RASSEGNA STAMPA

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giovedì 13 novembre 2014
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del 13/11/14, pag. 1 (inserto Spartito)
Lotta o governo, dilemma a sinistra
Luciana Castellina
Europa. Quasi ovunque nell’Unione la sinistra è troppo debole per poter
essere determinante nella linea delle coalizioni, ma abbastanza forte da
essere essenziale per battere l’avversario di destra
Per mezzo secolo il ventaglio dei partiti di sinistra presenti nei parlamenti Europei è
rimasto press’a poco invariato, salvo il fortunoso ingresso di qualche formazione
sessantottina in Italia, altrove l’avvento dei verdi e quasi ovunque il mutamento di nome
dei vecchi partiti comunisti dopo il terremoto dell’89. Da qualche tempo assistiamo invece
a una nuova variopinta fioritura che, almeno in Grecia e in Spagna, ha già avuto, o i
sondaggi dicono che avrà, una notevole consistenza parlamentare, inimmaginabilmente
più larga di qualsiasi altra formazione simile prima d’ora.
Parlo naturalmente soprattutto di Syriza in Grecia e di Podemos in Spagna.
Sebbene vi si ritrovino anche nomi che da ormai qualche decennio conosciamo, militanti
che già abbiamo incontrato ai grandi appuntamenti internazionali di movimento, si tratta di
creature nuove, nel senso che somigliano poco a ogni altro partito storico. Né sono,
tuttavia, simili fra loro, né per origine né per pratica attuale: Syriza nasce da un arcipelago
di partitini e si è però andata caratterizzando per il suo legame con le iniziative sul territorio
animate dalla società civile; Podemos, invece, nasce da un movimento, quello degli
Indignados, che fino alle ultime elezioni politiche spagnole aveva disertato addirittura le
urne in sintonia con il suo manifesto in cui si diceva: «Nessuno ci rappresenta» — e però
anche: «Non vogliamo che nessuno ci rappresenti», ed è ora approdato al riconoscimento
che bisogna stare laddove si decide, in parlamento per l’appunto.
Tanto i nuovi venuti che le più antiche formazioni che non fanno capo al partito socialista
europeo, sia quelle di provenienza comunista tradizionale che di nuova sinistra, hanno
nella loro diversità qualche significativo tratto in comune che rende a tutti periglioso e
spesso confuso il cammino: il rapporto con il movimento e il problema del governo.
Si tratta di questioni reali e difficili, su cui anche in Italia, dove siamo comunque in una
situazione ben più confusa, ci arrovelliamo tutti.
Il governo: non c’è paese europeo, dalla Norvegia fino all’Italia, dove non si sia bloccati dal
dilemma se sostenere, partecipandovi direttamente o meno, una coalizione di centro
sinistra e così però trovarsi a condividere la responsabilità di scelte che non si vorrebbero
compiere, oppure se collocarsi all’opposizione ma con il rischio di spianare il terreno
all’avvento di un governo di destra.
Quasi ovunque la sinistra è infatti in Europa troppo debole per poter essere determinante
nella linea delle coalizioni di centro sinistra, ma abbastanza forte per essere essenziale al
loro successo. Impedirlo significa così caricarsi della impopolarissima responsabilità di far
vincere l’avversario principale.
Non sono cose nuovissime: già negli anni Trenta, quando per la prima volta entrò in un
governo il partito laburista inglese, Ramsey Mc Donald, che ne era diventato primo
ministro, ebbe a confessare amaro: credevo fosse tremendo stare all’opposizione, non
sapevo quanto più tremendo fosse stare al governo e non avere potere.
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Quanto all’altra opzione, vale ricordare quanti sono gli elettori che tutt’ora non hanno
perdonato a Fausto Bertinotti di aver fatto cadere il governo Prodi alla fine degli anni
Novanta.
Anche più difficile il problema movimento: ovvero il dilemma fra il rischio di separarsene
una volta entrati sul terreno della politica istituzionale; e, al contrario, di rimanere preda
delle sue inevitabili fluttuazioni, dell’impotenza che produce l’impossibilità di aggregare un
potere decisionale per via del rifiuto di ogni leadership.
Non ci sono evidentemente soluzioni facili e soprattutto univoche. Oltretutto perché questi
problemi antichi sono oggi stravolti da un galoppante mutamento del mondo, e dunque
degli stessi modi di vivere delle persone, della dislocazione dei poteri da affrontare.
Solo alcune considerazioni su cui sarebbe utile aprire un dibattito che non resti chiuso nei
rispettivi circuiti nazionali, ingombrati da rancori e ripicche, ma diventi finalmente europeo,
usando proprio quella forza che alcune nuove formazioni hanno acquisito e quella
consistenza conservata, pur nel presente terremoto, da altre più antiche (penso alla Linke
tedesca o ai partiti scandinavi).
In realtà sappiamo pochissimo l’uno dell’altro, persino di Syriza, sebbene l’ultima nostra
esperienza comune sia stata combattuta nel nome di Tsipras.
Non si tratta comunque solo del vantaggio che avremmo a imparare di più, ma di
cominciare a costruire il solo soggetto adeguato ai nostri tempi, che deve essere europeo
non solo sulla carta, come sono i partiti che portano questo nome e che più di qualche
incontro annuale cui si partecipa distratti non danno. Proprio alle nuove forze dalla sinistra
dovrebbe esser più facile ragionare e muoversi da europei, perché meno soggetti ai tanti
condizionamenti storici dei partiti più antichi. Peraltro è inutile parlare di democratizzazione
dell’Unione se prima non si costituisce, a quel livello, quanto rende democratica una
nazione: una società civile comune, ricca di articolazioni e strumenti: partiti, sindacati,
stampa, associazioni. Costruirla è ben più importante che conquistare qualche potere in
più per il Parlamento europeo, destinato a restare impotente finché l’esecutivo risponde a
un elettorato frammentato e incomunicante.
Affrontare questi problemi è difficile oggi più di quanto non fosse anche solo qualche anno
fa perché viviamo in un tempo in cui il distacco fra la gente e la politica, la diffidenza nei
confronti dei partiti e delle istituzioni, sono diventati profondi, e non solo in Italia.
La cosa più importante per tutti è dunque ripartire da più indietro, ricostruire il senso
stesso della politica: spazzando via l’idea che sia materia di esclusiva competenza di chi
sta nelle istituzioni ed evitando di proporre coalizioni o nuovi partiti sempre e solo in
occasione delle elezioni, il terreno più ambiguo e difficile, anziché sperimentare la
coesione, non genericamente nel movimento, ma in un’iniziativa che sia anche in grado di
assumersi responsabilità di gestione della società, reimpadronendosi di pezzi dello stato
che sono stati sequestrati. Quanto più le identità sono state stravolte, come è accaduto in
questi anni, sino a confondere perfino la destra con la sinistra, tanto più questo diventa il
terreno su cui superare le diffidenze e l’antipolitica, eludere i rischi di populismo da cui
neanche i movimenti e i partiti nati dai movimenti sono immuni. Soprattutto per far
maturare soggettività nelle persone, riabituandosi a pensare che la politica è poter
decidere, non arbitrare fra l’uno o l’altro che decide. E neppure solo rivendicare diritti,
perché la democrazia è di più: è conquista di uno spazio, e delle condizioni in cui non sia
astratta la pretesa di cambiare il mondo.
Sono tutte cose che non si possono fare in parlamento, ma nemmeno ignorandolo. Il
rischio, come sempre, è che il dentro e il fuori si separino.
Anche al dilemma — che dilania la sinistra di tutta Europa — se accettare di sostenere
una coalizione di centro sinistra o meno, c’è una sola risposta: si può assumere il rischio
se si ha abbastanza forza nella società, e si ha abbastanza forza nella società non se non
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ci si limita a un potere di interdizione, ma se si è capaci di gestire almeno un pezzetto di
alternativa. Per occupare lo spazio pubblico, bisogna sapere che occorre innanzitutto
ricostruirlo, e poi capire che non si tratta di uno stadio in cui vince chi grida di più.
(Comunque tuttora, per orientarmi, io scelgo la vecchia indicazione del presidente Mao.
Che diceva: bombardare il quartier generale, e rifondare di continuo i partiti affinché non si
burocratizzino. Ma diceva che occorreva «rifondarli» per l’appunto, non che se ne poteva
fare a meno e creare al loro posti semplici reti fluttuanti. Gramsci sosteneva che senza
costruire un soggetto, e cioè una volontà coaugulata collettiva, che addirittura chiamava «il
principe», non si sarebbe potuti andare da nessuna parte, perché la società civile, di per
sé, subisce, com’è naturale, l’egemonia del potere. Sottrarla a questa sudditanza è
premessa indispensabile a ogni alternativa).
Da Redattore Sociale del 12/11/14
Nuovo raid contro i rifugiati a Tor Sapienza.
I cittadini: “Non ci fermiamo”
Ancora scontri davanti al centro che ospita 36 adolescenti stranieri. Il
comitato di quartiere: “Se non ascoltati, i residenti andranno avanti
nella protesta”. Il municipio: “Difficile il dialogo, ma è riduttivo pensare
che il problema siano 36 ragazzi, il disagio è più grande”. Il sindaco
Marino condanna le violenze. Le associazioni si scagliano contro la
gestione dell'accoglienza
ROMA - Nuova notte di protesta e scontri a Tor Sapienza, nella periferia est di Roma.
Dopo la sassaiola di lunedì notte, ieri sera i cittadini del quartiere (che avevano indetto per
il pomeriggio un’assemblea pubblica a cui ha partecipato anche un rappresentante del
municipio) sono tornati nuovamente in piazza per manifestare contro il degrado della zona
e per chiedere di mandare via i migranti ospitati nel centro di accoglienza di via Giorgio
Morandi.
Nella notte, però, quando la manifestazione si era già sciolta, alcuni ragazzi (incappucciati
secondo le testimonianze) sono tornati davanti la struttura per lanciare bombe carta e
oggetti verso la Polizia, che presidiava il centro di accoglienza, dove vivono 36 minori non
accompagnati. A quel punto anche gli abitanti si sono nuovamente riversati in strada, e le
forze dell’ordine hanno deciso di caricare per disperdere i manifestanti. Sono almeno 12 le
persone rimaste ferite.
Un vero e proprio raid con cassonetti dati alle fiamme e cariche della polizia. C’è chi parla
di una spedizione organizzata dalle frange di estrema destra, chi di un’ennesima
dimostrazione dei cittadini “esasperati e abbandonati da tutti”. “Fino alle 20 la situazione
era tranquilla, è nella notte che sono avvenuti gli scontri, ma non si tratta di un’azione
politica. La politica non c’entra niente, come non c’entra niente il razzismo. Sono solo
cittadini esasperati – sostiene Tommaso Ippoliti, presidente del comitato di quartiere Tor
Sapienza -. Cittadini che andranno avanti nella loro protesta perché le istituzioni non li
ascoltano. La gente non vuole gli extracomunitari e non sa più come dirlo, vuole solo la
legalità. Con le persone che sono scese in piazza non possiamo che essere solidali. E’ un
anno che chiediamo al comune di intervenire: che Tor Sapienza fosse una polveriera lo
sapevano tutti. Questa è solo la conseguenza di un abbandono totale del quartiere al suo
degrado”.
Cuore della protesta il centro di accoglienza per minori non accompagnati del Servizio
Sprar, gestito dalla cooperativa “Il sorriso” e convenzionato con il comune di Roma. La
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struttura è attiva nel quartiere dal 2001 e oggi ospita 36 minori non accompagnati, di età
media intorno ai 17 anni e in fuga da paesi in guerra. Ma il centro, che in passato ha
ospitato anche 150 persone, oggi è solo la valvola di sfogo di una situazione di tensione
più generale. “Non ce l’abbiamo con loro perché sono neri – aggiunge Ippoliti – ma nella
stessa zona sorge il campo rom di via Salviati e nell’ultimo anno si sono moltiplicate le
occupazioni abusive di case e strutture. L’ultima, in ordine di tempo, è quella di una
chiesetta sconsacrata. E' un insieme insostenibile. Con la presenza di immigrati abbiamo
visto crescere anche l’illegalità, i furti, le aggressioni. Alle 20 siamo costretti al coprifuoco,
vorremmo invece poter uscire tranquilli sotto casa. Ma non è vero, come stanno scrivendo
in molti, che giriamo armati”.
Intanto al municipio si cerca di trovare una soluzione a una situazione che non accenna a
calmarsi. Fallito il tentativo di aprire un tavolo tra residenti e immigrati, oggi si torna a
chiedere al Comune di cercare una strategia condivisa. “Il clima ancora oggi è tesissimo –
spiega Alessandro Rosi, assessore al sociale del V municipio, che da stamattina è a Tor
Sapienza a monitorare la situazione -. E’ riduttivo pensare che il problema siano 36
ragazzi adolescenti. Il disagio è più grande. La protesta davanti al centro di accoglienza è
il sintomo di un problema ampio e insieme al Campidoglio stiamo cercando di avere tutti
gli elementi per portare avanti un’azione risolutiva”. Oltre a cercare di stemperare la
tensione ed evitare nuovi scontri, in queste ore si teme anche per la sicurezza dei rifugiati
ospitati nel centro, facile bersaglio delle ire dei residenti. “Il problema è l’alta
concentrazione di centri e strutture in alcune aree, come spesso abbiamo fatto presente al
Comune e in particolare all’assessore Cutini – aggiunge -. In questo momento stiamo
anche cercando un dialogo con gli abitanti, ma è molto difficile perché il clima non lo
permette e gli scontri di ieri notte hanno alimentato ancor più la tensione”. Secondo Rosi, a
differenza di quella di lunedì notte, ieri sera la spedizione era stata organizzata “da
persone che cercano di gettare benzina sul fuoco”. “Le forze dell’ordine – afferma – stanno
lavorando per identificarli. E per mantenere in sicurezza gli ospiti del centro”.
Anche dal mondo delle associazioni, che lavorano al fianco dei migranti, arrivano le prime
reazioni. L’Arci di Roma chiede un impegno immediato per ripristinare la pace sociale nel
quartiere, tutelando tanto i diritti degli abitanti quanto i diritti dei migranti che vivono nel
centro d’accoglienza. “C’è l’evidente necessità di costituire un tavolo di lavoro condiviso e
costruttivo tra abitanti, associazioni, operatori e istituzioni- spiegano -. E’ necessario
confrontarsi democraticamente su questa esplosiva situazione sociale e impegnarsi
concretamente da subito". La Caritas di Roma parla di una situazione che è "il risultato di
anni di abbandono, ma allo stesso tempo l’effetto di politiche sbagliate verso i rom e i
rifugiati, senza sforzi per l’integrazione e improntate soprattutto sull’emergenza, frutto di
istituzioni che non collaborano e non dialogano, di cooperative senza scrupoli che poco
hanno a cuore la sorte delle persone che gli sono affidate, di territori abbandonati dalle
Istituzioni. Situazioni di cui sono parimenti vittime italiani e immigrati". Il centro Astalli,
chiede inoltre un'accoglienza in tutta la città per evitare che le "periferie, potenziali
laboratori di integrazione" diventino, invece "delle polveriere pronte ad esplodere". Non si
sono fatte attendere anche le reazioni dei sindacati. Giuseppe Casucci, responsabile
Immigrazione della Uil, punta il dito contro la situazione dell'accoglienza: "Serve una vera
inclusione, anziché una gestione centralizzata da parte del ministero, meglio lasciare
l'organizzazione ai comuni". "L’episodio di Tor Sapienza - aggiunge Roberto Giordano,
della Cgil di Roma e del Lazio- è l’ennesimo campanello di allarme e, purtroppo,
probabilmente non sarà l’ultimo. Comune e Regione dovrebbero affrontare le
problematiche legate ai rifugiati in un consesso complessivo di condivisione, partendo dal
ripristino dei tavoli di confronto con le parti sociali e il mondo dell’associazionismo e
coinvolgendo le popolazioni locali".
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Intanto in queste ore è arrivata anche la condanna delle violenze da parte del sindaco di
Roma Ignazio Marino, che ha espresso "vicinanza e piena solidarietà agli agenti feriti
questa notte da un gruppo di veri e propri criminali". "Questa Amministrazione non accetta
che a Roma l’incolumità dei cittadini venga messa a repentaglio da un manipolo di
estremisti violenti, che sfogano il proprio fanatismo lanciando blocchetti di marmo, pietre e
bottiglie - sottolinea il sindaco -Dal Questore ho ottenuto l’assicurazione che il territorio
interessato sarà presidiato centimetro per centimetro, per impedire altre violenze". Dopo
l'ultimo raid di questa notte in tanti hanno chiesto al primo cittadino di intervenire. Il
responsabile Immigrazione del Pd, Khalid Chaouki sottolineando che "i disordini di Tor
Sapienza destano preoccupazione", ha chiesto "un grande senso di responsabilità,
evitando di soffiare sul fuoco di un disagio sociale sempre più profondo nelle periferie della
Capitale. Ribadiamo il nostro pieno sostegno agli amministratori locali e alle associazioni
impegnate sui territori, e sollecitiamo nuovamente il Sindaco di Roma ad intervenire
urgentemente - afferma - senza ulteriori ritardi, per trovare risposte condivise sul fronte di
una accoglienza sostenibile dei profughi e per una attenzione maggiore ai temi del
degrado e sicurezza nelle periferie". (ec)
Da Tmnews/Aska News del 12/11/14
Roma, Arci: a Tor Sapienza tutelare diritti di
tutti
Roma, 12 nov. (askanews) - "Il disagio delle periferie non si trasformi in violenza e
intolleranza. Di fronte a quanto avvenuto la scorsa notte fuori del centro d'accoglienza a
Tor Sapienza, nel condannare gli episodi di violenza, riteniamo necessario impegnarsi da
subito per ripristinare un clima di serenità nel quartiere, tutelando tanto i diritti degli abitanti
quanto i diritti dei rifugiati e richiedenti asilo che vivono nel centro d'accoglienza". E'
quanto affermano in una nota comune, l'Arci nazionale e l'Arci di Roma.
L'Arci propone la costituzione di un tavolo di consultazione tra abitanti, associazioni,
operatori e istituzioni. Un modo, si sottolinea, "per avviare un confronto aperto, necessario
per arrivare velocemente a risposte condivise e concrete. Solo attraverso la
partecipazione e il confronto democratico - si conclude - si può infatti arrivare ad una
risoluzione dei conflitti".
Da ContattoNews del 12/11/14
16:33 Roma Arci: a Tor Sapienza tutelare
diritti di tutti
Disagio periferie non si trasformi in violenza e intolleranza – Roma, 12 nov 2014 – “Il
disagio delle periferie non si trasformi in violenza e intolleranza. Di fronte a quanto
avvenuto la scorsa notte fuori del centro d’accoglienza a Tor Sapienza, nel condannare gli
episodi di violenza, riteniamo necessario impegnarsi da subito per ripristinare un clima di
serenita’ nel quartiere, tutelando tanto i diritti degli abitanti quanto i diritti dei rifugiati e
richiedenti asilo che vivono nel centro d’accoglienza”. E’ quanto affermano in una nota
comune, l’Arci nazionale e l’Arci di Roma. L’Arci propone la costituzione di un tavolo di
consultazione tra abitanti, associazioni, operatori e istituzioni. Un modo, si sottolinea, “per
avviare un confronto aperto, necessario per arrivare velocemente a risposte condivise e
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concrete. Solo attraverso la partecipazione e il confronto democratico – si conclude – si
puo’ infatti arrivare ad una risoluzione dei conflitti”. Gc
http://www.contattonews.it/2014/11/12/1633-roma-arci-a-tor-sapienza-tutelare-diritti-ditutti/294885/
Da La stampa – Torino 7 del 13/11/14
Eventi
12/11/2014
ULTIMO APPUNTAMENTO DI MOVING TFF
Ultimo appuntamento con la terza edizione di "Moving Tff". La manifestazione, ideata e
coordinata da Altera e Centro di Cooperazione Culturale, realizzata in collaborazione con
Ucca (Unione Circoli Cinematografici Arci), Arci Torino, Museo Nazionale del Cinema e
Torino Film Festival, si propone di offrire al pubblico torinese una anticipazione della
prossima edizione del Torino Film Festival (21-29 novembre). Oggi "Le ragazze di Piazza
di Spagna" di Luciano Emmer, alla biblioMediateca Mario Gromo. L'ingresso è gratuito.
http://www.lastampa.it/2014/11/12/torinosette/eventi/ultimo-appuntamento-di-moving-tffznZpyDytMYJstyzUmQHL0J/pagina.html
Da Adn Kronos del 12/11/14
LA 22^ EDIZIONE DELL'OZU FILM FESTIVAL
IN 4 COMUNI CORTI D'AUTORE,
RETROSPETTIVE, INCONTRI E MOSTRE
Prende il via lunedì 17 novembre a Fiorano, Formigine, Modena e Sassuolo la 22^
edizione dell'Ozu Film festival, rassegna incentrata sul festival del cortometraggio e altre
sezioni competitive sempre dedicate ai cortometraggi dedicati a tematiche specifiche. La
manifestazione è organizzata dal circolo culturale Fahrenheit 451 e dall'associazione
culturale Amici dell'Ozu in collaborazione con Arci Tilt e il sostegno del Comune di
Fiorano, della Fondazione Cassa di risparmio di Modena e della Regione, oltre al
patrocinio dell'Università di Modena e dei Comuni di Modena, Formigine e Sassuolo. Oltre
ai concorsi sono in programma retrospettive, sempre dedicate al cortometraggio, incontri e
mostre. In occasione della presentazione dell'iniziativa, i giornalisti sono invitati alla
conferenza stampa che si svolgerà nella sala del Novecento del Palazzo della Provincia
(viale Martiri della Libertà 34 a Modena) venerdì 14 novembre 2014 , alle ore 11,30
Parteciperanno Morena Silingardi, assessore alla Cultura del Comune di Fiorano Simona
Sarracino, assessore alle Politiche giovanili del Comune di Formigine Giulia Pigoni,
assessore alla Cultura del Comune di Sassuolo Enrico Vannucci, direttore artistico del
festival Dalle ore 11,15 è possibile realizzare interviste radiofoniche e televisive
http://www.adnkronos.com/fatti/pa-informa/politica/2014/11/13/edizione-dell-ozu-filmfestival-comuni-corti-autore-retrospettive-incontrimostre_x46RvyRawCV06mDUYLgORJ.html
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ESTERI
del 13/11/14, pag. 8
La svolta storica è un’altra: l’Asia sceglie la
Cina
Simone Pieranni
Meeting Apec. Lo studio di fattibilità sul progetto commerciale cinese,
segna una sconfitta per Obama
I media nostrani si sono affrettati a salutare l’accordo tra Cina e Usa per quanto riguarda la
riduzione delle emissioni, con molta enfasi. Si tratta di un passo in avanti, specie rispetto
al recente passato, ma ci sono ancora tanti punti poco chiari.
Stupisce, se mai, la tanta rilevanza data a questo punto di avvicinamento tra i due paesi,
insieme a tutta una serie di inutilità classiche quando si tratta di vertici e quando c’è di
mezzo la Cina (dalle attenzioni di Putin alla moglie di Xi Jinping, al chewing-gum di
Obama) senza mettere in adeguata evidenza quello che è stato il vero e proprio punto
storico di questo Apec: la scelta dei paesi asiatici di seguire la Cina sul trattato di libero
commercio, intimando un alt duro al Tpp obamiano, che tagliava fuori proprio Pechino.
Il vero punto di svolta, è dunque il fatto che l’intera regione asiatica appare fidarsi ormai
sempre meno delle promesse americane, e sembra disposta a correre il rischio di
affiancarsi alla Cina, sperando di gestire l’arroganza tipica di Pechino, quando si tratta di
cooperare con i vicini di casa.
Il mondo multipolare fatica a essere compreso un po’ da tutti: alleanze storiche saltano,
nemici ricominciano a trattare. Ma più di tutto, pare che sia il mondo dei media nostrani a
faticare a concepire un mondo nel quale gli Usa non sono più l’Impero dominante. Se poi
— effettivamente — la potenza americana subirà un crollo è tutto da vedere, ma una
redistribuzione del potere in giro per il mondo appare ormai chiara. E la Cina si pone come
potenza emergente anche a livello internazionale in modo determinato, ma non certo
guerrafondaio.
Un mondo a guida americano era sicuramente più comprensibile; lo testimonia il fatto che,
anche di fronte ad un evento asiatico-pacifico, ospitato a Pechino, con la partecipazione di
Stati non certo irrilevanti, come Giappone e Corea del Sud, la nostra stampa continua ad
affidarsi alle sole fonti occidentali, quando non direttamente americane, per cercare di
comprendere la portata di quanto accaduto.
La lettura è dunque sempre univoca: ci viene raccontato cosa pensano gli americani del
mondo. Cosa sappiamo di quanto si dice in Cina, Giappone, Corea? Figurarsi in Birmania.
La decisione dei paesi asiatici di consentire uno studio di fattibilità di due anni al progetto
di libero scambio cinese, unitamente ai tanti soldi che Pechino ha messo sul piatto (sia per
rinsaldare la sua forza marittima, sia per rinforzare la via della Seta), indicano un
cambiamento di rotta non solo negli equilibri economici e politici, ma anche in quelli
culturali, di narrazione, di capacità di leggere la contemporanea complessità con lenti
nuovi e affidandosi, specie oggi, periodo nel quale la mole di informazioni è decisamente
ampia, anche ad altri punti di vista e capacità di leggere e analizzare gli eventi.
Che piaccia o meno il mondo è cambiato e dovrà mutare anche la sua narrazione.
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del 13/11/14, pag. 1/31
LO SCENARIO
I confini dell’ottimismo
PASCAL ACOT
L’ACCORDO bilaterale firmato da Stati Uniti e Cina sulla riduzione dei gas ad effetto serra
(Ges) è indubbiamente il più importante nella storia della lotta contro il riscaldamento
climatico. Cina e Stati Uniti, infatti, sono i due più grandi responsabili al mondo in quanto a
emissioni di gas ad effetto serra, con una produzione annua superiore al 40%. L’accordo
firmato a Pechino, nel corso del vertice bilaterale di cooperazione economica nella regione
Asia-Pacifico, in occasione del viaggio in Asia del presidente BarackObama, è stato
accolto con favore non solo da Ban Kimoon, segretario generale delle Nazioni Unite, e da
Al Gore, ex vice- presidente degli Stati Uniti, ma anche dalla maggior parte delle
organizzazioni ambientaliste. Gli esperti, dunque, ritengono che l’accordo sia portatore di
una speranza.
CIÒ è non frequente in materia di climatologia politica. Per gli esperti poi ora si può
affrontare con un certo ottimismo la conferenza annuale delle Nazioni Unite che si
dovrebbe tenere a Parigi verso la fine del 2015. La limitazione a termine del riscaldamento
globale a +2° C potrebbe non essere più un sogno utopico, ma diventare un obiettivo
serio, tanto più che anche l'Europa si è impegnata, da parte sua, a ridurre le proprie
emissioni di almeno il 40% rispetto al 1990.
Gli impegni assunti da Xi Jinping, presidente della Repubblica popolare cinese, e dal suo
omologo nordamericano, sono percepiti come meritevoli tanto più che la Cina è stata a
lungo ostile per i suoi interessi industriali e che Barack Obama è oggi indebolito dai
cambiamenti sopravvenuti al Congresso, ora a maggioranza repubblicana.
Tutto ciò dà motivo ai leader politici internazionali di rallegrarsi, cosa che stanno facendo.
