Politiche nella crisi. Interpretazione della crisi e prassi politica

Atti
POLITICHE NELLA CRISI
Interpretazione della crisi e prassi politica
Atti del Convegno
Pavia, 14-15 novembre 2013
a cura di
Andrea Califano – Giulia Pinotti
Politiche nella crisi : interpretazione della crisi e prassi politica : atti del
convegno, Pavia, 14-15 novembre 2013 / a cura di Andrea Califano,
Giulia Pinotti. - Pavia : Pavia University Press, 2014. - XIX, 108 p. ; 24
cm, - (Atti)
http://purl.oclc.org/paviauniversitypress/9788896764916
ISBN 9788896764909 (brossura)
ISBN 9788896764916 (e-book PDF)
I. Califano, Andrea II. Pinotti, Giulia
1. Crisi economiche - Ruolo [della] Politica finanziaria - Pavia - Atti di
congressi
338.542 CDD 22 - Fluttuazioni economiche. Cicli economici
© 2014 Pavia University Press
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In copertina: Dettaglio (2014), © Andrea Califano
Prima edizione: settembre 2014
Pubblicato da: Pavia University Press – Edizioni dell’Università degli Studi di Pavia
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www.paviauniversitypress.it - [email protected]
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Printed in Italy
Sommario
Prefazione
Luigi Orsenigo ................................................................................................................VII
Introduzione
Andrea Califano ............................................................................................................... IX
Nota metodologica
Giulia Pinotti ................................................................................................................ XVII
Not with a Bang but a Whimper: a che punto è la crisi?
Riccardo Bellofiore ............................................................................................................ 1
2008-2013: il fallimento della governance finanziaria del bio-capitalismo cognitivo
Andrea Fumagalli............................................................................................................. 19
La crisi dell’Unione monetaria europea. Problemi e prospettive
Emiliano Brancaccio ........................................................................................................ 29
La crisi finanziaria in Europa e le sue trasformazioni
Luciano Gallino................................................................................................................ 39
La crisi del lavoro in Europa e in Italia. Per un cambio di rotta
Davide Antonioli, Paolo Pini ........................................................................................... 47
La questione costituzionale europea di fronte alla crisi globale
Note critiche al Saggio sulla Costituzione dell’Europa di Jürgen Habermas
Claudio De Fiores ............................................................................................................ 77
Teorie economiche e politica economica
Giorgio Lunghini.............................................................................................................. 89
VI
Sommario
Qualche proposta per l’Europa e l’Italia
Mario Pianta ..................................................................................................................... 99
Abstract in English ........................................................................................................ 109
Prefazione
Luigi Orsenigo, Istituto Universitario di Studi Superiori Pavia
[email protected]
Un esperimento del pensiero: immaginiamo di chiedere ai docenti universitari – in
Italia, in Europa e nel mondo, giovani e più anziani – quali caratteristiche sognerebbero
di trovare nei propri studenti. La lista sarebbe inevitabilmente lunga e diversificata. Ma
probabilmente, una percentuale molto alta delle risposte includerebbe definizioni come
la curiosità intellettuale, il desiderio di sapere, il sospetto sistematico verso i dogmi,
la ricerca del nuovo e possibilmente della verità, e così via. Forse troveremmo anche
una seconda categoria di risposte, che suggerisce ad esempio la docilità, il rispetto,
l’attitudine al duro lavoro, la prontezza…
Queste risposte non dovrebbero essere sorprendenti: sono all’origine dell’idea stessa
di università. Forse descrivono solo un sogno o una ambizione. Forse, se chiedessimo
anche quali caratteristiche i docenti effettivamente trovano nei loro studenti il quadro
sarebbe (molto?) meno idilliaco. Molto spesso lo spirito del tempo sembra proprio indicare
scoraggiamento e delusione tra studenti e docenti (in entrambe le direzioni).
La mia risposta alla prima domanda includerebbe senz’altro tutti i primi sogni, solo
alcuni della seconda tipologia (in proporzioni quantitative da valutare attentamente).
Aggiungerei alla lista anche l’impegno civile, la passione politica e la capacità di
immaginare e realizzare progetti. La mia reazione alla seconda domanda – la realtà –
sarebbe anch’essa significativamente sbilanciata verso l’ottimismo.
Non vivo nel modo dei sogni, tutt’altro. Ma i nostri allievi ce lo hanno dimostrato,
organizzando con successo da soli e con umiltà una iniziativa ambiziosa, come il convegno
e poi il volume Politiche nella crisi. Hanno letto, studiato, ascoltato ed espresso poi le loro
idee. Hanno voluto approfondire temi di enorme importanza e complessità concettuale e
politica. Hanno mobilitato e attratto studiosi di grandissimo prestigio e spessore. Abbiamo
tutti riflettuto e imparato qualcosa di nuovo.
Forse lo IUSS è luogo speciale. Forse lo è il ‘sistema pavese’, con l’Università e i
Collegi. Ne sono convinto, ma credo anche si debba essere meno pessimisti osservando
buona parte dell’Università italiana.
Per tutti questi motivi, non posso fare altro che ringraziare i nostri allievi.
Luigi Orsenigo, IUSS
Coordinatore dei Corsi Ordinari
Pavia, agosto 2014
Introduzione
Andrea Califano, Università degli Studi di Pavia
[email protected]
«Poiché le politiche alternative hanno conseguenze diverse su gruppi diversi, sta al processo politico – e non ai burocrati internazionali – valutare le diverse possibilità e compiere le scelte più giuste».
Questa frase lapidaria di Joseph Stiglitz (La globalizzazione e i suoi oppositori) offre, nella sua sintetica semplicità, non solo una prima indicazione circa le ragioni
dell’iniziativa Politiche nella crisi, ma soprattutto una serie di spunti attorno ai quali
articolare le riflessioni che qui ci proponiamo di condurre. Il primo e fondamentale riferimento è alla pluralità di politiche, alla pluralità delle scelte dell’attore di governo –
del policy maker, in questo caso si può utilmente mutuare l’espressione dalla pragmaticità anglosassone – che, da protagonista, prende decisioni a partire da uno spettro di
alternative possibili. Di fronte a vincoli presentati come oggettivi – e tanto più apparentemente stringenti quanto più la lunga crisi del mondo occidentale si approfondisce –
nel dibattito pubblico si ha così spesso l’impressione che la strada da percorrere sia obbligata, non ci siano alternative: si può notare incidentalmente come d’altra parte lo
slogan thatcheriano TINA – There is no alternative – ci fa dubitare della ‘casualità’
della situazione appena descritta, ma su questo torneremo più avanti.
Il governo nazionale appare imbrigliato da forze oggettive incontrollabili, immodificabili, in una parola sovrane, che sembrano impedirne qualsiasi autonomia di scelta:
così quando non è ‘il debito pubblico’ a imporre l’agenda politica, entrano in gioco ‘i
mercati’; a volte «è l’Europa che ce lo chiede»; se poi ci si rende conto che l’Europa in
realtà siamo anche noi, e con un ruolo tutt’altro che secondario, che margine di scelta
può rimanere, tuttavia, di fronte alla ‘globalizzazione’? Certamente nessuno, così si
dice. A noi invece così non sembra, e così non sembrava quando abbiamo iniziato a
pensare alla realizzazione del Convegno. Confortati infatti da alcuni testi in un certo
senso ‘demistificanti’, la cui lettura induce a riconsiderare alcuni dei ‘miti’ che condizionano strutturalmente il dibattito pubblico,1 abbiamo iniziato a riflettere sulla pregnanza di tali ‘miti’, e sulla necessità di discuterli – metterli in discussione – cercando
di superare con essi quei vincoli, quei ‘crampi ideologici’ che ossificano, che seccano
alla base il discorso economico. Non certo in maniera ‘strillata’, rischio che sempre si
corre nel caso di argomenti di tale e immediata rilevanza politica, quanto piuttosto cercando di accompagnare l’effetto politico che necessariamente l’iniziativa avrebbe avuto
con un approccio analitico che ben si conformasse all’ambiente accademico; più avanti
si approfondirà questo aspetto.
1
Ci teniamo a segnalare, in questo senso, i lavori di un autore che, sebbene non abbia potuto prendere parte al
Convegno, ha avuto a sua insaputa un ruolo fondamentale di spinta verso la realizzazione dello stesso: si
tratta di Vladimiro Giacché e in particolare dei suoi La fabbrica del falso (2011) e Titanic Europa (2012).
X
Andrea Califano
Se rompere, o comunque allargare i vincoli, consente quindi di far spazio ad
alternative, conduce d’altra parte a sciogliere i legami che sembrerebbero imbrigliare i
policy makers: questi si rivelano attori attivi, soggetti dotati di volontà propria, e tra
essi spiccano certo gli attori pubblici, di governo. Così già è emerso un altro degli
spunti offerti dalla frase citata in principio. Ed è uno spunto che si ritrova anche nelle
tesi (o ‘tweet’) 15 e 20 di Bellofiore:2 dimentichiamoci il laissez-faire e rendiamoci
conto che l’attore pubblico sceglie politiche, attua politiche, è attivo e protagonista. E le
differenti politiche, riprendendo Stiglitz, «hanno conseguenze diverse su gruppi
diversi». Quindi in primo luogo hanno un potere effettivo, colgono nel segno, incidono
sugli elementi dello spazio politico di riferimento e sullo spazio stesso, sull’ambiente e
sui dati strutturali di questo. E come incidono? Con conseguenze diverse sugli interessi
diversi dei vari gruppi che compongono la società: non ci si può certo aspettare che
l’anglosassone ed ex neoclassico Stiglitz – ed è opportuno citare ancora Bellofiore:
l’abbandono del liberismo è per Stiglitz una opzione più politica che teorica – parli di
classi sociali; ma forse, per una maggiore chiarezza, sarebbe appropriato abbandonare
ogni velo, al prezzo di radicalizzare oltremodo il ragionamento in questione, e sostituire
senza timore al timido ‘gruppi’ il ben più incisivo concetto marxiano di classe: siamo
convinti che gli studiosi intervenuti al convegno non se ne scandalizzerebbero. Una volta
riconosciuto questo elemento, della pluralità delle alternative con effetti diversi su classi
sociali diverse, quasi di necessità arriva il corollario della centralità del processo politico.
Il processo politico è per definizione l’arena dove si confrontano interessi contrapposti, finché, per mezzo di mediazione, di imposizione, ecc., in generale, attraverso un
procedimento dialettico, non emerge l’indirizzo della collettività, che necessariamente
avrà effetti più o meno favorevoli per i vari interessi in gioco. E se semplificare all’eccesso
i termini dell’agone, facendo leva sulla – famosa – ‘pancia’ dell’uomo, che si trova a
essere poi cittadino ed elettore, con finalità di assonanza quantomeno dubbia con le facili promesse offerte, si riassume in un pericoloso atteggiamento demagogico, altrettanto deleteria per il funzionamento di istituzioni che vorrebbero essere democratiche è la
sistematica sottrazione di temi e di processi decisionali al processo politico, con il conseguente affidamento a organi non responsabili democraticamente. E, si potrebbe aggiungere, altrettanto volgare e spudorata,3 altrettanto riconducibile al quadro di una deriva autoritaria, come puntualizza Gallino nel suo intervento raccolto nel presente volume, nel quale propone un capitolo del suo libro che proprio nei giorni del Convegno
stava arrivando nelle librerie con l’eloquente titolo di Il colpo di Stato di banche e governi: l’attacco alla democrazia in Europa. Erano temi, questi, sui quali d’altra parte ci eravamo già concentrati nel corso dei seminari in preparazione al Convegno stesso, quando del
2
Infra, pp. 3-4.
Pensiamo ad esempio al ridicolo di cui ormai si ricopre chiunque prospetti la possibilità di delegare
decisioni di importanza costituzionale a referendum popolari (il caso emblematico è quello – ricordato da
De Fiores [2012, p. 29] – di Papandreou, che presenta la proposta del referendum al G20 del novembre 2011,
ed esce dal consesso come dimissionario: verrà naturalmente sostituito da un ‘tecnico’); oppure all’esigenza
della governabilità, un altro dei miti che impone di evitare il più a lungo possibile il ricorso a consultazioni
elettorali. Opportuno citare allora per esteso De Fiores e il «tentativo ancora oggi in atto di liquidare la
funzione democratica e la forza legittimante dei popoli alla stregua di un tabù ideologico, una sorta di
devastante “mito che intralcia la democrazia europea”» (infra, p. 79).
3
Introduzione
XI
suddetto testo di Gallino – all’epoca non ancora pubblicato – ci eravamo trovati tra le
mani l’introduzione: lì si parla di «colpo di Stato a rate» operato dalle istituzioni europee con il beneplacito dei governi nazionali attraverso il sistematico ricorso all’autoritarismo emergenziale.
Quest’ultimo è un concetto – oltre che una prassi ormai saldamente consolidata –
che colpisce per la sua appropriatezza nell’interpretazione della storia recente degli ultimi anni di integrazione europea e di gestione della crisi scoppiata nel 2007. Ma vi si
nasconde qualcosa di ben più preoccupante: leggere L’Europa al bivio di De Fiores nel
corso dei seminari preparatori, testo di grande interesse e a tratti illuminante, ci aveva
indicato il dato strutturale di questo atteggiamento. In breve l’autoritarismo emergenziale non è un accidente, bensì naturalmente conseguente dalla sottrazione ‘costituzionale’ (le virgolette sono d’obbligo, come si chiarisce qualche riga più sotto), istituzionale, della dialettica politica dal processo di integrazione europea: in particolare dal
Trattato di Maastricht in avanti, l’attività di governo sempre di più viene accentrata per
trattato in organi tecnici, amministrativi, ‘indipendenti’ (Commissione, BCE, ecc.), privi di controllo democratico. Allo stesso modo, questi temi sono stati infatti ripresi dal
medesimo autore nel corso del suo intervento al Convegno, coltivare l’assurda pretesa
«di una ‘Costituzione senza popolo’ altro non è stato, in questi anni, che una mera astrazione dietro la quale si è tenacemente trincerato il neofunzionalismo europeo, particolarmente attento (per sua stessa natura) a evitare ogni sorta di contatto fra istanze
democratiche e processo di integrazione».4
Il politico e politicamente naturale confronto-scontro tra interessi divergenti, contrapposti, conflittuali, a volte mutualmente escludenti, viene neutralizzato, escluso dalla
‘democrazia’ europea per ‘costituzione’, neutralizzato, spento perché gestito ‘tecnicamente’ da organi suppostamente super partes. Ma i conflitti per questo non spariscono!
Gli interessi rimangono divergenti, i ‘gruppi diversi’ di Stiglitz continuano a esserci, le
politiche seguono a essere alternative tra loro, e ad avere conseguenze diverse. La questione è che la scelta di tali politiche sfugge al processo politico e viene affidata – per
continuare con Stiglitz, in un’espressione che non ci piace particolarmente, ma sicuramente evocativa – a ‘burocrati internazionali’.5 Amministratori, tecnici dunque, che
devono applicare nel modo migliore le politiche migliori, quelle giuste; è in sé evidente
quali siano le politiche giuste, troppi sono i vincoli oggettivi che impediscono qualsivoglia margine di scelta. Inoltre, come se non bastasse, la matematica, il formalismo
del modello sono lì a certificare: questo è giusto, si può fare, rispetta gli assunti del
modello; questo è sbagliato, non si può fare, va contro le premesse imposte al modello,
sostanzialmente non esiste, è più che irrealistico, quasi irreale. E in un attimo l’economia
da scienza storico-sociale è trasformata in scienza esatta, le politiche economiche come
risultato di equazioni, caratterizzate quindi da validità unica e inconfutabile.
4
Infra, p. 78.
Un’espressione vicina emersa nel corso del Convegno è quella di «Senato virtuale», utilizzata nella relazione di
Lunghini: concetto tanto forte e interessante quanto spesso foriero di interpretazioni dal sapore complottista che
davvero poco aiutano ad una comprensione critica delle dinamiche di determinazione del governo della cosa
pubblica, anzi sovente si rivelano controproducenti.
5
XII
Andrea Califano
Alla radice dell’iniziativa Politiche nella crisi stava proprio un ‘malessere’ riguardo a questa serie di conclusioni aprioristiche, purtroppo ormai e sempre di più alla base
anche dell’insegnamento universitario delle facoltà di economia nostrane, un’insoddisfazione che noi organizzatori abbiamo ritrovato nei partecipanti ai seminari, tanto che,
alla conclusione del percorso, ci è sembrato che la traccia più profonda lasciata da questa esperienza fosse relativa al metodo, più che al merito. Metodo di decisione delle
politiche da adottare, come già evidenziato poco sopra; metodo di insegnamento della
materia; metodo di articolazione teorica dell’economia; e così via. È superfluo sottolineare come siano più le domande sollevate delle risposte ottenute, tuttavia alcuni spunti
di riflessione emersi nell’arco dell’iniziativa sembrano rimanere lì, come lenti ottiche, a
disposizione di chi ha partecipato, per l’analisi e l’interpretazione della realtà politicoeconomica. Per fare un solo esempio, non può non rimanere impresso, della relazione
di Lunghini, come «sotto qualsiasi decisione di politica economica, au fond, c’è una
qualche teoria economica, che il decisore magari ha rimosso o addirittura ignora».6 Inoltre, già il fatto che assente dai due giorni di Convegno sia stata ogni formalizzazione
matematica degli argomenti trattati, che d’altra parte non ci si sia imbattuti in astrusi
modelli e complicate formule studiando i testi nel corso dei seminari, sono di per sé dati
altamente significativi in una riflessione sul metodo che può caratterizzare la scienza
dell’economia.
Gli studiosi intervenuti quindi, per quanto appartenenti – seguendo Bellofiore – a
eterodossie differenti, si ritrovano accomunati da simili presupposti di metodo, presupposti che inducono ognuno di loro a sottolineare il momento della scelta. Collettivamente ci hanno dimostrato – ed è in fondo quello che andavamo cercando – come impiegare metodi diversi da quello imperversante nelle istituzioni e nell’accademia europee innanzi tutto è possibile e fruttuoso; conduce inoltre a evidenziare come ci siano
possibilità varie, come le politiche vengano scelte, non siano imposte da vincoli oggettivi, in una parola: si sarebbe potuto e si potrebbe agire diversamente, non per – si badi
bene – mettere in atto politiche più giuste o più buone, ma politiche che avrebbero tutelato interessi diversi, avrebbero, insomma, avuto conseguenze diverse su gruppi diversi.
Questa ci pare, per tornare al discorso fatto in precedenza, una opzione democratica,
anzi: la opzione democratica, che accosti pluralismo interpretativo al pluralismo della
prassi politica, in opposizione alla volgare dicotomia manichea tra giusto e sbagliato,
politiche buone versus cattive politiche. È un’opzione metodologica che parte dall’analisi
della realtà, non dal modello – e questa è senza dubbio un’altra delle tracce lasciate dal
percorso di studio Politiche nella crisi: gli interventi al Convegno di Brancaccio e di
Pini sono emblematici al proposito, e in un certo senso alla base degli altri, in quanto
affrontano i dati alla ricerca dell’interpretazione più confacente alla realtà dipinta, appunto, dai dati. Segue, logicamente, la valutazione dello spettro di politiche che si potrebbero adottare, e questo procedimento logico si è rispecchiato idealmente nella struttura del Convegno, che si concludeva infatti con la relazione di Pianta in cui erano incluse alcune proposte di politica economica per l’Italia e per l’Europa.
6
Infra, p. 90.
Introduzione
XIII
Al proposito è innegabile che il sentimento prevalente tra gli uditori fosse la frustrazione di fronte al senso di impotenza caratteristico di chi vorrebbe promuovere politiche alternative rispetto a quelle che hanno governato la crisi mondiale, europea e italiana. È una frustrazione che, a onor del vero, ha pervaso un po’ tutto il corso dei seminari: nelle discussioni che si sviluppavano tra noi studenti si aveva continuamente
l’impressione di trovarsi in presenza di un complesso movimento ideologico, quindi
virtualmente onnicomprensivo, più che di fronte a singoli atti politici che necessitassero
una revisione. Un movimento ideologico di lungo corso del quale non possiamo né vogliamo neppure tracciare uno schizzo in questa introduzione, ma del quale ci limitiamo
a elencare come in una lista alcuni dei dati significativi più volte ricorrenti nei seminari.
Innanzi tutto sembra possibile delineare una limitazione temporale: da metà anni ’70 in
poi prende piede la deregolamentazione internazionale, un’operazione politica che
coincide con il dominio egemonico dell’economia neoclassica (già abbiamo notato lo
slogan thatcheriano sull’assenza di alternative); è un’egemonia che prende sempre più
campo anche in accademia. La fine dell’Unione Sovietica sembra decretare il definitivo
trionfo liberale: se finisce la storia, come vorrebbero gli araldi del nuovo corso, finisce
la dialettica. Così arriva Maastricht, parto del nuovo corso, che non a caso sembra puntare a sottrarre il governo della cosa pubblica alla dialettica politica per delegarlo a organi ‘tecnici’ e ‘indipendenti’ non responsabili democraticamente; gli anni ’90 sono
perciò anni di privatizzazioni, di ritiro dello Stato, di fine della politica industriale. Nel
decennio successivo si intensifica lo smantellamento del welfare state e la lotta di classe dopo la lotta di classe, per citare uno dei testi trattati nel corso dei seminari, sembra
decretare un vincitore, che vince anche per abbandono dell’avversario: è una lotta condotta infatti, come evidenzia Gallino, ormai esclusivamente dall’alto verso il basso. Di
fronte a tutto ciò, e naturalmente si tratta solo di accenni – certo, effettivamente emersi
dalla lettura dei testi e dalla discussione sopra questi – parlare di crisi economica è estremamente riduttivo, ci troviamo a riconoscere al termine dei seminari. Molteplici
sono infatti le sfere coinvolte, e quando accenniamo a un complesso movimento ideologico intendiamo proprio questo: si tratta di qualcosa di profondamente culturale, insito nei rapporti sociali e capace di ridefinire le categorie di pensiero individuali. Solo in
un tale contesto poteva prendere corpo un sistema produttivo che Fumagalli ha presentato al Convegno, con una interpretazione tanto interessante e originale quanto controversa e foriera di stimolanti spunti di discussione, come invasivo della dimensione più
personale dell’individuo: la vita determinata – assorbita – dalle esigenze della produzione secondo i dettami del bio-capitalismo cognitivo.
Ma in questa introduzione non scenderemo più a fondo; basterà fare ancora alcune
note sulla citazione che ha aperto queste pagine per andare a segno, lanciando e
lasciando uno spunto. Prima ancora però ricordiamo cosa si diceva poco sopra: dietro le
politiche economiche, e si potrebbe aggiungere al fondo di molte delle interpretazioni
che ognuno di noi dà della realtà,7 «c’è una qualche teoria economica, che il decisore
magari ha rimosso o addirittura ignora». Non solo il decisore, anche il traduttore, in
7
È Lunghini stesso a ripetere nelle sue lezioni universitarie che le poche idee economiche che le persone
hanno, che queste lo sappiano o meno, sono idee neoclassiche, e, si potrebbe aggiungere, ignorare ciò che
determina le nostre convinzioni non rende il condizionamento meno presente, tutt’altro.
XIV
Andrea Califano
effetti! Nel breve periodo di Stiglitz che qui riproponiamo si legge infatti: «poiché le
politiche alternative hanno conseguenze diverse su gruppi diversi, sta al processo politico –
e non ai burocrati internazionali – valutare le diverse possibilità e compiere le scelte più
giuste». Lampante la contraddizione tra le espressioni evidenziate in corsivo; incuriositi e
resi maggiormente attenti da una traduzione italiana dell’opera che nel complesso ci pare
non soddisfacente, abbiamo controllato l’originale, «Because alternative policies affect
different groups differently, it is the role of the political process – not international
bureaucrats – to sort out the choices» (Stiglitz 2003a, p. 247), scoprendo così che la
versione italiana aggiunge arbitrariamente un’appendice fuorviante e contraddittoria. E
tutt’altro che insignificante, anzi testimonianza della pregnanza della narrazione ideologica
di cui si parlava prima, che vorrebbe suddividere le politiche economiche in buone e
cattive, giuste e sbagliate, mentre ogni analisi critica viene depotenziata dal tentativo di
ricondurre ogni giudizio alla dicotomia buono-cattivo, dalla quale invece aspiravamo ad
allontanarci con l’organizzazione del percorso di studio Politiche nella crisi. In uno dei testi
studiati nel corso dei seminari si legge infatti:
la verità è che Marchionne non è né buono né cattivo: egli è solo un’equazione, è
una mera funzione del meccanismo di riproduzione del capitale. Finché a un
manager viene concesso, questi minaccerà sempre di effettuare investimenti lì dove
le opportunità di sfruttamento del lavoro e i relativi profitti sono maggiori. (Brancaccio, Passarella 2012, p. 109)8
Persino il titolo dell’opera da cui la citazione è tratta fornisce alcune indicazioni con le quali
ci pare opportuno concludere questa introduzione: L’austerità è di destra – E sta distruggendo l’Europa. L’austerità era in effetti «l’elefante nella stanza», lo spettro che si aggirava
in queste righe, e che ha accompagnato l’iniziativa di Politiche nella crisi fin dal suo stadio
embrionale e di riflessione preliminare. Con austerità riassumiamo l’insieme di politiche
adottate in Europa per fronteggiare la crisi, e procedere nel percorso di studio ci ha consentito di togliere alcuni veli; l’austerità non è né una politica giusta (o sbagliata, ça va sans
dire), né un male necessario, che a pensarci bene sono due facce della stessa medaglia. È
una politica che senza timore possiamo definire di destra, se con questo si intende una politica, scelta tra un ventaglio di alternative, che intende tutelare gli interessi di alcuni gruppi
sociali a discapito di altri, essendo tali gruppi quelli tradizionalmente difesi dalla destra. E,
aggiungiamo, non è una politica europea e europeista; chi si oppone all’austerità non è necessariamente anti-europeo, bensì critico nei confronti dell’attuale blocco politico-culturale
e socio-economico che è in grado di determinare le politiche pubbliche dell’Unione Europea, critica che può essere mossa da posizioni sinceramente europeiste. Proprio far passare
le misure di austerità come una necessità oggettiva di buona politica per un generico bene
dell’Europa è un’altra vittoria di tale blocco egemonico. Ma, ci mettono in guardia Brancaccio e Passarella nel sottotitolo, considerando gli effetti che queste stanno avendo, e la
conseguente insofferenza popolare, la stretta identificazione tra bene dell’Europa e austerità
potrebbe rivelarsi una vittoria di Pirro, capace in ultima analisi di condurre alla distruzione
dell’Unione Europea stessa.
8
Non a caso proprio questo paragrafo è stato oggetto di un duro attacco su «Il Foglio» (22 aprile 2014).
Introduzione
XV
Riferimenti bibliografici
Brancaccio E., M. Passarella (2012), L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa,
Milano, Il Saggiatore.
De Fiores C. (2012), L’Europa al bivio, Roma, Ediesse.
Gallino L. (2012), La lotta di classe dopo la lotta di classe, Roma-Bari, Laterza.
Gallino L. (2013), Il colpo di Stato di banche e governi: l’attacco alla democrazia in
Europa, Torino, Einaudi.
Giacché V. (2011), La fabbrica del falso, Roma, DeriveApprodi.
Giacché V. (2012), Titanic Europa, Roma, Aliberti.
Stiglitz J. (2003a), Globalization and its discontents, New York, W.W. Norton&Company.
Stiglitz J. (2003b), La globalizzazione e i suoi oppositori, Torino, Einaudi.
Nota metodologica
Giulia Pinotti, Università degli Studi di Pavia
[email protected]
Se ci è stato subito chiaro, sin dalla fase di elaborazione del nostro progetto, quale
dovesse essere l’oggetto di studio, ci siamo ben presto resi conto che la vera difficoltà
consisteva nel determinare in che modo tale oggetto dovesse essere trattato. Come già è
stato sottolineato nell’introduzione, infatti, una presa di posizione politica ‫ދ‬urlata’ può
essere più controproducente dell’immobilismo totale, sicché un’iniziativa come quella di
Politiche nella crisi poteva dimostrarsi, se condotta in modo poco attento e ragionato,
totalmente inutile.
Due certezze ci guidavano, dunque: intendevamo discutere le ragioni di certe aspre
politiche economiche adottate durante l’attuale crisi economica – nonché delle possibili
alternative – e assumere come principale strumento il metodo analitico. Non di rado, infatti,
l’università, benché sede privilegiata della ricerca scientifica, si limita a una sia pur nobile e
necessaria attività didattica: attività che, stimolando la sintesi quando non il mero
apprendimento di nozioni, rischia di frenare qualsiasi riflessione critica. Donde l’idea di
un’attività di ricerca a carattere analitico capace di dotare chi vi avesse partecipato di nuovi
strumenti con i quali affrontare una materia così complessa e delicata.
Tale scelta era d’altro canto imposta dall’oggetto stesso del convegno (e manifestamente politica): così come ad assunti predicati come oggettivi e certi si addice una forma
di apprendimento sintetico ௅ se determinate politiche sono di necessità dettate da determinate leggi economiche naturali, quale altra possibilità resta se non l’apprendimento delle
leggi stesse? ௅ il riconoscimento di una pluralità di modelli economici esige un’attività
analitica che consenta di inventare politiche alternative. Non v’è dubbio che Pavia molto si
prestava a un esperimento del genere: l’Università, i Collegi, l’Istituto Universitario di Studi
Superiore, e il particolare fervore legato alla presenza di studenti motivati e di docenti
sensibili a nuove iniziative, sono stati un fattore determinante.
Il nostro obiettivo era dunque quello di creare uno spazio di discussione intorno
all’attuale crisi economica, alla sua genesi e alle politiche che ne sono scaturite. Ci
sembrava tuttavia indispensabile, affinché tale discussione risultasse davvero fruttuosa,
che coloro che intendevano parteciparvi vi si accostassero avendo già acquisito alcune
coordinate fondamentali. E che l’iniziativa, pur contemplando un momento aperto al
pubblico, non si esaurisse in questo. La rituale, tradizionale organizzazione di un convegno
era, insomma, condizione necessaria ma non sufficiente.
Abbiamo quindi stabilito che avrebbe preso parte ai lavori un gruppo di studenti
provenienti da facoltà diverse (per lo più Giurisprudenza ed Economia): non più di venti,
in modo che la partecipazione potesse essere fattiva e proficua. Per garantire una solida
preparazione intorno all’oggetto della discussione, inoltre, abbiamo chiesto a tutti i
relatori una bibliografia ragionata che preparasse il terreno al loro intervento e, insieme,
XVIII
Giulia Pinotti
illustrasse il loro pensiero. I testi indicati si sono rivelati di estrema utilità, giacché ci
hanno fornito, oltre a solidi pilastri concettuali, una panoramica aggiornata dei temi che ci
preparavamo a trattare.
Per tutto il mese di ottobre gli studenti hanno dunque animato un’intensa attività
seminariale, il ciclo Contributi per un’analisi della crisi, consistente nella discussione dei
testi affrontati individualmente. Attività che si è snodata sulla base di criteri piuttosto rigidi:
di volta in volta tre studenti presentavano i punti essenziali o controversi dei testi letti, che
poi venivano analizzati collettivamente. L’attività seminariale, insieme a un elaborato
finale, permettevano di vedersi riconosciuta l’attribuzione di crediti formativi da parte del
Dipartimento di Economia. La provenienza da facoltà diverse (per lo più Giurisprudenza ed
Economia, come già s’è detto) ha favorito un approccio multidisciplinare e la civile
convivenza delle discipline: quanto mai adatti, del resto, all’oggetto del convegno.
Nel corso della discussione, totalmente autogestita, sono stati sollevati quesiti ai
quali, inevitabilmente, gli studenti non erano in grado di rispondere. E non sono mancati
spunti polemici: temi come quelli trattati, infatti, pur essendo oggetto di studio tipicamente
tecnico, non si sottraggono, per la loro attualità e urgenza, a pulsioni di carattere civile e
politico. E del resto la combinazione dei due aspetti, scientifico e politico (se non la
strumentalità del primo rispetto al secondo) era uno dei nostri non celati obiettivi.
Proprio per questa ragione, e coerentemente con quanto detto all’inizio, abbiamo
voluto l’iniziativa scorresse su due binari paralleli: da un lato il momento pubblico,
convegno propriamente detto, dall’altro uno spazio di lavoro chiuso fra i relatori e gli
studenti iscritti al seminario. Ed è su quest’ultimo che vorremmo rapidamente soffermarci.
L’incontro fra gli studenti i relatori si è svolto successivamente a ogni intervento. La
preparazione maturata nel corso delle attività seminariali ha consentito non solo di entrare
nel merito di singole criticità, anche molto specifiche, ma soprattutto di raggiungere uno
dei traguardi più importanti: far sì che i relatori, oltre a enucleare i principali elementi
delle politiche adottate in relazione alla crisi ௅ e le ragioni di tale adozione ௅, individuassero insieme agli studenti le possibili alternative. Alternative che ci sono sembrate –
fossero proposte dai relatori o scaturite dalla discussione con gli studenti – tanto più
importanti e ricche di valore in quanto frutto non già di un generico discorso politico ma
di una sistematica, scientificamente fondata, trattazione. Il patrocinio della Società
Italiana degli Economisti è stato sicuramente un riconoscimento di tutto ciò.
Giunto il momento di tirare le fila, è di nuovo sull’aspetto metodologico che
vorremmo spendere qualche parola, soprattutto perché il tragitto che abbiamo sperimentato
ci pare utilmente riproducibile: in ambito giuridico ed economico, certo, ma più in generale
nel campo delle scienze sociali. Riteniamo infatti essenziale che gli studenti non restino
estranei a uno degli aspetti centrali dell’attività accademica, ossia alla ricerca, cui solo
alcuni di loro – e sempre meno, a dire il vero, per ragioni che sono sotto gli occhi di tutti –
sono destinati. Confrontarsi con la propria disciplina significa infatti possederne i
fondamenti e insieme gli strumenti, in modo da potersi muovere anche oltre i confini
tracciati e conosciuti. Significa, sul versante economico, non limitarsi all’apprendimento di
un modello e alla epidermica conoscenza di altri, ma spaziarvi liberamente, così come, sotto
il profilo giuridico, conoscere, oltre al diritto positivo, gli strumenti per cui è venuto a
Nota metodologica
XIX
crearsi e che possono condurre a modificarlo. Che la nostra esperienza, così incisiva ed
entusiasmante, sia riproposta altrove è dunque un augurio e un auspicio. 1
Ringraziamenti
Nel concludere questo lavoro, ringraziamo in primo luogo le istituzioni che hanno
ospitato l’iniziativa, il Collegio Ghislieri e l’Istituto Universitario di Studi Superiori di
Pavia; in particolare il Rettore del Collegio, prof. Andrea Belvedere, e il Coordinatore dei
corsi ordinari dello IUSS, prof. Luigi Orsenigo, che con il loro sostegno la hanno resa
possibile, senza dimenticare la preziosa e paziente collaborazione di Federica Torchio,
Cristina Del Vecchio e Gemma Turri.
Ringraziamo il prof. Giorgio Lunghini, che fin dall’inizio ci ha accordato una piena
fiducia, accompagnata da consigli di determinante importanza.
Siamo grati a chi ci ha sostenuto all’interno del Dipartimento di Scienze Economiche e
Aziendali, a chi ci ha permesso di veder riconosciuto il percorso di studio come attività
didattica formativa, assicurando tra l’altro la vicinanza dell’Università degli Studi di Pavia
come istituzione: in particolare, al prof. Andrea Fumagalli, al prof. Carluccio Bianchi e alla
prof.ssa Antonella Zucchella.
Esprimiamo la nostra riconoscenza alla Società Italiana degli Economisti, che ha
accordato il proprio patrocinio scientifico al Convegno, e ringraziamo i relatori che a questo
sono intervenuti.
Tra i nostri compagni che hanno partecipato al ciclo di seminari, un ringraziamento
speciale va a coloro che ci hanno aiutato nella revisione dei testi per questa pubblicazione:
Dafne Capisani, Simone Gasperin, Maria Cristina Gibelli, Egidio Greco e Matteo Rossi.
Siamo grati alla Società dei Pii Quinti Sodales per averci onorato del Premio PQS
alla Creatività Ghisleriana – edizione 2014, rendendo così possibile la pubblicazione di
questo volume.
1
Le registrazioni video del Convegno sono disponibili online sul canale YouTube:
<https://www.youtube.com/channel/UCBZ7fw68GR8Yvws4H6-PdZw>.
La versione elettronica a colori del presente volume è liberamente scaricabile dal sito dell’editore in formato
PDF: Virtual URL <http://purl.oclc.org/paviauniversitypress/9788896764916>.
Not with a Bang but a Whimper: a che punto è la crisi?*
Riccardo Bellofiore, Università degli Studi di Bergamo
[email protected]
In un romanzo che andava di moda quando ero giovane, Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta di Robert Pirsig, a un certo punto si incontra questa riflessione:
Sì o no… questo o quello… uno o zero. L’intera conoscenza umana è costruita
sulla base di questa discriminazione elementare a due termini. Ne è una dimostrazione la memoria dei calcolatori, che immagazzinano tutta la loro conoscenza sotto forma di informazione binaria. Tanti uno e tanti zero, nient’altro. Dato che non
ci siamo abituati, di solito non ci accorgiamo che esiste un terzo termine logico
possibile equivalente al sì o al no, il quale è in grado di espandere la nostra conoscenza in una direzione non riconosciuta. Non esiste nemmeno il termine per indicarlo, per cui dovrò usare la parola giapponese mu. Mu significa «nessuna cosa».
Come «Qualità», mu punta il dito fuori dal processo di discriminazione dualistica,
dicendo semplicemente: «nessuna classe, non uno non zero, non sì non no». Afferma che il contesto della domanda è tale per cui la risposta sì o la risposta no sono errate e non dovrebbero essere date. Il suo significato è «non fare la domanda».
Mu è appropriato quando il contesto della domanda diviene troppo angusto per la
verità della risposta.
La discussione oggi si svolge troppo spesso nei termini di una alternativa secca sì/no.
Per esempio: sull’uscire o sul restare nell’euro; sull’opposizione keynesismo/monetarismo
come caratterizzante la situazione attuale; sull’austerità; sulle riforme strutturali. È una
logica a cui secondo me si deve sfuggire, ma certo se lo fai ciò tende a isolarti in un dibattito sempre più ipersemplificato. E non è un caso che mi trovi spesso a sostenere delle
tesi in cui se si conta chi è d’accordo con me il loro numero sta in una sola mano, monca.
Non è facile, evidentemente, sviluppare un ragionamento diverso dallo spirito del
tempo della sinistra in quindici minuti. Vorrei proporvi delle Tesi, ma questo non è
possibile in questa sede. Nella tradizione storica del movimento operaio (dovrei dire
meglio, del movimento dei lavoratori e delle lavoratrici) le Tesi sono composte da duetre frasi, a cui però segue una lunga argomentazione che le giustifica. Non ne ho il tempo. Non vi proporrò dunque delle Tesi ma, almeno in questo in omaggio all’epoca, vi
proporrò dei tweet, senza alcun commento (anche se spesso supererò i 140 caratteri, mi
ci terrò il più possibile vicino). Non è detto, ovviamente, che tutto risulterà chiaro. Anzi, do per certo che alcune cose, spero non troppe, risulteranno in prima battuta oscure:
ma spero che possano risultare intriganti, e invitare a una ulteriore riflessione.
*
Questo scritto è stato originariamente pubblicato come intervento nel volume della Fondazione Cercare
Ancora, Capitalismo finanziario globale e democrazia in Europa, Roma, Ediesse, 2014, pp. 88-105.
2
Riccardo Bellofiore
1.
La recente crisi globale nasce come crisi bancaria e finanziaria che si tramuta in crisi reale. È assurdo contrapporre le due dimensioni. Sono strettamente integrate. L’una non si dà senza l’altra.
2.
La crisi globale nasce nel 2007, anche se è usuale leggere come data di inizio il 2008.
3.
È la crisi di una nuova configurazione del capitalismo, che viene chiamato
neoliberismo.
4.
Il neoliberismo non è monetarista, e tanto meno liberista.
5.
Il neoliberismo è ciò che Hyman Minsky chiamava money manager
capitalism e che io caratterizzo come ‘sussunzione reale del lavoro alla
finanza e al debito’ (una integrazione subalterna delle ‘famiglie’ a queste
dimensioni del capitale).
6.
Il neoliberismo si distingue per un’altra dimensione nuova tanto quanto la
precedente, la ‘centralizzazione senza concentrazione’, a cui si lega la precarizzazione universale del mondo del lavoro.
7.
Il neoliberismo, nel mondo anglosassone (ma non solo), è caratterizzato da un
crescente debito privato – debito delle famiglie, non debito delle imprese.
8.
Il debito delle famiglie si è sviluppato come portato del capitalismo dei
fondi (altrove l’ho definito ‘capitalismo dei fondi pensione’, come esempio significativo dei vari fondi istituzionali: Michel Aglietta lo chiama ‘capitalismo patrimoniale’, Luciano Gallino parla di capitalismo con i ‘soldi
degli altri’).
9.
È un capitalismo che per lungo tempo, e con particolare vigore dal 1987 al
2007 (salvo l’interruzione a inizio millennio), ha visto una corsa verso l’alto
dei prezzi delle ‘attività’, prima sul mercato finanziario, poi nell’immobiliare.
Una capital market inflation, come la chiama Jan Toporowski.
