8 gennaio 2015 Lo stato non ha bisogno di indebitarsi, è il mercato finanziario che ne ha bisogno. Come ricorda spesso Giulio Salierno Alietta su “MilanoFinanza”, in Italia, da quando è stato firmato il trattato di Maastricht (1992), si sono pagati cumulativamente circa 1,800 miliardi di interessi sui titoli di stato (traslati in euro di oggi). La tabella sottostante mostra un calcolo per l’Eurozona, riferito al periodo 1995 al 2011, che segnala una cifra per l’Italia di 1,348 miliardi di interessi; messa a confronto con gli altri stati appare evidente come nessuno abbia pagato tanti interessi quanto il nostro Paese. Se si vuole poi fare un salto indietro, a quando si è imposto allo stato di finanziarsi solamente sul mercato finanziario (1982), questo ha pagato più di 3,000 miliardi di interessi. Il debito pubblico attuale di quasi 2,200 miliardi è il risultato del cumularsi di interessi. Come ha imparato infatti chiunque abbia avuto un mutuo ad un tasso di interesse del 3,5% medio, ad esempio, la cifra iniziale raddoppia quando la si deve restituire, a causa degli interessi in circa venti anni. Ad un tasso di interesse del 7% medio, la cifra iniziale raddoppia a causa degli interessi in circa dieci anni. Questo è esattamente ciò che è successo allo stato italiano tra il 1982 e il 1992 come si può vedere da questo grafico (perché il costo medio del debito pubblico esplose e in media rimase oltre il 7% per dieci anni e fece praticamente raddoppiare il totale del debito). L’esplodere della spesa per interessi portò il loro peso ad oltre il 20% della spesa pubblica ed oltre il 10% del PIL negli anni ’90. E’ vero ovviamente che all’origine c’erano dei deficit, finanziati con debito, ma si tratta deficit occorsi negli anni ’80, più di venticinque anni fa. A causa di deficit occorsi più di venti anni fa, la spirale degli interessi ha tenuto lo stato italiano inchiodato a pagare interessi su interessi e ad aumentare le tasse di continuo. Se oltre agli interessi sul debito dello stato si considerano anche quelli sul debito di aziende e famiglie, si può stimare che negli anni ’90 una percentuale vicina al 20% del PIL italiano andava assorbita dagli interessi. Oggi la percentuale assorbita dal debito pubblico è scesa, ma negli anni dell’euro il debito privato è più che raddoppiato e supera i 2mila miliardi. Da alcuni anni abbiamo quindi un debito totale in Italia di oltre 4mila miliardi, che è la cifra del nostro PIL moltiplicato per tre. Gli interessi (lordi) pagati sono intorno a 200 miliardi e questo grazie solo al fatto che i tassi di interesse della Banca Centrale siano stati schiacciati a zero. Va ricordato che il reddito nazionale è inferiore a 1,600 miliardi (ed è stato “gonfiato” dalla recente e dubbia revisione contabile di più 40 mld), per cui un aumento dei tassi di interesse di mercato dovuto a fattori anche esterni (politica dell’America, rischi di default…) potrebbe portare di nuovo il peso degli interessi sull’economia in poco tempo al 20% del PIL. Diciamo che si è fatta molta strada dai tempi in cui il denaro a interesse era considerato qualcosa di “sterile”, che consente di guadagnare “mentre si dorme”. Lasciamo da parte il discorso sul debito privato ora e concentriamoci sul fatto che il peso del debito pubblico è stato il motivo per cui si è aumentata continuamente la pressione fiscale nell’ultima generazione. Prendiamo i 1,800 miliardi circa di interessi pagati sul debito pubblico dal 1992 e confrontiamoli con le tasse addizionali che dal 1992 ad oggi famiglie e imprese italiane hanno pagato, cioè quello che oggi si paga in più rispetto alle aliquote e tipi di imposte in vigore nel 1992. Se andiamo ora indietro di venti anni la cifra totale cumulativa delle tasse addizionali pagate dal 1992 è quasi identica a quella degli interessi cumulativi pagati sul debito