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Cooperativa
Migros Ticino
G.A.A.
6592
Sant’Antonino
Settimanale
di informazione e cultura
Anno LXXVII
7 luglio 2014
Azione 28
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Società e Territorio
Il selfie: analisi di un fenomeno
di massa che nasconde creatività
e ironia
Ambiente e Benessere
Il Parc Naziunal Svizzer
è il più antico delle Alpi e quest’anno
festeggia il suo primo centenario
Politica e Economia
Si riaccende la tensione fra
israeliani e palestinesi
Cultura e Spettacoli
A Rancate si ripercorre
la carriera di Rosetta Leins
pagina 9
pagina 3
pagina 22
pagina 35
Franco Banfi
I gioielli di ghiaccio del Naret
di Banfi e Belloni pagina 11
Pennellate di Francia
di Peter Schiesser
20 giugno. Il ministro dell’economia Arnaud Montebourg mette fine
alla vertenza Alstom, colosso energetico e ferroviario francese: lo
Stato diventa azionista di maggioranza e autorizza un’alleanza con la
americana General Electric, ma alle condizioni francesi. Restano a
mani vuote la tedesca Siemens e la giapponese Mitsubishi. In Francia
il capitalismo di Stato ha vinto sul liberalismo. Montebourg statuisce:
«vigilanza patriottica». La grandeur è salva, ma al prezzo di un’alleanza con gli americani.
20 giugno, ore 21. Appuntamento in un bar nell’11.esimo arrondissement di Parigi per Francia-Svizzera. Giovani di ogni etnia affollano le strade, poche auto a contendersele; negozietti e locali di ogni
genere. La goleada dei bleu impedisce di accorgersi che fra le decine di
scalmanati avventori ci sono tre svizzeri. Alla quinta rete, il tripudio
è incontrollabile, impossibile distinguere una voce nel coro di una
nazione calcisticamente rinata. Poi, la sorpresa: al 5 a 1 battono le
mani, al 5 a 2 le mani battono ancora e qualcuno grida Vive la Suisse!
Più tardi mi dicono che la Nazionale francese aveva deluso alla vigilia
dei Mondiali, che si aveva paura della Svizzera. Siccome non si voleva
un’umiliazione dei rossocrociati, sono state applaudite anche le sue
reti, si ammira la forza con cui si battono pur se sconfitti.
La blasonata banca BNP Paribas dovrà pagare 8,947 miliardi di dollari agli Stati Uniti per aver aggirato le sanzioni americane nei confronti di Sudan, Iran e Cuba. Il 30 giugno BNP Paribas si è dichiarata
colpevole a New York di falsificazione di documenti commerciali e
collusione. Come Credit Suisse, non perderà la licenza bancaria negli
Stati Uniti, ma dovrà sottostare a umilianti verifiche future sulla
correttezza delle sue operazioni. Attraverso una filiale a Ginevra,
fra il 2002 e il 2009 BNP Paribas ha fatto affari con i tre Paesi, comprando e vendendo petrolio e gas in dollari (motivo della sanzione),
per 30 miliardi. A nulla è valso l’intervento del presidente francese
Hollande presso Obama, il quale gli ha laconicamente ricordato che
in America il potere giudiziario è indipendente da quello politico.
La grandeur francese subisce un colpo secco. BNP Paribas perde la
reputazione di banca al di sopra di ogni sospetto, i francesi l’illusione
che la banca fosse eticamente superiore alle altre.
21 giugno, Fête de la musique. A Montmartre, atmosfera rilassata,
gioioso coinvolgimento del pubblico, una massa allegra si gode la
serata, in una sorta di orgia estiva abbraccia con il suo entusiasmo i
suonatori, mangia, beve, incurante dell’ammasso di rifiuti e di cocci
di vetro che con le ore ricoprono le strade. Parigi sa ancora divertirsi e
onorare gli artisti. Non quelli a caccia di turisti, ma i propri, quelli che
ricordano ai parigini che la città è ancora una fucina artistica.
Il 2 luglio Nicolas Sarkozy viene posto in stato di fermo per 15 ore.
Interrogato dai giudici, viene poi indagato per «corruzione attiva,
traffico di influenza attiva e occultamento di violazione del segreto
professionale». È la prima volta che un ex presidente viene indagato
per reati tanto gravi. In Francia il presidente ha il potere di un re. Ma
deve porlo al servizio della repubblica, non di sé stesso. I guai giudiziari di Sarkozy intaccano anche l’immagine dell’istituzione.
Sabato pomeriggio al Jardin du Luxembourg. In una grande vasca
rotonda una ventina di inaffondabili barchette di legno con la vela
vengono sospinte dalla brezza e rincorse per ore da bambini che con
un bastone le sospingono altrove quando toccano il bordo della vasca.
Un’amica commenta: «adoro questo gioco, non ha mai fine». Qua e
là, Parigi vive ancora i tempi lunghi dipinti dagli Impressionisti nella
seconda metà dell’Ottocento.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶7 luglio 2014¶N. 28
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Attualità Migros
M Tutti promossi,
e con 4 medaglie
Cooperativa Migros Ticino Pieno successo per i ventidue giovani collaboratori
Nuova
collaborazione
di Migros
con
hotelleriesuisse
in formazione giunti al termine del loro percorso
Superando gli esami negli scorsi giorni
i ragazzi hanno dunque concluso il percorso di formazione. Tra loro, quattro
hanno conseguito una medaglia (un argento e tre bronzi) e uno l’attestato federale di capacità con maturità integrata: è
il secondo apprendista di Migros Ticino
dall’introduzione della nuova ordinanza
federale ad ottenerlo.
Sedici i ragazzi che hanno ottenuto
l’attestato federale di capacità quale impiegato del commercio al dettaglio: Sharon Centurione, Alessio Ferrazzo, Tashi
Gyalpo Dresti, Vanessa Häfliger, Arev
Jaggi (con maturità integrata), Chiara
Michilin (medaglia di bronzo), Aris Pozza, Mattia Tamburini, Fabio Amaro Santos, Patrick Iula, Cristian De Stefano, Nenad Milosavljevic (medaglia di bronzo),
Lara Moura de Matos (che ha già conseguito in Migros il Certificato di formazione pratica nel 2012), Natasa Radovanovic, Barbara Ramos Freire (medaglia
d’argento) e Sheila Armenio; Serena
Giantomaso, Salvatore Mancuso, e Stefania Zinna (tutti con formazione estesa)
hanno conseguito l’attestato federale di
capacità quale impiegato di commercio,
Ahmet Demircan l’attestato federale di
capacità quale impiegato in logistica e
per finire Thomas Baglioni l’attestato
federale di capacità come cuoco. Noemi
Invernizzi ha invece svolto uno stage di
52 settimane per il percorso commerciale e ha conseguito la medaglia di bronzo.
Undici ragazzi hanno deciso di restare in azienda e nel corso dei prossimi
mesi inizieranno l’attività professionale
nel loro nuovo ruolo.
Nella foto i neo diplomati in occasione della festa per la consegna dei diplomi.
(Bellinzona), Cristian De Stefano (OBI
S.Antonino), Sheila Armenio (Locarno),
Chiara Michilin (Mendrisio), Natasa Radovanovic (Lugano), Salvatore Mancuso
(centrale S. Antonino), Patrick Iula (S.
Antonino), Ahmet Demircan (centrale
S. Antonino); terza fila: Barbara Ramos
Freire (Agno), Sharon Centurione (Lo-
carno), N. Invernizzi (Scuola club Locarno), Vinish Parackal (collaboratore HR),
Giorgio Gallotti (responsabile apprendisti di Migros Ticino), Serena Giantomaso (centrale S. Antonino), Stefania Zinna
(centrale S. Antonino).
Nella foto mancano Alessio Ferrazzo e Aris Pozza.
Per i partecipanti al programma Cumulus, in futuro la prenotazione di alberghi
in Svizzera diventerà ancora più vantaggiosa. Grazie alla nuova collaborazione
di Migros con hotelleriesuisse, l’associazione degli albergatori svizzeri, ben 2,8
milioni di partecipanti al programma
Cumulus potranno approfittare di allettanti offerte alberghiere.
In qualità di nuovo partner di Migros, hotelleriesuisse presto metterà a
disposizione dei partecipanti al programma Cumulus interessanti offerte
per pernottamenti in tutta la Svizzera.
hotelleriesuisse è il centro di competenza del settore alberghiero svizzero
e rappresenta l’economia alberghiera
svizzera di qualità e orientata al futuro.
L’offerta alberghiera di hotelleriesuisse
comprende oltre 2000 imprese in tutte le regioni della Svizzera ed è variegata tanto quanto lo sono i suoi ospiti.
Dall’albergo di tendenza in città fino
alle oasi del benessere, passando per
strutture con una confortevole atmosfera da châlet svizzero, ce n’è per tutti
i gusti. Le offerte potranno essere prenotate su www.SwissHotels.com, una
piattaforma online nazionale gestita da
STC Switzerland Travel Centre.
Le offerte saranno comunicate ai
partecipanti al programma Cumulus
nella primavera del 2015. Con 2,8 milioni di clienti, Cumulus è il maggiore programma di fidelizzazione della clientela
in Svizzera. Cumulus è tra i venti marchi più forti della Svizzera (fonte: BrandAssetTM Valuator 2013 di Y&R). Cumulus, il programma di fidelizzazione
della clientela più apprezzato in Svizzera, rende la stima per i clienti un’emozione da vivere, punto dopo punto.
Foto di gruppo per i festeggiati.
Da sinistra, prima fila: Vanessa
Häfliger (Giubiasco), Lara Moura de
Matos (S. Antonino), Thomas Baglioni
(ristorante S. Antonino), Fabio Amaro Santos (Micasa S. Antonino), Mattia
Tamburini (Taverne), Nenad Milosavljevic (Hobby Taverne), Tashi Gyalpo
Dresti (Ascona); seconda fila: Arev Jaggi
La scuola di Dutti
Scuola Club Migros Da 70 anni propone
formazione e attività del tempo libero
«Non ci si può limitare a tenere in vita
l’essere umano, bisogna anche aiutarlo a vivere in modo consapevole, preservandolo dalla sensazione di essere
superfluo». Così si esprimeva Gottlieb
Duttweiler a metà degli anni Cinquanta,
riferendosi alla formazione continua degli adulti, che considerava uno strumento essenziale per migliorare la qualità
della vita della popolazione.
La Scuola Club Migros nasce nel 1944
per volontà del fondatore della Migros,
il quale già negli anni precedenti la fine
della guerra aveva iniziato a proporre
ai soci della cooperativa corsi di lingue,
ritenendo che con la riapertura delle
frontiere buone conoscenze linguistiche
sarebbero state molto utili per l’attività
economica nazionale. Il successo è immediato: da subito migliaia di persone
si iscrivono ai corsi per imparare non
solo il francese, l’italiano o l’inglese, ma
anche il russo o lo spagnolo. Gottlieb
Duttweiler ha così la conferma di essere
sulla strada giusta. La prima Scuola Club
viene inaugurata nel 1944 a Zurigo (vedi
la foto). Ai corsi di lingue si aggiungono
ben presto svariati corsi per il tempo libero e corsi di ginnastica e sport, cui segui-
ranno corsi commerciali e formazioni a
carattere professionale. Negli anni Ottanta la Scuola Club Migros è tra le prime
istituzioni di formazione a proporre corsi di informatica. Nel 1957 negli statuti
delle cooperative Migros viene ancorato
l’obbligo di destinare lo 0.5% cento del
fatturato aziendale ad attività culturali, sociali, economiche e di formazione.
Questa norma statutaria permette di assicurare un finanziamento costante alle
Scuole Club Migros, che hanno così la
possibilità di beneficiare di un sostegno
economico che permette di proporre
corsi di eccellente livello qualitativo a costi contenuti. Una decisione che risale a
oltre mezzo secolo fa e che ha fatto di Migros un’azienda che ha saputo anticipare
i tempi in fatto di responsabilità sociale.
Attualmente la Scuola Club Migros ha 50
sedi, situate in altrettante località di tutta la Svizzera, che propongono oltre 600
diversi tipi di corsi e formazioni e impiegano oltre 7’500 formatori. Ogni anno i
partecipanti che seguono i corsi raggiungono le 400’000 unità.
La Scuola Club di Migros Ticino inaugura le sue prime tre sedi a Lugano, Locarno e Bellinzona già nel 1957; qualche
anno dopo apre i battenti la sede di Mendrisio. Anche nella Svizzera italiana sin
dall’inizio i partecipanti sono numerosissimi: già nei primi anni superano il
migliaio, e nel giro di pochi anni il loro
numero cresce in modo esponenziale.
Nel 2013 le iscrizioni ai corsi hanno superato quota 16’000. Il contributo finanziario che Migros Ticino nell’arco di oltre
50 anni ha regolarmente destinato alla
Scuole Club (attualmente il contributo
annuale è di circa 1.6 milioni di franchi) ha dato la possibilità a un numero
impressionante di persone di seguire
formazioni in grado di rispondere alle
esigenze di un’utenza sempre più ampia
ed eterogenea. Questo importante sostegno ha inoltre permesso alla Scuola Club
Migros Ticino di essere sempre all’avanguardia. Anche per il nuovo anno scolastico le novità sono parecchie. Presto
verrà inaugurata la nuova sede di Bellinzona: una struttura moderna e funzionale, con spazi in grado di accogliere sia
corsi di lingue e di informatica, sia varie
proposte per il tempo libero – dal fitness
alle attività creative. Ma le novità non si
fermano qui. Grazie a un utilizzo sempre più ampio delle nuove tecnologie,
i partecipanti possono già ora seguire
corsi di formazione a distanza, come le
formazioni One2One, che consentono di apprendere ed esercitare le lingue
via Skype. La Scuola Club Migros Ticino continua insomma a operare come
Duttweiler, da vero precursore, auspicava oltre 70 anni fa: coltivando il valore del
sapere quale motore indispensabile per
la crescita della comunità.
Azione
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Settimanale edito da Migros Ticino
Fondato nel 1938
Redazione
Peter Schiesser (redattore responsabile),
Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica
Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli,
Ivan Leoni
Inserzioni:
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶7 luglio 2014¶N. 28
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Società e Territorio
Scuole comunali
Si voterà in settembre
sull’iniziativa popolare che
chiede di ridurre gli allievi nelle
classi e migliorare i servizi
para-scolastici
Archeologia industriale
La lunga vita della cartiera di Tenero,
nata nel 1853 per iniziativa di Tomaso
Franzoni e chiusa definitivamente
nel 2006
Giornalisti in Ticino
Preoccupazioni e inquietudini emergono
dall’inchiesta di Michele Andreoli sulle
condizioni di lavoro
pagina 5
pagina 4
Keystone
pagina 4
Autoscatto tra eccessi e ironia
Selfie Un vero tormentone che ha coinvolto perfino il Papa, eppure il selfie è un fenomeno di massa con risvolti
positivi e creativi: le opinioni di Stefano Ferrari, Fabio Piccini e Benedetta Montini
Laura Di Corcia
È il tormentone del 2014: una volta si
chiamava autoscatto ed era praticato
da fotografi con tutti i crismi, come
Francesca Woodman, oggi, per darsi
un tono, si dice selfie. Basta ruotare il
telefonino verso se stessi e il gioco è fatto, con risultati altalenanti. Ma a quali
esigenze risponde questa moda? Come
mai la rete pullula di autoscatti volti a
mostrare il nuovo taglio di capelli, la
gita in montagna o la tintarella? Secondo uno studio da parte della American Psychiatric Association chi ha la
mania del selfie soffre di un disturbo
mentale, il «selfitis», che potremmo
tradurre in italiano col termine «selfite». I medici che hanno effettuato la ricerca sostengono che gli amanti del selfie soffrano di mancanza di autostima
e cerchino, in questo modo, di colmare
le lacune nella propria intimità.
«Per non essere troppo approssimativi
e superficiali, dovremmo parlare più in
generale delle diverse dinamiche psicologiche dell’autoritratto, di cui il selfie costituisce solo una piccola variante
contemporanea», spiega Stefano Ferrari, che insegna Psicologia dell’arte
a Bologna e ha scritto svariati libri sul
tema (l’ultimo si intitola AutoFocus.
L’autoritratto fotografico tra arte e psicologia, edizioni Clueb). Il professore
ha un atteggiamento meno critico verso questo fenomeno, che, a suo avviso,
avrebbe radice nel senso di precarietà
che mina la nostra identità. «Soprattutto in un’epoca così travagliata il selfie è innanzitutto una testimonianza
di esistenza, un modo di dire “ci sono,
qui e ora – protagonista di questo piccolo/grande evento”. Non solo. Visto
che prevede la sua immediata messa in
rete, esso implica un preciso bisogno di
condivisione, il bisogno di far partecipe il mondo della propria esperienza».
Anche lo psicanalista Fabio Piccini,
autore del libro Tra arte e terapia, rintraccia nell’autoscatto una modalità
non per forza malsana di mettere in
gioco sé stessi. «Farsi una fotografia è,
se ci pensiamo, un tentativo per riuscire davvero a vedersi, a vedere qualcosa di più di sé stessi. Si tratta di una
ricerca importante, che magari non
approda a nulla perché da soli non si
hanno gli strumenti… ma io credo che
ad ogni modo non sia una cosa inutile,
né dannosa». Non a caso l’autoscatto è
utilizzato da Piccini, ma anche da artisti e fotografi, con finalità terapeutiche,
per guarire quegli stessi stati d’ansia
che porterebbero gli adolescenti (ma
non solo) a infarcire le loro pagine
virtuali di autocelebrazioni a colori
o in bianco e nero. «Certo, possiamo
considerare il fenomeno solo come
il sintomo di un disagio – specifica il
professor Ferrari –, ma in fondo il selfie
è anche una reazione a questo disagio,
che di per sé può essere positiva: volere
ribadire la propria presenza, testimoniarla e oggettivarla attraverso la rappresentazione e la reiterata duplicazione della propria immagine può avere
in sé qualcosa di salutare e fecondo. Di
per sé l’autostima avrebbe l’esigenza di
ben altri riscontri, ma anche il semplice “mi piace” da parte degli amici della
rete può dare un contributo. Dobbiamo però tener conto che molto spesso
in queste pratiche c’è una grande, sana
componente di gioco, di ironia, di invenzione, che al di là di qualche eccesso, è intrinsecamente creativa».
Ma chi sono gli autori dei selfie?
Secondo il professor Ferrari, sarebbero proprio i giovani a rivolgersi a questa modalità per affrontare – e magari
superare – i momenti più bui. Dietro le
manie presenzialistiche, che lascerebbero pensare al più vieto narcisismo,
dietro lo scatto compulsivo si nasconderebbe un vuoto interiore incolmabile, «un’esplicita paura della solitudine e
un disperato bisogno di sentirsi parte
di una collettività».
Benedetta Montini, che utilizza la
tecnica dell’autoscatto sia a scopi terapeutici che artistici, organizzando
anche workshop, sostiene che invece
questa modalità sia particolarmente vicina alla sensibilità femminile.
«Il mio percorso artistico nasce con
l’autoscatto. Per me è stato automatico iniziare da me, perché quello era il
materiale che avevo sottomano. L’arte
è soprattutto ricerca», spiega la fotografa, che ultimamente ha anche tentato una sintesi fra fotografia e performance. «I corsi sul self portrait che
organizzo sono seguiti molto spesso
da persone senza nessuna velleità artistica. Si tratta di una modalità terapeutica e prettamente femminile, una
strada per raggiungere l’autodeterminazione. Solo alcuni di questi autoscatti escono da questa zona e riescono a diventare arte». Nonostante le sue
potenzialità estetiche e terapeutiche,
il selfie non gode di buona fama nemmeno fra l’opinione pubblica. «Di tutti i fenomeni di massa si tende, anche
giustamente, a cogliere quasi sempre
gli elementi di criticità: gli eccessi, le
banalizzazioni, i rischi… che naturalmente ci sono. – spiega Ferrari – Forse però dietro questo atteggiamento
critico può esserci, insieme a una sacrosanta difesa del senso del pudore e
della riservatezza, anche la paura nei
confronti di una creatività percepita
come eccessivamente libera e disinibita e dunque fuori controllo».
Secondo Piccini, si tratta di opinionismo da bar operato da persone
che parlano della materia senza conoscerla. Nel frattempo, però, pullulano le ricerche che vanno in direzione
opposta: una delle ultime? Uno studio
condotto presso quasi tremila chirurghi plastici facciali americani, il quale
sottolinea che proprio in concomitanza con il dilagare della moda del selfie
siano aumentate anche le richieste di
ritocchini, soprattutto da parte degli
under trenta, sia maschi che femmine.
Che si tratti di una semplice coincidenza?
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶7 luglio 2014¶N. 28
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Società e Territorio
Scuole comunali, si vota a settembre
Politica scolastica L’iniziativa lanciata nel 2009 dal sindacato dei servizi pubblici Vpod propone di diminuire
il numero degli allievi per classe e di migliorare i servizi di mensa e doposcuola
Roberto Porta
Le vacanze scolastiche sono appena
iniziate e può sembrare piuttosto impietoso guardare già a settembre. Ma
quest’anno in Ticino il ritorno tra i
banchi scolastici non porterà con sé
soltanto cartelle nuove e matite appena appuntite. Affilate saranno anche
le armi della politica perché l’inizio
dell’anno scolastico coinciderà con lo
scatto finale della campagna in vista
della votazione del 28 settembre su un’iniziativa popolare che riguarda proprio
la scuola. L’iniziativa si chiama «Aiutiamo le scuole comunali – Per il futuro
dei nostri ragazzi» ed è stata lanciata dal
sindacato dei servizi pubblici Vpod, che
guida un comitato formato dal Partito
socialista, dal sindacato Ocst e da una
decina di associazioni vicine al mondo
dell’insegnamento. Il suo percorso è
stato piuttosto lungo, basti pensare che
è iniziato nel 2009 con il sostegno di
quasi diecimila firme.
Ma partiamo dall’inizio e dalle proposte di questo testo, che chiede in sostanza una riduzione del numero di allievi
per classe, per la scuola elementare e per
quella dell’infanzia. L’obiettivo principale è quello di passare dagli attuali
25 a 20 allievi per sezione, se la classe è
composta interamente da ragazzi dello
stesso anno scolastico. Per le pluriclassi questo numero massimo andrà ulteriormente ridotto. Da notare che per la
scuola dell’infanzia il numero medio
di allievi è di 21,7 per classe, la media
più alta della Svizzera. Nella scuola elementare si registra invece una media di
18,6 allievi per classe, in linea con i dati
nazionali. L’altro grande scopo dell’iniziativa riguarda invece i servizi parascolastici, per avere sul territorio cantonale più mense e più doposcuola per
gli allievi. Dai tre anni di età – e non dai
Nel 2009 al
momento della
consegna delle
firme a sostegno
dell’iniziativa
«Aiutiamo le
scuole comunali»
Manuele Bertoli
era presidente
del Partito
socialista.
(Ti-Press)
quattro come oggi – i bambini avranno
inoltre il diritto di essere ammessi nella
scuola dell’infanzia, attualmente questa possibilità è data solo se la struttura
scolastica dispone dello spazio sufficiente.
Dalla consegna delle firme, cinque anni
fa, i meccanismi della politica ticinese
hanno generato una sorta di stratificazione di provvedimenti nel tentativo di
dare una risposta, seppur parziale, alle
proposte della stessa iniziativa. E così
nel 2011 è stato introdotto il diritto per
i bambini di accedere alla scuola dell’infanzia già dai tre anni di età. È stato
inoltre potenziato il servizio di sostegno
pedagogico per le scuole comunali, con
un maggiore intervento finanziario da
parte del Cantone. Ed è stata approvata
dal Gran Consiglio la nuova legge sulla
pedagogia speciale. Tutto questo per migliorare le condizioni-quadro in cui si
muovono docenti e bambini nella prima
scolarità, fino al termine delle elementari. Governo e parlamento non hanno
invece accolto la riduzione del numero di allievi rivendicata dall’iniziativa
ed è ancora al vaglio la questione della
mensa scolastica per tutti. Il Consiglio
di Stato ha elaborato un controprogetto
all’iniziativa proponendo di passare ad
un tetto massimo di 22 allievi per classe nelle scuole elementari e alle medie.
Il Gran Consiglio però non ne ha voluto
sapere. «Questa soluzione, che avrebbe
permesso il ritiro dell’iniziativa, purtroppo non è stata accolta dal parlamento, cosa della quale mi rammarico – fa
notare Manuele Bertoli, responsabile
del Decs –. Ora lo scontro popolare ci
sarà ed io spero che la campagna non
sia di quelle caotiche, per cui alla fine ad
uscirne perdente sarà la scuola stessa,
che proprio non se lo merita».
Nella campagna politica si parlerà
molto di un’altra ricetta scolastica, approvata dal Gran Consiglio e targata
Plr-Ppd. Una misura che prevede di
estendere il ricorso ad un docente di
appoggio per tutte le classi con più di 22
allievi. «Questa soluzione è sicuramente efficace, in particolare per affrontare i
casi più problematici – fa notare il deputato Plr Stefano Steiger –, con il docente
d’appoggio in aula l’allievo sarà di certo
ben seguito. È una misura decisamente
più efficace rispetto alla riduzione del
numero di allievi per classe». Questo
compromesso avrebbe un costo stimato a circa 3 milioni e 700mila franchi.
Molto meno di quanto costerebbe l’applicazione dell’iniziativa. Per le scuole
elementari e dell’infanzia la riduzione
a 20 del numero massimo di allievi per
classe comporterebbe un aumento medio dei costi per Cantone e Comuni di
circa 16 milioni all’anno per la sola gestione corrente. «Non si tratta di costi
ma di investimenti per il futuro dei nostri allievi ma anche di tutta la società
– fa notare Linda Cortesi del sindacato
Vpod –. Ricordo inoltre che la spesa per
allievo in Ticino è molto inferiore alla
media svizzera. Il nostro cantone occupa il terz’ultimo posto nelle statistiche
nazionali. Il margine di miglioramento è dunque ancora molto ampio». Ma
al di là degli aspetti finanziari cosa ne
pensano gli iniziativisti del compromesso che ruota attorno alla figura del
docente di appoggio per le classi numerose? «Questo tipo di docente non
è obbligatorio e verrà introdotto solo
dopo una decisione del Municipio interessato – continua Linda Cortesi –, questo rischia di creare forti disparità di
trattamento tra gli allievi ticinesi, tutto
dipenderà dalla forza finanziaria di un
Comune». «Non bisogna però dimenticare – replica Stefano Steiger – che
ridurre gli allievi per classe comporta
anche costi logistici, per la creazione
di nuove aule e palestre. E finanziariamente tutto questo oggi le casse pubbliche non se lo possono permettere».
Argomenti pro e contro l’iniziativa
che animeranno la campagna in vista
della votazione. Un appuntamento che
vede il capo del Decs in una situazione
particolare. Nel 2009 Manuele Bertoli
era presidente del Partito socialista e
terzo firmatario dell’iniziativa. Oggi è
consigliere di Stato e presidente del governo. «Evidentemente dovrò portare
la posizione del Consiglio di Stato che
sull’iniziativa si è espresso in maniera
negativa – replica lo stesso Bertoli –, il
principio della collegialità e il rispetto
istituzionale me lo impongono». Tutto
questo in una campagna che sarà sicuramente accesa, le elezioni cantonali
sono dietro l’angolo.
La cartiera di Tenero
Archeologia industriale Fondata nel 1853 da Tomaso Franzoni ha
cessato definitivamente l’attività nel 2006
Laura Patocchi-Zweifel
L’insediamento di Tenero si è sviluppato su un vasto territorio alluvionale
che si estende lungo la sponda destra
del fiume Verzasca, dalle rive del lago
Maggiore ai piedi del pendio della collina retrostante dove sorge l’antico
nucleo. Durante il Medioevo e l’epoca
moderna a Tenero dimorano in prevalenza artigiani e massari alle dipendenze di esponenti della nobiltà e borghesia
di Locarno a cui appartengono vaste
fattorie ed eleganti residenze estive. I
proprietari non si recano nei loro poderi soltanto per riscuotere i canoni d’affitto o controllare i lavori agricoli ma
anche per trascorrervi rilassanti villeggiature durante la vendemmia e nei periodi di caccia. Dal primo Ottocento i
borghesi locarnesi decidono di vendere
i loro beni di Tenero ai loro massari o ad
altri contadini della zona che ne diventano proprietari.
In seguito al sostegno dei ticinesi ai patrioti italiani, alla loro simpatia per la
causa repubblicana e infine all’espulsione di 22 cappuccini lombardi accusati di attività pericolose per il Cantone,
gli austriaci decretano nel febbraio del
1853 il blocco delle frontiere e l’espulsione di oltre 6000 ticinesi che lavorano
e commerciano nel Lombardo-Veneto.
Gli effetti sono devastanti, il commercio col vicino regno è sospeso, la
disoccupazione, la miseria e la presenza di migliaia di profughi e di espulsi
provoca un’ondata di emigrazione oltremare. Ma è proprio in questi tragici frangenti che emergono le figure di
spicco capaci di proporre iniziative occupazionali. È il caso di Tomaso Franzoni (1795-1878), proprietario di una
delle più notevoli fattorie di Tenero, che
fronteggia la crisi avviando diverse attività industriali e aprendo nuovi mercati al paese. Commerciante attivissimo, appaltatore della Regia dei Dazi,
cassiere cantonale, promotore della navigazione sul lago Maggiore, fondatore
della Cassa di risparmio, della filanda
Belvedere e altri opifici, azionista della
tipografia di Capolago, Franzoni è fondatore e proprietario della tipografia
del Verbano che stampa le pubblicazioni ufficiali del cantone. Siccome il blocco austriaco rende difficoltoso il rifornimento di carta che giunge da Intra,
Franzoni decide di far costruire una
cartiera sul suo fondo di Tenero dotato di acqua limpida in abbondanza e in
posizione viaria strategica. Luigi Lavizzari nel 1861 annota: «Presso Tenero,
(...) s’innalza la rinomata cartiera Franzoni, con corredo d’aque derivate dalla
vicina Verzasca, di due turbìne della
forza di 35 cavalli, e d’una macchina a
vapore della forza di otto. Le macchine
e i cilindri sono del più compito recente
sistema, quasi tutte uscite dallo stabilimento Escher-Wyss di Zurigo. Vi si
fabbrica ogni specie di carta, da lettere
finissima, da stampa, da litografia, da
tappezzerie ecc., e vi si colora in tutte le
maniere, e con tal perfezione, che non
cede ai più celebrati opifici di questo
genere. Fu eretta nel 1853, ampliata nel
1856; e dà lavoro a quasi cento operai».
La materia prima di base sono gli stracci raccolti in zona o importati in gran
quantità dall’Italia nord-occidentale
che consente di ottenere giornalmente
10-15 quintali di carta. La carta viene
smerciata in Ticino, in Piemonte e in
Liguria. Quella destinata all’estero è
caricata su barconi nel porticciolo costruito presso l’azienda, scende al lago
lungo il Naviglio o la Fiumetta, attraversa tutto il lago Maggiore e termina il
suo percorso viaggiando su carri o con
la ferrovia dell’Alta Italia.
Per ottenere la carta bisognava
produrre aria calda per l’essiccazione
dei fogli, generata dalla combustione
di legna. Nel 1858 un violento incendio, sfuggito al controllo, distrugge
la fabbrica, ma in un solo anno il tenace Tomaso Franzoni la ricostruisce. Nell’ottobre del 1868, in seguito a
piogge torrenziali, la Verzasca straripa riversando un ammasso di detriti,
ghiaia e fango nei locali delle macchine e nel magazzino. Quattordici mesi
dopo la cartiera riparte alla grande
con macchinari nuovi di zecca sempre
della ditta Escher-Wyss che si assume
la protezione del trasporto da Flüelen
a Bellinzona, facendo accompagnare i
mulattieri da vigilanti armati per proteggere il carico dai briganti. Alla morte di Tomaso Franzoni nel 1878 la cartiera passa alla numerosa prole sotto la
direzione del figlio Enrico. Con l’apertura del collegamento ferroviario attraverso il San Gottardo nel 1882 la ditta si
trova confrontata con la potente concorrenza d’oltralpe. I Franzoni, già in
difficoltà, gettano la spugna e nel 1886
vendono la fabbrica al cavaliere Ercole
Maffioretti di Brissago. Questo abile
La vecchia
macina per
la cellulosa,
testimonianza
della storica
cartiera ormai
abbattuta.
(Patocchi-Zweifel)
industriale, già proprietario di cartiere
nei pressi del lago d’Orta, produce in
proprio pasta di legno come materia
prima per la fabbricazione della carta,
al posto degli stracci più difficilmente
reperibili. Nel 1911 i Maffioretti vendono la cartiera a un gruppo di emigranti
valmaggesi e alla Banca Svizzera-Americana. Dopo la seconda guerra mondiale la cartiera vive il suo periodo d’oro nelle mani della fabbrica di cartone
di Deisswil e dal 1978 del Cham Paper
Group dando lavoro a circa 350 persone. Diventato troppo piccolo per le esigenze di mercato, lo stabilimento cessa
la sua attività fermando definitivamente la sua produzione il 4 dicembre 2006
alle ore 18.37. Pezzo dopo pezzo, questo
memorabile edificio industriale è stato
demolito lasciando in molti una senso
di malinconico disorientamento.
A ricordare la monumentale cartiera resta l’ala spezzata della cabina di
distribuzione della corrente elettrica
che un giorno verrà pure demolita, una
macina per la cellulosa sul piazzale antistante e la solitaria ciminiera destinata a sopravvivere come cimelio.
Bibliografia:
Simona Canevascini, Tenero-Contra,
Comune di Tenero-Contra, 2010.
Giuseppe Mondada, Tenero-Contra,
Locarno, 1968.
Giuseppe Mondada, Cartiera di Locarno S.A. Tenero 1854-1954, Locarno, 1955.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶7 luglio 2014¶N. 28
5
Società e Territorio
Le inquietudini dei giornalisti
Svizzera italiana Presentata l’inchiesta sulle condizioni di lavoro dei giornalisti svolta da Michele Andreoli:
la situazione più critica la vivono i freelance, ma anche nelle redazioni è peggiorata la qualità «percepita» del lavoro
Enrico Morresi
Quando, due anni fa, si parlò la prima
volta di un rapporto da preparare sulle
condizioni di lavoro della professione
giornalistica in Ticino, due erano le preoccupazioni principali: la situazione nelle redazioni dei giornali dopo dieci anni
di vuoto contrattuale (il CCL dei giornalisti era stato firmato la prima volta nel
1972 e poi sempre rinnovato) e quella dei
colleghi occupati nelle radio e televisioni
private. Si temevano un peggioramento
complessivo delle condizioni di lavoro e
di salario e il diffondersi del precariato.
L’inchiesta Condizioni di lavoro dei giornalisti (e degli operatori dei media con
funzioni giornalistiche) nella Svizzera
italiana, svolta da Michele Andreoli per
incarico delle associazioni professionali e presentata il 13 giugno, risponde in
modo esauriente sui due punti citati ed
esprime inquietudine per tutta una serie
di criticità, più difficili da scandagliare, che potrebbero rivelarsi più gravi di
quelle da cui la ricerca era partita.
Comincio dagli interrogativi ai quali Andreoli dà risposta. La maggior parte
degli intervistati ritiene che per quanto
riguarda i salari la situazione sia relativamente poco cambiata (solo il 27% dice di
essere pagato meno, il 28% dice di essere
pagato di più, il 45% segnala un trattamento stabile). Peggiorato risulta il tipo
di lavoro richiesto (per il 60% la quantità
è aumentata, il 34% dice di avere meno
tempo per lavorare bene). Il vuoto contrattuale ha praticamente abolito il premio all’anzianità di servizio: il 50% non
percepisce il salario minimo previsto
dal CCL se si considerano i suoi anni di
servizio; il 19% non arriva al minimo del
primo anno. Positivo, invece, il giudizio
sulla libertà redazionale nei giornali (due
terzi segnalano condizioni invariate o
leggermente migliorate). Conclusione
su questo punto: gli editori ticinesi hanno abbastanza rispettato la promessa di
tener conto del precedente CCL, ma con
qualche vistosa eccezione (per i nuovi assunti in particolare). Per quanto riguarda
Michele Andreoli
durante la
presentazione
del suo rapporto.
(Ti-Press)
radio e tv private, la quasi la totalità delle
risposte segnala miglioramenti nel salario, nel tempo di lavoro e persino nella
libertà redazionale (su questi progressi
devono avere influito le norme federali
che hanno accompagnato l’estensione
ai «privati» di una parte dei proventi del
canone).
Alla RSI le condizioni di lavoro sono
migliori: questo si sapeva già e il rapporto lo conferma. I giornalisti del servizio
pubblico guadagnano in media poco
meno di 8000 franchi al mese, molto di
più dei giornalisti occupati nei media
privati (6153 franchi) e di quelli che lavorano nelle radio e tv private (ca. 5000
franchi); i siti online pagano mediamente 4884 franchi. Scandalosa, tuttavia (e
ammessa dal direttore Canetta, che ha
promesso un intervento), la situazione di
«lavoro su chiamata» riservata ad alcuni
collaboratori della RSI affiliati a ditte private, soprattutto tecnici.
Infine, si conferma lo stato di precarietà di una minoranza (ma son pur
sempre persone al lavoro!) quella dei colleghi (giornalisti o tecnici) «liberi», cioè
pagati a prestazione. Anche oltre San
Gottardo, i «liberi» sono una categoria
in pericolo di estinzione. Chi pensava di
sfruttare un proprio campo di competenze «esclusivo» (c’erano gli specialisti
in aeronautica, in… cruciverba) o è stato
cooptato in una redazione… o se vive di
quello fa la fame.
Citato quel che il rapporto dice, vengo alle criticità che il rapporto non ha
potuto approfondire ma che indiretta-
mente emergono dalle dichiarazioni di
molti intervistati. La più impressionante
riguarda il calo (o il ristagno) delle tirature e il forte calo della pubblicità. Rilevo
da altre pubblicazioni il calo di diffusione del «Corriere del Ticino»: da 39’567
copie nel 2001 a 35’484 nel 2012, il ristagno della «Regione» (da 32’556 nel 2001
a 32’567 nel 2013), la precaria situazione
del «Giornale del Popolo» (17’179 copie
nel 2005, 16’804 nel 2013) e dal rapporto Andreoli il calo della pubblicità: per
i quotidiani, settimanali e domenicali
ticinesi: da 50 a 38 milioni tra il 2011 e
il 2013. Andreoli scrive: «Non ci è sembrato che al momento gli editori siano
confrontati con acuti problemi esistenziali», ma è una conclusione che lascia
perplessi. Dispongono, i giornali, di ri-
serve bastanti a sopportare queste perdite? O il calo o il ristagno delle tirature
sono dovuti allo spostamento dei lettori
sull’online? Sono diminuiti gli effettivi
redazionali, si prevedono diminuzioni?
Intanto, però – questo il rapporto Andreoli lo rileva chiaramente – peggiora
la qualità «percepita» del lavoro. Pare che
invece di correr dietro le notizie importanti si sia un po’ tutti occupati a non perdere di vista Twitter.
Insomma, quel che resta da sapere,
sullo stato di salute del giornalismo in Ticino, è almeno altrettanto importante di
quel che si conosce. I giornali chiedono
trasparenza a tutti, ma sui loro affari…
zitti e mosca. E l’Università, che dovrebbe avere un Osservatorio anche sul Ticino? In altre faccende affaccendata.
I ragazzi si raccontano di Gian Franco Pordenone
Note da Berlino
L’anno scolastico è ormai giunto al
termine. Dopo una lezione conclusiva
in aula, una cena di classe sotto il cielo
stellato e una giornata sportiva nel verde delle nostre belle vallate, arriva fatidico, per allievi e docenti, il momento
dei commiati; magari solo per l’estate,
forse definitivi. E poi?
