Vladimir Nabokov FUOCO PALLIDO A cura di Anna Raffetto Traduzione di Franca Pece e Anna Raffetto ADELPHI EDIZIONI TITOLO ORIGINALE Pale Fire La traduzione del poema Fuoco pallido è di Anna Raffetto, quelle della Prefazione, del Commento e dell'Indice Analitico sono di Franca Pece. 1962 VERA E DMITRI NABOKOV All rights reserved, including the right of reproduction in whole or in part. This edition published by arrangement with the Estate of Vladimir Nabokov 2002 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO WWW.ADELPHI.IT ISBN 88-459-1732-0 Nel dicembre del 1961, sei anni dopo la pubblicazione di Lolita, Nabokov termina Fuoco pallido, prodigio di invenzione e, per alcuni, summa della sua opera: romanzo audace e segreto, che risulta anche più sconcertante quanto alla forma, poiché è costituito da un magistrale poema di 999 versi con relativo commento. Al centro del poema il sessantunenne John Shade, celebre poeta nonché professore al Wordsmith College di una immaginaria cittadina americana della Costa orientale. In quest'opera i ricordi di una vita si mescolano a interrogativi metafisici sull'«abisso immondo, intollerabile» della morte, divenuti sempre più pressanti dopo il suicidio della giovane figlia. Eppure il poema si chiude su un'ironica quanto serena dichiarazione di fede in un vago aldilà di cui l'arte, con la sua armonia, rappresenta una tacita promessa. Shade ignora che la morte, beffarda, è di nuovo in agguato. Al centro del commento, invece, lo snob, egocentrico, bizzarro, importuno Charles Kinbote, visiting professor nella medesima università, nonché amico ed estimatore di Shade. Le sue note - ora pettegole, ora accademiche, ora nostalgiche - vorrebbero condurre il lettore a una corretta interpretazione del poema ricostruendo le affascinanti avventure del suo presunto ispiratore, vale a dire Kinbote stesso, esule di alto lignaggio da Zembla, regno immerso nelle brume di un'esotica Europa. Ma quelle note finiscono per suonare come un'esilarante parodia di due mondi contrapposti, l'aristocratica Zembla precipitata nella Rivoluzione Estremista e la borghese, prosaica, benpensante America che ha accolto il fuggitivo in pericolo. Mirabile mimesi della realtà, Fuoco pallido ci guida così alla ricostruzione di uno scenario complesso attraverso tortuosi e frammentari percorsi che aprono interrogativi sempre nuovi: Kinbote è un re in esilio, un pedante profugo di terre lontane, o un soggetto psichiatrico afflitto da monomania? E il poema stesso è autentico, o non piuttosto una parodia, o magari un plagio? Plurimi sono i livelli di realtà che si intersecano nel libro, i falsipiani che moltiplicano le prospettive dell'intreccio rendendolo vertiginoso: Fuoco pallido si avvia sereno come una pastorale, esplode in commedia festosa, si inerpica fino al culmine dolente di un'elegia, prende il largo sotto le sembianze di racconto avventuroso, ma la sua nota dominante resta quella tragica della solitudine. Fuoco pallido, scritto in inglese tra il 1960 e il 1961, apparve nel 1962. Di Vladimir Nabokov (1899-1977) sono stati pubblicati presso l'Adelphi Il dono (1991), La veneziana (1992), La vera vita di Sebastian Knight (1992), Lolita (1993), Intransigenze (1994) e Cose trasparenti (1995). Re, donna, fante (2001). A Véra Ciò mi ricorda il comico resoconto, che egli fece al signor Langton, della miserevole condizione di un giovane gentiluomo di buona famiglia. «Signore, l'ultima volta che sentii parlare di lui, correva per la città sparando ai gatti». E poi, in una sorta di benevola fantasticheria, si ricordò del suo gatto prediletto e disse: «Ma a Hodge non sparerà: no, no, a Hodge non sparerà». JAMEs BOsWELL, Vita di Samuel Johnson PREFAZIONE Fuoco pallido, poema in distici eroici di novecentonovantanove versi, suddivisi in quattro canti, fu composto da John Francis Shade (nato il 5 luglio 1898 e morto il 21 luglio 1959) durante gli ultimi venti giorni di vita, nella sua abitazione di New Wye, Appalachia, USA. Il manoscritto, quasi per intero una Bella Copia dalla quale è stato fedelmente tratto il presente testo a stampa, consiste di ottanta schede di formato medio; su ognuna di esse Shade aveva riservato la prima riga in alto, color rosa, alle intestazioni (numero del canto, data), e le quattordici righe azzurre al testo del poema, scritto con penna a punta fine e una grafia minuta, ordinata, straordinariamente leggibile, saltando una riga per indicare un doppio spazio e usando una scheda intonsa per ogni nuovo canto. Il breve (166 versi) Canto Primo, con tutti quegli uccelli e pareli dilettevoli, occupa tredici schede. Il Canto Secondo, il vostro preferito, e quello sconvolgente tour de force che è il Canto Terzo sono di lunghezza identica (334 versi) e riempiono ventisette schede ciascuno. Il Canto Quarto torna alla lunghezza del Primo e occupa anch'esso tredici schede di cui le ultime quattro, utilizzate il giorno della morte, contengono una Minuta Corretta anziché una Bella Copia. Uomo metodico, John Shade era solito trascrivere la porzione giornaliera di versi completati a mezzanotte, ma anche quando li ricopiava di nuovo più tardi, come ho il sospetto che abbia fatto talvolta, non segnava sul cartellino la data delle modifiche definitive, bensì quella della Minuta Corretta o della prima Bella Copia. In altre parole, conservava la data della creazione vera e propria e non quella del secondo o terzo ripensamento. Davanti al mio alloggio attuale c'è un parco di divertimenti molto rumoroso. Di conseguenza, disponiamo del calendario completo del suo lavoro. Iniziò il Canto Primo alle ore piccole del 2 luglio e lo terminò il 4 luglio. Cominciò il Canto Secondo il giorno del suo compleanno e lo concluse l'11 luglio. Il Canto Terzo richiese un'altra settimana. Il Canto Quarto ebbe inizio il 19 luglio e, come già indicato, l'ultimo terzo del testo (versi 949-999) consiste di una Minuta Corretta. La minuta si presenta molto tormentata, pullulante di cancellature devastanti e di aggiunte catastrofiche, e non segue le righe della scheda con la stessa scrupolosità della Bella Copia. Ma, una volta che ci si tuffi sotto la sua superficie confusa, obbligandosi ad aprire gli occhi nelle limpide profondità, si scopre una precisione mirabile. Nessun verso lacunoso, nessuna interpretazione incerta. Questo fatto da solo basterebbe a dimostrare che le accuse mosse (il 24 luglio 1959) in una intervista apparsa su un giornale e rilasciata da uno dei sedicenti estimatori di Shade - il quale affermava, senza avere visto il manoscritto del poema, che esso «consisteva di minute incoerenti, nessuna delle quali fornisce un testo preciso» sono una malignità inventata da coloro che vorrebbero non già e non tanto lamentare la condizione in cui l'opera di un grande poeta è stata interrotta dalla morte, quanto denigrare la competenza, forse addirittura l'onestà, dell'attuale curatore e commentatore. Un'altra dichiarazione pubblica del Prof. Hurley e della sua conventicola si riferisce a una questione strutturale. Cito dalla medesima intervista: «Nessuno può sapere quale lunghezza dovesse avere il poema nelle intenzioni di John Shade, ma non è improbabile che quanto ci ha lasciato rappresenti soltanto una piccola parte del componimento che egli vedeva in un cristallo, indistintamente». Altra sciocchezza! A parte l'evidenza intrinseca che squillante risuona per tutto il Canto Quarto, esiste la dichiarazione di Sybil Shade (in un documento datato 25 luglio 1959) secondo cui il marito «non si propose mai di andare oltre quattro parti». Per lui, il Canto Terzo era il penultimo, e io stesso gliel'ho sentito dire durante una passeggiata al tramonto, allorché, quasi pensasse ad alta voce, riesaminava il lavoro della giornata gesticolando con perdonabile autoapprovazione, mentre il suo discreto compagno si sforzava invano di adeguare il ritmo dell'andatura tipica di chi ha gambe lunghe al passo strascicato, tutto scatti, del vecchio poeta scarmigliato. No, arrivo persino ad affermare (mentre le nostre ombre ancora camminano, senza di noi) che un solo verso del poema rimaneva da scrivere (vale a dire il verso 1000), e sarebbe stato identico al verso 1, a completamento della struttura simmetrica: identiche le due parti centrali, compatte e ampie, onde formare, insieme con i due fianchi più brevi, due ali gemelle di cinquecento versi ciascuna, e accidenti a quella musica. Conoscendo la mentalità combinatoria di Shade e il suo acuto senso dell'equilibrio armonico non riesco a figurarmi che egli intendesse deformare le facce del suo cristallo ritoccandone la prevedibile crescita. E, se ciò non bastasse - ma basta, eccome! -, mi sono trovato nella drammatica circostanza di ascoltare la voce stessa del mio povero amico mentre dichiarava, la sera del 21 luglio, la fine, o pressoché la fine, delle sue fatiche. Il gruppo di ottanta schede era tenuto assieme da un elastico che ora rimetto religiosamente al suo posto, dopo averne esaminato il prezioso contenuto per l'ultima volta. Un altro mucchietto più scarno, di una dozzina di schede, tenute assieme da una graffetta e inserite nella medesima busta del lotto principale, contiene ulteriori distici che seguono il loro breve, e a volte impiastricciato corso, fra una confusione di prime stesure. Di regola, Shade distruggeva le minute nell'attimo stesso in cui non gli servivano più: ricordo bene di averlo visto dalla mia veranda, in una tersa mattina, bruciarne una bella pila nel fuoco pallido dell'inceneritore, dinanzi al quale egli stava immobile, la testa china, simile a una prefica silente tra le nere farfalle portate dal vento di quell'autodafé casalingo. Ma conservò quelle dodici schede grazie alle inusitate espressioni felici che rilucevano tra le scorie delle minute utilizzate. Forse, aveva un vago proposito di sostituire qualche passaggio della Bella Copia con alcuni incantevoli scarti del suo archivio; o forse, e più probabilmente, una predilezione inconfessata per questa o quella immagine, che l'architettura del poema consigliava di eliminare, o che Mrs S. non gradiva, lo avevano indotto a rimandare la distruzione fino al momento in cui la definitività marmorea di un dattiloscritto immacolato ne avrebbe confermato il pregio o avrebbe reso pesante e impura anche la più deliziosa delle varianti. E forse, permettetemi di aggiungere in tutta modestia, si riprometteva di chiedere il mio parere dopo avermi letto il poema, come so che aveva intenzione di fare. Nelle mie note, il lettore troverà le varianti eliminate. La loro collocazione è indicata, o per lo meno suggerita, dalla stesura dei versi definitivi nelle loro immediate vicinanze. In un certo senso, molte di esse sono superiori, sotto il profilo artistico e storico, ad alcuni tra i passi migliori del testo finale. Adesso devo spiegare come è successo che sia stato io il curatore di Fuoco pallido. Subito dopo la morte del mio caro amico, persuasi la vedova sconvolta a prevenire e a vanificare la bramosia commerciale e gli intrighi accademici che inevitabilmente avrebbero turbinato attorno al manoscritto del marito (manoscritto che avevo provveduto a mettere al sicuro prim'ancora che il corpo avesse raggiunto la tomba) firmando un accordo nel quale si dichiarava che egli aveva consegnato il manoscritto a me; che io ne avrei curato la pubblicazione immediata, completa di mio commento presso un editore di mia scelta; che tutti i proventi, salvo la percentuale di spettanza dell'editore, sarebbero andati a lei; e che il giorno stesso della pubblicazione il manoscritto sarebbe stato consegnato alla Biblioteca del Congresso, per esservi custodito in perpetuo. Sfido qualunque critico serio a dimostrare che il contratto non era equo. Ciò nonostante, è stato definito (dall'ex legale di Shade) «un'assurda farragine di malvagità», mentre qualcun altro (il suo ex agente letterario) si domandava, con un ghigno, se la firma tremolante di Mrs Shade non fosse per caso stata apposta «intingendo la penna in un tipo speciale di inchiostro rosso». Cuori simili, menti di tal fatta non sarebbero in grado di capire come l'attaccamento a un capolavoro possa essere assolutamente irresistibile, soprattutto quando è il rovescio della trama a estasiare lo spettatore nonché unico ispiratore, il cui passato ivi s'avvolge e intreccia con il destino dell'autore ignaro. Come ho accennato, mi pare, nell'ultima nota al poema, l'esplosione di quella bomba di profondità che fu la morte di Shade fece saltare tali segreti e mandò in superficie tanti pesci morti, che fui costretto a partire da New Wye subito dopo l'ultimo colloquio che ebbi con l'assassino in carcere. Dovetti rimandare la stesura del commento fino a quando non riuscii a trovare un nuovo posto, più tranquillo, dove vivere in incognito; ma era necessario sistemare immediatamente le questioni pratiche relative al poema. Presi un aereo e andai a New York, feci fotografare il manoscritto, raggiunsi un accordo con un editore di Shade, ed ero sul punto di concludere quando, per puro caso, nel bel mezzo di un tramonto grandioso (eravamo seduti in una cella tutta noce e vetro, cinquanta piani sopra le processioni di scarabei) il mio interlocutore disse: «Sarà lieto di sapere, Dr Kinbote, che il Professor Tal dei Tali [uno dei membri del comitato Shade] ha acconsentito a prestare la sua consulenza per la pubblicazione del materiale. Ora, «lieto» è un termine molto soggettivo. Un proverbio zemblano, dei più stupidi, dice: «Il guanto perduto è lieto». All'istante richiusi il fermaglio della borsa e mi recai da un altro editore. Immaginate un gigante tenero e goffo; immaginate un personaggio storico la cui conoscenza del denaro si limiti agli astratti miliardi di un debito nazionale; immaginate un principe in esilio ignaro della Golconda celata nei suoi gemelli da polso, Questo per dire - si tratta di una iperbole, ovviamente - che sono la persona meno dotata al mondo di senso pratico. Tra un individuo del genere e una vecchia volpe dell'editoria i primi contatti sono disinvolti e camerateschi in modo commovente, con prese in giro bonarie e affabilità d'ogni genere. Non ho motivo di supporre che in futuro possa mai accadere qualcosa tale da impedire che un simile rapporto iniziale con il buon vecchio Frank, mio attuale editore, permanga immutato. Frank mi ha comunicato di avere ricevuto, sane e salve, le bozze in colonna che mi erano state inviate qui e mi ha chiesto di segnalare nella Prefazione e lo farò ben volentieri - che l'unico responsabile di eventuali errori nel commento sono io. Inserirlo. Un correttore di bozze di professione ha collazionato accuratamente il testo a stampa del poema e la fotocopia del manoscritto, riscontrando alcuni refusi insignificanti che mi erano sfuggiti; e questo è tutto, quanto a collaborazione esterna. Superfluo dire come avessi sperato che Sybil Shade mi fornisse dati biografici in quantità; purtroppo, se n'è andata da New Wye ancor prima di me e ora abita con alcuni parenti nel Quebec. Naturalmente, avremmo potuto avere uno scambio di corrispondenza molto fruttuoso, ma gli Shadeiani non hanno mollato la presa. Si misero in marcia alla volta del Canada in branchi, per piombare addosso alla povera signora non appena io persi contatto con lei e con i suoi sbalzi d'umore. Invece di rispondere a una lettera inviatale dalla mia spelonca di Cedarn un mese prima, in cui elencavo alcuni dei miei quesiti più angosciosi - per esempio, il vero nome di «Jim Coates», ecc. -, lei mi inviò all'improvviso un fulmineo telegramma nel quale mi sollecitava ad associare nella cura del poema del marito il Prof. H. e il Prof. C. A che punto ciò mi sorprese e mi addolorò! Com'era naturale, la cosa precluse qualsiasi collaborazione con la fuorviata vedova del mio amico. E fu davvero un amico carissimo! Il calendario dice che la nostra conoscenza è durata soltanto pochi mesi, ma esistono amicizie che sviluppano la propria durata interiore, i propri eoni di tempo trasparente, immuni dal vocio maligno e mutevole. Non dimenticherò mai l'esultanza che mi pervase quando venni a sapere, come accennato in una nota successiva, che la casa suburbana (presa in affitto, per mio uso, dal giudice Goldsworth, il quale trascorreva in Inghilterra l'anno sabbatico) dove mi trasferii il 5 febbraio 1959 si trovava accanto a quella dell'eminente poeta americano i cui versi avevo cercato di tradurre in zemblano vent'anni prima! A parte quell'affascinante vicinanza, lo château goldsworthiano aveva, come non avrei tardato a scoprire, ben pochi elementi a suo favore. L'impianto di riscaldamento era una farsa, regolato da valvole di tiraggio a livello del pavimento, da dove le esalazioni tiepide di una caldaia tutta gemiti e vibrazioni, sistemata nel seminterrato, si trasmettevano alle stanze, flebili come l'ultimo respiro d'un moribondo. Otturai le aperture del piano superiore per potenziare il flusso d'aria nel soggiorno, ma il clima di quella stanza si dimostrò irrimediabilmente compromesso dall'assenza di una qualsivoglia barriera fra la medesima e le regioni artiche, eccetto una porta d'ingresso tutta fessure, e comunque senza l'ombra di un vestibolo - o perché la casa era stata costruita in piena estate da un ingenuo colono che non immaginava quali inverni gli avrebbe riservato New Wye, oppure perché una signorilità all'antica esigeva che il visitatore inatteso, apparso nel vano della porta spalancata, potesse rendersi conto fin dalla soglia che in salotto non stava succedendo niente di sconveniente. Anche a Zembla, febbraio e marzo (gli ultimi due dei quattro mesi «dal naso bianco», come noi li chiamiamo) erano piuttosto inclementi, ma là perfino la stanza di un contadino offriva un tutto compatto di calore uniforme, invece di un reticolo di spifferi micidiali. Vero è che, come accade in genere a tutti i nuovi arrivati, mi fu detto che avevo scelto l'inverno peggiore da anni - e questo alla stessa latitudine di Palermo. Una delle prime mattine dopo il mio arrivo, mi stavo preparando per andare al college sulla potente automobile rossa che avevo appena acquistato, quando mi accorsi che Mr e Mrs Shade, di cui non avevo ancora fatto ufficialmente la conoscenza (in seguito avrei saputo che supponevano volessi essere lasciato in pace), sul loro scivoloso vialetto d'accesso erano in difficoltà con la vecchia Packard che emetteva gemiti agonici e non riusciva a districare una martirizzata ruota posteriore da un concavo inferno di ghiaccio. John Shade si dava maldestramente da fare con un secchio dal quale, con gesto da seminatore, attingeva manciate di sabbia bruna che spargeva sulla vitrea superficie azzurrina. Indossava stivali da neve, il bavero di vigogna era alzato e nel sole la massa di capelli grigi appariva coperta di brina. Sapevo che alcuni mesi prima era stato malato; pensai di offrire ai miei vicini un passaggio fino all'università sulla mia potente automobile e mi affrettai alla loro volta. Una stradina, che girava attorno alla modesta altura sulla quale sorgeva la dimora che avevo preso in affitto, separava quest'ultima dal vialetto del mio vicino, e mi accingevo ad attraversarla quando misi un piede in fallo e caddi a sedere sulla neve inaspettatamente dura. La caduta agì da reagente chimico sulla berlina degli Shade, che si mosse immediatamente e quasi m'investì immettendosi sulla stradina, con John al volante, una smorfia di tensione sul viso, e Sybil che gli parlava con foga. Non sono certo che l'uno o l'altra mi abbiano visto. Tuttavia, alcuni giorni dopo, il 16 febbraio per l'esattezza, fui presentato al vecchio poeta all'ora di pranzo, al club della facoltà. «Finalmente presentate credenziali» ho annotato, con una certa ironia nella mia agenda. Fui invitato, insieme con altri quattro o cinque eminenti professori, al suo tavolo solito, sotto un ingrandimento fotografico del Wordsmith College quale appariva, stordito e squallido, in una giornata particolarmente deprimente dell'estate del 1903. Il poeta mi consigliò in tono laconico di «assaggiare il maiale», il che mi divertì: sono vegetariano di rigida osservanza, e preferisco prepararmi i pasti da me. Spiegai ai rubicondi commensali che consumare qualcosa manipolato da un mio simile mi era altrettanto ripugnante che mangiare una qualunque creatura, compresa, soggiunsi abbassando la voce, la polposa studentessa con la coda di cavallo che ci aveva serviti e leccava la matita. Inoltre, avevo già finito la frutta che avevo portato con me nella borsa e quindi mi sarei accontentato, dissi, di una bottiglia di buona birra del college. Quel mio comportamento franco e spontaneo mise tutti a proprio agio. Mi furono rivolte le consuete domande: se uno con le mie convinzioni trovasse accettabili i lunch all'uovo e i frullati a base di latte. Shade disse che egli era l'esatto opposto: doveva compiere un vero e proprio sforzo su se stesso per mangiare un po' di verdura. Per lui, cominciare una insalata era come bagnarsi in mare durante una giornata gelida, e doveva sempre chiamare a raccolta le proprie forze prima di attaccare la fortezza di una mela. Non ero ancora abituato alle canzonature e alle frecciatine alquanto sfibranti che si scambiano gli intellettuali americani del genere provincial-accademico e, pertanto, mi astenni dal dire a John Shade, davanti a tutti quei vecchi maschi sogghignanti, quanto ammirassi la sua opera, per tema che una conversazione profonda sulla letteratura degenerasse a livello di pura e semplice facezia. Gli chiesi, invece, informazioni su un mio nuovo studente che frequentava anche il suo corso, un ragazzo ombroso, delicato, alquanto splendido; scuotendo risolutamente il ciuffo canuto, il vecchio poeta rispose che da molto tempo aveva smesso di tenere a mente visi e nomi degli studenti e che l'unica persona che riuscisse a richiamare alla memoria, tra quelle che seguivano il suo insegnamento di poesia, era una iscritta ai corsi liberi, una signora con le stampelle. «Andiamo, andiamo,» disse il Professor Hurley «vuoi darci a intendere, John, che non conservi un ritratto mentale o viscerale di quello schianto di bionda in calzamaglia nera che bazzica il corso di letteratura?» Shade, irradiando un sorriso con tutte le sue rughe, batté bonario la mano sul polso di Hurley per farlo smettere. Un altro tormentatore chiese se era vero che avevo fatto sistemare due tavoli da ping-pong nel seminterrato. Chiesi, era vietato? No, disse, ma perché due? «É vietato?» ribattei, e tutti risero. Nonostante un cuore instabile (si veda il verso 736), un lieve claudicare, e uno strano contorcimento nell'andatura, Shade aveva una sfrenata predilezione per le lunghe passeggiate, ma la neve lo infastidiva e d'inverno preferiva che la moglie lo andasse a prendere con l'automobile al termine delle lezioni. Alcuni giorni dopo, mentre stavo per uscire dal Parthenocissus Hall, o Main Hall (adesso, ahimè, Shade Hall), lo vidi fuori dall'edificio, in attesa di Mrs Shade. Mi fermai accanto a lui per un attimo, sui gradini del porticato a colonne, per infilarmi i guanti, dito dopo dito, lo sguardo volto altrove, come in attesa di passare in rivista un reggimento. «Un lavoro meticoloso» commentò il poeta. Guardò l'orologio da polso. Un fiocco di neve vi si poggiò sopra. «Cristallo al cristallo», disse Shade. Mi offrii di accompagnarlo a casa con la mia potente Kramler. «Le mogli, Mr Shade, sono smemorate». Drizzò la testa ispida per guardare l'orologio della biblioteca. Due ragazzi fulgidi, in tenute invernali vivacemente colorate, attraversarono, ridendo e scivolando, il desolato spiazzo erboso ricoperto di neve. Shade gettò un'altra occhiata all'orologio da polso, poi, con un'alzata di spalle, accettò la mia offerta. Volli sapere se non gli dispiaceva che lo accompagnassi facendo il tragitto più lungo, con una sosta al Community Center, dove desideravo comperare biscotti con glassa al cioccolato e un po' di caviale. Mi disse che per lui andava bene. Dall'interno del supermercato, attraverso una vetrata trasparente vidi il mio vecchietto schizzare in un negozio di liquori. Quando ritornai all'automobile con i miei acquisti era di nuovo al suo posto, intento a leggere un rotocalco dozzinale che non avrei mai immaginato un poeta si sarebbe degnato di toccare. Un rutto soddisfatto mi rivelò che aveva una fiaschetta di brandy nascosta da qualche parte sotto i suoi caldi indumenti. Come girammo sul vialetto d'accesso di casa sua, vedemmo Sybil che fermava la macchina proprio davanti alla porta d'ingresso. Scesi con cortese sollecitudine. Disse: «Dato che mio marito non ritiene di fare le presentazioni, facciamole da soli. Lei è il Dr Kinbote, vero? Sono Sybil Shade». Si rivolse quindi al marito dicendogli che avrebbe potuto aspettarla nel suo studio ancora un minuto: aveva suonato il clacson e chiamato, era salita fin su, ecc. Mi girai per andarmene, poiché non intendevo assistere a una scenata coniugale, ma lei mi richiamò: «Venga a bere qualcosa con noi,» disse «o meglio con me, perché a John è proibito toccare alcolici». Spiegai che non potevo trattenermi a lungo perché dopo poco a casa mia ci sarebbe stato un piccolo seminario, seguito da un po' di tennis da tavolo, con due incantevoli gemelli assolutamente identici, e un altro ragazzo. Da quel giorno cominciai a frequentare sempre più spesso il mio celebre vicino. La vista da una delle mie finestre mi offriva uno spettacolo di prim'ordine, soprattutto quando ero in attesa di qualche ospite che tardava. Dal secondo piano della mia abitazione la finestra del soggiorno degli Shade fu chiaramente visibile fintanto che i rami degli alberi decidui fra le due case rimasero spogli, e quasi ogni sera vedevo il piede del poeta, calzato di una pantofola, oscillare lentamente. Se ne poteva dedurre che egli sedesse su una poltrona bassa, a leggere un libro, ma non mi riuscì mai di scorgere nient'altro che il piede e l'ombra che saliva e scendeva al ritmo segreto dell'immedesimazione mentale, nel circoscritto alone di luce della lampada. Invariabilmente, a una data ora, la pantofola di marocchino marrone cadeva dal piede rivestito d'un calzino di lana, che continuava a dondolare, ma a un ritmo un poco più lento. Si capiva che l'ora di andare a letto si approssimava, con tutti i suoi terrori; che, dopo qualche istante, l'alluce con un colpetto avrebbe importunato la pantofola, per scomparire poi con essa dal mio dorato campo visivo percorso dalla delicata curva nera di un ramo. E a volte Sybil Shade passava veloce, oscillando le braccia come chi si stia precipitando fuori da una stanza in preda a un accesso d'ira per ritornare dopo un poco, con passo più lento, avendo, per così dire, perdonato al marito l'amicizia con un eccentrico vicino; ma l'enigma del suo comportamento fu del tutto chiarito una sera: composi il loro numero di telefono mentre osservavo la finestra e magicamente la indussi a compiere i medesimi movimenti affrettati e del tutto innocenti che mi avevano sconcertato. Ahimè, presto la mia tranquillità di spirito sarebbe andata in frantumi. Il torbido veleno dell'invidia cominciò a schizzarmi addosso non appena quegli accademici provinciali si resero conto che John Shade apprezzava la mia compagnia più di qualunque altra. Non ci è sfuggito il suo ridacchiare, cara Mrs C. mentre aiutavo il vecchio poeta stanco a cercare le galosce al termine di quella tediosa festa informale che lei aveva dato a casa. Un giorno entrai nella segreteria di Letteratura inglese in cerca di una rivista con la fotografia del Palazzo reale di Onhava, che volevo mostrare al mio amico, e per caso sentii un giovane insegnante, con una giacca di velluto verde, che misericordiosamente chiamerò Gerald Emerald, Geraldo Smeraldo, rispondere con noncuranza a una domanda della segretaria: «Credo che Mr Shade se ne sia già andato con il Grande Castoro». Naturalmente sono molto alto, e la mia barba castana è piuttosto notevole quanto a colore e consistenza. Era evidente che quello stupido soprannome si riferiva a me, ma non valeva la pena di rilevarlo e dopo aver preso tranquillamente la rivista da un tavolo ingombro di opuscoli, nell'uscire mi limitai a sciogliere il nodo del cravattino di Gerald Emerald con un abile gesto delle dita, mentre gli passavo accanto. Vi fu anche la mattina in cui il Dr Netocka, Direttore del dipartimento di cui facevo parte mi chiese con voce solenne di sedermi, poi chiuse la porta e, riguadagnata la sua sedia girevole, a occhi bassi e con mesto cipiglio mi esortò a «essere più cauto». In che senso, cauto? Un ragazzo si era lamentato con il proprio tutor. Lamentato di che buon Dio? Che io avevo criticato un corso di letteratura che egli frequentava («una rassegna ridicola di opere ridicole, fatta da una ridicola mediocrità»). Ridendo di vero e proprio sollievo, abbracciai il buon Netochka, promettendogli che non avrei mai più fatto il cattivo. Approfitto di questa occasione per salutarlo. Si è sempre comportato con tale squisita gentilezza nei miei confronti che a volte mi chiedo se non sospettasse ciò che Shade sospettava e che soltanto tre persone (due membri del Consiglio di amministrazione e il Rettore dell'università) sapevano con certezza... Oh, ci furono molti incidenti del genere. In una parodia messa in scena da un gruppo di studenti del corso di teatro venivo descritto come un misogino pomposo dall'accento tedesco, che citava in continuazione Housman e rosicchiava carote crude; e una settimana prima della morte di Shade, una certa feroce signora, al cui circolo avevo rifiutato di parlare della «Hally Valley», (come costei si espresse, confondendo la Dimora di Odino con il titolo di un poema epico finlandese), mi disse nel bel mezzo di un negozio di alimentari: «Lei è una persona molto sgradevole, e non riesco a capire come facciano John e Sybil a sopportarla», ed esasperata dal mio sorriso educato aggiunse: «Inoltre, lei è pazzo». Ma lasciamo perdere la tabulazione delle scempiaggini. Checché si pensasse, checché si dicesse, io ero pienamente ricompensato dall'amicizia di John. Un'amicizia ancora più preziosa perché la sua nota tenera veniva intenzionalmente nascosta, specie quando non eravamo soli, sotto una rudezza generata da quella che si può definire dignità del cuore. Tutto il suo essere non era che una maschera. L'aspetto fisico di John Shade corrispondeva così poco alle armonie assiepate in lui, che si era inclini a rimuoverlo come un travestimento grossolano o una moda passeggera; infatti, come le mode dell'Età romantica interpretavano sottilmente la mascolinità di un poeta denudandone il collo attraente, potandone il profilo e lasciando che un laghetto di montagna si riflettesse nel suo sguardo dal taglio ovale, così i bardi d'oggigiorno, grazie forse a migliori opportunità di invecchiare, assomigliano a gorilla o ad avvoltoi. Il viso del mio sublime vicino possedeva qualcosa che l'occhio avrebbe potuto gradire, se fosse stato soltanto leonino o soltanto irochese; ma, per sfortuna, la combinazione delle due cose ricordava semplicemente la faccia di un grasso beone hogarthiano di sesso indefinito. Il corpo deforme, quel ciuffo grigio e folto di capelli, le unghie gialle, le dita massicce e tozze, le borse sotto gli occhi velati erano intelligibili solo considerandoli come i materiali di scarto eliminati dal suo io intrinseco, ad opera di quelle medesime tensioni perfezionistiche che purificavano e cesellavano i suoi versi. Egli era l'obliterazione di se stesso. C'è una sua fotografia che prediligo. In quell'istantanea a colori scattata dall'amico di un tempo in una sfolgorante mattina di primavera, Shade è appoggiato a un robusto bastone da passeggio che era appartenuto a sua zia Maud (si veda il verso 86). Io indosso una giacca a vento bianca acquistata in un negozio locale di articoli sportivi e un paio di calzoni casual lilla, ricordo di Cannes. Ho la mano sinistra a metà alzata, non per battere sulla spalla di Shade, come potrebbe sembrare, ma per togliermi gli occhiali da sole, ai quali, tuttavia, la suddetta mano non giunse mai in quella vita, la vita della fotografia; e il volume della biblioteca che tengo sotto il braccio destro è un trattato su certi esercizi ginnici zemblani ai quali speravo di riuscire a interessare il mio giovane inquilino che aveva scattato la fotografia. Una settimana dopo avrebbe tradito la mia fiducia approfittando sordidamente di un mio viaggio a Washington, da dove ritornai per scoprire che aveva intrattenuto una prostituta di Exton dal crine fiammeggiante, la quale aveva lasciato residui di capelli e lezzo in tutte e tre le stanze da bagno. Naturalmente ci separammo subito e dalla finestra, attraverso uno spiraglio delle tende, vidi l'abietto Bob fermo in una posa piuttosto patetica, con i capelli a spazzola, la valigia malandata e gli sci che gli avevo regalato, mentre attendeva un compagno di studi che, sulla sua auto, l'avrebbe condotto via per sempre. Posso perdonare tutto, ma non il tradimento. Con John Shade non si è mai parlato delle mie traversie personali. La nostra intima amicizia si collocava su quel livello più elevato, squisitamente intellettuale, in cui ci si può ritemprare dai turbamenti emotivi, non già condividerli. L'ammirazione che provavo per lui aveva su di me gli stessi effetti di una cura alpina: provavo un immenso senso di stupore ogniqualvolta lo guardavo, soprattutto in presenza d'altri, gente inferiore. Quello stupore era accresciuto dalla consapevolezza che essi non provavano ciò che io provavo, non vedevano ciò che io vedevo, davano Shade per scontato invece di impregnare ogni nervo, per così dire, del fascino della sua presenza. É proprio lui, mi dicevo, ecco la sua testa che contiene un cervello di marca diversa dalle gelatine sintetiche conservate nei crani che gli stanno attorno. Sta guardando il lago in lontananza dalla terrazza (della casa del Prof. C., in quella sera di marzo). Io guardo lui. Sono testimone di un fenomeno fisiologico unico: John Shade mentre percepisce e trasforma il mondo, mentre lo porta dentro di sé e lo scompone, mentre ne ricombina gli elementi nel corso del processo stesso di accantonamento, onde produrre, in un momento ancora indefinito, un miracolo organico, una fusione di immagine e musica, un verso. E provai il medesimo brivido di quando, adolescente, una volta ebbi modo di osservare un prestidigitatore che aveva appena concluso una esibizione fantastica e sedeva ora di fronte a me, al tavolino da tè nel castello di mio zio, gustando tranquillo un gelato alla crema. Fissavo le gote incipriate, all'occhiello il fiore magico che aveva cambiato tante volte colore e adesso aveva assunto stabilmente l'aspetto di un garofano bianco, e soprattutto quelle meravigliose dita che parevano fluide, e che, se egli l'avesse voluto, bastava rigirassero il cucchiaino per dissolverlo in un raggio di sole, o gettassero il piattino in aria per trasformarlo in una colomba. Il poema di Shade è, invero, quella repentina fioritura di magia: il mio amico dai capelli grigi, il mio vecchio e amato prestidigitatore ha messo un mucchietto di schede nel cappello, e oplà, ne ha estratto un poema. E a quel poema dobbiamo ora volgerci. Spero che la mia Prefazione non sia stata troppo sommaria. Note ulteriori, organizzate come un commento progressivo, certamente soddisferanno finanche il lettore più avido. Benché le note, seguendo la consuetudine corrente, siano in appendice al poema, raccomando al lettore di leggerle per prime, poi di studiare il poema con il loro sussidio, rileggendole, naturalmente, a mano a mano che si procede nel testo, e infine, dopo avere terminato il poema, di rileggerle una terza volta per farsi un quadro completo. In casi simili, per eliminare il fastidio di dover sfogliare avanti e indietro le pagine, trovo molto pratico ritagliare le note e unirle con una graffetta al testo del poema, ovvero, cosa ancora più semplice, acquistare due copie dell'opera da sistemare una accanto all'altra su un tavolo comodo, non come questo coso piccolo e traballante sul quale se ne sta ora assisa, in equilibrio instabile, la mia macchina per scrivere, in questo atroce motel, con la giostra dentro e fuori la mia testa, a chilometri di distanza da New Wye. Mi sia consentito dichiarare che senza queste note il testo di Shade semplicemente non possiede alcuna umana realtà, perché la realtà umana di un poema siffatto (troppo ombroso e reticente per essere un'opera autobiografica), con l'omissione di molti versi vigorosi che egli ha avventatamente scartato, deve basarsi per intero sulla realtà del suo autore, del suo ambiente, dei suoi affetti e così via, realtà che soltanto le mie note possono fornire. É probabile,che il mio caro poeta non avrebbe condiviso quest'affermazione, ma, nel bene come nel male, è il commentatore ad avere l'ultima parola. 19 ottobre 1959, Cedarn, Utana Charles Kinbote FUOCO PALLIDO. POEMA IN QUATTRO CANTI CANTO PRIMO Ero l'ombra del beccofrusone ucciso dall'azzurro ingannevole nel vetro; ero la macchia di cinerea lanugine - e vivevo volavo nel cielo riflesso. E anche da dentro, sì, mi sdoppiavo, e con me il lume e una mela sul piatto: scostando le tende della notte, lasciai che il buio specchio sospendesse il mobilio sopra l'erba, e quale fu l'incanto quando una nevicata coprì la fugace visione del mio prato tanto che sedia e letto stavano esattamente sulla neve là fuori, in quella contrada di cristallo. Ricomincia a scendere la neve: fiocco su fiocco lento informe tremulo e opaco, di un bianco sporco e spento contro il biancore pallido del giorno, contro i larici astratti nella luce neutrale. E poi l'azzurro duplice e graduale quando la notte fonde chi guarda alla veduta, e nel mattino i diamanti di gelo mostrano meraviglia: Quali zampe speronate hanno varcato da sinistra a destra la pagina bianca della strada? Leggendo da sinistra a destra il codice d'inverno: un puntino, una freccia rivolta all'indietro; ripeto: puntino, freccia all'indietro... Orme di fagiano! Venustà dal collare, sublimato gallo di prateria che trovi la tua Cina proprio qui, dietro la casa. Che fosse in Sherlock Holmes il tizio che calzava scarpe all'incontrario perché le impronte venissero a ritroso? Ogni colore mi donava gioia, perfino il grigio. Tali erano i miei occhi che scattavano, alla lettera, fotografie. Quando lo consentivo, o con un brivido silente l'ordinavo, qualsiasi cosa indugiasse nel mio campo visivo scene d'interni, foglie di noce americano, gli stiletti aguzzi di un ghiacciato stillicidio mi si stampava sul retro delle palpebre, dove indugiava per un'ora o due, e intanto altro non dovevo fare che socchiudere gli occhi per ricreare foglie, scene d'interni, o trofei di grondaie. Non capisco come potessi distinguere dal lago la nostra veranda sul davanti, quando per la Lake Road andavo alla volta della scuola, mentre ora, pur senza nuovi alberi frapposti, neppure riesco a intravedere il tetto. Forse un capriccio dello spazio ha creato una piega oppure un solco per spostare la fragile veduta, la struttura lignea della casa tra Goldsworth e Wordsmith sul riquadro erboso. Là il mio preferito era un giovane noce dal copioso fogliame già scuro e dall'esile nero tronco contorto. Il sole del tramonto accendeva di bronzo la sua nera corteccia, mentre intorno, ghirlande sfatte, cadevano le ombre delle foglie. Ora è robusto, scabro; è stato bravo. Farfalle bianche trascolorano in lavanda nel solcarne l'ombra dove lieve sembra oscillare l'altalena fantasma di mia figlia piccina. La casa invece è sempre uguale. Un'ala solamente è stata restaurata. C'è un solario. E una finestra panoramica tra sedie ricercate. Graffette immense di tivù ora brillano al posto dell'impettita banderuola ove spesso l'ingenua merla si posava, come garza lieve, ripetendo tutti i programmi uditi; e nel sintonizzarsi passava dal cip-cip al nitido pio pio pi; poi gracchiava: qui vieni, vieni qui, qui; e agitava la coda verso l'alto o con garbo indulgeva a un soffice su e giù e all'istante (pio pi) tornava sul suo trespolo - la nuova tivù. Ero in fasce quando i miei morirono. Ornitologi entrambi. Così spesso ho cercato di evocarli che oggi mi ritrovo con mille genitori. Mestamente si sciolgono nelle loro virtù e dileguano, ma vi sono parole, lette o udite per caso, come «cuore malato» che rimandano a lui, mentre «tumore al pancreas» sempre dice di lei. Cultore del preterito: chi colleziona nidi freddi. Qui c'era la mia camera, ora stanza degli ospiti. Qui, confinato dalla fantesca canadese, ascoltavo il brusio che veniva da basso e pregavo perché tutti fossero felici, zii, zie, la fantesca con la nipote Adele che aveva visto il Papa, la gente dentro i libri, e Iddio in persona. Mi ha cresciuto zia Maud, cara e bizzarra, poetessa e pittrice con il gusto per gli oggetti realistici intrecciati a viluppi grotteschi e immagini di morte. Visse fino a che non vagì la piccola nipote. Intatta è rimasta la sua stanza. Futili cose ricreano una natura morta nel suo stile: il fermacarte di vetro soffiato racchiude una laguna, il libro di poesie spalancato sull'indice (Palude, Plenilunio, Primo quarto, Princìpi di Morale), la chitarra in un canto, un teschio; e dallo «Star» locale un ritaglio fissato alla porta con puntine: Red Sox batte gli Yarcks per 5 a 4 su battuta di Chatman. Il mio Dio morì giovane. La teolatria mi appariva umiliante, con premesse infondate. Un uomo libero non sa che farsene di un Dio; ma ero libero, io? Come sentivo incollata addosso la natura, e quanto amava il mio infantile palato il sapore a metà tra pesce e miele dell'impasto dorato! Il primo libro con le illustrazioni fu la dipinta pergamena che racchiude la gabbia: la luna con gli anelli color malva, il sole sanguigna arancia, Iride con la sua gemella, e quel fenomeno raro, l'iridula quando, mirabile e strana, in un cielo lucente su una cresta montana una piccola nuvola d'opale, di forma ovale, riflette l'arcobaleno dopo un temporale messo in scena in una valle lontana -, giacché è raffinata la gabbia che ci è stata destinata! E c'è il muro dei suoni: la parete notturna innalzata in autunno da un trilione di grilli. Impenetrabile! A mezzacosta su per la collina sostavo, ostaggio di una frenesia di trilli. Ecco la luce del Dr Sutton. Ecco l'Orsa Maggiore. Mille anni fa cinque minuti equivalevano a mille e rotti grammi di sabbia sottile. Guarda fisso le stelle. Il tempo infinito del passato e l'infinito tempo del futuro: richiudono sopra di te le ali immense, e già è la fine. La persona volgare, rozza oserei dire, è più felice: la Via Lattea, la vede solo quando fa acqua. Allora come ora camminavo a mio rischio: sferzato dal fuscello, inciampavo nel ceppo. Asmatico, grasso, claudicante, non ho mai rilanciato una palla, roteato la mazza. Ero l'ombra del beccofrusone ucciso da lontananze ingannevoli nel vetro. Dotato di cervello e cinque sensi (uno senza l'eguale), per il resto ero un misero scherzo di natura. Nei miei sogni notturni giocavo coi compagni, ma niente in realtà invidiavo - tranne forse il prodigio di una lemniscata che gomme di bicicletta lasciano con destrezza disinvolta sulla sabbia bagnata. Un filo di dolore sottile, che la morte giocosa allentava e tirava con asprezza, ma onnipresente, mi correva dentro. Un giorno, appena compiuti undici anni, prono sul pavimento guardavo un giocattolo a molla - una carriola spinta da un ragazzo di latta - che, evitando le gambe di una sedia, finiva sotto il letto, e all'improvviso nella mia testa irruppe il sole. E poi la notte buia. Quel buio era sublime. Come se fossi stato suddiviso tra spazio e tempo un piede sulla cima di un monte, una mano sotto i ciottoli di una riva ansimante, un orecchio in Italia, e un occhio in Spagna, nelle caverne il sangue, tra le stelle il cervello. Nel mio Triassico un sordo pulsare; e nel Pleistocene Superiore macchie ottiche verdi, la mia Età della Pietra percorsa da un brivido glaciale, e tutti i domani nel mio osso cubitale. Nell'inverno, sempre di pomeriggio, affondavo in quel fugace mancamento. Scomparve, poi. Ne svaporò il ricordo. Migliorò la salute. Appresi anche a nuotare. Ma come il ragazzino che una servetta costringe a dissetare con la lingua innocente la sua sete abietta, venni corrotto, atterrito, allettato; il vecchio dottor Colt mi dichiarò guarito disturbi della crescita, diceva -, ma intanto lo stupore permane, e resta la vergogna. CANTO SECONDO Vi fu un tempo nella mia folle giovinezza in cui per qualche ragione mi convinsi che la verità sulla vita oltre la morte fosse nota a ogni creatura umana: soltanto io non ne sapevo niente, congiuravano insieme, libri e persone, per nascondermi il vero. E venne il giorno in cui presi a dubitare: l'uomo era sano nella mente? Come poteva vivere ignorando quale alba, morte, cupa sorte riservava l'oltretomba alla coscienza? Venne infine la notte che trascorsi insonne quando decisi di esplorare e oppormi all'abisso immondo, intollerabile, dedicando la mia vita contorta a questo solo scopo. Oggi ho sessantun anni. Beccofrusoni beccano le bacche. Canta una cicala. Le piccole forbici che ho in mano sono una sintesi abbagliante di sole e stelle. Me ne sto alla finestra a tagliarmi le unghie rendendomi conto vagamente di certe elusive somiglianze: il pollice - il figlio del nostro droghiere; l'indice - il segaligno, tetro astronomo e collega Starover Blue; il medio - un prete spilungone, antica conoscenza; il quarto, piuttosto femminile - un ßirt passato; e il mignolo piccino, alla sua gonna aggrappato. E faccio smorfie tagliando via sottili strisce che zia Maud chiamava «sciarpapelle». Maud Shade toccava gli ottant'anni quando una calma repentina calò sulla sua vita. Vedemmo la paralisi assalire e contrarre, con la vampa rabbiosa, il nobile profilo. La portammo alla celebre casa di cura di Pinedale. Laggiù, nella veranda soleggiata, se ne stava a guardare una mosca posarsi dapprima sulla veste, e poi sul polso. La sua mente svaniva in una caligine crescente. Ancora le riusciva di parlare. Una pausa, la ricerca disperata di ciò che sulle prime pareva un suono adatto, ma impostori, da cellule contigue, rimpiazzavano le parole opportune, e il suo sguardo sillabava una supplica mentre invano tentava di scendere a patti con i mostri nel cervello. Quale istante del lento declino sceglie la resurrezione? Quale giorno e stagione? Chi sorveglia il cronometro? Chi riavvolge il nastro? Alcuni sono meno fortunati, o tutti riescono a sottrarsi? Un sillogismo: sono gli altri a morire; ma io non sono un altro; quindi non morirò. Lo spazio è uno sciame dentro gli occhi; e il tempo un canto nelle orecchie. Sono rinchiuso in questo alveare. Pure, se in precedenza questa vita ce la fossimo mai immaginata, quale folle, ineffabile, stravagante, mirabile nonsense ci sarebbe sembrata Perché unirsi alle risa volgari? Perché mai disdegnare un aldilà che non si può accertare: le delizie del Turco, le presagite lire, i conversari con Socrate e con Proust nei viali di cipressi, il serafino che dispiega sei ali di fenicottero rosate, e gli inferi fiamminghi irti di attrezzi e porcospini? Non è troppo sfrenato il sogno che sogniamo: il guaio sta nel fatto che ignoriamo come renderlo abbastanza improbabile; il massimo che sappiamo escogitare è un fantasma di domestiche apparenze. Come sono ridicoli gli sforzi di tradurre nel linguaggio privato un comune destino! Anziché poesie di sublime concisione, note sconnesse, i versi meschini dell'Insonnia. La vita è un messaggio scarabocchiato al buio. Anonimo. Notato sulla corteccia di un pino, il giorno della morte di lei, rientrando a casa un involucro vuoto di smeraldo, tozzo, con occhi di rana, abbarbicato al fusto; e il suo pendant, una formica di resina impregnata. Quell'inglese di Nizza, linguista felice e soddisfatto: je nourris les pauvres cigales - con ciò intendendo che dava da mangiare ai poveri seu gulls! La Fontaine s'ingannava: è la mandibola che muore, il canto vive. Ecco dunque che mi taglio le unghie, e rifletto, e ascolto i tuoi passi di sopra; va tutto bene, cara. Sybil, amavo la tua grazia dai tempi del liceo, e tuttavia m'innamorai di te solo l'ultimo anno quando con la scuola andammo alle cascate di New Wye. Seduti sull'erba umida pranzammo. Il professore di geologia analizzò con noi la cateratta. Il suo fragore e il polverio iridato rendevano romantico quel parco un po' scontato. Nella foschia d'aprile mi sdraiai proprio dietro la tua schiena snella guardando il capo piccolo e armonioso chino da un lato. Premevi il palmo sulla terra, con le dita a raggiera tra zolle d'erba, un sasso, e un trilium stella. Una corta falange seguitava a contrarsi. Poi ti voltasti e mi offristi un dito di tè metallico e lucente. Non è cambiato il tuo profilo. I denti luccicanti che mordicchiano il labbro riflessivo; gli occhi ombreggiati dalle lunghe ciglia; lo zigomo orlato da lanugine di pesca; la massa setosa dei capelli bruni ravviati con cura sulla nuca; il collo disadorno, e il taglio persiano di naso e sopracciglio, hai mantenuto tutto e nella quiete notturna possiamo udire la cascata. Vieni, lasciati adorare, accarezzare, mia Vanessa bruna, di cremisi striata, mia benedetta Ammirabile farfalla. Come hai potuto, nel crepuscolo della via dei Lillà, consentire al goffo, isterico John Shade di singhiozzarti sul viso, sull'orecchio e la spalla? Fa quarant'anni che siamo sposati. Almeno quattromila volte le nostre nuche hanno sgualcito il tuo cuscino. E quattrocentomila volte la pendola con i rauchi rintocchi di Westminster ha scandito le nostre ore insieme. Con quanti altri almanacchi-dono orneremo la porta in cucina? Ti amo quando, ritta in mezzo al prato, scruti qualcosa tra i rami di una pianta: «Se n'è andato. Così piccino. Potrebbe ritornare», (espresso in un bisbiglio più tenero di un bacio). Ti amo quando mi chiami ad ammirare la scia rosa di un jet sul fuoco del tramonto. Ti amo quando canticchi a bocca chiusa facendo la valigia o la sacca ridicola per l'auto, con la cerniera che corre tutt'intorno. E ancor più ti amo quando con cenno pensoso della testa saluti il suo fantasma e tieni il suo primo giocattolo sul palmo, o guardi una sua cartolina trovata fra le pagine di un libro. Lei poteva essere te, me, o un incrocio bizzarro: scelse me la natura per strappare e straziare il tuo cuore e il mio. Dapprima dicevamo sorridendo: «Le ragazzine sono tutte in carne», «Jim McVey (l'oculista di famiglia) rimedierà a quel lieve strabismo in un baleno». E più in là: «Vedrai, si farà tanto graziosa»; e cercando di lenire il crescente tormento: «É un'età delicata». «Dovrebbe andare a equitazione» dicevi (ma evitavamo di guardarci in faccia). «Giocare a badminton o a tennis. Meno amidi, più frutta! Non sarà una bellezza, ma è graziosa». Inutile, inutile purtroppo. Vincere premi in storia e in francese, certo, era divertente; e alle festicciole il gioco, certo, era pesante, una fanciulla timida poteva essere esclusa; ma siamo giusti: nella recita a scuola, per Natale, mentre gli altri bambini calcavano la scena (che anche lei aveva contribuito a pitturare) nei panni di elfi e fate, la mia dolce bambina faceva Madre Tempo, curva donnina con secchia e scopa, io intanto, alla toilette, da idiota singhiozzavo. Un altro inverno venne raschiato via- spalato. La Bianca Dentaria infestò a maggio i nostri boschi. L'estate fu falciata, e bruciato l'autunno. Ahimè, il giovane cigno dallo squallido aspetto non si mutò nell'anatra dei boschi. E tu: «Ma questo è un pregiudizio! Se è innocente, dovresti rallegrarti. Perché mai insistere sul fisico? É lei che vuole essere così. Quante vergini hanno scritto libri eccellenti. Fare all'amore non è tutto. Un bell'aspetto non è poi tanto necessario!». E tuttavia chiamava il vecchio Pan da ogni colle dipinto, e sempre rispondevano i dèmoni della nostra pietà: con labbra altrui non avrebbe spartito il rossetto del suo fumo; il telefono che squillava ininterrotto prima di un ballo al Sorosa Hall era muto per lei; mai veniva per lei, con stridio fragoroso di gomme sulla ghiaia, lo spasimante con la sciarpa bianca, emergendo dalla lacca del buio sul fronte del cancello; a un ballo non era mai andata, in un sogno di tulle e gelsomino. Ma andò in Francia, scovammo uno château. E tornò in lacrime, con nuove sconfitte, rinnovate tristezze. Quando ogni strada del college menava alla partita, lei sui gradini della biblioteca leggeva o sferruzzava a maglia; per lo più sola, o con quella delicata, amabile compagna che si è fatta suora; una o due volte si vide con un ragazzo coreano del mio corso. Aveva strane fantasie, strane paure, e strana era la forza del carattere - come quando passò tre notti intere indagando su certi suoni e luci in un vecchio granaio. Pronunciava invertite le parole: il, li, arco per ocra. «Eruppe» per «eppure». E ti chiamava catididat didattica. Quasi mai sorrideva, e quando lo faceva era solo un segno di dolore. Criticava feroce ogni nostro progetto, e con lo sguardo vuoto, seduta sul suo letto disfatto, stendeva i piedi gonfi, grattandosi la testa con unghie maculate di psoriasi, e gemeva, mormorando monotona parole spaventose. Era il mio amore: difficile, scontrosa... ma pur sempre il mio amore. Ricordi quelle sere quasi quiete si giocava a mahjong, o lei provava le tue pellicce che un poco la rendevano attraente; e sorridevano gli specchi, clementi si facevano le luci, lievi le ombre. L'aiutavo talvolta con un testo latino o lei leggeva in camera da letto, vicino alla mia tana fluorescente, mentre tu, dentro il tuo studio, mi eri non una, ma due volte lontana e io di tanto in tanto vi udivo da lì: «Mamma, cos'è grim pen?». «Cos'è cosa?» «Grim Pen, sì». Pausa, poi, guardingo, il tuo commento. «Di' mamma, che cos'è ctonio?». Questo pure si chiarì, e soggiungevi: «Ti andrebbe un mandarino?» «No. Sì. E che vuol dire sempiterno?» Esitavi. E allora con vigore urlavo la risposta dalla mia scrivania, dietro la porta chiusa. Non contano i testi che leggeva (qualche fasulla poesia moderna definita al corso di Letteratura, un documento «engagé e avvincente» - a nessuno importava quale senso ciò avesse); il fatto è che quelle tre stanze, allora collegate con te, lei e me formano ora un trittico o un dramma in tre atti in cui per sempre vivono gli eventi lì ritratti. Cullò costante, credo, una folle, minima speranza. Avevo finito da non molto il mio libro su Pope. Jane Dean, la dattilografa, un giorno le propose di presentarle Pete, suo cugino. Sulla macchina nuova, con il fidanzato, avrebbero raggiunto un bar stile hawaiano, qualche chilometro più in là. Alle otto e quindici minuti presero su il ragazzo. Il nevischio spalmava vitrea glassa sulle strade. Finalmente arrivarono - ma a un tratto Pete Dean, mano alla fronte, esclamò di aver dimenticato che un suo amico sarebbe finito in gattabuia se lui non si fosse fatto vivo, e così via. Lei disse che si rendeva conto. Quando lui se ne andò i ragazzi indugiarono davanti alle luci azzurre dell'ingresso. Le pozzanghere lucevano di striature al neon; si sentiva de trop, disse con un sorriso, preferiva rientrare. Gli amici la scortarono alla fermata d'autobus, e là si salutarono; ma lei, invece di tornarsene a casa, scese a Lochanhead. Scrutavi il polso: «Sono le otto e un quarto. [E il tempo qui si biforcò]. Accendo». Lo schermo mutò il suo cieco brodo in uno sfarfallio simile al vero, e zampillò la musica. Lui le diede un'occhiata e a Jane, così benintenzionata, sparò un raggio mortale. Una mano maschile dalla Florida al Maine tracciò frecce falcate di eoliche guerre. Dicesti che più tardi, sull'ottavo canale, un quartetto noioso di critici e scrittori, avrebbe dibattuto la Questione Poesia. Una ninfa, piroettando sotto bianchi petali rotanti in un rito invernale, si inginocchiò in un bosco ai piedi di un altare che esibiva svariati oggetti da toilette. Salii di sopra a leggere le bozze e udii il vento che rotolava bilie sopra il tetto. E vedi, il cieco mendico danzare, lo storpio cantare, ha il timbro inconfondibile e volgare del suo assurdo tempo. Poi dal soggiorno venne il tuo richiamo, mio tenero Mimus polyglottus. Feci in tempo a captare un accenno di fama bevendo insieme una tazza di tè: il mio nome citarono due volte, come sempre appena dietro (giusto un melmoso passo) quello di Frost. «Davvero non ti spiace? Prenderò l'aereo di Exton, perché sai, se entro mezzanotte non torno con la grana...». Poi seguì un documentario, viaggi: lo speaker ci guidò attraverso la nebbia di una notte di marzo, dove fari lontani via via si ingrandivano come una stella in espansione, correndo incontro al mare verde, indaco e fulvo che avevamo veduto nel millenovecentotrentatré, nove mesi prima che venisse alla luce. Adesso era tutto sale-pepe, e a stento richiamava la prima, lunga passeggiata, l'implacabile luce, lo stormo delle vele (una celeste tra le bianche strideva stranamente con il mare, poi due rosse), l'uomo con il blazer sdrucito che sbriciolava pane la folla troppo chiassosa dei gabbiani, e solitario un piccione bruno che avanzava oscillante tra la ressa. «Che cos'era, il telefono?». Ascoltasti alla porta. Niente. Dal pavimento raccogliesti il programma. Ancora fari nella nebbia. Inutile sfregare con la mano il finestrino, senza la maschera sfilavano soltanto bianchi steccati e pali catarifrangenti. «Siamo certi che si comporti bene?» domandasti. «Tecnicamente l'appuntamento è al buio. Bene, proviamo con l'anteprima di Rimorso?» E lasciammo, tranquilli, che il film famoso dispiegasse il suo incantato padiglione; il volto celebre scorreva incantevole e vacuo labbra dischiuse, occhi rilucenti, il grano di bellezza, bizzarro gallicismo, sulla gota, e la forma morbida disciolta nel prisma del desiderio collettivo. «Credo», lei disse «che scenderò qui». «Ma è soltanto Lochanhead». «Sì, va benissimo qui». Stringendo la maniglia aguzzò gli occhi verso gli alberi spettrali. L'autobus ripartì. Sopra la Giungla un tuono. «No, questo no!» Pat Pink, nostro ospite (chiacchiere antinucleari). Suonarono le undici. Sospiravi. «Bene, non ci resta, temo, niente di interessante». Giocavi alla roulette con i canali: il pannello ruotò con uno scatto. Spot decapitati. Facce guizzanti. Una bocca aperta nel bel mezzo di un canto fu cancellata. Un imbecille ornato di basette era sul punto di usare la pistola, ma tu risultasti più veloce. Un amabile negro sollevò la sua tromba. Altro scatto. Il rubino al tuo dito - arbitro della vita e della legge. Oh, spegni! E mentre la vita schioccando si spezzava vedemmo una capocchia luminosa affievolirsi e spegnersi nel buio sconfinato. Dal capanno sul lago uscì un guardiano, Padre Tempo, tutto grigio e ricurvo, uscì con il suo cane irrequieto e andò lungo i canneti della riva. Arrivò tardi. Sbadigliasti discreta ritirando il tuo piatto. Udimmo il vento. Il vento che impetuoso gettava rametti contro i vetri. Il telefono suona? Non direi. Ti aiutai con i piatti. La pendola divorava instancabile antiche rocce e giovani radici. «Mezzanotte» dicesti. Cos'è mai, per i giovani? E all'improvviso un bagliore festoso fu scagliato tra i cedri, rivelando qua e là chiazze di neve, e un auto di pattuglia frenò stridendo sulla nostra strada dissestata. Ciak! Nuova ripresa! Si pensò a un tentativo di attraversare il lago a Lochan Neck dove pattinatori infervorati passavano da Exe a Wye nei giorni di gelo eccezionale. Altri s'immaginarono che avesse smarrito la strada svoltando da Bridgeroad verso sinistra; e per alcuni lei si tolse quella povera, giovane vita. Io so. Tu sai. Era una notte di disgelo, con raffiche di vento, nell'aria molta eccitazione. La nera primavera stava appena dietro l'angolo, rabbrividendo nell'umida luce delle stelle, sull'umido terreno. Il lago era adagiato nella nebbia, il ghiaccio per metà sommerso. Una forma indistinta dal folto delle canne scese nell'ingorda palude crepitante, e sprofondò. CANTO TERZO L'if per noi se, l'albero senza vita! Il tuo gran Forse, Rabelais: the grand potate cioè peut-être. La S.P.E., Scuola (S) laica di Preparazione (P) all'Eternità (E), da noi detta anche Se - il grande se - mi chiamò per un trimestre, dovevo parlare della morte («far lezione sul Verme», come scrisse il Rettore magnifico McAber). Tu e io e lei, allora alta così, traslocammo da New Wye a Yewshade, in uno Stato diverso, più montano. Io amo le montagne, se imponenti. Dal cancello della casa malandata che prendemmo in affitto si vedeva una forma innevata, tanto bella e remota che riuscivi soltanto a emettere un sospiro, quasi potessi così farla più tua. La Se era un larvario e una violetta: una tomba dentro la primavera in boccio della dea Ragione. Eppure le sfuggiva il nocciolo dell'intera questione, quanto più preme al cultore del passato; giacché giorno per giorno noi moriamo; l'oblio cresce rigoglioso non su tibie spolpate ma sulla vita turgida di sangue, e i felici giorni andati sono già mucchi rivoltanti di nomi accartocciati, numeri di telefono gualciti, pratiche muffite. Sono pronto a rinascere fiore o mosca pasciuta, ma mai saprò dimenticare. E farò a meno dell'eternità se essa dovesse ignorare la tenerezza, la malinconia della vita mortale; la passione e lo strazio; le luci rosso-viola dell'aereo che oltre Espero scompare, il tuo gesto sgomento quando rimani senza sigarette; come sorridi ai cani; la scia di bava argento delle chiocciole sopra il lastricato; il mio ottimo inchiostro, questi versi e la scheda, la striscia di elastico sottile che, se tolta, si annoda sempre nella & commerciale tutto ritrovano nel Cielo i morti appena morti, accantonato nelle roccaforti lungo il corso degli anni. Invece la Scuola presumeva saggio non richiedere troppo al paradiso: e se poi non c'è nessuno a dire salve a quel nuovo venuto, niente accoglienza, né indottrinamento? E se tu, perso ogni orientamento, fossi gettato in un vuoto senza fine, denudato lo spirito, completamente solo, la missione incompiuta, il tuo strazio ignorato, il corpo che già comincia a imputridire, e più non puoi mostrarlo sotto il frac, la tua vedova, al buio, sul giaciglio disfatto, macchia sfocata nel tuo cervello liquefatto! Pur snobbando gli dèi, D maiuscolo incluso la Se prendeva in prestito frammenti marginali da mistiche visioni; e offriva informazioni (gli occhiali d'ambra per l'eclissi della vita) su come non perdere la testa se fantasmi ci si desta: scivolare furtivi, preferire sordi accenti insinuanti e andare in folle, entrare in corpi solidi e uscirne senza sforzo, lasciare che altri ci circolino dentro. Come, senza fiato, riconoscere nello spazio atro una sfera minuscola di diaspro, l'Incantevole