La prova orale del concorso nella scuola primaria. Concorso a

Il silenzio dell’esistenza
Il decennio di Diane Arbus
2012.2013
Saggio di Storia dell’Arte – a cura di Dario D’Antoni
Introduzione
Dal 1839 è iniziato l’inventario delle immagini del mondo.
Da allora è stato fotografato quasi tuAo, o almeno così pare. Insegnandoci un nuovo codice visivo, le fotografie alterano e ampliano le nostre nozioni di ciò che val la pena guardare e di ciò che abbiamo il diriAo di osservare. Sono una grammaJca e, cosa ancora più importante, un’eJca della visione.
Collezionare fotografie è collezionare il mondo. I film e i programmi televisivi illuminano le pareJ, tremolano e spariscono; ma nelle fotografie l’immagine è anche un oggeAo, leggero, poco costoso, facile da portarsi appresso, da accumulare, da conservare. Le fotografie sono forse i più misteriosi tra gli oggeO che formano, dandogli spessore, quell’ambiente che noi definiamo moderno. Esse sono in realtà esperienza caAurata, e la macchina fotografica è l’arma ideale di una consapevolezza di Jpo acquisiJvo. Fotografare significa infaO appropriarsi della cosa che si fotografa. Le immagini fotografiche non sembrano tanto rendiconJ del mondo, ma pezzi di esso, miniature di realtà che chiunque può produrre o acquisire.
Le fotografie, che alterano le proporzioni del mondo, vengono a loro volta ridoAe, ingrandite, ritoccate, alterate, truccate; invecchiano, spariscono, diventano preziose, vengono comprate o vendute, vengono riprodoAe. Le pubblicano le riviste o i giornali, le espongono i musei, le raccolgono gli editori. Le fotografie forniscono tesJmonianze. Una cosa di cui abbiamo senJto parlare, ma di cui dubiJamo, ci sembra provata quando ce ne mostrano una fotografia. In una versione della sua uJlità, il documento fotografico incrimina. A parJre da come se ne servì la polizia parigina nel giugno 1871 per il sanguinoso rastrellamento dei comunardi, le fotografie sono diventate un uJle strumento degli staJ moderni per sorvegliare e controllare popolazioni sempre più mobili. In un’altra versione della sua uJlità, il documento fotografico comprova. Una fotografia è dimostrazione incontestabile che una data cosa è effeOvamente accaduta. A dispeAo della presunzione di veracità che conferisce autorità, fascino e rispeAo a tuO i fotografi, il loro lavoro non fa eccezione al consueto rapporto ambiguo tra verità e arte: anche quando si preoccupano sopraAuAo di rispecchiare la realtà, sono comunque tormentaJ dai taciJ imperaJvi del gusto e della coscienza. Nel decidere quale aspeAo dovrebbe avere una fotografia, nello scegliere una posa piuAosto che un’altra, i fotografi impongono sempre ai loro soggeO determinaJ criteri. Anche se, in un certo senso, la macchina fotografica coglie effeOvamente la realtà e non si limita a interpretarla, le fotografie sono un’interpretazione del mondo esaAamente quanto i quadri e i disegni. Negli ulJmi tempi la fotografia è diventata una forma di diverJmento diffusa quasi quanto il sesso e il ballo, il che significa che, quasi come tuAe le forme d’arte di massa, non è esercitata dai più come arte. Da almeno un secolo la fotografia delle nozze è parte integrante quanto le formule verbali prescriAe. Le macchine fotografiche accompagnano la vita della famiglia: le fotografie dei propri piccoli, la foto di gruppo dei neodiplomaJ, le gite di gruppo. AAraverso le fotografie, ogni famiglia si costruisce una cronaca illustrata di se stessa, un corredo portaJle di immagini che aAestano la sua compaAezza. La 2
fotografia diventa così un rito della vita familiare, proprio quando nei paesi industrializzaJ dell’Europa e dell’America, l’isJtuzione stessa della famiglia sta subendo intervenJ chirurgici radicali. Quelle tracce speArali che sono le fotografie ci danno la presenza simbolica di parenJ dispersi, di momenJ dimenJcaJ o irripeJbili, spesso sono la sola cosa che rimane di una realtà ormai intangibile. Ormai grandi masse di persone abbandonano regolarmente, per brevi periodi, il loro ambiente abituale. Sembrerebbe innaturale parJre senza portarsi una macchina fotografica. Le fotografie dimostreranno in modo indiscuJbile che il loro viaggio è stato faAo, il loro programma aAuato, che il diverJmento è stato raggiunto. Quasi tuO i turisJ si sentono costreO a meAere la macchina fotografica tra se stessi e tuAo ciò che di notevole incontrano. Malsicuri delle altre reazioni, fanno una fotografia. Questo dà una forma dell’esperienza: ci si ferma, si scaAa una foto, si riprende il cammino. Fotografare è essenzialmente un aAo di non-­‐intervento: l’orrore di cerJ colpi memorabili del fotogiornalismo contemporaneo, come le immagini del bonzo vietnamita che sta per darsi fuoco, del bambino che corre con alle spalle un villaggio incendiato o del terrorista mascherato che sta per sgozzare il prigioniero legato e bendato , sanciscono la scelta del fotografo di limitarsi alla registrazione del faAo. Chi interviene non può registrare, chi registra non può intervenire. L’usare una macchina fotografica è comunque un modo di partecipare: la macchina può essere un osservatorio, ma il fotografo è qualcosa di più di un osservatore passivo. “Ho sempre considerato la fotografia una cosa sconveniente: -­‐ ha scriAo Diane Arbus -­‐ la prima volta che ho fa:o una fotografia mi sen;vo molto perversa.” L’aOvità del fotografo professionista può essere considerata sconveniente se il fotografo ricerca soggeO che si ritengono marginali, tabù o malfamaJ. Ma oggi è sempre più difficile trovare un soggeAo.
