28
nostra Società coordinata dal Prof. Giovambattista De Sarro dell’Università
C. Chiamulera, G. Fumagalli, G. Velo
te, si procede a fornire indicazioni operative per ottimizzare la terapia con
TABACCO, FARMACI
E INTERAZIONI
32
LA LEGALIZZAZIONE
DELLA MARIJUANA, UNA
LEZIONE AMERICANA
di Catanzaro. In questo articolo, oltre che a una disamina dello stato dell’ar-
la creazione, in tutte le regioni, di Centri Regionali di Farmacologia Clinica.
Segue, poi, un articolo su un argomento estremamente rilevante per la
farmacoterapia, ma poco noto, e cioè le interazioni fra farmaci e fumo di
G. L. Gessa
tabacco. L’articolo, scritto dai professori Chiamulera, Fumagalli e Velo in
maniera estremamente chiara, evidenzia che suddette interazioni
possono coinvolgere numerosi farmaci potendone alterare l’efficacia e la
sicurezza. Infine, un articolo del Prof. Gessa che con l’ironia che lo contraddistingue affronta un tema caldo come la legalizzazione della marijuana.
Questo articolo, nonostante il titolo, esamina ciò che avviene in tutto il
mondo facendoci riflettere a tutto campo su un argomento che coinvolge
molti individui.
Quaderni della SIF (2014) vol. 38-21
POSITION PAPER DELLA SIF
Estensore del documento
Società Italiana di Farmacologia: a cura della Sezione di
Farmacologia Clinica della SIF
FARMACOLOGIA CLINICA
PROPOSTA PER L’UTILIZZO DELLA FARMACOLOGIA CLINICA
COME STRUMENTO DI OTTIMIZZAZIONE DELL’OFFERTA
SANITARIA E DELLA RAZIONALIZZAZIONE DEI COSTI
PER IL SISTEMA SANITARIO
INDICE
22
SOMMARIO
Grazie ai continui progressi della ricerca e
all’evoluzione delle scienze mediche, la farmacologia è entrata in una fase di rapida ed
Farmaco e sue criticità
intensa trasformazione e sta ampliando i
confini che le erano stati tradizionalmente
Il farmacologo clinico in Europa
assegnati. Le nuove conoscenze hanno originato nuove discipline scientifiche, quali la farmacogenetica e la farmacogenomica e nuove
molecole e dispositivi estremamente innovativi – ma anche costosi – che eserciteranno un
impatto crescente sulla salute, sulla società
e sull’economia. Anche la Farmacologia CliRUOLI DI UN CENTRO
REGIONALE DI FARMACOLOGIA nica si sta trasformando e, pur conservando
CLINICA E SUA RILEVANZA PER tutte le caratteristiche di disciplina medica,
essa sta sempre più fornendo elementi per la
IL SISTEMA SANITARIO
formazione di una piattaforma metodologica
Ruolo nelle analisi farmacologiche
di supporto al SSN nella gestione razionale
strumentali in ambito assistenziale
del farmaco, al fine di coniugare efficacia teRuolo nella farmacovigilanza in
rapeutica ed ottimizzazione della terapia con
ambito assistenziale
il risparmio di spesa. Vogliamo sottolineare
Ruolo nella continuità assistenziale
che un recente documento IUPHAR (1) idenRuolo nella riconciliazione terapeutica tifica il farmacologo clinico come “… un medico con una formazione sistematica nella
Ruolo nella gestione economica
valutazione della terapia farmacologica e dei
del farmaco
prodotti medicinali”.
SOMMARIO
IL QUADRO DI RIFERIMENTO
23
Ruolo nella ricerca clinica sui farmaci
Ruolo nella formazione
Ruolo nei Comitati di Etica
Ruolo nelle clinical trials units
26
PROPOSTA OPERATIVA
27
BIBLIOGRAFIA
Nel presente documento si analizza il quadro
di riferimento del farmaco e della sua gestione odierna, evidenziando le competenze
tecniche della Farmacologia Clinica e come
possa essere messa al servizio del Sistema
Sanitario Regionale. Si propone infine un modello operativo concreto ed attuabile nell’immediato per utilizzare la Farmacologia Clinica
come strumento di efficacia terapeutica, appropriatezza prescrittiva e contenimento dei
costi.
IL QUADRO DI RIFERIMENTO
A. Farmaco e sue criticità
L’ultimo rapporto OSMed dell’ISS ha rivelato
che negli ultimi 10 anni il consumo di farmaci
da parte degli italiani è aumentato del 60%,
con un incremento annuo pari al 5%. Sempre
nello stesso rapporto si legge che il mercato
farmaceutico totale, comprensivo sia della
prescrizione territoriale sia di quella erogata
attraverso le strutture pubbliche, è stato di
oltre 25 miliardi di euro, di cui il 75% a carico del SSN. La spesa per il farmaco in Italia
incide in media per circa il 20-23% sul costo
totale della prestazione sanitaria.
Quaderni della SIF (2014) vol. 38-22
È esperienza comune, nella pratica medica,
che lo stesso farmaco somministrato alla
stessa dose possa essere efficace nella maggioranza dei pazienti, ma scarsamente efficace e/o indurre reazioni avverse (ADR - Adverse Drug Reactions) – a volte anche gravi – in
alcuni dei soggetti trattati. Si stima, infatti,
che i farmaci di maggior consumo, come antipertensivi, ipolipemizzanti e antidepressivi,
siano pienamente efficaci solo nel 25-50%
dei pazienti. A fronte di un’efficacia limitata,
negli ultimi anni si è osservato un progressivo
e preoccupante aumento di reazioni avverse
ai farmaci che rappresentano la quinta causa
di morte nei paesi occidentali, dopo l’infarto del miocardio, i tumori e l’ictus [2]. Tra il
1998 e il 2005 le segnalazioni di ADR gravi
raccolte dalla Food and Drug Administration
(FDA) sono aumentate di 2,6 volte e il loro
incremento è stato 4 volte più rapido di quello
del numero totale di prescrizioni [2]. Analogamente, la rete nazionale di farmacovigilanza dell’AIFA registra in Italia ogni anno circa
20.000 reazioni avverse da farmaci, con centinaia di eventi fatali.
Anche i fallimenti terapeutici, che rientrano
nella nuova normativa di farmacovigilanza,
sono considerate delle ADR, dove il paziente
viene esposto alle sole reazioni avverse del
trattamento, senza alcun beneficio [3]. Questo fenomeno coinvolge categorie di pazienti
importanti e numericamente rilevanti, tra cui
coloro che sono affetti da patologie neurologiche e psichiatriche, oncologiche, metaboliche e cardiologiche con fallimenti che superano il 30-40% [4].
Sebbene i costi diretti e indiretti delle ADR
siano difficili da stimare, si è valutato che negli Stati Uniti il costo sia compreso tra 30 e
130 miliardi di dollari l’anno [5]. Uno studio
condotto dall’UO Farmacologia clinica dell’Azienda Ospedaliera L. Sacco di Milano con il
Centro regionale lombardo di Farmacovigilanza e l’AO Niguarda Cà Granda ha evidenziato che i costi per la gestione delle ADR in
pronto soccorso nel 2001-2011 è stato di
circa 5 milioni di euro; di queste ADR circa il
47% era evitabile con un corretto approccio
farmacologico.
Sulla base di tutto quanto affermato sopra,
appare fondamentale la capacità di garantire
un uso appropriato dei frutti dell’innovazione
scientifica e tecnologica (in primo luogo i farmaci) nella pratica clinica ospedaliera ed extraospedaliera per ottimizzare il rapporto tra
guadagno in salute ed eventi avversi.
È altrettanto importante favorire nuove modalità di assistenza basate sull’integrazione
di competenze appartenenti a diverse figure
professionali in campo sanitario. Da questo
punto di vista lo specialista in Farmacologia
Clinica può fornire un utile contributo ai colleghi delle altre discipline attraverso competenze specifiche di farmacocinetica, farmacogenetica e farmacovigilanza, erogando da un
lato consulenza farmacologica e terapeutica
relativa ai singoli pazienti, fornendo analisi
farmacoepidemiologiche, di appropriatezza
prescrittiva e farmacoeconomiche al SSN e
collaborando alla stesura di linee guida che
si adattino al contesto locale. Le specifiche
competenze della Farmacologia Clinica ed il
loro contributo al SSN sono dunque diverse e
comprendono analisi strumentali di farmacocinetica e farmacogenetica, monitoraggio sul
territorio del farmaco attraverso programmi
di farmacovigilanza attiva e passiva, supporto
ad un armonioso sviluppo della continuità di
assistenza tra ospedale e territorio e supporto alle analisi farmacoeconomiche derivanti
soprattutto da indicazioni di appropriatezza
prescrittiva e conseguente risparmio delle
risorse. In questo quadro è molto importante
anche il ruolo di trasmissione della cultura
attraverso la formazione continua in Farmacologia Clinica nei suoi diversi aspetti, nonché
la capacità di sfruttare a vantaggio della efficacia della cura lo studio dei nuovi farmaci
nei trials clinici.
B. Il farmacologo clinico
in Europa
Per quanto detto nel paragrafo precedente il
ruolo del farmacologo clinico è rilevante ed
in Europa effettivamente svolge un grosso
lavoro a supporto dei diversi sistemi sanitari
nazionali e regionali, con strutture molto ben
articolate e sviluppate.
Nel Regno Unito i farmacologi clinici hanno
contribuito alla creazione e contribuiscono
fattivamente alla operatività del Comitato per
la sicurezza dei medicinali (ora Commissione
sui medicinali umani), lo Yellow Card Scheme, il National Institute of Health and Clinical
Excellence (NICE) e organizzazioni collegate
in Scozia e nel Galles. Nel Regno Unito, Spagna e Germania, unità di Farmacologia Clinica
con competenze assistenziali e di farmacovigilanza sono presenti nella maggior parte
degli ospedali di grandi dimensioni. In Francia,
forse il paese in cui la Farmacologia Clinica
è meglio organizzata, le strutture di Farmacologia Clinica sono ampie, mediamente di
70/100 unità di personale, e servono bacini
di utenza territoriali di 1-5 milioni di persone.