Terra. Come restare in senno dentro spazi a spirale. Le precauzioni da prendere nel caso di una reincarnazione un po' anormale: che fare se ci si scopre all'improvviso nella pelle di un vulnerabile rospetto piombato nel bel mezzo di un corso trafficato o di un cucciolo d'orso sotto un pino in fiamme, o di un libresco acaro in un chierico rinato. Tempo significa sequenza, e sequenza mutare: quindi l'assenza del tempo deve per forza scompigliare la tabella di marcia degli affetti. Al vedovo un consiglio. Due volte si è sposato: incontrerà le mogli; entrambe amate, innamorate, gelose una dell'altra. Tempo vuol dire crescere, e crescere nulla vuol dire nel regno dell'Elisio. Vezzeggiando un bambino immutabile si affligge la moglie dai capelli di lino sull'orlo di uno stagno, che nel ricordo è colmo di un cielo irreale come un sogno. E anche lei bionda, ma con un tocco color bronzo nell'ombra, piedi per aria, ginocchia serrate, su una balaustra di pietra siede l'altra e alza umido lo sguardo verso l'azzurra impenetrabile foschia. Da dove cominciare? Chi per prima baciare? Quale giocattolo porgere al piccino? Sa quel grave ragazzino dello scontro frontale che in un'atroce notte di marzo uccise con il figlio la madre? E lei, il secondo amore, nudo il collo del piede nella nera ballerina, perché indossa gli orecchini presi dal portagioie dell'altra? E perché mai distoglie lo sguardo così giovane e fiero? Perché, si sa dai sogni, è davvero difficile parlare ai nostri cari morti! Che non tengono conto di timori, scrupoli, vergogna - l'orrenda sensazione che loro ormai siano cambiati. Il compagno di scuola ucciso in una guerra lontana non si stupisce nel vederci alla sua porta, e con un misto di vivacità e cupezza addita le pozze dentro il suo seminterrato. Ma chi può insegnare i pensieri di cui fare l'appello quando il mattino ci sorprende a marciare verso un muro, soggetti alla regia di politici balordi, babbuini con indosso l'uniforme? Penseremo a cose note solo a noi - imperi di componimenti in versi, Indie di calcolo numerico; ascolteremo i galli che cantano lontano, notando sullo scabro muro grigio un'insolita felce, e mentre con una corda ci legheranno le regali mani, scherniremo i subalterni, derideremo allegramente gli imbecilli coscienziosi, nei loro occhi sputeremo, così, giusto per divertimento. E non si può aiutare l'esiliato, il vecchio che muore in un motel, mentre il ventilatore a pale incombe rumoroso nella torrida notte della prateria e dall'esterno raggiungono il suo letto frantumi di luce colorata, mani scure che offrono gemme dal passato; e la morte sopravviene presto. Soffoca il vecchio e intanto rievoca in due lingue le nebulose che si stanno dilatando nei polmoni. Uno strappo, una crepa, altro non puoi prevedere. Forse è le grand néant che troveremo; forse di nuovo ci leveremo a spirale dalla gemma del tubero. Come osservasti l'ultima volta che passammo davanti all'Istituto: «Non potrei proprio dire che differenza c'è tra un posto simile e l'Inferno». Udivamo gli addetti al crematorio sghignazzare sbuffando con disprezzo perché secondo Grabermann l'Alambicco era di detrimento alla nascita di spettri. Noi tutti evitavamo ogni commento sulle altrui fedi. Il grande Starover Blue riesaminava il ruolo dei pianeti quali approdi dell'anima. Il fato delle bestie veniva con cura soppesato. Discettava un cinese con i suoi antenati intorno alle regole del tè: quanto indietro nel tempo Riducevo in brandelli le fantasie di Poe, e affrontavo ricordi dell'infanzia, bizzarri iridescenti luccichii fuori della portata degli adulti. Frequentava quei corsi, con un giovane prete, un vecchio comunista. Così la Se faceva concorrenza a Chiese come a linee di partito. Negli anni seguenti cominciò il declino: prese piede il buddhismo. Una medium portò 640 di contrabbando diafane gelatine e un mandolino levitante. Fra' Karamazov, bofonchiando il suo inetto tutto è consentito, avanzò furtivo nelle classi; e per saziare la voglia di pesce dentro i lombi una scuola freudiana andò dritta alla tomba. Quell'insulsa avventura mi giovò un poco. Imparai cosa ignorare indagando l'abisso della morte. E quando perdemmo la piccina sapevo che niente vi sarebbe stato: né un sedicente spirito avrebbe suonato la tastiera di legno 650 battendo, un colpo dietro l'altro, il suo vezzeggiativo; né un fantasma si sarebbe cortesemente alzato per accoglierci nel buio del giardino, accanto al noce. «Cos'è quel buffo cigolio - non senti?» «É, mia cara, l'imposta delle scale». «Se non dormi, accendiamo la luce. Detesto questo vento! Se giocassimo a scacchi?» «Come vuoi». «Sono sicura che non è l'imposta. Ecco - di nuovo». «É un viticcio che va tastando il vetro». «Che cos'è scivolato dal tetto con quel tonfo?» «É il vecchio inverno che ruzzola nel fango». «E ora cosa muovo? Il cavallo è inchiodato». Chi mai cavalca nella notte e nel vento? É il tormento del poeta. Lo scatenato vento di marzo. É il padre con il figlio amato. Poi vennero minuti, ore, giorni interi, in cui lei era assente dai nostri pensieri, talmente lesto corre il bruco velloso della vita. Quindi il viaggio in Italia. Stravaccati al sole su una spiaggia bianca con altri abbronzati o rosei americani. Il volo, infine, verso casa. E là scoprire che quel pugno di saggi, L'indomito ippocampo, era «acclamato universalmente», (trecento copie vendute in un anno). Riaprì la facoltà, sui pendii collinari, lungo i tornanti in lontananza, scorrevano costanti i fari delle auto restituite in massa al sogno dell'istruzione superiore. E tu continuavi a volgere in francese Marvell e Donne. L'anno fu alquanto procelloso: l'uragano Lolita imperversò dalla Florida al Maine. Marzo fu sfavillante. Uno scià si sposò. Russi tetri spiavano. Lang fece il tuo ritratto. E una notte morii. Il Crashaw Club mi pagò per discettare sul Senso Che Ha per Noi la Poesia. Pronunciai il mio sermone, noioso, ancorché breve. Mentre con una certa fretta me ne andavo per evitare il «chi ha domande?» in coda, uno di quei tipi stizzosi, sempre presenti alle conferenze solo per mostrarsi dissenzienti, si alzò e mi puntò contro la sua pipa. E allora accadde - la trance, l'attacco o uno dei miei soliti deliqui. Un dottore sedeva per caso in prima fila. Gli caddi ai piedi opportunamente. Il mio cuore, pare, si fermò, molti istanti trascorsero prima che tornasse a pulsare arrancando verso una meta più definitiva. E ora chiedo la massima attenzione. Non so dire come lo capii - ma ero certo che il confine era stato varcato. Le cose amate erano perdute, ma nessuna aorta poteva riferire il mio rimpianto. Un sole di gomma fu squassato, e tramontò; e un nulla nero-sangue si mise a far girare un sistema di cellule intrecciate con cellule intrecciate con cellule intrecciate dentro un unico stelo. E spaventosamente nitida, sullo sfondo di tenebra, una candida fonte zampillò. Mi accorsi, certo, che non era fatta di atomi terreni; che dietro le quinte il senso non era il nostro senso. Nella vita la mente di ogni uomo rapida riconosce gli inganni che appronta la natura, così sotto i suoi occhi la canna si fa uccello, il rametto nodoso un corto bruco, e la testa del cobra si muta in falena gigante, le ali ripiegate con perfidia. Ma ciò che la mia candida fonte sostituiva percettibilmente, poteva essere colto, lo sentivo, solo da chi avesse dimorato nel mondo straniero dove io ero soltanto un forestiero. E di lì a poco la vidi svanire: benché ancora incosciente, ritornai sulla terra. La storia suscitò l'ilarità del mio dottore. Non credeva davvero che nello stato in cui mi aveva trovato si potesse «soffrire di allucinazioni o comunque sognare. Più tardi, forse, ma non mentre il collasso è in corso. No, Mr Shade». Ma, dottore, ero morto! Sorrise: «Non proprio, solo la metà di un'ombra». Obiettai, tuttavia. Nella mente continuavo a rivivere ogni cosa. Di nuovo un passo giù dalla pedana, una calda e strana sensazione, quel tizio ritto in piedi e io che a terra stramazzavo non già per via di un importuno con la pipa puntata, ma, quasi con certezza, perché il tempo era venuto che andando a sbattere girasse fuori asse un floscio dirigibile, quel vecchio cuore instabile. Sapeva di verità la mia visione. Aveva il tono, il quid, la bizzarria della sua specifica realtà. Era. Mentre il tempo scorreva, la sua costante verticale risplendeva in trionfo. Spesso turbato dal bagliore accecante del mondo circostante, mi volgevo all'interno di me, e là, sullo sfondo dell'anima, c'era lei, ritta, Old Faithful, La Vecchia Fedele! La sua presenza soleva confortarmi meravigliosamente. Finché un giorno incappai in ciò che parve una rivelazione identica. Una rivista pubblicava la storia della signora Zi... il cui cuore era tornato a battere grazie al pronto massaggio del chirurgo. Parlava al giornalista di un «Paese oltre il Velo» e il resoconto includeva qualche cenno sugli angeli, luccichio di finestre colorate, musica sommessa, una scelta di inni, la voce di sua madre, ma alla fine accennava a un remoto paesaggio, un frutteto immerso nella bruma - e cito: «Oltre il frutteto, avvolta in una sorta di foschia intravidi un'alta fonte bianca - e mi svegliai». Se su un'isola ignota Capitan Schmidt vede un nuovo animale e lo cattura e di lì a poco se ne torna a casa con la pelle, l'isola non per questo entra nel mito. La nostra fonte era un cartello indicatore, un segnale oggettivo e durevole nel buio, saldo al pari di un osso, solido come un dente, quasi triviale nella sua grossolana verità. L'articolo era firmato da Jim Coates. E a Jim scrissi all'istante. Mi diede l'indirizzo. Per parlarle guidai per quattrocento e più chilometri ad ovest. Arrivai. Venni accolto da fusa appassionate. Vidi la chioma azzurra, le lentiggini sul dorso delle mani, quell'aria rapita da orchidea: ero finito in una trappola. «Chi mai perderebbe l'occasione d'incontrare un poeta così insigne?» Molto carino da parte mia venire. Io disperatamente tentavo le domande. Ma vennero ignorate: «Un'altra volta, forse». Li aveva il giornalista i vecchi scarabocchi. Davvero, meglio non insistere Continuava a offrirmi il suo plum-cake come se assurdamente fossi in visita a un vicino. «Non posso credere» disse «che sia lei! Adoro la sua poesia nella "Blue Review! Quella sul Mon Blon. Mia nipote ha scalato il Matterhorn. L'altro pezzo non l'ho proprio capito. Il senso, intendo. Perché il suono, certo... Ma sono così ottusa!» Lo era, infatti. Avrei potuto insistere. Farle dire di più su quella bianca fonte che entrambi «oltre il velo» avevamo veduto ma se (pensai) avessi accennato a quel dettaglio, l'avrebbe colto al volo come segno di affinità insensate, un legame sacrale che univa lei e me misticamente, e in un baleno le nostre due anime sarebbero state una coppia tremante di fratello e sorella sull'orlo di un affettuoso incesto. «Bene,» dissi «credo che si stia facendo tardi...» Passai anche da Coates. Temeva di aver smarrito quelle note. Dal suo schedario tirò fuori il pezzo: «É preciso. Lo stile di lei non l'ho cambiato. C'è soltanto un refuso - non già che conti molto: monte, non fonte. Il tocco maestoso». La Vita Eterna basata su un refuso! Rimuginavo guidando verso casa: capire l'antifona, smetterla d'indagare sull'abisso? Ma d'un tratto intuii che era questo l'essenziale, il tema in contrappunto; solo questo: non il testo, ma la sua tessitura; non il sogno, ma la coincidenza capovolta, non il vano nonsenso, ma una rete di senso. Sì! Mi bastava poter trovare nella vita un qualche nesso o pseudonesso, una sorta di correlato disegno dentro al gioco, un plesso di artistica maestria, e qualcosa del piacere già provato da coloro che vi avevano giocato. Non contava chi fossero costoro. Né suoni, né furtive luci venivano dalla loro enigmatica dimora, eppure erano lì, remoti e muti, intenti a giocare con i mondi, scambiando i pedoni con fauni d ebano e unicorni eburnei; accendendo qui una lunga vita, estinguendone là una più breve; eliminando un re nei Balcani; facendo sì che un frammento di ghiaccio precipitasse dalle ali di un aereo e uccidesse sul colpo un contadino; nascondendomi chiavi, occhiali o pipa. Collegando questi eventi e oggetti con eventi lontani, con oggetti svaniti. Facendo di possibilità e incidenti altrettanti ornamenti. Imbacuccato, irruppi in casa: Sybil, senti, sono proprio convinto... «Chiudi la porta, caro. Il viaggio è stato buono?» Splendido - ma soprattutto torno convinto di poter trovare, brancolando una sorta... di... «Sì, caro?» Vaga speranza. CANTO QUARTO Ora spierò la bellezza come ancora nessuno l'ha spiata. Griderò come nessuno ha mai gridato. Oserò quel che nessuno ha osato. Farò ciò che nessuno prima ha fatto. E quanto a questa macchina mirabile: sono perplesso sulla differenza tra due modi di comporre: quello, diciamo A, che solo nella mente del poeta ha luogo, un collaudo di parole in azione, mentre lui passa il sapone su una gamba per la terza volta, e il modo B, tanto più decoroso, quando il poeta nel suo studio siede con la penna in mano. Con il metodo B la mano corrobora il pensiero, la battaglia astratta si combatte in concreto. La penna, immobile a mezz'aria, cala in picchiata, elide un tramonto già cassato, ripristina una stella, e così guida materialmente l'espressione dal dedalo d'inchiostro verso l'incerta, diurna visione. Ma il metodo A, quale agonia! Il cervello presto si chiude in una ferrea calotta di dolore. Una musa in tuta sovrintende al trapano che mola e che mai sforzo di volontà potrà fermare, mentre l'automa rimuove ciò che ha aggiunto or ora o svelto s'incammina verso l'emporio all'angolo per comprare il giornale che ha letto poco prima. Perché è così? Forse perché in questo tipo di lavoro manca la pausa della penna a mezz'aria, e devi usare tre mani simultaneamente per scegliere la rima necessaria, e tenere sott'occhio il verso completato avendo in mente le prove precedenti? O senza scrivania si va più a fondo nel puntellare falsità e issare un poetico mondo? Giacché vengono quegl'istanti misteriosi in cui, troppo esausto per cassare, abbandono la penna; e prendo a deambulare, finché a una muta ingiunzione la parola flautata viene a posarsi in mano. Prediligo il mattino; e quanto alla stagione, il mezzo dell'estate. Una volta per caso mi sorpresi al risveglio mentre di me l'altra metà restava addormentata. Mi strappai così al sonno e raggiunsi veloce quel me stesso sul prato dove un'alba topazio si versava in coppe di trifoglio e Shade, senza una scarpa, in pigiama vegliava. Mi accorsi così che anche quella metà dormiva sodo; risero entrambi e io in salvo mi risvegliai nel letto mentre il giorno rompeva il guscio d'uovo, frullio di pettirossi; una scarpa abbandonata sulla rorida zolla ingemmata. Gli Shade, due Ombre che imprimono la mia segreta impronta, congenito mistero. Miracoli, miraggi, un mattino nel mezzo dell'estate. Magari il mio biografo sarà troppo compassato o pochissimo informato per attestare che Shade facendo il bagno si radeva, quindi ecco qui: «Aveva fissato una sorta di aggeggio tutto-cardini-e-viti, un supporto metallico di traverso alla vasca per piazzare lo specchio giusto davanti al viso e con l'alluce far scendere acqua calda, lì stava assiso come un re, e come Marat si dissanguava». Quanto più peso, tanto meno al sicuro è la mia pelle, qua e là assottigliata in modo assurdo, come intorno alla bocca: lo spazio tra il suo angolo e la smorfia che faccio è un invito al perfido taglietto. Così la pappagorgia: un giorno farò crescere ben bene l'onor del mento che in me è così connaturato. Il mio pomo d'Adamo è un fico d'India conclamato: parlerò, ora, del male, di inconsolabili dolori, come nessuno ha fatto prima. Nel mio caso si stima che nove ripassate del pennello non siano sufficienti. E dieci. Tasto tra panna-e-fragola il pasticcio cruento e scopro che l'ispida toppa resta immutato cimento. Ho i miei dubbi sul tizio degli spot che con un braccio solo e una sola passata di rasoio sgombra un liscio sentiero nella carne, dall'orecchio al mento quindi si tasta la pelle con sincero sentimento. Rientro nella categoria dei bimani esigenti. Come un efebo discreto che in calzamaglia assiste la sua partner nella danza acrobatica, la mia sinistra aiuta, sorregge, cambia posizione. Parlerò ora... Meglio di ogni sapone è la sensazione su cui contano i poeti, quando la vampa ghiaccia dell'ispirazione, l'immagine improvvisa, l'immediata espressione trasmettono un triplice fremito alla pelle che drizza i corti peli tutt'assieme come nel disegno animato le basette giganti dalla Crema Nostrana sollevate, per poi essere falciate. Parlerò ora del male come nessuno ha fatto prima. Detesto cose tipo il jazz; l'idiota in polpe bianche che tortura un toro dal manto nero raggiato di scarlatto; il bric-à-brac astrattista; l'arte primitivista con maschere e folclore; la musica nei supermercati; le piscine; la scuola progressista; seccatori, bruti, filistei con coscienza di classe, Freud, Marx, pseudopensatori, poeti tronfi, pescecani e impostori. E mentre la gillette scricchiola e raspa in viaggio per le contrade della guancia passano macchine sulla strada maestra, su per l'erto pendio della mascella i camion avanzano a fatica, e ora silenziosa entra in bacino una nave di linea, e ora ecco occhiali da sole a spasso per Beirut, e ora dissodo i campi della Vecchia Zembla dove cresce la mia grigia stoppia e schiavi fanno fieno tra naso e bocca. La vita dell'uomo come commentario all'astruso poema non finito. Nota per ulteriore uso. Vestendomi in questa o quella stanza, verseggio e vago per la casa, in mano un pettine o un calzante per scarpa pronto a mutarsi nel cucchiaio con cui mangio l'uovo. Dopo pranzo tu siedi al volante, mi porti in biblioteca. Cena alle sei e trenta. E quella mia musa stravagante, abile nel cambiare pelle, mi segue dappertutto, in biblioteca, in macchina, in cattedra finanche. E anche tu sei presente, amore mio, tu sempre, immancabilmente, sotto le parole sopra le sillabe, a esaltare il ritmo della vita. Nei giorni andati assiduo percepivo il fruscio di un abito di donna. Ho spesso colto il suono e il senso del tuo pensiero accanto al mio. In te tutto è giovinezza, e tu, al solo citarle, rendi nuove vecchie cose inventate per te. Il Golfo oscuro fu il mio primo libro (in versi liberi); poi Scritti di routine notturna; e La coppa di Ebe, ultimo carro di quel deludente carnevale, giacché adesso chiamo tutto Poesie, senza sentirmi imbarazzato. (Ma a questa cosa trasparente è necessario si dia un nome che stilli dalla luna. Soccorrimi Volere! Fuoco Pallido sia). Cantando a bocca chiusa un'armonia sommessa e prolungata, il giorno è trascorso dolcemente. Il cervello è drenato e un bruno amento e il nome che volevo citare e non citai seccano sul cemento. Forse il mio amore sensuale per la consonne d'appui, pazza figlia di Eco, è radicato nel sentimento che la vita sia un bizzarro progetto con dovizia rimato. Io sento di capire l'esistenza, o almeno una minuscola parte della mia, solo attraverso l'arte che professo intesa come voluttà combinatoria; e se il mio universo personale ammette la scansione, altrettanto faranno i versi di galassie divine, su metro giambico, questa almeno è l'impressione. Sono piuttosto certo che sopravviveremo e che la mia diletta è viva in qualche luogo, così come ragionevolmente credo che domani, ventidue luglio del Cinquantanove, mi sveglierò alle sei, e la giornata con ogni probabilità sarà eccellente; così, lasciate che regoli la sveglia e sbadigliando riponga le mie Poesie sullo scaffale. Ma non è ancora l'ora di dormire. Il sole sfiora lassù gli ultimi vetri, dal vecchio Dr Sutton. Dev'essere sugli ottanta, oramai. O sono ottantadue? La sua età era il doppio della mia l'anno che ti sposai. Dove sei tu? In giardino. Vedo appena un lembo della tua ombra accanto al noce. Click, clank, da qualche parte giocano con i ferri di cavallo. (Che, come ubriachi, si appoggiano a un lampione). Una Vanessa bruna con la fascia vermiglia rotea nel sole che declina, si posa sulla sabbia, e mostra la punta inchiostro blu delle ali maculate di bianco. E nell'ombra che fluida dilaga, nella luce che a poco a poco si ritira un uomo, che ignora la farfalla il giardiniere, credo, di un vicino -, passa spingendo una carriola vuota lungo il sentiero. COMMENTO Versi 1-4: Ero l'ombra del beccofrusone ucciso ecc. L'immagine di questi versi iniziali è chiaramente quella di un uccello tramortito in pieno volo dall'urto violento contro la superficie esterna del vetro di una finestra in cui il cielo si specchia creando, pur con una sfumatura di colore più intensa e il trascorrere più lento di una nuvola, l'illusione di spazio ininterrotto. E vediamo con gli occhi della mente John Shade nella primissima adolescenza, un giovinetto privo di attrattive fisiche, ma per il resto stupendamente sviluppato, che subisce il primo shock escatologico della sua vita quando, con dita incredule, solleva dal terreno erboso quel corpicino compatto, ovoidale, e fissa le strisce color ceralacca che ornano le ali grigio-brune e le penne caudali aggraziate, dalle punte di un giallo brillante, come di vernice fresca. Quando, nel suo ultimo anno di vita, ebbi la fortuna di avere Shade come vicino di casa tra le idilliache colline di New Wye (si veda la Prefazione), notai spesso quella particolare specie d'uccelli nutrirsi, garruli e spensierati, delle bacche di ginepro velate di pruina azzurrognola che crescevano all'angolo della sua casa. La mia conoscenza degli aves da giardino si era sempre limitata alle specie dell'Europa settentrionale, ma un giovane giardiniere di New Wye, a cui mi interessavo, mi aiutò a distinguere l'aspetto e i divertenti richiami di un certo numero di piccoli esseri dall'aria tropicale, a me sconosciuti; e naturalmente, dalla cima di ogni albero si dipartiva una linea tratteggiata in direzione del manuale di ornitologia aperto sul mio scrittoio, verso il quale mi lanciavo al galoppo dal prato, in preda a frenesia nomenclatoria. Quanto arduo mi fu associare il nome «pettirosso» all'impostore suburbano, al volatile volgare dallo sciatto piumaggio rosso spento e dall'appetito stomachevole che rivela nutrendosi di lunghi, tristi e inerti vermi! Per inciso, è curioso come un uccello dal ciuffo erettile che in zemblano si chiama sampel (coda di seta), assai somigliante a un beccofrusone quanto forma e sfumatura di colore, sia stato preso a modello di una delle tre creature araldiche (le altre due sono rispettivamente una renna del suo colore naturale e un tritone azzurro, orocrinito) presenti nello stemma del re di Zembla, Charles il Beneamato (nato nel 1915), delle cui gloriose traversie ebbi a parlare spesso con il mio amico. Il poema fu iniziato esattamente a metà dell'anno, qualche minuto dopo la mezzanotte del 10 luglio, mentre io giocavo una partita a scacchi con un giovane iraniano iscritto ai nostri corsi estivi; e non ho dubbio alcuno che il nostro poeta avrebbe capito la tentazione del suo glossatore di rilevare la coincidenza di quella data con un certo avvenimento fatale - la partenza dell'aspirante regicida, Gradus, da Zembla. In realtà, Gradus partì da Onhava, sull'aereo per Copenaghen, il 5 luglio. Verso 12: quella contrada di cristallo Forse un'allusione a Zembla, la mia amata patria. Segue, nella minuta incoerente e semicancellata che non sono affatto certo di avere decifrato correttamente: Ah, devo ricordarmi di accennare alcunché di ciò che un amico mi disse di un re. Ahimè! Avrebbe detto ben di più se una anti-Karlista che allignava tra le mura stesse della sua casa non avesse controllato ogni verso di cui egli la rendeva partecipe! Più e più volte lo rimproverai in modo bonario: «Dovresti davvero promettere che farai uso di tutto quel meraviglioso materiale, vecchio, grigio, cattivaccio di un poeta». E ridacchiavamo, come due ragazzi. Poi, però, conclusa la passeggiata serale ispiratrice, dovevamo separarci, e la notte arcigna alzava il ponte levatoio tra la sua fortezza inespugnabile e la mia umile dimora. Il regno di quel sovrano (1936-1958) sarà ricordato, per lo meno da alcuni storici perspicaci, come un regno di pace e di eleganza. Grazie a un sistema flessibile di alleanze assennate, Marte non ne deturpò mai le cronache. All'interno, fino al momento in cui non vi si insinuarono corruzione, tradimento ed Estremismo, la Dimora del popolo (il Parlamento) lavorò in perfetta armonia con il Consiglio reale. Armonia, sì, era questa la parola d'ordine del regno. Fiorirono le arti gentili e le scienze pure. Si permetteva che prosperassero tecnologia, fisica applicata, chimica industriale e simili; a Onhava un piccolo grattacielo di vetro color oltremare continuava a crescere senza sosta. Il clima pareva in via di miglioramento. Il regime fiscale era diventato anch'esso una bellezza: i poveri diventavano un po' più ricchi, e i ricchi un po' più poveri (secondo quella che un giorno, forse, diventerà nota come la Legge di Kinbote). L'assistenza medica si stava diffondendo fino ai confini dello Stato: infatti, durante il giro del paese che il monarca compiva ogni anno, in autunno, quando il sorbo piega i rami sotto il peso dei frutti corallini, e le pozzanghere tintinnano di mica, era sempre più raro il caso che quel sovrano cordiale ed eloquente fosse interrotto dal sibilante spasmo inspiratorio della pertosse tra la folla di scolaretti. Il paracadutismo era diventata uno sport popolare. In una parola, tutti erano soddisfatti, perfino i sobillatori politici, paghi di seminare malanimo al soldo di un altrettanto pago Sosed (il gigantesco vicino di Zembla). Ma non dilunghiamoci oltre su questo argomento tedioso. Per tornare al re: prendiamo, per esempio, la questione della cultura personale. Accade forse spesso che i re si dedichino a specifiche ricerche? I re che si interessano di conchigliologia si contano sulle dita di una mano mutilata. L'ultimo monarca di Zembla, influenzato in parte dallo zio Conmal, grande traduttore di Shakespeare, aveva preso a coltivare con passione lo studio della letteratura, nonostante soffrisse di frequenti emicranie. A quarant'anni, poco prima che il suo trono fosse rovesciato, aveva raggiunto un tale livello di erudizione da arrischiarsi a seguire il rauco invito rivoltogli dallo zio venerando sul letto di morte: «Insegna, Karlikl». Naturalmente sarebbe stato sconveniente che un monarca si presentasse dietro un leggio universitario abbigliato con la toga del sapere per spiegare a una rosea gioventù come Finnegans Wake non sia che una ramificazione mostruosa delle «transazioni incoerenti» di Angus MacDiarmid e della Lingo-Grande di Southey («Caro Stumparumper», ecc.), o per esporre le varianti zemblane, raccolte nel 1789 da Hodinski, del Kongs-shugg-szo (Lo specchio del re), capolavoro anonimo del XII secolo. Egli dovette quindi insegnare sotto falso nome e pesantemente truccato, con parrucca e basette finte. Gli zemblani hanno tutti il medesimo aspetto: barba castana, guance rubizze, occhi azzurri; e io, che non mi rado da un anno, assomiglio al mio re travestito (si veda anche la nota al verso 894). Nei periodi in cui insegnava, Charles Xavier si era imposto la regola di dormire in un pied-à-terre che aveva preso in affitto, come era abitudine dei cittadini eruditi, in Coriolanus Lane; un monolocale delizioso, con riscaldamento centralizzato, completo di bagno e cucinotto. Con piacere nostalgico tornano alla memoria la moquette grigia e le pareti grigio-perla (una delle quali si fregiava di una copia solitaria dello Chandelier, et casserole émalliée di Picasso), uno scaffale stipato di tomi di poesia dalla rilegatura in vitello, e un divano letto dall'aspetto virgineo sotto la coltre di pelliccia a imitazione panda. Com'erano lontani da quella serena semplicità il palazzo e l'odiosa Camera di consiglio con i suoi problemi irrisolvibili e i consiglieri impauriti! Verso 17: E poi ... graduale; verso 29: grigio Per una straordinaria coincidenza (intrinseca, forse, alla natura contrappuntistica dell'arte di Shade) pare che qui il nostro poeta nomini (gradual, grigio, gray) un uomo che avrebbe visto per un solo e fatale istante tre settimane più tardi, ma della cui esistenza in quel momento (2 luglio) non poteva essere a conoscenza. Jakob Gradus si faceva chiamare in vari modi: Jack Degree o Jacques de Grey, o James de Gray, oltre a figurare negli schedari della polizia come Ravus, Ravenstone e d'Argius. Egli nutriva un affetto morboso per la maledetta Russia del periodo sovietico e sosteneva che la vera origine del suo nome era da ricercarsi nel termine russo per uva, vinograd, che con l'apposizione di un suffisso latino diventava Vinogradus. Il padre, Martin Gradus, era stato pastore protestante a Riga; ma, eccezion fatta per lui e per uno zio materno (Roman Tselovalnikov, ufficiale di polizia nonché membro part-time del partito socialrivoluzionario), pare che l'intero clan familiare si occupasse del commercio di liquori. Alla morte di Martin Gradus, avvenuta nel 1920, la vedova si trasferì a Strasburgo dove di lì a poco subì la stessa sorte. Un altro Gradus, un mercante alsaziano che, strano a dirsi, non aveva nessun legame di parentela con il nostro assassino, ma per anni aveva intrattenuto stretti e amichevoli rapporti d'affari con i di lui congiunti, lo adottò e lo crebbe insieme con i propri figli. Pare che a un certo punto il giovane Gradus andasse a Zurigo per studiare farmacologia; in un periodo successivo sembra che viaggiasse tra vigneti brumosi in qualità di assaggiatore itinerante. Successivamente lo troviamo impegnato in attività sovversive di modesta portata - stampa libelli stizzosi, fa da corriere per oscuri gruppi sindacali, organizza scioperi all'interno di vetrerie, e simili. In un periodo non meglio definito degli anni Quaranta arriva a Zembla come rappresentante di commercio di bevande alcoliche (brandy), e quivi sposa la figlia di un oste. Si lega al partito Estremista fin dai suoi primi, ignobili contorcimenti e, allo scoppio della rivoluzione, le modeste doti organizzative del nostro sono messe variamente a frutto in diversi uffici. Parte alla volta dell'Europa occidentale, avendo in mente uno scopo sordido e in tasca una pistola carica, esattamente lo stesso giorno in cui un poeta innocente in un paese altrettanto innocente dà inizio al Canto Secondo di Fuoco pallido. Accompagneremo Gradus con il pensiero nel suo viaggio dalla remota e indi68 stinta Zembla alla verde Appalachia, lo accompagneremo costantemente, lungo l'intero poema, mentre procede sulla strada del ritmo, scavalca una rima slitta all'angolo di un enjambement, respira con la cesura, penzola da un verso all'altro come di ramo in ramo, giù giù fino a piè di pagina, si rimpiatta fra due parole per riapparire sulla linea d'orizzonte di un nuovo canto continua l'implacabile marcia di avvicinamento a ritmo giambico, attraversa strade, monta con la valigia sulla scala mobile del pentametro, ne scende, sale su un nuovo convoglio mentale, entra nell'atrio di un albergo, spegne l'abatjour e, nell'istante in cui Shade cancella una parola, si addormenta, mentre il poeta depone la penna per la notte. Verso 27: Sherlock Holmes Detective privato dal naso aquilino, allampanato, alquanto gradevole, personaggio principale di vari racconti di Conan Doyle. Al momento, non ho modo di verificare a quale racconto il nostro poeta si riferisca; ho il sospetto che egli abbia semplicemente inventato il Caso delle impronte a Ritroso. Verso 35: stiletti aguzzi di un ghiacciato stillicidio Con quanta insistenza il nostro poeta evoca immagini invernali all'inizio di un poema che egli cominciò a comporre in una profumata notte d'estate! É semplice indovinare il meccanismo delle associazioni (il vetro evoca il cristallo e il cristallo il ghiaccio) , pur rimanendone incognita la leva. La troppa modestia vieta di supporre che la circostanza dell'incontro tra il poeta e il suo futuro commentatore in un giorno d'inverno abbia qui influito sul dato stagionale. Si suggerisce al lettore di soffermarsi sull'ultima parola dell'incantevole verso qui commentato. La definizione che ne dà il mio dizionario è la seguente: «successione di gocce che cadono dai cornicioni; grondatura; sgocciolio da volte di grotte». Ricordo di essermi imbattuto per la prima volta in questo termine leggendo una poesia di Thomas Hardy. La luminosa gelata ha eternato la luminosa grondatura. É bene notare anche il misterioso cenno-sprazzo presente nell'espressione «stiletti aguzzi» e l'ombra inquietante del regicidio che aleggia nel verso. Versi 39-40: socchiudere gli occhi, ecc. Questi versi compaiono nella minuta con una variante: ... e verso casa si affrettano i miei ladri, il sole con il ghiaccio rubato, la luna con le foglie Non si può evitare il richiamo a quel passo del Timone d'Atene (atto IV, scena III) in cui il misantropo parla ai tre predoni. Non potendo disporre di una biblioteca nel desolato cottage di tronchi in cui vivo come Timone nella sua caverna, sono costretto, per poter citare rapidamente, a ritradurre il passo nella madrelingua, traendolo da una versione zemblana in versi del Timone con la speranza che essa non si discosti troppo dal testo originale, o per lo meno ne rispecchi fedelmente lo spirito: Il sole è ladra: blandisce il mare, e lo deruba. La luna è ladro: ruba al sole la sua argentea luce. Ladro è il mare: esso scioglie la luna. Verso 41: come potessi distinguere A fine maggio ero in grado di distinguere a grandi linee alcune delle mie immagini nella forma che il suo genio avrebbe potuto conferire loro; a metà giugno mi sentii alfine certo che egli avrebbe ricreato in un poema la Zembla abbagliante che mi infiammava la mente. Lo mesmerizzai, lo permeai della mia visione, riversai su di lui, con la generosità incontrollata di un ubriaco, tutto ciò che ero incapace di mettere in versi. Per certo, non sarebbe facile scoprire nella storia della poesia un caso analogo: due uomini, diversi per origine, educazione, associazione di idee, intonazione spirituale e modo di pensare, l'uno studioso cosmopolita, l'altro, poeta schivo e appartato, che stringono un patto segreto di tal genere. Alfine seppi che era maturo per la mia Zembla, saturo al punto giusto, scoppiettante di rime appropriate, pronte a zampillare a un battito di ciglia. Non perdevo occasione di spronarlo a vincere la sua indolenza abituale e cominciare a scrivere. Nella mia agendina tascabile compaiono alcune annotazioni del tipo: «Suggeritogli metro eroico»; «ripetuto racconto di fuga»; «offerto uso di stanza tranquilla a casa mia»; «esaminata possibilità di registrare su nastro mia voce per sua utilità»; e, infine, alla data del 3 luglio: «poema incominciato!». Pur comprendendo fin troppo chiaramente, ahimè!, che il risultato, nella sua stesura finale così pallida e diafana, non può ritenersi un'eco diretta del mio racconto (del quale, peraltro, queste mie note riportano soltanto alcuni frammenti, e soprattutto nel Canto Primo), non esiste dubbio alcuno che il bagliore crepuscolare della vicenda narrata è stato l'agente catalizzatore nel processo stesso di protratta effervescenza creativa che ha consentito a Shade di produrre un poema di 1000 versi in tre settimane. Inoltre, è presente una sintomatica somiglianza, un'aria di famiglia, nella coloritura sia del poema sia della storia. Ho riletto, non senza piacere, i miei commenti ai suoi versi, e in molti casi mi sono scoperto a mutuare una specie di luminosità opalescente dall'ardente astro del mio poeta, e a scimmiottare inconsapevolmente lo stile in prosa dei suoi saggi critici. Ma la vedova, e i di lui colleghi possono smettere di preoccuparsi e godere appieno il frutto di qualsivoglia consiglio ebbero a dare al mio benevolo poeta: ma sì, la stesura finale del poema è soltanto opera sua. Se escludiamo, e ritengo sia giusto farlo, tre accenni fortuiti alla regalità e lo «Zembla» d'après Pope, possiamo concludere che la stesura finale di Fuoco pallido è stata deliberatamente e drasticamente prosciugata di ogni traccia del materiale da me fornito; tuttavia, è anche possibile riscontrare che, nonostante il controllo esercitato sul mio poeta da un censore domestico e Dio solo sa da chi altri, egli ha dato asilo al reale fuggiasco nei sotterranei delle varianti che ha conservato; infatti, nella minuta, ben tredici versi superbamente musicali, serbano l'impronta specifica del mio tema, un minuscolo ma autentico astro-fantasma delle mie conversazioni su Zembla e sul suo re sventurato. Versi 47-48: la struttura lignea della casa tra Goldsworth e Wordsmith Il primo nome si riferisce alla casa di Dulwich Road che presi in affitto da Hugh Warren Goldsworth, un'autorità del Diritto romano e giudice insigne. Non ebbi mai il piacere di incontrarlo, ma imparai a conoscerne la calligrafia quasi quanto quella di Shade. Il secondo nome si riferisce, naturalmente, alla Wordsmith University. Suggerendo in apparenza una posizione a metà strada fra i due luoghi il nostro poeta non intende tanto fare una precisazione spaziale, quanto uno scambio sillabico arguto evocativo dei due maestri del distico eroico, in mezzo ai quali, dentro una nicchia frondosa, egli dà rifugio alla propria musa. In realtà, «la struttura lignea della casa ... sul riquadro erboso» si trovava a otto chilometri circa di distanza dalla Wordsmith University, in direzione ovest, e a soli cinquanta metri circa dalle finestre di casa mia, sul lato volto a est. Nella Prefazione a quest'opera ho avuto modo di accennare alle comodità della mia abitazione. L'incantevole e incantevolmente svagata signora che me la procurò senza che la vedessi prima, era senza dubbio animata dalle migliori intenzioni, soprattutto perché l'edificio riscuoteva l'ammirazione dell'intero vicinato per la sua «spaziosità e signorilità all'antica». In effetti, si trattava di una casa vecchia e tetra, semirivestita di legno, bianca e nera: quel genere di casa che nel mio paese chiamiamo zuodnaggen, con i timpani scolpiti, bow-window pieni di spifferi e una veranda cosiddetta «seminobile» sormontata da un orribile terrazzo. Il giudice Goldsworth aveva moglie e quattro figlie; i ritratti di famiglia mi accolsero nell'ingresso, perseguitandomi poi di stanza in stanza e benché sia convinto che Alphina (9), Betty (10), Candida (12) e Dee (14) si trasformeranno in breve tempo da scolarette orribilmente graziose in giovani signore eleganti e madri eccellenti, devo confessare che quelle loro impertinenti fotografie mi irritarono a un punto tale che alfine le raccolsi a una a una e le buttai tutte dentro un armadio, sotto le forche ordinatamente schierate dei loro indumenti invernali avvolti in sudari di cellophane. Nello studio mi 73 imbattei in una fotografia di grande formato dei genitori, dal sesso invertito: la signora G. assomigliava a Malenkov e il signor G. a una strega boccoluta del genere Medusa; l'ho sostituita con la riproduzione di un prediletto Picasso prima maniera: giovane mortale che conduce un cavallo di nubi temporalesche. Non mi scomodai molto, invece, quanto ai libri di famiglia, sparsi anch'essi un po' dovunque per tutta la casa: quattro edizioni complete di differenti enciclopedie per bambini, e una, più corposa, per adulti, che si arrampicava di ripiano in ripiano lungo una rampa di scale per culminare con l'esplosione dell'appendice nel solaio. A giudicare dai romanzi che si trovavano nel salottino della signora Goldsworth, i suoi interessi intellettuali erano ampiamente sviluppati, spaziando da Amber allo zen. Il capo di quella alfabetica famiglia possedeva anch'egli una biblioteca, che tuttavia consisteva soprattutto di opere giuridiche e di un mucchio di registri dalle intestazioni vistose. Il profano che avesse cercato di racimolare qualcosa a scopo di apprendimento e di intrattenimento poteva disporre soltanto di un album rilegato in marocchino nel quale il giudice aveva amorevolmente incollato biografie e foto di coloro che aveva mandato in galera o condannato a morte: facce indimenticabili di malviventi imbecilli, ultime sigarette e ultimi sogghigni, le mani assolutamente normali di uno strangolatore, una vedova faida-te gli occhi troppo vicini e spietati di un maniaco omicida (piuttosto somigliante, lo confesso, al defunto Jacques d'Argus), un piccolo e vispo parricida di sette anni («Suvvia, figliolo, vogliamo che tu ci dica...»), e un vecchio pederasta, triste e tozzo, che aveva fatto saltare in aria il tizio che lo ricattava. Ciò che mi sorprese alquanto fu che fosse lui, il mio istruito locatore, a dirigere la casa, e non la «sua signora». Oltre a farmi trovare un inventario dettagliato di tutti quegli oggetti che si radunano attorno a un nuovo affittuario come una torma tumultuante di indigeni minacciosi, si era dato l'incantevole pena di scrivere su foglietti di carta raccomandazioni, spiegazioni, ingiunzioni ed elenchi integrativi. Qualunque cosa toccassi, quel primo giorno di permanenza nella casa, forniva un saggio di Goldsworthiana. Girai la chiave dell'armadietto dei medicinali della seconda stanza da bagno, ed ecco uscire svolazzando un messaggio per informarmi che il raccoglitore di lamette da barba usate era troppo pieno e non si poteva adoperare; aprii il frigorifero, e quello con un latrato mi diffidò dall'introdurre «specialità nazionali il cui odore sia difficile da eliminare»; aprii il cassetto centrale dello scrittoio nello studio, e scoprii un catalogue raisonné del suo misero contenuto che comprendeva una serie di posacenere, un tagliacarte damaschinato (descritto come «un pugnale antico portato dall'Oriente dal padre della signora Goldsworth») e un'agendina tascabile vecchia e mai usata, che se ne stava lì, a maturare, aspettando ottimisticamente che si ripresentassero le dovute corrispondenze calendaristiche. Nella dispensa, su un pannello specificamente adibito allo scopo, tra altre comunicazioni dettagliate relative a istruzioni idrauliche, disquisizioni elettriche, dissertazioni cactacee e così via, trovai anche la dieta del gatto nero in dotazione alla casa: lun., merc., ven.: fegato mar., giov., sab.: pesce dom.: carne macinata (Da me ebbe soltanto latte e sardine; era una creaturina simpatica, ma dopo qualche tempo il suo girovagare cominciò a darmi sui nervi e lo affidai alla signora Finley, la donna delle pulizie). Ma, forse, la comunicazione più ridicola riguardava la manipolazione delle tende delle finestre, che dovevano essere chiuse in modo diverso a seconda dell'ora del giorno affinché il sole non si posasse sulla tappezzeria di divani e poltrone. Per ciascuna delle numerose finestre era fornita la descrizione della posizione del sole, sia giornaliera sia stagionale, e se avessi mai tenuto conto di quella storia, sarei stato impegnato quanto un velista in una regata. Tuttavia, un poscritto suggeriva generosamente che, invece di issare e ammainare le tende, forse avrei preferito spostare avanti e indietro, fuori dalla portata del sole, i mobili più preziosi (due poltrone ricamate e una pesante «console reale»), nel qual caso avrei dovuto usare molta attenzione per non graffiare la modanatura delle pareti. Non mi è possibile, ahimè, riportare qui il programma meticoloso degli spostamenti, ma mi pare di ricordare che avrei dovuto fare l'arrocco lungo prima di coricarmi e l'arrocco corto al mattino, come prima cosa. Che risate fragorose si fece il caro Shade mentre lo accompagnavo in un giro d'ispezione, invitandolo a scovare da sé alcune di quelle uova a sorpresa. Grazie a Dio, la sua ilarità vigorosa dissipò l'atmosfera da damnum infectum nella quale si supponeva dimorassi. A sua volta, mi deliziava con il racconto di aneddoti sullo spirito pungente del giudice e sui suoi vezzi da aula di tribunale: per la maggior parte, si trattava chiaramente di esagerazioni folcloristiche, alcune erano invenzioni palesi, e tutte, comunque, innocue. Non accennò, mai lo fece il mio caro e dolce amico, alle storie ridicole circa le ombre terrorizzanti che la toga del giudice Goldsworth gettava sull'intero mondo della malavita, né su questa o quella belva che giaceva in prigione morendo, sì, morendo dalla raghirst (sete di vendetta) - grossolani luoghi comuni messi in circolazione da gente volgare e crudele, individui per i quali semplicemente non esistono né avventure romantiche, né remote lontananze, né cieli scarlatti foderati di pelli di foca, né dune di un regno favoloso, sull'imbrunire. Ma chiudiamo questo argomento e dedichiamoci alle finestre del nostro poeta. Non desidero affatto stravolgere e bistrattare un inequivocabile apparatus criticus fino al punto di ridurlo alle mostruose sembianze di un romanzo. Oggi mi sarebbe impossibile descrivere l'abitazione di Shade in termini architettonici o in qualunque altro termine che non sia quello della sbirciata e dell'occhiata di sfuggita, o delle possibilità consentite dall'inquadratura delle finestre. Come detto dianzi (si veda la Prefazione), l'arrivo dell'estate portò con sé un problema di ottica: il fogliame invadente e io non avevamo lo stesso punto di vista: quello confondeva un monocolo verde con un otturatore opaco, e il concetto di protezione con quello di ostruzione. Nel frattempo (il 3 luglio, secondo la mia agenda) avevo saputo, non da John, ma da Sybil, che il mio amico aveva cominciato a scrivere un lungo poema. Non lo vedevo da un paio di giorni e mi trovai a recapitargli alcuni opuscoli prelevati dalla sua cassetta per le lettere collocata sulla strada e adiacente a quella dei Goldsworth (che deliberatamente ignoravo, ricolma com'era di dépliant, annunci pubblicitari locali, cataloghi commerciali e altra immondizia del genere), quando m'imbattei in Sybil che un cespuglio aveva nascosto al mio occhio di falco. Con un cappello di paglia in testa e guanti da giardino alle mani, stava accovacciata davanti a un'aiuola, potando o legando qualcosa, e i pantaloni marroni aderenti che indossava mi riportarono alla mente le calzamaglie-mandolino (come scherzosamente le chiamavo) che mia moglie era solita indossare. Mi disse di non disturbare il marito con quella pubblicità e soggiunse che egli aveva «iniziato un poema davvero importante». Sentii il sangue affluirmi al viso e borbottai qualcosa sul fatto che lui non mi aveva ancora mostrato nulla di quel lavoro; lei si raddrizzò, scostò dalla fronte i capelli neri e grigi, mi guardò fisso e disse: «Come sarebbe che non gliene ha mostrato nulla? Lui non mostra mai niente di incompleto; mai, mai. Non ne parlerà neppure con lei finché non sarà assolutamente terminato». Mi era impossibile crederlo, ma presto scoprii, parlando con l'amico stranamente reticente, che egli era stato ben indottrinato dalla moglie. A ogni mio tentativo di farlo parlare ricorrendo a frecciatine benevole del tipo: «Chi vive in una casa di vetro non dovrebbe scrivere poemi», si limitava a sbadigliare e a scuotere il capo, ribattendo che «i forestieri dovrebbero stare alla larga dai vecchi detti». Ciò nonostante, la voglia di sapere quale uso stesse facendo di tutto quel materiale vivo, affascinante, palpitante, scintillante che gli avevo profuso, il desiderio smanioso di vederlo al lavoro (anche se mi era negato il frutto di tale lavoro) si dimostrarono assolutamente tormentosi e incontrollabili, facendo sì che indulgessi a un'orgia di spiate che nessuna considerazione ispirata dall'orgoglio riuscì a frenare. Le finestre, è risaputo, sono state il conforto della letteratura in prima persona di tutti i tempi. Ma il sottoscritto in qualità di osservatore non è mai riuscito a emulare la pura e semplice fortuna dell'origliante Eroe del nostro tempo o di quello onnipresente del Tempo perduto. Tuttavia, di quando in quando mi era concesso qualche residuo di una caccia fortunata. Quando la mia finestra a battenti venne meno alla sua funzione per via dello sviluppo lussureggiante di un olmo, scoprii, all'estremità della veranda, un angolo ricoperto d'edera dal quale potevo godere un'ampia veduta della facciata anteriore della casa del poeta. Se desideravo vederne il lato sud, potevo scendere dietro al garage e, schermato da un liriodendro, guardare, oltre la strada che scendeva sinuosa lungo la collina, diverse preziose finestre illuminate, dato che egli non abbassava mai gli avvolgibili (lei sì). Se agognavo al lato opposto, non dovevo fare altro che risalire la collina fino alla sommità del giardino, dove la mia guardia del corpo di neri ginepri osservava le stelle e i presagi e la chiazza di luce pallida sotto il lampione solitario della strada sottostante. All'inizio della stagione qui rievocata, avevo ormai superato quei timori molto speciali e molto personali di cui si parla altrove, e traevo un certo diletto a proseguire, nell'oscurità, lungo una sporgenza rocciosa e ricoperta d erbacce situata sul lato orientale del mio giardino, la quale terminava in un boschetto di robinie, posto poco più in alto del lato nord della casa del poeta. Una volta, tre decenni or sono, al tempo della mia fanciullezza dolce e terribile, ebbi l'occasione di vedere un uomo nell'atto di entrare in contatto con Dio. Girovagando, mi ero inoltrato nella cosiddetta Corte delle rose, sul retro della Cappella ducale di Onhava, mia città natale, durante un intervallo delle prove di canto religioso corale. Mentre mi guardavo attorno trasognato, sollevando alternativamente i polpacci nudi per rinfrescarli contro la liscia superficie di una colonna, mi giungevano all'orecchio le dolci voci lontane che si intrecciavano alla rattenuta gaiezza dei fanciulli, cui un occasionale risentimento, un'irritazione gelosa nei confronti di qualche ragazzo in particolare, mi impediva di unirmi. Un rumore di passi veloci mi indusse a sollevare lo sguardo imbronciato dal mosaico settile della corte - realistici petali di rosa intagliati nel rodstein e grandi spine, quasi palpabili, di marmo verde. Tra quelle rose e quelle spine avanzò un'ombra scura: un giovane ministro del culto, alto, pallido, dal naso lungo e dai capelli scuri che avevo già visto nei paraggi un paio di volte, uscì a grandi passi dalla sagrestia e, senza vedermi, si fermò al centro della corte. Un disgusto colpevole gli contorceva le labbra sottili. Portava gli occhiali. Le mani serrate a pugno parevano stringere le sbarre invisibili di una prigione. Ma non c'è limite alla grazia che l'uomo può ricevere. D'improvviso il suo aspetto mutò, divenne estatico e reverenziale. Mai prima d'allora avevo visto una simile vampa di beatitudine, ma ero destinato a percepire qualcosa di quello splendore, di quella energia spirituale e di quella visione divina ora, in un'altra terra, riflessi sul volto angoloso e insignificante del vecchio John Shade. Con quanta gioia mi resi conto che le veglie di guardia durate per tutta la primavera mi avevano preparato a osservarlo intento al suo prodigioso compito in piena estate! Conoscevo ormai alla perfezione l'ora e il luogo migliori dai quali seguire le isoipse della sua ispirazione. Il mio binocolo andava cercandolo da lontano e lo metteva a fuoco nei vari luoghi del suo travaglio: di notte, nel bagliore violetto dello studio al piano superiore della casa, dove uno specchio gentile rifletteva a mio beneficio le spalle ingobbite e la matita con cui si frugava di continuo nell'orecchio (ispezionando di quando in quando la punta di grafite e, perfino, assaggiandola); di mattina, rimpiattato tra le ombre infrante dello studio al pianterreno, dove un calice luminoso di liquore si spostava silenziosamente dal classificatore al leggio, e dal leggio allo scaffale dei libri, per ivi nascondersi, se necessario, dietro il busto di Dante; nelle giornate più calde, tra i rampicanti di un piccolo portico simile a un pergolato, attraverso le cui ghirlande riuscivo a intravedere un lembo di tela cerata, il gomito che egli vi teneva appoggiato, il pugno grassoccio da cherubino che puntellava la tempia, increspandola. Situazioni contingenti di prospettiva e di illuminazione, l'interferenza di rami o del fogliame degli alberi di solito mi impedivano di distinguere chiaramente il viso; forse la natura ha sistemato le cose in quel modo onde proteggere il mistero della creazione da un eventuale predatore; ma, a volte, quando il poeta passeggiava avanti e indietro sul prato, o si sedeva per un attimo sulla panchina in fondo al giardino, o si soffermava sotto il prediletto noce americano, riuscivo a scorgere le espressioni di interesse appassionato, estasi e venerazione con cui seguiva le immagini che si andavano formulando nella sua mente, e sapevo che, per quanto il mio agnostico amico lo negasse, in quel momento Nostro Signore era con lui. Certe sere in cui la casa, sui tre lati che potevo sorvegliare dai miei tre punti propizi, appariva buia molto prima dell'ora in cui i suoi abitanti erano soliti coricarsi, proprio quell'oscurità mi rivelava che essi erano in casa. L'automobile era posteggiata vicino al garage, ma non potevo credere che fossero usciti a piedi, perché in quel caso avrebbero lasciato accesa la luce della veranda. Riflessioni e deduzioni tratte in un secondo tempo mi hanno persuaso che la sera in cui si fece impellente il bisogno di sapere e decisi di verificare la situazione era l'11 di luglio, data in cui Shade terminò il Canto Secondo. Era una notte afosa, nera, e minacciava burrasca. Furtivo, attraversai il folto di arbusti e mi portai sul retro della loro casa. A prima vista mi parve che anche quel quarto lato fosse buio, in tal caso la questione era risolta, ed ebbi il tempo di avvertire una curiosa sensazione di sollievo prima di notare un debole riquadro di luce sotto la finestra di un salottino sul retro nel quale non ero mai entrato. Era spalancata. Una lampada a stelo con un paralume di carta similpergamena illuminava la parte inferiore della stanza dove vidi Sybil e John, lei seduta all'amazzone sul bordo del divano, dandomi la schiena, e lui su di un pouf vicino al divano nell'atto, a quanto pareva, di raccogliere lentamente dal piano di seduta e impilare carte da gioco residue di un solitario. Sybil ora si rattrappiva tremante, ora si soffiava il naso; il viso di John era tutto chiazzato e umido. Non sapendo allora esattamente che tipo di carta da scrivere usasse il mio amico, non potei fare a meno di chiedermi che cosa diamine ci fosse di tanto drammatico, nell'esito di una partita a carte, da provocare il pianto. Nell'atto di protendermi per vedere meglio, affondando fino alle ginocchia in una siepe di bosso orribilmente elastica, spostai il sonoro coperchio di una pattumiera. Naturalmente, era possibile credere che fosse stata opera del vento, e Sybil detestava il vento: scese immediatamente di sella, chiuse la finestra con un gran tonfo e abbassò lo stridulo avvolgibile. Tornai strisciando al mio tetro domicilio, oppresso nel cuore e perplesso nella mente. Il cuore rimase oppresso, ma la perplessità si risolse alcuni giorni dopo, molto probabilmente nella ricorrenza di San Swithin, perché sul mio diario tascabile, a quella data, trovo l'annotazione di una prevista «promnad vespert midJ.S.», depennata con una tale irritazione da spezzare la mina a metà del gesto. Dopo avere atteso a lungo che il mio amico mi raggiungesse nel viale, fino a che il rosso del tramonto si tramutò nel grigio cenere dell'imbrunire, mi diressi alla porta d'ingresso di casa sua, esitai, ne valutai l'oscurità e il silenzio e cominciai a fare il giro della casa. Questa volta, dal salottino posteriore non veniva alcun barlume, ma alla viva e prosaica luce della cucina distinsi l'estremità di un tavolo verniciato di bianco a cui Sybil sedeva con un'espressione di tale rapimento sul viso da far supporre che avesse appena inventato una nuova ricetta. La porta di servizio era socchiusa e nell'istante in cui bussando l'aprivo e stavo per uscirmene con una frase gaiamente frivola, mi resi conto che Shade, seduto all'estremità opposta del tavolo, le stava leggendo qualcosa che immaginai essere una parte del poema. Entrambi trasalirono. A Shade sfuggì un'imprecazione impubblicabile e sbatté sul tavolo il mucchio di schede che aveva in mano. In seguito avrebbe attribuito quello scoppio emotivo al fatto di avere scambiato, a causa degli occhiali da lettura che aveva sul naso, un amico gradito per un piazzista importuno; tuttavia devo dire che mi sconvolse, mi sconvolse molto, e sul momento mi rese incline ad attribuire un significato odioso a tutto quanto seguì. «Allora, si sieda» disse Sybil «e prenda un caffè», (i vincitori sono generosi). Accettai, volevo vedere se la recitazione sarebbe proseguita in mia presenza. Non proseguì. «Credevo», dissi al mio amico «che saremmo andati a fare una passeggiata». Si giustificò dicendo che era indisposto, e continuò a pulire il fornello della pipa con ferocia, come se fosse il mio cuore ciò in cui stava scavando. Non soltanto capii allora che Shade leggeva regolarmente a Sybil lunghi brani del poema, ma si fa strada nella mia mente, adesso, anche la certezza che, altrettanto regolarmente, ella gli faceva attenuare o eliminare dalla Bella Copia del poema qualsiasi collegamento con lo splendido tema zemblano che io continuavo a prodigargli e che, non sapendo granché sull'opera in fieri, credevo appassionatamente avrebbe costituito il sontuoso ordito del suo tessuto. Sulla stessa collina boscosa, ma in posizione più elevata, sorgeva, e confido che sorga ancora, la vecchia casa di legno del Dr Sutton; ancora più in alto, proprio in cima, e l'eternità non riuscirà a farla sloggiare, c'è la villa ultramoderna del Prof. C., dalla cui terrazza si può intravedere, verso sud, il maggiore e il più triste dei tre laghi comunicanti, Omega, Ozero e Zero (nomi di origine pellerossa storpiati dai primi colonizzatori così da favorire derivazioni speciose e trite allusioni). Sul lato nord della collina, Dulwich Road si immette sulla strada principale che porta alla Wordsmith University, alla quale dedicherò qui soltanto poche parole, vuoi perché il lettore può ricevere tutte le informazioni che desidera richiedendo per iscritto gli opuscoli all'Ufficio Pubbliche relazioni dell'università, ma soprattutto perché, riservando a Wordsmith un accenno più breve delle note sulle abitazioni di Goldsworth e Shade, desidero rendere noto il fatto che la sua distanza da queste ultime era assai maggiore di quella esistente fra le due abitazioni. Forse è questa la prima volta che il dolore sordo della lontananza è reso mediante un effetto stilistico e che un concetto topografico trova espressione verbale in una serie di frasi dal taglio prospettico. Dopo aver serpeggiato verso est per circa sei chilometri attraverso una zona residenziale superbamente spruzzata e irrigata, con prati variamente livellati e variamente digradanti su entrambi i lati, la strada principale si biforca: un ramo volge a sinistra verso New Wye e relativo campo d'aviazione in attesa; l'altro ramo prosegue fino all'area occupata dall'università. Lì sono le grandi magioni della follia, i dormitori impeccabilmente progettati - manicomi di musica selvaggia -, lo splendido palazzo dell'amministrazione, edifici rivestiti di mattoni, gli archi, le corti quadrangolari dal nitido prato centrale di verde vellutato e crisopazio, Spencer House con il suo laghetto di ninfee, la cappella, la nuova sala conferenze, la biblioteca, l'edificio a guisa di carcere che ospita le nostre aule e i nostri uffici (d'ora in poi sarà chiamato Shade Hall), il famoso viale con tutti gli alberi citati da Shakespeare, un ronzio lontano di voci, un accenno di caligine, la cupola turchese dell'osservatorio, sbuffi e pallidi pennacchi di cirri, e, dietro la cortina di pioppi, il campo da football a gradinate come un anfiteatro romano, deserto nelle giornate estive, con l'eccezione di un bambino dagli occhi sognanti che fa volare in cerchi oziosi un ronzante aeromodellino, trattenuto da un lungo cavo di controllo. Buon Dio, fa qualcosa. Verso 49: noce Noce americano. Il nostro poeta condivideva con i grandi maestri inglesi la nobile inclinazione a trapiantare nei versi gli alberi, la loro linfa e la loro ombra. Molti anni fa, Disa, la nostra regina, consorte del nostro re, che prediligeva la jacaranda e il capelvenere, copiò nel proprio album una quartina dalla Coppa di Ebe, una raccolta di poemetti di John Shade, che non posso astenermi dal citare qui (trascrivo da una lettera che ricevetti il 6 aprile 1959 dalla Francia meridionale): L'ALBERO SACRO La foglia di ginkgo, color oro, quando cade, chicco d'uva moscata somiglia a una farfalla antiquata, dalle ali mal dispiegate. Quando fu costruita la nuova chiesa episcopale di New Wye, i bulldozer risparmiarono un arco di quegli alberi sacri piantati da un geniale architetto di giardini (Repsburg) al termine della cosiddetta Shakespeare Avenue, nel campus universitario. Non so se la cosa abbia importanza, ma il secondo verso contiene un gioco di parole gatto-topo; inoltre, in zemblano «albero» si dice grados. Verso 57: l'altalena fantasma di mia figlia piccina Dopo questo verso, nella minuta Shade ha cancellato con tratto leggero i versi seguenti: Buona è la luce; le lampade hanno il collo slanciato; e ogni porta una chiave. L'architetto moderno è in collusione con gli psicoanalisti: se progetta stanze da letto per i genitori, insiste su porte senza serrature, sì che, nel ricordare, il paziente futuro del futuro stregone troverà, pronta per lui, la Scena del Peccato Originale. Verso 61: Graffette immense di tivù Nel necrologio, per il resto insignificante, e decisamente insulso, si dà il caso che venga citata una poesia manoscritta (ricevuta da Sybil Shade) dicendola «composta dal nostro poeta, pare alla fine di giugno, quindi meno di un mese prima della morte del nostro poeta, trattandosi quindi dell'ultimo brano scritto dal nostro poeta». Eccola: L'ALTALENA Il sole calante che illumina spuntoni di graffette giganti di televisioni sui tetti; l'ombra del pomello che al tramonto sembra una mazza da baseball sulla porta; il cardinale che ama appollaiarsi e far cip cip, cip cip sull'albero, e sotto l'albero la piccola altalena che vuota oscilla: sono queste le cose che mi spezzano il cuore. Lascio decidere al lettore del mio poeta se sia credibile che egli abbia composto questi versi appena pochi giorni prima di ripeterne i temi miniaturizzati in questa parte del poema. Sospetto che si tratti di un tentativo molto precedente (non reca indicazione di data, ma dovrebbe risalire a poco dopo la morte della figlia) che Shade tirò fuori dalle sue vecchie carte per vedere se avrebbe