Tuttavia, dovrebbero dar prova di moderazione nel loro entusiasmo, perché si stanno già
accumulando molte nubi sulle buone intenzioni manifestate dai firmatari dell'accordo. La
Cina, ad esempio, ha annunciato che il picco delle sue emissioni sarà raggiunto solo nel
2030. Questo significa che l'aumento delle sue emissioni di gas ad effetto serra continuerà
fino a quella data, anche se ha intenzione di “arrivarci prima”, con l’aumento di più del
10%, da qui al 2030, della percentuale di energia rinnovabile che immetterà nelle sue
attività produttive. Da parte loro, gli Stati Uniti stimano la diminuzione delle loro emissioni
pari a un - 25 o - 28% rispetto al 2005. Questo ovviamente va bene, ma è ancora un dato
un po' vago. Ora, in questo tipo di trattativa, l'esperienza dimostra che le approssimazioni
non promettono nulla di buono. Possiamo anche osservare che, anche se tutto andasse
bene, le emissioni cinesi fino al 2030 potrebbero annullare gli sforzi messi in atto da Stati
Uniti ed Europa. Tanto più che l'Agenzia per l'Energia prevede una forte crescita (del
37%!) del consumo globale entro il 2040, il che dovrebbe comportare un aumento della
temperatura di 3,6° C. Infine, il calo del prezzo del petrolio e il fatto che gli esperti oggi
siano concordi nel prevedere che non ve ne sarà carenza nei prossimi 25 anni
prospettano un contesto che dovrebbe invitare i responsabili politici dei paesi “avanzati”
alla massima cautela.
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del 13/11/14, pag. 9
Marwan Barghuti in isolamento
Michele Giorgio
Israele/Territori Occupati. Il popolare capo di Fatah, in carcere in Israele,
è stato punito per le sue dichiarazioni favore della resistenza armata
contro l'occupazione. I coloni bruciano moschea in Cisgiordania.
Annunciata la costruzione di nuove case nell'insediamento ebraico di
Ramot
E’ costato caro a Marwan Barghuti il messaggio-appello alla resistenza, anche armata,
all’occupazione militare e a cessare la cooperazione di sicurezza con Israele, che ha
lanciato due giorni fa in occasione del decennale della morte del presidente Yasser Arafat.
Il popolare leader di Fatah dovrà scontare una settimana di isolamento totale e pagare
un’ammenda di 300 shekel (60 euro), gli ha comunicato ieri il servizio carcerario
israeliano. «Scegliere la resistenza armata e globale” – aveva scritto Barghouti – significa
essere fedeli alle idee di Arafat e ai suoi principi per cui decine di migliaia di martiri sono
morti. E’ doveroso riconsiderare il nostro modo di resistere per sconfiggere l’occupante».
Parole che assieme alle dichiarazioni fatte in queste ultime settimane dal presidente
dell’Anp Abu Mazen, contribuirebbero, secondo il premier israeliano Netanyahu, ad
«incendiare» la situazione e ad aggravare un quadro che potrebbe sfociare in una nuova
Intifada. Ad incendiare, e nel nel vero senso della parola, sono di più i coloni israeliani in
Cisgiordania. Nella notte tra martedì e mercoledì, denunciano i palestinesi, un gruppo di
giovani “settler” ha dato alle fiamme la moschea del villaggio di al-Mughayr (Ramallah). La
polizia dell’Anp sostiene che le sue indagini non lasciano spazio a dubbi sugli autori
dell’attacco che ha causato gravi danni alla moschea. Gli ultimi anni hanno visto una
escalation di attacchi e raid compiuti dai coloni e dagli ultrazionalisti israeliani contro
moschee e chiese, in Cisgiordania e a Gerusalemme. Attacchi firmati con la scritta “Price
Tag”, ossia il “prezzo da pagare” che gli estremisti presentano ai palestinesi sotto
occupazione. Una bottiglia incendiaria, sempre martedì notte, è stata lanciata contro una
sinagoga antica a Shafaram, in Galilea dove la tensione resta alta dopo l’uccisione di un
abitante di Kufr Kana che aveva attaccato un’automezzo della polizia. La molotov ha
provocato danni lievi al sito religioso ebraico.
A dare fuoco alle polveri sono peraltro i continui annunci di espansione delle colonie
israeliane a Gerusalemme. La municipalità israeliana ha dato il primo via libera alla
costruzione di 200 case a Ramot, un insediamento colonico nella zona palestinese della
città, occupata da Israele nel 1967. Il progetto è alla sua prima tappa e, secondo le
autorità comunali, ci vorranno anni prima che possano aprirsi i cantieri. In ogni caso è un
nuovo progetto, che contribuisce a rendere incandescenti i rapporti tra israeliani e
palestinesi, assieme alle “visite” dei gruppi ultranazionalisti sulla Spianata delle moschee
di Gerusalemme. Il governo israeliano è stato criticato, specialmente dalla Giordania, che
tutela la Spianata, per non aver impedito le “incursioni” degli estremisti nel luogo dove,
secondo la tradizione, sorgeva il Tempio ebraico. Il viceministro degli esteri Tzahi Hanegbi
ieri ha dovuto ribadire che Israele non cambierà lo status quo sulla Spianata, oggi sotto il
controllo del Wafq, l’istituzione che tutela e amministra i luoghi santi islamici.
Non tutti in Israele condividono la linea del governo Netanyahu verso i palestinesi e il loro
diritto all’indipendenza. Ieri 661 figure pubbliche israeliane hanno invitato il parlamento
danese a riconoscere, quando voterà a fine settimana, lo Stato di Palestina. Tra i firmatari
ci sono Avraham Burg, ex presidente del parlamento israeliano, l’anziano pacifista Uri
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Avneri, l’ex ministro dell’industria Ran Cohen, la docente universitaria Nurit Peled Elhanan,
il vincitore del premio Nobel Daniel Kahneman e Amiram Goldblum, fondatore di Peace
Now. La votazione dei parlamentari danesi è stata preceduta da quelle recenti del
Parlamento britannico e del senato irlandese. Voti simili sono attesi anche in Francia (a
dicembre) e in Spagna. E qualche settimana fa il governo svedese ha ufficialmente
riconosciuto lo Stato di Palestina tra le proteste di Israele.
All’appuntamento con questi riconoscimenti, il più delle volte simbolici ma ugualmente
importanti, i palestinesi arrivano divisi. La tensione interna è forte dopo gli attacchi che
Abu Mazen ha rivolto due giorni fa ad Hamas, accusato dal presidente palestinese di non
aver impedito se non addirittura di aver organizzato gli attentati intimidatori della scorsa
settimana a Gaza contro dirigenti del suo partito, Fatah, allo scopo di impedire le
commemorazioni per Yasser Arafat. Vacilla, e non poco, in queste ore il governo di
consenso nazionale costituito all’inizio di giugno dopo l’accordo di riconciliazione FatahHamas. A tenerlo ancora in piedi è l’urgenza di avviare la ricostruzione di Gaza, uscita
devastata dall’offensiva militare israeliana “Margine Protettivo” della scorsa estate. Senza
la presenza delle forze di sicurezza dell’Anp ai valichi di frontiera e il coinvolgimento pieno
di Fatah e del governo, i donatori internazionali terranno congelati 5,4 miliardi di dollari che
hanno promesso un mese fa.
del 13/11/14, pag. 34
Nel cuore del Kurdistan iracheno che vola
verso l’indipendenza
GAD LERNER
ERBIL (KURDISTAN IRACHENO)
LA POTENZA emergente del nazionalismo curdo trasformatosi ormai in Stato di fatto,
sulle ceneri dell’Iraq avviato alla dissoluzione, si celebra agli incroci delle larghe e trafficate
avenues di Erbil. Qui i profughi in fuga da Kobane e Mosul chiedono l’elemosina sovrastati
da megaschermi in cui il Falcon Group pubblicizza la ricchezza delle sue torri
avveniristiche chiamate Empire Diamond, alternandole con visioni delle raffinerie di
petrolio. Riesce difficile pensare alla ferocia della guerra, ai miliziani del Califfato insediati
a poche decine di chilometri da una metropoli che per lusso e disegno architettonico
cresce a vista d’occhio sul modello di Dubai.
Il mondo guarda con ammirata gratitudine ai curdi che frenano l’avanzata dello Stato
Islamico (Is), celebra i peshmerga del loro esercito popolare, mitizza le donne soldato che
poco più a Nord, nel Rojava (il Kurdistan siriano) fronteggiano i tagliagole jihadisti. A Erbil
giungono armi e rifornimenti dall’Occidente. L’Italia partecipa, inviando 280 addestratori
militari nell’ambito della coalizione anti-Is.
È il capolavoro diplomatico di due leader curdi iracheni — l’anziano Jalal Talabani e il
presidente Massoud Barzani — che hanno riempito il vuoto di potere del dopo Saddam,
realizzando in silenzio il sogno proibito dell’indipendenza. Eredi di una tragedia
novecentesca, lo smembramento del popolo curdo nel 1923 in quattro Stati diversi
(Turchia, Siria, Iran, Iraq), Talabani e Barzani stanno trasformando un nazionalismo dolce
e perseguitato in qualcosa di diverso, al tempo stesso indispensabile e pericoloso.
La foto-simbolo del capolavoro diplomatico curdo risale al marzo 2011: ritrae Barzani
mentre inaugura l’aeroporto internazionale di Erbil al fianco del presidente turco Erdogan.
Il nemico storico non solo è giunto in visita in quello che di fatto è diventato lo Stato dei
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curdi, ma vi ha investito miliardi di dollari costruendo un’alleanza di ferro. Oggi un gasdotto
rifornisce Ankara col petrolio curdo. Buona parte dei prodotti in vendita nei centri
commerciali di Erbil vengono dalla Turchia. L’aeroporto e molti grattacieli sono stati
edificati grazie alla partnership col leader neoottomano che in cambio ha solo bisogno di
mantenere sottaciuta, non dichiarata, l’indipendenza curda.
Nella hall del sontuoso Hotel Rotana incontro Staffan De Mistura, inviato del segretario
generale dell’Onu in Siria. Viene a Erbil perché il governo regionale del Kurdistan iracheno
è divenuto protagonista imprescindibile della resistenza all’Is: «Non tutto il male viene per
nuocere», spiega. «La capacità strategica dell’Is di manovrare insieme armamenti
tradizionali e terrorismo suicida, oltre che una guerra mediatica ferocemente raffinata,
costringe il mondo civile a riunire le forze». Il perno della nuo- va alleanza è a Erbil, cioè
richiede che venga concessa fiducia alla nuova potenza curda. Pur di vincere le ultime
resistenze del turco Erdogan, De Mistura ha fatto ricorso a un paragone imbarazzante col
genocidio di Srebrenica: «Poiché la battaglia di Kobane ha assunto un rilievo simbolico,
era divenuto essenziale che Ankara autorizzasse il passaggio sul suo territorio dei rinforzi
peshmerga curdi». Ma l’autorizzazione non sarebbe mai giunta se Erdogan non si fidasse
del senso di responsabilità dei leader curdi iracheni, attenti a non dare fiato alle pretese
indipendentiste dei confratelli turchi e siriani.
È un equilibrio delicatissimo, quello che si sta realizzando in questo Stato di fatto mai
dichiarato. Lo si verifica, a sud di Erbil, nella città petrolifera di Kirkuk. Se oggi Kirkuk è
entrata a far parte dell’area di influenza curda (catastrofica sarebbe la sua caduta nelle
mani dell’Is), si evita di chiamare in causa l’articolo 140 della Costituzione irachena, in
base al quale un referendum potrebbe ufficializzarne l’ingresso nella giurisdizioÈ ne del
Kurdistan. Si fa ma non si dice.
Ciò spiega perché nel vecchio suggestivo caffè Bazco, a ridosso della millenaria cittadella
di Erbil, si pronunci malvolentieri il nome di Mustafa Ocalan, il leader del Pkk detenuto da
15 anni nell’isola-prigione turca di Imrali. E ciò nonostante Ocalan stia trasmettendo inviti
alla moderazione ai guerriglieri Pkk restii a scendere a patti con Ankara, convinto anche lui
della necessità di creare un fronte unito contro i tagliagole Is. Ocalan resta un simbolo
amato, e chissà che domani non possa esercitare una funzione benefica di pacificazione
dopo tanto sangue versato, ma per il momento va messo in sordina se si vuole realizzare
a Kobane la saldatura fra i peshmerga curdi iracheni e i combattenti siriani curdi del Pyd,
temuti dalla Turchia per i legami col Pkk. Per coinvolgere davvero la Turchia nella
coalizione anti-Is bisogna che l’unica voce ufficiale curda rimanga quella di Erbil.
La simpatia che circonda il nazionalismo curdo non può infatti cancellare gli interrogativi
sulla potenza con cui oggi occupa la scena. Chi ha vissuto al fianco dei peshmerga la
drammatica estate dell’offensiva jihadista, sottolinea la tradizione pluralista e la
disponibilità alla convivenza dei curdi. Il direttore dell’Unicef in Iraq, Marzio Babille,
protagonista di coraggiose operazioni di soccorso nelle città assediate dai tagliagole, non
si stanca di ripeterlo: «Il Kurdistan iracheno è l’unica regione di quest’area insanguinata
nella quale vige il rispetto dei diritti umani; e viene praticata una generosa accoglienza dei
profughi di ogni confessione religiosa». Ma è vero anche che le nuove generazioni hanno
smesso di imparare l’arabo. Il distacco dall’Iraq è un fatto compiuto. È lecito chiedersi se
questo nazionalismo che si fa Stato fuori tempo massimo non darà luogo a nuovi accidenti
della storia. Dubbio legittimo. Intanto godiamoci questa isola di libertà in mezzo alla
barbarie. Il sole del deserto rende abbaglianti i grattacieli di Erbil, i profughi accampati
nelle tende dell’Onu li osservano pieni di speranza.
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del 13/11/14, pag. 6
Tank e truppe russe in Ucraina Kiev: «Pronti a
combattere»
I bombardieri strategici di Mosca in missione verso le coste americane
MOSCA Il governo di Kiev e la Nato non hanno dubbi: nell’Ucraina sudorientale controllata
dai ribelli sono tornati gli «omini verdi», soldati in divisa verde senza insegne
accompagnati da mezzi blindati e armamenti di ogni tipo. Vale a dire che mentre la tregua
regge con grandi difficoltà, i ribelli stanno ricevendo rinforzi dalla Russia, in vista di
un’offensiva. Dal Donbass si ribalta l’accusa sul governo legittimo: «Da giorni si preparano
a un attacco e continuano a bombardare aree abitate», dicono i rappresentanti
dell’autoproclamata repubblica indipendente. Intanto Mosca annuncia ufficialmente che
inizierà a pattugliare le coste del Nordamerica, a causa di quello che fa la Nato. «Alimenta
le tendenze anti-russe mentre la presenza militare straniera in prossimità delle nostre
frontiere sta aumentando», ha detto il ministro della Difesa Sergej Shojgu. Così, ha
aggiunto, «dobbiamo assicurare la nostra presenza militare nella parte occidentale
dell’Atlantico, in quella orientale del Pacifico e nelle acque dei Caraibi e del Golfo del
Messico». Tutt’attorno agli Stati Uniti, per capirci.
Una iniziativa che fa seguito ai voli sempre più «provocatori» (la definizione è della Nato)
vicino alle coste occidentali e in prossimità di navi e aerei dell’Alleanza. E alla quale si
aggiunge la creazione di un gruppo di intervento militare completamente autonomo nella
Crimea annessa da poco. In questo clima i nuovi venti di guerra che arrivano dall’Ucraina
appaiono sempre più inquietanti. Sembra che i contendenti stiano semplicemente
approfittando del cessate il fuoco per prepararsi ai prossimi scontri. Kiev non ha
riconosciuto le elezioni tenute il 2 novembre dai separatisti. Così in questi giorni hanno
preso a girare voci su una possibile nuova offensiva delle truppe regolari per riconquistare
il Donbass.
I ribelli dicono che loro stanno semplicemente «raggruppando» le forze in vista di una
possibile minaccia e negano che dalla Russia siano arrivati nuovi aiuti.
Ma i satelliti Nato, secondo il comandante supremo dell’Alleanza Philip Breedlove,
confermano i movimenti: «Non c’è alcun dubbio sul coinvolgimento militare diretto della
Russia in Ucraina», ha detto. Mosca, invece, smentisce tutto.
Così Kiev si prepara a quella che potrà essere una durissima campagna d’inverno. Le
truppe ricevono abiti pesanti ed equipaggiamento nuovo. «Stiamo riposizionando le nostre
forze per rispondere alle iniziative dei ribelli», ha spiegato il ministro della Difesa Stepan
Poltorak. Inoltre si schierano prime e seconde linee di difesa, mentre si costituiscono unità
di riserva.
Se non si riuscirà a far prevalere una linea moderata che punti a una composizione
concordata del conflitto, è inevitabile che le relazioni tra Russia, Europa e Stati Uniti
continuino a peggiorare. Inutile, quindi, parlare di modifica al regime delle sanzioni, visto
che anche nell’Unione Europea c’è chi parla invece della necessità di nuove misure per
costringere il Cremlino a cambiare strada. In realtà dal Consiglio Esteri Ue che si terrà
lunedì a Bruxelles non dovrebbero ancora uscire nuove sanzioni nei confronti della
Russia, hanno rivelato fonti dell’Unione Europea. «Le sanzioni esistenti sono dolorose per
la Russia e potrebbero essere inasprite solo se l’Unione Europea non avesse altra scelta»,
ha sottolineato una fonte da Bruxelles. I vincoli finanziari ed economici stanno infatti
colpendo duramente la Russia che deve fare i conti anche con prezzi del petrolio e del gas
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in discesa. Ma, almeno finora, tutto questo non sembra aver convinto Vladimir Putin a
rivedere la sua posizione.
Fabrizio Dragosei
del 13/11/14, pag. 19
Juncker si assolve: non mi dimetto
Il capo della Commissione Ue rompe il silenzio sullo scandalo LuxLeaks
«Non dipingetemi come amico del grande capitale». I fischi dei deputati
DAL NOSTRO INVIATO BRUXELLES Nega responsabilità e conflitti d’interessi. Il
presidente della Commissione europea, il lussemburghese Jean-Claude Juncker, ha
interrotto una settimana di imbarazzato silenzio per respingere nell’Europarlamento e con i
giornalisti il suo coinvolgimento nello scandalo LuxLeaks, che ha rivelato i favoritismi fiscali
concessi a centinaia di società straniere quando era premier del Lussemburgo.
Juncker si ritiene ancora adeguato e credibile davanti ai 500 milioni di cittadini dell’Ue. Ha
promesso di impegnarsi per l’armonizzazione fiscale e per lo scambio automatico di
informazioni tra Stati sui tax ruling, le richieste preventive delle società su come verranno
tassate dal Lussemburgo e da altri paradisi fiscali disponibili a concedere forti riduzioni in
modo riservato. La Germania preme per accelerare.
«Non dipingetemi come il miglior amico del grande capitale», ha replicato Juncker, dopo
essere stato accolto con fischi e critiche da vari settori dell’Europarlamento di Bruxelles.
Ha negato di essere «l’architetto» del regime da paradiso fiscale del suo Granducato,
sviluppato nei circa 20 anni da premier e ministro delle Finanze, quando è stato anche il
principale frenatore delle iniziative Ue contro i grandi evasori fiscali. Si considera in regola
con le leggi comunitarie, nonostante la precedente Commissione europea abbia avviato
una procedura su presunti favoritismi fiscali in Lussemburgo (a Fiat Finance e Amazon) in
contrasto con la normativa sugli aiuti di Stato. «Se anche dovesse essere accertato che
aiuti di Stato sono stati deliberati da qualche istituzione lussemburghese — ha precisato
— non vedo perché mi dovrei dimettere».
Juncker è stato difeso da Manfred Weber, il leader tedesco del suo europartito Ppe. «È
vergognoso che i governi firmino con le imprese accordi segreti che le aiutano a non
pagare le tasse», ha invece attaccato il capogruppo degli eurosocialisti Gianni Pittella, che
non intende però far saltare la maggioranza con il Ppe e un presidente della Commissione
appena insediato. Il leader degli euroliberali, il belga Guy Verhofstadt, ha chiesto di
concludere entro dicembre i procedimenti su Fiat e Amazon perché, se quegli accordi
risultassero illegali, sarebbe «un problema» per Juncker. Gli euroscettici (Ukip e M5s)
hanno chiesto «sospensione o dimissioni».
Juncker è atteso al G20 a Brisbane in Australia, dove è in agenda la lotta alla grande
evasione fiscale. Ma poi a Bruxelles dovrà considerare le irritazioni popolari soprattutto nei
Paesi dove, quando era presidente dei ministri finanziari dell’Eurogruppo, ha sollecitato
misure di austerità (con aumenti delle tasse), mentre da premier guidava un paradiso
fiscale con rigido segreto bancario a vantaggio di multinazionali, società e ricchi investitori.
Inoltre piccole imprese e negozi, sottoposti a pesanti imposizioni fiscali, hanno scoperto
con LuxLeaks di essere stati penalizzati nelle concorrenza con multinazionali e grandi
catene, che pagano tasse minime grazie ai favoritismi dei vari Lussemburgo, Olanda,
Irlanda o Regno Unito.
Ivo Caizzi
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del 13/11/14, pag. 13
India e nascite: non è un paese per donne
STERILIZZAZIONI DI STATO
di Roberta Zunini Nel subcontinente indiano, dentro un ospedale del Chhattisgarh, uno
degli Stati più poveri, cinquanta ragazze lottano ancora contro la setticemia provocata
dagli interventi di sterilizzazione eseguiti 4 giorni fa in un campo “s anitario”. Per la fretta
con cui i medici avevano smaltito le operazioni di chiusura delle tube - ottimizzare i tempi
significa minori costi - e a causa di una carente disinfezione degli strumenti, 13 sono morte
nel giro di poche ore, 20 sono in gravi condizioni.
SE È PROBABILE che l'inchiesta aperta dalla magistratura su espressa richiesta del
premier Narendra Modi spedirà in cella i chirurghi, il mandante continuerà a governare a
piede libero. Perché il mandante è lo Stato. L'India, volendo mostrare di essere a tutti gli
effetti la più grande democrazia del mondo, non ha mai messo a punto una politica
ufficiale di pianificazione delle nascite, la cosiddetta politica del figlio unico di cinese
memoria. Ecco perciò che dagli anni 70 il metodo più popolare di controllo delle nascite è
stata la sterilizzazione. Indira Gandhi fu la prima a imporla inserendola nel pacchetto di
leggi di emergenza. Un escamotage per rassicurare l'enorme ceto povero della
temporaneità di una misura ontologicamente impopolare. La maggior parte dei più
indigenti ancora oggi ritiene i figli una buona garanzia per aumentare le entrate
economiche. In seguito, i vari governi, per pulirsi la coscienza e allo stesso tempo
incentivare le donne a presentarsi all'appello, hanno introdotto una “ricompensa” in
denaro. Con le 1.400 rupie offerte, circa 18 euro, però anche una famiglia povera, non
campa più di un mese. Secondo le stime del 2013, le sterilizzazioni sono state quattro
milioni. Cifra giustificata dal fatto che gli indiani sono circa 1 miliardo e 200 milioni e
potrebbero diventare 1 miliardo e mezzo entro il 2028, superando i cinesi.
A ESSERE sterilizzate sono prevalentemente le donne, troppo deboli socialmente per
opporsi alle decisioni dei tanti mariti-padroni. Le morti per questo tipo di interventi sanitari
non sono una novità: negli ultimi dieci anni sarebbero state oltre 1.400. Ma sono numeri
ufficiali che valgono fino a un certo punto in un Paese dove la corruzione si annida
ovunque e le leggi sono tenute a seguirle solo i più deboli e i politici non sono realmente
interessati a restringere l'enorme divario sociale. Nonostante il tasso di natalità sia sceso a
2,4 figli per donna, grazie all'accresciuta emancipazione femminile, l'India non ha
accennato nemmeno lontanamente a stabilire una data di chiusura del programma di
sterilizzazione e nemmeno una diminuzione della quota fissa di donne da sterilizzare
annualmente, volente o nolente. Le vittime della sterilizzazione finora sono state sempre
strumentalizzate dalle opposizioni, di qualsiasi colore, per denigrare le maggioranze di
volta in volta al potere. Il vicepresidente del partito del Congresso, Rahul Gandhi,
clamorosamente battuto dai nazionalisti del partito induista alle elezioni di maggio, ne ha
subito approfittato per polemizzare, dimenticando che fu proprio sua nonna a introdurre
questa normativa. I corpi delle donne in India sono considerati macchine senza anima. Da
usare e manomettere a seconda delle esigenze, degli uomini e dello Stato.
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del 13/11/14, pag. 6
Gli schiavi bulgari delle griffe
Angelo Mastrandrea
Inchiesta. Nella regione di Petrich salari da fame nell’industria tessile:
129 euro al mese. A Batman, in Turchia, donne kurde e siriane al lavoro
dalle 9 alle 24. La denuncia di Clean Clothes: aziende che producono
per Adidas, H&M, Hugo Boss e Zara
«Ieri sera mi ha chiamato il mio capo per dirmi che c’era un ordine urgente da finire per
Zara. Ho lavorato dalle 7 alle 10 di sera per la stessa tariffa dell’orario diurno e ho ricevuto
0,50–0,60 euro all’ora. Non ho un contratto di lavoro e non mi versano i contributi».
«Produciamo per marchi famosi come Zara, Levi’s e H&M. Il nostro capo ci dice
continuamente che siamo un’azienda europea che opera secondo gli standard europei e i
livelli europei di retribuzione. Come sono cinici! Non voglio rischiare la mia già bassa paga
e finire in mezzo a una strada. Quindi, preferisco stare zitta e non dire nulla; mi rassegno
ad essere sfruttata e umiliata».
La regione di Petrich, nella Bulgaria sudorientale, è per l’industria tessile quasi meglio di
un paese orientale: qui, ai margini dell’Europa unita, si può produrre a costi più che
contenuti e senza neppure la fatica di dover traversare mezzo mondo per vedersi
recapitata la merce. Nella regione più povera d’Europa, si calcola che metà della
popolazione lavori (in fabbriche di grandi dimensioni, in scantinati o a domicilio) per conto
di agenti greci che a loro volta operano per conto di grandi marchi e distributori. E le storie
che si ascoltano sono gli sfoghi di chi sa di essere sfruttato ma non ha alternative.
Una lavoratrice, occupata da 18 anni in una fabbrica che produce per Tom Tailor e Zara,
ha riferito ai ricercatori della campagna Clean Clothes di guadagnare 179 euro netti,
comprese cinque ore di straordinario medie al giorno. Un’altra ha raccontato di cucire a
domicilio perline sulle camicette di Benetton o Max Mara e di ricevere non più di un euro e
mezzo per un’ora e mezza di lavoro. Una donna slovacca ha spiegato ai ricercatori che il
suo salario è stato ridotto da 430 euro a 330.
Non si tratta di eclatanti eccezioni, bensì della normalità in paesi che sono a pieno titolo
nell’Unione europea e in altri che ne hanno fatto richiesta o rimangono ai margini. E in
molti casi i committenti sono, col solito meccanismo del lavoro in subappalto,
multinazionali dell’abbigliamento. Nel 2013, si legge nel dossier “Stitched Up”, che
accende i riflettori sulle condizioni di lavoro nell’industria tessile dell’est Europa ed è stato
realizzato per conto della Commissione Ue, Bulgaria, Macedonia e Romania hanno fatto
registrare salari minimi inferiori a quelli cinesi, Moldavia e Ucraina (prima della rivolta di
piazza Maidan e della guerra civile nel Donbass) sono rimaste sotto l’Indonesia,
nell’Anatolia Orientale i salari per i lavoratori dell’abbigliamento sono il 20 per cento al di
sotto del minimo per vivere una vita appena dignitosa. Tradotto in cifre, si va dagli 81 euro
al mese moldavi ai 129 bulgari. Nel migliore dei casi (in Croazia, Slovacchia e Istanbul) i
salari non superano comunque i 300 euro.
Si tratta di un fenomeno che riguarda, secondo le stime dei ricercatori di Clean Clothes,
almeno tre milioni di persone, che con le famiglie arrivano a nove milioni: solo nelle
repubbliche ex sovietiche nel settore tessile sono impiegati 750 mila lavoratori regolari e
350 mila al nero. Quello che emerge dal dossier è che i paesi post-socialisti funzionano
come bacino di lavoro a buon mercato per i marchi e i distributori occidentali della moda. A
essere impiegate sono nella stragrande maggioranza donne (in Turchia addirittura il 90
per cento) che, come racconta una ricercatrice georgiana, «sono retribuite per quantità di
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prodotto realizzato e le loro paghe non superano i 104–124 euro al mese», mentre gli
uomini lavorano «prevalentemente nel taglio e nella logistica e hanno un salario fisso di
124–145 euro mensili».