Esse svolgono anche un lavoro di collezione
ed analisi dei dati sul farmaco e di formulazione di linee guida per il SSN.
La situazione della Farmacologia Clinica italiana è debole; esistono solo una ventina di
Unità Operative che tuttavia non hanno ad
oggi dimensioni di personale e strumentazioni adeguate a coprire le esigenze del SSN in
farmacologia clinica.
RUOLI DI UN CENTRO
REGIONALE
DI FARMACOLOGIA CLINICA
E SUA RILEVANZA PER
IL SISTEMA SANITARIO
A. Ruolo nelle analisi
farmacologiche strumentali
in ambito assistenziale
Accanto ai nuovi farmaci sempre più difficili
da usare compaiono pazienti in politerapia altrettanto complessi da trattare. Determinanti
saranno l’incremento dell’età media della
popolazione col conseguente aumento delle
co-morbidità, la cronicizzazione di molte malattie, le condizioni legate ad errate abitudini
igienico-alimentari (ad esempio grandi obesi)
e la necessità di trattamenti farmacologici
multipli con un conseguente aumento delle
interazioni farmacologiche. Ne deriva che la
gestione delle terapie mediche sarà sempre
più complessa, rischiosa e gravata da costi
diretti ed indiretti (per reazioni avverse) maggiori. L’appropriatezza e l’aderenza terapeutiche saranno quindi il tema centrale in questi
pazienti e di importanza cruciale il ruolo del
farmacologo clinico che possiede le competenze necessarie per la valutazione clinica
dell’effetto dei farmaci nell’uomo e per fornire un supporto per impostare su basi razionali le terapie farmacologiche. A questo fine il
farmacologo clinico dispone di due strumenti
diagnostici importanti, la farmacocinetica e la
farmacogenetica.
 La farmacocinetica garantisce il monitoraggio terapeutico del farmaco, che consiste
nella misurazione delle concentrazioni del
farmaco in plasma, siero o sangue. Queste
informazioni sono utilizzate per personalizzare il dosaggio in modo che le concentrazioni del farmaco possano essere mantenute all’interno di un target di riferimento. Ciò
permette di determinare la concentrazione
plasmatica del farmaco e dei suoi metaboliti e di disegnare il profilo di biodisponibilità
nel tempo del farmaco stesso o gruppo di
farmaci per ogni singolo individuo. Quando
c’è una grande variabilità inter-individuale
tra dose ed effetto, per esempio quando vi è
grande variabilità farmacocinetica, personalizzare il dosaggio del farmaco è sicuramente indicato al fine di ottimizzare i risultati terapeutici. Questo è particolarmente vero per
i farmaci con uno stretto indice terapeutico
o con cinetiche concentrazione-dipendenti.
Allo stesso modo, per alcuni farmaci possono verificarsi nel tempo variazioni nello
stesso soggetto per diversi motivi, pertanto
il monitoraggio terapeutico potrebbe essere
utile. Il monitoraggio terapeutico del farmaco non si limita solo alla misurazione delle
concentrazioni di un farmaco, ma prevede
anche l’interpretazione clinica del risultato
da parte del farmacologo clinico.
 La farmacogenetica studia come l’azione
dei farmaci possa essere influenzata dall’assetto genetico dei pazienti. Si ritiene che circa
il 90% dei geni nell’uomo contenga variaQuaderni della SIF (2014) vol. 38-23
zioni di sequenza nucleotidica, denominate
polimorfismi, che possono modificare qualitativamente o quantitativamente il prodotto
proteico codificato da un determinato gene
e possono causare variabilità di risposta ai
farmaci. Ogni singolo polimorfismo, per essere definito tale, deve essere presente in
una popolazione almeno nell’1% dei soggetti, con punte che possono raggiungere per
un certo polimorfismo, in certe popolazioni,
il 30-40%.
I geni che determinano la risposta ai farmaci
possono essere distinti in due grandi classi:
quelli che codificano per il bersaglio terapeutico primario, come per esempio recettori ed
enzimi o per le proteine coinvolte nell’assorbimento, distribuzione, metabolismo ed
escrezione del farmaco. Polimorfismi a carico di geni appartenenti a queste due classi
possono pertanto determinare modificazioni
nell’azione di un farmaco provocando l’assenza di risposta clinica ad un determinato
trattamento o la comparsa di reazioni avverse.
I test farmacologici sono in questo scenario
uno strumento per la diagnosi o predittività
di successo terapeutico. La diffusione limitata dei test farmacocinetici e farmacogenetici
nella pratica clinica ha ripercussioni importanti in tema di salute pubblica in quanto:
 l’uso non ottimale del farmaco contribuisce in parte al progressivo aumento della
spesa farmaceutica (la mancata applicazione del test farmacogenetico limita all’empirismo la scelta terapeutica ed aumenta i
fallimenti terapeutici che richiedono nuove
terapie e nuove prescrizioni a carico del
SSN);
 l’uso non ottimale del farmaco è una delle
concause responsabili del progressivo aumento delle reazioni avverse di tipo iatrogeno osservate negli ultimi anni (le stime
attuali ci dicono infatti che l’utilizzo non appropriato dei farmaci è tra le prime cause di
morte e/o di invalidità permanente nel mondo), con ripercussioni sulla salute del paziente e con un aumento dei costi per il SSN (per
la terapia e la gestione degli eventi avversi).
Uno studio pilota condotto all’interno dell’AO
L. Sacco di Milano sulla coorte di pazienti HIV
positivi ha dimostrato che il monitoraggio terapeutico del farmaco aumenta l’aderenza
terapeutica, e riduce significativamente i tempi di degenza in ospedale. Questo è da attribuirsi ad una terapia ottimale, con aumentata
compliance da parte del paziente e si traduce
complessivamente in un maggiore beneficio
per il paziente accompagnato da risparmio di
spesa.
B. Ruolo nella farmacovigilanza
in ambito assistenziale
Un problema di grande rilevanza clinica, sociale ed economica è rappresentato dalla
malattia iatrogena da farmaci che è ormai diventata una importante causa di morte o grave disabilità. Lo stesso Ministero della Salute
italiano ha recepito e fatta propria la preoccupazione circa la sempre più ampia diffusione
Quaderni della SIF (2014) vol. 38-24
di questa patologia in ambito ospedaliero con
un documento emesso il 7 settembre 2007
dal Consiglio Superiore della Sanità, Sezione
V, intitolato: “Raccomandazioni per la prevenzione della morte, coma o grave danno
derivati da errori in terapia farmacologica”.
In questo quadro si inserisce la farmacovigilanza il cui obiettivo è il tenere sotto costante
controllo il profilo rischio/beneficio dei farmaci facendo in modo che questi ultimi siano
sempre a favore della salute del paziente.
Per la sua natura estremamente complessa,
per la sua eziologia riferibile ai farmaci e per
la sua patogenesi dipendente dalle azioni farmacologiche e dalle possibili interazioni tra
diversi composti, la prevenzione, la diagnosi
e la cura della malattia iatrogena necessitano
dell’apporto culturale e pragmatico che solo
il farmacologo clinico è in grado di offrire,
grazie alla natura specialistica della sua formazione clinica. Diventerà in particolare sempre più necessario un monitoraggio accurato
dell’impatto sulla popolazione, o su gruppi
specifici di pazienti, delle terapie farmacologiche complesse attraverso un’attività di
farmacovigilanza correttamente impostata.
Tale attività potrà evidenziare eventuali inappropriatezze prescrittive, che si traducono in
un costo per il SSN in assenza di reale beneficio per il paziente, ed in ogni caso evidenziare i costi diretti ed indiretti che si associano
agli interventi terapeutici, base necessaria ad
ogni intervento razionale sulle scelte che un
SSN moderno deve effettuare per coniugare
efficacia terapeutica e risparmio di risorse.
Il documento IUPHAR (1) delinea le attività
assistenziali identificative della funzione del
Farmacologo Clinico e tra queste include
l’interpretazione del monitoraggio terapeutico dei farmaci nonché l’implementazione e
la valutazione della efficacia e della sicurezza delle politerapie. Il passaggio da un ruolo
ex-post nella gestione della terapia, limitato
alla risoluzione di problemi quali fallimento
terapeutico, reazioni avverse o interazioni, ad
un ruolo ex-ante di pianificazione terapeutica
condivisa con il clinico e le autorità sanitarie
regionali diviene la sfida futura e disegna un
ruolo attivo per il farmacologo clinico nella
gestione del percorso del farmaco a vantaggio esclusivo del SSN.
C. Ruolo nella continuità
assistenziale
È in atto oggi un progressivo cambiamento
di organizzazione dell’Ospedale, sempre più
concepito come area della terapia intensiva
e della criticità, mentre alla medicina territoriale sarà affidata la gestione della cronicità.
Tale modificazione concettuale e strutturale
comporta la necessità di garantire una adeguata continuità assistenziale tra Ospedale e
Territorio. Tale continuità assistenziale deve
prevedere una consistenza razionale nella
gestione delle terapie farmacologiche e del
loro monitoraggio che solo un farmacologo
può garantire. Dati recenti mostrano tuttavia
come una efficace continuità assistenziale sia
ancora un obiettivo non raggiunto. Per esempio da una survey nazionale condotta da medici della medicina generale è emerso che la
prescrizione delle terapie raccomandate nei
soggetti con pregresso infarto del miocardio
rimane largamente sottodimensionata anche
nel confronto con altre esperienze europee e
statunitensi (6). Inoltre la continuità terapeutica è decisamente sub-ottimale e sembra
riguardare principalmente il primo anno dopo
l’evento di ricovero contribuendo in maniera
negativa al grosso problema della non-aderenza farmacologica (6).
