RASSEGNA STAMPA venerdì 27 giugno 2014 ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA INTERESSE ASSOCIAZIONE ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO L’UNITÀ AVVENIRE IL FATTO REDATTORE SOCIALE PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Repubblica.it del 26/06/14 Tortura, la si pratica in metà dei paesi del mondo, in Italia l'ha subita un rifugiato su tre Lo sottolinea il Cir, Consiglio italiano per i rifugiati, che ha organizzato un convegno in occasione della Giornata internazionale a sostegno delle vittime di tortura, cui hanno partecipato il presidente del Cir, Roberto Zaccaria, Romano Prodi e il presidente della Società italiana per l'organizzazione internazionale (Sioi), Franco Frattini di EMANUELA STELLA ROMA - A 30 anni dalla ratifica della convenzione Onu contro la tortura, sono ancora 141 i paesi dove questa pratica abietta viene perpetrata; e un rifugiato su tre, fra quelli che arrivano in Italia, ha subìto esperienze di tortura e violenza estrema. Lo sottolinea il Cir, Consiglio italiano per i rifugiati, che in occasione della Giornata internazionale a sostegno delle vittime di tortura, il 26 giugno, ha organizzato un convegno - cui ha preso parte tra gli altri Romano Prodi (che ha appena concluso una esperienza di inviato speciale Onu nel Sahel) - e uno spettacolo teatrale, "Mare Monstrum", interpretato da rifugiati sopravvissuti a tortura, che hanno partecipato ai laboratori di riabilitazione psico-sociale del Cir. In 18 anni di attività, il Cir ha sostenuto oltre 4.000 rifugiati con progetti di accoglienza e cura dedicati alle vittime di tortura. Attualmente il progetto ha in carico 1.400 richiedenti asilo e rifugiati. Il contributo di Romano Prodi. "Distinguere un profugo da un migrante economico diventa sempre più difficile, nella misura in cui in molte città e villaggi africani per la gente si presenta solo l'alternativa tra morire di fame o migrare" ha detto l'ex presidente del Consiglio, Romano Prodi. Intervenendo al Convegno del Cir Prodi ha descritto una situazione allarmante in cui, specie dopo il conflitto in Libia del 2011, in parte della zona del Sahel si è creata un'economia criminale senza più alcun confine. Nel suo intervento e rispondendo alle domande del moderatore, Giorgio Balzoni, si è detto preoccupato davanti ad uno scenario che potrebbe portare interi Stati governati dal terrorismo internazionale. Il messaggio del ministro Mogherini. Durante l'incontro, il ministro degli Esteri, Federica Mogherini, impossibilitata a partecipare per impegni istituzionali, nel suo messaggio per il CIR ha dichiarato che il governo sostiene l'obiettivo di introdurre nel codice penale il reato di tortura, ricordando che già il 5 marzo scorso il Senato ha approvato il rispettivo disegno di legge, adesso in esame alla Camera. Nella sua lettera ha scritto: "L'appello che ora tutti noi rivolgiamo al Parlamento è di fare presto e bene, e giungere quanto prima all'approvazione definitiva del testo". L'identità del torturato. La tortura non è purtroppo confinata a situazioni limite di guerra o dittatura: il fenomeno è molto più diffuso e colpisce persone che appartengono a determinati gruppi etnici, politici, religiosi, o a minoranze. E mentre i torturatori hanno l'obiettivo immediato di spezzare la volontà di una persona, di metterla a tacere, di punirla e di umiliarla, gli effetti della tortura sono molto più durevoli delle ferite fisiche che essa produce: i sopravvissuti si portano dentro le conseguenze di una violenza feroce che non osano confessare, e che è molto difficile elaborare e superare fino in fondo. 2 Nessun paese è immune. "E comunque non ci sono paesi che possano dirsi immuni dal rischio di tortura - si legge nel volume del Cir Oltre i confini. Tre anni "Together with VI.TO., che dà conto del progetto Accoglienza e cura vittime di tortura svolto in partenariato con Ciad e Camerun, i due paesi africani che ospitano il maggior numero di rifugiati interni. Gli Stati Uniti, a lungo campioni dei diritti umani, dall'inizio della guerra al terrorismo nel 2001 hanno sistematicamente praticato la 'extraordinary rendition'"; e l'Italia, pur avendo ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984, non ha ancora introdotto nel proprio codice penale il reato di tortura, come previsto dalla convenzione stessa. Il ministro degli esteri Federica Mogherini, in un messaggio al convegno, ha assicurato che il governo sostiene l'introduzione del reato di tortura, e si augura che quanto prima la Camera possa dare il via libera. Il "trauma sequenziale". Deserto affettivo, eclissi di identità, incertezza totale sul futuro, una condizione psicosociale rischiosissima caratterizzano i sopravvissuti alla tortura, che fuggono dal loro paese e cercano rifugio in Europa, dove raramente trovano accoglienza adeguata, e comunque subiscono ulteriori traumi che perpetuano la violenza subita. Un "trauma sequenziale", ha detto al convegno del Cir il dottor Massimo Germani, che con le vittime di tortura ha lavorato per anni, altrettanto significativo e devastante del trauma originario. Situazioni estreme che riguardano il 30% dei rifugiati che arrivano in Italia, e che il nostro Paese ha difficoltà ad affrontare adeguatamente: Franco Frattini, presidente della Società italiana per l'organizzazione internazionale (Sioi), ha ammonito a proposito di afflusso di migranti (già oltre 50mila dall'inizio dell'anno) che "non possiamo pensare che al di là del Brennero ci siano persone che voltano la faccia, o che considerano questo un problema solo italiano". Ma la tortura non è ancora un reato. Anche Amnesty International Italia, Antigone e Cittadinanzattiva si mobilitano per chiedere l'introduzione del reato di tortura in Italia, con un appello nel quale si ricorda che "a 13 anni dai terribili fatti del G8 di Genova del 2001, molti responsabili di gravi violazioni dei diritti umani sono sfuggiti alla giustizia e l'Italia non ha strumenti idonei per prevenire e punire efficacemente simili violazioni. L'Italia deve avere norme efficaci che soddisfino gli standard internazionali per prevenire e punire la tortura". L'assenza di un reato specifico di tortura ha fatto sì che eventi qualificabili come tortura siano stati finora sanzionati in modo lieve o siano finiti in prescrizione, osserva Amnesty: "Il testo introduce il reato specifico di tortura e non richiama il requisito della necessaria reiterazione di atti di violenza o minaccia perché si parli di tortura, qualificando il reato come comune, dunque imputabile a qualunque cittadino, pur prevedendo l'aggravante se commesso da pubblico ufficiale. Inoltre, non persegue le condotte omissive e manca dell'iniziale previsione di un fondo nazionale per le vittime della tortura". Arci: "L'urgenza di una norma". "Il reato di tortura nel nostro paese è una questione di scelta culturale fondamentale, e l'introduzione nel nostro ordinamento è una urgenza che un paese che si definisce democratico non può più rinviare", afferma Francesca Chiavacci, presidente nazionale Arci. "Avevamo salutato con soddisfazione l'approvazione del ddl al Senato nel marzo scorso, pur esprimendo le nostre critiche per la mancata previsione della fattispecie di reato proprio. Ci auguriamo che il testo arrivi al più presto senza indugi alla Camera. Crediamo che a chiederlo siano la civiltà giuridica, le esigenze processuali, le numerose famiglie che in questi anni hanno visto figli e parenti perdere la vita nel corso di operazioni di polizia: Cucchi, Uva, Aldrovandi, Ferrulli, e da ultimo Magherini. Senza dimenticare quanto i fatti e le violenze dei giorni di Genova 2001 siano ancora una ferita aperta per la nostra democrazia e per le vittime di quelle violenze". http://www.repubblica.it/solidarieta/profughi/2014/06/26/news/tortura-90081160/ 3 ESTERI Del 27/06/2014, pag. 3 Ue, il Patto della discordia Vertice europeo. Braccio di ferro sul mandato da dare alla Commissione. Renzi chiede una lettura più flessibile dei trattati: ok a Juncker «solo se c’è un documento chiaro su dove vuole andare l’Europa» Anna Maria Merlo Un incontro a Ypres, memento mori per l’Europa, cittadina del Belgio dove vennero utilizzati i gas e morirono 5mila persone in pochi minuti, per ricordare che cent’anni fa, a luglio, iniziava la prima guerra mondiale e che l’Europa ancora oggi può morire, per i nazionalismi in crescita ma anche, nell’analisi del fronte socialdemocratico, per l’austerità che soffoca l’economia. Alla cena ieri sera, il piatto forte del menu è stata la scelta da parte del Consiglio del lussemburghese Jean-Claude Juncker come presidente della prossima Commissione Ue. A Ypres erano stati i britannici in prima linea per opporsi ai tedeschi. Ieri, solo Angela Merkel ha cercato di evitare l’isolamento in cui si è chiuso David Cameron, assieme al suo solo alleato, l’ungherese Viktor Orban, nell’opposizione al “federalista” Juncker. Il lussemburghese ha molti difetti, era già presente ai negoziati per l’unione monetaria nei primi anni ’90, è stato ministro e premier di un paradiso fiscale, ma la sua nomina è difesa oggi in nome del principio di democrazia: era il candidato della destra Ppe, che ha vinto (di poco) le europee. Cameron ha cercato di ricattare i partner, affermando che un federalista a Bruxelles avrebbe favorito il rifiuto dell’appartenenza della Gran Bretagna alla Ue nel referendum che ha promesso di indire nel 2017 (sempre che conservi il potere). Merkel non rifiuta un eventuale voto al Consiglio su Juncker (dove non esiste possibilità di veto), come voleva Cameron, perché pensa di utilizzare l’asse con i conservatori britannici per cedere il meno possibile all’offensiva socialdemocratica e alla nuova intesa italo-francese. Più importante del nome del successo di Barroso, i capi di stato e di governo hanno cominciato a discutere del mandato da dare alla Commissione, cioè dei contenuti della sua politica. E qui il braccio di ferro è impegnativo. Prima del vertice, alla riunione del Pse, Renzi ha ancora condizionato il voto positivo dell’Italia a Juncker a «un documento chiaro su dove vuole andare l’Europa». I nomi verranno dopo: le altre importanti cariche (presidente del Consiglio e dell’europarlamento, Alto rappresentante della politica estera) saranno decise entro metà luglio. Oggi a Bruxelles, dove si spostano i capi di stato e di governo, la battaglia è sui contenuti. Merkel ha voluto chiudere la bocca agli assalitori: «Nessuno ha chiesto un cambiamento delle regole sui deficit e nessuno lo chiederà» ha affermato. Nella bozza di conclusioni non c’è riferimento all’esclusione di categorie di spesa dal calcolo del deficit, come vorrebbe l’Italia, per tener conto dei costi delle riforme richieste da Bruxelles per rientrare nei parametri di Maastricht. Ma ci può essere un allungamento dei tempi, con una lettura meno rigida dei trattati, che impongono la stabilità ma parlano anche di crescita, come sostengono anche i socialdemocratici tedeschi. Se crescita e occupazione saranno messe in testa alle conclusioni sarà possibile leggere un cambiamento nelle politiche europee. L’asse italo-francese è un po’ a geometria variabile. Renzi cerca una vittoria sulle parole, come primo passo. Hollande resta impantanato nella prudenza della diplomazia tradizionale. Ma la Francia propone qualche passo concreto: a cominciare da un programma di investimenti europei, che in 5 anni potrebbe arrivare a 1200 miliardi, per infrastrutture, 4 ricerca, energia, formazione. Anche il risparmio delle famiglie dovrebbe essere sollecitato. Il programma per l’occupazione giovanile dovrebbe passare dai 6 miliardi attuali a 20. Hollande è con le spalle al muro, la disoccupazione è aumentata in Francia dello 0,7% a maggio, i disoccupati sono 3,4 milioni. In discussione oggi c’è anche l’immigrazione. Ieri, c’è stato un vertice dei ministri degli interni. Nessuna novità: l’Europa vuole maggiori controlli per limitare i clandestini. La Francia propone l’istituzione di un corpo di gendarmi delle frontiere. Ma Renzi difficilmente otterrà di più per il Mediterraneo, al di là delle promesse di rafforzamento di Frontex. Sul tavolo c’è la riforma del diritto d’asilo, ma l’Italia viene sospettata dai partner del nord di concedere visti con troppa facilità. Del 27/06/2014, pag. 4 Il premier britannico rischia di uscire pesantemente ridimensionato dal negoziato sulla presidenza della Commissione I vincitori sono invece la Cancelliera tedesca Merkel, Matteo Renzi e il leader del Parlamento europeo Schulz Ue, la sconfitta più grande di Cameron ANDREA BONANNI YPRES Il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy ha un senso molto andreottiano dell’ironia. Ma non c’era malizia quando ha scelto Ypres, un luogo entrato nella mitologia delle glorie militari britanniche, per ospitare il vertice che registra la più bruciante sconfitta di Londra in quarant’anni di battaglie europee. E forse segna l’inizio del processo di fuoriuscita del Regno Unito dall’Ue. Il lungo e inutile massacro di Ypres durante la Prima Guerra Mondiale non ebbe nè vincitori né vinti. La battaglia delle nomine che vi si è svolta ieri tra i capi di governo europei, e che si concluderà oggi a Bruxelles, delimita invece con grande evidenza chi ha vinto e chi ha perso. Sul fronte dei vincitori ci sono Angela Merkel, Matteo Renzi e il Parlamento europeo. Su quello degli sconfitti troneggia il premier inglese David Cameron. La Merkel conferma il proprio ruolo di asse portante dell’Europa. Nella battaglia delle nomine era partita male, costretta a rinunciare al potere assoluto dei capi di governo per condividere la scelta del presidente della Commissione con i partiti politici e il Parlamento europeo. Ha esitato a lungo prima di accettare la designazione di un candidato del Ppe, che è stato l’ultimo tra le forze politiche a indicare il proprio campione. Ma alla fine ha scelto Jean-Claude Juncker. E dopo le elezioni lo ha difeso contro attacchi di ogni genere fino a riuscire ad imporlo nonostante il veto britannico, la freddezza dei socialisti e le perplessità di molti governi. Ma la Cancelliera non si è fermata qua. E’ stata lei a sbloccare la trattativa tra Ppe e Pse, accettando l’elezione di Martin Schulz a presidente del Parlamento europeo in cambio dell’appoggio degli eurodeputati socialisti a Juncker. E’ riuscita a confermare il commissario tedesco Oettinger sulla poltrona cruciale dell’Energia, che nel prossimo quinquennio sarà forse il portafoglio più strategico dell’intera Commissione. Inoltre si presenta oggi come il vero «king maker» per le altre cariche di vertice della Ue: quella di presidente del Consiglio europeo e quella di Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione. Poltrone che vedono tra i possibili candidati due italiani: Enrico Letta e Federica Mogherini. Anche Matteo Renzi era arrivato alla battaglia delle nomine in una posizione difficile. L’Italia resta un sorvegliato speciale in Europa per i suoi conti pubblici e per un debito totalmente fuori dai parametri del Patto di stabilità. I continui avvicendamenti alla guida del governo non avevano contribuito ad aumentare la nostra 5 credibilità in vista del semestre di presidenza italiana che si apre a luglio. Ma il trionfo alle elezioni europee ha cambiato le carte in tavola, dando al premier italiano una legittimazione politica che non ha eguali in tutta l’Unione. Inoltre Renzi si è mosso con abilità spostando il dibattito dai nomi dei candidati al programma della prossima Commissione e guadagnando una apertura di credito, almeno teorica, per una politica di bilancio più flessibile. Nel lungo mese di negoziati dopo le elezioni, il leader italiano è riuscito di fatto a soppiantare il presidente francese Hollande, bastonato dal voto, come punto di riferimento per il fronte dei socialisti europei. Con simili risultati, potrebbe già considerarsi soddisfatto. Se poi portasse a casa una delle due poltrone di vertice ancora da assegnare potrebbe vantare anche un nuovo primato affiancando un secondo italiano a Mario Draghi tra i quattro o cinque massimi dirigenti dell’Ue. Ma il vero vincitore della battaglia delle nomine è senza dubbio il Parlamento europeo. Grazie al paziente lavoro del suo presidente Martin Schulz, l’assemblea di Strasburgo oggi di fatto è l’arbitro delle sorti della Commissione e ha sottratto ai capi di governo il potere di nomina del presidente dell’esecutivo comunitario. Era, questo, un vecchio sogno democratico dei padri fondatori dell’Europa, in particolare di Jacques Delors, che pareva irrealizzabile. David Cameron esce dalla battaglia di Ypres come il grande sconfitto. Se nella notte non si troverà un accordo per evitare lo scontro in extremis, oggi si voterà per designare Juncker alla testa della Commissione e Cameron sarà messo in minoranza. La sua minaccia di portare Londra fuori dall’Europa non ha funzionato. Dopo aver condizionato (in peggio) con i suoi veti la nomina di almeno due presidenti della Commissione e del presidente del Consiglio europeo, la Gran Bretagna perde il potere di ricatto sull’Ue che ha esercitato per quarant’anni frenando il processo di integrazione. Di fronte alla sconfitta, Cameron non si tira indietro e alza i toni dello scontro. Lo fa per motivi di politica interna, pressato com’è dagli indipendentisti dell’Ukip che lo hanno sonoramente battuto alle elezioni. Ma una condizione di guerra dichiarata tra la Gran Bretagna e l’Unione europea potrebbe alla fine fare il gioco dei rivali del premier conservatore, accelerando davvero il processo di uscita del Regno Unito dall’Ue. E questo trasformerebbe la sconfitta di Cameron in una catastrofe di proporzioni storiche. del 27/06/14, pag. 3 Battaglia sulle nomine Cameron va allo scontro Il summit a Ypres per la commemorazione della I Guerra mondiale, Londra contesta anche la cerimonia: «Propaganda europeista» ● Merkel pronta al voto, ma su altre poltrone probabile rinvio Alle tante battaglie combattute a Ypres nella prima e nella seconda guerra mondiale ieri i leader europei hanno aggiunto quella che è già stata ribattezzata la battaglia su Juncker, il futuro presidente della Commissione europea osteggiato dalla Gran Bretagna. «Abbiamo le nostre differenze, ma lottiamo attorno a un tavolo, non su