RASSEGNA STAMPA giovedì 13 novembre 2014 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA del 13/11/14, pag. 1 (inserto Spartito) Lotta o governo, dilemma a sinistra Luciana Castellina Europa. Quasi ovunque nell’Unione la sinistra è troppo debole per poter essere determinante nella linea delle coalizioni, ma abbastanza forte da essere essenziale per battere l’avversario di destra Per mezzo secolo il ventaglio dei partiti di sinistra presenti nei parlamenti Europei è rimasto press’a poco invariato, salvo il fortunoso ingresso di qualche formazione sessantottina in Italia, altrove l’avvento dei verdi e quasi ovunque il mutamento di nome dei vecchi partiti comunisti dopo il terremoto dell’89. Da qualche tempo assistiamo invece a una nuova variopinta fioritura che, almeno in Grecia e in Spagna, ha già avuto, o i sondaggi dicono che avrà, una notevole consistenza parlamentare, inimmaginabilmente più larga di qualsiasi altra formazione simile prima d’ora. Parlo naturalmente soprattutto di Syriza in Grecia e di Podemos in Spagna. Sebbene vi si ritrovino anche nomi che da ormai qualche decennio conosciamo, militanti che già abbiamo incontrato ai grandi appuntamenti internazionali di movimento, si tratta di creature nuove, nel senso che somigliano poco a ogni altro partito storico. Né sono, tuttavia, simili fra loro, né per origine né per pratica attuale: Syriza nasce da un arcipelago di partitini e si è però andata caratterizzando per il suo legame con le iniziative sul territorio animate dalla società civile; Podemos, invece, nasce da un movimento, quello degli Indignados, che fino alle ultime elezioni politiche spagnole aveva disertato addirittura le urne in sintonia con il suo manifesto in cui si diceva: «Nessuno ci rappresenta» — e però anche: «Non vogliamo che nessuno ci rappresenti», ed è ora approdato al riconoscimento che bisogna stare laddove si decide, in parlamento per l’appunto. Tanto i nuovi venuti che le più antiche formazioni che non fanno capo al partito socialista europeo, sia quelle di provenienza comunista tradizionale che di nuova sinistra, hanno nella loro diversità qualche significativo tratto in comune che rende a tutti periglioso e spesso confuso il cammino: il rapporto con il movimento e il problema del governo. Si tratta di questioni reali e difficili, su cui anche in Italia, dove siamo comunque in una situazione ben più confusa, ci arrovelliamo tutti. Il governo: non c’è paese europeo, dalla Norvegia fino all’Italia, dove non si sia bloccati dal dilemma se sostenere, partecipandovi direttamente o meno, una coalizione di centro sinistra e così però trovarsi a condividere la responsabilità di scelte che non si vorrebbero compiere, oppure se collocarsi all’opposizione ma con il rischio di spianare il terreno all’avvento di un governo di destra. Quasi ovunque la sinistra è infatti in Europa troppo debole per poter essere determinante nella linea delle coalizioni di centro sinistra, ma abbastanza forte per essere essenziale al loro successo. Impedirlo significa così caricarsi della impopolarissima responsabilità di far vincere l’avversario principale. Non sono cose nuovissime: già negli anni Trenta, quando per la prima volta entrò in un governo il partito laburista inglese, Ramsey Mc Donald, che ne era diventato primo ministro, ebbe a confessare amaro: credevo fosse tremendo stare all’opposizione, non sapevo quanto più tremendo fosse stare al governo e non avere potere. 2 Quanto all’altra opzione, vale ricordare quanti sono gli elettori che tutt’ora non hanno perdonato a Fausto Bertinotti di aver fatto cadere il governo Prodi alla fine degli anni Novanta. Anche più difficile il problema movimento: ovvero il dilemma fra il rischio di separarsene una volta entrati sul terreno della politica istituzionale; e, al contrario, di rimanere preda delle sue inevitabili fluttuazioni, dell’impotenza che produce l’impossibilità di aggregare un potere decisionale per via del rifiuto di ogni leadership. Non ci sono evidentemente soluzioni facili e soprattutto univoche. Oltretutto perché questi problemi antichi sono oggi stravolti da un galoppante mutamento del mondo, e dunque degli stessi modi di vivere delle persone, della dislocazione dei poteri da affrontare. Solo alcune considerazioni su cui sarebbe utile aprire un dibattito che non resti chiuso nei rispettivi circuiti nazionali, ingombrati da rancori e ripicche, ma diventi finalmente europeo, usando proprio quella forza che alcune nuove formazioni hanno acquisito e quella consistenza conservata, pur nel presente terremoto, da altre più antiche (penso alla Linke tedesca o ai partiti scandinavi). In realtà sappiamo pochissimo l’uno dell’altro, persino di Syriza, sebbene l’ultima nostra esperienza comune sia stata combattuta nel nome di Tsipras. Non si tratta comunque solo del vantaggio che avremmo a imparare di più, ma di cominciare a costruire il solo soggetto adeguato ai nostri tempi, che deve essere europeo non solo sulla carta, come sono i partiti che portano questo nome e che più di qualche incontro annuale cui si partecipa distratti non danno. Proprio alle nuove forze dalla sinistra dovrebbe esser più facile ragionare e muoversi da europei, perché meno soggetti ai tanti condizionamenti storici dei partiti più antichi. Peraltro è inutile parlare di democratizzazione dell’Unione se prima non si costituisce, a quel livello, quanto rende democratica una nazione: una società civile comune, ricca di articolazioni e strumenti: partiti, sindacati, stampa, associazioni. Costruirla è ben più importante che conquistare qualche potere in più per il Parlamento europeo, destinato a restare impotente finché l’esecutivo risponde a un elettorato frammentato e incomunicante. Affrontare questi problemi è difficile oggi più di quanto non fosse anche solo qualche anno fa perché viviamo in un tempo in cui il distacco fra la gente e la politica, la diffidenza nei confronti dei partiti e delle istituzioni, sono diventati profondi, e non solo in Italia. La cosa più importante per tutti è dunque ripartire da più indietro, ricostruire il senso stesso della politica: spazzando via l’idea che sia materia di esclusiva competenza di chi sta nelle istituzioni ed evitando di proporre coalizioni o nuovi partiti sempre e solo in occasione delle elezioni, il terreno più ambiguo e difficile, anziché sperimentare la coesione, non genericamente nel movimento, ma in un’iniziativa che sia anche in grado di assumersi responsabilità di gestione della società, reimpadronendosi di pezzi dello stato che sono stati sequestrati. Quanto più le identità sono state stravolte, come è accaduto in questi anni, sino a confondere perfino la destra con la sinistra, tanto più questo diventa il terreno su cui superare le diffidenze e l’antipolitica, eludere i rischi di populismo da cui neanche i movimenti e i partiti nati dai movimenti sono immuni. Soprattutto per far maturare soggettività nelle persone, riabituandosi a pensare che la politica è poter decidere, non arbitrare fra l’uno o l’altro che decide. E neppure solo rivendicare diritti, perché la democrazia è di più: è conquista di uno spazio, e delle condizioni in cui non sia astratta la pretesa di cambiare il mondo. Sono tutte cose che non si possono fare in parlamento, ma nemmeno ignorandolo. Il rischio, come sempre, è che il dentro e il fuori si separino. Anche al dilemma — che dilania la sinistra di tutta Europa — se accettare di sostenere una coalizione di centro sinistra o meno, c’è una sola risposta: si può assumere il rischio se si ha abbastanza forza nella società, e si ha abbastanza forza nella società non se non 3 ci si limita a un potere di interdizione, ma se si è capaci di gestire almeno un pezzetto di alternativa. Per occupare lo spazio pubblico, bisogna sapere che occorre innanzitutto ricostruirlo, e poi capire che non si tratta di uno stadio in cui vince chi grida di più. (Comunque tuttora, per orientarmi, io scelgo la vecchia indicazione del presidente Mao. Che diceva: bombardare il quartier generale, e rifondare di continuo i partiti affinché non si burocratizzino. Ma diceva che occorreva «rifondarli» per l’appunto, non che se ne poteva fare a meno e creare al loro posti semplici reti fluttuanti. Gramsci sosteneva che senza costruire un soggetto, e cioè una volontà coaugulata collettiva, che addirittura chiamava «il principe», non si sarebbe potuti andare da nessuna parte, perché la società civile, di per sé, subisce, com’è naturale, l’egemonia del potere. Sottrarla a questa sudditanza è premessa indispensabile a ogni alternativa). Da Redattore Sociale del 12/11/14 Nuovo raid contro i rifugiati a Tor Sapienza. I cittadini: “Non ci fermiamo” Ancora scontri davanti al centro che ospita 36 adolescenti stranieri. Il comitato di quartiere: “Se non ascoltati, i residenti andranno avanti nella protesta”. Il municipio: “Difficile il dialogo, ma è riduttivo pensare che il problema siano 36 ragazzi, il disagio è più grande”. Il sindaco Marino condanna le violenze. Le associazioni si scagliano contro la gestione dell'accoglienza ROMA - Nuova notte di protesta e scontri a Tor Sapienza, nella periferia est di Roma. Dopo la sassaiola di lunedì notte, ieri sera i cittadini del quartiere (che avevano indetto per il pomeriggio un’assemblea pubblica a cui ha partecipato anche un rappresentante del municipio) sono tornati nuovamente in piazza per manifestare contro il degrado della zona e per chiedere di mandare via i migranti ospitati nel centro di accoglienza di via Giorgio Morandi. Nella notte, però, quando la manifestazione si era già sciolta, alcuni ragazzi (incappucciati secondo le testimonianze) sono tornati davanti la struttura per lanciare bombe carta e oggetti verso la Polizia, che presidiava il centro di accoglienza, dove vivono 36 minori non accompagnati. A quel punto anche gli abitanti si sono nuovamente riversati in strada, e le forze dell’ordine hanno deciso di caricare per disperdere i manifestanti. Sono almeno 12 le persone rimaste ferite. Un vero e proprio raid con cassonetti dati alle fiamme e cariche della polizia. C’è chi parla di una spedizione organizzata dalle frange di estrema destra, chi di un’ennesima dimostrazione dei cittadini “esasperati e abbandonati da tutti”. “Fino alle 20 la situazione era tranquilla, è nella notte che sono avvenuti gli scontri, ma non si tratta di un’azione politica. La politica non c’entra niente, come non c’entra niente il razzismo. Sono solo cittadini esasperati – sostiene Tommaso Ippoliti, presidente del comitato di quartiere Tor Sapienza -. Cittadini che andranno avanti nella loro protesta perché le istituzioni non li ascoltano. La gente non vuole gli extracomunitari e non sa più come dirlo, vuole solo la legalità. Con le persone che sono scese in piazza non possiamo che essere solidali. E’ un anno che chiediamo al comune di intervenire: che Tor Sapienza fosse una polveriera lo sapevano tutti. Questa è solo la conseguenza di un abbandono totale del quartiere al suo degrado”. Cuore della protesta il centro di accoglienza per minori non accompagnati del Servizio Sprar, gestito dalla cooperativa “Il sorriso” e convenzionato con il comune di Roma. La 4 struttura è attiva nel quartiere dal 2001 e oggi ospita 36 minori non accompagnati, di età media intorno ai 17 anni e in fuga da paesi in guerra. Ma il centro, che in passato ha ospitato anche 150 persone, oggi è solo la valvola di sfogo di una situazione di tensione più generale. “Non ce l’abbiamo con loro perché sono neri – aggiunge Ippoliti – ma nella stessa zona sorge il campo rom di via Salviati e nell’ultimo anno si sono moltiplicate le occupazioni abusive di case e strutture. L’ultima, in ordine di tempo, è quella di una chiesetta sconsacrata. E' un insieme insostenibile. Con la presenza di immigrati abbiamo visto crescere anche l’illegalità, i furti, le aggressioni. Alle 20 siamo costretti al coprifuoco, vorremmo invece poter uscire tranquilli sotto casa. Ma non è vero, come stanno scrivendo in molti, che giriamo armati”. Intanto al municipio si cerca di trovare una soluzione a una situazione che non accenna a calmarsi. Fallito il tentativo di aprire un tavolo tra residenti e immigrati, oggi si torna a chiedere al Comune di cercare una strategia condivisa. “Il clima ancora oggi è tesissimo – spiega Alessandro Rosi, assessore al sociale del V municipio, che da stamattina è a Tor Sapienza a monitorare la situazione -. E’ riduttivo pensare che il problema siano 36 ragazzi adolescenti. Il disagio è più grande. La protesta davanti al centro di accoglienza è il sintomo di un problema ampio e insieme al Campidoglio stiamo cercando di avere tutti gli elementi per portare avanti un’azione risolutiva”. Oltre a cercare di stemperare la tensione ed evitare nuovi scontri, in queste ore si teme anche per la sicurezza dei rifugiati ospitati nel centro, facile bersaglio delle ire dei residenti. “Il problema è l’alta concentrazione di centri e strutture in alcune aree, come spesso abbiamo fatto presente al Comune e in particolare all’assessore Cutini – aggiunge -. In questo momento stiamo anche cercando un dialogo con gli abitanti, ma è molto difficile perché il clima non lo permette e gli scontri di ieri notte hanno alimentato ancor più la tensione”. Secondo Rosi, a differenza di quella di lunedì notte, ieri sera la spedizione era stata organizzata “da persone che cercano di gettare benzina sul fuoco”. “Le forze dell’ordine – afferma – stanno lavorando per identificarli. E per mantenere in sicurezza gli ospiti del centro”. Anche dal mondo delle associazioni, che lavorano al fianco dei migranti, arrivano le prime reazioni. L’Arci di Roma chiede un impegno immediato per ripristinare la pace sociale nel quartiere, tutelando tanto i diritti degli abitanti quanto i diritti dei migranti che vivono nel centro d’accoglienza. “C’è l’evidente necessità di costituire un tavolo di lavoro condiviso e costruttivo tra abitanti, associazioni, operatori e istituzioni- spiegano -. E’ necessario confrontarsi democraticamente su questa esplosiva situazione sociale e impegnarsi concretamente da subito". La Caritas di Roma parla di una situazione che è "il risultato di anni di abbandono, ma allo stesso tempo l’effetto di politiche sbagliate verso i rom e i rifugiati, senza sforzi per l’integrazione e improntate soprattutto sull’emergenza, frutto di istituzioni che non collaborano e non dialogano, di cooperative senza scrupoli che poco hanno a cuore la sorte delle persone che gli sono affidate, di territori abbandonati dalle Istituzioni. Situazioni di cui sono parimenti vittime italiani e immigrati". Il centro Astalli, chiede inoltre un'accoglienza in tutta la città per evitare che le "periferie, potenziali laboratori di integrazione" diventino, invece "delle polveriere pronte ad esplodere". Non si sono fatte attendere anche le reazioni dei sindacati. Giuseppe Casucci, responsabile Immigrazione della Uil, punta il dito contro la situazione dell'accoglienza: "Serve una vera inclusione, anziché una gestione centralizzata da parte del ministero, meglio lasciare l'organizzazione ai comuni". "L’episodio di Tor Sapienza - aggiunge Roberto Giordano, della Cgil di Roma e del Lazio- è l’ennesimo campanello di allarme e, purtroppo, probabilmente non sarà l’ultimo. Comune e Regione dovrebbero affrontare le problematiche legate ai rifugiati in un consesso complessivo di condivisione, partendo dal ripristino dei tavoli di confronto con le parti sociali e il mondo dell’associazionismo e coinvolgendo le popolazioni locali". 5 Intanto in queste ore è arrivata anche la condanna delle violenze da parte del sindaco di Roma Ignazio Marino, che ha espresso "vicinanza e piena solidarietà agli agenti feriti questa notte da un gruppo di veri e propri criminali". "Questa Amministrazione non accetta che a Roma l’incolumità dei cittadini venga messa a repentaglio da un manipolo di estremisti violenti, che sfogano il proprio fanatismo lanciando blocchetti di marmo, pietre e bottiglie - sottolinea il sindaco -Dal Questore ho ottenuto l’assicurazione che il territorio interessato sarà presidiato centimetro per centimetro, per impedire altre violenze". Dopo l'ultimo raid di questa notte in tanti hanno chiesto al primo cittadino di intervenire. Il responsabile Immigrazione del Pd, Khalid Chaouki sottolineando che "i disordini di Tor Sapienza destano preoccupazione", ha chiesto "un grande senso di responsabilità, evitando di soffiare sul fuoco di un disagio sociale sempre più profondo nelle periferie della Capitale. Ribadiamo il nostro pieno sostegno agli amministratori locali e alle associazioni impegnate sui territori, e sollecitiamo nuovamente il Sindaco di Roma ad intervenire urgentemente - afferma - senza ulteriori ritardi, per trovare risposte condivise sul fronte di una accoglienza sostenibile dei profughi e per una attenzione maggiore ai temi del degrado e sicurezza nelle periferie". (ec) Da Tmnews/Aska News del 12/11/14 Roma, Arci: a Tor Sapienza tutelare diritti di tutti Roma, 12 nov. (askanews) - "Il disagio delle periferie non si trasformi in violenza e intolleranza. Di fronte a quanto avvenuto la scorsa notte fuori del centro d'accoglienza a Tor Sapienza, nel condannare gli episodi di violenza, riteniamo necessario impegnarsi da subito per ripristinare un clima di serenità nel quartiere, tutelando tanto i diritti degli abitanti quanto i diritti dei rifugiati e richiedenti asilo che vivono nel centro d'accoglienza". E' quanto affermano in una nota comune, l'Arci nazionale e l'Arci di Roma. L'Arci propone la costituzione di un tavolo di consultazione tra abitanti, associazioni, operatori e istituzioni. Un modo, si sottolinea, "per avviare un confronto aperto, necessario per arrivare velocemente a risposte condivise e concrete. Solo attraverso la partecipazione e il confronto democratico - si conclude - si può infatti arrivare ad una risoluzione dei conflitti". Da ContattoNews del 12/11/14 16:33 Roma Arci: a Tor Sapienza tutelare diritti di tutti Disagio periferie non si trasformi in violenza e intolleranza – Roma, 12 nov 2014 – “Il disagio delle periferie non si trasformi in violenza e intolleranza. Di fronte a quanto avvenuto la scorsa notte fuori del centro d’accoglienza a Tor Sapienza, nel condannare gli episodi di violenza, riteniamo necessario impegnarsi da subito per ripristinare un clima di serenita’ nel quartiere, tutelando tanto i diritti degli abitanti quanto i diritti dei rifugiati e richiedenti asilo che vivono nel centro d’accoglienza”. E’ quanto affermano in una nota comune, l’Arci nazionale e l’Arci di Roma. L’Arci propone la costituzione di un tavolo di consultazione tra abitanti, associazioni, operatori e istituzioni. Un modo, si sottolinea, “per avviare un confronto aperto, necessario per arrivare velocemente a risposte condivise e 6 concrete. Solo attraverso la partecipazione e il confronto democratico – si conclude – si puo’ infatti arrivare ad una risoluzione dei conflitti”. Gc http://www.contattonews.it/2014/11/12/1633-roma-arci-a-tor-sapienza-tutelare-diritti-ditutti/294885/ Da La stampa – Torino 7 del 13/11/14 Eventi 12/11/2014 ULTIMO APPUNTAMENTO DI MOVING TFF Ultimo appuntamento con la terza edizione di "Moving Tff". La manifestazione, ideata e coordinata da Altera e Centro di Cooperazione Culturale, realizzata in collaborazione con Ucca (Unione Circoli Cinematografici Arci), Arci Torino, Museo Nazionale del Cinema e Torino Film Festival, si propone di offrire al pubblico torinese una anticipazione della prossima edizione del Torino Film Festival (21-29 novembre). Oggi "Le ragazze di Piazza di Spagna" di Luciano Emmer, alla biblioMediateca Mario Gromo. L'ingresso è gratuito. http://www.lastampa.it/2014/11/12/torinosette/eventi/ultimo-appuntamento-di-moving-tffznZpyDytMYJstyzUmQHL0J/pagina.html Da Adn Kronos del 12/11/14 LA 22^ EDIZIONE DELL'OZU FILM FESTIVAL IN 4 COMUNI CORTI D'AUTORE, RETROSPETTIVE, INCONTRI E MOSTRE Prende il via lunedì 17 novembre a Fiorano, Formigine, Modena e Sassuolo la 22^ edizione dell'Ozu Film festival, rassegna incentrata sul festival del cortometraggio e altre sezioni competitive sempre dedicate ai cortometraggi dedicati a tematiche specifiche. La manifestazione è organizzata dal circolo culturale Fahrenheit 451 e dall'associazione culturale Amici dell'Ozu in collaborazione con Arci Tilt e il sostegno del Comune di Fiorano, della Fondazione Cassa di risparmio di Modena e della Regione, oltre al patrocinio dell'Università di Modena e dei Comuni di Modena, Formigine e Sassuolo. Oltre ai concorsi sono in programma retrospettive, sempre dedicate al cortometraggio, incontri e mostre. In occasione della presentazione dell'iniziativa, i giornalisti sono invitati alla conferenza stampa che si svolgerà nella sala del Novecento del Palazzo della Provincia (viale Martiri della Libertà 34 a Modena) venerdì 14 novembre 2014 , alle ore 11,30 Parteciperanno Morena Silingardi, assessore alla Cultura del Comune di Fiorano Simona Sarracino, assessore alle Politiche giovanili del Comune di Formigine Giulia Pigoni, assessore alla Cultura del Comune di Sassuolo Enrico Vannucci, direttore artistico del festival Dalle ore 11,15 è possibile realizzare interviste radiofoniche e televisive http://www.adnkronos.com/fatti/pa-informa/politica/2014/11/13/edizione-dell-ozu-filmfestival-comuni-corti-autore-retrospettive-incontrimostre_x46RvyRawCV06mDUYLgORJ.html 7 ESTERI del 13/11/14, pag. 8 La svolta storica è un’altra: l’Asia sceglie la Cina Simone Pieranni Meeting Apec. Lo studio di fattibilità sul progetto commerciale cinese, segna una sconfitta per Obama I media nostrani si sono affrettati a salutare l’accordo tra Cina e Usa per quanto riguarda la riduzione delle emissioni, con molta enfasi. Si tratta di un passo in avanti, specie rispetto al recente passato, ma ci sono ancora tanti punti poco chiari. Stupisce, se mai, la tanta rilevanza data a questo punto di avvicinamento tra i due paesi, insieme a tutta una serie di inutilità classiche quando si tratta di vertici e quando c’è di mezzo la Cina (dalle attenzioni di Putin alla moglie di Xi Jinping, al chewing-gum di Obama) senza mettere in adeguata evidenza quello che è stato il vero e proprio punto storico di questo Apec: la scelta dei paesi asiatici di seguire la Cina sul trattato di libero commercio, intimando un alt duro al Tpp obamiano, che tagliava fuori proprio Pechino. Il vero punto di svolta, è dunque il fatto che l’intera regione asiatica appare fidarsi ormai sempre meno delle promesse americane, e sembra disposta a correre il rischio di affiancarsi alla Cina, sperando di gestire l’arroganza tipica di Pechino, quando si tratta di cooperare con i vicini di casa. Il mondo multipolare fatica a essere compreso un po’ da tutti: alleanze storiche saltano, nemici ricominciano a trattare. Ma più di tutto, pare che sia il mondo dei media nostrani a faticare a concepire un mondo nel quale gli Usa non sono più l’Impero dominante. Se poi — effettivamente — la potenza americana subirà un crollo è tutto da vedere, ma una redistribuzione del potere in giro per il mondo appare ormai chiara. E la Cina si pone come potenza emergente anche a livello internazionale in modo determinato, ma non certo guerrafondaio. Un mondo a guida americano era sicuramente più comprensibile; lo testimonia il fatto che, anche di fronte ad un evento asiatico-pacifico, ospitato a Pechino, con la partecipazione di Stati non certo irrilevanti, come Giappone e Corea del Sud, la nostra stampa continua ad affidarsi alle sole fonti occidentali, quando non direttamente americane, per cercare di comprendere la portata di quanto accaduto. La lettura è dunque sempre univoca: ci viene raccontato cosa pensano gli americani del mondo. Cosa sappiamo di quanto si dice in Cina, Giappone, Corea? Figurarsi in Birmania. La decisione dei paesi asiatici di consentire uno studio di fattibilità di due anni al progetto di libero scambio cinese, unitamente ai tanti soldi che Pechino ha messo sul piatto (sia per rinsaldare la sua forza marittima, sia per rinforzare la via della Seta), indicano un cambiamento di rotta non solo negli equilibri economici e politici, ma anche in quelli culturali, di narrazione, di capacità di leggere la contemporanea complessità con lenti nuovi e affidandosi, specie oggi, periodo nel quale la mole di informazioni è decisamente ampia, anche ad altri punti di vista e capacità di leggere e analizzare gli eventi. Che piaccia o meno il mondo è cambiato e dovrà mutare anche la sua narrazione. 8 del 13/11/14, pag. 1/31 LO SCENARIO I confini dell’ottimismo PASCAL ACOT L’ACCORDO bilaterale firmato da Stati Uniti e Cina sulla riduzione dei gas ad effetto serra (Ges) è indubbiamente il più importante nella storia della lotta contro il riscaldamento climatico. Cina e Stati Uniti, infatti, sono i due più grandi responsabili al mondo in quanto a emissioni di gas ad effetto serra, con una produzione annua superiore al 40%. L’accordo firmato a Pechino, nel corso del vertice bilaterale di cooperazione economica nella regione Asia-Pacifico, in occasione del viaggio in Asia del presidente BarackObama, è stato accolto con favore non solo da Ban Kimoon, segretario generale delle Nazioni Unite, e da Al Gore, ex vice- presidente degli Stati Uniti, ma anche dalla maggior parte delle organizzazioni ambientaliste. Gli esperti, dunque, ritengono che l’accordo sia portatore di una speranza. CIÒ è non frequente in materia di climatologia politica. Per gli esperti poi ora si può affrontare con un certo ottimismo la conferenza annuale delle Nazioni Unite che si dovrebbe tenere a Parigi verso la fine del 2015. La limitazione a termine del riscaldamento globale a +2° C potrebbe non essere più un sogno utopico, ma diventare un obiettivo serio, tanto più che anche l'Europa si è impegnata, da parte sua, a ridurre le proprie emissioni di almeno il 40% rispetto al 1990. Gli impegni assunti da Xi Jinping, presidente della Repubblica popolare cinese, e dal suo omologo nordamericano, sono percepiti come meritevoli tanto più che la Cina è stata a lungo ostile per i suoi interessi industriali e che Barack Obama è oggi indebolito dai cambiamenti sopravvenuti al Congresso, ora a maggioranza repubblicana. Tutto ciò dà motivo ai leader politici internazionali di rallegrarsi, cosa che stanno facendo. Tuttavia, dovrebbero dar prova di moderazione nel loro entusiasmo, perché si stanno già accumulando molte nubi sulle buone intenzioni manifestate dai firmatari dell'accordo. La Cina, ad esempio, ha annunciato che il picco delle sue emissioni sarà raggiunto solo nel 2030. Questo significa che l'aumento delle sue emissioni di gas ad effetto serra continuerà fino a quella data, anche se ha intenzione di “arrivarci prima”, con l’aumento di più del 10%, da qui al 2030, della percentuale di energia rinnovabile che immetterà nelle sue attività produttive. Da parte loro, gli Stati Uniti stimano la diminuzione delle loro emissioni pari a un - 25 o - 28% rispetto al 2005. Questo ovviamente va bene, ma è ancora un dato un po' vago. Ora, in questo tipo di trattativa, l'esperienza dimostra che le approssimazioni non promettono nulla di buono. Possiamo anche osservare che, anche se tutto andasse bene, le emissioni cinesi fino al 2030 potrebbero annullare gli sforzi messi in atto da Stati Uniti ed Europa. Tanto più che l'Agenzia per l'Energia prevede una forte crescita (del 37%!) del consumo globale entro il 2040, il che dovrebbe comportare un aumento della temperatura di 3,6° C. Infine, il calo del prezzo del petrolio e il fatto che gli esperti oggi siano concordi nel prevedere che non ve ne sarà carenza nei prossimi 25 anni prospettano un contesto che dovrebbe invitare i responsabili politici dei paesi “avanzati” alla massima cautela. 