È dunque importante che il farmacologo
clinico diventi una figura professionale di riferimento per favorire la corretta continuità
terapeutica tra Ospedale e Territorio adottando metodi di monitoraggio che si riferiscano
alla collaborazione con i clinici a verifiche
periodiche dell’appropriatezza terapeutica,
della compliance del paziente, del profilo rischio-beneficio e garantendo la sorveglianza
epidemiologica dei farmaci. Questa azione
inoltre può dare un contributo non indifferente al governo della spesa.
D. Ruolo nella Riconciliazione
terapeutica
Aspetto in parte connesso con la continuità
territoriale è il problema della “riconciliazione terapeutica”, cioè quel processo che permette di giungere alla formulazione di una
decisione prescrittiva farmacologica corretta partendo dalla creazione di una lista più
accurata possibile di tutti i medicinali che il
paziente sta assumendo. Situazioni in cui la
riconciliazione terapeutica è importante sono
tipicamente quelle in cui il paziente è stato visto da diversi specialisti o quando si sommano prescrizioni da parte dei medici ospedalieri
e di medicina generale. L’obiettivo del processo di riconciliazione è scegliere i farmaci
corretti che coprano il quadro patologico nel
suo insieme ma evitando duplicazioni o associazioni a rischio di interazioni potenzialmente
gravi. Il farmacologo clinico, attraverso l’utilizzo di informazioni dai database ed in base
alla propria esperienza, con anche il supporto
strumentale della farmacocinetica e farmacogenetica, può aiutare il medico a compiere
scelte consapevoli e razionali.
E. Ruolo nella gestione
economica del farmaco
La gestione sanitaria basata sulla misurazione quantitativa e la valutazione qualitativa degli interventi sanitari è da considerare un supporto appropriato sia alle attività gestionali
sia alle attività cliniche. Serve quindi rendere
operativi modelli gestionali e sistemi di valutazione degli interventi sanitari tali da permettere di porre in relazione le risorse impiegate
con le necessità sanitarie della popolazione e
con gli esiti ottenuti attraverso il loro impiego.
Si tratta di generare un valore per il cittadino/
paziente, inteso come rapporto fra la “performance” del SSN e le risorse immesse nel
sistema per ottenere tale risultato.
Posto che è impossibile che le attività sanitarie possano avere luogo in un unico contesto
operativo (ospedale o servizi territoriali), dal
punto di vista delle performance assistenziali ed organizzative è evidente che la capacità
degli interventi di ottenere l’esito atteso dipende non soltanto dalla abilità decisionale
degli operatori ma anche dalla tempestività
e dal grado di coordinamento con cui gli interventi stessi vengono sviluppati, dalla continuità delle azioni poste in essere nei diversi
ambiti, dal livello di accessibilità alle risorse
sanitarie assicurata ai pazienti in funzione della natura e della severità del quadro clinico
presentato. I diversi piani strategici di attività (Piano Sanitario Nazionale, Piani Regionali,
Piani Attuativi Locali) contengono tutti orientamenti improntati a una gestione integrata e
a lungo termine di numerose “priorità sanitarie”, nazionali o locali. Tuttavia, tali iniziative
rimangono spesso infruttuose, in quanto la
loro realizzazione/diffusione si scontra con
la mancanza di coordinamento centralizzato.
La presenza di una solida base conoscitiva dei
bisogni della popolazione e dei risultati ottenuti con le risorse investite potrebbe facilitare
il dialogo fra gestori e sanitari, a tutto vantaggio dei cittadini/pazienti, partendo dall’entità
del budget e dalla sua allocazione nei vari
servizi. Considerando poi l‘attuale situazione
finanziaria, si rende oltremodo necessaria
un’analisi dell’allocazione delle risorse che
permetta, a parità di budget (o riducendo lo
stesso), uno spostamento di risorse da utilizzazioni improprie ad utilizzazioni efficaci/
efficienti.
F. Ruolo nella ricerca clinica
sui farmaci
In ambito ospedaliero si osserva una costante crescita di interesse per la ricerca farmacologica sia spontanea che sponsorizzata
(non sono estranee a ciò anche motivazioni
di carattere economico). Tuttavia, l’impegno
principale è ancora limitato alla conduzione
di studi relativi alle fasi finali dello sviluppo
dei farmaci (fasi III e IV). Un obiettivo primario
dovrebbe invece essere rappresentato dalle
ricerche di fase I e II, poiché dal punto di vista
strategico sono le più importanti per lo sviluppo delle nuove molecole.
È necessario favorire la consapevolezza che
la ricerca è un elemento inscindibile dai tradizionali compiti di assistenza, in quanto comporta la capacità di studiare le innovazioni
terapeutiche di provata efficacia, stimarne
l’impatto sulla salute e analizzarne le possibili
ricadute sull’organizzazione sanitaria. Il rilancio della ricerca clinica sui farmaci dovrebbe
essere sempre più percepito come un obiettivo primario da parte delle Regioni e delle
Direzioni Sanitarie Ospedaliere. Si tratta di impostare una vera e propria politica di Ricerca
e Sviluppo con il coinvolgimento dei Ministeri
e delle Agenzie competenti.
In questo settore le Aziende Ospedaliere più
organizzate e capaci di innovazione stanno cominciando a giocare un ruolo da protagonista
e a porsi come elemento di traino del sistema nazionale della ricerca clinica, ruolo che
potrebbe essere ulteriormente potenziato
grazie anche alla disponibilità alla collaborazione espressa dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA). Ne è prova la recente istituzione
Quaderni della SIF (2014) vol. 38-25
di diversi Centri per Studi di Fase I localizzati
in Presidi Ospedalieri di rilevanza regionale.
Anche nel campo della ricerca clinica si rivela fondamentale la presenza del Farmacologo Medico, le cui specifiche competenze
consentono di pianificare e condurre ricerche
sull’uomo e, laddove possibile, di trasferirne i
risultati alla pratica clinica quotidiana.
Questi aspetti sono importanti in un quadro di
riferimento come quello Lombardo, per due
ragioni:
 la ricerca farmacologica permette di sviluppare non solo studi di sicurezza cardiaca,
sicurezza e dose massima tollerabile, relazione struttura-attività, interazioni farmacologiche, farmacocinetica e metabolismo su
nuovi farmaci, ma anche studi di bioequivalenza/biodisponibilità su farmaci generici e
biosimilari. Quest’ultimo aspetto è rilevante
per la salute pubblica in quanto nel prossimo futuro l’ingresso di questa tipologia di
farmaci sul mercato sarà sempre maggiore.
 la realtà della ricerca biomedica lombarda
è molto attiva, sul suo territorio insistono più
di metà degli operatori di ricerca farmacologica e delle strutture della ricerca biomedica
italiana. Lo sviluppo delle fasi precoci della
ricerca clinica può stimolare in un volano virtuoso nuovi investimenti e generare occupazione e innovazione di qualità in Lombardia.
G. Ruolo nella formazione
L’esperienza maturata dai Farmacologi Clinici
impegnati nella pratica professionale ospedaliera indica che nel panorama sanitario italiano è presente una forte domanda di cultura
farmacologica.
Per il Farmacologo clinico la formazione rappresenta la concreta possibilità di aumentare
la risposta al bisogno di salute assicurando,
in una prospettiva di continuo miglioramento,
l’accoglimento nella pratica clinica dei risultati del progresso scientifico in campo farmacologico. Il farmacologo clinico dovrebbe
assumere un ruolo di formazione sia ai medici
delle ASL che nelle strutture ospedaliere sul
farmaco inteso in tutti i suoi aspetti, per aumentare la conoscenza delle reazioni avverse
che esso può generare, per fornire informazioni utili alla scelta del farmaco migliore in
una classe omogenea, per dare strumenti di
gestione delle terapie farmacologiche complesse e della politerapia, per minimizzare le
conseguenze di interazioni farmacologiche
spesso inevitabili nella pratica clinica. Importante è anche il ruolo del Farmacologo clinico
nella formazione in metodologia della ricerca
clinica sui farmaci e sui dispositivi (formulazione dell’ipotesi di studio, stesura del protocollo, comprensione degli obblighi dello
sperimentatore, organizzazione di supporto
alla ricerca, normativa vigente, ecc.). Laddove attuati tali corsi di formazione hanno generato ricadute positive in termini di aumento
delle competenze degli operatori, oltre a rappresentare un investimento finalizzato alla
valorizzazione del capitale umano, del quale
Quaderni della SIF (2014) vol. 38-26
accresce la disponibilità ad operare con alti
livelli di motivazione.
H. Ruolo nei Comitati di Etica
Il Comitato Etico si costituisce come momento, auspicabile nel contesto di una società
democratica e pluralistica, di una mediazione
culturalmente e moralmente elevata ed equilibrata nel confronto tra progresso scientifico e diritti della persona. In questo quadro la
sperimentazione clinica sui farmaci si pone
come elemento critico e cruciale.
La attuale riforma dei CE ha reso questo
strumento assai complesso soprattutto in
quelle regioni ove i CE operano su complessi di strutture accorpate dalle caratteristiche
diverse fra loro (ASL, AO oppure IRCCS). Una
forte Farmacologia Clinica regionale potrebbe generare una cultura farmacologica che
potrebbe aiutare l’armonizzazione delle attività di questi diversi CE ricercando linee
comportamentali capaci di armonizzare e
salvaguardare i valori-diritti del paziente ed
insieme rendere possibile e di qualità una ricerca farmacologica d’eccellenza. Questo
promuoverebbe senz’altro l’innovazione e la
ricerca biomedica ed industriale sul farmaco
con anche ricadute positive in termini economici sul territorio nazionale.
I. Ruolo nelle Trial Units
Il farmacologo clinico potrebbe entrare a
pieno titolo nelle costituende Trial Unit, già
esistenti in altri Paesi. La creazione di queste
unità servirà a qualificare sempre più i centri di eccellenza, ovvero i centri che vogliono
conservare ed espandere la propria partecipazione alla sperimentazione clinica attraendo investimenti esterni.