un campo di battaglia », ha riassunto la giornata il presidente della Commissione uscente José Manuel Barroso. Cento anni dopo l’inizio della Prima Guerra Mondiale i capi di Stato e di Governo dei 28 Stati membri della Ue hanno scelto di tenere nella simbolica cittadina fiamminga la prima giornata del vertice, che si concluderà oggi a Bruxelles. In gioco, oltre alla nomina dell’ex premier lussemburghese a capo dell'esecutivo comunitario, c’è anche l’approvazione del 6 documento programmatico della nuova Commissione. Fino all'ultimo le diplomazie hanno combattuto per limare il testo parola per parola, soprattutto nella parte fondamentale in cui la Ue accetta l’idea di utilizzare le regole sulla disciplina fiscale con maggiore flessibilità. L’ultima bozza prima della cena dei leader è stata ritoccata dai sostenitori del rigore per trasformare la frase in cui si raccomandava «il pieno utilizzo degli strumenti di flessibilità» del Patto di Stabilità, in un più moderato «buon uso». Una modifica che non è piaciuta a Matteo Renzi che, all’uscita del prevertice dei leader socialisti e democratici, ha ricordato che il via libera a Juncker sarà dato solo se ci sarà «un documento che indica chiaramente in che direzione vuole andare l’Europa». Tutti gli ammonimenti tattici che precedono ogni summit Ue questa volta sono stati interrotti dalla cerimonia di commemorazione. I leader hanno inaugurato insieme la «panchina della pace» e si sono recati insieme alla Porta di Menin, dove sono scritti i nomi dei 50.000 caduti britannici e del commonwealth della Grande Guerra. Allineati sotto il grande arco i capi di Stato e di Governo hanno ascoltato insieme i trombettieri intonare le note solenni del «Last Post», il saluto ai caduti. «Questa non è una commemorazione per la fine della guerra, di una battaglia o di una vittoria», ha detto il presidente uscente del Consiglio Ue, Herman Van Rompuy, ma si tratta «di come potrebbe iniziare» un conflitto. Anche se la Grande Guerra è finita nel 1918, ha aggiunto, «la follia collettiva del 1914 non fu dissipata veramente che nel ‘45, o meglio nell’89». Nel corso della cerimonia la Cancelliera tedesca Angela Merkel, in un sobrio vestito scuro, è stata sempre vicino al premier David Cameron, quasi a voler segnalare la sua buona volontà nel non isolare la Gran Bretagna. Ma quanto alla richiesta della diplomazia inglese di non legare le commemorazioni ad alcuna «propaganda europeista» non c’è stato niente da fare. È stata la stessa Merkel a dire che la cerimonia «ci mostra che viviamo in tempi buoni grazie all’esistenza dell’Unione europea e al fatto che abbiamo imparato la lezione della storia». La Cancelliera si appresta a celebrare la sua ennesima vittoria diplomatica in Europa e ieri si è concessa anche una passerella quando all’arrivo ha stravolto il protocollo: ha lasciato Van Rompuy ad attenderla in piedi davanti al museo fiammingo ed è andata a stringere le mani della folla tra gli applausi. Cameron invece non è sembrato affatto commosso dalla lezione della storia. Fino a ieri mattina ha continuato a ripetere che si batterà contro la nomina del federalista Jean-Claude Juncker «fino alla fine». Dalla sua parte però è restato solo il controverso leader ungherese Victor Orban. Anche il presidente francese Francois Hollande ha detto che se Cameron vuole un voto su Juncker «allora si faccia una votazione. Per l’Europa è arrivato il momento di dire cosa vogliamo in termini di persone e di politiche ». La tempistica messa a punto nel vertice dei conservatori prevede che da questo summit esca solo la nomina di Juncker a presidente della Commissione, nonostante le richieste dell’Italia di definire anche le altre cariche importanti. Poi ci saranno due settimane di tempo per cercare di rimarginare la ferita dell’isolamento britannico e i leader si vedranno in una nuovo summit il 17 e 18 luglio, dopo il voto del 16 luglio del Parlamento europeo per la ratifica di Juncker.A quel punto, avendo anche approvato il documento programmatico della nuova Commissione, ci si concentrerà sulla nomina delle altre cariche ai vertici comunitari. In quella fase però sarà più difficile per l’Italia ottenere la poltrona di Alto Rappresentate per la politica estera della Ue, reclamata per il ministro Federica Mogherini. Dopo il via libera a Juncker e qualche frase sulla flessibilità nelle regole di bilancio, l’Italia non ha altre contropartite da dare e Merkel vuole completare il suo capolavoro offrendo la possibilità di una ritirata strategica a Cameron. «Penso - ha detto ieri la cancelliera - che possiamo trovare dei buoni compromessi con la Gran Bretagna». 7 Del 27/06/2014, pag. 14 L’unico valico di passaggio, in mezzo al deserto, è controllato dai jihadisti “Ci fermano e ci minacciano, non possiamo fare nulla. La gente è terrorizzata” Alla frontiera con i camionisti che sfidano i ribelli iracheni “Vogliono prendersi la Giordania” FABIO SCUTO DAL NOSTRO INVIATO KARAMEH (FRONTIERA GIORDANIA-IRAQ) LA LINGUA nera dell’asfalto si perde fino a diventare un puntino seguendo le linee delle dune. Alle spalle 350 chilometri di deserto giordano per raggiungere Amman, davanti 500 chilometri di deserto iracheno per arrivare a Bagdad. L’unico valico di passaggio fra Giordania e Iraq in questo mare di sabbia è adesso — dal lato iracheno — nelle mani delle milizie tribali, dopo che domenica in una furiosa battaglia con i guerriglieri dell’Isis — l’Esercito islamico dell’Iraq e del Levante — i soldati di Bagdad si sono ritirati. Non solo dalla frontiera, ma dall’intera provincia di Anbar, lasciando campo aperto all’Isis e alle “milizie tribali sciite” come raccontano i pochi camionisti in arrivo dall’Highway n.1. «C’è una rivoluzione in corso dall’altra parte», dice Ibrahim Hassan, camionista siriano mentre scende dal “bestione” sul piazzale dal lato giordano del confine. «Vengo da Ral’acronimo lì si è sparato di brutto. Le Bandiere Nere dell’Isis? No, non le ho viste, ma da Ramadi a qui non ho visto un solo soldato iracheno, eppure sono centinaia di chilometri ». Hassan Abbas, autista iracheno, descrive la situazione nel suo Paese come una «rivolta contro le ingiustizie degli sciiti e il governo del loro premier Al Maliki». «Si è vero ci sono combattenti che controllano il posto di frontiera iracheno, ma non sono miliziani del “Daesh”», spiega Hassan, usando arabo dell’Isis. Ma non tutti sono così tranquillizzanti. Jamal Saket, un altro camionista iracheno che ha guidato da Bagdad fino a qui racconta delle invece di essere stato «fermato più volte lungo la strada da uomini armati e mascherati che hanno messo checkpoint lungo la strada». «Mi hanno chiesto i documenti, cosa trasportavo e chi era il destinatario del carico. Chi erano? Ero in una situazione in cui le domande le potevano fare solo loro», racconta sempre Saket, «sì le voci corrono in Iraq sui massacri dell’Isis, in certe zone la gente è in fuga per il terrore, più dai villaggi che non nelle città». La sconfitta dell’Esercito iracheno e l’arrivo dell’Isis nella provincia irachena di Anbar, che condivide con la Giordania 180 chilometri di una frontiera che è una linea tracciata nella sabbia giusto cent’anni fa, ha fatto subito sentire Amman più vulnerabile. Perché il regno hashemita, è un santuario chiave dove jihadisti e salafiti hanno messo radici. Dall’inizio della guerra civile in Siria poi, i jihadisti dell’Isis e di Jabhat al Nusra si sono spostati di frequente lungo il confine Giordania-Siria. L’esercito giordano ha cercato di reprimere questo traffico transfrontaliero ma finora non ha portato a un solo arresto. La situazione sembra calma, ma anche il Brigadier Generale Saber Mahayarah che comanda la Border Guard non si fida. «Abbiamo dislocato molti rinforzi lungo la frontiera per impedire pericolose infiltrazioni fin da domenica scorsa». «Questa frontiera è un elemento chiave della sicurezza nazionale giordana», dice il generale Mahayarah nel suo ufficio nel Quartier Generale di Zarqa. Ma è innegabile che è difficile da controllare. C’è solo la Highway n.10 che attraversa questo deserto aperto, ma le dune attorno namadi, 8 scondono decine di piste che battevano i carovanieri nel secolo scorso e che oggi si fanno con la jeep. I tank spuntano dalla sabbia, i posti di controllo sono stati raddoppiati, il confine è stato disseminato di sensori. Ma certamente è in cielo che c’è molto più traffico: satelliti, aerei spia, droni. Gli Alleati americani stanno mettendo in campo tutto il loro sostegno militare e sono pronti ad elevarlo. Il timore del contagio jihadista allarma la corte di re Abdallah di Giordania e la parola d’ordine è: calma. Il regno hashemita è diventato un banco di prova fondamentale di Stati Uniti e Arabia saudita per il sostegno ai ribelli siriani, ma anche la “retrovia” di Washington per l’Iraq e che adesso però è quasi “prima linea”. Da mesi sono presenti in Giordania mille uomini delle Forze speciali Usa pronti per l’impiego, la Cia ha in corso — in una base nel sud — un programma di addestramento di uomini del Free Syrian Army che vale da solo 287 milioni di dollari. Americani, inglesi, francesi, sauditi, arabi del Golfo, riempiono gli alberghi di Amman, ma anche russi, cechi, ceceni, pachistani. Sono consulenti, contractors, ong, charities, merchant banker, umanitari, esperti di diritto, traders, rappresentanti di multinazionali legate alla Difesa. Amman in questi giorni è certamente la città al mondo con il più alto numero di spie per chilometro quadrato. Il “fronte interno” giordano non è meno pericoloso. «Quasi un milione di siriani sono in Giordania, come non pensare che ci siano state delle infiltrazioni jihadiste o che si siano riattivate cellule dormienti? E poi come ci dobbiamo spiegare il fatto che ci sono 2.500 jihadisti giordani che combattono in Siria e in Iraq», dice Oraib Rantawi, direttore dell’Istituto Al Quds per gli Studi Politici. Già la scorsa settimana dopo la caduta di Falluja nelle mani dell’Isis in Iraq, a Maan — città del sud della Giordania tradizionale centro islamista e anti-monarchico — qualche centinaio di estremisti è sceso per strada inneggiando alle vittorie e sventolando le bandiere nere dell’Isil. Non è un bel segnale per l’ultimo vero alleato arabo dell’Occidente. Del 27/06/2014, pag. 7 Le mani di Damasco e Teheran sull’Iraq Iraq. La Casa Bianca preoccupata per l’intervento militare di Siria e Iran. Maliki balla da solo e si prepara al primo incontro del nuovo parlamento Rasha ha 28 anni, un bambino di tre anni tra le braccia e un altro in arrivo. Mercoledì ha camminato con il marito per chilometri verso il primo checkpoint utile per il Kurdistan. Il suo villaggio, Hamdaniya, ultimo target dei miliziani islamisti, è oggi una comunità fantasma: migliaia i civili in fuga verso Irbil, terrorizzati dalle conseguenze dell’occupazione del gruppo estremista sunnita. Rasha spera di trovare un luogo dove rifugiarsi, altrimenti, sospira,«dormiremo in strada». Nelle stesse ore, quello che resta dell’esercito governativo – a cui si sono uniti nelle ultime due settimane due milioni di volontari sciiti – combatteva a Balad, a nord della capitale. Scarsa la presenza di truppe regolari nelle regioni settentrionali, quasi del tutto occupate dai jihadisti e in parte controllate dai peshmerga curdi. Irbil sta ottenendo consistenti vittorie nella strada per l’indipendenza, andando a prendersi le posizioni abbandonate dall’esercito iracheno. Proseguono intanto gli scontri intorno alla raffineria di Baiji, parzialmente in mano all’Isil, che ieri ha occupato altri pozzi di petrolio vicino Baghdad, a Mansouriyat al-Jabal. Battaglia in corso tra esercito e miliziani anche all’università di Tikrit, mentre bombe governative piovevano sul complesso presidenziale della città natale di Saddam Hussein, il cui fantasma aleggia sull’attuale crisi irachena. L’autoritarismo del rais, che seppe tenere insieme etnie e sette religiose, è oggi motivo di rimpianto per molti in Iraq. Come funghi riappaiono le milizie baathiste, oggi al fianco dell’Isil per riprendersi il paese. Un’alleanza vitale: i generali dell’ex regime conoscono a 9 menadito il territorio e godono di un’organizzazione militare di livello. La presa di Mosul, si dice, sarebbe stata possibile grazie al fondamentale intervento baathista, che scombina le carte del gioco delle alleanze regionali. Se, infatti, a destabilizzare l’amministrazione Washington non fosse bastata l’occupazione di un terzo del paese, invaso dalle truppe Usa e poi abbandonato non a godersi la “democrazia”, ma in preda a catastrofici settarismi interni, oggi ci si mette anche Damasco. Il regime di Assad, la cui caduta è da almeno tre anni l’obiettivo della Casa Bianca, ha optato per un intervento nel vicino Iraq nello stile di quello perpetrato in casa: bombardamenti dell’aviazione contro le postazioni jihadiste. Uno sconfinamento che il premier iracheno Maliki ha salutato con entusiasmo, al contrario dell’alleato (quasi ex) statunitense. Tre giorni fa aerei militari siriani hanno preso di mira la provincia sunnita di Anbar. Colpita la città di Al Qaim, al confine tra Iraq e Siria e caduta nelle mani dell’Isil che ha potuto così proseguire indisturbato il traffico di armi e miliziani da una parte all’altra della frontiera. Domenica jeep Usa in dotazione all’esercito iracheno correvano per le strade della provincia di Aleppo. Ieri il governo di Baghdad ha confermato i bombardamenti, provocando la reazione del segretario di Stato Usa. Kerry, che a inizio settimana ha fatto visita a Maliki per convincerlo a cedere alla creazione di un governo di unità nazionale, se ne è ripartito a mani vuote, imbarazzato dal no del premier che ha nella pratica smentito la notizia di un nuovo esecutivo di larghe intese che lo stesso Kerry aveva dato per certo. «Abbiamo reso chiaro a tutti nella regione che non abbiamo bisogno di interventi che possano esacerbare le divisioni – ha detto Kerry da Bruxelles – È importante che niente infiammi i settarismi». Un discorso chiaramente rivolto a Damasco e Teheran, già attivi: la Siria vuole impedire una crescita sproporzionata dei gruppi di opposizione al regime e l’Iran (che starebbe inviando armi automatiche e missili, oltre a droni di ricognizione) intende usare Baghdad come piede di porco per ribaltare definitivamente gli equilibri mediorientali, oggi favorevoli alle petromonarchie sunnite del Golfo. Seppure gli interessi di Washington siano inaspettatamente gli stessi dei due nemici, Obama non può permettersi di lasciare spazio di manovra a Teheran né rafforzare indirettamente il regime di Damasco senza gestirne modalità e conseguenze. In casa Maliki balla da solo e, dopo aver rifiutato i caldi inviti della Casa Bianca a farsi da parte, ha detto ieri di volersi attenere alle tempistiche previste dalla legge: martedì il parlamento eletto a fine marzo si riunirà per nominare il presidente a cui spetterà il compito di indicare il capo del governo. Maliki tenta di destabilizzare il frammentato fronte delle opposizioni per garantirsi la maggioranza: da una parte, accusa le fazioni sunnite di aver complottato con l’Isil per riconquistare Baghdad; dall’altra usa la chiamata alle armi del leader religioso sciita Al-Sistani per convincere i partiti sciiti ad aderire al suo governo. In un simile contesto, l’Arabia saudita –finanziatore dei gruppi radicali sunniti in Siria e Iraq – non resta a guardare: il re Abdallah al-Saud, che oggi incontrerà Kerry, ha fatto sapere di voler prendere tutte le misure necessarie alla salvaguardia degli interessi nazionali. Ovvero, delle reti di potere occulte diramate in tutto il Medio Oriente. del 27/06/14, pag. 15 Libia: il martirio di Salwa, l’avvocata delle donne di Lorenzo Cremonesi Cosa poteva fare Salwa contro i suoi assassini? Cosa poteva fare una donna di 47 anni, forte solo delle sue idee, delle sue convinzioni, del suo coraggio morale, contro quattro o 10 cinque giovani uomini armati di coltelli e pistole, ciechi di fanatismo religioso, decisi ad ucciderla? Dall’ospedale di Bengasi i bollettini medici parlano di un’aggressione brutale, senza scampo. Sembra sia stata accoltellata più volte. Ma la ferita letale è stata un proiettile alla testa. Alla camera operatoria è giunta in coma, per spirare subito dopo. Pare che una guardia del corpo sia stata ferita. Invece non si sa nulla del marito, Essam Ghariam: rapito, fuggito o nascosto? A casa non c’è. Così è morta mercoledì pomeriggio 25 giugno Salwa Bugaighis, solo poche ore dopo aver votato sorridente per il rinnovo del parlamento. E con lei è morta un poco di più anche la speranza di una rivoluzione democratica frutto della «primavera araba», si è ulteriormente afflosciato l’ottimismo di una Libia libera finalmente dai fantasmi del dopo Gheddafi ed emancipata dalla minaccia qaedista. La morte di Salwa è in realtà l’ennesimo grido di dolore che arriva dalla parte migliore, più aperta del mondo arabo. Una richiesta di aiuto e allo stesso tempo un urlo di disperazione. «Guardavamo a voi occidentali. Speravamo di poter diventare come voi. Avere il vostro benessere, i vostri media, la vostra democrazia, la vostra libertà di viaggiare, pensare e vivere. Ma ci stanno uccidendo. Lentamente stiamo morendo»: questo gridano le avanguardie di intellettuali, professionisti, studenti che solo tre anni fa erano pronti a morire in piazza pur di rovesciare le dittature. E Salwa, l’avvocatessa Bugaighis, era una di loro, a pieno titolo. La sua figura troneggia nelle memorie delle giornate concitate della sommossa contro Gheddafi a Bengasi nel febbraio-marzo 2011. Lei con la sorella Iman, docente universitaria appena poco più anziana, sono figlie d’arte. Il padre era stato cacciato in esilio tre decadi fa per la sua critica alla dittatura. Soprattutto Salwa fu parte trainante di quel piccolo gruppo di avvocati e intellettuali legati alla facoltà di legge nella capitale della Cirenaica che nei primi mesi cercò di organizzare e guidare la rivoluzione. «Magari moriremo. E allora? La storia non morirà. E la storia sta con noi. Noi siamo nel giusto», diceva lei convintissima. C’era sempre, a ogni riunione, alle manifestazioni, alle commissioni, a cercare di dare risposte per noi giornalisti stranieri. Bella, alta, il vestito e i capelli