9 del 13/11/14, pag. 9 Marwan Barghuti in isolamento Michele Giorgio Israele/Territori Occupati. Il popolare capo di Fatah, in carcere in Israele, è stato punito per le sue dichiarazioni favore della resistenza armata contro l'occupazione. I coloni bruciano moschea in Cisgiordania. Annunciata la costruzione di nuove case nell'insediamento ebraico di Ramot E’ costato caro a Marwan Barghuti il messaggio-appello alla resistenza, anche armata, all’occupazione militare e a cessare la cooperazione di sicurezza con Israele, che ha lanciato due giorni fa in occasione del decennale della morte del presidente Yasser Arafat. Il popolare leader di Fatah dovrà scontare una settimana di isolamento totale e pagare un’ammenda di 300 shekel (60 euro), gli ha comunicato ieri il servizio carcerario israeliano. «Scegliere la resistenza armata e globale” – aveva scritto Barghouti – significa essere fedeli alle idee di Arafat e ai suoi principi per cui decine di migliaia di martiri sono morti. E’ doveroso riconsiderare il nostro modo di resistere per sconfiggere l’occupante». Parole che assieme alle dichiarazioni fatte in queste ultime settimane dal presidente dell’Anp Abu Mazen, contribuirebbero, secondo il premier israeliano Netanyahu, ad «incendiare» la situazione e ad aggravare un quadro che potrebbe sfociare in una nuova Intifada. Ad incendiare, e nel nel vero senso della parola, sono di più i coloni israeliani in Cisgiordania. Nella notte tra martedì e mercoledì, denunciano i palestinesi, un gruppo di giovani “settler” ha dato alle fiamme la moschea del villaggio di al-Mughayr (Ramallah). La polizia dell’Anp sostiene che le sue indagini non lasciano spazio a dubbi sugli autori dell’attacco che ha causato gravi danni alla moschea. Gli ultimi anni hanno visto una escalation di attacchi e raid compiuti dai coloni e dagli ultrazionalisti israeliani contro moschee e chiese, in Cisgiordania e a Gerusalemme. Attacchi firmati con la scritta “Price Tag”, ossia il “prezzo da pagare” che gli estremisti presentano ai palestinesi sotto occupazione. Una bottiglia incendiaria, sempre martedì notte, è stata lanciata contro una sinagoga antica a Shafaram, in Galilea dove la tensione resta alta dopo l’uccisione di un abitante di Kufr Kana che aveva attaccato un’automezzo della polizia. La molotov ha provocato danni lievi al sito religioso ebraico. A dare fuoco alle polveri sono peraltro i continui annunci di espansione delle colonie israeliane a Gerusalemme. La municipalità israeliana ha dato il primo via libera alla costruzione di 200 case a Ramot, un insediamento colonico nella zona palestinese della città, occupata da Israele nel 1967. Il progetto è alla sua prima tappa e, secondo le autorità comunali, ci vorranno anni prima che possano aprirsi i cantieri. In ogni caso è un nuovo progetto, che contribuisce a rendere incandescenti i rapporti tra israeliani e palestinesi, assieme alle “visite” dei gruppi ultranazionalisti sulla Spianata delle moschee di Gerusalemme. Il governo israeliano è stato criticato, specialmente dalla Giordania, che tutela la Spianata, per non aver impedito le “incursioni” degli estremisti nel luogo dove, secondo la tradizione, sorgeva il Tempio ebraico. Il viceministro degli esteri Tzahi Hanegbi ieri ha dovuto ribadire che Israele non cambierà lo status quo sulla Spianata, oggi sotto il controllo del Wafq, l’istituzione che tutela e amministra i luoghi santi islamici. Non tutti in Israele condividono la linea del governo Netanyahu verso i palestinesi e il loro diritto all’indipendenza. Ieri 661 figure pubbliche israeliane hanno invitato il parlamento danese a riconoscere, quando voterà a fine settimana, lo Stato di Palestina. Tra i firmatari ci sono Avraham Burg, ex presidente del parlamento israeliano, l’anziano pacifista Uri 10 Avneri, l’ex ministro dell’industria Ran Cohen, la docente universitaria Nurit Peled Elhanan, il vincitore del premio Nobel Daniel Kahneman e Amiram Goldblum, fondatore di Peace Now. La votazione dei parlamentari danesi è stata preceduta da quelle recenti del Parlamento britannico e del senato irlandese. Voti simili sono attesi anche in Francia (a dicembre) e in Spagna. E qualche settimana fa il governo svedese ha ufficialmente riconosciuto lo Stato di Palestina tra le proteste di Israele. All’appuntamento con questi riconoscimenti, il più delle volte simbolici ma ugualmente importanti, i palestinesi arrivano divisi. La tensione interna è forte dopo gli attacchi che Abu Mazen ha rivolto due giorni fa ad Hamas, accusato dal presidente palestinese di non aver impedito se non addirittura di aver organizzato gli attentati intimidatori della scorsa settimana a Gaza contro dirigenti del suo partito, Fatah, allo scopo di impedire le commemorazioni per Yasser Arafat. Vacilla, e non poco, in queste ore il governo di consenso nazionale costituito all’inizio di giugno dopo l’accordo di riconciliazione FatahHamas. A tenerlo ancora in piedi è l’urgenza di avviare la ricostruzione di Gaza, uscita devastata dall’offensiva militare israeliana “Margine Protettivo” della scorsa estate. Senza la presenza delle forze di sicurezza dell’Anp ai valichi di frontiera e il coinvolgimento pieno di Fatah e del governo, i donatori internazionali terranno congelati 5,4 miliardi di dollari che hanno promesso un mese fa. del 13/11/14, pag. 34 Nel cuore del Kurdistan iracheno che vola verso l’indipendenza GAD LERNER ERBIL (KURDISTAN IRACHENO) LA POTENZA emergente del nazionalismo curdo trasformatosi ormai in Stato di fatto, sulle ceneri dell’Iraq avviato alla dissoluzione, si celebra agli incroci delle larghe e trafficate avenues di Erbil. Qui i profughi in fuga da Kobane e Mosul chiedono l’elemosina sovrastati da megaschermi in cui il Falcon Group pubblicizza la ricchezza delle sue torri avveniristiche chiamate Empire Diamond, alternandole con visioni delle raffinerie di petrolio. Riesce difficile pensare alla ferocia della guerra, ai miliziani del Califfato insediati a poche decine di chilometri da una metropoli che per lusso e disegno architettonico cresce a vista d’occhio sul modello di Dubai. Il mondo guarda con ammirata gratitudine ai curdi che frenano l’avanzata dello Stato Islamico (Is), celebra i peshmerga del loro esercito popolare, mitizza le donne soldato che poco più a Nord, nel Rojava (il Kurdistan siriano) fronteggiano i tagliagole jihadisti. A Erbil giungono armi e rifornimenti dall’Occidente. L’Italia partecipa, inviando 280 addestratori militari nell’ambito della coalizione anti-Is. È il capolavoro diplomatico di due leader curdi iracheni — l’anziano Jalal Talabani e il presidente Massoud Barzani — che hanno riempito il vuoto di potere del dopo Saddam, realizzando in silenzio il sogno proibito dell’indipendenza. Eredi di una tragedia novecentesca, lo smembramento del popolo curdo nel 1923 in quattro Stati diversi (Turchia, Siria, Iran, Iraq), Talabani e Barzani stanno trasformando un nazionalismo dolce e perseguitato in qualcosa di diverso, al tempo stesso indispensabile e pericoloso. La foto-simbolo del capolavoro diplomatico curdo risale al marzo 2011: ritrae Barzani mentre inaugura l’aeroporto internazionale di Erbil al fianco del presidente turco Erdogan. Il nemico storico non solo è giunto in visita in quello che di fatto è diventato lo Stato dei 11 curdi, ma vi ha investito miliardi di dollari costruendo un’alleanza di ferro. Oggi un gasdotto rifornisce Ankara col petrolio curdo. Buona parte dei prodotti in vendita nei centri commerciali di Erbil vengono dalla Turchia. L’aeroporto e molti grattacieli sono stati edificati grazie alla partnership col leader neoottomano che in cambio ha solo bisogno di mantenere sottaciuta, non dichiarata, l’indipendenza curda. Nella hall del sontuoso Hotel Rotana incontro Staffan De Mistura, inviato del segretario generale dell’Onu in Siria. Viene a Erbil perché il governo regionale del Kurdistan iracheno è divenuto protagonista imprescindibile della resistenza all’Is: «Non tutto il male viene per nuocere», spiega. «La capacità strategica dell’Is di manovrare insieme armamenti tradizionali e terrorismo suicida, oltre che una guerra mediatica ferocemente raffinata, costringe il mondo civile a riunire le forze». Il perno della nuo- va alleanza è a Erbil, cioè richiede che venga concessa fiducia alla nuova potenza curda. Pur di vincere le ultime resistenze del turco Erdogan, De Mistura ha fatto ricorso a un paragone imbarazzante col genocidio di Srebrenica: «Poiché la battaglia di Kobane ha assunto un rilievo simbolico, era divenuto essenziale che Ankara autorizzasse il passaggio sul suo territorio dei rinforzi peshmerga curdi». Ma l’autorizzazione non sarebbe mai giunta se Erdogan non si fidasse del senso di responsabilità dei leader curdi iracheni, attenti a non dare fiato alle pretese indipendentiste dei confratelli turchi e siriani. È un equilibrio delicatissimo, quello che si sta realizzando in questo Stato di fatto mai dichiarato. Lo si verifica, a sud di Erbil, nella città petrolifera di Kirkuk. Se oggi Kirkuk è entrata a far parte dell’area di influenza curda (catastrofica sarebbe la sua caduta nelle mani dell’Is), si evita di chiamare in causa l’articolo 140 della Costituzione irachena, in base al quale un referendum potrebbe ufficializzarne l’ingresso nella giurisdizioÈ ne del Kurdistan. Si fa ma non si dice. Ciò spiega perché nel vecchio suggestivo caffè Bazco, a ridosso della millenaria cittadella di Erbil, si pronunci malvolentieri il nome di Mustafa Ocalan, il leader del Pkk detenuto da 15 anni nell’isola-prigione turca di Imrali. E ciò nonostante Ocalan stia trasmettendo inviti alla moderazione ai guerriglieri Pkk restii a scendere a patti con Ankara, convinto anche lui della necessità di creare un fronte unito contro i tagliagole Is. Ocalan resta un simbolo amato, e chissà che domani non possa esercitare una funzione benefica di pacificazione dopo tanto sangue versato, ma per il momento va messo in sordina se si vuole realizzare a Kobane la saldatura fra i peshmerga curdi iracheni e i combattenti siriani curdi del Pyd, temuti dalla Turchia per i legami col Pkk. Per coinvolgere davvero la Turchia nella coalizione anti-Is bisogna che l’unica voce ufficiale curda rimanga quella di Erbil. La simpatia che circonda il nazionalismo curdo non può infatti cancellare gli interrogativi sulla potenza con cui oggi occupa la scena. Chi ha vissuto al fianco dei peshmerga la drammatica estate dell’offensiva jihadista, sottolinea la tradizione pluralista e la disponibilità alla convivenza dei curdi. Il direttore dell’Unicef in Iraq, Marzio Babille, protagonista di coraggiose operazioni di soccorso nelle città assediate dai tagliagole, non si stanca di ripeterlo: «Il Kurdistan iracheno è l’unica regione di quest’area insanguinata nella quale vige il rispetto dei diritti umani; e viene praticata una generosa accoglienza dei profughi di ogni confessione religiosa». Ma è vero anche che le nuove generazioni hanno smesso di imparare l’arabo. Il distacco dall’Iraq è un fatto compiuto. È lecito chiedersi se questo nazionalismo che si fa Stato fuori tempo massimo non darà luogo a nuovi accidenti della storia. Dubbio legittimo. Intanto godiamoci questa isola di libertà in mezzo alla barbarie. Il sole del deserto rende abbaglianti i grattacieli di Erbil, i profughi accampati nelle tende dell’Onu li osservano pieni di speranza. 12 del 13/11/14, pag. 6 Tank e truppe russe in Ucraina Kiev: «Pronti a combattere» I bombardieri strategici di Mosca in missione verso le coste americane MOSCA Il governo di Kiev e la Nato non hanno dubbi: nell’Ucraina sudorientale controllata dai ribelli sono tornati gli «omini verdi», soldati in divisa verde senza insegne accompagnati da mezzi blindati e armamenti di ogni tipo. Vale a dire che mentre la tregua regge con grandi difficoltà, i ribelli stanno ricevendo rinforzi dalla Russia, in vista di un’offensiva. Dal Donbass si ribalta l’accusa sul governo legittimo: «Da giorni si preparano a un attacco e continuano a bombardare aree abitate», dicono i rappresentanti dell’autoproclamata repubblica indipendente. Intanto Mosca annuncia ufficialmente che inizierà a pattugliare le coste del Nordamerica, a causa di quello che fa la Nato. «Alimenta le tendenze anti-russe mentre la presenza militare straniera in prossimità delle nostre frontiere sta aumentando», ha detto il ministro della Difesa Sergej Shojgu. Così, ha aggiunto, «dobbiamo assicurare la nostra presenza militare nella parte occidentale dell’Atlantico, in quella orientale del Pacifico e nelle acque dei Caraibi e del Golfo del Messico». Tutt’attorno agli Stati Uniti, per capirci. Una iniziativa che fa seguito ai voli sempre più «provocatori» (la definizione è della Nato) vicino alle coste occidentali e in prossimità di navi e aerei dell’Alleanza. E alla quale si aggiunge la creazione di un gruppo di intervento militare completamente autonomo nella Crimea annessa da poco. In questo clima i nuovi venti di guerra che arrivano dall’Ucraina appaiono sempre più inquietanti. Sembra che i contendenti stiano semplicemente approfittando del cessate il fuoco per prepararsi ai prossimi scontri. Kiev non ha riconosciuto le elezioni tenute il 2 novembre dai separatisti. Così in questi giorni hanno preso a girare voci su una possibile nuova offensiva delle truppe regolari per riconquistare il Donbass. I ribelli dicono che loro stanno semplicemente «raggruppando» le forze in vista di una possibile minaccia e negano che dalla Russia siano arrivati nuovi aiuti. Ma i satelliti Nato, secondo il comandante supremo dell’Alleanza Philip Breedlove, confermano i movimenti: «Non c’è alcun dubbio sul coinvolgimento militare diretto della Russia in Ucraina», ha detto. Mosca, invece, smentisce tutto. Così Kiev si prepara a quella che potrà essere una durissima campagna d’inverno. Le truppe ricevono abiti pesanti ed equipaggiamento nuovo. «Stiamo riposizionando le nostre forze per rispondere alle iniziative dei ribelli», ha spiegato il ministro della Difesa Stepan Poltorak. Inoltre si schierano prime e seconde linee di difesa, mentre si costituiscono unità di riserva. Se non si riuscirà a far prevalere una linea moderata che punti a una composizione concordata del conflitto, è inevitabile che le relazioni tra Russia, Europa e Stati Uniti continuino a peggiorare. Inutile, quindi, parlare di modifica al regime delle sanzioni, visto che anche nell’Unione Europea c’è chi parla invece della necessità di nuove misure per costringere il Cremlino a cambiare strada. In realtà dal Consiglio Esteri Ue che si terrà lunedì a Bruxelles non dovrebbero ancora uscire nuove sanzioni nei confronti della Russia, hanno rivelato fonti dell’Unione Europea. «Le sanzioni esistenti sono dolorose per la Russia e potrebbero essere inasprite solo se l’Unione Europea non avesse altra scelta», ha sottolineato una fonte da Bruxelles. I vincoli finanziari ed economici stanno infatti colpendo duramente la Russia che deve fare i conti anche con prezzi del petrolio e del gas 13 in discesa. Ma, almeno finora, tutto questo non sembra aver convinto Vladimir Putin a rivedere la sua posizione. Fabrizio Dragosei del 13/11/14, pag. 19 Juncker si assolve: non mi dimetto Il capo della Commissione Ue rompe il silenzio sullo scandalo LuxLeaks «Non dipingetemi come amico del grande capitale». I fischi dei deputati DAL NOSTRO INVIATO BRUXELLES Nega responsabilità e conflitti d’interessi. Il presidente della Commissione europea, il lussemburghese Jean-Claude Juncker, ha interrotto una settimana di imbarazzato silenzio per respingere nell’Europarlamento e con i giornalisti il suo coinvolgimento nello scandalo LuxLeaks, che ha rivelato i favoritismi fiscali concessi a centinaia di società straniere quando era premier del Lussemburgo. Juncker si ritiene ancora adeguato e credibile davanti ai 500 milioni di cittadini dell’Ue. Ha promesso di impegnarsi per l’armonizzazione fiscale e per lo scambio automatico di informazioni tra Stati sui tax ruling, le richieste preventive delle società su come verranno tassate dal Lussemburgo e da altri paradisi fiscali disponibili a concedere forti riduzioni in modo riservato. La Germania preme per accelerare. «Non dipingetemi come il miglior amico del grande capitale», ha replicato Juncker, dopo essere stato accolto con fischi e critiche da vari settori dell’Europarlamento di Bruxelles. Ha negato di essere «l’architetto» del regime da paradiso fiscale del suo Granducato, sviluppato nei circa 20 anni da premier e ministro delle Finanze, quando è stato anche il principale frenatore delle iniziative Ue contro i grandi evasori fiscali. Si considera in regola con le leggi comunitarie, nonostante la precedente Commissione europea abbia avviato una procedura su presunti favoritismi fiscali in Lussemburgo (a Fiat Finance e Amazon) in contrasto con la normativa sugli aiuti di Stato. «Se anche dovesse essere accertato che aiuti di Stato sono stati deliberati da qualche istituzione lussemburghese — ha precisato — non vedo perché mi dovrei dimettere». Juncker è stato difeso da Manfred Weber, il leader tedesco del suo europartito Ppe. «È vergognoso che i governi firmino con le imprese accordi segreti che le aiutano a non pagare le tasse», ha invece attaccato il capogruppo degli eurosocialisti Gianni Pittella, che non intende però far saltare la maggioranza con il Ppe e un presidente della Commissione appena insediato. Il leader degli euroliberali, il belga Guy Verhofstadt, ha chiesto di concludere entro dicembre i procedimenti su Fiat e Amazon perché, se quegli accordi risultassero illegali, sarebbe «un problema» per Juncker. Gli euroscettici (Ukip e M5s) hanno chiesto «sospensione o dimissioni». Juncker è atteso al G20 a Brisbane in Australia, dove è in agenda la lotta alla grande evasione fiscale. Ma poi a Bruxelles dovrà considerare le irritazioni popolari soprattutto nei Paesi dove, quando era presidente dei ministri finanziari dell’Eurogruppo, ha sollecitato misure di austerità (con aumenti delle tasse), mentre da premier guidava un paradiso fiscale con rigido segreto bancario a vantaggio di multinazionali, società e ricchi investitori. Inoltre piccole imprese e negozi, sottoposti a pesanti imposizioni fiscali, hanno scoperto con LuxLeaks di essere stati penalizzati nelle concorrenza con multinazionali e grandi catene, che pagano tasse minime grazie ai favoritismi dei vari Lussemburgo, Olanda, Irlanda o Regno Unito. Ivo Caizzi 14 del 13/11/14, pag. 13 India e nascite: non è un paese per donne STERILIZZAZIONI DI STATO di Roberta Zunini Nel subcontinente indiano, dentro un ospedale del Chhattisgarh, uno degli Stati più poveri, cinquanta ragazze lottano ancora contro la setticemia provocata dagli interventi di sterilizzazione eseguiti 4 giorni fa in un campo “s anitario”. Per la fretta con cui i medici avevano smaltito le operazioni di chiusura delle tube - ottimizzare i tempi significa minori costi - e a causa di una carente disinfezione degli strumenti, 13 sono morte nel giro di poche ore, 20 sono in gravi condizioni. SE È PROBABILE che l'inchiesta aperta dalla magistratura su espressa richiesta del premier Narendra Modi spedirà in cella i chirurghi, il mandante continuerà a governare a piede libero. Perché il mandante è lo Stato. L'India, volendo mostrare di essere a tutti gli effetti la più grande democrazia del mondo, non ha mai messo a punto una politica ufficiale di pianificazione delle nascite, la cosiddetta politica del figlio unico di cinese memoria. Ecco perciò che dagli anni 70 il metodo più popolare di controllo delle nascite è stata la sterilizzazione. Indira Gandhi fu la prima a imporla inserendola nel pacchetto di leggi di emergenza. Un escamotage per rassicurare l'enorme ceto povero della temporaneità di una misura ontologicamente impopolare. La maggior parte dei più indigenti ancora oggi ritiene i figli una buona garanzia per aumentare le entrate economiche. In seguito, i vari governi, per pulirsi la coscienza e allo stesso tempo incentivare le donne a presentarsi all'appello, hanno introdotto una “ricompensa” in denaro. Con le 1.400 rupie offerte, circa 18 euro, però anche una famiglia povera, non campa più di un mese. Secondo le stime del 2013, le sterilizzazioni sono state quattro milioni. Cifra giustificata dal fatto che gli indiani sono circa 1 miliardo e 200 milioni e potrebbero diventare 1 miliardo e mezzo entro il 2028, superando i cinesi. A ESSERE sterilizzate sono prevalentemente le donne, troppo deboli socialmente per opporsi alle decisioni dei tanti mariti-padroni. Le morti per questo tipo di interventi sanitari non sono una novità: negli ultimi dieci anni sarebbero state oltre 1.400. Ma sono numeri ufficiali che valgono fino a un certo punto in un Paese dove la corruzione si annida ovunque e le leggi sono tenute a seguirle solo i più deboli e i politici non sono realmente interessati a restringere l'enorme divario sociale. Nonostante il tasso di natalità sia sceso a 2,4 figli per donna, grazie all'accresciuta emancipazione femminile, l'India non ha accennato nemmeno lontanamente a stabilire una data di chiusura del programma di sterilizzazione e nemmeno una diminuzione della quota fissa di donne da sterilizzare annualmente, volente o nolente. Le vittime della sterilizzazione finora sono state sempre strumentalizzate dalle opposizioni, di qualsiasi colore, per denigrare le maggioranze di volta in volta al potere. Il vicepresidente del partito del Congresso, Rahul Gandhi, clamorosamente battuto dai nazionalisti del partito induista alle elezioni di maggio, ne ha subito approfittato per polemizzare, dimenticando che fu proprio sua nonna a introdurre questa normativa. I corpi delle donne in India sono considerati macchine senza anima. Da usare e manomettere a seconda delle esigenze, degli uomini e dello Stato. 