Trib Palermo 13 febbraio 2014 - Diritto Civile Contemporaneo

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Sent. n. 700/2014
depositata 13.02.2014
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE DI PALERMO
Terza Sezione Civile
Nella persona della dott.ssa Sebastiana Ciardo, in funzione di Giudice
monocratico, ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa iscritta al n° 1626 del Ruolo Generale degli Affari contenziosi civili
dell’anno 2010
TRA
Audia Michele, Scordato Nicoletta, Firriolo Vincenzo e Muratore Maria,
elettivamente domiciliati a Palermo in via Catania n° 5, presso lo studio degli avv.ti Rocco
Chinnici e Domenico Chinnici che li rappresentano e difendono per mandato a margine
dell’atto di citazione
ATTORI
CONTRO
Caravella Antonio, elettivamente domiciliato a Palermo in p.zza Vittorio Emanuele
Orlando n° 33, presso lo studio dell’avv.to Pietro Manzella che lo rappresenta e difende per
mandato a margine della comparsa di costituzione e risposta
E
DI.BA. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata a Palermo in via Brunetto Latini n° 11 presso lo studio dell’avv.to Filippo
Polizzi che la rappresenta e difende, unitamente e disgiuntamente all’avv.to Massimo
Cocilovo, per mandato in calce alla comparsa di costituzione e risposta
CONVENUTI
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E
Società Reale Mutua Assicurazioni s.p.a., in persona del legale rappresentante pro
tempore, elettivamente domiciliata a Palermo in via massimo D’Azeglio, presso lo studio
degli avv.ti Santo Spagnolo e Giuseppina Spagnolo che la rappresentano e difendono per
mandato in calce alla copia notificata dell’atto di chiamata in causa del terzo
TERZA CHIAMATA
E nella causa iscritta la n° 9285 del ruolo generale degli Affari contenziosi civili
dell’anno 2010
TRA
Mauro Natascia, Mauro Roberto, Mauro Gabriele, Mauro Simone, n.q. di eredi di
Mauro Adalgisa, elettivamente domiciliati a Palermo in via P.pe di Scordia n° 3, presso lo
studio dell’avv.to Francesco Paolo Martorana che li rappresenta e difende per mandato a
margine dell’atto di costituzione depositato in data 21 marzo 2013
ATTORI
CONTRO
Caravella Antonio, elettivamente domiciliato a Palermo in p.zza Vittorio Emanuele
Orlando n° 33, presso lo studio dell’avv.to Pietro Manzella che lo rappresenta e difende per
mandato a margine della comparsa di costituzione e risposta
E
DI.BA. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata a Palermo in via Brunetto Latini n° 11 presso lo studio dell’avv.to Filippo
Polizzi che la rappresenta e difende, unitamente e disgiuntamente all’avv.to Massimo
Cocilovo, per mandato in calce alla comParsa di costituzione e risposta
CONVENUTI
E
Società Reale Mutua Assicurazioni s.p.a., in persona del legale rappresentante pro
tempore, elettivamente domiciliata a Palermo in via massimo D’Azeglio, presso lo studio
degli avv.ti Santo Spagnolo e Giuseppina Spagnolo che la rappresentano e difendono per
mandato in calce alla copia notificata dell’atto di chiamata in causa del terzo
TERZA CHIAMATA
Conclusioni per tutti gli attori: come nei rispettivi atti di citazione e memorie ex
art. 183 VI comma c.p.c.;
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conclusioni per Caravella: come in comparsa di costituzione e risposta e memoria
ex art. 183 VI comma c.p.c.;
conclusioni per DI.BA. s.p.a.: come in comparsa di risposta e memorie ex art. 183
VI comma c.p.c. e nella relazione di ctp depositata in data 4.12.2012;
conclusioni per la Reale Mutua s.p.a.: come in comparsa di costituzione e
risposta.
~~~~~~~~~~~~~~
MOTIVI DELLA DECISIONE
Gli attori Audia Michele, Firriolo Vincenzo e le loro mogli, Scordato Nicoletta e
Muratore Maria, con atto di citazione ritualmente notificato convenivano in giudizio
Caravella Antonio e la società DI.BA. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro
tempore, e chiedevano: ritenere e dichiarare l’obbligo risarcitorio solidale dei convenuti
verso gli attori per l’epatite “C”, contratta da Audia Michele e Firriolo Vincenzo, nel corso
ed a cagione del trattamento emodialitico effettuato presso la DIBA scrl, oggi DIBA sp.a.
e, conseguentemente condannarli in solido a pagare: a) ad Audia Michele la somma di euro
1.357.167,00; b) alla coniuge Scordato Nicoletta in Audia la somma di euro 250.000,00; a
Firriolo Vincenzo la somma di euro 1.002.101,00; d) alla coniuge Muratore Maria in
Firriolo la somma di euro 300.000,00, con condanna alle spese si lite.
A fondamento delle domande risarcitorie così proposte, esponevano che gli attori
Audia e Firriolo, entrambi affetti da malattia renale, si erano sottoposti, nell’anno 1997 il
primo e nell’anno 1999 il secondo, a cicli di terapia dialitica e di avere scoperto, dopo
qualche anno, di essere positivi al virus dell’HCV, il cui contagio doveva addebitarsi alle
precarie condizioni igienico sanitarie in cui versava il Centro, nel quale venivano eseguiti
lavori di ristrutturazione anche durante la somministrazione delle predette terapie, i
macchinari non venivano puliti e disinfettati con regolarità, i tubi si presentavano sporchi
di sangue e i macchinari usati per pazienti affetti da epatite “C” non erano separati da
quelli utilizzati da soggetti non contagiati.
Soggiungevano che per tali fatti si era celebrato processo penale ove erano state
espletate due consulenze dai cui esiti era emersa la responsabilità del Centro, seppur il
processo si fosse, tuttavia, concluso con sentenza di non doversi procedere nei confronti di
Caravella perché il reato si era estinto per intervenuta prescrizione.
Chiedevano, pertanto, che venissero utilizzate, nel presente giudizio civile, tutti gli
accertamenti peritali disposti in sede penale e chiedevano la condanna delle parti
convenute al risarcimento dei danni alla salute, patrimoniali e non patrimoniali subiti,
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anche dai coniugi, tenuti ad assistere costantemente i mariti, stante le loro precarie
condizioni psicofisiche, in relazione al danno morale ed esistenziale patito conseguente alla
necessità di adottare ogni precauzione nella vita quotidiana.
Si costituiva in giudizio Caravella Antonio il quale preliminarmente eccepiva la
nullità dell’atto di citazione e la prescrizione dell’azione risarcitoria, in considerazione
dell’esito del processo penale, ove il reato si era estinto per prescrizione.
Eccepiva ancora il proprio difetto di legittimazione passiva, non rivestendo peraltro
più alcun ruolo all’interno della società, fin dall’anno 2006.
Nel merito, negava ogni addebito anche richiamando le dichiarazioni rese nel
processo penale da molti testimoni, che avevano descritto le condizioni di perfetta pulizia
ed igiene in cui versava il Centro.
Contestava la quantificazione dei danni e così concludeva: nel merito, rigettare le
domande degli attori e ritenere che il sig. Caravello nulla deve a titolo di risarcimento del
danno, con vittoria delle spese di lite.
Parimenti, si costituiva nel giudizio la società DI.BA. s.p.a., in persona del legale
rappresentante pro tempore, che preliminarmente eccepiva la prescrizione di ogni diritto
risarcitorio vantato dagli attori.
Nel merito, confutava le risultanze delle consulenze tecniche espletate nel corso del
processo penale – di cui quella a firma del dott. E.S. affetta da nullità per violazione del
contraddittorio - fondate su dati del tutto probabilistici e non suffragate da dati empirici e
da verifiche condotte all’interno del centro o con indagini statistici sul numero di soggetti
effettivamente contagiati e sul ceppo microbico di ciascun danneggiato.
Contestava, ancora, la ritenuta riconducibilità eziologica del contagio al trattamento
dialitico eseguito presso il Centro DIBA, giacché l’epoca di insorgenza del virus,
trattandosi di soggetti immunodepressi, non era compatibile con l’esecuzione della terapia.
Negava la quantificazione dei danni, non supportata da alcuna prova, e, in
particolare, la ritenuta lesione alla capacità lavorativa specifica, che non teneva conto delle
altre e più gravi patologie di cui gli attori risultavano affetti, che impedivano loro di
svolgere attività lavorativa.
Chiedeva di chiamare in causa la società di assicurazione alfine di essere dalla
stessa manlevata e così concludeva: nel merito, rigettare tutte le domande formulate dagli
attori perché infondate in fatto e in diritto; in via subordinata, ridurre l’entità dei danni, e,
in caso di condanna, condannare la Reale Mutua Assicurazioni a manlevare l’assicurata da
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ogni somma che la stessa convenuta dovrà essere tenuta eventualmente a pagare, con
vittoria delle spese di lite.
