Internazionale Diritti, confini e cosmopolitismo Un dialogo tra Daniele Archibugie Seyla Benhabib a cura di Mariano Croce lavori di Seyla Benhabib e di Daniele Archibugi hanno ' contribuito alla recente rinascita dello spirito cosmopolitico. I testi di Benhabib I diritti degli altri e Cittadini globali offrono argomenti a favore della protezione dei gruppi sociali più deboli, come i rifugiati, gli immigrati, gli apolidi. Tramite la ripresa del concetto arendtiano di «diritto ad avere diritti», l'autrice difende la teoria secondo cui nessun essere umano può essere detto «illegale», al di fuori cioè di una cornice giuridica. A partire da una teoria articolata e robusta di democrazia cosmopolitica, Archibugi prospetta una vasta riforma del sistema internazionale, un progetto ora affermato con rinnovato vigore in Cittadini del mondo. Mentre Benhabib si avvale di strumenti concettuali che rimandano all'ambito filosoficopolitico, Archibugi si muove nel campo analitico delle relazioni internazionali. In questo dialogo si vuole esplorare una possibile convergenza tra i progetti difesi dai due studiosi entro un comune quadro cosmopolitico. I filosofi politici sottolineano l'esigenza di rafforzare i diritti di immigrati, rifugiati politici, stranieri. Ciononostante, in molti Stati europei, le forze conservatrici sono uscite vittoriose dalle elezioni anche per questioni inerenti alla scarsa sicurezza che l'immigrazione sembra destare. Credete sia possibile soddisfare le esigenze di una comunità politica pur mantenendo il consenso popolare (ed elettorale)? Benhabib: Ciò su cui ho lavorato ultimamente è la difesa di una posizione mediana tra quella dei «confini aperti» e la nozione westfaliana della sovranità statuale. La posizione dei confini aperti – nessuna restrizione ai movimenti degli esseri umani – è la versione moralmente «pura», giacché pare molto difficile negare a un essere umano il diritto fondamentale di movimento: si tratta di una delle libertà fondamentali. Alcuni sostengono che nessuna pretesa di possedere un luogo risulta difendibile; sicché, se non si può negare la libertà di movimento, l'unica posizione sostenibile è quella dei confini aperti. Personalmente non ne sono convinta, in quanto occorre difendere il diritto di autodeterminazione delle comunità democratiche. La democrazia richiede limiti (boundaries), non confini (borders). I limiti pongono delle limitazioni, ma possono esser porosi, flessibili: fanno entrare e uscire. Di essi la democrazia ha bisogno in quanto la rappresentanza ne ha bisogno. Occorre sapere quale entità democratica è responsabile verso chi. E i limiti possono essere rivisti. Le comunità possono fonder - si, unirsi in forme diverse. Ma soddisfare le esigenze di una comunità politica pur mantenendo il consenso elettorale credo sia un processo che chiamerei «imparare a mediare» tra gli impegni morali di tipo universalistico e le pretese di autodeterminazione. Questo è un processo in cui la volontà democratica si esprime ma, al contempo, pone limiti a se stessa. Archibugi: Talora mi sembra che tutti gli intellettuali siano diventati cosmopolitici. Eppure, c'è un crescente gap tra ciò che gli intellettuali predicano e ciò che le persone ordinarie sentono. Si assiste a una progressiva separazione tra il demos e le élites, soprattutto a riguardo della percezione e del trattamento che dovrebbe esser riservato al «diverso»: gli immigrati, le minoranze, i gay, e così via sono sempre più percepiti come una minaccia. Quando la xenofobia si diffonde, gli intellettuali hanno la responsabilità di aiutare a distinguere ciò che è reale e ciò che è apparente, anche al prezzo di rimanere isolati dalla gran parte della popolazione. Sono d'accordo con Seyla sul fat- to che la posizione dei confini aperti è idealmente buona ma impraticabile. Vorrei aggiungere che essa è impraticabile anche perché affronta il problema dell'immigrazione da un particolare punto di vista: generalmente, si tratta di un individuo del Sud che vuole entrare in uno Stato del Nord. Ma siamo sicuri che sia buono ed equo per il Sud perdere i membri più talentuosi? Il mio cosmopolitismo difende confini regolati più che aperti. Occorre un'autorità mondiale che possa regolare l'immigrazione nell'interesse del Sud e del Nord. Una rinnovata Organizzazione internazionale della migrazione, con maggiori risorse e