potuto utilizzarlo per Fuoco pallido (il poema che il nostro necrologista non conosce). verso 62: spesso Spesso, quasi ogni notte, e per tutta la primavera del 1959, ho temuto per la mia vita. La solitudine è terreno di caccia di Satana. Non so descrivere l'abisso della mia solitudine e della mia angoscia. Naturalmente c'era il mio famoso vicino, proprio al di là del viale, e a un certo momento ho anche accolto in casa un giovane inquilino dissoluto (che era solito rientrare ben oltre la mezzanotte). Ma voglio insistere su quel duro e gelido nocciolo di solitudine che non è giovevole a un'anima esiliata. É risaputo che gli zemblani sono portati al regicidio: due regine, tre re, e quattordici pretendenti al trono sono morti di morte violenta, strangolati, pugnalati, avvelenati e affogati, nel corso di un solo secolo (1700-1800). Il castello dei Goldsworth diventava particolarmente solitario dopo il momento critico dell'imbrunire, che tanto somiglia al crepuscolo della mente. Fruscii furtivi, il cadere delle foglie della stagione andata, una brezza impercettibile, un cane che faceva il giro delle pattumiere - tutto suonava alle mie orecchie come indizio di un predatore assetato di sangue. Continuavo a spostarmi da una finestra all'altra, la papalina di seta fradicia di sudore, il petto denudato simile a uno stagno in disgelo, e talvolta, armato dello schioppo del giudice, osavo affrontare i terrori della terrazza. Suppongo sia stato allora, in quelle notti che passavano per primaverili, con i suoni della nuova vita dentro gli alberi che parodiavano crudelmente lo scricchiolio della vecchia morte nel mio cervello, suppongo sia stato allora, in quelle orrende notti, che presi l'abitudine di volgermi alle finestre del mio vicino sperando in un barlume di conforto. Cosa non avrei dato perché il poeta avesse un altro infarto, sì che io fossi chiamato a casa loro, tutte le finestre ardenti di luce, nel mezzo della notte, in una grande, calda esplosione di solidarietà, caffè, telefonate, ricette zemblane a base di erbe (operano miracoli!) e Shade che, risorto, piange fra le mie braccia («Su, su, John»). Ma in quelle notti di marzo la loro casa era buia come una bara. Quando poi lo sfinimento fisico e il gelo sepolcrale mi inducevano al fine a salire al piano superiore, al mio solitario letto matrimoniale, giacevo sveglio, trattenendo il fiato, come se soltanto allora, in quei momenti, stessi realmente vivendo le notti perigliose trascorse nel mio paese, dove, in qualsiasi istante un manipolo di esagitati rivoluzionari sarebbe potuto entrare per spingermi poi contro un muro illuminato dalla luna. Il passaggio di un automobile veloce o di un camion cigolante giungeva come una strana combinazione di amicale, vivifica salvezza e di spaventosa ombra mortifera: quell'ombra si sarebbe arrestata davanti alla mia porta? Venivano per me quei fantomatici assassini? Mi avrebbero fucilato immediatamente - oppure avrebbero riportato di nascosto lo studioso narcotizzato a Zembla la Rodnaja Zembla, per affrontare una bottiglia di cristallo abbagliante e una sfilza di giudici esultanti sui loro scranni inquisitori? A volte pensavo che l'autodistruzione fosse la mia unica speranza di raggirare gli assassini che si avvicinavano implacabili, e che erano in me, nei miei timpani, nel battito del mio polso, nel mio cranio piuttosto che su quella ininterrotta strada maestra che si avvolgeva a cappio sopra di me e attorno al mio cuore quando riuscivo finalmente ad appisolarmi, soltanto per farmi mandare il sonno in pezzi dal ritorno di quell'ubriacone, di quell'impossibile, indimenticabile Bob, al letto che era stato di Candida o di Dee. Come accennato nella Prefazione, alla fine lo buttai fuori; dopo di che, e per parecchie notti, né vino, né musica, né preghiera riuscirono a placare le mie paure. D'altra parte, quelle giornate di primavera inoltrata erano così dolci, le mie lezioni gradite a tutti, e non mancavo di presenziare a ogni occasione mondana che mi venisse offerta. Ma dopo la vivace serata, ecco di nuovo l'avvicinarsi insidioso, il subdolo strascichio di passi, quel salire furtivo, e quella pausa, e il crepitio che riprendeva. Il castello dei Goldsworth aveva numerose porte d'ingresso e, per quanto accuratamente le controllassi, come pure facevo con le imposte del pianterreno, la sera prima di coricarmi, il mattino seguente trovavo sempre qualcosa di sbloccato, disserrato, non fermato, socchiuso, qualcosa di maligno e di sospetto. Una notte il gatto nero, che alcuni minuti prima avevo visto ondeggiare verso il seminterrato, dove avevo sistemato la sua lettiera in una cornice attraente, ricomparve d'improvviso sulla soglia della sala da musica, nel bel mezzo della mia insonnia e di un disco di Wagner, con la schiena arcuata e facendo sfoggio di un fiocco di seta bianca attorno al collo che non poteva di certo essersi messo da solo. Telefonai all'11111 e, pochi minuti dopo, vagliavo con un agente, che gradì moltissimo il mio liquore di ciliegie, chi potesse essere il colpevole, ma chiunque fosse stato a introdursi in casa non aveva lasciato tracce. É così facile per una persona crudele convincere colui che è vittima del suo astuto ingegno di soffrire di manie di persecuzione, o di essere davvero nel mirino di un killer che s'accosta furtivo, o di avere allucinazioni. Allucinazioni! Sapevo fin troppo bene che tra alcuni giovani insegnanti, le cui avances avevo rifiutato, c'era almeno un burlone spietato; lo sapevo fin da quella volta che, rientrando da una riunione studenti-docenti molto simpatica e assai ben riuscita (durante la quale mi ero vivacemente liberato della giacca per mostrare a numerosi allievi interessati alcune divertenti prese praticate dai lottatori zemblani), trovai nella tasca della giacca un brutale biglietto anonimo su cui era scritto: «Soffri di al....i, sul serio, amico», intendendo evidentemente «allucinazioni», anche se un critico malevolo potrebbe inferire dal numero insufficiente di puntini che il piccolo Mr Anon non conosceva l'ortografia, nonostante insegnasse inglese alle matricole. Sono lieto di segnalare che poco dopo Pasqua le paure scomparvero per non ricomparire mai più. Un altro inquilino occupò la stanza di Alphina, o di Betty: Balthasar, Principe dell'humus, come lo soprannominai, che con la regolarità tipica delle forze naturali si addormentava alle ventuno e alle sei era già intento a piantare eliotropi (Heliotropium turgenevi). É questo un fiore che evoca con un'intensità senza tempo il crepuscolo, e il sedile in giardino, e una casa di legno verniciato in una lontana terra nordica. Verso 70: la nuova tivù A questo verso, nella minuta (in data 3 luglio), seguono alcuni altri versi senza numerazione che forse erano destinati a parti successive del poema. Non sono stati proprio cassati, bensì affiancati a margine da un punto interrogativo e circoscritti da una linea ondeggiante che si sovrappone ad alcune delle lettere: Eventi, strani accadimenti che colpiscono emblematici la mente. Come similitudini che vanno alla deriva, senza un filo, legate al nulla. Al pari di quel nordico monarca la cui evasione disperata dalla prigione riuscì solo in ragione di un pugno di seguaci, quaranta quella notte ne presero il sembiante, minandone la fuga. Non sarebbe mai riuscito a raggiungere la costa occidentale se la mania di impersonare il re fuggiasco non si fosse sparsa fra i suoi segreti sostenitori, scavezzacolli romantici ed eroici. Si vestirono in modo da sembrare il monarca, con maglione e berretto rossi, e saltarono fuori qua e là, disorientando completamente la polizia del governo rivoluzionario. Alcuni di quei mattacchioni erano assai più giovani del re, ma la cosa non aveva importanza dato che i suoi ritratti, nelle baite dei montanari e nei negozietti miopi dei villaggi, ove si potevano acquistare vermi, pampepato e lamette zhiletka, non erano invecchiati dal giorno dell'incoronazione. Un delizioso tocco umoristico si aggiunse alla nota vicenda quando, dalla terrazza dell'Hotel Kronblik la cui seggiovia conduce i turisti al ghiacciaio Kron, si vide un mimo fluttuare festoso verso l'alto, simile a una falena rossa, mentre, a due seggiolini di distanza, lo inseguiva un poliziotto tradito dalla fortuna nonché dal berretto, come in una sequenza al rallentatore. Fa piacere aggiungere che, prima di toccare la piattaforma d'arrivo, il falso re riuscì a fuggire scendendo lungo uno dei piloni di sostegno del cavo di trazione. Verso 71: i miei Con solerzia encomiabile, prima che fosse trascorso un mese dalla morte del poeta, il Professor Hurley compose un Elogio delle opere già pubblicate di John Shade. Uscì su una rivistucola letteraria, della quale non ricordo al momento il titolo, e mi fu mostrato a Chicago, dove mi ero trattenuto per un paio di giorni interrompendo il viaggio in automobile da New Wye a Cedarn, tra quelle desolate montagne autunnali. Un Commento nel quale dovrebbe regnare l'erudizione serena non è il luogo adatto per fare esplodere le pecche ridicole di quell'insignificante necrologio. Ho menzionato la cosa soltanto perché da lì ho potuto racimolare alcune scarne informazioni sui genitori del poeta. Il padre, Samuel Shade, che morì nel 1902 a cinquant'anni d'età, in gioventù aveva studiato medicina ed era vicepresidente di una ditta di strumenti chirurgici a Exton. Tuttavia, la sua grande passione era ciò che il nostro ispirato necrologista definisce «lo studio della tribù pennuta», aggiungendo che «il suo nome è stato dato a un uccello: il Bombycilla Shadez» (che dovrebbe essere shadez, naturalmente). La madre del poeta, née Caroline Lukin, lo aiutava nel suo lavoro, e illustrò mirabilmente il di lui Uccelli del Messico, che ricordo di avere visto in casa del mio amico. Ciò che il nostro necrologista ignora è che Lukin, come pure Locock e Luxon e Lukashevich, derivano tutti da Luke. É uno dei numerosi casi in cui un patronimico ereditario dall'apparenza amorfa, ma vivo e personale, cresce, a volte fino ad assumere forme fantastiche, attorno al comune sassolino di un nome cristiano. I Lukin sono un'antica famiglia dell'Essex. Altri nomi derivano da mestieri: per esempio, Rymer, Scrivener, Limner (il miniatore di pergamene), Botkin (fabbricante di bottekin, un tipo di calzatura di lusso) e migliaia d'altri. Il mio precettore, che era scozzese, chiamava hurley-house qualunque edificio vecchio e diroccato. Ma passiamo ad altro. I lettori di Shade possono ricavare alcuni ulteriori dettagli sugli studi universitari e sugli anni centrali di quella sua vita così singolarmente monotona dall'articolo del professore, che sarebbe stato nel complesso tedioso se certe particolari caratteristiche non l'avessero vivacizzato, ammesso che questo sia il termine adatto. Pertanto, esso contiene un solo cenno al capolavoro del mio amico (capolavoro che, mentre scrivo, giace al sole, sul mio tavolo, in pile ordinate come altrettanti lingotti di favoloso metallo), e lo trascrivo con malsano piacere: «Pare che, proprio alla vigilia della prematura dipartita, il nostro poeta stesse lavorando a un poema autobiografico». Le circostanze di quella morte sono completamente stravolte dal professore, fedele quanto fatale seguace dei signori della stampa quotidiana i quali, forse per ragioni politiche, avevano falsato il movente e le intenzioni dell'accusato senza attenderne il processo che sfortunatamente non si sarebbe tenuto in questo mondo (si veda, alla fine, la mia nota di chiusura). Ma, naturalmente, la caratteristica più sorprendente dell'insignificante necrologio è che esso non contiene nessun accenno alla fulgida amicizia che illuminò gli ultimi mesi di vita di John. Il mio amico non era in grado di ricordare l'aspetto del padre; egualmente il re, il quale non aveva ancora compiuto i tre anni alla morte del padre, non riusciva a rievocare il volto di re Alfin; tuttavia, strano a dirsi, ricordava alla perfezione il piccolo monoplano di cioccolato che egli, bimbetto grassottello, reggeva per caso tra le mani in quell'ultimissima fotografia (Natale 1918) del malinconico aviatore in calzoni da cavallerizzo sulle cui ginocchia egli, con riluttanza, era scomodamente adagiato. Alfin lo Svagato (1873-1918; r. 1900-1918, ma la maggior parte dei dizionari biografici indicano 1900-1919, una svista grossolana dovuta alla coincidenza con il cambiamento di calendario dallo stile giuliano a quello gregoriano) fu così denominato da Amphitheatricus, un non malvagio autore di poesia effimera per giornali progressisti (responsabile, inoltre, di avere ribattezzato Uranograd la mia capitale!). La distrazione di re Alfin non conosceva limitr. Pessimo linguista, poteva fare ricorso soltanto ad alcune frasi in francese e in danese, ma ogniqualvolta doveva tenere un discorso ai suoi sudditi un crocchio di bifolchi zemblani che lo guardavano a bocca aperta in qualche vallata remota dove era stato costretto a un atterraggio d'emergenza - nella mente gli scattava una molla incontrollabile ed egli si sintonizzava su quelle frasi, condite con un po' di latino per conferire loro un pizzico di colore locale. Quasi tutti gli aneddoti sulle sue innocenti crisi di distrazione sono troppo sciocchi e indecorosi per insudiciare queste pagine; tuttavia uno, che non ritengo particolarmente divertente. suscitò tali sghignazzate da parte di Shade (che mi furono poi riferite, con turpi aggiunte, in sala dei professori) da rendermi propenso a riportarlo qui, in qualità di esempio (e a titolo di rettifica). Un'estate, alla vigilia della prima guerra mondiale, nel corso di una visita assai insolita e lusinghiera che l'imperatore di un grande regno straniero (mi rendo conto quanti pochi siano quelli tra i quali scegliere) stava facendo al nostro piccolo e ruvido paese, mio padre condusse l'ospite, insieme con il giovane interprete zemblano (di cui non specifico il sesso), a fare una gita in campagna su un'automobile fuori serie appena acquistata. Com'era sua abitudine, re Alfin viaggiava senz'ombra di scorta, e questo, oltre alla sua guida vivace, pareva impensierire l'ospite. Sulla via del ritorno, a circa trenta chilometri da Onhava, re Alfin decise di fermarsi per qualche riparazione. Mentre egli armeggiava con il motore, l'imperatore e l'interprete si rifugiarono all'ombra di alcuni pini lungo la strada maestra, e soltanto una volta giunto a Onhava, re Alfin si rese conto a poco a poco, e in seguito a reiterate nonché alquanto frenetiche domande, di essersi lasciato dietro qualcuno («Quale imperatore?» è rimasto l'unico suo mot memorabile). In genere, per quanto riguarda i contributi da me portati (o ciò che ritenevo fossero contributi), più volte raccomandai al mio poeta di metterli comunque per iscritto, ma di non divulgarli in chiacchiere oziose; anche i poeti, tuttavia, sono esseri umani. La distrazione di re Alfin si abbinava bizzarramente alla passione per tutto ciò che era meccanico, soprattutto per gli apparecchi volanti. Nel 1912 riuscì a sollevarsi con un idroplano Fabre a forma d'ombrello e rischiò di annegare nel tratto di mare tra Nitra e Indra; fracassò due Farman, tre apparecchi zemblani, e un adorato Demoiselle Santos Dumont. Nel 1916 il colonnello Peter Gusev, suo fedele «aiutante aeronautico» (che sarebbe diventato un pioniere del lancio con il paracadute e, all'età di settant'anni, uno dei più grandi paracadutisti di tutti i tempi), gli costruì un monoplano davvero speciale, il Blenda IV, che divenne per lui l'ala del fato. In quella mattina di dicembre, serena e non troppo fredda, nella quale gli angeli decisero di prendere nella loro rete la sua anima pura e gentile, re Alfin stava tentando di ripetere in solitaria un rischioso cerchio della morte verticale che il principe Andrej Kachurin, il famoso specialista russo di volo acrobatico nonché eroe della prima guerra mondiale, gli aveva fatto vedere a Gatchina. Qualcosa non funzionò a dovere, e si vide il piccolo Blenda precipitare in picchiata, privo di controllo. Da un biplano Caudron, che si trovava alle spalle del velivolo e a un'altitudine superiore, il colonnello Gusev (allora già duca di Rahl) e la regina stavano scattando numerose istantanee di quella che a tutta prima parve un'evoluzione nobile ed elegante, ma che di lì a poco si tramutò in qualcosa d'altro. All'ultimo momento re Alfin riuscì a raddrizzare l'apparecchio e tornò a essere padrone della gravità, ma l'istante successivo il velivolo centrò in pieno l'impalcatura di un enorme albergo in costruzione nel bel mezzo di una landa costiera, quasi fosse stato messo lì apposta per sbarrargli la strada. La regina Blenda ordinò che quell'edificio incompleto e gravemente sventrato fosse raso al suolo e sostituito da un insulso monumento di granito sormontato da un improbabile modello di velivolo in bronzo. Un giorno Charles Xavier, che aveva all'epoca otto anni, scoprì nel cassetto di un secrétaire le lucide copie degli ingrandimenti fotografici con l'intera sequenza della sciagura. In alcune di quelle atroci immagini si scorgevano le spalle e il casco di cuoio dell'aviatore, stranamente sereno, e nella penultima della serie, immediatamente precedente a quella con l'indistinta macchia bianca dello schianto dirompente, lo si distingueva chiaramente nell'atto di alzare un braccio in segno di trionfo e rassicurazione. Il bambino fece sogni orribili dopo l'episodio, ma la madre non scoprì mai che egli aveva visto quei documenti infernali. Di lei conservava un vago ricordo: un'amazzone alta, solida, robusta, dal viso rubicondo. Un cugino di sangue reale le aveva assicurato che il figlio sarebbe stato al sicuro e felice sotto la tutela dell'ottimo Mr Campbell, il quale aveva insegnato a numerose e obbedienti principessine a conservare le farfalle e ad apprezzare Lord Ronalds Coronach. Egli aveva immolato la propria vita, per così dire, sull'altare portatile di un gran numero di interessi, dallo studio degli acari dei libri alla caccia all'orso, ed era in grado di sciorinare tutto d'un fiato il Machbet nel corso di una escursione; tuttavia, non gl'importava un fico secco della moralità di coloro che erano affidati alle sue cure, preferiva le donzelle ai giovanetti, e non si immischiava nelle complessità dei focolari zemblani. Se ne andò, alla volta di qualche corte esotica, dopo dieci anni di soggiorno, nel 1932, quando il nostro principe, allora diciassettenne, aveva iniziato a dividere il proprio tempo fra l'università e il suo reggimento di appartenenza. Fu il più bel periodo della sua vita. Non sapeva mai decidere che cosa preferisse: se lo studio della poesia, soprattutto inglese, o assistere alle parate, oppure danzare ai balli in maschera con ragazzi-femmina e ragazze-maschio. La regina morì improvvisamente il 21 luglio 1936 a causa di una misteriosa malattia del sangue che già aveva afflitto sua madre e sua nonna. Il giorno precedente la dipartita si era sentita molto meglio, e Charles Xavier era andato a un ballo, che si era concluso all'alba, nel cosiddetto Palazzo ducale di Grindelwod: per quella volta, una faccenda dichiaratamente eterosessuale, alquanto rilassante dopo gli svaghi che l'avevano preceduta. All'incirca alle quattro, con il sole che accendeva le cime degli alberi e il monte Falk, facendolo somigliare a un roseo cono, il re fermò la sua potente automobile davanti a uno dei cancelli del palazzo. L'aria era così fine, la luce così lirica che egli e i tre amici che erano con lui decisero di attraversare a piedi il boschetto di tigli che li separava dal Padiglione dei pavoni nel quale alloggiavano gli ospiti. Sia lui che Otar, un amico platonico, indossavano il frac, ma i cilindri erano andati perduti nel vento della strada. Qualcosa di strano colpì i quattro, fermi sotto i giovani tigli nel composto paesaggio di pendenze e contropendenze fortificate da ombre e contrombre. Otar, un giovane di nobile famiglia, piacevole e istruito, con un naso enorme e radi capelli, era accompagnato dalle sue due amanti, la diciottenne Fifalda (che in seguito avrebbe sposato) e la diciassettenne Fleur (che incontreremo nuovamente in altre due note), figlie della contessa de Fyler, dama di compagnia preferita della regina. Viene spontaneo soffermarsi su quel quadretto, come quando, stando in un punto d'osservazione privilegiato del tempo, sappiamo retrospettivamente che nello spazio di un attimo la nostra vita subirà un cambiamento totale. Dunque, c'è Otar che guarda perplesso le finestre lontane degli appartamenti della regina, e le due ragazze, fianco a fianco, avvolte in luccicanti mantelli, le gambe sottili, i rosei nasetti da gattina, i verdi occhi assonnati, gli orecchini che catturano e rinviano il fulgore del sole. C'era qualche altra persona in giro come sempre a qualsiasi ora, presso quel cancello lungo il quale correva una strada che si immetteva nella superstrada orientale. Una contadina, con una piccola torta da lei stessa preparata certamente la madre della sentinella che non era ancora giunta a dare il cambio al giovane bruno e non sbarbato, il nattdett (figlio della notte) che stava nella garitta desolata -, sedeva su uno sperone di roccia e guardava con femmineo rapimento la luce delle candele che, simili a lucciole, passavano di finestra in finestra; due operai, immobili con le loro biciclette, fissavano anch'essi quelle strane luci; e un ubriaco dai baffi spioventi si aggirava barcollante dando pacche affettuose ai tronchi dei tigli. Nei momenti in cui la vita pare rallentare, si colgono i particolari più trascurabili. Il re notò che sul telaio delle biciclette c'era qualche schizzo di fango rossastro e che le ruote anteriori di entrambe erano parallele, voltate nella stessa direzione. D'improvviso, da un ripido sentiero tra siepi di lillà - una scorciatoia dagli appartamenti della regina - apparve la contessa correndo e inciampando nell'orlo della lunga e ampia veste trapuntata, mentre contemporaneamente, da un altro lato del palazzo, tutti e sette i consiglieri, nella pompa degli abiti da cerimonia e reggendo a mo' di plum-cake gli esemplari delle varie insegne regali, scendevano con dignitosa urgenza la scalinata di pietra, ma ella li batté per un soffio e sputò fuori la notizia. L'ubriaco cominciò a cantare una ballata licenziosa su «Karlie-Garlie» e cadde nel fossato a forma di mezzaluna. Non è facile descrivere con chiarezza nelle brevi note di commento a un poema le diverse vie d'accesso a un castello fortificato, e quindi, conscio della difficoltà, avevo preparato per John Shade - era giugno quando gli raccontavo gli avvenimenti cui accenno in alcune glosse - una pianta piuttosto ben disegnata degli appartamenti, terrazze, bastioni e luoghi di ricreazione del palazzo di Onhava. A meno che non sia stato distrutto o rubato, quel disegno, eseguito con inchiostri di vari colori su un grande cartone (settantacinque centimetri per cinquanta) potrebbe ancora essere nel luogo ove lo vidi per l'ultima volta a metà luglio, sopra il grande baule nero, di fronte al vecchio mangano, in una nicchia del corridoietto che conduce alla cosiddetta dispensa della frutta. Se non fosse lì, lo si potrebbe cercare nello studio di Shade al primo piano. Al riguardo ho scritto a Mrs Shade, ma lei non risponde alle mie lettere. Nell'eventualità che esso esista ancora, vorrei supplicarla, sommessamente e con la massima umiltà, la stessa umiltà con cui il più infimo suddito del re potrebbe impetrare la reintegrazione immediata nei propri diritti (il disegno è mio ed è ben visibile la firma «Kinbote» seguita dalla corona del re nero degli scacchi), di spedirlo, ben imballato, con l'indicazione «Non piegare» sull'involucro esterno, e a mezzo raccomandata, al mio editore affinché possa riprodurlo in edizioni future della presente opera. Quali che fossero le energie di Cui disponevo in passato, esse mi hanno abbandonato ultimamente, e cefalee atroci non mi consentono ora lo sforzo mnemonico e visivo che un nuovo disegno della pianta richiederebbe. Il baule nero è collocato sopra un altro, più grande, marrone o brunastro, e mi pare che lì vicino, in quell'angolo buio, ci sia una volpe impagliata, o un coyote. Verso 79: Cultore del preterito A lato di questo verso, sul margine della minuta, ci sono due versi, dei quali solo il primo è decifrabile. Esso recita: La sera è il momento in cui lodare il giorno Sono abbastanza certo che il mio amico stesse cercando di incorporare, a questo punto, qualcosa che egli e Mrs Shade mi avevano sentito citare nei momenti di maggiore spensieratezza, e cioè una quartina incantevole del corrispondente zemblano dell'Édda in poesia, in un'anonima traduzione inglese (di Kirby?): Il saggio, a sera, loda il giorno, la moglie, quand'ella non è più il ghiaccio alle spalle lasciato, la sposa che ha montato, e il cavallo cavalcato. Verso 80: la mia camera Il mio principe voleva bene a Fleur come a una sorella, ma senza romantica ombra di incesto o di complicazioni omosessuali secondarie. Ella aveva un viso pallido, minuto, con zigomi prominenti, occhi luminosi e ricciuti capelli scuri. Si mormorava che dopo essere andato vagando per mesi, munito di una coppetta di porcellana e di una pianella di Cenerentola, lo scultore e poeta ciel bel mondo Arnor avesse trovato in lei ciò che stava cercando, e avesse fatto ricorso ai di lei seni e piedi per il suo Li lith che richiama Adamo; ma non sono certamente un esperto in tali delicate faccende. Otar, il suo amante, diceva che quando le si camminava dietro, ed ella era consapevole che stavate alle sue spalle, l'oscillazione e il gioco di quelle anche snelle aveva qualcosa d'intensamente artistico, qualcosa che veniva insegnato alle ragazze arabe in scuole speciali da speciali mezzani parigini che, dopo, finivano strangolati. Le fragili caviglie, che, diceva Otar, ella accostava assai in quell'andatura aggraziata e ondeggiante, erano i «gioielli prudenti» del poema di Arnor su di una miragarl («fanciulla-miraggio») per la quale «un re dei sogni nei deserti sabbiosi del tempo avrebbe dato trecento cammelli e tre fonti». On ságaren verem tremkin tristàna Verbàlala vod ghevu ut tri phantána (ho indicato gli accenti tonici). Il principe non faceva caso a quelle chiacchiere di cattivo gusto (tutte, probabilmente, orchestrate dalla di lei madre) e la considerava, è bene reiterarlo, semplicemente una sorella, fragrante di profumi e alla moda, con la bocca imbronciata dipinta di rossetto, e un modo maussade, confuso, gallico, di esprimere quel poco che desiderava esprimere;l'imperturbabile villania con la quale trattava la nervosa e garrula contessa lo divertiva. Gli piaceva ballare con lei, e soltanto con lei. Non provava quasi affatto imbarazzo quando ella gli accarezzava la mano o si dedicava silenziosamente, con le labbra socchiuse, alla sua guancia che l'alba esausta del dopoballo aveva già punteggiato di fuliggine. Fleur non sembrava rammaricarsi quando egli l'abbandonava per applicarsi a piaceri più virili; e lo accoglieva ancora, nell'oscurità di un'automobile o nella luce soffusa di un cabaret, con il sorriso pacato e ambiguo di una parente stretta. I quaranta giorni che intercorsero fra la morte della regina Blenda e l'incoronazione furono forse il periodo più penoso della sua vita. Non aveva provato affetto alcuno per la madre, e il rimorso disperato e impotente che sentiva degenerò in un malsano terrore fisico del suo spettro. La contessa, che sembrava essergli sempre vicina sempre frusciante al suo fianco, lo convinse a partecipare a sedute spiritiche con un esperta medium americana, sedute durante le quali lo spirito della regina, facendo muovere lo stesso tipo di planchette che ella aveva usato durante tutta la sua vita per comunicare con Thormodus Torfaeus e con A.R. Wallace, scriveva ora bruscamente in inglese : «Charles prendi prendi prediligi amore fiore fiore fiore». Un anziano psichiatra, corrotto dalla contessa a tal punto che perfino nell'aspetto esteriore somigliava a una pera putrida, assicurava al principe che erano stati proprio i suoi vizi, agendo in modo inconscio, a uccidere la madre, e avrebbero continuato «a ucciderla in lui», se egli non avesse rinunciato alla sodomia. Un intrigo di palazzo è un ragno spettrale nella cui rete resti sempre più perfidamente impigliato ogniqualvolta tenti, con un disperato strattone, di liberarti. Il nostro principe era giovane, inesperto e semidelirante a causa dell'insonnia. Non lottava affatto. La contessa spese un patrimonio per corrompere il kamergrum (valletto di camera) del principe, la sua guardia del corpo, e finanche, quasi per intero, il ciambellano di corte. Ella prese l'abitudine di dormire in una piccola anticamera contigua alla camera da letto da scapolo del principe, un appartamento splendido, spazioso, di forma circolare, alla sommità dell'alta e imponente Torre Sudovest. Un tempo ritiro del padre, l'ambiente era ancora collegato, per mezzo di un piacevole scivolo nella parete, a una piscina rotonda posta nell'atrio sottostante, talché il giovane principe poteva iniziare la giornata, come già usava il defunto sovrano, facendo scorrere un pannello a lato della sua branda da campo e rotolando nel condotto, donde sfrecciava giù direttamente nell'acqua luccicante. Per necessità che non fossero quelle del sonno, Charles Xavier aveva sistemato nel centro del pavimento, coperto da un tappeto persiano, un cosiddetto «patifolia», ossia un enorme cuscino, ovale, lussuosamente ornato di balze e imbottito di piume di cigno, vasto come un letto a tre piazze. E in quell'ampio nido dormiva ora Fleur, raggomitolata nell'avvallamento centrale, sotto un copriletto di autentica pelliccia di panda gigante, inviato sollecitamente dal Tibet per iniziativa di un gruppo di ammiratori asiatici in occasione dell'ascesa al trono. L'anticamera nella quale si era sistemata la contessa aveva la propria scala interna e il proprio bagno, ma comunicava anche con la Galleria Ovest per mezzo di una porta scorrevole. Non so quali consigli o quali ordini Fleur avesse ricevuto dalla madre, ma la piccola creatura si dimostrò una seduttrice scadente. Insisteva, come una pazza tranquilla, nel tentativo di aggiustare una viola d'amore rotta, oppure, seduta in pose dolenti, cercava di mettere a confronto due flauti antichi, entrambi dal suono spento e fievole. Nel frattempo, egli, abbigliato alla turca, stava stravaccato nell'ampia poltrona paterna, le gambe sopra un bracciolo, a scorrere un volume della Historia Zemblica, copiandone dei passi ed estraendo, di quando in quando, dai recessi inferiori della poltrona un paio di antiquati occhialoni da automobilista, un anello con opale nero, una palla di carta da cioccolatini argentata, o la stella di una onorificenza straniera. Faceva caldo nel riverbero del sole al tramonto. Il secondo giorno della loro ridicola coabitazione, ella non indossava null'altro che una specie di giacca di pigiama, senza bottoni e senza maniche; la vista dei quattro arti ignudi e delle tre tane-di-topo (anatomia zemblana) lo irritava e, mentre percorreva a grandi passi la stanza meditando sul discorso dell'incoronazione, Charles Xavier gettava verso di lei, senza guardare nella sua direzione, ora le mutandine, ora l'accappatoio di spugna. A volte, ritornando alla vecchia e comoda poltrona, ve la trovava, intenta a contemplare con aria afflitta la figura di un bogtur (antico guerriero) nel volume di storia. La spingeva fuori della poltrona senza distogliere gli occhi dal bloc-notes, ed ella, stiracchiandosi, si spostava sul sedile presso la finestra, in un polveroso raggio di sole; ma, poco dopo, cercava di rannicchiarglisi vicino, ed egli doveva allontanare con una mano quella massa di riccioli neri che cercava di scavarsi un recesso, mentre con l'altra scriveva oppure staccava a uno a uno i piccoli artigli rosei dalla sua manica o dalla fusciacca. Di notte la presenza di Fleur non neutralizzava l'insonnia, ma, se non altro, teneva a bada il robusto fantasma della regina Blenda. Tra lo sfinito e l'insonnolito, egli si trastullava con ghiribizzi meschini come, ad esempio, alzarsi e con una caraffa versare un po' d'acqua fredda sulla spalla nuda di Fleur, a spegnervi il debole bagliore di un raggio lunare. La contessa russava fragorosamente nella sua tana. Ma, oltre il vestibolo della veglia (e a questo punto egli cominciava a scivolare nel sonno), nella galleria buia e gelida, distesi ovunque sul marmo policromo, ammucchiati l'uno sull'altro in tre o quattro contro la porta chiusa a chiave, alcuni appisolati, altri piagnucolanti, stavano i suoi nuovi paggi, un'intera montagna di fanciulli ricevuti in dono da Troth, e dalla Toscana, e dalla terra di Albano. Al risveglio la trovava in piedi, con un pettine in mano, davanti al suo specchio a bilico - o meglio, davanti allo specchio a bilico di suo nonno -, un trittico di luce senza fondo, uno specchio veramente stupendo, firmato con un diamante dall'artigiano che lo aveva fabbricato, Sudarg di Bokay. Ella ruotava su se stessa davanti allo specchio che, grazie a un segreto gioco di angoli di riflessione, accostava nelle sue profondità una sequenza infinita di nudi, ghirlande di fanciulle in gruppi aggraziati e afflitti i quali svanivano gradualmente nella limpida distanza, o si scindevano in singole ninfe alcune delle quali, ella mormorava, dovevano somigliare alle sue antenate negli anni di gioventù - piccole garlien contadine che si pettinavano i capelli nell'acqua bassa a perdita d'occhio -, e poi la nostalgica sirena di un'antica leggenda, e poi il nulla. La terza notte si udì provenire dalla scala interna uno scalpiccio di passi pesanti e clangore di armi; irruppero nella stanza il Primo consigliere, tre Rappresentanti del popolo, e il comandante delle nuove guardie del corpo. Cosa divertente, erano proprio i Rappresentanti del popolo i più furibondi all'idea di avere per regina la nipote di uno strimpellatore di violino. Quella fu la fine del casto idillio di Charles Xavier e Fleur, che era graziosa, certo non repellente (come alcuni gatti sono meno ripugnanti di altri per il cane bonario al quale è stato ordinato di sopportare gli aspri effluvi di un genere alieno). Le due dame ritornarono nella dépendance del palazzo con le loro bianche valigie e i loro strumenti musicali obsoleti. Seguì un dolce brivido di sollievo - poi la porta scorrevole dell'anticamera si aprì con un tonfo giocondo e l'intero mucchio di putti capitombolò all'interno. Avrebbe dovuto superare una prova ben più drammatica tredici anni dopo con Disa, duchessa di Payn, sposata nel 1949, che gli studiosi del poema di Shade incontreranno a tempo debito; non c'è alcuna fretta. Seguì una serie di fresche estati. La povera Fleur si aggirava ancora nei paraggi, anche se in modo meno evidente. Disa le stette accanto dopo che la vecchia contessa perì nel vestibolo affollato dell'Esposizione di Animali di vetro del 1950, parte della quale fu quasi distrutta dal fuoco, mentre Gradus aiutò i pompieri a sgomberare un'area della piazza per il linciaggio degli incendiari non sindacalizzati, o almeno delle persone (due sconcertati turisti danesi) erroneamente scambiate per quelli. Forse la nostra giovane regina provò una inspiegabile compassione nei confronti della sua pallida dama di compagnia che di quando in quando il re intravedeva intenta a miniare il programma di un concerto nell'obliquo fascio di luce di una finestra ogivale oppure udiva suonare una musica dal timbro metallico nel Padiglione B. Altri riferimenti alla splendida camera da letto dei suoi giorni da scapolo si trovano nella nota al verso 130, descritta come luogo di «lussuosa prigionia» all'inizio della tediosa e inutile Rivoluzione zemblana. Versi 84-85: che aveva visto il Papa Pio X, Giuseppe Melchiorre Sarto, 1835-1914; Papa dal 1903 al 1914. Versi 86-90: zia Maud Maud Shade, 1869-1950, sorella di Samuel Shade. Alla di lei morte, Hazel (nata nel 1934) non era precisamente una «piccola nipote» come suggerirebbe il verso 90. Trovai i suoi dipinti sgradevoli ma interessanti. Zia Maud non aveva affatto un carattere da zitella, e il suo spirito stravagante e sardonico talvolta deve avere sconcertato le distinte dame di New Wye. Versi 91-93: Futili cose, ecc Nella minuta, invece del testo definitivo ... intatta è rimasta la sua stanza. Quelle futili cose per noi fanno rivivere il suo stile: il sarcofago-foglia (un bozzolo di Luna morto e rinsecchito) Riferimento all'Actias luna che il mio dizionario definisce come «una grande farfalla notturna verde pallido, caudata, il cui bruco si nutre delle foglie del noce americano». Sospetto che Shade abbia modificato questo passaggio perché il nome della sua falena risultava disarmonico rispetto a «Plenilunio», due versi dopo. Verso 91: Futili cose Tra di esse c'era un album sul quale, nel corso di anni (1937-1949), zia Maud aveva incollato ritagli di giornale di natura involontariamente ridicola o grottesca. Un giorno, John Shade mi permise di prendere un appunto, trascrivendo il primo e l'ultimo della serie; si richiamavano l'un l'altro assai simpaticamente, pensai. Entrambi provenivano dalla medesima rivista per famiglie, «Life», meritatamente nota per il pudico riserbo quanto a misteri del sesso maschile; si può quindi immaginare la sorpresa e l'eccitazione di quelle famiglie: il primo ritaglio proviene dal numero del 10 maggio 1937, p. 67, e contiene la pubblicità della Chiusura lampo per Pantaloni Artiglio (a proposito, nome alquanto prensile e doloroso); si vede un giovanotto, irraggiante virilità, tra numerose amiche estatiche, e la scritta dice: «Rimarrete sbalorditi nel constatare che la patta dei vostri pantaloni può essere migliorata in modo tanto sensazionale». Il secondo proviene dal numero del 28 marzo 1949, p.126, ed è la pubblicità delle Mutande Foglia di fico Hanes. Un'Eva moderna sbircia adorante, da dietro un albero della conoscenza in vaso, un giovane Adamo voglioso che indossa l'indumento pubblicizzato un paio di mutande piuttosto ordinarie, ma pulite, la cui parte anteriore è vistosamente e fittamente ombreggiata; la scritta dice: «Non c'è niente di meglio di una foglia di fico». Sono certo che esiste uno speciale gruppo sovversivo di pseudocupidi: diavoletti paffuti e glabri che Satana incarica di operare disgustosi malestri in luoghi consacrati. Verso 93: il fermacarte Strano come l'immagine di quegli antiquati orrori ossessionasse il nostro poeta. Ho ritagliato, da un giornale che l'ha ripubblicata di recente, una vecchia poesia di Shade, in cui anche il negozio di souvenirs serba un panorama ammirato dal turista: VEDUTA MONTANA Fra la montagna e l'occhio la fata della distanza tende un amoroso velo di crespo azzurro, la trama autentica del cielo. Sfiora una brezza i pini, e io mi unisco al generale applauso. Ma tutti noi sappiamo che non può durare, troppo fragile è la montagna per aspettare anche se riprodotta e soffiata nel vetro dentro di me, come in un fermacarte. Verso 98: su battuta di Chatman É un riferimento al titolo del famoso sonetto di Keats (citato spesso in America) che, per colpa della sbadataggine di un tipografo, è stato comicamente spostato da un altro articolo alla cronaca di un avvenimento sportivo. Versi 100-101: Un uomo libero non sa che farsene di un Dio Quando si considerano gli innumerevoli pensatori e poeti nella storia della creatività umana la cui libertà di pensiero fu accresciuta, anziché arrestata, dalla Fede, è giocoforza dubitare della saggezza di tale facile aforisma. Verso 109: iridula Una nuvoletta iridescente, muderperwelk in zemblano. Credo che il termine «iridula» sia un'invenzione di Shade. Sopra di esso, nella Bella Copia (scheda 9, 4 luglio), ha scritto a matita «barba di penne di pavone». La barba delle penne di pavone è usata come esca per una particolare pesca a mosca detta anche «alder». Così mi dice il proprietario di questo motel, che è un appassionato pescatore. (Si veda anche «strani iridescenti luccichii» dei versi 633-634). Verso 119: Dr Sutton Si tratta della riaggregazione di lettere prese da due nomi, l'uno che inizia con «Sut», l'altro che finisce con «ton». Due eminenti uomini di medicina, da molto tempo ritiratisi dalla professione, abitavano sulla nostra collina. Entrambi erano vecchi amici di Shade; uno aveva una figlia, presidentessa del circolo di Sybil: è il Dr Sutton. Versi 120-121: cinque minuti equivalevano a mille e rotti grammi, ecc. Sul margine sinistro, parallelo ai versi: «Nel Medioevo un'ora corrispondeva a 480 once (1360 grammi) di sabbia fine, ovvero 22560 atomi». Non sono in grado di controllare quest'affermazione o i calcoli fatti dal poeta per quanto riguarda i suddetti cinque minuti, cioè trecento secondi, dato che non vedo come si possa dividere 480 per 300 o viceversa, ma forse è soltanto perché sono stanco. Il giorno (4 luglio) in cui John Shade ha scritto ciò, Gradus il Sicario si accingeva a partire da Zembla per dar corso all'ininterrotta serie delle sue maldestre goffaggini nei due emisferi. Verso 130: non ho mai rilanciato una palla, roteato la mazza A essere sincero, neppure io ho mai primeggiato nel gioco del calcio o del cricket; sono un passabile cavaliere, uno sciatore vigoroso anche se non ortodosso, un buon pattinatore, un lottatore astuto, e un rocciatore appassionato. Nella minuta, il verso 130 è seguito da quattro strofe che Shade scartò preferendo la continuazione che appare sulla Bella Copia (verso 131, ecc.). Quel falso inizio dice: Come bambini che giocando in un castello trovano in un vecchio ripostiglio, stracolmo di balocchi, dietro animali e maschere, una porta scorrevole [quattro parole cancellate con forza), un segreto corridoio... La similitudine è rimasta sospesa. Presumibilmente il nostro poeta intendeva aggiungerla al racconto della scoperta accidentale di una qualche verità misteriosa durante gli svenimenti della sua adolescenza. Non so dire quanto mi dispiaccia che abbia scartato questi versi. Me ne rammarico non soltanto per la loro intrinseca bellezza, che è notevole, ma anche perché l'immagine in essi racchiusa era stata suggerita da qualcosa che Shade aveva saputo da me. Ho già accennato, nel corso di queste note, alle avventure di Charles Xavier, ultimo re di Zembla, e al vivo interesse che il mio amico manifestava per i molti racconti che gli facevo riguardo a quel re. La scheda sulla quale è conservata la variante porta la data del 4 luglio, ed è la diretta risonanza delle nostre passeggiate serotine lungo i viali profumati di New Wye e Dulwich. «Raccontami qualche altra cosa» mi diceva, battendo la pipa contro il tronco di un faggio per svuotarla, e mentre la nuvola colorata indugiava, e mentre lontano, nella casa illuminata sulla collina, Mrs Shade se ne stava tranquillamente seduta a godersi uno sceneggiato televisivo, io acconsentivo con gioia alla richiesta del mio amico. In parole semplici descrissi la strana situazione nella quale il re venne a trovarsi durante i primi mesi della rivoluzione. Provava la sensazione divertente di essere l'unico pezzo nero in ciò che un solutore di problemi scacchistici potrebbe definire una situazione di rex solus in stallo. I Realisti o, quanto meno, i Dem (Democratici Moderati) avrebbero ancora potuto evitare che lo Stato si trasformasse in una banale tirannide moderna, se fossero riusciti a resistere all'oro della corruzione e alle truppe robotiche che un potente Stato di polizia riversava nella Rivoluzione zemblana, situato com'era in un area propizia, a poche miglia marine di distanza. Nonostante la situazione fosse disperata, il re si rifiutò di abdicare. Prigioniero sdegnoso e cupo, fu rinchiuso nella gabbia del suo palazzo in pietra rosa, da una torretta d'angolo dal quale era possibile distinguere, con l'ausilio di un binocolo, giovani flessuosi che si tuffavano nella piscina di un fiabesco circolo sportivo, e l'ambasciatore inglese che, in antiquati pantaloni di flanella, giocava a tennis con l'allenatore basco su un campo di terra battuta, remoto quanto il paradiso. Come erano serene le montagne, come teneramente apparivano dipinte sulla volta occidentale del cielo! Ogni giorno, in un qualche punto della città brumosa, si verificavano disgustosi scoppi di violenza, arresti ed esecuzioni, ma la vita della grande città continuava a scorrere come sempre, i caffè erano affollati, splendide rappresentazioni andavano in scena al Teatro reale, ed era proprio il palazzo il luogo a maggior concentrazione di tetraggine. Komizars dal volto di pietra e dalle spalle quadrate imponevano una disciplina severa alle truppe in servizio sia all'interno che all'esterno. La prudenza puritana aveva fatto sigillare tutte le cantine e allontanare le servette dall'ala sud. Naturalmente, le dame di compagnia se ne erano andate molto prima, quando il re aveva esiliato la regina nella di lei villa sulla riviera francese. Grazie a Dio, le furono risparmiati quei giorni spaventosi nel palazzo insozzato! Le porte di tutte le stanze erano sorvegliate; la sala dei banchetti aveva tre sentinelle, e altre quattro oziavano nella biblioteca, i cui recessi bui parevano dare ricetto alle ombre del tradimento. Le stanze da letto dei pochi servitori di palazzo rimasti avevano tutte il proprio parassita che beveva rum proibito con un vecchio maggiordomo o si prendeva delle libertà con un giovane paggio. E nell'ampia Sala degli araldi si poteva essere certi di trovare sempre qualche sguaiato burlone che cercava di entrare a forza nella panoplia d'acciaio di vuoti cavalieri. E che fetore di cuoio e capra nelle stanze spaziose, una volta profumate di garofani e lillà! Quell'orribile brigata era costituita di due gruppi principali di individui: coscritti ignoranti e dall'aspetto feroce, ma in realtà piuttosto innocui, originari di Thule, ed Estremisti taciturni e garbatissimi provenienti dalla famosa Vetreria nella quale erano guizzate le prime fiammelle della rivoluzione. Ora si può rivelare (in quanto la persona in questione è al sicuro, a Parigi) che quest'ultimo contingente includeva almeno un realista eroico, camuffato tanto abilmente che al suo confronto erano le fiduciose guardie sue colleghe a sembrare dei mediocri imitatori. In realtà, Odon era uno dei più noti attori zemblani, applaudito al Teatro reale nelle serate in cui nort era in servizio. Per il suo tramite il re manteneva i contatti con numerosi seguaci, giovani nobili, artisti, atleti universitari, giocatori d'azzardo, Paladini della Rosa nera, soci di circoli di scherma, esponenti del bel mondo e avventurieri. Correvano voci d'ogni genere. Si diceva che entro breve tempo il prigioniero sarebbe stato giudicato da un tribunale speciale; ma si diceva anche che sarebbe stato fucilato mentre veniva apparentemente trasferito in un diverso luogo di prigionia. Benché si parlasse ogni giorno di fuga, i piani dei cospiratori avevano pregi più estetici che pratici: una potente barca a motore era stata approntata in una grotta marina nei pressi di Blawick (la Cala azzurra) sul versante occidentale di Zembla, oltre la catena di alti monti che separa la città dal mare; immaginare i riflessi delle tremule acque trasparenti sulle pareti rocciose e sull'imbarcazione era seducente, ma non uno degli ideatori di siffatti piani era in grado di suggerire come avrebbe fatto il sovrano a evadere dal castello e superare sano e salvo le fortificazioni. Un giorno d'agosto, all'inizio del terzo mese della sua lussuosa prigionia nella Torre Sudovest, il re fu accusato di usare lo specchio con impugnatura di uno zerbinotto e i collaborativi raggi del sole per inviare segnali luminosi dall'alto della sua finestra. La vastità del panorama che si godeva da lassù fu accusata, oltre che di propiziare il tradimento, di generare in colui che guardava dall'alto un senso altezzoso di superiorità sui carcerieri alloggiati più in basso. Di conseguenza, una sera il re fu trasferito, branda e gavetta, in uno squallido deposito di mobilia sul medesimo lato del castello, ma al primo piano. Molti anni addietro quello stanzone era stato lo spogliatoio del nonno del re, Thurgus III. Dopo la sua morte (1900), la di lui sfarzosa camera da letto era stata trasformata in una specie di cappella, e la stanza adiacente a essa, previa tosatura dello specchio multiplo a tutt'altezza e del divano di seta verde, si ridusse ben presto a ciò che era ormai da mezzo secolo, un vecchio buco con un baule chiuso a chiave in un angolo e una macchina per cucire antiquata nell'altro. Vi si giungeva da una galleria lastricata di marmo che lo costeggiava sul lato nord per poi piegare bruscamente verso ovest, formando un vestibolo nell'angolo sudovest del palazzo; l'unica finestra si affacciava su una corte interna, dal lato sud. Una volta quella finestra era stata uno stupendo spazio onirico di vetri colorati, con un uccello di fuoco e un abbagliato cacciatore; ma di recente un pallone da calcio aveva mandato in frantumi la fiabesca scena nella foresta e ora il nuovo vetro, di ordinaria fattura, era protetto da sbarre all'esterno. Sulla parete ovest, sopra un armadio a muro imbiancato a calce, era appesa una grande fotografia in una cornice di velluto nero. L'azione fugace e lieve, ma reiterata all'infinito, di quello stesso sole accusato di inviare messaggi dalla torre aveva a poco a poco steso una patina sulla fotografia che ritraeva il romantico profilo e le generose spalle nude di Iris Acht, attrice dimenticata, della quale si diceva che fosse stata per parecchi anni, fino alla morte improvvisa avvenuta nel 1888, l'amante di Thurgus. Sulla parete opposta, quella a est, una porta dall'aspetto frivolo e dello stesso color turchese dell'unica altra porta esistente (che immetteva nella galleria), ma saldamente chiusa con un chiavistello di ferro, un tempo introduceva nella camera da letto del vecchio libertino; adesso aveva perduto il pomello di cristallo e le erano state appese accanto, sulla parete est, due incisioni, qui esiliate nel periodo di decadenza della stanza. Appartenevano a quel genere di dipinti che non sono fatti per essere davvero guardati, che esistono soltanto come idea generica di dipinto per soddisfare le umili esigenze decorative di un corridoio o di una sala d'attesa: la prima era una Fête flamande malandata e lugubre d'après Terniers; l'altra proveniva dalla stanza dei bambini i cui occupanti sonnacchiosi avevano sempre ritenuto che sullo sfondo fossero rappresentate onde spumose, in luogo degli incerti contorni di un malinconico gregge di pecore, quali ora si rivelavano. Il re sospirò e iniziò a svestirsi. Il letto da campo e un comodino da notte erano stati sistemati di fronte alla finestra, nell'angolo a nordest; a est vi era la porta turchese; a nord, quella della galleria; a ovest, la porta dell'armadio a muro; a sud, la finestra. Il cameriere personale del suo ex cameriere personale portò via il blazer nero e i pantaloni bianchi. Il re sedette sulla sponda del letto, in pigiama. L'uomo ritornò con un paio di pantofole di marocchino, le infilò ai piedi indifferenti del suo signore, e se ne andò con le scarpette décolleté di cui il sovrano si era sbarazzato. Lo sguardo distratto del re si fermò sulla finestra semiaperta. Si intravedeva parte della corte fiocamente illuminata nella quale, sotto un pioppo recintato, due soldati giocavano a zecchinetta, seduti su una panca di pietra. La notte estiva era senza stelle, immobile, trafitta in lontananza da lampi silenti. Una falena simile a un pipistrello batteva ciecamente le ali attorno alla lanterna posata sulla panca, finché quello che puntava contro il banco non la abbatté con il berretto. Il re sbadigliò, e i giocatori illuminati dalla luce tremolarono e si dissolsero nel prisma delle lacrime. Lo sguardo annoiato vagò lungo le pareti. La porta che immetteva nella galleria era leggermente dischiusa e si udivano i passi della sentinella avanti e indietro. Sopra l'armadio, Iris Acht drizzò le spalle e volse altrove lo sguardo; un grillo frinì; l'abatjour acceso sul comodino era appena sufficiente a gettare uno sprazzo di luce sulla chiave dorata inserita nella serratura dell'armadio. E d'improvviso quello scintillio sulla chiave fece esplodere una meravigliosa conflagrazione nella mente del prigioniero. Facciamo ora un passo indietro, dalla metà di agosto del 1958 a un certo pomeriggio di maggio, tre decenni addietro, quando egli era un giovinetto tredicenne, bruno e vigoroso, con un anello d'argento all'indice della mano abbronzata dal sole. La madre, la regina Blenda, era da poco partita alla volta di Vienna e di Roma. Egli aveva molti cari compagni di giochi, ma nessuno in grado di competere con Oleg, duca di Rahl. A quei tempi, gli adolescenti delle famiglie d'alto lignaggio indossavano nelle occasioni festive - così numerose durante le nostre lunghe primavere nordiche - maglie senza maniche, corti calzini bianchi, scarpe nere con fibbia, e calzoncini molto attillati, molto corti, chiamati hotinguens. Vorrei poter fornire al lettore figurine e capi di abbigliamento come quelli che si trovano sui cartoni con le bambole da ritagliare, destinati a bambini armati di forbici. Ciò allieterebbe un poco queste lugubri serate che mi stanno distruggendo la mente. Entrambi i giovinetti erano avvenenti e slanciati esemplari della gioventù variaga: a dodici anni, Oleg era il miglior centravanti della Scuola ducale. Quando compariva nei locali della sauna, nudo e lucente tra i vapori, i suoi baldanzosi virilia contrastavano fieramente con la sua leggiadria da fanciulla. Era un vero e proprio faunetto. Quel certo pomeriggio, un copioso acquazzone laccò il fogliame primaverile del giardino reale e, oh!, come si scompigliavano e si dibattevano i lillà di Persia in lussureggiante fioritura dietro i vetri delle finestre grondanti di verde e maculati d'ametista! Avrebbero dovuto giocare dentro il palazzo. Oleg era in ritardo. Sarebbe davvero venuto? Al giovane principe venne in mente di esumare un assortimento di giocattoli preziosi (dono di un monarca straniero, assassinato poco tempo prima) con cui lui e Oleg si erano divertiti in occasione di precedenti festività pasquali, e che erano poi stati lasciati in disparte come succede a quei balocchi speciali e artistici che permettono alla loro bolla di piacere di cedere di colpo tutto il suo sapore, per poi ritirarsi in un museale oblio. In particolare, desiderava ora riscoprire un complicato circo-giocattolo, contenuto in una scatola grande quanto una custodia da croquet. Lo desiderava ardentemente; gli occhi, il cervello, e ciò che nel cervello corrispondeva al polpastrello del pollice ricordavano nitidamente i bruni acrobati ragazzini con le natiche luccicanti di paillettes, un clown malinconico ed elegante con gorgiera, e soprattutto tre elefanti di legno levigato, grandi come dei cuccioli, con gli arti così mobili che potevi far stare il lucido pachiderma dritto su una zampa anteriore, o impennato saldamente in cima a un barilotto bianco cerchiato di rosso. Erano trascorse meno di due settimane dall'ultima visita di Oleg, durante la quale ai due ragazzi era stato permesso, per la prima volta, di condividere il letto, e il fremito della loro cattiva condotta, e l'infuocata attesa di un'altra notte simile si fondevano ora, nel nostro giovane principe, con una sensazione d'imbarazzo che suggeriva di trovare rifugio in giochi più innocenti, confacenti a un'altra età. Il suo precettore inglese, costretto a letto da una distorsione alla caviglia occorsagli durante un picnic nella Foresta di Mandevil, non sapeva dove potesse essere il circo; gli consigliò di cercarlo in un vecchio locale che fungeva da ripostiglio in fondo alla Galleria Ovest. Colà si recò il principe: quel baule nero e polveroso? Si sarebbe detto risolutamente di no. Il rumore della pioggia era più forte qui, data la vicinanza di una lunga grondaia. Perché non cercare nell'armadio a muro? La chiave dorata girò con riluttanza. Sui tre ripiani e nello spazio sottostante era ammassata una congerie di oggetti disparati: una tavolozza con la feccia di molti tramonti; un coppa colma di fiches; un grattaschiena d'avorio; un'edizione in trentaduesimo del Timone d'Atene tradotto in zemblano dallo zio Conmal, fratello della regina; una situla (secchiello per bambino) da spiaggia; un diamante azzurro di sessantacinque carati che da piccolo aveva aggiunto per caso ai ciottoli e alle conchiglie contenute nel secchiello, prendendolo dalle cianfrusaglie del defunto padre; un pezzetto di gesso; e una tavoletta quadrata con un intreccio di figure che doveva servire per qualche gioco da lungo tempo dimenticato. Si accingeva a cercare altrove nell'armadio quando, nel tentativo di spostare un pezzo di velluto nero, un angolo del quale si era inspiegabilmente impigliato dietro il ripiano, qualcosa cedette, il ripiano si spostò, s: rivelò mobile e svelò proprio sotto il bordo posteriore, sulla parete interna dell'armadio, una toppa alla quale risultò adattarsi perfettamente la chiave dorata. Impaziente, sgombrò gli altri due ripiani di quanto v'era poggiato sopra (soprattutto vecchi indumenti e scarpe), li tolse come aveva fatto con quello centrale e aprì la porta scorrevole situata sul fondo dell'armadio. Dimenticati gli elefanti, ristette sulla soglia di un passaggio segreto. L'oscurità era profonda, totale, ma qualcosa in quell'acustica cavernosa, schiarendosi cupamente la gola, prometteva grandi cose ed egli si affrettò verso i propri alloggi per munirsi di un paio di torce elettriche e di un contapassi. Si accingeva a tornare indietro quando arrivò Oleg. Teneva un tulipano tra le dita. Dopo la precedente visita al palazzo si era tagliato i soffici riccioli biondi e il giovane principe pensò: Sì, sapevo che sarebbe stato diverso. Ma quando Oleg aggrottò le sopracciglia dorate e chinandosi gli si accostò per sentire il racconto della scoperta, il giovane principe seppe, dal lanuginoso tepore di quell'orecchio cremisi e dal cenno vivace d'assenso con il quale il giovane accolse la proposta di esplorazione, che nessun cambiamento era intervenuto nel suo caro compagno di letto. Non appena Monsieur Beauchamp si sedette al capezzale di Mr Campbell per una partita a scacchi e presentò i pugni chiusi per la scelta, il giovane principe condusse Oleg all'armadio magico. I cauti e silenziosi gradini di un escalier dérobé ricoperti di una guida verde conducevano a un passaggio sotterraneo lastricato di pietra. A essere precisi, era «sotterraneo» soltanto per brevi tratti e precisamente quando, scavatosi un cunicolo sotto il vestibolo sudovest contiguo alla stanza-ripostiglio, proseguiva sotto una serie di terrazze, poi sotto il viale di betulle del parco reale, e infine sotto le tre strade trasversali, il viale dell'Accademia, via Coriolano e vicolo Timone, che ancora lo separavano dalla meta finale. Negli altri tratti, il suo andamento spigoloso e oscuro si adattava alle varie costruzioni disseminate lungo il percorso, qui approfittando di un bastione per sistemarglisi accanto come una matita nell'asola portalapis di un diario tascabile, là attraversando le cantine di una grande magione, troppo sovrabbondante di oscuri corridoi perché si notasse l'intrusione furtiva. Era probabile che, nel corso degli anni, tra il passaggio abbandonato e il mondo esterno si fossero creati collegamenti arcani, conseguenze accidentali di lavori negli strati in muratura circostanti, oppure di colpi menati alla cieca. dal tempo; qua e là, infatti, si deduceva l'esistenza di incantate fenditure, e di pertugi così stretti e profondi che potevano portare alla pazzia, da pozze d'acqua dolce, fetida e stagnante, indizio di un fossato, o dall'atro odore di terra e zolle erbose che segnalava la prossimità, in superficie, di un dolce pendio; e in un punto, dove il passaggio si insinuava nel sottosuolo di un'enorme villa ducale, le cui serre erano famose per gli esemplari di flora del deserto, un sottile strato di sabbia alterava temporaneamente il suono dei passi. Oleg avanzava per primo: le natiche armoniose fasciate di cotone indaco si muovevano agili, e non già la fiaccola che egli reggeva, ma il fulgore stesso che emanava dalla sua figura eretta sembrava gettare intermittenti barbagli di luce sul basso soffitto e sulle pareti incombenti. Dietro di lui, la torcia elettrica del giovane principe guizzava sul terreno e stendeva una spolverata di farina sulla parte posteriore delle cosce nude di Oleg. L'aria era fredda e odorava di muffa. Il fantastico cunicolo proseguiva senza fine. Prese a delinearsi una leggera pendenza in salita. Quando alfine giunsero al termine del percorso, il contapassi indicava 1800 metri. La chiave magica dell'armadio a muro scivolò con gradevole facilità nella toppa di una porta verde che si parò loro dinanzi, e che avrebbe eseguito l'atto promesso da quel suo fluido inserimento se uno scoppio di strani suoni proveniente dal lato opposto della porta non avesse trattenuto i nostri esploratori. Due voci terribili, di un uomo e di una donna, ora alzandosi in tono irato, ora smorzandosi in rauchi sussurri, si scambiavano insulti nel gutnish parlato dai pescatori della Zembla occidentale. Un'orrenda minaccia fece lanciare alla donna uno strillo di paura. Seguì un silenzio improvviso, subito interrotto da alcune brevi frasi di noncurante approvazione mormorate dall'uomo («Molto bene, mia cara», oppure: «non potrebbe andare meglio»), il che era più sinistro di quanto accaduto in precedenza. Senza consultarsi l'un l'altro, i due amici voltarono la schiena in preda a un panico irrazionale e, con il contapassi che ticchettava selvaggiamente, rifecero di corsa la strada per la quale erano venuti. «Uff!» disse Oleg, dopo che l'ultima mensola fu rimessa a posto. «Sei tutto sporco di gesso, dietro» disse il giovane principe, mentre si catapultavano di sopra. Trovarono Beauchamp e Campbell che stavano terminando la partita in parità. Era quasi ora di cena. Fu loro ordinato di lavarsi le mani. Il brivido recente dell'avventura era già stato sostituito da un'altro tipo di eccitazione. Si chiusero a chiave. L'acqua prese a scorrere negletta. I due ragazzi, manifestando la loro piena virilità, gemevano come colombe. Questo ricordo particolareggiato, che ha richiesto qualche tempo per ben descriverne la maculata struttura nella presente nota, attraversò per un istante la memoria del re. Certe creature del passato, e qui d'una di esse si trattava, a volte restano latenti anche per trent'anni, come in questo caso, mentre il loro habitat naturale subisce disastrose trasformazioni. Poco dopo la scoperta del passaggio segreto, una