sempre curati, il sorriso determinato. Insisteva nel dire che le donne non avevano alcun obbligo di mettere il velo, neppure di fronte al montare dei bigotti islamici. Venne subito eletta nel Consiglio Nazionale Transitorio. E lei si impegnò immediatamente nel garantire i diritti delle donne, dei più deboli. Meno di tre mesi dopo la sua elezione nel primo parlamento si dimise sostenendo che le donne dovevano avere più voce. Già sentiva che specie dalla Cirenaica gli islamici radicali stavano diventando una minaccia. Ultimamente ne parlava di continuo nel suo nuovo ruolo di vice-presidente del Comitato per il Dialogo Nazionale. Ma era diventata anche più fatalista, consapevole dei pericoli, eppure sprezzante. «Non hai paura di tornare a Bengasi per le elezioni?», le abbiamo chiesto incontrandola due settimane fa nella hall dell’hotel Al Waddan a Tripoli. «Non posso tirarmi indietro. Bengasi è la nostra trincea. Devo esserci». Ora non parlerà più. La sua scomparsa ricorda il senso di disarmante impotenza di cui scrisse pagine memorabili Stefan Zweig, prima di morire suicida nel 1942 di fronte al deserto del nazismo. Salwa: ovvero la forza del coraggio civile, dell’intelligenza critica, tanto preziosa, eppure tanto vulnerabile di fronte alla brutalità dell’intolleranza. Del 27/06/2014, pag. 7 Abu Mazen sulla graticola 11 Territori Occupati. La vicenda dei tre ragazzi ebrei scomparsi, quasi certamente rapiti, in Cisgiordania si sta trasformando una disfatta per il presidente dell’Anp Abu Mazen, costretto a ribadire la collaborazione di sicurezza con Israele tra lo sdegno dei palestinesi che fanno i conti con il pugno di ferro delle forze di occupazione Come e quando si concluderà la vicenda dei tre giovani israeliani scomparsi il 12 giugno in Cisgiordania nessuno lo sa. Le uniche certezze al momento sono la punizione collettiva che sta subendo larga parte della popolazione palestinese – nelle ultime ore è spirato un giovane di 24 anni, Mustafa Aslan, ferito dai soldati israeliani a Qalandiya ed è morta una anziana di 78 anni, Fatima Rushdi, colpita da infarto durante un raid dei militari nel suo campo profughi, Arroub – e il crollo d’immagine dell’Autorità nazionale palestinese e del suo presidente Abu Mazen. Perchè se è vero che le operazioni militari israeliane hanno anche lo scopo di colpire il movimento islamico Hamas (accusato da Israele del rapimento dei tre ragazzi), è ormai chiaro che da questa storia Abu Mazen esce con le ossa rotte, preso a pugni da israeliani e palestinesi. Le sue dichiarazioni a favore della cooperazione di sicurezza con l’intelligence israeliana, hanno riscosso l’approvazione delle capitali occidentali ma non hanno smussato l’aggressività dei dirigenti israeliani. Non solo, hanno provocato forte sdegno tra i palestinesi che da due settimane fanno i conti con i raid dei soldati in città, villaggi e campi profughi e sono costretti ad aggiornare l’elenco di morti e feriti. «Abu Mazen è un mega terrorista», ha proclamato ieri Naftali Bennett, ministro e leader del partito ultranazionalista israeliano Casa ebraica. Motivo? Il governo dell’Anp garantisce sussidi ai prigionieri politici e alle loro famiglie. Non sono più leggeri i commenti che, per motivi totalmente diversi, fanno tanti palestinesi. Tra questi non pochi portano i segni delle manganellate che la polizia agli ordini di Abu Mazen ha inferto a chi è sceso in strada per protestare contro le operazioni militari israeliane. Appena tre settimane fa il presidente palestinese godeva di una popolarità mai registrata in questi ultimi anni. La sua decisione di andare alla riconciliazione con Hamas e la determinazione con la quale ha formato un governo di unità nazionale con il movimento islamico, avevano fatto salire le sue quotazioni tra i palestinesi. Interessanti sono stati poi i successi diplomatici ha conseguito in questi ultimi tempi, dal riconoscimento statunitense ed europeo dell’esecutivo Fatah-Hamas fino alla “preghiera per la pace” con il presidente uscente israeliano, Shimon Peres, tenuta a inizio giugno in Vaticano. Uno status inedito che impensieriva non poco il premier israeliano Netanyahu costretto ad affrontare il periodo diplomaticamente più difficile del suo mandato, specie nei rapporti con gli alleati americani. Dal 12 giugno è cambiato tutto. Dopo la scomparsa dei tre giovani ebrei, Abu Mazen, sotto la pressione delle accuse israeliane, si è precipitato tranquillizzare i suoi sponsor occidentali lasciando però senza parole una larga porzione di palestinesi. La sua credibilità è crollata. Sui social l’uomo della riconciliazione è diventato un “collaboratore” e un “traditore”. Un cartoon che gira in rete lo mostra con l’uniforme dell’esercito israeliano. «E’ molto probabile che questa reazione popolare (contro Abu Mazen) continui ancora a lungo. E in tutta sincerità non escludo che Netanyahu abbia messo in azione il suo esercito allo scopo di delegittimare l’Anp e il suo presidente», spiega Samir Awad, docente di scienze politiche all’Università di Birzeit, in Cisgiordania. Per il suo collega Naji Sharab, dell’università Al-Azhar di Gaza, «Si tratta di una operazione (israeliana) con due obiettivi: smantellare completamente l’infrastruttura di Hamas e mandare un messaggio forte all’Autorità palestinese, ossia che il suo ruolo è rivolto alla sicurezza di Israele e non quello di esercitare una sovranità». Se sarà confermato il coinvolgimento del movimento islamico nel sequestro dei tre israeliani, per Abu Mazen il quadro si complicherà ulteriormente: sarà costretto, dalle pressioni israeliane e occidentali, a rigettare l’accordo di riconciliazione con Hamas perdendo la faccia davanti agli occhi della sua gente senza per que12 sto riottenere il pieno appoggio dei suoi sponsor internazionali. Ci guadagnerebbero solo gli islamisti e il premier israeliano Netanyahu. Del 27/06/2014, pag. 1-38 R2/DIARIO Sarajevo, i ragazzi che scatenarono la Grande Guerra ROBERTO SAVIANO FU IL pretesto, la miccia che incendiò la secca prateria europea. L'inizio simbolico, la scusa: non c'è libro di scuola che non ricordi così l'attentato a Sarajevo del 1914. Quel giorno è diventato l'archetipo dei pretesti. A considerarlo così, un pretesto, ci si dimentica di come andarono le cose. Pochi ricordano il nome dell'uomo che sparò, né come andò quell'attentato perpetrato tra errori ridicoli, scene persino comiche e coincidenze inaspettate. L'attentato fu opera di un ragazzino di vent'anni, fanatico, pieno di letture e di sogni nazionalisti. Dai suoi due spari, come conseguenza, discesero trenta milioni di morti macellati nel più grande conflitto armato cui il mondo avesse mai assistito. E tutto nacque in serate passate in stanza tra amici, in pomeriggi pigri con mani dietro la nuca e occhi a fissare il soffitto, senza nemmeno i soldi per il tabacco e il vino. La storia è raccontata in Una mattina a Sarajevo di David James Smith, appena pubblicato dalla LEG, piccola, coraggiosa casa editrice goriziana. Smith racconta che negli anni precedenti all’attentato nacque un’organizzazione politico-rivoluzionaria denominata Mlada Bosna (Giovane Bosnia), che aveva come obiettivo la liberazione dall’Impero austro-ungarico. Uno dei suoi membri, il carpentiere musulmano Mehmed Mehmedbasic, aveva progettato di uccidere il generale Oskar Potiorek, governatore di Bosnia ed Erzegovina, ma quando fu annunciata l’imminente visita a Sarajevo dell’erede al trono d’Austria, il suo compagno Danilo Ilic lo convinse a cambiare bersaglio: Francesco Ferdinando sarebbe stato una vittima di maggior valore. Per raggiungere un obiettivo così alto però bisognava trovare armi e uomini. Ilic reclutò allora il suo compagno quasi ventenne di stanza, Gavrilo “Gavro” Princip, che a sua volta chiamò Nedeljko (Nedjo) Cabrinovic, operaio anarchico 19enne, e un altro amico di letture, Trifko Grabez, studente diciottenne con il sogno ossessivo di vivere in una nazione slava a cui avrebbe immolato il suo sangue. Il legame tra loro? I libri che si scambiavano, l’odio per l’aquila asburgica, la voglia di vedere stato slavo indipendente e un generica inquietudine al pantano politico sociale che vedevano. Le bombe e le pistole vennero fornite da varie società segrete che, come la Mlada Bosna, covavano odio nei confronti degli Asburgo ma non avevano alcun progetto vero di riforma sociale né di insurrezione: volevano sostituire gli uomini voluti dagli Asburgo ai vertici delle istituzioni con i loro. Seppero quindi sfruttare la vampata di rabbia e temerarietà di questi studentelli e operai. Il 28 maggio, Gavro, Nedjo e Trifko partirono da Belgrado con le loro armi per Sarajevo, dove, dopo un viaggio difficile e rischioso, trovarono ad aspettarli altri compagni che nel frattempo si erano uniti al gruppo complottista: Vaso e Cvjetko, studenti rispettivamente di diciassette e sedici anni. Il 27 giugno, fu Danilo a dare disposizioni: consegnò una bomba e una pistola ciascuno a Vaso e Cvjetko e, basandosi sull’itinerario previsto per la sfilata imperiale, assegnò a entrambi una postazione sul lungofiume. Verso sera incontrò Mehmedbasic al caffè Mostar: diede anche a lui una bomba e le istruzioni necessarie. Quella stessa sera Gavrilo era a una festa di studenti ma non si divertì, raccontarono i testimoni, assorto nei suoi pensieri. Non 13 dava confidenza a nessuno, si isolava. La mattina del 28 giugno Nedjo, Trifko e Gavrilo si incontrarono con Danilo alla pasticceria Vlajnic, all’angolo del lungofiume Appel, come da programma. Qui i ragazzi ricevettero il cianuro: dal principio, infatti, era stato chiaro che, attentato riuscito o meno, il suicidio sarebbe stato l’ultimo gesto dei congiurati, in modo da proteggere tutti i complici e le organizzazioni coinvolte. Nedjo, con la sua bomba in tasca, fece un gesto tenero, a dimostrazione di come fossero tutti dei ragazzini, andò in uno studio fotografico e si assicurò che gli scatti realizzati fossero poi spediti alla nonna, alla sorella e agli amici di Belgrado, Zagabria e Trieste. Si diresse subito dopo verso la postazione assegnatagli, tra la sponda austroungherese del fiume e il ponte, in un punto dove sperava di poter uccidere l’arciduca senza ferire nessuno tra la folla. Alle 10.15 circa il corteo di automobili imperiale passò davanti a Mehmedbasic ma questi, bloccato dal panico, nemmeno provò a fare qualcosa. A quel punto fu Nedjo a lanciare una bomba, che però mancò la vettura dell’arciduca ferendo gli occupanti di quella successiva. Subito dopo aver lanciato, Nedjo ingoiò il cianuro e si gettò nel fiume, ma il veleno si era deteriorato e gli avrebbe causato in seguito solo qualche scarica di diarrea, ed essendo in quel punto l’acqua del fiume bassissima, si bagnò solo fino al ginocchio, sopravvisse comicamente a entrambi i tentativi di suicidio e fu arrestato. Incredibilmente la cerimonia non fu annullata, le misure di sicurezza dell’epoca erano l’esatto contrario di quelle di oggi. Dopo la bomba, l’arciduca mantenne i suoi impegni, l’auto degli eredi al trono proseguì quindi verso il Municipio per un incontro con il sindaco di Sarajevo. L’unica precauzione che la polizia asburgica e la scorta dell’arciduca presero fu di deviare il percorso del corteo. E fu proprio questa decisione ad essere fatale. Gavrilo, dopo aver inizialmente pensato che Nedjo avesse avuto successo, comprese invece che l’arciduca era ancora vivo e si portò nei pressi del Ponte Latino, dove stava per passare la vettura imperiale. Qui avvenne però qualcosa di imprevisto: il generale Potiorek capì che il corteo stava erroneamente percorrendo l’itinerario originario e quindi fermò l’auto e chiese all’autista di manovrare per continuare attraverso il lungofiume. Per compiere questa manovra, la vettura si fermò proprio davanti a Gavrilo che incredulo di avere dinanzi a sé gli eredi Asburgo estrasse subito la Browning di fabbricazione belga che aveva in tasca e sparò due colpì: il primo su Francesco Ferdinando, centrato alla spina dorsale; il secondo (destinato a Potiorek, secondo quanto disse poi Gavrilo al processo) sull’arciduchessa Sofia. Subito dopo aver sparato ingurgitò il cianuro, ma anche la sua dose era deteriorata. Così cercò di spararsi con la pistola, ma fu bloccato dai presenti, che lo tennero fermo a calci e pugni fino all’arrivo della polizia. L’assassinio, tutt’altro che inevitabile, era riuscito: alle 11.30 le campane di tutte le confessioni religiose di Sarajevo suonavano all’unisono annunciando la morte di Francesco Ferdinando e di Sofia, eredi al trono austro- ungarico. L’Austria presenterà un mese esatto dopo l’attentato dichiarazione di guerra alla Serbia. Al termine del processo, Gavrilo non chiese perdono, ma concluse il suo intervento con queste parole: «Noi amavamo il nostro popolo». Gli fu risparmiata la pena capitale per via della giovane età, così come prevedeva la legge. Venne condannato a vent’anni di lavori forzati, con la pena suppletiva di un giorno di isolamento in una cella buia ogni 28 giugno e un giorno di digiuno al mese. Fu rinchiuso nel carcere ceco di Terezín, dove visse in condizioni pessime fino alla sua morte, sopraggiunta per tubercolosi ossea il 28 aprile 1918. Pochi mesi dopo la sua morte si concluse anche il grande conflitto mondiale scatenato dal suo gesto, che aveva messo in ginocchio e ridisegnato l’Europa. Gavrilo Princip fu considerato un eroe da alcuni, un fanatico sbandato da altri, un ingenuo perché aveva ucciso proprio Francesco Ferdinando che, a differenza di suo zio Francesco Giuseppe, aveva in programma di concedere maggiore autonomia alla Serbia e ai popoli slavi in genere. 14 È strano coprire che tutto nacque dall’inadeguatezza di ragazzi poco più che adolescenti, che amavano la lettura e sognavano una società più giusta. Dopo quell’attentato molti giovani si arruolarono per andare a combattere in trincea, a cercare la fine gloriosa, in nome delle rispettive patrie. In realtà trovarono solo orrore, pidocchi, fango e crudeltà. Nessuna redenzione dal male, nessuna vita vera. Princip non generò nessun mondo migliore. Del 27/06/2014, pag. 1-34 MESSAGGIO TROVATO DA UNA GIOVANE A BELFAST Nei jeans un Sos dalla Cina “Ci trattano come schiavi” ENRICO FRANCESCHINI UNO schiavo o una schiava cinese ha infilato il suo messaggio nella tasca di un pantalone. Alla fine il messaggio è giunto a destinazione, dopo un viaggio intorno al mondo. Karen Wisinska di Belfast, in Irlanda del Nord, lo ha trovato nei jeans acquistati tre anni fa e mai indossati. Era un cartoncino in caratteri cinesi ma in cima c’era scritto, in alfabeto latino, SOS. Il biglietto trovato nei jeans prodotti in Cina e acquistati a Belfast. Affidano le richieste di soccorso a una bottiglia. Uno schiavo o una schiava cinese ha infilato il suo messaggio nella tasca di un pantalone. Le probabilità che arrivasse in mano a qualcuno erano più o meno le stesse di quelle di un uomo abbandonato su un’isola in mezzo all’oceano. Eppure alla fine il messaggio è giunto a destinazione, dopo un viaggio intorno al mondo conclusosi nell’armadio di una casa vicino a Belfast, in Irlanda del Nord. Karen Wisinska aveva acquistato un paio di calzoni sportivi stile cargo da Primark, una catena di grandi magazzini a basso prezzo, nel capoluogo dell’Ulster tre anni fa, ma non li aveva mai indossati perché la chiusura lampo era difettosa. La settimana scorsa, preparando la valigia per una vacanza, li ha tirati fuori dal guardaroba e ha notato che una tasca era rigonfia, come se ci fosse dentro qualcosa. Ha slacciato un bottone, ci ha messo la mano dentro e ha estratto un biglietto accuratamente ripiegato. Era un cartoncino scritto in caratteri cinesi, per cui non poteva comprenderne il significato, ma in cima c’erano, in alfabeto latino, tre parole che chiunque conosce, in tutte le lingue: «SOS», seguita da un punto esclamativo. Il segnale internazionale di richiesta di aiuto. Non ancora completamente convinta, ha fotografato il biglietto, lo ha messo sulla propria pagina di Facebook e chiesto agli amici se qualcuno era in grado di decifrarlo. Quando ha ricevuto una prima bozza di traduzione è rimasta scioccata: «Era stato scritto da qualcuno che evidentemente lavorava in condizioni di schiavitù in una prigione cinese». A quel punto si è rivolta ad Amnesty International e la sua impressione è stata confermata: il messaggio sembra provenire dal Gulag di Pechino, dove apparentemente i detenuti sono costretti a lavorare in condizioni disumane per produrre articoli da vendere poi alle grandi aziende occidentali. Il prigioniero o la prigioniera cinese avrebbe confezionato personalmente i pantaloni per la Primark, rischiando la vita per nasconderci dentro il suo Sos. «Siamo detenuti nella prigione Xiangnan di Hubei, in Cina», afferma il biglietto. «Da molto tempo lavoriamo in carcere per produrre abbigliamento per l’esportazione. Ci fanno fare turni di 15 ore al giorno. Quello che ci danno da mangiare è perfino peggio di quello che si darebbe a un cane o a un maiale. Siamo tenuti ai lavori forzati come animali, usati come buoi o cavalli. Chiediamo alla comunità internazionale di condannare la Cina per questo trattamento disumano». Commenta Patrick Corrigan, direttore di Amnesty in 15 Irlanda del Nord: «È una storia orribile. Naturalmente sarà molto difficile appurare se è genuina, ma abbiamo il timore che sia solo la punta di un iceberg». La Primark ha aperto immediatamente un’inchiesta. «Tre quarti dei pantaloni di quel tipo sono stati acquistati da noi all’inizio del 2009», dice un portavoce dei grandi magazzini alla Bbc. «Troviamo un po’ strano che il biglietto sia venuto alla luce solo ora, quando i pantaloni sono stati comprati nel 2001. Contatteremo la cliente per farci dare l’indumento e per proseguire le indagini. Dal 2009 ad oggi la Primark ha condotto nove ispezioni dei nostri fornitori per verificare il rispetto degli standard etici in Cina e altrove, e nessun caso di lavori forzati, lavori in prigione o altre violazioni è mai stato riscontrato». Si tratta tuttavia della stessa azienda coinvolta, insieme ad altre marche d’abbigliamento occidentali, nel crollo di uno stabilimento in Bangladesh in cui morirono più di 1100 persone: criticata per non avere denunciato le insufficienti condizioni di sicurezza dello stabile, la Primark ha finora pagato 12 milioni di dollari (8 milioni di euro) di indennizzo ai familiari delle vittime e sostiene di avere moltiplicato le ispezioni dei suoi fornitori. Non è la prima volta che un capo d’abbigliamento della Primark viene ritrovato un biglietto con richieste di soccorso da parte di presunti schiavi dell’industria del fashion in Cina o in altri paesi in via di sviluppo. Il boom del settore tessile nel Terzo Mondo è uno dei motori della globalizzazione e sta portando milioni di famiglie fuori dalla povertà. Ma l’altra faccia della crescita è lo sfruttamento. E talvolta per denunciarlo non c’è altro mezzo che un messaggio in una tasca di pantaloni. 