NOTA DAL CSC Numero 14-3 18-01-2014 Numero 14-3 NOTA DAL CSC Più manifatturiero, più PIL L’aumento di un 1% nel peso dell’industria eleva di 0,5% la crescita economica Livio Romano Il manifatturiero è la “sala macchine” della crescita. Perché genera gran parte dei guadagni di produttività dell’intero sistema economico. Direttamente attraverso l’innovazione tecnologica applicata ai suoi processi e ai suoi prodotti e indirettamente attraverso l’utilizzo negli altri settori dei beni manufatti che incorporano tali innovazioni. Il manifatturiero, inoltre, è il massimo diffusore di innovazione nel resto dell’economia perché è al crocevia di tutti i processi produttivi. Dal manifatturiero, poi, provengono i beni esportabili che servono a pagare le bollette energetiche e alimentari e, in generale, a finanziare le importazioni di un paese povero di risorse naturali come è l’Italia. Le stime del CSC confermano il ruolo cruciale del manifatturiero per la crescita economica dei paesi avanzati: l’aumento di un punto percentuale del suo peso sul totale dell’economia innalza di 0,5 punti percentuali il ritmo di incremento annuo del PIL. In Italia, dunque, serve con urgenza una nuova politica industriale che rilanci con decisione l’attività manifatturiera e la metta nelle condizioni di competere con successo sia nelle produzioni in cui tradizionalmente si addensa il suo saper fare sia in quelle nei settori che sempre più guideranno l’innovazione tecnologica nei prossimi decenni. Solo così il Paese potrà ricollocarsi su un alto sentiero di sviluppo. Dalla manifattura innovazione e crescita Il settore manifatturiero è il motore della crescita economica sostenibile. Dalla sua attività origina gran parte dei guadagni di produttività dell’intero sistema economico sia direttamente, attraverso le innovazioni applicate ai suoi processi di trasformazione e ai suoi prodotti, sia indirettamente, attraverso le innovazioni incorporate nei beni manufatti utilizzati nel resto dell’economia. 1 NOTA DAL CSC Numero 14-3 Infatti, la sua stessa natura di industria di trasformazione consente incrementi di produttività attraverso non solo economie di scala e di scopo nella produzione 1, ma anche e soprattutto grazie a rendimenti crescenti di tipo dinamico (learning by doing), che si generano grazie alla via via più efficiente divisione del lavoro e che provocano congiuntamente una crescente domanda di innovazione. L’innovazione risulta tanto più rilevante per il sistema economico quanto maggiori sono le sue ricadute sui settori produttivi contigui a quello in cui essa è avvenuta. Da questo punto di vista, la capacità di diffusione delle innovazioni è massima proprio nel manifatturiero, giacché l’attività di trasformazione richiede l’utilizzo di materie prime e input intermedi e una quantità crescente di servizi, per le quali altrimenti non ci sarebbe mercato2, e fornisce beni impiegati in tutti gli altri settori. Si può anche osservare come la concorrenza spinga il manifatturiero a una crescente efficienza nell’impiegare gli input e costringe, quindi, chi li produce a innovare per soddisfare la domanda di miglior combinazione prezzo-qualità. D’altra parte, qualunque settore impiega beni manufatti nei suoi processi produttivi e beneficia in termini di maggiore produttività dei miglioramenti tecnologici che tali beni inglobano. Una più elevata domanda di beni manufatti stimola una sempre maggiore specializzazione della stessa manifattura e, mediante i guadagni di produttività, consente di generare un crescente reddito disponibile nell’economia. Questo maggior reddito, se si tramuta in ulteriori incrementi di domanda di prodotti manufatti, determina un processo circolare virtuoso in cui la maggiore industrializzazione causa una maggiore crescita economica e la maggiore crescita economica stimola più industrializzazione. Il fenomeno, però, non è affatto scontato né meccanico. Anzi, come ampiamente discusso in letteratura ed evidenziato empiricamente3, all’aumentare del reddito disponibile una quota crescente dei consumi tende a spostarsi dal settore manifatturiero ai servizi (molto meno dinamici sul piano tecnologico), contribuendo così a rallentare la crescita complessiva dell’economia. Il processo di globalizzazione dei mercati di beni intermedi e finali aiuta a sostenere la domanda di manufatti e, dunque, la crescita economica. Attraverso nuovi mercati di sbocco per le produzioni domestiche, le esportazioni alimentano una domanda estera di beni manifatturieri che può diventare anche di molto superiore rispetto a quella generata all’interno del paese produttore. 