RASSEGNA STAMPA giovedì 5 giugno 2014 ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA INTERESSE ASSOCIAZIONE ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO L’UNITÀ AVVENIRE IL FATTO REDATTORE SOCIALE PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Avvenire.it del 05/06/14 Giornata ambiente: stop a sprechi e mozziconi Camminare, attivare buone pratiche di sostenibilità, non gettare mozziconi a terra, ecc... Ecco tante azioni virtuose che dovrebbero far parte del bagaglio umano ed educativo di ogni cittadino, ma che spesso vengono dimenticate. La Giornata mondiale dell'ambiente, che si celebra oggi, è allora una buona occasione per ricordarle e per rilanciare tutta una serie di campagne e di iniziative di sensibilizzazione. Ne ricordiamo alcune. Contro lo spreco. Oggi verrà presentato a Roma il primo Piano nazionale di prevenzione dello spreco alimentare. A farlo sarà il ministro dell'Ambiente Galletti e Andrea Segrè, fondatore dell'Osservatorio nazionale sugli sprechi, nonchè coordinatore della task force per la riduzione dello spreco alimentare. Il Piano prevede, tra le altre cose, l'introduzione dell'educazione alimentare ambientale tra le materie obbligatorie delle scuole, una campagna di comunicazione nazionale e regole semplici per le donazioni di cibo invenduto (ogni anno vengono buttati via oltre 12 miliardi di euro di cibo consumabile), con sconti sulle tasse per i rifiuti a chi dona. box A scuola camminando. Si svolgerà domani a Torino la premiazione della 9^ edizione di "A scuola camminando", il concorso ideato dalla provincia di Torino per diffondere e incentivare gli spostamenti da e verso scuola a piedi o in bicicletta, rivolto alle scuole d'infanzia, primarie e secondarie di primo grado, statali e paritarie. C'è il teatrino con i burattini, fatti di ritagli di stoffa, buste, cartoni. E c'è l'orto verticale realizzato con le bottiglie di plastica. Ci sono i giochi da tavolo e le maschere di carnevale, gli accessori di tendenza, collane e braccialetti, e le borsette alla moda. Nelle aule delle scuole di tutta Italia, trasformate in laboratori del riuso, del riciclo e del ricreo, sono nati oggetti, giocattoli, monili, piccole e grandi opere d'arte. Perchè quando l'ambiente chiama, i primi a rispondere sono gli studenti. Lo dimostra la grande partecipazione al concorso nazionale "Immagini per la Terra", l'iniziativa di educazione ambientale promossa da Green Cross Italia, in collaborazione con il Ministero dell'istruzione e con il sostegno di Acqua Lete, quest'anno incentrata sul tema dei rifiuti: il titolo "Da cosa (ri)nasce cosa".Boom di adesioni per i più piccoli: circa 20 mila giovanissimi su un totale di 32 mila partecipanti. "La generazione degli under 12 è quindi la più pronta a impegnarsi in prima persona per salvaguardare il Pianeta. Un dato che fa ben sperare per il futuro dell'ambiente, che il 5 giugno festeggia la Giornata mondiale", ricordano i promotori. Parola d'ordine di questa XXII edizione: manualità creativa. Con materiali di recupero come carta, bottiglie, tappi, stoffe, lattine, bambini e ragazzi hanno dato vita a divertenti personaggi che hanno animato le loro storie, evitando l'immissione in discarica di nuovi rifiuti. Regione capofila del riciclo, per numero di istituti partecipanti, il Lazio, seguita da Marche, Toscana e Piemonte.E se tra i banchi dell'infanzia e delle primarie imparare a riciclare è diventato un gioco, per i ragazzi delle secondarie è stato lo spunto per imparare la filosofia delle 4 R: riduco, riciclo, riuso, ri-creo. Basta mozziconi a terra! È questo il forte messaggio che rappresenta la campagna di sensibilizzazione ambientale promossa da www.bastamozziconiaterra.it volta a divulgare i 2 corretti comportamenti associati alla raccolta dei mozziconi di sigaretta e a educare la popolazione ad avere maggiore rispetto dell'ambiente. In occasione del 5 giugno, la campagna è stata inserita tra gli eventi rivolti alla sensibilizzazione all'ambiente. Secondo studi recenti, in Italia si contano circa 13 milioni di fumatori e vengono fumate circa 72 miliardi di sigarette. I numeri sono grandi. In pochi sono consapevoli dei danni ambientali provocati gettando a terra i mozziconi di sigaretta. Per citarne solo alcuni: il filtro delle sigarette permane nell'ambiente fino a circa 5 anni a causa della lentissima degradazione e su oltre 4 mila sostanze tossiche presenti nelle sigarette, una modesta parte resta nel filtro abbandonato, liberandosi a danno dell'uomo e dell'ambiente; danni alla salute degli animali, pensando ad esempio ai mozziconi abbandonati nei parchi o sulle spiagge; gran parte dei mozziconi gettati a terra finiscono nelle fognature e nelle acque superficiali contaminandole. La campagna di sensibilizzazione ambientale è rivolta sia a soggetti privati (imprese private, scuole, gestori di spazi ad aggregazione sociale, altre attività…) sia a comuni e amministrazioni pubbliche (biblioteche, parchi, uffici, vie urbane…). Smaltire i rifiuti elettronici. Tre semplici suggerimenti per migliorare le condizioni del nostro ambiente. Il consorzio Ecolight (che si occupa della gestione dei Raee-rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche, delle pile esauste e dei moduli fotovoltaici a fine vita) indica tre piccole azioni che ciascuno può compiere per dare il proprio piccolo ma significativo contributo per un ambiente migliore."È importante - afferma il direttore generale di Ecolight - parlare dei Raee, farli conoscere e far capire che sono una risorsa importante. Infatti ancora oggi, molti sfuggono al circuito di gestione. Se per esempio guardiamo solamente ai piccoli elettrodomestici, meno del 20% viene raccolto correttamente. La parte restante probabilmente finisce nella raccolta indifferenziata se non addirittura intraprende le strade illegali dell'esportazione verso i Paesi più poveri". I rifiuti elettronici sono composti per oltre il 90% del loro peso da materiali che possono essere recuperati e riciclati permettendo così dei risparmi in termini di reperimento delle materie e di limitare le emissioni di Co2 in atmosfera. Non certo ultimo, occorre tenere presente che alcuni Raee contengono sostanze particolarmente inquinanti - come per esempio il mercurio delle lampadine a risparmio energetico o i gas refrigeranti dei freezer - che richiedono specifici trattamenti". Premio Impatto Zero. Sempre oggi si aprono le iscrizioni alla quarta edizione del "Premio Impatto Zero", iniziativa di Arci che promuove e valorizza le buone pratiche sostenibili di cittadini, associazioni e cooperative: scelte di vita e comportamenti ecologicamente virtuosi che riducono lo sfruttamento di risorse, le emissioni, i rifiuti e contribuiscono a diffondere la cultura della sostenibilità, migliorando così anche la qualità della vita della comunità.Nato a Padova nel 2011 e cresciuto fino a raggiungere il livello nazionale, il Premio è promosso e organizzato da Arci, con il contributo di AcegasAps-Società del Gruppo Hera, in collaborazione con Legambiente Nazionale, Coordinamento Agende 21 Locali Italiane, Progetto Life+Eco Courts, Legacoop Veneto, Centri Servizi Volontariato di Padova, Verona, Vicenza, Rovigo, Treviso e Belluno, Confcooperative Padova, e con il patrocinio di EXPO Milano 2015, Ministero dell'Ambiente e Comune di Padova.C'è tempo fino al 30 settembre per candidare il proprio progetto o azione, iscrivendosi al sito www.premioimpattozero.it. Un focus specifico sarà dedicato quest'anno alle pratiche di consumo collaborativo e condiviso che vedono sempre maggiore adesione e diffusione anche in Italia, come il car e bike sharing, il car pooling, lo swapping, i gruppi di acquisto solidale. http://www.avvenire.it/Cronaca/Pagine/giornata-mondiale-ambiente-stop-a-sprechi-emozziconi.aspx 3 Da Vita.it del 04/06/14 Vacanze 2014: nuove direzioni per mete alternative di Redazione Vita ha raccolto alcune idee rivolte a chi non ha ancora organizzato qualche giorno di pausa durante i mesi estivi. Suggerimenti utili per il turismo di bambini, giovani, famiglie, per chi ha esigenze speciali. Una notizia in aggiornamento permanente L’estate è alle porte, per le prossime vacanze si possono intraprendere direzioni nuove per raggiungere luoghi fuori dai consueti tragitti del popolo dei vacanzieri e mete dove il viaggio è esperienza e scambio di conoscenza. Vita ha raccolto alcune proposte che vanno dai campi "natura" a quelli di solidarietà. NATURA Ricchissima l’offerta di WWF. I camp per bambini dai 7 ai 17 anni, partono dalla fine di giugno. Qui il catalogo. “Vita di famiglia in fattoria” è una delle proposte rivolta alle famiglie. Si svolge al Parco regionale del Frignano in un'azienda agricola biologica immersa nel Parco dell'appenino modenese. Qui si conosceranno gli abitanti della fattoria e si vivranno le giornate scandite dai ritmi agricoli. Due periodi: 27 luglio - 2 agosto 2014 e 3 - 9 agosto 2014. Le altre proposte qui Oasi Dynamo è l’offerta naturalistica di Dynamo Camp. Sono ancora parte le iscrizioni per i week end genitori-figli che prendono il via il 6 luglio e si protraggono per ogni fine settimana sino al 17 agosto. Due giorni che contribuiscono a consolidare il rapporto padre-figlio, madre-figlia. Info qui Dal 8 al 17 agosto, 26esima edizione di Festambiente che si svolge a Rispescia nel cuore della Maremma Toscana. Laboratori didattici, incontri conferenze e concerti in un ambiente incontaminato circondato dalla tipica campagna toscana e da oliveti, a soli 4 km dal Mar Tirreno e dalle bianche spiagge della riviera maremmana. Stay tuned per gli aggiornamenti sul programma. SOLIDARIETA’ Ultimi giorni per candidarsi al campo di volontariato sui terreni confiscati alla mafia, a Naro in provincia di Agrigento, promosso da Coop Adriatica. Il campo gratuito si svolgerà dal 21 al 27 luglio 2014 e i volontari si occuperanno del lavoro agricolo al mattino, mentre al pomeriggio saranno coinvolti in attività di formazione sul tema della legalità con protagonisti della lotta alla criminalità organizzata. Partecipazione riservata a giovani soci dai 18 ai 35 anni. Scadenza domande il 15 giugno. Anche nel 2014 HUMANA, in collaborazione con l’associazione consorella locale ADPPMoçambique (Ajuda de Desenvolvimento de Povo para Povo), propone una Vacanza Solidale in Mozambico: un percorso di conoscenza e solidarietà a Muzuane, località sull’Oceano Indiano nei pressi della cittadina di Nacala Porto, nella provincia di Nampula, nel Nord del paese. Il 41% della quota di partecipazione va a sostenere il progetto di solidarietà. Cinque partenze: dal 21 giugno al 16 agosto. Ancora Mozambico. Campo di conoscenza nelle regioni di Nampula e Zambezia organizzato da Arcs Arci Cultura e Sviluppo in collaborazione con Mani Tese, Iscos e.r., Nexus dal 30 agosto al 14 settembre. Massimo 10 partecipanti. SPORT “Castro Rugby Academy” è nato per volere di Martin Castrogiovanni, pilone della nazionale italiana di Rugby e del Tolone. Scopertosi celiaco nel 2010 Martin 4 Castrogiovanni non ha avuto escludere nessuno dalla sua Academy mettendo lui stesso sul campo tutta la sua esperienza per insegnare lo sport ai ragazzi ma affidandosi alle competenze di AIC per quanto riguarda l’alimentazione senza glutine. Castro Rugby Academy si svolge a Jesolo presso il Villaggio Marzotto, dal 29 giugno al 5 luglio. Iscrizioni aperte. In bicicletta lungo il cammino di Santiago. L’associazione sportiva La pedivella di Rimini, socia del Centro sportivo italiano, è uno dei punti di riferimento per chi vuole percorrere i mille km dell’intero percorso oppure i “soli” 200km, il minimo necessario per ottenere l’indulgenza. La pedivella organizza percorsi adatti alle famiglie, alternando anche i mezzi di locomozione: bici da corsa, mountain bike, pulman, piedi. Partenze in base alle richieste. CULTURA “Scrittori a piede Lìberos” è la rassegna itinerante di incontri con grandi autori in piccoli comuni della Sardegna. Lìberos è un'associazione di persone che credono che la lettura in Sardegna sia un elemento di comunità e che le energie e le competenze che si muovono intorno al libro siano fonte di coesione sociale, ricchezza economica e consapevolezza civica. Nel 2012 è stato uno dei progetti culturali innovativi premiato dal bando CheFare Questo il calendario di giugno. Per luglio, upgrade on line. Un tuffo nello storia medievale alle Torri Superiore, gioiello di architettura popolare situato ai piedi delle Alpi liguri, a pochi chilometri da Ventimiglia. Per la sua complessa struttura è paragonato a un labirinto arroccato sul fianco della montagna. Le venti famiglie residenti aprono le loro case per ospitare famiglie e gruppi. Fra le antiche mura degli edifici, si svolgono corsi, incontri sulla storia e programmi di educazione ambientale. Il villaggio è gestito dall’associazione Culturale Torri Superiore e dalla Società Cooperativa Ture Nirvane. ACCESSIBILITA’ Village for all, è un marchio e un’app dell’ospitalità accessibile. Sul sito un motore di ricerca trova la struttura adatta alle nostre esigenze. Poretta Terme è stata definita da AISM, località completamente accessibile. Per l’assenza di barriere architettoniche, nella cittadina termale l’associazione ha aperto un centro residenziale per vivere vacanze riabilitative in piena autonomia. Gite in mare e immersioni per tutti. In Sicilia fra le offerte, l’ultima in ordine di tempo, si chiama Open Sea, percorso itinerante lungo la costa e nei fondali marini siciliani del Parco delle isole dei Ciclopi. L’iniziativa è organizzato dall’associazione Life di Acireale (Catania) che sulla sua barca accoglie le persone disabili, principalmente con difficoltà motorie, per accompagnarle a fare una gita in mare, a pescare e a fare immersioni. Da la Stampa.it del 05/06/14 (Novara) Arona, volantini anonimi contro il circolo “Meltin’Pop” Fantomatica raccolta di firme anti-rumore per chiudere il locale che ospita concerti, mostre e dibattiti cinzia bovio «Aiutaci anche tu a ristabilire la pace e il decoro notturni nel nostro quartiere». Nell’appello anonimo, apparso sabato nella zona, si chiede la chiusura della Casa del popolo di Arona dove ha sede da quattro anni il circolo Arci «Meltin’Pop». I volantini fanno riferimento 5 all’ufficio Radiomobile dei carabinieri di Arona «per recarsi a firmare la petizione». Dal comando smentiscono categoricamente: non ne sanno nulla. E’ vero però che nella notte tra venerdì e sabato sono stati allertati da diverse chiamate dei vicini. Arrivati sul posto attorno alle 3,30 del mattino, i carabinieri hanno denunciato per schiamazzi cinque persone e hanno raccolto testimonianze. «Abbiamo organizzato cinquanta concerti nell’inverno – dice il presidente del Meltin’Pop, Matteo Cerutti - , senza creare problemi. Ricordo soltanto a ottobre un’uscita dei carabinieri. Nessun vicino è mai venuto da noi a lamentarsi o a cercare un dialogo». Quella di venerdì era la serata di chiusura per la rassegna di musica dal vivo: «Dall’inizio della nostra attività, abbiamo deciso di interrompere i concerti con l’arrivo della bella stagione. Proprio per evitare di disturbare, quando le finestre sono aperte, con la dispersione del suono». Ma il «Meltin’» non è solo musica. E’ un circolo culturale che organizza mostre, incontri e serate divulgative. Qui molte associazioni locali propongono cene per la raccolta fondi e nel mezzogiorno è la sede ufficiale della mensa sociale «Nondisolopane». Quel volantino ha destato stupore: «E’ tutto da chiarire – dice la vicepresidente della Casa del popolo, Rossella Kohler - . Non ci sono mai stati avvertimenti o precedenti lamentele del vicinato. A volte la nostra istituzione non è benvista, anche per ragioni di tipo politico». Difficile dare voce a chi vorrebbe chiudere la Casa del popolo: il volantino non indica nomi o contatti. Pare che venerdì notte siano arrivate ai carabinieri sei telefonate. In generale, il vicinato sembra molto sorpreso da questo appello: «Mi pare tutto esagerato – dice Vittoria Mancino – . I nostri figli fra l’altro hanno almeno un posto, e vicino, dove potersi esprimere. C’è anche lo spazio per lo skateboard. I concerti sono una volta alla settimana: noi da casa non sentiamo rumori. Ci vorrebbe un po’ di tolleranza». Neanche Gilbert Ceruti sottoscriverebbe una petizione: «Non mi risultano finora episodi gravi. Firmerei però nel caso si scatenassero risse o pestaggi». http://www.lastampa.it/2014/06/04/edizioni/novara/arona-volantini-anonimi-contro-ilcircolo-meltinpop-RpgYwkkCJlB2nOuix9nM6I/pagina.html Da Torino7 – la stampa del 04/06/14 "DIREFAREECOSOLIDALE" IN PIAZZA A PINEROLO "Direfarecosolidale", organizzato con il GAS Stranamore, la Coldiretti e con l'Arci Pinerolo intende, attraverso la presentazione di alcune iniziative locali, evidenziare le possibilità di stare nella crisi e nella transizione in modo non passivo e rassegnato, riprendendo in mano l'idea del futuro e della sua costruzione. A partire dalle 9 intervengono Mauro Bonaiuti - Università di Torino; Roberto Burlando - Università di Torino; Roberto Moncalvo - Presidente Nazionale Coldiretti; Carlo Modonesi - Università di Parma; Samuele Pigoni - Operatore culturale. http://www.lastampa.it/2014/06/04/torinosette/eventi/direfareecosolidale-in-piazza-apinerolo-5OdEtuaGe33kqyDvdWLVBK/pagina.html 6 ESTERI del 05/06/14, pag. 6 Kiev: «Uccisi trecento filo-russi» Simone Pieranni Nell’est dell’Ucraina si continua a combattere. Sono due le battaglie in corso, una militare, vera, con raid aerei, bombardamenti e morti, l’altra è di propaganda. Numeri, notizie non confermate, immagini che a volte risultano appartenenti ad altri contesti, ad altre date, altre situazioni, quando non esplicitamente false. Ieri Kiev, attraverso il portavoce delle forze militari che conducono le operazioni a est, ha diffuso una nota nella quale affermava che almeno 300 filorussi sarebbero stati uccisi nelle ultime 24 ore ed altri 500 sarebbero rimasti feriti. Se fosse vero si tratterebbe di un dato clamoroso, che conferma le azioni militari a tutto spiano effettuate da Kiev, anche se non combacia con le notizie che provengono dalle regioni orientali, che danno i militari di Majdan completamente allo sbando. Sicuri sono i 14 morti — la maggioranza civili — dopo l’attacco aereo a Lugansk, i cui nomi stanno facendo il giro del web. E dalle regioni orientali ieri è arrivato un altro annuncio: i miliziani filorussi hanno reso noto di aver abbattuto nelle ultime 24 ore tre elicotteri nella regione di Donetsk e di aver conquistato due basi militari in quella di Lugansk, una delle guardie di frontiera e una della Guardia nazionale, dopo una serie di combattimenti cominciati nei giorni scorsi. Siamo nella prima guerra che vede i social network come strumento di propaganda e di diffusione delle notizie; non a caso questa notizia è stata resa nota dall’account twitter della Repubblica popolare di Donetsk. Diversa invece è stata la versione fornita sul proprio sito internet dal servizio delle guardie di frontiera, secondo cui il personale della base, che si trova alla periferia di Lugansk, è stato «trasferito in luoghi più sicuri». La Guardia nazionale — come riporta l’Ansa — ha invece reso noto sul proprio sito che una sua caserma a Lugansk è finita ieri sotto il tiro di mortai, granate e armi d’assalto dopo che i soldati avevano respinto un ultimatum ad arrendersi da parte dei ribelli: «tre militari sono rimasti feriti e tutto l’edificio è andato distrutto nel combattimento, insieme ai veicoli della base, mentre secondo un portavoce dei filorussi i soldati si sono arresi e hanno ottenuto di tornarsene a casa». Fin dall’inizio Majdan ha saputo sfruttare al massimo la potenza dei social network, tanto da rendere perfino gli account dei gruppi neonazi una fonte che molti media internazionali hanno fin da subito considerato imparziale. Con l’allargarsi della crisi alla Crimea, ma soprattutto con l’inizio della vera e propria guerra civile in corso nelle regioni orientali, la potenza dei social network ha finito per diventare uno dei temi salienti del conflitto. Nel frattempo– complice la visita di Obama a Varsavia e il G7 a Bruxelles, sembrano rimettersi in moto timidi segnali di ripresa di un confronto diplomatico. Ieri il nuovo presidente ucraino, Petro Poroshenko, avrebbe promesso un’amnistia e un decentramento regionale del potere nel suo paese, con l’intenzione di dare vita ad un vero e proprio processo di pace, capace di redimere le divisioni in Ucraina, come ha spiegato il tycoon in una conferenza stampa a Varsavia, dove ha incontrato Barack Obama, a pochi giorni dalla sua investitura ufficiale, in programma per sabato a Kiev. Il modello di