L’obiettivo della campagna Clean Clothes è arrivare a ottenere almeno il 60 per cento del
salario medio nazionale. Ma al momento si tratta di una chimera, sia per la mancanza di
una legislazione comune, nei paesi che aderiscono all’Ue, sia per l’assenza totale di
protezione legale in Paesi come la Georgia, sia per la deregulation contrattuale e per la
difficoltà di controllare la filiera produttiva, cosa che consente a padroni e padroncini di
comportarsi nel modo in cui viene raccontato da una lavoratrice rumena con venticinque
anni di servizio: «Raggiungo a malapena il minimo salariale, c’è stato un mese in cui non
ce l’ho fatta neppure lavorando di sabato. Se dico al capo che qualche volta non
raggiungo il minimo se non vengo a lavorare di sabato, lui mi risponde: “E allora vieni di
sabato”».
La conclusione del gruppo di ricerca è in controtendenza rispetto a quanto il buonsenso
potrebbe suggerire: a queste condizioni è meglio la disoccupazione, perché «forme di
occupazione con livelli retributivi eccessivamente bassi creano povertà anziché
combatterla». Anche perché a guadagnarci, in questi anni, sono state solo le
multinazionali che hanno spostato la produzione dove il lavoro costa meno, i sindacati
sono più deboli e i controlli meno stringenti. I ricercatori mettono in evidenza come i più
noti marchi della moda siano riusciti a guadagnare dalla crisi economica. I profitti per le big
companies sono schizzati alle stelle: dagli 11,8 miliardi di fatturato del 2008 ai 16,98 del
2013 per H&M; da 10,41 miliardi del 2008 a 16,72 per Adidas, i cui lavoratori ricevono
nove euro al giorno (per dieci ore di lavoro) in Bosnia e cinque (per otto ore di lavoro) in
Georgia. Molti, per poter sopravvivere, sono costretti a fare anche un secondo lavoro
oppure a dedicarsi all’agricoltura di sussistenza.
Ci sono poi alcuni “casi di studio”. Fra il maggio 2013 e il gennaio 2014 sono state
intervistate 40 lavoratrici in diverse aziende croate e turche che producono vestiario per
conto del marchio Hugo Boss. Le denunce riguardano i salari da fame, l’abuso degli
straordinari, la libertà di associazione negata e l’assenza di contrattazione collettiva, la
repressione dell’attività sindacale, con molestie, atti intimidatori e tentativi di corruzione,
l’obbligo per le donne di non avere gravidanze. I ricercatori sono andati nella città turca di
Batman, dove esiste un sistema di subfornitura simile a quello bulgaro di Petrich. In un
piccolo laboratorio che impiega una ventina di donne kurde e alcune siriane hanno
scoperto condizioni di lavoro al limite della schiavitù: dalle 9 di mattina fino a mezzanotte,
senza straordinari e, in caso di ordini urgenti, fino al mattino successivo. Al nero e per 130
euro al mese. Gli ospedali, in caso di interventi gravi, chiedono il pagamento della
prestazione. Le lavoratrici la prendono con filosofia: «Cerchiamo di non ammalarci».
del 13/11/14, pag. 32
L’Estonia è la prima vera “digital nation” al mondo Qui Internet è un
diritto, il 100% delle scuole e degli uffici pubblici ha un computer, l’80%
delle famiglie è connesso e gli affari si fanno solo online Una
rivoluzione nata anche da uno shock: la prima cyberwar globale. A
scatenarla l’ingombrante vicino russo nel 2007. “Ma oggi siamo
sicurissimi”
Il Paese wi-fi
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RICCARDO LUNA
TALLINN
NON è vero che Internet non ha confini e che, come lo spirito santo, è in ogni luogo, basta
che ci sia la rete. Il paese di Internet esiste. Sta in Europa, fra la Finlandia e la Russia, in
uno Stato che ci sembra piccolo solo perché è quasi disabitato, appena un milione e
trecentomila abitanti, come Milano; ma in realtà l’Estonia, di questo stiamo parlando, è più
grande della Danimarca e dell’Olanda, solo che qui, a parte qualche città, ci sono
chilometri e chilometri di distese di foreste e ghiaccio. È lo scenario di Frozen, il film della
Disney che infatti ne ha mutuato i colori della bandiera nazionale: bianco nero e azzurro.
Ma la vera bandiera che sventola nelle mappe che ti consegnano nell’aeroporto di Tallinn
(dove il wifi è libero, gratuito e velocissimo) o negli hotel del fiabesco centro storico
protetto dall’Unesco, è quella di Skype, il servizio di telefonia via Internet inventato da uno
svedese e da un finlandese, ma sviluppato qui nel 2003. «Siamo il paese di Skype», è il
messaggio che spacciano con una leggera forzatura storica (anche se la prima frase
pronunciata su Skype fu in effetti in estone, “Tere, kas sa kuuled mind? Ciao, mi senti?”).
Ma la verità è che l’Estonia oggi è molto di più: è il modello di quello che potremmo
diventare, la prima vera Digital Nation del mondo. Un posto dove Internet è un diritto, ma
in un certo senso anche un dovere; dove quasi tutto avviene online ma i tuoi dati personali
sono considerati sacri e puoi sapere immediatamente chi li ha consultati e perché; e una
società dove il governo può prendere informazioni basandosi su quello che i cittadini
stanno facendo in tempo reale. Il governo dei big data. l’Illuminismo digitale realizzato.
Funziona? Partiamo dai numeri di base. Il 100 per cento delle scuole e degli uffici pubblici
oggi hanno un computer, l’80 per cento delle famiglie hanno accesso alla rete tramite un
pc e il 97 per cento degli affari si fanno online. «Mi chiedo come faccia il rimanente 3 per
cento...», dice ironicamente Siret Shutting, la funzionaria del governo che sta presentando
le meraviglie di e-Estonia a un gruppo di africani venuti ad imparare. Ogni giorno, dice, c’è
almeno una delegazione proveniente da qualche parte del mondo che sbarca a Tallinn per
capire come si fa a vivere in una società totalmente digitale. C’è un segreto? Una
bacchetta magica? Oppure servono tantissimi soldi? La risposta è spiazzante: «Abbiamo
scommesso tutto su Internet perché siamo pochi e perché siamo poveri», sostiene Taavi
Kotka, il chief information officer del governo. È un giovane ingegnere con un passato da
startupper e una visione molto radicale di come si fanno le cose: «Se una piattaforma
informatica non funziona bene, meglio buttarla giù e rifare tutto daccapo piuttosto che
metterci una toppa». La svolta digitale di dodici anni fa la spiega così: «Per noi è stata una
questione di vita o di morte, di sicurezza nazionale. Non avevamo nessun altro modo per
portare i servizi pubblici in posti remoti con pochissime persone. Dovevamo trovare un
modo per sostituire i dipendenti pubblici con le macchine. Oppure sparire. Sa, noi abbiamo
un vicino piuttosto ingombrante...».
La Russia, non c’è bisogno di nominarla. In un paese dove il 40 per cento degli abitanti
sono di origine russa, dove l’occupazione sovietica è durata 50 anni, fino al 1991; e dove
l’ultimo “morso” del vicino è stato così recente che tutti lo ricordano bene. Era il 2007, il
governo aveva deciso di spostare la statua ai caduti sovietici — chiamati “i liberatori di
Tallinn” — vicino ad un cimitero, «dove meritava di stare», erano scoppiati violenti
disordini per le strade e l’Estonia divenne il primo paese del mondo a subire una cyberwar,
un attacco informatico in piena regola.
«Ci è servito, oggi siamo sicurissimi, non c’è nulla da hackerare e se un server viene
attaccato, lo isoliamo dal sistema e non accade nulla», giura Jaan Priisalu, capo
dell’Autorità delle comunicazioni. Il sistema si chiama X-Road ed è il cuore della Digital
Nation. È l’infrastruttura alla quale sono attaccati tutti i database, 900 organizzazioni che
offrono migliaia di servizi ed erogano centinaia di milioni di transazioni all’anno. È costato
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molto? Pochissimo: lo hanno sviluppato tutto internamente, «non è vero che l’informatica
costa tanto, anzi i soldi creano mostri». Come funziona? Ci si collega con una carta di
identità elettronica, come la nostra solo che lì ce l’hanno tutti o quasi davvero (e dal 2007
è sufficiente anche il telefonino con una Sim particolare). Ci si collega ed è tutto a portata
di clic. Dal pagamento dei parcheggi pubblici (il servizio più usato) alle banche, dalle firme
digitali alla scuola, per arrivare alla sanità e persino al voto. Sì, il voto: alle ultime elezioni
140 mila voti sono stati espressi elettronicamente da cittadini estoni che erano in 105
paesi. Timori di brogli non ne hanno. Anzi, si vantano di aver creato «il primo Stato
indipendente dal territorio», nel senso che un cittadino estone ha gli stessi servizi in
qualunque posto del mondo si colleghi. «Possono prendere la nostra terra, ma non il
nostro Stato» è il motto che dicono guardando ad est da dove non viene mai nulla di
buono non solo meteorologicamente.
Non è stato facile arrivare fin qui. L’ingegnere capo spiega il processo con la formula
“innovation through pain”, innovazione dolorosa. E fa l’esempio della scuola dove da un
giorno all’altro sono stati imposti i computer a tutti e se un insegnante non li usava non
prendeva lo stipendio. Altro che incentivi. Ma in realtà quella estone è stata davvero una
rivoluzione culturale, realizzata con un massiccio programma di alfabetizzazione digitale
porta a porta, «contadino per contadino». Nessuno doveva restare escluso. È stata una
rivoluzione il cui simbolo è il presidente della Repubblica in persona. Si chiama Toomas
Ilves, ha 61 anni, è nato in Svezia da genitori rifugiati, è cresciuto negli Stati Uniti dove ha
imparato il linguaggio informatico già a 13 anni, poi ha fatto il giornalista militante in
Germania per Radio Free Europe e dopo la liberazione è diventato un diplomatico prima di
diventare capo dello Stato. È lui il digital champion estone, il primo tifoso di Internet per
tutti. Ora anche in Europa, «pensate che vantaggi avremmo se avessimo un unico
mercato digitale con 500 milioni di utenti », dice sapendo che la palla ora è nelle mani di
un altro estone, Andrus Ansip, primo ministro per dieci anni e ora al vertice della Unione
Europea proprio con questa delega. C’era lui, Ansip, nelle foto che ti mostrano fieri, in
occasione della firma digitale del primo trattato internazionale: Ansip era a Tallin; l’altro
primo ministro era a Helsinki, era Jirky Katainen, oggi considerato il falco di Bruxelles. I
due firmavano un accordo per portare il sistema digitale estone in Finlandia. Fatto. E
adesso? Chi sarà il prossimo? Loro sperano nell’Italia.
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INTERNI
del 13/11/14, pag. 1/2
Renzi-Berlusconi, c’è il patto
Il premier: “Sì definitivo a marzo, così potrò chiedere a Napolitano di
restare”
FRANCESCO BEI
ROMA .
L’accordo c’è. Matteo Renzi è convinto di aver messo al sicuro la sua riforma. «È andata
benissimo», si lascia andare appena richiusa la porta dello studio alle spalle di Berlusconi,
Letta e Verdini. Il capo del governo ritiene di aver portato a casa il massimo possibile:
«Berlusconi ha mollato. Con l’Italicum portiamo a casa uno strumento straordinario di
garanzia per il bipartitismo». Un «accordo moroteo », lo definisce scherzando Lorenzo
Guerini, perché tiene insieme cose impossibili: lo sbarramento al 3% che voleva Alfano, il
premio al partito che voleva Renzi, i 100 capolista bloccati di Berlusconi. Ma a essere
davvero «morotea» è soprattutto la scaltrezza con cui Renzi ha intenzione di usare il
leader di Forza Italia per rendere nulla l’opposizione interna del Pd. Quella che già ieri
sera costruiva le barricate contro i capilista bloccati.
Il premier non è disposto infatti a rimettere in discussione un castello così faticosamente
messo in piedi. «La legge elettorale ormai è andata — ripete ai suoi — , la portiamo a
casa entro marzo anche alla Camera». I tempi in questa partita sono tutto. Aver vincolato
Berlusconi all’approvazione dell’Italicum al Senato «entro dicembre» per Renzi significa
infatti molto. Vuol dire ad esempio potersi presentare dal capo dello Stato, prima del
discorso di fine anno, con la legge a un passo dall’approvazione definitiva. Un capitale di
credibilità per chiedere a Napolitano di aspettare ancora qualche settimana, il mese di
marzo appunto, prima di dare le dimissioni. In modo da chiudere il secondo mandato al
Quirinale potendo mettere la sua firma sulla nuova legge.
Certo, i maligni sostengono che tutta questa fretta di Renzi nasconda la volontà di andare
al voto anticipato, magari accoppiando regionali e politiche in primavera. Domenica 24
maggio è una data che circola. Il premier tuttavia bolla come «fantasie » queste voci. E a
dimostrazione che la sua volontà resta quella di «andare avanti», ha accettato di scrivere
la data del 2018 come termine della legislatura nel comunicato congiunto con Berlusconi.
«A questo punto ci arriviamo — spiega il capo dell’esecutivo nella riunione dopo il vertice
— perché abbiamo strappato il sì di Forza Italia sui tempi». L’interesse dell’ex Cavaliere a
non mettersi in mezzo, a non ostacolare il passaggio parlamentare dell’Italicum, ha
ovviamente molto a che fare con la partita che si aprirà un attimo dopo l’approvazione
della legge elettorale. Quella del nuovo inquilino del Colle. Anche ieri a palazzo Chigi il
tema ha fatto capolino nella conversazione. Berlusconi infatti ha chiesto di essere
«coinvolto ». «Vorrei che il nostro accordo — ha detto sotto lo sguardo compiaciuto di
Gianni Letta — riguardasse non solo la legge ma tutti gli aspetti istituzionali». Ovvero un
Nazareno esteso anche al Quirinale. Un metodo che in fondo sta bene a Renzi. Se
Berlusconi tiene fede al patto sulla legge elettorale e riesce a trattenere «gli scalmanati di
Forza Italia », il capo del governo promette il sospirato coinvolgimento. Come ha detto due
giorni fa a Porta a porta, per l’elezione del successore di Napolitano «il metodo che va
utilizzato è cercare la maggioranza più ampia possibile».
Certo, restano due punti di dissenso non marginali. Il premio di maggioranza al partito
anziché alla coalizione e lo sbarramento abbassato a un confortevole 3 per cento. Per la
verità non sono due ostacoli della stessa altezza, giacché nel vertice di palazzo Chigi
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Berlusconi avrebbe fatto capire di non essere contrario a un premio di maggioranza
concesso alla lista. «Ma allora — ha obiettato — servirebbe una soglia di sbarramento
molto, molto più alta. Magari all’8 per cento, così da costringere tutti i piccoli a stringersi
intorno al partito più forte». A Renzi comunque che ci siano questi due scogli non importa
poi tanto. «L’essenziale — ripete — è che Forza Italia non si metta in mezzo». Che tolga
ossigeno al possibile ostruzionismo grillino, che non faccia mancare il numero legale in
aula, che non faccia sponda alla sinistra Pd per cercare di mettere sabbia negli ingranaggi.
Né aderire, né sabotare. Questo il premier si aspetta da Berlusconi. Il resto verrà da sé,
grazie al patto di maggioranza con Alfano (che ha già commentato positivamente i risultati
del summit) e all’intesa siglata con l’ala più disponibile della sinistra, quella di Orfini e
Speranza. «Con loro siamo già d’accordo».
Resta il grande problema delle preferenze, una bandiera che la sinistra dem non mollerà
facilmente. Al segretario la legge piace così com’è, è morta l’idea di scendere a 75
capilista bloccati anziché i 100 di cui si parla nel comunicato. «Quei 100 li possiamo
trattare come se fossero candidati uninominali del vecchio Mattarellum, saranno la faccia
del Pd», obietta Renzi di fronte alle critiche interne. Quello delle preferenze è
oggettivamente il punto debole dell’accordo di ieri, il varco meno difeso da cui potrebbero
irrompere gli assedianti. Alfano dovrebbe resistere alla tentazione di votare con la sinistra
dem la reintroduzione piena delle preferenze. È prevedibile che saranno sollevate
questioni di legittimità costituzionale per delle liste che, per i partiti perdenti, di fatto
restano tutte bloccate. Ma i renziani sono sicuri che il ministro dell’Interno non tradirà il
patto. «Anche perché, se lo facesse, lo sbarramento per i piccoli risalirebbe
immediatamente al 5 per cento». Tutto si tiene.
del 13/11/14, pag. 4
Il patto è più forte della legge
Andrea Colombo
L’accordo c’è, la legge elettorale no. Il Nazareno è vegeto, ma cosa partorirà resta oscuro.
Dopo due ore di vertice, con al fianco i soliti Letta e Verdini per gli azzurri, Lotti e Guerini
per il Pd, Silvio e Matteo diramano una «nota congiunta» che dire ambigua è niente.
Confermano la perfetta sintonia sui principi generali: «Un sistema istituzionale che
garantisca la governabilità, un vincitore certo la sera delle elezioni, il superamento del
bicameralismo perfetto, il rispetto tra le forze politiche». Solenne impegno, infine, a far
proseguire la legislatura sino a «scadenza naturale»: «È una grande opportunità per
modernizzare l’Italia».
Se non è paccottiglia, poco ci manca. Nel merito, infatti, l’accordo è solo sull’innalzamento
della soglia per accedere al premio dal 37 al 40% e sull’introduzione delle preferenze dopo
i capolista, che invece restano bloccati. Quest’ultimo capitolo però è tutt’altro che chiuso,
perché resta da vedere quanti saranno i collegi: se resteranno 100 o verranno diminuiti per
diminuire la quota dei nominati dalle segreterie e alzare quella dei selezionati col voto
dagli elettori.
Nessuna conclusione, invece, sui due punti dolenti: la soglia di sbarramento, che il vertice
di maggioranza avrebbe fissato al 3% e che Berlusconi vuole portare al 5% e il premio di
maggioranza, da attribuirsi alla lista secondo don Matteo e alla coalizione per il suo
predecessore. Ma niente paura: queste «piccole» divisioni non tolgono nulla al giudizio
«positivo» sul «lavoro fin qui svolto», né ostacolano il comune intento di varare l’Italicum al
senato entro dicembre e la riforma costituzionale alla camera entro gennaio 2015. Favole.
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Dall’ottava puntata del Nazareno una cosa sola è emersa forte e chiara: che la legge
elettorale non c’è e la si dovrà mettere a punto nella commissione affari costituzionali del
Senato. È possibile, anzi probabile, che il signore di Arcore abbia assicurato al socio che il
suo sì al premio di lista ci sarà e che quello abbia restituito il favore impegnandosi a
portare al 4% la soglia di sbarramento. Ma anche questi sono impegni campati per aria.
Ieri la commissione ha nominato la presidente Finocchiaro relatrice unica e fissato il
calendario, a partire da martedì prossimo, ma è la stessa relatrice a dire che la velocità
dell’iter dipende dalla presenza o meno di un ampio accordo preventivo sui punti chiave.
La realtà è opposta. Sulle preferenze la minoranza Pd non potrà che dare battaglia. I
«civatiani», una ventina, hanno disertato ieri sera la direzione convocata quasi sui due
piedi da Renzi per parlare di lavoro ma anche molto di Italicum. I bersaniani si sono riuniti
nel tardo pomeriggio: un vero «vertice di minoranza» che lascia chiaramente intendere la
scelta di non arrendersi senza combattere.
Sulle preferenze Berlusconi ha promesso ai suoi di tenere durissimo. Sulla sponda
opposta l’Ncd già strepita. «Qui tutto si tiene — sbraita Sacconi — e il premio di lista ha
come corollario necessario la soglia al 3%». Non basta. L’ex ministro Mauro starebbe per
lasciare con altri tre senatori il gruppo dei Popolari per l’Italia aderendo al Gal, il che
altererebbe, pur senza ancora rovesciarli, i rapporti di forza in commissione.
In conclusione sarà una storia lunga, e si concluderà in contemporanea con l’elezione del
nuovo presidente, il vero capitolo segreto del summit di ieri. I due tavoli si incroceranno in
un gioco di scambi e minacce dal quale, probabilmente ma non più certamente, verranno
fuori un capo dello Stato targato Nazareno e una legge elettorale centrata su premio di
lista con soglia di sbarramento al 4%. Il capitolo preferenze, che è in realtà il più spinoso, è
invece ancora tutto da definirsi, perché la minoranza Pd non intende in nessun caso
andare oltre la proporzione del 70% di eletti con le preferenze. Sempre che Renzi non
riesca a convincere Napolitano a rinviare le dimissioni fino a maggio. Il pressing sull’uomo
del Colle è fortissimo e non è dovuto solo a beghe interne. È chiaro che il premier
preferirebbe affrontare gli esami di primavera europei, meno facilmente sormontabili di
quelli del mese scorso, con le spalle coperte da un capo dello stato che l’Europa considera
di massima garanzia. Ma il riflesso sulle vicende interne è fortissimo. Se Napolitano
rinviasse le dimissioni, i lavori della commissione, cioè la vera scrittura della legge
elettorale, si svolgerebbero sotto il ricatto delle elezioni anticipate con il consultellum:
dunque in un contesto ben diverso da quello dell’elezione del nuovo presidente. Con
Napolitano al suo posto, Renzi avrebbe in mano tutti gli assi. Con Napolitano
dimissionario, senza poter minacciare il ricorso alle urne, le carte vincenti sarebbero
equamente distribuite tra lui e Berlusconi.
del 13/11/14, pag. 1/7
Perché l’ex Cavaliere ha scelto di perdere
DI STEFANO FOLLI
L’ex Cavaliere accetta una nuova architettura dell’Italicum e ora deve
placare il disagio di Fi
Sul premio alla lista finale già scritto Renzi riduce Silvio a comprimario
A VOLERLO leggere con attenzione, il comunicato finale sottoscritto da Renzi e
Berlusconi è più esplicito di quanto sembri. È tutto costruito per spiegare l’accordo politico
sulla legge elettorale, di cui addirittura si annuncia il passaggio in aula al Senato entro la
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fine dell’anno. Dentro la cornice dell’intesa, si lascia un paragrafo sui punti di dissenso:
soglia minima e premio alla lista.
Per paradosso sono proprio questi due punti a dimostrare che Berlusconi ha accettato
quasi tutto, al di là della propaganda del giorno dopo. Di solito infatti le divergenze di
merito finiscono per prevalere sulla dichiarata sintonia nel metodo. Ma non in questo caso.
E si capisce. Sul «quorum» delle liste minori (il 3 oppure il 4 o magari il 5 per cento) c’è, sì,
una differenza fra Renzi e il suo alleato: non tale, tuttavia, da far traballare l’impianto della
legge. Sarà facile nelle prossime settimane, meglio se in Parlamento, trovare una sintesi,
ossia un compromesso. In fondo non è un caso che lo stesso Alfano si sia dichiarato
soddisfatto dell’incontro di Palazzo Chigi.
Viceversa, l’altro punto è strategico: non è un «distinguo » di poco conto stabilire se il
premio di maggioranza deve essere dato alla lista o alla coalizione. Costituisce anzi lo
snodo fondamentale che regge tutta la legge nella nuova versione che Renzi ha offerto, o
meglio ha imposto al suo interlocutore. Su questo, se Berlusconi non era d’accordo, c’era
solo una risposta possibile: la rottura netta e definitiva. Non è un dettaglio che si aggiusta
nell’aula del Senato, bensì la prova che l’intera architettura della legge è stata modificata
dal premier-segretario rispetto al vecchio Italicum. Quindi prendere o lasciare.
Brunetta nei giorni scorsi aveva colto nel segno quando dichiarava che la legge era stata
stravolta e perciò Forza Italia non doveva votarla. Ma Brunetta ha suscitato il disappunto
del capo e si capisce perché: la linea del vecchio leader non è mai stata la spaccatura,
bensì la sostanziale copertura delle posizioni «renziane». Per cui la spina dorsale della
nuova legge (il premio di maggioranza non più alla coalizione bensì al singolo partito
vincitore) viene accettata dal centrodestra; e la divergenza strategica, quella che
condannerà il gruppo berlusconiano a essere la terza o forse la quarta forza politica del
paese, è derubricata al rango di piccolo particolare destinato a essere chiarito nel corso
del dibattito in Parlamento.
In altre parole, Berlusconi ha detto «sì» e semmai con il comunicato di ieri sera ha cercato
di tenere a bada i malumori dei suoi. Come dire: tranquilli, non è finita, il confronto- scontro
continua, però voi fidatevi di me. La realtà è un po’ diversa. La giornata ha avuto un
vincitore ed è Renzi. Nell’altro accampamento, quello del centrodestra, c’è un comprimario
che subisce la personalità del premier e fa di necessità virtù, per una serie di ragioni che
non sono tutte attinenti alla politica. Ne deriva che Berlusconi deve farsi piacere una legge
elettorale che fino a pochi anni fa avrebbe respinto, essendo la meno adatta a
ricompattare il centrodestra.
Tutto questo non significa che la nuova norma avrà senz’altro vita facile in Parlamento.
Dissidenti ce ne sono nel centrosinistra come nel centrodestra. E i sussulti della
minoranza del Pd, contraria ai capilista indicati dalle segreterie dei partiti, lo testimonia. Ma
siamo in un campo che permette comunque un certo margine negoziale, sia a Renzi sia a
Berlusconi. Ci potranno essere dei ritardi, ma il carro della riforma si è rimesso in moto. E
a confermarlo arriva quell’accenno alla revisione costituzionale del Senato da approvare in
seconda lettura entro gennaio. Come dire che l’annuncio del prossimo addio di Napolitano
è servito a scuotere l’albero dell’inerzia.
del 13/11/14, pag. 6
“Ho salvato la faccia e l’unità del partito con il
Pd dirò la mia anche sul Quirinale”
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Il sollievo di Berlusconi: non si vota in primavera E Alfano esulta per lo
sbarramento al 3 per cento
CARMELO LOPAPA
ROMA .
«Ho salvato la faccia e anche l’unità di Forza Italia, ma soprattutto restiamo in partita».
Quando ha lasciato da poco Palazzo Chigi al fianco di Gianni Letta, Silvio Berlusconi tira
un lungo sospiro di sollievo. Lo farà del resto con tutti i dirigenti che alla spicciolata lo
chiamano e con quelli con i quali da lì a poco cenerà a Palazzo Grazioli.
«Quel che più conta è che abbiamo costretto Renzi a venire allo scoperto, a mettere nero
su bianco che non si andrà al voto in primavera», racconta il leader di Forza Italia nel
salotto di casa, dando conto dell’o- ra e mezza di confronto. Il riferimento è a quel
passaggio della nota congiunta che in cui si scrive che «la legislatura dovrà proseguire
fino alla scadenza naturale del 2018». Ma Berlusconi non solo per questo si dice più che
soddisfatto, nel tirare le somme. Con Matteo Renzi racconta di aver aperto ufficiosamente
il dossier Quirinale, ora che la corsa è aperta con le probabili dimissioni di Giorgio
Napolitano nell’arco di alcuni mesi, se non settimane. «Il presidente lo sceglierà assieme a
noi, il patto del Nazareno varrà a maggior ragione sulla scelta più delicata» continua l’ex
Cavaliere nel racconto ai suoi: «Non dovremmo ritrovarci con un nemico al Colle», niente
spauracchio di un presidente eletto da Pd e grillini, fosse Romano Prodi o Stefano Rodotà.
Ma ai nomi per ora nemmeno un cenno, spiega uno dei presenti.
Il comunicato congiunto Palazzo Chigi-Palazzo Grazioli (ci hanno lavorato Verdini, Letta,
Ghedini e la Bergamini dalla sponda forzista) è un capolavoro di equilibrismo, lascia
l’impressione che i due leader si siano spalleggiati a vicenda, lanciando messaggi ai
rispettivi oppositori interni. Conferma la validità «più che mai» del patto del Nazareno,
perfino il timing (entro fine anno la legge elettorale), ma allo stesso tempo lascia in
sospeso i nodi più critici: la soglia di sbarramento (che Alfano vuole al 3) e il premio alla
lista anziché alla coalizione. Vaghezza non casuale, spiega a cena l’ex premier ai
capigruppo Romani e Brunetta e a chi non era presente alla Presidenza del Consiglio.