10. Il neoliberismo, nel suo centro anglosassone (in primis gli Stati Uniti) ha
avuto come traino della domanda e motore della crescita il consumo a debito, basato su quella inflazione dei capital asset.
11. Il neoliberismo è stato insomma un modello riconducibile alla terna che ho
definito come lavoratore traumatizzato/risparmiatore maniacale(-depressivo)/
consumatore indebitato. Una terna che andrebbe prolungata nella sedated
middle class di Toporowski.
Not with a Bang but a Whimper: a che punto è la crisi?
12. Tra i global player del manifatturiero e dei servizi si era intanto instaurata
una concorrenza ‘distruttiva’ tramite strategie aggressive di investimento.
Il risultato è stato un cronico eccesso di offerta in alcuni settori (un punto
messo bene in rilievo da Jim Crotty).
13. La catena della produzione del valore si riorganizzava in profondità, as-
sumendo un carattere né globale né internazionale ma transnazionale (sono molto utili per comprendere questo processo le analisi di Francesco
Garibaldo). La stratificazione nella rete di imprese si dà secondo la diversa forza relativa delle singole unità nella filiera. Al polo alto vi sono fornitori di moduli con autonomia imprenditoriale e gestionale, mentre al polo
basso si lotta per sopravvivere. La condizione dei lavoratori dipende dalla
collocazione della singola impresa nella filiera.
14. Quando il modello è crollato, chi ci ha salvato dal ripetersi del Grande Crol-
lo (per impiegare il titolo del libro di John Kenneth Galbraith) come negli
anni Trenta non è stato Obama, se non per quel che riguarda la rete di salvataggio offerta alla finanza: sono stati gli ‘stabilizzatori automatici’ e, tra fine
2008 e inizio 2009, alcune politiche discrezionali di spesa in disavanzo, e in
particolare l’unica massiccia manovra autenticamente‘keynesiana’, il deficit
spending della Cina.
15. Il modello neoliberista non è stato affatto un modello senza politica, è stato
anzi un modello eminentemente politico, di una politica anche economica
molto attiva; è quel modello che alcuni autori (Colin Crouch il più noto; prima ancora, chi vi parla) hanno chiamato di ‘keynesismo privatizzato’.
16. Si dava un’alternativa sul terreno della politica economica? Se escludiamo
pensieri radicali e marginali, come quello a cui appartengo, sì. Mi riferisco a
ciò che ho descritto varie volte come social-liberismo. Per capirci, Clinton
negli Stati Uniti, Jospin in Francia, Prodi e parte del PD da noi, e così via.
Blair è a suo modo una via intermedia (neoliberismo e social-liberismo sono
idealtipi).
17. Sul terreno della teoria economica, il neoliberismo copre pensieri altri-
menti difficilmente compatibili come nuova macroeconomia classica, monetarismo e scuola austriaca, il social-liberismo ha come riferimento la
nuova economia keynesiana, sino a Krugman o Stiglitz prima della loro
svolta radicalizzante degli ultimi anni (più politica che teorica).
18. Il neoliberismo è autenticamente liberista sul mercato del lavoro (preca-
rizzazione) e welfare (contro lavoro e donne), ma non è contro i monopoli
o i disavanzi di bilancio (cfr. Reagan, Bush, Berlusconi).
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Riccardo Bellofiore
19. Il social-liberismo è a favore della liberalizzazione su mercato dei beni e
dei servizi (antitrust) e delle varie forme di patto di stabilità, ma sostiene
politiche redistributive che, tra l’altro, vorrebbero trasformare precarietà e
flessibilità, tutelando il lavoro.
20. Nessuno dei due è autenticamente liberista. In effetti, il liberismo (come la
globalizzazione e il postfordismo) semplicemente non esiste, e non è mai
esistito, né di destra né di sinistra. Né mai esisterà. Il cosiddetto neoliberismo non è affatto, semplicisticamente, ‘meno Stato’: è anzi imposizione
dall’alto di un modello di società dove competizione e dirigismo si compenetrano in profondità (una tesi che ultimamente è stata ripresa e approfondita da Philip Mirowski).
21. La crisi ha spazzato via il social-liberismo, e anche il neoliberismo per
come l’abbiamo conosciuto è morto. Il paradosso è che la crisi del neoliberismo è gestita dagli stessi neoliberisti. Il neoliberismo è uno zombie.
La ricerca affannosa di nuove bolle non è stata in grado di far ripartire la
crescita.
22. La crisi europea non nasce come crisi dell’euro ma è, inizialmente e signifi-
cativamente, un ‘rimbalzo’ della crisi globale. Va semmai spiegato come sino ad allora le contraddizioni della moneta unica siano rimaste latenti.
23. Anche in Europa siamo stati salvati, tra metà 2008 e metà 2009, da politi-
che keynesiane, e il Paese che le ha praticate con più energia e intelligenza
si chiama Germania.
24. La crisi in Europa riparte drammaticamente dopo lo scoppio del caso Gre-
cia, e l’effetto domino con Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia, che – pur
del tutto prevedibile – precipita e diventa drammatico nel 2011.
25. La crisi europea non è crisi del debito pubblico. L’esplosione del debito
‘sovrano’ è l’altra faccia della crisi del debito privato, sia per trasferimento diretto del debito dal privato al pubblico, sia come conseguenza della
caduta del Prodotto interno lordo collegata alle politiche di contrazione
della domanda.
26. L’austerità è (come si direbbe in inglese) self-defeating: autodistruttiva,
controproducente.
27. Il modello neomercantilista europeo di fare profitti tramite esportazioni
nette (un modello Luxemburg-Kalecki), che aveva reso il continente dipendente dalla domanda estera e sempre più dalla dinamica statunitense, è
andato in crisi tra il 2007 e il 2008. L’idea di un de-linking, di uno ‘sgan-
Not with a Bang but a Whimper: a che punto è la crisi?
ciamento’ dal traino statunitense, si è rivelato per quello che era prevedibile che fosse, una pia illusione.
28. La crisi dell’unione monetaria non è crisi delle bilance dei pagamenti, non
è crisi delle bilance di partite correnti, non è crisi delle bilance commerciali. Questo – come sostennero Joseph Halevi e chi scrive, contrapponendoci alla diffusa distrazione degli economisti di sinistra nel 2005 (quasi
tutti convinti che il problema fosse il Patto di Stabilità, e impegnati in una
dubbia battaglia per la ‘stabilizzazione del debito pubblico’) – ovviamente
non significa affatto che quegli squilibri non abbiano effetti reali devastanti. Non comportano però, direttamente, una messa in crisi dell’euro.
29. «In un’area monetaria unica, gli squilibri sono la norma» (Marcello De
Cecco). In un’area monetaria unica, dove c’è un sistema unico dei pagamenti, esiste un meccanismo automatico di riaggiustamento dei disavanzi
di partite correnti dal punto di vista dei rapporti debito-credito. Si chiama
TARGET 2.
30. Ha ragione Randall Wray: Imbalances, what imbalances? Gli squilibri fi-
nanziari si equilibrano. Il problema è piuttosto che gli squilibri finanziari
segnano rapporti di potere asimmetrici, e io aggiungerei, dietro i ‘rapporti
di potere’ stanno ‘rapporti di classe’.
31. La struttura istituzionale dell’euro è sicuramente nata fallata. Lo si sapeva,
prima: non si doveva entrare nella moneta unica. Fausto Bertinotti e Alfonso Gianni si ricorderanno che ne parlammo all’epoca e quando la sinistra, incluso il partito di cui facevano parte e che era ben dentro il ‘recinto’,
votò per entrare nell’euro. Un errore di cui paghiamo care le conseguenze.
32. Questo non significa neppure che la struttura istituzionale dell’euro sia ri-
masta immobile. Si sono verificati importanti mutamenti, prima con Trichet
e poi con Draghi. Per esempio: benché sulla carta la Banca centrale europea
non dovesse essere un prestatore di ultima istanza, essa lo è diventata sempre di più, prima delle banche e poi, sia pure indirettamente degli stati.
33. L’euro è qui per rimanere – anche se non è affatto detto che rimarrà nel
lungo termine (e però si sa che nel lungo periodo siamo tutti morti). Le
due affermazioni non sono contraddittorie. Il progetto di Draghi, appoggiato a più riprese da Angela Merkel, è di costruire quello che attualmente
non esiste, un soggetto capitalistico unico, seppur articolato, su scala europea e, se non ancora un governo europeo, almeno una governance europea.
Le unioni monetarie dollaro, marco, lira non sono state costruite a tavolino,
ma con guerre e repressioni.
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34. Ci sono alternative? Nel passato, senz’altro ne abbiamo avute: la ‘moneta
comune’, per esempio. Io, non per particolare originalità, ma perché in dialogo con Suzanne De Brunhoff, l’avevo presentata da noi come alternativa
alla ‘moneta unica’. È diventata di moda dopo un pezzo di Frédéric Lordon.
Si tratta dell’applicazione all’Europa del bancor di Keynes, della sua proposta a Bretton Woods: si tratta di una moneta non circolante, come è invece
l’euro; è una moneta delle banche centrali (in questo caso, delle nazioni aderenti in Europa). L’idea originaria (proposta allora, mi pare, anche di Jacques Mazier) prevedeva comunque un sistema di parità fisse ma aggiustabili, e includeva come parte essenziale il controllo dei capitali. Andava integrata in una più generale idea di sistema internazionale di cambi basato sulle target zones, come ne scriveva allora Francesco Farina.
35. Oggi la transizione dalla situazione attuale alla moneta comune non è
semplice. Non si vede come si possa manovrare una fine coordinata
dell’euro. Se quel coordinamento fosse possibile, forse anche la trasformazione ‘morbida’ dell’euro sarebbe possibile. Ne dubito fortemente.
36. Una cosa è non entrare in una unione monetaria, un’altra è uscirne. Non è
la stessa cosa che svalutare: ciò in passato ha favorito soprattutto il sistema delle piccole e medie imprese, e le esportazioni, ma non si è accompagnato a nessuna politica industriale e strutturale che migliorasse nel lungo
termine la qualità della nostra configurazione produttiva.
37. Non equivale neppure all’uscita dal Sistema Monetario Europeo, come nel
1992-1993. Vicenda che peraltro si accompagnò alla distruzione di quel
poco che restava del sindacato come soggetto autonomo. Siamo in una
‘grande crisi’, non in una crisi congiunturale; una grande crisi ‘capitalistica’, che non equivale a crollo (tutt’altro): separa un capitalismo morente
da un altro modello emergente, di cui non si vedono ancora chiaramente i
tratti. Il paragone è valido solo nel senso che non è affatto escluso che uscire dall’euro preluda a più, e non meno, austerità.
38. Anche l’idea dei due euro incontra la stessa difficoltà di cui si è detto:
come passi di qui a lì. Peraltro, l’idea che i Paesi dell’Europa del Sud siano in condizioni analoghe perché tutti hanno un disavanzo di bilancia corrente è falsa: non esiste un modello della periferia, sono modelli diversi,
come dimostra il periodo 2001-2007.
39. Un euro dell’Europa del Sud riprodurrebbe, mutata la scala, le stesse contrad-
dizioni dell’euro, con l’Italia o la Francia al posto della Germania.
40. Esiste il problema di collocare in queste dinamiche la Francia. È la Francia,
peraltro, l’ispiratrice dell’euro. Ed è questo il progetto di lunga durata del
suo capitale finanziario. Ma i suoi dati macroeconomici, di finanza pubblica,
Not with a Bang but a Whimper: a che punto è la crisi?
di equilibrio esterno, di stato dell’industria, di solidità del sistema bancario,
tutto sono meno che sani. È il paese che con la Germania più ha goduto
dell’euro, forse persino di più: basta guardare allo spread con il tasso sui
Bund decennali tedeschi. È la Francia, più che la Germania, il problema.
41. Smantellamento ordinato dell’euro: più facile a dirsi che a farsi.
42. Riacquisizione della sovranità monetaria: illusoria parola d’ordine, pur così
diffusa oggidì. Non so se abbiamo mai goduto davvero di sovranità monetaria
(chi ne parla ha nozioni di storia e politica non poco abborracciate), ma certo
le svalutazioni non sono state gentili con il ‘popolo’ italiano.
43. Ancora sulla questione bilance delle partite correnti: non si deve dimentica-
re, come sulla questione bilancio pubblico, che a ogni debito corrisponde un
credito. Per esempio, chi dice: «Non paghiamo il debito» deve sapere che,
dietro il debito pubblico, c’è il credito privato delle famiglie. Classi medie.
Lavoratori.
44. L’attenzione, oggi particolarmente alta, sulle bilance delle partite correnti
dà l’illusione di ‘vedere’ i flussi (netti) di finanziamento tra Paesi negli
squilibri tra centro e periferia. Non è vero: un Paese può avere una bilancia in pareggio e finanziare le spese autonome completamente all’estero, il
che origina depositi che rimangono all’interno; ma quei finanziamenti potrebbero essere precari, e svanire dalla sera alla mattina. Bisogna, insomma, guardare ai flussi lordi e non ai flussi netti del finanziamento se vogliamo capire qualcosa dell’economia di oggi, come ci ricordano a ragione
per la crisi globale Borio e Dysiatat.
45. In un sistema con moneta credito – come tutti i sistemi di moneta moderna –
questi squilibri possono essere prorogati all’infinito. Dipende dalla banca
centrale: se impedisce il rifinanziamento dell’economia, questo significa puramente e semplicemente il crollo. Le riserve sono endogene: non c’è moltiplicatore, c’è divisore del credito bancario. In realtà, la Banca centrale europea sta gestendo la trasformazione del sistema europeo e la ristrutturazione dei rapporti sociali, dal lavoro al welfare, transitando da una crisi
all’altra, sempre impedendone però la degenerazione.
46. Esistono alternative più generali di politica economica? Sì. Una è la ‘mode-
sta proposta’ di Yanis Varoufakis, prima da solo, poi con Stuart Holland,
ora con Jamie Galbraith. Bertinotti ricorderà che feci venire Varoufakis in
Italia anni fa (organizzai anche un incontro con Ferrero e il PRC) e già allora lui ricordò il parallelo della situazione attuale della Grecia con quella della Germania, il trattato di Versailles e il giudizio di Keynes.
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Riccardo Bellofiore
47. Varoufakis, con Holland e Galbraith, propone gli eurobond, una mutualiz-
zazione del debito che consenta su scala europea investimenti infrastrutturali, e un’autentica unione bancaria. Io aggiungerei la necessità di un’espansione co-ordinata delle spese pubbliche, che permetterebbe di aggirare la
strozzatura di un bilancio europeo ridicolmente limitato il quale strangola
nella culla la possibilità di una politica fiscale espansiva.
48. Credo però anche che tutto ciò vada inserito in un quadro concettuale e
politico (anche di politica economica) più ampio. Non dobbiamo semplicemente tornare a Keynes, dobbiamo andare oltre Keynes, per un certo
verso tornando a prima di Keynes, cioè al New Deal. Con Halevi lo diciamo dal 2008, anzi in verità da prima della crisi, quando sostenemmo, presi
amichevolmente in giro dalla sinistra politica ed economica, la necessità
di un aumento, non di una stabilizzazione, del rapporto debito/PIL. C’è arrivato prima (a suo modo) Giavazzi.
49. La ‘ripresa’ non va separata da ciò che Keynes, in una lettera a Roosevelt,
chiamava la ‘riforma’: le politiche economiche espansive contro l’austerità
non vanno separate da una diversa e migliore composizione della produzione, e dall’obiettivo della piena e buona occupazione, con lo Stato che si fa
promotore di entrambi gli obiettivi, insieme e simultaneamente. Keynes li
vedeva in sequenza: prima la ripresa, poi la riforma. Io li vedo come contemporanei.
50. Già nel 1993, in un articolo chiestomi da Raniero La Valle, uscito su
«Bozze» (e che probabilmente non ha letto nessuno) avevo sostenuto una
tesi del genere, richiamando il ‘Piano del lavoro’ della CGIL della fine
anni Quaranta, come anche l’‘esercito del lavoro’ di Ernesto Rossi e Paolo
Sylos Labini.
51. Soltanto dentro un discorso del genere assume una valenza positiva
l’erogazione di un reddito di esistenza, condizionato alla prestazione di un
lavoro ‘sociale’ nell’arco vitale. Altrimenti, come osservò in un dibattito
su «il manifesto» Giovanna Vertova,1 è strumento di una rinnovata
Speenhamland, su cui sia Polanyi che Marx si sono espressi molto criticamente, del tutto a ragione.
52. Caduto il consumo a debito, impossibile l’esportazione netta di merci sulla
luna, insufficiente la spinta degli investimenti a chiudere il circuito monetario (non soltanto nella crisi, ma anche quando le cose vanno bene), l’unico
possibile motore dello sviluppo è la spesa pubblica in disavanzo, che da sinistra va finalizzato a un differente ‘cosa, come, quanto’ produrre.
1
Dibattito reperibile integralmente all’indirizzo [online], URL:
<http://www.odradek.it/html/zibaldone/segnalazioni1.html>, [data di accesso: 08/07/2014].
Not with a Bang but a Whimper: a che punto è la crisi?
53. Dal debito si esce o con la sua remissione, o con la bancarotta, o con
l’inflazione, o con la crescita (magari declinandola come sviluppo). Negli
Stati Uniti, come ci insegna Jamie Galbraith, a un certo punto il debito ipotecario decade, in un modo o nell’altro. In Europa si sta imponendo la sua
permanenza perinde ac cadaver, bloccando le varie strade per alleggerirlo o
cancellarlo. Non è una situazione sostenibile, e prima o poi una via d’uscita
sarà trovata, e includerà una espansione della spesa pubblica. Non è detto
che si configuri come una uscita di sinistra.
54. La via di sinistra esiste, ed è quella di Minsky (non nella lettera, ma nello
spirito): socializzazione dell’investimento, socializzazione dell’occupazione, socializzazione della finanza. Nel libro Keynes e l’instabilità del
capitalismo la socializzazione dell’economia viene delineata come una
critica del keynesismo, dei trentes glorieuses (come vengono chiamati
oggi), di Keynes stesso.
55. La via d’uscita può essere detta con le parole di Alain Parguez: «dobbia-
mo pianificare dei disavanzi ‘buoni’, altrimenti il neoliberismo non cancellerà il disavanzo, ma creerà anzi, per così dire automaticamente, deficit
‘cattivi’».
56. A fronte del disavanzo e del debito pubblico sta comunque un attivo del set-
tore privato, crediti finanziari. I disavanzi ‘buoni’ di Parguez, come la triplice socializzazione dell’economia di Minsky, creano però anche valori d’uso
sociali.
57. L’orizzonte di lungo termine degli investimenti, la capacità innovativa, la
crescita della produttività nel sistema, l’espansione dell’occupazione sono
tutti elementi che dipendono strettamente da un intervento statale ‘mirato’.
58. È su questa dimensione strutturale dell’intervento pubblico che si giocano,
come caratteri trasversali ed essenziali di una politica economica ‘alternativa’, la questione del genere e quella della natura. Non posso entrare nel
merito delle due dimensioni qui.
59. Ciò di cui c’è bisogno non è affatto il ‘ritorno al keynesismo’ (fosse anche
una introvabile ‘lezione di Keynes’, al singolare), tanto meno una spesa pubblica generica, quando non militare – è questo il keynesismo reale, non un
fantomatico modo statuale di produzione. A una spesa pubblica mirata fa da
contraltare il welfare, non nel senso della assistenza ma di provvedimenti in
natura. È questa un’altra tesi anche di Minsky, di cui è appena uscita in inglese una raccolta di scritti, Ending Poverty: Jobs, Not Welfare (con Laura Pennacchi ne abbiamo curato l’edizione italiana). La critica è a un welfare di meri
trasferimenti monetari (in cui ricadono le proposte di basic income). Non a
uno Stato che provvede istruzione, sanità, e così via.
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60. La risposta alla domanda se ci vuole austerità non è semplicisticamente
no. E non solo perché aumentare la domanda effettiva non basta. È anche
sì, perché vogliamo una ridefinizione in profondità della composizione
della produzione, una ridefinizione del modello di consumi. E di questo fa
parte, necessariamente, sia una austerità della classe dominante, sia una
vita più sobria di tutte e tutti.
61. Vale lo stesso atteggiamento sulle riforme strutturali. Certo che vogliamo le
riforme strutturali. Le nostre riforme strutturali. Cosa è se no la politica (e
politica economica) che si è qui delineata?
62. Tutti gli interventi espansivi che è necessario approntare sul terreno ma-
croeconomico non sono separabili da una politica industriale parimenti attiva e orientata.
63. Una attenzione alle dinamiche dell’industria, e della struttura produttiva
più in generale, incide non poco sul modo di guardare alle dinamiche europee nella stessa vita dell’euro.
64. Chi pensa e continua a ripetere che il vantaggio competitivo nell’eurozona
dipenda esclusivamente dalla variazione dei prezzi relativi, e lo riduce
all’aumento del costo del lavoro per unità di prodotto in una generica periferia, ha torto.
65. La tesi che la Germania deve il suo attuale primato alla deflazione salariale,
alla compressione dei salari nominali, non dice cose false: dice una parte
della verità, e forse non la più importante.
66. La competitività tedesca è data anche dalla qualità della produzione che
esporta (macchine, beni di consumo di qualità, e così via). Ciò le dà un
monopolio che la rende almeno in parte indipendente dalla dinamica dei
prezzi relativi e dai rapporti di cambio.
67. La Germania esce da una politica di ristrutturazione della produzione e di
riorganizzazione del lavoro lunga ormai quasi più di un ventennio, che ha
dato origine ad una lunga catena transnazionale della produzione di valore
che si estende a Est. Dentro questa catena si mescolano (e si integrano)
precarietà e punte avanzate.
68. Anche per questo l’idea di una ‘via alta’ del capitale è pura fantasia.
69. Quello che sta avvenendo è che la Germania importa relativamente di più da o-
riente e relativamente di meno dal mezzogiorno d’Europa – anche per questo le
nostre catene ‘ricche’ della subfornitura tedesca sono sotto pressione.
Not with a Bang but a Whimper: a che punto è la crisi?
70. I Paesi del Sud d’Europa non sono integrati orizzontalmente: fanno centro
sulla Germania.
71. È questa un’altra ragione – strutturale – che giustifica la conclusione che
una pura e semplice espansione della domanda effettiva non sarebbe sufficiente, benché necessaria, a riequilibrare le sorti della periferia (a prescindere dalla diversità dei modelli dei singoli Paesi dei GIIPS).
72. Su questi temi è prezioso il contributo di Ginzburg, Simonazzi, Nocella,
sul numero di marzo del «Cambridge Journal of Economics». Questi autori osservano anche, del tutto a ragione, che le misure sul costo del lavoro
per unità di prodotto sono molto ambigue a livello aggregato, dipendendo
dall’indice dei prezzi (e dunque dal paniere) preso a riferimento. Gli stessi
risultati sul caso italiano cambiano drasticamente a seconda dell’indice
prescelto.
73. Devo essere ancor più telegrafico sul caso italiano. Nel caso dell’Italia una
delle ragioni della bassa dinamica della produttività dipende dalle politiche di privatizzazione e precarizzazione dagli anni Novanta, quale che
fosse il colore del governo, e rispetto alle quali il nostro Paese è stato una
punta di avanzata (e deleteria) sperimentazione.
74. A questo si aggiunge la crisi del modello dei distretti, a cui ha fatto resisten-
za l’emergere di un cosiddetto ‘quarto capitalismo’ di multinazionali tascabili. Non sarò certo io a negarne la vitalità. Ciò non toglie che si tratti, sostanzialmente, di un’esperienza di nicchia e marginale: su di esso non è possibile ‘fare sistema’ (vale qui la critica di Minsky al modello dei distretti
che risale alla metà degli anni Ottanta, come la si legge in una recensione a
un libro famoso di Piore e Sabel).
75. La via delle riforme strutturali che si è qui delineata può essere, se volete,
qualificata come un keynesismo strutturale, con suggestioni schumpeteriane
(una prospettiva tipica di Augusto Graziani). Assomiglia però dannatamente
a una forma di socialismo: lo scriveva lo stesso Minsky nel suo libro del
1975, anche se poi lo avrebbe incluso tra le ‘57 forme di capitalismo possibile’ (il riferimento è alla pubblicità del ketchup della Heinz).
76. Non penso, come forse pensava Minsky (ma si potrebbe discuterne), che si
tratti di una configurazione stabile, a prescindere dalle ricorrenti derive
verso l’instabilità finanziaria. Sono piuttosto convinto che avesse ragione
Kalecki nel 1943 che qualsiasi forma, anche mista, di capitalismo incontra
un limite nella natura capitalistica dei rapporti sociali, innanzitutto nei
luoghi di lavoro.
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Riccardo Bellofiore
77. Le cose che sto dicendo sono agli antipodi con la musica che gira intorno,
cioè con quello che la sinistra politica e intellettuale, in economia e sociologia, va dicendo da un bel po’.
78. Sulla sinistra politica, per carità di patria, visto che non si parla male dei
morti (anche se si può sperare, contro ogni speranza, nella risurrezione),
non dirò nulla.
79. Sulla sinistra in economia. Si è ricondotta la crisi alla caduta (tendenziale)
del saggio del profitto. A parte il fatto che la crisi del cosiddetto ‘fordismo’ è dovuta sì a una caduta della profittabilità, ma quest’ultima non discende dalla crescita della composizione in valore del capitale ma semmai
(insieme ad altri, molteplici, fattori) da un conflitto e un antagonismo nei
rapporti sociali di produzione, è dall’inizio degli anni Ottanta del secolo
scorso che non soltanto la quota ma anche il saggio dei profitti è andato
recuperando, sostanzialmente sino allo scoppio della Grande Recessione.
80. Si è parlato di una crisi da domanda, ma in realtà di sottoconsumo (la crisi
di un ‘mondo dei bassi salari’, si è detto). I bassi salari sono ben reali. Ma la
crisi capitalistica non è mai semplicisticamente dovuta ai ‘bassi salari’, e
tanto meno al ‘sottoconsumo’ (lo dichiaravano a chiare lettere sia Marx che
Rosa Luxemburg, se solo uno si prendesse la briga di leggerli sul serio; il
basso consumo è la causa ‘ultima’ delle crisi, dunque non ne spiega nessuna). Il modello neoliberista è stato piuttosto un modello di sovraconsumo.
La crisi, come sapevano appunto Marx e Luxemburg, ma anche Keynes e i
suoi collaboratori più stretti, è semmai una crisi da sottoinvestimento (o, più
in generale, da insufficienza della domanda autonoma).
81. Si è proclamato per molto tempo che il neoliberismo fosse una realtà di sta-
gnazione permanente. Io sto con Sweezy che al quesito che si rivolge: «sto
forse avanzando la tesi che il capitalismo viva in una stagnazione permanente?», replica in sostanza «quando mai».
82. Si è trattato di un keynesismo privatizzato trainato dalla finanza (dalle bol-
le nello stock exchange e nell’housing) grazie a una politica monetaria
della Banca Centrale come prestatrice di prima istanza alla speculazione
(De Cecco 1998), in un contesto in cui la cosiddetta curva di Phillips si era
appiattita sin quasi a divenire orizzontale (la riduzione della disoccupazione non dava origine ad un aumento dei salari e dei prezzi per ragioni interne) – qualcosa che si capisce con Marx, non con Friedman.
83. Il neoliberismo è stato una configurazione dinamica del capitalismo, spinta
dalle controtendenze alla deriva stagnazionistica, secondo la lezione che discende da Kalecki o Steindl, o dalla «Monthly Review» (sto di nuovo con lo
Sweezy che temeva le controtendenze quanto, se non più, della tendenza).
Not with a Bang but a Whimper: a che punto è la crisi?
Se vogliamo capirne la crisi dobbiamo cercare le contraddizioni interne al
suo dinamismo. Per questo contrapporre la ‘crisi del capitalismo’ alla ‘crisi
del neoliberismo’, come fanno i marxisti puri e duri, è sbagliato.
84. L’orizzonte interpretativo del capitalismo odierno come finanz-capitalismo
è affascinante, e dice cose molto giuste. Si basa però su una idea di fondo:
l’estrazione di valore via circolazione. Non credo si possa ridurre il capitalismo a una rapina permanente.
85. L’analisi che vi ho proposto non ‘parte’ da un primato della coppia doman-
da-distribuzione, in cui il problema ultimo è la diseguaglianza (spero proprio che nessuno possa pensare che io reputi questi problemi come irrilevanti). ‘Parte’ da produzione-finanza, e da questo ‘centro’ si estende agli altri fenomeni, che sono, in senso stretto, secondari, cioè derivati.
86. Sul terreno della politica economica, la gran parte degli economisti di sini-
stra italiani appartiene oggi a quello che, in modo semiserio, definisco come
‘keynesismo-leninismo’. In battuta: abbiamo gli strumenti tecnici, se solo
fossimo noi i consiglieri del Principe… Se la Banca Centrale è prestatore di
ultima istanza, non vi sono limiti oggettivi al debito pubblico. Il Tesoro non
ha difficoltà a svolgere politiche di pieno impiego. I vincoli sono politicoistituzionali.
87. Da un lato l’economia, riducibile a tecnica. Dall’altro la politica, riducibi-
le a gestione del potere. I rapporti sociali sono scomparsi. Il riferimento è
in fondo Hilferding, l’Hilferding di cui appunto Lenin fu attento lettore.
L’idea (la citazione è da Brancaccio e Cavallaro) è che «gli unici, veri
conflitti di liberazione che hanno meritato nel secolo scorso e meriteranno
in questo secolo di esser definiti tali saranno quelli miranti alla conquista
delle casematte dentro gli apparati dello stato. È infatti nella capacità o
meno di permeare quegli apparati, di muoverne le leve e al limite di stravolgerli, che si concretizza la battaglia tra repressione e rafforzamento del
capitale finanziario, che si definiscono i caratteri cruciali del regime di
sviluppo, che si quantificano le possibilità concrete di pianificare la liberazione del lavoro dal dominio di una potenza estranea».
88. Qui vedeva lontano Paul Mattick: il keynesismo-leninismo è un marxismo
che, proprio come la solidarietà antitetico-popolare che opponeva Seconda e
Terza Internazionale, vede nel comando statale l’alfa e l’omega. La stanza
dei bottoni in cui ‘entrare’, per illudersi di governare il processo capitalistico, o per spezzarlo come strumento borghese, senza però cambiarne in fondo la natura. Nulla di più lontano dalla visione che propongo, che è sociocentrica e che vede nella pressione dal basso l’unica garanzia che una politica economica alternativa non si riduca ad autopromozione di quelli che
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Riccardo Bellofiore
Minsky chiamava economists-courtiers, candidati consiglieri del Principe
(come in Minsky, la caratterizzazione non va intesa come un insulto, semmai come tragedia).
89. Non amo il termine ‘globalizzazione’, qualcosa che a mio parere non esiste.
Parliamo semmai di transnazionalizzazione della finanza, transnazionalizzazione della produzione: ma il termine ‘globalizzazione’, come quello di ‘postfordismo’, come lo stesso ‘pensiero unico’, sono definizioni vuote che generano solo confusione.
90. Trovo il nesso capitalismo finanziario/mancanza di democrazia non com-
pletamente convincente anche per altre ragioni. Innanzitutto (mi pare che
dicesse qualcosa del genere anche Gnesutta), in questo ‘nuovo’ capitalismo è davvero difficile separare profitto e rendita, finanza (cattiva) e impresa (buona).
91. Il ‘nuovo’ capitalismo nasce dalla crisi del keynesismo, che esplode negli
anni Settanta ma che cova già dalla seconda metà degli anni Sessanta. Il
libro di Wolfgang Streeck (il cui titolo originale, Gekaufte Zeit, tradotto
letteralmente, «Tempo comprato», è molto più appropriato di quello che
gli è stato dato in italiano: Tempo guadagnato) ha molti limiti, che fanno
però il paio con l’enorme merito metodologico che ne fa un esempio quasi
unico. Torna, finalmente e adornianamente, a una analisi del capitalismo
in termini di totalità sociale unitaria. E dice anche molte cose giuste. Come, per cominciare, che il modello keynesiano va in crisi per un conflitto
dei soggetti sociali a partire dal mondo del lavoro (la profezia del Kalecki
del 1943, appunto).
92. Cade anche, se non soprattutto, da sinistra: non solo per il conflitto opera-
io; cade, tra l’altro, per la critica ecologista, e per quella del movimento
delle donne. La sua fine l’abbiamo voluta noi. Possiamo sempre pentircene (io no), ma questa è la realtà delle cose. E cade, certo, anche per uno
‘sciopero del capitale’. Per il disegno di smantellare quei conflitti e quegli
antagonismi, e di evitarne la riproposizione (la sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito, la centralizzazione senza concentrazione, la
‘traumatizzazione’ del lavoro, la precarizzazione universale, le nuove
forme di gestione della politica monetaria ed economica di cui parlo, tutto
ciò calza in questo quadro come un guanto).
93. Anche per questo dubito che basti la ‘persuasione’ per tornare a un keynesi-
smo (finalmente?) buono, come mi pare traspaia dai vari appelli e lettere
degli economisti, dalle varie prese di posizione che si vogliono ‘keynesiane’. Penso che sia impossibile rimettere il dentifricio nel tubetto.
Not with a Bang but a Whimper: a che punto è la crisi?
94. L’opposizione non è tanto capitalismo finanziario/democrazia, come dicono
le Tesi: è semmai capitalismo/democrazia, tout court. Presentai all’Unione
culturale il libro di Fausto Bertinotti (sarà stato il 1991 o 1992) La democrazia autoritaria. Era fresca la memoria delle tesi dell’ultimo Napoleoni,
che sosteneva, con ragione, che il capitale (il capitale in quanto tale, non il
capitale finanziario) ha in sé una tendenza totalitaria. La democrazia gli viene ‘da fuori’, dalle lotte.
95. In verità, a me pare che noi viviamo in un mondo che è quello che ripro-
duce su scala globale il capitalismo britannico di metà Ottocento, in presenza di un movimento operaio come quello inglese di inizio Ottocento.
Quel capitalismo che si colloca sul Weltmarkt, sul ‘mercato mondiale’;
quel capitalismo in cui il movimento operaio (oggi, ma anche allora, dovremmo dire: dei lavoratori e delle lavoratrici) non era un dato, era una
costruzione, e una costruzione dal basso; quel capitalismo che ‘formava’
la classe operaia inglese integrando estrazione di plusvalore relativo e plusvalore assoluto, come ci ricorda Massimiliano Tomba. Un ritorno al passato che è il nostro futuro, e che è la vera novità del capitalismo dei nostri
giorni: le nuove forme del vecchio sfruttamento.
96. Fino a qui mi sono tenuto prevalentemente a giudizi di fatto, come faccio
quasi sempre: è un mio limite, quello di non avventurarmi troppo sul terreno normativo. C’è però un giudizio che mi può essere contestato come
‘grande ottimismo’: quando dico che sindacato e sinistra dovrebbero muoversi sulla ‘scala’ su cui si muove Draghi, cioè almeno sulla scala europea.
Ho detto movimenti dal basso, ma i movimenti dal basso non esistono
nell’innocenza della spontaneità ‘pura’ (Rosa Luxemburg, per dirne una,
ha fatto parte di almeno tre partiti, e uno se non due li ha fondati). Nel mio
sfrenato ottimismo, non dico quello che penso, che ciò che vorrei è impossibile: mi limito a dire che è quasi impossibile.
97. Questa prospettiva può essere accusata di idealismo. A me sembra però
l’unica modalità seria di portare avanti una prospettiva materialistica nel
senso di Marx. Il movimento operaio non è nato dalla testa di Giunone: è
nato rispondendo a una frammentazione e a uno sfruttamento estremi.
98. L’uscita individuale dall’euro, la disobbedienza di un solo Paese, la costru-
zione di un euro del Sud-Europa sono tutte prospettive problematiche. Sempre più assumono un colore ambiguo nelle pretese di una dubbia riconquista
di una ‘sovranità’ monetaria ‘nazionale’, da parte del ‘popolo’, a salvezza di
una ‘impresa’, di cui il lavoro diviene parte ‘organica’ e subalterna.
99. Nel caso di una rottura dell’euro, ben possibile, una via di sinistra esiste so-
lo lungo questo percorso. Altrimenti, il richiamo alla sovranità monetaria –
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Riccardo Bellofiore
che molti economisti di sinistra corteggiano, quando non cavalcano – sarà il
richiamo del sovranismo. E non è un bel richiamo.
100. Come dichiara un bell’appello per una Europa egualitaria (e federale), con
primi firmatari Karl Heinz Roth e Zissis Papadimitriou, occorre partire da
un collegamento delle contro-iniziative dal basso, di resistenza sociale; da
una progressiva estensione alle classi subalterne e alle classi medie meno
agiate di un programma di tutela dei loro interessi materiali; da una alleanza
con i movimenti sociali contro le tentazioni eurocentriche, o le derive nazionalistiche o populistiche.
Una poesia di T.S. Eliot, The Hollow Men, si chiude su questi versi: «This is the way the
world ends, / Not with a bang but a whimper». Consentitemi una parafrasi: È così che
muore l’euro, non con un botto ma con un gemito. Allo stato, penso che sia molto difficile che la prospettiva Draghi-Merkel proceda senza intoppi perché non si vede da dove ci
si possa globalmente procurare la domanda finale. Prendo però estremamente sul serio il
‘whatever it takes’ di Draghi, la difesa dell’investimento politico e sociale sulla costruzione dell’euro.
Napoleoni vedeva nel ‘vincolo esterno’ qualcosa che poteva e doveva spingere a una
ridefinizione strutturale della nostra economia e società. È una prospettiva che prenderei
con un grano (abbondante) di sale, pari a quello con cui prenderei la proposta alternativa
della svalutazione come ‘salvezza’ del Paese e della democrazia. Napoleoni ha sempre
valorizzato quello che chiamava ‘vincolo interno’: le lotte distributive, ma anche nella
produzione, dei lavoratori e delle lavoratrici (un punto che Bertinotti ha spesso ripreso).
Napoleoni ha però anche sempre avvisato: guardate, questo non basta. Dobbiamo
proporre un ‘altro’ modello. «Credo che le sinistre siano giunte ad un punto di snodo, ad
un bivio, in cui si presentano due strade: una strada consiste nel tentare di risolvere meglio degli altri i problemi che gli altri si pongono […]. L’altra strada è quella di mutare in
maniera radicale le prospettive, gli obiettivi e perciò anche gli strumenti, di contrapporre
veramente al modello degli altri un altro modello». Oggi non bastano la pura e semplice
reflazione, o il ritorno al keynesismo. Occorre un altro modello di economia e società. Il
mio richiamo a Minsky sta in quella ispirazione.
È un’ispirazione utopistica? Possibile. Va intesa come la intendeva Gramsci al tempo
delle Tesi di Lione. Non un programma di governo, oggi improbabile. Semmai un programma su cui raccogliere le forze, organizzando lotte in cui i soggetti sociali plurali, su
scala transnazionale, si connettono tra di loro: in una lotta progressivamente sempre più
di massa, che apra ad un coerente orizzonte alternativo allo stato presente. Fare questa
cosa non è la stessa cosa che convocare bei convegni, non è scrivere bei saggi, non è pronunciare belle lezioni. Richiede di avviare, qui e ora, senza garanzie di successo, un lavoro sociale e politico che, a tutt’oggi, non siamo ancora stati in grado neanche di iniziare a
pensare davvero. È ora. Se non ora, quando?
Not with a Bang but a Whimper: a che punto è la crisi?
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2008-2013: il fallimento della governance finanziaria
del bio-capitalismo cognitivo*
Andrea Fumagalli, Università degli Studi di Pavia
[email protected]
Il mio intervento non sarà così ampio e articolato come quello di Riccardo Bellofiore,
né ha lo scopo di presentare eventuali soluzioni alla situazione di crisi che stiamo vivendo. Ha piuttosto l’ambizione – anche sulla base degli intendimenti di questo convegno e dei loro organizzatori (che ringrazio per la loro disponibilità) – di proporre una
cornice di carattere teorico/interpretativo che consenta di comprendere i fatti che Bellofiore ha più che correttamente descritto. Tale scopo è dettato dalla consapevolezza che
questa crisi è sicuramente la crisi più rilevante da quando il sistema di produzione capitalistico è diventato l’organizzazione economica di riferimento (almeno per quanto riguarda prima i nostri territori dell’Europa e del Nord America, e poi adesso su scala
mondiale).
Il mio punto di partenza è il seguente: negli ultimi trent’anni c’è stato un cambiamento strutturale, e di conseguenza storicamente irreversibile, che ha interessato i capisaldi del sistema di produzione capitalista: il rapporto capitale-lavoro come fonte del
processo di valorizzazione e la struttura proprietaria alla base della gerarchia sociale,
che dai mezzi di produzione trasla verso il controllo dei flussi tecnologici (proprietà
intellettuale) e finanziari.
Analizziamo il primo punto.
Oggi siamo di fronte a un cambiamento del processo di valorizzazione, a una metamorfosi del rapporto capitale-lavoro. Potremmo rappresentare questo passaggio, ancora in
corso, in diversi modi; diverse possono essere infatti le analisi e questa crisi ne è testimonianza. Dal punto di vista di analisi di teoria economica, potremmo interpretarlo come
l’evoluzione – non indolore – da un’economia monetaria di produzione a un’economia
finanziaria di produzione. La prima è già analizzata da Marx nel capitolo I del libro II de
Il Capitale (intitolato Il ciclo del capitale monetario), poi da Schumpeter e infine da Keynes con il termine di business economy o monetary production economy. In tale contesto, il processo di valorizzazione è essenzialmente diviso in tre fasi: la prima è costituita
dalla funzione creditizia sotto il controllo dell’autorità monetaria, unica istituzione adibita
al monopolio di emissione della moneta: la moneta credito creata finanzia così l’attività
di investimento, che è prevalentemente di tipo industriale, basato sul sistema fabbrica, la
*
Sono debitore per suggerimenti e commenti a Orsola Costantini e Alessandro Caiani, dottorati a Pavia in
Economia, costretti in altri ambiti e luoghi per fare attività di ricerca, nonché al supporto psichedelico dei
Grateful Dead, Jimi Hemdrix e The Phish.