decentramento, ha aggiunto Poroshenko, sarà basato su quello introdotto con successo in Polonia 25 anni fa. Parole distensive che sono arrivate anche da Valdimir Putin. Il presidente russo sarebbe pronto al dialogo con Barack Obama, dopo che le 7 comunicazioni tra i due si erano interrotte nelle settimane scorse a causa della crisi ucraina e dell’annessione russa della Crimea. A dirlo è stato lo stesso presidente russo in un’intervita alle televisioni francesi, alla vigilia del suo arrivo a Parigi, da dove poi si sposterà in Normandia per la partecipazione all’anniversario dello sbarco in Normandia. «È una sua decisione — ha detto Putin –io sono pronto al dialogo». Il leader del Cremlino ha poi espresso l’auspicio che l’attuale situazione di tensione tra la Russia e l’Occidente non si trasformi in una nuova guerra fredda. Ma «non è un segreto che la politica americana sia la più aggressiva e la più dura», ha aggiunto, ricordando che la Russia, a differenza degli Stati Uniti, non ha truppe dispiegate all’estero. E nella serata di ieri, contrariamente a quanto sostenuto da diplomatici europei, è circolata una bozza di comunicato finale del G7 che potrebbe bloccare tutto questo processo. I toni, diffusi da una fonte americana, sarebbero di condanna nei confronti della Russia, riguardo la crisi ucraina e minaccerebbero nuove sanzioni. Gli Usa quindi non si fermano e continuano a spingere. Vedremo quanto conterà — in questa nuova partita — l’Europa. Del 05/06/2014, pag. 18 LA GIORNATA Ucraina, il G7 avverte Mosca “Inaccettabile, deve fermarsi” Obama: noi siamo con Kiev Al via la riunione dei Grandi con l’ombra di Putin Pressione sul Cremlino, pronte nuove sanzioni DAL NOSTRO INVIATO BRUXELLES L’azione della Russia in Ucraina «è inaccettabile» e deve fermarsi. Il G7 si è aperto ieri sera a Bruxelles, per la prima volta in 16 anni senza la Russia, la cui espulsione ha segnato la fine del “formato” G8. Nel comunicato che i leader hanno discusso ieri sera a cena si dicono pronti a «intensificare sanzioni mirate» contro Mosca. Il G7 preme sulla Russia per accelerare il ritiro delle sue truppe dai confini dell’Ucraina e affinché utilizzi la sua influenza per fermare i separatisti. Si chiede a Mosca di avviare «un dialogo con l’Ucraina per trovare una soluzione politica alla crisi». C’è l’impegno a sostenere «un meccanismo coordinato di donatori internazionali per assicurare l’effettiva consegna degli aiuti all’Ucraina». Programmato inizialmente come G8 a Sochi e poi annullato dopo l’annessione russa della Crimea, il G7 subisce però “l’ombra di Vladimir Putin”, che da domani si unisce ai leader occidentali a Parigi e in Normandia per il 70esimo anniversario dello sbarco. François Hollande, Angela Merkel e David Cameron hanno già annunciato colloqui bilaterali con Putin, mentre Obama è stato più evasivo («non abbiamo mai smesso di parlarci»). Sulla compattezza degli alleati, gli Usa hanno dei dubbi: la Casa Bianca è in allarme per la decisione francese di vendere a Mosca le navi da guerra Mistral. Sulla crisi dell’Ucraina il G7 «deve parlare con una sola voce» ha sottolineato Obama. Angela Merkel ha ribadito che Putin deve «fare pressione sui separatisti perché lascino le armi» in Ucraina dell’est. Se questo non accade, scatteranno le sanzioni del livello 3. «Noi vogliamo collaborare con la Russia — ha detto la cancelliera — ma se necessario saranno decise». Ieri mattina Obama aveva incontrato per la prima volta a Varsavia il neopresidente ucraino Petro Poroshenko. «Gli Usa sono risolutamente impegnati al fianco del popolo ucraino — ha detto Obama — non solo per i prossimi giorni o le prossime settimane, ma negli anni a venire». Il G7 discute anche di economia, sicurezza energetica, cambiamento climatico. 8 Del 05/06/2014, pag. 18 Ma il ricatto del gas divide Usa ed Europa FEDERICO RAMPINI BRUXELLES MATTEO Renzi è il relatore del G7 sull’energia: tema cruciale visto il “ricatto del gas” che la Russia ha usato più volte nei confronti dei vicini. Tema delicato, anche, per le incomprensioni tra le due rive dell’Atlantico. Che si aggiungono ad altri motivi di frizione: François Hollande è indignato per la maxi-multa americana alla banca Bnp Paribas, Barack Obama a sua volta giudica inquietante che Parigi proceda come niente fosse con la vendita di navi da guerra alla Russia. Poi c’è l’allarme americano per l’euro- deflazione: la Casa Bianca teme che il Vecchio continente si stia avvitando in una spirale depressiva, una “sindrome giapponese”, che può avere ripercussioni sulla ripresa mondiale. L’energia resta comunque uno dei terreni più scivolosi. In Europa ha avuto una certa diffusione la “leggenda del gas americano” come alternativa disponibile a quello russo. Addirittura sono circolate teorie su Obama “commesso viaggiatore” del gas made in Usa. La realtà è molto diversa. Il gas americano è sovrabbondante, ma finora gli Stati Uniti se lo tengono ben stretto, sono loro ad essere riluttanti ad esportarlo. Per una ragione evidente: grazie all’eccesso di quella fonte domestica, l’intera economia Usa paga il gas un terzo dei prezzi di mercato mondiali, ricavandone un formidabile vantaggio per la propria competitività. Gli Stati Uniti sono in pieno boom energetico, nel gas naturale hanno tolto alla Russia il primato mondiale; e secondo le proiezioni dell’Agenzia Internazionale dell’Energia potrebbero entro 15 o 20 anni sorpassare perfino l’Arabia saudita nell’estrazione di greggio. Tutto grazie alla rivoluzione tecnologica, con nuovi metodi di estrazione che sono chiamati “horizontal drilling” e “fracking”. Quest’ultimo in particolare è inviso agli ambientalisti, in quanto utilizza potenti getti di acqua e solventi chimici per separare il cosiddetto “shale gas” da rocce e sabbie. Obama è stato più volte criticato dagli ambientalisti, anche se a questo G7 arriva dopo un’importante decisione della sua Environmental Protection Agency per tagliare le emissioni di CO2 delle centrali elettriche. Gas sovrabbondante, dunque, ma non da esportazione. Le leggi federali Usa sono molto restrittive sulle vendite all’estero: retaggio degli shock petroliferi (anni Settanta), quando l’America varò delle normative a tutela della propria autonomia energetica. Solo di recente c’è stato un inizio di allentamento sui limiti all’export, ma col contagocce. «Le prime vendite di gas all’Europa? Forse arriveranno tra due anni», dice un dirigente del colosso energetico Bg Group. Su venti domande di licenza per esportare gas liquefatto, Obama finora ne ha approvate solo sette. E l’approvazione della licenza è solo un passo preliminare, poi bisogna costruire infrastrutture adeguate (terminali di liquefazione, porti attrezzati). Gli esperti Usa stimano che su 260 milioni di tonnellate di export potenziale, le vendite effettive all’estero saranno di soli 70 milioni… nel 2025. Non certo di che rappresentare un’alternativa immediata al gas di Putin. In America, lungi dall’esserci una voglia di “invadere” il mercato europeo, il dibattito politico sull’energia tradisce resistenze formidabili. Obama ha cercato di spiegare al Congresso che bisogna controbilanciare il ricatto energetico della Russia verso il Vecchio continente. Ma un suo compagno di partito, il senatore democratico Edward Markey della commissione Esteri, non ci sta affatto: «Così esportiamo anche i nostri posti di lavoro e i vantaggi per il consumatore americano». L’obiezione ha una logica: se il gas americano potesse circolare liberamente sui mercati 9 mondiali, i prezzi tenderebbero a livellarsi e gli Usa perderebbero l’enorme “sconto energetico” di cui beneficiano tutti i settori dell’economia, famiglie incluse. Contro l’export del gas è schierata una formidabile lobby confindustriale di “compratori”, la potente associazione America’s Energy Advantage cui partecipano colossi industriali come Alcoa (alluminio) e Dow Chemical (chimica). «Liberalizzare l’export sarebbe un grave errore — protesta questa lobby — lo pagheremmo con miliardi di dollari di investimenti perduti, e milioni di posti di lavoro a rischio. Aumenterebbero i prezzi interni dell’energia con grave danno per la competitività di tutta l’industria manifatturiera». L’ultima volta che Obama incontrò i leader europei, a fine marzo proprio qui a Bruxelles per il G7 d’emergenza convocato dopo l’annessione della Crimea, il presidente americano ebbe un messaggio verso gli alleati: «Nell’energia bisogna fare scelte difficili, esaminare tutte le opzioni». Traduzione: lo “shale gas” lo avete anche voi europei, ma finora vi siete preclusi il suo sfruttamento per paura delle obiezioni ambientaliste. Quel messaggio ha cominciato ad avere qualche effetto. Il commissario Ue all’Energia, Guenther Oettinger, ha lanciato un appello ai governi europei perché diano il via libera almeno a degli «esperimenti dimostrativi » per verificare gli effetti del fracking. Ancora più clamoroso, in un paese ad alta sensibilità verde come la Germania, Angela Merkel ha deciso di autorizzare il fracking dall’anno prossimo. Meritandosi il plauso della Confindustria tedesca: «È la più importante lezione dalle tensioni con la Russia». La Germania ha 2.300 miliardi di metri cubi di riserve potenziali di gas naturale, con cui potrebbe arrivare a soddisfare il 35% del suo fabbisogno domestico. Se il gas russo ha un costo geopolitico altissimo, e quello americano non è dietro l’angolo, alcuni europei cominciano a trarne le conseguenze. del 05/06/14, pag. 6 Un miliardo di dollari extra large a est Tommaso Di Francesco Ucraina. Unione europea o Nato? La raccontano così: finalmente Obama, dopo l’aggressione della Russia all’Ucraina, è sceso in campo impegnando un miliardo di dollari di spese militari americane per «difendere i paesi dell’est». Detta così è poco meno di una brutta favola occidentale nell’occasione dell’anniversario dello sbarco americano in Normandia 70 anni fa. La verità è un’altra. Il nuovo «sbarco» di Obama in Polonia che parla all’ombra di un F-16, è infatti il coronamento di venti anni di impegno statunitense, dopo l’89, nella strategia di allargamento della Nato a Est, ai confini della Russia. Con l’esportazione di sistemi d’arma, l’installazione di decine di basi militari, l’ingresso nell’Alleanza atlantica di tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia ben prima dell’adesione all’Ue. E il coinvolgimento di tutti questi paesi nelle guerre sporche americane in giro per il mondo, significativamente esplose a partire dal 1991 a ridosso della fine dell’Unione sovietica, prima in Iraq e poi in Afghanistan, nei Balcani, in Somalia, in Libia e via dicendo. Spesso abusando dell’etichetta delle guerre «umanitarie». Mentre nessuno s’interroga sui risultati reali di questi avventure armate vergognosamente proclamate in difesa dei diritti umani, e che in realtà hanno lasciato le crisi specifiche incancrenite e irrisolte, stragi sanguinose di innocenti impunite (che continuano come in Iraq e Afghanistan) e scie esplosive, come in Somalia e Libia. Ora infatti Obama ha ereditato — e mostra purtroppo di restarne ostaggio — un problema grande come una casa, anzi come la Casa bianca. 10 Le elezioni di mid-term avranno tra l’altro all’ordine del giorno proprio il militarismo umanitario bipartisan e il caso Libia-Bengasi che coinvolge la «candidata» Hillary Clinton, in una «sana» dialettica tra responsabilità dei Democratici o dei Repubblicani, dei neocon di destra o di quelli di sinistra. Naturalmente, tenendo fermo l’asse strategico dell’allargamento della Nato a Est, ai confini russi. Che produce almeno tre effetti devastanti: da una parte provoca la reazione russa, dall’altro cancella ogni possibilità che esista una politica estera dell’Unione europea surrogata ormai dalla Nato, e infine autorizza ogni avventura politica nell’Europa dell’est. Come in Ucraina nelle mani di oligarchi che recitano, a seconda del momento, la parte dei filorussi o dei filooccidentali e che si sono riproposti, grazie alle milizie dell’estrema destra, come leader politici. Il presidente Usa ha incontrato a Varsavia il neo-presidente ucraino Poroshenko, l’umo degli Stati uniti a Kiev fin dal 2006 — ha rivelato Wikileaks — appoggiandolo per la suai repressione della secessione interna dei «terroristi» filorussi del Donbass, che così facendo hanno reagito alla rivolta antirussa di Majdan. E pensare che di questi giorni, 15 anni fa, l’aviazione Usa e Nato non aveva ancora finito di bombardare l’ex Jugoslavia per sostenere i terroristi dell’Uck nella secessione dello stato del Kosovo. Hanno provato a spiegarlo anche autorevoli e ormai scomodi protagonisti della politica estera Usa ed europea. Dall’ex segretario di Stato Kissinger, a Brzeshinski che hanno messo in guardia dai rischi di una Nato allargata a est, all’ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt, che ha ricordato come la proposta d’ingresso nell’Ue ad un paese diviso come l’Ucraina accoppiata alla strategia atlantica extra-large ai confini russi «prepara la terza guerra mondiale»; fino all’ex capo del Pentagono di Bush e poi dello stesso Obama, Robert Gates, che nel suo libro di memorie uscito a gennaio negli Usa, parla di «arroganza occidentale», e scrive: «Aver allargato la Nato così rapidamente dopo il crollo dell’Unione sovietica a numerosi Stati fino ad allora sotto tutela di Mosca, è stato un errore. Gli occidentali, in particolare gli Stati uniti, non hanno preso la misura dell’ampiezza dell’umiliazione percepita dai russi con la fine dell’Urss…». Ora Obama, impegnando un altro miliardo di dollari nella slot machine delle spese militari americane nell’Est Europa, rilancia la leadership Usa su tutto il Vecchio Continente, mettendolo in guardia dal modificare i bilanci della difesa (gli F-35 non si toccano) perché, dichiara, «la sicurezza si paga». E, invece, così facendo ci paghiamo solo istabilità e nuove minacce di guerra. del 05/06/14, pag. 7 Obama: sto con Poroshenko Mauro Caterina Varsavia. Polonia partner strategico. Poi l’incontro «fraterno» con il neopresidente ucraino Il 4 giugno del 1989 è uno di quei giorni che le nuove generazioni studiano sui libri di storia come lieto fine dell’epopea di Solidarnosc. I più grandicelli, invece, lo ricordano bene quel giorno. Erano le prime elezioni democratiche della Polonia post-comunista. Ieri per l’occasione erano presenti 50 delegazioni da tutto il mondo: ministri, capi di governo, presidenti della repubblica. Tutti a Varsavia per celebrare il 25° anniversario della «Polonia libera». L’ospite più atteso e riverito è stato indubbiamente il presidente statunitense Barak Obama, che con l’Air force one è atterrato all’aeroporto della capitale polacca martedì mattina. Quella dell’altro ieri è stata una giornata piena di spunti e riflessioni. Era chiaro a 11 tutti che l’inquilino della Casa Bianca si recava a Varsavia principalmente per mettere i «puntini sulle i» sulla questione ucraina e le parole pronunciate in conferenza stampa insieme al presidente polacco Bronislaw Komorowski erano lì a testimoniarlo. Obama chiederà al congresso di stanziare un miliardo di dollari per «riprogrammare» la presenza militare a stelle e strisce nel vecchio continente e al tempo stesso ha rassicurato tutti gli alleati dell’Europa centrale e dell’est che l’America non li lascerà soli. In soldoni, se qualcuno vuole avere le basi americane in casa e sentirsi «al sicuro» basta chiederlo. Altrettanto chiare sono state le sue parole quando ha detto che «gli ucraini dovrebbero decidere loro stessi del futuro del proprio paese, senza interferenze esterne o pressioni da parte di militanti finanziati da paesi limitrofi che stanno cercando di sabotare il processo di cambiamento e rafforzamento delle istituzioni democratiche in Ucraina». Ieri, quando ha preso la parola sul palco delle autorità di fronte alle delegazioni politiche ed una piazza gremita di gente, Barak Obama non ha parlato di Ucraina. «Qui con voi, in questa piazza, mi sento come se fossi a casa», ha detto, ricordando la grande comunità polacca di Chicago. Il suo è stato un discorso sobrio e di circostanza. Ha omaggiato la Polonia per la tenacia con cui ha lottato per la libertà e la democrazia. Ha scandito il nome di Lech Walesa (presente anche lui sul palco delle autorità) e di Solidarnosc e ha rimarcato l’importanza storica di quelle giornate. Prima di partecipare alle celebrazioni, il presidente americano ha incontrato faccia a faccia Petro Poroshenko, il neoeletto presidente dell’Ucraina: «Voglio sentire da lui di cosa ha bisogno il popolo ucraino». Attualmente il paese sta cercando di trovare una «soluzione» al problema Gazprom, che ha più volte minacciato di chiudere i rubinetti del gas qualora non venissero pagati i debiti accumulati. I due hanno parlato di come continuare il processo di pacificazione nazionale, di come rivitalizzare l’economia sull’orlo del collasso e di come ridurre la dipendenza energetica dalla Russia. A margine dell’incontro, la Casa Bianca ha rilasciato un comunicato in cui veniva approvato un ulteriore stanziamento di 23 milioni di dollari in aiuti militari all’Ucraina per la difesa: armi, visori notturni ed equipaggiamento per le comunicazioni. Il viaggio a Varsavia di Poroshenko è il primo in veste ufficiale di presidente. E visto che l’oligarca ucraino, nonché neo-presidente, è entrato di diritto sul proscenio della politica internazionale, è giusto sapere con chi abbiamo a che fare. Di recente sono saltati fuori da Wikileaks ben 350 documenti in cui veniva fatto il suo nome e si è scoperto che Poroshenko era censito come «informatore» dell’ambasciata americana a Kiev nel 2006. Mentre in un altro cable appare sospettato, dagli Stati uniti, di corruzione, al pari di Iulia Timoshenko. Se il buongiorno si vede dal mattino, allora buonanotte Ucraina. del 05/06/14, pag. 9 Retroscena Il risiko delle nomine Merkel con Juncker ma la carta Lagarde rimane sul tavolo Uscita dalla porta, come si usa dire, è rientrata dalla finestra. «La questione di chi guiderà la nuova Commissione Europea non è all’ordine del giorno del G7 — aveva detto tre volte Herman Van Rompuy, presidente Ue — Ma se poi salterà fuori, niente vieta che se ne parli». E se n’è parlato, infatti, sia pure ai margini dei colloqui ufficiali. Perché la questione delle nomine (non solo del presidente della Commissione ma in generale anche del Consiglio, e dell’Europarlamento), a volte presentata come una noiosa grana burocratica, 12 adesso è diventata un problema grosso, e serio, che potrebbe anche — dice la stessa Angela Merkel — trascinarsi a lungo. Tutti contro tutti, o quasi. Con Barack Obama che forse, in qualche attimo, ha fatto da spettatore attonito. La situazione aggiornata è questa: escluso ormai un voto all’unanimità per scegliere chi dovrà essere l’erede di Barroso, si cerca di mediare un voto a maggioranza qualificata. Il candidato del partito più forte, il Partito popolare europeo, resta Jean-Claude Juncker, appoggiato teoricamente da Angela Merkel, ma osteggiato dagli stessi consiglieri della cancelliera, e da alcuni suoi ministri. E soprattutto dalla Gran Bretagna: dal «no» secco del suo primo ministro David Cameron, ai titoli crudi dei giornali e dei blog inglesi, che continuano a bollare Juncker come «l’uomo più pericoloso d’Europa» per i suoi trascorsi nell’alta finanza, o tornano ad attribuirgli presunte frasi allo zolfo (per esempio: «quando le cose si fanno serie, devi per forza mentire»). O citano sondaggi secondo cui il 90% degli europei non sa neppure chi sia questo candidato. Con Cameron si sono schierate l’Olanda, la Svezia e l’Ungheria: non abbastanza per formare un blocco anti-Juncker in Parlamento. Ieri, ai margini del G7, uno «sherpa» inglese arruolava anche Matteo Renzi fra coloro che non gradiscono né appoggiano Juncker. Ipotesi che non trova per ora alcuna conferma. Mentre sempre ieri si è tornato a parlare di Renzi, rafforzato anche in Europa dalle ultime elezioni, come di un possibile mediatore fra Germania, Francia e Gran Bretagna. L’eventuale «ricompensa» sarebbe una poltrona di peso per un italiano nella Commissione Europea, a sostituire quella di Antonio Tajani. Se così sarà, Renzi il mediatore non avrà un compito facile. Il groviglio è infatti assai ingarbugliato. Berlino ha appena smentito che la Merkel abbia mai chiesto il via libera di Parigi per candidare alla presidenza della Commissione una francese importante, Catherine Lagarde, che dirige il Fondo monetario internazionale. Ma i mormorii non si placano: la Merkel, dicono, spingerebbe obliquamente Lagarde, per evitare di sostenere Juncker, che Berlino appoggia solo nominalmente. Un bel minuetto, e non è finita qui: François