poteri, potrebbe contribuire alla regolazione dei flussi di persone. Gli Stati sono componenti del sistema internazionale, anche laddove essi risultano composti da numerose etnie differenti. Ciò spesso è causa di guerre interne e interstatali. Un modo alternativo di organizzare le comunità politiche potrebbe contribuire a ridurre queste violenze? Quali forme istituzionali si potrebbero immaginare? Chi sono Daniele Archibugi e Seyla Benhabib anele Archibugi è Dirigente del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Irpps). Ha scritto diversi libri e più di 150 articoli in riviste accademiche. È in corso di pubblicazione il suo volume Un mondo di democrazia. Prospettive cosmopolitiche, Princeton University Press e Il Saggiatore. Il suo ultimo libro è Cittadini del mondo (Il Saggiatore – 2009). eyla Benhabib insegna Scienza politica e Filosofia presso la Yale University. Voce autorevole nell'odierno dibattito filosofico-politico, si occupa di femminismo, multiculturalismo e democrazie liberali, trasformazioni e cittadinanza. Tra i suoi ultimi volumi tradotti La rivendicazione dell'identità culturale (Il Mulino, 2005), I diritti degli altri (Raffaello Cortina, 2006) e Cittadini globali (Il Mulino, 2008). S iCc s~c.%% Marzo - Aprile 2009 - Numero 112 23 Internazionale Benhabib: «La democrazia richiede limiti (boundaries), non confini (borders). I limiti pongono delle limitazioni, ma possono esser flessibili: fanno entrare e uscire. Di essi la democrazia ha bisogno in quanto la rappresentanza ne ha bisogno. Occorre sapere quale entità democratica è responsabile verso chi» Benhabib: Forse la domanda potrebbe trovare risposta nella distinzione, invalsa in filosofia politica, tra ethnos e demos. Sappiamo che il processo di formazione degli Stati europei ha visto diversi assemblaggi di ethnos e demos. Vi sono due modelli distinti: da una parte, gli esempi delle Nazioni civiche degli Stati Uniti e della Francia, caratterizzati da un demos che non si identifica del tutto con una comunità nazionale; dall'altra, la Germania, il Giappone e per certi versi l'Italia, che sono nazioni etniche, dove il processo di costruzione dello Stato ha trovato un elemento di forza nell'ethnos. Il secondo dei modelli è sempre stato conflittuale. Vi sono sempre state tensioni tra il modello repubblicano o civico del demos e quello nazionalista dell'ethnos. E si è trattato di una storia non semplice, piena di conflitti circa il modo di formare l'identità collettiva. Queste difficoltà erano emerse già nella prima guerra mondiale, con il declino dell'impero austro-ungarico, dell'impero ot- tornano e della Russia. Tutti territori in cui risiedevano fianco a fianco numerose comunità distinte. Il modello emergente dello Stato-nazione europeo non ha mai davvero attecchito li. Credo che i modelli dell'autodeterminazione culturale che si vedono in Canada (con il Quebec) e in Spagna (con la Catalogna e altre regioni) potrebbero rivelarsi di successo. La loro riuscita dipende da due fattori. In primo luogo, l'alto livello di benessere economico, che sembra condiviso da tutte le regioni del paese. Noto questo perché molto spesso i movimenti separatisti sono altresì movimenti che avanzano richieste di giustizia socioeconomica da parte di minoranze trascurate. Anche il Quebec all'inizio aveva un basso standard di vita rispetto al resto del Canada. E oggi la Catalogna è tra le province più prospere della Spagna. Vi è una forte relazione tra l'autodeterminazione come modo di risolvere questioni connesse a divisioni culturali e l'eguaglianza socioeconomica. In secondo luogo, credo che senza un ambiente composto di altre istituzioni, nel quale sia possibile incastonare il progetto dell'autodeterminazione culturale, quest'ultimo non avrà successo. Per «ambiente composto di altre istituzioni» intendo istituzioni di livello più elevato, che possano garantire i diritti umani, la trasparenza, la rendicontabilità. Credo che il modello del Quebec abbia avuto successo proprio per il tipo di democrazia che caratterizza il Canada. La Catalogna non ha cercato la secessione anche perché il progetto dell'unificazione europea ha fornito una copertura. Archibugi: Uno Stato liberale ha buone possibilità di gestire con successo le minoranze etniche attraverso le politiche nazionali e internazionali menzionate da Seyla. In effetti, il Canada e la