L’aAo di fare una fotografia ha qualcosa di predatorio: fotografare una persona equivale a violarla, vedendola come essa non può mai vedersi, equivale a trasformarla in un oggeAo che può essere simbolicamente posseduto. Col tempo la gente ha imparato a sfogare la propria aggressività 3 sempre più con la macchina fotografica che con la pistola, e il prezzo sarà un mondo ancor più ingorgato di immagini. Le macchine fotografiche cominciarono a duplicare il mondo nel momento stesso in cui il paesaggio umano cominciava a cambiare a un ritmo verJginoso; mentre in un breve spazio di tempo viene distruAa una quanJtà incalcolabile di forme di vita biologica e sociale, diventa disponibile un congegno per registrare ciò che sta scomparendo. Come i parenJ e gli amici morJ che si conservano nell’album di famiglia, e la cui presenza nelle fotografie esorcizza in parte l’angoscia e il rimorso che proviamo per la loro scomparsa, così le fotografie di rioni ora sventraJ, di luoghi rurali sfiguraJ e inaridiJ, esprimono il nostro fragile rapporto con il passato. Vale per il male la stessa legge che si applica alla pornografia. Il trauma delle atrocità svanisce vedendole ripetutamente, come la sorpresa e lo sconcerto che possiamo provare assistendo per la prima volta a un film pornografico si aAenuano sino a sparire se se ne vanno a vedere altri. Ma l’enorme catalogo delle ingiusJzie, delle miserie e delle oscenità del mondo ha dato a tuO una certa consuetudine con l’atrocità, facendo apparire più normale l’orribile, rendendolo familiare, lontano (“è soltanto una fotografia”), inevitabile. Ai tempi delle prime fotografie dei lager nazisJ, in quelle immagini non c’era niente di banale. Ma dopo trent’anni si è forse arrivaJ a un punto di saturazione. In quesJ ulJmi decenni, la fotografia “impegnata” ha contribuito ad addormentare le coscienze almeno quanto a destarle. A rigor di termini, da una fotografia non si capisce mai nulla: rappresentando una realtà, la macchina fotografica deve nascondere sempre più di quanto riveli. A differenza del rapporto amoroso, che si basa su come una cosa appare, la comprensione è basata su come una cosa funziona. E il funzionamento avviene nel tempo ed è nel tempo che deve essere spiegato. Solo ciò che narra può farci comprendere. Ed è proprio il muJsmo di ciò che è contenuto e comprensibile che rende le fotografie affascinanJ e sJmolanJ. Il più logico degli esteJ oAocenteschi, Mallarmé, diceva che al mondo tuAo esiste per finire in un libro. Oggi tuAo esiste per finire in una fotografia.
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Diane Arbus e la fotografia americana del secondo dopoguerra
La Fotografia, nell'interpretazione che ne ha faAo la Arbus, si è faAa strumento di emancipazione, di libertà, di ribellione.
Emancipazione dall'opprimente american way of life degli anni Cinquanta, in cui una donna di buona famiglia era tenuta a sognare una casa con giardino fuori ciAà, un cane e un nuovo figlio, a senJrsi a proprio agio nella morsa di vesJJ casJgaJ, metafora di una società altreAanto rigida, parJcolarmente dura col caOvo gusto di chi osava trasgredire alla luce del Sole, senza prendersi la briga di occultarsi ben bene dietro la spessa e misericordiosa corJna dell'ipocrisia.
A chi le chiese il perché si fosse dedicata seriamente alla fotografia solo a parJre dai suoi 38 anni, ella rispose, con un sarcasmo cristallino: "Perché una donna passa la prima parte della sua vita a cercare un marito, a imparare ad essere una moglie e una madre, e a tentare di svolgere ques; ruoli nel modo migliore. Non le resta il tempo di fare altro."
Fotografia come strenua affermazione del proprio essere deforme: del proprio esistere, in quanto individuo/enJtà autonoma, al di là di ogni forma prestabilita e imposta.
E proprio la categoria del 'deforme', infaO -­‐ nella sua accezione sgombra da qualsiasi intento di giudizio -­‐ fu il campo prescelto da questa fotografa americana per cercarsi, e riconoscersi, nel mondo che la circondava. Dai più classici "fenomeni da baraccone" agli individui affeO da deformità fisiche o psichiche, o più semplicemente consideraJ dalla società dispregiaJvamente "diversi" per cerJ loro comportamenJ e aOtudini (casisJca che viene solitamente riassunta dal termine 'freaks', con cui ci si riferisce a persone che siano fisicamente abnormi o, più in generale, a individui consideraJ negaJvamente inusuali a causa del loro modo di agire).