Hollande, uscito a pezzi dal voto europeo, avrebbe eluso il suggerimento della cancelliera tedesca, non volendo perdere una pedina così rilevante alla testa del Fmi. La sua vera carta per la Commissione, colui che gli consentirebbe di avere ancora voce in capitolo nella Ue nonostante la batosta elettorale, è Pierre Moscovici, l’ex ministro delle Finanze. Vera o no che sia l’ipotesi Lagarde, Angela Merkel rassicura il suo Parlamento a Berlino: «Incontro molti leader e parlo con loro affinché Juncker raggiunga la maggioranza qualificata. E così fa il governo tedesco. Non condivido le reticenze di Cameron…». Subito dopo, però, la cancelliera sembra rimescolare tutte le carte: «È grossolanamente negligente, alla fin fine inaccettabile, il modo facilone in cui alcuni dicono che non importa se la Gran Bretagna è d’accordo o no, che non importa perfino se la Gran Bretagna rimanga o no un membro dell’Unione Europea». Come dire: Cameron va ascoltato, eccome. E infine: le decisioni buone, a Bruxelles, «sono raramente affrettate: abbiamo bisogno di tempo, ce l’abbiamo e così io lo sto usando». Auf wiedersehen , arrivederci all’autunno, forse. Luigi Offeddu del 05/06/14, pag. 14 Fra bombe e profughi Assad fa il bulgaro 13 di Carlo Antonio Biscotto Dopo il 93,7% a favore di Sisi in Egitto, si attendono i risultati definitivi delle presidenziali in Siria. Al momento Assad è saldamente in testa e l’unica incertezza riguarda la percentuale, in ogni caso “bulgara”, del consenso. Forse per questo – come ha scritto tempo fa il giornalista Robert Fisk – ai satrapi del Medio Oriente piacciono tanto le elezioni. Inutile aggiungere che della democrazia è la sola cosa che apprezzano. Scontate sono le dichiarazioni degli Stati Uniti e di tutti i Paesi occidentali intenzionati a non riconoscere le elezioni “farsa”. Eppure le elezioni siriane sono un fenomeno su cui vale la pena riflettere. Un popolo offeso, torturato, massacrato, umiliato, incarcerato, ha votato, non proprio in massa, ma in numero superiore agli egiziani. Nelle regioni saldamente in mano al regime (circa il 40% del territorio) ha votato oltre il 60% degli aventi diritto. Il fronte ribelle aveva annunciato una pioggia di razzi nel tentativo di scoraggiare l’elettorato. I mortai hanno cominciato a sparare sul centro di Damasco all’alba. QUALCHE ORA più tardi i Mig dell’Aviazione siriana si sono alzati in volo e hanno bombardato pesantemente i quartieri periferici di Damasco dove erano piazzati i mortai facendo numerose vittime non solo tra le fila dei ribelli. I seggi –circa 9600 –sono stati allestiti nei posti di frontiera, nelle scuole, negli edifici pubblici e persino negli uffici delle compagnie aeree. I coraggiosi elettori hanno fatto la fila per ore per deporre la scheda nell’urna. Spontaneamente? Costretti dal regime? Nessuno può dirlo con certezza. Moltissimi siriani residenti in Libano hanno attraversato la frontiera per votare, indifferenti alle voci secondo cui non sarebbero potuti rientrare in Libano e avrebbero perso il loro status di rifugiati. A Damasco correva voce che le autorità libanesi chiedevano 200 dollari ai siriani che volevano tornare in Libano. Voce rivelatasi poi infondata. Che il risultato fosse scontato lo si sapeva da tempo anche perché non erano presenti veri partiti di opposizione al regime di Assad. I soli candidati “alter - nativi” – Al-Nouri e Maher Abdelhafiz Hajiar - erano candidati di facciata senza alcuna possibilità di vittoria e sostanzialmente compiacenti con le scelte politiche di Assad. In realtà avevano avanzato la loro candidatura 24 esponenti politici, ma la commissione elettorale (si legga: i dignitari di Assad) ne aveva bocciati ventuno. Se in Occidente non sono mancate le critiche, gli attacchi giornalistici più violenti sono venuti da Al- Hayat , il quotidiano finanziato dai sauditi sulle cui pagine Hazem Saghieh ha scritto che la decisione di Assad di convocare le elezioni è stata più brutale delle violente repressioni dell’esercito e delle forze di sicurezza. A Fisk che gli chiedeva come poteva difendere questa farsa, il ministro degli Esteri siriano Moallem ha risposto: “Non ho bisogno di difendermi. Guardate la televisione e capirete cosa vogliono i siriani. La nostra è una democrazia ed è il popolo siriano che decide”. Del 05/06/2014, pag. 13 «Armi al cloro in Siria, l’Occidente non vuole vedere» Inchiesta di Le Monde: «Damasco utilizza agenti chimici tossici, esistono le prove» Una inchiesta che smaschera l’ipocrisia della comunità internazionale e il silenzio imbarazzato dell’Occidente. Un documentato j’accuse nei confronti di un dittatore che oggi festeggia su un Paese in macerie la sua rielezione a presidente. Le Monde versus Bashar al-Assad. L’atto d’accusa è pesantissimo: nemmeno un anno dopo l’attacco chimico con il 14 gas sarin lanciato dall’esercito di Assad alla periferia di Damasco il 21 agosto 2013 (almeno 1500 le vittime) il quotidiano francese ha raccolto prove documentali sull’uso da parte delle forze lealiste di armi chimiche contro la popolazione, dall’ottobre 2013 ad oggi. Tutto questo dopo che il regime di Damasco aveva dovuto sottoscrivere, sotto minaccia di un’azione armata internazionale, la Convenzione sull’interdizione dell’uso delle armi chimiche. Era il 14 settembre 2013. Neanche un mese dopo l’esercito di Assad tornava a colpire con armi chimiche, non più con gas sarin ma con gas di cloro. ROTTO IL SILENZIO Stando all’inchiesta di Le Monde, che si avvale di più fonti, le autorità francesi sarebbero in possesso da almeno quindici giorni di elementi che provano l’utilizzo del cloro, da parte dell’esercito di Assad in ripetuti bombardamenti di aree controllate dai ribelli. Queste conclusioni sono frutto delle analisi del Centre d’étude du Bouchet, che dipende dalla Direction générale de l’armement. Il silenzio calato su queste clamorose rivelazioni è frutto, stando agli autori dell’inchiesta, delle pressioni esercitate dai servizi di sicurezza francesi, statunitensi e britannici sui rispettivi governi perché le informazioni in loro possesso non fossero rese pubbliche. Stando ad un alto funzionario dell’intelligence francese, Parigi sarebbe tenuta a non pubblicizzare queste informazioni senza aver prima ricevuto «luce verde » da Washington, in quanto una parte degli elementi di prova sarebbero stati acquisiti dagli americani. ALTRE DENUNCE Non solo Le Monde. Human Rights Watch riferisce di avere «forti prove» che a metà aprile l’esercito della Siria abbia usato armi chimiche in tre città del nord del Paese in mano ai ribelli. Precisamente, secondo quanto risulta a Hrw, le forze leali a Bashar al-Assad hanno utilizzato gas di cloro. La sostanza, racchiusa in bombole, sarebbe stata inserita in barili carichi di esplosivo, che sono stati sganciati dagli elicotteri dell’esercito sulle zone in mano ai ribelli. L’organizzazione spiega che le sue affermazioni si basano su interviste ai testimoni, immagini video e fotografie. Human Rights Watch ha intervistato 10 testimoni. «Le prove suggeriscono con forza che elicotteri del governo siriano hanno sganciato barili bomba con bombole di gas cloro su tre città», afferma l’Ong americana. «Questi attacchi hanno usato una sostanza chimica industriale come arma, azione proibita dal trattato internazionale che vieta le armi chimiche, al quale la Siria ha aderito nel settembre del 2013», prosegue Hrw. Alla fine di aprile l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac) ha annunciato che avrebbe indagato sulle notizie del presunto uso di gas cloro. L’Opac successivamente non ha più rilasciato dichiarazioni sull’argomento. In un caso il governo siriano ha accusato il Fronte al Nusra, gruppo legato ad al-Qaeda, di aver usato gas cloro nella città in mano ai ribelli di Kafrzeita. Damasco non ha commentato gli altri attacchi. Un’ampia inchiesta di AssociatedPressalla fine di aprile ha riscontrato denunce compatibili con queste informazioni, secondo le quali sarebbe stato usato del gas cloro a Kafrzeita. L’uso del gas cloro nelle bombe non è molto efficace come arma per uccidere. Tuttavia Hrw ha aggiunto che sembra che l’esercito siriano abbia usato il gas cloro per terrorizzare i residenti facendo credere loro che sarebbero stati uccisi con il gas, anche se molte delle persone colpite non sono morte. Ora è la volta di Le Monde. Altre prove, altri casi denunciati. La Casa Bianca e le cancellerie europee hanno fatto a gara nel giudicare le elezioni presidenziali una «farsa». Il comunicato finale del G7 di Bruxelles evoca una Siria senza Assad. Parole che lasciano il tempo che trovano. Perché mai seguite da atti conseguenti. Oggi l’autorevole quotidiano francese pubblicherà con grande risalto l’inchiesta sui nuovi crimini del regime di Damasco. Staremo a vedere se vi saranno reazioni ufficiali.Ose assisteremo all’ennesima vergogna del silenzio. Un silenzio complice. 15 Del 05/06/2014, pag. 20 Netanyahu ordina di nutrire i detenuti palestinesi in sciopero della fame, ma i sanitari si rifiutano: “Così è una tortura” L’Intifada del cibo spacca Israele “Alimentateli” “No” dei medici FABIO SCUTO Nessuno vuole un Bobby Sands palestinese. Se solo uno dei duecento prigionieri palestinesi in “detenzione amministrativa” in sciopero della fame dal 24 aprile dovesse morire, un’ondata di proteste travolgerebbe la Cisgiordania, scatenerebbe la violenza dei più estremisti, innescando una terza intifada dagli esiti disastrosi. Ormai, al 42esimo giorno di digiuno, sono più di ottanta i prigionieri palestinesi ricoverati negli ospedali israeliani che però continuano a rifiutare il cibo. Il premier Benjamin Netanyahu, allarmato da questa protesta, spinge perché la Knesset approvi rapidamente una legge che impone l’alimentazione forzata ai detenuti, ma si sta scontrando con la principale Associazione dei medici d’Israele contraria alla legge perché «l’alimentazione forzata è una forma di tortura» e i suoi dottori non si presteranno a questa pratica. I prigionieri che rifiutano il cibo sono tutti “detenuti ammini-strativi”, in cella da mesi o anni, senza accuse e senza aver mai visto un giudice. I palestinesi della Cisgiordania sono sottomessi alle autorità militari israeliane: basta l’ordine scritto di un ufficiale per finire in carcere senza possibilità di appello, con gli arresti che vengono rinnovati ogni sei mesi. Un retaggio del Mandato britannico, che nonostante le proteste interne e internazionali, Israele ha mantenuto: è la famigerata disposizione 1651. Nelle carceri dello Stato ebraico, dati dell’Israel Prison Service, ci sono 5.330 palestinesi, fra loro oltre 200 in “detenzione amministrativa”. Ci sono quotidiane dimostrazioni in appoggio alla protesta, le famiglie dei detenuti sostengono questo digiuno nonostante i rischi. «Mio marito è in carcere senza sapere perché e questo incubo deve finire», dice Lamees Faraj del marito Abdel Razeq, militante di un piccolo gruppo dell’Olp, che ha passato in detenzione amministrativa 8 degli ultimi 20 anni. «E’ contro il Dna dei sanitari forzare il trattamento su un paziente », spiega la portavoce Ziva Miral dei medici israeliani, «l’alimentazione forzata è una tortura, e non possiamo avere dottori che partecipano a una tortura». Dello stesso avviso il Consiglio Nazionale di Bioetica israeliano e la World Medical Association, il coordinamento mondiale delle associazioni mediche nazionali. Nonostante questo coro di critiche, Netanyahu avrebbe detto ai suoi ministri che sarà lui a fare in modo di trovare i medici disponibili per alimentazione forzata. Un po’ come fanno, ha osservato il premier, gli americani a Guantanamo Bay con i detenuti jihadisti. Fares Qadoura, uno degli avvocati dei prigionieri, annuncia che se la legge passerà alla Knesset i palestinesi sono pronti a ricorrere prima all’Onu e poi alla Corte di Giustizia dell’Aja. Le famiglie intanto aspettano e temono. Mahmoud, il marito di Amani Ramahi, eletto deputato con Hamas nel 2006, è in cella senza un’accusa da 4 anni. La Ramahi racconta che suo marito gli fatto arrivare un messaggio dal carcere: “l’intifada della fame” sarà a oltranza perché «vogliono mettere fine una volta per tutte alla loro sofferenza». 16 Del 05/06/2014, pag. 1-27 India, l’albero della vergogna UN’ALTRA RAGAZZINA VIOLENTATA E POI IMPICCATA ADRIANO SOFRI DICE la notizia che un’altra adolescente è stata violentata, uccisa e impiccata a un albero, nell’Uttar Pradesh indiano. Rileggiamo la sequenza: violentata, uccisa e impiccata. Se è così, non si è impiccata, né è stata impiccata perché tacesse sulla violenza subita. Pochi giorni fa, quando la fotografia delle due ragazze di 14 e 15 anni appese a un mango fece il giro del mondo — questo giornale ha scelto di non pubblicarla — si dubitò che si fossero suicidate per l’offesa e la vergogna. Sarebbe stato comunque atroce, e tuttavia anche loro erano state impiccate dal branco degli stupratori, forse prima, forse dopo essere state strangolate. Il dettaglio non è facile da capire, o lo è fin troppo. Forse, stiamo guardando delle scene di caccia. La preda preferita sono ragazze molto giovani, braccate nel momento più inerme, quando vanno nei campi a fare i loro bisogni. ALL’ALBA, prima che si sveglino gli uomini, e al calar della notte, quando occhi di uomini, anche quelli di famiglia, non le vedano, perché il loro pudore non sia offeso — il pudore degli uomini. Il branco le aspetta e piomba loro addosso, infierisce, poi, quando il bel gioco li stanca, uccide, e finalmente appende la selvaggina come un trofeo. Era successo a Badaun, ieri di nuovo a Sitapur. Un giorno prima altri cacciatori avevano violentato una donna di 22 anni, e le avevano versato acido in gola, non perché non parlasse: l’hanno uccisa alla fine. O forse l’avevano uccisa e hanno versato l’acido per amore di completezza. Forse le impiccano non per farle tacere, ma per esibirle: le inalberano. Adesso si trasmettono i numeri delle persone che non hanno servizi igienici domestici in India: più o meno la metà della popolazione. «Circa il 65 % della popolazione rurale fa i suoi bisogni all’aperto e donne e ragazze sono tenute a farlo col buio. È una minaccia alla loro dignità ma anche alla loro incolumità», dice il delegato dell’Unicef, Louis-Georges Arsenault. Il particolare impressionante non spiega la violenza sulle donne, né la spiegano i dati su povertà e disoccupazione, o sulla sproporzione dovuta al pregiudizio e alle pratiche per non far nascere bambine o ucciderle neonate — metà degli indiani ha meno di 30 anni, e nell’Uttar Pradesh maschi e femmine stanno in un rapporto di 1000 a 912. La violenza contro bambini, ragazze e donne sa fare a meno delle circostanze. Però la muta degli uomini che bracca le ragazze mentre vanno vergognose e spaventate nel loro buio mostra la bestialità degli stupratori e il conto che fanno delle loro prede, femmine e, in questi casi, “intoccabili” — ironia tragica delle parole — come animali, “cose di nessuno”, da catturare, soggiogare e ammazzare. Ieri erano in sei, guidati, dice la notizia, dal vicino quarantenne che vendicava il rifiuto di dargli con le buone la ragazza quindicenne. Una settimana fa erano parecchi addosso alle due cugine adolescenti, e fra loro due poliziotti. Un mese fa, il capo del partito di maggioranza dello Stato aveva definito “ragazzate” gli stupri di branco: suona familiare, no? Qualcuno ha fatto notare l’abbigliamento modestissimo e castigato delle due cugine, per commentare amaramente le scemenze sulle ragazze che provocano i poveri uomini. Mi sono chiesto che cosa vogliano dire quei vestiti composti: se fossero stati i loro carnefici a ricomporli, l’orrore sarebbe maggiore. Di quell’immagine, il dettaglio più toccante sono i piedi nudi. I piedi degli impiccati sono scalzi quando indossavano ciabatte o sandali che scivolano giù e tornano alla terra per cui sono fatti. Nei giorni scorsi era inevitabile accostare quell’immagine a un’altra arrivata dal Pakistan. Oscenamente somiglianti, perché in quella indiana la folla silenziosa accoccolata attorno alle due ragazzine impediva di staccarle dai cappi e deporle fino a che non si fossero presi gli assassini, e testimoniava contro l’orrore dello stupro maschile e di casta. 17 Nell’immagine pakistana, la folla era autrice o tifosa della lapidazione di Farzana Parveen, 25 anni, incinta, colpevole di aver disonorato la famiglia sposando “per amore” un uomo diverso da quello che padre e fratello le avevano imposto. Il luogo non era un villaggio rurale ma la metropoli di Lahore, e la scena si svolgeva davanti al tribunale, dove la giovane era andata per dichiarare la propria volontà. Nella scena indiana un padre chiedeva giustizia, in quella pakistana il padre si era fatto giustizia, ripulendo a colpi di mattoni lo sfregio fatto al suo onore. Le parole d’onore e d’amore ricorrono mostruosamente. Si è poi saputo che il marito di Farzana aveva strangolato la sua prima moglie, riscattandosi col pagamento del “debito del sangue”: ha spiegato di averlo fatto “per amore” di Farzana. Una ventina di anni fa avevo avuto un amichevole scambio di idee su queste pagine con Miriam Mafai, a proposito di quello che avevo chiamato “il paradigma di sir Phileas Fogg”. Il quale, arrivato in India nel suo giro del mondo in 80 giorni, insieme al fido Passepartout rapisce e porta in salvo la giovane vedova del maragià che sta per bruciare viva sul rogo dello sposo, come vuole il rito del suttee. Impresa coloniale, per così dire, del tutto irriguardosa dei costumi locali, e indifferente anche al consenso della donna. Impresa sacrosanta, pensavo e penso, in cui si presenta esemplarmente quello che di migliore c’è nell’occidente con quello che di peggiore c’è nell’oriente. (Fra i quali, del resto, meglio e peggio si distribuiscono in modi assai complicati). Occorrerà ricordare ogni volta di nuovo che anche noi veniamo da lì, e che il delitto d’onore è per noi un retaggio troppo fresco per vantare superiorità assolute e spocchiose. Ma non al punto di restare prigionieri della relatività dei valori. Abbiamo fatto l’esperienza di come certe svolte nei modi di pensare e nelle abitudini di vita siano immemorabilmente lente e difficili a compiersi, e però, quando avvengano, facciano sentire di colpo inconcepibile il passato. La tragedia era così: Edipo ha ucciso suo padre, è andato a letto con sua madre, e non l’ha voluto vedere, quando lo vede non può far altro che accecarsi. Noi abbiamo magari i doppi servizi, e insieme la memoria del branco e della preda. Viene il momento di aprire gli occhi. Verrà anche nei villaggi dell’Uttar Pradesh: nel frattempo, c’è bisogno di una polizia che, chiamata, arrivi. 