Spagna sono riusciti con successo a mantenersi coesi grazie ai Il libro Dalla polis alla cosmo-polis di Giorgia Serughetti l viaggio verso la democrazia non è ancora terminato. In uno scenario internazionale segnato da sempre più numerose «comunità di destino sovrapposte» e da processi che erodono il potere dello Stato territoriale, l'ideale democratico è chiamato, oggi più che mai, a crescere, aumentare la sua capacità inclusiva, estendere i suoi principi e le sue procedure al di là dei confmi nazionali, improntando di sé la gestione della governance globale. È questa, in estrema sintesi, la proposta teorica e politica che Daniele Archibugi espone, con chiarezza, nel suo libro I Cittadini del mondo. Una proposta che, sullo sfondo delle dinamiche che hanno percorso la politica internazionale a partire dalla caduta del Muro, assume tratti di grande audacia. La crescente impotenza delle Nazioni Unite nel fronteggiare le dinamiche della politica mondiale; la crisi di credibilità dell'Occidente conseguente ai danni degli interventi «umanitari» armati in Somalia, Kosovo, Afghanistan e Iraq; l'unilateralismo bellico sostenuto dall'amministrazione Bush come strumento della politica internazionale; la polarizzazione del mondo in un Nord che si trasforma in fortezza inespugnabile e un Sud attraversato da potenti spinte all'emigrazione; l'incapacità delle democrazie occidentali di dare piena e ampia applicazione allo spirito e alla lettera delle convenzioni internazionali per la protezione delle popolazioni in fuga da disastri naturali e umanitari. Questi sono solo alcuni dei motivi che inducono a tutta prima ad accogliere con diffidenza e scetticismo, o a tacciare di utopismo, l'ipotesi di una trasformazione in senso democratico dell'ordine e delle istituzioni internazionali. Archibugi mostra però una consapevolezza della «realtà effettuale», della natura dei sistemi politici esistenti, degna delle più crude lezio - 24, ni del realismo politico. La sua è una critica lucida, che non elargisce plausi alle democrazie contemporanee ma, al contrario, ne mette in luce i lati oscuri, le gravi mancanze, le potenzialità inespresse. È l'esame severo di uno studioso innamorato della democrazia, che le chiede uno nuovo sforzo di «introspezione ed estroversione», indicandole le vie di un percorso progressivo che ne riabiliti la reputazione vacillante presso i popoli del pianeta e le consenta di approfondire i tratti costitutivi della nonviolenza, del controllo popolare e dell'uguaglianza politica, estendendoli oltre il principio territoriale, a un livello internazionale e globale. Le democrazie non si sono mostrate, fino a oggi, molto più abili dei regimi autoritari e dispotici nell'evitare il ricorso alla guerra come mezzo di soluzione dei conflitti e nel proteggere i diritti umani su scala globale. Mentre impartiscono lezioni sulla migliore forma di governo della cosa pubblica, sono restie ad applicare nella politica estera i principi e i valori che informano il sistema interno e a deporre l'antico principio della ragion di Stato. Perdono così il ruolo storico di attori della democratizzazione progressiva dei paesi del mondo: la nascita e il rafforzamento di modelli endogeni di democrazia possono infatti essere favoriti solo da una politica estera di persuasione fondata sul dialogo, l'inclusione e il rispetto delle differenze, che è il cuore dell'idea cosmopolitica di Archibugi. La teoria della democrazia cosmopolitica si fonda su alcuni presupposti e su un'articolata architettura di obiettivi e proposte. Parte cioè da due considerazioni: la prima, che nonostante gli errori compiuti dalle sue concrezioni storiche il modello democratico «sia in grado di soddisfare meglio di qualsiasi altra forma le richieste della popolazione mondiale»; Marzo - Aprile 2009 - Numero 412 Internazionale Archibugi: «Una delle sfide più ardue del nostro secolo sarà quella di immaginare e creare comunità politiche che non siano delimitate da confini. Tradurre questo in pratica non è affatto semplice. Penso sia necessaria una protezione internazionale delle minoranze, che in passato non si è rivelata efficace» valori democratici e alla garanzia dell'autodeterminazione. La mancanza di democrazia nell'Unione sovietica e nella Federazione iugoslava, di contro, ha condotto a terribili guerre civili, al collasso dello Stato e alla