Talvolta la deformità si fa più segreta, nascondendosi nelle pieghe ben sJrate di una quoJdianità borghese che si vorrebbe impeccabile. Ma, dice la Arbus: "C'è sempre una differenza tra quel che vogliamo si sappia di noi e quello che non possiamo evitare si sappia di noi; è la distanza tra l'intenzione e l'effe:o"; è in queste foto che il senso di inquietudine si fa più forte, proprio quando la sensibilità della Arbus si infiltra in questo streAo spazio incontrollabile, svelando storture segrete in volJ e corpi all'apparenza perfeAamente normali.
Una sua celebre affermazione recita: "La Fotografia è un segreto intorno ad un segreto: quanto più ; dice, tanto meno riesci a capire".
La Fotografia misJfica: laddove non c'era niente, ora c'è una foto, e ciò che sarebbe passato senza lasciar traccia di sé, ora imprime col peso della memoria un supporto materiale potenzialmente eterno (grazie alla sola spinta emoJva che ha portato il fotografo a scaAare proprio lì, proprio in quell'istante). Laddove c'era un vuoto di senso, ora c'è l'interpretazione che di quel vuoto ha faAo una singola persona. Ogni foto, per questo, è un segreto elevato a potenza.
E Diane Arbus, come molJ altri grandi fotografi, lo sapeva bene, che fotografare non significa ritrarre la realtà, come in un semplice riflesso di specchio. Nel momento in cui si scaAa, le apparenze del reale sono già state istantaneamente soAoposte ad un "filtraggio" e ad una trasfigurazione aAraverso la propria interiorità (che le ha scelte, che le ha in qualche modo "riconosciute"). Dopo quell'aOmo, quella realtà non è più la realtà "di tuO"; è come dire "Ecco: questa è la mia realtà. 5 Questa sono io". ScaAare, in questo senso, diventa una presa di coscienza del proprio sé prima ancora di ciò che è fuori da noi. Le fotografie della Arbus propongono, essenzialmente, modi diversi e "altri" di stare al mondo. Non tanto però -­‐ o non solo -­‐ per fare della Fotografia sociale; quanto nella speranza che, all'interno di questa sconfinata varietà, anche il suo modo possa trovare spazio.
Nei suoi scaO non c'è traccia di pateJsmo, morbosità o ricerca di riscaAo o redenzione. L'unico senJmento presente è la partecipazione: una partecipazione che non potrebbe essere così forte se chi scaAa non si senJsse inJmamente lacerata per il suo considerarsi "sbagliata", impaurita dalla potenza devastante del pregiudizio. La Arbus bussa rispeAosamente alle precarie porte delle esistenze che immortala, chiede di essere accolta e sopraAuAo -­‐ in forza di un capovolgimento di ruoli -­‐ di essere acceAata: quasi chiedesse un'elemosina di coraggio a quegli individui così "strani", ma nonostante tuAo perfeAamente in grado di esistere (facoltà, questa, che cesserà di assisterla nel 1971, conducendola al suicidio dopo un lungo periodo di depressione); educatamente, non entra mai prima che le venga deAo "prego, avanJ". Ogni sua foto è colJvata aAraverso un rapporto direAo con il soggeAo, in cerca di una reciproca fiducia, di una comprensione: le sue immagini non sono mai rubate, non si affidano all'abile arte dello spiare che fa la posta al fantomaJco "momento decisivo"; i soggeO sono quasi sempre in posa frontale, consapevoli nel loro essere invesJJ dalla spietata carica indagatrice dell'onnipresente flash. In totale controtendenza con il suo nascere fotografa di moda, la Arbus focalizza costantemente l'aAenzione sulle espressioni e sugli sguardi, mimeJzzando al massimo ogni accessorio, sia esso il vesJario del soggeAo o l'ambiente che lo accoglie. Scarsissima, quasi assente la ricerca composiJva dell'immagine ("Detesto l'idea della composizione", dirà), così come l'importanza riconosciuta al processo di stampa: "una foto è importante per ciò che rappresenta; ciò che essa rappresenta è più importante di quello che essa è". Elogio della sostanza a discapito della Jrannia della forma/apparenza, quindi; tanto che la Arbus stessa avrà modo di accennare alle sue "bruAe fotografie", impermeabili ad ogni limatura arJsJca, ma proprio per questo capaci di disvelare verità altrimenJ invisibili.
C'è chi dice che l'eJcheAa di "fotografa dei mostri" sia una trovata "infelice". Dipende. Forse è molto più "infelice" questo ridicolo Jmore servile nei confronJ delle parole, che fa il gioco di quegli stessi visitatori benpensanJ che, nel corso di una retrospeOva dedicata alla Arbus, senJJsi minacciaJ da quelle immagini, ci sputarono contro. Forse si traAa di ipocrisia degli eufemismi, necessari solo a chi sente di avere la coscienza sporca.