18 INTERNI del 05/06/14, pag. 13 Senato, l’ostacolo di 4.700 emendamenti In commissione maggioranza a rischio «Calderoli un osso duro? Anche Renzi lo è. Non è che con 5 mila emendamenti qualcuno si può illudere di inchiodarci per 200 ore in commissione. Gli strumenti per andare avanti ci sono… Abbiamo il carro per tirare fuori il testo dalla palude». Al termine di una seduta interlocutoria sulla riforma del Senato e del Titolo V della Costituzione (rapporto tra lo Stato e le Autonomie), il sottosegretario Luciano Pizzetti (Rapporti con il Parlamento) riassume con queste parole lo stallo che si sta consumando in commissione Affari costituzionali a Palazzo Madama e, per la prima volta, lascia intendere che il governo potrebbe anche forzare la mano portando in aula il «testo base» non emendato entro la data fissata del 30 giugno. Va avanti il vice della ministra Maria Elena Boschi: «Il governo non intende mica fare la guerriglia, anzi vogliamo continuare a trattare, cerchiamo l’intesa. C’è tutto il tempo. Siamo comunque vicini al punto di non ritorno che arriverà la prossima settimana quando si inizierà a votare anche per la composizione del Senato». Nella trincea di Palazzo Madama — dove gli uffici termineranno solo oggi di fascicolare i 4700 emendamenti, circa 500 in meno del previsto perché la Lega ha prodotto testi fotocopia che sono stati eliminati — la tensione si taglia a fette. E Roberto Calderoli conferma che tra le condizioni per ritirare il carrello di emendamenti c’è la diminuzione del numero dei deputati, oltre che dei senatori. Un punto, questo, inaccettabile per il governo, che non vuole toccare Montecitorio. Il problema è che la proposta del governo (riduzione dei senatori ed elezione indiretta degli stessi) non ha la maggioranza certa in commissione al Senato dove 15 dei 29 componenti sarebbero per l’elezione diretta. La differenza la fanno Mario Mauro (Popolari), che si è lamentato per essere stato tenuto fuori dalle consultazioni, e Corradino Mineo (favorevole all’elezione diretta insieme ad altri 19 senatori del Pd guidati da Vannino Chiti) che è stato convocato nello studio del capogruppo Luigi Zanda per una reprimenda: «Zanda non ha parlato della mia sostituzione in commissione ma è chiaro che una decisione del genere non l’accetterei», ha detto Mineo che sostituisce Marco Minniti e che ora rischia di essere rimpiazzato da un renziano doc. Zanda non commenta: «Non sono uso raccontare gli incontri che intrattengo nel mio ufficio». Anche con il sostituto di Mineo, però, il Pd avrebbe un problema in commissione perché non ci sarebbero i numeri per far passare il cosiddetto «modello francese» (una platea di consiglieri regionali e comunali elegge il Senato) che, a dire il vero, perde quota. Per questo il sottosegretario Pizzetti ricorda che è ancora in piedi l’accordo sulle riforme con Forza Italia e che nell’aria c’è sempre un nuovo incontro tra Renzi e Berlusconi: «Il capogruppo Romani ha detto no al modello francese ma quella non è una è proposta del governo… », insiste Pizzetti. Anche Donato Bruno (FI) è convinto che l’accordo verrà rispettato e il clima tra governo e Forza Italia — nonostante Daniela Santanché («Berlusconi si deve divincolare dall’abbraccio di Renzi») — non è così sfavorevole, soprattutto per quel che riguarda le riforme della giustizia. Oggi si vede la conferenza dei capigruppo che dovrà decidere se far slittare di un mese l’approdo in aula al Senato del ddl anticorruzione previsto per il 10 giugno. E ieri il Guardasigilli Andrea Orlando è andato a Palazzo Madama per rassicurare i senatori del Pd Casson e Lumia che, su input del 19 governo, avevano congelato i loro emendamenti sull’allungamento dei termini di prescrizione per i reati di corruzione. Il ministro ha confermato che la materia della lotta alla corruzione sarà oggetto di un testo organico del governo a fine giugno. Cioè dopo la data presunta del primo sì sulla riforma del Senato. Ma dopo gli arresti per l’inchiesta sul Mose di Venezia i tempi dell’anticorruzione potrebbero essere più stretti. Dino Martirano Del 05/06/2014, pag. 16 Contatti Guerini-Gianni Letta dopo il no di Fi al sistema francese Il Pd diviso e il centrista Mauro fanno rischiare la maggioranza Senato, intesa lontana presto nuovo incontro tra Renzi e Berlusconi GIOVANNA CASADIO L’incontro-bis ci sarà. Renzi e Berlusconi si vedranno nella prossima settimana per tentare di nuovo di sbloccare le riforme. A preparare il colloquio sono da ieri il vice segretario del Pd Lorenzo Guerini e Gianni Letta. L’abolizione del Senato è impantanata. A Palazzo Madama regna il caos. La giornata delle riforme comincia con uno scontro in casa pd e finisce con la lite tra governo e Regioni sul Titolo V, cioè sulla devolution: Vasco Errani è furibondo. Alle 9 del mattino sulla testa di Corradino Mineo si abbatte la collera di Luigi Zanda: «In ogni commissione abbiamo solo un voto di maggioranza, lo sai. Non puoi non avere senso di responsabilità». Sul dissidente Mineo pende il rischio di rimozione dalla commissione Affari costituzionali. Il Pd è diviso. Il “modello francese” per il nuovo Senato delle autonomie ha sempre meno simpatizzanti. Se venisse votato oggi, sarebbe bocciato in commissione perché la maggioranza non c’è. Fi non vuole sentire parlare del patto sulle riforme. Berlusconi è allergico a un modello di Senato non eletto direttamente dai cittadini. Come se non bastasse, un gruppo di senatori dem rilancia sul taglio dei deputati: siano 500. Il nodo riforme invece di dipanarsi si aggroviglia. Il pallino è in mano al premier. Ma una cosa è certa: senza riforme — ripete Renzi — si va tutti a casa. La trattativa è in corso. La ministra Maria Elena Boschi ammette che c’è un “piano B”: altre ipotesi sono sul tappeto. Anche l’Ncd avanza perplessità. Tuttavia Alfano dichiara che il nuovo Senato si può votare a maggioranza, andando al referendum confermativo. In mattinata si vedono a Palazzo Chigi Anna Finocchiaro, presidente della commissione, e la Boschi. Sono pronti una ventina di emendamenti dei due relatori, cioè Finocchiaro e il leghista Roberto Calderoli. Ma ci dev’essere «la quadra» politica per andare avanti. Per ora sul tavolo della commissione ci sono 16 fascicoli di emendamenti: solo una minima parte (fino all’articolo 9) degli oltre 5 mila depositati. Sulla riforma del Senato bisogna trovare un’intesa al più presto, se no saltano i tempi. Calderoli pone tre condizioni per ritirare i 3.806 emendamenti lumbàrd: devolution, nuovo Senato eletto dai cittadini, deputati ridotti a 500. Daniela Santanchè, forzista, invita il partito a dire “niet”: «Forza Italia si divincoli dalla catena del patto con Renzi». La fibrillazione attraversa tutti gli schieramenti. Mario Mauro, centrista, ago della bilancia in commissione, annuncia: «Sono totalmente contrario a questo nuovo Senato alla francese. Non avranno mai il mio voto». Calderoli sostiene che Berlusconi con un Senato “alla francese” eletto dall’assemblea di amministratori, sarebbe penalizzato e quindi la proposta non passerà mai. Ringalluzziti dal successo alle europee, i leghisti preparano l’ostruzionismo e chiedono modifiche persino sull’articolo 1 della Costituzione: «... la sovranità appartiene ai 20 popoli», invece che al popolo. Una provocazione. L’ex ministro Giulio Tremonti si presenta in commissione per illustrate i suoi emendamenti sul premierato forte. A fronteggiare gli attacchi durante la riunione della commissione a Palazzo Madama non c’è Boschi ma il sottosegretario Luciano Pizzetti. I senatori dell’opposizione denunciano la doppiezza: in commissione si chiacchiera, la trattativa si fa fuori dal Parlamento. E Pizzetti smussa («Il governo cerca l’intesa, non la guerriglia») e si mostra ottimista: «Non subiremo l’ostruzionismo, il governo è fiducioso». del 05/06/14, pag. 1/15 Un senato tutto sbagliato Massimo Villone Per molti, l’indubbio successo di Renzi nel voto europeo ha rafforzato il governo. Di certo, è stata l’occasione di un forte e immediato rilancio delle riforme proposte dall’esecutivo, con particolare accento sul senato, di cui si propone ora una versione simil-francese. Il che accresce, non cancella, perplessità e dubbi. Non sfugge, anzitutto, che non si può barattare l’architettura istituzionale di un paese, destinata a conformarne i destini e a durare nel tempo, con il successo — intrinsecamente e fatalmente effimero, ancorché importante — in un singolo turno elettorale. Tanto più considerando che la vittoria di Renzi è stata dovuta certo alla sua abilità, ma ancor più agli errori o debolezze dei suoi competitori. Inoltre, è ben vero che Renzi esprime l’unica sinistra (??) vincente in Europa. Ma è pur sempre uno che vince tra chi perde. Ai vincenti veri la favoletta delle decisive riforme istituzionali italiane è probabile che interessi poco. Molto più utile al paese e alla sua immagine in Europa sarebbe una riforma — quella sì, epocale — della PA, o una forte iniziativa anticorruzione. Ma il momento della verità verrà probabilmente con la legge di stabilità, e dopo l’estate. Fino ad allora, l’ingegneria istituzionale offrirà ancora spazio a una strategia movimentista e di marketing politico. Questo è il clima in cui cala la proposta di un senato che si vorrebbe ispirato al modello francese. È stato già bene chiarito su queste pagine che il richiamo è ingannevole, e le differenze sostanziali. Va soprattutto ricordato che la Francia ha decisamente cambiato rotta rispetto a una lunga tradizione, con una legge organica — di cui abbiamo già riferito — che vieta il cumulo di mandati, salvo che per alcune cariche, escluse per i condizionamenti e le prudenze della politica. A un divieto totale prima o poi si arriverà. E va sottolineato come nel dibattito che ha preceduto la legge le critiche siamo state dirette verso il sommarsi delle cariche in sé, visto come idoneo a favorire l’inquinamento della politica. È proprio questo argomento che spinge il candidato presidente Hollande a promettere in campagna elettorale il divieto di cumulo. I francesi, come gli italiani, hanno una bassa opinione dei politici e della politica, e Hollande vede nel divieto l’aggancio per una svolta. E pensare che nella classifica del Corruption Perception Index 2013 la Francia è in alta classifica, al 22mo posto. Noi, che arranchiamo al 69mo, pensiamo a un senato totalmente e necessariamente fondato sul cumulo dei mandati. Ammettendo inoltre in via esclusiva al cumulo un ceto politico segnato da corruzione e malaffare, come anche le più recenti notizie di stampa dimostrano. È questa la riforma che ci proietterà nell’olimpo d’Europa? Anche senza voler considerare le piccole miserie umane, potremo ricordare che in Francia la presenza in parlamento di personale politico regionale e locale era stata sempre vista in passato come contrappeso a uno stato fortemente accentrato nelle strutture pubbliche e 21 nella politica. Nel momento in cui si è aperta una — pur limitata — prospettiva di autonomie territoriali, l’argomento ha perso peso, e si è giunti al divieto di cumulo. È significativo poi che, nei casi in cui il cumulo è ancora consentito, venga percepita una sola indennità: ma è quella da parlamentare. In Italia, autonomie regionali e locali forti sono già una realtà. Se mai, vediamo una grave debolezza dei livelli nazionali nei soggetti politici e nelle istituzioni. Il rischio non è più quello della sopraffazione centralistica, ma piuttosto la degenerazione in chiave di frammentazione e di particolarismo localistico. È in questo contesto che si vuole mandare a Roma un senatore non elettivo, dunque privo di specifica investitura popolare, e pagato come consigliere comunale, regionale, sindaco o governatore. Il seggio parlamentare è un benefit aggiuntivo connesso alla carica locale, alla stregua di un posto auto. Che differenza potrebbe mai fare che venga selezionato da una platea di suoi pari? Ne trarrebbe forse autorevolezza e credibilità, legittimazione a legiferare e addirittura a riformare la Costituzione? Proprio non lo crediamo. La proposta di riforma del senato rimane pessima, anche nelle ultime declinazioni. Può darsi che il muro di 5.200 emendamenti serva a rallentarla. Ma dobbiamo sapere che nel parlamento italiano un vero ed efficace ostruzionismo di opposizione non è — per regolamento e per prassi — tecnicamente possibile. Meglio sarebbe che il governo, piuttosto che insistere su una proposta per molti versi inaccettabile, facesse un investimento politico sul titolo V, dove ha messo in campo una proposta assolutamente difendibile, volta a correggere storture evidenti introdotte nel 2001 che hanno generato un enorme contenzioso davanti alla corte costituzionale. Non è certo un caso che si siano levate le proteste di chi teme di perdere potere reale. Ne parleremo. Ma proprio questo ci dimostra come sia difficile rimettere sui binari giusti una cattiva riforma. Si dice che le costituzioni siano fatte per durare. Sfortunatamente, durano anche gli errori fatti nello scriverle. del 05/06/14, pag. 4 Adesso Grillo bussa ai Verdi Luca Fazio Movimento 5 Stelle. Con una lettera sul blog il capo del M5S chiede un incontro al segretario generale Vula Tsetsi per "un'eventuale collaborazione". I Verdi si sono subito riuniti in assemblea per decidere come gestire questa esplicta richiesta di alleanza. Nel frattempo, i deputati alla Camera sono alla resa dei conti per modificare gli assetti dello staff della Comunicazione colpevole di aver redatto un dossier sugli errori compiuti durante la campagna elettorale. Cercasi alleanza fin troppo allegramente. Un partito non vale l’altro, tanto più se uno si colloca a destra e l’altro a sinistra, per dirla all’antica, eppure Beppe Grillo in Europa dialoga con eccessiva disinvoltura sia con Nigel Farage, il leader dello Ukip in odore di xenofobia, che con Vula Tsetsi, il segretario generale dei gruppo dei Verdi. Anzi, vorrebbe. Perché se è stato facile bersi una birra con il “simpatico” inglese per discutere di alleanze, per il capo del Movimento 5 Stelle, fino a ieri, sembrava impossibile anche solo contattare telefonicamente un esponente del partito ecologista europeo. Lui ci sta provando da diversi giorni, dice, e ieri ha scritto anche una lettera sul blog che certo non è passata inosservata dalle parti di Bruxelles: in serata, poche ore dopo la 22 pubblicazione, i Verdi europei si sono riuniti anche per valutare la proposta del capo del M5S. Qualcuno in questi giorni deve aver suggerito a Grillo che cercare di stringere un’alleanza solo con il partito ultranazionalista Ukif potrebbe costargli molto caro. Lo dicono i mal di pancia dei suoi parlamentari, che ieri si sono riuniti per un’assemblea molto agitata, e soprattutto l’imbarazzato silenzio di milioni di elettori spiazzati dall’ipotesi di un’alleanza con un esponente della destra europea. Mentre alla Camera i deputati penta stellati si accusavano l’un l’altro per discutere il contestatissimo documento sugli errori della campagna eletto-rale preparato dallo staff della comunicazione — e per guardarsi dritto negli occhi a proposito del pericolo Nigel Farage — Beppe Grillo ha postato la lettera sul suo blog titolandola scherzosamente “Toc toc, c’è qualcuno in ca-sa?”. Il tono scherzoso è servito per sottolineare un fatto politico di una qualche importanza: Grillo ha voluto precisare che il M5S ha sempre cer-cato un contatto, e forse anche un accordo, con i Verdi europei, addirittura prima di prendere un aereo e correre da Farage. La lettera indirizzata al segretario generale dei Verdi conferma questa ipotesi, anche se è stata scritta dopo aver accusato proprio il suo partito di “fare shopping” per conquistarsi il favore di qualche eurodeputato M5S. Un bel ripensamento che sembra una giravolta. “Gentile dott.ssa Vula Tsetsi — scrive Grillo — il Movimento 5 Stelle sarebbe felice di incontrarla al più presto per discutere un’eventuale collaborazione in seno al gruppo dei Verdi”. Seguono spie-gazioni didascaliche sul movimento una sintesi di sette punti. Ma è la precisa e irritata ricostruzione fatta dal responsabile della comunicazione Claudio Messora, che presto si trasferirà a Bruxelles per lavorare con i nuovi deputati, a dare l’idea dei diversi tentativi andati a vuoto per contattare i Verdi; fin dal 14 maggio, nove giorni prima delle elezioni. Come dire: li stiamo cercando, loro ci rimbalzano. Sembra che a far finta di non sentire siano stati i Verdi tedeschi, forse irritati dai complimenti che Grillo ha rivolto a Farage, ma sarebbe in corso un tentativo di riavvicinamento che non dispiacerebbe agli italiani ed ai francesi, compreso il conta-dino no global Josè Bové che ha espresso curiosità per il fenomeno Grillo. Basteranno queste rassicurazioni a calmare le acque dentro e fuori il M5S? E’ presto per dirlo. Stando al clima infuocato dell’assemblea dei deputati di ieri è evidente che bisogna ancora fare i conti dopo la batosta elettorale. E qualcuno, quei conti, li dovrà pur pagare. Il primo della lista potrebbe essere Nicola Biondo dello staff Comunicazione della Camera. Alcuni par-lamentari (e sicuramente Grillo&Casaleggio) non hanno gradito il dossier sugli errori commessi dal M5S (e dal suo capo). Lo staff, secondo alcuni, in quella sorta di autoanalisi avrebbe scaricato tutte le colpe sui parlamentari senza nemmeno un cenno di autocritica. Nelle grazie dei capi adesso potrebbe entrare Rocco Casalino, che non sembra molto apprezzato dai deputati penta stellati nonostante i suoi buoni rapporti con stampa e tv. Ma la guerricciola civile potrebbe finire già oggi. Biondo — che è stato difeso dalla parlamentare Roberta Lombardi e che se venisse scaricato provoche-rebbe le dimissioni di tutto lo staff comunicazione — oggi sarà a Milano con i capigruppo di Camera e Senato. Li aspetta Gianroberto Casaleggio. 23 del 05/06/14, pag. 15 Dove il voto europeo ha rotto il recinto delle élite Tommaso Nencioni Europee. Il ceto medio ha votato Pd e M5S, mentre le fasce più sofferenti si sono astenute. Anche il voto europeo va letto dentro il ciclo politico-culturale di un disegno elitario che espello fette crescenti di popolazione Nel 1975 un pool di autorevoli intellettuali stilava, per la Commissione Trilaterale – un autorevole think thank conservatore, al di là della leyenda negra che la circonda – un ampio “Rapporto sulla governabilità delle democrazie”. La stesura del rapporto rappresenta una cesura fondamentale nella storia della battaglia delle idee novecentesche, in quanto suonò la diana per quella riscossa neo-conservatrice che poi a partire dal decennio successivo dispiegò per intero la propria egemonia. Si trattava, secondo Crozier, Huntington e Watanuki, di salvare la democrazia liberale, attraverso la concentrazione del potere di governance nelle mani di élites tradizionali, da quell’“eccesso di domanda” che aveva caratterizzato il ciclo dei “trenta gloriosi”. Affinché ciò avvenisse, lo scontro politico si doveva ridurre ad un gioco a somma zero tutto ricondotto nel recinto delle classi dirigenti. Il ceto politico doveva in qualche maniera essere reso avulso dallo scontro tra interessi contrapposti inerente ad una società divisa in classi portatrici di interessi – e di disegni politici – contrapposti. Non a caso, a partire dal decennio successivo, parlamento e sindacati di classe furono messi sotto attacco, in quanto istanze responsabili di quell’ “eccesso di domanda”, e più in generale in quanto case di rappresentanza e di sintesi di interessi contrapposti. Proprio in Italia, un filo rosso in questo senso lega la Grande Riforma di Craxi, la Bicamerale Berlusconi-D’Alema e il progetto Renzi. A livello di senso comune, la realizzazione di questo disegno elitario presupponeva che fette vieppiù crescenti di popolazione – sostanzialmente, i ceti subalterni – smettessero di cercare nella politica risposte collettive ai propri problemi. Le recenti elezioni europee si iscrivono a pieno in questo ciclo politico-culturale. Le analisi dei flussi elettorali, per rimanere al caso italiano, lo dimostrerebbero. All’altissima astensione, i ceti popolari hanno contribuito in maniera copiosa. Tra quelli che si sono recati alle urne, chi concepisce la propria situazione come “disagiata” si è rivolto in larga misura al M5S. Anche ciò che resta del berlusconismo, oltre alla Lega, vive di una certa sovrarappresentazione in questa fascia di popolazione, mentre il Pd, e addirittura la lista Tsipras, vedono un sostegno tra le suddette classi disagiate inferiore alla percentuale totale di elettori raccolta. La viscosità sociale a sostegno delle varie forze in campo appare insomma, più che un riflesso di fenomeni reali certo presenti nella società – la scomposizione della classe operaia in una miriade di lavori e di contesti sociali – una diretta conseguenza dell’espulsione di un intero blocco sociale dall’arena politica. Quali le forze sociali rimaste in campo, dunque? Per rispondere a questa domanda, la metafora usata da Renzi in campagna elettorale, del derby tra la rabbia e la speranza, non è da derubricare a boutade sloganistica. Si affrontano, da una parte, un ceto medio colto, cosmopolita, abituato alla politica, soddisfatto economicamente e socialmente o comunque speranzoso di giungere all’ambita soddisfazione. Magari attraverso la politica: 24 direttamente, con la distribuzione di cariche, o indirettamente, attraverso la ripresa dell’erogazione della spesa pubblica, non necessariamente in termini clientelari. Dall’altra è in campo un ceto medio incattivito, che vede a rischio il proprio status, poco incline all’accoglienza del “diverso”, individualista e insofferente nei confronti dello Stato inteso come comunità di regole, salvo poi pretendere elargizioni sia in termini clientelistici che in termini di defiscalizzazione. Come spettatori, si assiepano sugli spalti, in basso, i ceti subalterni, che assistono alla querelle con indifferenza o insofferenza. Dall’alto una occhiuta élite, incaricata di sorvegliare che lo spettacolo non produca eccessi rimarchevoli. A ben vedere, il successo del Pd renziano risiede nella sua capacità di pescare consenso maggioritario tra tutte le parti in campo; in misura minore questo vale anche per il M5S, mentre la destra mantiene, pur disperso in più formazioni, il proprio zoccolo duro tra gli “arrabbiati”. Se questo è il panorama, attendere un effettivo cambiamento in base a soluzioni miracolistiche appare vano. Nell’osservare il panorama europ«eo da un contesto distante anni luce – anche culturalmente – il sociologo marxista brasiliano Emir Sader si diceva colpito non tanto dalla mancanza di progetti alternativi in campo, quanto dalla mancanza del fermento sociale