Otre all’indiscutibile valore della ricerca come
momento di crescita culturale e miglioramento della pratica clinica, queste Trial Unit possono massimizzare il ritorno economico che
offre alle Amministrazioni la partecipazione
ad uno studio, non solo quanto corrisposto
al centro per la gestione di ciascun paziente
arruolato, ma anche i risparmi generati dalla
copertura da parte dello sponsor di alcuni dei
costi gestionali del paziente.
PROPOSTA OPERATIVA
Si propone che nelle Regioni si istituiscano
Centri di Farmacologia Clinica a valenza regionale che operino in sinergia o si integrino con i
Centri Regionali di Farmacovigilanza.
I Centri potrebbero nascere in seno alle già
esistenti strutture operative di farmacologia
clinica o, ove non presenti, associate ai Centri regionali di farmacovigilanza utilizzando
in modo razionale le esistenti dotazioni strumentali e di personale con minore richiesta
di investimenti. Accanto alla attività di farmacovigilanza, le azioni che i centri dovrebbero
svolgere sono le seguenti:
 Ottimizzazione della terapia per singolo
paziente attraverso un coordinamento ope-
rativo di attività di appropriatezza prescrittiva, farmacocinetica e farmacogenetica
 Supporto al SSN per la sostenibilità della
spesa farmaceutica attraverso
Questa attività sarà particolarmente efficace per le popolazioni fragili (anziani e bambini) e in situazioni peculiari quali la gravidanza
e l’allattamento. Essa inoltre permetterà di
affrontare il problema dell’off label delle
interazioni farmacologiche in politerapia.
Il servizio dovrebbe essere attrezzato con
personale ed attrezzature atte a poter coprire un ampio bacino d’utenza
 analisi farmaco-economica, su database
e su real life scenarios, dei costi diretti ed
indiretti della terapia, associata ad analisi di
appropriatezza prescrittiva
 supporto alle strutture regionali competenti per la gestione dell’Health Technology
Assessment farmacologico
 Razionalizzazione della
farmacologica attraverso:
prescrizione
 supporto informativo e di analisi farmacologica al SSN
 analisi di popolazione su pazienti o gruppi
di pazienti regionali per la valutazione della
appropriatezza prescrittiva di farmaci
 supporto al medico di medicina generale nei processi di “riconciliazione terapeutica” - con razionalizzazione e riduzione del
numero di farmaci per paziente complesso
 Formazione ed informazione continua in
Farmacologia Clinica attraverso
 corsi di formazione nelle AO ed ASL
 servizio di consulenza farmacologica telefonica/online per medici di medicina generale
pediatri di libera scelta e medici ospedalieri.
 Supporto al sistema regionale della
ricerca clinica attraverso
 supporto informativo ai Comitati Etici
 supporto agli sperimentatori indipendenti
per studi clinici
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Quaderni della SIF (2014) vol. 38-27
CRISTIANO CHIAMULERA*,
GUIDO FUMAGALLI*,
GIAMPAOLO VELO+*
*Sezione di Farmacologia,
Dipartimento di Sanità
Pubblica e Medicina
di Comunità,
Università di Verona
+Azienda Ospedaliera
Universitaria Integrata,
Verona
TABACCO,
FARMACI E INTERAZIONI
INTRODUZIONE
Fumare è l’atto comportamentale, complesso, dell’assumere nicotina. Il comportamento
del fumare è regolato accuratamente – sia
come frequenza che come intensità – in modo
tale da mantenere stabili i livelli plasmatici
della nicotina stessa (Benowitz, 2009). La
nicotina raggiunge velocemente il cervello
entro pochi secondi dall’inalazione. Nel sistema nervoso centrale la nicotina esercita
così, rapidamente, i suoi effetti psicoattivi.
L’azione recettoriale della nicotina viene esercitata tramite il legame ai recettori nicotinici,
una sottoclasse di recettori colinergici i quali
sono localizzati in diverse aree cerebrali (corteccia cerebrale, talamo, ipotalamo, ippocampo, gangli della base) e a livello periferico. La
loro attivazione è in grado di influenzare parametri come la trasmissione di impulsi dal
sistema nervoso centrale agli organi periferici, lo sviluppo o la degenerazione neurale e le
funzioni cognitive (Broide & Leslie, 1999; Dani
& De Biasi, 2001).
I farmaci attualmente raccomandati per il
trattamento del paziente tabagista agiscono
sui meccanismi neurochimici che risultano
alterati dalla esposizione cronica alla nicotina
fumata con la sigaretta. Le linee guida internazionali e nazionali raccomandano, in base
alle evidenze cliniche, alcuni trattamenti farmacologici efficaci per la prevenzione della
ricaduta al fumo di tabacco (CPC, 2008; OSSFAD, 2008). Questi sono i sostitutivi della nicotina, detti anche NRT (nicotine replacement
therapy), ed i farmaci bupropione e vareniclina. Gli NRT forniscono un supporto farmacologico alla terapia integrata, basandosi sul
concetto di sostituzione della nicotina assunta tramite la sigaretta con quella introdotta
terapeuticamente attraverso diverse vie di
somministrazione come i cerotti, le gomme
e gli inalatori. Questo approccio terapeutico
pragmaticamente allontana il fumatore dalle
sostanze tossiche inalate, ma non cura la dipendenza che diventa così il bersaglio dell’intervento psicologico e motivazionale. Il bupropione è invece un vero e proprio farmaco
in quanto agisce modulando la trasmissione
neurochimica mediata da dopamina e noradrenalina, con un conseguente effetto sul
meccanismo della dipendenza da nicotina. Bupropione induce attenuazione del desiderio di
fumare, della sindrome da astinenza, previene la ricaduta, ed inoltre permette il controllo
del peso. NRT e bupropione presentano ormai
una ricca letteratura scientifica di provata efficacia clinica, associata ad una buona tollerabilità, ma presentano anche delle controindicazioni e necessitano cautele nelle modalità
d’uso che portano alla raccomandazione di
un loro utilizzo sotto il controllo di personale
professionalmente competente.
Quaderni della SIF (2014) vol. 38-28
La terapia farmacologica della disassuefazione da fumo presenta oggi nuove prospettive.
Vareniclina, un farmaco recentemente introdotto in terapia, possiede le caratteristiche di
agonista parziale dei recettori colinergici del
tipo nicotinico. La somministrazione di vareniclina permette in modo concomitante di
stimolare debolmente il recettore nicotinico
quando la nicotina non è più disponibile, ma
anche di antagonizzarla nel caso venga occasionalmente riassunta durante la ricaduta.
Questo meccanismo recettoriale si è dimostrato efficace in clinica nella prevenzione
della ricaduta nei fumatori, con limitati eventi
avversi. Alla dose di 1 mg 2 volte al giorno, associata al counselling breve settimanale, per
un totale di 12 settimane di trattamento, vareniclina si è dimostrata efficace nel prevenire
la ricaduta al fumo di sigaretta: a 3 mesi la
percentuale d’astinenza è stata 44% vs. 18%
nel gruppo trattato con placebo e 30% nel
gruppo trattato con bupropione. Ad 1 anno,
gli astinenti erano rispettivamente 23%, 10%,
15%, suggerendo così un significativo miglioramento del profilo di efficacia nei confronti
dei trattamenti esistenti (Cahill et al., 2007).
È fondamentale tuttavia ricordare che esistono diverse tipologie di fumatori, dove il
fattore individuale è di estrema importanza
per la scelta della terapia più efficace. L’aumento dell’efficacia è conseguibile mediante
l’intervento integrato e in ottime condizioni di
buona tollerabilità al farmaco. La tollerabilità
è il fattore principale per l’aderenza alla terapia e per il conseguimento e mantenimento
dell’efficacia stessa. Gli eventi avversi dei farmaci di prima scelta sono di lieve o moderata intensità, scompaiono con il tempo, sono
risolvibili dal punto di vista medico, spesso si
confondono con i sintomi d’astinenza. Tuttavia, non sono accettati dal fumatore sano il
quale – non considerandosi un malato – non
tollera la comparsa di sintomi assenti prima
del trattamento di disassuefazione con il farmaco.
Il tabagismo come anticamera
ai problemi fumo-correlati
Il problema è che nemmeno il medico – nonostante la conoscenza dei problemi fumo-correlati – percepisce il tabagismo come una
priorità di intervento. Spesso la sua attenzione si focalizza legittimamente sulla gestione
dell’urgenza e della gravità del sintomo, anche trascurando involontariamente le possibili interazioni con il fumo di tabacco. Il fumo
contiene più di 9000 sostanze (Rodgman &
Perfetti, 2013). Molte di queste sono cancerogene, nocive in acuto e – in cronico – potenziali
fattori di rischio per numerose patologie correlate. La nicotina, inducendo la dipendenza
tabagica, pone il soggetto fumatore in una situazione di maggior probabilità di continuare
a fumare per molti anni, esponendosi anche
alle altre “8999” sostanze. È ormai dichiarato
da molti anni dall’OMS che il fumo di tabacco
è la principale causa di morte prevenibile. Nel
2011, il tabacco ha ucciso circa 6 millioni di
persone al mondo, di cui 700.000 in Europa
(Eriksen et al., 2012).
Il problema dell’interazione
tra farmaci
Il fumatore deve essere consapevole che
l’esposizione a questo miscuglio di sostanze
non solo espone il soggetto sano al rischio
di patologie, ma può inoltre alterare l’effetto
terapeutico dei farmaci nel soggetto ammalato. Infatti, si è visto che il fumo di tabacco
può modificare l’efficacia e la tollerabilità di
numerosi farmaci agendo sulle loro caratteristiche farmacodinamiche e farmacocinetiche.