Il significato di una parola -­‐ scriveva WiAgenstein -­‐ dipende dall'uso che se ne fa.
Mostro deriva dal laJno monstrum 'segno divino, prodigio' (dal tema di monēre 'avvisare, ammonire') e arrivò successivamente ad idenJficare le creature miJche risultanJ da una contaminazione di elemenJ diversi, tale da suscitare stupore. Creature stra-­‐ordinarie nella loro complessità, dense di un fascino estremo che ha per fulcro l'anomalia.
E allora, sì, la Arbus fu la fotografa dei mostri. Mostro essa stessa.
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L’AMERICA IN FOTOGRAFIA – L’opera di Diane Arbus
Contemplando dall’alto i panorami democra/ci della cultura, Walt Whitman1 si sforzava di guardare oltre le differenze tra bello e bru9o, tra importante e banale. Non si poteva preoccupare del bello e del bru9o chi si abbandonava a un abbraccio ampio della totalità e della vitalità dell’esperienza americana. Io canto l'individuo, la singola persona,
Al tempo stesso canto la Democrazia, la massa.
L'organismo, da capo a piedi, canto,
La semplice fisionomia, il cervello da soli non sono degni
della Musa: la Forma integrale ne è ben più degna,
E la Femmina canto parimenti che il Maschio.
Canto la vita immensa in passione, pulsazioni e forza,
Lieto, per le più libere azioni che sotto leggi divine si attuano,
Canto l'Uomo Moderno.
Walt Whitman
(Walt Whitman)
Nei primi decenni della fotografia si chiedeva alle fotografie di essere immagini idealizzate. È ancora l’obie@vo di mol/ssimi fotografi dile9an/, per i quali una bella fotografia è la fotografia di qualcosa di bello, o di una donna, di un tramonto. Ma dal 1920 in poi i professionis/ più ambiziosi hanno con/nuato a staccarsi dai sogge@ lirici, esplorando consapevolmente materiali insignifican/, pacchiani o addiri9ura insulsi. Non esiste probabilmente sogge9o che non si possa rendere bello. Nei campi aper/ dell’esperienza americana, catalogata con passione da Whitman e valutata con una scrollata di spalle da Warhol, sono tu@ celebrità. Non c’è un momento più importante di un altro, né una persona più interessante di un’altra. Io non dubito che la maestà e la bellezza del mondo siano latenti in qualunque sua particella..
Io non dubito che nelle banalità, negli insetti, nelle persone volgari, negli schiavi, nei nani, nelle erbacce,
nei rifiuti, ci sia molto più di quanto ho immaginato..
(Walt Whitman)
1
Walt Whitman (West Hills, 31 maggio 1819 – Camden, 26 marzo 1892) fu un poeta e scrittore statunitense. È conosciuto per
essere l'autore della famosa raccolta di poesie Foglie d'erba (pubblicata in diverse edizioni a partire dal 1855).
Fu cantore della libertà (ma anche della sessualità e dell'omosessualità) e di un ideale visionario che pone l'uomo come
momento centrale rispetto al senso di percezione e comprensione delle cose. Cantò, soprattutto, l'essenza di quello che
diventerà successivamente il sogno americano. Dalla sua opera proviene la celeberrima ode che inizia con il verso "O capitano!
Mio capitano!" (filo conduttore del film L'attimo fuggente).
7 Whitman non pensava di abolire la bellezza ma di generalizzarla. E lo stesso fecero, per generazioni, i più dota/ fotografi americani, nella loro polemica ricerca del banale e del volgare. Ma per i fotografi americani matura/ dopo la seconda guerra mondiale non vale più l’impera/vo whitmaniano di registrare nella sua interezza l’obie@vità dell’esperienza americana. Se fotografi dei nani, non o@eni maestà e bellezza. O@eni dei nani.
Per la retrospe@va di Diane Arbus nel 1972 il Metropolitan Museum of Modern Art a@rò folle oceaniche. Nell’esposizione, centododici fotografie, tu9e fa9e da un’unica persona e tu9e simili, suscitarono sconcerto e nessun calore rassicurante. Invece di mostrare persone dall’aspe9o gradevole, individui rappresenta/vi che facevano il loro mes/ere di uomini, la mostra di Arbus allineava un assor/mento di mostri e di casi limite – Girl with a cigar in Washington Square Park, N.Y.C., 1965
TransvesJte at her birthday party, N.Y.C. 1969 Dominatrix with kneeling client, N.Y.C. 1969 in maggioranza bru@, infago9a/ in abi/ gro9eschi o an/este/ci, colloca/ in ambien/ tris/ o squallidi -­‐ che si erano ferma/ per me9ersi in posa e, spesso, per guardare con franchezza e senza complessi il visitatore. 8
A young man with curlers at home on West 20th Street, N.Y.C. 1966
L’opera di Arbus non sollecita i visitatori a iden/ficarsi con gli infelici da lei fotografa/. L’umanità non è “una”. Le fotografie della Arbus trasme9ono il messaggio an/umanis/co dal quale gli uomini di buona volontà dagli anni se9anta sono impazien/ di farsi turbare, come negli anni cinquanta volevano essere consola/ e distra@ da un umanesimo sen/mentale. Le fotografie di Arbus suggeriscono un mondo che rifiuta ogni risvolto poli/co, dove tu@ sono stranieri, disperatamente isola/, immobilizza/ in iden/tà meccaniche e paralizzan/. La storia e la poli/ca sono irrilevan/: la condizione umana può essere universalizzata nella gioia o atomizzata nell’orrore, resta il silenzio dell’esistenza.
