Testo tratto dal volume Le strade del narrare. La costruzione dell'identità, Daniella Iannotta Giuseppe Martini, Ed. Effatà, Roma 2012 INTERVISTA A CURA DI ROBERTA PARNISARI ANDREA CAMILLERI RACCONTA LA SUA VITA A ROMA NEL XVII MUNICIPIO L’intervista che segue è tratta dalla raccolta di storie effettuata per il progetto di Servizio Civile Nazionale Abitare le storie 1 svoltosi nel 2008 a partire dal Centro di Salute Mentale Roma/E - XVII distretto. Il lavoro ha visto coinvolti, nell’arco di un anno, pazienti e operatori del servizio proponente, cittadini del XVII Municipio, volontari di associazioni, operatori di altri servizi territoriali. Gli obiettivi, soprattutto di tipo terapeutico-riabilitativo, hanno assunto, con il dispiegarsi del progetto, la valenza culturale e di animazione sociale sperata. Molte persone hanno aderito alla richiesta di raccontare la propria storia vissuta nei quartieri del Municipio XVII: Borgo, Prati, Delle Vittorie, Trionfale. Fra questi lo scrittore Andrea Camilleri che ha accolto un piccolo gruppo in casa propria dedicando tempo per raccontarsi e narrare di luoghi e persone del passato. Proponiamo di seguito l’intervista. Come ricorda e come ha vissuto nel tempo la sua vita in questo quartiere? Sono arrivato a Roma nel lontanissimo 1949 perché non volevo diventare professore di ginnasio; per questo decisi di partecipare al concorso per l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica come regista e lo feci nell’ottobre del 1949. Eravamo trenta concorrenti, l’esame si teneva in via Vittoria dove c’era l’Accademia di Santa Cecilia con un suo teatrino. L’esame durò due ore, una cosa assolutamente pazzesca; l’insegnante di regia, Orazio Costa, mi disse congedandomi: ”Sappia che io sono in completo disaccordo con lei”. Allora io, come si dice in Sicilia, mi tirai il paro e lo sparo e dissi “questi non mi prendono, mi resta qualche lira” e invece di stare in albergo (alloggiavo in un alberguccio di via del Lavatore) mi trasferii a Ostia in casa di un mio parente in maniera da sprecare gli ultimi soldi visitando Roma: e così feci. Ma quando mi restarono soltanto i soldi del biglietto e di un panino, decisi di ripartire. Mi venne lo scrupolo di passare dall’albergo di via del Lavatore, per vedere se mio padre mi avesse scritto (non c’erano i telefoni nel ’49, comunicare era molto difficile). Trovai invece un pacchetto di telegrammi di mio padre, disperato, che scriveva: “Ti hanno ammesso all’Accademia con la massima borsa di studio”. Mi resi conto che erano passati cinque giorni dall’apertura dell’accademia, quindi mi precipitai e il bidello mi disse: “Mo’ ti presenti?” “Ma io l’ho saputo solo ora, dov’è? Vado subito a lezione”. “Ma tu sei l’unico allievo” “Come l’unico?” “Sì, eravate trenta ma Costa ne ha preso solo uno: te. Mo’je telefonamo, lo facemo venì.” Arrivò un’ora dopo. Fui l’unico allievo dell’accademia per tutti e tre gli anni, primo, secondo e terzo: ero solo io. Mi sono trovato con i professori di regia, tutti addosso a me. Virginio Marchi, Silvio D’Amico…una cosa pazzesca. Naturalmente, ero arrivato a Roma con gli abiti estivi, era un’ottobrata romana splendida e capii che prima di dicembre non sarei mai 1 Al progetto di Roberta Parnisari, educatrice-pedagogista del Dipartimento di Salute Mentale Roma/E, hanno aderito le educatrici professionali Lara Gargottich e Luisa Magliocco e le psicologhe Rosanna Castoro, Giovanna Fiore, Sara Gaudenzi. 