pubblico da allora. I calcoli esatti possono essere mostrati in altra sede, ma tanto per fare un esempio clamoroso il peso percentuale delle multe automobilistiche è aumentato più di dieci volte. Intuitivamente, se l’imposizione fiscale fosse oggi quella del 1992, il carico fiscale che oggi si avvicina a 800 miliardi l'anno, sarebbe più basso di almeno 100 miliardi all'anno (stiamo arrotondando le cifre per semplicità). Andando a ritroso nel tempo, e sommando il peso addizionale di tasse aggiunto dal 1992 in poi, si arriva ad una cifra cumulativa vicina ai 1,800 mld degli interessi cumulativi pagati. L’aumento cumulativo di tasse, che ha soffocato l’economia italiana, è approssimativamente pari agli interessi cumulativi pagati sui titoli di stato. Da una generazione, in pratica, si pagano più tasse per ripagare interessi sul debito pubblico. Da più di venti anni, infatti, lo stato italiano incassa dalle tasse sempre un 2,4% del PIL in più rispetto a quello che spende, ha come si dice un “surplus di bilancio primario” (cioè prima degli interessi). La situazione attuale è che nessun paese industriale ha uno stato che assorbe quasi due punti e mezzo percentuali di PIL dall’economia come fa quello italiano. Da una generazione lo stato prende dall’economia più di quello che immette come moneta, tramite una tassazione che eccede sempre del 2,4% del PIL le sue spese L’obiezione che si incontra ipso facto quando fai notare questo è che “ce lo meritiamo” perché abbiamo avuto deficit in passato, ma come si è mostrato questi deficit sono di più di venti anni fa e dopo di allora è stato solo l’accumulo degli interessi che ha creato deficit. In secondo luogo il pagamento degli interessi prima beneficiava (una parte) degli italiani e con l’Euro invece questo è cambiato. Contrariamente a quanto si ripete, anche se è vero che con l’Euro il peso percentuale degli interessi è diminuito, la situazione è peggiorata in realtà, perché prima questi interessi finivano praticamente tutti agli italiani e con l’Euro invece più della metà finiva all’estero. Fino a metà anni '90 infatti, solo gli italiani compravano BTP e Bot perché per gli stranieri non era conveniente dato che la lira spesso si svalutava e per loro contava il rendimento traslato nella loro valuta. Da quando invece gli investitori esteri hanno visto che sarebbero stati ripagati in una valuta forte come l’Euro, da tutto il mondo si sono riversati in Italia e sono arrivati a detenerne circa il 40% negli anni 2005-2009. In aggiunta, gli investitori esteri compravano solo BTP cioè i titoli a tasso fisso e scadenza più lunga, che si prestano alla speculazione per ottenere “capital gain” (guadagni sulle variazioni di prezzo). Gli italiani invece compravano la quasi totalità dei Bot e CCT, che rendono anche un terzo di meno perché non hanno oscillazioni di prezzo e quindi comportano poco rischio. Il risultato è che con l'Euro gli investitori esteri, con una quota intorno al 40% del totale dei titoli pubblici, dato che compravano BTP che rendono il triplo dei Bot, incassavano la maggioranza degli interessi. E’ vero quindi che prima dell’Euro il peso degli interessi sul debito pubblico era maggiore, ma erano soldi che rimanevano in Italia. Con l’Euro più di metà di questi soldi andati all’estero. Si potrebbe dire che le finanziarie che si sono succedute dai tempi di Amato e Dini in poi siano servite a inviare centinaia di miliardi di tasse all’estero. Si dovrebbe anche dire che la stragrande maggioranza degli italiani che lavorano (un piccola minoranza ricca che ha investito molto in BTP per cui al netto ha avuto benefici esiste ovviamente), sono stati dissanguati per pagare interessi alla rendita e speculazione finanziaria internazionale. E gli interessi sono solo parte della storia. E’ un fatto ben noto nel mondo finanziario che i titoli di