16 INTERNI Del 27/06/2014, pag. 6 Rivolta in Forza Italia in 37 per il Senato elettivo Nel Pd 19 dissidenti Oltre la metà del gruppo contrario alla riforma Renzi Presto l’assemblea con Berlusconi. Allarme preferenze GIOVANNA CASADIO CARMELO LOPAPA L’ESATTO contrario di quanto prevede il pacchetto Renzi, pur blindato da Verdini e Romani. Alla base c’è il panico da rielezione di molti parlamentari. Ma ha funzionato da miccia l’incontro in streaming del premier coi Cinque stelle e quell’apertura alle preferenze nella legge elettorale che a parecchi forzisti proprio non va giù: «Se passano, facciamo saltare tutto » è la minaccia che nel centrodestra sta prendendo corpo. Al Senato ma anche alla Camera, dove il capogruppo berlusconiano Brunetta chiama in gran segreto i colleghi nemici del “patto delle riforme” e con loro invoca e ottiene una riunione plenaria per la prossima settimana, alla presenza dell’ex Cavaliere. All’assemblea del gruppo a Palazzo Madama invece ieri mattina Berlusconi non si è presentato. Verdini e Romani lo avevano raggiunto a Grazioli con Giovanni Toti e Maria Rosaria Rossi prima di chiamare a rapporto i senatori, rassicurandolo sulla tenuta. E invece salta tutto. Verdini e Romani puntano a chiudere in poche battute la riunione: «Dunque, la riforma va approvata così com’è, al più con qualche modifica, ma il patto deve reggere su tutto, altrimenti rischiamo di veder saltare anche l’Italicum », mette in guardia coi consueti metodi spicci il senatore toscano, gran tessitore dell’intesa. Toti e la Rossi nemmeno parlano. Ma a quel punto si scatenano i senatori. Parte Augusto Minzolini, e a seguire Razzi, Caliendo, Zuffada e altri ancora. Tutti a favore del Senato elettivo e dunque intenzionati (con una quarantina di emendamenti) a stravolgere il testo del governo. L’ex direttore del Tg1 è il più agguerrito, primo firmatario delle proposte di modifica. «Io non voto questa riforma. Non cadiamo nel tranello di Renzi — alza i toni — Lui minaccia il voto ma non può fare nulla, non andrebbe mai alle elezioni col “Consultellum”. I senatori devono essere eletti dal popolo». Dopo, è un coro. Altri come Cinzia Bonfrisco stanno per intervenire per rincarare. Al punto che Verdini e Romani sono costretti a sospendere i lavori e rinviare tutto a martedì prossimo. A Silvio Berlusconi toccherà presentarsi di persona per far rientrare i “ribelli”, se ne avrà ancora il potere e la forza. È un leader dimezzato, fiaccato e in attesa di una nuova pesante sentenza. Già, proprio la sentenza Ruby in appello, che segue la condanna in primo grado a sette anni per prostituzione minorile. A partire dal 18 luglio è atteso il pronunciamento del secondo grado di giudizio. Ed è qui che l’ennesima vicenda giudiziaria di Berlusconi si intreccia con l’agenda delle riforme. Il Pd punta ad accelerare e non poco. Da lunedì iniziano le votazioni in commissione sul testo Boschi. Il capogruppo Zanda e i dem vorrebbero chiudere nel giro di una settimana per approdare in aula il prima possibile per strappare il primo “ok” alla riforma proprio entro la data fatidica del 18. «Fino a quel giorno, il capo forzista manterrà i toni bassi, dopo, tutto potrebbe succedere» è il tam tam nel Pd. Sul Senato elettivo del resto cresce la fronda anche tra i democratici. Ieri scadeva il termine per presentare i sub-emendamenti e 19 senatori pd, guidati da Chiti, Casson, Tocci hanno firmato proposte in favore dell’elezione diretta e del mantenimento a certe condizioni dell’immunità. Con loro, anche il popolare Mario Mauro, i sette di Sel capeggiati 17 da Loredana De Petris e i 14 fuoriusciti dal M5s. L’ex ministro Mauro parla di «deriva autoritaria» nella strategia delle riforme. Come se non bastasse, è stato depositato un emendamento pd con una cinquantina di firme per ridurre il numero dei deputati. Fibrillazioni che tuttavia al Nazareno vengono minimizzate. Che il premier sia intenzionato ad andare dritto per la sua strada lo si capisce dalla sortita del vicesegretario dem Lorenzo Guerini: «Il percorso procederà secondo la direzione e i tempi previsti». Convinti che anche le mine interne a Forza Italia saranno disinnescate da qui a qualche giorno. In ogni caso, un conto sarà la partita con numeri più risicati — anche se ormai blindati dal Pd — che si giocherà da lunedì in commissione Affari costituzionali, altra cosa in aula. Se pure il Carroccio e il M5s dovessero schierarsi con il “partito del Senato elettivo”, l’asticella si fermerebbe più o meno intorno ai 134 senatori. Mentre la maggioranza pro-riforme è compresa in una forbice variabile tra i 163 e i 186. Il premier resta convinto di poter andare anche oltre. Non si raggiungeranno comunque i due terzi necessari per evitare il referendum confermativo, ma questo ormai Renzi lo ha messo nel conto. Del 27/06/2014, pag. 31 IL PARTITO DEL LEADER NADIA URBINATI I CITTADINI italiani si fidano di Renzi non dei partiti e, presumibilmente, neppure del suo partito. Quello che Diamanti chiama il Partito di Renzi non è, infatti, la stessa cosa del Partito democratico. Certamente non è politico nel modo in cui questo lo è. Il partito politico, anzi i partiti politici, non sono in declino da oggi, ma oggi il loro declino è ancora più abnorme proprio perché avviene insieme al successo di un partito del segretario. Il paradosso è che pare difficile capire come Renzi possa ridare onore ai partiti (al Pd, in questo caso) anche perché egli ha costruito il suo successo di audience proprio grazie a una martellante retorica contro i partiti, non escluso il suo. Certamente contro le dirigenze logore e attempate. La rottamazione è stata sia un’apertura (ai giovani) che una chiusura (non solo alle vecchie generazioni ma anche) a un modo di essere del partito. Il Partito di Renzi è un partito nonpartito, nato come partito anti-partito. Merita ricordare che l’attuale segretario del Pd ha conquistato l’opinione e il governo del paese prima ancora di conquistare una maggioranza elettorale (o di essere eletto): un’incoronazione ecumenica che è avvenuta fuori del partito a tutti gli effetti e fuori delle istituzioni. Nei media e sotto i gazebo. Ecco perché ha un senso chiamare questo fenomeno plebiscitarismo dell’audience. Come si può ricostruire il partito partendo da qui? Per tentare di rispondere a questa domanda occorre cercare prima di tutto di capire da che cosa è caratterizzato il Partito di Renzi, ovvero che cosa faccia sì che i cittadini si fidino di esso molto più di quanto non si fidino del Partito democratico. Certo, le continue notizie sulla corruzione sono un fattore potente di sfiducia nella politica ufficiale, anche se non coinvolgono solo le vecchie dirigenze nazionali dei partiti ma anche imprenditori e poteri locali: cioè proprio quella parte d’Italia che sembrava meno esposta alla tentazione del malaffare perché lontana da Roma. E invece vediamo che i poteri radicati sul territorio sono forse ancora più esposti alla corruttela. Ma questa denuncia morale dei partiti tradizionali, locali e nazionali, non basta a spiegare la grande popolarità del Partito di Renzi. C’è dell’altro. Per esempio, c’è il fatto che il Partito di Renzi ha fatto saltare la struttura della catena di comando propria del partito politico. I partiti (e questo lo si vede soprattutto nel caso del Pd, proprio perché in origine non personalistico) erano strutture collettive, aristocrazie (o oligarchie, se si vuol essere severi) che hanno fatto e condiviso scelte e che ora danno 18 l’impressione al comune cittadino di impedire che emergano responsabilità individuali. Quando emergono, perché la magistratura indica potenziali responsabili di illeciti, è comunque troppo tardi. Al contrario del partito strutturato per collettivo, il Partito di Renzi è identificato con il suo leader e mostra al mondo la dimensione personale. Ciò sembra convincere i cittadini che in questo caso, se non altro, vi è un responsabile individuale, visibile e senza coperture dietro dirigenze collettive. E del resto Renzi stesso ha reso assai popolare questa visione personale di responsabilità dichiarando spesso di “metterci la faccia”. “Ci metto la faccia”: questo un collettivo non può dirlo, sia esso una segreteria o un comitato centrale o un’assemblea nazionale. Solo il singolo può metterci la faccia, enunciare la sua responsabilità senza rete. È evidente che nelle azioni politiche la responsabilità non è mai un fatto semplice da imputare perché tante e complesse sono le condizioni che portano a una decisione, non ultima una larga discussione dentro e fuori del partito, condivisioni di idee e visioni che corresponsabilizzano molti o diversi. Il segretario del partito politico è in questo caso rappresentativo di un progetto, di una narrazione che unisce molti (e idealmente dovrebbe convincere tanti), non però un artefice dell’identità del partito in solitaria responsabilità. Ma anni di corruzione e malaffare ci hanno consegnato un’altra immagine della responsabilità: quella giudiziaria che è comunque del singolo, di colui che risponde direttamente alla legge. Ecco dunque la tensione tra due dominii di responsabilità: quello politico, mai solitario e mai semplice; quello giudiziario, sempre del singolo. Nel secondo caso “metterci la faccia” ha più senso che nel primo caso. Si può dire quindi che il Partito di Renzi ha preso corpo a partire da una mentalità della responsabilità che è di tipo legale piuttosto che di tipo politico e che ha fatto breccia nell’opinione proprio per il troppo abuso della legge che ha segnato questi anni lunghi e infiniti di politica irresponsabile. È qui, in questa torsione personale (individuale) della responsabilità, in questa espansione della dimensione giuridica (e giudiziaria) che va cercata l’attrazione popolare del leader plebiscitario nell’Italia democratica post-partitica. Un’attrazione che si manifesta sia nel paese che nel Parlamento (dove il Partito di Renzi, non il Pd, fa da calamita che attrae consensi sbaragliando le opposizioni). Il Partito del leader è figlio di un’epoca che ha incenerito la responsabilità politica, la quale in una democrazia è collettiva e complessa, raramente di un leader solo al comando. È figlio di una politica le cui storture hanno portato i responsabili nelle aule di tribunale, un luogo dove ciascuno è costretto a metterci la faccia. Il problema è che questa non è la responsabilità sulla quale il partito politico può rinascere come progetto, compagine collettiva unita da una visione di paese e non solo dal magnetismo del cavallo vincente. Del 27/06/2014, pag. 4 La riforma che non piace alle toghe Giustizia. Responsabilità civile, intercettazioni, elezioni del Csm: il provvedimento lunedì in Cdm. Velocizzazione dei processi penali e civili per smaltire i 9 milioni di procedimenti pendenti, ma anche maggiore controllo sul lavoro dei magistrati, cominciando con nuovi criteri di elezione dei membri togati del Csm per limitare il peso delle correnti, qualche paletto in più alla trascrizione delle intercettazioni per limitare la diffusione mediatica selvaggia, ma anche una limatura alla responsabilità civile diretta delle toghe introdotta con l’emendamento della Lega alla legge Ue. 19 Non solo: arriva la stretta sul reato di associazione mafiosa, sul falso in bilancio e sull’autoriciclaggio, l’allungamento dei tempi di prescrizione che si dovrebbero fermare dopo il primo grado di giudizio e nuove regole per la confisca dei beni delle mafie. Il pacchetto di riforme che il Guardasigilli Andrea Orlando ha messo a punto per il Consiglio dei ministri di lunedì prossimo, stando alle prime notizie trapelate, ha l’aria di una revisione strutturale di tutto il sistema giudiziario, come aveva chiesto il Consiglio d’Europa dopo la condanna per le carceri sovraffollate. Una parte (la riforma dei codici di procedura penale e civile e l’inasprimento delle sanzioni per i reati di mafia, di corruzione e finanziari) saranno probabilmente varati subito con un decreto legge o un ddl, mentre per tutto il resto al momento il governo si limiterà a proporre delle «linee guida» da discutere successivamente con i soggetti interessati, sulla scia della riforma della pubblica amministrazione della ministra Marianna Madia. Ma, sebbene il confronto del Guardasigilli con le associazioni e i sindacati di categoria delle soggettività interessate alla riforma continui anche in questi giorni a ritmo serrato — ieri il ministro ha convocato l’Anm e per oggi l’Unione nazionale Giudici di pace, insieme alle altre organizzazioni dei giudici di pace e delle toghe onorarie — dal mondo della giustizia si levano già alcune voci di protesta. Prima tra tutte, quella dei magistrati togati del Csm che temono un colpo di mano del governo a pochi giorni dalle elezioni del nuovo Consiglio, previste per il 6 e 7 luglio, visto il meccanismo del voto disgiunto che Orlando vorrebbe introdurre per disgregare le correnti (mentre gli 8 membri laici del Csm saranno eletti il prossimo 3 luglio dal Parlamento in seduta comune). Il nervosismo cresce però soprattutto attorno al tema della responsabilità civile diretta dei magistrati. L’Anm si è detta «preoccupata» per le possibili misure. Il governo starebbe pensando a come intervenire per correggere l’emendamento Pini al disegno di legge comunitaria 2011 passato alla Camera l’11 giugno scorso, mantenendo però la possibilità di opporre ricorso contro la magistratura. Nel Csm, per esempio, potrebbe nascere una sezione disciplinare separata per giudicare, in primo grado, l’operato delle toghe. E una Corte per il secondo grado di giudizio composta anche da magistrati contabili e amministrativi. L’associazione sindacale dei magistrati ha anche espresso al Guardasigilli preoccupazione per il nuovo sistema disciplinare e per le limitazioni alla trascrizione delle intercettazioni che, secondo le “linee guida” governative, dovrebbero essere solo riassunte, in modo da evitare la divulgazione dei testi. «Vogliamo capire bene prima di esprimerci – è stato il commento della presidente della Commissione parlamentare antimafia, Rosy Bindi – Per ora siamo solo agli annunci che però danno delle indicazioni, alcune più rassicuranti altre meno. Rassicuranti sono la norma sulla reintroduzione del falso in bilancio, l’aumento dei tempi di prescrizione del reato di corruzione, alcune norme che riguardano in particolare la normativa antimafia, l’aumento delle pene. Per quanto ci riguarda tutta la magistratura ci ha sempre detto che le intercettazioni sono uno strumento indispensabile e fondamentale». E infatti, secondo Matteo Orfini intervistato ieri dall’Huffington post, «non ci sarà alcuna limitazione alle intercettazioni». Questo nodo si affronterà però dopo l’estate. La priorità di Orlando ora è smaltire i 5 milioni di procedimenti civili pendenti e abbreviare i tempi lunghissimi delle cause che costano all’Italia l’1% del Pil. Per questo il provvedimento che andrà lunedì in Cdm punta a trasferire in sede arbitrale una parte dei processi istituendo camere ad hoc presso i Consigli degli ordini degli avvocati. E a favorire il ricorso alla via stragiudiziale attivando procedure di negoziazione assistita da un avvocato, come nel sistema francese. 