«Alcuni temi sono ancora aperti perché devono rimanere aperti» ha ammiccato. Come
dire, la partita anche sulla legge elettorale non è affatto chiusa. Renzi avrebbe giurato che
quello di ieri sarebbe stato l’ultimo faccia a faccia tra i due sull’Italicum. Berlusconi non ne
è altrettanto convinto.
«Matteo, devi capire che non posso cedere ai tuoi diktat sul premio alla lista e sul 3 per
cento di sbarramento, magari per fare un favore ad Angelino», è una delle prime
considerazioni del leader forzista al premier, all’esordio del vertice. «Neanche io però
posso rimangiarmi l’accordo raggiunto con Alfano l’altro giorno», gli avrebbe ribattuto il
presidente del Consiglio. E Berlusconi: «Io potrei anche accettare il 3, ma tu devi
concedere il premio alla coalizione, anziché alla lista». Per il premier «non se ne parla»,
sul premio di maggioranza al partito ormai non torna indietro. Muro contro muro? Non
proprio.
La mediazione raggiunta — stando al successivo racconto di Denis Verdini a colleghi ai
parlamentari amici a vertice concluso — salverebbe capre e cavoli: «Per il momento Renzi
va avanti con l’ipotesi di Italicum che ha in mente, se ha i numeri al Senato e il Pd
compatto al suo fianco, l’approva, noi non ci metteremo di traverso, non faremo barricate».
Anche perché un risultato e non di poco conto Forza Italia a fine giornata lo porta a casa. I
collegi saranno cento: non saranno i 120 originari, ma neanche i 75 di cui si parlava in
queste settimane. Un tecnicismo, all’apparenza, che consentirebbe però a Berlu- sconi di
eleggere almeno una settantina di deputati, tutti col meccanismo del capolista bloccato,
tutti scelti e selezionati da Arcore. Di questi tempi, un risultato non da poco. Tant’è che a
Palazzo Grazioli non cantano vittoria ma poco ci manca. E la lettura finale non esclude a
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dicembre il ricorso a qualche escamotage in aula, pur di lasciar passare l’Italicum versione
“b” frutto del semi-accordo, compresa l’assenza strategica di alcuni senatori forzisti se
necessario. È il motivo per il quale a fine serata anche Angelino Alfano, leader Ncd, esulta,
convinto di aver strappato una volta per tutte lo sbarramento basso al 3 per cento: «Bene,
molto bene, avanti così» sintetizza su Twitter. Ma dentro Forza Italia fedelissimi del leader
non danno invece nulla per scontato. Nemmeno che «alla fine si possa raggiungere un
accordo più complessivo». È la lettura di chi sostiene che Berlusconi ieri abbia solo
chiesto e ottenuto tempo, disponibile in realtà, tra qualche settimana, a cedere sul premio
alla lista e ottenere magari un ritocco allo sbarramento. «Se Renzi accetta di salire al 4 o
addirittura al 4,5 per cento, anche questo nodo potrebbe tornare in discussione» va
ripetendo da tempo l’ottimista responsabile elettorale Ignazio Abrignani. Al momento
tuttavia quell’accordo per innalzare la soglia non c’è, il documento finale dice altro. E
Berlusconi si lascia così la porta aperta per contrattare ancora un’alleanza (sempre più
improbabile) con Alfano.
Raffaele Fitto — l’oppositore interno che ha ottenuto il riconoscimento del ruolo e della
linea anti-Renzi in economia — spiega al telefono ai suoi da Bruxelles che «Berlusconi ha
tenuto la schiena dritta, non ha accettato imposizioni, possiamo ritenerci soddisfatti». Cosa
accadrà in commissione e in aula poi si vedrà nelle prossime settimane.
del 13/11/14, pag. 13
Il Cavaliere di fronte al bivio: un nuovo
predellino o la ridotta
Le partite che Renzi vuol chiudere per togliersi il marchio
dell’«annuncite»
ROMA La prova decisiva sarà il passaggio parlamentare, e fino ad allora nulla potrà darsi
per scontato. Ma se davvero la legge elettorale andrà in porto secondo lo schema e la
tempistica voluti da Renzi, non c’è dubbio che da quel momento sarà finita un’epoca, e
che la Seconda Repubblica finirà in soffitta. Sarà un passaggio di sistema, insomma, che
va oltre il dettaglio del vertice di ieri tra il premier e il Cavaliere. Era chiaro come sarebbe
andata a finire, era impossibile per Berlusconi evitare la sconfitta: il patto del Nazareno si
diluisce nell’intesa siglata da Renzi e Alfano, senza le variazioni richieste dal Cavaliere.
Se il patto formalmente regge è per reciproca convenienza: per un verso il segretario
democratico toglie così margini a quanti nel Pd mirano a sabotare il suo progetto
riformatore; per l’altro verso il leader di Forza Italia resta a quel tavolo dove — Renzi
gliel’ha garantito — sarà «a pieno titolo» quando dovrà scegliersi il futuro capo dello Stato.
Altro non poteva ottenere Berlusconi, ma tanto gli basta. Quantomeno per garantirsi un
ruolo nella sfida per il Colle, ruolo che — senza accordi sugli equilibri interni di partito con
Fitto — potrebbe perdere quando si inizierà a votare a scrutinio segreto.
È sicuro che il tema del successore di Napolitano sia stato affrontato durante il colloquio,
ma non si sa se — nel corso della conversazione — Renzi ha ripetuto la battuta con cui di
solito introduce l’argomento: «Dovete capirmi, mi trovo assediato. Ho già tutto il vecchio
politburo del mio partito che si sente candidato in pectore per la presidenza della
Repubblica». E giù, a quel punto, con la lista delle telefonate a cui deve rispondere: dalla
A di Amato alla V di Veltroni, senza che manchi mai Casini.
Ovviamente il premier vuole finire i suoi «compiti» prima che la partita del Quirinale abbia
inizio. E non è solo per scongiurare pericolosi incroci tra temi diversi ed evitare imboscate.
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Il fatto è che Renzi vuol togliersi di dosso «l’etichetta dell’annuncite che mi hanno
appiccicato», in Italia e in Europa, se è vero che il capogruppo del Ppe Weber lo definisce
un «chiacchierone». Perciò, oltre ad aver stretto i tempi sulla delega fiscale e sul Jobs act,
vuole chiudere sull’Italicum e sulla modifica del Senato, perché — a suo modo di vedere
— «varare le riforme, anche quelle non economiche, nei tempi programmati, fa crescere la
credibilità dell’Italia».
I problemi del premier sono altri, e più del vertice serale con Berlusconi è stato complicato
l’incontro mattutino con Padoan, a causa di quei numeri che non lo fanno star sereno:
l’Italia non riparte e le previsioni non sono incoraggianti se persino la Germania — come
gli hanno spiegato i vertici dell’Economia — nelle previsioni del prossimo anno rischia una
crescita vicina allo zero. Per certi versi, quindi, il colloquio con il capo forzista è stato
defatigante: preso atto che sulla legge elettorale il Cavaliere — pur volendo — non poteva
accettare ufficialmente il premio di maggioranza alla lista «altrimenti tornerei ad avere
problemi nel partito», e avuto dal suo interlocutore «l’impegno formale» che «non faremo
ostruzionismo né faremo imboscate in Parlamento», Renzi ha chiuso la pratica.
Un’altra pratica si apre invece per Berlusconi, posto ora davanti a un bivio. Se il nuovo
modello di Italicum diverrà legge, dovrà decidere come intervenire per dare un futuro al
centrodestra nel nuovo assetto di sistema. Si vedrà se le elezioni saranno davvero nel
2018. In ogni caso, quando arriverà il tempo delle urne, cercherà un accordo tattico con la
Lega per varare un listone unico? E cosa e quanto a quel punto dovrebbe cedere al
«populista» Salvini? Oppure, per giocare d’anticipo e mantenere il ruolo del federatore,
salirà su un nuovo predellino per ricomporre ciò che è stato diviso con la fine del Pdl,
proponendosi come padre nobile di un nuovo inizio? Certo, il Cavaliere ha un’altra
opzione: tenere viva Forza Italia e misurare ancora la sua capacità di attrarre consenso.
Ma nel ’94 il Ppi prese il 17% alle elezioni, prima di tramontare insieme alla Prima
Repubblica.
del 13/11/14, pag. 4
La minoranza Pd pronta a dire tre no
Vertice con D’Alema-Bersani: ora in trincea contro l’Italicum, Jobs Act e
legge di Stabilità Ma il premier vede per un’ora il capogruppo Speranza:
“Ho un patto con lui, i giovani sono con me”
GOFFREDO DE MARCHIS
ROMA .
Darsi un’organizzazione per contrastare Matteo Renzi e le sue riforme, dalla legge
elettorale al Jobs Act. La minoranza del Pd prova a uscire dalla sindrome Armata
Brancaleone, ampiamente dimostrata con i voti in ordine sparso nei gruppi parlamentari,
nelle direzioni, e che non hanno fatto altro che rafforzare il premiersegretario. Dunque, una
riunione prima della direzione notturna finisce con una decisione univoca: non si deve
votare la relazione di Renzi e se si vota bisogna non partecipare. Perché ora è il momento
di dire dei “no” solidi: no al nuovo patto del Nazareno, no alla riforma del lavoro, no alla
legge di stabilità. Renzi però è convinto di aver già rotto questo fronte sempre fragile. «Ho
fatto l’accordo con Orfini», racconta ai suoi collaboratori. Ma questa non è una novità. «E
ho stretto un patto con Roberto Speranza », aggiunge il premier. Come dire: la vecchia
guardia faccia quello che vuole, il capofila dei giovani all’interno della pattuglia degli
oppositori sta dalla mia parte. Questo tassello del puzzle, raccontano a Palazzo Chigi, è
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stato aggiunto durante un colloquio di un’ora tra Speranza e Renzi, successivo al vertice
con Berlusconi. In quel colloquio si è anche deciso di non votare in direzione. Una mano
tesa di Renzi a tutti coloro che non vogliono seguire gli oltranzisti della sinistra.
Sono passaggi tuttavia che un pezzo della minoranza dà per scontati. Il capogruppo del
Pd alla Camera Speranza viene ormai considerato perso alla causa dell’antirenzismo. Un
gruppo di ribelli prova invece a darsi un proprio coordinamento politico e cerca di
immaginare i numeri per un’opposizione al governo condotta dentro al Pd. All’ora di
pranzo, ieri, si sono visti Stefano Fassina, Gianni Cuperlo, Pippo Civati, Francesco Boccia,
Alfredo D’Attorre e alcuni bindiani. Quante truppe hanno nei due rami del Parlamento è
difficile da stabilire, soprattutto perché Renzi ha dimostrato notevoli doti di negoziatore ed
è capace di dividere gli avversari. Ma quello che conta, nella composizione del tavolo,
sono i nomi che mancano ancora più di quelli presenti. È stata fatta una scrematura
rispetto a pontieri, mediatori, ambasciatori che vengono considerati, sostanzialmente,
renziani dell’ultima ora o dirigenti che giocano in proprio. «Noi, al contrario, dobbiamo fare
squadra — spiega Civati —. Superando le correnti, superando la vecchia guardia e
facendo le battaglie sui contenuti dei provvedimenti non sulle appartenenze ». Quindi
accanto agli esponenti della sinistra Pd siedono adesso anche ex democristiani come
Bindi o ex prodiani come Boccia.
Questa struttura che cerca di scrollarsi di dosso l’ombra dei “vecchi” invera l’incubo di
Renzi e dei suoi fedelissimi a cominciare da Luca Lotti: un Vietnam parlamentare guidato
dalla vera opposizione, quella del Pd. E lo convince a rimanere agganciato a Silvio
Berlusconi, in funzione di contrappeso. Però la minoranza può farsi del male da sola.
Renzi infatti ha sottolineato con soddisfazione la presenza di Pierluigi Bersani e Massimo
D’Alema alla riunione allargata della sinistra democratica. Come se la loro presenza
indebolisse da sola le sfide dei ribelli. Sia l’ex segretario sia l’ex premier sono andati
all’attacco di Renzi, sconfessando in blocco la legge elettorale e rifiutando il compromesso
delle preferenze con i capolista bloccati. Il sospetto rimane sempre lo stesso: che
l’inquilino di Palazzo Chigi sia intenzionato ad andare a votare in primavera.
Il banco di prova sulla tenuta del Pd e del gruppo parlamentare di Montecitorio si avrà
nelle prossime ore. Sul Jobs Act, all’esame della commissione Lavoro, i mediatori
propongono un emendamento per salvare nell’articolo 18 i licenziamenti disciplinari.
Sarebbe un passo avanti. Ma il premier si fida poco. E anche ieri in direzione ha fatto
capire di avere in serbo l’arma della fiducia. «Si può chiudere rapidamente con due
alternative: procedere con la fiducia o garantire l’entrata in vigore dal primo gennaio anche
con modifiche da verificare ».
del 13/11/14, pag. 1 (inserto)
Il metapartito della nazione renziana
Michele Prospero
Da Gramsci a Renzi . Inedita perfetta simbiosi col padronato. Sulle
macerie della rappresentanza, affiora il metapartito che assorbe tutte le
tendenze. Il trasformismo diventa una pratica normale, i deputati
subiscono il richiamo della classe sociale che dirige le operazioni
fondamentali
Con le prove generali di partito della nazione, si marcia spediti verso il partito unico. Nel
senso gramsciano del termine ovviamente, e cioè conservando intatti i consueti riti delle
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prove elettorali. Per offrire una risposta organica alla crisi, si legge nei Quaderni, «il
passaggio delle truppe di molti partiti sotto la bandiera di un partito unico che meglio
rappresenta e riassume i bisogni dell’intera classe è un fenomeno organico e normale». E
poiché a scuotere l’Italia è una di quelle crisi che per Gramsci «talvolta si prolunga per
decine di anni», un tentativo estremo di darle una direzione nel segno della stabilizzazione
moderata postula il ricorso al partito unico che raduna i vari spezzoni dei ceti politici postideologici.
Così si spiegano i patti del Nazareno, le aggregazioni in corso attorno al carro del vincitore
con i transfughi di Sel e dei cespugli centristi, la scomparsa di ogni traccia dell’opposizione
parlamentare. Emblematica è soprattutto la vicenda di Scelta civica. Nata sulla base di un
esplicito disegno dei settori dell’economia, della finanza e dei media di ordinare una
rivoluzione passiva per bloccare la resistibile ascesa di Bersani e Vendola, le truppe di
Monti sono ora in procinto di entrare, con l’onore delle armi, nelle file del partito che hanno
contribuito a distruggere.
Con il renzismo trionfante, i frammenti delle formazioni politiche, a stento sopravvissute
come simulacri, sentono una profonda convergenza di intenti. È normale che, sulle
macerie delle funzioni di rappresentanza sociale ormai definitivamente esplose, affiori
l’immagine di un metapartito che assorbe tutte le tendenze, le metabolizza senza traumi in
un indistinto calderone. Cadute le fratture sociali come fondamento delle organizzazioni
politiche, il trasformismo diventa una pratica normale entro le aule parlamentari, dove
operano deputati che subiscono il richiamo di una medesima classe sociale che dirige le
operazioni fondamentali.
Relegato il lavoro al di fuori dei giochi politici che contano, il nuovo potere unificato è così
certo della sua raggiunta egemonia che, schiacciate le resistenze interne, dibatte solo
sulla opportunità di sostituire i manganelli, che si sono esercitati sui crani nudi degli operai
di Terni, con i meno sanguinari idranti. La questione sociale viene così scacciata dalle
istituzioni e ricondotta a efficaci misure di polizia. Sicuro del successo, e certo di vivere
senza l’incubo di possibili alternative ravvicinate, il governo da Brescia lancia il segnale
eloquente di una totale condivisione della ideologia della confindustria (e delle tecnocrazie
europee che esigono lo scalpo del sindacato del conflitto).
Il contenuto di classe dell’esecutivo, sinora ben camuffato dalla camicia bianca, dagli
infiniti travestimenti ludici del leader che vaga per le scolaresche e dà il cinque ai bambini
per strada, ora può affiorare in un modo indisturbato. Senza fastidiosi infingimenti, il
governo criminalizza il conflitto, espunge dal vocabolario pubblico la parola indesiderata
“padroni”, condanna il mondo del lavoro alla gogna e lo dipinge quale ceto di privilegiati
che bloccano la modernizzazione e spingono verso il declino.
Il peculiare amalgama del renzismo, e cioè carezze ai poteri forti da sempre suoi amici e
recita a soggetto sullo spartito dell’antipolitica, è saltato. Il volto della confindustria che si
accanisce su battaglie identitarie conferisce al governo un marchio peculiare. L’universo
padronale pare ancora forte per orientare, incidere, condizionare ma non è così potente da
garantire uno sfondamento elettorale. Consapevole dei numeri elettorali scarsi a
disposizione dei poteri forti, neppure Berlusconi aveva mai ridotto la sua coalizione alla
ragnatela confindustriale e al comparto finanziario preoccupandosi anzi di penetrare nei
mondi periferici con manifesti contro le élite, con simbologie populistiche.
Ora Renzi tenta quello che a nessuno è mai riuscito, cioè un governo e un partito unico in
perfetta simbiosi con ciò che resta del grande padronato italiano. L’azzardo scaturisce
dalla percezione forte che, dopo la sua scalata celere ai vertici del potere, nel ceto politico
in via di completa omologazione culturale nessuno gli farà scherzi di cattivo gusto.
Tranquillo nel palazzo, e convinto di aver addormentato anche la base con la
paternalistica concessione di poter tenere ancora le feste dell’Unità, Renzi decide di
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correre il rischio dello scontro aperto con la Cgil. Lo fa per tentare un prosciugamento
definitivo delle risorse elettorali della destra in affanno, e per ingraziarsi i favori di Bruxelles
in vista di una qualche flessibilità nei conti.
Accantona perciò la seduzione populista e ingaggia delle battaglie altamente simboliche
per catturare il consenso moderato e cancellare in maniera irreversibile il ricordo della
vecchia sinistra.
Senza più contare in efficaci sponde politiche, nel clima contagioso del grande partito
unico della nazione che in nome del bene comune isola i disobbedienti, il lavoro rimane
l’unico focolaio di resistenza. Privo di ogni rappresentanza politica riconoscibile, lo scontro
sociale ripiega nella piazza e la frequenta come un terreno obbligato. Si svolge così una
partita inedita, che il sociale, dinanzi al governo che denuncia la trattativa come un
misfatto, è costretto a giocare al di fuori delle istituzioni. Non può sottrarsi alla prova di
forza, anche se attorno al lavoro risuona il triste rumore della sua solitudine politica.
del 13/11/14, pag. 9
Sicilia, trasformismo da record: uno su due
cambia partito
EMANUELE LAURIA
PALERMO . L’ultima sigla è nata proprio ieri: Sicilia democratica, nuova insegna della
maggioranza che sostiene il governatore Rosario Crocetta. L’hanno abbracciata con
entusiasmo — su input del capopopolo catanese Lino Leanza — sei deputati: tre dei quali
eletti nelle file dell’opposizione. È il tredicesimo gruppo parlamentare di un’Assemblea
regionale che ha battuto ogni record di trasformismo. Sono già 43 su 90, quasi uno su
due, i deputati regionali che hanno cambiato casacca in due anni, ovvero dall’inizio della
legislatura. È un fenomeno inarrestabile, quello della transumanza politica all’interno
dell’antico e glorioso Palazzo dei Normanni: sono 62, in tutto, gli spostamenti, perché non
sono pochi i deputati che ne hanno fatto più di uno. In media, da quando è in vidella ta il
parlamento siciliano nella sua attuale composizione, una volta ogni dieci giorni un
“onorevole” ha fatto i bagagli ed è passato in un altro partito. Con contorsioni
inimmaginabili. La più irrequieta Alice Anselmo, che oggi milita nel movimento “Articolo 4”
dopo essere stata eletta nel listino del presidente Crocetta, essersi iscritta al gruppo
“Territorio”, avere abbracciato i “Democratici riformisti” e avere sposato l’Udc. E cosa dire
dell’ex sindaco forzista di Ragusa Nello Dipasquale che, folgorato dall’ex comunista
Crocetta, ha militato finora in tre gruppi diversi e si appresta ad approdare a quello dei
democratici? Un percorso che si conclude solo due anni dopo un mitico comizio in piazza
a Niscemi, ancora visibile su Youtube, in cui Dipasquale, lo stesso Dipasquale, urlava a
squarciagola «Questo Pd mi fa schifo».
Per carità, la Anselmo e Dipasquale sono in buona compagnia, in un’Ars in cui la
frantumazione politica ha prodotto ben tre gruppi di Forza Italia, e in cui può accadere che
Salvatore Lo Giudice, un candidato eletto nella lista dell’ex Msi e An Nello Musumeci,
passi nella coalizione del “rosso” Crocetta ancora prima della seduta inaugurale. Saltano
le appartenenze, le ideologie. Solo i gruppi di Pd e M5S hanno mantenuto, quasi per
intero, la loro originaria consistenza. Con qualche clamorosa eccezione: l’ex pentastellato
Antonio Venturino, che dell’Ars è vicepresidente, si è rifugiato sotto il garofano del Psi. Da
Grillo a uno degli ultimi simboli della Prima Repubblica, un salto all’indietro da brividi.
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In 14, d’altronde, hanno cambiato non solo partito ma schieramento. La testimonianza di
una instabilità che non teme confronti. Né con il passato stessa Ars — nella scorsa
legislatura lunga quasi 5 anni furono “appena” 34 i deputati saltafosso — né con il
Parlamento: alla Camera, finora, la media dei cambi di casacca è stata di uno su 10
deputati, a Palazzo Madama di uno su quattro senatori.
«Tutto ciò è amorale», tuona Musumeci, che è presidente della commissione regionale
antimafia. E che, per frenare questo frenetico via vai da un gruppo all’altro dell’Assemblea
siciliana, ha pensato addirittura a disincentivi economici: una “multa” da 500 euro mensili
ai gruppi che accolgono i transfughi. Ma il codice etico di Musumeci non è ancora stato
esaminato neppure in commissione. Qualcuno ha obiettato che con questa norma, forse,
si viola la libertà di mandato che la Costituzione riconosce agli eletti. E allora la
transumanza continua.
del 13/11/14, pag. 11
IL CONSIGLIERE DELLA CIA
INDAGATO PER IL DELITTO MORO
“CONCORSO IN OMICIDIO” PER L’AMERICANO DISTACCATO AL
VIMINALE NEL 1978 IL PROCURATORE IN PARLAMENTO: “IN VIA FANI
25/26 TIRATORI E 007 ITALIANI E NON”
di Rita Di Giovacchino
Sul palcoscenico di via Fani c’erano i nostri servizi segreti e quelli di Paesi stranieri
interessati a creare caos in Italia, l’uccisione di Aldo Moro non fu un omicidio legato
soltanto alle Brigate Rosse”. Cia, Mossad e Kgb, un unica trama per timore che il
“compromesso storico” sostenuto dal presidente Dc potesse rompere gli equilibri tra Est
ed Ovest. Parola del procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma, Luigi
Ciampoli, ascoltato ieri dalla nuova commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro.
Ciampoli ha chiesto “un procedimento formale” a carico di Steve Pieczenik, all’epoca
funzionario del Dipartimento di Stato Usa, per concorso nell’omicidio del presidente Dc.
L’“americano”, nei 53 giorni del sequestro, sedeva al tavolo del Comitato di crisi come
inviato informale Usa, di fatto consulente del ministro dell’In terno Francesco Cossiga.
LE AFFERMAZIONI del magistrato sembrano destinate a riscrivere la vicenda che si
chiuse il 9 maggio 1978 con il ritrovamento in via Caetani del corpo dello statista
assassinato dalle Br. O almeno così finora cinque processi e cinque commissioni
parlamentari avevano certificato. A maggio Ciampoli aveva avocato l’inchiesta nata da una
lettera anonima in cui si affermava che, a bordo della moto Honda avvistata all’angolo con
via Stresa, c’erano due agenti del Sismi. “Sono trascorsi 36 anni, i morti come si sa non
parlano, e ho dovuto chiedere l'archiviazione”, ha dichiarato a Il Fatto Quotidiano che riaprì
il caso Pieczenik con un’intervista in cui lo stesso confermava che il Sismi in via Fani c’era.
Psichiatra, esperto di terrorismo, nella sua inquietante ambiguità di “commissario
straordinario” viene ora indicato come colui che venne in Italia per far uccidere Moro. Dopo
aver rivisto l’intervista concessa a Minoli per Rai Storia Ciampoli dice: “La sua
autoreferenzialità era esasperata, schizofrenica, a Minoli disse che Moro doveva morire,
ha fatto in modo che le Brigate rosse si convincessero, maturassero o rafforzassero l’idea
di ucciderlo”. Qualcuno ancora vivo però c’è, ad esempio l’ispettore Enrico Rossi, di
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stanza alla Digos di Torino fino allo scorso anno, che era riuscito a identificare l’uo - mo
che guidava la moto prima che gli atti, trasferiti da Torino a Roma, si arenassero. Per lui
l’uomo con il mitra in mano era Antonio Fissore, originario di Cuneo, morto d’infarto a
Firenze nell’agosto 2012 a 67 anni. Nella cantina della sua ex moglie erano state
sequestrate due pistole, l’edizione straordinaria di Repubblica del 17 marzo 1978, e una
lettera di Franco Mazzola, sottosegretario ai servizi durante il caso Moro, depositario di
molti segreti. Sospetti, suggestioni che hanno indotto Ciampoli a una rilettura di molte
vicende, alcune note e sottovalutate, altre frutto delle indagini condotte nel corso
dell’estate con il contributo dell'aggiunto Otello Lupacchini e di altri magistrati come
Imposimato e Marini che a lungo si sono occupati del caso Moro. Riprende quota la pista
internazionale che si sarebbe inserita nell’operazione condotta dalle Br per pilotarne l’esito
finale. “I brigatisti non erano nove e neppure 12, ma almeno 25 o 26, e quelli che hanno
sparato avevano un’elevata preparazione militare, le armi usate erano in dotazione a forze
non convenzionali”. Affermazione grave, dedotta dai bossoli ritrovati a terra: dei 96 colpi
sparati, sul campo ne furono raccolti 48, di questi 34 non erano numerati come quelli in
uso ad apparati Nato. La scoperta risale al 1979, la riferì il pm Antonio Marini, nessuno
capì, almeno fino al 1990 quando con Andreotti il superservizio segreto assunse i
connotati dell’organizzazione clandestina Gladio.
ED ECCO CHE sulla scena di via Fani prende corpo la figura del colonnello Camillo
Guglielmi, che interrogato dal presidente Santiapichi affermò di essersi trovato lì per un
invito a colazione di un generale che lo smentì. Chi era Gugliemi? Un ufficiale del Sismi, in
servizio alla base Nato di Capo Marrargiu in Sardegna per addestrare i gladiatori civili e
militari in operazione di “sbarco e assalto”. “Se fosse ancora vivo avrei chiesto che fosse
indagato per concorso in strage”, dice Ciampoli. Non era lì per prelevare la borsa di Moro,
come ipotizzò il regista Ferrara. Pezzi di un puzzle immaginario entrano in un’in - chiesta.