Poi bisogna certamente ricaricare le
batterie, in modo da ritrovare l’adeguata lucidità e la necessaria pazienza,
entrambe indispensabili per insegnare
come per imparare. L’estate, però, non
può limitarsi a questo. Fare un bilancio
sereno dell’anno trascorso, trovare il
modo adeguato per arricchirsi culturalmente e dotarsi di qualche strumento in più per preparare le sfide a venire,
devono poter trovare il loro spazio.
Ognuno con le proprie esigenze, tradotte in percorsi individualizzati.
E così, per un docente di Storia e Italiano, un soggiorno a Berlino può diven-
Spostandosi tra le strade del redivivo
centro storico, si accavallano i simboli
delle recenti sconfitte, non solo di una
città, ma probabilmente dell’intera
umanità. Non lontano dai moderni
uffici della Leipzigerplatz, di fronte al
polmone verde del Tiergarten, si erige
l’ampio Memoriale della Shoa, composto di migliaia di stele ben ordinate
in calcestruzzo grigio, che ricordano
lo sterminio della popolazione ebraica,
perpetuato con angosciante efficacia
dal regime nazista, dando progressivamente l’impressione di essere inghiottiti nell’assurdo.
Poche centinaia di metri più in là, l’alternarsi di vetrine luccicanti sull’animata Friedrichstrasse, intitolata
all’omonimo re di Prussia, lasciano improvvisamente spazio a quel che resta
del Checkpoint Charlie, il luogo di passaggio tra le due Berlino: quella orientale, passata in mani sovietiche dopo
la sconfitta nazista, e quella sud-occi-
dentale, controllata dai soldati statunitensi. Attorno, quel che resta del Muro,
costruito nel 1961 da un regime che, in
nome del comunismo, ha imprigionato
il suo popolo per evitare che continuasse a fuggire verso il benessere, offrendogli come modesta consolazione la celebre Trabant, l’auto dell’Est, osservata
con ironia dai tanti curiosi visitatori del
DDR Museum, in riva al fiume Sprea, a
due passi dall’imponente Duomo. Seguendo i resti del Muro, che appaiono
all’improvviso qua e là, si giunge alla
Porta di Brandeburgo, dove nel 1989 i
manifestanti hanno festeggiato il suo
definitivo crollo, prima di recarsi a
Ovest e invadere il Kurfürstendamm,
con i suoi negozi e ristoranti di lusso,
tuttora vetrina incontrastata della città, che sfocia inesorabilmente nello
sgargiante complesso commerciale dal
simbolico nome Europa-Center.
Smaniosi, a questo punto, di allontanarsi dalla frenesia del centro, si può
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tare un’opportunità per preparare una
lezione coinvolgente, destinata a degli
allievi di quarta media, confrontati con
lo studio del mondo contemporaneo. Il
PowerPoint che ne risulta, filo conduttore di un’attività nella quale i ragazzi
sono invitati ad ascoltare, prendere appunti e intervenire, prima di redigere
un testo espositivo intitolato La pazza
storia di Berlino, rinchiude tra le sue slides ben più di un’addizione di nozioni,
rese accattivanti da una serie di cartine,
foto e video, bensì una particolare lettura, assunta con conoscenza e responsabilità, di un divenire storico che ci costringe, volenti o nolenti, a interrogarci
ogni giorno un po’ di più.
Una Berlino che, fin dal primo colpo
d’occhio sulla rinnovata Alexanderplatz, mostra un intenso bisogno di
rielaborare il suo drammatico passato,
come doloroso ma necessario passaggio per far emergere i lineamenti di un
futuro ancora ai primi incerti passi.
visitare la Berlinische Galerie, il museo
d’arte contemporanea, collocato tra le
abitazioni del quartiere di Kreuzberg.
Una mostra suggerisce un paragone
tra Vienna e Berlino: l’arte di due metropoli, illustrando il passaggio dall’originalità dell’espressionismo austriaco
d’inizio Novecento all’innovativa creatività tedesca dell’esperienza democratica della Repubblica di Weimar, tra
verismo, futurismo e costruttivismo,
bruscamente zittita dall’assurdo nazista, che doveva in qualche modo cercare di portare a compimento il passato
imperiale, prima di lasciare effettivamente corso a un futuro certamente
democratico.
Con questo contributo del professor
Gian Franco Pordenone che ha seguito
gli allievi delle scuole medie di Cadenazzo nel corso della collaborazione
con «Azione», si conclude la rubrica.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶7 luglio 2014¶N. 28
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni
Culture in dialogo
Ci sono parole e moduli di pensiero
che dapprima fanno la loro comparsa
nel libro di uno studioso, poi vengono
ripresi da qualche giornalista e dai
politici e infine ritornano con una
frequenza tale da diventare verità
ovvie e autentici luoghi comuni. Così,
ad esempio, il multiculturalismo o
il pluralismo culturale sono ormai i
termini che caratterizzano la nostra
epoca e la nostra civiltà. Di qui, e
dai princìpi di tolleranza che hanno
costruito il nostro modo di vivere a
partire dall’Illuminismo, discende
un’altra verità ovvia: nei confronti con
altre culture l’importante è dialogare.
La parola dialogo, nell’uso che oggi ne
viene fatto, è diventata sinonimo di
«colloquio amichevole finalizzato alla
ricerca di un’intesa al di là delle opposizioni, al fine di dirimere conflitti».
Se un teppistello imbratta muri e danneggia la cosa pubblica, l’importante è
parlarne con lui; se in famiglia si litiga,
occorre dialogare; se in un Parlamento
ci si scambia insulti, occorre cercare il
dialogo.
Il principio, in sé, è civilissimo. Sull’efficacia del dialogo rimangono invece
alcuni ragionevoli dubbi, supportati
dai dati statistici: mi risulta che siano
molti i giovani teppisti che passano di
recidiva in recidiva anziché desistere
dalla trasgressione; analogamente, i
litigi in famiglia e i conseguenti divorzi
sembrano essere in aumento. Si può
anche sostenere che, forse, non si è
dialogato abbastanza. Forse; ma io preferisco analizzare le difficoltà connesse
con il dialogo, piuttosto che ribadire
retoricamente il principio.
Iniziamo da una constatazione banale:
ciascuno prende se stesso a misura
del valore degli altri. Ne consegue
che ogni diversità – quando investe
valori, credenze e stili di vita – produce
spontaneamente diffidenza e, talvolta,
rifiuto. Nel Cinquecento Montaigne
provano i musulmani nei confronti
del nostro uso di alcolici, dei vestiti
provocanti delle donne e del decadimento del dominio del maschio sulla
femmina e del padre sui figli. Bisogna
dunque sforzarsi di entrare nell’universo culturale dell’altro per cominciare a
comprenderne le reazioni apparentemente assurde.
Ogni cultura fissa, più o meno arbitrariamente, norme, divieti, tabù. Perché
da noi si mangia carne di vitello e non
di cane? Chi è nato e cresciuto negli Stati Uniti rimane inorridito al sentire che
da noi si mangiano i conigli; la trippa,
che è appetitosa per i fiorentini e per i
milanesi, fa schifo alla maggior parte
degli americani.
Insomma, forse è vero, come sosteneva
Thomas Kuhn, che persone appartenenti a culture diverse «vivono in
mondi diversi»; ma è pur vero che ogni
cultura si è nutrita anche di infiltrazioni provenienti da altre culture,
assimilandole gradualmente. La
teologia cristiana, ad esempio, è piena
di apporti desunti dalla filosofia greca
e deve molto a quelle scuole filosofiche
che la Chiesa volle far chiudere nel 529,
nell’intento di procedere a una graduale eliminazione della cultura pagana.
Ogni sopraffazione e ogni conquista
hanno portato la cultura dominante a
soffocare quelle sottomesse, ma anche
ad esserne ibridata in modo più o meno
consistente.
Il dialogo è indubbiamente più civile
dell’imposizione; ma, per abbandonare
ogni ingenuità retorica, occorre rendersi
conto che il processo di accettazione
reciproca di diversità culturali attraverso il dialogo richiede tempi molto lunghi
e ha comunque esiti incerti. Per potere
dialogare, occorre che ciascuno presti
orecchio all’altro: un ascolto distratto o
prevenuto non consente un dialogo. E,
quando il dialogo funziona davvero, ciascuna delle due parti ne esce cambiata.
Meinrado e grazie a loro, scoperti
e impiccati. Tra l’altro, dove c’era la
cella di San Meinrado è sorto poi nel
934 il convento e i due corvi appaiono
anche nello stemma di Einsiedeln.
Ristorante alla buona, lunghi tavoli
di legno e panchine da sagra, selfservice. Eppure, qui, all’ombra di un
monumentale platano maculato, delizioso è il coregone fritto sorseggiando
il rosé color salmone dell’isola. L’uva è
la stessa usata per il rosso, soltanto che
gli acini di blauburgunder vengono
subito pressati al convento, senza
macerazione, mi spiega il gerente
Beat Lötscher. A sinistra, lo sguardo
abbraccia i vigneti religiosamente ripristinati nel 1986, cinquemila piante
di vite. Incredibile quanta vita possa
dare, al paesaggio, la vigna. Anche la
chiesa di San Pietro e Paolo, fondata
nel decimo secolo dalla duchessa sveva Reginlinde sui resti di un tempio
gallo-romano, acquista sacralità, con
i vigneti davanti. Ma è questa osteria
lacustre tra canton San Gallo e Svitto,
non lontana da Zurigo, il fulcro
dell’isola. Gli altri compagni di bordo,
prendendo una via più breve, sono già
qui, laggiù c’è una tavolata-battesimo.
Quasi tutti bevono questo rosé benedettino. Là a destra, sopra Pfäffikon,
si assapora il tipico paesaggio svizzero
di foreste interrotte dai pascoli e
prati iperverdi. Lassù in cima c’è
l’Etzelpass, dove volendo, in tre ore e
mezza di cammino, si scollina verso
il convento di Einsiedeln. Arriva
diversa gente, tra battelli di linea e
barche private. I bambini di prima
assaltano una torta di compleanno.
Qualche anno fa l’Ufenau è finita
sui giornali perché un progetto mica
male di un pavillon-ristorante firmato
da Zumthor, non è stato approvato.
A malincuore lascio il mio posto
all’osteria per dare un’occhiata alla
chiesa e alla tomba dell’umanista Von
Hutten. Attraverso le due ali di vigna.
Dalla chiesa ora esce gente goffamente
agghindata da matrimonio. Il fotografo cerca di radunare tutti per una
foto di gruppo. Notevole il muretto
a secco con la parte superiore conica
che si snoda tra i vigneti e i due edifici
sacri. Sfilo così ai fianchi della chiesa
sposata a un bel vecchio castagno e sul
retro, a sud, ecco la tomba in arenaria con scolpito il nome di Ulrich
Von Hutten. Umanista mangiapreti
amico di Zwingli nato in un castello
dell’Assia e morto qui di sifilide. Il suo
scheletro è stato trovato solo nel 1959
e nel giugno di quell’anno l’evento è
festeggiato inaugurando la tomba in
pompa magna e piantando un albero
di amarene in suo onore, qui davanti.
Nel 1968 però, un antropologo non
convinto dell’attendibilità dei resti di
Von Hutten, dopo anni di ricerche,
rinviene uno scheletro e dimostra,
grazie ai segni della sifilide, che quello
è il vero Von Hutten. Due anni dopo
viene così messo accanto al falso Von
Hutten, il Von Hutten vero. Ci sono
così due Von Hutten sepolti quassotto. Qualche tuono, le amarene sono
mature.
Ma chiariamo subito un possibile
equivoco. Gli ascoltatori che, con
competenza tecnica o per semplice
passione, apprezzano Mozart, Mahler
o Stravinsky, non appartengono,
salvo rare eccezioni, a una categoria di
cittadini isolati in un mondo a parte,
all’insegna di una cultura per così dire
incontaminata. Del quale, per spiegare
il nostro titolo, Martha Argerich è
il simbolo. Mentre, Valon Behrami,
starebbe a indicare l’opposto, la non
cultura impersonata da un ragazzo,
che si esprime con un pallone al piede.
Creando, a sua volta, momenti magici,
e qui sta il punto. Ci si trova confrontati con due forme di magia, che si
manifestano su piani e in ambienti lontani, e che, guarda caso, si sono trovati
affiancati, in una situazione di diretta
concorrenza. Impegnati in quella sfida
Argerich-Behrami che si è giocata sul
più improbabile dei terreni: nella sala
del Palazzo dei congressi, il 20 giugno,
durante il concerto di Mozart, per
orchestra e pianoforte, con la magnifi-
ca Martha alla tastiera. In quel mentre,
però, maledetta coincidenza, gli orologi segnavano le 21 e fra il pubblico, manipolati con estrema discrezione, sono
comparsi i display dei telefonini che
recavano i primi risultati della partita
Svizzera-Francia. E mai pausa fu tanto
attesa: finalmente si poteva parlare
di ciò che ci stava a cuore. Nell’atrio,
erano i nomi di Behrami, Shaqiri,
Lichtsteiner ad animare le conversazioni e soprattutto le apprensioni per
l’incombente minaccia sulle nostre
sorti calcistiche. E non soltanto. Ci si
sentiva alle prese con una strana sensazione di rincrescimento quasi colpevolizzante. Tanto da imporre la decisione
di andarsene, rinunciando al secondo
tempo del concerto per godersi, invece,
il secondo tempo della partita. Per quel
che mi riguarda, fu determinante quel
3 a 0, letto sul telefonino, mostrato con
un rassegnato sorriso dall’architetto
Paolo Fumagalli. Scappai via, e non
alla chetichella. Anzi, in buona compagnia, fra spettatori che si giustificava-
no: «Il programma della seconda parte
non è interessante».
Comunque, per quel che concerneva
la nostra scelta di melomani in fuga,
l’incontro Argerich-Behrami si era
concluso con un risultato, a ben guardare, di parità. A riconfermare la forza
della cultura di massa, un termine,
come spiega Ottavio Lurati, dalla connotazione fortemente negativa e che
ha innescato un dibattito senza fine e
senza esiti. Infatti, con questa cultura
che preferiremmo definire «diffusa»,
come suggerisce Edgar Morin, ci troviamo a convivere. Le tante, le troppe
manifestazioni, mostre, pubblicazioni,
trasmissioni, in cui siamo immersi,
ci costringono a continue scelte: a
selezionare in base a valori generali
imposti ma anche a preferenze individuali spontanee. Giungendo, magari,
a compromessi. Com’è successo, a
Lugano, a proposito del duello fra una
pianista e un calciatore. Quindi il titolo
è da correggere: non Argerich o Behrami, bensì Argerich e Behrami…
osservava: «Ognuno chiama barbarie
quello che non è nei suoi usi». È una
tendenza istintiva. È però vero che
la fine della civiltà rurale – di per sé
chiusa e conservatrice – e la dilatazione
d’orizzonti dovuta all’istruzione, ai
viaggi, all’informazione mediatica e
agli scambi culturali ha molto mitigato
questa tendenza. Ma consideriamo
un esempio estremo: lo prendo da un
bel libro (Rompere l’incantesimo) del
filosofo Daniel Dennett. Un popolo
primitivo ha, tra le altre, queste usanze:
«considerano un onesto e pulito
divertimento la pornografia infantile,
fumano marijuana quotidianamente,
celebrano cerimonie pubbliche di
defecazione e ogni volta che un anziano
raggiunge gli ottanta fanno una festa
in cui l’anziano si uccide in modo cerimoniale, per essere poi mangiato da
tutti». Dennett osserva che il disgusto
che noi proviamo di fronte a simili
usanze «barbare» è simile a quello che
Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf
L’isola Ufenau
L’isola Ufenau si trova sul lago di Zurigo, a un paio di chilometri al largo di
Rapperswil e a uno neanche da
Freienbach, comune del Canton Svitto
al quale appartiene. Quest’isola molassica menzionata per la prima volta
nel 741 come Hupinauia poi Isola di
Ufo, Offo, Ubo, Ubinauia e infine Ufenau o anche solo Ufnau, è proprietà da
millequarantanove anni del convento
benedettino di Einsiedeln. Un regalo
dell’imperatore Ottone il Grande.
Salpo da Rapperswil alle 12.35 con il
battello di linea Panta Rhei diretto a
Zurigo. Lützelau, l’isoletta-camping
accanto, scivola via mentre poco dopo
ecco svettare con tetto tobleronico,
tra gli alberi dell’Ufenau, il campanile della chiesa di San Pietro e Paolo.
Dodici minuti di crociera e approdiamo in quattordici. M’incammino
così in una giornata temporalesca a
inizio luglio alla scoperta dell’isola
di Ufenau : poco più di undici ettari,
la più grande isola svizzera. Dopo un
boschetto, la vista si apre beata sui
vigneti disciplinati di blauburgunder,
noto anche come pinot noir. Alle loro
spalle, spunta la chiesetta-cappella di
San Martino, laggiù una grande stalla. Qui davanti si stendono prati con
l’erba alta, delineati da steccati di contorno. Cinque bambini confabulano
sotto un tiglio. S’incontrano insoliti
fiori di campo e flora palustre, come le
spighe apicali purpuree della salcerella e i ciuffi del calamo aromatico,
ad esempio. Dall’altro molo, si scorge
a fianco della stalla, la sagoma della
locanda risalente al 1831: la Gasthaus
zu den Zwei Raben. E infatti, a farci
caso, sulla facciata laterale sopra una
porta, in un tondo, due corvi affrescati in volo. I due corvi ci conducono a
Einsiedeln, dove tenevano compagnia
a San Meinrado, eremita in una cella
nel bosco. San Meinrado, nel gennaio
dell’anno 861, viene ucciso a bastonate da due briganti per un presunto
tesoro nascosto. Secondo la leggenda,
i due assassini, furono inseguiti fino
a Zurigo dai due corvi conviventi di
Mode e modi di Luciana Caglio
Argerich o Behrami?
ta del resto da signori in frack e signore
in lungo. Un genere musicale, insomma, che, diversamente da altri, incute
una certa soggezione, chiede silenzio
e compostezza, induce alla riflessione,
mette le ali alla fantasia.
CdT - Gonnella
Ironia della sorte o incidenti di programmazione: fatto sta che protagonisti di avvenimenti fra loro assolutamente non paragonabili, possono
sovrapporsi provocando coincidenze
imbarazzanti. È successo, a Lugano, il
20 giugno scorso. Quella sera, il calendario delle manifestazioni cittadine
proponeva un appuntamento proprio
da non perdere: l’incontro di Martha
Argerich e dei suoi solisti, fra cui il
violoncellista star Mischa Maisky, con
l’Orchestra della Svizzera italiana. E
non se l’è lasciato sfuggire un pubblico, più che mai folto, di persone che,
frequentando un concerto, fanno una
scelta culturale di qualità e, in pari
tempo, compiono un rito sociale sopravvissuto ai cambiamenti, osservandone precise regole di comportamento.
A partire dall’abito elegante, abitudine
ormai andata persa nelle altre sale di
spettacolo. Ma che qui, più che uno
sfoggio esibizionistico, può essere
considerato una forma di rispetto nei
confronti della grande musica, esegui-
PUNTI.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶7 luglio 2014¶N. 28
9
Ambiente e Benessere
L’etica del viaggiatore
Disimpegno e rifiuto
delle proprie responsabilità
sono le costanti di chi parte
Gli insetti «ipsofili»
Vivono in alta quota e sono esseri
fisiologicamente ben equipaggiati,
grazie a una dura, lunga e inesorabile
selezione evolutiva
Come esporsi al sole
Con le creme solari si approfitta
dei benefici del sole e ci si
difende dai raggi ultravioletti
Trasporti pubblici… verdi
Sulla linea urbana di Ginevra,
per la prima volta in Svizzera
un autobus alimentato a batteria
pagina 12
pagina 13
pagina 14-15
(Keystone)
pagina 10
Un secolo di Parco nazionale
Anniversari In Engadina, 80 km di sentieri attraverso una riserva naturale integrale di 170 km quadrati
Marco Martucci
Cratschla, la nocciolaia, ci dà il benvenuto al Parco Nazionale Svizzero.
Questo simpatico uccello ne è diventato il simbolo. Lo vediamo raffigurato dappertutto, sulle cartoline, sui
prospetti, a Zernez, nel nuovo Centro
del Parco Nazionale, inaugurato nel
2008 e sulla bella rivista del Parco, che
si chiama, appunto, «Cratschla». Perché proprio la nocciolaia? Se osserviamo attentamente il suo robusto becco,
vediamo che trasporta qualcosa: una
grossa pigna di cembro, ricca di nutrienti e gustosi semi. Ne raccoglie in
abbondanza e una parte la sotterra,
come provvista invernale. Qualche
pinolo di cembro dimenticato germoglierà in primavera, contribuendo alla
diffusione di quei magnifici alberi.
Siamo in Engadina. Il Parc Naziunal Svizzer, questa la denominazione
ufficiale (in Alta Engadina dicono,
nell’idioma putér, Parc Naziunel) è
proprio all’estremo oriente del nostro
Paese, parte in Bassa Engadina, parte
nella Val Müstair, la Val Monastero.
Confina con l’Italia, dove la natura, facendosi giustamente beffe delle nostre
frontiere politiche, non si ferma. Poco
oltre, è il Parco Nazionale dello Stelvio.
È piccolo, il nostro unico – almeno per ora – Parco Nazionale. Ma è un
gioiello, che consiglio davvero di visi-
tare: con calma però. Solo così lo si può
scoprire, poco per volta. Cambiando
itinerario, scegliendo i giorni e gli orari
giusti. Luglio e agosto sono i mesi più
adatti. La neve, a parte qualche valletta
ombrosa, è sparita. Ci si può muovere
agevolmente sugli ottanta chilometri
di sentieri. Ma anche settembre e ottobre, da queste parti, offrono spettacoli
meravigliosi, come il giallo dorato dei
larici e il bramire fortissimo dei cervi
che risuona fra valli e monti.
Il Parco Nazionale si offre al visitatore nella sua natura selvaggia,
lasciata, per quanto si può, a sé stessa.
«Riserva naturale integrale» secondo i criteri dell’Uicn, Unione Internazionale per la Conservazione della
Natura, nel Parco Nazionale Svizzero
sono sotto protezione non soltanto la
totalità di specie di piante e di animali
ma anche tutti i processi naturali. Presenza e interventi umani sono ridotti
al minimo. Il visitatore è tenuto a rispettare alcune semplici regole: non
abbandonare i sentieri; non portare
cani, nemmeno al guinzaglio; non cavalcare né andare in bicicletta. Non si
può accendere il fuoco né bivaccare. La
sosta, per ristorarsi, è consentita solo
nelle apposite aree, le quali sono messe proprio nei posti migliori anche per
l’osservazione.
Il Parco Nazionale non è uno zoo,
almeno non è uno zoo «tradizionale».
Rimarrà deluso chi si aspetta l’incontro ravvicinato, magari sul sentiero,
con stambecchi, cervi e camosci. Ce
ne sono tanti, e non solo quelli. Ma loro
hanno tutto il Parco a disposizione; noi
siamo ospiti di passaggio. Eppure, non
è tanto raro avvistare qualche animale. Durante le mie escursioni nel Parco,
ho visto nocciolaie, stambecchi, cervi,
un camoscio da vicino. Le marmotte,
poi, meno timide, si mostrano a pochi
metri di distanza. Con l’aiuto d’un binocolo, gli avvistamenti sono ancor
più spettacolari. Come il volo dell’aquila reale o gli spostamenti del gipeto.
Tanto goffo mentre – simile a un
grosso tacchino – cammina, quanto
elegante nei suoi lunghi voli planati, il
gipeto è il successo di un esperimento
di reintroduzione, svolto fra il 1991 e
il 2007. Sterminato in tutte le Alpi già
a fine Ottocento, perché ingiustamente
ritenuto un pericoloso predatore, il gipeto è ritornato anche qui grazie a un
progetto internazionale. Si stima che,
dei 26 giovani gipeti liberati nel Parco,
almeno la metà sia sopravvissuta. Oggi
il gipeto, che ormai si riproduce in natura, con la sua apertura alare di quasi
tre metri è una delle principali attrazioni del Parco Nazionale Svizzero.
Anni or sono, dopo il mio primo incontro con il gipeto, fra le guglie dolomitiche della Val Stabelchod,
ebbi l’occasione di scoprire un’altra
importante regola del Parco. Non vi si
deve lasciare nulla né si può portar via
qualcosa. E ciò vale non solo per i nostri rifiuti o per i fiori. Se ne accorse il
mio secondo figlio – all’epoca di sette
anni – che aveva raccolto da terra un
legnetto di pino mugo e se lo teneva in
mano, a mo’ di bastoncino. Prima che
raggiungessimo la nostra auto, parcheggiata in uno dei posteggi autorizzati lungo la strada del Passo del Forno,
una guardia del Parco, con grande gentilezza ma con altrettanta fermezza,
glielo fece notare. Tutto quello che è nel
Parco, nel Parco deve rimanere.
L’incontro con le guardie che, fra
l’altro, si esprimono correntemente
anche nella nostra lingua, è sempre
una gradevole occasione per porre domande e imparare tante cose. Devono
girare parecchio, le otto guardie del
Parco, che si occupano dei controlli,
della manutenzione dei sentieri, del
censimento della selvaggina, dell’informazione. È un compito impegnativo, su un territorio di 170 chilometri
quadrati, che va da 1440 a 3173 metri di
quota ed è formato per un terzo da bosco, un altro terzo da prateria alpina e
il resto da rocce e sassaie. È il più antico
parco nazionale dell’Europa centrale e
delle Alpi. Fu inaugurato il primo agosto 1914, frutto dell’idea coraggiosa e
originale di persone che vedevano lontano e che, proprio per questo, cinque
anni prima avevano fondato la Lega
svizzera per la protezione della natura,
oggi Pro Natura, la grande associazione per l’ambiente con oltre centomila membri in tutta la Svizzera e che,
ancor oggi, versa al Parco un franco
all’anno per ogni suo membro.
Quest’anno, però, il Parco ha un
motivo in più per festeggiare. È l’anno
del suo secondo giubileo: il Parco Nazionale Svizzero compie cento anni.
La nostra Posta ha emesso per l’occasione una bella serie speciale di francobolli. Al Centro visitatori del Parco
a Zernez è stata allestita una mostra
dedicata al Giubileo, sono previste varie manifestazioni e la principale avrà
luogo il primo agosto prossimo, giorno, non a caso, della nostra Festa nazionale.
Dal 2010, il Parco Nazionale
Svizzero, insieme alla Biosfera Val
Müstair, forma la Riserva della Biosfera Unesco Val Müstair-Parc Naziunal
Svizzer. È un vero e meritato successo
nato da quei sognatori che, un secolo fa, salvando dai pesanti interventi
umani d’allora questo prezioso lembo
di nostra terra, donarono alla natura
e a tutti noi un tesoro di valore inestimabile.
Informazioni
www.nationalpark.ch
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶7 luglio 2014¶N. 28
10
Ambiente e Benessere
La morale del viaggio
Il palazzo
delle
ispirazioni
Viaggiatori d’Occidente Esiste un’etica per chi parte alla scoperta di nuove mete?
Bussole Inviti a
letture per viaggiare
Claudio Visentin
Ogni gruppo umano ha proprie regole di condotta, che identificano un
comportamento appropriato e dunque
rispettabile. Ciò vale anche per i viaggiatori, questa categoria particolarmente mobile e irrequieta? Si potrebbe
dubitarne. C’è nel viaggio una fondamentale disposizione al disimpegno,
alla sospensione se non al rifiuto delle
proprie responsabilità, che in fondo è
insita nel partire, nel lasciarsi tutto alle
spalle, nel cercare altri ruoli e altri palcoscenici.
Per esempio si è spesso sostenuto
che il più grande desiderio del viaggiatore sarebbe entrare a far parte della
comunità che l’accoglie, ma potrebbe
non essere così semplice. Per cominciare, come ha scritto Claudio Magris nel
suo L’infinito viaggiare, anche quando sosta tra loro, e con loro si confonde negli usi e nei vestiti, il viaggiatore
non è veramente coinvolto nella vita
dei locali, perché non ne condivide il
destino: qualunque tragedia accada,
egli può sempre ripartire la mattina
dopo, perché ha un altro luogo al quale appartiene e al quale tornare. La sua
presenza, il suo essere lì, è insomma più
apparente che reale. È una condizione
che spesso discende da una scelta, più
o meno consapevole. Il viaggiatore si
affretta a uscire dal suo luogo d’origine,
sciogliendo i legami che lo trattengono,
ma non sempre ha altrettanta fretta di
integrarsi là dove è diretto. Parte senza
veramente arrivare; attraversa i confini, ma per così dire volentieri indugia e
si trattiene in uno spazio tra due mondi dove la sensazione di libertà è piena,
dove non ci sono regole né obblighi,
dove le possibilità sono infinite.
Inoltre il viaggiatore è simile a un
attore di teatro: si esprime spesso a gesti, quando non conosce la lingua del
luogo; assume un’altra identità in accordo coi propri desideri, spesso frustrati nel domicilio, e soprattutto finge.
Certo a volte fingere è una necessità,
per ragioni di sicurezza per esempio,
ma più spesso è un piacere, e comunque è sempre facile: «A beau mentir qui
vient de loin» è un proverbio francese
che ogni Paese intende («Long ways,
long lies» suona, ancora meglio, in inglese). Del resto per secoli controllare
le affermazioni dei viaggiatori, trovare
riscontri precisi alle loro parole, è stato
quasi impossibile: poteva bastare una
carrozza a nolo, abiti sfarzosi e qualche
generosa elargizione di denaro per fingere d’essere un importante straniero
incaricato di chissà quale missione.
«Per una sorta di triste ironia i leggendari edifici e le istituzioni newyorchesi
che inizialmente ci avevano attirato in
città a poco a poco sbiadiscono, fino a
farsi invisibili. In mezzo al rumore e alla
polvere del traffico estivo l’Empire State
Building perde il proprio fascino…»
Si dice che il più grande desiderio del viaggiatore sia entrare a far parte della comunità che viene esplorata. (Own)
Nel tempo di Internet e dell’informazione in rete il gioco si è fatto forse
più difficile, ma sino ad allora i viaggiatori hanno ampiamente approfittato di
questa sostanziale impunità, di questa
libertà quasi perfetta, per quanto limitata al tempo sospeso che corre tra
la partenza e il ritorno. Tra loro Pietro
della Valle, il grande viaggiatore d’Oriente nella prima metà del Seicento,
che scriveva: «Passato attraverso i siriani e poi i persiani ho di nuovo assunto
il nostro abito europeo. In Turchia e in
Persia non mi avreste riconosciuto, non
mi avreste potuto scambiare per un
altro in India, dove ho quasi ripreso la
mia prima forma».
Ora questa capacità di fingere,
questa mancanza di sincerità, è un difetto – chi potrebbe dire il contrario?
– che risulta però molto, molto utile anche nella vita di società. Non è l’unico
esempio di utile vizio.
Lungo tutta la stagione del Grand
Tour, sino alla fine del Settecento, i
giovani nobili inglesi venivano mandati all’estero per lunghi mesi in quella fase cruciale dell’esistenza che segue
la conclusione degli studi ma precede
l’inserimento nella vita adulta attraverso una fondamentale assunzione di
responsabilità: il lavoro, la famiglia. Oltre a offrire una conoscenza del mondo
di prima mano, l’intento sottaciuto, ma
non per questo meno chiaro, era dar
loro l’opportunità di compiere alcune
fondamentali esperienze di vita, spesso
al confine tra lecito e illecito, al riparo
da sguardi indiscreti. Un’opportunità
che i giovani comprendevano benissimo e si affrettavano a cogliere, tra feste
e case di cortigiane, facendo impazzire
i poveri precettori (non per nulla detti
bear-leader, conduttori di orsi ammaestrati) che comprendevano presto come
il loro compito fosse quello di regolare i
piaceri e gli eccessi dei giovani protetti
almeno quanto quello comunemente
riconosciuto di far loro svolgere un serio programma di studi.
Anche il turismo ha ereditato dal
tempo dei viaggi questa rilassatezza
di costumi. Negli anni Cinquanta del
Novecento, lungo le coste spagnole scoperte e colonizzate dal turismo di massa, la vacanza si svolge all’insegna delle
quattro S: Sun, Sea, Sand, Sex (sole,
mare, sabbia, sesso). Fu Hans Magnus
Enzensberger a spiegare come questa
libertà avesse tuttavia un carattere più
negoziato con la società di provenienza
rispetto al passato. A fronte dell’impe-
gno a rientrare nei ranghi dopo un tempo fissato (di solito due settimane) – un
impegno garantito dal biglietto aereo
di andata e ritorno – si poteva chiudere un occhio su quel che accadeva in
vacanza, soprattutto da quando i ritmi
di vita e di lavoro si erano fatti tanto più
intensi.
Per questa loro natura di soggetti
senza regola, le autorità hanno spesso
tenuto i viaggiatori sotto la stretta sorveglianza di informatori e agenti, ma
presto o tardi anche i viaggiatori hanno
compreso che non possono lasciare ad
altri la definizione delle proprie regole
di condotta.
Nasce da qui, già negli anni Settanta, e non a caso nell’ambito delle
chiese riformate, una riflessione sull’etica dei viaggiatori che ha portato poi,
dopo diversi passaggi, al movimento
del cosiddetto «turismo responsabile».
Responsabile perché, invece di
fuggire i problemi, cerca di dare risposte. Perché gli altri Paesi non sono un
campo da gioco, ma luoghi dove la nostra presenza lascia segni e conseguenze; perché spazi di libertà e tolleranza
vanno prima di tutto conquistati e difesi con coraggio là dove viviamo ogni
giorno.
In ogni città che ho visitato ci sono
luoghi che sembrano possedere una
misteriosa energia: lì le persone si radunano spontaneamente, storie si incrociano, storie vengono raccontate.
Uno di questi è senza dubbio il Chelsea Hotel, un grande palazzo di dodici piani in mattoni rossi, al 222 della
23esima Ovest, nella zona di Chelsea,
a Manhattan.
Sorto da una visione utopica del
mondo come una comunità ideale ispirata ai principi del socialismo
utopista di Charles Fourier, il Chelsea
Hotel si è rapidamente trasformato in
un magnete di innovazione e creatività in ogni campo: musica, letteratura, arte. Per le sue stanze sono passate
legioni di spiriti attivi in ogni campo
d’espressione umana: tra essi – ma
sono davvero soltanto alcuni – Mark
Twain, William Burroughs, Allen
Ginsberg, Bob Dylan, Janis Joplin,
Jimi Hendrix, Stanley Kubrick, Andy
Warhol, Christo, Sid Vicious, Madonna…
Per trovare ispirazione, sostegno
materiale e morale, la convinzione di
aver fatto la scelta giusta, ciascuno di
loro aveva bisogno di incontrare i propri simili, di intrecciare le vite e le idee,
e questa fu infine la principale funzione
svolta dal Chelsea Hotel.
Qui Edgar Lee Masters, l’autore dell’Antologia di Spoon River, scoprì che per creare arte si deve prima
creare la vita da cui l’arte possa scaturire; e la vita degli artisti è per definizione fragile, poco tollerante di
limiti e convenzioni. Per questo la
storia del Chelsea Hotel è anche una
triste storia di eccessi: dipendenze da
alcool e droghe, pornografia, suicidi, omicidi… il lato oscuro dell’esistenza che rivendica i propri diritti.
Bibliografia
Sherill Tippins, Chelsea Hotel. Viaggio nel palazzo dei sogni, EDT, 2014,
pp. 516, € 23.
Farmaco o placebo?
Giochi mentali Il paradosso matematico generato dalla lettura dei dati statistici
placebo
26/60 = 43%
90/140 = 64%
Il direttore, osservando che, in entrambi
i test, il farmaco si è rivelato superiore al
placebo, decide di divulgare tale risultato, pubblicando uno studio complessivo.
Sarebbe sua intenzione affermare che il
farmaco ha fornito una media di successi, pari al: (45%+67%)/2 = 56% , mentre il
placebo del: (43%+64%)/2 = 53,5%. Analizzando con maggiore attenzione la situazione, però, si accorge che, complessivamente: 110+90 = 200 pazienti hanno
ricevuto il farmaco e, di questi: 50+60
tà maggiore rispetto a quelli guariti col
farmaco. Ma, allora, deve ritenersi più
efficace il farmaco o il placebo? Che decisione deve prendere il direttore dell’ospedale?
Soluzione
In linea di massima, non si possono mettere a confronto delle percentuali, senza
prendere in considerazione i valori che le hanno generate. Per determinare i valori definitivi della sperimentazione in questione, non è corretto effettuare la media
delle percentuali ottenute (come, istintivamente, si sarebbe portati a fare). Bisogna,
invece, valutare i risultati complessivi dei due test: quelli a favore del placebo sono:
26+90 = 116, mentre quelli a favore del farmaco sono: 50+60 = 110.
Se si tiene conto che le quantità globali di pazienti coinvolti sono rispettivamente: 110+90 = 200 (farmaco) e: 60+140 = 200 (placebo), le percentuali corrette,
risultano essere: 110/200 = 55% (farmaco) e 116/200 = 58% (placebo), come evidenziato nella seguente tabella.
farmaco
1° test 50/110 = 45%
2° test 60/90 = 67%
= 110 sono guariti; mentre: 60+140 =
200 pazienti hanno ricevuto il placebo
e, di questi: 26+90 = 116 sono guariti.
Quindi, in assoluto, i pazienti guariti
col placebo risultano essere in quanti-
placebo
26 su 60
90 su 140
116/200 = 58%
mentre quella col placebo è del: 90/140
= 64%.
I due primari consegnano al direttore dell’ospedale i risultati da loro ottenuti, che possono essere così riassunti.
farmaco
50 su 110
60 su 90
110/200 = 55%
In Matematica il termine paradosso
indica una proposizione sorprendente,
ma vera. Lo stesso termine viene comunemente utilizzato anche per definire
un’affermazione che appare incredibile, semplicemente perché scaturisce
da un ragionamento errato (ma che,
ingannevolmente, sembra corretto). In
un caso del genere, si dovrebbe parlare
più propriamente di: sofisma, se l’inganno logico è intenzionale, e di: paralogismo, se invece è involontario.
L’insidia del paralogismo può colpire anche quando i ragionamenti da
compiere sono relativamente semplici,
come nel seguente esempio.
In due diversi reparti di un ospedale vengono effettuate due sperimentazioni, per valutare la reale efficacia di
un nuovo farmaco. Nel primo repar-
to sono ricoverati 170 pazienti; a 110
viene somministrato il farmaco e, di
questi, 50 guariscono. Ai rimanenti 60
viene somministrato un placebo, e si
registrano 26 guarigioni. Il primario
di questo reparto calcola che la percentuale di guarigione con il farmaco è del:
50/110 = 45%, mentre col placebo è del:
26/60 = 43%. Di conseguenza, il farmaco risulta essere più efficace del placebo
(anche se di poco).
Nel secondo reparto sono ricoverati 230 pazienti; a 90 viene somministrato il farmaco e, di questi, 60
guariscono; ai rimanenti 140 viene
somministrato un placebo e si registrano 90 guarigioni. Il primario di
quest’altro reparto, senza conoscere i
risultati ottenuti dall’altro collega, conclude che il farmaco sia più efficace del
placebo, dato che la percentuale di guarigioni col farmaco è del: 60/90 = 67%,
1° test
2° test
totale
Ennio Peres
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶7 luglio 2014¶N. 28
11
Ambiente e Benessere
Iceberg di casa nostra
Mondo sommerso Sassolo: il Laghetto Inferiore; e mai l’aggettivo inferiore fu tanto malamente usato
Sabrina Belloni, foto di Franco Banfi
L’acqua costituisce un ponte fra terra,
ghiacciai e cielo: si origina dal cielo e
dai ghiacciai e scorre sulla terra colmando torrenti, che si intersecano fra
loro dando luogo a vere e proprie reti
fluide a lento scorrimento, e a laghi.