Chiunque, sano o malato, ha un’alta probabilità di assumere un farmaco. L’impatto dell’interazione fumo e farmaci non è trascurabile
considerando che in Italia circa un quinto della popolazione fuma, e nel mondo si contano
circa 1.3 miliardi di fumatori. Inoltre, in alcune
categorie di pazienti (per esempio coloro che
assumono farmaci per disturbi neuropsichiatrici) l’alta comorbidità con il fumo di sigaretta rende maggiormente probabile una risposta imprevista al trattamento farmacologico,
sia in termini di efficacia sia di potenziali eventi avversi.
In generale l’interazione tra farmaci modifica
nell’intensità e nella durata gli effetti farmacologici degli stessi. Si ricorda che l’interazione farmacocinetica tra farmaci è nota come il
fattore più rilevante per l’insorgenza di eventi
avversi. La principale interazione tra fumo di
tabacco e farmaci si è vista essere a livello
dell’interazione farmacocinetica. La modifica imprevista di assorbimento, distribuzione,
metabolismo ed eliminazione di un farmaco
può portare non solo a una modificata efficacia (per es. effetto terapeutico ridotto), ma
anche a un’alterata tollerabilità, con aumentata incidenza di eventi avversi anche gravi.
La segnalazione di eventi avversi e la ricerca di base e clinica hanno evidenziato numerose interazioni tra farmaci e fumo a causa
degli effetti di quest’ultimo sull’attività degli
isoenzimi metabolici del citocromo P450. La
famiglia del citocromo P450 (CYP) consiste
di numerosi isoenzimi (circa 30 identificati ad oggi) localizzati a livello epatico, ed in
minor misura nell’apparato respiratorio, gastrointestinale, renale, cutaneo e nel sistema
nervoso centrale. Circa 7 di questi isoenzimi
metabolizzano la maggior parte dei farmaci.
Le interazioni tra farmaci e sostanze sono riconducibili a due tipi di fenomeni enzimatici:
inibizione e induzione. L’inibizione può avvenire quando c’è un comune legame allo stesso
isoenzima, con conseguente competizione e
riduzione del metabolismo per la sostanza/
farmaco meno affine. Dal punto di vista farmacologico questo si traduce in genere in aumentata biodisponibilità sistemica del farmaco meno affine, con rischio di sovradosaggio
ed eventi avversi. L’induzione consiste invece
in una risposta adattativa di maggiore attività
dell’isoenzima, con conseguente aumento del
metabolismo, ridotta biodisponibilità ed efficacia. A differenza dell’inibizione, l’induzione
può richiedere giorni per manifestarsi.
Il fumo: non solo nicotina
Quale tra le 9000 sostanze contenute nel
fumo di sigaretta possono essere responsabili dell’interazione con i farmaci? Si è visto
che – presi separatamente – gli idrocarburi
aromatici policiclici, come benzopirene, antracene, fenantrene, gas come l’ossido di
carbonio, e metalli pesanti come cadmio,
nichel e cromo sono in grado di indurre inibizione e/o induzione enzimatica (Zevin & Benowitz 1999). Nello specifico si è visto che gli
idrocarburi aromatici inducono CYP1A2, ma
anche CYP1A1 e CYP2E1, e ciò può richiedere aumentati dosaggi di diversi farmaci per
compensare l’aumentato metabolismo epatico di primo passaggio. La disassuefazione
da fumo rispristina il normale metabolismo,
richiedendo quindi un monitoraggio dei livelli
di farmaco nel paziente trattato per la cessazione da fumo di sigaretta. Gli aumentati
livelli plasmatici possono mettere il paziente
fumatore a rischio di superare finestre terapeutiche di margine ridotto, come quelle che
possiedono farmaci come warfarin, clozapina, olanzapina e teofillina (Burns 1999, Faber
& Fuhr 2004).
È interessante notare come la nicotina invece
non induca effetti rilevanti d’inibizione o induzione sull’isoenzima CYP. Questi dati hanno
importanza, come vedremo dopo, sulle scelte terapeutiche relative al trattamento del
tabagismo. Quello che invece è ampiamente
caratterizzato per la sua rilevanza clinica è
l’effetto farmacologico del complesso mix di
sostanze contenuto nel fumo di sigaretta. È
ovvio che la presenza di centinaia di composti
rende impossibile una caratterizzazione analitica e sistematica di quali componenti siano
responsabili delle interazioni rilevanti. Il fumatore è comunque e sempre esposto a tutte.
Livelli ematici alterati per
antipsicotici, antidepressivi,
anticoagulanti e farmaci
cardiovascolari
Come detto sopra, l’effetto più caratterizzato
dell’interazione con il fumo è quello sull’isoenzima CYP1A2 che si manifesta come induzione dell’attività enzimatica. L’attività di CYP1A2
è marcatamente più alta nei fumatori forti che
nei non fumatori. Questa induzione dipende
dalla quantità di fumo ispirato e quindi dalla
quantità delle sostanze inalate. La cessazione da fumo rapidamente normalizza l’attività
di CYP1A2, fenomeno che si raggiunge in una
settimana. L’induzione di CYP1A2 corrisponde
a un aumentato metabolismo dei farmaci che
sono del tutto od in parte metabolizzati da
questo isoenzima, come imipramina, clozapina, propossifene, propranololo, verapamil.
A questo livello, i farmaci che vanno incontro
all’interazione più importante sono gli antipsicotici clozapina e olanzapina (Meyer, 2001;
Quaderni della SIF (2014) vol. 38-29
Zullino et al. 2002; Bondolfi et al. 2005;
Derenne & Baldessarini 2005; Sandson et al.
2007; Brownlowe & Sola 2008). L’interazione
con il fumo comporta un aumentato metabolismo e ridotta concentrazione plasmatica dei
due farmaci. Bastano anche 7-12 sigarette al
giorno per esercitare la massima induzione,
e quindi la necessità di un aumento del 50%
del dosaggio di clozapina per mantenerne
concentrazioni plasmatiche terapeutiche. Ne
consegue che la cessazione improvvisa e non
controllata del fumare può portare a un rapido reversal dell’induzione e ridotta clearance
dell’antipsicotico. Si è osservato come alla
cessazione da fumo, possano aumentare del
72% i livelli plasmatici di clozapina. I dosaggi
di clozapina e olanzapina devono essere monitorati e stabilizzati a circa il 10% di riduzione
del dosaggio, e fino al quarto giorno dopo la
cessazione. È importante operare una riduzione del 36% nella prima settimana di cessazione (Derenne & Baldessarini 2005; Skogh et
al. 1999, Meyer 2001, de Leon et al. 2005).
Precauzioni simili di monitoraggio sono raccomandate per antidepressivi (per esempio,
fluvoxamina, dove dosaggi più alti potrebbero essere necessari nei fumatori), ansiolitici
come diazepam (di cui si raccomanda il monitoraggio a causa della aumentata clearance di 3 volte presumibilmente a causa della
induzione di CYP1A2) e warfarin. Quest’ultimo
può presentare un maggiore metabolismo e
minore attività a causa dell’interazione con il
fumo, con aumenti dei livelli plasmatici e riduzione della clearance entrambi del 13% durante la cessazione (Bachmann et al., 1979).
Recenti studi hanno infatti dimostrato come il
dosaggio di warfarin dovrebbe essere ridotto
del 14-23% nei fumatori in trattamento di disassuefazione (Evans & Lewis, 2005). Anche
per propranololo, la cui clearance aumenta
del 70% con il fumo, e naratriptan (aumento
del 36%) è necessario porre attenzione agli
aumentati livelli alla cessazione.
Un’altra classe d’isoenzimi CYP su cui agisce
il fumo di tabacco è CYP2B6. Farmaci cardiovascolari come clopidogrel e il nuovo antiaggregante della stessa classe prasugrel sono
convertiti in metaboliti attivi da diversi CYP,
ma in particolare da CYP1A2 e CYP2B6. Il potenziale aumento di attività di questi farmaci
è stato dimostrato da dati che confermano
una ridotta aggregazione piastrinica nei fumatori. Infine, l’ampiamente utilizzata teofillina, metabolizzata dal CYP1A2, presenta una
clearance ridotta del 37% dopo cessazione
del fumo, richiedendo quindi una riduzione del
25-30% del dosaggio (Lee et al.1987).
La lista delle interazioni farmacologiche mediata dal fumo di sigaretta a livello di CYP è
lunga e ancora in divenire: calcio antagonisti,
furosemide, cortisonici inalatori, contraccettivi. Si pensi, l’interazione avviene anche con la
caffeina: il fumatore può arrivare a necessitarne fino a quattro volte il dosaggio per avere la stessa concentrazione plasmatica dei
non fumatori – quadruplicando il numero di
caffè giornalieri!
Quaderni della SIF (2014) vol. 38-30
Necessità di monitoraggio
La diffusione del fumare tabacco, ed il fatto
che chiunque ne sia potenzialmente esposto
sin dalla nascita, contribuisce ad una “normale consuetudine” del fenomeno. Di conseguenza, oltre all’utilizzo di definizioni “giustificative”: il fumo è un vizio, oppure, una cattiva
abitudine, è importante quindi procedere ad
una migliore conoscenza e consapevolezza
delle conseguenze anche non evidenti, indirette, del fumare.
Dal punto di vista clinico farmacologico è fondamentale conoscere lo status del fumatore
e l’entità giornaliera del fumare, in modo da
adeguare il trattamento farmacologico alle
possibili modifiche indotte da interazioni. Anche nella cessazione, la buona pratica impone
una riconsiderazione dei dosaggi dei farmaci
assunti. Comunque, la cessazione da fumo
deve essere sempre considerata una priorità.
Ed è importante segnalare come nessuno dei
trattamenti raccomandati per la cessazione
da fumo interagisca con il fumo di sigaretta.