20
Andrea Fumagalli
cui organizzazione è in buona parte basata sulla divisione smithiana del lavoro tramite le
tecniche tayloristiche di produzione (seconda fase).
La produzione deve quindi realizzarsi sui mercati finali di sbocco attraverso
l’attività di consumo (terza fase). Lo schema è: denaro-merce-denaro (D-M-Dƍ), dove
l’origine del plusvalore avviene all’interno del rapporto di produzione (seconda fase).
Nel caso di difficoltà nella fase di realizzazione (in particolare, a causa di carenza
di domanda), due fattori di compensazione possono intervenire per garantire la stabilità
del processo di accumulazione e un livello soddisfacente di profitto: il primo è costituito dall’intervento pubblico (Stato), con il fine di aumentare discrezionalmente la domanda in condizioni di deficit spending;1 il secondo è costituito dai mercati finanziari,
in grado di riallocare il risparmio dalle famiglie ai soggetti economici più indebitati,
quindi Stato e Imprese, consentendo in tal modo la realizzazione di profitti monetari. Il
concetto fondamentale è che non c’è accumulazione se non c’è indebitamento.
Questo modello, denominato paradigma taylorista-fordista-keynesiano (taylorista
per l’organizzazione della produzione, fordista per il tipo di redistribuzione dei redditi
in grado di coniugare un consumo di massa a una produzione di massa – tramite un salario che non è più esito dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro ma diventa variabile contrattuale regolata dai rapporti di forza o di cooperazione tra capitale e lavoro – e
keynesiano, perché tramite le politiche di welfare, monetarie, industriali si sostiene la
domanda e il processo di accumulazione, ecc.), va in crisi nella seconda metà degli anni
’60 negli Stati Uniti e nella prima metà degli anni ’70 in Europa.
Si attua così una fase di trasformazione e transizione che dura fino agli anni ’90
che possiamo denominare fase post-fordista, dove prefisso ‘post’ sta a indicare che non
ci troviamo più nella fase precedente, ma non si è ancora delineata quella nuova. È solo
a metà anni ’90 che comincia a farsi strada un nuovo paradigma di valorizzazione, che
fa perno su nuove economie di scala e su attività produttive caratterizzate da crescenti
gradi di immaterialità e/o che utilizzano elementi di immaterialità. Nuovi fattori produttivi immateriali si affacciano, modificando le forme di organizzazione e di estrazione di
valore, come la conoscenza e lo spazio (virtuale e reale). È in questa fase che diventano
nevralgiche le economie di apprendimento e di relazione.
Queste economie sono dinamiche e altamente flessibili e modificano la prestazione
lavorativa. La vita viene messa sempre più al lavoro e si assiste a una forma di estensione della base di accumulazione e di valorizzazione: la differenza tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo diventa sempre meno netta e più labile. Molte attività considerate tradizionalmente improduttive diventano produttive e parzialmente salarizzate
(pensiamo al lavoro di cura). Anche altre dicotomie classiche del paradigma fordista
cominciano a essere messe in discussione: ad esempio quella tra produzione e riproduzione e tra produzione e consumo.
Negli ultimi vent’anni siamo testimoni, e su questo mi sento di dissentire dalla relazione di Riccardo Bellofiore, non solo di un cambiamento nelle forme di sussunzione
reale come esito del diffondersi del nuovo paradigma tecnologico dell’ICT in un conte1
L’indebitamento statale era funzionale al mantenimento dei profitti privati dell’impresa. Ed è in base a ciò
che si poteva giustificare l’adozione di politiche keynesiane, soprattutto nel secondo dopoguerra. Ricordiamoci, infatti, che in un’economia capitalista, è l’indebitamento che crea l’accumulazione.
2008-2013: il fallimento della governance del bio-capitalismo cognitivo
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sto di comando della finanza dalla finanza (l’affermazione di Riccardo Bellofiore «sussunzione reale del lavoro alla finanza» è al riguardo del tutto pertinente), ma anche a
una nuova forma di accumulazione originaria che si presenta nelle forme di sussunzione
formale, e più nello specifico nello sfruttamento delle facoltà vitali, facoltà cognitive,
relazionali, sessuali, affettive, ecc., che, venendo messe al lavoro, producono valore.
Siamo entrati nella fase del bio-capitalismo cognitivo-relazionale.
L’attuale contesto è così caratterizzato dalla compresenza di forme di sussunzione
reale e formale, che definiscono le modalità contemporanee dello sfruttamento (che non
si riduce più al solo tempo di lavoro, ma ingloba l’intera vita) e non è semplicemente il
risultato della loro somma: la sussunzione reale indotta dallo sfruttamento delle economie di apprendimento e di rete e la sussunzione formale indotta dalla vita messa al lavoro si alimentano a vicenda, dando vita a una nuova forma di sussunzione, che definirei sussunzione vitale. Tuttavia, la sussunzione vitale della vita (e non solo del lavoro)
non significa che la vita sia completamente sottomessa al capitale. Spazi di eccedenza e
forme di conflitto sono sempre all’opera.
Veniamo ora al secondo punto.
La trasformazione nei processi di valorizzazione è accompagnata da un cambiamento
delle strategie produttive legato ai processi di finanziarizzazione e di globalizzazione.
La dinamica nel tempo delle quote degli assets intangibli e tangibili dimostra come
anche l’attività di investimento, al pari del lavoro e della produzione (e come potrebbe
essere altrimenti?), è sempre più caratterizzata da elementi cognitivi e immateriali. È
qui che si pone il tema dei cambiamenti nella struttura proprietaria: la macchina fisica,
tangibile, l’investimento fisico, materiale, classico dell’organizzazione tayloristica della
produzione lascia sempre più spazio agli investimenti intangibli, ovvero comunicazione, marchi, brevetti, R&S, reti relazionali.
Figura 1. Quote di investimenti tangibili e intangibili dell’indice S&P 500
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Andrea Fumagalli
Alcuni dati (riguardanti soprattutto gli Stati Uniti) nella Figura 1 mostrano come nel
decennio 1985-1994 ci sia stata una crescita assai accelerata della quota di investimenti
intangibili rispetto a quella degli investimenti tradizionali, fisici.
Figura 2. Capitale impegnato negli USA Venture Funds (miliardi di dollari), 1980-2009
(Fonte: National Venture Capital Association 2010)
La Figura 2 mostra invece, sempre con riferimento agli Usa, le modalità di finanziamento
di un investimento sempre più intangibile, a riprova che il processo di
finanziarizzazione (qui analizzato tramite i dati sull’aumento dei fondi di investimento
«venture capital») non è più solo la riallocazione del risparmio ma comincia a diventare
la principale fonte dell’investimento, soprattutto per le nuove imprese high-tech degli
anni ’90, legate allo sviluppo di Internet: dopo lo scoppio della bolla di Internet, nel
biennio 2001-2002, la ripresa seguente non raggiungerà più i risultati precedenti. Si
assiste cioè a un cambio della convenzione finanziaria, che non sarà più basata su un
venture capitalism legato all’innovazione nel campo della conoscenza, ma convergerà
verso nuovi elementi costitutivi: l’entrata della Cina nel WTO nel dicembre 2001
(convenzione cinese) e l’ideologia dell’individualismo proprietario, legato ai processi di
sfruttamento del territorio e dello spazio (gentrification e convenzione immobiliare).
Entrambe queste due convenzioni, che stanno alla base della ripresa dei mercati
finanziari sino alla nuova crisi del 2007-2008, hanno a che fare con lo spazio, esito
dello sviluppo delle reti internazionali di subfornitura e di strutturazione dei processi di
globalizzazione che modificano le gerarchie geopolitiche e geoeconomiche
internazionali: inizia così il processo ancora in atto, accentuato dalla crisi finanziaria
attuale, che mette fine all’unilateralismo economico-finanziario occidentale a vantaggio
dell’emergere di diversi e nuovi potentati economici (sud est asiatico, Cina e India, Sud
Africa, Russia – parzialmente – e, negli ultimi anni, l’America Latina).
Allo stesso tempo, la convenzione immobiliare favorisce il processo di finanziarizzazione (privata) dei servizi di base (la casa) e dei servizi di welfare. Ciò significa che i
mercati finanziari diventano il cuore pulsante del bio-capitalismo cognitivo: intervengono direttamente nel finanziamento dell’attività produttiva, sostituiscono il welfare
2008-2013: il fallimento della governance del bio-capitalismo cognitivo
23
state keynesiano nel fornire servizi sociali privatizzati (non più universalmente, ma a
pagamento – ovviamente solo a chi se li può permettere) attraverso il fatto che producono plusvalenze e intervengono in modo diretto (seppur distorto) nella distribuzione
del reddito.
Ma queste plusvalenze cosa sono? Moneta creata dal niente? Simile a quella creata
dalla banca centrale? Che tipo di creazione di moneta è? La risposta non è univoca.
Dobbiamo tenere conto che nel frattempo è successo qualcosa di molto importante, anche se poco ricordato: il crollo del sistema Bretton Woods, avvenuto nell’agosto 1971,
in piena crisi fordista. Nel momento stesso in cui il rapporto moneta-oro (35$ per oncia
d’oro) viene meno, l’unità di misura del valore economico diventa completamente slegata da qualsiasi forma di materialità, diventa, come direbbe Marx, pura moneta segno.
E allora si pone la questione, allo stesso tempo economica ma soprattutto politica, di
chi controlla questa moneta segno. Una delle risposte, di stampo neoliberista, era ed è:
il mercato. Cosa di meglio del mercato per controllare l’unità di misura del valore? E in
particolare si fa riferimento al mercato finanziario, dove vige un gran numero di operatori, c’è flessibilità dei prezzi e opera in condizioni (apparentemente) di concorrenza,
quindi in modo oggettivo, neutrale e imparziale.
In realtà i mercati finanziari non sono qualcosa di imparziale e neutrale, ma sono espressione di una precisa gerarchia di potere: lungi dall’essere concorrenziali, essi nascondono una piramide, che vede, al vertice, pochi operatori finanziari in grado di controllare oltre il 65% dei flussi finanziari globali e, alla base, una miriade di piccoli risparmiatori e operatori finanziari che svolgono una funzione passiva. Tale struttura di
mercato consente che poche società siano in grado di indirizzare e condizionare le dinamiche di mercato. Le società di rating (spesso colluse con le stesse società finanziarie),
inoltre, ratificano, in modo strumentale, le decisioni oligarchiche che di volta in volta
vengono prese. Quando si leggono affermazioni del tipo «sono i mercati a chiederlo», «è
il giudizio dei mercati» e amenità del genere, dobbiamo renderci conto che tali cosiddetti
mercati, presentati ideologicamente come entità metafisica, neutra e quindi oggettiva, non
sono altro che espressione di un preciso potere. Questo potere non è più basato solo sulla
proprietà privata, ma sulla capacità di controllare la dinamica dei flussi finanziari, tramite
il controllo di portafogli finanziari sempre più enormi e concentrati in poche mani. Il potere passa dalla proprietà dei mezzi di produzione al controllo del denaro altrui e, in presenza di innovazione tecnologica, ai diritti di proprietà intellettuali.
Ne consegue che la vera governance politica (la forma attuale del potere) non sta
più nelle istituzioni politiche (sempre meno rappresentative), ma nella gerarchia finanziaria e tecnologica, dettata dagli esiti della speculazione finanziaria.
Non è un caso che oggi le politiche delle banche centrali siano essenzialmente dipendenti dalle aspettative che le convenzioni finanziarie generano attraverso l’operato
degli operatori istituzionali. Una dipendenza che è tanto più elevata quanto maggiore è
l’‘autonomia’ delle Banche Centrali dalle istituzioni politiche.
Assistiamo a un processo in cui la rendita finanziaria tende a sussumere sempre il
reddito di impresa (profitto) e, parzialmente, il reddito da lavoro (salario), a testimonianza che l’attività di produzione sfrutta sempre più la cooperazione sociale delle
vite messe al lavoro, appropriandosene a valle del processo produttivo.
24
Andrea Fumagalli
Il paradosso (solo apparente) è che mentre il lavoro remunerato o certificato come lavoro produttivo si svalorizza, soprattutto quello ad alto contenuto relazionale e
cognitivo (quello che un tempo si chiamava lavoro intellettuale), aumenta invece il
tempo di vita che gratuitamente viene messo a valore, ingenerando in tal modo un
meccanismo di sfruttamento e di appropriazione. L’attività di opus, di otium e di svago diviene gratuitamente produttiva, spingendo in basso la remunerazione del labor,
soprattutto laddove esiste un dispositivo disciplinare e poliziesco molto forte (vedi il
lavoro migrante) e/o dove operano condizioni di ricattabilità, incertezza, debito, controllo sociale e paura (condizione precaria). Il «lavoratore traumatizzato» che ci ricordava Bellofiore è tale perché in primo luogo è un lavoratore/trice «espropriato» in
quanto vitalmente sussunto.
Vi è quindi un asse perverso che lega la grande finanza con la condizione di precarietà: da un lato l’attività speculativa si basa sull’espropriazione del lavoro vivo
contemporaneo ed è dal suo ‘sangue’ che traggono linfa le plusvalenze di oggi,
all’altro è misura, imperfetta e spesso fallace (come la crisi ci ha mostrato) della produttività della cooperazione ‘sociale’, una cooperazione che, fintanto che rimane quasi esclusivamente precaria (come in Italia), non è in grado di sfruttare al meglio quelle economie di apprendimento e di rete che sono oggi alla base della valorizzazione
capitalistica.
Inoltre, la grande finanza e la precarietà sono legati dal fatto che non sempre il
comando della prima sulla seconda implica un forma di proprietà: piuttosto è un comando basato sul controllo e l’esclusività della gestione. I potentati oligarchici rappresentati da una decina di multinazionali della finanza (da Goldman Sachs a Bank of
America Merrill Lynch, da Deutsche Bank a BNP-Paribas, da Credit Suisse a HSCB,
da Ubs a JPMorgan Chase) sono in grado di condizionare lo sviluppo di convenzioni
finanziarie senza avere la proprietà diretta dei titoli finanziari che compongono il
proprio portafoglio, così come la vita precaria, anche quando non direttamente subordinata al comando del capitale, può essere fonte di valore per il sistema delle grandi
imprese che la organizza (pensiamo ad esempio al settore dei social media e della rete
in generale).
Tale valorizzazione, creando plusvalenze, genera liquidità, alimentando un moltiplicatore finanziario che tende a sostituire il moltiplicatore keynesiano basato sul
deficit spending, con una differenza sostanziale: il moltiplicatore finanziario genera
polarizzazione e distorsione nella distribuzione del reddito, mentre il moltiplicatore
del reddito di Keynes era volto a favorire una più equa distribuzione del reddito. Il
processo di distribuzione che è generato dal processo di finanziarizzazione (economia
finanziaria di produzione) mette in moto un processo irreversibile di polarizzazione
dei redditi, con il conseguente e ovvio effetto di discriminare l’accedere ai servizi
sociali di base (sanità, casa, istruzione, mobilità).
Un’economia finanziaria di produzione tende a essere strutturalmente instabile,
in quanto si basa su una condizione insostenibile: gli effetti positivi (ma distorti) del
moltiplicatore finanziario sul livello della domanda aggregata devono essere costantemente in grado di compensare gli effetti negativi sullo stesso livello della domanda
2008-2013: il fallimento della governance del bio-capitalismo cognitivo
25
aggregata indotti dalla crescita della concentrazione nella distribuzione dei redditi e
dalla riduzione del salario mediano.
Affinché ciò sia possibile, è necessario che gli indici finanziari siano costantemente in crescita e tali da mantenere un’elevata distribuzione di plusvalenze: in altre
parole è necessario che il consumo dell’élite più ricca compensi la mancata domanda
della parte più povera e maggioritaria della popolazione.
Tabella 1. Crescita reale dei redditi per gruppi
Nella Tabella 1 (tratta da un lavoro di Picketty e Saez), relativa al periodo 1993-2012,
si evidenzia come nelle fase di espansione, trainata dai mercati finanziari, si assiste a
una rapida polarizzazione dei redditi, che non viene compensata dai momenti di recessione. In particolare, se guardiamo la timida ripresa Usa post 2009, l’incremento di
Pil è andato quasi completamente ad aumentare i redditi del solo 1% della popolazione, mente il restante 99% è rimasto al palo, in una fase di stagnazione. Ne consegue
una profonda concentrazione dei redditi che amplia in modo esponenziale la diseguaglianza nella distribuzione del reddito.
La crisi finanziaria è dunque figlia dell’iniquità del nuovo processo di valorizzazione e della mancanza di un welfare adeguato ai nuovi processi di valorizzazione. Un
26
Andrea Fumagalli
processo di valorizzazione che si basa, in ultima analisi, sullo sfruttamento della vita
messa al lavoro. La schiavitù si è evoluta: ora si chiama lavoro volontario (vedi Expo e
il progetto Garanzia Giovani).
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Quarterly Journal of Economics», 118/1, pp. 1-41. (Versione online dell’articolo,
aggiornata al settembre 2013, URL: <http://eml.berkeley.edu/~saez/saez-UStopincomes2012.pdf>, [data di accesso: 23/07/14]).
La crisi dell’Unione monetaria europea
Problemi e prospettive
Emiliano Brancaccio, Università degli Studi del Sannio
[email protected]
Sarebbe difficile interpretare la crisi dell’Unione monetaria europea senza concentrare l’attenzione su una serie di fenomeni che si registrano fuori e dentro i suoi
confini e che, richiamandoci ai contributi di Myrdal, Graziani e altri, potremmo definire di divergenza.
Stando agli ultimi dati AMECO della Commissione europea,1 tra il 2008 e il
2013 il Prodotto interno lordo reale dell’Eurozona è diminuito di 2,11 punti percentuali, a fronte di una riduzione di 1,24 punti all’interno dell’Unione europea a 27
Paesi. Si rileva inoltre una perdita di circa 5 milioni di posti di lavoro nell’area euro
(í3,37%) e di circa 6 milioni e 200 mila nell’Unione a 27 (í2,72%). Nella comparazione tra Eurozona ed Europa a 27, dunque, quest’ultima va meno peggio.
La divergenza principale, tuttavia, si registra dentro l’Eurozona, tra i suoi Paesi
membri. Tra il 2008 e il 2013 la Germania ha visto crescere il prodotto interno lordo reale del 2,87%, a fronte di riduzioni molto marcate nei cosiddetti Paesi ‘periferici’ dell’eurozona: í2,93% in Irlanda, í6,41% in Spagna, í7,05% in Italia, í7,86%
in Portogallo, per arrivare poi a un crollo della produzione del 23,28% in Grecia.
Questa forbice trova conferma negli andamenti dell’occupazione, che nello stesso
periodo in Germania aumenta di quasi un milione e mezzo di unità, mentre in Spagna, Italia, Grecia, Irlanda e Portogallo precipita di circa 6 milioni e 200 mila unità.
Un’ulteriore divaricazione si rileva nell’andamento delle insolvenze delle imprese. Analizzando i dati di Credit Reform (2013), notiamo che tra il 2008 e il 2012
la Spagna ha fatto registrare un incremento delle insolvenze delle imprese superiore
al duecento percento; per l’Italia il dato si attesta attorno al novanta percento.
Nello stesso arco temporale, invece, la Germania vedeva ridursi la percentuale
di insolvenze. Ancora una volta siamo di fronte a una forbice, che scaturisce da una
serie storica di dati più limitata rispetto a quelli relativi al Pil e all’occupazione ma
che per certi versi risulta ancora più accentuata.
1
Salvo diversamente specificato, i dati riportati in questo articolo sono tratti da AMECO, annual macroeconomic database of the European Commission’s Directorate General for Economic and Financial Affairs
(DG ECFIN), aggiornato a gennaio 2014.
30
Emiliano Brancaccio
Insolvenze delle imprese
Spagna
Portogallo
Irlanda
Italia
Paesi Bassi
Grecia
Belgio
Finlandia
Germania
variazione % 2008-2012
+208,1
+163,3
+117,0
+89,7
+59,5
+25,9
+24,2
+13,1
í3,1
Tabella 1. Fonte: Credit Reform 2013
Trovare precedenti storici per simili divaricazioni non è semplice, almeno in epoca di
pace. Anche per questo motivo è tornata in auge tra i commentatori l’idea di un dualismo
economico tra Paesi cosiddetti ‘centrali’ e Paesi cosiddetti ‘periferici’ dell’Eurozona. Si
tratta di una partizione indubbiamente utile, che tuttavia può ritenersi valida solo in primissima approssimazione. È importante notare, infatti, che anche in alcuni Paesi geograficamente ‘centrali’ la crisi ha lasciato il suo segno: per esempio dal 2008 l’Olanda e
la Finlandia hanno fatto registrare una caduta del Pil reale del 2,84% e del 2,82%, con
cali dell’occupazione rispettivamente del 2,07% e dell’1,74%.
Quali sono le cause di simili divaricazioni? Quali fattori determinano una dinamica
così sbilanciata fra i vari paesi dell’Eurozona? Sembra ragionevole supporre che
l’esplosione di divergenza che si è manifestata negli ultimi anni tragga origine da cause
definibili ‘strutturali’, che devono essersi accumulate nel corso del tempo. Tra le cause
di divergenza un ruolo che non va esagerato ma che a molti sembra rilevante è ricoperto
dai costi monetari del lavoro per unità di prodotto e dalle loro ripercussioni sulla competitività dei sistemi produttivi dei Paesi esaminati. Dalla nascita dell’euro si rileva che
i costi monetari unitari in Italia, Irlanda, Spagna, Grecia e Francia hanno assunto andamenti decisamente divergenti rispetto alla Germania. Dalla metà degli anni 2000
quest’ultima è riuscita addirittura a ridurre in termini assoluti il costo unitario del lavoro, a fronte di incrementi anche piuttosto marcati che si sono registrati negli altri Paesi.
Numerosi studi si sono occupati delle cause di questa divaricazione. In essi in genere si
sottolinea che l’economia tedesca ha visto crescere il denominatore del costo unitario
del lavoro, cioè la produttività del lavoro. Ciò è senz’altro vero: nel corso degli anni
2000 abbiamo registrato in Germania un incremento della produttività significativo. C’è
tuttavia un altro elemento che viene spesso trascurato, non tanto dagli studiosi quanto
piuttosto nell’ambito del dibattito politico e di politica economica. Si tratta del fatto che
la Germania ha potuto tenere così bassi i costi unitari del lavoro anche in virtù di un
rigido controllo del numeratore dei costi, vale a dire di una ferrea politica di deflazione
relativa dei salari. Noi siamo abituati a considerare la Germania un paese contraddistinto da alti salari relativi, il che è ancora vero. Tuttavia, se c’è un modo tipico di prendere
abbagli questo consiste nel soffermare l’attenzione sui livelli delle variabili trascurando
31
La crisi dell’Unione monetaria europea
i loro saggi di variazione. Da questo punto di vista è interessante notare che tra il 1999
e il 2013 i salari nominali sono cresciuti in media del 38,9% nell’area euro, mentre in
Germania sono aumentati di appena il 22,6%. Si tratta dell’incremento più basso
all’interno dell’intera eurozona. Teniamo presente che questa forbice non si spiega
semplicemente con il fatto che in Germania l’inflazione è più bassa. Notiamo infatti che
nello stesso periodo anche la dinamica dei salari reali rivela una divergenza. Nell’area
euro i salari reali crescevano del 5,8%, che già di per sé non costituisce un incremento
storicamente significativo se si considera che stiamo esaminando un arco di tempo superiore al decennio. Eppure la Germania fa di peggio: nello stesso periodo i salari reali
risultano praticamente stagnanti, con un aumento di appena lo 0,8%. Considerando che
questi sono dati medi, si desume che in Germania una parte consistente dei salari reali
deve essere diminuita notevolmente nel corso di questi anni.
1999-2013
Eurozona (18)
Germania
Salario nominale
Variazione %
+38,9
+22,6
Salario reale
Variazione %
+5,8
+0,8
Quota salari
Variazione p.p.
í0,8
í1,9
Tabella 2. Fonte: AMECO European Commission
Ritengo che il dato dei salari debba esser tenuto maggiormente in considerazione. Tra
le cause della crisi dell’Unione monetaria europea bisognerebbe tener conto anche del
fatto che essa manca di meccanismi di coordinamento della contrattazione salariale. In
virtù di questa assenza è inevitabile che si determinino divaricazioni nei costi di produzione tali da avere delle ripercussioni sulla tenuta stessa dell’eurozona. Ciò avviene
specialmente nel caso in cui il Paese più forte dell’Unione, caratterizzato già da una più
accentuata tendenza alla crescita della produttività e del surplus commerciale, decide di
attuare anche una politica di competizione al ribasso dei salari relativi.
Qualcuno aveva tentato nel corso di questi anni di avanzare delle proposte di coordinamento europeo della contrattazione salariale. Erano state proposte soluzioni come il
salario minimo o come lo ‘standard retributivo europeo’ (Brancaccio 2012b). Tuttavia,
negli ambiti nei quali si sarebbe dovuto sviluppare un consenso politico attorno a proposte di coordinamento europeo della contrattazione, l’opposizione tedesca è stata sempre molto forte. Penso ad esempio al dibattito interno al Partito Socialista Europeo, alle
posizioni della socialdemocrazia tedesca, persino alle posizioni dei metalmeccanici tedeschi. Questo deve naturalmente far riflettere anche intorno alle tesi di chi oggi ci esorta a lavorare intorno a nuove ipotesi di internazionalismo del lavoro. Un’esortazione
che in termini generali è da ritenersi sempre valida, beninteso. Ma che non dovrebbe
mai ridursi a mero espediente per eludere le enormi difficoltà che si registrano
nell’attuale fase storica.
Ad ogni modo, proprio in virtù delle tremende divergenze che abbiamo qui elencato,
nell’aprile 2012 il Fondo Monetario Internazionale fece esplicitamente riferimento alla possibilità di una deflagrazione dell’eurozona (International Monetary Fund 2012b).
L’eventualità di un “break-up” dell’euro riceveva così piena e definitiva legittimazione da
32
Emiliano Brancaccio
parte dell’establishment economico internazionale. Non è un caso che proprio nel luglio
2012, appena poche settimane dopo la minacciosa evocazione del FMI, la Banca Centrale
Europea abbia esplicitamente preso posizione sul tema. In un momento in cui i famigerati
spread avevano nuovamente raggiunto livelli palesemente insostenibili, e si dava quasi
per certa l’uscita della Grecia dall’eurozona, il presidente della BCE Mario Draghi fece
una dichiarazione impegnativa: «All’interno del nostro mandato, la Banca Centrale Europea farà tutto ciò che è necessario per preservare l’euro. E, credetemi, sarà sufficiente»
(Draghi 2012).
Fatta salva l’influenza e autorevolezza che possiamo e dobbiamo attribuire a Mario
Draghi e all’istituzione che in questo momento egli rappresenta, la domanda è d’obbligo:
dobbiamo credergli sulla parola? È evidente che nell’ambito di un discorso che pretenda
di esser scientifico un simile privilegio non può esser concesso a nessuno, nemmeno al
presidente della BCE. Del resto, nonostante la stabilizzazione dei mercati finanziari che
ha fatto seguito a questa dichiarazione, vi è ancora chi esprime dei dubbi intorno alla
sostenibilità futura dell’assetto dell’eurozona. Sotto questo aspetto mi permetto di segnalarvi il ‘Monito degli economisti’, un documento pubblicato nel settembre scorso
sul «Financial Times» che è stato sottoscritto da alcuni autorevoli esponenti della comunità accademica internazionale: Dani Rodrik, Willi Semmler, Alan Kirman, James Galbraith, Wendy Carlin, Mauro Gallegati e altri (cfr. Brancaccio, Realfonzo 2013). Questo
documento ci dice che un ampio gruppo di economisti, sebbene provenienti da scuole
di pensiero diverse tra loro, convergono intorno a una tesi che essenzialmente si può
sintetizzare in due proposizioni. La prima è che le politiche di austerità, così come le cosiddette riforme strutturali, non sembrano produrre convergenza tra i Paesi dell’eurozona.
Anzi, per certi versi sembra che queste politiche stiano producendo addirittura una divergenza ancor più accentuata tra i Paesi dell’Unione. A fronte di questa constatazione, gli
economisti firmatari del ‘Monito’ hanno dichiarato che proseguendo di questo passo i
decisori politici potrebbero a un certo punto trovarsi con nient’altro in mano che una
scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dalla zona euro. A fronte di una politica
economica che sembra addirittura accentuare le divaricazioni macroeconomiche, il rischio è che ci si trovi in ultima istanza in una situazione in cui l’unica scelta sia decidere come gestire la deflagrazione dell’attuale assetto dell’eurozona.
Perché questi economisti giungono a una simile conclusione? Innanzitutto perché
registrano una serie di errori di sottostima circa gli effetti delle politiche di austerità. Lo
stesso Fondo Monetario Internazionale ha dato conto di una serie di rilevanti errori di
sottostima circa gli effetti delle cosiddette contrazioni fiscali. Prendendo il biennio
2010-2011 ed esaminando le previsioni circa l’effetto sul Pil di una restrizione dei bilanci pubblici dell’1% del Pil, il Fondo Monetario Internazionale ha riconosciuto di aver
commesso un errore di sottostima dell’effetto depressivo delle politiche di austerity superiore all’1% del Pil. Il Fondo ha rilevato che anche la Commissione europea ha commesso un errore di sottostima simile, nell’ordine dello 0,8% (International Monetary
Fund 2012a). Questi errori hanno dato luogo a una straordinaria sequenza di previsioni
sbagliate. L’errore più marchiano è forse quello commesso dal Fondo Monetario Internazionale riguardo alla Grecia, con riferimento all’anno 2011. Ancora nel settembre
2010, il Fondo Monetario Internazionale prevedeva una caduta del Pil greco nel 2011
33
La crisi dell’Unione monetaria europea
del 2,7%; e ancora a pochi mesi dalla fine del 2011, esattamente nel mese di luglio, il
Fondo Monetario Internazionale non si discostava molto dalla previsione originaria,
ipotizzando una caduta del Pil del 3,9%. Ebbene, la realtà è che il Pil della Grecia alla
fine dell’anno era piombato in basso addirittura del 6%. Parliamo di un errore del 3,3%
a distanza di poco più di un anno, e un errore che a distanza di pochissimi mesi era ancora del 2,1%.
Notiamo pure che la Commissione europea non è stata da meno. Qui di seguito sono
riportati gli scarti tra le previsioni della Commissione pubblicate nella primavera
dell’anno precedente, e gli andamenti effettivi del Pil in Italia e in Grecia per il triennio
2011-2013. Siamo al cospetto di errori che arrivano a quasi quattro punti percentuali per
quanto riguarda l’Italia e addirittura a sette punti e mezzo con riferimento alla Grecia. Di
fronte ad abbagli simili, gli economisti usano dire che nemmeno il ‘random walk’ di un
ubriaco avrebbe potuto far di peggio.
previsione
Pil Italia
2011
2012
2013
Pil Grecia
2011
2012
2013
effettivo
errore
+1,4
+1,3
+0,4
+0,4
í2,4
í1,8
1,0
3,7
2,2
í0,5
+1,1
+0,0
í7,1
í6,4
í4,2
6,6
7,5
4,2
Tabella 3. Fonte: European Commission economic forecast – Spring 2011-12-13
Errori ulteriori sono stati commessi con riferimento alle previsioni circa l’andamento
del deficit e del debito pubblico in rapporto al Pil. Se esaminiamo le previsioni della
Commissione europea circa l’andamento del rapporto debito/PIL in Grecia, l’errore è
stato del 21,3% nel 2011. Per quanto riguarda l’Irlanda nel 2011, l’errore è stato del
17,9%, per quanto riguarda la Spagna nel 2012 l’errore è stato del 15,6%, e per l’Italia
di Monti, l’errore nel 2013 è stato del 7,3%. Naturalmente, con errori di queste proporzioni le lettere di intenti, i vari programmi condizionali e i programmi nazionali di riforma diventano poco credibili. Infatti, gli obiettivi che vengono fissati in quei programmi vengono puntualmente disattesi.
Quali sono le cause di questa sistematica sottostima degli errori di previsione? La
tesi del Fondo Monetario Internazionale è che probabilmente siamo al cospetto di una
sottostima del cosiddetto moltiplicatore fiscale, ovvero quella teoria keynesiana secondo cui una contrazione fiscale può determinare una caduta del Pil superiore alla contrazione fiscale originaria (International Monetary Fund 2012a; cfr. anche Blanchard,
Leigh 2013). In effetti i moltiplicatori fiscali sono stati sistematicamente sottostimati
nel corso di questi anni. È andata infatti di moda la tesi opposta, quella della ‘austerità
espansiva’, secondo cui le politiche restrittive avrebbero ripristinato la fiducia dei mercati, ridotto i tassi d’interesse e rilanciato la crescita economica. Questa moda ha pre-
34
Emiliano Brancaccio
valso non solo in ambito politico ma anche nelle sedi universitarie, sia a livello di ricerca che a livello didattico. Basti notare che la gran parte dei programmi, soprattutto quelli delle lauree specialistiche, dei master e dei dottorati, si sofferma su modelli che espungono completamente qualunque ipotesi keynesiana dalla loro stessa struttura logica. A questo riguardo, sarebbe opportuno porsi qualche interrogativo non solo riguardo
alla logica degli indirizzi di politica economica, ma anche riguardo ai programmi di
insegnamento e alle linee di indirizzo della ricerca scientifica (Brancaccio 2012c).
L’enorme scarto tra previsioni da un lato e risultati effettivi dell’austerity dall’altro
sembra aver suscitato qualche dubbio in seno alle istituzioni europee. Oggi nell’establishment europeo non è più molto raro trovare soggetti disposti ad ammettere che
forse le politiche di austerità sono andate un po’ troppo oltre i limiti auspicabili. Lorenzo
Bini Smaghi, ex-membro del direttorio della BCE, è tra coloro i quali dicono che di austerità, forse, se n’è fatta un po’ troppa. Bini Smaghi, con altri, propone allora una nuova
strategia: l’austerità deve proseguire, sebbene in termini più blandi rispetto a quanto fatto
finora, ma soprattutto essa dovrà essere affiancata da un vasto programma di riforme
strutturali, con particolare riferimento al mercato del lavoro. L’idea è semplice: aumentare la flessibilità del lavoro al fine di aumentare l’occupazione. Personalmente l’ho definita ‘precarietà espansiva’. La logica dell’argomentazione, beninteso, non è quella banale e
fuorviante secondo cui la precarizzazione dei contratti di lavoro, in quanto tale, determinerebbe una riduzione della disoccupazione. Questa idea, come è noto, è stata messa fortemente in discussione dalle ricerche empiriche di un intero ventennio (Blanchard 2006;
cfr. anche Brancaccio 2012a). Il ragionamento alla base di questa nuova strategia è
dunque più articolato. I Paesi che hanno visto crescere maggiormente i costi unitari del
lavoro dovrebbero oggi sottoporsi a delle rigorose, ulteriori liberalizzazioni del mercato
del lavoro, che rendano i salari flessibili verso il basso, consentano quindi di realizzare
una deflazione dei salari e auspicabilmente dei prezzi, il che dovrebbe ripristinare migliori condizioni di competitività con la Germania e con i Paesi relativamente più forti
dell’Unione.
Il guaio è che anche la strategia della ‘precarietà espansiva’ sembra rivelare delle incoerenze logiche. Secondo Blanchard, per ottenere una effettiva convergenza i Paesi caratterizzati da costi unitari del lavoro più alti dovrebbero attuare una deflazione nell’ordine del
20-30%. Sotto questo aspetto è interessante notare come lo stesso Blanchard abbia riconosciuto che deflazioni di queste proporzioni suonino inconsuete: egli dice ‘esotiche’. Al
tempo stesso, però, Blanchard aggiunge che in fin dei conti una deflazione dei salari e dei
prezzi non differisce da una svalutazione di successo (Blanchard 2007; cfr. Blanchard
2012). Da ciò egli sembra derivare la conclusione che in fondo si può fare a meno della
svalutazione, restando nell’eurozona, purché si accetti una deflazione. In realtà
l’analogia di Blanchard è ardita, e merita di essere criticata. A questo scopo possiamo
prendere spunto dal concetto di ‘deflazione da debiti’, originariamente avanzato da
Irving Fischer e oggi riproposto, in chiave moderna, da Krugman e altri (Eggertson,
Krugmann 2012). Il punto su cui questi economisti si soffermano è che la deflazione riduce il valore nominale dei redditi in rapporto ai debiti che sono stati contratti in passato,
e quindi determina un effetto negativo sulle capacità di rimborso. Sotto questo aspetto,
sussiste una differenza tra deflazione e svalutazione: la prima lascia il valore nominale
La crisi dell’Unione monetaria europea
35
dei debiti invariato, e quindi rischia di scatenare un’ondata di insolvenze; la seconda, invece, implica che la maggior parte dei debiti sia rinominata nella nuova valuta. Deflazione e svalutazione non sono esattamente la stessa cosa. Pretendere quindi di far fare alla
prima il compito che di solito spetta alla seconda può essere molto pericoloso.
In definitiva, possiamo affermare che sia la vecchia ricetta della austerità espansiva, sia la nuova dottrina della precarietà espansiva, non sembrano in quanto tali garantire la convergenza macroeconomica necessaria alla stabilizzazione dell’area euro. Anzi,
sotto certi aspetti potrebbero addirittura accrescere l’instabilità dell’Unione. Alla luce
di queste riflessioni, i firmatari del ‘Monito degli economisti’ continuano a nutrire forti
dubbi sulla sostenibilità dell’attuale assetto istituzionale dell’eurozona. Il problema della crisi dell’Unione resta dunque attualissimo e merita pertanto di essere esaminato in
dettaglio. Per esempio, sembra lecito chiedersi: quali potrebbero essere gli effetti di una
eventuale uscita dall’eurozona? Tale questione è stata affrontata, almeno fino a oggi, in
termini un po’ manichei. Da un lato abbiamo coloro i quali condividono la tesi di Mario
Draghi secondo cui l’uscita dalla zona euro implicherebbe una ‘grande inflazione’
(Draghi 2011). Da questa previsione essi traggono spunto per immaginare uno scenario
in cui la gente si recherebbe a far la spesa con carriole colme di denaro deprivato di valore a causa di un’inflazione spaventosa. Tra questi, inoltre, vi è chi sostiene che
l’uscita dalla moneta unica e la messa in discussione del mercato unico europeo riaprirebbero il vaso di Pandora dei conflitti nel continente e potrebbero persino sfociare in
una guerra. Dall’altro lato abbiamo quelli secondo i quali l’uscita dall’euro sarebbe una
grande panacea per tutti i mali. Si tratta di analisi fondate o dei discutibili slogan di opposte tifoserie? Forse è giunto il tempo di sollecitare una discussione un po’ più articolata su questo argomento.
Innanzitutto, la storia passata non ci autorizza a sostenere che le unioni doganali
basate sul libero scambio, né tantomeno le unioni valutarie, siano in quanto tali garanzie di pace tra i popoli. Basti notare che alla vigilia della Prima guerra mondiale vigeva
il Gold Standard, un regime di cambio fisso per più di un verso simile all’euro, e inoltre
sussisteva piena libertà di circolazione internazionale dei capitali, come accade oggi nel
mercato unico europeo. Inoltre, ci sono ragioni per ritenere che uno dei fattori che crearono i presupposti per la Grande Depressione, e quindi per la Seconda guerra mondiale,
fu l’ostinazione con cui alcuni Paesi cercarono di tornare al Gold Standard. Dunque,
stabilire delle correlazioni tra regimi di cambi fissi e salvaguardia della pace appare
azzardato. Al tempo stesso, a coloro i quali sostengono che il cambio flessibile rappresenta la panacea dei nostri mali, bisognerebbe elencare i numerosi casi di sganciamento
da un regime di cambio fisso che non hanno affatto prodotto risultati macroeconomici
particolarmente brillanti.
Sintetizzando al massimo, potremmo affermare che le uscite da aree valutarie diventano in alcune circostanze inevitabili, ma che esistono poi modi alternativi di gestirle. Riguardo a tali modi alternativi, mi limito qui a elencare due problematiche. La prima verte su quello che Paul Krugman (2000) ha definito un rischio di ‘fire sales’, essenzialmente di svendita dei capitali nazionali. Da un lato, infatti, l’uscita da un’area
valutaria e la conseguente svalutazione possono comportare, a date condizioni, un incremento di competitività nazionale. Dall’altro lato, tuttavia, la svalutazione determina
36
Emiliano Brancaccio
anche una caduta del valore dei capitali nazionali. A questo proposito, vale la pena ricordare che in Italia siamo stati campioni in tema di acquisizioni estere a buon mercato:
nel corso degli anni ’90, in seguito alla svalutazione del 1992, il massiccio programma
di privatizzazioni diede luogo anche a una serie di acquisizioni estere di capitale nazionale. Col senno di poi, vi è chi ritiene che non fu una decisione fausta per le prospettive
del sistema produttivo nazionale. Dunque, quando si abbandona un’area valutaria e si
svaluta la moneta, occorre decidere se concedere piena libertà alle possibilità di acquisizione estera a buon mercato dei capitali nazionali oppure introdurre vincoli alle acquisizioni estere. Questo è certamente un tema che andrebbe affrontato e analizzato.