20 del 27/06/14, pag. 6 Modello tedesco per le unioni civili Il progetto di riforma a settembre in Senato. Scalfarotto: «Le nuove tutele imposte da un cambiamento epocale» ROMA — Due modelli. Unioni civili (per le coppie gay), sul modello tedesco. E unioni di fatto, per coppie omo ed eterosessuali. Questo il progetto di riforma, per le «altre famiglie» che andrà in Aula a settembre in Senato «e magari potrà essere approvato entro la fine dell’anno, due o tre mesi in più non fanno differenza» annuncia Ivan Scalfarotto, sottosegretario alle Riforme del governo Renzi. Scalfarotto si riferisce ad un testo base appena depositato in Commissione Giustizia a Palazzo Madama dalla relatrice Monica Cirinnà (Pd) che ha creato già polemiche, con quattro senatori dem che si sono dissociati e con una precisa presa di distanza del Ncd. Il testo sarà discusso in Commissione la prossima settimana, ed è stato bollato come l’introduzione di un «simil matrimonio» dal quotidiano dei vescovi Avvenire . Nell’articolo di fondo di ieri, il direttore, Marco Tarquinio, sostiene che si tratta di «un errore da non fare», spiegando «le ragioni forti di un dissenso»: il testo per quanto riguarda le unioni civili delle persone omosessuali — che vogliono istituzionalizzare il loro rapporto — prevede infatti qualcosa di identico a un same sex marriage . Una piena equiparazione, senza averne il nome e con la sola esclusione dell’adozione per i figli «esterni» alla coppia, ma non lo stepchild adoption (cioè l’adozione del figlio naturale o legittimo del partner, se non esista un altro genitore che lo ha riconosciuto), o i figli nati «dall’unione», con le tecniche dell’utero in affitto o dell’inseminazione eterologa. Scalfarotto conferma quello che sostiene da sempre: «Sono in atto cambiamenti epocali in tutto il mondo , ed essi o si gestiscono o si subiscono. La politica ha il compito di gestirli». Da questo punto di vista, e «con tutto il rispetto e la cautela, visto che io non sono credente e che si tratta di un terreno non mio nel quale entro in punta di piedi», Scalfarotto pensa che anche la Chiesa — con i lavori preparatori al Sinodo resi noti ieri — «si renda conto della realtà sociale che è cambiata e della necessità di nuovi strumenti, nel caso della Chiesa, pastorali». Anche se la Chiesa, va ricordato, rimane contraria ai matrimoni gay e anche ieri ha aperto la porta solo a qualche forma di riconoscimento, sul tipo dei Pacs. Cioè quel tipo di riconoscimento che nel progetto depositato al Senato, combacia con il secondo tipo di regolamentazione previsto: le unioni di fatto, per coppie omo ed eterosessuali. «Le Unioni di fatto — spiega Scalfarotto — riguarderanno coloro che non intendono accedere a nessun tipo di rapporto “formale”, ma che vogliono che vengano riconosciuti, per legge, quello che in tutti gli altri Paesi avviene normalmente e di fatto, cioè ad esempio la possibilità di assistere il partner in ospedale. Non deve più succedere che a un convivente, magari da decenni, sia vietato l’accesso in ospedale o il subentro nel contratto d’affitto». Quello che il sottosegretario mette in ogni caso in evidenza è che «si tratta di cambiamenti epocali, che nascono dalla fine della società patriarcale, dalla piena parità raggiunta tra uomo e donna, dall’accento messo sulla realizzazione personale anche delle persone sposate». C’è tuttavia un’area sempre maggiore di persone che — come messo in evidenza dai risultati del questionario mondiale della Chiesa cattolica — rifuggono da ogni istituzionalizzazione, anche a motivo della crisi economica. Le famiglie non vengono sostenute da adeguate politiche, cosa prevede al riguardo? Scalfarotto: «Penso che il Pd e in particolare il governo Renzi possa fare molto. Negli anni passati i governi di centrodestra hanno fatto della famiglia una difesa solo ideologica, 21 dicevano di essere il governo del Family day ma in realtà l’Italia è rimasta indietro nel sostegno alle famiglie e alle donne: abbiamo speso meno di tutti in asili nido e altre forme di sostegno alla maternità e ai progetti di vita». Le riforme economiche e istituzionali non possono — secondo il sottosegretario — andare disgiunte da quelle che incidono sulla vita delle persone. «Altrimenti i cittadini si rivolgeranno sempre più alla magistratura — conclude — perché i propri diritti vengano riconosciuti. È un fenomeno globale: dalla Francia agli Stati Uniti e anche da noi». M. Antonietta Calabrò Del 27/06/2014, pag. 22 Ecco il documento che prepara il prossimo Sinodo “Più misericordia, i fedeli non capiscono i nostri divieti” Dai gay ai divorziati la svolta dei vescovi “Basta condanne” PAOLO RODARI CITTÀ DEL VATICANO La difficile realtà delle coppie di fatto, i divorziati risposati e il nodo dei sacramenti, la denuncia del femminicidio e della pedofilia, la questione dell’omosessualità con il «no» al matrimonio gay ma la richiesta di maggiore attenzione pastorale alle coppie dello stesso sesso. Il coraggio delle ragazze madri e lo snellimento delle procedure per la nullità matrimoniale, la contraccezione e la difficoltà del popolo di Dio a seguire l’enciclica Humanae Vitae di Paolo VI. C’è tutto questo nell’ Instrumentum Laboris, il documento di base del Sinodo dei vescovi (un sinodo straordinario a ottobre prossimo e uno ordinario nel 2015 intitolato Gesù rivela il mistero e la vocazione della famiglia ) sulla pastorale familiare che il Vaticano ha presentato ieri. Un documento ampio, che insiste molto su un aspetto per nulla secondario: la necessità che la Chiesa sia misericordiosa verso tutti. «Serve una pastorale capace di offrire la misericordia che Dio concede a tutti senza misura», dice non a caso il cardinale Lorenzo Baldisseri, segretario generale del Sinodo. E ancora: «Si tratta dunque di proporre, non imporre; accompagnare, non spingere; invitare, non espellere; inquietare, mai disilludere». In scia al pontificato che chiede alla Chiesa amore per lenire le ferite dell’umanità e accogliere i lontani, anche l’-Instrumentum che raccoglie le risposte al questionario inviato dalla stessa segreteria del Sinodo a tutte le conferenze episcopali e ai singoli fedeli, riflette, come dice il teologo e vescovo monsignor Bruno Forte, «lo sguardo di misericordia con cui il Padre celeste guarda e ama ciascuno dei suoi figli», in particolare «nei confronti delle persone che vivono in situazioni familiari difficili o irregolari». Beninteso, l’Instrumentum non offre risposte ai problemi sollevati dal questionario, e anzi allarga la discussione alla necessità che i fedeli recuperino il «dato biblico» della famiglia basata sul matrimonio fra uomo e donna (prima parte) e la sua apertura alla vita (terza parte). Eppure, sviscerando i problemi concreti (seconda parte) apre al confronto in vista dei lavori futuri nella consapevolezza che «non è in discussione la dottrina della Chiesa — sono parole di Forte — , più volte ribadita anche negli ultimi anni dai vari interventi magisteriali». Sono state 114 le Conferenze episcopali a cui è stato inviato il questionario, con un ritorno dell’85 per cento. «La stragrande maggioranza delle risposte — recita il documento — mette in risalto il crescente contrasto tra i valori proposti dalla Chiesa su matrimonio e famiglia e la situazione sociale e culturale diversificata in tutto il pianeta». Ampio il capitolo dedicato ai divorziati e risposati, i quali non sono soltanto giovani: anche 22 tanti nonni divorziano. In generale molti divorziati risposati non vedono neanche come «irregolare» la loro condizione, e risulta loro difficile comprendere perché la Chiesa non li ammetta alla comunione, tanto che «c’è chi si domanda perché gli altri peccati vengono perdonati e questo no». In tante parti del mondo, inoltre, la Chiesa chiede di snellire la procedura per la nullità matrimoniale; e ricorda come ai bambini di coppie gay vada dato il battesimo. L’ Instrumentum menziona anche «il terribile fenomeno del femminicidio, spesso legato a profondi disturbi relazionali e affettivi, e conseguenza di una falsa cultura del possesso» e il «dramma del commercio e dello sfruttamento dei bambini», nonché la piaga del «turismo sessuale» e della «prostituzione che sfrutta i minori». Altre situazioni critiche di particolare rilevanza nelle famiglie sono «le dipendenze da alcool e droghe», la «pornografia, talvolta usata e condivisa in famiglia», il «gioco d’azzardo» e i «videogiochi, internet e social network». Il documento denuncia anche la «rilevante perdita di credibilità morale » della Chiesa a causa degli scandali sessuali, soprattutto in America del Nord e in Europa Settentrionale, a cui si aggiunge «lo stile di vita a volte vistosamente agiato dei presbiteri, così come l’incoerenza tra il loro insegnamento e la condotta di vita ». Secondo il documento, «un fattore che interroga l’azione pastorale » è «la promozione della ideologia del gender» che «in alcune regioni tende ad influenzare anche l’ambito educativo primario, diffondendo una mentalità che, dietro l’idea di rimozione dell’omofobia, in realtà propone un sovvertimento della identità sessuale». Del 27/06/2014, pag. 20 I magistrati italiani hanno potuto interrogare i militari d’oltralpe Si sgretola il muro di silenzi sulla guerra nei cieli di 34 anni fa Ustica, luce sulla strage ora la Francia collabora “Via il segreto di Stato” ROMA Dopo 34 anni la Francia ha deciso a sorpresa di collaborare all’inchiesta sulla strage di Ustica. E le prime ammissioni fatte da alcuni ex militari dell’Armeé de l’air ai pubblici ministeri di Roma — stando a quanto trapela da fonti di stampa — sbugiardano quella che è stata fino ad oggi la versione ufficiale di Parigi sui fatti del 27 giugno 1980. Le informazioni raccolte dal procuratore aggiunto Maria Monteleone e dal sostituto Erminio Amelio dimostrerebbero che i famosi caccia francesi della base di Solenzara in Corsica non tornarono a terra intorno alle 17, cioè quattro ore prima dell’esplosione del Dc9 Itavia. Volarono invece fino a tarda sera. La questione non è esattamente un dettaglio, visto che tra le ipotesi più accreditate per spiegare perché l’aereo civile si inabissò con i suoi 81 passeggeri tra le isole di Ponza e Ustica, c’è appunto quella che possa essere stato abbattuto da un caccia francese. Da fonti governative d’Oltralpe, e dalla procura di Roma, arriva un secco «no comment » sull’attività investigativa in corso. Ma nessuno ha smentito la notizia che una decina di ex militari della base di Solenzara siano stati ascoltati dai pm italiani. I colleghi francesi sarebbero anche disposti ad aprire gli archivi della Difesa per ricostruire i movimenti di cacciabombardieri e unità navali nel mar Tirreno, la notte dell’incidente. La svolta è di quelle di un certo peso per il proseguo delle indagini e non può che essere stata decisa dai massimi livelli politici. Il governo del presidente Francois Holland aveva già mostrato una nuova sensibilità verso l’Italia sulla strage di Ustica, quando l’anno scorso aveva risposto a una rogatoria della procura di Roma trasmessa nel 2011. Parigi ammise che la Foch e la Clemenceau, due portaerei, incrociavano il 23 Mediterraneo in quel periodo, seppure in giorni diversi da quello della strage. Una risposta parziale, ma comunque un segnale positivo. Ai pm romani interessa, in particolare, ricostruire il traffico aereo, capire se era in corso o no un’esercitazione militare, capire se c’erano navi nell’area di mare in cui è precipitato il Dc9. Un punto, questo, che è diventato di «notevole interesse investigativo» dopo la testimonianza di un pilota dell’Ati raccolta per caso un anno fa, il quale ha riferito che la sera precedente il disastro sorvolò l’isola notando alcune navi, tra cui appunto una portaerei. Inizialmente le autorità francesi avevano sostenuto di non poter rintracciare con precisione chi, la notte dell’incidente, fosse in servizio alla base di Solenzara. Ciò aveva portato allo stallo delle indagini, perché gli indizi e i documenti raccolti conducevano proprio nella direzione dello scenario “da guerra aerea”. I tabulati dei radar di Poggio Ballone, infatti, mostravano le tracce di due apparecchi in volo verso Ustica «in orari compatibili », e la conferma che quei segnali corrispondessero a dei caccia era stata fornita dalla Nato al giudice istruttore Rosario Priore. La nazionalità dei mezzi, però, non è stata mai accertata. E poi c’è la testimonianza del generale dei Carabinieri Antonio Bozzo che quel giorno si trovava in vacanza con la famiglia proprio a Solenzara e sostiene di aver visto decollare gli aerei fino dopo la mezzanotte. Il primo a parlare della “pista francese” era stato l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga: nel 2007 mise a verbale che a far esplodere il Dc9 era stato un missile aria-aria lanciato da un caccia partito da una portaerei, nel tentativo di intercettare un aereo libico con a bordo il colonnello Gheddafi. La svolta di Parigi potrebbe finalmente portare alla luce la verità su quel 27 giugno di trentaquattro anni fa, chiudendo definitivamente nel cassetto l’ipotesi del «cedimento strutturale». del 27/06/14, pag. 23 Ai funerali di Esposito il debutto degli agenti con la videocamera Il Viminale ha già emanato il regolamento per l’uso dei dispositivi elettronici in caso di manifestazioni pubbliche a rischio incidenti: piazza filmata solo se la tensione crescerà Il dispositivo di sicurezza predisposto dalla questura di Napoli è di massima allerta. Ed è possibile che gli agenti in servizio di ordine pubblico possano attivare le telecamere montate sui giubbotti. La sperimentazione è partita ieri, con l’emissione della circolare dei vertici del Dipartimento guidato dal prefetto Alessandro Pansa. Ufficialmente si comincia il 1° luglio, ma già da settimane sono state effettuate alcune «prove» per testare il funzionamento delle apparecchiature. Video in quattro città Il «disciplinare di utilizzo» fissa le 10 regole da rispettare, le modalità da seguire per evitare abusi. Sono 160 le apparecchiature messe a disposizione dei Reparti Mobili di Roma, Napoli, Torino e Milano che potranno utilizzarle durante le manifestazioni, nel corso dell’attività fuori e dentro gli stadi, ma anche in occasione di particolari momenti di tensione come può essere appunto il funerale di Ciro Esposito, vittima della follia ultrà prima della finale di Coppa Italia tra Fiorentina e Napoli, giocata all’Olimpico di Roma il 3 maggio scorso. L’obiettivo è specificato nel documento: «Utilizzare le videoriprese come strumento di prevenzione a tutela delle persone e del regolare svolgimento della manifestazione». 24 I «capisquadra» Il decalogo prevede che «l’apparecchio, montato sul gilet tattico del “caposquadra” e di un altro componente dell’unità organica dei Reparti Mobili, venga attivato nei momenti di criticità per ordine di un funzionario che potrà disporre la cessazione e poi riattivarlo se ce ne sia la necessità. Al termine dovrà essere compilato un foglio di consegna e tutta la documentazione dovrà essere consegnata alla polizia Scientifica». Il regolamento assegna al consegnatario del Reparto il compito di «verificare lo stato di efficienza dei dispositivi prima dell’utilizzo e all’atto della riconsegna. Deve poi provvedere al mantenimento della piena efficienza delle batterie, controllando la corrispondenza dell’orario, e della data presenti sul display . Tutti i dispositivi dovranno essere sincronizzati sulla stessa data e sullo stesso orario». Le schede di memoria La decisione di filmare la piazza è stata presa nelle scorse settimane, dopo gli scontri avvenuti durante il corteo di metà aprile a Roma segnato dal poliziotto che calpestava una manifestante. E ha come priorità quella di «cristallizzare» i momenti più complessi proprio per poter poi stabilire che cosa sia effettivamente accaduto. E così assegnare responsabilità certe ai responsabili. Anche per questo è previsto che al momento della consegna al caposquadra «la scheda di memoria non dovrà contenere alcun dato archiviato. Le videocamere e le schede di memoria sono contraddistinte da un numero seriale che dovrà essere annotato in un apposito registro recante il giorno, l’orario, i dati indicativi del servizio, la qualifica e il nominativo del dipendente che firmerà la presa in carico e la restituzione». Proprio per garantire la genuinità delle riprese «l’operatore, dopo aver verificato il funzionamento, l’assenza di dati archiviati nella memoria e la corrispondenza di data e orario, posizionerà la videocamera sul gilet tattico e dovrà tenerlo, pronto per l’utilizzo, per tutta la durata del servizio». La «tutela» per le indagini I primi a sollecitare la possibilità di utilizzare le telecamere erano stati i vertici dell’Associazione funzionari di polizia e il Siap «per tutelare gli operatori ed evitare assurde strumentalizzazioni», come ha più volte sottolineato il segretario Lorena La Spina. Una posizione condivisa dal Sap guidata da Gianni Tonelli e dalla Silp Cgil rappresentata da Daniele Tissone, concordi nel chiedere «strumenti efficaci di prevenzione e soprattutto di protezione». Un’istanza accolta anche perché, come viene specificato nella circolare, «è stata rilevata l’esigenza di implementare le dotazioni degli operatori dei Reparti Mobili con strumenti tecnologico dedicati, in grado di ampliare le aree di controllo visivo dell’evento che consentano, in via prioritaria di assicurare una maggiore tutela agli stessi operatori mediante l’acquisizione di materiale video-fotografico utile per l’eventuale supporto probatorio». La sperimentazione durerà sei mesi e «per monitorare la funzionalità della soluzione adottata e verificarne la rispondenza operativa», ogni mese dovrà essere trasmesso un «report» alla segreteria del capo della polizia in modo da poter effettuare eventuali interventi correttivi. Fiorenza Sarzanini 25 LEGALITA’DEMOCRATICA Del 27/06/2014, pag. 10 Allarme Corte dei Conti “La corruzione dilaga troppe deroghe su Expo” Il pg Nottola avverte: l’illegalità frena lo sviluppo e blocca soprattutto gli investimenti stranieri ROSARIA AMATO Pesa come un macigno sull’economia del Paese, proprio come l’evasione fiscale, il sommerso e la criminalità organizzata. Anche perché la corruzione «può attecchire ovunque: nessun organismo e nessuna istituzione possono ritenersene indenni o al riparo». Nella requisitoria sul rendiconto dello Stato per il 2013 il procuratore generale presso la Corte dei Conti Salvatore Nottola si sofferma a lungo sulla corruzione, un fenomeno che «condiziona pesantemente lo sviluppo dell’economia anche per l’effetto deterrente che ha sugli investimenti ed in particolare su quelli delle imprese straniere ». Dopo aver esaminato i conti pubblici, sottolineandone anche molti aspetti positivi, dall’avanzo primario superiore alla media Ue (in percentuale al Pil) alla diminuzione degli interessi sul debito (grazie al calo dello spread) Nottola dedica le ultime pagine della sua requisitoria a un’appassionata e accurata analisi della corruzione e soprattutto dei suoi effetti nefasti sul Paese, quasi a ricordare che qualunque progresso economico vale poco se il sistema non garantisce trasparenza, correttezza, legalità. E infatti il terreno di coltura della corruzione, denuncia, «è l’illegalità in tutte le sue forme». Comprese quelle, che possono apparire secondarie, dell’allentamento o della soppressione dei controlli di legge per una apparente buona causa, come è accaduto per l’Expo Milano 2015, «oggetto di numerose disposizioni derogatorie», motivate con ragioni di urgenza. I risultati sono noti, ma Nottola ribadisce che «in merito all’Expo la Corte dei conti già da tempo aveva lanciato l’allarme sui rischi insiti nella sua gestione, ma non risulta che se ne sia presa coscienza ». Per il futuro, meglio evitare «situazioni che favoriscono o celano accordi illeciti: ritardi nelle opere pubbliche che giustificano poi il ricorso a leggi eccezionali, perizie di variante in corso d’opera di dubbia utilità che possono celare dazioni illecite, opacità dell’Amministrazione ed eccesso di oneri burocratici». Quanto pesa la corruzione sull’economia italiana? «Azzardare delle cifre sarebbe impossibile e inutile», dice Nottola. Mentre gli analisti di Unimpresa la pensano diversamente: «Tra il 2001 e il 2011 la corruzione ha “mangiato” 10 miliardi di euro l’anno di prodotto interno lordo, per complessivi 100 miliardi in dieci anni». Non solo: secondo le stime di Unimpresa il fenomeno della corruzione in Italia fa calare gli investimenti esteri del 16 per cento e fa aumentare del 20 per cento il costo complessivo degli appalti. Ancora, «le aziende che operano in un contesto corrotto crescono in media del 25 per cento in meno rispetto alle concorrenti che operano in un’area di legalità ». Alle piccole e medie imprese va ancora peggio: il loro tasso di crescita può essere inferiore anche del 40 per cento. Naturalmente la corruzione non è un fenomeno italiano: nella Ue, ricorda Unimpresa, raggiunge i 120 miliardi di euro l’anno, pari all’1 per cento del Pil. A livello globale, l’incidenza è più alta: «Ogni anno si pagano più di 1.000 miliardi di dollari di tangenti e va sprecato, a causa della corruzione, circa il 3 per cento del Pil mondiale». 