ridefinizione dei confini. Il risultato è stato insoddisfacente, anche perché russi e serbi, che un tempo costituivano maggioranze oppressive, ora sono divenuti minoranze oppresse in molti dei nuovi Stati. Non possiamo più pensare alle minoranze come se vivessero in prossimità geografiche. È sempre più difficile circoscrivere spazi in cui si possano agglomerare gruppi etnici. L'immigrazione globale e i flussi demografici genereranno comunità politiche sempre più eterogenee. La comunità turca in Germania e quello rumena in Italia sono disseminate in un territorio molto ampio e i loro diritti culturali non possono essere rimandati ad autonomie locali o regionali. Inoltre, non credo, come qualche pensatore multiculturalista ritiene, che si possa stabilire una differenza teorica tra comunità che hanno una tradizione e comunità che sono l'esito di flussi migratori. Ogni comunità umana, che sia antica o recente, è titolare degli stessi diritti. Una delle sfide più ardue del nostro secolo sarà quella di immaginare e creare comunità politiche che non siano delimitate da confini. Tradurre questo in pratica non è affatto semplice. Sono d'accordo su una protezione internazionale di queste minoranze, per quanto occorre ricordare che questa protezione in passato non si è rivelata efficace. Alla fine della Prima guerra mondiale, la Società delle nazioni fu incaricata di proteggere le minoranze etniche create in molti dei nuovi Stati europei. Ma ciò, alla fine, codificò lo stato politico di minoranza di molte minoranze. Se una minoranza abbisogna di protezione dall'alto, è proprio perché i suoi diritti sono sotto minaccia entro una data comunità. Gli Stati sono ancora associati alla nozione di sovranità, in uno scenario che richiama il cosiddetto sistema politico westfaliano. Ma cos'è davvero la sovranità oggi? Quali le sue traiettorie di sviluppo? E come questi sviluppi possono cambiare le funzioni degli Stati? Benhabib: Mi sembra che molte cose siano venute mutando negli ultimi sessant'anni, a partire dalla creazione delle Nazioni Unite. Assistiamo però di continuo al prodursi di contraddizioni tra principi, tra direzioni della comunità internazionale. Da una parte, c'è l'impegno per il rispetto dei diritti umani, dall'altra, si pensa ancora la sovranità in termini westfaliani, come esercizio legittimo dei mezzi coercitivi. Oggi non c'è Stato che non sia coinvolto in alleanze internazionali sull'uso della forza e delle armi. Si tratta di un processo di Il libro la seconda, che per proseguire il proprio cammino la democrazia debba risolvere il problema dell'inclusione/esclusione su cui si basa la stessa idea di cittadinanza ed estendere le forme e i concetti del suo operare alla sfera globale. «La democrazia ottenuta all'interno degli Stati, e in un numero crescente di essi, rischia di essere svuotata dalla globalizzazione e di risultare meramente formale se non riesce ad agganciarsi anche ad altre sfere di gestione effettiva del potere». Da queste premesse discende la definizione di cinque aree di intervento: il controllo sull'uso della forza, che significa estendere oltre i confini statali il principio della nonviolenza; l'accettazione delle diversità culturali, anche rispetto alla produzione di modelli di democrazia diversi da quelli occidentali; il rafforzamento dell'autodeterminazione dei popoli, intesa come partecipazione politica e assenza di dominazione; il monitoraggio degli affari interni, come estensione del principio del controllo e forma di tutela globale dei diritti umani; la gestione partecipativa del numero crescente di questioni che interessano l'intero pianeta, rafforzando il principio dell'uguaglianza politica nella governance globale. L'autore non si nasconde che un simile elenco di obiettivi possa apparire come «una sorta di libro dei sogni, che ha poca attinenza con il modo spietato con cui viene praticata la politica mondiale». Sono, tuttavia, gli strumenti proposti per conseguirli a sconfessare una lettura utopistica e a suggerire un'interpretazione ben più realistica e pragmatica della proposta cosmopolitica. Innanzitutto, la riforma dell'Onu, che mira ad assicurare una più equa rappresentanza dei paesi membri e ad ampliare la partecipazione delle organizzazioni non statali. La definizione di nuove procedure per la decisione e la conduzione di interventi umanitari. Il rafforzamento