15 del 13/11/14, pag. 6 Gli schiavi bulgari delle griffe Angelo Mastrandrea Inchiesta. Nella regione di Petrich salari da fame nell’industria tessile: 129 euro al mese. A Batman, in Turchia, donne kurde e siriane al lavoro dalle 9 alle 24. La denuncia di Clean Clothes: aziende che producono per Adidas, H&M, Hugo Boss e Zara «Ieri sera mi ha chiamato il mio capo per dirmi che c’era un ordine urgente da finire per Zara. Ho lavorato dalle 7 alle 10 di sera per la stessa tariffa dell’orario diurno e ho ricevuto 0,50–0,60 euro all’ora. Non ho un contratto di lavoro e non mi versano i contributi». «Produciamo per marchi famosi come Zara, Levi’s e H&M. Il nostro capo ci dice continuamente che siamo un’azienda europea che opera secondo gli standard europei e i livelli europei di retribuzione. Come sono cinici! Non voglio rischiare la mia già bassa paga e finire in mezzo a una strada. Quindi, preferisco stare zitta e non dire nulla; mi rassegno ad essere sfruttata e umiliata». La regione di Petrich, nella Bulgaria sudorientale, è per l’industria tessile quasi meglio di un paese orientale: qui, ai margini dell’Europa unita, si può produrre a costi più che contenuti e senza neppure la fatica di dover traversare mezzo mondo per vedersi recapitata la merce. Nella regione più povera d’Europa, si calcola che metà della popolazione lavori (in fabbriche di grandi dimensioni, in scantinati o a domicilio) per conto di agenti greci che a loro volta operano per conto di grandi marchi e distributori. E le storie che si ascoltano sono gli sfoghi di chi sa di essere sfruttato ma non ha alternative. Una lavoratrice, occupata da 18 anni in una fabbrica che produce per Tom Tailor e Zara, ha riferito ai ricercatori della campagna Clean Clothes di guadagnare 179 euro netti, comprese cinque ore di straordinario medie al giorno. Un’altra ha raccontato di cucire a domicilio perline sulle camicette di Benetton o Max Mara e di ricevere non più di un euro e mezzo per un’ora e mezza di lavoro. Una donna slovacca ha spiegato ai ricercatori che il suo salario è stato ridotto da 430 euro a 330. Non si tratta di eclatanti eccezioni, bensì della normalità in paesi che sono a pieno titolo nell’Unione europea e in altri che ne hanno fatto richiesta o rimangono ai margini. E in molti casi i committenti sono, col solito meccanismo del lavoro in subappalto, multinazionali dell’abbigliamento. Nel 2013, si legge nel dossier “Stitched Up”, che accende i riflettori sulle condizioni di lavoro nell’industria tessile dell’est Europa ed è stato realizzato per conto della Commissione Ue, Bulgaria, Macedonia e Romania hanno fatto registrare salari minimi inferiori a quelli cinesi, Moldavia e Ucraina (prima della rivolta di piazza Maidan e della guerra civile nel Donbass) sono rimaste sotto l’Indonesia, nell’Anatolia Orientale i salari per i lavoratori dell’abbigliamento sono il 20 per cento al di sotto del minimo per vivere una vita appena dignitosa. Tradotto in cifre, si va dagli 81 euro al mese moldavi ai 129 bulgari. Nel migliore dei casi (in Croazia, Slovacchia e Istanbul) i salari non superano comunque i 300 euro. Si tratta di un fenomeno che riguarda, secondo le stime dei ricercatori di Clean Clothes, almeno tre milioni di persone, che con le famiglie arrivano a nove milioni: solo nelle repubbliche ex sovietiche nel settore tessile sono impiegati 750 mila lavoratori regolari e 350 mila al nero. Quello che emerge dal dossier è che i paesi post-socialisti funzionano come bacino di lavoro a buon mercato per i marchi e i distributori occidentali della moda. A essere impiegate sono nella stragrande maggioranza donne (in Turchia addirittura il 90 per cento) che, come racconta una ricercatrice georgiana, «sono retribuite per quantità di 16 prodotto realizzato e le loro paghe non superano i 104–124 euro al mese», mentre gli uomini lavorano «prevalentemente nel taglio e nella logistica e hanno un salario fisso di 124–145 euro mensili». L’obiettivo della campagna Clean Clothes è arrivare a ottenere almeno il 60 per cento del salario medio nazionale. Ma al momento si tratta di una chimera, sia per la mancanza di una legislazione comune, nei paesi che aderiscono all’Ue, sia per l’assenza totale di protezione legale in Paesi come la Georgia, sia per la deregulation contrattuale e per la difficoltà di controllare la filiera produttiva, cosa che consente a padroni e padroncini di comportarsi nel modo in cui viene raccontato da una lavoratrice rumena con venticinque anni di servizio: «Raggiungo a malapena il minimo salariale, c’è stato un mese in cui non ce l’ho fatta neppure lavorando di sabato. Se dico al capo che qualche volta non raggiungo il minimo se non vengo a lavorare di sabato, lui mi risponde: “E allora vieni di sabato”». La conclusione del gruppo di ricerca è in controtendenza rispetto a quanto il buonsenso potrebbe suggerire: a queste condizioni è meglio la disoccupazione, perché «forme di occupazione con livelli retributivi eccessivamente bassi creano povertà anziché combatterla». Anche perché a guadagnarci, in questi anni, sono state solo le multinazionali che hanno spostato la produzione dove il lavoro costa meno, i sindacati sono più deboli e i controlli meno stringenti. I ricercatori mettono in evidenza come i più noti marchi della moda siano riusciti a guadagnare dalla crisi economica. I profitti per le big companies sono schizzati alle stelle: dagli 11,8 miliardi di fatturato del 2008 ai 16,98 del 2013 per H&M; da 10,41 miliardi del 2008 a 16,72 per Adidas, i cui lavoratori ricevono nove euro al giorno (per dieci ore di lavoro) in Bosnia e cinque (per otto ore di lavoro) in Georgia. Molti, per poter sopravvivere, sono costretti a fare anche un secondo lavoro oppure a dedicarsi all’agricoltura di sussistenza. Ci sono poi alcuni “casi di studio”. Fra il maggio 2013 e il gennaio 2014 sono state intervistate 40 lavoratrici in diverse aziende croate e turche che producono vestiario per conto del marchio Hugo Boss. Le denunce riguardano i salari da fame, l’abuso degli straordinari, la libertà di associazione negata e l’assenza di contrattazione collettiva, la repressione dell’attività sindacale, con molestie, atti intimidatori e tentativi di corruzione, l’obbligo per le donne di non avere gravidanze. I ricercatori sono andati nella città turca di Batman, dove esiste un sistema di subfornitura simile a quello bulgaro di Petrich. In un piccolo laboratorio che impiega una ventina di donne kurde e alcune siriane hanno scoperto condizioni di lavoro al limite della schiavitù: dalle 9 di mattina fino a mezzanotte, senza straordinari e, in caso di ordini urgenti, fino al mattino successivo. Al nero e per 130 euro al mese. Gli ospedali, in caso di interventi gravi, chiedono il pagamento della prestazione. Le lavoratrici la prendono con filosofia: «Cerchiamo di non ammalarci». del 13/11/14, pag. 32 L’Estonia è la prima vera “digital nation” al mondo Qui Internet è un diritto, il 100% delle scuole e degli uffici pubblici ha un computer, l’80% delle famiglie è connesso e gli affari si fanno solo online Una rivoluzione nata anche da uno shock: la prima cyberwar globale. A scatenarla l’ingombrante vicino russo nel 2007. “Ma oggi siamo sicurissimi” Il Paese wi-fi 17 RICCARDO LUNA TALLINN NON è vero che Internet non ha confini e che, come lo spirito santo, è in ogni luogo, basta che ci sia la rete. Il paese di Internet esiste. Sta in Europa, fra la Finlandia e la Russia, in uno Stato che ci sembra piccolo solo perché è quasi disabitato, appena un milione e trecentomila abitanti, come Milano; ma in realtà l’Estonia, di questo stiamo parlando, è più grande della Danimarca e dell’Olanda, solo che qui, a parte qualche città, ci sono chilometri e chilometri di distese di foreste e ghiaccio. È lo scenario di Frozen, il film della Disney che infatti ne ha mutuato i colori della bandiera nazionale: bianco nero e azzurro. Ma la vera bandiera che sventola nelle mappe che ti consegnano nell’aeroporto di Tallinn (dove il wifi è libero, gratuito e velocissimo) o negli hotel del fiabesco centro storico protetto dall’Unesco, è quella di Skype, il servizio di telefonia via Internet inventato da uno svedese e da un finlandese, ma sviluppato qui nel 2003. «Siamo il paese di Skype», è il messaggio che spacciano con una leggera forzatura storica (anche se la prima frase pronunciata su Skype fu in effetti in estone, “Tere, kas sa kuuled mind? Ciao, mi senti?”). Ma la verità è che l’Estonia oggi è molto di più: è il modello di quello che potremmo diventare, la prima vera Digital Nation del mondo. Un posto dove Internet è un diritto, ma in un certo senso anche un dovere; dove quasi tutto avviene online ma i tuoi dati personali sono considerati sacri e puoi sapere immediatamente chi li ha consultati e perché; e una società dove il governo può prendere informazioni basandosi su quello che i cittadini stanno facendo in tempo reale. Il governo dei big data. l’Illuminismo digitale realizzato. Funziona? Partiamo dai numeri di base. Il 100 per cento delle scuole e degli uffici pubblici oggi hanno un computer, l’80 per cento delle famiglie hanno accesso alla rete tramite un pc e il 97 per cento degli affari si fanno online. «Mi chiedo come faccia il rimanente 3 per cento...», dice ironicamente Siret Shutting, la funzionaria del governo che sta presentando le meraviglie di e-Estonia a un gruppo di africani venuti ad imparare. Ogni giorno, dice, c’è almeno una delegazione proveniente da qualche parte del mondo che sbarca a Tallinn per capire come si fa a vivere in una società totalmente digitale. C’è un segreto? Una bacchetta magica? Oppure servono tantissimi soldi? La risposta è spiazzante: «Abbiamo scommesso tutto su Internet perché siamo pochi e perché siamo poveri», sostiene Taavi Kotka, il chief information officer del governo. È un giovane ingegnere con un passato da startupper e una visione molto radicale di come si fanno le cose: «Se una piattaforma informatica non funziona bene, meglio buttarla giù e rifare tutto daccapo piuttosto che metterci una toppa». La svolta digitale di dodici anni fa la spiega così: «Per noi è stata una questione di vita o di morte, di sicurezza nazionale. Non avevamo nessun altro modo per portare i servizi pubblici in posti remoti con pochissime persone. Dovevamo trovare un modo per sostituire i dipendenti pubblici con le macchine. Oppure sparire. Sa, noi abbiamo un vicino piuttosto ingombrante...». La Russia, non c’è bisogno di nominarla. In un paese dove il 40 per cento degli abitanti sono di origine russa, dove l’occupazione sovietica è durata 50 anni, fino al 1991; e dove l’ultimo “morso” del vicino è stato così recente che tutti lo ricordano bene. Era il 2007, il governo aveva deciso di spostare la statua ai caduti sovietici — chiamati “i liberatori di Tallinn” — vicino ad un cimitero, «dove meritava di stare», erano scoppiati violenti disordini per le strade e l’Estonia divenne il primo paese del mondo a subire una cyberwar, un attacco informatico in piena regola. «Ci è servito, oggi siamo sicurissimi, non c’è nulla da hackerare e se un server viene attaccato, lo isoliamo dal sistema e non accade nulla», giura Jaan Priisalu, capo dell’Autorità delle comunicazioni. Il sistema si chiama X-Road ed è il cuore della Digital Nation. È l’infrastruttura alla quale sono attaccati tutti i database, 900 organizzazioni che offrono migliaia di servizi ed erogano centinaia di milioni di transazioni all’anno. È costato 18 molto? Pochissimo: lo hanno sviluppato tutto internamente, «non è vero che l’informatica costa tanto, anzi i soldi creano mostri». Come funziona? Ci si collega con una carta di identità elettronica, come la nostra solo che lì ce l’hanno tutti o quasi davvero (e dal 2007 è sufficiente anche il telefonino con una Sim particolare). Ci si collega ed è tutto a portata di clic. Dal pagamento dei parcheggi pubblici (il servizio più usato) alle banche, dalle firme digitali alla scuola, per arrivare alla sanità e persino al voto. Sì, il voto: alle ultime elezioni 140 mila voti sono stati espressi elettronicamente da cittadini estoni che erano in 105 paesi. Timori di brogli non ne hanno. Anzi, si vantano di aver creato «il primo Stato indipendente dal territorio», nel senso che un cittadino estone ha gli stessi servizi in qualunque posto del mondo si colleghi. «Possono prendere la nostra terra, ma non il nostro Stato» è il motto che dicono guardando ad est da dove non viene mai nulla di buono non solo meteorologicamente. Non è stato facile arrivare fin qui. L’ingegnere capo spiega il processo con la formula “innovation through pain”, innovazione dolorosa. E fa l’esempio della scuola dove da un giorno all’altro sono stati imposti i computer a tutti e se un insegnante non li usava non prendeva lo stipendio. Altro che incentivi. Ma in realtà quella estone è stata davvero una rivoluzione culturale, realizzata con un massiccio programma di alfabetizzazione digitale porta a porta, «contadino per contadino». Nessuno doveva restare escluso. È stata una rivoluzione il cui simbolo è il presidente della Repubblica in persona. Si chiama Toomas Ilves, ha 61 anni, è nato in Svezia da genitori rifugiati, è cresciuto negli Stati Uniti dove ha imparato il linguaggio informatico già a 13 anni, poi ha fatto il giornalista militante in Germania per Radio Free Europe e dopo la liberazione è diventato un diplomatico prima di diventare capo dello Stato. È lui il digital champion estone, il primo tifoso di Internet per tutti. Ora anche in Europa, «pensate che vantaggi avremmo se avessimo un unico mercato digitale con 500 milioni di utenti », dice sapendo che la palla ora è nelle mani di un altro estone, Andrus Ansip, primo ministro per dieci anni e ora al vertice della Unione Europea proprio con questa delega. C’era lui, Ansip, nelle foto che ti mostrano fieri, in occasione della firma digitale del primo trattato internazionale: Ansip era a Tallin; l’altro primo ministro era a Helsinki, era Jirky Katainen, oggi considerato il falco di Bruxelles. I due firmavano un accordo per portare il sistema digitale estone in Finlandia. Fatto. E adesso? Chi sarà il prossimo? Loro sperano nell’Italia. 19 INTERNI del 13/11/14, pag. 1/2 Renzi-Berlusconi, c’è il patto Il premier: “Sì definitivo a marzo, così potrò chiedere a Napolitano di restare” FRANCESCO BEI ROMA . L’accordo c’è. Matteo Renzi è convinto di aver messo al sicuro la sua riforma. «È andata benissimo», si lascia andare appena richiusa la porta dello studio alle spalle di Berlusconi, Letta e Verdini. Il capo del governo ritiene di aver portato a casa il massimo possibile: «Berlusconi ha mollato. Con l’Italicum portiamo a casa uno strumento straordinario di garanzia per il bipartitismo». Un «accordo moroteo », lo definisce scherzando Lorenzo Guerini, perché tiene insieme cose impossibili: lo sbarramento al 3% che voleva Alfano, il premio al partito che voleva Renzi, i 100 capolista bloccati di Berlusconi. Ma a essere davvero «morotea» è soprattutto la scaltrezza con cui Renzi ha intenzione di usare il leader di Forza Italia per rendere nulla l’opposizione interna del Pd. Quella che già ieri sera costruiva le barricate contro i capilista bloccati. Il premier non è disposto infatti a rimettere in discussione un castello così faticosamente messo in piedi. «La legge elettorale ormai è andata — ripete ai suoi — , la portiamo a casa entro marzo anche alla Camera». I tempi in questa partita sono tutto. Aver vincolato Berlusconi all’approvazione dell’Italicum al Senato «entro dicembre» per Renzi significa infatti molto. Vuol dire ad esempio potersi presentare dal capo dello Stato, prima del discorso di fine anno, con la legge a un passo dall’approvazione definitiva. Un capitale di credibilità per chiedere a Napolitano di aspettare ancora qualche settimana, il mese di marzo appunto, prima di dare le dimissioni. In modo da chiudere il secondo mandato al Quirinale potendo mettere la sua firma sulla nuova legge. Certo, i maligni sostengono che tutta questa fretta di Renzi nasconda la volontà di andare al voto anticipato, magari accoppiando regionali e politiche in primavera. Domenica 24 maggio è una data che circola. Il premier tuttavia bolla come «fantasie » queste voci. E a dimostrazione che la sua volontà resta quella di «andare avanti», ha accettato di scrivere la data del 2018 come termine della legislatura nel comunicato congiunto con Berlusconi. «A questo punto ci arriviamo — spiega il capo dell’esecutivo nella riunione dopo il vertice — perché abbiamo strappato il sì di Forza Italia sui tempi». L’interesse dell’ex Cavaliere a non mettersi in mezzo, a non ostacolare il passaggio parlamentare dell’Italicum, ha ovviamente molto a che fare con la partita che si aprirà un attimo dopo l’approvazione della legge elettorale. Quella del nuovo inquilino del Colle. Anche ieri a palazzo Chigi il tema ha fatto capolino nella conversazione. Berlusconi infatti ha chiesto di essere «coinvolto ». «Vorrei che il nostro accordo — ha detto sotto lo sguardo compiaciuto di Gianni Letta — riguardasse non solo la legge ma tutti gli aspetti istituzionali». Ovvero un Nazareno esteso anche al Quirinale. Un metodo che in fondo sta bene a Renzi. Se Berlusconi tiene fede al patto sulla legge elettorale e riesce a trattenere «gli scalmanati di Forza Italia », il capo del governo promette il sospirato coinvolgimento. Come ha detto due giorni fa a Porta a porta, per l’elezione del successore di Napolitano «il metodo che va utilizzato è cercare la maggioranza più ampia possibile». Certo, restano due punti di dissenso non marginali. Il premio di maggioranza al partito anziché alla coalizione e lo sbarramento abbassato a un confortevole 3 per cento. Per la verità non sono due ostacoli della stessa altezza, giacché nel vertice di palazzo Chigi 20 Berlusconi avrebbe fatto capire di non essere contrario a un premio di maggioranza concesso alla lista. «Ma allora — ha obiettato — servirebbe una soglia di sbarramento molto, molto più alta. Magari all’8 per cento, così da costringere tutti i piccoli a stringersi intorno al partito più forte». A Renzi comunque che ci siano questi due scogli non importa poi tanto. «L’essenziale — ripete — è che Forza Italia non si metta in mezzo». Che tolga ossigeno al possibile ostruzionismo grillino, che non faccia mancare il numero legale in aula, che non faccia sponda alla sinistra Pd per cercare di mettere sabbia negli ingranaggi. Né aderire, né sabotare. Questo il premier si aspetta da Berlusconi. Il resto verrà da sé, grazie al patto di maggioranza con Alfano (che ha già commentato positivamente i risultati del summit) e all’intesa siglata con l’ala più disponibile della sinistra, quella di Orfini e Speranza. «Con loro siamo già d’accordo». Resta il grande problema delle preferenze, una bandiera che la sinistra dem non mollerà facilmente. Al segretario la legge piace così com’è, è morta l’idea di scendere a 75 capilista bloccati anziché i 100 di cui si parla nel comunicato. «Quei 100 li possiamo trattare come se fossero candidati uninominali del vecchio Mattarellum, saranno la faccia del Pd», obietta Renzi di fronte alle critiche interne. Quello delle preferenze è oggettivamente il punto debole dell’accordo di ieri, il varco meno difeso da cui potrebbero irrompere gli assedianti. Alfano dovrebbe resistere alla tentazione di votare con la sinistra dem la reintroduzione piena delle preferenze. È prevedibile che saranno sollevate questioni di legittimità costituzionale per delle liste che, per i partiti perdenti, di fatto restano tutte bloccate. Ma i renziani sono sicuri che il ministro dell’Interno non tradirà il patto. «Anche perché, se lo facesse, lo sbarramento per i piccoli risalirebbe immediatamente al 5 per cento». Tutto si tiene. del 13/11/14, pag. 4 Il patto è più forte della legge Andrea Colombo L’accordo c’è, la legge elettorale no. Il Nazareno è vegeto, ma cosa partorirà resta oscuro. Dopo due ore di vertice, con al fianco i soliti Letta e Verdini per gli azzurri, Lotti e Guerini per il Pd, Silvio e Matteo diramano una «nota congiunta» che dire ambigua è niente. Confermano la perfetta sintonia sui principi generali: «Un sistema istituzionale che garantisca la governabilità, un vincitore certo la sera delle elezioni, il superamento del bicameralismo perfetto, il rispetto tra le forze politiche». Solenne impegno, infine, a far proseguire la legislatura sino a «scadenza naturale»: «È una grande opportunità per modernizzare l’Italia». Se non è paccottiglia, poco ci manca. Nel merito, infatti, l’accordo è solo sull’innalzamento della soglia per accedere al premio dal 37 al 40% e sull’introduzione delle preferenze dopo i capolista, che invece restano bloccati. Quest’ultimo capitolo però è tutt’altro che chiuso, perché resta da vedere quanti saranno i collegi: se resteranno 100 o verranno diminuiti per diminuire la quota dei nominati dalle segreterie e alzare quella dei selezionati col voto dagli elettori. Nessuna conclusione, invece, sui due punti dolenti: la soglia di sbarramento, che il vertice di maggioranza avrebbe fissato al 3% e che Berlusconi vuole portare al 5% e il premio di maggioranza, da attribuirsi alla lista secondo don Matteo e alla coalizione per il suo predecessore. Ma niente paura: queste «piccole» divisioni non tolgono nulla al giudizio «positivo» sul «lavoro fin qui svolto», né ostacolano il comune intento di varare l’Italicum al senato entro dicembre e la riforma costituzionale alla camera entro gennaio 2015. Favole. 21 Dall’ottava puntata del Nazareno una cosa sola è emersa forte e chiara: che la legge elettorale non c’è e la si dovrà mettere a punto nella commissione affari costituzionali del Senato. È possibile, anzi probabile, che il signore di Arcore abbia assicurato al socio che il suo sì al premio di lista ci sarà e che quello abbia restituito il favore impegnandosi a portare al 4% la soglia di sbarramento. Ma anche questi sono impegni campati per aria. Ieri la commissione ha nominato la presidente Finocchiaro relatrice unica e fissato il calendario, a partire da martedì prossimo, ma è la stessa relatrice a dire che la velocità dell’iter dipende dalla presenza o meno di un ampio accordo preventivo sui punti chiave. La realtà è opposta. Sulle preferenze la minoranza Pd non potrà che dare battaglia. I «civatiani», una ventina, hanno disertato ieri sera la direzione convocata quasi sui due piedi da Renzi per parlare di lavoro ma anche molto di Italicum. I bersaniani si sono riuniti nel tardo pomeriggio: un vero «vertice di minoranza» che lascia chiaramente intendere la scelta di non arrendersi senza combattere. Sulle preferenze Berlusconi ha promesso ai suoi di tenere durissimo. Sulla sponda opposta l’Ncd già strepita. «Qui tutto si tiene — sbraita Sacconi — e il premio di lista ha come corollario necessario la soglia al 3%». Non basta. L’ex ministro Mauro starebbe per lasciare con altri tre senatori il gruppo dei Popolari per l’Italia aderendo al Gal, il che altererebbe, pur senza ancora rovesciarli, i rapporti di forza in commissione. In conclusione sarà una storia lunga, e si concluderà in contemporanea con l’elezione del nuovo presidente, il vero capitolo segreto del summit di ieri. I due tavoli si incroceranno in un gioco di scambi e minacce dal quale, probabilmente ma non più certamente, verranno fuori un capo dello Stato targato Nazareno e una legge elettorale centrata su premio di lista con soglia di sbarramento al 4%. Il capitolo preferenze, che è in realtà il più spinoso, è invece ancora tutto da definirsi, perché la minoranza Pd non intende in nessun caso andare oltre la proporzione del 70% di eletti con le preferenze. Sempre che Renzi non riesca a convincere Napolitano a rinviare le dimissioni fino a maggio. Il pressing sull’uomo del Colle è fortissimo e non è dovuto solo a beghe interne. È chiaro che il premier preferirebbe affrontare gli esami di primavera europei, meno facilmente sormontabili di quelli del mese scorso, con le spalle coperte da un capo dello stato che l’Europa considera di massima garanzia. Ma il riflesso sulle vicende interne è fortissimo. Se Napolitano rinviasse le dimissioni, i lavori della commissione, cioè la vera scrittura della legge elettorale, si svolgerebbero sotto il ricatto delle elezioni anticipate con il consultellum: dunque in un contesto ben diverso da quello dell’elezione del nuovo presidente. Con Napolitano al suo posto, Renzi avrebbe in mano tutti gli assi. Con Napolitano dimissionario, senza poter minacciare il ricorso alle urne, le carte vincenti sarebbero equamente distribuite tra lui e Berlusconi. del 13/11/14, pag. 1/7 Perché l’ex Cavaliere ha scelto di perdere DI STEFANO FOLLI L’ex Cavaliere accetta una nuova architettura dell’Italicum e ora deve placare il disagio di Fi Sul premio alla lista finale già scritto Renzi riduce Silvio a comprimario A VOLERLO leggere con attenzione, il comunicato finale sottoscritto da Renzi e Berlusconi è più esplicito di quanto sembri. È tutto costruito per spiegare l’accordo politico sulla legge elettorale, di cui addirittura si annuncia il passaggio in aula al Senato entro la 22 fine dell’anno. Dentro la cornice dell’intesa, si lascia un paragrafo sui punti di dissenso: soglia minima e premio alla lista. Per paradosso sono proprio questi due punti a dimostrare che Berlusconi ha accettato quasi tutto, al di là della propaganda del giorno dopo. Di solito infatti le divergenze di merito finiscono per prevalere sulla dichiarata sintonia nel metodo. Ma non in questo caso. E si capisce. Sul «quorum» delle liste minori (il 3 oppure il 4 o magari il 5 per cento) c’è, sì, una differenza fra Renzi e il suo alleato: non tale, tuttavia, da far traballare l’impianto della legge. Sarà facile nelle prossime settimane, meglio se in Parlamento, trovare una sintesi, ossia un compromesso. In fondo non è un caso che lo stesso Alfano si sia dichiarato soddisfatto dell’incontro di Palazzo Chigi. Viceversa, l’altro punto è strategico: non è un «distinguo » di poco conto stabilire se il premio di maggioranza deve essere dato alla lista o alla coalizione. Costituisce anzi lo snodo fondamentale che regge tutta la legge nella nuova versione che Renzi ha offerto, o meglio ha imposto al suo interlocutore. Su questo, se Berlusconi non era d’accordo, c’era solo una risposta possibile: la rottura netta e definitiva. Non è un dettaglio che si aggiusta nell’aula del Senato, bensì la prova che l’intera architettura della legge è stata modificata dal premier-segretario rispetto al vecchio Italicum. Quindi prendere o lasciare. Brunetta nei giorni scorsi aveva colto nel segno quando dichiarava che la legge era stata stravolta e perciò Forza Italia non doveva votarla. Ma Brunetta ha suscitato il disappunto del capo e si capisce perché: la linea del vecchio leader non è mai stata la spaccatura, bensì la sostanziale copertura delle posizioni «renziane». Per cui la spina dorsale della nuova legge (il premio di maggioranza non più alla coalizione bensì al singolo partito vincitore) viene accettata dal centrodestra; e la divergenza strategica, quella che condannerà il gruppo berlusconiano a essere la terza o forse la quarta forza politica del paese, è derubricata al rango di piccolo particolare destinato a essere chiarito nel corso del dibattito in Parlamento. In altre parole, Berlusconi ha detto «sì» e semmai con il comunicato di ieri sera ha cercato di tenere a bada i malumori dei suoi. Come dire: tranquilli, non è finita, il confronto- scontro continua, però voi fidatevi di me. La realtà è un po’ diversa. La giornata ha avuto un vincitore ed è Renzi. Nell’altro accampamento, quello del centrodestra, c’è un comprimario che subisce la personalità del premier e fa di necessità virtù, per una serie di ragioni che non sono tutte attinenti alla politica. Ne deriva che Berlusconi deve farsi piacere una legge elettorale che fino a pochi anni fa avrebbe respinto, essendo la meno adatta a ricompattare il centrodestra. Tutto questo non significa che la nuova norma avrà senz’altro vita facile in Parlamento. Dissidenti ce ne sono nel centrosinistra come nel centrodestra. E i sussulti della minoranza del Pd, contraria ai capilista indicati dalle segreterie dei partiti, lo testimonia. Ma siamo in un campo che permette comunque un certo margine negoziale, sia a Renzi sia a Berlusconi. Ci potranno essere dei ritardi, ma il carro della riforma si è rimesso in moto. E a confermarlo arriva quell’accenno alla revisione costituzionale del Senato da approvare in seconda lettura entro gennaio. Come dire che l’annuncio del prossimo addio di Napolitano è servito a scuotere l’albero dell’inerzia. del 13/11/14, pag. 6 “Ho salvato la faccia e l’unità del partito con il Pd dirò la mia anche sul Quirinale” 23 Il sollievo di Berlusconi: non si vota in primavera E Alfano esulta per lo sbarramento al 3 per cento CARMELO LOPAPA ROMA . «Ho salvato la faccia e anche l’unità di Forza Italia, ma soprattutto restiamo in partita». Quando ha lasciato da poco Palazzo Chigi al fianco di Gianni Letta, Silvio Berlusconi tira un lungo sospiro di sollievo. Lo farà del resto con tutti i dirigenti che alla spicciolata lo chiamano e con quelli con i quali da lì a poco cenerà a Palazzo Grazioli. «Quel che più conta è che abbiamo costretto Renzi a venire allo scoperto, a mettere nero su bianco che non si andrà al voto in primavera», racconta il leader di Forza Italia nel salotto di casa, dando conto dell’o- ra e mezza di confronto. Il riferimento è a quel passaggio della nota congiunta che in cui si scrive che «la legislatura dovrà proseguire fino alla scadenza naturale del 2018». Ma Berlusconi non solo per questo si dice più che soddisfatto, nel tirare le somme. Con Matteo Renzi racconta di aver aperto ufficiosamente il dossier Quirinale, ora che la corsa è aperta con le probabili dimissioni di Giorgio Napolitano nell’arco di alcuni mesi, se non settimane. «Il presidente lo sceglierà assieme a noi, il patto del Nazareno varrà a maggior ragione sulla scelta più delicata» continua l’ex Cavaliere nel racconto ai suoi: «Non dovremmo ritrovarci con un nemico al Colle», niente spauracchio di un presidente eletto da Pd e grillini, fosse Romano Prodi o Stefano Rodotà. Ma ai nomi per ora nemmeno un cenno, spiega uno dei presenti. Il comunicato congiunto Palazzo Chigi-Palazzo Grazioli (ci hanno lavorato Verdini, Letta, Ghedini e la Bergamini dalla sponda forzista) è un capolavoro di