sufficiente a farli lievitare. Un fermento sociale che era stato l’ingrediente fondamentale per il cambiamento di rotta poi verificatosi sul piano politico nell’America Latina che, a partire dai primi anni duemila, ha iniziato a prendere coscienza del fallimento del paradigma neo-liberista. In realtà il panorama non è così univoco, ma è senz’altro vero che forze di sinistra di alternativa, portatrici di un’ipotesi di cambiamento forte, sono uscite rinvigorite laddove – Spagna e Grecia in primo luogo – movimenti di resistenza hanno preso forza prima di tutto nella società, e forze politiche strutturate e credibili ne hanno sintetizzato le esperienze e le esigenze. In mancanza di questa spinta dal basso, specialmente ad opera del movimento dei lavoratori – anche la più raffinata ricetta per “uscire dalla crisi da sinistra” è destinata ad un ben misero riscontro. Si tratta di rompere quel recinto così sapientemente architettato, ormai quarant’anni fa, nel “Rapporto sulla governabilità delle democrazie”. del 05/06/14, pag. 1/15 4 giugno 1944 La Liberazione non è finita Alessandro Portelli La testimonianza più drammatica della liberazione di Roma, il 4 giugno del 1944, ce l’ho davanti casa: la stele che, dove da via Cassia si diparte una stradina un tempo di campagna e oggi di quartiere dormitorio, elenca i nomi dei prigionieri politici uccisi a sangue freddo dai nazisti (affiancati da collaboratori italiani) dopo che si era bloccato il camion che li trasportava a Nord mentre da Sud entravano in Roma le truppe alleate. Una quindicina di anni fa, era appena cominciato il processo Priebke, uscendo di casa trovai che qualcuno aveva dipinto sul cippo un’enorme svastica nera. Pochi minuti dopo, attorno al cippo c’era un capannello di gente che discuteva come fare a cancellare quell’insulto. Ognuno proponeva gli strumenti del proprio mestiere: il carrozziere offriva una mola («ma no, così rovino il marmo!»), il commerciante del ferramente proponeva un solvente… E io, che facevo un altro mestiere, mi domandavo: e io, che strumenti ho per cancellare quella svastica? Materialmente, adesso la svastica è scomparsa dalla pietra. Ma non è stata cancellata dalle nostre menti e dalla nostra cultura. Quelli di noi che lavorano nella cultura, nella 25 comunicazione, nella scuola devono cercare e cercare nel proprio mestiere gli strumenti per continuare il lavoro di quel ferramente e di quel carrozziere e cancellare la svastica anche dalle coscienze. Finché le svastiche continueranno ad apparire sui nostri muri, e proprio in vicinanza dei luoghi della resistenza (dalla Storta a via Tasso) e nelle ricorrenze (il 25 aprile, il giorno della memoria…), la liberazione di Roma non si potrà dire compiuta. La storia non finisce lì. D’altronde, quel 4 di giugno in cui i nazisti lasciarono Roma e gli alleati vi furono accolti in festa non fu una fine, ma un nuovo inizio. C’è una canzone partigiana che ho sentito cantare nei Castelli Romani che dice: «Or che è liberata Roma / il mondo intero insorgerà». Da un lato, la canzone sottolinea il ruolo simbolico dell’evento: la liberazione di Roma, simbolo universale, cambia di segno alla storia del mondo, è una luce sul futuro. Dall’altro, però, dice che la battaglia continua, la guerra non è finita. E centinaia di partigiani delle zone liberate dell’Italia centrale continueranno la lotta nei gruppi di combattimento a fianco delle forze alleate e di quel che restava dell’esercito italiano. Il paradosso, naturalmente, è che forse «il mondo intero insorgerà», ma che forze potenti – dalla Chiesa ai militari monarchici – si erano attivate per impedire che insorgesse Roma. Forse avevano anche delle buone ragioni; ma forse la scelta di fare di Roma l’oggetto e no il pieno soggetto della propria liberazione è una delle ragioni per cui, sette decenni dopo, le svastiche continuano ancora a infestare la nostra memoria. del 05/06/14, pag. 5 Caso Gugliotta Agenti condannati. Quattro anni ai poliziotti picchiatori Valerio Renzi Era il 5 maggio del 2010 quando all’esterno dello Stadio Olimpico scoppiarono violenti incidenti al termine della finale di Coppa Italia tra Roma e Inter. All’epoca Stefano Gugliotta aveva 26 anni e, tirato giù dal suo motorino da un gruppo di agenti della celere nelle vicinanze dello stadio in viale Pinturucchio, fu colpito a ripetizione fino a perdere i sensi. Poi venne arrestato per resistenza e passò una settimana in carcere. Gugliotta era completamente estraneo agli incidenti ed è stato fermato mentre andava ad una festa con un amico, colpevole solo di trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato. Dopo quattro anni è arrivata la sentenza di primo grado che riconosce come responsabili delle violenze nove agenti della celere che sono stati condannati a quattro anni di reclusione e sono stati sospesi dal servizio per aver preso l’inerme Gugliotta a calci, pugni, manganellate. I giudici della decima sezione del tribunale di Roma sono andati anche oltre le richieste del pm Pierluigi Cipolla. «Non si può mai essere contenti quando vengono condannate delle persone, specie se, come in questo caso, agenti di polizia – ha commentato Cesare Piraino, avvocato di Gugliotta – Se l’impostazione accusatoria era corretta, la pena da infliggere non poteva essere di modesta entità come richiesto dal pm». La verità è venuta fuori grazie alle riprese video fatte da un balcone e condivise in rete dove appariva, inequivocabile, la violenza e l’insensatezza del pestaggio. «È una sentenza pesante e credo giusta – ha commentato col manifesto Stefano Gugliotta –aspettiamo di leggere le motivazioni ma oggi è un bel giorno per me e per i miei familiari dopo quattro anni di battaglia in aula». «È importante che queste persone siano state riconosciute colpevoli per le loro azioni – prosegue Stefano – colpire con quella violenza e 26 ferocia, in maniera casuale e insensata, è inconcepibile, soprattutto per chi porta una divisa e ha abusato del suo potere». Gugliotta è un ragazzo normale trascinato in un incubo senza sapere perché. E’ consapevole che la battaglia è ancora lunga: «Questo è solo il primo grado di giudizio, ora affronteremo tutti gli altri con più forza. C’è poi un altro procedimento ancora in corso che vede imputati gli agenti che certificarono il mio arresto e le sue modalità». Chiediamo a Stefano se si è sentito solo in questa anni e la risposta è perentoria «no mai, io e la mia famiglia ci siamo sostenuti a vicenda e abbiamo incontrato la solidarietà e la vicinanza di tante persone». Ieri in aula si trovavano i volontari di Acad (Associazione contro gli abusi in divisa), oltre a Lucia Uva e Claudia Budroni, parenti di persone morte durante interventi delle forze dell’ordine. Giuseppe Uva ha perso la vita il 14 giugno 2008 dopo essere stato trattenuto nella caserma dei carabinieri di Varese. Dino Budroni è deceduto il 30 luglio 2011 dopo essere stato colpito da un proiettile sparato da un poliziotto durante un inseguimento. «A me non è andata di certo bene, ma poteva andare peggio», afferma Gugliotta». Per Acad la sentenza di ieri «è importante sotto molti punti di vista; innanzitutto perché raramente si sente odore di giustizia nei processi che vedono sul banco degli imputati gli agenti dei reparti celere che anche in questo processo hanno provato in tutti i modi a demolire la verità, prima attaccando la credibilità di Stefano (raccontando di fantomatici precedenti penali) e successivamente a mischiare le carte con la solita scusa che con il casco e il manganello non ci può essere una identificazione certa». 27 LEGALITA’DEMOCRATICA Del 05/06/2014, pag. 2 LA GIORNATA Mose, le mazzette-vitalizio “Paga fissa, viaggi e hotel” arresti per Galan e Orsoni Venezia, domiciliari al sindaco Pd: 35 in manette e 100 indagati Chiesto il carcere per l’ex governatore. “Peggio di Tangentopoli” VENEZIA . Un’ondata di arresti ha travolto la Laguna e ancora una volta una grande opera d’Italia in costruzione, il Mose, diventa ricettacolo di tangenti. Nell’inchiesta della procura di Venezia sono finiti imprenditori, manager, e soprattutto politici. È ai domiciliari il sindaco della città, Giorgio Orsoni, eletto con il centrosinistra e ora accusato di «aver ricevuto contributi illeciti dal Consorzio Venezia Nuova (il concessionario del ministero delle Infrastrutture per la realizzazione del Mose, ndr) alle comunali del 2010», l’assessore regionale Renato Chisso (Fi), il generale in pensione della Gdf Emilio Spaziante, solo per citare i nomi più grossi. Ma il gip ha chiesto la custodia cautelare anche per l’eurodeputata uscente Lia Sartori (Fi) e per Giancarlo Galan, ex presidente della Regione Veneto e attuale parlamentare di Forza Italia, sul quale, essendo deputato, dovrà pronunciarsi la Camera. «Ha avuto uno “stipendio” di 1 milione all’anno», si legge nell’ordinanza. I magistrati, che hanno definito l’inchiesta «peggio di una Tangentopoli», hanno sequestrato alle persone sotto inchiesta 40 milioni di euro. Sono 35 le persone raggiunte dai provvedimenti cautelari: 25 in carcere, 10 ai domiciliari. Devono rispondere, a vario titolo, dei reati di corruzione, finanziamento illecito ai partiti, frode fiscale. A loro si aggiunge un esercito di 100 indagati: funzionari pubblici, addetti alle segreterie dei politici, dipendenti di aziende e coop che accedevano alla «spartizione» degli appalti milionari del Mose, accettando il gioco dei fondi neri e delle fatture gonfiate, per pagare politici di centrodestra e centrosinistra. Un sistema del quale, secondo i pm del pool della Dda di Venezia, era «grande burattinaio» l’ex capo del Consorzio, l’80enne Giovanni Mazzacurati: arrestato nel luglio scorso, ha ottenuto i domiciliari e ha cominciato a parlare con la procura. Mose ha aperto le acque, sotto c’è il baratro di Venezia. Un fondale melmoso dove hanno strisciato per dieci anni politici squali affamati di tangenti «anche dopo il pensionamento», tipo vitalizio, «pacchetti e pacchettini» per «ristrutturare la villa» come è riuscito a Giancarlo Galan al quale, bontà sua, non bastassero i muratori pagati dalla Mantovani spa, casualmente nella torta Mose, era assicurato «uno stipendio annuo di 900mila euro». Più morigerato, ma forse è solo questione di ruoli e di tempi, il sindaco Giorgio Orsoni: 560 mila. Una tantum anzi no, a rate. «In tre mesi ho portato i soldi a casa sua», confessa Giovanni Mazzacurati. Il «capo supremo», il «re», il «monarca», l’«imperatore», il «doge». Lo chiamano così i sottoposti, le iperboli che si addicono a chi presiede il consorzio a cui è stata affidata un’opera da 5miliardi, «il progetto più grande del mondo». «Il capo supremo era scoglionato... ma poi è diventato tutto arzillo dopo la cena con il mio amico di Padova » (il sindaco di Padova Zanonato, ndr), dice del suo dominus uno dei più fidati collaboratori. Avevano addosso gli occhi dei sindacati: «C’è uno che al Tg3 ha detto: “È ora di finirla, questi qua fanno soldi con il Mose, poi vengono qua e si comprano la sanità pubblica”». 28 Questi qua sono loro, il branco di piranha che s’addensava intorno agli squali. I «loro» imprenditori. Quelli che «prima li paghiamo — i politici — e poi andiamo a batter cassa». Dice ancora l’ingegnere Mazzacurati: «Adesso con i tagli grossi vengono pacchetti piccoli... ». Glieli portava direttamente lui i soldi al consigliere regionale Pd Giampiero Marchese, invero non il più ingordo giacché il «meccanismo », come lo chiamano i magistrati nelle 710 pagine di ordinanza del gip Alberto Sacaramuzza, si accontentava di piccole tranches «da 15 mila euro a volta». Più che un’idrovora una cerniera, Marchese. «Era il collettore di soldi del Consorzio Venezia Nuova (Cvn) per la sinistra. Galan e Chisso (Renato Chisso, assessore regionale forzista alle Infrastrutture, ndr) lo erano per la destra». C’è un codice più o meno sofisticato che i mazzettari della Laguna osservavano per tessere la loro rete. È fatto di «dazioni obbligate», «rendite di posizione», «fondi neri» che qui, splendido anagramma della corruzione, diventano «fondo Neri» (dal nome di Luciano Neri, il “cassiere” di Mazzacurati” del Cvn). Bisogna leggere attentamente le parole del gip. «Il meccanismo — annota — arrivava al punto di integrare in un’unica società corrotti e corruttori». Un abisso «talmente profondo che non sempre è stato possibile individuare il singolo atto specifico contrario ai doveri d’ufficio». Eccoli gli ingranaggi del meccanismo. C’è un sindaco che nella sua bella casa di San Silvestro, due passi dal ponte di Rialto, riceve il corruttore: il «grande amico» Mazzacurati. Un caffè veloce? «Ho saturato la cifra richiesta», ammette il costruttore. «Anche tranches da 150 mila euro». Non è uno che va per il sottile il «doge». «Tutti i nostri amici gonfiano», ammonisce al telefono. Fatturazioni off shore, «esterovestizione» per dirla con l’economichese della polizia tributaria. Ma anche di carta igienica si parla. Racconto di Pio Savioli, responsabile del Consorzio per i rapporti con le cooperative: «Il magistrato alle Acque era in subordine al Consorzio Venezia Nuova... cioè Venezia Nuova li comprava... sudditanza psicologica e anche operativa... Cioè gli comprava anche la carta igienica, è vero, non è una battuta». Tutto nello stesso contenitore che tiene dentro squali, piranha e pesci piccoli. «Le nomine del Magistrato delle Acque da sempre le ha fatte l’ingegnere Mazzacurati — dice Claudia Minutillo, ex segretaria di Galan e imprenditrice del cemento — Cioè faceva in modo che venisse nominata una persona a lui gradita, gradita al Consorzio». Non manca nessuno nel canovaccio di questa commedia dell’arte (di rubare). Il sindaco (Orsoni). L’assessore (Chisso). Il “governatore” (Galan). Gli altri politici da oliare (Marchese, Lia Sartori eurodeputata Pdl non rieletta). Poteva mancare il generale della Guardia di Finanza in pensione? No, infatti è spuntato lui, Emilo Speziante. «Con Mazzacurati si incontrano nella residenza romana dell’imprenditore ». Residence Ripetta, via di Ripetta. Il doge gli chiede un occhio di favore. E qualche soffiata. Speziale è richiesto di «influire in senso favorevole sulle verifiche fiscali e sui procedimenti penali aperti nei confronti del Cvn». Tutto bene oliato con «la promessa di 2,5 milioni di euro». Il sistema Mose sapeva essere riconoscente. Anche quando uno lasciava il suo incarico. Anche dopo la pensione. LA RENDITA DOPO LA PENSIONE «A volte la mazzetta viene pagata anche quando il pubblico ufficiale corrotto ha cessato l’incarico o quando il politico ha cessato il suo ruolo a livello locale», recita l’ordinanza del gip. Si chiama «rendita di posizione». Un «conguaglio», o «stipendio fisso» che «prescinde dal singolo atto illecito commesso». Così ingrossava il conto Vittorio Giuseppone, ex magistrato della Corte dei conti. Così Orsoni e Chisso e Lia Sartori potevano farsi le campagne elettorali ma non solo. «Orsoni prima ha fatto una cifra e poi l’ha aumentata», dice Mazzacurati che del primo cittadino veneziano ricorda, in alcune occasioni, la prudenza. «Chiedeva di consegnare denaro a qualcuno che lo copriva». I «pacchettini» sono scivolati di mano in mano dal 2003 a oggi. Ognuno riceveva in base a quanto era in grado di dare. Ecco, se esiste un asso pigliatutto quello potrebbe rispondere 29 al nome di Giancarlo Galan. «Era a libro paga dei costruttori del Mose», scrive il gip. Tra 2005 e 2008 l’ex governatore e fedelissimo berlusconiano si è messo in tasca emolumenti per 900 mila euro l’anno. Un affarista il Galan che esce dalle carte. Tra conti a San Marino e pacchetti azionari nelle società coinvolte negli affari della Regione, con il suo fidato assessore Chisso faceva lavorare «imprese con le quali era in debito». «Galan ha continuato a chiedermi denaro anche dopo la scadenza del suo mandato in Regione», dice l’ad della Mantovani spa Piergiorgio Baita. VERA E PROPRIA LOBBY Questo era il Consorzio Venezia Nuova. «Un gruppo di pressione per ottenere le modifiche normative d’interesse», scrive il gip. «Buste bianche» e «bigliettoni». E poi viaggi. Viaggi per agganciare i big della politica. Come Tremonti, allora superministro, a cui Mazzacurati prova a arrivare attraverso il suo braccio destro Marco Milanese oliato con 500mila euro. «Prenotami una stanza al Grand Hotel», chiede il “Doge” alla sua segretaria. «Sì, che in quei due giorni c’è Matteoli che parla». Non gli è andata giù, a Mazzacurati, che il governo abbia nominato Ciriaco D’Alessio presidente del Magistrato alle Acque. «Oggi vedo il Dottore», promette sior Giovanni. Il Dottore è Gianni Letta. Lo riceva a Roma il 23 settembre 2011. Ma forse Letta non basta. «Lì ci vuole un atto di imperio di Berlusconi». Così parlo l’uomo del Mose prima che le acque si aprissero. Del 05/06/2014, pag. 10 LA GIORNATA Domani il decreto per dare più poteri all’Authority. E la prossima settimana il ddl su falso in bilancio, prescrizione allungata e reato di autoriciclaggio Renzi “turbato” per gli arresti Pd: ma è la vecchia politica Accelera la stretta anti-tangenti ROMA . Matteo Renzi è «molto turbato» dallo scandalo sul Mose. A raccontarlo è il presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone, che proprio ieri era a Palazzo Chigi per parlare dell’altro caso di malaffare, quello sull’Expo, con il premier. No comment del premier sugli arresti di Venezia, ma la linea dei renziani suona così: nelle inchieste sono coinvolti dirigenti del vecchio Pd, noi siamo il nuovo. E infatti Matteo Richetti manda in rete il seguente tweet: «Non ci facciamo scoraggiare, non è vero che non può essere diversamente, #facciamopulizia». Per la numero due del Pd, Debora Serracchiani, «la vecchia politica deve strapparsi di dosso i suoi sporchi costumi», mentre il sottosegretario Sandro Gozi nota che «le inchieste vedono sempre coinvolti personaggi di un’altra fase politica, contro la palude raddoppieremo gli sforzi per il cambiamento». Anche per Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria, «serve una svolta decisa, ma mi pare che si stanno creando le condizione per averla». Il presidente del Senato Pietro Grasso chiede «la massima severità nel caso di danno erariale». Intanto i democratici Laura Puppato e Felice Casson ricordano di avere lanciato l’allarme sul Mose già un anno fa ma, afferma la senatrice, «c’è stata una chiara volontà politica di non intervenire». Il ministro dell’Interno Alfano afferma che «vanno bloccati i ladri, non le opere», anche se polemizza perché, al contrario degli arresti di esponenti dell’Ncd a ridosso delle europee, i 30 partiti colpiti questa volta «hanno avuto il privilegio di essere coinvolti dopo le elezioni». Anche Lupi (Ncd), ministro dei Trasporti, chiede di «combattere la corruzione, ma le grandi opere vanno realizzate». Grida alla giustizia a orologeria il forzista Toti riferendosi alle amministrative di domenica: «Mi auguro che i magistrati abbiano agito con tutte le tutele del caso visto che come per l’Expo siamo alla vigilia dei ballottaggi». Per Salvini, segretario della Lega, invece no, non c’è nessuna connessione con il voto. Il blog di Beppe Grillo spara a zero, parla di «larghe intese in manette» e i deputati pentastellati chiedono alla Camera di dare quanto prima il via libera all’arresto di Giancarlo Galan. IL RETROSCENA ROMA . Poteri a Cantone subito, domani in consiglio dei ministri. Legge anti-corruzione a tamburo battente, già la prossima settimana. Un duo Renzi-Orlando che matura nell’arco di poche ore. Inevitabilmente, l’inchiesta di Venezia provoca questo duplice effetto. Il primo parte da palazzo Chigi e riguarda i nuovi poteri del commissario contro la corruzione che andranno a mescolarsi con nuove regole anche per la gestione ordinaria di Expo e con delle novità giuridiche molto concrete soprattutto sul punto delle revoche di appalti a imprese coinvolte nelle inchieste giudiziarie. Il secondo effetto matura in via Arenula, dove il ministro della Giustizia Andrea Orlando rompe gli indugi, incontra al Senato il capogruppo Pd Luigi Zanda e i componenti Dem della commissione Giustizia, e annuncia la sua mossa: il disegno di legge anticorruzione, che fino a 12 ore prima sembrava programmato per la fine di giugno, anticipa nettamente la sua corsa. Sarà approvato dal consiglio dei ministri per la metà del mese, già si parla del 13 giugno, con una spinta in avanti del tutto imprevista rispetto alle esitazioni dei giorni precedenti. L’obiettivo è chiudere almeno al Senato la legge, già in aula, per fine giugno. Partiamo da Cantone e dai suoi poteri. Con un Renzi che, nell’incontro a palazzo Chigi con il commissario, gli avrebbe ampiamente garantito quegli spazi di manovra