1 riuscito a scendere in Sicilia a prendermi qualche vestito un po’ più pesante. Ma il problema che si pose immediatamente fu quello di dove andare a dormire. Non potevo certo alzarmi la mattina alle 6, prendere il trenino e arrivare alle 8 in accademia. Il mio parente mi fece una proposta e disse: “Io ho un’amica che forse una stanza te la può affittare”. Ci andai e questa signora mi confermò: “Va bene, una stanza gliela posso dare”. Quindi la mia prima abitazione romana fu piazzale degli Eroi. Il territorio da noi preso in esame, XVII Municipio. Sì, tutte le mattine prendevo un tram da via della Giuliana, il numero 8, che praticamente percorreva tutta Roma e arrivava a piazza della Croce Rossa dove c’era la sede dell’Accademia, comodissimo. Sono stato a lungo in quella casa. Era uno di quegli appartamenti popolari stranissimo, ancora oggi ce ne sono. La casa aveva un bellissimo terrazzo al primo piano che era condiviso con l’appartamento a fianco. Pian piano appresi che era una casa di una certa importanza perché lì aveva abitato il capo degli anarchici, il leggendario Malatesta; gli avevano fatto i funerali civili nel cortile di questo grandissimo casamento. Piazzale degli Eroi a quell’epoca era una meraviglia, un grandissimo spiazzo dove ancora non c’era la fontana ed io scoprii che era comodissimo perché, cominciando a salire per viale Medaglie d’oro, c’era solo una fornace dismessa a sinistra; la sera passavano le capre, le pecore che andavano negli stazzi di Monte Mario, verso le 8 di sera, tutte col campanaccio, didin didon. C’era un tram che portava fino su a Monte Mario, era meraviglioso andarci con le ragazze, perché era completamente deserto, c’erano tre o quattro villette molto belle ma per il resto era camporella, come dicono a Milano. Una meraviglia, si stava benissimo. Ci sono avvenimenti particolari che lei ricorda e che si sono svolti a Monte Mario? Oh, sì! Ho avuto diverse avventure in quel quartiere, per esempio una notte l’incontro con un ubriaco che voleva andare a Monte Mario, però il vino chissà perché lo spingeva ad attraversare il marciapiede e quindi ad andare a prendere il tram che lo portava in senso inverso. Lo sa che mi capitò almeno tre volte di metterlo sul marciapiede giusto, perchè era un habituè? Era un piccolo paese, un villaggio, di fronte c’era il cinema Doria. Molto tempo dopo, diciamo che dirazzai dal quartiere in quanto la nipote della signora che mi ospitava si sposava e quindi la zia le cedeva l’appartamento. Quindi io dovetti andarmene, cambiai zona, andai a finire al quartiere libico, ma ci stetti poco perché nel frattempo, avendo stretto amicizia con un grosso personaggio mio coetaneo che si chiamava Chicco Pavolini prendemmo assieme una casa praticamente a piazzale Flaminio. Era una meraviglia perché questa casa era un seminterrato di proprietà di un grandissimo pittore che era Fausto Pirandello, il figlio di Luigi Pirandello. Strinsi amicizia con Fausto che portava uno sciallettino, allora, e io certi pomeriggi di libertà salivo a casa sua, lui abitava al piano terra, e passavo pomeriggi meravigliosi con Fausto Pirandello che era un uomo di poche parole però di una cortesia estrema. Trascorsi poi un annetto in via del Babbuino, sempre con Chicco Pavolini, poi Chicco si sposò e io dovetti abbandonare la casa. Riuscì a rimanere nello stesso quartiere? Anch’io mi sposai e con mia moglie ci trasferimmo in piazza Giovane Italia. Lì c’è un palazzone di otto piani, noi stavano al sesto o al settimo con una vista meravigliosa perché si vedeva il Vaticano, S. Pietro. Anche allora, nel 1954, passavano le capre in piazza Giovane Italia. In quella casa ci sono stato tanti anni, sono nate le figlie. Era tutto tranquillo, ma a me venne la smania di avere una casa più grande, quella era troppo piccola per una famiglia numerosa, anche se avevamo un certo sfogo perché sullo stesso 2 pianerottolo abitava mia suocera. Io andavo d’accordo con lei, contrariamente alle leggende e questa suocera teneva i bambini perché mia moglie andava a lavorare, io andavo a lavorare, quindi era una grandissima istituzione e comodità. Nel frattempo era morto mio padre, io ero figlio unico, lui mi aveva amato molto e