polmonite portò il principe in punto di morte. Nel delirio cercava ora di seguire un disco luminoso esplorando un tunnel senza fine, ora di afferrare i fianchi liquescenti della fiamma dentro il grazioso camino della sua camera. Affinché si riprendesse, fu mandato per un paio di stagioni nell'Europa meridionale. La morte di Oleg, quindicenne, in un incidente di toboga, contribuì a cancellare la realtà della loro avventura. Era stata necessaria una rivoluzione nazionale per ridare realtà al passaggio segreto. Assicuratosi che i passi scricchiolanti della sentinella si erano alquanto allontanati, il re aprì l'armadio. Era vuoto, salvo che per il volumetto del Timone di Atene che giaceva in un angolo, e per alcuni indumenti sportivi e scarpe da ginnastica stipati nello scomparto inferiore. Il rumore dei passi si stava nuovamente approssimando. Non si arrischiò a proseguire la ricerca e richiuse a chiave la porta dell'armadio. Era evidente che gli occorreva qualche istante di tranquillità assoluta per eseguire con il minimo di rumore alcuni piccoli movimenti: entrare nell'armadio, chiuderlo a chiave dall'interno, togliere i ripiani, aprire la porta segreta, rimettere i ripiani al loro posto, scivolare dentro la sbadigliante oscurità, chiudere la porta segreta e girare la chiave nella serratura. Diciamo, novanta secondi. Uscì nella galleria e la sentinella, un Estremista piuttosto bello ma incredibilmente stolido, avanzò immediatamente verso di lui. «Avrei un desiderio pressante» disse il re. «Hal, voglio suonare il piano prima di andare a letto». Hal (se così si chiamava) lo precedette verso la stanza da musica nella quale, come il re ben sapeva, Odon montava la guardia all'arpa avvolta nel suo sudario. Era un irlandese robusto, dalle sopracciglia volpine e dal cranio roseo, riparato in quel momento da un berretto da operaio russo, messo sulle ventitré. Il sovrano sedette al Bechstein e, non appena rimasero soli, illustrò in breve la situazione mentre con una mano faceva tintinnare alcune note. «Mai sentito parlare di un passaggio» borbottò Odon con l'aria irritata di un giocatore di scacchi a cui si dimostri come avrebbe potuto vincere la partita che ha perso. Sua Altezza ne era assolutamente certa? Sì, Sua Altezza ne era certa. Riteneva che il passaggio conducesse fuori del palazzo? Senza dubbio alcuno, fuori del palazzo. Tuttavia, Odon doveva andarsene nel giro di qualche minuto, poiché quella sera recitava nel Tritone, un antico e bel melodramma che non era rappresentato, disse, da almeno trent'anni. «Il mio melodramma mi è più che sufficiente» fu il commento del re. «Ahimè!» concluse Odon. Con la fronte aggrottata, si infilò lentamente la giubba di pelle. Per quella sera, non era possibile fare niente. Se avesse chiesto al comandante di essere lasciato in servizio, la cosa avrebbe solo sollevato sospetti, e anche il minimo sospetto avrebbe potuto rivelarsi fatale. Il giorno seguente avrebbe trovato l'occasione propizia per ispezionare quella nuova via di fuga, se tale essa era, e non un vicolo cieco. Charlie (Sua Maestà) si sentiva di promettere che non avrebbe tentato alcunché fino ad allora? «Ma si stanno avvicinando sempre più» disse il re alludendo ai rumori - colpi e strappi - che provenivano dalla Galleria dei ritratti. «No,» ribatté Odon «meno di tre centimetri all'ora, al massimo cinque. E adesso devo proprio andare» concluse ammiccando in direzione della solenne e corpulenta sentinella che stava venendo a dargli il cambio. Fermamente, ma erroneamente convinti che i gioielli della corona fossero nascosti in qualche angolo del palazzo, i nuovi governanti avevano incaricato del loro ritrovamento un paio di esperti stranieri. Da un mese il lavoro procedeva bene. I due russi, dopo avere praticamente smantellato la Camera consiliare e numerose altre sale di rappresentanza, avevano trasferito la loro attività a quella parte della galleria in cui i grandi oli di Eystein avevano affascinato numerose generazioni di principi e principesse di Zembla. Incapace di restituire anche un minimo di somiglianza, e limitandosi quindi, saggiamente, a uno stile convenzionale di ritrattistica adulatoria, Eystein dimostrò di essere un maestro prodigioso del trompel'il nel riprodurre i vari oggetti che circondavano i suoi nobili esemplari di defunti, il cui aspetto appariva ancor più defunto per contrasto con il petalo caduto o con il levigato pannello che egli sapeva rendere con tanta appassionata abilità. In alcuni ritratti, tuttavia, Eystein era anche ricorso a una forma bizzarra d'inganno: tra gli elementi decorativi di legno, lana, oro o velluto, ne inseriva uno realmente fatto del materiale imitato altrove nel quadro. Lo stratagemma, evidentemente inteso ad accrescere l'effetto dei valori tonali e tattili, aveva tuttavia un che di turpe, e rivelava non soltanto una pecca essenziale nel talento di Eystein, ma anche il fatto fondamentale che la «realtà» non è né soggetto né oggetto della vera arte, la quale crea la propria peculiare realtà che nulla ha a che vedere con la «realtà» ordinaria percepita dall'occhio della gente. Ma ritorniamo ai nostri esperti che a suon di colpi si avvicinavano lungo la galleria, in direzione del gomito alla cui altezza il re e Odon erano in procinto di separarsi. In quel punto c'era il ritratto di un precedente Custode del tesoro, il decrepito conte Kernel, raffigurato con le dita che sfioravano un cofanetto lavorato a sbalzo e ornato di blasone il cui lato frontale era costituito da un'incastonatura rettangolare di autentico bronzo, mentre sul coperchio in ombra, reso in prospettiva, l'artista aveva raffigurato una placca con un semigheriglio di noce, bilobato, cerebriforme, mirabilmente dipinto. «Troveranno una bella sorpresa» mormorò Odon nella sua lingua materna, mentre, in un angolo, la grassa sentinella eseguiva alcune formalità dovute, di carattere piuttosto solitario e malinconico, consistenti nello sbattere violentemente il calcio del fucile. Si poteva trovare qualche giustificazione ai due professionisti russi se essi presumevano di trovare dietro al metallo vero un altrettanto vero nascondiglio. In quel momento stavano decidendo se forzare la placca, oppure staccare il quadro dal muro; possiamo tuttavia giocare d'anticipo e assicurare il lettore che il ricettacolo, un foro oblungo praticato nel muro, esisteva davvero, ma non conteneva null'altro che i frammenti di un guscio di noce. Altrove era stata sollevata una tenda di ferro, mettendone a nudo un'altra dipinta con ninfe e ninfee gialle. «Domani ti porterò il tuo flauto» gridò Odon in tono eloquente, nel dialetto nativo; poi sorrise e salutò con la mano, già arretrando indistinto nelle remote lontananze del suo mondo di Tespi. La grassa sentinella ricondusse il re alla sua stanza e lo consegnò al bel Hal. Erano le ventuno e trenta. Il re si coricò. Il cameriere, una canaglia imbronciata, gli portò il solito latte e cognac serale e ritirò le pantofole e la vestaglia. Era ormai fuori della stanza quando il re gli ordinò di spegnere la luce, al che emerse un braccio, e una mano guantata trovò l'interruttore e lo girò. Di quando in quando lampi lontani ancora palpitavano alla finestra. Al buio, il re finì di bere e appoggiò sul comodino il tozzo bicchiere vuoto che andò a urtare con un tintinnio sommesso una torcia d'acciaio messa a disposizione dalle premurose autorità per i casi in cui fosse venuta a mancare la corrente elettrica, come di quando in quando accadeva negli ultimi tempi. Non riusciva a prendere sonno. Girò il capo e osservò la striscia di luce sotto la porta. Essa venne aperta con delicatezza e fece capolino il suo giovane e prestante carceriere; nella mente del re guizzò un piccolo pensiero bizzarro, ma il giovane voleva solamente avvisare il prigioniero che intendeva unirsi ai colleghi nel cortile adiacente e che la porta sarebbe stata chiusa a chiave fino al suo ritorno. Tuttavia, se l'ex re avesse avuto bisogno di qualche cosa, avrebbe potuto chiamarlo dalla finestra. «Quanto tempo starai via?» chiese il re. «Yeg ved ik» (io non sapere), rispose la sentinella. «Buona notte, ragazzaccio», disse il re. Attese che la silhouette della sentinella si stagliasse nella luce del cortile dove gli altri Thuleani invitarono il compagno a unirsi al gioco. Poi, protetto dall'oscurità, il re rovistò fra i vecchi abiti sul ripiano più basso dell'armadio e si infilò, sopra il pigiama, un indumento che al tatto pareva essere un paio di pantaloni da sci e un altro capo che all'olfatto sembrava un vecchio maglione. Ulteriori ricerche a tastoni fruttarono un paio di scarpe da ginnastica e un copricapo di lana con tesa e paraorecchie. Quindi eseguì i movimenti che aveva ripassato mentalmente in precedenza. Nell'atto di togliere il secondo ripiano, un oggetto cadde con un tonfo soffocato; ne indovinò la natura e lo prese con sé come portafortuna. Non si arrischiava a premere il pulsante della torcia prima d'essersi inabissato nelle profondità del tunnel, né poteva permettersi d'incespicare rumorosamente, pertanto superò i diciotto invisibili gradini in posizione più o meno seduta, come un principiante timoroso che scenda lungo le rupi coperte di licheni del Monte Kron raschiandole con il sedere. La fioca luce che alfine irraggiò ora divenne il suo compagno più caro, lo spettro di Oleg, il fantasma della libertà. Provava un misto di angoscia ed esultanza, una sorta di gioia amorosa, quale aveva avvertito per l'ultima volta il giorno della sua incoronazione allorché, incedendo verso il trono, il suo orecchio era stato colpito da alcune battute di una musica incredibilmente ricca, profonda, fastosa (di cui non riuscì mai ad appurare né l'autore né la provenienza) ed egli aveva aspirato la fragranza dell'olio per capelli di un grazioso paggio che si era chinato a togliere dal poggiapiedi un petalo di rosa, e in quell'istante, alla luce della torcia, il re si accorse di essere orrendamente abbigliato di rosso acceso. Il passaggio segreto pareva essere diventato ancora più sordido. L'intrusione dell'ambiente circostante era ancora più evidente del giorno in cui i due giovinetti, tremanti nelle loro magliette sottili e nei corti pantaloncini, avevano esplorato il tunnel. La pozza opalescente di acqua stagnante si era estesa in lunghezza; lungo il suo bordo avanzava un pipistrello malato, simile a uno zoppo con un ombrello rotto. La distesa di sabbia colorata, ancora presente alla memoria, recava tuttora l'impronta vecchia di trent'anni della scarpa di Oleg, immortale come le orme lasciate, trenta secoli addietro, dalla gazzella addomesticata di un bambino egizio sugli azzurri mattoni nilotici che si essiccavano al sole. E, nel punto in cui il passaggio intersecava le fondamenta di un museo, erano finiti laggiù chissà come, destinati all'esilio e all'eliminazione, una statua decollata di Mercurio, guida delle anime agli Inferi, e un cratere incrinato, sul quale due figure nere giocavano a dadi sotto una palma nera. L'ultimo gomito del passaggio, che terminava con la porta verde, conteneva un cumulo disordinato di assi di legno che il fuggiasco varcò, non senza inciampare. Girò la chiave nella toppa e cominciò ad aprire la porta, ma il movimento fu interrotto da un pesante tendaggio nero. Mentre cercava a tentoni un varco tra le pieghe verticali, la debole luce della torcia roteò il suo occhio disperato e si spense. La lasciò andare: essa cadde in un nulla ovattato. Il re affondò le braccia nelle pieghe profonde del panno odoroso di cioccolato, e, nonostante l'incertezza e il pericolo incombente, il gesto gli ricordò fisicamente gli ondeggiamenti comici, dapprima controllati, quindi frenetici di un sipario di palcoscenico attraverso il quale un attore nervoso cerchi invano di passare. La sensazione grottesca, in quell istante diabolico, risolse il mistero del passaggio ancor prima che egli riuscisse alfine a sgusciare fuori della tenda per ritrovarsi nel lumbarkamer, il ripostiglio debolmente illuminato e disordinatamente ingombro che era stato una volta il camerino di Iris Acht nel Teatro reale. Il locale si trovava ancora nello stato in cui l'avevano lasciato dopo la morte dell'attrice: un buco polveroso comunicante con una specie di vestibolo nel quale gli artisti a volte gironzolavano durante le prove. Elementi di uno scenario mitologico appoggiati alla parete celavano parzialmente un polveroso ritratto fotografico di grandi dimensioni entro una cornice di velluto: re Thurgus baffi cespugliosi, pince-nez, medaglie -, quale egli appariva al tempo in cui il corridoio lungo un chilometro e mezzo forniva una stravagante risorsa per i suoi convegni con Iris. Il fuggitivo in scarlatto batté le palpebre e si diresse alla volta del vestibolo, sul quale si apriva un certo numero di camerini. Da qualche parte, oltre il vestibolo, uno scroscio di applausi crebbe di volume prima di spegnersi lentamente. Altri suoni lontani indicarono l'inizio dell'intervallo. Numerosi artisti in costume passarono vicino al re, e in uno di essi egli riconobbe Odon. Indossava una giacchetta di velluto con bottoni d'ottone, knickerbockers e calzettoni a righe, la tenuta festiva dei pescatori di Gutnish; stringeva ancora nel pugno il coltello di cartone con il quale aveva appena liquidato l'innamorata. «Buon Dio» esclamò alla vista del re. Arraffando un paio di mantelli da un mucchio di fantastiche vesti, Odon spinse il re verso una scala che conduceva in strada. Contemporaneamente ci fu del trambusto in un gruppo di persone ferme a fumare sul pianerottolo. Un vecchio intrigante, che aveva ottenuto il posto di direttore di scena a forza di servili adulazioni nei confronti di vari funzionari Estremisti, d'un tratto puntò un dito vibrante contro il re, ma essendo afflitto da una grave balbuzie non riuscì a pronunciare quelle parole di indignato riconoscimento che gli facevano schioccare la dentiera. Il re cercò di abbassare sul viso la visiera del copricapo rischiando di mettere un piede in fallo al fondo della scala stretta. Fuori pioveva. Una pozzanghera rimandò la sua silhouette scarlatta. Numerosi veicoli erano parcheggiati a lisca di pesce. Era lì che Odon di solito lasciava la sua automobile da corsa. Per un orribile secondo pensò che non ci fosse più, ma poi ricordò con vivo sollievo di averla parcheggiata, quella sera, in un vicolo adiacente. Versi 131-132: Ero l'ombra del beccofrusone ucciso da lontananze ingannevoli nel vetro É qui ripresa la raffinata melodia dei due versi d'apertura del poema. La ripetizione di questa nota protratta si salva dalla monotonia grazie alla sottile variante contenuta nel verso 132, ove il gioco di assonanze offre all'udito una sorta di languido piacere, come farebbe l'eco di una dolente canzone semidimenticata in cui la melodia sia più eloquente delle parole. Oggi che le «lontananze ingannevoli» hanno invero adempiuto al loro orribile compito e il poema in nostro possesso è l'unica «ombra» rimasta, non possiamo fare a meno di leggere in questi versi qualcosa più di un gioco di specchi o del bagliore di un miraggio. Percepiamo il fato nell'immagine di Gradus mentre divora chilometri e chilometri di «lontananze ingannevoli» che lo separano dal povero Shade. Anch'egli incontrerà, nel suo volo incalzante e cieco, un riflesso che lo manderà in frantumi. Sebbene Gradus si avvalesse di qualsiasi mezzo di locomozione - auto a noleggio, treni locali, scale mobili, aerei -, per qualche ragione l'occhio della mente lo vede, e i muscoli della mente lo percepiscono, sempre nell'atto di fendere veloce il cielo, la nera borsa da viaggio in una mano e l'ombrello richiuso alla meglio nell'altra, in un ininterrotto volo planato, alto su mari e terre. La sua forza propulsiva è la magica azione del poema stesso di Shade, il meccanismo perfetto e il fluire del verso, il possente motore giambico. Mai prima era stata data forma tanto sensuale all'avanzare inesorabile del fato. Verso 137: lemniscata «Curva algebrica piana o sghemba, con un punto doppio nodale» la definisce il mio vecchio e frusto dizionario. Non riesco a capire che cosa c'entri con l'andare in bicicletta e mi viene il sospetto che la frase di Shade non abbia alcun vero significato. Come altri poeti che l'hanno preceduto, egli sembra essere qui caduto vittima del fascino di un'eufonia sviante. Per fare un esempio sorprendente: che cosa può essere più risonante, fulgido, evocativo di una bellezza corale e scultorea, della parola coramen? Eppure nella realtà essa indica la rozza correggia con cui i mandriani zemblani fissano le umili provviste e la frusta coperta alla loro mucca più mansueta, quando conducono il bestiame ai pebodar (pascoli montani). Verso 143: un giocattolo a molla Grazie a un colpo di fortuna, ho potuto vederlo! Una sera di maggio o giugno feci una capatina dal mio amico per rammentargli una raccolta di opuscoli che il nonno, un ecclesiastico eccentrico, aveva collezionato, e che, come egli mi aveva detto una volta, era conservata nel seminterrato. Lo trovai rabbuiato, in attesa di alcune persone (colleghi del dipartimento, credo, con le loro consorti) invitate lì per una cena elegante. Mi accompagnò di buon grado nel seminterrato e, dopo aver rovistato fra pile polverose di libri e di riviste, disse che avrebbe continuato la ricerca un'altra volta. Fu allora che lo vidi su un ripiano, tra un candeliere e una sveglia priva di lancette. Il mio amico, pensando che potessi crederlo appartenuto alla figlia defunta, si affrettò a spiegare che era vecchio quanto lui. Il ragazzo era un negretto di latta verniciata, con il buco per la chiavetta di caricamento nel fianco, di spessore praticamente nullo in quanto consisteva soltanto di due profili saldati assieme in modo approssimativo, e la carriola, ormai, era tutta storta e malandata. Disse, spolverandosi le maniche, che lo conservava come una specie di memento mori - nella sua infanzia, un giorno, mentre giocava con quel balocco, aveva avuto uno strano svenimento. Ci interruppe la voce di Sybil che chiamava dal piano superiore; ma non importa: ora il giocattolo funzionerà di nuovo, perché ne ho la chiave. Verso 149: un piede sulla cima di un monte La Catena del Bera, serie di frastagliati picchi montuosi che si estendono per trecentoventi chilometri fino quasi all'estremo limite settentrionale della penisola di Zembla (un canale insuperabile che corre ai suoi piedi la separa dalla terraferma della follia) , taglia il paese in due parti: la fiorente regione orientale con Onhava e altre cittadine, quali Aros e Grindelwod; e la striscia occidentale, molto più stretta, con pittoreschi villaggi di pescatori e accoglienti stazioni balneari. Le due regioni sono collegate da due strade di grande scorrimento, asfaltate: la più antica evita gli ostacoli correndo, nel primo tratto, lungo il versante orientale, in direzione nord, vale a dire in direzione di Odevalla, Yeslove ed Embla, e solo all'altezza di quella località svolta a ovest per raggiungere l'estremità settentrionale della penisola; la strada più recente, dal tracciato complesso, serpeggiante, e con una pendenza meravigliosamente studiata, attraversa la catena in direzione ovest, iniziando subito a nord di Onhava e terminando a Bregberg; nelle guide turistiche è definita «strada panoramica». Numerose piste attraversano i monti in vari punti e conducono a passi che non superano mai i millecinquecento metri di altitudine; alcuni picchi svettano oltre i duemila metri e d'estate restano innevati; da uno di essi, il più alto e il più arduo, il Monte Glitterntin, nelle giornate limpide si riesce a distinguere in lontananza, verso est, oltre il Golfo della Sorpresa, una tenue iridescenza che alcuni affermano essere la Russia. Dopo la fuga dal teatro, i nostri amici decisero di dirigersi verso nord seguendo la vecchia via di comunicazione per trentadue chilometri e di svoltare poi a sinistra su una strada sterrata e poco battuta che li avrebbe infine condotti al nascondiglio principale dei Karlisti, un castello baronale immerso in un'abetaia sul versante orientale della Catena del Bera. Ma il vigile balbuziente era alfine esploso in un discorso spasmodico; i telefoni erano entrati freneticamente in funzione; e i fuggitivi avevano a malapena percorso una ventina di chilometri quando, nell'oscurità innanzi a loro, un nebuloso lucore rivelò, all'incrocio della strada vecchia con la nuova un posto di blocco stradale che, se non altro, aveva il merito di precludere entrambi i percorsi in un sol colpo. Odon invertì precipitosamente la marcia e alla prima occasione sterzò verso ovest inoltrandosi tra le montagne. Il viottolo stretto e accidentato che li inghiottì costeggiava una legnaia, arrivava a un torrente, lo attraversava con gran schioccare di assi, per degenerare subito dopo in uno sterro ingombro di ceppi. Si trovavano sul limite della Foresta di Mandevil. Il tuono brontolava in un cielo tremendamente scuro. Per qualche secondo i due uomini ristettero, lo sguardo fisso davanti a sé. La notte e gli alberi nascondevano l'erta. Dal punto in cui si trovavano un abile scalatore avrebbe potuto raggiungere il Passo Bregberg all'alba, se fosse riuscito ad azzeccare un sentiero regolarmente tracciato dopo essersi fatto largo attraverso la nera muraglia della foresta. Decisero di separarsi: Charlie si sarebbe diretto verso il tesoro remoto nella grotta marina, e Odon sarebbe rimasto indietro, a fare da esca. Avrebbe, disse, giocato con loro come il gatto con il topo, assunto i travestimenti più straordinari, e preso contatto con il resto della banda. Sua madre era americana, di New Wye, nel New England; di lei si dice che sia stata la prima donna al mondo ad avere sparato ai lupi e, credo, anche ad altri animali, da un aeroplano. Una stretta di mano, il bagliore di un lampo. Via via che il re si apriva un varco tra le felci umide e cupe, il loro odore, la loro elasticità merlettata, quel misto di soffice vegetazione e di terreno scosceso gli riportarono alla mente i picnic di un tempo, nei dintorni: era ancora un ragazzo, e la zona della foresta era diversa, ma si trovava sul medesimo versante della montagna, solo più in alto, sul terreno disseminato di massi erratici dove Mr Campbell, una volta, si era slogato una caviglia e due servitori ben piantati dovettero trasportarlo a valle mentre lui se ne fumava la pipa. Tutto sommato, ricordi piuttosto uggiosi. Ma non c'era un casino di caccia nelle vicinanze, subito dopo le Cascate Silfhar? Ottima zona per cacciare galli cedroni e beccacce - uno sport che aveva dato molto diletto alla sua defunta madre, la regina Blenda, sovrana sportiva e amante dei cavalli. Adesso come allora, la pioggia schiumava sugli alberi neri; fermandosi, si poteva sentire il martellare del cuore nel petto e il rombo lontano del torrente. Che ora è, kot or? Premette il pulsante dell'orologio a ripetizione che, imperturbabile, suonò sibilando le ventidue e ventuno. Chiunque abbia tentato di arrampicarsi su per un erto pendio, in una notte tenebrosa, attraverso un groviglio di vegetazione ostile, comprende quale ardua fatica dovesse affrontare il nostro alpinista. Tenne duro per oltre due ore, inciampando nei ceppi, cadendo nelle forre, avvinghiandosi a cespugli invisibili, lottando contro un esercito di conifere. Perse il mantello. Si chiese se non gli convenisse raggomitolarsi nel sottobosco e attendere l'alba. D'improvviso una luce, minuscola come una capocchia di spillo, brillò davanti a lui ed egli si trovò ad avanzare barcollando su un prato sdrucciolevole, falciato di recente. Un cane abbaiò. Un sasso gli rotolò sotto il piede. Comprese d'essere nei pressi di una bore (fattoria) sul fianco del monte. Comprese anche d'essere ruzzolato dentro un fosso melmoso e profondo. Un contadino grinzoso e la sua sposa paffuta che, come personaggi di una favola vecchia e noiosa, diedero un gradito asilo al fuggitivo inzuppato lo credettero un campeggiatore eccentrico rimasto separato dal suo gruppo. Gli permisero di asciugarsi in una cucina calda, dove gli venne offerto un pasto nella migliore tradizione fiabesca: pane e formaggio e una ciotola di idromele di montagna. Ciò che provava (gratitudine, spossatezza, piacevole sensazione di calore, sonnolenza, e così via) era fin troppo scontato per richiedere d'essere descritto. Un fuoco di radici di larice crepitava nella stufa, e tutti i fantasmi del suo regno perduto si radunarono a scherzare attorno alla sedia a dondolo mentre egli si appisolava tra quel bagliore di fiamma e la luce tremula di una piccola lucerna di terracotta - un aggeggio con un beccuccio, alquanto simile a una lampada romana appesa sopra una mensola ove miseri ninnoli di perline e scaglie di madreperla si mutavano in soldatini microscopici brulicanti su un disperato campo di battaglia. Si svegliò con il collo dolorante non appena il campanaccio dell'alba sbatacchiò sonoro trovò il suo ospite fuori casa, in un angolo umido riservato ai semplici bisogni corporali, e ordinò al buon grunter (contadino di montagna) di indicargli la via più breve per il passo. «Vado a svegliare quella pigrona di Garh» rispose il contadino. Una rozza scala conduceva a un fienile. Il contadino mise la mano nodosa sulla nodosa balaustra ed emise un suono gutturale in direzione dell'oscurità soprastante: «Garh! Garh!». Benché il nome sia proprio di entrambi i sessi, in senso stretto esso è maschile e il re si aspettava di vedere emergere dal fienile un giovane montanaro dalle ginocchia nude, simile a un angelo di bronzo. Al contrario, apparve una sfacciatella scarmigliata che indossava soltanto una camicia da uomo lunga fino agli stinchi rosei e un paio di scarponi troppo grandi. Un momento dopo, come nell'esibizione di un trasformista, ella ricomparve con i gialli capelli spioventi ancora sciolti, ma la camicia sporca era stata sostituita da un maglione altrettanto sporco e le gambe erano infilate in un paio di calzoni di velluto. Le fu detto di accompagnare il forestiero a un punto dal quale gli fosse facile raggiungere il passo. Una espressione assonnata e scontrosa offuscava qualsiasi attrattiva quel viso rotondo dal naso a patatina avrebbe mai potuto esercitare sui pastori del luogo; tuttavia ella ottemperò piuttosto prontamente al desiderio del padre. La moglie canticchiava una vecchia canzone mentre si dava da fare con pentole e padelle. Prima di andarsene, il re chiese al suo ospite, il cui nome era Griff, di accettare una moneta d'oro che per caso s'era ritrovata in tasca, l'unico denaro di cui disponesse. Griff rifiutò energicamente e, continuando a protestare, si applicò alla laboriosa impresa di aprire con la chiave e di togliere il catenaccio a due o tre pesanti porte. Il re gettò un'occhiata alla vecchia, ne ricevette un ammicco d'approvazione, e depose l'opaco ducato sulla mensola del camino, vicino a una conchiglia violetta contro cui era appoggiata la fotografia a colori di un elegante ufficiale della Guardia e della di lui consorte, a spalle nude: Karl il Beneamato, quale appariva più di vent'anni prima, e la sua giovane regina, una vergine irata dai capelli neri e gli occhi azzurro-ghiaccio. Le stelle erano da poco impallidite. Seguì la ragazza e un cane da pastore esultante su per un sentiero invaso dalla vegetazione che brillava di rugiada vermiglia nella luce scenografica di un'alba alpina. L'aria stessa pareva tinta e invetriata. Un gelo sepolcrale emanava dalla parete rocciosa a picco, lungo la quale saliva il sentiero; sull'opposto lato scosceso, tuttavia, qua e là fra le cime degli abeti che crescevano più in basso, sprazzi di luce solare, sottili come fili di ragnatela, cominciavano a intessere arabeschi di tepore. Alla curva successiva quel tepore avviluppò il fuggiasco, e una farfalla nera scese danzando lungo un pendio sassoso. Il sentiero si restrinse vieppiù, facendosi sempre più impraticabile, per poi finire in un ammasso di macigni. La ragazza gli indicò i versanti oltre la pista; egli annuì con il capo: «Adesso, torna a casa» disse. «Mi riposerò un poco qui e poi proseguirò da solo». Si lasciò cadere sull'erba vicino a un'intricata macchia di arbusti e inspirò l'aria luminosa. Il cane gli si accucciò ansante ai piedi. Garh sorrise per la prima volta. Di norma, le giovani montanare zemblane non sono che meccanismi di fortuita lussuria e Garh non faceva eccezione. Si sistemò al suo fianco e immediatamente si chinò, si tirò sulla testa arruffata lo spesso maglione grigio, se lo tolse e mise a nudo la schiena e i seni blanc-manger, sommergendo l'imbarazzato compagno dell'acre effluvio di una femminilità ignara di igieniche premure. Si accingeva a proseguire l'operazione, ma egli la fermò con un cenno e si levò in piedi. La ringraziò delle sue gentilezze. Accarezzò il cane innocente e, senza voltarsi neppure una volta, con passo elastico il re intraprese la salita lungo il pendio erboso. Stava ancora ridacchiando al pensiero dello scacco dato alla ragazzotta quando giunse in prossimità degli enormi macigni ammassati attorno a un laghetto fino al quale si era spinto una volta o due, molti anni prima, provenendo dal versante roccioso del Kronberg. Intravide il balenio della pozza attraverso l'apertura di una volta naturale, un capolavoro d'erosione. La volta era bassa e dovette chinare la testa per scendere verso l'acqua. In quel limpido tintarron vide riflessa la propria immagine scarlatta, ma, cosa strana, a causa di ciò che a prima vista sembrava un'illusione ottica, il riflesso non compariva ai suoi piedi, ma molto più lontano; inoltre a esso si accompagnava, deformato dalle increspature, il riflesso di una sporgenza rocciosa posta più in alto, sopra il luogo ove egli si trovava. E alla fine la tensione insita nella magia dell'immagine fece sì che essa sparisse di colpo non appena il suo etereo doppio con pullover rosso e rosso berretto si girò e scomparve, mentre egli, l'osservatore, rimaneva immobile. Avanzò fino al bordo dell'acqua e lì s'imbatté in un vero riflesso, molto più grande e terso di quello che l'aveva ingannato. Costeggiò il laghetto. Alta nell'azzurro intenso del cielo sporgeva la deserta cornice rocciosa sulla quale un attimo prima si stagliava un falso re. Un brivido di afear (paura incontrollabile causata dagli elfi) gli serpeggiò nella schiena. Mormorò una preghiera consueta, si fece il segno della croce, e proseguì risolutamente in direzione del passo. In un punto elevato su un crinale adiacente, uno steinmann (cumulo di sassi eretto a ricordo di una scalata) aveva indossato un berretto di lana rossa in suo onore. Continuò ad arrancare lungo l'erta. Ma il cuore era un dolore conico che lo pungolava dal fondo della gola, e dopo un po' si fermò di nuovo per valutare con cura la situazione e decidere se inerpicarsi su per lo scosceso pendio ingombro di detriti che gli stava dinanzi, oppure tagliare a destra lungo una striscia erbosa, gaiamente punteggiata di genziane che si snodava serpeggiante fra rocce ricoperte di licheni. Scelse il secondo tragitto e a tempo debito arrivò al passo. Grandi spuntoni di roccia rovinati a terra modificavano continuamente il ciglio della strada. A sud, una scarpata di rupi ed erba frantumava in zone di luce e d'ombra le nippern (colline tondeggianti o «pagliai»). In direzione nord andavano svanendo le montagne verdi, grigie, bluastre - il Falkberg con il suo cappuccio nevoso, il Mutraberg con il ventaglio delle sue valanghe, il Paberg (Monte Pavone), e altri ancora -, separate da anguste valli brumose, tra cui si insinuavano bioccoli di nubi che parevano frapposti tra la serie di crinali in fuga prospettica per impedire ai loro fianchi di raschiare l'uno contro l'altro. Più oltre, nella striscia estrema di azzurro, si delineava il Monte Glitterntin dal seghettato profilo di lucente stagnola; e verso sud, una soffice foschia avvolgeva crinali ancor più lontani, che si rinviavano l'un l'altro in uno schieramento infinito attraverso tutte le sfumature di una delicata evanescenza. Il passo era stato raggiunto, granito e gravità erano stati superati; ma bisognava ancora affrontare il tratto più pericoloso. A occidente una serie di pendii ricoperti d'erica scendeva verso il mare luccicante. Fino a quel momento la montagna si ergeva tra lui e il golfo; ora, egli era esposto a quell'arcuato bagliore. Iniziò la discesa. Tre ore dopo camminava sul terreno pianeggiante. Due vecchie, chine a lavorare in un frutteto, si raddrizzarono lentamente e lo seguirono con lo sguardo. Aveva superato le pinete di Boscobel e si stava avvicinando al molo di Blawick quando un'auto nera della polizia uscì da una strada laterale e gli si fermò accanto: «Lo scherzo è durato anche troppo» disse il conducente. «Un centinaio di buffoni sono già stipati nel carcere di Onhava e l'ex re dovrebbe essere tra loro. La nostra prigione, qui, è troppo piccola per altri re. Il prossimo che vediamo mascherato da re, gli spariamo a vista. Qual è il tuo vero nome, Charlie?» «Sono inglese. Sono un turista» rispose il re. «Be', senti, in ogni caso levati quel fufarosso. E anche il berretto. Dammeli qua». Buttò i capi sul sedile posteriore dell'auto e ripartì. Il re continuò per la sua strada; la giacca del pigiama celeste infilata nei pantaloni da sci poteva benissimo passare per una camicia estrosa. Aveva un sassolino nella scarpa sinistra, ma era troppo stremato per porvi rimedio. Riconobbe il ristorante sulla spiaggia nel quale molti anni prima aveva pranzato, in incognito, insieme con due marinai divertenti, molto divertenti. Parecchi Estremisti ben armati bevevano birra su una veranda tutt'attorno alla quale correvano gerani, tra i villeggianti abituali, alcuni dei quali erano intenti a scrivere ad amici lontani. Una mano guantata spuntò tra i gerani e porse al re una cartolina illustrata sulla quale era stato scribacchiato: «Proseguire fino a C.R. Bon Voyage!» Fingendo di passeggiare senza una meta precisa, raggiunse l'estremità della banchina. Era un delizioso pomeriggio ventilato, a ovest l'orizzonte pareva una cavità luminosa pronta a risucchiare un cuore appassionato. Il re, giunto ormai al punto più critico del viaggio, si guardò intorno, scrutando le rare persone che passeggiavano e cercando di stabilire quali di loro potessero essere agenti di polizia travestiti, pronti a balzargli addosso non appena avesse superato con un volteggio il parapetto per dirigersi poi alle Caverne Rippleson. Un'unica vela color rosso vivo deturpava con qualche segno di presenza umana la distesa marina. Dal parapetto, un turista russo - tarchiato, con pappagorgia plurima e nuca carnosa da generale fotografava Nitra e Indra (che significano «interna» ed «esterna»), due isolette scure che parevano immerse in conciliaboli segreti. La moglie, una donna appassita, avvolta in una fluttuante échahe fiorata, osservò con la tipica cantilena della parlata moscovita: «Ogni volta che vedo uno sfregio spaventoso di quel genere, non posso fare a meno di pensare al ragazzo di Nina. La guerra è una cosa orribile». «La guerra», replicò il consorte. «Dev'essere stata l'esplosione alle Vetrerie del 1951, non la guerra». A passi lenti incrociarono il re, proseguendo nella direzione da cui egli era venuto. Su una panchina del marciapiede, di fronte al mare, un uomo con le stampelle appoggiate di fianco a sé leggeva il «Post» di Onhava che in prima pagina esibiva Odon in uniforme da Estremista e Odon nella parte del Tritone. Per quanto incredibile possa sembrare, prima d'allora le guardie di palazzo non si erano mai rese conto di quell'identità. Adesso per la sua cattura era stata offerta una bella somma. Le onde lambivano ritmicamente i ciottoli a riva. Il volto del lettore del quotidiano era stato atrocemente deturpato dall'esplosione sopra menzionata, e tutta l'arte della chirurgia plastica aveva dato come unico risultato un ripugnante tessuto a mosaico, in cui parti del disegno e parti del contorno parevano mutare, fondersi o separarsi, come guance e menti che fluttuassero in uno specchio deformante. Il breve tratto di spiaggia tra il ristorante all'inizio del lungomare e le rocce di granito all'estremità opposta era pressoché deserto: in fondo, a sinistra, tre pescatori stavano caricando su una barca a remi reti brune come laminarie mentre, proprio sotto il marciapiede, una donna anziana con un abito a pois e per copricapo un giornale (visto L'Ex RE) messo di sghembo, sedeva sulla spiaggia, volgendo la schiena alla strada, intenta a fare la calza. Teneva le gambe, che erano avvolte in bende, distese davanti a sé, sulla sabbia; ai lati, da una parte giaceva un paio di pantofole di feltro e dall'altra un gomitolo di lana rossa al cui filo ella dava di quando in quando un lieve strattone con lo stesso scatto del gomito con cui le sferruzzatrici di Zembla da tempo immemorabile fanno girare il gomitolo per allentare il filato. Infine, sul marciapiede, una ragazzetta dalla gonna gonfia di vento sferragliava maldestramente, ma con molta energia, sui suoi pattini a rotelle. Era possibile che un nano, appartenente al corpo di polizia, si fingesse una bambina con le treccine? In attesa che la coppia russa se ne andasse, il re si fermò vicino alla panchina. L'uomo dal volto a mosaico ripiegò il giornale e un secondo prima che aprisse bocca (nell'intervallo neutro tra lo sbuffo di fumo e la detonazione) il re capì che era Odon. «Tutto quello che si è potuto fare con un preavviso così breve» disse Odon, tirandosi la guancia per mostrare come la pellicola multicolore e semitrasparente gli aderisse al viso, alterandone la forma a seconda della tensione. «Una persona educata» aggiunse «di solito non scruta troppo da vicino un vero diavolo sfigurato». «Stavo cercando di individuare degli shiks [poliziotti in borghese]» rispose il re. «Per tutto il giorno», continuò Odon «hanno perlustrato la banchina. Adesso stanno cenando». «Sono affamato e ho sete» disse il re. «C'è qualcosa nella barca. Aspettiamo che i russi spariscano. La bambina non dà pensiero». «E quella donna sulla spiaggia?» «É il giovane barone Mandevil, il tipo che l'anno scorso fece quel duello. Andiamo, adesso». «Non potremmo prendere anche lui?» «Non verrebbe: ha moglie e un bambino. Forza, andiamo, Charlie, andiamo, Vostra Maestà». «Era il paggio accanto al trono il giorno della mia incoronazione». Così chiacchierando arrivarono alle Caverne Rippleson. Verso 162: con la lingua innocente, ecc É un modo singolarmente indiretto di descrivere il bacio timido di una contadinella; ma tutto il passo è alquanto barocco. Troppo felice e sana è stata la mia adolescenza per ospitare episodi anche lontanamente simili ai deliqui cui andò soggetto Shade. Per lui, dev'essersi trattato di una lieve forma di epilessia, un deragliamento dei nervi sempre nello stesso punto, nella stessa curva dei binari, ogni giorno, per parecchie settimane, finché la natura non pose rimedio al guasto. Come dimenticare i volti buoni, lucenti di sudore, dei ferrovieri dal torace color rame che, piegati sulla vanga, seguivano con gli occhi i finestrini del magnifico treno espresso mentre cautamente scivolava loro accanto? Verso 167: Vi fu un tempo, ecc Il poeta iniziò il Canto Secondo (sulla scheda 14) il 5 luglio, giorno del suo sessantesimo compleanno (si veda la nota al verso 181, «oggi»). Mia svista: correggere in sessantuno. Verso 169: vita oltre la morte Verso 171: congiuravano insieme Quasi per un intero anno dopo la fuga del re, gli Estremisti rimasero fermamente convinti che né lui né Odon avessero lasciato Zembla. L'errore può essere ascritto soltanto alla vena di stupidità che fatalmente corre attraverso le più consumate tirannidi. I velivoli e tutto ciò che a essi è attinente operano un vero e proprio sortilegio sulle menti dei nostri nuovi governanti, ai quali la storia con molta cortesia ha donato all'improvviso una bella scatola piena di quei gingilli sfreccianti e rombanti con cui giocare. A loro sembrava inconcepibile che un fuggiasco di rango non mettesse in atto la fuga ricorrendo a mezzi aerei. Nel giro di pochi minuti dal momento in cui il re e l'attore si erano precipitati rumorosamente giù per le scale di servizio del Teatro reale, ogni ala presente in cielo come in terra era stata controllata - a tal punto giungeva l'efficienza del governo. Nelle settimane che seguirono non fu permesso ad alcun aereo, privato o pubblico che fosse, di alzarsi in volo, e le ispezioni effettuate su quelli in transito divennero talmente rigorose e interminabili che le compagnie aeree internazionali decisero di cancellare lo scalo intermedio di Onhava. Vi furono alcune vittime: con grande esultanza fu abbattuto un aerostato cremisi e l'aeronauta (un noto meteorologo) annegò nel Golfo della Sorpresa; un pilota decollato da una base lappone per una missione umanitaria si smarrì a causa della nebbia e incappò nei caccia zemblani, talmente assillanti che lo costrinsero a posarsi sulla vetta di una montagna. Qualche scusante si poteva anche trovare per tutto ciò. I cospiratori realisti continuavano ad alimentare l'illusione che il re si trovasse ancora nelle regioni selvagge di Zembla, attirando in tal modo reggimenti interi tra le montagne e i boschi della nostra accidentata penisola alla ricerca del monarca. Il governo impiegò una quantità assurda di energie per passare pomposamente al vaglio le centinaia di impostori ammassati nelle prigioni del paese. Quasi tutti riuscirono a riacquistare la libertà con le loro pagliacciate; alcuni, ahimè, caddero sul campo. Poi, nella primavera dell'anno successivo, dall'estero giunse una notizia strabiliante: l'attore zemblano Odon dirigeva le riprese di un film a Parigi! A quel punto si fece giustamente strada la congettura che, se Odon era fuggito, doveva essere fuggito anche il re. Durante una seduta straordinaria del governo Estremista, passò di mano in mano, nel silenzio più tetro, un giornale francese con il seguente titolo di testa: L'EX-ROI DE ZEMBLA EST-IL A PARIS». Un desiderio esasperato di vendetta, piuttosto che una strategia di Stato, mise in moto l'organizzazione segreta della congiura intesa ad annientare il reale fuggiasco, della quale Gradus non era che un oscuro membro. Velenosi criminali! Simili a quei delinquenti smaniosi di torturare il galantuomo invulnerabile la cui testimonianza li ha gettati in carcere per il resto della loro vita. Si sa di carcerati di tal fatta, usciti di senno al pensiero che la loro vittima inafferrabile, della quale bramerebbero contorcere e strappare i testicoli con i propri artigli, sieda a una tavola festosa, sotto l'ombra d'un pergolato, su un'isola assolata, o che stia vezzeggiando una graziosa creaturina ritta fra le sue ginocchia, in serena sicurezza - e beffandosi di loro! É lecito supporre che non esista inferno peggior e dell'ira impotente che essi provano a mano a mano che la consapevolezza di quella letizia dolce e implacabile si fa strada in loro e li pervade, distruggendone a poco a poco le menti bestiali. Un gruppo di Estremisti particolarmente affezionati, autodefinitisi le Ombre, si erano riuniti e avevano giurato di scovare il re e di ucciderlo, ovunque egli fosse. In un certo senso, erano l'ombra gemella dei Karlisti; molti di essi, infatti, contavano dei cugini o persino dei fratelli tra i seguaci del re. Senza dubbio, l'origine di entrambi i gruppi poteva essere fatta risalire a vari rituali sconsiderati all'interno di confraternite studentesche o di circoli militari, e il loro sviluppo poteva essere analizzato in termini di mode e contromode; ma mentre uno storico dotato di obiettività associa al Karlismo un fascino romantico e nobile, lo speculare gruppo Ombra non può non apparire assolutamente gotico e disgustoso. La figura grottesca di Gradus, un incrocio fra un pipistrello e un granchio, non era poi molto più bizzarra di quella di parecchie altre Ombre, come, per esempio, Nodo, fratellastro epilettico di Odon, nonché baro, o un Mandevil pazzo che aveva perso una gamba nel tentativo di creare l'antimateria. Da lungo tempo Gradus faceva parte di ogni sorta di scialbe organizzazioni sinistroidi. Nella sua grigia esistenza non aveva. mai commesso omicidi, pur essendo giunto più volte assai prossimo a farlo. In seguito sostenne che, quando si ritrovò designato a rintracciare e a uccidere il re, la scelta fu decisa dalle carte - ma non dimentichiamo che fu Nodo a mescolarle e a distribuirle. Può darsi che l'origine straniera del nostro abbia segretamente influito su una designazione che avrebbe così sottratto i figli di Zembla al disonore di un vero e proprio regicidio. Possiamo bene immaginare la scena: le sinistre luci al neon del laboratorio, in una dépendance delle Vetrerie, nella quale si dà il caso che le Ombre tenessero la loro riunione quella notte; l'asso di picche sul pavimento di piastrelle; la vodka tracannata dalle provette; mani che battono pacche sulla schiena ricurva di Gradus, e la cupa esultanza dell'uomo nel ricevere quelle alquanto infide congratulazioni. Fissiamo il momento fatidico alle ore 0.0.5 del 2 luglio 1959, e il caso vuole che quella sia anche la data in cui un innocente poeta vergava i primi versi del suo ultimo poema. Ma davvero Gradus era la persona adatta a quel compito? Sì e no. Un certo giorno, nella sua prima giovinezza, quando lavorava come fattorino in una grande e deprimente azienda che fabbricava scatole di cartone, aiutò pacatamente tre compagni a tendere una imboscata a un giovinetto del luogo che quelli volevano conciare per le feste in quanto aveva vinto una motocicletta a una fiera. Il giovane Gradus si procurò un'accetta e sovrintese all'abbattimento di un albero che, tuttavia, cadde in modo sbagliato, senza riuscire a bloccare del tutto la strada campestre solitamente percorsa dalla vittima ignara nell'incipiente crepuscolo. Il povero giovane che sfrecciava ronzando in direzione del luogo nel quale si erano acquattati quei teppisti era uno snello lorenese dall,aspetto delicato, e si doveva essere ben abietti per invidiargli quell'innocuo diletto. Alquanto curioso è il fatto che, mentre stavano in attesa, il nostro futuro regicida si addormentasse in un fosso e di conseguenza si perdesse la breve colluttazione nel corso della quale il coraggioso lorenese prese a pugni due degli assalitori e li mise fuori combattimento, dopo aver investito con il motorino il terzo, che rimase storpio per tutta la vita. Gradus non si affermò veramente mai nell'industria vetraria, alla quale ritornò più volte nell'intervallo fra le sue attività di commerciante di vini e di stampatore di opuscoli. Iniziò come fabbricante di diavoletti di Cartesio - folletti di vetro di bottiglia che andavano su e giù in tubi riempiti di alcol denaturato, offerti in vendita ai passanti lungo i boulevards nella Settimana dell'amento. Fu fochista addetto alla fornace e in seguito laminatore di lastre di vetro in vetrerie statali; credo, inoltre, che si debbano sostanzialmente a lui le finestre color rosso e ambra, di notevole bruttezza, nelle grandi latrine pubbliche di Kalixhaven, chiassoso ma pittoresco centro di ritrovo di marinai. Asseriva di avere perfezionato lo scintillio e il tintinnio delle cosiddette feuilles-d'alarme usate da viticoltori e frutticoltori per spaventare gli uccelli. Ho scaglionato le note relative a Gradus in modo che la prima sia la più vaga, mentre quelle che seguono risultino gradualmente più chiare, proprio come Gradus si fa gradualmente più vicino nello spazio e nel tempo. Nell'intimo, il nostro uomo meccanico era mosso da semplici molle e spirali. Lo si potrebbe definire un puritano. Un'unica basilare ripugnanza, formidabile nella sua semplicità, pervadeva il suo animo opaco: detestava l'ingiustizia e l'inganno. Ne detestava la combinazione - le due cose vanno sempre di pari passo - con una passione lignea per esprimere la quale non esistevano, né erano necessarie le parole. Un'avversione di tal fatta avrebbe meritato di essere elogiata, se non fosse stata un sottoprodotto della stupidità insanabile del nostro. Tutto ciò che superava la sua capacità di comprensione, egli lo dichiarava ingiusto e fraudolento. Venerava le idee generali, e lo manifestava con disinvoltura pedante. I principi generali erano divini, lo specifico diabolico. Se un individuo era povero e un altro ricco, non contava che cosa avesse rovinato l'uno o arricchito l'altro; l'ingiustizia stava nella differenza stessa, e il povero che non la denunciava era iniquo quanto il ricco che la ignorava. Coloro che sapevano troppo, scienziati, scrittori, matematici, cristallografi e così via, non erano migliori dei re o dei preti: tutti detenevano ingiustamente una parte di potere del quale altri erano stati defraudati con l'inganno. Chi è onesto e perbene dovrebbe stare sempre all'erta per scoprire le astute furfanterie messe in atto dalla natura o dal prossimo. La Rivoluzione zemblana procurò a Gradus soddisfazioni, ma anche qualche frustrazione. Un episodio alquanto irritante si rivela assai ricco di significato in un'ottica retrospettiva giacché appartiene a un ordine di cose che Gradus avrebbe dovuto imparare ad aspettarsi, ma non gli riuscì mai. Fra coloro che si erano finti il re, uno particolarmente brillante, l'asso del tennis Julius Steinmann (figlio del noto filantropo), per diversi mesi era riuscito a eludere la polizia, esasperata oltre ogni limite dall'imitazione perfetta che egli faceva della voce di Charles il Beneamato in una serie di interventi radiofonici clandestini che si prendevano gioco del governo. Quando, alfine, fu preso, venne giudicato da una commissione speciale, della quale faceva parte anche Gradus, che lo condannò a morte. Il plotone d'esecuzione lavorò alla meno peggio, in modo abborracciato e qualche tempo dopo quel prode giovane fu scoperto in un ospedale di provincia dove stava riprendendosi dalle ferite. Quando Gradus ne venne a conoscenza, scoppiò in uno dei suoi rari accessi di collera - non perché il fatto presupponesse macchinazioni dei realisti, ma perché il corso preciso, equo e ordinato della morte era stato intralciato in modo impreciso, iniquo e disordinato. Senza consultare nessuno, si precipitò all'ospedale, irruppe all'interno, individuò Julius in una corsia affollata e fece fuoco due volte contro il bersaglio, mancandolo, prima che un infermiere vigoroso riuscisse, torcendogli il polso, a strappargli l'arma di mano. Si precipitò nuovamente al quartier generale e ritornò all'ospedale con una decina di soldati, ma il paziente era scomparso. Cose simili bruciano, ma che poteva farci Gradus? Sono le Parche stesse riunite in conciliabolo a ordire una grande cospirazione contro di lui. Si può osservare, con scusabile esultanza, che a quelli come lui non è mai concessa l'emozione suprema di liquidare personalmente le proprie vittime. Oh, certo, Gradus si dà da fare, è abile, volonteroso, spesso indispensabile. Ai piedi del patibolo, in un mattino gelido e grigio, è Gradus che spazza via la neve farinosa dagli stretti gradini; ma non sarà il suo viso lungo e coriaceo quello che vedrà per ultimo in questo mondo l'uomo destinato a salire quei gradini. É Gradus ad acquistare la valigia dozzinale di fibra che un altro, più fortunato, piazzerà, con una bomba a orologeria all'interno, sotto il letto di un ex accolito. Nessuno meglio di Gradus sa come tendere una trappola mediante un falso annuncio, ma la vecchia e ricca vedova che abbocca sarà corteggiata e uccisa da un altro. Quando il tiranno deposto è legato, nudo e gemente, a un'asse nella pubblica piazza e fatto a pezzi dal popolo che taglia via fette del suo corpo e se le mangia, distribuendo fra gli astanti il suo corpo vivo (come ebbi a leggere da giovane a proposito di un despota italiano, una storia che mi ha reso vegetariano per il resto della vita), Gradus non prende parte al sacramento infernale: egli indica lo strumento adatto e sovrintende alla trinciatura. Le cose sono come è giusto che siano; il mondo ha bisogno di Gradus. Ma Gradus non dovrebbe commettere regicidi. Vinogradus non dovrebbe mai, mai provocare Iddio. Leningradus non dovrebbe puntare la sua cerbottana sparapiselli contro le persone, neppure in sogno, perché, se lo farà, un paio di braccia smisuratamente nerborute, mostruosamente pelose lo abbrancheranno da dietro e stringeranno, stringeranno, stringeranno. Verso 172: libri e persone In un taccuino nero che per fortuna ho qui con me trovo, buttati giù alla buona, in ordine sparso, tra vari passi che casualmente mi avevano colpito (una nota a piè di pagina tratta dalla Vita del Dr Johnson di Boswell, le iscrizioni sugli alberi del famoso viale della Wrirdsmith, una citazione da sant'Agostino, e così via), alcuni esempi di conversazioni di John Shade che avevo raccolto per potervi fare riferimento quando mi fossi trovato in presenza di persone interessate o infastidite dalla mia amicizia con il poeta. Confido che il suo e mio lettore vorrà scusarmi se interrompo il corso regolare dei commenti per permettere al mio illustre amico di parlare direttamente. Menzionando i critici letterari, ebbe a dire: «Non ho mai attribuito valore agli elogi della stampa, benché talvolta morissi dalla voglia di identificarmi nell'immagine fulgida di questo o quel perfetto campione di eccellente discernimento; e non mi sono mai preso il disturbo di sporgermi dalla finestra per vuotare il mio skoramis sulla zucca di qualche povero scribacchino. Considero sia la stroncatura sia l'elogio sperticato con la medesima indifferenza». Kinbote: «Immagino che liquidi la prima giudicandola nulla più delle ciance di uno sciocco, e il secondo come un gesto d'amicizia da parte di un'anima gentile». Shade: «Proprio così». Parlando del Direttore dell'altezzoso dipartimento di Russo, il Prof. Pnin, un vero e proprio caporale con i subalterni (per fortuna il Prof. Botkin, che insegnava in un altro dipartimento, non dipendeva da quel «perfezionista» grottesco): «Che strano che gli intellettuali russi siano assolutamente privi di senso dell'umorismo pur vantando umoristi meravigliosi quali Gogol', Dostoevskij, Cechov, Zoscenko e quell'accoppiata di autori geniali che sono Il, F e Petrov». A proposito della volgarità di un nostro conoscente corpulento: «Quel tizio è grossolano come un grembiule da barbecue». Kinbote (ridendo): «Magnifico». Quando si discusse dell'insegnamento di Shakespeare a livello universitario: «Innanzi tutto, ignorare idee e retroterra sociale, e abituare la matricola a rabbrividire, a ubriacarsi della poesia di Amleto o di Re Lear, a leggere con la spina dorsale e non con il cranio». Kinbote: «Prediligi i passi elaborati?» Shade: «Sì, mio caro Charles, mi ci ravvoltolo come un bastardo riconoscente su una chiazza erbosa insozzata da un cane danese». A proposito dell'influsso e della penetrazione rispettivamente del marxismo e del freudismo, dissi: «Di due false dottrine, la peggiore è sempre quella più difficile da sradicare». Shade: «No, Charlie, esistono criteri ancor più semplici: il marxismo richiede un dittatore, e un dittatore richiede una polizia segreta, e ciò è la fine del mondo; mentre il freudiano, perfino il più stupido, può sempre esprimere il proprio voto al poll, le elezioni, perfino quando si compiace di chiamarle [sorridendo] «impollinazioni politiche». Sulle esercitazioni degli studenti: «In genere, sono molto benevolo» [disse Shade]. «Ma ci sono alcune cosette che non perdono». Kinbote: «Per esempio?» «Che non si leggano i libri assegnati. Che li si legga da idiota. Che vi si cerchino simboli; per esempio: "L'autore usa la straordinaria immagine foglie verdi perché il verde simboleggia la felicità e la frustrazione». Ho anche l'abitudine di abbassare drasticamente il voto di uno studente che usi i termini "semplice" e "sincero" in senso elogiativo; per esempio: "Lo stile di Shelley è sempre molto semplice e bello", oppure: "Yeats è sempre sincero". É una tendenza molto diffusa e, quando sento un critico parlare della sincerità di un autore, so che è uno sciocco o il critico o l'autore». Kinbote: «Ma mi dicono che agli studenti delle superiori si insegna a pensare in questo modo». «É lì che la ramazza dovrebbe fare il suo mestiere. Un bambino dovrebbe avere trenta specialisti, ciascuno in grado di insegnargli una materia, e non una maestrina sotto stress che gli mostra la fotografia di una risaia e gli dice che quella è la Cina perché lei non sa niente della Cina, né di altro, e neanche conosce la differenza fra longitudine e latitudine». Kinbote: «Sì. Sono d'accordo». Verso 181: Oggi Per la precisione, 5 luglio 1959, sesta domenica dopo la Pentecoste. Shade iniziò a scrivere il Canto Secondo «di prima mattina» (come da annotazione in cima alla scheda 14). Continuò (fino al verso 208), a più riprese, per tutta la giornata. Dedicò quasi tutta la sera e parte della notte a quello che i suoi prediletti scrittori settecenteschi hanno definito «gli Affanni e le Vanità del Mondo». Dopo che l'ultimo ospite se ne fu andato (in bicicletta), e i posacenere furono svuotati, le finestre rimasero buie per un paio d'ore; poi, verso le 3 del mattino, dalla finestra del bagno al piano di sopra vidi che il poeta era ritornato alla sua scrivania, nella luce lilla del suo antro, e quella sessione notturna portò il canto fino al verso 230 (scheda 18). Una successiva escursione in bagno, un'ora e mezzo più tardi, all'alba, mi permise di scoprire che la luce si era trasferita alla camera da letto, e sorrisi con indulgenza, perché, sulla base delle mie deduzioni, erano trascorse soltanto due notti dalla tremilanovecentonovantanovesima volta - ma lasciamo perdere. Dopo qualche minuto, tutto ripiombò nel buio assoluto, e io me ne tornai a letto. Il 5 luglio, a mezzogiorno, nell'opposto emisfero, sulla pista del campo d'aviazione di Onhava spazzata dalla pioggia, Gradus, con un passaporto francese in mano, si dirigeva verso un aereo di linea russo con destinazione Copenaghen, in sincronia con Shade che di primo mattino (ora della Costa atlantica) si accingeva a comporre, ovvero a mettere per iscritto dopo averli composti a letto, i versi iniziali del Canto Secondo. Quando, quasi ventiquattr'ore dopo, giunse al verso 230, Gradus, ristorato da una notte trascorsa nella residenza estiva del nostro console a Copenaghen, un'Ombra importante, era appena entrato, sempre in compagnia dell'Ombra, in un negozio d'abbigliamento per adeguare il suo aspetto alla descrizione contenuta in note successive (ai versi 286 e 408). Oggi ancora emicrania, peggio di ieri. Per quanto riguarda le mie attività, temo che fossero assolutamente insoddisfacenti sotto tutti i punti di vista - emotivo, creativo e sociale. Quel periodo iellato aveva avuto inizio il giorno prima, quando ero stato così gentile da offrirmi di accompagnare un giovane amico - candidato a giocare il terzo turno al mio tavolo da ping-pong e al quale era stata ritirata la patente dopo una serie impressionante di infrazione al codice stradale -, con la mia potente Kramler, fino alla tenuta dei suoi genitori, una bazzecola di trecento chilometri. Durante una festa che andò avanti tutta la notte, tra una folla di sconosciuti - giovani, vecchi, ragazze profumate in modo nauseabondo -, in mezzo a fuochi d'artificio, fumo del barbecue, giochi scatenati, musica jazz, e nuotate aurorali, persi contatto con lo stupidello, mi fecero ballare, mi fecero cantare, finii coinvolto nei bla-bla più noiosi che si possano immaginare con parenti vari del ragazzino, e infine, non so come, mi ritrovai condotto a un'altra festa in un'altra tenuta, e lì, dopo alcuni indescrivibili giochi di società durante i quali rischiai che mi fosse tagliuzzata la barba, feci colazione con riso e frutta e fui condotto dal mio sconosciuto ospite, un vecchio pazzo ubriaco con giacca da smoking e brache da cavallerizzo, a fare un barcollante giro delle sue scuderie. Quando ritrovai l'automobile (lontana dalla strada, in una piccola pineta), prelevai dal posto di guida e gettai via un paio di calzoncini da bagno fradici e una ciabattina femminile color argento. I freni si erano usurati nel corso della nottata, e ben presto rimasi senza benzina su un tratto di strada deserto. Gli orologi della Wordsmit.h University battevano le sei quando giunsi finalmente in Arcadia, giurando a me stesso che non sarei mai più incappato in cose del genere, e pregustando ingenuamente il conforto di una serata tranquilla con il mio poeta. Fu solo quando vidi su una sedia dell'ingresso lo scatolone piatto avvolto nei nastri che mi resi conto di aver rischiato di mancare il suo compleanno. Qualche tempo prima avevo notato la data sulla copertina di un suo libro; avevo riflettuto sull'orribile decrepitezza del suo abbigliamento mattutino; scherzosamente avevo confrontato la lunghezza del mio braccio con il suo; e a Washington gli avevo comperato una vestaglia di seta assolutamente stupenda, una vera pelle di drago in cromie orientali, degna di un samurai; e questo era il contenuto dello scatolone. Mi liberai in fretta degli abiti e, mugghiando il mio inno preferito, feci la doccia. Il mio versatile giardiniere, nel frizionarmi energicamente dopo il bagno, cosa della quale avevo molto bisogno, mi informò che quella sera gli Shade davano una grande cena in piedi, alla quale sarebbe intervenuto il senatore Blank (uno statista assai franco, molto presente su tutti i giornali, cugino di John). Ebbene, nulla allieta maggiormente una persona solitaria quanto una festa di compleanno giunta inaspettata, e io pensando, o meglio, nella certezza che il mio telefono rimasto incustodito avesse suonato tutto il giorno, composi spensierato il numero degli Shade; naturalmente fu Sybil a rispondere: «Bon soir, Sybil». «Oh, buona sera, Charles. Fatto buon viaggio?» «Be', a essere sincero...» «Senta, so che vuole John, ma al momento sta riposando, e io sono occupatissima. La chiamerà dopo, va bene?» «Dopo, quando... stasera?» «No, domani, direi. Suonano il campanello. Arrivederci». Strano. Perché mai Sybil doveva badare ai campanelli quando, oltre alla cameriera e alla cuoca, c'erano anche due ragazzi in giacca bianca ingaggiati per l'occasione? Un falso senso d'orgoglio mi impedì di fare ciò che avrei dovuto fare - mettermi sotto braccio il regalo principesco e marciare sereno fino a quella casa inospitale. Chissà, forse alla porta di servizio sarei stato ricompensato con un goccio di sherry da cucina. Speravo ancora che si fosse trattato di un errore e che Shade avrebbe telefonato. Fu un'attesa amara, e l'unico effetto della bottiglia di champagne che mi bevvi tutto solo passando da una finestra all'altra fu una