della Corte internazionale di giustizia e della Corte pena - le internazionale. Lo sviluppo e l'implementazione delle pratiche di mediazione e arbitrato per la soluzione pacifica dei conflitti. E infine, la proposta più azzardata e affascinante, l'istituzione di un'Assemblea parlamentare mondiale (che potrebbe nascere come organo sussidiario dell'Assemblea generale), un organismo capace di rappresentare direttamente i popoli della terra, gli unici veri depositari della legittimità democratica. Se gli obiettivi del progetto cosmopolitico paiono al di fuori dell'ordine del reale, o del possibile, le proposte di intervento di Archibugi riconducono la riflessione entro i binari dell'esistente. Un esistente su cui gli eventi più recenti della politica statunitense gettano una nuova luce di speranza. Cittadini del mondo è stato dato alle stampe prima che Barack Obama riaccendesse gli entusiasmi dei sostenitori del multilateralismo e preannunciasse una nuova politica di dialogo con il mondo islamico e le nazioni dell'axis of evil teorizzato all'indomani dell'11 settembre; prima che l'Ambasciatrice degli Stati Uniti all'Onu Susan Bice annunciasse un clamoroso cambio di rotta nella politica estera statunitense e rilanciasse la centralità delle Nazioni Unite per la nuova amministrazione della Casa Bianca. Quello che Archibugi presenta non rischia così di esaurirsi in un «Comizio domenicale», ma assume la forza di un progetto e un'agenda politica, i cui primi soggetti devono essere gli individui, chiamati ad «abbandonare la loro frammentata condizione di sudditi della globalizzazione per trasformasi e agire quotidianamente come cittadini del mondo». Daniele Archibugi, Cittadini del mondo. Verso una democrazia cosmopolitica, Il Saggiatore, 2009, euro 20, pagg. 331. Marzo - Aprile 2009 - Numero 112 25 r Internazionale Archibugi: «Nelle attuali circostanze storiche, quello cosmopolitico è un progetto potente, che nondimeno presenta alcuni rischi. Il principale consiste nell'imporre la visione della società delle élites occidentali. Le origini del cosmopolitismo sono in Per la pace perpetua di Immanuel Kant» auto-restrizione da parte degli Stati piuttosto che di auto-obbligazione. Essi non possono sopravvivere al di fuori di questi tipi di alleanze. Occorre distinguere tra capacità militari degli Stati e potere di polizia. In termini di capacità militari, nessuno Stato è un'isola, neppure Iran, Israele, o Corea del nord. Ci sono ampi margini di negoziazione e interdipendenza sulle alleanze militari. Quando parliamo del monopolio statale sull'uso del potere di coazione, parliamo di potere di polizia, potere entro i confini. Ma quando si tratta di affrontare il traffico della droga o la criminalità internazionale, persino il potere di polizia si fa un fenomeno internazionale e transnazionale. Di certo, molta ipocrisia s'annida nella differenza tra le attuali forme di interdipendenza istituzionale, anche a livello militare e politico, e il concetto di sovranità. Nei termini utilizzati da Stephen Krasner, la sovranità è un'ipocrisia, non è mai del tutto ciò che dice di essere. Dobbiamo individuare le contraddizioni che stanno emergendo dal fatto che lo Stato, pur essendo coinvolto in queste strutture internazionali di dipendenza, vuole esercitare autonomia. Dobbiamo capire perché gli Stati accettano alleanze militari e partnership economiche; di certo, queste sono mosse in parte dall'auto-interesse: le azioni dello Stato non sono guidate dalle norme del cosmopolitismo. Ma così gli Stati danno il via a una dinamica che li supera. Io sono per l'accrescimento delle prerogative delle strutture transnazionali di governane. Mi sembra che al momento vi siano strutture multinazionali di governance a livello militare, tecnologico, economico, ma che non vi siano strutture di governance cosmopolitica - questo potrebbe essere un punto su cui consentiamo. Dobbiamo muoverci verso lo scioglimento di queste contraddizioni e la creazione di maggiori strutture, regole e norme di interdipendenza. Archibugi: Concordo pienamente sull'ipocrisia che caratterizza la sovranità, per quanto questa 26 ipocrisia abbia funzionato meglio dal punto di vista della sovranità esterna che interna. Infatti, gli Stati possono usare il loro potere coercitivo senza limiti più all'interno che all'esterno. Oggi v'è un solo Stato che può utilizzare