nel momento in cui era andato in pensione si era comprato una casa a Monte Mario per stare vicino a me. Nel momento in cui decidemmo di cambiare casa ci trovammo con due consuocere vedove. Mi capitò un colpo di fortuna strepitoso. Girettando per questo quartiere trovai che in viale Carso numero 12, all’ultimo piano, c’erano due appartamenti: uno grande con terrazza e uno più piccolo che potevano diventare comunicanti. Non persi un attimo di tempo e affittai questi appartamenti, facemmo il solito buco di comunicazione, le due suocere per una fortuna divina stavano bene assieme. L’unico che ci andava di mezzo ero io, spiego perché: avevamo una cameriera, Italia, che era con noi dal momento che ci eravamo sposati con mia moglie Rosetta; mia moglie si alzava presto e andava a lavorare, io facevo il regista e teatro, quindi la notte facevo tardi. La mattina me ne stavo a letto,verso le 8 arrivava mia suocera e mi portava il caffé a letto, dopo di che arrivava mia madre e mi portava il caffé a letto dicendomi “Maria non lo sa fare il caffé”, dopo di che arrivava Italia con il caffé “Guardate che io sola so fare il caffé in questa casa”. Io zompavo dal letto elettrizzato, in un quarto d’ora ero pronto ad affrontare qualsiasi cosa. La vita culturale lì era molto vivace, vero? Sono stato oltre trent’anni in questa casa di viale Carso ed era il periodo nel quale questo quartiere era abitato da scrittori, registi e generali in pensione. Curioso, vero? Comincio dai generali: uno era Umberto Nobile, il trasvolatore del Polo che bighellonava, l’altro era un ammiraglio che aveva vinto le Olimpiadi, Straulino, una appresso all’altra con la sua barchetta a vela. Il regista Pietro Germi abitava qui e l’incontravo spesso; c’era Alberto Moravia che si faceva lunghissime passeggiate per viale Carso fino a quello che oggi è Vanni. Il mio centro d’attività vero, a parte la RAI, la radio, la televisione, era un teatro che si trovava dove ora c’è la caserma dei Vigili del Fuoco. Questo teatro si chiamava Tendone ed era il prototipo di quelli che noi oggi vediamo fatti praticamente di stoffa. Era gigantesco e il riscaldamento funzionava tutto con stufe a legna. Lì feci alcune regie ed era molto bello, c’era Paola Borboni che veniva a recitare e molti altri. Pontisso non esisteva, era un baretto qualsiasi una sola piccola stanza e il mio grande amico era il proprietario del negozio: Olivetti, fonte di informazione del quartiere. Le notti di prova, non solo arrivava il signor Olivetti ma anche attori che lavoravano in RAI e venivano a passare il tempo. Poi questo teatro venne distrutto da una nevicata spaventosa che capitò a Roma. Era un quartiere calmo, straordinario per viverci, innanzi tutto perché aveva strade larghe e poi perché nelle vie laterali non c’erano quasi macchine, salvo in viale Carso che era alquanto trafficata, era insomma un quartiere in cui potevi passeggiare piacevolmente. C’erano dei luoghi privilegiati per incontrarsi? Certo, la vita culturale era abbastanza buona e ci si incontrava nei caffé. Soprattutto in quello che oggi è Vanni; poi c’era il caffé che ora si chiama Pontisso che era più piccolo ed era il luogo di Moravia. Un altro luogo d’incontro era piazza Mazzini, era bellissima, ora è stata completamente trasformata. Era una bella vita di quartiere, molto serena e molto tranquilla. Andava a finire che ci si salutava senza conoscersi. Un altro che abitava qui ed è tutt’oggi una meraviglia divina ha compiuto 100 anni, è lo sceneggiatore principe di Fellini che si chiama Tullio Pinelli: grandissimo sceneggiatore e commediografo. Ha fatto cento anni, me lo ha telefonato un amico, ora esce poco da casa ma posso assicurarvi che a 95 anni mi batteva sul passo da alpino che lui aveva da montanaro. Era un quartiere dove c’erano dei nomi di grosso rilievo; non parliamo