26 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE Del 27/06/2014, pag. 3 Protesta dei «no border»: «Più diritti, meno frontiere» La piazza. Fuori dal Consiglio d'Europa, le voci del corteo dei migranti di Angelo Mastrandrea Molti, come il senegalese napoletano Aboubakar Soumahoro, hanno dovuto sudarsela, la trasferta a Bruxelles per manifestare contro la "Fortezza Europa". Il suo viaggio ha rischiato di finire a Chamonix, dove la carovana partita dall'Italia è stata accolta da un imponente schieramento di agenti che li hanno rivoltati come calzini e alla fine non volevano far passare 5 persone nonostante fossero in possesso del permesso di soggiorno. Aboubakar quantifica il ritardo accumulato in 36 ore. Ad altri, come i quaranta rifugiati afghani che hanno piantato le tende nella chiesa di San Giuseppe Battista, è bastato invece solo affacciarsi sulla piazza del beguinage per unirsi alle centinaia di persone che urlavano quello che loro chiedono da mesi: il riconoscimento dell'asilo politico, la possibilità di andarsene in giro senza il rischio di essere fermati e rimpatriati o di cercarsi un lavoro regolare. Hanno marciato insieme per le strade di Bruxelles, ieri pomeriggio, gli afronapoletani e i belgi afghani, i primi catalizzando l'attenzione con balli e canti dietro uno striscione in italiano che reclamava «diritto di residenza» e alla casa, i secondi con una presenza più discreta, unico segno distintivo la kefiah avvolta al collo. Con loro, le carovane arrivate nei giorni scorsi dal resto d'Europa e alloggiate nel Parco Maximilien, giusto al confine tra la banlieue araba di Molenbeeck e i grattacieli delle banche e delle multinazionali. Primi ad arrivare, sabato scorso, i "no border" tedeschi con i gruppi di africani denominatisi "Lampedusa in Berlin" e "Lampedusa in Hamburg", a sottolineare il punto d'ingresso in Europa e quello di reale approdo. Buoni ultimi ma con validi motivi, gli italiani fermati alla frontiera. E poi i collettivi francesi di sans papiers, gruppi belgi e olandesi. Le carovane partite da mezza Europa sono confluite a Bruxelles per far sentire la loro voce al Consiglio dei capi di Stato e di governo, convocato ieri e oggi per decidere le prossime strategie comunitarie sull'immigrazione. In una settimana di "azioni", sono arrivati davanti al Parlamento europeo, hanno ricevuto la visita di una delegazione dei Verdi (unico partito a incontrarli), hanno protestato sotto l'ambasciata italiana e quella tedesca per lo sgombero di un edificio occupato a Berlino: il sit-in si è concluso con una ventina di persone fermate dalla polizia. Ieri pomeriggio, l'appuntamento al beguinage e il corteo, rumoroso anche se non affollatissimo, nel centro di una città con la testa rivolta alla partita serale del Belgio ai Mondiali. Se bisognerà attendere le conclusioni del vertice per trarre un bilancio e stilare analisi più precise, le premesse non sono certamente incoraggianti per le richieste dei no border. Nonostante i migliaia di morti nel Mediterraneo, non pare alle porte un cambiamento di rotta delle politiche migratorie europee. La bozza non ufficiale di cui si vociferava ieri prevederebbe un allargamento della missione Frontex di controllo delle frontiere. L'Italia, che si appresta a subentrare alla Grecia alla guida del prossimo semestre europeo, sotto pressione per il massiccio arrivo di migranti nei primi sei mesi dell'anno (superiore persino al 2011 della Primavera tunisina), chiede più risorse e una ripartizione per quote dei rifugiati tra i diversi Paesi dell'Ue, senza tener conto, come proprio ieri spiegava l'Istat, che 27 gli immigrati stanno diminuendo e che sempre più chi sbarca in Sicilia guarda al Nord Europa. Senza un coinvolgimento europeo, soprattutto economico, è la posizione del premier Matteo Renzi e del suo vice Angelino Alfano, la missione italiana "Mare nostrum" di soccorso in mare, decisa dopo il naufragio del 3 ottobre 2013 (366 morti e 20 dispersi), rischia di saltare. I no border non si aspettano nulla di buono dal summit. Sanno bene che la loro è una campagna di lungo periodo, culturale e politica, e si sono dati appuntamento per una grande manifestazione europea a Roma, nel prossimo ottobre. Ad annunciarla nella conferenza stampa che ha preceduto la manifestazione, è stato proprio l'afronapoletano Soumahoro. Intanto, la carovana italiana tornerà in tempo per essere in piazza sabato pomeriggio, sempre a Roma, al corteo contro l'austerity che aprirà il semestre italiano dei movimenti. del 27/06/14, pag. 11 Padova, il sindaco: “Qui non si fa il ramadan” MASSIMO BITONCI (LEGA NORD) VUOLE VIETARE IL CULTO MUSULMANO NELLE PALESTRE E IMPORRE IL CROCIFISSO NELLE SCUOLE di Mario Marcis Ecco un bel crocifisso obbligatorio, guai a chi lo tocca. Stop al Ramadan nella palestre. Padova è troppo pericolosa per farci vivere i miei figli. Queste alcune frasi pronunciate nelle ultime settimane da Massimo Bitonci, eletto sindaco di Padova il 9 giugno. Bitonci, 56 anni, esponente della Lega nord ma eletto con una lista civica in coalizione con il centrodestra, è già stato sindaco di Cittadella dal 2002 al 2012. In quegli anni intraprese una guerra al Kebab, vietandone la vendita in tutto il territorio comunale. Oltre all’attività frenetica su Twitter e Facebook – da lì provengono buona parte delle sue frasi riportate – evidentemente Bitonci è già al lavoro per cambiare volto alla città. Di pochi giorni fa, le sue dichiarazioni in cui annuncia di non voler più concedere le palestre alla comunità islamica per il Ramadan, come aveva stabilito la giunta precedente. “Mi dispiace, oggi non può parlare, è particolarmente occupato, parli con l’assessore ”, dice il suo portavoce. L’assessore in questione è Alessandra Brunetti, eletta nella lista civica ‘Bitonci sindaco’ e titolare della delega a “integrazione e convivenza, rapporti con il mondo religioso”. “È una delibera della precedente amministrazione - spiega l’assessore - Noi per ora manteniamo questa delibera, ma non la condividiamo. Non c’è nessuna motivazione ideologica, ma una palestra è un luogo deputato a manifestazioni sportive, non religiose. Altri fattori sono legati alla durata dell’evento (circa un mese, ndr) e alla somministrazione di cibo e bevande”. SECONDO ALESSANDRA Brunetti ci sarebbe un problema di “ordine pubblico e sicurezza”. Ma allora perché non concedere alla comunità islamica un luogo alternativo? “Non abbiamo avuto ancora modo di parlare con la comunità islamica, nemmeno con la comunità cristiana d’altronde”, si giustifica. Di mercoledì invece il tweet del sindaco Bitonci sui crocifissi nei luoghi pubblici. “Ora in tutti gli edifici e scuole un bel crocifisso regalato dal Comune”, così Bitonci è tornato su una delle battaglie che più lo hanno contraddistinto. A fare da corredo al tweet infatti una foto di un sit–in del 2009 in cui Bitonci ditribuiva 28 crocifissi gratuitamente fuori da una scuola di Abano Terme – provincia di Padova – in cui la famiglia di un alunno ne aveva chiesto la rimozione. “Innanzitutto è un tweet – minimizza Brunetti – poi il crocifisso è un simbolo di pace e amore, non leva nulla alla laicità dello Stato, semmai la riempie”. Uno dei motivi per cui i padovani hanno scelto Bitonci è la questione sicurezza, ne è certa l’assessore. “Nulla a che fare con l’immigrazione”, precisa. Forse è per questo che Bitonci ha deciso di non vivere nella città che amministra, ma in quella che amministrò: Cittadella. “Un domani, quando l’avremo ripulita e la sentirò più sicura per i miei figli, verrò a viverci”, aveva detto all’indomani della sua elezione. E intanto Bitonci e la sua amministrazione hanno deciso di querelare il fotografo Oliviero Toscani per le sue parole alla trasmissione di Radio 24 La Zanzara che aveva definito “subumani” Bitonci e la sua Giunta. 29 SOCIETA’ Del 27/06/2014, pag. 5 I pestaggi nel carcere di Vicenza e la sorte di Dimitri Alberti Diritti umani. Che fine ha fatto l'uomo picchiato dai carabinieri, caso per il quale la Corte di Strasburgo ha condannato l'Italia? Rita Bernardini Il manifesto è stato uno dei pochi giornali a dare la notizia dell’ennesima condanna che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha inflitto all’Italia per violazione dell’art. 3 Convenzione: «Trattamenti inumani e degradanti». Alla vittima, Dimitri Alberti, la Cedu ha riconosciuto un risarcimento di 15.000 euro per danni fisici e morali causati da un pestaggio dei Carabinieri al momento del suo arresto avvenuto nel marzo del 2010. I magistrati avevano creduto – come capita quasi sempre – alla versione delle Forze dell’Ordine: le costole rotte e l’ematoma al testicolo sinistro, Dimitri se li era procurati da solo nel corso della sua «resistenza ai pubblici ufficiali» che gli stavano stringendo i polsi dentro le manette. Ma dove si trova ora Dimitri? Dopo quell’arresto, Dimitri fu ristretto nel carcere di Verona; poi era andato a finire in una comunità ma da qui, per il sopraggiungere di un definitivo, era stato portato al carcere di Vicenza. Ricordo la visita ispettiva che da deputata radicale feci proprio in quel carcere, accompagnata dai radicali Maria Grazia Lucchiari e Francesco Donadello. Ci arrivammo a sorpresa in una domenica di novembre: nessuno se lo aspettava. Il comandante e il direttore non c’erano e ci raggiunsero già a ispezione in corso. L’istituto versava in condizioni pietose, tutte meticolosamente riportate in un interpellanza parlamentare. L’atmosfera era di paura e i detenuti, chiusi nelle loro piccole celle, sembravano intontiti e rassegnati a quello stato di prostrazione. Fino a che uno di loro, un nigeriano, ebbe il coraggio di parlare e, come un fiume in piena, raccontò delle violenze commesse da una consolidata squadretta di agenti nei confronti dei detenuti. Dopo O.P.M. – queste le iniziali dell’uomo nigeriano che, nonostante le condizioni vessatorie, si stava per laureare in carcere – altri, anche italiani, confermarono i pestaggi. Dopo quella visita e dopo l’interpellanza radicale, ci fu un’approfondita inchiesta interna del Dott. Francesco Cascini del Dap, la situazione migliorò e la magistratura aprì finalmente un’indagine (altre denunce dei detenuti degli anni passati erano state lasciate cadere nel vuoto) che portò sul banco degli imputati 15 agenti di polizia penitenziaria. Ma, tornando a Dimitri, oggi dov’è? E’ ancora in carcere? Pestato dai Carabinieri, come accertato dalla Cedu, ma anche in carcere dagli agenti? Dimitri è ricoverato in stato neurovegetativo presso il Centro riabilitativo veronese di Marzana: ci è finito, dopo un’ischemia sopraggiunta ad un attacco epilettico che lo ha colto nell’agosto del 2012 mentre era detenuto al carcere di Vicenza. Che ci siano di mezzo anche i pestaggi denunciati da O.P.M.? Per come si sono svolti i fatti in passato, c’è da tenere gli occhi bene aperti. Il fatto che in Italia non sia stato ancora introdotto il reato di tortura la dice lunga sulle omertà del sistema che, intanto, è riuscito ad ottenere che noi radicali non si sia più parlamento, con la conseguenza che le lunghe visite ispettive “a sorpresa” negli istituti penitenziari – effettuate ai sensi dell’articolo 67 dell’ordinamento penitenziario – si siano nella pratica interrotte. Infine, una preoccupazione: sulla violazione dei Diritti Umani Fondamentali, l’osannato Presidente del Consiglio Matteo Renzi, detentore di primati ineguagliabili quanto a presenze in tv, il lugubre “verso” del passato non ha dimo30 strato la minima propensione a volerlo cambiare. Ecco perché riteniamo che questo sia il punto centrale e irrinunciabile dell’iniziativa e della politica radicale. * Segretaria nazionale di Radicali italiani 31 INFORMAZIONE del 27/06/14, pag. 6 Editoria, tre anni di sgravi e incentivi per chi assume Il Fondo da 120 mln per il settore in crisi ● Lotti: niente contributi se il 20% dei contratti non si stabilizza Un provvedimento innovativo e che punta sull’occupazione. Il sottosegretario con delega all’Editoria Luca Lotti definisce così il testo appena firmato, che porta in dote 120 milioni di euro. È il decreto sul Fondo straordinario per gli interventi di sostegno all’editoria per il triennio 2014-2016 - in attuazione della legge 147 del 2013 - che stabilisce per cosa e con quali criteri saranno concesse le risorse disponibili per quest’anno, circa 45 milioni di euro, e che Lotti presenta come «il punto di arrivo di un lavoro durato diverse settimane», mirato «innanzitutto al sostegno della nuova occupazione, passaggio fondamentale per dare nuova energia a un settore oggettivamente in crisi». «Il decreto - spiega il sottosegretario prevede infatti sgravi fiscali al 100% per 36 mesi per le assunzioni a tempo indeterminato, al 50% per le assunzioni a tempo determinato e ulteriori incentivi per la trasformazione del tempo determinato in indeterminato che a quel punto avrà sgravi retroattivi. Si prevede anche l’obbligo di trasformare il 20% dei contratti a tempo determinato in indeterminato, pena lo stop all’erogazione dei contributi». Secondo questa logica, le aziende editoriali potranno ricevere dei sostanziosi contributi, a patto che ogni tre prepensionamenti ci sia almeno una nuova assunzione a tempo indeterminato. Se un’azienda ha ricevuto sostegno attraverso il Fondo straordinario, inoltre, le sarà vietato riutilizzare i giornalisti andati in prepensionamento. Parte minima del Fondo viene poi destinata agli ammortizzatori sociali, a condizione che vi sia un intervento di pari valore da parte delle imprese. «Sono particolarmente soddisfatto per la misura sull’innovazione tecnologica - sottolinea ancora Lotti - attraverso la quale da una parte sarà possibile concedere una garanzia per chi investe in innovazione tecnologica e digitale, dall’altra premiare le migliori start up». Garanzie che varranno anche per l’editoria libraria. Niente contributi, però, a chi non rispetta la norma sull’Equo compenso e per le aziende che introducano bonus o premi collegati a risparmi sul costo del lavoro giornalistico, a favore dei propri dirigenti. Condizioni, queste, rivendicate esplicitamente dal sottosegretario, che ribadisce l’attenzione avuta per i giovani, «per chi ha meno garanzie» e si sofferma sull’accordo raggiunto per introdurre «un compenso minimo garantito che finora non c’era: purtroppo, come ha spesso denunciato l’Ordine dei giornalisti, oggi ci sono alcune aziende editoriali che pagano tre o quattro euro per un articolo, mentre con questo accordo un pezzo di 1600 battute dovrà essere pagato 20,8 euro. Mi sembra un primo passo significativo», dice il sottosegretario, aggiungendo che «non ci fermiamo qui e andiamo avanti». Ma proprio l’Equo compenso resta un nodo contestato da precari e collaboratori esterni. Per Felsa Cisl, Nidil Cgil e Uil temp la nuova norma «cela lo sfruttamento legalizzato », con un tariffario «ben al di sotto dei minimi stabiliti da qualsiasi contratto collettivo nazionale» e «che lede la dignità dei lavoratori, il principio di equità e lo stesso diritto all’informazione ». Contestazioni dello stesso tenore di quelle arrivate dal Coordinamento precari, freelance e atipici della Stampa Romana all’indirizzo del segretario generale della Federazione nazionale della stampa, Franco Siddi, che ieri ha presentato in conferenza 32 stampa il nuovo Contratto nazionale di lavoro, appena firmato da Fnsi e Fieg, e che ha salutato con soddisfazione gli interventi previsti dal decreto sul Fondo straordinario per l’editoria, che in tre anni «possono garantire l’assunzione di 1.500 giornalisti». Un Siddi contestato anche da quattro consiglieri della Fnsi, Pierangelo Maurizio, Marco Ferrazzoli, Massimo Calenda e Paolo Corsini, che parlano di «contratto scempio» e di «ultimi regali agli editori». Annunciato per settembre, infine, il lavoro che dovrebbe portare a breve alla riforma delle agenzie di stampa, perché «un sistema plurale va bene - ha detto Siddi - ma undici agenzie di stampa generaliste con convenzione sono tante, occorre quindi andare nella direzione delle specializzazioni tematiche». Del 27/06/2014, pag. 5 L’«iniquo compenso» scatena la tensione tra freelance e sindacato giornalisti Editoria. Ieri a Roma nel corso della presentazione dell'intesa con gli editori e il governo, il segretario generale Fnsi ha affrontato la contestazione dei colleghi precari sull'equo compenso da poco approvato Roberto Ciccarelli <<Ho a domanda, sono una freelance». «Prima le testate». Il botta e risposta tra una giornalista precaria e il segretario generale della federazione nazionale della Stampa Franco Siddi ha scatenato una bufera ieri in una conferenza stampa convocata per presentare il protocollo d’intesa sul lavoro giornalistico tra editori, sindacato giornalisti e il governo. Da giorni Siddi è bersagliato dalle critiche sull’intesa raggiunta sull’equo compenso per i giornalisti freelance. Il rinnovo del nuovo contratto nazionale dei giornalisti ha fissato in 250 euro lordi la retribuzione mensile per un collaboratore. Per il sindacato è una retribuzione equa. Per i freelance è all’opposto un’«iniquo compenso». E non solo per loro, visto che tre esponenti sindacali membri della giunta non hanno firmato l’intesa e le associazioni della stampa dell’Emilia Romagna e della Toscana si sono espresse molto negativamente. L’hashtag #siddivergogna ieri ha spopolato su twitter bersagliando l’Fnsi e annunciando una manifestazione dei freelance martedì 8 luglio alle 10 in corso vittorio Emanuele a Roma.Siddi ha risposto per le rime su twitter: «Ho fatto anche un’analisi dei centinaia di tweet contro il contratto e ho scoperto che l’80% non è stato scritto da giornalisti ma da chi aspira ad esserlo ma fa lavori molto diversi». Le controrisposte non sono mancate. Nel frattempo, in conferenza stampa, al momento delle domande, ieri la tensione è esplosa. In un’intervista rilasciata all’Huffington Post, Siddi sostiene che il compenso è stato ottenuto dopo una lunga trattativa — venti euro lordi– è il doppio del compenso stabilito in media dagli Ordini regionali per ciascuno dei cinquanta articoli richiesti agli aspiranti pubblicisti: undici euro. A suo avviso si poteva fare di più, ma le trattative hanno portato a questo risultato. Il segno di un cambiamento sarebbe quello di avere inserito per la prima volta in un contratto nazionale un capitolo dedicato ai freelance ai quali vengono garantiti il diritto di firma e l’assicurazione contro gli infortuni. La sua comprensione va ai precari a cui consiglia «di allearsi con il sindacato per ottenere un vero contratto, magari con l’aiuto dei loro colleghi in redazione». Respinge le accuse di chi lo critica da «dentro»: «strumentalizzano l’accordo in vista del congresso tra sei mesi». Per Siddi, gli editori «volevano fare a pezzi il contratto nazionale e invece siamo riusciti a tenerlo in piedi nonostante tutto». 