Ritualmente evocata, si costituiva la Reale Mutua Assicurazioni s.p.a., in persona
del legale rappresentante pro tempore, la quale, preliminarmente eccepiva la prescrizione
dei diritti azionati dagli attori, nonché la prescrizione del diritto dell’assicurato, ai sensi
dell’art. 2952 c.c. e l’estinzione della garanzia per avere la società colpevolmente taciuto di
non essere in possesso delle necessarie autorizzazioni prescritte dalla legge.
Nel merito, richiamava il massimale di polizza, aderiva alle difese esposte dalla
DIBA e così concludeva: nel merito, rigettare le domanda attorea in quanto infondata; in
subordine, ridurre la domanda a quanto di ragione nei limiti della quota attribuibile alla
propria assicurata, ed entro il massimale di polizza; in via ulteriormente subordinata,
dichiarare il diritto di rivalersi sugli altri soggetti responsabili.
La causa portante il n. 9285/2010, veniva intrapresa su domanda proposta da Mauro
Adalgisa che, invocando i medesimi fatti ed addebiti mossi ai convenuti dagli altri attori,
così concludeva: ritenere e dichiarare la responsabilità individuale e/o concorrente di
Caravella e della DIBA s.p.a., e per l’effetto condannarli in solido al risarcimento del
danno patrimoniale non patrimoniale patito dall’attrice in conseguenza del contagio
dell’epatite C, quantificato in euro 200.000,00, oltre interessi legali e rivalutazione
monetaria, con vittoria delle spese di lite, da liquidarsi con distrazione a vantaggio del
procuratore antistatario, ex art. 93 c.p.c.
Nelle more del giudizio Mauro Adalgisa decedeva e con nuovo atto, si costituivano
gli eredi chiedendo la condanna dei convenuti, in solido, al risarcimento di tutti i danni
patiti dalla loro congiunta, da liquidarsi agli attori iure successionis.
~~~~~~~~~~~~~
v
Tanto premesso, in via preliminare deve essere esaminata l’eccezione di
prescrizione sollevata da tutte le parti convenute, le quali, tenendo conto dell’epoca di
avvenuto contagio e della manifestazione del virus HCV, tra l’anno 1998 e l’anno 1999,
hanno rilevato il decorso del periodo di prescrizione quinquennale o anche decennale, al
momento della notifica dell’atto di citazione (1-2 febbraio 2010).
A riguardo, evidenziano che, seppur gli attori danneggiati si fossero costituiti parti
civili nel processo penale, essendosi questo concluso con sentenza di non doversi
procedere per intervenuta prescrizione a carico di Caravella Antonio, il termine di
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prescrizione decorrerebbe dalla data del fatto, senza che abbiano efficacia gli atti
interruttivi intervenuti nel corso del processo penale.
L’eccezione, tuttavia, deve essere rigettata, perlomeno per gli attori che si sono
costituiti parti civili nel processo penale, come risulta documentalmente provato.
A riguardo, deve essere integralmente richiamata la giurisprudenza di legittimità
alla quale aderisce il Tribunale, che ha così affermato: “l'art. 2947 c.c. va interpretato nel
senso che, qualora il fatto illecito generatore del danno sia considerato dalla legge come
reato, se quest'ultimo si estingue per prescrizione, si estingue pure l'azione civile di
risarcimento, data l'equiparazione tra le due, a meno che il danneggiato, costituendosi
P.C. nel processo penale, non interrompa la prescrizione ai sensi dell'art. 2943 c.c. e tale
effetto interruttivo, che si ricollega all'esercizio dell'azione civile nel processo penale, ha
carattere permanente protraendosi per tutta la durata del processo; in caso di estinzione
del reato per prescrizione, detto effetto cessa alla data in cui diventa irrevocabile la
sentenza che dichiara l'estinzione, tranne che la P.C. abbia revocato la costituzione o non
abbia, comunque, coltivato la pretesa, venendo in tal caso meno la volontà di esercitare il
diritto che è alla base dell'effetto interruttivo” (Cassazione civile sez. III, 17 gennaio
2008, n. 872; in senso sostanzialmente conforme cfr. Cass. 19 novembre 2001 n. 14450).
Indi, essendosi Audia, Firriolo e Mauro costituiti parti civili nel processo penale
instaurato nei confronti di Caravella Antonio, ivi imputato per il reato di epidemia colposa
e di lesioni colpose, concluso con sentenza di non doversi procedere per intervenuta
prescrizione, l’esercizio di tale azione ha carattere permanente ed assume la valenza
interruttiva del termine prescrizione fino al momento del passaggio in giudicato della
sentenza. Nella specie, seppur non si abbia prova della precisa data del passaggio in
giudicato della sentenza emessa dal Tribunale penale di Palermo, sez. V, n. 2981, in ogni
caso, anche facendo coincidere il dies a quo di decorrenza dalla data del provvedimento
(15.6.2009), al momento della notifica dell’atto di citazione la prescrizione dei diritti
risarcitori non era ancora decorsa.
Diversamente, dovrà essere dichiarata la prescrizione dei diritti risarcitori fatti
valere dalle mogli, Scordato Nicoletta e Muratore Maria, che nel giudizio agiscono facendo
valere un danno parentale iure proprio, che, dunque, sebbene discendente dal danno patito
dalla vittima primaria dell’illecito, vale a dire dal coniuge contagiato, tuttavia, assume
portata e valenza autonoma ed è autonomamente risarcibile, sussistendone i presupposti.
Sennonché, rispetto a siffatti diritti le attrici, non costituiti parti civili nel processo
penale, non hanno posto in essere atti interruttivi della prescrizione prima della notifica
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dell’atto di citazione e, dunque, anche volendo far coincidere la decorrenza dal momento in
cui il virus si è manifestato e i danneggiati hanno acquisito consapevolezza della
riconducibilità eziologica dell’infezione al trattamento dialitico eseguito presso il centro
DIBA, tale momento si colloca nell’anno 2000, in cui vennero sporte le denuncie ed
avviate le indagini penali, sicché al momento della notifica dell’atto di citazione il termine
di prescrizione sia decennale che quinquennale era già spirato.
v
Sempre in via preliminare, deve essere rigettato l’eccepito difetto di
legittimazione passiva sollevato da Caravella Antonio, il quale, pur avendo rivestito il
ruolo di amministratore e legale rappresentante del Centro DIBA fino all’anno 2006 (si
veda atto di dimissione del 8.2.2006 e delibera societaria del 4.4.2006, allegati nn. 5 e 6
della produzione del convenuto), non avrebbe mai svolto, all’interno del centro funzioni di
medico o di direttore sanitario, rivestiti da altri soggetti.
Ed invero, la legittimazione passiva rispetto all’azione risarcitoria promossa
discende, in primo luogo, dall’essere stato il convenuto imputato nel processo penale e per
le peculiari condotte criminose al medesimo ivi contestate, emergenti dalla lettura dei capi
di imputazione, che si riferiscono a carenze igieniche e strutturali, anche di competenza del
soggetto che, rivestendo la qualità di amministratore unico e legale rappresentante, era
dotato di poteri organizzativi e gestori e di competenze decisionali che lo avrebbero dovuto
indurre ad adottare tutte le misure necessarie ad adeguare il Centro agli scopi cui era
preordinato, i trattamenti dialitici appunto, e alla normativa vigente.
Si legge, infatti, nei capi di imputazione contestati: “Imputato per il delitto di cui
agli artt. 438, 452 n. 2 c.p.c. perché quale legale rappresentante e responsabile del centro
dialisi gestito dalla cooperativa Diba di Bagheria cagionava per colpa – consistita nella
violazione delle regole di diligenza e perizia professionale, tenendo i locali in condizioni
igieniche precarie, continuando l’attività dialitica anche in presenza di lavori di
ristrutturazione del centro, sterilizzando in modo insufficiente le apparecchiature per la
dialisi – una epidemia virale da contagio da HCV”.
Tali illeciti non possono non essere direttamente riferibili a colui che rivestiva
all’interno del centro la funzione di amministratore di diritto e di fatto.
In secondo luogo, deve affermarsi la responsabilità della società per fatto illecito
del suo amministratore, secondo i comuni principi elaborati dalla giurisprudenza di
legittimità in materia di immedesimazione organica, che vale ancor più nel campo della
tutela civilistica.
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In particolare, è da affermare la sussistenza della responsabilità civile della società
di capitali per il fatto anche penalmente illecito del legale rappresentante o
dell'amministratore della stessa società, quando detto fatto è compiuto nel compimento di
una attività gestoria.
Il fondamento di detta responsabilità è da rinvenire, secondo la giurisprudenza del
Supremo Collegio, oltre che nel predetto rapporto nella responsabilità anche nell'art. 2049
c.c.