poi di via Oslavia con quella sorta di ultimi piani che avevano studi di pittori, sentivi leggende di artisti come 3 Severini, Balla… Quando sono arrivato io in questo quartiere era ancora vivo e operante nel suo studio forse il più grande incisore italiano del ‘900 che era Luigi Bartolini. Bartolini era anche l’autore di quel libro che diede lo spunto a De Sica per Ladri di biciclette. A proposito di film qui ne sono stati girati moltissimi! Una quantità infinita. Tanti anni fa, una notte d’estate, mi accadde una cosa meravigliosa: via Plava, lì c’era un palazzo enorme che è stato abbattuto lasciando questo spiazzo grandissimo, dove ora hanno fatto delle cose per i vecchi e per i bambini. Bene, dopo che era stato abbattuto questo palazzo, per anni non è stato fatto niente, è rimasto qualche albero torno torno e un muretto che però in parte era stato abbattuto e che serviva per incontri amorosi clandestini. Poi un giorno il Comune decise di ripulirlo. Una notte d’estate in cui ero solo, i miei erano andati in campagna, vidi lì due proiettori enormi e un gruppo di persone. Pensai: “forse stanno girando un film”, mi avvicinai e mi accorsi che era il regista che più ammiro al mondo: Peter Brook e vidi che stava provando con un gruppo di attori negri, indiani, italiani, inglesi. Mi sono fermato e ho assistito a tre ore di prove di Peter Brook, tranquillo, sereno, nessuno che mi disturbava. Poi io dovetti partire e seppi che aveva girato due repliche de Gli uccelli con la sua regia. Cosa può dirci della nascita della RAI, questo quartiere è stato fortemente caratterizzato dalla presenza della RAI. Qui si fecero i primi esperimenti di televisione. La RAI non esisteva, quella di Nervi venne costruita molti anni dopo. Nello spazio vuoto io avevo affittato una torretta meravigliosa. Se lei guarda dalla RAI vede sulla destra un palazzone. Questo palazzone, enorme, sopra, all’ultimo piano ha due torrette ottagonali, con otto finestre, una cosa straordinaria, non si notano. Allora io avevo visto queste torrette e pensai: “chissà se me le affittano” e me le hanno affittate. Lì facevo le prove perché allora avevo una compagnia ed erano poi pane e formaggio, pane e salame per chi voleva venire, tanto che la misero in una guida di Roma questa storia. Quando vidi che incominciavano a costruire la RAI dissi: “non è cosa, io da qui me ne vado”. I primi studi televisivi in capannoni erano dove ora sorge la RAI, e da lì trasmettevano in diretta, come allora si usava fare perché non c’era alcuna possibilità di filmare e registrare quel che avveniva. Lì inventarono i gobbi, scritti a mano dal suggeritore, su carta nera scritte bianche. Con la mano venivano girati in maniera che scorressero. L’abilità del suggeritore era la velocità con la quale girava la manovella attenendosi ai tempi delle battute. Gino Cervi, protagonista di Maigret, non imparò mai la parte a memoria, io ho lavorato tre anni di seguito con Cervi: lui leggeva. Quindi tutto quello che erano le sue pause, ad esempio per riempire la pipa, erano pause create da lui al momento per leggere. Cervi l’ho firmato, Eduardo non l’ho firmato. Quello era il centro prosa, mentre qui facevano i telegiornali lì facevano le commedie in diretta dallo studio e succedevano episodi meravigliosi. E può raccontarci qualche aneddoto, qualche storia di abitanti della zona, di gente comune? C’era un trio che era impossibile non notare. Era fatto da due donne anziane e da un uomo più anziano delle due donne. Erano il padre e le due figlie. La figlia minore era curva come un punto interrogativo e camminava avanti a tutti con una velocità da centometrista e anche urtava le persone perché mica guardava, camminava di corsa con lo sguardo a terra. L’altra sorella, invece, camminava sempre tre, quattro passi dietro, ultimo veniva il padre. Un giorno