L’acqua, i ghiacciai e i fiumi hanno generato le valli alpine.
La magnifica zona del Naret, di cui
il Laghetto di Sassolo fa parte, ne è un
esempio inconfutabile. È situata ai piedi del Pizzo Cristallina, ben oltre i 2000
metri di quota, al limite settentrionale
della Vallemaggia. La strada si inerpica
come un serpente lungo i fianchi della
valle. In villaggi e case sparse, vicoli
stretti e scalinate separano e uniscono
le vecchie abitazioni in pietra, come in
intricati labirinti, come nelle reti d’acqua di cui sopra.
Qui si trovano gli iceberg di casa
nostra.
Queste sculture naturali di ghiaccio rimandano l’immaginazione al
grande Nord (Artico) o all’immenso
Sud (Antartico), a spedizioni leggendarie oppure al riscaldamento globale.
Pochi sanno che gli iceberg possono
formarsi anche nelle Alpi e offrire alcune avventure «esotiche» ai visitatori
di quelle località, laddove il turismo di
massa rimane una parola a dir poco
sconosciuta. Durante gli inverni freddi, la superficie di alcuni laghi alpini
oltre 2000 m di altitudine si solidifica e la neve, cadendo sulla banchisa
lacustre, si compatta in uno spesso
strato di ghiaccio. Questi bacini raccolgono gli accumuli instabili di neve
che rotolano a valle dai ripidi pendii
delle montagne circostanti; la neve si
accumula sulla superficie ghiacciata,
si comprime, si consolida e sprofonda
sott’acqua a causa del suo stesso peso.
Nella tarda primavera-inizio esta-
te, quando il ghiaccio comincia a rompersi, in quota si verificano frequenti
temporali e severe tempeste che spazzano i laghi, costringendo i frammenti
di ghiaccio a compattarsi nuovamente
in blocchi. I venti spingono questi pezzi di ghiaccio verso le rive dei bacini,
dove si accumulano nuovamente. Durante le notti gelide, a causa delle basse temperature, essi si consolidano. Il
cosiddetto rough-ice offre splendide
formazioni sia sopra sia sotto la superficie. Ma è imprevedibile e pericoloso.
Le piattaforme ghiacciate e le formazioni di ghiaccio libere si muovono
lentamente attraverso il lago, spinte
dai venti, e possono chiudere un’area
precedentemente libera dai ghiacci,
impedendo l’accesso (nella migliore
delle ipotesi) o la fuoriuscita dei sub.
L’estate porta temperature miti anche a queste altitudini. Ci vogliono mesi
perché il ghiaccio si assottigli, ma quando il disgelo ha inizio, la trasformazione avviene in modo rapido. I subacquei
che vogliono provare l’esperienza di
un’immersione sotto il ghiaccio alpino
devono impegnarsi in una sfida contro il riscaldamento, per raggiungere la
destinazione durante le condizioni ideali per l’immersione: una destinazione
solo per sub addestrati.
Gli iceberg fluttuano su e giù, si
muovono lateralmente e – quando sono
sospinti verso la riva – raschiano contro il fondo del lago. Con ogni brezza
alpina, gli iceberg vengono sollevati e
mossi dalla superficie solo per poi rovinare nuovamente sulle rocce. Ad ogni
impatto, pezzi di ghiaccio si staccano
e galleggiano in superficie. Questa situazione totalmente imprevedibile crea
un ambiente d’immersione particolarmente impegnativo. L’esplorazione dei
ghiacci richiede buone condizioni di
salute e fisiche, ma soprattutto un’enorme determinazione.
La magnifica
zona del Naret,
di cui il Laghetto
di Sassolo fa
parte, è situata
ai piedi del Pizzo
Cristallina, ben
oltre i 2000 metri
di quota, al limite
settentrionale
della
Vallemaggia.
Dopo aver affrontato le difficoltà logistiche per raggiungere il sito, ci
ritroviamo immersi nel silenzio delle
Alpi. Seduti su una roccia, guardiamo
la superficie nera e impenetrabile del
lago; siamo pervasi da un senso di calma e di rispetto dell’ambiente. Dobbiamo essere assolutamente consapevoli
dei nostri limiti e sapere cosa fare in
ogni eventuale caso di emergenza.
Esplorare le gallerie sommerse
e le grotte sottomarine all’estremità
nord del lago richiede una profonda
esperienza di immersione anche in
grotta, oltre a quella della formazione
dei ghiacci, al fine di prevenire ogni
potenziale pericolo. Questo è un ambiente che non perdona alcuna irresponsabilità.
Ma il Laghetto Sassolo è anche un
indicatore ambientale.
I laghi di alta quota sono soggetti
a condizioni climatiche estreme; sono
spesso difficilmente accessibili perché
posti in zone remote, circondati e abitati da flora e fauna particolari, e hanno da sempre affascinato i ricercatori.
Il ruolo dei laghi alpini come indicatori
ambientali è stato messo in evidenza
soprattutto dalle ricerche svolte a partire dagli anni 80 nell’ambito di progetti finanziati dall’Unione Europea
(Emerge, Molar, Al:Pe2 e Al:Pe1, Eurolimpacs).
Il Laghetto Sassolo:
per le immersioni
è un luogo tanto bello
e incredibile, quanto
molto pericoloso
Gli studi hanno evidenziato come,
pur essendo collocati in aree remote, lontani da fonti di inquinamento e
non interessati da disturbo antropico
diretto, i laghi alpini possono essere
soggetti a fenomeni di inquinamento
attraverso le deposizioni atmosferiche
e sono particolarmente suscettibili all’acidificazione. Anche i territori
dell’alta Vallemaggia sono affetti da
questo fenomeno, cioè da quel processo attraverso il quale le sostanze gassose emesse in atmosfera dalle attività
umane – dopo essersi trasformate in
acidi – alterano le caratteristiche chimiche degli ecosistemi, modificando la funzionalità di acque, foreste e
suoli. L’acidificazione consiste in una
progressiva riduzione del pH e dell’alcalinità delle acque, e nel rilascio in
soluzione di metalli pesanti come l’alluminio, a causa di un incremento di
acidità che nel caso dei laghi alpini è
rappresentato dalle deposizioni atmo-
sferiche, le note piogge acide. Il processo precursore è la dissoluzione dei
minerali.
L’intensità di tale fenomeno dipende non solamente dalla litologia
(cioè dalle caratteristiche delle pietre)
ma anche dalla copertura vegetale,
dall’ampiezza del lago e del bacino imbrifero. In primavera-estate, durante la
fase di disgelo, le sostanze inquinanti
che si sono accumulate nella stagione
invernale vengono rilasciate.
Le variazioni chimiche indotte
dall’acidificazione sono importanti perché introducono modificazioni degli ecosistemi e rendono i laghi
inospitali per la maggior parte delle
comunità biologiche. L’acidificazione
si sviluppa nelle acque caratterizzate
da una limitata capacità di neutralizzare gli apporti acidi, per esempio nei
laghi che si trovano in bacini a composizione geolitologica acida. I suoli,
generalmente assenti o di limitato
spessore, l’elevata pendenza, il basso rapporto tra superficie del bacino
e del lago, il basso tempo di ricambio
delle acque sono tutti fattori che concorrono a incrementare la sensibilità
degli ambienti lacustri all’acidificazione, poiché ostacolano i processi di
dilavamento delle rocce e dei suoli del
bacino.
Negli ultimi 20-25 anni si è verificata una riduzione di carichi acidi di
origine atmosferica, grazie soprattutto
alla riduzione delle deposizioni atmosferiche di solfati; conseguentemente i
laghi dell’arco alpino mostrano segnali
di recupero. Questa tendenza è destinata ad attivare processi di recupero
biologico e di resilienza, favorendo la
ri-colonizzazione di fauna e flora che
erano temporaneamente scomparse.
Tali fenomeni sono stati monitorati costantemente anche con un incarico
assegnato nel progetto europeo Emerge
(European Mountain Lake Ecosystems
Regionalisation Diagnostic & Socioeconomic Evaluation), presso il Laboratorio Studi Ambientali (L.S.A.) del
Cantone Ticino. In questa ricerca sono
analizzati sei laghetti, fra cui anche il
Laghetto Inferiore o Sassolo.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶7 luglio 2014¶N. 28
12
Ambiente e Benessere
Lassù, non solo marmotte,
camosci e stambecchi
Biodiversità La vita pulsa anche alle più alte quote
Alessandro Focarile
Estate, stagione di escursioni e di
ascensioni in montagna. Il frequentatore che si spinge oltre i pascoli e le
praterie più elevate, e lo fa con animo,
occhi e orecchi ben aperti, si rende conto che non è solo. Anche dove la vegetazione diventa più rada e immiserita,
tra i nevai, le morene dei ghiacciai, le
colate di detriti e di ammassi rocciosi,
sui ripidi pendii, alla base delle pareti.
Farfalle, uccelli, un furtivo topolino alpino lo accompagnano in alto, e queste
visibili presenze sono ben poca cosa a
confronto della multiforme, ricca e insospettabile vita minuta che sta ai suoi
piedi. Sono gli insetti (e altri artropodi)
«ipsofili», dal Greco: che vivono in permanenza in alto.
Parliamo del gran numero di esseri fisiologicamente ben equipaggiati, i quali attraverso una dura, lunga e
inesorabile selezione evolutiva, sono
riusciti a elaborare e sviluppare meccanismi tali da consentire loro il brillante superamento delle avversità fisiche
proprie dell’alta montagna. Ostacoli fisici che si realizzano attraverso le maggiori radiazioni ultra-violette, la minore quantità di ossigeno disponibile, i
forti scarti di temperatura tra il giorno
e la notte, e tra le zone in ombra e quelle
in pieno sole, la notevole ventosità e aridità atmosferica del suolo e delle rocce
scoperte. Infine, un innevamento che
può prolungarsi fino a 9-10 mesi nel
corso di un anno.
Le severe condizioni
dell’ambiente
alto alpino
hanno originato
una dura selezione
tra gli esseri viventi
in ecosistemi-limite
Sono tutti fattori-filtro determinanti,
che hanno creato nel corso del tempo
(e parliamo di milioni di anni!) una rigorosa selezione biologica e hanno consentito la sopravvivenza e la continuità
di vita soltanto agli organismi meglio
equipaggiati.
Aspetti di questa organizzazione
efficiente sono: 1. Il metabolismo rallentato con il conseguente prolungamento del ciclo vitale dall’uovo all’adulto. Ciclo che può svolgersi entro
2-4 anni invece che nel corso dell’anno. 2. La diminuzione delle dimensioni del corpo. 3. Le zampe accorciate:
in alta montagna è inutile correre. 4.
La progressiva scomparsa delle ali:
in quota è saggio non volare, a causa
delle permanenti turbolenze. 5. Per
la continuità della specie non occorre
il partner. Grazie al fenomeno della
partenogènesi, la madre genera solo
femmine, semplificandosi la vita. 6. La
produzione di composti chimici (glicoli) anti-gelo, che consentono di superare le basse temperature invernali
grazie al fenomeno dell’ibernazione. 7.
Verso i tremila metri di quota e oltre,
temperature superiori a 6°C / 8°C a
livello di radici (10 centimetri), obbligano la fauna minuta a trasferirsi negli
strati inferiori del suolo, per trovare situazioni micro-climatiche più confacenti, compiendo continue migrazioni
nel fitto reticolo di fessure.
Parliamo delle particolarità di
vita e di comportamento, dell’inesauribile e originale capacità di adattamento – sempre più affinate – alle avversità in un ambiente, per noi ostile,
che ospita questi esseri, e pur tuttavia
1. Adula (3402
metri) – (Giovanni
Kappenberger),
con Leptusa
baldensis
raccolta a 3380
metri. (Alessandro
Focarile)
consente loro di vivere. L’origine di
questa fauna minuta, permanentemente presente in altitudine, è legata
alla formazione delle montagne del
sistema alpino (orogènesi). Montagne
che sono il risultato di un gigantesco
scontro tra due placche continentali:
quella africana (mobile verso Nord)
e quella centro-europea (rigida, a
Nord). Il sollevamento delle Alpi è tuttora continuo: 1-2 millimetri all’anno
nel massiccio del Monte Bianco. In
altri settori del sollevamento «alpino»
(come nel Tibet), questo può raggiungere 20 centimetri all’anno.
Al termine della primavera, e grazie al calore solare, il suolo si riscalda,
consentendo il rapido sviluppo della
vegetazione erbacea. La vita riprende
improvvisamente e clamorosamente.
Miriadi di insetti affollano i bordi dei
nevai in pieno sole, e la neve fondente alimenta il rinnovato rigoglio della
vita. Si ricostituiscono le catene alimentari: vegetali, produttori primari,
larve di moscerini (ditteri) consumatori primari, insieme con detritivori,
predatori, e parassitoidi (piccole vespe),
consumatori secondari. Tutti questi
esseri hanno una vita effimera, nell’incessante lotta per il cibo e la procreazione. Tutto si deve concludere nell’arco di
alcune settimane, prima delle precoci
nevicate settembrine, che preannun-
zieranno il lungo inverno, la morte, oppure la stasi di ibernazione.
Gli organismi ipsofili dipendono
direttamente oppure indirettamente
dalla presenza della neve. Costituiscono i primi anelli di una lunga e articolata catena alimentare, che ha origine dai
licheni (foto) e dai muschi, attraverso
lo strato erbaceo, fino ai consumatori primari: le marmotte, i camosci e
gli stambecchi (tra i vertebrati) che se
ne cibano. Tutti animali d’alta quota,
giunti, una volta di più, dall’Asia centrale dopo la ritirata dei ghiacciai alpini: 12/15mila anni or sono.
Oltre una certa quota, durante la
buona stagione e dopo lo scioglimento
dei nevai, la fauna – con esclusione dei
vertebrati – è organizzata su tre livelli:
1. Quello formato dalla fauna aliena
(alloctona) trasportata passivamente
dalle correnti ascensionali di aria calda
e destinata a soccombere ritrovando
un ambiente estraneo e ostile. 2. Quella stanziale sulla superficie del suolo e
delle rocce. 3. Infine, quella che popola gli strati più o meno superficiali del
suolo e degli sfasciumi di vario calibro.
In questi strati, la fauna minuta (insetti
e altri artropodi) compie permanenti
spostamenti alla ricerca di condizioni
di umidità favorevoli.
Quest’ultima componente della
fauna alto-alpina è la più significativa
3. Una minuscola (5 millimetri) lumaca
ipsofila (Vitrina), il cui guscio è molto
sottile a causa della carenza di calcare.
(Alessandro Focarile)
4. Selatosomus rugosus, 4478 metri.
(Alessandro Focarile)
e interessante. Essa è formata da entità faunistiche arcaiche, testimonianze giunte fino ai nostri giorni dopo un
lunghissimo cammino evolutivo (si
tratta di milioni di anni) e derivata da
ceppi che hanno seguito l’innalzamento delle Alpi (il fenomeno dell’orogènesi) e quello delle altre montagne del sistema alpino, dall’Himalaya ai Pirenei.
È giustificato definire questi esseri, dei
veri fossili viventi.
Dei lontani progenitori dell’attuale
fauna di insetti alto-alpini, molti sono
scomparsi perché estinti. Si trattava di
una fauna primigenia popolante le pianure prima della formazione delle Alpi
e del sistema alpino. Altri, gli antenati
della fauna attuale, hanno seguito lentamente l’orogènesi, e si sono progressivamente adattati alle nuove situazioni
ambientali. Ed è proprio grazie a questo
fenomeno di notevole valenza biologica
che conosciamo specie viventi in permanenza fino a 6300 metri come i Collemboli («Azione» 12.05.2014 – n° 20) e
tutta una microfauna che prospera oltre i 5000 metri.
Sulle Alpi, gli attuali record altitudinali sono detenuti da alcuni
coleotteri. Come l’elatèride Selatosomus rugosus (foto), privo di ali
funzionali e raccolto sulla vetta del
Cervino (4478 metri), quando l’eccelsa montagna non era ancora frequentata e calpestata da eserciti di
«alpinisti». Inoltre, da un minuscolo
(1,5 millimetri) stafilinìde (Leptusa
janetscheki), scoperto in cuscinetti di
sassifraghe sulla Meije (3874 metri),
una impegnativa ascensione nelle
Alpi del Delfinato, in Francia. E, per
restare in casa nostra, da segnalare il
rinvenimento di Leptusa baldensis,
da parte di Giovanni Kappenberger a
3380 sull’Adula (foto). Lassù, dove saliamo con corda, piccozza e ramponi,
c’è vita molto in alto.
Bibliografia
2. Il lichene
Stereocaulon
alpinum: una
delle più elevate
manifestazioni di
vita in alta quota.
(Alessandro
Focarile)
5. Dichotrachelus sulcipennis, 3538
metri. (Alessandro Focarile)
Mahadeva Subramania Mani, Ecology
and Biogeography of High Altitude
Insects, Dr. W.Junk NV Publishers
(The Hague), 1968, 527 pp.
L. Nagy et al., Alpine Biodiversity in
Europe, Springer (Berlin, Heidelberg,
New York), 2003, 477 pp.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶7 luglio 2014¶N. 28
13
Ambiente e Benessere
Amico Sole
Salute La funzione protettiva dei prodotti solari preserva la pelle dai raggi nocivi e aiuta a godere dei benefici
Stare all’aria aperta è tutta salute e i raggi solari sono una benedizione per il
buon funzionamento del nostro corpo.
Lo sanno bene anche alla Lega contro
il cancro, che nella pubblicazione Amo
stare all’aria aperta ma mi proteggo dal
sole invita a stare all’aperto, anche se
con la necessaria attenzione: «Una prudente, anche breve, esposizione solare
può essere utile specie nei bambini e
negli anziani, per indurre la produzione di vitamina D che aumenta le nostre
difese immunitarie».
Per godere dei benefici dei raggi
solari non bisogna però tralasciare la
dovuta cautela che aiuta a difendersi da
quelli ultravioletti, che si possono rivelare nocivi per la nostra pelle. Precauzioni
che abbiamo passato in rassegna nel precedente articolo Radiazioni ultraviolette
(«Azione» del 23 giugno), a coadiuvare
le quali, alleata della nostra pelle, sta
l’importante famiglia dei prodotti per la
protezione solare.
Ce lo conferma l’Ufficio federale
della sanità pubblica (Ufsp), ricordandoci di tener presente che purtroppo la
Svizzera fa parte dei primi dieci Paesi
al mondo per diffusione del carcinoma
alla pelle causato dall’eccessiva esposi-
zione al sole ed è pertanto importante
rispettare alcune regole: «Ogni anno
si pone il problema di una protezione
solare ottimale. La permanenza all’ombra, insieme all’utilizzo di prodotti per
la protezione solare con filtro UV, rientrano nelle misure necessarie per la
protezione solare, perché riparano dai
raggi ultravioletti e dai loro eventuali
danni alla salute».
Per sottolineare importanza, efficacia e vantaggi dei prodotti per la
protezione solare, l’Ufsp afferma chiaramente che «finora si possono escludere danni alla salute dei consumatori
derivanti dall’applicazione dei filtri
UV autorizzati in Svizzera». L’Ufficio
federale della salute pubblica va oltre e
conferma l’innocuità dei prodotti per
la protezione solare anche per le donne
in gravidanza o per quelle che allattano: «I vantaggi dell’allattamento durante i primi sei mesi di vita prevalgono
di gran lunga sulle preoccupazioni riguardo ai rischi di sostanze nocive presenti nel latte materno». Di fatto, studi
nell’ambito del Programma nazionale
di ricerca (NFP50) hanno dimostrato
che la sostanza 4-metil-benzilidenecanfora (4-MBC), utilizzata come filtro UV, è presente anche nel latte delle
donne che allattano e secondo l’Ufsp se
ne deduce che «la sostanza contenuta
nelle creme solari giunge nel corpo attraverso la pelle. Le concentrazioni rilevate nei campioni di latte materno sono
tuttavia così limitate che, alla luce delle
attuali conoscenze scientifiche, appaiono assai improbabili dei danni alla salute del bambino».
Anche le gestanti e le mamme che
allattano possono perciò godere dei benefici dell’aria e dei raggi solari, con le
dovute precauzioni e con un comportamento corretto: «Una moderata esposizione al sole durante la gravidanza e
l’allattamento, nonché un utilizzo limitato di prodotti per la protezione solare, permettono di ridurre al minimo
la contaminazione del feto nel grembo
materno e del lattante attraverso il latte
materno, determinata dall’impiego di
filtri UV che potrebbero rivelarsi problematici per la loro salute».
In ogni caso, l’Ufsp ha stilato
un elenco dei filtri UV contenuti nei
prodotti per la protezione solare autorizzati in Svizzera con i nomi delle
relative marche (ndr: Liste des filtres
UV autorisés, disponibile in francese): «L’elenco contribuirà a migliorare
la comprensione di questa complessa
problematica», afferma l’Ufsp che rimanda anche alle raccomandazioni
della Commissione europea, la quale
ribadisce a sua volta che «le sostanze per la protezione solare hanno una
funzione “protettiva” importante contro i raggi UV e i possibili danni alla
salute che ne potrebbero conseguire.
Affinché tale funzione sia soddisfatta,
verificare l’efficacia dei prodotti e fare
abbronzatura in modo sano e veloce,
in quanto la sostanza attiva Melano
Bronze contenuta è in grado di stimolare la naturale produzione di melanina, col risultato di un’abbronzatura
naturale più intensa senza l’uso di autoabbronzanti. Per proteggere la pelle
esposta al sole, nella quale si formano
i radicali liberi che la danneggeranno
anche durante le ore successive, la linea Sun Look anti age si avvale della
combinazione di principi attivi Colar
Protect-Complex. I prodotti della linea Sun Look active sono indicati per
gli sportivi: idratano a fondo la pelle
irritata dal sole, mentre la linea Ultra
Sensitive (consigliata dal Centro allergie Svizzera aha!) è particolarmente
indicata per le persone ipersensibili
ai raggi solari e ai prodotti cosmetici tradizionali. Arriviamo quindi ai
prodotti della linea Kids, sviluppati in
modo specifico per la pelle sensibile
dei bambini e disponibili con indici di
protezione più elevati. Sun Look aprés
rappresenta infine la cura ideale dopo
una giornata al sole, mentre Sun Look
selftan è consigliata per chi non vuole
rinunciare a una bella abbronzatura,
ma non può esporsi ai raggi solari.
Marka
Maria Grazia Buletti
Migros: protezione solare «su misura»
Migros propone la linea Sun Look: realizzata in base ai più recenti ritrovati
scientifici e secondo severe direttive,
essa non contiene il filtro 4-Methylbenzyliden Camphor (4-MBC) sopra menzionato, perché ciascun tipo
di pelle necessita di un trattamento
studiato su misura. A ciascuno il prodotto individualizzato e giusto: per
questo, Sun Look offre nove differenti prodotti, tutti resistenti all’acqua,
con una protezione ottimale e un
trattamento intenso che permette di
ottenere una bella abbronzatura, ma
soprattutto sana. L’efficace ed equi-
librato sistema di filtri UVA e UVB
protegge la cute dalle scottature solari
e dai danni dei raggi UV. Con la vitamina E e gli estratti di fico messicano,
Aqua Cacteen cura la pelle sollecitata dal sole. Sun Look basic è la linea
adatta a tutti i tipi di pelle e offre una
protezione efficace dai raggi solari,
preservando l’idratazione della cute
per 24 ore. Gli spray Sun Look light &
invisible si spalmano facilmente sulla
pelle, grazie alla loro formula trasparente: si assorbono rapidamente e non
ungono. La linea Sun Look protect &
tan permette di acquisire una bella
in modo che i consumatori comprendano bene il contenuto dei foglietti informativi».
Per tenere conto dello scetticismo
e delle preoccupazioni di alcuni esperti
in materia di innocuità dei prodotti con
filtri solari, il consiglio d’Europa prima
(ndr: dicembre 2005) e la Commissione europea poi (ndr: settembre 2006)
hanno pubblicato delle raccomandazioni in merito, mentre la Svizzera era
rappresentata in entrambi i gruppi d’esperti che hanno redatto le raccomandazioni, una delle quali è ad esempio la
seguente: «I prodotti per la protezione
solare devono proteggere in modo sufficiente dai raggi UV B (responsabili
delle cosiddette scottature solari) e dai
raggi UV A (causa dell’invecchiamento
prematuro della pelle e di disturbi al sistema immunitario)».
Siccome entrambi contribuiscono
notevolmente allo sviluppo del tumore
della pelle, l’Ufsp non può far altro che
ribadire di utilizzare i prodotti di protezione solare e di esporsi con prudenza, coprendosi con un abbigliamento
adeguato e solamente durante le ore
meno calde della giornata.
Greenhope, tra sport e beneficenza
Evento Quando giovani talenti della mountainbike s’impegnano per raccogliere fondi a favore della lotta contro il cancro
Il progetto Greenhope biking against
cancer nasce nel 2011 per unire la
formazione di giovani talenti della
mountainbike alla raccolta di fondi per
la lotta contro il cancro. L’idea deriva da
una passione (quella per la bicicletta) e un
destino (la perdita di un genitore per via
di un tumore) in comune tra Luca Cereghetti e Claudio Andenmatten.
Fin da subito il progetto ha raccolto molte simpatie, tant’è che attorno ai
quattro corridori lo staff è cresciuto (oggi
conta otto membri e un’agenzia di comunicazione, Ander Group, tutti al servizio
della causa a titolo volontario), gli sponsor sono molti e generosi, e la schiera di
supporters e donatori è in espansione.
Tra questi ultimi vi sono alcuni volti
molto noti nell’ambito sportivo come
la sciatrice Lara Gut, l’ex campione del
Mondo di Mtb Ralph Naef, il pilota Jarno Trulli (che per Greenhope produce un
ottimo Montepulciano), il ciclista Enrico
Gasparotto e l’Hockey Club Davos, impegnato in prima linea a favore dei bambini malati di tumore. Anche il regista
ticinese Niccolò Castelli è molto vicino al
progetto, sostenendolo nella realizzazione dei video promozionali.
Dal lato sportivo Greenhope si occupa di creare le giuste basi per lo sviluppo di speranze nell’ambito nazionale. I
quattro corridori sono in età comprese
tra i 17 e i 20 anni. Uno di essi, Luca Ta-
A San Bernardino per la Sanbike
Greenhope vi invita a partecipare alla
Sanbike il prossimo 26 e 27 di luglio.
L’evento, organizzato in collaborazione con il Cycling Group Ceresio e l’Ente Turistico Regionale del Moesano, si
sviluppa su un intero weekend. Il sabato è dedicato ai più piccoli e alle famiglie grazie al Sanbike Migros Family
Day: corsi di mountainbike con diploma finale per i bambini e animazione
presso la zona «lungo Moesa» vivacizzeranno il villaggio. La domenica sarà
invece dedicata alle competizioni vere
e proprie con l’MXC Sanbike Multivan
Merida Trophy. I percorsi saranno tre:
il Fun popolare (2 giri attorno al paese),
il Medio e il Lungo (con ascesa al passo
del San Bernardino). Per tutti quanti la
partenza è prevista alle 10.30 dal villaggio. L’intero ricavato sarà devoluto
in beneficenza per tramite del progetto Greenhope biking against cancer.
Da notare che al via, oltre a diversi
professionisti della MTB, tra i quali il
vincitore 2013 Ralph Naef, vi saranno
pure il fondista Curdin Perl, la sciatrice
Deborah Scanzio e l’ex beniamino dei
ciclisti ticinesi Mauro Gianetti.
Info: www.sanbike.ch,
www.facebook.com/sanbike
vasci, mira ai Giochi Paraolimpici, mentre gli altri (Timothy Mazzuchelli, Jan
Eichenberger e Casey South) puntano
ad arrivare il più in alto possibile nelle
rispettive categorie. Per questi ragazzi,
tale esperienza ha però un significato
più ampio, come ci spiega il responsabile
sportivo Claudio Andenmatten: «Da noi
non si parla solo di sport. La componente
benefica assume una grande importanza con i ragazzi, e ci permette di crescerli
pure dal punto di vista più umano. Ad
esempio, approfittano molto del contatto che instaurano con dei loro coetanei
impegnati a lottare contro veri problemi,
decisamente più seri di una gara di Mtb.
Essere confrontati con queste malattie
permette di sensibilizzarli, e l’impegno
dimostrato nella raccolta fondi ne è la
conferma».
Per quel che riguarda la componente
benefica, Greenhope sostiene delle associazioni e fondazioni che nel concreto si
adoperano a favore di bambini malati e
delle loro famiglie. I finanziamenti sono
mirati sulla copertura dei costi di attività
puntuali, alle quali spesso il team partecipa in prima fila, come ad esempio le vacanze autunnali della Kinderkrebshilfe
Schweiz, con la quale fin da subito è nato
un rapporto di amicizia e di collaborazione. Quest’anno l’obiettivo è di poter
muovere dei primi piccoli passi anche
all’interno degli ospedali, e per fare questo Greenhope si affiderà anche all’esperienza dell’allenatore dell’Hockey Club
Davos Arno Del Curto, il quale con i suoi
giocatori visita spesso i bambini malati.
Il progetto si finanzia grazie al contributo degli sponsor, alle donazioni e
alla vendita di gadgets, come ci spiega
Luca Cereghetti. «Ci teniamo molto a far
sì che ognuna di queste tre fonti possa sostenere sia il progetto benefico, sia quello
sportivo, ed è per questo che ripartiamo
sempre i fondi tra i due. Il tutto nella più
totale trasparenza e nel rispetto di chi ci
sostiene. Abbiamo inoltre la grande fortuna di essere un progetto piccolo ma
ben organizzato, e questo ci permette di
abbattere nella loro quasi totalità i costi
amministrativi».
Anche nell’ambito della comunicazione l’impegno è molto importante:
«...direi che viviamo anche di questo!
Per noi è infatti essenziale poter far capire alla gente chi siamo, cosa facciamo
e soprattutto perché lo facciamo. Il fatto
di aver incontrato sulla nostra strada un
amico come Florian Anderhub è stato un
grande regalo. Grazie al suo sforzo in pri-
ma fila e a quello dei collaboratori di Ander Group, oggi possiamo permetterci di
comunicare in maniera ottimale. Oltre
al sito abbiamo una rivista, un canale
video su Youtube e dei social media molto trafficati che ci aiutano a raccogliere
fondi e ad aumentare la schiera di sostenitori. In futuro non puntiamo a crescere come dimensioni: col gruppo attuale
abbiamo raggiunto, a nostro modo di
vedere, un buon equilibrio tra efficienza e flessibilità. Siamo infatti piccoli al
punto giusto per esser molto dinamici e
grandi abbastanza per aver ben in mano
entrambi i progetti benefico e sportivo».
Informazioni
www.greenhope.ch
Sanbike, il 26 e 27 di luglio, a San
Bernardino
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶7 luglio 2014¶N. 28
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶7 luglio 2014¶N. 28
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Ambiente e Benessere
Ambiente e Benessere
Quando le pensiline diventano
punti di ricarica elettrica
Elettromobilità Rapporto sul progetto Tosa di Ginevra: un autobus di linea elettrico con trazione a batteria
e stazioni di ricarica rapida
Alle fermate prestabilite, un
braccio semovente montato sul tetto
dell’autobus si aggancia al polo elettrico sotto la pensilina della fermata. Il
sistema di connessione e rifornimento
automatico da 400 kW consente di trasferire al bus 1,7 kWh durante la sosta
di 15 secondi (vedi box), rimpinguandone l’autonomia di quel tanto che basta a raggiungere il punto di ricarica
lampo successivo dopo 3 o 4 fermate.
Benedikt Vogel*
La società di trasporto pubblico di Ginevra (TpG) impiega, sulla linea urbana
e per la prima volta in Svizzera un autobus alimentato a batteria. L’energia per
la trazione è fornita da un’apparecchiatura di piccole dimensioni e leggera che
viene ricaricata in pochi secondi presso
fermate predisposte, mentre i passeggeri salgono e scendono.
L’elettromobilità è un argomento di
grande attualità, tuttavia incontra i suoi
limiti nei grandi autobus di linea per il
trasporto pubblico urbano: un autobus
articolato comune a tre assi, con 134 posti in piedi e a sedere, ha un peso a vuoto
di 20 tonnellate e un peso massimo ammissibile di 30 tonnellate. Se un autobus
di questo tipo dovesse caricare a bordo
una batteria in grado di erogare una
quantità di energia sufficiente per farlo
funzionare una giornata intera, questa
batteria dovrebbe pesare ben nove tonellate. L’autobus sarebbe così pesante
da consentire di caricare solo pochi passeggeri. Per questo motivo in Svizzera,
questi mezzi non circolano.
Con un’eccezione: a Ginevra è operativo, già da alcuni mesi, un demo bus
elettrico di grande capacità che collega
l’aeroporto di Ginevra al Palexpo, centro espositivo internazionale della città,
percorrendo una distanza di 1,8 km.
L’autobus articolato è di dimensioni
normali e può trasportare un numero di
«Non vogliamo trasportare batterie, ma persone», ha dichiarato Olivier Augé,
Product Manager e Responsabile Innovazioni presso ABB, Gruppo leader nelle
tecnologie per l’energia e l’automazione. (element p)
passeggeri pari agli altri autobus cittadini. La batteria che alimenta i due motori
elettrici pesa tuttavia solo 1040 kg.
«Non vogliamo trasportare batterie, ma persone», ha dichiarato Olivier
Augé, Product Manager e Responsabile Innovazioni presso Abb, Gruppo
leader nelle tecnologie per l’energia e
l’automazione, che ha sviluppato la batteria e la relativa tecnologia di ricarica,
nonché prodotto alcune parti del sistema. Il progetto è attualmente in fase di
sperimentazione per la prima volta in
Svizzera presso la città di Ginevra. A
differenza degli altri autobus a trazione
elettrica, questo autobus non è alimentato tramite una linea aerea con due
conduttori elettrici sospesi sulla sede
stradale, bensì da una batteria. La sua
velocità massima è 85 km/h. Mentre la
ricarica è paragonabile a un lampo, dato
che esige solo 15 secondi.
L’autoarticolato di Ginevra è in
grado di trasportare 135 passeggeri,
nonostante la sua batteria pesi solo una
tonnellata al posto di nove, e possa immagazzinare solo 38 kWh di energia
anziché mille. L’autobus può prelevare,
infatti, esattamente una minima quantità di energia che serve a spostarsi e
alimentare le luci di servizio fino alla
successiva fermata di ricarica. Un’operazione che richiede solo 15 secondi direttamente presso fermate predisposte
mentre i passeggeri salgono e scendono,
e che avviene grazie a un nuovo tipo di
meccanismo automatico di ricarica
lampo.
L’energia elettrica
utilizzata per il nuovo
autobus articolato
proviene da fonti
di energia rinnovabili
Il progetto pilota è in uso fra l’aeroporto di Ginevra e il centro espositivo Palexpo. La distanza percorsa misura solo
1,8 km, pertanto sono sufficienti due
stazioni di ricarica. Il demo bus percorre questo tratto di strada da tre a quattro
volte alla settimana dal maggio 2013 e il
progetto è terminato nel mese di marzo
di quest’anno.
Olivier Augé è soddisfatto dei risultati: «Il processo di ricarica è affidabile e l’intera infrastruttura di ricarica
ha superato la prova pratica». In fase
sperimentale l’autobus ha consumato da 1,5 a 3,5 kWh di energia elettrica
per chilometro, in base al profilo del
percorso, al numero di passeggeri e alle
condizioni atmosferiche. Queste ultime giocano un ruolo importante nel
momento in cui l’autobus deve essere
riscaldato elettricamente in inverno
e climatizzato d’estate. Dei 38 kWh di
capacità della batteria, possono tuttavia essere disponibili 26.6 kWh, poiché
l’apparecchiatura può essere scaricata
al massimo fino al 30-40 per cento della
sua capacità per assicurare una durata
media di dieci anni. Il sistema di ricarica flash consente all’autobus di non fermarsi mai per la ricarica (a parte ovviamente quando lo richiedono le soste dei
passeggeri), assicurando un’autonomia sufficiente e la necessaria riserva.
E il tutto con una batteria per capacità
energetica di dimensioni doppie rispetto a quella di un’automobile elettrica di
classe media.
«Finora siamo molto soddisfatti
dell’autobus», ha commentato Thierry
Wagenknecht, direttore tecnico dell’azienda comunale dei trasporti pubblici
di Ginevra (TpG), che traccia un bilancio positivo del progetto: «La collaborazione tra i partner è eccellente». Al
progetto partecipano, insieme a TpG e
ad Abb, l’utility per l’energia di Ginevra
SIG, che gestisce la rete elettrica della
città, e l’Office de Promotion des Industries et des Technologies. Le lettere iniziali dei nomi dei quattro partner hanno
dato il nome al progetto stesso: T.O.S.A.
L’autobus elettrico operativo a Ginevra è dotato di una batteria di dimensioni relativamente piccole che viene ricaricata in pochi
secondi alle fermate. Giunto sotto la pensilina, l’autobus si aggancia alla stazione di ricarica (visibile nella figura sopra il tetto
dell’autobus). (ABB)
Il quale si avvale del finanziamento
dell’Ufficio federale dell’energia che fornisce anche servizi di consulenza.
Il parco veicoli della società TpG
comprende attualmente 210 autobus
diesel oltre a 90 filobus e a diverse centinaia di tram. «Il nostro obiettivo a
lungo termine è l’elettromobilità al
cento per cento», ha dichiarato Thierry
Wagenknecht, che ha aggiunto: «Diverse strade portano al nostro obiettivo, e Tosa è una di queste». La TpG
sta studiando insieme al Cantone di
Ginevra la possibilità di impiegare il
nuovo autobus a ricarica rapida su una
linea completa del trasporto urbano.
«La decisione dipenderà dal risultato
finale del progetto pilota attualmente
in corso, ma dovrà dare una risposta
anche alle esigenze in materia di pia-
nificazione del trasporto pubblico e in
materia di finanziamento», ha spiegato
Wagenknecht.
Il progetto pilota di Ginevra suscita grande interesse nelle aziende di trasporto pubblico nazionali e straniere. La
TpG è impegnata regolarmente ad accogliere delegazioni che desiderano informarsi su questa variante di elettromobilità urbana. Per Abb si prospetta uno
sbocco commerciale nei mercati su scala
mondiale per il proprio sistema di ricarica, che sarà pronto per la commercializzazione nel 2015. Fino ad allora la ricerca
proseguirà per migliorare il prodotto.
Attualmente si sta considerando
anche un potenziamento della capacità di carica della batteria da 38 a 50 e 80
kWh. Secondo il manager di Abb, Augé,
dai calcoli effettuati si evince che i costi
d’investimento per gli autobus e per la
relativa infrastruttura di ricarica non
superano i costi per l’installazione di
una nuova linea di filobus con linee aeree. Se si considerano la maggiore durata
media di un bus elettrico (e i conseguenti tempi di ammortamento più lunghi), i
ridotti costi di manutenzione dell’apparato propulsore elettrico e i minori costi
legati al consumo di energia, il sistema
di Abb può misurarsi addirittura con i
moderni sistemi diesel per il trasporto
pubblico.
Un’alternativa con vantaggi e svantaggi. Oggigiorno, infatti, l’installazione
di linee aeree sospese è spesso fonte di
critiche e incontra una forte resistenza
per la concessione delle relative autorizzazioni. A fronte di queste difficoltà, gli
autobus a batterie potrebbero rappre-
sentare un’alternativa gradita. Questo
autobus si basa tuttavia su una propria
tecnologia che non può essere confrontata con quella di tram, filobus, autobus
diesel o metropolitane. Le aziende di
trasporto che optano per la nuova tecnologia devono pertanto adeguare anche le
proprie infrastrutture di manutenzione
e provvedere a un’adeguata formazione
del proprio personale, con un conseguente aumento dei costi.