L’assunto è chiaramente sostenuto dalla sentenza n. 12951 del 5 dicembre 1992
della Corte di Cassazione che risulta così massimata: "L'azione civile per il risarcimento
del danno, nei confronti di chi è tenuto a rispondere dell'operato dell'autore del fatto che
integra una ipotesi di reato, è ammessa - tanto per i danni patrimoniali che per quelli non
patrimoniali - anche quando difetti una identificazione precisa dell'autore del reato stesso
e purchè questo possa concretamente attribuirsi ad alcune delle persone fisiche del cui
operato il convenuto sia civilmente responsabile in virtù di rapporto organico, come
quello che lega la società di capitali al suo amministratore "ed ancora, sempre nella stessa
sentenza: "accertata incidenter tantum dal giudice di merito la responsabilità penale
dell'amministratore nell'ambito dell'attività gestoria, la società risponde delle conseguenze
civilistiche dell'illecito, ivi compreso il risarcimento del danno non patrimoniale".
D’altra parte, non rileva l’assunto secondo cui Caravella non rivestisse ruoli di
direttore sanitario o medico responsabile dell’osservanza delle prescrizioni igieniche nelle
sale adibiti alla dialisi dei pazienti, giacché il titolo di responsabilità non attiene a cattiva
esecuzione della prestazione sanitaria in senso stretto quanto piuttosto ad allegate carenze
di natura strutturale e di corretti presidi igienico-sanitari, la cui esatta predisposizione
competeva anche all’organo gestorio.
Indi, nella specie certamente insussistente è l’eccepito difetto di legittimazione
passiva e, dovrà, piuttosto accertarsi in concreto se sussistano o meno i profili di
responsabilità imputati ai convenuti Caravella e al Centro Diba, e ciò in assenza di una
statuizione di condanna nell’ambito del processo penale, passata in giudicato che possa
fare stato in questo giudizio.
v
Ai fini dell’esatta ricostruzione dei profili di responsabilità imputati ai
convenuti, dovrà necessariamente attingersi alla copiosa documentazione versata in atti da
tutte le parti, attori e convenuti, attinente all’attività sia di indagine che dibattimentale
svoltasi nel corso del procedimento penale, nonché alle diverse consulenze tecniche ivi
espletate.
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D’altra parte, lo stesso consulente tecnico nominato in questo giudizio ha utilizzato
il predetto materiale probatorio, pervenendo a conclusioni sovrapponibili rispetto a quelle
formulate nel processo penale dai prof.ri E. e A., nominati rispettivamente dal Tribunale
penale e dal Pubblico Ministero.
In proposito deve, infatti, premettersi che la stessa giurisprudenza, in tema di prove
acquisite nell’ambito dei procedimenti penali qualificate come “prove atipiche”, ne
sancisce l’utilizzabilità in sede di processo civile: “il giudice di merito può utilizzare, in
mancanza di qualsiasi divieto di legge, anche prove raccolte in un diverso giudizio fra le
stesse o anche fra altre parti, come qualsiasi altra produzione delle parti stesse, e può
quindi trarre elementi di convincimento ed anche attribuire valore di prova esclusiva ad
una perizia disposta in sede penale, tanto più se essa sia stata predisposta in relazione ad
un giudizio avente ad oggetto una situazione di fatto rilevante in entrambi i processi”
(Cass. 16 maggio 2006 n° 11426).
Ed inoltre, sono pienamente utilizzabili, non solo tutte le dichiarazioni rese dai testi
escussi nel corso dell’istruttoria dibattimentale ma anche la consulenza a firma del prof. E.
che, essendo stato nominato dal Tribunale, è stata espletata nel pieno rispetto del
contraddittorio tra le parti.
In ogni caso, come detto, le indagini eseguite dal ctu, dott. R. T., confermano nei
tratti salienti le predette risultanze peritali, smentendo, in particolare, quanto sostenuto dal
prof. C., c.t.p. dell’imputato Caravella, che, di contro, ha negato sia la sussistenza di un
ipotesi delittuosa di epidemia, sulla base di indagini statistiche ed epidemiologici, sia la
riconducibilità eziologica dell’infezione dell’HCV dei tre attori, costituiti parti civili in
quel processo, rilevando l’esistenza di autonomi fattori di rischio, rimasti tuttavia non
dimostrati.
Gli attori, dunque, agiscono nel giudizio civile alfine di ottenere il ristoro del danno
alla salute patito, consistente nel contagio dell’HCV contratto nel corso delle sedute di
dialisi eseguite presso il centro DIBA di Bagheria.
All’uopo hanno denunciato, in sede penale, numerose carenze strutturali ed igienico
sanitarie cui versava il centro, prima e durante i lavori di ristrutturazione e prima
dell’adozione del provvedimento del sequestro penale.
Indi, l’analisi ricostruttiva della fattispecie risarcitoria non può non muovere dal
complesso di addebiti, mosse al centro DIBA, all’esito delle indagini penali espletate che
hanno fondato il provvedimento di rinvio a giudizio di Caravella Antonio nella qualità di
legale rappresentante del Centro.
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In particolare, è stato contestato al convenuto di avere, “per colpa – consistita nella
violazione delle regole di diligenza e perizia professionale, tenendo i locali in condizioni
igieniche precarie, continuando l’attività dialitica anche in presenza di lavori di
ristrutturazione del centro, sterilizzando in modo insufficiente le apparecchiature per la
dialisi” cagionato un’epidemia colposa, reato poi convertito in lesioni colpose, e dichiarato
prescritto dal Tribunale.
Ora, dall’esame, in particolare, delle consulenze a firma del prof. E. e del dott. T.,
le cui conclusioni si condividono perché corrette ed esaustive, dalle dichiarazioni
testimoniali rese da alcuni pazienti, diversi dagli odierni attori, dagli esiti dell’indagini
condotta dai NAS e dalla nota a firma del dott. M. dell’Assessorato regionale per la Sanità
datata 2 novembre 1999, sono certamente emersi taluni gravi addebiti che si pongono
all’origine dell’infezione contratta dagli attori, con elevato grado di probabilità.
In particolare, il Tribunale ritiene che al centro DIBA e al suo amministratore debba
essere riconosciuta una responsabilità professionale sanitaria discendente dalla violazione
di alcune importanti regole di prudenza e perizia.
A riguardo deve premettersi che, la trasmissione del virus dell’epatite C avviene
normalmente ed essenzialmente attraverso il contatto ematico con materiale già
contaminato, e certamente, la sottoposizione a trattamento dialitico costituisce, per se
stesso, un importante fattore di rischio.
Tale assunto discende dalla tipica procedura di “emodialisi” che tecnicamente
equivale a sedute periodiche depurative del sangue da liquidi ed elettroliti accumulatisi a
causa del cattivo funzionamento dei reni.
Con valutazione condivisibile il prof. E., sulla base dell’esame di alcune cartelle
cliniche dei pazienti dializzati presso il centro DIBA, e dell’elenco dei pazienti, ha
ricostruito il numero complessivo di soggetti nuovi infettati per HCV negli anni 1998 –
2000 pari a 17 (per il calcolo preciso dei nuovi casi di infezione, suddivisi per anno, si
veda relazione da pag. 9 a pag. 13), con una percentuale eccessivamente elevata e
superiore rispetto a quella media delle altre regioni d’Italia, calcolata in rapporto al numero
dei soggetti dializzati del centro.
Ora, tale dato significativo e giudicato anomalo dalla stessa autorità giudiziaria,
consente di vagliare i singoli comportamenti integranti addebiti che possono muoversi al
centro convenuto, e che fondano l’azione risarcitoria promossa.
Deve, a riguardo, operarsi una distinzione tra carenze di tipo strutturali rispetto a
quelle tipicamente igienico sanitarie.
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o
Quanto al primo nucleo di condotte illecite, deve da subito osservarsi che
non rilevano, in questa sede, le numerose contestazioni di tipo “urbanistico” contenute nel
rapporto dei NAS del 26.6.2001, da cui è emerso che, nell’anno 1987, al momento
dell’inizio dell’attività dialitica, il centro DIBA non fosse munito della necessaria
autorizzazione, rilasciata abusivamente senza essere supportata dalla documentazione
dettagliamene elencata a pag. 12 del rapporto (certificato di agibilità, parere favorevole del
responsabile igiene pubblica, N.O. responsabile Igiene Pubblica, ed altro, si veda pure
dichiarazione resa dal funzionario Lo Giudice Agostina allegata al rapporto), che ha
condotto alla denuncia e alla sospensione del due funzionari del Comune di Bagheria che
avallarono l’apertura abusiva del centro.
Difatti, non solo parte di tali abusi venne poi sanata, ma anche la sospensione
dell’autorizzazione sanitaria, disposta dall’Assessorato regionale alla sanità con
provvedimento del 10 maggio 2002, venne poi revocata.
Seppur i predetti addebiti siano comunque gravi, non incidono in misura
significativa sull’idoneità della struttura alla pratica dialitica, unico segmento causale che
in questa sede rileva, ai fini dell’accertamento del profilo della causalità omissiva.
Di contro, di peculiare importanza sono gli addebiti, sempre di natura strutturale,
all’epoca mossi al legale rappresentante del DIBA e contenuti nella nota a firma del dott.