equilibrismo, lascia l’impressione che i due leader si siano spalleggiati a vicenda, lanciando messaggi ai rispettivi oppositori interni. Conferma la validità «più che mai» del patto del Nazareno, perfino il timing (entro fine anno la legge elettorale), ma allo stesso tempo lascia in sospeso i nodi più critici: la soglia di sbarramento (che Alfano vuole al 3) e il premio alla lista anziché alla coalizione. Vaghezza non casuale, spiega a cena l’ex premier ai capigruppo Romani e Brunetta e a chi non era presente alla Presidenza del Consiglio. «Alcuni temi sono ancora aperti perché devono rimanere aperti» ha ammiccato. Come dire, la partita anche sulla legge elettorale non è affatto chiusa. Renzi avrebbe giurato che quello di ieri sarebbe stato l’ultimo faccia a faccia tra i due sull’Italicum. Berlusconi non ne è altrettanto convinto. «Matteo, devi capire che non posso cedere ai tuoi diktat sul premio alla lista e sul 3 per cento di sbarramento, magari per fare un favore ad Angelino», è una delle prime considerazioni del leader forzista al premier, all’esordio del vertice. «Neanche io però posso rimangiarmi l’accordo raggiunto con Alfano l’altro giorno», gli avrebbe ribattuto il presidente del Consiglio. E Berlusconi: «Io potrei anche accettare il 3, ma tu devi concedere il premio alla coalizione, anziché alla lista». Per il premier «non se ne parla», sul premio di maggioranza al partito ormai non torna indietro. Muro contro muro? Non proprio. La mediazione raggiunta — stando al successivo racconto di Denis Verdini a colleghi ai parlamentari amici a vertice concluso — salverebbe capre e cavoli: «Per il momento Renzi va avanti con l’ipotesi di Italicum che ha in mente, se ha i numeri al Senato e il Pd compatto al suo fianco, l’approva, noi non ci metteremo di traverso, non faremo barricate». Anche perché un risultato e non di poco conto Forza Italia a fine giornata lo porta a casa. I collegi saranno cento: non saranno i 120 originari, ma neanche i 75 di cui si parlava in queste settimane. Un tecnicismo, all’apparenza, che consentirebbe però a Berlu- sconi di eleggere almeno una settantina di deputati, tutti col meccanismo del capolista bloccato, tutti scelti e selezionati da Arcore. Di questi tempi, un risultato non da poco. Tant’è che a Palazzo Grazioli non cantano vittoria ma poco ci manca. E la lettura finale non esclude a 24 dicembre il ricorso a qualche escamotage in aula, pur di lasciar passare l’Italicum versione “b” frutto del semi-accordo, compresa l’assenza strategica di alcuni senatori forzisti se necessario. È il motivo per il quale a fine serata anche Angelino Alfano, leader Ncd, esulta, convinto di aver strappato una volta per tutte lo sbarramento basso al 3 per cento: «Bene, molto bene, avanti così» sintetizza su Twitter. Ma dentro Forza Italia fedelissimi del leader non danno invece nulla per scontato. Nemmeno che «alla fine si possa raggiungere un accordo più complessivo». È la lettura di chi sostiene che Berlusconi ieri abbia solo chiesto e ottenuto tempo, disponibile in realtà, tra qualche settimana, a cedere sul premio alla lista e ottenere magari un ritocco allo sbarramento. «Se Renzi accetta di salire al 4 o addirittura al 4,5 per cento, anche questo nodo potrebbe tornare in discussione» va ripetendo da tempo l’ottimista responsabile elettorale Ignazio Abrignani. Al momento tuttavia quell’accordo per innalzare la soglia non c’è, il documento finale dice altro. E Berlusconi si lascia così la porta aperta per contrattare ancora un’alleanza (sempre più improbabile) con Alfano. Raffaele Fitto — l’oppositore interno che ha ottenuto il riconoscimento del ruolo e della linea anti-Renzi in economia — spiega al telefono ai suoi da Bruxelles che «Berlusconi ha tenuto la schiena dritta, non ha accettato imposizioni, possiamo ritenerci soddisfatti». Cosa accadrà in commissione e in aula poi si vedrà nelle prossime settimane. del 13/11/14, pag. 13 Il Cavaliere di fronte al bivio: un nuovo predellino o la ridotta Le partite che Renzi vuol chiudere per togliersi il marchio dell’«annuncite» ROMA La prova decisiva sarà il passaggio parlamentare, e fino ad allora nulla potrà darsi per scontato. Ma se davvero la legge elettorale andrà in porto secondo lo schema e la tempistica voluti da Renzi, non c’è dubbio che da quel momento sarà finita un’epoca, e che la Seconda Repubblica finirà in soffitta. Sarà un passaggio di sistema, insomma, che va oltre il dettaglio del vertice di ieri tra il premier e il Cavaliere. Era chiaro come sarebbe andata a finire, era impossibile per Berlusconi evitare la sconfitta: il patto del Nazareno si diluisce nell’intesa siglata da Renzi e Alfano, senza le variazioni richieste dal Cavaliere. Se il patto formalmente regge è per reciproca convenienza: per un verso il segretario democratico toglie così margini a quanti nel Pd mirano a sabotare il suo progetto riformatore; per l’altro verso il leader di Forza Italia resta a quel tavolo dove — Renzi gliel’ha garantito — sarà «a pieno titolo» quando dovrà scegliersi il futuro capo dello Stato. Altro non poteva ottenere Berlusconi, ma tanto gli basta. Quantomeno per garantirsi un ruolo nella sfida per il Colle, ruolo che — senza accordi sugli equilibri interni di partito con Fitto — potrebbe perdere quando si inizierà a votare a scrutinio segreto. È sicuro che il tema del successore di Napolitano sia stato affrontato durante il colloquio, ma non si sa se — nel corso della conversazione — Renzi ha ripetuto la battuta con cui di solito introduce l’argomento: «Dovete capirmi, mi trovo assediato. Ho già tutto il vecchio politburo del mio partito che si sente candidato in pectore per la presidenza della Repubblica». E giù, a quel punto, con la lista delle telefonate a cui deve rispondere: dalla A di Amato alla V di Veltroni, senza che manchi mai Casini. Ovviamente il premier vuole finire i suoi «compiti» prima che la partita del Quirinale abbia inizio. E non è solo per scongiurare pericolosi incroci tra temi diversi ed evitare imboscate. 25 Il fatto è che Renzi vuol togliersi di dosso «l’etichetta dell’annuncite che mi hanno appiccicato», in Italia e in Europa, se è vero che il capogruppo del Ppe Weber lo definisce un «chiacchierone». Perciò, oltre ad aver stretto i tempi sulla delega fiscale e sul Jobs act, vuole chiudere sull’Italicum e sulla modifica del Senato, perché — a suo modo di vedere — «varare le riforme, anche quelle non economiche, nei tempi programmati, fa crescere la credibilità dell’Italia». I problemi del premier sono altri, e più del vertice serale con Berlusconi è stato complicato l’incontro mattutino con Padoan, a causa di quei numeri che non lo fanno star sereno: l’Italia non riparte e le previsioni non sono incoraggianti se persino la Germania — come gli hanno spiegato i vertici dell’Economia — nelle previsioni del prossimo anno rischia una crescita vicina allo zero. Per certi versi, quindi, il colloquio con il capo forzista è stato defatigante: preso atto che sulla legge elettorale il Cavaliere — pur volendo — non poteva accettare ufficialmente il premio di maggioranza alla lista «altrimenti tornerei ad avere problemi nel partito», e avuto dal suo interlocutore «l’impegno formale» che «non faremo ostruzionismo né faremo imboscate in Parlamento», Renzi ha chiuso la pratica. Un’altra pratica si apre invece per Berlusconi, posto ora davanti a un bivio. Se il nuovo modello di Italicum diverrà legge, dovrà decidere come intervenire per dare un futuro al centrodestra nel nuovo assetto di sistema. Si vedrà se le elezioni saranno davvero nel 2018. In ogni caso, quando arriverà il tempo delle urne, cercherà un accordo tattico con la Lega per varare un listone unico? E cosa e quanto a quel punto dovrebbe cedere al «populista» Salvini? Oppure, per giocare d’anticipo e mantenere il ruolo del federatore, salirà su un nuovo predellino per ricomporre ciò che è stato diviso con la fine del Pdl, proponendosi come padre nobile di un nuovo inizio? Certo, il Cavaliere ha un’altra opzione: tenere viva Forza Italia e misurare ancora la sua capacità di attrarre consenso. Ma nel ’94 il Ppi prese il 17% alle elezioni, prima di tramontare insieme alla Prima Repubblica. del 13/11/14, pag. 4 La minoranza Pd pronta a dire tre no Vertice con D’Alema-Bersani: ora in trincea contro l’Italicum, Jobs Act e legge di Stabilità Ma il premier vede per un’ora il capogruppo Speranza: “Ho un patto con lui, i giovani sono con me” GOFFREDO DE MARCHIS ROMA . Darsi un’organizzazione per contrastare Matteo Renzi e le sue riforme, dalla legge elettorale al Jobs Act. La minoranza del Pd prova a uscire dalla sindrome Armata Brancaleone, ampiamente dimostrata con i voti in ordine sparso nei gruppi parlamentari, nelle direzioni, e che non hanno fatto altro che rafforzare il premiersegretario. Dunque, una riunione prima della direzione notturna finisce con una decisione univoca: non si deve votare la relazione di Renzi e se si vota bisogna non partecipare. Perché ora è il momento di dire dei “no” solidi: no al nuovo patto del Nazareno, no alla riforma del lavoro, no alla legge di stabilità. Renzi però è convinto di aver già rotto questo fronte sempre fragile. «Ho fatto l’accordo con Orfini», racconta ai suoi collaboratori. Ma questa non è una novità. «E ho stretto un patto con Roberto Speranza », aggiunge il premier. Come dire: la vecchia guardia faccia quello che vuole, il capofila dei giovani all’interno della pattuglia degli oppositori sta dalla mia parte. Questo tassello del puzzle, raccontano a Palazzo Chigi, è 26 stato aggiunto durante un colloquio di un’ora tra Speranza e Renzi, successivo al vertice con Berlusconi. In quel colloquio si è anche deciso di non votare in direzione. Una mano tesa di Renzi a tutti coloro che non vogliono seguire gli oltranzisti della sinistra. Sono passaggi tuttavia che un pezzo della minoranza dà per scontati. Il capogruppo del Pd alla Camera Speranza viene ormai considerato perso alla causa dell’antirenzismo. Un gruppo di ribelli prova invece a darsi un proprio coordinamento politico e cerca di immaginare i numeri per un’opposizione al governo condotta dentro al Pd. All’ora di pranzo, ieri, si sono visti Stefano Fassina, Gianni Cuperlo, Pippo Civati, Francesco Boccia, Alfredo D’Attorre e alcuni bindiani. Quante truppe hanno nei due rami del Parlamento è difficile da stabilire, soprattutto perché Renzi ha dimostrato notevoli doti di negoziatore ed è capace di dividere gli avversari. Ma quello che conta, nella composizione del tavolo, sono i nomi che mancano ancora più di quelli presenti. È stata fatta una scrematura rispetto a pontieri, mediatori, ambasciatori che vengono considerati, sostanzialmente, renziani dell’ultima ora o dirigenti che giocano in proprio. «Noi, al contrario, dobbiamo fare squadra — spiega Civati —. Superando le correnti, superando la vecchia guardia e facendo le battaglie sui contenuti dei provvedimenti non sulle appartenenze ». Quindi accanto agli esponenti della sinistra Pd siedono adesso anche ex democristiani come Bindi o ex prodiani come Boccia. Questa struttura che cerca di scrollarsi di dosso l’ombra dei “vecchi” invera l’incubo di Renzi e dei suoi fedelissimi a cominciare da Luca Lotti: un Vietnam parlamentare guidato dalla vera opposizione, quella del Pd. E lo convince a rimanere agganciato a Silvio Berlusconi, in funzione di contrappeso. Però la minoranza può farsi del male da sola. Renzi infatti ha sottolineato con soddisfazione la presenza di Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema alla riunione allargata della sinistra democratica. Come se la loro presenza indebolisse da sola le sfide dei ribelli. Sia l’ex segretario sia l’ex premier sono andati all’attacco di Renzi, sconfessando in blocco la legge elettorale e rifiutando il compromesso delle preferenze con i capolista bloccati. Il sospetto rimane sempre lo stesso: che l’inquilino di Palazzo Chigi sia intenzionato ad andare a votare in primavera. Il banco di prova sulla tenuta del Pd e del gruppo parlamentare di Montecitorio si avrà nelle prossime ore. Sul Jobs Act, all’esame della commissione Lavoro, i mediatori propongono un emendamento per salvare nell’articolo 18 i licenziamenti disciplinari. Sarebbe un passo avanti. Ma il premier si fida poco. E anche ieri in direzione ha fatto capire di avere in serbo l’arma della fiducia. «Si può chiudere rapidamente con due alternative: procedere con la fiducia o garantire l’entrata in vigore dal primo gennaio anche con modifiche da verificare ». del 13/11/14, pag. 1 (inserto) Il metapartito della nazione renziana Michele Prospero Da Gramsci a Renzi . Inedita perfetta simbiosi col padronato. Sulle macerie della rappresentanza, affiora il metapartito che assorbe tutte le tendenze. Il trasformismo diventa una pratica normale, i deputati subiscono il richiamo della classe sociale che dirige le operazioni fondamentali Con le prove generali di partito della nazione, si marcia spediti verso il partito unico. Nel senso gramsciano del termine ovviamente, e cioè conservando intatti i consueti riti delle 27 prove elettorali. Per offrire una risposta organica alla crisi, si legge nei Quaderni, «il passaggio delle truppe di molti partiti sotto la bandiera di un partito unico che meglio rappresenta e riassume i bisogni dell’intera classe è un fenomeno organico e normale». E poiché a scuotere l’Italia è una di quelle crisi che per Gramsci «talvolta si prolunga per decine di anni», un tentativo estremo di darle una direzione nel segno della stabilizzazione moderata postula il ricorso al partito unico che raduna i vari spezzoni dei ceti politici postideologici. Così si spiegano i patti del Nazareno, le aggregazioni in corso attorno al carro del vincitore con i transfughi di Sel e dei cespugli centristi, la scomparsa di ogni traccia dell’opposizione parlamentare. Emblematica è soprattutto la vicenda di Scelta civica. Nata sulla base di un esplicito disegno dei settori dell’economia, della finanza e dei media di ordinare una rivoluzione passiva per bloccare la resistibile ascesa di Bersani e Vendola, le truppe di Monti sono ora in procinto di entrare, con l’onore delle armi, nelle file del partito che hanno contribuito a distruggere. Con il renzismo trionfante, i frammenti delle formazioni politiche, a stento sopravvissute come simulacri, sentono una profonda convergenza di intenti. È normale che, sulle macerie delle funzioni di rappresentanza sociale ormai definitivamente esplose, affiori l’immagine di un metapartito che assorbe tutte le tendenze, le metabolizza senza traumi in un indistinto calderone. Cadute le fratture sociali come fondamento delle organizzazioni politiche, il trasformismo diventa una pratica normale entro le aule parlamentari, dove operano deputati che subiscono il richiamo di una medesima classe sociale che dirige le operazioni fondamentali. Relegato il lavoro al di fuori dei giochi politici che contano, il nuovo potere unificato è così certo della sua raggiunta egemonia che, schiacciate le resistenze interne, dibatte solo sulla opportunità di sostituire i manganelli, che si sono esercitati sui crani nudi degli operai di Terni, con i meno sanguinari idranti. La questione sociale viene così scacciata dalle istituzioni e ricondotta a efficaci misure di polizia. Sicuro del successo, e certo di vivere senza l’incubo di possibili alternative ravvicinate, il governo da Brescia lancia il segnale eloquente di una totale condivisione della ideologia della confindustria (e delle tecnocrazie europee che esigono lo scalpo del sindacato del conflitto). Il contenuto di classe dell’esecutivo, sinora ben camuffato dalla camicia bianca, dagli infiniti travestimenti ludici del leader che vaga per le scolaresche e dà il cinque ai bambini per strada, ora può affiorare in un modo indisturbato. Senza fastidiosi infingimenti, il governo criminalizza il conflitto, espunge dal vocabolario pubblico la parola indesiderata “padroni”, condanna il mondo del lavoro alla gogna e lo dipinge quale ceto di privilegiati che bloccano la modernizzazione e spingono verso il declino. Il peculiare amalgama del renzismo, e cioè carezze ai poteri forti da sempre suoi amici e recita a soggetto sullo spartito dell’antipolitica, è saltato. Il volto della confindustria che si accanisce su battaglie identitarie conferisce al governo un marchio peculiare. L’universo padronale pare ancora forte per orientare, incidere, condizionare ma non è così potente da garantire uno sfondamento elettorale. Consapevole dei numeri elettorali scarsi a disposizione dei poteri forti, neppure Berlusconi aveva mai ridotto la sua coalizione alla ragnatela confindustriale e al comparto finanziario preoccupandosi anzi di penetrare nei mondi periferici con manifesti contro le élite, con simbologie populistiche. Ora Renzi tenta quello che a nessuno è mai riuscito, cioè un governo e un partito unico in perfetta simbiosi con ciò che resta del grande padronato italiano. L’azzardo scaturisce dalla percezione forte che, dopo la sua scalata celere ai vertici del potere, nel ceto politico in via di completa omologazione culturale nessuno gli farà scherzi di cattivo gusto. Tranquillo nel palazzo, e convinto di aver addormentato anche la base con la paternalistica concessione di poter tenere ancora le feste dell’Unità, Renzi decide di 28 correre il rischio dello scontro aperto con la Cgil. Lo fa per tentare un prosciugamento definitivo delle risorse elettorali della destra in affanno, e per ingraziarsi i favori di Bruxelles in vista di una qualche flessibilità nei conti. Accantona perciò la seduzione populista e ingaggia delle battaglie altamente simboliche per catturare il consenso moderato e cancellare in maniera irreversibile il ricordo della vecchia sinistra. Senza più contare in efficaci sponde politiche, nel clima contagioso del grande partito unico della nazione che in nome del bene comune isola i disobbedienti, il lavoro rimane l’unico focolaio di resistenza. Privo di ogni rappresentanza politica riconoscibile, lo scontro sociale ripiega nella piazza e la frequenta come un terreno obbligato. Si svolge così una partita inedita, che il sociale, dinanzi al governo che denuncia la trattativa come un misfatto, è costretto a giocare al di fuori delle istituzioni. Non può sottrarsi alla prova di forza, anche se attorno al lavoro risuona il triste rumore della sua solitudine politica. del 13/11/14, pag. 9 Sicilia, trasformismo da record: uno su due cambia partito EMANUELE LAURIA PALERMO . L’ultima sigla è nata proprio ieri: Sicilia democratica, nuova insegna della maggioranza che sostiene il governatore Rosario Crocetta. L’hanno abbracciata con entusiasmo — su input del capopopolo catanese Lino Leanza — sei deputati: tre dei quali eletti nelle file dell’opposizione. È il tredicesimo gruppo parlamentare di un’Assemblea regionale che ha battuto ogni record di trasformismo. Sono già 43 su 90, quasi uno su due, i deputati regionali che hanno cambiato casacca in due anni, ovvero dall’inizio della legislatura. È un fenomeno inarrestabile, quello della transumanza politica all’interno dell’antico e glorioso Palazzo dei Normanni: sono 62, in tutto, gli spostamenti, perché non sono pochi i deputati che ne hanno fatto più di uno. In media, da quando è in vidella ta il parlamento siciliano nella sua attuale composizione, una volta ogni dieci giorni un “onorevole” ha fatto i bagagli ed è passato in un altro partito. Con contorsioni inimmaginabili. La più irrequieta Alice Anselmo, che oggi milita nel movimento “Articolo 4” dopo essere stata eletta nel listino del presidente Crocetta, essersi iscritta al gruppo “Territorio”, avere abbracciato i “Democratici riformisti” e avere sposato l’Udc. E cosa dire dell’ex sindaco forzista di Ragusa Nello Dipasquale che, folgorato dall’ex comunista Crocetta, ha militato finora in tre gruppi diversi e si appresta ad approdare a quello dei democratici? Un percorso che si conclude solo due anni dopo un mitico comizio in piazza a Niscemi, ancora visibile su Youtube, in cui Dipasquale, lo stesso Dipasquale, urlava a squarciagola «Questo Pd mi fa schifo». Per carità, la Anselmo e Dipasquale sono in buona compagnia, in un’Ars in cui la frantumazione politica ha prodotto ben tre gruppi di Forza Italia, e in cui può accadere che Salvatore Lo Giudice, un candidato eletto nella lista dell’ex Msi e An Nello Musumeci, passi nella coalizione del “rosso” Crocetta ancora prima della seduta inaugurale. Saltano le appartenenze, le ideologie. Solo i gruppi di Pd e M5S hanno mantenuto, quasi per intero, la loro originaria consistenza. Con qualche clamorosa eccezione: l’ex pentastellato Antonio Venturino, che dell’Ars è vicepresidente, si è rifugiato sotto il garofano del Psi. Da Grillo a uno degli ultimi simboli della Prima Repubblica, un salto all’indietro da brividi. 29 In 14, d’altronde, hanno cambiato non solo partito ma schieramento. La testimonianza di una instabilità che non teme confronti. Né con il passato stessa Ars — nella scorsa legislatura lunga quasi 5 anni furono “appena” 34 i deputati saltafosso — né con il Parlamento: alla Camera, finora, la media dei cambi di casacca è stata di uno su 10 deputati, a Palazzo Madama di uno su quattro senatori. «Tutto ciò è amorale», tuona Musumeci, che è presidente della commissione regionale antimafia. E che, per frenare questo frenetico via vai da un gruppo all’altro dell’Assemblea siciliana, ha pensato addirittura a disincentivi economici: una “multa” da 500 euro mensili ai gruppi che accolgono i transfughi. Ma il codice etico di Musumeci non è ancora stato esaminato neppure in commissione. Qualcuno ha obiettato che con questa norma, forse, si viola la libertà di mandato che la Costituzione riconosce agli eletti. E allora la transumanza continua. del 13/11/14, pag. 11 IL CONSIGLIERE DELLA CIA INDAGATO PER IL DELITTO MORO “CONCORSO IN OMICIDIO” PER L’AMERICANO DISTACCATO AL VIMINALE NEL 1978 IL PROCURATORE IN PARLAMENTO: “IN VIA FANI 25/26 TIRATORI E 007 ITALIANI E NON” di Rita Di Giovacchino Sul palcoscenico di via Fani c’erano i nostri servizi segreti e quelli di Paesi stranieri interessati a creare caos in Italia, l’uccisione di Aldo Moro non fu un omicidio legato soltanto alle Brigate Rosse”. Cia, Mossad e Kgb, un unica trama per timore che il “compromesso storico” sostenuto dal presidente Dc potesse rompere gli equilibri tra Est ed Ovest. Parola del procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma, Luigi Ciampoli, ascoltato ieri dalla nuova commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro. Ciampoli ha chiesto “un procedimento formale” a carico di Steve Pieczenik, all’epoca funzionario del Dipartimento di Stato Usa, per concorso nell’omicidio del presidente Dc. L’“americano”, nei 53 giorni del sequestro, sedeva al tavolo del Comitato di crisi come inviato informale Usa, di fatto consulente del ministro dell’In terno Francesco Cossiga. LE AFFERMAZIONI del magistrato sembrano destinate a riscrivere la vicenda che si chiuse il 9 maggio 1978 con il ritrovamento in via Caetani del corpo dello statista assassinato dalle Br. O almeno così finora cinque processi e cinque commissioni parlamentari avevano certificato. A maggio Ciampoli aveva avocato l’inchiesta nata da una lettera anonima in cui si affermava che, a bordo della moto Honda avvistata all’angolo con via Stresa, c’erano due agenti del Sismi. “Sono trascorsi 36 anni, i morti come si sa non parlano, e ho dovuto chiedere l'archiviazione”, ha dichiarato a Il Fatto Quotidiano che riaprì il caso Pieczenik con un’intervista in cui lo stesso confermava che il Sismi in via Fani c’era. Psichiatra, esperto di terrorismo, nella sua inquietante ambiguità di “commissario straordinario” viene ora indicato come colui che venne in Italia per far uccidere Moro. Dopo aver rivisto l’intervista concessa a Minoli per Rai Storia Ciampoli dice: “La sua autoreferenzialità era esasperata, schizofrenica, a Minoli disse che Moro doveva morire, ha fatto in modo che le Brigate rosse si convincessero, maturassero o rafforzassero l’idea di ucciderlo”. Qualcuno ancora vivo però c’è, ad esempio l’ispettore Enrico Rossi, di 30 stanza alla Digos di Torino fino allo scorso anno, che era riuscito a identificare l’uo - mo che guidava la moto prima che gli atti, trasferiti da Torino a Roma, si arenassero. Per lui l’uomo con il mitra in mano era Antonio Fissore, originario di Cuneo, morto d’infarto a Firenze nell’agosto 2012 a 67 anni. Nella cantina della sua ex moglie erano state sequestrate due pistole, l’edizione straordinaria di Repubblica del 17 marzo 1978, e una lettera di Franco Mazzola, sottosegretario ai servizi durante il caso Moro, depositario di molti segreti. Sospetti, suggestioni che hanno indotto Ciampoli a una rilettura di molte vicende, alcune note e sottovalutate, altre frutto delle indagini condotte nel corso dell’estate con il contributo dell'aggiunto Otello Lupacchini e di altri magistrati come Imposimato e Marini che a lungo si sono occupati del caso Moro. Riprende quota la pista internazionale che si sarebbe inserita nell’operazione condotta dalle Br per pilotarne l’esito finale. “I brigatisti non erano nove e neppure 12, ma almeno 25 o 26, e quelli che hanno sparato avevano un’elevata preparazione militare, le armi usate erano in dotazione a forze non convenzionali”. Affermazione grave, dedotta dai bossoli ritrovati a terra: dei 96 colpi sparati, sul campo ne furono raccolti 48, di questi 34 non erano numerati come quelli in uso ad apparati Nato. La scoperta risale al 1979, la riferì il pm Antonio Marini, nessuno capì, almeno fino al 1990 quando con Andreotti il superservizio segreto assunse i connotati dell’organizzazione clandestina Gladio. ED ECCO CHE sulla scena di via Fani prende corpo la figura del colonnello Camillo Guglielmi, che interrogato dal presidente Santiapichi affermò di essersi trovato lì per un invito a colazione di un generale che lo smentì. Chi era Gugliemi? Un ufficiale del Sismi, in servizio alla base Nato di Capo Marrargiu in Sardegna per addestrare i gladiatori civili e militari in operazione di “sbarco e assalto”. “Se fosse ancora vivo avrei chiesto che fosse indagato per concorso in strage”, dice Ciampoli. Non era lì per prelevare la borsa di Moro, come ipotizzò il regista Ferrara. Pezzi di un puzzle immaginario entrano in un’in - chiesta. Al maresciallo Leonardi spararono da destra, ma a destra i brigatisti non c’erano e a Morucci s’inceppò il mitra. Ciampoli ha riascoltato il br Raimondo Etro, ma anche il regista Renzo Martinelli del film Piazza delle cinque Lune. Racconta Ciampoli: “Mentre girava il film Martinelli fu convocato da Gelli a villa Wanda. Il capo della P2 voleva scoprire cosa avesse scoperto, il regista gli chiese se poteva aiutarlo. Ma lui rispose: per scoprire la verità devono passare 100 anni”. Ne sono passati soltanto 36 del 13/11/14, pag. 4 De Magistris, Alfano impugna il reintegro al Consiglio di Stato Adriana Pollice Sindaco non più sospeso ma appeso, questa è la nuova definizione che Luigi de Magistris ha coniato ieri per definire il suo status di primo cittadino di Napoli in attesa della decisione del Consiglio di Stato, prevista per il 20 novembre: sospeso dal prefetto il primo ottobre in applicazione della legge Severino, dopo la condanna in primo grado a 15 mesi per il processo Why not; reintegrato il 30 dal Tar campano, che ha rimandato la norma alla Corte costituzionale; appeso al ricorso fatto dall’associazione Movimento difesa del cittadino contro la sospensiva della sospensione decisa dal Tar, a cui si è aggiunto il ricorso del governo inoltrato dal prefetto e dal ministro dell’Interno. Soddisfatto il legale dell’associazione, Gianluigi Pellegrino: «È stato necessario il nostro ricorso per indurre ministero e prefettura a fare ciò che avrebbero dovuto annunciare da subito: il ricorso al 31 Consiglio di stato perché venga ripristinata l’applicazione uguale per tutti e su tutto il territorio nazionale della legge Severino, già applicata in decine di casi e ritenuta legittima dai giudici amministrativi e ordinari». Il procedimento per verificare la legittimità costituzionale di due articoli della Severino (10 e 11) intanto procede presso la Consulta. «Tutto è legittimo ma trovo un po’ curioso questo appello perché mira esclusivamente a togliere il sindaco dalla poltrona. Mi fa assomigliare a un sacco di patate» commentava ironico de Magistris, durante la prima seduta del consiglio comunale da quando è rientrato nelle sue funzioni. La battaglia legale prosegue anche al tribunale di Roma, dove il sindaco ha presentato appello contro la condanna per abuso d’ufficio per il processo Why not. Sul tema della legge Severino è intervenuto anche il nuovo presidente della Corte costituzionale, Alessandro Criscuolo: «Credo sia meglio che il parlamento intervenga prima del giudice. Una questione di legittimità costituzionale è indice di un difetto di legittimità di una norma di legge, quindi, se il parlamento interviene credo sia un fatto positivo. Sulla retroattività delle norme poi vi è una ricca giurisprudenza della corte». Criscuolo è stato difensore di de Magistris quando, pm a Catanzaro, finì sotto procedimento disciplinare al Csm per la conduzione delle inchieste Why not, Poseidone e Toghe lucane. La battaglia tra il governo e il sindaco di Napoli via carta bollata prosegue anche sul fronte Bagnoli, dove però è de Magistris che minaccia il premier Renzi: «Ho dato mandato formale all’avvocatura del comune di esperire tutte le azioni presso la regione, la Corte costituzionale, la giustizia amministrativa e quella ordinaria contro la norma. Impugneremo lo Sblocca Italia, faremo tutte le azioni giuridiche e politiche necessarie contro una legge incostituzionale, che espropria la città e apre la strada a stagioni buie». Fino a esortare il presidente del Consiglio: «Convoca il sindaco e il consiglio comunale, sfidaci sul terreno dell’ordinarietà e se non saremo bravi e capaci sarai tu a dirlo. Su bonifica e risarcimento abbiamo fatto uno degli atti più importanti, che non hanno fatto il sindaco di Taranto per l’Ilva, nè Venezia o Termini Imerese». Il riferimento è all’ordinanza del dicembre 2013, con la quale è stato intimato a Fintecna la rimozione della colmata e alla Cementir di Caltagirone la messa in sicurezza dell’ex cementificio. 