Tosa può tuttavia fornire un importante contributo all’ulteriore sviluppo dell’elettromobilità. «Il punto
critico è naturalmente rappresentato
ancora dagli accumulatori. A tale riguardo siamo curiosi di vedere se raggiungeranno l’auspicata durata media
di vita nelle versioni con alta corrente
di carica», afferma Martin Pulfer che
segue il programma di ricerca Trasporti dell’Ufficio federale dell’energia.
È concepibile anche l’idea che le esperienze con Tosa possano essere efficaci
pure in altri contesti. La società di trasporto pubblico di Ginevra intende, infatti, sfruttare in futuro gli accumulatori di energia per energizzare i filobus
con gruppi di continuità a batteria e per
recuperare energia frenante dei tram
per mezzo di supercondensatori.
*Articolo redatto su incarico dell’Ufficio
federale dell’energia (UFE).
Informazioni
Per maggiori informazioni
sul progetto è possibile contattare
Martin Pulfer
([email protected]),
Responsabile del programma
di ricerca Trasporti dell’UFE.
Mentre al seguente link è disponibile
un videoclip informativo sul progetto
creato su incarico dell’UFE: http://
player.elementp.ch/bfe (tedesco,
francese)
Stazioni di ricarica
efficienti
Quanto più corto è il tempo di carica, tanto maggiore dovrà essere
la potenza per rifornire una batteria di una determinata quantità
di energia. L’autobus elettrico a
ricarica rapida operativo a Ginevra preleva molta energia in poco
tempo durante il processo di ricarica lampo. Ciò rappresenta una
sfida sul piano tecnico a livello di
infrastruttura perché se le stazioni
di ricarica sono collegate alla rete
urbana a bassa tensione, le «potenze di picco» disponibili sono necessariamente limitate. Per non dover
potenziare la rete di distribuzione
elettrica appositamente per le stazioni di ricarica, queste vengono
dotate di supercondensatori (detti
anche supercapacitori). Questi ultimi sono dei particolari condensatori che hanno la caratteristica di
accumulare e scaricare una quantità di carica elettrica in tempi eccezionalmente rapidi. Essi prelevano
potenza dalla rete (50 kVA) nei due
minuti e mezzo che precedono l’arrivo dell’autobus alla fermata, e la
cedono quindi alla batteria nell’autobus mentre i passeggeri salgono e
scendono.
Le stazioni di ricarica predisposte
alle fermate intermedie erogano
400 kW, mentre al capolinea sono
sufficienti 200 kW perché gli autobus devono sostare diversi minuti e
c’è quindi più tempo a disposizione
per la ricarica: qui dura 4 minuti
durante i quali vengono riforniti 13
kWh di energia elettrica. Le stazioni sono peraltro progettate in modo
tale da essere energizzate solo se un
autobus è agganciato. / BV
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Ambiente e Benessere
Calle: bianche o colorate?
Mondoverde Interrate in primavera regalano da giugno a settembre eleganti fioriture, sia in vaso sia in piena terra
Sono belle per antonomasia. A tal punto che la bellezza viene espressa dal loro
stesso nome: dal greco, infatti, kalos, significa proprio «bello».
Negli ultimi anni si trovano facilmente in commercio tuberi di calla
colorata, con sfumature dal giallo brillante all’arancio-rosso, fino al più prezioso viola carico. Sono, infatti, molte
le nuove varietà, che si caratterizzano
dalla taglia contenuta, dal colore, dal
profumo e persino attraverso il fogliame decorativo.
Per conoscerle ed evitare così errori nella coltivazione, ecco pronta una
guida che consentirà agli appassionati
con il pollice verde di ottenere fioriture
prolungate negli anni.
Anzitutto va detto che le calle coltivate appartengono alla specie Zantedeschia aethiopica, la classica calla
bianca con rizomi che danno luogo
ogni primavera a cespi di foglie lunghe
cinquanta centimetri e fiori che raggiungono anche il metro; Zantedeschia
albo è invece maculata con le foglie più
piccole, ma con graziose macchie bianche e con fiori anch’essi bianchi ma
dall’interno scuro; Zantedeschia elliottiana ha i fiori gialli, mentre Zantedeschia rehmannii sfoggia fiori rosa con
sfumature bianche o viola.
Da queste ultime tre specie derivano le numerose varietà a fiore colorato,
come la Cameo, dal fiore arancio-salmone o la Mango dalle spate arancioni.
Le uniche due eccezioni sono date dalla
F.D. Richards
Anita Negretti
Green Goddess bianca con punta verde
e Pink Mist rosa pallido, derivanti direttamente da Zantedeschia aethiopica.
Nelle calle vi è un organo particolare, la spata, che è una foglia trasformata per attrarre gli insetti ed è quella
che erroneamente viene chiamata «fiore»; avvolge lo spatice (cilindro giallo)
che a sua volta porta i veri fiori, piccoli
e poco attrattivi. Se la calla bianca ha
come radice un rizoma, ovvero un fusto sotterraneo ingrossato che predilige
essere interrato in suoli umidi e ricchi
di sostanza organica, come fossi, rogge
e a bordo di laghetti e stagni, le varietà
colorate si sviluppano da tuberi e richiedono terreni sabbiosi e ben drenati
in quanto assai sensibili ai marciumi.
La messa a dimora per tutte le
varietà è la primavera, quando il pericolo gelate è ormai terminato. È necessario fare attenzione a manipolare
con i guanti le radici, visto che possono irritare la pelle. Esposte al sole o a
mezz’ombra, non scordiamoci di coprire le radici con un buono strato di corteccia per mantenerle fresche. La giusta
profondità del rizoma o del tubero è di
dieci centimetri sotto al livello del terreno, che va mantenuto sempre umido
nel caso della Zantedeschia aethiopica.
Inoltre, per tutte le varietà, è importante intervenire con un buon concime se
vogliamo riuscire a ottenere piante fiorite due volte al mese.
Al contrario della calla bianca,
che una volta interrata può essere lasciata nel terreno per anni, le calle
colorate devono esser messe a riposo
tra una fioritura e la successiva: ad ottobre si estraggono i tuberi, li si ripone
in cantina dopo averli spazzolati dalla
terra e li si conserva in un luogo buio
con una temperatura di 8-10°C fino
alla primavera successiva.
Molti sono gli abbinamenti delle
calle con altri fiori, siano essi arbusti,
erbacee perenni o bulbose: un ottimo
contrasto è dato ad esempio dalla varietà Schwarzwalder con spate viola
scuro, quasi nere, accostate all’achillea
gialla o rosa chiaro.
Oppure rende bene l’accostamento dei bei fiori rosa scuro Pink persuasion – già valorizzati dalle foglie verdi
maculate di bianco – con le ortensie o
la delfinium blu.
Prima di concludere, vi regaliamo
una piccola curiosità botanica: il nome
del genere, Zantedeschia, complicato
da ricordare, è frutto di un omaggio
da parte del botanico tedesco Kurt
Sprengel a Giovanni Zantedeschi, altro botanico italiano, in onore ai lunghi anni di studio delle piante trascorsi insieme.
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di peperoncino con l’olio rimasto e condite con poco fleur de sel. Grigliate
la carne a fuoco forte sul grill, 4 minuti per lato. Togliete la carne dal grill e
avvolgetela nella carta alu. Fatela riposare per circa 5 minuti. Estraete la carne
dalla carta alu e cospargetela con il resto del fleur de sel. Servitela con l’olio al
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶7 luglio 2014¶N. 28
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Ambiente e Benessere
Un Mondiale tutto (o quasi) da piangere
Sportivamente Più che a belle partite, sul piano squisitamente tecnico abbiamo assistito fino ai quarti
Alcide Bernasconi
Appartengo a una generazione che ricorda brandelli di radiocronache sportive, che vide nel 1954 il primo Mondiale
calcistico alla tv, solo un paio di partite
su un grande schermo dove scorrevano
le immagini ingrandite; ci fu chi vide
la Svizzera battere due volte l’Italia, appartenente già allora all’elite del calcio
mondiale. Non ricordo particolari scene
di giubilo, non avendo proprio visto io
le due gare in questione: quella vinta 2-1
alla Pontaise di Losanna, pomposamente chiamata «Stadio olimpico», e quindi
lo spareggio di Basilea (4-1 per i rossocrociati). Vidi però gli azzurri imporsi
con lo stesso risultato contro il Belgio.
Fu una memorabile, calda domenica di
giugno, con ben 26mila spettatori (!) che
assieparono lo stadio di Cornaredo quasi nuovo di zecca (era stato inaugurato
nel 1951). Di quell’avvenimento (avevo 9
anni) ricordo ben poco. Più nette rimasero invece nella mente le immagini tv
della storica finale vinta dalla Germania
sull’Ungheria. A Lugano andai con mio
padre al Caffè Federale, poiché le poche
salette dotate di grandi schermi degli altri ritrovi pubblici erano ormai tutte piene da scoppiare.
I primi televisori erano soltanto per
i ricchi e così i bar fecero affari d’oro in
quei tempi pionieristici, ma solo a partire
dall’anno successivo, con il gioco a quiz
Lascia o raddoppia? condotto da Mike
Bongiorno. C’erano cinque milioni di
lire di allora da vincere per chi rispondeva correttamente a tutte le domande.
Quel gioco teneva tutti sulle spine, per
via dei dubbi che assalivano i concorrenti. La prima vincitrice fu, se ben ricordo,
una bionda mozzafiato, di nome Paola
Bolognani, detta la «Leonessa di Pordenone». La materia che scelse fu il calcio,
tema considerato allora per soli uomini!
Incredibilmente sapeva tutto e, quando
entrò in cabina, sciorinò – come scrisse-
ro allora – i nomi di tutti i titolari della
nazionale azzurra, dagli albori fino alle
ultime formazioni.
Torniamo però alla finale giocata al
Wankdorf di Berna. Fu una drammatica partita. L’esito del match lasciò in
parte delusi gli spettatori in sala. Molti
sostenevano, infatti, i magiari, guidati in
campo dal grande Puskas, che fu poi una
stella del Real Madrid. Le cronache raccontano che quello fu il primo caso clamoroso di doping collettivo nello sport,
poiché i tedeschi entrarono in campo
nella ripresa letteralmente… trasformati. Felici furono invece coloro che, senza
potersi dire tifosi della Germania, applaudirono la sconfitta degli ungheresi,
solo perché… comunisti. Diciamo che
da allora sono passati anni luce e che non
tutte le edizioni dei Mondiali di calcio
furono memorabili.
Quella che stiamo vivendo in questi
giorni è di fatto una Coppa del mondo
tutta (o quasi) da piangere. Per mille motivi. All’inizio per via di un arbitraggio
smaccatamente favorevole ai padroni di
casa del Brasile contro la Croazia, nella
gara d’apertura. Poi per l’eliminazione
degli azzurri, portati al settimo cielo anche dagli esperti, ospiti fissi alla Rai tv,
dopo la vittoria sull’Inghilterra («vuoi
che adesso dobbiamo temere la Costa
Rica?», dicevano quasi in coro, salvo
qualche vero esperto, più realista e anche
onesto). Poi ecco il «pianto» infinito, infarcito di critiche pesanti indirizzate al
comodo capro espiatorio Mario Balotelli, con cui in tv e sui giornali si è occupato il vuoto lasciato dalla squadra tornata
a casa quasi fra l’indifferenza generale.
Il temuto lancio di pomodori e verdure
andate a male appartiene ormai al lontanissimo 1966, dopo l’eliminazione in Inghilterra per mano della Corea del Nord.
Non ha invece pianto l’azzurro
Chiellini per il morso a una spalla di cui
è stato vittima ad opera dello sfrontato
(o peggio?) uruguayano Suarez, detto «il
CdT - Scolari
a una serie di incontri drammatici e incerti fino all’ultimo
pistolero» e ora perfino «il mostro».
Anche la Spagna, campione del
mondo uscente, è stata eliminata, ma il
popolo iberico era in altre faccende affaccendato tanto da non potersi mettere a
piangere per una questione di secondaria
importanza, visti i tanti trofei portati a
casa, anche dalle squadre di club. Quanto all’Inghilterra, rispedita immediatamente in terra d’Albione, ormai i britannici ci hanno fatto il callo.
A casa dopo tre partite anche il Portogallo, del quale non ci ricordiamo quasi di aver visto giocare il «Pallone d’oro»
Cristiano Ronaldo. Subito fuori anche le
squadre dirette da tecnici italiani d’eccezione quali Capello (Russia) e Zaccheroni (Giappone); è passata invece agli ottavi
di finale la Svizzera, a cui le televisioni (e
pure i giornali) della vicina Repubblica
hanno dedicato lo spazio minimo, nonostante i rossocrociati schierassero ben
tre giocatori del Napoli (Inler, Behrami e
Dzemaili) nonché Lichtsteiner della Juventus campione d’Italia.
Per la critica a noi più vicina – mica
quella d’Oltralpe però – l’eliminazione
della Svizzera sarebbe stata per l’Argentina del campione Leo Messi solo una formalità. Invece tutti hanno dovuto ricredersi e qualcuno ha pur avuto il coraggio
di riconoscere che la Svizzera avrebbe
meritato non soltanto di giocarsela ai rigori, ma addirittura il successo contro gli
argentini. È stata, questa sfida, davvero
amara per noi. Perfino Kubi Türkylmaz,
ex capocannoniere rossocrociato ora
commentatore tv, ha ammesso, commosso, che stava per piangere.
Sul posto – mentre al telecronista
Rsi Armando Ceroni si erano aggrovigliate le corde vocali, messe a dura prova
non soltanto in questo ottavo di finale – il
commentatore tecnico Toni Esposito stava piangendo calde lacrime. E noi, a casa?
Dopo il gol decisivo firmato dall’argentino Di Maria, io me la sono cavata con un
groppo in gola, perché nonostante tutto
imprecavo con Lichsteiner per il pallone
malamente perso; col portiere Benaglio
Giochi
Sudoku Livello facile
Cruciverba
Tra zanzare: «Devo
essere veramente molto
brava, infatti quando
svolazzo intorno…»
Termina la frase
risolvendo il cruciverba
e leggendo le lettere
evidenziate.
(Frase: 4, 7, 5, 10)
ORIZZONTALI
1. La conduttrice D’Eusanio
4. Luogo di una famosa battaglia detta
anche delle Echinadi
10. Abbreviazione ecclesiastica
11. Reparto d’Investigazione Scientifica
12. Splende in tubi di vetro
13. Le iniziali della ballerina Titova
14. Un albero nel frutteto
15. Congiunzione tedesca
16. Sommando i… quattro venti
18. Se le dà lo spocchioso
19. Vi si svolgevano antiche gare
20. Primo cardinale
22. Può scandalizzare
23. Pizzo
25. Strumenti musicali
Scopo del gioco
Completare
lo schema classico
(81 caselle,
9 blocchi, 9 righe
per 9 colonne)
in modo che ogni
colonna, ogni riga
e ogni blocco contenga tutti i numeri
da 1 a 9, nessuno
escluso
e senza ripetizioni.
27. Contrapposta alla teoria
29. Lamenti, pianti
30. Il nome della Perego
31. In lista dopo la prima
32. L’attore Zingaretti
34. Timorati di Dio
35. Composizioni poetiche
36. L’antica città greca dei giochi
37. Non è reato ammazzarla
VERTICALI
1. Bagna Firenze
2. Un Enrico politico italiano
3. 505 romani
4. Elenco
5. Boccone fatale
6. Un anno a Parigi
7. Cellule nervose
8. Possono essere offensivi
9. Il Luciano di Medicina 33
11. Nel Nord America si chiamano
caribù
14. Un piccolo centro
17. Paralleli della sfera terrestre
18. Nome femminile
20. Dividono l’Europa dall’Asia
21. Germoglio, pollone
23. Cadde... per un cavallo di legno
24. Reagiscono con le basi
26. L’attore Bova
27. Vescovi di Roma
28. Un Continente
33. Le iniziali dell’attrice Mastronardi
35. Una coppia di anelli
Soluzione della settimana precedente
W il cioccolato! – resto della frase: …
previene le malattie cardiovascolari
per quell’evitabile rimessa dal fondo voluta forse per guadagnare tempo, mentre
sul fronte avanzato Seferovic reclamava
palla con un lancio tempestivo, per tentare un affondo risolutore; e infine imprecavo con il tecnico Hitzfeld, per aver
mandato in campo Dzemaili soltanto
negli ultimi spiccioli di partita.
Tutto ciò mentre avrei dovuto prima di tutto rendere omaggio ai «nostri»,
a cominciare da Ricardo Rodriguez,
alzandomi in piedi per spremere semmai quella lacrima che altre volte, anche
per questioni minori, era caduta invece
spontaneamente. Mi faceva rabbia pensare che mentre tutti piangevano io fossi
rimasto lì a cercare di decifrare l’ultimo
urlo, gutturale, dell’amico Armando, il
telecronista che ha fatto vibrare ancor
di più il popolo ticinese nelle piazze, nei
locali pubblici o nei salotti di casa. Chissà se egli pensava intanto a una squadra
unica per il nostro cantone, paragonabile
a quella schierata da Hitzfeld, naturalmente con doverosi cambiamenti?
Dimentichiamo allora la partitaccia
contro la Francia e ricordiamoci di alcuni begli episodi come la vittoria in extremis sull’Ecuador, o la tripletta di Shaqiri
contro l’Honduras. Battiamo le mani a
tutti questi ragazzi, sperando che ci sia da
piangere in altro modo la prossima volta.
Intanto suona il telefono. È lei, donna Michelle, la «pasionaria del tennis»,
rimasta a casa con la governante Victoria. L’ordine è perentorio: «Vieni a sostenere Federer. Ora o mai più. Mi spiace
per Wawrinka, che a Wimbledon potrà
vincere nei prossimi anni, ma questo Roger merita tutto il nostro sostegno. Basta
con il calcio: la Svizzera è stata eliminata.
O no?».
Quasi quasi scoppio a piangere pure
io. Per la Svizzera? No. Per il derby crudele fra Roger e Stan? Macché. Per donna
Michelle? Ecco, proprio per lei. Era da
un po’ che non la vedevo, e così mi sono
commosso. Capita anche ai vecchi tifosi.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶7 luglio 2014¶N. 28
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶7 luglio 2014¶N. 28
23
Politica e Economia
Linee-guida europee
I 28 riuniti la scorsa settimana
in Belgio definiscono il piano
quinquennale di crescita
Un Paese allo specchio
Salvador de Bahia, cuore coloniale e
povero del Brasile, è anche una delle
sedi del Mondiale: 5. e ultima parte
della serie dedicata al grande Paese
sudamericano
Milano poco meneghina
Il 40 per cento delle attività
commerciali della città sono in
mano a stranieri
Aiutare per compensare
Intervista a Peter Niggli,
direttore di Alliance Sud,
sull’aiuto allo sviluppo elvetico
Più crescita, meno austerity
Vertice Ue Si è svolto a Ypres, in Belgio, luogo simbolo della Grande Guerra: fissato il programma per i prossimi
cinque anni centrato sulla crescita, e designato il nuovo presidente della Commissione
pagina 24
largamento ai Paesi dell’Europa centrale
ed orientale, convinta che un numero
elevato di Paesi membri avrebbe frenato
ogni progresso verso l’Europa federale.
Non ha aderito al trattato di Schengen e
non ha adottato l’euro. Londra ha sempre
voluto e vuole che il Continente europeo
rimanga una vasta zona di libero scambio. È una posizione che non trova molti
consensi in Europa e che meriterebbe di
essere finalmente chiarita. Cameron ha
promesso ai britannici un referendum
sull’appartenenza all’Unione europea
nel 2017, se sarà ancora primo ministro.
Forse, sarebbe saggio anticipare la data
del referendum, in modo da consentire
alla Gran Bretagna di scegliere il suo futuro e all’Europa di progredire nel suo
progetto federale con i Paesi che hanno
veramente interesse e che desiderano
orientarsi in questa direzione.
Dopo aver designato Juncker, il
Consiglio europeo ha definito un pacchetto di linee direttive che dovranno
caratterizzare la politica europea nei
prossimi cinque anni. Viene data molta
importanza alla creazione dei posti di
lavoro, alla promozione della crescita,
all’aumento degli investimenti ed al miglioramento della capacità concorrenziale. Vien assunto l’impegno di allen-
tare l’austerità a vantaggio della crescita,
finalizzando così uno slogan che era in
vigore da almeno due anni, da quando
François Hollande giunse all’Eliseo e
dando ascolto ai governi dei Paesi più
colpiti dalla crisi economica. L’austerità verrà alleggerita senza cambiare le
regole esistenti, bensì cercando di sfruttare meglio il margine di manovra, la
flessibilità che esse consentono. In altre
parole, il Patto di stabilità e di crescita,
che fissa al 3% il rapporto tra il deficit ed
il Pil ed al 60% il rapporto tra il debito
complessivo ed il Pil, rimane invariato.
La stessa cosa vale per il Fiscal Compact che prevede l’introduzione del pareggio di bilancio e l’obbligo per i Paesi
con un rapporto tra debito e Pil superiore al 60%, di ridurre il rapporto di almeno 1/20esimo all’anno, per raggiungere
quella cifra considerata «sana» del 60%.
Quando, però, un governo lo riterrà necessario, può chiedere tempi più lunghi
di quelli previsti dagli accordi per rientrare nei parametri di Maastricht e per
ridurre il debito, senza dover mettere a
repentaglio la propria economia. Toccherà alla nuova commissione, che sarà
operativa a partire da novembre, decidere in merito. Nella sua valutazione
entreranno in considerazione le misure
economiche già adottate e, soprattutto,
le riforme strutturali avviate, realizzate,
o dimenticate dal governo richiedente.
In sintesi: la disciplina di bilancio rimane la regola, ma la riduzione degli squilibri potrà usufruire di tempi più lunghi
di quelli concessi fin ora.
I capi di stato e di governo si ritroveranno il 16 luglio, per un altro vertice,
durante il quale verranno decise altre
tre nomine importanti. Il presidente
del Consiglio europeo che subentrerà a
Herman Van Rompuy, l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la
politica di sicurezza, che prenderà il posto di Catherine Ashton, ed il presidente dell’Eurogruppo. Le nuove autorità
europee verranno poi completate con la
nomina dei commissari, uno per ciascun
Paese membro. Una scelta lasciata ai singoli governi, ma sulla quale l’europarlamento esercita un diritto di veto.
bia sparso lacrime quando nel 1967 si
diffuse la notizia che i militari del Governo boliviano avevano fatto fuori Che
Guevara, impedendo così che, sull’esempio di Cuba, divampasse una rivolta
globale di contadini in tutta l’America
Latina.
Come è emerso diverse volte durante il nostro incontro e le nostre chiacchierate nei giorni passati con lui, don
Timoteo non si è mai astenuto dall’ammettere di aver affrontato e superato i
momenti peggiori della sua tribolata esistenza grazie anche a «un profondo sentimento religioso». Chi gli è stato vicino,
racconta di averlo sorpreso, la mattina
di domenica, mentre ascoltava sulla radiolina la messa della Cattedrale di San
Francesco di La Paz.
Inoltre nessuno dimentica di sottolineare un’altra sua virtù: quella della
frugalità. La testimonianza dei pochi
che sono stati alla sua mensa è che si nutre di foglie di coca, «come fanno molti
da queste parti, per combattere la fame
e la stanchezza: e non dimentica i riti
ancestrali della sua gente seminando le
stesse foglie alla Pacha Mama, la Madre
Terra, negli strapiombi della curva del
Diablo…».
Marzio Rigonalli
pagina 23
pagina 25
pagina 27
Palestinesi
reagiscono
all’uccisione del
tredicenne da
parte dei militari
israeliani. (AFP)
Fine dell’idillio (anche se era finto)
Medio Oriente La grave tensione fra Israele e palestinesi esplosa dopo il rapimento e l’assassinio di tre ragazzi ebrei
scuote la calma che regnava dopo la Seconda Intifada. Ma è ancora prematuro parlare di nuova insurrezione
Lucio Caracciolo
In Cisgiordania e a Gerusalemme Est
i fragili equilibri che negli ultimi anni
sembravano garantire la pace sono seriamente minacciati. Dopo il rapimento e l’assassinio di tre ragazzi israeliani,
attribuiti dal governo di Bibi Netanyahu a militanti di Hamas, e le rappresaglie contro loro coetanei palestinesi
culminate nella cattura e nell’uccisione
di un giovane arabo a Gerusalemme
Est, è lecito domandarsi se la Terza Intifada sia dietro l’angolo. Troppo presto
per dare una risposta univoca, ma una
vera e propria insurrezione nei Territori occupati non pare imminente.
Di sicuro però la relativa calma che
regnava dopo la fine della Seconda Intifada (2001-2004) è scossa. Gli interessi
tattici di israeliani e palestinesi, fino a
ieri sufficientemente affini da evitare
un bagno di sangue, oggi lo sono meno.
Conviene dunque mettere a confronto
le rispettive percezioni della contingenza geopolitica per tentare di tracciare
una previsione di breve periodo.
Per Israele la questione palestinese
è chiusa. Quanto meno in senso stra-
tegico. Non ci sarà un vero Stato palestinese, anche se Netanyahu continua a
dichiararsi disponibile a tale soluzione:
a ben guardare, però, quella che lui definisce futura Palestina è in realtà una
dépendance dello Stato ebraico, segmentata in cento mini-territori, vigilata da truppe israeliane che comunque
controllerebbero la valle del Giordano
onde tenere ben divisi i palestinesi della
Cisgiordania da quelli della Transgiordania (l’attuale regno hashemita di
Giordania). Gerusalemme continua a
espandere i suoi insediamenti in Giudea e Samaria (Cisgiordania) e nei
quartieri Est (arabi) della città che considera sua capitale eterna e indivisibile.
Tollera l’amministrazione palestinese
di Abu Mazen solo quale prolungamento del suo regime di occupazione,
come un’entità di fatto «collaborazionista», tenuta in piedi soprattutto grazie
ai finanziamenti europei e americani.
Per il resto, Netanyahu si dedica a ben
altre priorità, tra cui su tutte il contenimento della minaccia iraniana, percepita esiziale.
Per i palestinesi il regime di non
spontanea coabitazione sotto Israele
nei Territori occupati non ha per ora
alternative, stanti i rapporti di forza e
la verificata lontananza dei «fratelli»
arabi dalla loro causa. Ma Abu Mazen
e associati non possono rinunciare
alla prospettiva della Palestina indipendente, sia pure su una frazione del
territorio storico che essi continuano a
considerare la propria patria, illegittimamente sequestrata da Israele. Fino
a ieri, l’Autorità palestinese sembrava
contentarsi di gesticolazioni e dei peraltro vacui tentativi di mediazione
americani, nei quali il segretario di
Stato Kerry aveva investito senza successo molto del suo prestigio personale. E che restano oggi più che mai senza sbocco.
Mentre i negoziati ristagnano la
crisi si inasprisce. Di recente, poi, l’accordo fra gli uomini di Fatah e quelli di
Hamas, destinato a riunificare il fronte palestinese, ha cambiato il quadro
geopolitico. La leadership di Hamas,
confinata a Gaza, continua infatti a
respingere l’idea del compromesso
con lo Stato ebraico, che formalmente
considera un’entità da distruggere. Per
Netanyahu è dunque anatema conce-
pire un qualsiasi tipo di trattativa con
un’Autorità palestinese che conglobi
anche i «terroristi» di Hamas.
È naturale che in tale doppia ma
simile dinamica siano gli estremisti a
guadagnarne, su entrambi i fronti. Ma
nessuno di loro ha in mano la «pallottola d’argento», la soluzione magica.
I palestinesi non hanno gran voglia di
riesporsi al «martirio» implicito in una
Terza Intifada. Gli israeliani non intendono spendere troppo tempo, risorse e
uomini contro i palestinesi. Ma l’irrigidimento fra Netanyahu e l’Autorità
palestinese segna la fine di quella che
un acuto analista, Noam Sheizaf, ha
definito la cheap occupation, l’occupazione a buon prezzo. Un palestinese di
spirito ha bollato quel rapporto come
room service occupation, nella quale la
collaborazione fra governo israeliano
e para-governo palestinese si spingeva
al punto che se Gerusalemme chiedeva
la testa di un sospetto terrorista palestinese, bastava telefonare al quartier
generale di Abu Mazen e questi glielo
avrebbe consegnato.
Il picco del finto idillio si toccò nel
2012, quando non si contò nemmeno
una vittima israeliana in Cisgiordania. Quella fase è finita con il rapimento e l’assassinio di tre giovani studenti
ebrei di una scuola religiosa e con le
parallele rappresaglie israeliane. E se
per ora fra i palestinesi non tira aria
di Terza Intifada, non vuol dire che
nei prossimi mesi la situazione sarà
calma. Già prima del rapimento dei
tre ragazzi israeliani c’era stato un aumento degli atti di violenza da parte
palestinese, sia in Cisgiordania (lanci
di sassi e Molotov contro la polizia)
che a Gaza (razzi sparacchiati contro
villaggi dell’Israele meridionale).
Il governo israeliano è diviso su
come reagire. I «falchi» sono stati finora tenuti a bada da Netanyahu. Il premier cerca di trarre il massimo profitto
diplomatico dalla crisi senza scatenare
una guerra. Quanto a lungo potrà prevalere il suo pragmatismo, se le violenze non si placheranno? E viceversa,
difficile immaginare che l’Autorità palestinese possa tenere sotto controllo i
suoi estremisti. Un grande punto interrogativo spicca su quelle terre contese,
per le quali non si troverà probabilmente mai un assetto stabile.
L’Europa dei piccoli passi si è di nuovo
imposta al recente vertice di Ypres, città
martire della Prima guerra mondiale,
situata nelle Fiandre occidentali. Dopo
l’avanzata degli euroscettici alle elezioni
europee del 25 maggio, era attesa una reazione forte, capace di togliere argomenti
agli avversari della costruzione europea,
nonché di convincere sulla futura rotta
che i leader dell’Unione europea intendono seguire. La reazione c’è stata, ma è
risultata decisamente inferiore alle attese. Due sono i principali punti emersi: la
designazione del nuovo presidente della
Commissione ed un alleggerimento della politica di austerità che è stata applicata negli ultimi anni.
Come successore del portoghese
José Manuel Barroso è stato chiamato il
lussemburghese Jean-Claude Juncker.
La sua nomina deve essere ancora confermata il prossimo 16 luglio dal nuovo
europarlamento, ma tutto indica che
dovrebbe trattarsi soltanto di una formalità. Juncker è un veterano della costruzione europea. È stato capo del governo lussemburghese per ben 18 anni e
già nel 1995 partecipò per la prima volta
a una seduta del Consiglio europeo. Ha,
quindi, una vasta esperienza delle riunioni a livello europeo. È stato anche, per
ben 8 anni, presidente dell’Eurogruppo,
organismo che riunisce i ministri delle
finanze dei Paesi che hanno adottato la
moneta unica. Proviene da un Paese piccolo, situato tra la Francia e la Germania,
di cui condivide le lingue e le culture.
Il Lussemburgo è un po’ il trait d’union tra due Stati, senza il cui consenso
niente d’importante avviene nel processo d’integrazione europea. Di lui, si dice
volentieri che sia molto abile a mediare
ed a trovare compromessi. Non mancano, però, gli osservatori e i politici che
vedono in lui il simbolo della vecchia Europa, un leader che non porta alcuna novità, in un momento in cui ce ne sarebbe
bisogno. Altri, invece, vedono in lui un
garante della stabilità, necessario in questa delicata fase per l’Unione europea,
esposta al fuoco continuo dei suoi nemi-
I 28 a Ypres
durante la
cerimonia per il
centenario della
Grande Guerra.
(Keystone)
ci. Juncker diventerà il terzo presidente
lussemburghese della Commissione europea, dopo Gaston Thorn (1981-1984) e
Jacques Santer (1995-1999).
La designazione di Juncker ha avuto
due retroscena. Il primo si è manifestato
all’interno delle istituzioni europee, nei
rapporti tra il Consiglio ed il Parlamento; il secondo ha avuto come fulcro le relazioni tra l’Ue e la Gran Bretagna.
Appoggiandosi sul trattato di Lisbona, i principali gruppi europarlamentari, i popolari ed i socialisti, avevano
designato un loro candidato alla presidenza della Commissione, Jean-Claude
Juncker per i primi e Martin Schulz per
i secondi, e avevano convenuto che il posto spettava al candidato del gruppo che
avrebbe avuto i maggiori consensi elettorali. L’iniziativa riduceva drasticamente
la libertà di scelta di cui godevano i capi
di stato e di governo. All’inizio, il Consiglio europeo si mostrò contrario, ma poi
si rassegnò, visto l’impatto politico che
la vicenda aveva assunto, anche sull’opinione pubblica. Il Consiglio, quindi,
ha accettato di designare il candidato
del partito che aveva ottenuto più voti,
evitando così un possibile conflitto istituzionale con il Parlamento. Lo ha fatto
a maggioranza, con 26 voti favorevoli
e due contrari, la Gran Bretagna e l’Ungheria. È un cambiamento non trascurabile all’interno dell’Unione, perché i
futuri presidenti della Commissione non
verranno più scelti in virtù di un accordo
tra i capi di stato e di governo, ma sulla
base del risultato delle elezioni al Parlamento. La distanza tra i cittadini ed il
presidente della Commissione viene così
ridotta.
Le relazioni con la Gran Bretagna
hanno registrato un ulteriore peggioramento. Il primo ministro David Cameron si è schierato sin dall’inizio contrario
alla candidatura Juncker. Lo ha fatto con
numerose prese di posizione pubbliche e
tentando di trovare alleati sul Continente. Ha invocato la necessità di scegliere
un leader in grado di garantire le riforme
necessarie per snellire l’Unione europea,
ma in realtà si è opposto al candidato lussemburghese, perché vedeva in lui un federalista che vuole continuare sulla strada percorsa fin qui. Cameron ha perso la
sua battaglia e si è ritrovato praticamente
solo, con l’unico supporto del primo ministro ungherese, Viktor Orban.
La Gran Bretagna è sempre stata
contraria all’integrazione europea. Ha
aderito alla Comunità per ragioni meramente economiche ed ha approvato l’al-
Don Timoteo Apaza,
l’uomo semaforo
Storie di viaggio Regola il traffico sulla Curva del Diablo in Bolivia
Ettore Mo/foto Luigi Baldelli
Si riparava sotto un telo di plastica verde lungo la Carrettera de la Muerte e nel
tratto più pericoloso, biblicamente definito la Curva del Diablo: ed è proprio
lì che ebbe luogo il mio primo incontro
con don Timoteo Apaza, l’uomo semaforo.
Munito di due grandi racchette,
una verde e una rossa, il suo compito era
di agevolare il traffico – in salita come in
discesa – degli automezzi (camion, corriere, minibus, trattori e jeep) che salivano verso Coroico, dove le vette più alte
trafiggono il cielo.
«Mestiere – confidava – intrapreso
nel giugno del ’92, quando una corriera
con 40 passeggeri a bordo precipitò in
fondo a un baratro e ci furono otto morti, Ma il lutto più grave risale all’estate del
’94, quando in pochi mesi, 26 veicoli finirono nei burroni della Carrettera de la
Muerte, fino a 200 metri di profondità».
Separato dalla moglie e dai figli che
si erano trasferiti a Potosì, a casa della
madre, Don Timoteo abitava solo nel
villaggio di Yolosa, una manciata di casupole rannicchiate sul fondovalle. Ma
non sembrava triste. Era allenato alle
tragedie, orfano dall’infanzia, aveva
raggiunto anzitempo la maturità.
Un’infanzia amara, la sua, una favola triste. «Fino a sette anni – raccontava – sono stato a casa di una signora che
era vedova e aveva un sacco di figli. Mi
trattava male, da matrigna, mi faceva lavorare e non mi mandava a scuola. Lavavo i piatti e anche i pavimenti. Insomma
ero il cenerentolo, il brutto anatroccolo.
Poi ho fatto il minatore, dai 14 ai 16 anni,
cercando l’oro nei fiumi senza mai trovarlo».
A Yolosa, quasi tutte le case sono
tiendas, cioè negozietti che espongono merce di ogni genere, le facciate dipinte in un tenue azzurro. L’abitazione
dell’uomo-semaforo, contrassegnata
dal numero 45, è attigua al locale abitato da uno «splendore di ragazza» che si
chiama Maria, la grande massa di capelli neri ondeggianti sulle spalle e, senza
sprechi, tutto il sorriso della giovinezza.
L’impegno del semaforo-umano
tiene occupato don Timoteo dalle otto e
mezza del mattino fino alle sei e mezzo
di sera, sempre lì inchiodato sulla Curva del Diavolo. Non percepisce nessun
salario né alcun tipo di compenso. Vive
solo con le mance (pochi Bolivianos) che
gli autisti dei camion in transito sulla
carrettera gli fanno scivolare sulle racchette e che alla fine gli consentono di
farsi uno spuntino in qualche bettola.
Non è un uomo incline alle confidenze, don Timoteo Apaza, e non ama
parlare delle sue affiliazioni politiche,
ma porta in testa un berrettino con le
iniziali maiuscole «MBL» - Movimento
Bolivia Libre -, partito decisamente di
destra. Ammette di essere un vecchio
conservatore ed è probabile che non ab-
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶7 luglio 2014¶N. 28
24
Politica e Economia
All’ombra
di santi
e colonnelli
Un Paese allo specchio Salvador de
Bahia, città coloniale del Brasile e bacino
(poverissimo) di voti per Dilma Rousseff,
è anche una delle sedi del Mondiale –
5. e ultima parte
Angela Nocioni
Bahia «de todos os santos», di molti miracoli e di un solo colonnello, ha una
nuova devota. Se la presidente Dilma
Rousseff, minacciata dalle proteste di
piazza e dalle favelas in rivolta, può ancora guardare serenamente alle elezioni
di ottobre per il rinnovo del mandato, lo
deve in buona parte allo sterminato bacino di voti sicuri nel nordest brasiliano.
Il miracolo è opera dei discendenti degli
schiavi portati qui dall’Africa, quegli
elettori poveri e neri che popolano le
statistiche sui maggiori indici di miseria
del Paese e che hanno regalato al governo del partito dei lavoratori (pt) percentuali di preferenza in alcune zone superiori all’80%.
Bahia è terra di antichi latifondi e
vecchie mafie. I padroni del sertão, delle
grandi distese dove un tempo si coltivava cacao e dove ora fanno capolino tra le
palme le lamiere ondulate delle fabbriche di materiale edilizio, sono anche i
padroni del potere politico locale. E delle
autostrade, delle farmacie, delle tv, delle
scuole private, di tutti i palazzi affittati
dalle istituzioni pubbliche.
Più potente di tutti,
anche del Partito dei
lavoratori, è la famiglia
Magalhaes, proprietaria
di buona parte dello
stato di Bahia, terra
di antichi latifondi e
vecchie mafie
Più potente di tutti, proprietaria
di buona parte dello Stato di Bahia, è la
famiglia Magalhaes, prosperata sotto
l’ombra del colonnello padrino di Bahia
Antonio Carlos Magalhaes, morto in
una clinica di San Paolo nel 2007 e noto
dentro e fuori il Brasile, semplicemente come ACM. L’ultimogenito Antonio
Carlos Magalhaes neto (ossia nipote) è
l’attuale sindaco di Salvador. Ha ereditato tutto dal nonno che è stato tre volte
governatore, una volta sindaco, quattro
volte deputato, una volta ministro e due
volte senatore. È stato anche presidente
del Senato e protagonista di una lunga
serie di scandali. Una volta l’hanno sorpreso mentre manometteva il tabellone
delle votazioni.