Mira dell’Ispettorato regionale sanitario che possono così sintetizzarsi:
a) il locale destinato alla sala operatoria era anche disimpegno per accedere alla sala
preparazione medici, con omessa salvaguardia del principio della sterilità;
b) l’individuazione, all’interno della sala dialisi, del locale destinato al deposito del
materiale sporco (di cui hanno pure riferito numerosi testi, si vedano le dichiarazioni degli
infermieri e dei dott.ri Ferrantelli ed Infantino).
In particolare, quest’ultima condizione non può reputarsi conforme ai migliori
standard di diligenza giacché non può garantire in maniera certa l’”isolamento” e l’assenza
di rischio di contaminazione proveniente dal materiale, prelevato dalle macchine di dialisi
alla fine di ogni trattamento, che presenta elevata percentuale di infettività.
La presenza del vano adibito a deposito all’interno della sala ove erano allocate le
macchine per la dialisi integra una carenza strutturale grave e costituisce un fattore di
rischio da valutarsi unitamente ad altri addebiti di natura igienico sanitaria.
o
Rileva, in proposito, un ulteriore profilo che, secondo la valutazione del
Tribunale, assume portata causale determinante ai fini della dimostrazione dell’elevato
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rischio di contagio provocato dai trattamenti dialitici somministrati all’interno della
struttura convenuta.
Il consulente d’ufficio, dott. Tona, e il perito nominato dal Tribunale penale, prof.
E., oltre alla ctp dott.ssa De Gaetano, hanno accertato, senza alcuna incertezza, che il
contagio del virus HCV subito dagli attori si è verificato con modalità “orizzontali” per
trasmissione da paziente a paziente.
L’affermazione è confermata dal fatto che rispetto agli attori Mauro e Firriolo, gli
esperti hanno accertato, attraverso l’esame dei dati virologici-molecolari, la presenza dello
stesso genotipo del virus (genotipo 1b, con alta correlazione genetica delle sequenze HVR1 e NS5B), e dunque, della stessa “variante virale identificata una sorgente comune di
infezione definibile come “cluster epidemico”
Nel caso di specie, infatti, la positivizzazione dei due pazienti avvenne nella stessa
epoca (luglio 1999): l’attrice Mauro iniziò a dializzare nell’ottobre 1997 presso il centro
DIBA, ove tornò dopo un breve periodo (dal 25.5.1999 al 06.06.1999) di dialisi presso
Centro di Massa Carrara. Rileva, a riguardo, il consulente: “Il riscontro di positività antiHCV risale al 7.07.1999 e venne preceduto da un rialzo delle transaminasi…E’ verosimile
che proprio il signor Firriolo, stante i tempi di incubazione, che sono variabili fra le 4 e le
16 settimane (e più lunghi in soggetti emodialitici e immunodepressi), e la precedente
comparsa
di sintomi clinici, sia stato fonte di contagio, per la signora Mauro, che
precedentemente non era contagiata o contagiabile a causa del temporaneo trasferimento
(25.05.1999 e 06.06.1999) presso altra sede” (si vedano pagg. 31 e 32 ctu a firma del dott.
T.).
L’assunto del contagio orizzontale è desumibile, peraltro, dal fatto che non sono
emersi ulteriori fattori di rischio e anche per l’attore Firriolo, il quale aveva in precedenza
subito un intervento chirurgico di “fistola artero-venosa”, nel mese di marzo 1999, non è
stato dimostrato che in quell’occasione durante il ricovero, lo stesso abbia potuto contrarre
il virus, d’altra parte escluso dalle stesse dichiarazioni rese dal prof. C. il quale ha
confermato che, stante l’epoca dell’intervento e l’adeguamento degli ospedali ai migliori
standards di asepsi ed igiene, è difficile ipotizzare una contaminazione in tali ambiente ed
è, piuttosto, altamente probabile che tale infezione sia stata trasmessa da paziente a
paziente all’interno del centro convenuto.
Tale asserzione consente di valutare negativamente, in primo luogo, il mancato e
tempestivo monitoraggio di tutti i pazienti dializzati in trattamento all’interno del Centro,
con loro sottoposizione a screening sierologico, che avrebbe consentito di adottare le
12
necessarie precauzioni, nel caso di tempestivo riscontro della positività al virus,
sottoponendoli a dialisi con attrezzature riservate.
Sul punto, deve rilevarsi l’assoluta contraddizione nelle deposizioni rese dai testi
dott.ssa Diliberto – la quale ha rivestito all’interno della struttura le funzioni di direttore
sanitario dall’anno 1996 – e dal prof. C., perito di parte, rispettivamente alle udienze del
12.2.2007 e 15.5.2006.
La dott.ssa D. ha così testualmente riferito: “Allora l’epatite C noi abbiamo uno
screening seriologico semestrale, ottomestrale per tanto di accorgiamo prima noi
ovviamente se il paziente.., perché poi monitoriamo anche le transaminasi per cui quel
monitoraggio parte da noi, quindi informiamo il paziente nell’ipotesi che si dovesse
verificare un evento di questo genere, e poi il paziente viene informato ancor prima di
iniziare la terapia dialitica dei rischi che si corrono durante la dialisi”, sul punto e sulla
tempestica, tuttavia, il prof. C., ha riferito una differente versione: “Sicuramente il paziente
in dialisi è, per i motivi che abbiamo detto fin ora, una persona ampiamente a rischio di
contrarre l’epatite C, quindi è giusto controllare periodicamente sia le transiminasi sia
l’anticorpo anti HCV, con due limitazioni, e dico subito che la periodicità corretta è di una
volta ogni tre mesi, e questa periodicità è ampiamente rispettata per quel che riguarda i
pazienti del centro DIBA, perché ho avuto..ho preso visione di quanto fatto, i controlli
sono stati eseguiti con regolarità”.
D’altra parte, l’affermazione del tutto apodittica e non veritiera, riportata dal prof.
C., non solo è stata smentita dallo stesso direttore sanitario, la quale ha confermato che i
controlli venivano eseguiti ogni sei-otto mesi, ma è confutata dalla dichiarazione resa da
alcuni pazienti i quali hanno riferito di avere casualmente scoperto di essere affetti da
epatite C e di essersi sottoposti agli esami fuori dal centro e su loro stessa iniziativa: “verso
il mese di settembre – ottobre 2001, casualmente nel corso di una discussione un mio
conoscente che dializzava con me al DIBA mi fece notare che durante la mia dialisi
venivano inserite delle fiale di cui prima non avevo fatto uso. Il conoscente, dal nome
Audia Michele ci informava che tale trattamento veniva riservato ai pazienti che avevano
contratto l’epatite “C”. Allarmato subito ho chiesto informazioni ai medici dott. D’Amato
Michele e Crisci i quali non mi hanno saputo dare spiegazioni. Io mi alterai in quanto
contestavo che mi avevano tenuto nascosto una cosa così grave e chiesi spiegazioni su
come avevo potuto contrarre l’epatite. Gli stessi in maniera evasiva si scusarono più volte
ma non mi hanno saputo dare spiegazioni al riguardo. Allarmato di ciò ne parlai con
Audia e con gli altri pazienti e venni a conoscenza che circa 15 pazienti avevano contratto
13
l’epatite “C” (dichiarazioni rese da La Mantia Giovanni ai Carabinieri del NAS il
17.6.2002; si veda anche le dichiarazioni rese da Audia e dalla moglie Scordato Nicoletta
all’udienza del 15.5.2006).
Il mancato tempestivo monitoraggio dei pazienti in trattamento è certamente un
comportamento di grave negligenza, imperizia e trascuratezza che ha certamente favorito,
con elevata probabilità la trasmissione orizzontale del virus, poiché, come riconosciuto da
tutti i medici, l’adozione di particolari cautele igieniche, oltre alla scelta di far dializzare i
positivi all’HCV in macchine “dedicate”, accorgimento per la verità adottato solo
nell’anno 1999, a seguito delle proteste dell’attrice Mauro – alla mia ribellione hanno
diviso le macchine – che, seppur non obbligatorio secondo le circolari vigenti in materia,
indicato come necessario alfine di ridurre al minimo il rischio di contaminazione da tutti i
consulenti.
Il mancato regolare e tempestivo monitoraggio è parimenti individuato come
comportamento illecito anche dal consulente prof. E. il quale, peraltro, smentendo
categoricamente quanto riferito al Tribunale penale dal prof. C., ha avuto modo di
riscontrare, attraverso l’esame di 8 cartelle cliniche dei pazienti dializzati presso il centro,
la totale omissione di tale cadenza di esami sierologici, neppure eseguiti nei sei-otto mesi
indicati dalla dott.ssa Di Liberto (si legga pag. 6 e 7 della perizia, ove limpidamente si
riportano le indicazioni emergenti dalle cartelle cliniche, del tutto carenti di ogni esame
preliminare, pur evidenziato dal direttore sanitario, anche al momento dell’ingresso del
centro, e successivamente durante il trattamento, con riferimento ai pazienti Audia,
Provenzale, Impellizzeri, Alesi).
Inoltre, l’incuria descritta, da qualificarsi come grave in un centro che già presenta,
per stessa peculiarità del trattamento sanitario offerto ai pazienti, indici di rischiosità da
contagio elevati il cui mancato monitoraggio integra una condizione di aumento del rischio
di infezioni, risultate, infatti, anomale e superiori alla media di ogni regione d’Italia.