L’aspe9o più colpisce dell’opera della Arbus è il fa9o di concentrarsi sulle vi@me, sugli sventura/, ma senza i fini pietosi che tale inizia/va dovrebbe porsi. La sua opera mostra A woman with her baby monkey. persone pate/che, miserevoli e anche repellen/, ma non suscita alcun sen/mento di compassione. Le sue fotografie rivestono un cara9ere di obie@vità e non stabiliscono empa/a sen/mentale con i propri sogge@. Nella loro acce9azione dell’orrore, è forte la sensazione che 9 ciò che queste fotografie chiedono di guardare all’osservatore è in realtà un’altra cosa. Arbus faceva fotografie per mostrare che esiste un altro mondo. L’altro mondo lo si trova, come al solito, all’interno di questo. TaAoed man at a carnival, Md.1970
Hermaphrodite and a dog in a carnival trailer, Md. Dichiaratamente interessata a fotografare soltanto persone “dall’aspe:o strano”, Arbus trovò abbondanza di materiale vicino a casa. New York, con i suoi dancing per traves// e i suoi alberghi per i disereda/, abbonda di figure strane. E ci furono anche un luna park del Maryland, dove Arbus trovò un puntaspilli umano, un ermafrodita con un cane, un tatuato e un ingoiatore di spade albino.
Campi di nudis/ nel New Jersey e in Pennsylvania; Disneyland e un set di Hollywood per i loro paesaggi mor/ o fin/ senza gente dentro. ReJred man and his wife in a nudist camp one morning, Nj, 1963
A house on the hill, Hollywood 1963
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E l’anonimo ospedale psichiatrico dove sca9ò alcune delle sue ul/me, e più inquietan/, fotografie. UnJtled, 1971
UnJtled, 1971
UnJtled, 1971
E poi c’era sempre la vita di tu@ i giorni, con la sua inesauribile riserva di stranezze per chi ha occhi per vederle. La macchina fotografica ha il potere di cogliere persone cosidde9e normali in maniera tale da farle apparire anormali. Il fotografo sceglie la stranezza, la insegue, la inquadra, la sviluppa, le dà un /tolo.
“Tu vedi una persona per strada –scriveva Arbus-­‐ e la cosa fondamentale che no; è il suo dife:o”. L’uniformità insistente dell’opera di Arbus mostra che la sua sensibilità, armata di macchina fotografica, poteva insinuare angoscia, eccentricità o mala@a mentale con qualsiasi sogge9o. Ci sono alcune fotografie di bimbi che piangono, e i bambini sembrano disturba/, ma@. Mother Holding her Child, N.J, 1967
A child crying, N.J, 1967
A flower girl at a wedding, ConnecJcut 1964
11 Possono essere angoscian/ anche i na/ da par/ gemellari o trigemini che compaiono in diverse foto.
A flower girl at a wedding, ConnecJcut 1964
IdenJcal twins, Roselle, N.J. 1967
Triplets in their bedroom, N.J. 1963
Man and a boy on a bench in Central Park, N.Y.C.,1962
M
o l t e i m m a g i n i so9olineano con opprimente stupore che due persone f o r m a n o u n a c o p p i a ; e o g n i coppia è una strana coppia: eterosessuale o omo, nera o bianca, in un ospizio per vecchi o in una scuola media. Two Girls in Matching Bathing Suits, Coney Island, N.Y., 1967
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La gente appariva eccentrica perché non aveva ves//, ma anche quando li aveva: tu@ quelli che la Arbus fotografava erano fenomeni da baraccone. Il ragazzo che aspe9ava di partecipare a una marcia in favore della guerra, con il suo cappello di paglia e il dis/n/vo “Bombardiamo Hanoi”.
Boy with a straw hat waiJng to march in a pro-­‐war parade, N.Y.C. 1967
Il re e la regina di una Senior Ci/zen Dance.
King and Queen of a senior ciJzens dance, N.Y.C., 1970
La coppia suburbana scompostamente seduta su una panchina; la vedova tu9a sola nella sua ingombra camera da le9o.
Young Couple on a Bench in Washington Square Park, N.Y.C. 1965
13 A widow in a bedroom, N.Y.C., 1963
In Un gigante ebreo a casa sua con i genitori nel Bronx, New York 1970, i genitori sembrano due nani e le loro dimensioni sono sbagliate come quelle dell’enorme figliolone che si china su di loro so9o il basso soffi9o del soggiorno. A Jewish giant at home with his parents in the Bronx, N.Y. 1970 Il pres/gio delle fotografie di Arbus deriva dal contrasto tra una tema/ca lacerante e un’a9enzione pacata e realis/ca. Lungi dallo spiare mostri e infelici, dal coglierli alla sprovvista, la fotografa si è presa la briga di conoscerli, di rassicurarli, perché posassero per lei con impe@ta tranquillità. Ma cosa pensavano i suoi sogge@ dopo aver acce9ato di farsi fotografare cos/tuisce il fascino delle sue opere: si vedono anche loro così? può domandarsi l’osservatore. Sanno quanto sono gro9eschi? Ma sembra che lo ignorino.