La seconda problematica che vorrei citare riguarda gli effetti delle diverse, possibili modalità di gestione di una uscita da un’area valutaria sulle diverse classi sociali. Il
tema è estremamente complesso. Possiamo provare ad accennarvi esaminando i possibili effetti dell’uscita sui salari reali e sulla quota salari. A questo proposito, con la collega Nadia Garbellini abbiamo selezionato un campione di 28 episodi di uscita da regimi di cambio e relative svalutazioni avvenuti tra il 1980 e il 2013 (Brancaccio, Garbellini 2014b; cfr. anche Brancaccio, Garbellini 2014a, e per una versione maggiormente
divulgativa Brancaccio, Garbellini 2014c). La ricerca ha prodotto risultati interessanti,
che smentiscono molti luoghi comuni del dibattito sulla moneta unica, provenienti sia
dal fronte dei pro-euro che degli anti-euro. Per esempio, la previsione di Draghi di una
‘grande inflazione’ può esser valida per i Paesi meno sviluppati ma nei Paesi ad alto
reddito procapite non sembra trovare riscontri storici adeguati: le uscite passate, infatti,
hanno dato luogo a incrementi relativamente contenuti dell’inflazione mediana, di poco
superiori ai due punti percentuali nell’anno dell’uscita e oltretutto tendenti a essere pienamente assorbiti negli anni successivi.
Crisi valutarie
(1980-2013) e variazioni
mediane della inflazione
Tutti i Paesi
Paesi ad alto reddito
Nell’anno dell’uscita
+14,0
+2,2
Confronto
5 anni prima
vs 5 anni dopo
+2,9
í2,3
Tabella 4. Fonte: Brancaccio, Garbellini (2014b)
Ciò non significa tuttavia che i salari siano stati salvaguardati. Nei Paesi ad alto reddito,
l’uscita risulta correlata a riduzioni medie del salario reale di circa quattro punti percentuali nell’anno dell’uscita, che vengono poi assorbite nei cinque anni successivi; la quota salari invece continua a diminuire e dopo cinque anni risulta più bassa di oltre cinque
punti percentuali rispetto al livello precedente all’uscita. Inoltre, in tutti i casi i salari reali
e la quota salari si situano su un sentiero più basso rispetto a quello antecedente all’uscita
dall’area valutaria. Ma il risultato forse più rilevante è che l’impatto dell’uscita su queste
variabili risulta molto diversificato tra i Paesi esaminati, e sembra esser fortemente legato
alle diverse scelte di politica economica assunte nel corso della transizione dal vecchio al
nuovo regime di cambio. Sembra dunque evincersi che un’eventuale deflagrazione della zona euro può essere gestita in vari modi, con ricadute diverse sui diversi gruppi so-
La crisi dell’Unione monetaria europea
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ciali. Ad esempio, può essere gestita senza alcun meccanismo di salvaguardia del potere d’acquisto dei salari oppure, alternativamente, ripristinando o riproducendo dei meccanismi di salvaguardia dei salari stessi. Il nostro studio sottolinea però anche un altro
aspetto, spesso trascurato: le analisi sui costi e i benefici dell’uscita dall’euro dovrebbero sempre essere effettuate in termini comparativi. Da questo punto di vista, è bene tener presente che già oggi, dentro l’eurozona, assistiamo a importanti fenomeni di deflazione salariale e di spostamento della distribuzione dei redditi. In Spagna e Irlanda le
riduzioni sono pesanti e in Grecia il tracollo è di proporzioni storiche: dal 2008 i salari
reali sono precipitati di ventidue punti percentuali, e la quota salari è crollata di quasi
otto punti. Non si tratta solo degli effetti della recessione. Questi processi sono anche il
frutto di quell’indirizzo di politica economica secondo cui la deflazione dovrebbe contribuire ad accrescere la competitività e le possibilità di ripresa dei Paesi periferici
dell’Unione. Se vi è qualche ragione nel ritenere che tale indirizzo possa rivelarsi inefficace, allora, in assenza di opportune contromisure, si deve contemplare la possibilità che i
salari subiscano in prospettiva una doppia decurtazione: prima a causa della deflazione e
poi, dopo il suo fallimento, a causa della uscita e della svalutazione. Anche di queste tendenze si dovrebbe tener conto nell’analisi dei costi e dei benefici della permanenza o di
una eventuale uscita dall’eurozona.
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La crisi finanziaria in Europa e le sue trasformazioni *
Luciano Gallino, Università degli Studi di Torino
[email protected]
Nell’UE si è verificata una singolare trasformazione: la crisi bancaria è divenuta crisi
del debito pubblico.
Tra l’estate del 2007 – quando scoppia la crisi – e la fine del 2009, chiunque parlasse di crisi, di crisi finanziaria, si riferiva soprattutto ai problemi riguardanti i comportamenti delle grandi banche e delle istituzioni finanziarie in genere. Invece nei primi
mesi del 2010 le organizzazioni internazionali, i governi, i media e gli analisti incominciarono tutti insieme a parlare di crisi del debito pubblico, cioè di crisi del debito sovrano. Che cos’era successo? Secondo la motivazione che venne addotta, si è scoperto
che il deficit annuo dei bilanci degli Stati, soprattutto dell’Eurozona, era salito parecchio sopra al famoso 3% stabilito dal Trattato dell’UE; al tempo stesso in molti Paesi il
debito sovrano (che è formato dall’accumulo del deficit sommato all’accumulo degli
interessi) aveva superato di decine di punti l’altra soglia vincolante, ossia il rapporto
del 60% sul PIL. In media, in meno di tre anni, il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo dell’Eurozona è salito di una ventina di punti, ossia dal 60% circa a
oltre l’80%, con uno scarto di alcuni punti tra l’Eurozona e l’Unione a 27. La maggior
parte dei commenti a riguardo concludeva così: si profilava a breve scadenza il disastro
di Stati che da un mese all’altro non avrebbero più potuto pagare né stipendi ai dipendenti statali né pensioni e non avrebbero potuto rimborsare i titoli del debito in scadenza, obbligazioni e altri titoli di Stato. Dinanzi a questo scenario catastrofico che coinvolgeva tutti noi e l’intera popolazione di alcuni Stati europei, la crisi delle banche cadde relativamente nell’ombra. Vi fu un certo numero di economisti, quelli che molti
chiamano ortodossi, i quali in realtà non avevano previsto una crisi finanziaria, né avevano fornito una spiegazione approfondita di essa, che volevano fornire una spiegazione dell’aumento del debito pubblico che intendeva essere scientifica; secondo questa
visione, gli Stati avevano speso troppo soprattutto nel settore della protezione sociale e
della spesa pubblica.
In realtà, se si va a guardare i numeri, non esisteva alcuna correlazione sostenibile
tra il forte aumento del debito pubblico di quegli anni e la spesa per la protezione sociale. È vero che il debito è aumentato, ma ciò soprattutto a causa delle enormi somme
erogate o impegnate dagli Stati nel salvataggio delle banche, in varia misura in quasi
tutti i Paesi dell’Eurozona. Queste spese sostenute dallo Stato non erano certo dovute a
un improvviso aumento della spesa per la protezione sociale, rimasta sostanzialmente
*
Il testo si basa sul Capitolo sesto dell’opera di Luciano Gallino Il colpo di Stato di banche e governi:
l’attacco alla democrazia in Europa, Torino, Einaudi, 2013, alla quale si rimanda per maggiori indicazioni
bibliografiche.
40
Luciano Gallino
stabile intorno a una media del 25% del PIL dei Paesi dell’Eurozona (ancorché con differenze da un Paese all’altro).
Siffatta diagnosi errata ha avuto conseguenze importanti: i governi dell’UE hanno
optato per politiche di compressione della spesa per la protezione sociale, sostenendo
che la conseguente diminuzione del debito avrebbe condotto o condurrà prima o poi a
un rilancio della crescita economica. Secondo questa visione, se gli Stati posseggono un
debito così elevato lo devono senz’altro a un’eccessiva generosità dei loro sistemi di
Welfare e di protezione sociale. Su questa base si sono suddivisi i Paesi dell’UE in
‘spreconi’ e ‘parsimoniosi’: i primi sono Portogallo, Italia, Spagna, Grecia; tra i secondi
figurano in primo piano la Germania ma anche i Paesi del Nord e l’Olanda. La Francia
sta in mezzo. Una delle conseguenze è che i Paesi spreconi avrebbero ricevuto aiuti
dall’UE e dal Fondo Monetario Internazionale soltanto se si fossero impegnati a mettere in ordine i conti dei loro malandati bilanci di cui essi soli portano la responsabilità.
Come conseguenza si sono dunque stipulati trattati, norme, direttive dell’UE, patti e
memorandum dal carattere segnatamente autoritario: al di fuori di documenti di carattere militare è difficile, per dire, trovare documenti di tipo più autoritario del memorandum inviato alla Grecia nel 2011, indicante una serie di azioni che si possono fare o che
non si possono fare per perseguire il risanamento del bilancio pubblico.
Si è quindi verificata, tra lo stupore di molti esperti, una inversione rapidissima di
preoccupazioni, da quella per le pessime condizioni delle banche a quella per i bilanci
pubblici. Senza contare che diversi analisi e documenti dicono che appena tre anni fa
non c’era alcun segno di rischio del debito sovrano delle economie sviluppate; anzi, le
opinioni prevalenti sostenevano che tale problema non si sarebbe presentato se non solo
molto più avanti.
Gli studi in materia non esprimono soltanto sorpresa per la velocità del manifestarsi del rischio, ma concordano nel sottolineare come la crisi del debito pubblico sia strettamente legata alla crisi bancaria e viceversa, con una grande quantità di dati e studi su
questo tema, infatti, che vanno in direzione di comprovare l’interazione tra crisi bancaria e aumento del debito pubblico. Un caso paradigmatico è quello dell’Irlanda. A fine
settembre 2008 il governo irlandese annuncia che avrebbe garantito tutti i depositi delle
sei maggiori banche del Paese (infatti dovette poi sborsare decine di miliardi di “pubblico denaro”): nel giro di ventiquattro ore il valore di mercato dei certificati di protezione dal rischio di insolvenza del debitore (i CDS sui titoli bancari) scesero precipitosamente da oltre 400 punti base a meno di 150, mentre salì moltissimo, da 25 punti base
a 400 punti base, il costo delle assicurazioni creditizie del bilancio dello Stato; evidentemente i possessori di CDS credevano che il rischio default delle banche fosse parzialmente scongiurato dall’intervento dello Stato. Con questo andamento divaricante il
pagamento degli interessi sul debito pubblico divenne presto troppo oneroso per lo Stato irlandese, costretto a offrire interessi sempre più alti.
La conclusione è che, sebbene nel periodo considerato vi sia stato un declino generale dell’economia globale, lo studio di questi casi suggerisce che il rischio del settore
finanziario fu trasferito di peso sui bilanci pubblici e quindi sui contribuenti dei diversi
Paesi (spagnoli, irlandesi, ecc.).
La crisi finanziaria in Europa e le sue trasformazioni
41
Una volta appurato che è presente un consenso diffuso sull’esistenza di un rapporto
stretto tra crisi bancaria e crisi del debito pubblico, occorre notare che molte spiegazioni del rapporto stesso ci pongono davanti a una sorta di gioco del domino, dove cade
una prima tessera e via via cadono le altre: cadono le banche, cadono gli istituti di credito e cadono, conseguentemente, i bilanci pubblici.
Nell’economia è importante guardare, soprattutto in certi periodi storici, anche agli
attori concreti i quali perseguono scopi di potere e a questo fine utilizzano le informazioni sui fondamentali economici soffocandole, alimentandole, nascondendole, piegandole, alterandole. Non è ancora stata fatta una storia della crisi dai primi anni duemila
fino all’esplosione del 2008, ma potrebbe essere costruita precisamente mostrando come i dati siano stati utilizzati – distorti e utilizzati – per servire gli scopi di determinati
attori. Se si mette in gioco il potere, gli interessi, il peso economico-politico di diversi
soggetti, si può allora sostenere che, attraverso la trasformazione della crisi bancaria in
crisi del debito pubblico, le organizzazioni internazionali (UE, BCE, FMI) abbiano mirato soprattutto a occultare i rapporti tra dirigenti politici e organizzazioni internazionali da un lato e sistema finanziario dall’altro.
Naturalmente questo è anzitutto servito a occultare in gran parte le responsabilità
del sistema finanziario nell’aver causato la crisi: poi, come secondo scopo, si è riusciti
a proseguire nel salvataggio delle proprie banche nazionali con ogni mezzo possibile.
Infine si è cercato di delegittimare e di ridurre al minimo l’intervento dello Stato in ogni settore dell’economia e della società, a partire dai sistemi di protezione sociale, in
conformità all’ideologia che ha guidato e guida le mosse dei governi dell’UE. In compenso si può dire che dal momento del rimbalzo, in cui la crisi delle banche passa sullo
sfondo e balza in primo piano la crisi del debito, i governanti dell’UE hanno agito come
importanti attori finanziari, mentre le banche hanno agito e continuano ad agire come
attori politici di peso. È una diagnosi assai categorica, e ci si pone il problema di ricercare le evidenze empiriche. Se ne potrebbero individuare di quattro tipi:
•
•
•
•
La prima evidenza ci dice che fin dai primi anni duemila tanto i governanti europei quanto i banchieri erano a conoscenza dell’esistenza di banche in Europa
con bilanci molto problematici.
In secondo luogo altre evidenze mostrano che i governi UE hanno incoraggiato
sia la creazione da parte delle banche di prodotti finanziari ad altissimo rischio
(che avrebbero poi causato gravissime perdite agli istituti stessi), sia il ricorso a
pratiche molto pericolose come una elevata leva finanziaria.
Un terzo tipo di evidenza è che da lungo tempo l’intreccio tra finanza e politica a
livello locale e nazionale era talmente stretto da rendere inevitabile che, al sorgere della crisi, i politici in tutta l’UE si impegnassero a salvare le banche private a
spese dei bilanci pubblici, operando una gigantesca operazione di aiuti alle istituzioni private che ha provocato grossi buchi nei bilanci degli Stati.
Un ultimo tipo di evidenza è che questi salvataggi di banche e istituzioni finanziarie hanno danneggiato i debiti pubblici in una misura talmente elevata da indurre i governi a ingenti prelievi dai redditi dei cittadini, dalla massa dei cittadi-
42
Luciano Gallino
ni, perché anche con aliquote elevate è parso necessario tassare tutti senza eccezione, nonché tagliare fortemente la spesa sociale.
Occorre allora svolgere alcune considerazioni, principalmente sul fatto che i governi
hanno agito da attori finanziari e gli attori finanziari da attori politici. Un primo dato è
che i governi europei erano perfettamente a conoscenza della crisi bancaria e l’hanno
aggravata con politiche per la maggior parte erronee.
In questo caso interessante è la ricostruzione di diversi specialisti tedeschi o svizzero-tedeschi (in primis Leo Müller 2010, pp. 31-32), secondo i quali a metà febbraio del
2003 (quattro anni e mezzo prima dell’esplosione della crisi) si sarebbero incontrati a
Berlino, in segreto, il cancelliere Schroeder, il ministro dell’economia Clement, il ministro delle Finanze Eichel, e i presidenti e amministratori delegati di sei delle maggiori
banche tedesche (tra cui c’era il presidente della maggiore banca privata tedesca, la
Deutsche Bank, e il presidente di un altro colosso quale era all’epoca la Dresdner
Bank). Gli autori riferiscono che già allora tutte quelle banche erano traballanti a causa
di titoli parzialmente scoperti per circa 300 miliardi di euro (Müller 2010, pp. 31-33) e
avrebbero dovuto necessariamente essere sollevate con un piano di salvataggio pubblico. Tra le banche traballanti, era la Dresdner Bank a destare maggiori preoccupazioni:
questa è poi caduta a picco, attraverso varie vicende, e venne comprata per pochi euro
dalla Commerzbank, dopo che la banca era già ricorsa più volte ad aiuti di Stato, a causa di infruttuose fusioni e acquisizioni. La caduta della banca Dresdner è stato uno dei
maggiori disastri finanziari in Europa, sebbene non sia dipeso direttamente dalla crisi.
Essa era allora la terza banca tedesca per dimensioni, e aveva alle spalle una vita piuttosto travagliata, che l’aveva vista divenire banca di grandi dimensioni durante il nazismo: era detta la banca di Hitler, perché aveva fornito in massa i finanziamenti richiesti
prima e durante la guerra. Era però sopravvissuta anche ai tagli voluti dagli Alleati per
poi diventare una banca con 51.000 dipendenti (anche se negli anni successivi aveva
visto un taglio del personale della metà, arrivando a essere composta da 26.000 dipendenti).
In quello stesso mese furono create in Germania due banche guaste, bad banks, che
furono poi tra le prime a tramontare; una banca guasta è una unità interna a una banca,
oppure una banca appositamente creata, che ha il compito di consolidare e liquidare
crediti considerati quasi irrecuperabili.
Potrei continuare con un lungo elenco di banche, ma da questo e molti altri rapporti
si evince come in Germania e in altri Paesi si sapesse benissimo che il sistema bancario
fosse già in difficoltà. I governanti tedeschi, come altri governanti europei, hanno tratto
dalla conoscenza delle condizioni critiche delle grandi banche un’inferenza abbastanza
curiosa secondo la quale gli Stati membri non avrebbero aiutato abbastanza lo sviluppo
delle grandi banche commerciali. Come conseguenza, dopo quell’incontro a Berlino del
2003, il ministro tedesco delle Finanze presentò un piano per la promozione del mercato finanziario in dieci punti. Uno di essi facilitava la cartolarizzazione dei crediti da
parte delle banche, ossia la trasformazione di titoli ipotecari in titoli negoziabili, facendo anche in modo che le banche ne traessero cospicui vantaggi.
La crisi finanziaria in Europa e le sue trasformazioni
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Un altro impulso in questa direzione, ossia quella di fare della Germania una grande piazza finanziaria, fu dato nel 2005 dal nuovo governo di coalizione tra CDU-CSU e
SPD, con cancelliera Angela Merkel. Questi partiti avevano siglato, nel fatidico 2003,
un patto di coalizione enfaticamente denominato “Insieme per la Germania con coraggio e umanità”. Il punto 3 del capitolo sulla finanza pubblica esordiva sostenendo che
uno dei presupposti più importanti per l’economia, per la crescita e l’occupazione fosse
un sistema finanziario competitivo sul piano internazionale. Queste indicazioni sono
state attuate dal primo governo Merkel (2005-2009) attraverso un numero esorbitante di
leggi, almeno 95 leggi e decreti emanati per attuare il patto di coalizione.
Gli effetti si sono visti: nel solo periodo tra 2003 e 2007 la cartolarizzazione dei titoli è aumentata in Germania da 3 miliardi a più di 42 miliardi di euro (Ricken 2008, p.
47, fig. 12). Sempre facendo riferimento al caso Germania, l’intreccio tra banche e politica e la trasformazione della crisi bancaria in crisi del debito è ben evidente, in special
modo analizzando l’esempio delle non piccole banche regionali tedesche: le Landesbanken sono banche che vedono una forte partecipazione delle casse di risparmio locali.
Nella governance delle banche regionali un peso decisivo è detenuto, direttamente o
indirettamente, da politici locali, membri dell’esecutivo e del Parlamento, compresi i
dirigenti dei partiti. Essi agiscono nei confronti delle banche come dei “principali”: il
che vuol dire che non ne sono i proprietari, ma sicuramente ne hanno il controllo di fatto e di diritto e hanno sempre premuto su di esse per volgerne e talvolta stravolgerne
l’attività ai loro fini. I banchieri, d’altra parte, attraverso la politica hanno dato un notevole impulso alla finanza innovativa, alle campagne di fusione e acquisizione nel settore finanziario che hanno visto passare da una mano a un’altra molte centinaia di miliardi di euro in pochissimi anni, nonché hanno dato impulso alla leva finanziaria, il che
significa fare investimenti speculativi con il denaro preso in prestito da qualcun altro.
La crisi apertasi nel 2007 colpì molto duramente sia le banche regionali sia i loro
tutori politici a livello regionale, e molte di esse hanno obbligato il governo tedesco,
attraverso canali politici, personaggi politici, a sostenerle con ingenti investimenti. I
politici dunque sapevano e hanno fortemente incoraggiato le operazioni finanziarie più
rischiose che potessero essere concepire da parte delle banche.
Passiamo a considerare l’enorme portata economica e politica dell’intervento dello
Stato nell’economia finanziaria: in Europa, come negli USA, lo Stato ha avuto un ruolo
decisivo nella gestione della crisi. Il governo americano e i governi europei hanno agito
in modo rapido ed efficace, dal loro punto di vista, per salvare le banche in difficoltà,
mediante sia versamenti a fondo perduto sia prestiti da rimborsare a condizioni favorevolissime, e hanno proceduto a nazionalizzare, magari solo per qualche anno, buona
parte di esse; infine hanno sostenuto con apposite leggi la creazione di decine di banche
guaste.
La strada alle nazionalizzazioni è cominciata non negli Stati Uniti ma in Europa nel
febbraio 2008 con la nazionalizzazione della Northern Rock, la prima banca britannica
dal 1866, teatro tra l’altro di una vera e propria corsa agli sportelli. Un po’ più avanti,
nel settembre dello stesso anno, il governo britannico nazionalizza le casse di risparmio
al modico prezzo di 50 miliardi di sterline.
44
Luciano Gallino
Anche in Germania ci sono stati casi di nazionalizzazione cospicui, come ai primi
di ottobre del 2009, quando fu nazionalizzata la Hypo Real Estate, una banca specializzata in operazioni immobiliari, attraverso il canale della politica con il versamento,
messo a bilancio, di 124 miliardi di euro di garanzie e 8 miliardi di aiuti diretti.
Mettendo insieme tutte queste voci, soltanto tra il 2008 e il 2010, i Paesi dell’Eurozona
hanno presentato alla commissione europea domande di impegno o di erogazione da bilanci
pubblici per 4600 miliardi di euro (European Commission 2010). Tra il 2008 e il 2010
erano stati utilizzati dalle banche più di 2000 miliardi (incredibile, se uno guarda la televisione ogni giorno, e vede le lotte per un miliardo e mezzo di euro da ottenere tramite
questa o quella legge).
Gettando uno sguardo a ogni singolo Paese si nota che il Regno Unito ha impegnato 1.400 miliardi, la Germania 620-650 miliardi (un quarto del PIL tedesco), l’Olanda
320 miliardi, la Francia 350 miliardi. L’Italia avrebbe speso relativamente meno, secondo alcune statistiche: intorno ai 52 miliardi, ai quali sono da aggiungere i 4 miliardi
trovati in pochi giorni per salvare con un prestito il bilancio del Monte dei Paschi di
Siena. Di fronte all’enormità dell’intervento pubblico messo in atto per salvare le banche si potrebbe esclamare: «altro che Keynes, altro che intervento dello Stato!».
Alcuni economisti attenti a questi aspetti ritengono che gli interventi pubblici nel
settore privato da parte della mano pubblica abbiano superato le statalizzazioni volute
da Lenin nel 1924; dopodiché però non si sono evitati tagli a sanità, alle pensioni e alle
altre componenti del Welfare perché «a richiederlo è il bilancio».
La conclusioni quali sono? Possono essere condensate nel titolo «socializzazione
delle perdite e privatizzazione dei profitti». Infatti al tempo stesso le grandi banche europee sono diventate molto più potenti e le banche statunitensi sono raddoppiate quanto
ad attivi.
Ma qual è, dunque, il bilancio? Da questa vicenda che dal 2010 in poi ha portato
alla ribalta la crisi del debito sovrano relegando sullo sfondo la crisi della finanza, la
crisi bancaria, quali costi e benefici per gli attori in gioco ne sono sortiti? E soprattutto
quali costi e benefici per il complesso dei cittadini?
Il rendiconto complessivo si può riassumere in questo dato: in primo luogo
l’aumento di deficit e debito pubblico verificatosi fra il 2008 e il 2010 non è dovuto a
un eccesso di investimento nel settore della protezione sociale, ma è imputabile quasi
per intero al salvataggio del sistema bancario privato; secondo punto, nonostante
l’enorme portata dell’intervento pubblico, le banche private europee (ma anche quelle
pubbliche, pensiamo alle banche regionali tedesche) non sono state affatto risanate e
sono tuttora fortemente sottocapitalizzate, talvolta con debiti superiori ai debiti pubblici
dei loro Stati; solo le banche tedesche, nel 2011, avevano un debito che si aggirava intorno al 98% del PIL del Paese, quelle spagnole al 111%. Il guaio è che la realtà potrebbe essere peggiore: i debiti che conosciamo sono i debiti registrati in bilancio, mentre i debiti fuori bilancio, spesso collocati all’estero in veicoli e altre società di scopo,
sono difficilmente quantificabili (società che sono in realtà gestite direttamente dalle
banche, con il grosso vantaggio di portare fuori bilancio sia crediti che debiti). Vi sono
tante cifre che riguardano le banche, tanto è vero che tra fine 2011 e inizio 2012 la BCE
ha prestato loro più di un trilione di euro al tasso dell’1%.
La crisi finanziaria in Europa e le sue trasformazioni
45
Come si è visto parlando del caso tedesco, che è particolarmente centrale, i governanti e i dirigenti di partito hanno fortemente contribuito a peggiorare la situazione del
sistema finanziario spingendolo in attività sempre più rischiose, palesando inoltre una
grossolana incompetenza, commettendo gravi errori e accrescendo la dipendenza della
politica dalla finanza. I politici si sono fatti relegare nel ruolo di comparse eterodirette
alle quali il sistema finanziario fa recitare la parte che vuole.
Si può aggiungere che in tutta l’UE le autorità di regolazione e vigilanza, i ministri
delle finanze, i dirigenti delle banche nazionali e altri organismi incaricati di sorvegliare il sistema bancario e agire tempestivamente in caso di difficoltà, si sono dimostrati
clamorosamente al di sotto dei loro compiti istituzionali. Non hanno previsto la crisi, né
hanno preso le misure adeguate per contrastarla nel momento in cui è giunta. A fine
2012 si sono accordati per un sistema di vigilanza unico, sistema di vigilanza finanziaria, che è un intento encomiabile, ma non certo agevole a realizzarsi.
Concludendo non possiamo omettere di sottolineare come soltanto da una comprensione del fenomeno più volte descritto (definibile come un puro e semplice trasferimento di debiti delle banche private sul debito pubblico) si potranno ottenere soluzioni valide per dare nuova forma ai rapporti tra banche e politica e, tramite essi, all’intero
sistema economico.
Bibliografia
European Commission (2010), State aid: Scoreboard shows continued trend toward less
and better targeted aid despite crisis-related spikes, Bruxelles, 1 dicembre.
Müller L. (2010), Bank Räuber, Wie kriminelle Manager und unfähige Politiker uns in
den Ruin triben, Berlin, Econ Verlag.
Ricken S. (2008), Verbriefung von Krediten und Fonderungen in Deutschland, Düsseldorf,
Hans Böckler Stiftung.
La crisi del lavoro in Europa e in Italia
Per un cambio di rotta*
Davide Antonioli, Paolo Pini, Università degli Studi di Ferrara
[email protected], [email protected]
1. Il lavoro in Europa e in Italia, prima e con la crisi
Secondo il World Economic Outlook del FMI (2013), nel 2013 il reddito nei Paesi sviluppati e nell’Unione Europea (UE) è cresciuto dell’1%, il 50% in meno dell’anno
precedente; tuttavia mentre in quelli non europei, tra cui Stati Uniti e Giappone, si ha
crescita modesta ma sopra l’1,5%, i Paesi europei hanno crescita zero e l’eurozona
crescita addirittura negativa (í0,5%), con l’Italia quasi fanalino di coda (í1,9%). La
crescita dell’occupazione è stata modesta in questi Paesi, in Europa negativa e
nell’eurozona ancora peggiore. Ciò ha portato a innalzare ciò che l’International Labour Office chiama il «gap occupazionale»: la perdita cumulata di posti di lavoro rispetto alla situazione pre-crisi. Dalla crisi del 2008, soprattutto i Paesi europei sono
stati investiti dalla double dip recession dopo la debole ripresa del 2010, aggravata
dalle politiche fiscali restrittive adottate, che ha accresciuto la distanza tra reddito
prodotto e reddito potenziale, deteriorando anche quest’ultimo dopo sei anni di depressione (ILO 2014). Con la crisi, i Paesi europei hanno perso circa 2,5 punti percentuali di reddito, e 3 quelli dell’eurozona; più pesante di 1 punto è stata la perdita occupazionale. La disoccupazione è arrivata alla soglia dei 27 milioni nell’UE nel 2013, di
cui poco più di 19 milioni sono attribuiti agli effetti della crisi (EC 2014a, pp. 34-36).
Le previsioni per i prossimi anni così non sono favorevoli, il gap occupazionale è dato
in crescita: da 62 milioni di persone del 2013 a 81 nel 2018 a livello globale. Stima
l’ILO nel suo ultimo Global Employment Trend 2014 che il tasso di disoccupazione
non si ridurrà e i disoccupati aumenteranno, globalmente di 15 milioni nello scenario
più favorevole, generando una differenza di circa 45 milioni rispetto all’anno pre-crisi
2007. Nello scenario peggiore, di minor crescita del reddito, il gap aumenta a 50 milioni di disoccupati, con effetti concentrati nei Paesi sviluppati e nell’UE.
È in questa area che si ha il peggio: il tasso di disoccupazione raggiunge oggi
l’8,6%, contro il 5,8% del 2007. Ma sono i Paesi europei che soffrono di più, con un
tasso dell’11%, 4 punti percentuali sopra il livello del 2007 (EC 2014a). Al contempo
è elevata e in crescita la persistenza della disoccupazione: la quota di persone con oltre 12 mesi di disoccupazione alle spalle è circa il 40% in Europa, il 30% negli Stati
Uniti, ma supera il 50% in Italia, e ciò riduce la probabilità di trovare lavoro, abbassa
*
Questo testo riprende vari temi discussi da uno degli autori nella conferenza pavese, e aggiorna le tesi
presentate con considerazioni e dati più recenti. Le tesi qui presentate sono anche riesaminate alla luce dei
cambiamenti avvenuti nel 2014 nella sfera della politica economica. Peraltro ciò non ha condotto a
modificare le opinioni espresse, semmai a rafforzarle con nuove evidenze.
48
Davide Antonioli, Paolo Pini
la propensione a rimanere sul mercato, distrugge abilità e competenze, creando la
trappola della disoccupazione, chi ci entra non ne esce. La Germania ha invece ridotto tale quota nella crisi, dal 55% al 45% circa. La crisi appare poi aver grandemente
colpito i giovani sul mercato del lavoro. Nei Paesi sviluppati e in Europa il tasso di
disoccupazione giovanile (15-24 anni) è arrivato al 20%, a cui occorre aggiungere i
Neets che mostrano una crescita analoga, con l’Italia, dopo la Spagna, nella peggior
posizione europea, con una quota di Neets del 24% tra i giovani 15-29 anni. Tra i giovani 15-24 anni presenti sul mercato del lavoro nel 2013 la disoccupazione in Italia ha
superato il 40%, contro una media nell’eurozona (e nella UE) di poco meno del 25%
circa; rispetto al 2007 il tasso italiano è raddoppiato, quello dell’eurozona e dell’UE
salito di 10 punti percentuali. Gli altri Paesi non hanno dinamiche molto differenti,
alcune molto peggiori, Spagna e Grecia, ma solo la Germania si distingue negli ultimi
anni per un andamento opposto, mentre la sua situazione era molto peggio prima della
crisi, dal 12% è scesa al 7,5%. Dinamiche divergenti quindi tra i Paesi dell’eurozona,
esito anche delle politiche adottate: prima della crisi la Germania non ha rispettato i
vincoli europei sostenendo la crescita con deficit ben superiori al 3% del Pil, dopo la
crisi gli altri Paesi sono stati vincolati all’austerità espansiva. Le divergenze riguardano l’area del sud Europa distinta da quella del nord, nell’eurozona: il tasso di disoccupazione è al 17% al sud, 7% al nord; il tasso di disoccupazione giovanile è attorno al
35% al sud, 15% al nord; la quota dei Neets è sopra il 20% al sud, attorno al 10% al
nord. Questi gap non erano così consistenti prima del 2008 (EC 2014a, pp. 22-23).
Le previsioni dell’ILO al 2018 sono pessime per l’occupazione. La crescita del
reddito è stimata nel periodo 2014-18 nei Paesi sviluppati e in Europa al 2,5% annuo,
ma l’occupazione cresce solo dello 0,5%. Essa si concentra soprattutto nella fascia
adulta della popolazione, mentre i giovani rimangono esclusi anche a seguito della
crescita del mismatch tra le competenze offerte e domandate (ILO 2014, pp. 34-36).1
Quindi una ripresa senza occupazione. E che discrimina tra generazioni. Sulla disoccupazione l’ILO stima che mentre i Paesi industriali non europei riducano la disoccupazione, quelli europei l’aumentino e il tasso di disoccupazione non migliori. Anzi,
per alcuni Paesi peggiora, in particolare l’Italia lo fa crescere al 2016 sino al 13% circa, dal 6,1% del 2007. D’altra parte la stessa Banca d’Italia (2014) ha previsto per il
2015, con una crescita del reddito dell’1% (la metà di quanto prevede la Legge di Stabilità del governo Letta), un tasso del 12,9% nel suo ultimo Bollettino Economico
(gennaio 2014). Anche la florida Germania non riduce la disoccupazione, mentre la
Francia la peggiora con un tasso che si avvicina all’11%.
Le ultime previsioni dell’Oecd (2013) al 2015 non risultano meno sfavorevoli per
l’Europa (Tabella 1). Mentre il reddito cresce nei Paesi Oecd nel biennio 2014-15 al
2,5% annuo, per i Paesi europei dell’eurozona la crescita è all’1,3%, con l’Italia nel
gruppo di coda. Peggio va per l’occupazione, 1% annuo per Paesi Oecd, 0,2% per
l’eurozona, e l’Italia sempre nel gruppo di coda con crescita nulla. Quindi l’Oecd pre1
La crescita del mismatch è anche mostrata per il complesso del mercato del lavoro, esaminando la curva di
Beveridge che relaziona tasso di disoccupazione e tasso di posti di lavoro vacanti. La curva evidenzia uno
spostamento (verso l’esterno) che mostra l’accoppiamenti di valori maggiori per entrambe le variabili (EC
2014a, pp. 37-38).
La crisi del lavoro in Europa e in Italia
49
vede per l’Europa dell’euro debole ripresa, senza occupazione. Sul fronte disoccupazione le cose non vanno meglio. Mentre per i Paesi Oecd la media 2014-2015 del tasso di disoccupazione è al 7,5%, l’eurozona sta al 12% circa, con l’Italia che, solo meglio di Grecia e Spagna, è fanalino di coda assieme a Irlanda e Portogallo. Se invece
guardiamo all’inflazione, come indicatore della pressione della domanda aggregata, si
ha che nell’eurozona Italia e Francia mostrano un processo inflazionistico medio annuo previsto nel biennio 2014-15 dell’1,16% superiore solo a Grecia, Portogallo, Spagna, Irlanda, e sotto la media dei UME15 (+1,24%), mentre gli Stati Uniti segnano un
1,86% e il Regno Unito un 2,39%, segno evidente che in Eurolandia la crescita ristagna, in particolare nei Paesi mediterranei.2
È interessante anche assumere una prospettiva complementare, confrontando i
Paesi per le loro performance previste dall’Oecd con quelle precedenti alla crisi. Tra i
Paesi che hanno maggiormente sofferto per le politiche di austerità, i PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna), tre (Irlanda, Grecia, Spagna) hanno avuto performance di crescita ragguardevoli dal 2000 al 2007, ma solo per uno di questi (Irlanda)
si prevede una ripresa significativa nel biennio 2014-2015, mentre per tutti gli altri lo
scenario rimane «lugubre», con effetti modesti sull’occupazione (in tre Paesi dinamiche negative) e sulla disoccupazione, che appare in crescita; nella stessa Irlanda – additata da molti come il Paese che ha tratto maggiori benefici dal consolidamento fiscale
– il mercato del lavoro rimane in sofferenza e sconta un tasso di crescita dell’economia
che è pari a 1/3 di quello del 2000-2007. Peraltro, in tutti questi Paesi la dinamica della produttività rimane modesta, attorno all’1% annuo, con l’eccezione del Portogallo
dove è addirittura negativa. È impressionante vedere come la crisi abbia modificato le
performance relative, e come le previsioni dell’Oecd evidenzino processi di divergenza profondi nell’economia reale se il confronto avviene con gli anni sino al 2007. Anche se nei Paesi non PIIGS dell’eurozona o esterni a essa la ripresa dell’occupazione
appare debole, la crescita annunciata del reddito è tale da comportare una crescita della produttività senza che ciò comporti una crescita della disoccupazione, con
l’eccezione della Francia dove il tasso di crescita previsto è circa metà rispetto agli
anni pre-crisi. Ciò contrasta nell’eurozona con quanto avviene in Germania dove invece aumenta, pur se di poco, il tasso di crescita previsto rispetto alla fase pre-crisi.
Una componente cruciale che sembra quindi mancare è la crescita, in presenza di politiche di austerità espansiva che peraltro peggiorano il rapporto debito/Pil soprattutto
nei Paesi ove il consolidamento fiscale è in azione (Tabella 2).
Come sentenzia l’ILO (2014, p. 32), siamo in presenza di una «lacklustre nature
of the recovery […] caused, in part, by the continued pursuit of fiscal consolidation
policy in the region».
La crisi economica e le politiche fiscali adottate producono quindi cambiamenti
nelle stesse prospettive della ripresa. Oltre a ciò crisi e politiche fiscali hanno avuto
effetti sociali rilevanti. Come osserva l’ILO (2014, pp. 39-40), il deterioramento delle
2
Dal processo inflazionistico siamo passati a fine anno 2013 al processo deflazionistico, in cui il tasso di
inflazione nell’eurozona è allo 0,5% annuo, in Grecia e Spagna addirittura negativo, tanto che la BCE
annuncia il pericolo della deflazione e si dichiara pronta a realizzare il «quantitative easing» american style.
Ma per ora sono solo annunci: l’austerità espansiva prosegue!
50
Davide Antonioli, Paolo Pini
condizioni nel mercato del lavoro ha fatto crescere il rischio di povertà ed esclusione
sociale, in particolare nei Paesi europei più colpiti dalla crisi. Ma sono state le politiche che hanno determinato un peggioramento delle condizioni sociali:
[…] in the second phase of the crisis the majority of governments in the European
Union countries embarked on fiscal consolidation, with significant cuts to their
welfare systems and provision of public services, which disproportionately affected jobless persons and their families as well as those groups of the population that
are not covered or poorly covered by social protection systems, such as first-time
jobseekers, informal workers, ethnic and migrant groups, single-parent families
and pensioners, with negative consequences for social cohesion and social justice.
These policy choices have led to an increase in the risk of social unrest, especially
in the European Union. […] In addition, the crisis has had a negative impact on the
quality of employment in most countries as the incidence of involuntary temporary
and part-time employment, in-work poverty, informal work, job and wage polarization and income inequality have further increased.