i propri poteri senza doversi consultare con altri e sono gli Stati Uniti. I restanti altri non possono far guerra senza negoziazioni con alleati e vicini. In tale sbilanciato scenario, la categoria della sovranità sembra del tutto svuotata. Ho suggerito di rimpiazzare questo stato di cose con un «costituzionalismo globale». Mi chiedo se sia possibile creare anche a livello internazionale una condizione in cui vi siano sufficienti controlli e contrappesi per impedire a tutti gli Stati di condurre guerre unilateralmente e senza previa autorizzazione. Per far sì che ciò sia possibile, è necessario che gli Stati decidano di sottoporsi a leggi anche in assenza di un potere coercitivo che applichi le norme. Abbiamo già vissuto cose simili in casi importanti. Uno di questi è l'Unione Europea: gli Stati europei usano forme di negoziazione e procedure piuttosto che la violenza al fine di risolvere le loro dispute. Spero che questi metodi possano essere applicati a livello planetario. L'Onu fornisce già una serie di istituzioni che rispondono a queste esigenze. Si prenda il caso della Corte internazionale di giustizia: in linea di principio, potrebbe risolvere controversie con strumenti legali e non militari, ma gli Stati sono affatto restii a servirsene, compresi quelli democratici. Sicuramente è bene che gli Stati ispirino il loro comportamento a standard etici, ma è egualmente importante che essi si facciano soggetti di diritto. Sarà difficile giustificare il perché gli Stati dovrebbero rispondere a taluni standard morali se non è chiaro quali siano le istituzioni che determinano questi obblighi e quali le Corti che debbono interpretarli. Pertanto, credo che il cosmopolitismo etico dovrebbe incontrarsi con quello istituzionale. Nonostante entrambi siate pensatori cosmopolitici, attribuite pesi diversi alla giustificazione morale del vostro progetto teorico. Si tratta di un'impresa culturale, in cui le popolazioni sono chiamate a re-immaginarsi, o di un fatto puramente politico, che ha da lasciar fuori questioni morali? Benhabib: Dobbiamo introdurre la categoria del «giuridico» tra «morale» e «politico». Possiamo ammirare i progressi del cosmopolitismo a livello delle istituzioni giuridiche e del diritto internazionale, siano essi i Marzo - Aprile 2009 - Numero 112 diritti umani o la lex mercatoria. Il cosmopolitismo morale è una sorta di universalismo, che privilegia i diritti degli stranieri sui residenti di una comunità. Questa è la posizione di Martha Nussbaum. Ma io non aderisco a questa forma di cosmopolitismo. La mia fonte è Per la pace perpetua di Kant, che difende un cosmopolitismo istituzionale, giuridico, politico. Il cosmopolitismo culturale, assai diffuso oggi, è invece una teoria circa le differenze culturali interne alle società, che contengono in loro stesse alterità e ibridismi. Non ho problemi con una tale visione della cultura ma credo non sia sufficiente per sostenere il progetto cosmopolitico a livello istituzionale. A mio avviso, quest'ultimo comincia laddove Kant lo ha individuato, ossia dalle pretese di diritti transfrontalieri, che devono essere garantiti a tutti gli esseri umani da una comunità civile globale. Occorrono strutture politiche che sostengano questo tipo di cosmopolitismo giuridico. Archibugi: Nelle attuali circostanze storiche, quello cosmopolitico è un progetto potente, che nondimeno presenta alcuni rischi. Il principale di essi consiste nell'imporre una visione della società propria delle élites occi- i dentali. Le origini intellettuali del cosmopolitismo sono da ritrovarsi in Per la pace perpetua di Immanuel Kant e più in generale nei progetti di pace prodotti in ambito illuminista. In questa tradizione, ha avuto il coraggio di immaginare un sistema giuridico fondato su tre livelli: diritto statuale, diritto interstatuale e diritto cosmopolitico. Sottolineando l'importanza di mantenere un diritto interstatuale, Kant rende chiaro che non prefigura uno Stato mondiale. Gli Stati devono poter mantenere le loro differenze, ma al contempo devono accettare dei limiti per le azioni di politica interna. Kant intendeva porre limiti alla sovranità interna e a quella esterna tramite nuove istituzioni cosmopolitiche e, oggi ancor di più di due secoli fa, è uno degli obiettivi politici più importanti da realizzare.
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