32 LEGALITA’DEMOCRATICA del 13/11/14, pag. 21 “Così decidemmo di uccidere Di Matteo” SALVO PALAZZOLO Summit rivelato da un boss: “Si discusse di tritolo a Palermo o bazooka a Roma” Tensione in procura sul rischio attentato. Agueci lo smentisce, poi si corregge PALERMO . Un mafioso di rango, da qualche mese detenuto, ha svelato il progetto di attentato nei confronti del sostituto procuratore Nino Di Matteo. È lui il confidente d’eccezione che nei giorni scorsi ha fatto scattare l’ultima allerta nell’antimafia, rivelata ieri da Repubblica. Ha spiegato di volersi togliere un peso dalla coscienza. Perché anche lui è stato parte di quel progetto, così dice. E parla di un summit fra i boss più in vista di Cosa nostra, in cui si sarebbe discusso delle modalità operative dell’attentato. Secondo la fonte, i mafiosi avrebbero preso in considerazione due opzioni per colpire Di Matteo: esplosivo a Palermo o bazooka e kalashnikov a Roma. Adesso, i magistrati hanno chiesto agli investigatori della Dia di approfondire tutti gli spunti offerti dalle nuove inaspettate dichiarazioni. Non è facile, soprattutto perché il boss continua a rifiutare qualsiasi prospettiva di collaborazione ufmagistrato ficiale con la giustizia. E, dunque, non vuole svelare i nomi dei suoi complici. Qualche indicazione arriva però dall’ultimo pentito di mafia, Antonino Zarcone: ha spiegato che «già nel 2008 era arrivato un ordine di morte dal carcere per Di Matteo, ma il capomafia di Bagheria Pino Scaduto si rifiutò di eseguire l’attentato nel suo territorio, dove il pm trascorreva le vacanze». Non usa mezzi termini il procuratore aggiunto Vittorio Teresi: «Abbiamo paura, sì. Lo ammetto. E siamo preoccupati. Si dice che il tritolo sia pronto, mettetevi nei nostri panni. Queste notizie creano tensione e ansia anche nei nostri familiari. Ma raccogliamo la sfida a continuare ». Il coordinatore del pool trattativa si dice «soddisfatto» per l’attenzione manifestata dal Viminale nei confronti dell’ultima allerta sicurezza: a Palermo, sono arrivati gli esperti delle teste di cuoio di polizia e carabinieri. Teresi parla però di «isolamento » dei pm del pool trattativa, e chiama in causa «saggi e commentatori ». Dice: «Veniamo dipinti come dei pazzi visionari. Le dichiarazioni di taluni opinion makers ci isolano. Io accetto tutte le critiche, ma devono essere in buona fede e informate». Il se la prende con l’ex componente del pool antimafia, Giuseppe Di Lello, anche lui poco tenero con il processo di Palermo: «Forse, non legge il codice da tanto tempo», dice Teresi. Ma le critiche al pool arrivano anche da altri pm di Palermo. «Pure questo clima interno mi preoccupa», aggiunge Teresi, che auspica al più presto la nomina del procuratore capo e invita il Csm a scegliere un candidato che condivida fini e strumenti del processo trattativa. Intanto, in procura, continua ad esserci tensione attorno ai pm del caso Stato-mafia. Ogni questione che li riguarda diventa terreno di divisioni piccole e grandi. L’ultima polemica è proprio sul rischio attentato per Di Matteo. Il procuratore reggente Leonardo Agueci prima lo smentisce, poi qualche ora dopo corregge: «Rischio attuale e intenso, lo seguiamo con grande apprensione e determinazione». A Di Matteo è arrivata la solidarietà del presidente della commissione antimafia Bindi e del Csm. Da New York, il ministro della Giustizia Orlando ha telefonato al procuratore Scarpinato per verificare lo stato delle misure di sicurezza attorno ai magistrati di Palermo. 33 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 13/11/14, pag. 22 Roma. “Fuori gli stranieri”, poi botte e scontri nella borgata di Tor Sapienza È caccia all’immigrato (un ferito) dopo due notti di assalti al centro profughi e alla polizia: bombe carta razzismo, degrado e “Viva il duce” CORRADO ZUNINO ROMA . Francesco, largo, rasato, cammina veloce sotto le finestre del centro per rifugiati e minori di viale Giorgio Morandi. La polizia è ancora in strada, ma non piantona l’ingresso. Alza lo sguardo, Francesco. Tre ragazzini egiziani al secondo piano ridono. «Che fai, sfidi? Torna dentro, schifo di musulmano». Francesco ha 36 anni e le vene del collo gonfie: «Tranquillo che stasera veniamo lì dentro e ti cacciamo a calci in culo dall’Italia, da Tor Sapienza sicuro... Arabo di merda». L’egiziano avrà 16 anni, ma non torna dentro: «Vieni che t’aspetto». Francesco, tuta adidas bianca, non è incappucciato come l’altra notte. Ha lasciato il bar Lory, ritrovo comunitario, a 200 metri e si ferma a spiegarti la sua visione degli extracomunitari della periferia est di Roma: «I negri li rispetto da vent’anni, ma ‘sti rifugiati arabi fanno schifo. Stanno nudi, se ci sono bambini se ne fottono. Pisciano dalle finestre, in strada. Per sfregio. Non gliene frega niente di noi, di chi li ospita. La cooperativa porta il cibo e loro lo buttano via. L’altra sera hanno tirato un posacenere di cristallo su un’anziana. I negri, qui, non danno problemi, vengo dagli scantinati del Quarticciolo, so cos’è la fame, ma questi egiziani sbarcati tre mesi fa sono schifosi... E poi certi rumeni. Arabi e rumeni, uno schifo». Schifo ogni tre parole, come i bambini, come i suoi amici del bar. «Sono senza lavoro, mia madre ha la pensione minima». Ci sono due blindati della polizia e cinque gazzelle alla fine di viale Morandi, l’arteria di Tor Sapienza, insediamento diventato quartiere negli Ottanta attorno al monolite grigio e rosso delle case popolari. Tor Sapienza fa 16mila abitanti, dietro la Prenestina. Non scendono quasi mai in centro. Martedì sera c’è stato il secondo assalto al rifugio degli immigrati, il più violento. In ottanta, molti a volto coperto, armati di bastoni, molte donne, una con il mattarello, hanno attaccato le due pattuglie di vigilanza al centro di prima accoglienza. Pietre sui poliziotti, poi bottiglie. Bombe carta. Dalle finestre altre donne hanno lanciato piatti contro gli agenti. Cassonetti della spazzatura piazzati al centro della strada per impedire l'arrivo dei rinforzi, poi li hanno incendiati. “Viva il duce”, si sentiva. L’arrivo del reparto mobile contromano, la carica dei poliziotti, i lacrimogeni. Quattordici agenti feriti. Tre vetrate del centro profughi sfondate. Due bambini africani fuggiti dalla paura, non li trovano più. Gli egiziani, però, non sono stati a guardare: sedie, tavoli, televisori, tutto rovesciato sugli aggressori. «Tranquilli, stanotte veniamo a completare il lavoro». Francesco ha smesso di urlare, un tic al mento gli interrompe il racconto ogni volta che si agita. Il comitato di quartiere vive da un anno e ha già 600 iscritti. Un mese fa ha fatto una marcia contro il degrado: non pervenuta alle autorità. Il vicepresidente Roberto Torre, giovane pensionato, elenca le emergenze vicine e attorno. I bassi delle case popolari li hanno occupati rumeni e albanesi. In via Collatina 600 i rifugiati politici sono alloggiati a fianco di Bricofer. In via Tiratelli, dove nell’ex Fiorucci è nata la città meticcia di Metropoliz, 34 la sera si fanno rave. A fianco, un deposito di lavatrici e automobili, più in là una discarica enorme. In via Rucellai hanno messo i siriani sbarcati a Lampedusa, qui dietro ha rivenduto appartamenti occupati la Pinona, leader di un movimento di lotta per la casa fermata dai carabinieri. E giù in via Salviati due campi rom, il secondo è terra dei fuochi: rame e pneumatici bruciati ogni settimana. Poi gli occupanti di via Staderini, Tor Cervara. Piazza Pascali dopo le 18 è casa dei trans. «Siamo circondati da degrado e violenza ». La Prenestina è un cimitero di fabbriche e capannoni, per evitare ingressi i vigili tombano tutte le finestre. Eliana esce di casa la mattina alle 5 col coltello in tasca. La sua amica, ora scesa in strada: «Mi hanno aggredito sul bus tre settimane fa, tre stranieri, per il telefonino». Al bar Lory ci sono i reduci dell’assalto. L’imbianchino, 44 anni, non ha il fisico. Le idee chiare sì: «Se quelli ci gettano la birra in testa sono dei poveri rifugiati, se noi reagiamo siamo razzisti. Tengono lo stereo a palla alle tre di notte, estate e autunno. Hanno trasformato il parco in un film horror. Viaggiano con il tirapugni: una botta sui reni e ti portano via quello che hai». Manuel, 21 anni: «Ho perso il lavoro un minuto fa, spedizioniere alla Tnt, e questi vengono al bar a farsi la ricarica del telefonino. Ho un Nokia da 20 euro, loro il tablet. Lo Stato gli dà 40 euro al giorno, 40 euro a negro». In realtà, i “negri senza documenti” prendono 40 euro al mese, per le sigarette. «Gli albanesi giù nei bassi li abbiamo già istruiti, ora ci rispettano. Faremo assalti tutte le notti, finché non mandano via i rifugiati». Gli ultimi due assedi sono nati dopo un tentato stupro. Al parco, domenica sera, tre dell’Est. Hanno messo le mani sotto la camicetta di Ambra, 28 anni e due bambini. Era con il cane, li ha messi in fuga. Poi Ambra ha partecipato all’assalto di lunedì sera, e ha preso le manganellate dalla polizia. «Nel parco mi hanno afferrata al collo, fatto cadere a terra, tirato su la maglietta... Quattro aggressioni in pochi giorni, devono andare via». I ragazzini egiziani sono ancora alla finestra. Eufil non arriva a 16 anni. Ha lasciato la periferia del Cairo da solo, papà gli ha detto che doveva andare a cercare lavoro. «A Roma faccio il parrucchiere». Mustafà è il giovane capoclan: «Non mi comporto male, non so quello che fanno sopra di me», e indica sei piani di stranieri ospitati, sessanta in tutto. «Questi di Tor Sapienza sono tutti scemi, ma non abbiamo paura». Kevin, 36 anni, è un operatore sociale. È nato alle Isole Mauritius. «I ragazzi vengono da storie complicate. Si fanno male tra loro, a volte usano coltelli, ma non hanno mai attaccato gli italiani. La vedo male, finirà molto male». Il comitato di Tor Sapienza torna dall’incontro in Campidoglio con il sindaco: «Ci ha promesso che in una settimana sposta il centro ». Ignazio Marino, che Tor Sapienza non l’ha mai vista dal vivo, fa sapere: «Nuova biblioteca, raccolta dei rifiuti e illuminazione». Scenderanno a Tor Sapienza il leghista Matteo Salvini e il fascio-leghista Mario Borghezio. Ieri sera la caccia all’uomo ha dato un nuovo risultato: catturato e picchiato un cinquantenne congolese. Italiani gli hanno portato via il tablet. del 13/11/14, pag. III (Roma) Dietro le sbarre del Centro “Noi, in gabbia come bestie e ci vogliono tutti morti” La vita nella cooperativa “Il sorriso” che gestisce l’accoglienza La rabbia dei rifugiati: “Barricati qui, sedie e letti contro le porte” MAURO FAVALE 35 «CI VOGLIONO tutti morti. Tutti, a cominciare da noi operatori. Hanno detto che stasera entrano nel centro e ci ammazzano. E fino ad ora le loro minacce le hanno sempre mantenute». Alle quattro di pomeriggio, per la prima volta dopo tre giorni, si aprono ai giornalisti le porte a vetri (sfondati) della Cooperativa “Il sorriso” che gestisce da tre anni questo centro di accoglienza in via Giorgio Morandi. C’è Gabriella Errico, la direttrice della struttura, e con lei una dozzina di altri operatori. L’ingresso è spoglio: una portineria, due ascensori, una rampa di scale, due distributori di merendine e bevande. Da lì raccontano la paura e i due assalti subiti lunedì e martedì notte. È l’altro punto di vista rispetto ai residenti ma è il medesimo stato d’animo. «Siamo terrorizzati — continua Gabriella — e con noi anche tutti i ragazzi qui nel centro». Mentre parla i giovani che arrivano dall’Egitto, dal Gambia, dalla Somalia, dal Mali, dal Bangladesh osservano dalle scale prima spaventati, poi infastiditi, infine incuriositi. Sorridono alcuni timidi, altri sfacciati. «I minori sono ingestibili — confessa Francesca, un’altra operatrice — il lavoro con loro inizia da zero, fai conto che abbiano 5 anni. Alcuni arrivano direttamente dai barconi che sbarcano sulle nostre coste. Ma dal disagio adolescenziale al reato c’è una bella differenza. E qui nessuno copre gli illeciti. Se sbagliano, sanno che verranno denunciati ». Negano tutte le accuse che arrivano dai residenti, soprattutto quelle che li vedrebbero protagonisti di veri e propri “spogliarelli” davanti alle finestre, sotto lo sguardo dei residenti: «Non è vero — assicura ancora Francesca — la prima cosa che ci hanno chiesto, quando sono arrivati, è di mettere delle tende per non farsi vedere». Gli operatori della cooperativa continuano a raccontare, qualcuno dai piani più alti urla: «Sono stanco, stanco». Da due giorni vivono barricati: anche le sigarette le vanno a comprare gli operatori del centro dal tabacchi più vicino. Non si può rischiare nessun “contatto”. Non dopo le aggressioni degli ultimi giorni, non dopo gli assalti notturni. «Abbiamo rotto letti e porte interne per chiuderci dentro — spiegano — ma non abbiamo più nulla da usare ». All’esterno, i vetri sono sfondati, sul muro ci sono ancora i segni dei petardi lanciati dai residenti. Discutono di come affrontare l’ennesima notteditensione:«Facciamoun’assemblea fuori dal centro — dicono tra loro — ci mettiamo qui davanti, pacificamente, e proviamo a fronteggiare i residenti, sperando che siano in maggioranza quelli che vogliono difenderci». Arriva qualche politico (il consigliere comunale Gianluca Peciola, la deputata Celeste Costantino, entrambi di Sel), davanti al centro si radunano i responsabili di altre associazioni che lavorano sugli immigrati nel quadrante est della città, quello più caldo, dopo le proteste di Torpignattara e di Corcolle, tra settembre e ottobre. «Se ce ne andiamo vince la logica che basta fare casino per chiudere i centri, non possiamo cedere», spiegano. In questa struttura stretta tra i palazzi di via Morandi sono arrivati 3 anni fa. Prima, con l’emergenza-sbarchi, gli ospiti erano 150. Ora sono appena 60, distribuiti in 2-3 per stanza, venti per piano. «Preferiamo lavorare sulla qualità dei progetti, non sulla quantità delle persone», sottolinea ancora Francesca. L’edificio dove vivono, oltre 3000 mq, era di proprietà di una banca e viene affittato dalla cooperativa a 25.000 euro al mese. Le risorse arrivano dall’Unione europea, dal Campidoglio, dal Viminale attraverso lo Sprar, il servizio per rifugiati e richiedenti asilo. Ogni ospite costa 35 euro al giorno, per vitto, alloggio e anche per qualche vestito. «È questo che dà fastidio ai residenti — prosegue un altro operatore — che vengano spesi dei soldi per gente che non è italiana. Ma noi siamo un paese che ospita». «Lo sappiamo, qui il disagio è reale, la periferia ha enormi problemi: isolata, senza servizi, in un periodo in cui mancano case e lavoro. Ma ci hanno preso come capro espiatorio», insiste Gabriella, la direttrice. Vorrebbero invertire la china, provare a farsi conoscere di più dal quartiere. «Stavamo facendo una festa, due settimane fa, in un parco, c’erano anche italiani, non 36 posso credere che ora ci vogliono cacciare — dice un ragazzo libico, da 5 mesi in Italia — Ho più paura ora di quando ero in Africa. A questo punto preferivo morire nel mio Paese piuttosto che farmi uccidere qui». del 13/11/14, pag. 5 Roma ladrona si scopre leghista Giuliano Santoro Tor Sapienza. Dopo l’assalto anti immigrati, Salvini: «Vengo anch’io». Viaggio nel quartiere periferico della Capitale, terra di conquista della nuova destra, dove crescono umori xenofobi Nel mezzo di una giornata di pioggia durante la quale Roma ha scoperto di essere razzista, le nuvole si aprono e il sole scalda i lotti delle case popolari di Tor Sapienza, quartiere lungo la via Prenestina che solo poche ore prima ha ospitato una vera e propria battaglia. Resta qualche cassonetto incendiato, un presidio delle forze di polizia e gli sguardi di chi osserva dalle finestre dei palazzoni. Solo poche ore prima si è consumato l’assalto del centro d’accoglienza di viale Morandi. La struttura, all’interno della quale vivono 36 minori, è stata presa di mira da un’agguerrita minoranza di qualche decina di persone che si è presa la briga di passare ai fatti e di interpretare il senso comune strisciante ormai da tempo anche da queste parti: «Noi italiani siamo abbandonati, per quelli là invece è tutto garantito». «Quelli là» sono gli stranieri, comunitari ed extracomunitari, senza permesso di soggiorno e richiedenti asilo politico, minorenni e adulti: tutti associati al degrado e al senso di solitudine che si respira tra le circa duemila anime che vivono nelle case popolari con la corte più grande d’Europa. Sono state costruite negli anni Settanta e Ottanta dalle giunte di sinistra e gli spazi destinati ai servizi sociali non sono mai stati utilizzati. Il giorno prima degli scontri, una giovane donna aveva denunciato il tentativo di stupro ad opera di due uomini riconosciuti come «romeni». Alla grave aggressione era seguito il pestaggio di un minorenne bengalese ad opera di un gruppo di italiani. Poi, un’assemblea in piazza, toni accesi e parole di fuoco. La situazione è degenerata nella notte tra lunedì e martedì, quando un gruppo di incappucciati ha deciso di puntare verso il centro d’accoglienza richiamando in piazza altri cittadini del quartiere. È finita con una carica della polizia, autovetture danneggiate, lancio di sassi e bombe carta. Così, questo spicchio di periferia romana con le vie intitolate ai pittori dell’avanguardia italiana del Novecento, stretta tra il mattatoio e la rimessa degli autobus, le gru dell’ennesima speculazione edilizia da un lato e la grande occupazione multietnica di Metropliz dall’altro, è diventato il crocevia della crisi italiana e della guerra tra poveri che il disagio e gli imprenditori della paura rischiano di scatenare. Se n’è accorto Matteo Salvini, segretario della Lega che da queste parti prova a prendere piede ormai da qualche tempo, grazie all’alleanza tra l’eurodeputato padano Mario Borghezio e i sedicenti «fascisti del terzo millennio» di CasaPound: «Ho ricevuto molte chiamate da Roma, in molti chiedono la mia presenza e quella della Lega», annuncia Salvini. Che poi promette: «Ci andrò». Ma dopo il 24 novembre, perché prima è impegnato nella campagna elettorale delle regionali dell’Emilia Romagna (Borghezio invece non perde tempo e annuncia per domani la sua presenza nella Capitale). Il leader leghista si produce in distinzioni pelose ma accarezza i pregiudizi razzistoidi: «Ogni violenza va 37 sempre condannata. Ma l’immigrazione incontrollata e il razzismo nei confronti degli italiani, che non hanno alberghi pagati, rischia di alimentare reazioni sbagliate». L’«albergo pagato» di cui parla Salvini quasi a voler indicare ancora una volta l’obiettivo da colpire è il centro d’accoglienza sotto assedio ora presidiato dai blindati: vi abitano soprattutto ragazzini, minorenni la cui custodia è affidata dalla legge al Comune di Roma. La struttura è nata nel 2011 a seguito dell’«emergenza Nord Africa, per ospitare minori stranieri non accompagnati provenienti per la gran parte dal Bangladesh», spiegano gli operatori. Oggi è un Centro di prima accoglienza per minori e una struttura aderente allo Sprar, il Sistema di protezione per rifugiati finanziato dall’Ue in rispetto ai trattati internazionali sul diritto d’asilo. Gli xenofobi hanno interesse a far circolare la psicosi dell’«invasione» e dell’Italia terra di bengodi per i migranti, ma gli ospiti in tutto il territorio romano sono solo 2600 e troppo spesso vivono in posti tutt’altro che confortevoli e con poca possibilità di spostarsi. «La verità – riflette a testa bassa un operatore – è che i centri rischiano di diventare ghetti e di cadere nella spirale del degrado dei quartieri che li ospitano, come accade a volte per i campi nomadi». Il rischio che la fiammata di Tor Sapienza attecchisca in altri quartieri abbandonati al degrado è concreto. La scintilla d’innesco arriva da Corcolle, quartiere che si trova da questo lato della metropoli ma ancora più in periferia, al di là del Grande raccordo anulare: da quelle parti solo poche settimane fa sono scesi in strada contro la presenza dei migranti, degenerando in una vera “caccia al nero”. La guerra tra poveri, insomma, si è già mossa dalla cintura esterna della città verso la periferia meno estrema. Ora potrebbe arrivare nel cuore della città. Il 15 novembre, un corteo di «comitati contro il degrado e per la sicurezza» partirà dall’Esquilino per arrivare fino al Campidoglio, per quello che viene annunciato con enfasi come «il giorno della marcia della ribellione dei rioni e dei quartieri di Roma» contro «campi rom» e «immigrazione incontrollata». Ci saranno, ad esempio, quelli di Ponte di Nona, che già da qualche mese hanno dato vita al «Centro azioni operative», una specie di ronda che si prefigge obiettivi come quello di vigilare «contro il pericolo proveniente dal vicino campo Rom di via Salone». Molti di quelli che l’altra notte hanno manifestato a Tor Sapienza utilizzano la protesta contro i migranti di Corcolle a mo’ di esempio: «C’è poco da fare: se non ti muovi come hanno fatto loro, non ti ascoltano». del 13/11/14, pag. 1 I frutti velenosi di Salvini Alessandro Dal Lago Migranti. L’attuale maggioranza, che ha imbarcato un bel pezzo del vecchio centro-destra, sembra minimamente preoccupata da questa destra spregiudicata e movimentista Da quando Massimo D’Alema se ne uscì con la famosa trovata della «costola della classe operaia», il fenomeno Lega è stato per lo più sottovalutato. Blandito e vezzeggiato a destra e sinistra, e anche temuto quando era al governo e sembrava sul punto di prendere il potere, il partito di Bossi non è stato compreso dai più nella sua natura profondamente fascista. E quindi non solo truce nelle parole d’ordine anti-meridionali, xenofobe, secessioniste e anti-europee, ma anche profondamente opportunista, capace di mutare obiettivi e alleanze, pur mantenendo la sua natura reazionaria. Prendiamo il giovane Salvini. Nel momento in cui la Lega di Bossi si è rivelata come un partito arraffone, corrotto come qualsiasi altro, Salvini ha dato una sterzata proponendosi 38 come alternativa «giovanile», radicale e scapestrata. Quindi, niente più elmi con le corna, frescacce celtiche e tutto il folclore che copriva gli inciuci con Formigoni e Berlusconi, ma una politica di movimento e, soprattutto, una dimensione nazionale in cui far confluire la destra estrema e iper-nazionale che non può identificarsi con il secessionismo. Ecco, allora, l’alleanza con in Europa con Marine Le Pen e poi, da noi, con Casa Pound, imbarcata in un progetto che vede la Lega come partito leader della destra italiana postberlusconiana. Altro che Alfano, borghese democristiano e doroteo fino al midollo. Ma per realizzare questo progetto, che sembra finora coronato da un certo successo, anche se limitato, a Salvini non bastano l’anti-europeismo e il populismo, un terreno politico-elettorale su cui Grillo, anche se in declino, ha piazzato la sua ipoteca. Il leader della Lega ha bisogno di far crescere la tensione, di scaldare gli animi, di mobilitare, se non altro nell’opinione pubblica, quell’ampio pezzo di società (un tempo si sarebbe detto la «maggioranza silenziosa») che la pensa come lui in tema di tasse, Europa e immigrati, anche se magari non si dichiara ideologicamente fascista o leghista. E niente di meglio, in questo senso, che andare a provocare nomadi e stranieri, che da quasi trent’anni fanno da parafulmine per tutti i mal di pancia nazionali. Ed ecco allora la provocazione di Bologna contro i Sinti, cittadini italiani in tutto e per tutto che hanno il torto di non vivere come i buoni leghisti del varesotto e della bergamasca. Ecco gli striscioni «No all’invasione» davanti ai ricoveri di rifugiati e richiedenti asilo, gente che non è venuta lì in macchina o in Suv, come i coraggiosi leghisti, ma ha attraversato mezzo mondo a piedi ed è scampata ai naufragi. Ed ecco ora l’oscena idea di andare a Tor Sapienza, a Roma, a gettare benzina sul fuoco acceso da estremisti di destra e, sembra, dai pusher che non vogliono centri per stranieri. Provocazioni fredde, calcolate e mirate, appunto, al ventre di quella società che mai andrebbe a tirare pietre contro gli stranieri, ma si rallegra profondamente quando qualcuno lo fa al posto suo. Verrebbe voglia di archiviare tutto questo come il solito fascismo della solita Italia, ma sarebbe un errore. Perché oggi gli anticorpi sono deboli e frammentari. Né l’attuale maggioranza, che ha imbarcato un bel pezzo del vecchio centro-destra, sembra minimamente preoccupata da questa destra spregiudicata e movimentista. E basta dare un’occhiata ai commenti e ai blog dei quotidiani nazionali per capire quanto sia ampio il sostegno ai Salvini di turno. D’altra parte, è sempre la vecchia storia. Quanto più le prospettive sono incerte, il futuro opaco, il lavoro mancante, il degrado della vita pubblica in aumento, tanto più è facile scaricare la frustrazione sugli alieni a portata di mano. E anche questo è un frutto avvelenato di qual thatcherismo appena imbellettato che passa sotto il nome di renzismo. 