che il magistrato, anche con una certa asprezza e ai limiti della rottura («Non vado a Milano in gita »), ha chiesto sin dal momento della sua nomina. Ancora ieri sera, sempre nel palazzo del governo, Cantone ha incontrato a lungo il capo dell’ufficio legislativo Antonella Manzione per un confronto su una materia assai delicata. A partire dalla questione delle questioni, se e come revocare gli appalti alle aziende che si sono fatte coinvolgere nel malaffare. Un problema che riguarda non solo Cantone, ma la stessa gestione di Expo e il commissario Rodolfo Sala. È molto probabile che s’imponga un’idea dello stesso Cantone (che l’ex pm spiega nell’intervista qui a fianco) e cioè l’applicazione rigida del «patto di integrità» previsto dalla legge Severino, per cui un’impresa aggiudicataria sottoscrive il patto e se lo viola perde l’appalto. In base al decreto, Cantone avrà uomini e mezzi per Milano, mentre dovrà aspettare per veder potenziata la sua Authority a Roma. In sintesi, per Expo, il commissario incasserà un ampio potere di controllo sugli appalti vecchi e nuovi, sui bandi di gara, sulle regole di aggiudicazione. Quanto alla manovra anticorruzione qui le novità non sono da poco. Perché il Guardasigilli Orlando, che già la sera prima aveva deciso di presentare un suo ddl con le nuove norme sul falso in bilancio (punito fino a 5 anni come prima della riforma di Berlusconi), sull’auto-riciclaggio (fino a 8 anni), sulla prescrizione (bloccata o subito dopo il rinvio a giudizio o dopo la sentenza di primo grado), a leggere le prime agenzie su Venezia ha deciso di anticipare ancora. «Era una scelta inevitabile » ha detto con i suoi collaboratori. Ed è andato al Senato dove, in commissione Giustizia, è già in discussione il ddl Grasso, di materia omologa. Se martedì sera, il sottosegretario Cosimo Maria Ferri aveva già fermato i lavori preannunciando la mossa del governo, ieri Orlando l’ha anticipata. Pieno l’appoggio del Pd, arrivato dal capogruppo Zanda. La discussione in aula prevista per il 10 giugno slitterà al 25, e ci sarà tutto il tempo per l’integrazione dei due testi, quello del governo e il ddl Grasso, in commissione. Lo stesso avverrà alla Camera, 31 dov’è partita la discussione sulla proposta Ferranti in tema di corruzione. Con le inchieste giudiziarie che incombono rinviare ancora sarebbe stato impossibile. Né la via di progressivi emendamenti del governo sui testi parlamentari, che pure è stata presa in considerazione, è parsa la più opportuna per far approvare rapidamente le nuove norme. Del resto, il ddl Orlando è già da tempo a palazzo Chigi. Copre un inasprimento delle leggi antimafia, come un’associazione mafiosa punita più severamente, e l’autoriciclaggio. Verrà aggiunto il falso in bilancio, in versione pre-Berlusconi, che rappresenta una vera inversione di rotta rispetto alla stagione delle leggi ad personam. Del 05/06/2014, pag. 12 A trent’anni dal primo progetto la spesa del Mose è triplicata. E l’opera è incompleta Le battaglie di scienziati e ambientalisti: “È il modo sbagliato per difendere Venezia” “Un pericolo per la Laguna” tutti i dubbi sulla barriera che è già costata 5 miliardi FRANCESCO ERBANI «CON il Mose è saltato uno dei principi che hanno governato per secoli la laguna di Venezia. E che la Serenissima repubblica ha costantemente rispettato. Quel principio è iscritto nel nome di un canale, il canale della Scomenzera». Scomenzera vuol dire cominciare, spiega Edoardo Salzano, urbanista, a lungo preside della facoltà di Pianificazione dello Iuav (Istituto universitario architettura di Venezia), poi anche assessore della città lagunare: «Un lavoro si cominciava, si vedevano gli effetti e solo se questi convincevano si continuava, se no si cambiava direzione. Nella legge speciale per Venezia, che tanti anni fa ha dato il via al Mose, si richiedono criteri analoghi: la sperimentalità, la flessibilità e la reversibilità. E quei criteri il Mose li ha tutti e tre disattesi ». Il Mose, Modulo sperimentale elettromeccanico, è un’opera nata e cresciuta sotto una bufera di polemiche. Doveva costare un miliardo e mezzo. Ma oggi, poco oltre l’ottanta per cento dei lavori, si è arrivati a 5 e mezzo. Si è iniziato a costruirlo nel 2003 (la prima legge in cui si parla di «regolazione dei livelli marini in laguna», però, è del 1984). Si diceva sarebbe stato completato alla fine del decennio, ma ora, sempre che vada in porto, verrà consegnato nel 2016. Ma servirà a evitare che Venezia finisca sott’acqua quando s’innalzano le maree? Il meccanismo sul quale si fonda, le paratoie che vengono su contrastando la corrente che dal mare porta acqua in laguna dà garanzie all’altezza dei costi? La discussione è stata sempre lacerante, ha diviso tecnici e uomini di scienza, messo l’una contro l’altra le istituzioni: da una parte il Magistrato alle acque, organo del ministero delle Infrastrutture, tenace difensore dell’opera, dall’altra il comune di Venezia che, soprattutto durante il mandato di Cacciari, si è strenuamente opposto, commissionando studi che dimostravano le tante falle del Mose. Intervenivano le associazioni ambientaliste, Italia Nostra e i comitati No Mose. Ma poi a decidere era solo il Consorzio Venezia Nuova, concessionario dell’opera e dominus assoluto della partita. Nel 2008 è arrivato un rapporto della Corte dei Conti, redatto dal giudice Antonio Mezzera, che giungeva a conclusioni inequivocabili e che oggi, dopo tre anni di inchieste giudiziarie, che hanno portato all’arresto di Giovanni Mazzacurati, direttore generale del Consorzio, prima di arrivare alle custodie cautelari di ieri, appaiono premonitorie: il Mose ha attirato su di sé la gran parte dei finanziamenti destinati alla manutenzione ordinaria della laguna, 32 operazione che andava svolta con costanza; tutti i lavori sono stati affidati a trattativa privata, senza gare; le ricerche e le sperimentazioni sono state opera del Consorzio a cui sono stati lasciati sia la direzione dei lavori, sia i collaudi; ingenti gli oneri pagati al concessionario. Implacabile la conclusione: «L’opera, comunque, non è risolutiva per la salvaguardia di Venezia, dal momento che essa deve essere integrata dalle difese locali». Di dubbi sulla funzionalità del Mose, che usa una tecnologia anni Ottanta, si dibatte da tempo. Le paratoie sono agganciate con possenti cerniere a giganteschi cassoni sistemati sul fondo del mare alle tre bocche di porto (Lido, Malamocco e Chioggia) che separano la laguna dal mare. Le paratoie, un’ottantina in totale, sono piene d’acqua e giacciono sul fondale. All’arrivo dell’alta marea vengono svuotate e si alzano, chiudendo gli accessi. Le prime strutture sono state sistemate fra il 2012 e il 2013 alla bocca del Lido. Ma, sostengono i critici, una volta in piedi le paratoie vibrano lasciando transitare l’acqua e sono solo parzialmente utili. E poi: quante volte si alzerebbero le paratoie? Tutte le volte che la marea supera i 110 centimetri e diverse parti del centro storico sono invase dall’acqua alta, rispondono al Consorzio. Ma non piazza san Marco, che finisce sotto a 80 centimetri, e dove l’acqua continuerebbe a diffondersi. E quante volte si superano i 110 centimetri? Due o tre all’anno, sei più recentemente. E conviene spendere 5 miliardi e mezzo, più la manutenzione, dai 40 ai 60 milioni l’anno?Ma accanto alle questioni ingegneristiche spiccano i rilievi ambientali. Li sintetizza Salzano: «Il Mose non rispetta la delicatezza della laguna, sempre tutelata anche quando nei secoli si sono realizzate vere grandi opere, come la diversione dei fiumi che scaricavano troppa sabbia oppure la sistemazione dei murazzi, i grandi massi collocati a protezione delle maree. La laguna è un organismo vivo, che non può essere separato drasticamente dal mare, cosa che avviene con i cassoni». Sui danni che il Mose avrebbe arrecato alla laguna si è espresso uno dei massimi esperti di ingegneria idraulica, Luigi D’Alpaos, professore a Padova, in un’indagine commissionatagli dal Comune nel 2006. E poi pesano le manipolazioni al paesaggio lagunare, segnala Lidia Fersuoch, presidente di Italia Nostra, «dove si intrecciano acqua, terra e canali in un equilibrio mobile. Terre che emergono e che vengono sommerse. Per il Mose si è costruita una grandissima piattaforma a santa Maria del Mare. E al centro di un’altra bocca di porto, al Lido, è spuntata un’isola artificiale di 11 ettari, che ha modificato il moto delle correnti. Qui tutto è stato sconvolto». Del 05/06/2014, pag. 23 Camorra e “processi aggiustati”, le rivelazioni shock del pentito Antonio Iovine che punta il dito sul suo ex avvocato “Parlò di loro con il boss Bidognetti, uno veramente spietato”. E intanto il collaboratore Vargas tira in ballo Cosentino “Saviano e Capacchione erano in pericolo” DARIO DEL PORTO CONCHITA SANNINO Trema l’ambiente giudiziario. Il boss pentito Antonio Iovine apre con la Procura antimafia di Napoli il capitolo dei verdetti da “addomesticare”. Parla di «processi aggiustati». E puntando il dito contro il suo storico avvocato Michele Santonastaso, già accusato di minacce per aver letto in aula quell’istanza di remissione contro lo scrittore Roberto Saviano e la giornalista (oggi senatrice del Pd) Rosaria Capacchione, dice: «Io non so se l’avvocato Santonastaso si rendeva conto di quanto fosse pericoloso discutere con 33 Francesco Bidognetti (l’altro padrino, oggi all’ergastolo, ndr) di queste cose. Cose che avrebbero potuto, per l’indole di Bidognetti, scatenare davvero una reazione pericolosa per Saviano e Capacchione». Aggiunge Iovine: «Bidognetti è un vero mafioso, una persona spietata», uno che si serve di chiunque «per gli scopi più crudeli e le azioni più efferate». Altre dodici pagine. Cariche di omissis. Iovine, nell’ambito del piano di collaborazione coordinato dal procuratore Giuseppe Borrelli, viene sentito dal pm Antonello Ardituro il 28 maggio. Racconta dei suoi rapporti con Santonastaso: il legale detenuto per collusioni e sotto processo — con Bidognetti, con lo stesso Iovine e con l’altro avvocato Carmine D’Aniello — per aver letto, nel 2008, in Corte d’Assise d’Appello, quell’istanza dai contenuti ritenuti intimidatori nei confronti dei magistrati Federico Cafiero de Raho e Raffaele Cantone, e di Saviano e Capacchione. Episodio per il quale il pm ha chiesto l’assoluzione di Iovine che, a verbale, ribadisce di non aver voluto minacciare nessuno. Racconta il pentito: «Santonastaso, per i suoi onorari, riceveva 30mila euro l’anno solo per la mia posizione, attraverso tre rate di 10mila, a Natale, Pasqua e Ferragosto. C’erano poi pagamenti a parte per la situazione processuale dei miei familiari », tutti arrestati nel 2008, e tutti affidati alla difesa dello stesso Santonastaso, «anche attraverso altri legali». Poi il padrino squarcia il velo sull’ambiguo rapporto che era stato intrecciato tra il legale e il boss Bidognetti. «Santonastaso, di cui conosco i grandi sacrifici che ha fatto per diventare un avvocato importante, è persona di grande ambizione — sottolinea il pentito — a causa della quale può aver commesso errori e anche dei delitti». E aggiunge: «Ci ho sempre tenuto che si occupasse solo dei processi, ma sono certo che se avessi avuto bisogno di lui per qualsiasi cosa estranea al rapporto cliente-avvocato, sarebbe stato disponibile. Convinzione che io traggo proprio dal fatto che si è reso disponibile ad aggiustare i processi cui ho fatto riferimento», e qui seguono gli omissis. Pagine bianche che preoccupano i complici dei camorristi nell’amministrazione della giustizia. Intanto un altro pentito accusa in aula l’ex intoccabile, ritenuto legato ai casalesi, Nicola Cosentino, tornato in carcere il 3 aprile scorso. Il collaboratore Roberto Vargas, nel corso dell’udienza di uno dei processi a carico dell’ex sottosegretario Pdl, dice: «Cosentino, tra il ‘93 e il ‘94 si incontrava con il boss Schiavone detto Sandokan per parlare di appalti e aveva chiuso la tangente della centrale di Sparanise, per circa 15-20 mila euro». Sullo stesso fronte politica e camorra, arriva un’altra collaborazione eccellente: sta parlando con i magistrati antimafia anche Giuseppe Valente, l’ex vertice del consorzio Ce4-Eco4 per lo smaltimento rifiuti, l’uomo già in passato accusato di collusioni che, stando alle accuse, con la complicità del boss Bidognetti, fece aggiudicare una gara d’appalto agli amici di Gomorra . È il consorzio di cui Cosentino diceva: «La Eco4 songh’ io». 34 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 05/06/14, pag. 21 «Cittadinanza a chi nasce sul suolo italiano» Un piano per i rifugiati «Pochi giorni. Giusto il tempo di mettere a punto la circolare. E poi anche i bambini degli asilanti, arrivati magari nella pancia della mamma o nati in Italia successivamente all’arrivo dei genitori, potranno avere la cittadinanza italiana». Il sottosegretario all’Interno, Nicola Manzione, non ha dubbi: nel giro di qualche settimana al massimo, si potrà estendere ai figli dei rifugiati lo «ius soli» (il diritto alla cittadinanza per il fatto di essere nati sul suolo italiano). Un provvedimento che riguarderebbe, secondo il sottosegretario, «solo duecento minori, circa». Ma capace di scatenare subito le proteste della Lega. «Alfano smentisca o si dimetta: la cittadinanza non è un regalo, ma una cosa seria —, hanno scritto ieri su Twitter i deputati Nicola Molteni e Guido Guidesi —. Renzi, come un novello Re Sole, pretende di cambiare uno status con una circolare». Che il governo abbia intenzione di riprendere in mano l’intero dossier sulla cittadinanza lo ha detto ieri anche il ministro degli Esteri, Federica Mogherini. La strategia, da adottare durante il semestre di presidenza in Europa, è quella di «agire sulle cause di fondo dei flussi e dei richiedenti asilo». Ma, ha spiegato il ministro, «sarà un lavoro in parte sul lungo periodo. Oggi sono soprattutto richiedenti asilo e rifugiati, ciò vuol dire che dobbiamo lavorare sulla prevenzione e sulla gestione dei conflitti e delle zone di conflitto». Quello che anticipa Manzione è invece un provvedimento di immediata applicazione. Ma come allargare le maglie di una legge che non riconosce lo «ius soli», ai figli degli immigrati nati in Italia, solo con una circolare? Manzione, ex magistrato, spiega: «Questi minori sono in una condizione del tutto particolare. Non hanno diritto alla cittadinanza come accade per i figli degli apolidi nati in Italia. E come accade per quei bambini che arrivano in Italia assieme ai genitori. La legge infatti prevede che per il riconoscimento della cittadinanza i minori siano presenti all’atto della domanda. È talmente evidente la disparità che basterà una circolare interpretativa». Un provvedimento, dunque, limitato. O un primo passo per l’estensione dello «ius soli» a tutti i ragazzi nati in Italia? Attualmente i figli degli immigrati venuti alla luce nel nostro Paese devono aspettare i 19 anni per ottenere la cittadinanza. «Le categorie sono diverse. L’immigrato non è una persona che cerca protezione, ma lavoro. Il richiedente asilo è un perseguitato. E se un Paese concede l’asilo al genitore deve farsi carico anche del minore». La vera emergenza in Italia «non è l’immigrazione clandestina ma il problema dei rifugiati, che è una cosa diversa, ed è ingiusto che l’Italia debba affrontare da sola questa situazione», ha spiegato ieri l’ex presidente del consiglio Massimo D’Alema da Bruxelles. La legge che consente la cittadinanza per diritto territoriale è stata applicata di recente a un bimbo cubano: Leandro E. Il piccolo, che avrà 4 anni a luglio, è nato da genitori cubani a Casalmaggiore in provincia di Cremona. La legge cubana riconosce la cittadinanza solo dopo aver risieduto almeno tre mesi nel territorio cubano. Leandro, dunque, è un apolide. E in base alla legge del 5 febbraio 1992 è uno dei rari casi che ha già diritto alla cittadinanza per «ius soli». Finora, secondo Manzione, in Italia sono state registrate, per il 2014, 21.000 richieste di asilo, ben più di quelle presentate in tutto il 2013. E sono oltre 40.000 i migranti giunti via 35 mare. Proprio ieri, nell’ambito della missione «Mare Nostrum», sono stati salvati a bordo di un barcone alla deriva 100 bambini. Virginia Piccolillo 36 BENI COMUNI/AMBIENTE del 05/06/14, pag. 16 Assedio ai movimenti 150 persone, tra cui molti bambini, sgomberati da via Torrevecchia chiedono asilo al Papa: "Siamo perseguitati, vessati e umiliati dallo Stato italiano" Sono entrati ieri mattina in una delle chiese più importanti di Roma, la Basilica di Santa Maria Maggiore a poche centinaia di metri dalla Stazione Termini, per chiedere asilo al Papa. Erano circa 150 persone, molti i bambini, tutte sgomberate lunedì dalla palazzina occupata in via Torre Spaccata 172, zona sud-ovest della Capitale. Immobile di proprietà di uno dei re del mattone romano, Francesco Gaetano Caltagirone proprietario de «Il Messaggero», una testata in prima fila nella lotta contro i movimenti per il diritto all’abitare. Lunedì hanno resistito per ore, rifugiandosi sul tetto da cui si sono rifiutati di scendere. Una situazione simile a quella dello scorso aprile quando ad essere sgomberata è stata un’occupazione alla Montagnola, nel quartiere dell’Ardeatino. Solo nel tardo pomeriggio con l’ausilio dei Vigili del Fuoco e lo spiegamento di centinaia di agenti in tenuta antisommossa, il tetto è stato abbandonato, mentre centinaia di persone accorse in solidarietà sono state tenute lontane. Una volta fuori dall’occupazione nessuna alternativa, se non la strada: «Non si è visto nessuno del Comune, solo alcuni contatti telefonici con l’assessore alla Casa Daniele Ozzimo, l’unica proposta fatte agli occupanti sono stati dei dormitori di emergenza solo per le donne e bambini, disgregando i nuclei familiari» racconta un’ex occupante. E poi: «Dal Comune silenzio, dalla Regione silenzio, dal Governo silenzio, così abbiamo deciso di venire qua. Forse la Chiesa smuoverà qualcosa». Gli occupanti di Santa Maria Maggiore sono pronti a passare la notte, con borse e sacchi a pelo nella navata di uno dei centri più importanti del cattolicesimo a Roma. Cercano solidarietà e risposte. Chiedono una casa, un futuro dignitoso, anche se nessuno di loro si sarebbe aspettato di arrivare a bussare alle porte di una Chiesa. «Non chiediamo però l’elemosina ma i nostri diritti» precisano. I turisti, incuriositi dall’accampamento, continuano a visitare la Basilica tra il vociare di bambini. Una camionetta della polizia si affaccia sulla piazza antistante. Gli agenti chiedono di non non stare sulla strada e di togliere le bandiere rosse «stop sfratti», simbolo in tutta Italia dei movimenti per il diritto all’abitare, dalle grate d’ingresso alla Basilica. Gli occupanti mostrano una lettera indirizzata a Papa Francesco. L’hanno consegnata al Vicariato di Roma. «Ti chiediamo di riceverci, di fare tue le piaghe che portiamo sui nostri corpi, di diventare la nostra voce forte contro queste politiche disumane e disumanizzanti, nemiche nostre e contrarie a quanto insegnato da Gesù Cristo, anche a quanti credono in un altro Dio. – si legge nella missiva — Ti chiediamo di concederci asilo politico in quanto esseri umani, perseguitati, vessati e umiliati dallo Stato italiano». Resta forte la polemica contro il piano casa approvato dal governo Renzi e la «sua ideologia punitiva verso chi si organizza per affrontare la precarietà e sull’idea che sia più importante far ripartire i mutui e il cemento che risolvere un’emergenza devastante» sostiene Irene dei Blocchi precari Metropolitani che appoggiano l’eclatante azione di protesta. Al centro delle polemiche c’è l’articolo 5 che vieta ai comuni di dare le residenze nelle case occupate ]e ordina il distacco delle utenze. Un provvedimento criticato anche dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. «Continua la guerra del governo di Renzi contro i poveri – spiega Irene — Lo sgombero di ieri conferma poi come il 37 Sindaco Marino e le istituzioni siano inermi di fronte al ministero degli Interni». Il Vicariato di Roma e i preti della Basilica si sono mobilitati stanno cercando una soluzione dignitosa per i senza casa. Chissà se sarà la volta buona. del 05/06/14, pag. 16 Genova Buridda sgomberata, blitz e corteo di protesta Katia Bonchi Assedio ai movimenti. Storia di un laboratorio sociale occupato da 11 anni. Polemiche sul sindaco Doria «Non ne sapevamo niente». Il comunicato stampa diffuso ieri mattina dal Comune di Genova dopo lo sgombero del Laboratorio sociale Buridda è stato recitato come un mantra dalla giunta Doria o, quantomeno, dagli assessori che si sono resi reperibili. Sì perché il sindaco, in trasferta