forte crapula (mal di testa post sbornia). Da dietro una tenda, da dietro un arbusto di bosso, attraverso il velo dorato della sera e il nero merletto della notte continuai a osservare quel prato, quel vialetto d'accesso, quella lunetta sopra la porta, quelle finestre scintillanti come gioielli. Il sole non era ancora tramontato quando, alle sette e un quarto, sentii arrivare l'automobile dei primi invitati. Oh, li vidi tutti. Vidi il vecchio Dr Sutton, un signore piccolo, di forma perfettamente ovale e dai capelli candidi come la neve, che giunse su una Ford traballante insieme con la sua alta figliola, Mrs Starr, vedova di guerra. Vidi una coppia - in seguito mi fu detto essere Mr Colt, avvocato del luogo, e consorte -, che per errore entrò con la Cadillac nel mio vialetto, prima di indietreggiare in una convulsione di nictizzazioni luminose. Vidi un anziano scrittore di fama mondiale, curvo sotto l'incubo degli onori letterari e della propria mediocrità prolifica, arrivare in taxi, emergendo dalle indistinte lontananze del tempo che fu, allorché lui e Shade insieme avevano diretto un piccola rivista. Vidi Frank, l'uomo tuttofare degli Shade, partirsene sulla station wagon. Vidi un professore d'ornitologia, oramai in pensione, dirigersi a piedi verso la casa, dopo avere parcheggiato l'automobile in divieto di sosta, sulla strada principale. Vidi, comodamente sistemata nella loro minuscola Pulex, al cui volante sedeva l'amichetta dall'aspetto mascolino e dai capelli arruffati, la mecenate che aveva promosso l'ultima mostra di zia Maud. Vidi Frank fare ritorno con l'antiquario di New Wye, il miope Mr Kaplun, e la di lui moglie un'aquila in sfacelo. Vidi uno studente coreano, già laureato, arrivare in smoking su una bicicletta, e il Rettore presentarsi con un abito sformato, a piedi. Vidi, impegnati nell'adempimento delle incombenze del cerimoniale, tra luci e ombre, e di finestra in finestra, là dove i martini e gli highball si incrociavano come marziani, i due giovani in giacca bianca della scuola alberghiera, e mi resi conto di conoscere bene, molto bene, il più snello. Infine, alle otto e mezzo (quando, mi figuro, la padrona di casa aveva cominciato a far crocchiare le giunture delle dita, come d abitudine se diventava impaziente) una lunga limousine nera, di un nero lucido quanto mai ufficiale e piuttosto funereo, scivolò nell'alone di luce del vialetto e, mentre il grasso chauffeur nero si affrettava ad aprire la portiera, vidi, con un senso di pena, il mio poeta emergere dalla casa, un fiore bianco all'occhiello e un largo sorriso di benvenuto sul viso acceso dall'alcol. La mattina seguente, non appena ebbi veduto Sybil allontanarsi in macchina per andare a prelevare Ruby, la domestica a ore, passai dall'altra parte con la scatola nella sua confezione tanto graziosa quanto grondante riprovazione. Davanti al loro garage vidi, posato per terra, un buchanan, una piccola pila di libri della biblioteca che Sybil evidentemente aveva dimenticati lì. Mi chinai su di essi in preda all'incubo della curiosità: erano quasi tutte opere di Faulkner; l'attimo seguente Sybil era di ritorno con uno scricchiolio di pneumatici sulla ghiaia, proprio dietro di me. Aggiunsi la pila di libri al mio dono e le misi il tutto in grembo. Gentile da parte mia, ma cosa c'era nella scatola? Oh, solo un regalo per John. Un regalo? Be', non era stato il suo compleanno il giorno prima? Sì, certo, ma dopo tutto i compleanni non sono che mere convenzioni, no? Convenzioni o no, era stato anche il mio compleanno, con una piccola differenza di sedici anni, ecco tutto. Oh, mio Dio! Auguri! Ed era stata bella la festa? Be', si sa come sono feste del genere (a questo punto misi la mano in tasca per prendere un altro libro, un libro che ella non si aspettava). Sì, e come sono? Oh, persone con le quali ci si conosce da una vita e che si devono assolutamente invitare una volta l'anno, gente come Ben Kaplun e Dick Colt, vecchi compagni di scuola, e il cugino di Washington, e il tizio che scrive quei romanzi che lei e John trovate così fasulli. Non l'abbiamo invitata perché sappiamo quanto trovi tediose simili faccende. Era la battuta che aspettavo. «A proposito di romanzi», dissi «si ricorda che una volta lei, suo marito e io convenimmo che il grossolano capolavoro di Proust non era che un'immensa, macabra favola, una sognante apoteosi dell'asparago, senza alcun riferimento possibile a personaggi di qualsiasi periodo della storia francese, un travestissement sessuale e una farsa colossale, il vocabolario del genio e della sua poesia, ma nient'altro padrone di casa villane fino all'impossibile, mi lasci dire, per favore, e ospiti ancora più villani, litigate meccaniche d'après Dostoevskij e sfumature snobistiche di ascendenza tolstojana ripetute e dilatate in modo intollerabile, paesaggi marini adorabili, viali evanescenti, no, non m'interrompa, effetti di luce e ombra che possono competere con quelli dei maggiori poeti inglesi, una flora di metafore, descritta da Cocteau, mi pare - come "un miraggio di giardini sovrapposti", e, non ho ancora terminato, una storia d'amore assurda, messa insieme alla meglio, tra un giovane mascalzone biondo (il Marcel fittizio) e una jeune fille inverosimile, con un seno incollato addosso, il collo grosso di Vronskij (e di Lëvin), e le natiche di un cupido al posto delle guance; ma - e adesso mi lasci finire con una nota gentile -- avevamo torto, Sybil, avevamo torto a non riconoscere al nostro piccolo beau ténébreux la capacità di evocare "interesse umano": c'è, c'è - magari di tipo ottocentesco, o perfino settecentesco, ma c'è. Per favore, si studi e si ristudi per bene, ragno, questo libro [porgendolo], vi troverà un segnalibro grazioso acquistato in Francia, desidero che John lo tenga. Au revoir, Sybil, adesso devo andare. Credo che il mio telefono stia suonando". Sono uno zemblano molto scaltro. Per ogni evenienza, mi ero messo in tasca il terzo e ultimo volume dell'edizione della Bibliothèque de la Pléiade, Parigi, 1954, dell'opera di Proust, nel quale avevo evidenziato alcuni passi alle pagine 269-271. Mme de Mortemart, dopo aver deciso di non includere Mme de Valcourt tra gli «eletti», alla sua soirée, si era riproposta di inviarle un biglietto il giorno seguente per dirle «Cara Edith, mi manchi, ieri sera non facevo troppo affidamento sulla tua venuta (Edith si sarebbe chiesta: come poteva aspettarsi che andassi, dal momento che non mi ha invitata?) perché so che non sei molto incline a questo genere di intrattenimento che, se mai, ti annoi». E questo è tutto riguardo all'ultimo compleanno di John Shade. Versi 181-182: Beccofrusoni ... una cicala L'uccello dei versi 1-4 e 131 è di nuovo con noi. Ricomparirà nel verso finale del poema; e un'altra cicala, abbandonando dietro di sé il proprio involucro, frinirà trionfante ai versi 236-244. Verso 189: Starover Blue Questo richiama alla mente il Real Gioco dell'Oca, qui tuttavia giocato con aeroplanini di latta verniciata: direi piuttosto un gioco dell'oca selvatica depistata (andare alla casella 209). Verso 209: lento declino Lo stesso spazio-tempo è declino; Gradus si sta dirigendo in volo verso occidente; è arrivato alla grigioazzurra Copenaghen. Dopodomani (7 luglio) proseguirà per Parigi. É sfrecciato rasente questo verso ed è sparito - per tornare, tra breve, a offuscare ancora le nostre pagine. Versi 213-214: Un sillogismo Questo può piacere a un ragazzo. Più avanti negli anni comprendiamo che siamo noi quegli «altri». Verso 230: un fantasma di domestiche apparenze L'ex segretaria di Shade, Jane Provost, che di recente sono andato a trovare a Chicago, mi ha raccontato molte più cose su Hazel di quanto non abbia fatto suo padre; egli mostrava di non essere incline a parlare della figlia defunta e io, non prevedendo questo lavoro d'indagine e commento neppure lo sollecitai a discorrere sul tema e a sfogarsi con me. Vero è che in questo canto si è sfogato piuttosto bene, e che il ritratto di Hazel è chiarissimo ed esauriente; forse un po' troppo esauriente, da un punto di vista architettonico, in quanto il lettore non può sfuggire alla sensazione che esso sia stato approfondito in ogni dettaglio a detrimento di certe altre questioni più doviziose e meno comuni che il ritratto medesimo ha estromesso. Ma un commentatore non può sottrarsi al proprio dovere, per quanto noiose siano le informazioni che egli è tenuto a raccogliere e a trasmettere. Ecco il motivo della presente nota. Sembra che all'inizio del 1950, molto prima dell'episodio del granaio, la sedicenne Hazel fosse coinvolta in certe impressionanti manifestazioni «psicocinetiche» che si protrassero per circa un mese. All'inizio, così pare di capire, il Poltergeist intendeva impregnare l'alterazione psichica con l'identità di zia Maud, da poco deceduta; il primo oggetto a mettersi in azione fu la cesta nella quale un tempo ella aveva tenuto il suo semiparalizzato terrier Skye (la razza che nel nostro paese è chiamata «cane salice piangente»). Sybil aveva fatto sopprimere il cane subito dopo il ricovero in clinica della sua padrona, attirandosi la collera di Hazel, sconvolta dal dolore. Una mattina quella cesta schizzò fuori dal santuario «intatto» (si vedano i versi 91-98), e viaggiò lungo il corridoio, fin oltre la porta aperta dello studio nel quale Shade era intento al lavoro; egli la vide sfrecciare mentre il suo umile contenuto si sparpagliava in giro: una copertina cenciosa, un osso di gomma e un cuscino semiscolorito. Il giorno successivo, l'azione si spostò nella sala da pranzo, ove uno degli oli di zia Maud (Cipresso con pipistrello) fu trovato rivolto verso la parete. Seguirono altre manifestazioni, come, per esempio, brevi voli del suo album di ritagli di giornale e, naturalmente, colpi di ogni genere, soprattutto nel santuario, che svegliavano, nella camera contigua, Hazel, immersa in un sonno certamente sereno. Ma il Poltergeist rimase ben presto a corto di idee per quanto concerneva zia Maud e divenne, per così dire, più eclettico. Mise in atto l'intero repertorio degli spostamenti più banali compiuti dagli oggetti in casi del genere: le casseruole cadevano con gran fracasso in cucina; nella ghiacciaia fu rinvenuta una palla di neve (suppongo, anzitempo); un paio di volte Sybil vide un piatto volare come un disco e atterrare tranquillamente sul divano; le lampade si accendevano in continuazione in varie parti della casa; le sedie se ne partivano caracollando per accatastarsi al valico insuperabile della dispensa; misteriosi pezzetti di spago facevano la loro comparsa sul pavimento; crapuloni invisibili scendevano barcollando le scale nel cuore della notte; e un mattino d'inverno, Shade, che si era alzato per dare un'occhiata al tempo, si avvide che il tavolino dello studio, sul quale teneva un dizionario Webster simile per mole alla Bibbia e aperto alla lettera M, se ne stava di fuori, sulla neve, in stato di shock (in via subliminale, ciò potrebbe avere influito sulla composizione dei versi 5-12). Immagino che in quel periodo gli Shade, o per lo meno John Shade, provassero una sensazione di bizzarra instabilità come se alcuni pezzi di quel mondo quotidiano ben funzionante si fossero svitati c ci si ritrovasse con uno dei quattro pneumatici che ti rotola accanto, o con il volante staccato tra le mani. Il mio povero amico non poteva fare a meno di ricordare i drammatici mancamenti della sua adolescenza e si chiedeva se tutto ciò non fosse magari una nuova variante genetica dello stesso tema che si era trasmesso attraverso la procreazione. Lo sforzo di nascondere ai vicini quei fenomeni orribili e umilianti non era certo l'ultima delle preoccupazioni degli Shade. Egli era terrorizzato e straziato dalla compassione. Pur non essendo mai riusciti a mettere con le spalle al muro quella ragazza floscia, debole, maldestra e solenne, all'apparenza più incuriosita che impaurita, lui e Sybil non dubitarono mai del fatto che, per qualche via straordinaria, ella fosse il tramite della manifestazione paranormale che a loro avviso rappresentava (cito Jane P.) «una proiezione verso l'esterno o una espulsione della pazzia». Non potevano fare molto, in parte perché a loro non andava la moderna psichiatria-vudù, ma soprattutto perché temevano Hazel, e temevano di ferirla. Tuttavia, consultarono in segreto il valente Dr Sutton, medico all'antica, che li sollevò un po' di morale. Stavano pensando di cambiare casa o, per essere esatti, manifestavano ad alta voce, tra loro, questa intenzione, in modo da essere uditi da chiunque potesse essere in ascolto, quando all'improvviso il demonio se ne andò, proprio come succede col moskovett, quella raffica pungente, quel colosso d'aria fredda che soffia sulle nostre coste orientali per tutto il mese di marzo, e poi, un mattino, ecco che si odono gli uccelli, e le bandiere pendono flosce, e i contorni del mondo tornano al loro posto. I fenomeni cessarono completamente e, se non furono dimenticati, per lo meno a essi non si fece più cenno; ma com'è strano che non si riesca a percepire un segno misterioso di equazione tra l'Ercole che balza fuori dalla debole costituzione di una bambina nevrotica e il fantasma chiassoso di zia Maud; com'è strano che la nostra razionalità si accontenti del fatto che noi optiamo per la prima spiegazione benché, in realtà, lo scientifico e il soprannaturale, il miracolo del muscolo e il miracolo della mente siano entrambi inspiegabili, come lo sono tutte le vie del Signore. Verso 231: Come sono ridicoli, ecc Una variante stupenda, con una curiosa lacuna, si dirama a questo punto della minuta (in data 6 luglio): Strano Aldilà ove dimorano i nostri nati morti, tutti, gli animali di casa rinati, gli infermi, risanati, e gli intelletti defunti prima di giungere laggiù: povero vecchio Swift, povero -, povero Baudelaire Cosa potrebbe rappresentare quella lineetta? A meno che Shade non abbia attribuito valore prosodico alla e muta di «Baudelaire», e sono assolutamente certo che non l'avrebbe mai fatto scrivendo versi in inglese (cfr. «Rabelais», verso 502), il nome richiesto a questo punto deve potersi scandire come un trocheo. Tra i nomi di celebri poeti, pittori, filosofi, ecc. che, a quanto si sa, diventarono pazzi o sprofondarono nella demenza senile, molti potrebbero calzare. Che Shade si sia trovato a dover scegliere fra una gamma eccessivamente ampia, senza che nulla offrisse l'appiglio per una scelta logica, e quindi abbia deciso di lasciare uno spazio bianco, fidando nella misteriosa energia organica che soccorre i poeti per riempirlo quando quest'ultima lo avesse ritenuto opportuno? O fu per un motivo diverso - magari una vaga intuizione, uno scrupolo profetico non gli permisero di vergare il nome di un uomo insigne che si dava il caso fosse suo intimo amico? Voleva forse giocare sul sicuro perché un lettore all'interno della sua stessa cerchia familiare avrebbe potuto obiettare a che quel nome fosse menzionato? Ma se questa è la ragione, perché mai farvi persino cenno in un così tragico contesto? Riflessioni cupe, inquietanti. Verso 238: un involucro vuoto di smeraldo Mi pare di capire che si tratti dell'involucro semitrasparente abbandonato sul tronco di un albero da una cicala adulta che vi si era arrampicata, involucro dal quale è poi emersa. Shade disse che una volta aveva chiesto a una classe di trecento studenti che aspetto avesse una cicala, e soltanto tre di essi lo sapevano. Colonizzatori ignoranti l'avevano soprannominata «locusta» che è, ovviamente, una cavalletta, nel medesimo errore assurdo sono incappate generazioni di traduttori della Cigale et la Fourmi di La Fontaine (si vedano i versi 243-244). La compagna della cigale, la formica, è sul punto di essere imbalsamata nell'ambra. Durante le nostre passeggiate serotine, che furono numerose, almeno nove (stando ai miei appunti) nel mese di giugno, ma che andarono calando fino a due nelle prime tre settimane di luglio (le riprenderemo Altrove), il mio amico aveva un modo alquanto civettuolo di indicare con la punta del bastone varie curiosità naturali. Non si stancava mai di illustrare, mediante quegli esempi, la straordinaria fusione della Zona canadese e della Zona australe che «si verificava», com'egli amava dire, in quel punto particolare dell'area appalachiana, dove alla nostra altitudine, circa quattrocentocinquanta metri sul livello del mare, specie settentrionali di uccelli, insetti e piante si mescolavano con esemplari meridionali. Come quasi tutte le celebrità letterarie, Shade non sembrava rendersi conto del fatto che un umile ammiratore, il quale è riuscito finalmente a intrappolare e finalmente ad avere tutto per sé l'uomo di genio inaccessibile, sia molto più interessato a parlare con lui della letteratura e della vita piuttosto che ad ascoltare come in quel di New Wye la «diana» (presumibilmente un fiore) sia presente accanto all'«atlantis» (presumibilmente un altro fiore) e cose di tal fatta. In particolare, ricordo una passeggiata serale esasperante (6 luglio) che il poeta mi aveva concesso, con maestosa generosità, a risarcimento di una grave offesa (si veda, si veda di frequente, la nota al verso 181) subita per tutta ricompensa a un mio piccolo dono (che non credo egli abbia mai usato), e previa approvazione della moglie, la quale si fece obbligo di accompagnarci per un tratto della strada che conduceva alla Foresta di Dulwich. Shade, grazie ad astute divagazioni di storia naturale, continuava a eludermi, a sottrarsi a me che ero istericamente, intensamente, incontrollabilmente curioso di sapere con esattezza quanta parte delle avventure del re di Zembla fosse riuscito a completare nel corso degli ultimi quattro o cinque giorni. Il mio solito difetto, l'orgoglio, mi impediva di incalzarlo con domande dirette, ma continuavo a ritornare sui miei argomenti precedenti - la fuga dal palazzo, le avventure fra le montagne -, per potergli estorcere una confessione. Sarebbe lecito immaginare che un poeta, impegnato a comporre un pezzo lungo e difficile, afferri al volo l'occasione di parlare dei propri trionfi e dei propri tormenti. E invece, niente del genere! Tutto quello che ottenevo in risposta ai miei infinitamente delicati e cauti interrogatori erano frasi del genere: «Sì. Procede bene», oppure «Nooo, non ne parlo» e infine mi chiuse la bocca con un aneddoto alquanto offensivo su re Alfred al quale, pare, piaceva ascoltare le storie che gli raccontava un suo attendente norvegese, che tuttavia egli scacciava quand'era impegnato in altre faccende: «Oh, there you are. Oh, eccoti!» diceva sgarbato Alfred al mite norvegese venuto a tessere una variante sottilmente diversa di qualche antico mito nordico già narrato in precedenza: «Oh there you are again! Oh eccoti di nuovo!». E così avvenne, miei cari, che un esule meraviglioso, un bardo nordico ispirato da Dio, fosse conosciuto dagli scolari inglesi del giorno d'oggi con il volgare soprannome di «Oh there, Oh eccoti». E tuttavia! In un'occasione successiva il mio capriccioso nonché coniugalmente succube amico fu molto più gentile. Verso 240: Quell'inglese di Nizza I gabbiani del 1933 sono tutti morti, naturalmente. Ma mettendo un annuncio sul «London Times» ci si può procurare il nome del loro benefattore, a meno che Shade non lo abbia inventato. Quando andai a Nizza un quarto di secolo dopo, en lieu di quell'inglese c'era un personaggio del luogo, un vecchio vagabondo barbuto, tollerato se non addirittura incoraggiato come attrazione turistica, il quale se ne stava dritto in piedi come una statua di Verlaine con un gabbiano poco schizzinoso appollaiato di profilo sui capelli arruffati, oppure schiacciava i suoi pisolini sotto il pubblico sole, comodamente raggornitolato, con le spalle al cullante sciabordio del mare, su una panchina della Promenade, sotto la quale aveva disposto in bell'ordine su di un giornale, ad asciugare o a fermentare, bocconi variopinti di viveri indefinibili. Comunque non erano molti gli inglesi che si spingevano fin lì, benché ne notassi parecchi a est di Mentone, sulla banchina ove era stato eretto, ma non ancora scoperto, un monumento di rilevanti proporzioni in onore della regina Vittoria, che la brezza abbracciava a stento, in sostituzione di quello che i tedeschi si erano portato via. Particolare patetico: il corno voglioso del prediletto monocero sporgeva dal telo di copertura. Verso 246: ... cara Il poeta si rivolge alla moglie. Il passo dedicato a lei (versi 246-292) ha una funzione strutturale, di passaggio al tema della figlia. Tuttavia, sono in grado di affermare che, quando sentivamo sopra la testa i passi bellicosi e bruschi della cara Sybil, non sempre «andava tutto bene». Verso 247: Sybil Moglie di John Shade, née Irondell (che non trae origine da una piccola valle ricca di minerale di ferro, ma dalla parola francese per «rondine»). Aveva qualche mese più del marito. Mi risulta che la famiglia sia di origine canadese, come la nonna materna di Shade (cugina di primo grado del nonno di Sybil, se non ho preso un granchio colossale). Fin dall'inizio ho cercato di comportarmi con la massima cortesia verso la moglie del mio amico, e fin dall'inizio ella ha nutrito avversione e diffidenza nei miei confronti. In seguito, sono venuto a sapere che quando si riferiva a me in pubblico, mi chiamava «zecca elefantesca; tafano gigante; verme di macaco; mostruoso parassita di un genio». La perdono - perdono lei e tutti quanti. Verso 270: mia Vanessa bruna É così tipico del cuore di uno studioso in cerca di un appellativo affettuoso sovrapporre il genere di una farfalla a una divinità orfica, oltre all'allusione inevitabile a Vanhomrigh, Esther! A questo proposito mi sono rimasti impressi nella mente un paio di versi tratti da una poesia di Swift (che mi è impossibile rintracciare in questi remoti luoghi boscosi): Quand'ecco! Vanessa in pieno fiore avanzò come stella d'Atalanta Quanto alla farfalla Vanessa, comparirà di nuovo ai versi 993-995. Shade sosteneva che in inglese antico il suo nome era Ammirabile Rossa, The Red Admirable, e che in seguito si corruppe in Ammiraglio Rosso, The Red Admiral. É una delle poche farfalle che conosco bene. Gli zemblani la chiamano harrhalda (l'araldica), forse perché se ne ravvisa l'immagine nel blasone dei duchi di Payn. Certi anni, in autunno, compariva piuttosto spesso nei giardini reali e si posava sugli astri insieme con una efemera. Ho visto l'Ammirabile Rossa banchettare con prugne melmose e, una volta, con un coniglio morto. É un insetto molto vivace. Un esemplare pressoché addomesticato fu l'ultimo oggetto in natura che John Shade mi indicò avviandosi verso il suo destino. Mi accorgo che da talune mie note arriva una zaffata di Swift. Anch'io sono per natura portato ad abbattermi con facilità; sono inquieto, irritabile e sospettoso, benché abbia anche i miei momenti di volubilità e fou rire. Verso 275: Fa quarant'anni che siamo sposati John Shade e Sybil Swallow si sposarono nel 1919, trent'anni esatti prima del matrimonio di re Charles con Disa, duchessa di Payn. Fin dagli inizi del suo regno (1936-1958), rappresentanti della nazione, pescatori di salmoni, vetrai non iscritti a sindacati, gruppi militari, parenti preoccupati, e soprattutto il vescovo di Yeslove, un santo vecchio di pletorica costituzione, avevano fatto del loro meglio per indurlo a rinunciare ai suoi copiosi ma sterili piaceri, e a prendere moglie. Era in ballo non la moralità, bensì la successione. Come già era accaduto in passato ad alcuni suoi predecessori, rudi sovrani degli elfi che ardevano d'amore per i ragazzini, il clero benevolmente ignorava le abitudini pagane del nostro giovane scapolo, ma voleva che egli facesse ciò che un Charles precedente e ancor più riluttante aveva fatto: prendersi una notte di vacanza e generare un erede nel rispetto della legge. Vide per la prima volta la diciannovenne Disa in una notte di festa, quella del 5 luglio 1947, a un ballo mascherato nel palazzo dello zio. Ella indossava un abito maschile, da giovanetto tirolese; aveva le ginocchia un po' valghe, ma 1'insieme era prode e assai grazioso. Più tardi, con la sua nuova, magnifica decappottabile egli aveva accompagnato la ragazza e i di lei cugini (due guardie reali mascherate da fioraie) in giro per le strade della città a vedere l'illuminazione strepitosa allestita per il compleanno, e il fackeltanz nel parco, e i fuochi d'artificio, e le facce pallide volte all'insù. Rinviò per quasi due anni ma, incalzato da consiglieri di disumana eloquenza, alla fine cedette. La vigilia del matrimonio, egli passò quasi tutta la notte pregando, chiuso a doppia mandata, in totale solitudine, dentro la gelida vastità della cattedrale di Onhava. Gli antenati lo osservavano, compiaciuti, dalle vetrate color rubino e ametista. Mai in vita sua aveva chiesto con tanto fervore a Dio consiglio e forza. Dopo il verso 274, c'è una falsa partenza, nella minuta: Il mio nome mi piace: Shade, Ombre, «uomo», quasi, in spagnolo... Ci si rammarica che il poeta non abbia sviluppato questo tema - risparmiando così al lettore l'imbarazzo dei particolari intimi che seguono. Verso 286: la scia rosa di un jet sul fuoco del tramonto Anche io solevo richiamare l'attenzione del mio poeta sulla bellezza idilliaca degli aeroplani nel cielo crepuscolare. Chi avrebbe potuto immaginare che il giorno stesso (7 luglio) in cui Shade vergava questo verso luminoso (l'ultimo della scheda 23) Gradus, alias Degré, fosse arrivato in volo a Parigi da Copenaghen, concludendo così la seconda tappa del suo sinistro viaggio! Et in Arcadia ego, afferma la Morte nell'epitaffio. Le Ombre avevano pianificato piuttosto accuratamente gli spostamenti di Gradus a Parigi. Del tutto a ragione presumevano che non soltanto Odon, ma anche il nostro ex console a Parigi, il defunto Oswin Bretwit, sapessero dove rintracciare il re. Decisero che Gradus avrebbe fatto un primo tentativo con Bretwit. Quel signore abitava da solo in un appartamento a Meudon, raramente ne usciva se non per recarsi alla Biblioteca Nazionale (dove leggeva opere di teosofia e risolveva problemi scacchistici in vecchi giornali), e non riceveva visite. Le Ombre congegnarono il loro eccellente piano grazie a un colpo di fortuna. Dubitando che Gradus fosse provvisto dell'attrezzatura mentale e del talento mimico necessari per fingersi un fervente Realista, gli consigliarono di atteggiarsi a membro totalmente apolitico di una commissione, un ometto neutrale interessato soltanto a spuntare un buon prezzo per diversi documenti che alcuni privati gli avevano chiesto di far uscire da Zembla e di consegnare ai legittimi proprietari. Il caso, che in quel momento era d'umore anti-Karlista, l'aiutò. Un'Ombra di scarsa rilevanza, che chiameremo barone A., aveva un suocero, che chiameremo barone R., un vecchio innocuo e strambo, ex dipendente governativo da lungo tempo in pensione, e assolutamente incapace di comprendere certi aspetti rinascimentali del nuovo regime. Era stato, o credeva di essere stato (lo sguardo retrospettivo ingigantisce le cose), amico intimo del defunto ministro degli Affari Esteri, padre di Oswin Bretwit, e quindi attendeva con ansia il giorno in cui avrebbe potuto consegnare al «giovane», Oswin (il quale, a quanto gli risultava, non era esattamente persona grata al nuovo regime) un fascio di preziosi documenti di famiglia che gli erano capitati per caso fra le mani mentre, tutto impolverato, rovistava negli archivi di un ufficio governativo. All'improvviso, venne informato che il giorno era giunto: i documenti sarebbero stati inviati a Parigi immediatamente. Gli fu consentito di premettere un breve appunto, che diceva: «Ecco alcuni documenti preziosi che appartengono alla sua famiglia. Non c'è nulla di meglio che possa fare, se non consegnarli nelle mani del figlio di quel grande uomo che fu mio compagno di studi a Heidelberg e mio maestro nel servizio diplomatico. Verba volant, scripta manent». Gli scripta in questione consistevano di duecentotredici lunghe missive che circa settant'anni prima si erano scritti Zule Bretwit, prozio di Oswin, sindaco di Odevalla, e un suo cugino, Ferz Brettvit, sindaco di Aros. Quel carteggio, un deprimente scambio di insulsaggini burocratiche e di arguzie stantie, non conteneva neppure quel minimo di notizie d'interesse ristretto che lettere simili di solito possiedono per uno storico locale - ma, naturalmente, non si può mai dire che cosa possa respingere o attrarre un sentimentale cultore di ataviche memorie -, che tale Oswin Bretwin era stato sempre ritenuto dai suoi collaboratori. E qui mi piacerebbe fare una pausa, interrompendo questo arido commento per rendere un breve omaggio a Oswin Bretwit. Fisicamente, l'aspetto malsano e la calvizie lo facevano somigliare a una pallida ghiandola. Il viso era singolarmente privo di caratteristiche. Gli occhi color café-au-lait. Tutti lo ricordavano con una perenne fascia a lutto addosso. Ma l'insulso aspetto esteriore celava la qualità dell'uomo. Da questo luogo, situato al di là delle increspature scintillanti dell'oceano, io saluto il prode Bretwit! Che per un attimo la sua mano e la mia compaiano unite in una salda stretta al di là delle acque, sopra la scia dorata di un sole emblematico. Che nessuna compagnia d'assicurazioni o aerea usi questo simbolo, sulla pagina patinata di una rivista, come marchio pubblicitario sotto l'immagine di un uomo d'affari in pensione, stupito e onorato alla vista dello spuntino in technicolor offertogli dall'assistente di volo insieme con quant'altro ella possa proporgli; al contrario, che quella nobile stretta di mano sia vista, nella nostra epoca cinica di delirante eterosessismo, come un ultimo, ma duraturo simbolo di valore e di abnegazione. Con quale fervore si era sperato che un simbolo simile, ma espresso con parole, potesse permeare il poema di un altro amico defunto; ma non era destino... Invano si cercherà in Fuoco pallido (oh, pallido davvero!) il calore della mia mano che stringe la tua, povero Shade! Ma ritorniamo ai tetti di Parigi. In Oswin Bretwit il coraggio andava di pari passo con l'onestà, la cortesia, la dignità e con ciò che eufemisticamente potremmo definire una dolce naivité. Quando Gradus gli telefonò dall'aeroporto, e per allettarlo gli lesse la missiva del barone B. (senza la massima latina), l'unico pensiero di Bretwit fu per l'imminente godimento. Al telefono Gradus non aveva precisato in che cosa consistessero esattamente i «documenti preziosi», ma si dava il caso che da qualche tempo l'ex console sperasse di poter rintracciare una costosa collezione di francobolli che suo padre anni prima aveva lasciato in eredità a un cugino ora defunto. Il cugino aveva abitato nella stessa casa del barone B., e con tutte queste faccende complicate quanto esaltanti che gli occupavano la mente, l'ex console in attesa del visitatore, continuò a chiedersi non già se la persona che veniva da Zembla fosse un impostore pericoloso, ma se avrebbe portato gli album tutti insieme o un poco alla volta, così da vedere quanto avrebbe potuto ricavare dalle sue fatiche. Bretwit sperava di concludere l'affare quella sera stessa poiché il mattino seguente doveva essere ricoverato in ospedale dove, forse, sarebbe stato operato (fu operato, e morì sotto i ferri). Se due agenti segreti militanti in opposte fazioni si fronteggiano in una tenzone di ingegni, e uno dei due ne è privo, il risultato può essere bizzarro; è noioso se entrambi sono stupidi. Sfido chiunque a trovare negli annali della cospirazione e della controcospirazione un caso più goffo e noioso della scena che occupa il resto di questa scrupolosa nota. Gradus si sedette, in posizione scomoda, sul bordo del divano (sul quale, meno di un anno prima, si era adagiato uno stanco re), affondò la mano nella ventiquattr'ore, porse al padrone di casa un pacchetto voluminoso, avvolto in carta marrone, e trasferì le natiche su una sedia, accanto a Bretwit, per osservare con tutto comodo la baruffa del suo ospite con lo spago. In uno sbalordito silenzio, Bretwit fissò ciò che finalmente era riuscito a scartare, poi disse: «Bene, ecco la fine di un sogno. Questa corrispondenza è stata pubblicata nel 1906 o nel 1907 no, nel 1906, tutto considerato - dalla vedova di Ferz Bretwit; è possibile che ne abbia persino una copia da qualche parte, fra i miei libri. Inoltre, questo non è un documento olografo, bensì apografo, fatto da un copista per i tipografi: noterà che la grafia di entrambi i sindaci è la stessa». «Davvero interessante» notò Gradus. «Naturalmente, apprezzo la gentile intenzione» disse Bretwit. «Ne eravamo certi» commentò Gradus, compiaciuto. «Il barone B. dev'essere un po' rimbambito» continuò Bretwit «ma, ripeto, l'intenzione è commovente. Immagino che lei voglia del denaro per avere portato questo tesoro». «Dovrebbe bastarci il piacere che le procura» rispose Gradus. «Ma mi consenta di dirle con franchezza che ci è costato molta fatica fare le cose per bene, e vengo da molto lontano. Tuttavia, desidero proporle un piccolo accordo. Sia gentile con noi, e noi lo saremo con lei. So che le sue disponibilità sono un po'...» (gesto allusivo a un che di irrilevante e strizzatina d'occhio). «Infatti» sospirò Bretwit. «Se collaborerà con noi non le costerà un centesimo». «Ah, potrei pagare qualcosa» (labbra protese in avanti e alzata di spalle). «Non abbiamo bisogno dei suoi soldi» (palmo aperto nel gesto di chi ferma il traffico). «Ecco cos'abbiamo in mente. Ho con me ambasciate per altri fuggiaschi, mi sono state affidate da altri baroni. Di fatto, ci sono lettere per il fuggiasco più misterioso di tutti». «Cosa!» gridò Bretwit con candido stupore. «In patria sanno che Sua Maestà non è più a Zembla?» (avrei sculacciato volentieri quella cara persona). «Proprio così» disse Gradus, fregandosi le mani e ansimando alquanto con piacere animalesco - una reazione istintiva, senza dubbio, in quanto l'individuo non poteva certo cogliere che il faux-pas dell'ex console era nientemeno che la prima conferma della presenza all'estero del re: «Proprio così,» ripeté con un'espressione perfidamente significativa «e le sarei molto grato se volesse raccomandarmi al signor X». A quelle parole una falsa verità si fece strada nella mente di Oswin Bretwit, che gemette fra sé: Ma certo! Che stupido sono! É uno di noi! Le dita della mano sinistra cominciarono involontariamente a contorcersi, come se stesse tirando i fili di una marionetta kikapoo, mentre gli occhi seguivano attentamente il gesto plebeo con cui l'interlocutore esprimeva la sua soddisfazione. Gli agenti Karlisti, per palesare la propria identità a un superiore, dovevano fare un gesto in codice, gesto che corrispondeva alla X (per Xavier) nell'alfabeto dei sordomuti basato su una mano sola: la mano in posizione orizzontale con l'indice curvato morbidamente, e le altre dita raggruppate insieme (molti l'hanno criticato trovandolo troppo moscio; ora è stato sostituito da una combinazione più virile). In tutte le occasioni, ed erano parecchie, in cui il segnale si era palesato, Bretwit, nell'attimo di suspense precedente più una fessura nell'ordito del tempo che un vero e proprio indugio -, era stato colto da qualche cosa di simile a ciò che i medici chiamano l'aura, una sensazione strana, tesa e vaporosa al contempo, un parossismo ineffabile di caldo-freddo che permea l'intero sistema nervoso prima di una crisi epilettica. Anche in questo caso Bretwit sentì il magico vino andargli alla testa. «Bene, sono pronto. Faccia il segnale» disse con bramosia. Gradus decise di rischiare e diede un'occhiata alla mano che Bretwit teneva in grembo: senza che il proprietario se ne rendesse conto, essa sembrava suggerire qualcosa a Gradus con un bisbiglio manuale; egli cercò di imitare quant'essa cercava, al meglio delle proprie capacità, di comunicargli: meri rudimenti del segnale richiesto. «No, no» disse Bretwit, rivolgendo un sorriso indulgente a quel novizio maldestro. «l.'altra mano, amico mio. Sa, Sua Maestà è mancino». Gradus ritentò, ma, simile a un pupazzo a molla proiettato all'esterno, l'indisciplinato piccolo suggeritore era svanito. Fissando con un'espressione mortificata le cinque tozze propaggini estranee della sua mano, Gradus azzardò nell'aria dei gesti da incompetente e semiparalizzato animatore d'ombre cinesi formando alfine un segno incerto di V, per vittoria. Il sorriso di Bretwit cominciò a spegnersi. Sparito il sorriso, Bretwit (il nome significa Intelligenza Scacchistica) si alzò. In una stanza più ampia si sarebbe messo a camminare avanti e indietro, cosa tuttavia impossibile in quello studio ingombro. Gradus l'Arruffone si abbottonò tutti e tre i bottoni dell'aderente giacca marrone e scosse il capo più volte. «Credo» disse iroso «che ci vorrebbe della correttezza: se le porto documenti di valore, lei dovrebbe contraccambiare organizzandomi un incontro, o per lo meno dandomi il suo indirizzo». «Adesso so chi è lei!» gridò Bretwit puntandogli contro un dito. «É un giornalista! É un inviato di quel giornalucolo danese che le sporge dalla tasca» (con gesto meccanico, Gradus armeggiò con il giornale e aggrottò le sopraccigli). «Mi ero illuso che avessero smesso di importunarmi! Che volgarità insopportabile! Non esiste nulla di sacro per voi, né il cancro, né l'esilio, né la fierezza di un re» (ahimè, questo si può dire non soltanto di Gradus - et in Arcadia non mancano i suoi colleghi). Gradus sedeva fissando le sue scarpe nuove - rosso mogano con la mascherina bucherellata in punta. Tre piani più in basso, un'ambulanza urlava la sua impazienza lungo le strade buie. Bretwit sfogò la propria irritazione sulle lettere avite che giacevano sopra il tavolo: agguantò la pila ordinata con relativo involucro e buttò tutto nel cestino della carta straccia. Lo spago cadde all'esterno, ai piedi di Gradus, che lo raccolse e lo aggiunse agli scripta. «La prego, se ne vada» disse il povero Bretwit. «Ho un dolore all'inguine che mi sta facendo impazzire. Sono tre notti che non dormo. Voi giornalisti siete un genere ostinato, ma lo sono anch'io. Da me, non saprete mai niente sul mio re. Buona sera». Attese sul pianerottolo che il visitatore scendesse le scale e arrivasse alla porta d'ingresso sulla strada. Udì la porta aprirsi e richiudersi, subito dopo l'interruttore automatico scattò e la luce delle scale si spense. Versi 281-288: quando canticchi a bocca chiusa facendo la valigia La scheda (n. 24) con questo passo (versi 287-299) porta la data del 7 luglio; alla stessa data, nella mia agendina trovo scribacchiato: DR AHLERT 15.30. Un po' nervoso, come la maggior parte delle persone che devono vedere il medico, avevo pensato di comperare, strada facendo, un calmante per evitare che l'aumento del battito cardiaco traesse in inganno la credula scienza. Trovai le gocce che mi occorrevano, mandai giù la sorsata aromatica già in farmacia, e nell'uscire vidi gli Shade sulla soglia del negozio accanto. Lei portava una sacca da viaggio nuova. Il pensiero spaventoso che potessero partire per una vacanza estiva neutralizzò la medicina che avevo appena trangugiato. Ci si abitua talmente a una vita altrui che scorre accanto alla propria che una improvvisa deviazione dell'orbita da parte del satellite parallelo determina in noi un senso di stupore, di vuoto e di iniquità. E, inoltre, non aveva ancora finito il «mio» poema! «Viaggio in vista?» chiesi, sorridendo e indicando la sacca. Sybil sollevò la borsa come se afferrasse un coniglio per le orecchie, e la studiò con occhi che potevano essere i miei. «Sì, a fine mese», disse. «Dopo che John avrà terminato il suo lavoro». (Il poema!). «E dove andrete, di grazia?» (rivolto a John). Mr Shade gettò un'occhiata a Mrs Shade, la quale rispose in sua vece, e nel suo solito modo spiccio e sgarbato, che non erano ancora sicuri, magari in Wyoming, o nello Utah, o nel Montana, dove forse avrebbero preso in affitto una casetta a seimila, settemila piedi d'altezza. «Tra i lupini e le tremule» aggiunse il poeta con accento grave. (Evocando la scena). Cominciai a calcolare ad alta voce l'altitudine in metri, altitudine che ritenevo troppo elevata per il cuore di John, ma Sybil lo tirò per una manica rammentandogli che avevano altri acquisti da fare, e io fui lasciato lì con i miei 2000 metri, più o meno, e un rutto al sapore di valeriana. Ma a volte il fato dalle ali di tenebra fa mostra di una squisita gentilezza! Dieci minuti dopo il Dr A., che aveva in cura anche Shade, mi raccontava con dovizia di particolari come gli Shade avessero preso in affitto una piccola fattoria che certi loro amici, decisi a recarsi altrove, avevano a Cedarn, in Utana lungo il confine con l'Idoming. Dall'ambulatorio me ne andai difilato a un'agenzia di viaggi, dove mi procurai piantine e opuscoli illustrativi, li studiai, appresi che sul versante montano che dominava Cedarn c'erano due o tre gruppi di casette, mi affrettai a spedire una prenotazione all'Ufficio postale di Cedarn, e nel giro di pochi giorni avevo preso in affitto per il mese di agosto quella che, nelle istantanee prontamente inviatemi, sembrava un incrocio fra l'isba di un mugik e il Rifugio Z; aveva però un bagno piastrellato e costava più del mio castello appalachiano. Né io né gli Shade ci lasciammo sfuggire una parola sulla nostra destinazione estiva, ma io sapevo, a differenza di loro, che era la medesima. Quanto più ero furioso nei confronti di Sybil, che palesemente desiderava tenere nascosta l'informazione, tanto più mi era dolce immaginare il momento in cui sarei improvvisamente sbucato, indossando un costume tirolese, da dietro un macigno, nonché la smorfia imbarazzata ma felice di John. Durante i quindici giorni in cui i dèmoni profusero nel mio specchio da negromante, fino a farlo traboccare, quelle rupi rosa e malva, e i ginepri nero-azzurrognoli, e le strade serpeggianti, e il sottobosco di salvia che si mutava in erba e lussureggianti fiori azzurri, e le tremule di un pallore mortale, e una sequenza infinita di giovani Kinbote in pantaloncini verdi che incontravano un florilegio di poeti e un Brocken delle loro mogli, devo avere commesso qualche spaventoso errore nei miei sortilegi, perché le pendici del monte sono aride e desolate, e la diroccata fattoria degli Hurley è senza ombra di vita. Verso 293: Lei Hazel Shade, figlia del poeta, nata nel 1934, morta nel 1957. Verso 316: La Bianca Dentaria infestò a maggio i nostri boschi A essere sincero, non sono certo del significato. Il mio dizionario definisce la dentaria «una specie di crescione» e il nome «bianco» come «ogni animale d'allevamento di razza pura o un genere particolare di lepidotteri». La variante indicata a margine non è di grande aiuto: Nei boschi le Bianche Virginiane apparivano a maggio Forse personaggi del folclore locale? Fate? Cavolaie? Verso 319: anatra dei boschi Concetto grazioso. L'anatra sposina, uccello acquatico dalle ricche cromie smeraldo, ametista, corniola, con marcature di colore bianco e nero, è incomparabilmente più bella del sopravvalutato cigno. Un'oca dall'aspetto sinuoso con un sudicio collo di piumino giallastro e nere falde gommose da sommozzatore. Per inciso, la nomenclatura popolare degli animali americani riflette la semplice mentalità utilitaristica di pionieri ignoranti e non ha ancora acquisito la patina dei nomi faunistici europei. Verso 331: mai veniva per lei «Verrà nessuno per me?» mi chiedevo, aspettando sempre, in certi crepuscoli ambra e rosa, un compagno di ping-pong, o il vecchio John Shade. Verso 347: vecchio granaio Quel granaio, o piuttosto capanno, dove accaddero «certi fenomeni» nell'ottobre del 1956 (alcuni mesi prima della morte di Hazel Shade), era appartenuto a un certo Paul Hentner, eccentrico agricoltore di origine tedesca, dagli hobby antiquati, quali la tassidermia e l'erboristeria. Per uno strambo scherzo d'atavismo, egli (secondo Shade, al quale piaceva parlare di quel tizio - l'unica circostanza, per inciso, in cui il mio caro vecchio amico diventava un pochino noioso!) rappresentava un ritorno a quei «germanici curiosi» che tre secoli addietro erano stati i padri dei primi grandi naturalisti. Quanto a studi accademici, era un incolto, privo di qualsivoglia conoscenza di cose lontane nello spazio o nel tempo, ma possedeva un non so che di pittoresco e di rustico che a John Shade riusciva più gradito delle provinciali ricercatezze del dipartimento di Inglese. Lui, che ostentava una così meticolosa cautela nella scelta dei compagni di passeggiate, una sera sì e una no si dilettava ad arrancare con quel tedesco smunto e solenne su per il sentiero del bosco fino a Dulwich, e a girare in lungo e in largo per i campi del suo conoscente. Traendo egli diletto dall'esattezza terminologica, teneva Hentner in grande considerazione poiché quest ultimo conosceva «il nome delle cose» anche se alcuni di quei nomi saranno stati, senza dubbio, mostruosità locali, o germanismi, o invenzioni belle e buone di quel vecchio furfante. Ora Shade stava passeggiando con un differente compagno. Ricordo nitidamente una serata perfetta, in cui il mio amico sprizzava scintille d'arguzia marrowshy e aneddoti a cui io valorosamente replicavo con racconti su Zembla e storie di portentose evasioni! Stavamo costeggiando la Foresta di Dulwich quando egli mi interruppe per additare una grotta naturale tra i massi muscosi a lato del sentiero, sotto le sanguinelle in fiore. Era quello il punto in cui l'ottimo agricoltore invariabilmente si fermava, e una volta, in cui era accaduto che il figlioletto di quest'ultimo li avesse accompagnati trotterellando loro accanto, il ragazzino aveva indicato quel luogo osservando a titolo informativo: «Qui piscia papà». Un'altra storia, meno vana, era in serbo per me in cima alla collina, dove un appezzamento quadrato di terreno invaso da epilobio, asclepiadi, robuste erbacce, e brulicante di farfalle, creava un netto contrasto con le verghe d'oro tutt'intorno. Dopo essere stato abbandonato dalla moglie (attorno al 1950), che aveva condotto via con sé anche il loro figlioletto, Hentiner aveva venduto la fattoria (ora sostituita da un cinema drive-in) ed era andato a vivere in città; ma nelle notti d'estate soleva portare un sacco a pelo nel granaio che si trovava all'estremità più lontana dell'appezzamento ancora di sua proprietà, e lì, una notte, si era spento. Il granaio una volta sorgeva in un punto ora infestato dalle erbacce che Shade stava tastando con il bastone prediletto di zia Maud. Un sabato sera, un giovane studente che lavorava come impiegato nell'albergo del campus universitario e una ragazzaccia del luogo vi si erano recati per i loro motivi; erano lì che stavano chiacchierando o sonnecchiando, quando furono spaventati a morte da un rumore di ferraglie e da luci danzanti nell'aria che li fecero fuggire disordinatamente. A nessuno importava veramente che cosa li avesse fatti uscire a precipizio, se un fantasma oltraggiato o un corteggiatore respinto. Ma il «Wordsmith Gazette» («Il più antico periodico universitario degli Stati Uniti») s'impadronì dell'incidente e cominciò ad azzannarne e strapparne via l'imbottitura come un cucciolo birichino. Molti sedicenti studiosi di fenomeni paranormali si recarono sul posto e il caso si stava così palesemente trasformando in una carnevalata, con la partecipazione dei più famigerati burloni della goliardia, che Shade reclamò presso le autorità, con il risultato che l'inutile granaio fu demolito in quanto a rischio d'incendio. DaJane P., tuttavia, ottenni parecchie informazioni completamente diverse e molto più patetiche, che mi fecero comprendere la ragione per cui il mio amico aveva ritenuto opportuno intrattenermi con una banale marioleria goliardica, e mi fecero anche provare rammarico per avergli impedito di continuare fino a dove egli, in modo confuso e imbarazzato, voleva arrivare (come ho detto in una nota precedente, evitava accuratamente di parlare della figlia morta), colmando una pausa gradita con un episodio eccezionale della storia dell'Università di Onhava. L'episodio si verificò nell'anno di grazia 1876. Ma ritorniamo a Hazel Shade. La ragazza aveva deciso di indagare personalmente i «fenomeni» ai fini di una relazione scolastica («su un argomento a scelta») richiesta per il corso di psicologia da un astuto insegnante il quale stava raccogliendo dati sui «Modelli autoneurologici nella popolazione studentesca americana». I genitori le avevano concesso di recarsi al granaio per una ispezione notturna, a condizione di essere accompagnata da Jane P, considerata un pilastro di affidabilità. Le due ragazze si erano appena sistemate quando si scatenò una tempesta elettrica, destinata a durare per tutta la notte, che avvolse il loro rifugio di ululati e lampi così teatrali da rendere impossibile qualsiasi osservazione di suoni o luci all'interno. Hazel non si arrese e qualche giorno dopo chiese a Jane di accompagnarla di nuovo, ma Jane non poteva. Mi riferì di averle suggerito di farsi accompagnare dai gemelli White (ragazzi gentili, membri di un'associazione studentesca maschile, benaccetti agli Shade). Ma Hazel rifiutò categoricamente questa nuova soluzione e, dopo una lite con i genitori, prese la sua lanterna cieca e un bloc-notes e si avviò tutta sola. É facile immaginare quanto gli Shade paventassero una recrudescenza di quella storia del Poltergeist, ma il sempre sagace Dr Sutton affermò - con quale autorevolezza non saprei dire che praticamente non si conoscevano casi in cui la medesima persona fosse coinvolta nel medesimo tipo di insorgenze a sei anni di distanza. Jane mi permise di copiare alcuni degli appunti di Hazel da un dattiloscritto basato su annotazioni frettolose prese in loco: 22.14 Indagine iniziata 22.23 Raschi e raspi 22.25 Un dischetto di luce pallida, della misura di un centrino, ha volteggiato sulle pareti buie, sulle assi inchiodate alle finestre e sul pavimento; si è spostato; ha indugiato qua e là, danzando su e giù; dava l'impressione di attendere, con un gioco canzonatorio, il balzo al quale sfuggire. Sparito. 22.37 Riapparso. Gli appunti continuano per molte pagine, ma per ovvie ragioni devo rinunciare a riportarli verbatim in questo commento. Ci furono lunghi intervalli e poi ancora «graffi e raschi» e nuove apparizioni del dischetto luminoso. Hazel gli parlò. A domande che trovava deliziosamente sciocche («Sei un fuoco fatuo?»), il dischetto schizzava avanti e indietro negando rapito, e quando desiderava rispondere seriamente a una domanda seria («Sei morto?») ascendeva lento, con l'aria di voler guadagnare spazio in altezza nella prospettiva di una ricaduta affermativa all'insegna della gravità. Per brevi lassi di tempo rispose all'alfabeto che Hazel recitava, rimanendo immobile fino a quando non veniva pronunciata la lettera giusta, al che faceva un piccolo sobbalzo di approvazione. Ma i sobbalzi diventarono via via sempre più svogliati, e dopo avere lentamente compitato un paio di parole, il dischetto si afflosciò come un bambino stanco e infine si infilò strisciando in una fessura, per poi volarne fuori all'improvviso pieno di brio sfrenato e cominciare a vorticare lungo le pareti, impaziente di riprendere il gioco. Il guazzabuglio di parole tronche e di sillabe senza senso che Hazel riuscì infine a mettere insieme nelle sue diligenti annotazioni si tradusse in una breve riga di semplici gruppi di lettere. La trascrivo: pada ata lane pad not ogo old wart alan ther tale feur far rant lant tal told. Nelle sue Osservazioni, la compilatrice afferma che Hazel dovette recitare l'alfabeto, o per lo meno iniziare a recitarlo (c'è una clemente preponderanza di «a»,), ottanta volte, di cui diciassette senza risultato. La suddivisione basata su intervalli così variabili è necessariamente arbitraria; alcuni elementi di quel guazzabuglio possono essere ricombinati e sortire unità lessicali diverse, ma ugualmente prive di senso (per es., war, «guerra»; talant, ovvero talent, «talento»; her, «lei»; arrant, «matricolato», ecc.). L'impressione è che il fantasma del granaio si sia espresso con la difficoltà impastata tipica della sindrome apoplettica o di un semi-risveglio da un semi-sogno tranciato da una sciabolata di luce sul soffitto, un disastro militare con conseguenze cosmiche che la lingua ispessita e riluttante non riesce a esprimere mediante frasi comprensibili. E nel caso presente, anche noi avremmo desiderato troncare le domande in bocca al lettore o al compagno di letto e sprofondare di nuovo nella beatitudine dell'oblio, se una forza demoniaca non ci avesse spinto a cercare un segreto disegno in quell'abracadabra, un qualche nesso o pseudonesso, una sorta di correlato disegno dentro al gioco. Aborro i giochi di questo tipo; mi martellano le tempie con un dolore orribile, ma ho affrontato la sfida e, con l'inesauribile pazienza e il pari disgusto del commentatore, ho riflettuto all'infinito sulle sillabe azzoppate della relazione di Hazel, in cerca del pur minimo accenno al destino della povera ragazza. Non ho trovato indizio alcuno. Né il fantasma del vecchio Hentner, né la torcia giocattolo di una piccola peste in agguato, né l'isterismo fantasioso di Hazel esprimono qui qualcosa che possa anche lontanamente far pensare a un avvertimento, o che abbia IL qualsivoglia rapporto con le circostanze dell'imminente morte della ragazza. La relazione di Hazel avrebbe potuto essere più lunga se, come disse a Jane, il ripetersi del «raspare», non avesse dato una scossa improvvisa ai suoi nervi già messi a dura prova. Il dischetto di luce che fino ad allora si era tenuto a una certa distanza, le si scaraventò battagliero contro i piedi, sì che ella quasi cadde dal ceppo che le serviva da sedile. In lei ;i fece strada l'opprimente consapevolezza di trovarsi da sola in compagnia di un essere inesplicabile e forse assai maligno e, con un brivido che per poco non le slogò le scapole, si affrettò a riguadagnare il celeste usbergo della notte stellata. Un sentiero familiare con gesti rassicuranti e altri piccoli segnali di incoraggiamento (un grillo solitario, un solitario lampione) la riportò a casa. Si arrestò ed emise un urlo di terrore: un insieme di chiazze buie e chiare andavano coagulandosi in una figura fantastica che si era alzata dalla panchina del giardino, lambita dalla luce della veranda. Non ho idea di quale possa essere la temperatura media di una notte d'ottobre a New Wye, ma ci si può ben sorprendere che l'apprensione di un padre possa essere tale, come nel caso presente, da giustificare una veglia all'aperto in pigiama e con l'indescrivibile «accappatoio» che il mio regalo di compleanno era destinato a sostituire. Le favole contemplano sempre «tre notti», e anche in questa favola triste ci fu una terza notte. Quella volta ella volle che i genitori vedessero insieme con lei la «luce parlante». Le trascrizioni di quella terza seduta nel granaio non si sono conservate, ma offro al lettore la scena seguente, che ritengo non discostarsi molto dalla realtà: IL GRANAIO STREGATO Buio pesto. Si sente il respiro lieve di Padre, Madre e Figlia provenire da angoli diversi. Passano tre minuti. PADRE (alla Madre): Stai comoda? MADRE: Ah-à. Questi sacchi di patate sono perfetti per... FIGLIA (con la forza di una locomotiva a vapore) : Ssssssssss! Trascorre un quarto d'ora in silenzio. L'occhio comincia a distinguere qua e là, nel buio, fessure di notte bluastra e una stella. MADRE: É stata la pancia di papà, direi, non uno spirito. FIGLIA (muovendo silenziosamente le labbra): Proprio spiritoso. Trascorre un altro quarto d'ora. Il Padre, immerso in suoi pensieri accademici, emette un sospiro neutro. FIGLIA: É necessario sospirare di continuo? Trascorre un altro quarto d'ora. MADRE: Se comincio a russare, di' allo Spirito di darmi un pizzico. FIGLIA (esagerando il tono di autocontrollo): Mamma! Per piacere! Per piacere, Mamma! Il Padre si schiarisce la gola ma decide di tacere. Trascorrono altri dodici minuti. MADRE: Ci pensa nessuno che a casa ci sono ancora un sacco di bignè nel frigorifero? Questo è troppo. FIGLIA (esplodendo): Perché devi rovinare tutto? Perché devi sempre rovinare tutto? Perché non lasci in pace la gente? Non toccarmi! PADRE: Hazel, senti, la Mamma non dirà più neppure una parola e continueremo con questa storia... ma è da un'ora che stiamo seduti qui e si sta facendo tardi. Trascorrono due minuti. La vita nel presente è senza speranza e quella dell'aldilà senza cuore. Si sente Hazel piangere sommessamente nel buio. John Shade accende una lanterna. Sybil accende una sigaretta. La seduta è tolta. La luce non ritornò più, ma brilla ancora in un poemetto, La natura dell'elettricità, che John Shade aveva mandato alla rivista newyorchese «Il damerino e la farfalla» nel 1958, ma che fu pubblicato soltanto dopo la sua morte: I morti, i dolci morti - chi può dirlo? attendono nei filamenti di tungsteno, e accanto a me sul comodino è l'altrui sposa defunta che riluce. É forse Shakespeare che inonda un'intera città di luci senza fine, ed è di Shelley l'anima incandescente che adesca le pallide falene di notti senza stelle. Hanno un numero i lampioni, magari il 999 (che così vivido splende tra così verdi fronde) è un vecchio amico mio. E quando sulla livida pianura si esibisce il lampo biforcuto, lì forse hanno dimora i tormenti di qualche Tamerlano, l'urlo rabbioso di tiranni straziati nell'inferno. A proposito, la scienza ci dice che se il mondo fosse privato all'improvviso dell'elettricità, la Terra non soltanto si disintegrerebbe, ma svanirebbe come un fantasma. Versi 347-348: Pronunciava invertite le parole Uno degli esempi citati dal padre è bizzarro. Sono certissimo di essere stato io, un giorno in cui stavamo discutendo di «parole speculari», a osservare (e ricordo l'espressione stupefatta del poeta) che il contrario di «arco» è «ocra» e quello di «T.S. Eliot» è «toilest» «la più ardua fatica». D'altronde, è pur vero che Hazel Shade mi somigliava per certi aspetti. Versi 367-370: lì - sì, di' - chiarì Nella lingua parlata, John Shade, da buon americano, faceva rimare «di'» con «sì» piuttosto che con «si chiarì». La contiguità di queste quattro rime è curiosa. Verso 376: poesia Credo di indovinare (nella mia caverna montana senza libri) di quale poesia si tratti; ma non potendo dare una controllata, vorrei evitare di citarne l'autore. In ogni caso, deploro le frecciate maligne che il mio amico indirizza ai più eminenti poeti suoi contemporanei. Versi 376-377: definita, al corso di Letteratura Sostituita, nella minuta, con la variante più significativa e più musicale: dal Direttore del nostro dipartimento ritenuta Quandanche la si intenda riferita all'uomo (chiunque egli fosse) che ricopriva quella carica al tempo in cui Hazel Shade era studentessa, non si può biasimare il lettore che qui voglia vedere un accenno a Paul H.Jr, ottimo amministratore, ma studioso inetto, che fu a capo del dipartimento d'Inglese della Wordsmith University a partire dal 1957. Ci incontravamo di tanto in tanto, ma non così spesso. Il Direttore del mio dipartimento era il Prof. Nattochdag, «Netochka», come eravamo soliti chiamare quella cara persona. Senza dubbio le emicranie che negli ultimi tempi mi hanno tormentato a tal punto da costringermi, una volta, ad andarmene a metà di un concerto dove per caso sedevo di fianco a Paul H. non erano fatti che dovessero riguardare un estraneo. Ma, a quanto pare, lo erano, eccome. Mi teneva d'occhio, e subito dopo il decesso di John Shade fece circolare una lettera ciclostilata che iniziava come segue: «Numerosi membri del dipartimento d'Inglese hanno molto a cuore le sorti di un poema manoscritto, o di brani di un poema manoscritto, lasciato dal defunto John Shade. Il manoscritto è caduto nelle mani di un individuo che, oltre a non possedere i requisiti necessari per curarne la pubblicazione, appartenendo egli ad altro dipartimento, è noto per essere affetto da squilibri mentali. Ci si domanda se un'azione legale, ecc.». Un'«azione legale» poteva naturalmente essere intentata anche da qualcun altro. Ma non importa; la collera più che giustificata di quel qualcuno è mitigata dalla soddisfazione di sapere in anticipo che quel signore engagé si preoccuperà meno delle sorti del poema del mio amico dopo aver letto il passo qui commentato. Southey gradiva un ratto arrostito per cena, il che è particolarmente comico in considerazione del fatto che il suo vescovo fu divorato dai ratti. Verso 384: libro su Pope Il titolo di quest'opera, rintracciabile in qualsiasi biblioteca universitaria, è Sommamente benedetto, espressione mutuata da un verso di Pope che ricordo, pur non essendo in grado di citarlo con esattezza. Il libro tratta in prevalenza della tecnica di Pope, ma contiene anche osservazioni argute sulla «moralità stilizzata del suo tempo». Versi 385-386: Jane Dean ... Pete Trasparenti pseudonimi di due esseri senza colpe. Feci visita a Jane Provost in agosto, passando da Chicago. Era ancora nubile. Mi mostrò alcune fotografie divertenti di suo cugino Peter e relativi amici. Mi disse, e non ho motivo di dubitare delle sue parole, che forse Peter Provost (desideravo moltissimo conoscerlo, ma, ahimè, era a Detroit dove vendeva automobili) aveva esagerato un pochino, ma di certo non contava frottole quando aveva spiegato che doveva mantenere una promessa fatta a uno degli amici più cari della sua confraternita studentesca, un giovane e magnifico atleta la cui «ghirlanda» non sarà, si spera, «più piccola di quella di una fanciulla». Obblighi del genere non devono essere trattati con leggerezza, o in modo sprezzante. Jane disse di avere tentato di parlare con gli Shade dopo la tragedia, e in seguito di avere scritto una lunga lettera a Sybil, lettera di cui non era mai stata accusata ricevuta. Dissi, ostentando un po' del gergo che ormai cominciavo a padroneggiare: «E a me lo dice?» Versi 403-404: Sono le otto e un quarto. (E il tempo qui si biforcò) Da qui al verso 474 due temi si alternano in una disposizione sincronica: la televisione nel salotto degli Shade e la ripetizione, per così dire, dei movimenti di Hazel (già intravisti in precedenza) dal momento in cui Peter giunse al suo appuntamento al buio (406-407) e si scusò di dovere andar via in fretta (426-428), fino alla corsa in autobus di Hazel (445-447 e 457-459), per concludere con il ritrovamento del suo corpo da parte del sorvegliante (475477). Ho messo in corsivo il tema di Hazel. Tutta questa parte mi dà l'impressione di essere troppo elaborata e lunga, specialmente per il fatto che il meccanismo della