Al maresciallo Leonardi spararono da destra, ma a destra i brigatisti non c’erano e a
Morucci s’inceppò il mitra. Ciampoli ha riascoltato il br Raimondo Etro, ma anche il regista
Renzo Martinelli del film Piazza delle cinque Lune. Racconta Ciampoli: “Mentre girava il
film Martinelli fu convocato da Gelli a villa Wanda. Il capo della P2 voleva scoprire cosa
avesse scoperto, il regista gli chiese se poteva aiutarlo. Ma lui rispose: per scoprire la
verità devono passare 100 anni”. Ne sono passati soltanto 36
del 13/11/14, pag. 4
De Magistris, Alfano impugna il reintegro al
Consiglio di Stato
Adriana Pollice
Sindaco non più sospeso ma appeso, questa è la nuova definizione che Luigi de Magistris
ha coniato ieri per definire il suo status di primo cittadino di Napoli in attesa della decisione
del Consiglio di Stato, prevista per il 20 novembre: sospeso dal prefetto il primo ottobre in
applicazione della legge Severino, dopo la condanna in primo grado a 15 mesi per il
processo Why not; reintegrato il 30 dal Tar campano, che ha rimandato la norma alla
Corte costituzionale; appeso al ricorso fatto dall’associazione Movimento difesa del
cittadino contro la sospensiva della sospensione decisa dal Tar, a cui si è aggiunto il
ricorso del governo inoltrato dal prefetto e dal ministro dell’Interno. Soddisfatto il legale
dell’associazione, Gianluigi Pellegrino: «È stato necessario il nostro ricorso per indurre
ministero e prefettura a fare ciò che avrebbero dovuto annunciare da subito: il ricorso al
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Consiglio di stato perché venga ripristinata l’applicazione uguale per tutti e su tutto il
territorio nazionale della legge Severino, già applicata in decine di casi e ritenuta legittima
dai giudici amministrativi e ordinari».
Il procedimento per verificare la legittimità costituzionale di due articoli della Severino (10 e
11) intanto procede presso la Consulta. «Tutto è legittimo ma trovo un po’ curioso questo
appello perché mira esclusivamente a togliere il sindaco dalla poltrona. Mi fa assomigliare
a un sacco di patate» commentava ironico de Magistris, durante la prima seduta del
consiglio comunale da quando è rientrato nelle sue funzioni. La battaglia legale prosegue
anche al tribunale di Roma, dove il sindaco ha presentato appello contro la condanna per
abuso d’ufficio per il processo Why not.
Sul tema della legge Severino è intervenuto anche il nuovo presidente della Corte
costituzionale, Alessandro Criscuolo: «Credo sia meglio che il parlamento intervenga
prima del giudice. Una questione di legittimità costituzionale è indice di un difetto di
legittimità di una norma di legge, quindi, se il parlamento interviene credo sia un fatto
positivo. Sulla retroattività delle norme poi vi è una ricca giurisprudenza della corte».
Criscuolo è stato difensore di de Magistris quando, pm a Catanzaro, finì sotto
procedimento disciplinare al Csm per la conduzione delle inchieste Why not, Poseidone e
Toghe lucane.
La battaglia tra il governo e il sindaco di Napoli via carta bollata prosegue anche sul fronte
Bagnoli, dove però è de Magistris che minaccia il premier Renzi: «Ho dato mandato
formale all’avvocatura del comune di esperire tutte le azioni presso la regione, la Corte
costituzionale, la giustizia amministrativa e quella ordinaria contro la norma. Impugneremo
lo Sblocca Italia, faremo tutte le azioni giuridiche e politiche necessarie contro una legge
incostituzionale, che espropria la città e apre la strada a stagioni buie». Fino a esortare il
presidente del Consiglio: «Convoca il sindaco e il consiglio comunale, sfidaci sul terreno
dell’ordinarietà e se non saremo bravi e capaci sarai tu a dirlo. Su bonifica e risarcimento
abbiamo fatto uno degli atti più importanti, che non hanno fatto il sindaco di Taranto per
l’Ilva, nè Venezia o Termini Imerese». Il riferimento è all’ordinanza del dicembre 2013, con
la quale è stato intimato a Fintecna la rimozione della colmata e alla Cementir di
Caltagirone la messa in sicurezza dell’ex cementificio.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 13/11/14, pag. 21
“Così decidemmo di uccidere Di Matteo”
SALVO PALAZZOLO
Summit rivelato da un boss: “Si discusse di tritolo a Palermo o bazooka
a Roma” Tensione in procura sul rischio attentato. Agueci lo smentisce,
poi si corregge
PALERMO .
Un mafioso di rango, da qualche mese detenuto, ha svelato il progetto di attentato nei
confronti del sostituto procuratore Nino Di Matteo. È lui il confidente d’eccezione che nei
giorni scorsi ha fatto scattare l’ultima allerta nell’antimafia, rivelata ieri da Repubblica. Ha
spiegato di volersi togliere un peso dalla coscienza. Perché anche lui è stato parte di quel
progetto, così dice. E parla di un summit fra i boss più in vista di Cosa nostra, in cui si
sarebbe discusso delle modalità operative dell’attentato. Secondo la fonte, i mafiosi
avrebbero preso in considerazione due opzioni per colpire Di Matteo: esplosivo a Palermo
o bazooka e kalashnikov a Roma.
Adesso, i magistrati hanno chiesto agli investigatori della Dia di approfondire tutti gli spunti
offerti dalle nuove inaspettate dichiarazioni. Non è facile, soprattutto perché il boss
continua a rifiutare qualsiasi prospettiva di collaborazione ufmagistrato ficiale con la
giustizia. E, dunque, non vuole svelare i nomi dei suoi complici. Qualche indicazione arriva
però dall’ultimo pentito di mafia, Antonino Zarcone: ha spiegato che «già nel 2008 era
arrivato un ordine di morte dal carcere per Di Matteo, ma il capomafia di Bagheria Pino
Scaduto si rifiutò di eseguire l’attentato nel suo territorio, dove il pm trascorreva le
vacanze».
Non usa mezzi termini il procuratore aggiunto Vittorio Teresi: «Abbiamo paura, sì. Lo
ammetto. E siamo preoccupati. Si dice che il tritolo sia pronto, mettetevi nei nostri panni.
Queste notizie creano tensione e ansia anche nei nostri familiari. Ma raccogliamo la sfida
a continuare ». Il coordinatore del pool trattativa si dice «soddisfatto» per l’attenzione
manifestata dal Viminale nei confronti dell’ultima allerta sicurezza: a Palermo, sono arrivati
gli esperti delle teste di cuoio di polizia e carabinieri. Teresi parla però di «isolamento » dei
pm del pool trattativa, e chiama in causa «saggi e commentatori ». Dice: «Veniamo dipinti
come dei pazzi visionari. Le dichiarazioni di taluni opinion makers ci isolano. Io accetto
tutte le critiche, ma devono essere in buona fede e informate». Il se la prende con l’ex
componente del pool antimafia, Giuseppe Di Lello, anche lui poco tenero con il processo
di Palermo: «Forse, non legge il codice da tanto tempo», dice Teresi.
Ma le critiche al pool arrivano anche da altri pm di Palermo. «Pure questo clima interno mi
preoccupa», aggiunge Teresi, che auspica al più presto la nomina del procuratore capo e
invita il Csm a scegliere un candidato che condivida fini e strumenti del processo trattativa.
Intanto, in procura, continua ad esserci tensione attorno ai pm del caso Stato-mafia. Ogni
questione che li riguarda diventa terreno di divisioni piccole e grandi. L’ultima polemica è
proprio sul rischio attentato per Di Matteo. Il procuratore reggente Leonardo Agueci prima
lo smentisce, poi qualche ora dopo corregge: «Rischio attuale e intenso, lo seguiamo con
grande apprensione e determinazione». A Di Matteo è arrivata la solidarietà del presidente
della commissione antimafia Bindi e del Csm. Da New York, il ministro della Giustizia
Orlando ha telefonato al procuratore Scarpinato per verificare lo stato delle misure di
sicurezza attorno ai magistrati di Palermo.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 13/11/14, pag. 22
Roma. “Fuori gli stranieri”, poi botte e scontri
nella borgata di Tor Sapienza
È caccia all’immigrato (un ferito) dopo due notti di assalti al centro
profughi e alla polizia: bombe carta razzismo, degrado e “Viva il duce”
CORRADO ZUNINO
ROMA .
Francesco, largo, rasato, cammina veloce sotto le finestre del centro per rifugiati e minori
di viale Giorgio Morandi. La polizia è ancora in strada, ma non piantona l’ingresso. Alza lo
sguardo, Francesco. Tre ragazzini egiziani al secondo piano ridono. «Che fai, sfidi? Torna
dentro, schifo di musulmano». Francesco ha 36 anni e le vene del collo gonfie: «Tranquillo
che stasera veniamo lì dentro e ti cacciamo a calci in culo dall’Italia, da Tor Sapienza
sicuro... Arabo di merda».
L’egiziano avrà 16 anni, ma non torna dentro: «Vieni che t’aspetto». Francesco, tuta
adidas bianca, non è incappucciato come l’altra notte. Ha lasciato il bar Lory, ritrovo
comunitario, a 200 metri e si ferma a spiegarti la sua visione degli extracomunitari della
periferia est di Roma: «I negri li rispetto da vent’anni, ma ‘sti rifugiati arabi fanno schifo.
Stanno nudi, se ci sono bambini se ne fottono. Pisciano dalle finestre, in strada. Per
sfregio. Non gliene frega niente di noi, di chi li ospita. La cooperativa porta il cibo e loro lo
buttano via. L’altra sera hanno tirato un posacenere di cristallo su un’anziana. I negri, qui,
non danno problemi, vengo dagli scantinati del Quarticciolo, so cos’è la fame, ma questi
egiziani sbarcati tre mesi fa sono schifosi... E poi certi rumeni. Arabi e rumeni, uno schifo».
Schifo ogni tre parole, come i bambini, come i suoi amici del bar. «Sono senza lavoro, mia
madre ha la pensione minima».
Ci sono due blindati della polizia e cinque gazzelle alla fine di viale Morandi, l’arteria di Tor
Sapienza, insediamento diventato quartiere negli Ottanta attorno al monolite grigio e rosso
delle case popolari. Tor Sapienza fa 16mila abitanti, dietro la Prenestina. Non scendono
quasi mai in centro. Martedì sera c’è stato il secondo assalto al rifugio degli immigrati, il
più violento. In ottanta, molti a volto coperto, armati di bastoni, molte donne, una con il
mattarello, hanno attaccato le due pattuglie di vigilanza al centro di prima accoglienza.
Pietre sui poliziotti, poi bottiglie. Bombe carta. Dalle finestre altre donne hanno lanciato
piatti contro gli agenti. Cassonetti della spazzatura piazzati al centro della strada per
impedire l'arrivo dei rinforzi, poi li hanno incendiati. “Viva il duce”, si sentiva. L’arrivo del
reparto mobile contromano, la carica dei poliziotti, i lacrimogeni. Quattordici agenti feriti.
Tre vetrate del centro profughi sfondate. Due bambini africani fuggiti dalla paura, non li
trovano più. Gli egiziani, però, non sono stati a guardare: sedie, tavoli, televisori, tutto
rovesciato sugli aggressori. «Tranquilli, stanotte veniamo a completare il lavoro».
Francesco ha smesso di urlare, un tic al mento gli interrompe il racconto ogni volta che si
agita.
Il comitato di quartiere vive da un anno e ha già 600 iscritti. Un mese fa ha fatto una
marcia contro il degrado: non pervenuta alle autorità. Il vicepresidente Roberto Torre,
giovane pensionato, elenca le emergenze vicine e attorno. I bassi delle case popolari li
hanno occupati rumeni e albanesi. In via Collatina 600 i rifugiati politici sono alloggiati a
fianco di Bricofer. In via Tiratelli, dove nell’ex Fiorucci è nata la città meticcia di Metropoliz,
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la sera si fanno rave. A fianco, un deposito di lavatrici e automobili, più in là una discarica
enorme. In via Rucellai hanno messo i siriani sbarcati a Lampedusa, qui dietro ha
rivenduto appartamenti occupati la Pinona, leader di un movimento di lotta per la casa
fermata dai carabinieri. E giù in via Salviati due campi rom, il secondo è terra dei fuochi:
rame e pneumatici bruciati ogni settimana. Poi gli occupanti di via Staderini, Tor Cervara.
Piazza Pascali dopo le 18 è casa dei trans. «Siamo circondati da degrado e violenza ». La
Prenestina è un cimitero di fabbriche e capannoni, per evitare ingressi i vigili tombano tutte
le finestre.
Eliana esce di casa la mattina alle 5 col coltello in tasca. La sua amica, ora scesa in
strada: «Mi hanno aggredito sul bus tre settimane fa, tre stranieri, per il telefonino». Al bar
Lory ci sono i reduci dell’assalto. L’imbianchino, 44 anni, non ha il fisico. Le idee chiare sì:
«Se quelli ci gettano la birra in testa sono dei poveri rifugiati, se noi reagiamo siamo
razzisti. Tengono lo stereo a palla alle tre di notte, estate e autunno. Hanno trasformato il
parco in un film horror. Viaggiano con il tirapugni: una botta sui reni e ti portano via quello
che hai». Manuel, 21 anni: «Ho perso il lavoro un minuto fa, spedizioniere alla Tnt, e
questi vengono al bar a farsi la ricarica del telefonino. Ho un Nokia da 20 euro, loro il
tablet. Lo Stato gli dà 40 euro al giorno, 40 euro a negro». In realtà, i “negri senza
documenti” prendono 40 euro al mese, per le sigarette. «Gli albanesi giù nei bassi li
abbiamo già istruiti, ora ci rispettano. Faremo assalti tutte le notti, finché non mandano via
i rifugiati».
Gli ultimi due assedi sono nati dopo un tentato stupro. Al parco, domenica sera, tre
dell’Est. Hanno messo le mani sotto la camicetta di Ambra, 28 anni e due bambini. Era
con il cane, li ha messi in fuga. Poi Ambra ha partecipato all’assalto di lunedì sera, e ha
preso le manganellate dalla polizia. «Nel parco mi hanno afferrata al collo, fatto cadere a
terra, tirato su la maglietta... Quattro aggressioni in pochi giorni, devono andare via». I
ragazzini egiziani sono ancora alla finestra. Eufil non arriva a 16 anni. Ha lasciato la
periferia del Cairo da solo, papà gli ha detto che doveva andare a cercare lavoro. «A
Roma faccio il parrucchiere». Mustafà è il giovane capoclan: «Non mi comporto male, non
so quello che fanno sopra di me», e indica sei piani di stranieri ospitati, sessanta in tutto.
«Questi di Tor Sapienza sono tutti scemi, ma non abbiamo paura». Kevin, 36 anni, è un
operatore sociale. È nato alle Isole Mauritius. «I ragazzi vengono da storie complicate. Si
fanno male tra loro, a volte usano coltelli, ma non hanno mai attaccato gli italiani. La vedo
male, finirà molto male».
Il comitato di Tor Sapienza torna dall’incontro in Campidoglio con il sindaco: «Ci ha
promesso che in una settimana sposta il centro ». Ignazio Marino, che Tor Sapienza non
l’ha mai vista dal vivo, fa sapere: «Nuova biblioteca, raccolta dei rifiuti e illuminazione».
Scenderanno a Tor Sapienza il leghista Matteo Salvini e il fascio-leghista Mario Borghezio.
Ieri sera la caccia all’uomo ha dato un nuovo risultato: catturato e picchiato un
cinquantenne congolese. Italiani gli hanno portato via il tablet.
del 13/11/14, pag. III (Roma)
Dietro le sbarre del Centro “Noi, in gabbia
come bestie e ci vogliono tutti morti”
La vita nella cooperativa “Il sorriso” che gestisce l’accoglienza La
rabbia dei rifugiati: “Barricati qui, sedie e letti contro le porte”
MAURO FAVALE
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«CI VOGLIONO tutti morti. Tutti, a cominciare da noi operatori. Hanno detto che stasera
entrano nel centro e ci ammazzano. E fino ad ora le loro minacce le hanno sempre
mantenute». Alle quattro di pomeriggio, per la prima volta dopo tre giorni, si aprono ai
giornalisti le porte a vetri (sfondati) della Cooperativa “Il sorriso” che gestisce da tre anni
questo centro di accoglienza in via Giorgio Morandi.
C’è Gabriella Errico, la direttrice della struttura, e con lei una dozzina di altri operatori.
L’ingresso è spoglio: una portineria, due ascensori, una rampa di scale, due distributori di
merendine e bevande. Da lì raccontano la paura e i due assalti subiti lunedì e martedì
notte. È l’altro punto di vista rispetto ai residenti ma è il medesimo stato d’animo. «Siamo
terrorizzati — continua Gabriella — e con noi anche tutti i ragazzi qui nel centro».
Mentre parla i giovani che arrivano dall’Egitto, dal Gambia, dalla Somalia, dal Mali, dal
Bangladesh osservano dalle scale prima spaventati, poi infastiditi, infine incuriositi.
Sorridono alcuni timidi, altri sfacciati. «I minori sono ingestibili — confessa Francesca,
un’altra operatrice — il lavoro con loro inizia da zero, fai conto che abbiano 5 anni. Alcuni
arrivano direttamente dai barconi che sbarcano sulle nostre coste. Ma dal disagio
adolescenziale al reato c’è una bella differenza. E qui nessuno copre gli illeciti. Se
sbagliano, sanno che verranno denunciati ». Negano tutte le accuse che arrivano dai
residenti, soprattutto quelle che li vedrebbero protagonisti di veri e propri “spogliarelli”
davanti alle finestre, sotto lo sguardo dei residenti: «Non è vero — assicura ancora
Francesca — la prima cosa che ci hanno chiesto, quando sono arrivati, è di mettere delle
tende per non farsi vedere».
Gli operatori della cooperativa continuano a raccontare, qualcuno dai piani più alti urla:
«Sono stanco, stanco». Da due giorni vivono barricati: anche le sigarette le vanno a
comprare gli operatori del centro dal tabacchi più vicino. Non si può rischiare nessun
“contatto”. Non dopo le aggressioni degli ultimi giorni, non dopo gli assalti notturni.
«Abbiamo rotto letti e porte interne per chiuderci dentro — spiegano — ma non abbiamo
più nulla da usare ». All’esterno, i vetri sono sfondati, sul muro ci sono ancora i segni dei
petardi lanciati dai residenti. Discutono di come affrontare l’ennesima
notteditensione:«Facciamoun’assemblea fuori dal centro — dicono tra loro — ci mettiamo
qui davanti, pacificamente, e proviamo a fronteggiare i residenti, sperando che siano in
maggioranza quelli che vogliono difenderci».
Arriva qualche politico (il consigliere comunale Gianluca Peciola, la deputata Celeste
Costantino, entrambi di Sel), davanti al centro si radunano i responsabili di altre
associazioni che lavorano sugli immigrati nel quadrante est della città, quello più caldo,
dopo le proteste di Torpignattara e di Corcolle, tra settembre e ottobre. «Se ce ne andiamo
vince la logica che basta fare casino per chiudere i centri, non possiamo cedere»,
spiegano. In questa struttura stretta tra i palazzi di via Morandi sono arrivati 3 anni fa.
Prima, con l’emergenza-sbarchi, gli ospiti erano 150. Ora sono appena 60, distribuiti in 2-3
per stanza, venti per piano. «Preferiamo lavorare sulla qualità dei progetti, non sulla
quantità delle persone», sottolinea ancora Francesca. L’edificio dove vivono, oltre 3000
mq, era di proprietà di una banca e viene affittato dalla cooperativa a 25.000 euro al mese.
Le risorse arrivano dall’Unione europea, dal Campidoglio, dal Viminale attraverso lo Sprar,
il servizio per rifugiati e richiedenti asilo. Ogni ospite costa 35 euro al giorno, per vitto,
alloggio e anche per qualche vestito.
«È questo che dà fastidio ai residenti — prosegue un altro operatore — che vengano spesi
dei soldi per gente che non è italiana. Ma noi siamo un paese che ospita». «Lo sappiamo,
qui il disagio è reale, la periferia ha enormi problemi: isolata, senza servizi, in un periodo in
cui mancano case e lavoro. Ma ci hanno preso come capro espiatorio», insiste Gabriella,
la direttrice. Vorrebbero invertire la china, provare a farsi conoscere di più dal quartiere.
«Stavamo facendo una festa, due settimane fa, in un parco, c’erano anche italiani, non
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posso credere che ora ci vogliono cacciare — dice un ragazzo libico, da 5 mesi in Italia —
Ho più paura ora di quando ero in Africa. A questo punto preferivo morire nel mio Paese
piuttosto che farmi uccidere qui».
del 13/11/14, pag. 5
Roma ladrona si scopre leghista
Giuliano Santoro
Tor Sapienza. Dopo l’assalto anti immigrati, Salvini: «Vengo anch’io».
Viaggio nel quartiere periferico della Capitale, terra di conquista della
nuova destra, dove crescono umori xenofobi
Nel mezzo di una giornata di pioggia durante la quale Roma ha scoperto di essere
razzista, le nuvole si aprono e il sole scalda i lotti delle case popolari di Tor Sapienza,
quartiere lungo la via Prenestina che solo poche ore prima ha ospitato una vera e propria
battaglia. Resta qualche cassonetto incendiato, un presidio delle forze di polizia e gli
sguardi di chi osserva dalle finestre dei palazzoni. Solo poche ore prima si è consumato
l’assalto del centro d’accoglienza di viale Morandi. La struttura, all’interno della quale
vivono 36 minori, è stata presa di mira da un’agguerrita minoranza di qualche decina di
persone che si è presa la briga di passare ai fatti e di interpretare il senso comune
strisciante ormai da tempo anche da queste parti: «Noi italiani siamo abbandonati, per
quelli là invece è tutto garantito». «Quelli là» sono gli stranieri, comunitari ed
extracomunitari, senza permesso di soggiorno e richiedenti asilo politico, minorenni e
adulti: tutti associati al degrado e al senso di solitudine che si respira tra le circa duemila
anime che vivono nelle case popolari con la corte più grande d’Europa. Sono state
costruite negli anni Settanta e Ottanta dalle giunte di sinistra e gli spazi destinati ai servizi
sociali non sono mai stati utilizzati.
Il giorno prima degli scontri, una giovane donna aveva denunciato il tentativo di stupro ad
opera di due uomini riconosciuti come «romeni». Alla grave aggressione era seguito il
pestaggio di un minorenne bengalese ad opera di un gruppo di italiani. Poi, un’assemblea
in piazza, toni accesi e parole di fuoco. La situazione è degenerata nella notte tra lunedì e
martedì, quando un gruppo di incappucciati ha deciso di puntare verso il centro
d’accoglienza richiamando in piazza altri cittadini del quartiere. È finita con una carica
della polizia, autovetture danneggiate, lancio di sassi e bombe carta. Così, questo spicchio
di periferia romana con le vie intitolate ai pittori dell’avanguardia italiana del Novecento,
stretta tra il mattatoio e la rimessa degli autobus, le gru dell’ennesima speculazione edilizia
da un lato e la grande occupazione multietnica di Metropliz dall’altro, è diventato il
crocevia della crisi italiana e della guerra tra poveri che il disagio e gli imprenditori della
paura rischiano di scatenare.
Se n’è accorto Matteo Salvini, segretario della Lega che da queste parti prova a prendere
piede ormai da qualche tempo, grazie all’alleanza tra l’eurodeputato padano Mario
Borghezio e i sedicenti «fascisti del terzo millennio» di CasaPound: «Ho ricevuto molte
chiamate da Roma, in molti chiedono la mia presenza e quella della Lega», annuncia
Salvini. Che poi promette: «Ci andrò». Ma dopo il 24 novembre, perché prima è impegnato
nella campagna elettorale delle regionali dell’Emilia Romagna (Borghezio invece non
perde tempo e annuncia per domani la sua presenza nella Capitale). Il leader leghista si
produce in distinzioni pelose ma accarezza i pregiudizi razzistoidi: «Ogni violenza va
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sempre condannata. Ma l’immigrazione incontrollata e il razzismo nei confronti degli
italiani, che non hanno alberghi pagati, rischia di alimentare reazioni sbagliate».
L’«albergo pagato» di cui parla Salvini quasi a voler indicare ancora una volta l’obiettivo da
colpire è il centro d’accoglienza sotto assedio ora presidiato dai blindati: vi abitano
soprattutto ragazzini, minorenni la cui custodia è affidata dalla legge al Comune di Roma.
La struttura è nata nel 2011 a seguito dell’«emergenza Nord Africa, per ospitare minori
stranieri non accompagnati provenienti per la gran parte dal Bangladesh», spiegano gli
operatori. Oggi è un Centro di prima accoglienza per minori e una struttura aderente allo
Sprar, il Sistema di protezione per rifugiati finanziato dall’Ue in rispetto ai trattati
internazionali sul diritto d’asilo. Gli xenofobi hanno interesse a far circolare la psicosi
dell’«invasione» e dell’Italia terra di bengodi per i migranti, ma gli ospiti in tutto il territorio
romano sono solo 2600 e troppo spesso vivono in posti tutt’altro che confortevoli e con
poca possibilità di spostarsi. «La verità – riflette a testa bassa un operatore – è che i centri
rischiano di diventare ghetti e di cadere nella spirale del degrado dei quartieri che li
ospitano, come accade a volte per i campi nomadi».
Il rischio che la fiammata di Tor Sapienza attecchisca in altri quartieri abbandonati al
degrado è concreto. La scintilla d’innesco arriva da Corcolle, quartiere che si trova da
questo lato della metropoli ma ancora più in periferia, al di là del Grande raccordo anulare:
da quelle parti solo poche settimane fa sono scesi in strada contro la presenza dei
migranti, degenerando in una vera “caccia al nero”. La guerra tra poveri, insomma, si è già
mossa dalla cintura esterna della città verso la periferia meno estrema. Ora potrebbe
arrivare nel cuore della città. Il 15 novembre, un corteo di «comitati contro il degrado e per
la sicurezza» partirà dall’Esquilino per arrivare fino al Campidoglio, per quello che viene
annunciato con enfasi come «il giorno della marcia della ribellione dei rioni e dei quartieri
di Roma» contro «campi rom» e «immigrazione incontrollata». Ci saranno, ad esempio,
quelli di Ponte di Nona, che già da qualche mese hanno dato vita al «Centro azioni
operative», una specie di ronda che si prefigge obiettivi come quello di vigilare «contro il
pericolo proveniente dal vicino campo Rom di via Salone». Molti di quelli che l’altra notte
hanno manifestato a Tor Sapienza utilizzano la protesta contro i migranti di Corcolle a mo’
di esempio: «C’è poco da fare: se non ti muovi come hanno fatto loro, non ti ascoltano».
del 13/11/14, pag. 1
I frutti velenosi di Salvini
Alessandro Dal Lago
Migranti. L’attuale maggioranza, che ha imbarcato un bel pezzo del
vecchio centro-destra, sembra minimamente preoccupata da questa
destra spregiudicata e movimentista
Da quando Massimo D’Alema se ne uscì con la famosa trovata della «costola della classe
operaia», il fenomeno Lega è stato per lo più sottovalutato. Blandito e vezzeggiato a
destra e sinistra, e anche temuto quando era al governo e sembrava sul punto di prendere
il potere, il partito di Bossi non è stato compreso dai più nella sua natura profondamente
fascista. E quindi non solo truce nelle parole d’ordine anti-meridionali, xenofobe,
secessioniste e anti-europee, ma anche profondamente opportunista, capace di mutare
obiettivi e alleanze, pur mantenendo la sua natura reazionaria.
Prendiamo il giovane Salvini. Nel momento in cui la Lega di Bossi si è rivelata come un
partito arraffone, corrotto come qualsiasi altro, Salvini ha dato una sterzata proponendosi
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come alternativa «giovanile», radicale e scapestrata. Quindi, niente più elmi con le corna,
frescacce celtiche e tutto il folclore che copriva gli inciuci con Formigoni e Berlusconi, ma
una politica di movimento e, soprattutto, una dimensione nazionale in cui far confluire la
destra estrema e iper-nazionale che non può identificarsi con il secessionismo. Ecco,
allora, l’alleanza con in Europa con Marine Le Pen e poi, da noi, con Casa Pound,
imbarcata in un progetto che vede la Lega come partito leader della destra italiana postberlusconiana. Altro che Alfano, borghese democristiano e doroteo fino al midollo.
Ma per realizzare questo progetto, che sembra finora coronato da un certo successo,
anche se limitato, a Salvini non bastano l’anti-europeismo e il populismo, un terreno
politico-elettorale su cui Grillo, anche se in declino, ha piazzato la sua ipoteca. Il leader
della Lega ha bisogno di far crescere la tensione, di scaldare gli animi, di mobilitare, se
non altro nell’opinione pubblica, quell’ampio pezzo di società (un tempo si sarebbe detto la
«maggioranza silenziosa») che la pensa come lui in tema di tasse, Europa e immigrati,
anche se magari non si dichiara ideologicamente fascista o leghista. E niente di meglio, in
questo senso, che andare a provocare nomadi e stranieri, che da quasi trent’anni fanno da
parafulmine per tutti i mal di pancia nazionali.