Il ruolo dei farmacologi
nella ricerca, nell’intervento
e nell’educazione sanitaria
sul tabagismo
Il ruolo dei farmacologi è duplice, ovvero sia
come esperti di farmaci, sia come esperti di
una dipendenza farmacologica come il tabagismo. La farmacologia italiana ha sviluppato
nel nostro paese una rete di monitoraggio e
sorveglianza degli eventi avversi da farmaci, in parte dovuti appunto all’interazione tra
i farmaci stessi. I nostri colleghi farmacologi
esperti di farmacovigilanza hanno evidenziato e messo in allerta riguardo alle interazioni
tra farmaci e sostanze assunte per svariate
ragioni non farmacologiche, come prodotti
erboristici e alimenti. Il numero di possibilità
di combinazioni tra sostanze è molto elevato,
e sono solo limitatamente prevedibili con la
ricerca preclinica. Allora immaginiamo le incognite delle possibili combinazioni avverse
tra farmaci e le migliaia di sostanze contenute nel fumo di tabacco.
La farmacologia italiana ha inoltre sviluppato
un’expertise riconosciuta a livello internazionale nella ricerca sulle tossicodipendenze. La
nostra esperienza è quotidianamente diffusa
nelle aule universitarie e nell’educazione sanitaria, permettendo così la formazione e l’aggiornamento di clinici e operatori nel campo
delle dipendenze, e non solo. Tuttavia, nonostante la ricerca sulla dipendenza nicotinica
veda molti gruppi di ricerca farmacologica
italiana attivi (come evidenziato dall’alto numero di abstract presentati al recente convegno monotematico SIF di Verona del Gruppo di Lavoro SIF sulle Dipendenze), bisogna
purtroppo constatare una ridotta presenza
dei farmacologi nell’assistenza sanitaria in
questo campo. Nel Centri di Trattamento del
Tabagismo (CTT) del Sistema Sanitario Nazionale censiti dall’ISS sono purtroppo pochi gli
operatori con specializzazione farmaco-tossicologica (al contrario di quanto invece avvie-
ne per esempio nei Servizi delle Dipendenze).
Nonostante le linee guida internazionali e
italiane sottolineino la natura neurofarmacologica della tossicodipendenza da nicotina e
tabacco, e l’efficacia dei trattamenti farmacologici e della loro integrazione con interventi
psico-sociali, le specializzazioni prevalenti nei
CTT vedono pneumologi, piscologici, educatori sanitari.
Una possibile soluzione è agire in una fase
precoce, ovvero nell’educazione dei futuri
operatori a partire dalle aule universitarie.
Un gruppo di ricerca coordinato dalla collega Prof. Maria Caterina Grassi (Università di
Roma Sapienza) già a partire dal 2009 ha
intrapreso un lungo percorso sperimentale
basato sull’ipotesi che l’istruzione universitaria, durante le lezioni di farmacologia su tabagismo, fumo e problemi-correlati (incluse
le interazioni farmacologiche), possa non solo
cambiare percezioni e credenze dei nostri stu-
denti di medicina (Grassi et al., 2012), i quali,
se opportunamente formati da un approccio
anche farmacologico, acquisiscono un grado
di conoscenze che permane negli anni (Grassi
et al., 2014). Riteniamo che le evidenze sperimentali di questo studio (che ha visto coinvolti anche i colleghi Proff. Baraldo, Chiamulera,
Nencini, Patrono, oltre ad esperti stranieri)
siano di fondamentale importanza per proporre l’inserimento del tabagismo e del fumo
nei curricula farmaco-tossicologici. È con
enfasi quindi che rimarchiamo l’importanza
di portare il contributo della specifica competenza della farmacologia italiana in prima
linea nella lotta al tabagismo ed ai problemi
fumo-correlati.
Ringraziamenti
Si desidera ringraziare il collega Prof. Guido
Fumagalli per la revisione del manoscritto.
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Quaderni della SIF (2014) vol. 38-31
GIAN LUIGI GESSA
Professore Emerito,
Università di Cagliari
LA LEGALIZZAZIONE
DELLA MARIJUANA,
UNA LEZIONE AMERICANA
Perché una lezione americana? Perché tutto
ciò che succede negli Stati Uniti nel settore
della droga, e non solo, viene ineluttabilmente
trasferito alla periferia dell’Impero.
Nel 1937 il Marijuana Tax Act ha messo fuori
legge negli Stati Uniti e in tutto il mondo una
droga presente sulla terra da trentotto milioni
di anni, usata dall’uomo da millenni per curare, per gioire, per pregare. Il capo del Federal
Bureau of Narcotics (FBN), Harry Anslinger,
per vincere la sua partita cannabifobica non
si è servito di argomenti tratti dalla preistoria, dalla storia o dalla scienza, ma dalla più
lurida cronaca nera. Erano gli articoli diffusi
dalla vasta catena di giornali sensazionalistici
del suo amico William Randolph Hearst, intrisi
di razzismo. Hearst odiava i messicani anche
perché Pancho Villa l’aveva spodestato di un
bosco di ottocentomila acri da cui Hearst otteneva il legno per la carta dei suoi giornali, in
sostituzione della canapa usata fino ad allora.
Anche la DuPont aveva interesse a sostituire
la canapa con la sua nuova scoperta, il nylon.
Hearst aveva messo in atto una vera macchina del fango sui terribili effetti della marijuana
sul comportamento dei negri, dei messicani e
dei suonatori di jazz. Alcuni esempi dai giornali
dell’epoca: “sotto l’effetto della marijuana un
negro riesce a guardare negli occhi un uomo
bianco, due volte una donna bianca; la marijuana induce al pacifismo e al comunismo;
due negri sotto l’effetto della marijuana hanno
violentato una ragazzina di quattordici anni, anch’essa drogata, risultato: sifilide e gravidanza;
tre quarti degli omicidi sono commessi da individui ispanici sotto l’effetto della marijuana”.
Nel 1961 Anslinger fa un compiaciuto esame
del suo operato dove rivendica tra l’altro di
aver ripulito centinaia di acri di marijuana e di
aver sradicato tutte le piante che crescevano
spontaneamente sul bordo delle strade.
Il compito più impegnativo di eradicare la marijuana e le altre droghe dalla faccia della terra venne affidato più tardi al nostro Pino Arlacchi che usò come erbicidi funghi patogeni,
pericolosi per l’agricoltura e la salute umana,
disattendendo il bando globale delle armi biologiche. Anche Arlacchi parla con orgoglio dei
suoi successi, ma soprattutto di quelli futuri.
Nel 1998, all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, di fronte ai maggiori capi di governo,
incluso Bill Clinton, affermò applauditissimo
che le droghe saranno eliminate dalla faccia
della terra entro dieci anni, “A drug-free world,
we can do it!”: il progetto è alla portata dell’uomo. Qualche incredulo, un “gufo” secondo la
terminologia di Matteo Renzi, fece circolare
una maligna storiella: “E Dio lo incoraggiò, ce
la farai Pino, sebbene non sarà durante la mia
esistenza!”. Arlacchi pensava di passare alla
storia come il Jenner del carbonchio, il Sabin
della poliomielite, il Lincoln della schiavitù.
Quaderni della SIF (2014) vol. 38-32
La marijuana è sopravvissuta ad Anslinger, a
Pino Arlacchi, al diluvio universale che avvenne
duemiladuecento anni prima di Cristo quando
Noè, il capitano dell’arca, ne compiva seicento.
Si parva licet è sopravvissuta a Carlo Giovanardi e al suo spin doctor.
Oggi gli epigoni di Harry Anslinger non usano
argomenti così rozzi, sostengono le loro tesi
con le evidenze scientifiche favorevoli alla demonizzazione della marijuana selezionate da
un’immensa e controversa letteratura, nella
quale le verità scientifiche possono essere
interpretate in senso opposto. Questo scritto
non intende discutere se la marijuana sia una
droga più leggera delle droghe legali, alcol
e tabacco, ma se una legge che la proibisce
sia utile o dannosa. Prima che fosse proibita,
meno dell’1 per cento degli americani aveva
provato la marijuana, oggi sono più del 50
per cento i giovani dai 12 ai 35 anni che l’hanno
usata almeno una volta nella vita: un aumento del 5000 per cento! Provare la marijuana
è considerato una normale esperienza adolescenziale: lo hanno fatto Kennedy, Clinton,
Obama, ma anche Bush Jr., che ha fatto anche
altre esperienze.
Naturalmente la proibizione non è la causa
della diffusione dell’uso della droga, ma la
diffusione è la prova che la legge che doveva
cancellare “the assassin of youth” ha fallito. Si
può obiettare che, seppure non ha eliminato o
ridotto l’uso della marijuana, la proibizione ha
mantenuto la sua diffusione ad un livello inferiore a quello che altrimenti si sarebbe verificato senza la proibizione. Mentre una verifica
sperimentale di questa possibilità è praticamente impossibile, la risposta a questo quesito
può venire dal confronto della diffusione della
droga tra i paesi con severe sanzioni e quelli
nei quali l’uso della marijuana è decriminalizzato o semi-legalizzato.
Nel 2001 uno studio del National Research
Council (NRC), commissionato dalla Casa Bianca, conclude che “non c’è alcun rapporto tra
la severità delle sanzioni e la prevalenza e frequenza dell’uso della marijuana”. Ad esempio,
nel Mississippi, dove la marijuana è decriminalizzata, l’8,26 per cento dei soggetti di età
superiore ai 12 anni l’ha usata nell’anno precedente al sondaggio (1999), mentre nella Louisiana, dove le pene erano severissime, questa
percentuale era del 9,31 per cento. L’esempio
olandese è anche più convincente. In Olanda,
dove il possesso e l’acquisto di modiche quantità di marijuana sono in pratica legali, l’incidenza dell’uso della droga è stata notevolmente
inferiore a quella dei paesi limitrofi e a quella
degli stati americani nei quali il possesso era
punito con la prigione. L’esperienza olandese
è stata un successo nei primi dieci anni, dal
1976, quando le regole imposte agli esercenti
dei coffee shop erano stringenti e rispettate.