Nell’ambito della medesima qualificazione di illiceità, deve anche evidenziarsi la
trascuratezza, riscontrata dal prof. E., nella compilazione delle cartelle cliniche dei
pazienti, che incide sul diritto di informazione nei confronti dei pazienti e di trasparenza
nell’adozione di ogni trattamento sanitario.
Ora, stante l’elevato numero di soggetti risultati positivi all’HCV, si imponeva
l’adozione tempestiva di ogni misura di “contumacia”, di scrupolosa osservanza di misure
igieniche attente e prudenti, di trattamenti mirati ed esclusivi, adottati, come visto, solo
dopo l’aumento dei casi di infezione, di monitoraggio costante e continuo, perlomeno entro
14
tre mesi, di corretta e tempestiva informazione ai pazienti, ai quali andava veicolata ogni
informazione, anche alfine di indurli ad adottare ogni precauzione nella vita quotidiana e
familiare volta a scongiurare pericoli di ulteriori contagi, standard comportamentali violati
e trascurati dal personale del centro, come dimostrato dalle indagini peritali e dalle
dichiarazioni rese, in particolare, dai pazienti (oltre quelle dei tre attori, si vedano le
testimonianze rese da La Mantia, Porretto, Bologna).
Devono, infine, essere analizzati, quale ultimo segmento del comportamento illecito
ascrivibile al centro e al suo amministratore dell’epoca, i livelli di igiene e di pulizia
vigenti all’epoca dei fatti e del contagio all’interno del centro.
Come indicato unanimemente da tutti i periti nominati nel processo, sia civile che
penale, trattandosi di contagio trasmissibile per via ematica e di virus ad elevato grado di
diffusività e particolarmente resistente, con possibilità di sopravvivenza di circa 15/16 ore,
l’adozione di particolare cautele igieniche e di adeguate sterilizzazioni delle macchine
utilizzate per la dialisi, rappresenta uno standard obbligatorio e l’osservanza si impone
alfine di ridurre al minimo i fattori di rischio e la facile veicolazione dell’epatite C.
E’, tuttavia, emerso, dal complesso delle indagini e dichiarazioni testimoniali rese
nel corso soprattutto delle indagini preliminari condotte dai NAS, che la struttura
presentava, in quegli anni, numerosi profili di incuria e trascuratezza.
Ora, da subito, si osserva che non è stata dimostrata la circostanza, riferita
dall’attrice Mauro e dagli altri attori, della mancata sterilizzazione delle macchine
impiegate per la dialisi poiché tutti i medici e il personale sanitario ha dettagliamene
descritto il processo, definito automatico, di avvio della sterilizzazione con l’uso di
amuchina, all’interno dei filtri così depurati da ogni residuo ematico, subito dopo ogni
trattamento e prima dell’inizio del successivo (anche se taluni pazienti riferiscono che tale
livello di attenzione per la disinfezione delle macchine venne adottata solo dopo
l’intervento dei NAS – si veda dichiarazione resa da La Mantia Giovanni).
Sennonché, è parimenti emerso un sovraffollamento “anomalo” di pazienti e di
turni (lo riferiscono la dott.ssa Di Liberto e gli infermieri Giammanco, Coffaro, e i medici
D’Amato ed Infantino), e con tempi dedicati alla pulizia e alla disinfezione troppo
compressi – i giorni pari ci sono due turni di dialisi e i giorni dispari ce ne sono tre..la
durata della dialisi non si può standardizzare ovviamente, ci sono pazienti che necessitano
di tre ore, tre ore e mezzo di dialisi, pazienti che necessitano di quattro ore – con circa 45
minuti per la pulizia delle macchine, arrivando a totalizzare circa 15 ore al giorno di
trattamenti complessivi all’interno del centro.
15
Inoltre, nella sala dialisi vi erano circa 12/14 posti letto con una distanza ridotta tra
l’uno e l’altro nel cui spazio di trovava allocata anche la macchina per la dialisi (si vedano
le dichiarazioni rese dal teste Coffaro all’udienza del 20 novembre 2006 – tra un posto
letto e un altro posto letto c’è la macchina con il letto e poi c’è un mezzo metro e poi un
altro letto con un’altra macchina).
Tale ubicazione e sovraffollamento certamente non favoriva la corretta
applicazione delle procedure di pulizia che seppur attivate tra un trattamento e l’altro,
spesso venivano eseguite quando il paziente del letto accanto ancora non aveva finito di
dializzare con il rischio che tale operazione comportava, trattandosi, peraltro, di intervento
esterno eseguito con un panno e materiale sterilizzante adoperato sulla macchina, che
poteva essere stata schizzata di sangue (si vedano dichiarazioni resa dall’infermiera
Giammanco Marianna).
Inoltre, la distanza così ridotta aumentava il rischio che gocce di sangue potevano
schizzare e finire sul letto del paziente vicino poteva succedere che magari andava a
sporcare il lenzuolo perché magari qualche pressione così..succedeva certe volte nella
finitura del letto, nella copertina” (Giammanco Marianna), al momento in cui si
otturavano i filtri delle macchine.
Ancora, rilevante, nell’ambito della analisi prospettata, è il non corretto utilizzo dei
guanti che, secondo l’indagine riferita dal prof. E., avrebbe necessitato di un cambio
continuo, ad ogni manovra e non, piuttosto, ad ogni trattamento come invece emerso
dall’istruttoria processuale.
Rileva il consulente che il cattivo utilizzo dei guanti assume un fattore di rischio
importante nella trasmissione del virus orizzontale, ossia da paziente e paziente, poiché
costituisce la principale modalità di trasmissione dell’infezione in ambiente dialitico,
unitamente alla mancata corretta disinfezione esterna dei macchinari.
E’, infatti, stato provato che il personale infermieristico adoperasse lo stesso tipo di
guanti per ogni paziente, che impiegava fino al momento dello stacco, dello scarto del
materiale monouso e della pulizia e disinfezione, ancorché le linee guida nazionali e
internazionali raccomandassero di utilizzare un paio di guanti monouso per ogni manovra e
di sostituirli con lavaggio delle mani prima di passare alla manovra successiva, poiché tale
non corretta prassi può costituire un pericoloso fattore di rischio.
Sul punto, riferisce l’infermiera Giammanco Marianna: “avv.to Chinnici: Poi con
queste stesse mani e con questi stessi guanti procedevate alla pulizia esterna – D.R. della
16
stessa macchina; avv. Cambiavate i guanti: D.R.: si sempre cambiavamo i guanti..avv.to:
Con gli stessi guanti lei diciamo buttava il materiale e poi puliva la macchina? D.R. Si”.
Infine, nel quadro generale esposto, anche l’esecuzione dei lavori di ristrutturazione
presso il centro, seppur fuori dalla sala dialisi, hanno certamente aggravato la condizione
igienico sanitaria della struttura già precaria, tant’è che alcuni pazienti riferirono che vi era
polvere e detriti (La Mantia Giovanni) e le porte erano rivestite da teloni.
Esaurito il quadro probatorio, deve affermarsi la piena responsabilità del Centro
DIBA e del suo amministratore dell’epoca, per cattiva esecuzione della prestazione
sanitaria cui erano obbligati, che si pone all’origine dell’infezione da HCV contratta da
ciascuno degli attori, come dimostrato all’esito dell’accertamento tecnico disposto nel
corso del giudizio.
D’altra parte, lo stesso consulente di parte, prof. G., alla fine delle note critiche
XXX pur contestando la riconducibiità causale delle infezioni al
trasmesse al ctu dott. Tona,
trattamento dialitico, sotto il profilo della prova – rilievi contestati dal ctu con valutazione
condivibili – conclude affermando che: “va rimarcato che il centro di emodialisi DIBA
§§§§ era
all’epoca dei fatti, gravemente carente riguardo alle strutture, al personale, alle procedure
di assistenza, alle autorizzazioni”.
v
Sul punto, è utile richiamare la giurisprudenza formatasi in materia di
responsabilità della struttura sanitaria e del personale medico ivi operante.
Si è oramai affermato che dall'accettazione del paziente in ospedale o presso il
centro sanitario, ai fini del ricovero, di una visita ambulatoriale o di una trattamento, ne
discende la conclusione di un contratto, e l’inquadramento della responsabilità della
struttura sanitaria nell’ambito della responsabilità contrattuale (Cass. n. 1698 del 2006;
Cass. n. 9085 del 2006; Cass. 28.5.2004, n. 10297; Cass. 11 marzo 2002, n. 3492; 14 luglio
2003, n. 11001; Cass. 21 luglio 2003, n. 11316; in ultimo si vedano SS.UU. 11 gennaio
2008 n° 577).
Del pari, anche l'obbligazione del medico dipendente dalla struttura sanitaria nei
confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto, ma sul "contatto sociale", ha
natura contrattuale (Cass. 22 dicembre 1999, n. 589; Cass. 29.9.2004, n. 19564; Cass.