Il sogge9o delle fotografie di Arbus è la “consapevolezza infelice”, ma quasi tu@ i personaggi di questo Grand Guignol 2 sembrano non accorgersi di essere bru@. La fotografa esclude i sofferen/ che sanno presumibilmente di soffrire, come le vi@me di inciden/, guerre, cares/e e persecuzioni poli/che. Arbus non avrebbe fotografato mai un incidente, cioè un evento che irrompe in una vita. Si era specializzata in len/ tracolli personali, le cui origini risalivano in genere alla nascita del sogge9o.
TransvesJte at a Drag Ball, N.Y.C. 1970
Piccolo teatro di Parigi, a Montmartre, fondato nel 1897 e rimasto a]vo fino al 1962. Il nome passò a designare una ;pica forma dramma;ca, cara:erizzata da fa] terrorizzan;, da farse di esasperata comicità e sa;re amare e pungen;.
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Benché quasi tu@ noi siamo porta/ a credere che ques/ individui siano infelici, poche di queste fotografie mostrano reale sofferenza. Le immagini dei devia/ e dei fenomeni da baraccone non pongono l’accento sulla loro pena ma sull’indifferenza e sull’autonomia. I traves// nei loro camerini, il nano messicano nella sua camera d’albergo a Manha9an, i piccoli russi in un soggiorno della Centesima Strada e i loro simili sono in genere rappresenta/ come persone allegre, rassegnate, posi/ve.
Russian midget friends in a living room on 110th street, 1963 NYC 1963
Mexican dwarf in his hotel room in N.Y.C. 1970
Seated Man in a bra and Stocking, NYC, 1967
L a s o ff e r e n z a , semmai, è leggibile nei ritra@ dei normali: la donna con un colle9o di pelliccia, il ragazzo che in Central Park /ene ben stre9a una bomba a mano gioca9olo.
Woman with a fur collar on the street, N.Y.C. 1968
Child with a toy hand grenade in Central Park, N.Y.C. 15 In quasi tu9e le fotografie di Arbus, i sogge@ guardano in macchina. E questo li fa apparire più strani, quasi pazzi. Guardiamo la Donna con vele9a nella Quinta Avenue, New York City, 1968: a parte la /pica bru9ezza del sogge9o di Arbus, ciò che fa apparire strana la donna della sua fotografia è la sfacciata disinvoltura della sua posa. Woman with a Veil Fizh Avenue , NYC, 1968
N el linguaggio normale del ritra9o fotografico, guardare in macchina denota solennità, franchezza, rivelazione dell’essenza del sogge9o. Per questo la frontalità sembra andar bene per le fotografie cerimoniali (matrimoni, gruppi scolas/ci), ma molto meno per le immagini pubblicitarie dei candida/ poli/ci. (Per i poli/ci è più consueta la posa di tre quar/: uno sguardo che si eleva anziché affrontare, suggerendo non un rapporto con il presente ma uno sguardo più nobilitante verso il futuro).
Ciò che rende così singolare l’uso della posa frontale da parte di Arbus è che i suoi sogge@ sono spesso persone che non ci si aspe9erebbe di vedere abbandona/ con tanto candore e affabilità alla ripresa fotografica. Per convincere queste persone a posare, la fotografa ha dovuto conquistarsi la loro fiducia, ha dovuto “fare amicizia” con loro. Forse la scena più spaventosa del film Freaks (1932) di Tod Browning è quella del banche9o nuziale, dove uomini con la testa a spillo, donne barbute, fratelli siamesi e torsi viven/, danzano e danno la loro approvazione alla malvagia, ma normale, Cleopatra che ha appena sposato l’ingenuo eroe nano. “Una di noi! una di noi!” cantano tu@, mentre un filtro d’amore viene passato di bocca in bocca, per essere infine offerto alla nauseata sposa da un esuberante nano. Arbus aveva una visione forse troppo semplicis/ca del fascino, dell’ipocrisia e del fas/dio di fraternizzare con i “mostri”. All’euforia della scoperta, seguiva l’emozione di aver 16
conquistato la loro fiducia, di non averne paura, di aver dominato la propria ripugnanza. Fotografare fenomeni, spiegava Arbus, “mi eccitava terribilmente. Devo dire che li adoravo”. Le sue fotografie erano già famose tra quan/ si interessavano di fotografia prima del suo suicidio, avvenuto nel 1971; ma, come avviene spesso, l’a9enzione che la sua opera ha a9ra9o dopo la sua morte è stata una sorta di apoteosi. Il fa9o che si sia suicidata sembra garan/re che la sua opera è sincera, partecipe, non distaccata. Il suicidio fa apparire più rovinose le sue fotografie, come a dimostrazione del fa9o che per lei cos/tuissero un pericolo. La stessa Arbus suggeriva questa possibilità. “Ogni cosa è così superba e mozzafiato. Io avanzo strisciando sul ventre come i solda; nei film di guerra (….) Sono convinta che esistano dei