Nell’ultimo decennio il controllo delle regole si
è allentato, la vendita della marijuana è stata
promossa con metodi aggressivi e spregiudicati, il numero dei coffee shop ad Amsterdam
si è moltiplicato, la criminalità si è avvicinata
ai coffee shop come conseguenza della non
legalizzazione dell’approvvigionamento. Con
la promozione del consumo è cresciuto il numero dei consumatori. Il governo ha deciso di
ridurre il numero di coffee shop trasformandoli in club per soli soci come quelli esistenti a
Barcellona e di chiudere quelli situati vicino alle
scuole. L’esperienza olandese dimostra che la
legalizzazione può essere un successo o fallire
se non si rispettano le regole stabilite, tuttavia
non è la legge la causa dell’insuccesso ma la
sua mancata applicazione.
Se i successi sono così limitati, quali sono i
danni prodotti dalla criminalizzazione della
marijuana? Essa ha contribuito significativamente al sovraffollamento delle carceri.
Inoltre, i prigionieri di guerra (alla droga) che
finiscono in carcere per possesso o piccolo
traffico ricevono un danno alla salute psicofisica di gran lunga più grave di qualsiasi effetto
tossico della marijuana o delle altre droghe.
Ma la proibizione causa danni anche al resto
della società. Un enorme settore economico
viene lasciato nelle mani di criminali che non
pagano le tasse. Inoltre, comporta alti costi
della macchina repressiva con perquisizioni,
controlli, sequestri, tribunali, spese di polizia,
magistratura e carceri. La proibizione esenta
il mercato della marijuana dalle regole che la
società impone alla produzione e vendita delle droghe legali. I produttori e venditori di bevande alcoliche devono possedere una licenza
che impone, pena la sua revoca, l’indicazione
della qualità del prodotto, il contenuto alcolico, i tempi e i modi di vendita, la localizzazione
dell’esercizio. I venditori illegali non chiedono ai
minori la carta di indentità e non garantiscono
la qualità della droga. Infine, la popolazione più
crudelmente colpita dalla proibizione sono i
malati che potrebbero giovarsi di una medicina
per la nausea, il vomito, l’anoressia, il dolore
neuropatico, la spasticità, il glaucoma, etc. Una
progressiva insofferenza contro lo stato di illegalità della marijuana è iniziata negli Stati Uniti
a metà degli anni Sessanta del secolo scorso,
si è rafforzata alla fine del secolo ed è fortemente cresciuta nell’ultimo decennio. Quasi
tutti gli stati americani hanno ammorbidito le
leggi federali, riducendo le pene criminali, le
sanzioni civili o amministrative. La decriminalizzazione dell’uso o del possesso di marijuana
viene sostenuta da posizioni politicamente opposte, fino all’estrema destra di Sarah Palin.
Tutti sono favorevoli alla reintroduzione della
cannabis nell’armamentario medico dove era
stata fino al 1941, quando venne dichiarata,
oltre che pericolosa, senza alcuna utilità medicamentosa. Ma è nei confronti della legalizzazione della cannabis per uso ricreazionale che
l’opinione pubblica americana si divide.
Sulla rete i fautori delle due fazioni sostengono le loro tesi sulla base delle scoperte
scientifiche più recenti. Spesso la stessa verità
scientifica è interpretata come la prova della
dannosità della cannabis, la pistola fumante
che giustifica la proibizione, oppure come la
conseguenza dello stato di illegalità. L’esempio più dibattuto è la litania del gateway, il
passaggio dalla cannabis alle droghe “pesanti”
come l’eroina e la cocaina. Quasi tutti i consumatori di queste droghe sono stati o sono
anche fumatori di marijuana. L’interpretazione
dei proibizionisti è che la cannabis produca una
alterazione nel cervello che rende il soggetto più attratto dalle forti emozioni. Secondo i
legalizzatori è il mercato illegale che espone
i consumatori di cannabis ad una violenta sottocultura, la rete dei consumatori, spacciatori
e criminali che contagiano il loro modo di pensare, la loro etica. Il fatto che quasi nessuno
inizi con la cocaina o l’eroina è nella normale
traiettoria dei comportamenti umani. Nessun
motociclista è salito sulla moto se prima non
ha usato la bicicletta. Le stesse contrapposte interpretazioni riguardano l’associazione
dell’uso della cannabis, specie durante l’adolescenza, ed il successivo coinvolgimento in
attività criminali. Lo studio di Pedersen e Skardhamar è spesso citato dagli oppositori della
legalizzazione. In realtà, il fatto che in Norvegia,
dove lo studio epidemiologico è stato condotto, l’uso della cannabis è severamente proibito
con l’arresto, porta l’autore a concludere che
è l’illegalità e non la cannabis alla base dell’associazione: “The study strengthens concerns
about the laws relating to the use, possession
and distribution of cannabis”.
Un altro tema molto importante e dibattuto è
se fumare la marijuana durante l’adolescenza
favorisca in certi soggetti l’insorgenza della
schizofrenia e/o ne acceleri la comparsa in età
adulta. Gli esperti discutono se sia la marijuana a causare o “slatentizzare” la schizofrenia
in chi è geneticamente predisposto o se quelli
che diventeranno schizofrenici sono più attratti
dall’uso della marijuana che assumono come
medicina del loro disagio psichico. Un’immensa mole di lavori scientifici non ha portato a
risultati condivisi. Tuttavia, è improbabile che
una legalizzazione possa incidere significativamente su questa condizione: si calcola che
per prevenire un solo caso di schizofrenia da
marijuana sarebbe necessario impedirne l’uso
a più di cinquemila adolescenti.
Alcuni crociati della guerra alla legalizzazione
hanno riesumato, per sostenere le loro tesi,
il linguaggio del vecchio Anslinger. Ne è un
esempio John Hawkins, columnist right-wing,
che scrive sulla rete: “Com’è che siamo finiti in
un mondo dove le grosse sbronze sono bandite a New York mentre stendiamo un tappeto
rosso per i pot heads? Com’è che i fumatori di
sigarette sono dei paria, mentre coloro che fumano weed sono coccolati, nonostante siano
universalmente riconosciuti come amotivati, di
classi inferiori, degenerati e, diciamolo chiaramente, dei falliti puzzolenti? Anche coloro che
hanno qualche successo nella vita, come Barack Obama, si rivelano delle mediocrità”. La
dimostrazione che fumare weed da adolescenti, come ha fatto Obama, fa male.
Il gruppo SAM è il più numeroso contro la legalizzazione della marijuana, con argomenti
più intelligenti e condivisibili. SAM è l’acronimo
di Smart Approaches to Marijuana. Un’alleanza non partigiana di legislatori, scienziati e
altri cittadini impegnati di cui fanno parte l’ex
Quaderni della SIF (2014) vol. 38-33
congressman Patrick J. Kennedy e Kevin Sabet,
un giovane consulente della Casa Bianca in
tema di droghe per tre mandati presidenziali.
Essi vogliono andare oltre la semplicistica dicotomia incarcerazione vs legalizzazione. Sono
per la decriminalizzazione del possesso e
dell’uso, ma contro la legalizzazione della produzione e commercio per uso ricreazionale. Il
loro motto è “né demonizzare, né legalizzare”.
Il progetto ha affiliati in venticinque stati americani.
David Frum, collaboratore della CNN, di
Newsweek e del Daily Beast, sintetizza così
il pensiero di SAM: “Noi rifiutiamo il modello
guerra alla droga, non vogliamo incarcerare
chi la usa ‘episodicamente’, né registrare il reato nella fedina penale. Ma vogliamo mandare
un chiaro messaggio: l’uso della marijuana è
una scelta cattiva” (Frum elenca qui tutta una
serie di effetti tossici). Non devi usarla. Se proprio la vuoi usare non farlo prima dei 25 anni,
quando il tuo cervello ha completato il suo
sviluppo. Non usarla se sei predisposto a certe malattie mentali. Stai attento, un sesto dei
fumatori diventa dipendente dalla marijuana.
Infine, ai genitori diciamo che l’argomento più
forte per prevenire l’uso negli adolescenti è
“La marijuana è illegale, stanne lontano!”. Molti anni fa Nancy Reagan confidava nel motto
“Just say NO!”.
La direzione del vento sta cambiando in tutto
il paese. I sondaggi popolari indicano per la
prima volta che la maggior parte degli adulti
è favorevole alla legalizzazione: “Smart politicians know which way the wind is blowing and
the stupid ones will soon find out”. Lo hanno
capito soprattutto intraprendenti imprenditori,
uomini d’affari che sperano che la legalizzazione farà nascere un’industria con alti profitti.
A modificare l’orientamento dei politici e degli
imprenditori in senso favorevole alla legalizzazione ha contribuito la frammentazione del
mercato della marijuana. La sua produzione
ha cessato di essere monopolio della criminalità organizzata. Molti stati hanno iniziato a
coltivarla in modo autarchico e molti consumatori hanno imparato a coltivarla in quantità
sufficienti ai loro consumi. L’autocoltivazione è
diventata un hobby nazionale. I piccoli produttori decantano le qualità della loro marijuana
biologica nei confronti della futura marijuana
legalizzata: “La marijuana illegale è coltivata in
piccole quantità senza pesticidi né fertilizzanti
per farla crescere più di quanto farebbe naturalmente. La qualità della marijuana legale
sarà peggiore di quella che usi oggi”. Ma un
mercato così importante non è destinato a rimanere in mano ai “fai da te”.
In rete compaiono irresistibili annunci pubblicitari per i futuri investitori: “Nel bene e nel male
la marijuana è immensamente popolare e la
sua popolarità sta crescendo ogni santo giorno. Un mercato immenso: 7,6 milioni di americani ‘accendono’ quasi ogni singolo giorno
della loro vita. Un altro incalcolabile numero
di americani la usa occasionalmente: il reale
numero dei fumatori è stimato in 50 milioni
all’anno! L’industria legale è calcolata tra i 35
e i 45 miliardi di dollari all’anno. Un’immensa
prateria che sarà di chi arriverà per primo a
conquistarla”. Il traffico della marijuana non
Quaderni della SIF (2014) vol. 38-34
avviene più attraverso vie lunghe, ma brevi e
difficilmente intercettabili.