stato italiani hanno fatto la fortuna dei grandi fondi e banche (“remember that there were huge capital gains on Italian debt after it became clear that it would be allowed to join the euro area. …” Thomas Sargent, Premio Nobel per l’Economia, intervista, 26/9/2010). Comprare BTP dall’estero prima dell’arrivo dell’Euro è stata forse la più grande speculazione finanziaria della storia moderna (data la dimensione enorme del mercato del debito italiano e il fatto che dura da venti anni, dal 1995-1996 circa ad oggi). Dall’estero hanno comprato BTP quando rendevano sull’8%- 10% ed erano ancora in lire. Con l’euro si sono ritrovati un investimento, che per effetto del calo del tasso di interesse, si è apprezzato come quotazione in certi casi anche del 50%. Se il rendimento infatti scende dall’10% al 3%, il prezzo del titolo sale in modo inversamente proporzionale. Ad esempio, negli ultimi tre anni i BTP con un calo del rendimento dall’8% nel 2011 al 2% attuale, si sono rivalutati come quotazione da 80-90 a 140. In più per gli investitori esteri in termini di valuta, da quotazioni di circa 0,90 (sul dollaro), i loro BTP sono saliti fino a 1,50 dollari. Per la speculazione internazionale quindi i BTP da venti anni hanno rappresentato un investimento che ha pagato sempre rendimenti sicuri, garantiti dallo stato (e poi dalla BCE!), superiori a quelli degli altri titoli pubblici (di paesi OCSE). In più ha portato guadagni sul cambio (fino ad un anno fa). Infine, soprattutto, ha dato grandi guadagni in conto capitale (speculando sul calo dei tassi per titoli a tasso fisso come i BTP). E’ difficile quantificare l’ordine di grandezza dei guadagni fatti da metà anni ’90 dagli investitori esteri sull’Italia, ma già solamente per gli interessi si parla di oltre 500 miliardi, poi c’è l’apprezzamento del cambio e poi l’aumento delle quotazioni, per cui si parla sempre di cifre superiori ai 1,000 miliardi. Peccato che per far guadagnare queste fortune agli investitori esteri per venti anni, l'economia italiana sia stata soffocata dal peso crescente della tassazione più asfissiante del mondo industriale. Anche se non se parla, nel mondo finanziario internazionale intere fortune sono state costruite da metà anni ’90 sui titoli di stato italiani. Una prova indiretta è che ogni volta che ci sono crac dovuti ad eccesso di leva finanziaria, si scopre sempre che si speculava soprattutto sui titoli italiani (ad esempio, quando scoppiò la crisi del mega fondo Long Term Capital nel 1998, risultò poi che la sua posizione maggiore era sui BTP e quando di recente c’è stato un altro scandalo, quello di MF Global nel 2011, è risultato che avevano scommesso sui BTP). Questo ultimo aspetto aiuta a comprendere perché il mondo finanziario sia così interessato a che l’Italia “rispetti i vincoli”: ogni volta che i BTP hanno avuto oscillazioni di prezzo negative sui mercati, grandi fondi e banche che vi investivano con leva finanziaria rischiavano enormi perdite. In Italia però tutto questo meccanismo di rendita e speculazione finanziaria viene descritto in termini del “rispetto dei vincoli” finanziari del debito pubblico, a cui bisogna sottostare per mostrarsi “credibili”, al punto che questi vincoli finanziari sono stati iscritti nella Costituzione due anni fa dal governo Monti. In realtà questi “vincoli” significano in pratica che lo stato italiano deve pagare interessi su interessi senza fine, in eterno, a differenza di una famiglia che ripaga entro 20 anni il mutuo e poi è libera dal debito, il tutto a beneficio prevalentemente di investitori esteri, nonché di una fetta di famiglie italiane benestanti che comprano BTP lasciando i BOT e Cct con pochi risparmi. In più negli ultimi tre anni grazie all’acquisto di circa 430 miliardi di BTP a beneficio delle banche italiane. Esiste un modo di liberare l’economia