1 Con il termine economie di scala si intende il risparmio in termini di costo medio unitario di prodotto derivante dall’aumento della scala di produzione. Per economie di scopo si intende invece il risparmio derivante dalla produzione congiunta di prodotti diversi con i medesimi fattori produttivi. 2 Evidenze in questo senso sembrano emergere dallo studio condotto dall’Office of Business and Industrial Analysis del Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti (1995), “Engines of Growth. Manufacturing Industries in the U.S.”, riferito a dati statunitensi degli anni Ottanta, nonché dal recente lavoro di Hausmann e Klinger (2006), The Structure of the Product Space and the Evolution of Comparative Advantage, CID Working Paper n.146, su dati più recenti relativi alle esportazioni per un campione ampio di paesi emergenti e avanzati. 3 Le evidenze più recenti in tal senso sono contenute nel lavoro di Rowthorn e Coutts (2013), De-industrialisation and the balance of payments in advanced economies, Future of Manufacturing Project, Evidence Paper n. 31, preparato per Foresight. 2 NOTA DAL CSC Numero 14-3 Ciò è tanto più vero quanto maggiore è la dimensione dei mercati di sbocco potenziali rispetto alla dimensione del mercato domestico. Inoltre, la maggiore concorrenza internazionale impone alle singole economie una crescente specializzazione nelle produzioni in cui hanno vantaggi comparati, imprimendo così una spinta fondamentale all’efficienza dinamica4. Il manifatturiero paga le bollette energetiche e alimentari Le esportazioni manifatturiere rivestono un ruolo strategico anche in virtù del fatto che, soprattutto per un paese povero di risorse naturali come l’Italia, consentono di allentare il vincolo esterno, ossia contribuiscono in modo decisivo al pagamento di quello che il Paese acquista all’estero, così da mantenere e innalzare il suo standard di vita. Infatti, è soprattutto dal manifatturiero che provengono i prodotti esportabili che servono a pagare le bollette energetiche e alimentari e, in generale, a finanziare gli acquisti di beni e servizi all’estero. Secondo le stime effettuate dal CSC5, una riduzione permanente del 20% delle esportazioni (costituite per l’80% circa da beni manufatti) comporterebbe per l’Italia una riduzione del PIL di circa il 15% in otto anni, con una marcata diminuzione degli investimenti (-17,2%) e delle importazioni (-22,6%) e, quindi, dell’occupazione e del reddito pro-capite. Ossia, del benessere. L’integrazione nei mercati internazionali tuttavia non spinge di per sé tutte le economie nella direzione di una maggiore forza industriale. Una crescente integrazione internazionale può, infatti, favorire processi di upgrading tecnologico e conseguentemente generare uno spostamento verso l’alto all’interno della catena del valore globale oppure, al contrario, può accentuare il posizionamento su produzioni a basso valore aggiunto, riducendo così il potenziale di innovazione e quindi di crescita. Come dimostra la storia delle diverse economie emergenti e come documentato ampiamente dal CSC6, l’effetto dipende dallo stock delle conoscenze detenute al momento dell’integrazione nel mercato globale, perché sono tali conoscenze che determinano la collocazione competitiva di ogni paese rispetto alla concorrenza estera. E, dunque, è l’acquisizione preliminare di quelle conoscenze il presupposto della capacità di sfruttare la leva della domanda che l’apertura commerciale consente. L’economia tende, quindi, spontaneamente a svilupparsi secondo la logica dei vantaggi comparati esistenti in un dato momento, ossia in ragione delle conoscenze già acquisite, e non di quelle potenzialmente acquisibili. La politica industriale diventa allora indispensabile per spingere il 4 Sul punto si veda Yi e Zhang (2011), Structural Change in an Open Economy, Federal Reserve Bank of Minneapolis, Staff Report n. 456. 5 CSC, Scenari industriali n. 2 (2011), “Effetti della crisi, materie prime e rilancio manifatturiero. Le strategie di sviluppo delle imprese italiane”, capitolo 1, pag. 13. 6 CSC, Scenari industriali n. 4 (2013), “L’alto prezzo della crisi per l’’Italia. Crescono i paesi che costruiscono le condizioni per sviluppo manifatturiero”, capitoli 3 e 4. 