sincronizzazione è stato usato fino alla nausea da Flaubert e Joyce. A parte ciò, il motivo poetico è di una squisita raffinatezza. Verso 408: Una mano maschile Il 10 luglio, giorno in cui John Shade scrisse questi versi, forse addirittura nel minuto stesso in cui cominciò a usare la scheda trentatré per i versi 406416, Gradus, alla guida di un'automobile a noleggio, si dirigeva da Ginevra a Lex, ove era noto che Odon stava trascorrendo un periodo di riposo, dopo aver finito di girare il suo film, nella villa di un vecchio amico americano, Joseph S. Lavender (il nome proviene da laundry, «bucato», non da laund, «radura, appezzamento erboso»). Al nostro brillante tessitore d'intrighi era stato detto che Joe Lavender collezionava fotografie artistiche, del genere denominato in francese ombrioles. Non gli era stato detto che cosa esse fossero esattamente, ed egli le aveva mentalmente liquidate catalogandole come «paralumi decorati con paesaggi». Il piano cretino che aveva elaborato prevedeva che si presentasse sotto le vesti del rappresentante di un mercante d'arte di Strasburgo, quindi, bevendo qualche bicchiere con Lavender e il di lui ospite, avrebbe tentato di carpire indizi sul luogo ove si trovava il re. Non considerò il fatto che Donald Odon, con il suo fiuto indiscusso per questo genere di cose, avrebbe arguito all'istante, dal modo in cui Gradus ostentava il palmo vuoto prima di stringere la mano, o accennava un inchino dopo ogni sorso, e da altri vezzi del contegno (Gradus neppure li notava negli altri, benché inavvertitamente li assorbisse), che, ovunque costui avesse visto la luce, di certo era vissuto per un non trascurabile periodo di tempo in un ambiente zemblano plebeo e, quindi, era una spia o anche peggio. Inoltre, Gradus ignorava che le ombrioles collezionate da Lavender (sono certo che Joe non se la prenderà per l'indiscrezione) erano una combinazione di bellezza squisita e indecenza estrema - nudi che si fondevano con alberi di fico, ardori oltre la norma, natiche delicatamente ombreggiate, e anche una macula di grazie femminili. Dall'albergo di Ginevra, Gradus aveva tentato di mettersi in contatto telefonico con Lavender, ma gli era stato detto che non sarebbe stato possibile raggiungerlo prima di mezzogiorno. A mezzogiorno Gradus, già per strada, aveva telefonato di nuovo, questa volta da Montreux. Lavender aveva avuto la comunicazione e sarebbe stato lieto di ricevere Mr Degré verso l'ora del tè. Pranzò in un caffè del lungolago, fece una passeggiata, s'informò del prezzo di una piccola giraffa di cristallo in un negozio di souvenirs, comprò un giornale, lo lesse seduto su una panchina, e infine riprese il viaggio. Nei pressi di Lex si smarrì nelle viuzze strette e tortuose. Fermatosi in un punto sovrastante un vigneto, presso l'ingresso accidentato di una casa ancora in fase di costruzione, fu guidato da tre indici di altrettanti muratori a individuare il tetto rosso della villa di Lavender, lassù in alto, tra il fogliame dell'erta alberata, sul lato opposto della strada. Decise di lasciare lì l'automobile e di salire i gradini di pietra di quella che gli parve un'agevole scorciatoia. Mentre arrancava su per il sentiero fiancheggiato da un muricciolo, tenendo d'occhio le radici a zampa di coniglio di un pioppo che ora nascondeva, ora svelava il tetto rosso alla sommità della salita, il sole trovò un punto cedevole nel banco di nubi procellose e un attimo dopo attorno a uno slabbrato foro azzurro si formò un orlo sfolgorante di luce. Gradus avvertì il peso e l'odore dell'abito marrone appena comperato in un negozio di Copenaghen e già spiegazzato. Ansimando, gettando occhiate all'orologio da polso e sventolandosi con il cappello di feltro, anch'esso nuovo, giunse finalmente all'incrocio con la strada sinuosa che aveva abbandonato più sotto. L'attraversò, passò per un cancelletto e proseguì lungo un sentiero ghiaioso che descriveva una curva, per trovarsi infine davanti alla villa di Lavender. Il suo nome, Libitina, appariva in corsivo sopra una delle finestre con inferriate volte a settentrione: le lettere in filo metallico nero, e i puntini sulle tre «i» resi abilmente dalla capocchia incatramata di altrettanti chiodi rivestiti di gesso e infissi nella facciata bianca. Gradus aveva già avuto modo di osservare in altre ville svizzere questo accorgimento, nonché le inferriate alle finestre volte a settentrione; tuttavia, essendo immune da riferimenti ai classici, non poteva trarre alcun eventuale piacere dall'omaggio che la macabra giovialità di Lavender rendeva alla dea romana dei cadaveri e delle tombe. Un'altra cosa attrasse la sua attenzione: da una finestra d'angolo proveniva il suono di un pianoforte, un tumulto di musica vigorosa che, per qualche strana ragione, come mi avrebbe raccontato in seguito, gli suggerì una possibilità che non aveva preso in considerazione e che gli fece volare la mano alla tasca posteriore dei pantaloni, mentre si preparava a incontrare non già Lavender, non già Odon, ma quell'innografo dotato, Charles il Beneamato. La musica cessò mentre Gradus, confuso dalla forma bizzarra della casa, si fermava esitante davanti a una veranda protetta da vetrate. Un cameriere attempato in livrea verde comparve da una porta laterale verde e lo condusse a un altro ingresso. Ostentando una disinvoltura che laboriose prove preliminari non avevano punto migliorato, Gradus gli chiese, dapprima in un francese mediocre, quindi in un inglese ancora peggiore, e infine in un tedesco accettabile, se vi fossero molti ospiti nella casa, ma l'uomo si limitò a sorridere e lo introdusse, con un inchino, nella sala da musica. Il pianista era scomparso. Una risonanza di arpeggi saliva ancora dal pianoforte a coda, sul quale era appoggiato un paio di ciabattine da spiaggia, quasi fossero sul bordo di un laghetto di ninfee. Una signora dall'aspetto emaciato, scintillante di jais, si alzò rigidamente da un sedile posto sotto la finestra e si presentò come la istitutrice del nipote di Mr Lavender. Gradus accennò al suo impaziente desiderio di vedere la sensazionale collezione di Lavender: il che definiva in modo appropriato le scene di amplessi amorosi nei frutteti, ma l'istitutrice (che il re aveva sempre chiamato Mademoiselle Belle invece che Mademoiselle Baud, con palese compiacimento dell'interessata) si affrettò a confessare di non essere assolutamente a conoscenza dei passatempi e dei tesori del suo datore di lavoro, suggerendo poi che il visitatore desse un'occhiata al giardino: «Gordon le mostrerà i suoi fiori preferiti» disse, e, rivolta alla stanza attigua, chiamò «Gordon!». Ne uscì, alquanto riluttante, un ragazzo snello ma d'aspetto robusto, di quattordici o quindici anni, cui il sole aveva conferito il colore di una pescanoce. Indossava soltanto un perizoma stampato a macchie di leopardo. I capelli cortissimi erano appena più chiari del colore della pelle. Sull'incantevole volto animalesco aleggiava una espressione insieme imbronciata e scaltra. Il nostro cospiratore, assorto in ben altro, non notò neppure uno di quei particolari, avvertendo soltanto una generica impressione di indecenza. «Gordon è un prodigio musicale» disse Miss Baud, e il ragazzo fece una smorfia. «Gordon, per cortesia, mostra il giardino al signore». Acconsentì, e aggiunse che avrebbe fatto un tuffo, se nessuno aveva niente in contrario. Indossò i sandali e fece strada verso l'esterno. La strana coppia avanzava tra sprazzi di luce e ombra: il ragazzo leggiadro, dai lombi inghirlandati d'edera, e lo squallido assassino, con l'abito marrone da poco prezzo e un giornale ripiegato che gli spuntava dalla tasca sinistra della giacca. «Quella è la Grotta» disse Gordon. «Una volta ci passai la notte con un amico». Gradus diresse lo sguardo indifferente all'interno del recesso muscoso ove si intravedeva un materasso pieghevole con una macchia scura sul nylon arancione. Il ragazzo incollò le labbra avide a una tubatura d'acqua sorgiva e si asciugò le mani bagnate sui calzoncini da bagno neri. Gradus guardò l'orologio. La passeggiata riprese. «C'è ancora molto da vedere» soggiunse Gordon. Benché nella casa esistessero almeno mezza dozzina di water closet, Mr Lavender, in affettuoso ricordo della fattoria del nonno nel Delaware, aveva installato un gabinetto rustico sotto il pioppo più alto dello splendido giardino; per alcuni ospiti scelti, e provvisti di adeguato senso dell'umorismo, egli staccava da un gancio infisso nella confortevole vicinanza del caminetto della sala da biliardo un supporto imbottito a forma di cuore, graziosamente ricamato, da portarsi dietro per usarlo sul trono. La porta era aperta e su una parete interna la mano di un ragazzo aveva scarabocchiato con un carboncino: «Il re ha sostato qui». «Un bel biglietto da visita» osservò Gradus con una risata forzata. «A proposito, dov'è adesso, quel re?» «Chi lo sa», rispose il ragazzo accarezzandosi i fianchi rivestiti da un paio di calzoncini da tennis di colore bianco. «É stato l'anno scorso. Penso che fosse diretto in Costa Azzurra, ma non ne sono certo». Il caro Gordon mentiva, e fu gentile da parte sua. Sapeva benissimo che l'amico importante non si trovava più in Europa; tuttavia, il caro Gordon non avrebbe dovuto tirare in ballo la riviera, in quanto ciò corrispondeva a verità; infatti, appena venne menzionata, Gradus, al corrente del fatto che la regina Disa vi possedeva un palazzo, si batté mentalmente una mano sulla fronte. Erano ormai arrivati alla piscina. Gradus, profondamente assorto, si lasciò cadere su un seggiolino di tela. Doveva telegrafare immediatamente al quartier generale. Non era necessario protrarre la visita. D'altro canto, una partenza repentina poteva suscitare dei sospetti. Il seggiolino scricchiolò sotto il suo peso ed egli si guardò attorno in cerca di un altro posto ove sedere. Il giovane fauno ora aveva chiuso gli occhi e se ne stava disteso supino sul bordo marmoreo della piscina; i suoi slip alla Tarzan erano stati buttati di lato, sull'erba. Gradus sputò con disgusto e si avviò verso la casa. Contemporaneamente, il cameriere attempato scendeva di corsa le scale della terrazza per informarlo in tre lingue che era desiderato al telefono. Purtroppo Mr Lavender non ce l'avrebbe fatta a rientrare, ma desiderava parlare con Mr Degré. Dopo uno scambio di cortesie, ci fu una pausa e Lavender chiese: «É certo di non essere uno sporco ficcanaso inviato da quel giornalaccio francese?» «Un kvosa?» chiese Gradus. «Uno sporco ficcanaso figlio di puttana?» Gradus riagganciò. Recuperò l'automobile e salì su per la collina fino a raggiungere un punto più elevato. Dalla medesima piazzola panoramica, in una giornata brumosa e luminosa di settembre, con la diagonale del primo filamento argenteo che valicava lo spazio tra due balaustri, il re aveva scrutato le increspature scintillanti del Lago di Ginevra notandone la replica antifonale - i barbagli degli spauracchi di stagnola per uccelli disseminati tra i vigneti lungo il pendio collinare. Gradus se ne stava lì fermo con aria imbronciata a guardare, più in basso, le tegole rosse della villa di Lavender accoccolata in mezzo alla cortina protettiva degli alberi, e poteva scorgere, con l'aiuto del binocolo, parte del prato e un segmento della piscina e distinguere perfino un paio di sandali sul bordo di marmo - tutto ciò che restava di Narciso. Si dà per scontato che Gradus si sia chiesto se non fosse il caso di indugiare un poco nei dintorni, per assicurarsi di non essere stato abbindolato. Da un punto lontano, in basso, salivano i tintinnii metallici di remoti lavori edili, e un treno passò repentino tra i giardini, e una farfalla araldica volant en arrière, corvina, con banda rossa, oltrepassò il parapetto di pietra, e John Shade prese una nuova scheda. Verso 413: Una ninfa, piroettando Nella minuta c'è un'espressione più lieve e musicale: Una ninfetta piroettò Versi 417-421: Salii di sopra, ecc La minuta riporta una variante interessante: Volai di sopra al primo singulto jazz e lessi le mie bozze in colonna: "Versi come «Vedi il cieco mendico danzare, lo storpio cantare, il beone è eroe, pazzo è un re" puzzano di quel tempo spietato». Poi dal soggiorno venne il tuo richiamo Naturalmente, è una citazione dall'Essay on Man di Pope. Non si sa quale sia la cosa che stupisce maggiormente: che Pope non sia riuscito a trovare un monosillabo in sostituzione di eroe, in modo da far precedere la parola successiva dall'articolo determinativo, oppure che Shade abbia sostituito un passo mirabile con un testo definitivo molto più fiacco. O forse temeva d'offendere un re in carne e ossa? Riflettendo sul passato recente, non sono mai riuscito a stabilire retrospettivamente se egli avesse «indovinato il mio segreto», come osservò una volta. Versi 425-426: appena dietro (giusto un melmoso passo) quello di Frost. Qui il riferimento è, naturalmente, a Robert Frost (n.1874). Il verso sfoggia una di quelle combinazioni fatte di gioco di parole e metafora in cui il nostro poeta eccelle. Nei diagrammi relativi alla temperatura della poesia, l'alto è basso e il basso è alto, di modo che il grado al quale si verifica una cristallizzazione perfetta viene prima di quello corrispondente a una tiepida abilità. É praticamente quanto afferma il nostro modesto poeta riferendosi all'atmosfera della propria fama. Frost è l'autore di uno dei maggiori poemetti in lingua inglese che tutti i ragazzi americani conoscono a memoria: i boschi in inverno e il tetro crepuscolo e le sonagliere dei cavalli con il loro garbato rimprovero nell'aria opaca che si va oscurando e quel finale portentoso e toccante: due versi in chiusura identici in ogni sillaba, ma l'uno personale e fisico, l'altro metafisico e universale. Non oso citarli a memoria per tema di collocare impropriamente anche una sola, piccola, preziosa parola. Pur con tutte le sue eccellenti doti, John Shade non sarebbe mai riuscito a far posare i suoi fiocchi di neve in quel modo. Versi 431-432: notte di marzo ... fari lontani via via si ingrandivano Notare con quanta delicatezza il tema della televisione si fonde con quello della ragazza, in questo punto (si veda il verso 445, ancora fari nella nebbia...». Versi 433-434: incontro al mare ... che avevamo veduto nel millenovecentotrentatré Nel 1933 il principe Charles aveva diciotto anni e Disa, duchessa di Payn, cinque. Si allude a Nizza (si veda anche il verso 240), dove gli Shade trascorsero la prima parte di quell'anno; anche in questo caso, purtroppo, come per altri numerosi e fascinosi risvolti del passato del mio amico, non conosco i particolari (di chi la colpa, cara S.S.?) e quindi non posso dire se, nel corso di probabili gite lungo la costa, siano mai arrivati a Cap Turc e abbiano intravisto, da un vialetto bordato di oleandri, il cui accesso è di solito consentito ai turisti, la villa in stile italiano costruita nel 1908 dal nonno della regina Disa, e chiamata allora Villa Paradiso, ovvero in zemblano Villa Paradisa che in seguito avrebbe fatto a meno della prima metà del nome in onore della di lui nipotina prediletta. Ella vi passò le prime quindici estati della sua vita; colà fece ritorno nel 1953 «per ragioni di salute» (secondo la versione propinata alla popolazione), ma, in realtà, perché esiliata; e lì vive ancora. Allo scoppio della Rivoluzione zemblana (10 maggio 1958) Disa scrisse al re una lettera concitata in un inglese scolastico, sollecitandolo ad andare a stare da lei fino a quando la situazione non si fosse chiarita. La polizia di Onhava intercettò la missiva, un membro indù del partito Estremista la tradusse in rozzo zemblano, e infine il ridicolo comandante del palazzo la lesse ad alta voce al prigioniero reale in un tono che avrebbe voluto essere ironico. Si dava il caso che quella lettera contenesse una - una sola grazie a Dio - frase sentimentale: «Desidero che tu lo sappia: per quanto tu possa ferirmi, non puoi ferire il mio amore», frase che (se vogliamo ritradurla dallo zemblano) sortì come segue: «Ti bramo e adoro farmi fustigare da te». Il re interruppe il comandante, lo chiamò buffone e farabutto, e insultò con tali terribili parole tutti i presenti che gli Estremisti dovettero decidere rapidamente se fucilarlo su due piedi o consegnargli l'originale della lettera. Alla fine, egli riuscì a farle sapere che era tenuto prigioniero nel palazzo. La prode Disa lasciò precipitosamente la riviera nel tentativo romantico, ma fortunatamente vano, di ritornare a Zembla. Se avesse avuto il permesso di atterrare, sarebbe stata immediatamente incarcerata, il che avrebbe influito sulla fuga del re, raddoppiando le difficoltà dell'evasione. Un messaggio dei Karlisti che illustrava quelle semplici considerazioni la fermò a Stoccolma, ed ella se ne tornò in volo al suo posatoio, frustrata e furibonda (soprattutto, penso, perché il messaggio le era stato recapitato da un suo cugino, il buon vecchio Curdy Buff che ella detestava). Passarono molte settimane e crebbe la sua agitazione, essendole giunte voci che il marito correva il rischio di essere condannato a morte. Partì di nuovo da Cap Turc. Arrivata a Bruxelles aveva noleggiato un aereo per dirigersi a nord, quando arrivò un'altra ambasciata, questa volta da parte di Odon, per informarla che lui e il re si trovavano fuori dei confini di Zembla e che ella doveva tornarsene chetamente a Villa Disa e attendere là ulteriori notizie. Nell'autunno di quello stesso anno Lavender la informò che un uomo sarebbe andato a trovarla, in rappresentanza del marito, per parlare con lei di questioni d'affari relative alle proprietà comuni che i due sposi possedevano all'estero. Seduta in terrazza, sotto la jacaranda, si accingeva a scrivere una lettera sconsolata a Lavender quando un visitatore alto, dai capelli cortissimi, barbuto, con un mazzo di «fiori degli dèi», che era stato a osservarla da lontano, avanzò tra le ghirlande d'ombra. Ella sollevò lo sguardo... e, naturalmente non esistevano occhiali scuri né trucco che potessero ingannarla anche solo per un attimo. Dopo la partenza definitiva di Disa da Zembla egli era andato a trovarla due volte, l'ultima due anni prima; in quell'intervallo di tempo la bellezza di lei, che era pallida di carnagione e scura di capelli, aveva acquistato una nuova luminosità, matura e malinconica. A Zembla, dove la maggior parte delle donne è bionda e lentigginosa, esiste il detto: belfuif ivurkumf wid snev ebanumf, «una bella donna dovrebbe essere come la rosa di una bussola d'avorio con quattro parti d'ebano». E tale era l'accurato disegno seguito dalla natura nel caso di Disa. C'era qualcos'altro, di cui mi resi conto soltanto leggendo Fuoco pallido, o meglio, rileggendolo, dopo che si dissipò il primo, amaro, scottante velo di disappunto che mi appannava gli occhi. Mi riferisco ai versi 261267, dove Shade descrive la moglie. Quando ne dipinse quel ritratto poetico, la modella aveva il doppio degli anni della regina Disa. Lungi da me l'intenzione di essere volgare in questioni tanto delicate, ma resta il fatto che il sessantenne Shade qui conferisce a una coetanea ben conservata l'aspetto etereo ed eterno che ella serba, o dovrebbe serbare, nel di lui nobile e generoso cuore. Il particolare curioso della faccenda è che Disa a trent'anni, quando fu vista per l'ultima volta, nel settembre del 1958, somigliava in modo singolare non certo a Mrs Shade qual era quando ne feci la conoscenza, bensì al ritratto idealizzato e stilizzato dipinto dal poeta in quei versi di Fuoco pallido. Per la precisione, era idealizzato e stilizzato soltanto per ciò che concerne la donna più anziana; quanto alla regina Disa, com'ella appariva quel giorno sulla terrazza azzurra, il ritratto ne era lo specchio fedele, senza necessità alcuna di ritocchi. Confido che il lettore si renda conto della stranezza della cosa perché, in caso contrario, non avrebbe alcun senso scrivere poesie, o commenti alle poesie, o qualunque altra cosa. Disa sembrava anche più calma di quanto fosse mai stata in passato; aveva imparato a controllarsi meglio. Negli incontri precedenti, e per tutta la loro vita coniugale a Zembla, ella aveva avuto orribili scoppi di collera. Nei primi anni di matrimonio, quando egli aveva voluto arginare quelle fiammate e quelle esplosioni, cercando di persuaderla ad accettare razionalmente la sua sventura, aveva trovato una simile condotta assai molesta; ma un poco alla volta aveva imparato a trarne profitto e a subirla di buon grado perché gli forniva l'occasione di liberarsi della presenza di lei per periodi di tempo sempre più lunghi, se evitava di richiamarla dopo che una serie di porte, via via più lontane, erano state sbattute con violenza, oppure se usciva egli stesso dal palazzo diretto a qualche nascondiglio campestre. All'inizio del loro matrimonio disastroso, egli aveva strenuamente cercato di possederla, ma invano. La informò di non avere mai fatto l'amore prima d'allora (il che era assolutamente vero nel senso che l'oggetto in questione poteva significare una cosa sola per lei), dopo di che dovette sopportare il ridicolo di una situazione in cui la ligia purezza portava involontariamente Disa ad assumere atteggiamenti da cortigiana alle prese con un cliente troppo giovane o troppo vecchio; le disse qualcosa al riguardo (soprattutto per sottrarsi a quella ordalia) ed ella fece una scenata atroce. Charles s'infarcì di afrodisiaci, ma le caratteristiche frontali del di lei sfortunato sesso continuavano fatalmente a metterlo fuori gioco. Una notte in cui aveva provato con l'infuso di tigre, e le speranze erano lievitate, commise l'errore di pregarla di accondiscendere a un espediente che ella commise l'errore di bollare come contro natura e disgustoso. Infine le disse che un vecchio incidente di cavallo lo stava rendendo inabile, ma una crociera con gli amici del cuore e molti bagni di mare gli avrebbero di certo restituito il vigore. Ella aveva perso da poco entrambi i genitori e mancava di una vera amica alla quale rivolgersi per chiarimenti e consigli, quando, inevitabilmente, le chiacchiere le giunsero all'orecchio; troppo orgogliosa per parlarne con le dame di compagnia, lesse dei libri, scoprì tutto quello che c'era da scoprire sulle abitudini virili di noi zemblani, e nascose la sua ingenua angoscia ostentando un sofisticato sarcasmo. Egli si congratulò con lei di quell'atteggiamento e giurò solennemente di avere rinunciato o che per lo meno tale era l'intenzione, alle pratiche della sua giovinezza; ma la strada era disseminata di tentazioni poderose, ritte sull'attenti. Soccombette di quando in quando, poi un giorno sì e uno no, poi diverse volte al giorno - soprattutto sotto il regime gagliardo di Harfar, barone di Shalksbore, un giovane bruto prodigiosamente dotato (il cui cognome, che significa «fattoria del furfante», deriva con molta probabilità da Shakespeare: «Curdy Buff, Buffalo Cagliato - come Harfar era stato soprannominato dai suoi ammiratori -, aveva una nutrita scorta di acrobati e di cavallerizzi che montavano a pelo, e tutta la faccenda sfuggì alquanto di mano di modo che quando Disa tornò inaspettatamente da un viaggio in Svezia, trovò il palazzo trasformato in un circo. Egli promise di nuovo, di nuovo cedette, e nonostante usasse la massima discrezione, fu colto di nuovo sul fatto. Infine, Disa si ritrasferì in riviera e lo lasciò libero di divertirsi con un'allegra compagnia di favoriti dagli ampi colletti inamidati alla Eton e la voce melodiosa, importati dall'Inghilterra. In sostanza, quali sentimenti aveva mai provato per Disa? Indifferenza benevola e scoraggiante rispetto. Neppure nei primi tempi del loro matrimonio egli aveva provato un po' di tenerezza o d'eccitazione. Quanto a compassione o senso di pena, neanche a parlarne. Era, era sempre stato, superficiale e senza cuore. Ma il cuore del suo io sognante, sia prima sia dopo la rottura, faceva ammenda in modo straordinario. La sognava più spesso, e con un'intensità infinitamente maggiore di quanto i suoi sentimenti di facciata autorizzassero a supporre; quei sogni si presentavano quando meno pensava a lei, e inquietudini che nulla avevano a che fare con Disa assumevano la sua immagine nel mondo subliminale, come un combattimento o una trasformazione assumono le sembianze di un uccello meraviglioso in una fiaba per bambini. Quei sogni strazianti trasformavano la prosa incolore dei sentimenti che nutriva per lei in una poesia vigorosa e strana il cui moto ondulatorio, mentre andava via via placandosi, avrebbe continuato a guizzare e a turbarlo per tutta la giornata seguente, rinnovando lo spasimo e l'intensità dell'emozione, poi soltanto lo spasimo, poi soltanto il suo fugace riflesso... senza influire minimamente sull'atteggiamento che egli teneva nei confronti della Disa in carne e ossa. L'immagine di lei che entrava e rientrava nel suo sonno notturno, alzandosi apprensiva da un remoto divano o cercando il messaggero appena scomparso, così le veniva detto, oltre i drappi dei tendaggi, teneva conto dei mutamenti della moda; ma la Disa abbigliata come l'aveva vista l'estate dell'esplosione alle Vetrerie, o solo la domenica precedente, o in qualsiasi altra anticamera del tempo, rimase per sempre identica a colei cui aveva detto, per la prima volta, che non l'amava. Era accaduto durante un viaggio perfettamente inutile in Italia, nel giardino di un albergo sul lago - rose, nere araucarie, ortensie rugginose, verdastre -, in una serata senza nubi, con le montagne sulla riva opposta del lago che nuotavano nella foschia del tramonto, e il lago tutto uno sciroppo di pesca con increspature regolari di un pallido azzurro, e i titoli di un quotidiano, appiattito sul fondo sudicio vicino all'argine di pietra, perfettamente leggibili attraverso la sozzura diafana e poco profonda, e poiché, dopo averlo ascoltato senza interromperlo, ella si era lasciata cadere sul prato in una posa innaturale, esaminando accigliata un culmo erbaceo, egli ritirò immediatamente ciò che aveva detto; ma il colpo aveva fatalmente incrinato in una raggiera stellata lo specchio, e da quel momento, nei suoi sogni, l'immagine di lei rimase infettata dal ricordo di quella confessione, al pari di una malattia o dei postumi segreti di un intervento chirurgico troppo intimo perché lo si possa menzionare. L'essenza del sogno, più che il suo intreccio vero e proprio, rappresentava la confutazione costante del fatto che egli non l'amava. La forza emotiva, la passione e la profondità spirituale dell'amore che provava per lei nel sogno superavano qualsiasi altra cosa egli avesse mai sperimentato nella vita ordinaria. Quell'amore era come un torcersi le mani all'infinito, come un procedere a tentoni dell'anima in un infinito labirinto di disperazione e di rimorso. Erano, in un certo senso, sogni d'amore in quanto pervasi di tenerezza, di un desiderio profondo di affondare la testa nel grembo di lei e fra i singhiozzi cancellare il mostruoso passato. Traboccavano della spaventosa consapevolezza che ella era così giovane e così indifesa. Erano sogni più puri della vita che egli conduceva. Se in essi aleggiava un'aura carnale, questa non proveniva da lei, bensì da coloro con i quali la tradiva - Phrynia dal mento ispido, la graziosa Timandra con quel boma sotto il grembiule - e anche così la feccia sessuale galleggiava in qualche punto, lassù, molto lontano dal tesoro che giaceva sul fondo, ed era del tutto trascurabile. Vedeva Disa mentre le si stava avvicinando un nebuloso parente, un parente così alla lontana da essere in realtà privo di fattezze. Ella nascondeva velocemente ciò che teneva in mano, per porgere poi quella stessa mano, inarcata, a ricevere il bacio. Il re sapeva che Disa aveva appena rinvenuto un oggetto rivelatore - uno stivale da cavallerizzo nel letto di lui - che confermava oltre ogni possibile dubbio l'infedeltà. Il sudore le imperlava la fronte pallida e scoperta, ma doveva ascoltare le chiacchiere di un visitatore occasionale o dirigere i movimenti di un operaio con una scala che annuiva e guardava in alto, mentre, reggendo la suddetta scala, avanzava verso la finestra dal vetro rotto. Forse si poteva sopportare - un sognatore duro e spietato avrebbe potuto farlo - la consapevolezza del dolore e dell'orgoglio di lei; ma nessuno avrebbe potuto sopportare la vista di quel meccanico sorriso nel volgersi dall'atroce sofferenza della scoperta alle futilità garbate che la sua posizione richiedeva. Sia che annullasse festeggiamenti con luminarie, o che parlasse di lettini d'ospedale con la capoinfermiera, o anche soltanto ordinasse la colazione per due nella grotta marina - dalla normalità quotidiana della conversazione, dal gioco di gesti incantevoli con i quali sempre accompagnava alcune frasi fatte, egli, il sognatore gemente, percepiva la confusione che regnava nell'anima di lei, conscio che una sventura odiosa, immeritata, umiliante l'aveva colpita, e che solamente gli obblighi del cerimoniale e la sua costante gentilezza nei confronti di estranei senza colpa le davano la forza di sorridere. Osservando la luce che le illuminava il volto, era facile prevedere che questa si sarebbe dissolta in un attimo per essere sostituita - non appena il visitatore se ne fosse andato da quel lieve, intollerabile aggrottare di ciglia che il sognatore non riusciva mai a dimenticare. L'aiutava a rialzarsi da quel medesimo prato vicino al lago, anse del lago si insinuavano negli spazi fra gli alti balaustri, ed eccoli, lui e lei camminavano fianco a fianco lungo un vialetto anonimo, ed egli sentiva che ella lo guardava di soppiatto, celandosi dietro un pallido sorriso, ma quando egli si costringeva ad affrontare quel barlume interrogativo, lei già non c'era più. Tutto era cambiato, tutti erano felici. Ed egli doveva trovarla assolutamente e subito, dirle che l'adorava, ma il numeroso pubblico in attesa dell'udienza si frapponeva tra lui e la porta, e i biglietti che gli giungevano, passati di mano in mano, dicevano che ella non era disponibile; che stava inaugurando un incendio; che aveva sposato un uomo d'affari americano; che era diventata il personaggio di un romanzo; che era morta. Quegli scrupoli non lo turbavano ora mentre, seduto sulla terrazza della villa, raccontava a Disa come fosse stato fortunato a evadere dal Palazzo. Ella si divertì alla descrizione del passaggio sotterraneo che sbucava nel teatro e cercò di immaginarsi l'allegra arrampicata su per la montagna; ma non le piacque l'episodio di Garh come se, per assurdo, avesse preferito che egli consumasse una salutare fornicazione con quella ragazzotta. Bruscamente gli disse di sorvolare interludi di quel tipo, ed egli accennò un piccolo inchino faceto. Ma quando cominciò a parlarle della situazione politica (di recente, due generali sovietici erano entrati a far parte del governo Estremista in qualità di Consiglieri per la politica estera), negli occhi le apparve un'espressione assente, piuttosto familiare. Ora che egli era in salvo fuori del paese, l'azzurra Zembla, tutta intera, da Punta Embla alla Baia Emblem, poteva sprofondare nel mare, per quello che gliene importava. La turbava di più il fatto che egli avesse perso peso, non che avesse perso un regno. Si informò svogliatamente sui gioielli della corona; egli le rivelò il nascondiglio insolito ed ella si sciolse in un giubilo fanciullesco, come non faceva da anni e anni. «Devo parlare con te d'affari» le disse. «E qui ci sono delle carte da firmare». Lo squillo di un telefono si arrampicò lungo il graticcio delle rose. Un'ex dama di compagnia, la languida ed elegante Fleur de Fyler (ormai quarantenne e sfiorita), che ancora intrecciava perle ai capelli corvini e ancora indossava la tradizionale mantiglia bianca, portò certi documenti dal boudoir di Disa. Fleur riconobbe la voce melodiosa del re non appena la udì risuonare oltre i lauri, prim'ancora che il travestimento perfetto di quest'ultimo potesse trarla in inganno. Due valletti, due giovani e attraenti sconosciuti, tipi inequivocabilmente latini, apparvero con il tè e sorpresero Fleur nel bel mezzo di un inchino. Una brezza improvvisa avanzò a tentoni fra i glicini. Profanatrice di fiori. Egli chiese a Fleur, che già si era voltata per andarsene con le orchidee Disa, se suonasse ancora la viola. Ella scosse il capo più volte, non desiderando parlargli senza rivolgerglisi direttamente, e non osando farlo quando i domestici potevano udirla. Erano di nuovo soli. Disa trovò subito le carte che gli occorrevano. Terminato che ebbero, parlarono per un po' di cose piacevoli e banali, come il film, basato su una leggenda zemblana, che Odon sperava di girare a Parigi o a Roma. Come avrebbe rappresentato, si chiedevano, il narstran, un vestibolo infernale nel quale le anime degli assassini erano torturate sotto un'acquerugiola incessante di veleno di drago che cadeva dalla volta nebbiosa? Nel complesso, il colloquio procedeva in maniera assai soddisfacente - anche se le dita le tremarono un poco quando con la mano sfiorò il bracciolo della sedia di lui. Attenzione, adesso. «Che progetti hai?» gli chiese. «Perché non rimani qui per tutto il tempo che desideri? Te ne prego. Andrò presto a Roma, e avrai la casa tutta per te. Pensa, ci sono letti per quaranta ospiti, quaranta ladroni arabi». (Effetto degli enormi vasi di terracotta in giardino). Le rispose che il mese seguente sarebbe andato in America e che il giorno dopo aveva affari da sbrigare a Parigi. Perché in America? Che cosa avrebbe fatto laggiù? Insegnato. Esaminato capolavori letterari con giovani intelligenti e affascinanti. Uno svago che ormai poteva soddisfare a suo piacimento. «E naturalmente, non so», mormorò Disa distogliendo lo sguardo «non so, ma forse, se tu non avessi niente in contrario, potrei venire a New York - voglio dire, solo per una o due settimane e neanche quest'anno, magari il prossimo». Egli le fece i complimenti per la giacca guarnita di paillettes argentate. Ella insistette: «Allora?» «E anche la pettinatura ti dona molto». «Oh, ma che importanza ha», gemette Disa «per amor del cielo! Non ha nessuna importanza!» «Devo andare» egli sussurrò con un sorriso, e si alzò. «Baciami» ella disse, e per un attimo fu una bambola di pezza, floscia e tremante, fra le sue braccia. Egli si diresse al cancello. Alla curva del vialetto gettò uno sguardo all'indietro e vide in distanza la sua figura bianca che si chinava sul tavolo da giardino con l'apatica grazia di un dolore ineffabile, e d'improvviso un fragile ponte sospeso unì l'indifferenza della veglia e l'amore del sogno. Ma la figura si mosse, ed egli si avvide che non si trattava di Disa, ma soltanto della povera Fleur de Fyler che raccoglieva i documenti sparsi fra le tazze da tè. Quando, durante una passeggiata serotina nel maggio o giugno del 1959, offrii a Shade tutto quel materiale prezioso, mi rivolse uno sguardo tra l'interrogativo e il beffardo dicendo: «Sta bene, Charles, ma avrei due domande. Come fai a sapere che tutti questi particolari intimi su quel tuo re alquanto spaventoso sono veri? E se lo fossero, come si può sperare di pubblicare faccende tanto personali riguardanti persone che probabilmente sono ancora in vita?» «Mio caro John», risposi prontamente con dolcezza «non preoccuparti per delle inezie. Una volta che le avrai trasformate in poesia, le cose saranno vere, e le persone avranno vita. La verità purificata del poeta non può causare dolore, né offesa. La vera arte è superiore al falso rispetto». «Certo, certo», replicò Shade. «Le parole si possono bardare come fossero pulci ammaestrate per poi usarle alla guida di altre pulci. Oh, certo». «E inoltre» continuai mentre scendevamo lungo la strada finendo dritti in mezzo a un grandioso tramonto «non appena il tuo poema sarà pronto, non appena lo splendore di Zembla si fonderà con lo splendore dei tuoi versi, ho intenzione di rivelarti una verità suprema, un segreto straordinario che ti tranquillizzerà completamente». Verso 469: la pistola Gradus, ritornando in macchina a Ginevra, si chiedeva quando l'avrebbe usata, quella pistola. Il caldo pomeridiano era insopportabile. Nel lago, che era andato ricoprendosi di squame d'argento, si rispecchiava un accenno di nubi temporalesche. Da vetraio esperto, sapeva calcolare con una certa precisione la temperatura dell'aequa da alcuni indici di brillanza e di movimento, e giudicò che dovesse essere di almeno ventitré gradi. Giunto all'albergo, fece subito una,telefonata interurbana al quartier generale. Fu un esperienza orribile. Ritenendo che avrebbe richiamato meno l'attenzione di un messaggio OCF, i cospiratori effettuavano le conversazioni in inglese - un inglese stentato, per l'esattezza, senza l'uso dei tempi e degli articoli, e con pronunce sbagliate dall'una come dall'altra parte. In più, volendo applicare lo scaltro sistema (inventato nel principale paese OCF) che prevedeva il ricorso a due differenti sistemi di parole in codice - ad esempio il quartier generale per dire «re» usava il termine «bureau», mentre Gradus «lettera» -, si accrescevano enormemente le difficoltà della comunicazione. Entrambe le parti, infine, avevano dimenticato il significato di certe frasi pertinenti al vocabolario dell'altra, di conseguenza quella telefonata ingarbugliata e costosa risultò una combinazione di sciarade e corse a ostacoli nel buio. Il quartier generale credette di capire che fosse possibile mettere le mani su lettere del re con informazioni relative al luogo in cui egli si trovava facendo irruzione a Villa Disa e saccheggiando il bureau della regina; Gradus, che non aveva detto niente del genere, limitandosi a riferire l'esito della sua visita a Lex, fu contrariato nell'apprendere che, invece di andare a cercare il re a Nizza, doveva restare a Ginevra in attesa di una consegna di salmone in scatola. Una cosa, tuttavia, emerse con chiarezza: la prossima volta non avrebbe telefonato, bensì telegrafato o scritto. Verso 470: negro Un giorno parlavamo del Pregiudizio. Poco prima, durante una colazione al club dei docenti, l'ospite del Prof. H., un decrepito professore emerito di Boston - che il suo anfitrione descriveva, con sommo rispetto, come «un patrizio autentico, un autentico brahmano di sangue blu» (il nonno del brahmano vendeva bretelle a Belfast) -, ebbe a dire con grande naturalezza e giovialità, alludendo alle origini di un tizio assai poco amabile assunto di recente dalla biblioteca universitaria, «uno degli Eletti, a quanto mi risulta» (frase pronunciata con uno sbuffo di compiaciuta acrimonia); al che un assistente, il Professor Misha Gordon, un musicista dai capelli fulvi, aveva osservato senza mezzi termini: «certo, Dio può scegliere il proprio Popolo Eletto, ma l'uomo dovrebbe scegliere il proprio modo d'esprimersi». Mentre tornavamo lentamente a piedi ai nostri castelli adiacenti, sotto una di quelle pioggerelline d'aprile che in una sua lirica il mio amico chiama: Uno schizzo a matita della primavera, Shade disse che ciò che più aborriva erano la Volgarità e la Brutalità, e che entrambe si potevano trovare, idealmente accoppiate, nel pregiudizio razziale. Disse che, da uomo di lettere, non poteva fare a meno di preferire «è un ebreo» a «è israelita», come pure «è un negro» a «è di colore»; ma si affrettò ad aggiungere che quel modo di alludere a due tipi di preconcetti in una volta sola era un ottimo esempio di generalizzazione sconsiderata o demagogica (assai sfruttata da quelli di Sinistra) poiché annullava la distinzione tra due inferni storici: la persecuzione diabolica e la barbara tradizione dello schiavismo. D'altro canto (ammise) le lacrime di tutti gli esseri umani maltrattati, che assommavano la disperazione di tutti i tempi, dal punto di vista matematico si equivalevano; e forse (riteneva) non ci si sbagliava troppo nel rinvenire una cert'aria di famiglia (tensione delle narici scimmiesche, disgustosa ottusità dello sguardo) tra il linciatore degli Stati del Sud e l'antisemita mistico, allorché sono succubi dell'ossessione prediletta. Dissi che un giovane giardiniere negro che avevo assunto di recente - subito dopo avere allontanato un inquilino indimenticabile (si veda la Prefazione) - usava invariabilmente l'espressione «di colore». In quanto mercante di parole vecchie e nuove (osservò Shade), egli disapprovava decisamente quell'epiteto non solo perché fuorviante dal punto di vista artistico, ma anche perché il senso che gli si dava dipendeva troppo dal modo in cui veniva applicato e da chi lo applicava. Molti negri competenti in materia (convenne) lo ritenevano l'unico termine dignitoso, emotivamente neutro ed eticamente inoffensivo; la loro approvazione obbligava tutte le persone per bene non-negre a seguire quell'esempio, e ai poeti non piace doverne seguire alcuno; ma le persone «distinte» adorano le omologazioni, per cui adesso dicono «uomo di colore» invece di «negro», esattamente come «nudo» anziché «denudato», o «traspirazione» al posto di «sudore»; benché, naturalmente, (concesse) possano esserci casi in cui il poeta sia portato ad apprezzare la fossetta di una natica marmorea in un «nudo» o l'adeguata imperlatura di una «traspirazione». Accadeva anche di sentire quell'epiteto (continuò) sulla bocca di chi aveva pregiudizi, come eufemismo faceto in aneddoti sui negri quando «un signore di colore» dice o fa qualcosa di buffo (in tali casi, inopinato fratello di quel «signore ebreo» dei romanzetti vittoriani). Non avevo capito bene la sua obiezione artistica all'espressione «di colore». Me la spiegò in questi termini: nelle prime opere di carattere scientifico su fiori, uccelli, farfalle, eccetera, le illustrazioni erano dipinte a mano da diligenti acquerellisti. Nelle pubblicazioni difettose o uscite anzitempo, le figure di alcune tavole rimanevano in bianco. La giustapposizione di frasi «un bianco» e «un uomo di colore» rammentavano sempre al mio poeta, con una perentorietà tale da vanificarne l'accezione comunemente assunta, quei contorni che si moriva dalla voglia di riempire con i loro colori legittimi: il verde e il porpora di una pianta esotica, il blu compatto di un piumaggio, la striscia geranio di un'ala smerlata. «Ma soprattutto [disse] noi bianchi non siamo affatto bianchi, siamo color malva alla nascita, poi rosa tea, e in seguito di ogni genere di colore ributtante». Verso 475: un guardiano, Padre Tempo Il lettore è pregato di rilevare la bella rispondenza al verso 312. Verso 490: Exe É ovvio che Exe sta per Exton, una cittadina agricola sulla sponda meridionale del lago Omega. Vanta un museo di storia naturale, piuttosto famoso, con molte bacheche nelle quali sono conservati uccelli che Samuel Shade aveva collezionato e lì esposto. Verso 493: si tolse quella povera, giovane vita La nota che segue non è un'apologia del suicidio: è la descrizione semplice e sobria di una condizione spirituale. Quanto più lucida e intensa è la fede nella Provvidenza, tanto maggiore è la tentazione di farla finita con questa faccenda della vita, ma anche maggiore è il timore dell'orribile peccato implicito nell'autodistruzione. Esaminiamo per prima cosa la tentazione. Come dibattuto con ampiezza altrove nel corso di questo commento, concepire in modo serio una qualsiasi forma di vita ultraterrena presuppone inevitabilmente e necessariamente una qualche misura di fede nella Provvidenza; e, per converso, una fede cristiana profonda presuppone che si creda in qualche forma di sopravvivenza spirituale. La concezione di tale sopravvivenza non deve necessariamente essere razionale, cioè non deve necessariamente avere le esatte caratteristiche dei vagheggiamenti personali oppure offrire una generica atmosfera da giardino di un Oriente subtropicale. Infatti, a un buon cristiano zemblano si insegna che la fede autentica non ha lo scopo di fornire quadri o carte geografiche, ma che essa dovrebbe pacatamente accontentarsi della calda foschia di una piacevole attesa. Per fare un esempio alla buona: la famiglia del piccolo Christopher sta per emigrare in una colonia lontana dove al padre è stato assegnato un incarico lavorativo per tutta la vita. Il piccolo Christopher, un ragazzetto gracile di nove o dieci anni, fa completo affidamento (tanto completo, infatti, da cancellare la consapevolezza stessa di quella fiducia) sul fatto che i genitori organizzino tutti i particolari della partenza, del viaggio e dell'arrivo. Non può immaginare, né prova a immaginare, gli aspetti particolari del nuovo luogo che l'attende, nella convinzione, nebulosa ma piacevole, che sarà persino migliore della sua fattoria con la grande quercia, e la montagna, e il pony, e il giardino, e la scuderia, e Grimm, il vecchio stalliere che sa coccolarlo in un certo modo quando non c'è in giro nessuno. Anche noi dovremmo possedere un po' di quella serena fiducia. Con questa foschia divina di dipendenza assoluta che permea il nostro essere, non c'è da stupirsi se si è tentati, non c'è da stupirsi se, con un sorriso sognante, si soppesa sul palmo l'arma da fuoco compatta nella custodia di camoscio, appena più grande della chiave del portone di un castello o della sacchetta impunturata di un ragazzino imberbe, non c'è da stupirsi se si sbircia oltre il parapetto nell'invitante abisso. Sto scegliendo queste immagini a caso. Alcuni puristi sostengono che un gentiluomo dovrebbe servirsi di un paio di pistole, una per tempia, o di un nudo botkin (si noti l'ortografia corretta), e che le signore dovrebbero inghiottire una dose letale o annegare in compagnia della goffa Ofelia. Individui più modesti hanno preferito varie forme di soffocamento, e poeti di second'ordine sono ricorsi persino a metodi di affrancamento stravaganti, come far spillare il sangue dalle vene nella vasca quadrupede della stanza da bagno in una pensione piena di spifferi. Metodi incerti quanto ingarbugliati. Tra i sistemi conosciuti, non molto numerosi in verità, di disfarsi del proprio corpo, quello sommo è cadere, cadere, cadere, ma si deve essere molto meticolosi nella scelta del davanzale o dell'aggetto, onde evitare di fare del male a se stessi o agli altri. Si sconsiglia il salto da un alto ponte, anche se non sapete nuotare, perché vento e acqua abbondano in certi bizzarri frangenti, e bisogna assolutamente evitare che la tragedia culmini in un tuffo da primato o nella promozione di un poliziotto. Se prenotate una cella, la stanza 1915 o la 1959, nel luminoso favo di un hotel situato in un centro commerciale, così alto da sfiorare la volta stellata, e tirate su il vetro della finestra e con garbo non già vi lasciate cadere, o saltate, bensì stiracchiandovi vi allungate fuori come per cercare il ristoro di un po' d'aria, esiste sempre la possibilità che andiate dritto a sbattere in un pacifico nottambulo che ha portato a spasso il cane, trascinandolo così nel vostro personale inferno; per tale ragione sarebbe consigliabile una stanza sul retro, soprattutto se dà sul tetto di una vecchia casa solida e normale, situata molto più in basso, da dove si può stare certi che un gatto schizzerebbe via in un baleno. Altro luogo alla moda da cui spiccare il salto è la cima di una montagna con uno strapiombo, diciamo, di cinquecento metri, ma il problema è scovarlo, perché rimarrete sorpresi nel constatare come sia facile calcolare erroneamente l'angolo di devianza rispetto allo sperone roccioso, e ritrovarvi con una sporgenza nascosta o qualche rupe balorda che vi si avventano contro per afferrarvi, facendovi rimbalzare in mezzo ai cespugli, frustrati, maciullati e inutilmente vivi. La caduta ideale è da un aereo, muscoli rilassati, pilota sconcertato, paracadute impacchettato, ecco che ve ne liberate, lo sfilate, lo scrollate dalle spalle - addio, shutka (piccolo scivoloparacadute)! E cadete, cadete, ma per tutto il tempo vi sentite sospesi e galleggianti, e intanto fate una capriola al rallentatore come un sonnolento piccione che ruzzola, e vi stravaccate supini sulla trapunta di piume dell'aria, o vi girate pigramente ad abbracciare il cuscino, godendo ogni ultimo istante della morbida, cedevole vita imbottita di morte, con la verde altalena a bilico del mondo ora in alto, ora in basso, e la crocifissione voluttuosa, mentre vi tendete nella corsa sempre più impetuosa, nella sferzata che si approssima, e infine ecco l'obliterazione del vostro amato corpo nel Grembo del Signore. Se fossi un poeta, di certo dedicherei un'ode al dolce impulso di chiudere gli occhi e abbandonarsi totalmente all'assoluta sicurezza della morte corteggiata. Estatici, si pregusta l'immensità dell'Abbraccio Divino che accoglie lo spirito alfine liberato, il caldo bagno della dissoluzione del corpo, l'ignoto universale che inghiotte il minuscolo ignoto, unica parte reale della nostra personalità transitoria. Quando l'anima adora Colui Che la guida fino al termine della vita terrena, quand'essa a ogni svolta del sentiero riconosce il Suo segnale, verniciato sul masso e inciso nel tronco dell'abete, quando ogni pagina del libro di un destino individuale porta la Sua filigrana, come dubitare che Egli ci protegga per tutta l'eternità? Allora, cosa può trattenerci dal mettere in atto la transizione? Cosa può aiutarci a resistere all'intollerabile tentazione? Cosa può impedirci di cedere al desiderio ardente di fonderci in Dio? A noi, che ogni giorno scaviamo nella sozzura, potrà forse essere perdonato l'unico peccato che pone fine a tutti i peccati. Verso 501: L'if In francese è l'albero del tasso. Curioso che in zemblano il salice piangente si dica anch'esso if (il tasso è tas). Verso 502: the grand potato Un gioco di parole esecrabile collocato a bella posta qui, con risalto epigrafico, per sottolineare la mancanza di rispetto nei confronti della Morte. Ricordo ancora, dai tempi della scuola, fra altre arguzie di un manuale francese, le soi-disant «ultime parole» di Rabelais: «Je m'én vais chercher le grand peutêtre». Verso 503: S.P.E. Il buon gusto e le leggi sul reato di diffamazione a mezzo stampa mi impediscono di svelare il vero nome della rispettabile scuola di perfezionamento in epistemologia che il nostro poeta schernisce con estroso piacere in questo canto. La prima e l'ultima lettera dell'acronimo, S ed E, offrono agli studiosi l'abbreviazione Se, su cui Shade costruisce la sua parodia. L'istituto si trova in un luogo molto ameno di uno stato del sudovest che qui deve rimanere anonimo. Ritengo inoltre mio dovere osservare che deploro recisamente l'impertinenza con la quale il nostro poeta tratta, in questo canto, alcuni aspetti di una speranza spirituale che la religione, ed essa sola, può appagare. Verso 549: Pur snobbando gli dèi, D maiuscolo incluso Proprio qui è il nocciolo, il Dunque della questione. E credo che non solo la Scuola (si veda il verso 517), ma anche il nostro poeta l'abbia mancato. Per un cristiano, nessun Aldilà è accettabile o immaginabile senza la partecipazione di Dio al nostro destino eterno, il che comporta una punizione adeguata per ogni peccato, grande o piccolo che sia. Si dà il caso che il mio diario tascabile serbi alcuni appunti frettolosi relativi a una conversazione che ebbi con il poeta il 23 giugno «sulla mia terrazza, dopo una partita a scacchi, finita in parità». Li riporto qui soltanto perché essi gettano una luce affascinante sulle sue opinioni in materia. Avevo accennato, non ricordo a quale proposito, ad alcune differenze fra le nostre due Chiese. Si deve tenere presente che il protestantesimo zemblano è molto affine alle Chiese «più alte» della Comunione Anglicana, pur vantando alcune sue splendide peculiarità. Da noi, a capo della Riforma ci fu un compositore geniale; la nostra liturgia è compenetrata di splendida musica; i cori dei nostri fanciulli sono i più soavi del mondo. Sybil Shade proveniva da una famiglia cattolica, ma fin dalla giovinezza aveva sviluppato, come ebbe a dirmi lei stessa, «una religione tutta sua», il che è di solito sinonimo, nel migliore dei casi, di adesione apatica a una qualche setta semipagana, o, nel peggiore dei casi, di tiepido ateismo. Ella aveva distolto il marito non soltanto dalla Chiesa Episcopale dei suoi padri, ma anche da qualsiasi forma di culto sacramentale. Cominciammo per caso a parlare della generale nebulosità che avvolge oggigiorno il concetto di «peccato», di come esso venga confuso con l'idea, assai più carnale, di «delitto», e accennai brevemente a mie esperienze infantili riguardo a certi riti della nostra Chiesa. Da noi la confessione è auricolare e ha luogo in un recesso riccamente decorato, con il penitente che regge un cero acceso, in piedi a lato dello scranno del sacerdote, scranno dall'alto schienale e pressoché identico al trono usato per l'incoronazione dei re di Scozia. Da ragazzino educato qual ero, temevo sempre di macchiargli la manica viola scuro con le lacrime di cera bollente che continuavano a gocciolarmi sulle nocche, formando delle crosticine fitte, ed ero affascinato dalla concavità alluminata del suo orecchio, simile a una conchiglia o a una lucida orchidea, un ricettacolo tutto circonvoluzioni che dava l'impressione di essere troppo grande per lo smaltimento dei miei peccatucci. SHADE: Tutti e sette i peccati capitali sono peccatucci, ma senza tre di essi - Orgoglio, Lussuria e Accidia - forse la poesia non sarebbe mai nata. KINBOTE: É giusto basare le obiezioni su una terminologia desueta? SHADE: Tutte le religioni si basano su una terminologia desueta. KINBOTE: Ciò che chiamiamo Peccato Originale non potrà mai diventare desueto. SHADE: Non mi pronuncio in merito. Infatti, da piccolo pensavo che si riferisse a Caino, assassino di Abele. Quanto a me, sto dalla parte dei vecchi sniffatori di tabacco, nostri maggiori: L'homme est né bon. KINBOTE: Eppure, disobbedire al Volere Divino è una definizione fondamentale del Peccato. SHADE: Non posso disobbedire a qualcosa che non conosco e la cui realtà ho diritto di negare. KINBOTE: Su, su. Neghi anche che esistano i peccati? SHADE: Ne posso nominare soltanto due: uccidere e infliggere intenzionalmente sofferenza. KINBOTE: Dunque, uno che passi la vita in totale solitudine non può essere un peccatore? SHADE: Potrebbe torturare gli animali. Potrebbe avvelenare le sorgenti d'acqua della sua isola. Potrebbe accusare un innocente in un manifesto postumo. KINBOTE: E quindi la parola d'ordine è...? SHADE: Compassione. KINBOTE: Ma chi l'ha instillata in noi,John? Chi è il Giudice della vita, e il Progettista della morte? sHADE: La vita è una grande sorpresa. Non vedo perché la morte non dovrebbe essere una sorpresa ancora più grande. KINBOTE: Qui ti volevo, John. Negando l'esistenza di una Intelligenza Superiore che predispone e amministra il nostro aldilà individuale, siamo costretti ad accettare il concetto indicibilmente spaventoso che il Caso estenda la sua portata finanche all'Eternità. Considera la situazione. Per tutta l'eternità il nostro povero spirito è esposto a vicissitudini indescrivibili. Non c'è possibilità di appello, di consiglio, di sostegno, di protezione, niente di niente. Lo spirito del povero Kinbote, l'ombra del povero Shade possono aver messo un piede in fallo, possono, a un certo punto, aver imboccato la strada sbagliata, oh, ma soltanto per pura sbadataggine, o semplicemente per ignoranza di una regola banale del gioco assurdo della natura - se mai esistono regole. SHADE: Esistono regole nei quesiti scacchistici: divieto di doppia soluzione, per esempio. KINBOTE: Mi riferivo a regole diaboliche, con ogni probabilità destinate a essere infrante dalla parte avversa non appena si arrivi a comprenderle. Ecco perché la magia nera non sempre funziona. I dèmoni nella loro malignità prismatica tradiscono l'accordo esistente fra noi e loro, e noi ci troviamo di nuovo nel grande disordine del caso. Quando anche mitigassimo il Caso con la Necessità e ammettessimo un determinismo senza Dio, il meccanismo di causa ed effetto, onde dotare le nostre anime, dopo la morte, del dubbio conforto della metastatistica, dovremmo ancora fare i conti con l'infortunio individuale, il milleduesimo incidente stradale tra quelli messi in programma per la Festa dell'Indipendenza nell'Ade. No, no. Se vogliamo essere seri sull'aldilà, non cominciamo col degradarlo al livello di una storiella fantascientifica o di una cartella clinica spiritistica. L'idea che l'anima piombi a capofitto in un'aldilà sconfinato e caotico senza che vi sia la Provvidenza a guidarla... SHADE: C'è sempre uno psicopompo dietro l'angolo, no? KINBOTE: Non dietro quell'angolo, John. Senza la Provvidenza, l'anima deve fare affidamento sulla pula del suo involucro, sull'esperienza accumulata durante la sua reclusione corporea, e aggrapparsi puerilmente a princìpi provinciali, a ordinanze locali e a una personalità costituita per la gran parte dalle ombre delle sbarre della propria prigione. Una concezione siffatta non dev'essere presa in considerazione neppure per un istante da una mente religiosa. Quanto è più intelligente - finanche dal punto di vista di un miscredente orgoglioso! - accettare la Presenza di Dio: dapprima una fosforescenza evanescente, una pallida luce nella semioscurità della vita corporea, e un fulgore abbacinante dopo. Anch'io, anch'io, mio caro John, a suo tempo fui assalito da dubbi religiosi. La Chiesa mi aiutò a fugarli. Mi insegnò anche a non chiedere troppo, a non pretendere una immagine troppo chiara di ciò che è inimmaginabile. Sant'Agostino ha detto... SHADE: Ma perché mi si deve sempre citare sant'Agostino? KINBOTE: Come ha detto sant'Agostino: «Si può sapere ciò che Dio non è; ma non si può sapere ciò che Egli è». Credo di sapere cosa Dio non è: non è disperazione, non è terrore, non è il terriccio dentro una gola rantolante, né il nero ronzio nelle orecchie che va via via affievolendosi fino a un nulla nel nulla. So anche che il mondo non può essere stato frutto del caso e che in qualche modo la Mente è un fattore essenziale nella creazione dell'universo. Nel tentativo di trovare il nome giusto per quella Mente Universale, o Causa Prima, o Assoluto, o Natura, io propongo che sia il nome di Dio ad avere la precedenza. Verso 550: frammenti Vorrei dire qualcosa a proposito di una nota precedente (al verso 12). Coscienza ed erudizione hanno dibattuto l'argomento, e ora ritengo che i due versi riportati in quella nota siano travisati e corrotti da un desiderio irrealizzabile. É l'unica volta, durante la stesura di questi ardui commenti, che ho indugiato, in preda all'angoscia e al disappunto, sull'orlo della falsificazione. Devo chiedere al lettore di non tenere conto di quei due versi (che temo non siano neanche metricamente esatti). Potrei cassarli prima di mandare il libro in stampa, ma sarei costretto a rielaborare l'intera nota, o buona parte di essa, e non ho tempo da perdere in simili stupidaggini. Versi 557-558: Come, senza fiato, riconoscere nello spazio atro una sfera minuscola di diaspro, l'Incantevole Terra. Il distico più delizioso di questo canto. Verso 579: l'altra Lungi da me l'insinuazione che vi sia stata un'altra donna nella vita del mio amico. Egli interpretò serenamente la parte del marito esemplare assegnatagli dagli ammiratori della sua cittadina, a parte il fatto che aveva una paura da morire della moglie. Più di una volta ebbi a zittire le malelingue che mettevano il suo nome in relazione a quello di una sua studentessa (si veda la Prefazione). Di recente i romanzieri americani, che fanno quasi tutti parte di un dipartimento unificato di Letteratura inglese, il quale, tra una cosa e l'altra, dev'essere più imbevuto di talento letterario, ghiribizzi freudiani e ignobile lussuria eterosessuale di quanto non lo sia il resto del mondo intero, hanno completamente esaurito l'argomento; pertanto, non me la sento di affrontare il tedio che comporterebbe, a questo punto, una presentazione della signorina. In ogni modo, la conoscevo appena. Una sera l'avevo invitata a una festicciola alla quale partecipavano anche gli Shade con lo scopo preciso di confutare quelle voci; il che mi rammenta che dovrei dire qualcosa degli strani rituali d'invito e controinvito nella squallida New Wye. Consultando il mio diario tascabile, vedo che nei cinque mesi in cui ebbi rapporti con gli Shade fui invitato alla loro mensa esattamente tre volte. L'iniziazione avvenne sabato 14 marzo, per una cena con i seguenti altri ospiti: Nattochdag (che avevo modo di vedere ogni giorno nel suo ufficio); il Professor Gordon del dipartimento di Musica (che monopolizzò la conversazione); il Direttore del dipartimento di Russo (un ridicolo pedante del quale meno si parla e meglio è); e tre o quattro donne intercambiabili, una delle quali (Mrs Gordon, credo) era incinta, e un'altra, una perfetta sconosciuta, non fece che parlarmi, o meglio, non fece che ingozzarmi di chiacchiere incessanti dalle venti alle ventitré, complice la sfortunata distribuzione dei posti a sedere disponibili al termine della cena. Il trattenimento successivo, un souper meno allargato ma non per questo più intimo, ebbe luogo sabato 23 maggio; erano presenti Milton Stone (nuovo bibliotecario, con il quale Shade parlò fino a mezzanotte della classificazione di certe opere pubblicate dalla Wordsmith University); il caro vecchio Nattochdag (che continuavo a vedere tutti i giorni); e una francese non deodorata, (la quale tracciò per me un quadro esauriente delle condizioni in cui versava l'insegnamento linguistico alla University of California). Nel mio libriccino non ho riportato la data del terzo e ultimo pasto a casa Shade, ma so che ebbe luogo una mattina di giugno in cui mi ero recato da loro con una magnifica piantina del Palazzo reale di Onhava, da me disegnata e abbellita con ogni sorta di finezze araldiche, nonché con un tocco di vernice dorata che ero riuscito a procurarmi con qualche difficoltà, e fui gentilmente persuaso a restare per una estemporanea colazione. Dovrei aggiungere che, nonostante le mie proteste, in occasione di tutti e tre i pasti non si tenne conto alcuno delle mie restrizioni alimentari, vegetariane, e fui esposto a sostanze animali dentro o attorno ad alcune verdure contaminate che avrei anche potuto degnarmi di assaggiare. Mi presi una rivincita piuttosto sottile. Di una decina d'inviti che estesi loro, gli Shade ne accettarono soltanto tre. Ognuno di quei tre pasti era imperniato su qualche verdura che avevo sottoposto a tante squisite metamorfosi quante ne mise in atto Parmentier con il suo tubero prediletto. Ogni volta invitai solo un altro ospite destinato a intrattenere Mrs Shade (la quale, se non vi dispiace - e qui la mia voce si fa