Il vento soffia anche dagli organi di informazione. Sanjay Gupta, neurochirurgo e capo
corrispondente per la medicina per la CNN,
plurivincitore di Emmy Awards, famoso anchorman televisivo, ha sempre avuto una posizione contraria alla legalizzazione della marijuana, incluso il suo uso medico. Nel 2009
ha scritto “Why I would vote no on pot”. Oggi
chiede scusa, confessa di non aver studiato a
fondo l’argomento e di aver creduto alla DEA
(Drug Enforcement Agency) che ha messo la
marijuana nella Tabella 1, dannosa, con alto
potere di produrre dipendenza e senza alcun
dimostrato effetto terapeutico: “I apologize
because I didn’t look hard enough until now!”.
Oggi la CNN trasmette una serie di suoi documentari chiamati Weed (l’erba selvatica).
Un panegirico della marijuana, non solo come
medicina. Il New York Times ha capovolto una
linea editoriale da sempre contraria alla legalizzazione delle droghe, inclusa la marijuana. Il
14 luglio di quest’anno pubblica un editoriale
(Repeal prohibition, again) come quello usato quasi un secolo fa contro il proibizionismo
dell’alcol. Tra l’altro l’editoriale afferma: “Crediamo che la cosa migliore per Washington sia
di non interferire con gli stati che sperimentano gli usi medicinali della marijuana, la riduzione delle pene, o semplicemente la legalizzazione del suo uso”.
NORML (National Organization for the Reform
of Marijuana Law) è il gruppo più numeroso di
promotori dell’uso non medico della marijuana negli Stati Uniti. Esso sostiene l’eliminazione
di tutte le pene per il possesso e l’uso responsabile della marijuana da parte degli adulti.
Sostiene anche la legalizzazione della coltivazione per uso personale, la cessione ad altri
di piccole quantità in modo gratuito. Sostiene
lo sviluppo di un mercato legale e controllato
della cannabis e infine difende coloro che combattono contro i procedimenti giudiziari previsti
dalle attuali leggi sulla marijuana e coloro che
lavorano per abolirle. NORML porta avanti con
successo una campagna abilmente organizzata attraverso i mass media e generosamente
finanziata da alcuni miliardari, tra i quali l’ungaro-americano George Soros.
Nel 2012, il Colorado e lo Stato di Washington
hanno legalizzato non solo l’uso della cannabis, ma la sua produzione e vendita a chiunque
di età superiore ai 21 anni; ben oltre la decriminalizzazione dell’uso e del possesso e la
legalizzazione dell’uso medico già avvenute in
venti stati americani. Proposte di legalizzazione della marijuana per uso non medico saranno votate in numerosi stati dal 2014 al 2016. È
probabile che in un futuro non lontano la legge
federale sarà modificata e la marijuana sarà
legalmente disponibile in tutta la nazione.
Le autorità federali hanno posto al governo
del Colorado e di Washington la condizione che
attuino una forte ed efficace regolamentazione che prevenga la distribuzione ai minori; eviti
trattative con le organizzazioni criminali; proibisca il commercio di altre droghe e la vendita
della cannabis oltre la frontiera dello stato, il
possesso di armi, l’uso della violenza, la guida in stato di intossicazione, la coltivazione e
la vendita in terreni pubblici o nelle proprietà
federali. Il governo del Colorado e dello Stato di Washington hanno concesso la licenza di
produzione e vendita della cannabis a piccole
imprese profit che hanno aperto una galassia
di negozi in tutto il territorio.
Secondo gli oppositori, la legalizzazione ha
provocato, già entro pochi mesi dalla sua attuazione, danni incalcolabili alla salute pubblica che vengono elencati nei media con i toni
della cronaca nera del 1937. Ad esempio, un
cittadino di Denver, dopo aver mangiato delle
caramelle Karma Kandy impregnate di marijuana, acquistate nei nuovi negozi “ricreazionali”, terrorizzato per la fine del mondo, ha
ucciso la moglie con la pistola. Bambini delle
scuole elementari sono finiti all’ospedale intossicati dai dolcetti alla marijuana preparati
dalle loro nonne. Poiché le condizioni poste dal
governo sono state disattese, i cittadini onesti
chiedono l’intervento delle forze federali per
fermare la strage di bambini. Il reverendo J.
Lee Grady, scrittore politicamente impegnato,
scrive liricamente su Charisma: “Hai sentito
quale strano odore ha recentemente il vento
della nostra regione? È l’odore della marijuana che abbiamo legalizzato. L’inno ufficiale del
Colorado, Rocky Mountain ‘High’, acquisterà un
altro significato”.
I difensori della legge affermano che i casi riportati dai media riguardano eccezioni, scelte
per screditare una giovane industria che sta
fiorendo sotto severa osservazione. La stragrande maggioranza dei dispensari di marijuana medica e le rivendite di marijuana per uso
ricreazionale seguono le regole ferree imposte
dal governo. È vero, seguono le regole del governo ma seguono anche quelle, non proibite,
del mercato: fare il massimo profitto vendendo tutto il possibile ad un numero più vasto
possibile di clienti.
Ma questa situazione relativamente controllata non è destinata a durare. Le piccole imprese saranno sostituite da aziende di grosse dimensioni che, come per la distribuzione di altri
generi di consumo, approvvigioneranno altre
imprese che useranno abilmente le tecniche di
marketing per sviluppare e sfruttare una determinata marca di sigarette o di dolcetti alla
marijuana.
Queste imprese ben organizzate saranno
mosse dal profitto, non certamente dalla preoccupazione per la salute pubblica o da valori
culturali o ideali.
La marijuana ha una qualità che favorisce il
mercato: chi la fuma lo fa per intossicarsi
(provare euforia, getting high). Circa uno su
dieci di quelli che la fumano diventa consumatore giornaliero. Negli Stati Uniti quattro
quinti del prodotto sono consumati da soggetti che usano ogni giorno più di un grammo di
marijuana di alta potenza. Sono consumatori
“problematici” o dipendenti dalla sostanza, la
maggior parte dei quali adolescenti o giovanissimi adulti. Tuttavia, a differenza dell’alcol e del
tabacco, molti giovani consumatori negli anni
diventano più morigerati. Dopo i 35 anni l’uso
della marijuana si riduce o si elimina. Pertanto,
i giovanissimi e gli adolescenti sono i più preziosi clienti del mercato illegale e presumibilmente lo saranno di quello legale.
Quale legge potrà evitare che il mercato della
cannabis sia dominato dalle grosse imprese
che tendono a vendere quanto più possibile a
un numero di clienti più grande possibile?
I diversi modelli di legalizzazione alternativa a
quello profit sono analizzati con grande competenza negli aspetti tecnici da Jonathan P.
Caulkins, Mark Kleiman e Jeremy Ziskind.
Su una serie di recenti pubblicazioni, alle quali
invito il lettore ad accedere, sono presentati i
tre modelli più efficaci per contrastare i sogni
di profitto dei mercanti. 1) Attuare una variante
di monopolio di stato lasciando la produzione
all’impresa privata e la vendita a negozi statali stabilendo che lo stato garantisca di non
speculare sulla cannabis come ha fatto per
altre attività dannose per la salute pubblica o
considerate riprovevoli (gioco d’azzardo, prostituzione, droghe, etc.). 2) Permettere la produzione e la vendita a imprese non profit. Per
evitare che queste imprese, per sopravvivere
o irrobustirsi, modifichino la loro politica, esse
dovrebbero avere nei consigli di amministrazione dei membri selezionati da agenzie di salute pubblica o di assistenza all’infanzia. L’ente
che riceve la licenza dovrebbe impegnarsi, salvo revoca, a soddisfare la domanda ma evitare
la promozione e devolvere ogni ricavo, al netto
delle spese, per la prevenzione, il trattamento
e l’assistenza dei tossicodipendenti. 3) Permettere la produzione per uso personale e la
distribuzione a titolo gratuito. Questo modello è già in atto in modo illegale in molti stati:
più della metà dei consumatori di marijuana
ottiene la propria droga gratuitamente o per
scambio. Altri la comprano da amici o parenti. La legge del Colorado non solo concede la
produzione e il commercio ad aziende profit,
ma permette ad ogni adulto di coltivare fino a
sei piante di cannabis. Una variante è limitare
la produzione e la distribuzione a cooperative
di consumatori: “Fai crescere la tua pianta e
scambia il prodotto con i membri dello stesso club”, secondo il modello dei cannabis club
spagnoli. I membri dei club devono essere cittadini residenti, i quali coltivano collettivamente la cannabis e la consumano in ambienti di
loro proprietà. Poiché vendere la marijuana è
proibito, il corrispettivo della consumazione
viene classificato come contributo alle spese
di gestione del club. Come per i coffee shop
olandesi, i club di Barcellona stanno attirando
turisti da tutta Europa e il loro numero sta crescendo immensamente. A differenza dei coffee shop sono ambienti accoglienti ed eleganti
situati nelle strade classicamente frequentate
dai turisti. La polizia ha chiuso numerosi club
per supposte violazioni quali vendita a minori, traffico di droga, adescamento di turisti di
passaggio. Il governo spagnolo ha stabilito
una moratoria di un anno alla crescita di nuovi
club, con il disappunto degli investitori di altre
nazioni.
È importante che qualcuno di questi modelli,
certamente non i club spagnoli, venga realizzato prima che il mercato cada saldamente
in mano a poteri fortissimi come Big Tobacco,
che per loro natura devono vendere quanto
più possibile a un numero di clienti più grande possibile, soprattutto ai giovanissimi. Tale
situazione non sarebbe meno dannosa della
proibizione.
Quaderni della SIF (2014) vol. 38-35
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