Tabella 1. Performance economiche prima, durante la crisi,
previsioni 2014-2015 (nostre elaborazioni su OECD, 2013)
PIL (tasso di crescita medio annuo)
2000-2007 2008-2013 2014-2015*
Paesi-Aree
Canada
2,81
1,30
2,46
Francia
2,08
0,11
1,28
Germania
1,67
0,73
1,81
Italia
1,57
í1,47
1,00
Grecia
4,22
í4,21
0,68
Irlanda
5,70
í1,20
2,05
Giappone
1,52
0,21
1,22
Portogallo
1,49
í1,19
0,76
Spagna
3,61
í1,00
0,74
Regno Unito
3,17
í0,27
2,43
Stati Uniti
2,65
0,95
3,12
UME 15
2,21
í0,28
1,31
Oecd
2,65
0,73
2,48
Occupazione (tasso di crescita medio annuo)
2000-2007 2008-2013 2014-2015*
Canada
1,94
0,91
1,21
Francia
1,12
0,00
0,30
Germania
0,53
0,98
0,45
Italia
1,11
í0,51
í0,01
Grecia
1,41
í3,70
í0,41
Irlanda
3,47
í2,06
0,95
Giappone
í0,06
í0,33
í0,01
Portogallo
0,65
í2,30
0,90
Spagna
4,07
í3,20
í0,17
Regno Unito
0,92
0,33
1,11
Stati Uniti
1,13
í0,21
1,55
UME 15
1,34
í0,44
0,24
Oecd
1,12
0,30
1,04
La crisi del lavoro in Europa e in Italia
Produttività del lavoro (tasso di crescita medio annuo)
2000-2007 2008-2013 2014-2015*
Canada
0,87
0,39
1,25
Francia
0,95
0,10
0,99
Germania
1,14
í0,25
1,36
Italia
0,47
í0,97
1,02
Grecia
2,80
í0,51
1,08
Irlanda
2,23
0,86
1,11
Giappone
1,58
0,54
1,22
Portogallo
0,83
1,11
í0,14
Spagna
í0,46
2,20
0,91
Regno Unito
2,25
í0,60
1,32
Stati Uniti
1,52
1,17
1,57
UME 15
0,87
0,16
1,07
Oecd
1,53
0,43
1,45
Tasso di disoccupazione (media nel periodo)
2000-2007 2008-2013 2014-2015*
Canada
6,95
7,38
6,95
Francia
8,41
9,25
10,75
Germania
9,39
6,55
5,30
Italia
8,06
9,03
12,25
Grecia
9,96
16,47
26,85
Irlanda
4,39
12,47
12,75
Giappone
4,68
4,48
3,85
Portogallo
6,15
12,15
15,95
Spagna
9,93
20,40
25,95
Regno Unito
5,18
7,50
7,35
Stati Uniti
5,05
8,20
6,60
UME 15
8,48
10,07
11,95
Oecd
6,44
7,75
7,65
Nota: * previsioni Oecd, novembre 2013
Tabella 2. Debito pubblico in % PIL prima, durante la
crisi, previsioni 2014-2015, Europa (nostre elaborazioni
su OECD, 2013)
Debito su PIL (rapporto medio annuo)
2000-2007 2008-2013 2014-2015*
Paesi-Aree
Francia
62,05
83,32
97,24
Germania
64,05
77,32
74,82
Italia
105,65
120,39
132,88
Grecia
102,65
149,14
182,11
Irlanda
30,03
90,58
119,64
Portogallo
61,01
101,10
128,47
Spagna
47,72
67,50
99,90
Regno Unito
40,25
77,05
96,87
UME 15
68,74
85,37
95,73
51
52
Davide Antonioli, Paolo Pini
Austria
Belgium
Czech Republic
Denmark
Estonia
Finland
Hungary
Luxembourg
Netherlands
Norway
Poland
Slovak Republic
Slovenia
Sweden
64,44
96,74
26,36
42,59
4,87
41,67
59,68
6,35
50,46
40,49
43,64
40,09
26,43
49,88
71,38
96,35
39,70
42,22
7,29
47,57
79,24
19,07
65,82
36,85
54,04
42,45
43,40
39,84
75,80
99,49
52,79
46,77
9,12
61,37
78,10
27,16
77,26
31,62
52,04
56,66
72,62
42,84
Nota: * previsioni Oecd, novembre 2013
2. I due pilastri della politica europea della depressione: consolidamento fiscale
e riforme strutturali
Come si fa fronte alla drammaticità di questa situazione? L’Europa conservatrice e
tecnocratica persevera da anni con una politica centrata su due pilastri: consolidamento fiscale e riforme strutturali. E a queste è chiesto anche all’Italia di adeguarsi. Per
indurre tutti i Paesi a seguire le raccomandazioni europee, si prospetta di rafforzare i
vincoli posti dalla governance economica, con ulteriori opportune misure di penalizzazione, sanzioni persino automatiche, per i Paesi non virtuosi.
Il primo pilastro impone tagli alla spesa pubblica, aumento dell’imposizione fiscale, misure regressive sul reddito distribuito e sui servizi pubblici erogati. Il Fiscal
compact e le sue versioni rafforzate vincolano i Paesi al rientro del debito su Pil alla
quota 60% entro il 2035 e a un deficit strutturale sotto lo 0,5% del Pil, corretto per il
ciclo, dal 2015. Per il nostro Paese, con un debito/Pil verso il 135% ciò equivarrebbe a
oltre 50 miliardi di € di tagli annuali sul bilancio. Ciò produce per tutti i Paesi due
immediati effetti che si alimentano reciprocamente: riduzione della domanda pubblica
e dei consumi privati e crescita delle disuguaglianze nei redditi. Il risultato è la compressione della domanda interna. Ogni prospettiva di crescita viene affidata alla domanda estera. Ma poiché ogni Paese europeo dell’eurozona è tenuto ad attuare tali
politiche, nell’area ciò si traduce in un contenimento generale della domanda aggregata comunitaria, nel reciproco tentativo di «fregare» il vicino (beggar-thy-neighbour), e
conquistare quote di mercato esterne all’area, traendo vantaggio dalla flebile ripresa
delle economie non-euro e non-europee, incluse quelle emergenti nelle quali rischio e
incertezza sembrano dominare.
A tal fine interviene il secondo pilastro della politica conservatrice. Per accrescere la competitività sui mercati esteri occorrono le riforme strutturali che realizzano la
svalutazione interna in assenza di quella della moneta comune, che anzi si apprezza.
La crisi del lavoro in Europa e in Italia
53
Queste devono agire per migliorare la competitività sui costi, il costo del lavoro per
unità di prodotto in primis.
Le riforme strutturali sul mercato del lavoro hanno tre componenti.
La più tradizionale è quella della deregolamentazione contrattuale e dell’alleggerimento del carico fiscale sul lavoro. Forme contrattuali con meno tutele da un
lato e riduzione dei contributi sociali e previdenziali a carico delle imprese dall’altro,
per prestazioni presenti e future, consentono di ridurre i costi per l’impresa e di operare con sempre maggiore flessibilità nelle assunzioni, nelle dimissioni, volontarie o meno, e nei licenziamenti per ragioni economiche dei dipendenti. La flessibilità in entrata e
in uscita dall’impresa e dal mercato rimane il mantra delle buone politiche del lavoro.
In Italia la pratichiamo dagli anni ’90, con esiti deleteri sulla produttività.
La seconda componente è salariale. I salari nominali non devono crescere più della
produttività reale, perché al contrario si minerebbe la competitività nazionale rispetto ai
Paesi che invece tengono allineate le due variabili. I Paesi «viziosi» sarebbero destinati a
perdere competitività e realizzare «per loro gravissima colpa» deficit commerciali nei
conti con l’estero, mentre i Paesi che allineano salari nominali e produttività reale trarrebbero vantaggio dalle «loro virtù» facendo segnare avanzi commerciali crescenti e giustificati. Poco importa che tale regola implichi una perdita crescente della quota del lavoro sul
reddito, con una dinamica del salario reale stagnante e inferiore alla produttività del lavoro, un aumento della quota dei profitti al lordo delle rendite. Che ciò determini anche una
evidente riduzione della domanda interna, che in gran parte è sostenuta dai consumi privati delle famiglie e da chi percepisce reddito da lavoro (oltre che dai consumi collettivi e
investimenti pubblici peraltro compressi dalle esigenze di consolidamento fiscale), appare
come un effetto collaterale del «conflitto distributivo», in quanto il target fondamentale è
quello di catturare la domanda estera, motore unico della ripresa e della crescita.
La terza componente è essenzialmente contrattuale. Per conseguire una dinamica
delle retribuzioni nominali in linea con la produttività, occorre ridimensionare grandemente il ruolo del contratto nazionale, che vincola per categoria le retribuzioni a
parametri che rispondono troppo ai rapporti di forza e poco alle variabili economiche
di produttività e profittabilità delle imprese. Occorre spostare a livello decentrato ogni
forma di negoziazione sul salario, abbandonando anche ogni meccanismo di recupero
automatico del potere d’acquisto rispetto all’inflazione passata, soprattutto se importata. La contrattazione virtuosa è quella aziendale se non anche individuale, per lasciare
spazio con essa a premi che riconoscano davvero i meriti dei lavoratori per le loro
singole prestazioni lavorative e che consentano un loro maggior controllo da parte dei
manager. Anche in tal caso, poco conta che la contrattazione decentrata sia limitata,
poco diffusa, se non anche non quantificata e non quantificabile, che abbia perso efficacia nel controllare retribuzioni e condizioni di lavoro, che lo stesso grado di copertura
dei contratti sia diminuito, e il tasso di sindacalizzazione precipitato. Il decentramento
contrattuale rischia di produrre una ulteriore stagnazione dei salari, se la sua estensione
lascia scoperta la gran parte delle imprese, come in Italia avviene: con la sterilizzazione
del contratto nazionale, i lavoratori non coperti dalla contrattazione avranno retribuzioni
nominali a crescita zero, con effetti nefasti sulla domanda interna.
54
Davide Antonioli, Paolo Pini
3. Mercato del lavoro e politica industriale nel futuribile JobsAct
In questo contesto di politiche neo-liberiste europee sul lavoro, il JobsAct annunciato
a gennaio 20143 dal nuovo corso del centro-sinistra italiano appare non più che uno
spec script, a tratti un patchwork, alla ricerca di una idea forte che lo animi. Se, con
indulgenza, lo intendiamo un work in progress aperto a discussione, in attesa di un
master script, allora si possono fornire almeno due interpretazioni distinte della volontà politico-economica sottostante.
Da un lato, il JobsAct potrebbe semplicemente inserirsi nel solco di una politica
neo-liberista che informa le attuali proposte di riforme strutturali. Semplificazione,
meno burocrazia e meno regole potrebbero sottendere una confermata volontà di deregolamentare il mercato del lavoro, rendendolo ancora più flessibile, non solo in entrata, ma anche in uscita, riducendone le tutele. Se questo fosse l’obiettivo, che si inscrive nel secondo pilastro della politica europea, allora crediamo che il JobsAct sia
da rigettare. Appropriate ci sembrano quindi le osservazioni di Damiano et al. (2014),
o quelle più critiche di Sinopoli (2014), o ancora il «decalogo del lavoro» di Bruno
(2014). Cosa diversa sarebbe infatti una radicale eliminazione del supermarket dei
contratti per indurre le imprese a investire in capitale cognitivo e in innovazione organizzativa, invece di introdurre un contratto a tutele progressive che si affianca alle
decine di modalità esistenti senza modificare i diffusi comportamenti difensivi delle
imprese. Al contempo, l’enfasi quasi ossessiva sulla riduzione del costo del lavoro
come strumento per accrescere la competitività, nega sia il ridotto peso che ha il lavoro nei costi complessivi, sia la rilevanza dell’innovazione nei processi e nei prodotti,
nella qualità del lavoro. Questi sono invece fattori cardine per contrastare la stagnazione della produttività che frena sia competitività che retribuzioni, e quindi domanda
di mercato, estera ma soprattutto interna (Antonioli, Pini 2013).
Dall’altro, taluni interventi sul lavoro, più che sul mercato del lavoro, presenti nel
JobsAct (rappresentanza e diritti, assegno universale, formazione professionale),
sembrano convivere con idee di politica industriale pubblica per i settori strategici, sia
tradizionali e maturi, sia innovativi. Questa non può che essere complementare a
politiche macro, e quindi orientata a sostenere, in primis, la domanda interna, di cui
l’impresa percepisce sia la mancanza congiunturale che la rilevanza strutturale. Creare
domanda interna senza investimenti pubblici, però, è oggi illusorio e il lavoro senza
questa domanda non si crea. Al contempo, avere una idea di politica industriale
significa scegliere come e dove posizionare la nostra manifattura nel mercato globale,
in termini di tecnologie, produzioni e domanda, e ciò implica cambiamenti strutturali
del sistema economico, non solo crescita della domanda. Ma non dimentichiamo che
poiché l’attivazione di forti investimenti passa attraverso la rimozione dei vincoli di
bilancio imposti ai Paesi dell’eurozona (leggasi primo pilastro della politica neoliberista e tecnocratica), la partita si gioca in Europa, se l’idea non vuole rimanere
puro esercizio retorico. L’Europa è anche il luogo dove si intende lanciare il nuovo
3
Si veda eNEWS 381 di Matteo Renzi, non più disponibile, nel sito originario <http://www.matteorenzi.it/
enews-381-8-gennaio-2014/>, ma rintracciabile qui, URL: <http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/201401-09/la-e-news-renzi-jobs-act-125157.shtml?uuid=ABizPao>, [data di accesso: 08/07/2014].
La crisi del lavoro in Europa e in Italia
55
Industrial Compact con l’obiettivo di portare la manifattura al 20% del Pil nel 2020
(EC 2014b, 2014c). Solo se tale fosse il senso del JobsAct e la volontà di politica
economica che lo sottende, allora crediamo che vi possa essere spazio per discuterne
nel merito e articolarne i precisi contenuti.
Si dovrebbero così fornire risposte ad alcune domande cruciali per iniziare a
comprendere quali siano le fondamenta del modello di sviluppo della sinistra italiana.
Come osserva Pianta (2013), la visione politica della sinistra vede il delinearsi di un
nuovo paradigma tecnologico (tecnologie verdi e conoscenza) (Perez 2013) sulla cui
base si fonderà lo sviluppo della società europea per i prossimi decenni? E, accanto a
ciò, il modello di sviluppo della sinistra riconosce alle istituzioni un ruolo regolatorio
e di indirizzo del mercato, che, giova ricordare, è anch’esso una istituzione a cui è
delegato il compito di regolare le transazioni tra soggetti economici? E ancora, la sinistra è in grado di recuperare l’idea delle «riforme di struttura» di lombardiana memoria, oppure è convinta che le «riforme strutturali» siano una versione 2.0 delle prime,
quando invece appartengono a una cultura davvero ottocentesca e pre-keynesiana?
Indubbiamente possono essere avanzate diverse critiche al JobsAct così come si
può essere scettici sull’idea che ci sia una visione politica di lungo periodo a sottenderlo
e sostenerlo, tuttavia concordiamo con Romano (2014) quando afferma che quantomeno
si ricomincia a discutere di politica economica e, aggiungiamo, si potrebbe abbandonare
una logica di breve periodo volta a rappezzare problemi sistemici con logiche di corto
respiro e con effetti quantomeno dubbi se non nulli. Politica economica qui non si esaurisce per Romano nel sostegno della domanda pubblica come componente quantitativa
della domanda effettiva, quanto politica della spesa pubblica che dovrebbe concorrere a
realizzare le condizioni di specializzazione produttiva e di politica dell’innovazione al
fine di mantenere in tensione la domanda effettiva (Romano 2013). Chiediamo così a
questa nuova generazione di politici della sinistra italiana di non considerare troppo di
sinistra prefigurare un ritorno a quell’entrepreneurial state che anche nel mondo anglosassone (Mazzucato 2011; 2013) inizia a essere richiamato e che in tanti fingono di non
ricordare.
4. Il cuneo fiscale e la trappola della stagnazione della produttività
Nonostante la prospettiva offerta dalla Mazzucato vada in una direzione alta nella politica economica, nel nostro Paese sembra che il nuovo mantra sia diventato l’abbassamento del cuneo fiscale, panacea sia per la bassa domanda interna che per la competitività delle imprese sui mercati.
Già nella Legge di Stabilità 2014-2016 del dicembre 2013 il cuneo fiscale costituiva secondo vari osservatori una tappa fondamentale per la sopravvivenza del governo Letta, nella prospettiva della sua durata per tutto il tempo richiesto dalla Presidenza italiana del Consiglio Europeo sino alla fine del 2014, e anche oltre. Dopo una
estate nella quale i partiti che sostenevano il governo delle larghe intese hanno trascorso il tempo a discutere per l’ennesima volta dell’Imu, l’unica patrimoniale esistente in Italia, e poi a far legiferare il Parlamento per la sua abolizione, le parti sociali
56
Davide Antonioli, Paolo Pini
chiedevano un segnale forte per la crescita e l’occupazione, a iniziare da una riduzione consistente del cuneo fiscale che deprime i salari e anche la competitività delle imprese. La proposta governativa non è riuscita ad andare neppure in questa direzione,
se non molto tiepidamente e con un certo tasso di incoerenza interna. I vincoli europei, da un lato, e la politica italiana, dall’altro, hanno prodotto una Legge di Stabilità
del tutto inadeguata, in continuità con le politiche del rigore e dell’austerità.
I vincoli europei che impongono il consolidamento fiscale dettati dai parametri soglia del 60% debito/Pil, del 3% deficit/Pil, del pareggio di bilancio strutturale corretto
per il ciclo come obiettivo di medio termine, a meno dello 0,5% di deficit/Pil, non lasciano margini di manovra per le politiche fiscali anti-cicliche, proprio perché sono ottusamente costruiti per politiche pro-cicliche: in presenza di crisi i vincoli impongono
l’austerità trasformando la crisi in depressione, in presenza di ripresa economica gli
stessi vincoli sono tali da frenarla e riportare il sistema nella crisi, solo in presenza di
forte crescita i vincoli diventano meno stringenti e alleggeriscono la morsa su debito e
deficit in rapporto alla crescita del reddito. Proprio l’opposto di ciò che servirebbe e dovrebbe essere fatto. In aggiunta, il percorso di consolidamento fiscale progettato per
riportare il rapporto debito/Pil sotto il 60% impone una cura ai Paesi che hanno rapporti
giudicati eccessivamente elevati, oltre il 100%, così severi e ottusi che il malato peggiora invece di guarire, e il suo rapporto debito/Pil aumenta, anziché ridursi. Non solo quei
parametri appaiono oggi artificiali anche perché costruiti in tempi nei quali la crescita
era nell’ordine del 3% annuo, e il rapporto debito/Pil si aggirava proprio attorno al 60%
(media dei Paesi candidati all’euro negli anni ’90), ma perché il consolidamento fiscale
impone oggi un rientro dal debito in venti anni che non lascia spazio per alcuna politica
di crescita di reddito e occupazione, e genera solo depressione nei Paesi che lo devono
praticare, i Paesi periferici, diffondendola nei Paesi che non sono tenuti ad applicarlo, i
Paesi virtuosi. Solo abbandonando tali vincoli e tale percorso di consolidamento, la politica fiscale può riacquistare alcuni gradi di manovra, da impiegarsi per la crescita e
l’occupazione e da cui far discendere condizioni e tempi di rientro dal debito.
Tuttavia la situazione italiana presenta una sua specificità negativa, che colloca il
nostro Paese in una posizione ad alta criticità rispetto a quelle di altri Paesi dell’area
Euro, dell’Unione Europea, e di tutti, o quasi tutti, i Paesi industriali dell’area Oecd.
La crescita della produttività del lavoro è prossima allo zero dall’inizio degli anni
2000, negativa negli anni della crisi 2008-2012, comunque stagnante dal 1990 rispetto
agli altri Paesi, e ciò costituisce un fattore di pressione verso il basso sia sulle retribuzioni che sulla competitività delle imprese (grafici 1.1-1.3). La relazione tra dinamica
della produttività del lavoro e crescita del reddito negli anni dell’euro per i singoli
Paesi industriali è evidente nel grafico 2 che segue, ripreso da un recente studio realizzato dall’Istat.
La crisi del lavoro in Europa e in Italia
Grafico 1.1. Produttività del lavoro (GDP reale per ora lavorata), tassi di crescita medi annui, 1990-2012 (Fonte: Oecd Statistics, novembre 2013)
Grafico 1.2. Produttività del lavoro (GDP reale per ora lavorata), tassi di crescita medi annui, 2000-2012 (Fonte: Oecd Statistics, novembre 2013)
57
58
Davide Antonioli, Paolo Pini
Grafico 1.3. Produttività del lavoro (GDP reale per ora lavorata), tassi di crescita
medi annui, 2008-2012 (Fonte: Oecd Statistics, novembre 2013)
Grafico 2. Crescita del Pil (asse orizzontale) e della produttività oraria del lavoro
(asse verticale), anni 2000-2012 (fonte: Istat, 9° Censimento dell’industria e dei
servizi - Nota di R. Monducci, Istat, Roma, 28 novembre 2013, p. 11)
La crisi del lavoro in Europa e in Italia
59
Il parametro di competitività che comunemente, ma non senza giustificate obiezioni,
viene richiamato è il costo nominale del lavoro per unità di prodotto (Clup), in quanto
determinante del prezzo del prodotto. Esso è costituito da due componenti, il costo
(nominale) del lavoro, al numeratore, e la produttività (reale) del lavoro, al denominatore. Pensare di ridurre la crescita del primo per accrescere la competitività di ciò che
si produce può essere cosa giusta da fare, soprattutto quando questo è alto non a causa
delle retribuzioni che vanno in tasca al lavoratore, quanto delle imposte sul lavoro che
sono pagate dal lavoratore e dall’impresa. Ridurre il cuneo fiscale, spostare la tassazione dal lavoro e dalla produzione di reddito a consistenze patrimoniali e alla ricchezza finanziaria e non, ovvero dai flussi agli stock, libera risorse che possono accrescere le retribuzioni dei lavoratori, e quindi la domanda interna, e la competitività delle
imprese via effetti sui prezzi di ciò che viene prodotto.4 Questa politica può avvantaggiare
il lavoro e l’impresa, senza scaricarne il costo sui servizi offerti dall’amministrazione
pubblica, in primis sanità, scuola e formazione, welfare, ecc. Ecco perché le parti sociali
chiedono da tempo che si pratichi questa politica, e auspicavano che la LS costituisse
l’occasione per una riduzione non simbolica del cuneo fiscale. Siccome così non è stato,
allora hanno iniziato a chiedere che i risparmi che deriveranno dalla revisione della
spesa (spending review), annunciati in 32 miliardi di € nel triennio 2015-2017, e dalla
lotta all’evasione fiscale, siano automaticamente destinati per una quota del 90% alla
riduzione del cuneo fiscale, e solo per la restante quota all’abbattimento del debito
pubblico.5 La situazione è così grave per la competitività delle imprese, per i redditi
da lavoro, e quindi per la domanda interna che o si dà priorità assoluta a questo rispetto al consolidamento fiscale, oppure una parte consistente del tessuto produttivo italiano rischia davvero di scomparire, e con esso le imprese che lo compongono e il lavoro che ne crea il valore.
In alcuni recenti interventi, l’attuale responsabile economico del Partito Democratico, Filippo Taddei, è tornato a ribadire6 la necessità di una significativa riduzione del
4
Non bisogna comunque trascurare che gli effetti di una riduzione nominale di una tassa, sul lavoratore o
sull’impresa, non corrispondono agli effetti reali. Chi paga l’imposta nominalmente non è detto che sia il
soggetto che poi la paga effettivamente, in quanto essa può essere trasferita da un soggetto all’altro, e ciò
dipende sia dalla forza contrattuale che dalle condizioni di domanda e offerta di lavoro (elasticità). I
benefici di una riduzione del cuneo sul lavoratore o sull’impresa possono essere erroneamente previsti
trascurando questi fattori, e comunque sono incerti.
5
Si veda la proposta avanzata dalle parti sociali ed espressa da Roberto Napoletano (2013) nell’articolo
intitolato significativamente Presidente Letta, ascolti il Paese («Il Sole24Ore», 24 novembre 2013). Scrive
Napoletano: «Presidente Letta tiri una linea, azzeri tutto, prenda atto che la (sua) legge di stabilità non è in
grado di cogliere le priorità del Paese e di fornire le risposte adeguate. Ha ancora pochissimo tempo a disposizione per porre rimedio, ma può ancora farlo se vuole dare un senso compiuto alla stabilità in linea con
il sentimento e le esigenze vitali del Paese.»
6
Ospite a «Otto e mezzo» su La7 il 17 dicembre 2013, Taddei ha ribadito la priorità di tagliare il cuneo
fiscale, reintroducendo la patrimoniale sulla residenza principale oltre che lungo linee già proposte in
passato. Già alla nascita del governo Letta, Taddei aveva infatti avanzato una proposta per finanziare la
riduzione del cuneo fiscale (Taddei 2013), come uno dei punti di un governo «a progetto» da attuare in sei
mesi. La spesa per organi esecutivi, legislativi e affari esteri è in Italia più alta che in Gran Bretagna (+1%
di Pil), Spagna (+0,8%), Germania (+0,7%) nel 2010. L’1% equivale a circa 15 miliardi. Risparmi di questa
grandezza possono essere destinati alla riduzione del cuneo fiscale: «Cominciamo con il mettere un limite:
nessuno nella pubblica amministrazione può guadagnare più degli oltre 240 mila euro di Giorgio
Napolitano, anche cumulando diversi incarichi. Questo tetto alle remunerazioni offre ampi margini alla
60
Davide Antonioli, Paolo Pini
cuneo fiscale, che risulta tra i più elevati tra i Paesi Oecd. In un recente contributo
(Nannicini, Taddei 2013), si argomenta che mentre la tassazione sui patrimoni, di cui
in Italia sono elevati quelli immobiliari, è particolarmente bassa se confrontata in ambito internazionale, quella sul lavoro e impresa ci vede ai vertici. L’applicazione
dell’Imu introdotta dal governo Berlusconi nel 2011, prevista per il 2014, è stata anticipata e rimodulata dal governo Monti nel 2012; questa aveva il merito di innalzare la
tassazione sui patrimoni immobiliari introducendo anche una significativa progressività per gli immobili sia residenziali che non residenziali.7 L’abolizione dell’imposta
sull’abitazione principale ha sottratto circa 4 miliardi di risorse utili a ridurre le aliquote Irpef e Irap e colmare parte del gap che ci separa da altri Paesi. Questa costatazione è indubbiamente vera. Come mostra la tabella 3, il cuneo fiscale nel 2012 per
l’Italia è pari al 47,6%, contro una media del 35,6% per i Paesi Oecd.8 Tra i 34 Paesi
dell’area Oecd, l’Italia si colloca al sesto posto come pressione fiscale sul lavoro, ma
con cunei poco più elevati del nostro abbiamo sia la Francia che la Germania. Dal
2000 tuttavia il nostro cuneo fiscale non è diminuito, ma neppure aumentato di molto,
solo di 0,5 punti percentuali, 0,09% come media annua. Altri Paesi hanno di certo fatto meglio di noi, ma non sembra che sia stata la dinamica del cuneo ad avere inciso
molto sulla crescita del costo del lavoro per unità di prodotto. Il grafico 3 illustra la
dinamica del cuneo dal 2000 per un numero di Paesi selezionati dell’area Oecd, dinamica che non ha modificato di molto la posizione relativa del nostro Paese. Non vi è
dubbio che l’Italia abbia fatto assai poco per migliorare la sua posizione relativa, ma
se consideriamo il costo nominale del lavoro per unità di prodotto, verifichiamo che
altri fattori hanno contribuito maggiormente alla crescita relativa del Clup. Nei grafici
4.1-4.3 sono presentate le dinamiche del costo nominale del lavoro per unità di prodotto, del costo nominale totale del lavoro per unità di lavoro (il suo numeratore), e
della produttività del lavoro per unità di lavoro (il suo denominatore), per una serie
selezionata di Paesi per i quali sono disponibili i dati di fonte Oecd dal 2000.
Come emerge con chiarezza dal grafico 4.1., il nostro Paese evidenzia una crescita media annua del Clup pari al 2,2%, sopra la media dei Paesi Oecd (1,46%), e dei
Paesi europei (1,83%). Ciò si realizza nonostante la crescita del numeratore, il costo
nominale del lavoro complessivo, sia significativamente inferiore (2,47% medio annuo) a quella di gran parte dei Paesi Oecd (la cui crescita media annua è del 2,85%)
(grafico 4.2). Meno di 1/40 di questa crescita è attribuibile alla dinamica del cuneo
remunerazione del merito nella pubblica amministrazione ma offre anche risparmi altrettanti larghi.
Risparmi che possiamo utilizzare, per una volta, a favore dei lavoratori e di tutti i lavoratori, tagliando
l’Irpef senza aumentare il deficit pubblico. Un governo ‘a progetto’ forse durerà meno di un governo ‘di
servizio’, ma certamente permetterà a questo Paese di andare più lontano» (Taddei 2013, p. 2. Corsivo
aggiunto).
7
Nel 2012 dall’imposta sugli immobili non principali derivava un gettito di 18 miliardi circa con l’Imu (su
un totale di 24), mentre era 8 miliardi annui con l’Ici nel triennio 2008-2010. Il gettito Ici sull’abitazione
principale era pari a 3,3 miliardi circa nel 2007, mentre con l’Imu è stato di circa 4 miliardi nel 2012, con
crescente progressività. Nel 2009 il gettito sui patrimoni immobiliari pesava in Italia lo 0,6% del Pil, mentre
la media Oecd era dell’1,1%, con 3,5% Regno Unito, 3,1% Usa e Canada, 2,4% Francia, 2,1% Giappone.
La quota di patrimonio immobiliare di residenza pesa il 70% del valore della ricchezza mobiliare e
immobiliare in Italia, molto più di altri Paesi Oecd. Si veda Dipartimento delle Finanze, MEF (2013).
8
Dal calcolo per l’Italia non si tiene conto di Irap e contributi Inail versati dalle imprese.
61
La crisi del lavoro in Europa e in Italia
fiscale nel corso del periodo considerato. Infatti, la crescita media annua del cuneo
registrata nel periodo 2000-2012 dello 0,09% incide su poco meno della metà del costo del lavoro complessivo. Ma ciò che è più rilevante è il gap tra l’Italia e il resto dei
Paesi nella dinamica del denominatore, ovvero della produttività del lavoro (grafico
4.3). Qui siamo «fanalino di coda» con una crescita dello 0,2% media annua, contro
l’insieme dei Paesi Oecd che registrano dal 2000 l’1,37%, un gap di 1,17 punti percentuali annui che è pari a circa l’85% di crescita annua. Questo gap appare incolmabile se
dovesse essere compensato tramite una manovra concentrata solo sul cuneo che va a
incidere sul costo totale del lavoro.
Tabella 3. Cuneo fiscale sul lavoro, 2000 e 2012 (fonte: Oecd Statistics, novembre 2013)
Country
Belgium
France
Germany
Hungary
Austria
Italy
Sweden
Finland
Czech Republic
Slovenia
Greece
Spain
Estonia
Slovak Republic
Netherlands
Denmark
Turkey
Norway
Portugal
Luxembourg
Poland
Iceland
United Kingdom
Japan
Canada
United States
Australia
Ireland
Switzerland
Korea
Israel
Mexico
New Zealand
Chile
Europe - Average
OECD - Average
Tax wedge
2000
57,1
50,4
52,9
54,7
47,3
47,1
50,1
47,8
42,6
46,3
39,1
38,6
41,3
41,9
40,0
44,1
40,4
38,6
37,3
37,1
38,2
28,8
32,6
24,7
33,2
30,4
31
28,9
22,4
16,4
29
12,4
19,4
7
41,9
36,7
Tax wedge
2012
56,0
50,2
49,8
49,4
48,9
47,6
42,8
42,5
42,4
42,3
41,9
41,4
40,4
39,6
38,6
38,6
38,2
37,6
36,7
35,8
35,5
34,5
32,3
31,2
30,8
29,6
27,2
25,9
21,5
21
19,2
19
16,4
7
40,5
35,6
Variazione
2012-2000
í1,06
í0,17
í3,11
í5,25
1,57
0,52
í7,30
í5,30
í0,17
í3,90
2,88
2,77
í0,91
í2,23
í1,49
í5,54
í2,21
í0,99
í0,59
í1,34
í2,71
5,68
í0,26
6,42
í2,35
í0,77
í3,80
í2,93
í0,94
4,63
í9,85
6,56
í2,98
0,00
í1,36
í1,09
Posizione
2010
1
4
3
2
7
8
5
6
11
9
16
17
13
12
15
10
14
17
20
21
19
28
23
29
22
25
24
27
30
32
26
33
31
34
-
Posizione
2012
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
-
62
Davide Antonioli, Paolo Pini
Grafico 3. Cuneo fiscale sul lavoro dal 2000 al 2012, variazione % annuale
(Fonte: Oecd Statistics, novembre 2013)
Grafico 4.1. Costo nominale del lavoro per unità di prodotto dal 2000 al 2012,
variazione % annuale (Fonte: Oecd Statistics, novembre 2013)
Grafico 4.2. Costo nominale del lavoro per unità di lavoro dal 2000 al 2012,
variazione % annuale (Fonte: Oecd Statistics, novembre 2013)
La crisi del lavoro in Europa e in Italia
63
Grafico 4.3. Produttività del lavoro per unità di lavoro dal 2000 al 2012,
variazione % annuale (Fonte: Oecd Statistics, novembre 2013)
Ipotizzando che si voglia ridurre la crescita del costo del lavoro (numeratore) di poco
più di 1 punto percentuale l’anno, da 2,2% medio annuo del periodo 2000-2012, a
1,1% dal 2014 (poco meno del gap di produttività), dato che il cuneo copre circa il
50% del costo del lavoro complessivo, il cuneo dovrebbe ridursi di più del 2% medio
annuo, riducendo il peso del cuneo sul costo del lavoro di 1 punto percentuale circa
ogni anno, dal 47 attuale. A tal fine sarebbero necessari circa 4 miliardi l’anno, se valessero gli effetti annunciati dal «nuovo» governo Letta che intende ridurre il cuneo
del 10% con 22 miliardi.9 Il successo di tale politica non è però assicurato, in quanto
come le esperienze passate hanno insegnato (governo Prodi), gli effetti realizzati
all’epoca si sono dimostrati al di sotto di circa 2/3 di quelli previsti. In tale eventualità, i miliardi necessari dovrebbero essere triplicati, e raggiungerebbero la cifra dei 12
miliardi per un anno per ogni punto percentuale in meno del cuneo, più di 1/3 dei risparmi di spesa previsti con l’ipotesi Cottarelli di spending review per tutto il triennio
2015-2017. Ogni anno successivo tale riduzione dovrebbe essere rifinanziata, e ogni
riduzione superiore a un punto percentuale avrebbe analoghi costi. Ricordiamo che il
gap del peso del cuneo fiscale italiano rispetto ai Paesi Oecd è di circa 12 punti percentuali. Successivamente, a meno di ulteriori interventi annui di riduzione del gap del
cuneo, il gap di crescita della produttività tornerebbe a «mordere» di nuovo, e quell’1%
recuperato al numeratore verrebbe annullato in poco tempo dalla insoddisfacente dinamica del nostro denominatore.10
L’intervento prioritario e assoluto sul cuneo fiscale, che conduce ad abbassare il
costo nominale del lavoro, ovvero il numeratore di quel rapporto che è il costo del
9
Letta ha annunciato nel suo discorso per la richiesta di fiducia al Parlamento del 11 dicembre 2013 di
voler ridurre il cuneo fiscale del 10% con 22 miliardi di risorse dal 1 febbraio 2014. Con un cuneo che è
pari al 47% circa, si tratta di ridurre il cuneo di circa 5 punti percentuali, con un costo stimato per ogni
punto di circa 4 miliardi annui. Si veda Baglioni et al. 2013.
10
Manasse (2013a; 2013b) osserva che il gap italiano del Clup reale, tenendo conto della dinamica dei
prezzi interni, accumulato dal 2000 con la Germania è di oltre 30 punti percentuali, metà del quale dipende
dalla dinamica della produttività. Pensare di recuperare tale gap con un intervento sul cuneo non è
immaginabile.
64
Davide Antonioli, Paolo Pini
lavoro per unità di prodotto, rischia così di avere «fiato corto», e di venire presto neutralizzato dalla dinamica della produttività che tutti gli altri Paesi hanno e che quasi
solo a noi manca del tutto. La stagnazione della nostra produttività dopo poco tempo
inizierà di nuovo a premere sulla competitività di ciò che produciamo, sul lavoro e
sull’impresa, soprattutto sui salari in presenza, non dimentichiamolo, di una moneta
comune nell’eurozona che spinge verso politiche di svalutazione interna a tutto svantaggio del lavoro e della sua retribuzione. Inoltre, in questa eurozona dove detta legge
il consolidamento fiscale e dove le «riforme strutturali» sono lo strumento imposto
dall’Europa agli stati membri per riguadagnare competitività, ogni Paese viene forzato
a replicare ciò che fa il vicino, per cui una manovra che abbassa il costo del lavoro in
un Paese viene imitata da un altro Paese, agendo sulle tasse o sui salari. È la legge
della svalutazione interna, nella quale l’Italia con la sua trappola della stagnazione
della produttività, è la prima a uscirne sconfitta. Ecco perché focalizzarsi sul cuneo
fiscale, impegnare tutte le risorse per la sua riduzione rischia di essere una politica di
corto respiro in presenza di produttività stagnante e moneta unica, una politica che
rischia dopo poco tempo di penalizzare il lavoro e l’impresa, e come un boomerang di
riportare il Paese al punto iniziale. Occorre non dimenticare che il declino dell’economia
italiana ha origini lontane, risale a ben prima della nascita dell’Euro, che la stagnazione
della produttività ne è alla base, ed è alla base della dinamica piatta delle retribuzioni nonché della competitività delle imprese, e molto contribuisce alla stagnazione della crescita
della domanda interna e del reddito nazionale (Pini 2013b). La stagnazione della produttività origina molto dalle scarse risorse economiche che il mondo delle imprese, pubbliche e private, e la pubblica amministrazione, il soggetto pubblico in generale, destinano
da decenni all’innovazione, tecnologica e organizzativa, all’istruzione e alla formazione.
L’insieme del capitale immateriale fa la differenza, perché è fattore cruciale di componenti sistemiche, connettive e aziendali (Quadrio Curzio 2012) che spiegano la performance negativa della produttività italiana. Se non si cura questa stagnazione,11 gli effetti
positivi di ogni altro medicamento, riduzione del cuneo fiscale compreso, benché necessario, verranno presto neutralizzati, lasciando il malato cronico in uno stato persino
peggiore.
Cosa ci serve per uscire dalla trappola della stagnazione della produttività? Abbiamo cercato di rispondere a questa domanda in una serie di interventi che ora sono
raccolti nel volume, Lavoro, contrattazione, Europa (Pini 2013b), e in un saggio apparso nel 2013 in Quaderni di Rassegna Sindacale. Lavori (Antonioli, Pini 2013; si
veda anche Pini 2013c) Qui facciamo un passo ulteriore, perché la gravità della depressione italiana lo richiede. Proprio perché la stagnazione della produttività in Italia
ha radici lontane, che con l’euro si sono acuite ma di cui l’euro non tiene responsabilità diretta, bensì sono radicate in fattori strutturali, dal lato della domanda, della distribuzione e dell’innovazione, è su questi fattori strutturali che occorre intervenire. Oggi
la riduzione del cuneo fiscale che le parti sociali chiedono con vigore può avere un senso solo se è parte di una politica nazionale, in un contesto europeo, che (a) rilanci la
funzione distributiva e di sostegno della domanda interna che svolge la dinamica sala11
Si veda la proposta avanzata in Antonioli, Pini (2013).
La crisi del lavoro in Europa e in Italia
65
riale, (b) vincoli le imprese a impegnare risorse in ricerca, innovazione tecnologica, innovazione organizzativa, (c) impegni il soggetto pubblico a investire in istruzione, formazione, ricerca e innovazione. Essa deve costituire un reale cambio di rotta per la politica economica e sindacale. Le risorse economiche che le parti chiedono vengano destinate alla riduzione del cuneo fiscale siano vincolate e quindi distribuite in funzione degli impegni concreti che le stesse assumono sul terreno della ricerca e dell’innovazione,
e il soggetto pubblico assuma come obiettivo prioritario quello di sostenere tali impegni,
con risorse economiche ingenti per progetti di ricerca di base e applicata, politiche di
innovazione e trasferimento tecnologico, investimenti in istruzione e formazione. Le
articolazioni, modalità e procedure per tali interventi possono essere trovate; occorre
che tutto ciò sia fatto con un basso tasso di complessità normativa. Essenziale è che si
concordi anzitutto su questo obiettivo comune.
5. Dal cuneo fiscale alla precarietà per tutti
Purtroppo il mantra della riduzione del cuneo fiscale non è però l’ultima tappa delle
politiche di riforme strutturali sul lavoro. Nel 2014, con il cambio di Governo, da Letta a Renzi, sembra che la politica economica sul lavoro abbia segnato una robusta virata verso la flessibilità.
Il nuovo Governo si trova nella difficile situazione di chi da un lato afferma che il
vincolo del 3% deficit su Pil è «anacronistico», ma dall’altro non potrà sfuggire facilmente a tale vincolo, che peraltro la Commissione non intende (al margine) flessibilizzare verso il basso; ricorda che l’Italia è già troppo vicina al 3% in ragione di stime
italiane di crescita non realistiche.
La situazione economica non volge al meglio per il 2014. Le previsioni inserite
dalla Legge di Stabilità 2014-2016 (dicembre 2013) fiduciosamente davano un 1,1%
di crescita del Pil, a cui corrisponde un deficit/Pil del 2,6%. Le istituzioni internazionali, però, già certificavano uno 0,7% di crescita, che di recente è stato abbassato allo
0,6%, con un 2,8% di deficit/Pil. Vi è poi chi immagina una crescita persino inferiore,
0,5%, con effetti negativi sul deficit/Pil che rischia di avvicinarsi alla soglia del 3%.
In questo quadro, margini di flessibilità di 0,4 punti percentuali di Pil (6,4 miliardi) su
cui il Governo spera di fare affidamento svaniscono, prima ancora che la Commissione dichiari la propria disponibilità.
A ciò si deve aggiungere che a breve lo scenario non sarà quello del vincolo al 3%
deficit su Pil, bensì lo 0,5% previsto dal 2016 dal Fiscal Compact (e per la verità dello
0% corretto per il ciclo sin dal 2014 (!) previsto dall’articolo 81 della Costituzione italiana, riscritto da una maggioranza quasi assoluta del Parlamento nell’aprile del 2012).
Nel 2016 inizia anche il percorso a ostacoli del rientro del nostro debito al 60% del Pil
entro il 2035, che comporta più di 50 miliardi di riduzione del bilancio pubblico
all’anno dato che siamo ora attorno al 135%, e la modesta crescita del Pil reale e la bassa inflazione (quasi deflazione) non aiutano di certo. Infatti, la Commissione ha già annunciato che si attende avanzi primari (al netto degli interessi) coerenti per conseguire
tale obiettivo, nell’ordine di 4.5% del Pil. Alcuni sostengono che tale percorso non sarà
66
Davide Antonioli, Paolo Pini
praticabile non solo per noi, ma anche per molti altri Paesi, tra cui la Francia, oltre che
per tutti i Paesi periferici, per cui il suo rispetto è sin d’ora dubbio. Vedremo quanto
stringente sarà tale vincolo; rimane il fatto che esso è scolpito sulla pietra del Fiscal
Compact sottoscritto (gennaio 2012, Consiglio Europeo) da tutti i Paesi dell’Unione
Europea (25), fatta eccezione per Regno Unito e Repubblica Ceca.