limi;. Dio sa che quando i solda; cominciano ad avanzare verso di te, provi la sconvolgente sensazione che potres; benissimo rimanere ucciso”. Le sue parole descrivono retrospe@vamente una sorte di morte in ba9aglia: avendo superato cer/ limi/, Arbus cadde in una imboscata psichica, vi@ma della propria imparzialità e della propria curiosità. Secondo la visione roman/ca dell’ar/sta, la persona talmente coraggiosa da trascorrere una stagione all’inferno rischia di non uscirne viva o di emergere psichicamente danneggiata. L’eroica avanguardia le9eraria e pi9orica francese di fine ‘800 e del primo Novecento ci fornisce una serie eroica di ar/s/ che non sono riusci/ a sopravvivere ai loro viaggi all’inferno. C’è però una grande differenza tra l’a@vità di un fotografo, che è sempre voluta, e 17 quella di uno scri9ore o di un pi9ore, che può anche non esserla. Si ha il diri9o di dar voce alla propria sofferenza, che è comunque personale. Ma occorre un a9o di volontà per andare in cerca della sofferenza altrui. Arbus non era una poetessa o una pi9rice che scavava nelle proprie viscere per riferire sulle proprie sofferenze, ma una fotografa che si avventurava per il mondo per raccogliere immagini cariche di sofferenza. L’opera di Arbus è un buon esempio di una tendenza dominante nella grande arte dei paesi capitalis/ci: quella di eliminare, o almeno di a9enuare, il disgusto sensoriale e morale. Le sue fotografie sono un’occasione per dimostrare che si possono guardare in faccia senza ripugnanza gli orrori della vita. Gran parte dell’arte moderna si sforza di abbassare la soglia del terribile: abituandoci a ciò che non soppor/amo di vedere o di udire, perché troppo scandaloso, doloroso o imbarazzante, l’arte modifica la morale. La graduale eliminazione del disgusto ci dovrebbe rendere più for/, ma in realtà una pseudofamiliarità con l’orribile rafforza l’alienazione e diminuisce la nostra capacità di reagire ad esso nella realtà. Questo a 9 e g g i a m e n t o n o n è c i n i c o , m a semplicemente ingenuo. A questa dolorosa Two men dancing at a drag ball, N.Y.C. 1970
realtà da incubo Arbus applicava agge@vi c o m e “ p a z z e s c o ” , “ i n c r e d i b i l e ” , “sensazionale”: lo stupore infan/le della mentalità pop. La macchina fotografica –secondo l’idea della Arbus-­‐ è un congegno che capta ogni cosa, che convince i sogge@ a rivelare i propri segre/: fotografare persone, per Arbus, è necessariamente un a9o “crudele” e “ca]vo”. L’importante è non ba9ere ciglio. L’aspe9o fondamentale del fotografare persone è che non si interviene nelle loro vite, ma ci si limita a visitarle. Nel fotografare uno spaventoso “so9omondo” o un desolato “sopramondo” di plas/ca non era sua intenzione di entrare nell’orrore vissuto dagli abitan/ di ques/ mondi. Essi dovevano rimanere “pazzeschi”. La visione di Arbus è sempre dall’esterno.
“
Mi a]ra pochissimo fotografare persone note o anche sogge] no;” –scriveva Arbus. Per quanto a9ra9a dal bru9o e dal deforme, non le venne mai in mente di fotografare bambini na/ mala/ o vi@me del napalm, cioè orrori pubblici, deformità con richiami e/ci o sen/mentali. Sono necessariamente sogge@ astorici, vite più segrete che aperte. Arbus proveniva da una famiglia ebrea evoluta, benestante, maniaca dell’igiene. “Una delle cose per cui sen;vo di soffrire da bambina era che non avevo mai conosciuto l’avversità. Ero prigioniera di un senso di irrealtà. E questa sensazione di immunità era dolorosa.” 18
Per Arbus, il mezzo di fare esperienza, e quindi di acquisire un senso della realtà, fu la macchina fotografica. E per esperienza intendeva l’avversità psicologica: lo choc dell’immergersi in esperienze che non si possono abbellire, l’incontro con ciò che è perverso, tabù, anche malvagio. L’interesse di Arbus per i mostri esprime il desiderio di profanare la propria innocenza, di sfogare la propria frustrazione di persona che sta al sicuro. Il decennio del lavoro serio di Arbus coincide, e ne è parte integrante, con il periodo nel quale i “mostri” uscirono allo scoperto e divennero un normale e sogge9o d’arte. Quello che nei decenni passa/ veniva tra9ato con angoscia, sarebbe stato affrontato negli anni sessanta con assoluta impassibilità o addiri9ura con piacere (nei film di Fellini, nei fume@ underground, negli spe9acoli della nascente musica rock). All’inizio del 1960 si premeva per sgomberare la zona di Times Square e Coney Island da traves// e pu9ane e per coprirla di gra9acieli. Ma, man