Ed ecco allora la provocazione di Bologna contro i Sinti, cittadini italiani in tutto e per tutto
che hanno il torto di non vivere come i buoni leghisti del varesotto e della bergamasca.
Ecco gli striscioni «No all’invasione» davanti ai ricoveri di rifugiati e richiedenti asilo, gente
che non è venuta lì in macchina o in Suv, come i coraggiosi leghisti, ma ha attraversato
mezzo mondo a piedi ed è scampata ai naufragi. Ed ecco ora l’oscena idea di andare a
Tor Sapienza, a Roma, a gettare benzina sul fuoco acceso da estremisti di destra e,
sembra, dai pusher che non vogliono centri per stranieri. Provocazioni fredde, calcolate e
mirate, appunto, al ventre di quella società che mai andrebbe a tirare pietre contro gli
stranieri, ma si rallegra profondamente quando qualcuno lo fa al posto suo.
Verrebbe voglia di archiviare tutto questo come il solito fascismo della solita Italia, ma
sarebbe un errore. Perché oggi gli anticorpi sono deboli e frammentari. Né l’attuale
maggioranza, che ha imbarcato un bel pezzo del vecchio centro-destra, sembra
minimamente preoccupata da questa destra spregiudicata e movimentista. E basta dare
un’occhiata ai commenti e ai blog dei quotidiani nazionali per capire quanto sia ampio il
sostegno ai Salvini di turno.
D’altra parte, è sempre la vecchia storia. Quanto più le prospettive sono incerte, il futuro
opaco, il lavoro mancante, il degrado della vita pubblica in aumento, tanto più è facile
scaricare la frustrazione sugli alieni a portata di mano. E anche questo è un frutto
avvelenato di qual thatcherismo appena imbellettato che passa sotto il nome di renzismo.
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SOCIETA’
del 13/11/14, pag. 1/23
Milano. Occupanti, racket, antagonisti :
scoppia la battaglia delle case popolari
Da San Siro al Corvetto: 20 mila sfratti da eseguire, 800 palazzi “invasi”.
Risse quotidiane. E gruppi di donne “a difendere la legalità”
PIERO COLAPRICO
MILANO .
«Una volta sui portoni segnavano una “M”, o una “V”, era il segnale dell’occupazione
notturna. Da quando l’abbiamo capito, e ci piazzavano davanti alle porte, hanno cambiato
modo di comunicare. Adesso il nostro incubo sono i fischietti. Quando devono occupare le
case lasciate vuote, arrivano alla spicciolata, poi fischiano, si avvisano tra loro e
irrompono. Ma mentre loro fischiano, noi usiamo i telefonini e corriamo, chiamiamo la
polizia... «.
Sono tutte donne, al quartiere San Siro, e in viale Mar Jonio hanno costituito il primo
comitato cittadino in grado di trasformare gli stabili delle case popolari in una gigantesca
trincea anti-abusivi. A qualcuno dei vicini, «a forza di sentire quei fischietti, è venuto
l’esaurimento nervoso». Ma non a Lucia Guerri, 76 anni, anima del comitato: da quando
gira con le stampelle per guai al menisco s’è fatta sostituire dalla nipote Giulia Crippa
(cognomi milanesissimi), ma non molla. «Al massimo con noi viene un solo uomo, il Gino,
anche i poliziotti ce lo dicono: “Ma i mariti dove sono?”. Eh, davanti alla televisione... «.
Lo stesso fenomeno metropolitano — queste donne senza paura di stare in trincea —
succede tra Lorenteggio e Giambellino, dove per tre volte, nella scala D di via Odazio 6,
sono state le signore di settanta, ottant’anni, a difendere la porta da uno sfondamento,
finché l’Aler (che cura le case popolari per conto della Regione Lombardia) non l’ha
assegnata a una signora italiana, portatrice di handicap. E chi se l’è presa, però, con
questo coraggioso comitato inquilini che lotta contro le occupazioni? Il centro sociale
“Base di solidarietà popolare Giambellino”: la sinistra antagonista s’è schierata a favore
delle occupazioni, «sono questi giovani che spaventano i vecchi italiani, ci minacciano,
provano a farci paura», dice M. P., «perché con i rom, che hanno occupato varie case,
non abbiamo problemi, se non — ed è una citazione testuale — per il fatto che non
capiscono la raccolta differenziata dei rifiuti».
Rifiuti a parte, il paradosso di questa battaglia “regolari-abusivi” è apparso nitido anche al
Corvetto, dove martedì sera, altri gio- vani dei centri sociali antagonisti hanno attaccato
con vernice e fumogeni una riunione di abitanti del quartiere che chiedevano gli sfratti: e
se ne sono andati solo quando hanno visto gli anziani cominciare a tossire e star male. Le
case popolari di Milano sono una polveriera ovunque, in ogni quartiere, e in più, tra
pubblico e privato, ci sono in città circa 20mila sfratti da eseguire. Le prime operazioni di
sgombero riguardano chi ha occupato le case popolari. «Allora sarà guerra», si sente dire
in giro.
Già dalla quotidiana «battaglia dei fischietti » di San Siro si vedono da vicino i tre eserciti
schierati in campo: gli inquilini regolari, al grido «no al degrado»; la massa indistinta degli
occupanti abusivi legata al racket dei senza-casa; il centro sociale Cantiere, che partecipa
alle feste di strada, promuove amicizia tra vicini e spiega che lotta «contro chi della casa
ne fa un bene di profitto. Che sieda in poltrona, i nostri governanti, o che stia per strada, il
racket». Ma se la politica è riconoscibile, il racket è sfuggente e, nello stesso tempo,
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sapiente: «Qui a San Siro — racconta uno degli uomini, in segreto dalle donne — bisogna
stare molto attenti a come ci si muove. C’è un tariffario per aprire le porte e per entrare
nelle case, duemila euro il servizio completo. Ma non lo può fare chiunque, il lavoro del
fabbro, bisogna chiedere il “permesso” a qualcuno che può darlo, e sinora nessuno è
andato a rompergli le scatole, né la legge, né i centri sociali, vediamo come andrà a
finire».
Se «vediamo» da vicino le strade delle periferie milanesi una cosa è chiara: ad alzare la
voce più forte di tutti è chi vive di illegalità. Com’è successo, per esempio, a Crescenzago:
alla fine di un’assemblea pubblica contro il degrado, le auto di molti partecipanti sono state
trovate con i vetri rotti e le gomme squarciate. La trincea di San Siro invece resiste, è
lunga ben 56 portinerie «popolari», a ogni portineria fanno capo dai cento ai centoventi
appartamenti. Ma spicca un altro numero: gli abusivi hanno conquistato in zona ben 800
case. I primi sono stati «gli italiani» che venivano, vent’anni fa, dal quartiere Stadera,
rettangolo di strade a non bassa densità criminale: sfrattati, scacciati, arrestati nella
periferia Ovest, molti di quei gruppi sono saliti nella periferia Nord. E nessuno ha resistito
«ai barbari». Poi, con le ondate migratorie, sono approdate accanto allo stadio le famiglie
con bambini: chi poteva occupava le case vuote che — e anche questo dato nudo e crudo
è tale da far riflettere — ancora oggi sono alcune centinaia.
Case vuote perché? Per una legge della Regione Lombardia, che impone l’affitto solo di
case ristrutturate (ma non le ristruttura, o lo fa con il contagocce). Viceversa, il Comune di
Milano, da poco, ha tolto le sue case dalla gestione dell’Aler (succederà entro l’anno), le
ha affidate alla società che gestisce la Metropolitana milanese, e ha in mente di provare
ad affittare le case «allo stato di fatto», scalando i lavori da eseguire dal calcolo dell’affitto.
Nel frattempo, però, nessuno che aspetta la casa sta a guardare. A due passi da viale Mar
Jonio, in via Cividale 30, l’altro ieri un clan di nomadi è andato all’arrembaggio di un intero
stabile, ma è scattato l’allarme e tutti sono stati scacciati, anche perché nella palazzina
mancavano bagni, porte, scale, eppure «quelli ci sarebbero rimasti lo stesso».
del 13/11/14, pag. I (Roma)
E sabato la marcia dei “rioni dimenticati”
ANNA RITA CILLIS
DA SETTIMANE il depliant girava tra le vie periferiche della città e sui sociali network. E
dopo le notti movimentate a Tor Sapienza, il corteo “Rivogliamo la nostra città”,
organizzato dal comitato Caop Ponte di Nona e da altre associazioni di cittadini - in
programma sabato a piazza dell’Esquilino contro “degrado, criminalità, campi rom fuori
controllo e roghi tossici” nei quartieri più difficili della Capitale, si rafforza grazie
all’adesione di altri comitati di quartiere. «Saranno oltre 60», dice Franco Pirina, promotore
della manifestazione che, però, assicura: «Non saremo strumentalizzati» .
UNA sottolineatura che Franco Pirina, promotore della manifestazione e presidente del
Caop Ponte di Nona, ci tiene a fare «perché non ci siano fraintendimenti: il nostro è un
corteo organizzato da tre mesi e i partecipanti arriveranno da tutte le zone. persone che
dopo averle provate tutte hanno deciso di farsi ascoltare dal sindaco Marino in questo
modo».
E così dopo aver «denunciato tramite centinaia di email il de- grado nel quale vivono da
anni le periferie», rimarca Pirina, sabato piazza dell’Esquilino sarà il teatro dal quale
partirà il corteo per raggiungere, qualche ora più tardi, piazza Venezia. Evento blindato
rimarca Pirina «perché non siamo disponibili a essere strumentalizzati dalla politica, chi
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vuole partecipare lo faccia ma da cittadino». Intanto, però, Gianni Alemanno sottolinea che
«bisogna liberare le periferie da un vero assedio incontrollato di nomadi e immigrati che,
nell’indifferenza generale, stanno trasformando questi quartieri in vere e proprie
giuncoordinamento gle. Sabato ci sarà un corteo organizzato dal coordinamento delle
periferie proprio per dar voce pacifica e democratica a queste proteste». Un modo, il suo,
per mettere forse il cappello sull’evento che nel frattempo è stato ribattezzato “Marcia della
Ribellione dei Rioni e Quartieri di Roma” dal neonato cittadino delle periferie, che
abbraccia circa 40 movimenti. Ma arriva in queste ore anche la contro-risposta della Rete
Antirazzista Piazza Vittorio che ha organizzato sempre sabato ma a mezzogiorno, la festa
“Roma meticcia” nei giardini di piazza Vittorio.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 13/11/14, pag. 18
La rivoluzione verde di Pechino “Entro 5 anni
l’energia pulita sarà la prima voce del nostro
Pil”
GIAMPAOLO VISETTI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PECHINO
PER la buona notizia il cielo è sorprendentemente azzurro, sopra Pechino: ma l’ultimo
“sogno cinese” del leader rosso è una superpotenza verde. Trasformare il peggior
inquinatore del pianeta nel motore mondiale delle energie pulite è però per la Cina una
sfida più decisiva che consumare il sorpasso economico sugli Usa. Xi Jinping sa che su
questa scelta si giocano la stabilità della nazione e il destino globale. I suoi consiglieri
rivelano così che la svolta ecologica è stata impressa ora «per assenza di alternative e
concentrazione di interessi».
Trent’anni di boom industriale hanno ridotto un Paese da 1,3 miliardi di persone a una
bomba ambientale ad orologeria. La Cina, oltre al primato dell’inquinamento, detiene
anche quelli dei veleni assorbiti e del consumo energetico. Non esiste più acqua potabile,
regioni agricole sconfinate vengono abbandonate perché la terra è tossica, lo smog uccide
quasi 700 mila persone all’anno. Qui si diffonde il 26% del CO2 mondiale, l’80%
dell’elettricità deriva dalle centrali a carbone, combustibile che alimenta anche il 94% dei
riscaldamenti. Sostanze chimiche emesse dalle fabbriche del Guangdong sono state
rilevate in Alaska e al Polo Sud. Finito il “blu politico”, garantito ai leader Apec e a Obama,
torneranno l’obbligo di mascherina e il piombo tingerà di nero chi esce di casa.
È una condanna che i cinesi hanno sopportato per uscire dalla fame prima, per tuffarsi
nell’ebbrezza del consumismo poi. Il prezzo sono stati la vita, la distruzione di ambiente e
clima, la soglia del non ritorno dell’effetto serra. La Cina, ancora in forte crescita
industriale, fino a ieri aveva rifiutato date ravvicinate e impegni precisi a ridurre il disastro,
opponendo due argomenti. I due terzi delle emissioni interne sono “per conto terzi”, ossia
causate dalla delocalizzazione delle multinazionali straniere; i limiti sarebbero stati imposti
da «potenze che per decenni hanno intossicato impunemente il pianeta, al fine di
contenere l’ascesa economica di Pechino ».
Lo scenario, responsabile del fallito vertice sul clima nel 2009, è cambiato con Xi Jinping. Il
“nuovo Mao” aspira a entrare nella storia, ma deve contrastare il rallentamento della
crescita nazionale e scongiurare la rivolta della nuova classe media che «non vuole morire
avvelenata prima di essere diventata ricca». «È il mix di questi ingredienti politici,
economici e ambientali — dice Guo Chengzhan, vice capo dell’ente per la sicurezza
dell’energia atomica — ad aver convinto Pechino a cambiare modello di sviluppo e a
lavorare ad un accordo verde con Washington». Investimenti e obiettivi sono senza
precedenti. Per migliorare l’efficienza energetica sono stati stanziati 4 miliardi di euro entro
il 2030, di cui uno l’anno prossimo.
La Cina è già il primo produttore mondiale di pannelli solari e fotovoltaici e ha la maggior
concentrazione di centrali eoliche e a biomassa. Entro dicembre aprirà tre nuove centrali
atomiche nelle regioni Liaoning, Shandong e Fujian. Venti sono già attive, 28 in
costruzione, 100 previste in trent’anni. Nel 2020 il nucleare varrà 88 gigawatt di potenza, in
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crescita dell’80% rispetto ad oggi. Per l’energia pulita, nel 2009 Pechino aveva investito 35
miliardi di dollari, rispetto ai 51 degli Usa: l’anno scorso il rapporto si è invertito, 72 miliardi
a 47. Solo per infrastrutture e sicurezza la Cina spende di più: ieri Xi Jinping ha ripetuto
però che «non si tratta di costi, ma di investimenti». Entro il 2030, picco delle emissioni,
Pechino risparmierà 470 miliardi di combustibili fossili importati, mentre la green economy
frutterà oltre 4 mila miliardi e cento milioni di posti di lavoro.
Il ministro dell’ambiente Zhou Shengxian ha annunciato che «entro cinque anni il business
dell’energia pulita sarà la prima voce del Pil cinese, assieme all’e-commerce». La leva
della più sconvolgente rivoluzione cinese dopo quella comunista, sarà il mercato. Regioni
e imprese che abbatteranno le emissioni nocive strapperanno prezzi migliori per l’energia,
sgravi fiscali e clienti più ricchi. «Il principio — ha detto il direttore dell’Accademia
nazionale delle scienze, Wang Weiguang — è «meno inquini più guadagni. E alla
rivoluzione ecologica corrisponderà quella urbanistica». Entro dicembre Pechino
annuncerà altri mille miliardi in cinque anni per «città e metropoli del futuro»: viabilità a
impatto zero, strade e grattacieli progettati come centrali termiche, case e fabbriche solo a
risparmio energetico.
Oggi in Cina il 93% delle costruzioni sono ad alta dispersione e nel 2013 si è consumato il
passaggio di consegne nella corsa alla distruzione del pianeta: le emissioni pro capite
cinesi sono arrivate a 7,2 tonnellate annue, rispetto alle 6,8 della zona Ue. In settembre
Pechino ha strappato agli Usa anche il primo posto nell’importazione di greggio, mentre
dal 2030 rileverà il record del consumo netto. A spianare una strada in salita, contribuirà
così il gas di Mosca: grazie al patto Putin- Xi Jinping da 400 miliardi di dollari, per la prima
volta il Cremlino dirotterà sulla Cina più metri cubi che verso l’Europa. Senza lo spettro
dell’instabilità sociale e l’interesse del mercato però, confermano alti funzionari comunisti,
Pechino non avrebbe concordato adesso con gli Usa una scadenza per la conversione. «I
primi cinque anni — prevede l’economista Lin Yifu — perderemo 10 miliardi di dollari
produzione e 15 di esportazioni. Dopo, guadagneremo 50 miliardi in più all’anno per due
decenni, trascinando anche il resto del mondo verso la più ricca opportunità di profitto del
secolo».
Restano due ostacoli: il protezionismo, che oppone barriere a prodotti e tecnologia cinese
sostenuti dallo Stato, e l’ostilità verso i controlli esterni delle emissioni, che accomuna
Pechino a Washington. Dumping e dati- truffa possono ridurre l’annunciato «salvataggio a
due del pianeta» nell’affare più colossale, ma più sporco, del futuro. In Cina non ci vorrà
molto a scoprirlo: al mattino basterà, come ha confessato di fare lo stesso Xi Jinping,
«riservare la prima occhiata al colore fuori dalla finestra ».
del 13/11/14, pag. 8
I movimenti sociali dettano l’agenda
Geraldina Colotti
Clima. Sabato e domenica il vertice G20, ma non c’è accordo con
l’Australia sulle rinnovabili
«Non c’è soluzione al cambiamento climatico senza i membri del G20. Questi paesi sono
responsabili di circa l’80% delle emissioni e di oltre l’80% dell’attività economica globale».
Così, il direttore generale del Wwf in Australia, Dermot O’ Gorman, ha commentato un
episodio significativo avvenuto nel suo paese: la rimozione di alcuni cartelli pubblicitari,
commissionati dalle organizzazioni ambientaliste ed esposti all’aeroporto di Brisbane.
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Il primo cartello mostrava un agricoltore nel sud del paese che ha subito perdite per
25.000 dollari nei suoi vigneti a causa di un aumento della temperatura a 46 gradi. Il
secondo era stato posizionato nella zona in cui, il prossimo 15 e 16 novembre, si svolgerà
il vertice del G20. Raffigurava un gruppo di pompieri preoccupati per il moltiplicarsi degli
incendi per effetto del cambiamento climatico.
Un tema che l’Australia, principale esportatore di carbone al mondo e uno dei principali
inquinatori, non ha nessuna intenzione di mettere fra le priorità del summit, come ha già
anticipato in estate, durante le riunioni preparatorie.
I cartelli sono stati rimossi perché troppo «politici» e l’appello dei rappresentanti della
società civile dei paesi del G20 che chiede misure per ridurre le disuguaglianze e il
riscaldamento globale è stato ignorato. «Oltre la metà dei poveri vive nei paesi del G20 e
sette persone ogni 10 vivono in paesi dove le disuguaglianze sono cresciute a partire dagli
anni ’80», ha affermato Tim Costello, presidente di Civil 20, invitando i governi ad adottare
urgentemente leggi e riforme tributarie per costringere le grandi imprese (e i multimilionari)
a pagare le tasse e a non inquinare.
Da Pechino, dove ha partecipato al Forum economico Asia e Pacifico, il primo ministro
australiano, il neoliberista Tony Abbott, ha risposto che il G20 contribuirà alla crescita
mondiale creando posti di lavoro mediante il libero commercio e gli investimenti in
infrastruttura: il modello delle maquilas (le fabbriche messicane ad alto tasso di
sfruttamento del lavoro) e quello delle grandi opere a elevato tasso di devastazione
territoriale, adottato da gran parte dei paesi che partecipano al G20.
Ma i movimenti sociali, sostenuti dai governi progressisti dell’America latina, continuano a
organizzarsi e a farsi sentire: anche in quei paesi che, come Argentina e Brasile (membri
del G20), con una mano lavorano alla giustizia sociale, con l’altra spingono sul pedale del
“modello estrattivista”, senza troppi intralci per le grandi multinazionali. Il 4 novembre, 27
delegazioni di alto livello (provenienti da Brasile, Cuba, Arabia saudita, Usa, Norvegia,
Russia, Uruguay, Argentina.…) hanno partecipato alla riunione della PreCop sociale e
ministeriale sul Cambiamento climatico, che si è svolta in Venezuela nell’isola Margarita.
Ong e movimenti sociali hanno messo a punto un documento di 84 punti, poi presentato ai
ministri e pronto per essere inviato alla Conferenza Onu sul Clima, che si svolgerà a Lima,
in Perù, tra il 1 e il 12 dicembre.
Un’iniziativa messa in moto dall’ex presidente venezuelano, Hugo Chavez, a Copenaghen,
nel 2009: «Per cambiare il clima, bisogna cambiare il sistema», aveva detto Chavez,
interpretando il sentimento dei movimenti popolari, reiterato anche nel corso delle ultime
manifestazioni contro il cambiamento climatico.
«La causa strutturale della crisi climatica – dice ora il documento dei movimenti sociali – si
radica nei sistemi politici ed economici basati su un modo di produzione e consumo
insostenibile che genera iniquità, ingiustizia e povertà. Gli accordi, le strategie e i
meccanismi disegnati e sviluppati nella Convenzione devono essere diretti a produrre
cambiamenti strutturali, specialmente nei paesi sviluppati». Un tema delicato, quello dello
sviluppo, maneggiato con cautela anche nei paesi latinoamericani che, come il Venezuela,
hanno al centro della costituzione e del programma, l’ecosocialismo: «Non accettiamo che
i grandi paesi industrializzati e le loro transnazionali, dopo aver depredato per oltre 100
anni le nostre risorse naturali, ora pretendono di imporci limiti allo sviluppo, strumento
indispensabile per superare povertà e asimmetrie sociali», ha detto il ministro degli Esteri
venezuelano, Rafael Ramirez.
«Dobbiamo trovare un modo di produzione alternativo, valorizzando tutte le economie
anticapitaliste esistenti, a partire da quelle contadine, indigene», ha sostenuto invece il
sociologo Boaventura de Sousa Santos. I movimenti hanno chiesto di partecipare ai vertici
e alle decisioni. Poi, hanno rafforzato la denuncia di Nicolas Maduro contro il fracking, la
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tecnica di fratturazione idraulica impiegata per estrarre petrolio e gas, causa di gravi danni
all’ecosistema.
del 13/11/14, pag. 2
Frane e laghi al collasso, due morti
Acqua alta L’esondazione del lago Maggiore a Laveno Mombello, in
provincia di Varese. Il lago è di tre metri al di sopra del suo livello
abituale: è cresciuto di tre centimetri all’ora
Due vittime. Decine di sfollati. Frane, allagamenti, esondazioni di fiumi e laghi, trombe
d’aria in mezza Italia. Ferrovie a singhiozzo, strade interrotte e scuole chiuse in diverse
province. Un Nord flagellato dal maltempo. E un Sud che si prepara oggi a una giornata
ancora più complicata di ieri. Per la seconda settimana consecutiva l’Italia deve fare i conti
con una perturbazione atlantica e danni per decine di milioni di euro.
Un mercoledì difficilissimo per il Piemonte dove si sono registrati diversi smottamenti.
Proprio qui viveva Brunello Canuto Rosa, 68 anni, una delle due vittime. L’uomo era stato
chiamato dall’amico Marco Fava per controllare la collina dietro casa a Crevacuore, in
provincia di Biella, quando una porzione del costone è venuta giù travolgendo entrambi:
per Canuto Rosa non c’è stato nulla da fare, mentre Fava, 59 anni, è stato ricoverato per
lo schiacciamento della cassa toracica.
Il secondo morto di ieri è annegato nel lago Maggiore a Ispra (Varese): il 70enne,
residente a Bodio Lomnago, sempre nel Varesotto, è caduto in acqua mentre con un
canotto a remi stava andando a recuperare la sua barca che rischiava di rompere gli
ormeggi nel porticciolo del paese.
Il lago Maggiore è cresciuto ieri al ritmo di tre centimetri all’ora fino a toccare nella notte la
piena del 2002. Sono esondati i laghi d’Orta e di Como, mentre il fiume Po resta un
sorvegliato speciale. A Milano e provincia sono straripati il Seveso e il Lambro: «Non
mettetevi in viaggio se non strettamente necessario e state lontani dai corsi d’acqua», ha
detto Simona Bordonali, assessore lombardo alla Protezione civile.
Altro giorno intenso per la Liguria e soprattutto per Leivi (da molte ore senza corrente
elettrica e acqua potabile) dove martedì hanno perso la vita i coniugi Carlo Arminise, 73
anni, e Franca Iaccino, 69. L’area dove si trovava la loro casa è stata posta sotto
sequestro dall’autorità giudiziaria che ha aperto un fascicolo per omicidio colposo plurimo
e disastro colposo. La Procura di Genova indaga anche per il reato di frana colposa (per
ora a carico di ignoti). La decisione ha fatto infuriare così tanto Vittorio Centanaro, sindaco
del paesino, da spingerlo a minacciare le dimissioni. «Bisognerebbe che sapessero cosa
stanno facendo — ha detto —. Sequestrando quell’area hanno impedito ai tecnici di salire
alle stazioni di sollevamento dei pozzi dell’acqua potabile che servono il Comune».
A Genova sono crollate due case. Nella notte tra martedì e mercoledì l’esondazione del rio
Veilino ha provocato allagamenti di strade, scantinati, negozi. Voli in ritardo all’aeroporto
dopo che la centralina dell’Enav che controlla l’arrivo degli aerei si è allagata.
Case evacuate anche in provincia di Udine, acqua alta a Venezia e allagamenti nel resto
del Veneto. All’Isola d’Elba due persone sono state salvate da un’esondazione dopo il
nubifragio che ha colpito la zona. Disagi per gli acquazzoni anche in Campania. In Puglia
una tromba d’aria si è abbattuta sulla provincia di Taranto e ha sradicato, secondo la
Coldiretti, circa mille ulivi secolari. In Calabria la frana di una settimana fa tiene ancora
isolati i comuni reggini di Bova, Africo e Roghudi.
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Leonard Berberi
del 13/11/14, pag. 2
Milano in tilt, evacuazioni e scuole chiuse
L’ottava esondazione del Seveso in un anno
Anche il Lambro esce dagli argini. Il Comune: per spostarvi non usate
l’auto I quartieri
MILANO Rieccolo. Mentre nelle aule di Palazzo Marino si discute dei progetti anti-piene, il
Seveso riemerge dalle viscere di Milano. È l’ottava esondazione dell’ annus horribilis 2014.
E per la prima volta, oggi, resteranno chiuse tutte le scuole della Zona 9, quella di
Niguarda, dell’Isola e di Garibaldi. L’ordinanza viene firmata dal sindaco Giuliano Pisapia
poco dopo le 19.30. Le strade sono ancora allagate.
Il fango del fiume sotterraneo ha invaso il quartiere di Niguarda in due riprese. Prima, poco
dopo le 15, proprio mentre in Comune si discuteva dei progetti anti piene attesi da
quarant’anni. Poi alle 16.40, con le acque che tracimano dai chiusini della strada e
invadono tutto il quartiere. L’esondazione, fenomeno che di solito non dura più di un paio
d’ore, stavolta prosegue fino a sera. Il fiume di fango e scarichi fognari arriva all’Isola, fino
a lambire i grattacieli del nuovo quartiere di Porta Nuova. I mezzi pubblici di superfice
vengono deviati, l’Atm è costretta a chiudere le fermate della metropolitana lilla di piazzale
Istria e viale Marche. Le stazioni sono agibili, salvo qualche infiltrazione, ma raggiungerle
è impossibile. L’acqua su strade e marciapiedi supera i quaranta centimetri. I treni
percorrono regolarmente la linea ma saltano le fermate chiuse. Problemi anche alla
stazione Garibaldi.
Nelle stesse ore il Lambro, che è già esondato più a nord al parco di Monza, supera
l’ultima soglia. Al Parco Lambro, nella zona nordest della città, viene evacuata la comunità
Exodus di don Antonio Mazzi. Gli ospiti vengono portati in un’altra struttura lontana
dall’area alluvionata. Altre due comunità che ospitano anziani e malati, che hanno sede
sempre nel parco, vengono sgomberate. La stessa cosa accade, più a valle, per una
struttura che ospita malati di Aids di via Camaldoli e per due famiglie che vivono a Ponte
Lambro.