39 SOCIETA’ del 13/11/14, pag. 1/23 Milano. Occupanti, racket, antagonisti : scoppia la battaglia delle case popolari Da San Siro al Corvetto: 20 mila sfratti da eseguire, 800 palazzi “invasi”. Risse quotidiane. E gruppi di donne “a difendere la legalità” PIERO COLAPRICO MILANO . «Una volta sui portoni segnavano una “M”, o una “V”, era il segnale dell’occupazione notturna. Da quando l’abbiamo capito, e ci piazzavano davanti alle porte, hanno cambiato modo di comunicare. Adesso il nostro incubo sono i fischietti. Quando devono occupare le case lasciate vuote, arrivano alla spicciolata, poi fischiano, si avvisano tra loro e irrompono. Ma mentre loro fischiano, noi usiamo i telefonini e corriamo, chiamiamo la polizia... «. Sono tutte donne, al quartiere San Siro, e in viale Mar Jonio hanno costituito il primo comitato cittadino in grado di trasformare gli stabili delle case popolari in una gigantesca trincea anti-abusivi. A qualcuno dei vicini, «a forza di sentire quei fischietti, è venuto l’esaurimento nervoso». Ma non a Lucia Guerri, 76 anni, anima del comitato: da quando gira con le stampelle per guai al menisco s’è fatta sostituire dalla nipote Giulia Crippa (cognomi milanesissimi), ma non molla. «Al massimo con noi viene un solo uomo, il Gino, anche i poliziotti ce lo dicono: “Ma i mariti dove sono?”. Eh, davanti alla televisione... «. Lo stesso fenomeno metropolitano — queste donne senza paura di stare in trincea — succede tra Lorenteggio e Giambellino, dove per tre volte, nella scala D di via Odazio 6, sono state le signore di settanta, ottant’anni, a difendere la porta da uno sfondamento, finché l’Aler (che cura le case popolari per conto della Regione Lombardia) non l’ha assegnata a una signora italiana, portatrice di handicap. E chi se l’è presa, però, con questo coraggioso comitato inquilini che lotta contro le occupazioni? Il centro sociale “Base di solidarietà popolare Giambellino”: la sinistra antagonista s’è schierata a favore delle occupazioni, «sono questi giovani che spaventano i vecchi italiani, ci minacciano, provano a farci paura», dice M. P., «perché con i rom, che hanno occupato varie case, non abbiamo problemi, se non — ed è una citazione testuale — per il fatto che non capiscono la raccolta differenziata dei rifiuti». Rifiuti a parte, il paradosso di questa battaglia “regolari-abusivi” è apparso nitido anche al Corvetto, dove martedì sera, altri gio- vani dei centri sociali antagonisti hanno attaccato con vernice e fumogeni una riunione di abitanti del quartiere che chiedevano gli sfratti: e se ne sono andati solo quando hanno visto gli anziani cominciare a tossire e star male. Le case popolari di Milano sono una polveriera ovunque, in ogni quartiere, e in più, tra pubblico e privato, ci sono in città circa 20mila sfratti da eseguire. Le prime operazioni di sgombero riguardano chi ha occupato le case popolari. «Allora sarà guerra», si sente dire in giro. Già dalla quotidiana «battaglia dei fischietti » di San Siro si vedono da vicino i tre eserciti schierati in campo: gli inquilini regolari, al grido «no al degrado»; la massa indistinta degli occupanti abusivi legata al racket dei senza-casa; il centro sociale Cantiere, che partecipa alle feste di strada, promuove amicizia tra vicini e spiega che lotta «contro chi della casa ne fa un bene di profitto. Che sieda in poltrona, i nostri governanti, o che stia per strada, il racket». Ma se la politica è riconoscibile, il racket è sfuggente e, nello stesso tempo, 40 sapiente: «Qui a San Siro — racconta uno degli uomini, in segreto dalle donne — bisogna stare molto attenti a come ci si muove. C’è un tariffario per aprire le porte e per entrare nelle case, duemila euro il servizio completo. Ma non lo può fare chiunque, il lavoro del fabbro, bisogna chiedere il “permesso” a qualcuno che può darlo, e sinora nessuno è andato a rompergli le scatole, né la legge, né i centri sociali, vediamo come andrà a finire». Se «vediamo» da vicino le strade delle periferie milanesi una cosa è chiara: ad alzare la voce più forte di tutti è chi vive di illegalità. Com’è successo, per esempio, a Crescenzago: alla fine di un’assemblea pubblica contro il degrado, le auto di molti partecipanti sono state trovate con i vetri rotti e le gomme squarciate. La trincea di San Siro invece resiste, è lunga ben 56 portinerie «popolari», a ogni portineria fanno capo dai cento ai centoventi appartamenti. Ma spicca un altro numero: gli abusivi hanno conquistato in zona ben 800 case. I primi sono stati «gli italiani» che venivano, vent’anni fa, dal quartiere Stadera, rettangolo di strade a non bassa densità criminale: sfrattati, scacciati, arrestati nella periferia Ovest, molti di quei gruppi sono saliti nella periferia Nord. E nessuno ha resistito «ai barbari». Poi, con le ondate migratorie, sono approdate accanto allo stadio le famiglie con bambini: chi poteva occupava le case vuote che — e anche questo dato nudo e crudo è tale da far riflettere — ancora oggi sono alcune centinaia. Case vuote perché? Per una legge della Regione Lombardia, che impone l’affitto solo di case ristrutturate (ma non le ristruttura, o lo fa con il contagocce). Viceversa, il Comune di Milano, da poco, ha tolto le sue case dalla gestione dell’Aler (succederà entro l’anno), le ha affidate alla società che gestisce la Metropolitana milanese, e ha in mente di provare ad affittare le case «allo stato di fatto», scalando i lavori da eseguire dal calcolo dell’affitto. Nel frattempo, però, nessuno che aspetta la casa sta a guardare. A due passi da viale Mar Jonio, in via Cividale 30, l’altro ieri un clan di nomadi è andato all’arrembaggio di un intero stabile, ma è scattato l’allarme e tutti sono stati scacciati, anche perché nella palazzina mancavano bagni, porte, scale, eppure «quelli ci sarebbero rimasti lo stesso». del 13/11/14, pag. I (Roma) E sabato la marcia dei “rioni dimenticati” ANNA RITA CILLIS DA SETTIMANE il depliant girava tra le vie periferiche della città e sui sociali network. E dopo le notti movimentate a Tor Sapienza, il corteo “Rivogliamo la nostra città”, organizzato dal comitato Caop Ponte di Nona e da altre associazioni di cittadini - in programma sabato a piazza dell’Esquilino contro “degrado, criminalità, campi rom fuori controllo e roghi tossici” nei quartieri più difficili della Capitale, si rafforza grazie all’adesione di altri comitati di quartiere. «Saranno oltre 60», dice Franco Pirina, promotore della manifestazione che, però, assicura: «Non saremo strumentalizzati» . UNA sottolineatura che Franco Pirina, promotore della manifestazione e presidente del Caop Ponte di Nona, ci tiene a fare «perché non ci siano fraintendimenti: il nostro è un corteo organizzato da tre mesi e i partecipanti arriveranno da tutte le zone. persone che dopo averle provate tutte hanno deciso di farsi ascoltare dal sindaco Marino in questo modo». E così dopo aver «denunciato tramite centinaia di email il de- grado nel quale vivono da anni le periferie», rimarca Pirina, sabato piazza dell’Esquilino sarà il teatro dal quale partirà il corteo per raggiungere, qualche ora più tardi, piazza Venezia. Evento blindato rimarca Pirina «perché non siamo disponibili a essere strumentalizzati dalla politica, chi 41 vuole partecipare lo faccia ma da cittadino». Intanto, però, Gianni Alemanno sottolinea che «bisogna liberare le periferie da un vero assedio incontrollato di nomadi e immigrati che, nell’indifferenza generale, stanno trasformando questi quartieri in vere e proprie giuncoordinamento gle. Sabato ci sarà un corteo organizzato dal coordinamento delle periferie proprio per dar voce pacifica e democratica a queste proteste». Un modo, il suo, per mettere forse il cappello sull’evento che nel frattempo è stato ribattezzato “Marcia della Ribellione dei Rioni e Quartieri di Roma” dal neonato cittadino delle periferie, che abbraccia circa 40 movimenti. Ma arriva in queste ore anche la contro-risposta della Rete Antirazzista Piazza Vittorio che ha organizzato sempre sabato ma a mezzogiorno, la festa “Roma meticcia” nei giardini di piazza Vittorio. 42 BENI COMUNI/AMBIENTE del 13/11/14, pag. 18 La rivoluzione verde di Pechino “Entro 5 anni l’energia pulita sarà la prima voce del nostro Pil” GIAMPAOLO VISETTI DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PECHINO PER la buona notizia il cielo è sorprendentemente azzurro, sopra Pechino: ma l’ultimo “sogno cinese” del leader rosso è una superpotenza verde. Trasformare il peggior inquinatore del pianeta nel motore mondiale delle energie pulite è però per la Cina una sfida più decisiva che consumare il sorpasso economico sugli Usa. Xi Jinping sa che su questa scelta si giocano la stabilità della nazione e il destino globale. I suoi consiglieri rivelano così che la svolta ecologica è stata impressa ora «per assenza di alternative e concentrazione di interessi». Trent’anni di boom industriale hanno ridotto un Paese da 1,3 miliardi di persone a una bomba ambientale ad orologeria. La Cina, oltre al primato dell’inquinamento, detiene anche quelli dei veleni assorbiti e del consumo energetico. Non esiste più acqua potabile, regioni agricole sconfinate vengono abbandonate perché la terra è tossica, lo smog uccide quasi 700 mila persone all’anno. Qui si diffonde il 26% del CO2 mondiale, l’80% dell’elettricità deriva dalle centrali a carbone, combustibile che alimenta anche il 94% dei riscaldamenti. Sostanze chimiche emesse dalle fabbriche del Guangdong sono state rilevate in Alaska e al Polo Sud. Finito il “blu politico”, garantito ai leader Apec e a Obama, torneranno l’obbligo di mascherina e il piombo tingerà di nero chi esce di casa. È una condanna che i cinesi hanno sopportato per uscire dalla fame prima, per tuffarsi nell’ebbrezza del consumismo poi. Il prezzo sono stati la vita, la distruzione di ambiente e clima, la soglia del non ritorno dell’effetto serra. La Cina, ancora in forte crescita industriale, fino a ieri aveva rifiutato date ravvicinate e impegni precisi a ridurre il disastro, opponendo due argomenti. I due terzi delle emissioni interne sono “per conto terzi”, ossia causate dalla delocalizzazione delle multinazionali straniere; i limiti sarebbero stati imposti da «potenze che per decenni hanno intossicato impunemente il pianeta, al fine di contenere l’ascesa economica di Pechino ». Lo scenario, responsabile del fallito vertice sul clima nel 2009, è cambiato con Xi Jinping. Il “nuovo Mao” aspira a entrare nella storia, ma deve contrastare il rallentamento della crescita nazionale e scongiurare la rivolta della nuova classe media che «non vuole morire avvelenata prima di essere diventata ricca». «È il mix di questi ingredienti politici, economici e ambientali — dice Guo Chengzhan, vice capo dell’ente per la sicurezza dell’energia atomica — ad aver convinto Pechino a cambiare modello di sviluppo e a lavorare ad un accordo verde con Washington». Investimenti e obiettivi sono senza precedenti. Per migliorare l’efficienza energetica sono stati stanziati 4 miliardi di euro entro il 2030, di cui uno l’anno prossimo. La Cina è già il primo produttore mondiale di pannelli solari e fotovoltaici e ha la maggior concentrazione di centrali eoliche e a biomassa. Entro dicembre aprirà tre nuove centrali atomiche nelle regioni Liaoning, Shandong e Fujian. Venti sono già attive, 28 in costruzione, 100 previste in trent’anni. Nel 2020 il nucleare varrà 88 gigawatt di potenza, in 43 crescita dell’80% rispetto ad oggi. Per l’energia pulita, nel 2009 Pechino aveva investito 35 miliardi di dollari, rispetto ai 51 degli Usa: l’anno scorso il rapporto si è invertito, 72 miliardi a 47. Solo per infrastrutture e sicurezza la Cina spende di più: ieri Xi Jinping ha ripetuto però che «non si tratta di costi, ma di investimenti». Entro il 2030, picco delle emissioni, Pechino risparmierà 470 miliardi di combustibili fossili importati, mentre la green economy frutterà oltre 4 mila miliardi e cento milioni di posti di lavoro. Il ministro dell’ambiente Zhou Shengxian ha annunciato che «entro cinque anni il business dell’energia pulita sarà la prima voce del Pil cinese, assieme all’e-commerce». La leva della più sconvolgente rivoluzione cinese dopo quella comunista, sarà il mercato. Regioni e imprese che abbatteranno le emissioni nocive strapperanno prezzi migliori per l’energia, sgravi fiscali e clienti più ricchi. «Il principio — ha detto il direttore dell’Accademia nazionale delle scienze, Wang Weiguang — è «meno inquini più guadagni. E alla rivoluzione ecologica corrisponderà quella urbanistica». Entro dicembre Pechino annuncerà altri mille miliardi in cinque anni per «città e metropoli del futuro»: viabilità a impatto zero, strade e grattacieli progettati come centrali termiche, case e fabbriche solo a risparmio energetico. Oggi in Cina il 93% delle costruzioni sono ad alta dispersione e nel 2013 si è consumato il passaggio di consegne nella corsa alla distruzione del pianeta: le emissioni pro capite cinesi sono arrivate a 7,2 tonnellate annue, rispetto alle 6,8 della zona Ue. In settembre Pechino ha strappato agli Usa anche il primo posto nell’importazione di greggio, mentre dal 2030 rileverà il record del consumo netto. A spianare una strada in salita, contribuirà così il gas di Mosca: grazie al patto Putin- Xi Jinping da 400 miliardi di dollari, per la prima volta il Cremlino dirotterà sulla Cina più metri cubi che verso l’Europa. Senza lo spettro dell’instabilità sociale e l’interesse del mercato però, confermano alti funzionari comunisti, Pechino non avrebbe concordato adesso con gli Usa una scadenza per la conversione. «I primi cinque anni — prevede l’economista Lin Yifu — perderemo 10 miliardi di dollari produzione e 15 di esportazioni. Dopo, guadagneremo 50 miliardi in più all’anno per due decenni, trascinando anche il resto del mondo verso la più ricca opportunità di profitto del secolo». Restano due ostacoli: il protezionismo, che oppone barriere a prodotti e tecnologia cinese sostenuti dallo Stato, e l’ostilità verso i controlli esterni delle emissioni, che accomuna Pechino a Washington. Dumping e dati- truffa possono ridurre l’annunciato «salvataggio a due del pianeta» nell’affare più colossale, ma più sporco, del futuro. In Cina non ci vorrà molto a scoprirlo: al mattino basterà, come ha confessato di fare lo stesso Xi Jinping, «riservare la prima occhiata al colore fuori dalla finestra ». del 13/11/14, pag. 8 I movimenti sociali dettano l’agenda Geraldina Colotti Clima. Sabato e domenica il vertice G20, ma non c’è accordo con l’Australia sulle rinnovabili «Non c’è soluzione al cambiamento climatico senza i membri del G20. Questi paesi sono responsabili di circa l’80% delle emissioni e di oltre l’80% dell’attività economica globale». Così, il direttore generale del Wwf in Australia, Dermot O’ Gorman, ha commentato un episodio significativo avvenuto nel suo paese: la rimozione di alcuni cartelli pubblicitari, commissionati dalle organizzazioni ambientaliste ed esposti all’aeroporto di Brisbane. 44 Il primo cartello mostrava un agricoltore nel sud del paese che ha subito perdite per 25.000 dollari nei suoi vigneti a causa di un aumento della temperatura a 46 gradi. Il secondo era stato posizionato nella zona in cui, il prossimo 15 e 16 novembre, si svolgerà il vertice del G20. Raffigurava un gruppo di pompieri preoccupati per il moltiplicarsi degli incendi per effetto del cambiamento climatico. Un tema che l’Australia, principale esportatore di carbone al mondo e uno dei principali inquinatori, non ha nessuna intenzione di mettere fra le priorità del summit, come ha già anticipato in estate, durante le riunioni preparatorie. I cartelli sono stati rimossi perché troppo «politici» e l’appello dei rappresentanti della società civile dei paesi del G20 che chiede misure per ridurre le disuguaglianze e il riscaldamento globale è stato ignorato. «Oltre la metà dei poveri vive nei paesi del G20 e sette persone ogni 10 vivono in paesi dove le disuguaglianze sono cresciute a partire dagli anni ’80», ha affermato Tim Costello, presidente di Civil 20, invitando i governi ad adottare urgentemente leggi e riforme tributarie per costringere le grandi imprese (e i multimilionari) a pagare le tasse e a non inquinare. Da Pechino, dove ha partecipato al Forum economico Asia e Pacifico, il primo ministro australiano, il neoliberista Tony Abbott, ha risposto che il G20 contribuirà alla crescita mondiale creando posti di lavoro mediante il libero commercio e gli investimenti in infrastruttura: il modello delle maquilas (le fabbriche messicane ad alto tasso di sfruttamento del lavoro) e quello delle grandi opere a elevato tasso di devastazione territoriale, adottato da gran parte dei paesi che partecipano al G20. Ma i movimenti sociali, sostenuti dai governi progressisti dell’America latina, continuano a organizzarsi e a farsi sentire: anche in quei paesi che, come Argentina e Brasile (membri del G20), con una mano lavorano alla giustizia sociale, con l’altra spingono sul pedale del “modello estrattivista”, senza troppi intralci per le grandi multinazionali. Il 4 novembre, 27 delegazioni di alto livello (provenienti da Brasile, Cuba, Arabia saudita, Usa, Norvegia, Russia, Uruguay, Argentina.…) hanno partecipato alla riunione della PreCop sociale e ministeriale sul Cambiamento climatico, che si è svolta in Venezuela nell’isola Margarita. Ong e movimenti sociali hanno messo a punto un documento di 84 punti, poi presentato ai ministri e pronto per essere inviato alla Conferenza Onu sul Clima, che si svolgerà a Lima, in Perù, tra il 1 e il 12 dicembre. Un’iniziativa messa in moto dall’ex presidente venezuelano, Hugo Chavez, a Copenaghen, nel 2009: «Per cambiare il clima, bisogna cambiare il sistema», aveva detto Chavez, interpretando il sentimento dei movimenti popolari, reiterato anche nel corso delle ultime manifestazioni contro il cambiamento climatico. «La causa strutturale della crisi climatica – dice ora il documento dei movimenti sociali – si radica nei sistemi politici ed economici basati su un modo di produzione e consumo insostenibile che genera iniquità, ingiustizia e povertà. Gli accordi, le strategie e i meccanismi disegnati e sviluppati nella Convenzione devono essere diretti a produrre cambiamenti strutturali, specialmente nei paesi sviluppati». Un tema delicato, quello dello sviluppo, maneggiato con cautela anche nei paesi latinoamericani che, come il Venezuela, hanno al centro della costituzione e del programma, l’ecosocialismo: «Non accettiamo che i grandi paesi industrializzati e le loro transnazionali, dopo aver depredato per oltre 100 anni le nostre risorse naturali, ora pretendono di imporci limiti allo sviluppo, strumento indispensabile per superare povertà e asimmetrie sociali», ha detto il ministro degli Esteri venezuelano, Rafael Ramirez. «Dobbiamo trovare un modo di produzione alternativo, valorizzando tutte le economie anticapitaliste esistenti, a partire da quelle contadine, indigene», ha sostenuto invece il sociologo Boaventura de Sousa Santos. I movimenti hanno chiesto di partecipare ai vertici e alle decisioni. Poi, hanno rafforzato la denuncia di Nicolas Maduro contro il fracking, la 45 tecnica di fratturazione idraulica impiegata per estrarre petrolio e gas, causa di gravi danni all’ecosistema. del 13/11/14, pag. 2 Frane e laghi al collasso, due morti Acqua alta L’esondazione del lago Maggiore a Laveno Mombello, in provincia di Varese. Il lago è di tre metri al di sopra del suo livello abituale: è cresciuto di tre centimetri all’ora Due vittime. Decine di sfollati. Frane, allagamenti, esondazioni di fiumi e laghi, trombe d’aria in mezza Italia. Ferrovie a singhiozzo, strade interrotte e scuole chiuse in diverse province. Un Nord flagellato dal maltempo. E un Sud che si prepara oggi a una giornata ancora più complicata di ieri. Per la seconda settimana consecutiva l’Italia deve fare i conti con una perturbazione atlantica e danni per decine di milioni di euro. Un mercoledì difficilissimo per il Piemonte dove si sono registrati diversi smottamenti. Proprio qui viveva Brunello Canuto Rosa, 68 anni, una delle due vittime. L’uomo era stato chiamato dall’amico Marco Fava per controllare la collina dietro casa a Crevacuore, in provincia di Biella, quando una porzione del costone è venuta giù travolgendo entrambi: per Canuto Rosa non c’è stato nulla da fare, mentre Fava, 59 anni, è stato ricoverato per lo schiacciamento della cassa toracica. Il secondo morto di ieri è annegato nel lago Maggiore a Ispra (Varese): il 70enne, residente a Bodio Lomnago, sempre nel Varesotto, è caduto in acqua mentre con un canotto a remi stava andando a recuperare la sua barca che rischiava di rompere gli ormeggi nel porticciolo del paese. Il lago Maggiore è cresciuto ieri al ritmo di tre centimetri all’ora fino a toccare nella notte la piena del 2002. Sono esondati i laghi d’Orta e di Como, mentre il fiume Po resta un sorvegliato speciale. A Milano e provincia sono straripati il Seveso e il Lambro: «Non mettetevi in viaggio se non strettamente necessario e state lontani dai corsi d’acqua», ha detto Simona Bordonali, assessore lombardo alla Protezione civile. Altro giorno intenso per la Liguria e soprattutto per Leivi (da molte ore senza corrente elettrica e acqua potabile) dove martedì hanno perso la vita i coniugi Carlo Arminise, 73 anni, e Franca Iaccino, 69. L’area dove si trovava la loro casa è stata posta sotto sequestro dall’autorità giudiziaria che ha aperto un fascicolo per omicidio colposo plurimo e disastro colposo. La Procura di Genova indaga anche per il reato di frana colposa (per ora a carico di ignoti). La decisione ha fatto infuriare così tanto Vittorio Centanaro, sindaco del paesino, da spingerlo a minacciare le dimissioni. «Bisognerebbe che sapessero cosa stanno facendo — ha detto —. Sequestrando quell’area hanno impedito ai tecnici di salire alle stazioni di sollevamento dei pozzi dell’acqua potabile che servono il Comune». A Genova sono crollate due case. Nella notte tra martedì e mercoledì l’esondazione del rio Veilino ha provocato allagamenti di strade, scantinati, negozi. Voli in ritardo all’aeroporto dopo che la centralina dell’Enav che controlla l’arrivo degli aerei si è allagata. Case evacuate anche in provincia di Udine, acqua alta a Venezia e allagamenti nel resto del Veneto. All’Isola d’Elba due persone sono state salvate da un’esondazione dopo il nubifragio che ha colpito la zona. Disagi per gli acquazzoni anche in Campania. In Puglia una tromba d’aria si è abbattuta sulla provincia di Taranto e ha sradicato, secondo la Coldiretti, circa mille ulivi secolari. In Calabria la frana di una settimana fa tiene ancora isolati i comuni reggini di Bova, Africo e Roghudi. 