Proprietario di una tv, un giornale
e una radio. Padrone della più potente
arma propagandistica locale, tv Bahia,
affiliata alla rete di O Globo. L’impero di
Antonio Carlos Magalhaes ACM, ereditato prima dal figlio e ora dal nipote, si
estende su tutta la periferia industriale
di Salvador, un piccolo inferno cresciuto
a dismisura a pochi passi dalle spiagge
bianche dei surfisti. Verso il mare i grandi cancelli della villeggiatura dei ricchi
di San Paolo, case basse e pareti di rampicanti in fiore, dall’altra parte i capannoni dell’indotto dell’industria dell’auto
e tutt’intorno le casupole senza intonaco
dell’esercito di immigrati che dalle campagne si è riversato a Salvador.
La famiglia Magalhaes ha deciso
tutta la vita pubblica di Bahia dell’ultimo secolo. ACM aveva cariche pubbliche durante la dittatura, finita nell’85,
e ha continuato ad averne con il ritorno
della democrazia. È stato alleato dell’ex
presidente socialdemocratico Fernardo
Hernique Cardoso, come prima lo fu dei
militari. Ha studiato da medico, ma voleva fare il giornalista. Fu così che si comprò il suo primo quotidiano, «Correio
da Bahia», e finì per pubblicarsi da solo
due libri comprando la casa editrice che
avrebbe dovuto editarli: «Não era fácil
ser revolucionário» (non è facile essere
rivoluzionario) e «Meu compromisso
com o Nordeste» (il mio impegno nel
nordest).
La politica, però, gli è sempre riuscita meglio dei libri. Vecchio colonnello
del gruppo Arena (Aliança renovadora
nacional), partito puntello del governo
militare, contribuì alla fondazione del
partito del fronte liberale (Pfl), che ora
ha cambiato nome e si chiama partito
democratico. Durante il primo mandato da governatore, dal 71 al 75, fece di
Salvador il polo turistico che consacrò la
città tra le principali mete di viaggio del
Brasile, con creazione del relativo indotto. Dopo aver stanziato finanziamenti
per un grosso pacchetto di opere pubbliche ebbe l’idea grandiosa: far risorgere a
nuova vita il Pelourinho, il centro storico
di Salvador, gioiello coloniale celebrato
dai romanzi di Jorge Amado. Fu la consacrazione definitiva del suo nome. L’antico padrone si conquistò così l’appoggio
grato dei bahiani, compresi i rasta, gli
Odum, i capoeristi, i sambisti, gli afroreligiosi tutti.
Antonio Carlos Magalhaes aveva
una figlia adorata, Ana Lucia. Direttrice del «Correio de Bahia». A 28 anni si è
sparata alla testa. Il principale erede politico era il figlio Luis Eduardo. Secondo i
piani del papà avrebbe dovuto candidarsi alla presidenza della Repubblica finita
l’era Cardoso. Invece morì di infarto, nel
98, facendo jogging. A lui sono intitolati
una città e l’aeroporto di Salvador, come
fosse un eroe nazionale. Nella strada
Uno scorcio della
città coloniale
di Salvador de
Bahia. (Keystone)
principale che esce dalla capitale è stato
eretto un busto in suo onore. Suo padre
andava di notte in pellegrinaggio a parlare alla statua.
Il vecchio Antonio dal lunedì al venerdì a Brasilia amministrava la «cosa
pubblica» come fosse roba sua. Dal venerdì alla domenica lasciava invece, da
antico colonnello, che fuori dalla porta
del suo ufficio, a Salvador, si accalcasse
una folla festosa con il cappello in mano.
Povera gente venuta a chiedere favori,
protezione, giustizia. Lui faceva ricevere tutti dai suoi segretari. Prometteva e
spesso manteneva, alimentando così la
leggenda del vecchio padrone tiranno e
generoso. Il 4 settembre, giorno del suo
compleanno le campane delle chiese
di Salvador suonano ancora a festa. Per
anni, quel giorno, ACM si è fatto portare una poltrona nella piazza principale
verso le otto di mattina per poi sedersi lì
e lasciare che i suoi fedeli si mettessero in
fila per baciargli la mano.
L’impero Magalhaes ha una rete
tentacolare di poteri appaltati ad altre
famiglie asservite e influenti. Una è quella dei Carneiro. Clan indissolvibile con
tentacoli in tutti i partiti che contano. Il
patriarca si chiama João Durval Carneiro, ex governatore. Il figlio João Henrique e la nuora, Maria Luz sono stati eletti
nel parlamento locale dello stato di Bahia
con il partito democratico del lavoro. Il
primogenito, Sergio Carneiro, sta nel Pt
(a dimostrazione che nessun partito è
impermeabile alla mafia di famiglia nel
nordest), deputato federale. Anche il più
piccolo del clan Carneiro si è trovato un
posticino. All’assemblea legislativa, insieme alla cognata Maria Luz di cui è stato in campagna elettorale virtualmente
contrapposto. Ce l’hanno fatta tutti e
due, così come ce l’ha fatta il cognato del
vecchio João Henrique, eletto deputato
federale del pdt. Ogni pranzo di famiglia
è un festival di cariche pubbliche.
Poi c’è il gruppo dei Lomanto. Leur
Antonio de Brito Lomanto, trentenne,
diplomato all’istituto alberghiero, è stato eletto per il Partito del movimento
democratico brasiliano del lavoro all’assemblea legislativa dello Stato. Lo sostengono il papà, Leur Lomanto senior,
deputato federale per sette mandati consecutivi, e il nonno, ex governatore. Il suo
slogan ad ogni elezione è uguale a quello del nonno «Lomanto esperança do
povo», (speranza del popolo) seguito da
quello del padre della campagna del 1983
«Gente nova, sangue novo».
È in questo nordest poverissimo,
prosciugato dalla mafia dei colonnelli,
che il partito dei lavoratori ha il suo zoccolo duro di voti per il governo federale.
L’ex presidente Lula da Silva ha spesso
voluto iniziare simbolicamente qui la
sua campagna elettorale. È stato lui ad
insegnare a Dilma Rousseff come, dopo
aver baciato i bambini, abbracciato i vecchi, ricevuto sorrisi, amuleti, benedizioni e stregonerie varie, si deve soffiare sul
fuoco dell’orgoglio nordestino perché
si trasformi in una valanga di voti. «L’oligarchia di San Paolo ha votato contro il
popolo. Ma chi l’ha fatta la ricchezza di
San Paolo? La gente del nordest è stata»
dicono sempre i candidati lulisti chiudendo i comizi a Salvador. E giù applausi.
Il Pt di Lula e Dilma, più volte salvati nelle elezioni dalle percentuali
bulgare raccolte nel nordest mentre le
grandi metropoli brasiliane voltavano
loro le spalle, sa quanto deve alla base
bahiana del partito, conquistata a forza
di programmi sociali che negli ultimi
dieci anni hanno distribuito denaro e
assistenza in maniera diffusa in tutto il
Paese, ma soprattutto tra i poverissimi
di Bahia. Denaro e cibo in cambio della
garanzia di scolarizzazione dei bambini.
Solo nel piano Borsa famiglia (alimentazione minima garantita, buono da 30
dollari), sono coinvolti 11 milioni di nuclei familiari, circa 40 milioni di persone.
Novanta reais al mese per figlio, Bahia è il
primo Stato che ha goduto del programma che ha portato l’energia elettrica a 91
mila famiglie senza luce, cento nuove
scuole e assistenza medica di base. Certo,
non è tutto oro quel che luccica e dietro a
quei programmi c’è un antico sistema di
elargizione di elemosina di Stato che di
solito a ridosso della campagna elettorale
funziona. E infatti ha funzionato. Il programma Fame zero ha unificato e coordinato una trentina di piani di assistenza
federali ai più poveri. E ha ridistribuito
per mano governativa 4700 milioni di
euro di media all’anno.
Lo scavalcamento del sistema feudale del clan nordestino da parte del Pt,
è stata una vittoria dovuta alla riuscita
della politica di assistenza agli indigenti
che ha spezzato il blocco di interessi al
governo del nordest dalla seconda metà
degli anni Cinquanta. Non è piccola cosa
per il Pt aver sconfitto nell’urna l’idea
della modernizzazione conservatrice
del Brasile secondo lo stile Magalhaes:
sviluppo economico diretto da un’oligarchia contraria a ogni riforma sociale
e basato sull’esercizio mafioso del potere. La famiglia Magalhaes continua però
ad essere padrona di mezza Bahia. I suoi
vassalli sono ancora lì, tutti al loro posto.
E ogni bahiano in cerca di favori sa che a
quelle antiche porte bisogna ancora bussare. Lo sa anche il Pt, che in piazza grida
«l’impero è morto» , ma poi con grande
discrezione chiede di essere ricevuto a
casa Magalhaes.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶7 luglio 2014¶N. 28
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Politica e Economia
Milano vendesi
Vecchi e nuovi proprietari Nella città meneghina attualmente il 40 per cento delle attività commerciali
è in mano a stranieri, anticipando di dieci anni ciò che accadrà nel resto della Penisola
Alfio Caruso
Di chi è Milano? Di tanti, ma non dei
milanesi intesi come coloro che ci abitano, ci lavorano, ci votano. La società
di calcio, che da sempre s’identifica
con lo spirito imprenditoriale della
città, l’Inter dei «bauscia», cioè della
medio-alta borghesia meneghina, per
distinguerla dal Milan dei «casciavit»
(cacciavite), cioè dei proletari, è stata acquisita da un indonesiano, Erik
Tohir. Suo padre Teddy è di sicuro un
miliardario in dollari, lui finora se l’è
cavata versando 75 milioni di euro alla
famiglia Moratti e con i finanziamenti
delle banche, alle quali sono stati conferiti in pegno asset della società nerazzurra.
La pasticceria più famosa e più
cara, Cova in via Monte Napoleone, è
finita nel variegato portafoglio planetario di Bertrand Arnault (LVMH). Se
volete un ritorno alle origini: la Confetteria era stata infatti fondata nel
1817 da Antonio Cova, soldato delle
armate di Napoleone, che rientrato a
casa si era messo a sfornare pasticcini.
Aveva aperto il primo locale in galleria
De Cristoforis nei pressi della Scala: lì è
rimasto per un secolo abbondante, ha
perfino superato indenne i bombardamenti del 1943, nel 1950 il trasferimento nella sede attuale. Anni addietro la
stilista Mariuccia Prada aveva avanzato
un’offerta, 12 milioni di euro, giudicata
risibile dal titolare Mario Faccioli: «Per
quella somma non cedo neppure una
vetrina». Pare che Arnault abbia più
che raddoppiato la cifra e lasciato una
quota di rappresentanza a Paola e Daniela Faccioli, le figlie di Mario. In tal
modo si è aggiudicato il salotto più conteso dentro il Quadrilatero della moda,
la pasticceria di Hong Kong, inaugurata nel 1994, la diffusione dei prodotti
Cova in Oriente, da Tokyo a Shanghai,
su alcune navi da crociera e in apprezzati locali storici italiani.
Attualmente oltre il 40% delle attività commerciali è in mano a stranieri,
che magari sono stati così tenaci nel volersi adeguatamente inserire all’interno dell’ambiente di lavoro da imparare
il dialetto milanese. La leadership nella
ristorazione è araba o meglio egiziana. Gli chef più coccolati dei locali alla
moda, gli autori dei risotti e delle pizze
per i quali si fa la fila provengono quasi sempre dal Cairo, da Alessandria, a
volte da Tunisi. Simbolo della svolta il
Riad Yacut in via Cadore, uno dei cuori
della movida, approdo della nuova borghesia arabo-meneghina. Velluti, damaschi, rifiniture in oro, al centro del
locale una passerella di vetro con l’acqua sotto e in alto un fontanone a getto
continuo, ai cui piedi la band giordana
canta e suona tutta sera. Cinquanta
euro per l’antipasto e una tazza di thè
alla menta.
I titolari di nuovi e vecchi patrimoni intercontinentali allungano le
mani sulla città, dove per decenni l’unica eccezione erano stati i rivenditori
cinesi arroccati attorno a via Sarpi, nel
milanesissimo quartiere dell’Isola, vicino a Brera e alla napoleonica Arena.
A Milano
Galleria Vittorio
Emanuele.
(Keystone)
Serrande aperte dall’alba a notte fonda,
un’espansione continua dai negozi agli
appartamenti fino alla conquista del
quartiere oggi indicato come una delle
principali Chinatown del Vecchio Continente. Non a caso l’Isola è il terminale
di un progetto immobiliare destinato
a cambiare il profilo cittadino: la residenza Porta Nuova-Garibaldi-Isola, un
investimento superiore ai 2 miliardi di
euro, le tre supertorri affidate ad altrettanti architetti di grido, Arata Isozaki,
Daniel Libeskind, Zaha Hadid. Di questo gioiellino il fondo sovrano del Qatar,
proprietario pure della maison Valentino, detiene il 40 %; il resto appartiene a
una cordata capeggiata dalla filiale italiana del fondo statunitense Hines.
I tedeschi di Allianz sono diventati gli alleati di Generali nei cantieri
di Citylife abbandonati da Ligresti. La
crisi di «don Salvatore», travolto dallo
scandalo Fonsai, ha segnalato anche la
crisi delle dinastie edili milanesi, dai
Fossati Radice ai De Albertis, capaci
di dominare la scena per un settantennio. Una categoria nella quale è a lungo
rientrato lo stesso Berlusconi: la base
delle sue fortune fu il mattone con Milano2 e Milano3. Sono stati sostituiti da
Unipol delle cooperative rosse, da Beni
Stabili di Del Vecchio, il patron di Luxottica, dalle società di Coppola, resuscitato dai vecchi guai giudiziari.
D’altronde Milano si accaparra
ben il 70% degli acquisti di appartamenti degli stranieri in Italia: nella
preferenza precede addirittura Vienna
e Zurigo. Accanto ai vecchi stabili ottocenteschi, viene prediletto il supermoderno. Così si spiegano le tante iniziative in sboccio: oltre a Citylife, oltre
a Porta Nuova-Garibaldi-Isola, palazzi
e grattacieli, uffici e alloggi sorgeranno
nell’ex area Falck di Sesto San Giovanni, a Santa Giulia Nord e Sud, a Porta
Vittoria, in via Ripamonti. Offerte di
ogni misura, dai 50 mq ai 300, prezzi per tutte le tasche: il mercato difatti
guarda con somma attenzione agli extracomunitari già in possesso di quasi
il 17% degli immobili. E nel novero, accanto a tanti salariati, il cui investimento medio mai supera i 100 mila euro, i
paperoni russi e cinesi: uno di essi ha
appena sborsato una quindicina di milioni per un attico super terrazzato.
Le voci del Quadrilatero sostengono che sia alla ricerca di un’adeguata
magione pure Zhu ChongYun, l’imprenditrice titolare della Shenzhen
Marisfrolg Fashion, azienda leader sul
mercato asiatico del prêt-à-porter di
fascia alta. Ha appena concluso l’acquisizione di Krizia, il marchio creato
all’inizio degli anni Cinquanta da Mariuccia Mandelli, ritiratasi alle soglie
dei novant’anni. Mancano le cifre ufficiali, quelle ufficiose girano ben oltre
il miliardo di euro. Dovrebbe, comunque, esserci la garanzia di una solida
prosecuzione della griffe, non come sta
accadendo al gruppo Ferré posto in liquidazione dalla Parigi Group. Sullo
sfondo, la preda più ambita di tutte, Armani: a ottant’anni è più vispo che mai,
non manifesta l’intenzione di ritirarsi,
tuttavia sono pronti i dossier degli operatori finanziari per una successione
giudicata non lontana.
Ha cambiato proprietà anche l’Hotel Gallia, citatissimo dalle guide per la
posizione strategica, accanto alla Stazione centrale, per lo stile «Belle époque», per aver ospitato trent’anni di
calcio mercato con le pittoresche conseguenze. Figura fra le mille proprietà
di Tamin bin Hamad Al-Thani, l’emiro
del Qatar, ancora lui, che è stato in trattative con Berlusconi per un ingresso
nel Milan, prima di riversare le proprie
attenzioni sul Paris Saint-Germain.
Ma il vero interrogativo tra le aziende
dell’ex capo del governo non riguarda
la società di calcio, bensì Mediaset, la
polpa dell’impero. A suggerire la necessità di un intervento esterno è lo stato
dei conti, fiaccati dalla lunga crisi della
pubblicità. Il candidato più probabile,
quanto meno per una collaborazione
iniziale, appare Murdock, felice dominatore del mercato della pay tv con Sky.
L’invasione più penetrante e silenziosa avviene a piazza Affari, sede dello storico edificio della Borsa ridotto a
reliquia dal web. D’italiano e quindi
di milanese vi è rimasto ben poco. La
stessa società Borsa di Milano ha fornito l’esempio nel 2007 accettando di
essere incorporata dalla Borsa di Londra. A stringere la presa negli ultimi
mesi è stato il fondo americano Black
Rock. Risulta proprietario di una quota superiore al 5% di Unicredit e Intesa
SanPaolo, eredi dei due più importanti
istituti milanesi, il Credito Italiano e
soprattutto la Banca Commerciale. La
vecchia e prestigiosa Comit ha scritto
gran parte della storia finanziaria del
Novecento italiano; dalle sue file provenivano importanti uomini politici,
Giovanni Malagodi e Ugo La Malfa, e
i due banchieri che per decenni hanno
segnato le sorti dell’asfittico capitalismo casareccio, Raffaele Mattioli ed
Enrico Cuccia.
Pure il 5,7% di Monte dei Paschi di
Siena è stato recentemente comprato da
Black Rock, dando ulteriore sostanza
alla campagna acquisti incominciata
nel 2013: nel suo portafoglio compaiono titoli per quasi 16 miliardi di euro,
i tre quarti dell’intera esposizione dei
fondi americani in Italia. Alle quotazioni del momento significa possedere
una quota assai sostanziosa dell’intero
listino. I soci stranieri hanno ormai sopravanzato il peso delle storiche Fondazioni bancarie. Pesano e non poco i
petrodollari con il fondo di Abu Dhabi,
con ciò che resta della Banca Centrale
Libica, con l’immancabile Al-Thani interessato ad acquistare tutto ciò che gli
altri sono disposti a vendere.
La cronaca insegna che Milano anticipa di dieci anni, nel bene e nel male,
ciò che poi accade nel resto della Penisola. Non c’è da stare allegri.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶7 luglio 2014¶N. 28
Politica e Economia
«È una compensazione sociale»
Aiuto allo sviluppo Intervista a Peter Niggli, direttore di Alliance Sud, sull’evoluzione della cooperazione
allo sviluppo svizzera, sugli Obiettivi del millennio ONU, sulla nuova agenda globale e sul ruolo della Svizzera
rio. È stato un meccanismo internazionale non vincolante, ma che ha funzionato molto bene. Per questo motivo, si
tenterà di inserire un sistema analogo
nell’Agenda post-2015, dichiarazione
che succederà agli Obiettivi di sviluppo
del millennio e in cui saranno definiti i
prossimi traguardi nella cooperazione
internazionale.
Luca Beti
Nonostante gli enormi progressi e i
successi ottenuti, una persona su otto
va a letto ogni sera con la pancia vuota,
un bambino su sei di età inferiore ai
cinque anni è sottopeso e uno su quattro soffre di disturbi della crescita. Da
oltre cinquant’anni la Direzione dello
sviluppo e della cooperazione svizzera
e numerose organizzazioni non governative si impegnano nei Paesi poveri
nel tentativo di colmare il divario tra
Stati del Nord e del Sud. Nonostante
gli enormi sforzi profusi, sconfiggere
la miseria sembra più che mai un traguardo irraggiungibile, quasi una chimera. «La riduzione della povertà nel
mondo è un problema gigantesco», ci
spiega Peter Niggli, direttore dal 1998
di Alliance Sud, comunità di lavoro
delle ONG svizzere attive nell’ambito
della cooperazione Swissaid, Sacrificio
Quaresimale, Pane per tutti, Helvetas, Caritas e Aces. Incontrato nella
sede centrale dell’associazione, Peter
Niggli, in una chiacchierata ad ampio
respiro, ci parla della sua visione dell’aiuto allo sviluppo e dei meccanismi che
hanno trascinato i Paesi poveri verso
il baratro sociale ed economico. «Nel
1982, molti Stati in America latina e in
Africa sono precipitati nella cosiddetta
crisi del debito. Dopo averli sommersi
di prestiti negli anni Settanta, la Banca
mondiale ha somministrato loro cure
di cavallo, sotto forma di riforme
strutturali che hanno favorito la depredazione delle risorse locali da parte
delle compagnie multinazionali, invece di promuovere l’economia interna.
Così, i Paesi del Sud sono piombati in
una lunga depressione, madre di conflitti sociali e politici. In un contesto
simile non ci può essere sviluppo. Ecco
perché i progressi in molti Stati sono
stati limitati, nonostante l’aiuto allo
sviluppo».
Un antico proverbio insegna di non
dare un pesce a un povero, perché
avrà da mangiare solo per un giorno,
ma di insegnargli a pescare affinché
mangi tutti i giorni. Questa massima è ancora valida nell’aiuto allo
sviluppo?
È un’idea che si è fatta largo a livello
internazionale dopo la fine della Seconda guerra mondiale, quando si prese
coscienza del divario esistente tra Paesi
del Nord e del Sud. Il primo a diffondere questo concetto è stato il presidente
americano Harry Truman. A distanza
di quasi 70 anni, questo pensiero è più
che mai attuale. I vari programmi elvetici che conosco perseguono proprio
tale obiettivo. Spesso lo raggiungono, a
volte lo mancano parzialmente.
Nonostante la sua disarmante semplicità, questa idea non è ancora
riuscita a riempire la pancia all’intera popolazione mondiale: circa
800 milioni di persone continuano a
soffrire la fame.
Non dobbiamo dimenticare che al
mondo c’è una disparità abissale
per quanto riguarda le opportunità
concesse dalla vita a una persona.
I nostri destini, il suo e il mio, sono
stati determinati dal luogo geografico
in cui siamo nati. Solo questo. Non
sono stati il nostro impegno, le nostre
capacità a portarci dove siamo adesso.
Se fossimo nati in una discarica di Manila, la nostra vita avrebbe preso una
piega ben diversa. Sono l’ambiente o le
condizioni in cui le persone crescono e
vivono a impedire loro di sfuggire alla
povertà estrema o alla fame. Malgrado
abbiano imparato a pescare. Per questo motivo, ritengo che i Paesi ricchi
debbano aiutare quelli poveri e che la
cooperazione allo sviluppo debba essere intesa come una sorta di compensazione sociale tra chi è nato a Zurigo e
chi in una township in Sudafrica.
Quali obiettivi dovrà contenere
l’Agenda post-2015?
In questo documento quadro saranno
formulati dai 10 ai 15 obiettivi volti
a favorire uno sviluppo mondiale
sostenibile in settori dove si ritiene sia
possibile ottenere dei progressi con le
attuali conoscenze tecniche. Obiettivi probabili potrebbero essere una
migliore gestione dell’acqua oppure
l’annullamento della povertà estrema
entro il 2030, come ha già comunicato
la Banca mondiale. Con l’Agenda post2015, la comunità internazionale ha
ora l’opportunità di definire un documento fondato sui diritti che concilino
giustizia sociale, lotta contro la povertà e protezione dell’ambiente.
Se da una parte c’è un ampio consenso sulla necessità di formulare
un quadro di riferimento globale
sullo sviluppo sostenibile, dall’altra non si può affermare che ci sia
un’intesa sul suo finanziamento.
Trovare una base comune a questo
proposito sarà ben più difficile.
Peter Niggli, direttore di Alliance Sud: «La Svizzera versa 2,5 miliardi di franchi all’anno in aiuto ai Paesi del Sud; questi perdono
ogni anno 5 miliardi di franchi, evasi al fisco e depositati nella banche svizzere». (Keystone)
Una compensazione sociale costata
alla Svizzera oltre 2 miliardi di franchi nel 2013. È una cifra che alcuni
giudicano eccessiva. Come giustificare questo contributo in favore
dell’aiuto allo sviluppo?
A questo proposito le propongo un
piccolo calcolo. La Svizzera registra
ogni anno un bilancio economico positivo con i Paesi in via di sviluppo di
20 miliardi di franchi. Secondo le nostre stime, gli Stati a Sud perdono annualmente circa 5 miliardi di franchi a
causa del deposito su conti bancari in
Svizzera di averi non dichiarati al fisco
da parte di loro cittadini. Nel 2013, la
Confederazione ha versato circa 2,5
miliardi di franchi in favore dell’aiuto
allo sviluppo, ossia circa il 10 per cento
della somma di bilancio economico
ed evasione fiscale. È un calcolo noto a
tutti, magari non in Svizzera, di sicuro
però nei nostri Paesi partner.
Oltre alla Svizzera, molti Stati investono nell’aiuto allo sviluppo…
Nel 2013, i Paesi industrializzati hanno
previsto oltre 130 miliardi di dollari
per l’aiuto allo sviluppo. Tuttavia, solo
il 75-80 per cento di questi miliardi è
stato davvero impiegato nei Paesi del
Sud. Il resto serve per coprire i costi di
transazione delle agenzie e altre spese
che non hanno nulla a che vedere con
l’aiuto allo sviluppo, come quelle legate
alla gestione dei richiedenti l’asilo nel
primo anno. In Svizzera, questa cifra
raggiunge il 15-20 per cento del contributo annuo per l’aiuto allo sviluppo.
Se i circa 100 miliardi di dollari venissero investiti solo nei Paesi fragili o
meno avanzati, i progressi sarebbero
davvero notevoli. Invece, questi fondi
sono distribuiti a ventaglio. Molti
Stati considerano l’aiuto allo sviluppo
come una sorta di strumento della
propria politica estera attraverso
cui salvaguardare e promuovere gli
interessi geopolitici ed economici.
Essi investono in Paesi più sviluppati
ed economicamente più interessanti,
riducendo di riflesso i fondi per i Paesi
che ne avrebbero davvero bisogno, per
esempio, gli Stati dell’Africa, dove nel
2013 si è registrata una diminuzione dei
contributi pari al 5,6 per cento rispetto
all’anno precedente.
Al fine di concordare e definire le
priorità dell’aiuto allo sviluppo,
nel 2000 le Nazioni Unite hanno
formulato otto obiettivi, i cosiddetti
Obiettivi di sviluppo del millennio,
che gli Stati membri dell’ONU si
sono impegnati a raggiungere entro
il 2015. Quale bilancio si può trarre
da questo impegno comune?
Per una valutazione conclusiva dobbiamo attendere lo scadere di questi
obiettivi. Tuttavia, si può affermare
che il bilancio è a tinte chiaro-scure. A
livello globale, alcuni traguardi sono
stati quasi o completamente conseguiti,
come il dimezzamento della povertà
estrema. Questo obiettivo è stato raggiunto soprattutto grazie alla Cina, che
a partire dagli anni Ottanta ha vissuto
uno sviluppo economico eccezionale,
favorito da una riforma agraria e da
un’industrializzazione galoppante.
Naturalmente, in molti Stati dell’Africa,
la povertà estrema non è stata ridotta
della metà.
A prescindere dai singoli Stati, a
livello globale si sono ottenuti dei
progressi dal Duemila in poi?
Sì, la maggior parte dei Paesi ha fatto
dei progressi, senza raggiungere completamente gli Obiettivi del millennio.
La cooperazione allo sviluppo ha svolto un ruolo importante, per esempio,
per quanto riguarda una maggiore
scolarizzazione nell’Africa nera o
l’ampliamento dei sistemi sanitari o la
lotta contro alcune malattie endemiche, come la malaria. Altrove, i risultati dell’impegno internazionale non
sono altrettanto positivi. Nella riduzione della mortalità infantile non si
sono registrati particolari passi avanti
poiché non basta un semplice intervento chirurgico per migliorare la
situazione; è necessario lo sviluppo di
un intero sistema sanitario, che molto
spesso è carente nei Paesi poveri.
Un bilancio a tinte chiaro-scure, favorito da un inatteso meccanismo...
Sì, proprio così. Dopo aver sottoscritto
la Dichiarazione delle Nazioni Unite, i
Paesi donatori sono entrati in competizione tra di loro per quanto riguarda
l’elargizione dei fondi destinati al
raggiungimento degli Obiettivi del
millennio. E anche i Paesi poveri hanno
aumentato i contributi pubblici a favore
della formazione e del sistema sanita-
Un simile documento sarà siglato
soltanto se ci sarà un accordo su un
sistema di compensazione economica.
In sintesi, i Paesi ricchi dovranno essere disposti a sobbarcarsi buona parte
degli oneri finanziari dell’Agenda per
uno sviluppo sostenibile. In questo
momento, le trattative sono rese particolarmente difficili dalla crisi finanziaria perché gli Stati industrializzati
si sentono poveri. Inoltre, è in corso
un acceso dibattito sulla necessità di
coinvolgere l’economia privata in tale
finanziamento. C’è chi sostiene che le
attività di quest’ultima negli Stati del
Sud potrebbero essere considerate un
contributo in favore del raggiungimento degli obiettivi dell’agenda dello
sviluppo. Questo è un argomento
molto controverso.
Quale sarà il ruolo della Svizzera?
La Svizzera si è già impegnata molto in
vista della stesura di questo nuovo testo
programmatico. Ha elaborato una presa di posizione in cui sono confluite le
opinioni di ONG, personaggi politici,
esponenti dell’economia privata, del
mondo universitario e della ricerca. I
principi di base presentati in questo documento sono condivisibili e sostenibili. Tuttavia, quella della Svizzera sarà
una voce tra molte e non si ergerà sopra
le altre nella formulazione dell’Agenda
post-2015.
«Il tasso di natalità si riduce rafforzando il ruolo della donna»
EcoPop. Non è il nome di un nuovo
prodotto dell’industria alimentare,
bensì l’acronimo di un’organizzazione ambientale «Ecologia e popolazione», creata nel 1971 per sensibilizzare
la popolazione sui legami tra crescita
demografica, sfruttamento delle risorse e peggioramento delle condizioni ambientali. Per raggiungere
i suoi obiettivi, l’Associazione, che
conta circa 1500 soci appartenenti a
quasi tutti gli schieramenti politici,
ha lanciato con successo nel maggio 2011 l’iniziativa popolare «Stop
alla sovrappopolazione – sì alla conservazione delle basi naturali della
vita», sulla quale l’elettorato elvetico
dovrà esprimersi il 30 novembre di
quest’anno.
Il testo dell’iniziativa chiede che il
saldo migratorio netto annuo – ri-
sultante dalla sottrazione tra immigrazione ed emigrazione – non superi
lo 0,2 per cento della popolazione
residente, ossia 16’000 persone. Inoltre, l’iniziativa «EcoPop» chiede che
la Confederazione investa il 10 per
cento dei fondi destinati alla cooperazione e allo sviluppo in favore della promozione della pianificazione
familiare volontaria. Peter Niggli,
direttore di Alliance Sud, ricorda che
«solo con il rafforzamento del ruolo
della donna, ossia sostenendo la formazione, il diritto sulla proprietà e la
possibilità di conseguire un reddito,
si favorisce una migliore pianificazione familiare. La riduzione della
natalità si raggiunge non attraverso
una migliore distribuzione di anticoncezionali, bensì gettando le basi,
sociali e giuridiche, affinché anche la
donna abbia voce in capitolo sul proprio utero e non solo l’uomo. Da anni,
la Svizzera investe ben oltre il 10 per
cento nel miglioramento del livello di
vita, nella formazione e, appunto, nel
rafforzamento del ruolo della donna
nei Paesi in via di sviluppo».
«Il testo dell’iniziativa è fuorviante», continua Niggli. «Non è possibile
salvaguardare l’ambiente con la politica demografica. Basta un semplice
esempio per dimostrarlo. La popolazione dell’India dovrebbe quasi
quadruplicarsi, ossia raggiungere i 4
miliardi, invece degli attuali 1,2 miliardi, per produrre gli stessi effetti
sull’ambiente di 313 milioni di americani. Se volessimo davvero proteggere
l’ambiente con la politica demografica, dovremmo ridurre drasticamente
la popolazione nei Paesi ricchi». / LB
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Parte di
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶7 luglio 2014¶N. 28
29
Politica e Economia
Ipoteche convenienti grazie alla BCE
La consulenza della Banca Migros
Albert Steck
Nel blog della Banca Migros ho
letto che i tassi ipotecari sono
tornati sui minimi storici. Anche
se come proprietario di un immobile non può che farmi piacere, ho
una sensazione sgradevole: non
dobbiamo tutto ciò alla politica
monetaria estremamente espansiva in Europa?
Albert Steck
è responsabile
delle analisi
di mercato
e dei prodotti
presso
la Banca
Migros
Prima di tutto, la somma che i proprietari di un’abitazione risparmiano
grazie ai tassi bassi è davvero enorme.
Attualmente i privati spendono circa
13 miliardi di franchi l’anno per gli
interessi ipotecari. Rispetto al livello
dei tassi del 2008 sborsano ben dieci
miliardi di franchi in meno. Neppure
gli inquilini rimangono a mani vuote:
il tasso di riferimento determinante
per gli affitti sarà presumibilmente
rivisto ancora una volta al ribasso nei
prossimi mesi.
Secondo un detto popolare, a caval
donato non si guarda in bocca. Ma noi
lo facciamo comunque: i tassi bassi
sono sostanzialmente ascrivibili a tre
fattori. Cominciamo con quello più
rassicurante, l’inflazione moderata.
Come illustra il grafico, nel 2008
avevamo una pressione inflazionistica
piuttosto forte di oltre il 2 percento,
che ha spinto anche i tassi al rialzo.
Attualmente l’inflazione è invece
vicina allo zero. Pure nella zona euro
il caroprezzi è altrettanto contenuto,
con lo 0,5 percento. La causa numero due è rappresentata dalle fiacche
prospettive di crescita: in Svizzera
godiamo di una congiuntura vigorosa,
ma i Paesi industrializzati, soprattutto
in Europa, devono prepararsi a tassi
di crescita inferiori. I motivi sono da
ricercare nell’abbattimento del debito
e nell’andamento demografico.
I proprietari immobiliari
potrebbero far fronte a
un rialzo dei tassi
Tassi ipotecari ai minimi storici
4%
Ipoteca fissa a 5 anni
3%
2%
1%
0%
Tasso d’inflazione
-1%
-2%
La terza causa è la politica monetaria.
Che lo vogliamo o no, quello che decidono le banche centrali a Francoforte e a
Washington si ripercuote direttamente
sul nostro portamonete. Con il recente
taglio dei tassi la Banca centrale europea
(BCE) intende prima di tutto agevolare
l’accesso al credito per le imprese del
sud dell’Europa. Come effetto collaterale del suo operato, i prestiti immobiliari
da noi diventano più convenienti.
In altri termini, il nostro mercato ipotecario è in balía delle forze della politica
monetaria globale? Per fortuna no, soprattutto grazie alle collaudate «regole
d’oro del finanziamento», conosciute
da noi in Svizzera. Un finanziamento
2006
2008
2010
2012
2014
Il tasso d’interesse dell’ipoteca fissa a cinque anni è sceso fino all’1,3
percento. Le cause sono da ricercare nella bassa inflazione, nelle fiacche
prospettive di crescita e nella politica monetaria espansiva delle banche
centrali.
ipotecario viene autorizzato solo se il
cliente è in grado di affrontare anche un
massiccio aumento dei tassi. Alla Banca
Migros prevediamo per questo un tasso
del 4,5 percento, sebbene i tassi attuali
su molte ipoteche siano di poco superiori all’1 percento. Per risalire all’ultima
volta che in Svizzera abbiamo assistito a
tassi superiori al 4,5 dobbiamo andare
alla metà degli anni Novanta. A quei
tempi la BCE non esisteva ancora. E
nemmeno la «politica dei tassi zero».
Attualità su https://blog.bancamigros.
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30
Politica e Economia
Un freno delle banche
al credito ipotecario
Mercato immobiliare Andando incontro ai timori delle autorità
politiche e di sorveglianza, Gli istituti svizzeri propongono di
inasprire l’accesso al credito ipotecario, ma con piccoli palliativi
Ignazio Bonoli
Da qualche tempo la Banca Nazionale
Svizzera stava lanciando segnali d’allarme sulla bolla che caratterizza il mercato immobiliare svizzero. Poi – di tanto
in tanto – l’allarme rientrava, poiché si
constatava che l’eccesso di febbre immobiliare colpiva in pratica soltanto i grandi centri economici, in particolare le regioni di Zurigo e Ginevra. Negli ultimi
mesi, dopo qualche timoroso accenno,
non si sono più visti segni di rallentamento, per cui all’allarme della BNS si è
aggiunto quello del Consiglio federale e
dell’autorità di sorveglianza dei mercati
finanziari (FINMA).
La situazione non è però giudicata
grave al punto da esigere drastici interventi delle autorità politiche. Le banche
hanno però accolto l’invito a moderare
l’attività del settore immobiliare, mediante qualche misura di freno. Hanno
quindi deciso, lo scorso 24 giugno, di
inasprire leggermente le misure di freno già adottate da qualche tempo sulla
concessione di crediti ipotecari. Dall’estate 2012, le banche chiedono infatti
un capitale proprio di almeno il 10% per
poter ottenere un prestito ipotecario. In
pratica si tratterebbe ora di ridurre il periodo di ammortamento da 20 a 15 anni
e di rivedere l’ammontare del debito da
ammortizzare. Il rimborso deve inoltre
avvenire per quote regolari.
A prima vista non sembrano misure molto incisive, ma si distanziano
notevolmente dalle abitudini di questi
ultimi tempi, di concedere periodi di
ammortamento molto lunghi o di lasciare al debitore la facoltà di rimborsare
il debito a sua disposizione. Inoltre, dovrebbe essere possibile restituire totalmente il debito alla scadenza dei 20 anni,
anche se abitualmente ciò non avviene.
Queste misure hanno comunque l’effetto di ridurre il potenziale di nuovi debitori ipotecari. Infatti, l’ammortamento
su 15 anni costringe il debitore a fare una
valutazione precisa della sopportabilità
del debito ipotecario, dal momento che
deve rimborsare quote di debito maggiore.
Queste misure interessano in particolare i giovani debitori ipotecari che
in genere contano su periodi molto più
lunghi per il rimborso del debito. In
concreto, una persona di 35 anni, che
accende un debito ipotecario, deve rimborsare i due terzi del debito totale entro
i 50 anni d’età e non i 55 anni. Finora, in
Svizzera, si poteva considerare di rimborsare una seconda ipoteca (il terzo
rimanente) entro il compimento dei 65
anni. Le banche, prima di concedere il
credito, ne valutavano la sopportabilità,
tenendo conto anche di un interesse calcolatorio del 5 o 5,5% e dei costi di manutenzione, di regola dell’1% del valore
commerciale dell’immobile.
Le banche sono state piuttosto largheggianti, sia nella concessione del
credito ipotecario, sia nell’esigere l’ammortamento, in alcuni casi perfino rinunciandovi. Il periodo si prestava a
questi atteggiamenti, da un lato perché
i prezzi degli immobili erano in costante aumento e quindi miglioravano la
garanzia del pegno, dall’altro perché il
denaro abbondava e le prospettive di investimenti finanziari non erano molto
attraenti.
Il che non dimostra però ancora che
le misure proposte possano produrre
un sensibile rallentamento della costruzione. Ma un inasprimento del mercato
ipotecario può essere visto nelle due altre misure fiancheggiatrici. Da un lato
la scelta del valore minore fra il valore
di mercato e il prezzo d’acquisto di un
Le proposte delle banche per raffreddare il mercato immobiliare non sembrano
incisive, ma segnalano un cambiamento di corso. (Keystone)
immobile per valutare l’ammontare del
credito ipotecario. Dall’altro – ma molte
banche lo applicano già – l’impegno solidale del partner quando il debito viene
chiesto da una coppia.