È in questo contesto di regole europee che il Governo italiano deve realizzare i suoi
piani di spesa nel 2014 e negli anni a venire. Le misure messe in cantiere con gli annunci sono ingenti per le risorse che richiedono (Pini 2014a). Il mantra della riduzione del
cuneo fiscale prosegue, ma sembra indirizzarsi ora sul lavoro, più che sull’impresa, cercando di trovare risorse sufficienti per accrescere le retribuzioni nette riducendo la tassazione sui lavoratori, e cercando per questa via di attivare un minimo di stimolo alla
domanda di consumi delle famiglie. Questo sarebbe un esito auspicabile, ma occorrerebbe che la detassazione del salario lordo non venisse finanziata da una riduzione della
spesa pubblica via spending review in quanto è noto che gli effetti moltiplicativi della
detassazione risultano inferiori a quelli della spesa pubblica, e quindi determinerebbero
una riduzione della domanda interna piuttosto che un suo aumento.
In attesa che il Ministro dell’Economia e delle Finanze Pier Carlo Padoan si cimenti nella più classica «quadratura del cerchio», con il Def 2014, il primo provvedimento del Governo è divenuto operativo con la pubblicazione del decreto legge n. 34,
del 20 marzo 2014.12
Per avviare un nuovo ciclo di assunzioni, è stato deciso di: a) eliminare una delle
cause all’origine dei contenziosi, quelli relativi al mancato rispetto della «causale» specificata nel contratto a termine; b) indurre le imprese ad assumere giovani con
l’apprendistato, eliminando le clausole di stabilizzazione, gli obblighi formativi e riducendo le retribuzioni.
A tal fine il decreto interviene sulle norme in tema di contratti a termine e apprendistato.
Sui contratti di lavoro a termine o a tempo determinato si prevede quanto segue:
1.
2.
3.
4.
12
contratto di lavoro a termine senza «causale» esteso a 3 anni, invece di 1
anno come in precedenza, ovvero non è necessario indicare la motivazione
del termine del contratto di durata sino a tre anni;
eliminazione della motivazione della proroga per tutti i contratti a termine:
«acausalità», dopo il primo contratto temporaneo (in precedenza la «acausalità» non era prevista per eventuali proroghe da comprendersi comunque
solo nei 12 mesi massimi dell’intero contratto);
limite massimo alle proroghe: 8 contratti a termine consecutivi, senza soluzione di continuità del rapporto di lavoro tra un contratto prorogato e l’altro
(in precedenza solo una proroga era consentita e per ragioni da giustificare);
contratti a termine non oltre il 20% dell’organico nelle imprese da 5 addetti; entro i 5 addetti sono possibili uno o più contratti a termine; si fa ecce-
URL: <http://www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.data
PubblicazioneGazzetta=2014-03-20&atto.codiceRedazionale=14G00046&elenco30giorni=false>, [data di
accesso: 08/07/2014].
La crisi del lavoro in Europa e in Italia
5.
6.
67
zione per i lavoratori over-55, per i quali non sussiste tale limitazione, ed è
una novità importante;
la contrattazione collettiva può intervenire sui limiti quantitativi in caso di
sostituzione di manodopera ed esigenze di stagionalità, o per le fasi di avvio di nuove attività (leggi deroga dalla legislazione);
il decreto interviene anche sui contratti di somministrazione di lavoro (ex
lavoro interinale), prevedendo «acausalità» per contratti a tempo determinato di durata sino a 3 anni.
Sui contratti di apprendistato le semplificazioni previste sono le seguenti:
1.
2.
3.
4.
5.
non è più necessario confermare il 30% di apprendisti con contratto stabile
prima di attivare rapporti di apprendistato con altri lavoratori;
non è più obbligatorio il piano formativo individuale sottoscritto tra lavoratore e impresa;
eliminazione dell’obbligo di integrare la formazione on the job professionalizzante del datore di lavoro con quella formativa pubblica;
la retribuzione dell’apprendista è fissata al 35% della retribuzione contrattuale per il tempo dedicato all’attività di formazione;
la contrattazione collettiva può intervenire sui limiti imposti dalla normativa (leggi deroga dalla legislazione).
Con i cambiamenti intervenuti, il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato
cessa di essere il contratto preminente, e deve misurarsi con i contratti a termine di durata triennale (a tempo determinato standard e somministrazione), liberati da qualsiasi
motivazione di «carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro».
Esso peraltro si inserisce appieno nelle politiche del lavoro ventennali attuate nel
nostro Paese che hanno accompagnato il declino della produttività per scarsi investimenti in innovazione.
Cosa è avvenuto di così eclatante a cavallo degli anni novanta e successivamente
sino ai giorni nostri da indurre le imprese a smettere di investire sia sulla qualità del
lavoro che sull’avanzamento tecnologico? Tra le tante cose avvenute, due sono quelle
per noi più rilevanti. La moderazione salariale e la flessibilità del mercato del lavoro.
Nel 1993 è stato firmato dalle parti sociali e dal governo un accordo importante che
ha riformato la contrattazione definendo i due livelli contrattuali, quello nazionale e
quello aziendale o decentrato. Mentre con il primo si doveva assicurare una dinamica
salariale compatibile con la riduzione dell’inflazione (inflazione programmata), con il
secondo si sarebbe dovuto avviare un percorso virtuoso e partecipativo con i lavoratori
per far crescere assieme produttività e salari reali, innovando in tecnologie, organizzazione del lavoro e prodotti innovativi. Il governo avrebbe dovuto sostenere questo cambiamento con politiche macroeconomiche e microeconomiche, politiche per l’innovazione e politiche industriali.
Sappiamo poi come la storia si è risolta. La moderazione salariale è stata realizzata, l’inflazione è stata ridotta, l’Italia è rientrata nel parametro tasso d’inflazione previsto da Maastricht e ciò ci ha permesso di entrare a far parte dell’Eurozona, anche se
68
Davide Antonioli, Paolo Pini
con uno «spiacevole» effetto collaterale, ovvero una perdita di 10 punti percentuali
della quota del lavoro sul reddito complessivo, a vantaggio di profitti e rendite (soprattutto queste).
Circa il percorso virtuoso e partecipativo che avrebbe dovuto far crescere produttività e salari reali con l’innovazione tecnologica e organizzativa, neppure l’ombra.
Anzi, le imprese hanno smesso di investire sia nell’organizzazione del lavoro (le
«buone pratiche» queste sconosciute!) sia nelle tecnologie, e anche gli investimenti si
son ridotti (Pini 2013d; Comito, Paci, Travaglini 2014).
Anzi, come abbiamo spiegato nel nostro lavoro Lavoro, contrattazione, Europa
(Pini 2013b), ciò che è avvenuto dagli anni novanta, dalle Legge Treu «iniziazione
alle liberalizzazioni» del 1997 per passare a quella Biagi «supermarket dei contratti»
del 2003 per finire con la contraddittoria Legge Fornero «buona e cattiva flessibilità»
del 2012, è stata una progressiva deregolamentazione per favorire la flessibilizzazione
del mercato del lavoro che ha avuto proprio l’obiettivo di creare con interventi al
margine un mercato del lavoro duale, quello precario, da affiancare a quello in cui le
tutele sarebbero state poi ridotte in tempi successivi, come in effetti è avvenuto (ad
esempio con l’introduzione dell’art. 8, legge 148/2011, e con la quasi eliminazione
dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori nel 2012).13 Questo percorso viene anche certificato dall’indice di protezione all’impiego, costruito dall’Oecd (Grafico 5).
Grafico 5. Indice protezione all’impiego (Fonte: nostre elaborazioni su
Oecd Statistics)
È lecito quindi chiedersi quali siano i possibili rischi ed effetti che potranno derivare
dal decreto Renzi-Poletti, che costituisce una ulteriore tappa di cambiamento radicale
nella disciplina del lavoro successivo alla riforma Fornero che era stata costruita sulla
13
L’Italia è per l’Ocse il Paese che ha maggiormente flessibilizzato il mercato del lavoro tra i Paesi
industriali, riducendo le tutele senza conseguire alcun incremento di produttività, anzi accompagnando la
riduzione di tutele a dinamiche della produttività sempre peggiori (Pini 2013d).
La crisi del lavoro in Europa e in Italia
69
distinzione tra «buona e cattiva flessibilità». Ci sembrano rilevanti le seguenti ricadute
che dovranno essere monitorate con estrema attenzione.14
a.
b.
c.
d.
e.
f.
Crescita della dispersione salariale e delle disuguaglianze retributive: a
parità di mansione e qualifiche, paghe individuali ancor più differenziate
tra lavoratori a termine e lavoratori a tempo indeterminato.
Crescita dell’instabilità del rapporto di lavoro e delle difficoltà di costruire un percorso lavorativo di lungo periodo; crescita del rischio di passare da un lavoro a un altro, sempre da precario.15
Svalorizzazione del lavoro come realizzazione personale, con discriminazioni sostanziali di genere e di censo.
Sostituzione di lavoro stabile con il lavoro precario, senza nessun effetto
significativo sul volume di occupazione.
Riduzione degli incentivi alla formazione dei lavoratori interna all’impresa e stimolo alle relazioni di mercato esterne all’impresa piuttosto che
investire nel mercato del lavoro interno all’impresa: modello buy piuttosto che make; i cambiamenti introdotti mutano in modo significativo le
convenienze relative tra contratti a termine e apprendistato, liberalizzando i primi che sono favoriti e riducendo il contenuto formativo intrinseco
dei secondi.
Riduzione degli incentivi all’innovazione nell’impresa con sostituzione
della flessibilità esterna all’impresa alla flessibilità interna: il rischio è
quello di esacerbare la «trappola della bassa produttività» che contraddistingue parte significativa delle imprese italiane che investono poche risorse in innovazioni organizzative del tipo best work organization practices.
Con questo provvedimento la fase 1 della riforma del mercato del lavoro è quindi stata avviata, assieme a quella della semplificazione normativa e delle liberalizzazioni.
Ora non resta che stendere il «testo unico» del lavoro, sintetico e necessariamente in
inglese per renderlo comprensibile alle imprese estere che arriveranno «a frotte» per
cogliere le opportunità della nuova politica del lavoro. Per la fase 2, quella delle opportunità e tutele di mercato, come sempre avvenuto nel passato occorrerà attendere.
Mancano le notevoli risorse finanziarie necessarie alla creazione di quel sistema di
flexicurity che richiede anche una riforma della pubblica amministrazione che consenta di coniugare, ma in modo concorrenziale ovviamente, sistema pubblico e privato
nel mondo delle politiche del lavoro e della formazione. Nel frattempo si potranno
forse approntare alcune riforme minimali, a margine, a «costo zero», quale la Nuova
Aspi che estenda il sussidio per chi perde lavoro almeno a qualche centinaia di migliaia di persone, traendo forse le risorse dalla cassa integrazione in deroga.
A livello macroeconomico non possiamo quindi aspettarci qualcosa di molto diverso dalla intensificazione delle politiche di svalutazione interna, che coniugate sul
14
Tali rischi sono stati evidenziati da Alleva (2014a e 2014b), Brancaccio (2014), Boeri (2014a e 2014b),
Boeri-Garibaldi (2014), Mariucci (2014), Pini (2014b), Saraceno (2014).
15
Già ora il 70% circa degli avviamenti al lavoro sono realizzati con contratti diversi dal tempo
indeterminato.
70
Davide Antonioli, Paolo Pini
lavoro significano rapporti di lavoro flessibili, precari, con basse retribuzioni, che
consentono alle imprese di poter competere sui costi e sui prezzi piuttosto che sulla
qualità di ciò che producono. L’idea è che si possa ridurre il gap di competitività con i
Paesi virtuosi, e cercare di riequilibrare deficit commerciali e debiti pubblici rilanciando un modello export-led per tutti i Paesi periferici dell’eurozona, contraendo la
domanda interna. Questa è la politica che l’Europa raccomanda con pervicacia. Il rischio è grande per i Paesi periferici: ogni Paese cercherà di trarre beneficio dalle svalutazioni interne, riducendo occupazione e salari, comprimendo i costi per salvare la
propria base industriale a scapito di quella altrui. La storia insegna che questo gioco
non è a somma positiva, ma spesso negativa, soprattutto nel medio e lungo periodo.
Ma ciò fa parte della malattia del short-terminism che i mercati finanziari hanno esteso all’economia reale.
Tuttavia, sono i fatti stilizzati che contrastano con gli effetti «salvifici» attribuiti
alle politiche di deregolamentazione del lavoro. Infatti, l’introduzione di maggiore
flessibilità del lavoro, via deregolamentazione e liberalizzazione del mercato, che si
traduce nella riduzione delle tutele del lavoro, non si associa a maggiore occupazione,
minore disoccupazione, maggiore probabilità di stabilità dei rapporti di lavoro, maggiori retribuzioni, ma neppure a maggiore produttività. Anzi, l’evidenza empirica va
in direzione opposta: deregolamentazione e liberalizzazione inducono minore crescita
della produttività del lavoro (Pini 2013b, 2013d; Comito et al. 2014).
Il lavoro flessibile meno tutelato, la diffusione di relazioni contrattuali che rendono più instabili i rapporti di lavoro induce le imprese a investire meno sulla formazione, sulla innovazione organizzativa dei luoghi di lavoro, sull’innovazione tecnologica
e spinge le stesse a concorrere sulla riduzione dei costi piuttosto che sulla qualità del
lavoro e del prodotto, sulla sua intensità tecnologica. La crescita delle imprese che
innovano è anzi frenata dalla concorrenza sui costi esercitata delle imprese che non
innovano e che utilizzano lavoro flessibile, a bassa produttività e bassa retribuzione.
La deregolamentazione del lavoro introduce incentivi distorti per le imprese, che ne
modificano i comportamenti e comportano un peggioramento della dinamica della
produttività, anziché una sua crescita. È ciò che è avvenuto in Italia dagli anni novanta: la crescente flessibilizzazione del mercato del lavoro non ha contrastato il declino
della produttività, anzi ha contribuito a determinare quella «trappola della stagnazione
della produttività» nella quale siamo immersi da oltre dieci anni.
È quindi impensabile che ancor maggiori dosi di flessibilità possano curare il malato. La logica distorta del medico insipiente vuole che se con una cura dai deboli e
dubbi effetti positivi non si intravvede la guarigione del malato, anzi lo si vede peggiorare, invece di cambiare la diagnosi e quindi migliorare la prognosi, si somministrino dosi ancor maggiori del letale medicamento, che a dosi crescenti intossica completamente il paziente. La flessibilità rischia poi di avere effetti analoghi a una droga,
più la prendi, più ne diventi dipendente, più difficile è rinunciarvi, e al contempo ti
indebolisce fino a farti schiattare.
La crisi del lavoro in Europa e in Italia
71
6. Un’altra rotta in Europa è possibile
Le istituzioni internazionali, a iniziare da Fmi, Oecd, Ce, annunciano da qualche mese
la fine della depressione testimoniata dai segnali di inversione del ciclo dalla seconda
parte del 2013, e prevedono una crescita robusta del reddito nel 2014, per gran parte
delle economie mondiali. La cautela degli economisti è però d’obbligo, almeno per
due motivi. In primo luogo, le stesse istituzioni avevano previsto la fine della recessione anche nel recente passato, cosa che poi non ha trovato conferma, anzi la crisi è
proseguita; al contempo hanno spesso la propensione a sottostimare la crisi e la sua
durata, e a sovrastimare la crescita e la sua robustezza, aggiustando poi verso il basso
entrambe le stime a ogni outlook. In secondo luogo, i segnali di ripresa sono deboli in
molti Paesi sviluppati, in Europa in particolare dove dominano dinamiche non convergenti tra i Paesi dell’eurozona, e dove le politiche restrittive di bilancio e il contenimento dei redditi da lavoro frenano la domanda interna dell’area; ma oltretutto vi è
incertezza sulla dimensione della crescita delle economie emergenti e sulla loro stabilità finanziaria, mentre prevalgono indicazioni di rallentamento della stessa nei
BRICS, con effetti negativi sul commercio mondiale. Tra i Paesi emergenti, debolezze
reali e finanziarie si sovrappongono, in particolare nei cosiddetti 5 fragili (India, Indonesia, Brasile, Turchia, Sudafrica) a cui si aggiungono altri Paesi coinvolti in tempeste valutarie (Argentina, Venezuela, Tailandia, Ucraina, Ungheria).
Le stesse istituzioni internazionali sono però concordi nel ritenere che la crescita
del reddito non consentirà nel breve di recuperare i livelli di reddito pre-crisi, e neppure di ritornare ai volumi di occupazione precedenti e riassorbile nell’arco di tre o
quattro anni la disoccupazione creatasi dal 2008. Se crescita sarà, non creerà molti
posti di lavoro, o almeno non quanti sarebbero necessari. Si ritiene infatti che vi siano
almeno tre fattori in campo. Il ritmo della crescita non sarà sostenuto, anche perché la
crisi prolungata ha ridotto in varie aree il potenziale di crescita. Poi la crescita della
produttività tenderà ad assorbire la crescita del reddito, lasciando poco spazio al volume di occupazione. Inoltre, vi sono indicazioni che nella crisi si siano realizzati
cambiamenti strutturali significativi sia nella divisione internazionale del lavoro sia
nei flussi di commercio internazionale che hanno spostato ancor più il baricentro
dell’economia reale dai Paesi sviluppati, e soprattutto dall’Europa, verso i Paesi emergenti, per cui la rilevanza della domanda interna dei primi si contrae a vantaggio
della domanda interna dei secondi. Questo potrebbe allargare le opportunità offerte
dai mercati esteri che sostituiscono quelli interni, nei Paesi sviluppati, ma proprio i
cambiamenti strutturali invitano a non fare troppo affidamento alla dimensione di
questa sostituzione. Gli effetti compensativi possono essere deboli, non generali per
tutti i Paesi sviluppati, anzi indurre ancor maggiori divergenze più che convergenze.
I motivi di preoccupazione sono quindi numerosi, per non citare l’incertezza e i
rischi che provengono dai mercati finanziari, che non sono stati affatto riformati come
avrebbero dovuto, e quindi sono sempre pronti a generare bolle speculative e gestire
flussi finanziari e valutari per realizzare rendimenti di breve e brevissimo periodo, a
scapito della stabilità delle economie reali.
72
Davide Antonioli, Paolo Pini
Tuttavia, anche i segnali per un cauto ottimismo non mancano; in particolare se si
considerano le logiche e le «visioni» che sembrano governare le politiche europee
sovranazionali, di certo non quelle imposte ai singoli stati membri, con le quali si
pongono in sensibile distonia. Essendoci già soffermati altrove sugli elementi chiave per
un cambio di rotta nelle politiche europee (Pini 2013a), richiamiamo qui l’attenzione su
di una singola variabile che influenza la domanda aggregata e che costituisce una
potente leva per accrescere la domanda interna all’UE e per generare posti di lavoro a
elevate qualifiche: gli investimenti in innovazione. Il quadro mostra un’Europa
tutt’altro che immobile. Innanzitutto, l’obiettivo previsto, a livello europeo, del 3%
del Pil da destinarsi a investimenti in R&S rimane un pilastro della Flagship
Innovation Union, che consentirebbe se raggiunto entro il 2020 un aumento dei posti
di lavoro di circa 3,7 milioni (EC 2010). Pur nella consapevolezza che le politiche di
austerity stridono con un aumento della spesa pubblica dei singoli Paesi in R&S e
della forte eterogeneità in termini di percentuale di Pil che ogni Paese investe in R&S,
siamo certi che perseguire un tale obiettivo sia proficuo per l’economia reale. Un
secondo aspetto che mostra l’impegno dell’UE sul fronte dell’investimento in ricerca
è dato dall’ammontare del budget per i progetti Horizon2020: circa 70 miliardi di euro
sul periodo 2014-2020. Sebbene l’ammontare sia inferiore rispetto a quello chiesto
dalla Commissione (80 miliardi), risulta comunque superiore a quello stanziato per il
Settimo Programma Quadro (54 miliardi circa). In terzo luogo, sembra crescere il ruolo
della European Investment Bank, che attraverso lo European Investment Fund, il cui
capitale crescerà di 1,5 miliardi di euro dal 2014 in poi, fornirà una potente leva per
far accedere le piccole e medie imprese a finanziamenti, col fine di mitigare i
problemi derivanti dalla perdurante fase di credit crunch. Infine, come aspetto positivo
collaterale all’idea di accrescere gli investimenti in UE lungo diverse direttrici, citiamo
il richiamo recente a una European Industrial Renaissance (EC 2014b) che si lega al
summenzionato Industrial compact. L’integrazione di politica industriale di mediolungo termine e investimenti in innovazione può dare forma e concretezza a una
visione politica europea che porti alla definizione di un nuovo paradigma tecnologico
su cui fondare la prossima fase espansiva del ciclo economico. In tal senso, il forte
impegno dell’Europa verso una crescita sostenibile in un momento storico che vede i
principali competitors internazionali meno attivi su questo terreno potrebbe portare al
consolidamento di una leadership europea nell’ambito di tecnologie verdi, come
mostrano dati recenti su green patents dell’EPO (www.epo.org). La lezione per chi
governa le politiche industriali e produttive dei singoli stati, e per gli attori sociali, pare
quella di coordinare le proprie strategie alle politiche industriali sovranazionali per poter
sfruttare al meglio le opportunità di investimento e di finanziamento che emergono a
livello europeo.
La crisi del lavoro in Europa e in Italia
73
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La questione costituzionale europea di fronte alla crisi
globale. Note critiche al Saggio sulla Costituzione dell’Europa
di Jürgen Habermas
Claudio De Fiores, Seconda Università degli Studi di Napoli
[email protected]
1. Premessa
Il dibattito sulla Costituzione europea si è nel corso degli ultimi anni progressivamente
arenato. Due le cause che hanno contribuito a questo esito: 1) la bocciatura del «Trattato costituzionale» da parte dei cittadini francesi e olandesi nel 2005 a cui farà seguito
l’impegno immediatamente assunto dal Consiglio europeo (21-22 giugno) di predisporre un nuovo trattato nel quale il «termine “Costituzione” non dovrà essere più usato»;
2) l’irrompere della crisi economica globale sulle prospettive del processo di integrazione europea.
Un silenzio politico e culturale assordante recentemente rotto dalla pubblicazione
di alcuni scritti di uno dei più noti e appassionati teorici del processo costituente europeo: Jürgen Habermas.
Il contributo del filosofo tedesco significativamente titolato Zur Verfassung Europa, affronta i nodi della questione costituzionale europea a partire dalla crisi economica, dalle spirali populiste, dai timori di vedere infranto in poco tempo il cosiddetto «sogno europeo»: «timori prodotti dalla situazione economica [che] rendono i problemi
dell’Europa più fortemente presenti nella coscienza delle popolazioni e conferiscono
loro un’importanza esistenziale più grande che mai» (Habermas 2012, p. X).
Di qui l’esigenza avvertita da Habermas di consolidare la dimensione costituzionale quale risolutivo antidoto ai processi di disgregazione dell’Unione europea. Ma è ancora possibile parlare di Costituzione dopo il fallimento del «Trattato costituzionale»
del 2005? E in che senso?
2. Habermas e la Costituzione europea
Per Habermas né la crisi economica globale, né il referendum del 2005 avrebbero in
alcun modo snaturato l’assetto costituzionale europeo il cui sostrato sarebbe ancora oggi costituto dai Trattati: «i trattati sono diventati il fondamento di una comunità dotata
di una costituzione politica» (Habermas 2012, p. 60).
Un esito, questo, reso possibile dall’irruzione all’interno del processo di integrazione europea di una sorta di pouvoir constituant mixte (espressione, questa, che il filosofo di Francoforte mutua direttamente da Franzius 2010, pp. 57 ss.): «una totalità di
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Claudio De Fiores
cittadini dell’Unione – scrive Habermas – si spartisce il potere costituente con un numero limitato di Stati costituenti che dai loro popoli ricevono un mandato per cooperare
alla fondazione di una comunità sovranazionale» (Habermas 2012, p. 42). Un processo
quindi ancora oggi aperto e al quale «i cittadini partecipano in modo duplice al costituirsi
della comunità politica di livello superiore, nel loro ruolo di futuri cittadini dell’Unione e
come appartenenti a uno dei popoli dei rispettivi stati» (Habermas 2012, p. 64).
Un’interpretazione, questa, che suscita non poche perplessità. Soprattutto oggi al cospetto di un’Europa sempre più refrattaria a fare fino in fondo i conti con il suo futuro
costituzionale e con le drammatiche conseguenze prodotte da una crisi economica e politica senza precedenti. Insistere come fa Habermas sul progetto di Laeken e su un modello
di «Trattato costituzionale» inteso quale fondamento di una nuova «comunità sovrastatale
democraticamente costituita (e corrispondentemente) legittimata» (Habermas 2012, p. 60)
oggi non ha più senso. Quella prospettiva è stata energicamente respinta in occasione dei
referendum svoltisi in Francia e in Olanda nel 2005.
Né vi è da rammaricarsi dal momento che solo un generoso sforzo di fantasia avrebbe potuto indurci, negli anni scorsi, a definire «costituzione» un testo ostico e asettico qual era il Trattato «costituzionale». Un testo normativo il cui destino era, in un
certo senso, già inscritto nella sua stessa denominazione: «A Treaty estabilishing a
Constitution». Una denominazione ambigua e refrattaria a incarnare una chiara opzione
di fondo.
L’irriducibile commistione dei due sostantivi (costituzione e trattato) racchiudeva
uno stratagemma lessicale del quale eravamo tutti perfettamente consapevoli: la costituzione europea non era una vera costituzione, bensì un trattato posto in essere dagli
Stati e, in quanto tale, soggetto esclusivamente alla loro volontà.
Ciò che viene definito «processo costituente europeo» altro non è, quindi, che un
espediente retorico. Un artificio linguistico che ben poco ha a che fare con la costituzione e con il costituzionalismo. E la ragione è evidente: una cosa è procedere alla stesura di una costituzione al fine di (ri)fondare l’unità politica di un popolo; altra cosa è,
invece, addivenire nelle forme ordinarie a un trattato, a un’intesa fra più Stati, ciascuno
dei quali espressione di una già sottostante unità politica.
Il mito di una «Costituzione senza popolo» altro non è stato, in questi anni, che una
mera astrazione dietro la quale si è tenacemente trincerato il neofunzionalismo europeo,
particolarmente attento (per sua stessa natura) a evitare ogni sorta di contatto fra istanze
democratiche e processo di integrazione. Ma costruire un processo costituente al riparo
dai popoli non è possibile. Un processo costituente per poter agire storicamente ha
sempre avuto bisogno di incunearsi in un mito ordinante, in istanze fondative, in un
progetto politico di società.
Fare una costituzione significa, in altre parole, farsi carico delle grandi sfide della
storia, rappresentare le aspirazioni di un’epoca, le passioni di un popolo, produrre un
testo coeso nei suoi principi e fondamentale in tutte le sue disposizioni. Solo la presenza di un mito politico condiviso, in grado di alimentare un idem sentire, potrebbe in
futuro permettere ai tanti popoli europei di fondersi in un unico demos. Un demos nuovo, emergente, capace di trascendere (senza tuttavia infirmarle) le vecchie appartenenze
nazionali e di dare così vita a un’Europa politica.
La questione costituzionale europea di fronte alla crisi globale
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3. La Costituzione come antidoto alla crisi economica
Allo stesso modo non poche perplessità suscita il tentativo habermasiano di individuare
nella Costituzione senza popolo e senza Stato un efficace antidoto ai processi di disgregazione dell’Unione europea oggi drammaticamente alimentati dalla crisi economica.
Crisi che avrebbe fatto dell’Ue la principale vittima della «pressione dei mercati finanziari» e della «speculazione finanziaria» (Habermas 2012, p. 79)
Anche su questo punto la rappresentazione costituzionale habermasiana risulta essere condizionata da una sorta di illusione prospettica. Anzi da una doppia illusione.
La prima trae alimento dalla convinzione che per far fronte alla crisi economica e
politica dell’Unione, questa possa (anche in futuro) fare a meno del popolo e dello Stato. Di qui la sua polemica «contro una reificazione della sovranità popolare» considerata nulla di più che «l’immagine speculare della sovranità di uno Stato» (Habermas
2012, pp. 45-48).
Si tratta di un impianto interpretativo fuorviante. Un processo costituente per poter
agire storicamente ha sempre avuto bisogno di incunearsi in un mito ordinante, in istanze fondative, in un progetto politico di società. E ciò vuol dire che se è vero che
l’Europa per emergere politicamente nello scenario globale ha oggi bisogno di una sua
costituzione è, però, allo stesso modo altrettanto vero che quella stessa costituzione per
poter emergere a livello europeo ha, a sua volta, bisogno di un suo popolo. Appare, pertanto, a dir poco abnorme il tentativo ancora oggi in atto di liquidare la funzione democratica e la forza legittimante dei popoli alla stregua di un tabù ideologico, una sorta di
devastante «mito che intralcia la democrazia europea» (Collignon 2007, p. 53). E lo
stesso può dirsi per la critica rivolta da Habermas nei confronti della «sovranità statuale» e dei maldestri «fiancheggiatori» degli Stati Uniti d’Europa: «si rifanno vivi – scrive Habermas nella sua Prefazione – i sostenitori degli “Stati Uniti d’Europa”, rimasti
per tanto tempo muti, i quali con questa rappresentazione enfatica della loro idea di
promuovere l’integrazione in primo luogo in un nucleo dell’Europa fanno un cattivo
servizio. In questo modo, infatti, la giustificata opposizione al difficoltoso percorso
verso il federalismo esecutivo si impantana nell’alternativa priva di prospettive fra lo
Stato nazionale e lo Stato federale europeo» (Habermas 2012, p. IX).
Una critica tutta interamente plasmata sulla storia e sulle vistose contraddizioni
dello statualismo tedesco e in ragione di ciò visibilmente refrattaria a fare fino in fondo
i conti con il Novecento. Il secolo che ha segnato il passaggio dalle costituzioni statali
ottocentesche (costituzioni – prevalentemente – nello Stato e dello Stato) agli Stati costituzionali (Stati nelle costituzioni e delle costituzioni).
La seconda illusione che sostiene la riflessione habermasiana parte dal presupposto
che la Costituzione europea altro non sia che il riflesso su scala globale delle istanze e
delle conquiste del costituzionalismo democratico contemporaneo di matrice nazionale.
E ciò sia dal punto di vista formale, che sostanziale.
Cominciamo a esaminare l’aspetto formale. In più passaggi del volume il filosofo
tedesco ritiene imprescindibile precisare che il trasferimento delle funzioni dagli Stati
all’Ue è fino a oggi avvenuto e dovrà continuare ad avvenire mantenendo «intatte le
procedure democratiche» previste dai singoli Stati europei, perché solo per questa via è
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Claudio De Fiores
possibile costruire un’Unione che sia la coerente «prosecuzione di quel genere di costituzionalizzazione del potere dello Stato, alla quale i cittadini debbono, già all’interno
dello Stato nazionale, le loro libertà costituzionali» (Habermas 2012, p. 49).
Un fondamentale ruolo di filtro in questo processo di osmosi costituzionale viene
da Habermas assegnato ai «tribunali nazionali» (di rango costituzionale) chiamati a
controllare «l’incolumità di quei principi costituzionali nazionali, che sono costituitivi
della struttura democratica fondata sullo Stato di diritto del rispettivo Stato membro»
(Habermas 2012, p. 57).
In questo passaggio Habermas si richiama alla teoria dei controlimiti o delle controlimitazioni, così come in Italia l’ha definita per primo Paolo Barile in un suo celebre
saggio del 1973 (Barile 1973, pp. 2406 ss.). Un’opzione giurisprudenziale, da più parti,
ancora oggi ostentata come il punto più alto dell’azione di resistenza attuata della Corte
nei confronti dei processi di comunitarizzazione, la dimostrazione più eloquente – è
stato scritto in dottrina – del suo «nobile intento di conservare e preservare uno spazio
giuridico statale del tutto sottratto alla influenza del diritto comunitario» (Salmoni
2002, p. 496). Di qui il delinearsi di una sorta di riserva giurisdizionale, ad appannaggio esclusivo delle corti costituzionali, avente quale obiettivo precipuo quello di tutelare il fondamento identitario della Costituzione. Ma si tratterà – come gli eventi successivi si incaricheranno di dimostrare – solo di un ingegnoso «alibi» e nulla di più. Il caso
italiano ne è la conferma: la cosiddetta «dottrina dei controlimiti», qualora applicata,
avrebbe fatalmente comportato l’automatica attivazione delle procedure di recessione
(oggi formalmente contemplate dall’art. 50 TUE) e la definitiva dissoluzione del vincolo di adesione dell’Italia all’Unione europea. Possiamo, a questo punto, provare pertanto a insinuare che se fino a oggi il congegno dei controlimiti non è mai stato attivato,
ciò è avvenuto per la semplice ragione che… non poteva esserlo.
Ma le obiezioni più radicali alla ricostruzione habermasiana si pongono soprattutto
sul piano sostanziale e dei contenuti, perché è a tutti evidente che l’Ue non è oggi una
sorta di protesi costituzionale dei singoli Stati, non costituisce l’approdo continentale
dei processi ‘interni’ di costituzionalizzazione, né tanto meno l’amplificazione al livello
sovranazionale delle ragioni e dei principi del costituzionalismo democratico.
Il costituzionalismo degli Stati europei nel corso della seconda metà del Novecento
si è sviluppato secondo moduli e caratteri sensibilmente diversi rispetto a quelli del diritto Ue.
A seguito della «svolta di Roma» del 1957 inizierà infatti progressivamente a emergere, sul terreno politico e sociale, un’Europa contraddittoria, recalcitrante, strabica. Con un occhio rivolto alla costruzione dello Stato sociale (a livello nazionale) e con
l’altro intento, invece, a sostenere i processi di liberalizzazione dei mercati (a livello
comunitario). Insomma per dirlo à la Gilpin: «Smith all’estero, Keynes in patria».
Due processi paralleli, destinati a divaricarsi sempre più nel corso del «glorioso
trentennio», per poi progressivamente convergere. Fino a saldarsi definitivamente a
Maastricht.
Con la stesura del Trattato di Maastricht ogni stonatura tra le ‘due Europe’ viene
pertanto risolta. Le politiche di coesione sociale subiscono in tutti i Paesi europei una
straordinaria battuta di arresto. E finanche gli indirizzi politici nazionali, incalzati dai
La questione costituzionale europea di fronte alla crisi globale
81
contenuti del nuovo Trattato, si convertiranno, in breve tempo, alle ragioni del patto di
stabilità, costringendo improvvisamente all’ineffettività le disposizioni della Costituzione che legittimavano interventi pubblici in economia in quanto ritenuti intrinsecamente incompatibili con la realizzazione delle istanze liberiste veicolate dai processi di
globalizzazione.
D’altronde è proprio questo il significato del report recentemente diffuso dalla Jp
Morgan (28 maggio 2013). Per la banca d’affari statunitense le cause della crisi non hanno «natura prettamente economica», ma vanno piuttosto imputate ai «sistemi politici» dei
Paesi euro e «in particolare alle loro costituzioni», le cui disposizioni riflettono «la forza
politica che i partiti di sinistra hanno guadagnato dopo la sconfitta del fascismo». Basti
soltanto pensare – si legge in questo documento – «diritto di protestare se i cambiamenti
sono sgraditi» o al riconoscimento della «tutela costituzionale dei lavoratori».
Queste garanzie, in tempi di crisi, non sono più tollerabili. Non sono tollerabili per
la Jp Morgan, ma non lo sono nemmeno per tutte le altre istituzioni della globalizzazione finanziaria (a cominciare dal Fondo monetario) che da tempo ci rammentano che
siamo di fronte a un passaggio d’epoca con il quale l’Europa e le costituzioni democratiche devono fare i conti.
4. L’Europa di fronte alla crisi
Oggi, a più di vent’anni dalla conclusione del Trattato di Maastricht, la svolta monetarista evidenzia tutte le sue contraddizioni e tutte le sue drammatiche fragilità. E anche
Habermas ne coglie con preoccupazione le problematicità disvelando come «i timori
prodotti dalla situazione economica rendono i problemi dell’Europa più fortemente presenti nella coscienza delle popolazioni e conferiscono loro una importanza esistenziale
più grande che mai» (Habermas 2012, p. X). Ma la sua analisi non va oltre. E anzi il
filosofo tedesco evita accuratamente di indagare quelle che oggi sono le peculiari ricadute della crisi economica sul processo di integrazione europea.
Con l’imporsi della crisi economico-finanziaria del 2008 tutte le più sofisticate ricostruzioni sulle ‘magnifiche sorti’ della governance europea e sulle virtù del ‘soft law’
(che avevano in passato pervaso finanche la migliore cultura riformista) si sono improvvisamente dissolte. L’Unione si trova oggi in una condizione di paralisi dalla quale
stenta a uscire. E ciò in controtendenza con quanto sta accadendo in altre parti del
mondo, a partire dagli USA. Né avrebbe potuto essere diversamente. A differenza degli
USA che sono uno Stato, con un proprio governo federale, un proprio bilancio e una
vera Banca centrale, l’Unione europea si presenta ancora oggi ai nostri occhi come un
mero spazio mercantile con una sua moneta e i suoi Trattati, ma pur sempre sprovvisto
di uno Stato, di un Governo, di una Banca vera e propria, legittimata a battere (quantità
non limitate di) moneta. A ciò si aggiunga che l’Unione ha, nel corso dell’ultimo ventennio, imposto ai suoi Stati che le politiche di spesa venissero (etero)determinate sulla
base di un mero fattore quantitativo (il prodotto interno lordo). E finanche la possibilità
di avviare, a livello europeo, un’altra politica monetaria è stata in questi anni rigidamente esclusa dalla Banca centrale la cui funzione sistemica è sempre stata solo quella
82
Claudio De Fiores
di impedire l’inflazione. Ad averlo imprudentemente stabilito nel 1992 sono stati gli
esecutivi europei riunitisi a Maastricht. Fu, infatti, proprio in quell’occasione, che le
istituzioni europee decisero di svincolare il governo della moneta dalle politiche nazionali sul debito. Di qui il divieto (normativamente sanzionato) di influire sugli assetti
finanziari interni, intervenendo a sostegno di quegli Stati che si fossero trovati in evidenti condizioni di difficoltà (no bail out clause).
Non è un caso che quando la crisi arriverà ad aggredire uno dei suoi membri (la
Grecia), l’Unione europea, pur di non contravvenire al dogma liberista, arriverà a prendere in considerazione finanche la possibilità di espellere lo Stato ellenico dalla sua
compagine. L’assenza di vocazione politica da parte dell’Unione non avrebbe potuto
essere espressa in modo più convincente. Ben altri sono, infatti, gli strumenti di intervento e le procedure di coesione tipicamente impiegate dalle organizzazioni statuali in
queste circostanze.
L’esplosione della crisi ellenica (ottobre 2009) ha repentinamente evidenziato quelli che sono tutti i gangli scoperti del processo di integrazione: un’unione politica senza
politica, una moneta senza Stato, una forma di governo senza governo, un patto di stabilità che non produce stabilità.
Di qui la condizione di paralisi dell’Ue di fronte alla crisi e la sua congenita inettitudine a fronteggiare le emergenze. In ambito europeo non solo non vi è mai stato un
organo dotato di poteri di crisis management (non lo è la Bce, non lo è la Commissione
e neppure il Consiglio), ma nemmeno avrebbe potuto esserci. La sola eventuale previsione di una crisi economica e finanziaria di tipo strutturale avrebbe voluto dire, per
l’Unione, smentire risolutamente se stessa, la sua incrollabile fiducia nella stabilità del
sistema, il suo funzionalismo, le sue certezze ‘finanziarie’: la centralità della moneta,
l’equilibrio finanziario, il patto di stabilità.
Assumersi a priori il rischio di una crisi finanziaria avrebbe voluto dire, da parte
delle istituzioni dell’Unione, misurarsi con le politiche di intervento economico e ammetterne la pregnanza e la legittimità. Un’eventualità che l’Unione europea non ha mai
voluto prendere seriamente in considerazione, almeno fino all’esplodere della crisi ellenica quando i governi europei decisero, per la prima volta, di intervenire a favore della Grecia, pur di salvaguardarne la solvibilità e l’euro.
I contenuti e gli obiettivi sottesi alle strategie di ‘salvataggio’ deliberati, in ambito
Ue, sono noti: l’Unione si impegna a intervenire a sostegno della Grecia e di tutti gli
Stati in difficoltà, ma solo a condizione che essi adottino draconiane misure di risanamento, incisive politiche di smantellamento dello Stato sociale e di compressione dei
diritti.
Siamo oggi, in altre parole, ben oltre l’annosa (ma pur sempre dirimente) questione
della ‘sospensione’ della forza normativa delle costituzioni nazionali. Ciò che viene
oggi richiesto dall’Ue europea ai singoli Stati è il loro operoso impegno a modificare i
propri assetti interni, alterandone la forma e lo stesso impianto costituzionale. Le tradizionali e sperimentate modalità di adeguamento del diritto interno al diritto Ue oggi
non bastano più. Vi è bisogno di più e di altro. Quanto è avvenuto con l’accordo del 9
dicembre 2011 appare, a tale riguardo, esemplare.