46 Leonard Berberi del 13/11/14, pag. 2 Milano in tilt, evacuazioni e scuole chiuse L’ottava esondazione del Seveso in un anno Anche il Lambro esce dagli argini. Il Comune: per spostarvi non usate l’auto I quartieri MILANO Rieccolo. Mentre nelle aule di Palazzo Marino si discute dei progetti anti-piene, il Seveso riemerge dalle viscere di Milano. È l’ottava esondazione dell’ annus horribilis 2014. E per la prima volta, oggi, resteranno chiuse tutte le scuole della Zona 9, quella di Niguarda, dell’Isola e di Garibaldi. L’ordinanza viene firmata dal sindaco Giuliano Pisapia poco dopo le 19.30. Le strade sono ancora allagate. Il fango del fiume sotterraneo ha invaso il quartiere di Niguarda in due riprese. Prima, poco dopo le 15, proprio mentre in Comune si discuteva dei progetti anti piene attesi da quarant’anni. Poi alle 16.40, con le acque che tracimano dai chiusini della strada e invadono tutto il quartiere. L’esondazione, fenomeno che di solito non dura più di un paio d’ore, stavolta prosegue fino a sera. Il fiume di fango e scarichi fognari arriva all’Isola, fino a lambire i grattacieli del nuovo quartiere di Porta Nuova. I mezzi pubblici di superfice vengono deviati, l’Atm è costretta a chiudere le fermate della metropolitana lilla di piazzale Istria e viale Marche. Le stazioni sono agibili, salvo qualche infiltrazione, ma raggiungerle è impossibile. L’acqua su strade e marciapiedi supera i quaranta centimetri. I treni percorrono regolarmente la linea ma saltano le fermate chiuse. Problemi anche alla stazione Garibaldi. Nelle stesse ore il Lambro, che è già esondato più a nord al parco di Monza, supera l’ultima soglia. Al Parco Lambro, nella zona nordest della città, viene evacuata la comunità Exodus di don Antonio Mazzi. Gli ospiti vengono portati in un’altra struttura lontana dall’area alluvionata. Altre due comunità che ospitano anziani e malati, che hanno sede sempre nel parco, vengono sgomberate. La stessa cosa accade, più a valle, per una struttura che ospita malati di Aids di via Camaldoli e per due famiglie che vivono a Ponte Lambro. Il Comune e la Protezione civile — sessanta gli equipaggi in azione — allestiscono un «campo base» nel centro sportivo di via Leonardo Cambini. «Tutte le persone sono state accolte, nessuno è rimasto ferito», assicura l’assessore comunale alla sicurezza Marco Granelli. La piena del Seveso era attesa. Da giorni — ininterrottamente — vigili, protezione civile e tecnici della Metropolitana milanese monitoravano i livelli delle acque che, dal loro ingresso nella zona nord della città, in via Ornato, viaggiano in una rete sotterranea di tubature. Strutture ormai inadeguate se è vero che dal 1976 a oggi si sono verificate 103 esondazioni. Quella di ieri è stata particolarmente intensa, sia per la portata d’acqua sia per la durata. Tanto che in serata il sindaco Pisapia ha annunciato la chiusura di una sessantina di scuole nella zona più colpita. Via Twitter è arrivato anche l’invito a tutti i milanesi «ad utilizzare i mezzi pubblici al posto dell’auto privata». «Sono quarant’anni che il quartiere finisce sott’acqua. Uno scandalo senza fine», si lamentano i commercianti di Niguarda che hanno posizionato paratie anti acqua davanti alle vetrine. In serata si teme per alcuni rom accampati vicino al Lambro. Le baracche sono state spazzate via dalla piena. Vigili del fuoco al lavoro per tutta la notte. Cesare Giuzzi 47 del 13/11/14, pag. 9 Galletti, chiacchiere ambientali e governo sblocca- cemento ERA IL COMMERCIALISTA DI CASINI, ORA È ALL’AMBIENTE E PROMETTE MILIARDI (SENZA AVERLI) CONTRO LE ALLUVIONI di Emiliano Liuzzi Ha definito i condoni edilizi dei tentati omicidi, salvo esserne a favore quando stava al governo, insieme all’Udc, il suo grande amore, e a Silvio Berlusconi. Oggi vive di entusiasmo renziano, fatto d'arcobaleno e fantasia, ma quando nel 2010 si candidò alla presidenza della Regione in Emilia Romagna era favorevole al nucleare, salvo quattro anni dopo, diventare ecologista più degli ecologisti. Ha fatto anche un po’ di confusione sull'acqua pubblica o privata, nel senso che ha cambiato idea. Ma soprattutto, d’intesa col governo che rappresenta, con lo Sblocca Italia, ha varato uno dei peggiori decreti in materia d’ambiente della storia della Repubblica: trivellazioni, cemento senza controllo, inceneritori. Lui si chiama Gian Luca Galletti, bolognese, 53 anni, conosciuto in Transatlantico come “il commercialista di Casini”. Ha un suo perché anche nella fase Renzi: è versatile, adattabile a qualsiasi opinione, democristianissimo nell’esporre i concetti: “Si potrebbe fare, ma si potrebbe anche non fare”. HA STUPITO tutti quando, nel commentare l’ennesimo nubifragio sulla Liguria, le altre due vittime, per la prima volta nella sua vita politica è riuscito a essere perentorio: “Basta con le sanatorie, sono tentati omicidi”. Ma tutti sono rimasti a bocca aperta quando ha annunciato che per la messa in sicurezza del disastro ambientale ci saranno sette miliardi in sette anni. Verrebbe da chiedersi dove il ministro riesca a trovare un miliardo di euro da qui a pochi giorni, quando dovrebbe dare il via ai lavori, dove concentrare le priorità. Quando poi si unisce a Graziano Delrio, compagno di Dc, i toni diventano debordanti: “La tutela dell’Italia che cade a pezzi è priorità assoluta anche per la politica, che per anni ha finto di non vedere e anzi spesso ha contributo alla situazione attuale, con concessioni e zero controlli. Basta con le promesse”. Messa così ci si aspetterebbe di vedere Galletti sui luoghi del disastro, blocchetto degli assegni alla mano per eludere un eventuale assalto. Dai conti del governo improbabile che escano fuori così tanti miliardi dalla sera alla mattina. MA SI SA e Matteo Renzi lo insegna: qualsiasi argomento ci si trovi a trattare deve essere una “priorità” e “per il bene del Paese”. Così Galletti, all’inizio dell’anno scolastico, aveva spiegato l'importanza dell'educazione all'ambiente per i bambini con tanto di due ore aggiuntive proprio per parlare del verde. Lo ha fatto il 15 settembre, alle scuole elementari Marconi di Bologna, le stesse che lui frequentò. Ma delle due ore aggiuntive non se ne parla. Se è per questo, lui e il presidente del Consiglio avrebbero dovuto visitare anche due scuole alla settimana, ma i bambini sono ancora lì che aspettano. Impietoso il ritratto che ne fece Monica Fassoni, presidente dei verdi europei: “Galletti e i centristi di Casini sono stati sponsor entusiasti del ritorno al nucleare, paladini sistematici dei condoni edilizi, mentre nelle città e regioni dove governano sono d’abitudine tra i principali fautori della deregulation urbanistica e del consumo forsennato di territorio. Nel Lazio, ai tempi della giunta Polverini, proprio l'assessore Udc ai lavori pubblici, varò un piano casa terrificante 48 che consentiva di costruire ovunque senza regole né limiti”. Il commercialista di Casini, a sua volta genero di Caltagirone: la somma dice cemento e lascia un certo stupore oggi che lo senti parlare così. Senza andare a cercare il passato c'è lo Sblocca Italia sul piatto. E oltre al cemento c’è l’elettrosmog, che il governo ha trattato come un problema minore. All’articolo 6 si specifica delle “agevolazioni per la realizzazione di reti di comunicazione elettronica a banda ultralarga”. Questo vuol dire insinuare una mimetizzata deregulation per l’avanzata delle prossime infrastrutture a supporto della connettività permanente via cellulare, visto che manca visto che non è prevista la parola autorizzazioni sulle per le multinazionali delle telecomunicazioni assegnatarie delle frequenze bandite dall’ultimo governo Berlusconi. Inoltre lo stesso decreto toglie alle toglie alle Regioni il potere di veto sulla ricerca e sulla trivellazione di pozzi di petrolio e di metano. Questo vuol dire più petrolio per tutti, nella fantasia, ma nella pratica il primo step è appunto perforare i terreni senza nessun controllo da parte degli enti locali. Anche questo il ministro Galletti dovrebbe spiegare nelle scuole che aveva annunciato di visitare. PETROLIO e cemento, capitolo contestato da tutti, per la prima volta sulla stessa linea i Verdi e i costruttori. I primi parlano del rischio di “cementificazione del demanio” e di “sostegno a interventi devastanti per il territorio”. I secondi invece si limitano a criticare il governo sui fondi destinati all’edilizia, troppo pochi per parlare di ripresa. Galletti non ne fa un grave problema. Va avanti. Anche perché cerca di farsi vedere poco. E quando appare l’idea può variare. del 13/11/14, pag. 3 I 50 milioni ancora bloccati in Sardegna Le vasche di Sarno usate come discariche Gianni Giovannelli, sindaco di Olbia, ha messo le mani avanti già ad agosto: «Sia ben noto a tutti, fin d’ora, che la mancata esecuzione delle opere menzionate espone la collettività olbiese agli stessi pericoli cui è andata incontro nell’alluvione del 18 novembre 2013». Lettera perentoria, con lungo elenco di destinatari, da Renzi al presidente della Regione, dal prefetto alla Protezione civile. A un anno da quando non solo Olbia ma mezza regione finì sott’acqua (18 vittime) sono stati ripuliti i canali, sistemati gli argini e poco altro. Non basta. 2013: Sardegna «L’allora presidente del Consiglio Letta venne e promise che ci avrebbe concesso una deroga al patto di Stabilità. Sto ancora aspettando» protesta il sindaco Giovannelli. Il Comune ha in cassa 50 milioni, ma non può spenderli. Per mettere in sicurezza il territorio ha studiato un complesso progetto da 122 milioni, in 4 lotti. «Ne basterebbero trenta per la prima tranche, le casse di laminazione, una risposta efficace perché strutturale. Nell’attesa possiamo solo guardare il cielo e pregare che non piova così tanto un’altra volta». 2011: Cinque Terre In una Liguria piegata dalle ultime alluvioni questa volta le Cinque Terre hanno retto. Clemenza del microclima e forse anche merito del cambio di passo dopo la tragedia di tre anni fa. Tutte le opere previste sono state realizzate, tranne l’appalto per la messa in sicurezza della strada dei Santuari, sbloccato appena un paio di settimane fa dopo un lungo contenzioso davanti al Tar che ha dato ragione alla ditta che aveva perso la gara (vicenda fotocopia di quella genovese del Bisagno). Il Parco delle Cinque Terre, rinnovato dopo gli scandali, è il motore di questa fase nuova. Con iniziative modello, come la recente 49 istituzione, in accordo con il Consiglio nazionale dei geologi, di un Centro studi per tenere d’occhio costantemente il territorio e prevenire i rischi. Ad Aulla, sconvolta nella stessa ondata di maltempo del 2011 (13 morti tra Liguria e Toscana), non va altrettanto bene. Gli interventi sul Magra sono rimasti nel cassetto fino a 4 giorni fa quando la Regione li ha tirati fuori grazie alla dichiarazione di stato di emergenza dopo gli ultimi disastri. 2009: Messina Dopo la colata di fango che invase Scaletta Zanclea e la frazione messinese di Giampilieri (in 36 persero la vita), Stefania Prestigiacomo, all’epoca ministro dell’Ambiente, fu netta: «È impensabile tornare, il paese è al di fuori di ogni possibile sicurezza». Altra profezia mancata, ma questa volta forse meglio così. «Per fortuna non si è arrivati a tanto. I lavori sono stati fatti, le criticità risolte, adesso è una zona sicura» assicura Antonio Rizzo, l’esperto del Comune per la Protezione civile. Anche il Sud può sorprendere, in positivo. Ma c’è poco da gioire. «Purtroppo non c’è solo Giampilieri — prosegue Rizzo —. A Saponara, colpita da una bomba d’acqua nel 2011, non è stato ancora fatto niente. Nell’ultimo rapporto della Protezione civile sui punti critici in Sicilia, il 29% sono in provincia di Messina. Ci sono 2.500 situazioni da tenere d’occhio, 500 soltanto nel capoluogo». 2000: Soverato Il 9 settembre di 14 anni fa, un acquazzone gonfiò la fiumara Beltrame, che uscì dagli argini spazzando via un camping con 14 villeggianti. Fu subito chiaro che quella struttura, nonostante tutte le autorizzazioni, non doveva stare in quel punto. Governo e Regione si rimpallarono le responsabilità sulla mancata segnalazione del rischio. I processi si sono conclusi senza nessun colpevole. «La cosa peggiore è che da allora poco è cambiato — denuncia Nuccio Barillà, presidente di Legambiente Calabria —. Abbiamo più volte segnalato situazioni anche peggiori, come un torrente sopra la superstrada a Reggio Calabria, o una scuola costruita su un argine». Nel 2010, Regione e governo fissarono 185 casi urgenti e si impegnarono a spendere 220 milioni. A luglio erano partiti solo sei cantieri, per meno di 5 milioni. Il commissario ad acta nominato da Roma per la qualificazione del territorio ha dato un’accelerata: una ventina di appalti sono partiti, per una quarantina sono in corso le gare. Ma ancora siamo ad appena un terzo di quanto era stato stanziato. 1998: Sarno Nel maggio del 1999, un anno dopo la colata di fango che seppellì Sarno (una strage, 159 morti), il ministro dell’Ambiente Edo Ronchi annunciò: «Il bacino è stato messo in sicurezza, pericoli imminenti non ce ne sono». Il sindaco Giuseppe Canfora, 16 anni dopo, non ne è più così convinto. «Le opere versano in uno stato di totale abbandono e degrado. Le vasche sono state trasformate in vere e proprie discariche di rifiuti con erbacce e arbusti che sovrastano ed impediscono il deflusso dell’acqua». La ricostruzione di Sarno prevedeva due fasi: la messa in sicurezza di canali e vasche (opere fatte, ma poi lasciate senza manutenzione) e la riduzione del rischio a monte (mai fatto). Con qualche paradosso, come racconta Antonio Milone, presidente dell’associazione delle vittime Rinascere: «Le abitazioni distrutte sono state ricostruite altrove. Così, adesso, chi è proprietario della casa non lo è del terreno su cui sorge». Non bastasse il dissesto, ci si mette anche la burocrazia. Riccardo Bruno 50 del 13/11/14, pag. 5 Genova ancora sott’acqua e beffata Dopo un mese, niente risarcimenti Manca la dichiarazione di calamità del governo per il disastro del 9 ottobre Imprenditori infuriati, speranze sul fronte fiscale. Negozi a rischio chiusura Teodoro Chiarelli «Un pensiero particolare ai commercianti che avevano avuto già il negozio distrutto dall’acqua tre anni fa. Erano ripartiti e adesso si sono ritrovati di nuovo in ginocchio. Vorrei rassicurarli sul fatto che il governo troverà le soluzioni giuridiche, non lasceremo soli coloro che vogliono ripartire, il governo sarà pronto a fare la propria parte». E’ passato un mese dalla tragica alluvione del 9 e 10 ottobre e il «pensiero» postato su Facebook da Matteo Renzi è rimasto tale: un pensiero, appunto. Il governo non ha trovato il tempo di proclamare lo stato di calamità. Per le imprese non è questione di lana caprina: il provvedimento consente varie agevolazioni, dalla sospensione del versamento dei tributi a quella degli adempimenti contrattuali. «Restiamo in attesa - dice sconsolato Giuseppe Zampini, presidente di Confindustria Genova - Abbiamo appreso, invece, che il ministero dell’Economia ha emesso un comunicato con il quale dà facoltà all’Agenzia delle Entrate di valutare la possibilità di non applicare le sanzioni per il mancato versamento delle ritenute previste per il mese di ottobre. Ci auguriamo che questa indicazione venga recepita in Liguria». Nel frattempo una nuova alluvione, lunedì e martedì, ha causato altri danni in città e, soprattutto, in provincia. Neppure i miseri 12,5 milioni di euro annunciati dal capo della Protezione Civile, Franco Gabrielli, sono stati ancora stanziati. Somma destinata «a coprire la prima assistenza alla popolazione, il soccorso e le somme urgenze». Ma evidentemente sul concetto di «urgenza» non c’è uniformità lessicale. Un fiume di parole si è abbattuto sulla città con la stessa violenza dell’alluvione. «Il presidente del Consiglio ha detto che non viene a Genova a fare passerella e fa bene sospira Paolo Odone, presidente dei commercianti Ascom e della Camera di Commercio Basterebbe che mandasse i soldi». L’Associazione commercianti ha contato 2.400 negozi danneggiati, solo a Genova. In città una rabbia sorda ha preso il posto del tradizionale «mugugno» dei genovesi. Ghiglino, in via XX Settembre, moda «english style» dal 1893, giunto alla quinta generazione, ha subito dal 1970 otto allagamenti. Le titolari, le sorelle Alba e Paola Barabino la notte del 9 ottobre sono state recuperate con un gommone dalla furia del Bisagno esondato mentre tentavano di salvare il salvabile in negozio. Contano danni per 170 mila euro fra merce e arredi. «Non abbiamo visto nessuno, neanche un pompiere - si sfoga Alba - Solo amici e tanti angeli del fango. Anche le pompe ce le hanno imprestate dei conoscenti. Dopo una settimana abbiamo riaperto, ma martedì sera, con l’allerta 2 eravamo qua, a spostare tutto al piano di sopra. Tornare alla normalità è dura. Io ho le spalle larghe, c’è un’assicurazione che ci ripagherà in parte. Ma chi non ce l’ha? La gente è disperata, sfiduciata, non si aspetta nulla. Vergogna». Roberto Panizza, fra gli ideatori del «mondiale del pesto», con l’alluvione ha fatto Bingo: un ristorante, un laboratorio e tre negozi, tutti sott’acqua. Almeno 200 mila euro di danni. Dopo 10 giorni ha riaperto. «Tengo duro, per forza. A 50 anni che faccio? Ripartire è obbligatorio. Dell’alluvione non interessa niente a nessuno. Io me la cavo, ma il giovane 51 che ha messo su un pizza al taglio e ha perso tutto? A lui, se non paga anticipato, non danno neppure la farina». Storie di chi non si rassegna. Come quella di Franco Pardo che ha riaperto il bar Parador in piazza della Vittoria, grazie ai tanti ragazzi che hanno spalato e alla suocera, nonna Vittoria, 89 anni, che per giorni ha lavato piatti infangati, con la stessa silenziosa semplicità con la quale aveva aiutato l’altra figlia nell’alluvione del ‘70. O quella di Andrea Giachino che ha ripreso a sfornare farinata all’Antica osteria della Foce due settimane dopo il disastro. Ha rifatto i biglietti da visita del locale con un’appendice: il logo «Ancora una volta non c’è fango che tenga». del 13/11/14, pag. 15 Torino-Lione. Il presidente del consiglio chiede il dettaglio dei costi dell'opera - Martedì, al rientro dall'Australia, previsto un vertice sul progetto Faro di Palazzo Chigi sui conti della Tav L'intervento dopo l'audizione in Senato dei vertici Fs che hanno confermato l'incertezza delle cifre Alessandro Arona Maria Chiara Voci Il premier Matteo Renzi scende in campo sulla Torino-Lione. Con una telefonata, che è arrivata ieri mattina al senatore del Pd Stefano Esposito, all'indomani dell'audizione in Commissione Lavori Pubblici al Senato dei vertici delle Ferrovie. Vuole sapere, il presidente del Consiglio, capire il perché del balletto di cifre che sta girando, da settimane, intorno al progetto per la tratta internazionale dell'infrastruttura. «Il telefono è squillato alle 7,45 del mattino», racconta Esposito, il politico che per primo dopo aver letto il 24 ottobre le rivelazioni del Sole 24 Ore sulle cifre dell'opera, contenute nel Contratto di Programma 2012-2016 di Rfi, si è mosso per chiedere chiarezza e trasparenza. «Renzi - prosegue Esposito - mi ha chiesto di spiegargli la mia posizione sulla questione dei costi Tav. Gli ho illustrato sinteticamente quanto avvenuto nelle ultime due settimane. Lui ha risposto domandandomi l'invio, entro la serata di ieri, di una nota scritta e puntuale, che esaminerà durante il suo viaggio in Australia. Mi ha inoltre dato appuntamento al rientro, fra martedì e mercoledì, per fare il punto della situazione». Renzi premier non si è ancora pronunciato chiaramente sulla Torino-Lione, anche se nel 2013 la definì «opera inutile», «soldi impiegati male», «investimento fuori scala e fuori tempo». E nello staff di economisti chiamati dal premier nel settembre scorso a Palazzo Chigi si contano alcuni studiosi esplicitamente "no-Tav": tra questi Yoram Gutgeld (ex McKinsey, deputato Pd), che ha definito nel 2013 le nuove linee ad alta velocità «opere faraoniche, miliardarie e inutili»; e Roberto Perotti (Bocconi), che nel 2008 scrisse sul Sole 24 Ore che «deturpare una vallata per ridurre le emissioni dell'1% al costo di 16 miliardi (compresa tratta nazionale, ndr) è un buon investimento per le imprese appaltatrici, ma non per il Paese». La giornata di martedì 11 novembre, comunque, sarà ricordata fra quelle che hanno segnato la storia del Tav. Non solo per l'incertezza nelle spiegazioni intorno alle reali cifre dell'opera dimostrata dai vertici Fs. Ma soprattutto per le parole di Marcello Messori, presidente di Fs, che di fronte ai parlamentari ha ammesso che comunque vada, se il costo del tunnel di base più stazioni accessorie non sarà di 12 miliardi come sovrastimato 52 nel Contratto di Programma, la cifra definitiva della tratta internazionale della Torino-Lione non sarà neppure di 8,5 come sempre dichiarato dal ministero delle Infrastrutture e da Ltf, la società di progettazione dell'infrastruttura. «La stima reale - ha spiegato il presidente non è infatti ancora determinabile», visto che rispetto ai valori del 2012 dovrà subire una «rivalutazione monetaria», con tasso da concordare tra Italia e Francia. Così anche sull'aspetto dei ricavi, l'analisi costi/benefici ufficiale, stilata da chi promuove la linea ad alta capacità, «non è più aggiornata - ha aggiunto Messori - all'andamento attuale del mondo». Nel giorno della telefonata di Renzi, a Torino, anche i No Tav sono inoltre scesi in campo per mettere il proprio sigillo sulla vicenda degli extracosti, con una conferenza convocata ad hoc. «Il valore di 12 miliardi per il tunnel internazionale - spiegano Alberto Poggio, Roberto Vela e Paolo Prieri, che animano il Presidio Europa - è reale, ci si è arrivati seguendo le regole previste per legge. Tutte le opere, soprattutto i tunnel, sono soggetti a una rivalutazione, che non si basa sull'inflazione, ma su fattori come la revisione prezzi, gli oneri finanziari, gli adeguamenti progettuali e gli eventuali imprevisti. Per questo, anche il Cipe, quando approverà il progetto definitivo, dovrà seguire la legge e basarsi sulla medesima cifra dei 12 miliardi, che è quella rivalutata "a vita intera". L'errore è continuare a sostenere che il valore ufficiale dell'infrastruttura sia di 8,5 miliardi». «Non ci sono abbastanza fondi europei per pagare la Torino-Lione» concludono gli oppositori No Tav. 53 INFORMAZIONE del 13/11/14, pag. 0 Venti di riscossa Norma Rangeri Mi riprendo il manifesto. Se vi abbiamo mandato di traverso il caffè, se di fronte all’edicolante avete detto «magari oggi no», non dovete sentirvi in colpa. Ma se avete risposto «oggi lo compro perché me lo merito» allora dovete esser certi che il collettivo del manifesto farà il possibile, e anche l’impossibile, per uguagliare generosità e tenacia di questo straordinario editore collettivo Chi vive di un magro stipendio, con venti euro riesce a mettere insieme il pranzo con la cena. Per chi invece non ha ristrettezze economiche venti euro non fanno la differenza. Lo scriveva già Luigi Pintor quando nel 1997 il manifesto uscì a cinquanta mila lire, che per molti «bastano a vivere una settimana», per altri «ad accendere il sigaro». Probabilmente per buona parte delle lettrici e dei lettori che ci seguono, da una vita o da pochi anni, venti euro fanno, eccome, la differenza. Ma adesso vi chiediamo di prendere una decisione, di fare un salto con l’asta insieme a noi per riacquistare la testata quando, a fine anno, i liquidatori la metteranno all’asta. Si tratta di scegliere se il manifesto deve vivere, se il giornale è un’agorà da difendere perché ci si riconosce, perché interessante, perché stimola l’intelligenza individuale e collettiva, perché produce cultura, perché è diverso dal resto dell’informazione. E perché — e per alcuni soprattutto — è un giornale utile per una sinistra che ha bisogno di ritrovare la strada per unire le forze e dare battaglia. Nel breve e nel lungo tempo. E non solo contro il governo, ma per un’altra idea di società, di mondo. Se la risposta è sì, allora è utile ricordare che il «mercato» (qualcuno sarà mai perseguito per il «reato» di apologia di mercato?) non solo non tirerà l’Italia e l’Europa fuori dai guai, ma non basterà (come sempre) a garantire la vita di un’impresa editoriale come questa. Perché il manifesto non solo non ha un editore alle spalle, né un partito o un imprenditore: non ha neppure una base sufficiente di pubblicità che, insieme alle vendite, è l’unica altra voce d’incasso di una cooperativa come la nostra. L’editore siete voi, le lettrici e i lettori più assidui insieme a quelli saltuari. Vostre le gambe che ogni giorno camminano per rinnovare un impegno, offrendo a noi stessi e alla sinistra un luogo pubblico di confronto. Senza questa rete il manifesto non esisterebbe più da gran tempo. Le difficoltà economiche che conoscete sono rese più difficili adesso perché mai in passato ci siamo trovati di fronte a un progressivo azzeramento dei fondi dell’editoria. Senza le spalle coperte da qualcuno, senza fondi pubblici, con la pubblicità in picchiata, un quotidiano potrebbe vivere solo con un prezzo di copertina maggiorato. Non da arrivare fino ai venti euro che vi chiediamo oggi, ma certamente con un prezzo doppio o triplo rispetto all’attuale. Poi si può anche sostenere che i giornali è meglio chiuderli (vedi Liberazione, l’Unità, Europa, Padania, Pubblico, il Riformista e decine di testate locali), che è bene lasciare in edicola solo quelli che hanno imprenditori e finanzieri nei consigli di amministrazione, insieme ai blog dei milionari. Naturalmente noi pensiamo che senza una libera stampa non c’è democrazia (né antica, né moderna). E abbiamo la presunzione di credere che senza il manifesto una sinistra 54 unitaria di alternativa non avrebbe molte chance, così come i movimenti di lotta non avrebbero quella visibilità che un quotidiano nazionale può offrire. Questa è la situazione. Che, per fortuna, non è contrassegnata solo da brutte notizie. Ce n’è anche una buona: il manifesto, nel mese di settembre, è l’unico quotidiano ad aver aumentato le vendite. Un segnale di fiducia e di attenzione nei nostri confronti, che cerchiamo di ricambiare ogni giorno, mettendo testa e cuore nel lavoro che facciamo. E che vale — ogni tanto — venti euro. del 13/11/14, pag. 1/31 La nuova Sky vuol cambiare il mercato tv Francesco Manacorda Da ieri sera l’Europa delle tv ha un nuovo gigante in casa. Un gigante dai natali australiani, con il passaporto britannico, ma che parlerà - e penserà, si spera - anche in italiano. Con l’acquisizione appena completata da parte della britannica BSkyB del 100% di Sky Italia e dell’89,7% di Sky Deutschland nasce infatti il primo operatore di pay tv europea, con attività integrate in cinque Paesi - Gran Bretagna, Irlanda, Germania, Austria e Italia - e un totale di 20 milioni di abbonati. È una fusione tutta sotto il segno di Rupert Murdoch: BSkyB, di cui il magnate australiano è maggior azionista attraverso la 21st Century Fox, ha infatti comprato le quote delle altre due tv dalla stessa Fox. Non cambia nulla, dunque, visto che in fondo Murdoch ha comprato e venduto? Al contrario, cambia moltissimo. La scommessa delle tre Sky, o della nuova Sky, come preferiscono chiamarla tra Londra e Milano, è innanzitutto quella di puntare dritto sulle sinergie industriali che finora le società accomunate dal nome non hanno potuto sfruttare perché con azionisti diversi: dai decoder ai sistemi di gestione dei clienti, alle piattaforme con cui accontentare un pubblico sempre più esigente che vuole la partita anche quando è in treno o il film che cominci appena messi a letto i bambini. E poi c’è una questione di taglia: operatore più grosso - è l’equazione facile da fare uguale più forza nel contrattare i diritti, che siano per eventi sportivi, film o altri programmi, anche a livello europeo; e dunque una migliore offerta per i suoi spettatori. Questa, a dire il vero, è al momento più una speranza che una previsione: la Commissione europea, nel dare il suo via libera all’operazione, ha notato infatti che sebbene ci siano già degli operatori televisivi che operano in diversi Paesi europei chi detiene i diritti non ha finora accettato, tranne limitatissime eccezioni, di venderli assieme per più mercati nazionali. Vista dall’Italia, la nuova Sky potrebbe dare una spinta al settore delle produzioni televisive. La serie Gomorra, prodotta da Sky Italia e venduta in decine e decine di Paesi è ovviamente il caso di scuola per chi pensa che proprio per via televisiva ci possa essere una rinascita delle fiction