In sostanza, con queste misure, le
banche (e per esse l’Associazione svizzera dei banchieri) completa le misure
anticongiunturali adottate nel 2012, anticipando la possibilità che regole magari più severe per questo mercato vengano
adottate a livello politico o di organo di
controllo. La FINMA aveva infatti già
sottoposto ai banchieri un progetto in
tal senso, che però non era stato accettato. Le misure ora proposte sono quindi
la risposta autoregolante da parte delle
banche.
Dai primi commenti si vede un certo scetticismo sull’efficacia di queste misure. Ci sono però anche associazioni di
proprietari di immobili che vedono un
inasprimento delle condizioni che colpi-
scono soprattutto i piccoli proprietari e
il ceto medio in generale. Va comunque
precisato che le nuove regole non si applicano alle ipoteche in essere e a quelle
in procinto di essere prorogate. Per le
nuove costruzioni si potrebbe assistere
a una leggera pressione su un rallentamento che è già in atto, ma non tale da
incidere su un movimento di tipo congiunturale.
Dal canto suo, il 2 luglio la FINMA
ha dato luce verde alle proposte delle
banche, sostenute a sua volta anche dal
Consiglio federale, il quale, fiducioso
che il lieve rallentamento del mercato
proseguirà, non prevede l’introduzione
di nuove misure. Un forte indebitamento ipotecario è comunque sempre stato
una caratteristica del mercato immobiliare svizzero, grazie anche alla facilità e
al costo del credito ipotecario. Le nuove
misure decise dalle banche entreranno
in vigore il 1. settembre 2014.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶7 luglio 2014¶N. 28
31
Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la piazza di Angelo Rossi
La cultura, un bene di prima necessità
Dopo una lunghissima attesa, Lugano
sta per ricevere il suo nuovo centro culturale. E molti si stanno chiedendo se il
santo varrà la candela, ossia se l’investimento che è stato fatto dal Comune, e
che peserà per anni sui suoi conti, avrà
riscontri interessanti. Si tratta di una
questione alla quale si può rispondere
in più modi. Per esempio cercando
di dare contorni un po’ più precisi, di
quelli che possono essere suggeriti dal
solo potenziale di popolazione, alla
domanda culturale della città. È quanto
hanno fatto, di recente, due collaboratori dell’Istituto di ricerche economiche
dell’USI, Stefano Scagnolari e Aleksandar Gogov, utilizzando i risultati di
422 interviste fatte a frequentatori di
attività culturali, svoltesi a Lugano tra
l’estate del 2012 e l’estate del 2013. Il
primo risultato che sorprende chi, come
il sottoscritto, ha sempre pensato che le
spese per la cultura a Lugano, come ad
Ascona e a Locarno, non fossero che un
complemento delle spese a favore dei turisti, è costituito dalla composizione del
campione di intervistati a seconda della
provenienza. Due terzi dei «consumatori» di attività culturali intervistati sono
infatti residenti nel Luganese. I possibili
turisti invece, non rappresentano che
il 14% del campione e raggiungono
questa percentuale solo se nell’effettivo
dei turisti includiamo i frequentatori
provenienti dall’Italia (12%). A Lugano,
quindi, si fa cultura dalla regione per la
regione! Nell’articolo dei due ricercatori, pubblicato nella rivista «Dati»
dell’USTAT non si specifica quali siano
stati i criteri che hanno presieduto
alla composizione del campione. Si
ha tuttavia l’impressione che l’aspetto
della rappresentatività, rispetto alla
composizione effettiva della domanda
culturale luganese, non sia stato curato
in modo particolare. Peccato, perché
nei prossimi anni più aumenterà la
pressione fiscale e più il contribuente
della città si chiederà per chi vengono
spesi i soldi destinati a finanziare le attività culturali e, se del caso, anche quali
possano essere le ricadute economiche,
per esempio per un settore come quello
turistico. Ovviamente, se la questione
dovesse diventare pressante, si potrà
sempre promuovere un nuovo progetto
di ricerca.
Ma torniamo all’identikit del consumatore di avvenimenti culturali di Lugano.
Per il 60% si tratta di persone giovani,
con meno di 44 anni. Si tratta, in seguito, per il 75% di persone con formazione
liceale o universitaria. Il 62% lavora, a
tempo pieno o a tempo parziale. Questo
dato fa presumere che il campione di
intervistati sia composto in prevalenza
da uomini. Sarebbe interessante sapere
se è così, perché pregiudizialmente io
sarei dell’idea che a usufruire di avvenimenti culturali siano maggiormente
donne che uomini. Quanto al reddito,
il 54% degli intervistati ha dichiarato
di guadagnare meno di 50’000 franchi
all’anno, ossia un po’ meno di 4’100
franchi al mese. Si tratta di una salario
basso anche per il Ticino. Già questo
dato basterebbe per convincere i più che
la cultura a Lugano non è un bene di
lusso. Che sia così ce lo ribadiscono poi
le stime dell’elasticità di reddito per le
diverse attività culturali: esse sono tutte
inferiori a 1. Per esempio, per i concerti
e gli spettacoli musicali l’elasticità di
reddito è uguale a 0.75. Questo significa
che quando il reddito aumenta, per
esempio del 10%, la spesa del consumatore di eventi culturali aumenta del
7.5%, ossia in misura meno che proporzionale, come è il caso dei beni necessari. L’elasticità per la cultura musicale è la
più elevata. Per musei, gallerie, cinema,
monumenti e siti archeologici, il valore
dell’elasticità di reddito è inferiore a
0.3. Per farci capire ancora meglio: una
elasticità del reddito di questo tipo è più
o meno quella della spesa per la casa. Altro che bene di lusso: stando ai risultati
di questa inchiesta, la cultura a Lugano
sembra proprio essere un bene di prima
necessità!
no di affogare. Ma le anime belle che
difendono la tratta di Lampedusa, dietro il paravento umanitario, in realtà
difendono lo schiavismo moderno.
Invece la rotta di Lampedusa bisogna
chiuderla.
Le drammatiche testimonianze degli
uomini dello Stato italiano impegnati
nell’operazione Mare Nostrum non
possono essere ignorate. I marinai
raccontano una situazione insostenibile: «Qui è un inferno, bisogna esserci
per rendersene conto. È un inferno di
proporzioni enormi che solo chi fa il
nostro lavoro può capire».
Non è possibile fare come se tutto
questo non stia accadendo. Lampedusa è al centro di una vera e propria crisi
internazionale. Che va affrontata e
risolta. Ripeto: salvare i naufraghi è un
dovere. Ma non basta. Bisogna fermare gli scafisti. Invocare la povertà dei
migranti non è sufficiente. La carità va
sempre praticata. Ma la dignità non è
un valore meno importante. Il divario
tra Nord e Sud del mondo non si colma
salendo su un barcone, mettendo la
propria vita e quella dei propri cari
nelle mani dei mercanti di carne umana, e affidandosi ai capricci del caso
e ai cavilli del diritto, per cui appro-
dare in un lembo di terra vicino alle
coste africane dà accesso al mondo
che va dalla Sicilia alla Scandinavia.
Un mondo che è certo infinitamente
più ricco, ma che in questo momento
non ha bisogno di manodopera (anzi
ha un eccesso di manodopera), e che
prima rinchiude i disperati in campi
strapieni e disumani, per poi destinarli spesso al ruolo di manovali della
malavita o del lavoro nero.
Non è in discussione il diritto di asilo
per i profughi. A maggior ragione per
i profughi della guerra siriana, da cui
l’Occidente ha distolto gli occhi. Ma la
dignità di un profugo non può essere
affidata a un mercante di schiavi. I Paesi al confine della Siria, a cominciare
dalla Turchia, ospitano già milioni di
siriani. Salvare loro la vita è un dovere
della comunità internazionale. Ma la
salvezza non passa dalle carrette che
percorrono il Canale di Sicilia.
Non si tratta ovviamente di rimpiangere Gheddafi, e tanto meno i suoi
aguzzini, che per anni hanno esercitato sui migranti e sui profughi ruberie
e violenze. Ma è chiaro che Frontex,
l’impotente agenzia europea che
dovrebbe fermare i flussi clandestini,
non può prescindere da una politica
molto più ambiziosa rivolta a stabilizzare i nuovi governi nordafricani
e a costruire con loro partnership e
accordi seri. La tragedia che si consuma tra la Libia e Lampedusa è uno dei
frutti avvelenati del collasso di Stati
— non da ultimo la Somalia — in cui si
sono insediati gli estremisti islamici,
che approfittano della debolezza del
potere centrale per occupare intere
regioni e imporre la propria legge, sollevando ondate di fuggiaschi. Si tratta
di una questione epocale, che richiede
un impegno lungo e difficile, e anche
un consenso convinto dalle opinioni
pubbliche. Oggi questo consenso non
c’è. L’aria tira semmai verso il disimpegno e l’isolazionismo. Le notizie dei
morti in mare generano tentativi di
strumentalizzazione, che sfruttano da
una parte il senso di colpa, dall’altra
l’indifferenza e l’allarme sociale per
l’immigrazione. Se la lotta per stabilizzare il Sud del Mediterraneo appare
oggi difficilissima, da qualche parte
bisognerà pur cominciarla. Fermare la
rotta di Lampedusa, non sbarrando la
porta nell’ultimo miglio ma chiudendola sulle coste da cui parte il traffico di vite umane, è il primo passo.
Rimandarlo sarebbe delittuoso.
quindi pieno di discorsi diretti. Così
inizio qualche ricerca. Nel libro non
trovo il brano proposto dal lettore, ma
solo qualcosa di pertinente: commentando la felicità del giusto e l’infelicità
dell’ingiusto, Socrate si sofferma sulle
quattro forme di governo esistenti –
timocrazia, oligarchia, democrazia e
tirannide – e a ognuna fa corrispondere
quattro tipi diversi di uomo. A questo
punto, anche per eventualmente trovare una diversa paternità al brano citato,
affido il testo al motore di ricerca «Google». L’operazione non è facile anche
perché Google, a mio personale avviso,
oltre a essere diventato uno strumento
sofisticato, più facile da manipolare che
da guidare, sovente disorienta e propone riferimenti fuorvianti. Alla fine
approdo a una spiegazione accettabile:
il brano citato dal lettore è una libera
traduzione (così dicono diverse fonti,
ma è forse più esatto parlare di rielaborazione) del pensiero del filosofo greco,
scritta da Indro Montanelli nel maggio
del 1992. Provo a scrivere al giornale
a cui si è rivolto il lettore, ma dopo tre
giorni rettificare è inutile: ormai il falso
testo di Platone è stato contrabbandato, migliaia di lettori lo avranno letto
e magari anche diffuso o archiviato
come pensiero del filosofo greco sulla
democrazia.
Alcuni giorni dopo sul sito «Il Post»
mi imbatto in un articolo del giornalista irlandese Mark O’Connell che
denuncia un caso analogo. Aveva letto
questa frase attribuita a Schopenhauer:
«Ricorda che una volta arrivato in cima
alla collina comincerai ad andare più
veloce». Da profondo conoscitore del
pensatore tedesco ha subito capito che
era un falso. Avute conferme anche da
altri autorevoli professori, decide di
andare a fondo, per cercare di scoprire il vero autore o chi ha dato avvio
all’errore. Avvia una ricerca su internet,
orientata sui siti specializzati nelle citazioni, ma trova unicamente conferme
della falsità: l’aforisma ormai è attributo
a Schopenhauer su quote-wise.com,
searchquotes.com, quote.lifehack.org,
quotespedia.info e tanti altri siti. Così
O’Connell arriva alla conclusione che,
avendo in internet tante e autorevoli
convalide «ufficiali», la falsa citazione ormai è libera di circolare come
autentica e di approdare in posti in
cui non ci si sarebbe mai aspettati di trovare Schopenhauer. Ad esempio sulla
pubblicazione Fitness Magazine, in cui
il monito viene usato per stimolare chi
cerca di modellare glutei e addominali
con la ginnastica; o, peggio ancora, su
un sito di neonazisti americani, sempre
a mo’ di stimolo per i propri adepti,
ovviamente con finalità un po’ diverse!
Si finisce così per scoprire che anche
il falso Schopenhauer è prigioniero/
vittima del suo stesso detto: «una volta
arrivato in cima alla collina comincerai
ad andare più veloce»; talmente veloce
che, anche se si attribuiscono le parole a
un falso autore, pochi se ne accorgono e,
soprattutto, nessuno se ne preoccupa.
In&outlet di Aldo Cazzullo
Il paravento umanitario
Le notizie sempre più drammatiche
che provengono dal Canale di Sicilia
sono uno schiaffo alla coscienza di
tutti. Anziché aiutare l’Italia, l’Europa la mette sotto accusa per la prassi
(invero un po’ opportunista) di non
registrare gli sbarcati, nella speranza
che spariscano nei giorni successivi
alla volta di altri Paesi, magari con
l’aiuto non certo disinteressato di
qualche organizzazione criminale. A
ben vedere, l’ipocrisia è l’attitudine
dominante in tutta la gestione dell’emergenza sbarchi a Lampedusa.
Non è in discussione il dovere morale
di salvare le vite di coloro che rischia-
Zig-Zag di Ovidio Biffi
Citando il falso che male ti fo’?
Assieme a tanti altri, mi porto dietro un
difetto grosso: un metodo di lettura che
mi vede sempre impegnato a sottolineare, sia nei libri che negli articoli,
frasi o paragrafi, nella speranza che
la sottolineatura in qualche modo
rafforzi la memoria. Ovviamente non
riesce a farlo: dopo poche ore, di quella
frase o di quel concetto mi rimane
solamente un nebuloso ricordo. Per
non so quale privilegio però, spesso per
reconditi motivi, appena mi imbatto
in un argomento analogo o comunque
assimilabile a qualche sottolineatura, questa mi suggerisce potenziali
agganci o paragoni, obbligandomi a
lunghe ricerche e a riletture. L’ultima
di queste «maratone» è iniziata dopo
aver letto su un quotidiano lo scritto
di un lettore che, per commentare
l’attuale indebolimento della democrazia, proponeva questa lunga citazione
tratta dal Libro VIII del Repubblica di
Platone: «Quando un popolo divorato
dalla sete di libertà, trova coppieri che
gliene versano quanta ne vuole fino
a ubriacarlo, accade che i governanti
pronti a esaudire le richieste dei sempre
più esigenti sudditi, vengano chiamati
despoti. Accade che chi si dimostra
disciplinato, venga dipinto come uomo
senza carattere, un servo… Accade che
il maestro non osi rimproverare gli scolari e che questi facciano beffe di lui, che
i giovani pretendano gli stessi diritti
dei vecchi, e per non sembrare troppo
severi, i vecchi li accontentino. In tale
clima di libertà e in nome della medesima non v’è più rispetto e riguardo
per nessuno. E in mezzo a tanta licenza
nasce e si sviluppa una mala pianta: la
tirannia».
Citazione non solo a effetto, ma attualissima e assai pertinente con quanto
accade in democrazie di Paesi a noi
vicini. L’indicazione dell’autore però
mi instilla un dubbio poiché ricordavo Repubblica scritto in forma di
lungo dialogo (Platone fa parlare il suo
maestro, Socrate, con altri personaggi),
DESSERT IN TUTTA
LEGGEREZZA.
E
NCH
A
A
R: OR SSERT.
E
G
É
L
E DE
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2.80
Millefoglie Léger
155 g
Sono arrivati i tre nuovi dessert Léger: scopri il piacere del gusto in tutta leggerezza! La millefoglie
contiene il 30% di grassi in meno, mentre la coppetta svedese e quella alle albicocche contengono
il 30% di calorie in meno. Grande gusto, coscienza tranquilla. Buon appetito!
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶7 luglio 2014¶N. 28
33
Cultura e Spettacoli
A tavola con Cesare
Il Musée Romain di Vallon
propone una mostra che spiega
le abitudini alimentari antiche
La vocazione di Rosetta Leins
Alla Pinacoteca Zuest di Rancate l’opera
dimenticata di una pittrice ticinese che
negli anni 30 scelse con coraggio
la difficile carriera d’artista
Storia di un’italiana
Monica Vitti, grande attrice che
ha impersonato figure femminili
fuori dai canoni tradizionali
Donne al «flashring»
Edo Bertoglio espone i suoi
ritratti, in un confronto tra
gli anni 70 e il presente
pagina 35
pagina 36
pagina 38
santalessandro.org
pagina 34
Il destino che attende implacabile
Brembate come Tebe Alla ricerca dei punti di contatto tra una vicenda di cronaca nera moderna
e un dramma della classicità greca
Maria Bettetini
«Ti ha scoperto contro il tuo volere /
il tempo che scorge ogni cosa», così
il Coro al verso 1214 dell’Edipo re di
Sofocle. Tutti i personaggi di questa
tragedia antica di ventiquattro secoli
hanno cercato di proteggere sé stessi e
i loro cari dalle disgrazie pronosticate
da Apollo, tutti hanno agito come inconsapevoli strumenti del feroce destino. Per scoprirlo, è bastato il tempo,
«che solo rivela l’uomo giusto: / per riconoscere il malvagio basta un giorno
solo» (vv. 614-615).
Il tempo, che è galantuomo, sostiene più semplicemente il detto popolare. Che spesso, scorrendo senza
sosta, scopre verità nascoste, sepolte.
A volte si dice: meglio tacere un piccolo tradimento, una debolezza, all’amico o al partner, portare da soli la croce
del rimorso e non permettere che offuschi l’orizzonte di chi non ha, non ancora, motivi di dubbio. E magari non
ne avrà mai. Ma forse, invece, quel galantuomo ne farà una delle sue, sbattendo in una prima pagina metaforica
o reale gli eventi che parevano ormai
passati, lontani, irraggiungibili. «No,
in nome degli dei. / Se ti sta a cuore la
tua vita, non fare altre ricerche. / Basta già il mio strazio», il mio nosos, alla
lettera «la mia malattia». Così Giocasta, che scopriremo madre e moglie di
Edipo, implora l’ignoranza, la stessa
invocata dal cieco Tiresia consultato
da Edipo: «è tremendo sapere, quando fa male a chi sa». Tiresia non vuole
parlare, vuole fuggire: «Lasciami tornare indietro. / Se ti lasci convincere,
tu reggerai meglio il tuo destino, e io il
mio». Ma noi lo sappiamo già, Tiresia
non se ne andrà, e le sue poche parole
basteranno per innescare l’esplosione
di tremende verità. Tebe è colpita dalla
peste perché l’assassino di Laio è impunito.
L’assassino di Laio è suo figlio Edipo, abbandonato in fasce per evitare
l’avverarsi della profezia che lo prevedeva patricida e incestuoso. Edipo,
salvato da un pastore, sarà adottato dal
re di Corinto, da dove fuggirà per evitare, di nuovo, di diventare patricida e
incestuoso. E, così fuggendo, trova per
strada Laio, che uccide, poi salva Tebe
dalla Sfinge, ne diventa re e sposa sua
madre, Giocasta. Da un lato una tyke,
una sorte che non si riesce a cambiare
con tutta la buona volontà. Dall’altro,
i peccati più esecrati, incesto e parricidio, che sporcano sia il peccatore
che la comunità. Per i Greci non c’era
soluzione di continuità tra l’agire del
cittadino, soprattutto se al governo, e
la salute della polis, del nucleo sociale.
L’impuro va allontanato, per il bene di
tutti. E tutti hanno diritto a sapere chi
ha attirato su di loro l’ira divina, come
nella vicenda biblica di Giona. La nave
con cui il futuro profeta cerca di sfuggire alle richieste di Dio è in preda alla
tempesta: «Che cosa dobbiamo fare di
te, perché si calmi il mare, che è contro
di noi?», chiedono i marinai. «Prendetemi e gettatemi in mare e si calmerà
il mare che ora è contro di voi, perché
io so che questa grande tempesta vi ha
colto per causa mia», risponde Giona.
Poi in verità tutto finisce bene, grazie al
pesce che inghiottì Giona e lo riportò
a riva, un po’ più mansueto verso i comandi del suo Dio.
Sembrerebbe impossibile fuggire al destino, sia quello di uccidere
il padre e avere figli dalla madre, sia
quello di andare a convertire la città di
Ninive. Siamo allora solo marionette,
che più tentano di sfuggire ai fili più
vi rimangono avvinghiate? In fondo
sarebbe comodo. Ma noi oggi abbiamo approfondito quella conoscenza,
quel «tremendo sapere» da cui voleva
fuggire Tiresia. E sappiamo che tutti
hanno nel corso della loro vita la possibilità di compiere delle scelte. Non
possiamo scegliere da chi, dove, quando nascere. Ma, poi, fin da piccoli incrociamo dei bivi e costruiamo, mattone su mattone, la nostra vita. Non
decidiamo noi chi incontriamo, quali
malattie ci potranno colpire, quali imprevisti la tyke ci riserva.
Ma la personalità che ci siamo costruiti nel tempo ci porterà a reazioni
diverse, che sembrano magari inevitabili, ma che sono in verità frutto di
tante piccole scelte quotidiane. Così è
per «la costruzione di un amore», che
«spezza le vene delle mani / mescola il
sangue col sudore / se te ne rimane»,
è un lavoro faticoso, si perdoni Ivano
Fossati accanto a Sofocle. Così è per le
conseguenze delle proprie azioni. L’assassinio brutale di una bambina, un
uomo accusato attraverso la scoperta
scientifica dell’adulterio della madre,
rivelato ai media del mondo. L’elenco
delle vittime si allunga: con la bambina e la sua famiglia, un padre che
si scopre non padre e marito tradito,
due fratelli gemelli che si trovano senza più un padre, perché quello vero è
morto con il suo segreto (o così pensavano i protagonisti della trista vicenda). Una moglie adultera, una nuora
che si sente tradita.
Probabilmente la peste c’era già,
in quei paesi di poche anime del bergamasco: era quel sapere e non dire
che avvelena i rapporti tra le famiglie,
e nessuno ricorda nemmeno perché.
Era la leggerezza con cui si compivano azioni sicuri di rimanere nascosti.
Poi la gravità del sacrificio di Ifigenia,
innocente, capace di condurre la ricerca del vero fino al «tremendo sapere».
Non abbiamo più lacrime, ci facciamo
ciechi come Edipo. Forse questo pubblico ludibrio è più di qualunque condanna penale, ma vorremmo davvero
che gli spiriti maligni non chiedessero
ancora sangue innocente per purificare la peste che ci ammorba.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶7 luglio 2014¶N. 28
34
Cultura e Spettacoli
Tutti a tavola, Romani!
Mostre Al Museo di Vallon usi e abitudini alimentari dell’antica Roma ma anche delle nostre terre
Marco Horat
«Abbiamo concepito un’esposizione
– dice Clara Agustoni direttrice del
Musée romain di Vallon nel Canton
Friborgo – che mettesse in risalto gli
stretti legami tra Roma e le nostre regioni attraverso tre tipi di documenti».
Come? Ci sono i testi di autori classici
che descrivono le abitudini dei romani
a tavola: vengono in mente i nomi di
Petronio, Ovidio, Seneca, Marziale,
Plinio il Giovane, forse Apicio per le
ricette. Ci sono poi le rappresentazioni
di banchetti, prime fra tutte quelle che
provengono da Pompei; in mostra vi
è una ricca scelta di riproduzioni con
lacerti di affreschi pompeiani, molto
suggestivi per le scene che illustrano
con dettagli gustosi. Se quelle raccontate con parole e immagini erano
le regole in auge al centro del mondo
romano, cosa succedeva però in zone
periferiche come le nostre?
Qui entra in gioco il terzo elemento espositivo, l’archeologia con
i ricchi ritrovamenti effettuati nella
regione da molti anni a questa parte,
che ci permettono di confrontare gli
oggetti descritti o rappresentati con
quelli che venivano utilizzati quotidianamente da noi negli stessi periodi.
Il confronto dimostra come vi sia una
corrispondenza talvolta sorprendente tra gli oggetti: preziose stoviglie da
tavola, prestate dal Museo di LosannaVidy, come ne sono state rinvenute in
altre parti d’Europa, una testina di
ariete in bronzo sorella di quelle trovate a Pompei, una brocca con patera
per uso rituale da Avenches del tutto
simile ai manufatti romani, una specie di samovar con decorazioni incise
(ne sono stati trovati in Svizzera tre
esemplari) presente anche sulle tavole
dei ricchi romani. Molto interessante ciò che rimane di un triclinio usato
nei banchetti, con un piede di bronzo
arricchito da intarsi di rame e argento,
che gli archeologi hanno potuto stabilire era stato fabbricato a Delo nel I
La preparazione di un banchetto in un affresco di Pompei.
secolo e poi trasportato a pezzi fino ad
Avenches due secoli più tardi, dove fu
facilmente rimontato grazie a un sistema di lettere greche che indicavano le
parti da abbinare; esattamente come
si fa oggi quando si acquista un letto
smontabile e lo si porta a casa.
«Tutto questo dimostra – afferma
Clara Agustoni – come ad Avenches,
che era una capitale importante ma
anche in generale nella nostra regione,
la romanizzazione sia stata un fattore
molto importante di sviluppo per la
nostra cultura; ma anche come il tenore di vita delle élite locali fosse assolutamente paragonabile a quello delle
classi dominanti che vivevano nelle
regioni centrali dell’impero».
La mostra si apre con la grande
maquette della villa romana, sui resti
della quale è stato costruito il Musée
romain di Vallon. Quello che colpisce è la grandezza che nel complesso
residenziale era stato riservato alla
cucina e alle sale adibite a banchetto:
la cucina aveva una superficie di 100
mq, come dire la più ampia mai documentata; la sala principale era quella
del famoso mosaico della caccia che è
il più grande mosaico trovato in Svizzera, mentre nel larario, una specie di
biblioteca-ufficio, sono venuti alla luce
resti di cibo e di stoviglie.
I romani raccontati dagli autori
classici consumavano tre pasti al giorno, leggeri o leggerissimi i primi due
(Seneca dice che nemmeno si sedeva né
lavava le mani), più importante la cena
che prendeva avvio dopo le abluzioni o
un passaggio alle terme, verso le 4 del
pomeriggio e poteva protrarsi per ore.
I commensali invitati mangiavano carne, pesce, verdure condite con salse varie servite in coppette di vetro o legno e
una specie di polenta di cereali macinati cotti con cavoli, porri, ceci, lenticchie
e fave, detta pulsa. Il cibo arrivava sulla
tavola già tagliato per cui si mangiava
con le mani (la destra soprattutto visto
che sul triclinio ci si sdraiava appoggiandosi sul braccio sinistro); al massimo si usava un cucchiaio ma niente
coltelli e forchette. Intorno alla tavola
tra una portata e l’altra potevano esibirsi poeti, musicisti, cantori e ballerini.
Le donne erano in generale ammesse
al banchetto, sia le mogli ufficiali degli
ospiti sia in alcune circostanze gentili
dame e giovinetti che avevano il compito di allietare la compagnia maschile.
In occasione di avvenimenti importanti venivano poi organizzati
banchetti speciali con decine e decine
di invitati e con menu particolarmente
raffinati. Il bon ton era richiesto ai partecipanti, uomini o donne che fossero,
e il tutto era regolato da norme di comportamento codificate che gli autori
ci hanno tramandato e che in mostra
vengono riproposti capitolo per capitolo. Grazie a questi testi si fanno curiose scoperte: Plinio il Giovane scrive
a un amico lamentandosi del fatto che
seppur invitato, questi sia andato a cena
da altri, mancando così un menu eccezionale che Plinio gli ricorda per fargli
capire cosa abbia mancato. Marziale
invece si lagna di una cena con 60 partecipanti nella quale è stato servito dal
padrone di casa un solo cinghiale per di
più piccolo, senza verdure o altri contorni, come pure del fatto che ogni volta
che lo invitano a cena è per fargli declamare i suoi versi, cosa che lo indispone.
Della vita popolare o di quella delle
campagne, di come e cosa si mangiasse
ad esempio, si sa molto meno, anche se
studiosi come Cathérine Salles cercano di illuminare questa faccia nascosta
dell’Impero romano.
Al di là di tutto, dalla ricca mostra
di Vallon emerge un ritratto della romanità riunita attorno alla tavola più
corrispondente alla verità storica di
quanto tramandatoci da Petronio attraverso i frammenti rimasti del suo
Satyricon e poi da romanzi, film e telefilm vari. Trasgressione e débauche ci
saranno certo state come in tutti i tempi, compreso il nostro. Ma non erano
la regola.
Dove e quando
Vallon, Musée romain. Autour de la
table, usages et savoir-vivre à l’époque
romaine. Fino al 22 febbraio 2015.
www.museevallon.ch
Le voci di Berlino
Meridiani e paralleli Storie e personaggi che hanno animato
la capitale tedesca in un libro di Mario Fortunato
Giovanni Orelli
Tra i molti (troppi) libri di narrativa
proposti dall’editoria italiana in questa stagione (è anche stagione di premi
letterari) ne propongo due, belli (non
dico che siano i soli ad essere belli) della Bompiani: il migliore mi pare quello
di Fausta Garavini, fiorentina: Le vite
di Monsù Desiderio; segue quello di
Mario Fortunato, Le voci di Berlino.
Della Garavini già dissi qualcosa ai
lettori di «Azione». Di Mario Fortunato fra poco. Ma è quasi necessaria una
quasi ovvia premessa. Sul quanto vale,
quanto è attendibile il parere, il giudizio di un giudice-lettore? È un parere
determinato in buona parte dalla, per
dirla in una parola, soggettività. Chi
legge può non star bene quando legge.
Può aver dormito male. Eccetera ecceterone. Per l’eccetera faccio un esempio di quasi cento anni fa. Il 24 ottobre
del 1920, da Parigi, un certo James
Joyce scrive a un suo conoscente di
nome Frank Budget, e in quella lettera
fa il nome di un certo Marcel Proust in
questi termini (e copio direttamente
dalle Letters of J. Joyce (…) Faber and
Faber, London, 1957, p. 148):
«I have read some pages of his. I
cannot see any special talent but I am
a bad critic» («Ho letto un po’ di pagine sue. Non riesco a vederci un talento
particolare, ma sono un cattivo critico». Un cattivo critico Joyce? Macché.
Probabilmente un lettore geloso del
geniale Marcel Proust. Siamo intorno
agli anni Venti.
Il passato della città,
una delle più importanti
per la storia della cultura
del 900, è messo a
confronto col presente
Ho così rubato spazio al libro di Mario Fortunato, che avvincerà un lettore curioso, un lettore che anche dice
di non amare le parole difficili. Ma
che qualcuna la potrà trovare anche
qui. Un solo esempio, pagina 179 a
metà: «la gioventù è una condizione
che intrattiene molti commerci con la
tautologia». E che cos’è la tautologia?
Solo per chi mi legge, se ce n’è uno, sul
San Gottardo, e non ha lassù dizionario sottomano, gli leggo la definizione, una delle varie: «è la ripetizione
del già detto (tautò = lo stesso, + logos
= discorso), ripetizione, solitamente
inutile, di parole e di concetti identici
fra di loro. La tautologia deve essere
accuratamente evitata» dice il dizionario. Ma, cari giovani, sareste caduti
così in basso??? Tre punti di rispettosa
domanda.
Forse lo avvincerà meno nelle pagine iniziali, e anche in quelle finali,
legate alla Berlino dei nostri tempi. Ma
tutto il vasto corpo centrale del libro,
sulla Berlino ai tempi della sciagurata dominazione nazista e ai tempi del
coraggioso dopoguerra, con in primo
piano tante donne che avevano preso il
posto di tanti congiunti maschi uccisi
nella guerra-stoltezza, è il ritratto di un
generoso e illuminato ravvedimento. A
cominciare dalla pagina 21:
«Da molti punti di vista, Berlino
appariva alla fine degli anni Venti del
secolo scorso come il centro dell’Europa. Tutto ciò che era sperimentale e
inconsueto veniva da lì. La pittura della
Nuova Oggettività e quella espressionista, l’architettura del Bauhaus, il teatro
politico di Piscator e Brecht, la musica
di Kurt Weill, i film di Fritz Lang (…)»:
un po’ caricato? Concediamolo. Facciamo qui grazia dei molti nomi (p. 22).
Alcuni di questi nomi torneranno in
primo piano in alcuni riusciti ritratti
del sèguito. Come Wystam Auden poeta e Christopher Isherwood romanziere. Ma sono pagine da leggere, e non
da riassumere in tre righe. Vedere l’incontro di Auden con Gerhart Meyer,
39 e sgg., specialmente la 41-42. C’è
poco oltre il ritratto di Marinus van
Intervento
di Street Art
a Berlino, del
francese JR.
arrestedmotion.com
der Lubbe detto anche Dempsey perché era forte come il pugile americano
Jack Dempsey, allora campione dei pesi
massimi. Ma lui puntava sulle idee e
non sulla forza. «E la polizia, di rado incline alle sottili dispute ideologiche, gli
ruppe la testa un paio di volte». (p.49).
Ma vada avanti il lettore con i figli di
Thomas Mann, con Marlène Dietrich.
Ecc. Non dimentichi il lettore, se può, le
pp. 84-85 e altro: la 105, sul che cosa è la
gioventù. Ma devo saltare al 1990, alla
p. 150, per incontrare Monica. «Tornava a casa la mattina presto, quando gli
altri uscivano per le loro occupazioni.
In metropolitana, guardava le facce assonnate degli sconosciuti come fossero
l’atlante di una terra derelitta». Eccetera. Con questa intensità. Non si trascuri
l’Epilogo, 179 e seguenti.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶7 luglio 2014¶N. 28
35
Cultura e Spettacoli
Un’anticonformista in Ticino
Mostre La Pinacoteca Züst di Rancate riscopre la pittrice Rosetta Leins
Alessia Brughera
Capita, a volte, che artisti abili e con
una carriera ricca di riconoscimenti cadano nell’oblio. Il tempo li mette
negligentemente da parte finché qualcuno si interessa a loro e si impegna a
recuperarne la memoria e a riscoprirne
l’opera.
È quello che è successo con la mostra curata da Simona Ostinelli alla
Pinacoteca Züst di Rancate, che ha il
merito di riportare l’attenzione sulla
figura della pittrice ticinese Rosetta
Leins.
Certo non si spiega come un’artista
di questo calibro, considerata una delle più valide in ambito svizzero, abbia
potuto essere dimenticata per anni. Acquista quindi un’importanza maggiore
l’esposizione proposta dalla Züst, che,
fedele al suo obiettivo di valorizzare il
nostro territorio, «ritrova» una personalità artistica che finora non era stata
celebrata a dovere.
Lo sguardo fiero e risoluto di Rosetta Leins ci accoglie a inizio mostra in
un delicato ritratto a matita realizzato
dal suo maestro Otto Lüssi, e sembra
volerci mettere subito al corrente che
ciò che ci attende nelle sale del museo
è l’opera di una pittrice determinata e,
come cita il titolo dell’esposizione, anticonformista.
Sono proprio la determinazione e
l’anticonformismo, infatti, che l’hanno
spinta a rinunciare a un lavoro sicuro
nella tipografia paterna per indirizzarsi verso la pittura – in un periodo (gli
anni Trenta) in cui la crisi economica
costringeva gli artisti a una vita di stenti – e che l’hanno condotta a intrapren-
dere un percorso personale refrattario
a qualsiasi omologazione, ma al tempo
stesso aperto alle sperimentazioni e attento alle tendenze che si sviluppavano
anche fuori dal Cantone.
Nata a Bellinzona nel 1905, Rosetta Leins si dedicò con devozione e passione alla pittura per oltre trent’anni.
Scelse Ascona come luogo in cui risiedere, richiamata dal fervore culturale
che animava il borgo. Qui si avvicinò al
gruppo degli espressionisti svizzeri entrando in contatto con personalità quali Epper, Müller, Pauli, Schürch, Kohler
e il già citato Lüssi, che tanta parte ebbe
nell’incoraggiare e sostenere la sua carriera artistica.
Fu una pittrice prolifica, Rosetta. I
tanti lavori pubblici e privati realizzati
con assiduità hanno permesso di ricostruire in maniera abbastanza completa il suo tracciato biografico e professionale, nonostante per la mostra non
sia stato possibile consultare l’archivio
conservato ad Ascona.
Grazie alle selezionate opere di
Rancate riusciamo così a ripercorrere
la sua storia: la formazione privata nel
campo dell’arte, il viaggio a Parigi fra
il 1931 e il 1932 alla scoperta del postimpressionismo francese che influenzò
i suoi dipinti di quegli anni, la decisione di stabilirsi ad Ascona, il soggiorno
in Toscana per approfondire la tecnica dell’affresco attraverso lo studio
dei grandi maestri italiani del passato
(Giotto, Masaccio, Paolo Uccello, Piero
della Francesca), le molteplici esposizioni in Ticino e Oltralpe.
Ad affiorare è la figura di un’artista
con una forte predisposizione al confronto, che sa guardare ciò che la pro-
Era nata a Bellinzona nel 1905.
pria terra ha da offrire, ma che sa anche
scrutare ciò che accade al di là, per riuscire infine a coniugare in maniera personale tutti questi stimoli.
Visitando la mostra troviamo un
primo nucleo di dipinti che hanno per
soggetto il paesaggio, sezione importante, questa, perché le opere di Rosetta
Leins sono fra le rappresentazioni più
riuscite dei luoghi ticinesi: dal «retroterra di Ascona» al Luganese, al Mendrisiotto, di cui cattura scorci lacustri,
colline, vicoli e casolari. Molti di questi lavori non recano una data precisa,
ma poco importa, perché si pongono
come una rassegna dei territori più
cari all’artista, immortalati nella loro
quieta intimità. Ecco allora la strada di
Ronco sopra Ascona in un pomeriggio
d’estate, Losone in una giornata autunnale, le viuzze assolate in cui passeggiano silenziosamente alcune monache, i
giardini rigogliosi in riva al lago teatro
di squisiti brani di quotidianità, il tut-
to in uno stile che rivela ora l’influenza
della pittura francese, ora una più marcata ascendenza da quella contemporanea d’oltralpe.
Per Rosetta Leins le opere pubbliche costituiscono una parte rilevante
della produzione. Tra queste c’è la decorazione murale della Sala dei matrimoni nel Palazzo Civico di Lugano,
ben documentata in mostra da quattro
bozzetti preparatori che rappresentano
scene di vita familiare e lavorativa in
cui figure al contempo semplici e imponenti, debitrici nei confronti della pittura dei primitivi, si dedicano con serenità alle loro incombenze quotidiane. A
questo lavoro si aggiungeranno molte
altre commissioni pubbliche: dall’affresco per la Cappella del Cimitero di
Losone e del Cimitero di Fehraltdorf a
quello per il Palazzo del Governo a Bellinzona.
L’artista si interessa anche al genere
della natura morta, che le permette nel
corso degli anni di ricorrere a soluzioni audaci e di approdare a una semplificazione compositiva. Emblematica in
mostra è l’opera Frutta di maggio, del
1952, in cui il soggetto viene inquadrato dall’alto e realizzato con colori intensi e brillanti, a rimarcare la grande
libertà di esecuzione e l’alta qualità cromatica raggiunte dalla pittrice.
Gli ultimi esiti artistici di Rosetta
Leins sono raccontati attraverso alcuni
lavori eseguiti negli anni Cinquanta e
Sessanta, ancora un momento di grandi sperimentazioni in cui è evidente
l’interesse per il neocubismo. Le forme
si fanno ora più rigide, come succede
nell’opera I Re Magi, arrivo e sorpresa, dipinta per la Casa Belsoggiorno di
Ascona, in cui l’artista riduce gli elementi a profili geometrici accentuando
così la bidimensionalità e raggiungendo un elevato grado di sintesi. Anche
in questa stagione finale non mancano
gli amati paesaggi del Cantone: Inverno
1961 a Losone San Giorgio raffigura il
paese ricoperto da una spessa coltre di
neve, immerso in un’atmosfera ovattata e, soprattutto, ancora intriso di quel
delicato lirismo che ha accompagnato
tutta la produzione di Rosetta Leins
lungo i suoi insoliti e incisivi percorsi.