La questione costituzionale europea di fronte alla crisi globale
83
In quell’occasione i capi dell’Unione europea (con la sola eccezione del Primo ministro inglese) hanno convenuto di dare vita a un «nuovo patto di bilancio», da realizzarsi attraverso un nuovo «coordinamento notevolmente rafforzato delle politiche economiche nei vari settori di interesse comune» (par. 2) e tale, quindi, da configurare un
«nuovo quadro giuridico» (par. 3).
Una svolta di assoluto rilievo politico e costituzionale. Sia per i suoi contenuti, sia
per le sue inedite finalità: la costruzione di un nuovo patto di bilancio, l’introduzione di
nuove procedure di controllo sulla «sostenibilità» finanziaria, l’introduzione della cosiddetta «regola aurea» in tutti gli ordinamenti statuali dell’Ue.
Contenuti e finalità talmente penetranti da richiedere un nuovo trattato o quanto
meno una coerente, ma pur sempre incisiva, modifica dei trattati vigenti. Così, invece,
non è stato: preso atto dell’impossibilità di raggiungere un accordo fra tutti gli Stati
membri dell’Ue e nel pervicace tentativo di evitare la pletora dei procedimenti di ratifica dell’intesa (Stato per Stato, Parlamento per Parlamento) il Consiglio ha, allora, deciso di attribuire all’accordo del 9 dicembre la qualifica di Dichiarazione.
A fronte di tale epilogo ci si è però immediatamente chiesti può mai una «dichiarazione» modificare una normativa, seppur di diritto derivato, qual è quella ancora oggi
vigente in materia di disavanzi eccessivi (Regolamento Ue n. 1177/2011)? Può una «dichiarazione» integrare le competenze della Commissione delineate nei trattati? E può,
infine, una «dichiarazione» elevare motu proprio la Corte di Giustizia al rango di «custode» del pareggio di bilancio attribuendo a essa il potere di «verificare il recepimento
di questa regola» nei singoli ordinamenti nazionali (par. 4)?
Tutte domande che potrebbero apparire retoriche, ma che in uno stato d’eccezione
non lo sono più. D’altronde procedere, nelle suddette condizioni, alla redazione di un
nuovo trattato o arrecare delle modifiche a quelli già vigenti avrebbe voluto dire esporre queste scelte alla volontà dei parlamenti ed eventualmente anche dei popoli europei.
E questo l’Unione, dopo il fallimento del trattato costituzionale, non poteva più permetterselo.
A esprimere, in modo alquanto efficace, questo stato d’animo (significativamente
diffuso in tutto l’establishment dell’Ue) è stato il Presidente della Repubblica Napolitano che in una sua precedente esternazione a Bruges (26 ottobre 2011) aveva detto:
«l’esperienza che ho personalmente vissuto dell’affossamento per via referendaria del
Trattato costituzionale, già modificato in qualche sua innovazione nel corso della Conferenza Intergovernativa, e poi della lunga estenuante stagione della ratifiche al Trattato
di Lisbona, mi spinge a suggerire la massima ponderazione» (Il testo dell’esternazione
presidenziale è integralmente reperibile sul sito del Quirinale, [online], URL: <http://
www.quirinale.it/>).
Per rifondare la governance economica dell’Ue bisognava allora, a tutti i costi, trovare, una via d’uscita, un escamotage. E così è stato. Nel corso del vertice informale di
Bruxelles del 30 gennaio 2012 è stato varato un nuovo Patto per la stabilità, avente
quale preminente obiettivo quello di realizzare «robuste e sostenibili finanze pubbliche
come strumento per rafforzare le condizioni per la stabilità dei prezzi e per una forte
crescita sostenibile supportata da stabilità finanziaria» (Preambolo). Le soluzioni a tal
fine adottate (con la sola e significativa eccezione del Regno Unito e della Repubblica
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Claudio De Fiores
Ceca) riguarderanno in particolare: a) l’introduzione del golden rule all’interno degli
ordinamenti dei singoli Stati (art. 3.2); b) l’avvio di drastiche misure di abbattimento
del debito pubblico (art. 4); c) il ricorso a «riforme strutturali» sul piano sociale (art. 5);
d) l’adozione sanzioni (semi)automatiche da parte della Corte di Giustizia in caso di
infrazione dei suddetti vincoli (art. 8).
Dall’ampio spettro di interventi appena enunciato appare del tutto evidente che
siamo ben oltre il Trattato di Maastricht e ben oltre le stesse enunciazioni del Trattato
di Lisbona. Di qui l’esigenza, non più procrastinabile, da parte dell’Ue, di esperire una
diversa soluzione in grado di dare copertura giuridica alle suddette opzioni senza tuttavia ‘scomodare’ – come si è appena detto – i parlamenti e (laddove previsto e richiesto)
anche i popoli europei.
Ecco allora la via d’uscita (invero assai poco originale) escogitata in ambito UE:
normare l’eccezione. Di qui la conseguente decisione di contravvenire all’assetto istituzionale dell’Unione europea e ai suoi istituti basilari, procedendo, sulla base di un
mero accordo intergovernativo, alla stesura di un trattato internazionale doc. Anche se,
in questo caso, per consentire l’entrata in vigore dell’accordo non sarebbe stata necessaria l’unanimità secondo quanto previsto dal Principle Agreement (all or none). E
neppure la maggioranza delle adesioni. Per consentire l’entrata in vigore di questo ‘trattato’ sarebbe bastata la volontà della minoranza: dodici Stati sui venticinque che hanno
sottoscritto il Fiscal Compact.
5. L’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione
Ma da dove nasce questa frenesia delle istituzioni europee per il pareggio di bilancio?
Le sue origini sono alquanto controverse, anche se – a ben vedere – l’ideologia del
pareggio di bilancio è sempre stata parte integrante della cultura giuridica liberista, negli USA come anche in Europa.
Ciò che è certo, dal punto di vista normativo, è che tale vincolo è divenuto parte integrante dei Trattati e che l’art. 310 del TFUE, con riferimento all’assetto interno
dell’Ue, oggi prevede espressamente che: a) «nel bilancio, entrate e spese devono risultare in pareggio»; b) le spese devono essere «finanziate entro i limiti delle risorse proprie dell’Unione e nel rispetto del quadro finanziario pluriennale»; c) il bilancio deve
essere «eseguito in conformità del principio di sana gestione finanziaria».
Di qui il progressivo delinearsi di un’offensiva politica e ideologica particolarmente pressante e articolata che, ostentando le virtù della regola aurea, ha in questi anni
sistematicamente operato per sottrarre agli Stati ogni significativo spazio di determinazione delle politiche di bilancio.
Quattro sono stati i passaggi fondamentali attraverso i quali, tra il 2010 e il 2013, si è
venuta sviluppando tale strategia: a) il Consiglio ECOFIN del 7 settembre 2010, chiamato
a varare il nuovo Codice di condotta per l’attuazione del Patto di stabilità;
b) il Patto euro plus adottato nel marzo 2011 dai Capi di Stato e di governo dell’Eurozona e avente quale preminente finalità quella di stimolare la competitività, favorire
l’occupazione, supportare la sostenibilità delle finanze pubbliche, rafforzare la stabilità
La questione costituzionale europea di fronte alla crisi globale
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finanziaria; c) il Six pack del 4 ottobre 2011 che ha in parte ridefinito i connotati della
governance economica europea; d) il Fiscal Compact deliberato a Bruxelles il 30 gennaio 2012.
Ma l’obiettivo precipuo che, in questi anni, l’Unione europea ha ininterrottamente
inteso perseguire è stato, innanzitutto, uno: l’introduzione della «regola aurea» del pareggio di bilancio nell’ordinamento di ogni singolo Stato membro: «Gli Stati membri
partecipanti – si legge nel testo approvato con il Patto Euro plus – si impegnano a recepire nella legislazione nazionale le regole di bilancio dell’Ue fissate nel patto di stabilità e crescita. Gli Stati membri manterranno la facoltà di scegliere lo specifico strumento
giuridico nazionale cui ricorrere, ma faranno sì che abbia una natura vincolante e sostenibile sufficientemente forte (ad esempio costituzione o normativa quadro)».
Un vincolo di natura prescrittiva, immediatamente fatto proprio da Spagna (2011) e
Italia (2012), entrambi desiderosi di dimostrare ai mercati internazionali e all’Unione
europea la propria assoluta affidabilità sul terreno politico ed economico.
Tale epilogo non era però ineluttabile (si sarebbe quanto meno potuto evitare di costituzionalizzare questo vincolo, dato che lo stesso «Fiscal Compact» consentiva di
procedere alla riforma «tramite disposizioni vincolanti e di natura permanente [solo]
preferibilmente costituzionale»). Né tanto meno tale esito può essere ritenuto, sul piano
politico-costituzionale, condivisibile. Quella del pareggio di bilancio è una cura avventata che anziché debellare la malattia (la crisi) rischia oggi di aggravarla irreparabilmente. Perché non è costringendo gli Stati europei a indossare la «camicia di forza economica»1 del golden rule che sarà, in futuro, possibile rilanciare l’economia, favorire la
crescita, sostenere gli investimenti, assicurare condizioni di vita più dignitose ai cittadini. Anzi – a ben vedere – il drastico irrigidimento dei bilanci (fino al punto di imporne
il pareggio) avrà, negli anni a venire, il solo e recessivo effetto di comprimere ulteriormente le politiche di ‘stimolo’ sul terreno economico (le manovre sui consumi,
l’incremento della spesa sociale, l’intervento pubblico). Quelle politiche che hanno, in
passato, consentito agli Stati di favorire la ripresa e di accrescere il benessere sociale di
tutti i cittadini. D’altronde – ha evidenziato Paul Krugman (2012, p. 40) – «se alimentare il disavanzo quando le cose vanno bene può essere pericoloso… cercare di eliminare
il deficit quando il paese è già nei guai è una ricetta sicura per la recessione».
Con la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, in altre parole, non solo non
si è posto alcun argine alle manovre speculative e al declino economico del Paese, ma
si rischia oggi di suggellare – anche sul piano normativo – l’incapacità dello Stato a
intervenire sulle distorsioni del mercato. Non è caso che buona parte della dottrina e lo
1
L’espressione è stata utilizza dal «Manifesto dei Nobel» dell’economia contro l’introduzione nella
Costituzione degli USA della clausola per il pareggio di bilancio. L’appello – rivolto dagli economisti
americani al Presidente Obama – ribadisce con forza che «per pareggiare il bilancio non è necessario un
emendamento costituzionale. […] Non c’è alcuna necessità di mettere al Paese una camicia di forza
economica. Lasciamo che Presidente e Congresso adottino le politiche monetarie, economiche e di bilancio
idonee a far fronte ai bisogni e alle priorità, così come saggiamente previsto dai nostri padri costituenti».
L’appello è stato sottoscritto da Kenneth Arrow (premio Nobel per l’economia 1972), Peter Diamond (premio
Nobel per l’economia 2010), William Sharpe (premio Nobel per l’economia 1990), Charles Schultze
(consigliere economico di J.F. Kennedy e Lindon Johnson), Alan Blinder (direttore del Centro per le ricerche
economiche della Princeton University), Eric Makin (premio Nobel per l’economia 2007), Robert Solow
(premio Nobel per l’economia 1987), Laura Tyson (ex direttrice del National Economic Council).
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Claudio De Fiores
stesso giudice delle leggi abbiano, in passato, coerentemente precisato che la disciplina
costituzionale in materia di bilancio «non esclude ovviamente l’ipotesi di un disavanzo» (sent. n. 1/1966). E questo perché uno Stato «rigorista», strangolato dai vincoli di
bilancio e dalle ossessioni contabili, non sarà mai nelle condizioni di intervenire sulle
dinamiche del mercato per «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale» (art.
3.2 Cost.). Né tanto meno sarà mai nelle condizioni di regolare keynesianamente la «distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi» (Keynes 1936, p. 510).
Ciò che oggi si profila all’orizzonte è pertanto un vero e proprio mutamento della
forma di Stato (Ferrara 2012) e degli equilibri complessivi espressi dalla nostra legge
fondamentale in materia economica. E tutto ciò a esclusivo vantaggio di un’altra, diversa e specifica «visione dello sviluppo economico, quella neoliberista, facendo così venir meno il carattere plurale del sistema costituzionale» (Azzariti 2012).
L’Europa e i suoi Stati sono oggi di fronte a un vicolo cieco. Di qui il bisogno
dell’Unione di tornare a pensare a se stessa, ridefinendo dal basso le condizioni del
processo di integrazione che non possono più essere quelle dettate dall’ideologia liberista e dal potere tecnocratico. Per realizzare tale prospettiva è però necessario, sin da
ora, disarticolare gli imperativi del monetarismo che hanno fatto, in questi anni,
dell’euro il privilegiato terreno di conquista delle scorribande finanziarie e della speculazione capitalistica. Consacrando il primato della moneta e istituendo una Banca senza
sovrano, gli Stati europei hanno, infatti, deliberatamente deciso di rinunciare alla politica e al governo dell’economia per consegnarsi – avrebbe detto Marx – alla «potenza
sovvertitrice» del denaro (Marx 1844, p. 120).
D’altronde quelli che sono gli esiti prodotti in Europa dal sopravvento della lex
monetae sono oggi davanti ai nostri occhi: una Banca centrale «fuori controllo», una
moneta instabile che produce intollerabili costi sociali, l’euro sempre più annichilito dai
rapaci impulsi della finanza. Una condizione, questa, che rischia oggi di trascinare
l’Europa in una spirale senza uscita fatta di speculazione e di debiti.
Certo non possiamo dirci stupiti: che l’Unione pur disponendo di una moneta fosse
del tutto sprovvista di una Banca (degna di questo nome) era a noi tutti noto. La Bce nasce, infatti, sguarnita di quello che è sempre stato il tipico strumento di garanzia e di deterrenza delle banche nazionali: il lender of last resort. Una vera e propria valvola di riserva finalizzata a impedire – grazie al potere sovrano degli Stati di batter moneta – che i
problemi di liquidità possano improvvisamente degenerare in uno stato di insolvibilità.
Di qui l’esigenza, divenuta oggi prioritaria, di sperimentare un altro modello economico e di convertire, sul terreno politico e sociale, il ruolo e le funzioni della Bce. Ruolo e
funzioni che non dovranno essere più soltanto quelli di tenere sotto controllo l’inflazione,
ma innanzitutto quelli di operare in stretta connessione con il potere democratico in Europa.
Ciò di cui l’Europa ha, quindi, oggi bisogno è un vero e proprio governo dell’economia, da realizzarsi attraverso una radicale riformulazione dei parametri di Maastricht.
Altri dovranno, infatti, essere in futuro i cardini del processo di integrazione europeo. E
altri i suoi obiettivi: la giustizia sociale, la realizzazione di un modello di sviluppo ecosostenibile, la costruzione di un welfare europeo inclusivo (e, quindi, non più disegnato così
come lo è stato in passato – a livello nazionale – attorno alla figura del cittadino, maschio, lavoratore).
La questione costituzionale europea di fronte alla crisi globale
87
Bibliografia
Azzariti G. (2012), La «regola d’oro» indiscussa, «il manifesto», 6 marzo.
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Ferrara G. (2012), L’estinzione della democrazia, «il manifesto», 9 marzo.
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Milano, Mondadori, 2009.
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europee, «Diritto pubblico», 2, pp. 491-564.
Teorie economiche e politica economica
Giorgio Lunghini, Istituto Universitario di Studi Superiori Pavia
[email protected]
Oggi in Europa e in Italia domina ancora la Treasury View, quel punto di vista del Tesoro britannico che nel ’29 Winston Churchill, allora Cancelliere dello Scacchiere, aveva sostenuto con determinazione: «Quali che ne possano essere i vantaggi politici e sociali, soltanto una assai piccola occupazione addizionale, ma nessuna occupazione addizionale permanente, possono essere create con l’indebitamento pubblico e con la spesa pubblica». L’argomento addotto è che qualsiasi aumento della spesa pubblica sottrae
un pari ammontare di risorse agli investimenti privati: se il Governo si indebita, allora
entra in concorrenza con il settore privato, assorbe risorse che altrimenti avrebbero potuto essere investite dall’industria privata e dunque non si avrà nessun effetto netto sul
livello di attività. La Treasury view è però corretta soltanto in un caso: quando l’economia è già in una situazione di piena occupazione, così che la spesa pubblica spiazzerebbe gli investimenti privati; tuttavia si noti che se ci fosse già la piena occupazione non
ci sarebbe bisogno di nessun intervento dello Stato. E se così fosse la miglior politica economica sarebbe quella del laissez faire.
La massima laissez faire è tradizionalmente attribuita al mercante Legendre e a una
sua risposta a Colbert, verso la fine del diciassettesimo secolo. «Que faut-il faire pour
vous aider?», chiese Colbert. «Nous laisser faire», rispose il mercante: «Lasciate fare a
noi». Se questa teoria fosse realistica nei suoi postulati e logicamente ineccepibile, vivremmo nel migliore dei mondi possibili, nel mondo di Pangloss: «Ogni avvenimento è
concatenato in questo migliore dei mondi possibile; ché, infine, se non foste stato cacciato per amore di Cunegonda a pedate sul didietro da un bel castello, se non foste passato sotto l’Inquisizione, se non aveste corsa l’America a piedi e non aveste perduti tutti
i montoni del bel paese dell’Eldorado, non mangereste qui cedri canditi e pistacchi».
Oggi invece non ci si ricorda che nel 1936 era uscita la General Theory of
Employment, Interest and Money di J.M. Keynes, che della Treasury View e del suo
fondamento neoclassico costituisce una critica radicale, con particolare riguardo alle
determinanti dell’occupazione. In una situazione di disoccupazione, l’intervento dello
Stato diventa necessario:
Lo Stato dovrà cercare di influenzare la propensione al consumo, in parte mediante
l’imposizione fiscale, in parte fissando il saggio di interesse e in parte, forse, in altri
modi. Tuttavia sembra improbabile che l’influenza della politica bancaria sul saggio
di interesse sarà sufficiente da sé sola a determinare un ritmo ottimo di investimento.
Ritengo perciò che una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento si
dimostrerà l’unico mezzo per consentire di avvicinarci all’occupazione piena.
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Giorgio Lunghini
Sotto qualsiasi decisione di politica economica, au fond, c’è una qualche teoria economica, che il decisore magari ha rimosso o addirittura ignora; ma al fondo c’è la visione
che questi coltiva o depreca circa il ruolo dello Stato nell’economia e nella società.
Nell’orizzonte di una democrazia parlamentare, i due estremi di questa visione sono
quella liberista, il cui riferimento è la teoria neoclassica; dall’altro quella filosofia sociale verso la quale potrebbe condurre la Teoria generale di J.M. Keynes. In breve: il
lasciar fare ai mercanti, o che faccia lo Stato quanto i mercanti non vogliono o non possono fare. Cominciamo dunque dalle fondamenta teoriche delle due visioni, e quindi
dalla solidità e possibile efficacia degli opposti disegni di politica economica.
Il ragionamento neoclassico, di grande semplicità e eleganza, si svolge in questo
ordine:
•
•
•
•
•
Sul mercato del lavoro si determina quel salario reale in corrispondenza al quale
vi è piena occupazione (non vi è disoccupazione involontaria).
Data l’occupazione di equilibrio, risulta determinato il livello della produzione e
del reddito, che sarà il livello più elevato possibile, date le risorse disponibili di
lavoro e di capitale.
Sul mercato dei beni, di consumo e di investimento, si determina quel saggio di
interesse reale in corrispondenza al quale si ha uguaglianza tra investimenti e risparmio e dunque tra offerta aggregata e domanda aggregata.
Sull’economia reale (sulla occupazione e sulla produzione) la quantità di moneta
non ha nessuna influenza, è neutrale: essa influenza soltanto il livello generale
dei prezzi.
La distribuzione del reddito tra salari e profitti è commisurata alla produttività
del lavoro e del capitale.
La teoria neoclassica ci descrive dunque il mondo in cui tutti noi vorremmo vivere, un
mondo in cui l’homo œconomicus dispone di razionalità perfetta e conoscenza illimitata e in cui non ci sono né crisi né conflitti distributivi. A tutto ciò provvederebbe il
Mercato: i mercati – se lasciati liberi di operare – sarebbero tanto efficienti da mettere
in moto dei movimenti dei prezzi, tali da assicurare l’equilibrio su tutti i mercati e nel
sistema economico nel complesso. Il sistema si assesterebbe su un equilibrio pieno e se
da lì lo spostassero degli shock esterni, a quell’equilibrio pieno esso tornerebbe automaticamente. Il mondo neoclassico è un mondo omeostatico, un mondo capace di autoregolarsi; dunque un mondo in cui l’agenda del governo, in campo economico, è vuota:
basteranno i codici, i regolamenti, e l’Etica.
A differenza di un modello di equilibrio economico generale, il ragionamento di
Keynes parte dall’idea che il mercato dei beni e il mercato della moneta non siano tra
loro indipendenti. Il mercato della moneta esercita un effetto sul mercato delle merci,
attraverso l’influenza del tasso di interesse sugli investimenti; e il mercato delle merci,
determinando il livello della produzione e del reddito, esercita un effetto sul mercato
della moneta, attraverso la domanda di moneta necessaria per le transazioni. In un certo
senso il mercato della moneta precede nell’ordine causale il mercato delle merci.
Il ragionamento keynesiano può essere descritto nel modo seguente:
Teorie economiche e politica economica
•
•
•
•
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L’equilibrio sul mercato della moneta dipende dallo stato delle aspettative, che
influenza la domanda di moneta per il motivo speculativo, nonché dalla quantità
di moneta in circolazione. Questo insieme di circostanze determina il livello del
tasso di interesse.
L’ammontare degli investimenti che corrispondono a un certo tasso di interesse
dipende a sua volta dalle aspettative (attraverso la scheda dell’efficienza marginale del capitale).
Il volume degli investimenti, insieme all’ammontare dei consumi, che dipendono
dalla propensione al consumo della collettività, determina il livello del reddito.
Il livello del reddito determina il livello dell’occupazione.
Si noti che l’equilibrio sul mercato della moneta e sul mercato dei beni si realizza senza
che ciò implichi necessariamente un equilibrio di piena occupazione sul mercato del
lavoro. Per Keynes il mercato del lavoro non può essere descritto come un mercato che
tende autonomamente all’equilibrio, in virtù di una domanda e di un’offerta di lavoro
dipendenti entrambe da una stessa variabile, il saggio di salario. Di qui una differenza
essenziale rispetto allo schema neoclassico: Keynes non ipotizza né il pieno impiego
della capacità produttiva, né che il livello di occupazione sia quello di pieno impiego. È
possibile, anzi normale, che il sistema economico sia bensì in equilibrio, e che però vi
sia disoccupazione involontaria.
Il problema che Keynes affronta nel capitolo XXIV della Teoria generale è lo stesso che dovremmo porci noi oggi: quale possa e debba essere il ruolo dello Stato nella
attuale situazione economica e sociale (per semplicità: dopo l’esaurimento del fordismo, la conseguente globalizzazione dell’economia, e la conseguente crisi ora in atto).
È questo un tema che ricorre in tutta l’opera di Keynes, sin dalla Fine del laissez faire:
Dobbiamo tendere a separare quei servizi che sono tecnicamente sociali da quelli
che sono tecnicamente individuali. L’azione più importante dello Stato si riferisce
non a quelle attività che gli individui privati esplicano già, ma a quelle funzioni che
cadono al di fuori del raggio d’azione degli individui, a quelle decisioni che nessuno
prende se non le prende lo Stato. La cosa importante per il governo non è fare ciò
che gli individui fanno già, e farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che
presentemente non si fa del tutto.
I difetti più evidenti della società economica nella quale viviamo sono oggi gli stessi
che Keynes denunciava nel 1936: l’incapacità a provvedere una occupazione piena e la
distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e del reddito. Questa persistenza patologica non trova spiegazioni convincenti nell’antropologia e nell’analisi economica reazionarie; mentre la possono spiegare la Teoria generale di Keynes e la miopia dei conservatori: «La difficoltà sta nel fatto che i leader capitalisti nella City e in parlamento
non sono capaci di distinguere i nuovi strumenti e le misure per salvare il capitalismo
da quello che loro chiamano bolscevismo». Per lunghi periodi il keynesismo può anche
essere sembrato dominante, in forme più o meno oneste di spesa pubblica; e Keynes ha
certamente autorizzato un intervento, diretto o indiretto, a sostegno della domanda effettiva e dunque dell’occupazione. L’idea era che soltanto by accident or design la do-
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Giorgio Lunghini
manda effettiva, per consumi e per investimenti, avrebbe coinciso con la produzione
corrispondente al pieno impiego, e che perciò un intervento attivo del governo normalmente sarebbe stato necessario.
Si badi che lo stesso Keynes non scommetteva sulla efficacia di politiche ‘keynesiane’:
«Questa che io propongo è una teoria che spiega perché la produzione e l’occupazione siano così soggette a fluttuazioni: essa non offre una soluzione bella e pronta al problema di
come evitare queste fluttuazioni e mantenere costantemente la produzione a livello ottimale». In un mondo dominato dalla finanza – che è il sottoprodotto delle attività di un
casinò, dove i giochi nel migliore dei casi sono a somma zero – il moltiplicatore di una
politica di spesa pubblica difficilmente sarà maggiore di uno, né potrà essere molto efficace un intervento di stimolo indiretto, mediante una riduzione del tasso d’interesse. In
una situazione di deflazione, la conseguenza più probabile è la trappola della liquidità,
non l’aumento degli investimenti privati.
Anziché il Keynes del breve periodo, è il Keynes radicale cui si dovrebbe pensare,
anche perché ce ne sono le condizioni (non anche la volontà politica). Questo Keynes, il
Keynes del capitolo XXIV della Teoria generale, non ha mai dominato in nessun governo e in nessuna università. Eppure vi si trovano analisi e disegni di estremo interesse. Che
cosa si dovrebbe fare, e si potrebbe fare, se davvero si condivide il giudizio che i mali da
guarire sono una distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e del reddito e l’incapacità
ad assicurare la piena occupazione? Il disegno di Keynes è articolato in tre punti.
La premessa del primo è la negazione della tesi ancora oggi corrente, secondo la
quale l’accumulazione del capitale dipenderebbe dalla propensione al risparmio individuale, e che dunque in larga misura l’accumulazione di capitale dipende dal risparmio
dei ricchi, la cui ricchezza risulta così socialmente legittimata. Proprio la Teoria generale mostra invece che, sino a quando non vi sia piena occupazione, l’accumulazione
del capitale non dipende affatto da una bassa propensione a consumare, ma ne è invece
ostacolata. Il risparmio disponibile presso le istituzioni finanziarie, d’altra parte, è
maggiore di quello necessario, così che una redistribuzione del reddito intesa a aumentare la propensione media al consumo potrebbe favorire l’accumulazione del capitale. Il
luogo comune, secondo cui le imposte di successione provocherebbero una riduzione
della ricchezza capitale del Paese, è infondato. Oltre che garantire il principio (liberale)
dell’eguaglianza dei punti di partenza, alte imposte di successione favorirebbero
l’accumulazione di capitale, anziché frenarla. Dunque:
1. Nelle condizioni contemporanee l’aumento della ricchezza, lungi dal dipendere
dall’astinenza dei ricchi, come in generale si suppone, è probabilmente ostacolato da
questa. Viene quindi a cadere una delle principali giustificazioni sociali della grande
disuguaglianza delle ricchezze.
Il secondo passo del ragionamento di Keynes riguarda il saggio di interesse. La giustificazione normalmente addotta per un saggio di interesse moderatamente alto è la necessità di incentivare il risparmio, nell’infondata speranza di generare così nuovi investimenti e nuova occupazione. È invece vero, a parità di ogni altra circostanza, che gli
investimenti sono favoriti da saggi di interesse bassi; così che sarà opportuno ridurre il
Teorie economiche e politica economica
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saggio di interesse in maniera tale da rendere convenienti anche investimenti a redditività differita e bassa agli occhi del contabile, quali normalmente sono gli investimenti
ad alta redditività sociale. Di qui la cicuta keynesiana, di straordinaria attualità:
‘l’eutanasia del rentier’.
2. Lo stato di cose [sopra descritto] sarebbe del tutto compatibile con un certo grado
di individualismo, tuttavia significherebbe l’eutanasia del rentier e di conseguenza
l’eutanasia del potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di
scarsità del capitale. Oggi l’interesse non rappresenta il compenso di nessun sacrificio genuino, come non lo rappresenta la rendita della terra.
Keynes aggiunge qui un corollario oggi blasfemo: «Rimarrebbe da decidere in separata
sede su quale scala e con quali mezzi sia corretto e ragionevole chiamare la generazione
vivente a restringere il suo consumo in modo da stabilire, nel corso del tempo, uno stato
di benessere per le generazioni future». Infine, circa il ruolo dello Stato:
3. Lo Stato dovrà esercitare un’influenza direttiva circa la propensione a consumare,
in parte mediante il suo schema di imposizione fiscale, in parte fissando il saggio di
interesse e in parte, forse, in altri modi. Per di più, sembra improbabile che l’influenza
della politica bancaria sul saggio di interesse sarà sufficiente da sé sola a determinare
un ritmo ottimo di investimento. Ritengo perciò che una socializzazione di una certa
ampiezza dell’investimento si dimostrerà l’unico mezzo per consentire di avvicinarci all’occupazione piena; sebbene ciò non escluda necessariamente ogni sorta di espedienti e di compromessi coi quali la pubblica autorità collabori con la privata iniziativa.
Proporre queste tre ricette (redistribuzione della ricchezza e del reddito, eutanasia del
rentier, e una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento) come strumenti
per combattere la disoccupazione e l’ineguaglianza può sembrare una predica. Esse si
reggono invece su analisi difficili da liquidare, tanto che il problema viene spesso rimosso definendo la disoccupazione e l’ineguaglianza come fenomeni ‘naturali’. Citando un
aforisma di P. Valery, Keynes ricorda che i conflitti politici distorcono e disturbano nella
gente il senso di distinzione tra questioni di importanza e questioni di urgenza, e che dunque il cambiamento economico di una società è cosa da realizzare lentamente. Il cambiamento economico di una società è un processo lento, poiché richiede consenso politico
circa un diverso modello di società, diverso circa la strada da prendere.
Keynes sapeva bene che il suo manifesto era, se non rivoluzionario, oltraggiosamente radicale («Suggerire un’azione sociale per il bene pubblico alla City di Londra è
come discutere L’origine delle specie con un vescovo sessant’anni fa»). Perciò spiegava che l’allargamento delle funzioni di governo da lui predicato, mentre sarebbe sembrato a un pubblicista del secolo XIX o a un finanziere americano contemporaneo una
terribile usurpazione ai danni dell’individualismo, era da lui difeso «sia come l’unico
mezzo attuabile per evitare la distruzione completa delle forme economiche esistenti,
sia come la condizione di un funzionamento soddisfacente dell’iniziativa individuale».
Timore che sembra evocare lo spettro della rovina comune prefigurato dall’altro Manifesto.
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Giorgio Lunghini
L’assunzione di questa prospettiva era imposta, per il Keynes del ’36, anche da importanti e lungimiranti considerazioni politiche: «Il mondo non tollererà ancora per
molto tempo la disoccupazione, che è associata, inevitabilmente associata, con
l’individualismo capitalista d’oggigiorno». L’assunzione di questa stessa prospettiva
sarebbe inoltre più favorevole alla pace di quanto non sia un sistema teso alla conquista
dei mercati altrui. Se le nazioni imparassero a costituirsi una situazione di piena occupazione mediante la loro politica interna, non vi sarebbero più ragioni economiche per
contrapporre l’interesse di un Paese a quello dei suoi vicini.
Fatto il conto delle generazioni tra il ’36 e oggi, è dunque tempo che gli uomini
della pratica, i quali si credono liberi da qualsiasi influenza intellettuale, scoprano come
vivo questo economista defunto. Vi troveranno almeno una risposta analoga a quella
che il gatto, che aveva lunghi unghioli e tanti denti, dà ad Alice nel paese delle meraviglie. Alice aveva chiesto al gatto: «Potrebbe dirmi, per favore, che strada dovrei prendere?». La risposta del gatto, che aveva lunghi unghioli e tanti denti, fu: «Dipende molto da dove vuoi andare».
Se si guarda alle determinanti della crisi in atto, si vedrà che la Teoria generale sembra
fatta apposta per contrastarla e medicarla: e lo è. Gli aspetti più vistosi della crisi in atto, in questa sua fase, sono gli aspetti finanziari, le colpevoli condizioni della finanza
pubblica e delle istituzioni finanziarie private. Nel capitalismo, tuttavia, gli elementi
finanziari e gli elementi reali sono strettamente interconnessi, poiché una economia
monetaria di produzione è impensabile senza moneta, senza banche e senza finanza.
Un sistema economico capitalistico potrebbe anche riprodursi senza crisi; ma se e
soltanto se la distribuzione del prodotto sociale fosse tale – per dirla con Marx – da non
generare crisi di realizzazione, di sovrapproduzione (di sovrapproduzione relativa: rispetto alla capacità d’acquisto, non rispetto ai bisogni); e se moneta, banca e finanza
fossero soltanto funzionali al processo di produzione e riproduzione del sistema, e non
dessero invece luogo a sovraspeculazione e a crisi di tesaurizzazione. Ovvero non si
darebbero crisi, nel linguaggio di Keynes, se la domanda effettiva, per consumi e per investimenti, e la domanda di moneta per il motivo speculativo fossero tali – by accident or
design – da assicurare un equilibrio di piena occupazione. Ora è improbabile che questo
caso si dia automaticamente, e di qui la necessità sistematica di un disegno di politica
economica. In breve: il sistema capitalistico – il mercato – non è capace di autoregolarsi.
Negli ultimi anni si è invece avuto un cospicuo spostamento, nella distribuzione del
reddito, dai salari ai profitti e alle rendite; e dunque si è determinata una insufficienza
di domanda effettiva e una disoccupazione crescente. D’altra parte la finanza è diventata un gioco fine a se stesso. In condizioni normali la finanza è un gioco a somma zero:
c’è chi guadagna e chi perde; ma quando essa assume le forme patologiche di una ingegneria finanziaria alla Frankenstein, ci perdono tutti: anche e soprattutto quelli che non
hanno partecipato al gioco. Questi processi si sono diffusi in tutto il mondo, grazie alla
globalizzazione e alla conseguente sincronizzazione delle diverse economie nazionali; e
grazie all’assenza di un coordinamento della divisione internazionale del lavoro e di un
appropriato ordinamento monetario e finanziario internazionale. Così che i singoli Paesi
si trovano a dover fronteggiare le conseguenze della crisi ciascuno da solo, ma non au-
Teorie economiche e politica economica
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tonomamente; bensì, in Europa, secondo le direttive della Banca Centrale Europea e, in
generale, del «senato virtuale».
Il «senato virtuale», secondo una definizione che Chomsky mutua da Eichengreen, è
costituito da prestatori di fondi e da investitori internazionali che continuamente sottopongono a giudizio, anche per mezzo delle agenzie di rating, le politiche dei governi nazionali; e che se giudicano ‘irrazionali’ tali politiche – perché contrarie ai loro interessi –
votano contro di esse con fughe di capitali, attacchi speculativi o altre misure a danno
di quei Paesi e in particolare delle varie forme di stato sociale. I governi democratici
hanno dunque un doppio elettorato: i loro cittadini e il senato virtuale, che normalmente
prevale. Infatti è questa una crisi tale che, se non se ne esce, avrà conseguenze gravissime non soltanto economiche (una lunga depressione), ma soprattutto politiche. Il Novecento europeo ha insegnato che dalla crisi si esce a destra. Uscite a destra che oggi
non sfoceranno in nazifascismo; ma più probabilmente – poiché la seconda volta le tragedie si presentano come farsa – in forme di populismo autoritario, con Tolkien al posto
di Heidegger e gli hobbit al posto delle walkirie. In un mondo fatto di Lumpenproletariat
e di piccolo-borghesi.
Sono conseguenze della crisi, e insieme loro cause, che in verità sono i connaturati
difetti del capitalismo: l’incapacità a provvedere una occupazione piena e la distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi. Per rimediare a questi difetti, non
si vede altra strada se non quella tracciata da Keynes: una redistribuzione del reddito
per via fiscale (imposte sul reddito progressive ed elevate imposte di successione),
l’eutanasia del rentier, e un certo, non piccolo, intervento dello Stato nell’economia. È
un vero peccato (e peccato mortale nel senso del Catechismo: tale quando ci sono nel
contempo materia grave, piena consapevolezza e deliberato consenso) che la keynesiana Filosofia Sociale alla quale la Teoria Generale potrebbe condurre non sia mai stata
presa in considerazione, per via della incapacità dei finanzieri della City e dei rappresentanti dei capitalisti nel Parlamento, di decidere circa le misure da prendere per salvaguardare il capitalismo dal ‘bolscevismo’; e che il piano Keynes di Bretton Woods
sia stato prima temperato poi smantellato. Tuttavia i problemi reali, che Keynes aveva
ben chiari in mente in tutti e due i sensi della parola, oggi in Italia si riducono a uno: a
un problema di crescita, equa e rispettosa dei vincoli di bilancio.
Scriveva Keynes, nel 1937: «La fase di espansione, non quella di recessione, è il
momento giusto per l’austerità di bilancio».
A sostegno e integrazione di quanto ho detto sinora, aggiungo che oggi non siamo in
recessione, una fase del ciclo capitalistico dalla quale prima o poi si esce; bensì in una
situazione di depressione-deflazione.
La Grande depressione di fine Ottocento, scriveva A. Marshall, era cominciata
proprio con una prolungata «depressione dei prezzi, depressione degli interessi e depressione dei profitti». Soprattutto dei profitti, naturalmente. Anche quella depressione si
era accompagnata a un processo di globalizzazione e di finanziarizzazione dell’economia.
È difficile dire se queste prospettive di deflazione siano sintomo o causa della depressione in atto, mentre è ragionevole sostenere che deflazione e depressione sono oggi conseguenze della globalizzazione, di questa globalizzazione.
96
Giorgio Lunghini
Questa globalizzazione è stata la risposta del capitale all’esaurimento del lungo ciclo fordista e alla conseguente caduta del saggio dei profitti nei settori tradizionali dell’economia. È però stata una risposta avventata, di rapina piuttosto che di riproduzione
allargata, e dopo un quarto di secolo il problema si ripresenta. Nella situazione attuale
si profila un intreccio delle tre forme marxiane – e keynesiane – della crisi: da tesaurizzazione, cioè in seguito alla diversione dei capitali dalla accumulazione di capitale produttivo alla speculazione finanziaria; di sproporzione tra investimenti e consumi; e di
realizzazione, per insufficienza di domanda effettiva. È una trappola da cui è difficile
uscire.
Circa la speculazione finanziaria conviene ricordare che è un gioco tutt’al più a
somma zero. A differenza della produzione di merci, la speculazione finanziaria è un
gioco in cui non possono vincere tutti; c’è chi guadagna e chi perde e è anche possibile,
in una situazione di crisi, che perdano tutti. Nel processo di globalizzazione degli ultimi
decenni, d’altra parte, alla espansione della capacità produttiva e dell’offerta di merci
non si è accompagnata, né poteva accompagnarsi, a livello mondiale, una espansione
proporzionale dei consumi: per la semplice ragione che contemporaneamente si è avuto,
tra Paesi e all’interno dei singoli Paesi, uno spostamento nella distribuzione del reddito
dai poveri ai ricchi, dai salari ai profitti e alla rendita finanziaria.
I capitalisti contemporanei hanno dimenticato la lezione di Henry Ford: che i salari
sono sì costi di produzione, ma sono anche potere d’acquisto. In un mondo bene ordinato, e non solo per ragioni di giustizia sociale, i lavoratori dovrebbero poter comperare,
con il reddito tratto dal lavoro prestato nelle fabbriche e negli uffici, ciò che ritrovano
come consumatori sugli scaffali dei supermercati. Forse i capitalisti credono ancora
nella legge di Say, cioè che l’offerta crea la domanda, ma così non è. È vero invece il
contrario: è la domanda che crea l’offerta e dunque l’occupazione. Se i redditi da lavoro
sono bassi, sarà bassa la domanda per consumi; se la domanda per consumi è bassa, non
ci sarà motivo per fare nuovi investimenti; dunque saranno basse la produzione e
l’occupazione. Alla fine saranno bassi anche i profitti, e ci sarà depressione.
I singoli capitalisti, e i singoli Paesi, contavano di sfuggire a questo circolo vizioso
proprio con la globalizzazione: cercando bassi costi di produzione da una parte e ricchi
mercati di sbocco da un’altra. Ma poiché il mondo è un sistema chiuso, una politica di
beggar my neighbour, il nostro rubamazzetto, non può continuare all’infinito: dopo il
giro del mondo ci si ritrova a casa, e in una situazione di deflazione. Si potrebbe pensare, e così sarebbe per il singolo consumatore, che una situazione di prezzi calanti sia
una situazione desiderabile. Ma per un sistema economico nel suo complesso, e per il
mondo nel suo complesso, così non è. In verità la deflazione è temibile, e più temibile
di una inflazione moderata, soprattutto per le sue conseguenze sulla distribuzione del
reddito e della ricchezza.