sottile, assume un timbro femminile -, era allergica ad asparagi, avocado, afrocereali - praticamente a qualsiasi cosa cominciasse per «a»). Trovo che nulla concorra a rovinare l''appetito a tavola quanto il ritrovarsi accanto soltanto persone anziane che insudiciano il tovagliolo con il trucco in sfacelo, e cercano furtive, dietro sorrisi di circostanza, di rimuovere la tortura rovente di un seme di lampone finito tra la gengiva falsa e la gengiva defunta. Pertanto invitavo gente giovane, studenti: la prima volta, il figlio di un padiscià; la seconda, il mio giardiniere; e la terza, quella certa ragazza in calzamaglia nera, dalla lunga faccia pallida e le palpebre dipinte di un macabro verde; ma arrivò molto tardi, e gli Shade se ne andarono molto presto - infatti, non credo che il faccia a faccia sia durato più di dieci minuti, dopo di che fui costretto a intrattenere la signorina suonando dischi sul grammofono fino a tarda notte, quando finalmente si decise a telefonare a qualcuno perché la portasse a una «tavola calda» a Dulwich. Verso 584: con il figlio la madre Es ist die Mutter mit ihrem Kind. Verso 596: addita le pozze dentro il suo seminterrato Conosciamo tutti quei sogni intrisi di acque stigie ove il Lete sgocciola tetro come un impianto idraulico difettoso. Questo verso è seguito nella minuta da una falsa partenza, e confido che il lettore avvertirà in qualche misura il brivido di gelo che mi corse giù per la lunga ed elastica spina dorsale quando scoprii la seguente variante: Dovrebbe il morto assassino tentare di abbracciare la vittima oltraggiata con cui deve stare faccia a faccia? Hanno un'anima gli oggetti? O devono perire sì come grandi templi e terrecotte d'uso a Tanagra? L'ultima sillaba di «Tanagra» e le prime tre lettere della locuzione «d'uso» formano il nome dell'assassino il cui shargar (gracile spettro) si sarebbe presto trovato faccia a faccia con lo spirito radioso del nostro poeta. «Pura e semplice combinazione», potrebbe esclamare un lettore prosaico. Ma che provi a vedere, come ho fatto io, quante combinazioni del genere siano possibili e plausibili: «Leningrad usava chiamarsi Petrograd?» «Un gradito usbergo ci soccorse?» Questa variante è talmente portentosa che solo la disciplina propria dell'erudito e il rispetto scrupoloso della verità mi hanno impedito di inserirla a questo punto, eliminando quattro versi altrove (per esempio, quelli deboli dal 627 al 630), onde conservare inalterata la lunghezza del poema. Shade compose questi versi martedì 14 luglio. E Gradus, cosa stava facendo quel giorno? Niente. Il fato combinatorio riposa sugli allori. L'ultima volta che abbiamo visto il nostro è stato nel tardo pomeriggio del 10 luglio, mentre da Lex fa ritorno al suo albergo ginevrino, e lì l'abbiamo lasciato. Nei quattro giorni successivi, Gradus rimase a Ginevra, rodendosi. Il paradosso divertente degli uomini d'azione è che devono continuamente sopportare lunghi periodi di inattività che non sanno con cosa riempire, non possedendo le risorse di una mente avventurosa. Come molte persone di scarsa cultura, Gradus leggeva con voracità quotidiani, opuscoli, volantini e i foglietti illustrativi in più lingue contenuti nelle confezioni di gocce nasali e di pastiglie digestive; e ciò costituiva la sua massima concessione alla curiosità intellettuale; dal momento che la sua vista non era troppo buona e che la disponibilità di notizie locali da divorare non era illimitata, egli doveva ricorrere per gran parte del tempo al torpore dei caffè all'aperto e al transitorio ripiego del sonno. Quanto sono più felici gli indolenti ben desti, coloro che sono sovrani tra gli uomini, le menti fertili e mostruose che traggono intenso diletto e struggimenti estatici dalla balaustra di una terrazza al crepuscolo, dalle luci e dal lago giù in basso, dal profilo lontano della montagna che si scioglie nel colore albicocca scuro dell'ultimo bagliore, dalle nere conifere stagliate contro l'inchiostro pallido dello zenit, e dalle balze granata e verde dell'acqua lungo il silente, malinconico litorale proibito. Oh, mio dolce Boscobel! E i ricordi teneri e orribili e l'ignominia, e la gloria, e le intimazioni esasperanti, e la stella che nessun membro del partito potrà mai afferrare. Il mercoledì mattina, non avendo ancora ricevuto notizie, Gradus telegrafò al quartier generale dicendo che riteneva poco saggio attendere oltre e che si sarebbe trasferito all'Hôtel Lazuli di Nizza. Versi 597-608: Ma chi può insegnare i pensieri di cui fare l'appello, ecc. Nella mente del lettore questo passo dovrebbe essere associato alla straordinaria variante riportata nella nota precedente, poiché nel breve volgere di una settimana «d'uso a Tanagra» e «le nostre mani regali» erano destinati a incontrarsi, nella vita concreta, nella morte concreta. Se non fosse fuggito, il nostro Charles II forse sarebbe stato giustiziato; il che di certo sarebbe accaduto se egli fosse stato catturato nel tratto fra il palazzo e le Caverne Rippleson; ma solo di rado egli avvertì le dita tozze del destino durante la fuga; avvertì che lo frugavano (simili a quelle di un vecchio pastore arcigno che controlla la verginità della figlia) mentre scivolava, quella notte, sull'umido versante ricoperto di felci del Monte Mandevil, e il giorno successivo a una più raccapricciante altitudine, nel vertiginoso azzurro, là dove l'alpinista diviene consapevole di un compagno fantasma. Molte volte, quella notte, il nostro re si lasciò cadere a terra, disperatamente deciso a riposare fino all'alba per poter schivare con minor pena qualsiasi rischio si fosse presentato. (Sto pensando a un altro Charles, un altro individuo, bruno, alto più di due metri). Ma si trattava soltanto di una reazione di ordine fisico o nevrotico, e so benissimo che il mio re, quando anche fosse stato catturato e condannato e condotto alla fucilazione, avrebbe reagito come ai versi 606-608: in tal guisa si sarebbe guardato attorno con compostezza insolente: scherniremo i subalterni, derideremo allegramente gli imbecilli coscienziosi, nei loro occhi sputeremo, così, giusto per divertimento. Permettetemi di chiudere questa nota importante con un aforisma piuttosto antidarwiniano: colui che uccide è sempre inferiore alla sua vittima. Verso 603: ascolteremo i galli che cantano lontano Si ricorderà la mirabile immagine di una recente poesia di Edsel Ford: E spesso quando il gallo canta, scuotendo fuori il fuoco dal mattino e dal maggese brumoso Il maggese (in zemblano muvman), è il campo vicino a un granaio. Versi 609-614: E non si può aiutare, ecc. Questo passo è diverso nella minuta: E non si può aiutare l'esule sorpreso dalla morte in un'anonima locanda esposta al fiato ardente di questa America, di quest'umida notte: tra stecche di persiane strisce di luce colorata brancolano in cerca del suo letto - maghi dal passato con gemme sciolte in filtri d'amore - e rapida la vita rifluisce. Ciò descrive piuttosto bene l'«anonima locanda», un capanno di tronchi, con un bagno piastrellato, ove sto cercando di coordinare queste note. A tutta prima, mi aveva innervosito parecchio il chiasso di una diabolica musica radiofonica che pensavo provenisse da un qualche parco di divertimenti sul lato opposto della strada - risultò che si trattava di campeggiatori -, e mi ero deciso ad andare altrove, quando quelli mi precedettero. Adesso c'è più silenzio, se si eccettua un vento irritante che imperversa fra le tremule avvizzite, e Cedarn è di nuovo una città fantasma, e non ci sono sciocchi villeggianti estivi o spie a fissarmi, e il mio pescatorello in bluejeans non se ne sta più ritto su quella pietra in mezzo al ruscello, e forse è meglio così. Verso 615: due lingue Inglese e zemblano, inglese e russo, inglese e lettone, inglese ed estone, inglese e lituano, inglese e russo, inglese e ucraino, inglese e polacco, inglese e ceco, inglese e russo, inglese e ungherese, inglese e rumeno, inglese e albanese, inglese e bulgaro, inglese e serbo-croato, inglese e russo, americano ed europeo. Verso 619: gemma del tubero Il gioco di parole germoglia (si veda il verso 502) Verso 627: Il grande Starover Blue Si presume che il Prof. Blue abbia concesso l'autorizzazione, ma anche in tal caso immergere una persona reale, per quanto gioviale e condiscendente, in un milieu inventato nel quale è costretta a comportarsi in consonanza con l'invenzione appare come un artificio di pessimo gusto, soprattutto perché altri personaggi tratti dalla vita reale, con l'eccezione, naturalmente, dei componenti della famiglia, figurano nel poema sotto pseudonimo. D'accordo che questo nome è molto seducente. La stella sull'azzurro (star over the blue) è perfetta per un astronomo, benché in realtà né il nome di battesimo né il cognome abbiano relazione alcuna con la volta celeste: il nome gli fu dato in ricordo del nonno, uno starover (per inciso, con l'accento sull'ultima sillaba), vale a dire un Vecchio Credente (membro di una setta scismatica) di nome Sinyavin, da sinij, cioè «azzurro» in russo. Quel Sinyavin emigrò da Saratov a Seattle e generò un figlio che alla fine decise di cambiare il suo nome in Blue e sposò Stella Lazurchik, una kaschuba americanizzata. É così che stanno le cose. Il rispettabile Starover Blue sarà probabilmente sorpreso nello scoprire l'epiteto che gli ha conferito quel burlone di Shade. Lo scrivente si sente spinto a rendere qui un piccolo omaggio a quell'amabile vecchio strambo, che tutti all'università adoravano e che gli studenti avevano soprannominato Colonnello Starbottle, vale a dire «bottiglia di stelle», con palese riferimento alle sue abitudini eccezionalmente conviviali. Del resto non mancavano altri grandi uomini nell'entourage del nostro poeta, per esempio, l'eminente studioso zemblano Oscar Nattochdag. Verso 629: Il fato delle bestie Sopra queste parole il poeta scrisse e poi cancellò con un frego di penna: Il fato del pazzo Numerosi teologi zemblani hanno indagato il destino ultimo dell'anima dei pazzi e in genere ritengono che perfino l'intelletto più demente racchiuda nella propria massa malata una particella basilare sana che sopravvive alla morte e d'improvviso s'espande, esplode per così dire, in uno scoppio d'ilarità salutare e trionfale quando il mondo dei folli timorosi e degli stupidi rileccati è già scomparso da tempo. Per quanto mi riguarda, non ho mai conosciuto dei pazzi, ma ho sentito di parecchi casi divertenti presenti a New Wye («Et in Arcadia ego», dice Dementia, incatenata alla sua grigia colonna). Ci fu, ad esempio, il caso di uno studente che diede in escandescenze. Ci fu un vecchio portiere dell'università, persona degna della massima fiducia, che un giorno, in sala proiezioni, mostrò a una schizzinosa studentessa di una università mista qualcosa di cui ella aveva certamente visto esemplari migliori; ma il caso che preferisco è quello di un dipendente delle ferrovie di Exton, la cui fissazione mi fu descritta nientedimeno che da Mrs H. A casa degli Hurley si dava una festa per gli iscritti ai corsi estivi dell'università; lì mi aveva condotto uno dei miei partner al secondo tavolo di ping-pong, amico intimo dei ragazzi Hurley, perché sapevo che il mio poeta avrebbe recitato qualcosa e non stavo più nella pelle dall'ansia credendo che potesse trattarsi della mia Zembla (risultò trattarsi di una poesia sconosciuta, scritta da uno dei suoi sconosciuti amici - il mio Shade era molto gentile verso i falliti). Il lettore capirà se dico che, dato il mio livello, non corro pericolo di sentirmi «perduto» in una folla di gente, ma è pur vero che non conoscevo molte persone a quella festa. Mentre mi spostavo fra la calca con un sorriso sulle labbra e un cocktail in mano, alfine scorsi il cocuzzolo del mio poeta e la lucida crocchia castana di Mrs H. sporgere dallo schienale di due sedie contigue. Mentre arrivavo alle loro spalle lo sentii obiettare a qualcosa che ella aveva detto: «Non è il termine giusto» disse. «Non lo si dovrebbe usare per una persona che intenzionalmente si spoglia di un passato tetro e infelice e lo sostituisce con una brillante invenzione. Equivale semplicemente a voltar pagina con la mano sinistra». Diedi un colpetto sulla testa del mio amico e accennai un inchino in direzione di Eberthella H. Il poeta mi guardò con occhi vitrei. Mrs H. disse: «Ci venga in aiuto, Mr Kinbote: io sostengo che, come si chiama, il vecchio... quel vecchio, sa, quello della stazione ferroviaria di Exton, che pensava di essere Domineddio, e che si era messo a cambiare il percorso dei treni, era tecnicamente matto, ma John dichiara che è anch'egli un poeta». «Tutti, in un certo senso, siamo poeti, signora», risposi, e porsi un fiammifero acceso al mio amico che stringeva la pipa fra i denti e si stava battendo qua e là il petto con entrambe le mani. Non sono certo che questa variante banale meritasse d'essere commentata; in effetti, tutto il passo relativo alle attività della S.P.E. sarebbe hudibrastico se il suo pedestre verso fosse stato di un piede più breve. Verso 662: Chi mai cavalca nella notte e nel vento Questo verso, e in verità l'intero passo (versi 653664), allude al noto poema di Goethe sul re degli elfi, il canuto incantatore del bosco di ontani abitato dagli elfi che s'innamora del sensibile figlioletto di un viandante sorpreso dalle tenebre. Non si ammirerà mai abbastanza il modo ingegnoso con cui Shade riesce a trasferire qualcosa del ritmo spezzato della ballata (fondamentalmente un metro trisillabico) nel suo verso giambico: Chi mái caválca nella nótte e nel vénto ... É il pàdre con il fìglio amáto. I due versi iniziali del poema di Goethe si evidenziano, precisi e splendidi, con in più una rima inattesa (anche in francese: vent - enfant) nella mia lingua d'origine: Ret wóren ok spuz on nátt ut wétt? Eto est vótchez ut mid ik deít. Un altro monarca favoloso, l'ultimo re di Zembla, continuò a ripetersi questi versi incantevoli sia in zemblano sia in tedesco, come occasionale accompagnamento della martellante stanchezza e dell'ansia, mentre si arrampicava tra le felci aquiline delle montagne tenebrose che doveva valicare nella sua scommessa per la libertà. Versi 671-672: L'indomito ippocampo Si veda My Last Duchess di Browning. Si veda e si condanni lo stratagemma alla moda di intitolare una raccolta di saggi, o un volume di poesie - o, ahimè, un lungo componimento poetico -, con un verso preso di sana pianta da un'opera poetica più o meno nota del passato. Titoli siffatti possiedono un fascino specioso che può forse essere ammesso per i nomi di vini d'annata o di cortigiane bene in carne, ma è solo degradante se riferito al talento, quando si vuole far passare per creazione originale la facile allusività dell'erudizione e si scarica sulle spalle di un busto scultoreo la responsabilità di una ricercatezza esagerata, dato che chiunque può sfogliare un Sogno di una notte di mezza estate o Romeo e Giulietta, o, forse, i Sonetti, e trasceglierne il meglio. Verso 678: in francese Due di quelle traduzioni apparvero nel numero di agosto della «Nouvelle Revue Canadienne» che arrivò nelle librerie del College l'ultima settimana di luglio, ossia in un periodo di mestizia e di confusione mentale, quando il buon gusto non mi consentiva di mostrare a Sybil Shade alcuni commenti critici che avevo scritto nel mio taccuino. Nella versione data da Sybil del famoso Holy Sonnet X di Donne composto al tempo della sua vedovanza: Death be not proud, though some have called thee Mighty and dreadful, for, thou art not so [Morte, non essere orgogliosa, se pur t'hanno chiamata possente e spaventevole, poiché così non sei] si deve lamentare l'esclamazione superflua nel secondo verso, introdotta all'unico scopo di coagulare la cesura: Ne soit pas fière, Mort! Quoique certains te disent Et puissant et terrible, ah Mort! tu ne l'es pas e mentre la rima chiusa so - so - over though (versi 2-3) ha la fortuna di trovare un'adeguata rispondenza in pas - bas, c'è di che obiettare quanto alla rima chiusa disent - prise (versi 1-4) che in un sonetto francese del 1617 circa costituirebbe una violazione inaccettabile della regola visiva. Non ho spazio sufficiente, qui, per elencare un certo numero di altri punti oscuri e sviste grossolane in questa versione canadese dell'accusa mossa dal Decano di Saint-Paul alla Morte, quella schiava non soltanto del «fato» e del «caso», ma anche nostra («re e uomini disperati»). Quanto all'altro poema, The Nymph on the Death of her Fawn di Andrew Marvell, tecnicamente sembra anche più arduo comprimerlo nei versi francesi. Se traducendo Donne Miss Irondelle era assolutamente giustificata nel far combaciare i pentametri inglesi e gli alessandrini francesi nutro seri dubbi sull'opportunità della sua scelta a favore, qui, dell'impair, allogando in nove sillabe quanto Marvel sistema in otto. Nei versi: And, quite regardless of my smart, Left me his fawn but took his heart [E affatto incurante del mio aspro dolore, mi lasciò il cerbiatto, ma ne prese il cuore) che risultano: Et se moquant bien de ma douleur Me laissa son faon, mais pris son coeur ci si rammarica che la traduttrice, pur disponendo di un grembo prosodico più ampio, non sia riuscita a ripiegare all'interno le lunghe gambe del suo cerbiatto francese, e rendere quite ragardless of con sans le moindre égard pour o qualcosa del genere. Più avanti, il distico Thy love was far more better than The love of false and cruel man [L'amor tuo era di tanto più fedele dell'amor d'uomo falso e crudele] benché tradotto letteralmente: Que ton amour était fort meilleur Qu'amour d'homme cruel et trompeur non è idiomaticamente puro come potrebbe apparire a prima vista. E, infine, la bella chiusa: Had it lived long it would have been Lilies without, roses within [Se le Parche avesse avuto generose giglio fuori sarebbe stato, dentro rose contiene, nel francese della nostra signora, non soltanto un solecismo, ma anche quella specie di sconfinamento illecito di cui si rende colpevole il traduttore quando oltrepassa il segnale di stop: Il vurait été, s'il eut longtemps Vécu, lys dehors, roses dedans. Con quale magnificenza quei due versi si prestano a essere mimati e rimati nel nostro magico zemblano («la lingua dello specchio», come l'ha definita il grande Conmal). Id wodo bin, war id lev lan Indran iz lil ut roz nitran. Verso 680: Lolita In America, ai peggiori uragani vengono dati nomi femminili. Il genere femminile è suggerito non tanto dal riferimento al sesso delle Furie e delle vecchie streghe, quanto dall'uso professionale che di esso viene fatto su larga scala. Per cui ogni macchina sarà «lei» per il suo affezionato fruitore, e ogni fuoco (persino un fuoco «pallido»!) sarà «lei» per il pompiere, e altrettanto avverrà con l'acqua per il passionale idraulico. La ragione per cui il nostro poeta ha preferito dare al suo uragano del 1958 un nome spagnolo poco usato (a volte dato ai pappagalli), invece di Linda o Lois, non è chiara. Versi 681-682: Russi tetri spiavano Non c'è davvero niente di metafisico, né di razziale in quella tetraggine. Essa non è che il segno esteriore di un nazionalismo molto congestionato e di un provinciale complesso di inferiorità, quella spaventosa miscela così tipica degli zemblani sotto il governo Estremista e dei russi sotto il regime sovietico. Nella Russia d oggi, le idee sono blocchi rifilati a macchina e prodotti in colori uniformi; la sfumatura è dichiarata illegale, l'interstizio murato, la curva ridotta rozzamente a gradino. Eppure, non tutti i russi sono tetri, e i due giovani esperti venuti da Mosca per rintracciare, su incarico del nostro nuovo governo, i gioielli della corona zemblana si rivelarono decisamente esuberanti. Gli Estremisti ritenevano, a ragione, che il barone Bland, il Custode del tesoro, fosse riuscito a nascondere i gioielli prima di saltare o cadere giù dalla Torre Nord; ma non sapevano che aveva avuto un aiutante, e sbagliavano ritenendo che i gioielli dovessero essere cercati nel palazzo dal quale il mite e canuto Bland non si era mai allontanato, se non per morire. Posso aggiungere, con perdonabile soddisfazione, che essi furono, e sono tuttora nascosti in un recesso completamente diverso, e del tutto imprevedibile, di Zembla. In una nota precedente (al verso 130) il lettore ha già avuto modo di intravedere in azione i due cercatori di tesori. Dopo la fuga del re e la scoperta tardiva del passaggio segreto, essi continuarono a scavare minuziosamente fino a ridurre il palazzo a un alveare e a demolirlo in parte, tanto che una notte crollò l'intera parete di una stanza rivelando, in una nicchia di cui nessuno aveva mai sospettato l'esistenza, una saliera di bronzo molto antica e il corno da vino di re Wigbert; ma non troverete mai la nostra corona, la collana e lo scettro. Tutto ciò è la regola di un gioco superno, tutto ciò è la favola immutabile del fato, e non dev'essere visto come dimostrazione dell'inefficienza dei due esperti sovietici - i quali, infatti, avrebbero portato a termine con strepitoso successo un altro incarico, in un'altra occasione. Si chiamavano (ma è probabile che i nomi fossero fittizi) Andronnikov e Niagarin. Raramente si è vista, per lo meno tra le statue dei musei delle cere, una coppia di tipi più gradevoli, più presentabili di loro. Tutti ne ammiravano le mascelle ben rasate, le espressioni del viso di una semplicità elementare, i capelli ondulati e la dentatura perfetta. Andronnikov, alto e prestante, sorrideva di rado ma la piccola raggiera increspata nella regione orbitale rivelava un finissimo umorismo, mentre le profonde rughe gemelle che scendevano a lato delle narici armoniose evocavano associazioni affascinanti con assi dell'aviazione ed eroi delle praterie ricoperte di Artemisia tridentata. Niagarin, dal canto suo, era, in proporzione, piuttosto basso, con fattezze in un certo qual modo più arrotondate, sebbene assai virili, e di quando in quando faceva balenare un gran sorriso fanciullesco che ricordava quelli dei capi scout con qualcosa da nascondere, o di certi signori che barano nei programmi a quiz televisivi. Era incantevole osservare i due splendidi sovetézki correre nel cortile dando calci a un pallone ricoperto di polvere di gesso che rimbalzava sonoramente (un pallone che sembrava così grande e calvo in quel luogo). Andronnikov sapeva farlo saltellare su e giù sulla punta del piede per una decina di volte prima di calciarlo come un razzo dritto in un cielo malinconico, stupito, scolorito, inoffensivo; e Niagarin sapeva imitare alla perfezione i manierismi di un certo magnifico portiere della Dynamo. Solevano distribuire agli sguatteri caramelle russe, con susine o ciliegie riprodotte sull'involucro esagonale, colorato e voluttuoso, nel quale era racchiusa una carta velina più sottile con la mummia color malva all'interno; era risaputo che libidinose contadinelle strisciavano furtive su per i drungen (stretti sentieri soffocati dai rovi) fino alla base del bastione dove i due, in piedi sul terrapieno, stagliati contro il cielo ormai tutto di fuoco, cantavano duetti militari, romantici e bellissimi, sul far del vespero. Niagarin aveva un'espressiva voce tenorile e Andronnikov una robusta voce baritonale, ed entrambi indossavano stivali, alti fin oltre il ginocchio, di morbida pelle nera, e il cielo voltava le spalle, mostrando le sue eteree vertebre. Niagarin, che era vissuto in Canada, parlava inglese e francese; Andronnikov sapeva un po' di tedesco. Il poco zemblano che avevano imparato lo pronunciavano con quel buffo accento russo che conferisce alle vocali una sorta di ridondanza didattica del suono. Le guardie Estremiste li consideravano modelli di ardimento, e una volta il mio caro Odonello si meritò una severa reprimenda dal comandante perché non aveva saputo resistere alla tentazione di imitare il loro modo di camminare: si muovevano entrambi con una identica andatura un po' burbanzosa, e avevano entrambi le gambe notevolmente storte. Al tempo della mia infanzia, la Russia era molto di moda presso la corte di Zembla, ma quella era una Russia diversa, una Russia che odiava tiranni e filistei, ingiustizia e crudeltà, la Russia delle dame e dei gentiluomini, la Russia delle aspirazioni liberali. Possiamo aggiungere che Charles il Beneamato poteva vantare sangue russo nelle vene. In epoca medioevale due suoi antenati avevano sposato delle principesse di Novgorod. La regina Yaruga (r. 17991800), sua trisavola, era per metà russa; e molti storici ritengono che l'unico rampollo di Yaruga Igor non fosse figlio di Uran l'Ultimo (r.1798-1799) bensì il frutto dei di lei amori con l'avventuriero russo Hodinski, suo goliart (buffone di corte) nonché poeta geniale, del quale si narra che nel tempo libero avesse creato un apocrifo, un'antica e famosa chanson de geste russa, generalmente attribuita a un bardo anonimo del XII secolo. Verso 682: Lang Un moderno Fra' Pandolfo, senza dubbio alcuno. Non ricordo di aver notato dipinti del genere nella casa. O forse Shade si riferiva a un'immagine fotografica? C'era un ritratto simile sul pianoforte, e un altro nello studio di Shade. Quanto più leale sarebbe stato nei confronti di Shade e di colui che sta ora leggendo il suo amico se la signora si fosse degnata di rispondere ad alcune delle mie pressanti domande. Verso 691: l'attacco L'infarto di John Shade (17 ottobre 1958) coincise in pratica con l'arrivo clandestino del re in America, ove egli scese paracadutandosi da un aereo noleggiato ai cui comandi c'era il colonnello Montacute, dritto in un campo di gramigna - fin troppo rigogliosa nonché foriera di febbre da fieno -, situato nei dintorni di Baltimora, il cui oriolo non è un oriolo. Tutto era stato calcolato al minuto, e il re era ancora alle prese con il poco familiare aggeggio francese quando la Rolls-Royce proveniente dal maniero di Sylvia O'Donnell lasciò la strada svoltando in direzione delle verdi sete del sovrano, e si avvicinò lungo la moun-trop con le ruote pingui che rimbalzavano senza nascondere il loro disappunto e la lucida carrozzeria nera che scivolava in avanti lenta e silenziosa. Di buon grado fornirei delucidazioni su questa faccenda dell'arrivo in paracadute, ma (trattandosi di cosa che attiene a una tradizione squisitamente sentimentale, piuttosto che di una proficua modalità di trasporto) non è strettamente necessario in queste note a Fuoco pallido. Mentre Kingsley, l'autista inglese, un anziano servitore di comprovata fedeltà, faceva del suo meglio per stipare il voluminoso paracadute malamente ripiegato nel bagagliaio, io mi rilassavo su un seggiolino pieghevole che egli mi aveva procurato, sorseggiando un delizioso scotch con acqua fornito dal bar dell'automobile, e scorrendo velocemente (tra una ovazione di grilli e quel vortice di farfalle gialle e marroni che tanto deliziò Chateaubriand al suo arrivo in America) un articolo del «New York Times» nel quale Sylvia aveva evidenziato con tratti vigorosi e disordinati di matita rossa una nota d'agenzia da New Wye che annunciava il ricovero in ospedale dell'«eminente poeta». Avevo atteso con ansia di incontrare il mio poeta americano prediletto che, in quel momento ne ero certo, sarebbe morto molto prima del secondo trimestre; tuttavia il disappunto si tradusse in poco più di una scrollata di spalle mentale che esprimeva il mio rassegnato rincrescimento e, messo via il giornale, mi guardai attorno incantato, pervaso da una sensazione di benessere fisico, nonostante la congestione nasale. Oltre i limiti del campo, grandi terrazzamenti erbosi salivano fino ai multicolori boschi cedui; ancora più in alto, si intravedeva il fronte bianco del maniero; le nuvole si scioglievano nell'azzurro. Improvvisamente starnutii, e starnutii di nuovo. Kingsley mi offrì un altro scotch, ma rifiutai, e democraticamente presi posto sul sedile anteriore, accanto a lui. La padrona di casa era costretta a letto per via dei postumi di una iniezione che si era fatta fare in vista di un viaggio in una regione particolare dell'Africa. In risposta al mio «Ebbene, come va?», mormorò che le Ande erano state semplicemente meravigliose, quindi, con un tono un po' meno fiacco, mi chiese notizie di un'attrice di dubbia fama con la quale si diceva che il figlio vivesse nel peccato. Odon, le dissi, mi aveva promesso che non l'avrebbe sposata. Si informò se il lancio era andato bene e fece tintinnare un campanello di bronzo. Cara vecchia Sylvia! Aveva in comune con Fleur de Fyler un modo di fare svagato, un contegno languido, in parte naturale e in parte studiato come comodo alibi per i momenti di ubriachezza, e in più un certo modo così meraviglioso di combinare l'indolenza con la volubilità che mi rammentava un ventriloquo dalla parlata lenta interrotto dal suo fantoccio garrulo. Immutabile Sylvia! Per trent'anni avevo visto di quando in quando, in questo o quel palazzo, il suo caschetto, sempre lo stesso, di lisci capelli color nocciola, quegli occhi infantili di un azzurro pallido, il sorriso assente, le lunghe gambe eleganti, i movimenti esitanti e flessuosi. Nella stanza entrò, con un vassoio di frutta e bevande, una jeune beauté, come avrebbe scritto il caro Marcel, né si potrebbe qui dimenticare un altro autore, Gide il Chiaro, che nelle sue note africane decanta con entusiasmo la pelle satinata di neri folletti. «Per poco non ha perso l'occasione di fare la conoscenza della nostra stella più fulgida», disse Sylvia, che era il membro più importante del Consiglio di amministrazione della Wordsmith University (e, per la verità, solo a lei si doveva se avevo ottenuto il divertente incarico di docente colà). «Ho appena telefonato al college - sì, prenda quello sgabello - e sta molto meglio. Assaggi questa frutta mascana, l'ho presa apposta per lei, ma il ragazzo è rigorosamente etero e, parlando in generale, Sua Maestà dovrà fare molta attenzione da ora in poi. Sono certa che le piacerà lassù, anche se vorrei riuscire a spiegarmi perché mai qualcuno possa essere così entusiasta di insegnare lo zemblano. Penso che dovrebbe venire anche Disa. Ho preso in affitto per lei quella che dicono essere la casa migliore della zona ed è vicino agli Shade». Li conosceva appena, ma aveva sentito dire cose molto simpatiche sul poeta da Billy Reading, «uno dei pochissimi rettori di università americane che sappia il latino». E permettetemi di aggiungere quanto mi sentii onorato, due settimane più tardi, di fare la conoscenza, a Washington, di quello splendido gentiluomo americano, fiacco d'aspetto con l'espressione distratta e l'aria trasandata, la cui mente era una biblioteca e non una sala per dibattiti con corredo di votazione finale. Il lunedì successivo Sylvia volò via, ma io rimasi ancora un poco, per riposarmi dopo tante vicissitudini, riflettere, leggere, prendere appunti, e cavalcare a lungo nella campagna incantevole con due signore deliziose e il loro piccolo, timido palafreniere. Spesso, nell'atto di lasciare un luogo che mi ha dato diletto, ho provato una sensazione simile a quando si cava un tappo di sughero a chiusura ermetica per scolare fino all'ultima goccia il dolce vino rosso scuro, e poi via, verso nuovi vigneti e nuove conquiste. Trascorsi un paio di mesi piacevoli a visitare le biblioteche di New York e di Washington, andai fino in Florida per Natale, e quando fui pronto a partire per la mia nuova Arcadia ritenni gentile e doveroso inviare al poeta un biglietto cortese di felicitazioni per la ritrovata salute, «mettendolo in guardia» scherzosamente sul fatto che dall'inizio di febbraio avrebbe avuto per vicino di casa un suo ardente ammiratore. Non ricevetti mai risposta, e quel gesto educato non fu mai menzionato in seguito, e pertanto suppongo che il biglietto sia andato smarrito fra le numerose lettere che i «fans» inviano alle celebrità letterarie anche se era lecito aspettarsi che Sylvia o qualcun altro avesse informato gli Shade del mio arrivo. La guarigione del poeta fu davvero molto rapida, e si sarebbe potuta definire miracolosa, se fosse stato riscontrato qualche vizio organico al cuore. Ma non c'era nulla del genere; i nervi di un poeta possono giocare gli scherzi più bizzarri, ma possono anche riconquistare velocemente il ritmo della salute, e di lì a poco John Shade era di nuovo seduto sulla sua sedia a una estremità del tavolo ovale e parlava del suo prediletto Pope a otto devoti giovanotti, a una donna sciancata, che non risiedeva nel campus, e a tre studentesse dell'università mista, una delle quali era il sogno di tutti i docenti di sostegno. A Shade era stato detto di non ridurre l'attività fisica abituale, ad esempio le passeggiate, ma devo confessare di avere provato io stesso sudori freddi e palpitazioni alla vista di quel prezioso vecchietto intento a maneggiare rozzi attrezzi da giardino o a salire contorcendosi le scale d'ingresso del college, simile a un pesce giapponese che risalga una cateratta. Per inciso: che il lettore non prenda troppo sul serio o troppo alla lettera il passo relativo al dottore in gamba (bel dottore in gamba, posso garantirlo, che una volta prese per sclerosi cerebrale una nevralgia). Come seppi da Shade stesso, non fu necessario un intervento chirurgico d'urgenza; non fu necessario il massaggio cardiaco; se davvero il cuore smise di pompare, ciò avvenne per un intervallo di tempo molto breve, e fu una cosa, per così dire, superficiale. Naturalmente, niente di tutto ciò sminuisce la grande bellezza epica del brano. (Versi 691-697). Verso 697: una meta più definitiva Gradus atterrò all'aeroporto della Costa Azzurra nel primo pomeriggio del 15 luglio 1959. Nonostante le sue preoccupazioni, non poté fare a meno di rimanere colpito dalla fiumana di splendidi autocarri, agili ciclomotori e automobili cosmopolite lungo la Promenade. Ricordava, e detestava, il caldo torrido e l'azzurro accecante del mare. L'Hôtel Lazuli - nel quale prima della seconda guerra mondiale aveva passato una settimana in compagnia di un terrorista bosniaco tisico, quando l'albergo era un posto squallido, con acqua corrente, frequentato da giovani tedeschi - adesso era un posto squallido, con acqua corrente, frequentato da vecchi francesi. Si trovava in una strada secondaria, tra due vie di transito parallele al lungomare, e il rombo incessante del traffico nei due sensi di marcia, frammisto agli stridenti cigolii e ai colpi fragorosi di un cantiere edile in piena attività sotto gli auspici di una gru collocata sul lato opposto dell'albergo (intorno al quale, vent'anni prima, regnava una calma stagnante), sorprese piacevolmente Gradus che gradiva sempre un po' di rumore per distogliere la mente dai pensieri. («Ça distrait» come disse alla moglie dell'albergatore e alla di lei sorella che si scusavano dell'inconveniente). Dopo essersi lavato le mani con cura, uscì, e un fremito di eccitazione gli corse lungo la sbilenca spina dorsale, come una febbre. A uno dei tavoli del caffè all'aperto, all'angolo della sua strada con la Promenade, un uomo con una giacca verde bottiglia, seduto in compagnia di una indubbia puttana, si portò le palme delle mani al viso, emise uno sternuto soffocato, e continuò a celare il viso tra le mani fingendo di aspettare la seconda rata. Gradus passeggiò lungo il lato settentrionale del lungomare. Si soffermò un minuto davanti alla vetrina di un negozio di souvenirs, entrò, chiese il prezzo di un minuscolo ippopotamo di vetro viola, e acquistò una pianta di Nizza e dintorni. Mentre si dirigeva al posteggio dei taxi in rue Gambetta, notò per caso due giovani turisti con vistose camicie bagnate di sudore, il viso e il collo rosa acceso per via del caldo e di una esposizione imprudente al sole; sul braccio ciascuno portava, ripiegata con cura, la giacca doppiopetto foderata di seta dell'abito scuro dai pantaloni ampi; non guardarono il nostro segugio il quale, pur mancando totalmente di spirito di osservazione, sentì fluttuare qualcosa di vagamente familiare mentre i due gli passavano accanto. Non sapevano né che egli fosse all'estero né alcunché della sua interessante missione; per l'esattezza, il loro superiore, nonché superiore di Gradus, aveva scoperto soltanto pochi minuti prima che quest'ultimo si trovava a Nizza e non a Ginevra. Né Gradus era stato informato che per la sua ricerca avrebbe potuto giovarsi dell'aiuto dei due sportivi sovietici, Andronnikov e Niagarin, da lui casualmente incontrati un paio di volte nei pressi del palazzo di Onhava mentre sostituiva il vetro rotto di una finestra e controllava per conto del nuovo governo i rari vetri Rippleson di una delle serre ex reali; un attimo dopo aveva già perso il bandolo del riconoscimento, e intanto si accomodava, con le prudenti contorsioni delle persone dalle gambe corte, sul sedile posteriore di una vecchia Cadillac e chiedeva all'autista di condurlo a un ristorante tra Pellos e Cap Turc. É difficile dire quali fossero le speranze e le intenzioni del nostro uomo. Voleva soltanto sbirciare, nascosto fra i mirti e gli oleandri, una immaginaria piscina? Si aspettava di udire il seguito del pezzo di bravura di Gordon, suonato ora in una interpretazione diversa, da due mani più grandi e più forti? Sarebbe strisciato, pistola in pugno, fino al punto in cui un gigante stava sdraiato al sole come un'aquila araldica dalle ali spiegate inalberando sul torace un vello anch'esso simile a un'aquila araldica dalle ali spiegate? Non lo sappiamo, e forse neppure Gradus stesso lo sapeva; in ogni modo, gli fu risparmiato un tragitto inutile. I tassisti d'oggi sono loquaci come i barbieri di una volta, e prim'ancora che la vecchia Cadillac fosse uscita dalla città, il nostro sfortunato assassino sapeva che il fratello dell'autista aveva lavorato nei giardini di Villa Disa, ma che lì al momento non ci viveva nessuno, poiché la regina era andata in Italia e vi sarebbe rimasta fino alla fine di luglio. Di ritorno in albergo, si vide porgere dalla raggiante proprietaria un telegramma. Lo si rimproverava, in danese, di essere partito da Ginevra e gli s'intimava di non intraprendere niente fino a nuovo ordine. Gli si consigliava, inoltre, di non pensare al lavoro e di divertirsi. Ma quali (se non sogni di sangue) potevano essere i suoi divertimenti? Non gli interessava fare il turista né andare in spiaggia. Non beveva più da lunga data. Non andava ai concerti. Non giocava d'azzardo. Quanto alle pulsioni sessuali, se un tempo l'avevano grandemente importunato, ora la questione era chiusa. Dopo che la moglie, una infilatrice di perle di Radugovitra, l'aveva abbandonato (andandosene con l'amante zingaro), aveva vissuto nel peccato con la suocera, fino a quando non era stata ricoverata, cieca e idropica, in un ospizio per vedove decadute. Da allora aveva tentato varie volte di castrarsi, era stato curato al Glassman Hospital per una grave infezione, e adesso, a quarantaquattro anni di età, risultava del tutto guarito dalla lussuria che la Natura, la grande truffatrice, mette dentro noi per indurci alla procreazione. Non c'è da meravigliarsi, quindi, se l'invito a divertirsi lo facesse andare su tutte le furie. Credo che terminerò qui questa nota. Versi 704-707: un sistema, ecc L'inserimento del triplice «cellule intrecciate», è stato condotto con grande perizia, e si trae logica soddisfazione dall'interazione tra «sistema» e «stelo». Versi 727-728: No, Mr Shade ... la metà di un'ombra Un altro esempio dello speciale tipo di magia combinatoria messa in atto dal nostro poeta. Il sottile gioco di parole in questo caso verte su due significati ulteriori del termine shade, «ombra», oltre all'ovvio sinonimo di «gradazione, sfumatura», vale a dire «fantasma» e «un poco». Per bocca del dottore si suggerisce che Shade, in stato di catalessi, non solo si ritrovasse con la propria identità dimezzata, ma avesse anche acquisito per metà quella di uno spettro. Conoscendo il medico che ha avuto in cura il mio amico in quel periodo, oso aggiungere che è persona troppo grossolana per fare sfoggio di un simile acume. Versi 734-736: quasi con certezza ... girasse fuori asse . . . floscio dirigibile . . . instabile Terzo scoppio di pirotecnica contrappuntistica. L'intento del poeta è quello di mostrare nella struttura stessa del suo testo, le complessità del «gioco» nel quale egli cerca la chiave della vita e della morte (si vedano i versi 808-829), Versi 741-742: bagliore accecante del mondo circostante La mattina del 16 luglio (mentre Shade lavorava a quella parte del suo poema compresa fra i versi 698746), l'ottuso Gradus, paventando un altro giorno di inattività forzata in quella Nizza sardonicamente scintillante e rumorosamente eccitante, decise che, fino a quando i morsi della fame non l'avessero costretto, non si sarebbe mosso dalla poltrona in pelle collocata in un simulacro di hall, tra i grevi odori di quell'albergo incrostato di sporcizia. Sfogliò senza fretta un mucchio di riviste che giacevano su un tavolino accanto a lui. Stette lì seduto, piccolo monumento a una divinità taciturna, sospirando, sbuffando, umettandosi il pollice prima di voltare la pagina, guardando a bocca aperta le fotografie, muovendo le labbra mentre con gli occhi scendeva lungo le colonne stampate. Dopo aver rimesso a posto le riviste in una pila ordinata, si accomodò per bene nella poltrona, aprendo e chiudendo le mani congiunte a capanna in svariate interpretazioni del tedio, quand'ecco che un tizio, seduto accanto a lui, si alzò e uscì nell'abbagliante luce esterna, abbandonando il suo giornale. Gradus se lo tirò in grembo, lo spiegò... e si sentì gelare nel leggere una strana notizia di cronaca locale che aveva attirato la sua attenzione: i ladri erano penetrati a Villa Disa e avevano saccheggiato un bureau, prelevando una certa quantità di antiche medaglie di valore da un cofanetto portagioie. Ecco qualcosa su cui rimuginare. Quell'incidente vagamente sgradevole aveva a che vedere con la sua ricerca? Doveva fare qualcosa al riguardo? Telegrafare al quartier generale? Difficile formulare in modo succinto un semplice fatto senza farlo sembrare un crittogramma. Spedire un ritaglio per via aerea? Era nella sua stanza, intento a lavorare sul giornale con una lametta da barba, quando sentì bussare vivacemente alla porta. Gradus fece entrare un visitatore inatteso: una delle Ombre più importanti, che egli aveva ritenuto essere onhava-onhava («molto, molto lontano»), nella selvaggia, brumosa, quasi leggendaria Zembla! Quali sbalorditivi giochi di prestigio fa la nostra magica èra meccanica con la vecchia madre spazio e il vecchio padre tempo! Era un tizio gaio, forse troppo gaio, e indossava una giacca di velluto verde. Non piaceva a nessuno, ma di certo aveva una mente acuta. Il nome, Izumrudov, Smeraldino, poteva sembrare russo, ma in effetti significava «degli Umrud», una tribù di esquimesi che a volte si vedono pagaiare dentro i loro umyaks (barche rivestite di pelli) sulle acque color smeraldo delle nostre coste settentrionali. Con un sorriso smagliante, disse che l'amico Gradus doveva prendere con sé tutti i documenti di viaggio, incluso un certificato sanitario, e saltare sul primo jet in partenza per New York. Con un inchino, si congratulò con lui per avere indicato con tanto fenomenale acume il luogo giusto e il modo giusto. Sì, dopo avere ispezionato accuratamente il bottino che Andron e Niagarushka avevano trovato nello scrittoio di palissandro della regina (per la maggior parte conti, istantanee gelosamente conservate, e quelle stupide medaglie), era saltata fuori una lettera in cui il re indicava il proprio indirizzo che, cosa incredibile... Il nostro uomo, che aveva interrotto il messaggero di gloria per dire che lui, mai... si sentì ingiungere di smetterla, non era proprio il caso di ostentare tanta modestia. A quel punto saltò fuori un foglietto di carta sul quale Izumrudov, sbellicandosi dalle risa (la morte è ilare), scrisse a beneficio di Gradus il falso nome assunto dal loro cliente, il nome dell'università presso la quale insegnava, e quello della cittadina in cui essa aveva sede. No, il foglietto non si doveva conservare. Lo poteva tenere solo per il tempo necessario a imparare a memoria quanto scritto sopra. Quel genere di carta (usata dai fabbricanti di amaretti) era, oltre che digeribile, anche gustosa. L'allegra visione verde si ritirò - per andare ancora a puttane, di certo. Come si odiano, certi individui! Versi 741-748: Una rivista pubblicava la storia della signora Zi... Chiunque abbia accesso a una buona biblioteca può facilmente risalire alla fonte della storia e scoprire il nome della signora; ma questo banale perdersi in futilità è indegno della vera erudizione. Verso 768: indirizzo A questo punto il lettore potrà forse trovare divertente l'accenno a John Shade in una lettera (di cui, per fortuna, ho conservato una copia carbone) da me scritta il 2 aprile 1959 a una mia corrispondente che viveva nel Sud della Francia: «Mia cara, sei assurda. Non ti do, né darò mai a te o ad altri, il mio indirizzo di casa non perché tema che tu possa farmi visita, come ti compiaci di congetturare: tutta la mia corrispondenza arriva all'indirizzo d'ufficio. Qui le case suburbane hanno cassette della posta aperte sulla strada, e chiunque può riempirle di pubblicità o rubare le mie lettere (non per pura curiosità, bada bene!, ma per altri, più sinistri motivi). Ti spedisco questa mia per via aerea, ripetendo l'indirizzo che ti ha dato Sylvia: Dr C. Kinbote, KINBOTE (non "Charles X. Kingbot, Esq." come tu, o Sylvia, avete scritto; per piacere, siate più attente - e più intelligenti), Wordsmith University New Wye, Apalachia, USA. Non sono in collera con te, ma ho molte preoccupazioni e i nervi tesi. Credevo - credevo profondamente e onestamente, nell'affetto di una persona che viveva qui, sotto il mio tetto, ma sono stato ferito e tradito, come mai era accaduto ai tempi dei miei antenati che avrebbero potuto mandare il reo sotto tortura, benché naturalmente io non desideri far torturare nessuno. Qui ha fatto un freddo spaventoso, ma grazie a Dio, ora il consueto inverno nordico si è tramutato in una primavera di meridionali latitudini. Non cercare di spiegarmi quello che ti dice il tuo avvocato, ma digli che lo spieghi al mio avvocato, il quale, a sua volta, me lo spiegherà. Il mio lavoro all'università è piacevole, e ho un vicino davvero affascinante - e ora non sospirare e non alzare il sopracciglio, cara - è un signore molto vecchio, anzi, è proprio il vecchio signore che ha scritto i versi sul ginkgo riportati nel tuo album verde ". Sarebbe più prudente che tu non mi scrivessi troppo spesso, cara». Verso 782: la sua poesia Un'immagine del Monte Bianco con i «contrafforti ombreggiati d'azzurro e le cupole ricoperte dalla panna del sole», si intravede fugacemente attraverso la nuvola di quella particolare poesia che vorrei poter citare, ma che non ho sottomano. Il «bianco monte» del sogno della signora, che un refuso portò a coincidere con la «bianca fonte» di Shade, fa qui la sua comparsa tematica, sfocata, per così dire, dalla pronuncia grottesca della signora. Verso 802: monte Il passo 797 (seconda parte del verso) -809, che occupa la scheda numero sessantacinque, fu composto fra il tramonto del 18 luglio e l'alba del 19 luglio. Quella mattina mi ero recato a pregare in due chiese diverse (sui due opposti versanti, per così dire, della mia confessione religiosa zemblana, che non era rappresentata a New Wye) ed ero ritornato a casa passeggiando, in uno stato d'animo pensoso e ispirato. Non una nube nel nostalgico ciclo, e la terra stessa pareva sospirare anelando a nostro Signore Gesù Cristo. In mattine assolate e malinconiche come quella, qualcosa mi dice che esiste ancora una possibilità che io non sia escluso dal Paradiso e mi sia concessa la salvezza nonostante il fango gelido e l'orrore che mi attanaglia. Nel risalire a testa china il vialetto di ghiaia che conduceva alla mia misera casa d'affitto, udii con assoluta chiarezza, come se si trovasse di fianco a me e parlasse ad alta voce, quasi a farsi sentire da uno leggermente sordo, la voce di Shade che diceva: «Vieni questa sera, Charlie». Mi guardai attorno sgomento e stupito: ero completamente solo. Telefonai immediatamente. Gli Shade erano fuori, mi informò l'ancillula impudente, una detestabile piccola ammiratrice che andava a cucinare per loro la domenica, e di certo sognava di farsi coccolare dal vecchio poeta il giorno in cui si fosse ritrovato senza moglie. Ritelefonai due ore dopo, come al solito rispose Sybil; insistetti per parlare con il mio amico (i miei «messaggi» non venivano mai riferiti), ci riuscii e gli chiesi, con tutta la calma possibile, che cosa stesse facendo verso mezzogiorno, quando l'avevo sentito, simile a un grosso uccello, nel mio giardino. Non riusciva a ricordare con esattezza, disse, aspetta un momento, stava giocando a golf con Paul (chiunque fosse costui), o quanto meno stava guardando Paul giocare con un altro collega. Gridai che dovevo vederlo quella sera stessa e improvvisamente, senz'alcuna ragione, scoppiai in lacrime, inondando il telefono e respirando a fatica in preda a un attacco parossistico quale non era più occorso da quando Bob mi aveva lasciato, il 30 marzo. Gli Shade confabularono agitati fra loro, poi John disse: «Senti, Charlie, andiamo a fare una bella camminata stasera. Ci vediamo alle otto». Era la seconda bella camminata che facevo dal 6 luglio (quella conversazione deludente sulla natura), la terza, il 21 luglio, sarebbe stata estremamente breve. Dov'ero rimasto? Ah, sì, stavo arrancando un'altra volta con John, come ai bei tempi, nei boschi dell'Arcadia, sotto un cielo color salmone. «Allora,» dissi allegramente «che cosa scrivevi ieri notte, John? La finestra del tuo studio divampava semplicemente di luce». «Monti» rispose. La Catena del Bera, una erezione di pietra venata e di abeti arruffati, svettava davanti ai miei occhi in tutta la sua fierezza e possanza. La splendida notizia mi fece battere forte il cuore e sentii che ora, a mia volta, potevo permettermi di essere generoso. Implorai il mio amico di non svelarmi altro, se non lo desiderava. Mi disse che no, non lo desiderava, e prese a lamentare le difficoltà del compito che si era imposto. Calcolava che nelle ultime ventiquattr'ore il suo cervello avesse macinato all'incirca mille minuti di lavoro, e prodotto una cinquantina di versi (diciamo, dal 797 all'847), ovvero una sillaba ogni due minuti. Aveva terminato il Canto Terzo, il penultimo, e aveva iniziato il Canto Quarto, l'ultimo (si veda la Prefazione, si veda la Prefazione, immediatamente); mi sarebbe dispiaciuto molto se ci fossimo rimessi sulla via di casa, benché fossero soltanto le nove circa - di modo che egli potesse tuffarsi ancora nel suo caos per estrarne, con tutte le sue stelle ancora grondanti, il suo cosmo personale? Come avrei potuto dire di no? Quell'aria di montagna mi era andata alla testa: stava riassemblando la mia Zembla! Verso 803: un refuso I traduttori del poema di Shade sono destinati a incontrare qualche difficoltà nella trasformazione d'un sol colpo, di «monte» in «fonte»: non si può rendere in francese, né in tedesco, o in russo, e neppure in zemblano! pertanto, il traduttore dovrà inserire questo passaggio in una di quelle note a piè di pagina che sono le foto segnaletiche delle parole pregiudicate. E tuttavia! A quanto mi consta, esiste un caso assolutamente straordinario, incredibilmente elegante, che coinvolge non due, ma tre parole. La storia in sé è abbastanza banale (e forse anche apocrifa). Il resoconto apparso su un giornale in lingua inglese della incoronazione di uno zar russo conteneva, invece della parola korona (crown, corona), il refuso vorona (crow, cornacchia) e quando, il giorno seguente, fu pubblicata la «rettifica» con tanto di scuse, comparve un secondo refuso: korova (cow, vacca). La correlazione artistica tra la serie crowncrow-cow, vale a dire corona-cornacchia-vacca, e il russo korona-vorona-korova avrebbe certamente estasiato il mio poeta. Non ho mai visto niente del genere nelle palestre lessicali e le probabilità a sfavore della doppia coincidenza sfidano qualsiasi calcolo. Verso 810: una rete di senso Uno dei cinque capanni che costituiscono questo motel è occupato dal proprietario, un settantenne cisposo che mi ricorda Shade nell'andatura zoppicante e storta. Gestisce una piccola stazione di servizio nei dintorni, vende vermi ai pescatori, e di solito non mi disturba, ma l'altro ieri mi ha esortato ad «arraffare uno di quei vecchi libri» da un palchetto in camera sua. Non volendo offenderlo, piegai la testa per guardarli prima da un lato, poi dall'altro, ma erano tutti gialli in edizione economica, con orecchie agli angoli delle pagine, e non valevano niente di più di un sospiro e di un sorriso. Disse, aspetti un momento - e prese da una nicchia a lato del letto un tesoro rilegato in tela, molto malridotto. «Un gran libro scritto da un tipo in gamba», le lettere di Franklin Lane. «Lo vedevo spesso a Rainier Park, quando da giovane ero guardia forestale da quelle parti. Se lo tenga per un paio di giorni. Non se ne pentirà!». Non me ne pentii. Ecco un passo che curiosamente riecheggia il tono di Shade alla fine del Canto Terzo. É tratto da un frammento manoscritto che Lane vergò il 17 maggio 1921, alla vigilia della sua morte, a seguito di un grave intervento chirurgico: «E se fossi passato in quell'altro mondo, chi avrei scorto?... Aristotele! Ecco, quello sarebbe un uomo con cui conversare! Quale soddisfazione vederlo prendere, come redini tra le dita, il lungo nastro della vita umana e seguirne lo svolgersi attraverso il dedalo ingannatore di tutta questa meravigliosa avventura... Ciò che è tortuoso diventa diritto. La pianta di Dedalo semplificata da una veduta dall'alto - spalmata, per così dire, dalla macchia di colore sul pollice di un qualche maestro, che distende l'intero disegno involuto e sconcertante e lo trasforma in un'unica stupenda linea retta». verso 819: intenti a giocare con i mondi Il mio illustre amico rivelava una predilezione fanciullesca per qualsiasi gioco di parole e soprattutto per il cosiddetto «golf delle parole». Interrompeva una brillante conversazione per indulgere a questo passatempo prediletto, e naturalmente sarebbe stato ineducato da parte mia rifiutarmi di giocare con lui. Alcuni dei miei risultati migliori sono: amore-odio (hate-love) in tre, ragazza-maschio (lass-male) in quattro, e vivo-morto (live-dead) in cinque buche (con «prestato», lend, nel mezzo). verso 822: eliminando un re nei Balcani Quanto vorrei poter riferire che la lezione della minuta era: eliminando a Zembla un re - ma, ahimè, non è così: Shade non ha conservato la scheda con la minuta. Verso 830: Sybil, senti Questa rima elaborata giunge come un'apoteosi a coronare l'intero canto e sintetizza gli aspetti contrappuntistici di «possibilità e incidenti». Versi 835-838: Ora spierò, ecc. Il canto, iniziato il 19 luglio sulla scheda sessantotto, si apre con un tipico shadismo: l'ingegnoso inserimento di parecchie locuzioni che si ripetono echeggiando tra loro a formare un anello di enjambements. In effetti, la promessa fatta in questi quattro versi non sarà davvero mantenuta, con la sola eccezione del ripetersi del ritmo incantatore nei versi 915 e 923-24, che portano al selvaggio attacco dei versi 925930). Come un gallo focoso, il poeta pare sbattere le ali in uno scoppio preliminare di mancata ispirazione, ma il sole non sorge. Invece della tumultuosa poesia che qui ci era stata promessa, troviamo un paio di facezie, un accenno di satira e, alla fine, un radioso incanto di tenerezza e di quiete. Versi 841-872: modi di comporre In effetti tre, se contiamo quello importantissimo di affidarsi al lampeggio e ai flautati accordi del mondo subliminale con la sua «muta ingiunzione» (verso 871). Verso 873: Prediligo il mattino Mentre il mio caro amico dava inizio, con questo verso, al gruppo di schede del 20 luglio (dalla settantuno alla settantasei, che termina con il verso 948), Gradus, all'aeroporto di Orly, saliva su un jet di linea, si allacciava la cintura, leggeva un giornale, si alzava da terra, si librava nell'aria, profanava il cielo. Versi 887-888: Magari il mio biografo sarà troppo compassato o pochissimo informato Troppo compassato? Pochissimo informato? Se il mio povero amico avesse presagito chi sarebbe stata la persona in questione, avrebbe potuto risparmiarsi simili congetture. In realtà, ebbi il piacere e l'onore di essere testimone (un mattina di marzo) dell'episodio che descrive nei versi successivi. Ero diretto a Washington e immediatamente prima di partire ricordai che mi aveva chiesto di controllare qualcosa per suo conto alla Biblioteca del Congresso. Sento ancora chiaramente nell'orecchio la voce fredda di Sybil: «Ma John non può riceverla, sta facendo il bagno», e il ruggito rauco di John dalla stanza da bagno: «Fallo entrare, Sybil, non mi violenterà mica!» Ma nessuno dei due riuscì a ricordare che cosa ci fosse da controllare. Verso 894: un re In America, durante i primi mesi della Rivoluzione zemblana, erano apparse con una certa frequenza fotografie del re. Di quando in quando qualche ficcanaso del campus dotato di ottima facoltà ritentiva, o le socie di alcuni circoli, che davano continuamente la caccia a Shade e al suo eccentrico amico, mi chiedevano con quell'aria ottusa, densa di sottintesi che la gente in genere assume in simili casi se nessuno mi avesse detto quanto somigliavo allo sfortunato monarca. Paravo la domanda con risposte tipo «tutti i cinesi si somigliano», e cambiavo argomento. Tuttavia, un giorno, nel salotto del club dei docenti dove oziavo circondato da alcuni colleghi, dovetti subire un'assalto particolarmente imbarazzante. Un conferenziere tedesco proveniente da Oxford e ospite della nostra università continuava a esclamare, ora ad alta voce, ora in tono soffocato che la somiglianza era «assolutamente inaudita» e quando con fare indifferente osservai che tutti gli zemblani con la barba si somigliano - e che, infatti, il nome Zembla non deriva dal russo zemja, terra, bensì da Semblerland, terra di riflessi, di «somiglianze», -, il mio tormentatore disse: «Sì, certo, ma il re Charles non aveva la barba, eppure è proprio il suo viso. Ebbi (aggiunse) l'onore di sedere a pochi metri dal palco reale in occasione di un Festival dello Sport a Onhava, ove mi trovavo in visita, nel 1956 insieme con mia moglie che è svedese. A casa abbiamo una sua fotografia, e mia cognata, la sorella di mia moglie, conosceva benissimo la madre di un suo paggio, una donna interessante. Non vede [quasi strattonando il bavero della giacca di Shade] la somiglianza sorprendente dei lineamenti - la parte superiore del viso, e gli occhi, sì, gli occhi, e l'attaccatura del naso?» «No, signore», [disse Shade, accavallando una gamba e rollando leggermente nella poltrona com'era sua abitudine quando stava per fare una dichiarazione ufficiale] «non c'è somiglianza alcuna. Ho visto il re nei cinegiornali, e non c'è nessuna somiglianza. Le somiglianze sono l'ombra delle differenze. Persone diverse notano somiglianze diverse e diversità somiglianti». Il buon Netochka, che appariva stranamente a disagio durante questo scambio di vedute, osservò con la sua voce educata quanto era triste il pensiero che «quell'amabile sovrano» fosse probabilmente perito in prigione. A noi si unì un professore di fisica. Era un cosiddetto Pink, un «Rosa», che credeva in ciò in cui credevano i cosiddetti Pinks (Istruzione progressista, Integrità di chiunque eserciti lo spionaggio a favore della Russia, Fall-out radioattivo causato esclusivamente da bombe di fabbricazione statunitense, esistenza nel passato recente di un'Éra maccartiana, Successi sovietici, fra cui Il dottor Zivago, e così via); «il suo rammarico non ha ragion d 'essere» [esordì]. «É risaputo che quell infelice sovrano si è dato alla fuga travestito da suora; ma qualunque sia, o sia sta il suo destino, questo non può interessare il popolo zemblano. La storia lo ha smascherato, e quello è il suo epitaffio». Shade: «Certo, signore. A tempo debito, la storia smaschererà chiunque. Forse il re è morto, o forse è vivo quanto lei e Kinbote, ma atteniamoci ai fatti. Secondo quanto lui [indicando me] mi dice, quella storia, ampiamente circolata, della suora non è che una volgare invenzione di matrice Estremista. Gli Estremisti, insieme con i loro amici hanno inventato un sacco di storie assurde onde tenere nascosta la loro sconfitta; la verità è che il re è uscito dal palazzo con le proprie gambe, ha attraversato le montagne e ha lasciato il paese, non sotto le nere spoglie di una pallida zitella, ma vestito di lana rossa, da atleta». «Curioso, curioso» disse l''ospite tedesco che era stato l'unico, forse grazie a qualche stranezza dei suoi antenati abitatori dei boschi di ontani, a cogliere la nota inquietante che era vibrata nell'aria per poi subito svanire. Shade, [sorridendo e massaggiandomi il ginocchio]: «I re non muoiono: scompaiono, semplicemente, vero, Charles?» «Chi l'ha detto?» chiese bruscamente, come se uscisse da uno stato di trance, l'ignorante e sempre sospettoso Direttore del dipartimento d'Inglese. «Prendete il mio caso» continuò il mio caro amico ignorando Mr H. «É stato detto che somiglio almeno a quattro persone: Samuel Johnson; l'antenato dell'uomo ricostruito così amorevolmente nell'Exton Museum; e due personaggi locali, uno dei quali è quella megera scarmigliata e precipitosa che scodella il purè al selfservice Levine Hall». «La terza nella fila delle streghe», precisai in tono graziosamente affettato, e tutti risero. «Direi piuttosto» osservò Mr Pardon - Storia americana - «che quella signora assomiglia al giudice Goldsworth,» («Uno dei nostri» intervenne Shade, chinando la testa), «soprattutto quando ce l'ha col mondo intero dopo un lauto pasto». «Ho sentito» si affrettò a dire Netochka «che i Goldsworth si stanno divertendo moltissimo...» «Peccato che non possa dimostrare quanto affermo» borbottò il visitatore tedesco, tenace. «Se solo ci fosse qui una fotografia. Non potrebbe esserci da qualche parte...» «Certo» disse il giovane Emerald alzandosi. Il professor Pardon a questo punto si rivolse a me: «Credevo lei fosse nato in Russia, e che il suo nome fosse una specie di anagramma di Botkin o di Botkine». Kinbote: «Mi confonde con qualche esule di Nova Zembla» [sottolineando con sarcasmo il «Nova»). «Charles, non mi avevi detto che kinbote significa regicida nella tua lingua?» chiese il caro Shade. «Sì, un distruttore di re» risposi (desiderando