Dove e quando
Rosetta Leins. Vita e opere di una
pittrice anticonformista 1905-1966
Pinacoteca cantonale Giovanni Züst,
Rancate. Fino al 17 agosto 2104
A cura di Simona Ostinelli
Orari: martedì-domenica 14-18. Lunedì chiuso, aperto tutti i festivi
www.ti.ch/zuest
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶7 luglio 2014¶N. 28
36
Cultura e Spettacoli
Monica Vitti, ritratto di un’attrice
fuori dal comune
Cinema «Le attrici, diciamo, bruttine che oggi hanno successo lo devono a me. Sono io che ho sfondato la porta»
Giorgia Del Don
Per usare un paragone sicuramente azzardato, la rivoluzione «estetica» che
Monica Vitti ha scatenato nel cinema
italiano a cavallo fra la fine degli anni
Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, è paragonabile a quella innescata da
Kate Moss negli anni Novanta. Una vera
rimessa in questione degli stereotipi in
vigore, uno stravolgimento non solo
dell’immagine stessa della donna ma
anche e soprattutto dei valori ad essa legati. Le curve sexy devono loro malgrado
lasciare il posto alle pianure misteriose,
così come l’immagine rassicurante della
donna-mamma scansarsi per fare posto
agli enigmi di una nuova donna, moderna e libera.
I valori legati ad un modello estetico sono frutto di tutto un bagaglio culturale caratteristico della società che li
crea, e ne diventano in un certo modo il
riflesso. Da questo punto di vista il caso
di Monica Vitti e quello dell’inglesissima Kate Moss sono distanti anni luce.
Ciò nonostante quello che li accomuna è
la necessità di rompere con gli stereotipi
in vigore per proporre qualcosa di completamente nuovo e per certi versi quasi
sconcertante. Se le curve mozzafiato
delle super models che hanno preceduto
Miss Moss hanno l’arroganza e l’opulenza degli anni Ottanta, quelle della Mangano, della Loren e della Lollobrigida si
innalzano a emblema dell’italianità, rassicuranti, rincuoranti e fertili. Se da una
parte sono le valchirie a dominare le passerelle, dall’altra sono i seni sodi e le gambe chilometriche ad invadere il grande
schermo. Quello che accomuna malgrado tutto questi «modelli» di donna, lontani storicamente e territorialmente, è il
fatto che entrambi incarnano il fantasma
di un certo immaginario maschile che
sfida il tempo e che (purtroppo) non passa mai di moda.
Detto questo, e per ritornare al cinema, Monica Vitti ha creato una vera e
propria rivoluzione in un contesto che da
sempre si tiene ben stretto il suo ideale di
«classica bellezza italiana», e vi si aggrappa con un fervore che a volte sfiora il fanatismo. Durante gli anni Cinquanta si è
visto il proliferare sul grande schermo di
figure femminili che respirano l’italianità: prosperose, generose, di una rassicurante bellezza latina. La prestanza fisica
si insinua in modo quasi naturale, basti
pensare che le vedettes di quel periodo
sono Gina Lollobrigida, Sophia Loren e
Lucia Bosé, tutte e tre passate dal concorso di Miss Italia. In questo contesto Monica Vitti è di sicuro un’aliena. Non per
niente, malgrado le sue qualità di attrice
siano già riconosciute, il mondo del cinema all’inizio fatica ad aprirle le porte.
Con quella voce roca atipica e quei tratti
poco comuni, Monica Vitti è un quesito,
un oggetto bizzarro ed affascinante che
non si sa dove piazzare. Sarà quindi in un
primo tempo il cinema comico (meno
interessato alle curve mozzafiato) che le
permetterà di dar prova del suo talento.
La realtà (quella che oggi nessuno oserebbe mettere in dubbio) è che Monica
Vitti non è solo bella, è splendida, forte
ed intelligente, di una modernità che
Antonioni sarà il primo a cogliere e a capire veramente. Fra di loro nascerà spontaneamente un sodalizio che ci regalerà
dei personaggi meravigliosi: Claudia
di L’avventura, Valentina di La notte o
ancora Vittoria di L’eclisse o Giuliana di
Deserto rosso; ruoli che sembra siano stati cuciti addosso all’attrice che li impersona, ritratti di donne che sono ancora
oggi di un’attualità sconcertante, senza
tempo.
Monica Vitti incarna finalmente una donna nuova, moderna ed
inquieta(nte), diversa dai personaggi
rappresentati fino ad allora nel cinema
italiano. Antonioni, che come lui stesso dice, è cresciuto attorniato da figure
femminili, sa cogliere le inquietudini
più intime dei suoi personaggi: dal turbamento di Claudia (L’avventura) che
non riesce a non lasciarsi coinvolgere in
un’avventura che sa già finirà male, fino
alle nevrosi di Giulia (Deserto rosso),
incapace di adattarsi ad un mondo che
percepisce come vuoto e meschino. Monica e Michelangelo, una coppia davvero unica che non ha paura di sfidare le
convenzioni dell’epoca dandoci una sua
visione della donna.
Il cinema di Antonioni, fatto di silenzi e sottintesi, riesce a cogliere un universo interiore estremamente ricco, celebrando una «femminilità» multiforme
Monica Vitti ne L’avventura di Michelangelo Antonioni (1960). (Keystone)
che non si limita certo all’aspetto esteriore ed alle sue convenzioni. Solo lui poteva vincere la scommessa di farci quasi
dimenticare le fattezze da miss a favore
dell’universo interiore del suo personaggio. In un vero e proprio gioco di specchi,
La signora senza camelie mette in scena
una Lucia Bosé costretta ad interpretare
un personaggio che deve giustamente
fare i conti con la superficialità del mondo del cinema.
Monica Vitti dal canto suo ci dimostra che, sebbene Antonioni l’abbia portata alla vetta della sua arte, la sua mo-
bilità è tale da permetterle un cambio di
rotta radicale: in poco tempo diventa una
delle regine della comicità italiana. Una
forza la sua che è il marchio solo delle più
grandi attrici: camaleontiche, affascinanti e atemporali. Senza Monica Vitti
attrici italiane di talento quali Mariangela Melato o ancora la più giovane Alba
Rohrwacher non avrebbero forse avuto
lo stesso coraggio di imporsi per la loro
«singolarità», così difficile da accettare
in un mondo, quello del cinema italiano,
che purtroppo, troppo spesso, non brilla
di certo per coraggio.
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Cultura e Spettacoli
Mauro Harsch
Compagni di Viaggio L’estate in una comitiva immaginata
di alcune delle personalità musicali che operano nel nostro cantone
Una ricerca della profondità umana
Qualche anno fa un’amica mi chiese
quale fosse la missione del musicista
nella nostra società. Oggi sono più che
mai convinto che l’arte – e la musica
in modo particolare – costituisca una
via privilegiata nella ricerca della dimensione più profonda dell’esistenza
umana. Proprio in questo particolare
periodo storico ogni artista deve soprattutto saper trasmettere valori che
aiutino l’umanità a crescere. L’uomo è
alla ricerca di armonia, di sentimenti
autentici, del senso della bellezza.
Il tema della bellezza è sempre
stato presente nell’opera e nella vita
di Fëdor Dostoevskij. Anselm Grun,
monaco benedettino, racconta che il
grande romanziere russo andava spesso a contemplare la bellissima Madonna Sistina di Raffaello, rimanendo a
lungo in contemplazione davanti allo
splendido dipinto. Nei suoi romanzi
egli ha sempre penetrato le zone più
oscure dell’animo umano, riuscendo tuttavia a vedere la Bellezza anche
nell’anima dei personaggi più perversi. Letture appassionanti e rivelatrici.
Dal 1974 al 1989 ho seguito il ma-
Top10
DVD
1. The Wolf of Wall Street
L. Di Caprio, C. Blanchett
/ novità
Benedicta Froelich
È pianista, docente e animatore culturale.
estro Herbert von Karajan a capo dei
Berliner Philharmoniker ogni volta
che mi è stato possibile. Salisburgo era
la meta preferita. Nella grande sala del
Festspielhaus ho vissuto dei momenti
unici. Mai scorderò la straordinaria
ricerca di perfezione, di trascendenza e di bellezza del suono che Karajan
sapeva ottenere da ogni singolo strumentista coinvolgendo l’ascoltatore in
una sorta di incantesimo.
La ricerca dell’armonia e del senso
del bello l’ho ammirata anche nei capolavori del regista Franco Zeffirelli.
Sia nelle opere cinematografiche, sia
nelle regie teatrali e operistiche la forza carismatica del grande maestro ha
sempre esercitato su di me un fascino
particolare. Le memorabili traduzioni
cinematografiche di Romeo e Giulietta
e dell’Amleto, la spiritualità commovente del film dedicato a San Francesco e la travolgente regia dell’Otello
alla Scala, nel 1976, sono solo alcuni
esempi che confermano come, attraverso l’arte, un regista abbia saputo
trasmettere valori essenziali per il
bene e la crescita dell’umanità.
Giovanni Paolo II è stato un importantissimo compagno di viaggio,
che diede un ulteriore impulso alla
mia convinzione che l’arte non può
essere tale se non illuminata dal sen-
so del trascendente e che un artista,
anche quando scruta gli aspetti più
sconvolgenti del male, manifesta in
un certo senso il suo innato desiderio
di redenzione. Quando presentai al
grande papa polacco la documentazione sulla nascita dell’associazione
Ars Dei, egli mi diede un grande incoraggiamento che mi spinse a continuare con entusiasmo sulla via intrapresa, soprattutto nella creazione del
«Villaggio della Musica» a Sobrio.
In questi ultimi mesi, proprio
durante la preparazione del SobrioFestival, ho conosciuto la pianista Anna
Kravtchenko con la quale è nato subito un sincero legame d’amicizia e una
perfetta sintonia nel modo di concepire la musica. Abbiamo parlato molto,
pensato, suonato insieme, abbiamo
condiviso tante belle esperienze. Con
mio grande piacere, Anna inaugurerà
la prima edizione del SobrioFestival il
prossimo 12 luglio, nella Chiesa di San
Lorenzo a Sobrio.
I cinque compagni
1. Fëdor Dostoevskij
2. Herbert von Karajan
3. Franco Zeffirelli
4. Giovanni Paolo II
5. Anna Kravtchenko
Top10
Libri
Top10
CD
1. Andrea Camilleri
1. Artisti Vari
La piramide di fango, Sellerio
2. Paulo Coelho
2. Lone Survivor
Adulterio, Bompiani
Bravo Hits Vol. 85
2. Abba
Gold - 40th Anniversary
M. Wahlberg, T. Kitsch
3. Sveva Casati Modignani
3. American Hustle
La moglie magica, Sperling
3. Michael Jackson
Xscape
C. Bale, A. Adams
4. Markus Zusak
4. A spasso con i dinosauri
CD Il nuovo album della conturbante Lana
Del Rey la conferma come reginetta di un
vintage pop d’autore traboccante disagio
e inquietudine
A cura di Zeno Gabaglio
È docente di pianoforte e musica da camera presso la Scuola Universitaria di
Musica del Conservatorio della Svizzera
Italiana dal 1987. Ha suonato in Svizzera e all’estero e realizzato incisioni discografiche che hanno ottenuto unanimi consensi di pubblico e di critica. Nel
2002 ha costituito una Fondazione che
promuove iniziative artistico-culturali
nella Svizzera italiana volte a favorire la
formazione di studenti e l’attività di giovani artisti. Nel 2014 ha creato Il Villaggio della Musica a Sobrio (Leventina),
un centro d’incontro internazionale
dove studenti, giovani artisti e musicisti
affermati operano nella ricerca e nella
sperimentazione in campo artistico e
pedagogico. Il Villaggio ospita masterclass, corsi di vario genere e un festival
estivo dedicato al pianoforte e alla musica da camera (www.arsdei.org/festival).
Recentemente ha ricevuto importanti
riconoscimenti nell’ambito di produzioni discografiche dedicate all’opera di
Fryderyk Chopin. A lui la parola.
Riflessioni di una
novella Dark Lady
Storia di una ladra di libri, Frassinelli
4. I Nomadi
Nomadi 50 + 1
Per quanto ridicolo ciò possa sembrare, il motivo principale per cui Lana
Del Rey è recentemente risalita alla
ribalta ha ben poco a che fare con la
musica, essendo da imputarsi soprattutto alla sua «scandalosa» quanto ritrita dichiarazione sull’ambizione di
soccombere a una morte precoce, da
«vera rockstar». E se, in questo frangente, la 28enne Lana ha subito ricevuto un’appropriata quanto sdegnata risposta da parte di Frances Bean
Cobain, figlia di Kurt, non sarebbe
probabilmente troppo azzardato supporre che una simile dichiarazione
potesse nascondere un malcelato desiderio di pubblicità in occasione di un
evento cruciale quale l’uscita del suo
nuovo album — Ultraviolence, terzo
lavoro dell’artista, che giunge a due
anni di distanza dal fenomenale successo di Born to Die (2012), a sua volta
preceduto da un esordio ben poco celebrato (Lana Del Ray, 2010).
Del resto, l’ascesa allo stardom
internazionale della seducente Dark
lady Lana (all’anagrafe Lizzy Grant) è
stata a dir poco fulminante, visto che
Born to Die si può tranquillamente
definire come uno dei dischi di maggior successo degli ultimi vent’anni. La particolare impronta stilistica
della Del Rey — la cui voce suadente,
ma, allo stesso tempo, vagamente inquietante, si combina perfettamente
alle atmosfere conturbanti e alle liriche irrequiete delle sue ballate — la
rende immediatamente riconoscibile
come cantrice di un certo disagio tipicamente americano, dalle sfumature molto cinematografiche e alquanto
retrò, condite di ampi riferimenti (anche letterari) all’universo della cultura
pop degli anni 50-60.
In tal senso, anche l’impostazione di questo Ultraviolence è evidente
fin dalla traccia di apertura, la suggestiva Cruel World, che presenta subito
all’ascoltatore il particolare registro
emotivo su cui la vocalità dell’interprete si muove: la voce accattivante,
da novella «cantante confidenziale»,
della Del Rey sembra provenire direttamente da un film noir degli anni
30, e si fonde magistralmente con lo
sguardo disagiato e cinico espresso
dai testi delle sue canzoni, le cui atmosfere quasi gotiche la fanno sembrare
una crepuscolare Jessica Rabbit dalle
pericolose tendenze autodistruttive.
Una percezione confermata anche da
un lento ipnotico e avvolgente quale la
titetrack Ultraviolence, che non avrebbe sfigurato come colonna sonora di
un thriller alla Raymond Chandler, e
dalla bella ballatona romantica Brooklyn Baby, la cui gradevole e tutt’al-
tro che prevedibile andatura melodica
riflette l’amarezza di liriche agrodolci
e struggenti; e non è sicuramente una
coincidenza se brani come Shades of
Cool paiono richiamare le atmosfere
avvolgenti tipiche delle soundtrack dei
film di James Bond e della tradizione
di grandi interpreti angloamericane
del calibro di Shirley Bassey.
Allo stesso tempo, però, si ha
l’impressione che pezzi pur gradevoli quali la «sconveniente» Fucked
My Way Up to the Top e Pretty When
You Cry sarebbero forse risultati più
efficaci se lievemente accorciati e interpretati con minore enfasi; come se
la Del Rey stesse un po’ abusando dei
tratti caratteristici della sua particolare connotazione stilistica — quel
tono di voce a volte esasperatamente
lamentoso (si veda un lento come West
Coast, primo singolo tratto dall’album), e, soprattutto, l’uso un po’
troppo palese di filtri vocali e imbellettamenti da studio di registrazione,
con le conseguenti, ben note difficoltà
nelle esibizioni dal vivo. Tuttavia, per
la maggior parte del disco l’equilibrio
sembra reggere, dando vita al fascino
orecchiabile di pezzi come l’avvolgente Sad Girl o lo sprezzante Money
Power Glory: quasi degli esercizi da
crooner à la Nina Simone, ma con in
più un genuino spirito lisergico del
tutto odierno (del resto, non è casuale
che Lana si sia tatuata i nomi «Nina &
Billie» sul torace, in omaggio proprio
alla Simone e a Billie Holiday). Ciononostante, i brani forse più interessanti
e studiati dell’album risultano essere
proprio quelli che si distaccano dal tenore generale della tracklist — come la
riflessiva e autorivelatrice ballata Old
Money, che sembra riprendere le atmosfere del tormentone Videogames
(primo grande successo di Lana tratto
da Born To Die), ma con l’aggiunta di
un testo ben più complesso; o il blues
volutamente sgraziato di The Other
Woman, dal sapore cantautorale che
ricorda l’estro della compianta Amy
Winehouse.
In questo senso, l’acida e tagliente
verve interpretativa della Del Rey riesce a mantenere Ultraviolence su un
piano qualitativo più che interessante,
anche considerando come l’estremo
cinismo e sprezzo che ne caratterizzano il songwriting non mancheranno di
procurare nuovi adepti a questa seducente sacerdotessa del rock, riuscita a
far guadagnare al disco l’ambìto adesivo nero che, dalla copertina, avvisa
della presenza di linguaggio esplicito
nei brani. In attesa che, con gli anni e
l’esperienza, Lana si senta meno obbligata a scandalizzare il pubblico, e
magari più incline ad ampliare i propri
attuali orizzonti stilistici.
Animazione
5. Pierre Dukan
5. Frozen
La dieta dei sette giorni, Sperling
5. Gotthard
Bang!
Animazione
6. John Green
6. Monuments Men
Colpa delle stelle, Rizzoli
6. Moreno
Incredibile
G. Clooney, M. Damon
7. Irene Cao
7. Jack Ryan
Per tutti gli sbagli, Rizzoli
7. Cesare Cremonini
Logico
C. Pine, K. Costner
8. Gianrico Carofiglio
8. The Butler
F. Whitaker, O. Winfrey
Una mutevole verità, Einaudi
/ novità
8. Mondo Marcio
Nella bocca della tigre
9. George Michael
9. The Counselor
B. Pitt, C. Diaz
9. Anna Premoli
Finché amore non ci separi,
Newton
10. Roby Facchinetti
Ma che vita la mia
10. All Is Lost
Robert Redford
Symphonica
10. Tiziano Terzani
Un’idea di destino, Longanesi
Testi non adatti
ai minori per
l’ultimo album
della cantante
americana.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶7 luglio 2014¶N. 28
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Cultura e Spettacoli
Un ticinese a New York
Mostre Alla Galleria Cortesi di Lugano gli scatti del fotografo luganese Edo Bertoglio
Gian Franco Ragno
Capita spesso di associare una città a
un’epoca d’oro di grande fermento artistico. Quartieri ad affitti modici, incontri
tra culture diverse, inguaribile desiderio
di libertà e di dialogo, personalità trainanti sono spesso alcuni degli ingredienti di un mix tuttavia impossibile da
riprodurre. La Parigi negli anni Venti, la
Swinging London degli anni Sessanta e
sicuramente la New York degli anni Settanta-Ottanta sono tra questi periodi in
parte anche mitizzati.
È proprio nella «Grande Mela»,
dopo gli studi di cinematografia a Parigi, che il ticinese Edo Bertoglio (Lugano,
1951) vive e diviene testimone d’eccezione per quindici anni di una straordinaria
e irripetibile stagione artistica.
Lavora per la rivista «Interview» di
Andy Warhol, artista faro con la sua officina artistica The Factory, vero fulcro di
una nuova scena multiforme che comprende teatro, cinema d’avanguardia,
performance e musica underground – ma
che vede anche il nascere un fenomeno
nuovo, quello della street art, nata al di
fuori delle istituzioni artistiche. Ritrae
artisti e musicisti per riviste di moda
e case discografiche: tra i molti nomi
Keith Haring, Jim Jarmush e Debbie
Harrie, la cantante dei Blondie, una vera
e propria musa per il fotografo ticinese.
Incontra un giovanissimo Jean Michel
Basquiat, il quale diventerà protagonista
del suo primo documentario, Downtown
81 - girato appunto ad inizio anni Ottanta, ma rimasto per molti anni nel cassetto. Dallo Studio 54 - prima discoteca alla
moda dalla clientela strettamente su invito - sino ai bassifondi (allora) scrostati
dei quartieri a sud dell’isola di Manhattan (Soho, East Side), Bertoglio come af-
ferma in un’intervista, «lavorava sempre
e mai allo stesso tempo», ideando progetto su progetto, ritratto su ritratto. Vive
insomma un’epoca di edonismo sfrenato, quella reaganiana, in cui tutto sembrava facile, soprattutto diventare ricchi
come nel romanzo di Jay McInerney Le
mille luci di New York che ben ritrae quel
clima.
Alla Galleria Cortesi Contemporary
di Lugano, Bertoglio mette in scena un
inedito confronto fra due serie di ritratti
femminili: la prima, fotografate appunto
a cavallo dagli anni Ottanta, tra il 1978
ed il 1982 a New York (nella foto Anya
1979), le altre a trent’anni di distanza,
dal 2010. Da una parte, ritratte perlopiù
sul tetto del suo loft al Greenwich Village - in Bleeckers Street dove visse un altro
artista svizzero e americano d’adozione,
Robert Frank - le Figurines si mettono in
posa in un mattino albeggiante con tutto
il loro eccentrico orgoglio, nei loro vestiti
sgargianti e capigliature sperimentali. Il
viso bianco elettrico, ottenuto attraverso
l’uso di un flash ad anello – il ringflash,
che presta il nome all’esposizione – si
offre allo spettatore in pieno contrasto
con la realtà circostante, appena intuita
alle spalle della protagonista. Nell’om-
bra, metaforicamente, rimangono le insidie di quella New York molto diversa
da quella odierna, dove, oltre la violenza, protagonista era la droga. Sostanze
consumate in grande quantità che a loro
volta consumavano, portavano via definitivamente molte delle energie creative
degli stessi protagonisti dell’ambiente artistico, come lo stesso Basquiat. Qualche
anno più tardi apparse un altro spettro,
quello dell’Aids che colpì Robert Mapplethorpe e Keith Haring.
Tornando a oggi, a fare da controcanto alle Figurines, ecco le Ladies: un
progetto iniziato in condizioni totalmente diverse nel 2010. A differenza
delle prime, le ragazze d’oggi sono ritratte in studio, in un ambiente senza riferimenti spaziali né temporali.
L’autore si concentra maggiormente
sul viso, in una poco percettibile ma
efficace tensione data dall’asse del corpo leggermente divergente rispetto al
volto. Non più caratterizzate dall’abbigliamento, poco truccate e spesso con
i capelli raccolti, appaiono consapevoli della propria identità, rinunciando
temporaneamente a ciò che non sia essenziale.
Come per le polaroid di Warhol,
entrambi progetti fanno parte di un
unico personale diario di incontri di
chi, come Bertoglio, si dichiara face
addict, sempre alla disperata ricerca di
volti – non a caso, affermazione scelta
come titolo del suo secondo documentario che racconta un impossibile ritorno agli incredibili anni newyorkesi.
Un pianeta sconosciuto sta entrando
nell’orbita terrestre. L’impatto con il
nostro Mondo ne decreterà la fine. I
popoli dall’Africa all’Arabia con preghiere e danze invocano salvezza. Gli
americani seguono su grandi schermi
la traiettoria della minacciosa cometa.
Così iniziava dal gennaio 1934
sulle grandi tavole colorate dei supplementi domenicali d’una infinita catena
di giornali statunitensi l’affascinante saga fantaspaziale intestata a Flash
Gordon. Disegnata con superba agilità
da Alex Raymond (1909) che aveva già
dimostrato il proprio talento lavorando
come ghost tra l’altro alla serie Cino e
Franco di Lyman Young.
Biondo aitante sportivo laureato
a Yale e rinomato giocatore di polo: lo
vediamo passeggero d’un aereo in volo
intercontinentale colpito ad un’ala da
un frammento d’asteroide e per questo
paracadutarsi fuori e salvando così anche un’altra giovane passeggera, Dale
Arden, aggrappata a lui.
Finiscono vicino al laboratorio
dello scienziato dottor Zarkov che forsennatamente sta lavorando a un razzo
che potrebbe evitare l’impatto tra i due
pianeti. Costui sembra impazzito. Li
crede delle spie. Li costringe a entrare
nel razzo che lancia verso il cielo. Ne
segue una colluttazione, mentre l’astronave impatta nel temuto pianeta
Mongo, governato da Ming, crudelissimo dittatore «giallo». Col quale Flash
Gordon comincerà subito a scontrarsi,
in uno scenario che miscela sogno imaginifico a concreti pericoli «fiabeschi»
che soltanto l’aitanza fisica dell’impavido terrestre riesce a superare. Per difendere sé stesso da congiure di corte,
Antonella Rainoldi
Mentre si è conclusa martedì la corsa
della Nazionale ai Mondiali brasiliani
(numeri da record per la partita Svizzera-Argentina: una media di 101’700
spettatori e un picco di 120’000 sul
finale, uno share del 73,1% e un picco
di massimo ascolto del 77,1% nel secondo tempo supplementare), prosegue la programmazione di Cafè do
Brasil (RSI La2, ore 21 nella seconda
fase). Per ripetere cose già dette, Cafè
Enrico Carpani. (RSI)
Il progenitore dei supereroi moderni.
Giornale che si contrappose subito alla
tranquilla stampa per ragazzi presente
in edicola con pur dignitosissime storie
e personaggi. Flash Gordon in prima
pagina dal primo numero e all’interno
pure Jungle Jim e X-9. In poche settimane tirature da capogiro: cinquecentomila copie, assestatesi poi sulle trecentomila. E poco importa se frettolose
traduzioni fecero passare Gordon per
un agente di polizia e il nome di Zarkov
mutato in Zarro. Una bomba editoriale
rivoluzionaria, con prudenze autocensorie nei confronti delle beltà femminili che vennero un po’ mitigate dall’aggiunta di vesti meno trasparenti.
Raymond, figlio di un architetto, studi d’arte, disegnò la sua «space
opera», sui soggetti di Don Moore, per
il potente King Feature Syndicate, per
539 domeniche fino alla tavola del 30
Con Carpani e il
suo programma
scommessa vinta
sul piano del
coinvolgimento
Dove e quando
Fumetti La fantascienza fiabesca nelle storie di Alex Raymond
da aggressivi uomini scimmia, e la bruna Dale dalle concupiscenze di Ming.
Aiutato da Zarkov divenuto subito suo
prezioso amico, capace con strumenti di estrema semplicità di approntare
magari (sequenza sbalorditiva) un «solidificatore di atomi lucenti» per ridare
forza alle colonne luminose che sorreggono a cinquemila metri la città degli
Uomini Falco, sudditi di re Vultan.
Perché infatti si alternano lungo la
saga assieme a fantasiosi animali tra i
quali tigri cornute dai denti a sciabola e
lupi col corpo corazzato, varie altre razze umane: uomini leone, uomini marini, uomini lucertola e altro ancora. Un
insieme fantastico che impegna il terrestre in estenuanti lotte fisiche, tenendo
pure lontane le sinuose fanciulle dal
corpo perfetto, in testa la principessa
Aura, figlia di Ming, innamorata follemente di lui, vestite di veli come del resto Dale che per questo soffre di gelosia.
Un insieme che miscela abilmente atmosfere (ed icone costumistiche)
medievali e selvaggi preistorici scenari
naturali. Tutto proiettato in un futuribile di ardite architetture, armi laser e
una televisione che già indovina ciò che
è ora nel nostro presente elettronico:
colloqui a distanza su monitor tra Gordon e Ming. In un’aura di accattivante
segno di ricordo Liberty.
Flash Gordon conquistò immediata popolarità, mentre Raymond veniva
impegnato nella creazione di altre serie: quella esotica intestata a Jungle Jim
e su testi del giallista Samuel Dashiell
Hammett l’altra animata dal Secret
Agent X9.
Serie che fecero l’immediata fortuna dal 14 ottobre 1934 del settimanale a fumetti italiano, pubblicato a
Firenze da Nerbini, «L’Avventuroso».
Visti in tivù
Edo Bertoglio. Ringflash.
Galleria Cortesi Contemporary.
Lugano. Fino al 19 luglio 2014.
Flash Gordon compie 80 anni
Piero Zanotto
La bella
sorpresa
di Cafè
aprile 1944, quando venne chiamato col grado di capitano nel Corpo dei
Marines con incarichi di Art Director e
osservatore-artista a bordo di una portaerei dislocata nelle acque del Pacifico.
Congedato agli inizi del 1946 diede vita
ad un’altra serie poliziesca con l’investigatore Rip Kirby. Altri avrebbero
portato avanti le vicende di Flash Gordon però snervandone la bellezza fiabesca in intrecci unicamente astronautici.
Soltanto un altro disegnatore, suo
ammiratore, Al Williamson, dopo la
morte di Raymond a 47 anni avvenuta
il 6 settembre 1956 per un fatale incidente automobilistico, affrontando il
personaggio in una breve serie di comic
books, riuscì a rendergli omaggio cercando di rimanere fedele con impegno
grafico da elogiare al suo universo avventurosamente onirico.
do Brasil non è un programma per
intenditori di calcio: è qualcosa di diverso, più vicino ai gusti del pubblico
femminile, poco interessato ai dettagli, all’analisi tecnica. Si fonda su una
discussione in studio secondo i canoni
classici del talk show, e si dispiega fra
i contributi degli ospiti e gli episodi di
vita vissuta in Brasile, proposti attraverso servizi di pochi minuti.
Lo diciamo subito: con Cafè do
Brasil è una scommessa vinta, innanzitutto sul piano del coinvolgimento.
A garantire la riuscita della trasmissione sono diversi aspetti. Il primo è
senza dubbio la conduzione. Lontani
i tempi in cui Stefano Ferrando presentava quel repertorio di sciocchezze
chiamato Happy Euro! Enrico Carpani, responsabile del Dipartimento
Sport, è un grande professionista, conosce il mestiere e sa scegliere ospiti in
grado di esprimere un’opinione. In più
riesce a imporre la sua personalità e,
di conseguenza, il marchio di fabbrica
(qualcuno ricorderà la felice esperienza di Club Africa, premiata anche dal
magazine del «Tages Anzeiger»). Mettiamoci la presenza fissa di uno come
Kubilay Türkyilmaz, un signor commentatore amato da un pubblico trasversale, intergenerazionale, e il gioco
è quasi fatto.
Un altro aspetto riguarda i servizi mandati in onda, tutti realizzati da
un bravissimo Emiliano Bos. Cafè do
Brasil è anche questo: una pagina televisiva intensa. Impossibile non seguire con partecipazione storie di vita
come quelle dei bambini ai margini,
costretti nella favela di Santa Terezinha, alla periferia sud di San Paolo. La
testimonianza di Alberto Eisenhardt,
che con la moglie li ospita nella Casa
dos Curumins, ha raggiunto momenti di intensa commozione. L’idea di
gettare uno sguardo sull’altro Brasile,
quello estraneo ai campi dei Mondiali,
è buona anche per un’altra ragione: indirizza la discussione in studio su temi
non meno importanti del pallone.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶7 luglio 2014¶N. 28
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta
Com’era Mozart da vicino?
Ci sono molti modi per iniziare la storia
che sto per raccontare. Uno dei tanti,
il mio preferito, parte dagli Stati Uniti,
nei primi due decenni dell’Ottocento,
quando la città di New York, con i suoi
100 mila abitanti, non è ancora la più
popolosa dell’Unione: Philadelphia ne
conta 150 mila. Gli italiani residenti a
New York sono all’incirca una dozzina;
fra questi c’è un tale che, fra tante altre
attività, una più fallimentare dell’altra,
per un po’ di tempo ha aperto un negozio
di articoli coloniali. Un giorno si presenta il dottor Ellis, un medico melomane.
Non vuole fare acquisti ma porre una
domanda al titolare: «Com’era Mozart
da vicino?». Perché un italiano che fa il
droghiere a New York dovrebbe sapere
qualcosa di un musicista salisburghese
morto quasi 30 anni prima (il 5 dicembre 1791) e la cui fama postuma non fa
che crescere? La risposta è semplice:
quell’uomo si chiama Lorenzo da Ponte e
ha scritto i libretti di tre opere immortali
di Mozart: Le nozze di Figaro, Don Giovanni, Così fan tutte. È successo a Vienna
molti anni fa, dall’autunno del 1875 al
gennaio del 1790, ma come dimenticarlo? Lorenzo è sbarcato negli Stati Uniti,
dopo 57 giorni di traversata, nel giugno
1805, partendo dal porto di Gravesand
in Gran Bretagna, avvertito da un
poliziotto compassionevole che il giorno
dopo sarebbe stato arrestato per debiti
(aveva avallato cambiali non onorate
da un lestofante). L’anno precedente era
stato preceduto dalla moglie Nancy con
i quattro figli (il quinto sarebbe nato in
America). Un momento: moglie e figli?
Ma Lorenzo da Ponte non era un prete?
È così, ordinato sacerdote il 27 marzo
1773 nel seminario di Portogruaro, non
ha mai buttato la tonaca. Se è per questo,
prima ancora era ebreo e aveva un altro
nome. Arrivati a questo punto, forse è
meglio cominciare dall’inizio. Lorenzo
da Ponte viene al mondo, con il nome di
Emmanuel Conegliano, il 10 marzo 1749
nella cittadina di Ceneda, nella Serenissima Repubblica di Venezia. Nel 1861
Ceneda viene unita a Serravalle e forma
la città di Vittorio, in onore del re d’Italia
e poco dopo il nome è modificato in Vittorio Veneto. Il padre si chiama Geremia
e la madre Teresa Pincherle (ricordiamo che è il vero cognome di Alberto
Moravia). La madre muore e il padre, per
potersi risposare con una ragazza cattolica, deve convertirsi al cattolicesimo
e con lui i tre figli: Emmanuel, Baruch,
Anania. Il vescovo di Ceneda si dedica
personalmente alla preparazione dei
catecumeni. Il nostro Emmanuel è alto,
bello, sveglio, ansioso di piacere, impara
senza sforzo i libri che riesce a leggere, è
un genio dell’adulazione. Il vescovo ne è
così colpito da dargli il suo stesso nome e
il 29 agosto 1763 Emmanuel Conegliano
sparisce e al suo posto compare Lorenzo
da Ponte. Ha 14 anni e sua matrigna, Orsola Pasqua Paietta, ne ha solo 17. Nove
mesi e tre giorni dopo le nozze nasce
Agostino, il primo dei 10 figli, 3 maschi e
7 femmine. Per un giovane di talento che
avesse la disgrazia di non nascere ricco
c’era un solo modo per proseguire gli studi, entrare in seminario; il vescovo paga
la retta per lui e suoi due fratelli. Lorenzo
possedeva una straordinaria attitudine a
scrivere versi ma non ci occuperemmo di
lui se il suo percorso non avesse incrociato quello di Mozart. Fra testi originali e
adattamenti ha scritto una cinquantina
di libretti e i suoi versi hanno sempre
una meravigliosa musicalità ma, legati
a opere dimenticate, sono condannati
all’oblio. Ordinato sacerdote, Lorenzo ha
bisogno di farsi notare per emergere. Insegnante di latino al seminario di Treviso, organizza un’accademia poetica dove
sostiene le tesi di Rousseau; processato e
giudicato incapace d’insegnamento in
qualunque scuola pubblica, non gli resta
che il lavoro di precettore privato. Ma
intanto si è fatto notare dai nobili progressisti che lo assumono per far scuola
ai loro figli. Lorenzo ha una relazione
con una donna sposata che scodella un
figlio dopo l’altro, finiti tutti alla ruota
dell’orfanotrofio. Quando gli Inquisitori
della Repubblica vogliono colpire il nobile Giorgio Pisani che anima un circolo
di cospiratori, si rifanno sul precettore
dei suoi figli e Lorenzo, con il pretesto
della relazione adulterina, è condannato
in contumacia a quindici anni di esilio.
Inizia una peregrinazione che lo porterà
a Vienna, capitale dell’opera lirica negli
anni 80 del 1700, grazie all’imperatore Giuseppe II che era un patito della
musica e si occupava personalmente
della stagione. I due, Da Ponte e Mozart,
non erano amici; avevano in comune la
condizione di emarginati e la voglia di
emergere; i frutti del loro lavoro hanno
qualcosa di miracoloso, dal momento
che nessuno dei due parlava bene la
lingua dell’altro. Una stagione troppo
breve, chiusa dalla morte di Giuseppe II
e dalla salita al trono di suo fratello Leopoldo II. Mozart sarebbe poi morto non
ancora 35 enne, mentre Lorenzo muore
a New York il 17 agosto 1838, quando gli
mancano sei mesi a compiere 90 anni. Il
suo funerale è celebrato nella chiesa di
San Patrizio; un coro di fanciulli canta
il Miserere di Gregorio Allegri, quella
musica che il tredicenne Mozart aveva
ascoltato a Roma ed era riuscito a trascrivere a memoria nota per nota.
dell’amore dei partecipanti al simposio.
La prof sembra che sonnecchi o pensi
agli affari suoi, ma sente tutto. Così,
quando sente «il maschile e il femminile
secondo Aristofane devono compiere un
percorso per ricongiungersi», fa un balzo
sulla sedia. «Uh mamma, ho sbagliato?».
No, no. È che mi sono ricordata da dove
è probabile che derivi questa mania del
percorrere. C’è una trasmissione della tv
privata dove più ragazzi cercano di farsi
scegliere da una ragazza o più ragazze da
un ragazzo. La stessa dove «si fa la propria scelta», un altro tormentone: come
prendi il gelato, con o senza panna? Hai
fatto la tua scelta? E all’interno di questa
trasmissione, i e le pretendenti parlano
del tempo trascorso a corteggiare in pubblico e – non sempre – in un privato reso
pubblico dalla telecamera, e lo definiscono «percorso». Io e te, cara Samantha
(con l’acca?) o cara Debora (senza acca?),
ormai abbiamo compiuto un percorso
importante. Caro Mirko, caro Demian, è
stato bello compiere questo percorso con
te. Ma percorso da dove a dove? Dov’è
tutto il senso della fatica, della crescita,
dell’acquisizione di sapienza esperienziale che si cela dietro un cammino? Che
ostacoli da superare, che tensione alla
meta. La meta, poi, è quella di sempre:
apparire in tv (certo nessuno sarà così
sciocco da pensare che quegli sgallettati siano lì per risolvere problemi di
cuore e di futuro). Per raggiungerla sono
disposto/a farmi vedere senza trucco,
a sentirmi rifiutato/a, a litigare con i/le
rivali. A essere valutato/a a peso, come al
mercato, vedere i denti, gli zoccoli. Così,
anche le uniche difficoltà garantite per
la crescita di ogni adolescente, le pene
d’amore, diventano spettacolo. A chi farà
paura un percorso simile a quelli visti in
tivvù? E allora, certo inconsciamente,
proviamo anche con Platone, intraprendiamo insieme questo percorso, chissà
che la prof non si intenerisca e mi copra
se non di petali di rose, come alla tele,
almeno di trenta e lode e congratulazioni. Per il mio percorso.
Lo sport è anche letteratura. Lo sapeva
anche Giovanni Arpino, che ha scritto
un libro, Azzurro tenebra (5½), dedicato
al Mondiale 1974, che fu disastroso per
l’Italia. Un ottimo giornalista sportivo,
Darwin Pastorin, ha citato, in un recente
articolo, il poeta T.S. Eliot: il pallone «è
un elemento fondamentale della cultura
contemporanea». Uno specchio dell’animo umano. Anche i grandi poeti, a
volte, dicono ovvietà. Questa è un’ovvietà sacrosanta. Se dovessi segnalare un
personaggio opposto al cannibale Suarez
farei il nome del portiere del Brasile.