In una economia monetaria di produzione una elevata flessibilità verso il basso dei
prezzi e dei salari non ha affatto un effetto stabilizzante, né favorisce la piena occupazione. Come hanno spiegato Keynes, Fisher, Kalecki, Lerner, Tobin, Minsky e altri, in
un contesto di concorrenza imperfetta e soprattutto se i salari scendono più rapidamente
dei prezzi, ci sarà uno spostamento nella distribuzione del reddito dai percettori di salari ai percettori di profitti e rendite. Una diminuzione dei prezzi, d’altra parte, fa aumen-
Teorie economiche e politica economica
97
tare il valore reale dei debiti e dei crediti e dunque determina uno spostamento della
ricchezza privata, in termini reali, dai debitori ai creditori (sempre che i primi non siano
falliti). Poiché ci sono ragioni per ritenere che i percettori di profitti e di rendite, così
come i creditori, abbiano una propensione (marginale) al consumo minore di quella dei
percettori di salari e dei debitori, ne seguirà una diminuzione della propensione (marginale media) al consumo e perciò della domanda effettiva, dunque dell’offerta, dunque
dell’occupazione. Se poi una riduzione dei prezzi e dei salari alimenta aspettative di
una loro diminuzione ulteriore, ciò peggiorerà le aspettative di profitto degli imprenditori e di conseguenza anche gli investimenti diminuiranno.
A ciò si può aggiungere che la deflazione aumenta la fragilità finanziaria del sistema economico, così che piccoli shock possono avere conseguenze gravi, nella forma di
fallimenti, qualora il livello di indebitamento del sistema sia cresciuto troppo nella fase
di espansione. Per il sistema economico nel suo complesso la deflazione ha dunque effetti soltanto negativi in termini di produzione e di occupazione; anche se una parte della società, ma solo nel breve periodo, potrà avvantaggiarsene: i percettori di profitti e di
rendite.
In questo quadro hanno un’importanza cruciale la situazione e le possibili strategie
degli Stati Uniti. Negli Stati Uniti è in atto da tempo un rallentamento nella crescita
della produzione e della occupazione e un crescente indebitamento delle famiglie; una
crescita del debito pubblico e del disavanzo commerciale verso il resto del mondo, e
una ulteriore redistribuzione del reddito dai poveri ai ricchi. Da ciò l’Europa non è in
grado di difendersi, per miopia politica e perché prima che l’euro diventi moneta di riserva internazionale, un suo apprezzamento significa una perdita di competitività che
non è compensata dal minor prezzo (in dollari) delle materie prime. Si aggiunga che
ormai da tempo è in atto anche una crescente sincronizzazione delle dinamiche economiche dei diversi Paesi, soprattutto a causa della simultaneità dei mercati finanziari.
Ciò significa che le vicende congiunturali e le eventuali crisi del Paese più potente vengono immediatamente esportate nel resto del mondo (con l’eccezione della Cina), in
una nuova versione, ma ancora più minacciosa, della politica di beggar my neighbour.
In uno scritto profetico del 1932 Keynes denunciava la disarmonia tra interesse generale e interessi particolari:
Ciascun Paese, nel tentativo di migliorare la propria posizione relativa, intraprende
iniziative dannose per la prosperità dei suoi vicini; e poiché l’esempio viene imitato,
ogni Paese patirà iniziative analoghe da parte dei suoi vicini e ne soffrirà più di
quanto non se ne avvantaggi. Praticamente tutti i rimedi oggi invocati hanno questo
carattere di danno reciproco. Riduzioni salariali competitive, politiche tariffarie
competitive, svalutazioni competitive della moneta e così via, sono tutti esempi di
questo gioco a rubamazzetto. Poiché le uscite dell’uno sono le entrate dell’altro, se
aumentiamo i nostri margini diminuiamo quelli di qualcun altro. Se la pratica sarà
seguita da tutti, tutti ci perderanno. Un singolo individuo può anche essere costretto
dalle circostanze private a tagliare le sue spese correnti, e nessuno può biasimarlo;
ma non si deve pensare che in tal modo egli adempia un pubblico dovere. Il capitalista moderno è come un marinaio che naviga soltanto con il vento in poppa, e che
non appena si leva la burrasca viene meno alle regole della navigazione o addirittura
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Giorgio Lunghini
affonda le navi che potrebbero trarlo in salvo, per la fretta di spingere via il vicino e
salvare se stesso.
Bibliografia
Keynes J.M. [a cura di G. Lunghini] (1991), La fine del laissez-faire e altri scritti, Torino,
Bollati Boringhieri.
Lunghini G. (2012), Conflitto Crisi Incertezza, Torino, Bollati Boringhieri.
Lunghini G. (2013), Come uscire dalla crisi. Crescita e intervento pubblico, Roma, Atti
dell’Accademia Nazionale dei Lincei.
Qualche proposta per l’Europa e l’Italia
Mario Pianta, Università degli Studi di Urbino
[email protected]
1. Europa, la strada sbagliata
Il Manifesto di Ventotene, di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, denunciava nel 1943 «le
colossali fortune dei pochi e la miseria delle grandi masse», «un regime economico in
cui le risorse materiali e le forze del lavoro […] vengono indirizzate alla soddisfazione
dei desideri più futili di coloro che sono in grado di pagare i prezzi più alti; un regime
economico in cui, col diritto di successione, la potenza del denaro si perpetua nello
stesso ceto, trasformandosi in un privilegio». Un atto d’accusa contro «redditieri», «ceti
monopolistici» e i ricchi che, «nascosti dietro alle quinte, tirano i fili degli uomini politici» (testo del 29 agosto 1943, cap. 1).
L’economia dell’Europa di oggi torna ad avere molti punti in comune con quella
dei regimi degli anni Trenta. Innanzi tutto la depressione dell’economia. L’Italia e diversi altri Paesi hanno registrato un ristagno economico a partire dal 2000, poi è arrivato il crollo del 2008, ora la grande depressione che colpisce soprattutto la periferia
dell’Europa, col risultato di una divisione ormai crescente all’interno dell’Unione. Perfino la Banca centrale europea riconosce ora i rischi di una deflazione che aggraverebbe
ancora la caduta dell’economia.1
Il secondo elemento comune è il potere della finanza che si è esteso in tutta
l’economia e influenza sempre di più la politica. Condiziona le scelte delle imprese –
spinte a fornire rendimenti sempre più alti – e le politiche degli stati – ai vertici di governi e banche centrali troviamo una lista interminabile di ex collaboratori di Goldman
Sachs e altre società finanziarie.
Il terzo fenomeno è che le disuguaglianze sono ritornate ai livelli di prima della seconda guerra mondiale, con una concentrazione di ricchezza e potere che fino a pochi
anni fa sarebbe stata considerata inaccettabile. In Italia il 10% delle famiglie più ricche
possiede il 45% della ricchezza totale, il 50% delle famiglie più povere dispone di appena il 10% della ricchezza totale. Secondo le analisi di Banca d’Italia, i dieci individui
più ricchi posseggono una quantità di ricchezza pari a quella dei tre milioni di italiani
più poveri. In media, la ricchezza di uno di questi ‘super-ricchi’, vale quella di trecentomila italiani poveri. Le disuguaglianze sono a livelli record in quasi tutti i Paesi europei; se consideriamo l’Unione Europea nel suo insieme, le disuguaglianze interne non
sono inferiori a quelle degli Stati Uniti (Pianta 2012; Franzini 2013).
Il risultato è un quarto elemento comune con gli anni Trenta: il diffondersi di reazioni populiste e di crisi politiche che fanno seguito al collasso dell’economia. La crisi
di Cipro nel 2013 è stata tamponata in silenzio solo per le piccole dimensioni del Paese.
1
I temi di questo contributo sviluppano le analisi di Pianta (2012) e di Marcon-Pianta (2013).
100
Mario Pianta
Alle porte dell’Unione è scoppiata nel 2014 la crisi dell’Ucraina, mentre crescono le
tensioni in Paesi come Bosnia e Turchia.
Com’è stato possibile costruire un’Europa così lontana dagli ideali europeisti? Quando
si è sbagliato? Se vogliamo trovare una data, scegliamo l’aprile 1989. Il muro di Berlino era ancora intatto e la Comunità europea pensava al futuro. La Commissione Delors
– di cui facevano parte Carlo Azeglio Ciampi e Tommaso Padoa Schioppa – lo disegnava così: «L’unione economica e monetaria in Europa implicherà una completa libertà di movimento per le persone, i beni, i servizi, i capitali, oltre che tassi di cambi irrevocabilmente fissi tra le monete nazionali e, infine, la moneta unica» (Delors 1989,
p. 13). La prima azione concreta riguardava la liberalizzazione dei movimenti di capitale, introdotta nel 1990. Ma – spiegava il rapporto – liberalizzare la finanza metteva a
rischio i cambi delle monete nazionali e obbligava all’introduzione dell’euro che «eliminerà il tasso di cambio come strumento di aggiustamento […]. Gli squilibri economici tra i paesi membri dovranno essere corretti attraverso politiche che cambiano la struttura delle economie e i costi di produzione se si vogliono evitare gravi disparità regionali nella produzione e nell’occupazione» (Delors 1989, p. 12). Inevitabile concludere
che «la flessibilità salariale e la mobilità del lavoro sono necessarie per eliminare le
differenze di competitività tra diverse regioni e paesi della Comunità. In caso contrario
ci potranno essere forti riduzioni nella produzione e occupazione nelle aree con minor
produttività» (Delors 1989, p. 19).
A distanza di venticinque anni, questo documento ritrae con grande efficacia la traiettoria di un’integrazione europea all’insegna del liberismo, fondata sull’espansione
della finanza e sulla capacità dei mercati – il ‘mercato unico’ per beni e servizi e la liberalizzazione dei mercati dei capitali – di assicurare lo sviluppo. La fiducia riposta
nella finanza impediva alla Commissione Delors di immaginare che proprio essa avrebbe provocato la grande crisi del 2008 e la ‘grande depressione’ attuale. Quel disegno si
è compiutamente realizzato, compresi i costi dell’aggiustamento scaricati su salari sempre più bassi e migrazioni dai Paesi della periferia.
Per di più, il progetto liberista ha legato le mani alla politica, svuotato la democrazia all’interno dei Paesi europei e impedito un suo sviluppo a scala dell’Unione. Al posto delle promesse è arrivata una crisi interminabile, un arretramento del livello di vita,
un disagio sociale sempre più grave. L’Europa, a sei anni dallo scoppio della crisi del
2008, si ritrova profondamente divisa, con un ‘centro’ intorno alla Germania che è tornato a crescere, ha mantenuto l’occupazione, si è messo al riparo dai fallimenti delle
banche, ha assunto un forte controllo politico sull’insieme dell’Unione. Viceversa, i
Paesi della periferia – Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna, Italia – si ritrovano più poveri e disuguali, senza lavoro, con un maggior peso del debito e difficoltà che si trasmettono dalle imprese, alle banche, alle famiglie. In Italia il reddito per abitante è tornato ai livelli di quindici anni fa, la produzione industriale è del 25% in meno rispetto
ai livelli pre-crisi del 2008, una persona su sei cerca lavoro e non lo trova, e tra chi lavora uno su quattro ha un contratto precario. Ma i conti in rosso si stanno estendendo
ad altri Paesi un tempo forti: la Francia è in bilico, Olanda e Finlandia sono in recessio-
Qualche proposta per l’Europa e l’Italia
101
ne, la ripresa inglese (fuori dall’euro) è trainata soltanto da una nuova bolla speculativa
destinata a una nuova caduta.
Le elezioni europee del maggio 2014 rifletteranno questo profondo disagio sociale,
con un’affermazione delle forze populiste e reazionarie in tutta Europa; le anticipazioni,
ad aprile 2014, sono venute dal voto politico in Ungheria e da quello amministrativo in
Francia. L’insostenibilità dell’Europa della finanza e dei mercati sta diventando evidente, ma con un segno di reazione nazionalista e anti-europea.
2. Qualche proposta per l’Europa
Tra i tecnocrati dell’austerità da un lato – sostenuti quasi ovunque in Europa da governi
di ‘larghe intese’ – e i populismi nazionalisti dall’altro è importante tenere aperto lo
spazio di un’altra Europa, democratica e partecipata.
Sul piano economico si tratta di chiedere all’Europa di ripensare criticamente il proprio percorso. Mercati e finanza non possono più essere le stelle polari dell’integrazione
europea. Potremmo trovarne altre tre: la democrazia, la sostenibilità dello sviluppo,
l’uguaglianza. Sarebbe un cambiamento profondo del modello economico e dell’orizzonte
politico, ma che potrebbe diventare necessario per la sopravvivenza stessa di un’Unione
degna di questo nome.
Innanzi tutto la democrazia. Senza democrazia è sempre più difficile governare
un’Europa sempre più divisa, che concentra i benefici sul 10% degli europei più ricchi.
Più democrazia vuol dire un ritorno della politica – a scala nazionale ed europea – come
responsabilità sulle scelte comuni, progettando una politica fiscale comune e sostituendo i poteri della ‘troika’ – Commissione, Bce e Fmi – nei casi dei Paesi in crisi. Un ritorno della politica è necessario per rompere la gabbia dell’austerità imposta dai trattati
europei come il Fiscal compact che prolungano la depressione. Nuovi trattati servono,
non più per favorire la finanza e le grandi imprese, ma per dare all’Europa una struttura
più democratica e partecipativa, e per guidarne lo sviluppo lungo la strada della sostenibilità e del lavoro. Nuove regole servono per riformare la Bce, per introdurre eurobond e risolvere il problema del debito pubblico attraverso il principio di una responsabilità comune dei Paesi dell’eurozona. Serve una politica che riesca a ridimensionare la
finanza, controllare i movimenti di capitali, tassare le transazioni, regolare il sistema
bancario ombra, limitare derivati e speculazioni.
La sostenibilità dello sviluppo dev’essere il principio di fondo che sostituisce la
cieca fiducia nell’efficienza dei mercati. Una fiducia che spinge l’Europa a trattare ora
una partnership con gli Usa su commercio e investimenti (il TTIP) che tutelerebbe gli
investimenti delle multinazionali, costringerebbe alla privatizzazione dei servizi e ridurrebbe drasticamente lo spazio per le politiche europee, nazionali e locali.2 Al posto della concorrenza fiscale tra Paesi, servirebbe un’armonizzazione dell’imposizione fiscale
in cui la tassazione favorisca l’evoluzione delle attività economiche verso obiettivi di
2
Un’analisi del TTIP è nel n.1 dello speciale «Sbilanciamo l’Europa» su «Il trattato intrattabile» pubblicato
con «il manifesto» il 24 gennaio 2014 e scaricabile sul sito, [online], URL: <http://www.sbilanciamoci.info/
Sezioni/alter/Il-trattato-intrattabile-21923>, [data di accesso: 08/07/2014].
102
Mario Pianta
sostenibilità. Ben oltre i modesti impegni ambientali del progetto Europa 2020, nuove
attività economiche sostenibili sul piano ambientale, capaci di risparmiare energia e
risorse non rinnovabili, di utilizzare al massimo lavoro qualificato e conoscenze, rappresentano l’unica traiettoria possibile per lo sviluppo dell’Europa in un mondo in cui
Asia e America latina si avvicinano ai livelli di produzione industriale e consumo finora riservati all’occidente.
Infine, l’uguaglianza. Le disparità di oggi in Europa assomigliano a quelle dell’ancien
régime: ai cittadini d’Europa – a quel 90% che sta peggio di un decennio fa – va ora redistribuito reddito, lavoro e diritti: il senso di poter determinare le proprie vite. La politica
deve affermare l’uguaglianza sul terreno dei diritti – contro le discriminazioni di ogni tipo
– e su questo qualche passo avanti c’è anche nei trattati europei. Ma un drammatico arretramento è avvenuto sul principio di uguaglianza in campo economico e sociale. La tutela
del lavoro è il primo passo verso la riduzione delle disparità economiche; le riforme che
hanno aumentano la precarietà e abbassato i salari sono state tra le cause della crisi attuale e non possono portarci a una soluzione. Il lavoro va tutelato di fronte alle strategie delle imprese e sono necessarie politiche di intervento pubblico per la creazione di posti di
lavoro, una politica industriale europea che ricostruisca la capacità produttiva dei Paesi in
crisi, offrendo lavori qualificati e redditi dignitosi.
In parallelo, sono necessarie misure per la riduzione e redistribuzione dell’orario di
lavoro, per ridurre le disparità di genere e per conciliare tempi di vita e di lavoro. Sul
piano sociale, l’uguaglianza tra i cittadini è stata garantita per decenni dal modello sociale europeo, dai servizi pubblici e dalle politiche di welfare, che ora vanno rinnovate
e generalizzate, con un’integrazione a scala europea che non si è mai realizzata.
Utopie? Si tratta di politiche già realizzate in molti Paesi europei o nel New Deal di
Roosevelt. Proposte di questo tipo sono avanzate da più parti come alternative alla crisi.
Una sintesi efficace delle proposte di cambiamento avanzate in molti Paesi europei in
questi anni è stata realizzata dalla «Rete europea degli economisti progressisti», costituita a Firenze nel novembre 2012, e promossa da EuroMemorandum, Economistes
Atterrés francesi, Sbilanciamoci! e molti altri gruppi. Il documento costitutivo «Appello
comune per un’altra politica economica per l’Europa» (Euro-pen 2012) chiede «un ridimensionamento radicale della finanza, attraverso una tassa sulle transazioni finanziarie, l’eliminazione delle attività speculative e il controllo del movimento dei capitali. Il
sistema finanziario dovrebbe essere ricondotto a forme di controllo sociale e trasformato in modo che promuova investimenti produttivi sostenibili dal punto di vista sociale e
ambientale e l’occupazione». Si sostiene inoltre che «di fronte alla crisi finanziaria in
Europa – segnata dall’interazione tra crisi delle banche e del debito pubblico – la Banca
Centrale Europea deve operare come prestatore di ultima istanza per i titoli di Stato. Il
problema del debito pubblico deve essere risolto con una responsabilità comune
dell’Eurozona». Viene poi richiesta una svolta in campo fiscale: «le politiche di austerità dovrebbero essere rovesciate e va radicalmente rivista la drastica condizionalità imposta ai Paesi che ricevono i fondi d’emergenza europei, a partire dalla Grecia. Le pericolose limitazioni imposte dal “fiscal compact” devono essere rimosse, in modo che gli
Stati possano difendere la spesa pubblica, il welfare, i redditi, permettendo all’Europa
di assumere un ruolo più forte nello stimolare la domanda, promuovendo il pieno im-
Qualche proposta per l’Europa e l’Italia
103
piego e avviando un nuovo modello di sviluppo equo e sostenibile». Infine, si chiede
una redistribuzione che riduca le diseguaglianze, l’armonizzazione dei regimi di tassazione, lo spostamento dell’imposizione dal lavoro verso i profitti e la ricchezza; più in
generale, si chiede un diverso sviluppo («una transizione ecologica profonda») e
l’estensione della democrazia a tutti i livelli in Europa (Euro-pen 2012).
Le forme di realizzazione di un tale ‘cambio di rotta’ possono essere diverse. La
prima possibilità – la più semplice – è che la Banca centrale europea assuma il ruolo di
prestatore di ultima istanza per il debito pubblico dei Paesi dell’area euro; la Bce potrebbe acquistare senza limiti titoli dei Paesi euro sul mercato primario e secondario;
immediatamente gli spread cadrebbero e un ‘normale’ rimborso del debito diventerebbe
possibile. Inoltre, l’emissione di euro nel sistema andrebbe a finanziare gli stati e non
solo le banche private, accelerando la ripresa. Una seconda possibilità è l’impegno
dell’Eurozona a garantire collettivamente il debito pubblico attraverso la creazione di
eurobond; esistono numerose proposte su come potrebbero essere introdotti: a sostituzione del debito in eccesso del 60% del Pil; per il finanziamento delle nuove emissioni;
per il finanziamento di nuova spesa pubblica a livello europeo per uscire dalla depressione e avviare la riconversione ecologica del modello di sviluppo. In tutti i casi, il
nuovo ruolo della Bce e la responsabilità comune sul debito andrebbero affiancate
dall’introduzione di politiche fiscali comuni (di segno diverso rispetto all’austerità imposta dal ‘Fiscal compact’e dal ‘six-pack’ di misure per la governance economica europea) e da una maggior integrazione politica.
È mancata finora – a scala europea come a livello nazionale – una pressione sociale
capace di far mutare, sul piano politico, gli orientamenti dei governi, avviando misure
di questo tipo. Eppure, senza un ‘cambio di rotta’ come questo, la crisi della periferia
europea potrebbe aggravarsi, la fragilità del sistema bancario potrebbe diventare pericolosa, la spirale di depressione e deflazione potrebbe bloccare l’intera eurozona, aggravando l’instabilità politica e sociale. L’Europa diventerebbe sempre più fragile e divisa,
la democrazia sarebbe a rischio.
3. Qualche proposta per l’Italia
All’interno del cambiamento di rotta discusso fin qui per l’insieme dell’Europa, c’è lo
spazio in Italia per una serie di misure capaci di far uscire il Paese dalla depressione
attuale. In sintesi servirebbe una politica della domanda per rilanciare l’economia, una
spesa pubblica riqualificata, una ‘grande redistribuzione’ che tolga ai ricchi per dare ai
poveri, cominciando dalla tassazione, una riconversione ecologica del che cosa e come
si produce, valorizzando i beni comuni e i saperi, mettere il lavoro al primo posto. Sono
queste le direzioni su cui sarebbe necessario muoversi, presentate in dettaglio nel volume Sbilanciamo l’economia. Una via d’uscita dalla crisi (Marcon-Pianta, 2013), che
qui riassumiamo.
Uscire dalla depressione. La priorità assoluta per l’Italia è uscire dalla depressione.
Anche in assenza di modifiche degli attuali vincoli europei, qualche cosa di nuovo po-
104
Mario Pianta
trebbe essere realizzato dal governo italiano per far ripartire la domanda. Una prima
possibilità è quella di finanziare almeno 30 miliardi di spesa pubblica aggiuntiva con
entrate da fonti che non riducono il reddito del Paese, assicurando tuttavia il pareggio di
bilancio. Tale spesa rappresenta quasi il 2% del Pil e potrebbe dare un significativo
scossone per la ripresa dell’economia. Tale importo potrebbe venire da due fonti: la
prima è un’addizionale sui capitali ‘scudati’ – i fondi portati illegalmente all’estero e
‘ripuliti’ grazie alla legge del governo Berlusconi – che potrebbe portare alle casse pubbliche 15 miliardi di euro. La seconda è un accordo con la Svizzera sull’accertamento e
la tassazione forfettaria dei 150 miliardi di euro esportati clandestinamente da italiani,
un accordo analogo a quello già concluso da Gran Bretagna e altri Paesi, che potrebbe
fruttare almeno 15 miliardi, come risarcimento per l’imposizione fiscale mancata (evitando che l’accordo porti con sé un condono definitivo). Queste due misure intervengono su capitali collocati all’estero e che non alimentano consumi e investimenti nel Paese; non ci sarebbero quindi gli effetti negativi sulla domanda interna che il prelievo fiscale può avere.
Una seconda misura potrebbe riguardare un significativo spostamento dell’imposizione
fiscale dai redditi da lavoro più bassi alla ricchezza finanziaria. Un’imposta sulla ricchezza
finanziaria con aliquote progressive potrebbe portare introiti di 10 miliardi l’anno. Queste
entrate fiscali potrebbero estendere la detassazione dei redditi più bassi introdotta dal governo di Matteo Renzi nella primavera 2014. A livello aggregato si tratterebbe di un aumento di domanda, a parità di redditi lordi, di circa lo 0,7% del Pil, ancora una volta con
importanti effetti espansivi.
Infine, una terza strada potrebbe venire dall’utilizzo dei fondi della Cassa Depositi
e Prestiti – l’ultima banca controllata dallo stato, che nel 2011 aveva attivi per 249 miliardi – che potrebbero finanziare per 15 miliardi di euro un programma di ‘piccole opere’ di investimenti pubblici per gli enti locali, restando fuori dal bilancio dello stato (ad
esempio con formule finanziarie transitorie, utilizzando un’agenzia apposita o il modello delle private-public partnership, per poi rientrare nel bilancio pubblico appena finita
l’emergenza della crisi). Anche in questo caso avremmo un aumento della spesa pubblica dell’ordine dell’1% del Pil, destinata a investimenti che hanno un effetto moltiplicativo del reddito molto elevato. La copertura della spesa sarebbe finanziata dalla raccolta del risparmio postale effettuata dalla Cassa Depositi e Prestiti e, anziché andare in
investimenti finanziari, come sta succedendo negli ultimi anni, le risorse della Cassa
tornerebbero a sostenere il miglioramento delle infrastrutture pubbliche e del benessere
collettivo.
Se combiniamo le misure proposte, la domanda aggregata per l’economia italiana potrebbe aumentare di oltre 3 punti percentuali del Pil. La crisi sarebbe finita, l’occupazione
tornerebbe a crescere.
La riqualificazione della spesa pubblica. In Italia la spesa pubblica si avvicina agli 800
miliardi di euro l’anno e rappresenta il 45% del Pil. È necessario migliorarne la qualità,
riducendo le spese sbagliate, le azioni che peggiorano il benessere e gli sprechi.
L’iniziativa principale su questi temi in Italia è la ‘controfinanziaria’ della Campagna
Sbilanciamoci!, costruita sulla base delle analisi e delle proposte puntuali di una rete di
associazioni impegnate sui temi delle alternative economiche, dell’ambiente, dei diritti.
Qualche proposta per l’Europa e l’Italia
105
Per il bilancio di previsione 2014 è stata proposta una manovra complessiva di 26 miliardi, a parità di saldo di bilancio. Si propone di aumentare di 14 miliardi le entrate
fiscali dalle misure sopra citate (tassa sui capitali scudati, sui patrimoni, sulle rendite
finanziarie, progressività dell’Irpef, oltre ai videogiochi), tagliare 4,5 miliardi di spese
militari (a cominciare dai caccia F35) e 3 miliardi per le ‘grandi opere’, e di spendere
invece 7,5 miliardi per il sostegno al lavoro e un piano di reddito minimo e circa 19
miliardi complessivi per scuola, università, cultura, welfare, salute, diritti e ambiente
(Sbilanciamoci 2013, pp.157-159). Queste proposte sono indicative di iniziative concrete che potrebbero migliorare l’efficienza della spesa pubblica e la sua qualità sociale
e ambientale.
Una riforma delle tasse. Negli ultimi vent’anni il sistema fiscale in Italia ha visto ridursi la progressività delle imposte, l’imposta di successione è stata cancellata, le rendite
finanziarie sono rimaste al riparo dall’imposizione, con aliquote che – anche dopo i recenti aumenti – restano più basse rispetto alla media europea. I profitti delle imprese,
con le norme attuali, possono essere nascosti nei bilanci o trasferiti all’estero, nei paradisi fiscali dove non sono tassati. E l’evasione fiscale – specie delle imprese, dei professionisti, dei lavoratori autonomi – ha raggiunto in Italia livelli record, aiutata
dall’allentamento nei controlli e nella normativa introdotta dal ministro dell’economia
Giulio Tremonti e ripetuti condoni dei governi Berlusconi sull’evasione fiscale, sugli
abusi edilizi, perfino sull’esportazione illegale di capitali, lo ‘scudo fiscale’. Gran parte
del carico fiscale è rimasto così sui lavoratori dipendenti; le entrate fiscali sui redditi
del 2010 mostrano che l’80% delle entrate delle imposte dirette viene dai lavoratori dipendenti (privati o pubblici) e solo il 20% viene dai lavoratori autonomi; sul totale dei
lavoratori dipendenti, il 35% delle entrate viene da contribuenti con meno di 29 mila
euro di reddito, mentre quelli con redditi superiori a 100 mila euro l’anno contribuiscono ad appena il 18% delle imposte dirette versate, la metà del contributo di quelli con
redditi minimi.
È necessaria una politica fiscale che trovi entrate dove prima non erano cercate: i
ricchi, i profitti e le rendite, per finanziare la spesa necessaria a far ripartire l’economia.
Dall’altro lato è necessario uno spostamento strutturale dell’imposizione fiscale dal lavoro alla ricchezza – immobiliare e finanziaria – e alle risorse naturali non rinnovabili.
Con un ritorno della progressività dell’imposizione, le aliquote potrebbero salire al 50%
per i redditi sopra i 70 mila euro, al 60% per quelli sopra i 150 mila euro e al 75% oltre
il milione di euro. Contemporaneamente potrebbe essere ridotta di due punti percentuali
l’imposizione fiscale sui redditi inferiori ai 23 mila euro e dimezzata la tassazione delle
pensioni inferiori a 1000 euro mensili.
Veniamo alla ricchezza. In vent’anni di scarsissima crescita dei redditi, la ricchezza in Italia è cresciuta molto più che nella media europea. I patrimoni immobiliari si
sono gonfiati per la moltiplicazione dei prezzi degli edifici. La ricchezza finanziaria
netta delle famiglie italiane è pari a circa due volte il Pil nella media dell’ultimo decennio, quasi il doppio della Germania e della Francia, il valore più alto d’Europa. La tassazione dei patrimoni immobiliari era stata reintrodotta con l’Imu nel 2012, dopo che il
governo Berlusconi aveva cancellato l’Ici sulla prima casa, ed è stata riabolita sulla
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Mario Pianta
prima casa con le decisioni del governo Letta nel 2013. Il livello di tassazione resta
molto più basso che in Europa sia sul patrimonio, sia sui redditi – gli affitti – che essi
producono (dove si registra un’elevata evasione fiscale). Su questo fronte si potrebbe
reintrodurre l’Imu, destinata interamente ai Comuni, con aliquote base del 4 per mille
sulla prima casa e del 7,6 per mille sulle seconde case, introducendo la rivalutazione dei
valori catastali, il raddoppio della riduzione concessa sulla prima casa ai proprietari che
vi abitano, l’aumento progressivo delle aliquote sugli immobili di maggior valore.
Nulla è stato fatto dai governi degli ultimi decenni per tassare i patrimoni finanziari
e assai poco per assicurare un’imposizione significativa sulle rendite che da essi derivano. Viste le grandi dimensioni della ricchezza finanziaria del Paese, è necessaria
un’imposizione annuale sui patrimoni finanziari superiori ai 200 mila euro per persona,
con un’aliquota iniziale del 5 per mille, che potrebbe salire al 7 per mille oltre i 500
mila euro e al 10 per mille oltre il milione di euro.
Un elemento positivo è l’introduzione nel 2013 della tassazione delle transazioni
finanziarie da parte di un gruppo di Paesi europei – Gran Bretagna esclusa – che realizza finalmente una delle più antiche richieste dei critici della finanza. Tale misura dovrebbe essere estesa a tutti i Paesi, presentare aliquote maggiori e combinarsi con altre restrizioni delle attività speculative della finanza, come abbiamo visto nel primo
capitolo. Da misure di questo tipo potrebbero venire almeno 10 miliardi di euro, necessari per ridurre l’imposizione sui redditi da lavoro dipendente e rilanciare i consumi
e la domanda.
La ricchezza è sempre più acquisita attraverso eredità e sempre meno ottenuta accumulando i propri redditi. È diventata una forma di privilegio che aggrava le disuguaglianze di opportunità, specie dove – come in Italia – la mobilità sociale è particolarmente bassa. È incomprensibile che, in questo contesto, nel decennio passato l’imposta
sulla trasmissione di ricchezza agli eredi sia stata attenuata dai governi Prodi e cancellata dai governi Berlusconi. In molti Paesi l’aumento di tale imposizione è all’ordine
del giorno. È necessario prevedere un ritorno dell’imposta di successione, a partire dalle eredità superiori ai 200 mila euro, introducendo aliquote progressive e la possibilità
di finalizzare gli introiti all’abbattimento del debito pubblico, oltre che alla riduzione
delle imposte sul lavoro.
Un’economia sostenibile. La sostenibilità ambientale dev’essere al centro del nuovo
modello di sviluppo, fondato su nuove produzioni e consumi, su stili di vita fondati sulla sobrietà, la convivialità, la qualità, i beni comuni. Un’economia sostenibile apre nuove occasioni per le imprese e nuovi posti di lavoro, investe le produzioni energetiche, le
forme e la modalità della mobilità, l’agricoltura, la siderurgia, la chimica, l’industria
delle costruzioni, molti servizi. Su ciascuno di questi ambiti sono state sviluppate proposte concrete e dettagliate su come risparmiare energia e risorse non rinnovabili, ridurre l’impatto ambientale e i rischi ecologici, aumentare efficienza e equità.
Cambiare quello che si produce. Negli ultimi vent’anni è prevalsa l’idea che il mercato
– lasciato a se stesso – sia capace di far crescere l’economia, scegliere gli investimenti
giusti, produrre in modo efficiente e creare occupazione. La crisi italiana – e interna-
Qualche proposta per l’Europa e l’Italia
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zionale – ci mostra che non è così. È la politica – attraverso decisioni collettive e democratiche – che deve portare il Paese verso un’economia efficiente, giusta e sostenibile: regolare e organizzare i mercati, indirizzare la produzione, promuovere la piena occupazione. Questo, la politica l’ha sempre fatto, in particolare con le politiche industriali e dell’innovazione, che sono state essenziali nel rapido sviluppo del dopoguerra dei
Paesi europei, e sono oggi al centro della crescita dei Paesi emergenti di Asia e America latina. Quello che occorre oggi è una nuova generazione di politiche industriali capaci di raggiungere quegli obiettivi senza cadere negli errori passati: la collusione tra
potere economico e politico, la corruzione e il clientelismo, la mancanza di trasparenza
e controllo democratico.
Le politiche industriali per il dopo-crisi dovrebbero essere creative e selettive, con
meccanismi di decisione più democratici, in cui siano rappresentati i diversi interessi
sociali, compresi società civile e sindacato. Dovrebbero favorire la crescita delle conoscenze, delle tecnologie, degli investimenti e delle attività economiche in direzioni che
migliorano le prestazioni economiche, le condizioni sociali e la sostenibilità ambientale. Dovrebbero sostenere le attività caratterizzate da processi di apprendimento, cambiamento tecnologico e crescita della produttività e della domanda
Quali sono gli strumenti da utilizzare? In Francia il governo Hollande ha creato una
banca pubblica per investimenti di questo tipo; in Gran Bretagna il governo conservatore di David Cameron sta facendo lo stesso. In Italia, una nuova istituzione pubblica potrebbe destinare fondi pubblici per la ricerca e sviluppo, l’innovazione e gli investimenti. Nuove imprese in settori chiave possono nascere con capitali privati e partecipazioni
pubbliche iniziali. La domanda pubblica – per tutte le attività descritte sopra – può essere utilizzata per stimolare innovazioni e investimenti. Oltre agli ambiti già analizzati
che riguardano la sostenibilità ambientale, ci sono altre due aree prioritarie che vanno
messe al centro di nuove politiche di sviluppo: le tecnologie dell’informazione e comunicazione e le attività per la salute e i servizi sociali.
Infine, il lavoro. L’emergenza più grave della crisi italiana riguarda il lavoro. Con le
misure di rilancio della domanda già proposte, è possibile fermare la perdita di posti di
lavoro e riassorbire in parte la disoccupazione. Ma non basta riattivare il vecchio modello di sviluppo per risolvere i problemi del lavoro. Per avere aumenti significativi di
occupazione – con la possibilità di un miglioramento qualitativo del lavoro e dei salari
– è necessario scegliere un ‘nuovo sviluppo’ fatto di innovazione, sostenibilità, equità.
In questo percorso è necessario un nuovo intervento pubblico finalizzato a unire la creazione di lavoro con attività che danno risposte a bisogni insoddisfatti in campo ambientale e sociale: la tutela del territorio e le infrastrutture locali; i lavori verdi in settori
emergenti; la riconversione ecologica delle attività inquinanti; lo sviluppo della sanità e
dei servizi sociali. Interventi in questi campi – proposti da più parti anche sulla base
delle esperienze del New Deal di Roosevelt – consentirebbero la creazione di centinaia
di migliaia di posti di lavoro. Anziché riconoscere la necessità di stimolare la domanda
per favorire l’occupazione e di creare nuovi lavori nell’ambito dell’azione pubblica, le
politiche attuali – in particolare il Jobs act del governo di Matteo Renzi – puntano ancora, come le misure degli ultimi vent’anni, a ridurre le garanzie per i lavoratori e ac-
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Mario Pianta
crescere la precarietà, riducendo i costi per imprese che con la crisi non trovano mercati
per i loro prodotti. Anche sui temi del lavoro, un cambiamento di orizzonte nelle politiche italiane è indispensabile.
L’economia che uscirà dalla crisi non può essere la stessa che vi è entrata. Occorre
ripensare che cosa e come si produce, le forme di impiego del lavoro, come costruire
uno sviluppo fatto di qualità anziché di quantità, con il lavoro al primo posto e la sostenibilità come orizzonte.
Bibliografia
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Commission, 17 April.
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politica economica per l’Europa, [online], URL: <http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/
alter/Una-rete-per-un-altra-politica-economica-15383>, [data di accesso: 04/07/2014].
Franzini M. (2013), Le disuguaglianze inaccettabili, Roma-Bari, Laterza.
Marcon G., M. Pianta (2013), Sbilanciamo l’Europa. Una via d’uscita dalla crisi, RomaBari, Laterza.
Pianta M. (2012), Nove su dieci. Perché stiamo (quasi) tutti peggio di 10 anni fa, RomaBari, Laterza.
Sbilanciamoci! (2013), Rapporto Sbilanciamoci! Come usare la spesa pubblica per i
diritti, la pace, l’ambiente, [online], URL: <http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/
alter/Controfinanziaria-un-fisco-diseguale-21035>, [data di accesso: 04/07/2014].
Policies through the Crisis. Interpretation of the Crisis and Political Praxis
Conference proceedings (Pavia, 14th-15th November 2013)
Edited by Andrea Califano and Giulia Pinotti
Abstract
This volume includes the contributions presented at the Conference Policies Through
the Crisis. Interpretation of the Crisis and Political Praxis (Pavia, 14th-15th November
2013), conceived and organised by the editors Andrea Califano and Giulia Pinotti, who
were awarded the PQS Price by the Pii Quinti Sodales Society in 2014.
The conference was preceded by a series of seminars – entirely run by students and
recognised by the University of Pavia as an academic activity – that intended to generate
a conscious and constructive participation in the conference. Here, the concern was not to
expose participants to economic theories of the crisis, but rather to stimulate a more
analytical reading of the crisis.
Among the host speakers, who share a similar methodological approach and, generally
speaking, a critical position contrary to the policies adopted during the crisis, Luciano
Gallino and Riccardo Bellofiore dealt with an historical reconstruction of the crisis itself.
Andrea Fumagalli and Emiliano Brancaccio, on the other hand, explored some specific
aspects of the crisis, while Claudio De Fiores contributed with juridical insights. The
link between economic policies and economic theories was at the core of Giorgio
Lunghini’s speech.
Finally, Paolo Pini, Davide Antonioli and Mario Pianta dwelt on the Italian situation and
its relationship with the European context.
Andrea Califano: graduated in Political Science at the University of Trento. He is
currently attending the final year of the Master Degree in Economics, Finance and
International Integration at the University of Pavia, and is a student of the Collegio
Ghislieri.
Giulia Pinotti: is currently attending the final year of Law at the University of Pavia.
She is student of Social Sciences at the Istituto Universitario di Studi Superiori of Pavia
and student at the Collegio Ghislieri.
Politiche nella crisi. Interpretazione della crisi e prassi politica
Atti del Convegno (Pavia, 14-15 novembre 2013)
A cura di Andrea Califano e Giulia Pinotti
Abstract
Il volume raccoglie i contributi presentati al Convegno “Politiche nella crisi.
Interpretazione della crisi e prassi politica” (Pavia, 14-15 novembre 2013), ideato e
organizzato dai curatori Andrea Califano e Giulia Pinotti, vincitori nel 2014 del Premio
PQS alla Creatività Ghisleriana assegnato dalla Società dei Pii Quinti Sodales.
Le due giornate del Convegno sono state precedute da un ciclo di seminari, interamente
gestito dagli studenti, organizzato per favorire una partecipazione consapevole e costruttiva
ai lavori e riconosciuto dall’Università di Pavia come attività didattica e formativa. Il
Convegno si è tuttavia caratterizzato quale occasione di approfondimento a carattere
scientifico, più che didattico o divulgativo, poiché ai partecipanti non è stato semplicemente
proposto un quadro di sintesi della crisi economica e delle politiche che ad essa sono
conseguite, quanto un insieme di spunti per una lettura analitica della crisi stessa.
Tra i relatori, accomunati da un approccio metodologico condiviso e, più in generale,
da una ‘postura critica’ nei confronti delle politiche adottate finora nel corso della crisi, si
sono occupati della ricostruzione storica del fenomeno Luciano Gallino e Riccardo
Bellofiore, mentre alcuni aspetti specifici sono stati analizzati da Andrea Fumagalli,
Emiliano Brancaccio e, sotto il profilo giuridico, da Claudio De Fiores; il legame fra
politiche economiche e teorie economiche è stato oggetto dell’intervento di Giorgio
Lunghini; Davide Antonioli, Paolo Pini e Mario Pianta, infine, hanno approfondito il
panorama italiano e la sua interazione con lo scenario europeo.
Andrea Califano: laureato in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali
presso l’Università di Trento, è allievo del Collegio Ghislieri e iscritto all’ultimo
anno della Laurea magistrale in Economia, Finanza ed Integrazione Internazionale
dell’Università di Pavia.
Giulia Pinotti: laureanda in Giurisprudenza presso l’Università di Pavia, è alunna del
Collegio Ghislieri e allieva della Classe di Scienze Sociali dell’Istituto Universitario di
Studi Superiori di Pavia.