ardentemente spiegare come un re, che affondi la propria identità nello specchio dell'esilio, in un certo senso altro non sia che questo). Shade [rivolto al visitatore tedesco]: «Il professor Kinbote è autore di un ragguardevole volume sui cognomi. Suppongo [rivolto a me] che ne esista una traduzione inglese». «Oxford, 1956», risposi. «Ma lei sa il russo, no?» chiese Pardon. «Mi pare di averla udita l'altro ieri, mentre parlava con... come si chiama... oh, Signore" [atteggiando laboriosamente le labbra]. Shade: «Professore, tutti noi troviamo difficile attaccare quel nome» [ridendo]. Professor Hurley: «Pensate alla parola francese per pneumatico, pneu». Shade: «Ma, professore, temo che lei abbia soltanto forato la difficoltà», [ridendo fragorosamente]. «Flatman, infatti è sgonfio», fu la mia battuta di spirito. «Sì,» continuai rivolto a Pardon «certo che so il russo. Vede, era la lingua alla moda par excellence, molto più del francese, almeno tra la nobiltà di Zembla e a corte. Naturalmente, oggi le cose sono cambiate. Ora sono le classi inferiori quelle a cui viene insegnato forzatamente il russo». «Ma non stiamo anche noi cercando di inserire l'insegnamento del russo nelle scuole?» disse Pink. Nel frattempo, all'estremità opposta della stanza, il giovane Emerald era entrato in comunione con gli scaffali dei libri. A quel punto ritornò con il volume T Z di una enciclopedia illustrata. «Bene,» disse «eccolo qui il re. Ma guardate, è giovane e bello». («Oh, questa non serve» gemette il visitatore tedesco). «Giovane, bello, e con una uniforme fantastica» continuò Emerald. «In effetti una checca assolutamente fantastica». «E lei,» dissi io con calma «lei è un giovincello dalla mente sozza con una giacca verde da quattro soldi». «Ma cos'ho detto?» chiese il giovane docente rivolto alla compagnia, mostrando le palme del264 le mani come un apostolo nell' Ultima cena di Leonardo. «Andiamo andiamo» fece Shade. «Charles, sono certo che il nostro giovane amico non intendeva insultare il tuo sovrano e omonimo». «Non ci sarebbe riuscito neppure se l'avesse voluto» osservai placidamente, buttando tutto sullo scherzo. Gerald Emerald protese la mano - che nel momento in cui scrivo si trova ancora in quella posizione. Versi 895-899: Quanto più peso ... Così la pappagorgia Invece di questi versi superficiali e disgustosi, la minuta porta: Ho, lo ammetto, una certa propensione per la Parodia, risorsa estrema dell'arguzia: «Nel conflitto naturale, se la forza d'animo prevale, la vittima vacilla, fallisce il vincitore». Sì, è Pope, lettore. Verso 920: drizza i corti peli tutt'assieme Alfred Housman (1859-1936), la cui raccolta The Shropshire Lad compete con In Memoriam di Alfred Tennyson (1809-1892) nel rappresentare, forse (no, cancellate questo vile «forse»,), la vetta più alta mai toccata dalla poesia inglese nel corso di un secolo, dice da qualche parte (in una prefazione?) l'esatto opposto: il drizzarsi dei piccoli peli elettrizzati ostacolava la sua rasatura; ma dato che entrambi gli Alfred usavano di certo un Comune Rasoio, e John Shade un Gillette antiquato, la discrepanza è forse dovuta all'impiego di strumenti diversi. Versi 921-922: le basette giganti dalla Crema Nostrana sollevate Non è del tutto vero. Nella pubblicità a cui ci si riferisce, le basette sono raddrizzate da una schiuma gorgogliante, non da una sostanza cremosa. Dopo questo verso, invece dei versi 923-930, troviamo la variante seguente, cassata con un segno leggero: Tutti gli artisti nascono in quella che essi chiamano un'epoca pietosa; e la mia è la peggiore: un'epoca convinta che serva un genio dal nome straniero per ideare bombe cosmiche e astronavi quando è sufficiente un qualunque somaro; un'epoca in cui un branco di furfanti può imbrogliare il selenografo; un'epoca ridicola che vede nel Dr Schweitzer un grande saggio. Depennata questa variante, il poeta tentò un tema diverso, ma anche i versi seguenti sono stati cancellati: L'Inghilterra, ove i poeti volavano più alti, ora li vuole appiedati, con Pegaso al giogo dell'aratro. Gli scandalisti del Gruppo Verminoso, L'Uomo Messaggio, lo Sciocco con aria da allocco i Romanzi Sociali che la nostra epoca ha prodotto lasceranno sui fogli solo polvere di carbone. Verso 929: Freud Con la mente rivedo il poeta crollare letteralmente sul prato all'inglese, e battere il pugno sull'erba, sussultando e ululando dalle risate, mentre il sottoscritto, Dr Kinbote, tra fiumi di lacrime che gli scorrono lungo la barba, tenta di leggere in modo coerente alcune chicche tratte da un libro che aveva precedentemente grattato in un'aula: un'opera erudita sulla psicoanalisi adottata nelle università americane, ripeto, adottata nelle università americane. Ahimè, trovo soltanto due esempi trascritti nel mio taccuino: Frugarsi nel naso con le dita nonostante ingiunzioni contrarie, o infilare continuamente un dito in un'asola dell'abito... il didatta capisce che l'appetito del giovane lussurioso non conosce limiti quanto a fantasie. (Citazione testuale del Prof. C. da Dr Oskar Pfister, The Psychoanalytical Method, N.Y.,1917, p. 79) Il copricapo di velluto rosso nella versione tedesca di Cappuccetto Rosso è un simbolo mestruale. (Citazione testuale del Prof. C. da Eric Fromm The Forgotten Language, N.Y.,1951, p. 240) Quei pagliacci credono davvero a ciò che insegnano? Verso 934: camion Devo precisare che non ricordo di avere udito molto spesso «camion» passare nelle nostre vicinanze. Automobili rumorose, sì, certo - ma non camion. Verso 937: Vecchia Zembla Oggi sono un commentatore stanco e triste. Parallelamente al lato sinistro di questa scheda (la settantaseiesima) il poeta ha scritto, alla vigilia della morte, un verso (dalla Seconda Epistola dell'Essay on Man di Pope) che forse intendeva inserire in una nota a piè di pagina: In Groenlandia, Zembla, o Iddio sa dove É dunque questo, tutto ciò che quel vecchio infido di Shade aveva da dire su Zembla, la mia Zembla? Mentre si radeva quella stoppia di due giorni? Strano, strano... Versi 939-940: La vita dell'uomo, ecc Se intendo correttamente il senso di questa succinta osservazione, il nostro poeta qui insinua che la vita umana altro non sia che una serie di note a piè di pagina apposte a un immane, oscuro capolavoro incompiuto. Verso 950: sempre Così, in un dato momento della mattina del 21 luglio, l'ultimo suo giorno di vita, John Shade iniziò l'ultimo gruppo di schede (dalla numero settantasette alla numero ottanta). Due silenziosi fusi orari erano in quel momento confluiti a formare l'ora ufficiale del destino di un uomo; e non è impossibile che il poeta a New Wye e il delinquente a New York si siano destati quel mattino allo stesso frantumato ticchettio del cronometro del loro Cronometrista. Verso 950: immancabilmente E si avvicinava sempre più, immancabilmente. La sera del suo arrivo a New York da Parigi (lunedì 20 luglio), Gradus era stato accolto da un tremendo temporale. L'acquazzone tropicale aveva allagato scantinati e binari della metropolitana. Riflessi caleidoscopici si accendevano sulle strade cittadine, ormai simili a fiumi. Vinogradus non aveva mai visto una tale profusione di fulmini, né l'aveva mai vista Jacques d'Argus - e del resto neppure Jack Grey (non dimentichiamoci di Jack Grey!). Scese in un albergo di Broadway di terza categoria e dormì profondamente, a pancia in su, sopra coperte e lenzuola, con un pigiama a righe, del tipo chiamato a Zembla rosker sirsusker («crespo di cotone russo a strisce bianche e blu»), e tenendosi i calzini ai piedi, come al solito: dall'11 luglio, giorno in cui si era recato a un bagno finlandese in Svizzera, non aveva più rivisto i suoi piedi nudi. Ed ecco il 21 luglio. Alle otto di mattina NewYork svegliò Gradus con uno scoppio e un rimbombo. Come al solito, egli iniziò la sua nebulosa esistenza quotidiana soffiandosi il naso. Quindi estrasse dal nécessaire di cartone per la notte, e sistemò nella sua bocca di Comus, una dentiera enorme dall'aspetto feroce: l'unica nota seriamente stonata nel suo aspetto peraltro innocuo. Ciò fatto, tirò fuori dalla borsa di pelle due petits-beurre che aveva tenuto da parte e un panino, ancora più stantio, e tuttavia gustoso, piccolo, molliccio e ripieno di qualcosa di simile al prosciutto, generi di conforto vagamente associati al viaggio in treno del sabato notte precedente, da Nizza a Parigi: non si trattava tanto di parsimonia da parte sua (le Ombre gli avevano anticipato una bella somma, a ogni buon conto), quanto di un attaccamento animalesco alle abitudini della sua giovinezza frugale. Dopo aver fatto colazione a letto con quelle ghiottonerie, diede inizio ai preparativi per la giornata più importante della sua vita. Si era rasato il giorno precedente - una cosa di meno a cui pensare. Non ficcò il fedele pigiama nella valigetta da viaggio, ma nella borsa, si vestì, sganciò dal lato interno della giacca un pettinino rosa cammeo, intasato di sudiciume tra dente e dente, lo passò fra i capelli ispidi, calzò con cura il cappello di feltro, si lavò le mani con il simpatico e moderno sapone liquido nella simpatica, moderna, e pressoché inodore toilette situata sul lato opposto del corridoio, orinò, si sciacquò una mano, e, sentendosi pulito e in ordine, uscì per una passeggiata. Non era mai stato prima a New York; ma, come molti quasicretini, si sentiva al di sopra delle novità. La sera prima aveva contato in numerosi grattacieli gli ordini, via via crescenti verso l'alto, di finestre illuminate, e ora, dopo aver controllato l'altezza di qualche altro edificio, ritenne di sapere già tutto quello che c'era da sapere. Bevve una tazza di caffè colma fino all'orlo, più mezzo piattino, a un bancone affollato e umido, e trascorse il resto della mattinata azzurro-fumo passando di panchina in panchina e di giornale in giornale nei vialetti sul lato ovest del Central Park. Cominciò con il «New York Times» di quel giorno. Muovendo le labbra come vermi impegnati nella lotta libera, lesse di tutto: Chruscëv (che loro scrivevano «Khrushchev») aveva improvvisamente rimandato una visita in Scandinavia e sarebbe invece andato a Zembla (qui mi sintonizzo io: «Vy nazyvaete sebja zemblerami, vi definite zemblani, aja vas nazyvaja zemjakami, ma io vi chiamo compatrioti!». Risate e applausi). Gli Stati Uniti stavano per inaugurare la prima nave mercantile a propulsione atomica (soltanto per irritare quei ruski rosolati, naturalmente. J.G.). La notte precedente, in quel di Newark, un condominio situato al 555 di South Street era stato colpito da un fulmine che aveva fracassato un televisore e ferito due persone intente a guardare un'attrice che si era smarrita in una violenta tempesta ricostruita nei teatri di posa (questi spiriti tormentati sono tremendi! C.X.K. testeJ.S.). La Rachel Jewelry Company di Brooklyn aveva pubblicato una inserzione in corpo cinque e mezzo con cui ricercava un lucidatore di pietre che «avesse esperienza di bigiotteria» (oh, Degré l'aveva!). I fratelli Helman dichiaravano di avere fornito la loro consulenza per le trattative in merito alla collocazione di un consistente prestito obbligazionario: «Decker Glass Manufacturing Company, Inc., valore $11,000,000, con scadenza 10 luglio 1979», e Gradus, ritornato giovane, lo rilesse due volte, mentre in fondo alla sua mente si agitava forse il pensiero malinconico che di lì a quattro giorni avrebbe compiuto sessantaquattro anni (nessun commento). Su un altra panchina trovò l'edizione del lunedì dello stesso giornale. Nel corso di una visita a un museo di Whitehorse (Gradus diede un calcio a un piccione che si era avvicinato troppo), la regina d'Inghilterra si era diretta a un angolo della White Animal Room, si era sfilata il guanto destro e, volgendo la schiena a numerose persone che la stavano palesemente osservando, si era sfregata la fronte e un occhio. In Irak era scoppiata una rivolta filocomunista. A chi gli chiedeva cosa ne pensasse della mostra sovietica al New York Coliseum, il poeta Carl Sandburg aveva risposto, testualmente: «Fanno appello al massimo livello intellettuale». Uno scribacchino che recensiva nuove guide turistiche, recensendo il proprio tour della Norvegia, affermava che i fiordi erano troppo famosi perché se ne rendesse necessaria una (sua) descrizione, e che tutti gli scandinavi amavano i fiori. E a un picnic per l'infanzia senza frontiere una graziosa monella zemblana aveva gridato all'amico giapponese: «Ufgut, ufgut, velkam ut Semblerla», «Addio, addio, arrivederci a Zembla!»). Confesso che è stato un gioco bellissimo questo andare in cerca, nella biblioteca della Word271 smith University, di varie effemeridi da dietro l'ombra di una spalla imbottita. Jacques d'Argus controllò per la ventesima volta l'orologio. Girellava come un piccione, le mani dietro la schiena. Si fece lucidare le scarpe color mogano - e notò compiaciuto il modo in cui il ragazzino sporco ma grazioso faceva schioccare lo straccio ben teso. In un ristorante sulla Broadway consumò una porzione abbondante di roseo maiale con crauti, una doppia porzione di elastiche patatine fritte, e mezzo melone stramaturo. Dalla mia nuvoletta a nolo lo osservo, pacatamente sorpreso: eccola lì, quella creatura pronta a commettere un atto mostruoso che si gusta grossolanamente un pasto parimenti grossolano! Dobbiamo presumere che la sua immaginazione, per quel poco che ne aveva, non si spingesse oltre l'atto stesso, oltre la soglia di tutte le possibili conseguenze; conseguenze fantasmatiche, simili alle fantasmatiche dita dei piedi di un amputato; o all'aprirsi a ventaglio di ulteriori case che il cavallo (quel pezzo salta-spazio), fermo su una traversa laterale, «sente» nelle estensioni fantasma della scacchiera, ma che tuttavia non possono minimamente influire sulle sue mosse effettive, sulla partita reale. Tornò indietro a piedi e pagò l'equivalente di tremila corone zemblane per il breve ma piacevole soggiorno al Beverland Hotel. Illudendosi di compiere un atto di pratica lungimiranza, trasferì la valigetta di fibra e - dopo un attimo di esitazione - l'impermeabile alla sicurezza anonima di un armadietto della stazione ferroviaria - dove ritengo si trovino ancora, ben celati, così come il mio scettro incastonato di gemme, la collana di rubini, e la corona tempestata di diamanti sono... non importa dove. Per il viaggio fatale prese con sé soltanto la logora borsa di pelle nera che conosciamo: conteneva una camicia bianca di nylon, pulita, un pigiama sporco, un rasoio di sicurezza, un terzo petit-beurre, una scatola di cartone vuota, una voluminosa rivista illustrata che non aveva terminato di sfogliare nel parco, un occhio di vetro fatto fare a suo tempo per l'anziana amante, una decina di opuscoli sindacali vari ciascuno in più copie, che aveva stampato con le sue stesse mani molti anni addietro. Doveva essere all'aeroporto entro le 14.00. La sera prima, al momento della prenotazione, non era riuscito a ottenere un posto sul volo precedente per New Wye a causa di un congresso che si svolgeva laggiù. Si era gingillato con alcuni orari ferroviari, palesemente messi a punto da un vero e proprio burlone perché l'unico treno diretto (che i nostri studenti sballottati e strattonati avevano soprannominato Ruota Quadrata) partiva alle 5.13, ciondolava nelle stazioni ferroviarie con fermata facoltativa, e impiegava undici ore a percorrere i seicento chilometri fino a Exton; si poteva tentare di fargliela in barba, via Washington, ma poi si restava lì come minimo tre ore in attesa di un sonnacchioso treno locale. Le corriere erano fuori discussione, per quanto concerneva Gradus, il quale soffriva di mal d'auto ogni volta che ne prendeva una, a meno che non si stordisse imbottendosi di compresse di Fahrmamina, ma ciò poteva influire sui suoi piani. A ben pensarci, già ora non si sentiva troppo in forma. Ora Gradus ci è molto più vicino in termini di spazio e di tempo di quanto non lo fosse nei canti precedenti. Ha corti capelli neri che gli stanno ritti sulla testa. Riempiamo il rettangolo desolato del viso con quasi tutti gli elementi che gli pertengono, come le sopracciglia spesse e una verruca sul mento. Il colorito è rubizzo, eppure malsano. Vediamo, abbastanza a fuoco, la struttura degli organi della vista, alquanto mesmerici. Vediamo il naso malinconico con il setto storto e la punta solcata da una scanalatura. Vediamo il blu minerale della mandibola e il pointillé ghiaioso dei baffi tagliati. Conosciamo già in parte il suo gestire, conosciamo l'andatura ciondolante e scimmiesca del tronco ampio e delle corte zampe posteriori. Ci è stato descritto a sufficienza il suo vestito sgualcito. Possiamo finalmente descrivere la cravatta, un regalo ricevuto per Pasqua dal cognato, un macellaio con pretese d'eleganza che vive a Onhava: similseta, color marrone cioccolato a strisce rosse, la punta infilata nella camicia, fra il secondo e il terzo bottone, secondo la moda zemblana degli anni Trenta - un surrogato del panciotto avito, a detta di chi se ne intende. Il dorso delle mani oneste e grossolane è ricoperto di disgustosi peli neri: sono le mani meticolosamente pulite di un artigiano ultrasindacalizzato, con una evidente deformazione a entrambi i pollici, tipica di chi sagoma le padelline paracera. Vediamo, in modo piuttosto subitaneo e inaspettato, la carne umida (mentre a testa bassa, ma in tutta sicurezza, a guisa di fantasmi, passiamo attraverso di lui, attraverso l'elica scintillante della sua macchina per volare, attraverso i congressisti che ci salutano con la mano e con sorrisi smaglianti), i visceri color magenta e mora di gelso, e lo strano e non troppo piacevole moto ondoso delle interiora. Possiamo procedere oltre e descrivere a un medico o a chiunque sia disposto ad ascoltarci, le condizioni in cui versa l'anima di quel primate. Sapeva leggere, scrivere e fare di conto, era dotato di un minimo di autocoscienza (di cui non sapeva che farsene), di una certa consapevolezza che l'esistenza ha un termine, e di buona memoria per facce, nomi, date e simili. Dal punto di vista spirituale, non esisteva. Dal punto di vista morale, era un fantoccio che inseguiva un altro fantoccio. Il fatto che l'arma in suo possesso fosse vera, ed egli avesse per preda un essere umano assai evoluto, era cosa pertinente al nostro mondo di eventi; nel suo, non aveva alcun significato. Vi concedo che l'idea di distruggere «il re», gli procurava un certo piacere e, quindi, dovremmo aggiungere all'elenco delle sue dotazioni personali la capacità di formulare concetti, soprattutto di carattere generale, come ho già detto in un'altra nota che non mi prendo la briga di andare a controllare. Forse, poteva esservi (e con ciò faccio una notevole concessione) una vaga, molto vaga, soddisfazione sensuale, non maggiore, direi, di quella che prova un misero edonista nel momento in cui trattenendo il respiro, davanti a uno specchio dotato di lente di ingrandimento, preme con precisione implacabile le unghie del pollice su entrambi i lati di un punto nero, ed espelle completamente il tappo anguillesco e semitrasparente di un comedone emettendo un «ahh» di sollievo. Gradus non avrebbe ucciso nessuno se non avesse tratto piacere non soltanto dall'atto immaginato (per quanto gli riusciva di immaginare un futuro tangibile), ma anche dal fatto di essersi visto affidare un compito importante, di responsabilità (che si dava il caso comportasse un omicidio per sua mano), da un gruppo di persone che condividevano la sua idea di giustizia, ma non avrebbe accettato quell'incarico se l'atto di uccidere non gli avesse procurato qualcosa di simile al,piccolo e piuttosto disgustoso brivido provato dall'antiseborroico. Ho già preso in considerazione in una mia nota precedente le antipatie particolari, e quindi i moventi, del nostro «uomo automatico» come ebbi a definirlo in un tempo in cui egli non possedeva ancora la fisicità attuale, non offendeva i sensi con la violenza di oggi, in una parola, era assai più distante dalla nostra Arcadia assolata, verdeggiante, profumata d'erbe. Ma Nostro Signore ha modellato l'uomo in modo così mirabile che, per quanto si vada alla ricerca dei moventi e si svolgano indagini razionali, non si riuscirà mai a spiegare veramente come e perché un essere umano possa distruggere un proprio simile (so che questa argomentazione comporta la necessità di attribuire temporaneamente a Gradus lo status di uomo), a meno che non lo faccia per difendere la vita di un figlio, o la sua propria, o le conquiste di una vita intera; talché, nella sentenza finale del caso Gradus versus la Corona, avanzerei l'ipotesi che, se la sua incompletezza come essere umano è insufficiente a spiegare il viaggio assurdo sulla sponda opposta dell Atlantico al solo scopo di vuotare il caricatore della rivoltella, allora si potrà ammettere, dottore, che il nostro semiuomo fosse anche semipazzo. A bordo dell'aereo piccolo e scomodo che volava incontro al sole, si trovò incastrato fra numerosi partecipanti che giungevano in ritardo alla New Wye Linguistic Conference, tutti etichettati come si deve sul risvolto della giacca, tutti in rappresentanza di una stessa lingua straniera, ma nessuno in grado di parlarla, di modo che la conversazione si svolgeva (valicando il nostro assassino che sedeva ingobbito, e ruotando tutt'intorno alla sua faccia immobile) in un angloamericano alquanto mediocre. Durante quell'ordalia, il povero Gradus continuò a chiedersi quale fosse l'origine di un altro disagio che di quando in quando continuò a infastidirlo per tutto il viaggio e che era peggiore delle ciance dei monolinguisti. Non sapeva con precisione a cosa attribuirlo - al maiale, ai crauti, alle patate fritte, o al melone - perché, riassaporando via via il gusto di ciascuno, in una spasmodica retrospettiva, non trovò grandi differenze tra i diversi, ma egualmente nauseanti sapori. Io sono dell'avviso, e desidererei che il dottore me ne desse conferma, che il panino «alla francese» stesse combattendo una mortifera lotta intestinale con le patatine fritte, sempre «alla francese». All'arrivo all'aeroporto di New Wye, alle diciassette passate, bevve due bicchieri di plastica colmi di buon latte freddo prelevati al distributore automatico, e acquistò una pianta della città al banco informazioni. Picchiettando con il dito corto e tozzo sull'area occupata dal campus, che somigliava a uno stomaco contorto dagli spasmi, chiese all'impiegato quale fosse l'albergo più vicino all'università. Una macchina, gli fu detto, poteva condurlo al Campus Hotel, che si trovava a pochi minuti di cammino dal Main Hall (ora Shade Hall). Durante il tragitto fu assalito da nausee così violente da costringerlo a far visita alle toilette non appena giunto all'albergo, che non aveva più camere disponibili. E lì la sua sofferenza si sciolse in uno scottante torrente d'indigestione. Aveva a malapena riabbottonato i calzoni e controllato il rigonfiamento della tasca posteriore che un repentino attacco di trafitture e spasmi lo costrinse a denudarsi nuovamente le cosce con tanta precipitazione da far quasi volare la piccola Browning negli abissi del gabinetto. Stava ancora gemendo e digrignando la dentiera quando la sua persona e la sua borsa tornarono a offendere il sole. Esso splendeva con una miriade di maculati riverberi tra gli alberi, e la città universitaria era gaiamente animata dagli studenti dei corsi estivi e dai linguisti in visita, in mezzo ai quali Gradus poteva facilmente passare per un piazzista ambulante di abbecedari destinati agli scolaretti americani, o di quelle meravigliose nuove macchine per tradurre in grado di eseguire il lavoro molto più velocemente e molto meglio di qualunque persona o animale. Al Main Hall lo attendeva una profonda delusione: la sala era già chiusa per quel giorno. Tre studenti stesi sull'erba gli suggerirono di provare alla biblioteca, e tutti e tre gliela indicarono a dito, sul lato opposto del prato. E là si trascinò il nostro delinquente. «Non so dove abiti» disse la ragazza al banco. «Ma so che in questo momento è qui. Sono certa che lo troverà nell'area Tre-Nordovest, dove teniamo la Collezione Islandese. Vada in direzione sud [agitando la matita] e poi giri a ovest, poi ancora a ovest, e vedrà una specie di [rapida contorsione circolare della matita - tavolo rotondo? scaffale rotondo?]. No, aspetti un momento, è meglio che continui in direzione ovest finché arriva alla Sala Florence Houghton, e lì tagli verso il lato nord dell'edificio. Non può sbagliare [rimettendo la matita sull'orecchio]. Non essendo né un marinaio né un re fuggiasco, si smarrì immediatamente e, dopo avere percorso invano un labirinto di scaffalature cariche di libri, chiese come arrivare alla Collezione Islandese a una bibliotecaria anziana dall'aria severa intenta a controllare i cartellini di uno schedario metallico situato su un pianerottolo. Grazie alle sue indicazioni flemmatiche e dettagliate si ritrovò in un batter d'occhio davanti al bancone d'ingresso. «Scusi, non riesco a trovare» disse, scuotendo lentamente il capo. «Non ha...» cominciò la ragazza, e poi, d'un tratto, indicò verso l'alto: «Oh, eccolo là!» Lungo la galleria aperta che sovrastava l'ingresso parallela al lato più corto di questo, un uomo alto e barbuto stava transitando velocemente a passo di marcia, in direzione est-ovest. Scomparve dietro una scaffalatura, ma non prima che Gradus avesse riconosciuto la corporatura imponente e vigorosa, il portamento eretto, il naso pronunciato, la fronte diritta, e l'oscillazione energica del braccio di Charles Xavier il Beneamato. Il nostro inseguitore si diresse alle scale più vicine e ben presto si trovò nel silenzio stregato dei Libri Rari. La sala, bellissima, era priva di porte; difatti, passarono alcuni minuti prima che scoprisse l'ingresso, celato da una tenda, che egli stesso aveva utilizzato poco prima. Ma poiché le spaventose incertezze della sua ricerca si mescolarono con un nuovo assalto di insopportabili spasimi del ventre, ritornò di corsa sui suoi passi - corse giù per tre gradini, ne risalì altri nove e irruppe in una sala circolare dove un professore calvo e abbronzato in camicia hawaiana, seduto a un tavolo rotondo, leggeva un libro russo con un'espressione ironica sul volto. Non fece caso alcuno a Gradus che attraversò la stanza, pestò un cagnolino bianco e grasso senza svegliarlo, scese rumorosamente una scala elicoidale e si ritrovò nel Sotterraneo P. Lì un corridoio imbiancato a calce, ben illuminato, tutto percorso da tubazioni, lo guidò all'inaspettato paradiso di una latrina destinata agli idraulici o a studiosi smarriti, dove, inveendo si affrettò a trasferire l'automatica dalla precaria fondina ciondolante alla giacca e si liberò di un'altra porzione di quell'inferno liquido che aveva in corpo. Risalì un'altra volta, e notò nella soffusa luce chiesastica delle scaffalature un impiegato, uno snello ragazzo indù, con un biglietto da visita in mano. Non avevo mai parlato con quel giovane, ma più di una volta avevo sentito il suo sguardo azzurrocastano posarsi su di me, e benché sia certo che il mio pseudonimo accademico gli fosse noto, tuttavia qualche cellula sensibile in lui, qualche corda intuitiva reagì all'aspro interrogatorio dell'assassino e quasi a proteggermi da un nebuloso pericolo, sorrise e disse: «Non lo conosco, signore». Gradus ritornò al bancone dell'ingresso. «Peccato» disse la ragazza «l'ho visto andarsene proprio adesso». «Boze moj, Boze moj» mormorò Gradus, il quale a volte, nei momenti di tensione, ricorreva a esclamazioni russe. «Lo può trovare nell'annuario», soggiunse la ragazza spingendo il volume verso di lui, per poi dimenticarsi dell'esistenza del malato e dedicarsi alle richieste di Mr Gerald Emerald che stava tirando fuori un voluminoso bestseller dal suo cellophane. Gemendo e spostando il peso da un piede all'altro, Gradus cominciò a sfogliare l'annuario dell'università, ma quando infine trovò l'indirizzo, dovette affrontare il problema di come arrivarci. «Dulwich Road», gridò in direzione della ragazza. «Vicino? Lontano? Molto lontano, forse?» «Lei è per caso il nuovo assistente del Professor Pnin?» chiese Emerald. «No», intervenne la ragazza. «Questo signore cerca il Dr Kinbote, credo. Sta cercando il Dr Kinbote, no?» «Sì, e non ne posso più» fece Gradus. «Mi pareva», replicò la ragazza. «Ma non vive da qualche parte vicino a Mr Shade, Gerry?» «Sicuro», disse Gerry e, rivolto all'assassino: «se vuole posso darle un passaggio fin là. Devo passarci davanti». In macchina parlarono quei due tipi, l'uomo in verde e l'uomo in marrone? Chi può dirlo? Non parlarono. Dopo tutto, la corsa durò soltanto pochi minuti (io, alla guida della mia potente Kramler, impiegavo quattro minuti e mezzo). «Può scendere qui» disse Mr Emerald. «La casa è quella lassù». É difficile stabilire cosa Gradus, alias Grey, desiderasse di più in quel momento: scaricare la pistola o liberarsi della lava inesauribile dei suoi visceri. Come cominciò ad armeggiare precipitosamente con la maniglia dello sportello, Emerald, che non era schizzinoso, si sporse, gli si accostò, lo valicò, quasi si fuse con lui, per aiutarlo ad aprire la portiera poi, richiudendola con forza, sfrecciò via, verso qualche appuntamento nella valle. Spero che il lettore saprà apprezzare tutti i dettagli minuziosi che mi sono dato tanta pena di offrirgli dopo avere parlato a lungo con l'assassino; li apprezzerà vieppiù quando saprà che, stando alla leggenda diffusa in seguito dalla polizia, a Jack Grey aveva dato un passaggio, addirittura fin da Roanoke, o da qualche altro posto, un camionista solitario! Si può soltanto sperare che una ricerca imparziale faccia saltare fuori il cappello di feltro dimenticato nella biblioteca o nell'auto di Mr Emerald. Verso 958: Scritti di routine notturna Ricordo una breve poesia tratta da Scritti di routine notturna (che significa «il suono notturno del mare»), la quale, guarda caso, fu la mia prima presa di contatto con il poeta americano Shade. Un giovane professore di letteratura americana, un ragazzo di Boston brillante quanto incantevole, mi mostrò quel volumetto delizioso a Onhava, ai tempi in cui ero studente. I versi che seguono, versi iniziali della poesia che si intitola Arte, mi piacquero per la cadenza orecchiabile, pur urtando i sentimenti religiosi che mi erano stati instillati dalla nostra «altissima» Chiesa zemblana. Da cacce al mammuth, Odissee e incantesimi d'Oriente fino alle italiche dee con bimbi, in braccio, di fiammingo parvente Verso 962: Soccorrimi Volere! Fuoco pallido sia Parafrasando, il significato è chiaro: vediamo se in Shakespeare trovo qualcosa da usare come titolo. E il risultato è «fuoco pallido». Ma in quale opera del Bardo andò a sceglierlo il nostro poeta? I miei lettori dovranno cercarselo da soli. Tutto quello che ho con me è una minuscola edizione tascabile, adatta al taschino di un panciotto, del Timone d'Atene in zemblano! E di certo lì non vi è nulla che possa considerarsi equivalente a «fuoco pallido», (se così fosse, la mia fortuna rappresenterebbe un monstrum statistico!). Prima dell'arrivo di Mr Campbell, a Zembla non si insegnava l'inglese. Conmal lo imparò da autodidatta (soprattutto mandando a memoria un dizionario) nella sua giovinezza, verso il 1880, quando davanti a lui sembrava aprirsi non già l'inferno verbale ma una carriera militare tranquilla, e la sua prima fatica (la traduzione dei Sonetti di Shakespeare) fu la conseguenza di una scommessa con un ufficiale, suo compagno d'arme. Smise l'uniforme adorna di alamari per indossare la toga dello studioso e affrontò La Tempesta. Lavoratore lento, gli ci volle mezzo secolo per tradurre l'opera omnia di colui ch'egli chiamava «die Bart». Dopo di che, nel 1930, passò a Milton e ad altri poeti, trivellando senza posa un'epoca dopo l'altra; aveva appena terminato The Rhyme of the Three Sealers («Questa è allora la Legge del moscovita, che egli dia prova di sé con ferro e fuoco») di Kipling, che cadde ammalato e spirò ben presto sotto lo splendido baldacchino dipinto del suo letto, sul quale erano riprodotti gli animali di Altamira; le sue ultime parole furono: «Comment dit-on "mourir" en anglaîs?», - una fine splendida e toccante. É facile dileggiare i difetti di Conmal. Sono gli innocenti punti deboli di un grande pioniere. Visse troppo a lungo chiuso nella sua biblioteca, e troppo poco fra i ragazzi e la gioventù. Gli scrittori dovrebbero vedere il mondo, coglierne i fichi e le pesche, e non meditare di continuo in una torre d'avorio giallo - errore, in un certo senso, commesso anche da John Shade. Non dovremmo dimenticare che quando Conmal iniziò la sua stupenda impresa, gli scrittori inglesi non erano reperibili a Zembla, se si eccettua Jane de Faun (una romanziera le cui opere in dieci volumi, strano a dirsi, sono sconosciute in Inghilterra), e alcuni frammenti di Byron tradotti dalla versione francese. Uomo grande e grosso, nonché pigro, senz'altra passione all'infuori della poesia, si allontanava raramente dalla sua ben riscaldata reggia e dai cinquantamila volumi adorni del suo stemma; era noto che aveva passato due anni a letto dedicandosi alla lettura e alla scrittura, dopo di che, ben ristorato, era andato per la prima e ultima volta a Londra, ma c'era la nebbia, non capiva la lingua, e così se ne tornò a letto per un altro anno. Poiché l'inglese era prerogativa di Conmal, il suo Shakspere rimase invulnerabile per la maggior parte della sua lunga vita. Il venerando duca era famoso per il suo nobile assunto; pochi osavano dubitare della fedeltà delle sue traduzioni. Personalmente, non ho mai avuto il coraggio di fare un controllo. Ci si provò un insensibile accademico che finì per perdere lo scranno e fu severamente redarguito da Conmal in un sonetto straordinario composto direttamente in un inglese pittoresco, anche se non del tutto corretto, che inizia così: Non sono schiavo! Lo sia pure il critico maldestro Esserlo non posso. Né Shakespeare lo vorrebbe. Che copino l'acanto gli studenti d'arte, io sopra l'architrave lavoro col Maestro! Verso 991: ferri di cavallo Né io né Shade eravamo mai riusciti ad accertare da dove esattamente provenissero quei suoni tintinnanti - quale delle cinque famiglie che abitavano sull'altro lato della strada, lungo i declivi più bassi della nostra boscosa collina, si divertisse a lanciare i ferri di cavallo a sere alterne; ma quei seducenti trilli e vibrazioni metalliche contribuivano con una gradevole nota di malinconia alle sonorità serali di Dulwich Hill: bambini che si chiamavano l'un l'altro; bambini richiamati a casa, e l'abbaiare estasiato del boxer, detestato dalla maggior parte dei vicini (ribaltava i bidoni dell'immondizia), che salutava il padrone al suo rientro. Questa era l'accozzaglia di melodie metalliche che mi circondava in quella sera fatale, troppo luminosa, del 21 luglio, quando, dopo essere tornato a casa dalla biblioteca rombando alla guida della mia potente automobile, mi recai immediatamente a vedere che cosa stava facendo il caro vicino. Avevo appena incrociato Sybil diretta frettolosamente in città e quindi nutrivo qualche speranza per la serata. Vi assicuro che somigliavo moltissimo a uno sparuto e guardingo amante che approfitta del fatto che il giovane marito sia rimasto solo in casa! Tra gli alberi distinguevo la camicia bianca e i capelli grigi di John: sedeva nel suo Nido (come lo chiamava), il porticato o veranda con pergolato. Non potei trattenermi dall'avanzare ancora un po' - oh, con discrezione, quasi in punta di piedi; poi mi accorsi che stava riposando, anziché scrivere, e allora avanzai apertamente fino al suo portico o posatoio che dir si voglia. Il gomito poggiava sul tavolo, il pugno sosteneva la tempia, le rughe erano tutte tirate di traverso, gli occhi umidi e velati; sembrava una vecchia strega ubriaca. Sollevò la mano libera in un saluto, senza cambiare posa, la quale posa, pur essendomi familiare, in quel momento me lo fece sembrare più sconsolato che meditabondo. «Allora,» dissi «è stata gentile con te la musa?» «Molto gentile», rispose, accennando un inchino con la testa appoggiata alla mano. «Straordinariamente gentile e dolce. Infatti, ecco qua [e indicò una voluminosa busta rigonfia che aveva vicino, sull'incerata] praticamente il prodotto completo, alcune inezie da sistemare e [battendo all'improvviso il pugno sul tavolo] ce l'ho fatta, per Dio». La busta, aperta da un lato, era gonfia di schede accatastate. «Dov'è tua moglie?», chiesi a bocca secca. «Charlie, aiutami a uscire di qua»" implorò lui. «Mi si è addormentato il piede. Sybil è a una cena del suo circolo». «Una proposta», dissi, tremante. «A casa mia ho un mezzo gallone di tokai. Sono disposto a condividere il mio vino preferito con il mio poeta preferito. Ceniamo con un pugno di noci, due pomodori belli grandi, e qualche banana. E se accetti di mostrarmi il tuo "prodotto finito", c'è un'altra piacevole sorpresa: prometto di rivelarti perché ti ho dato, o meglio, chi ti ha dato il soggetto del tuo poema». «Quale soggetto?» chiese Shade, distratto, mentre si appoggiava al mio braccio e recuperava a poco a poco la funzionalità dell'arto intorpidito. «La nostra azzurra e obnubilata Zembla, e Steinmann dal copricapo rosso, e il motoscafo nella rotta marina e...» «Oh,» disse Shade «credo di avere indovinato il tuo segreto molto tempo fa. Ma ciò nonostante, assaggerò con piacere il tuo vino. Ecco, adesso posso arrangiarmi da solo». Sapevo fin troppo bene che non era capace di resistere a un goccio dorato di qualunque genere, soprattutto perché a casa era tenuto rigorosamente a stecchetto. Con un moto di esultanza interiore, lo liberai della grossa busta che gli impacciava i movimenti, mentre scendeva i gradini della veranda, di sbieco, come un bimbetto esitante. Attraversammo il prato, attraversammo la strada. Clink-clank, da Mystery Lodge ci giunse la musica dei ferri di cavallo. Potevo sentire, nella grossa busta che reggevo, gli angoli rigidi dei mazzetti di schede stretti dagli elastici. Siamo assurdamente assuefatti al miracolo che qualche segno scritto possa racchiudere immagini immortali, intrecci di pensiero, mondi nuovi con persone vive che parlano, piangono, ridono. Lo diamo per scontato con tale naturalezza che in un certo senso l'atto stesso di accettare la cosa con la bruta indifferenza della routine fa sì che annulliamo l'opera del tempo, la storia del farsi graduale della descrizione e della costruzione poetica, dall'uomo-scimmia a Browning, dall'uomo delle caverne a Keats. Cosa succederebbe se un giorno tutti noi ci svegliassimo e scoprissimo di non sapere assolutamente leggere? Vi auguro di trattenere il fiato stupefatti non soltanto per ciò che leggete ma anche per il miracolo che sia possibile leggerlo (questo dicevo ai miei studenti). Benché io sia in grado, per essermi a lungo intinto nella magia blu dell'inchiostro, di imitare qualsiasi prosa al mondo (ma, e la cosa è singolare, non i versi: sono un poetucolo penoso), non mi considero un vero artista, salvo in un caso: so fare ciò che soltanto un vero artista sa fare piombare sull'obliata farfalla della rivelazione, disavvezzarmi bruscamente dall'abitudine alle cose, riconoscere il tessuto connettivo del mondo, e, insieme, il suo ordito e la trama. Con solennità soppesai nella mano ciò che avevo portato sotto l'ascella sinistra, e per un attimo mi scoprii arricchito di uno stupore indescrivibile, come se mi fosse stato detto che le lucciole emettevano segnali decodificabili per conto di spiriti in difficoltà, o che un pipistrello stava scrivendo il racconto leggibile di una tortura in un cielo livido e marchiato a fuoco. Tenevo stretta al mio cuore tutta Zembla. Versi 993-995: Una Vanessa bruna, ecc. Un minuto prima che morisse, mentre passavamo dalla sua proprietà alla mia, e già fantasticavo tra i ginepri e i cespugli ornamentali, una Ammirabile Rossa si avvicinò, roteando vertiginosamente attorno a noi come una fiamma colorata. Un paio di volte prima d'allora avevamo notato quella medesima creatura, alla medesima ora e nel medesimo punto, là dove il sole basso sull'orizzonte, trovando un pertugio nel fogliame, spruzzava sulla sabbia bruna un ultimo fulgore di luce mentre le ombre della sera si allungavano sul resto del sentiero. Gli occhi non riuscivano a seguire la veloce farfalla nel barbaglio dei raggi luminosi mentre balenava e svaniva, e ancora tornava a balenare, nell'imitazione quasi raccapricciante di un gioco deliberato che la condusse, infine, a posarsi sulla manica del mio deliziato amico. Si alzò di nuovo in volo e un attimo dopo la vedemmo scherzare, in un'estasi di frenesia frivola, attorno a un cespuglio di lauro, di quando in quando posarsi su una foglia laccata e scivolare giù, lungo il centro scanalato, come fa un bambino sulla ringhiera delle scale il giorno del suo compleanno. Poi la marea d'ombra raggiunse i lauri, e la magnifica creatura di velluto e fiamma si dissolse in essa. Verso 998: il giardiniere, credo, di un vicino Di un vicino! Il poeta aveva visto parecchie volte il mio giardiniere, e posso attribuire quella indeterminatezza soltanto al suo desiderio (rilevabile altrove, dal modo in cui manipola i nomi, ecc.) di dare una certa patina poetica, lo splendore della lontananza, a persone e cose familiari - tuttavia è anche possibile che, nella luce incerta, lo abbia scambiato per un estraneo che lavorava per un altro estraneo. Scoprii per caso quel giardiniere dotato in una oziosa mattina di primavera mentre mi dirigevo lentamente verso casa dopo un episodio esasperante e imbarazzante occorso nella piscina coperta del college. Stava in cima a una scala a pioli verde e curava il ramo malato di un albero riconoscente in uno dei più famosi viali di Appalachia. La camicia di flanella rossa giaceva sull'erba. Conversammo, con qualche timidezza, lui sopra, io sotto. Fui piacevolmente sorpreso scoprendo che sapeva assegnare a ciascuno dei suoi pazienti il relativo habitat. Era primavera, ed eravamo soli in quello splendido colonnato arboreo che i turisti inglesi hanno fotografato da un capo all'altro. Qui posso elencare solo alcune specie di quegli alberi: la solida quercia di Giove, e altre due: quella della Britannia spaccata dal fulmine, quella dai visceri nodosi di un'isola del Mediterraneo; una fibra resistente alle intemperie (ora tiglio), una phoenix (ora palma da datteri), un pino e un cedro (Cedrus), tutti insulari; un sicomoro veneziano (Acer), due salici piangenti, quello verde, parimenti importato da Venezia, e quello danese dalle foglie canute; un olmo estivo dalle dita di corteccia inanellate d'edera, un gelso estivo, la cui ombra invita a una sosta; e il cipresso d'Illiria dalla tristezza clownesca. Aveva lavorato per due anni come infermiere in un ospedale per neri in Maryland. Era al verde. Voleva studiare architettura dei giardini, botanica e francese («per leggere Baudelaire e Dumas in originale,». Gli promisi un aiuto finanziario. Il giorno seguente già cominciava a lavorare da me. Era tremendamente carino e patetico e un sacco di belle altre cose, ma un po' troppo loquace e del tutto impotente, il che era francamente scoraggiante. Quanto al resto, era un giovane forte e ben piantato, e gradivo moltissimo il piacere estetico di guardarlo mentre, in ottima disposizione d'animo, ingaggiava la sua lotta con terra e zolle, o maneggiava delicatamente i bulbi, o sistemava il vialetto lastricato che potrà essere, o potrà non essere, una sorpresa gradita per il mio padrone di casa quando rientrerà sano e salvo dall'Inghilterra (ove spero che nessun maniaco assetato di sangue gli stia dando la caccia!). Come mi sarebbe piaciuto fargli indossare (al giardiniere, non al padrone di casa) un grande, splendido turbante, e pantaloni alla turca, e una cavigliera. Di certo, lo avrei voluto abbigliato secondo la vecchia nozione romantica di un principe moresco, se fossi stato un re nordico, o meglio, se ancora fossi stato un re (l'esilio diventa una cattiva abitudine). Mi riprenderai, modesto amico mio, per avere scritto tanto su di te in questa nota, ma sento di doverti questo omaggio. Dopo tutto, mi hai salvato la vita. Io e te siamo stati gli ultimi a vedere John Shade vivo, e tu, in seguito, confessasti di avere avuto uno strano presentimento che ti indusse a interrompere il lavoro nel vederci uscire dai cespugli e dirigerci verso la veranda dove c'era... (per superstizione non posso vergare l'oscura, strana parola che tu hai usato). Verso 1000: [=Verso 1: Ero l'ombra del beccofrusone ucciso] Il cotone sottile della camicia lasciava intravedere sulla schiena di John chiazze rosate là dove si incollava alla pelle sopra e attorno a quell'indumento minuscolo e buffo ch'egli indossava sotto la camicia, come ogni buon americano. Vedo con spaventosa chiarezza una spalla adiposa ruotare, l'altra che s'alza; il cespuglio grigio dei capelli, la nuca grinzosa; il fazzoletto di cotone rosso che pende floscio dalla tasca posteriore dei calzoni, il rigonfiamento del portafoglio nell'altra; l'ampio bacino deformato; le macchie d'erba sul didietro dei vecchi calzoni cachi, le cuciture posteriori smangiate dei suoi mocassini; e sento il ringhio delizioso, mentre si volta a guardarmi, senza fermarsi, per dirmi qualcosa del tipo: «Attento a non spargere niente - questa non è una caccia al tesoro» oppure [con una smorfia]: «Dovrò scrivere di nuovo a Bob Wells [il sindaco della cittadina] a proposito di quei dannati camion del martedì notte». Eravamo giunti sul lato Goldsworth della strada e al sentiero lastricato che si inerpicava lungo un prato laterale per poi collegarsi al vialetto di ghiaia che conduceva da Dulwich Road fino alla porta d'ingresso della casa dei Goldsworth, quando John osservò: «Hai visite». Sulla veranda, di profilo rispetto a noi, c'era un uomo basso, tarchiato, con i capelli neri e un abito marrone, che reggeva, tenendola per il manico ridicolo, una borsa di pelle logora e informe, l'indice, piegato, ancora rivolto verso il campanello che aveva appena premuto. «Lo ammazzo», dissi fra i denti. Poco tempo prima una ragazza con una cuffia in testa mi aveva costretto ad accettare un fascio di opuscoli religiosi dicendomi inoltre che suo fratello, per qualche ragione me lo ero figurato come un giovane fragile e nevrotico, sarebbe passato da me per parlare del Progetto Divino e spiegarmi quanto non mi fosse stato chiaro in quegli opuscoli. Già, proprio giovane? «Oh, l'ammazzo» ripetei sottovoce, tanto mi era intollerabile il pensiero di dover rimandare l'estasi del poema. Nella foga e nella fretta di liberarmi dell'intruso, sorpassai John, che fino ad allora mi aveva preceduto, dirigendomi con passo dinoccolato al duplice godimento della baldoria e della rivelazione. Avevo mai visto Gradus prima di allora? Fatemi pensare. L'avevo visto? La memoria fa un cenno di diniego con la testa. Eppure, l'assassino mi dichiarò in seguito che una volta, dalla torre che si affacciava sul frutteto del palazzo, l'avevo salutato con la mano mentre, insieme con un mio ex paggio, un ragazzino dai capelli simili a quei trucioli lunghi e sottili usati per le imbottiture, trasportava i vetri dentro i loro telai di protezione dalla serra a un furgoncino trainato da un cavallo; tuttavia, come l'uomo si girò verso di noi e ci trafisse con quei suoi occhi vicini, da malinconico serpente, avvertii un tale fremito di riconoscimento che se fossi stato a letto addormentato e l'avessi sognato, mi sarei destato con un gemito. La prima pallottola strappò un bottone dalla manica del blazer nero che indossavo, un'altra mi fischiò vicino all'orecchio. É una perfida sciocchezza affermare che non mirasse a me (mi aveva visto poco prima in biblioteca - siamo seri, signori, il nostro è un mondo razionale, dopo tutto) bensì al signore dalle ciocche grigie che stava dietro di me. Oh, eccome se mirava a me, ma ogni volta mi mancava, quell'incorreggibile arruffone, e io istintivamente arretravo, urlando e allargando le mie grandi e robuste braccia (la mano sinistra stringeva ancora il poema, «stringendo ancora convulsamente l'ombra inviolabile», per citare Matthew Arnold, 1822-1888) nel tentativo di fermare il folle che avanzava e di fare da scudo a John che temevo potesse venire accidentalmente colpito, mentre egli, il mio dolce goffo vecchio John, continuava ad artigliarmi e a trascinarmi dietro di sé, verso la protezione dei suoi lauri, con la concitazione sussiegosa di un povero ragazzo storpio che tenta di portare il fratello spastico fuori dal tiro delle pietre scagliate al loro indirizzo dagli scolaretti, una scena familiare, un tempo, in ogni paese. Sentii - sento ancora la mano di John brancolare verso la mia, cercarmi la punta delle dita, trovarle, e subito abbandonarle, come a passarmi, in una staffetta sublime, il testimone della vita. Un proiettile che mi aveva risparmiato, lo colpì di fianco e gli trapassò il cuore. La sua presenza dietro di me, venuta improvvisamente a mancare, mi fece perdere l'equilibrio e contemporaneamente, per completare la farsa del destino, da dietro la siepe la vanga del mio giardiniere assestò un colpo tremendo sulla testa del sicario Jack, atterrandolo e facendogli volare via di mano l'arma. Il nostro salvatore la recuperò e mi aiutò a rimettermi in piedi. Il coccige e il polso destro mi dolevano molto, ma il poema era salvo. John invece giaceva prono sul terreno, con una chiazza rossa sulla camicia bianca. Speravo ancora che non fosse stato ucciso. Il folle si sedette sul gradino della veranda, stordito, accarezzandosi la testa sanguinante con mani insanguinate. Lasciai il giardiniere a sorvegliarlo ed entrai di fretta in casa, nascosi la busta inestimabile sotto un cumulo di calosce da bambina, stivali da neve impellicciati e stivaloni di gomma bianchi, il tutto ammonticchiato sul fondo di un armadio a muro, dal quale emersi come se fosse stata l'uscita del passaggio segreto che mi aveva condotto fuori dal mio lontano castello incantato e da Zembla dritto fino a qui, a questa Arcadia. Poi telefonai all'11111 e tornai sulla scena della carneficina con un bicchiere d'acqua in mano. Il povero poeta era stato girato sulla schiena e giaceva con gli occhi aperti e spenti rivolti all'assolato azzurro della sera. Il giardiniere armato e il malridotto assassino fumavano seduti fianco a fianco sui gradini. Il secondo, o perché dolorante, o perché aveva deciso di recitare una parte diversa, mi ignorò completamente, come se io fossi un re di pietra su un destriero di pietra nella piazza Tessera di Onhava; ma il poema era salvo. Il giardiniere prese il bicchiere d'acqua che avevo posato vicino al vaso da fiori, a lato dei gradini della veranda e lo condivise con l'assassino, poi accompagnò quest'ultimo al gabinetto del seminterrato, e poco dopo giunsero la polizia e l'ambulanza, e il sicario dichiarò di chiamarsi Jack Grey, senza fissa dimora, salvo il Manicomio Criminale, ici, buon dio, e ovviamente questo avrebbe dovuto essere fin da principio il suo indirizzo stabile, e da qui la polizia ritenne fosse appena scappato. «Forza, Jack, che ti mettiamo qualcosa su quella testa» disse, tranquillo ma deciso, un poliziotto scavalcando il corpo, e poi ci fu quell'orribile momento, quando la figlia del Dr Sutton arrivò in macchina con Sybil Shade. Nel corso di quella notte caotica ebbi modo di trasferire il poema da sotto gli stivali delle quattro ninfette Goldsworth all'austera sicurezza della mia borsa da viaggio nera, ma soltanto all'alba mi ritenni abbastanza al sicuro da esaminare il mio tesoro. Sappiamo quanto fermamente, e stupidamente, avessi creduto che Shade stesse componendo un poema, una specie di romaunt, sul re di Zembla. Siamo stati preparati all'orribile delusione che era in serbo per me. Oh! non che m'aspettassi che si dedicasse totalmente a quel soggetto! Naturalmente avrebbe potuto amalgamarlo con robetta della sua vita e «Americana» varia - ma ero certo che il poema avrebbe contenuto i meravigliosi episodi che gli avevo descritto, i personaggi che avevo fatto vivere per lui e quell'atmosfera davvero unica del mio regno. Gli avevo perfino suggerito un bel titolo - il titolo del libro che portavo scritto dentro di me e di cui egli avrebbe tagliato le pagine: Solus Rex. Invece vidi Fuoco pallido, che per me non aveva nessun significato. Cominciai a leggere il poema. Lessi sempre più in fretta. Lo lessi tutto d'un fiato ringhiando come un giovane erede furibondo segue la lettura del testamento di un vecchio ingannatore. Dov'erano i bastioni del mio castello al tramonto? Dov'era Zembla la Bella? Dove la dorsale delle sue montagne? Dov'era il suo lungo fremito attraverso la nebbia? E i miei adorabili fanciulli in fiore, e lo spettro delle vetrate colorate, e i Paladini della Rosa nera, e tutto il mio meraviglioso racconto? Niente di tutto questo! Il contributo complesso che avevo riversato in lui con la pazienza di un ipnotizzatore e la sollecitudine di un amante semplicemente non c'era. Oh, non so descrivere il parossismo della mia angoscia! Invece di uno splendido e tumultuoso romanzo cavalleresco - che cos'avevo? Una narrazione autobiografica, di stampo eminentemente appalachiano, e di impianto piuttosto antiquato, in uno stile prosodico alla neoPope - scritta benissimo, naturalmente, Shade non poteva scrivere che benissimo -, ma priva della mia magia, di quella speciale e ricca vena di magica follia che confidavo sarebbe corsa lungo tutto il poema, facendo sì che trascendesse il suo tempo. A poco a poco riacquistai l'abituale padronanza di me stesso; rilessi Fuoco pallido con più attenzione. Mi piacque di più, ora che mi aspettavo di meno. Ma, e questo cos'era? Cos'era quella musica indistinta e lontana, quelle vestigia di colore nell'aria? Qua e là scoprivo nel poema, e soprattutto, soprattutto nelle inestimabili varianti, echi e paillettes della mia mente, una lunga scia increspata della mia gloria. Provai così una tenerezza nuova e compassionevole per il poema, quale si può provare per una giovane creatura volubile che ci è stata sottratta e brutalmente goduta da un nero gigante, ma che ora è di nuovo al sicuro tra le nostre mura, dentro il parco, a fischiettare con i mozzi di stalla, a nuotare con la foca ammaestrata. Il punto duole ancora, deve dolere, ma con strana gratitudine baciamo quelle palpebre grevi di lacrime e carezziamo quella carne insozzata. Il mio commento al poema, ora nelle mani dei lettori, è un tentativo di individuare e selezionare quegli echi e quelle piccole onde di fuoco, e quelle pallide tracce fosforescenti, e tutti i numerosi debiti subliminali nei miei confronti. Alcune note possono suonare amare... ma ho fatto del mio meglio per non sciorinare le doglianze. In questo scolio finale non intendo lagnarmi delle assurdità grossolane e crudeli che i giornalisti e gli «amici» di Shade, nei necrologi che hanno architettato, si sono permessi di far schizzare a destra e a sinistra descrivendo erroneamente le circostanze della sua morte. Considero i loro riferimenti alla mia persona un misto di cinismo giornalistico e veleno di vipera. Non dubito che molte delle affermazioni contenute in quest'opera saranno ignorate dai colpevoli, quando essa verrà pubblicata. Mrs Shade non ricorderà che il marito, il quale «le mostrava tutto», le aveva mostrato un paio di pregevoli varianti. I tre studenti distesi sull'erba risulteranno colpiti da amnesia totale. La ragazza al banco della biblioteca non ricorderà (le sarà detto di non ricordare) che qualcuno cercava il Dr Kinbote il giorno dell'omicidio. E sono certo che Mr Emerald interromperà per breve tempo la sua ispezione sulle grazie elastiche di qualche popputa studentessa per negare, con il vigore di una eccitata virilità, di avere mai dato un passaggio a un tizio fino a casa mia, quella sera. In altre parole, si farà di tutto per tagliarmi completamente fuori dal destino del mio caro amico. Nondimeno, ho avuto la mia piccola vendetta: l'equivoco collettivo mi ha indirettamente aiutato a ottenere il diritto di pubblicare Fuoco pallido. Il mio buon giardiniere, nel raccontare a tutti con entusiasmo ciò che aveva visto, certamente si sbagliò sotto molti aspetti - forse non tanto nel resoconto esagerato che fece del mio «eroismo», quanto nel presumere che il cosiddetto Jack Grey avesse mirato intenzionalmente a Shade; ma la vedova di Shade si sentì profondamente scossa all'idea che «mi ero gettato» fra il sicario e il suo bersaglio e, nel corso di una scena indimenticabile, gridò, accarezzandomi le mani: «Ci sono cose che non potranno mai essere ricompensate abbastanza, né in questo mondo né in un altro». Quell'«altro mondo» torna molto comodo quando la disgrazia si abbatte sul miscredente; ma, naturalmente, lasciai correre, anzi, decisi di non confutare niente, e dissi invece: «Oh, ma c'è una ricompensa, Sybil cara. Potrà sembrarle una richiesta molto modesta ma... mi dia il permesso, Sybil, di curare la pubblicazione dell'ultimo poema di John». Il permesso fu accordato all'istante, con rinnovati pianti e rinnovati abbracci, e già il giorno seguente la sua firma compariva sotto l'accordo che avevo fatto preparare da un avvocatuccio sollecito. L'hai presto dimenticato quel momento di grato dolore, cara la mia ragazza. Ma ti assicuro che non intendo nuocere a nessuno e che John Shade, forse, non si sentirà troppo infastidito dalle mie note, nonostante gli intrighi e le sozzure. Fu a causa di quelle macchinazioni che dovetti affrontare problemi da incubo nel tentativo di indurre la gente a considerare con calma - senza mettersi subito a urlare e a spintonarmi - la verità di quella tragedia - una tragedia della quale non ero stato un «testimone casuale», bensì il protagonista, nonché la principale, anche se soltanto potenziale, vittima. Quel clamore finì con l'influire sul corso della mia nuova vita, e rese necessario che mi trasferissi in questo capanno di montagna; ma sono riuscito a ottenere, subito dopo il suo arresto, un incontro, fors'anche due, con il prigioniero. Ora era molto più lucido di quanto non fosse quando si accovacciò sanguinante sul gradino della mia veranda, e mi disse tutto ciò che volevo sapere. Facendogli credere che avrei potuto aiutarlo al processo, lo costrinsi a confessare l'atroce crimine - quello di avere ingannato la polizia e la nazione fingendosi Jack Grey, evaso da un manicomio, che aveva scambiato John Shade per l'uomo che proprio là l'aveva mandato. Alcuni giorni dopo, ahimè, si sottrasse alla giustizia tagliandosi la gola con la lametta di un rasoio di sicurezza, recuperata in un bidone dell'immondizia incustodito. Morì non perché, avendo recitato la parte che gli spettava nella storia, non aveva più ragione di esistere, ma perché non riusciva a far dimenticare agli altri quest'ultimo, supremo pasticcio: assassinare la persona sbagliata quando quella giusta gli stava davanti. In altre parole, la sua vita non finì con lo scoppiettio smorzato di un meccanismo a molla, ma con un gesto di disperazione umanoide. Tanto basta. Jack Grey esce di scena. Non posso ricordare senza rabbrividire la lugubre settimana che passai a New Wye prima di lasciarla, spero per sempre. Vivevo nel timore costante che qualche ladro mi sottraesse quell'amorevole tesoro. Alcuni lettori rideranno, forse, nell'apprendere che, preda dell'agitazione, lo tolsi dalla borsa da viaggio nera e lo collocai in una scatola di metallo vuota, nello studio del mio padrone di casa, e, dopo poche ore, estrassi di nuovo il manoscritto e per parecchi giorni lo indossai, per così dire, distribuendo le novantadue schede sulla mia persona: venti nella tasca destra della giacca, altrettante in quella sinistra, un lotto di quaranta sul capezzolo destro e le dodici, preziosissime, con le varianti, nella tasca più interna, sul lato sinistro della giacca. Benedissi le mie buone stelle reali per avermi insegnato i lavori domestici, perché cucii tutte e quattro le tasche. Così, a cauti passi fra nemici ingannati, andavo in giro rivestito di una placcatura di poesia, corazzato di rime, irrobustito dal canto di un altro uomo, inamidato dal cartoncino, a prova di proiettile, finalmente. Molti anni fa - non è importante precisare quanti - ricordo che la bambinaia zemblana diceva a me, ometto di sei anni alle prese con un'insonnia da adulto: Minnamin, Gut mag alkan, Pern dirstan (tesoro mio, Dio ti dà la fame, il Diavolo la sete). Bene, Gente, immagino che parecchi, in questo bel salone, abbiano fame e sete come me, e quindi è meglio che chiuda, gente, proprio qui. Sì, meglio chiudere. Le mie note e il mio Io si stanno esaurendo. Signori, ho sofferto moltissimo, più di quanto chiunque di voi possa immaginare. Prego affinché la benedizione del Signore scenda sui miei sventurati compatrioti. Il mio lavoro è terminato. Il mio poeta è morto. «E tu, cosa ne sarà di te povero re, povero Kinbote?» potrebbe chiedere una voce giovane e dolce. Confido che Iddio mi aiuterà a liberarmi dal desiderio di seguire l'esempio di altri due personaggi di quest'opera. Continuerò ad esistere. Potrò assumere altri travestimenti, altre forme, ma tenterò di esistere. Potrei ancora riapparire, in un'altra università sotto le spoglie di un vecchio russo felice, in buona salute, eterosessuale, uno scrittore in esilio, sans fama, sans futuro, sans pubblico, sans nulla che non sia la sua arte. Potrei unirmi a Odon per girare un nuovo film: Fuga da Zembla (ballo a palazzo, bomba nella piazza del palazzo). Potrei assecondare i gusti semplici dei critici teatrali e inventarmi un lavoro per la scena, un melodramma all'antica con tre elementi portanti: un pazzo che vuole uccidere un re immaginario, un altro pazzo che crede di essere quel re, e un vecchio poeta famoso che, per caso, viene a trovarsi sulla linea di fuoco, e perisce nello scontro tra le due invenzioni. Oh! potrei fare tante cose! Storia permettendo, potrei far vela verso il mio regno ritrovato, e singhiozzando salutare il grigio litorale e il luccichio di un tetto battuto dalla pioggia. Potrei rannicchiarmi e gemere in un manicomio. Ma, qualunque cosa accada, ovunque si svolgerà la scena, qualcuno, in qualche luogo, si metterà silenziosamente in cammino - qualcuno si è già messo in cammino, qualcuno ancora lontano sta acquistando un biglietto, sale su un autobus, su una nave, su un aereo, è atterrato, si dirige verso un milione di fotografi, e a momenti suonerà alla mia porta, un Gradus più grande, più rispettabile, più competente.
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