Il racconto di Pierluigi Pardo (5+), sul
«Foglio», gli ha reso giustizia. Julio Cesar
Soares Espíndola, noto come Julio Cesar
(6) e soprannominato Acchiappasogni,
ha un animo gentile e un sorriso solare.
A 33 anni è stato cacciato dall’Inter dopo
aver conquistato il Triplete: il 30 agosto
2012, prima dell’ultima partita, entrò
in campo con i suoi figli e con le lacrime
agli occhi lesse ai tifosi una lettera in cui,
ringraziandoli, ripercorreva i sette anni
trascorsi con la maglia nerazzurra. Finì
in una squadra inglese che fu retrocessa
nonostante i suoi miracoli in porta, con
le sue mani enormi e il fisico ancora
felino. Passò l’anno seguente in tribuna,
prima di essere ceduto al Toronto in
prestito. Nonostante il suo immenso
talento e le centinaia di parate decisive,
si pensava che la sua carriera fosse ormai
agli sgoccioli: troppo vecchio, superato,
largo ai giovani... Il Mondiale brasiliano l’ha fatto rinascere e parando due
rigori (la sua specialità) è uscito da eroe
dalla partita-chiave contro il Cile. Per la
verità, un eroe timido. Anche lì, davanti
alle telecamere che lo intervistavano, è
scoppiato in lacrime irrefrenabili che gli
impedivano quasi di parlare. «Nel kit
tecnico e psicologico del ragazzo di Rio
de Janeiro – ha scritto Pardo – c’è questa
clamorosa sensibilità, il lato sentimentale della vita che irrompe nel bene e nel
male, ed emoziona». Mani enormi come
il cuore. Del resto, un cuore è un cuore, è
un cuore, è un cuore.
Postille filosofiche di Maria Bettetini
Percorsi generazionali
«‘Ngiorno prof, per il suo esame ho scelto
il percorso quello con Spinoza». «Salve,
ho fatto il percorso di Aristotele». Si
siedono, mostrano il libretto, del quale
posso guardare solo la prima pagina
per verificare l’identità dello studente,
la privacy vieta da un paio d’anni di
sbirciare i voti precedenti, che era così
utile per capire subito se avevi di fronte
Lucignolo o Einstein. Che poi in fondo
si capisce lo stesso, da come salutano, si
siedono, portano o non portano i libri
di testo. Bene, Giuseppe si è seduto, l’ho
riconosciuto sul libretto, segno la data sul
verbale, è il momento magico dell’inizio.
Per lui, Giuseppe, intorno è silenzio,
anche se i suoi compagni ciarlano e si
tirano gli aereoplanini, Giuseppe sente
solo il battere del suo cuore, non percepisce nemmeno il sudore delle mani e
quel delicato rossore che dal collo sale a
imporporargli il viso, è un esame, e ogni
volta ci si sente messi interamente in
discussione, è sempre stato così, perfino
all’esame di guida. La prof chiede i testi
scelti tra quelli previsti nell’elenco riportato sul sito dell’università. Giuseppe
proferisce verbo, nel silenzio totale della
sua apprensione, e la magia cade tutta sul
«percorso». Ma cosa hai percorso? Ma
dove sei stato? L’interrogazione procede,
Giuseppe se la cava anche se caracolla un
po’ sulla prima domanda, che è una domanda a piacere. Strano, vero? Eppure:
è noto, e da me dichiarato, che la prima
domanda è quasi (quasi, mai rassicurare troppo) sempre a piacere; inoltre la
domanda a piacere consente a chiunque
di dire qualcosa, fosse anche un ricordo
delle scuole medie o il parere dello zio
Alderico sui quadri di Picasso (al netto
delle espressioni indecenti). Eppure.
Eppure molti implorano: no, la domanda
a piacere no, dica lei, mi chieda lei, prof,
per favore! Molti rimangono spiazzati:
mh sì, a piacere, mh, non so, Platone, ne
ha già parlato qualcuno? Sì, molti, è il
primo autore a essere spiegato a lezione
e il primo filosofo non si scorda mai. Ah,
allora, non so, non posso proprio parlare
di Platone? Ma sì, va bene, magari della
Repubblica, non del Simposio. Ma… è dal
Simposio che parte il mio percorso. Agh.
Mi mangerei il cappello come Rockerduck, avrei lo sguardo di Paperino che
fa Glab!, colpirei di bastone come lo zio
Paperon de’ Paperoni, se fossi a Paperopoli. Ma sono tra umani (i Muggles, i
Babbani di Harry Potter). E quindi tutto
ciò che è umano mi riguarda, come
dicevano i romani con Terenzio: Homo
sum, humani nihil a me alienum puto.
Pertanto: va bene, mi parli del Simposio,
e non dica più «percorso». No, non è una
parolaccia. È che io sono stufa di sentire
il resoconto dei percorsi da percorrere o
già percorsi. Il Paese segue un percorso
di cambiamento, prima di dipingersi le
unghie è opportuno seguire un percorso di rinforzamento. Sono a metà
percorso del trasloco. Cara amica, se ci
guardiamo alle spalle, che bel percorso
abbiamo fatto insieme. Rifletto, e intanto
ascolto il nostro Giuseppe riportare
con dignità i diversi pareri sulla natura
Voti d’aria di Paolo Di Stefano
Un morso è un morso, un cuore è un cuore
Un morso è un morso, è un morso, è un
morso. La parafrasi del famoso verso di
Gertrud Stein dedicato alla rosa è solo
per dire che non può esserci equivoco:
un morso è un morso. Dunque, che Luis
Suarez (1), attaccante dell’Uruguay, lo
ammettesse o no, il morso a Chiellini c’è
stato. Tra l’altro, se non fossero sufficienti le prove televisive, basterebbe dare
un’occhiata ai segni rimasti incisi sulla
spalla del difensore italiano. La confessione del reo e le scuse, in questo caso,
sono davvero tardive e insignificanti.
A meno che non si voglia dar retta a
quelli che sostengono che sono arrivate, confessione e scuse, per esigenze
di ingaggio con il Barcellona: Suarez
avrebbe sottoscritto un contratto con
una clausola-morso. Qualora dovesse
tornare ad addentare l’avversario, il
contratto con la squadra catalana cesserebbe e il giocatore sarebbe costretto
a pagare una penale. Così si spiegherebbe la svolta buonista, dopo le ridicole
dichiarazioni precedenti, consegnate
alla Federazione internazionale: «È stato
un gesto involontario, avevo solo perso
l’equilibrio e ho sbattuto la faccia contro
la spalla di Chiellini…». Ha poi aggiunto
che l’urto gli ha procurato un livido e un
forte dolore alla mascella, donde la farsa
del piagnucolamento infantile sul campo per il (presunto) danno subìto. Dopo
il gesto, dopo la sceneggiata e dopo
le bugie, Suarez si è guadagnato una
sanzione minima: nove partite internazionali e quattro mesi di sospensione da
ogni attività calcistica. È dunque passato
in breve tempo dal morso al ricorso al
(finto) rimorso.
Il peggio, se possibile, è arrivato dopo.
Quando cioè Chiellini è uscito dal delirium tremens e dalle convulsioni seguite
all’attacco cannibale dicendo non solo
che accettava le scuse (giusto), ma che
era tutto dimenticato e che anzi sperava
che riducessero la squalifica al povero
squalo ferito. Dopo il pestaggio, i rantoli,
le accuse, i pianti, gli urli, i rotolamenti,
un penoso balletto in punta di fioretto
(di Twitter) da vecchie signore all’ora del
tè (2).
«Morsi e rimorsi» è stato il titolo, quasi
univoco, dei commenti del giorno dopo.
«Morsi e ri-morsi» sarebbe stato più
adeguato, visto che finora si sono contate
otto aggressioni dentali di Suarez contro
i difensori avversari. Non due o tre, ribadisco, ma otto. Corsi e ricorsi (storici). Un
precedente è quello della furia bestiale
del pugile Mike Tyson che in un incontro
di boxe con Evander Holyfield gli morse
un orecchio staccandogli la cartilagine. Il
campione dei pesi massimi ammise (tardivamente anche lui) in un’autobiografia
che avrebbe voluto non solo staccare
l’orecchio all’avversario, ma ucciderlo.
Ne venne fuori una rissa gigantesca e
quando si ritirò in camera, dopo essere
stato bloccato da una cinquantina di
uomini, Tyson non aveva ancora sbollito
la rabbia: «Ho fumato dell’erba e bevuto
del liquore prima di andare a dormire».
Gli fu revocata la possibilità di scendere
sul ring per un solo anno.
prodotti
a km zero
di casa nostra.
I Nostrani del Ticino sono la riscoperta dei sapori locali e provengono esclusivamente da aziende ticinesi che ne garantiscono la qualità, la freschezza
e la genuinità. Essi rappresentano l’impegno concreto e coerente nel sostenere agricoltori, allevatori e produttori alimentari della nostra regione.
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shopping
Pane al mais nostrano,
un pane per tutta la giornata
Flavia Leuenberger
Attualità Buono a colazione, gustosissimo per un panino, ottimo grigliato
È una giornata di sole, attorno a noi fervono i preparativi per
il Festival Moon and Stars che da oramai quasi dieci anni
elettrizza Piazza Grande lungo una settimana e mezza ricca
di performance musicali di altissimo livello. In piazza ci troviamo con Alfredo, turista spagnolo originario di Murcia appassionato di boulder climbing. «Sono 3 anni che ogni estate
vengo in Ticino per arrampicarmi sui massi rocciosi», ci dice
sorridendo. «Nessun luogo in Europa è così ricco di elementi
naturali, dalla roccia, all’acqua alle piante generose di frutti e
noci. Per me che amo immergermi nella natura è un paradiso. Mi piace ritagliarmi un po’ di tempo per me stesso e in solitudine esploro i boschi, alla ricerca di una roccia alla quale
aggrapparmi. Parto la mattina con il mio zaino e l’essenziale,
come una buona pagnotta al mais nostrano per rifocillarmi.
Mi piace perché è un pane che si conserva morbido a lungo
ed è molto versatile. Posso gustarlo la mattina a colazione
come usarlo più tardi in giornata per farmi un panino pomeridiano». Il pane al Mais Nostrano ha come particolarità una
mollica compatta e giallo brillante, data dalla farina di granoturco sapientemente miscelata con farina di grano tenero
ticinese. La sua forma ricorda quella del sole e con la copertura di mais croccante evoca la stagione estiva. «Con l’arrivo
delle belle giornate, ciò che mi piace di più fare è arrampicare
a contatto con la roccia, in uno stato quasi meditativo. Dopo
aver passato la giornata nei boschi praticando bouldering,
una grigliata è l’ideale per recuperare le energie e riposare un
po’ il corpo. Con il pane che mi è rimasto faccio delle gustose bruschette che gusto con della carne grigliata oppure con
delle verdure. È sufficiente tenere il barbecue ad una fiamma
bassa e tostare velocemente il pane per un paio di minuti su
entrambi i lati. Il pane diventa bello croccante fuori mantenendo la morbidezza interna della mollica, vi assicuro che
è una vera e propria prelibatezza! Per il dopocena invece mi
piace scendere a Locarno, specialmente durante il periodo
del Moon and Stars perché la piazza è molto viva e c’è una
bella atmosfera di festa». Per un’estate scoppiettante date fuoco alle braci e sfoderate le pinze del barbecue, basta del buon
pane al mais nostrano tagliato a fette, qualche luganighetta e
verdure grigliate ed è subito festa. E poi tutti a Locarno a fare
due salti ascoltando gli artisti del Moon and Stars!
Luisa Jane Rusconi
Pane al mais nostrano
(Pan da formentón) 300 g Fr. 3.20
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Idee e acquisti per la settimana
Così vicino, così buono
Attualità Carnosi, peretti, cuore di bue, cherry, ramati, datterini… al via la stagione
dei pomodori nostrani, i quali hanno letteralmente invaso le filiali di Migros Ticino.
La dietista Pamela Beltrametti ci parla delle incredibili proprietà di questo ortaggio
Pamela Beltrametti,
dietista diplomata S.S.S.,
titolare dello studio di consulenza e
terapia dietetica
«La Dietista» di Cadenazzo
www.ladietista.ch
«I pomodori sono considerati verdure,
anche se in realtà sono dei frutti, della
famiglia delle solanacee. Sono originari
dell’Ecuador e del Peru, e furono portati
in Europa nel sedicesimo secolo. La stagione alle nostre latitudini inizia a aprile-giugno e va fino a settembre.
I pomodori contengono una molecola
dal potere antiossidante, il licopene,
che con il betacarotene è un pigmento
responsabile del colore del pomodoro.
Le sostanze antiossidanti proteggono
il DNA dai radicali liberi. Il licopene è
presente soprattutto nella buccia del
pomodoro e nel pericarpo (parte attorno ai semi).
Si raccomanda di consumare i pomodori maturi, e non verdi, poiché
contengono solanina, un alcaloide.
Questa sostanza si scompone durante
il processo di maturazione, cedendo
il posto a licopene e beta carotene. Si
raccomanda inoltre di tenere i pomodori fuori dal frigo, così da preservare
il loro aroma.
Per ottenere il maggior beneficio dalla
presenza di licopene, è necessario cuocere il pomodoro; il licopene, contrariamente ad altre vitamine e sostanze
vegetali secondarie, non è sensibile al
caldo. Gli studi mostrano che l’aggiunta di olio di oliva durante la cottura del
pomodoro aumenta di molto l’assorbimento del licopene.
Un esempio è la tradizionale salsa di
pomodoro, meglio se con la buccia e
affinata con olio di oliva.
L’interesse nutrizionale del pomodoro,
oltre che alla presenza del licopene, si
spiega con la presenza di fibre e di betacarotene. Il betacarotene o provitamina A può essere trasformato dall’organismo in vitamina A, ma è sensibile
al calore. Le perdite di questa vitamina
sono in media del 20 % con la cottura.
Per questo motivo, oltre a consumare
pomodori cotti, sotto forma di sughi o
zuppe, è interessante consumare i pomodori crudi, con la buccia. Un classico estivo è la caprese o la bruschetta.
Interessante notare che un pomodoro
che sta nel palmo di una mano apporta
circa la metà del fabbisogno giornaliero di betacarotene per un adulto.
Le proprietà di questo ortaggio lo
rendono protagonista nell’alimentazione equilibrata di adulti e bambini,
e le tante varietà e colori abbelliscono
i nostri menu estivi, unendo varietà e
piacere a tavola».
Manuela Kraus di S. Antonino, orticoltrice e produttrice di pomodori per Migros Ticino. (Giovanni Barberis)
Pomodori Nostrani in degustazione
11 e 12 luglio
Migros Serfontana
12 luglio
Migros Biasca
16 e 17 luglio
Migros Locarno
16 e 17 luglio
Migros S. Antonino
18 e 19 luglio
Migros Agno
18 e 19 luglio
Migros Lugano
19 luglio
Migros Taverne
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Idee e acquisti per la settimana
I mirtilli di S. Antonino
Attualità Le bacche coltivate da Cesare Bassi sono pronte a conquistare il palato
dei buongustai
Foto di Giovanni
Barberis: Cesare
Bassi coltiva
mirtilli da oltre
vent’anni.
Da alcune settimane sugli scaffali di
Migros Ticino possiamo acquistare e
gustare i mirtilli ticinesi. Una parte di
essi provengono da S. Antonino, dove
l’azienda Bassi li coltiva ormai da oltre vent’anni. I frutti, anche se hanno
l’aspetto di bacche, in realtà sono false
bacche, perché si originano, oltre che
dall’ovario, da sepali, petali e stami.
La raccolta dei mirtilli dura circa 40
giorni e, come ci spiega Cesare Bassi,
comincia già da metà giugno: «Avviene in modo rigorosamente manuale:
con il consistente appoggio della moglie
Raffaella e dei suoceri Tino e Silvietta,
visitiamo le 350 piante della piantagione (distribuita su 1500 m2) due volte
a settimana». In questo modo i frutti
vengono raccolti al culmine della loro
maturazione e il giorno seguente sono
a disposizione dei clienti.
I quantitativi variano secondo la stagione, ma si aggirano tra i sette e i dieci
quintali, prodotti in modo completamente naturale: «I mirtilli non hanno
per ora bisogno di alcun tipo di trattamento fitosanitario; l’unico problema,
recente, è l’arrivo della Drosophila suzukii, un moscerino che attacca i mirtilli
maturi». Per limitare i danni, l’azienda
Bassi posiziona diverse trappole nel
frutteto, delle bottiglie con una miscela
a base di aceto dove l’insetto viene attratto. Un’altra minaccia arriva invece
dal cielo, dagli uccelli (passeri e merli)
che sono particolarmente ghiotti di
mirtilli: «Non sempre mangiano il frutto, ma anche solo beccando i mirtilli li
rendono invendibili», racconta il dinamico agricoltore. Per salvare i frutti,
anche dalla grandine, è quindi necessario coprire le colture con delle reti,
chiuse ermeticamente.
L’azienda Bassi di Sant’Antonino è attiva anche con i ribes o con le ciliegie,
mentre in agosto sarà il tempo delle
mele che, assieme alla vigna, completano i 16 ettari dell’azienda famigliare situata all’imbocco del Piano di Magadino. Oltre alle colture frutticole, Cesare
Bassi si occupa anche di circa 25 vacche
nutrici che, con i loro vitelli d’estate salgono sull’alpeggio, lasciando un più di
tempo a lui e ai famigliari per dedicarsi
alla fienagione e alla raccolta di frutti,
bacche e degli altri prodotti della terra.
/ Elia Stampanoni
Trote nostrane al grill
Attualità Le trote iridee nostrane della
Piscicoltura di Pura sono ottime anche cotte
sulla griglia. Vi proponiamo un’irresistibile
ricetta preparata con questo versatile pesce
in vendita presso i reparti pesce di Migros
Ticino
Trota grigliata con foglie d’alloro
Piatto principale per 4 persone
Ingredienti
4 trote intere nostrane
eviscerate di ca. 250 g
1 limone
8 foglie d’alloro
sale
4 cucchiai d’olio d’oliva
Preparazione
Sciacquate le trote eviscerate sotto
l’acqua fredda e asciugatele con carta
da cucina. Tagliate il limone a fette.
Fissate con lo spago da cucina, da
entrambi i lati, le foglie d’alloro e le fette
di limone. Condite le trote con sale e
olio d’oliva. Accomodate le trote su un
foglio di carta alu oliato. Cottura: grill
sferico a carbonella: preparate la brace.
Grigliate le trote su un foglio di carta
alu a fuoco indiretto, con coperchio
chiuso, per 8-10 minuti. Grill sferico a
gas o elettrico (grill a cinque posizioni):
scaldate il grill a 220 °C. Grigliate le
trote su un foglio di carta alu, sulla
posizione 3, con coperchio chiuso,
4-5 minuti per lato. Grill a carbonella
senza coperchio: preparate la brace.
Sistemate la griglia sulla scanalatura
più alta. Grigliate le trote su un foglio di
carta alu sulla brace non troppo forte, 7
minuti per lato.
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Idee e acquisti per la settimana
Ricordi
d’estate
Novità Gelato nostrano
al lampone e yogurt: delizia
stagionale che fa sognare
sempre ha lo stesso gusto e a dipendenza del luogo
di produzione, della tipologia del frutto, dell’esposizione al sole e del tipo di clima si possono avere
variazioni di sapore che vanno dall’acidulo al più
dolce. Per la propria frutta Lucibello si rifornisce
da due produttori locali che producono le passate
di frutta usate per aromatizzare i gelati. Lo yogurt
proviene dalla Agroval di Airolo e tutti gli ingredienti sono certificati Ticino, come d’altronde
anche quelli usati per le varietà Uva Americana,
Farina Bona e Fiordilatte già in assortimento a
Migros Ticino. / Luisa Jane Rusconi
Flavia Leuenberger
«Una cucchiaiata e sono trasportata dai ricordi
alla mia infanzia», racconta la compagna e socia di
Ivano Lucibello, produttore dei gelati nostrani per
Migros Ticino. Julita La Mantia ama da sempre i
lamponi, che predilige sopra ogni altro frutto.
«Penso che tutti i bambini li adorino, così dolci e
freschi, e neanche noi adulti siamo da meno». Nel
laboratorio «Mastro Lucibello», dove nascono i
gelati 100% ticinesi, ci facciamo spiegare da dove
giunge questa passione. Dopo anni nella pasticceria, Ivano Lucibello si interessa al gelato iniziando con tecniche di lavorazione più comuni (che
richiedono l’uso di paste aromatizzate) per poi
decidere di produrre unicamente gelato 100% artigianale. Una lavorazione complessa che richiede
molte prove per ottenere un prodotto con la giusta
dolcezza; e difficilmente la produzione delle varie
stagioni ha lo stesso sapore. La frutta fresca non
Gelato nostrano
al lampone e yogurt
400 g Fr. 7.70
Grande successo per il decimo
anniversario della Festa dei Vicini
Manifestazioni Premiati i dieci vincitori del concorso fotografico sostenuto da Migros Ticino
Mirador:
informazioni
errate sulla
confezione
Da inizio anno, il condimento in polvere alle erbe Mirador della Migros è
prodotto secondo una nuova ricetta
senza lattosio. Tuttavia, durante la fabbricazione il condimento aromatico è
stato accidentalmente prodotto ancora
secondo la vecchia ricetta contenente
lattosio, finendo in commercio nella
nuova confezione (in foto). Gli articoli
in questione (numero 1062.205) riportano le date di scadenza 21.5.15 oppure
5.6.15. Le ricariche (articolo numero
1062.212) riportano invece le date di
scadenza 7.9.15 o 24.11.15. I lotti interessati sono stati venduti tra gennaio
ed aprile 2014. Le persone intolleranti
al lattosio e i vegani non dovrebbero
consumare il condimento in questione, ma possono restituirlo a una filiale
Migros dietro rimborso del prezzo di
vendita.
Lettere, testimonianze ma soprattutto
tante, tante fotografie! La Festa dei Vicini 2014, giunta al suo decimo anniversario, ha registrato un consenso senza
precedenti: oltre 16 feste organizzate in
tutto il luganese: da Pambio-Noranco a
Molino Nuovo, da Breganzona a Gandria, da Pregassona a Loreto, Cadro, Davesco-Soragno e Castagnola! Per ogni
festa sono state segnalate in media tra
le 10 e le 30 persone per una stima complessiva pari a oltre 500 partecipanti.
Tante le testimonianze di entusiasmo
da parte degli organizzatori che hanno
allestito tavolate colorate e scattato foto
creative a forma di cuore, con le braccia alzate al cielo oppure a comporre la
scritta «Festa dei Vicini». Al punto che
la scelta dei dieci vincitori delle carte regalo Migros di Fr. 100.– ciascuna è stata
difficile e un premio di ringraziamento è stato inviato a tutti i partecipanti.
Ecco dunque i nomi dei dieci vincitori
per l’edizione 2014: A. Ragusa (Pambio
Noranco); E. Caroli (Gandria); C. Gerosa (Besso); F. Tollo (Loreto); S. Moroni
(Molino Nuovo); M. D’Angelis (Pambio-
Noranco); O. Jackson (Lugano centro); L.
Rinaldi (Breganzona); S. Borellini (Cadro); D. Finelli e M. Caforio (Massagno).
Tutte le foto della Festa dei Vicini 2014
sono visibili al seguente link: www.lugano.ch/diis oppure sulla pagina facebook del Dicastero integrazione e informazione sociale: www.facebook.com/
diislugano.
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Idee e acquisti per la settimana
Il Lardo di Colonnata
Il paesino di Colonnata, frazione di
Carrara sulle Alpi Apuane, è la patria di
uno dei salumi (forse) più pregiati d’Italia. Un lardo bianco, saporito, profumato e dolce, che deve la meritata fama
al luogo in cui è stato inventato. Come a
Carrara e negli altri comuni della zona,
il marmo estratto dalle cave è da secoli
fonte di sostentamento per la popolazione, così è a Colonnata, dove però
il marmo ha un insospettabile pregio
in più: serve a fare maturare il lardo. Il
lardo, la parte adiposa della schiena del
maiale, viene tagliato a fette di almeno
3 cm, che alternate a strati di sale marino naturale, pepe e spezie, vengono poi
chiuse in contenitori di marmo (conche) e lasciate stagionare per almeno 6
mesi.
Durante questo periodo il lardo, a contatto con il sale, produce la cosiddetta
«salamoia», indispensabile per la maturazione del salume. La sua lavorazione
è semplice, ma le peculiarità ambientali
del paesino di Colonnata sono uniche.
Oltre a sfruttare le caratteristiche del
marmo, Colonnata è a due passi dal
mare, dove per buona parte dell’anno
si gode un microclima fatto di temperature costanti.
Dal 7 al 19 luglio la gastronomia della
vicina Penisola sarà ospite dei Ristoranti Migros del Cantone con molte
sfiziose proposte all’insegna della buona tavola e della tradizione. L’offerta,
che può variare giornalmente, include le seguenti specialità: Saltimbocca
alla romana con risotto allo zafferano;
Merluzzo alla livornese; Costoletta
valdostana; Trancio di tonno all’aceto
balsamico su letto di rucola con grana
e pomodorini; Fritto misto; Costata di
manzo; Sogliola alla Sorrentina; Arrostini di pollo alla birra e Piccata alla
milanese con risotto alla parmigiana.
Inoltre, non mancano anche diverse
paste, pietanze fredde nonché dessert
tipicamente mediterranei.
Lardo di Colonnata 100 g Fr. 6.30
In vendita nelle filiali di Migros Ticino
con banco a servizio.
Piadine
solo vegetali
Quando si va di fretta ma non si vuole
rinunciare a qualcosa di genuino e gustoso, una piadina farcita con i companatici preferiti è spesso la soluzione
ideale. Quando poi questa è fatta con
ingredienti 100 % vegetali ed è priva di
lievito, proteine del latte nonché grassi
idrogenati tanto meglio, anche per la
gioia degli intolleranti a queste sostanze nonché dei vegani. Le due piadine
firmate Borioni soddisfano queste esigenze, giacché sono realizzate con fari-
Specialità
italiane nei
Ristoranti
Migros
ne di malto d’orzo le une e mais e farro
le altre. Sono pronte in un baleno scaldandole brevemente sulla teglia del forno oppure in una padella antiaderente.
Piadina Malto d’Orzo Borioni
300 g Fr. 4.90
Piadina Mais e Farro Borioni
300 g Fr. 4.90
In vendita nelle maggiori filiali Migros.
Freschi sapori dal sud
Nativa dell’Africa centrale, l’anguria
(Citrullus lanatus), era coltivata e consumata nell’antico Egitto molto prima
del 2000 a.C. Probabilmente fu introdotta in Europa dai Saraceni quando
invasero la Spagna. L’anguria è considerata un dessert nella maggior parte
del mondo occidentale, mentre nelle
regioni aride è utilizzata sia come sostituto dell’acqua che come contenitore
per il trasporto di quest’ultima.
Si tratta generalmente di un frutto voluminoso, dalla polpa rossa, rosa o
gialla, che può arrivare a pesare fino a
20 chili, ma oggi esistono anche varietà
in formato mini con le medesime caratteristiche di quelle di grande formato.
Composta per oltre il 90 per cento di
acqua, ha un gusto dolce e una consistenza farinosa che si scioglie in bocca, rinfrescandola. La si gusta da sola,
sia come frutto che come bevanda, ma
si abbina bene ad alcuni formaggi ed è
perfetta per la preparazione di sorbetti.
Attualmente a Migros Ticino trovate
alcune varietà di anguria d’origine italiana.
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Idee e acquisti per la settimana
Amata da dive e regine
La focaccia farcita esisteva già in tempi antichi. Ma sono stati i pomodori
e la mozzarella a portare la pizza al successo
Quando, nel 1889, il pizzaiolo napoletano Raffaele Esposito volle creare una
pizza in onore della regina Margherita
di Savoia, ricoprì con pomodori, mozzarella e basilico il tradizionale impasto di
farina, acqua, lievito e sale. Nacque così
la Pizza Margherita con i tre colori della
bandiera italiana, come ancora la conosciamo oggi. Intanto, un altro pizzaiolo
che qualche anno prima aveva aperto la
prima pizzeria di Roma, aveva fatto fallimento. Evidentemente, nella città eter-
na a nessuno era piaciuta quella focaccia
destinata ad aver così tanto successo. Poi,
però, anche Roma fu conquistata dall’entusiasmo portato dalla Regina. Anni
dopo, gli emigranti esportarono la pizza
nella loro nuova patria oltreoceano e la
resero talmente popolare che negli Stati
Uniti già alla fine degli anni Cinquanta
esistevano le prime pizze precotte. I lavoratori italiani portarono la pizza anche in Svizzera, nella stessa epoca in cui
gli svizzeri iniziavano a viaggiare in Sud
Sophia Loren l’ha sempre saputo: una
semplice pizza con pomodori, mozzarella,
acciughe e olio d’oliva fa parte
dei grandi piaceri della vita.
Italia e ad innamorarsi di Margherita e
compagnia. La moda della pizza ispirò
anche la panetteria Jowa della Migros,
che cominciò a sfornare pizze già verso
la metà degli anni Sessanta. Stelle del cinema come Sophia Loren contribuirono
al successo mondiale di questa pietanza:
far la pizza in casa può essere un’attività
molto seducente… Anche se la diva ha
sempre dato il merito della sua linea agli
spaghetti, da buona napoletana la Loren
adora la pizza. / Testo: Claudia Schmidt
Pizza alle erbe con pancetta
Piatto principale per 4 persone
Ingredienti
1 pasta per pizza rettangolare
già spianata di 580 g
300 g di mozzarella
300 g di pomodori cherry
4 rametti d’origano
4 rametti di timo
1 cucchiaio d’olio d’oliva
½ mazzetto di basilico
100 g di pancetta piana a fette
Preparazione
Scaldate il forno a 230°C. Srotolate
la pasta per pizza e dividetela in quattro.
Accomodate la pasta su una teglia
foderata con carta da forno. Dimezzate
la mozzarella e tagliatela a fette sottili.
Dimezzate i pomodori cherry. Staccate
le foglioline di origano e di timo. Farcite
i quarti di pasta con gli ingredienti. Irrorate
con poco olio d’oliva. Cuocete le pizze
nella scanalatura più bassa del forno per
ca. 20 minuti. Estraete le pizze.
Staccate le foglie di basilico e distribuitele
assieme alla pancetta sulle pizze.
Tempo di preparazione
ca. 20 minuti
+ cottura in forno ca. 20 minuti
Per persona
ca. 30 g di proteine, 40 g di grassi,
66 g di carboidrati, 3150 kJ/755 kcal
Ricetta di:
Longobardi
Pomodori pelati
e triturati
280 g Fr. 1.10
Anna’s Best Pasta per pizza spianata
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶7 luglio 2014¶N. 28
48
Idee e acquisti per la settimana
Autenticamente italiana
Le pizze di La Pizza sono fatte a mano, con un bordo croccante ed arioso e un fondo sottile
Il segreto della cucina italiana sta nella sua raffinata semplicità. La linea La
Pizza comprende pizze fatte a mano
in diverse variazioni, nonché alcuni
spuntini come le pizzette, tutti prodotti
secondo il suddetto principio. L’altissima qualità delle pizze emerge al primo
morso. Dopo una breve cottura nel for-
no, il bordo diventa croccante e il fondo
morbido pur essendo sottile. Condita
con ingredienti freschi, emana i sapori
della pizza cotta nel forno a legna. Dato
che la pasta viene stesa con movimenti
ondulatori invece che spianandola, la
pizza assume una consistenza particolarmente ariosa. Viene prodotta alla
vecchia maniera dall’azienda a conduzione familiare Margherita S.r.l. di Fregona, in provincia di Treviso. Il processo di produzione tradizionale comincia
già dalla pasta e dalla lunga lievitazione, che dura ben 24 ore. In questo modo
la pasta resta particolarmente ariosa,
perché non viene spianata, ma tirata a
mano dai pizzaioli che la fanno roteare.
Anche i condimenti vengono apposti a
mano. La maggior parte provengono
da produttori locali. Naturalmente,
pure l’acqua dell’impasto proviene dalla regione ed è particolarmente pura.
Un altro dei segreti della pizza perfetta.
/ DH
La Pizza Margherita
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Sia l’acqua dell’impasto che la maggior parte degli ingredienti provengono dalla regione attorno a Fregona, in provincia di Treviso.
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Tutti i sughi per la pasta e
le conserve di pomodoro
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ai frutti di bosco, 2 x 500 g
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶7 luglio 2014¶N. 28
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Idee e acquisti per la settimana
Extra
Confettura
Fragole
500 g Fr. 2.95
Extra
Marmellata
Arance amare
500 g Fr. 2.10
Extra
Confettura
Albicocche
500 g Fr. 2.70
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Confettura
Lamponi
500 g Fr. 3.40
Senza il minimo sforzo
Ora, tutte le confetture Extra sono dotate di coperchio «easy open».
L’apertura del vasetto diventa un gioco da ragazzi
L’Industria Migros produce numerosi
prodotti molto apprezzati, tra i quali
anche le confetture Extra.
Per molti la marmellata è parte integrante di una buona colazione. Le
confetture Extra sono tra le più vendute in Svizzera e va ricordato che l’offerta di marmellata in generale ha sempre
avuto la massima priorità alla Migros:
al momento del suo lancio, nel 1928,
costituiva il secondo articolo prodotto
in proprio da Migros. Ora, su suggerimento dei clienti, la Migros ha pensato a come si può rendere più facile il
prelievo della confettura Extra dal vasetto, perché spesso bambini e anziani non hanno abbastanza forza nelle
mani per aprire il coperchio senza fatica. Il risultato è un coperchio dotato
di una filettatura di facile apertura.
Grazie alla rotazione in due scatti il
vasetto di vetro si apre in un battibaleno. Non c’è più bisogno di aiutarsi con
accorgimenti vari, perché lo sforzo richiesto si è ormai dimezzato. Una fa-
cilitazione benefica soprattutto per le
persone affette da reumatismi, motivo
per cui anche la Lega svizzera contro il
reumatismo raccomanda questo nuovo tipo di coperchi. Attenzione però: il
periodo di conservazione garantita –
una volta aperto l’involucro sottovuoto – rimane immutato. Naturalmente,
il vasetto si lascia anche richiudere
senza fatica, prima di essere riposto in
frigorifero. / AW
Anche i vecchietti
si rallegrano: ora le
confetture Extra si
aprono con la metà
della forza grazie
al coperchio con
sistema a due scatti.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶7 luglio 2014¶N. 28
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶7 luglio 2014¶N. 28
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Idee e acquisti per la settimana
Ice Tea Classico limone
1 l Fr. –.75
1986
L’Ice Tea si trova già
da due anni sugli scaffali
della Migros. È originario
degli Stati Uniti.
Ice Tea Classico pesca
5 dl Fr. –.95
Oggi
Ice Tea Classico zero
5 dl Fr. 1.–
La gamma di produzione
dell’Ice Tea, diventato ormai
bevanda di culto,
comprende ora 7 varietà.
Un tè di successo compie
30 anni: auguri!
Già poco dopo il suo lancio, l’Ice Tea della Migros si è fatto un nome in tutta la Svizzera.
Un ingegnere l’ha introdotto nel nostro paese nel 1984. Oggi se ne producono circa 50 milioni di litri all’anno
Ci sono prodotti che devono la loro nascita a una circostanza fortunata. La creazione dell’Ice Tea si basa sull’idea di un
ingegnere che lavorava allora al reparto
sviluppo della Bischofszell Nahrungsmittel AG (Bina). Aveva provato la bevanda più di 30 anni or sono negli Stati
Uniti e ne era entusiasta.
Con spirito innovativo, nel 1983 alla
Bina si iniziò la fase di sperimentazione e sviluppo. Già un anno più tardi
nei negozi Migros si poteva trovare il
primo infuso di Ice Tea in Svizzera. La
classica bevanda veniva prodotta in
contenitori da 2000 litri secondo il metodo dell’infusione (vedi intervista),
e nel corso degli anni il procedimento
veniva continuamente ottimizzato. Nel
1985 nella produzione venne introdotto il sistema a turni, aumentando così
la produzione giornaliera a 4500 litri.
Dal momento che tutto procedeva a
meraviglia, nel 1999 fu creata la linea
Premium-Tea-House, che compren-
de gustosissime varietà come Rooibos
Vaniglia, Green Tea Lime o erbe alpine bio. Dal 2012 Bischofszell si muove anche in senso sostenibile: per la
produzione della bevanda si utilizza
esclusivamente tè nero proveniente da
coltivazioni dell’isola di Giava certificate UTZ. / Anette Wolffram Eugster;
Foto: Daniel Ammann (2), documentazione FCM
L’apprezzatissimo Ice Tea va in tournée
nelle filiali. Info sul sito: www.bina.ch
Intervista
«Abbiamo ridotto drasticamente
il contenuto di zucchero»
Ruedi Bärlocher, 30 anni fa lei ha
contribuito ha sviluppare l’Ice Tea
classico. Come le è venuta l’idea?
Il nostro caposettore dell’epoca aveva
portato l’idea dalle sue vacanze negli
Stati Uniti, dove il tè freddo era già sul
mercato quale bibita non zuccherata.
Decidemmo di provarlo anche da noi,
ma con una variante dolcificata, per
renderlo conservabile più a lungo.
Tentativo dopo tentativo abbiamo
sviluppato il metodo dell’infusione che
è utilizzato ancora oggi.
essiccate. Nel corso degli anni abbiamo
ottimizzato il procedimento, mantenendo però il metodo dell’infusione.
Oggi produciamo 700’000 litri di Ice
Tea al giorno.
La formula si è modificata?
La formula dell’Ice Tea, infuso a base
di foglie di tè, è sempre la stessa. Vi si
aggiunge succo di limone, zucchero e
sciroppo di fruttosio. Si rinuncia ai conservanti. Tuttavia, nel corso degli anni
il contenuto di zucchero è stato ridotto
drasticamente.
Come funziona il metodo dell’infusione?
Quante varianti di Ice Tea esistono
oggi e qual è il suo favorito?
Il metodo si basa sul principio della
preparazione del tè in una tazza, grazie
al quale l’Ice Tea sembra fatto in casa.
All’inizio si produceva il tè in contenitori da 2000 litri nei quali si appendevano sacchetti di stoffa pieni di foglie di tè
Secondo il metodo dell’infusione produciamo Ice Tea limone, pesca, limone
light, Green Tea, Fan Edition Berry,
mango & ananas, zero e tutti gli Ice Tea
Bio. Il mio favorito è l’Ice Tea Bio erbe
alpine.
Ice Tea Classico Green
5 dl Fr. 1.10
Ha contribuito a sviluppare l’Ice Tea:
l’ingegner Ruedi Bärlocher.
L’industria Migros produce numerosi
prodotti Migros molto apprezzati, tra cui
anche l’Ice Tea.
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dieta equilibrata. Le pietanze Délifit vengono preparate giorno per giorno utilizzando ingredienti freschi e di alta qualità,
come l’olio di colza e l’olio di oliva. Ad esempio, i croccanti
panini integrali sono imbottiti con freschissima insalata e
strisce di pollo speziate. Questa settimana, i prodotti della
marca Délifit, come i sandwich Caesar, Tandoori o Mediterraneo, sono proposti in una vantaggiosa offerta combinata
che comprende anche una bevanda e un frutto. Oltre che sui
panini, l’offerta vale anche per i pasti combinati con insalata
e wrap. E, allora, questa settimana tenete d’occhio il simbolo
verde o rosso delle pietanze Délifit oppure informatevi sulle
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