italiane, anche grazie al fatto che il nuovo soggetto dovrebbe avere quasi 6 miliardi di euro da investire ogni anno per la programmazione. In Italia Sky sta già producendo «The Young Pope», una serie in otto puntate diretta dal premio Oscar Paolo Sorrentino su un Papa immaginario, e una serie su Diabolik, entrambe già studiate per essere esportate al massimo. Resta ovviamente da capire se oltre all’accoppiata criminali e Vaticano la creatività italiana sarà in grado di farsi apprezzare anche su altri temi. Vista dalla Gran Bretagna, invece, la nuova Sky, è anche una grande scommessa. La scommessa di passare da un territorio già abbondantemente presidiato dalla pay-tv - dove si fa sentire anche la concorrenza di operatori un tempo confinati alle telecomunicazioni 55 come la Bt - ad altre parti d’Europa dove il tasso di penetrazione è inferiore e dove si pensa evidentemente di poter crescere ancora entrando nelle abitudini degli spettatori. Se infine ci si allontana un po’ dai singoli Paesi e si cerca di guardare l’operazione e il suo impatto in Europa, è facile prevedere che alla mossa di Sky potrebbero seguire altre contromosse. Operatori di pay-tv, gruppi delle telecomunicazioni e soggetti ibridi come quella Netflix che ha spopolato negli Usa e adesso sta prendendo piede in Europa sono tutti contendenti nella stessa arena, con l’obiettivo di portare nelle nostre case contenuti anche e soprattutto attraverso la banda larga. In Gran Bretagna, cioè nel mercato oggi più avanzato - dicono i dati dell’e-Media Institute -, proprio il combinato di offerta telefonoInternet-Tv ha in mano il 90% del mercato della banda larga. La stessa Sky Italia, non a caso, ha stretto accordi con Fastweb e con Telecom - dal prossimo febbraio - per portare i suoi programmi agli abbonati delle due compagnie. Ma anche Mediaset ha annunciato di puntare a un’alleanza per portare la sua pay-tv sulle linee Telecom. Non è che l’inizio, e non solo in Italia, di un nuovo grande valzer tra tv e tlc. 56 CULTURA E SCUOLA del 13/11/14, pag. 29 Musica senza spot ma a pagamento Ora YouTube cambia strategia Lanciato un servizio in abbonamento. Da lunedì al via i test in 7 Paesi, Italia compresa Andrea Laffranchi YouTube cambia pelle. Anzi home page. Da ieri sera la piattaforma video offre una doppia possibilità: sotto la tradizionale barra di ricerca potremo scegliere «che cosa guardare» e allora ci ritroveremo sullo schermo le categorie cui siamo abituati, oppure «musica» se preferiremo concentrarci sulle canzoni. La nuova home è disponibile gratuitamente sia dal sito che dalla app per Android (per il sistema iOS, quello degli iPhone, bisognerà attendere qualche giorno) e ci presenterà dei suggerimenti personalizzati in base a un algoritmo che interpreta le nostre visualizzazioni e col tempo imparerà a «conoscere» i nostri gusti (attenzione quindi a quello che clicchiamo). L’idea di YouTube parte dall’analisi dei dati. La musica è il contenuto più guardato all’interno della grande videoteca virtuale di Google. La rivoluzione digitale ha cambiato il modo di ascoltare musica e Internet, soprattutto nella fascia under 25 anni, ha sostituito sia le radio che i negozi di dischi. Gli equilibri economici si stanno spostando: i ricavi che le case discografiche ottengono dalle piattaforme di streaming e dalla pubblicità su YouTube hanno superato quelli dal download di canzoni e album. YouTube ha un catalogo sterminato e ora ha deciso di sfruttarlo. Nel suo repertorio non ci sono soltanto i videoclip ufficiali. Ormai ogni concerto viene ripreso da centinaia di smartphone e le immagini vengono caricate sulla piattaforma. Il «tubo» è anche una vetrina per chi ci vuole provare: magari solo per scherzo e allora pubblica la parodia di un video famoso che poi diventa un fenomeno virale da milioni di clic, magari sul serio e allora carica le proprie canzoni o reinterpreta, Justin Bieber ha cominciato proprio così, i successi di altri. Con tutto questo materiale si potranno costruire delle playlist, seguire i video più cliccati, cercare il nostro artista preferito ed essere portati a una pagina dedicata. Il grande magazzino della musica è senza confini ma anche disordinato. Se vogliamo qualcuno che ci aiuti a mettere a posto gli scaffali e che ci dia le chiavi per entrare quando vogliamo dobbiamo pagare. In Italia e altri sei Paesi (Stati Uniti, Gran Bretagna, Spagna, Irlanda, Finlandia e Portogallo) lunedì prossimo partirà anche la versione beta di Music Key, un altro prodotto studiato dal colosso informatico. La strategia di Google è quella di conquistare gli appassionati di musica disposti a pagare e di fare concorrenza alle piattaforme di streaming. Su Spotify e Deezer troviamo (quasi) tutta la musica e possiamo ascoltare la canzone che vogliamo quando vogliamo: nel nostro telefonino abbiamo un negozio di dischi. Music Key aggiungerà a quel catalogo da oltre 30 milioni di brani anche la parte visiva e tutti quei video non ufficiali generati dagli utenti. Il servizio per ora è a inviti (ne stanno partendo via email centinaia di migliaia in tutto il mondo) ed è a pagamento: dopo i primi sei mesi gratis, gli «invitati» pagheranno 7,99 euro al mese, mentre chi accederà in un secondo momento avrà una bolletta da 9,99 euro. Su Music Key non ci sarà la pubblicità che precede i video, funzionerà anche in background 57 quindi senza mettere in pausa la riproduzione uscendo dall’app di YouTube, e permetterà di scaricare i contenuti per ascolto e visione offline. del 13/11/14, pag. 14 Lirica. L'audizione del sovrintendente «Via alternativa ai licenziamenti all'Opera di Roma» Antonello Cherchi ROMA Sull'Opera di Roma c'è la volontà di trovare una strada alternativa ai licenziamenti: lo hanno sottolineato ieri i sindacati e il sovrintendente Carlo Fuortes, entrambi sentiti (ma in momenti diversi) dalla commissione Cultura della Camera. Dopo l'annuncio dell'allontanamento dell'orchestra e del coro e l'esternalizzazione delle attività artistiche, «c'è stato - ha affermato Fuortes - un atteggiamento totalmente diverso da parte dei sindacati, una grande assunzione di responsabilità. Si sono dimostrati disponibili a ridiscutere la parte retributiva e hanno proposto nuove regole sugli scioperi. La fase è ancora aperta, ma nel corso dell'iter che la legge prevede prima di formalizzare i licenziamenti, credo si possa trovare una soluzione». Anche dalle diverse sigle sindacali sono arrivati conferme in tal senso: «I lavoratori – ha spiegato Alessandro Cucchi segretario generale della Uilcom Roma e Lazio – sono disposti anche a sospendere alcune loro attribuzioni per un periodo determinato, a fronte dell'obiettivo del risanamento, con la possibilità, una volta conseguito, di tornare a recuperare pezzi di salario». «Chiediamo che i posti di lavoro che abbiamo restino e soprattutto chiediamo un progetto cultura», ha aggiunto Maurizio Giustini, segretario della Fistel Cisl. Su tutto c'è la necessità di risanare i conti del teatro, di aumentare la quota di autofinanziamento e di incrementare la produttività. Per quanto riguarda il pregresso – «una situazione – ha spiegato Fuortes – che non nasce nel 2013, ma è il frutto di interventi stratificati nei decenni che hanno portato ai conti disastrati di oggi» – c'è la possibilità di far ricorso alla legge Bray (legge 91/2013), che ha previsto un fondo di rotazione di 125 milioni di euro per aiutare le fondazioni liriche in grave dissesto, a fronte, però, di un piano di risanamento che l'Opera di Roma ha presentato in luglio al commissario della lirica, Pierfrancesco Pinelli. Per il futuro, invece, è necessario ridurre le spese e aumentare la produttività. «Dobbiamo incrementare l'autofinanziamento, che ora – ha illustrato Fuortes – è al 17,8%, contro il il 56,6 dell'Arena di Verona, il 51,1 della Scala o il 36,6 di S. Cecilia». In questo modo si sarà meno legati ai contributi pubblici, che all'Opera nel 2013 hanno raggiunto i 41,3 milioni di euro, più anche della Scala, che però ha un valore della produzione di 116,5 milioni, contro i 52 milioni del teatro della capitale. Bisogna, dunque, lavorare di più: «Ora il costo del personale – ha spiegato Fuortes – incide sul valore della produzione per il 76% (39,5 milioni), contro una media del 62%. Eppure l'orchestra "timbra" solo 125 giorni l'anno». 58 del 13/11/14, pag. 14 “Siamo atterrati sulla cometa” la missione impossibile di Rosetta che ci svelerà i segreti della vita Riesce l’impresa ad alto rischio del lander Philae: festa all’Agenzia spaziale europea Un successo anche dell’Italia che ha fornito molta della tecnologia di bordo CLAUDIA DI GIORGIO DARMSTADT . «We landed on a comet!». «Siamo scesi su una cometa!». Urla di gioia in cinque o sei lingue, grandi abbracci e un bel po’ di occhi lucidi hanno accolto ieri pomeriggio, nella sede di Darmstadt dell’Agenzia spaziale europea la notizia che dopo oltre dieci anni di viaggio a bordo della sonda Rosetta, il piccolo lander Philae — un cubetto di un metro per lato — è arrivato sulla superficie della cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko e ha stabilito le comunicazioni con il centro di controllo. Per la prima volta nella storia un oggetto costruito da mani umane ha compiuto un’impresa straordinaria e rischiosa, riuscendo a raggiungere una cometa che viaggia a 18 chilometri al secondo, fermarsi sulla sua superficie e iniziare a trasmettere il suo segnale verso di noi da 511 milioni di chilometri di distanza. Un’impresa il cui successo era tutt’altro che scontato fino a poche ore prima, quando all’Esa hanla no deciso di dare il via alla separazione tra la sonda Rosetta e il lander Philae malgrado qualche problema proprio al sistema che assicura l’ancoraggio del lander alla superficie scabra e bitorzoluta della 67P. Hanno avuto ragione: dopo una discesa durata sette ore, Philae è arrivato, è sul- cometa. E che cometa. Arrivata puntuale all’appuntamento con la 67P/Churyumov-Gerasimenko il 6 agosto scorso, dopo aver percorso oltre sei miliardi di chilometri in giro per il sistema solare, Rosetta ha iniziato osservazioni sempre più ravvicinate, che hanno rivelato ai responsabili della missione di trovarsi alle prese con un oggetto assai diverso dalle aspettative. Un corpo celeste complesso, con una strana forma a due lobi (simile a una paperella di gomma, secondo qualcuno), e molto più attivo del previsto. Benché sia ancora relativamente lontana dal Sole, circa 450 milioni di chilometri, la 67P emette già parecchi getti di gas e polveri, che si sono aggiunti alle asperità del terreno per complicare le prospettive di atterraggio sicuro di Philae. Se si considera poi la gravità quasi inesistente (i 100 chili di peso del lander sulla superficie della cometa “equivalgono” circa a un grammo), è facile giustificare il pessimismo che si registrava ieri a Darmstadt. E invece, a dispetto di tutto, «siamo atterrati su una cometa». E in questo “noi” c’è anche tanta Italia, a cominciare dai due italiani dell’Esa — Paolo Ferri, responsabile delle operazioni, e Andrea Accomazzo, responsabile di volo di Rosetta — che ieri so- no stati gli ansiosi protagonisti di una giornata che sembrava non finire mai. Sono italiani anche tre degli strumenti a bordo della sonda, e italiano è il trapano di cui è dotato il lander Philae, realizzato da Galileo Avionica e di cui è responsabile scientifico Amalia Ercoli Finzi del Politecnico di Milano. «Non ho dormito e ho pensato che dieci anni fa, quando abbiamo ideato questa missione, dovevamo essere per forza fuori di senno», ha raccontato emozionata. «Dobbiamo essere orgogliosi che la tecnologia italiana abbia contribuito a portare la missione Rosetta fin laggiù», ha scritto su Twitter il presidente del consiglio Matteo Renzi. E l’amministratore delegato e direttore generale di Finmeccanica, Mauro Moretti, in una nota: «È stato un risultato eccezionale per tutte le imprese italiane 59 coinvolte, e in particolare quelle del gruppo Finmeccanica, che testimonia quanto sia importante una forte collaborazione tra il mondo scientifico e industriale». Il trapano italiano, chiamato SD2 (Sample Drilling&Distribution), ha il ruolo fondamentale di raccogliere campioni del suolo cometario nella speranza di svelarne i segreti. Le comete, infatti, sono una specie di capsula del tempo che conserva resti della materia del disco protoplanetario da cui si sono formati il Sole e i pianeti. Il loro studio è quindi essenziale per capire la nascita e la formazione del nostro sistema solare. Ma potrebbero avere avuto un ruolo ancora più cruciale se al loro interno, come sostiene un’affascinante teoria, vi fossero degli amminoacidi, i mattoni fondamentali per la “costruzione” della vita. Le comete sarebbero allora una sorta di seminatrici della vita attraverso il cosmo, un’ipotesi che Philae e Rosetta potrebbero riuscire a confermare. Perché l’avventura di Rosetta, in realtà, con il successo di ieri può dirsi appena agli inizi. Mentre Philae raccoglierà dati sulla superficie della 67P fino a marzo 2015 — tutto dipende dalla resistenza dei suoi strumenti scientifici al calore crescente — Rosetta continuerà infatti a seguire la cometa nella sua corsa verso il Sole, catturando campioni di gas e polveri ed effettuando altre osservazioni a distanza quanto più possibile ravvicinata per documentarne la trasformazione via via che si riscalda. Superato il punto di massima vicinanza al Sole (il perielio) nell’agosto 2015, Rosetta seguirà poi la “sua” cometa durante il viaggio di ritorno verso i confini più esterni del sistema solare, proseguendo nelle sue osservazioni almeno fino alla fine dell’anno. E regalandoci nuove conoscenze e nuove emozioni. 60 ECONOMIA E LAVORO del 13/11/14, pag. 2 Sciopero generale, altro che ponte Massimo Franchi Cgil. Camusso fissa al 5 dicembre la mobilitazione. I renziani subito all’assalto: «Con l’Immacolata sono 4 giorni di vacanza». Ma la scelta deriva dalla concomitanza con la protesta dei pubblici. Otto ore di stop con manifestazioni territoriali. Il ministro Madia però convoca i sindacati per la riforma della Pubblica amministrazione, Cisl e Uil si chiamano fuori La fanfara renziana lo ha già ribattezzato lo sciopero-ponte, visto che venerdì 5 dicembre cade a tre giori dall’Immacolata. Nell’idea perversa del paese che hanno gli intimi del premier, i lavoratori che non andranno al lavoro quel giorno — rinunciando dunque al salario — lo faranno per potersi godere una vacanza di ben quattro giorni in qualche località sontuosa. La scelta della data proposta da Susanna Camusso e votata con tre soli voti contrari dal direttivo della Cgil ieri mattina è invece figlia di una volontà unitaria nei confronti di Cisl e Uil. Lo spostamento dall’iniziale proposta di venerdì 12 dicembre è infatti dovuta alla volontà di dare forza allo sciopero unitario del comporto pubblico, fissato — anche se non ancora proclamato — dai segretari generali delle varie federazioni di Cgil, Cisl e Uil proprio per il 5 dicembre. A testimoniarlo c’è l’ultimo paragrafo del documento approvato dal Direttivo. «La Cgil plaude con convinzione alla scelta dei sindacati dei comparti pubblici di proclamare per il prossimo 5 dicembre uno sciopero generale unitario. Per questo il Direttivo sceglie di stare e sostenere l’unità delle categorie dei pubblici e proclama per venerdì 5 dicembre uno sciopero generale di 8 ore di tutti i settori pubblici e privati, rivolgendo nel contempo un appello a Cisl e Uil perché tale occasione possa costituire l’opportunità di un momento di mobilitazione unitaria e generale», si conclude il documento. Ma mentre è in corso il Direttivo Cgil accade che il ministro Marianna Madia convochi i sindacati per lunedì 17 e che Cisl e Uil decidano di ritirare lo sciopero. «La convocazione è certamente un fatto positivo, ma riguarda solamente la riforma della pubblica amministrazione e non il rinnovo del contratto o la legge di stabilità — specifica Rossana Dettori, segretario generale della Fp Cgil — . Per questo noi non cambiamo la nostra decisione e auspico e mi impegno perché non lo facciano nemmeno i comparti pubblici e della conoscenza di Cisl e Uil». Da parte di Cisl e Uil arriva però subito la marcia indietro. «Dopo la grande manifestazione di sabato scorso, per noi l’oggetto del confronto con il governo resta, oltre alla riforma della pubblica amministrazione, il rinnovo del contratto per tutti i dipendenti pubblici», commenta il segretario generale della Cisl, Annamaria Furlan, giudicando «positiva» la convocazione da parte del ministro Madia e di fatto declinando l’invito della Cgil ad aderire allo sciopero generale del 5 dicembre. «Qualcuno ci chiede di ascoltare la piazza: noi l’abbiamo ascoltata bene. E dalla piazza è giunta la richiesta di rinnovare il contratto del pubblico impiego, di accogliere le rivendicazioni dei pensionati e di verificare cosa ci sia di utile o dannoso per i lavoratori nella legge di stabilità e nel Jobs Act», dice il segretario generale aggiunto Uil, Carmelo Barbagallo. «La convocazione a Palazzo Chigi è un passo 61 importante che, ora, va verificato nel merito. Se il governo non ha premura di compiere atti unilaterali, noi non abbiamo premura di proclamare scioperi», dice ancora Barbagallo: «Vediamo prima se esistono margini per aprire una trattativa vera su pubblico impiego, pensioni, legge di stabilità e sul Jobs Act», conclude lasciando la porta minimamente aperta. Per Camusso invece il governo ha già deciso. «Siamo sempre pronti a farci stupire dagli effetti speciali ma dubito che il governo si stia accingendo a decidere un cambiamento strutturale della legge di stabilità. Per questo penso che dobbiamo continuare a sostenere la nostra mobilitazione, rafforzando le iniziative unitarie ma dandogli una impronta generale», ha detto annunciando lo sciopero. Sciopero che sarà articolato a livello territoriale con un centinaio di manifestazioni previste che avrà «il tratto di una forte e diffusa articolazione, sia nelle forme, sia per i soggetti cui sono rivolte, con particolare attenzione sia a proseguire la campagna di assemblee nei luoghi di lavoro e sul territorio che è stata la chiave di volta della imponente partecipazione alla manifestazione del 25 ottobre, sia a promuovere una nostra specifica iniziativa — i cosiddetti “scioperi alla rovescia” — al servizio dei cittadini, soprattutto in quelle realtà territoriali oggi duramente colpite in coincidenza con una condizione meteorologica disastrosa», recita il documento Cgil. Lo sciopero ha quindi avuto l’effetto di compattare completamente la Cgil. A testimoniarlo l’intervento di Gianni Rinaldini, fino al congresso leader della minoranza. «Il successo del 25 ottobre dimostra come la Cgil è l’unica organizzazione di massa che può dare un senso alla democrazia in Italia e opporsi alla precarizzazione del lavoro voluta da Renzi in una situazione assolutamente pericolosa, con un forte rischio demagogia e razzismo, come dimostrano i segnali evidenti degli ultimi giorni. Detto questo però — continua Rinaldini — dopo la mobilitazione la Cgil deve aprire una fase nuova: lo sfarinamento delle controparti ci impone di rividere la nostra politica e la nostra organizzazione», chiude Rinaldini. del 13/11/14, pag. 2 Jobs Act, i veri effetti sui precari: tutelato solo un disoccupato su dieci Roberto Ciccarelli Precarietà. Associazione XX maggio: l'«Aspi» riguarderà un decimo dei disoccupati. Esclusi autonomi, liberi professionisti e iscritti gestione separata Inps Il Jobs Act come mai nessuno ve lo ha raccontato fino ad oggi. Un dossier dell’associazione XX maggio-Flessibilità Sicura, dal 2007 nel Forum del Lavoro del Partito Democratico, ha analizzato le attuali proposte del governo Renzi, insieme a quelle dell’opposizione e della minoranza Pd e ha descritto quali saranno i veri effetti sulla vita dei precari una volta entrata in vigore la nuova riforma del lavoro. A dispetto degli annunci sulle novità epocali contenute nel provvedimento all’esame del parlamento, la precarietà non verrà affatto superata e, anzi, rischia di peggiorare. Il premier Renzi e il ministro del lavoro Poletti sostengono, tra l’altro, che il Jobs Act universalizzerà l’assicurazione per la disoccupazione Aspi a tutti i precari. Gli esperti dell’associazione XX maggio ha condotto un rigoroso «fact-checking» su questa affermazione e non hanno trovato traccia di questo auspicio nella legge delega. L’Aspi, in realtà, sarà estesa solo ad altri 46.577 collaboratori coordinati e continuativi (Cococo), 62 quelli con più di tre mesi di contributi versati. La platea di lavoratori che potrebbe accedere al «nuovo» sussidio di disoccupazione crescerebbe fino a 317.656 persone, un numero che comprende 267.079 collaboratori a progetto. A settembre i disoccupati hanno raggiunto quota 3,2 milioni. Sempre che riesca ad approvare tutti provvedimenti della legge delega, il governo prevede di assicurare un sussidio solo a un decimo di loro. Resteranno esclusi i parasubordinati e le partite Iva iscritte alla gestione separata dell’Inps (1,8 milioni), gli autonomi iscritti all’ex Enpals e tutti i liberi professionisti, tra i quali si sono radicalizzate le nuove forme di precarietà, in particolare dai 40 anni in giù. Senza contare che non prevede alcuna misura di tutela per i circa quattro milioni di precari. «Più che un’universalizzazione dei diritti, questo è un ossimoro» commenta Andrea Dili, portavoce dell’associazione XX Maggio. L’esecutivo prevede inoltre l’azzeramento dei contributi per i nuovi assunti a tempo indeterminato con uno stanziamento da 1 ‚9 miliardi. «Anche se consideriamo questo bonus, il lavoro dipendente resterà sempre più costoso per l’impresa. Senza contare che gli sgravi durano solo tre anni — aggiunge Dili — Sarà sempre più conveniente per l’impresa preferire i bassi compensi degli atipici o delle partite Iva». Gli sgravi dureranno tre anni, mentre i precari continueranno a essere pagati sempre meno e le aziende potranno decidere unilateralmente la quantità effettiva da assumere, quando gli serviranno. Un meccanismo che la cancellazione dell’articolo 18 per i neo-assunti e il «contratto a tutele crescenti» certamente non neutralizza. Anzi, si apre uno scenario paradossale. La legge cosiddetta «Biagi» cancellò i co.co.co, Renzi invece li riporterà in vita. «Questa possibilità darebbe alle imprese che vogliono abusa>rne maggiore libertà di farlo perché toglierebbe quelle regole e quelle tutele introdotte per i co.pro. ma assenti per i co.co.co», aggiunge Dili. Altro elemento che getta un’ombra di grande incertezza sulla legge delega è la proposta sul compenso minimo fissato per legge. «È difficilmente applicabile a tutti i settori indistintamente e complesso da adottare per le singole professionalità – sostiene Dili – Il minimo per legge finirà per essere più basso della più bassa delle tariffe previste dalla contrattazione collettiva». In pratica, il Jobs Act non cambierà nulla per i collaboratori. Nata per creare occupazione, la riforma spingerà invece i collaboratori ad uscire da questo rapporto di lavoro; continuerà ad impoverire gli autonomi che guadagnano in media soli 723 euro netti mensili, mentre con lo stesso reddito lordo ad un lavoratore dipendente restano in tasca 1283 euro mensili netti. Così facendo Renzi e Poletti non faranno altro che rafforzare una tendenza ormai accertata: dal 2007 al 2013 sono stati registrati circa 350 mila collaboratori in meno, di questi quasi 200 mila solo tra il 2012 e il 2013. Una catastrofe. «In Italia la flessibilità dev’essere pagata di più della stabilità. O facciamo un sistema di questo tipo – conclude Dili — oppure l’alternativa sarà quella di abbassare i compensi dei lavoratori, facendo concorrenza alla Romania o al Vietnam. Ma questa strada è arrivata alla fine. Dopo non c’è più nulla». del 13/11/14, pag. 13 Un miliardo in più per la manovra Il governo cerca di aumentare l’importo per gli ammortizzatori e di ridurre le tasse a fondi pensione e liquidazioni E si propone di 63 alleggerire i tagli agli enti locali. Tetto più basso per il bonus bebé. In un emendamento rispunta la web tax ROBERTO PETRINI ROMA . Caccia ad 1 miliardo nelle pieghe della legge di Stabilità per tentare l’intesa con il Parlamento. Lunga riunione nella giornata di ieri a Palazzo Chigi tra il presidente del Consiglio Matteo Renzi, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e il suo staff. Quasi due ore di lavoro durante le quali sono stati posti sul tavolo quattro pacchetti di temi, oggetto della maggior parte delle richieste di modifica, da parte della maggioranza parlamentare ma che vedono anche alcune convergenze delle opposizioni. Su tutti il governo ha espresso la disponibilità ad intervenire, ma naturalmente a saldi invariati: dunque i costi dovranno essere coperti con risparmi all’interno della manovra. Il primo tema caldo è l’inserimento del Tfr in busta-paga: esclusa almeno per il momento la neutralità fiscale per le somme anticipate in busta-paga (la Commissione Bilancio ha bocciato un emendamento in tal senso per carenza di coperture, mentre in un altro emendamento di Sel rispunta la web tax) si lavora a ridurre l’aumento di tassazione per i fondi pensione (fino al 20 per cento) e per i rendimenti del Tfr (fino al 17 per cento). Nel pacchetto anche la disponibilità a rivedere i tagli ai patronati, che hanno sollevato le proteste dei sindacati. Risolvere la questione costerebbe circa 400 milioni. Il secondo pacchetto di «attenzione» è quello del lavoro: in primo piano le risorse per i nuovi ammortizzatori sociali previsti dal jobs act. L’idea è quella di trovare in “Stabilità” più risorse degli 1,5 miliardi previsti per il 2015 e dunque la necessità di ulteriori interventi. Sotto esame anche le modifiche, proposte in Parlamento dal Pd, ai criteri che consento l’accesso agli sconti contributivi per le assunzioni triennali: il punto è che potranno beneficiarne solo le aziende che non hanno licenziato recentemente. L’altra questione riguarda il bonus bebè da 80 euro : il reddito familiare per beneficiarne è di 90 mila euro Isee una cifra che riguarderebbe circa il 95 per cento delle famiglie. La proposta del Pd è di scendere a 70 mila, ridurre la platea e destinare le risorse a famiglie in stato di povertà. Infine gli enti locali: la partita con i Comuni è ancora aperta. In particolare l’obiettivo è quello di introdurre, se ci si farà in tempo, la local tax nella legge di Stabilità, tornado ad imporre target generalizzati sui saldi, eliminando le griglie del Patto di stabilità interno e lasciando ai Comuni autonomia impositiva e di bilancio totale. 64
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