il padre sparì dalla circolazione, nessuno ne sapeva niente. Pensammo tutti che fosse ammalato, data l’età. Queste signorine usavano tenere (sto parlando della casa che fa angolo con viale Carso) le persiane del loro appartamento sempre chiuse 4 tanto da dare l’idea che l’appartamento fosse disabitato. Che fosse disabitato se ne fece persuaso un povero ladro. Il povero ladro alla notte si introdusse, con le chiavi, aprì il portone, aprì l’appartamento al buio, entrò, camminò nel corridoio e poi vide una flebile luce nell’ultima stanza. Si avvicinò e vide l’orrore: il cadavere del padre morto da ormai un sacco di tempo vegliato dalle due figlie. Si prese una tale paura che se la fece addosso e le tracce vennero ritrovate lungo le scale. Intervennero gli altri che non sapevano niente e trasportarono questo padre al cimitero e poi naturalmente, col tempo, si spensero anche le due donne. Questo fu un evento sicuramente di rilievo. C’è un episodio di questo tipo che lei ha riportato in qualche suo scritto? Io ho scritto un racconto su questo quartiere, anzi due racconti di Montalbano ambientati in questi luoghi. Uno si chiama Un cappello pieno di pioggia, riprendendo apposta il titolo di un film e che si svolge in questo perimetro: piazza Bainsizza, viale Carso, via Oslavia. Lo pubblicò La Repubblica e poi fu raccolto in un volume. L’altro racconto che ho scritto, l’ho scritto in un’occasione speciale: c’è un giornale di quartiere che si chiama Il nasone di Prati, una delle redattrici e fondatrici di questo giornale è la mia nipote maggiore: Alessandra. E’ bello perché l’ha fatto con tutti gli ex amici di liceo. Allora mi disse: “Nonno, per lanciare il giornale, ce lo scrivi un racconto?” E allora io gli ho scritto un racconto in dodici puntate e ogni puntata erano due cartelle in modo che non occupasse troppo spazio in questo giornale. Questo racconto, per tenere la tradizione dei titoli di film, si intitola La finestra sul cortile. Io non ho mai vissuto in case con cortili, certo quando sono venuto a viale Carso c’era il cortile ma era visibile da luoghi non frequentati da me, come la cucina. Invece, quando mi sono trasferito qui, nell’altro appartamento, il mio studio l’ho fatto in una stanza la cui finestra si apriva in questo grandissimo cortile. Aveva al centro un albero gigantesco che impediva assolutamente di vedere i ¾ di ciò che avveniva nelle finestre di fronte. Se non che una notte udimmo un rumore, con mia moglie andammo a guardare e scoprimmo che questo albero era andato giù, per vecchiaia, per cattiva manutenzione. L’albero venne abbattuto ed ebbi la rivelazione, come nel film di Hitchcock, di questo enorme cortile. Non è che io osservassi in modo particolare ma è chiaro che, scrivendo alla finestra, la vita degli altri mi arrivava in qualche modo e quindi mi sono inventato questo racconto di Montalbano che si viene a trovare in una casa su un cortile, esattamente quello, e che lui a Marinello, in altri posti, non ha mai visto un cortile. Quindi è incuriosito da quel che avviene, spegne la luce e sta a guardare. Quando lei comincia un racconto sa già come finirà? No, forse i miei colleghi lo sanno. Io ho un’idea vaga e non è detto che quando finisce il racconto quell’idea sia stata mantenuta. Ci sono situazioni nel racconto che ti portano su una strada che non avevi previsto e dici: “Ma lo sai che così è più bello?” E così per il linguaggio. Quando io ero bambino andavo all’Opera dei Pupi, che poi è scomparsa. Era il grande teatro popolare siciliano, i pupari stavano sopra e manovravano, la sala era gremita, piena di panche. I pupi parlavano in un italiano strano, ad esempio: “Andiamo a lo castello… lo potiamo trovare …”. C’era questo italiano bastardo che io ho adoperato mutuandolo da loro. 5
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