produttiva italiana da questa moderna sanguisuga finanziaria ? Purtroppo l'opinione pubblica è stata vittima da più di una generazione di un bombardamento mediatico che descrive i titoli di stato come un finanziamento, da parte dei privati, allo stato che "ha bisogno di soldi". Si lascia quindi intendere che i soldi esistano come oggetti in quantità limitata, come ai tempi del sistema aureo, lo stato se li debba procurare e i privati che ne dispongono glieli prestino. Non a caso l’Euro è stato descritto da vari premi Nobel per l’economia come un “Gold Standard artificiale”, cioè un sistema che cerca di riportare in vita il sistema monetaria pre-anni ’30, in cui si regolavano i pagamenti con moneta convertibile (in parte) in oro per cui si dipendeva dalla quantità di metallo disponibile. Ovviamente le cose non stanno più così dagli anni ’30 quando il Gold Standard appunto fu abbandonato, e anche in Eurozona la moneta viene creata dal niente, senza costo, dalla Banca Centrale e dalle banche ordinarie come entrata contabile, numeri che vengono aggiunti in un computer. Parlare di uno stato che “non trova i soldi” è ridicolo in un sistema in cui la moneta stessa che tutti usano è al 95% fatta di conti bancari, ed è di fatto garantita dallo stato indirettamente tramite le garanzie che esso fornisce alle banche (depositi assicurati fino a 100mila euro, salvataggi bancari come quelli succediti in tutta europa dal 2009, aumenti di capitale con denaro pubblico come nel caso di MontePaschi…). Se non ci fosse questo sistema di garanzie dello stato, le banche sarebbero soggette a periodiche corse agli sportelli. Occorre ricordare che “i soldi in banca” dei clienti vengono impiegati e prestati, e la famosa “liquidità” disponibile è una percentuale minima in ogni momento dato. Le banche operano in pratica con solo un 5% circa (in media) di capitale e tutto il restante 95% per loro è un debito (verso clienti, verso altre banche, verso fondi esteri, verso la Banca Centrale…). Quando, come nel 2008-2011, le banche accumulano perdite maggiori del solito, deve intervenire lo stato per salvarle; di conseguenza i conti in banca, cioè la moneta che utilizziamo, hanno valore grazie alla fiducia nello stato, ossia fiducia che lo stato crei moneta se necessario, e la fornisca alle banche in modo che queste possano pagare per conto dei clienti. E’ quindi assurdo pensare che lo stato dipenda per finanziarsi dal prelevare (per mezzo delle tasse) soldi dai cittadini, i quali tengono questi soldi in banca, dove sono garantiti dalla promessa che lo stato fornisca alle banche la liquidità (cioè lo stato fornisca soldi). Ad un certo punto in questo circuito di famiglie e imprese, banche e stato dove tutti ricevono moneta da qualcun altro, ci deve essere qualcuno che la crea e da cui tutti dipendono e ovviamente è lo stato. Se lo stato non crea moneta in qualche modo tutti si indebitano con tutti senza fine, ed è quello che succede nel sistema finanziario attuale, ma in particolare nell’eurozona dove si è vietato sin dall’inizio agli stati di creare moneta, rendendoli così schiavi del mercato finanziario internazionale. Gli economisti ufficiali della UE e dei governi italiani dell’austerità che sostengono “i vincoli” per gli stati dell’eurozona lasciano che si descriva alla popolazione il problema in termini di “mancanza di soldi” perché se lo stato creasse il denaro che ora manca all’economia ne beneficerebbero le imprese e le famiglie, ma ne soffrirebbe il “mercato finanziario”. Esiste una soluzione? La soluzione dovrebbe essere ovvia, ridare allo stato il potere di creare moneta (per approfondire vedi il libro pubblicato l’anno scorso “La soluzione per l’euro” scritto insieme a M. Cattaneo, W. Mosler e B. Bossone http://www.hoepli.it/libro/una-soluzione-per-leuro/9788820359164.html).
© Copyright 2024 Paperzz