mano che gli abitan/ dei so9omondi devian/ venivano sfra9a/ dai loro limita/ territori –e messi al bando come esseri indecorosi, disturbatori della quiete pubblica, come individui osceni o non reddi/zi-­‐ essi si infiltrano sempre più nelle coscienze come materie d’arte, acquistando diffusa legi@mità. Ora chi meglio poteva apprezzare la verità dei mostri di una come Arbus, fotografa di moda per professione, cioè fabbricante di quella menzogna cosme/ca che maschera le insopprimibili diseguaglianze di nascita, di classe e di aspe9o fisico? Solo che, a differenza di Warhol, che fu per tan/ anni un disegnatore Burlesque comedienne in her dressing room, AtlanJc City, N.J. 1963
pubblicitario, Arbus non fece il suo lavoro diffondendo e deridendo l’este/ca del fascino, che aveva imparato a servire, ma le voltò completamente le spalle. Era il suo modo di mandare al diavolo “Vogue”, la moda e tu9o ciò che è “carino”. Ma Arbus non ha lo s/le e il narcisismo di Warhol, né il suo genio pubblicitario o l’ironia che lo isolava dal mostruoso. In confronto a Warhol, lei sembra estremamente vulnerabile ed innocente, e certamente più pessimista. La sua visione dantesca della ci9à e dei sobborghi non 19 con/ene riserve di ironia: le sue fotografie non giocano mai con l’orrore; non lasciano spazio alla parodia e non concedono possibilità di guardare i mostri con tenerezza. L’opera di Arbus esprimeva tu9a la sua rivolta contro tu9o ciò che era pubblico, convenzionale, sicuro, rassicurante, in nome di tu9o ciò che era privato, segreto, bru9o, pericoloso e affascinante. Ques/ contras/ oggi, ora, sembrano quasi assurdi. Il mostruoso non è più una zona privata di difficile accesso. Le persone bizzarre, sessualmente disgraziate o emo/vamente vuote possiamo vederle ogni giorno nelle edicole, alla TV, negli autobus, alla guida delle automobili. L’uomo hobbesiano3 vaga per le strade perfe9amente visibile, con i lustrini nei capelli. Resta il fa9o che Arbus è un caso speciale nella storia della fotografia, come lo è Giorgio Morandi, che passò mezzo secolo a fare nature morte di bo@glie, nella storia della pi9ura moderna europea. Lei non esplora l’intero campo dei sogge@ possibili, neanche un po’. I suoi sogge@ si equivalgono tu@. E stabilire equivalenze tra mostri, pazzi, coppie suburbane e nudis/ è un giudizio molto preciso: i sogge@ delle fotografie di Arbus sono tu@ membri di una stessa famiglia, abitan/ di un unico villaggio. Solo che, per combinazione, questo villaggio di idio/ è l’America. Anziché mostrare iden/tà tra cose in sé differen/ (secondo la visione democra/ca di Walt Whitman), si mostra che tu@ hanno lo stesso aspe9o. Conoscere una cosa bella significa necessariamente conoscerla in maniera sbagliata.
F. Nietzsche Una fotografia è un segreto a:orno ad un segreto. Più essa racconta, meno è possibile capire.
Nelle mie fotografie non ho mai o:enuto il risultato che mi aspe:avo: dopo averle sviluppate, o erano peggiori o erano migliori.
Quelli che nascono mostri sono l’aristocrazia del mondo dell’emarginazione. Tu] viviamo cercando di evitare le esperienze trauma;che: i mostri sono na; insieme al loro trauma. Hanno superato il loro esame, sono degli aristocra;ci.
Diane Arbus
Thomas Hobbes (1588-­‐1679), è stato un filosofo e matemaJco britannico, autore del famoso volume di filosofia poliJca inJtolato Leviatano (1651). Benché Hobbes sia oggi ricordato sopraAuAo per la sua opera sulla filosofia poliJca, contribuì a diversi campi del sapere, tra i quali storia, geometria, eJca, filosofia generale e ciò che ora verrebbe chiamato scienze poliJche. Nel Leviatano ( figura ripresa dal mostro biblico descriAo nel libro di Giobbe ) Hobbes espone la propria teoria della natura umana, della società e dello stato. Nello stato di natura ognuno ha diriAo a ogni cosa e, a causa della scarsità dei beni disponibili, gli uomini ingaggiano una guerra di tuO contro tuO (bellum omnium contra omnes; homo homini lupus = l'uomo è un lupo divoratore per ogni altro uomo). La sua concezione degli essere umani come assolutamente egoisJ, pericolosi e costantemente bramosi di potere, fu molto impopolare.
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Considerazioni e citazioni sono tra7e dai tes8:
SULLA FOTOGRAFIA di Susan Sontag (Einaudi, Torino 1978) DIANE ARBUS: AN APERTURE MONOGRAPH (twenty-­‐fiZh anniversary edi[on, 1996)
Rielaborazione e sintesi di Dario D’Antoni.
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