a Roma per la delicata vertenza Piaggio, non ha commentato neppure a distanza la nuova e pesante frattura con la città, dopo l’affaire De Gennaro. Quella di Doria e, sulla carta, la giunta più a sinistra che abbia mai amministrato la città della Lanterna. Il Laboratorio sociale Buridda è, o meglio era, uno spazio sociale attraversato da undici anni da realtà di ogni tipo. Un luogo da sempre aperto alla città dove fino a ieri avevano sede laboratori artistici, una palestra di formazione circense, una di boxe, una sala di posa, un laboratorio di serigrafia e di grafica, una sala di teatro, cinema, presentazioni di libri. Genovesi, e non, hanno affollato gli spazi di via Bertani per il festival delle autoproduzioni o per l’appuntamento più atteso, il Critical Wine. L’ex sede della Facoltà di Economia e Commercio di via Bertani, la cui proprietà era passata al Comune di Genova poco dopo l’occupazione del 2003, è uno spazio di circa 6 mila metri quadri in uno dei quartieri «bene» della città. Commercialmente è molto appetibile. Un vero «tesoretto» per le casse sempre vuote di Tursi se fosse riuscito a venderlo. Anche per questo la giunta dell’ex sindaco Marta Vincenzi iniziò nel 2010 una trattativa con i centri sociali genovesi che prevedeva alcuni spostamenti e «regolarizzazioni». Per la Buridda era previsto il trasferimento negli spazi dell’attuale mercato ittico di Piazza Cavour, una volta che il mercato fosse stato spostato altrove.Con il cambio di giunta, il percorso si è interrotto. Il Comune di Genova sostiene di non avere più i soldi per trasferire il mercato. L’assessore alla Legalità e ai Diritti Elena Fiorini ha proposto agli occupanti di «accontentarsi» dei piccoli locali sopra al mercato. La proposta è stata rispedita al mittente. «Trattativa arenata su posizioni troppo diverse» ha confermato l’assessore. A fine 2012 è arrivato il decreto preventivo di sequestro dell’immobile firmato da un giudice ormai in pensione e rimasto per oltre un anno e mezzo sulla scrivania del Questore. Nel frattempo, due aste per la vendita dell’edificio sono andate deserte. «È successo che il Pd ha preso il 41% dei voti» rispondono i ragazzi del Buridda. Martedì scorso, nel comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica a cui hanno partecipato il sindaco di Genova Marco Doria e l’assessore Fiorini, la «pratica» Buridda è riapparsa magicamente sul tavolo. Da Tursi giurano: «Non sapevamo che avessero intenzione di sgomberare oggi». Secondo alcune indiscrezioni, sarebbe stato proprio il sindaco a dare l’ok allo sgombero. Indiscrezioni pesanti, che hanno fatto il giro della città scatenando ironia e indignazione. Il vice sindaco Pd Stefano Bernini, a sgombero ancora in corso, ha 38 affermato che per il Buridda «oggi il compratore c’è». Dichiarazioni che hanno scatenato la rabbia dei giovani dei centri sociali. Nel pomeriggio hanno dato vita a un lungo corteo per le vie del centro con un mini blitz finale al circolo del Pd del centro storico: un portone aperto a calci, diverse scritte e qualche sedia rovesciata. Pochi danni, ma un messaggio chiaro: l’obiettivo della protesta resta il sindaco, accusato di aver «tradito» le istanze sociali di cui sembrava essersi fatto portatore e di non essere capace di instaurare un vero dialogo con la città. «Marco Doria come Scajola, neanche lui lo sapeva» uno degli slogan lanciati dal corteo. «Questo è uno di quei momenti dove manca la voce e non solo di Don Gallo – ha commentato Domenico Chionetti della Comunità di San Benedetto — un vuoto difficile da colmare , ma è chiaro da che parte stare». del 05/06/14, pag. 15 Cavallerizza, prove di teatro Valle a Torino di Andrea Giambartolomei Torino Un polo di creazione ed educazione artistica nel centro di Torino, gestito in maniera “partecipata” dai cittadini. È il sogno dell’assemblea “Cavallerizza 14.45”, gruppo di artisti e lavoratori dello spettacolo che dal 23 maggio scorso ha occupato la Cavallerizza reale, le storiche scuderie dei Savoia in pieno centro a Torino, già case popolari e sede di un teatro: “Ho recitato qui pochi anni fa – spiega Luca Esposito, studente al Dams e attore – quando ho saputo dell’assemblea, ho deciso di partecipare per bloccare la svendita”. Già, la “svendita” è il motivo dell’occupazione: nel dicembre 2012, anche per ridurre il debito di quasi 4 miliardi di euro, la Città di Torino ha deciso di vendere la Cavallerizza (in larga parte in stato di abbandono). Base dell’offerta 11,4 milioni di euro. Al momento l’80% è stato pagato dalla Cct (Cartolarizzazione Città di Torino), società del Comune il cui compito è trovare gli acquirenti privati: si è parlato di hotel, abitazioni e negozi in un’area vincolata tutelata addirittura dall’Unesco. Il timore, insomma, nonostante le assicurazioni dell’amministrazione comunale secondo cui il cortile e altre pertinenze rimarranno a disposizione della città, è che un gioiello non solo architettonico cessi di essere un “bene comune”: “Dopo mesi di assemblee con 30 partecipanti –racconta una militante del centro sociale Askatasuna, che ovviamente appoggia l’iniziativa – venerdì 23 maggio ci siamo trovati in 200 e abbiamo deciso di occupare”. DA ALLORA le giornate sono intervallate da incontri, dibattiti con urbanisti e giuristi, prove teatrali aperte al pubblico, corsi del Movimento per la decrescita felice e visite agli spazi e a quella porzione di Giardini reali nascosti da decenni di abbandono delle ex scuderie. In due giorni, “Cavallerizza 14.45” ha raccolto quasi mille firme di sostegno. “Non vogliamo replicare l’esperienza del Teatro Valle a Roma – afferma Giulia, la portavoce – Vo - gliamo fare un luogo di creazione artistica aperta e di educazione”. Al momento hanno ricevuto il sostegno dell’attrice Laura Curino. È arrivato pure lo standing man di Gezi Park, il coreografo turco Erdem Gunduz. Nei prossimi giorni verranno altri attori: “Pure Ascanio Celestini vorrebbe venire”, afferma Giulia. Oltre agli artisti, gli occupanti hanno trovato qualche sponda politica in consiglio comunale. Alcuni consiglieri di Pd e Sel a Palazzo civico chiederanno al sindaco Fassino di aprire un confronto. Gli occupanti sono pronti, ma non vogliono pressioni né giochi al ribasso: “Hanno aspettato anni prima di vendere, ora ci 39 lascino il tempo di ideare un’alternativa alla svendita”, affermano. Più realista l’assessore alla Cultura Maurizio Braccialarghe, il quale ha dichiarato a La Stampa che non ci sono soldi: “Se gli occupanti hanno in mente qualcuno in grado di investire questa cifra ne saremo ben lieti”. Loro, replicano: “Non si smarchi dalle responsabilità. Non siamo noi a dover trov 40 INFORMAZIONE Del 05/06/2014, pag. 17 LA GIORNATA Tarantola: una quota di Rai Way sul mercato dopo i tagli ma non si svende Rai, sì alla vendita dei ripetitori MATTEO PUCCIARELLI MILANO . L’unica strada percorribile adesso per venire incontro alle richieste del governo è la vendita, ma non la svendita, di una quota di Rai Way. La conferma arriva dalla presidente della Rai Anna Maria Tarantola. Che però allo stesso tempo non chiude all’ipotesi di fare ricorso contro il taglio di 150 milioni di euro deciso dell’esecutivo: «Il cda esaminerà la questione non appena avremo un parere proveritate che abbiamo chiesto al professor Enzo Cheli». Durante la sua audizione di fronte alla commissione di Vigilanza Rai Tarantola spiega che «come consiglieri siamo consapevoli delle responsabilità che abbiamo nei confronti dell’azionista, del Parlamento, dell’azienda, dei dipendenti e di tutti gli stakeholder e con tale pieno senso di responsabilità intendiamo operare». E però — è il richiamo al governo — «sarebbe importante avere indicazioni sul modello del perimetro, sul tipo di modello e su quali siano le risorse. In questo modo si può fare un piano strategico, altrimenti come si fa?». Si è parlato molto dei contratti faraonici ai big e sulla possibilità di decurtarli per far fronte alla stretta: «Si può intervenire solo su contratti scaduti, a meno che non si voglia incorrere in ricorsi. La riduzione dei compensi, per esempio del 10-15 per cento, può avvenire via via che vengono a scadenza, in fase di rinnovo», è la risposta della presidente. Sulla questione Rai Way interviene anche il consigliere Antonio Verro: «Lo possono capire tutti che un conto è vendere con una programmazione e un altro è doverlo fare in fretta e furia» Del 05/06/2014, pag. 5 Tarantola: «Problemi dai tagli Ricorso? Stiamo valutando» Peluffo: «Occasione cambiare l’azienda» Il Pd: rinnovo della concessione e poi cancellare la Gasparri Lo sciopero dell’11 giugno alla Rai contro il taglio dei 150 milioni rimane in piedi nonostante il presidente della commissione di garanzia sugli scioperi confermi (decisione tecnica e non politica ci tiene a precisare) che è illegittimo visto che già un’altro sciopero era stato indetto per il 19 giugno. Tuttavia il fronte è sempre meno compatto e non trova molti sostegni esterni. Tanto che l’ex direttore del Tg1 Augusto Minzolini, oggi senatore berlusconiano, non può fare a meno di notare che «il mondo è proprio cambiato, se l’avesse fatto un’altro governo avremo sit-in in piazza con tanto di cartelli e slogan in difesa della Rai». Forse anche per questo il Cda Rai non ha ancora deciso (e chissà se mai lo deciderà) di ricorrere contro il governo per il taglio dei 150 milioni. Attendono il 41 parere del costituzionalista Enzo Cheli e poi valuteranno come dice in commissione vigilanza la presidente della Rai Anna Maria Tarantola. Anche perché il governo conferma col sottosegretario all’editoria Luca Lotti che «in un momento in cui si chiedono sacrifici a tutti è giusto che la Rai partecipi ai sacrifici». Certo il taglio di 150 milioni qualche problema lo creerà. Tanto che senza contromisure, dice la presidenza citando dati del direttore generale Luigi Gubitosi, a fine anno si potrebbe registrare un rosso di 162 milioni e quindi la riduzione di unterzo del capitale sociale con ripercussioni anche civilistiche in capo ai membri del cda. Ipotesi di scuola però visto che le contromisure sono già state individuate nella cessione di una quota di minoranza di Raiway, la società al 100% della Rai, proprietaria dei tralicci da cui viene irradiato il segnale del servizio pubblico. Del resto, ricorda Vinicio Peluffo, capogruppo Pd in commissione di vigilanza, è stato lo stesso direttore Gubitosi ad aver definito (e di fronte alla commissione) il taglio dei 150 milioni «fattibile entro fine anno» e quindi questa non può essere o diventare la questione fondamentale. Certo c’è anche la lettera che il direttore generale dell’Ebu (European Broadcasting Union: l’associazione delle tv pubbliche), Ingrid Delterne, ha inviato al Capo dello Stato lamentando in quel taglio un possibile «un impatto diretto sulla libertà e l’indipendenza del servizio pubblico italiano ». Ma proprio per questo, spiega Peluffo, va colta l’occasione per riformare la Rai e assicurare un futuro al servizio pubblico. Perché la Rai un futuro lo può avere proprio grazie al lavoro fatto da «questo cda» rivendica Tarantola. Che davanti alla Vigilanza si presenta non solo con una orgogliosa difesa del lavoro fatto in questi due anni per rimettere in piedi e far camminare un’azienda ferma da anni, ma anche per spiegare che al di là dei conti il futuro del servizio pubblico dipenderà da quale mission vorrà dargli l’azionista. Il tema dunque è il «cambiamento profondo» della Rai come dice Peluffo. Per il Pd cioè non basta battersi per il pur giusto recupero dell’evasione dal canone che andrà comunque modulato per fasce di reddito come dice il sottosegretario Giacomelli. Ma occorrerà, avverte Peluffo, pensare a una nuova governance e, con buona pace del centrodestra, anche a una nuova legge che superi la Gasparri. Insomma ora l’occasione c’è e vista anche la volontà di Giacomelli di anticipare il rinnovo della convenzione alla Rai, non va sprecata, avvisa Peluffo. «Il cda - è la risposta indiretta di Tarantola - deve realizzare le indicazioni dell’azionista, ma è ovvio che se arrivasse qualche indicazione in più ci aiuterebbe ». Perché per la presidente se oggi si può pensare a una profonda riforma della Rai si deve al fatto che non ci si trova di fronte a un malato da salvare, ma a una azienda sana in grado quindi di sopportare anche profondi interventi di cambiamento. E questo lo si deve al lavoro del cda e del management insediato dal governo Monti. Se a fine 2012 c’erano 36 milioni di rosso, a fine 2013 c’era un utile di 5 milioni. E in mezzo ben 85 milioni di risparmi. Cifre considerevoli perché, rivendica la presidente, ottenute continuando a investire sui programmi e soprattutto sulla tecnologia. Oggi sono completamente digitalizzati Tg2 e Tg3 e presto lo sarà anche il Tg1. Ma quando era arrivata aveva trovato il Tg2 che faceva servizi in digitalemapoi li doveva riversare nelle video cassette («centinaia di cassette verdi») per poterli trasmettere. Oggi invece ogni contenuto è su file e quindi fruibile in qualsiasi piattaforma. E presto su file, promette, finiranno anche gli immensi archivi: 4 milioni di cassette e 400 mila pellicole. Certo «il processo di cambiamento è faticoso - riconosce Tarantola - anche a motivo dell’attuale governance» dove «la presenza di interessi meta-aziendali non aiuta». Un modo sofisticato per dire che le pressioni politiche hanno pesato. «Ecco perché quella di Renzi che vuole togliere la politica dalla Rai è una vera rivoluzione» commenta il deputato Pd Michele Anzaldi. Perché come conseguenza produrrà «la fine della distribuzione degli incarichi in base al Cencelli» e quindi la possibilità vera di ridurre le poltrone e migliorare l’offerta. Concretamente significa che a fianco del taglio dei 150 milioni ci sarà il rinnovo della concessione (con una durata decennale) e la cancellazione della Gasparri che 42 proprio sulla distribuzione delle cariche ai vari partiti fondava l’essenza della governance Rai. Con ovvie ripercussioni indirette anche per Mediaset e forse è proprio per questo a destra in parecchi protestano. del 05/06/14, pag. 12 Viale Mazzini Tarantola al governo: tagli ai super compensi ma niente svendite Dopo il taglio dei 150 milioni al bilancio Rai, causa spending review, sarebbe «quanto mai utile conoscere dal Parlamento e dall’azionista, che sono i nostri referenti, il modello di servizio pubblico cui si vuole tendere e il perimetro dello stesso. Senza indicazioni, è elevata la probabilità di delineare un percorso non coerente con gli orientamenti del Parlamento, con conseguente perdita di tempo e di risorse». Tradotto: caro Parlamento e caro ministero dell’Economia, diteci con chiarezza che tipo di Rai volete, altrimenti rischiamo di sbagliare, perdendo tempo e soldi pubblici (e poi magari ce ne chiedete anche conto). Il presidente della Rai, Anna Maria Tarantola, parla davanti alla commissione di Vigilanza e chiede esplicitamente chiarezza di indirizzi editoriali ai suoi due referenti, cioè il Parlamento (l’organo della Vigilanza Rai) e l’azionistaproprietario, il ministero dell’Economia e comunque il governo Renzi. La presidente Tarantola rende esplicito anche un altro concetto. Per girare davvero pagina a Viale Mazzini bisogna cambiare la governance (il sistema di nomina dei vertici), il metodo di riscossione del canone e la missione del servizio pubblico. Tutte decisioni che «non sono alla portata della Rai» ma, con tutta evidenza, della politica. È la prima audizione dei vertici Rai (solo il Consiglio di amministrazione con la presidente) dopo quella in cui il direttore generale Luigi Gubitosi ha paventato tagli all’organico e alla produzione. Il tema sul tavolo è sempre lo stesso: il futuro della Rai dopo la richiesta dei 150 milioni che il governo esige da Viale Mazzini con la spending review. Anna Maria Tarantola viene da Banca d’Italia e quindi sa maneggiare cifre e bilanci, parlando del taglio dei 150 milioni: «Il decreto Irpef determina impatti rilevanti per l’azienda. Abbiamo inviato una lettera all’azionista che non ha nessun intento polemico ma è una doverosa informazione degli effetti del decreto legge e delle azioni che si rendono necessarie per il suo rispetto». In sostanza Tarantola e il direttore generale Gubitosi hanno scritto al ministero dell’Economia, l’azionista unico della Rai (fatta salva la piccolissima quota della Siae) per descrivere gli effetti della richiesta dei 150 milioni a metà anno. Ma Tarantola ha poi annunciato che il consiglio analizzerà la lettera spedita a Giorgio Napolitano dall’Ebu, l’associazione delle tv pubbliche europee, in cui si definisce «pericoloso» l’impatto del decreto Irpef sul futuro della Rai. In quanto alla cessione di una quota minoritaria di Raiway, Tarantola ha promesso che «non ci sarà alcuna svendita». E ha annunciato che i compensi dei conduttori e delle star verranno ridotti «del 10-15-20% man mano che arriveranno a scadenza, anche in base al rendimento di chi è contrattualizzato». Il consigliere Antonio Verro (area Forza Italia) su Raiway ha un’idea molto diversa: «Se ora si procedesse alla vendita, come sicuramente sarà, la Rai arriverebbe più debole al rinnovo delle convenzione del 2016». Nessuna smentita sulle trattative tra Mediaset e Giovanni Floris (attraverso il suo agente Beppe Caschetto). Tra due settimane scadrà il contratto con la Rai del conduttore di 43 Ballarò che ha mostrato spesso la sua insofferenza di sentirsi «legato a vita» a RaiTre, mentre vorrebbe sperimentarsi su altre reti. Bocche cucite, silenzi. Ma le trattative sono chiaramente in corso. Paolo Conti del 05/06/14, pag. 8 Rai verso lo sciopero: niente dirette e rischio black-out CGIL E UIL INSISTONO, BONANNI (CISL): “PROTESTA DEI RICCHI” MA L’AZIENDA SI PREPARA. E FLORIS FLIRTA CON MEDIASET di Carlo Tecce I sindacati s’azzuffano. I giornalisti riflettono. I vertici ragionano. Ma lo sciopero resta, e l’11 giugno sarà un mercoledì accidentato per la televisione pubblica. I dirigenti cercano di prevedere l’adesione e le conseguenze per il giorno di proteste che Susanna Camusso (Cgil) e Luigi Angeletti (Uil) non vogliono revocare. Il direttore generale Luigi Gubitosi ha ricevuto il palinsesto per quel mercoledì: niente dirette, telegiornali da sei minuti, rischio di monoscopio perché la serrata sarà quasi completa a Rai Way, la società che controlla le torri di trasmissione e che l’azienda vuole quotare in Borsa per cederne un pezzo. IL GOVERNO ha concesso una serie di piccoli sconti a viale Mazzini, ma resistono i 150 milioni di euro di prelievo forzoso. Raffaele Bonanni (Cisl), dopo aver firmato per l’agitazione, s’è sfilato, ma non zittito: “Dietro lo sciopero ci sono persone che prendono milioni all’an - no, peraltro avendo debordato la politica tradizionale della Rai, che al posto di fare cultura, ormai è pari alle altre aziende di informazione. Noi vogliamo difendere i più deboli”. Oggi proseguono le assemblee dei giornalisti, ancora non è decisa la posizione di Usigrai, l’associazione di categoria. Attutita la botta in bilancio, e compreso che un frontale con Matteo Renzi sarebbe troppo pericoloso, il presidente Annamaria Tarantola va in commissione di Vigilanza a evocare la riforma del canone e dell’assetto societaria: fra commissioni, strategie e studi di settore, non ci sarà nulla di concreto prima di ottobre. La Tarantola ha anche ricordato che l’azienda ha risparmiato 85 milioni di euro in un anno e che i compensi sono stati ridotti di 15-20 punti percentuali. Ha introdotto un tema, che sarà questa mattina in Consiglio di amministrazione e continua senza soste negli uffici adibiti a ospitare le trattative. Ci sono decine di contratti da rinnovare, da Bruno Vespa a Carlo Conti, da Antonella Clerici a Giovanni Floris. Come ha scritto il Fatto Quotidiano di ieri, Floris non vuole prolungare di un ennesimo triennio Ballarò (che esordì nel 2002) senza l’opportunità di avere maggiore spazio. SENZA intenzione, Floris s’è conquistato l’etichetta di antirenziano per quel battibecco con l’ex sindaco di Firenze sui 150 milioni e per una serie di servizi sui provvedimenti di Palazzo Chigi e l’azienda, che dovrà valutare le sue proposte, non vuole passare per la tv pubblica che premia un oppositore a Renzi. In sintesi: tanta confusione. E Mediaset, interessata, offre “occasioni ghiotte” (dicevano le agenzie di ieri). Il futuro di Floris si lega al futuro di Maurizio Crozza, a lungo in trattativa per un programma su Rai1 e poi confermato su La7: se Floris dovesse lasciare la Rai, cosa farebbe Crozza, dove andrebbe la sua copertina? 