Il Comune e la Protezione civile — sessanta gli equipaggi in azione — allestiscono un
«campo base» nel centro sportivo di via Leonardo Cambini. «Tutte le persone sono state
accolte, nessuno è rimasto ferito», assicura l’assessore comunale alla sicurezza Marco
Granelli. La piena del Seveso era attesa. Da giorni — ininterrottamente — vigili, protezione
civile e tecnici della Metropolitana milanese monitoravano i livelli delle acque che, dal loro
ingresso nella zona nord della città, in via Ornato, viaggiano in una rete sotterranea di
tubature. Strutture ormai inadeguate se è vero che dal 1976 a oggi si sono verificate 103
esondazioni. Quella di ieri è stata particolarmente intensa, sia per la portata d’acqua sia
per la durata. Tanto che in serata il sindaco Pisapia ha annunciato la chiusura di una
sessantina di scuole nella zona più colpita. Via Twitter è arrivato anche l’invito a tutti i
milanesi «ad utilizzare i mezzi pubblici al posto dell’auto privata».
«Sono quarant’anni che il quartiere finisce sott’acqua. Uno scandalo senza fine», si
lamentano i commercianti di Niguarda che hanno posizionato paratie anti acqua davanti
alle vetrine. In serata si teme per alcuni rom accampati vicino al Lambro. Le baracche
sono state spazzate via dalla piena. Vigili del fuoco al lavoro per tutta la notte.
Cesare Giuzzi
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del 13/11/14, pag. 9
Galletti, chiacchiere ambientali e governo
sblocca- cemento
ERA IL COMMERCIALISTA DI CASINI, ORA È ALL’AMBIENTE
E PROMETTE MILIARDI (SENZA AVERLI) CONTRO LE ALLUVIONI
di Emiliano Liuzzi
Ha definito i condoni edilizi dei tentati omicidi, salvo esserne a favore quando stava al
governo, insieme all’Udc, il suo grande amore, e a Silvio Berlusconi. Oggi vive di
entusiasmo renziano, fatto d'arcobaleno e fantasia, ma quando nel 2010 si candidò alla
presidenza della Regione in Emilia Romagna era favorevole al nucleare, salvo quattro
anni dopo, diventare ecologista più degli ecologisti. Ha fatto anche un po’ di confusione
sull'acqua pubblica o privata, nel senso che ha cambiato idea. Ma soprattutto, d’intesa col
governo che rappresenta, con lo Sblocca Italia, ha varato uno dei peggiori decreti in
materia d’ambiente della storia della Repubblica: trivellazioni, cemento senza controllo,
inceneritori. Lui si chiama Gian Luca Galletti, bolognese, 53 anni, conosciuto in
Transatlantico come “il commercialista di Casini”. Ha un suo perché anche nella fase
Renzi: è versatile, adattabile a qualsiasi opinione, democristianissimo nell’esporre i
concetti: “Si potrebbe fare, ma si potrebbe anche non fare”.
HA STUPITO tutti quando, nel commentare l’ennesimo nubifragio sulla Liguria, le altre due
vittime, per la prima volta nella sua vita politica è riuscito a essere perentorio: “Basta con
le sanatorie, sono tentati omicidi”. Ma tutti sono rimasti a bocca aperta quando ha
annunciato che per la messa in sicurezza del disastro ambientale ci saranno sette miliardi
in sette anni. Verrebbe da chiedersi dove il ministro riesca a trovare un miliardo di euro da
qui a pochi giorni, quando dovrebbe dare il via ai lavori, dove concentrare le priorità.
Quando poi si unisce a Graziano Delrio, compagno di Dc, i toni diventano debordanti: “La
tutela dell’Italia che cade a pezzi è priorità assoluta anche per la politica, che per anni ha
finto di non vedere e anzi spesso ha contributo alla situazione attuale, con concessioni e
zero controlli. Basta con le promesse”. Messa così ci si aspetterebbe di vedere Galletti sui
luoghi del disastro, blocchetto degli assegni alla mano per eludere un eventuale assalto.
Dai conti del governo improbabile che escano fuori così tanti miliardi dalla sera alla
mattina.
MA SI SA e Matteo Renzi lo insegna: qualsiasi argomento ci si trovi a trattare deve essere
una “priorità” e “per il bene del Paese”. Così Galletti, all’inizio dell’anno scolastico, aveva
spiegato l'importanza dell'educazione all'ambiente per i bambini con tanto di due ore
aggiuntive proprio per parlare del verde. Lo ha fatto il 15 settembre, alle scuole elementari
Marconi di Bologna, le stesse che lui frequentò. Ma delle due ore aggiuntive non se ne
parla. Se è per questo, lui e il presidente del Consiglio avrebbero dovuto visitare anche
due scuole alla settimana, ma i bambini sono ancora lì che aspettano. Impietoso il ritratto
che ne fece Monica Fassoni, presidente dei verdi europei: “Galletti e i centristi di Casini
sono stati sponsor entusiasti del ritorno al nucleare, paladini sistematici dei condoni edilizi,
mentre nelle città e regioni dove governano sono d’abitudine tra i principali fautori della
deregulation urbanistica e del consumo forsennato di territorio. Nel Lazio, ai tempi della
giunta Polverini, proprio l'assessore Udc ai lavori pubblici, varò un piano casa terrificante
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che consentiva di costruire ovunque senza regole né limiti”. Il commercialista di Casini, a
sua volta genero di Caltagirone: la somma dice cemento e lascia un certo stupore oggi
che lo senti parlare così. Senza andare a cercare il passato c'è lo Sblocca Italia sul piatto.
E oltre al cemento c’è l’elettrosmog, che il governo ha trattato come un problema minore.
All’articolo 6 si specifica delle “agevolazioni per la realizzazione di reti di comunicazione
elettronica a banda ultralarga”. Questo vuol dire insinuare una mimetizzata deregulation
per l’avanzata delle prossime infrastrutture a supporto della connettività permanente via
cellulare, visto che manca visto che non è prevista la parola autorizzazioni sulle per le
multinazionali delle telecomunicazioni assegnatarie delle frequenze bandite dall’ultimo
governo Berlusconi. Inoltre lo stesso decreto toglie alle toglie alle Regioni il potere di veto
sulla ricerca e sulla trivellazione di pozzi di petrolio e di metano. Questo vuol dire più
petrolio per tutti, nella fantasia, ma nella pratica il primo step è appunto perforare i terreni
senza nessun controllo da parte degli enti locali. Anche questo il ministro Galletti dovrebbe
spiegare nelle scuole che aveva annunciato di visitare.
PETROLIO e cemento, capitolo contestato da tutti, per la prima volta sulla stessa linea i
Verdi e i costruttori. I primi parlano del rischio di “cementificazione del demanio” e di
“sostegno a interventi devastanti per il territorio”. I secondi invece si limitano a criticare il
governo sui fondi destinati all’edilizia, troppo pochi per parlare di ripresa. Galletti non ne fa
un grave problema. Va avanti. Anche perché cerca di farsi vedere poco. E quando appare
l’idea può variare.
del 13/11/14, pag. 3
I 50 milioni ancora bloccati in Sardegna
Le vasche di Sarno usate come discariche
Gianni Giovannelli, sindaco di Olbia, ha messo le mani avanti già ad agosto: «Sia ben noto
a tutti, fin d’ora, che la mancata esecuzione delle opere menzionate espone la collettività
olbiese agli stessi pericoli cui è andata incontro nell’alluvione del 18 novembre 2013».
Lettera perentoria, con lungo elenco di destinatari, da Renzi al presidente della Regione,
dal prefetto alla Protezione civile.
A un anno da quando non solo Olbia ma mezza regione finì sott’acqua (18 vittime) sono
stati ripuliti i canali, sistemati gli argini e poco altro. Non basta.
2013: Sardegna
«L’allora presidente del Consiglio Letta venne e promise che ci avrebbe concesso una
deroga al patto di Stabilità. Sto ancora aspettando» protesta il sindaco Giovannelli. Il
Comune ha in cassa 50 milioni, ma non può spenderli. Per mettere in sicurezza il territorio
ha studiato un complesso progetto da 122 milioni, in 4 lotti. «Ne basterebbero trenta per la
prima tranche, le casse di laminazione, una risposta efficace perché strutturale. Nell’attesa
possiamo solo guardare il cielo e pregare che non piova così tanto un’altra volta».
2011: Cinque Terre
In una Liguria piegata dalle ultime alluvioni questa volta le Cinque Terre hanno retto.
Clemenza del microclima e forse anche merito del cambio di passo dopo la tragedia di tre
anni fa. Tutte le opere previste sono state realizzate, tranne l’appalto per la messa in
sicurezza della strada dei Santuari, sbloccato appena un paio di settimane fa dopo un
lungo contenzioso davanti al Tar che ha dato ragione alla ditta che aveva perso la gara
(vicenda fotocopia di quella genovese del Bisagno). Il Parco delle Cinque Terre, rinnovato
dopo gli scandali, è il motore di questa fase nuova. Con iniziative modello, come la recente
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istituzione, in accordo con il Consiglio nazionale dei geologi, di un Centro studi per tenere
d’occhio costantemente il territorio e prevenire i rischi.
Ad Aulla, sconvolta nella stessa ondata di maltempo del 2011 (13 morti tra Liguria e
Toscana), non va altrettanto bene. Gli interventi sul Magra sono rimasti nel cassetto fino a
4 giorni fa quando la Regione li ha tirati fuori grazie alla dichiarazione di stato di
emergenza dopo gli ultimi disastri.
2009: Messina
Dopo la colata di fango che invase Scaletta Zanclea e la frazione messinese di Giampilieri
(in 36 persero la vita), Stefania Prestigiacomo, all’epoca ministro dell’Ambiente, fu netta:
«È impensabile tornare, il paese è al di fuori di ogni possibile sicurezza». Altra profezia
mancata, ma questa volta forse meglio così. «Per fortuna non si è arrivati a tanto. I lavori
sono stati fatti, le criticità risolte, adesso è una zona sicura» assicura Antonio Rizzo,
l’esperto del Comune per la Protezione civile. Anche il Sud può sorprendere, in positivo.
Ma c’è poco da gioire. «Purtroppo non c’è solo Giampilieri — prosegue Rizzo —. A
Saponara, colpita da una bomba d’acqua nel 2011, non è stato ancora fatto niente.
Nell’ultimo rapporto della Protezione civile sui punti critici in Sicilia, il 29% sono in provincia
di Messina. Ci sono 2.500 situazioni da tenere d’occhio, 500 soltanto nel capoluogo».
2000: Soverato
Il 9 settembre di 14 anni fa, un acquazzone gonfiò la fiumara Beltrame, che uscì dagli
argini spazzando via un camping con 14 villeggianti. Fu subito chiaro che quella struttura,
nonostante tutte le autorizzazioni, non doveva stare in quel punto. Governo e Regione si
rimpallarono le responsabilità sulla mancata segnalazione del rischio. I processi si sono
conclusi senza nessun colpevole.
«La cosa peggiore è che da allora poco è cambiato — denuncia Nuccio Barillà, presidente
di Legambiente Calabria —. Abbiamo più volte segnalato situazioni anche peggiori, come
un torrente sopra la superstrada a Reggio Calabria, o una scuola costruita su un argine».
Nel 2010, Regione e governo fissarono 185 casi urgenti e si impegnarono a spendere 220
milioni. A luglio erano partiti solo sei cantieri, per meno di 5 milioni. Il commissario ad acta
nominato da Roma per la qualificazione del territorio ha dato un’accelerata: una ventina di
appalti sono partiti, per una quarantina sono in corso le gare. Ma ancora siamo ad appena
un terzo di quanto era stato stanziato.
1998: Sarno
Nel maggio del 1999, un anno dopo la colata di fango che seppellì Sarno (una strage, 159
morti), il ministro dell’Ambiente Edo Ronchi annunciò: «Il bacino è stato messo in
sicurezza, pericoli imminenti non ce ne sono». Il sindaco Giuseppe Canfora, 16 anni dopo,
non ne è più così convinto. «Le opere versano in uno stato di totale abbandono e degrado.
Le vasche sono state trasformate in vere e proprie discariche di rifiuti con erbacce e
arbusti che sovrastano ed impediscono il deflusso dell’acqua».
La ricostruzione di Sarno prevedeva due fasi: la messa in sicurezza di canali e vasche
(opere fatte, ma poi lasciate senza manutenzione) e la riduzione del rischio a monte (mai
fatto). Con qualche paradosso, come racconta Antonio Milone, presidente
dell’associazione delle vittime Rinascere: «Le abitazioni distrutte sono state ricostruite
altrove. Così, adesso, chi è proprietario della casa non lo è del terreno su cui sorge». Non
bastasse il dissesto, ci si mette anche la burocrazia.
Riccardo Bruno
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del 13/11/14, pag. 5
Genova ancora sott’acqua e beffata
Dopo un mese, niente risarcimenti
Manca la dichiarazione di calamità del governo per il disastro del 9
ottobre Imprenditori infuriati, speranze sul fronte fiscale. Negozi a
rischio chiusura
Teodoro Chiarelli
«Un pensiero particolare ai commercianti che avevano avuto già il negozio distrutto
dall’acqua tre anni fa. Erano ripartiti e adesso si sono ritrovati di nuovo in ginocchio. Vorrei
rassicurarli sul fatto che il governo troverà le soluzioni giuridiche, non lasceremo soli
coloro che vogliono ripartire, il governo sarà pronto a fare la propria parte». E’ passato un
mese dalla tragica alluvione del 9 e 10 ottobre e il «pensiero» postato su Facebook da
Matteo Renzi è rimasto tale: un pensiero, appunto. Il governo non ha trovato il tempo di
proclamare lo stato di calamità.
Per le imprese non è questione di lana caprina: il provvedimento consente varie
agevolazioni, dalla sospensione del versamento dei tributi a quella degli adempimenti
contrattuali. «Restiamo in attesa - dice sconsolato Giuseppe Zampini, presidente di
Confindustria Genova - Abbiamo appreso, invece, che il ministero dell’Economia ha
emesso un comunicato con il quale dà facoltà all’Agenzia delle Entrate di valutare la
possibilità di non applicare le sanzioni per il mancato versamento delle ritenute previste
per il mese di ottobre. Ci auguriamo che questa indicazione venga recepita in Liguria».
Nel frattempo una nuova alluvione, lunedì e martedì, ha causato altri danni in città e,
soprattutto, in provincia. Neppure i miseri 12,5 milioni di euro annunciati dal capo della
Protezione Civile, Franco Gabrielli, sono stati ancora stanziati. Somma destinata «a
coprire la prima assistenza alla popolazione, il soccorso e le somme urgenze». Ma
evidentemente sul concetto di «urgenza» non c’è uniformità lessicale.
Un fiume di parole si è abbattuto sulla città con la stessa violenza dell’alluvione. «Il
presidente del Consiglio ha detto che non viene a Genova a fare passerella e fa bene sospira Paolo Odone, presidente dei commercianti Ascom e della Camera di Commercio Basterebbe che mandasse i soldi». L’Associazione commercianti ha contato 2.400 negozi
danneggiati, solo a Genova. In città una rabbia sorda ha preso il posto del tradizionale
«mugugno» dei genovesi.
Ghiglino, in via XX Settembre, moda «english style» dal 1893, giunto alla quinta
generazione, ha subito dal 1970 otto allagamenti. Le titolari, le sorelle Alba e Paola
Barabino la notte del 9 ottobre sono state recuperate con un gommone dalla furia del
Bisagno esondato mentre tentavano di salvare il salvabile in negozio. Contano danni per
170 mila euro fra merce e arredi. «Non abbiamo visto nessuno, neanche un pompiere - si
sfoga Alba - Solo amici e tanti angeli del fango. Anche le pompe ce le hanno imprestate
dei conoscenti. Dopo una settimana abbiamo riaperto, ma martedì sera, con l’allerta 2
eravamo qua, a spostare tutto al piano di sopra. Tornare alla normalità è dura. Io ho le
spalle larghe, c’è un’assicurazione che ci ripagherà in parte. Ma chi non ce l’ha? La gente
è disperata, sfiduciata, non si aspetta nulla. Vergogna».
Roberto Panizza, fra gli ideatori del «mondiale del pesto», con l’alluvione ha fatto Bingo:
un ristorante, un laboratorio e tre negozi, tutti sott’acqua. Almeno 200 mila euro di danni.
Dopo 10 giorni ha riaperto. «Tengo duro, per forza. A 50 anni che faccio? Ripartire è
obbligatorio. Dell’alluvione non interessa niente a nessuno. Io me la cavo, ma il giovane
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che ha messo su un pizza al taglio e ha perso tutto? A lui, se non paga anticipato, non
danno neppure la farina».
Storie di chi non si rassegna. Come quella di Franco Pardo che ha riaperto il bar Parador
in piazza della Vittoria, grazie ai tanti ragazzi che hanno spalato e alla suocera, nonna
Vittoria, 89 anni, che per giorni ha lavato piatti infangati, con la stessa silenziosa semplicità
con la quale aveva aiutato l’altra figlia nell’alluvione del ‘70. O quella di Andrea Giachino
che ha ripreso a sfornare farinata all’Antica osteria della Foce due settimane dopo il
disastro. Ha rifatto i biglietti da visita del locale con un’appendice: il logo «Ancora una volta
non c’è fango che tenga».
del 13/11/14, pag. 15
Torino-Lione. Il presidente del consiglio chiede il dettaglio dei costi
dell'opera - Martedì, al rientro dall'Australia, previsto un vertice sul
progetto
Faro di Palazzo Chigi sui conti della Tav
L'intervento dopo l'audizione in Senato dei vertici Fs che hanno
confermato l'incertezza delle cifre
Alessandro Arona
Maria Chiara Voci
Il premier Matteo Renzi scende in campo sulla Torino-Lione. Con una telefonata, che è
arrivata ieri mattina al senatore del Pd Stefano Esposito, all'indomani dell'audizione in
Commissione Lavori Pubblici al Senato dei vertici delle Ferrovie.
Vuole sapere, il presidente del Consiglio, capire il perché del balletto di cifre che sta
girando, da settimane, intorno al progetto per la tratta internazionale dell'infrastruttura. «Il
telefono è squillato alle 7,45 del mattino», racconta Esposito, il politico che per primo dopo
aver letto il 24 ottobre le rivelazioni del Sole 24 Ore sulle cifre dell'opera, contenute nel
Contratto di Programma 2012-2016 di Rfi, si è mosso per chiedere chiarezza e
trasparenza. «Renzi - prosegue Esposito - mi ha chiesto di spiegargli la mia posizione
sulla questione dei costi Tav. Gli ho illustrato sinteticamente quanto avvenuto nelle ultime
due settimane. Lui ha risposto domandandomi l'invio, entro la serata di ieri, di una nota
scritta e puntuale, che esaminerà durante il suo viaggio in Australia. Mi ha inoltre dato
appuntamento al rientro, fra martedì e mercoledì, per fare il punto della situazione».
Renzi premier non si è ancora pronunciato chiaramente sulla Torino-Lione, anche se nel
2013 la definì «opera inutile», «soldi impiegati male», «investimento fuori scala e fuori
tempo». E nello staff di economisti chiamati dal premier nel settembre scorso a Palazzo
Chigi si contano alcuni studiosi esplicitamente "no-Tav": tra questi Yoram Gutgeld (ex
McKinsey, deputato Pd), che ha definito nel 2013 le nuove linee ad alta velocità «opere
faraoniche, miliardarie e inutili»; e Roberto Perotti (Bocconi), che nel 2008 scrisse sul Sole
24 Ore che «deturpare una vallata per ridurre le emissioni dell'1% al costo di 16 miliardi
(compresa tratta nazionale, ndr) è un buon investimento per le imprese appaltatrici, ma
non per il Paese».
La giornata di martedì 11 novembre, comunque, sarà ricordata fra quelle che hanno
segnato la storia del Tav. Non solo per l'incertezza nelle spiegazioni intorno alle reali cifre
dell'opera dimostrata dai vertici Fs. Ma soprattutto per le parole di Marcello Messori,
presidente di Fs, che di fronte ai parlamentari ha ammesso che comunque vada, se il
costo del tunnel di base più stazioni accessorie non sarà di 12 miliardi come sovrastimato
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nel Contratto di Programma, la cifra definitiva della tratta internazionale della Torino-Lione
non sarà neppure di 8,5 come sempre dichiarato dal ministero delle Infrastrutture e da Ltf,
la società di progettazione dell'infrastruttura. «La stima reale - ha spiegato il presidente non è infatti ancora determinabile», visto che rispetto ai valori del 2012 dovrà subire una
«rivalutazione monetaria», con tasso da concordare tra Italia e Francia. Così anche
sull'aspetto dei ricavi, l'analisi costi/benefici ufficiale, stilata da chi promuove la linea ad
alta capacità, «non è più aggiornata - ha aggiunto Messori - all'andamento attuale del
mondo».
Nel giorno della telefonata di Renzi, a Torino, anche i No Tav sono inoltre scesi in campo
per mettere il proprio sigillo sulla vicenda degli extracosti, con una conferenza convocata
ad hoc. «Il valore di 12 miliardi per il tunnel internazionale - spiegano Alberto Poggio,
Roberto Vela e Paolo Prieri, che animano il Presidio Europa - è reale, ci si è arrivati
seguendo le regole previste per legge. Tutte le opere, soprattutto i tunnel, sono soggetti a
una rivalutazione, che non si basa sull'inflazione, ma su fattori come la revisione prezzi, gli
oneri finanziari, gli adeguamenti progettuali e gli eventuali imprevisti. Per questo, anche il
Cipe, quando approverà il progetto definitivo, dovrà seguire la legge e basarsi sulla
medesima cifra dei 12 miliardi, che è quella rivalutata "a vita intera". L'errore è continuare
a sostenere che il valore ufficiale dell'infrastruttura sia di 8,5 miliardi».
«Non ci sono abbastanza fondi europei per pagare la Torino-Lione» concludono gli
oppositori No Tav.
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INFORMAZIONE
del 13/11/14, pag. 0
Venti di riscossa
Norma Rangeri
Mi riprendo il manifesto. Se vi abbiamo mandato di traverso il caffè, se
di fronte all’edicolante avete detto «magari oggi no», non dovete
sentirvi in colpa. Ma se avete risposto «oggi lo compro perché me lo
merito» allora dovete esser certi che il collettivo del manifesto farà il
possibile, e anche l’impossibile, per uguagliare generosità e tenacia di
questo straordinario editore collettivo
Chi vive di un magro stipendio, con venti euro riesce a mettere insieme il pranzo con la
cena. Per chi invece non ha ristrettezze economiche venti euro non fanno la differenza.
Lo scriveva già Luigi Pintor quando nel 1997 il manifesto uscì a cinquanta mila lire, che
per molti «bastano a vivere una settimana», per altri «ad accendere il sigaro».
Probabilmente per buona parte delle lettrici e dei lettori che ci seguono, da una vita o da
pochi anni, venti euro fanno, eccome, la differenza.
Ma adesso vi chiediamo di prendere una decisione, di fare un salto con l’asta insieme a
noi per riacquistare la testata quando, a fine anno, i liquidatori la metteranno all’asta. Si
tratta di scegliere se il manifesto deve vivere, se il giornale è un’agorà da difendere perché
ci si riconosce, perché interessante, perché stimola l’intelligenza individuale e collettiva,
perché produce cultura, perché è diverso dal resto dell’informazione. E perché — e per
alcuni soprattutto — è un giornale utile per una sinistra che ha bisogno di ritrovare la
strada per unire le forze e dare battaglia.
Nel breve e nel lungo tempo. E non solo contro il governo, ma per un’altra idea di società,
di mondo.
Se la risposta è sì, allora è utile ricordare che il «mercato» (qualcuno sarà mai perseguito
per il «reato» di apologia di mercato?) non solo non tirerà l’Italia e l’Europa fuori dai guai,
ma non basterà (come sempre) a garantire la vita di un’impresa editoriale come questa.
Perché il manifesto non solo non ha un editore alle spalle, né un partito o un imprenditore:
non ha neppure una base sufficiente di pubblicità che, insieme alle vendite, è l’unica altra
voce d’incasso di una cooperativa come la nostra. L’editore siete voi, le lettrici e i lettori più
assidui insieme a quelli saltuari. Vostre le gambe che ogni giorno camminano per
rinnovare un impegno, offrendo a noi stessi e alla sinistra un luogo pubblico di confronto.
Senza questa rete il manifesto non esisterebbe più da gran tempo.
Le difficoltà economiche che conoscete sono rese più difficili adesso perché mai in
passato ci siamo trovati di fronte a un progressivo azzeramento dei fondi dell’editoria.
Senza le spalle coperte da qualcuno, senza fondi pubblici, con la pubblicità in picchiata, un
quotidiano potrebbe vivere solo con un prezzo di copertina maggiorato. Non da arrivare
fino ai venti euro che vi chiediamo oggi, ma certamente con un prezzo doppio o triplo
rispetto all’attuale.
Poi si può anche sostenere che i giornali è meglio chiuderli (vedi Liberazione, l’Unità,
Europa, Padania, Pubblico, il Riformista e decine di testate locali), che è bene lasciare in
edicola solo quelli che hanno imprenditori e finanzieri nei consigli di amministrazione,
insieme ai blog dei milionari.
Naturalmente noi pensiamo che senza una libera stampa non c’è democrazia (né antica,
né moderna). E abbiamo la presunzione di credere che senza il manifesto una sinistra
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unitaria di alternativa non avrebbe molte chance, così come i movimenti di lotta non
avrebbero quella visibilità che un quotidiano nazionale può offrire.
Questa è la situazione. Che, per fortuna, non è contrassegnata solo da brutte notizie. Ce
n’è anche una buona: il manifesto, nel mese di settembre, è l’unico quotidiano ad aver
aumentato le vendite. Un segnale di fiducia e di attenzione nei nostri confronti, che
cerchiamo di ricambiare ogni giorno, mettendo testa e cuore nel lavoro che facciamo.
E che vale — ogni tanto — venti euro.
del 13/11/14, pag. 1/31
La nuova Sky vuol cambiare il mercato tv
Francesco Manacorda
Da ieri sera l’Europa delle tv ha un nuovo gigante in casa. Un gigante dai natali australiani,
con il passaporto britannico, ma che parlerà - e penserà, si spera - anche in italiano. Con
l’acquisizione appena completata da parte della britannica BSkyB del 100% di Sky Italia e
dell’89,7% di Sky Deutschland nasce infatti il primo operatore di pay tv europea, con
attività integrate in cinque Paesi - Gran Bretagna, Irlanda, Germania, Austria e Italia - e un
totale di 20 milioni di abbonati.
È una fusione tutta sotto il segno di Rupert Murdoch: BSkyB, di cui il magnate australiano
è maggior azionista attraverso la 21st Century Fox, ha infatti comprato le quote delle altre
due tv dalla stessa Fox. Non cambia nulla, dunque, visto che in fondo Murdoch ha
comprato e venduto? Al contrario, cambia moltissimo. La scommessa delle tre Sky, o della
nuova Sky, come preferiscono chiamarla tra Londra e Milano, è innanzitutto quella di
puntare dritto sulle sinergie industriali che finora le società accomunate dal nome non
hanno potuto sfruttare perché con azionisti diversi: dai decoder ai sistemi di gestione dei
clienti, alle piattaforme con cui accontentare un pubblico sempre più esigente che vuole la
partita anche quando è in treno o il film che cominci appena messi a letto i bambini.
E poi c’è una questione di taglia: operatore più grosso - è l’equazione facile da fare uguale più forza nel contrattare i diritti, che siano per eventi sportivi, film o altri programmi,
anche a livello europeo; e dunque una migliore offerta per i suoi spettatori. Questa, a dire il
vero, è al momento più una speranza che una previsione: la Commissione europea, nel
dare il suo via libera all’operazione, ha notato infatti che sebbene ci siano già degli
operatori televisivi che operano in diversi Paesi europei chi detiene i diritti non ha finora
accettato, tranne limitatissime eccezioni, di venderli assieme per più mercati nazionali.