33 Realtà opposta per i precari. Per loro l’accordo non è migliorativo della condizione attuale di iper-sfruttamento ma è piuttosto la fotografia dell’esistente. La conferma viene da un comunicato unitario siglato da Felsa Cisl, NIdil Cgil e Uil Tem.p@ secondo i quali «l’equo compenso cela sfruttamento legalizzato — Si tratta di cifre ben al di sotto dei minimi stabiliti da qualsiasi contratto collettivo nazionale, e, dunque, in contrasto con quanto stabilito nella legge 92/12, secondo la quale la retribuzione minima dei collaboratori deve corrispondere con quanto stabilito dalla contrattazione per i lavoratori dipendenti. Il tariffario minimo per autonomi e precari che lede la dignità dei lavoratori, il principio di equità e lo stesso diritto all’informazione». Una presa di posizione a favore della battaglia dei coordinamenti dei freelance che sostengono una petizione indirizzata al sottosegretario Luca Lotti. Si chiede il ritiro della delibera attuativa della legge sull’equo compenso. L’obiettivo è garantire un compenso realmente equo e dignitoso. Un commento dettagliato dell’associazione XX maggio ha approfondito la natura dell’accordo. La platea dei giornalisti a cui si applica vale solo per gli editori che ricevono finanziamenti pubblici, l’Fnsi (sindacato dei giornalisti) e la Fieg (Editori). La platea è stata ulteriormente ristretta ai giornalisti con contratti di collaborazione coordinata e continuativa 1600 battute (12 articoli mensili da 1600 battute nei quotidiani, 45 pezzi di almeno 1800 battute nei periodici e almeno un articolo di 7000 battute ogni numero per i mensili. In questo caso percepiranno 20,84 euro a pezzo pari a 250€ al mese. L’equo compenso non si applica a chi ha un reddito inferiore ai tremila euro annui, cioè a coloro che lavorano «a pezzo» in una giungla deregolamentata. «Un corposo sostegno agli editori ma non ai giornalisti precari» commenta l’associazione. Questa segmentazione del mercato del lavoro prosegue anche verso l’alto. Il contratto crea la figura dell’apprendista, rivolta ai praticanti giornalisti dai 18 ai 29 anni per 36 mesi. È come il contratto a termine di Poletti: non ha causale, il giovane può essere licenziato senza motivazione, i suoi rinovi possono essere infiniti. Senza certezza di essere assunti alla fine dei 3 anni. «È un piccolo Jobs Act» ha commentato Lotti secondo il quale è in arrivo nuova occupazione nei media italiani. 34 CULTURA E SCUOLA Da Corriere della sera (Roma) del 27/06/14, pag. 1/3 La caduta della cultura romana A New York, Londra e Parigi il quintuplo di ingressi Ignazio Marino «Obiettivo una fondazione che raccolga i singoli contributi e li reinvesta in progetti specifici» ROMA - Federculture - federazione che tiene insieme aziende e enti di gestione della cultura, soggetti pubblici e privati - dopo svariate anticipazioni ha presentato il suo «Rapporto 2014»; una raccolta di numeri che per quanto riguarda Roma e i consumi culturali (da qualche anno non una novità) contiene dati in buona parte da débâcle. Nella capitale, si legge, calano i visitatori (-13%), ma soprattutto cala la spesa dedicata alle mostre (-27,6%). Nella top ten di quelle più visitate nel 2013 in Italia, ben quattro esposizioni sono comunque romane: tra queste la più vista è stata «Tiziano» alle Scuderie del Quirinale, circa 246 mila visitatori. Se però si considerano le 10 mostre d’arte più viste a Roma nell’anno, queste hanno attratto 1.190.335 visitatori in totale, il 13% in meno rispetto al 2012, quando le dieci mostre di maggior successo in città ebbero un pubblico di 1.368.916 persone. Il Rapporto Federculture mette poi a confronto la Capitale con le altre grandi città internazionali: «Nessuna mostra romana - si legge - è presente nelle classifiche internazionali, mentre a Roma le mostre raccolgano circa un quinto di quanto accade a Londra, New York, Parigi». Nello specifico, prendendo il totale dei visitatori delle prime dieci mostre in città, Londra ne conta 5.377.826, New York 5.098.868, Parigi 4.425.505, mentre Roma si ferma a 1.190.335. A presentare ieri il Rapporto, nel Conservatorio di Santa Cecilia, il presidente di Federculture (e dell’Accademia di Belle Arti di Roma) Roberto Grossi, alla presenza del sindaco di Roma Ignazio Marino e del ministro dell’Istruzione Stefania Giannini. Secondo l’indagine non se la passano bene nemmeno i musei civici di Roma (-5,7 di visitatori nel 2013 pari a 1,4 milioni totali), con il crollo del Macro (-52%). Male anche i Capitolini (-9% degli) e Azienda Palaexpo (meno 10%). Clamoroso invece il dato del Maxxi, che comunica un più 43 per cento (non solo visitatori paganti, piuttosto una stima che comprende presenze ai talk, alle rassegne sulla piazza e a tutti gli eventi gratuiti). Segno negativo anche per spesa del pubblico a teatro (-18%) e cinema (-2,5%). Dal canto suo, il sindaco Ignazio Marino, che non ha ancora nominato l’assessore alla Cultura in sostituzione della dimissionaria Flavia Barca, ha detto: «Nel periodo 1 gennaio30 giugno del 2013 i visitatori dei musei civici romani sono stati 767.032. Dal primo gennaio di quest’anno sino al 22 giugno i visitatori sono stati 795.745. Considerato che alla fine del mese di giugno manca ancora una settimana il divario di circa 30mila visitatori in più nei primi mesi del 2014 rispetto all’analogo periodo del 2013 è un dato destinato a crescere. Per questo ancor più positivo e promettente. Da settembre 2013 in poi, inoltre, abbiamo promosso eventi che hanno registrato un vero boom di visitatori. Ne cito solo alcuni, come le grandi mostre alle Scuderie del Quirinale, da “Augusto”, 160mila visitatori, a “Frida Kahlo”, che a tre mesi dall’apertura ha totalizzato 230mila visitatori per una media di 2.500 biglietti staccati al giorno». Il primo cittadino ha anche annunciato: «Uno dei miei obiettivi di medio termine è la creazione di una fondazione che raccolga i singoli contributi e li reinvesta in progetti specifici su Roma». 35 Del 27/06/2014, pag. 10 La scena aperta degli intermittents Francia. La protesta dei lavoratori precari dello spettacolo continua. Dopo la firma dell’accordo, gli occhi di tutti sono puntati al 4 luglio, data di inizio del Festival di Avignon Tutti gli occhi sono puntati al 4 luglio, giorno di apertura del Festival d’Avignon, il più importante dell’estate. Gli intermittents, cioè i precari del mondo dello spettacolo che in Francia godono di un sistema particolare di sussidio di disoccupazione che poco per volta sta perdendo in qualità, hanno già annunciato una giornata di sciopero. Il Festival d’Avignon, il primo con la nuova direzione di Olivier Py, rischia di essere annullato, come è già successo nel 2003, in occasione di un’altra riforma del sussidio di disoccupazione che limitava alcuni diritti acquisiti? Il direttore ha già fatto sapere che non cancellerà la manifestazione, ma alcuni spettacoli potrebbero comunque saltare a causa della mobilitazione del personale. Proprio Olivier Py in un’intervista al quotidiano Le Monde, qualche giorno fa, aveva messo in guardia il governo: se viene firmata la nuova convenzione sull’indennizzo dei disoccupati messa a punto il 22 marzo scorso tra il Medef (la Confindustria francese) e una parte dei sindacati – che riguarda 2.200.000 persone in Francia, molto al di là quindi dei centodiecilmila lavoratori dello spettacolo – c’è il rischio di un blocco. Ma ieri il governo ha firmato in nome del rispetto della «concertazione sociale», il metodo socialdemocratico che François Hollande vorrebbe importare in Francia, un gesto quasi simbolico a pochi giorni dall’apertura della «conferenza sociale» con padronato e organizzazioni sindacali. Il 1° luglio entreranno così in vigore le nuove norme, malgrado le proteste. Ieri la notizia della firma è stata accolta con manifestazioni di intermittents in varie città, da Parigi a Marsiglia. Il governo, per evitare il peggio, ha nominato prima un mediatore (il deputato socialista Jean-Patrick Gille) poi una commissione formata da tre personalità rispettate nel mondo dello spettacolo (oltre a Gille, Hortense Archambault, ex direttrice del Festival di Avignon, e Jean-Denis Combrexelle), con la missione di ridiscutere tutto il sistema, ivi compresi i punti più controversi della riforma. Molti festival hanno già subito le conseguenze della protesta. Il 4 giugno non ha potuto aver luogo la prima della Traviata all’Opéra-Comédie di Montpellier e, sempre a Montpellier, da dove era partita la protesta nel 2003, è stato annullato il Festival Printemps des Comédiens. Montpellier Danse è parzialmente bloccato, e ieri le proteste sono ricominciate con forza dopo una pausa mercoledì che ha permesso lo svolgimento degli spettacoli. Lo sciopero della maggioranza di tecnici al teatro dell’Agora ha determinato l’annullamento di Empty Moves , coreografia di Angelin Preljocaj e di Plage romantique di Emanuel Gat. A Grignan è stata annullata la prima della pièce Lucrezia Borgia, con Beatrice Dalle. Ma proprio a Montpellier Danse e al festival di arte lirica di Aix si è prodotta una situazione strana: gli intermittenti che lavorano alla produzione degli spettacoli hanno votato contro lo sciopero, anche se alcuni spettacoli sono stati annullati a causa dell’irruzione in scena di gruppi di lavoratori estranei all’attività dei teatri implicati. C’è cioè una frattura nel mondo dei lavoratori dello spettacolo (oltre a quella della divisione sindacale, tra le organizzazioni che hanno firmato l’accordo del 22 marzo e quelle che lo hanno rifiutato). Molti direttori, che pure si dichiarano favorevoli alle rivendicazioni degli intermittenti, si oppongono all’annullamento delle manifestazioni. Olivier Py ha ricordato nei giorni scorsi, a sostegno della sua presa di posizione contro l’annullamento, che a differenza del 2003 – quando appunto la manifestazione venne annullata — oggi non c’è più l’assicurazione che copre 36 i costi in caso di sciopero. Non permettere lo svolgimento del Festival di Avignon, come degli altri, sarebbe percciò «un suicidio», perché tale decisione comprometterebbe la sopravvivenza stessa del festival negli anni a venire. In termini di perdite economiche la previsione per il solo il Festival d’Avignon è di 4–5 milioni di euro. Questo riferimento ai mancati guadagni intende mettere il governo di fronte alle sue responsabilità: la cultura in Francia ha un fatturato annuo intorno ai cinquantotto miliardi di euro, pari al 3,2% del pil. Nello spettacolo, il lavoro è soprattutto precario. Il regime speciale risale al 1936, era nato per il teatro e nel corso degli anni è stato esteso anche al cinema e alla tv. Prevede che una persona che ha accumulato almeno 507 ore di lavoro in dieci mesi, con contratti a tempo determinato, possa accedere al sussidio di disoccupazione per la durata di otto mesi e mezzo. Per il Medef è un «privilegio», per la Corte dei conti produce un «deficit cronico», che versa 232 milioni l’anno di contributi e versa 1,26 miliardi in sussidi. Ad aver fatto esplodere il sistema sono le tv e le società di produzione video. Per esempio, dei colossi come France Television e Radio France, società pubbliche,occupano 8600 intermittents, che sono soprattutto «permittents», cioè impiegati dallo stesso datore di lavoro il quale approfitta del sistema per scaricare i costi. 37 INTERESSE ASSOCIAZIONE del 27/06/14, pag. 18 Stragi nazifasciste senza colpevoli Eccetto Priebke e Kappler gran parte dei crimini restano impuniti STRAGI NAZIFASCISTE. UNA LUNGA SCIA DI SANGUE INNOCENTE CHE PUNTEGGIÒ L’OCCUPAZIONE TEDESCA IN ITALIA TRA L’ESTATE DEL 1943 E IL MAGGIO 1945, CON EPICENTRO NEL 1944 IN TOSCANA. Solo furore? O anche metodo nella follia, cioè strategia? I numeri. Nel biennio vi furono 400 stragi e il bilancio fu di 15mila vittime civili, tra massacri di inermi e rappresaglie. Mentre per i partigiani passati per le armi, Carlo Gentile e Heinz Klinkhammer parlano di 10mila persone. Dunque Toscana nel mirino, per la sua posizione al centro dell’Appennino, cruciale per il ripiegamento tedesco verso la linea Gotica dopo lo sfondamento a Cassino e la liberazione di Roma il 4 giugno 1944. In Toscana tra aprile e agosto del 1944 i comuni interessati furono 83 e 280 le stragi, con 4500 assassinati. La più famosa, almeno quanto quella di Marzabotto, fu la tragedia di Sant’Anna di Stazzema, il 12 agosto. In tre ore una divisione delle Ss trucidò 560 persone: anziani, donne e bambini. Tutto documentato e occultato nei famosi «armadi della vergogna». Nel gennaio 1960 il procuratore generale militare Enrico Santacroce impacchetta col timbro «archiviazione provvisoria» 695 fascicoli sulle stragi tedesche, seppellendole in un armadio contro un muro. Solo nell’estate 1994 il giudice Antonino Intelisano, a caccia di prove contro Priebke, trova i fascicoli, in uno sgabuzzino di Palazzo Cesi, negli uffici giudiziari militari a Roma. E la polemica sulla memoria si incendia. Già, perché oltre al processo contro Priebke, è in corso la discussione sulla «guerra civile» in Italia, sul fascismo non più «male assoluto» a differenza del nazismo. Sui ragazzi di Salò, e le responsabilità della Resistenza. Di lì a qualche anno sarebbe fiorita la saga di Giampaolo Pansa contro la Resistenza rossa e le sue vendette, ben dentro la polemica di destra contro il fondamento antifascista della Costituizione a base della democrazia parlamentare, da rifondare in chiave presidenzialista. Ma torniamo alle stragi. Chi le perpetrava e perché? Chi ne fu complice? E quanto furono punite nel dopoguerra? Ecco le formazioni più feroci di stragisti. La Leibstandarte Adolf Hitler, presente a Boves, Lago Maggiore e Istria. Le unità SS Karstjaeger, attive in Venezia Giulia e Friuli. La 16maSSPanzer-Grenadier- Division ReichsFuehrer, colpevole di aver soppresso non meno di 2mila civili tra luglio e settembre 1944 in provincia di Pisa, Lucca, nelle Apuane e nell’Appennino Bolognese. Anche Whermacht e Luftwaffe sono in prima fila. «Uomini comuni » e veterani della pulizia ideologica, unità combattenti e specialisti della guerra etnica, spesso reduci dai massacri orientali. Addestrati per il Bandengebiet, il rastrellamento metodico che devasta villaggi e vallate, deporta e cattura ostaggi. Come sapevano fare i 33 «pacifici » SS Bozen incappati nell’attentato di Via Rasella: volontari altoatesini destinati alla repressione e alla mattanza e a tal fine istruiti. Perciò collera e furore, vendetta e punizione, contro gli italiani traditori che osavano opporre resistenza, già a partire dalle stragi di Nola, Acerra, Caiazzo dell’estate 1943. E a Cefalonia dopo l’8 settembre. Poi guerra etnica: caccia agli ebrei col supporto della Rsi e delle sue leggi (eredi di quelle razziali del 1938 con relativi elenchi). E infine «strategia»: dissuadere le popolazioni dal fornire aiuto ai partigiani. Con ferocia sistematica. E addossando ai resistenti la colpa delle rappresaglie. Era il risvolto psicologico della contro-resistenza contro l’avanzata Alleata sul fronte italiano, inteso come scudo a favore della Germania.Mossa capace di sottrarre uomini e mezzi alleati dal fronte occidentale. E ritardare l’assedio finale al Reich da Ovest, prima della controffensiva 38 delle Ardenne. Poi c’erano i ragazzi di Salò. Apporto logistico, spionistico e materiale ai tedeschi. In nome dell’«onore».E perciò elenchi di persone sospette, carte toponomastiche, e fornitura di plotoni di esecuzione, come a Piazzale Loreto il 10 agosto 1944. Oltre alle rappresaglie fatte in proprio, con l’avallo dei Tribunali speciali: Ferrara, Lovere, Savona, Reggio Emilia, Genova, Villamarzana, Villa Sesso. E la punizione dei colpevoli nel dopoguerra? Vendette e giustizie sommarie a parte, per lo più i fascisti se la cavano, tra amnistia di Togliatti, epurazioni soft e sconti di pena. Molto più severa sarà la magistratura coi partigiani, spesso accusati di crimini comuni. Ma la vera sanatoria sarà quella per i tedeschi. Uomini e ditte che si riciclano nella vita civile. Amnistiati, graziati, rilegittimati. Come Kesserling, stratega del terrore in Italia, condannato a morte da un tribunale inglese nel 1947, poi graziato e liberato nel 1952 (e divenuto consulente militare di Adenauer nel quadro del riarmo Nato). O come la Bayer - nel consorzio «Ig Farbe» che produceva il gas Ziklon b - e come la Krupp, la Thyssen e tante industrie germaniche complici della macchina nazista. Quanto alla giustizia tedesca - malgrado le Convenzioni dell’Aja e di Ginevra, Norimberga e la Carta dell’Onu - mostra ancora riluttanza nel processare i colpevoli di stragi. Valga l’esempio di S. Anna di Stazzema, su cui si sono pronunciati i tribunali militari di La Spezia, Roma e la Cassazione. La Procura di Stoccarda il 26 settembre 2012 ha archiviato il processo, pur accettando che si trattasse di crimine di guerra. Ma l’archiviazione si basava sulla tesi pretestuosa che dopo dieci anni di indagini, la giustizia tedesca non poteva accertare il ruolo dei singoli imputati. Né si dichiarava comprovato che il crimine fosse stata un’azione pianificata contro i civili, invece di un’azione avvenuta durante lo scontro con i partigiani. I giudici tedeschi dichiararono che la sentenza italiana di La Spezia del 22 giugno 2005 era fondata sul nulla, e che i dieci imputati erano stati giudicati senza fondamento. Eppure c’erano rei confessi, che avevano dichiarato di aver ricevuto l’ordine di massacrare deliberatamente i civili. Inutile il successivo ricorso sempre a Stoccarda, presentato dall’avvocato Gabriele Heinecke e dallo storico Carlo Gentile. Secondo i giudici mancava a Stazzema «un ordine scritto» per appurare la dinamica del crimine! Come dicono i negazionisti sulla Shoa. Ergo, non processabilità degli imputati: 14 inizialmente, poi ridotti a 5 ultranovantenni nel 2013, e oggi rimasti in tre. Infine nuovo ricorso, alla Corte di Karlsruhe stavolta. Ma la Corte nel novembre 2013 ha già sospeso le indagini contro tre degli imputati superstiti, e dichiarato che le condizioni di salute di un quarto non sono compatibili col processo, mentre un quinto imputato è deceduto. Nel frattempo parole solidarietà e comprensione sono venute dal Presidente tedesco Gauck e da Schulz. Ma il punto resta: la Germania si rifiuta di condannare i colpevoli e risarcire le vittime, forte di un verdetto della Corte Internazionale dell’Aja del 2012, avverso ai risarcimenti richiesti ai tedeschi, in nome del diritto «all’immunità giurisidizionale contro i crimini nazisti». Insomma, la Germania di oggi non risponde per quella di ieri. Anche se poi la Germania di oggi, quella nata nel 1989, ha rivendicato l’annessione dell’est in nome della continuità della nazione tedesca. Applicando, ai comunisti della Ddr, un insieme di leggi risalenti agli anni trenta della sua storia (tradimento, secessione, etc).Morale: a parte Priebke e Kappler (poi fatto fuggire) gran parte dei crimini nazisti restano impuniti. E i tedeschi di oggi - al centro dell’Europa e gonfi di egemonia geoeconomica - hanno gravi responsabilità al riguardo. Custodi del rigore come stigma etico della loro idea di Europa, riluttano nel punire i loro colpevoli e retrocedono agli anni 60, al silenzio su Auschwitz, rotto dai processi a Francoforte tra il 1963 e il 1968. Infatti, nonostante la fiammata generazionale del 1968, la consegna giuridica fu in seguito questa: non istruire processi e non pagare risarcimenti. Una ferita aperta. Inaccettabile. Che delegittima la Germania democratica di oggi a vantaggio di rancori e populismi. E ne mina a fondo l’immagine di architrave virtuosa del Continente. 