44 ECONOMIA E LAVORO del 05/06/14, pag. 2 Call center revolution Antonio Sciotto Lo sciopero . Una marea di cuffiette e microfoni invade Roma. È il «no delocalizzazioni day»: i lavoratori chiedono appalti in regola e garanzie contro la fuga all’estero delle aziende. Che in parte condividono I giovani lavoratori sono tornati in piazza, e il sindacato – nonostante gli attacchi subiti e tante pecche – è ancora vivo. Una manifestazione riuscita quella di ieri a Roma, uno sciopero con migliaia di operatori dei call center che ha riempito i Fori Imperiali. «No delocalizzazioni», «Basta appalti al massimo ribasso», le parole d’ordine, in una battaglia che vede alleate, almeno su alcuni punti, anche le imprese. Tra i più agguerriti, gli addetti siciliani e calabresi: le cuffiette hanno attecchito molto al Sud, grazie agli incentivi e a costi più bassi, ma proprio loro sono oggi più a rischio. La maglietta di ordinanza ha un «Urlo» di Munch con le cuffiette. Rosi, di Almaviva Palermo, dice: «Non siamo stanchi di prenderci parolacce dai clienti, ma di sentirci dire: “finalmente ci risponde un operatore italiano”». Natale, di Almaviva Catania, fa il verso al premier Renzi: «Dice di essere veloce. Ma qui ci sono lavoratori che risolvono un problema in 3 minuti e 15. Ora tocca a lei rispondere velocemente ai nostri quesiti». Fabio, di Teleperformance Taranto, chiede di «poter continuare a vedere un futuro in una città che vive già tanti drammi». Va detto che in piazza erano presenti soprattutto i dipendenti dei grossi gruppi in outsourcing – da Almaviva a Comdata, da Call&Call a Teleperformance – quelli cioè che godono (non tutti, poco più di una metà del totale) di contratti regolari e a tempo indeterminato. Quindi i più facili da organizzare sindacalmente – e infatti la piazza era fittissima di bandiere, non solo Cgil, Cisl e Uil, ma pure Cobas e Ugl – ma anche quelli più esposti alla perdita del posto di lavoro a causa della globalizzazione. Ottantamila i lavoratori del settore, 1,3 miliardi il fatturato. Le imprese: l’estero è essenziale Tante imprese oggi delocalizzano: Albania, Romania, Tunisia, dove trovi addetti che parlano in modo decente l’italiano. E che ovviamente costano molto meno. Come ci spiega Paolo Sarzana, responsabile comunicazione di Teleperformance, multinazionale francese che ha 3500 dipendenti in Italia, 2000 dei quali in un grosso call center di Taranto. «In Italia il costo orario di un addetto è di 17.80 euro, in Albania di 5. Ciononostante noi vogliamo restare in Italia, ma il governo deve metterci nelle condizioni per farlo». Teleperformance ha call center in Romania e Albania, ma assicura che non tolgono lavoro all’Italia, ma che anzi possono portarne di più: «Qualche anno fa abbiamo vinto un appalto Alitalia, che aveva costi proibitivi per gli standard nazionali – conclude Sarzana – Siamo riusciti a prenderlo perché abbiamo dato il 60% dei volumi agli addetti albanesi. Il restante 40% per gli italiani, diversamente non lo avremmo mai avuto». La richiesta principe, condivisa anche dal sindacato, è quella di non permettere gare di appalto al massimo ribasso: o meglio, fare in modo che il ribasso non sia tale da dover andare sotto il contratto nazionale. Ieri la segretaria della Cgil Susanna Camusso lo ha detto dal palco: «Il lavoro deve essere dignitoso, non può scendere sotto un certo livello. 45 Altrimenti non è lavoro. E a chi ci dice che siamo conservatori, rispondiamo che sì, siamo per conservare: le garanzie e i diritti delle persone». Cgil: «Più tutele nelle gare» Chiaro il riferimento a Matteo Renzi, che ha sempre attaccato il sindacato, tanto più oggi quando lo scontro si è acuito con lo sciopero Rai. «La legge sugli appalti si può e si deve cambiare», ha aggiunto Camusso. Si riferisce alla richiesta di intervenire sull’articolo 2112 del codice civile che regolamenta la garanzia dell’occupazione nel passaggio da un’impresa uscente alla nuova appaltante: Slc, Fistel e Uilcom chiedono una modifica perché si possa applicare anche ai call center. Il casus belli – anche politico – è scoppiato con il call center 020202 del Comune di Milano. «Base d’asta 45 centesimi al minuto, che per i 40 medi parlati fanno 18 euro l’ora. Quindi non ci paghi nemmeno i dipendenti», protesta Umberto Costamagna, presidente di Assocontact Confindustria. Che infatti ha chiesto alle imprese aderenti (tra cui la sua, la Call&Call) di non partecipare, e ha fatto ricorso all’Autorità di vigilanza per i contratti pubblici. La stessa Almaviva di Marco Tripi – il maggior gruppo italiano, 14 mila dipendenti nel nostro Paese e 18.500 all’estero – che aveva gestito l’appalto precedente con 200 addetti, ha deciso di non ripresentare un’offerta. Su questo fronte, quello degli appalti, dice la sua il presidente della Commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano (Pd), che quando era ministro del Lavoro, nel 2007, avviò una campagna di stabilizzazioni: «La legge per non ribassare sul lavoro c’è già, l’avevamo varata con Prodi. È che non viene applicata: dispone che si scorpori il costo dei contratti nazionali e della sicurezza, e che su quello non si possa ribassare». La Commissione Lavoro ha aperto una indagine parlamentare sui call center, mentre un tavolo con imprese e sindacati – che tornerà a riunirsi entro fine giugno – è stato istituito al ministero dello Sviluppo. Il sottosegretario Claudio De Vincenti ha detto ieri che «lo sciopero è uno stimolo per dare risposte al settore». E annuncia che si lavorerà su «contrasto alle delocalizzazioni, rivisitazione legislativa dei cambi d’appalto così da tutelare i diritti dei lavoratori, concorrenza fiscale tra regioni». «Noi speriamo si intervenga presto – dice Michele Azzola, segretario Slc Cgil – Gli 80 mila lavoratori del settore aspettano risposte, molti sono in solidarietà o in cassa. E centinaia hanno già perso il posto». Infine, il sindacato chiede di applicare in modo stringente la normativa Ue sulla privacy: i dati sensibili, come le carte di credito dei clienti, vanno affidati solo a imprese dentro i confini Ue, o comunque iper-controllate. Del 05/06/2014, pag. 28 LA GIORNATA Rottura evitata, gli alfaniani accettano lo spostamento Tasi, slitta il pagamento nei comuni in ritardo con le delibere Bonus, salta l’estensione mancano le coperture rinvio alla Legge di stabilità ROMA .Colpo di scena sul bonus alle famiglie: il Tesoro ha detto «no» per mancanza di coperture e la misura viene rinviata alla legge di Stabilità. L’emendamento dell’Ncd, è stato oggetto di una lunga maratona notturna in commissione Bilancio del Senato, dove in mancanza di risorse, si è deciso di approvare un ordine del giorno per rinviare il provvedimento all’autunno. Gli alfaniani, che ieri con il relatore D’Alì 46 avevano dato per certo il bonus famiglia, che non dispiaceva a Palazzo Chigi, hanno strategicamente rinunciato a mostrare il proprio malumore. Ed anzi si sono detti «soddisfatti» che un loro tema sia entrato nell’agenda della legge di Stabilità. Il decreto Irpef è comunque arrivato ieri in aula e il governo porrà oggi la fiducia. Come annunciato, è stato presentato anche l’emendamento per rinviare la scadenza della Tasi per i Comuni ritardatari: la prima rata per chi ha già deliberato è il 16 giugno, mentre i Comuni più «lenti» potranno approvare le delibere fino al 10 settembre e i cittadini potranno pagare il 16 ottobre. La seconda rata resta al 16 dicembre. I Comuni ritardatari avranno un anticipo da parte del governo del 50 per cento del gettito annuo della Tasi per far fronte al rinvio dell’incasso previsto. Soddisfatta l’Anci che ieri sera in una nota ha parlato di «soluzione ragionevole». Del 05/06/2014, pag. 29 Confindustria: perse 120 mila imprese Piano di Unioncamere per le start-up Produzione giù Italia sorpassata da India e Brasile LUISA GRION ROMA Battuti dal Brasile e dall’India: l’Italia perde un altro posto nella classifica delle potenze industriali, il terzo in sei anni, e scivola alla posizione numero otto. In testa a tutti c’è la Cina, seguita da Usa, Giappone, Germania, Corea del Sud e appunto India e Brasile. Poi arriviamo noi. La graduatoria dei paesi produttori — elaborata come ogni anno da Confindustria — ci vede perdere ancora terreno. Una caduta in parte «fisiologica», commenta il Centro studi, perché dovuta alla corsa delle economie emergenti, ma in parte legata anche a «demeriti domestici». Ora si sa che la produzione di un paese non va sempre a braccetto con il suo sviluppo — visto che fra chi ci «batte» ci sono nazioni dove i diritti sono negati e dove si usa violenza sulle bambine — ma certo il crollo della manifattura ha conseguenze pesanti per chi ci vive. In Italia, fra il 2001 e il 2013, segnala Confindustria, hanno chiuso 120 mila aziende, ventimila solo negli ultimi due anni. La produzione è crollata del 25,5 per cento (mentre a livello mondiale aumentava del 36%) e i posti di lavoro perduti hanno raggiunto quota 1 milione e 160 mila. Un «quadro impietoso» commenta Giorgio Squinzi, leader degli industriali, dal quale arrivano «elementi di forte tensione per la tenuta complessiva del sistema produttivo». Eppure, ha aggiunto il numero, «non siamo vittime di un destino crudele e ineluttabile». Qualcosa si muove: per rilanciare il paese, occorre «un salto di mentalità, una svolta chiara e decisa: mi pare che si stiano creando le condizioni per tale svolta». Cambiamento necessario perché quello che è successo all’economia italiana negli ultimi venti anni «ha radici antiche nei mali del nostro paese: la performance durante la crisi è dovuta a demeriti soprattutto nostri». Sul fatto che qualcosa si muova e che molto si possa fare è d’accordo anche Unioncamere che — per facilitare la nascita di giovani imprese — propone al governo di consentire l’esenzione totale per i primi due anni dei costi relativi all’iscrizione al registro delle imprese delle Camere di Commercio e la gratuità dei servizi di accompagnamento per i giovani che vogliano aprire un’attività. L’obiettivo di Unioncamere è quello di favorire la formazione di 30 mila start up in due anni con 51mila occupati in più e un incremento del valore aggiunto del sistema paese di quasi 3 miliardi di euro che salirebbe a 7,5 47 miliardi e a oltre 130mila occupati considerando l’indotto. «In un momento in cui la disoccupazione giovanile ha raggiunto il 46 per cento — ha commentato Ferruccio Dardanello, presidente Unioncamere — non possiamo più stare a guardare». Del 05/06/2014, pag. 9 Corte dei Conti: «Pressione fiscale e sommerso le due emergenze» Nel rapporto annuale viene bocciato il bonus fiscale di 80 euro: «È soltanto un surrogato» MILANO Tasse troppo alte, evasione al top in Europa. E il bonus di 80 euro del governo Renzi che rappresenta nient'altro che «un surrogato». No, non sono gli strali di qualche partito dell’opposizione, piuttosto che la consueta ramanzina partita da Bruxelles e dintorni. A sostenere queste argomentazioni è la Corte dei Conti nel rapporto 2014 presentato ieri in Senato. Un documento che evidenzia le molte zone d’ombre della finanza pubblica italiana. Non mancano però giudizi positivi, per esempio sul fatto che nel 2013 gli obiettivi sono stati conseguiti, con un livello di indebitamento che è rimasto al di sotto del3% del Pil. Anzi, tanto è bastato per far affermare al presidente Raffaele Squitieri, in relazione alle recenti raccomandazioni della Ue, che «l'Italia il proprio dovere l'ha fatto, è già intervenuta con una politica rigorosissima, anche con la riduzione drasitca degli investimenti e attraverso il carico fiscale. Personalmente, credo che l'unica strada per conciliare rigore e crescita è quella delle riforme». Concetti peraltro ribaditi dal ministro dell’economia, anch’egli presente alla presentazione del Rapporto della Corte dei Conti a Palazzo Giustiniani. «L'Italia ha fatto e continua a fare i compiti a casa - ha detto Pier Carlo Padoan -. Tra il 2011 e il 2013 il valore cumulato delle manovre di aggiustamento di finanza pubblica assomma a 67 miliardi, pari a 4,2 punti di pil. E questo in un contesto nel quale l'Italia ha dovuto gestire una crisi finanziaria importante». TABELLE DI MARCIA Riforme e crescita: sono questi due elementi che la Corte ha legato a doppio filo nel suo rapporto. L'Italia, spiega il documento, è stata tra i pochi Paesi ad adottare solo limitate misure espansive durante la crisi del 2008, «ma ora sembra presentarsi una nuova fase di espansione. Occorre quindi che l'opportunità non vada perduta». Il rapporto si spinge fino a fare vere e proprie tabelle di marcia: «Nell'ipotesi che l'Italia voglia giungere al termine della fase espansiva con un rapporto spesa/Pil simile a quello della Germania nel 2007 (circa il 41%), complessivamente si dovrebbero realizzare risparmi pari a circa 5 punti di prodotto. In tal modo, a fine periodo, la spesa primaria si attesterebbe al 42,8%, gli ulteriori 2 punti da tagliare (circa 32 miliardi) dovrebbero essere il risultato della spending review». Ma sul sistema italiano pesano come macigni due fattori, peraltro noti da molto tempo. E ad illustrarne la negatività ci sono due dati eloquenti: una pressione fiscale pari al 43,8% del Pil, quasi tre punti oltre il livello del 2000 e quasi quattro punti in più rispetto al valore medio degli altri ventisei Paesi europei (e sul lavoro un cuneo fiscale pari al 47,8%); l’altro fattore negativo è il sommerso pari al 21,1% del Pil nel 2013, con un’evasione che nel 2011 è stata stimata oltre i 50 miliardi soltanto prendendo in considerazione l’Iva e l’Irap. Quindi, la stoccata al governo Renzi, con chiaro riferimento alla detassazione di 80 euro introdotta recentemente. «Politiche redistributive basate sulle detrazioni di imposta - si legge nel rapporto -, così come scelte selettive, rientranti nell'ambito proprio e naturale 48 della funzione dell'Irpef, affidate a strumenti surrogati (i prelievi di solidarietà, i bonus, i tagli retributivi), sono all'origine di un sistematico svuotamento della base imponibile dell'Irpef, finendo per intaccare la portata e l'efficacia redistributiva dell'imposta ». Ed ancora, la Corte dei Conti sottolinea come non sia ancora in essere un crescente riorientamento verso le amministrazioni territoriali. «L'Italia presenta ancora, accanto a una forte presenza dello Stato centrale, una pluralità di società partecipate e di entri strumentali che ricevono finanziamenti pubblici». Il rapporto sostiene quindi che al di là del generale ridimensionamento della spesa pubblica, «un’attenzione specifica va rivolta agli assetti organizzativi delle amministrazioni centrali: non soltanto per i risparmi che possono derivare dal ridimensionamento delle strutture, ma anche per la razionalizzazione del loro assetto a fronte del mutare della ripartizione dei compiti istituzionalmente attribuiti ai diversi livelli di governo». Del 05/06/2014, pag. 28 La Corte dei conti: “Riformate l’Irpef quegli 80 euro solo un surrogato” ROBERTO PETRINI ROMA Pressione fiscale al 43,8 per cento (quattro punti più della media europea che è del 40 per cento), un sommerso che vale il 21 per cento del Pil e l’Irpef — la maggiore imposta italiana — soggetta ad un “sistematico svuotamento”, con fughe dalla progressività (cedolare secca, rendite finanziarie, premi produttività). In una situazione come questa per la Corte dei Conti, che ieri ha presentato il “Rapporto sulla finanza pubblica”, interventi come il bonus Irpef da 80 euro sono solo un “surrogato” ad una vera riforma dell’imposta. Il tema della riforma è tuttavia sul tavolo del governo che conta di approvare le deleghe fiscali, catasto e semplificazione, prima dell’estate e in proposito è in via di allestimento una commissione che potrebbe essere guidata dall’ex presidente della Corte costituzionale, Franco Gallo. Il rapporto della Corte, presieduta da Raffaele Squitieri punta l’indice sull’evasione fiscale. «L’evasione fiscale — spiega — continua ad essere un problema di straordinaria gravità, tra le prime cause, se non la principale, delle difficoltà del sistema produttivo, dell’elevato costo del lavoro, dello squilibrio dei conti pubblici, del malessere sociale esistente ». Solo per l’Iva e l’Irap, che rappresentano solo un quinto del gettito totale, ammonta a 50 miliardi. L’evasione contribuisce anche ad aumentare la pressione fiscale: la Corte calcola che se si depura il Pil dai redditi evasi la pressione raggiunge il 50 per cento. La conclusione è che il prelievo in Italia è «eccessivo e maldistribuito». Sul fronte dei conti pubblici la Corte, come ha fatto più volte in passato, invita alla cautela con l’austerità. Gli sforzi, ha detto Squitieri, devono essere «ispirati al rigore e non all’austerità » perché «uno sforzo eccezionale non può realisticamente essere protratto troppo oltre in assenza di crescita economica ». Concorda Padoan: l’Italia, ha detto, punta a modificare l’agenda europea, imprimendole una sterzata verso nuove priorità come crescita e lavoro e non più «solo rigore, tradottosi finora in austerità». «L’Italia — ha aggiunto — ha fatto e continua a fare i compiti a casa. Tra il 2011 e il 2013 le manovre sono ammontate a 67 miliardi, pari a 4,3 punti di Pil», ha calcolato il ministro. Oggi il nostro debito pubblico, sul quale Bruxelles ha puntato il dito nelle sue raccomandazioni, è tra i maggiormente sostenibili in Europa. E lo sarebbe ancora di più se la crescita nominale — e dunque l’inflazione — fossero più alte». 49 del 05/06/14, pag. 11 Capitali all’estero, multe più basse per chi reinveste i fondi nell’azienda Le bozze definitive sono ormai pronte. Negli ultimi giorni lo scambio di carteggi tra il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, e la titolare dello Sviluppo Economico, Federica Guidi, si è intensificato in vista del varo del pacchetto di interventi per le imprese. Il decreto, destinato ad arrivare in Consiglio dei Ministri al più tardi il 20 giugno, si chiamerà «Finanza per la Crescita» e introduce una serie di importanti novità. A cominciare dalle misure a favore di un rafforzamento patrimoniale delle imprese. Per incentivare il rientro di capitali detenuti all’estero, e non dichiarati, è previsto il pagamento delle imposte evase, con un’aliquota media del 27%, e una riduzione delle sanzioni. La condizione è che i fondi tornati in patria siano reinvestiti in azienda e lì mantenuti per almeno 5 anni (senza possibilità di distribuire utili). L’obiettivo del provvedimento è assicurare una robusta iniezione di capitale nelle imprese. L’adesione alla cosiddetta regolarizzazione volontaria (voluntary disclosure ) include beni immobili, beni artistici, società, fondi e trust, oltre che i circa 300 miliardi di euro di liquidità che le stime di Bankitalia indicano essere detenuti all’estero illegalmente. La bozza aggiornata del decreto stabilisce che, per agevolare la voluntary disclosure , i professionisti e gli intermediari che affiancheranno i contribuenti avranno una sorta di scarico delle responsabilità relative alla consulenza e alla gestione del rimpatrio dei capitali. Il ministro Guidi ha anche insistito sulle misure in favore degli investimenti produttivi. L’indicazione è destinata a tradursi in una detassazione del 50% sugli investimenti aggiuntivi in beni strumentali e beni immateriali (tipo brevetti e software) a valere su Ires e Irap. L’agevolazione avrà la durata di un anno e i costi di copertura non dovrebbero essere significativi (la cosiddetta Tremonti bis, per esempio, non gravò sulle finanze pubbliche). Nel decreto dovrebbe confluire anche un articolo sull’allargamento dei canali di accesso al credito per le imprese. Per garantire più benzina al motore del sistema industriale sarà introdotta la possibilità di concessione diretta del credito anche da parte di compagnie assicurative, fondi di credito e società di cartolarizzazione.Verrebbe, inoltre, eliminata la ritenuta d’acconto sui finanziamenti alle imprese da parte di banche e assicurazioni straniere purché siano appartenenti a paesi in white list . In vista della decisione della Banca Centrale Europea di acquistare pacchetti di beni cartolarizzati è prevista una serie di semplificazioni sulle cartolarizzazioni societarie. Nell’elenco delle coperture al decreto è incluso anche il rifinanziamento per 500 milioni del Fondo Centrale di Garanzia. Tra le proposte già definite ci sarebbe una semplificazione normativa per agevolare la quotazione in borsa delle aziende. In attesa della versione definitiva del decreto ieri i ministeri dell’Economia e dello Sviluppo Economico hanno siglato con la Bei (Banca Europea Investimenti) un’intesa per un fondo da 500 milioni destinato alle piccole e medie imprese e alle infrastrutture. Andrea Ducci 50
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