Vista dall’Italia, la nuova Sky potrebbe dare una spinta al settore delle produzioni
televisive. La serie Gomorra, prodotta da Sky Italia e venduta in decine e decine di Paesi è
ovviamente il caso di scuola per chi pensa che proprio per via televisiva ci possa essere
una rinascita delle fiction italiane, anche grazie al fatto che il nuovo soggetto dovrebbe
avere quasi 6 miliardi di euro da investire ogni anno per la programmazione. In Italia Sky
sta già producendo «The Young Pope», una serie in otto puntate diretta dal premio Oscar
Paolo Sorrentino su un Papa immaginario, e una serie su Diabolik, entrambe già studiate
per essere esportate al massimo. Resta ovviamente da capire se oltre all’accoppiata
criminali e Vaticano la creatività italiana sarà in grado di farsi apprezzare anche su altri
temi.
Vista dalla Gran Bretagna, invece, la nuova Sky, è anche una grande scommessa. La
scommessa di passare da un territorio già abbondantemente presidiato dalla pay-tv - dove
si fa sentire anche la concorrenza di operatori un tempo confinati alle telecomunicazioni
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come la Bt - ad altre parti d’Europa dove il tasso di penetrazione è inferiore e dove si
pensa evidentemente di poter crescere ancora entrando nelle abitudini degli spettatori.
Se infine ci si allontana un po’ dai singoli Paesi e si cerca di guardare l’operazione e il suo
impatto in Europa, è facile prevedere che alla mossa di Sky potrebbero seguire altre
contromosse. Operatori di pay-tv, gruppi delle telecomunicazioni e soggetti ibridi come
quella Netflix che ha spopolato negli Usa e adesso sta prendendo piede in Europa sono
tutti contendenti nella stessa arena, con l’obiettivo di portare nelle nostre case contenuti
anche e soprattutto attraverso la banda larga. In Gran Bretagna, cioè nel mercato oggi più
avanzato - dicono i dati dell’e-Media Institute -, proprio il combinato di offerta telefonoInternet-Tv ha in mano il 90% del mercato della banda larga. La stessa Sky Italia, non a
caso, ha stretto accordi con Fastweb e con Telecom - dal prossimo febbraio - per portare i
suoi programmi agli abbonati delle due compagnie. Ma anche Mediaset ha annunciato di
puntare a un’alleanza per portare la sua pay-tv sulle linee Telecom. Non è che l’inizio, e
non solo in Italia, di un nuovo grande valzer tra tv e tlc.
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CULTURA E SCUOLA
del 13/11/14, pag. 29
Musica senza spot ma a pagamento Ora
YouTube cambia strategia
Lanciato un servizio in abbonamento. Da lunedì al via i test in 7 Paesi,
Italia compresa
Andrea Laffranchi
YouTube cambia pelle. Anzi home page. Da ieri sera la piattaforma video offre una doppia
possibilità: sotto la tradizionale barra di ricerca potremo scegliere «che cosa guardare» e
allora ci ritroveremo sullo schermo le categorie cui siamo abituati, oppure «musica» se
preferiremo concentrarci sulle canzoni.
La nuova home è disponibile gratuitamente sia dal sito che dalla app per Android (per il
sistema iOS, quello degli iPhone, bisognerà attendere qualche giorno) e ci presenterà dei
suggerimenti personalizzati in base a un algoritmo che interpreta le nostre visualizzazioni
e col tempo imparerà a «conoscere» i nostri gusti (attenzione quindi a quello che
clicchiamo).
L’idea di YouTube parte dall’analisi dei dati. La musica è il contenuto più guardato
all’interno della grande videoteca virtuale di Google. La rivoluzione digitale ha cambiato il
modo di ascoltare musica e Internet, soprattutto nella fascia under 25 anni, ha sostituito
sia le radio che i negozi di dischi. Gli equilibri economici si stanno spostando: i ricavi che le
case discografiche ottengono dalle piattaforme di streaming e dalla pubblicità su YouTube
hanno superato quelli dal download di canzoni e album.
YouTube ha un catalogo sterminato e ora ha deciso di sfruttarlo. Nel suo repertorio non ci
sono soltanto i videoclip ufficiali. Ormai ogni concerto viene ripreso da centinaia di
smartphone e le immagini vengono caricate sulla piattaforma. Il «tubo» è anche una
vetrina per chi ci vuole provare: magari solo per scherzo e allora pubblica la parodia di un
video famoso che poi diventa un fenomeno virale da milioni di clic, magari sul serio e
allora carica le proprie canzoni o reinterpreta, Justin Bieber ha cominciato proprio così, i
successi di altri.
Con tutto questo materiale si potranno costruire delle playlist, seguire i video più cliccati,
cercare il nostro artista preferito ed essere portati a una pagina dedicata.
Il grande magazzino della musica è senza confini ma anche disordinato. Se vogliamo
qualcuno che ci aiuti a mettere a posto gli scaffali e che ci dia le chiavi per entrare quando
vogliamo dobbiamo pagare. In Italia e altri sei Paesi (Stati Uniti, Gran Bretagna, Spagna,
Irlanda, Finlandia e Portogallo) lunedì prossimo partirà anche la versione beta di Music
Key, un altro prodotto studiato dal colosso informatico. La strategia di Google è quella di
conquistare gli appassionati di musica disposti a pagare e di fare concorrenza alle
piattaforme di streaming. Su Spotify e Deezer troviamo (quasi) tutta la musica e possiamo
ascoltare la canzone che vogliamo quando vogliamo: nel nostro telefonino abbiamo un
negozio di dischi. Music Key aggiungerà a quel catalogo da oltre 30 milioni di brani anche
la parte visiva e tutti quei video non ufficiali generati dagli utenti.
Il servizio per ora è a inviti (ne stanno partendo via email centinaia di migliaia in tutto il
mondo) ed è a pagamento: dopo i primi sei mesi gratis, gli «invitati» pagheranno 7,99 euro
al mese, mentre chi accederà in un secondo momento avrà una bolletta da 9,99 euro. Su
Music Key non ci sarà la pubblicità che precede i video, funzionerà anche in background
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quindi senza mettere in pausa la riproduzione uscendo dall’app di YouTube, e permetterà
di scaricare i contenuti per ascolto e visione offline.
del 13/11/14, pag. 14
Lirica. L'audizione del sovrintendente
«Via alternativa ai licenziamenti all'Opera di
Roma»
Antonello Cherchi
ROMA
Sull'Opera di Roma c'è la volontà di trovare una strada alternativa ai licenziamenti: lo
hanno sottolineato ieri i sindacati e il sovrintendente Carlo Fuortes, entrambi sentiti (ma in
momenti diversi) dalla commissione Cultura della Camera. Dopo l'annuncio
dell'allontanamento dell'orchestra e del coro e l'esternalizzazione delle attività artistiche,
«c'è stato - ha affermato Fuortes - un atteggiamento totalmente diverso da parte dei
sindacati, una grande assunzione di responsabilità. Si sono dimostrati disponibili a
ridiscutere la parte retributiva e hanno proposto nuove regole sugli scioperi. La fase è
ancora aperta, ma nel corso dell'iter che la legge prevede prima di formalizzare i
licenziamenti, credo si possa trovare una soluzione».
Anche dalle diverse sigle sindacali sono arrivati conferme in tal senso: «I lavoratori – ha
spiegato Alessandro Cucchi segretario generale della Uilcom Roma e Lazio – sono
disposti anche a sospendere alcune loro attribuzioni per un periodo determinato, a fronte
dell'obiettivo del risanamento, con la possibilità, una volta conseguito, di tornare a
recuperare pezzi di salario». «Chiediamo che i posti di lavoro che abbiamo restino e
soprattutto chiediamo un progetto cultura», ha aggiunto Maurizio Giustini, segretario della
Fistel Cisl.
Su tutto c'è la necessità di risanare i conti del teatro, di aumentare la quota di
autofinanziamento e di incrementare la produttività. Per quanto riguarda il pregresso –
«una situazione – ha spiegato Fuortes – che non nasce nel 2013, ma è il frutto di interventi
stratificati nei decenni che hanno portato ai conti disastrati di oggi» – c'è la possibilità di far
ricorso alla legge Bray (legge 91/2013), che ha previsto un fondo di rotazione di 125
milioni di euro per aiutare le fondazioni liriche in grave dissesto, a fronte, però, di un piano
di risanamento che l'Opera di Roma ha presentato in luglio al commissario della lirica,
Pierfrancesco Pinelli.
Per il futuro, invece, è necessario ridurre le spese e aumentare la produttività. «Dobbiamo
incrementare l'autofinanziamento, che ora – ha illustrato Fuortes – è al 17,8%, contro il il
56,6 dell'Arena di Verona, il 51,1 della Scala o il 36,6 di S. Cecilia». In questo modo si
sarà meno legati ai contributi pubblici, che all'Opera nel 2013 hanno raggiunto i 41,3
milioni di euro, più anche della Scala, che però ha un valore della produzione di 116,5
milioni, contro i 52 milioni del teatro della capitale. Bisogna, dunque, lavorare di più: «Ora il
costo del personale – ha spiegato Fuortes – incide sul valore della produzione per il 76%
(39,5 milioni), contro una media del 62%. Eppure l'orchestra "timbra" solo 125 giorni
l'anno».
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del 13/11/14, pag. 14
“Siamo atterrati sulla cometa” la missione
impossibile di Rosetta che ci svelerà i segreti
della vita
Riesce l’impresa ad alto rischio del lander Philae: festa all’Agenzia
spaziale europea Un successo anche dell’Italia che ha fornito molta
della tecnologia di bordo
CLAUDIA DI GIORGIO
DARMSTADT .
«We landed on a comet!». «Siamo scesi su una cometa!». Urla di gioia in cinque o sei
lingue, grandi abbracci e un bel po’ di occhi lucidi hanno accolto ieri pomeriggio, nella
sede di Darmstadt dell’Agenzia spaziale europea la notizia che dopo oltre dieci anni di
viaggio a bordo della sonda Rosetta, il piccolo lander Philae — un cubetto di un metro per
lato — è arrivato sulla superficie della cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko e ha stabilito
le comunicazioni con il centro di controllo.
Per la prima volta nella storia un oggetto costruito da mani umane ha compiuto un’impresa
straordinaria e rischiosa, riuscendo a raggiungere una cometa che viaggia a 18 chilometri
al secondo, fermarsi sulla sua superficie e iniziare a trasmettere il suo segnale verso di noi
da 511 milioni di chilometri di distanza. Un’impresa il cui successo era tutt’altro che
scontato fino a poche ore prima, quando all’Esa hanla no deciso di dare il via alla
separazione tra la sonda Rosetta e il lander Philae malgrado qualche problema proprio al
sistema che assicura l’ancoraggio del lander alla superficie scabra e bitorzoluta della 67P.
Hanno avuto ragione: dopo una discesa durata sette ore, Philae è arrivato, è sul- cometa.
E che cometa. Arrivata puntuale all’appuntamento con la 67P/Churyumov-Gerasimenko il
6 agosto scorso, dopo aver percorso oltre sei miliardi di chilometri in giro per il sistema
solare, Rosetta ha iniziato osservazioni sempre più ravvicinate, che hanno rivelato ai
responsabili della missione di trovarsi alle prese con un oggetto assai diverso dalle
aspettative. Un corpo celeste complesso, con una strana forma a due lobi (simile a una
paperella di gomma, secondo qualcuno), e molto più attivo del previsto. Benché sia ancora
relativamente lontana dal Sole, circa 450 milioni di chilometri, la 67P emette già parecchi
getti di gas e polveri, che si sono aggiunti alle asperità del terreno per complicare le
prospettive di atterraggio sicuro di Philae. Se si considera poi la gravità quasi inesistente (i
100 chili di peso del lander sulla superficie della cometa “equivalgono” circa a un
grammo), è facile giustificare il pessimismo che si registrava ieri a Darmstadt. E invece, a
dispetto di tutto, «siamo atterrati su una cometa». E in questo “noi” c’è anche tanta Italia, a
cominciare dai due italiani dell’Esa — Paolo Ferri, responsabile delle operazioni, e Andrea
Accomazzo, responsabile di volo di Rosetta — che ieri so- no stati gli ansiosi protagonisti
di una giornata che sembrava non finire mai.
Sono italiani anche tre degli strumenti a bordo della sonda, e italiano è il trapano di cui è
dotato il lander Philae, realizzato da Galileo Avionica e di cui è responsabile scientifico
Amalia Ercoli Finzi del Politecnico di Milano. «Non ho dormito e ho pensato che dieci anni
fa, quando abbiamo ideato questa missione, dovevamo essere per forza fuori di senno»,
ha raccontato emozionata. «Dobbiamo essere orgogliosi che la tecnologia italiana abbia
contribuito a portare la missione Rosetta fin laggiù», ha scritto su Twitter il presidente del
consiglio Matteo Renzi. E l’amministratore delegato e direttore generale di Finmeccanica,
Mauro Moretti, in una nota: «È stato un risultato eccezionale per tutte le imprese italiane
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coinvolte, e in particolare quelle del gruppo Finmeccanica, che testimonia quanto sia
importante una forte collaborazione tra il mondo scientifico e industriale».
Il trapano italiano, chiamato SD2 (Sample Drilling&Distribution), ha il ruolo fondamentale di
raccogliere campioni del suolo cometario nella speranza di svelarne i segreti. Le comete,
infatti, sono una specie di capsula del tempo che conserva resti della materia del disco
protoplanetario da cui si sono formati il Sole e i pianeti. Il loro studio è quindi essenziale
per capire la nascita e la formazione del nostro sistema solare.
Ma potrebbero avere avuto un ruolo ancora più cruciale se al loro interno, come sostiene
un’affascinante teoria, vi fossero degli amminoacidi, i mattoni fondamentali per la
“costruzione” della vita. Le comete sarebbero allora una sorta di seminatrici della vita
attraverso il cosmo, un’ipotesi che Philae e Rosetta potrebbero riuscire a confermare.
Perché l’avventura di Rosetta, in realtà, con il successo di ieri può dirsi appena agli inizi.
Mentre Philae raccoglierà dati sulla superficie della 67P fino a marzo 2015 — tutto
dipende dalla resistenza dei suoi strumenti scientifici al calore crescente — Rosetta
continuerà infatti a seguire la cometa nella sua corsa verso il Sole, catturando campioni di
gas e polveri ed effettuando altre osservazioni a distanza quanto più possibile ravvicinata
per documentarne la trasformazione via via che si riscalda.
Superato il punto di massima vicinanza al Sole (il perielio) nell’agosto 2015, Rosetta
seguirà poi la “sua” cometa durante il viaggio di ritorno verso i confini più esterni del
sistema solare, proseguendo nelle sue osservazioni almeno fino alla fine dell’anno. E
regalandoci nuove conoscenze e nuove emozioni.
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ECONOMIA E LAVORO
del 13/11/14, pag. 2
Sciopero generale, altro che ponte
Massimo Franchi
Cgil. Camusso fissa al 5 dicembre la mobilitazione. I renziani subito
all’assalto: «Con l’Immacolata sono 4 giorni di vacanza». Ma la scelta
deriva dalla concomitanza con la protesta dei pubblici. Otto ore di stop
con manifestazioni territoriali. Il ministro Madia però convoca i sindacati
per la riforma della Pubblica amministrazione, Cisl e Uil si chiamano
fuori
La fanfara renziana lo ha già ribattezzato lo sciopero-ponte, visto che venerdì 5 dicembre
cade a tre giori dall’Immacolata. Nell’idea perversa del paese che hanno gli intimi del
premier, i lavoratori che non andranno al lavoro quel giorno — rinunciando dunque al
salario — lo faranno per potersi godere una vacanza di ben quattro giorni in qualche
località sontuosa.
La scelta della data proposta da Susanna Camusso e votata con tre soli voti contrari dal
direttivo della Cgil ieri mattina è invece figlia di una volontà unitaria nei confronti di Cisl e
Uil. Lo spostamento dall’iniziale proposta di venerdì 12 dicembre è infatti dovuta alla
volontà di dare forza allo sciopero unitario del comporto pubblico, fissato — anche se non
ancora proclamato — dai segretari generali delle varie federazioni di Cgil, Cisl e Uil proprio
per il 5 dicembre. A testimoniarlo c’è l’ultimo paragrafo del documento approvato dal
Direttivo. «La Cgil plaude con convinzione alla scelta dei sindacati dei comparti pubblici di
proclamare per il prossimo 5 dicembre uno sciopero generale unitario. Per questo il
Direttivo sceglie di stare e sostenere l’unità delle categorie dei pubblici e proclama per
venerdì 5 dicembre uno sciopero generale di 8 ore di tutti i settori pubblici e privati,
rivolgendo nel contempo un appello a Cisl e Uil perché tale occasione possa costituire
l’opportunità di un momento di mobilitazione unitaria e generale», si conclude il
documento.
Ma mentre è in corso il Direttivo Cgil accade che il ministro Marianna Madia convochi i
sindacati per lunedì 17 e che Cisl e Uil decidano di ritirare lo sciopero. «La convocazione è
certamente un fatto positivo, ma riguarda solamente la riforma della pubblica
amministrazione e non il rinnovo del contratto o la legge di stabilità — specifica Rossana
Dettori, segretario generale della Fp Cgil — . Per questo noi non cambiamo la nostra
decisione e auspico e mi impegno perché non lo facciano nemmeno i comparti pubblici e
della conoscenza di Cisl e Uil».
Da parte di Cisl e Uil arriva però subito la marcia indietro. «Dopo la grande manifestazione
di sabato scorso, per noi l’oggetto del confronto con il governo resta, oltre alla riforma della
pubblica amministrazione, il rinnovo del contratto per tutti i dipendenti pubblici», commenta
il segretario generale della Cisl, Annamaria Furlan, giudicando «positiva» la convocazione
da parte del ministro Madia e di fatto declinando l’invito della Cgil ad aderire allo sciopero
generale del 5 dicembre. «Qualcuno ci chiede di ascoltare la piazza: noi l’abbiamo
ascoltata bene. E dalla piazza è giunta la richiesta di rinnovare il contratto del pubblico
impiego, di accogliere le rivendicazioni dei pensionati e di verificare cosa ci sia di utile o
dannoso per i lavoratori nella legge di stabilità e nel Jobs Act», dice il segretario generale
aggiunto Uil, Carmelo Barbagallo. «La convocazione a Palazzo Chigi è un passo
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importante che, ora, va verificato nel merito. Se il governo non ha premura di compiere atti
unilaterali, noi non abbiamo premura di proclamare scioperi», dice ancora Barbagallo:
«Vediamo prima se esistono margini per aprire una trattativa vera su pubblico impiego,
pensioni, legge di stabilità e sul Jobs Act», conclude lasciando la porta minimamente
aperta.
Per Camusso invece il governo ha già deciso. «Siamo sempre pronti a farci stupire dagli
effetti speciali ma dubito che il governo si stia accingendo a decidere un cambiamento
strutturale della legge di stabilità. Per questo penso che dobbiamo continuare a sostenere
la nostra mobilitazione, rafforzando le iniziative unitarie ma dandogli una impronta
generale», ha detto annunciando lo sciopero. Sciopero che sarà articolato a livello
territoriale con un centinaio di manifestazioni previste che avrà «il tratto di una forte e
diffusa articolazione, sia nelle forme, sia per i soggetti cui sono rivolte, con particolare
attenzione sia a proseguire la campagna di assemblee nei luoghi di lavoro e sul territorio
che è stata la chiave di volta della imponente partecipazione alla manifestazione del 25
ottobre, sia a promuovere una nostra specifica iniziativa — i cosiddetti “scioperi alla
rovescia” — al servizio dei cittadini, soprattutto in quelle realtà territoriali oggi duramente
colpite in coincidenza con una condizione meteorologica disastrosa», recita il documento
Cgil.
Lo sciopero ha quindi avuto l’effetto di compattare completamente la Cgil. A testimoniarlo
l’intervento di Gianni Rinaldini, fino al congresso leader della minoranza. «Il successo del
25 ottobre dimostra come la Cgil è l’unica organizzazione di massa che può dare un senso
alla democrazia in Italia e opporsi alla precarizzazione del lavoro voluta da Renzi in una
situazione assolutamente pericolosa, con un forte rischio demagogia e razzismo, come
dimostrano i segnali evidenti degli ultimi giorni. Detto questo però — continua Rinaldini —
dopo la mobilitazione la Cgil deve aprire una fase nuova: lo sfarinamento delle controparti
ci impone di rividere la nostra politica e la nostra organizzazione», chiude Rinaldini.
del 13/11/14, pag. 2
Jobs Act, i veri effetti sui precari: tutelato
solo un disoccupato su dieci
Roberto Ciccarelli
Precarietà. Associazione XX maggio: l'«Aspi» riguarderà un decimo dei
disoccupati. Esclusi autonomi, liberi professionisti e iscritti gestione
separata Inps
Il Jobs Act come mai nessuno ve lo ha raccontato fino ad oggi. Un dossier
dell’associazione XX maggio-Flessibilità Sicura, dal 2007 nel Forum del Lavoro del Partito
Democratico, ha analizzato le attuali proposte del governo Renzi, insieme a quelle
dell’opposizione e della minoranza Pd e ha descritto quali saranno i veri effetti sulla vita
dei precari una volta entrata in vigore la nuova riforma del lavoro. A dispetto degli annunci
sulle novità epocali contenute nel provvedimento all’esame del parlamento, la precarietà
non verrà affatto superata e, anzi, rischia di peggiorare.
Il premier Renzi e il ministro del lavoro Poletti sostengono, tra l’altro, che il Jobs Act
universalizzerà l’assicurazione per la disoccupazione Aspi a tutti i precari. Gli esperti
dell’associazione XX maggio ha condotto un rigoroso «fact-checking» su questa
affermazione e non hanno trovato traccia di questo auspicio nella legge delega. L’Aspi, in
realtà, sarà estesa solo ad altri 46.577 collaboratori coordinati e continuativi (Cococo),
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quelli con più di tre mesi di contributi versati. La platea di lavoratori che potrebbe accedere
al «nuovo» sussidio di disoccupazione crescerebbe fino a 317.656 persone, un numero
che comprende 267.079 collaboratori a progetto.
A settembre i disoccupati hanno raggiunto quota 3,2 milioni. Sempre che riesca ad
approvare tutti provvedimenti della legge delega, il governo prevede di assicurare un
sussidio solo a un decimo di loro. Resteranno esclusi i parasubordinati e le partite Iva
iscritte alla gestione separata dell’Inps (1,8 milioni), gli autonomi iscritti all’ex Enpals e tutti
i liberi professionisti, tra i quali si sono radicalizzate le nuove forme di precarietà, in
particolare dai 40 anni in giù. Senza contare che non prevede alcuna misura di tutela per i
circa quattro milioni di precari. «Più che un’universalizzazione dei diritti, questo è un
ossimoro» commenta Andrea Dili, portavoce dell’associazione XX Maggio.
L’esecutivo prevede inoltre l’azzeramento dei contributi per i nuovi assunti a tempo
indeterminato con uno stanziamento da 1 ‚9 miliardi. «Anche se consideriamo questo
bonus, il lavoro dipendente resterà sempre più costoso per l’impresa. Senza contare che
gli sgravi durano solo tre anni — aggiunge Dili — Sarà sempre più conveniente per
l’impresa preferire i bassi compensi degli atipici o delle partite Iva». Gli sgravi dureranno
tre anni, mentre i precari continueranno a essere pagati sempre meno e le aziende
potranno decidere unilateralmente la quantità effettiva da assumere, quando gli
serviranno. Un meccanismo che la cancellazione dell’articolo 18 per i neo-assunti e il
«contratto a tutele crescenti» certamente non neutralizza. Anzi, si apre uno scenario
paradossale.
La legge cosiddetta «Biagi» cancellò i co.co.co, Renzi invece li riporterà in vita. «Questa
possibilità darebbe alle imprese che vogliono abusa>rne maggiore libertà di farlo perché
toglierebbe quelle regole e quelle tutele introdotte per i co.pro. ma assenti per i co.co.co»,
aggiunge Dili.
Altro elemento che getta un’ombra di grande incertezza sulla legge delega è la proposta
sul compenso minimo fissato per legge. «È difficilmente applicabile a tutti i settori
indistintamente e complesso da adottare per le singole professionalità – sostiene Dili – Il
minimo per legge finirà per essere più basso della più bassa delle tariffe previste dalla
contrattazione collettiva». In pratica, il Jobs Act non cambierà nulla per i collaboratori.
Nata per creare occupazione, la riforma spingerà invece i collaboratori ad uscire da questo
rapporto di lavoro; continuerà ad impoverire gli autonomi che guadagnano in media soli
723 euro netti mensili, mentre con lo stesso reddito lordo ad un lavoratore dipendente
restano in tasca 1283 euro mensili netti. Così facendo Renzi e Poletti non faranno altro
che rafforzare una tendenza ormai accertata: dal 2007 al 2013 sono stati registrati circa
350 mila collaboratori in meno, di questi quasi 200 mila solo tra il 2012 e il 2013. Una
catastrofe. «In Italia la flessibilità dev’essere pagata di più della stabilità. O facciamo un
sistema di questo tipo – conclude Dili — oppure l’alternativa sarà quella di abbassare i
compensi dei lavoratori, facendo concorrenza alla Romania o al Vietnam. Ma questa
strada è arrivata alla fine. Dopo non c’è più nulla».
del 13/11/14, pag. 13
Un miliardo in più per la manovra
Il governo cerca di aumentare l’importo per gli ammortizzatori e di
ridurre le tasse a fondi pensione e liquidazioni E si propone di
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alleggerire i tagli agli enti locali. Tetto più basso per il bonus bebé. In un
emendamento rispunta la web tax
ROBERTO PETRINI
ROMA .
Caccia ad 1 miliardo nelle pieghe della legge di Stabilità per tentare l’intesa con il
Parlamento. Lunga riunione nella giornata di ieri a Palazzo Chigi tra il presidente del
Consiglio Matteo Renzi, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e il suo staff. Quasi
due ore di lavoro durante le quali sono stati posti sul tavolo quattro pacchetti di temi,
oggetto della maggior parte delle richieste di modifica, da parte della maggioranza
parlamentare ma che vedono anche alcune convergenze delle opposizioni. Su tutti il
governo ha espresso la disponibilità ad intervenire, ma naturalmente a saldi invariati:
dunque i costi dovranno essere coperti con risparmi all’interno della manovra.
Il primo tema caldo è l’inserimento del Tfr in busta-paga: esclusa almeno per il momento la
neutralità fiscale per le somme anticipate in busta-paga (la Commissione Bilancio ha
bocciato un emendamento in tal senso per carenza di coperture, mentre in un altro
emendamento di Sel rispunta la web tax) si lavora a ridurre l’aumento di tassazione per i
fondi pensione (fino al 20 per cento) e per i rendimenti del Tfr (fino al 17 per cento). Nel
pacchetto anche la disponibilità a rivedere i tagli ai patronati, che hanno sollevato le
proteste dei sindacati.
Risolvere la questione costerebbe circa 400 milioni.
Il secondo pacchetto di «attenzione» è quello del lavoro: in primo piano le risorse per i
nuovi ammortizzatori sociali previsti dal jobs act. L’idea è quella di trovare in “Stabilità” più
risorse degli 1,5 miliardi previsti per il 2015 e dunque la necessità di ulteriori interventi.
Sotto esame anche le modifiche, proposte in Parlamento dal Pd, ai criteri che consento
l’accesso agli sconti contributivi per le assunzioni triennali: il punto è che potranno
beneficiarne solo le aziende che non hanno licenziato recentemente.
L’altra questione riguarda il bonus bebè da 80 euro : il reddito familiare per beneficiarne è
di 90 mila euro Isee una cifra che riguarderebbe circa il 95 per cento delle famiglie. La
proposta del Pd è di scendere a 70 mila, ridurre la platea e destinare le risorse a famiglie
in stato di povertà. Infine gli enti locali: la partita con i Comuni è ancora aperta. In
particolare l’obiettivo è quello di introdurre, se ci si farà in tempo, la local tax nella legge di
Stabilità, tornado ad imporre target generalizzati sui saldi, eliminando le griglie del Patto di
stabilità interno e lasciando ai Comuni autonomia impositiva e di bilancio totale.
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