39 ECONOMIA E LAVORO Del 27/06/2014, pag. 2 Quattro Sì per uscire dall’austerità di ROBERTO CICCARELLI «500 mila firme entro 90 giorni contro il Fiscal compact. Nel comitato promotore economisti, sindacalisti, parlamentari di tutti gli schieramenti politici. Per eliminare le disposizioni che obbligano governo e parlamento a fissare obiettivi di bilancio più gravosi di quelli definiti in sede europea». Il manifesto, 27 giugno 2014 Novanta giorni, da giovedì 3 luglio a martedì 30 settembre. È questo il tempo a disposizione del comitato promotore dei quattro referendum «Stop all’austerità, sì alla crescita, sì all’Europa del lavoro e di un nuovo sviluppo» per raccogliere 500 mila firme e convocare una consultazione popolare sul Fiscal compact, il «pilota automatico» che obbligherà l’Italia a tagliare il debito pubblico dal 133% al 60% a partire dal 2016 fino al 2036. Composto da economisti, giuristi e sindacalisti di diverso orientamento culturale e politico, dall’ex viceministro Pdl dell’Economia, Mario Baldassarri, al sindacalista Cgil Danilo Barbi, dagli economisti Riccardo Realfonzo e Gustavo Piga, a Cesare Salvi, Laura Pennacchi e Paolo De Ioanna, ieri alla presentazione dell’iniziativa alla Camera dei deputati il comitato si è mostrato fiducioso sulla possibilità di scalare una vetta impegnativa in breve tempo. Un giurista come Giulio Salerno ritiene che i quattro quesiti referendari su alcune disposizioni della legge 243 del 2012 (la legge che ha attuato il principio di equilibrio del bilancio pubblico introdotto dalla legge costituzionale n°1 del 2012), possano essere giudicati ammissibili dalla Corte Costituzionale. Il referendum si rivolge ad una legge ordinaria di attuazione della Costituzione e non comporterà la violazione degli obblighi contratti dal nostro paese in sede europea o in un trattato internazionale, fattispecie che non potrebbero essere oggetto di una consultazione referendaria. Secondo Giulio Salerno, pur essendo stato votato dalla maggioranza assoluta dei membri delle Camere, il pareggio di bilancio non può essere considerato una norma «rinforzata e organica». In più, non tutte le parti del pilastro dell’austerità finanziaria sono costituzionalmente vincolate. È anzi possibile abrogare i punti che non incidono direttamente sulla definizione del bilancio dello Stato. Questo aspetto è stato studiato nell’ultimo anno in una serie di incontri e di pubblicazioni curate dall’associazione «Viaggiatori in movimento». Creata dall’economista Gustavo Piga, a questa associazione partecipano anche politici della prima e della seconda Repubblica quali Mario Segni, Giorgio La Malfa, Enzo Carra e Paolo Cirino Pomicino, oltre che Bruno Tabacci e Cesare Salvi. Una volta composto il comitato promotore, e ottenuto l’impegno della Cgil a raccogliere le firme durante l’estate, si è precisata la risposta all’insidioso argomento sull’ammissibilità del referendum anti-austerity. Tranne il riferimento ai parametri giuridici europei, la legge 243 del 2012 non accenna al trattato internazionale costitutivo del Fiscal compact. Quest’ultimo non riguarda l’Unione europea, ma gli stati che hanno aderito alla moneta unica. Il comitato promotore ritiene così di avere aggirato i divieti per l’iniziativa referendaria. I quattro «Sì» richiesti potrebbero modificare l’applicazione «ottusa» del principio dell’equilibrio di bilancio, eliminando alcune gravi storture introdotte dal parlamento italiano. Si vuole così eliminare le disposizioni che obbligano governo e parlamento a fissare obiettivi di bilancio più gravosi di quelli definiti in sede europea. Il referendum abroga la disposizione che prevede la corrispondenza tra il principio costituzionale di bilancio e il 40 considdetto «obiettivo a medio termine» stabilito in Europa, una norma che non è imposta dal Fiscal compact. Vincendo il referendum, l’Italia potrebbe ricorrere all’indebitamento per realizzare operazioni finanziarie, un’azione oggi vietata. Infine, verrebbe abrogata l’attivazione automatica del meccanismo che impone tasse o tagli alla spesa pubblica in caso di non raggiungimento dell’obiettivo di bilancio, deciso dai trattati internazionali e non dall’Unione europea. Al di là dei tecnicismi, il significato del referendum è politico. Vuole rompere l’embargo intellettuale e la paralisi politica creata dal commissariamento della politica economica da parte delle larghe intese e raccogliere un consenso diffuso sul fatto che i trattati europei vanno cambiati, non semplicemente applicati. Secondo l’economista Riccardo Realfonzo, la prospettiva indicata dal presidente del Consiglio Renzi, quella dell’«austerità flessibile», è inadeguata: «Va incontro ai Paesi in difficoltà senza però cambiare realmente il disastro prodotto dalle politiche ispirate all’”austerità espansiva” — afferma — Tra l’altro sono stati fatti errori enormi sui moltiplicatori fiscali. È scientificamente provato ormai che, ad esempio, un taglio da 10 miliardi di euro alla spesa pubblica implica una perdita di 17 miliardi di euro del Pil. Renzi vuole attenuare l’austerità invocando la flessibilità dei trattati, ma in realtà si è impegnato a raggiungere gli stessi obiettivi di lungo periodo stabiliti nei trattati. Per questo oggi abbiamo bisogno di una spinta dal basso per esercitare una pressione sul governo italiano e quelli europei. Bisogna dare un segnale forte». Ad oggi hanno aderito alla campagna referendaria Sel e alcuni esponenti del partito Democratico. Per l’ex viceministro dell’economia Stefano Fassina (Pd), il referendum è l’unica strada «per salvare l’Europa» anche se il «Parlamento non è ancora consapevole della drammaticità della questione», così come lo stesso Renzi non ha «dato la sensazione di essere consapevole». Al referendum sarebbe interessato anche Gianni Cuperlo. L’ex Sel, Gennaro Migliore, passato al gruppo misto, lo sostiene. «Oggi si fa molta retorica sull’austerità – ha detto Giulio Marcon (Sel) – ma sulle scelte politiche non si fa un passo avanti. I trattati vanno cambiati, il referendum ci offre uno strumento per rilanciare il dibattito». del 27/06/14, pag. 2 ESODATI E MAZZIATI: LEGGE-FARSA DOPO LE TANTE PROMESSE IL GOVERNO AVEVA ANNUNCIATO UNA RIFORMA STRUTTURALE. INVECE ECCO POCHI EURO PER SOLI 8 MILA LAVORATORI. OLTRE 200 MILA SENZA STIPENDIO NÉ PENSIONE di Salvatore Cannavò Il governo Renzi di esodati non parla quasi mai. Ieri si è capito il perché. Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, infatti, si è recato in Commissione alla Camera dei deputati per presentare l’emendamento del governo al progetto di legge unitario che la commissione presieduta da Cesare Damiano sta discutendo da oltre un anno. E ha proposto l’ennesimo rinvio. Anzi, l’ennesima proroga. Quella che vedrà la luce nel testo di legge, che approda in aula mercoledì 2 luglio, infatti è la proroga di un anno per le misure di salvaguardia in grado di garantire altre 32.100 posizioni critiche. Se si guarda ai numeri assoluti che realmente vengono tutelati, la proposta del ministro aumenta di sole 8.000 unità le posizioni salvaguardate. Gli esodati a cui si dà diritto ad andare in pensione, infatti, 41 salgono da 162.000 a 170.000. L’ammontare complessivo, però, resta attorno ai 350 mila censiti dall’Inps ma secondo il M5S, che considera anche i “licenziati”, siamo a circa mezzo milione. “NOI COPRIAMO altri 32.100 lavoratori” spiega Poletti uscendo dall’aula della Commissione lavoro, al quarto piano di Montecitorio, “ma siccome abbiamo realizzato risparmi per 24.000 posizioni, finanziate ma non richieste (si tratta di lavoratori in mobilità sovrastimati, ndr), metteremo ulteriori risorse per altre 8.000 unità”. E così, il governo, tramite il Fondo per l’occupazione presso il dicastero di Poletti, si prepara a finanziare per 137 milioni nel 2015 e 119 milioni nel 2016, la nuova salvaguardia. Che, a differenza di quanto promesso dal ministro in Commissione nei mesi scorsi, non sarà per nulla strutturale. “Provvederemo con la legge di Stabilità, ha continuato Poletti, a individuare con chiarezza le posizioni da tutelare, le differenti tipologie, le risorse necessarie. E arriveremo a una proposta strutturale e definitiva”. La promessa è stata fatta da tutti i ministri che si sono cimentati con il caso “esodati”, compresa la stessa ministra Fornero. Per soluzione strutturale, tra l’altro, il ministro sta pensando anche a ritocchi alla riforma pensionistica con l’introduzione di forme flessibili per il pensionamento da garantire, tramite penalizzazioni, già a 62 anni oppure introducendo la “quota 100” come somma tra età anagrafica e contributi versati necessaria a lasciare il lavoro. SE NE PARLERÀ, appunto, in autunno. Per ora, il provvedimento del governo congela quanto era stato discusso finora dalla Commissione lavoro che ha preparato un provvedimento in cui sono confluite le proposte del Pd, di Sel, della Lega, di Forza Italia e del M5S. A tessere le fila di questo lavoro unitario è stato in particolare il presidente della Commissione, Damiano, che ieri ha accettato la proposta del ministro: “Bisogna essere pragmatici e realisti” dice ai giornalisti fuori dall’aula, “è comunque un passo in avanti”. Il pragmatismo di Damiano si riferisce ai conti che la Ragioneria di Stato ha fatto sulle norme previste dal provvedimento di legge della Commissione: 47 miliardi che però il deputato del Pd considera “sovrastimati”. Ma comunque sufficienti a far riporre il provvedimento di riforma strutturale nel cassetto. È furioso, invece, il deputato di Sel, Giorgio Airaudo, che ieri pomeriggio ha deciso di abbandonare i lavori della commissione attaccando il governo: “Il ministro ha buttato via un anno di lavoro”. Nel progetto di legge, infatti, si puntava a risolvere altri casi scottanti come la “quota 96”, i circa 4000 lavoratori della scuola che sono stati letteralmente scippati di un diritto acquisito ma anche la salvaguardia dei macchinisti delle Ferrovie. Parla di “presa in giro” l’esponente del M5S, Walter Rizzetto che chiede una risposta strutturale vera: “Una controriforma della riforma Fornero”. “Qui c’è gente alla fame – spiega al Fatto – e allo stesso tempo il governo, l’Inps e la Ragioneria dello Stato non riescono a fornirci dati completi e attendibili”. Anche Renata Polverini , di Forza Italia punta il dito contro la Ragioneria di Stato: a distanza di due anni non si riesce ancora ad avere il quadro completo e così si può andare avanti in una gestione di emergenza”. “Matteo Renzi non ne parla, continua, perché quando non vuole risolvere un problema non lo affronta”. Anche la Cgil, pur apprezzando la soluzione positiva per 32 mila persone, chiede che si giunga a una soluzione strutturale. Positiva, invece, è la reazione della presidente della Camera, Laura Boldrini, che sugli esodati dice di essersi spesa sempre, con incontri e una strategia dell’attenzione e che può vantare almeno una decina di sollecitazioni alla Conferenza dei capigruppo per portare il provvedimento in aula. Ora la legge arriva. Ma non è risolutiva. 42 del 27/06/14, pag. 2 Troppo export, Berlino non è più la prima della classe E se fosse la Germania l’ultima della classe? Ieri, mentre tra Ypres e Bruxelles i capi di Stato e di governo dell’Unione si preparavano ad affrontare una prima discussione sui cambiamenti della strategia economica che la prossima nuova Commissione a guida Juncker (salvo sorprese) dovrà mettere sul tavolo, dagli uffici della vecchia Commissione è filtrata una notizia che mette Berlino nel ruolo, insolito, del reprobo invitato a redimersi. La Repubblica federale esporta troppo e importa troppo poco e in questo modo induce nell’Eurozona uno squilibrio che rischia di mandare all’aria la solidità della moneta e la stabilità dei conti pubblici. Quelli degli altri, ovviamente. Il problema non è nato ieri. Lo squilibrio tedesco dura in termini così pesanti dal 2007, cioè da quando c’è la crisi del debito alla quale si può dire che abbia contribuito non meno delle conclamate debolezze dei Paesi più indebitati. Nel 2011 e 2012 l’attivo della bilancia dei pagamenti della Repubblica federale è stato in proporzione il più alto del mondo ed è molto al di sopra del 6% che è considerato dalla Commissione la soglia di rischio per la stabilità del sistema. All’inizio di novembre l’allora commissario agli Affari economici Olli Rehn aveva minacciato di applicare a Berlino le sanzioni previste contro chi produce squilibri tanto dal Patto di Stabilità che dal Fiscal compact: una multa che potrebbe arrivare allo 0,1% del Pil nazionale. Alla cancelleria confidano che alla multa non si arriverà,ma non è certo quello il punto. L’impressione è che stia crescendo la consapevolezza che comunque la politica economica va cambiata profondamente nel senso di un riequilibrio tra la domanda interna, che negli ultimi tre o quattro anni è cresciuta in maniera minima, e le esportazioni. È probabile che su questo terreno nel prossimo futuro si svilupperà in Germania un confronto aspro, al quale gli altri paesi dell’Unione, e l’Italia più ancora degli altri, dovranno guardare con grande attenzione. La Confindustria tedesca e i settori politici più conservatori, dalla Bundesbank ad ampie porzioni della Csu e della stessa Cdu, respingono le critiche di Bruxelles in nome della logica assoluta di mercato («esportiamo molto perché le nostre merci sono migliori ») e sostenendo che un forte attivo tedesco è un vantaggio per tutta l’Unione. Ma la grosse Koalition ha una sensibilità diversa e la spinta a una modifica della politica economica in senso più espansivo è stata percepibile, sia pure non senza contraddizioni, già nella fase di negoziato tra i partiti democristiani e i socialdemocratici. L’introduzione del salario minimo garantito è stata motivata esplicitamente con l’intenzione di stimolare la domanda interna e lo stesso segno hanno il favore con cui vengono seguite le trattative sindacali per l’aumento delle retribuzioni e le (contrastate) misure sulle pensioni. Esiste, almeno sulla carta, l’impegno a definire piani di investimenti pubblici e recentemente la stessa cancelliera ha evocato la possibilità che la Repubblica federale aderisca a programmi finanziati con project-bond europei. E la Spd propugna, per ora senza sfondare, l’adozione di riforme fiscali che incentivino la propensione agli investimenti privati nei settori trainanti. È in questa chiave che vanno interpretati i segnali di apertura che stanno arrivando da Berlino. Il governo Merkel pare voler intraprendere una lunga marcia di rientro dall’austerity,ma il cammino passa non tanto per un allentamento della disciplina di bilancio, cui pure qualcosa verrà concesso ma entro limiti ben precisi, quanto per una politica economica meno fissata su se stessa, meno «imperialista » in fatto di commercio estero e tale da far tornare la Germania ad essere «locomotiva » per l’Europa, secondo una non dimenticata tradizione di tempi lontani e più felici. 43 È evidente che non si tratta di una partita che si gioca solo sul piano dei rapporti tra la Repubblica federale e gli altri paesi dell’Unione. I nuovi vertici delle istituzioni di Bruxelles avranno un ruolo fondamentale, che si spera sapranno esercitare molto meglio dei loro predecessori, pur se non si può passar sopra al fatto che a capo della Commissione arriva un uomo che rappresenta una scomoda continuità. Intanto si tratterà di fare chiarezza sulle risorse per gli investimenti. I soldi ci sono, nonostante il senso comune creato dagli ayatollah dell’austerity. Le disponibilità del bilancio comune dell’Unione e della Bei possono essere volani formidabili, specie nella favorevole congiuntura attuale di liquidità sui mercati. È ora che se ne cominci a parlare. 44
© Copyright 2024 Paperzz