21.6.2004, n. 11488; Cass. n. 9085 del 2006)”.
La Corte chiarisce che mentre prima (“per diverso tempo”) il presupposto per
l'affermazione della responsabilità contrattuale della struttura era l'accertamento di un
comportamento colposo del medico dipendente, perché “sulla base dell'applicazione
analogica al rapporto paziente-struttura delle norme in materia di contratto di prestazione
17
d'opera intellettuale vigenti nel rapporto medico-paziente”, la responsabilità della struttura
sanitaria veniva “appiattita” su quella del medico; più recentemente, invece, la
giurisprudenza ha riconsiderato il rapporto paziente - struttura “in termini autonomi dal
rapporto paziente-medico, e riqualificato come un autonomo ed atipico contratto a
prestazioni corrispettive (da taluni definito contratto di spedalità, da altri contratto di
assistenza sanitaria) al quale si applicano le regole ordinarie sull'inadempimento fissate
dall'art. 1218 c.c.”.
Conseguenza ne è stata “l'apertura a forme di responsabilità autonome dell'ente,
che prescindono dall'accertamento di una condotta negligente dei singoli operatori, e
trovano invece la propria fonte nell'inadempimento delle obbligazioni direttamente
riferibili all'ente”.
Si tratta di un percorso interpretativo, anticipato dalla giurisprudenza di merito, che
“ha trovato conferma in una sentenza di queste Sezioni Unite (1.7.2002, n. 9556, seguita
poi da altre delle sezioni semplici, Cass. n. 571 del 2005; Cass. n. 1698 del 2006) che si è
espressa in favore di una lettura del rapporto tra paziente e struttura (anche in quel caso,
privata) che valorizzi la complessità e l'atipicità del legame che si instaura, che va ben
oltre la fornitura di prestazioni alberghiere, comprendendo anche la messa a disposizione
di personale medico ausiliario, paramedico, l'apprestamento di medicinali e di tutte le
attrezzature necessarie anche per eventuali complicazioni”.
In virtù dell’autonomo contratto, che si potrebbe definire di "assistenza sanitaria" o
“spedalità”, la struttura deve quindi fornire al paziente una prestazione assai articolata,
“che ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di
obblighi cd. di protezione ed accessori”.
Ne deriva che la responsabilità della struttura per inadempimento “si muove sulle
linee tracciate dall'art. 1218 c.c., e, per quanto concerne le obbligazioni mediche che essa
svolge per il tramite dei medici propri ausiliari, l'individuazione del fondamento di
responsabilità dell'ente nell'inadempimento di obblighi propri della struttura consente
quindi di abbandonare il richiamo, alquanto artificioso, alla disciplina del contratto
d'opera professionale e di fondare semmai la responsabilità dell'ente per fatto del
dipendente sulla base dell'art. 1228 c.c.” (i passaggi sono tratti da SS.UU. n° 577 del
2008).
Delineati i rapporti tra i diversi soggetti, alla stregua di quanto affermato, la fonte
della responsabilità sia per il medico che per la struttura sanitaria riposa, dunque,
sull’inadempimento dell’obbligazione sui medesimi gravante che, in un caso – per
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l’azienda – è più complessa e si connota di una serie di obblighi principali ed accessori tutti
ispirati alla tutela del bene primario della salute del paziente ai sensi dell’art. 32 Cost.,
nell’altro caso, concerne il tipo di prestazione cui è tenuto il medico originata dal
“contatto” avuto con il paziente e dalla sua specifica richiesta.
Trattandosi di obbligazione di tipo professionale, la misura dello sforzo di diligenza
richiesto deve essere correlato al tipo di interesse creditorio che deve essere soddisfatto.
A riguardo, in base al combinato disposto degli artt. 1176 II comma e 2236 c.c., la
diligenza richiesta non è quella del buon padre di famiglia ma piuttosto quella del buon
professionista ossia la diligenza normalmente adeguata in relazione al tipo di attività e alle
relative modalità di esecuzione (cfr. 31 maggio 2006 n° 583).
Lo specifico settore di competenza in cui rientra l'attività esercitata richiede infatti
la specifica conoscenza ed applicazione delle cognizioni tecniche che sono tipiche
dell'attività necessaria per l'esecuzione dell'attività professionale.
Come in giurisprudenza di legittimità si è già avuto modo di porre in rilievo, i limiti
di tale responsabilità sono quelli generali in tema di responsabilità contrattuale (v. Cass.,
Sez. Un., 30/10/2001, n. 13533), presupponendo questa l'esistenza della colpa, lieve del
debitore, e cioè il difetto dell'ordinaria diligenza. A riguardo si è ulteriormente precisato
che il criterio della normalità va valutato con riferimento alla diligenza media richiesta, ai
sensi dell'art. 1176 c.c., comma 2, avuto riguardo alla specifica natura e alle peculiarità
dell'attività esercitata (cfr. Cass., 20/7/2005, n. 15255; Cass., 8/2/2005, n. 2538; Cass.,
22/10/2003, n. 15789; Cass., 28/11/2001, n. 15124; Cass., 21/6/1983, n. 4245).
In ordine poi ai criteri di riparto degli oneri probatori, l’inquadramento dianzi
operato importa che il riparto dell'onere probatorio deve seguire i principi fissati in materia
contrattuale, alla stregua di quelli che sono i principi delineati dalle Sezioni Unite della
Suprema Corte, con la sentenza n° 13533 del 2001, in tema di onere della prova
dell'inadempimento e dell'inesatto adempimento, secondo cui “il creditore che agisce per la
risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento deve dare
la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione
della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è
gravato dell'onere della prova del fatto estintivo, costituito dall'avvenuto adempimento”,
valevole anche nel caso di inesatto adempimento, “al creditore istante è sufficiente la mera
allegazione dell'inesattezza dell'adempimento (per violazione di doveri accessori, come
quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell'obbligo di diligenza, o per
19
difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore
l'onere di dimostrare l'avvenuto, esatto adempimento”.
Tale principio è stato ritenuto applicabile anche all’onere della prova nelle cause di
responsabilità professionale del medico, nelle quali grava sull’attore (paziente danneggiato
che agisce in giudizio deducendo l'inesatto adempimento della prestazione sanitaria) oltre
alla prova del contratto, anche quella dell'aggravamento della situazione patologica o
l'insorgenza di nuove patologie nonché la prova del nesso di causalità tra l'azione o
l'omissione del debitore e tale evento dannoso, allegando il solo inadempimento del
sanitario, restando a carico del debitore l'onere di provare l'esatto adempimento, cioè di
aver tenuto un comportamento diligente (Cass. n. 12362 del 2006; Cass. 11.11.2005, n.
22894; Cass. 28.5.2004, n. 10297; Cass. 3.8.2004, n. 14812).
Ora, si è ritenuto che, dunque, l'inadempimento rilevante nell'ambito dell'azione di
responsabilità per risarcimento del danno nelle obbligazioni così dette di comportamento –
sul presupposto che deve essere superata la dicotomia tra obbligazioni di mezzi e
obbligazioni di risultato - non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisce
causa (o concausa) efficiente del danno. Ciò comporta che l'allegazione del creditore non
può riferirsi genericamente ad un qualunque inadempimento, ma deve avere riguardo
all’inosservanza specifica, c.d. qualificata, e cioè astrattamente efficiente alla produzione
del danno; graverà sul debitore l’onere di dimostrare o che tale inadempimento non vi è
proprio stato ovvero che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno (cfr.
SS.UU. n° 577 del 2008).
Orbene, nella cornice tratteggiata, è necessario chiarire quale debba essere ora il
criterio alla stregua del quale accertare la sussistenza del nesso causale tra la condotta del
medico e il danno allegato patito dal paziente.
Anche sul punto sono numerose le pronunce della giurisprudenza di legittimità che,
di recente ha però chiarito, che all'autore del fatto illecito vengono imputate le conseguenze
che "normalmente" discendono dal suo atto, a meno che non sia intervenuto un nuovo fatto
rispetto al quale egli non ha il dovere o la possibilità di agire (la cd. teoria della regolarità
causale e del novus actus interveniens).
“In questo modo, il nesso causale diviene la misura della relazione probabilistica
concreta (e svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra comportamento e fatto dannoso
(quel comportamento e quel fatto dannoso) da ricostruirsi anche sulla base dello scopo
della norma violata, mentre tutto ciò che attiene alla sfera dei doveri di avvedutezza
comportamentale (o, se si vuole, di previsione e prevenzione, attesa la funzione - anche 20
preventiva della responsabilità civile, che si estende sino alla previsione delle conseguenze
a loro volta normalmente ipotizzabili in mancanza di tale avvedutezza) andrà più
propriamente ad iscriversi entro l'orbita soggettiva (la colpevolezza) dell'illecito” (cfr. 16
ottobre 2007 n° 21619).