3 NOTA DAL CSC Numero 14-3 sistema economico verso nuove frontiere e guidare quindi l’economia verso percorsi di crescita più elevata e sostenibile. Manifattura e crescita economica: una misura diretta Se la manifattura è, come effettivamente è, il motore della crescita economica, allora una variazione positiva della quota manifatturiera sul totale della produzione deve associarsi a una maggiore crescita del PIL, perché implica una maggiore specializzazione nel comparto dell’economia generatore di maggiori incrementi di produttività. PIL Per verificare l’influenza del manifatturiero sul ritmo di crescita economica il CSC ha stimato la relazione tra la variazione in un Grafico A quinquennio del PIL e la La manifattura dà il ritmo alla crescita dell'economia variazione nella quota (1980-2011, dati in dollari 2005, var. % e di livello tra medie quinquennali) manifatturiera sul totale 40 Osservazione dell’economia nel quinquennio Italia precedente. La quota del 30 manifatturiero è calcolata sui 20 valori a prezzi costanti, cioè in 7 termini reali (Grafico A) . La 10 scelta di utilizzare i valori a prezzi costanti, piuttosto che 0 correnti, consente di depurare l’analisi dalle dinamiche -10 differenziali dei prezzi, poiché è -4 -2 0 2 4 noto che i prezzi nell’industria Quota % manifatturiero sul PIL tendono a scendere rispetto a Fonte: elaborazioni CSC su dati Global Insight. quelli nei servizi. La stima è stata effettuata per tutti i paesi avanzati inclusi nell’archivio Global Insight 8 e tiene conto delle variazioni occorse all’interno dei singoli paesi nel tempo. La finestra temporale considerata va dal 1980 al 2011 e comprende, pertanto, anche la fase di forte discontinuità nella geografia mondiale della produzione manifatturiera rappresentata dalla seconda metà degli anni Novanta, quando sono emersi nuovi grandi poli industriali (Cina, India, Brasile, Turchia e altri) all’interno di un sistema globale e integrato di scambi commerciali. Le elaborazioni9 indicano che l’aumento di un punto percentuale in cinque anni della quota manifatturiera reale sul totale dell’economia si associa in media a una maggior crescita annua del 7 Si tratta più precisamente di variazioni tra medie quinquennali: ad esempio, la variazione del PIL tra la media del periodo 2000-2004 e la media del periodo 2005-2009 e la variazione tra la quota manifatturiera media nel periodo 1995-1999 e quella nel periodo 2000-2004. 8 Sono state escluse sia le economie fortemente dipendenti dal petrolio sia le città stato Hong Kong e Singapore. 9 Le stime riportate differiscono da quelle presentate nel rapporto Scenari industriali n. 4 (2013), sia per l’orizzonte temporale più ampio considerato in questa Nota, sia per la diversa relazione oggetto di analisi. In 4 NOTA DAL CSC Numero 14-3 PIL di circa 0,5 punti percentuali nel periodo successivo. Così, per esempio, a fronte di una crescita media annua del PIL di poco più del 2%, corrispondente a una quota invariata del manifatturiero, un aumento del peso della manifattura di un punto percentuale aumenta in media nel periodo successivo la crescita del PIL di 0,5 punti percentuali all’anno, elevandola cioè al 2,5% annuo. Serve una nuova politica industriale Il carattere strategico dello sviluppo manifatturiero per la maggiore crescita economica ha ricadute inevitabili e importanti per la politica economica, che deve avvalersi anche della politica industriale. Questo tema è cruciale non solo per il mondo emergente, ma anche per quelle economie avanzate, tra cui l’Italia, che sono oggi chiamate alla sfida di riavviare un percorso espansivo dopo una lunga e profonda recessione. La storia degli ultimi trent’anni, infatti, mostra chiaramente come il successo economico di un paese dipenda dalla costruzione consapevole di un sistema manifatturiero competitivo. A questo fine è, quindi, necessaria una nuova politica industriale che punti al consolidamento delle conoscenze distintive già detenute e, dunque, dei vantaggi comparati acquisiti nelle attività strategiche per la crescita potenziale e che favorisca l’acquisizione di nuove conoscenze nei settori nascenti dell’industria di trasformazione, come, ad esempio, la biochimica o il digital manufacturing (che comprende la produzione tramite stampanti 3D). La competitività va costruita e conservata e lo sviluppo di un sistema industriale richiede innanzitutto una visione di lungo periodo di ciò che si vuole che l’economia e il Paese diventino e interventi coerenti con tale visione. particolare, in Scenari industriali è stata stimata, per il periodo 1996-2011, la relazione contemporanea tra andamento della quota manifatturiera e la dinamica del PIL su base annua, mentre qui l’attenzione è rivolta agli effetti di medio termine di una variazione del peso manifatturiero sulla crescita del PIL. Ciò ha determinato sia la scelta di stimare la relazione usando un ritardo temporale tra le variabili sia di calcolare una media su cinque anni per misurare le variazioni di periodo. 5
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