Sostiene la Corte che: “Non è illegittimo immaginare, allora, una "scala
discendente", così strutturata: 1) in una diversa dimensione di analisi sovrastrutturale del
(medesimo) fatto, la causalità civile "ordinaria", attestata sul versante della probabilità
relativa (o "variabile"), caratterizzata, specie in ipotesi di reato commissivo (ndr: forse il
riferimento è al reato omissivo), dall'accedere ad una soglia meno elevata di probabilità
rispetto a quella penale, secondo modalità semantiche che, specie in sede di perizia
medico-legale, possono assumere molteplici forme espressive ("serie ed apprezzabili
possibilità", "ragionevole probabilità" ecc.), senza che questo debba, peraltro, vincolare il
giudice ad una formula peritale, senza che egli perda la sua funzione di operare una
selezione di scelte giuridicamente opportune in un dato momento storico: senza
trasformare il processo civile (e la verifica processuale in ordine all'esistenza del nesso di
causa) in una questione di verifica (solo) scientifica demandabile tout court al consulente
tecnico: la causalità civile, in definitiva, obbedisce alla logica del "più probabile che
non";
2) in una diversa dimensione, sempre nell'orbita del sottosistema civilistico, la
causalità da perdita di chance, attestata tout court sul versante della mera possibilità di
conseguimento di un diverso risultato terapeutico, da intendersi, rettamente, non come
mancato conseguimento di un risultato soltanto possibile, bensì come sacrificio della
possibilità di conseguirlo, inteso tale aspettativa (la guarigione da parte del paziente)
come "bene", come diritto attuale, autonomo e diverso rispetto a quello alla salute. Quasi
certezza (ovvero altro grado di credibilità razionale), probabilità relativa e possibilità
sono, dunque, in conclusione, le tre categorie concettuali che, oggi, presiedono
all'indagine sul nesso causale nei vari rami dell'ordinamento” (Cass. 16 ottobre 2007 n°
21619).
Dal quadro esposto discende che, la condotta omissiva posta in essere dal centro
DIBA, dal suo personale medico e paramedico e dal suo amministratore, dianci descritta
integra grave violazione degli obblighi professionali sui medesimi gravanti, che si pone
all’origine del danno alla salute patito dagli attori.
21
v
Passando, a questo punto della disamina, al profilo della quantificazione dei
danni, sul punto devono essere richiamate le conclusioni cui è giunto il consulente
nominato, corrette e non oggetto di contestazione.
Audia Michele
L’attore, è affetto da insufficienza renale cronica, ha subito un trapianto renale, con
successivo espianto per sopraggiunte complicazioni.
Ha praticato la dialisi presso il centro DIBA dal 23.3.1993 al mese di gennaio 1995
e poi dal 18.2.1997. La prima diagnosi di positività anticorporale anti HCV nei primi mesi
dell’anno 2008. Risulta affetto da epatopatia HCV correlata di grado moderato e da altre
plurime patologie non direttamente correlate al danno epatico, quali la sindrome
depressiva, sicché congrua e condivisibile è la valutazione del danno biologico nella
misura del 30%.
Firriolo Vincenzo
L’attore è affetto da insufficienza renale cronica, ed è stato dializzato presso il
centro convenuto dal 18.3.1999, con segnalazione di rialzo delle transaminasi nel mese di
giugno 1999.
Al momento dell’accertamento peritale non sono stati riscontrati alterazioni della
funzionalità epatica e il fegato è apparso normale, senza segni di ipertensione portale,
sicché, anche in questo caso il consulente ha proceduto a valutare il solo danno correlato
all’infezione da HCV epurandolo da tutte le ulteriori patologie di cui risulta affetto
Firriolo, non correlate eziologicamente alla contrazione del virus, pervenendo ad una
quantificazione pari al 25%.
Mauro Adalgisa
Le condizioni dell’attrice, accertate al momento della visita, prima del suo decesso,
avvenuto in corso di causa, erano quelle più gravi.
L’attrice si è sottoposta a dialisi presso il centro dal mese di ottobre del 1997 fino
al riscontro della positività il 7.7.1999.
Al momento della visita risultava affetta da epatopatia HCV correlata con la
presenza di iniziali segni di ipertensione portale, sicché il danno alla salute veniva
quantificato nella misura, ritenuta congrua del 35%.
Per tutti gli attori il consulente, con valutazione condivisibile ha riconosciuto il
nesso di derivazione causale tra il trattamento dialitico presso il centro e la contrazione del
virus dell’HCV, escludendo ogni altro fattore di rischio.
22
Per la liquidazione equitativa del danno come sopra riconosciuto - e cioè del danno
“biologico” inteso quale danno all’integrità psico-fisica del soggetto ed appunto
comprensivo sia del danno da invalidità permanente sia di quello da inabilità temporanea questo Giudice si uniforma agli orientamenti espressi dalla sent. n° 12408/2001 che ha
individuato nelle tabelle milanesi, in uso nella gran parte dei Tribunale d’Italia, un valido
criterio per la liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, riconoscendone una
vocazione nazionale (si veda anche Cass. n° 14402/2011).
Inoltre, anche il recente orientamento dello stesso legislatore (si veda anche ordine
del giorno della Camera dei Deputati del 24 ottobre 2011 che ha impegnato il Governo a
ritirare lo schema del D.P.R. già dal medesimo approvato, relativo alla tabella unica del
danno), che indica nelle tabelle milanesi un valido criterio di liquidazione del danno alla
persona, induce a ritenere che, in particolare, rispetto a siffatta tipologia di danni, patiti
dalla vittima di emotrasfusioni infette, siffatti parametri soddisfino meglio le istanze
risarcitorie dei pazienti affette da infezione di HCV.
Indi, questo Tribunale prende atto dello sviluppo giurisprudenziale degli ultimi
mesi in materia di risarcimento del danno e dell’indicazione delle tabelle milanesi, quale
valido criterio di liquidazione del danno anche in questa materia.
Pertanto, alla luce dei criteri esposti agli attori dovrà essere riconosciuto il seguente
risarcimento:
Audia Michele, il quale all’epoca dell’insorgenza del virus, nell’anno 2008, aveva
71 anni, spetterà la somma di euro 118.81,00, già aumentata della percentuale del 46% ai
fini della necessaria personalizzazione, che tenga conto dei profili di patimento e di
sofferenza morale, ascrivibili alla sfera dinamico-relazionale dei danneggiati, trattandosi di
patologia i cui effetti evolutivi non sono prevedibili (come anche evidenziato dal c.t.u.),
che importa la necessità di sottoporsi a continui controlli, esami diagnostici ed
ematochimici; che postula patimenti disagi e sofferenza per l’incertezza dell’evoluzione
peggiorativa della propria salute e subisce, anche in conseguenza della patologia di cui
risulta affetta, una compromissione della vita quotidiana presente e futura.
Firriolo Vincenzo, il quale all’epoca dell’insorgenza del virus, nell’anno 2009,
aveva 56 anni, spetterà la somma di euro 96.956,00, già aumentata della percentuale del
41% ai fini della necessaria personalizzazione.
Mauro Adalgisa, la quale all’epoca dell’insorgenza del virus, nell’anno 2009, aveva
72 anni, spetterà la somma di euro 158.304,00, già aumentata della percentuale del 50% ai
fini della necessaria personalizzazione.
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A ciascuno degli attori non potrà riconoscersi ulteriore integrazione per il danno di
natura esistenziale, in carenza di precise allegazioni e prove, considerato che gli stessi
patiscono una grave compromissione dell’esistenza a cagione delle ulteriori gravi patologie
di cui risultano affetti, atteso che, piuttosto, il danno di natura epatica è risultato comunque
di grado moderato.
Infine, dovrà essere rigettata la domanda di risarcimento del danno patrimoniale
avanzata da Audia Michele, per totale carenza di prove sulla riconducibilità dell’allegato
pregiudizio alla capacità lavorativa al danno da infezione di HCV, considerato il suo stato
complessivo di salute e il numero di patologie, anche di origine depressive, non riferibili al
contagio.
Sulle somme così individuate dovranno poi essere liquidati gli interessi da
“ritardato pagamento” o interessi compensativi. A riguardo va osservato che le somme
finora liquidate sono espresse in valori attuali, e, se da un lato costituiscono l’adeguato
equivalente pecuniario della compromissione di beni giuridicamente protetti, tuttavia non
comprendono l’ulteriore e diverso danno rappresentato dalla mancata disponibilità della
somma dovuta, provocata dal ritardo con cui viene liquidato al creditore danneggiato
l’equivalente in denaro del bene leso. Nei debiti di valore, come in quelli di risarcimento
da fatto illecito, vanno pertanto corrisposti interessi per il cui calcolo non si deve utilizzare
necessariamente il tasso legale, ma un valore tale da rimpiazzare il mancato godimento
delle utilità che avrebbe potuto dare il bene perduto.
Tale “interesse” va, tuttavia, applicato non già alla somma rivalutata in un'unica
soluzione alla data della sentenza, bensì, conformemente al noto principio enunciato dalle
S.U. della Suprema Corte con sentenza 17/2/1995 n° 1712, sulla "somma capitale"
rivalutata di anno in anno.
Pertanto, a ciascuno degli attori, sulle somme liquidate a titolo di risarcimento del
danno, devalutate, sono dovuti gli interessi al tasso legale dalla data dell’illecito,
coincidente con il momento della manifestazione del virus (rispettivamente anni 2008 e
2009), pari ad euro 43.593,66, per Audia Michele, euro 30.474,00 per Firriolo Vincenzo,
euro 51.133,85 per Mauro Adalgisa.
Il risarcimento complessivo spettante a ciascuno degli attori sarà, allora, riconosciuto
nella seguente misura:
Audia Michele – euro 162.925,14, oltre gli interessi legali dalla data della decisione
fino al soddisfo;
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Firriolo Vincenzo – euro 124.430,06, oltre gli interessi legali dalla data della
decisione fino al soddisfo;
Mauro Adalgisa – euro 209.437,84, oltre gli interessi legali dalla data della
decisione fino al soddisfo.
In ordine alla domanda proposta nel giudizio dagli eredi di Mauro Adalgisa,
deceduta nel corso del giudizio, deve essere qualificata come domanda nuova e, dunque,
inammissibile l’azione risarcitoria volta ad ottenere la liquidazione dei danni patiti dai figli
e nipoti della danneggiata iure proprio, quale danno parentale, perché formulata per la
prima volta tardivamente solo in sede di comparsa conclusionale e, peraltro, infondata non
essendovi prova, nel giudizio, che la morte della congiunta sia stata conseguenza della
patologia epatica contratta.
La somma riconosciuta alla danneggiata dovrà essere attribuita ai congiunti, eredi
legittimi iure successionis, e precisamente ripartita in tre quote paritarie, ai sensi del
combinato disposto degli artt. 566 e 467 c.c., e la quota, che doveva essere devoluta al
figlio pretermorto Mauro Enrico, dovrà essere devoluta ai figli Mauro Gabriele e Mauro
Simone in parti uguali. Sicché la somma riconosciuta a titolo di risarcimento del danno a
Mauro Adalgisa, dovrà essere così ripartita tra i suoi eredi:
Mauro Natascia: euro 69.812,61;
Mauro Roberto: euro 69.812,61;
Mauro Gabriele: euro 34.906,30;
Mauro Simone: euro 34.906,30.
v
A questo punto dovrà essere esaminata la domanda di manleva proposta dal
centro DIBA che ha chiesto di essere garantito per ogni somma dovuta in forza della
presente statuizione di condanna, dalla compagnia di assicurazione Società
Reale Mutua di
XXXXXXXXXXXXXX
Assicurazioni in forza della polizza n° 6531-14, stipulata in data 22 aprile 1996 e sostituita
dalla successiva, n° 7193 del 23 luglio 1999, per la responsabilità civile.
La società, costituiva tempestivamente, ha eccepito preliminarmente la prescrizione
dei diritti dell’assicurato, ai sensi dell’art. 2952 c.c.; nel merito, ha dedotto l’annullabilità
del contratto ai sensi dell’art. 1892 c.c., per avere omesso di dichiarare, all’atto della
stipula del contratto, di essere in possesso delle autorizzazione all’esercizio dell’attività di
ambulatorio ove si effettuavano terapie ed analisi e ancora, ha chiesto che, in ogni caso,
l’eventuale condanna venga mantenuta entro i limiti del massimale di polizza.
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In ordine alla prima eccezione, per stessa ammissione dell’assicuratrice, il centro
DIBA comunicò alla compagnia l’evento, vale a dire il provvedimento di sequestro cui poi
è seguito l’avvio del procedimento penale ove gli attori si costituirono parti civili,
nell’anno 2002.
Ora, non può farsi decorrere il termine di prescrizione da una data antecedente
poiché, i primi atti compiuti dai NAS, a seguito della denuncia proposta dagli attori, furono
coperti dal segreto istruttorio e solo con il predetto provvedimento il centro e il suo legale
rappresentante furono resi edotti dell’avvio delle indagini nei loro confronti su
segnalazione di alcuni pazienti che, successivamente, avanzarono domanda risarcitoria per
i danni alla salute subiti.
Indi, la denuncia di sinistro deve ritenersi tempestiva e la relativa eccezione deve
essere rigettata.
Deve parimenti essere rigettata la domanda di annullabilità del contratto, ai sensi
dell’art. 1892 c.c.
Difatti, dal compendio istruttorio citato sono emerse talune irregolarità urbanistiche
e carenze strutturali ma al momento della stipula del contratto di garanzia il centro era
dotato della necessaria autorizzazione sanitaria a svolgere attività di ambulatorio dialitico,
tant’è che il provvedimento di sospensione, adottato a seguito della segnalazione dei NAS,
venne poi revocato anche a seguito dei lavori di ristrutturazione.
D’altra parte, come dimostrato le predette circostanze non sono state determinanti
ai fini dell’azione risarcitoria proposta in questo giudizio.
Inoltre, non vi è nessuna prova che le asserite reticenze siano state determinate da
dolo o colpa grave né che la società, la quale, peraltro, non ha tempestivamente dichiarato
di volere esercitare l’impugnazione entro sei mesi, non ha dimostrato che, conoscendo le
predette irregolarità, non avrebbe concluso il contratto.
La domanda di manleva deve, pertanto, essere accolta con la precisazione che la
copertura assicurativa dovrà essere riconosciuta in forza della prima polizza, stipulata 20
maggio 1996, poiché la successiva, che contiene un aumento del massimale di polizza per
persona danneggiata, risulta decorrente dal 23 luglio 1999, in epoca successiva a ciascun
contagio, che costituisce l’evento – rischio, fonte del diritto al risarcimento del danno,
oggetto di copertura assicurativa.
Ne consegue che la domanda di garanzia dovrà essere riconosciuta entro il
massimale di polizza previsto per ciascun danneggiato, pari ad euro 154.937,07, con
l’effetto che, per le somme dovute in misura eccedente il predetto limite – vale a dire per il
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risarcimento dovuto ad Audia e Mauro – risponderà esclusivamente il centro DIBA
assicurato, oltre all’altro soggetto coobbligato in solido.
Pertanto, in accoglimento delle domande proposte nel giudizio, il centro DIBA e
Caravella Antonio, in solido, dovranno essere condannati a pagare agli attori il
risarcimento così come dianzi individuato.
La società Reale Mutua di Assicurazione, dovrà essere condannata a rivalere il
centro assicurato per ogni somma dal medesimo sborsata in forza di questa sentenza, entro
i limiti del massimale di polizza.
In ossequio alle regole della soccombenza, i convenuti in solido dovranno essere
condannati a rimborsare agli attori le spese del giudizio che si liquidano come in
dispositivo; la società assicuratrice, avendo resistito alla domanda di garanzia dovrà essere
condannata a rimborsarle all’assicurato; stante la complessità delle questioni sussistono
giusti motivi per disporre la compensazione delle spese di lite tra le attrici e i convenuti.
P.Q.M.
Il Tribunale,
ogni contraria istanza ed eccezione respinta e definitivamente pronunciando, in
parziale accoglimento delle domande proposte dagli attori,
condanna il centro Diba s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, e
Caravella Antonio, in solido, a pagare agli attori le seguenti somme:
Audia Michele, euro 162.925,14, oltre gli interessi legali dalla data della decisione
fino al soddisfo;
Firriolo Vincenzo, euro 124.430,06, oltre gli interessi legali dalla data della
decisione fino al soddisfo;
Mauro Natascia, euro 69.812,61; Mauro Roberto, euro 69.812,61; Mauro Gabriele,
euro 34.906,30; Mauro Simone, euro 34.906,30;
condanna la società Reale Mutua Assicurazioni, in persona del legale
rappresentante pro tempore, a rivalere il centro Diba s.p.a. per ogni somma dallo stesso
pagata in virtù di questa sentenza, nei limiti del massimale di polizza per danneggiato (euro
154.937,07);
rigetta le domande proposte da Muratore Maria e Scordato Nicoletta;
condanna il centro Diba s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, e
Caravella Antonio, in solido, a rimborsare agli attori Audia Michele e Firriolo Vincenzo le
spese del giudizio che si liquidano in complessivi euro 16.100,48, di cui euro 1.118,00 per
spese, oltre IVA e CPA come per legge;
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condanna il centro Diba s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, e
Caravella Antonio, in solido, a rimborsare agli attori eredi di Mauro Adalgisa le spese del
giudizio che si liquidano in complessivi euro 14.012,48, di cui euro 508,00 per spese, oltre
IVA e CPA come per legge;
condanna la società Reale Mutua Assicurazioni, in persona del legale
rappresentante pro tempore, a rimborsare al centro Diba s.p.a., in persona del legale
rappresentante pro tempore, le spese del giudizio che si liquidano in complessivi euro
6800,00, oltre IVA e CPA come per legge;
compensa le spese di lite tra Scordato Nicoletta, Muratore Maria e i convenuti.
Così deciso a Palermo in data 29 gennaio 2014.
Il Giudice
Dott.ssa Sebastiana Ciardo
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